Cronache di Ambervale

di Tabychan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Bianco, grigio, nero ***
Capitolo 2: *** Sangue e fiori ***
Capitolo 3: *** Domande ***
Capitolo 4: *** Un po’ di chiacchiere ***
Capitolo 5: *** Il vento bianco ***



Capitolo 1
*** Bianco, grigio, nero ***


“Oggi sarà una giornata perfetta. Come tutte le altre, d’altronde.”

Dorcas spalancò con veemenza le spesse tende del suo alloggio al terzo piano e un’improvvisa ondata di luce invase la stanza, buia fino a un momento prima. La ragazza sorrise e si lasciò piacevolmente abbracciare dai raggi. I suoi capelli dorati rilucevano con eleganza e persino le punte delle sue ciocche, bianche come la neve, sembravano brillare e sorridere alla giornata in arrivo. 

Dorcas aprì la finestra e trasse un profondo sospiro, accogliendo a pieni polmoni la fresca aria mattutina: la sua divisa era pulita, i suoi libri pronti e lei anche. Avrebbe dato anche oggi splendida prova della sua splendida persona. Raccolse i capelli in una treccia e uscì, imboccando il corridoio che portava alla mensa. La mensa dell’istituto Kosmos.


Kosmos era un istituto militare indipendente, situato nella città rurale di Ambervale. Era diviso in due sezioni: l’esercito privato e l’accademia. Gli allievi passavano da una sezione all’altra mano a mano che progredivano con le loro capacità e molto spesso teoria e pratica finivano con l’incrociarsi. Dorcas non sapeva da quanti anni fosse stata fondata né da chi; sapeva solo che da quell’istituto uscivano i migliori guerrieri del continente e, soprattutto, che lei ne era un meraviglioso esempio. Le piaceva guardarsi attorno mentre camminava nei corridoi, osservare i nuovi studenti e controllare i loro progressi. Quella mattina non era diversa dalle altre, ma si sarebbe presto rivelata più speciale del solito.

Entrò in mensa, scelse la sua colazione - con sua somma gioia quel giorno avevano preparato i muffin, e questo contribuì a rafforzare la sua idea che la giornata sarebbe stata davvero perfetta - e si sedette ad un tavolo con due ragazzi che aveva conosciuto durante le lezioni, che la salutarono cordialmente.

 

«Buongiorno Dorcas» disse uno dei due, un ragazzino lentigginoso dai capelli bruni arruffati «sembri di umore migliore del solito, oggi.»

«Credo lei sia l’unica persona che conosco che riesce a svegliarsi la mattina con tutto quell’entusiasmo…» disse il secondo ragazzo, mentre tentava a fatica di mescolare il suo caffelatte. Rispetto al primo sembrava molto più alto e magro, dal viso pallido e decisamente assonnato.

«Buongiorno a voi!» rispose cordialmente Dorcas «e saresti entusiasta anche tu, Patrick, se conoscessi i miei programmi di oggi.»

Gli occhi di Patrick esprimevano molto chiaramente quanto poco fosse interessato ai suoi programmi di oggi , ma fece un piccolo sbuffo e decise di assecondare la ragazza.

«Cosa ti aspetta di così bello, Dorcas?»

«Un allenamento privato con il capitano Steaves.» rispose lei con molta fierezza. Patrick tornò a fissare il suo caffè. Lei sembrava leggermente contrariata dalla mancanza di entusiasmo nella sua reazione, ma decise misericordiosamente di lasciar correre.

«Ha detto che sono pronta ad affrontare lezioni individuali per affinare le mie capacità uniche, e che per questo ha preparato un allenamento ad hoc» continuò a spiegare «non so ancora di cosa si tratta, ma mi aspetto una sua convocazione dopo colazione.»

«Certo che essere come voi significa davvero vivere una vita a parte» tornò a commentare il ragazzo lentigginoso «voglio dire, anche noi abbiamo sicuramente delle abilità su cui possiamo lavorare, ma nulla di così… assurdo, come ciò che fate voi maghi.»

Dorcas gli rivolse un grande sorriso da sopra il muffin che stava mangiando.

La specialità del Kosmos era in effetti quella: addestrare i migliori maghi del mondo.

 

Dorcas stava ancora crogiolandosi nella sua ammirazione per se stessa quando vide in lontananza il capitano Steaves che si dirigeva verso di lei; scattò in piedi e lo salutò con entusiasmo. Steaves le fece un cenno con la testa e accelerò il passo, lasciandosi poi cadere pesantemente sulla panca del tavolo dei tre ragazzi. 

Il capitano era un uomo sulla cinquantina, robusto ma meno di quanto ci si sarebbe aspettato da un soldato professionista. Il suo fisico era sì allenato, ma Dorcas sapeva che le sue capacità non risiedevano nei muscoli. Non del tutto, almeno. 

«Buongiorno capitano» lo salutò lei, seguita dagli altri due ragazzi.

«Buongiorno, buongiorno. Vedo che le energie non ti mancano, Dorcas. Le hai rubate dagli altri due? Al contrario tuo sembrano dormire in piedi.»

Dorcas rise, più di testa che di cuore.

«Mi perdoni, è che oggi sono davvero molto impaziente di affrontare la giornata. Sarà un evento particolare per me e non vedo l’ora di partecipare alla lezione.»

Steaves la ascoltava appena: sembrava molto più concentrato a cercare di abbottonarsi le maniche della divisa. «Lezione?» le chiese «non hai lezione oggi, Dorcas.»

Lei si pietrificò. La sua voce si fece quasi melliflua.

«In che senso, capitano Steaves? Oggi avrei dovuto avere lezione individuale con lei, no?»

«Ah quella!» rispose lui «Quella è rimandata, c’è una questione molto più urgente ora.»

«Più… urgente… del mio addestramento?»

Il capitano le sorrise e le diede una pacca sulla spalla.

«Assolutamente, ma vedrai, ti piacerà ancora di più. Dovrai identificare gli elementi di due nuove reclute.»

Il sorriso sul viso di Dorcas somigliava sempre più a un disegno fatto a pennarello.

«Tu sei la migliore studentessa maga che abbiamo, no? Ti sarà utile, e conoscerai anche due nuovi amici. Potrai far fare loro un giro del posto, spiegargli come funziona qui e cose così. Chiaramente questo ti dispensa dalle lezioni per oggi, ma sono sicuro che a fine giornata ne sarà valsa la pena.»

La ragazza era così entusiasta all’idea di fare da balia a due novellini che arricciò le labbra fino a ridurle a una fessura e, facendo appello alla sua incredibile capacità di autocontrollo, rivolse all’uomo il sorriso più radioso che in quel momento potesse produrre.

«Ne sono assolutamente certa, capitano.»


Capitano e allieva si diressero verso il giardino esterno, un’enorme area verde che collegava ai campi di addestramento all’aperto. Non vi era molta gente a quell’ora -  gli studenti si stavano preparando e i soldati erano già partiti per le loro missioni - perciò non fu difficile individuare una coppia di ragazzi che aspettavano in disparte, vicino al grande portone d’ingresso principale. Dorcas trattenne uno sbadiglio.

«Eccoli là» disse Steaves, facendo sobbalzare la ragazza «ho già spiegato loro che sarai tu a guidarli oggi, quindi non serve che venga anche io. Non sono dei novellini, vengono dall’accademia militare governativa. Hanno deciso di trasferirsi qui perché probabilmente le loro capacità potranno essere coltivate meglio da noi.»

Steaves non lo colse, ma Dorcas trasse un sospiro di sollievo dopo questa informazione. Non le piaceva avere a che fare con incompetenti totali. “Se vengono dall’accademia del governo qualcosa devono per forza essere in grado di farla”, pensò. Fece un cenno di assenso al capitano, lo salutò e i due presero direzioni opposte. 

 

I nuovi arrivati erano una ragazza e un ragazzo. Lei aveva lunghi capelli di un azzurro molto chiaro, quasi tendenti al grigio, con boccoli vaporosi e ondeggianti che a Dorcas ricordavano le nuvole. Anche da distante sembrava piuttosto allegra: chiacchierava dondolandosi sui talloni, tenendo le braccia dietro la schiena e guardandosi intorno. Il ragazzo la ascoltava distrattamente mentre anche lui dava un’occhiata alle poche persone che incrociava con lo sguardo. Aveva i capelli corti e scompigliati, dello stesso rosso scuro del sole al tramonto. Dorcas si avvicinò e lì salutò alzando il braccio. I due si voltarono verso di lei e un’espressione di stupore si dipinse nel viso fin troppo spontaneo della giovane maga: nonostante il colore delle iridi fosse diverso - lei le aveva azzurre e lui color nocciola - i ragazzi avevano esattamente lo stesso volto. Questi si accorsero della sua reazione: la ragazza sorrise, mentre il ragazzo inarcò un sopracciglio con fare da sufficienza.

«Buongiorno e benvenuti!» esordì Dorcas, inchinandosi «sono Dorcas, la vostra guida. Piacere di conos-» 

Il suo saluto fu interrotto dalla ragazza: le saltò addosso e la abbracciò con tale impeto che sembrava essere sospesa a mezz’aria.

Con un velo di imbarazzo Dorcas ricambiò l’abbraccio e… senza accorgersene la sollevò. Si guardò i piedi: non era un’impressione, la ragazza era davvero sospesa a mezz’aria!

Con una piroetta all’indietro quest’ultima rimase sospesa a qualche decina di centimetri dal suolo e si presentò.

 

«Ciao Dorcas, piacere nostro!» disse lei, con un sorriso radioso e spontaneo «io sono Tiamal, ma chiamami pure Tia. E questo musone è mio fratello Theo!» e scoccò un pizzicotto sulla guancia dell’altro ragazzo. Theo sbuffò ma la lasciò fare e si rivolse a Dorcas anche lui.

«’ao, io sono Theodore, Theodore Senna. Siamo gemelli» disse muovendo il dito da Tiamal a lui stesso «ma credo tu l'abbia già notato, e mi fa piacere sapere di avere una guida non completamente stupida.» Tia atterrò e volse gli occhi al cielo. Dorcas, presa in contropiede, si limitò a schiarirsi la voce e a stamparsi di nuovo in viso il suo sorriso a pennarello. Non era abituata a non sentirsi trattare in modo esplicitamente gentile.

«Beh, avete lo stesso viso ma per il resto sembrate molto diversi…»

«Che aquila» la rimbeccò Theo.

«…spero impareremo a conoscerci bene…» 

Theo fece una smorfia di disappunto.

«…e che andremo d’accordo anche sul fronte professionale…»

«Se la prima impressione è quella che conta direi ch-»

«Theo, SMETTILA!» Tia era davvero infastidita e sbottò all’improvviso, interrompendo il fratello. Non volava più e il suo sorriso si era trasformato in forte disappunto. «Ci sta dando il benvenuto gentilmente, puoi per una volta non comportarti come… come una pigna nel culo

Sia Dorcas che Theo sgranarono gli occhi.

«Da quando usi queste parole?» chiese il ragazzo, quasi turbato.

Tia arrossì, incrociò le braccia al petto e distolse lo sguardo.

«Ho deciso che questa volta sarebbe stato diverso. Dobbiamo partire con il piede giusto, e visto che tu non mi aiuti mai allora è il caso che diventi io più severa.»

Dorcas soffocò a fatica una risata nel vedere la faccia sconvolta del ragazzo. Scrollò le spalle e si ricompose nel modo più naturale possibile.

«Se a voi va bene, come prima cosa potrei spiegarvi la teoria alla base del funzionamento della magia qui. Sapete già qualcosa sulla Teoria degli Elementi?»

«Molto… poco. Smettila di guardarmi così.» Theo rispose mentre Tia continuava a fissarlo con sguardo arcigno. Il tono del ragazzo ora era decisamente meno arrogante.

«Il mio elemento è sempre stato piuttosto palese, ma oltre all’evidenza non sappiamo niente di più preciso. Abbiamo deciso di trasferirci qua su consiglio di uno dei nostri superiori, che praticava una magia diversa, e riteneva avremmo avuto più possibilità di crescita in un istituto come questo.» continuò Tia.

«Un consiglio molto saggio. La nostra accademia è la migliore del continente ed è l’unica dove i maghi non vengono solo addestrati, ma anche allevati! È davvero un posto incredibile e sono sicura lo adorerete.»

Theo storse il naso a quell’affermazione e guardò Dorcas. Sembrava non essere sicuro di ciò che aveva appena sentito.

«I maghi vengono allevati

«Assolutamente sì! Io sono nata qui, per esempio. Ma venite, vi spiegherò meglio utilizzando gli strumenti che abbiamo nelle aule.» E così dicendo, Dorcas si incamminò fiera. Non aveva nemmeno notato le espressioni scettiche e, in parte, spaventate che i due gemelli si scambiarono. Tia scrollò le spalle e seguì la giovane maga, e Theo fece lo stesso. Notò che sua sorella non volava più.

«Ogni persona al mondo è nata con dentro di sé una certa percentuale dei quattro grandi elementi: fuoco, acqua, terra e aria. La maggior parte delle persone contengono tutti e quattro questi elementi in percentuali casuali e non rilevanti, e molto spesso non sono nemmeno a conoscenza di possederli. Questo perché non li sanno usare e non influenzano direttamente la loro vita. Il mio capitano per esempio, Gregory Steaves, è una persona “comune”» e fece le virgolette con le dita «sotto questo punto di vista. Ma ovviamente esistono modi per sfruttare gli elementi anche quando non si è in grado di controllarli in prima persona.»

«E come si fa a capire gli elementi di qualcuno?» chiese Tia.

«Il modo più semplice è quello di affidarsi a un mago esperto, come la sottoscritta» rispose Dorcas, con il solito moto di orgoglio non troppo celato «ovviamente non esiste un… output matematico che possiamo rilasciare, ma con un po’ di allenamento per noi è possibile percepire la magia contenuta nell’ambiente e nelle persone. Esistono comunque anche degli strumenti che permettono di farsi un’idea delle affinità elementali di una persona, tra cui uno che vi farò provare dopo.»

 

E così dicendo Dorcas li condusse attraverso i corridoi e le aule, le sale comuni e le strutture ricreative. Pranzarono alla mensa chiaccherando del più e del meno. Tiamal era effettivamente una ragazza socievole, mentre suo fratello alternava fasi di silenzio ad altre di battutine taglienti e non sempre simpatiche. Dorcas smise di pensare che far loro da Cicerone fosse un fardello insopportabile, anzi; si stava divertendo a spiegar loro il funzionamento dell’accademia. Mostrò ai due gemelli le aule e le strutture che potevano sfruttare a loro piacimento: palestre, piscine, laboratori e sale di addestramento.

Li condusse infine ad un’aula la cui targhetta citava “Strumentazione operativa”. 

 

Alle pareti era appesa una grossa illustrazione dei quattro elementi, con nomi e brevi descrizioni scritte in latino. Un altro grosso cartellone riportava quello che sembrava essere un alfabeto runico e ai lati della stanza erano disposti numerosi armadi contenenti strumenti di tutti i tipi: bilance, provette, siringhe, sfere che vorticavano su se stesse e altri oggetti la cui funzione era decisamente difficile da indovinare.

Ma la cosa che catturava di più l’attenzione era una grossa bacinella dal diametro di circa due metri, appoggiata proprio nel centro della stanza. Era decorata con bordi dorati su cui erano state incise centinaia di rune. Sembrava contenere una sostanza liquida, così bianca e luminosa che risultava quasi impossibile sporgersi e guardare all’interno della bacinella stessa. Dorcas vi si avvicinò e invitò anche i suoi due ospiti al suo fianco.

«Questa bacinella è in grado di mostrare ciò di cui vi accennavo prima, ovvero gli elementi che compongono qualsiasi cosa vi venga inserita. Più precisamente, scompone l’oggetto nei suoi elementi e ne restituisce una visione amplificata. Vi sconsiglio quindi di caderci dentro, perché probabilmente non ne uscireste più.»

«Immagino quindi che questa non sia la stanza migliore in cui appartarsi.» osservò Theo «Se ci metti troppa passione nel limonare rischi di finire all’altro mondo.»

Tia non diede molto peso alle parole del fratello, ma Dorcas apparve decisamente imbarazzata. Arrossì e si schiarì la voce.

«Ovviamente è protetta.» disse, e avvicinò un dito alla bacinella: il suo polpastrello sfiorò una superficie luminosa e sembrò non riuscire a spingersi oltre. «Solo pochi maghi sono in grado di liberarsi di questa barriera, ma per vostra fortuna…»

«Tu sei una di quelli.» Le fece verso Theo. Dorcas non colse la provocazione ma annuì e continuò, convinta che finalmente anche il reticente fratello avesse riconosciuto le sue incredibili capacità. Chiuse gli occhi: il bianco delle punte dei suoi capelli cominciò a diffondersi lungo tutta la chioma. Ma ciò che fece stupire Theo non erano i capelli.

L’espressione di Dorcas era del tutto diversa dal tono spocchioso che aveva tenuto fino a quel momento: il suo viso era rilassato e un dolce, delicato sorriso appena accennato brillava sul suo volto. Sembrava essere in quella specie di trance in cui si immergono le persone quando fanno esattamente ciò per cui sono nate. Il ragazzo era sinceramente sorpreso. Quando vide che i capelli di lei stavano tornando normali, scostò lo sguardo dal suo viso e riprese a fissare la bacinella con finta indifferenza. Dopo qualche secondo, Dorcas riaprì gli occhi.

«Ecco, ora non c’è più e possiamo cominciare. Chi vuole andare per primo?»

 

«Perché non ci mostri tu come si fa?» le propose Tia, sinceramente curiosa. «Dici di essere una maga capace ma non riesco a capire di quale elemento. Perché non ce lo mostri?»

A Dorcas sembrò fosse arrivato il suo compleanno. Lusingata e ben contenta di dar prova di sé, annuì cercando di non rendere troppo palese la sua voglia di mettersi in mostra. Neanche a dirlo, il suo tentativo fallì e la sua voce assunse il tono fiero di un politico in campagna elettorale.

«Se è questo il tuo desiderio sarò ben felice di andare per prima. Vi prego però di non spaventarvi e allontanarvi un po’, perché potreste essere raggiunti da qualche schizzo.» disse ai due fratelli. Mentre questi si allontanavano, andò a prendere un ago da un cassetto e si punse appena un polpastrello. Lasciò cadere la goccia di sangue nel liquido della bacinella: la superficie si increspò. Tia e Theo fissavano curiosi col fiato sospeso. Improvvisamente il liquido si raccolse su se stesso e si sollevò formando una specie di palla bianca dalla superficia luminosa e perfettamente liscia, simile ad una gigantesca perla.

«Cosa significa?» chiese Tia.

«Che il mio potere è della stessa sostanza di questo liquido. In realtà, è proprio la stessa sostanza di questo liquido: ho riempito io questo catino.» Dorcas avvicinò tra loro i palmi delle mani e, dopo un altro breve momento di concentrazione, creò una piccola sfera identica a quella del bacino.

«Questo è il quinto elemento, l’elemento sacro. È ciò che nasce quando tutti gli altri sono perfettamente bilanciati e in armonia. Nel mio corpo acqua, aria, terra e fuoco sono presenti nella stessa quantità e questo mi permette sia di avere un po’ di controllo su tutti loro, sia di governare un elemento completamente nuovo: il sacro, appunto. I maghi del sacro sono molto rari, sapete. E anche molto potenti. Per questo sono contenta di essere nata in questo posto: sono sicura che qui riuscirò ad addestrarmi fino a diventare una maga incredibile.» Abbassò le mani e la sfera di luce sparì.

«Ma è meraviglioso!» Tia prese le mani a Dorcas e la guardò con ammirazione. «Sono sicura che serva molta concentrazione per gestire qualcosa di così potente! Sarà davvero divertente allenarci insieme!» 

Dorcas annuì e le sorrise a sua volta. Con la coda dell’occhio vide che Theo era stranamente silenzioso, ma decise di non darci peso.

«Vuoi provare tu ora, Tia?» agitò velocemente la mano e il liquido nella bacinella tornò nel suo stato originale. «La magia è contenuta all’interno del nostro corpo, quindi devi immergere nel reagente qualcosa che provenga dal tuo interno. Detta così suona un po’ male ma va bene per esempio anche saliva, o lacrime… anche urina in realtà» disse guardando velocemente in basso «ma quella non è molto igienica da produrre sul momento.»

«Farò come hai fatto tu!» Tia prese un ago pulito dallo stesso cassetto aperto prima da Dorcas e, come lei, si punse. Un’altra piccola goccia rossa cadde nel catino. 

Qualche attimo dopo una forte folata di vento invase la stanza: il contenitore era immobile, ma tutt’attorno il vento imperversava per l’aula facendo sbattere mensole, strumenti e illustrazioni.

Tiamal rideva mentre i suoi capelli boccolosi, in quel momento sempre più simili a nuvole, si lasciavano scompigliare in ogni direzione. Dorcas si sporse e guardò all’interno della bacinella:

«Non è rimasto neanche un po’ di reagente! Sei un elemento d’aria puro, Tia! Beh, i segni erano più che evidenti.»

«Vuol dire che sono speciale anche io, come te?»

«Certo, gli elementi puri sono tutti molto rari.»

«E si trasmettono geneticamente, immagino.» La domanda veniva da Theo. Dorcas per un attimo guardò di nuovo in basso, prima di tornare a sostenere il suo sguardo. Sembrava quasi… sprezzante.

 

«…sì. Le proprietà elementali si trasmettono da genitori a figli.» 

«Ed è in questo modo che sei nata tu, immagino.» Theo si avvicinò alla bacinella, che nel frattempo si era di nuovo riempita di liquido bianco. Dorcas annuì.

«Come vi avevo accennato prima, i maghi qui vengono allevati. Vengono selezionate persone appartenenti a elementi specifici, addestrate… e…»

«E riprodotte come cani di razza finché non esce esattamente il barboncino che piace a voi.» Theo sputò nel catino. Il viso di Dorcas si contrasse e cominciò a colorarsi di rosso. Non di vergogna, ma di rabbia.

«Io sono fiera di ciò che sono. Anche se è diverso da ciò che sei tu.»

«Tu non hai idea di cosa sia io.»

Il ragazzo fissò il catino. Dorcas, seguì il suo sguardo, irritata. Ma ciò che vide le fece subito cambiare espressione.

Nel catino si era aperta una voragine. I bordi erano perfettamente lisci, né rotti né corrosi; ma dove prima galleggiava la materia bianca ora vi era un buco nero come la pece, di cui non si vedeva il fondo. 

«Io non… capisco.» disse Dorcas, ancora nervosa e adesso anche confusa. «Hai fatto qualcosa di strano? Sei il fratello gemello di Tia, dovresti essere un elemento aria puro anche tu.»

«E invece sono questo.» disse, indicando prima il catino e poi se stesso.

Si avvicinò minaccioso alla ragazza, che tornò a guardare in basso. Ma senza indietreggiare.

«Puoi svelare, o somma maga, il mistero della mia esistenza? Forse siamo usciti da un preservativo bucato invece che da una scopata come si deve e uno dei due è nato storto?»

Dorcas avvampò. Tia tentò di ammonirlo.

«Theo…» 

«Risparmiami, Tiamal. Questo posto è un covo di pazzi. Hai sentito cosa fanno, costringono le persone a-»

«NESSUNO È COSTRETTO!» sbottò Dorcas.

«Oh, CERTO. Immagino che il vostro battaglione sia tutto nato su base volontaria, come no. Mi auguro che nessun “elemento puro” fosse un cesso a vedersi, altrimenti avrebbe bloccato la produzion-»

«Basta così, ragazzo.»

