Trentasette giorni (dalla fine del mondo)

di theGan
(/viewuser.php?uid=27211)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La pistola ***
Capitolo 2: *** Il cane ***



Capitolo 1
*** La pistola ***


Disclaimer:

* Ci sarà il lieto fine. 


 

 

TRENTASETTE GIORNI DALLA FINE DEL MONDO

 

- 1 La pistola.

 

 

- Kaltz, giuro che se mi spari, ti tolgo il saluto.

Hermann Kaltz rimane in piedi davanti al distributore di bibite e non allontana il dito dal grilletto. Non ha aperto bocca da quando quello zombie ha sfondato la porta del bagno e si è preso un pezzo della gamba di Genzo. Lo sanno tutti che durante il giorno circolano meno contagiati: la luce causa in loro una sorta di torpore, specialmente quando naturale. La quarantena a Billstedt è iniziata da trecentoventi giorni e l’abitudine e l’arrivo dell’estatate hanno reso lui e Kaltz incauti.

Ieri notte le luci del Netto, il supermercato più vicino al rifugio e il loro preferito in cui fare rifornimento, sono saltate. Questa mattina lui e Kaltz si sono svegliati presto per andare a verificare ed eventualmente recuperare le quattro cose rimaste nel reparto frigo. Imbecilli. Avrebbero dovuto ricordarsi di controllare il perimetro prima di abbassare la guardia. Non li ha insegnato proprio nulla quello che è successo a Schneider.

Genzo sospira, riflette su quanto sia inutile piangere sul latte versato e cerca di infrattarsi dietro una delle casse automatiche. Operazione resa particolarmente complessa dal cadavere che gli sta mezzo sdraiato addosso. Almeno gli fa da scudo umano ora che il suo migliore amico, dopo aver freddato questo povero disgraziato, ha deciso di puntargli la pistola contro.

E poi da quand’è che Kaltz ha una pistola?! Il mese scorso non ce l’aveva. Questa è la Germania, mica gli Stati Uniti: i revolver non li trovi sotto gli alberi! Porca puttana! Genzo si costringe a non guardare in basso, a non controllare se l’uomo con il cranio spaccato che, un minuto fa, ha cercato di mangiarlo vivo fosse uno zombie o un semplice un contagiato. Se Kaltz abbia appena ammazzato una persona. No, non c’è tempo. Il morso non ha centrato l’arteria, ma la saliva degli infetti ostacola il processo di cicatrizzazione. Qui se non ci si dà una mossa finisce dissanguato. Genzo applica pressione come gli ha insegnato al corso Misugi e cerca qualcosa di pulito. Questo però comporterebbe levarsi il cadavere di dosso.

- Hermann, sto per muovermi. Tu vedi di startene calmo.

Va bene. Non guardare questo tipo negli occhi. La pelle dell’uomo a cui Kaltz ha sparato è grigia e fredda e Genzo si concede mezzo secondo di sollievo: uno zombie, non un infetto. Quelli sono delle piccoli fornaci al tocco. Era troppo tardi per salvarlo. Kaltz non ha ammazzato ancora nessuno. Ancora è la parola magica: c’è lui adesso sulla linea di tiro. Genzo prova ad essere gentile nello spostarsi lo sfortunato cadavere di dosso, ma maneggiare i morti non è una faccenda elegante. Fatica a portare la gamba sinistra al petto e… CAZZO. La stoffa bagnata aderisce alla carne per tutta la lunghezza del polpaccio. Come fa a cacciarsi sempre in queste situazioni? Ci vorranno dei punti.

I passi rimbombano sul pavimento di linoleum, quando incontrano la pozza di sangue fanno un rumore tipo “ciaff” che lo distrae un sacco dal suono aspirato che produce Kaltz quando gli crolla accanto come un palloncino sgonfio.

- Ti ha beccato bene, eh.

Genzo schiocca la lingua, non molla di vista il taglio e gesticola in direzione dell’altro fino a quando non gli allunga quel suo coltello assurdo con la lama zigrinata e tutto il resto. Ad Hermann Kaltz i film d’azione hanno fatto un sacco male. Genzo incide la stoffa appena sopra la ferita, usa le mani per allargare lo strappo e, sì, questo morso è decisamente infetto: le croste che disperatamente tentano di formarsi attorno alle incisioni sono il classico giallognolo misto verde. Mannaggia. Sperava di evitarsi la febbre a… alla sua sinistra Kaltz emette un suono: un singhiozzo che ti aspetteresti da un animale ferito.

- Guarda che sono immune.

Un battito, il silenzio inesorabile striscia tra i respiri.

- PORCA PUTTANA GENZO!

La faccia di Kaltz è rossa, Genzo la evita con insofferenza studiata. Ricordare a Hermann che gridare non è prudente mentre sono in territorio ostile dato che gli zombie tendono a viaggiare in branco, non è saggio. Fortunatamente alla terza bestemmia esplosiva Kaltz si calma, lo strozzerà più tardi quando saranno all’aperto. Genzo agguanta lo zaino, ci ficca il naso dentro e ha la sua conferma: niente disinfettante.

- Toh, razza di idiota.

Kaltz estrae una fiaschetta dalla tasca interna della giacca e gliela lancia. Una volta stappata emette un odore amaro e pungente. Non solo la pistola allora, anche gli alcolici ci portiamo dietro adesso. A casa dovranno decisamente mettersi seduti attorno un tavolo e parlarne, ma le priorità sono altre. Genzo recupera un fazzoletto, lo inzuppa e lo usa per tamponare la ferita. PORCA PUTTANA. Ahia. Schneider insisteva sempre perché si caricassero di un sacco di peso inutile ad ogni uscita. Diceva “non si può mai sapere” e poi ficcava tutto nello zaino di Genzo, pigro bastardo. Schneider il kit del pronto soccorso si sarebbe assicurato ce lo avessero dietro.

SMETTILA.

DI.

PENSARCI.

Si toglie la sciarpa, la usa per tagliare la circolazione ed assicurare la pezza al polpaccio. Ha bisogno di una stampella. Invece è Kaltz quello ad aiutarlo a tirarsi in piedi. Ok, ce l’ha può fare. Genzo respira, prova a darci peso e la gamba cede. Ha bisogno di una stampella. Non hanno tempo per procurarsela.

