Everybody wants love

di Nao Yoshikawa
(/viewuser.php?uid=994809)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno ***
Capitolo 2: *** Capitolo due ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre ***
Capitolo 4: *** Capitolo quattro ***
Capitolo 5: *** Capitolo cinque ***
Capitolo 6: *** Capitolo sei ***
Capitolo 7: *** Capitolo sette ***
Capitolo 8: *** Capitolo otto ***
Capitolo 9: *** Capitolo nove ***
Capitolo 10: *** Capitolo dieci ***
Capitolo 11: *** Capitolo undici ***
Capitolo 12: *** Capitolo dodici ***
Capitolo 13: *** Capitolo tredici ***
Capitolo 14: *** Capitolo quattordici ***
Capitolo 15: *** Capitolo quindici ***
Capitolo 16: *** Capitolo sedici ***
Capitolo 17: *** Capitolo diciassette ***
Capitolo 18: *** Capitolo diciotto ***
Capitolo 19: *** Capitolo diciannove ***
Capitolo 20: *** Capitolo venti ***
Capitolo 21: *** Capitolo ventuno ***
Capitolo 22: *** Capitolo ventidue ***
Capitolo 23: *** Capitolo ventitré ***
Capitolo 24: *** Capitolo ventiquattro ***
Capitolo 25: *** Capitolo venticinque ***
Capitolo 26: *** Capitolo ventisei ***
Capitolo 27: *** Capitolo ventisette ***
Capitolo 28: *** Capitolo ventotto ***
Capitolo 29: *** Capitolo ventinove ***
Capitolo 30: *** Capitolo trenta ***
Capitolo 31: *** Capitolo trentuno ***
Capitolo 32: *** Capitolo trentadue ***
Capitolo 33: *** Capitolo trentatré ***
Capitolo 34: *** Capitolo trentaquattro ***
Capitolo 35: *** Capitolo trentacinque ***
Capitolo 36: *** Capitolo trentasei ***



Capitolo 1
*** Capitolo uno ***


Capitolo uno

"L'amore coniugale fa della famiglia un inespugnabile baluardo contro i quotidiani attacchi della vita.“ —  Giuseppe Tobia Sulla vita, Sull'amore
 
 
«Byakuya, io e Ichigo siamo preoccupati per te.»
Byakuya Kuchiki alzò lo sguardo dalla tazza di tè per guardare la sorella.
In effetti, quando Rukia lo aveva invitato a prendere un tè a casa sua quel pomeriggio, avrebbe dovuto immaginare che ci fosse un motivo ben preciso. Non era più giù di morale del solito, quindi cosa aveva fatto scattare quell’istinto di protezione in Rukia?
«Preoccupati per cosa?» domandò, composto come sempre.
Sua sorella batté una mano sul tavolo con energia.
«Non sembri affatto informa e sei triste. Si vede lontano un miglio che soffri la solitudine.»
Ichigo si aggirava per la cucina senza sapere che fare. Aveva pregato Rukia di evitare, perché Byakuya non avrebbe sicuramente gradito.
«Capisco, ma io non soffro la solitudine» rispose il diretto interessato. «Ho il mio lavoro e…»
«E che altro, nii-san?» chiese Rukia. «Oramai vedi pochissimo anche Renji, sai quanto ci sta male? E poi non vieni più a cena qui spesso come facevi prima.»
«Semplicemente non voglio disturbare» ammise Byakuya.
Chi non lo conosceva, non poteva fare a meno di chiedersi cosa si nascondesse dietro quello sguardo malinconico e la risposta era semplice quanto tragica: la sua adorata moglie Hisana era venuta a mancare tre anni prima a causa di una brutta malattia. Da quel momento in poi Byakuya si era chiuso in sé stesso su tutto ciò che riguardava l’amore di tipo romantico.
La sua vita se l’era immaginata insieme a Hisana sin da quando si erano messi insieme. Erano stati sposati per cinque anni e nel frattempo, per sfortuna, non erano stati benedetti dall’arrivo di un figlio.
E forse era stato meglio così. Crescere un figlio da solo non sarebbe stato facile.
«Oh, andiamo. Tu non disturbi di certo. Quello che Rukia vuole dire è che… sono passati tre anni e forse dovresti ricominciare ad uscire, a vivere. Sei ancora giovane» disse Ichigo, cercandosi di essere utile. «Non devi per forza innamorarti.»
«Ma potrebbe accadere!» s’intromise Rukia. «E noi non vogliamo che tu ti precluda la felicità.»
Byakuya capiva bene le loro intenzioni, ma la sua depressione, la sua tristezza e sconforto erano cose che non poteva controllare.
Ad un tratto sentì una piccola mano aggrapparsi alla sua gamba: suo nipote Masato, i capelli neri e un viso dolce, lo stava osservando.
«Ehi, come mai non sei a giocare di là?»
Byakuya adorava i suoi nipoti. Non avendo potuto avere figli, amava quelli di Rukia come se fossero suoi.
«Perché Kiyoko e Kaien mi hanno stufato, sono due piccioncini e mi fanno cariare i denti» sbuffò il bambino.
«Masato, non disturbare tuo zio e non dire certe cose. Puoi prendere dei biscotti se vuoi, ma non combinate disastri» raccomandò Rukia.
Soddisfatto, Masato prese un pacco di biscotti e se ne tornò in cameretta sorridente.
Ichigo tossì.
«Senti, stiamo organizzando una rimpatriata fra amici. Visto che i bambini urlanti non ti creano problemi, perché non ti unisci a noi?» propose Ichigo, il quale aveva già quell’idea in mente fin dall’inizio.
«Sarò l’unico non sposato e senza figli» disse lui guardandolo.
«No, ci saranno anche Renji e Grimmjow, per cui direi nessun problema!» Rukia si alzò, immaginando già una serata perfetta in cui Byakuya si sarebbe divertito.
Beh, circa.
Suo fratello ultimamente sembrava più triste e inconsolabile del solito. Lui non se ne rendeva conto, ma chi gli stava attorno invece sì.
Byakuya sospirò, rassegnato. Era meglio non far preoccupare ulteriormente Rukia.
 
Masato arrivò in camera e posò il pacco di biscotti sul comodino. Kaien stava facendo ridere Kiyoko, ora rossa in viso per lo sforzo.
Kiyoko era carina, aveva i capelli neri e due grandi occhi verdi, ma era così timida e fragile che si sarebbe fatta male giocando alla lotta. A Kaien, il suo gemello, invece piaceva molto. In realtà a lui piaceva chiunque con cui potesse mettersi in mostra. In quel momento stava impugnando una spada mentre si trovava sopra il letto e si fingeva un cavaliere in armatura.
«Masato, eccoti! Devi essere il mio cavallo!»
«Io non voglio fare il tuo cavallo, non mi piace questo gioco» si lamentò.
«E come fa la principessa a essere salvata, allora?» chiese pacatamente Kiyoko. Masato alzò gli occhi al cielo: a quel punto immaginò di non avere altra scelta e alla fine fu anche divertente, se non si contava il fatto che Kaien gli era quasi caduto addosso, schiacciandolo. L’importante era che il cavaliere avesse salvato la sua principessa.
«Oh, mi hai salvata!» recitò Kiyoko. «Allora adesso devi sposarmi, è così che funziona.»
«Eh? Ma io non ti posso sposare, vado ancora in terza elementare.»
«Ma è soltanto per finta!» borbottò Kiyoko. «Se poi vuoi sposarmi davvero, dobbiamo aspettare di essere grandi.»
Masato sbuffò, annoiato. Quante storie, lui di certo non si sarebbe mai sposato, non ci trovava niente di interessante. Ma Kiyoko e Kaien, oh, loro si sarebbero sposati di certo!
«Mi state facendo venire la nausea, fatemi un fischio quando vi decidete a smetterla» disse infine Masato, cercando i suoi album da colorare mentre quei due discutevano su quanto fosse o meno opportuno sposarsi nell’immediato senza dire niente a nessuno.
 
«Alla fine non è andata tanto male» disse Rukia allegramente.
Ichigo si sedette, massaggiandosi le tempie. Era stanco e non aveva avuto tempo di riposarsi come avrebbe dovuto.
«Non lo so, Rukia. Pensi che sia un bene forzarlo?»
«Mi dispiace, ma lo faccio per il suo bene. Voglio solo evitare che Byakuya si ammali, tutto qui!»
Rukia era provata, si poteva capire dal suo tono di voce. Era brava a nascondere i timori dietro una facciata di allegria ed energia, ma Ichigo la conosceva bene.
«Lo so, posso immaginarlo. Non preoccuparti, Byakuya si riprenderà. Prima o poi si deve andare avanti per forza» nel dire ciò si era avvicinato alla moglie, scostandole un ciuffo di capelli dal viso. Rukia lo abbracciò, poggiando il viso sul suo petto. Sapeva di essere fortunata ad avere un marito che l’amava, una casa, dei bambini. Voleva solo che suo fratello riacquistasse un po’ di felicità perduta e avrebbe fatto di tutto per aiutarlo.
Ad un tratto Ichigo sentì la tasca vibrare: era una chiamata dall’ospedale in cui lavorava. Non che non fosse abituato, ma sembrava che accadesse sempre nei momenti meno opportuni.
«Accidenti, devo andare.»
«Oh, d’accordo. Credi che questa notte tornerai a casa?» Rukia si morse il labbro, non amava dormire da sola. Ichigo le posò le labbra sulla fronte.
«Spero di sì, non si può mai dire.»
 
Il St. Luke's International era oramai la seconda casa di Ichigo. Era un chirurgo, ma come spesso ripeteva stava ancora imparando da chi era ben più esperto di lui. Fare quel lavoro non era semplicemente fare un lavoro, era una vocazione, un sacrificio. Certo era dura, bisognava avere un carattere forte e una salda resistenza allo stress.
S’infilò il camice bianco e nel corridoio illuminato dalle luci al neon incontrò Ishida.
«Hanno chiamato anche te?»
«Sono sempre stato qui, sono qui dalle cinque di questa mattina!» Ishida si sistemò gli occhiali sul naso. «C’è stato un incidente qui vicino, una cosa orribile. C’è sangue dappertutto, stava per venirmi la nausea.»
«Ishida, ti impressioni ancora, dopo tutto questo tempo?» domandò con un sorriso.
«Senti, Kurosaki! Capirai appena lo vedrai con i tuoi occhi. A proposito, devo prendere un paio di gua-AHI!»
Ishida aveva sentito un colpo alla testa e subito dopo aveva fatto un salto all’indietro.
«Vedo che siete qui a perdere tempo mentre abbiamo un’emergenza, vero? Fatemi il favore di non essere inutili in una volta tanto e andate adesso. Subito!»
Ichigo aveva sempre pensato che un medico dovesse essere rassicurante. Beh, Kurotsuchi non lo era. Abilissimo nel suo mestiere senz’altro, rassicurante mai.
«Sì, stiamo andando! Mi scusi!» Ishida si infilò i guanti e si spostò prima di riceve un altro colpo in testa. Meglio non discutere, non c’era tempo.
Ichigo e Ishida spesso lavoravano insieme. Avevano frequentato gli stessi corsi all’università e avevano iniziato il tirocinio nello stesso ospedale, oramai erano molto uniti, sia nel bene che nel male. Anche se spesso tendevano a battibeccarsi, ma dopotutto faceva parte del gioco.
 
L’intervento era durato quattro ore e in effetti adesso Ichigo capiva Ishida e la sua nausea. A certe cose, come l’odore acre del sangue e quello penetrante del disinfettante, non ci si abituava mai. Si tolse la mascherina e si sedette, respirando a fondo. Era sempre un successo e un sollievo quando riuscivano a salvare un paziente. E un dolore quando non ci riuscivano.
Kurotsuchi non faceva altro che ripetere loro di essere professionali e distaccati, di non farsi coinvolgere emotivamente. Bisognava creare un muro, tra loro stessi e gli altri. Quella era una cosa su cui Ichigo doveva ancora lavorare. Ishida lo raggiunse poco dopo, il viso umido di sudore.
«Sono a pezzi, le giornate del genere sono quelle che mi mettono a dura prova. E Yuichi è rimasto tutto il giorno con i miei. Tatsuki doveva andare a prenderlo nel pomeriggio, ma ha avuto un contrattempo.»
«Non preoccuparti, tuo figlio capirà.»
«Forse, ma i bambini soffrono la mancanza d’attenzioni. Ma era ovvio che con la separazione le cose cambiassero»
«Oh, senti Ishida, non è che…»
Kurotsuchi uscì dalla sala operatoria e Ichigo si alzò in piedi, dritto come un soldatino. Sperava che non fosse troppo duro con loro, non avevano commesso errori durante l’intervento, né erano stati distratti.
«Un altro successo» disse Kurostuchi come se stesse parlando più con sé stesso che con loro. «Ma se vi becco un’altra volta a parlare come due ragazzine pettegole quando c’è un’emergenza, vi butto fuori a calci, intesi?»
«È colpa mia» ammise Ishida. «Il fatto è che la stanchezza mi rende distratto.»
«Allora non avresti dovuto fare questo lavoro. Vi ho preso sotto la mia ala perché eravate i più promettenti al vostro arrivo, ma non vuol dire che non possa cambiare idea.»
Ichigo fece una smorfia. In effetti sia lui che Ishida erano cresciuti e migliorati in fretta. La tensione li aiutava a dare il massimo. Anche se una pausa sarebbe stata gradita.
«Kurotsuchi, mi sembrava di averti sentito. Dovresti davvero rilassarti, come puoi fare del tuo meglio, altrimenti?»
L’unico che aveva il coraggio di rivolgersi con quel tono a lui era il primario Kyosuke Urahara. Tutto il St.Luke sapeva che tra i due non correva buon sangue e a dire il vero i loro battibecchi erano sempre molto divertenti.
«Ero rilassato fin quando non mi sei comparso davanti. Per essere un primario ne hai di tempo da perdere, ma qui c’è gente che lavora» rispose Kuotsuchi, piccato. A differenza sua, Urahara era amato, benvoluto da tutti, medici, infermiere e pazienti. Oltre ad essere un medico eccezionale.
«Senti, Kurotsuchi. Perché non ti prendi una vacanza? Sono sicuro che ti farebbe bene!» disse Urahara con un sorriso.
«Molto gentile da parte tua, perché invece non vai tu in vacanza? Magari in un posto molto lontano da qui e a tempo indeterminato?»
Ishida e Ichigo si sforzarono di non ridere, ma furono inevitabilmente scoperti.
«Voi due non avete altro da fare?» Kurostuchi non si era neanche voltato. «Fuori dai piedi!»
I due se ne andarono, soffocando le risate, e in effetti anche Urahara aveva preso a ridere.
«Sei così duro con quei ragazzi.»
«Io devo essere duro, tu invece te ne vai in giro dispendendo sorrisi e buon umore! È proprio vero che al tuo posto ci starei meglio io.»
L’aria era diventata un po’ tesa, ma al solito Urahara sapeva alleggerire il tutto con abilità.
«Via, via, Mayuri. Dovremmo andare d’accordo, i nostri figli sono amici.»
«Tanto per cominciare, non chiamarmi per nome. E seconda cosa, loro non sono amici, frequentano solo la stessa scuola. Per mia grande sfortuna» Kurotsuchi si sistemò il camice, deciso a non continuare quella conversazione. «Ora, ho del lavoro da fare, se sai di che parlo.»
Urahara rise, ma non infierì ulteriormente. Certo che il lavoro da primario in un ospedale spesso poteva essere così divertente!
 
Dopo più di quindici ore filate, il suo turno era finalmente finito. Ishida era un po’ seccato, non solo per la stanchezza, ma perché odiava quando Tatsuki non rispettava i piani. Anche se comunque non si sarebbe arrabbiato a priori. Lui non riusciva mai ad arrabbiarsi, soprattutto quando ce l’aveva davanti. Arrivò a casa dei suoi, trovò tutte le luci accese, era certo che Yuichi dovesse essere ancora sveglio. Quando entrò, avvertì subito un piacevole calore, un’accoglienza che per un attimo mitigarono il suo malumore.
«Oh, Uryu, sei tornato finalmente!»
Sua madre Kanae gli andò incontro aiutandolo a sfilarsi il soprabito. A volte sembrava dimenticarsi che suo figlio fosse un uomo adulto oramai, ma la cosa non era affatto fastidiosa.
«Mi spiace. Yuichi…?» domandò. Kanae sorrise, indicando il soggiorno con lo sguardo.
«Perché non vedi da te?»
Non passò che qualche attimo prima di sentire le risate di suo figlio e, subito dopo, quelle di Tatsuki. E infatti eccoli lì: lei in ginocchio sul pavimento, lui che cercava di sfuggire al suo solletico. Ed ecco che era successo di nuovo: era sparita la rabbia, il fastidio, la stanchezza e tutto.
«È tornato papà!» esclamò Yuichi, che somigliava fin troppo a Tatsuki e fin troppo poco a lui.
«Ciao, Uryu. Scusa, alla fine ho fatto tardi, ma ce l’ho fatta» sussurrò, un po’ a disagio.
«Sì… beh, non importa. Ehi» Ishida dedicò tutte le attenzioni a suo figlio, che gli si era aggrappato addosso. «Ti sei comportato bene?»
«Benissimo, ma adesso ho fame, posso avere dei biscotti?»
«Non pensarci neanche, hai già avuto il dolce» lo rimproverò Tatsuki. Yuichi arrossì e poi fece un sorriso irresistibile. Per Ishida lo era di certo, visto quanto somigliava a sua madre. 
Kanae li invitò a trattenersi un po’ di più, ma Ishida era provato dalla lunga giornata di lavoro e l’indomani Yuichi sarebbe dovuto andare a scuola. 
«Spero che i miei genitori ti abbiano trattata bene» mormorò goffamente Ishida mentre porgeva Yuichi, addormentato, a Tatsuki.
«Come al solito, sono sempre tanto carini con me, soprattutto tua madre» lei prese in braccio suo figlio, in imbarazzo. Dopotutto perché i suoi suoceri - ex tra non molto - avrebbero dovuto essere gentili con lei che aveva deciso di far finire un matrimonio?
«Bene, allora… io me ne vado. Domani è il mio giorno libero, posso passare a prenderlo?»
«È scuola fino alle due, ma dopo è tutto tuo. Allora… allora ciao, eh.»
Ishida baciò i capelli di Yuichi e per un breve istante, a causa dell’abitudine, le sue labbra sembrarono voler incontrare quelle di Tatsuki. Lei capì e si ritrasse, arrossendo.
«Sì, ciao» disse Ishida, sistemandosi gli occhiali nervosamente. 
Era un cretino, si disse. Si comportava come un adolescente, gli sembrava di essere tornato al periodo in cui uscivano insieme. Ma cosa avrebbe dato adesso per tornare a quei tempi.
Se una separazione era orribile, lo era ancora di più quando due persone si amavano ancora.
 
A Orihime piaceva molto l’odore di casa sua. Profumo di colori a tempera misto a biscotti appena sfornati. Ulquiorra stava mettendo a letto Kiyoko, mentre lei controllava con attenzione l’app sul cellulare che teneva conto del suo ciclo mestruale. L’ovulazione era vicina, non doveva dimenticarsene. In realtà oramai era difficile dimenticarsene, quelli erano i suoi soliti tentativi mensili di rimanere incinta, tentativi che puntualmente fallivano. 
Da un anno a quella parte oramai era così, ma Orihime non si arrendeva. Anche se in cuor suo, ogni ciclo mestruale l’avvertiva con una sconfitta.
«Kiyoko dorme» disse Ulquiorra, che con lei condivideva le medesime paure e stress, anche se in modo diverso. Probabilmente non avrebbe mai potuto capire Orihime fino in fondo.
Lei gli si avvicinò, accarezzandogli il petto.
 «Questo vuol dire che abbiamo tempo per stare un po’ da soli» sussurrò sulle sue labbra. Ulquiorra la baciò, anche se con la mente era da tutt’altra parte.
«Hime, non dobbiamo per forza.»
«E da quando il sesso è un obbligo?»
«Non intendo questo. È solo che io ti vedo. Voglio dire… vedo la tua delusione ogni mese. Io…» Ulquiorra scosse la testa. «Scusa, questa potevo evitarla.»
Era una situazione stressante per tutti e due. Non avevano avuto problemi a concepire Kiyoko, che non era stata una gravidanza cercata ma accolta con grande gioia. Avrebbero voluto allargare ancora la famiglia, ma chissà perché quel tanto desiderato figlio non arrivava. C’erano state visite infinite per essere certi che nessuno dei due avesse problemi di salute.
Tutto perfetto e ciò rendeva la situazione ancora più difficile.
«Mi dispiace» sospirò Orihime, sedendosi sul divano. «Vorrei viverla con più leggerezza, ma temo sia impossibile. È solo che io non capisco. Perché è così difficile, adesso?»
A Ulquiorra sarebbe piaciuto avere una risposta, ma non ce l’aveva. Nessuno poteva sapere perché certe cose accadevano. Anzi, perché non accadevano. Strinse la sua mano.
«Non lo so. Mi spiace, io non posso capirti fino in fondo.»
«Tu puoi capirmi meglio di chiunque altro» Orihime poggiò il viso sul suo petto. Amava la sua famiglia, amava la sua dolce e perfetta Kiyoko. Eppure c’era quel qualcosa che rimaneva sempre lì, così distante. Sapeva però che Ulquiorra era con lei.
Nella gioia e nel dolore.
«Ne sono felice» bisbigliò. «Però su sesso potrei aver cambiato idea.»
«Ah…» sorrise lei. «Ma tu pensa…»
Si baciarono di nuovo, fino a quando Kiyoko non si mise a piagnucolare e a chiamare “mamma”.
«Come non detto» Ulquiorra socchiuse gli occhi. «Ha avuto un incubo e vuole te.»
Orihime rise e si alzò per andare dalla bambina che reclamava le sue attenzioni. 
Lei era forte, certo, pensò Ulquiorra mentre la osservava. Ma temeva che prima o poi potesse spezzarsi e temeva che quel momento non fosse poi così lontano.
 
Byakuya detestava tornare al proprio appartamento, specie a quell’ora. Dopo la morte di Hisana aveva preferito andare a vivere da un’altra parte, in un luogo dove non avrebbe avuto ricordi dolorosi. Forse sua sorella non aveva torto a preoccuparsi e forse era vero che in qualche modo sembrava volersi precludere la felicità. Renji gli aveva scritto alcuni messaggi. Era il suo migliore amico, capiva il suo dolore e non era invadente. E ciò lo faceva sentire in colpa, lo aveva allontanato molto, anche se non di proposito.
 
Da: Renji
Ore: 20,37
Ehi, amico, spero tu stia bene. Oggi giornata faticosa in officina, ma non mi lamento. Rukia mi ha detto che sei andata a trovarla. Bene, non puoi essere tutto lavoro e dovere, è più facile cadere in depressione così. Comunque domani verrai? Io non avevo intenzione di farlo, visto che non sono sposato né tanto meno ho figli, ma visto che tu ci sei, allora…
 
Byakuya
Ore, 21,54
Ciao, Renji. Sì, ci sarà domani, mia sorella ha insistito e non vorrei farla preoccupare più di quanto non sia. Mi farebbe molto piacere avere la tua compagnia.
 
Da Renji:
Ore, 21, 57
Oh, bene, ci vediamo domani. Allora sono ancora il tuo migliore amico? ;)
 
Byakuya sospirò. Non aveva torto la gente che si chiedevano come potessero essere così amici due persone diverse come loro. A volte se lo chiedeva anche lui.
 
Byakuya
Buonanotte, Renji.
 
Un po’ duro, forse, ma Renji avrebbe capito.
 
 
Nota dell’autrice
Non voglio fare note chilometriche, quindi cercherò di essere breve.
Si tratta di una storia corale? Purtroppo (per la mia salute mentale) sì.
Sono presenti sia OC che personaggi canon? Sì, infatti mi sono presa i primi tre capitoli per presentare tutti i personaggi e per accennare le tematiche che poi andrò ad approfondire.
Personaggi OOC? Per sicurezza è una nota che metto sempre, alcuni personaggi avranno un modo di fare più ridimensionato visto che si tratta di un AU, ma la sostanza non cambia.
Perché Urahara e Kurotsuchi sono dottori e non scienziati? Perché per un eventuale AU me li sono sempre immaginata come Kelso e Cox di Scrubs e non mi sono più tolta l’idea dalla testa.
Ogni quanto aggiornerò? Non lo so, ma in genere aggiorno abbastanza in fretta.
Che altro? Niente, ho rimuginato per mesi se pubblicare o no questa storia, e ora che l’ho fatto me ne scappo.
 
-Nao

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo due ***


Capitolo due

Yoruichi si era alzata presto quella mattina, come tutte le mattine in realtà. Da insegnante di una scuola superiore, oramai aveva degli orari precisi da rispettare.
Era rimasta sorpresa quando si era svegliata da sola: possibile che Kisuke non fosse rientrato da lavoro? Era sicura che quelli non fossero ritmi salutari.
La risposta alla sua domanda l’ebbe poco dopo: Kisuke si era addormentato sul divano, ancora vestito.
«Kisuke» sospirò, lanciandogli poi un cuscino addosso. «Kisuke! Almeno potevi cambiarti!»
«Eh? Ah, mia dolce Yoruichi, sei tu. Hai ragione, ma per come sono arrivato, sono crollato» mugugnò lui, ancora ad occhi chiusi ma sorridente. «Mio raggio di sole, quei ragazzi sono fortunati ad avere un’insegnante come te.»
«Va bene, adesso smettila di fare il ruffiano» Yoruichi arrossì un po’, mentre lui baciava la sua mano. Udirono poco dopo dei passi e all’improvviso Kisuke sentì un peso addosso.
«Papà, non si dorme sul divano» la piccola Yami aveva gli occhi dorati di sua madre.
«Lo so, piccola. Perdonami, sono crollato. E tuo fratello dorme ancora?»
Yami sorrise.
«Sì, è rimasto tutta la notte a leggere. A lui piace, a scuola dicono che è un secchione. Lo sai che Hikaru è innamorato di Ai Kurotsuchi? Lo sai che anche lei è innamorata?»
Oh, sua figlia aveva una lingua tagliente.
«Ma davvero? Ah, se Mayuri lo sapesse, gli verrebbe un colpo!»
«Sì, sì, divertente. Yami, vai a vestirti, io vado a svegliare tuo fratello. E Kisuke, per l’amor del cielo, fatti una doccia, puzzi di disinfettante» Yoruichi era molto brava a impartire ordini, forse anche per deformazione professionale.
«Ah» sospirò Kisuke. «Io amo questa donna.»
Svegliare Hikaru non fu un’impresa facile, ma almeno era un bambino che non si lamentava troppo. Anzi, era fin troppo tranquillo. Hikaru e Yami erano gemelli e non avrebbero potuto essere più diversi. Se Yami aveva una lingua tagliente, era una gran chiacchierona e aveva un carattere tutto pepe, Hikaru era più tranquillo. Geniale, ma silenzioso, discreto. A parte quando litigava con la sorella.
«Yami, smettila di pizzicarmi.»
«Non ti pizzico.»
«Sì, invece, lo hai fatto ancora. Mamma, dì a Yami di smetterla!»
«Yami, smettila di dar fastidio a tuo fratello!» Yoruichi stava cercando di guidare. E dire che non aveva mai pensato di avere istinto materno, invece se la cavava piuttosto bene.
O almeno sperava.
«Mamma, vado da Ai dopo la scuola» disse ad un tratto Yami. Yoruichi si irrigidì.
«Se i suoi genitori sono d’accordo, allora…»
«La sua mamma sì» Yami guardò il fratello. «Se vuoi puoi venire anche tu, tanto lo so che ti piace. Ai diventerà la tua fidanzata.»
«Uffa, e stai zitta!» il bambino fece per lanciarle il proprio libro e Yami gridò.
Yoruichi strinse il volante.
«DATECI UN TAGLIO!»
 
Ai muoveva le gambe con agitazione. Indossava delle graziose scarpette di vernice nera e molti le dicevano spesso che aveva il visino da bambola, con i capelli scuri e gli occhi di una sfumatura color dell’oro. Sarebbe stato magnifico se fosse stata anche meno timida, non amava non riuscire a spiaccicare una parola che fosse una, ma non si poteva nemmeno dire che non avesse amici, per fortuna.
«Ai, tesoro, siamo arrivati. Non scendi?» domandò Nemu voltandosi verso il sedile posteriore.
Lei scosse la testa.
«Se Yami e Hikaru non arrivano, io non scendo. Mi sento a disagio, ecco.»
«Ai Kurotsuchi, non essere ridicola. Non hai bisogno di quei due ragazzini. Mi sorprende poi che fra tutte le amicizie che potevi scegliere, tu abbia scelto proprio loro.»
Ad aver parlato era stato Mayuri, che tendeva ad avere lo stesso atteggiamento distaccato e un po’ distopico sia a lavoro che in altri contesti. Tutti gli dicevano che sua figlia gli somigliava, che aveva i suoi occhi e il suo colorito più scuro. Questo era vero, ma caratterialmente non gli somigliava affatto: Ai aveva l’indole timida e silenziosa di sua madre, in compenso però da lui aveva ereditato la genialità.
«Ma… ma loro sono i miei migliori amici.»
«Come se gli amici servissero a qualcosa» borbottò sottovoce, ma Nemu lo sentì. Assottigliò lo sguardo, un po’ rigida. Anche dopo quasi otto anni, che nessuno dei due si era aspettato di diventare genitore era evidente. Quando si erano sposati, avevano deciso di concentrarsi solo sulla carriera e così era stato. Ma poi Nemu era rimasta incinta e nonostante lo shock iniziale aveva deciso di portare avanti la gravidanza. Mayuri non era stato molto d’accordo all’inizio, ma alla fine aveva accettato la situazione, non che avesse molta scelta. E così era nata Ai, la bambina in cui entrambi spendevano tutte le loro energie, anche se in modo diverso e forse un po’ atipico.
«Oh, guarda. Quella è l’auto di Yoruichi. Forse dovrei andare a salutarla» disse Nemu.
«Mi farete fare tardi, voi due» si lamentò Mayuri. Nemu però decise di ignorarlo e scese dall’auto con Ai, la quale andò subito incontro ai suoi amici del cuore, mentre le rispettivi madri si salutavano.  Oh, quella donna - Yoruichi - aveva un carattere formidabile.
«Ciao, signora Kurotsuchi» la salutò. «I miei figli mi hanno detto che saranno da te, nel pomeriggio. Spero si comportino bene, nel caso fammi sapere e ci penserò io.»
«Oh, non sarà necessario. Hikaru e Yami sono adorabili» rispose, mentre Yoruichi spostava lo sguardo su Mayuri e lo salutava. 
«Oh, ciao ciao dottore!»
«Tsk» si lamentò lui. Non solo doveva sopportare Urahara a lavoro, ma anche sua moglie e la sua splendida progenie.
Yoruichi a volte si chiedeva come potessero due come loro stare insieme. Poi però si ricordò che anche lei e Kisuke erano completamente diversi.
«Bene, allora te li lascio volentieri. Ti auguro una buona giornata, infermiera Kurotsuchi.»
 
Kaien e Masato avevano un bel gruppo di amici. A parte Kiyoko, c’era anche Naoko, i gemelli Urahara, la dolce Ai che era entrata pian piano a far parte del gruppo e anche Yuichi. 
Yuichi in particolare era molto legato al più piccolo dei Kurosaki.
«Kaienuccio, dammi un bacio»
Naoko era la più birbante del gruppo subito dopo Yami. Amava stare al centro dell'attenzione e rubare baci abbracci e ai maschietti del suo gruppo. 
«Togliti! È una cosa schifosa!» Kaien si pulì la guancia umida dopo che Naoko gli aveva posato impropriamente un bacio. Dovevano sembrare un allegro gruppetto, mentre si dirigevano insieme in classe per la prima lezione. Naoko abbracciata a Kiyoko, Kaien che parlava con Masato e Yuichi e Ai stretta tra i due gemelli Urahara. 
In classe trovarono seduta al primo banco la loro compagna Rin.
Rin non piaceva a nessuno. Lei lo sapeva e sembrava provarci un certo gusto, nonostante fosse una bambina. Una bambina fin troppo sveglia, perfida come la riteneva Naoko. Con i suoi capelli argentati e gli occhi sottili, rendeva la vita impossibile ai suoi compagni. 
«Mi sta guardando» gemette Kiyoko. 
«Ah, dai» borbottò Naoko, sedendosi dietro di lei. Rin si voltò a guardarla, in particolare osservava il suo fiocco rosso tra i capelli. 
«Mi piace il tuo fiocco, Nao» 
«Non chiamarmi Nao, perché non sei mia amica.»
Masato si sedette nel banco dietro, di fianco a Youichi.
«Pss, secondo me prima o poi si picchiano» sussurrò quest’ultimo. Masato gli assestò un calcio, l’insegnante era appena entrata.
«Non farti sentire» bisbigliò. Poco dopo e i bambini si alzarono rispettosamente in segno di saluto.
Fu una mattinata tranquilla, senza sorprese o eventi strani, o almeno lo fu per qualche ora. Rin aveva un amico, Hayato Aizen, che era un anno più grande e frequentava un’altra classe. Quei due stavano sempre appiccicati e Naoko diceva sempre che un giorno si sarebbero messi insieme perché dopotutto erano uguali, odiosi entrambi.
«Non li sopporto, è più forte di me» si lamentò Naoko mentre prendeva il suo bento. «Non è scritto da nessuna parte che devo sopportare tutto questo.»
«Nao, non fare cose strane. Ti caccerai nei guai» sussurrò Kiyoko tenendo lo sguardo basso. E Naoko se ne sarebbe stata anche buona, pensò mentre mangiava, ma non era stupida e si sarebbe difesa.
Si sarebbe difesa da Hayato e Rin che ora gli venivano incontro e si atteggiavano come se fossero migliori di tutti, lì. Hayato, che era alto per la sua età, si rivolse a Kaien,
«Kurosaki, allora. Niente partita di calcio questa settimana?»
«No, grazie» disse il ragazzino. L’ultima volta che avevano giocato una partita, la sua classe era stata stracciata, ma secondo lui non era stato uno scontro equo. Gli altri erano più grandi. E poi Masato si era fatto male ed era scoppiato in lacrime, non voleva infierire ancora.
«E dai, lo so che hai paura di perdere, ma che vuoi che sia? Giuro che stavolta non farò piangere il tuo fratellino» disse divertito. Masato arrossì ma non rispose. Non era bravo a difendersi, proprio come Yuichi. Per questo se ne stavano sempre insieme.
«Non voglio giocare comunque. E poi voi siete più grandi, siete più alti e ci spintonate» Kaien lo fronteggiò nonostante la differenza di stazza. Rin rise, sembrava divertita. E Naoko se ne accorse.
«La colpa è tua, istighi questo cretino e lui ti ubbidisce come un cagnolino!» esclamò alzandosi e facendo cadere il bento per terra.
«Io? Io non istigo proprio nessuno» disse Rin, battendo le palpebre dalle lunghe ciglia. «E dovresti parlare alle persone con un po’ più di rispetto. Ma effettivamente non mi aspetto niente di meglio dalla figlia di un delinquente.»
Kiyoko sgranò gli occhi. Ora sapeva che niente e nessuno poteva fermarla. Kaien strinse i denti, vedendo come Hayato non interveniva, ma anzi sembrava attendere un litigio. Gli era venuta voglia di picchiarlo. Naoko si avvicinò.
«Mio padre non è un delinquente. E almeno noi non siamo degli snob, odiosi, cattivi e…»
«E? Continua, ti ascolto» disse Rin.
Naoko le saltò addosso, tirandole i capelli.
 
 
Non tutti potevano dire di essere il manager di una band. Beh, Hirako Shinji poteva. Più o meno. Anche se non si trattava poi di una band famosa: i Vizard prima o poi avrebbero sfondato davvero e sarebbero andati ben oltre i locali, le feste e gli insulsi concerti che non raggiungevano neanche il centinaio di persone. E quando ciò sarebbe successo avrebbe avuto motivo di stressarsi anche di più, anche se a dire il vero a stressarlo più di tutti adesso era la batterista Hiyori, la sua ex. In molti lo consideravano un pazzo a continuare a lavorare in quelle condizioni, era risaputo che lui e Hiyori non fossero in grado di andare d’accordo. Ma il gruppo aveva bisogno di entrambi e nessuno dei due voleva rinunciare a tanti anni di duro lavoro. E anche se non ci fosse stata la band a obbligarli a vedersi, Shinji e Hiyori condividevano una figlia.
«Cosa? Che vuol dire è cancellato? Sì, senta non me ne importa niente se il locale è chiuso per lutto, abbiamo preso un impegno. Io insensibile? Va bene, d’accordo, troveremo un’altra occasione. Sì, certo, a mai più!» Shinji posò il cellulare sulla scrivania. E dire che la giornata era appena cominciato e aveva già ricevuto brutte notizie: quella era la terza esibizione che veniva cancellata. Non sapeva come lo avrebbe comunicato alla band e soprattutto non sapeva come dirlo a Hiyori, la quale lo avrebbe insultato dandogli dell’essere inutile.
Miyo, seduta a terra e con un libro in grembo, si era inventata un mal di pancia per non andare a scuola. In realtà andare a scuola le piaceva, aveva anche molti amici, ma aveva l’impressione che in certi giorni ci fosse bisogno di lei in casa.
«Papà, tu non devi prendere tutto questo caffè la mattina» disse la bambina, aggrottando la fronte.
Shinji la guardò. Miyo sembrava molto più matura dei suoi nove anni, alle volte l’adulta dei due sembrava lei.
«Hai ragione. Scusa, non volevo alzare la voce. Ma sono un manager fallito, come dovrei dirlo a tua madre adesso?»
La vita di Miyo aveva ritmi precisi. Viveva con suo padre tutta la settimana e in genere il weekend viveva con la madre, anche se la vedeva comunque quasi ogni giorno. E un’altra certezza era quella che i suoi genitori si odiassero, era stato così fin da quando riusciva a ricordare.
«Se vuoi posso dirglielo io, con me non si arrabbia»
«Lo faresti?» Shinji scosse la testa. «No, ma che dico? Devo farlo io. Però non posso lasciarti da sola.»
Miyo fece spallucce, posando il libro.
«Adesso non sto più male» disse con un sorriso.
«E-Eh? Miyo Hirako, non puoi mentire in modo così spudorato per evitare la scuola. E va bene, diremo a tua madre che oggi non avevi lezioni. Adesso sbrighiamoci ad uscire» disse dandole una spintarella. Forse era di parte, ma trovava che Miyo fosse davvero graziosa, anche se non capiva da chi avesse preso quel temperamento così dolce.
Però ne era grato, lei era un dono.
 
Hiyori aveva un look aggressivo. Da adolescente aveva amato il punk e anche adesso, a ventisette anni, non era stata in grado di abbandonarlo del tutto. Nemmeno la maternità l’aveva fatta cambiare, dopotutto come diceva sempre “Avere un figlio non è un buon motivo per vestirsi come una vecchia bacucca noiosa”. E poi amava piacere agli uomini e si divertiva anche parecchio: uno spirito libero in tutto e per tutto. Ma con Miyo cambiava. Diventava più dolce e attenta in un modo che a Shinji risultava estraneo.
Quando quella mattina entrarono in quello Starbucks, Hiyori aveva uno spesso strato di eyeliner intorno agli occhi, ciocche rosa tra i capelli biondi. Lo aveva guardato con fastidio ma poi i suoi occhi si erano addolciti alla vista della figlia, che aveva abbracciato.
«Mammina! Ti sei tinta i capelli di rosa? Posso averli anche io?»
«Quando verrai da me, te li tingerò volentieri.»
«Pff. Miyo ha nove anni, non credo sia adatto» commentò Shinji. Lui e Hiyori erano diversi. Era lui quello apprensivo, lui quello che sotto alcuni aspetti era maturato (e la cosa lo sorprendeva alquanto). Hiyori era amorevole, ma affrontava tutto come se fosse un gioco.
«Oh, non rompere» disse staccandosi dalla figlia. «Piuttosto, perché hai voluto vedermi?»
Shinji si sedette davanti a lei, Miyo aveva appena rubato il cappuccino a Hiyori.
«Va bene, hai presente l’esibizione di stasera? Ecco, è saltata» disse un po’ nervoso.
Hiyori tremò.
«Cosa? Come sarebbe a dire è saltata? Ma allora sei un deficiente totale, è già la terza volta. Altro che manager, sei un incompetente.»
«Ehi, vacci piano, non è colpa mia. Sto facendo del mio meglio!» rispose piccato.
«Beh, non è abbastanza caro il mio incompetente!»
Alle volte sembravano i soliti ragazzini che ancora si scontravano. Gli stessi che rispettivamente a venti e diciotto anni si erano messi insieme e avevano avuto Miyo. Avevano provato a farla funzionare, ma alla fine non ci erano riusciti.
La bambina li guardò e poi arrossì.
«Dai, siamo in pubblico…»
Shinji assottigliò lo sguardo. Lui e Hiyori litigavano sempre. Per tutto e anche piuttosto pesantemente. Rilassò un po’ le spalle, cercando di non innervosirsi.
«Troverò un modo. L’ho sempre fatto.»
«Tsé, lo spero per te» Hiyori guardò Miyo cambiando espressione in modo repentino. «Ti va di andare in giro per negozi?»
Lei annuì.
 
Naoko si fissava le scarpe. Non trovava giusto l’essere stata mandata dal preside, non aveva fatto niente di male. Questo secondo il suo punto di vista. Dare una lezione a Rin era il minimo che potesse fare, ma questo sembrava non capirlo nessuno.
All’improvviso vide la porta dell’ufficio aprirsi.
«Che è successo?» domandò Neliel, la borsa in spalla e il cappotto beige a coprirle il viso. Era bellissima e Naoko sperava di diventare così bella un giorno.
«Non è colpa mia» borbottò, arrossendo. Nnoitra giunse poco dopo, scocciato.
«Naoko Gilga, tu ti cacci sempre nei guai» borbottò, anche se sapeva di peccare d’ipocrisia. Alla sua età aveva fatto molto di peggio.
«No, davvero. Non è colpa mia, è colpa di quell’insopportabile di Rin Ichimaru. È una snob e quindi le sono saltata addosso e le ho dato un pugno.»
Nnoitra si inginocchiò per essere alla sua stessa altezza.
«Davvero? E hai colpito bene?» domandò, mostrandosi all’improvviso interessato.
«Nnoitra!» Neliel gli diede una gomitata. «Naoko, qualsiasi cosa sia successa, la violenza non va mai bene.»
Naoko era indispettita. Possibile che nessuno capisse il suo dramma?
«Lo so, ma non posso farci niente. Quella non sta mai zitta e mi da fastidio!»
«Già, la colpa non è certo di Naoko, deve pur difendersi» disse Nnoitra.
«Nnoitra! Non va bene in questo modo. Tesoro, ne abbiamo già parlato. Se c’è qualche problema, è con noi che devi parlarne.»
La bambina, a braccia conserte, s’imbronciò. Come se fosse cambiato qualcosa. Lei non era violenta, ma davvero non aveva avuto altra scelta.
«Va bene, ma questo vuol dire che stasera non posso uscire con voi? Ci saranno tutti i miei amici»
Dal momento che Nnoitra non ci pensava neanche a punirla (anzi, sembrava soddisfatto dell’intraprendenza di sua figlia), la scelta ricadde tutta su Neliel.
«Puoi venire» sussurrò. «Però picchiare qualcuno non va bene, d’accordo?»
Lei annuì e avrebbe voluto chiedere Mamma, e se qualcuno dice qualcosa di cattivo su chi amo, come faccio?
 
 
I bambini erano a scuola, Ichigo era a lavoro. E Rukia era da sola.
Rukia che aveva sistemato casa, Rukia che era pronta ad accogliere figli e marito quando sarebbero tornati,
Che adesso se ne stava seduta in veranda a leggere, dopo aver fatto un giro di telefonate. Prima da Yuzu, poi da Karin. Aveva chiamato Byakuya, ma non aveva risposto. In compenso però aveva parlato con Renji, che in quanto migliore amico di suo fratello, si preoccupava per tutto.
Sai, la aveva detto, ho parlato con Byakuya. Credo che non dovrebbe stare da solo, sto facendo del mio meglio, ma è inavvicinabile! È come se avesse un muro attorno al cuore.
E lei aveva risposto lo so, hai ragione. Ma deve imparare ad andare avanti, dobbiamo aiutarlo.
Poi finalmente suo fratello l’aveva richiamato.
Cosa fai, cosa fanno i bambini, cosa fa Ichigo?
E poi a che ora stasera?
«Alle otto! Vedrai, sarà una serata piacevole. E poi è divertente perché Ichigo litiga sempre con qualcuno, sapessi che spasso.»
Byakuya sorrideva quando nessuno poteva vederlo, come in quel momento. E poi, dal cuore alle labbra gli uscì spontaneamente quella domanda:
«E tu invece come stai, Rukia?»
Lei non rispose subito. Non era abituata a sentirselo chiedere. Dopotutto lei era Rukia. Moglie del dottor Kurosaki. Madre dei gemelli Kaien e Masato. Nient’altro.
Nient’altro?
«Sto bene» mentì.
Perché il resto non aveva importanza.

Nota dell'autrice
Per chi ha letto la mia raccolta "What about us?" avrà sicuramente riconosciuto Naoko e Kiyoko. In questo secondo capitolo ho introdotto un'altra parte dei personaggi e nel terzo introdurrò i restanti (una faticaccia non da poco, me ne rendo conto, ma mi sono dovuta dividere i capitoli in determianti modi, altrimenti davvero non se ne esce più). Spero che il capitolo vi sia piaciuto.
Nao

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo tre ***



[Ichigo/Rukia by me]

 
 
A suggerire il gioco della bottiglia era stata Yami, lo aveva visto in un programma in TV. Le bambine si erano dimostrare entusiaste, i bambini sembravano più timidi all’idea di dare un bacio, ma Yami era stata categorica: dovevano esserci dei baci. Sapeva che a Kiyoko piaceva molto Kaien e che suo fratello aveva un debole per Ai. Quindi si sentiva in dovere di fare qualcosa. E poi erano seduti sull’erba, con le lanterne e le falene attorno a loro, era l’atmosfera perfetta per un po’ di romanticismo.
«Non mi piace questa cosa e non mi piacciono i baci, non possiamo cambiare gioco?» domandò Kaien annoiato.
«Neanche per sogno. Tocca a te, piuttosto» disse porgendogli la bottiglia.
Kaien sbuffò e si arrese al suo volere. Peccato che Yami non avesse tenuto in conto che non sempre le cose andavano come voleva e la bottiglia scelse Miyo, la quale arrossì.
«I-io?» sussurrò. Kiyoko arrossì a sua volta e affondò il viso sulle ginocchia. Che diamine, era sempre sfortunata.
«Beh?» Kaien si lamentò. «Facciamo questa cosa e basta.»
Dovevano essere un po’ buffi, Miyo era un po’ più alta di lui, ed era agitatissima. Forse perché tutti li guardavano con interesse. Lei e Kaien si guardarono per qualche istante. Lui chiuse gli occhi e la baciò sulle labbra.
«Amh… come sono andato?» chiese poco dopo. Miyo, immobile, per poco non cedette sulle sue gambe.
«Ha ragione Kaien, è stupido» protestò Hikaru.
«Zitto tu! Oramai abbiamo iniziato a giocare, quindi si gioca» disse Yami. «Miyo, vuoi girare tu la bottiglia?»
Ma lei fece intendere chiaramente che non sarebbe stata capace di reggere un altro bacio. E forse era meglio così, perché accanto a lei Kiyoko aveva un’espressione inconsolabile. Invece fu Yuichi a proporsi. E il destino volle che questa volta la bottiglia si fermasse su Masato.
«E-eh?» domandò quest’ultimo. «Io?»
«Loro non possono baciarsi, sono due maschi!» fece notare Kaien.
«E allora? Non c’è niente di male!» borbottò Naoko.
«Sì, ma loro sono solo amici, è troppo strano!»
Yuichi si sistemò nervosamente gli occhiali. Non sapeva perché, ma il suo cuore aveva preso a battere forte e così anche quello di Masato. 
«Non è un problema, credo» mormorò timidamente e ciò stupì non poco Yuichi. Kaien era sconvolto: suo fratello voleva forse baciarlo davvero? 
«A-Aspetta» provò a dire. Yuichi però si era già piazzato davanti a Masato. Lo guardò per qualche istante e poi con far timido si avvicinò. Poggiò piano le labbra sulle sue e tanto bastò ad entrambi per arrossire. Naoko era stupita e sorrideva. 
«Accidenti, che carini» sussurrò. 
Poi i due ragazzini si staccarono. Masato non si era mai chiesto come fosse baciare qualcuno, maschio o femmina. Ma con Yuichi era stato strano. Morbido e leggero. 
«Bene, fatto. Visto? Niente di che.» disse sedendosi. 
Hikaru si portò le ginocchia al petto. 
«Comunque io non intendo baciare Kaien.»
«SCUSA E PERCHÉ DOVRESTI?!» obiettò lui. Yami pensò che fosse una buona idea e così era passata dal cercare di formare delle nuove coppie, al cercare di convincere suo fratello a baciare Kaien Kurosaki. Mentre Ai e Kiyoko avrebbero voluto tirarle qualcosa in testa per fermarla. 
Shinji, che era stato incaricato di controllare i ragazzini, guardò con sospetto Yami che tentava di avvicinare Kaien e Hikaru. 
«Ma che state facendo?» 
«Giochiamo al gioco della bottiglia» rispose Yami. 
«… Voi che cosa?! No, anzi. Non sono sicuro di volerlo sapere. Fa niente, io ero venuto solo a controllare. Miyo, se qualcuno ti da fastidio...»
«Papà, per favore! È tutto a posto!» borbottò sua figlia, rossa in viso. Meglio che non sapesse mai del bacio che Kaien le aveva dato. Shinji e Ichigo si scontravano già abbastanza. 
 
In realtà, a Ichigo bastava bere solo un pochino più del solito per diventare piuttosto disinibito. E in genere Nnoitra e Grimmjow lo seguivano, anche se la colpa era soprattutto di Urahara che continuava a versare loro da bere. 
«Kisuke, ma insomma!» lo aveva rimproverato Yoruichi con una certa vena omicida negli occhi. 
«Che ho fatto? È bello bere in compagnia, e poi non li costringo mica!» aveva risposto tutto allegro, anche lui leggermente brillo. Rukia, guardandosi intorno, si rese conto che mancava qualcuno. Renji era in ritardo, ma sarebbe arrivato con Ikkuka e Yumichika e non c'era da sorprendersi. A preoccuparla erano più che altro Chad e Karin. Seduta accanto a Ichigo, gli diede un colpetto. 
«Hai sentito tua sorella?» 
«Ah? Oh, sta tranquilla, arriverà presto. Magari hanno avuto qualche problema con Kohei, sai com’è.»
Sì, Rukia sapeva bene com’era, per questo era tanto preoccupata. Ma subito dopo la sua attenzione si rivolse a Byakuya. Temeva che suo fratello potesse sentirsi un pesce fuori d’acqua, invece sembrava piuttosto a suo agio. Renji aveva promesso di venire a sua volta, e sicuramente non avrebbe tardato se non fosse stato per Ikkaku. Che a sua volta però dava la colpa a Yumichika.
«Sentite, non guardatemi così. La colpa è del signor nonsomaicosamettermi!» si lamentò.
«Vuoi accusarmi perché ho stile? Accomodati pure!» rispose il suo ragazzo, offeso. Renji, con le mani infilate nelle tasche si era diretto immediatamente verso Byakuya.
D’accordo, si era detto. Comportati con naturalezza. È tanto che non vi vedete, comportati come sempre, sii naturale.
«E-Ehi, Byakuya. Che bello vederti finalmente.»
Quello non era un tono di voce naturale. Certo che per essere grande e grosso si faceva impaurire facilmente. Byakuya fece un cenno con il capo, ma non sorrise. Dopotutto lui non sorrideva mai.
«Renji. Sono davvero felice di vederti» mormorò. E Renji capì che diceva sul serio.
 
Byakuya e Renji erano in mezzo alla gente ma in un mondo tutto loro. Parlavano a bassa voce talmente erano vicini e Renji cercava di nascondere quanto la cosa gli piacesse. Ogni volta che arrivava un pensiero del genere, ecco che lo allontanava. Non poteva permettersi altro, non poteva ambire ad altro se non comportarsi d’amico. Questo poteva bastargli, doveva bastargli.
«Allora, quanto è emozionante la vita in ufficio? Io non credo proprio che ce la farei» disse Renji. «Ho bisogno di mettere mano a motori, auto. Capisci che intendo?»
«Più o meno» rispose Byakuya. Che fossero del tutto diversi era palese anche solo guardandoli. Se Byakuya se ne andava in giro con la sua aria malinconica, elegante e seria, se era preciso e ligio al dovere, Renji viveva alla giornata, aveva un pessimo senso dell’organizzazione e a volte sembrava ancora un ragazzino. Ma si faceva comunque volere bene.
«Amh… insomma, visto che ci siamo incontrati, volevo chiederti…che ne diresti di uscire… noi due?» Renji quasi s’incespicò nelle sue stesse parole e si odiò, ma per fortuna Byakuya non parve badarci.
«Visto che a quanto pare non devo chiudermi in me stesso… suppongo sia una buona idea.»
«Bene! Cioè, bene» si schiarì la voce, dandogli una pacca. «Non preoccuparti, ci penso io a farti divertire.»
Agitarsi era da stupidi, si conoscevano da anni e non sarebbe stata certo la prima volta in cui uscivano da soli.
No, certo che no, ma per Renji fare finta di niente diventava sempre più difficile. E questo non lo aveva messo in conto.
E doveva anche ricordarsi di non fissare Byakuya, questo era sconveniente e inquietante.
«Ahi! Ehi!» esclamò ad un tratto. Rukia gli era finita addosso mentre correva in direzione di Karin.
«Scusami!»
Finalmente Karin e Chad erano arrivati. Con loro Kohei, che se ne stava stretto a sua madre con l’aria spaventata, nonostante fosse un ragazzino alto e robusto per la sua età.
«Meno male, temevo non veniste più!» ansimò Rukia davanti alla cognata.
«Scusaci, sai... com’è… Kohei non ama i posti troppo affollati.»
«Oh, non preoccuparti. Kohei, vuoi raggiungere gli altri?» chiese con dolcezza e il ragazzino distolse lo sguardo, annuendo. Nel frattempo, Ichigo era andato dai suoi figli per far loro un discorso serio, soprattutto a Kaien.
«Vostro cugino è qui, quindi comportatevi bene e coinvolgetelo.»
«Ma papà, Kohei si comporta da pazzo!» protestò Kaien agitando le braccia. «L’ultima volta mi ha lanciato dei sassi.»
«Non voglio sentirti parlare in questo modo, chiaro?» si fece severo all’improvviso. Masato annuì, tirando per il braccio il gemello.
«Non ti preoccupare, ci prendiamo noi cura di lui.»
Masato era il più tranquillo. E quello meno incline alla ribellione e alle discussioni e per questo Ichigo glie n’era grato.
«Bene, così mi piacete» concluse, avvertendo una leggera vertigine a causa dell’alcol. Io… torno di là, eh.»
Kaien sembrava ancora indispettito e si scostò dal fratello.
«Io non so mai come comportarmi con Kohei, ha quella… quella cosa strana…»
Ai sollevò lo sguardo. Non era una che parlava molto, ma quando lo faceva stupiva spesso e volentieri.
«Non è una cosa strana, è l’Asperger. L’ho letto in un libro» disse, arrossendo subito dopo.
«Quello che è!» si lamentò Kaien gesticolando, indietreggiando e andando a sbattere contro Kohei, il cugino della sua età ma grosso di stazza e con quei modi che lui definiva da pazzo. Kohei sembrava sempre un po’ nervoso quando era in mezzo alla gente.
«Ciao» salutò, timido. Naoko, che era la migliore a mettere a suo agio qualcuno, lo afferrò per un braccio.
«Arrivi al momento giusto, vogliamo provare un nuovo gioco.»
 
I bambini erano tranquilli, gli adulti altrettanto. Più o meno. Ichigo stava imprecando contro Grimmjow, come al solito. O in alternativa contro Nnoitra, e Urahara continuava ad annaffiare il tutto con una buona dose di saké.
Rukia sospirò e si poggiò al muro. Alla fine, erano tutti una grande famiglia allargata (molto allargata). Era bellissimo essere tutti lì. Con il buio, le falene e le lanterne. Adorava i suoi amici fuori di testa, amava Ichigo e i suoi bambini.
Ma.
Lei dov’era in tutto ciò? Quando si fermava un secondo a prendere aria, arrivava quel pensiero. Si sentiva come se si fosse persa nel marasma della sua vita di moglie, madre, amica, confidente.
Renji la raggiunse in quel momento, si era allontanato per fumare una sigaretta.
«È fatta» disse. «Tuo fratello ha accettato di uscire con me, era ora! Lo farò divertire, promesso!»
Rukia assottigliò lo sguardo e sorrise mentre pensava: Renji, un giorno dovrai confessare a mio fratello ciò che provi per lui. Ti si legge negli occhi, io lo vedo.
Ma avrebbe taciuto.
«Ne sono contenta, davvero.»
Renji borbottò qualcosa. Chissà se a lei avrebbe potuto confidarlo.
Rukia, avrebbe potuto dirle, sono innamorato di tuo fratello da anni e non ho mai trovato il coraggio di dirglielo. Quando si è sposato ho pensato di metterci una pietra sopra, ma non ci sono mai riuscito. E adesso non so come comportarmi. Rischio di rovinare tutto.
«Rukia, senti…»
«Mh…?»
Dirlo a qualcuno, a lei, avrebbe alleviato il peso che aveva sullo stomaco.
Ma non era quello il momento, non ancora. Lo capì quando vide Ikkaku sbucare da un cespuglio, afferrandolo.
«Dov’eri finito?! Sapevo che l’anello dovevo tenerlo io, brutto deficiente!»
«Rilassati, sta per esploderti una vena!»
Rukia li guardò.
«Anello…?»
«Eh? Ah sì, Ikkaku farà la proposta a Yumichika proprio stasera.»
«VUOI STARE ZITTO?!»
Oh, i matrimoni. E le proposte. Rukia le adorava, ricordava bene quella di Ulquiorra a Orihime, quella di Ishida a Tatsuki, di Chad a Karin… e ovviamente la sua.
«Se smettete di fare casino, vi do una mano» disse all’improvviso.
Era un buon modo per non pensare.
 
Ishida aveva sperato che Tatsuki venisse, quella sera. E forse era stato infantile, non c’era motivo per sperare una cosa del genere. Oramai erano prossimi al divorzio e la consapevolezza lo faceva stare così male da renderlo assente.
«Ah, su, su, piantala con quest’espressione funebre» Nnoitra iniziò a essere un po’ molesto. «Sì, d’accordo, tra te e Tatsuki è finita, e allora? Se io tornassi single…»
«Se tu tornassi single cosa, Nnoitra?»
Non aveva idea da dove venisse la voce di Nel, ma non ci pensava proprio a farla arrabbiare.
«Vabbé, come non detto» si lamentò. Ishida teneva in mano lo stesso bicchiere da tutta la sera, non riusciva a bere, temeva di deprimersi ulteriormente.
«Sarebbe tutto più facile se non l’amassi ancora. E so che anche lei mi ama ancora. Ma non funzioniamo, siamo troppo diversi. Non riusciamo a venirci incontro, ad andare d’accordo. Anzi, quando stavamo insieme veniva fuori la parte peggiore dell’altro.»
Che fossero diversi lo avevano sempre saputo. Ma rendersi conto di essere in qualche modo sbagliati era stato un boccone amaro.
«Tecnicamente non siete ancora divorziati. Credo che dovreste riprovare» tentò Ichigo, che nelle questioni di cuore si sentiva un po’ negato. Ishida bevve dal bicchiere e fece una smorfia.
«Peggioreremmo le cose, ed è già difficile così. Per il bene nostro e quello di Yuichi, più stiamo lontani, meglio è.»
Ma non ci credeva nemmeno lui. Non era meglio per lui. Non era meglio per Yuichi e di sicuro non lo era per Tatsuki. Ma lei era testarda e quando s’imputava su una decisione, era difficile farla tornare indietro.
«Tsk» borbottò Grimmjow, già più che ubriaco. «È in questi momenti che sono felice di non essermi sposato. Niente preoccupazioni, niente di niente e…»
«E sta zitto, cretino, peggiori le cose!» urlò Ichigo dando un calcio alla sedia su cui era seduto e facendolo cadere. E almeno questo per un attimo fece ridere Ishida.
Rukia e Renji tornarono poco dopo con un’espressione sospetta in viso.
«Che avete voi due?» chiese Ichigo.
«Aspetta e vedrai» lo zittì sua moglie. Ikkaku si aggirava nervoso come un bambino, rosso in viso. Yumichika se ne stava seduto a parlare con Karin e non sospettava nulla. Ikkaku tossì, iniziando ad agitare le braccia come un forsennato.
«S-scusate. Prego, mi serve la vostra attenzione.»
A debita distanza Renji si schiaffava una mano sul viso e mormorava cose come “imbecille” e “idiota”.
Quantomeno aveva funzionato e adesso tutti stavano guardando lui. Era strano che all’improvviso tutta la sua energia sembrasse essersi esaurita.
«Sì, allora. Devo fare un annuncio… beh, non è proprio un annuncio» quasi incespicò sulle sue stesse parole. «Yumichika.»
Il suo ragazzo arrossì, non avendo ancora realizzato.
«Sì?»
Ikkaku si infilò una mano in tasca e fece quasi cadere lo scatolino in velluto.
«Merda… giuro che nel mio immaginario era meglio. Oh, ma che importa, io queste cose non le so fare, ma comunque…!» si inginocchiò. Oramai era o la va o la spacca. E tutti avevano capito, anche Yumichika,
«Sì, insomma… vuoi sposarmi?»
Lo aveva borbottato, aveva parlato di fretta, ma anche senza sentirlo oramai era chiaro quale fosse la sua intenzione. Le guance di Yumichika divennero rosse - no anzi, bordeaux – e per qualche attimo sembrò perdere l’uso della parola. Perché non aveva capito nulla quasi fino all’ultimo. E quegli attimi di silenzio quasi causarono uno svenimento a Ikkaku.
«Tu sei un pazzo…» mormorò Yumichika con le lacrime in bilico tra le ciglia. «E… sì. Ovvio che sì. Ti voglio sposare.»
Ikkaku poté tornare a respirare.
«Cazzo, mi hai fatto prendere un colpo» disse mentre gli infilava l’anello e poi si lasciava stritolare in un abbraccio. Orihime iniziò subito ad applaudire e Neliel le andò dietro, già presa dall’entusiasmo che portava un matrimonio. Renji sospirò.
«Finalmente, mi ha stressato una vita per questo momento. Ehi, ma Ishida sta bene?»
Uryu si era scolato un bicchiere di saké e Urahara ridendo gli aveva detto che anche lui spesso si commuoveva durante quegli eventi.
«Meglio non chiedere. Ma Renji, volevi chiedermi qualcosa, prima?» gli chiese Rukia.
Già, chissà cosa avrebbe dovuto dirle? Che un giorno anche lui avrebbe voluto chiedere a Byakuya di sposarlo, che forse guardava fin troppo avanti perché non stavano neanche insieme, lui non sapeva neanche dei suoi sentimenti?
Ma lo sapeva, non era il momento.
«Oh, no. Niente d’importante.»
 