I tre si voltarono di scatto: Steaves era sulla porta e i suoi occhi lasciavano chiaramente intendere che aveva ascoltato l’intera conversazione. E che non gli era piaciuta.

«È il tuo primo giorno e hai già scoperto molte cose che immagino ti abbiano sconvolto. Va bene, è comprensibile, ma direi che puoi fermarti qui.»

Theo strinse i denti e pronunciò, quasi in un bisbiglio: «Altrimenti?»

Steaves sbuffò.

«Altrimenti ti trascino nel dormitorio di peso, sveglio o svenuto dipende da te.»

«Devi solo provarci.»

«Contento tu. Al contrario tuo ho molta fiducia nella nostra équipe. Quindi sono sicuro che, anche se ti farò un po’ male, verrai rimesso in sesto come si deve.»

Così dicendo sollevò una manica della sua divisa e mostrò il braccio destro. Era sicuramente muscoloso ed allenato, ma la cosa che balzava di più all’occhio era un buco sferico a circa metà distanza tra il gomito e la spalla. Il capitano estrasse dalla tasca una piccola sfera rossa pulsante grande quanto il buco nel suo braccio.

Tia guardò preoccupata Dorcas; lei incrociò i suoi occhi turbati e scosse piano la testa, facendole cenno di non preoccuparsi. Era però molto seria. Non le piacevano i discorsi di Theodore, perché… li aveva già sentiti in passato, da altre persone.

«Allora, vedo dalla bacinella che il tuo è un elemento strano, no?» Steaves aveva inserito la sfera nell’incavo del braccio e le vene attorno ad esso avevano cominciato a pulsare debolmente di rosso.

«Non sono affari vostr-»

Una gigantesca vampata di fuoco travolse in pieno il ragazzo. Tia urlò: Steaves stava emettendo dal palmo destro una fiammata, completamente incurante del fatto che stesse anche dando fuoco a lui e al resto della stanza. Theo non emise un suono. Il fumo dei mobili bruciati cominciò a riempire il piccolo ambiente. 

 

«Lo ha ucciso!» urlò Tia furiosamente. «è vero, era insopportabile, ma-»

«Stai… stai calma, Tia. Sto bene.» 

Theodore era in piedi che agitava le mani contro il fumo, tentando di farlo uscire dalla finestra alle sue spalle che aveva appena aperto. «Mi dovrai spiegare cosa vuol dire “è vero, era insopportabile”, comunque.»

La sorella stava per rispondergli quando si udì uno “stonf.”

Dorcas cadde a terra, ansimante, il braccio alzato e i capelli spenti. Il bianco nelle punte era quasi sparito e lei appariva completamente bionda. E pallida. Il capitano le si avvicinò e la aiutò a rialzarsi.

«Sei stata bravissima, Dorcas. Vedi che alla fine abbiamo fatto un po’ di allenamento speciale? La tua barriera era perfetta.» L’uomo le accarezzò dolcemente i capelli e lei annuì, cercando ancora di recuperare il fiato. Theo rimase in silenzio.

«Come ti dicevo, ragazzo» continuò Steaves sistemandosi il braccio e rimettendosi in tasca la biglia rossa «ho fiducia nella nostra équipe. Prima comincerai ad averne anche tu, meno farai star male tua sorella.» E indicò Tia con la testa.

La poveretta aveva le lacrime agli occhi e tremava di nervoso.

«Sei… un’idiota. Devi sempre sparare sentenze su chiunque, senza nemmeno conoscerlo. Come se tu fossi migliore degli altri!»

Il fratello di tutta risposta cominciò a mordersi il labbro. Non gli piaceva l’ambiente, non gli piacevano le persone, ma a quanto pare a sua sorella sì. Avrebbe portato pazienza per lei. 

«Fate una cosa ora, tutti e tre: andate in infermeria. Dorcas fa fatica a reggersi in piedi e sono sicura che la dottoressa Joleicia avrà delle risposte anche per te, testa calda. Io intanto andrò a chiamare qualcuno per sistemare la stanza.» 

Theo emise uno risata che sembrava uno sbuffo; o viceversa. 

«Ne è valsa la pena di fare tutta quella scena?» chiese.

«Sì, se è servita a farti cambiare idea anche solo di poco su di noi. E sappi che ho intenzione di mandarti in missione con il capitano Redblood.»

Dorcas sussultò e alzò lo sguardo preoccupato verso Steaves. I gemelli parvero non capire.

«Capitano, è sicuro…?»

«Credo che non ci sia persona migliore qui dentro in grado di fargli capire i danni che può provocare la sua arroganza.»

«…Non credo… che potrei essere più d’accordo. Ora ci scusi, andiamo in infermeria.» 

«Avete il resto del pomeriggio libero, tutti e tre. Usatelo per riposarvi e assimilare ciò che è successo oggi. Ne avete bisogno.» 

E così dicendo si congedò. I tre ragazzi si avviarono lentamente verso l’infermeria, con Tia che aiutava Dorcas a camminare. Sembrava che avesse appena scalato una montagna: la testa le girava per lo sforzo e il suo respiro era pesante.

«Devo preoccuparmi per questo Redblood?» chiese Theo in tono molto, molto più delicato del suo solito. Per la prima volta non c’era né malizia né supponenza nella sua voce.

«”Questa” Redblood… è una donna. Erica Redblood è nata qua, come me, ma a differenza mia non ha mantenuto il cognome dei genitori biologici… Ha voluto attribuirsi da sola quel soprannome. Ci ho lavorato insieme… qualche volta. Sveglio come sei sono sicura che lo capirai subito» e stavolta era la sua voce a suonare ironica, salvo poi tornare subito seria «ma non provocarla, mai. Nemmeno per scherzo.»

«È permalosa?»

Di tutta risposta Dorcas sollevò le sopracciglia e sospirò, inclinando leggermente la testa di lato.

«…Siamo arrivati.» Dorcas bussò alla porta con la targhetta “infermeria” e attese l’“avanti” che arrivò, pronunciato da una voce calma e gentile. I ragazzi entrarono.

 

Nonostante si trovasse in un edificio inconsueto, l’infermeria aveva tutto l’aspetto di una… normalissima infermeria. I medicinali erano contenuti in boccette e buste del tutto simili a quelle comuni, e ad accogliere i pazienti si fece avanti una splendida donna in camice bianco.

Aveva dei lunghi capelli color acquamarina che seguivano i suoi movimenti aggraziati come onde del mare, e lo sguardo nei suoi occhi marroni era dolcissimo e materno. A Theo cadde la mascella.

«Dorcas, bambina, hai esagerato anche oggi? Di questo passo i tuoi capelli oltre che diventare bianchi cominceranno a cadere.»

La voce della dottoressa Joleicia era cristallina e vivace; Dorcas aveva sempre avuto l’impressione che dovesse essere una magnifica cantante, ma non aveva mai osato chiederle di esibirsi. 

«Oh, ma ci sono anche delle nuove facce! Io sono Joleicia Saintpeter ragazzi, molto piacere!» disse mentre aiutava Dorcas a distendersi, sempre con tono divertito  «Dorcas è una bimba meravigliosa ma finisce per svenire un po’ troppo spesso.»

«Dottoressa, non sono più bambina da un pezzo ormai.» rispose la “bimba meravigliosa”, ma con poca convinzione. Sapeva infatti che la dottoressa aveva un fare fin troppo materno e chiamava chiunque “bambino” o “bambina”. Una volta l’aveva sentita rivolgersi così anche al capitano Steaves.

«Siete tutti i miei bimbi, lo sai» “ecco, appunto” pensò Dorcas «e voi come vi chiamate? Siete nuovi?» chiese ai gemelli con un sorriso.

Theo si ridestò solo nel momento in cui si sentì chiamato in causa:

«Sì, io sono Theo, Theodore S-»

«Tiamal Senna dottoressa, lieta di conoscerla!» 

Tiamal saltellava di gioia e non riusciva a smettere di guardarsi intorno. L’atteggiamento positivo della dottoressa sembrava averle fatto dimenticare tutto ciò che era successo poco prima. In effetti, pensò Dorcas, Tia sembrava essere molto sensibile al carattere delle persone che le stavano vicine. Ipotizzò che fosse una persona molto empatica e che questo finisse con il condizionare il suo umore. In quel momento sembrava essere molto presa dalla dottoressa, quasi più che suo fratello; il quale, per fortuna di Dorcas, aveva deciso di rimanere buono con stampata in faccia la tipica faccia da pesce lesso che assumono i ragazzi di fronte a una bella donna.

«È una maga anche lei, dottoressa? Di che tipo? Controlla anche lei gli elementi?»

«No, no» disse Joleicia ridendo «non mi definirei una “maga”, non so controllare nessun elemento. Però a quanto pare ho una buona affinità con l’acqua - o così mi hanno detto - e questo mi permette di avere una splendida pelle sempre idratata.» e si passò una mano sul viso con finta vanità. Le altre ragazze risero.

«In gergo si dice che la dottoressa è un elemento a maggioranza acqua, Tia» spiegò Dorcas «perché l’acqua è l’elemento che è appunto in maggioranza in lei, è superiore agli altri tre. Ma non abbastanza da causare effetti di qualche tipo.»

«Ho capito! Però immagino che se ne intenda anche lei della teoria degli elementi o come si chiama, giusto? Ha tanti libri di magia.»

La maga d’aria si alzò e cominciò a sbirciare i titoli dei libri che riempivano gli scaffali dell’infermeria. Vi erano ovviamente molti titoli di medicina, altri di magia, e una piccola ma corposa sezione di neuropsicologia. Questi titoli in particolare catturarono l’attenzione di Tia.

«È specializzata in psicologia, dottoressa?» 

«Per ora no, ma vorrei almeno informarmi meglio. Sono convinta che il corpo non possa definirsi sano se la mente non lo è.»

Tiamal annuì seria.

«È molto saggia. Sono d’accordo, sono d’accordo.»

Joleicia sorrise e tornò a rivolgersi a Dorcas.

«Hai la pressione un po’ bassa e sei a corto di energie per aver fatto uno sforzo eccessivo, niente di cui preoccuparsi. Fai un sonnellino, una cena con tante proteine e tornerai come nuova. Per i prossimi giorni sarebbe meglio che evitassi missioni pratiche, in modo da dare tempo alle tue energie di tornare. Come hai fatto tra l’altro a ridurti così questa volta?»

«Ho provato a creare una barriera contro il fuoco. È stato improvviso e la potenza dell’attacco era piuttosto forte, quindi devo aver dosato male le energie.»

Joleicia sbuffò.

«È stato Steaves, immagino. Non metto in dubbio l’efficacia dei suoi metodi, ma potrebbe anche essere un po’ meno brusco. Non troverà mai una ragazza se continua così.»

«Ha fatto il suo dovere, com’è giusto che sia.» Dorcas si alzò dal lettino su cui era stata invitata a stendersi e si incamminò verso la porta d’ingresso. «La ringrazio per la visita, dottoressa, è sempre molto gentile. Buona serata.»

«Buona serata a voi, ragazzi. Fate i bravi.» 

Si salutarono e i ragazzi uscirono dall’ambulatorio.

 

«Wow.» disse Tia «È riuscita a far star zitto Theo per tutto quel tempo. Praticamente un miracolo.»

Theodore avvampò e le sue guance diventarono quasi dello stesso colore dei suoi capelli.

«Sono rimasto solo stupito, è la prima persona gentile che ho incontrato qui.»

«Eri così intontito che non le hai nemmeno chiesto informazioni sul tuo elemento…»

«…oh. È vero.»

Tia sospirò e Dorcas lo guardò storto, con espressione poco convinta. Ma era troppo stanca per discutere; aveva davvero dato fondo a tutte le sue energie per creare quella barriera, peraltro senza nemmeno ricevere un ringraziamento da parte della persona a cui aveva praticamente salvato la vita. 

«Sentite ragazzi, io ho bisogno di dormire un po’. Voi avete accesso ai primi tre piani dell’accademia, ma il quarto e il quinto sono riservati agli ufficiali superiori. Non andateci, per favore.»

«Va bene, non preoccuparti. Faremo un giro da soli.» Tia fece un cenno con la testa e la abbracciò, stavolta delicatamente «grazie per averci accolti, oggi. È stata una bellissima giornata.» 

Theo non rispose ma si limitò a salutarla. Stavolta però sembrava più imbarazzato che seccato. Dorcas decise che le stava bene così, ricambiò i saluti e si avviò nella sua stanza.

“Già…” si disse “davvero la giornata perfetta che immaginavo. Per fortuna è finita.”

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Capitolo 2
*** Sangue e fiori ***


Le giornate successive furono piuttosto tranquille, nonostante l’inizio dell’amicizia dei tre ragazzi non avesse fatto presagire il meglio.

Tia e Theo cominciarono a frequentare le lezioni teoriche e si dimostrarono molto interessati, anche se risultava evidente come la loro formazione passata fosse più strategica e militare che di scienza della magia. Il fatto però che portassero punti di vista leggermente diversi veniva spesso ben visto dagli insegnanti, soprattutto dagli amanti della praticità quali Steaves.

Tiamal era la concorrente numero uno di Dorcas nel ruolo di studentessa modello. E per sfortuna di quest’ultima risultava anche più simpatica sia agli insegnanti che agli altri ragazzi: per la sua spontanea allegria, e soprattutto per l’assenza di quella leggerissima puzza sotto al naso tipica della maga bianca (che nessuno si era ovviamente mai premurato di farle presente).

 

Il vero idolo delle masse era però Theo: nonostante trascorresse buona parte delle lezioni dormendo o scarabocchiando sui libri, riusciva molto spesso a dare la risposta giusta quando veniva interrogato. E godeva di immensa popolarità tra gli allievi maschi. “Probabilmente”, pensava Dorcas, “a causa del suo modo di fare indisponente e arrogante che fa sempre presa sugli sciocchi ragazzi della loro età”. Era così preso a fare da star che non aveva più recuperato l’argomento abbandonato del suo misterioso elemento di appartenenza, e Dorcas stava bene attenta a non ricordarglielo mai visto che non amava i discorsi con domande a cui non aveva la risposta pronta. A quanto pareva però il motivo principale dell’indifferenza del ragazzo alla questione era di natura meno tecnica: una volta Tia gli aveva chiesto come mai non fosse più andato a parlare con la dottoressa a riguardo e subito il viso di lui era diventato rosso come un peperone:

«Non vorrei disturbarla, presa com’è a star dietro a tutta questa gente.» rispose.

 

Tra le molte serate che trascorsero tranquille, una fu però particolarmente movimentata.

 

I tre ragazzi stavano cenando insieme ad altri quando improvvisamente un nutrito gruppo di persone fece rumorosamente il suo ingresso in mensa. Erano quasi tutti soldati maschi, di diverse età, e ridevano e parlavano ad un volume di voce così alto che sembravano ubriachi ad una festa.

«È il gruppo Redblood di ritorno dalla loro ultima missione» spiegò Dorcas «non c’è una composizione fissa, ma a quanto pare c’è sempre una gran ressa per far parte delle spedizioni con il capitano. Dicono sia perché sono missioni ben pagate e che richiedono poco impegno da parte dei soldati. Ma so anche che ci sono stati incidenti alcune volte. Pare però che il gioco valga la candela… o almeno così riferisce chi c’è stato ed è tornato.»

«Cosa vorrebbe dire “ed è tornato?”» stava per domandare Theo, quando il capitano stesso fece il suo rumoroso ingresso nella sala.

 

«Avete cinque minuti per portare tutto l’alcool disponibile nella dispensa al mio tavolo!» urlò «E intendo anche quello che usate per le pulizie, va bene uguale.» 

Tutti i suoi seguaci risero della battuta e si sedettero attorno a lei.

 

Erica Redblood era una ragazza sui venticinque anni e risultava più che evidente capire perché fosse un personaggio così controverso all’interno dell’istituto.

Era alta, molto alta, e muscolosa. Non da body builder, ma comunque da qualcuno che è in grado di farti volare per diversi metri con un pugno ben assestato. Portava lunghi capelli castani legati in una coda alta e un ciuffo rosso fuoco troneggiava sulla sua fronte, spiccando come una fiamma dal terreno. Vestiva una divisa di un materiale che sembrava pelle e le delineava i contorni del fisico scolpito. La giacca, dello stesso materiale, era chiusa sul petto da una cerniera che fu subito abbassata dalla proprietaria per dare bella mostra dell’abbondante seno. Tia intuì come mai la maggior parte del suo seguito era maschile; anche se ebbe la sensazione che non si trattasse dell’unico motivo. Era troppo triviale per generare un tale successo.

 

Erica beveva e imprecava rumorosamente mentre raccontava dettagli fin troppo espliciti delle sue ultime conquiste - che a quanto pare includevano sia vittorie in scontri fisici che avventure tra le lenzuola - sempre accompagnata dai fischi e dai commenti dei membri della sua squadra. Dorcas si alzò dal tavolo, fingendo di non provare il disagio che le traspariva chiaramente dal volto.

«Non si riesce a parlare con tutta questa confusione, andrò a fare una passeggiata all’aperto.» disse nel tono più controllato che riuscì ad assumere.

«Ti accompagno.» 

Fu Theo a parlare e Dorcas ne fu sorpresa. Un ragazzo superficiale come lui che non voleva buttarsi in quella mischia di perdizione e volgarità? Decise però di non commentare e annuì.

«Vieni anche tu, Tia?»

«Assolutamente sì, ho bisogno di prendere un po’ d’aria che non puzzi di alcolico.»

E seguì gli altri due ragazzi nel giardino esterno.

 

La baraonda era riservata alla mensa e nella zona esterna regnava un pacifico silenzio. Le poche persone che passeggiavano non sembravano desiderose di farsi coinvolgere dalla confusione e si limitavano a chiacchierare a voce contenuta o a osservare il bel cielo stellato in tranquillità. 

«Non mi era mai capitato di percepire un’aria così pesante» disse Tiamal, mentre passeggiavano tra le magnolie in fiore.

«A volte sugli autobus o nei posti con tante persone mi sento soffocare dalla puzza, ma lì mi stava cominciando a girare la testa.»

«Può essere anche che la tua relazione con l’aria stia migliorando.» intervenne Dorcas.

«Il prossimo passo sarà ricevere le partecipazioni al matrimonio?» disse Theo nel suo solito tono sprezzante.

«Ce la vedo proprio a sposarsi uno di quei sassi bianchi pieni di magia del vento. Un sasso bianco in abito bianco.» Tia gli diede un colpetto sulla nuca.

«Tu piuttosto, come mai non sei voluto rimanere dentro? Pensavo ti avrebbe fatto piacere fare la conoscenza del capitano con cui andrai nella tua prima missione.»

«Nessuno là dentro stava parlando della “prossima missione”. E lei è troppo casinista per i miei gusti. Belle tette, eh. Ma troppo casinista.»

«Giusto, a te ora piacciono le donne calme e mature come la dottoressa Saintpeter.» disse Tia, e gli svolazzò attorno fermandosi seduta a gambe incrociate sopra la testa del fratello. Lui la spinse via e lei rotolò a mezz’aria, ridendo. Anche Dorcas rise, ma la sua espressione era preoccupata.

«Fossi in te starei attento, Theodore. Ha una forza mostruosa, e non uso questo termine a caso.»

«Addirittura? Si vede che è allenata, ma i suoi bicipiti non mi sembrano così esagerati.»

Dorcas scosse la testa.

«Non è un fatto di semplice forza fisica. Non ho mai esaminato i suoi elementi, ma credimi quando ti dico che è davvero pericolosa. Quei fessi dei suoi soldati non lo capiscono perché la trovano divertente.»

«In realtà è divertente anche il fatto che tu ti preoccupi così per me.»

Dorcas si fermò di colpo e lo fissò ad occhi spalancati. Per sua fortuna la notte copriva il colorito del suo viso, perché stava praticamente andando a fuoco.

«Mi sembra quantomeno normale preoccuparsi per un compagno di lavoro.» Rispose, fingendosi offesa. E sperando che il suo bluff non venisse colto. Non che davvero credesse di provare qualcosa per lui, ma non era mai stata brava a gestire battute e allusioni a sfondo sentimentale.

«Stai tranquilla, il tuo compagno di lavoro starà molto attento. Te l’ho detto, non ispira molto nemmeno a me quella là.»

«Parti domattina?» chiese Tia. Theo annuì.

«Così pare, dopo colazione. Mi auguro che i tizi che si stanno ubriacando ora non siano gli stessi con cui dovrò partire. Non credo saranno in condizione di rendersi utili domani.»

«Forse dovresti invece sperarlo, così tu avrai l’opportunità di fare bella figura.» disse la sorella ridendo, e stavolta fu lui a tirarle un pizzicotto sulla guancia.

«Sei terribile. Molto più di quanto sembri.»

 

Dorcas li fissò cercando di non farsi notare. Nonostante fosse abituata a ricevere commenti maligni sulla sua nascita non si era mai davvero soffermata all’idea di avere una famiglia. L’accademia era la sua famiglia: i compagni, gli insegnanti… Non aveva mai nemmeno fantasticato sull’avere davvero un fratello o una sorella di sangue. I due gemelli le sembravano andare molto d’accordo; “Sarà così per tutti?” pensò.

Una lieve sensazione di malinconia le attraversò la mente e decise che era ora di andare a letto. Salutò gli amici, tornò in stanza e si infilò sotto le coperte, con dei dubbi che le vagavano per la testa per la prima volta dopo tanto tempo.

 

Theodore aspettava all’ingresso principale di Kosmos. Da quanto aveva capito si sarebbe svolta una breve riunione per discutere della missione, che gli standard dell’accademia consideravano di basso livello. Non aveva ricevuto molte informazioni: sapeva solo che dovevano liberare un villaggio da alcuni mercenari che avevano cominciato a saccheggiare gli abitanti.

“Mandano mercenari a cacciare mercenari” pensò; ma non fece a tempo a concludere il suo ragionamento che un braccio atletico lo avvinghiò attorno al collo.

«Tu sei lo stagista, vero?» Chiese una voce femminile.

Theo si voltò ma dovette subito alzare lo sguardo per fissare negli occhi la sua interlocutrice: lui non era certo una pertica, ma lei lo sovrastava di almeno quindici centimetri. Aveva gli occhi di due colori diversi, cosa di cui Theo si accorse solo in quel momento: il sinistro era verde, mentre il destro era giallo.

Si liberò subito da quell’abbraccio sgradito e si mise sull’attenti come un bravo soldatino, sperando in cuor suo che fosse sufficiente a farsi lasciare in pace.

«Theodore Senna, capitano. Sono una nuova recluta e mi hanno assegnato alla sua unità per questa missione.»

«Molto bene bimbo, molto bene.» Rispose Erica picchiettando un paio di volte la mano sulla spalla di lui. Theo traballò.

«Ti consiglio allora di fare come tutti gli altri e metterti in disparte a guardare finché io gioco, così torneremo tutti a casa felici e contenti.»

«Come sarebbe a dire “in disparte”? Non dobbiamo fermare un’intera squadra di mercenari addestrati?»

«Sì, non ci metterò molto. Per passare il tempo puoi portarti da leggere, o mangiare, farti una sega, non m’importa. Basta che tu non mi stia in mezzo ai piedi.»

Gli fece un cenno di saluto con la mano e si avviò verso gli altri membri della squadra. Theodore li passò in rassegna: alcuni erano gli stessi della sera precedente con chiari segni di sbornia, mentre altri erano nuovi. Non c’erano altri studenti, tutti soldati professionisti. Molto probabilmente ognuno di quegli uomini sarebbe stato rincuorato dalle parole del capitano - “mettiti in disparte e non fare niente” - ma rilassarsi non faceva davvero parte del carattere di Theo, sebbene spesso fingesse di comportarsi in modo superficiale.