- Sarai pure la cosa più vicina ad un principe che conosco, ma io non ti prendo in braccio.

Genzo sorride, Hermann Kaltz ha questo potere su di lui.

- Dì pure che non ci riusciresti.

Kaltz è un carro armato vestito da uomo, ma ha i suoi limiti. Al momento sbuffa, si porta al fianco di Genzo e aspetta. Coordinarsi è difficile visti i trenta centimetri di differenza in altezza, ma alla fine metà del peso di Genzo riesce ad essere distribuito all’altro e insieme, zoppicando, escono.

Fino a sei mesi fa a Billstedt vigeva un certo ordine. Agli abitanti, serrati in casa, venivano distribuite razioni e l’ingresso ai luoghi di ritrovo era strettamente contingentato. La chiusura della città aveva causato un certo scalpore data la vicinanza ad uno dei centri di ricerca più prestigiosi della Germania, ma si era detto sarebbe finita presto. Prestissimo. Invece un giorno erano suonate le sirene ed era iniziato l’inferno.

Temevano di essere rimasti gli unici abitanti non infetti del distretto, poi, dagli scaffali, erano cominciati a sparire i prodotti. Con le linee telefoniche saltate erano ricorsi alla carta, seminando nei negozi biglietti con scritte tipo: “abbiamo acqua pulita, elettricità, medicine e cibo”. Cinque erano spariti, nessuno aveva ricevuto risposta. Trentasette giorni fa, invece, non erano suonate le sirene, ma il mondo era cambiato lo stesso. Lui e Kaltz i biglietti hanno iniziato a levarli.

Chissà quanta roba andrà a male oggi per il caldo. Chissà quanti portatori saranno attratti dall’odore. Questa mattina sono usciti alle dieci. È mezzogiorno ora e il sole è alto nel cielo. I pomodori staranno crescendo bene. Kaltz non può uscire senza supporto a perlustrare cosa sia rimasto di cibo nei negozi. Finché la gamba di Genzo non va a posto dovranno vivere di quello che hanno e cercare di non intaccare troppo le scorte. In serra c’è un sacco di insalata. Diventeranno delle capre.

Il gas e la benzina di recupero servono per i generatori, la distanza dal rifugio se la coprono a piedi evitando le zone d’ombra e viaggiando sempre al centro della strada. Sudano come maiali e sono costretti a fermarsi quattro volte per bere, respirare e riaggiustare la presa di Genzo che continua a scivolare. Non parlano, conservano il fiato e non si siedono perché altrimenti non si rialzerebbero più. A dieci minuti dall’arrivo Genzo inizia a incespicare, alla seconda volta in cui rischia di farli cadere Kaltz dice di averne abbastanza, cercano un posto più riparato e ci si trascinano.

- Tra cinque minuti ripartiamo.

Ce ne mettono venti.

Genzo cerca di non pensare alla scia di sangue. Gli zombie la seguiranno e questa notte la rete elettrica che circonda il rifugio farà gli straordinari. Fortunatamente i panelli solari che la alimentano non sono stati danneggiati il mese scorso dalla grandine, Genzo non sarebbe stato in grado di ripararli. Però odia, odia recuperare i brandelli di quelle persone che rimangono incastrati negli anelli della rete. Però odia, odia che con la gamba messa così quello a farlo domani sarà Kaltz.

Hermann insiste per controllargli la fasciatura e la rifà così stretta che Genzo smette di sentirsi il piede. Viaggiano più lenti ed è come se l’adrenalina che li teneva insieme fosse evaporata con il sudore. La posizione del sole suggerisce sia passata un’ora da quando hanno iniziato la loro lenta marcia attraverso l’asfalto bollente. C’è odore di cancrena nell’aria e un sacco di polline. 

- Da quand’è che lo sai? – Una radice taglia la strada in modo perpendicolare. Ci girano attorno. – Il fatto di essere immune al virus intendo.

- Da sei anni.

- PORCA PUTTANA GENZO!

Detesta parlarne. C’è una ragione per cui a Billstedt, oltre ai medici, lo sapeva solo Schneider e centrava col fatto di essersi incontrati al gruppo di supporto in clinica.

Il dieci percento dei contagiati sviluppa gli anticorpi nei primi quattordici giorni dall’infezione. Al venticinque percento occorre dai venti giorni ai sei mesi. Il restante settantacinque non è in grado di tornare a una vita normale. Li chiamano “portatori” nel momento in cui cessa ogni segno d’attività cerebrale, altri usano più semplicemente “zombie”.

Negli anni sono stati brevettati ben nove vaccini: alcuni migliorano le percentuali di ripresa, altri riducono il tasso di tossicità, altri ancora ti impediscono di trasformarti in un portatore. Ma il virus continua a mutare, a fuggire attraverso le maglie della rete.

Genzo è un collezionista: se n’è girato trentasette versioni. Kaltz non s’è mai ammalato. Schneider…

La mutazione che gira a Billstedt è un’incognita: non si era mai sentito di una città andare in malora così velocemente. Con un indice di mortalità del novantotto percento, il governo da un anno ha deciso di isolare il focolaio. Genzo e altre cinquemila persone ci sono rimaste incastrate dentro.

In quei primi sei mesi in cui tutto sembrava rigidamente organizzato aveva fatto volontariato distribuendo razioni alle famiglie dei contagiati e aiutando con i medicinali che assicurano che un infetto rimanga tranquillo, nutrito e sedato durante il periodo di incubazione. Avevano smesso di portarli all’ospedale già dalla seconda settimana perché i reparti si erano riempiti e non ci stavano più pazienti.

Ora, invece, se ti ammali muori. Semplicemente. O diventi uno zombie o fai parte del due percento e quella che t’ammazza è la febbre o la carenza di liquidi per mancata assistenza.

- E sei CERTO di essere immune a questo ceppo perché…

- Perché due settimane fa sono stato infettato mentre controllavo il generatore interno e guarda: niente sintomi!

Kaltz si congela, Genzo non ha molta scelta se non fermarsi ed aspettare. Il respiro di Hermann è controllato e pesante come se stesse cercando di catturare l’ultima goccia d’ossigeno.