 
 
 
Da tutt’altra parte, Rin Ichimaru faceva una smorfia.
«Ahia, mamma. Piano, fa male…»
Era seduta sul tavolo e Rangiku le stava applicando un cerotto proprio sul naso. Un brutto graffio, niente di che.
«Non è niente, aspetta. Oh, Rin. Certo quella bambina ha sbagliato a colpirti, ma devo supporre che tu non sia del tutto innocente?»
Rin arrossì. Se qualcuno dei suoi compagni di scuola l’avesse vista, non l’avrebbe riconosciuta. A casa Rin cambiava, diventava più dolce, affettuosa, aveva parole gentili per tutti, cosa che non faceva assolutamente fuori, con gli estranei.
«Io potrei aver infastidito Naoko» ammise. Rangiku alzò gli occhi al cielo, tuttavia non l’avrebbe rimproverata troppo duramente. Rin ammirava tanto sua madre, non solo perché era bellissima, ma anche perché era amata da tutti, era amica di tutti e nemica di nessuno. In questo non le somigliava. In questo somigliava molto di più a Gin, che aveva sempre l’aria di chi nascondeva qualcosa e di chi poteva tradirti, anche quando non era vero.
Gin Ichimaru era l’assistente di Sosuke Aizen, quest’ultimo un avvocato che nel corso della sua carriera non aveva mai perso una sola causa. Non c’era nessuno a Karakura che non lo conoscesse.
«Quando torna papà?» domandò Rin mentre osservava Sir Biss, il suo serpente acciambellato nella teca di vetro.
«Non lo so, piccola» rispose Rangiku con un sorriso, mentre beveva un sorso di champagne da una flûte di vetro. La famiglia Ichimaru aveva tutto ciò che chiunque potesse sognato, erano ricchi, una bella casa, addirittura camerieri per servirli. Viaggiavano ogni anno, almeno due volte l’anno, in qualche meta europea. Rin aveva costosissime bambole, anche se preferiva giocare con Toshiro, il migliore amico di sua madre.
Ma nonostante tutto questo benessere, c’era un fondo di malinconia perenne. E di amarezza. A Rangiku non piaceva, ma non si lamentava mai. Dopotutto, perché avrebbe dovuto? C’era chi stava molto peggio.
«Lo aspetto alzata» sussurrò Rin, poggiando il viso sulle mani e guardando Sir Biss.
 
 
Rin era scivolata lentamente dal divano al tappeto, morbido e confortevole. E aveva finito con l’addormentarsi e Rangiku non aveva avuto il coraggio di spostarla. Aveva atteso con pazienza che Gin tornasse.
Quando lo vedeva arrivare, i suoi occhi si illuminavano come se fosse la prima volta. Lo amava in maniera esasperante come lui amava lei e questa era una delle cose che sapeva con certezza.
Gin era silenzioso. Entrava nella penombra e la baciava sulle labbra. Poi aveva sempre un occhio di riguardo per Rin, sempre.
«Ha aspettato che tornassi, ma è crollata addormentata» sussurrò.
«Che dolcezza, la amo. La metto a letto e sono subito da te.»
Gin si chinò e la prese in braccio, Rin si lamentò ma riconoscendolo gli si aggrappò addosso, rassicurata. Rangiku viveva per quei momenti magici, teneri. Ma neanche in quei momenti la sensazione di malessere e malinconia l’abbandonava mai.
Dopo aver messo a letto sua figlia, Gin tornò da lei e la baciò sussurrandole, tentatore, mi sei mancata,
Rangiku cedette, come cedeva sempre, amandolo come se fosse la sua amante, come se fosse la prima volta in cui potevano aversi.
 
 
Erano quasi le dieci quando Sosuke tornò a casa. Anche lui, come il suo assistente Gin, poteva vantare una salda stabilità economica. Era ricco, influente e popolare. Aveva una moglie devota, tranquilla e dolce, Momo. La quale lo attendeva ogni sera, la quale lo adorava e la quale lo vedeva come il marito perfetto. Più o meno.
«Bentornato, Sosuke. È stata una giornata proficua?» domandò accogliendolo sulla porta di casa. Momo Hinamori aveva sempre l’aspetto di una ragazzina nonostante fosse madre, nonostante indossasse begli abiti eleganti e un leggero strato di trucco sul viso.
«Come ogni giorno del resto.»
Sosuke le porgeva la sua ventiquattro ore, poi di solito si concedeva del saké. O del whiskey se voleva qualcosa di diverso.
«Hayato?» domandava poi, comodamente seduto. Hayato era il loro unico figlio. Viziato e e accontentato in tutto e per tutto, da parte sua e da parte di Momo soprattutto, la quale adorava il figlio quanto adorava il marito. Per lei Hayato era un bambino straordinario e non avrebbe mai creduto che con i suoi compagni di scuola fosse prepotente.
«Sta dormendo, è andato a letto presto» Momo gli si sedette accanto, assumendo un’espressione languida. Non era brava a sedurre, in realtà non lo era mai stata e ancora dopo anni di matrimonio si sentiva un po’ goffa. Il tutto era reso più difficoltoso da Sosuke, piuttosto freddo su certe cose. Il sesso si faceva spesso e volentieri alle sue condizioni e quando decideva lui. Capì subito, non appena sua moglie gli posò le labbra sulle proprie, che intenzioni avesse.
«Momo, perdonami. Ma sono davvero esausto» disse allontanando il viso. Quando Sosuke Aizen diceva qualcosa, era difficile andargli contro. Metteva chiunque in soggezione, Momo compresa.
E lei, come ogni volta, sorrideva e incassava il colpo. Aveva sempre mirato ad essere la moglie perfetta e come tale si sarebbe comportata.
«Ma certo, perdonami tu» disse sottovoce.
Momo Hinamori parlava sempre sottovoce. Era questo che doveva fare, sempre.

Nota autrice
I matrimoni omosessuali in Giappone non sono legali, ma per esigenze di trama (e anche perché nel mio mondo ideale e forse utopico problemi del genere non sussistono), facciamo finta di sì.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo quattro ***


 
 

[Ulquiorra/Orihime by me]
Capitolo quattro
 
Per Orihime la giornata iniziava presto. Era la prima a svegliarsi e poi c’erano tante cose da fare: svegliare Kiyoko, portarla a scuola, poi andare ad aprire la pasticceria, dove poteva dare sfogo alla sua creatività. Quando era stressata, Orihime preparava dolci. E ciò accadeva spesso ultimamente. Ulquiorra di solito la osservava, seduto, mentre beveva il tè. La vedeva, indaffarata e sempre piena di energie, con il sorriso sulle labbra, mentre cercava di tenersi impegnata anche quando non c’era nulla da fare. Orihime non voleva pensare e per questo che si buttava a capofitto sul lavoro, sulla casa, su sua figlia. Ma lui, che era abituato ad essere calmo, cauto, riflessivo, pensava troppo per tutti e due.
«Lascio io Kiyoko a scuola» le disse quella mattina, poggiando la mano sulla testa della bambina. «Tu va al lavoro, non preoccuparti.»
«Sicuro?» chiese lei. Di certo Ulquiorra doveva star pensando non voglio che ti stanchi troppo. Ma non si sentiva stanca, si sentiva smaniosa di non pensare.
«Sicuro. Fa pure con calma. Vieni, Kiyoko.»
La bambina salutò con dolcezza la mamma e Orihime ricambiò con un dolce bacio. Se si soffermava a pensare a quanto Kiyoko stesse crescendo in fretta, la malinconia aumentava. Ed era proprio per questo che preferiva non pensare.
 
In auto, come al solito, Kiyoko osservava. Guardava tutto, si stupiva per tutto, ma lo faceva in silenzio e parlava solo con lo sguardo. Ulquiorra aveva sempre detto che in lei rivedeva l’indole da artista o forse era semplicemente una sua speranza.
«Papà, più veloce, altrimenti arrivo tardi e… i miei amici sono già lì.»
«Kaien non avrà nulla da ridire se ritardi un po’» disse con una serietà tale da risultare divertente. Che Kiyoko avesse un debole per quel bambino non era un segreto, anzi, era una dolorosa, strana certezza.
«M-ma che dici!» arrossii lei. «Lui è solo uno dei miei migliori amici. Parliamo d’altro, okay? Sentimi.»
«Ti sento.»
«Mamma sta male?»
Ulquiorra era bravo a non lasciar trapelare nulla dalla sua espressione, ma a volte perfino lui falliva, come in quel momento. E su una cosa non si era sbagliato: Kiyoko osservava tutto, capiva tutto. E questa era una cosa che accumunava tutti i bambini, ma solo pochi adulti erano disposti ad ammetterlo e a comprenderlo. Che Kiyoko avesse scorto la tristezza e la frustrazione negli occhi di Orihime?
«Non è… niente di cui devi preoccuparti» sussurrò e fu grato di non poterla guardare negli occhi. Non era mai stato bravo a mentire.
«Papà, non dirmi le bugie, non si fa.»
«Non sto mentendo. È vero che non è una cosa per cui devi preoccuparti. È una promessa.»
Non era il caso che i bambini si caricassero dei problemi degli adulti. Per quello avrebbero avuto tempo una volta cresciuti. Kiyoko si arrese abbastanza in fretta e non fece più domande, ma Ulquiorra sapeva che il pensiero non l’avrebbe abbandonata, che sarebbe tornata a domandare e allora lui non avrebbe saputo cosa dire o come si sentiva. Quando Kiyoko scese dall’auto, una volta arrivati, lo salutò con lo stesso affetto con cui aveva salutata Orihime, prima.
 
Orihime aveva già aperto la pasticceria. Da un po’ di tempo aveva due nuove dipendenti che l’aiutavano poiché la mole di lavoro era aumentata. Questo, ovviamente, era un bene. A volte capitava che Nel venisse a trovarla quando aveva la mattina libera. La sua migliore amica era una veterinaria innamorata del proprio lavoro e insieme condividevano lo stesso entusiasmo e positività. Come ogni volta, Nel entrava e si poggiava al bancone, prendendo quel biscotto e quel nuovo cupcake che Orihime aveva appena preparato.
«Non ho idea di cosa ci sia dentro, ma questa crema è eccezionale. Ehi, me ne dai qualcuno? Voglio portarli al lavoro, così posso mangiarli più tardi!»
«Va bene, però non esagerare, ti verrà il diabete.»
«Dovrei essere io a preoccuparmi. Sei sicura di dormire abbastanza? Hai due occhiaie che proprio non mi piacciono.»
Orihime si sfiorò il viso. E dire che si era anche truccata quella mattina. Come poterle spiegare che a volte, prima di dormire, aveva certe crisi di pianto impossibili da fermare? E che Ulquiorra non poteva fare altro, se non offrirle il proprio conforto e un abbraccio?
«Io… sto bene, sono solo un po’ giù di corda.»
Neliel si fece seria, attenta.
«Oh, Hime. So che forse non è quello che vuoi sentirti dire… è che mi dispiace tanto.»
«Non è importante, non è colpa di nessuno. È solo che è difficile. Convivere con la consapevolezza che… quello che voglio, non arriva e non so perché. E il resto del mondo non rende le cose più facili.»
Si voltò e cercò un fazzoletto per asciugare gli occhi, prima che le lacrime prendessero il sopravvento. Non era da lei piangere o lamentarsi. Ma sapeva che Nel poteva capire.
«Oh, lo so. La gente parla sempre troppo. Quando fate un altro figlio? Ma che ne sanno, loro? Che ne sanno di te che continui a provarci o del mio aborto spontaneo, prima di avere Naoko? Dovrebbero imparare a collegare il cervello alla bocca.»
«Mi dispiace…» mormorò Hime, voltandosi a guardarla. «Non volevo intristirti con questi discorsi.»
Se Nel aveva avuto quella batosta, la nascita di Naoko le aveva ridato vita nuova. Poi lei e Nnoitra avevano deciso di non averne più, dicevano che la vita era già abbastanza frenetica così. Per lei e Ulquiorra invece era il contrario. Nel caso in cui non fosse riuscita a rimanere incinta, avrebbe avuto la forza di farsene una ragione e andare avanti?
Neliel batté le palpebre. 
«Oh, figurati. È solo per dire che io ti capisco. Ma sono sicura che le cose si aggiusteranno. A volte si trova la felicità in modi inaspettati. Cavolo, questa sì che era una frase saggia.»
Aveva ragione. E poi, Orihime non doveva dimenticarsi che aveva Kiyoko a cui pensare, la sua bambina sempre attenta e sensibile. E Ulquiorra, il marito con lei così premuroso, a dir poco perfetto. 
«Sì, hai ragione» sospirò, riprendendosi. «Intanto posso continuare a provare.»
«Eheh, immagino quanto ci date dentro, voi due!» 
«Ssssh, Nel!» Orihime si sbracciò per cercare di zittirla: stavano iniziando ad arrivare i primi clienti. 
Rangiku era una di loro. Andava d'accordo con tutte le persone che conosceva, con Orihime in particolare si era sempre mostrata molto affettuosa. 
«Buongiorno, mie care ragazze! Oh, ciao Neliel. Non ci siamo viste nei giorni scorsi, ma sappi che mi dispiace per quanto successo tra Rin e Naoko. So che mia figlia è terribile a volte.»
«Sì, beh, Naoko non avrebbe dovuto picchiarla, comunque» rispose Nel, in tono diplomatico. Rangiku era amata quanto invidiata, per la sua bellezza e per il lavoro di architetto, la popolarità e la ricchezza. Nemmeno Neliel e Orihime ne erano del tutto immuni. 
«Già, già, i bambini tendono a litigare spesso» disse allegra. «Orihime cara, puoi darmi delle brioches? Sono sicura che al mio caro Toshiro piaceranno. È sempre scorbutico la mattina, un po' di zucchero lo addolcirà. E poi devo correre a lavoro, ho dei nuovi progetti a cui dedicarmi e le giornate sono piene, piene, piene.»
Aveva una parlantina inarrestabile. Orihime la servì. 
«Desideri altro?» 
«No, grazie. Adesso devo andare, ma dobbiamo proprio vederci uno di questi giorni. Buona giornata!» salutò, uscendo avvolta nel suo perfetto tailleur. 
Neliel sospirò, addentando un’altra ciambella. 
«Accidenti, so che è frivolo da parte mia, ma un po' la invidio. Beh, invidio i suoi soldi e il fatto che abbia la servitù. Di marito preferisco decisamente il mio, Gin mi fa venire i brividi.»
Orihime tremó. 
«Non dirlo a me.»
 
Toshiro Hitsugaya aveva la sfortuna di dimostrare molti meno anni della sua età, non che gli anni che avesse a molto fossero poi molti. Frequentava il penultimo anno di economia, quindi non era proprio un bambino alle prime armi, ma la sua bassa statura e la sua aria da sbarbatello perenne non aiutavano. Soprattutto, Rangiku non lo aiutava con i suoi modi di fare. A volte capitava che lei lo venisse a trovare in università, mettendolo in imbarazzo. Senza contare che odiava, in seguito, dover tenere alla larga tutti gli studenti che con fare viscido gli domandavano chi fosse quella donna e se fosse impegnata. Per fortuna, quando rispondeva loro che era sposata nientemeno che a Ichimaru Gin, essi si retraevano nel loro guscio.
Beh, almeno il nome di quello lì serviva a qualcosa.
«Toshirooo, ti ho portato qualcosa di dolce per iniziare la giornata. So bene che non hai fatto colazione, che è il pasto più importante della giornata!»
«Ma… accidenti, Rangiku, non gridare. E poi, non dovresti essere a lavoro?»
Soprattutto, alle volte sembrava lui l’adulto dei due. Alcuni dei suoi amici scherzavano sempre dicendo che in realtà Toshiro fosse il suo amante, il suo toy-boy o cose del genere, ma niente di tutto ciò era vero.
Erano migliori amici, praticamente fratelli. E Rangiku si comportava da perfetta sorella maggiore, invadente, esagerata e imbarazzante.
«Quante storie, nessuno avrà niente da ridire se ritardo un po’. Allora, mangiamo insieme o no?»
Ma a parte ciò, le voleva un bene impossibile da spiegare a parole. I due andarono a sedersi su una panchina in pietra di fronte la facoltà di economia e subito Rangiku iniziò a fargli domande sui suoi prossimi esami, anche se in realtà non era quello a cui Toshiro era interessato.
«Come sta Rin?»
«Sta bene, ma le manchi! Quanto dovrò pregarti prima che tu venga a vivere da noi? Lo sai che casa nostra è grande, non sarebbe meglio che vivere con altri quattro ragazzi sconosciuti come fai ora?»
«È che non voglio essere un peso, tutto qui. E poi l’idea di convivere con Gin non mi entusiasma troppo.»
Rangiku s’imbronciò. Toshiro era spesso indifferente e distaccato, ma nemmeno quegli anni erano serviti a fargli stare simpatico Gin. Non gli era piaciuto sin dal primo momento in cui l’aveva conosciuto, oramai dieci anni prima.
«E dai, Toshi. Non è carino, lui è mio marito.»
«Lo so, però mi da sempre l’idea che nasconda qualcosa. O forse è solo perché frequenta quell’Aizen. Lui mi piace ancora meno, è inquietante.»
«Aizen è solo un bravo avvocato, tutto qui» Rangiku accartocciò la carta in una pallina e la gettò nel cestino. «Però quanto meno vieni a trovarci. Manchi a Rin. E poi lo sai, lei dice sempre che vuole sposarti.»
Toshiro trattenne a stento un sorriso. D’accordo, si disse. Per Rin avrebbe anche potuto fare quello sforzo e sopportare di avere Gin intorno. Dopotutto era il minimo che poteva fare per Rangiku.
 
Quando arrivava il momento della ricreazione, Ai e Hikaru si appartavano sempre in un angolo del cortile coperto da cespugli. Se anche Miyo fosse stata nella loro stessa classe, avrebbero formato un bel trio, ma chissà dove si trovava in quel momento. A nessuno dei due dispiaceva stare l’uno con l’altro. E a nessuno dei due piacevano i giochi in cui ci si rincorreva o peggio in cui si faceva la lotta. Senza contare il fatto che Hikaru soffriva d’asma e a prescindere non avrebbe potuto fare altro, ma per sua fortuna era un tipo più intellettuale che fisico.
«Hikaru, tu cosa vuoi fare da grande?» chiese Ai, con un libro poggiato in grembo.
«Non lo so. Volevo fare l’astronauta, ma ho l’asma e non so se potrei farlo» si portò una mano tra i capelli chiari, scompigliandoli. «E tu?»
Ai fece spallucce.
«Non lo so, io non sono brava a fare niente.»
«Ma non è vero! Sei un genio. Soprattutto in matematica e in scienze, sei molto più avanti di tutte noi. Magari potresti diventare tipo… tipo una ricercatrice e trovare una cura per le malattie, le malattie quelle proprio brutte.»
Ai sollevò lo sguardo. C’erano tante strade che si potevano prendere, ma non si sentiva abbastanza per nulla. Anche se era ancora una bambina.
«Non lo so, per fortuna ho tanto tempo per pensarci. Però una cosa la so per certo, io non mi sposerò mai.»
«Non…aspetta, perché no?» Hikaru, da che era disteso si mise seduto. «Se lo dici così, la fai sembrare una cosa brutta. Non ti sposi nemmeno se ti innamori veramente tanto?»
Ai arrossì e distolse lo sguardo, perché era totalmente incapace di reggere lo sguardo di chiunque.
«E se poi scopro che ho sbagliato, veramente tanto?»
Hikaru non avrebbe saputo che rispondere. Non dovette farlo, perché sua sorella Yami sbucò dai cespugli, facendoli spaventare.
«E CHE DIAMINE, YAMI!» gridò Hikaru.
«Io lo sapevo che eravate appartati a fare i piccioncini» disse Yami, scatenata e con i capelli in disordine. «Comunque è meglio che venite con me, perché abbiamo un problema.»
 
In altre circostanze sarebbe stato divertente e carino vedere una bimba come Naoko cercare di fare da scudo ad un gigante come Kohei, che era agitata e sull’orlo di un pianto. Kaien l’aveva seguita a ruota, per due motivi: anzitutto nessuno poteva maltrattare suo cugino, nonostante fosse il primo a dire delle cose poco carine su di lui. E secondo, suo padre non gli aveva raccomandato altro: abbi un occhio di riguardo per Kohei. E lui era intenzionato a farlo.
«Hayato Aizen, sei un… scemo!» Naoko aveva stretto i pugni, ma Kiyoko l’afferrò per un braccio.
«Nao, per favore dai. Non ti puoi cacciare di nuovo nei guai!»
A far infervorare Nao, ma anche Kaien e perfino Masato che se ne stava fiero e tremante accanto al gemello. Era stato come al solito quell’insopportabile ragazzino viziato.
«Che ho fatto?» chiese infilandosi le mani nelle tasche. «Dobbiamo giocare e noi quello lì in squadra non lo vogliamo. È troppo grosso e poi non sa giocare.»
«Ti sbagli, lo sa fare eccome!» si agitò Kaien. «Kohei, non piangere. Questo qui non può farti niente, fa finta di essere coraggioso, in realtà ha paura di tutto, ecco.»
Kohei borbottò qualcosa, asciugandosi il viso con una mano. Voleva andare a casa, tutta quella gente e quella situazione lo rendevano nervoso, agitato. Hayato si avvicinò a Kaien.
«Attento, Kurosaki. Forse non posso fare niente a lui, ma a te sì.»
«Kaien, dagli un pugno!» gridò all’improvviso Yami, ansimante e agitata come al solito.
Masato scosse la testa, guardando suo fratello. Aveva l’impressione che non sarebbe stato come quando Naoko aveva tirato Rin per i capelli e in ogni caso non voleva ritrovarsi in mezzo per cercare di difendere suo fratello.
«Perché non ci lasci in pace e basta? Fai tanto il figo, però ci giri sempre attorno, secondo me vuoi solo attirare l’attenzione.»
Kaien si ritrovò a indietreggiare quando Hayato accorciò le distanze. Kiyoko era rimasta immobile per lo spavento.
«Allora in questo siamo uguali» disse stringendo un pugno e sollevandolo. Kaien però fu più veloce: non aveva mai lanciato un pugno a nessuno se non contro dei morbidi cuscini, e nel colpirlo al labbro superiore si fece male alle nocche. Hayato indietreggiò, lamentandosi, e questo diede tempo a Kaien di scappare.
«Accidenti!» imprecò Naoko, tirando a fatica Kohei per un braccio. «Ce ne dobbiamo andare!»
Masato ebbe il tempo di vedere gli altri sparire. Begli amici! E lui, allora?
Non ci pensò molto, ma prese a correre prima che Hayato aizzasse qualcuno dei suoi scagnozzi all’inseguimento. Rientrò a scuola e il primo nascondiglio che gli venne in mente (forse non proprio il migliore), fu il bagno. Si accasciò, senza fiato.
«Kaien è un cretino, perché non mi ascolta mai?»
Una delle porte dei bagni si aprì: Yuichi ne uscì con gli occhi pieni di lacrime e gli occhiali in mano. Ultimamente capitava spesso che Yuichi sparisse e poi riapparisse con gli occhi e il naso arrossato, dando la colpa al polline.
«M-Masato…» gemette. «Ma che… che è successo?»
«Niente, Kaien ha dato un pugno ad Hayato. Ma tu! Perché stai piangendo? Stai male? Qualcuno ti ha fatto qualcosa?»
Yuichi scosse la testa lentamente.
«È per la mia mamma e il mio papà che si stanno lasciando. Non lo sopporto.»
Yuichi di quello non gliene aveva mai parlato. Certo, gliel’aveva accennato, ma per il resto era sempre allegro come se non fosse successo niente. Masato si trovò un po’ in difficoltà. Non sapeva cosa dire, se fosse stato al posto suo si sarebbe sentito malissimo. Però almeno avrebbe avuto Kaien, Yuichi invece era tutto solo. Anche se provava ancora imbarazzo per quel bacio che si erano dati per gioco (che da quella sera lo faceva sentire così strano), il primo istinto fu quello di abbracciarlo. E così fece, proprio come faceva la sua mamma quando era triste o stava male. Yuichi rimase un attimo rigido, ma poi ricambiò l’abbraccio.
«Penso sia brutto quello che ti sta succedendo. Va bene se vuoi piangere, però non farlo da solo.»
«È che… uffa. Non capisco perché sta succedendo. Stavamo bene, tutti e tre. E adesso… adesso è così… Io lo so che si amano ancora, anzi, è sicuro! Ma perché non possono stare insieme e basta? Gli adulti sono complicati, io non voglio diventare così da grande!»
Masato lo strinse più forte. Non voleva che si staccasse perché non voleva che vedesse il rossore sulle sue guance. Gli adulti erano complicati, vero. Ma anche i bambini lo erano, questo però non lo disse.
«Noi saremo delle persone semplici, da grandi, promesso. Per me possiamo anche rimanere qui, non voglio uscire con Hayato che ci cerca. Possiamo anche non parlare, eh.»
Yuichi lo ringraziò sottovoce. Non aveva intenzione di parlare, infatti, piangere abbracciato al suo migliore amico gli bastava.
 
 
Non sarebbe finita lì, Naoko lo sapeva bene. Ma almeno la giornata era finita e per il momento non doveva pensarci. Nnoitra andò a prenderla all’uscita da scuola. Se ne stava sempre con quell’aria scocciata che a lungo andare lo faceva apparire buffo e tenero.
«Papà, eccomiii!» la bambina gli corse incontro, tutta contenta, con le braccia sollevate. «Sulle spalle.»
«Ti sembro forse un mulo, io? Hai due gambe, cammina!»
Nnoitra ci provava sempre a essere duro e severo, ma non ci riusciva. Prima Neliel lo aveva incantato e poi Naoko aveva completato il resto. E ne era completamente consapevole.
«Sono stanca, dai, è stata una giornata dura.»
Lui alzò gli occhi al cielo. Maledetta, piccola, adorabile marmocchia!
«E va bene, ma sai che fra qualche anno una cosa del genere non sarà possibile, vero?» domandò, chinandosi e sapendo di mentire. L’avrebbe portata sulle spalle a otto, dodici, sedici anni e via dicendo. Naoko salì sulle sue spalle, aggrappandosi ai suoi capelli. In quel momento, Rin Ichimaru stava salendo in auto – un’auto lussuosa e dai vetri opachi – e la stava guardando in un modo che fece divenire Naoko seria.
«Ohi, possiamo andare?» chiese Nnoitra.
«Eh? Ah, sì. Lo sai papà, oggi Kaien ha dato un pugno ad Hayato Aizen. Però se l’è meritato, eh.»
«Davvero? Vedo che avete problemi con il ragazzino.»
Naoko si accoccolò a lui, socchiudendo gli occhi. Non aveva certo dimenticato quanto detto da Rin qualche giorno prima.
«Sì… anche se in realtà è quella Rin Ichimaru che non sopporto, lei… dice delle cose che mi fanno arrabbiare… mi chiama sempre in un modo che mi fa così arrabbiare.»
Nnoitra non poteva vederla, ma dal suo tono iniziò a capire qualcosa. I suoi dubbi e le sue paure che prendevano forma all’improvviso.
«Cosa ti ha detto?»
Naoko si strinse ancora di più a lui. Forse non era il caso di dirlo, dopotutto Rin Ichimaru parlava sempre troppo e solo per farla innervosire.
«Mh, no ora che ci penso non è niente d’importante.»
E Nnoitra le credette.
 
Casa loro era sempre un caos. Per Aries, il loro cane Shar Pei che se ne stava accucciato sul divano, per le tavole, i fogli volanti di Nnoitra, per i giocattoli e i libri di scuola di Naoko e i libri di Neliel.
Però, insomma, era casa.
Neliel rientrava spesso più tardi, alla sera prima di cena e con un entusiasmo instancabile si gettava su Nnoitra, lo bracciava e baciava e faceva la stessa cosa con Naoko e Aries. Non necessariamente in quest’ordine.
«Devo fare i compiti, i compiti, i compiti» Naoko batté le mani sul tavolo, sul quaderno aperto. Aries abbaiava e qualcosa bolliva sul fuoco.
«Chiedi a tuo padre» disse Neliel dal bagno, impegnata a togliersi il trucco dal viso.
«Che? Io faccio il mangaka, non il matematico. E poi, a quante cose devo pensare? Tsk, queste femmine in carriera.»
«Papà, si dice DONNE, non FEMMINE» protestò Naoko battendo più forte le mani. «E ho fame. Quando si mangia? Possiamo ordinare una pizza?»
«No. Prima fai i compiti e poi mangerai e non si tratta di una negoziazione!»
Neliel si poggiò allo stipite della porta. Era sempre divertente vedere quei due che si battibeccavano e adoravano, a volte faticava a distinguere chi fosse il bambino tra i due. Una vita incasinata, fatta di corse e disordine e baci e abbracci.
Perfetto.
O quasi.
 
Anche se Nel amava la sua vita tutta corsa, era sempre felice di poggiare la testa sul cuscino. Beh, non si limitava solo a quello in effetti. Quelli erano i momenti suoi e di Nnoitra.
«Sono stanco, ma a cosa serve la matematica poi? Io vivo benissimo senza e per Naoko sarà lo stesso» si lamentò. A Nel faceva ridere, era sempre nervoso, se ne andava in giro borbottando e imprecando contro gli editori che gli mettevano fretta. Alle volte le ricordava una pila elettrica.
«Sei tanto caro…» sussurrò, steso accanto a lui, guardandolo.
«Io mi lamento e mi dici che ti sono caro? Questa poi…»
Portò la mano sul suo fondoschiena e la portò vicino a sé, baciandola. Nel socchiuse gli occhi, quando il telefono poggiato sul telefono iniziò a vibrare. Nnoitra fu più attento di lei.
«Chi è?»
«Aspetta… credo sia qualche mio collega…» ansimò, scostandosi a malincuore per rispondere. Nnoitra era geloso e questa non era una novità, ma era geloso di ogni persona che stesse attorno a Neliel e non era nemmeno bravo a fingere. Anzi, non si disturbava neanche a farlo.
La telefonata non durò neanche tanto ma quando Neliel tornò capì che qualcosa era cambiato nell’aria.
«Ora ti telefonano pure a quest’ora? Chi era?»
«Nnoitra, te l’ho detto, era un mio collega. Per adesso abbiamo un sacco da fare alla clinica, non c’è bisogno di agitarsi tanto, okay?» rispose lei con pazienza. Quello era uno dei lati del suo carattere più spigolosi e difficili. Era sempre stato così da quando si erano messi insieme e Nel pensava che con il passare degli anni quel senso di gelosia si sarebbe affievolito. Ma in realtà aveva l’impressione che stesse accadendo il contrario.
«Non sono agitato» si lamentò. Nel assottigliò lo sguardo e si fece languida, assumendo un atteggiamento quasi felino. Nnoitra smise di parlare e di pensare o almeno avrebbe smesso di pensare per quelle ore. Perché in verità lui pensava sempre e troppo.
 
 
Era da tanto che Byakuya non usciva alla sera. Si era sempre sentito troppo stanco e poco motivato. E forse tra un po’ di tempo avrebbe ringraziato prima Rukia e poi Renji per aver tanto insistito con lui.
Renji era uno che di solito amava fare baldoria, ma essendo Byakuya il suo opposto, erano arrivati a un compromesso: niente discoteche, niente locali da quattro soldi e niente ubriacature.
«Lo so che sei un raffinato, ma mi pare che questo posto vada bene! Servono anche champagne e c’è musica soft in sottofondo. E poi beh, avranno tutti più di quarant’anni. Mi sa che siamo i più giovani, eh?»
In effetti avevano scelto un posto molto tranquillo, con le luci un po’ soffuse e questo dava al tutto un’atmosfera troppo romantica. Non esattamente quello che a Renji serviva.
«Sì, beh. Grazie per non avermi trascinato in mezzo al caos» rispose Byakuya, fissando il suo bicchiere, sembrava particolarmente concentrato sulle bollicine. Renji si schiarì la voce, sentendosi molto stupido. Non era da lui provare imbarazzo, ma d’altronde era passato un pezzo da quando erano usciti da soli.
«A-Allora… Così Rukia si è imposta, eh? Non mi sorprende, lei si preoccupa per tutti, figurarsi per te che sei suo fratello.»
Bella mossa, idiota.
«Già. Ma non dovrebbe, lei ha la sua famiglia a cui pensare.»
«Ehi, ehi. Facciamo parte tutti di un’unica famiglia, alla fine! E poi non rimarrai solo per niente. Voglio dire… nessuno merita di rimanere solo per sempre. No…?»
Aveva paura di starsi addentrando in acque pericolose. Non gli aveva chiesto di uscire per farlo deprimere, ma forse era inevitabile parlare di certe cose.
«Tu pensi che io possa stare con qualcuno?» chiese Byakuya. E non era né retorico né sarcastico.
«M-ma certo! Voglio dire, perché no! So come la pensi, ma magari un giorno potresti… innamorarti. Queste cose capitano.»
Il sakè non era abbastanza per lui, aveva bisogno di qualcosa di più forte, come un mattone sulla testa.
«A te è capitato?»
La domanda di Byakuya gli fece andare il sakè di traverso.
«A me? Oh, beh… sì e no… sai io cerco ancora… la persona giusta.»
Lui in realtà la persona giusta credeva di averla trovato. Solo che questa persona, che ora gli stava seduta di fronte, non lo sapeva ancora.
E chissà come avrebbe reagito Byakuya, se avesse saputo.
«Sono sicuro che la troverai presto. Hai tante buone qualità.»
«Ah, davvero?» Renji era un po’ ringalluzzito da quel complimento, ma tornò subito serio. «Però, a parte gli scherzi. So che sono stati tre anni duri, e di certo non pretendo di essere la cura a tutto il tuo dolore. Hai il diritto di soffrire, ma anche quello di andare avanti. Quindi permettimi di starti accanto. Gli amici fanno questo.»
Mentre diceva ciò la sua mano si era stretta a quella di Byakuya, il quale si era un attimo irrigidito senza però spostarsi.
«Perdonami se ti ho allontanato.»
Renji finalmente si accorse di quel contatto (forse indesiderato?) e si scostò.
«F-figurati, non chiedermi scusa. L’importante è chiarirsi. Su, perché non prendiamo ancora da bere? Ma permettimi di offrire almeno un giro.»
Byakuya non si oppose per quella volta. Anche se la tristezza non l’aveva abbandonato, quella sera si sentiva un po’ meno triste e ciò per lui fu straordinario.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo cinque ***


 
 

[Uryu/Tatsuki by me]
Capitolo cinque

Byakuya e Renji avevano parlato a lungo. Era stato soprattutto a Renji a parlare e Byakuya ad ascoltare, perché loro funzionavano bene anche così.
Renji gli aveva parlato della sua vita solitaria e un po’ all’avventura, dell’idea – malsana – che lui e Ikkaku avevano avuto di aprire un’officina insieme, dei mille mila litigi e poi l’argomento si era spostato sul matrimonio di quest’ultimo.
«Mi vuole come testimone. E mica posso dirgli di no, accidenti» si lamentò.
Forse era venuto meno alla sua promessa e un po’ brillo era, ma Byakuya non sembrava essersene accorto. Avevano camminato a lungo e iniziava a fare un po’ freddo. Byakuya stava bene, ma Renji si era tolto la giacca e tremava nonostante il viso rosso e accaldato.
«Sì, immagino. Sei sicuro che non vuoi entrare da qualche parte? Penso che ti verrà una polmonite, come minimo.»
«Eh? Ah, beh, non mi dispiacerebbe ber-scaldarmi un altro po’, sai?»
Renji oscillava tra la felicità e l’imbarazzo. Uscivano dopo tanto tempo e lui si comportava come un adolescente, cosa che forse un po’ era rimasto. Anche se era un uomo fatto e finito, non sapeva come comportarsi. L’amore era strano, bizzarro. Quello verso il proprio migliore amico, un po’ di più.
 
 
I locali non erano posti per bambini, ma Miyo era stata in più locali di certi adulti. Nonostante non avesse alcun talento per la musica, stava chiedendo a Love di insegnarle a suonare la chitarra e lui non era riuscito a dire no. I Vizard erano una band fortissima, secondo lei, e un giorno sarebbero diventati famosi e apprezzati da tutti. E lei? Lei sicuramente avrebbe assistito ai concerti, erano divertenti anche se non la sua passione. Non quanto leggere libri in biblioteca, almeno.
Il look di Hiyori quella sera era ancora più aggressivo e sexy del solito, alle volte rischiava di rubare tutta la scena a Lisa, la cantante. A differenza del solito però sembrava piuttosto di buon umore, forse perché Shinji era stato di parola ed era riuscito a trovare loro un locale in cui esibirsi. Ma i motivi per discutere nascevano sempre, uno dei più frequenti era il fatto che Shinji amava flirtare con le donne. Non che a Hiyori importasse più di tanto, ma non le andava bene che ciò avvenisse davanti a sua figlia e sul luogo di lavoro.
«IDIOTA DI UNO SHINJI!» gridò. Il diretto interessato stava flirtando con una ragazzina in modo spudorato.
«Eh…? Che c’è, che ho fatto?»
«Ti sembrano cose da fare, brutto cretino? Davanti a nostra figlia poi, ma non ti vergogni? E ci provi anche con una ragazzina, vecchio pervertito!»
«Ma…ma…»  Shinji guardò la ragazza che si allontanava, indispettito. «Compio trent’anni l’anno prossimo, chi è vecchio? E poi non screditarmi davanti a Miyo.»
«Non ce n’è bisogno, lo fai già da solo, imbecille!» Hiyori si tolse la scarpa, uno stivale borchiato, con l’idea di lanciarglielo addosso. Mashiro, la bassista, si alzò all’improvviso.
«Oh, guardate, ci sono Renji e Byakuya, ciao ciao!»
Renji sembrava allegro e andò ad abbracciare Shinji, con un po’ troppa foga.
«Shinjiiii, ma che bello vederti.»
«Ahia! Cretino, mi fai male! Ma che gli è preso, è ubriaco?»
«Temo di sì» sospirò Byakuya. «Non ricordavo reggesse così poco l’alcol. Forse è meglio se ci sediamo, attiriamo troppo l’attenzione.»
Shinji si scostò dall’abbraccio deprimente di Renji, si lisciò la camicia e si rivolse alla band.
«Okay, voi iniziate tra poco. Io prendo Miyo e… dov’è Miyo?» c’era una nota di panico nella sua voce.  Miyo non era una bambina così piccola da perdersi in un posto come quello, ma era comunque una bambina in un locale pieno di adulti e oltre la sua ansia doveva gestire anche l’incazzatura di Hiyori.
«Non la trovi?!» s’infervorò Hiyori.
«N-non… non preoccuparti, okay? Pensa a suonare, io la cerco. Ciao, ciao!»
Shinji filò via prima di beccarsi qualche insulto (o una scarpa in faccia).
Diamine, e dire che era sempre attento e apprensivo, e si era lasciata scappare Miyo.
Ma Miyo in realtà non era scappata, aveva solo sete e non aveva avuto intenzione di disturbare nessuno. Certo, per molti era strano vedere quella ragazzina bionda seduta su uno sgabello a bere un’aranciata. Quando poi si era alzata, si rese conto di aver perso il senso dell’orientamento: non era un locale di grandi dimensioni, ma la band aveva iniziato a suonare e si era formata una calca.
Così decise di infilarsi tra la folla, ma quando qualcuno la spinse e si ritrovò per terrà, capì che forse avrebbe fatto prima a camminare carponi tra le gambe di quegli sconosciuti.
«Ah, aaah, che schifo, che schifo, che brutta idea! Ah, ma è un chewing-gum masticato, che schifo!» piagnucolò cercando di pulirsi la mano. Poi per poco qualcuno non la cadde addosso, ma uno sconosciuto salvatore accorse in suo aiuto.
«Oh, ma tu guarda. Questo è pericoloso.»
Una mano si strinse attorno al suo polso con delicatezza e l’aiutò ad alzarsi. Era stato un uomo, sembrava gentile, ma la faceva anche sentire a disagio. Era elegante, sembrava importante.
«Cosa ci farà mai una bambina della tua età in un posto come questo da sola?»
«Io… io non sono da sola» rispose lei, arrossendo. «Mi sono allontanata un attimo e stavo cercando di tornare indietro. Ma sono troppo bassa, qui mi spingono tutti!»
«Ah, è così eh? Allora forse è meglio se ti do una mano, aggirarti da sola qui dentro può essere pericoloso.»
 
«Oh, ma dov’è finita?» si lamentò Shinji, nervoso. Si era già figurato i peggiori scenari e Dio solo sapeva quanto sarebbe stato disposto a fare a botte se avesse visto qualcosa che non voleva vedere. Quando poi vide la bambina sbucare dalla folla, sospirò sollevato.
«Miyo.»
«Non ti arrabbiare, mi sono persa! Devo subito lavarmi le mani, accompagnami in bagno!» disse lei tutta agitata. «Ah. E grazie, signore.»
Shinji sollevò lo sguardo. A qualche metro da loro Sosuke Aizen lo guardava, divertito.
Sentì una sensazione di acido allo stomaco e, mentre lo fissava, stringeva Miyo a sé, protettivo.
«Sì, Miyo. Ti accompagno, ma non allontanarti più.»
Aizen non provò a parlargli, fece solo un cenno a Miyo. Ma ciò era bastato per stravolgere lo stato d’animo di Shinji.
«Papà, ma stai bene? Non sei arrabbiato perché mi sono allontanata, vero?» sussurrò Miyo, intontita da tutte quelle luci. Lui strinse il suo polso, poi allentò la presa. Doveva fare finta di niente. Con tutti e con lei soprattutto. Perché non poteva essere l’errore di una vita a condizionare tutto.
«No, non sono arrabbiato. Però… non parlare con gli sconosciuti, è pericoloso. Okay?»
Miyo non rispose, si guardò un attimo indietro e si accorse che l’uomo che l’aveva aiutata era sparito. Anche Shinji se n’era accorto e di questo ne fu grato: era quasi stato sull’orlo di una crisi di panico.
 
Ai era sempre stata silenziosa. Dolce e gentile, e non si lamentava mai, nemmeno quando avrebbe avuto motivo. Si diceva sempre fai la brava e andrà tutto bene e i bravi bambini non si lamentano.
Quando la sua mamma rientrava da lavoro, anche se era stanca non le faceva mai mancare un abbraccio, una carezza, una parola affettuosa.
«Mamma, sapessi cosa è successo oggi» era tutta agitata. «Kaien ha dato un pugno ad Hayato e quindi poi siamo scappati tutti. Non so neanche come ci sono finita in mezzo, ma è stato incredibile! Com’è che si chiama? Ah sì, l’adrenalina?»
Nemu sorrise. Quella bambina era pura gioia. E amore.
Dopotutto si chiamava Ai per un motivo.
«Tsk, che giornataccia, darò le dimissioni un giorno di questi» Mayuri entrò gettando le chiavi in un angolo e Ai si fece seria.
«È nervoso papà?» chiese. Nemu fece spallucce, rassegnata.
«Come sempre. Senti, perché non ti cambi e poi torni giù, okay?»
Ai annuì e corse in camera sua a infilare qualcosa di più comodo. Nemu allora si rivolse a suo marito, si fece vicina e attenta, come sempre misurando le parole e i gesti (e in questo Ai aveva preso da lei).
«So che sei stanco, ma per ora sei stato poco a caso e…»
«E cosa? Ti ricordo che anche tu sei stata poco qui» rispose lui, sfuggendo al suo tentativo di dargli una carezza. Nemu si schiarì la voce.
«Comunque, non so se te l’avevo detto, ma siamo invitati ad un matrimonio.»
Ai ricomparve con indosso il suo pigiama, sorridendo.
«Io adoro i matrimoni! Cioè, io non mi sposo, però i matrimoni sono carini, posso indossare un bel vestito» disse avvicinandosi e dondolandosi con fare timido. «Il vostro matrimonio è stato bello?»
Mayuri guardò la bambina, che gli somigliava, anche se non abbastanza.
«È stato… normale!» tagliò corto. «Hai fatto i compiti? Ti sei comportata bene o c’è qualcosa che dovrei sapere?»
Ai scosse la testa, dritta come un soldatino.
«S-sì, ho fatto tutto. Amh, mi leggi un libro?» chiese battendo le ciglia.
«Sai leggere da sola, no?» domandò, severo e Ai rimase talmente male da non riuscire a dire nulla. Ma se si era comportata bene, se aveva fatto la brava bambina (come faceva sempre), perché veniva trattata in questo modo?
«Ai, ti leggerò io un libro prima di dormire, d’accordo?» la tranquillizzò sua madre.
La bambina annuì e subito dopo corse in camera sua da JinJin, il suo criceto e lo prese tra le mani, accarezzandolo. Ai non piangeva mai. Nessuno in casa sua piangeva mai, ma aveva l’impressione che sua madre a volte lo facesse di nascosto.
Nemu sospirò, sedendosi accanto a Mayuri.
«Sei troppo duro con lei. Ai è una bambina, non puoi rivolgerti a lei come se fosse un’adulta.»
«Non è poi così piccola. Hai qualcosa da ridire su come mi comporto? Mi pare che i nostri compromessi li abbiamo già fatti» rispose lui, sfilandosi nervosamente il camice. Nemu lo guardò, pensierosa e cercò di fare mente locale, di ricordare quando le cose erano diventate così strane, tristi e fredde. Era vero che il loro era stato un matrimonio nella norma e, a dispetto di quello che tutti pensavano, era stato un matrimonio d’amore, anche se lei era giovanissima, anche se tra lei e lui c’erano dodici anni di differenza, anche se erano così diversi, che più di versi non si poteva.
«Mi ami, Mayuri?» gli domandò. Non erano mai state di quelle coppie che si dicevano ti amo ogni tre per due, e il loro era un amore che veniva fuori soprattutto quando erano da soli. Lei era troppo timida, lui troppo orgoglioso. E secondo lei nessuno dei due era troppo bravo come genitore.
«E questa domanda all’improvviso? Siamo sposati, la risposta mi pare ovvia» rispose Mayuri, velocemente, come faceva sempre. Non si capiva mai se fosse in imbarazzo o seccato o entrambe le cose. «Comunque, lascia stare. Ci penso io ad Ai. I bambini troppo soli crescono pieni di complessi.»
Nemu annuì e chiuse gli occhi. No, decisamente nessuno dei due era bravo con Ai. Mayuri pretendeva troppo, la perfezione, che Ai fosse come voleva lui, anche se era solo una bambina. E lei non sapeva imporsi, forse arrabbiarsi. O forse tutti e due avevano un modo di vivere l’amore che era stano. O sbagliato. Se solo avesse avuto qualcuno con cui…
No, qualcuno con cui parlare c’era eccome. Ma lei non era abituata a lamentarsi e quando piangeva lo faceva solo di nascosto.
 
Yoruichi Shihoin era un insegnante di liceo ed era anche piuttosto amata dai suoi alunni, anche da quelli ritenuti difficili. Gli adolescenti le piacevano anche più dei bambini, trovava l’adolescenza un periodo importante e interessante, per quanto complicato. E lei piaceva ai ragazzi. Molte ragazze la stimavano e altrettanti ragazzi si prendevano una cotta per lei. Beh, non solo i ragazzi a dire il vero. Yoruichi l’aveva sempre trovata una cosa carina e non ci aveva mai badato più di tanto, dopotutto era una donna adulta, oltre che sposata e madre di due gemelli che richiedevano le sue attenzioni. Sua figlia in particolare le somigliava fin troppo con quel carattere fumantino che le portava a scontrarsi.
«Yami, per favore. Devi fare il bagno e io ho una pila di temi da correggere» sospirò Yoruichi poggiata allo stipite della porta. Sua figlia aveva ben pensato di rubarle i trucchi e impiastricciarsi il viso.
«Questo rossetto sta bene con il mio colorito» si pavoneggiò allo specchio. «Vediamo se posso mettere il mascara.»
«Niente mascara, posa i miei trucchi e va a fare il bagno. Collabora un po’ e se non ti trovo tutta pulita fra venti minuti, potrei non essere tanto gentile!»
Hikaru invece stava facendo i compiti. Lui era più tranquillo e Yoruichi spesso si domandava da chi avesse preso. Era molto maturo per la sua età.
«Ma che bravo, stai già studiando da sola! Chissà se riesci a influenzare positivamente anche tua sorella» Yoruichi si sedette di fronte a lui con un sospiro. «Caro, mi passi quella pila di fogli?»
Hikaru annuì e, nel prendere quei fogli, qualcosa scivolò sul tavolo: sembrava un bigliettino. C’erano dei cuori ed era firmato Soi-Fon.
«Mamma, ma chi è Soi-Fon?»
Lei arrossì e prese in mano il foglietto.
«Oh, è una mia allieva. Molto promettente, Soi-Fon. Ma credo abbia una cotta per me, succede spesso a dire il vero.»
A quel punto fu Hikaru ad arrossire e nascose il viso dietro il suo libro.
«Ma mamma, lei lo sa che sei sposata con papà, vero?»
«Certo che sì. Ma non devi preoccuparti, queste cose capitano a quell’età, succederà anche a te. Se non ti è già successo.»
Accidenti. Non solo sua sorella, ora anche la sua mamma infieriva.
«No, io non sono innamorato di Ai» borbottò. Yoruichi inarcò le sopracciglia.
«Non ho mai parlato di Ai. Oh, non fare quella faccia, è una cosa bella volere bene a qualcuno, no?»
«Credo di sì» disse Hikaru grattandosi la testa. «Va bene, sì. Le voglio molto bene e poi lei sa un sacco di cose. Le bambine non mi interessano molto, ma lei è diversa, non so perché.»
Oh, la dolce innocenza dei bambini! Yoruichi era convinta che anche i bambini potessero innamorarsi, anche se in modo molto diverso da come facevano gli adulti.
«Tutti hanno la propria persona speciale. Ma non diciamolo a tuo padre, lui tende a entusiasmarsi troppo e molesta già troppo il dottor Kurotsuchi.»
Hikaru fu d’accordo.
E a proposito di Kisuke, quella sera tornò ad un orario decente. Yami, con i capelli ancora bagnati (ma almeno aveva ubbidito a sua madre) gli era saltato in braccio.
«Ma tu guarda che bell’accoglienza, le mie ragazze preferite, il mio ragazzo preferito, questa sì che è vita» Kisuke prese in braccio Hikaru, a tradimento, facendolo a ridere. Anche a Yoruichi era venuto da ridere, perché suo marito aveva sempre voglia di scherzare, alle volte le sembrava di avere tre bambini, ma lo diceva con accezione positiva.
«Su, su, Kisuke, metti giù i ragazzi, tra poco si mangia.»
 
Yoruichi ricordava bene quando aveva scoperto di essere incinta, non si poteva dire che l’avesse presa benissimo. Kisuke invece era stato quello sin da subito felice ed entusiasta, felicità che era raddoppiata quando aveva scoperto che avrebbero avuto due gemelli. Per Yoruichi la cosa era stata più graduale, prima di accettarlo era dovuta passare per un’acuta fase di shock. Averne due non era come averne uno. Ma nonostante le sue remore, dubbi e paure, alla fine era andata bene. Yami e Hikaru avevano reso più bella la sua vita, anche quella di coppia. Kisuke – neanche a dirlo – era un padre esemplare. Sempre presente anche quando non c’era fisicamente, sempre con un po’ di tempo da dedicare ai suoi figli, nonostante il suo lavoro che lo teneva così impegnato. Quella sera fu lui a mettere a letto i bambini e poi a raggiungere sua moglie a letto. Loro parlavano molto e di tutto, del lavoro, di quello che avevano fatto durante la giornata di solito. Kisuke sapeva che sua moglie era molto popolare tra gli studenti, ma non era mai stato un tipo geloso. Non c’era motivo e poi Yoruichi era bellissima, era normale che affascinasse i suoi allievi.
«Così hai una ragazza che è una tua fan, eh? Nessuno può sfuggire al tuo fascino, è evidente.»
«Oh, Kisuke, dacci un taglio» sussurrò lei, con il viso poggiato al suo petto. «Scommetto che anche tu hai un sacco di pazienti che s’innamorano di te.»
«Assolutamente sì, sono il primario del St. Luke dopotutto, ho un certo fascino. Ma non devi essere gelosa, mia adorata Yoruichi, lo sai che ho occhi solo per te.»
Yoruichi si tirò su per dirgli che non era affatto gelosa, sciocchezze, ma lui la baciò, impedendole di parlare.
E poi c’era anche la vita sessuale. Forse nessuno avrebbe mai immaginato che tra loro le cose non andassero benissimo, da quel punto di vista.
«Mh, Kisuke…» ansimò. «Io vorrei tanto, ma… e se poi non riusciamo? Insomma, è frustrante.»
Yoruichi odiava quella sensazione. Ogni qualvolta che provavano a stare in intimità, al momento di arrivare al dunque, c’era sempre qualcosa che lo impediva loro, come se ci fosse un blocco, che forse era da parte di entrambi. E ciò andava avanti già da qualche mese.
«Oh, non dobbiamo certo farlo per forza. Rilassati, okay? Posso farti un massaggio.»
Yoruichi accettò volentieri. Era un periodo sì stimolante, ma per certi versi stressante per entrambi, anche se Kisuke non si lamentava mai. E anche se non si lamentava mai, era chiaro che quella situazione pesasse anche a lui. Ed era normale, non avevano mai avuto problemi dal punto di vista sessuale, anzi. Ora però le cose erano cambiate ed entrambi preferivano pensare che fosse solo un periodo.
Perché era solo un periodo, giusto?
 
Kaien non era potuto sfuggire alla ramanzina da parte dei suoi. Da parte di suo padre in particolare.
«Kaien Kurosaki, tu sei in un mare di guai. Ma come ti salta in mente di prendere a pugni un tuo compagno di classe?»
«Tanto per cominciare, Hayato non è un mio compagno di classe!» il bambino correva intorno al tavolo, cercando di sfuggire alla sua ira. «E poi, non sei sempre tu a dirmi che devo avere un occhio di riguardo per Kohei? Beh, è quello che ho fatto, quello lì faceva il prepotente!»
«Ichigo e Kaien, smettetela di correre intorno al tavolo!» Rukia era al telefono con Karin e stava parlando con lei del medesimo argomento. Solo Masato non prendeva parte alla discussione, impegnato per com’era a pensare a un modo per tirare su Yuichi. Purtroppo non c’era molto che poteva fare, a livello pratico.
«Sì, ma non intendevo prenderlo a pugni!» Ichigo non avrebbe potuto dire che in realtà lo capiva bene, lui non aveva in simpatia Sosuke Aizen e non si sorprendeva che suo figlio avesse reagito così con quel ragazzino. «Dovevi parlarne con un adulto.»
«Tanto non serve a niente, e comunque se l’è meritato» borbottò portandosi le mani dietro la testa. «Tu avresti fatto lo stesso!»
Quel ragazzino insolente! Non che avesse torto, ma diamine, era lui il genitore, lui doveva dare il buon esempio.
«Niente più scazzottate, non è questo il modo di risolvere le cose. Devo chiedere a tuo fratello di controllarti? E-ehi, ma dov’è andato Masato?» domandò guardandosi intorno.
Kaien era annoiato.
«Umh. Lui se ne sta sempre con Yuichi come una coppietta sdolcinata, bleah.»
Rukia tornò in cucina dopo aver concluso la sua telefonata a Karin.
«Va bene, basta con questa baldoria. Chad e Karin risolveranno la cosa, purtroppo non è la prima volta che succede.»
Kaien commentò dicendo che avrebbe potuto prenderli tutti a pugni, ma Ichigo lo spedì in camera sua a dormire.
«Quel ragazzino ha la lingua biforcuta e il pugno facile, mi farà diventare pazzo» borbottò Ichigo. Rukia sorrise, ma quel sorriso si spense in fretta, con il viso poggiata alla spalla di suo marito. Poteva giurarlo, ci stava provando in tutti i modi a non andarsene in giro con quell’aria malinconica, ma più ci pensava e più era difficile.
«Ehi, Rukia. Che c’è? E non dirmi niente, sono giorni che te ne vai in giro con quell’aria pensierosa.»
A Ichigo non sfuggiva niente. Ma avrebbe capito il suo problema? A volte non lo capiva nemmeno lei. Sollevò la testa e lo guardò, facendogli una sola domanda.
«Ichigo, io chi sono?»
«E-eh? È una domanda a trabocchetto? Sei Rukia. Mia moglie e la madre dei miei figli.»
«Sì, appunto! E che altro?»
Ichigo la guardò, confuso. Non sarebbe mai arrivato a capire cosa volesse dire, perché semplicemente non ci aveva mai pensato.
«Va bene, d’accordo» disse Rukia paziente. «Guarda. Ci sono io e ci siete voi. E tutta la mia vita ruota intorno a voi. E non fraintendere, io adoro prendermi cura della nostra famiglia, amo i nostri figli, però… io non lo so. Mi chiedo se c’è altro che posso fare. Intendo qualcosa per me, che possa farmi sentire realizzata in altri modi. Non lo so, forse è un discorso senza senso?»
Adesso che Rukia glielo aveva spiegato, Ichigo si domandava com’è che non ci avesse mai pensato. Rukia c’era sempre stata per la famiglia e raramente l’aveva vista fare qualcosa per sé. Non si era nemmeno mai posto il problema, forse aveva dato alcune cose per scontato.
«Io… no, non credo sia senza senso. C’è… qualcosa che vorresti, in particolare?»
E Rukia si rese conto che quella domanda l’aveva aspettata da tanto tempo.
«Sì, Ichigo. Mi piacerebbe tornare a studiare perché voglio diventare un’assistente sociale.»
 
Karin Kurosaki aveva appena finito di parlare al telefono quando lanciò uno sguardo preoccupato a suo figlio. Kohei viveva nel suo mondo, ma cercava di entrare in punta dei piedi in quello dei suoi coetanei senza però riuscirci. Aveva un grande amore per gli animali e in particolare per Pixie, il pappagallino azzurro e bianco che ora stava appollaiato sulla sua spalla. Inseparabili, in pratica.
«Non va bene così» sospirò Karin. «Insomma, dov’erano gli insegnanti? Potevano fargli male, oserei dire per fortuna ci ha pensato Kaien, anche se non spettava certo a lui e non così.»
Yasutora Sado – ma anche detto Chad da tutti, oramai anche da sua moglie – annuì. Era sempre tranquillo, spesso silenzioso, ma pensava e pensava molto.
«Kohei è ancora un bambino, ma so che troverà il suo posto in questo mondo» si limitò a dire.
«Sì, ma sappiamo bene quanto questo mondo possa essere crudele con… con i bambini come lui» sussurrò Karin.
Kohei sembrava non ascoltarli. Se ne stava lì, con Pixie su una spalla, ogni tanto gli dava una carezza, ogni tanto si grattava la testa di fronte ad un paragrafo che parlava delle aquile. Aveva una grande passione soprattutto per i volatili. Chissà, forse un giorno sarebbe diventato uno studioso nel campo.
La diagnosi dell’Asperger era arrivata quando Kohei aveva due anni e inizialmente né lei né Chad avevano saputo bene come reagire perché di tale condizione conoscevano ben poco. E poi si erano informati, poi era stata una lotta ogni giorno e continuava ad essere una lotta. Dopo tutti quegli anni, Karin poteva dire con certezza che sapeva che suo figlio sarebbe potuto riuscire in qualsiasi cosa avesse voluto, non era quello a terrorizzarla.
A farle paura era il modo in cui uno come Kohei sarebbe stato accolto. C’erano tante persone che capivano, ma altre no.
«Non fartene un cruccio» disse Chad. «Sarebbe potuto succedere a prescindere.»
«Io ti dico di no, invece. Comunque, non voglio che ricapitino situazioni così spiacevoli» dicendo ciò guardò poi suo figlio. «Kohei, possiamo parlare?»
Quel ragazzino non parlava molto in pubblico, ma con le persone con cui si sentiva a suo agio non smetteva un attimo di parlare.
«Se è per quello che è successo oggi non mi interessa, io neanche volevo giocarci con quelli, Però Kaien ha fatto bene a colpirlo.»
Eccome se parlava, aveva anche la lingua biforcuta proprio come il suo degno cugino.
«Partiamo bene» Karin alzò gli occhi al cielo. «Quel ragazzino ti ha già importunato altre volte, vero?»
Lui fece spallucce.
«Quello importuna chiunque» disse, spazientito. «Ora devo finire di leggere questo paragrafo interessante sulle aquile.»
«Ma Kohei!»
«Le aquile, mamma. Un giorno le studierò da vicino.»
Lingua biforcuta ed era anche testardo. Questo fece ridere Chad.
«Beh, l’hai sentito. Le aquile sono più importanti di te.»
Karin arrossì, imbronciandosi. Alle volte aveva l’impressione che solo lei prendesse la situazione sul serio, perfino suo marito aveva l’ardire di prenderla in giro. O forse era solo un modo per affrontare i momenti più difficili o di tensione. Perché ogni giorno non era mai uguale all’altro e perché c’era sempre qualcosa da imparare, nel bene e nel male.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo sei ***


 
 

[Kisuke/Yoruichi by me]

Capitolo sei

Quando si era svegliato (di soprassalto) Renji aveva avuto l’impressione di aver dormito per ore. Si rese conto di avere una forte emicrania e la mente annebbiata: ricordava poco e niente della sera prima, a parte il fatto che Byakuya lo aveva accompagnato a casa. Poi più nulla e ciò lo aveva mandato in panico. Aveva rovinato tutto, ne era certo.
Doveva togliersi dalla testa quel maledetto senso di inferiorità e comportarsi come l’adulto qual era (anche se il pensiero di aver detto o fatto qualcosa di inopportuno lo terrorizzava.)
Così per prima cosa chiamò Byakuya, che doveva sicuramente essere a lavoro (ma sì, disturbiamolo anche a che ci siamo, si era detto).
Ma con sua grande sorpresa, lui gli aveva risposto quasi subito.
«Pronto?»
«Ah! Byakuya, non pensavo mi rispondesti. Io, amh…oh…» fu colto da una forte emicrania. «Ti prego, dimmi soltanto che ieri sera non ho detto o fatto cose strane.»
«No, avevi soltanto qualche problema a camminare, per questo ti ho accompagnato, volevo assicurarmi che non ti buttassi sotto un’auto.»
Renji arrossì. Complimenti a lui e alla sua immaturità.
«Ah, mi spiace. Avevamo promesso niente ubriacature.»
«Oh, non importa. In realtà mi sono anche divertito, sì. Immagino… potremmo rifarlo, ogni tanto.»
Renji si mise seduto, come se avesse avuto un’illuminazione. Allora non era stato un totale disastro, se Byakuya voleva di nuovo uscire con lui.
«Oh. Oh, fortissimo, allora. Ah, a volte mi lascio andare come un ragazzino e… scusa, ma tu non sei a lavoro? O hai trasgredito alle regole per rispondermi, eh?»
Byakuya sospirò, chiudendo gli occhi.
«Sono chiuso in bagno, non c’è nessuna regola che vieta di usare il telefono qui.»
 
Rukia e Ichigo ci avevano dormito su sulla questione “voglio tornare a studiare per diventare un’assistente sociale” e quella mattina, prima che i bambini si svegliassero, erano entrambi silenziosi. Ogni volta che Rukia chiedeva qualcosa per sé stessa (il che succedeva molto di rado), si sentiva un po’ egoista. E Ichigo, dal canto suo, che vantava di accorgersi sempre di tutto, si era sentito un idiota per non aver mai pensato ad una cosa del genere. Anche lui si sentiva in colpa, era sempre stato concentrato sulla sua carriera, perché Rukia non avrebbe dovuto realizzarsi anche lavorativamente?
«Umh, amh» si schiarì la voce, afferrava i chicchi di riso dalla ciotola senza mai portarli alla bocca. «Senti Rukia, riguardo ciò che mi hai detto ieri sera… io credo che tu dovresti farlo.»
Rukia rimase con le bacchette sospese a mezz’aria. Aveva creduto che sarebbe passato un po’ più di tempo.
«Tu dici? E come si fa con i bambini? Tu lavori già tantissimo, non voglio che rimangano soli troppo a lungo.»
«È una delle cose a cui ho pensato questa notte. Potremmo chiedere a mio padre di venire qui… intendo, amh, a vivere con noi» borbottò. «Me lo sento già esultare per la felicità e, anche se averlo sempre in giro sarà fastidioso, penso si possa fare. E poi Kaien e Masato lo adorano e… Rukia?»
Sua moglie era rimasta ad ascoltarlo e fissarlo con gli occhi lucidi. Si sentì stupida: perché aveva temuto che Ichigo non fosse d’accordo?
«S-Sì, ti ascolto. Io penso… che potrebbe essere una buona idea. Certo, ci vorrà del tempo, non so se posso ancora iscrivermi, ma… ma… oh, Ichigo. Non sai quanto significa il tuo sostegno per me.»
Ichigo sospirò, si alzò e le poggiò una mano sulla testa, come fosse una bambina.
«Che sciocca che sei. Mi pare scontato, noi siamo sposati e insomma, che razza di marito – anzi, che razza di persona – sarei se ti remassi contro? Tu mi sei sempre stata accanto durante tutti questi anni, anche quando pensavo di voler mollare.»
Rukia arrossì e, anche se aveva gli occhi lucidi, stava sorridendo. Per quanto amasse la sua vita, forse poteva avere quel qualcosa in grado di renderla ancora più perfetta.
«Oh, Ichigo.»
«Ah! Faccio tardi a lavoro. Ti chiamo più tardi, ciao!»
Le diede un bacio al volo e Rukia rimase lì, con gli occhi sgranati e le labbra protese. Oh, stupido Ichigo e stupida lei per essersi fatta tante paranoie!
 