 

Notò subito che, nonostante fosse sicuro che Erica avesse bevuto in quantità industriale, era perfettamente sobria. Il suo alito non puzzava di alcol e il suo atteggiamento non mostrava nessuno dei sintomi dell’ubriacatura che, invece, abbondavano negli altri. Non gli aveva chiesto cosa sapesse fare né si era preoccupata di chi era in condizioni pietose. Sembrava davvero stesse per andare a fare una passeggiata. Sempre più sospettoso, si avvicinò per ascoltare i dettagli della missione.

 

«Nonostante la guerra nel sud sia finita, un gruppo di mercenari continua a girare per la zona e a saccheggiare i villaggi che non hanno più modo di difendersi. Il governo non può interferire direttamente nella politica degli altri stati e allora hanno chiesto a noi di fare pulizia. Secondo le nostre informazioni in questo momento stanno campeggiando e pianificano di partire per un raid intorno a mezzogiorno. Il piano è di teletrasportarci là e sistemare la faccenda prima che ciò accada.»

Estrasse una pietra violacea incisa di rune. Al suo interno altre rune più piccole vorticavano come impazienti di uscire. Erica fece cenno a tutti di avvicinarsi. 

«Ci hanno preparato questa pietra per il teletrasporto, contiene le coordinate della destinazione. Finiremo in una foresta ai margini del villaggio che i mercenari vogliono saccheggiare, poco distanti dal loro accampamento. Apro il portale e vado per prima, voi seguitemi.»

Tutti annuirono. Theo non aveva mai visto una “pietra per il teletrasporto”, né tantomeno ne aveva usato una. Non fino a quel momento, almeno.

Erica strinse la pietra e la ruppe, e da questa si sprigionò un grosso portale nero-violaceo con rune che brillavano lungo i bordi. Sembrava quasi una ferita nello spazio, sospesa da terra: Theo provò a sbirciare oltre, ma non vide nulla. L’energia emessa da quel portale gli parve però familiare: buio, senza fondo, come il colore assunto dalla bacinella durante il test degli elementi. Ma ciò che aveva davanti non era un elemento. Non aveva proprio idea di cosa fosse, in realtà.

Era così impegnato a rimuginare sul portale che non vide si stava rimpicciolendo pian piano: si riprese e si lanciò al suo interno, insieme agli altri soldati. Sollevò un piede attraverso la fenditura e…lo appoggiò sull’umido terreno di una fitta foresta.

 

Come pianificato, il portale si aprì poco distante da un villaggio all’apparenza molto povero. O forse era in quelle tristi condizioni soltanto per l’effetto della guerra: le case erano distrutte, le persone sporche e con abiti consunti, e i pochi capi di bestiame che si potevano intravedere non avevano l’aria particolarmente pasciuta.

Erica richiamò l’attenzione di tutti con uno schiocco di dita e indicò un punto a circa cinquecento metri da loro. Una ventina di uomini stavano evidentemente facendo colazione attorno ad un paio di fuochi da campo. Alle loro spalle aspettavano, cariche di armi, cinque o sei jeep. La squadra si nascose in mezzo alla vegetazione per ascoltare le ultime indicazioni del capitano.

 

«Il villaggio è praticamente indifeso, la maggior parte dei maschi sono morti in guerra e i rimasti sono donne, bambini, anziani o feriti. Un po’ tutti nella zona sono ridotti così. Il nostro compito è sistemare questi mercenari in modo che non rallentino ancora di più il recupero di questa gente. Chiaro?»

Tutti annuirono e lei si alzò.

«Molto bene, allor-»

Theo udì uno sparo, e poi uno schiocco. Un proiettile gli passò a pochi centimetri dalla testa mentre era ancora chinato e si conficcò nella corteccia di un albero alle sue spalle.

Una goccia rossa gli cadde sulla mano. Alzò lo sguardo.

Il proiettile aveva colpito di striscio il viso di Erica, graffiandole la guancia. Lei, sanguinante, voltò la testa nella direzione da cui il proiettile era stato sparato: un mercenario era in piedi a pochi metri, con il fucile puntato contro di loro. Ghignava. Theo era pietrificato.

 

Erica si stava leccando il sangue che le colava lungo il volto con un enorme, demoniaco sorriso. I suoi occhi erano iniettati di sangue, e di voglia di spargerlo.

Il mercenario smise di ghignare.

Fu un attimo.

La ragazza balzò in aria e, roteando su se stessa, sferrò dall’alto un calcio a martello sulla testa del ragazzo: si frantumò in un istante. Il corpo decapitato cadde a terra in una pozza di sangue. Erica rideva. Raccolse il fucile caduto e corse verso gli altri mercenari, ora allertati dai rumori.

Utilizzando il fucile come una spranga disintegrò almeno altre due teste con violenza inaudita. Quando vide che gli uomini rimasti stavano sollevando i fucili contro di lei, estrasse velocemente una sorta di tirapugni dalla tasca e lo impugnò: sembrava avere delle piccole pietre incastonate nelle nocche. 

Erica sollevò il braccio destro e colpì il terreno: questo cominciò a tremare e crepe si diffusero dal punto d’impatto fino ai mercenari, che persero l’equilibrio e caddero. Se successe per la forza del colpo o per la loro paura, Theo non lo capì. Non aveva mai assistito a tanta, incontrollata violenza. Ciò che vide nei minuti seguenti lo avrebbe segnato per il resto della sua vita.

 

Lei era brutale, ma brutalmente precisa. Schivava o parava ogni tentativo dei mercenari di ferirla, e lo restituiva in modo estremamente crudele. 

Theodore la vide afferrare alcuni uomini per i capelli e spingere le loro teste nei fuochi da campo, e ridere mentre le teneva schiacciate urlanti tra le fiamme. Ad altri spezzò braccia o gambe, che usò per pararsi dai proiettili di chi provava a interferire. Squartò uomini da parte a parte a mani nude. Pestava i loro volti come fossero foglie secche. Mai, mai un secondo il suo sorriso si affievolì. 

Finita la sua drammatica opera, cadde in ginocchio nella pozzanghera di sangue delle sue vittime. Rideva di un riso folle mentre si guardava le mani sporche di rosso. Se le passò sul viso, come a voler nutrire la pelle con quel sangue; e tra i capelli, quasi a ravvivare il rosso del suo ciuffo.

 

Per tutto il tempo Theo era rimasto immobile. Temeva che muovere anche soltanto un muscolo avrebbe significato la sua morte. Per questo non si accorse di essere rimasto solo.

Se ne rese conto soltanto quando sentì un grido di donna in lontananza, e vide Erica voltarsi improvvisamente verso il villaggio. Solo allora riuscì a guardarsi attorno: i suoi compagni di squadra si erano diretti verso il villaggio, e con intenzioni ben poco solidali. 

 

I soldati sembravano infatti intenti a portare a termine l’incarico che i mercenari non erano nemmeno riusciti a cominciare: approfittando probabilmente della furiosa distrazione del loro capitano, si erano introdotti nelle case degli abitanti. Alcuni avevano ricominciato a bere, altri stavano contando le poche monete e le minuscole pietre preziose - ammesso che davvero lo fossero - che erano riusciti a recuperare. Altri ancora, invece, avevano scelto la carne. 

Due soldati si erano introdotti in una capanna: uno era intento a togliersi i vestiti il più velocemente possibile, mentre l’altro cercava di tenere chiusa la bocca di una giovane ragazza. Questa si divincolava con forza, cercando di sfuggire al suo destino; al punto che riuscì a mordere il suo aguzzino e a liberarsi dalla sua presa. Urlò.

Cominciò a urlare e a pregare in una lingua che Theodore non capiva, ma capiva che doveva fare qualcosa o perlomeno provarci. Stava per precipitarsi nella loro direzione per cercare di fermarli, ma non ce ne fu bisogno.

Bastarono pochi attimi, e di soldati da fermare non ne rimase nemmeno uno.

Erica era sulla soglia della capanna con la testa di uno dei due soldati in mano. Aveva smesso di ridere.

«Che cazzo state facendo?»

Senza attendere risposta strinse la presa e la testa dell’uomo si distrusse.

Il secondo round era iniziato.

 

Sangue e frammenti di cranio esplosero per tutta la capanna. La ragazza urlò ancora più forte, e svenne. Il secondo soldato tentò di fuggire, ma fu subito afferrato per una gamba e sollevato penzoloni a testa in giù, con la facilità con cui si solleva un bimbo appena nato.

«Siamo venuti qua per una missione e voi FATE LE STESSE COSE CHE DOVEVAMO IMPEDIRE?»

Gettò a terra l’uomo che teneva in mano e un forte schiocco della sua colonna vertebrale fece intendere che anche la sua vita era finita. Il terrore si sparse: abitanti e soldati iniziano a urlare e fuggire nelle direzioni più disparate, ma il capitano Redblood era una furia omicida che non accennava a calmarsi. Imprecando, continuava a uccidere.

Theo si rese conto che a breve non sarebbe rimasto più nessuno su cui Erica avrebbe potuto sfogare la sua rabbia. Nessuno, a parte gli abitanti del villaggio. E lui.

E mentre lei frantumava e spezzava e uccideva e massacrava, Theodore tentava disperatamente di recuperare il controllo su se stesso e sui suoi nervi.

Doveva impedire che quella pazza uccidesse anche gli innocenti. Non era sicuro ne sarebbe uscito vivo, e a quanto pare non ne era sicuro neanche il suo corpo visto che non voleva saperne di muoversi. 

Fu quando sentì l’ultimo, rabbioso grido di Erica che decise di agire.

Corse verso la foresta, inspirò con più fiato che poté e urlò:

«EHI REDBLOOD, NE HAI DIMENTICATO UNO.»

Erica si voltò di scatto nella sua direzione. Non corse, ma cominciò a camminare verso Theo. Lui non provò nemmeno a nascondersi, sarebbe stato inutile. Sapeva che correre davanti a un toro infuriato non è mai un’idea saggia. Aveva il viso contorto dal terrore e stava cercando in tutti i modi di trattenere il nodo alla gola e le urla che gli rimbombavano in testa.

In pochi secondi Erica fu lì, davanti a lui, a fissarlo. Il suo viso era completamente ricoperto di sangue. Theodore non aveva mai provato un tale terrore.

«Tu sei quello nuovo. Cerchi rogne?»

Erica gli diede un forte calcio nello stomaco: Theo cadde a terra e rotolò di diversi metri, fermandosi solo quando la sua schiena si scontrò contro il tronco di un albero. Non paga, Erica gli pestò una tibia e un tremendo schiocco secco rimbombò nella foresta. Theodore provò un dolore lancinante e terribile e si morse la lingua per non urlare, per costringersi a non urlare. Erica si chinò su di lui e riprese a fissarlo, piegando il viso di lato come una bestia curiosa.

«Non hai fatto il pezzo di merda come quegli altri, te lo concedo. Ma sei arrogante.»

La donna le appoggiò il palmo della mano aperta sul viso, lentamente. Theodore non era più nemmeno in grado di avvertire i suoi pensieri, non avvertiva nemmeno il dolore alla gamba. Il suo cuore batteva ad un ritmo indicibile: stava andando in iperventilazione, senza rendersi conto nemmeno di quello.

Aveva solo paura paura paura paura paura paura paura.

Sentì la pressione sui polpastrelli di lei aumentare, pronta a schiacciare anche il suo viso come quello di tutti gli altri… quando si bloccò.

I suoi occhi si erano velati. Fissavano il vuoto, come se lei fosse caduta in una specie di trance. Per pochi, lunghissimi secondi Erica non disse niente né si mosse. Poi, improvvisamente come era arrivata, la trance svanì. Lei sbatté le palpebre come se si fosse appena ripresa da un momento di astrazione. E sorrise. Dolcemente.

 

«Che bel fiore!»

Theo seguì il suo sguardo molto, molto lentamente. Vide che poco distante dietro di lui, in linea d’aria con la sua testa, fiorivano sparsi dei piccoli mazzolini di fiori bianchi. Tornò a guardare Erica: il suo viso era quello di una persona completamente diversa.

Non era cambiata soltanto l’espressione, ora vivace ma dolce; e non erano soltanto i lineamenti ad essersi rilassati. Erano i suoi stessi occhi che ora riflettevano un’anima che sembrava non avere modo di compiere le violenze di cui solo pochi minuti prima era stata capace.

Allontanò la mano da Theo e si chinò alle sue spalle.

Theodore sembrò riprendere coscienza di essere vivo solo in quel momento.

I suoi polmoni si riempirono improvvisamente con una brusca inspirazione e lui vomitò a terra, svuotandosi di tutto ciò che il suo stomaco conteneva e di tutto ciò che la sua testa aveva trattenuto fino a quel momento. Erica non se ne accorse.

«So che in queste foreste nascono fiori pericolosissimi, ma è incredibile come altri somiglino così tanto ai fiorellini che abbiamo anche noi. Questi sembrano mughetti, non trovi?» chiese al ragazzo.

Ma quando si voltò, del ragazzo non vi era più traccia.

 

*

 

«Cosa vuol dire “sei tra i monti?”»

Tia sembrava non capire se il fratello, con cui stava parlando al telefono, era serio o se la stesse prendendo in giro come suo solito.

«Non so nemmeno io come ci sono finito, non so dove sono e non so come posso tornare. Faccio fatica a camminare.»

Theodore era effettivamente finito in cima ad una montagna, presumibilmente non molto distante dalla zona della missione. Riusciva a intravedere foreste e villaggi sotto di sé, ma non aveva alcuna voglia di mettersi a cercare indizi con attenzione.

«Ti mando la mia posizione, pensi che il capitano Steaves o a qualcun altro possa venire a recuperarmi?»

«Spero proprio di sì, altrimenti troverò un modo per venire io stessa. Chiedo e ti faccio sapere, ok?»

«Ok. Grazie.»

La ragazza chiuse la chiamata e restò qualche istante sovrappensiero a fissare il suo cellulare, appoggiata al muro esterno dell’aula in cui stava facendo lezione. Trascorse qualche istante fissando il vuoto e non si accorse che anche Dorcas uscì in quel momento.

«Tia? Tutto bene? Sei corsa fuori all’improvviso.»

Vedendo che l’amica non le rispondeva, Dorcas le diede un lieve scossone sul braccio.

«…Tia?»

Tiamal finalmente tornò ai suoi sensi.

«Scusami, mi ero… incantata. Mi ha chiamata Theo, temo sia successo qualcosa durante la missione.»

Dorcas si accigliò.

«Qualcosa di brutto?»

«Non me lo ha spiegato, in realtà.»

«Ti ha detto se è ferito? Dobbiamo avvisare qualcuno?»

«Ha chiesto di poter essere recuperato perché dice di non riuscire a camminare, è finito chissà dove e non ha idea di come ci sia arrivato. Pensavo di andare a cercare il capitano Steaves e chiedergli cosa possiamo fare.»

«Solo lui poteva avanzare una richiesta del genere… Quel ragazzo è proprio strano. Andiamo a cercare il capitano.»

Tia annuì, la sua espressione preoccupata. Se non avesse ben presente suo fratello e il suo carattere orgoglioso, dalla voce avrebbe pensato avesse pianto.

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Capitolo 3
*** Domande ***


Trovarono il capitano Steaves davanti alle scale che conducevano al quarto piano, il piano riservato. Stava parlando con una ragazza che Dorcas riconobbe, ma Tia non aveva mai visto.

«Rao…?»

La ragazza si voltò. Aveva dei scuri, sottili occhi a mandorla incorniciati da ciocche di capelli color zaffiro che teneva legati in una coda a lato della testa. Portava un abito orientale rosa pallido, simile a un kimono, ma più leggero e dalle maniche molto lunghe. Ai piedi indossava stivali neri con zeppe esageratamente alte, che a Dorcas ricordavano alcuni antichi dipinti delle terre orientali. E, cosa probabilmente più particolare tra tutte: era seduta su una gigantesca bolla di sapone che galleggiava a mezz’aria. 

Quando Rao vide Dorcas la bolla scoppiò: lei atterrò con grazia e si avvicinò.

 

«Noi ci conosciamo, vero?» le chiese. La sua voce era molto acuta, come se parlasse in falsetto; ma era indubbiamente la sua voce naturale. 

«Sì, da piccole abbiamo giocato insieme qualche volta. Ma mi perdoni» Dorcas si mise sull’attenti «non volevo mancarle di rispetto chiamandola per nome, generale».

Tia sgranò gli occhi. Non aveva ancora sentito nominare i generali di Kosmos, né tantomeno ne aveva visto uno. Sicuramente non lo immaginava così giovane!

Rao sembrò non badare alle formalità e le rivolse un ampio sorriso.

«Lascia perdere i titoli, qui siamo tutte amiche, no? Anche lei è amica tua?»

Tiamal di riflesso si irrigidì anche lei.

«Io sono Tiamal Senna… generale. Scusi il disturbo, ma abbiamo una richiesta urgente per il capitano Steaves».

«Cos’è successo?» chiese lui.

«Theodore ha avuto un problema durante la missione con il capitano Redblood. È in una zona sconosciuta, lontano dalla squadra, e chiede di poter essere recuperato. Purtroppo non conosco altri dettagli se non la posizione, che mi ha inviato poco fa».

Tiamal non era sicura che il suo racconto sarebbe parso realistico e immaginava che il capitano avrebbe avuto qualche osservazione da porre, ma con sua sorpresa lui invece si incupì.

«Capisco, durante la missione con il capitano Redblood. Grazie per il messaggio Tia, invieremo un mezzo per raggiungere il luogo che ti ha comunicato».

«Posso andare a recuperarlo io se a voi va bene».

Rao intervenne, e tutti si voltarono a fissarla. 

«Per me non è certo un problema se…» 

Si interruppe a metà frase spostando lentamente lo sguardo in alto a sinistra, come se stesse ascoltando qualcosa. Nessuno fece domande.

«Oh, a quanto pare il nostro incontro cade a fagiolo! Sherry ha una missione per voi due» disse, rivolta alle ragazze. Il suo sguardo si illuminò in un sorriso.

 

Tia notò che, nonostante le sue reazioni sembrassero sincere, era come se i suoi occhi non guardassero davvero le persone che aveva davanti. Sembravano invece guardare sempre oltre, o attraverso.

«…She-» fece per domandare, ma si tappò la bocca quando notò che Steaves le stava facendo segno con la testa di non proseguire.

«Che missione ha per loro, generale? Sono ancora intente a seguire gli studi».

«Sarà una cosa veloce veloce. Ordini di Sherry, poi». 

Rao batté le mani e una lettera apparve a mezz’aria. La raccolse e la consegnò a Dorcas.

«Potete portare questa alla Chiesa della Luce? È qui in città, ci metterete poco tempo. Quando tornerete di sicuro sarò già tornata anche io e potrete fare rapporto direttamente a me» disse, sempre sorridendo.

«Non credo sia un problema… capitano?» chiese Dorcas.

«È un ordine del generale, Dorcas.»

«Giusto, mi scusi.» La maga arrossì e si rivolse a Rao.

«Con permesso allora, noi andremmo subito.»

«Aspetta» intervenne Tia «devo passarle la posizione di mio fratello, generale».

«Oh, non serve. Ho già visto dove andare.»

Rao aprì una delle finestre del corridoio e fece il gesto di gettare qualcosa nell’aria: poco più in basso, in un turbinio d’acqua, una creatura simile ad una gigantesca manta apparve dal nulla. Era larga almeno tre metri, dai colori fluorescenti e con un piccolo nastrino rosa legato con un fiocco alla base dell’attaccatura della coda.

«Ci vediamo più tardi!» 

Rao si arrampicò sulla finestra (Dorcas si chiede come ne fu in grado con le scarpe altissime che portava) e saltò sulla schiena della manta, che decollò.

 

Seguì qualche secondo di silenzio. Sia l’uomo che le due ragazze guardarono il loro generale volare via su quella strana creatura, senza saper bene se e come commentare.

«Io pensavo di essere strana» disse infine Tia «ma qui c’è davvero gente di tutti i tipi».

Steaves emise uno sbuffo divertito e Dorcas annuì.

«Capitano, chi è “Sherry”?» chiese ancora la maga dai capelli come le nuvole.

«”Sherry” è Sheraltan Moses, Tia. Il comandante generale di Kosmos. Viene da sé che soltanto il generale può rivolgersi a lui in questo modo, da parte nostra quella confidenza non è assolutamente tollerata».

Sheraltan Moses. A quel nome, Dorcas ebbe un sussulto. Non ricordava di aver mai visto il comandante da vicino, ma aveva vaghi ricordi di lui di quando era molto piccola. Non riusciva però a mettere a fuoco una forma, o un volto: curiosamente, tutto ciò che ricordava era il colore grigio.

“Probabilmente è vecchio e con la barba lunga”, si disse. Scrollò le spalle e non ci pensò più. Anzi, fu felice di notare come Tia sembrava aver ripreso la sua curiosità: quando si preoccupava per suo fratello tendeva a diventare un’altra persona, cupa e pensierosa, ma per fortuna lo strano incontro a cui avevano appena assistito le aveva fatto tornare il buon umore.

 

«Che tipo è il comandante, capitano? Non lo sento nemmeno mai nominare. E i generali?» incalzò infatti Tiamal.

«Tia, i pettegolezzi non sono ben visti qui. Se capiterà che tu debba incontrare il comandante, allora lo incontrerai. Per quanto riguarda i generali invece, per trasparenza ti posso dire che sono due. Uno è Okami Rao, la ragazza che hai appena visto. E l’altro, onestamente… non so come si chiami. Non so nemmeno se esista.»

Ovviamente questa risposta stimolò ancora di più la curiosità di Tia.

«Come “non si sa se esista”?»

«Dicono che il comandante Moses abbia un drago, Tia» intervenne Dorcas.

Tia si portò le mani alla bocca per lo stupore.

«Un drago? Ma… esistono?»

«Direi di sì, a me è capitato di intravedere la sua ombra qualche volta in lontananza, di notte. Non so dove lo tenga, anche perché da quel che ho potuto capire sembrava molto grosso. Ma esiste ed è considerato il primo generale di Kosmos»

«Può anche essere che si tratti di un famiglio elementale con le forme di un drago» spiegò Steves, e davanti agli occhi confusi di Tia decise di proseguire.

«Alcuni maghi sono in grado di dare forma agli elementi e creare dei famigli, un po’ come ha fatto poco fa il generale Rao, suppongo. Non sono veri esseri viventi, sono solo una sorta di marionette che prendono la forma che il loro evocatore desidera. Il comandante Moses è un mago molto potente e sarebbe sicuramente in grado di creare un famiglio di dimensioni gigantesche»

«Che genere di mago è? Qual è il suo elemento?»

«Non lo sappiamo. Gestisce l’istituto, ma è come se lui fosse una figura a parte: non partecipa alle missioni e non visita quasi mai i piani inferiori al quarto. Immagino che qualcuno abbia provato ad analizzarlo, ma se l’informazione non è mai trapelata un motivo ci deve essere.» 

«Quindi non è che non va bene spettegolare sul comandante e sui generali… È solo che non avete niente da dire!»

Steaves si passò una mano sul viso.

«Puoi pensarla così, se vuoi. Ad ogni modo, avete una missione da compiere voi due, no? La Chiesa della Luce è a circa un’ora a piedi da qui, posso farvi preparare una runa di teletrasporto se volete.»

«Posso andarci volando?»

Steaves la guardò sorpreso, rifletté un secondo e alzò le spalle.

«Perché no. Ma Dorcas?»

«La porto io!»

Tia afferrò le braccia di Dorcas e un piccolo vortice cominciò a turbinare ai piedi di quest’ultima, sollevandola da terra. Dorcas non si sentiva molto a suo agio ma tentò di non darlo a vedere.