Il rifugio in cui vivono l’aveva trovato Schneider. Quattro anni fa, quando la gente aveva capito che il virus era qui per restare, qualche tipo particolarmente splendido aveva preso a predicare la teoria del castigo divino. Le persone avevano iniziato ad infettarsi di proposito: guarire dal virus era la prova di essere prescelti. Non erano stati i soli esaltati, ma la setta dei “Wiedergeboren” (Rinati) in Germania era stata tra le più rumorose. E organizzate. Oggi vivono in quella che era stata una delle loro “chiese”, un rifugio perché al virus potrai essere immune, ma non la erediti la Terra se nel frattempo uno zombie ti mangia la faccia. Genzo e Kaltz erano stati molto carini e non avevano mai chiesto a Schneider perché di quel posto lui avesse le chiavi. E i codici d’accesso.

Con i suoi due pozzi, i depuratori d’acqua e aria e i quattro generatori in aggiunta a pannelli solari, serra e rete elettrica, casa loro è praticamente perfetta. Una volta eliminati i resti umani che ci stavano dentro, ovvio.

La rete elettrica che li protegge consuma tre quarti dell’energia che producono, così i sistemi domestici viaggiano coi generatori. Ce ne sono due nel locale caldaia e un terzo, scassato, all’esterno stretto tra il capanno degli attrezzi e il muro che circonda il cortile prima di fossato e rete. Kaltz sa che Genzo si riferisce al quarto, quello che sta in cantina: tecnicamente il luogo più sicuro dell’intero rifugio se non per lo zombie che ci tengono legato dentro. INFETTO. Non zombie. INFETTO. Vedi di non dimenticarti la differenza anche tu, Wakabayashi Genzo.

Lui e Kaltz potrebbero scriverci un libro sulle cose che dimenticano di dirsi. Al primo capitolo ci piazzerebbe la pistola e la fiaschetta d’alcool, ma sarebbe un poco ipocrita.

 - Dovevi dirmelo.

Dopo essere stato infettato, Genzo aveva pensato “merda”, stabilito di uscire dal rifugio senza avvisare per andare a chiudersi in qualche casa ad aspettare la fine. Un modo per uscirsene pulito. Poi gli era venuto in mente cosa avrebbe fatto Kaltz a Schneider e, accidenti, era stato fortunato già trentasei volte, no? Si era tenuto lontano da Hermann e aveva giocato d’azzardo.

 – Ma capisco perché non l’hai fatto.

Per sopravvivere si sono assegnati dei ruoli. Kaltz, ad esempio, si occupa del cibo: tiene conto di cosa serve e di cosa è rimasto, si assicura che la loro dieta sia bilanciata e mantiene orto e serra perché è l’unico del gruppo con uno straccio di pollice verde. Genzo si occupa del funzionamento dei generatori, tiene puliti i filtri e ha imparato da suo fratello abbastanza per riparare la rete elettrica senza rimanerne fulminato. Da trentasette giorni si dividono il controllo di radio e scorta medicinali.

Hanno anche altri ruoli, meno ufficiali, ma altrettanto importanti: Kaltz è quello pragmatico, Genzo il sognatore. Si tengono sani a vicenda.

Se entrano in conflitto è sempre Genzo quello a spuntarla: Hermann non riesce a dirgli di no, perché anche lui ci vuole sperare nel lieto fine.

Riprendono a camminare, Kaltz non lo guarda negli occhi e significa che Genzo ancora non è stato perdonato, ma ci sta pensando ed è abbastanza.

Si fermano ancora due volte prima di arrivare. La rete elettrica che corre lungo il perimetro del rifugio è alta e proietta ai loro piedi un’ombra discreta e innocua. Per entrare devono inserire il codice d’accesso nel quadro che si trova a trenta metri dal cancello. Il codice disattiva la corrente nell’intero quadrante per circa cinque minuti, il tempo necessario per entrare. Kaltz osserva la strada deserta in cerca di pericoli, si sfila la pistola dalla fondina e gliela ficca in mano.

- Allora, la sicura si toglie così. Se spunta qualcosa occhio al rinculo e non spararmi nel piede.

Genzo non la vuole quella pistola. Ugh. Kaltz si sfila lo stecchino di bocca e glielo agita in faccia.

- Chi è il cretino che s’è fatto mordere non da uno, ma da DUE zombie in un dannato mese? TIENI LA PISTOLA E FA LA GUARDIA.

Genzo promette di tenere la pistola e di fare la guardia. Lo fa con un’espressione di puro disgusto e poi, sì, dimostra a Kaltz che sa come disinserire quella dannata sicura. Il metallo è caldo e pesante tra le dita. Sembra vivo. Le armi da fuoco lo mettono un sacco a disagio e Kaltz LO SA. Però Kaltz ha subito un forte trauma questa mattina quando ha pensato di essere rimasto l’unico sopravvissuto del loro terzetto e poi si è sparato due ore e mezza a piedi sotto il sole trascinandolo di peso. Se lo fa sentire meglio, Genzo è disposto ad ignorare l’acido in gola e ripetergli per la milionesima volta che, sì, sa come sparare.

Probabilmente è l’unico dei suoi amici ad essere stato al poligono. O ad avere il porto d’armi.

Kaltz grugnisce e s’invola verso il pannello. Inserisce la chiave nella scatola d’acciaio spessa tre dita e immette il codice a quattro cifre per la sospensione della corrente elettrica e quello a sei per l’apertura dal cancello. Richiude e si ficca la chiave in tasca. Ne avevano sei copie all’inizio, Schneider ne ha perse tre. Kaltz ritorna, Genzo gli lancia la pistola e si lascia aiutare a trascinarsi dentro.

- Premi il bottone, quello verde dietro la cabina. – Dice Genzo.

- Sei riuscito ad aggiustarlo?

- Non è stato complicato.

La mancanza di contatto era causata dalla tana di uno scoiattolo, Genzo per quattordici giorni aveva sfruttato le riparazioni come scusa per evitare il suo migliore amico. Hermann capisce e borbotta “te pareva”, preme il bottone, il cancello si chiude dietro di loro. La corrente, in teoria, dovrebbe tornare tra qualche secondo in automatico, ma sono stati abbastanza imprudenti per oggi così Kaltz lo sostiene fin dentro la cabina di controllo e aspettano insieme che i sistemi tornino online. Perfetto.