Ishida era irritante con quella sua puntualità perfetta, ma Ichigo non avrebbe inferito. Il suo migliore amico era fin troppo giù di corda, piuttosto avrebbe fatto meglio a trovare un modo per tirargli su il morale.
«Buongiorno, Kurosaki» lo salutò venendogli incontro, seguito da un ragazzino. «Questo è Hanataro Yamada, è nuovo.»
«Ah, un novellino eh? Poveraccio, quanto mi dispiace» Ichigo si lasciò sfuggire quella frase prima di rendersi conto che quel ragazzino fosse già impaurito di suo e probabilmente tachicardico e prossimo allo svenimento.
«D-Davvero? Oh, lo sapevo! Mi avevano detto che il dottor Kurotsuchi sa essere cattivissimo.»
«Per l’amor del cielo» Ishida diede una gomitata a Ichigo. «Non far caso a quello che dice Kurosaki, si è dimenticato che anche noi siamo stati dei nuovi arrivati, fino a qualche anno fa! Per quanto riguarda Kurotsuchi, beh… non è poi così cattivo, e poi imparerai in fretta. Non c’è intervento che non sappia praticare o situazione che non sappia affrontare. Puoi stare tranquillo, okay?»
Hanataro annuì e lì, fra Ichigo e Ishida, sembrò effettivamente un bambino. Mentre parlavano, Kurotsuchi entrò, sua moglie era stretta al suo braccio e in molti concordavano sul fatto che fossero la coppia più famosa – e anche più strana – del St. Luke.
«Ah, eccolo lì» Ichigo fece un cenno con il capo. «È insieme a sua moglie, se hai bisogno di qualcosa l’infermiera Kurotsuchi saprà aiutarti. Non c’è da avere paura di lei.»
Hanataro sembrò rassicurato, ma comunque rimase dietro i suoi protettori.
«Tutti e due qui presto, eh? Deve essere l’allineamento degli astri» disse Mayuri a mo’ di saluto. I due ragazzi si chinarono rispettosamente.
«Salve, dottor Kurotsuchi. Infermiera Kurotsuchi.»
Nemu sorrise in modo lieve.
«Salve anche a voi. Adesso vado, buon lavoro a tutti» disse staccandosi dal braccio di suo marito, che la seguì con lo sguardo fino a non vederla più. Poi si rivolse ai ragazzi.
«E chi è quel bambino che si nasconde dietro di voi?»
«Il nuovo arrivato. Presentati, Yamada!» Ichigo poggiò una mano sulla sua schiena, spingendolo.
«A-ah! I-io sono Hanataro Yamada, dottore.»
Mayuri lo squadrò, serio. Poi i suoi occhi furono attraversati da un lampo di divertimento.
«Ah, sì… il nuovo arrivato, come no. Beh, Hanataro Yamada, le cose per te potrebbero andare molto bene o molto male. Ti consiglio vivamente di fare sempre quanto di dico, perché per quanto mi riguarda in questo momento per me vali poco. E nel caso in cui io non ci fossi, sarai sotto la responsabilità di Kurosaki o Ishida.»
«Noi…?» domandò Ishida sorpreso.  Kurotsuchi si fidava tanto di loro da affidargli il nuovo arrivato?
Hanataro non ebbe né la forza né il coraggio di dire alcunché, se non di annuire mentre se ne stava aggrappato a Ishida. Avrebbe voluto sprofondare sotto qualche sedia.
«Sì, signore…»
 
I momenti di pace erano rari in un posto come un ospedale, soprattutto quando si faceva parte del personale medico. Ichigo e Ishida approfittavano di quei rari momenti (e delle pause) per parlare. Loro conversavano molto, erano sempre stati insieme ed erano abituati a parlare di tutto quello che passava loro per la testa.
«Così Rukia probabilmente tornerà a studiare. Non so perché abbia aspettato tanto per dirmelo e non so perché io non l’abbia capito prima. Insomma, penso sia fattibile, no?»
Ishida stava guardando il distributore, sembrava immerso nei suoi pensieri.
«Ishida, ci sei?»
«Scusa, Kurosaki. Sono diventato deprimente e non posso parlare sempre dei miei problemi.»
Ichigo gettò nella spazzatura il suo caffè e poi si voltò a guardarlo, a braccia conserte e l’espressione seria.
«Va bene, adesso ti dirò quello che voglio dirti da tempo. La devi smettere di deprimerti. Tu ami Tatsuki, no? Bene, allora non puoi lasciare che vada tutto perduto. Cavolo, è come quando ti sei dichiarato a lei, ricordi? Adesso è la stessa cosa.»
«Non è la stessa cosa» sospirò. «Eravamo più giovani, siamo stati insieme anni prima di renderci conto che… non funzioniamo… E poi non sono io che ho deciso di divorziare.»
«Oh, merda» Ichigo si spazientì, puntandogli il dito contro. «Senti Ishida, se non lo fai tu, vado da Tatsuki e le dico tutto e giuro che sarò di parola. Coraggio, devi quantomeno provarci. E se fallirai, avrai fallito, va bene? Sei già depresso, che cos’hai da perdere?»
Ishida arrossì. Che si fosse buttato giù era vero e forse normale. Lui e Tatsuki non ci avevano mai riprovato, nonostante si amassero. Lui non aveva fatto niente se non acconsentire al suo volere e gli era sembrata la cosa più giusta, adesso però non ne era più tanto sicuro.
«Sai, Kurosaki? Non ti sopporto quando fai così, perché so che hai ragione.»
Ichigo gli diede un’affettuosa pacca sulla spalla e lo afferrò per un braccio.
«Chiaramente, io ho sempre ragione.»
Dopo i loro pochi minuti di pausa, i due rientrarono. Notarono entrando che la dottoressa Retsu Unohana – una delle ginecologhe più brave del St. Luke – stava parlando con l’infermiera Kurotsuchi.
«Ehi» Ichigo diede una gomitata a Ishida. «Guarda un po’ chi ce lì.»
Dal lato opposto c’era un uomo. Alto, imponente, un po’ spaventoso. E non si trattava di un paziente. Oramai tutti conoscevano Zaraki Kenpachi e le sue visite al St.Luke non erano date dai ricoveri o da visite mediche. L’unico motivo per cui veniva fin lì era la dottoressa Unohana. Sempre dolce, gentile e con un sorriso per tutti, anche per lui. Ichigo e Ishida rimasero ad osservarlo mentre teso e nervoso si avvicinava alla donna.
«Oh, ma guarda chi si rivede» salutò lei. «Zaraki Kenpachi, che piacere.»
«Sì, salve» borbottò. Ichigo e Ishida trovavano divertenti quelle scene in cui un uomo come Zaraki veniva messo in difficoltà per colpa della palese cotta per quella donna.
«Sono qui perché…beh…questo!» Zaraki le porse quella che era una partecipazione di matrimonio. «Ikkuaku e Yumichika si sposano e vogliono che lei sia presente.»
Certo che quella situazione era piuttosto bizzarra. Perché mai era un testimone a consegnare un invito, per di più di presenza, ad uno degli invitati?
Questo risultò strano anche a Unohana, la quale però si limitò a sorridere contenta.
«Ma davvero? È meraviglioso, adoro i matrimoni. Grazie, sei stato gentile a portarmelo, non dovevi disturbarti.»
«Pff, figurarsi. Ero dolo di passaggio» rispose lui senza guardarla. Non poteva ammettere – né lo avrebbe mai fatto – di essere venuto lì a posta e di aver insistito per portarle quell’invito. Ebbene sì, Zaraki era troppo timido e impacciato per chiedere a quella donna un appuntamento e questo lo sapevano tutti al St. Luke.
«Oh, va bene» sorrise Unohana, un po’ in imbarazzo. «Vengo sicuramente, quindi ci vedremo lì. Allora… sarà meglio che torni al mio reparto.»
Non appena la donna si fu allontanata, Ishida e Ichigo iniziarono a ridere, scatenando l’ira di Zaraki.
«Avete qualche problema con me, Ishida e Kurosaki?!»
«Noi? Assolutamente niente, è che dovresti vedere la tua faccia, roba da non crederci!» rispose Ichigo.
«Non prendetelo in giro» disse Nemu, anche se si stava trattenendo anche lei dal ridere.
«Ci si mette anche lei, adesso?! E sentite bene, voi due!» li indicò Zaraki. «Non so cosa stiate pensando, ma qualsiasi cosa sia, piantatela!»
«E dai, Zaraki. Tutti sanno che sei innamorato pazzo di quella donna. Ma non c’è niente di male, dovresti semplicemente dichiararti» continuò a stuzzicarlo Ichigo, dimenticandosi forse che quell’uomo avrebbe potuto afferrarlo con una mano e lanciarlo lontano.
«FATTI I CAZZI TUOI, CHIARO?!» urlò infatti.
Kurotsuchi uscì dal suo studio.
«Ma si può sapere che cos’è questo casino?! Zaraki, ma ancora?» domandò, nervoso e un po’ rassegnato. «Questo è un ospedale, non un locale da quattro soldi in cui venire a flirtare.»
«Rilassati, dottore, me ne stavo andando» borbottò Zaraki, lasciando perdere Ichigo. «Tsk...»
Ishida tossì e poi cercò di ritrovare il suo contegno. Insomma, era un adulto ed era un dottore, ma almeno quell’intermezzo gli aveva fatto dimenticare per qualche istante dei suoi problemi.
«Hai visto, Ishida? Nemmeno Zaraki sa dire quello che prova, mi sa che è tipico di molte persone» scherzò Ichigo, ma la voglia di scherzare gli passò subito non appena Kurotsuchi lo guardò.
«E voi due finitela di comportarvi da cretini. Questo posto a volte mi sembra un manicomio.»
 
Rangiku non era mai stanca, nemmeno dopo un’intensa giornata di lavoro. Quella sera avevano organizzando una cena con Aizen e famiglia, a casa loro. Quindi si era preparata al meglio indossando uno dei suoi abiti più belli, aveva lasciato i capelli sciolti e si era truccata. Nell’attesa sorseggiava champagne e pensava.
«Senti, Gin. Pensi che Rin sia felice?»
Gin stava in piedi accanto a lei, fissava il pianoforte sorseggiando il sakè.
«Ti vedo un po’ pensierosa, in effetti. E visto che è irritante rispondere con un’altra domanda, ti dirò che non ha motivo di essere infelice» rispose rassicurandola. E Rangiku avrebbe voluto crederci, ma non ne era convinta.
«È che sono preoccupata. A scuola non ha praticamente amici fatta eccezione per Hayato. Non capisco, è come se diventasse un’altra persona, fuori da questa casa.»
«Rangiku, mia cara, non devi preoccuparti troppo. Non si può stare simpatici a tutti e Rin è piuttosto indipendente» Gin si avvicinò e le accarezzò i capelli con le dita
Per Rangiku era difficile capire sua figlia ed era ancora più difficile capire Gin. Anche dopo tutto quel tempo a volte pensava di non conoscerlo.
Toshiro glielo ripeteva sempre è come se nascondesse qualcosa, e a questo aveva iniziato a farci caso. Lei e suo marito parlavano e a volte sembrava che non parlassero di nulla. Come se ci fosse altro che non sapeva. Cos’è che stava sbagliando?
Toshiro alla fine si era convinto a venire a casa sua, più per lei e per Rin che per altro. Quando Rangiku se lo vide arrivare, lo strinse in una morsa soffocante.
«Sono così felice che tu sia venuto, è terribile saperti tutto solo in quell’appartamento!»
«Mi stai schiacciando, non respiro!» si lamentò lui, allontanandosi e facendo un cenno a Gin. Non gli piaceva, Gin lo sapeva e si limitava solo a stuzzicarlo ogni tanto.
«Toshirooooo!» gridò Rin saltandosi addosso. «Finalmente, mi sei mancatooo!»
«Ouch! Rin, tra un altro po’ non potrò più prenderti in braccio» finse di lamentarsi, in realtà molto felice. Adorava Rin, era come una sorellina più piccola e si sentiva in dovere di proteggerla. Ecco perché aveva un occhio di riguardo per lei.
«Dovresti venire a trovarci più spesso, Toshi» disse Gin, divertito.
«Sono stato occupato» borbottò lui. «Che si mangia?»
Quando Rangiku gli comunicò che aspettavano altri ospiti e che uno di questi ospiti era Aizen Sosuke, per poco a Toshiro non venne un colpo. Quel tizio era anche più insopportabile di Gin, il che era tutto dire. Ma non poteva certo andarsene, Rangiku non lo avrebbe permesso e di certo non voleva deludere Rin. Così fece buon viso a cattivo gioco, o almeno ci provò.
Quando li vide, si rese subito conto che fossero una famiglia strana: quell’Hayato era un ragazzino che sembrava impertinente, ma anche triste. E la stessa tristezza era riflessa negli occhi di Momo, la giovane moglie di Sosuke, sempre perfetta, cordiale, silenziosa e ubbidiente. E Aizan Sosuke in effetti metteva un po’ in soggezione anche lui, per questo preferì starne alla larga il più possibile.
Fu Rangiku a fare gli onori di casa e Toshiro dovette rendersi conto per la prima volta di una cosa: per quanto non potesse sopportare Gin, era evidente che lui e Rangiku si amassero, potevi leggerglielo in viso, e poi erano molto fisici, passionali.
Lo stesso non si poteva dire per Sosuke e Momo. Sembrava che lei fosse la sua assistente più che sua moglie. Ma questi non erano certo fatti suoi e a cena si ritrovò quindi seduto tra Rin e Hayato (non era un bambino, maledizione!), anche se era comunque meglio che ascoltare i discorsi noiosi degli adulti.
Aizen e Ichimaru, un duo imbattile, che novità. Rangiku invece intratteneva Momo parlando di vacanze, scuola, figli, vestiti. E Momo rispondeva tenendo lo sguardo basso, quasi avesse paura di guardarla. E Toshiro si era ritrovato a fissarla.
«Non mi piacciono le carote, non le mangio» disse Rin, afferrandolo poi per un braccio. «Ehi, è vero che un giorno mi sposi?»
«Cosa? Ah, sì. Beh, ma quando tu avrai la mia età, io sarà piuttosto vecchio.»
«Non è un problema, mi piacciono i ragazzi più grandi» Rin si passò una mano tra i capelli argentei, guardando Hayato. «O forse vuoi diventare tu il mio fidanzato?»
Hayato era silenzioso. Fuori dalla scuola perdeva la voglia di fare il prepotente o l’egocentrico.
«Non lo so, non ci ho mai pensato, ma non credo. Le bambine sono antipatiche.»
«Oh, beh, il ragazzino qui ha le idee chiare» disse Toshiro, ma Rin non voleva arrendersi.
«E dai, se proprio ci tieni posso anche sposare te. Si possono avere due matrimoni?»
«Non mi sposo» borbottò lui. «E non m’innamorerò mai, tanto l’amore è tutto… come una bugia.»
Toshiro fu sorpreso di sentire certe affermazioni di un ragazzino della sua età. Un bambino ne sapeva ben poco dell’amore, e il primo esempio d’amore di solito si aveva in famiglia, dai genitori. No, non ci voleva una laurea in psicologia per capire che in quella famiglia non ci fosse chissà quale grande amore. E magari lo sapevano tutti.
«A proposito!» esclamò Rangiku ad un tratto. «Momo, Sosuke, non è il vostro anniversario tra qualche giorno? Sono dieci anni se non sbaglio! Aaah, il prossimo anno tocca a me e a Gin. Allora, avete qualcosa in mente? I primi dieci anni sono un bel traguardo.»
Aizen la guardò come se stesse dicendo qualcosa di assurdo.
«No, non abbiamo niente in mente. E d’altronde non ne avrei il tempo, sono troppo impegnato con il lavoro.»
«Oh, andiamo Aizen, troppo lavoro ti ammazzerà. E poi non per forza bisogna pensare in grande. Qui ci sono i bambini e non posso dirlo, ma avete capito» disse divertita, forse aveva bevuto un po’ troppo champagne. Momo arrossì e decise di buttarsi anche lei sull’alcol, borbottando un “Noi di solito non festeggiamo gli anniversari”.
Solo Toshiro aveva avvertito l’atmosfera farsi tesa?
Quella noiosa e tutto sommato tranquilla cena finì in fretta e poiché Rin era andata a giocare con Hayato, lui si era ritrovato lì, seduto ad ascoltare gli altri parlare. Anche Momo aveva preferito estraniarsi alla conversazione – a cui non avrebbe saputo cosa aggiungere poiché si parlava di lavoro – e si era seduta al pianoforte con sguardo pensieroso.
Toshiro non seppe mai cosa lo portò ad andare da lei, forse l’empatia, forse la noia, forse entrambe, ma qualcosa l’aveva smosso e convinto ad andare da quella donna triste e sola.
«Lei suona?» domandò all’improvviso e Momo quasi ne fu spaventata.
«Oh, suonavo. Ora non lo faccio più. E tu…?»
«Non sono affatto un tipo artistico, a volte penso di non essere abbastanza sensibile per questo genere di cose.»
Momo sorrise per la prima volta in quella sera.
«Davvero? E pensare che io mi ritengo fin troppo sensibile per tutto.»
Non guardava nemmeno lui in viso. Era strano, una donna più grande che provava imbarazzo di fronte a uno come lui.
«Oh, non ci rimanga troppo male, hanno escluso anche me, non che mi dispiaccia. Essere sposato ad un avvocato non è noioso?»
Toshiro stava provando ad avviare una conversazione e nel tentare si si sentiva anche un po’ goffo.
«No, non lo definirei noioso. È che Sosuke è molto impegnato.»
«Già. Scusi se glielo dico, ma suo marito mi mette in soggezione, sembra così… è come un cubo di ghiaccio. Ma ovviamente io non lo conosco bene» Toshiro prese una flûte e bevve dello champagne. Non voleva essere scortese, ma allo stesso tempo era difficile esprimere per bene ciò che pensava.
«Lui fa quest’effetto a tutti» sospirò Momo. «Tu invece mi sembri proprio un caro ragazzo, Rangiku tesse sempre le tue doti. E dice sempre che cerca di trovarti una fidanzata.»
Toshiro arrossì e tossì.
«Sì, è vero, ma non sono interessato. Avrò tempo per innamorarmi e per… forse il matrimonio, ma non ne sono certo. Davvero sposarsi è tutto questo granché?»
Per un attimo Momo spostò lo sguardo su suo marito, che non la guardava. Che non la vedeva mai. Chissà cosa avrebbe pensato la gente se avesse saputo che lei non contava poi tanto, che suo marito sembrava star con lei più per dovere che per altro, al punto che oramai nemmeno la toccava più e non la faceva sentire apprezzata in alcun modo. E che lei c’era talmente dentro da non riuscire ad uscirne.
«È… sicuramente un’esperienza unica» soffiò.
Toshiro si fece attento. Di solito non si immischiava nei fatti altrui, tanto meno si sarebbe mai intromesso nelle questioni matrimoniali di una donna che conosceva appena.
Eppure…
«Oh, ma tu guarda, avete fatto amicizia!» esclamò Rangiku. «Momo, Toshiro non è adorabile?»
«Ma che cavolo, non sono un bambino!» si lamentò lui. Voleva scomparire! Anche se forse, si ritrovò a pensare in seguito, non era un male che Rangiku fosse intervenuta. Era stato sul punto di porre domande inopportune.
 
Tatsuki lavorava in una scuola di arti marziali, con i bambini. Ed era un’insegnante che piaceva molto, era severa ma gentile e tutti i suoi piccoli allievi erano ben felici di averla come maestra.
Yuichi ammirava tanto la sua mamma, pensava che fosse una vera forza e non l’aveva mai vista piangere, neanche quando lei e papà si erano lasciati. Chissà se ci pensava mai? Perché lui ci pensava spesso.
«Ehi, piccolo, che succede? Di solito ti piacciono gli udon.»
Tatsuki guardava suo figlio e ci vedeva in lui un bambino sperduto e allo stesso tempo che ragionava in maniera molto più matura della sua età. Non si era mai buttato giù per quella separazione o almeno non l’aveva fatto davanti a lei, ma sapeva che soffriva e questo non riusciva a perdonarselo. Tatsuki non tornava indietro sulle sue decisioni, ma i dubbi li aveva anche lei.
«Non ho molta fame» mormorò. Trattenersi dal piangere era difficile. Yuichi si era lasciato andare al suo dolore e alla sua età non avrebbe saputo come non farsi travolgere.
«C’è forse qualcosa che vuoi dirmi? Lo sai che puoi parlarmi se c’è qualcosa che non va.»
Yuichi lasciò cadere le bacchette, guardava sua madre con aria seria. Sarebbe stato un cattivo bambino, un ingrato, se le avesse detto la verità?
«Io… ecco… sono solo un po’ triste perché… mi chiedevo… perché tu e papà non tornate insieme? Voi vi volete ancora bene, giusto?»
Le domande dei bambini erano tanto semplici quanto complicate. E come avrebbe potuto rispondergli? Sì, Yuichi, io e tuo padre ci amiamo ancora, ma siamo così diversi che ci respingiamo anziché attrarci. E stando insieme saremmo infelici tutti e tre.
Ma suo figlio soffriva e meritava una risposta.
«Yuichi… le cose non sono così semplici. Purtroppo, non basta amarsi per stare insieme, sarebbe stupendo se così fosse e… So che questo ti fa stare male, ma tu sai che noi ti vogliamo bene lo stesso, vero?»
Yuichi annuì. Certo che lo sapeva, ma vedere i suoi genitori separati era terribile. Perché lui se lo ricordava ancora quando un tempo erano stati felici, non era possibile che loro avessero dimenticato.
Prima che Yuichi potesse porre un’altra domanda – e ne aveva tante – Ishida suonò al citofono. Aveva accolto il consiglio spassionato di Kurosaki e nonostante l’ora tarda era andato nell’appartamento in cui Tatsuki si era trasferita qualche settimana prima.
«Papà, ma che bello, sei venuto a sorpresa!» Yuichi gli saltò addosso e Ishida lo strinse, cercando lo sguardo di Tatsuki.
«Uryu, tutto a posto?» chiese lei preoccupata.
Dannazione, si sentiva nervoso come un ragazzino, e non avrebbe dovuto. Lei era ancora sua moglie, avevano un figlio, c’era ben poco per cui essere in imbarazzo.
«Scusate per la mia improvvisata. Ma Tatsuki, devo parlare con te e devo farlo di presenza.»
Yuichi guardò la sua mamma arrossire e percepì qualcosa cambiare.
«Va bene, ho capito, vado in camera mia» disse saggiamente, sperando in cuor suo che papà volesse convincere mamma a tornare insieme, sarebbe stato perfetto.
Rimasti soli, Tatsuki iniziò a mostrare i primi segni di nervosismo. Si lisciò i capelli, non più lunghissimi ma nemmeno corti come ai tempi del liceo.
«Che succede?»
Ishida trattenne il fiato.
Ti amo. Torna con me, riproviamoci. Non possiamo rinunciare così, senza tentare. Tu non puoi avere dimenticato, io non l’ho fatto di certo.
«Lo so, devo sembrare molto stupido» iniziò a dire. «Ma tanto ti ho già persa, per cui… Voglio dirti che sono stanco di soffrire e che questa situazione la detesto. E non voglio divorziare.»
Tatsuki sospirò, con l’espressione di chi si era aspettata una cosa del genere.
«Ma ne abbiamo già parlato tante volte. Oramai sono anni che non andiamo più d’accordo. Non ci capiamo, né ci incrociamo, Uryu. È per questo che ho deciso di farla finita, è la cosa più matura ch-»
Smise di parlare quando lui le afferrò le mani. Era da tanto tempo che non avevano un contatto fisico e Dio solo sapeva quanto mancasse ad entrambi.
«Allora peccherò di egoismo, ma non intendo rinunciare così facilmente. Mi ci è voluta una vita per conquistarti la prima volta, posso aspettare tutto il resto della mia esistenza per averti di nuovo.»
Per Tatsuki fu difficile non cedere sulle sue stesse gambe, perché l’intensità di quelle parole era tanta da farla cadere. Se lo ricordava bene, loro ragazzini, Uryu che le girava attorno con quell’aria nervosa e timida e il primo bacio che era stata lei a dargli, perché lui l’aveva già conquistata con quel suo modo di fare a volte burbero, a volte un po’ imbranato. E lei, ragazza che da tutti era sempre stata considerata un maschiaccio, una tosta, una che picchiava duro e che non se ne fregava di certi sentimentalismi, si era ritrovata innamorata. Come uno stupido cliché da quattro soldi.
Volle lasciargli le mani ma non lo fece e Ishida azzerò le distanze e la baciò. Prese l’iniziativa, come non aveva avuto il coraggio di fare quando aveva sedici anni. E la sentì tremare nel suo abbraccio e improvvisamente tornarono ragazzini.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo sette ***



[Mayuri/Nemu by me]

 
Capitolo sette

Due minuti sembravano infiniti. Orihime si era detta di non rimanerci male nel caso in cui il test fosse risultato negativo. Dopotutto era abituata.
No, era una bugia. A certe cose non ci si abituava mai. E provare a essere razionale era difficile e inutile.
Anche se ci era già passata decine di volte. L’ansia, il batticuore e infine la delusione.
Guardò il bastoncino che teneva in mano e sorrise con amarezza quando vide quella singola linea rossa.
Negativo.
Ogni volta piangeva. Era frustrante, si sentiva colpevole di un qualcosa su cui non aveva controllo.
Ma perché il mio corpo non funziona? Che c’è che non va in me?
Erano le domande più frequenti. Ora le lacrime le rigavano il viso, ma sapeva che sarebbe passato. Avrebbe pianto e non sarebbe stata abbastanza saggia da smettere di provarci.
«Mamma, mamma! Devo andare in bagno!»
Sussultò. Kiyoko si era svegliata e non poteva permettersi di farsi vedere così.
«Sì, apro subito.»
Si asciugò le lacrime e sperò che Kiyoko non notasse i suoi occhi e il naso arrossato. Sperò invano, perché quella bambina era capace di osservare tutto. E quando si ritrovarono l’uno di fronte all’altra, capì che qualcosa aveva spezzato l’equilibrio della sua mamma.
«Stai bene?» domandò, dondolandosi.
E Orihime sorrise come faceva sempre, ma questa volta non aveva trovato la forza di trattenere le lacrime, che erano tornate a scorrere copiose sulle sue guance.
«Sì, sto bene…» mentì, con un filo di voce, consapevole di quanto fosse inutile. Kiyoko si fece attenta. Allora aveva sempre avuto ragione, c’era qualcosa che faceva soffrire la sua mamma. E se questo qualcosa la faceva addirittura piangere così, come poteva lei non preoccuparsi?
«Ma tu piangi.»
Che sciocca, non riesco nemmeno a fingere di essere forte.
Cercò di parlare, ma ne uscirono solo singhiozzi. Abbracciò Kiyoko la quale, anche se turbata, non si allontanò, ma anzi cercò di farla stare meglio.
Anche se non sapeva cosa potesse farla soffrire così.
«Mamma, ti prego, non piangere…»
«Mi dispiace, tesoro. Vorrei essere più forte di così.»
Ulquiorra si era appena svegliato e quando le vide, così strette l’una all’altra, rimase per qualche attimo fermo e, allo stesso modo in cui Orihime si odiava, si odiò anche lui.
Perché non c’è niente che posso fare?
 
Orihime si calmò pian piano dal suo pianto convulso. A mente lucida si era già pentita di essersi lasciata andare davanti a Kiyoko. Se ne stava sul divano, le gambe strette al petto, Ulquiorra le aveva preparato una camomilla. Preferiva tenere la tazza in mano per scaldarsi piuttosto che berla.
«Era negativo, vero?» le domandò. Lei annuì, un po’ in imbarazzo.
«Non fa niente, è già successo. Mi passerà.»
Ulquiorra però sapeva bene che non sarebbe passata. Sarebbe solo peggiorata e temeva che Orihime potesse ammalarsi, aveva sentito tanto parlare della depressione e non voleva vederla ridursi in quello stato.
«Hime, ascolta… so che quello che sto per dire non ti piacerà» disse, cauto. «Però io credo che dovremmo smettere di provarci.»
Orihime tornò a guardarlo, si scottò con la tazza bollente. Aveva forse fatto qualcosa di sbagliato?
«Ma… ma io pensavo che… lo volessimo entrambi.»
«E infatti è così. Ma questa situazione ti sta facendo ammalare. Potrebbe diventare deleterio per te, per noi due e per Kiyoko» strinse i pugni. «Lei è molto preoccupata per te. Ha bisogno che sua madre stia bene e… ne ho bisogno anche io.»
Ulquiorra non sapeva se avesse usato le parole giuste. Non era da lui essere insensibile e l’ultima cosa che voleva era diventarlo.
Ma si sentiva esasperato.
Orihime non rispose subito, per qualche attimo se n’era rimasta in silenzio a pensare. A cosa serviva farsi del male?
Ma allo stesso tempo, come si faceva a rassegnarsi?
«E dire che volevo solo un altro figlio, ma forse era chiedere troppo» disse, e per la prima volta Ulquiorra si accorse di una nota di rabbia nella sua voce. E non poteva darle torto.
«Non abbiamo controllo su questo, Hime…» le sfiorò i capelli ma lei rimase impassibile. Non avrebbe insistito, non era da lui. Anche se quello era un dolore che condividevano in due.
Dietro un muro, Kiyoko aveva sentito la loro conversazione ed era rimasta a fissare il vuoto. Adesso aveva tutto senso. Ecco perché la sua mamma da qualche tempo non rideva più con gli occhi, ecco perché era scoppiata a piangere: voleva avere un bambino e non riusciva ad averlo. Si chiese il perché e poi si fece un’altra domanda, che la terrorizzò e interessò di più: forse lei non bastava più? Ma certo, se fosse bastata i suoi genitori non avrebbero cercato con tutte le forze di avere un altro bambino. Lasciò cadere le braccia lungo il corpo, con addosso un’espressione quasi inconsolabile. Quello era eccome un motivo per preoccuparsi.
Quando Ulquiorra la vide un po’ scossa, pensò che fosse perché aveva visto Orihime piangere e allora aveva cercato di tranquillizzarla, anche se in modo un po’ distratto.
La mamma non sta bene per ora. È un po’ giù di corda, ma le passerà.
Kiyoko sapeva benissimo che quella era una bugia, ma era troppo concentrata sulle proprie paure per arrabbiarsi.
Forse io non basto più
 
Nnoitra non si era mai definito un paranoico, eccetto per alcuni argomenti in particolare. Tra questi argomenti in particolare c’era Neliel e la gelosia che provava nei suoi confronti. Orgoglioso per com’era, non gli era mai passato per la testa di ammetterlo chiaramente, ma non ci sarebbe stato bisogno: i suoi fatti parlavano chiaro e per lui aveva perfettamente senso essere sospettoso. Neliel era bellissima, simpatica a molta gente ed era intelligente.
Lei era troppo. Ed era troppo anche per lui, ma nemmeno questo lo avrebbe mai ammesso, perché in fondo a cosa sarebbe servito?
Neliel quella mattina si stava concedendo una doccia prima di andare al lavoro e aveva lasciato il cellulare a caricare in camera da letto. E Nnoitra, che aveva da sempre la fissazione che un qualche suo collega le avesse messo gli occhi addosso, non aveva potuto fare a meno di controllare da sé. Tra le varia chat, in mezzo alla sua, quella con Hime e il suo gruppo di amiche, una aveva attirato subito la sua attenzione sotto il nome di Szayel Aporro Gantz. Aprendo la chat si era reso conto che i due parlavano molto, di lavoro e, in generale, come se fossero amici.
«E questo chi cavolo sarebbe?» sibilò.
Non era il matrimonio con Nel a dargli sicurezza, non erano le sue parole. Nnoitra si era chiesto tante volte se esistesse qualcosa in grado di dargli una sicurezza effettiva.
«Nnoitra, puoi andare a svegliare Naoko o ci penso io?»
Nel lo guardava, già vestita e con i capelli umidi. La sua espressione mutò immediatamente.
«Che stai facendo?»
«Chi è questo con cui parli?» domandò lui, subito sull’attacco. «Non me ne hai parlato.»
«Oh mio Dio, non ci posso credere, di nuovo!» esclamò. «Non te ne ho parlato perché non c’è niente da dire. La devi smettere di invadere la mia privacy, noi siamo sposati, ma siamo due persone distinte e separate. Non mi pare io mi comporti allo stesso modo con te.»
«Tsk, come se io ti dessi motivo di preoccupazione.»
Neliel si riprese il telefono, affranta. Quando litigavano non sembravano nemmeno più loro e ogni litigio nasceva sempre dallo stesso punto: la gelosia di Nnoitra, i suoi pensieri ossessivi.
«Io non faccio niente per farti preoccupare! Alle volte sembra proprio che non ti fidi di me e questa cosa mi sta stufando.»
«Certo che mi fido di te. Ma non mi fido degli altri, mi pare chiaro. Non sono certo pazzo. Sai quanti vorrebbero mettere le mani su una donna come te?» domandò, iniziando ad agitarsi. Nel inarcò le sopracciglia. Ne avevano parlato tante volte, lei poteva anche essere attraente e intelligente, ma non era interessata alle avances altrui. Ma questo Nnoitra non sembrava capirlo.
«E tu lo sai che a me gli altri non interessano, vero? E poi te l’ho detto, Szayel è un mio collega di lavoro, non c’è niente di strano o di male, ma questo tu non sembri capirlo.»
Nnoitra fece per dire qualcosa, ma si morse la lingua per trattenersi. Non avrebbe cominciato la giornata così e poi era inutile, finiva sempre allo stesso modo. Lei si offendeva e poi se ne dimenticava e la volta successiva erano punto e da capo.
«Vado a svegliare Naoko, piuttosto» disse passandole accanto.
 
Nnoitra di solito se ne andava in giro borbottando, ma quella mattina era in silenzio mentre portava Naoko sulle spalle.
Era Naoko a parlare e a rendere il silenzio meno opprimente, parlava di tutto e ascoltarla gli permetteva di non pensare. Nel suo profondo sapeva di sbagliare i modi, ma ciò che pensava e diceva era vero, profondamente radicato in lui.
Lasciò Naoko di fronte scuola, fingendo per quegli attimi che fosse tutto a posto.
«Ti vengo a prendere più tardi. Fatti valere ma comportati bene.»
«Certo, non ti preoccupare. Anche tu, eh! Ti voglio tanto bene. Mi compri il gelato quando mi viene a prendere?»
«Ah, è così? Allora sei una ruffiana» Nnoitra l’abbracciò stretta e sentendola ridere per qualche attimo si sentì più quieto. Osservò sua figlia allontanarsi e per fare ciò non si era accorto che nell’auto accostata accanto a lui, Sosuke Aizen lo stava osservando con interesse.
«Ma tu pensa, guarda chi si vede. Nnoitra.»
Nel sentire la sua voce, Nnoitra divenne subito nervoso. Non aveva problemi a guardare negli occhi nessuno, ma con lui era impossibile.
«Aizen. Già, è passata una vita» disse in tono neutro. Dannazione, ma che ci faceva lì? Era raro che venisse a lasciare il figlio a scuola.
«Fin troppo direi. E dire che i nostri figli frequentano la stessa scuola» Aizen si avvicinò. «Naoko è cresciuta, sembra una bambina adorabile.»
«Lo è, infatti» disse stringendo i pugni. «Scusa, ma adesso devo andare.»
«Che fretta c’è? Non parliamo da anni, dopo tutto quello che abbiamo condiviso mi sembra il minimo scambiare due parole.»
Nnoitra fu attraversato da un brivido. Se era venuto lì per rivangare il suo passato e i suoi errori, non voleva nemmeno starlo a sentire, non ne aveva bisogno.
«Non c’è niente da dire, ho sempre rigato dritto da allora» si sentì in diritto di dire. Sosuke Aizen gli aveva forse impedito la prigione, ma allo stesso tempo non c’era nessuno che più di lui poteva farlo sentire un fallito, una persona orribile. Anche se oramai cercava di comportarsi bene. Era più facile ricordare gli errori di una persona rispetto agli atti nobili. Dopotutto, Nnoitra si giudicava così duramente a sua volta.
«Non avevo avuto dubbi» Aizen sorrise, ma nei suoi occhi c’era sempre la luce di chi sapeva di averti in pugno, perché quelli come Nnoitra nei suoi confronti dovevano provare gratitudine, se non sentirsi in debito addirittura. Quelli come loro erano feccia.
«Bene, appunto. Ora però devo andare davvero. Ciao, eh» Nnoitra gli passò accanto, quasi urtandolo. Dannazione, se lo odiava, se odiava tutti quelli che osavano guardarlo dall’alto in basso solo perché nella sua vita non era sempre stato perfetto. Ma questo, anche se lo pensava, non l’avrebbe detto a nessuno.
Si sentiva già abbastanza patetico anche solo così.
 
«Così ieri il mio papà e la mia mamma hanno parlato, ma non so cosa si sono detti. Accidenti, vorrei tanto saperlo! Tu pensi che loro torneranno insieme?» domandò Yuichi, piuttosto eccitato. Masato non sapeva cosa dire, non voleva certo mentirgli e poi non aveva idea di come funzionasse l’amore. O almeno credeva.
«Ecco, non lo so, però lo spero. L’amore è molto strano…» rispose timidamente.
«E come fai a saperlo? Ti sei mai innamorato?»
Masato arrossì. Come poteva saperlo? Lui l’amore l’aveva visto in certi film in televisione e soprattutto nei suoi genitori, nei baci e nei gesti teneri che si scambiavano. Ma non era sicuro che fosse la stessa cosa.
«È che io non lo so. Come faccio a sapere se sono mai stato innamorato o no? Non capisco.»
Naoko, che aveva tirato subito su la testa nel sentire i suoi amici parlare d’amore, non era riuscita a resistere.
«Oh, miei cari amichetti, è così facile!» disse con l’aria di chi sapeva il fatto suo. «L’amore è come…è come quando ci sono le vacanze di Natale e fuori nevica, ma più forte. Come quando ricevi il regalo che hai sempre volito, ma più forte. E allora ti inizia a battere il cuore forte quando sei vicino alla persona che ti piace. Hai anche le vertigini e…beh, ti si blocca il cervello. Proprio così.»
Yuichi fece una smorfia.
«Sembra brutto.»
Yami intervenne in favore dell’amica.
«Ma che dici? È magnifico invece ed è così facile capirlo. Guarda per esempio Kiyoko e Kaien o Hikaru e Ai. Loro sono sicuramente innamorati.»
Kiyoko aveva la testa poggiata sul banco, preda di una tristezza senza eguali, mentre Kaien era saltato su chiedendo lui cosa c’entrasse con quel discorso. Hikaru e Ai si erano guardati, a disagio e in imbarazzo.
«Ma io cosa c’entro?» chiese Ai.
«Beh! Mi sorprende che una che si chiami Ai, amore, si imbarazzi!» Yami la tirò a sé. «Quanto sei amabile per chiamarti così, Ai?»
Il discorso morì lì, con Yami troppo impegnata a tormentare la sua amica. Ma a Masato era rimasto ben impresso quanto detto. Quand’era che lui si era sentito così? Non c’era nessuna persona in grado di provocargli quel tumulto. Fatta eccezione per Yuichi. Quando avevano giocato al gioco della bottiglia e si erano baciati, gli era sembrato di cadere. E anche quando lo aveva abbracciato. E poi gli piaceva tantissimo passare il suo tempo con lui, ma questo in effetti si poteva dire anche per gli altri suoi amici. E se si fosse scoperto innamorato di Yuichi? Sarebbe stato terribile per la loro amicizia.
Scosse la testa. No, di sicuro non voleva avere niente a che fare con quelle strane cose da adulti.  Naoko si fece spazio tra i suoi scatenati amici e andò a sedersi, Rin la fissava.
«Che c’è adesso?» chiese sulla difensiva. «Non posso tirarti di nuovo i capelli, sennò stavolta vengo punita davvero»
Rin però sembrava piuttosto assente.
«No, non c’è nulla.»
Per Naoko fu sconvolgente. Di solito Rin trovava sempre una scusa per darle fastidio, invece quel giorno era silenziosa. Tanto meglio per lei, si disse.
Però rimaneva comunque una cosa strana.
 
 
Gli studenti di Yoruichi non erano stati molto felici di quel compito a sorpresa, ma la loro insegnante non aveva voluto sentire ragioni. E poi era una faticaccia anche per lei, altra roba da correggere!
Durante l’intervallo si era concessa qualcosa di dolce, una cioccolata al distributore. E la sua allieva che tanto la stimava si stava avvicinando a lei con fare timido, ma seria. Soi Fon Zhui era una delle sue studentesse migliori, anche se a volte un po’ scorbutica e difficile. Era bravissima a scrivere, oltre ad avere un interesse smodato per la sua insegnante.
«Prof Shihoin» la chiamò.
«Oh, Soi Fon. Cosa posso fare per te?» domandò lei, sempre a suo agio. La ragazza era arrossita e teneva in mano un foglio. 
«Volevo solo dirle che mi fa piacere abbia apprezzato il mio tema. Solo che mi ero preposta degli obiettivi e sono un po' delusa dal voto.»
«Non fartene una colpa, Soi Fon. Devi soltanto migliorare la forma, è del tutto normale. Sei ancora una studentessa delle superiori e sei anche una delle più promettenti» Yoruichi finì di bere la sua cioccolata e poi la guardò, seria. «Comunque, cos’è quel biglietto che mi hai lasciato?» 
Soi Fon desiderò scomparire. Ci aveva pensato a lungo se compiere quello stupido gesto, non si poteva dire che fosse un’impulsiva. Ma era pur sempre una ragazzina e alla fine aveva ceduto a quel gesto sciocco. 
«Mi spiace. È stata una cosa infantile» mormorò. L'ultima cosa che voleva era perdere la sua stima. 
«Soi Fon, non fraintendermi, non c'è niente di male in questa tua cotta. Ma io sono la tua insegnante. E soprattutto sono sposata, certe cose sono inopportune. E so che sei abbastanza sveglia da capirlo.» 
Soi Fon abbassò lo sguardo, era difficile reggere il suo sguardo color dell'oro. 
«Certo, capisco perfettamente» sussurrò. Si diceva che sarebbe passata, ma in realtà non passava mai. Ma dopotutto cosa poteva sperare? Che la sua insegnante, una donna fatta e finita e sposata, si interessasse a lei? Non era nemmeno sicura che fosse interessata alle donne. 
«Benissimo. L'importante è essere chiari» concluse Yoruichi. Era difficile badare anche a quell'aspetto nella sua vita, era fin troppo preoccupata del proprio matrimonio. Com'era possibile che avesse un blocco dal punto di vista sessuale?
Non aveva mai avuto problemi, ma da qualche mese era il vuoto. Lei è Kisuke non riuscivano a fare sesso e oramai aveva capito bene che il problema dipendeva da lei. Ma perché?  Si era interrogata a lungo sentendosi in colpa e di recente aveva accarezzato l'idea di andare da un terapista, perché era una sensazione che non riusciva proprio a sopportare. E Kisuke non la pressava. Né si arrabbiava, ma lui non si arrabbiava mai. In un certo senso questo rendeva tutto più difficile. 
"Adesso rientro a fare lezione. Dopodiché prendo Yami e Hikaru. Passa una buona giornata" aveva digitato sul cellulare, prima di rientrare in classe e dirsi mentalmente forza e coraggio. 
 
 
"Buona giornata anche a te, mia cara Yoruichi" digitò Kisuke. 
Lui era il primario Kisuke Urahara, sempre allegro, positivo e pronto a risolvere ogni problema. Nessuno si soffermava a pensare - e dopotutto non avrebbero avuto motivo - che anche lui potesse avere dei problemi. C'era un modo di approcciarsi ai medici strano, in molti li paragonavano ai supereroi e si dimenticavano che erano esseri umani. Anche lui lo era e anche lui si chiedeva cosa potesse fare. Se il suo compito era anche quello di risolvere i problemi, cosa poteva fare per Yoruichi? Per il loro rapporto che sembrava star affrontando un momento difficile? 
Oh, se solo avesse avuto un amico con cui parlare.
Beh, si accontentava anche di un non amico. 
«Oh, buongiorno Kurotsuchi» Urahara si voltò e lo salutò subito quando lo vide. 
«Lo era fino a qualche secondo fa» disse lui, sembrava impegnato a controllare alcuni documenti. 
Kurotsuchi non era definibile amico, ma forse poteva provare a parlare con lui.
«Ah, ah, senti Kurotsuchi, posso farti una domanda?» 
«Se proprio devi» rispose lui, indaffarato 
Kisuke si si schiarì la voce. Al massimo gli avrebbe urlato contro. 
«Hai mai avuto problemi… A livello sessuale con tua moglie?» 
Mayuri si fermò e lo guardò come se avesse avuto davanti un pazzo. 
«Ti sei forse drogato?» 
«Ah! Su, su, non è il caso di imbarazzarsi, alla nostra età possiamo anche parlare di queste cose!» 
Kisuke fu attento a non avvicinarsi troppo. 
«Tsé, figurati se mi imbarazzo. Se proprio ci tieni a saperlo, non ho mai avuto problemi di questo tipo.»
«Quindi hai una vita sessuale attiva?» domandò avvicinandosi all'improvviso. 
«Urahara, non intendo rispondere alle tue domande!» si lamentò. Ma che diamine gli era preso?
«Beh» Kisuke fece spallucce. «Posso sempre chiedere all'infermiera Kurotsuchi.»
Maledetto Urahara, che fosse dannato! Si divertiva proprio a farlo impazzire e a molestarlo in modo così spregiudicato. 
«Tu fallo e giuro che il posto di primario rimarrà vacante!» Mayuri sospirò. «Che vuoi sapere?!» 
Urahara gli raccontò dei suoi problemi con Yoruichi, del fatto che ultimamente le cose andassero male dal punto di vista sessuale. 
E lui che lo stava anche ascoltando, si era già pentito. 
«Quindi il tuo cruccio è che tua moglie non riesce a lasciarsi andare? Chiaramente ti tradisce.»
«Oh, la mia Yoruichi non lo farebbe mai!» disse convinto. «Però so che c'è un problema di fondo che non capisco. Forse ho fatto qualcosa che non dovevo.»
Già, sarebbe stato plausibile. Ma quanto meno adesso era certo che anche Kisuke Urahara aveva i suoi problemi, anche quando se ne andava in giro tutto allegro. 
«O magari il problema ce l'ha lei e non da sa come dirtelo. Mi pare piuttosto chiaro che vi servirebbe un terapista di coppia. Cosa che io, per mia fortuna, non sono!» concluse. 
Urahara però sembrava rincuorato e aveva ritrovato il suo solito buon umore, almeno per il momento. 
«A questo non avevo pensato, ancora! Oh beh, grazie, avevo proprio bisogno di parlare con qualcuno di questo mio tormento. Ovviamente se hai qualche problema, non esitare a parlarmene» 
Mayuri posò la mano sul muro, impedendogli di passare. 
«Questo non ci rende amici, non scordartelo.»
Urahara rise, un po’ intimorito ma più sollevato. E chi lo avrebbe mai detto?
 
Ishida non sapeva come si sentiva. Di sicuro era contento di aver agito – il consiglio di Ichigo per certi versi si era rivelato utile – ma dall’altro lato non aveva idea di cosa sarebbe successo da quel momento in avanti. La prospettiva più plausibile era che Tatsuki lo mandasse definitivamente al diavolo, amore o non amore.
Non avrebbe dimenticato il suo sguardo sconvolto e lucido dopo il loro bacio, la sua voce che mormorava “Uryu, forse è meglio… se vai, adesso”.
Forse non c’erano poi tante interpretazioni da dare e lui era un idiota che voleva solo illudersi.
«Così sei andato lì e…?» domandò Ichigo.
«E l’ho baciata» sussurrò, arrossendo.
«Oh, oh. Sei diventato intraprendente, Ishida. Complimenti!» gli diede una pacca su una spalla e a Ishida cadde la cartella che teneva in mano. Borbottò mentre si chinava a raccoglierla.
«Oh, ti prego. Non so se ho fatto bene. Non si è espressa più di tanto, non sono sicuro che le sia piaciuto. Cioè… penso di sì. Ma io come faccio a saperlo? Sono un pazzo e un irresponsabile, accidenti.»
Forse era anche un po’ pentito. Le sue intenzioni oramai erano chiare, cristalline: non voleva il divorzio, voleva una seconda possibilità. Anche se insieme sembravano un disastro, voleva provare a farla funzionare. Se poi avesse fallito di nuovo si sarebbe arreso. Adesso però stava a Tatsuki decidere, era lei ad avere in mano la situazione e questo lo innervosiva perché conosceva bene sua moglie e sapeva che lei non tornava mai sui suoi passi.
«Oh, avanti Ishida, non fare così. Al massimo ti dirà di no» Ichigo cercò di buttarla sul ridere, peggiorando solo le cose. Ishida sospirò, si tolse un attimo gli occhiali. Era stanco, ma più per i problemi d’amore che per i turni a lavoro.
«Già, che vuoi che sia? E tu invece? Tu e Rukia avete risolto?»
Ichigo guardò dritto davanti a sé.
«Beh, sì. Lei probabilmente tornerà a studiare. E per quanto riguarda i bambini… chiederemo una mano a mio padre» il suo tono era esplicativo e Ishida rise.
«Sarà contento, immagino. E tu?»
«Io cosa? Non cambierà niente, vedrai» lo rassicurò e soprattutto cercò di rassicurare sé stesso. Non era poi un cambiamento così grande nella loro vita e poi ce l’avrebbero fatta. Cosa mai poteva andare storto?
«Cambiano un attimo discorso, ma Hanataro dov’è…?» Ishida si guardò intorno. Quel ragazzo si stava dimostrando volenteroso, ma era anche maldestro e timido. Chissà se sarebbe riuscito a sopravvivere a quel mondo infernale?
«Emh… pensavo lo sapessi tu» disse Ichigo.
«Merda» imprecò Ishida.
 
Hanataro non era morto, anche se c’era andato molto vicino. Steso su una barella, era scivolato sul pavimento bagnato e aveva battuto la testa. Niente di grave, ma si ritrovava a piagnucolare come un bambino, anche se l’infermiera Kurotsuchi stava cercando di prendersi cura di lui.
«Su, non c’è bisogno di piangere. Non ti sei fatto neanche un graffio, al massimo avrai un bernoccolo. Devi fare più attenzione, ora sei un membro effettivo di questo staff ospedaliero» disse lei.
«Aaaah! Io sono inutile, non so fare niente. Mi guardi, sembro un idiota» piagnucolò, aggrappato al suo braccio.
«Sei inesperto, è normale fare errori. Tutti ne fanno. Vedrai che già fra qualche mese le cose cambieranno.»
«Ah, lei è un angeloooo!» pianse più forte e proprio quel pianto fu indispensabile per Ichigo e Ishida, che lo trovarono ora seduto sua barella.
«Ah, ecco. Avevo sentito un lamento familiare. Oh Hanataro, sei divertente» sospirò Ichigo.
«Come posso essere divertente? Mi sono spaccato la testa e sono anche inutile!»
«Oh ragazzi, vi prego, lo avevo appena convinto che non è inutile» sospirò Nemu. Ishida diede una pacca su una spalla al ragazzo.
«Oh, non preoccuparti, sei solo scivolato, può capitare. Sapessi quante ne abbiamo combinate noi quando eravamo tirocinanti…»
Ishida sarebbe stato a parlare dei bei tempi andati per ore, ma Kurotsuchi si era liberato di Urahara e nel vederli lì a perdere tempo si era dimostrato molto contrariato.
«Che cosa state facendo tutti qui?! È forse una festa? E perché questo qui se ne sta a poltrire?»
Nemu arrossì.
«Si è fatto male» bisbigliò, indicando Hanataro con lo sguardo, ancorato al suo braccio.
«M-mi dispiace» singhiozzò. «Non so cosa ne sarebbe stato di me senza l’infermiera Kurotsuchi. Sa dottore, sua moglie è un vero angelo.»
Ichigo si trattenne dal ridere, non voleva ritrovarsi in mezzo. Kurostuchi chiamò a raccolta tutto il suo autocontrollo per non esplodere.
«Gli angeli li vedrai davvero se non ti alzi e non la smetti di essere inutile. E voi due, che avreste dovuto tenerlo d’occhio, meglio che andate altrimenti vedrete che vi succederà!»
Hanataro, bernoccolo a parte, fu perfettamente in grado di alzarsi, anche perché non avrebbe avuto altra scelta.
«Ragazzini scansafatiche» sussurrò Mayuri, guardando poi sua moglie e irrigidendosi. «A più tardi.»
Lei annuì. Era una fortuna che in ospedale talvolta l’atmosfera fosse così allegra, il che sembrava assurdo. Perché era quando tornava a casa che tutto diventava teso.
E difficile. E neanche sapeva il perché.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo otto ***


[Shinji/Sosuke]

Anche se Ai riteneva di non essere brava a fare nulla, cercava di migliorarsi in più cose possibili. Innanzitutto studiava tanto, la matematica e la biologia le piacevano più di tutto e, anche se in molti le dicevano che era brava, per lei non era ancora abbastanza. Cercava anche di trovare il proprio talento, ma non aveva ancora trovato niente che l’appassionasse: non era come Naoko che era brava a dipingere, non come  Kiyoko che diceva di voler fare la fotografa da grande, o come Yami che era una ballerina niente male. No, lei era intelligente, ma non se ne faceva niente di quella qualità.
In soggiorno c’era una foto posata sul camino, che ritraeva i suoi genitori il giorno del loro matrimonio. E Ai, che diceva sempre che da grande non si sarebbe mai sposata, si ritrovava incantata a osservarli. Sembravano molto felici, l’aveva stupita la luce negli occhi di sua madre, avvolta nel suo abito bianco, semplice ma elegante. L’aveva sorpresa il modo in cui suo padre la cingeva a sé. Sembravano innamorati, ma ora non lo sembravano più e questo le aveva fatto pensare che l’amore forse spariva dopo un po’ di tempo. Quindi non valeva la pena sposarsi.
E dire che il suo nome significava proprio quello, amore.
Quando i suoi erano a lavoro, lei stava con una baby-sitter che non si curava molto di tenerla impegnata, si limitava a controllare che fosse viva e quindi soffriva molto la solitudine. Per questo, quando poi non si trovava più sola, bramava il calore.
Subito correva in braccio a sua madre.
Come quella sera.
«Mamma» sussurrò, gettandole le braccia
«Tesoro. Mi sei mancata» le sussurrò. «Che cos’hai fatto oggi a scuola?»
«Ah, ho preso un bellissimo voto in matematica» disse voltandosi a guardare Mayuri. «La maestra mi ha detto che sono brava e che potrei competere con i bambini più grandi.»
«Bene, hai fatto il tuo dovere» rispose lui. Ai si rattristò un momento perché sembrava proprio impossibile renderlo orgoglioso di qualcosa. Senza saperlo agiva sempre nella speranza di sentirsi dire brava, hai fatto bene, sono fiero di te e vai bene così.
«Ah» disse poi. «Poi insieme ai miei compagni abbiamo parlato dell’amore. Io però non ho capito molto. Papà, tu mi sai spiegare bene cos’è?»
Mayuri alzò gli occhi al cielo. Chiedere a lui quel genere di cose era sbagliato a priori.
«È un concetto complicato.»
«Beh, ma io mi chiamo Ai. Perché mi chiamo così?»
Lui la guardò, per qualche attimo.
«Non lo so. Non ho scelto io il tuo nome.»
Ai non vide l’espressione sorpresa e confusa negli occhi di sua madre.
Sua mamma che cercava di sopperire, di rimediare sempre con un bacio e una parola gentile.
«Ai, perché non ti prepari per il bagno?»
Ai annuì e una volta a terra corse via. Nemu guardò suo marito, l’espressione leggermente corrucciata.
«Che c’è ora? Sono stanco e non intendo discutere» si lamentò.
«Non la puoi trattare così. Lei pensa che tu non le voglia bene. Prima non eri così, eri… diverso» sussurrò. E se lo ricordava bene, forse Ai non poteva farlo perché era troppo piccola, ma lei sì. Era stata amata allo stesso modo da entrambi.
«Tu fai sempre i soliti discorsi, non è cambiato niente» rispose Mayuri, che non voleva affrontarla, non aveva voglia e non c’era motivo.
«Invece… invece sì. Non solo è cambiato qualcosa con lei, ma anche con me» Nemu si portò una mano sul cuore. «Parli tanto di compromessi. E che compromesso è questo? Farla crescere nella freddezza più totale? Solo perché tu non la volevi…»
«Hai finito?» domandò lui, avvicinandosi in un modo che a Nemu parve quasi minaccioso. «Lo sai che non faccio mai niente di inutile, se sono qui c’è un motivo. E se questo non ti basta, io non so che farci.»
Nemu abbassò lo sguardo. A volte avrebbe voluto prendere Ai e andarsene via, ma da un lato non lo voleva. Sapeva c’era qualcosa sotto, non riusciva a capire cosa.
«Anche se siamo sposati da dieci anni, ci sono tante cose di te che ancora non capisco» sussurrò lei, stringendo un pugno. «Penso che stasera dormirò da sola.»
Come al solito. Quando discutevano o litigavano, dormivano sempre separati, ma non durava mai più di una, due notti al massimo. E Mayuri non l’avrebbe certo pregata. Anzi, non avrebbe fatto niente. Era per questo che odiava uscire dal St. Luke, perché quando tornava a casa, tornava a essere una persona con più problemi di quanto avesse voluto.
«Come vuoi» si limitò a dirle.
 
Shinji di solito era calmo. Non sempre, ma quando Hiyori non gli stava attorno e non era stressato per il lavoro e non era preoccupato per Miyo, era la persona più tranquilla del mondo. Ma ora sembrava essergli stata tolta anche quella tranquillità e a colpa era tutta di Sosuke Aizen. Pensava di esserselo lasciato alle spalle, sperava che i loro cammini non si sarebbero più incrociati. Era stato ingenuo e anche stupido a pensarlo. O forse era soltanto troppo paranoico, magari lui non lo avrebbe cercato.
O magari faceva proprio bene a temere un risvolto del genere.
«Ah, cazzo» sibilò, cercando di far uscire la puzza di fumo dall’appartamento. Si era tolto il vizio di fumare molti anni prima, ma alle volte lo faceva ancora. Solo quando era stressato e solo quando Miyo non c’era, altrimenti lo avrebbe rimproverato. Sua figlia era molto più saggia di lui sotto molti aspetti.
Una persona saggia non sarebbe andata con un uomo sposato. E dannazione, lui non credeva nemmeno di essere gay o altro, gli uomini in generale non lo attraevano come le donne: ma Aizen aveva su di lui un effetto spaventoso. Si sbagliava però se pensava di poterlo avere. Shinji aveva sbagliato una volta, non poteva permettersi un secondo errore. Questa volta era tutto molto più difficile.
Miyo entrò senza fare rumore, aveva tra le mani cinque libri enormi.
«Sono tornata! Stavo per perdere il pullmino, mi sono fermata in biblioteca» posò i pesanti libri sul tavolo, guardandosi poi in torno e assumendo un’espressione severa. «Ma… papà, hai fumato? Avevi promesso che non lo facevi più, fa male alla salute!»
Shinji chiuse la finestra, colpevole.
«Hai ragione. Avevo detto che non lo avrei più fatto.»
Insieme ad un’altra lunga lista di cose che aveva promesso di non fare.
«Comunque, devo lasciarti da tua madre» cambiò poi discorso. «Hai già preparato le tue cose?»
«Certo» annuì lei. «Devo solo infilare questi libri nello zaino. Però non so, sono un po’ preoccupata a lasciarti da solo. Tu ti cacci sempre nei guai.»
Oh, Miyo era così sveglia.
«Starò bene, niente guai, promesso» affermò Shinji con tono stanco, mentre la guardava. «Ti prego, non farti colorare i capelli e… conto sul fatto che non darai retta a tua madre quando proporrà qualcosa di stupido.»
Miyo si fermò un attimo, in quel momento gli dava le spalle.
«Odi mia madre?» domandò all’improvviso. Era tanto tempo – da tutta la vita in realtà – che se lo chiedeva. Shinji inarcò le sopracciglia.
«Girati un po’. No che non la odio. È che non andiamo d’accordo, è per questo che non stiamo insieme. A te piacerebbe che noi stessimo insieme?»
Miyo fece spallucce, arrossendo.
«Sì, penso di sì. Però non sareste felici. È che io non capisco. Perché non si può stare insieme e basta?»
Saggia o no, lei era sempre una bambina, che poneva domande semplici su argomenti difficili. Shinji si inginocchiò davanti a lei.
«Sarebbe bello se fosse così semplice. È che l’amore è complicato e lo sono anche le relazioni, questo lo capirai un giorno. A volte si crede che insieme si starà bene e poi non è così. Ma anche se io e tua madre non ci amiamo, amiamo te. Questo lo sai, vero?»
Miyo annuì, in parte sollevata, in parte con ancora dubbi. Tutti dicevano sempre capirai quando sarai grande. Ma non era certo, c’erano tanti adulti che non capivano.
«Bene. Forza, ti accompagno adesso.»
 
L’auto di Rukia aveva un problema, ma anche questo aveva i suoi lati positivi. Ad esempio, poteva andare nella sua officina di fiducia gestita da Ikkaku e Renji. E proprio con Renji aveva bisogno di scambiarci due chiacchiere.
Quel giorno Rukia era vestita più elegantemente del solito, niente jeans ma un tailleur. Si sentiva dell’umore per portare quel genere di vestiti.
«Rukia» Renji rimase senza parole nel vederlo. «Accidenti, come sei elegante.»
«Io? Beh, grazie. Senti, la mia auto credo che abbia qualche piccolo problema al motore» si sistemò i capelli dietro le orecchie. «E oltre a questo, c’è una cosa che voglio dirti. In privato.»
«Eh? Ah, va bene» Renji guardò Ikkaku, che si stava occupando di cambiare i freni ad un’altra auto. «Ehi, Ikkaku. Prenditi una pausa.»
«Ehi!» borbottò lui. «Siamo soci, non sei il mio capo!»
«DEVO PARLARE IN PRIVATO, OKAY?! Perché non impari a leggere tra le righe?»
Rukia rise, i battibecchi fra quei due erano molto divertenti. Liberatosi di Ikkaku, Renji si mise a controllare il motore dell’auto.
«Parla, ti ascolto.»
«Va bene» sospirò. «In realtà sarebbero due cose. La prima è una cosa che riguarda me. Tornerò a studiare per diventare un assistente sociale!»
Dirlo ad alta voce era molto strano, doveva ancora comunicare a Ichigo di aver già trovato i corsi giusti e che era ancora in tempo a iscriversi, anche se avrebbe dovuto lavorare di più rispetto agli altri.
«Davvero? Ma è fantastico, in effetti ti ci vedo a fare questo lavoro, tu ci sei sempre per tutti.»
Già, era proprio vero. E in effetti era anche per quel motivo che si trovava lì.
«La seconda cosa riguarda te» disse abbassando la voce. «Non so come dirtelo in maniera semplice, quindi lo dico e basta: so che sei innamorato di Byakuya.»
A Renji scomparve il sorriso dal volto: improvvisamente sembrava che gli fosse venuta una paralisi. Non era possibile che lei sapesse, lui non ne aveva mai parlato con nessuno ed era stato attento a non far capire nulla.
O almeno così credeva.
«Amh… eheh, di che parli? Io, innamorato di Byakuya? Questo sì che sarebbe divertente» Renji sforzò una risata, ma il suo disagio era palpabile.
«Renji, con me non devi fingere. Ho capito che era questo ciò che volermi dirmi tempo fa, anche se in realtà lo avevo capito da prima.»
Renji si portò una mano tra i capelli, confuso, in imbarazzo. Ora non poteva mentire, ma sapere che Rukia fosse consapevole era strano. Forse da un lato gli dava sollievo.
«…Da quanto lo sai?»
«Qualche anno. Lo amavi già quando ha sposato Hisana, non è vero? Ma poi hai cercato di dimenticartene e di fingerti un buon amico.»
Rukia a volte lo spaventava. Altro che assistente sociale, sarebbe stata una perfetta psicologa, a psicanalizzare lui era bravissimo. Renji chiuse gli occhi, rassegnato.
«E io che pensavo di averlo nascosto bene. Mi sono sbagliato. Ma comunque non ha importanza, Byakuya non mi amerà mai. Ama ancora Hisana e poi io sono un uomo.»
«Quest’ultimo punto non vuol dire nulla, mio fratello è stato solo con Hisana in vita sua, non è detto che tu non possa piacergli in quel senso. E poi Byakuya merita di rinnamorarsi e penso che insieme sareste perfetti. Quindi io… insomma, sappi che approvo e che ti darò una mano per quanto possibile.»
Sì. Quello era senza dubbio sollievo. Un sollievo talmente grande che a Renji venne un po’ da piangere, ma provò a trattenersi. Si sentiva già abbastanza stupido.
«Umh…» si strofinò gli occhi. «Accidenti, non era preparato a questo. È una follia.»
«Infatti lo è. Ah» Rukia sospirò e poi sorrise. «E io che pensavo di essere troppo cresciuta per giocare a fare Cupido. Evidentemente non sono poi così cresciuta.»
Suo fratello meritava una seconda possibilità. E lei voleva aiutarlo ad aprire gli occhi.
 