«Splendido, Tia! Ehm… è sicuro?»

«Sicurissimo, ti tengo io!»

Tia uscì tranquillamente dalla finestra con Dorcas saldamente sorretta per un braccio, ed entrambe si trovavano ora sospese a diversi metri da terra. Tia sembrava molto divertita, Dorcas decisamente meno.

«In che direzione, capitano?» chiese Tiamal.

«Nord est, non farai fatica a vederla dall’alto, è l’unica chiesa della città. State attente, se vi sembra di non farcela scendete e camminate o prendete un bus.»

«Non si deve preoccupare, capitano! Ah, Dorcas, avrò bisogno di concentrarmi quindi per favore non chiedermi cose durante il viaggio, ok? Porta pazienza, con il tempo migliorerò e potremo fare conversazione» 

Tia era assai contenta di poter portare un’amica in giro per il cielo con lei; solo, la suddetta amica temeva di essere più un crash test che un passeggero.

«Nessun problema!» le rispose Dorcas con poca convinzione «Ora andiamo però, ok? Prima partiamo, prima arriviamo». 

Entrambe salutarono il capitano e si avviarono.

 

Era una splendida giornata per sorvolare la città dall’alto. Il vento era lieve e le poche nuvole sparse erano alte a sufficienza da non intralciare la traiettoria delle due ragazze, che volavano a circa una trentina di metri d’altezza.

Dorcas non soffriva di vertigini ma non le dava neanche sicurezza stare praticamente sospesa nel vuoto con il solo braccio della sua amica a darle sostegno. Doveva ammettere, però, che la visuale dall’alto era incredibile: Ambervale era una bella città, ricca di verde, dove edifici moderni si alternavano a parchi e costruzioni rese gradevoli anche grazie alla magia. Non era raro infatti scorgere fontane che si animavano o creature d’erba messe a guardia di negozi e ville. Alcune di queste, le più antiche, avevano addirittura dei fossati dove il fuoco poteva apparire a comando. Dorcas notò una grande villa sbucare in direzione della periferia e si chiese infatti se fosse tra quelle che possedevano sistemi di sicurezza magici. Non ci pensava mai molto, ma la vendita di artefatti elementali era un bel business.

Immersa nei suoi pensieri imprenditoriali, Dorcas non si accorse che il terreno si stava avvicinando: erano arrivate. Tia atterrò dolcemente davanti alla facciata di una modesta chiesetta.

 

Non sembrava nulla di diverso dalle normali chiesette di città, pensò Dorcas.

Era in pietra chiara, con un grande rosone che ritraeva al centro il simbolo di una stella a quattro punte. L’ingresso era decorato da qualche colonna in marmo dall’aspetto molto antico. Più che in altezza, la struttura era sviluppata invece in larghezza: oltre l’ingresso infatti si poteva scorgere un ampio chiostro con uno splendido giardino ricco di piante e fiori, grande almeno quanto quello di Kosmos.

Ciò che Dorcas notò, tuttavia, era la totale assenza di persone. Controllando con sguardo più attento si rese conto però, che una c’era: un’anziana signora era seduta su una panca tra i fiori e tra questi si confondeva, intenta probabilmente a osservarli.

“Con una così bella giornata c’è solo una vecchietta a godersi il giardino?” si chiese. “Forse non hanno molti adepti. D’altro canto, a chi può interessare dedicare la vita alla religione ai giorni nostri?”

«Questo posto sembra bellissimo.»

Le riflessioni di Dorcas furono interrotte dalle osservazioni di Tia; in effetti, non erano giunte lì per fare turismo.

«Secondo te come dovremmo annunciarci?» chiese quest’ultima.

«C’è un campanello, guarda: possiamo suonare.»

Dorcas premette il pulsante al fianco della targhetta “Chiesa della Luce di Ambervale” e un delicato campanello si udì risuonare nel lato più interno dell’edificio, oltre l’ingresso e il chiostro. Dopo qualche secondo rispose una giovane voce, femminile e gentile.

«Chi è?»

«Buongiorno, veniamo dall’istituto Kosmos. Abbiamo una lettera per voi da parte del nostro comandante Sheraltan Moses.»

Ci fu qualche secondo di silenzio che si concluse con un vago “uhmmm”, sussurrato da chi aveva risposto al campanello.

«Va bene, grazie. Veniamo subito a ritirarlo.»

 

La porta di ingresso non si aprì, ma dopo qualche minuto dei passi si fecero strada nel corridoio retrostante. Erano passi veloci, pesanti e decisi. Quando cessarono, finalmente dal portone fece capolino la loro proprietaria: una donna alta, austera, molto magra, dagli occhi scuri quanto i suoi lunghi capelli legati in una treccia. La pelle era scura e il viso segnato dai solchi dell’età. Il suo sguardo era tagliente come una lama, e in quel momento vagava tra Dorcas e Tiamal. Dorcas si fece avanti, porgendo la busta con il messaggio.

«Buongiorno, siamo dell’istituto Kosmos. Questo è per voi da parte del nostro comandante.»

La donna afferrò bruscamente la busta senza togliere gli occhi dalle due ragazze: le stava squadrando da capo a piedi. Strappò l’esterno, estrasse la lettera e la lesse con attenzione, facendo scorrere i rapidi occhi indagatori sulle righe del foglio. Quando ebbe finito, senza dire una parola la accartocciò.

«Dite al vostro comandante che è senza vergogna né coscienza.»

Stava già per richiudere il portone in faccia alle due disorientate ragazze, quando un’anziana, distante voce la fermò.

«Padma, quante volte ti ho chiesto di lasciare che sia Iris ad accogliere gli ospiti? Tu li tratti sempre bruscamente.»

La donna con i capelli neri alzò gli occhi al cielo e si voltò per rispondere alla proprietaria della voce che aveva appena parlato: la signora che fino a poco prima era seduta nel giardino. 

«Venga e giudichi con i suoi occhi, allora.»

 

L’anziana donna non era molto alta e aveva il viso tondo e paffuto. I capelli erano completamente bianchi e anche gli occhi avevano una tinta molto chiara, quasi come fossero velati. Indossava una tunica anch’essa bianca, con qualche dettaglio dorato sui bordi della veste e delle maniche; queste in particolare sembravano però rovinate dal terriccio e dalla polvere, segno che, nonostante l’età, alla signora piacesse ancora sporcarsi le mani.

Si voltò verso Tiamal e Dorcas e, dopo averle osservate per qualche secondo, rise in modo quasi esagerato per la sua età.

«Hai assolutamente ragione, ormai non si vergogna davvero più di nulla.»

Le due ragazze si guardano perplesse, indecise se dovessero prendere le difese del loro comandante - che mai avevano nemmeno visto - o meno. La donna sorrise dolcemente ai loro sguardi interrogativi.

 

«Siete allieve di Kosmos, giusto? Praticate qualche tipo di magia?» chiese. Entrambe annuirono.

«Sì, io mi sto allenando a controllare il vento» rispose Tia, sollevandosi in aria di qualche centimetro per dare prova della sua affinità.

«Io invece controllo la luce», disse poi Dorcas. Alle sue parole, Padma assunse un cipiglio ancora più imbronciato. L’altra donna invece sembrava divertita.

«Ah sì? È questo che ti ha detto? Che è la luce ciò che controlli?» 

Dorcas spalancò gli occhi, sorpresa e titubante.

«Sì, sono in grado di darle forma per esempio, o creare barriere… Perché non dovrebbe essere la luce il mio potere?»

La donna canuta scosse la testa.

«Se Sheraltan ritiene che questo è ciò che devi sapere, allora io non ti dirò altro. Non mi permetterei mai di contestare i suoi programmi educativi. A meno che tu non diventi una studentessa mia e della nostra Chiesa, ovviamente.»

«Grazie, ma declino gentilmente l’offerta».

La ragazza si sentiva confusa e, in piccola parte, anche offesa: quella vecchia stava insinuando di saperne di più del comandante di Kosmos? O forse che lei, Dorcas, si stava facendo raggirare per chissà quale motivo? Chiaramente avere come unica compagnia i fiori e un’altra vecchia, per di più scontrosa, deve averle confuso le idee. E non poco. 

Forse.

«Abbiamo consegnato la nostra missiva, direi che è tempo per noi di tornare indietro. Con permesso.» 

Fece un cenno con la testa, afferrò Tia per il braccio e la trascinò via senza nemmeno attendere che le due signore ricambiassero i saluti.

È questo che ti ha detto?

Scosse la testa cercando di non pensarci.

 

«Scusa se ti ho portata via di peso» disse rivolta all’amica «ma quelle due strane signore ci stavano facendo decisamente perdere tempo. Vuoi tornare a piedi?»

«Tranquilla, anche io non avevo molta voglia di stare lì a chiacchierare. Sono in pensiero per Theo, forse è già all’istituto e vorrei vedere come sta. Ti dispiace se ti porto in volo anche per il ritorno? Siamo più veloci…»

«Assolutamente no. Mi ci dovrò abituare, ma il tuo potere è davvero comodo per spostarsi e tu sei bravissima a controllarlo».

Tia accennò un sorriso, la ringraziò e la sfiorò, facendola sollevare da terra. Le afferrò poi il braccio come aveva già fatto durante l’andata.

«Tia Express in partenza, tieniti stretta!»

Dorcas le strinse il braccio a sua volta e chiuse gli occhi, lasciandosi trasportare dal vento e dalla sua amica.

 

*

 

Arrivarono nel giardino dell’istituto e Tiamal fece atterrare Dorcas.

«Ti dispiace se vado subito in infermeria?» chiese Tia.

«No, anzi, stavo per proportelo. Io devo prima andare a fare rapporto al generale, quindi intanto puoi visitare tu Theo. Vi raggiungo appena ho finito.»

«Grazie, davvero. Ci vediamo dopo.»

Dorcas salutò l’amica e rimase qualche istante a guardarla mentre si allontanava. Quando decise di avviarsi anche lei, si rese conto che… Non sapeva dove andare. Rao poteva essere ovunque e le aveva detto di fare rapporto direttamente a lei, ma non aveva specificato dove poteva trovarla. Non sapeva nemmeno se fosse ancora tornata, in effetti.

«Sono al quarto piano, Dorcas. Di’ pure alle guardie che ti facciano passare, le ho già avvisate.»

Dorcas sobbalzò e si guardò intorno: era ancora in giardino, da sola. Non c’era nessuno accanto a lei e soprattutto non c’era Rao.

Un po’ turbata, decise di non farsi troppe domande e di seguire le indicazioni.

“A quanto pare non farsi domande è il trucco per tirare avanti, qui”, pensò. E si stupì di aver pensato una cosa simile: non era da lei. Lei era sempre stata fiera di far parte di Kosmos. Doveva decisamente smettere di ascoltare tutte le persone che le capitavano a portata d’orecchio.

Entrò nell’istituto e si diresse agli ascensori, con obiettivo il quarto piano. Senza altri pensieri, senza altre distrazioni.

Una volta arrivata riferì alle guardie ciò che la voce di Rao le aveva comunicato e queste la fecero passare senza porle alcuna obiezione. 

 

Non aveva molti ricordi del quarto piano: ci capitava spesso quando era molto piccola, ma negli ultimi anni non vi era più tornata.

Non le fu difficile intuire il motivo: un lungo corridoio attraversava l’intero piano e, ai suoi lati, erano disposte tante piccole sale. Alcune erano vuote, in altre vi erano persone intente a svolgere esperimenti o allenamenti magici, e in altre ancora stavano… bambini. Bambini molto piccoli circondati da giocattoli, libri e tutto ciò che un bimbo poteva desiderare. Non erano soli, ovviamente: i tutori li facevano giocare e li aiutavano a controllare i loro poteri se questi si manifestavano in modo violento. Provò un piccolo moto di nostalgia.

Sbirciando dentro ogni loculo Dorcas avanzò per diversi metri senza trovare traccia di Rao: solo quando ormai era quasi arrivata in fondo al piano sentì finalmente la sua voce. Non era sola: stava parlando con qualcuno. La ragazza si appiattì sul muro e si mise in ascolto “solo per avere un quadro generale della situazione”, facendo però curiosamente molta attenzione a non farsi vedere.

«…molti soldati.» disse la voce di Rao.

«Erano dei pezzi di merda!»

Erica era in ginocchio davanti a Rao, con luminose catene rosa che le tenevano i polsi sollevati e le caviglie ancorate a terra. Si strattonava con violenza - ed era parecchia, nel suo caso - ma queste sembravano perfettamente in grado di contenere la sua ira. Rao parlava tranquillamente davanti a lei, sempre seduta sulla sua bolla di sapone. Alzò le spalle con fare noncurante.

 

«Lo sappiamo, Sherry è d’accordo con te. Non valevano granché. Ma se avessi ucciso gli abitanti del villaggio la missione sarebbe saltata e non ci avrebbero pagati, e questo sì che sarebbe stato un problema.»

«Non me ne frega niente, toglimi questi cosi o ammazzo anche te!»

Erica continuava ad agitarsi con tutta la forza che aveva in corpo: i suoi occhi erano iniettati di sangue e i nervi delle sue braccia erano tesi all’inverosimile nello sforzo di spezzare le manette che le tenevano imprigionate.

«Non mi piace questa parte di te, è volgare. Fammi parlare con l’altra».

Rao fece un rapido gesto con la mano e gli occhi di Erica si persero nel vuoto per qualche istante. Quando tornarono lucidi, l’espressione di lei era completamente diversa. Girò la testa per osservare le catene.

«Ehi, me le puoi togliere per favore? Non mi piace sentirmi imprigionata.»

«Non ancora. Mi serve sapere cos’ha fatto andare via il fuoco. Come mai non hai ucciso anche il ragazzo con i capelli rossi?»

Nonostante fosse visibilmente nervosa, Erica tentò di rispondere senza perdere la calma.

«C’erano dei fiori bianchi, erano molto belli e sono andata a vederli da vicino. Non ho fatto molto caso al ragazzo. Ora mi puoi togliere queste, per favore?»

«Oh, così ti piacciono i fiori?»

«Sì, mi mettono tranquillità. Toglimele, per favore.»

«I fiori sono molto carini in effetti, sì.»

«Toglimele.»

«Però non avrei mai immaginato potessero avere questo effetto su di te.»

«TOGLIMELE!»

La furia le riempì di nuovo l’anima; e stavolta fu tale da infrangere le catene. Erica sollevò rapidissima il braccio destro verso Rao, pronto a sferrarle un pugno, ma lei non si spostò: le fu sufficiente invece un lieve movimento della mano ed Erica cadde a terra, svenuta.

«…la prossima volta diremo a qualcuno di strapparli tutti.»

 

«Eccomi a te, Dorcas. Scusa per l’attesa.»

Dorcas sobbalzò, il cuore che le batteva a mille. Non era sicura di aver colto tutta la discussione, e soprattutto non aveva idea di cosa potesse essere successo durante la missione. Capì però che doveva essere stato terribile. “Il ragazzo con i capelli rossi” era sicuramente Theo, e aveva rischiato di rimanere ucciso. 

Tentò di ricomporsi ed entrò nella stanza e solo allora vide Erica. Non che avesse avuto problemi a riconoscerne la voce, visto che parlava a un tono molto alto.

«Generale, abbiamo consegnato il messaggio». 

«Splendido!» Rao scese dalla bolla e si avvicinò entusiasta a Dorcas.

«Ho visto la risposta che vi hanno dato, siete state bravissime.»

Rao batté le mani e un’esplosione di coriandoli colorati apparve sulla testa di Dorcas, ricoprendola come se fosse la festeggiata di un compleanno. Non sapeva bene come reagire. Rao era evidentemente in grado di leggere nel pensiero e, per quanto disturbante e misterioso, era un potere di cui la giovane maga aveva già sentito parlare. Ma… far apparire oggetti dal nulla? Non era certo una capacità elementale.

 

«Non mi piace leggere nella mente delle mie amiche per sapere cosa pensano.» Rao interruppe i ragionamenti di Dorcas, ma il suo tono era tranquillo e cordiale. «Perché non mi parli, invece? Non ci vediamo da tantissimo tempo, ma sono sicura che possiamo andare ancora d’accordo.» 

Rao la stava esaminando centimentro per centimetro, girandole attorno e fermandosi a osservare le sfumature bianche sui suoi capelli.

«Sei davvero bella, sai? Sembri una bambola. Una splendida bambolina».

Dorcas trattenne il respiro e sforzò tutti i muscoli del volto per produrre il sorriso più fintamente spontaneo che questi erano in grado di fare.

«La ringrazio per la sua gentilezza, generale. Mi auguro di poter presto dimostrare le mie abilità anche sul campo».

«Ma dai, dammi del tu!»

Rao le afferrò le mani e le strinse nelle sue.

«Vorrei davvero tornassimo amiche come eravamo da piccole».

I pensieri di Dorcas erano un turbinio confuso di sentimenti e sensazioni in completo contrasto tra di loro. Perché Rao, uno degli unici due generali dell’istituto, si era così convinta che loro fossero ottime amiche? La sua proposta era sincera, o stava cercando di approfittarsi di lei? 

Cacciò questi pensieri il più velocemente possibile: non era saggio avere dei dubbi su una persona che può leggerti nella mente, soprattutto se questa stava proprio davanti a te.

«Mi perd- perdonami, Rao. Sono solo un po’ confusa. Come dici tu non ci vediamo da tanto, e mi riesce un po’ difficile vederti come un’amica quando ti ho sempre considerata un mio superiore.»

Rao le sorrise dolcemente e le lasciò le mani.

«Hai ragione, è comprensibile. Ma abbiamo tutto il tempo di recuperare. Magari per cominciare potrei farti un regalo!» 

Un piccolo arcobaleno apparve in cielo: era davvero entusiasta all’idea.

«Non serve che ti disturbi, davvero!» 

«Lo faccio volentieri. Potrei regalarti un libro! A me piace molto leggere, sai? A te?»

«Io in realtà non ho molti hobby al di fuori dello studio. Però sì, leggo volentieri.»

«Perfetto!»

 

Rao volteggiò su se stessa facendo ondeggiare le ampie maniche della sua veste, e quando si fermò un piccolo pacchetto rettangolare le era apparso in mano. Era avvolto in una carta color verde acqua, con l’immancabile fiocco rosa e una “R” disegnata. Lo porse a Dorcas.

«Spero ti piacciano le storie d’amore, sono le mie preferite. Leggilo e fammi sapere cosa ne pensi!»

Dorcas accettò il dono con stupore, stavolta davvero spontaneo. 

«Ti ringrazio, lo leggerò volentieri. E penserò anche a un regalo da farti in cambio!»

Rao saltò sul posto per la gioia.

«Non vedo l’ora di sapere cosa sarà! Ti prometto che cercherò di non leggerti più nel pensiero, così non mi rovinerò la sorpresa. Ora scusami, ma devo tornare da Sherry. E peraltro sarà meglio che nessuna delle due sia qui quando Erica si sveglierà.»

«Vuoi che chiami la dottoressa Saintpeter?»

«Non serve, sa fare da sola. Ma è molto gentile da parte tua preoccuparti anche di un mostro come lei. A me non piace tanto, ma a Sherry sì, quindi la tengo.»

Quindi la tengo? Cosa vorrebbe dire?” pensò Dorcas, ma si limitò a sorridere.

«Va bene, allora a presto, Rao. E grazie ancora per il libro.»

Rao le sorrise a sua volta, la salutò con la mano e si avviò verso le scale che dal quarto piano portavano al quinto.

 

Dorcas non era sicura di ciò che aveva appena ascoltato. Fino a poco tempo prima il mondo per lei era molto semplice, o bianco o nero. C’era Kosmos, l’istituto in cui era nata e vissuta, che si occupava della sua istruzione e di crescerla nel modo migliore possibile, come lei meritava. E c’era il mondo esterno, che spesso non ne capiva le motivazioni e lo criticava. Aveva sempre seguito le lezioni con interesse e partecipato volentieri alle missioni di addestramento: niente le era mai sembrato sospettoso. Eppure i fatti degli ultimi giorni sembravano aver messo tutto in discussione. A Dorcas non pareva nemmeno di essere nello stesso posto in cui era sempre stata. 

Lanciò un’altra rapida occhiata al corpo di Erica abbandonato nella stanza vuota, e tornò sui suoi passi.

 

*

 

Nel frattempo, Tiamal si era diretta in infermeria con ogni cellula del corpo traboccante di ansia. Ad ogni passo immaginava le terribili condizioni in cui avrebbe trovato Theodore una volta varcata la porta bianca: suo fratello era un attaccabrighe e lei non si sarebbe affatto stupita se un giorno il karma avesse deciso di restituirgli tutto con gli interessi.

Camminò più veloce che poté - non si corre nei corridoi - e finalmente arrivò davanti all’infermeria. 

Con suo enorme sollievo sentì sia la voce della dottoressa che quella di Theo: “almeno non è morto”, pensò. Prese un grande sospiro e bussò.

«Avanti», le rispose una voce gentile. Tiamal entrò.

 

«Un secondo solo.» continuò la dottoressa.

Theo era disteso su un lettino, in mutande, con la dottoressa Joleicia china su di lui intenta a iniettargli qualcosa nella gamba. Lui aveva gli occhi strizzati e la faccia contrita nello sforzo di trattenere il dolore, le dita strette sulle lenzuola del letto al punto che le nocche stavano cominciando ad arrossarsi. Tia si strinse nelle spalle e decise di aspettare in silenzio la fine dell’operazione.

Dopo qualche secondo Joleicia si sollevò, gettò in un cestino la siringa vuota e raddrizzò delicatamente la gamba di Theo.

«L’anestesia farà effetto a breve, appena mi dirai che non senti più dolore potremo cominciare ad aggiustare le ossa.» Theo annuì e aprì gli occhi, e solo in quel momento si accorse della sorella che lo fissava in piedi con in viso un’espressione mortalmente preoccupata. Imprecò.

«Oh, dai, mi è successo di peggio.»

Anche la dottoressa Joleicia si voltò: lei, però, vedendo la faccia mortificata di Tia, le rivolse un sorriso materno e pieno di comprensione.

«Ciao, Tia. Sei arrivata giusto in tempo, tuo fratello è qui da poco.»

«Buongiorno, dottoressa. Cos’è successo? È grave?»

«Si è rotto alcune ossa. Non è certo piacevole, come puoi vedere anche tu dalla sua espressione, ma per fortuna non è niente che non si possa recuperare. Aspettiamo solo che facciano effetto antidolorifico e anestesia, altrimenti fargli ricrescere le ossa gli farà più male che tenerle rotte.»

Tia si avvicinò al lettino e guardò il fratello. Vide che non solo il suo viso era una smorfia di dolore, ma aveva anche gli occhi gonfi e soprattutto diverse macchie di sangue sul viso e sulle mani.

«Come hai fatto a ridurti così?»

«Missione complicata. Non mi va di parlarne ora.»

«Ci sono stati dei feriti…?»

«Ci sono stati molti morti» intervenne Joleicia «L’intera squadra ad eccezione di Theo, in realtà. E di Erica».

Tia sbiancò.

«Morti…? Era una trappola?»

«Non-voglio-parlarne».

Tia rivolse uno sguardo speranzoso e supplicante verso la dottoressa, che alzò le spalle.

«Ho ricevuto solo un breve aggiornamento dal generale Okami, è stata lei a portarlo qui. La tua preoccupazione è comprensibile e legittima, Tia, ma credo che dovremmo lasciare che tuo fratello riposi. Deve aver vissuto un’esperienza terribile, non è il caso che la riviva così presto.»

Tia sospirò e prese posto su uno sgabello.

Si guardò intorno cercando di trovare qualcosa che la aiutasse a calmarla, ma intravedeva solo libri e strumenti medici.