Gli abitanti del rifugio che stanno occupando sono morti molto prima che la quarantena degenerasse. I resti umani che lui, Kaltz e Schneider hanno trovato nelle prime settimane di permanenza erano vecchi di mesi. A volte capita di trovare un brandello di stoffa in cortile e non si sa se venga da uno degli zombie che cercano di entrare durante la notte, o sia un ricordo dei loro antichi coinquilini. Dovevano essere almeno cinquanta persone. Viene da chiedersi come siano morti. Magari si sono infettati a vicenda. O magari si sono tenuti uno dei loro chiuso in cantina.

Sono sudati marci quando finalmente riescono ad entrare nella baracca che è casa loro. Kaltz lo molla sulla panca di legno che usano per levarsi le scarpe e recupera il kit del pronto soccorso che sta nella credenza del bagno. Genzo si leva i pantaloni. Una volta pulita la ferita richiede ventisette punti. È Genzo a metterli perché è quello con l’esperienza e la mano ferma. E poi perché Kaltz è un accidenti di sadico e sfrutterebbe l’occasione per fargli scontare il mezzo infarto.

Hanno un sacco di garze sterili, dopo aver messo i punti le usa per avvolgerci la ferita. Kaltz in teoria dovrebbe aiutarlo, invece rimane molto immobile a fissare il punto in cui i capillari smettono di gonfiarsi di quel nero bluastro che accompagna l’infezione e tornano lentamente al loro volume naturale.

- Porca puttana Genzo.

- Te l’ho detto: ne si guarisce.

Solo che capita di rado. Non è successo a suo fratello, per esempio, o alla piccola Maria. Ancora. Finché c’è attività cerebrale e il paziente è stabile, l’infezione può sempre regredire. Misugi, come lui, era stato tra i primi ad ammalarsi e per stare meglio di mesi ce ne aveva messi otto.

Karl-Heinz Schneider è stato infettato trentasette giorni e dodici ore fa. Ogni giorno i suoi occhi sono più lucidi, la sua mente più presente e magari Genzo vede solo quello che vuole, ma il due percento di possibilità di guarigione per la variante di Billstedt è un fatto. Una scommessa.

Genzo ha deciso di non perderla.

 

 


 

 

Note al capitolo 1:

 

Mentre facevo la doccia sono stata visitata dall’immagine di Kaltz puntare una pistola contro Genzo. Il resto è venuto di conseguenza. 

Questo primo capitolo è stato scritto mesi fa e pesantemente rieditato sei volte perché sono incontentabile. Il focus della storia,  andando avanti, rimarrà Genzo, ma appuntatevi i biglietti spariti.

Sono presa da “Variabili”  (la long su CT  regolare ogni primo mercoledì del mese) e gli aggiornamenti per “Trentasette giorni” saranno, ahimè, alla quando capita però il piano della storia così come il suo finale sono stati scritti. Ah e ne approfitto per ringraziare tutti coloro che stanno commentando le mie fic: davvero raga, mi rendete un sacco felice e mi fate venire voglia di finire le cose invece che tenermele in testa o nel computer. 

 

 

Informazioni di servizio:

 

1) Kaltz non avrebbe mai sparato a Genzo. Era più in uno stato di shock che altro.

2) Schneider è infetto perché la canzone “If I was a zombie I’ll never eat your brain” mi piace un sacco.

3) Non ho messo disclaimer perché questa storia è GEN e si concentra su amicizia ed e avventura, ma tenete presente che io Genzo e Karl li scrivo e scriverò sempre queer (e quasi sempre assieme).

 

 

 

>>> 2. Il cane.

La pandemia globale è lontana e Genzo, adolescente, festeggia di malavoglia il matrimonio del fratello.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Il cane ***


* narrazione non lineare (salti temporali).

* angst (è pur sempre un’Apocalisse Zombie).

 


 

- 2 Il cane.

 

 

L’origine del virus è oggetto di dibattito nelle aree “sicure” dove le quarantene hanno funzionato. Tutti concordano che il suo epicentro siano stati gli Stati Uniti una decina di anni fa.

Alcuni ritengono si sia trattato di un’arma biologica andata fuori controllo. Altri sostengono di avere le prove sia tutto partito da un vaccino per l’influenza studiato dall’Università del Colorado. Quelli più divertenti dicono che l’area 51 sia stata aperta e che il virus venga direttamente dallo spazio profondo.

Poi ci sono le sette o, peggio ancora, quelli disposti a giurare che l’epidemia non esista e che il tutto sia una montatura di televisione e governo. Forse sono gli stessi che forzano le quarantene e causano la diffusione incontrollata di varianti pericolose.

A quindici anni Genzo Wakabayashi ha una salute di ferro e gli unici zombie a preoccuparlo sono quelli di libri e film. Però è contrariato. DANNATAMENTE contrariato: lui a New York non ci voleva andare. Shuuichi, il maggiore dei suoi fratelli, si sposa con un’americana e tutta la famiglia Wakabayashi è coinvolta in una lunga gita fuori porta.

Il virus già esiste.

Dicono sia una forma rabica particolarmente aggressiva caratterizzata da febbri altissime e spasmi violenti. Si diffonde al contatto della saliva infetta con il sangue, interessa solo i roditori, ma casi sospetti in altri animali di piccola e media taglia iniziano a conoscere, timidamente, la luce della ribalta. Nessuno parla di un possibile salto dall’animale all’uomo. Strutture contenitive, approntate per l’emergenza, si assicurano che ciò non accada. Il governo americano sosterrà di non aver saputo della loro esistenza.

La segretezza ha in germe la miccia che fa saltare la polveriera.

Ad una settimana dall’arrivo della famiglia Wakabayashi al completo, un focolaio altamente controllato scoppia a New York. Una massiccia disinfestazione ne argina le conseguenze.

Nessuno degli operatori ecologici, degli infermieri, della manovalanza pagata ad ore per ripulire le strade sa che il problema si estende oltre ai semplici ratti. Il genio esce e non lo rimetti in bottiglia.