«Uffa, non è giusto. Perché mamma non è a casa?»
Visti gli impegni di Rukia, Kaien e Masato si trovavano a casa di zia Karin. E Kaien non era troppo entusiasta. Soprattutto perché Kohei non faceva altro che parlare di aquile, sembrava un disco rotto.
«Ci sono molti tipo di aquile» stava spiegando a Masato, un po’ con la testa fra le nuvole. «Aquila rapace, aquila delle steppe, imperiale orientale, minore africana… proprio così. E poi a secondo delle culture assume un significato diverso.»
Kaien si stiracchiò. Proprio non riusciva a capire il cugino. Per lui, quel ragazzino era un libro chiuso. Sapeva che era diverso da lui, Masato e gli altri bambini, ma non gli avevano mai spiegato precisamente in che modo. Era nato così, gli dicevano. Non è neuro-tipico, aveva sentito dire. Ma non sapeva bene cosa volesse dire.
«Ma non hai interessi un po’ più normali?» domandò annoiato. «Non so… lo sport, i videogiochi… magari una fidanzata.»
Kohei lo guardò, sotto quel ciuffo di capelli scuri.
«Le bambine mi terrorizzano. Però le vostre amiche mi piacciono, mi piace soprattutto Naoko. Lei con me è sempre gentile e mi difende. Mi piace anche Kiyoko, però lei preferisce te.»
Kaien arrossì. Perché diamine tutti continuavano a ripeterglielo?
«Ma che dici? Non è vero, non è vero! Masato, diglielo anche tu che non è vero. Devi difendermi, sono il tuo gemello!»
Diede un pizzicotto sul braccio del fratello, il quale si lamentò e si massaggiò poi il punto dolente.
«E cosa c’è di male? Tutti hanno una persona preferita. Kohei ha Naoko, tu hai Kiyoko (no, non è vero, sentì gridare a suo fratello) e io ho… io ho Yuichi.»
Arrossì e Kaien non capì. E non capì nemmeno Kohei.
«Troppo difficile tutto questo. Lo sapete che le aquile possono mangiare anche i cuccioli di cervo?»
«E smettila, stai diventando fastidioso!» Kaien gli diede un colpo di cuscino, cosa che lasciò Kohei abbastanza indifferente. Dopotutto quello era il suo mondo felice, forse un po’ difficile da capire per gli altri.
Karin entrò in quel momento, portando su un vassoio la merenda per i bambini.
«Vi state comportando bene, spero.»
Con zia Karin non c’era da scherzare. A volte sapeva essere spaventosa. Anche se Masato se ne ricordava più di quanto facesse Kaien.
«Benissimo, ma Kohei fa il noioso, parla tutto il tempo di aquile e cose strane» borbottò, allungando una mano verso un dorayaki.
«Non è strano, è divertente. Tu, tu sei strano. Piccoletto strano» Kohei gli puntò un dito contro, facendo arrabbiare il cugino che saltò subito su.
«Ehi! Non voglio sentire discussioni. Fate i bravi ragazzi e non litigate» sospirò Karin. Suo figlio sbuffò, se fuori se ne stava sempre con quell’aria spaurita e timida, dentro casa – dov’era più a suo agio – sembrava serenamente rassegnato.
«Non fa niente, mamma. Io lo so che non sono come gli altri. Lo so che è per questo che mi trattano tutti come se fossi stupido. Però io non sono stupido, ecco. Solo che certe cose non le capisco, e altre le capisco in un altro modo. Non so come spiegarlo.»
La mano che accarezzava i suoi capelli si fermò. Anche Karin e Yasutora avevano sbagliato senza rendersene conto? Avevano sbagliato con la loro eccessiva protezione? Con la sua, a dire il vero. Chad era sempre stato quello più propenso a lasciare a Kohei la libertà di esplorare, in caso anche farsi male. Ma lei no.
La sé stessa adolescente non avrebbe mai creduto che un giorno sarebbe diventata una madre apprensiva e che combatteva, ogni giorno.
«Oh, Kohei. Io non penso tu sia stupido» disse Masato, dando una gomitata al fratello impegnato a mangiare. «E nemmeno lui lo pensa. È che sai, alcune persone sono proprio cattive. Altre invece… non so perché, ma non capiscono.»
Suo nipote era stato capace di spiegarlo meglio di come avrebbe fatto lei. Karin forzò un sorriso.
«Tuo cugino ha ragione.»
Kohei fece spallucce, scostandosi alle sue carezze. Doveva essere lui a cercare il contatto fisico, quando più voleva e quanto più si sentiva a suo agio. Karin lo capì e si alzò, prendendo il vassoio e lasciando i bambini da soli.
 
«Sosuke, dobbiamo parlare.»
Avendo finito prima da lavoro, Sosuke aveva sperato di avere un po’ di tempo da solo, ma non aveva tenuto conto che condivideva la casa e la vita con una donna.
Proprio la stessa donna che aveva sposato e che, nonostante ciò, teneva lontano nemmeno fosse un’estranea.
«Oh, Momo. Che c’è?» sospirò lui, calmo come sempre, ma gelido. Momo se ne stava di fronte a lui, teneva le mani unite davanti al grembo. Ci aveva pensato a lungo prima di parlargli. Non era abituata e soprattutto non voleva essere un peso.
«Ascolta, c’è una cosa che non ti ho detto. Qualche giorno fa mi ha chiamato la scuola di Hayato. A quanto pare ha avuto qualche problema gli alunni di una classe di terza elementare.»
Aizen, che stava cercando le sigarette con fare distratto, sollevò lo sguardo.
«Ah, ecco perché ha quel livido in viso. Pensavo fosse caduto. Ebbene? Cos’hai fatto?»
«Niente, sono andata lì e… Non so, mi sembra molto strano. Hayato non si metterebbe mai a dar fastidio agli altri bambini. Credi ci sia qualcosa che lo turbi?»
Quella per Momo era una domanda retorica. Forse suo figlio aveva percepito qualcosa nel rapporto strano e disfunzionale dei suoi genitori. Anche se facevano tutti e tre finta che andasse tutto bene, non era così. E i bambini queste cose le percepivano meglio degli adulti.
«Hayato!»
Il bambino arrivò subito, dritto e svelto come un soldatino. Nemmeno lui sapeva guardare suo padre negli occhi, spesso gli faceva paura. Non ricordava nemmeno che lo avesse mai abbracciato o dedicato una parola particolarmente affettuosa. E non era nemmeno uno di quei padri violenti. Non gli aveva mai alzato un dito, ma un solo suo sguardo di disapprovazione faceva più male di uno schiaffo.
«Sì…?» domandò con le mani dietro la schiena.
«Tua madre mi hai detto quello che hai combinato a scuola» accavallò le gambe, continuando a fumare. «Cosa ti dico sempre? Che devi mostrarti al meglio, che non devi metterti nella situazione di sbagliare. Lascia che siano gli altri a sbagliare.»
Hayato non capiva tutte quelle parole. Gli risultavano estranee, difficili.
«È che io non ho amici» sussurrò, imbronciato. Momo fu sorpresa: Hayato aveva così tante buone qualità, com’era possibile che non avesse amici? Stava per rispondere, ma quando suo marito se ne accorse le fece segno di rimanere in silenzio.
«E a cosa ti servirebbe un amico? Senza contare che hai già Rin. E senza contare che voi due un giorno vi sposerete.»
«Eh?!» esclamarono madre e figlio all’unisono. Che storia era mai quella? Matrimonio? Hayato era ancora più confuso.
«Ma… ma io non posso sposarla.»
«Certo che non puoi, figlio. Sei ancora troppo giovane, ma un giorno sarà così. Ascolta i miei consigli» Aizen si chinò su di lui, in un gesto che all’esterno poteva anche risultare affettuoso. «Il rispetto è la cosa più importante. Essere forti è la cosa più importante. Se ti mostri debole o sconsiderato, ne pagherai le conseguenze. Capisci quello che voglio dire?»
Non ne era più sicuro. Troppe parole, troppi concetti e lui era solo un bambino che voleva comportarsi da tale, senza averne mai la possibilità.
«Sì, capisco» sussurrò, sorridendo,
Essere forti è la cosa più importante.
Sosuke annuì, sembrava soddisfatto e spedì suo figlio in camera. Momo era silenziosa, ma sapeva che tra qualche istante avrebbe preso a riempirlo di domande e in effetti non si era sbagliato.
«Sosuke, che storia è questa?» domandò, la voce le tremava appena.
«Ah sì, te lo avrei detto fra qualche giorno. Io e Gin abbiamo concordato che i nostri figli si sposino un giorno» fece cadere la cenere nel posacenere. «È la cosa più saggia, Rin e Hayato avranno una vita facoltosa e seguiranno le nostre orme, perché non combinare un matrimonio?»
Momo rabbrividì. Come poteva parlare con tanta semplicità di una cosa così assurda?
«Perché sono solo dei bambini. È perché qui non siamo fermi al Giappone di cento anni fa!»
«Cara, dove vivi? I matrimoni si combinano ancora oggi» rispose, deridendola.
«Ma questo non… è giusto. Dovrebbero essere liberi di amare chi vogliono. Noi ci siamo sposati per scelta.»
«E diresti forse di essere la donna più felice al mondo?» domandò, guardandola negli occhi.
In quel momento Momo si ricordò perché in genere non parlava, non domandava. Perché sostenere una discussione con suo marito era impossibile.
Dunque, andando a ritroso, perché si erano sposati?
Ah, sì. Lui l’aveva conquistata subito quando quel giorno le loro auto si erano scontrate ad un incrocio. Momo che era uscita dall’auto, spaventata e mortificata.
Sono spiacente, ho preso la patente da poco e non mi sono fermata in tempo. La prego di perdonarmi.
E si era inchinata tante volte, ma l’unica preoccupazione di Sosuke era stata chiamare un’ambulanza, non per lui ma per lei, nonostante Momo lo avesse rassicurato che fosse tutto a posto. A quel punto lei era stata già conquistata.
E poi in breve il fidanzamento, poi il matrimonio, poi un figlio. E infine Sosuke si era stancato come un bambino si stancava del proprio giocattolo nuovo.
Poteva dire di essere la donna più felice del mondo? Gli altri forse potevano affermare di sì, perché era ricca, aveva begli abiti, andava in vacanza nei posti più belli. Ma non c’era bene materiale che potesse sostituire il calore dell’amore vero e disinteressato. E Momo, che lo amava veramente, forse dell’amore in realtà non aveva mai capito niente.
Abbassò lo sguardo e la voce le si spense.
 
Tornare al suo appartamento dopo il lavoro risultava oramai meno difficile del solito. Forse perché Byakuya non si sentiva più troppo solo, forse perché aveva deciso finalmente di aprirsi un po’ di più. Ad andare avanti. Ma ci stava riuscendo davvero o si stava solo crogiolando nell’illusione?
Renji lo aveva appena chiamato, aveva avuto un tempismo impeccabile.
«Sì?» rispose mentre si sbottonava il colletto della camicia.
«Byakuya, apri la porta.»
«La porta? Ma dove sei?»
«Sono qui fuori!»
Confuso, Byakuya si affacciò la finestra e riconobbe subito i capelli rossi di Renji e la sua mano salutarlo.
«Potevi anche avvertire» sospirò.
«In realtà puntavo sull’effetto sorpresa. Nei film non fanno così?»
Renji aveva tirato fuori la prima scusa che gli era venuta in mente. Non poteva certo che dire era stata Rukia a dirgli vai a casa sua. Sai, non invita mai nessuno, ma se ti presenti non potrà scacciarti via. Lo so bene perché è la tecnica che adotto io. Devi iniziare a fargli capire in maniera concreta cosa provi per lui.
Non si poteva dire che avesse un piano, ma il sostegno di Rukia gli aveva donato una rinnovata determinazione.
Rukia aveva avuto ragione, Byakuya non aveva certo potuto cacciarlo. Anche se non lo avrebbe detto, la sua compagnia gli faceva piacere. Con Renji non si sentiva solo.
«Carino, questo posto» Renji si sedette vicino al kotatsu. «Hai da bere?»
«Non tengo alcolici, posso farti un tè.»
Renji era rumoroso, ma solare. A volte inopportuno, ma simpatico. Ed era il suo totale opposto. In un certo senso si completavano.
«D’accordo. Io, emh… sai, stavo tornando da lavoro e quindi ho pensato di venirti a fare compagnia» tentò di giustificarsi anche se Byakuya non gli aveva domandato nulla.
«Non c’entra mia sorella, vero?» chiese lui. Rukia aveva preso molto sul serio la sua missione del volerlo aiutare ad andare avanti, non si sarebbe stupito se avesse coinvolto anche Renji.
«Rukia? Ma dai, figurati, non posso venire a trovare il mio migliore amico così, senza motivo?» e rise, senza riuscire a nascondere il nervosismo.
Byakuya gli dava le spalle, stava guardando il bollitore senza vederlo veramente.
«Quindi lo sono davvero? Il tuo migliore amico, intendo.»
«Eh? Ma che domande, certo che sì!» esclamò Renji confuso.
«Non è scontato. In questo ultimi tre anni ti ho allontanato, ho allontanato tutti perché il dolore era troppo grande. È ancora troppo grande, ma anche più sopportabile. Non so se ha senso» ammise e si volse a guardarlo. La malinconia nel suo sguardo si era mutata in tristezza e Renji avrebbe tanto voluto scacciarla via. Magari stringerlo in un abbraccio. Si alzò e gli andò vicinissimo.
«Ascolta. Nessun rancore, sono serio. Io capisco. Cioè, non capisco fino in fondo, ma posso immedesimarmi. Non meritavi un dolore così grande. Non lo meriti tutt’ora. Meriti di amare, ancora. Di avere la tua seconda possibilità. Sono qui anche per questo.»
Byakuya non capì cosa volesse dire. Sapeva solo che Renji era vicino a lui e quasi poteva sentire il suo respiro. E la cosa non lo disturbava e non lo faceva sentire a disagio. Sentì il bollitore fischiare, eppure non riuscì a muoversi.
«Sei qui per questo…?» sussurrò. Forse stava arrossendo, doveva essere così perché aveva caldo. Renji abbassò lo sguardo. Non poteva dire tutto così e subito. Non era il momento e, se aveva aspettato tanto, poteva aspettare ancora.
«Intendo… che sono qui per darti il mio sostegno, perché è questo che fanno gli amici. Ora immagino che dovrei… spostarmi. Mi sa che sto invadendo il tuo spazio personale.»
«Non è… un problema» quello di Byakuya non fu nemmeno un sussurro, ma un soffio. Spense il bollitore e versò l’acqua troppo calda nelle tazzine, mentre Renji tornava a essere allegro, rumoroso, inopportuno e assolutamente unico.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Capitolo nove ***



[Nnoitra/Neliel]


 
Capitolo nove

Tatsuki aveva dovuto richiamare a sé tutte le sue forze per staccarsi da quel bacio, per staccarsi da lui. Uryu teneva il suo viso tra le mani, forse non aveva nemmeno idea di quanto la stesse dominando in quel momento.
«Scusami, Tatsuki. Ma non potevo fare altro, sto diventando pazzo» sussurrò. Tatsuki sentì gli occhi divenirle lucidi. Non si sentiva neanche arrabbiata, era solo stravolta e consapevole di volerne ancora. Di lui, di loro. Le mancava. Ma cedere alla passione e ai sentimentalismi sarebbe stato sbagliato.
Lo allontanò, sentendosi senza forze.
«Uryu, senti… vorrei rimanere da sola, adesso.»
 
«Beh? E poi che è successo?» domandò Keigo, che non stava più prestando attenzione a ciò che aveva nel piatto. E lo stesso si poteva dire per Mizuhiro.
«Che volete che sia successo? Se n’è andato. Non so cosa mi sia preso.»
Tatsuki aveva sentito la necessità di sfogarsi con i suoi amici, ma non era sicura che fosse stata una buona idea. Quei due – Keigo e Mizuhiro – tifavano per lei e Uryu da ancor prima che si mettessero insieme e le cose non erano cambiate neanche adesso che erano in fase di divorzio. Più o meno.
«Però tu lo ami ancora, non è vero?» domandò Mizuhiro. «Non so, io sono dalla parte di Ishida. Perché non riprovarci? Tanto non riuscite comunque a stare lontani.»
«Oh sì, ti prego! E poi mi manca quando eravamo tutti amici e uscivamo insieme! Adesso non si può più fare!» piagnucolò Keigo e ci mancò poco che Tatsuki gli conficcasse una forchetta sulla mano. Lo sapeva, che pessima idea.
«Pensi che non ci abbia pensato? Ma sai, per otto anni abbiamo cercato di farla funzionare. Siamo troppo diversi.»
«E con questo? Siete sempre stati troppo diversi, sin da ragazzini» disse Mizuhiro. Tatsuki pensò che avesse ragione, ma era diverso quando si cresceva. Lei e Uryu non erano diversi solo per carattere, ma anche per abitudini e interessi. E questo non era stato un problema, non c’era stata esitazione quando avevano deciso di sposarsi. Quand’era iniziato a crollare tutto? Forse subito dopo, quando erano andati a vivere insieme? O quando lei era rimasta incinta e la cosa l’aveva colta impreparata? O forse era stato a causa della depressione post-parto che l’aveva colpita? Tatsuki se lo ricordava bene come si sentiva in quel periodo e a quanto litigavano, nonostante Uryu cercasse di fare di tutto per aiutarla. E di prendersi cura del loro bambino, che tra le sue braccia piangeva e si dimenava e lei non capiva il perché. Riusciva solo a incolparsi. E poi era stato un continuo di discussioni, litigi e malessere alternati a momenti di serenità fasulla.
«Se fossimo solo noi due, allora… Ma Yuichi ne soffrirebbe troppo.»
«Yuichi sta già soffrendo» borbottò Keigo, che stava esagerando con l’alcol e di ciò Mizuhiro se ne accorse.
«E dai, piantala. Però non ha torto, Tatsuki. Potresti pentirti. So che non torni mai indietro sulle tue decisioni, ma magari questa volta dovresti provare a vedere le cose…da un’altra prospettiva.»
Stupidi amici che davano stupidi consigli così saggi.
«Non so, forse. Ma sono così confusa.»
«Ed era solo un bacio, pensa se fossero finiti a letto insieme» rise Keigo e questa volta Tatsuki la forchetta in una mano gliela conficcò davvero,
 
«Io so bene cosa stai nascondendo.»
L’ultima persona con cui Ishida voleva parlare dei suoi problemi d’amore era suo padre. Ryuken non gli somigliava molto caratterialmente, su certe cose era un po’ più… severo. No, lui di sicuro somigliava più a sua madre.
«Non so di che parli» Uryu sperò tanto che suo figlio arrivasse con qualche richiesta, ma Yuichi era piantato davanti la televisione e se ne sarebbe stato tranquillo per un po’.
«Sto parlando di Tatsuki. Voi due siete strani e non mi convincete. Non è che state pensando di tornare insieme?»
Ah, dannazione. Come aveva fatto a capirlo? Eppure non aveva detto o fatto niente di sospetto.
«Io…» Uryu arrossì. Avrebbe tanto voluto scappare. «B-beh, anche se fosse?»
Ryuken assottigliò lo sguardo. Giovani d’oggi, si ritrovò a pensare, rendono tutto più complicato.
«Tatsuki mi piace, il che è incredibile, perché in genere non mi piace molta gente. Ma non siete più due adolescenti innamorati e con il divorzio non si scherza.»
Lo sapeva già, Uryu non aveva bisogno di sentirsi dire quel genere di cose e non era sicuro di volere altri consigli. Era felice di essersi fatto avanti, però… adesso il rischio di rovinare tutto era anche più concreto.
Kanae si avvicinò al tavolo, prendendo le ciotole.
«Suvvia, Ruyken. Non possiamo intrometterci nel matrimonio tra Uryu e Tatsuki. E poi, io spero sempre che voi torniate insieme. Siete una famiglia splendida e non sono sicura che questo divorzio sia…oh, scusa caro. Avevo promesso di non intromettermi.»
Uryu si tolse gli occhiali e si massaggiò gli occhi. Povero lui, ci mancavano solo i commenti dei suoi genitori. Non sapeva dove sbattere la testa e a salvarlo da quella situazione fu proprio Tatsuki, la quale gli aveva appena mandato un messaggio.
“Ti devo parlare”.
Tre semplici parole che gli avevano messo addosso un’ansia e una tensione da portarlo ad alzarsi di scatto, facendo cadere la sedia.
«Che succede?» domandò Kanae spaventata.
«Io devo… devo uscire un attimo. Lascio Yuichi qui, devo proprio andare» disse soltanto.
Sarebbe arrivato tardi a lavoro, ma poteva sopportare gli aspri rimproveri di Kurotsuchi per una cosa del genere.
 
«Toshi, dai, vieni. Di nuovo, di nuovo, di nuovooo!»
Toshiro era stanco. Adorava giocare con Rin, ma quella bambina era instancabile, era come se trattenesse tutte le energie a posta per lui.
«Time-out, Rin. Io ho una certa età oramai, mi stanco molto più di te» ansimò, seduto sul pavimento, mentre Rin lo abbracciava da dietro, circondandogli il petto con le braccia. Avere Toshiro in giro era come avere un fratello più grande che l’accontentava in tutto.
«Ma se sembri un ragazzino. Posso prendere Sir Biss dalla teca, così te lo faccio tenere in mano.»
«Per l’amor di Dio, Rin, non lo fare!» urlo Toshiro, che era terrorizzato da quel dannato rettile, anche se dirlo ad alta voce sarebbe stato un grave affronto alla sua dignità.
Rangiku, sempre bellissima ed elegante, si avvicinò a lui e gli diede una mano per aiutarlo ad alzarsi.
«Rin ti mette sempre a dura prova, eh? Se vivessi qui credo che non ti lascerebbe mai in pace.»
Toshiro borbottò qualcosa che lei non capì. Era da giorni che stava cercando le parole giuste per comunicarle la sua decisione di accettare la proposta di vivere in casa sua.
Sì, anche se doveva sopportare Gin, anche se doveva fare da baby-sitter a Rin e al suo orribile serpente. E no, non era perché sperava di rivedere quella donna, Momo. Toshiro non era un che si prendeva cotte per donne sposate (anzi, in realtà era molto raro che si prendesse una cotta per qualcuno a priori) e di sicuro non era così stupido da cacciarsi volontariamente in situazioni del genere. Ma sarebbe stato sciocco non ammettere che una parte di lui desiderava rivedere Momo, anche solo per parlarci. Quella donna, così silenziosa e schiva, con lui era sembrata un po’ più viva.
«Senti Rangiku… a proposito di questo… Io non sopporto i miei coinquilini!» disse, arrossendo, mentre si portava una mano tra i capelli in disordine. «Fanno sempre casino e non andiamo d’accordo. E inoltre l’affitto è caro, quindi pensavo… magari solo per qualche tempo…»
Rangiku non lo fece neanche finire di parlare. Oh, quanto aveva sperato che lui accettasse la sua proposta. Si sarebbe sentita molto più tranquilla a saperlo lì con loro, come una vera famiglia. Quindi lo strinse al proprio seno, con fare quasi materno.
«Toshiro caro, non dire altro! Puoi stare qui tutto il tempo che vuoi, noi siamo la tua famiglia! Vedrai che ti troverai benissimo!»
Toshiro borbottò qualcosa e si staccò da lei, rosso in viso.
«MA INSOMMA, TI SEMBRA IL MODO?!»
Mentre Rangiku allungava le mani per cercare di spupazzarselo un po’, Gin rientrò da lavoro e nel vedere quella scena sorride divertito.
«Ma tu guarda un po’ che bella storia.»
«Bella storia? Perché non vieni a riprenderti tua moglie, maledetto pervertito dagli occhi sottili?!»
Quale umiliazione! Ma oramai c’era dentro e vari scleri a parte si sarebbe trovato bene. Rangiku lo lasciò finalmente andare e lui andò a rintanarsi in quella che sarebbe stata la sua nuova camera. Non aveva intenzione di intromettersi tra le questioni di una coppia sposata.
Rangiku si sedette sul divano: aveva i capelli biondi sciolti sulle spalle, le labbra tinte di rossetto rosa e una scollatura profonda.
Gin si sedette accanto a lei e le baciò la mano, risalendo lungo il braccio. Rangiku sospirò.
«Gin, tu sei felice?» domandò all’improvviso. Forse non la domanda più opportuna in un momento come quello, ma era la domanda che aveva sentito di dovergli porre.
«Mia cara, perché non dovrei? Io ho te, ho Rin, ho… tutto questo» Gin si guardò intorno. «Perché non dovrei essere felice?»
Era una domanda legittima e Rangiku si sentiva anche stupida, non sapeva come spiegare quello che sentiva, quello che pensava.
«È solo che…Non pensi mai che ti piacerebbe avere una vita diversa?» lei si sistemò accanto a lui. «Ad esempio, tu non hai amici. Lavori tanto e sei sempre al servizio di Aizen. C’è un sacco di gente che ti teme e che per questo non ti sopporta. E non ridere, so che la cosa ti fa piacere.»
«Mia cara, non è affatto vero che non ho amici. Ho Tosen e poi… poi ho Kira.»
Gin fece per baciarle le labbra e Rangiku s’imbronciò.
«Tosen non conta, è praticamente il cagnolino di Aizen. E Kira! Sono anni che non vi parlate più!»
«Rangiku, c’è forse qualcosa che ti turba?» domandò, facendosi serio all’improvviso.
«È solo che… non lo so, a volte ho l’impressione che sia tutto… falso. Intendo…» noi non siamo così felici come sembra, avrebbe voluto dire. «Prendi Rin, ad esempio. Lei non ha amici a parte Hayato e so che con gli altri bambini non si comporta come si comporta con noi. Questo non vuol dire qualcosa?»
Gin si alzò. Aveva sentito un groppo in gola e aveva improvvisamente bisogno di bere dello champagne.
«Se questo ti preoccupa possiamo parlare con Rin. E a proposito di nostra figlia… c’è una cosa di cui dovrei parlare con te, invece» disse mentre versava lo champagne nelle flûte.
«Sì?» Rangiku accavallò le gambe.
Diamine. Parlare con sua moglie lo metteva in difficoltà, cosa che in genere non gli succedeva.
«Sì, dunque, io e Aizen abbiamo parlato e… come dire… avremmo concordato un matrimonio tra Rin e Hayato.»
Gli occhi di Rangiku si ridussero ad una fessura. Ma che diamine andava blaterando suo marito?
«Che cosa avete fatto?»
Gin le porse svelto la flûte, bevendo poi dalla sua.
«Non c’è ancora niente di ufficiale ovviamente, ma pensiamo sia la cosa migliore.»
«Voi pensate che sia la cosa migliore?! Cioè tu hai deciso questa cosa senza prima parlarne a me?!»
Questo la confondeva. Non era da Gin non tenerla in considerazione, tutto il contrario.
«Te ne sto parlando adesso.»
La sua calma eccessiva – come se non stessero parlando del futuro di Rin – la fece innervosire.
«È una bambina, non puoi decidere del suo futuro in questo modo. E poi a che pro? È per una questione di affari? Ti ha convinto quello a farlo? Oh Gin, dovresti pensare con la tua testa!»
Rangiku non bevve lo champagne, lasciò la flûte sul tavolo e andò a rifugiarsi in camera da letto, dove si tolse le scarpe scomode e le lanciò in un angolo. Gin alzò gli occhi al cielo e le andò dietro.
«Penso con la mia testa, dovresti saperlo. Cosa c’è di male se voglio dare a Rin tutto quello che io non ho potuto avere?» l’aveva raggiunta e la stava guardando, mentre lei si spogliava e cercava la sua camicia da notte.
«Non in questo modo, Gin! Dici che decidi con la tua testa? A volte vorrei capire cosa ci passa per quella testa! Dopo tutti questi anni non sono riuscita ancora a capirlo!» Rangiku s’infilò la camicia da notte e poi gli passò accanto e gli impedì di sfiorarla in qualsiasi modo. Era raro che litigassero, avevano entrambi un carattere poco incline ai litigi. Sapeva che il discorso non era chiuso, ma sperava che almeno Rangiku si calmasse e non arrivasse a odiarlo troppo.
 
Ichigo si sentiva particolarmente esausto quella sera, ma cercò comunque di sorridere e di abbracciare i suoi figli quando tornò a casa. Kaien e Masato avevano sempre tante cose da dire, da raccontare e chiedere. E adesso c’era anche Rukia, fremente e piena di cose da dirgli.
«Dunque, stamattina ho controllato e mi sono informata. Visto che ero ancora in tempo a iscrivermi… oggi pomeriggio l’ho fatto! Non volevo perdere altro tempo con il rischio di rimanere esclusa. Certo, ho dovuto pagare una mora, spero non sia un problema.»
«Eh? Ah no, non è un problema» Ichigo un po’ ascoltava lei, un po’ cercava di non farsi schiacciare dai gemelli, che pieni di energia richiedevano le sue attenzioni.
«Mamma torna a studiare?» domandò Masato guadando Rukia, la quale sorrise tutta fiera.
«Sì, è così.»
Kaien assunse un’espressione interrogativa.
«Ma mamma, non sei troppo vecchia per studiare?»
Rukia sorrise nervosamente: Kaien era proprio un Ichigo in miniatura, aveva la lingua lunga e a volte era inopportuno.
«…Come hai detto, caro?»
Percependo il suo tono vagamente minaccioso, Kaien tornò sui suoi passi.
«Volevo dire, tu sei una mamma, è strano» si corresse.
«Oh, ecco» Rukia sospirò. «Non è strano, ci sono tante persone della mia età che decidono di iniziare a studiare. E io devo studiare e impegnarmi, perché voglio diventare un assistente sociale in grado di aiutare i bambini che ne hanno bisogno.»
Ichigo pensò che non ci fosse occupazione migliore per Rukia. Sua moglie era un’altruista, una di quelle che metteva il bene altrui davanti al proprio. Probabilmente era per questo che aveva aspettato anni prima di pensare un po’ alla sua realizzazione personale.
«Io sono un bambino che ha bisogno…» Kaien sorrise in modo furbo. «Di un dolce.»
«No, tu hai bisogno di andare a fare i compiti. Masato, dagli un’occhiata» raccomandò Ichigo. Kaien arrossì e fece una linguaccia al gemello.
Rimasti soli, era giusto che Ichigo ascoltasse anche Rukia.
Rukia che sembrava entusiasta all’idea di iniziare un nuovo percorso che l’avrebbe poi condotta al lavoro dei suoi sogni. Anzi, a quella che sentiva come una vera e propria vocazione.
«Non hai idea di quanto io sia felice» si sistemò accanto a lui, eccitata come una bambina. «Ovviamente ho già dato un’occhiata alle materie e mi piacciono tanto. So già dove acquistare i libri e… Spero di trovarmi bene e spero di non essere la più vecchia lì dentro!»
«Tu? Ma se sembri ancora una ragazzina» le disse Ichigo stancamente, mentre le accarezzava i capelli con fare affettuoso. Rukia si rilassò e lo guardò.
«Pensi che ce la faremo? Voglio dire, io studierò e tu tornerai a casa stanco morto. Sicuro che non sarà troppo faticoso?»
«Oh, Rukia. Non pensare a me, me la caverò. E poi è per questo che ho deciso di chiedere aiuto a mio padre. A proposito, devo chiedergli quando ha intenzione di venire.»
«Non c’è alcun bisogno, ci ho già pensato io!» Rukia si alzò, lisciandosi il vestito. Non solo sembrava più felice e serena, ma anche più… sicura? Possibile che la sua decisione avesse fatto bene anche alla sua autostima?
«Comunque vado a fare una doccia, se vuoi venire…» alluse, maliziosa. Ichigo era stanco, ma non lo sarebbe mai stato abbastanza da rinunciare a questo. E poi voleva evitare di pensare, non avrebbe mai ammesso a sé stesso di essere un po’ impanicato. Non c’era un motivo razionale per esserlo. Vero, la sua vita sarebbe cambiata un pochino, ma in fin dei conti quanto poteva essere diversa?
Era proprio il non avere una risposta certa a quella domanda a mandarlo in crisi.
 
Ishida e Tatsuki si erano visti sotto casa di lei.
Tatsuki era in auto e lo aspettava nervoso, come se non fossero sposati da anni, con un figlio e in fase di divorzio. Forse. Quando Ishida la vide, accostata vicino al marciapiede, aprì lo sportello e si sedette accanto a lei.
«Perché non a casa tua? È pericoloso starsene accostati da soli a quest’ora» disse severo e questa era una cosa che aveva sempre fatto impazzire Tatsuki. Quel suo cipiglio talvolta serioso e severo aveva la capacità sia di farla arrabbiare che di eccitarla.
Non pensare come una ragazzina, ma come la donna che sei.
«Mi sento più a mio agio qui. In casa… possono succedere cose strane» mormorò, senza guardarlo.
Come se invece una macchina fosse un posto tanto più sicuro.
«Va bene» Ishida si sistemò gli occhiali. «Di cosa… volevi parlarmi?»
Come se non lo sapesse già.
«Sì, va bene» sospirò lei. Sembrava nervosa, come una bambina. «Quello che c’è stato tra noi… Non sarebbe dovuto succedere.»
Ishida guardò dal lato opposto, oltre il finestrino. Era esattamente quello che si era aspettato, non si sentiva deluso. Anzi, era soltanto infastidito.
«Ho baciato mia moglie, capirai» borbottò.
«Non è questo il punto. Noi abbiamo deciso di lasciarci!» Tatsuki alzò la voce, che tremava un po’.
«No, tu hai deciso che tra noi doveva finire! Che altra scelta avevo? Io ci avrei concesso una seconda possibilità. È quello che sto cercando di fare adesso! Pensi sia stupido? Forse, me ne farò una ragione. Hai sempre trovato stupido tutto quello che faccio» si sfogò Ishida, sapendo di essere un po’ crudele. Entrambi avevano le loro colpe. Eppure c’era stato un tempo in cui erano stati inseparabili e avrebbe tanto voluto ritrovare quella complicità che sembrava perduta.
«Ecco, vedi perché non funziona tra noi? Non riusciamo a stare cinque minuti insieme senza litigare. Diventiamo orribili, vuoi darmi torto?» protestò Tatsuki, che si stava sforzando di non piangere. Lei aveva pianto tanto dopo la sua decisione, anche se era sempre stata attenta a non farsi vedere da nessuno.
«No, non ti do torto. E me ne farei una ragione se sapessi che non mi ami. Quindi dimmelo, se è così. Dimmi che non mi ami più e io smetterò di sperare» Ishida era gelido, ferito, ma qualcosa nei suoi occhi lo tradiva.
Come sei crudele. Come se non sapessi.
Lo guardò e non riuscì a trattenere un singhiozzo.
Quanto era diventata sentimentale. Quanto si sentiva patetica.
«Io… non posso dirlo… lo sai…» gemette. Ishida allora si avvicinò e prima che potesse vederla piangere, la baciò. Non come aveva fatto la scorsa volta, questa volta era un bacio possessivo, uno di quelli che diceva chiaramente non ti lascio andare.
Tatsuki non ebbe il coraggio né la forza di sottrarsi, e fu altrettanto attiva in quel bacio. Uryu le mancava. E lei mancava a lui. Con gli occhiali un po’ appannati, Ishida si staccò appena e fece un singolo movimento, facendo un cenno verso l’alto. Tatsuki annuì. Alla fine, rifugiarsi in macchina non l’aveva salvata, ma che importava? Avevano di nuovo sedici anni, entrambi.
 
Dopo tante storie, Kohei era finalmente crollato. Spesso alternava momenti di tranquillità assoluta a momenti in cui era iperattivo e chiacchierava un sacco, ma era importante che seguisse una routine precisa. Alla fine Chad lo aveva convinto ad andare a dormire ad un orario dignitoso: Kohei riposava con accanto il suo libro sulle aquile, il pappagallino Pixie invece dormiva a sua volta sul suo trespolo. Karin non era molto d’accordo nel tenere la gabbia lì, ma Kohei insisteva sul fatto che avrebbe dormito meglio e in effetti era vero. Quando suo figlio dormiva, quando non c’era più niente a cui badare, Karin non sapeva che fare, conscia del fatto che sarebbe ricominciato tutto il giorno dopo. Chad osservò sua moglie seduta sulla poltrona, le gambe sollevata, gli occhi socchiusi e la luce lieve della lampada ad illuminarle il viso. Era rimasta sempre esile e minuta, come una ragazzina. Ma dentro di lei si nascondeva una forza inesauribile. E Chad, invece, che era grande e grosso, che era l’insegnante severo ma gentile che insegnava box in una palestra, a volte sentiva che senza di lei non ce l’avrebbe mai fatta. Nessuno l’avrebbe mai detto vedendoli.
Si avvicinò a lei, le baciò la fronte e la prese in braccio con facilità. Questo non era cambiato nel corso degli anni.
La sentì lamentarsi.
«Mmh… Kohei dorme?»
«Sono riuscito a farlo addormentare, alla fine» disse gentilmente.
Chad che era troppo gentile e altruista per esprimere ciò che sentiva. Come, ad esempio, il fatto che Karin fosse solo madre e mai moglie, compagna o complice. Non gliene faceva una colpa, lui capiva. Prendersi cura di Kohei era impegnativo e talvolta anche lui si scordava che erano anche una coppia e non solo genitori.
«Grazie… a volte arrivo esausta alla sera» sussurrò Karin, mentre Chad la metteva a letto. I momenti più intimi erano rari, oramai, perché spesso erano entrambi troppo stanchi dopo una giornata frenetica.
«Non ringraziarmi» disse lui, donandogli una carezza. Karin era stanca. Karin aveva trent’anni e sembrava molto più vecchia della sua età, non fisicamente ma per lo sguardo e la malinconia che si portava addosso. Le conseguenze di una vita troppo piena di pensieri. Karin aveva rinunciato ad un lavoro per seguire meglio il figlio. Karin era irreprensibile nel suo ruolo. Karin – a volte gli sembrava – non gli apparteneva più.
Lei sorrise, afferrando il suo braccio muscoloso.
«Dai, vieni a dormire anche tu.»
Karin gli apparteneva solo in quelle poche ore notturne, quando poteva stringerla, respirare il profumo dei suoi capelli. Quando, per un po’, tornavano ad essere anche una coppia.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Capitolo dieci ***


Capitolo dieci
 
Ulquiorra aveva notato il cambiamento di Orihime e non avrebbe potuto essere altrimenti: lui la conosceva meglio di chiunque altro, ed era in grado di percepire anche il minimo cambiamento. Di fatto, sua moglie poteva sembrare sempre la stessa ad una prima occhiata, era gentile e affettuosa, ma assente. E, soprattutto, Ulquiorra aveva l’impressione che lei fosse arrabbiata con lui. Non avrebbe avuto bisogno che sua moglie lo guardasse con aria colpevole, perché si sentiva in colpa già da solo. Nel tentativo di fare la cosa giusta, sbagliava sempre. Era proprio vero, non aveva nessun controllo. Orihime non aveva più preso l’argomento. Anzi, in realtà parlava poco in generale e molto spesso Ulquiorra la trovava stesa a letto: non dormiva, se ne stava lì con lo sguardo vitreo.  
Ulquiorra era un artista, molti dei suoi quadri erano stati esposti al Centro Nazionale d’Arti di Tokyo, E amava dipingere da sempre, ma ultimamente non riusciva neanche a tenere in mano un pennello. Non nella situazione in cui si trovava. Se avesse dovuto colorare una tela, avrebbe usato colori quali il nero e il grigio, colori oscuri e un po’ specchio delle sue paure: che Orihime fosse già caduta in una brutta depressione, che il loro matrimonio ne avrebbe risentito in maniera permanente. Poi c’era Kiyoko.
Kiyoko era diventata più silenziosa del solito da quando aveva visto Orihime crollare. Lei era una bambina sensibile, che aveva capito tutto sin dall’inizio e Ulquiorra sapeva che avrebbe dovuto parlare anche con lei.
Ma lui non sapeva dove andare a sbattere la testa, né con chi parlare. C’erano Grimmjow e Nnoitra, i suoi migliori amici, che cercavano di consolarlo e di dargli consigli, per quanto possibile.
Tu e Hime dovreste staccare la spina. Lasciate la città, andate da qualche parte. Almeno, io farei così gli aveva consigliato Grimmjow.
Aveva anche preso in considerazione l’idea di parlarne con Sora, il fratello maggiore di Orihime. Di sicuro lui non se ne sarebbe stato con le mani in mano nel sapere sua sorella in quella brutta situazione.
C’erano troppe cose a cui pensare e si sentiva un po’ solo. Anche se sembrava imperturbabile, dentro di sé era turbato eccome.
Orihime vide suo marito che fissava la tela, forse nel tentativo di trovare un’ispirazione che però non sarebbe arrivata. Ulquiorra era da tutt’altra parte. E Orihime si odiava, perché sentiva di non essere più sé stessa. Era sempre stata una donna, una madre e una moglie, non perfetta ma che faceva del suo meglio. Adesso invece sentiva di aver lasciato sua figlia a sé stessa e soprattutto di aver escluso Ulquiorra, chiudendosi nel suo dolore.
Un dolore che alla fine era di entrambi. Rimase a fissarlo, con i capelli lunghi in disordine. Doveva andare a lavoro, la sua passione a cui ultimamente si era dedicata in modo distaccato e meccanico.
«Kiyoko dov’è?» mormorò, interrompendo il silenzio.
«Da Naoko» rispose lui, voltandosi a guardarla. Orihime era sempre bellissima, sia che fosse felice o triste. Ma gli mancava vederla allegra, davvero serena. Lei era sempre stato il contrario di lui, serioso, timido e introverso. L’aveva amata sin da subito. L’amava ancora, l’avrebbe amata sempre.
Orihime annuì, spostandosi i capelli dietro le orecchie.
«Capisco. Ulquiorra, tu pensi che io sia una madre orribile e una moglie anche peggiore?»
La domanda lo sorprese. Posò il pennello e rivolse a lei tutte le attenzioni.
«No, non lo penso. Perché dovrei?» non l’accusava certo di nulla, le sue reazioni semplicemente erano umane.
«Non è ovvio?» mormorò lei, mordendosi il labbro. «Guarda come mi sto riducendo.»
Non voleva piangere ancora, lo aveva fatto fin troppo, alternando i pianti all’apatia. Come si sentiva inutile. Una donna a metà. Ulquiorra aveva quasi paura a toccarla, temeva un suo rifiuto, ma le si avvicinò comunque.
«Tu vai bene così, Hime. Mi dispiace, io non so come… non so come comportarmi. Qualsiasi cosa faccio, è sbagliata.»
Si portò una mano tra i capelli, quasi a tirarli. Forse un po’ ingenuamente, aveva creduto che ne sarebbero usciti presto, perché bisognava solo farsene una ragione. E invece no.
«Dispiace a me, Ulquiorra. Non me ne sentirai più parlare» Orihime ricacciò le lacrime, nascondendosi dietro quel tono duro che non le apparteneva.
«Lo sai che non è quello che intendevo» rispose subito lui, ma ad un tratto – dopo tutti quegli anni – Orihime gli appariva distante, come se avesse innalzato un muro.
«Devo andare al lavoro» disse lei, senza nemmeno ascoltarlo.
 
 
Anche Naoko aveva fatto caso alla sua migliore amica, alla sua tristezza inconsolabile. Aveva creduto di poterla rallegrare un po’. C’era Aries accucciato accanto a loro, potevano dipingere, giocare in giardino, ma Kiyoko era priva di entusiasmo. Se ne stava seduta sull’altalena, con la testa chissà a quale pensiero.
«Uffa!» Naoko le si piantò davanti con le mani sui fianchi. «Ma insomma! Abbiamo dipinto, abbiamo giocato con Aries, con l’hula- hop, abbiamo mangiato il gelato, ma non riesco a tirarti su! Mi dici cos’hai? Io sono la tua amica del cuore, devo saperlo!»
Naoko era una gran chiacchierona, al contrario di Kiyoko che rifletteva sempre molto su cosa dire.
Era difficile da spiegare. Per questo, quando la sua amichetta glielo chiese in modo così diretto, iniziò a piangere.
«Credo che la mia mamma e il mio papà non mi vogliano più bene.»
Naoko si guardò intorno, per la prima volta non sapeva cosa dire.
«Amh… perché dici così?» domandò all’improvviso.
«Perché… lo sai che vogliono un altro figlio? Io non lo sapevo, lo so solo perché l’ho sentito mentre parlavano! Però non riescono ad averlo e quindi la mia mamma è triste. Non capisci?» Kiyoko si alzò, stringendole le spalle. «Io non basto più! È perché i neonati sono più carini, non è vero? Io oramai sono grande e brutta! Naoko, come faccio? Dovrò scappare di casa, almeno puoi ospitarmi tu?»
Kiyoko era in preda ad una crisi d’isteria, il che non era da lei.
Naoko l'afferrò per le spalle a sua volta. 
«Oh, ma sei esaurita?! Calmati e respira. Certo, capisco. Effettivamente anche io al posto tuo sarei gelosa, ma non devi disperare. Non è possibile che loro smettano di volerti bene.»
Kiyoko si asciugò una guancia.
«Davvero?»
«Certo! Io ho sempre ragione. Tu basti eccome, tu sei Kiyoko e sei bella, buona e brava» Naoko le diede un pizzicotto sulla guancia. Forse questo non avrebbe risolto tutti i problemi di Kiyoko, ma per il momento aveva smesso di pensare e di deprimersi. Questo per ora era abbastanza.
 
 
Nnoitra era concentrato. Quei dannati editori gli stavano addosso e non aveva altra scelta che mettersi sotto col lavoro: stava lavorando ad un manga action a sfondo apocalittico, ma era dura concentrarsi con tutti quei pensieri per la testa.
Lui non era esagerato nella maniera più assoluta, le sue erano reazioni normali. Era Nel che non capiva, insomma, cosa pretendeva? Che se ne rimanesse tranquillo senza avere paura?
Lo sai, lo sai bene che è questo. Che è paura. Alla fine, sei solo un insicuro, anche se ti fingi duro e insensibile.
«Oh, e sta zitto!» borbottò, la voce nella sua testa era rumorosa. Neliel stava rientrando in quel momento e si era soffermata a guardarlo.
«Nnoitra, ma con chi stai parlando?» teneva in mano un sacchetto contenente la spesa piuttosto pesante. Nnoitra scosse la testa.
«Con nessuno, pensavo ad alta voce. Lascia, faccio io» lasciò perdere le tavole, non avrebbe comunque trovato la giusta concentrazione e si offrì quindi di aiutarla. Nel lo lasciò fare, mentre si mordeva il labbro pensierosa. Non è che non capitassero i litigi, solo che quando discutevano di certe cose, aveva sempre la sensazione che ci fosse sotto qualcosa di più. E in genere lasciava perdere, l'eccessiva gelosia di Nnoitra non era mai stata un problema. Ma forse aveva sbagliato a sottovalutare le sue reazioni.
«Non credi che dovremmo parlarne?» domandò, dondolandosi come una bambina.
«Non vedo di cosa» rispose lui, che non aveva proprio voglia. D’accordo, forse le sue reazioni erano giusto un pochino esagerate, e allora?
«Nnoitra, davvero, sto cercando di capire. Se c’è qualche problema nella nostra relazione, dovremmo parlarne.»
Odiava quando Nel decideva di essere diplomatica, cosa che lui non era per niente. Finì di sistemare dei barattoli e poi la guardò.
«Non mi pare che tra di noi ci siano problemi. E se ti riferisci alla mia gelosia, sono sempre stato così!»
Nel chiuse gli occhi e per un attimo si ricordò del Nnoitra nemmeno ventenne, con un carattere ancora più burbero e difficile. Con gli anni i lati più spigolosi del suo carattere si erano ammorbiditi, non si poteva dire lo stesso per la sua gelosia.
«Certo, lo so. Sto cercando di capire se è un problema di fiducia. Non ti fidi di me? Temi che io possa tradirti?»
Nel gli andava dietro, gli girava attorno e questo lo faceva sentire alle strette. Nnoitra non amava parlare, preferiva agire.
«No, non temo che tu possa tradirmi» rispose secco.
Lo sapeva, doveva insistere per forza, suo marito sapeva essere testardo e impossibile, alle volte.
«Senti Nnoitra, pensavo… forse dovremmo vedere… tipo un terapista.»
Si era già immaginata la sua reazione e in effetti essa non fu diversa da come se l‘era figurata. Lui ora la stava guardando come se avesse detto chissà quale pazzia.
«Tu vuoi mandarmi da uno strizzacervelli? Ah, te lo scordi, io non ci vado.»
«Non voglio mandare a te, è per entrambi! Lo sai, a volte la gelosia può distruggere le coppie e…»
«Ah, quindi dai per scontato che sarò io a rovinare il nostro matrimonio? Bene, alla faccia della fiducia.»
Nel strinse un pugno. Stava provando a essere paziente, ma nemmeno lei era conosciuta per questa qualità in particolare.
«Perché non mi ascolti mai? Io sto provando a darci una mano!» alzò la voce. «Lo capisci che non è una situazione normale? Tu… tu sei geloso di tutti e non c’è nemmeno un motivo concreto per esserlo! Ed eri così anche quando ci siamo messi insieme e io l’ho accettato. Ma adesso? Rimarrai sempre sull’attenti?»
Anche se molto più bassa di lui, Nel sapeva farsi valere. E sapeva sempre come colpire. Nnoitra assottigliò lo sguardo e anziché esplodere abbassò la voce.
«Esattamente quand’è che io sono mai stato normale? Forse tu lo hai dimenticato, ma io no.»
Nel sgranò gli occhi, sorpresa e anche un po’ ferita. Nnoitra si svalutava troppo, anche se indirettamente.
Nessuno dei due si era accorto di Naoko, che li fissava in silenzio e un po’ preoccupata.
«State litigando?» domandò con un tono di voce triste che in genere non le apparteneva.
«No, non stiamo litigando» sussurrò Nel, sorridendo nella sua direzione. Che Naoko ne restasse fuori, non doveva essere coinvolta nei problemi dei grandi.
«Stavamo solo parlando» confermò Nnoitra. Se non era un bravo marito voleva almeno essere un bravo padre. Beh, ci stava provando, ma non era sicuro di starci riuscendo. Naoko gonfiò le guance, convinta ma non del tutto.
«Ero venuta qui solo per dire che abbiamo un po’ fame.»
«Ma non avete già mangiato? Vabbè, cosa lo chiedo a fare» sospirò Nnoitra stancamente. Nel rise e decise di accontentare sua figlia, magari anche di distrarsi un po’. Solo per il momento. Non avrebbe più sottovalutato nulla d’ora in avanti.
 
A Shinji era quasi venuto un colpo quando aveva visto Miyo sbucargli davanti con una vistosa ciocca di capelli colorata di blu. Salvo poi scoprire che era solo un extension, ma i motivi di attrito con Hiyori non mancavano mai per un motivo o per un altro e fu proprio Miyo a sganciare la bomba senza neanche farlo di proposito.
«Papà, lo sai che ho conosciuto il fidanzato nuovo della mamma?»
Shinji aveva alzato gli occhi dai fogli che teneva sul tavolo. Stava cercando di organizzare altre esibizioni, visto che era da una settimana almeno che non riuscivano a esibirsi e Hiyori gli stava col fiato sul collo. La ragazza se ne stava seduta dal lato opposto, le gambe accavallate mentre masticava una cicca. Attendevano gli altri membri dei Vizard per concordare se fosse o meno opportuno cercare di esibirsi fuori Tokyo.
«Beh, spero quanto meno che sia una persona decente, visto che è stato a contatto con mia figlia» disse a denti stretti. Non poteva dire di fidarsi del tutto della sua ex.
«Certo che è una persona decente, i grandi errori si fanno una volta» rispose lei, nervosa. «E poi è anche figlia mia. L’ho partorita io.»
«Già, ma quello che si prende più cura di lei sono io» rispose Shinji. Era una guerra continua e Miyo si trovava in mezzo. Miyo che faceva finta di niente e cercava di leggere un libro. Era sempre un po’ imbarazzante quando accadeva in pubblico.
«Idiozie! E poi quella preoccupata dovrei essere io, saresti capace di portarti a casa la prima sgallettata che ti ritrovi!» Hiyori sembrava pronta per gettargli in testa il suo tè freddo. E Shinji le avrebbe risposto per le rime, ma una chiamata da un numero conosciuto glielo impedì.
«Scusate un momento» disse alzandosi. «Pronto? Parla Shinji Hirako.»
«So bene chi sei, Shinji. Dopotutto ti ho chiamato io.»
Niente avrebbe potuto prepararlo a quello. Aizen era riapparso qualche giorno prima come un incubo e adesso era tornato a tormentarlo. Per quale motivo?
Cercò di respirare e di non mostrarsi turbato.
«Aizen. Ma che cavolo, come fai ad avere il mio numero?»
«Diciamo che ho i miei metodi. Sarei entrato direttamente, ma l’ultima volta che ci siamo visti non mi sei sembrato molto felice, quindi ho preferito chiamarti.»
Da quelle parole, Shinji capì che doveva averlo seguito e trovato o chissà che altro.
«Maledetto stalker, tu sei pazzo. Non puoi lasciarmi in pace e basta? Cazzo, sei un avvocato di successo, se vuoi un amante puoi averne mille. Io ho chiuso» mormorò, mandando al diavolo il suo tentativo di non mostrarsi turbato. Miyo ora lo stava guardando e le sorrise per rassicurarla. Sentì poi Aizen sospirare.
«Shinji, ti è così difficile credere che mi manchi?»
«Sì, mi è difficile. Che io possa… essere stato attratto da te non è difficile da credere. Anche se non m’interessano gli altri uomini, tu hai un certo fascino. Ma perché tu dovresti essere attratto da me? Non ho niente che possa interessarti. E soprattutto» guardò oltre le finestre di vetro. «Mia figlia adesso è abbastanza grande da capire certe cose. Quindi niente cazzate. Non ti avvicinare a me e non ti avvicinare neanche a lei o giuro che ti ammazzo.»
Aizen rise.
Dio, lo avrebbe ammazzato davvero! Ma allo stesso tempo Shinji non voleva vederlo. Quell’uomo maledetto lo rendeva debole, irriconoscibile.
«Tua figlia mi sta simpatica, ti somiglia. E credo di starle simpatico anche io. Ma a parte ciò, so che ti manco anche io, Shinji. Voglio solo parlare, tutto qui. Nel caso volessi, sai bene dove trovarmi.»
Che la smettesse di tentarlo, di infierire. Non gli aveva già spezzato abbastanza il cuore?
«Ah, fanculo» borbottò, chiudendo la chiamata.
Non poteva farsi coinvolgere di nuovo da lui. Anche lui sbagliava sempre e solo una volta, era questo che cercava di ripetersi per convincersi.
Respirò profondamente, cercando di assumere un’espressione normale.
Se ne sarebbe dimenticato presto, non aveva scelta.
 
Riuscire a far svolgere i compiti a Yami era un’impresa. Ed essendo Yoruichi un’insegnante, aveva una certa deformazione professionale e molta pazienza. Ma Yami metteva a dura prova la madre.
«Io non ho voglia. Studiare non mi serve a niente, perché io voglio fare la ballerina di hip-pop» dichiarò Yami, con l’aria di una persona vissuta.
Yami ha le idee chiare, pensò Hikaru seduto sul divano a leggere un manga. Lui i compiti li aveva già svolti da solo, non creava problemi di sorta. Essere il più tranquillo e il meno problematico dei due a volte era un bene e a volte era un male.
Sì, perché dopotutto era Yami quella sempre al centro dell’attenzione. E come avrebbe potuto essere diversamente? Lei aveva un carattere esplosivo, di sicuro quella che tra i due risaltava. Lui invece era la sua ombra. Tutto questo Hikaru lo pensava senza riuscire però a dirlo. Non sarebbe servito a niente, e probabilmente erano pensieri sciocchi.
«Quando uscirai da questa casa, farai quello che vuoi, ma fino ad allora dovrai fare quello che dico io! Collabora ogni tanto!» borbottò Yoruichi. Ogni tanto avrebbe voluto utilizzare la classica frase “Vedrai cosa succede appena torna tuo padre”, ma sarebbe stato inutile: Kisuke non sapeva essere severo, soprattutto non con Yami. Lei lo teneva in pugno e ne era ben consapevole.
Infatti, quando Kisuke tornò, Yami trovò la scusa perfetta per mollare lo studio, saltando tra le sue braccia per farsi coccolare.
«La mia bambina» gongolò lui abbracciandola e Yoruichi borbottò.
«La tua bambina un corno, mi fa solo disperare!»
«No, non è vero. Io sono bravissima, è solo che non ho voglia di studiare, non sono mica l’unica!» si lamentò lei, facendole una linguaccia. Hikaru sprofondò nel divano, un po’ malinconico. Chissà a chi somigliava? A volte aveva l’impressione di essere stato adottato: anche se era il gemello di Yami e c’era qualche somiglianza, per il resto appartenevano a due mondi diversi. E quando gli capitava di pensarci, gli veniva da piangere.
C’era un modo in cui Hikaru attirava l’attenzione, un modo che non gli piaceva, una situazione che non controllava e di cui avrebbe fatto volentieri a meno: gli attacchi d’asma. Se Yami era venuta fuori in perfetta salute, lui aveva questo piccolo grande problema che ogni tanto gli stringeva la gola impedendogli di respirare.
Lasciò cadere il manga a terra, rantolando. Yoruichi e Kisuke si voltarono a guardarlo nello stesso momento. Anche se avrebbe dovuto essere abituata, Yoruichi tendeva sempre a farsi prendere un po’ dal panico in certi casi. Ma non si metteva a gridare disperata, il suo era quel panico paralizzante. Era Kisuke quello bravo ad agire. Dopotutto era il primario di un ospedale. E dopotutto non era nella sua natura agitarsi.
«Ehi, Hikaru. Va tutto bene. Hai l’inalatore?» domandò sedendosi accanto a lui. Hikaru annuì e provò a prenderlo con una mano tremante, senza riuscirci e così fu Kisuke stesso ad aiutarlo, mentre gli accarezzava i capelli per tranquillizzarlo. Anche Yami si era zittita in attesa che quell’attacco passasse: anche in questo somigliava a sua madre, quelle rare volte che aveva paura, si immobilizzava. Hikaru usò l’inalatore e, dopo minuti che parvero infiniti, riuscì di nuovo a respirare profondamente, a pieni polmoni. Con gli occhi socchiusi si lasciò cadere tra le braccia del padre, come faceva spesso. Più per la paura, che gli causava quella specie di semicoscienza.
«È passato adesso. Sei stato bravo, piccolo» disse Kisuke abbracciandolo. Yami sospirò, cadendo seduta sul pavimento.
«Stupido Hikaru. Mi fa sempre morire di paura» piagnucolò.
«Va tutto bene. Tuo fratello è forte, lo sai» la tranquillizzò Yoruichi, che aveva finalmente ritrovato la forza di parlare.
 
Più tardi, Yoruichi si pettinava davanti allo specchio. Si sentiva ancora parecchio scossa, come succedeva ogni volta che Hikaru aveva un attacco d’asma. Poteva essere forte quanto voleva, ma dinnanzi a certe situazioni diventava impotente e Kisuke era decisamente più brava di lei a gestirle.
«Dorme» disse suo marito, la cui figura gli era ora apparsa allo specchio. «Yami ha insistito per dormire accanto a lui. Così può tenerlo d’occhio, dice. Quella bambina è proprio come te, sotto sotto nasconde un animo sensibile.»
Yoruichi si volse a guardarlo, sforzando un sorriso.
«Puoi ben dirlo.»
«Ehi, sei ancora scossa. Non ti preoccupare. Crescendo imparerà a gestirsi da solo» Kisuke allargò le braccia e la strinse. Yoruichi socchiuse gli occhi, ogni tanto amava sentirsi protetta e al sicuro anche lei.
«Lo so, mi passerà. A proposito, ci siamo salutati io e te?»
«No, in effetti no» Kisuke le scostò una ciocca di capelli dal viso e poi sorrise. «Ciao, Yoruichi.»
Dopodiché le posò un bacio sulle labbra e Yoruichi sentì di andare a fuoco. Si aggrappò a lui e avvertì quel calore divamparle per tutto il corpo. Non era facile convivere con l’eccitazione senza mai potersi sfogare del tutto. E la cosa dipendeva da lei, lo sapeva bene, ma il saperlo le metteva addosso solo più tensione e ansia. Kisuke la toccò mentre le baciava il collo, la toccò anche tra le gambe e la sentì umida.
«Kisuke, io ti voglio…» ansimò, ed era sincera. Bruciava di eccitazione.
«Oh, mia cara. Anche io, non sai quanto.»
Dopo parecchio tempo, Yoruichi sembra nel mood giusto per lasciarsi andare. I preliminari non erano un problema, anzi, era l’atto sessuale in sé per sé. Ma di questo se ne rese conto nel momento in cui Kisuke fu sopra di lei e lei iniziò a sentire dolore.
«Ahi…» si lamentò, ansimante. Avvertiva la sua presenza, che non scivolava però fluidamente in lei.
«Ti faccio male?» chiese Kisuke. «Vuoi che cambi posizione?»
«Non credo sia questo, è che mi sento tesa. Non riesco a controllarlo, il mio corpo, tutto il mio corpo si tende in automatico. Accidenti, ma cosa c’è che non va in me?» si lamentò, schiaffandosi una mano sul viso. Era frustrante. Perché arrivata a quel punto della sua vita, con un marito con cui poteva avere una vita sessuale attiva e soddisfacente, non riusciva a godersi nulla?
«Yoruichi, non c’è niente che non va in te» sospirò Kisuke. E poi ripensò alle parole di Kurotsuchi. «Stavo pensando… forse una terapia di coppia ci farebbe bene.»
Yoruichi si volse a guardarlo, imbronciata.
«Dici con un sessuologo o una cosa del genere? A questo ci avevo pensato, credevo che fosse un periodo, ma… forse mi sbagliavo. Sono orribile» disse rassegnata. Kisuke afferrò il suo viso con dolcezza e cercò il suo sguardo.
«Non penso affatto tu sia orribile. Queste cose possono capitare.»
«E smettila di parlarmi con quell’aria professionale, non sono una tua paziente» arrossì. «Comunque sia… potremmo provare. A questo punto non vedo cosa abbiamo da perdere. Qualsiasi problema io abbia, voglio lasciarmelo alle spalle.»
«Questo è lo spirito giusto. Amh, cara?» domandò poi all’improvviso. «Non c’è un altro, vero?»
Effettivamente una piccola paura in lui si era insinuata, sebbene non fosse nel suo carattere lasciarsi andare alla paranoia.
«Idiota, ma che dici! Certo che non c’è un altro. E poi il tradimento porta troppi problemi, quando non ti amerò più, ti lascerò» rispose pungente come solo lei sapeva essere. Anche se stava solo cercando di nascondere la sua frustrazione.
«Molto bene, chiedevo soltanto. Comunque siamo arrivati a questo punto dopo mesi. E inoltre…» disse allusivo. «Per fortuna ci sono altri modi per godere. Rilassati.»
Yoruichi non ebbe nemmeno il tempo di chiedere che se lo ritrovò tra le gambe. Gemette subito dopo. Forse non sarebbe stata una conclusione disastrosa per la sua lunga giornata.
 