«Non esistono magie curative, dottoressa? Qua vedo solo medicinali classici».

«Esistono eccome, e sono ciò che utilizzeremo qui quando tuo fratello si sarà stabilizzato. Guarda.»

Joleicia si alzò e aprì uno dei cassetti dell’armadio con i medicinali. Estrasse una scatola di legno dall’aspetto vecchio e assai banale e la mostrò a Tia.

«Ora come ora, all’istituto non abbiamo maghi in grado di produrre magia curativa. Sono molto rari. Quindi acquistiamo queste da alcuni… fornitori.»

La dottoressa sollevò il coperchio della scatola: cinque o sei luminosissime pietre grezze di diverse dimensioni brillavano su un tessuto di velluto dorato. Erano così luminose che quasi non se ne distingueva la forma, ma non emanavano calore.

Joleicia ne afferrò una e la estrasse: era grande quanto il palmo della sua mano. Tia dovette distogliere lo sguardo per non rimanere accecata, ma era a bocca aperta.

«Questa magia… Ma è quella di Dorcas?»

Joleicia sorrise, ma non rispose.

«Come dicevo, ora come ora non abbiamo maghi guaritori.»

Tia capì che non era il caso di insistere. Guardò il fratello, anche lui intento ad osservare con stupore le gemme luminose.

«Le pietre elementali sono molto utili, perché racchiudono magia cristallizzata utilizzabile da chiunque. Non è facile però crearle: servono maghi dell’elemento corrispondente molto capaci per cristallizzare in forma solida qualcosa di fugace come la magia. Fortunatamente al nostro istituto i fondi non mancano e possiamo acquistare tutte quelle che ci occorrono. Su alcune vengono anche incise le rune, nel caso si voglia ottenere un risultato specifico. Queste a mia disposizione sono invece senza vincoli, così posso utilizzarle su ogni tipo di ferita. Ce ne vorrà una bella grande per Theodore, ma visto quello che ha passato direi che possiamo permetterci la spesa.» 

«Ne ho vista una simile prima della missione» intervenne Theo «Era viola, e piena di rune. Ha aperto un portale.»

«Può essere, ce ne sono di molti tipi, direi uno per ogni tipologia di magia elementale.»

«E che tipo di magia apre i portali?»

 

Il tono di Theo era deciso e tradiva ben più che semplice curiosità. Lui aveva avvertito un’affinità con quella magia: forse era quello il suo potere?

Joleicia lo fissò qualche secondo piegando la testa di lato, come se fosse indecisa sul da farsi, e si picchiettò la guancia con il dito con aria pensierosa.

L’atmosfera si era tutto ad un tratto fatta più pesante.

Dal nulla la dottoressa si alzò,si avvicinò ai due ragazzi e, a bassa voce, cominciò a… cantare.

 

«La risposta io conosco,

dal segreto è nascosta.

Di misteri è pieno il posto

e la mente non va esposta.

 

Acqua, aria, terra e fuoco 

sono i quattro principali.

Se si coglie però il gioco

spuntan altri elementali

 

C’è una persona che tutto sa:

studia, prova, scopre e impara.

Il suo compito è comandare qua.

Chiedi a lui, la magia gli è cara.»

 

Tia e Theo si guardarono perplessi. La dottoressa aveva una splendida voce, ma le sembrava il caso di mettersi a cantare? Theodore era così imbarazzato che non sapeva come rispondere. Si limitò a fissare sua sorella, che dopo un iniziale smarrimento pareva ora molto preoccupata; sembrava aver capito qualcosa che al ragazzo era sfuggito. Nel frattempo, Joleicia si mise a sistemare i suoi attrezzi senza più dire una parola.

Theo fece per chiedere qualcosa, ma Tiamal gli tappò la bocca.

«Grazie mille dottoressa Joleicia per la bella canzone. Potrei cantarla di nuovo a Theo quando sarà uscito di qui.»

«Mi sembra un’ottima idea.» convenì lei «Vediamo se siamo pronti per rimetterlo a posto. E… ragazzi?»

I due fratelli la guardarono con attenzione.

«Chiamatemi pure Jol.»

 Il suo sorriso era cambiato. Era sempre molto dolce e materno, ma stavolta aveva una scintilla in più di… qualcosa. Furbizia? Malizia? O complicità?

 

«Allora Theodore, se faccio in questo modo senti qualcosa?»

Jol sollevò la gamba di Theo.

«Niente di niente.» rispose lui.

«E se faccio così?»

La dottoressa gli diede un pizzicotto sotto la coscia. Theo arrossì.

«N-no…»

«Benissimo, ultimo test allora. Mi raccomando, dimmi se senti dolori!»

Estrasse un piccolo bisturi, appoggiò un asciugamano pulito sul polpaccio del ragazzo e lo incise delicatamente. Il sangue fluì copioso, ma Theo non fece una mossa.

«È inquietante a dir poco, ma… non sento niente.»

«Ottimo!» disse lei allegramente «Possiamo procedere allora.»

Joleicia raccolse la pietra luminosa che aveva poggiato poco prima e la fece scorrere sulla ferita sanguinante sul polpaccio del ragazzo: fu come se qualcuno avesse accelerato il tempo.

La ferita prima smise di sanguinare e poi, nel giro di qualche secondo, cominciò a rimarginarsi e cicatrizzarsi. In pochi minuti non ve ne fu più traccia.

La dottoressa allora chiuse gli occhi e premette con molta più forza la pietra sulla gamba di Theo.

Stavolta la cura fu più lunga e impegnativa.

I frammenti di ossa che ricrescevano e si riunivano tra loro comprimevano e allargavano la gamba di Theodore in modo innaturale: un momento si contorceva, quello dopo si gonfiava, il piede scattava all’improvviso un attimo dopo ancora. I “cric” e “crack” prodotti dalle ossa erano forti e fastidiosi, come unghie sulla lavagna. Tia ad un certo punto si tappò le orecchie e Theo non poteva fare a meno di fissare il suo stesso arto con espressione terrificata - nonostante non provasse fisicamente alcun dolore. La pietra, nel frattempo, si faceva sempre più piccola mano a mano che rilasciava energia luminosa. Alla fine, dopo circa un quarto d’ora, era completamente sparita.

«Dovremmo aver finito. Credo che la gemma ti abbia curato anche qualcos’altro, grande com’era. Forse una carie o qualcosa di simile» disse Joleicia raggiante.

Theo era confuso.

«Può… essere?»

Mosse piano la gamba: era tornata come nuova. E effettivamente non sentiva più alcun tipo di fastidio o dolore, in nessuna parte del corpo.

«Posso alzarmi?» 

«Assolutamente.»

Theo si alzò e fece un paio di saltelli sul posto, mentre Tia lo guardava curiosa.

«È stupefacente.» disse lei «Se penso che solo mezz’ora fa sembrava morente, questo è quasi un miracolo.»

«Miracoli della scienza magica. È ciò che studiamo in questo istituto, ed è il motivo principale per cui anche io resto ancora qui.» Joleicia sembrò quasi rispondere a una domanda non posta; Tia la fissò per un secondo, e annuì.

Stava per porle una domanda quando dalla porta si levò un “toc toc”.

«Dottoressa…? Sono Dorcas, i gemelli sono ancora lì?»

 

«Dorcas! Sì, entra pure, abbiamo appena finito di riparare Theodore.»

«Splendido!»

Dorcas spalancò la porta piena di entusiasmo e la prima cosa su cui le cadde l’occhio fu proprio Theodore, in piedi e ancora in mutande.

«Ah-!»

Avvampò e si mise subito a fissare il muro del soffitto con grande impegno. Theo, neanche a dirlo, non perse l’occasione.

«Sono assolutamente d’accordo con te, il mio corpo ora è più splendido che mai. Puoi guardarlo da vicino se vuoi.»

«Ma piantala, idiota! Apprezza invece che è venuta qui a vedere come stavi!» lo rimbeccò Tia con una sonora sberla sulla nuca. «Come vedi, mio fratello sta benissimo. A te è andato tutto bene con il generale?»

Dorcas si ricompose meglio che poté e annuì.

«S-s-sì, in realtà le ho detto ben poco visto che sembrava sapere già tutto. È stata molto gentile con me, mi ha anche regalato un libro.»

Mostrò il libro a Tia, che rise.

«Dal nome sembra un romanzo rosa! Sei proprio il tipo da avventure amorose!»

Dorcas si sentì quasi offesa e subito si drizzò sulla schiena con il suo solito fare altezzoso.

«Non prendermi in giro! Di solito non leggo questo genere di racconti frivoli, ma visto che me lo ha regalato il generale…»

Dorcas non concluse la frase e iniziò a fissare il libro sovrappensiero.

“Una storia d’amore?” pensò “Non che ci abbia mai riflettuto su… Però…”

Scoccò un furtivo sguardo a Theo, che era intento a non inciampare nel tentativo di rimettersi i pantaloni. Avvampò di nuovo e cercò di nascondere un sorriso tra sé e sé.

“...Però, forse, potrebbe essere divertente”.

Stava per rispondere a Tia quando la porta dell’infermeria si spalancò di nuovo ed entrò una Rao splendente di felicità. Aveva evidentemente corso e non appena vide la ragazza fece apparire sulla sua testa una miriade di fiori bianchi e rosa.

«Ti ho trovata, Dorcas!» 

Corse verso di lei, le prese le mani e cominciò a saltellare di gioia.

«Sherry mi ha detto di riferirti una cosa bellissima! Sei pronta?»

La maga, ancora frastornata dal suo arrivo, annuì cercando di mimare la sua felicità.

«Certo, cos’è successo?»

Rao si fermò, fece un respiro impaziente e la fissò negli occhi:

«Dorcas… ti sposi!»

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Capitolo 4
*** Un po’ di chiacchiere ***


Nei giorni successivi alla rivelazione del suo matrimonio, Dorcas si ritrovò come sequestrata da Rao. Era entusiasta all’idea che Dorcas si sposasse e la seguiva ovunque per discutere di cerimonia, fiori, abiti e via dicendo, facendo ogni volta apparire un ampio catalogo di qualsiasi categoria le venisse in mente. Rao era decisamente più felice di quanto non fosse Dorcas stessa, ma non sembrava dar peso alla cosa.

Per quanto avesse sempre saputo ci fossero altissime probabilità che il suo destino amoroso sarebbe stato determinato dall’istituto, non si aspettava che la notizia sarebbe arrivata così presto. Ogni volta che Rao la avvicinava tentava di condividere il suo entusiasmo, ma ogni volta le riusciva più difficile. Avrebbe voluto parlarne con Tia, era certa che lei le avrebbe dato un buon consiglio; ma negli ultimi giorni per lei si era rivelato davvero complicato riuscire ad avere un dialogo con qualcuno che non fosse il generale.

«Il tuo promesso sposo è un mago eccezionale, giovane e di nobile famiglia» spiegò Rao dopo aver chiuso l’ennesimo libro di abiti da sposa «ed è un mago del sacro come te! Sherry è davvero emozionato, sarete la prima coppia del sacro nella storia di Kosmos, e forse del mondo intero! I vostri figli saranno bellissimi!»

Nel tempo trascorso con lei, Dorcas aveva imparato che Rao non era molto empatica. Aveva la sua visione del mondo e delle persone e, a meno che non le leggesse nella mente, difficilmente riusciva a cogliere le sfumature di umore o i sentimenti di qualcuno. Era il motivo principale per cui Dorcas non si sentiva molto incline a confidarsi con lei: per quanto fosse gentile, sembrava completamente assorbita da Sheraltan e dai suoi ordini. Non sarebbe stata una buona idea quindi rivelarle che covava dei dubbi riguardo l’intera questione dello sposarsi. D’altronde, non sapeva nemmeno lei quanto peso dare proprio a tali dubbi.

«Quando sarà la cerimonia, Rao?» chiese Dorcas durante una delle loro chiacchierate forzate «Pensi che potrò incontrare prima questo ragazzo?»

Rao chiuse gli occhi per qualche secondo.

«Sherry dice che vorrebbe organizzarla il prima possibile, ma i genitori del mago ci tengono a fare qualcosa di carino. Probabilmente avverrà tra un paio di mesi.»

Dorcas fece un mezzo sorriso; non sapeva se considerarla una buona o una brutta notizia.

«Ha detto però che, se vuoi, puoi incontrarlo la prossima settimana. Si terrà un torneo di combattimenti a Saoria, la città pirata. A quanto pare Reis ci va sempre. Sherry dice che è presto per farti partecipare come combattente, ma potresti andare l’ultimo giorno come spettatrice e conoscerlo là».

La maga bianca non aspettava altro: un giorno di libertà, lontano dalle mura e per di più in una città pirata nel pieno di un torneo di lotta.

“Praticamente il mio addio al nubilato”, pensò. Il suo viso si illuminò e stavolta reagì con entusiasmo sincero.

«Sarebbe fantastico, non ho mai assistito ad un torneo! Posso chiedere anche a Tiamal e Theodore di accompagnarmi? Non vorrei perdermi, non sono mai stata in una città pirata.»

Rao storse il naso.

«Perché loro due? Sono cadetti, non ti sarebbero molto d’aiuto. Sarebbe meglio se ti accompagnassi io oppure Steaves.»

«Non vorrei disturbare il capitano Steaves, so che da quando Er- il capitano Redblood ha dato di matto, è molto impegnato.»

«Allora vengo io!»

«Tu, ehm…»

Dorcas si morse il labbro: le serviva subito un’idea geniale che tenesse Rao abbastanza impegnata per abbastanza tempo. Purtroppo l’unica che le era venuta in mente non le piaceva per nulla, ma non poteva permettersi di fare la schizzinosa. Raccolse tutto il suo coraggio e lanciò la sua proposta:

«Perché non ci prepari una festa di fidanzamento per il nostro ritorno?»

Per Rao era l’idea più bella che potessero proporle. Emise un grido di gioia e si gettò su Dorcas, stringendola forte; non si accorse che l’entusiasmo non era ricambiato.

«Allestirò la sala conferenze e preparerò insieme ai cuochi i dolci più buoni che tu abbia mai mangiato! Potrei provare a coinvolgere qualche mago elementale per creare famigli danzanti, e poi ovviamente ci servirà musica, e luci, e decorazioni… C'è tantissimo da fare, che bello!»

Volteggiò su se stessa in preda alla gioia e saltò sulla sua bolla gigante, rimbalzando a mezz’aria. 

«Vuoi organizzarla insieme a me?»

Dorcas si affrettò a scuotere la testa.

«No, grazie, preferisco la sorpresa.» mentì «Mi fido di te, sono sicura che sarà meravigliosa.»

Rao le sorrise e si sollevò ancora più in alto, sempre comodamente seduta sul suo insolito, profumato mezzo di trasporto.

«Va bene, allora comincio già adesso a cercare qualcosa. Se hai qualche desiderio particolare fammi sapere, mi raccomando! Voglio che sia una festa perfetta per te.»

E così dicendo volò fino alle finestre del quinto piano, infilandosi in una di esse con un “pop”.

Dorcas sospirò. Aveva sempre pensato di essere una persona spontanea, sincera e amichevole, eppure negli ultimi giorni mentiva e fingeva come se per lei fosse la cosa più naturale del mondo. Non le piaceva il lato di sé che stava emergendo ma non riusciva a trovare alternative che non implicassero il litigare con Rao. Decise che ne avrebbe parlato con Ti, e si avviò verso il corridoio delle aule, ad aspettare che lei e suo fratello terminassero la loro lezione. 

 

Non dovette attendere molto, anzi: non dovette attendere per niente.

Theo era già fuori dall’aula che parlava con il capitano Steaves, circondato da qualche altro ragazzo che li fissava con aria adorante. Tia doveva invece essere ancora in classe. Si avvicinò in silenzio, per non disturbare i due che discutevano.

«…so che non compensa il danno che hai subito, ma sappi che è raro che il comandante faccia doni.»

Steaves stava terminando un discorso che accese subito la curiosità di Dorcas. Si aggiunse agli altri ragazzi in ascolto per cercare di mettere insieme i pezzi del discorso.

«Posso chiedere qualsiasi cosa?» replicò Theo con aria stupita.

«Se è sensata, sì. Con te è meglio specificarlo.»

Theo alzò le spalle in un mezzo ghigno, mezzo sbuffo.

«Vorrei due cose, allora. La prima è un colloquio con il comandante.»

«Farò il possibile, ma potrebbe non essere immediato né tantomeno certo. La seconda?»

«Ho bisogno di un’arma.»

Theo diede questa risposta in un tono così serio che Dorcas si domandò se stesse scherzando; ma dall’espressione nei suoi occhi si capiva che non era così, affatto. Steaves lo fissò a sua volta, altrettanto serio, e, dopo qualche secondo di riflessione, annuì.

«Questa mi sembra una richiesta decisamente più ragionevole. Se hai tempo posso portarti anche subito in armeria. Tieni conto che ti sarà comunque proibito girare armato al di fuori dell’istituto se non sei in missione.»

Theo alzò le spalle di nuovo in segno di assenso e si guardò intorno.

«Volevo avvisare Tia prima, ma è ancora dentro. Ah, Dorcas!»

Alcuni dei ragazzi che prima affollavano il corridoio se n’erano andati, e la chioma bionda di Dorcas spiccava ora a poca distanza.

«Buongiorno capitano, ciao Theo» li salutò lei con la mano «hai avuto una promozione?»

«No, ma a quanto pare il comandante Moses si è offerto di… risarcirmi.»

«Non è un risarcimento» precisò Steaves a Dorcas «ma un ringraziamento. Finalmente abbiamo avuto le prove che i membri delle squadre del comandante Redblood agivano per il loro tornaconto. Se non fosse tornato Theodore a testimoniare avremmo avuto solo in mano solo chiacchiere di corridoio. E proprio perché è riuscito a tornare - vivo - l’offerta del comandante è anche un premio. Era la tua prima missione, dopotutto.»

«È un grande onore, Theo! Non sei contento?» gli chiese Dorcas, sinceramente stupita - e un po’ invidiosa - del successo ottenuto in così poco tempo dal suo amico.

«Oh sì, assolutamente fantastico!» rispose lui in falsetto, imitando la voce di Dorcas «Quando incontrerò il comandante gli farò assolutamente un bel- ahi! Ha preso anche lei l’abitudine di darmi schiaffi in testa ora?»

«Il motivo non dovrebbe stupirti, intelligente come sei.» gli rispose Steaves, la mano ancora sollevata.

«Sono sicuro che da parte sua non sia legale.»

Theo si rivolse quindi a Dorcas.

«Tia si è addormentata in piedi mentre stava rispondendo a una domanda, o qualcosa del genere. Sembrava stesse pensando e invece si è come bloccata per diversi secondi. Per me si era solo persa un attimo, ma la professoressa si è allarmata e ha insistito per parlarne. È ancora dentro, puoi aspettarla tu e riferirle che vado in armeria con il capitano? Ci possiamo incontrare dopo in caffetteria.»

Dorcas annuì.

«Certo, nessun problema. È capitato anche con me che si bloccasse, è stato quando le hai telefonato durante la tua missione. Forse le capita quando è agitata.»

«Può essere, non le farebbe male smettere di preoccuparsi sempre per tutto e tutti ogni tanto. A dopo allora.»

I due si salutarono e Theodore si mosse dietro al capitano, diretti verso l’armeria.

 

*

 

«L’armeria non è un locale a cui normalmente gli studenti hanno accesso» iniziò a spiegare Steaves «È riservata ai soldati, e anche loro non hanno a completa disposizione tutte le armi. Alcune sono troppo potenti.»

«In che senso?» chiese Theo «Ci tenete dei cannoni?»

«No, cose molto più pericolose. Le armi, come tutti gli oggetti, possono essere potenziate grazie alla magia. Alcune in modo temporaneo, usando le pietre elementali. Io in un certo senso “funziono” così: inserisco una pietra negli incavi sul mio corpo e questa mi permette di sprigionare la forza che contiene. Ovviamente l’effetto si esaurisce quando la pietra si scarica.»

«Non è doloroso? Già solo farsi tutti quei buchi…»

«Quando un soldato semplice senza particolari capacità entra in contatto con questo posto, si rende conto subito di quanto lui sia limitato. Questo metodo mi ha fornito una possibilità. È stato doloroso all’inizio però, sì. Il mio corpo non era nato per sopportare flussi di energia elementali e ho dovuto allenarmi un bel po’ per abituarmi. Ora non mi da’ particolarmente fastidio, anche se ogni volta che uso pietre d’acqua poi devo sempre correre in bagno.»

Theo accennò un mezzo sorriso ma non si azzardò a fare battute. Steaves era una delle poche persone che stava davvero cominciando ad apprezzare, e rispettare. Anche se non poté fare a meno di domandarsi cosa spingesse una persona a fare questo al proprio corpo.

«Perché voleva tutta quella forza? Era davvero necessario?»

«Proprio tu ora vuoi farmi parlare dei miei sentimenti? Pensavo che fosse il comandante quello che volevi conquistare.»

Theo rise ma non si scoraggiò:

«È solo curiosità, questo posto è pieno di gente quantomeno non comune. Vengono fuori discorsi interessanti.»

«Vero, infatti dovremmo riprendere il nostro di prima. Ma ti sarà più facile capire con qualche esempio sottomano.»

I due si fermarono davanti ad una grossa, doppia porta blindata su cui troneggiava la scritta “Armeria”. A lato, sopra a quello che sembrava un dispositivo elettronico, galleggiava una piccola sfera bianca: Steaves vi infilò la mano dentro e dopo qualche istante il portone si spalancò. Il capitano fece cenno a Theo di seguirlo, e i due si incamminarono lungo un corridoio bianco.

 

Theo era sinceramente meravigliato: i lati del corridoio erano vetrate trasparenti dietro alle quali galleggiava un liquido color bianco perla, leggero come l’aria, ma dalla consistenza più densa. Somigliava molto al reagente elementale, ma sembrava più…

«Compresso» spiegò Steaves «Lì dentro c’è reagente elementale ad alta pressione. Se entra qualcuno di non autorizzato, le porte si chiudono e nel reagente vengono lasciate cadere pietre elementali dell’elemento opposto a quello dell’intruso. Tenendo conto che può anche caderne più di una, gli effetti possono essere devastanti.»

«Non è un tantino estremo come sistema di sicurezza?»

«In teoria i non autorizzati vengono bloccati ancora prima di entrare dal terminal all’ingresso. Questo sistema è per chi riesce comunque ad arrivare qui, per esempio teletrasportandosi.»

«Ma vale solo per questo corridoio?»

«No, c’è uno strato di reagente nelle pareti di tutta l’armeria.»

«E allora un’esplosione del genere non dovrebbe danneggiare anche le armi?»

«Ci ho pensato anche io, più volte. Credo che il comandante abbia protetto le armi in qualche modo, ma non ho mai capito quale. Puoi chiederglielo tu durante il vostro appuntamento.»

Con un cenno, Steaves fece passare il ragazzo davanti a sé: entrarono così nella prima sala dell’armeria.

 

Alle pareti erano appese decine e decine di armi, di ogni genere: armi bianche, da lancio, da fuoco, oltre ovviamente a munizioni e suppellettili di qualsiasi tipologia. Con un filo di delusione, però, Theo notò che avevano tutte un aspetto abbastanza ordinario.

«Questa è la sezione delle armi comuni. Qui potrai scegliere la tua.»

Theo fece una smorfia di disappunto alla spiegazione di Steaves.

«Non c’è qualcosa di più originale?»

«Certo, ma non la affiderei mai ad un mago che non sa nemmeno quale sia il suo elemento.»

Colpito e affondato. 