A ventidue anni Genzo tocca la carne bianca del braccio sollevata nel fantasma di un morso e si domanda come sarebbe stata la sua vita se i suoi genitori fossero stati un po’ meno intransigenti, se, come avevano fatto milioni di altre volte, lo avessero lasciato a casa. Ma a quindici l’unico chiodo fisso è il fastidio: il matrimonio dura da nove ore.   

Non era stato tutto da buttare e a Genzo piace avere una scusa per vestirsi formale. Shuuichi aveva provato a convincerlo che i papillon fossero superiori alle cravatte e il futuro sposo aveva mostrato notevoli riflessi schivando il successivo calcio. Shuuichi aveva riso, accettato la sconfitta e si era vendicato scompigliandoli i capelli. Genzo lo vede sì e no sei volte l’anno, non c’è bisogno di tutta questa famigliarità. Però era stato piacevole. Almeno fino a quando una delle tipe ingaggiate dai suoi non aveva sospirato, preso il gel e proceduto a incollargli i capelli al cranio. Genzo si sente ridicolo. È probabilmente ridicolo.

La cerimonia si era tenuta all’aperto ed era stata interminabile. Ad un certo punto la sposa era proprio sparita e si era iniziato a temere una riproposta del disastro di qualche anno fa. A trattenere Skylar non era stata una tresca col sacerdote, ma un semplice tacco rotto. Noia. Terminato il corredo delle congratulazioni e dei genitori che piangono era iniziato il teatro delle foto nuziali. Altre due ore e Genzo pensa che la faccenda possa dirsi archiviata. E invece no.

C’è il pranzo (alle sedici è ancora pranzo?), un susseguirsi infinito di portate millesimali di una robaccia moderna e immangiabile. Eiji promette:

- Coraggio, ci rifacciamo con la torta.

Non si rifanno di niente. L’ex fidanzata, ora moglie di suo fratello è una di quelle starlet salutiste contrarie alla felicità a tavola. La torta è una roba scura che sa di cracker, i fiori di pasta di zucchero lasciano il posto a sedano e carote. Genzo non pensa di essere l’unico commensale del circo ad alzarsi da tavola più vuoto di quando si era seduto.

Ora, Genzo non si considera un mostro di socialità, ma è bravo a gestire le persone. Quando la compagnia è buona ci potrebbe sguazzare per sempre. Gli ospiti che infestano il salone da ballo del Twin Lakes Golf&Country Club sono un circuito di idioti dispersi in capannelli di misura variabile come macchie d’olio sull’acqua. Estranei provvisti di un figlio, un cugino, di un amico di un conoscente che concorre al senato, che dirige questa o quell’altra grande azienda. Pesci rossi convinti che il cannibalismo li renda squali.

Fa un caldo insopportabile.

Genzo è il più giovane degli eredi Wakabayashi e nessuno si interessa a lui tranne sua madre e Anna, la damigella della sposa che ha messo gli occhi su Eiji (o sui suoi soldi) e non lo molla un secondo. Tra poco scoppia. Sua madre lo agguanta per un braccio, identifica i livelli di stress e decide per un compromesso:

- Ho sentito che i giardini del Country Club sono magnifici durante l’estate. Accompagnami.

I tentativi di Anna di seguirli vengono stroncati sul nascere da due occhiate gemelle di puro disprezzo che respingono anche il resto degli idioti quando provano ad intercettarli sulla strada per l’uscita. Un campo di forze naturale. Non aveva mai capito perché la signorina Asano sostenesse che dei tre figli, fosse Genzo quello a ricordarle la madre.

- Guardi che sono alto per la mia età e ho ancora un sacco di tempo per crescere.

Eiji e Shuuichi viaggiano sul metro e novanta come padre, mentre Shoko Wakabayashi col suo metro e cinquanta è un carro armato in formato più tascabile.

Sua madre, una volta usciti dalla giungla dei festeggiamenti, respira a fondo l’aria libera e sorride. È bella in un modo un po’ contorto. A Genzo non dispiace assomigliarle.

I giardini del Country Club non sono magnifici, l’erba liscia e uniforme dei campi da golf si srotola in un tappeto artificiale che brucia gli occhi. Si dirigono verso la passeggiata che taglia in orizzontale lo spiazzo dove un gazebo si veste di nastri di porpora. Tra un’aiuola e l’altra si stiracchiano piante grasse che non ha mai visto a Nankatsu. 

- È mesembriantemo. – Spiega sua madre. – I suoi fiori sono sgargianti, ma non profumano.

Si inginocchiano e provano ad annusare, è vero. C’è una luce furba negli occhi di sua madre e per un attimo la distanza incancrenita da anni di assenza diventa sottile quanto carta velina.

- Non sapevo ti interessassero queste cose.

- Tesoro, quando ho deciso di sposare tuo padre, ho determinato di sapere TUTTO.

Gli fa l’occhiolino e a Genzo viene quasi da ridere. Sanno tutti che è stato papà a farle per anni una corte sfegatata, lei era pure già sposata.

È strano, il tempo passato in famiglia ha per Genzo lo stesso gusto di questi campi da golf: artificiale. Forse gli anni hanno aperto crepe e sentieri nella torba o forse l’amore c’è sempre stato, ma inodore come questi fiori.

- In realtà ho detto una bugia. – Dice mamma. – Il mesembriantemo profuma, ma solo quando cala il sole. È una fortuna che la festa di Shuuichi duri oltre mezzanotte.

Uccidetelo qui. Subito. ORA.

Mamma ride. Genzo non sa se stesse scherzando, ma è certo che non sopravvivrà a questa giornata.

In un certo senso è così.

Aiuta mamma ad alzarsi e proseguono, non rimane molto da vedere, ma nessuno di loro vuole tornare dentro. Forse se le promette di considerare SERIAMENTE la proposta genitoriale di uno stage in azienda durante le vacanze invernali, lo lasciano tornare in albergo prima. Certamente qui nessuno ha quel gran bisogno di lui.

Poi vede il cane.

È seduto all’ombra di un platano, il naso premuto contro il terreno e gli occhi nascosti da lunghe orecchie marroni. È così immobile da sembrare morto. Ha un nugolo di mosche attorno al naso, probabilmente attirate dalla carcassa sventrata che gli sta vicino: un opossum o un procione.

O un ratto.

Genzo adora i cani, così abbandona sua madre alle aiuole di piante aromatiche e va a controllare.