Era già tardi. Toshiro avrebbe voluto dormire, ma né Gin né Rangiku erano in casa. E lui, anziché dedicarsi allo studio come avrebbe dovuto (era rimasto un po’ indietro), aveva dovuto fare da baby-sitter a Rin e Hayato. Non capiva cosa ci vedesse Rin in uno come Hayato, quel bambino sembrava perennemente imbronciato e infelice. E aveva dovuto cercare un modo per intrattenerli. Questo però se l’era immaginato, Rin lo preferiva ad ogni possibile baby-sitter.
Alle dieci passate, vennero per Hayato. Aveva dato per scontato che la sua ricchissima famiglia gli avesse mandato un’auto per prenderlo e portarlo a casa, per questo a Toshiro quasi non venne un colpo quando si ritrovò davanti Momo Hinamori in persona.
«Lei?» domandò, serioso e un po’ accaldato. Era sempre molto carina, sempre ben vestita anche se con quell’espressione triste in viso. Per forza, stare con Sosuke Aizen non sembrava divertente.
«La macchina del nostro autista ha avuto un problema. Così mi sono detta che sarei potuta venire io. La sera non ho mai molto da fare» disse, tenendo lo sguardo basso.
Fosse stata solo la sera e non ogni giorno della sua vita.
Toshiro aveva sperato d’incontrarla (questo non poteva ammetterlo), ma non immaginava sarebbe successo tanto presto.
«Sì, capisco. Suo figlio è di là. Che faccio, lo chiamo?» domandò, mentre si sentiva un po’ impacciato. Lui non si era presa una cotta per una donna più grande e sposata.
Non era così patetico.
«Puoi darmi del tu, non preoccuparti. Non sei certo un ragazzino» disse, gentile.
Che storia, era la prima persona a non trattarlo come un bambino.
«Sicura? È solo che mi sembra inopportuno. Lei è una donna adulta, sposata, influente…»
«Sono solo Momo, Toshiro» disse con un sorriso, guardandolo finalmente negli occhi. «Rangiku mi ha detto che d’ora in poi vivrai qui. Immagino quindi che ci vedremo più spesso.»
Era proprio quello che Toshiro voleva. Non pretendeva chissà cosa, non voleva guai. Voleva solo parlare. Aveva l’impressione che Momo avesse bisogno di parlare. E che lui avesse bisogno di ascoltare.
«Ah, te l’ha detto. Sì, in effetti è proprio così. Beh, mi fa piacere. Vederti più spesso, insomma. Voglio dire, andiamo d’accordo» borbottò.
Che stupido. Che stupido idiota. Per quale motivo una donna avrebbe dovuto avere interesse per un ragazzino? Eppure Momo stava parlando proprio con lui, non con qualcun altro, non con suo marito che – a quanto aveva capito – era uno piuttosto assente.
«Possiamo diventare amici. Mi piaci, Toshiro» disse Momo e per una volta le parve davvero felice.
Non doveva certo stare lì a rimuginarci troppo. Il suo era un mi piaci di quelli che si poteva dire a chiunque. Toshiro chiuse gli occhi.
«Bene» forse non era la risposta giusta, ma che altro avrebbe dovuto dire?
Grazie, mi piaci anche tu? Questo sarebbe stato inopportuno.
Un imbronciato Hayato gli passò accanto, quasi spintonandolo e Toshiro dovette trattenersi per non insultarlo davanti a sua madre. Proprio non provava simpatia per quel ragazzino.
«Eccomi» borbottò.
«Eccoti, tesoro. È stato un piacere, Toshiro. Allora ci vediamo presto» disse salutandolo con la mano. Lui fece un cenno col capo. Stava cercando di atteggiarsi da vero duro, ma dubitava di starci riuscendo. Si era appena dato una sola regola: creare una stabile amicizia con Momo andava bene, andare oltre invece non andava bene per niente. E poteva riuscirci, non che avesse comunque molta scelta.


 
 
Fan art realizzata dalla bravissima angelo_nero che ha rappresentato la nostra piccola artista Naoko Gilga <3
 
Nota dell’autrice
Dopo un po’ torno a scrivere note, anche perché ho qualcosa da dire, partendo dal basso. La ToshiMomo fino a poco tempo fa era una mia NOTP (ma perché più che altro non mi piace Momo). Visto però quello che sta passando, mi sembrava giusto darle una gioia, anche se per ora lei e Toshiro sono solo amici. Povera Momo, cornificata dal marito, però a Shinji non va tanto meglio, non gli piace tanto l’idea di fare l’amante (visto che ci sono stati dei trascorsi). Ma stiamo parlando di Aizen, lui le cose pulite non le fa mai. Che altro dire? Un po’ di tormento anche per questi bambini, a Hikaru e alla sua crisi d’asma, ma anche per i suoi genitori. E per Ulquiorra e Orihime. Ah sì, anche per Nnoitra e Neliel. Secondo me in tanti odieranno Nnoitra, e la cosa strana è che lui è quello che mi somiglia di più sotto alcuni aspetti (perché sì, la sua psicologia qui è molto più complessa di quanto non sembri). E nulla, ci risentiamo al prossimo capitolo.
Nao

 

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Capitolo undici ***


Capitolo undici

Ai si era svegliata presto quella mattina. La casa era ancora immersa nel silenzio e illuminata dalle prime e dolci luci dell’alba. Uscendo dalla sua stanza, pensò che sarebbe potuta sgusciare in camera da letto dei genitori e stringersi alla sua mamma per un’ora, prima che la sveglia suonasse. Ma camminando in corridoio vide la porta socchiusa della camera degli ospiti e quando si avvicinò si accorse che lei dormiva lì, tutta sola. A volte capitava che i suoi genitori dormissero separati. Lei non aveva mai chiesto, ma la trovava una cosa triste e si chiedeva se facessero tutti così. Sua mamma sembrava triste mentre dormiva. Così camminò ancora e andò da suo padre, che dormiva solo a sua volta. Salì sul letto e gli picchiettò su una spalla.
«Papà, perché tu e mamma dormite separati?»
Mayuri aprì gli occhi. Erano le cinque un quarto e sua figlia partiva già con domande inopportune.
«E perché non lo chiedi a lei? Io non mi sarei certo disturbato tanto.»
Ai rimase un attimo a pensare. Parlava poco, ma quello che diceva doveva sempre essere giusto o opportuno. O almeno ci provava.
«Ma tu e la mamma non vi state per lasciare, vero?» domandò con una nota di panico.
«Oh, povero me» si lamentò, capendo che avrebbe fatto meglio ad alzarsi. «Non che io sappia. Stai ancora dormendo, Ai? Non è da te fare domande tanto sciocche.»
Ai s'imbronciò appena, arrossendo.  E dire che si stava sforzando per non risultare sciocca.
«Io lo chiedo perché voi non siete come gli altri. Come i genitori dei miei amici, ad esempio» Ai l’osservò.
«Grazie al cielo, aggiungerei» rispose secco. «Tu sei troppo piccola per porre queste domande. Applicati in altro, di sicuro ti servirà di più nella vita.»
La bambina sospirò. Insomma, non ne faceva mai una giusta e non riceveva mai una risposta. Ma dopotutto lei, in effetti, che cosa poteva saperne dell’amore?
Mayuri richiuse la porta alle sue spalle e si ritrovò davanti Nemu che lo fissava a braccia conserte, seria, sembrava un po’ infastidita.
«Che c’è? Vi siete messe d’accordo voi donne, oggi? Che risveglio da incubo.»
«Non ne avevamo già parlato?» lei gli andò dietro. «Non puoi rispondere alle sue domande senza farla sentire stupida? E soprattutto, non puoi essere più affettuoso?»
Sì, proprio un risveglio da incubo. Nemu sembrava non volergli dare tregua ultimamente, non capendo che di quell’argomento lui non voleva parlare. Non aveva niente da dire. Giunse in cucina per bere un bicchiere d’acqua.
«Più affettuoso io? Eppure abbiamo chiarito anni fa che io non ho istinto paterno.»
«Non è così. Mi pare che quando Ai sia nata, tu fossi normale.» lei gli si parò davanti. Pretendeva delle risposte. Come sua figlia era sempre abituata a essere schiva e a passare sopra le cose, ma adesso iniziava ad essere stufa.
«Io sto cercando di non renderla una debole. È così che si forgia il carattere. Questo è il mio metodo educativo, se non ti va bene non so che farci. È il massimo che posso fare.»
«Non è vero» rispose lei. Adesso sembrava davvero arrabbiata, tremava appena. «E a me invece? Con me perché ti comporti come se mi disprezzassi? Se nostra figlia ti chiede se stiamo per lasciarci, forse dovresti interrogarti a tua volta. Perché non sei sincero, e non le dici – e non dici anche a me – che tu non sai amare in maniera normale? Che nel tuo cuore, sia io che lei, siamo di troppo evidentemente.»
Si era tenuta dentro quelle parole per troppo tempo. Voleva una sua reazione, qualsiasi cosa, sarebbe stato un segnale che gli importava. Altrimenti non avrebbe saputo che fare. Aveva l’impressione che continuando così avrebbero finito davvero con il lasciarcisi, anche se lo amava. Perché non lo comprendeva e perché voleva fare anche il bene di Ai.
Ma, come si era aspettata, Mayuri non ebbe reazione. Dal suo sguardo non capiva cosa stesse pensando.
«Non avere la presunzione di sapere cosa c’è nella mia testa. O nel mio cuore» le disse soltanto.
«E allora parlami» sussurrò, così piano che lui non la sentì neppure.
 
Quando arrivò l’orario di andare, Mayuri e Nemu lasciarono Ai a scuola e poi si diressero al St. Luke.
Urahara fu il primo a vederli arrivare e fu anche il primo ad accorgersi che i due non erano vicini come sempre, che non si guardavano neppure. L’infermiera Kurotsuchi infatti salutò lui velocemente e poi si staccò dal marito senza neppure un cenno di saluto. Chiunque avrebbe capito che doveva essere successo qualcosa e anche se non erano fatti suoi, oramai lui e Mayuri erano amici. Più o meno. 
«Oh, volevo parlare giusto con te» Kisuke gli diede una pacca sulla schiena. «Sai che i tuoi consigli mi sono stati utili?»
Maledizione a lui. Non solo doveva pensare ai suoi problemi (anzi, non ci avrebbe pensato affatto, lui non aveva alcun tipo di problema), ma ora doveva anche ascoltare quell’idiota di Urahara solo perché aveva avuto la brillante idea di dargli un consiglio una volta.
«Mi fa piacere» borbottò, infilandosi il camice e sperando che lo lasciasse in pace. Ma sperò invano.
«Già! Okay, tecnicamente non abbiamo fatto sesso. Quasi, cioè solo orale. Ma comunque Yoruichi è d’accordo sulla terapia di coppia, quindi è tutto a posto. Oh, ma guarda, sei arrossito. Questo genere di discorsi forse ti mette in imbarazzo?»
Ora lo avrebbe ucciso veramente. O meglio, Mayuri lo avrebbe anche fatto, ma passare la vita in carcere non rientrava nei suoi programmi. Quindi dovette ricordarsi di respirare.
«Non mi mettono in imbarazzo, ma ti ricordo che siamo a lavoro. E che, soprattutto, non siamo amici. Questo mi sembrava di averlo già chiarito» affermò, con uno sguardo che avrebbe fatto tremare chiunque, ma non ad Urahara. A lui Kurotsuchi stava simpatico e aveva l’impressione che fosse diverso dal solito. Addirittura triste, forse.
«Amh, sì giusto. Umh, le cose non vanno molto bene fra te e Nemu, vero?»
Che gli dei lo fulminassero! Lui non voleva parlare, non aveva nessun problema. E anche se lo avesse avuto, non avrebbe certo scelto di parlare con lui. Mayuri gli si avvicinò, quasi minaccioso.
«Lei per te è l’infermiera Kurotsuchi, nient’altro. E io non ho nessun tipo di problema e anche se ce l’avessi, al contrario di voi altri, io lascio i miei problemi fuori di qui.»
Urahara sembrò imbronciarsi. Non era minimamente scalfito dal suo tono.
«E va bene, d’accordo. Non ti forzerò a parlarne. Però ogni tanto dovresti, sono sicuro che sei umano anche tu.»
Mayuri decise che non l’avrebbe ascoltato oltre. Non gli piaceva, Urahara. Gli trasmetteva sensazioni strane, aveva un modo di parlare che lo faceva sentire strano. Ma non indagò oltre, perché la giornata era lunga e lui voleva quantomeno buttarsi sul lavoro per non pensare.
«Oh, salve primario Urahara» Ichigo arrivò alle sue spalle, sorpreso nel vederlo lì mentre fissava il vuoto.
«Ah? Buongiorno, Kurosaki! E dov’è Ishida? Non avete il turno insieme, oggi?»
«Già, ma non risponde. E non ho idea di dove possa essere» rispose Ichigo alzando gli occhi al cielo. Anche se in realtà un’idea ce l’aveva. Anzi, una speranza ad essere precisi.
 
Se Tatsuki qualche tempo prima avrebbe desiderato scappare, adesso non aveva intenzione di muoversi. Nell’abbraccio di Uryu ci stava fin troppo bene, con le sue braccia strette attorno al proprio corpo. Erano intrecciati in modo perfetto e la notte appena trascorsa era stata magica. Tatsuki non aveva ancora iniziato a pentirsene, forse era ancora troppo intontita, dal sonno e dal post sesso. Arrossì mentre guardava Uryu dormirle accanto.  Era stata la loro seconda prima volta ed era stata perfetta. Ma ora cosa accadeva? Loro che erano stati ad un passo dal divorzio fino a qualche ora prima, ci avrebbero ripensato? Era vero che Tatsuki non tornava mai indietro sulle proprie decisioni, ma tutto aveva un’eccezione e ora come ora non sarebbe riuscita ad allontanarsi di nuovo.
Uryu aprì gli occhi, le sorrise e le accarezzò il viso.
«Giorno» sussurrò. «So che forse non vuoi commenti su questa notte, ma sei stata incredibile.»
«Infatti non ne volevo. Però grazie» s’imbronciò lei. Si era lasciata andare come mai aveva fatto e quasi non si riconosceva, nel ripensarci.
«Tatsuki… questa cosa che è successa… è importante» disse poi lui. «Te lo dico, non so se riuscirò a starti lontano. Anzi, non riuscirò, ne sono consapevole. Questo è bene che tu lo sappia se hai intenzione di cacciarmi o di andare avanti con la tua idea del divorzio.»
Uryu era determinato. Era molto diverso dal ragazzino che aveva conosciuto a scuola, sempre sulle sue, timido e che in amore spesso non riusciva a prendere l’iniziativa.
«Oh, la fai tanto facile. Ma in questo momento non riesco a pensare. Mi sento solo felice come una ragazzina» ammise. Voleva che lui la baciasse. E Uryu lo capì. Si avvicinò e la baciò e la baciò ancora e avrebbe desiderato non fare altro per tutto il giorno. Ma si erano dimenticati entrambi di avere un figlio e un lavoro.
Kanae aveva una copia delle chiavi dell’appartamento di Tatsuki, da usare nel caso delle emergenze. E poiché né lei né suo figlio rispondevano al telefono, aveva deciso di andare a constatare di persona (guidata soprattutto dal suo sesto senso).
E infatti non aveva avuto torto. Quando entrò non vide nessuno e d’altro canto né Tatsuki né Uryuu avevano sentito nulla. Motivo per cui, si ritrovarono tutti e tre in una situazione a cui avevano creduto di essere oramai scampati, non essendo degli adolescenti innamorati: Kanae li aveva beccati a letto.
«MAMMA, MA COSA FAI QUI!» gridò Ishida, inforcando gli occhiali.
«Mi dispiace!» esclamò la donna coprendosi gli occhi. «Voi non rispondevate e io ero così preoccupata. Però me lo sentivo che eravate insieme.»
Tatsuki tirò su la coperta e desiderò sparire. Nemmeno quando erano solo fidanzati si erano mai fatti beccare! 
«Oh, accidenti» mormorò chiudendo gli occhi.
«Mamma, ti dispiace uscire un attimo così ci vestiamo?» chiese esasperato Uryu. Non solo c’era l’imbarazzo, ma ora avrebbe anche dovuto spiegarle cos’era successo. Anche se era già abbastanza evidente.
«Certo, scusate. Ad ogni modo sono molto felice che vi siate riappacificati. Questo è di sicuro il modo giusto.»
C’era un limite che Tatsuki poteva sopportare e il suo limite era già stato superato da un pezzo.
Quando lei e Uryu si furono ricomposti, si sedettero in cucina, ancora rossi in viso per l’imbarazzo e con lo sguardo basso. Era una fortuna che Yuichi non fosse lì, sarebbe stata dura da spiegare.
«Allora siete tornati insieme?» domandò Kanae, entusiasta e priva di qualsiasi imbarazzo.
«Non… non proprio, cioè… è difficile da spiegare» disse suo figlio. «Comunque per favore, non dire niente a Yuichi. Finché io e Tatsuki non chiariamo, preferiamo che non sappia. Beh, che non sappia a nessuno, quindi non dirlo neanche a papà.»
«Capisco, per il momento è un segreto. Non preoccupatevi, con me è al sicuro» disse Kanae, ma chissà perché Uryu non le credeva più di tanto. Tatsuki accavallò le gambe, sospirando.
«Uryu, ma tu oggi non devi andare a lavoro?»
Giusto. Il lavoro. Ishida non era uno che si dimenticava dei suoi doveri, anzi, era anche abbastanza raro che arrivasse in ritardo. Ma quella mattina si era dimenticato di ogni cosa, anche di quello.
«Merda! Sono in ritardo, in ritardissimo! Kurostuchi mi ammazza!» esclamò, alzandosi di colpo e correndo a vestirsi in maniera più decente. Tatsuki guardò sua suocera e fu colta dal panico quando capì che sarebbero rimaste da sole e che probabilmente lei le avrebbe fatto il terzo grado. Erano le persone più tranquille ad essere le più pericolose.
 
Ishida, in un tempo che si sarebbe potuto definire da record, arrivò al St. Luke con un fiato corto tale che non gli sarebbe dispiaciuta una bombola d’ossigeno, ma avrebbe dovuto farne a meno. Quando Ichigo se lo vide arrivare davanti con quell’aria da pazzo, non poté fare a meno di ridere.
«È la prima volta che arrivi così in ritardo, ma che è successo?»
Ishida ansimò, facendogli segno di attendere.
«Non riesco…respirare…»
Hanataro, che provava un certo senso di sicurezza di fianco al suo senpai, andò a salutarlo con entusiasmo.
«Buongiorno, senpai Ishida! Ma stai bene? Sei tutto rosso in viso!»
No, non è che andava tutto bene, andava tutto benissimo. Fin troppo bene. Mentre si poggiava al muro per riprendere aria, Ishida si accorse di Zaraki che si aggirava come un’anima in pena per il reparto. Doveva essere tornato per la dottoressa Unohana. Ichigo, che se ne accorse a sua volta, si mise a ridere.
«Ehi, Zaraki. Lo sai che il reparto di ginecologia è giù, vero?»
L’uomo, alto, imponente, minaccioso e divertente allo stesso momento, lo guardò.
«Fatti gli affaracci tuoi, Kurosaki. Non posso andare adesso. Non ho una scusa adatta per andare lì e chiederle di uscire.»
Senza nemmeno rendersene conto, Zaraki aveva detto loro il suo problema. Forse tutto quello che voleva era un po’ d’aiuto, ma era troppo orgoglioso per chiederlo.
«Ah, quindi è così» disse Ichigo, che trovava le reazioni di Zaraki molto divertenti. «In effetti hai ragione. Però forse ho un modo per renderlo meno imbarazzante» e dicendo ciò poggiò la mano sulla testa di Hanataro. «Mandiamo lui!»
Il ragazzino tremò, già in panico.
«P-perché io?! Cosa c’entro?»
«Già, infatti! Come se mi servisse l’aiuto di un ragazzino. Meno imbarazzante, dici? Tsk, come no!» si lamentò Zaraki. Questo era un affronto troppo grande. Si era già lasciato convincere da Ikkaku e Yumichika a scrivere un biglietto (visto che davanti a Unohana perdeva la capacità di parlare). Un biglietto! Come i bambini.
«Beh, come vuoi, io volevo solo darti una mano!» disse Ichigo. «Ma ti conviene sbrigarti, sai, c’è un medico di cardiologia che credo le abbia puntato gli occhi addosso.»
Maledetto Kurosaki. Lo avrebbe fatto a pezzi e gli avrebbe tolto la voglia di scherzare. Dopo aver ricevuto il suo aiuto. Zaraki, decidendo volontariamente di far male al suo orgoglio, porse il biglietto ad Hanataro.
«Tu, ragazzino. Va da lei e consegnale questo. E se la risposta sarà negativa, giuro che ti ucciderò.»
Cosa c’entrava lui adesso? Pensò il disgraziato Hanataro. Aveva conosciuto di sfuggita la dottoressa Unohana e le piaceva molto, ma perché avrebbe dovuto accettare un’uscita con quel tizio così strano e pauroso?
«Ma io…»
«Hanataro, te lo sto dicendo io, il tuo senpai. Su, vai» disse Ichigo dandogli una spintarella. «Questo genere di cose mi divertono troppo. Non c’è di che, Zaraki.»
«Fottiti.»
Ishida, che finalmente aveva ripreso un colorito normale, si rimise dritto come un soldatino quando vide Kurotsuchi passargli accanto. Ora lo avrebbe rimproverato come solo lui sapeva fare.
«Ah, Ishida» disse, in tono un po’ distratto. «Sei arrivato. Ho bisogno di te e Kurosaki, adesso.»
Cosa? Gli si stava rivolgendo in maniera quasi gentile? Il mondo era forse impazzito quel giorno? 
«Amh… certo, arriviamo subito» sussurrò. Kurostuchi annuì e poi se ne andò mentre Zaraki commentava ad alta voce.
«Incredibile, nessuno sclero. Il mondo sta per finire.»
Già, il mondo stava proprio per finire, pensò Ishida. E forse non era poi un male.
 
 
Masato poteva oramai affermare con certezza che Yuichi fosse la sua persona preferita, quasi quanto Kaien. Ma Kaien era il suo gemello, era naturale che fossero molto uniti. Solo che suo fratello aveva un carattere molto diverso, invece Yuichi gli era simile.
D’accordo, forse poteva avere due persone preferite.
«La mia mamma è strana per adesso» confessò Yuichi, poggiato al muro durante la ricreazione e strizzando un brik di succo di frutta oramai vuoto. «Secondo te i miei genitori torneranno mai insieme?»
«Spero di sì» disse Masato accanto a lui, senza guardarlo. Yuichi era anche una di quelle persone che amava avere vicino a sé. Gli mancava abbracciarlo, ma di certo non poteva farlo così, senza motivo.
E poi c’era una domanda, sempre quella domanda che premeva lì sulle labbra, voleva uscire a tutti i costi.
«Yuichi, tu ti sei mai innamorato?» domandò così piano che sperò che l’amico non lo avesse sentito. Invece aveva sentito eccome la domanda lo aveva portato ad arrossire.
«Ma… innamorarsi non è una cosa da grandi? E poi io… non lo so. Perché, tu sì?»
«Se non lo sai tu, perché dovrei saperlo io?» finalmente alzò lo sguardo verso di lui. «Tu lo sai che ti voglio bene, vero?»
Cosa stava cercando di fare? Voleva far capire a Yuichi che era speciale. Che era un po’ più speciale degli altri suoi amici, che gli voleva bene in modo un po’ diverso da come voleva bene a Kaien o a Naoko e il resto. Ma era troppo difficile da spiegare.
«Certo che lo so. Ti voglio bene anche io, sei il mio amico del cuore. Ecco perché ho deciso che staremo sempre insieme, anche da grandi. Se per te va bene» Yuichi aveva nascosto il viso dietro le mani. Stare sempre insieme a lui? A giocare con lui, a parlarci o semplicemente rimanere in silenzio?
Masato annuì, mentre sentiva il viso divenire caldo.
 
Kaien prendeva sempre in giro le sue amiche perché diceva che andavano in bagno sempre in gruppo. Beh, questo era vero. Naoko aveva voluto con sé tutto il suo gruppo, perfino Miyo che frequentava una classe diversa. E poi per loro quello era il momento dei segreti a cui i maschi non potevano prendere parte.
«Miyo, tu hai mai dato un bacio? Eccezione fatta per quello a Kaien» disse Yami, curiosa. «Dico un bacio vero. Come quello nei film.»
Miyo arrossì. Perché non se n’era rimasta in biblioteca a leggere?
«Veramente no. I baci dei grandi sono strani… sembrano… umidi.»
«Ugh» Naoko fece una smorfia. «Che schifo. È io che pensavo fosse una cosa romantica.»
Ai e Kiyoko erano un po’ più timide sull’argomento, ma sembravano comunque in vena di confessioni quel giorno.
«Nessuno vorrà mai baciare me» disse Ai. «Io sono una secchiona e non sono neanche così carina. Non come Kiyoko»
La diretta interessata arrossì. Carina lei? Non ci aveva mai pensato a dire il vero.
«Anche tu sei carina. Però i maschi della nostra età preferiscono tirarci i capelli o ignorarci. Io vorrei sposare Kaien da grande.»
Naoko si entusiasmò tanto nel sentire parlare di matrimonio e stava quasi per scuotere Kiyoko in preda ai gridolini, quando Miyo le fece segno di tacere. Sentivano dei singhiozzi provenire da uno dei bagni. E fu sempre Miyo che si avvicinò, aprendo la porta e trovando Rin Ichimaru seduta, gambe al petto e viso sulle ginocchia, che piangeva. Rin alzò lo sguardo, sembrava impanicata. Nessuno dei suoi compagni l’aveva mai vista piangere e nemmeno triste.
«Ichimaru?» domandò Naoko sorpresa. «Ma che ti è successo?»
Non voleva che la vedessero star male. Era sola e stava benissimo così.
«Non ho niente, lasciatemi in pace!» si arrabbiò lei. Yami corrugò la fronte.
«Ma insomma, guarda che noi stiamo cercando di aiutarti. Ah, lasciamo stare.»
«Sai, ti sentiresti meglio se parlassi. Se parlassi almeno un pochino, non è necessario che tu ci dica tutto» le disse Miyo. 
Rin sollevò lo sguardo e per una volta non le importò di mostrarsi con gli occhi rossi e le guance un po’ umide. Quella bambina più grande le stava offrendo la sua mano e il suo aiuto, sotto lo sguardo sorpreso e un po’ scettico delle altre ragazzine.
Era il primo gesto amichevole che riceveva. Lentamente allungò una mano e strinse quella di Miyo. Quello fu il primo aiuto che avrebbe accettato, ma non l’unico. Questo avrebbe avuto modo di scoprirlo da sé, più avanti.
 
Ichigo voleva bene a suo padre, davvero, ma gliene avrebbe voluto anche di più se solo non fosse stato un bambino troppo cresciuto che viziava Kaien e Masato in tutti i modi possibili e immaginabili. Non che sua sorella minore fosse diversa: Yuzu era single ed era la tipica zia che viaggiava per il mondo portando regali ai nipoti, forse anche per questo era così adorata dai gemelli.
«Aiuto, casino in ospedale, casino qui. La mia testa» sospirò, mentre osservava i suoi figli aggrappati al nonno come due koala.
«Oh su Ichigo, un po’ di allegria» disse Isshin. «Non ti sono mancato nemmeno un po’? Che modo è di accogliere il proprio padre?»
«È che fai più casino di due gemelli di otto anni, stupido vecchio» si lamentò Ichigo. Oh, la convivenza? Sarebbe stato interessante e di sicuro non stressante. Yuzu si chinò sui nipoti, dando loro due pacchetti colorati.
«Ecco, questi li ho portati dal mio ultimo viaggio in Corea del Sud»
«Regaliii! Sembra Natale. Zia Yuzu è la mia zia preferitssima in assoluto» commentò Kaien tutto contento e con gli occhi che brillavano. Rukia passò accanto al marito lasciando dietro di sé una scia di profumo.
Rukia era molto cambiata nell’arco di qualche giorno: la prospettiva di cominciare a studiare la rendeva entusiasta. Finalmente non si sentiva più solo una moglie, una madre e un’amica (tutte cose che avrebbe continuato a fare), ma sentiva di star facendo anche qualcosa per sé stessa. Ichigo la trovò molto più bella del solito.
«Rukia, mia adorata figlia!» l’abbracciò Isshin, che quando si rivolgeva a lei aveva sempre con quell’aria commossa. «Sei splendida, troppo splendida per Ichigo.»
«…Che cosa, scusa?» domandò il diretto interessato, con un tic all’occhio. Ma una carezza di Rukia bastò a farlo calmare.
«Ti ringrazio. E grazie per essere venuti tutti e due. Domani comincio ufficialmente la mia carriera universitaria.»
«Ah, non preoccuparti, per noi è un piacere» disse Yuzu tutta contenta. «È tanto che non stiamo insieme. Ho chiesto a Karin di venire con Kohei.»
Isshin non stava più nella pelle: poter badare a tutti e tre i suoi nipoti insieme? Un sogno, praticamente. Beh, almeno lui era entusiasta, Ichigo si sentiva più che altro sull’orlo di un attacco di panico, ma era bravo a gestirlo. Non avrebbe rovinato il buon umore di Rukia, e poi non si trattava della fine del mondo. Sarebbe stato in grado di provvedere ai gemelli, soprattutto perché aveva l’aiuto di Yuzu e Isshin.
…Beh, forse poteva permettersi di avere un po’ di panico.
Byakuya, quella sera, aveva sentito il bisogno di parlare con sua sorella. Sapeva che era molto presa dai suoi impegni, ma era di fatto l’unica persona che poteva capirla e che poteva forse chiarire i suoi dubbi. Certo non si era aspettato, quando era arrivato a casa sua, di ritrovarsi ad una pseudo-festa capeggiata da Isshin Kurosaki, che quando lo aveva visto lo aveva abbracciato affettuosamente come se niente fosse.
«Per caso arrivo al momento sbagliato?» domandò Byakuya.
«No, figurati, credo che il mood di casa mia sarà questo d’ora in poi» sospirò Ichigo che cercava di pulire il succo di mirtilli sul tappeto, gentilmente versato poco prima da Kaien (per un incidente, ci aveva tenuto a sottolineare).
«Se volevi parlare con Rukia, è nel suo studio.»
Proprio così. Rukia si era creata uno studio tutto suo dove poter studiare lontana dal caos, e stava sistemando la scrivania quando suo fratello esordì con un timido “Si può?”.
«Nii-san!» esclamò lei tutta contenta. «Ma che bella sorpresa, non mi avevi detto che saresti venuto.»
«Infatti l’ho deciso all’ultimo momento. Ti vorrei parlare. Sempre se sei libera, non voglio disturbare» ammise, sentendosi un po’ a disagio. Si sentiva sciocco a non riuscire ad affrontare certe cose da solo, ma per quanto riguardava alcuni sentimenti ed emozioni, credeva di averci perso la mano.
«Oh, Byakuya, quante volte devo dirti che non disturbi? Allora, di che si tratta?»
«Okay» sospirò. «Si tratta di Renji, in realtà. L’altra volta è successa una cosa un po’ strana. È venuto a casa mia, ci siamo messi a parlare e… ad un tratto ci siamo ritrovati vicini. Intendo molto vicini. Ho perfino avuto la sensazione che potesse baciarmi, il che è assurdo. No?»
A Rukia cadde il portapenne di mano. Questo Renji non gliel’aveva detto, altrimenti non si sarebbe ritrovata così impreparata.
«Ah, davvero? Beh, è una cosa… brutta?» domandò, cercando di non rispondere a quella domanda in modo diretto. Byakuya sembrò pensarci sul serio. Non aveva mai pensato a Renji in quel modo, non tanto perché fosse un uomo. In realtà sulla sua sessualità non si era mai interrogato, aveva amato una sola donna e aveva creduto che l’avrebbe amata per sempre. Adesso era tutto diverso.
«Io… non lo so. È che non capisco. Io sono il suo migliore amico, Renji non prova… non prova quel tipo di amore nei miei confronti.»
Rukia sospirò, chiudendo gli occhi. Almeno suo fratello stava iniziando a capire.
«Ascolta, di questo dovresti parlare direttamente con lui. Io non posso dirti altro…»
«Quindi vuol dire che qualcosa sai» disse Byakuya serio e forse con una leggera nota di panico nella voce. «Ma una cosa del genere è… è assurda, non può essere.»
«Perché? Perché stiamo parlando di Renji o perché sei ancora fissato sull’idea di non innamorarti?» domandò, guardandolo a braccia conserte.
Sua sorella aveva centrato il punto. Come poteva permettersi d’innamorarsi ancora? Che si trattasse di Renji o un altro, come poteva rendersi vulnerabile e mettersi nella condizione di poter soffrire ancora? Eppure sapeva anche che i sentimenti non si controllavano, né le emozioni o le sensazioni.
«È che io non sono in grado… di lasciarmi andare. Non di nuovo. Io non voglio.»
«E se poi invece succede? Non puoi controllarlo e lo sai. Se eri venuto qui a chiedermi un consiglio, quello che posso dirti è di parlare con lui» poi sorrise. «A te Renji piace?»
A Byakuya Renji piaceva moltissimo. O per meglio dire, gli era sempre piaciuto come amico, gli piaceva il fatto che fosse così diverso da lui, come il sole dalla luna. Ma era chiaro, da quando si erano rivisti era tutto stato diverso rispetto a prima.
«Sì, mi piace ma…Io non avevo mai pensato a lui in quel senso, solo che adesso riesco a pensarlo solo in questo modo. Dannazione.»
Suo fratello era combattuto. Tra il passato e il futuro. Tra il ricordo dell’adorata moglie e l’idea di ricostruirsi una vita. Rukia si avvicinò e lo guardò negli occhi.
«Io ti voglio bene nii-san, e sto facendo tanto per aiutarti. Molto più di quanto pensi. Però a volte sembra che sia tu a non voler essere felice a tutti i costi. Che ti precluda tutto.»
Per tre anni era rimasto in un limbo di dolore, autoconvincendosi di starci quasi bene. Adesso però tutto cambiava. Non sapeva ancora in che modo, ma di sicuro c’era qualcosa che doveva chiarire con Renji. 
 
 
Ecco Ai disegnata sempre da angelo_nero. È adorabile e fisicamente somiglia al papà, ma per fortuna non ha preso il suo brutto carattere :/
 
Nota dell’autrice
Non so se si è notato, ma mi diverto a far impazzire il povero Hanataro. Mi spiace che Zaraki abbia una funzione più che altro comica, lui con la sua cotta per Unohana, ma è comunque un pezzo di storia che vorrei approfondire in futuro, intanto…. Beh, Hanataro farà meglio a tornare con una risposta positiva. Mayuri e Nemu se la passano malissimo, cosa mai passerà per la testa di lui? Ci vorrà un po’ per scoprirlo, ma giuro che non rimarrà così odioso per tutta la storia. L’unico che se la sta passando bene è proprio Ishida (a parte quando suo madre lo ha beccato a letto con Tatsuki), lui in amore non si può lamentare, per ora.
Alla prossima settimana :*

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Capitolo dodici ***


Capitolo dodici

Se da un lato Yoruichi si sentiva più rilassata, da un lato non poteva che sentirsi più tesa. Adesso ne aveva la conferma: per Kisuke continuava a provare un’attrazione smisurata come se fossero stati una coppietta appena sposata e questo ero importante da comprendere. Non aveva mai avuto dubbi sui suoi sentimenti, ma allo stesso tempo non c’era dubbio che qualcosa la turbasse e sperava che la terapia l’avrebbe aiutata.
Doveva aiutarla, altrimenti non avrebbe saputo dove sbattere la testa.
Mentre pensava a ciò seduta alla sua cattedra, cercava di trovare la concentrazione per correggere i compiti dei suoi allievi. Li aveva messi sotto torchio in quel periodo, ma era conosciuta per essere un’insegnante pretenziosa; quindi, aveva deciso di utilizzare l’intervallo per portarsi avanti. Soi Fon era rimasta in classe e aveva notato l’espressione perennemente preoccupata e tesa della sua insegnante. Sapeva che non era opportuno da parte di un’alunna porre domande sulla vita privata agli insegnanti, ma aveva l’impressione che Yoruichi Shihoin avesse bisogno di parlare.
Così si avvicinò alla cattedra, con la schiena dritta e un leggero rossore sulle guance.
«Professoressa.»
«Oh, ciao Soi Fon. Cosa posso fare per te?» domandò distratta. Teneva gli occhiali sul naso, ne aveva spesso bisogno durante la lettura.
«Nulla, volevo solo sapere se fosse tutto a posto. Per lei, intendo» Soi Fon si morse il labbro. Voleva provare a mostrarsi matura, ma il fatto di essere una diciassettenne con poca esperienza in tutto non aiutava. Yoruichi si tolse gli occhiali e sospirò.
«E io che pensavo di essere brava a nascondere i miei malesseri. Comunque non è niente di cui tu debba preoccuparti.»
La ragazza però voleva saperne di più. Voleva che lei si fidasse.
«È tutto a posto, a casa?» insistette.
Ovviamente Soi Fon sapeva del suo matrimonio con il brillante primario Kisuke Urahara. Aveva avuto occasione di vederlo si sfuggita qualche volta e per quanto le ispirasse simpatia, non poteva evitare di invidiarlo.
«Nulla di cui tu debba preoccuparti» ripeté Yoruichi. Confidarsi con una studentessa non era certo il massimo, doveva fare attenzione a mantenere le giuste distanze e lo sapeva bene. Ma allo stesso tempo Soi Fon stava iniziando a porre domande molto dirette.
«Oh, no! Lei e suo marito state divorziando?» domandò battendo una mano sulla cattedra e facendo sussultare la donna.
«C-Cosa? Oh, no, non è così!» balbettò, arrossendo. «È soltanto un periodo… un po’ strano.»
Anche se non le stava dicendo poi molto, bastava guardarla per capire che c’era qualcosa a tormentarla, qualcosa che forse nemmeno lei sapeva ben spiegarsi.
«Capisco. Io di uomini non ne capisco molto, anche perché non m’interessano. Lei è etero?»
Quest’ultima domanda aveva avuto intenzione di pensarla senza dirla e invece nella foga l’aveva pronunciata ad alta voce. Si portò le mani davanti la bocca, mortificata.
«N-no, volevo dire… mi dispiace, questi non sono affari miei e… e…»
Mentre Soi Fon andava in iperventilazione, Yoruichi si ritrovò a pensare che in effetti non si era mai posta il problema. Era stata con molti uomini prima d’incontrare Kisuke, aveva avuto con essi una vita sessuale molto attiva. Non era invece mai stata con una donna, perché l’occasione non le era capitata. Quindi non avrebbe saputo dire con certezza se l’idea le piacesse o no.
«So che vuoi darmi una mano e sei molto cara per questo. Ma non preoccuparti, queste sono cose da adulti.»
Soi Fon arrossì e per l’ennesima volta desiderò sparire. E dire che era partita così bene, ma con quella domanda inopportuna si era bruciata la sua occasione. Non poteva saperlo, ma quella domanda posta per errore aveva iniziato a far pensare Yoruichi, la quale per la prima volta si stava ritrovando a porsi domande sulla sua sessualità, quando credeva che oramai fosse fin troppo grande per certe cose.
 
Non era abitudine di Rangiku andare a lasciare personalmente Rin a scuola, di solito per quello c’era l’autista. Ma aveva pensato fosse una buona occasione, visto che aveva dato appuntamento a Momo prima di andare a lavoro. Inoltre, sua figlia sembrava molto contenta della cosa, mentre le stringeva una mano.
«Penso che mi piaccia di più andare a piedi che in auto» confessò. Si sentiva quasi normale.
«Dici davvero? Allora forse dovremmo farlo più spesso» disse Rangiku.
Rin era strana da un po’, questo lo aveva ben capito, ma adesso se ne andava in giro con quell’aria malinconica e triste che le dava da pensare.
«Tesoro mio, è tutto a posto? C’è forse qualcosa di cui vuoi parlare?»
Rin arrossì e serrò le labbra. Da cosa poteva cominciare?
Ieri per la prima volta le mie compagne mi hanno vista piangere. Una di loro mi ha aiutata ed è stato strano. Io non ho mai avuto amiche. Perché non ne ho bisogno, ma non so se mi sto sbagliando.
Pensarlo era facile, ma dirlo a parole era fin troppo complicato.
Così sorrise e i suoi occhi già sottili si ridussero a due fessure.
«Sto bene, benissimo.»
Rangiku stava per dirle non è vero che stai bene e forse la colpa è anche mia, anche nostra, ma erano arrivati a Rin si staccò dalla sua mano, salutandola e correndo verso scuola.
Momo era già lì, vestita con buon gusto e sobrietà come al solito. Le due donne si salutarono con un cenno del capo e l’espressione seria e poi insieme iniziarono a camminare, mentre parlavano del futuro dei rispettivi figli.
«Mi fa davvero piacere che tu la pensi come me» disse Rangiku ad un certo punto. «Insomma, combinare un matrimonio mi sembra un po’ precoce e poi credo che Rin e Hayato debbano essere liberi. Come lo siamo state noi, insomma.»
«Certo che sono d’accordo con te. Il fatto è che Sosuke non mi ascolta» sospirò Momo rassegnata. Suo marito non la prendeva mai in considerazione, figurarsi per qualcosa di così importante.
«Oh, ci parlerò io se sarà il caso! E anche Gin, se non mi ascolta giuro che lo caccio di casa. E sono seria! Questo non è certo un gioco!» disse con energia e per un attimo Momo desiderò essere con lei. Desiderò avere la sua tempra e la sua determinazione, di certo Rangiku sapeva come farsi valere e ascoltare, al contrario suo.
«Comunque meglio non dire niente ai nostri figli, non mi sembra il caso» aggiunse Rangiku. «Sono ancora troppo piccoli per capire e poi non c’è problema. Perché, come detto, questa cosa salta. E sarà come dico io.»
A Momo venne da sorridere.
«Wow. Tu sei proprio forte, Rangiku» non poté fare a meno di mostrarle la propria ammirazione. Rangiku ammiccò.
«Lo sei anche tu, solo che devi imparare a lasciar venire fuori la tua forza. Oh!» esclamò ad un tratto guardando l’orologio che teneva al polso. «Ora devo andare, anche se mi piacerebbe parlare ancora con te. Ti chiamo più tardi.»
Momo annuì e la salutò. Aveva la forza e doveva solo imparare a tirarla fuori? E come?
S’incamminò, pensierosa. In qualche modo suo marito doveva ascoltarla, insomma, iniziava ad essere stanca di quella situazione in cui si sentiva più un soprammobile che una persona. Ad un tratto sentì un alito di vento freddo addosso perché una bicicletta le era passata accanto a tutta velocità, frenando di botto.
«Oh! Toshiro?» domandò. «Ma cosa ci fai qui?»
Toshiro non avrebbe mai detto che aveva seguito Rangiku a debita distanza e che si era impegnato a far apparire quell’incontro più casuale possibile.
Si stava comportando come un vero idiota.
«Vado all’università in bici» disse lui, imbronciato. «Per caso vuoi un passaggio?»
«Oh, non voglio disturbare. E poi non ho un posto dove andare, non lavoro neppure» disse arrossendo.
«Allora facciamo un giro» disse Toshiro guardando di fronte a sé.
«Umh… Ma non stavi andando all’università?»
Giusto, bravo l’idiota. Il ragazzo tossì.
«Tanto se perdo una lezione non finirà il mondo. Ma se non vuoi, va bene uguale.»
Momo sorrise. Un amico era proprio quello di cui aveva bisogno. Così si sedette sul portapacchi, su cui stava un po’ scomoda perché indossava una gonna. Ma le piacque, per un attimo si sentì un’adolescente, mentre Toshiro sfrecciava lungo la strada come se lei pesasse quanto una piuma.
Oramai iniziava a fare molto caldo e non appena fu possibile si fermò ad un distributore per prendere da bere.
«Vuoi un caffè freddo?» domandò Toshiro, che si sentì un po’ stupido a porre una domanda del genere ad una donna abituata allo champagne. Ma Momo annuì con energia.
«Perché no?» domandò.
Il sole era piacevole e quell’uscita improvvista si stava rivelando una piacevole alternativa alla sua quotidianità così deprimente.
«Tuo marito non avrà nulla da dire se ti ho portata a fare un giro, vero?» domandò non potendo nascondere una smorfia. Proprio non riusciva a nascondere quando qualcuno non gli piaceva, ma Momo non sembrò infastidita. La vide giocare per qualche istante con la linguetta della lattina.
«Non credo, mio marito non ha molta considerazione di me» si lasciò scappare. Non era opportuno confidarsi con una persona che conosceva da poco, ma con Toshiro le veniva naturale non tacere.
«Mi sa che lo avevo già capito. Tsk, che tipo, non è mica questo il modo di trattare le persone, soprattutto la propria moglie. Almeno, se io avessi una moglie…» lasciò la frase in sospeso. Lui non aveva nemmeno mai avuto una ragazza, non si era mai innamorato. Quindi che poteva saperne? «Insomma, perché non lo lasci e te ne trovi un altro? Io farei così al posto tuo.»
La cosa bella di Toshiro era che diceva quello che pensava senza filtri e Momo capì di apprezzare questa sua qualità. Lei era tutto il contrario.
«A volte ci ho pensato, sai? Ma non è così facile. Noi abbiamo un figlio.»
«Già, ma a parte questo, lo ami? Perché non mi sembra un tipo molto amabile.»
Momo era sempre stata convinta di sì. Ne era convinta anche adesso, forse lo amava più di quanto amasse sé stessa e questo iniziava a pesarle. Non ricordava una volta in cui si fosse messa al primo posto.
«Io…» mormorò, rossa in viso. Toshiro tossì, rendendosi conto di aver esagerato.
«Perdonami, la mia domanda era inopportuna. Non è il caso di parlare di questo, ma visto che ci siamo, forse dovresti divertirti per oggi e pensare a te. Forse non sembra, ma sono molto simpatico. O almeno così mi dicono» disse Toshiro indicandosi, con quell’espressione seria. Momo rise. Lui le piaceva, era giovan, per certi aspetti era più ingenuo e scapestrato, ma allo stesso tempo sapeva comprenderla.
«E sia» decise lei. «Almeno per una volta me lo merito, no?»
 
Naoko se ne stava seduta al suo banco con i pugni chiusi, osservando Rin. Quest’ultima era fin troppo tranquilla ultimamente, non che la cosa le dispiacesse, ma era strano. Quella bambina era fin troppo misteriosa, non sapeva nemmeno cosa le avesse detto Miyo. Qualsiasi cosa fosse stata, aveva sortito un certo effetto.
«Nao» la chiamò Kiyoko. «La stai fissando.»
«Lo so che la sto fissando! Mi fa innervosire, ecco tutto! Adesso vado e le chiedo quello che le devo chiedere» disse alzandosi. Kiyoko sospirò. Per una volta che Rin era calma, ecco che Naoko partiva in quarta. La bambina, sempre con il suo fiocco rosso in testa, batté una mano sul banco attirando l’attenzione di Rin.
«Ichimaru, ti devo chiedere una cosa»
«Che cosa?» domandò lei annoiata. Gli occhi di Naoko si ridussero a due fessure.
«Perché quella volta mi hai detto che sono la figlia di un delinquente? Guarda che non è affatto vero. Tu non puoi dire queste cose, capito?» ci teneva a chiarire. Naoko tendeva a rimuginare molto sulle cose che le venivano dette, anche se poteva non sembrare. Rin sospirò, non sembrava in vena di discutere.
«Guarda che non lo dico io, lo dicono i grandi. Una volta ho sentito i miei parlarne. E io volevo farti arrabbiare.»
Oh no, oh no, pensò Naoko. Quella doveva essere un’altra bugia da parte di Rin. Cosa c’era che non sapeva che riguardava la sua famiglia? Soprattutto, perché Rin ne era a conoscenza e lei no? Strinse i pugni e fece quasi per gridarle che era una bugiarda e tutto il resto, quando Miyo le poggiò una mano sulla spalla.
«Ciao! Mi raccomando, fate le brave ragazze. E Rin. Ricordati quello che ti ho detto, d’ora in poi se hai qualche problema, puoi parlarne con me.»
Rin annuì. Accidenti, quella ragazzina era sempre allegra e sembrava splendere di luce propria. Aiutava sempre tutti. Naoko pensò la stessa cosa e si espresse in modo più colorito.
«Miyo è così buona da essere insopportabile, uffa» si lamentò mentre se ne tornava al suo banco con più domande che risposte. Miyo rise e si voltò, quando qualcuno la urtò facendole cadere i libri che portava in mano.
«Hirako, ma sei ovunque» si lamentò Hayato. «Vai a chiuderti in biblioteca e basta, tanto per il resto sei invisibile.»
Miyo si chinò a raccogliere i libri e poi si alzò a guardarlo, dritto in viso.
«Oh, no, Aizen. Direi che sei tu quello invisibile. Ora ho da fare» disse passandogli accanto. I suoi insulti non l’avevano sfiorata e ciò fece sorridere Rin.
«Che stupida» si lamentò il ragazzino, per poi guardarla. «Adesso sei amica sua? Quella è tutta strana, non è come noi.»
Rin arrossì, guardando verso la finestra.
«A me lei piace» sussurrò, senza che nessuno la sentisse.
 
Shinji sapeva bene che Aizen non si sarebbe arreso con lui e dopotutto perché avrebbe dovuto? Quello per lui era un gioco. Per Shinji però no, aveva una vita già gin troppo incasinata, tra sua figlia, l’ex fidanzata molesta e il lavoro.
«Senti Hiyori, non è colpa mia se mi si è rotta l’auto, va bene?» domandò mentre cercava di non lasciarsi cadere il telefono di mano. «Arriverò in tempo e comunque non sono affari tuoi. Miyo è con me e fin quando è con me sono affari miei come la gestisco. Oh, fanculo…» chiuse la chiamata prima che Hiyori prendesse a urlare. Poi sentì qualcosa di umido sul viso: aveva preso a piovere e non aveva l’ombrello. E a prendere il treno all’ora di punta non ci pensava neppure. Dannazione, pensò, perché doveva piovere anche con il caldo atroce?
«Bene, fantastico. Che altro deve succedere adesso?» si lamentò.
Passò accanto ad un’auto accostata, con il finestrino semi abbassato.
«Shinji, dove te ne vai con questa pioggia?»
Lui si fermò, sbuffò e guardò verso l’alto.
«Mi prendi in giro, eh?»
Aizen se ne stava nella sua costosa auto tutto elegante e bellissimo come al solito. Shinji odiava quella sua espressione soddisfatta, anche se amava quando riusciva a togliergliela. Ci era riuscito tante volte.
«Aizen, tu sei uno stalker e se non la pianti giuro che ti denuncio veramente» disse passandosi una mano tra i capelli bagnati. «Il che è tutto dire per un avvocato.»
Aizen rise, come se lo stesse prendendo in giro.
«Anche io devo andare a prendere Hayato, volevo solo darti un passaggio. Però se vuoi prendere un treno affollato non c’è problema.»
Shinji si guardò l’orologio al polso. Non ce l’avrebbe mai fatta in tempo e d’altronde di cose doveva avere paura? Di lui? Ah, giammai. Non lo temeva affatto, temeva molto di più sé stesso.
«Vabbè, ho capito. Ma rimane il fatto che sei comunque uno stalker» disse salendo in auto. «Sono completamente fradicio. E giuro che se fai qualche battuta a sfondo sessuale scendo dall’auto in corsa.»
Sosuke rise di nuovo, mentre prendeva a guidare.
«Farò il bravo, promesso.»
Shinji era di fatto l’unico che avesse quel tipo di confidenza, anche più dei suoi amici, anche più di sua moglie. E forse di questo non doveva sorprendersi, dopotutto erano stati amanti. E questo era stato un errore che non doveva più accadere. Rimasero in silenzio, ma quando si fermarono ad un semaforo, Shinji iniziò ad essere nervoso. Era inevitabile che Aizen gli avrebbe parlato di quello.
«Shinji, mio caro. Non ti sono mancato neppure un po’?» domandò con quell’aria sempre un po’ melliflua e insopportabile.
«No, sentimi bene» rispose senza guardarlo. «Questa cosa l’abbiamo chiarita sette anni fa. Io non posso giocare a fare l’amante, non è corretto. Ho una famiglia, tu hai la tua.»
«Tu sei single, non c’è niente di male a divertirti.»
«Io sono single, ma tu no» finalmente Shinji lo guardò. «Diamine, mi fai così incazzare. Se mi vuoi così tanto perché non lasci tua moglie e la fai finita? Ti diverte  vedermi fare l’amante?»
Abbassò subito lo sguardo. Così non andava bene. Si era detto di mostrarsi pungente e distaccato, ma stava fallendo. Se Aizen avesse saputo che era ancora innamorato di lui, avrebbe avuto fin troppo potere. E già l’idea di essere innamorato di un uomo del genere era un grave affronto al suo orgoglio. E soprattutto, ancora peggio era non riuscire a decifrare le sue espressioni e intenzioni, nonostante lo conoscesse da anni.
«Oh, Shinji. Lo sai che per me non sei mai stato un semplice amante. Credi che sarei tornato da te, dopo tutto questo tempo?»
Shinji, a braccia conserte, arrossì e si rifiutò di guardarlo. Non aveva torto, ma sperare che lui l’amasse era fin troppo assurdo. E nemmeno lui lo amava. Non poteva amarlo ancora.
«Avresti fatto bene a non tornare. Non posso incasinarmi ancora» sussurrò anche se con poca convinzione. Nel frattempo erano arrivati di fronte la scuola e già Shinji si chiedeva come avrebbe spiegato a sua figlia perché si trovava in compagnia di quell’uomo.
«Non dire niente di strano, ci penso io» borbottò in un modo che fece ridere Sosuke.
Lo stava facendo ridere fin troppo. Ad un tratto vide Miyo che si guardava intorno e si sistemava lo zaino in spalle. Le fece segno di avvicinarsi.
«Papà, ma da dove spunti…? Oh, ma lei è…» disse Miyo curiosa. Sosuke sorrise.
«Sosuke Aizen. Sono un… amico di Shinji.»
Miyo chinò la testa di lato.
«Aizen? Come Hayato?»
Non le ci volle molto per unire i puntini sulle i.
 Hayato li raggiunse poco dopo e scioccarlo fu intanto il vedere suo padre in persona che veniva a prenderlo e, seconda cosa, stava parlando con quella ragazzina.
«Umh» disse schiarendosi la voce. «Papà, non ti aspettavo.»
«Hayato» lui fece un canno col capo. «Oggi ho finito prima. Allora, volete che vi riacc-»
Shinji però, già preparato a quella domanda, tirò Miyo per un braccio.
«Ti ringrazio, ma non dobbiamo andare a casa e poi non vorrei fosse di troppo disturbo. Ce ne andiamo, su Miyo.»
Quest’ultima non capì il perché di tanta fretta, il signor Aizen sembrava simpatico. Di sicuro più di suo figlio. Hayato sbuffò nel vederli allontanarsi.
«Quella ragazzina non mi piace. È tutta strana, non fa altro che leggere in biblioteca.»
«Ah, e così? Hayato, voglio che tu sia gentile con quella bambina» disse pensieroso.
Suo figlio non capiva. Perché avrebbe dovuto essere gentile proprio con lei?
«Perché? Non ha niente di speciale» provò a ribattere, ma una sua occhiata bastò a zittirlo.
«Perché lo dico io» concluse, senza aggiungere altro.
 
Anche a debita distanza, Shinji stava comunque correndo, al punto che Miyo iniziò a lamentarsi.
«Guarda che mi fai male così, ahiii!»
Lui si fermò di scatto, mollando la presa sul suo braccio. Quello che era successo era assurdo oltre ogni limite.
«Scusa Miyo. Ho un po’ perso la testa.»
«Me ne sono accorta» lei alzò gli occhi al cielo. «Sei tutto rosso, non ti ho mai visto fare così. Ma allora tu e quel signore siete amici, mi avevi detto che era un estraneo. Che succede?»
Quando assumeva quel cipiglio da persona più adulta della sua età, era difficile mentirle.
«Non succede niente. La nostra è un’amicizia un po’ particolare, siamo stati lontani per tanti anni».
Miyo arricciò il naso.
«Beh, lui mi sta simpatico, non è come Hayato.»
Shinji non osava nemmeno pensare come fosse quel ragazzino. L’unica cosa di cui si preoccupava adesso era che, ora che Sosuke Aizen era rientrato nella sua vita, difficilmente sarebbe uscito.
 
Per Renji quella era una bella giornata: quella pioggia improvvisa aveva lasciato il posto al sole sulla sua pelle, mentre aggiustava una vecchia moto. Questo riusciva a rendere piacevole perfino le chiacchiere di Ikkaku circa il matrimonio. Il suo socio, infatti, era un po’ stressato.
«Solo perché Yumichika lavora nella moda si sente in dovere di decidere tutto. Io odio già gli smoking, e se mi costringe a mettere qualcosa con le pagliette o i lustrini? Penso che potrei sclerare di brutto.»
«E dai Ikkaku, è solo per un giorno. Sii un po’ più felice» disse Renji mentre armeggiava con una degli strumenti.
«E chi ha detto che non sono felice?! Dico solo che io e la moda siamo due rette parallele. A proposito» disse indicandolo. «O ti tagli quei capelli oppure li tingi.»
«Potete scordarvelo» Renji infatti teneva troppo ai suoi capelli lunghi di un forte rosso accesso. Impegnato com’era a battibeccare con Ikkaku, non si era accorto di Byakuya che si stava avvicinando all’officina. Era la prima volta che andava a trovarlo sul posto di lavoro e forse avrebbe potuto evitare. Ma aveva bisogno di parlargli, anche se non aveva ancora in mente le giuste parole.
«Renji, Ikkaku» li salutò, cauto, con un cenno del capo. A Renji cadde la chiave inglese di mano.
«B-Byakuya» mormorò. Certo che in quel momento la loro differenza era evidente come non mai. Byakuya, con i suoi abiti eleganti e Renji, vestito come un motociclista di serie Z con i tatuaggi in bella vista e con la puzza di olio per motore addosso.
«Oh, ma guarda che bella sorpresa» ghignò Ikkaku, che da tempo aveva intuito qualcosa. «Fatemi indovinare: devo leggere tra le righe e lasciarvi un po’ di privacy.»
Renji annuì, grato di non dover stare lì a spiegare. Si sentiva un po’ nervoso, ricordava l’ultima volta in cui erano stati insieme e si rendeva conto che forse si era spinto un po’ troppo oltre: e se Byakuya avesse capito le sue intenzioni? Era questo ciò a cui mirava, ma allo stesso tempo temeva il cambiamento.
L’amore era un gran casino, molto più di quanto avesse immaginato.
«Byakuya, ma è successo qualcosa?» domandò cercando di apparire il più tranquillo possibile. Nemmeno Byakuya era del tutto tranquillo, era più teso del solito.
«Scusa se sono venuto fino a qui, ma non potevo aspettare. Solo che adesso che sono qui non so bene cosa dovrei dire. Forse dovrei solo essere diretto» lo guardò negli occhi, uno sguardo affilato. «Renji, c’è forse qualcosa che dovrei sapere? Intendo sulla nostra relazione.»
Dannazione, era successo. Renji tossì, cercò di guardare da tutt’altra. Desiderò scappare, e la consapevolezza di non potere lo stava mandando in panico.
«Merda… questo è il momento che ho temuto per tutti questi anni» mormorò, con lo sguardo basso. «Come lo hai capito?»
«Ho percepito qualcosa e Rukia mi ha dato la conferma. Non mi ha sorpreso il fatto che lei sapesse, ma vorrei sapere perché non me lo hai mai detto.»
«Tu cosa pensi? Eri impegnato, sposato, perché avrei dovuto dirtelo? Volevo metterci una pietra sopra, ma non mi è mai passata. Non credo che questa sia una cosa che può passare. E adesso mi sento uno stupido perché non era così che doveva andare.»
Si passò una mano sul viso. Le cose spesso non andavano come previsto, questo era chiaro. Adesso cosa sarebbe dovuto succedere? Byakuya non sembrava arrabbiato ma nemmeno pronto a ricambiarlo.
«Non sei stupido, solo che… Non me lo aspettavo. Ma vorrei mettere le cose in chiaro, lo sai che non è possibile.»
«Non è possibile perché sono un uomo e gli uomini non ti piacciono o perché ti sei fissato con l’idea di non essere mai felice?»
C’era una certa foga nella sua voce, anche una certa rabbia. Sapeva che non avrebbe dovuto, perché la situazione era delicata, ma in quel momento non si sentiva molto in sé. Byakuya non rispose subito. Che Renji fosse un uomo o meno, non credeva fosse un problema. L’essersi fissato con l’idea di essere infelice, quello poteva essere un problema ben più grande.
«Sono passati solo tre anni…»
«Sono passati già tre anni, vorrai dire. Andiamo, Byakuya. Tu pensi davvero che Hisana avrebbe voluto vederti così? Te lo dico io: no. E se non sono io e se non sarà nessun altro, vorrai rimanere da solo anche se dovessi innamorarti? Guarda che con questo tuo atteggiamento stai facendo preoccupare tutti. Tua sorella si sta facendo in quattro per aiutarti e anche io. Mi accontenterei perfino di saperti felice con chiunque piuttosto che con me, m’interessa solo che vai avanti, okay? Ma giuro, inizio a non sopportarti più.»
Si era pentito subito dopo di quanto detto. Non era attaccandolo che avrebbe risolto le cose. E il fatto che Byakuya non avesse alcuna reazione lo fece preoccupare.
«Mi dispiace, ho parlato troppo… io non volevo…»
«No, va bene. Sei stato sincero, quantomeno. L’ultima cosa che volevo era essere un peso. E d’altronde sono oramai spezzato, quindi faresti bene a non amarmi. Nessuno può amare una persona spezzata» disse laconico. «Ora, se non ti spiace, devo andare.»
Volle chiamarlo ma la voce non gli uscì. Era uno stupido, aveva rovinato tutto e adesso, ne era certo, non c’era alcuna speranza. Non per loro.

Kiyoko Schiffer disegnata da angelo_nero
 
Nota dell’autrice
Mi sono resa conto che non avevo ancora specificato le età di molti personaggi (di alcuni sì, ma di molti no, quindi li inserisco ora).
 