«Devi solo essere paziente, d’altronde sei appena arrivato. Se mi segui posso continuare a spiegarti perché è importante che chi maneggia armi magiche sia ben consapevole di cosa sta facendo, e soprattutto di cosa vuole fare

Steaves si incamminò verso la seconda, grande sala.

 

La quantità di armi presenti era già diminuita molto, ma in compenso queste ne guadagnavano in qualità.

In ogni arma erano stati ricavati uno o più incavi, di diverse dimensioni in base alla tipologia dell’arma: alcune possedevano solo un unico, grosso buco, altre invece erano tempestate di numerose piccole cavità. Al centro della stanza, suddivise in tante piccole teche, erano disposte le pietre elementali. Formavano un arcobaleno iridescente di mille colori, sfumature e intensità. Theodore le osservò con stupore: notò che, nonostante gli elementi di base fossero quattro, le categorie in cui le gemme venivano suddivise erano molte di più. Alcune probabilmente erano derivate da elementi base, come per esempio quelle sotto l’etichetta “esplosive”.

Un lampo balenò nella mente di Theo: i suoi occhi cominciarono freneticamente a cercare pietre nere. Durante il test, il reagente elementale era diventato scuro come le pece: se avesse trovato qualcosa dello stesso colore forse avrebbe capito almeno un po’ la natura del suo potere.

Rosse, marroni, grigie, viola… nere!

Il cuore del ragazzo iniziò a battere all’impazzata. Corse con lo sguardo in alto, verso la scritta stampata, e finalmente lesse:

“Teletrasporto”.

Theo rimase immobile qualche secondo.

“Teletrasporto?”, pensò.

Ricordava di aver avvertito qualcosa quando vide il portale, qualche giorno prima. Ma che razza di elemento poteva essere il “teletrasporto”? E soprattutto, perché tanto segreto se era qualcosa che utilizzavano comunemente nell’istituto stesso?

Stava tentando di arrivare ad una conclusione logica quando sentì Steaves urlare il suo nome in lontananza, già diretto nella terza sala.

Il ragazzo si sollevò dalla teca di pietre, demoralizzato. Notò con la coda dell’occhio che ve n’erano altre nere, con l’etichetta “Sacro”. 

“Ma il sacro non è quella roba bianca di Dorcas? Chi riordina qua deve essere più confuso di me.” 

Con molto meno entusiasmo di quando si era avvicinato, Theodore si allontanò dalla teca delle pietre per continuare a seguire Steaves, il cui tono si era fatto più insistente. La sua testa era però persa tra mille ragionamenti: l’unica spiegazione era che il teletrasporto dovesse essere una parte del suo potere, una derivazione di qualcos’altro sfruttata per scopi pratici. Non che questo però gli fosse d’aiuto. Forse il suo elemento era qualcosa come lo “spazio”? Ammesso che un elemento del genere esistesse.

«Sei ancora tra noi?»

Theo si risvegliò dai suoi pensieri e annuì frettolosamente al capitano. Avevano raggiunto la terza stanza, decisamente più piccola delle altre. Tutte le armi erano però protette dietro teche singole, ed erano decisamente più particolari delle altre. Alcune parevano anche mozzate: c’erano spade senza lama, oppure bastoni che reggevano il nulla. 

«Come ti stavo dicendo, alcune armi possono essere potenziate temporaneamente utilizzando le pietre elementali. Queste, invece, sono costruite direttamente in pietra elementale, del tutto o in alcune loro parti. Questo significa che possono essere sia caricate in precedenza, sia potenziate sul momento, se la persona che le sta usando è un mago.»

«In che senso?»

«Prendi questo per esempio.»

Steaves si avvicinò ad una teca contenente un pugnale: l’impugnatura era molto scura, di un materiale alla vista simile alla pietra. La lama era invece color bianco perla, larga e irregolare; numerose punte sporgevano dai lati, entrambi affilati, come spine dal ramo di una rosa.

«Questo è un pugnale molto versatile. È pericoloso già di per sé, grazie a tutti quegli spuntoni. Ma la lama è in pietra elementale: dalla ad un mago del fuoco ed inizierà ad emettere fiamme. Ti faccio l’esempio del fuoco perché è il più semplice, è un elemento che tende ad essere pericoloso già in natura, mentre altri hanno bisogno di essere manipolati per ottenere effetti offensivi. Ti assicuro comunque che non deve essere piacevole tagliarsi con questo e ritrovarsi un seme che comincia a radicarsi nella ferita.»

Theo ebbe un brivido.

«È disumano, in effetti.»

«Spero perciò che tu abbia capito perché l’utilizzo di queste armi è molto limitato. Se chi le usa non ha perfettamente sotto controllo non solo la propria magia, ma anche la propria mente ed emozioni, rischia di causare danni tremendi. Prova tu a fermare una lama che continua a bruciare senza mai spegnersi o un fucile che spara all’impazzata proiettili di aria compressa. Non è facile se non sei un mago a tua volta.»

Theo immaginò persone teletrasportarsi all’infinito dopo essere stati colpiti da un suo pugno. 

“Il terrore di Kosmos”, pensò ironico. Guardò verso le bianche pareti della sala e notò che non proseguivano oltre.

«Abbiamo finito?»

«Sì, queste sono tutte le armi che possediamo. Ma in realtà esiste un’ultima categoria di armi magiche.»

Theo alzò le sopracciglia, curioso.

«Sono le armi possedute. Alcune armi, per esempio appartenute a persone particolarmente importanti o costruite in materiali rari, possono ospitare degli spiriti e addirittura ottenere la loro forma.»

«Fermo un attimo. “Spiriti”? Esistono anche gli spiriti? Cioè anime dei morti?»

«Non ne ho mai visto uno, ma sì, sono spesso citati nei manuali di magia molto avanzata. La definizione generica è di “entità senza un corpo”, che quindi può essere ospitata da un oggetto materiale come un’arma. Immagino possano essere anime dei morti o creature puramente elementali, o forse ancora esseri di altri mondi. Ho imparato che in questo mondo se non sei disposto ad aprire la mente non vai molto avanti.»

«Decisamente. Trovo assurdo che la gente comune non sappia niente, quando certe informazioni potrebbero sconvolgere le loro vite.»

«La gente comune non può sperimentare certe realtà e da’ per scontato che non esistano. Non sono certo segreti tenuti nascosti apposta. Anche perché altrimenti non sarei qui a parlarne con te, letteralmente l’ultimo arrivato. È un mondo da cui bisogna farsi coinvolgere in qualche modo, altrimenti sembrerebbero solo chiacchiere da ciarlatani. Anzi, personalmente credo sia una fortuna che ora esistano scuole e istituti come questo dove la magia viene studiata e insegnata. Immagina se persone come te o tua sorella avessero cominciato a manifestare capacità potenzialmente letali senza sapere come controllarle.»

«Sì, beh, non approvo sempre i vostri metodi. Ma penso di iniziare a capire i motivi. Fatico a credere però che non abbiate nessuna di quelle super-armi qua dentro.»

«La mia opinione è che le tenga il comandante Moses in qualche luogo accessibile solo a lui. Lo trovo sensato, visto quanto devono essere pericolose.»

«Ma significa anche che quell’uomo ha la potenzialità distruttiva di una bomba atomica nelle sue mani. E solo nelle sue.»

«Ti assicuro che se volesse uccidere qualcuno potrebbe farlo anche senza armi.»

Theodore non si aspettava un commento del genere.

«E vi va bene stare alla mercé di un individuo del genere? Non mi sembra si faccia problemi a far impazzire la gente, come quella Erica.»

«Capitano Redblood, Theodore. Se quello che vuoi sapere è se ho paura di lui… Non credo di volerti rispondere. Penso però che lo capirai da solo quando lo incontrerai.»

«Questo è sicuramente l’appuntamento al buio più atteso della mia vita.»

«Non prendermi in giro.»

Theodore si voltò e lo guardò con sguardo interrogativo.

«Non sei tipo da appuntamenti al buio. Chi mai ti consiglierebbe a una ragazza che ha l’incredibile fortuna di non conoscerti?»

Steaves gli scompigliò i capelli con un ghigno divertito, che conteneva però anche un leggero tono paterno. Theo si finse incredibilmente offeso.

«Queste sono sicuramente molestie psicologiche. Tratta così tutti i suoi studenti?»

A questo commento, il capitano si fece serio tutto d’un tratto, come gli fosse stato fatto notare qualcosa di importante.

«No, in effetti no.»

Sembrò indeciso sul continuare o meno la frase. Theo fece un cenno col mento nella sua direzione, per invitarlo a incedere. Steaves si grattò la fronte pensieroso e trasse un profondo sospiro.

«Tieniti care la tua testa e le tue motivazioni, Theo. È facile perderla qui dentro.»

«Insegnante, soldato, molestatore e ora anche psicologo?»

«Sono un uomo versatile. Piuttosto, hai pensato a che tipo di arma vuoi?»

Theodore annuì e i due tornarono nella sala iniziale.

«In realtà ad ora non ho molte opzioni. Ho una pessima mira e non sono forte abbastanza da portarmi dietro aggeggi come questo» disse, indicando un gigantesco spadone con un drago inciso lungo la lama.

«Preferisco qualcosa di comodo da portare e che può tornarmi facilmente utile. Come il pugnale di prima… o queste.»

Si fermò davanti ad una lunga teca, nelle quali tantissime lame corte di tutte le forme e le dimensioni erano disposte rigorosamente a coppia.

«Lame gemelle? Quasi ironiche per te.» commentò Steaves

«Le ho usate durante l’addestramento al governo, non pesano troppo e sono veloci. Se ne perdi una, poi, hai sempre l’altra di riserva.»

«Una scelta ragionevole. Puoi scegliere quelle che preferisci allora, sono armi senza nome né proprietario fisso.»

Theo fece scorrere lo sguardo tra le decine di lame lì presenti: non ne sapeva ancora abbastanza per fare una scelta mirata, quindi decise di cercare qualcosa di bilanciato. Aprì il vetro della vetrina ed estrasse due lame di media lunghezza, dall’impugnatura semplice. Terminavano con una lama curva che le faceva assomigliare a due lunghi e sottili coltelli da sopravvivenza, più che a piccole spade.

«Queste vanno bene. Ovviamente vedrò di venire a cambiarle il prima possibile con qualche fucile spara-laser o un’altra di quelle cose strambe che avete nelle altre stanze.»

Theo sollevò anche la cintura, i foderi delle due spade e si fissò tutto sulla vita in modo che non gli impedissero i movimenti. Come sperava, le due lame non erano molto pesanti.

«Me lo auguro, siamo sorprendentemente a corto di buoni soldati ultimamente. Non so se hai notato che io e Erica siamo gli unici capitani e lei ora è in una situazione precaria, per così dire.»

Steaves richiuse l’espositore e si diresse verso l’uscita dell’armeria.

«Come mai così pochi ufficiali?» 

«Di solito i diplomati si dividono in due: maghi, e non maghi. Un mago diplomato è un individuo così potente da non necessitare di qualcuno che lo sorvegli. È un po’ come una categoria a parte, non sono subordinati ma nemmeno ufficiali a loro volta. Noi capitani serviamo più che altro a gestire le reclute che decidono di rimanere qui nonostante non abbiano vere e proprie capacità magiche, e non sono molte. La specialità di Kosmos è valorizzare i maghi, non le persone comuni, a meno che queste non decidano di sottoporsi ad operazioni particolari come ho fatto io.»

«Potrei diventare un capitano io, allora.»

«Dipende da quanto fallirai come mago.»

Steaves richiuse il pesante portone principale dell’armeria e si voltò ad esaminare le nuove armi di Theo.

«Hai davvero avuto una grande fortuna ad ottenere quelle. Vedi di non farci sciocchezze, ok?»

«Sarò l’emblema della disciplina. Abbiamo finito con il giro, quindi?»

«Finito, puoi tornare alle altre tue lezioni. Ti faremo sapere se dovesse esserci qualche altra missione per te, ma mi auguro onestamente di no.»

«Non so se augurarmelo anche io.»

Theo fece un saluto militare al suo capitano e si congedò, diretto verso la caffetteria dove sua sorella e Dorcas lo stavano aspettando. Non pensava avrebbe apprezzato qualcosa di banale come una chiacchierata con un suo superiore; stava cominciando, finalmente, a sentirsi un po’ a casa.

 

*

 

Theodore trovò Tia e Dorcas sedute ad un tavolo della caffetteria, la prima con un cappuccino pieno di schiuma davanti, la seconda intenta a divorare un muffin alla marmellata. Si avvicinò al loro tavolo facendosi largo con orgoglio tra la folla di studenti che fissavano la sua cintura con ammirazione. Aveva già preparato nella sua mente le frasi da dire alle due ragazze per pavoneggiarsi anche con loro, ma la realtà lo colpì in pieno; con la voce di sua sorella.

«Sei ridicolo», commentò schietta Tiamal «A cosa ti serve portare delle armi in caffetteria? Vuoi tagliarti da solo i tramezzini?»

Dorcas scoppiò in una risata; Theo afferrò una sedia in malo modo e si sedette seccato.

«Sei di cattivo umore, sorellina? Il comandante in persona ha deciso di farmi questo regalo e non vedo perché non dovrei vantarmene. E poi, non si può mai sapere: quei panini sembrano effettivamente molto duri.»

Tiamal gli rivolse un mezzo sorriso.

«Scusa, dopo potrai raccontarmi per filo e per segno la storia di quelle spade. Ora non mi va molto.»

Theo guardò Dorcas interrogativo, e lei di risposta gli rivolse uno sguardo triste.

«Dice che non si capacita di essersi addormentata a occhi aperti così, oggi. Ma può succedere quando si è stanchi, no? Te lo ha detto anche la professoressa.»

«Lo so, lo so.»

Tia rimase qualche secondo immobile a fissare la schiuma del suo cappuccino, come se vi cercasse dentro le risposte alle sue domande.

«Mi ha riempito la testa di raccomandazioni… Se mi sento stanca non devo farmi problemi ad andare in infermeria, se faccio fatica a controllare il mio elemento posso procedere a passi più lenti… Mi sentivo una bambina dell’asilo. E non capisco perché si sia fissata con me: Theo dorme sempre e non gli dice mai niente nessuno!»

«Non conosco nessun altro in grado di controllare il proprio elemento così bene alla tua età. Forse era solo preoccupata che ti stessi sforzando troppo.»

Tia emise un gemito di mezzo assenso e sospirò. Dorcas, preoccupata nel vedere l’amica così giù, strinse i pugni e attivò la sua modalità “sorriso perfetto”.

«Visto che ora ci siete entrambi, ho una bella notizia per voi: la prossima settimana si terrà un torneo nella città pirata di Saoria, e a quanto pare il mio promesso sposo sarà lì.»

Sia Tia che Theo - che nel frattempo aveva infilato il naso in un krapfen al cioccolato - alzarono improvvisamente lo sguardo verso di lei. Dorcas arrossì, diede un piccolo colpo di tosse e continuò.

«L’ultimo giorno, a quanto pare. Il comandante e il generale hanno detto che possiamo andare ad accoglierlo per conoscerlo, tutti e tre. O meglio, ovviamente l’invito principale era rivolto solo a me, ma ho detto a Rao che da sola rischio di perdermi e che il vostro supporto mi farebbe piacere.»

I gemelli si guardarono, più confusi che altro. Tia prese la parola ma il suo tono era decisamente meno entusiasta del suo solito. Sembrava più velato di una triste accettazione, e compassione.

«Sarebbe magnifico, non ho mai assistito a un torneo di lotta! E le città pirata possono davvero essere molto pericolose, per fortuna ora Theo ha i coltelli nuovi.»

Theo, che sembrava non voler essere assolutamente chiamato in causa, rispose anche lui con un sorriso sgangherato e si diede dei colpetti sui foderi delle lame.

«Al tuo servizio. Mi sembra un luogo un po’ strano però per un incontro di fidanzamento, non c’era qualcosa di più romantico?»

«A quanto pare il mio» Dorcas ingoiò a forza un grosso nodo in gola prima di proseguire «…fidanzato, assiste al torneo ogni anno.»

«Magari è un atleta figo e muscoloso, come un modello da copertina.» scherzò Tia, o almeno ci provò.

«Non credo, Rao ha detto che proviene da un’antica famiglia di maghi.»

Scese un lungo, imbarazzante silenzio in cui nessuno sapeva come commentare.

Dorcas guardò di sottecchi i suoi amici: erano chiaramente a disagio, nessuno sicuro su cosa poter o non poter dire.

“È ridicolo.” pensò la maga. Trasse un respiro profondo e raddrizzò la schiena: il suo sguardo ora era un po’ più sicuro, un po’ più fiero. 

«Un partito degno della sottoscritta, insomma. Sarà un matrimonio sicuramente stimolante, che mi aprirà un sacco di possibilità. Non vedo l’ora.»

Tia le sorrise di rimando e le strinse la mano: tremava un po’, ma dagli occhi della giovane maga bianca la tristezza sembrava essersene andata; almeno per ora.

«Theodore, se hai finito di sporcare mezzo tavolo con quel bombolone potresti raccontarci di dove hai preso quelle armi, e soprattutto perché.» continuò Tiamal.

Theo le fece il verso, si pulì la bocca dalla cioccolata, estrasse una delle due lame e cominciò a descrivere le armi, l’armeria e la sua chiacchierata con Steaves.

Dorcas ascoltava incuriosita, ed entrambi i fratelli fecero ben attenzione a non nominare più alcun mago di antica famiglia per tutto il resto della giornata.

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Capitolo 5
*** Il vento bianco ***


La notte prima della partenza Dorcas dormì sonni agitati. Si rigirò più volte nel letto, svegliandosi spesso, e alla fine decise di alzarsi quando il sole era sorto da poco. Sapeva che un po’ era emozione, ma un altro po’ - un bel po’ - era paura. Avrebbe incontrato la persona con cui avrebbe condiviso il destino per il resto della sua vita. La sua testa era tutto un susseguirsi di ipotesi, finte certezze, contraddizioni, convinzioni, cambi di idea: avrebbe dovuto andarsene? No, lei era Dorcas Senecourt, sarebbe diventata la migliore maga di tutta Kosmos e forse del mondo intero. Ma condannare la sua vita sentimentale sarebbe servito a raggiungere quello scopo? “Condannare” era però una parola esagerata: non sapeva niente di questo ragazzo che avrebbe conosciuto, non c’era motivo di dare per scontato che non le sarebbe piaciuto. 

Fu insieme a questi e altri pensieri che scese a fare colazione: sebbene fosse molto presto e ai tavoli non ci fosse quasi nessuno, il profumo fragrante di dolci appena sfornati e bevande calde in preparazione già riempiva l’aria di tutta la mensa.

Dorcas prese latte, cereali e un succo d’arancia e si sedette, sola, ad un tavolo in un angolo. Mescolando i suoi chicchi di riso soffiato al cioccolato cominciò a guardarsi attorno, e a controllare chi faceva colazione così presto: nessuno studente, qualche soldato sparuto probabilmente in missione mattiniera… e, seduta da sola in un altro angolo della grande sala, Erica. Dorcas cercò di fissarla senza darlo a vedere ma, in realtà, da quella distanza non riusciva a osservare granché: indossava una tuta da allenamento e sembrava intenta a riprendere il fiato. Dorcas intuì che doveva essere appena tornata da una sessione di esercizi.

Nonostante le facesse indubbiamente paura, in quel momento non poté fare a meno di pensare che Erica fosse davvero fuori dal comune. Aveva una forza eccezionale e probabilmente anche un gran carisma, che purtroppo giaceva alla mercé di un enorme problema mentale. E a Rao e Sheraltan evidentemente andava bene così. L’ira la rendeva più forte, più violenta, più efficace… ma sempre meno umana.

 

Com’era tipico di lei, Dorcas era così immersa nei suoi pensieri che non si rese conto della donna che le si era seduta davanti qualche minuto prima e la fissava sorridente.

«Temo che ormai quei cereali siano diventati pastone per uccellini» sussurrò Joleicia. Dorcas sobbalzò e arrossì come un peperone, cosa che fece ridere ancora di più la dottoressa.

«Mi scusi dottoressa, non l’avevo vista. Stavo… ehm…»

«Ammirando uno splendido e pericolosissimo fiore tenuto dentro una teca di vetro, vero?»

L’espressione che aveva in mente Dorcas non era proprio così poetica, ma decise di annuire. Non era la prima volta che la dottoressa si lasciava andare a commenti… particolari.

«Ero solo incuriosita da lei, pensavo che avrei molto da imparare. Non è una persona con cui si può chiacchierare tranquillamente, ma credo sia un fantastico soldato.»

«È molto più di un soldato, Dorcas. E di sicuro questi non sono i pensieri normali che una studentessa come te si fa a quest’ora del mattino. Ho l’impressione però che la tua sveglia sarebbe dovuta suonare ben più tardi, o sbaglio?»

Dorcas fece un mezzo sorriso e annuì.

«Sono un po’ agitata per oggi, tutto qua. Sarà un giorno speciale per me e…»

Dorcas esitò, non sapendo se continuare a esprimere i suoi pensieri. Jol le venne in aiuto con uno dei suoi dolci, materni sorrisi.

«E non sai se sarai in grado di gestirlo. O sopportarlo.»

La giovane maga fissò il latte nella sua tazza e annuì.

«So che la giovane Rao si è molto affezionata a te, hai provato a parlarle dei tuoi dubbi?»

«No… Onestamente, non credo che il generale apprezzerebbe. Se il comandante ha deciso di combinare questo matrimonio, allora così sarà.»

Joleicia ridacchiò sotto i baffi, il che stampò un’espressione dubbiosa sul volto della ragazza.

«Hai mai incontrato il comandante Moses, Dorcas?»

«No, non di recente, almeno. Non lo vedo mai girare per l’istituto.»

«No, esatto, e ora ti spiego perché.»

Jol le fece cenno di avvicinarsi e cominciò a parlare sottovoce.

«So che non dovrei esprimermi così, ma il comandante è uno scapolone fissato con la magia, e la magia soltanto. È sicuramente un uomo dal cervello straordinario, ma decisamente poco affine alle questioni di cuore. Capisci perché ti sto dicendo questo?»

«Io… non ne sono sicura, dottoressa.»

Dorcas era perplessa a dir poco. 

«Perché a lui non interessa niente del tuo matrimonio, Dorcas. Il suo obiettivo è studiare i maghi del sacro. Non sto dicendo che sia semplice, ma se riuscirai a fornirgli un modo alternativo per poter proseguire con le sue ricerche, è molto probabile che non ti obbligherà a sposare nessuno.»

«E come potrei fare? Non sono sciocca: ho già capito che il suo obiettivo è quello di farci fare un figlio. Il matrimonio serve solo per le apparenze.»

«Il suo obiettivo è quello di studiare il figlio di due maghi del sacro. Come ti dicevo, trovare un’alternativa non sarà facile, ma se non sei convinta di ciò che ti ha obbligato a fare, parlagliene. Perché ora come ora sei il suo tesoro più prezioso, l’unica maga del sacro di Kosmos: non rischierà di perderti per fretta o impazienza. Prova almeno a prendere tempo o a trovare un compromesso.»

Dorcas sentì il suo cuore dividersi in due. Da un lato, la sua morale da soldato continuava a ripeterle di svolgere il suo dovere senza fare domande né porsi dubbi. Dall’altro, questa piccola speranza che la dottoressa Joleicia le stava donando cominciava a farsi sempre più spazio. Ma sapeva benissimo che avrebbe significato trattare con il comandante Sheraltan, l’uomo più misterioso e potente di tutto l’istituto. Joleicia la faceva facile…

«Lei è molto gentile, dottoressa. Mi piacerebbe dirle che le sue parole sono superflue, che so già qual è la mia strada, ma… Non è così.»

Alzò lo sguardo e fisso Joleicia negli occhi.