- Ciao bello.

L’animale socchiude un occhio e lo fissa pigramente.

Genzo ha un trucco, quando approccia un cane per la prima volta si comporta come se lo conoscesse da sempre. Non è una garanzia, ma è convinto aiuti ad evitare che ti morda. Se il cane poi si bendispone ci scappa una coccola.

Genzo non punta a tanto, certo sarebbe un bonus, ma adesso è più interessato alla sua medaglietta. Forse il suo padrone lavora qui o è uno degli invitati. In ogni caso va contattato con urgenza: qualunque cosa abbia mangiato dopo essercisi azzuffato insieme ha fatto danni: questo cane non sta bene. Devono portarlo dal veterinario.

Genzo sfiora il pelo scuro e il cane, un incrocio tra un labrador e una taglia più piccola, uggiola e rabbrividisce.  

- Tranquillo. – Dice Genzo e non muove la mano, aspetta il via libera. – Sei tra amici.

Così da vicino può studiarne meglio il muso, sì, ci sta decisamente anche un po’ di cocker spaniel qui.

Gli occhi del cane sono arrossati, le pupille dilatate e un pus denso, vischioso, nero-bluastro macchia il graffio che corre a metà del naso. Quella che da lontano sembrava una chiazza di pelo più scuro è sangue. Genzo la sfiora con gentilezza, ma non sente tagli. Deve provenire dalla bestiola mezza divorata.

Poveretta, non deve essere stato piacevole avere un tête-à-tête con quei denti. La carcassa puzza da maledetti.

- Ci hai proprio dato dentro, eh bello?

Con lentezza misurata estrae un fazzoletto di tasca e lo fa annusare al cane. Permesso ottenuto, Genzo tampona il taglio sul naso.

È davvero un animale intelligente, a pulizia terminata il cane spinge la mano col muso in una disperata ricerca di coccole. Genzo sorride ed esegue. Il cane è praticamente burro nelle sue dita per quando sua madre li raggiunge.

Scuote la testa, ma gli fa l’occhiolino quando gli si accovaccia accanto.

- John ha di che essere geloso, vedo. – Commenta divertita. – Ho avvisato in reception che c’è un cane smarrito. Manderanno qualcuno tra poco.

È un peccato, proprio ora che aveva trovato qualcuno di interessante con cui fare conversazione.

Meglio così: il cane è caldo e il suo ventre troppo gonfio. Forse gli è rimasto un osso incastrato. Mamma sorride e allunga una mano per accarezzarlo.

È questione di un attimo.

Il corpo del cane diventa un elastico, Genzo l’ha già visto succedere. Ha una cicatrice sul polpaccio a ricordarglielo.

Genzo ama i cani. Non ce l’ha d’istinto di lanciarglisi contro, schiacciarlo di peso, premere il suo muso contro il terreno.

Genzo ama i cani, ma ama anche sua madre e il suo pensiero è levarla dalla linea di tiro.

Le mascelle scattano. Si chiudono attorno al braccio.

Genzo non urla.

- Tranquillo…  - Dice e la voce scappa tra la stretta dei denti. - Tranquillo…

Porca puttana.

Aveva dimenticato quanto facesse male.

Sua madre sta urlando, si divincola, cerca di sgusciare da sotto. Genzo ha altre preoccupazioni al momento.

Il cane si confonde e la paura gli fa stringere la presa. Scuote il muso a destra, a sinistra, lacera. Strappa. La testa di Genzo si riempie di cotone.

- Tranquillo, tranquillo…

Ripete.

I secondi si sfocano, si confondono in un’eternità lunga un quarto d’ora. Genzo ha freddo e caldo. Assieme. È lucido e spaventato. Attimi. Il buio lascia spazio ad immagini di assoluta chiarezza, come gli occhi del cane, la faccia di sua madre o le mani di Shuuichi con la fede in oro bianco a stringergli le dita.

Un battito ed è sdraiato su un tavolo. Dov’è finito il cane? Attorno voci rimbombano contro pareti di plastica. Dov’è il telecomando? Genzo vuole abbassare il volume.

- Tranquillo, tranquillo…

La voce è maschile, nasale ed un sacco buffa. Potrebbe essere la sua, si tocca il collo e brucia e brucia. Galleggia su una crema densa. I suoni puzzano ed è questo l’odore del mesembriantemo? Un’accozzaglia di vocali biascicate. Ah, ah. È una parola buffa: biascicare. La luce gli entra negli occhi e brucia e brucia.

Fa freddo.

Un formicolio, uova di ragno che si schiudono e risalgano dalle gambe alle dita. La realtà è un filtro ed è come osservarsi attraverso un proiettore molto, molto lontano.

***

Non perde conoscenza.

***

In terapia dicono che l’ottantanove percento dei guariti non abbia alcun ricordo del lasso di tempo in cui l’infezione è diventata contagiosa. Aggressiva.

O sono molto fortunati o mentono. Genzo ricorda tutto.

Ogni terrificante, disgustoso dettaglio

***

Tatsuo Mikami lo costringe a sedere su una sedia scomoda. La plastica aderisce alla pelle mentre Genzo suda e si sente ripetere che quello che è successo non è stato colpa sua.

Lo dicono anche Eiji e papà, quando riescono a guardarlo in faccia.

- Hai cercato di proteggermi, Genzo. – Tenta mamma, gli stringe la mano, ignora la ciocca che disordinata le penzola attaccata al naso. La ricrescita le appesantisce i capelli di grigio. – Non volevi fare male a tuo fratello.

Shuuichi quel giorno era uscito a fumare, un vizio che nascondeva alla sposa. Aveva sentito mamma urlare, saltato lo steccato basso che separa la linea delle aiole e si era rovinato lo smoking buttandosi a pesce sul letto del prato. Era stato il primo ad intervenire. Aveva staccato il cane e portato Genzo di peso al coperto. Al sicuro.

Le mezzelune sulle braccia di Shuuichi sono larghe e strette. Memorie di morsi diversi.

Nessuno può stabilire con certezza chi sia stato ad infettarlo.

Il virus ha un periodo di incubazione variabile, ma il lasso in cui un infetto passa da essere generalmente innocuo a una marionetta febbricitante di violenza va dai quattordici giorni ai sessanta minuti dall’apparizione dei primi sintomi. Poi ci sono le eccezioni.