Ichigo e Rukia: 34
Ishida e Tatsuki: 34
Ulquiorra e Orihime: 34 & 33
Nnoitra e Nel: 34
Kisuke e Yoruichi: 44 & 40
Gin e Rangiku: 38 & 36
Aizen e Shinji: 45  & 29 (quindi sono quelli con la differenza di età più alta perché un po' di age-gap è sempre bello). 
Mayuri e Nemu: 44 & 32
Momo e Toshiro: 35 & 25
Chad e Karin: 34 & 30
 

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Capitolo tredici ***


Capitolo tredici
 
«È proprio così, quindi? Mia sorella sta davvero tanto male?»
Alla fine, Ulquiorra aveva fatto quello che si era ripromesso: parlare con il fratello maggiore di Orihime. Sora Inoue era quindici anni più grande e aveva cresciuto la sorella minore. Anche adesso che viveva fuori da Tokyo, i due erano molto uniti. Motivo per cui avvertirlo, per Ulquiorra, era stato il minimo.
«Temo che sia depressa. E intendo depressa per davvero. Perdonami, ma non riesco a fare niente di utile in una situazione del genere. Sono davvero inutile» Ulquiorra aveva un tono neutro, ma non del tutto. C’era anche qualcosa di simile al senso di colpa e al dolore.
«Non essere così duro con te stesso, non è colpa tua. Non è colpa di nessuno. E grazie per avermi avvisato. Anche se ci vorrà del tempo, le cose andranno meglio.»
Per fortuna che c’era Sora con la sua positività, perché Ulquiorra di essere positivo non ne aveva proprio voglia. Non aveva avvisato sua moglie dell’arrivo di Sora, per questo quando Orihime tornò, mano nella mano con un’imbronciata Kiyoko, rimase sorpresissima nel vederli chiacchierare in cucina.
«Ma…? Fratellone? Tu qui?!» esclamò, facendo quasi cadere le buste della spesa sul pavimento. Kiyoko invece reagì con grande gioia, sorridendo anche con gli occhi, cosa che non faceva da un po’.
«Zio Sora! Questa sì che è una bellissimissima sorpresa!» gridò la bambina correndogli incontro con braccia spalancate.
«Oh! Kiyoko, ma quanto sei cresciuta? Oramai sei una signorina!» disse lui abbracciandola e rimirandola. Aveva la stessa indole dolce di Orihime.
«Non sapevo saresti venuto, potevi avvisare, ti avrei accolto in maniera migliore» disse Orihime scostandosi un ciuffo di capelli dalla fronte. Suo fratello rimirò anche lei e poi l’afferrò a tradimento.
«Figurati, quest’accoglienza è più che gradita. Anche tu sei cresciuta un sacco, piccola Orihime.»
«E dai fratellone, non cresco più da un pezzo, oramai» disse lei arrossendo, ma visibilmente felice di vederlo. Ulquiorra si rilassò appena, era da giorni che si sentiva un fascio di nervi. Lui, che era sempre così tranquillo. Guardò Kiyoko, che seduta in ginocchio su uno sgabello stava curiosando nella borsa di Sora, forse in cerca di qualche regalo per lei.
«Kiyoko, non in ginocchio, ti farai male» l’avvertì. Sua figlia lo guardò, con la fronte aggrottata, e poi gli puntò il dito contro.
«Io con te non ci voglio parlare.»
«…Perché no?» domandò Ulquiorra confuso.
Oh, Kiyoko avrebbe tanto voluto gridare e dire tutto quello che le passava per la testa.
«Perché tu mi avevi detto che non dovevo preoccuparmi» parlò sottovoce. «E invece non è così. Quindi sei un bugiardo e io con i bugiardi non ci parlo.»
Quelle parole avevano lasciato Ulquiorra interdetto. Era inutile e adesso era anche bugiardo? Non poteva dare del tutto torto a sua figlia, ma come poteva spiegarle che a volte certe bugie andavano dette per proteggere chi si amava?
Anche se lui in questo non ci stava riuscendo poi così bene.
«Kiyoko…»
Lei scese dallo sgabello e se ne andò, con i pugni chiusi e gli occhi lucidi. Quella situazione la odiava proprio. Avrebbe voluto gridare che nessuno le voleva bene e nessuno pensava a lei, non più almeno. Orihime, ancora stretta a suo fratello, li guardò.
«Ma che è successo?»
Sora, immaginando quello che poteva essere successo dalla sola espressione del cognato, cercò di non appesantire ulteriormente l’atmosfera.
«Ah, i bambini hanno gli sbalzi d’umore» No, pensò poi, quelli sono gli adolescenti, ma poco importa in questo momento.
Orihime sorrise, torturandosi ancora una ciocca di capelli e guardando Ulquiorra, un po’ colpevole. Le cose erano strane tra loro come non lo erano mai state e sapeva che, in parte, la colpa era sua.
Il malumore di Kiyoko non durò molto. O per meglio dire, con Ulquiorra continuava a non parlare, ma almeno poteva godere del tutto delle attenzioni del suo zio preferito. Orihime li osservava affacciata alla veranda, sollevata e un po’ malinconica. Sembrava di rivedere sé stessa e suo fratello tanti anni prima, mentre giocavano e ridevano. Era bello sentire Kiyoko ridere, fino a qualche tempo prima avevano sempre riso insieme, ma adesso…
Ulquiorra aveva pensato a lungo se avvicinarsi o no (si poneva più problemi ora rispetto a quando non erano sposati). Ma alla fine, dopo tanto rimuginarci, si arrese e le si avvicinò, poggiandole una mano sulla schiena. Orihime si voltò a guardarlo.
«Gli hai chiesto tu di venire, vero? Ho capito che Sora è preoccupato per me nel momento in cui l’ho visto»
Colto in fallo.
«Pensavo avessi bisogno anche del suo sostegno. Siamo tutti preoccupati per te, ti stai… è come se ti stessi ammalando.»
Orihime lo sapeva, ma sentirselo dire era strano. Si sentiva un po’ malata, non voleva stare così e, allo stesso tempo, c'erano giorni in cui voleva star male.
Ho il diritto di star male e di farmi sprofondare nell’oblio, se ne ho voglia.
«Io vorrei soltanto avere una grande famiglia. Lo sai che la mia non è stata un granché, se non fosse stato per Sora, io…»
«Lo so, lo so» sussurrò Ulquiorra. Con un padre violento e una madre assente, era stata Sora la figura genitoriale di Hime. Lui invece era figlio unico per metà inglese e metà ispanico*, cresciuto in una città come Tokyo, dove gli stranieri come lui risaltavano pure troppo. Erano entrambi a volere una famiglia, avevano avuto Kiyoko. La loro preziosa Kiyoko. Nel pensarci, Ulquiorra sospirò.
«Kiyoko ce l’ha con me…»
«Eh…?»
«Le avevo detto di non preoccuparsi per te, che non ci sarebbe stato motivo. Volevo solo tenerla fuori, ma non ci sono riuscito» disse affranto. Orihime si morse il labbro e strinse la sua mano.
«La colpa è mia, non caricarti solo tu delle responsabilità. Mi dispiace… vorrei non essere così rotta.»
Ulquiorra scosse la testa e ringraziò mentalmente per quel contatto fisico dopo giorni di assenza.
«Tu non sei rotta. E anche se lo fossi, sarò io che raccoglierò i pezzi.»
 
 
Naoko batteva un dito contro il finestrino dell’auto, impaziente.
«Pa’, quando arriva mamma? Io ho fame e devo fare i compiti» disse, sbadigliando sonoramente. Allo stesso modo Nnoitra batteva un dito sul volante, più nervoso che annoiato. Il turno di Neliel sarebbe finito tra qualche minuto e chissà perché era più teso del solito.
«Ho il potere di accelerare il tempo? Non credo» borbottò. E Naoko rise, anche se poi divenne subito seria. Okay, si disse, si portava dentro quella cosa da troppo tempo, doveva chiedere o sarebbe impazzita. Anche se aveva paura. Paura di farlo star male e paura di scoprire qualcosa di poco piacevole.
«Emh, papà, ti devo parlare.»
Nnoitra alzò gli occhi al cielo.
«Non lo sai che ti devo parlare è una frase bandita? Fa solo venire ansia. Coraggio, dimmi tutto.»
Naoko agitò le gambe, era meglio non guardarlo in faccia.
«Allora… ti ricordi quando ti ho parlato di Rin? Ecco, lei mi aveva detto una cosa che mi ha fatto molto arrabbiare. Io non ci volevo credere, non ascolto mai nessuno. Ma questa cosa mi ha fatto stare davvero male. Ecco lei… lei mi ha detto che sono la figlia di un delinquente. Però io non capisco cosa vuole dire…» solo a quel punto aveva trovato il coraggio di guardarlo. Era Nnoitra che ora non la stava più guardando, che sembrava nervoso in modo diverso dal solito.
Quello era un momento che aveva temuto per anni. Ed era arrivato troppo presto.
«Ha detto così, eh?» domandò.
«Ma questa cosa è vera? Cioè… tu non hai ucciso nessuno, vero?»
Nnoitra sorrise, in modo un po’ amaro. Quella era una domanda difficile a cui rispondere. 
«Non ho… ucciso nessuno, piccola. Ma quando fai un errore, vieni ricordato più per quello, che per tutto ciò di buono che farai. E io non sono mai stato un bravo ragazzo, nemmeno quando ero solo un po' più grande di te» dicendo ciò s’indicò l’occhio bendato. «E i segni me li porto ancora adesso.»
Naoko si fece attenta. 
«Ma se non hai fatto male a nessuno, allora… io non capisco. Che altro c'è?»
C'era tanto altro, avrebbe voluto aggiungere. Ma non aveva il coraggio. Odiava già quando le persone venivano a conoscenza dei suoi errori e lo guardavano o con pietà o con disprezzo, temeva di vedere lo stesso sguardo negli occhi di quella bambina che gli voleva bene senza riserva alcuna.
«Nulla…» sussurrò. Si voltò dall’altra parte, si morse forte le nocche a causa del nervosismo. E poi vide Neliel che parlava con un uomo, appena fuori dalla clinica.
«Nao, aspetta qui»
Doveva essere quel tipo, Sszayel Aporro. Circa della sua stessa età, con gli occhiali rettangoli e l’aria da intellettuale, parlava con Neliel, le parlava vicino e ciò era bastato per fargli andare il sangue alla testa.
«Ah, Nnoitra. Non c’era bisogno di scendere dall’auto, stavo arrivando io» disse Neliel salutandolo. Lui però, più che badare a lei, stava guardando quel tipo e ora gli si era parato davanti come a fronteggiarlo.
«Ah, quindi sei tu Nnoitra. Nel mi ha parlato di te» disse Aporro sorridendo in maniera irritante. 
Nel. Per te lei è Neliel, razza di cretino.
«Ah, ma davvero? Quindi è lui quel tuo collega?» chiese Nnoitra a braccia conserte. Nel arrossì, afferrandogli un braccio.
«Nnoitra, non fare così.»
«Ma io non sto facendo in nessun modo. Beh, tu, coso. Adesso noi ce ne andiamo» fu stavolta lui ad afferrare Nel per un braccio, la quale avrebbe solo voluto sprofondare nell’asfalto. Diamine, quanto era nervosa. Una volta in auto, sbatté forte lo sportello.
«Nnoitra, ma sei stupido o cosa?» gridò. Naoko sussultò. Sua madre sembrava non averla vista.
«Non sono stupido, ma ora che l’ho visto di persona, confermo che quel tipo non mi piace e non mi piace come ti guarda» disse osservando davanti a sé.
«Oh, mio Dio! Sei proprio fissato, ma quanti anni hai? Non c’è niente, non c’è motivo di reagire in questo modo. E poi, è anche mortificante per me, a questo non ci hai pensato?»
«No» rispose lui nervoso. «Io sono stupido in fondo, no?»
Naoko li fissava con gli occhi spalancati. Ultimamente capitava fin troppo spesso di vederli litigare e in quel momento si sentiva a disagio.
«Per favore, non mi piace quando litigate così.»
Fu solo per Naoko che Neliel non lo insultò più pesantemente e fu sempre per lei che Nnoitra si zittì a sua volta. Non voleva arrabbiarsi davanti a lei, anche se aveva già fallito.
«Scusa, Nao» mormorò. Neliel accavallò le gambe.
«Noi abbiamo bisogno di una mano. E soprattutto ne hai bisogno tu» disse solamente. E Nnoitra, che in genere le avrebbe detto che si sbagliava, questa volta se ne rimase zitto, forse consapevole del fatto che sua moglie aveva ragione, che c’era qualcosa in lui di sbagliato.
 
Yoruichi aveva creduto che una visita col terapista sessuale sarebbe stato un po’ strano, ma si era sbagliata. Isane Kotetsu era più giovane di lei, alta e molto professionale. Yoruichi non aveva mai pensato che lei e Kisuke potessero sentirsi a disagio, anzi, in genere erano loro a mettere a disagio. Quando erano una coppia non ancora sposata e senza figli, in molti li prendevano in giro dicendo che avevano l’aria da hippie con quel loro modo di professare e vivere l’amore e il sesso con tutta la calma e naturalezza del mondo. E in fondo avevano ragione e, anche se erano passati degli anni, avevano ancora questa tendenza ad essere molto aperti. O almeno era stato così fino a poco tempo fa, visto che ora qualcosa si era spezzato. La dottoressa Kotetsu aveva posto loro delle domande, le solite che si ponevano a tutti, aveva chiesto di raccontare loro della propria vita, in modo da capirne le dinamiche.
«Io sono il primario del St. Luke, mentre questa ragazza qui è un’insegnante di scuola superiore. Non la trova adorabile?» chiese Kisuke, portando una mano sulla testa della moglie come se fosse stata una bambina. Lei suo malgrado rise.
«E smettila, sciocco. Abbiamo due gemelli, Yami e Hikaru. E non credo proprio avremo altri figli, perché se contiamo Kisuke i bambini sono tre.»
«È solo che mi piace troppo avere le tue attenzioni, mia cara. E questo è il modo più facile» ribatté lui.
Isane Kotetsu sorrise, continuando ad annotare qualcosa sul suo blocco note. Una coppia unita, molto diversa e dai temperamenti quasi opposti. Una coppia impegnata lavorativamente e nel privato, ma con una grande intesa di fondo.
«Sembrate proprio una bella famiglia. Ma passando alla questione in maniera un po’ più mirata… quando avete iniziato ad avere problemi?»
Yoruichi divenne seria, sentiva il braccio di Kisuke intorno alle sue spalle.
«Quattro mesi fa, circa. Pensavo di avere qualche problema… a livello fisico, intendo, ma dopo una serie di esami è uscito fuori che va tutto bene. Mi dicevo che era stress… ma inizio a pensare che non sia questo. Però è frustrante, insomma… noi non abbiamo mai avuto problemi sessuali.»
«Ah, ci può scommettere. Noi siamo sempre stati insaziabili, in effetti non mi sorprende che abbiamo avuto due gemelli…ahi!» Kisuke si piegò su sé stesso perché Yoruichi lo aveva colpito alle costole. Va bene l’essere aperti, ma che si desse un contegno, per l’amor del cielo. Per fortuna la dottoressa Kotetsu non sembrò turbata.
«Sì, capisco perfettamente. Di sicuro c’è qualche motivo più profondo che causa questa difficoltà a lasciarsi andare. Infatti, mi piacerebbe anche fare delle sedute individuali, se non vi dispiace.»
«Mmh? Individuali va bene. Forse lei riuscirà a tirare fuori i segreti della mia Yoruichi, ammesso che ne abbia. E io sono certo di sì» disse Kisuke giocoso, pizzicando Yoruichi, la quale gli diede un altro colpo sulle costole, con il gomito. L’idea di una seduta individuale in parte la terrorizzava. Non aveva segreti da svelare o che gli altri potessero scoprire, di questo ne era certa. Ma era comunque tanto nervosa se solo stava lì a pensarci. Di certo però non si sarebbe tirata indietro, voleva risolvere quel problema e riprendere il controllo della sua vita. La prima visita non fu particolarmente lunga o impegnativa, ma Yoruichi tornò a casa con un mal di testa come se avesse lavorato per quindici ore filate. Yami era tornata poco dopo dalla sua lezione di danza e Hikaru dalla fumetteria dietro casa e presto era stato il caos, perché erano tornati con un ospite particolare.
«Guardate, abbiamo trovato un gattino, possiamo tenerlo? Vi pregooo!» piagnucolò Yami, che teneva in mano una scatola con dentro un gattino nero miagolante.
«Ma tu guarda» disse Kisuke, accarezzando la testa del micio. «Non abbiamo mai avuto un animale, sapete che è impegnativo, vero?»
«Sì, ma ci siamo già messi d’accordo» spiegò Hikaru. «Io gli do da mangiare la mattina e lei la sera.»
«E poi lei già ci adora!» disse Yami con fare teatrale.
«Come fai a sapere che è una lei e non un lui?» chiese il fratello. 
Kisuke alzò gli occhi al cielo.
«Yoruichi cara, mi daresti una mano?» domandò rivolto alla moglie. Yoruichi però sembrava impegnata a controllare le sue mail, tra cui una della sua studentessa Soi Fong che le chiedeva delucidazioni in merito ad un compito per casa. In genere Yoruichi non usava le mail per comunicare con gli studenti, ma per alcuni poteva fare un’eccezione.
«Sì, certo, potete tenerlo» disse distrattamente. I due bambini, stupiti, esultarono e iniziarono subito a bisticciare per quale dovesse essere il nome del micio. Kisuke invece non toglieva gli occhi da sua moglie, con la testa tra le nuvole come non mai. Qualsiasi cosa fosse, si disse, era passeggero. E non poteva essere nulla di male, no?
 
Chiunque nei reparti del St. Luke ignorava il buon umore di Ishida, tutti tranne Ichigo che invece sapeva fin troppo bene. Anche se il suo migliore amico se ne andava in giro con quell’espressione seria, era evidente che i suoi occhi ridevano.
«Allora… visto che le cose stanno così… tornerete insieme, immagino» disse Ichigo distrattamente, mentre puliva e disinfettava degli strumenti. Hanataro si fece attento.
«Anche se non conosco sua moglie, io faccio il tifo per voi Ishida-senpai.»
«Non ne abbiamo parlato a dire il vero, ma fossi in voi non mi porterei troppo avanti» disse, cercando di essere ragionevole. Anche se nel profondo ci sperava anche lui. Insomma… dopo tutto quello che c’era stato.
«C’è bisogno di un po’ di positività nella vita!» esclamò Hanataro, facendo cadere qualcosa a terra, con la sua goffaggine.
«E io sono positivamente convinto che le cose potranno aggiustarsi. Se vuoi ci parlo io con Tatsuki, ci conosciamo da quando siamo bambini e…»
«No, grazie Kurosaki, ci penso da solo. Però voi non parlatene con nessuno, lo sapete già in troppi» disse arrossendo.
In quel momento entrò la dottoressa Unohana, sorridendo loro.
«Salve, miei cari ragazzi. Non vi disturbo, vero?»
«Dottoressa Unohana. No, in realtà noi abbiamo finito qui» disse Ichigo, che cercava di trattenersi dal ridere perché immaginava già cosa sarebbe successo: stava per assistere al rifiuto di Unohana per Zaraki. Oh, poveraccio! Unohana guardò affettuosamente Hanataro e porse lui un biglietto.
«Dì al mio spasimante che mi farebbe piacere uscire con lui uno di questi giorni. E che non c’è bisogno di essere timidi, io non mordo mica»
Sconvolto, Hanataro annuì, prendendo il biglietto sotto lo sguardo altrettanto sconvolto di Ishida e Ichigo. Com’era possibile che avesse funzionato? Oh beh, almeno Zaraki avrebbe smesso di fare le sue visite a vuoto. Gli ospedali erano davvero un luogo bizzarro dove flirtare e innamorarsi.
«Glielo diremo senz’altro» Ishida si tolse il camice. «Ora, se volete scusarmi, devo andare perché mio figlio mi aspetta.»
Il pensiero di Yuichi gli metteva un po’ d’ansia. Sapeva che suo figlio stava vivendo male la separazione tra lui e Tatsuki l’ultima cosa che voleva era dargli false speranze. Andò a casa dei genitori, dove Yuichi aveva appena finito di fare i compiti e subito dopo gli era saltato addosso.
«Ma che accoglienza calorosa. Ciao, piccolo» sussurrò, abbracciandolo. Sentendosi un po’ in colpa.
«Papà, lo sai che c’è pure la mamma?» chiese il bambino, sistemandosi gli occhiali. Ishida batté le palpebre: Tatsuki era appena scesa dal piano di sopra e gli sembrò più bella che mai: indossava un vestito scuro molto femminile, diverso dai soliti jeans che la moglie preferiva. Sembrava quasi che si fosse fatta bella per lui.
«Tatsuki.
«Scusa quest’improvvisata. Tua madre mi ha invitata, l’ha fatto in un modo per cui non potevo rifiutare.»
Gli andò incontro e si fermò a pochi centimetri dal suo viso. Avevano sempre avuto l’istinto di salutarsi con un bacio, adesso più che mai.
Adesso più che mai sembrava fosse evidente l’amore che li univa, era evidente perfino a Yuichi che li stava osservando. I suoi genitori si guardavano in un modo tutto nuovo, che non conosceva.
«Emh…» mormorò, non sapendo bene cosa dire. Ishida dovette trattenersi (e fu molto difficile) dall’accarezzare il viso di Tatsuki per poi afferrare il suo viso e baciarla.
«Ah… sì. Beh, va bene. Tatsuki io e te dovremmo» Ishida indicò la porta. «Parlare… uscire… parliamo?»
Tatsuki sorrise. Diamine, era raggiante e luminosa, non le capitava da troppo tempo.
«Parliamo.»
Yuichi si sbracciò.
«Non posso venire anche io?»
Prontamente Kanae si affacciò dalla cucina.
«Caro, penso che i tuoi genitori debbano parlare in privato.»
Ishida si aggiustò gli occhiali sul naso, grato a sua madre per quell’intervento, visto che lui a mentire non era proprio bravo.
 Dovevano parlare, si era detto, non saltarsi addosso come due adolescenti impazziti, ma era un’impresa. Tatsuki era bella con il suo vestito scuro su cui portava un cardigan per essere più coperta, mentre gli camminava accanto e forse desiderava afferrare il suo braccio e stringerlo.
«Allora… so che dovremmo parlare, ma non so bene che dire» ammise Ishida, lisciandosi nervosamente i capelli. «È successo. Io e te.»
«È successo» mormorò Tatsuki, guardando la luce rossa del semaforo. «Ma adesso? C’è un motivo se ci siamo lasciati. Noi… noi abbiamo sempre avuto idee diverse in tutto.»
Per alcune persone quella sembrava non essere una motivazione sufficiente per un divorzio, ma in molti non potevano capire cosa volesse dire scontrarsi su tutto. Dalle cose più stupide, alle cose più importanti come l’educazione dei figli. Uryu era quello meno severo, quello più fisico con Yuichi, lei era affettuosa, ma in modo diverso ed era più severa. Lui era più ordine, lei più caos. Anche se in quella situazione sembrava che i ruoli si fossero invertiti. E poi c’era il problema più grande, la cicatrice che aveva lasciato addosso a Tatsuki un trauma.
«E lo so che parte della colpa è mia perché dopo la depressione post-parto non sono stata più la stessa.»
Il semaforo era verde ma Ishida non riusciva a camminare. Non parlavano spesso di quel periodo così terribile, spesso preferivano far finta che non esistesse.
«Ma… la colpa non è certo tua…» disse, senza guardarla, afferrandole un braccio e trascinandola con sé.
«Però è lì che qualcosa tra noi si è rotto. Io sono stata orribile anche se non volevo. Forse ci saremmo lasciati lo stesso, ma avrei preferito evitarci questo.»
Tatsuki se lo ricordava troppo bene. Il non riuscire ad alzarsi dal letto, il non riuscire neanche a sopportare il pianto di suo figlio appena nato. Il sentirsi colpevole, inutile, il dover mettere tutto sulle spalle di suo marito, il trattarlo male. Era Uryu quello che voleva una famiglia numerosa, lei invece no, quindi avevano trovato un compromesso: Yuichi e basta. Lui non gliel’aveva fatto mai pesare. Però era vero che qualcosa da quel momento si era rotto.
«Ma adesso è passato e tu stai bene. Forse si può riaggiustare» ignoravano le persone attorno a loro Uryu le poggiò una mano sulla testa. «Devo poterlo aggiustare.»
Tatsuki chiuse gli occhi e si sentì debole, di nuovo. Lei era sempre stata istinto e mai ragione. Cosa sarebbe successo, ora, se si fosse buttata?
Guardò suo marito negli occhi e mormorò qualcosa a bassa voce, ma lui la sentì di comunque.
 
Karin aveva già dovuto fare i conti con la consapevolezza che, non appena suo padre l’avrebbe vista, le sarebbe saltata addosso soffocandola e infatti così era stato. Isshin aveva sempre dei modi così… esagerati.
«E basta, ma insomma! Io sono una donna adulta oramai, finiscila di essere appiccicoso!» si lamentò, stretta da un lato da suo padre e da un lato dalla gemella Yuzu.
«Ma tu rimani sempre la mia bambina, non m’importa se sei sposata e se sei madre a tua volta» piagnucolò Isshin. «E voglio bene anche a Yasutora e Kohei.»
«Davvero, non è il caso di piangere» disse Chad. Però era bello far parte di una famiglia così calorosa. Quando poi Isshin aveva provato ad abbracciare il nipote, quest’ultimo se n’era rimasto immobile senza reagire, gli abbracci gli piacevano solo in alcune circostanze.
«Certo che ti stai facendo proprio un bel ragazzo, eh Kohei? Devi essere bravo negli sport.»
Lui scosse la testa.
«No, inciampo sempre. Ma leggo molti libri sulle aquile, sono i miei animali preferiti. Ora vado da Kaien e Masato, ciao» disse annoiato. Isshin tornò a piagnucolare.
«Mio nipote mi odia.»
«Papà, smettila, non è affatto vero» sospirò Karin, massaggiandosi la testa. Compiangeva un po’ Ichigo, che lì in mezzo doveva viverci. Yuzu, sempre allegra, prese a battere una mano sul braccio del cognato (risultava una bambina accanto a lui).
«Ehi, Chad, allora. Come va? Tratti bene la mia sorellina? La ami e la onori tutti i giorni della tua vita, eh? Come va il romanticismo? Se sai cosa intendo.»
Karin arrossì. Ora voleva davvero sparire e sapeva che anche lassù dai suoi quasi due metri, Chad stava arrossendo.
«Io… bene, credo…» Anche se era una bugia, visto che tra lui e Karin non si poteva parlare di romanticismo, oramai. Sembravano più che altro una coppia di amici che insieme si occupavano di un bambino. Yuzu batté le palpebre.
«Ma come, solo bene? Una vita di coppia deve sempre essere emozionante. Cioè, non ne so molto, perché io ho tanti amici di letto…»
Isshin andò a sbattere contro qualcosa. Non era opportuno fare certi discorsi davanti a lei.
«Io me ne vado dai bambini, ci sono cose che non posso accettare!» disse, teatrale. Karin nascose il viso dietro una mano. Perché la sua dolce sorellina era diventata così estroversa da quel punto di vista?
«Non è che c’è molto tempo per il romanticismo con tutte le cose a cui dobbiamo pensare.»
«Risposta sbagliata!» Yuzu le puntò il dito contro. «Una relazione va coltivata giorno dopo giorno, altrimenti finisce col morire. Anzi, fatemi un favore, visto che adesso ci siamo noi, andatevene e comportatevi da coppia, grazie tante» disse iniziando a spingere la sorella. Anche se non lo avrebbe detto, Chad era grato a Yuzu per aver colto – senza nemmeno averlo fatto a posta – il problema tra lei e Karin, ora solo genitori e mai coppia.
«Tua sorella non ha torto» disse a quel punto. «Kohei è qui ed è al sicuro. E se ha bisogno, possiamo comunque tornare.»
Il viso di Karin divenne bordeaux. Sembrava una congiura nei suoi confronti, anche se a dire il vero erano anni che lei e Yasutora non avevano un paio d’ore per loro. Che strano, si sentiva nervosa come un primo appuntamento.
«Amh… beh… visto che ci siamo…»
«Bene, è così che vi voglio. Uscite, divertitevi, fate le vostre cose da coppia e non pensate a niente, qui va tutto bene, ci penso io a tenere d’occhio papà e i bambini. Buon divertimento»
«Ma Yuzu-»
«Ho detto buon divertimento!»
Finalmente era riuscita a buttarli fuori. Per quanto non fosse esperta di relazioni durature e matrimonio, non bisognava essere geni per comprendere che qualcosa non andava tra quei due. Scosse la testa, parlando fra sé e sé.
«E dire che non sono mai stata sposata!»
 
 
*Ho questo headcanon che Ulquiorra abbia origini inglesi e spagnole.

Nota dell'autrice
In questo capitolo Nnoitra ha dato un po' il peggio di sé, mi dispiace tanto per tutto quello che gli sto facendo passare, perché è uno dei miei personaggi preferiti e la parte peggiore nemmeno è arrivata, sigh. In aiuto di Ulquiorra invece è arrivato Sora, personaggio che compare spesso accanto a Ulquiorra e Orihime. E ora di aiuto ne hanno bisogno, soprattutto Ulquiorra che ha Kiyoko che lo detesta per il momento (cuoricino mio lol). E Tatsuki e Uryu forse forse ci stanno riprovando davvero. Il motivo dietro la loro rottura non è stato solo l'essere troppo diversi, ma una depressione post-parto che ha spezzato un po' le cose e questo lo approfondirà man mano... E poi che dire, viva Yuzu, no? Spero che il capitolo vi sia piaciuto, alla prox settimana :)

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Capitolo quattordici ***


Capitolo quattordici
 
Teneva JinJin sopra il proprio petto, mentre si abbandonava dalla noia. Ai aveva svolto tutti i suoi compiti come una brava bambina e in maniera eccellente, ma adesso non sapeva proprio cosa fare. Avrebbe tanto voluto essere con Hikaru in quel momento, magari chiamarlo, ma non aveva un telefono. E uscire di casa da sola? Non era possibile, era troppo piccola.
«JinJin, un giorno scapperemo. Ci sto pensando da un po’. Anche se non so dove andare, non importa. A volte ho l’impressione che io qui non sia voluta. Penso che papà e mamma sarebbero molto più felici senza di me.»
La voce le tremò appena e sentì gli occhi divenirle lucidi. Non poteva piangere, lei non piangeva mai, non era abituata. Sentì bussare alla porta e subito si mise seduta, asciugandosi una guancia su cui era caduta una lacrima.
«Sì, chi è?»
Era solo una la persona che veniva a parlarle di solito, la sua mamma. Nemu si affacciò timidamente e con altrettanta timidezza le sorrise.
«Posso?»
«Ah, certo!» iniziò a dondolare le gambe coperte dalle perfette calze di seta bianche.
«Sembri stravolta» constatò lei, sedendosi davanti a sua figlia. 
Sua figlia, per lei era perfetta. Era lei ad essere una donna, una madre (probabilmente anche una moglie) così imperfetta.
«Sono solo stanca» mormorò strofinandosi un occhio e accarezzando JinJin.
Mamma, mi sento sola e fuori posto.
«Anche io» sussurrò. «Ai, volevo dirti che mi dispiace per tutto quello che sta succedendo. Non è colpa tua, è che le cose tra gli adulti sono complicate.»
Invece sono facilissime, pensò lei. E poi pensò invece la colpa è mia.
«Tu e papà vi lascerete? Se vi lascerete però fammi venire con te, perché lui non mi vuole» disse mordendosi il labbro.
Non piangere. Nemu le portò una mano sulla testa, l’accarezzò e pensò che avrebbe voluto fare di più, ma dall'inizio. E che per colpa della sua tendenza alla passività a rimetterci ora era Ai.
«Non ci lasceremo. E no, non è così…» le disse, abbracciandola. Tutte e due parlavano a voce bassa. Tutte e due si capivano. «Tu sei amata Ai, te lo giuro»
Le suonò come falsa quella frase, però era vero. Doveva essere vero. Anche se entrambi avevano un modo strano di dimostrarlo, doveva essere così. Ma Ai – intelligente e geniale per quanto potesse essere – era una bambina e aveva bisogno di dimostrazioni pratiche. Un gesto, una parola, qualcosa. Nemu la tenne stretta tra le sue braccia finché non la sentì rilassarsi appena. E sentì qualcosa lì nello stomaco, acido misto a senso di protezione. Che aveva sempre avuto, ma che ora sembrava voler dominare anche la sua parte più docile e tranquilla. La lasciò poco dopo, chiuse la porta e scese nello studio di suo marito: Mayuri appariva come sempre scocciato e nervoso, aveva appena finito di parlare al telefono con chissà chi, ora se ne stava piegato sulla scrivania a controllare chissà cosa. E Nemu se ne infischiò che non volesse essere disturbato mentre lavorava. Si avvicinò, poggiando una mano sulla scrivania.
«Che c’è?» chiese lui senza neanche guardarla.
Guardami. Come facevi un tempo.
«Hai un’altra donna?» gli domandò in modo diretto. Le sembrava plausibile, quanti uomini tradivano le loro mogli? E se così fosse stato per lei, avrebbe gradito saperlo e basta invece di vivere nell’incertezza. Mayuri sollevò lo sguardo, facendo una smorfia e guardandola come se fosse impazzita.
«Ti sembro il tipo che tradisce?»
Nemu strinse i pugni.
«Tu… smettila di rispondere sempre alle mie domande con altre domande» tremò appena. Non stava gridando, sembrava starsi trattenendo. «Rispondi e basta.»
«Non ho nessun’altra donna. Per me non ha senso, il tradimento. Ti lascerei se ci fosse qualcosa che non va» fu la sua risposta.
«E ti pare che adesso vada tutto bene?»
Respira. Non perdere il controllo. Qui nessuno piange. Qui siamo tutti più mente che cuore.
O almeno così ho sempre pensato.
Mayuri si alzò e la fronteggiò: anche se era lei quella più bassa, Nemu non sembrava intimorita.
«Lo sai che io agisco in modo razionale e non perdo tempo con i sentimentalismi.»
Ma quelli non erano sentimentalismi. Era che non riuscivano a capirsi, da qualche anno. Che anche nei momenti più felici o tranquilli c’era sempre un sottofondo d freddezza e malinconia.
«Ma questi non sono sentimentalismi! È che tu sei strano. Non vedo amore nei tuoi occhi, né per me né per Ai. Io e soprattutto lei non possiamo immaginare, ogni tanto… c’è bisogno di dimostrare. Tu… prima non eri così chiuso in te stesso. Cosa è successo? Perché con me non parli?» gemette, si fece vicino e lo strinse. «Mi hai sempre detto che sono la tua persona preferita, una delle poche a suscitare il tuo interesse ed è per questo che tanti anni fa sei rimasto colpito da me. E ora?»
Era troppo vicina e per questo lui stava guardando da un’altra parte. Le portò una mano sopra la testa.
«Se ci tieni a saperlo i miei sentimenti per te non sono cambiati» disse e sembrava sincero. Ma non bastava e Nemu era decisa a giocarsi il tutto per tutto.
«E allora cosa? Me la stai facendo pagare per qualcosa? Perché ho voluto Ai anche se tu non la volevi?» questa volta stava alzando la voce, per la prima volta dopo anni. Mayuri rise, anzi, ghignò. Perché lui non rideva mai.
«Ah, è così che la pensi? Tu fai tanto la predica a me. Non la volevi, mi dici. Ma vorrei ricordati che nemmeno tu la volevi. Proprio così. Forse lo hai dimenticato, ma era una scelta di entrambi. Volevamo concentrarci sulla carriera, dicevamo. Sono troppo giovane, dicevi. Non ho istinto paterno, dicevo io. Allora, mi sa che avevi ragione. Ma oramai, dopo otto anni è un po’ tardi per pensarci, non credi?»
Nemu strinse i pugni e sentì le lacrime pungerle gli occhi. Quello che lui diceva era vero, anche lei aveva avuto i suoi momenti di dubbio, ma per Ai c’era stata. Per Ai ci sarebbe stata sempre.
«No, io credo solo che tu non sappia amare in modo normale.»
«Oh, oh. Che bella scoperta, mia cara, dico davvero» si sedette, guardandola dritto negli occhi. «Con la mia incapacità di amare in modo anormale e la tua passività, forse non dovevamo avere una famiglia. Ma oramai siamo qui.»
Nemu lasciò che le lacrime le rigassero il volto. Non piangeva davanti a lui da anni. Lui che non aveva mai una reazione umana. Lui che era troppo lavoro, troppa razionalità, amante del progresso, della scienza, di tutto ciò che era possibile controllare.
«Tu non sei umano» sussurrò infine.
Ai, che al piano di sopra aveva sentito tutto, accarezzando il suo criceto pensò che dovesse proprio andarsene.
 
Che Ishida non fosse più sé stesso era chiaro, e non per forza ciò era una cosa negativa. Aveva le parole di Tatsuki che gli rimbombavano ancora in testa: andiamoci piano, molto piano.
Quello era molto più di quanto avesse sperato. Sull’andarci piano era d’accordo, sul non farlo sapere in giro altrettanto. Anche se già a conoscenza c’erano sua madre, Ichigo e perfino Hanataro. Ma la colpa non era sua, era che la gente percepiva quanto innamorato fosse. Cosa più importante, però, Yuichi non doveva saperne nulla, non ci tenevano a dar lui un’altra delusione. Quel giorno il lavoro in ospedale era più pesante del solito. C’era stato un altro incidente e lui e Ichigo, l’uno accanto all’altro, un occhio di riguardo sempre ad Hanataro, stavano operando d’urgenza un adolescente: femore rotto in più punti, forse non sarebbe più riuscito a camminare in maniera normale. Anche se certe situazioni erano un po’ angoscianti, Ishida e Ichigo avevano oramai quell’esperienza necessaria che permetteva loro di chiacchierare d’altro, anche se dovevano farlo di nascosto.
«Mi ha detto di riprovarci. Non lo credevo possibile, ma era quello che speravo» sussurrò da dietro la mascherina.
«Hai visto? Te l’avevo detto. Io invece non so più che pesci prendere, Rukia da qualche giorno ha ricominciato a studiare e mi sento in mezzo al caos. Ma non mi lamenterò.»
«Ah, sei un marito esemplare, Kurosaki. Mi stai implicitamente dicendo di prendere esempio da te?» Ishida si sorprese di sé stesso, lui che così serioso aveva anche l'ardire di fare battute. L’amore faceva davvero un effetto strano.
«Kurosaki e Ishida, volete un tè per caso?» il dottor Kurostuchi sollevò lo sguardo verso di loro. Hanatoru sospirò.
«Io lo vorrei, con del miele.»
Ichigo quasi si morse il labbro a sangue per evitarsi di ridere. Non era né il momento né la situazione adatta e almeno grazie a ciò Kurostuchi non poté prendersela troppo né con Hanataro né con loro.
«State in silenzio o giuro che vi uccido. Ragazzini» si lamentò.
Dopo l’intervento, Ichigo inviò qualche messaggio a Rukia. Sua moglie era sembrata sin da subito entusiasta di tornare a studiare, come una ragazzina e tale entusiasmo era evidente anche dai messaggi che scriveva. 
Colleghi molto simpatici. Pensa che non mi danno più di venticinque anni.
Le materie mi piacciono. Non vedo l’ora di mettermi a studiare.
Torno più tardi, oggi. Baci, baci.
Ichigo sorrise, per poi sospirare. Adesso erano in due ad essere impegnati e non capiva perché questo dovesse mandarlo in panico. Lui era un chirurgo, abituato a gestire le situazioni di stress, cosa mai poteva andare storto?
«Oh, ciao Kurosaki, è una gioia vederti» lo salutò il primario Urahara, che ultimamente sembrava fin troppo allegro, in una maniera esagerata. «Ho saputo che tua moglie ha ripreso gli studi. Ottima decisione, lei è sempre stata una disposta ad aiutare il prossimo. E so bene cosa significa, mia moglie è un’insegnante.»
Eccolo che aveva preso a straparlare. Chissà se anche quell’uomo sempre di buon umore nascondeva qualche segreto sconveniente. Urahara gli mise un braccio intorno alle spalle.
«So a cosa stai pensando» disse, un po’ teatrale. «Rukia è ancora giovane e affascinante, chissà quanti ragazzi ben più giovani e aitanti di me potrebbero provarci con lei
Ichigo ringraziò in quel momento di essere anche amico di Urahara, altrimenti non si sarebbe potuto permettere di dargli una gomitata.
«Io non stavo pensando a questo! Che diamine, fai venire l’ansia alle pers-»
Ishida passò tra loro, correndo, tant’è che stava quasi per inciampare.
«Scusate, ma vado di fretta!»
Urahara sorrise, stringendo ancora Ichigo.
«Ah, l’amore. Guida tutte le nostre azioni, non trovi, Kurosaki?»
Ichigo si staccò dalla sua presa borbottando un “sì okay. Come vuoi, vecchio”. Sicuramente quel tizio nascondeva qualcosa, aveva l’impressione che tutti nascondessero qualcosa. Urahara, Ishida di cui aveva la certezza, Kurostuchi e anche sé stesso.
 
La stanchezza arrivò tutta insieme, quando tornò a casa. Sapeva che non avrebbe trovato Rukia ad accoglierlo, Rukia che aveva sempre tutto sotto controllo e che sapeva sempre gestire ogni situazione. Perfino meglio di lui che avrebbe dovuto essere abituato. La prima cosa che vide una volta rientrato fu Kaien litigare, tanto per cambiare, con Kohei. Nessuna traccia invece di suo figlio minore Masato.
«Kohei, giochiamo come dico io, a me leggere non piace!»
«Lasciami stare, mi dai fastidio.»
«Allora prova a darmi un pugno, brutto armadio a due ante.»
Ichigo si chinò, fermando Kaien prima che si facesse prendere la mano.
«Ooh! Ma la volete piantare?! Siete grandi oramai per litigare così. Dov’è Masato? E dov’è quello stupido vecchio che dovrebbe tenervi d’occhio?!»
Chiaro, Isshin se l’era data a gambe. Giocava con i bambini e poi lui doveva occuparsi di dividerli se litigavano.
«Masato non c’è. È da Yuichi» rispose Kaien, annoiato.
«E il permesso chi gliel’avrebbe dato?» domandò Ichigo guardandosi intorno. Almeno la casa era pulita e in ordine, per questo avrebbe dovuto ringraziare Yuzu.
«Lo stupido vecchio» rise il bambino, ora più divertito. Ichigo capì che avrebbe dovuto prendere un’aspirina per il suo cocente mal di testa. Voleva Rukia e il pensiero lo fece sentire infantile.
«Va bene, Kaien, ascolta. Tua madre non c’è, sarà molto impegnata. Possiamo collaborare?»
Kaien forse avvertì il tono esasperato del papà e allora fece spallucce.
«Ci provo. Comunque ho fatto cadere del succo di mirtilli sul tappeto in salotto. Però non dirlo alla mamma.»
Non ci avrebbe pensato nemmeno a dirlo a Rukia, anzi, non le avrebbe detto niente e basta. Non voleva darle preoccupazioni e doveva credere che andasse tutto benissimo, perché contava su di lui. Yuzu aprì la porta scorrevole, portava un grembiule e teneva in mano un mestolo.
«Bentornato! Ho preparato da mangiare e…»
Suo fratello le baciò la fronte, grato in maniera assurda che non fosse l’unica persona ragionevole lì dentro.
«Grazie. Ma si può sapere quello stupido vecchio dov’è finito?»
Yuzu, rossa in viso, tossì.
 «Beh, come dire… Kaien l’ha battuto in un gioco alla play station e lui si è intestardito sul fatto di voler vincere. E si è chiuso in camera da un po’ per far pratica.»
Non poteva crederci, che razza d’imbecille. Sorrise, in modo nervoso. Adesso ci avrebbe pensato a lui.
 
Rangiku non parlava a Gin. Anzi, gli parlava a malapena e la cosa le richiedeva uno sforzo enorme, perché lei – loro – non erano abituati a non parlarsi per troppo tempo. Le rare volte in cui litigavano, Gin sapeva sempre come farsi perdonare, adesso però non sarebbe bastata una parola o un gesto. Ma cercavano comunque di far finta di niente, almeno davanti a Rin e a Toshiro (quest’ultimo si sarebbe arrabbiato parecchio se avesse saputo).
«Rin, tesoro, ma non hai toccato cibo, sicura di stare bene?» domandò Rangiku. La sua bambina era pensierosa, aveva sbocconcellato un po’ di riso ma sembrava con la testa da un’altra parte.
«Su, Rin. Qualsiasi cosa ti passi per la testa, puoi dirla» affermò Gin. «Dimmi cosa vuoi e te la darò.»
Toshiro sollevò lo sguardo verso di lui. Dubitava che a Rin servisse qualcosa di materiale. Quella bambina sembrava sofferente e ciò non era difficile da capire. Rin posò le bacchette e si portò le mani in grembo.
«Io… voglio degli amici.»
Rangiku e Gin si guardarono.
«Ma tu hai degli amici… no?» domandò, cauta. In realtà non se l’era mai chiesto, l’aveva dato per scontato e forse aveva fatto un errore.
«Beh… non proprio» sussurrò. «Io non mi comporto molto bene con gli altri. Per loro io sono perfida.»
Gin si era fatto serio e attento. Rin era la bambina più dolce del mondo, non si era mai comportata in maniera perfida.
«Mia figlia, perfida? Com’è possibile?»
Rangiku avrebbe voluto dirgli forse qualcosina l’ha presa da te, che dici? Ma non lo fece.
«È vero» insistette Rin. «E dicono che sono snob, che lo siamo tutti, che abbiamo tanti soldi e poco cuore.»
A Toshiro a quel punto passò la voglia di mangiare. 
Sentire parlare così Rin era doloroso, la amava come se fosse sua sorella o sua nipote.
Gin alzò gli occhi al cielo.
«Non è certo colpa tua se sei nata in una famiglia ricca.»
«Oh, Gin, non è mica quello il punto» disse Rangiku scocciata. «Cosa le hai messo in testa? Che per essere rispettati bisogna essere temuti? Hai preso esempio dal tuo amico Aizen? Se è così, a maggior ragione puoi scordarti che mia figlia sposerà il suo, un giorno.»
Rin, i cui occhi erano sottili tanto da sembrare chiusi, spalanco le palpebre, confusa. Non poteva vedere l'espressione altrettanto confusa di Toshiro accanto a sé.
«Cosa…?» mormorò. Gin sospirò, non si era mai sentito tanto stanco. Ma fu Toshiro a prendere parola questa volta. Ci provava sempre a farsi gli affari propri, ma adesso si era superato il limite.
«Eh, no. Non ci provare. Non avevo torto, tu nascondi sempre qualcosa. Ma che hai in testa, decidere della vita di tua figlia in questo modo? E poi è solo una bambina»
Rin non parlava, non avrebbe saputo che dire, non era neanche sicura di star comprendendo fino in fondo. Matrimonio, vita migliore, erano concetti troppo strani e che non interessavano a una bambina della sua età. Gin sorrise. Non si arrabbiava quasi mai e, anche quando capitava, era bravo a nasconderlo.
«Toshiro, mio caro, con tutto il rispetto, ma non credo che questo ti riguardi.»
Il ragazzo si alzò, battendo una mano sul tavolo. Anche se di bassa statura, appariva minaccioso.
«Sì che sono affari miei, padre snaturato, bugiardo, doppiogiochista e…»
«Toshiro» Rangiku lo guardò serio, poi fece un cenno verso Rin, che se ne stava a osservare gli adulti che discutevano (per lei?) anche se avrebbe tanto voluto che nessuno di loro litigasse. Si sedette, sbuffando, ma solo per non far preoccupare ulteriormente Rin.
«Va bene, comunque tutto questo è assurdo. Stupido idiota» sussurrò, guardando il suo piatto. Gli era passata la voglia di mangiare e anche a Rin, la quale si era alzata ed era andata a osservare Sir Biss nella teca. Rangiku e Gin erano andati a discutere nello studio di lei, in modo da essere lontani dalla bambina e non turbarla ulteriormente.
«Gin, sono preoccupata. Sei sempre stato uno che pensa con la propria testa. Non è che ti fai condizionare troppo?» Rangiku se ne stava seduta sulla poltrona, con le gambe accavallate. Suo marito non la guardava, con una mano infilata nella tasca e l’altra mano occupata a tenere una foto incorniciata che ritraeva lui, Rangiku e Rin durante l’ultima vacanza a Shangai.
«Non mi faccio condizionare. Cosa c’è di male? Io voglio garantire a Rin un futuro felice.»
«E chi ti dice che sarà felice? È davvero troppo prematuro fare questi discorsi» dicendo ciò si fece rigida sulla sedia. «Gin, cosa c’è sotto? Che agli altri tu nasconda qualcosa mi interessa fino ad un certo punto, ma a me non devi nascondere niente.»
Gin aveva effettivamente un modo di fare e di porsi ambiguo, non si capiva mai cosa pensasse, era per questo che a molti non piaceva. Ed era una peculiarità del suo carattere che aveva imparato ad amare e apprezzare, anche se in certi casi risultava difficile.
«Io ad Aizen devo molto. È grazie a lui che sono riuscito a entrare nella facoltà di giurisprudenza, lui che mi ha assunto come suo assistente. Lui che…» si guardò intorno. «Che mi ha dato tutto questo. Prima ero povero in canna, soffrivo la fame, non avevo niente e mi sono ripromesso che alla mia famiglia non sarebbe mai mancato nulla.»
Gin sorrideva mentre parlava, ma il suo tono si era fatto malinconico. Rangiku conosceva la sua storia, ovviamente, ma era la prima volta dopo anni che lo sentiva di nuovo parlare del suo passato.
«Aspetta, ma questo non è vero. D’accordo, Aizen ti ha sicuramente dato una mano, ma tutto quello che hai avuto, lo hai avuto grazie ai tuoi sforzi. Non devi sentirti in debito! E a Rin non manca nulla, ma come vedi qualcosa la turba. Sono preoccupata per tutti e due, d’accordo?» si sfogò infine.  Non voleva litigare e non voleva quella tensione. «Sono stanca di recitare la parte della famiglia perfetta. Accettiamo di avere i nostri problemi come la gente normale, perché è questo che siamo.»
Gin posò la foto e guardò oltre la finestra.
«E invece non lo siamo.»
 
Da: Toshiro, ore 21, 08
 
Brutta situazione, davvero brutta. Se prima non sopportavo tuo marito, ora lo detesto. Lui e Gin sono due idioti, almeno tu e Rangiku ragionate in modo normale.
 
E poi una serie di emoticon arrabbiate.
 
Momo e Toshiro si erano scambiati i numeri, così da tenersi in contatto, e lui non aveva tardato a scriverle per esprimere il suo dissenso. A Momo era venuto da ridere, era piacevole conversare con qualcuno, visto che suo marito in casa la ignorava la maggior parte del tempo. Non solo, Sosuke di recente sembrava ancora più distante e Momo non voleva pensare a ciò che era più ovvio (e cioè che probabilmente avesse un’amante). Ma grazie all’amicizia di Toshiro sembrava tutto più sopportabile.
 
Ore, 21,12
 
Lo so, hai ragione. Io non sono d’accordo, ma mio marito non mi ascolta.
… In realtà non mi considera proprio.
 
Da: Toshiro, 21, 15
Che razzia di idiota
*Faccina arrabbiata*.
 
Rise di nuovo. Nonostante la differenza di età, era davvero piacevole. Lanciò uno sguardo a Sosuke, impegnato a scrivere qualcosa sul suo portatile.
«Amh, Sosuke… penso che domani uscirò, mancherò tutto il pomeriggio» lo mise alla prova. Iniziava a pensare di dover uscire, divertirsi un po’ di più, e cosa c’era di male nel frequentare quel ragazzo? Lui la guardò da dietro gli occhiali.
«D’accordo, allora. Chiamo una baby-sitter per Hayato» disse soltanto.
Aveva almeno sperato che s’interessasse, che le chiedesse qualcosa, ma questo non era successo. Momo sospirò.
 Da Momo:
Ore 21, 18
Ehi, ti va di uscire domani?
 Da Toshiro: 
Ore 21, 20
Volentieri. Finisco alle due del pomeriggio.
 
Si portò una mano sul cuore, come se fosse stata una ragazzina innamorata che parlava con il ragazzo del proprio cuore. Lo fece in automatico, un tempo era stato così con Sosuke.
 Da Momo:
Ore 21, 21
Va bene allora. Ci vediamo domani.
 
Poi passò accanto a suo marito e andò a dormire. Sosuke le lanciò un’occhiata e poi, assicuratosi di essere solo, prese il cellulare. Non era uno che frequentava certi social, ma Shinji sì. Lo cercò sul suo profilo instagram, pieno di foto con la sua band, di serate nei locali, di foto con Miyo. Sette anni lontani erano tanti. Anche troppi. Lo avrebbe rivisto perché, ne era certo, Shinji non lo aveva mai scordato. E d’altronde nemmeno lui.
  
Masato adorava passare il tempo insieme a Yuichi e questo oramai lo aveva capito da tempo. Facevano sempre giochi molto tranquilli quando erano da soli, leggevano fumetti, guardavano cartoni animati e poi parlavano, parlavano molto. Yuichi quella volta sembrava più propenso del solito a parlare.
«Lo sai, Masato. Le cose mi sembrano un po’ diverse» il ragazzino stava sul letto, le gambe sollevate verso il muro, a testa in giù, gli occhiali pericolosamente in bilico. Masato era seduto sul tappeto, aveva distolto lo sguardo dal fumetto che stava leggendo per guardarlo.
«Quali cose?»
«La mia mamma e il mio papà mi sembrano diversi. Si comportano in modo un po’ strano e io non capisco. Secondo me nascondo qualcosa. Ho pensato che forse sono tornati insieme, però non è possibile.»
«Perché no?» domandò Masato. Yuichi aggrottò la fronte, portandosi una mano tra i lunghi capelli scuri.
«Non lo so! È tutto troppo complicato per me. Io spero di non innamorarmi mai, se ci penso… mi viene il mal di testa!»
A Masato venne da ridere. Il suo migliore amico aveva ragione, l’amore dei grandi sembrava molto più complicato. Lui amava tante cose: giocare, correre, i fumetti. Amava la sua famiglia, suo fratello (anche se molto spesso avrebbe voluto lanciargli addosso qualcosa). Amava tantissimo i suoi amici e in particolare amava Yuichi. Ma di certo non era lo stesso amore dei grandi. Perché lui era piccolo, quindi – secondo lui – non era possibile.
«Ma non lo decidi tu. A quanti anni è che una persona inizia ad innamorarsi? Magari è già successo e non lo sai.»
Yuichi ci pensò su e poi fece una faccia spaventata.
«Accidenti, hai ragione! E io non mi sono accorto di niente! Innamorato, di chi? Masato, ti sembro diverso? Guardami bene!»
Si voltò, mettendosi a pancia in giù, così che potevano guardarsi negli occhi. A Masato, Yuichi sembrava lo stesso di sempre.
«Sei uguale al solito» disse, poi arrossì. «Yuichi, io ti voglio bene.»
L’altro bambino arrossì a sua volta, sorpreso da quello slancio d’affetto improvviso.
«Anche io ti voglio bene» rispose. Masato strinse i pugni, assunse un’espressione concentrata come se stesse facendo ricorso a tutte le sue forze.
«Però io ti voglio bene di più.»
Yuichi avrebbe voluto ribattere, avrebbe voluto capire di più. Kanae entrò in quel momento, portando un vassoio con su delle tazze contenenti cioccolata calda.
«Dovrete essere affamati, vi ho portato qualcosa.»
Masato ringraziò e si fiondò a prendere dei biscotti, mentre Yuichi gonfiava le guance.
«Ma papà dov’è andato? E mamma?»
«Oh, beh… tuo padre ha un altro turno in ospedale e tua madre… sì, lei è… al supermercato… di pesce» provò a inventarsi una scusa plausibile, cosa non facile. Yuichi sembrava sospettoso. «Comunque, cari bambini, vi lascio ai vostri giochi. Fate i bravi!» dicendo ciò la donna se ne andò, prima di tradirsi. Yuchi aggrottò la fronte.
«Hai visto? Te l’ho detto che c’è qualcosa che non va. Devo scoprire cosa.»
Masato gli fece segno con una mano, porgendogli un biscotto.
«Ti aiuto io!» si propose con un entusiasmo, mentre afferrava un altro biscotto.
Yuichi fu grato, grato in maniera impossibile da definire a parole, di avere un amico come lui. 
 
 
Rukia si era trattenuta in biblioteca fino a tardi per prendere in prestito alcuni libri. Nonostante la giornata stancante, era molto contenta, aveva fatto subito amicizia e poi aveva subito prese in simpatia Ukitake, uno dei suoi insegnanti. Non vedeva l’ora di raccontare a Ichigo tutto, nei minimi dettagli, ma quando rientrò trovò un silenzio che in un primo istante la destabilizzò: era tutto in ordine e pulito (questo di sicuro grazie a Yuzu). Ichigo era sul divano, si era addormentato con Kaien e Masato stretti a lui, la TV accesa a basso volume. Ichigo di solito non permetteva loro di guardarla prima di andare a dormire, ma doveva aver ceduto a causa della stanchezza e nel vederli il suo cuore si riempì di tenerezza. Posò la borsa e chinò ad accarezzare i capelli di suo marito, sembrava davvero stremato.
«Ichigo, sono a casa» sussurrò. Lui si lamentò, aprendo gli occhi.
«Ah…? Ah, bentornata. Siamo crollati tutti e tre, ora li metto a letto.»
«Non preoccuparti, va bene così. Se sei stanco vai pure, possiamo parlare domani.»
Lui si lamentò di nuovo, strofinandosi gli occhi e accarezzando i capelli di Kaien, abbracciato a lui come un koala ad un albero.
«No, no… ce la faccio, vado a metterli nei loro letti. Ah, e per la cronaca, mio padre vale più come bambino a cui badare che come aiutante.»
Rukia rise. Beh, come potergli dar torto? Frugò nella sua borsa e controllò il cellulare: da Byakuya nessun messaggio o chiamata e questo le dava da pensare. Era stata impegnatissima, ma doveva assolutamente cercarlo.
Poi lesse una sfilza di messaggi da parte di Renji.
 
Ore 19.00
Ciao Rukia, so che sei molto impegnata e giuro che mi dispiace disturbarti. Ma è successo un casino con Byakuya. Temo di averlo ferito.
 
Ore 19.50
Ho provato a chiamarlo, ma non risponde. E se non volesse più vedermi? Che dovrei fare? A te darà ascolto.
 
Ore 20.07
Sto diventando pesante, ma non so che fare. Volevo cercare Ichigo, ma temo sia troppo occupato anche lui. Non posso aver rovinato tutto. Non posso aver rovinato tutto, vero?
 
Rukia sospirò e chiuse gli occhi.
Cosa poteva fare, adesso?


Nota dell'autrice
Un capitolo che non ho iniziato nel modo migliore per via di Nemu e Ai. MA da questo momento in poi Nemu inizierà a rispondere per le rime a Mayuri e dargli contro perché sì. Per il resto, per Ishida le cose vanno bene, per la ToshiMomo anche, per la GinRan DICIAMO. Ho dovuto pensare ad un motivo per cui Gin dovesse essere così fedele/devoto ad Aizen e quindi mi sono inventata questa storyline in cui Aizen un po' gli fa da benefattore (che detta così suona un po' male lol). E il povero Ichigo sclera, non possiamo dire che non si stia impegnando, anzi. Spero abbiate gradito il capitolo :*
Nao

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Capitolo quindici ***


Capitolo quindici
 
Era da tanto tempo che Karin e Chad non passavano una serata come una normale coppia. Non avevano fatto nulla di diverso dal cenare fuori, conversare del più del meno e soprattutto ridere. Karin era seriosa, rideva di rado in modo spontaneo e sincero: Chad era uno dei pochi in grado di farla ridere, pensava che fosse uno dei motivi per cui le si fosse innamorata (e non aveva torto). Quella sera, dopo tanti anni, gli era sembrato di tornare un po’ ai loro primi appuntamenti, quelli senza pensieri, quelli dove il futuro e le preoccupazioni erano ancora lontani. Gli era piaciuto, non avrebbe potuto dire il contrario ed era sicuro che fosse piaciuto anche a Karin.
Karin che adesso gli appariva come uno scricciolo, seduta sul letto a cercare qualcosa sul suo portatile. Oramai era divenuta un’esperta sull’Asperger e online aveva stretto amicizia con molte donne nella sua stessa situazione. 
La trovava adorabile, anche adesso che era una donna rimaneva comunque bassa e minuta, proprio come quando aveva quindici anni. Accanto a lei, avrebbe dovuto già dormire, invece si era voltato a guardarla.  
«Karin, vieni un po’ qui» la chiamò.
«Mmh?» domandò lei distrattamente. «Perché?»
Lui non rispose. Allungò una mano, afferrò con delicatezza il suo braccio e lei si sentì arrossire (e si sentì anche parecchio sciocca per questo.) 
«Volevo solo dirti che stasera mi è piaciuto. Non succedeva da tanto. Che avessimo del tempo per noi, intendo.»
Il viso di Karin divenne di un acceso color porpora. Yasutora non si lamentava mai, era uno degli uomini più buoni e pazienti che conoscesse (tanti anni prima era anche di questo che si era innamorata: perché lui era il suo totale opposto). Il difetto era che molto spesso non capiva quando qualcosa lo turbava. Suo marito sembrava imperturbabile.
«È piaciuto anche a me» ammise. «Dovremmo farlo più spesso. E so che se fin ora ti è mancato qualcosa, la colpa è mia.»
Karin si strinse le gambe al petto, come una bambina. Ci provava in tutti i modi a far conciliare gli impegni, i dover, ad esserci. Ma lei era solo un’umana. E una madre, anche piuttosto giovane, che cercava come tutti di fare il meglio per suo figlio.
Chad sospirò.
«Non ti do la colpa, sei tu il perno di questa famiglia, è sempre stato così. Però pensavo solo… che ogni tanto sarebbe bello e giusto essere anche una coppia.»
A quel punto Karin sentì di andare davvero a fuoco. Come potergli dare torto? Erano usciti insieme da soli sotto insistenza di Yuzu dopo mesi, forse addirittura anni.
«Hai ragione. È che da quando è arrivata la diagnosi dell’Asperger, è come se dovessi tenere tutto sotto controllo» spiegò lei, guardandosi le ginocchia. «Vedo Kohei indifeso. Più indifeso degli altri bambini e io che sono sua madre… devo proteggerlo, capisci? E così trascuro tutto il resto.»
Si schiaffò una mano sul viso. Se la sé stessa adolescente l’avesse vista, le avrebbe urlato contro di smetterla con la troppa apprensione, di respirare e lasciar respirare. Di pensare anche a sé stessa e smetterla di piagnucolare.
«Ci saremo sempre per Kohei e non cascherà il mondo se molli un po’ una presa. È che mi manca un po’ la mia Karin» sussurrò. Nonostante l’imbarazzo, lei si voltò a guardarlo. In effetti, da quanto non stavano insieme?
Ogni volta Karin arrivava alla sera talmente esausta da addormentarsi in pochi attimi. Ma questo aveva contribuito ad alimentare la lontananza tra lei e suo marito. E non le piaceva.
«Io sono qui, Yasutora. Ci sono, te lo giuro» le sussurrò lei. Lo chiamava col suo vero nome solo in alcuni momenti particolari. Quando era arrabbiata, quando era preoccupata. Quando lo desiderava. Era sempre stato così.
Lui allora si fece più audace, la attirò a sé e la baciò. Erano diversi anche fisicamente, lui alto quasi due metri e muscoloso, lei bassina e magra, ma aveva sempre saputo come stringerla a sé senza farle male. La baciò e Karin iniziò a sentire come piacevole quel calore.
A Kohei capitava spesso di avere incubi che lo agitavano. A Kohei era venuto un incubo proprio quella sera, era in corso in camera dei suoi genitori, tutto agitato.
«Non posso dormire da solo. Non voglio dormire da solo. C’è qualcosa che batte sulla mia finestra, è così fastidioso, non lo sopporto!» si lamentò il bambino, muovendo le braccia. Karin era stata costretta a staccarsi da quel bacio, con un sospiro.
«Kohei, respira. Cosa avevamo detto degli incubi? Che non sono reali e che bisogna fare un respiro profondo.»
Suo figlio gli puntò il dito contro, concitato.
«No, no. Tu mi avevi detto che se contavo fino a dieci la paura passava. Mi avevi detto che se avessi lasciato la luce accesa non avrei avuto incubi. Invece è successo, quindi sono confuso. E mamma mi ha mentito e io non voglio dormire da solo. Quel rumore insopportabile!»
Essendo Kohei molto agitato, Chad era sicuro che non si sarebbe calmato in fretta. Così si armò di tutta la pazienza che aveva a disposizione (che era davvero tanta).
«Va bene, piccolo. Dormi pure con noi.»
Karin lo guardò, sorpresa.
«Ma… sei sicuro che vada bene?»
Kohei non diede lei nemmeno il tempo di rispondere. Si infilò nel mezzo, sotto le coperte tremante e raggomitolato. Chad fece spallucce.
«Solo per questa volta. Non preoccuparti.»
Non preoccuparti, era una frase che diceva spesso. Karin si sentì in colpa anche se di fatto la colpa non era né di lei né di nessuno, ma dopo che Chad le si era confidato così apertamente, non poteva fare finta di niente. Non voleva svegliarsi un giorno e rendersi conto che il suo matrimonio era naufragato nel silenzio.
E doveva agire.
 
Kiyoko non era mai stata una bambina dispettosa o disubbidiente, tutto il contrario. Per questo era raro che Ulquiorra e Orihime la rimproverassero. Ma ultimamente, da quando la situazione si era fatta difficile, anche lei era un po’ cambiata.
«Kiyoko, per favore. Non lanciare niente. Non puoi fare qualche gioco con Nao?» domandò, calmo, socchiudendo gli occhi. Kiyoko gli lanciò un cuscino e lui lo scansò abilmente. Sua figlia aggrottò la fronte, indispettita.
«Vai via. Io non voglio parlare con te, anzi non voglio parlare con nessuno di voi due, nemmeno con mamma. Perché mi dite le bugie e volete sostituirmi.»
«Non è così, te l’ho spiegato. Mi dispiace se ho mentito, va bene?» domandò, esasperato. Non poteva gestire anche l’ira di Kiyoko.
«No, non va bene. Tu sei cattivo, siete cattivi tutti. Brutto, brutto, brutto, cattivo e bugiardo!» aveva ripreso il cuscino, stringendolo. Aveva una certa aria di sfida nello sguardo, che non le apparteneva.
«Oh. Vai in camera tua da Naoko» disse Ulquiorra infine, spazientendosi.
E anche questa, non era una cosa che accadeva spesso, che lui si arrabbiasse o perdesse la pazienza. Kiyoko aggrottò la fronte e se ne andò.
«E non venirmi a cercare, dopo!» gridò, come se fosse stata una ragazza appena mollata dal fidanzato. Ulquiorra sospirò, si tolse i capelli dal viso e poi tornò dagli altri. Nnoitra era depresso, se ne stava seduto vicino al kotatsu. Grimmjow cercava di animare la serata senza riuscirci. Sora gli aveva detto “Visto che mia sorella è fuori con le sue amiche, perché non organizziamo anche noi una serata tra uomini? Dai, chiama i tuoi amici”. E lui lo aveva fatto, ma nemmeno i suoi amici erano esenti dai problemi.
«Nnoitra, tu così mi ammazzi il buon umore. Ma insomma, perché sei così turbato?» domandò Grimmjow mentre beveva della birra.
«Vuoi sapere perché? Va bene, ti faccio l’elenco» borbottò lui. «Allora, sono un ex delinquente, marito mediocre, mangaka semi fallito, padre… beh, lì non faccio schifo, ma non sono nemmeno granché. Non lo so, forse Nel ha ragione, forse dovrei farmi aiutare.»
Sora sorrise, a disagio.
«Amh… però non era per deprimervi che vi ho fatto venire qui. Ulquiorra, mi dai una mano?»
Il diretto interessato si sedette accanto a Grimmjow, gli prese la birra di mano e bevve al posto suo.
«Ehi!» si lamentò lui.
«Nnoitra, se tu puoi fare qualcosa per risolvere il problema, fallo» disse senza mezzi termini. «Forse la tua gelosia viene dall’insicurezza, non lo so. Ma puoi scoprirlo e risolverlo. Pff… Io sono anche più mediocre di te.»
Non era esattamente quello che Sora intendeva con darmi una mano, ma oramai la serata aveva preso una piega introspettiva.
«IO NON SONO INSICURO, MA LO VOLETE CAPIRE O NO?» sbottò Nnoitra, facendo ridere Grimmjow.
«Oh, andiamo. Sotto sotto hai un animo sensibile, solo che non vuoi che si sappia in giro»
«Ora ti ammazzo, giuro! E va bene, forse farò questa cosa. Ma io» sollevò un dito. «Io, Nnoitra Gilga, non sono insicuro. E questo è quanto.»
Ulquiorra decise di non infierire. Povero Nnoitra. E povero anche sé stesso. Ma almeno non era solo, altrimenti si sarebbe depresso. Lui sentiva e viveva tutto troppo intensamente (anche se poteva non sembrare). Era la condanna degli artisti sensibili.
«Va bene, va bene. Però per favore» disse Grimmjow, un po’ brillo, semi accasciato sul tavolo. «Vedete di non lasciarvi, okay? Non potrei sopportare il colpo. Voi siete voi, le coppie storiche. Se non ce la fate voi, non c’è speranza per nessuno.»
Le parole di Grimmjow, che erano suonate a tutti come una deprimente profezia, fecero cadere un silenzio tombale. Sora ci rinunciò.
«Va bene, ho capito. Qualcuno versa da bere anche a me?»
 