«Ora però so di avere una scelta. Grazie.»

Le sorrise, e Jol ricambiò con un occhiolino.

«A volte qui dentro non lasciano ai bambini il tempo di essere bambini. Spero un giorno di poter cambiare questa politica. Nel frattempo, mi limiterò ad aiutarvi in tutti i modi che posso.»

«Non c’è il rischio che il comandante si arrabbi con lei, dottoressa?»

«Far arrabbiare gli uomini è ciò che una donna della mia età sa fare meglio, piccola mia.  Non hanno ancora capito che più loro sono burberi, meno noi stiamo zitte.»

La dottoressa si alzò e le fece un cenno di saluto, per poi avviarsi verso la sua infermeria; Dorcas ricambiò e, terminata la sua colazione, con un respiro profondo e ritrovata determinazione si diresse verso l’ingresso dell’istituto ad aspettare i suoi accompagnatori.

 

Trovò Tia e Theo in giardino, già pronti e preparati. Theo teneva in mano una pietra viola e la stava studiando con avidissimo interesse. Dorcas corse loro incontro e li salutò.

«Non avete fatto colazione?» chiese lei «Non vi ho visti in mensa.»

«Volevamo,» rispose Tiamal «ma per strada abbiamo incrociato il capitano Steaves che ci ha dato la pietra di teletrasporto per Saoria. Theo l’ha afferrata come fosse una pepita d’oro e ha insistito per aspettarti e partire il prima possibile. Dice che faremo colazione con le specialità di Saoria. Ma secondo me non c’è alcuna specialità a Saoria. Spero almeno di trovare un baracchino di crêpes o qualcosa del genere.»

«Stai zitta, Tia. Questa è una cosa che semplicemente non puoi capire.»

Tia alzò gli occhi al cielo, poi guardò Dorcas con espressione da “te l’avevo detto” e scrollò le spalle.

«Rao non è venuta a salutarti? Avrei giurato fosse qui ad aspettarci con una delle sue creature.» 

«Non l’ho nemmeno vista stamattina, credo sia impegnata con i preparativi della festa. Questa cosa l’ha presa davvero molto.»

«Immagino che per lei sia un diversivo molto divertente. Theo, possiamo andare o organizziamo un matrimonio anche per te e il sasso?»

Theodore la guardò scocciato ma, suo malgrado, dovette ammettere che non aveva motivo di continuare a esaminare la pietra: non riusciva a capire in che modo fosse collegata al suo elemento. La sollevò allora davanti al viso delle ragazze.

«Pronte? Quando la romperò si aprirà un portale, dovremmo saltarci tutti dentro.»

Entrambe annuirono, Dorcas con un po’ più di indecisione. Tia le prese la mano e gliela strinse, sorridendole dolcemente.

«Quando vuoi.» disse poi al fratello.

Theo strinse la gemma nel pugno e tentò di romperla, ma la pietra era più dura di quanto si aspettasse. Dopo aver fallito un paio di tentativi di fronte agli occhi confusi delle due spettatrici, imbarazzato, si sentì in dovere di giustificarsi:

«Visto da Erica sembrava più facile, ok?»

Decise allora di gettare con violenza la pietra a terra. L’idea fu buona: questa si ruppe in mille pezzi e un grosso portale viola circondato da rune si spalancò nel punto dell’impatto. Dopo qualche istante di insicurezza, i ragazzi presero coraggio e vi corsero dentro.

 

Theo uscì per primo; e fu costretto a bloccarsi subito dopo aver messo piede nella città, perché le strade erano invase da una quantità incredibile di persone.

Tiamal e Dorcas gli sbatterono contro ma, prima ancora di potersi lamentare, si ritrovarono a osservare a bocca spalancata lo spettacolo che si poneva loro davanti.

 

La strada su cui erano arrivati era molto ampia, ma gremita di gente. Banchetti di cibo, souvenir, spezie e cianfrusaglie arricchivano i marciapiedi e molti di essi si facevano pubblicità con le foto o i nomi di questo o quel lottatore. 

«Ma quello non è un ricercato? C’era la sua taglia al governo.»

Disse Theo, indicando un grosso banchetto di spiedini alla piastra su cui troneggiava la foto di un giovane ragazzo dagli occhi languidi e la scritta “I preferiti dal Capitano della Dead End”.

«Siamo in una città pirata, Theo! Qui tutti saranno ricercati!»

Urlò Tia con un entusiasmo traboccante. Corse verso il lato della lunga strada, facendosi strada tra le persone, fino a raggiungerne il limite: davanti a loro si stagliava il mare, in tutta la sua immensità.

Tia si lanciò oltre il muro di sicurezza e inspirò a pieni polmoni l’aria ricca di salsedine.

«C’è una puzza incredibile!» rise di gran gusto «Guardate, si vede tutta la città!»

Theo si affacciò anche lui dal muretto, seguito poco dopo da Dorcas che, a fatica, era riuscita anche lei a non farsi travolgere dalle persone in movimento. Guardò in basso.

 

La città bassa era formata da tante, tantissime case: molte erano fatiscenti, altre sembravano più botteghe e negozi. Seguendo con lo sguardo la strada che si dipanava sotto ai loro occhi notò che arrivava fino al porto, dove decine e decine di navi di ogni forma e dimensione erano ormeggiate lungo i moli. Alcune erano grandi e imponenti, con alberi maestri che sembravano arrivare fino alla parte superiore della città, mentre altre erano poco più che pescherecci. Piccoli puntini in frenetica corsa correvano lungo le banchine, chi senza niente e chi trascinando casse o sacchi. Dorcas vide proprio in quel momento un’imbarcazione partire e unirsi alle altre che già stavano affollando il tratto di mare adiacente al porto, trafficato da navi quanto le strade lo erano da persone.

E, proprio mentre i tre ragazzi ammiravano incantati la città, un forte boato li fece girare di scatto: in cima alla strada, al termine di una piccola salita, si stagliava un enorme stadio.

Il rumore era stato scatenato dall’urlo all’unisono di migliaia di spettatori:

«La giovane Barmer è KO, signore e signori!»

Un presentatore urlava con tono entusiasta in un microfono dal volume esagerato.

«Dopo un combattimento in-cre-di-bi-le tra due leggende, abbiamo finalmente il vincitore del torneo di quest’anno! La Coppa del Mare va a-»

«EHI!»

Tiamal e Dorcas non sentirono il nome del vincitore perché dovettero voltarsi di scatto:

«Mi hanno rubato le spade!» urlava Theo disperato, continuando a controllare le fondine fissate sulla sua cintura: erano vuote. Non poteva crederci.

«Come ti hanno rubato le spade?» chiese Dorcas, stupita «Non le avevi addosso?»

«Certo che le avevo addosso, non giro certo con due lame in mano! Tia, cerca il ladro dall’alto!»

Tiamal annuì e si alzò in volo fin sopra la folla, cercando freneticamente con lo sguardo qualcuno che potesse assomigliare a un ladro.

«C’è troppa gente, non vedo niente… Ah, aspetta! L’ho trovata, è una ragazza! Ha girato l’angolo e le sta ammirando, quella furbetta!»

«Quella stronza, vorrai dire! In che direzione è?»

Tia indicò con la mano la strada in discesa e volò verso la ladra. Theo, inferocito, spintonò le persone con scarsa educazione e imprecando corse anche lui dietro alla sorella.

«Ehi ragazzi, aspettatemi! Dove avete detto che è?»

Dorcas, più bassa e soprattutto meno a suo agio di Theo nel strattonare persone sconosciute, perse ben presto di vista i suoi due amici. Era sicura di averli visti correre in una certa direzione, ma le persone sembravano sciamare verso quella opposta. Teste, spalle e busti cominciarono a coprirle la visuale e ben presto si rese conto di essere stata lasciata indietro, in mezzo alla folla di persone che celebravano la fine del torneo. Annaspando nel mare di gente, decise di lasciarsi trascinare sperando di raggiungere una zona meno confusionaria.

 

Mentre camminava - contro la sua volontà - sulla strada principale di Saoria, Dorcas si rese conto che questa percorreva tutta la città: lo stadio era stato costruito sul promontorio, la destinazione finale, mentre dal lato opposto proseguiva e scendeva fino al porto, affusolandosi come una serpentina.

Dopo qualche centinaia di metri finalmente lo sciame di persone cominciò a disperdersi: aveva raggiunto la base dello stadio. Un ampio porticato circondato da un ancor più ampio parco permetteva alla massa di gente di diluirsi: Dorcas ne approfittò per sfuggire al caos e raggiungere uno spiazzo tranquillo nel giardino adiacente.

Il parco dello stadio doveva aver visto giorni migliori, pieno com’era di spazzatura e sporcizia, ma era davvero molto grande. Non aveva particolari decorazioni, niente statue o fontane, ma diverse aiuole fiorite lo abbellivano con colori sgargianti e grandi spiazzi erbosi e soleggiati si alternavano a piante fitte e alte, che formavano come dei piccoli boschetti e creavano invece fresche zone d’ombra. Dorcas si guardò intorno: aveva assolutamente bisogno di riprendere fiato. Individuò una panchina libera al limitare di uno di questi boschetti e ci si gettò sopra.

 

La ragazza si lasciò cadere senza troppa grazia sulla panchina di legno, fresca e ombreggiata, e finalmente si concesse il lusso di prendere un respiro a pieni polmoni. Sapeva di trovarsi ancora in città, ma quella zona del parco era decisamente meno affollata della strada e le urla che l’avevano travolta poco prima erano ora ridotte a leggeri brusii.

Certo, non sapeva dove fossero Tia e Theo e tantomeno il suo misterioso promesso sposo, ma l’idea di attenderli in quel parco non le dispiaceva. Avrebbe potuto guardarsi un po’ intorno e dare un’occhiata ai partecipanti e ai vincitori del torneo, con tutta calma, e solo alla fine contattare i suoi amici per riunirsi a loro. 

Non aveva nessuna intenzione di velocizzare gli eventi della giornata.

Dorcas stava tranquillamente provando a immaginare quante persone lo stadio potesse contenere quando un ragazzo dal viso accaldato quanto lei si sedette sulla panchina a poca distanza da lei. I loro sguardi si incrociarono per caso e lui le rivolse un dolce sorriso, che lei ricambiò.

«Provare a camminare per strada subito dopo la finale è un delirio, vero?» chiese lui, indicando la massa scura che ancora si dimenava sotto lo stadio e lungo le strade. Timidamente, Dorcas annuì.

«Sei una combattente?» continuò lui, indicando la divisa della ragazza.

«No, solo in visita. Vengo da Kosmos, l’istituto per maghi di Ambervale. Mi piacerebbe partecipare al torneo però, magari l’anno prossimo.»

Negli occhi del ragazzo balenò un guizzo avido. Si avvicinò a lei, incuriosito, e cominciò a esaminare la sua divisa.

«Non ho mai sentito parlare di questo istituto, è famoso?»

«Certo!» replicò Dorcas, con orgoglio e un po’ di offesa «A Kosmos vengono addestrati i migliori maghi del mondo. Ma alla fine è un istituto militare, non qualcosa che fa scalpore o appare sulle riviste…»

«Perfetto.»

Fu un istante: Dorcas fece appena in tempo a vedere il suo interlocutore scattare fulmineo verso di lei con qualcosa in mano. Poi, il mondo si fece buio…

 

Dorcas era distesa sul freddo pavimento di una stanza buia. Non aveva idea di dove fosse, o di come fosse finita lì: sapeva solo che voleva andarsene il prima possibile. Provò ad alzarsi, ma il suo corpo pareva non rispondere. Non riusciva a muovere un muscolo. Le gambe erano incollate al suolo, la testa riversa su un lato. E ad un tratto lo sentì. 

Un solletico sulla guancia: qualcosa le stava camminando sul viso. Cercò di voltarsi per vedere cosa fosse, ma ogni suo sforzo di cambiare posizione era invano. Provo a scuotere la testa: niente. Aveva paura. E appena cominciò a realizzarlo, questa diventò reale. 

Davanti ai suoi occhi, le sottili dita di una scheletrica mano sinistra cominciarono a fuoriuscire dal pavimento grigio. Dorcas non ebbe più bisogno di voltarsi per capire cosa le stava camminando sulla testa: ora era chiaro. Si sforzò oltre ogni limite per non urlare, per cercare di ragionare e capire cosa stesse succedendo. Ma le mani erano sempre più vicine al suo viso. Le ossa della mano destra le avevano sfiorato gli occhi, il naso, e ora si stavano avvicinando alla bocca. Terrorizzata, Dorcas chiuse gli occhi e cercò di tenere a bada la sua paura. Doveva concentrarsi, doveva sentire la sua magia dentro di sé: solo così sarebbe riuscita a liberarsi. Serrò le palpebre, cercò di avvertire il flusso della magia nelle sue vene e… si svegliò.

 

Dorcas aprì gli occhi e scattò subito seduta, portandosi una mano alla guancia: una coccinella cadde sull’erba. Stordita, la ragazza tentò di capire dov’era seduta.

Si trovava nel parco dello stadio di Saoria, vicino alla panchina su cui poco prima - ammesso fosse passato poco tempo - stava parlando con il ragazzo sconosciuto. La testa le girava come se fosse stata presa a martellate e un fortissimo senso di nausea le invadeva lo stomaco. Con cautela, sollevò lo sguardo e cominciò a guardarsi attorno: solo allora si accorse di essere fissata.

In piedi a qualche metro da lei, il ragazzo della panchina cercava invano di liberarsi dalla presa di un’alta, prestante donna dalla pelle scura. Gli stava tenendo le braccia bloccate sulla schiena mentre lui si dimenava come un verme sull’amo sciorinando un lungo e variegato elenco di insulti, a cui la donna però non sembrava far molto caso. Ai loro piedi giaceva un fazzoletto. Quando si accorse che Dorcas era sveglia e stava osservando la scena, il ragazzo sbiancò. Dorcas fece due più due.

«Tu… Cosa volevi farmi?»

Il ragazzo non rispose a lei, ma riprese il suo frenetico tentativo di liberarsi. La donna, che osservava la scena in silenzio, rispose schiaffandogli bruscamente un palmo sulla nuca e facendogli cenno con la mano di rispondere. Riluttante, finalmente l’individuo si rivolse a Dorcas.

«Venderti, no?»

“Venderti, no?”, disse come se fosse la risposta più naturale del mondo. Dorcas rimase a bocca aperta. Era così sconvolta che non riuscì nemmeno a processare da subito ciò che era successo, e soprattutto ciò che aveva sentito. Lui voleva venderla. Perché era una ragazza? O perché era una maga? Probabilmente entrambe. Di nuovo, veniva considerata solo una merce di scambio.

Di nuovo, la sua volontà non era nemmeno stata presa in considerazione. 

Era passato il momento di stordimento; era passata la confusione. Ora c’era solo rabbia.

Una lama di luce saettò al gesto di Dorcas e colpì la gamba del giovane criminale: la donna, sorpresa, fece un balzo all’indietro mollando la presa e il ragazzo cadde a terra in un rivolo di sangue. Furiosa, Dorcas si avvicinò.

«Io non sono merce di scambio!», urlò.

Il ragazzo urlò a sua volta e tentò di fuggire a carponi, ma fu subito bloccato da due luminosi lacci bianchi: i suoi polsi furono avvolti dalla luce e così anche le sue caviglie. Lui fece per parlare, ma un’onda d’urto lo travolse come se avesse ricevuto un pugno in pieno volto; un altro laccio andò a tappargli la bocca, lasciandogli liberi solo gli occhi pieni di terrore.

«Come ci si sente a essere alla mercé di qualcun altro, eh?»

Un’altra onda d’urto colpì il ragazzo, che cominciò a sanguinare dal naso.

«E se ora fossi io a decidere di venderti?»

Ancora un’onda.

«Ne ho davvero abbastanza della gente come te. Mi fa schifo.»

Le onde si fermarono. Dorcas unì i palmi delle mani, ma non chiuse gli occhi: erano sbarrati e traboccanti di sentimenti repressi: rabbia, frustrazione, furia, impotenza. I capelli della ragazza brillarono chiari. Un cerchio formato da tante, luminose piccole rune cominciò ad apparire sul terreno sotto al ragazzo, come inciso da un pennino dalla punta infuocata. Il suo volto era un misto di lacrime e sangue: non poteva muoversi, non poteva parlare, e ogni secondo che passava vedeva apparire sempre più rune nel cerchio sotto di sé. Non sapeva cosa sarebbe successo una volta completato, ma poteva benissimo immaginarlo.

Mancavano solo pochi simboli, pochi attimi: il ragazzo chiuse gli occhi e… fu scaraventato via. La donna dalla pelle scura si era tuffata nel cerchio un attimo prima che questo cominciasse a brillare e, dopo aver afferrato il condannato, era rotolata via con lui.

 

Colta di sorpresa, Dorcas interruppe l’incantesimo e restò a fissare la scena con bocca spalancata. La donna stava cercando di spezzare le catene di luce a mani nude, ovviamente senza riuscirci.

Fu invasa da una sensazione di sconforto.

A che livello si era abbassata? Aveva cercato di uccidere una persona. Certo, era un malvivente; ma non stava a lei imporgli alcun giudizio. Con un gesto della mano sciolse le catene luminose che lo tenevano legato e, con la testa, gli fece un brusco cenno di andarsene. Questi non se lo fece ripetere due volte e corse via - quanto perlomeno gli permetteva di fare la sua gamba ferita. La donna lo guardò zoppicare via e, sospirando, si alzò e si diresse verso Dorcas.

“Cosa vuole ora questa?” pensò lei, stanca e scocciata “Ci manca solo ricevere la paternale da una sconosciuta.”

Ma, con sua grande sorpresa, la donna si inchinò. Non un inchino sommesso, o di devozione: sembrava più un semplice ringraziamento. Imbarazzata e sorpresa, Dorcas cominciò a balbettare.

«N-non c’è bi-bisogno di fare così, anzi: mi sono comportata in modo spregevole. Se non fosse stato per lei avrei commesso un’azione terribile. Sono io a dovermi scusare.»

E, così dicendo, si inchinò a sua volta. La donna allora sollevò la testa e le sorrise. Solo in quel momento Dorcas notò la persona particolare che aveva davanti.

Era piuttosto alta, anche se non quanto Erica, e dal fisico chiaramente allenato. La sua pelle era scura e gli occhi altrettanto, incorniciati da lunghe e folte ciglia nere. Di primo impatto Dorcas pensò non avesse capelli ma osservando meglio notò che sì, la maggior parte della sua testa era effettivamente rasata, ma da un punto della nuca partiva una lunga ciocca di capelli neri raccolti in una treccia. Sulla parte del cranio privo di capelli erano tatuati dei simboli neri, simili ai marchi tribali che Dorcas ogni tanto vedeva su attori e modelli particolarmente prestanti. Percorrevano la circonferenza della sua testa e le proseguivano sul volto, incorniciando il sopracciglio e l’occhio destro. Dato che non aveva ancora detto una parola, Dorcas sospettò che non potesse parlare.

Non si soffermò molto a riflettere su quello, però, perché la cosa che più di tutte catturò la sua attenzione era il suo sguardo: i suoi occhi lasciavano trasparire un’enorme fierezza, ma al tempo stesso anche calore e comprensione. La sua espressione rifletteva un animo perfettamente bilanciato e controllato, eppure non incuteva né paura né freddezza. D’altronde, pensò Dorcas, aveva reagito con molto autocontrollo ad ognuna delle cose appena successe. La ragazza capì che non aveva davanti una persona comune. E improvvisamente si sentì molto, molto piccola. Era completamente rossa in viso:

«M-mi dispiace di averla coinvolta, davvero. Non… Non so cosa mi sia preso, io…»

La donna la guardò con compassione e, improvvisamente ma delicatamente, la abbracciò. Dorcas fu travolta da un’ondata di forte profumo speziato: un odore che le ricordava il terreno, ma anche il sole al tramonto; quello che guardi quando non sai che strada intraprendere nella vita e che anticipa una serata tranquilla, ma malinconica. Senza nemmeno rendersene conto, cominciò a piangere.

 

La donna non la accarezzò né la strinse più forte: semplicemente, in silenzio, c’era. Dorcas si sentiva il petto invaso di emozioni che non credeva avrebbe mai provato, tanto meno con un’estranea, tanto meno tutte insieme. Non sapeva neppure il suo nome eppure, se avesse avuto una madre, era sicura che la sensazione che le avrebbe trasmesso sarebbe stata proprio quella. Si lasciò andare al pianto e sentiva che le sue lacrime si stavano portando via tutto ciò che la sua bocca non era riuscita a pronunciare in quei giorni, tutte le parole che non era riuscita a dire a Tia, o alla dottoressa Joleicia, o a Rao o a Sheraltan. Si diede della stupida: aveva appena rischiato di farsi rapire da uno schiavista e ora stava di nuovo dando confidenza a una perfetta sconosciuta. Eppure… sembrava tutto così naturale…

Dorcas non sapeva quanto tempo era durato quell’abbraccio, ma ad un certo punto notò che la donna si era voltata. D’istinto sollevò il viso, lo asciugò meglio che poté e si girò nella sua stessa direzione: una ragazza si stava sbracciando verso di loro, con un’enorme coppa in mano. 

 

«Ehi, Leona! Che fai? Ma c’è una ragazza lì?»

La donna chiamata Leona si staccò da Dorcas, per permettere a entrambe di guardarsi. Dorcas si soffiò velocemente il naso e rivolse un saluto alla ragazza che ormai le aveva raggiunte.

Aveva i capelli di un particolare rosa confetto raccolti in quello che doveva essere un chignon. Non era molto alta ma sulla schiena portava un enorme spadone che, a confronto con il fisico esile della sua proprietaria, appariva davvero sproporzionato; e aveva il corpo ricoperto di lividi, tagli e bruciature. I suoi abiti erano rovinati e un lungo cappotto grigio era stato indossato con la speranza, piuttosto vana, di coprirli. Tentando di non fissare in modo esagerato la grossa coppa dorata che lei teneva in mano, Dorcas le fece un cenno di saluto.

«Sono stata io a disturbarla, non… sono stata molto bene, e la signora è venuta ad aiutarmi.»

La ragazza posò a terra la coppa e fissò Dorcas con sguardo stupito; decisamente più stupito di quanto sarebbe sembrato normale.

«La… signora?» guardò Leona, che scrollò le spalle facendo cenno di non preoccuparsi. La ragazza tornò allora a rivolgersi a Dorcas e le porse la mano.

«Se a lei va bene, va bene anche a me. Chiamami Kohei, e lei è Leona. Come avrai capito non parla, ma si fa capire benissimo.»

«Io sono Dorcas, piacere mio. È - ehm, sei la vincitrice del torneo? Congratulazioni!»

«Primo posto! È la prima volta che vieni a Saoria e assisti al torneo, immagino.» 

«Non ho assistito neanche a questo in realtà, ma sì, è la prima volta. Mi p- ma stai sanguinando!»

Dorcas indicò una grossa chiazza scura sul fianco del cappotto della ragazza.

«Oh, no. Non di nuovo.»

Non riuscì nemmeno a sollevare il lembo della maglia per controllare la ferita: i suoi occhi diventarono vitrei e perse conoscenza. Leona scattò in avanti e la afferrò al volo, mentre Dorcas recuperava il trofeo; la spada cadde invece con un grande tonfo. Guardò la donna ma, nonostante la sua espressione fosse ora preoccupata, sembrava avere il controllo della situazione. 

 

Leona distese Kohei a terra e le abbassò le palpebre. Delicatamente, prima scostò il cappotto insanguinato e poi strappò la maglia, anch’essa ora tinta di rosso, nel punto della ferita. 