A Genzo erano bastati cinque minuti.

Undici persone erano morte.

C’era stata una ragazza vestita di rosa (Charlie Bennet, ventidue anni, studentessa di psicologia alla Columbia) che aveva cercato di aiutarlo. Ricorda di averle staccato il naso.

C’era stato un uomo con un cravattino fuori moda (Murano Kaede, sessantasei anni, manager della sede delle industrie Wakabayashi della prefettura di Kyoto) che aveva balbettato “g…giovanotto”. Genzo gli ha strappato un orecchio.

Ventisette persone erano rimaste infettate.

Nove sono guarite. Tra queste non c’è Shuuichi. Per quando Genzo si stabilisce a Billstedt, suo fratello ha cambiato quindici ospedali. Da otto mesi lo tengono sedato ventiquattrore su ventiquattro. Dicono che il coma farmacologico rallenti l’azione distruttiva del virus sugli organi interni, ma è solo per tenersi le sponsorizzazioni dei clienti facoltosi. Una corda delicata con cui impiccarsi.

- La speranza è un veleno.

Dice Schneider quattro mesi prima dell’inizio della quarantena della città.

Siedono nella sala d’aspetto del reparto pediatrico chiusi da pareti bianche con palloncini disegnati con l’aerografo. L’anno prossimo trasferiscono Maria Schneider nell’altra ala, quella riservata alle lunghe degenze dei pazienti adulti. Ci sono un sacco di scartoffie da compilare, consensi da firmare e un dialogo con test con la psicologa che assiste le famiglie che è obbligatorio e quasi impossibile da prenotare.

Genzo stringe la mano di Schneider e non è d’accordo. Negli ultimi mesi qualcosa dentro è come cambiato: qualcuno deve difendere le candele in un mondo che brucia.

Conosce Schneider da dodici settimane.

In Germania Genzo scopre che il suo patentino da “operatore socio sanitario per operazioni di contenimento” ad otto fusi, un continente ed un profilo sbagliato di distanza ha smesso di essere valido e si è rassegnato a seguire il corso per quelli che qui chiamano “Eindämmungsmittel” e che prevede oltre a quattro esami pratici anche sette incontri tipo terapia di gruppo.

Schneider è stato bocciato. La referente gli ha appioppato un giudizio piuttosto esplicito sullo stato della sua salute mentale. Schneider non se l’è presa, ha chiesto cosa abbiano scritto su di lui, Genzo gli ha allungato l’attestato e sono scoppiati entrambi a ridere.

- Questa di te non ha capito un cazzo.

Genzo suggerisce di imparare a mentire.

A lui l’ha insegnato in un cesso Taro Misaki.

***

A ventidue anni Genzo è un mastro della sottile arte del fingere, ma a diciassette per mettersi le scarpe ha bisogno dell’approvazione di Tatsuo Mikami.

Così era stato proprio il suo terapista a convincere i suoi genitori a permettergli di conseguire il patentino da “Shōdoku-zai” e cioè da operatore sanitario straordinario durante la gestione dell’emergenza, qualcosa a cavallo tra l’infermiere e il vigile del fuoco. In Giappone questi pazzi certificati si occupano di portare il pranzo alla gente bloccata in casa, di misurare i parametri vitali dei pazienti nelle sette settimane seguenti la dimissione dall’ospedale e, soprattutto, di prelevare gli infetti quando i sintomi li rendono violenti.  In Germania, Genzo, per questo ha dovuto conseguire in coda un’altra certificazione.

- Vostro figlio ha bisogno di sentirsi utile.

Quattro settimane di tira e molla dopo, Genzo era scoppiato: tra un anno sarebbe diventato maggiorenne e la loro opinione “non avrebbe più contato un cazzo”. Mamma aveva minacciato di tagliargli i fondi, di farlo interdire, ma poi aveva ceduto.

- Solo… stai attento.

Inclusi vaccini sperimentali, Genzo risponderà facendosi infettare in trentasette modi diversi.

***

A diciotto anni, dopo più minacce che pianti Genzo si trasferisce a Tokyo. Segue i corsi di economia al mattino per fare la sua parte del GRANDE COMPROMESSO che fa tanto contenti i genitori e al pomeriggio infesta la cantina del terzo stabile dell’università insieme ad un’altra mezza dozzina di studenti per conseguire il patentino promesso.

Dopo due settimane, seduto al suo posto nei banchi davanti, Genzo trova un ragazzino nuovo. Si presenta come Taro Misaki ed è un po’ troppo congeniale per litigarci assieme così finiscono per diventare amici. Ed è piazzare un cerotto su una ferita aperta, dimenticare che c’è.

Misaki vive con la madre, non ne vuole parlare, prima di trasferirsi a Tokyo stava ad Hokkaido e ha viaggiato un po’ ovunque come Parigi, Brema e Kyoto.

Un giorno a Misaki cade la penna, quando si abbassa per raccoglierla il maglione si impiglia e scopre una cicatrice sul braccio. Misaki incrocia i suoi occhi, sorride e sparisce per una mezza eternità al bagno. Genzo lo segue, si piazza di fronte al cubicolo ed aspetta in perfetto silenzio. A un certo punto Misaki si convince di essere solo, apre la porta e Genzo ce lo trascina dentro di gomito. Anche la sua cicatrice è sul braccio.

Certe sette in America ed Europa sostengono che sopravvivere all’infezione sia un segno di predestinazione divina. Altrettante predicano che ammalarsi sia una colpa. In Giappone, la cui soglia di contagio è più bassa che nel resto dell’Asia, la cicatrice di un morso porta in sé implicazioni fastidiose: che tu abbia perso il controllo, che abbia fatto del male a qualcuno. Che tu sia un potenziale assassino a piede libero.

Tutto vero nel suo caso, ma non è giusto che si vada a rompere i coglioni a gente come Misaki che si è auto-ricoverato a quindici minuti dall’avvenuto contagio e il decorso dell’infezione se l’è passato legato ad un letto e sedato.

Misaki è intelligente, ci arriva senza tante manfrine che il giro in giostra di Genzo sia stato un po’ meno pulito, non attribuisce giustificazioni o colpe e permette alla routine dell’amicizia di consolidarsi in qualcosa di più vero di quello che era prima.