 
La serata di Orihime, Neliel e Tatsuki proseguiva in modo un po’ diverso, più allegro. Forse era la musica dal vivo, forse perché avevano bevuto un po’ (non Orihime, lei non era brava a reggere l’alcol), ma l’atmosfera era molto più leggera nonostante gli argomenti trattati fossero tutto fuorché leggeri.
«TU E URYU STATE DI NUOVO INSIEME?!»
Né Orihime né Nel erano riuscite a trattenere il loro stupore. Tatsuki era arrossita e aveva fatto loro segno di abbassare la voce, nonostante nessuno avrebbe potuto sentirle. Lei e Uryu si erano detti d’accordo di non parlarne con nessuno, ma un segreto così grande rischiava di gravarle addosso. Ecco perché aveva sentito il bisogno di confidarsi con qualcuno.
«Ragazze, per favore. Non vi eccitate, ci stiamo andando piano» disse bevendo il suo alcolico ghiacciato dal bicchiere. Orihime sospirò: quella sera aveva indossato un bel vestito, Nel aveva pensato al suo make-up e questo aveva consentito a farla sentire più carina, a farla sentire bene.
«Oh, sono così felice di questo. Lo sai che tutti facciamo il tifo per voi, è sempre stato così. È stato terribile quando ci avete detto che avreste divorziato. Allora è vero che l’amore vince sempre!» dichiarò, eccitandosi nonostante le raccomandazioni dell’amica. Neliel bevve un altro sorso e poi poggiò la testa sul tavolo appiccicoso, causando una smorfia di sdegno in Tatsuki.
«Spero che sia vero. Ma perché le relazioni sono complicate? Perché il matrimonio è complicato? Anzi, le persone lo sono. Io ho sposato un uomo molto complicato.»
Orihime le accarezzò i capelli: Nel aveva ragione. Le persone erano complicate, lei si sentiva complicata anche se per tutta la vita si era sentita semplice.
«Tranquilla. Nnoitra ti ama, ti ama anche troppo. Sono io che temo di farmi amare di meno. Forse è così. Ulquiorra mi amerà sempre meno, perché mi sento sprofondare. Perché sono una donna a metà.»
Tatsuki le guardò. In confronto ai loro problemi, sentiva che i suoi fossero cosa da poco.
«E-ehi, dai. Non voglio che ci deprimiamo, non siamo qui per questo. Nel, tu e Nnoitra riuscirete a risolvere i vostri problemi. Hime, tu non sei una donna a metà! Chiunque starebbe malissimo nella tua situazione. E per quanto riguarda me… ah…» poggiò il viso ad una mano. «Io e Uryu siamo come una sciocca coppia di ragazzini innamorati. Spero di non soffrire, spero che non soffra nessuno, mio figlio soprattutto. E dai, non piangere Nel!»
Nel stava tirando rumorosamente su col naso e si stava asciugando le lacrime.
«Mi dispiace, è l’alcol. Mi sono rammollita. Vado a chiedere se mi fanno salire sul palco per cantare. Magari posso fare un po’ di karaoke!»
Tatsuki tentò di fermarla, ma alla fine si disse che era meglio lasciarla sfogare e almeno lei e Orihime si sarebbero divertite. Fu quest’ultima, mentre beveva distrattamente, ad alzare una mano.
«Guarda, c’è Shinji.»
Tatsuki alzò gli occhi al cielo. Shinji era simpatico ma giocava troppo a fare il don Giovanni da strapazzo (anche se in effetti era sempre stato così).
«Ma tu guarda, serata tra donne, eh? Ciao, Orihime. Mio eterno amore non corrisposto» scherzò Shinji nel vederla. Per un breve periodo aveva avuto una cotta terribile per lei, ma Hime preferiva di gran lunga i tipi tenebrosi.
«Ciao» salutò lei con un sorriso. «Ooh, non c’è Miyo? Lei è così carina.»
Shinji assottigliò lo sguardo.
«No, è con su madre. Io devo vedermi con Lisa per discutere di una questione. Ma visto che la metti così, dovrei iniziare a usare Miyo per attrarre a me le ragazze. Sono un giovane padre single che gestisce una band, sono affascinante.»
«Pff, usare tua figlia in modo così subdolo, sei sempre lo stesso» borbottò Tatsuki. Shinji sorrise e le salutò con un gesto del capo. Magari fosse stato come Tatsuki diceva. Se fosse sempre stato lo stesso non avrebbe avuto pene d’amore. Pene d’amore per un uomo. Pene d’amore per Sosuke Aizen. Era molto bravo a fingere, questo sì, ma dentro di sé soffriva fin troppo. Andò a sedersi, aveva bisogno di un alcolico forte per distrarsi da quei pensieri e dalla voce stonata di Neliel che stava cantando al karoke. Lisa avrebbe sicuramente fatto tardi come al solito. Mentre le scriveva, la cameriera si avvicinò per servirlo.
«Ah, scusi. Non l’ho ordinato.»
«Glielo offre quell’uomo laggiù» rispose lei. Shinji non ebbe neanche bisogno di guardarlo per capire chi fosse l’uomo. Anzi, il suo dannato stalker che ora gli sorrideva e lo salutava.
«Giuro che lo ammazzo» sussurrò. Suo malgrado però bevve l’alcolico offerto perché ne aveva bisogno e poi gli si avvicinò, battendo una mano sul tavolo.
«Per essere un avvocato ne fai di cose contro la legge. Idiota di uno stalker, come facevi a sapere che ero qui?»
«Non è difficile conoscere le tue abitudini, posti tutto su instagram» rispose lui, tranquillo.
«Su…? Bastardo, non sei troppo vecchio per questi giochetti?»
Aizen sorrise, pensando che in effetti aveva ragione.
«Siediti. Voglio solo parlare.»
Shinji sentì la testa girare. Non avrebbe dovuto, aveva un appuntamento di lì a poco, ma se si fosse rifiutato se lo sarebbe ritrovato alle spalle tra qualche giorno. Così si sedette davanti a lui, con fare annoiato.
«Che c’è? Mi pare di essere stato chiaro l’altra volta, io non voglio giocare a fare l’amante. Anni fa mi dicesti che avresti lasciato tua moglie e tutta quella roba lì. Ma non l’hai fatto e io mi sono sentito troppo in colpa per… tutto.»
Aveva iniziato a parlare, a buttare fuori tutto ciò che sentiva dentro. Aizen lo ascoltò e poi, con molta attenzione, portò una mano sulla sua guancia. Shinji desiderò spostarsi, ma non ci riuscì. Era a causa di quell’attrazione magnetica che si era messo in quella situazione. Anche se non si trattava solo di semplice attrazione.
«Anni fa portavi i capelli più lunghi, ricordi? A me piacevano» gli disse.
Odiava quando gli si rivolgeva con quel tono. Lo rendeva troppo debole.
«Sì, beh… erano troppo scomodi. E comunque mi stai… toccando troppo. Tu non puoi… non puoi venire qui dopo tutto questo tempo e giocare con me.»
Sentì la mano spostarsi dal viso ai suoi capelli, che ora stava accarezzando.
«Non hai pensato che forse non sto giocando? Non mi prenderei il disturbo, se non fosse importante. Se tu fossi solo un amante.»
E poi infilò una mano nel taschino interno della giacca, dandogli un biglietto con su scritto un indirizzo.
«Se cambi idea, vieni a trovarmi qui fra tre giorni.»
Shinji strinse un pugno e fu quasi sul punto di spaccargli un bicchiere in testa. Invece prese il biglietto, se lo infilò in tasca e si toccò il colletto della camicia, divenuto all’improvviso troppo stretto.
«Non darmi per scontato» gli sibilò. Sosuke non sorrideva più. 
«Non l’ho mai fatto.»
Shinji si voltò verso l’uscita. Lisa era appena entrata e si guardava intorno con fare confuso. Non l’aveva ancora visto e sperò che nemmeno Orihime e Tatsuki lo vedessero. Borbottò qualcosa, s’infilò il biglietto in tasca e si avvicinò a Lisa, prendendola per un braccio.
«Ah, sei qui. Ma che è successo?» domandò.
«Niente, andiamocene da un’altra parte» rispose scorbutico.
Aveva paura di cedere di nuovo. Forse aveva già ceduto.
Dannazione.
 
Kiyoko non sembrava in vena di giocare e per quella volta nemmeno Naoko sembrava troppo allegra.
No, era preoccupata, anche se non era da lei. Lei di solito era quella che consolava.
Nao era quella che faceva stare bene le persone, non quella che si faceva consolare.
«Lo sai, Kiyoko? Sono preoccupata» aveva le mani sporche di tempere, come sempre. «La mia mamma e il mio papà litigano tanto per ora ed è strano. Di solito non lo fanno. O forse lo fanno quando non posso vederli. Comunque non mi piace, sono preoccupata soprattutto per mio papà. Dice delle cose strane, secondo me c’è qualcosa che non so.»
Kiyoko era pensierosa. Ultimamente non si sentiva più sé stessa. Lei, Kiyoko la bambina dolce, timida e sensibile, era diventata arrabbiata. E questo non le piaceva, ma non poteva farne a meno.
«Credimi, a volte è meglio non sapere.»
«Eeeeh?» chiese ad alta voce, strofinandosi una guancia e sporcandosi di azzurro. «Beh! Se i tuoi dicono che non vogliono sostituirti e che ti voglio bene, dovresti crederci.»
Kiyoko sollevò gli occhi verdi, dall’espressione seria, forse troppo adulta per una bimba della sua età.
«Io non credo più a nessuno. Però a te sì. Posso venire a vivere con te? Così possiamo diventare sorelle.»
Naoko sembrò prendere sul serio quella richiesta e ci pensò su.
«Mi piacerebbe, ma non so se piacerebbe a te. Perché sarei io la preferita» disse gongolando un po’.
«Non importa, tu puoi esserlo. Meglio tu che un neonato carino a cui tutti penserebbero senza guardare me. Beh. Nessuno pensa a me nemmeno adesso.»
Kiyoko abbassò lo sguardo e si lasciò andare ad un singhiozzo. E allora Naoko, che era quella che consolava, quella che faceva stare meglio, si avvicinò alla sua amica del cuore e l’abbracciò.
«Io penso sempre a te» le disse e le portò una mano sui capelli scuri. Nnoitra entrò in quel momento, ma rimase un attimo immobile per non interrompere l’abbracciò tra le due. Poi tossì.
«Nao, dobbiamo andare a casa.»
«Ma papà, Kiyoko non può venire a vivere con noi per un po’?» chiese Nao, che non se la sentiva di lasciare la sua amica da sola.
«Pff. Non so se ti converrebbe, Kiyoko» disse cercando di apparire minaccioso. «Io sono severo.»
Sua figlia inarcò un sopracciglio.
«Ma non è vero, mi accontenti sempre.»
Nnoitra arrossì e, ferito nell’orgoglio, convinse sua figlia a tornare a casa. Kiyoko, rimasta sola, si asciugò le lacrime, mise in ordine e si preparò per andare a dormire.
 
Far scendere Nel dal palco era stata un’impresa ardua, visto che aveva esagerato con l’alcol. Ma almeno Orihime si era divertita e per qualche ora si era sentita leggera. Quando tornò a casa, trovò il silenzio, la casa in ordine e Ulquiorra che stava cercando di dipingere. Non succedeva da un po’ e ne fu felice. Fu quasi tentata di non disturbarlo, ma suo marito si accorse di lei. Si volse a guardarla con un pennello in mano.
«Ciao» la salutò.
«Ehi. Kiyoko?»
Ulquiorra distolse lo sguardo.
«Sora è con lei, le sta leggendo una storia per farla dormire. Lo avrei fatto io, ma nostra figlia mi odia, al momento.»
Orihime si portò una mano sul cuore. Quella situazione li stava facendo soffrire tutti e tre e la cosa più terribile era sentire di non avere potere su nulla. O quasi.
«Non ti odia. Odia me al massimo, e come darle torto? Sono così presa dal mio dolore che non sono più me stessa. Con lei e nemmeno con te.»
Orihime si avvicinò da lui, lo strinse da dietro e a quel punto Ulquiorra fu incapace di pensare a dipingere o a chissà altro. Gli sembrava passata una vita dall’ultima volta che erano stati così vicini.
«Io non ti incolpo perché soffri» disse soltanto.
«Sono io che m’incolpo» lo fece voltare e lo guardo negli occhi. Ulquiorra era criptico, non aveva una grande espressività, ma lei lo vedeva. Per davvero. «Pensi che stia diventando pazza?»
Lui allora l’abbracciò. Era un qualcosa che aveva voluto fare spesso, ma aveva sempre temuto la sua reazione.
«Non sei pazza. Sei solo umana. E mi dispiace, mi dispiace davvero di non poterti aiutare.»
Con il viso stretto contro il suo petto, Orihime non avrebbe saputo dire se Ulquiorra stesse piangendo. Lui non piangeva mai, era sempre controllato. Ma la sua voce era incrinata e Orihime capì che preferiva non sapere. Che preferiva esserci.
 
 
Aries accolse l’arrivo dei suoi padroni abbaiando, scodinzolando e facendo festa. Nnoitra, che teneva Naoko addormentata in braccio, si lamentò come al suo solito.
«Fa piano, la sveglierai» sussurrò. Neliel, che adesso si era un po’ ripresa dalla sua mini-sbronza, lo guardò come a volergli dire “dobbiamo parlare”. E avrebbero parlato, da quello non si sfuggiva di certo. Quindi mise Naoko a letto e poi tornò in cucina, dove Neliel si massaggiava la testa e faceva sciogliere un’aspirina in un bicchiere d’acqua.
«Non ho più l’età per fare festa» sospirò e poi guardò Nnoitra, che se ne stava impettito, le braccia lungo i fianchi, «Giuro che non è successo niente di strano.»
«Ora sei prevenuta, non lo stavo neanche pensando!» disse lui, mettendosi a braccia conserte e ripensando alla chiacchierata che aveva avuto con i suoi amici. Lui non era insicuro, non aveva alcun problema. Era geloso, ebbene? Non faceva che ripetersi che lui era migliore di tutti altri, ma non finiva mai col crederci del tutto. Fece una smorfia, perché quanto stava per dire lo vedeva come un grave affronto al suo orgoglio. «Comunque, volevo dirti che forse dovremmo farci aiutare. O io, almeno. Visto che è chiaro che tutti i problemi dipendono da me.»
Neliel sospirò, guardando da un’altra parte.
«Lo sai che questo non l’ho mai detto. Io sono preoccupata per noi sì, ma lo sono soprattutto per te. Non si può essere forti sempre, lo sai.»
Nnoitra strinse i denti, poi per un secondo sorrise, arrogante, com’era solito a fare.
«Non capisco di che parli. Io sono forte. Sono il più forte, posso sopportare tutto. Anche di farmi psicanalizzare. Solo… Non evitarmi, per favore» dicendo ciò chinò lo sguardo, odiandosi un po’. Lo sguardo di Nel si addolcì e gli si avvicinò per abbracciarlo.
«Non ti evito, pensavo non volessi parlarmi.»
«Io pensavo che tu non volessi parlarmi» le disse, stringendola. Sollevato. «Devo preoccuparmi che il tuo amore possa sparire?»
Lei scosse la testa, decisa.
«Non capisco di che parli. Il mio amore è forte. Il mio amore è il più forte, può sopportare tutto.»
 
 
Nota dell’autrice
Le serate tra amici aiutano sempre, anche se quella degli uomini è finita a introspezione e depressione e quella delle donne più in caciara.
Secondo voi, Shinji accetta l’invito di Aizen o lo accetta? (sì, do molte opzioni). L’avvocato più stalker del mondo non intende lasciar perdere, ora sta a Shinji decidere cosa vuole (anche se tanto si sa che cosa vuole fare lol).
Nnoitra finalmente ha preso coscienza dei suoi problemi. Lo faccio comportare male e invece è uno dei personaggi a cui voglio più bene.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto (:
Nao

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Capitolo sedici ***


Capitolo sedici
 
Renji non era uno che era solito deprimersi, tutt’altro. Ma se si parlava d’amore la situazione cambiava in modo drastico, e da quando aveva discusso con Byakuya non si sentiva più molto in sé. Ikkaku ad un certo punto gli aveva dato una scrollata, urlandogli di smetterla di piangersi addosso e di fare qualcosa di concreto. Sì, magari fosse stato così facile! Aveva già causato fin troppi problemi e l’idea di parlare con Byakuya lo metteva in soggezione. Per questo preferiva prima parlare con Rukia.
Renji si sentiva un po’ a disagio in mezzo a tutti quegli universitari. Forse perché quest’ultimi, stupiti dalla sua alta statura, dai capelli troppo rossi e i tatuaggi, lo guardavano con un certo stupore. Ma in fondo non gliene importava molto, aveva bisogno di Rukia.
E Rukia se ne stava lì, con i libri in mano, come una ragazzina che aveva appena iniziato il suo percorso di studi, la borsa sotto un braccio, le spalle poggiate ad un albero.
«Renji. Grazie per essere venuto fino a qui. Tra poco ho lezione, ma almeno possiamo parlare.»
Allora Renji si fece nervoso, iniziò ad agitarsi.
«Figurati e scusa se ti ho disturbata. Dovrei imparare a cavarmela da solo. E giuro che lo farei se solo la situazione non fosse così tragica. Non so come prendere Byakuya. Dici che l’ho offeso? Ah, ma certo che l’ho offeso…»
«Renji, respira okay? Anche io ho fatto la predica a mio fratello, potrebbe avercela anche con me» Rukia cercò di sistemarsi la borsa troppo pesante sulla spalla e lui allora si offrì di portarla al posto suo.
«È solo che non voglio perderlo. Merda, avrei fatto meglio a tacere, ora perderò anche la sua amicizia. Ma si può sapere perché l’amore deve essere una cosa così complicata?»
Già, Rukia si domandava lo stesso anche a distanza di anni. Non è che tra lei e Ichigo le cose fossero sempre filate lisce, c’era voluto del tempo prima che entrambi accettassero (e si dichiarassero) i reciproci sentimenti. Ma la situazione ora era diversa: Byakuya aveva un animo ferito e probabilmente paura di ricominciare. Renji aveva tutte le buone intenzioni, ma come tutti non sapeva cosa fare e, soprattutto, cosa non fare. Tutto quello che Rukia poteva fare era essere sincera.
«Non credo vi perderete. Non hai pensato che magari la cosa lo sciocca tanto perché anche lui prova qualcosa?»
A quello Renji non aveva pensato, probabilmente perché tendeva a essere più pessimista che altro.
«E tu non pensi che magari sia solo disgustato da me? Avrebbe senso.»
«Va bene, allora chiediglielo, almeno saprai la risposta e smetterai di pensarci» l’espressione di Rukia si addolcì. «Mi piacerebbe che foste entrambi felici. Vuoi che prima ci parli io?»
Renji scosse la testa. Eh no, adesso doveva agire da sé, comportarsi da adulto anche se era in panico totale. Sì, l’amore era proprio una cosa complicata, antipatica e su cui non si aveva controllo. Per questo faceva perdere la testa a tutti.
«Grazie, Rukia. Però adesso forse devo pensarci io. Non so come, ma m’inventerò qualcosa. Dannazione, odio Byakuya perché è un testardo, criptico e noioso!» si sfogò.
Rukia sorrise, divertita.
«E lo ami per tutto il resto.»
Già, era proprio vero. Lo amava per tutto il resto, lo aveva sempre amato e dubitava che sarebbe cambiato. Se Byakuya non se la sentiva di ricominciare non lo avrebbe giudicato (anche se faceva male), ma voleva almeno chiarire dei punti fondamentali. Rukia guardò l’orologio al polso e si riprese la borsa.
«Ora devo andare. Tienimi aggiornata, non provare a nascondermi nulla.»
Renji fece un cenno col capo e la guardò come per volerle dire figurati se posso nascondere qualcosa del genere. Poi si voltò per andarsene e vide un ragazzino che sfrecciava sulla sua bicicletta.
«Ma… Hitsugaya, sei tu?» gridò Renji. «Non ti vedo da un pezzo, dove te ne vai?»
«Ad un appuntamento!» rispose lui. La risposta lo depresse: perfino il piccoletto aveva una vita amorosa più decente della sua. Beh, dipendeva anche da lui e quindi doveva cogliere un po’ dei consigli di Rukia, un po’ di quelli di Ikkaku e agire.
 
Toshiro aveva un po’ mentito, ma non lo aveva fatto di proposito. A conti fatti quello poteva sembrare un appuntamento, ma doveva stare attento a quello che diceva e a come si comportava: Momo era una donna sposata e lui non voleva giocare sporco. Non aveva certo intenzione di sedurla e portarla al tradimento, non era proprio il tipo. Ma insieme stavano bene e lei sembrava più felice e serena quando era con lui, quindi che male c’era a passare insieme del tempo?
Andò a prenderla – col suo mezzo che forse non era un’auto lussuosa, ma faceva comunque il suo lavoro – vicino la stazione dei treni. Momo aveva lasciato da parte i suoi abiti eleganti e pregiati, aveva indossato dei jeans (dei jeans, non lo faceva da anni!) e una maglietta. In quelle vesti – pensò Toshiro – sembrava proprio una ragazzina. Era carina. Anzi, era bella, ma non in modo sfacciato. Questo gli piaceva.
«Ciao, Toshiro. Emh… dove mi porti?» domandò lei, saltando su quella bici. Era incredibile (o forse neanche tanto) come si divertisse più con lui che con suo marito.
«È una sorpresa» disse lui. Non doveva farsi strani pensieri. Era venuto a patti con la consapevolezza che lei gli piacesse, ma anche con quella di starsene al suo posto. Non era stupido e, soprattutto, non era un rovina famiglie (per quanto poco ci fosse da rovinare). Il posto dove la portò sembrò a Momo un magazzino abbandonato e, in un primo momento, la cosa la turbò alquanto, ma Toshiro la rassicurò subito.
«Non preoccuparti, è solo un posto dove i miei amici fanno le prove per la loro band. Conosci iVizard?»
Lei scosse la testa.
«Temo di no.»
«Non mi sorprende, non hanno sfondato, non ancora. Beh, tu seguimi, tra poco capirai.»
Non fece domande, perché si fidava di lui anche se lo conosceva da poco. Dentro quello che sembrava un magazzino abbandonato – in realtà molto pulito e confortevole  – c’era gente che stava suonando: uno provava la chitarra, una il basso, poi c’era quella che doveva essere la cantante. 
«Oh, ma guardate chi c’è. È Toshiruccio, da quanto tempo!» esclamò Mashiro agitandosi. Hiyori assottigliò lo sguardo: bene, bene, il piccoletto in compagnia di una donna, che storia era quella?
«Già, proprio io. Lei è… Momo Hinamori» si guardò bene dall’usare il suo cognome da sposata. Momo fece un inchino, timida.
«Ah, capisco, forte» disse Hiyori annoiata. «Comunque, se cerchi Shinji, quel cretino non c’è. Anzi, è già in ritardo.»
«In realtà sono venuto qui per altro. Se non mi sbaglio, avete un pianoforte qui, vero?»
«Verissimo» si sbracciò Mashiro. «Però oramai non lo usiamo più perché Love è incapace.»
Il diretto interessato le lanciò qualcosa, mancandola.
«Non sono incapace, non è colpa mia se abbiamo attraversato il periodo da band da musica classica. Io l’ho detto che dovremmo venderlo e recuperare un po’ di soldi. Comunque è nel magazzino lì dietro.»
Toshiro annuì, li ringraziò e poi, forse incautamente, prese Momo per un polso, trascinandola dietro di sé. Le tre ragazze – Mashiro, Lisa e Hiyori – rimasero ad osservarli con confusione e curiosità.
«E quei due?» chiese Lisa. Hiyori fece spallucce e rispose:
«Si piacciono, è chiaro.»
 
«Toshiro, ma che hai in mente?» domandò Momo, eccitata come un’adolescente. Lui non gli rispose fin quando non entrarono nel magazzino: lì c’era un pianoforte nero, lucido, un po’ impolverato, ma sembrava in buone condizioni. Lei adorava i pianoforti, un tempo aveva adorato suonare. Lo aveva detto a Toshiro una volta, la prima volta che si erano visti. E lui se n’era ricordato?
«Sì, lo so, l’atmosfera non è molto artistica. Però quando ci siamo conosciuti mi hai detto che un tempo ti era piaciuto suonare e quindi ho pensato a questa cosa» la guardò e arrossì, imbronciato. «Ho sbagliato?»
Momo era arrossita e aveva sentito il cuore prendere a batterle veloce nel petto. Avvertiva una sensazione di calore lì, sul viso.
«No, non hai sbagliato. È solo che… questa è una delle cose più belle che qualcuno abbia mai fatto per me. Io… non suono da anni.»
Toshiro si sedette, concentrato.
«E tu suona lo stesso. Io non ne capisco nulla, quindi non devi certo temermi.»
Quel ragazzo, anzi no, quel giovane uomo, era incredibile.  Si conoscevano da poco, eppure lui aveva la capacità di farla ridere, di farla stare bene. Le tremavano le mani al pensiero di suonare dopo tutto quel tempo, ma non se la sentì proprio di dirgli di no. Non voleva dirgli di no. Si sedette, sospirò e dopo aver accarezzato la tastiera, suonò un pezzo classico. Inizialmente un po’ incerta, poi sempre più confidente. Da quando si era sposata, aveva messo da parte la sua passione e in realtà anche tutto il resto. Con la coda dell'occhio, vedeva Toshiro osservarla. Forse non se ne intendeva, ma sembrava davvero assorto, concentrato. Lui la vedeva e questo era bello. Ad un tratto Momo produsse un suono sgradevole e rise.
«Mi sa che non è accordato bene.»
«Beh, ma sei comunque brava. Accidenti, se io fossi bravo come te non metterei da parte la musica» disse Toshiro, che era rimasto più affascinato di quanto volesse mostrare. Momo, ancora rossa in viso, si alzò. Si sentiva piena di una nuova energia mai provata.
«Sai cosa? Penso tu abbia ragione. Toshiro, tu capisci le persone. Capisci me!»
A quel punto, per il ragazzo fu impossibile non arrossire.
«Figurarsi. Umh, comunque, vedo se qualcuno può accordarci il pianoforte.»
 
Quella si prospettava essere un’altra giornata piena: dopo la scuola, Yoruichi aveva un’altra visita dalla dottoressa Kotetsu. Si sentiva più nervosa di quanto avrebbe dovuto e questo la rendeva distratta, forse anche i suoi allievi se n’erano accorti. Soi-Fon di sicuro, a quella ragazza non sfuggiva niente. Si erano fermate in corridoio a parlare, Soi-Fon teneva un libro in mano e stava parlando di qualcosa, Yoruichi seguiva a malapena il flusso dei suoi pensieri.
Soi-Fon però era pallida e quando il libro le cadde di mano, per Yoruichi fu automatico allungare le braccia per afferrarla, forse prevedendo un suo mancamento.
«Soi-Fon!» esclamò. «Ti senti bene?»
Lei gemette, aggrappata alla donna.
«Eh? Credo di sì… mi dispiace, quando ho il ciclo mi indebolisco.»
Yoruichi la rimproverò un po’ sul fatto che avrebbe dovuto saltare la scuola, se davvero stava così male. La portò subito in infermeria, dove la fece stendere. Soi-Fon era pallida e inoltre i crampi al ventre la costringevano a stare accovacciata.
«Rimani qui» le raccomandò. «L’infermiera sta tornando. Ah, è inutile, voi alunni mi scatenate l’istinto materno» sospirò, vegliando su di lei. Soi-Fon arrossì.
«Non è proprio come una bambina che vorrei essere vista, ma va bene. Devo sembrarle davvero patetica.»
Yoruichi inarcò un sopracciglio.
«E perché mai?»
«Sono un’allieva con una cotta per la propria insegnante che cerca di farsi notare, mi sembra abbastanza evidente.» Soi-Fon aveva capito che oramai tanto valeva parlare chiaramente. O forse era il dolore a renderla così.
«Soi-Fon» la chiamò Yoruichi. La ragazza cercò di mettersi seduta.
«Ah, la prego. Non deve rimanere qui, può andare, davvero.»
Yoruichi però non l’ascoltò, le si sedette accanto.
«Vuoi stare ferma? Ti ricordo che hai quasi avuto un mancamento.»
Ancora fragile, Soi-Fon poggiò il viso sulla sua spalla. Una situazione molto inopportuna, Yoruichi la sapeva bene, ma non se la sentì comunque di allontanarla. Anzi, in quel momento non se la sentiva proprio di fare nulla. Sentiva solo il suo odore e il calore della sua guancia attraverso i vestiti.
«Mi dispiace per i problemi che le provoco.»
Yoruichi guardava dritto davanti a sé. Si sentiva strana e quella stranezza aveva iniziato a sentirla nel momento in cui lei e Soi-Fon avevano stabilito un contatto fisico. Ma si sentiva così, tesa e accaldata, perché era lei… o perché era una donna, una ragazza?
«Non è certo colpa tua se stai male» disse lei distrattamente. Aveva quasi quarant’anni e non si era mai interrogata sulla sua sessualità. E perché avrebbe dovuto? Perché avrebbe dovuto iniziare a pensarci adesso? Era impossibile che provasse attrazione per le donne, non era mai successo prima. Forse era solo suggestionata e fece un respiro profondo. Perché tutto sembrava così confuso, adesso? 
 
«Aiii! Ai, ma dove sei?» Yami stava cercando Ai per tutto il cortile. Dove si era cacciata la sua amica? E soprattutto, dove se n’era andata da sola, visto che Hikaru la stava cercando insieme a lei?
«Non può essersi persa a scuola. Però non è giusto, sparire senza dirmi niente» borbottò Hikaru. Dopo la lezione era scappata e questo non era da lei. Fu sempre Hikaru a cercare Ai vicino al parco giochi, dietro i cespugli: in genere era lì che si rifugiavano e in effetti non si era sbagliato. Ai era lì, seduta e aveva le guance umide.
Ai stava piangendo ed era la prima volta che la vedeva.
«Ma sei qui!» si allarmò lui. «Che è successo? Ti sei fatta male?»
La bambina sussultò e si asciugò subito una lacrima, quasi si vergognasse di essere stata scoperta durante il suo sfogo. E in effetti era proprio così. Ai non piangeva mai e quando lo faceva, agiva di nascosto. Ma adesso Hikaru l’aveva vista e improvvisamente si sentì fragile.
«Uffa. Non volevo che qualcuno mi vedesse. Non dirlo a nessuno che ho pianto.»
«Ma perché? È una cosa normale. Comunque, se proprio insisti» il bambino fece spallucce, avvicinandosi e inginocchiandosi di fronte a lei. «Ma cosa è successo, me lo dici?»
Ai guardò i suoi occhi. Li avevano dello stesso colore, ma risultavano comunque molto diversi. A Hikaru poteva dirlo. Lui era il suo amico più importante.
«È successo che io scappo di casa. Tanto mio papà non mi vuole bene e di sicuro anche la mia mamma non mi vorrà più bene. Loro si lasceranno a causa mia, ecco.»
Hikaru inarcò le sopracciglia, sorpreso. Erano tante informazioni da accumulare e poi non le riteneva possibili.
«Ma Ai, non è possibile che loro non ti vogliano bene. E poi non puoi scappare di casa, dove puoi andare? Dai, non dire queste cose. Al massimo posso ospitarti io. Ti nascondo sotto il mio letto. Però non deve saperlo Yami, altrimenti addio segreto.»
La semplicità con cui Hikaru aveva affermato ciò aveva per un attimo stupito Ai. Che subito dopo aveva chiuso gli occhi, permettendosi di piangere, ma questa volta tra le sue braccia. Hikaru sussultò, rimase immobile qualche istante. Lui non era fisico ed estroverso come sua sorella, ma Ai in quel momento aveva bisogno di un abbraccio. Da lui. Così, timidamente allungò le braccia e la strinse. In genere lo abbracciavano solo i suoi familiari. E fu strano, ma bello.
«Allora, quando avrò bisogno, te lo dirò» sussurrò Ai, ora più sollevata all’idea di condividere il suo dolore con qualcuno. E Hikaru sorrise, sollevato all’idea di poter essere proprio lui a farla stare meglio.
 
Da qualche parte non molto lontano, Miyo era uscita dalla biblioteca. Prima di unirsi al suo solito gruppo di amici, si era ripromessa di andare da Rin. Ci stava provando davvero a farla integrare, aveva una predisposizione naturale per aiutare il prossimo. La cercò per tutto il cortile, ma Rin non era da nessuna parte. La cercò vicino al parco giochi, con la sua copia de La piccola principessa stretta al petto, quando sentì una mano afferrarla per un braccio.
«Ahi» si lamentò. Prima di poter domandare chi fosse, si ritrovò con la schiena contro l’aiuola. Hayato Aizen la teneva ferma, imbronciato, la guardava negli occhi.
«Di nuovo tu? Ma vuoi lasciarmi stare?» si lamentò. Non aveva certo paura, sapeva difendersi benissimo, ma voleva evitare di cacciarsi nei guai. Hayato però sembrava più in cerca di risposte che di botte.
«E sta zitta. Sto cercando di capire.»
«Che cosa?» domandò lei, nervosa. Hayato si portò una mano sotto il mento.
«Il perché tu piaci a mio padre. Lui non s’interessa a nessuno, neanche a me. Però a te sì. E proprio non capisco, tu sei insulsa.»
Miyo assottigliò lo sguardo. Non voleva stare lì a sentirsi dire che era insulsa, ma allo stesso tempo voleva cercare di risolverla con diplomazia.
«Mio padre mi ha detto che loro erano amici, una volta. Sarà per questo. E comunque se vuoi piacere, dipende anche dal tuo atteggiamento.»
Sperò di aver dato una risposta esaustiva, ma dopotutto davanti aveva Aizen, arrogante, viziato e prepotente, che ora aveva preso a stringerle il polso più forte. Sembrava essersi incattivito tutto ad un tratto.
«Tu devi stare attenta a quello che dici! Sei insulsa e la gente come voi non è alla nostra altezza. Guarda che l’ho visto, vuoi fare amicizia pure con Rin. Beh, rinunciaci, a noi quelli come voi non piacciono.»
Miyo chiuse gli occhi e con tutta la forza che riuscì a trovare cercò di calciarlo. Hayato indietreggiò senza però staccare la presa da lei. E con la mano libera le strinse forte i capelli.
«Tu, brutta, piccola…»
Qualcosa gli sfiorò la testa. Un sassolino. Hayato si voltò e vide Rin che lo guardava, i pugni chiusi, lo sguardo affilato.
«Hayato, smettila. Dovresti comportarti bene.»
Quando Miyo aprì gli occhi, si sentì sollevata: non si era aspettata l’intervento di Rin, ma forse era proprio vero che quando facevi qualcosa di buono, quel bene ti ritornava indietro.
«Adesso sei sua amica? Traditrice, ma che ci trovi in lei? È povera e noiosa.»
Rin si avvicinò, fiera, fronteggiandolo.
«Io sono amica di chi mi pare, va bene? E se continui giuro che con te non ci parlo più» dopodiché afferrò Miyo per una mano e se la tirò dietro. Quest’ultima era abbastanza certa che quell’intervento non avrebbe fatto altro che accrescere l’odio di Hayato nei suoi confronti, ma per il momento era felice di essere stata salvata.
«I-io… aspetta, Rin» ansimò Miyo, fermandosi di botto. «Grazie. Per avermi aiutata. Non me lo aspettavo.»
Rin, ora a braccia conserte, si finse distaccata.
«Hayato è mio amico, però a volte è insopportabile. Non ci fare caso, è solo geloso. Comunque… non devi ascoltarlo. Non è vero che sei povera e noiosa. Cioè… non penso che sei noiosa.»
Miyo sgranò gli occhi e poi rise. Certo, quello era un bel passo avanti rispetto a prima.
«Visto che la pensi così, nemmeno gli altri miei amici sono noiosi. Dovresti fare amicizia anche con loro.»
Rin parve pensarci, ma in realtà bramava di riuscire a farsi volere bene. Perfino con Naoko, con cui non era mai andata d’accordo. Si lisció i vestiti, infine.
«Mmh, posso provarci.»
 
Yoruichi era andata alla sua seduta con la psicologa e stavolta si trattava di una temuta seduta solitaria. In parte avrebbe dovuto sentirsi più tranquilla (la dottoressa Kotetsu la metteva anche molto a suo agio), ma era da giorni (da quella mattina in particolare), che si sentiva nervosa.
«Dunque, signora Urahara…»
«Shihoin» la corresse. «Mi scusi, è che sono abituata ai miei studenti, loro mi chiamano così» ammise, con le gambe accavallate, mentre cercava di assumere una postura rilassata. Isane si sistemò gli occhiali da vista.
«Come si sente?» fu la sua semplice domanda. Yoruichi si era aspettata qualcosa di un po’ più complesso, ma in effetti non avrebbe saputo come rispondere. Non era nemmeno sicura che sarebbe riuscita a mentire o a semplificare.
«Oh, come potrei rispondere a questa domanda?» domandò con un sospiro, guardando da tutt’altra parte. «Sono nervosa e sento che c’è qualcosa che non va in me. Il che è assurdo, non ho mai avuto queste insicurezze nemmeno da ragazzina.»
La dottoressa si fece attenta.
«Provi a spiegarsi. Perché pensa questo di sé stessa?»
D’accordo, adesso doveva necessariamente parlare. Cambiò posizione, incurvando la schiena.
«E va bene, d’accordo, non posso non essere schietta. C’è questa ragazza, una mia allieva, si chiama Soi-Fon. E ha una cotta per me, il che non è strano. Sono le mie reazioni ad essere strane. Chiariamo subito, non c’è nessuna storia tra noi, né niente del genere» ci tenne a specificare. «Il problema è che non sono indifferente. E lei è una donna, come me.»
Le sue stesse parole le parvero strane, estranee. Provare attrazione verso qualcuno che non fosse suo marito la faceva sentire un po’ strana, il fatto che quest’ultima fosse una ragazza era ancora peggio. Pensierosa sollevò e incrociò le gambe, sedendosi come se fosse a casa sua. Era diventata pensierosa.
«È il problema il fatto che sia una donna o il fatto che prova attrazione verso qualcun altro?» chiese la dottoressa Kotetsu.
«Entrambi, credo. Però io sono etero. Cioè, almeno lo credevo fino a qualche giorno fa. Queste cose non si dovrebbero scoprire quando si è più giovani?»
Yoruichi pensava di aver fatto le sue esperienze, di non doversi porre una domanda del genere ora che era sposata da anni e con prole. Ma si era sbagliata in modo clamoroso.
«Queste cose non hanno età, può accadere in qualsiasi momento della nostra vita. Potrebbe essere questo che le crea disagio, è questo che influisce sulla sua vita di coppia.»
Yoruchi si alzò così velocemente che quasi cadde.
«Aspetti, ma cos’ha a che fare questo con… i miei problemi sessuali?»
Non appena finì di porre quella domanda, si rese conto che le due cose erano collegate eccome. E forse lei lo aveva sempre saputo, solo che non ci aveva mai pensato fino in fondo. Isane Kotetsu sorrise, comprensiva.
«Io direi che prima di tutto è bene che lei faccia chiarezza. In secondo luogo, parlare con suo marito è fondamentale. In parte riguarda anche lui.»
 
Yoruichi uscì dallo studio con in testa più domande che risposte: era quindi bisessuale? Era una moglie terribile perché provava attrazione per qualcun altro? Era un’insegnante terribile se provava quest’attrazione per una sua studentessa? No, con Soi-Fon non ci sarebbe stato niente e di ciò era sicura, ma il resto? Il senso di colpa non era un qualcosa a cui era abituata. Quando tornò a casa, per prima cosa trovò Kisuchi venirgli incontro per fare le fusa. Era così che i suoi figli avevano chiamato il gatto, non trovando un nome migliore avevano deciso di unire il nome “Kisuke” al nome “Yoruichi”. E quindi, Kisuchi, magnifico.
«Sono a casa» annunciò. Yami fu la prima a venirle incontro, stringendola in un abbraccio a cui poi si unì anche Hikaru.
«Ma che accoglienza» sussurrò. «Vostro padre si è comportato bene?»
«Benissimo!» trillò Yami. «Lo sai che abbiamo cucinato noi? Emh, va bene, lui in realtà ci ha aiutati, ma giuro che abbiamo fatto tutto noi. Però non ti arrabbiare per il disordine.»
Yoruichi inarcò un sopracciglio e poi vide suo marito sbucare dalla cucina con i vestiti sporchi di farina e altro non meglio identificato. Le stava sorridendo in modo colpevole.
«Mi sono lasciato convincere. Però giuro che è tutto commestibile.»
«Speriamo» sospirò la donna. «Bambini, andate a lavarvi le mani, tra poco si mangia.»
Dopodiché si tolse cappotto e borsa, sentendo su di sé lo sguardo di Kisuke che sicuramente voleva sapere come fosse andata la sua seduta, ma allo stesso tempo non voleva essere invadente.
«Allora, com’è andata?» domandò lui, cercando di assumere un tono leggero. «Quali segreti mi nascondi, eh? Tranquilla, tranquilla, non ti chiederò di svelarmi tutto.»
A meno che tu non mi abbia tradito, avrebbe voluto aggiungere, ma non lo disse. Yoruichi si volse a guardarlo, con uno sguardo più serio di quanto avrebbe voluto e che terrorizzò alquanto.
«Senti, Kisuke. Tu mi ameresti anche se sbagliassi?»
 
Byakuya pregava sempre di fronte l’altarino su cui in cima vi era la foto di Hisana. Ogni sera, prima di andare a dormire. Cascasse il mondo, ma quello era un appuntamento a cui non mancava mai. Parlava con lei, diventava molto più loquace di come non fosse di solito. Alle volte chiedeva consigli, illudendosi che lei potesse dargli il giusto suggerimento (e forse in qualche modo cercava di farlo). Le aveva parlato di Renji e le aveva parlato di quello che sentiva, ma ciò che aveva ricevuto in cambio era il silenzio, il viso dolce e gli occhi tranquilli della sua defunta moglie che lo osservavano.
«Non so cosa dovrei fare» disse con tono piatto, in ginocchio di fronte l’altarino. «Quello che Renji mi ha detto mi ha spiazzato. Mi avrebbe stupito chiunque, ma lui… non lo avrei mai creduto. E mi ha amato per tutto questo tempo senza mai dire nulla? È un pazzo…» socchiuse gli occhi. Si sentiva un po’ in colpa, per non essersi accorto di niente, e poi riprese a parlare. «Tutti mi dicono che devo andare avanti, che sono io che voglio rimanere nella mia infelicità. E forse hanno ragione. Ma non so come fare.»
Rimase in attesa, nemmeno lui sapeva di cosa, e poi sentì il rumore della vibrazione. Renji lo aveva chiamato diverse volte e lui non aveva mai risposta. Non un comportamento maturo, se ne rendeva conto ed era sicuro che se Hisana fosse stata lì gli avrebbe detto di reagire e di avere coraggio.
Anche se il coraggio lo aveva perso da tempo. Ma comunque rispose, era il minimo che poteva fare.
«Renji?»
«B-Byakuya» rispose lui dall’altro lato, sorpreso e sollevato. «Se mi hai risposto allora forse non mi odi.»
Che razza di idiota. Ora Byakuya si spiegava tanti dei suoi atteggiamenti.
«Io non odio nessuno, soprattutto non odio te. Mi dispiace, ma avevo bisogno di rimanere solo, di riflettere» disse, forse provando un po’… d’imbarazzo? Era possibile. Renji camminava avanti e indietro nell’officina, come un pazzo.
«Senti, mi dispiace va bene? Non era così che doveva andare. Non puoi dimenticare quanto ho detto?»
Byakuya assottigliò lo sguardo. Renji si sarebbe accontentato di rimanere solo un amico pur di averlo accanto?
«Temo di non poterlo fare. Mi hai detto di amarmi. Mi hai detto che mi hai sempre amato.»
«E allora? Mi pare evidente che tu non ricambi» Renji non era arrabbiato. Solo rassegnato e sembrava quasi sul punto di scoppiare in un pianto disperato. Anche se lui in realtà non piangeva mai. «E non so cosa mi sono messo in testa. Perché io… anche se inconsciamente, da tre anni competo con un fantasma. Questo vuol dire che lei è e sarà sempre insuperabile, a prescindere. Soprattutto se l’altra scelta sono io.»
Byakuya avrebbe voluto dirgli di stare in silenzio e di smetterla di costruirsi castelli in aria, perché non era affatto per questo. Ma lui non era mai stato bravo in quel campo.
«Non è… questo!» cercò di essere deciso. «Mi hai spiazzato, è vero. L’unica cosa che voglio è che ci andiamo piano, ci sono delle cose che devo capire.»
Renji arrossì e arrossì anche Byakuya, solo che questo non poteva nemmeno immaginarlo.
«E-eh. Guarda che non devi mentire. Perché scomodarsi se neanche ti piaccio? Non in quel senso almeno.»
Byakuya sbuffò, spazientito. Risultava quasi buffo.
«Renji, io sono testardo ma tu sei noioso. Non mi pare di aver mai detto che non mi piaci in quel senso. Intendo questo con cose da capire.»
A Renji cadde il telefono di mano, con un tonfo. Si chinò per raccoglierlo, agitato.
«Non è che uno di questi giorni possiamo vederci? Così non funziona.»
«Hai ragione, non funziona. Allora facciamolo. Cioè, vediamoci e parliamo. E poi non so che altro.»
Byakuya era goffo. Era in imbarazzo. Renji si ritrovò a pensare che fosse adorabile, tra le altre miriadi di cose a cui stava pensando. In quel momento, anche se non aveva certezza, anche se non ci vedeva ancora chiaro, avrebbe letteralmente spaccato il mondo. Byakuya, invece, non poteva credere di aver fatto quel passo. Piccolo, ma importante.

Nota dell'autrice
Un piccolo passo per Byakuya è un grande passo per l'umanità. Il ragazzo si è concesso una possibilità, ma ovviamente sarà facile? Nononono. E Yoruichi ha compreso che forse forse, davvero non è indifferente al genere femminile, anzi (però mi dispiace troppo per Kisuke, giuro che non sarà cornificato). Passando ai bambini, tale padre tale figlio per quanto riguarda Hayato che molesta Miyo, ma che viene salvata in corner da Rin. Su Momo e Toshiro non mi pronuncio nemmeno, mi fa strano pensare che mi stia piacendo tanto scrivere la loro storia. Spero che il capitolo vi sia piaciuto, a presto (;
Nao
 

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Capitolo diciassette ***


Capitolo diciassette
 
Tatsuki aveva dimenticato la sensazione che si provava a fare qualcosa di nascosto. Non avrebbe dovuto, perché lei e Uryu erano sposati e tuttavia c’era un che di entusiasmante in quella situazione. Anche se si trattava di un segreto che condividevano già in sei o sette. In genere si vedevano sempre nell’appartamento di lei, quando Yuichi era a scuola o con i nonni o con gli amici. Far combaciare tutto, anche tenendo in considerazione i loro lavori, non era facile, ma una scorciatoia la si trovava sempre.
«Uryu, non avrai preso un permesso da lavoro, vero?» ansimò Tatsuki. Suo marito le stava baciando il collo, ma era stato costretto a sposyarsi e ad osservarla con gli occhiali appannati.
«L’avrò fatto due o tre volte da quando ho iniziato. Non è niente di che» ammise, tornando poi a baciarla. L’amore lo aveva reso un idiota, più adesso di quanto non avesse fatto a sedici anni. Agire di nascosto, saltare il lavoro con una scusa, non erano cose tipiche di Ishida, ma stava scoprendo che per amore si poteva fare qualche follia. Tatsuki sospirò, poggiando le mani sul suo petto. Adesso tutto appariva perfetto, avevano ritrovato la loro complicità e non riuscivano a stare separati l’uno dall’altro. Proprio come una coppietta di adolescenti, ma una relazione non era fatto solo di quei momenti e lo sapevano entrambi bene. Sarebbe arrivato il momento di affrontare le difficoltà e il fatto di essere per lo più incompatibili dal punto di vista caratteriale non rendeva tutto più facile.
«Senti, Uryu…» ansimò. «Sei sicuro che Yuichi non abbia capito nulla, giusto? Nostro figlio mi sembra troppo sveglio per credere che non ci sia niente» espresse la sua preoccupazione, anche se forse non era il momento giusto.
«Sarebbe così terribile se lo scoprisse?» ora la stava guardando di nuovo negli occhi e Tatsuki si ritrovò ad arrossire.
«Non lo so. È tutto così assurdo. Noi siamo dei pazzi. Io sono pazza.»
«Non quanto me, Tatsuki. Questo oramai è chiaro» Ishida l’attiro a sé e strinse con forza il suo seno. Per tutta risposta sua moglie fece una smorfia.
«Ti avevo detto di andarci piano. Sono molto sensibile lì, per adesso.»
«S-scusa, mi dispiace. Effettivamente sono più grosse. Ahi!» si lamentò perché Tatsuki gli stava ora tirando i capelli.
«È solo la sindrome premestruale, non durerà a lungo. Ma ora basta parlare» fu Tatsuki questa volta a baciarlo, a chiudere gli occhi per lasciarsi prendere, amare. Come solo lui sapeva fare.
 
Respirò profondamente dopo aver poggiato il viso sulla sua spalla. Il sesso in effetti non era mai stato un problema, anzi, era uno dei pochi argomenti su cui andavano d’accordo: era sempre, senza nessuna eccezione, perfetto. Ishida la stringeva a sé, tenendo un braccio davanti al viso. Si sentiva quasi un delinquente nel saltare il lavoro per quegli incontri segreti (Kurosaki sarebbe stato fiero di lui), ma alla fine che importanza aveva? Aveva l’amore della sua vita lì, dopo aver temuto di perderla.
«Tatsuki, qual è la cosa che odi più di me?» domandò all’improvviso, mentre le accarezzava i capelli. Lei, sorpresa, lo guardò.
«Ti sei scelto un argomento post-sesso molto preciso, eh? Comunque… se parliamo di cose che odio di te, ce ne sono diverse. Sei pignolo, non chiedi ma aiuto quando ce n’è bisogno. Ecco, sei orgoglioso al punto da essere insopportabile. E vuoi sempre avere ragione, oltre al fatto che sei anche un po’ permaloso e… emh…scusa…»
Uryu aveva un’espressione rassegnata. Non che non conoscesse a memoria i suoi difetti, ovviamente.
«Non preoccuparti. E quali sono le cose che invece ami me?»
Tatsuki arrossì come una ragazzina. C’erano tanti motivi per cui lo amava, per cui lo aveva sposato. Per cui era ancora lì, nonostante tutto.
«Sotto la tua patina d’orgoglio nascondi un cuore buono. Sei dolce e comprensivo con me e con Yuchi. Ci sei sempre per tutti, ti impegni nel tuo lavoro e sei sempre stato quello più affettuoso dei due. Inoltre, non so se vale, ma ti trovo sexy.»
Uryu parve un po’ ringalluzzito da quei complimenti.
«Sono d’accordo soprattutto sull’ultima cosa che hai detto, ma a parte ciò… credi quindi che io ne valga la pena? Che noi ne valiamo la pena? Non posso nemmeno sopportare l’idea di discutere e litigare con te e…»
Tatsuki gli posò un dito sulle labbra per zittirlo. Giusto, dimenticava che a volte era paranoico.
«Se non vuoi pensarci, non pensarci. Io non lo farò di certo, preferisco esserci.»
Lo baciò di nuovo e Ishida pensò che fosse pronta ad un secondo round, ma Tatsuki si allontanò subito.
«Sto morendo di fame, vuoi qualcosa? Io vorrei delle patatine fritte.»
Lui sorrise e fece spallucce.
«Direi che va bene.»
 
Spesso si basava tutto sul concetto delle apparenze. Nemu si domandava come dovesse apparire vista da un occhio esterno. Di sicuro per gli altri lei era la schiva e timida infermiera Kurostuchi, moglie di uno dei chirurgi migliori del St. Luke. Che li trovassero tutti una coppia bizzarra lo sapeva bene e in fondo non poteva dare loro torto. Si chiedeva però che tipo di stranezza fosse, se una di quelle simpatiche o una di quelle che faceva domandare alla gente: Chissà se sono felici, chissà se lei felice?
Ebbene, lei lo era stato per tanto tempo. Ultimamente non lo era e forse anche questo stava iniziando a essere evidente. Nemu era sempre stata brava a fingere, a mostrarsi impassibile. Era del pensiero che i problemi personali erano tali e non dovessero avere niente a che fare con la vita lavorativa. Anche questo, però, stava diventando difficile. Con tutto quello che stava accadendo rischiava di scoppiare. Non le era mai successo e temeva come avrebbe reagito. Suo marito era impegnato. A malapena la guardava e anche quei pochi sguardi erano incomprensibili.
Hanataro parlava con lei, era un ragazzo simpatico.
«… Però immagino che debba essere bello lavorare insieme. Voglio dire, potete vedervi quanto volete, no? Secondo me siete una bella coppia, anche se siete diversi. So che avete una figlia. Oh, mi piacerebbe tanto conoscerla, potrò farlo?»
«Sì, penso che ad Ai piaceresti molto. Ora scusami» disse lisciandosi una ciocca di capelli. «Ma il mio turno è finito per oggi.»
Senza dare tempo al ragazzo di rispondere, si avvicinò a Mayuri, impegnato ad osservare una cartella clinica.
«Il mio turno è finito, me ne vado» annunciò, in tono più arrabbiato di quanto avrebbe voluto.
«Beh?» domandò lui senza nemmeno guardarla. Nemu strinse i pugni. Oh, come se si sentiva arrabbiata e insignificante.
«Nulla, dal momento che per te non esisto, non vedo che differenza faccia.»
Non stava urlando e non si era scomposta, non era da lei fare scenate (o almeno sperava). Ma comunque aveva parlato in tono abbastanza alto da farsi sentire dagli altri. Mayuri l’afferrò per un braccio.
«Non qui. I nostri problemi non riguardano il lavoro.»
«Perché? Hai paura che la gente sappia che c’è qualcosa in cui non sei perfetto? Ne avrei una lista infinita, ma l’ho sempre taciuto» le parole uscivano senza che potesse fermarle. Era una sensazione strana. Mayuri assottigliò lo sguardo. Era lui quello che tendeva a scattare da un momento all’altro per qualsiasi cosa, eppure si stava trattenendo.
«Se proprio mi odi così tanto, allora lasciami. Non sei costretta a stare con me, il matrimonio è un contratto annullabile» disse lui, guardandol. Nemu sentì gli occhi divenirle lucidi.
«Sei tu che mi odi. Anche se non capisco perché e non riesco a scorgere un solo motivo per cui tu stia ancora con me» sussurrò, ferita, affranta, sull’orlo di un pianto a cui non si sarebbe lasciata andare. «Ora scusami»
Gli passò accanto, passò accanto ad Hanataro che li osservava sconvolto. Mayuri la vide allontanarsi e poi i suoi occhi si posarono sul ragazzo.
«Che hai tu da guardare?» domandò nervoso, ma stranamente provato.  Hanataro arrossì e poi, prendendo tutto il suo coraggio, disse.
«Dottor Kurotsuchi, se vuole piangere può farlo. Io lo faccio sempre.»
Tanta arroganza (o forse stupidità) stupì Mayuri, il quale ghignò.
«Piantala con queste idiozie, al contrario tuo non sono un ragazzino emotivo. E, soprattutto, non ti immischiare.»
«Sì, signore» rispose lui, non del tutto convinto tuttavia. Anche se una persona cercava di nasconderlo, quando c’era qualcosa che non andava si capiva, in qualche modo. Lui qualcosa aveva iniziato a capire.
 
Nemu e Yoruichi quasi si scontrarono all’entrata dell’ascensore.
A Nemu erano scivolate due lacrime e si era subito asciugata il viso nel vederla.
«Yoruichi…»
«Ehi, infermiera. Ma che succede? Giornata dura?»
Lei non rispose. E tuttavia un’amica con cui parlare l’avrebbe tanto voluta. Questa fu una cosa che Yoruichi percepì immediatamente.
«Amh, senti. Dovevo portare una cosa a Kisuke. Dopo se vuoi potremmo… non so, parlare? Hai l’aria di una che ha bisogno di sfogarsi.»
Nemu sollevò lo sguardo e si sentì grata perché per una volta i suoi silenzi erano stati esaustivi.
«Ma io non vorrei…disturbare…»
Yoruichi le mise una mano sulla spalla.
«Ma figurati. Torno subito, eh. Non te ne andare senza di me.»
 
 
Non era un orario consono per bere, Nemu lo sapeva bene. In genere lei non amava l’alcol, ma quando Yoruichi gliene aveva offerto un po’ non aveva potuto rifiutare. Così, prima che se ne rendesse conto, si erano ritrovate sedute sul pavimento, ognuna con un bicchiere in mano che avevano riempito e svuotato più volte di sakè.
Sentendo la testa girare, Nemu aveva poggiato la schiena contro al muro. Non era ancora brilla, a differenza di Yoruichi che se ne stava di fronte a lei senza smettere di bere. A Nemu era bastato poco per diventare un po’ più loquace del solito.
«Avanti, dai… dimmi qualcosa di voi. In generale noialtri sappiamo così poco di te e Mayuri» Yoruchi stava ridendo. Aveva messo della musica in sottofondo, non aveva idea di cosa fosse, forse una canzone d’amore o una canzone per bambini, non avrebbe fatto differenza.
«Non c’è molto da dire» sospirò Nemu, tenendo gli occhi chiusi. «Avevo diciotto anni quando ci siamo conosciuti. Sai, questa è una cosa che sanno in pochi, ma io sono un'orfana e… mi sono sempre sentita fuori posto, strana rispetto alle mie coetanee. Quando l'ho incontrato, non ero affatto in soggezione, anzi, ero curiosa e affascinata dal suo genio» per un attimo sorrise nel ripensare a quei tempi e poi tornò seria. «Comunque, ero giovane. Ne avevo ventuno quando mi ha chiesto di sposarlo. Lo ha fatto il giorno della mia laurea» le raccontò, mentre ripensava a quel giorno come se fossero passati secoli. Allora Yoruichi rise.
«Però, romantico! Da lui non me lo sarei mai aspettato» disse mandando giù un altro sorso di sakè e lasciandosi andare ad un verso di apprezzamento.
«Già, non si direbbero tante cose di lui. Comunque, l’hanno dopo ci siamo sposati. Il nostro matrimonio è stato semplice, non c’era molta gente, ma è stato perfetto. Lui non prova interesse per molte persone e sono ancora meno quelle per cui prova stima e affetto. Io sono… ero una di queste. Eravamo felici» aveva preso a parlare con tono malinconico. «Poi sono rimasta incinta. Non era previsto e la mia prima reazione è stata lo shock. Mi dicevo: come posso diventare madre, io? Come possiamo essere genitori, noi? Ma non è durata molto. L’ho metabolizzato quasi subito. Al contrario suo.»
Yoruichi fece una smorfia e si avvicinò alla sua nuova confidente, poiché parlava a voce un po’ bassa.
«È lì che le cose sono cambiate tra voi?»
«No, non direi. Alla fine lui ha accettato la cosa. So che non puoi crederci, ma è sempre stato attento nei miei riguardi e anche in quelli di Ai. Ma quando la bambina ha iniziato a crescere lui è cambiato. Come se la tenesse lontana. Come se tenesse me lontana. E io non capisco. Se non mi ama più, se mi odia, perché stare con me?»
Yoruichi la osservò e poi bevve ancora.
«Sai, secondo me quell’idiota ti ama e ama anche Ai. Mi ha sempre dato l’impressione di uno che non sa esprimersi. Chissà cosa nasconde in quella testa geniale, ma incasinata. E poi andiamo, lui non sprecherebbe tempo con una persona che non ama.»
A questo Nemu effettivamente non aveva pensato troppo, anche se Mayuri glielo aveva detto: era una persona pratica e faceva solo cose utili. Però non bastava.
«E tu, invece?» domandò poi. «Il primario Urahara è strano per ora. Tra voi va tutto bene?»
Yoruichi rise. In genere non ne avrebbe parlato, ma sia per l’alcol, sia perché aveva bisogno di confidarsi con qualcuno, parlò.
«Beeeh, che dire. Forse mi piacciono anche le donne e provo attrazione per una mia alunna. E ho problemi a letto con mio marito, probabilmente le cause sono queste.»
Nemu arrossì, era la prima volta che qualcuno si confidava con lei.
«Non c’è niente di male se ti piacciono anche le donne. Per l’attrazione beh… immagino possa capitare. Per il sesso… credo che, risolvendo i tuoi conti in sospeso, risolverai anche quel problema. Lo sai» la guardò. «Tu e Kisuke siete diversi quanto me e Mayuri, anche se non nello stesso modo.»
Yoruichi rise, ancora.
«Hai proprio ragione. Dovremmo fare un’uscita a quattro, qualche volta.»
Nemu ci pensò su. In effetti sarebbe stato strano e divertente allo stesso tempo. Parlare con Yoruichi le piaceva, era la prima volta che si confidava con qualcuno ed era piacevole. Kisuke rientrò a casa proprio mentre le due stavano chiacchierando in preda al torpore dell’alcol. Con lui c’erano anche i tre bambini, Yami, Hikaru e Ai.
«Mamma?» domandò quest’ultima confusa.
«Mmh? Ai…?» sussurrò con gli occhi socchiusi. Giusto, che madre degenera, non aveva pensato minimamente a sua figlia.
«Non preoccuparti, Nemu, ci ho pensato io. Ho chiesto a Kisuke di andare a prenderli. Ben fatto, Kisuke!» Yoruichi andò incontro al marito, provando a dargli una pacca su una spallam senza riuscirci. A malapena si reggeva sulle gambe.
«Ma allora possiamo rimanere un po’?» chiese Ai speranzosa. Nemu, con un sospiro, si alzò. Al contrario di Yoruichi era più lucida, ma non si sentiva comunque in sé.
«È meglio se andiamo adesso, altrimenti si farà tardi…»
«Lascia che ti accompagni, infermiera Kurotsuchi. Non mi sentirei tranquillo a lasciarti andare in queste condizioni» disse Kisuke in un tono che – le due donne lo notarono entrambe – appariva quasi infastidito. Yoruichi lo sapeva, il problema era con lei e lo avrebbe affrontato. Quando fosse stata un po’ più lucida.
 