Non era un taglio normale: il fianco era trafitto in verticale da un lungo e profondo taglio dai bordi verdastri. La ferita non sembrava semplicemente sanguinare: era come se stesse corrodendo la pelle della ragazza e si allargava a velocità impressionante. La puzza di putrefazione che emanava era così forte che Dorcas dovette coprirsi il naso per avvicinarsi.

«È una ferita terribile! Sai cosa l’ha provocata?»

Leona annuì e si sedette a gambe incrociate davanti al corpo inerme di Kohei. Guardò Dorcas battendo la mano a terra: lei colse l’indicazione e si sedette al loro fianco. Leona le fece quindi segno di aspettare, appoggiò le mani sulle ginocchia e chiuse gli occhi.

Cosa successe poi, Dorcas non lo capì: la donna era seduta immobile così come era immobile la giovane Kohei. Sembravano entrambe addormentate, ma era ovvio che stava accadendo qualcosa che la giovane maga non poteva dedurre. Si limitò quindi ad aspettare, tenendo d’occhio un po’ il trofeo, un po’ la spada e un po’ le due donne. Dopo una quindicina di minuti dove sembrava nulla fosse cambiato, Dorcas notò che la puzza stava svanendo. Abbassò lo sguardo e vide la ferita non cicatrizzarsi, non smettere di sanguinare; semplicemente sparire. Le macchie di sangue erano ancora presenti, ma della ferita non vi era più alcuna traccia: la pelle era intatta e pulita. Dorcas si chinò per osservarla da vicino ma una mano le afferrò la spalla: Leona si era svegliata e le stava facendo cenno di allontanarsi. Dorcas obbedì e dopo qualche secondo anche Kohei aprì gli occhi. Si portò una mano alla testa e, lentamente e con l’aiuto sia di Dorcas che di Leona, si mise seduta.

«Quell’imbecille non si rende conto di quanto siano pericolosi i suoi giocattoli. I medici dell’organizzazione hanno dovuto chiudermi già due volte questo stupido taglio, spero che ora sia sistemato del tutto.»

Guardò verso Leona, che annuì.

«Bene… Grazie, Leona.»

«È una ferita che si continua ad aprire? È magica?»

«È maledetta. La mia avversaria in finale era una pazza sanguinaria che ha incantato tutte le sue spade in modo che feriscano in modi molto più dolorosi del normale. Se non avessi spezzato subito la lama che mi ha fatto questa sarei morta in meno di un minuto. Fortunatamente, una volta rotte, i poteri delle armi possedute si indeboliscono e sono riuscita a tenerla a bada per un po’. Il problema è che mi fa sanguinare un sacco.»

Kohei si portò le ginocchia al petto e si strinse la testa nelle mani.

«Ah, un giorno la farò impiccare e mi godrò lo spettacolo con birra e popcorn.»

«Posso fare qualcosa per a- ehi! Il trofeo!»

Le tre alzarono il viso tutte insieme: una coppia di uomini aveva afferrato il trofeo e stava fuggendo via. Leona fece subito per alzarsi e inseguirli, ma Kohei la fermò:

«Lascia stare, tanto non avrei potuto portarlo comunque.»

«Ma… è il tuo trofeo!» intervenne Dorcas.

«Ne ho a bizzeffe a casa. L’importante è che non mi rubino Ares.»

«Ares è la tua spada?»

«Sì, bella vero?» 

Kohei trascinò a sé il pesante spadone e lo mostrò alla ragazza: non era granché decorato, anzi, di aspetto era piuttosto semplice. L’impugnatura era massiccia, nera e rossa, e terminava in una grossa elsa ovale anch’essa rossa rubino. La lama era scura, quasi nera, e nel complesso aveva un aspetto piuttosto minaccioso.

«Molto,» annuì Dorcas «e sembra anche molto pesante. Non è poco pratica in battaglia?»

«Solo se non sai come usarla. Non è una spada che puoi sventolare a caso, su questo hai ragione. Ma un combattente serio non sventola le armi a caso a prescindere. È tutta una questione di tempismo: meno colpi, ma migliori. A me basta mandarne a segno uno per vincere.»

«Anche questa spada è incantata?»

«Nah, io non amo infilare la magia nelle mie armi. Ares è solo metallo e forza bruta. E visto che mi ha fatto vincere il primo premio direi che va benone anche così. Tu invece? Sei magrolina, quindi suppongo tu sia una maga.»

«Esatto, mi alleno all’istituto Kosmos. Lo conosci?»

«Ne ho sentito parlare, sì.»

«Ho notato che prima Leona è riuscita a far letteralmente sparire la tua ferita. È una maga anche lei? Non ho mai visto incantesimi di quel tipo.»

Kohei guardò Leona, e solo quando questa annuì continuò il discorso.

«Non è “magia”, solo una capacità molto particolare che si tramanda nella sua famiglia. È qualcosa di più antico e tradizionale, che affonda le radici nelle terre del sud da cui Leona proviene. Forse un giorno sarà lei stessa a parlartene.»

Dorcas sollevò le sopracciglia in un’espressione stupita.

«Può parlare allora?»

«Solo in certi luoghi.»

Kohei si alzò e scostò con le mani la polvere dal suo cappotto. Lo sollevò da un lembo ed esaminò la grande chiazza rossa, che copriva buona parte del fianco sinistro. Sbuffò, lo lasciò ricadere e si sciolse i capelli: una lunga, ondulata chioma rosa si calò sulla giacca grigia; il contrasto era decisamente colorato.

«Tornerete a casa ora?»

«Direi proprio di no, ho preso l’intera giornata di permesso e intendo godermela tutta. Andiamo a prendere un gelato?»

Leona annuì e unì pollice e indice della mano nel segno di “ottima idea”. Dorcas, imbarazzata, non sapeva se considerare l’invito esteso anche a lei.

«Ehm, anche io…?» Chiese titubante.

«Direi che sei quella che ne ha più bisogno.»

Kohei sistemò la spada in modo che venisse nascosta dal cappotto e inforcò un paio di grossi occhiali da sole.

«Ti chiedo solo di non pronunciare il mio nome a voce alta, o non riusciremo ad andare da nessuna parte. Leona, sei pronta?»

La donna rise, scattò sull’attenti e si portò una mano alla fronte.

«Ottimo. Abbiamo una ragazzina da far rilassare.»

 

Dorcas non ricordava quando era stato l’ultimo pomeriggio che aveva trascorso così tranquillamente. Leona e Kohei avevano un carattere molto diverso tra loro, ma erano entrambe un’ottima compagnia per la giovane maga: Kohei le spiegava i dettagli di ogni specialità culinaria che provarono - e ne provarono tante - e Leona sembrava la babysitter di entrambe. Dorcas non lo diede a vedere, ma notò che sbirciava molto spesso in direzione del fianco di Kohei; immaginò fosse preoccupata che la strana ferita tornasse alla luce.

«Guarda, stanno giocando a dadi!» disse ad un certo punto quest’ultima mentre attraversavano, gelato in mano, una stretta e alquanto lugubre stradina secondaria. «Andiamo anche noi? Facciamo una scommessa!»

Leona aggrottò le sopracciglia e rivolse alla ragazza uno sguardo di rimprovero.

«Oh, dai, non guardarmi così. Sarà una scommessa innocente.»

Dorcas guardò l’interno del locale che Kohei stava indicando: era una bettola. Una decina di uomini - che si potevano identificare prima col naso che con lo sguardo - erano seduti attorno a un tavolo circolare, sul quale facevano una colorata presenza bottiglie vuote e diverse macchie di cibo e vino. Leona si portò istintivamente più vicina a Dorcas. Kohei entrò invece molto tranquillamente.

 

«Buongiorno signori, ci prestate un paio di dadi in cambio di un giro offerto per tutti?»

L’intero gruppo di uomini si voltò di colpo nella sua direzione. Un paio avevano uno sguardo sospettoso, ma la maggior parte erano stupiti. Si guardarono tra di loro borbottando qualcosa. Dopo qualche secondo si fece allora avanti un uomo dal viso volpino e il naso molto piccolo, che porse a Kohei un paio di dadi rovinati.

«Volete venire al nostro tavolo?» chiese alla ragazza.

«La prossima volta magari, oggi ho un duello uno contro uno con la signorina.» 

Kohei prese i dadi e si diresse verso il bancone della taverna: lasciò una cospicua quantità di denaro all’oste e disse di offrire agli altri avventori tutto ciò che desideravano. L’uomo rimase sorpreso quanto gli altri, ma obbedì senza porre altre domande. Kohei trovò quindi un tavolino appartato e fece cenno alle due compagne di sedersi vicino a lei.

«Non ho ordinato per noi, non volevo mettere a rischio lo stomaco di nessuna. Allora, Dorcas, cosa vuoi scommettere?»

Dorcas era intenta a guardare con un misto di disgusto e curiosità le bevande arrivate all’altro tavolo; si ridestò all’improvviso quando fu chiamata in causa.

«Ehm, non saprei… Tu hai già qualche idea?»

«Sì, se vinco io voglio sapere perché prima piangevi.»

Dorcas avvampò.

«Mi sembra un po’ pretenziosa come scommessa…»

«Deve dare la motivazione per vincere, no?»

«Ma i dadi sono un gioco di sola fortuna.»

«Indifferente.» rispose Kohei, gesticolando con la mano «Puoi chiedermi qualsiasi cosa anche tu, sai.»

Dorcas rimase qualche secondo a riflettere, poi decise.

«Vorrei che mi aiutassi con la mia magia. Sarà una cosa veloce.»

«Io non so niente di niente di magia, ma se pensi che possa esserti utile perché no. Leona, che ne dici di fare tu da lanciatrice?»

Leona alzò le spalle e annuì. Prese i dadi e spostò uno sguardo interrogativo da Kohei a Dorcas.

«Io dico dispari. Ti va bene?» chiese Kohei a Dorcas. Lei annuì.

«Perfetto. Leona, vai pure.»

Leona agitò entrambi i dadi nei palmi delle mani, facendo attenzione a non mostrarli, e li gettò delicatamente sul tavolo: tre e quattro. Dorcas fece una smorfia di disappunto, ma sorrise.

«Sembra che il primo giro abbia vinto io.» le rispose Kohei «Facciamo al meglio di tre?»

«Oh, certo. Io sempre pari allora, grazie.»

«Hai sentito la bimba, Leona.»

Leona recuperò i dadi con fare annoiato e li agitò di nuovo; chiaramente il gioco non era dei più emozionanti per lei. Li lasciò cadere, e stavolta uscì una coppia di due. Dorcas rivolse alla lanciatrice un ampio sorriso.

«Uno pari!» disse «Pronta al finale?»

«Ti stai già lasciando trascinare?» le chiese divertita Kohei «Fai tu la tua scelta per prima allora.»

Dorcas si accorse che stava davvero prendendo a cuore una semplicissima partita a dadi; ma sentiva di essere giustificata dal premio che le era venuto in mente. Ovviamente non aveva senso riflettere troppo su qualcosa basato sulla pura fortuna, ma la ragazza provò lo stesso a fare qualche calcolo.

«Stavolta dispari.» decise quindi alla fine.

«Cambio di rotta, ottimo. Leona, perché stavolta non ne tiri uno alla volta? Creiamo un po’ di suspense.» 

Leona le lanciò uno sguardo che Dorcas tradusse come un “addirittura?”, ma sospirò e obbedì. Prese allora un dado solo, lo scosse in una mano e lo lasciò scivolare sul tavolo: sei. Afferrò anche il secondo. Il battito di Dorcas era accelerato; fissava con trepidazione la mano della donna, come se questo avrebbe fatto uscire il numero che desiderava.

E funzionò.

Il dado, caduto sul tavolo, rotolò qualche secondo e si fermò sul… tre.

Dorcas esultò mentre Kohei sbuffava e rideva al tempo stesso.

«Ok, ora ho davvero paura di cosa mi chiederai per essere così felice.» Andò a restituire i dadi alla compagnia che li aveva loro prestati e tutte e tre uscirono dalla taverna.

 

«Possiamo metterci su una panchina. Non voglio farvi perdere troppo tempo, ma potrebbe volerci un po’.»

«Cos’hai in mente?» chiese Kohei mentre si accomodavano su un’ombreggiata panchina di legno.

«Ecco, mi rendo conto che non sia molto carino da chiedere… Ma vorrei provare a curarti. Potresti farti una piccola ferita?»

Leona e Kohei la guardarono stupite, quest’ultima molto più dell’altra.

«Sai usare la magia curativa?»

«Ehm… no.» Dorcas era del suo tipico color peperone «Non l’ho mai usata finora, e nessuno mi ha mai insegnato a farlo. Ma mi sono resa conto che prima, quando ti ho vista ferita, qualcosa si è mosso dentro di me. Come un istinto. Sentivo di poter fare qualcosa. Non mi era mai capitato prima, quindi può essere che abbia sviluppato questa capacità di recente, per questo vorrei provare. Ma non credo riuscirei a concentrarmi se io stessa fossi ferita. Ovviamente basta un piccolo taglietto, qualcosa di minimo, così se non riuscissi a fare niente non ci sarebbero danni. Ti va…?»

Kohei sembrava la rappresentazione da dizionario della sorpresa. La fissava con gli occhi spalancati e la bocca aperta, e a fine spiegazione rimase senza parole per qualche secondo.

«Certo, assolutamente. Onestamente mi sembra una gran figata, e sicuramente è la miglior scommessa che io abbia mai perso. Ora sono davvero curiosa.»

Dorcas si sentì sollevata nel vedere la tranquillità con cui l’altra ragazza acconsentiva alla sua richiesta. Questo le diede coraggio: non era sicura di cosa sarebbe successo né tantomeno di come curare qualcuno, ma almeno sapeva che la sua cavia era più che consenziente.

«Grazie, davvero! Pensavo che potresti appoggiare il dito sul filo della tua spada e farti un piccolo taglio, senza andare in profondità.»

«Nah, tranquilla.» Kohei si afferrò il polso «Non serve che la sporchi.»

 Appena intuì cosa stava per fare, Leona sbiancò e si lanciò in avanti verso l’amica; ma era già troppo tardi.

 

Un fortissimo “crack” scoppiò nell’aria e la mano sinistra di Kohei cadde come morta. Nel giro di un istante l’espressione tranquilla ed emozionata di Dorcas si trasformò in una smorfia prima di sorpresa, e poi di puro spavento: urlò e si portò la mano alla bocca. Leona si colpì forte alla fronte con il palmo e, se avesse potuto imprecare, lo avrebbe fatto più che abbondantemente. Strinse i pugni e si trattenne dal colpire Kohei, il cui viso nel frattempo stava diventando di un curioso color verde fogna.

«Che cos’hai fatto?» chiese Dorcas terrorizzata «Non sono assolutamente in grado di curare una cosa del genere, ti sarai rotta le ossa!»

Gli occhi le diventarono lucidi e si riempirono di lacrime: la mano di Kohei giaceva penzoloni e il polso sembrava completamente spappolato.

«Te l’ho detto prima, no?» 

Dorcas alzò lo sguardo: Kohei la stava guardando dritta negli occhi.

«Serve la giusta motivazione per vincere. E io so come ottenere una vittoria.»

Nonostante il fiato affannoso e l’evidente dolore che la ferita le procurava, Dorcas non poté fare a meno di sentirsi a disagio di fronte alla determinazione della ragazza. Deglutì, e sentì lo stomaco scattarle in gola. Riusciva a stento a pensare e il suo cuore batteva così forte che il rumore le rimbombava nei timpani con la forza di un tamburo. Strinse le labbra e sfiorò appena le dita della mano di Kohei. Involontariamente, quest’ultima fece una smorfia di dolore e distolse lo sguardo.

Una mano si appoggiò allora sulla spalla di Dorcas: si voltò di scatto e vide Leona che, nonostante i lineamenti contriti dal nervoso, la guardava con i suoi grandi occhi rassicuranti. Le fece segno di prendere un profondo respiro e si passò una mano davanti al viso, chiudendo gli occhi. Dorcas, perplessa, guardò in basso: Leona sembrava molto affezionata a Kohei, l’avrebbe odiata se non ce l’avesse fatta?

Decise tuttavia di seguire il suo consiglio. Tentò di controllare il suo respiro, inspirò profondamente e tornò a rivolgersi a Kohei. Dispose le mani a coppa attorno al polso fratturato, e chiuse gli occhi.

 

Nel buio della sua mente imperversava una marea di sensazioni negative: paura, ansia, senso di colpa, incertezza, agitazione, insicurezza. Eppure… vi era anche qualcos’altro. Tentò di concentrarsi sui lati più periferici del suo pensiero, lontano da quella tempesta di emozioni, e la percepì.

Una brezza leggera, come un flusso, un sospiro emesso da un’entità sconosciuta. La maga non sapeva cosa fosse, ma sentì che doveva raggiungerla. Focalizzò il suo pensiero su quella sensazione, quella luce che si faceva sempre più intensa, sempre più forte. Quel vento dorato e luminoso aveva spazzato via le nubi, e Dorcas fece ciò che il suo istinto le suggeriva: lo spinse fuori. 

Avvertì una piacevole sensazione di calore e spalancò gli occhi.

 

Leona la stava fissando con un’espressione più di sollievo che di stupore, mentre a Kohei sembrava davvero che gli occhi le sarebbero presto schizzati fuori dalle orbite. Dorcas non aveva idea di cosa fosse successo. Si guardò intorno e vide… che la panchina su cui erano seduti era fiorita.

Scattò in piedi con un piccolo urlo e Kohei esplose in una grassissima risata condita da un fragoroso applauso: i suoi polsi erano perfetti. Entrambi.

«Oh-mio-Dio.» disse «Ragazza mia, tu sei una bomba pronta ad esplodere. Hai un potenziale che non immagini nemmeno lontanamente.»

Dorcas era così sconvolta che non riusciva a distogliere gli occhi dai piccoli e profumatissimi fiori bianchi che avevano riempito la superficie della panca. Anche Kohei li vide e rise ancora più forte.

«È fantastico, fottutamente fantastico! Ma com’è possibile che fino ad oggi tu nemmeno sapessi di poter fare una cosa così?»

Dorcas boccheggiò per qualche secondo e finalmente sembrò rendersi conto di cosa stava succedendo. Un pensiero improvviso le balenò in mente: il polso fratturato.

«Il tuo polso!» disse, rivolta alla ragazza «Come sta? È ancora rotto?»

«Sta così bene che quasi quasi mi rompo anche l’altro!»

Leona le lanciò un’occhiata di fuoco. Che Kohei ignorò.

«Ma cosa è successo…?» chiese Dorcas, ancora confusa.

«Hai creato tra le mani una piccola sfera, bianca e luminosa, e il mio polso era proprio in mezzo. Devo dire che la sensazione all’inizio è stata un po’ strana: sentivo un po’ di calore, poi è arrivato un formicolio, quasi come se il braccio mi fosse stato anestetizzato… e poi è esplosa.»

«Cosa?»

«La sfera bianca, è esplosa e una piccola onda di vento bianco ha colpito anche noi e la panchina. A me è sembrato di svegliarmi dopo un bellissimo sonno ristoratore: mi sono sentita euforica e piena di energia.»

Kohei guardò Leona e questa annuì, confermando che la sensazione provata da lei era la stessa.

«Nel giro di qualche secondo sulla panchina hanno cominciato a spuntare dei germogli, che poi sono fioriti. Come se qualcuno avesse mandato avanti il tempo velocemente. Beh, più o meno. Le panchine normalmente non sbocciano in ogni caso.»

«Io… non pensavo davvero di poter fare una cosa del genere. Non…»

Le ginocchia di Dorcas cedettero improvvisamente e lei perse conoscenza. Leona la afferrò al volo, si sedette sulla panchina e la fece coricare con la testa sulle sue ginocchia. Di nuovo, un caldo profumo di terra e spezie abbracciò i sensi di Dorcas, che pian piano riaprì gli occhi. Leona fece un cenno a Kohei con lo sguardo.

«Secondo Leona devi essere stanca per lo sforzo, e io concordo con lei. Se davvero era la prima volta che provavi una cosa del genere è normale ti senta affaticata ora. Hai un posto dove tornare e riposarti un po’?»

Dorcas si passò una mano sulla fronte.

«Sì… sono venuta qui con alcuni amici e compagni di accademia. Posso chiamarli e tornare a Kosmos con loro.»

«Mi sembra una buona idea. Possiamo anche raggiungerli noi, ti accompagneremo dovunque serva.»

Dopo tutto ciò che era successo, Dorcas cominciava davvero a sentirsi a disagio. Cercò le parole giuste per non sembrare offensiva e si rivolse a entrambe le donne.

«Vi ringrazio, davvero. Mi dispiace darvi tutto questo disturbo. Posso chiedere loro di raggiungermi qui, non è un problema.»

«Ti assicuro, Dorcas, che tutto il “disturbo”» e Kohei fece il segno delle virgolette con le dita «che ci stiamo prendendo verrà abbondantemente ripagato. Soprattutto se deciderai di continuare per la strada che ti si è aperta oggi.»

Dorcas non rispose, perché aveva bisogno di rifletterci meglio. Prese il telefono e compose il numero di Tia.

«Dorcas?? Dove s- state zitti, per favore! È Dorcas!»

«Ciao Tia. Ma sei con altri oltre a Theo? Avete recuperato le sue armi?»

«Sì, beh, ti spiegheremo. Abbiamo incontrato alcune persone. Dove sei? Sei da sola? Dove ci incontriamo?»

«Andiamo all’ingresso del primo molo» suggerì Kohei «è vicino, facile da trovare e largo abbastanza da permetterci di vederli anche da lontano.»

Dorcas annuì e riferì le indicazioni all’amica.

«Perfetto, al primo molo! Voi sapete dov’è il primo molo?» chiese Tia ad alcuni individui le cui voci Dorcas non riconobbe «Ok, lo sanno. Arriviamo!»

«Va bene, ci vediamo lì.»

Terminò la chiamata e, molto lentamente e sorretta da Leona, si rimise seduta.

«Tutto ok?» chiese Kohei.

«Sì, stavo solo pensando che oggi avete fatto davvero tanto per me, e ora me ne vado così…»

«E cosa dovremmo fare, sposarci?» Kohei rise, senza rendersi conto del pensiero che in quel momento, dimenticato da tutto il resto della giornata, era riemerso nella mente di Dorcas.

«Andiamo al molo, scommetto che oggi non sarà l’ultima volta che ci rivedremo.»

«Ti piace davvero scommettere? Contro di me hai perso, però.»

«La scommessa che volevo vincere l’ho vinta.» e Kohei si indicò il braccio. Finalmente, Dorcas si concesse un sorriso.

«Sì… Hai proprio ragione.»

«Sei una persona interessante e ti terrò d’occhio, Dorcas Senecourt. So dove trovarti.»

«Ma se io volessi trovare te?»

Kohei emise uno sbuffo che sembrava più una risata di scherno.

«Sai che in realtà si sente molto parlare di me? Forse non nel tuo ambiente, però.»

«Ammetto di non essere molto informata di ciò che succede al di fuori del mio istituto. Quali sono i vostri nomi completi, se posso chiedere?»

«Kohei Santucci e Leona Okar.»

Dorcas si sforzò di pensare se aveva già sentito quei nomi, ma non le venne in mente davvero nulla. Si vergognò della sua ignoranza e sperò non fossero davvero persone importanti che avrebbe dovuto riconoscere. Fece per parlare, ma Kohei scosse la testa prima ancora che potesse dire una parola.

«Non ci pensare troppo, non importa. Andiamo?»

Dorcas annuì e si alzò, sempre con l’aiuto di Leona. La ringraziò sinceramente e, con il sole ormai in direzione del tramonto, si avviarono verso la parte bassa della città.



 

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