Si siedono vicini durante le letture, si danno appuntamento in biblioteca per le ricerche, fotocopiano e scambiano gli appunti perché Misaki è bravissimo con le mappe concettuali e Genzo una macchina da guerra che non si perde una parola dei prof.

- Perché i puntini di sospensione qui?

- Ha fatto una pausa.

Misaki ride, Genzo fa una faccia e si fa offrire una tazza di the non dal distributore, ma la roba buona che campasse cent’anni non capirà dove Misaki se la va’ a procurare.

***

La quiete di giorni quasi normali viene interrotta da Jun Misugi quando sale in cattedra a sputare sentenze un po’ all’improvviso.

Genzo ha conosciuto Jun due anni prima, bloccati in un cerchio di sedie con i nomi incollati in una targhetta sul petto a raccontare una versione edulcorata della “loro storia” e poi davanti a una macchinetta a tirare giù uno snack rimasto bloccato.

Jun, il proprietario della merendina, si era messo di lato ad abbaiare educati suggerimenti, Genzo, che si era lasciato coinvolgere, ne aveva fatta una questione personale arrivando ad inclinare l’aggeggio a novanta gradi. Il tutto abbigliati in quelle stupide gonnelle da ospedale.

A fine emergenza si erano promessi di chiamarsi per nome.

- Gli infetti non sono responsabili delle loro azioni. – Dice Jun Misugi, studente prodigio ed assistente del professore Manaba, a ventisette mesi da quell’incontro. – Sono malati ed è nostro esplicito dovere prestare loro soccorso.

Il sangue di Genzo è ghiaccio nelle vene. Jun ha fatto i compiti. Alle sue spalle il proiettore esibisce calcoli, statistiche, dimostra come i vaccini di ultima generazione siano stati resi possibili dallo studio delle mutazioni del virus nelle persone guarite. Ribadisce la differenza tra portatori ed infetti, denuncia l’uso del termine “zombie” come “una riduzione pericolosa”. Parla dello stigma e di come sia inammissibile che nei tribunali di mezzo mondo la difesa “pensavo fosse un infetto” è considerata un’attenuante accettabile nei casi di omicidio.

Misaki annuisce, alza una mano e chiede se saranno disponibili le slide.

Genzo ha voglia di andarsene, di sbattere la porta, di prendere la testa di Jun e premerla contro un tavolo. Mikami non avrebbe dovuto costringerlo a partecipare a quelle sessioni di terapia di gruppo. Misugi SA. Stava tre sedie distante mentre Genzo veniva costretto a ricordare come ci si senta ad uccidere, ad avere pezzetti di carne umana tra denti e dita. Ascoltava mentre un tizio con quattro lauree ed un sorriso anonimo assicurava che si era inventato tutto.

- Ricostruzioni. Una risposta tipica a questo genere di trauma.

Genzo ricorda che sapore abbia il sangue e di averlo trovato delizioso.

E per i dottori questo significa che Genzo Wakabayashi è matto come un cavallo. Non dovrebbe stare qui.

È il suo turno di scappare e farsi inseguire in bagno. Misaki non lo trascina in un cubicolo, più intelligentemente attacca un foglio con scritto “fuori servizio” alla porta e dà un giro di chiave.

- È stato mio padre a passarmelo. – Dice Misaki scivolando e sedendoglisi accanto alla faccia delle norme igienico sanitarie. – Da quando siamo guariti non riesce più a guardarmi in faccia. Dice di ricordarsi del mio sapore.

Il sorriso di Misaki è fatto di gomma. Genzo impara ad imitarlo.

A fine corso le loro strade si separano. Taro Misaki si trasferisce a Saitama. Si scambiano lettere e poi più niente. Si conoscevano troppo bene. Forse è meglio così.

Genzo rimane a Tokyo per due anni e mezzo. L’esplosione di tredici nuovi focolai rimette il Giappone in pari col resto del mondo e, come operatore certificato, lo tiene parecchio impegnato. Aderisce a un programma sperimentale, partecipa ad azioni di contenimento nelle zone rosse. Si becca Jun come diretto supervisore.

Un giorno Genzo si risveglia in ospedale con braccia legate al lettino, una flebo al braccio e un discreto cerchio alla testa. Procedura standard quando vieni infettato durante un’evacuazione. Tra qualche minuto l’infermiera di turno arriverà a ficcargli una torcia in un occhio, a chiedergli domande assurde, slegarlo e costringerlo a compilare una quantità infinita di moduli.

Tutto nella norma. Oppure no, c’è Jun Misugi appollaiato sulla sedia accanto al letto.  È molto rigido e non lo guarda in faccia quando dice:

- Avresti finito per farti ammazzare.

E poi gli spiega quello che ha fatto.

Misugi deve ringraziare il suo cuore malato altrimenti Genzo anche da legato avrebbe trovato il modo di spaccargli la faccia.

Genzo Wakabayashi non ha manie suicide, non importa cos’abbia scritto sul suo profilo quel bastardo traditore. I trentadue ceppi girati in tempo record sono il risultato di un cocktail di sfiga e della sua innata capacità di trovarsi al posto sbagliato al momento sbagliato. Misaki l’avrebbe capito.

Vuole solo rendersi utile.

Così fa le valigie, telefona a Mikami ed abbandona il Giappone.

Un mese dopo approda a Billstedt, Germania.

 


 

Note al capitolo 2:

 

L’angst pre natalizio…

BUONE FESTE a tutti!

 

Credo di aver riscritto questo capitolo almeno una quindicina di volte, basti pensare che la prima stesura è di giugno *glom*. Una sofferenza.

 

Sperando di fare cosa gradita vi lascio il link della mia galleria nuova DA su Captain Tsubasa. Un po’ vuota per ora, ma disegnando la riempio (soprattutto di stupidate, ma tant’è) LINK

 

*Il nome dei fratelli Wakabayashi diversamente ad “Animali e forniture elettriche” è quello giusto del manga (nel frattempo sono riuscita a recuperare i capitoli dello speciale in cui compaiono per nome, accidenti alle pagine wikipedia che non li menzionano).

 

>>> 3. La  cantina.

Al rifugio arriva un ospite inatteso.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=4027983