Erano giorni che non riusciva a darsi pace. Shinji si era detto che mai e poi mai avrebbe ceduto, perché ricadere in quel circolo vizioso di inganni e bugie era l’ultima cosa che voleva. Da un lato, però, c’era la sua parte irrazionale, quella innamorata. Perché fra tutti doveva innamorarsi proprio di lui? E perché ora aveva tanti dubbi? Non aveva buttato il suo biglietto, stava lì e il nome dell’hotel e della camera oramai li aveva imparato a memoria. Non posso andare. Non posso complicarmi, complicarci ancora la vita.
«Merda, merda» imprecò. Shinji se ne andava in giro per casa sua come un pazzo, mettendo tutto sotto sopra, stava cercando qualcosa.
«Ma dove sono le mie sigarette?» domandò ad alta voce. Miyo era dietro di lui a braccia conserte, con lo stesso cipiglio di una ragazzina ben più grande.
«Le ho nascoste, così non puoi fumarle. Lo sai che ti fa male.»
Shinji sbuffò e si passò una mano tra i capelli. Si stava comportando da immaturo, come al solito.
«Sì, hai ragione. Scusa, piccola. Sono così nervoso» ammise. Non poteva certo spiegare alla sua bambina di nove anni le pene d’amore per un uomo sposato.
«Perché?» s’impanicò subito Miyo. «Che è successo? Non ti hanno tolto la mia custodia vero? Dimmi che non è questo!»
«Cosa?!» esclamò lui. Poi si avvicinò e l’abbracciò stretta. Stupido lui, era lei la bambina fra i due, era lei quella che aveva bisogno di rassicurazioni. «No, assolutamente. Non devi preoccuparti perché questo non accadrà mai. Non è una cosa che riguarda te.»
Miyo si strinse in quell’abbraccio e poi o guardò con fare sospettoso.
«Papà, per caso hai una fidanzata? No, perché se dovrò avere una matrigna, preferirei saperlo.»
Shinji arrossì e per qualche istante si sentì incapace di distogliere lo sguardo.
Come dire, al massimo potresti avere un patrigno, ma dubito che accadrà.
«Ah, tesoro, quindi è questo che il tuo cruccio? Pensi che io abbia una fidanzata? Nah, mi piace flirtare, ma l’unica donna a cui mi dedico sei tu.»
Miyo rise perché lui la stava adesso baciando sulla testa, ma ci teneva comunque a dargli un consiglio.
«Una cosa però la devo dire: non c’è niente di male a innamorarsi, se questo può farti felice…» poi arrossì. «Lo dico solo per dire, io non sono mai stata innamorata, eh.»
Shinji si fece a sua volta serio. Diamine, era tutto troppo difficile, tutto troppo complicato e al contempo anche così facile.
«Lo so, Miyo. Hai ragione. Sei saggia per la tua età» disse accarezzandole i capelli. Lei fece spallucce, dicendo che lo sapeva bene e poi aggiunse.
«Domani posso andare a casa di una mia compagna? Non la conosci.»
«Tu non hai amici che non conosco» disse Shinji stranito.
«Lei non la conosci, si chiama Rin Ichimaru. Allora, posso?»
A Shinji cadde qualcosa di mano qualcosa, in seguito non avrebbe ricordato cosa. Sembrava che il destino si fosse impuntato per far incrociare la sua strada a quella di altra gente con cui c’entrava poco. Ma alla fine Ichimaru era innocuo o almeno così sperava.
«Eh, sì certo. Vai pure» disse distrattamente, troppo preso dal suo dilemma. Sapeva bene cosa sarebbe successo se fosse andato da Aizen, eppure quando la sera Hiyori venne a prendere Miyo per portarla con sé, piuttosto che fare qualsiasi altra cosa, Shinji (odiandosi abbastanza) andò da lui.
 
Una delle cose che odiava di Sosuke Aizen era che fosse uno snob e che non si creava troppi problemi a nasconderlo. L’hotel in cui gli aveva dato appuntamento era da perdere la testa, qualcosa di troppo raffinato per uno come lui.
Sì, in effetti loro poco c’entravano l’uno con l’altro, quindi perché erano attratti inevitabilmente?
Si sentiva anche abbastanza a disagio: aveva deciso di assumere uno stile sciatto così magari Aizen non si sarebbe sentito attratto da lui, però forse non era stata una mossa poi così vincente. Quando infatti lui gli aprì la porta della suite, gli sorrise nel vederlo con i capelli un po’ in disordine, la camicia abbottonata male e la cravatta storta.
«Shinji, hai corso?» gli domandò.
«No, non ho corso. E chiariamo subito una cosa: io non sono venuto qui per il sesso» disse entrando. Maledizione, quella suite era più grande di casa sua.
«Non ti ho chiesto di venire qui per questo. Non solo per questo almeno, ma solo per parlare in tranquillità, visto che non abbiamo mai occasione.»
L’altro si lasciò andare ad un “tsk” e si sedette su una delle due poltrone, in maniera disordinata.
«E di che vuoi parlare? Ti ho detto che io l’amante non lo faccio più e… ah, grazie.»
Aizen gli aveva dato un bicchiere contenente qualcosa di alcolico. Se il bastardo aveva in mente di farlo ubriacare, stava sbagliando di grosso. Però bevve comunque, un po’ di alcol lo avrebbe aiutato. Sosuke si sedette di fronte a lui. Shinji aveva sempre odiato il modo in cui lo guardava, come se per lui fosse disposto a morire e questa cosa, lo sapeva, non era certo vera.
«E quindi? Di che dobbiamo parlare?»
«Hai avuto qualcun altro in questi sette anni?» domandò l’altro, andando subito al sodo.
Avrebbe tanto voluto dirgli che sì, aveva avuto qualcun altro, che si era divertito da morire senza di lui. Ma non sarebbe stato credibile.
«No, non ho avuto nessuno. Ora sei contento? Tu sei sempre stato così, possessivo, vuoi che la gente graviti solo attorno a te. Ma tu, ovviamente, fai quello che vuoi. Ad esempio, se tua moglie ti tradisse, ti arrabbieresti. L’orgoglio ferito… ah, Sosuke. La persona che ami di più al mondo sei tu stesso» Shinji si sfogò. Si era detto di affrontare tutto con calma e razionalità, ma era impossibile.
«Non è affatto vero» disse Sosuke senza scomporsi. «La persona che amo di più al mondo sei tu. Non sarei qui dopo tutto questo tempo, altrimenti.»
Shinji arrossì, ebbe per un attimo un brivido e poi lo guardo sprezzante.
«Sei un bugiardo. E hai anche l’ardire di mentire guardandomi in viso. Se mi amassi saresti con me. Ah, ma io ho smesso con queste cazzate, non ho più l’età. Goditi la tua vita perfetta, con la tua famiglia perfetta e la tua posizione perfetta. Io sono povero, sconclusionato e incasinato. Hai solo da perdere.»
Aveva preso a gesticolare con una mano, per questo Aizen lo bloccò, afferrandogliela.
«È vero, sei tutto questo. Credo sia questo che mi è sempre piaciuto di te.»
Shinji provò ad allontanarsi dalla sua presa. Aveva caldo.
«E tua moglie e tuo figlio, allora? Loro non meritano forse la tua sincerità? Sono sicuro che siete infelici tutti e tre.»
Sosuke sorrise, facendosi più vicino.
«Non sono poi così perfetto come tu dici. Per quanto riguarda le mie competenze genitoriali, tu potresti darmi qualche consiglio. Per quanto riguarda Momo, un tempo l’ho amata, ma non mai stato lo stesso amore che provo per te.»
Le dita erano ora sulla sua guancia, ora sui capelli che stava accarezzando.
Lasciami stare, avrebbe voluto dirgli.
Non possiamo caderci di nuovo.
«Ma non mi ami abbastanza per stare con me alla luce del sole. Pensa che scandalo, l’avvocato Sosuke Aizen che lascia la moglie per un altro uomo, squattrinato e manager fallito» sussurrò, senza troppa convinzione. E poi lo guardò negli occhi. «Fottiti, Sosuke. Ti odio. Però ti amo. Che sia solo per questa volta.»
Lo disse, sapendo di mentire. Non esisteva mai l’ultima volta. Sosuke  si tolse gli occhiali e lo baciò in un modo in cui non aveva mai baciato nessuno, nemmeno la sua stessa moglie. Shinj si aggrappò a lui e per un attimo lungo una notte si sarebbe dimenticato di quei sette anni di vuoto tra loro
 
Masato e Kaien non litigavano mai. O almeno, di solito non litigavano mai, per questo Ichigo si ritrovò un po’ stupito quando vide i due bambini, Kaien sopra Masato, che si colpivano e tiravano i capelli. Era rientrato dopo una giornata stancante, Ishida non era venuto, Kurotsuchi, di umore terribile, aveva sfogato su di lui tutta la sua frustrazione. Avrebbe soltanto voluto dormire. O magari andarsene in vacanza.
«KAIEN E MASATO!» gridò, afferrando il suo primogenito e sollevandolo. «Cosa state facendo?!»
«Non è colpa mia!» disse Masato. «Lui mi è saltato addosso!»
«No, non è vero. Tu, sei tu che mi provochi.»
Ichigo si lamentò e poi fermò il più piccolo che cercava di colpire Kaien, poggiandogli il palmo della mano sulla fronte.
«Non m’interessa di chi è la colpa, non dovreste picchiarvi! Dico, ma siete impazziti? Non lo avete mai fatto! E soprattutto…. Dov’è QUELLO STUPIDO VECCHIO?!»
Altro che aiuto, avere suo padre in giro per casa era come avere un altro figlio. E Yuzu era già troppo carica di lavoro, occupandosi delle faccende e dei pasti, non poteva chiederle anche di fare da baby-sitter. Alla fine lui era il padre e lui doveva gestire le cose, nonostante la stanchezza.
«Mi rimetti giù?» domandò Kaien, ancora stretto nel suo braccio. Ichigo sbuffò e lo lasciò andare.
«Si può sapere che succede?»
Masato sembrava offeso, ma mai quanto Kaien. Quest’ultimo tendeva ad essere un po’ melodrammatico.
«Succede che io non parlo più con Masato. Io non gli servo, per lui esiste solo Yuichi. Quindi ho finito.»
«Ah, sì? Bene e io non gioco più con te, ecco!» Masato gli diede le spalle.
Ichigo si massaggiò una tempia. Un chiaro caso di gelosia, ma lui con quelle cose non era bravo, non quanto Rukia almeno.
«IIICHIIIIGOOOOO!»
Come se non bastasse, ecco il terzo bambinone troppo cresciuto. Prima che suo padre potesse abbracciarlo, Ichigo gli diede una gomitata.
«Non ci provare! Sei un baby-sitter pessimo, ma perché non cresci un po’?»
«Ahi» si lamentò Isshin massaggiandosi la testa. «Ti sembra questo il modo di accogliermi?»
Ichigo non rispose. Era meglio per tutti che tacesse e basta, non aveva intenzione di esplodere.
 
Rukia era altrettanto stanca, le sue giornate erano piene e poiché tendeva ad essere un po’ perfezionista (in questo forse aveva preso con Byakuya) metteva sé stessa in tutto. Quando tornò a casa trovò il tempo per i suoi bambini, anche se Masato e Kaien sembravano un po’ freddi l’uno verso l’altro.
«Mammina, mi sei mancata» piagnucolò Masato. «Domani rimani a casa con noi, e dai!»
«Tesoro, ma io sono qui adesso» disse stampandogli un bacio sulla fronte. «Avete fatto i bravi bambini?»
Kaien gonfiò le guance.
«Sì, abbastanza. Comunque papà si è chiuso nel suo studio e non esce. Mi sa che è un po’ nervoso.»
Rukia sollevò lo sguardo verso la porta chiusa. Ichigo nervoso? Talmente nervoso da chiudersi in sé stesso? Questo era strano. Accarezzò i capelli dei gemelli e poi bussò alla porta dello studio. Ichigo non rispose e allora decise di entrare. Trovò suo marito seduto alla scrivania, stava compilando dei moduli, aveva la fronte aggrottata e gli occhi stanchi.
«Ichigo» lo chiamò. «Sono io, va tutto bene?»
Ichigo posò la penna e sospirò. Ad un tratto si sentiva un vecchio lamentoso, scorbutico e stanco. Il lavoro non gli era mai pesato, aveva sempre svolto tutto con dedizione e pazienza, ma ultimamente era difficile far quadrare tutto.
«Scusa, non ti avevo sentito. Sono solo stanco.»
«Senti, perché non vai a dormire?» Rukia si avvicinò, posandogli una mano tra i capelli.
«No, non posso. Devo finire qui. Sai, io non ho scelta né nessuno che mi aiuta.»
Si morse subito il labbro, gli era uscita piuttosto male quella frase. Rukia assottigliò lo sguardo, retraendo la mano.
«D’accordo, non c’è bisogno di innervosirsi tanto. E non mi pare che nessuno ti aiuti» Rukia era diventata rigida come un bastone. Era raro che litigassero per qualcosa di serio, in genere erano sciocchezze risolvibili. Ma i litigi, quelli seri, erano orribili e nessuno dei due sapeva mai come reagire.
«Va… va bene, è la stanchezza che parla» Ichigo cercò di ritornare sui suoi passi. «A lavoro ultimamente è dura e i nostri figli sono stranamente scatenati. Lascia stare, davvero.»
Sapeva che sua moglie non avrebbe lasciato stare, perché lei era fatta così, era nella sua natura.
«Va bene, lascio stare. Ad ogni modo è bello sapere che t’interessa quello che faccio e che la mia realizzazione personale per te sia un peso» Rukia incrociò le braccia sotto al seno, glaciale. Non era un modo in cui Ichigo era abituato a vederla, non gli piaceva.
«Non l’ho mai detto» disse lui con un filo di voce.
«Infatti l’ho detto io. Ora, se non ti spiace, vado a riposare. Sai, non sono certo andata a divertirmi, oggi» dichiarò e poi ferma nella sua posizione rigida gli diede le spalle. Di solito era facile far pace. Lui l’abbracciava, se sbagliava le diceva che era stato un perfetto idiota e la implorava con dolcezza di perdonarla, ma adesso dubitava sarebbe bastato. Lanciò la penna lontano e quella sbatté sulla parete, cadendo poi sul pavimento.


Nota dell'autrice
... Ichiho e Rukia sono forse la coppia più equilibrata della storia, ma se non do problemi a chiunque non sono contenta. BEH, il nostro chirurgo è stressato e Rukia si sente un attimo turbata dal suo atteggiamento. E a proposito di atteggiamenti che turbano, Nemu si ribella al sistema corrotto e si confessa con Yoruichi. Anzi, si confessano a vicenda, anche loro una grandissima BROTP.
Ah, sì. Shinji ha ceduto, ma questo si sapeva sin dall'inizio. Gli unici che se la passano bene sono Tatsuki e Uryu... per ora.
Alla prossima settimana :)

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Capitolo diciotto ***


Capitolo diciotto
 
Nnoitra era sempre stato un tipo diffidente con gli estranei ed era uno che non parlava mai dei fatti suoi, dei suoi segreti più intimi e delle sue emozioni, l’aveva sempre trovata una cosa da smidollati. Per questo ci aveva impiegato un po’ per convincersi ad andare da uno strizzacervelli. Doveva però ammettere che la dottoressa Nanao Ise, con i suoi occhiali, i suoi capelli legati e l’espressione seria, gli infondeva una certa fiducia. Il primo incontro era stato di conoscenza più che altro, sia per lui che per Neliel. Il secondo incontro però sarebbe stato in solitaria per entrambi. Nnoitra era entrato e si era stravaccato sulla poltrona con fare annoiato e sciatto.
«Allora, dottoressa. Facciamo questa cosa? Perché ho una certa fretta»
«Ci prenderemo il tempo che serve» disse lei, aggiustandosi gli occhiali. Non era affatto messa in soggezione dal suo modo di fare annoiato. «Al nostro primo incontro è venuto fuori che è la gelosia ciò che causa difficoltà a lei e a sua moglie.»
Nnoitra fece spallucce.
«Sono fatto così, sono possessivo. Ma a mia moglie non va bene e io sono qui perché non voglio mandare tutto a putt… non voglio rovinare tutto.»
La dottoressa Ise gli porse la prima domanda e tanto bastò per metterlo in difficoltà.
«Che cosa pensa quando prova questa gelosia?»
Nnoitra corrugò la fronte. Lui non era bravo a parlare, non di quella roba almeno, ciò lo faceva sentire goffo.
«Cosa dovrei pensare? Che non voglio che nessuno si avvicini a lei. Vale lo stesso per Naoko, ma lei è ancora piccola e il problema non si pone.»
«Si sente minacciato in qualche modo?»
Divenne rigido come un bastone. Non gli piaceva come quella donna gli leggeva nel pensiero, si sentiva violato. Forse era un qualche super potere degli strizzacervelli, chissà. Le sue labbra si contrassero in un ghigno.
«E perché dovrei? Non sono certo uno stupido ragazzino insicuro» senza rendersene conto il suo tono era cambiato. «Senta, ma perché stiamo parlando di quello che sento io? Non è importante.»
La dottoressa Ise, che stava prendendo appunti, si fermò e lo guardò.
«Invece è importante. Ma se vogliamo parlare d’altro, possiamo parlare più approfonditamente di lei. Mi racconti qualcosa.»
Quello era perfino peggio. Nnoitra amava parlare della sua vita solo da un certo punto in poi, da quando aveva conosciuto Neliel, precisamente.
«La mia vita non è niente di eccezionale. Sono stato un bambino pestifero e un adolescente ribelle, ho fatto un sacco di… di cavolate» cercò di non usare un linguaggio scurrile. «Ma di quel periodo della mia vita io non parlo. Sto cercando di togliermelo di dosso.»
«Ma quel periodo fa comunque parte della sua vita. L’ha reso ciò che è ora, per quanto terribile sia stato.»
Era stato più che terribile. Aveva perso tanto, aveva perso qualcuno. Scosse la testa, come a scrollare via il pensiero.
«Io continuo a non capire questo cos’ha a che fare col mio matrimonio. Parliamo di quello! Sono un po’ geloso, okay?» s’innervosì. «Beh? C’è bisogno di condannarmi? Non è colpa mia se la gente non vuole stare al suo posto, non è colpa mia se pensano tutti di essere migliori di me!»
«Chi è che lo pensa?»
Nnoitra arrossì. Tante persone, ne era certo. Non gliel’avevano mai detto apertamente, ma era chiaro che fosse così, glielo leggeva negli occhi.
«Tutti quanti, va bene? Sì, lo so che devo cambiare, devo cambiare sempre io» si era ripromesso che non si sarebbe innervosito, ma in fondo non ci aveva mai creduto. I sentimenti, le paure, erano un brutto affare. Ripercorrere certi momenti faceva troppo male. Era per questo che tante persone preferivano non affrontarli, ecco perché lui aveva sempre preferito non affrontarli.
La sua prima seduta in solitaria fu difficoltosa, non riuscì ad aprirsi più di tanto, ma Nanao Ise sapeva farci anche con i pazienti più difficili. Per quanto riguardava Nnoitra, era uscito da quello studio con il mal di testa. Neliel era lì, nella sala d’aspetto.
«Ma sei rimasta qui? Potevi andare» borbottò.
«Non ci penso proprio, volevo aspettarti. Com’è andata?» Nel si alzò, si sollevò sulle punte e lo baciò a fior di labbra. Nnoitra si rilassò appena.
«È andata che io detesto parlare dei miei sentimenti e delle mie emozioni, non lo sopporto. Però devo farlo perché non voglio rovinare tutto. Io voglio… devo essere migliore.»
Nel afferrò la manica della sua maglietta. Lei conosceva molto di Nnoitra, ma altrettante cose non le conosceva perché lui non glielo permetteva.
«Nnoitra, io non ti voglio migliore. Io ti voglio sereno, perché è chiaro che per adesso non lo sei.»
Sua moglie aveva ragione e questo non riusciva a sopportarlo. Odiava essere così spezzato.
«Lo… lo so… Dai, basta con le sciocchezze. Andiamo a prendere Nao.»
 
Nao fu felicissima di vedere entrambi i suoi genitori, era raro che venissero a prenderla entrambi. Quindi era saltata loro in braccio.
«Ma che bella sorpresa, siete venuti tutti e due! Vi preferisco quando state insieme che quando siete separati!»
La paura per Naoko era stata tanta e ancora non riusciva ad essere del tutto tranquilla. Non voleva certo che i suoi genitori si lasciassero!
«Vedo che siamo poetici oggi, eh?» domandò Nnoitra prendendola in braccio.  Naoko si voltò a salutare Rin e Miyo, di fronte a loro.
«Ciao Rin, ciao Miyo. Io vado a casa.»
Nnoitra assottigliò lo sguardo. Quindi era quella Rin Ichimaru, la bambina che indirettamente gli aveva dato del delinquente. Non era colpa sua di certo, ma di quel maledetto di Gin, fedele cagnolino di Aizen, che sicuramente gli aveva parlato di lui in termini offensivi. La bambina in questione lo fissava con una certa suggestione, mentre Miyo invece era tranquilla e spigliata.
«Da quando siete amiche tu e quella ragazzina?» domandò alla figlia, la quale fece spallucce.
«È Miyo che l’ha fatta entrare nel nostro gruppo. Non è poi così antipatica, però non direi che è mia amica, è sempre un po’ snob. E poi ti ha offeso.»
«Non avercela troppo con lei per questo. I bambini imitano gli adulti.»
Neliel sollevò lo sguardo. Non aveva idea di cosa stessero parlando.
«Chi ti ha offeso?» domandò.
«Nessuno» disse Nnoitra, accoccolando Nao a sé. Non poteva affrontare più di una cosa per volta, non avrebbe retto.
 
Miyo era rimasta sconvolta di fronte la bellezza e la grandiosità della casa di Rin. Sembrava il set di un film, avevano perfino un maggiordomo ad accoglierli alla porta, una roba fuori di testa.
«È bellissimo qui. Ti prego, dimmi che hai anche una libreria gigante» mormorò con gli occhi spalancati.
«Sì, ne ho una in soggiorno» Rin la guidò proprio in soggiorno. Credeva che fossero sole, invece vi trovò sua madre che parlava con qualcuno. Un uomo che non conosceva.
Rangiku si entusiasmò non poco quando vide sua figlia in compagnia di una nuova amica.
«Oh, ciao bambolina. Come ti chiami? Mi sembri familiare»
Miyo fu incantata dalla bellezza ed eleganza di quella donna dai lunghi capelli biondi.
«Molto piacere di conoscerla signora, io sono Miyo Hirako.»
«Giusto! La figlia di Shinji e Hiyori, ma sei adorabile. Sono così felice che tu sia qui e…» solo in quel momento si ricordò di non farsi prendere dall’entusiasmo e, soprattutto, di presentare il suo ospite. «Kira, vieni un po’ qui. Dicevi di voler vedere Rin. Beh, eccola.»
La bambina era certa di non aver mai visto quell’uomo dai capelli biondi e dallo sguardo dolce e gentile. Però le piacque subito.
«Sei tu Rin? Non posso crederci, come ti sei fatta grande. Forse non ti ricordi di me, mi chiamo Izuru Kira, io e tuo padre eravamo molto amici» lui si era inginocchiato per guardarla negli occhi. Rin era arrossita e lo aveva inserito in automatico nella lista della gente che da grande avrebbe sposato.
«No, non mi ricordo, però è un piacere conoscerla di nuovo» disse timida, il che era una novità. Rangiku rise e poi raccomandò a sua figlia e alla sua amichetta di comportarsi bene, perché lei e Kira avevano qualcosa d’importante di cui parlare.
«Tua figlia è adorabile»
Rangiku si adagiò sul divano, in mezzo ai cuscini morbidi, e prese una coppia contenente sakè. Ne aveva offerta una anche a Kira, ma lui ne aveva bevuto appena un sorso, non era bravo a reggere l’alcol.
«Allora, amh… qual è il motivo per cui mi hai chiesto di venire qui? Non che non mi faccia piacere, anzi. È solo che è passato così tanto tempo.»
Izuru Kira era un uomo adorabile, sempre dolce e un po’ timido ed era stato per tanti anni il migliore amico di Gin, era stato anche il suo testimone di nozze. Ma frequentando Aizen, i due avevano finito con l’allontanarsi.
«Izuru» accarezzò il suo nome con affetto. «Non è giusto che ci siamo allontanati. Io ti voglio bene e te ne vuole anche Gin. Perché non tornate a frequentarvi? Tu sei la persona migliore che lui conosca. Eravamo tutti amici una volta!»
Kira arrossì e fissò la coppia di sakè.
«È dispiaciuto anche a me, ma Gin è impegnato e forse preferisce la compagnia di uno come Aizen.»
«Oh, io non riesco a sopportarlo!» esclamò la donna mettendosi seduta in modo più rigido. «Ha un’influenza pessima su di lui. Gin si sente in debito nei suoi confronti, è lui che l’ha aiutato a fare carriera. E sarà anche vero, ma rimane il fatto che una persona non può essere eternamente in debito, no? E poi lui vuole far sposare MIA figlia a suo figlio! Ma perché, santo cie-»
Kira aveva sgranato gli occhi e le aveva fatto segno di tacere.
«Ma questo è terribile. Ed è anche molto strano»
«Per l’appunto. Lui ha bisogno di frequentare gente per bene. E poi, qualcuno dovrà pur farlo ragionare, altrimenti giuro che lo uccido» Rangiku rideva e nel frattempo si era alzata, poggiandogli una mano sul viso per accarezzarla. Lei era sempre così, molto fisica. Kira invece era timido e poco abituato.
«E… e va bene dai, dopotutto cosa mi costa?» domandò con un tremitio nella voce. Stava poi per domandarle quando Gin sarebbe tornato, se era il caso di venire un altro giorno, quando lo sentirono rientrare in quel momento. Gin si fermò all’improvviso quando vide il suo amico di una vita che non frequentava da anni.
«Izuru Kira» mormorò serio e poi gli andò incontro, poggiando la valigetta sul tavolo e sorridendo. «Non ci posso credere.»
Kira sorrise e arrossì. Gin alla fine era sempre lo stesso. Sempre sorridente, divertito. A volte un po’ ambiguo.  
«Gin Ichimaru. Sono contento di rivederti» fece un inchino. Gin rise e poi lo tirò a sé in un abbraccio. Avevano una confidenza tale da potersi permettere quel genere di approccio. Rangiku nascose un sorriso dietro una mano.
«Gli ho chiesto io di venire. E ho fatto bene a quanto pare. Comunque penso che vogliate stare un po’ da soli» fece l’occhiolino a Kira e poi guardò suo marito, con uno sguardo che stavolta fu lui a non riuscire a comprendere fino in fondo.
 
 
Byakuya aveva appena finito il suo turno mattutino e per quanto fosse stanco (i pensieri notturni gli avevano fatto tornare l’insonnia) e nervoso all’idea di rivedere Renji, doveva comportarsi da persona matura e affrontare la situazione.
«Chissà perché non risponde» disse fra sé e sé, appena uscito dall’ufficio. Era già la terza chiamata persa, che il suo amico avesse cambiato idea? Si sarebbe sentito umiliato nel profondo in caso, ma non avrebbe comunque potuto dargli torto. Stava già per arrendersi a quell’evenienza quando sentì un rombo: Renji, con la sua chioma rossa, si stava accostando al marciapiede.
«Ciao» lo salutò. «Scusa, stavo guidando»
Byakuya fece scorrere lo sguardo sulla moto.
«Renji, cos’è questo mostro?»
«Ma che mostro, è la mia moto, finalmente l’ho aggiustata» disse col solito fare allegro. «Non dirmi che hai paura? Sono molto prudente alla guida.»
Byakuya aveva qualche dubbio, ma visto che stava imparando a superare i suoi limiti, si arrese e salì dietro di lui.
«Non farci ammazzare» sussurrò. Dovette per forza di cose stringersi a lui, avere un contatto fisico del genere dopo quanto successo non era ciò che si era immaginato, ma comunque non gli dispiacque. Anche se su una cosa Renji aveva mentito: la sua guida non era affatto non spericolata. Arrivarono a Shinjuku, e nonostante il freddo, c’era una gran folla, anche di turisti. In molti si aggiravano attorno alla statua LOVE per scattarsi foto. Un luogo davvero interessante, senza dubbio, ma Byakuya preferì non infierire, aveva altro a cui pensare.
«Allora, parliamo» disse Renji nervoso, sedendoglisi accanto. «Ma di cosa dobbiamo parlare?!»
«Del fatto che a quanto pare mi ami e io sono stato così cieco da non rendermene conto. E anche del fatto che mi hai detto delle cose che mi hanno dato da pensare.»
«Mph, ti ho detto che per quello mi dispiace, va bene?» disse Renji, un po’ goffo. «Io non posso capire quello che stai passando, è solo che ero esasperato e… e se proprio vogliamo parlare di qualcosa, cosa intendevi dire quando hai insinuato che forse ti piaccio?»
Byakuya arrossì, ma mantenne comunque la sua solita espressione seria.
«Io non mi sono mai immaginato accanto a nessuno dopo che Hisana se n’è andata. Ma da quando io e te ci siamo riavvicinati sono stato bene. E ho iniziato a immaginare un futuro un po’ diverso, intendo con te. Ma era solo un’immaginazione, appunto, perché noi eravamo solo amici e non pensavo tu provassi questo sentimento nei miei confronti. La cosa mi ha mandato in confusione, non perché sei un uomo, quello mi è indifferente. Ma perché non pensavo di poter accettare altro a parte il dolore.»
Byakuya era incredibilmente loquace. Renji stava andando a fuoco, ma si sentì ad un tratto così felice che lo avrebbe gridato al mondo intero.
«Io volevo andarci piano, davvero, ma ho capito che questa faccenda sfugge al mio controllo» rise, in imbarazzo, e si portò una mano tra i capelli. «Allora tu cosa vuoi fare? Credo che rimanere amici sarebbe un po’ strano.»
«Infatti non possiamo esserlo visto che mi ami da anni e che, anche se mi pare ancora assurdo, tu mi piaci. E…» abbassò la voce. «Forse possiamo provarci.»
Renji lo sentì a malapena e quasi cadde dalla panchina. Era così imbranato!
«Davvero? Provarci? Come coppia? Oh, merda. Cioè, bello eh, ma io non ero preparato. Forse dovrei stare zitto, sì sto zitto.»
Peggio di un adolescente. Le loro attenzioni furono ad un tratto attratte da due persone, una coppia forse che conoscevano piuttosto bene. Retsu Unohana, davanti alla statua LOVE, stava chiedendo a Zaraki Kenpachi di farle una foto e lui, tutto imbarazzo e scorbutico, stava cercando di scattarle. Forse si era accorto dei due che lo osservavano, perché stava palesemente fingendo di non vederli.
«Oh, oh, ma guarda un po’ tu che romantico Zaraki, sono commosso!» commentò Renji. Nel vederli e nel sentirli (e forse per tutta la situazione assurda e bella che si era venuta a creare) accadde una cosa straordinaria: Byakuya rise. Lui non rideva mai e quando lo faceva era sempre molto composto. Quella volta quasi faceva fatica a trattenersi.
«Che un fulmine mi colpisca. Byakuya, non ti vedevo ridere così da anni.»
«Per favore, non inferire» lui cercò di ricomporsi. «Va bene, allora. Facciamo questa cosa. Se non provo a camminare non potrò andare avanti.»
Sembrava veramente convinto e Renji finalmente poté tornare a respirare. Ci sarebbero andati piano. Avrebbe accettato qualsiasi condizione. Si schiarì la voce.
«Sì, bene, hai ragione. Umh… ma anche noi dovremo fare queste cose?» chiese indicando l’adorabile coppietta. Byakuya scosse la testa, perentorio.
«Assolutamente no.»
 
Dopo tanti anni, Momo aveva ritrovato la leggerezza e non se ne rendeva neanche corto. Suo figlio Hayato, invece, se n’era reso conto eccome. Lui adorava sua madre, era l’unica che fosse affettuosa nei suoi confronti. In genere era abituato a vederla triste, a vederla forzare sorrisi, a parlare sottovoce. Ora, addirittura la sentiva ridere, la vedeva sorridere e se ne andava per casa con gli occhi che brillavano e con un buon umore che avrebbe contagiato anche lui, se non fosse stato così arrabbiato. Se Momo stava così bene il merito era di quel ragazzo più giovane che con accortezza era entrato nella sua vita, facendole riscoprire tutto ciò che c’era di bello. Le aveva fatto venire voglia di riprendere a suonare: un pianoforte ce l’aveva, ma era sempre stato lì solo per decorazione. Invece, quel pomeriggio si era seduta e aveva preso a suonare qualcosa di allegro, con Hayato che la osservava stupito.
«Mamma, tu sei così brava. Ma da quando suoni il pianoforte?»
Lei sorrise. Oh, era stata così diversa un tempo. Prima del matrimonio, prima di quella vita spenta.
«Da molto prima che tu nascessi. Poi però ho smesso e adesso… adesso mi è venuta voglia di riprendere a suonare. Vieni a sederti accanto a me.»
Il ragazzino arrossì, ma si sedette comunque accanto a lei, osservando i tasti bianchi e neri.
«Tu sei felice, ora?» domandò e quella domanda improvvisa sorprese molto Momo.
«Io… sono felice sempre» mentì, senza guardarlo negli occhi.
«No, non è vero» Hayato scosse la testa. «Adesso sei diversa. Sei felice per davvero e questo mi piace. Cosa è successo?»
Momo avrebbe anche potuto dirgli che aveva un nuovo amico, ma sentiva che sarebbe stato inopportuno.
«Ho solo… pensato un po’ a me stessa. Suonare mi rende felice!» quella non era una bugia. «Chissà, magari sarei potuta diventare una musicista famosa. Ma a tuo padre non è mai piaciuta la mia indole da artista.»
Hayato s’imbronciò e poggi i gomiti sui tasti, producendo un rumore stonato.
«Lui non ci vuole bene. Io lo vedo e non capisco perché.»
Momo smise di sorridere. Forse suo figlio aveva più coraggio di lei ad ammettere certe cose ad alta voce. Allungò una mano, accarezzandogli i capelli.
«So che tuo padre può essere severo, ma vuole solo il meglio per te.»
«Sì, solo il meglio» borbottò lui. «Dice che devo farmi rispettare, ed è quello che faccio, però non ho nemmeno un amico. A parte Rin, ma non mi sopporta più nemmeno lei. E se divento come lui? Tutti che ne hanno paura o lo evitano.»
Momo capì a quel punto di essersi sbagliata in modo clamoroso. Accecata dall’amore, aveva sempre visto Hayato come un bambino perfetto (così come, acciecata dall’amore, aveva sempre visto Sosuke come un uomo perfetto), ma anche lui aveva i suoi piccoli tormenti, i suoi piccoli lati oscuri.
«Ascolta, caro» Momo gli afferrò il viso e lo guardò negli occhi. «Tu sei chi scegli di essere. Questo vale per tutti noi.»
Valeva anche per sé stessa. Aveva scelto di essere una donna remissiva, poteva scegliere di essere diversa. Di esigere il rispetto.
Sosuke se n’era rimasto chiuso nel suo studio per tutto il giorno. Era diventato ancora più assente del solito e Momo non capiva perché. Anzi, un sospetto lo aveva, ma non osava chiedere.
«Ma che fate?» domandò quando li vide seduti al piano. Hayato arrossì. Fu Momo a rispondere.
«Suonavo e lo stavo mostrando a nostro figlio.»
Si sorprese del suo stesso tono e forse si sorprese anche Sosuke.
«Capisco. Domani torno tardi, comunque.»
E dove sarebbe stata la novità? Momo si alzò, con la fronte corrugata. Improvvisamente le era venuta una gran voglia di dire quello che pensava.
«Non sei mai a casa per ora. Non è possibile che lavori così tanto, hai anche una famiglia. O c’è forse altro?»
Sosuke sospirò scocciato, poi guardò Hayato, facendogli segno con lo sguardo di andarsene. Il bambino non capì subito, perché i suoi genitori non discutevano. Suo padre diceva una cosa e sua madre ubbidiva.
«Hayato, esci» disse infatti all’improvviso. Hayato in realtà sarebbe voluto rimanere, aveva anche lui voglia di dire quello che pensava. Ma non era il momento. Momo era rimasta ad osservare suo marito con i pugni chiusi.
«Sosuke, dimmi la verità. Hai un’amante?» domandò. Era da tanti anni che aveva il sospetto, ma non aveva mai osato domandare nulla. Forse quella situazione era sempre andata bene anche a lei. Non sapere. Ma era quasi certo che Sosuke la tradisse. O l’avesse tradita, perché le cose ad un certo punto non erano più state le stesse.
«Momo, te ne prego» disse annoiato.
«No, io te ne prego. Non ti chiedo mai niente. A questo potresti rispondermi» era decisa. Allora il coraggio ce l’aveva, doveva solo imparare a tirarlo fuori. Aizen sospirò e si avvicinò a lei e guardandola negli occhi.
«Giuro che a parte te non c’è un’altra donna.»
E questa non era una bugia e Momo non avrebbe avuto motivo di sospettare che il suo amante fosse un uomo. Si rilassò appena e arrossì.
«E tu hai un amante?» chiese Sosuke all’improvviso, irrigidendosi. Momo non capì se interpretarlo come un segnale di gelosia o come il fatto che suo marito fosse troppo orgoglioso per accettare un tradimento dalla sua fedele moglie sempre pronta a venerarlo? Lei aveva un altro uomo? Non era stata a letto con nessuno, ma in compenso ciò che faceva con Toshiro era più intimo del sesso, più intimo di tutto. Arrossì e poi sorrise.
«No, non ce l’ho.»
Poi lui fece qualcosa di inaspettato. Le afferrò il viso e la baciò con passione, permettendole di dissipare tutti i suoi dubbi, di controllarla ancora una volta. E ci riuscì, ma solo in parte. Perché Momo aveva capito di meritare qualcosa di più.
 
Rukia che non si lamentava mai, Rukia che teneva sempre tutto dentro, a volte aveva bisogno di sfogarsi anche a lei. Non con Byakuya, che era impegnato con Renji e non avrebbe voluto disturbarlo, non con Ichigo, che era poi causa del suo malumore, ma con Orihime. Aveva avuto un paio d’ore di buca e Orihime, approfittando della chiusura pomeridiana della sua pasticceria, era andata a trovarla. Non le piaceva stare sola, aveva bisogno di parlare, e aveva avuto l’impressione che quella volta avessero bisogno di parlare entrambe.
«Ichigo è stressato, purtroppo temevo sarebbe successo» Rukia mangiava distrattamente un macaron, l’amica gliene aveva portato una confezione piena. «Credo che dovrà abituarsi, e dovremmo farlo entrambi, a questo stile di vita. Lui mi ha sempre sostenuto, ma ho l’impressione che le cose saranno più difficili adesso. Tu pensi che io sia un’egoista se voglio qualcosa per me?»
«Ma certo che non sei un egoista, Rukia» Orihime si passò una mano tra i capelli, stancamente. Rukia allora le sorrise, poggiando una mano sulla sua.
«Scusa, non volevo aggiungere il mio malumore al tuo. Come vanno le cose a casa?»
Sono diventata apatica. Mio marito a malapena mi sopporta, mia figlia è arrabbiata, ma con Ulquiorra almeno parla. Kiyoko nemmeno mi considera e io non riesco ad avvicinarmi a lei perché mi sento troppo in colpa.
«Con Ulquiorra le cose vanno… così» sussurrò. «Si è creata una freddezza tra di noi… e la colpa è tutta mia. Volevo così tanto – e voglio ancora una gravidanza – che ho finito col perdermi. E anche Kiyoko, lei è davvero convinta che non le vogliamo bene, che vogliamo sostituirla» Orihime sorrideva, ma i suoi occhi erano ricolmi di lacrime. «Non sono più brava a fare… questo. Forse mi sono spezzata, forse sono davvero malata.»
«Ehi» Rukia le diede un colpetto. «Anche se tu soffrissi di una qualche forma di depressione, non fartene una colpa, è una reazione normale. E dai Hime, tu sei sempre stata una ragazza forte e dolce, Ulquiorra lo sa. E lo sa anche Kiyoko.»
Orihime si asciugò una guancia su cui era scivolata una lacrima. Aveva forse spezzato anche le persone che amava, oltre che sé stessa? Perché se così fosse stato, non se lo sarebbe mai perdonato.
«Inoltre, volevo chiederti: Hai mai pensato a un’altra opzione?»
Orihime poggiò il viso sul tavolino, come se fosse stata colta da un sonno improvviso.
«Una volta in un film avevo visto di una coppia che ricorreva ad una madre surrogata, ma penso sarebbe troppo complicato. E ho pensato all’adozione, ma non saprei da dove iniziare, non so nemmeno se sarei idonea o capace.»
Rukia assunse un’espressione pensierosa. Aveva iniziato da troppo poco tempo a studiare in quel campo per atteggiarsi a esperta, ma voleva comunque aiutarla.
«Hai ragione, sono cose per cui ci vuole tempo. E all’affido hai mai pensato? Lo sai, ci sono un sacco di bambini e ragazzini che vivono situazioni terribili e avrebbero bisogno di una famiglia affidataria. Solo perché non puoi avere un figlio biologico, non vuol dire che non puoi essere una madre.»
Anche se sembrava stesse dormendo, Orihime stava ascoltando attentamente. Tutte quelle informazioni vorticavano nella sua testa.
«A questo in effetti non avevo pensato… oh, ma perché è tutto così difficile, accidenti! E se Ulquiorra mi lascia perché è stufo di me? Sono stupida, non penso più alla nostra relazione da tempo e…»
Rukia trovò Orihime molto tenera. Era sempre stata così, emotiva, anche molto allegra. E quella ragazza c’era ancora, aveva però ricevuto una batosta.
«Ma va, non accadrà. Ichigo, lui sì che mi mollerà» ci scherzò su. «Comunque, Hime… se senti che non ce la fai e che hai bisogno di aiuto… lo sai che non devi avere paura, vero?»
Orihime non avrebbe mai pensato che una come lei sarebbe potuta cadere in depressione. Anche se di ciò non era ancora certa, ma quasi. La breve uscita con Rukia però le aveva fatto bene e quando era tornata a casa aveva trovato Kiyoko tutta contenta con una macchina fotografica in mano, una di quelle piccole e coloratissime: era stato Sora a regalargliela così, senza un motivo preciso. Orihime avrebbe dovuto parlare anche con lei, con la sua bambina che ora si divertiva a scattare foto a qualsiasi cosa che attirasse il suo interesse. Ma prima aveva avuto bisogno di lui. Ulquiorra si era gettato sulla pittura per dar sfogo alla sua frustrazione ed era in quei momenti che dava vita alle sue produzioni migliori. Orihime era entrata nel suo laboratorio lentamente e lo aveva osservato per qualche istante.
«Ulqui…» lo chiamò sottovoce. Suo marito nel voltarsi si era sporcato la maglietta di colore.
«Hime» sussurrò. Lei gli si avvicinò e senza dire una parola lo abbracciò, scoppiando in un pianto silenzioso. Se davvero stava sprofondando, voleva quanto meno provare a risalire. Anche se le mancava l’aria, voleva provare a respirare.
Sentì l’aria mancarle un po’ meno quando Ulquiorra si rilassò e l’abbracciò.
«Va tutto bene» le disse. Orihime singhiozzò e lo guardò negli occhi. Si sentiva in colpa ed egoista, fragile e stupida. Spezzata a metà, ma allo stesso tempo col cuore traboccante. Strinsi i suoi capelli tra le dita e, ancora senza parlare, lo baciò come non faceva da tempo, sentendolo di nuovo. Ulquiorra chiuse gli occhi, fece cadere il pennello a terra e la strinse a sé più forte.
«Hime, ma…» tentò di dire. Lei gli posò le dita sulle labbra.
«Non ho nessun obiettivo, se non quello di stare bene» rispose, seria. Voleva lui e basta. Voleva loro e basta. E poi voleva provare a stare meglio, a recuperare i pezzi. Ulquiorra capì tutto questo, chiuse gli occhi e la baciò di nuovo.


Nota dell'autrice
E con questo capitolo siamo ufficialmente a metà storia. Alcune situazioni iniziano ad evolversi, altre sono ancora in una fase di stallo, ma non durerà molto. Come ho detto molte volte, su Nnoitra e la sua storia mi sono dedicata parecchio, storia che sarà costretto a raccontare adesso che è andato in terapia. Byakuya e Renji hanno una gioia? Sì, per ora. Momo invece sta iniziando a ribellarsi pure lei al sistema corrotto, anche se Aizen ha pure l'ardire di dire che la ama. E Orihime FINALMENTE sta lentamente iniziando a risalire. Spero che il capitolo vi sia piaciuto :*
Nao

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** Capitolo diciannove ***


Capitolo diciannove
 
Shinji si svegliò di soprassalto. L’aveva sognato di nuovo. In effetti non riusciva a sognare altro dalla sera in cui erano stati insieme, sera di cui non si sarebbe dimenticato presto. Anche perché Aizen continuava a chiamarlo, a cercarlo e Shinji si conosceva e sapeva che avrebbe ceduto. Aveva già ceduto.
Miyo dormiva accanto a lui beatamente, doveva essere venuta lì durante la notte. Sua figlia non aveva problemi a dormire da sola, ma diceva spesso che le dispiaceva saperlo tutto solo la notte. Le posò una carezza tra i capelli e pensò a quanto fosse assurdo che una bambina potesse essere più responsabile di un adulto. Lui ci stava provando davvero ad essere responsabile, a fare ciò che era giusto. E invece si infilava di nuovo nel letto di un uomo sposato. Quando tutte le bugie sarebbero saltate fuori – perché prima o poi sarebbe successo – non osava pensare che ne sarebbe stato di lui. Era un idiota e anche un essere umano terribile. La vibrazione del suo telefono lo ridestò da quei pensieri: parlare con Hiyori non era certo il modo migliore per cominciare la giornata ma, onde evitare di svegliare Miyo, Shinji si alzò.
«Eh» rispose seccato e annoiato.
«Che razza di modo di rispondere è?!» tuonò lei dall’altro lato. «Anzi, non rispondere, fa parlare me: che cosa stai nascondendo?»
Merda, pensò. Non aveva voglia di dare spiegazioni alla sua ex, non che a Hiyori importasse in quale letto lui si infilava, ma lo avrebbe tormentato a vita dicendogli che era una figura genitoriale terribile.
«Niente e tu?»
«Non fare lo spiritoso! Fai preoccupare Miyo. Ora, non me frega niente e lo sai, ma se hai qualche donna, puoi almeno assicurarti che non sia una sgualdrina o una stronza prima di portarla in casa tua?»
Shinji si poggiò al muro, con la testa chinata di lato. Di fidanzate stronze ne aveva già avuto a sufficienza, valeva a dire solo Hiyori.
«Mi fai la predica proprio tu che porti a casa tutti i tuoi fidanzati? Magari alcuni dei quali potrebbero essere dei maniaci.»
«Ma che dici, cretino! Non farei mai una cosa tanto stupida. Dimmi la verità, idiota di uno Shinji: ti sei andato a cacciare in qualche situazione strana? Perché hai la tendenza a farlo a molto spesso.»
Sì, d’accordo? Sono innamorato della stessa persona da sette anni e non riesco a sfuggirgli. Finisco sempre per fare l’amante e tutto questo mi si ritorcerà contro.
«Ma va. E comunque non c’è nessuna donna, nessuna è degna di me» si sentì in vena di fare lo spiritoso, ma poi tornò serio. «Non devi preoccuparti per Miyo, le cazzate che faccio non influiranno sulla sua vita.»
Hiyori rimase per qualche attimo in silenzio, poco convinta.
«Vabbé, farò finta di crederti. Comunque, stasera abbiamo un’esibizione, quindi non venire in ritardo!»
Shinji alzò gli occhi al cielo. No, era decisamente meglio che i suoi casini se li risolvesse da solo. Chiusa la chiamata con Hiyori, lesse alcuni messaggi di Aizen. Avrebbe tanto voluto richiamarlo, ma a che sarebbe servito? Si era detto che sarebbe stata l’ultima volta, ma aveva anche l’impressione che Sosuke non l’avrebbe lasciato perdere tanto facilmente. La speranza che lui lo scegliesse ancora, anche se sciocca, non l’aveva del tutto abbandonato.
Shinji, devi crescere. Non ci sei solo tu.
Ma sarebbe impazzito. Questa volta sì, ne era certo.
 
Kaien e Masato non si parlavano. O per meglio dire, Kaien non parlava con Masato, perché il più piccolo non era uno che amava i litigi. Soprattutto, non capiva perché suo fratello fosse geloso di Yuichi. Loro erano due persone totalmente diverse! E voleva bene a tutti e due in modo diverso, ma questo Kaien non voleva capirlo. Infatti si sedette tutto imbronciato accanto a Hikaru, senza dire una parola.
Yuichi era arrivato tutto concitato, con gli occhiali appannati.
«Sentimi! Io ho provato a capirci qualcosa. Secondo me mia nonna sa qualcosa e non vuole parlare, lei sa sempre tutto. Papà è troppo di buon umore e anche mamma. Sono quasi sicuro che sono tornati insieme e non vogliono dirmelo.»
Masato, con il viso poggiato ad una mano, sospirò.
«Volevo chiedere qualcosa a mio padre, ma per adesso è sempre di cattivo umore. E poi ho litigato con Kaien perché… è geloso di te» disse senza pensare. Yuichi arrossì, togliendosi gli occhiali per pulirli.
«Perché di me? Tu ci vuoi bene allo stesso modo.»
Masato non era sicuro che fosse proprio lo stesso modo, ma non avrebbe saputo come spiegarlo, tuttavia. Sentì poi un click alle sue spalle: Kiyoko sembra aver ritrovato un po’ del suo solito buon umore grazie alla macchina fotografica che suo zio le aveva regalato.
«Fotografa me!» gridò Yami spalancando le braccia. «Anzi, no! Fotografa Ai, la nostra secchiona che ha di nuovo preso il voto più alto in scienze. Ricordati di me quando diventerai una scienziata famosa. Yami Urahara è stata tua amica, non scordarlo.»
Ai arrossì, cercando di minimizzare.
«È che io so fare solo questo. Credo. Non lo so.»
Masato scosse la testa e tornò alla sua discussione con Yuichi.
«Comunque io ti aiuto, però ecco… nel caso non siano tornati insieme come pensi, non rimanerci male, okay? Vederti triste è brutto.»
Yuichi sorrise e arrossì.
«Anche se starò male, non sarà troppo brutto. Perché ci sei tu.»
Masato sentì il proprio cuore battere forte. No, non voleva bene a Yuchi e a Kaien allo stesso modo. Perché Kaien era suo fratello, Yuichi invece era altro a cui non avrebbe saputo dire nome. E poi, senza neanche pensare, glielo chiese.
«Posso darti un altro bacio come quella volta?»
A Yuichi cadde un libro sul pavimento. E poi sentì Naoko entrare e gridare:
«Kaien, Masato! Kohei è scappato! Cioè, è nascosto. Non si trova! Oh, non lo so. Forse ha avuto una delle sue crisi.»
In genere, Kaien avrebbe agito con molta più calma e con fare annoiato, faceva parte del suo carattere. Ma visto che suo fratello sembrava troppo impegnato, e visto che suo padre gli aveva detto di avere un occhio di riguardo per Kohei, e lui era già grande, si alzò battendo le mani sul tavolo. Avrebbe saltato la lezione, ma non aveva importanza: lui sarebbe stato più capace e veloce rispetto ad un adulto.
 
Kohei non era scappato da scuola, ma si era rifugiato sotto l’albero più alto del giardino. Lì c’erano spesso dei passerotti o cardellini, nessuna aquila per sua sfortuna, ma apprezzava comunque il loro cinguettare che riusciva a calmarlo. Aveva anche provato ad arrampicarsi, finendo col cadere e graffiarsi un braccio. Adesso si dondolava con fare spasmodico. Il dolore non era poi tanto forte, non rispetto ad altri dolori, almeno.
Kaien non ci aveva messo troppo a trovarlo. Si era detto se io fossi Kohei, dove andrei? Probabilmente in un posto tranquillo dove ci sono animali. E qui gli unici animali sono i pennuti.
«Ecco, lo sapevo. Stai facendo preoccupare tutti» Kaien ansimò, con l’espressione corrucciata.
«Non sono stato io» disse subito Kohei, tirandosi leggermente i capelli. «Volevano rubarmi il libro sulle aquile, ma è mio. E quindi io ho dato un pugno a un mio compagno e sono scappato.»
Kaien sgranò gli occhi e, sentendo un moto d’ammirazione verso di lui, gli si sedette accanto.
«Accidenti, devi averlo atterrato con un pugno. Tu fai bene a farti valere…» poi pensò a ciò che gli diceva sempre suo padre, che la violenza non andava bene e si corresse. «Sai, a volte gli adulti non ci sanno aiutare. E tanti bambini non ti capiscono. Nemmeno io ti capisco! Però ci provo e… e ti sei ferito!» si accorse finalmente. Kohei si era sporcato la manica della maglietta di sangue.
«Non fa male» borbottò e poi gli concesse un sorriso. «Sono contento che sei venuto qui.»
Kaien arrossì e si sentì al contempo fiero di sé stesso. Spesso non era gentile con Kohei, ma gli voleva bene, stava davvero sforzandosi di capire il suo mondo.
«Uuuh. Se non va in infermeria subito rischi che s’infetti!»
Hayato li stava fissando con le man infilate nelle tasche. A quanto sembrava, non erano stati gli unici a voler saltare le lezioni. Kaien si sollevò, agitando il pugno.
«Lasciaci in pace, eh!»
Hayato alzò gli occhi al cielo.
«Non sono venuto qui per darvi fastidio. Salto le lezioni» si avvicinò cauto ai due bambini e si rivolse a Kohei. «Così hai provato ad arrampicarti, eh?»
«Sono caduto» ribatté Kohei, che si aspettava già di essere preso in giro. Ma Hayato quella volta sorprese sia lui che Kaien.
«Io non sono mai arrivato così in alto» dicendo ciò si sedette sull’erba e Kaien fu talmente sorpreso da non riuscire a pronunciare una parola. Ma cosa stava succedendo all’improvviso a tutti?
 
Oramai da tanto tempo Yoruichi aveva abbandonato gli atteggiamenti immaturi. Anzi, si poteva dire che fosse sempre stata più matura anche da ragazzina, ma adesso – e lo sapeva bene – stava dando il peggio di sé. Evitare Soi Fon e comportarsi con freddezza era il peggio che potesse fare. Soi Fon non aveva colpa e non l’aveva nemmeno lei, visto che non aveva scelto di provare attrazione per una ragazza sua allieva. Questo non era solo immorale o sconveniente, ma anche fonte di senso di colpa. Verso sé stessa, verso Kisuke, che era sempre stato così perfetto. E poi c’era lei che stava rovinando tutto.
Soi Fon, dal canto uso, si era resa conto che Yoruichi era cambiata e aveva subito dato per scontato che la colpa fosse sua. Forse aveva esagerato, forse aveva fatto un gesto di troppo. All’ennesimo compito in classe, Soi Fon aveva preso un buon voto, ma non c’erano state parole di incoraggiamento né di rimprovero da parte della sua insegnante e questo aveva fatto male. Yoruichi sembrava disinteressata e fredda e avrebbe voluto sapere perché. A costo di soffrire. Soi Fon trovò l’unico momento per parlarle quando oramai le lezioni erano finite e la donna, senza guardarsi indietro, si stava dirigendo fuori, dove Kisuke l’aspettava in auto.
«Professoressa Shiohin, aspetti!» Soi Fon le corse dietro, ansimando. «Le posso parlare solo un momento?»
Yoruichi si fermò, dritta e rigida come un soldatino.
Non essere emotiva, si disse.
«Soi Fon, avrei un po’ di fretta…» ammise. Si trovava in uno stato emotivo troppo precario per affrontare discorsi di grande portata.
«Le rubo solo due minuti» Soi Fon era seria, determinata. «Ho fatto qualcosa di sbagliato? Ho come l’impressione che sia diventata così fredda nei miei confronti. Intendo… prima parlavamo molto, avevamo… un’amicizia, io credo.»
Yoruichi la vide arrossire e sospirò. Gestire quella situazione non l’aveva messo in conto. Avere dubbi sulla sua sessualità non lo aveva messo in conto.
«Io sono sempre la stessa. E poi sono la tua insegnante, non dobbiamo essere amiche» Yoruichi fece un passo, ma Soi Fon le toccò un braccio.
«È perché lei mi piace? Lo so benissimo che non c’è futuro per noi, sto facendo del mio meglio per nasconderlo!» alzò la voce e Yoruichi si scostò dalla sua presa. Tutto stava andando a rotoli e lei – che avrebbe dovuto avere il controllo – non stava invece controllando niente. In quei momenti non si sentiva nemmeno più sé stessa.
«Soi Fon» la chiamò duramente, con lo stesso tono che in genere usava per rimproverare i suoi alunni. «Quello che provi è un conto, quello che siamo un altro. E come ti ho già detto, noi siamo un’insegnante e un’alunna. Niente più di questo. Ma forse non sei ancora abbastanza matura da capirlo.»
Soi Fon arrossì e per la prima volta Yoruichi la vide con le lacrime agli occhi. Non era da lei trattare i giovani come se fossero dei bambini, né avrebbe voluto ferirla in questo modo. Ma alla fine lo aveva fatto comunque e non era sicura che tutto ciò le piacesse.
«Bene, tolgo il disturbo allora.»
Soi Fon sapeva avere un brutto carattere, alle volte. Apriva il suo cuore a pochissima gente e di sicuro in quel momento lo aveva appena chiuso. Yoruichi lo sapeva, ma sapeva che forse doveva andare così.
Ancora scossa, raggiunse Kisuke che l’attendeva in auto. Era una fortuna che di lì a breve avrebbe avuto la sua seduta con la dottoressa Kotetsu, perché aveva molto di cui parlare.
«Ehi, ma che è successo? Sembri scossa» notò Kisuke. Lei si massaggiò le tempie, respirando.
«Non è… niente…»
Kisuke annuì, con un’espressione seria, guardando davanti a sé. Ultimamente Yoruichi faceva discorsi strani sulla questione non essere perfetta. E anche se mai, mai avrebbe voluto credere al fatto che lei lo tradisse, il dubbio si era inevitabilmente insinuato in lui.
«C’è un altro uomo?» domandò senza guardarla, così all’improvviso che la stessa Yoruichi fu sorpresa e, in un primo istante, spaesata.
«Non c’è nessun altro.»
«Va bene, allora hai intenzione di lasciarmi?»
Kisuke aveva il diritto di fare domande e avere sospetti. Lei non lo aiutava di certo a stare tranquillo. Ma sarebbe stato molto, molto più facile se solo lei per prima avesse accettato la realtà, senza giudicarsi.
«No, Kisuke, non ho intenzione di lasciarti» disse scocciata. «Adesso possiamo andare? Avrei un appuntamento fra venti minuti.»
Kisuke la guardò di sottecchi, senza insistere. Non si arrabbiava mai, né litigava con nessuno (in genere era lei che litigava), ma era umano come tutit e doveva avercela con lei. Com’era giusto che fosse. In pochi minuti aveva ferito due persone a cui teneva. Perché proprio lei era finita in quella situazione? E soprattutto, ciò che si chiedeva, era cosa dovesse fare.
 
 
Quando Uryu non era a lavoro e non era ad uno dei suoi appuntamenti clandestini con Tatsuki, passava tutto il tempo con Yuichi a casa dei suoi. A volte lo aiutava a fare i compiti, visto che suo figlio non era molto portato in matematica. Inoltre Yuichi sembrava distratto quel giorno.
«Avanti, Yuichi. Oggi sei svogliato, ma che succede?» domandò Ishida, mentre suo figlio se ne stava seduto sulla sedia in posizioni improbabili.
«Non riesco a studiare, c’è una cosa a cui continuo a pensare. Anzi, in realtà ce ne sono due» Yuchi poggiò i gomiti sul tavolo, chinandosi in avanti con sguardo serio. «Tu e la mamma tornate insieme?»
Ishida arrossì, ma cercò comunque di non lasciarsi tradire. Perché lo aveva chiesto proprio a lui? Tatsuki sarebbe stata molto più convincente. Non poteva certo dirgli la verità, ma non voleva neanche dargli una cocente delusione.
«A me piacerebbe, perché amo tanto tua mamma» sussurrò, decidendo di essere sincero almeno in parte. «Se torneremo insieme, lo saprai. Tua madre è difficile da conquistare.»
Yuichi aggrottò la fronte. Quindi non stavano insieme, ma forse sarebbe accaduto? Quella non era una vera risposta, ma capì che non avrebbe potuto mirare a niente di più.
«Qual è l’altra cosa a cui pensi?» chiese Ishida nella speranza di cambiare discorso.
«Ah, sì. Masato mi ha chiesto se poteva darmi un bacio. Sulla bocca» rispose il bambino tranquillo, come se niente fosse. «Noi ci siamo già baciati, quando abbiamo giocato al gioco della bottiglia. Ma queste cose non sono da grandi? Va bene anche se lo fanno due amici…?»
Quelle erano fin troppe informazioni. Suo figlio parlava già di baci? Di baci con Masato? In quel momento avrebbe tanto voluto parlare con Ichigo, come avrebbe dovuto reagire a ciò che Yuichi gli aveva detto?
«Amh… Yuichi…» mormorò. «Sì, in effetti queste sono cose da grandi. Non pensavo piacessi a Masato.»
Yuichi arrossì e poi si fece pensieroso.
«Quindi se un giorno ci sposiamo va bene anche se siamo due maschi, vero?»
Ishida sorrise. L’amore era complicato per gli adulti, ma incredibilmente semplice per i bambini, più innocente e forse ingenuo. Aveva una bellezza tutta sua. Allungò una mano e gli accarezzò i capelli.
«Certo che va bene. Non va bene invece parlare di matrimonio perché sono invecchiato di dieci anni in una volta sola» disse, facendolo ridere.
Tatsuki sentì la risata di suo figlio mentre entrava. Quando Ishida la vide, capì subito che doveva essere successo qualcosa.
«Mammina!» esclamò il bambino contento. Lei non riuscì a salutarlo con la stessa affettuosità, era del tutto concentrata su Ishida.
«Uryu, dobbiamo parlare. Subito.»
Ecco, si disse, ha di sicuro cambiato idea e vuole lasciarmi. Di nuovo. Ma stavolta cosa ho fatto di sbagliato?
Tatsuki lo trascinò nella camera che una volta era appartenuta e lui e chiuse la porta. Aveva gli occhi lucidi.
«Amh… Tatsuki, che c’è? Mi stai spaventando» ammise Uryu, più pallido del solito.
Lei mosse appena le labbra e parlo sottovoce.
«C’è che ho un ritardo.»
Quando Ishida sentì quelle parole, fu come rivivere lo stesso momento due volte. Scosse la testa, rendendosi conto che all’improvviso la realtà gli sembrava distante.
«Un ritardo…? Tu sei…?»
«Ho comprato un test di gravidanza, ma non ho il coraggio di farlo da sola. Ti prego, devi guardare tu il risultato, okay?» domandò con un tremolio nella voce. Ishida annuì, si muoveva come un automa. Non stava succedendo davvero, no?
Nemmeno dieci minuti dopo, erano seduti l’uno di fronte all’altro, con Tatsuki che tremava e teneva il test rivolto nella sua direzione. Ishida invece stava immobile stringendole una mano. Si era detto che era abituato alle situazioni di tensione, ma dentro di sé stava comunque esplodendo.
«Non ce la faccio» Tatsuki era sull’orlo di un attacco di panico. «Non ce la faccio.»
«Sta calma» sussurrò. Anche se c’era ben poco da stare calmi. Cosa avrebbe fatto, in caso? Avevano appena deciso di riprovarci, un altro figlio non lo avevano programmato. Soprattutto, Tatsuki che aveva affrontato la depressione post-partum, cosa avrebbe deciso di fare?
Si aggiustò gli occhiali e vide comparire due linee rosse. Proprio come quando avevano scoperto di aspettare Yuichi.
«Positivo» disse soltanto. Quando sentì quella parola tanto temuta, Tatsuki si alzò e scoppiò in un pianto disperato. Era terrorizzata oltre i limiti della ragione, lei che affrontava sempre tutto con coraggio e determinazione. Ishida la seguì e l’abbracciò. Non è che non avesse paura, ma si rese presto conto che la felicità era molto più forte di essa. Aveva sempre voluto un altro figlio, ma c’erano stati fin troppi problemi tra loro per poterci pensare. Che quella gravidanza fosse un segno del destino?
«Tatsuki, va tutto bene. Ci sono io.»
«No, che non va bene. Questo è un casino, ti rendi conto? Ci siamo appena rimessi insieme, non abbiamo certezze per il futuro e soprattutto… io ho già sofferto troppo dopo che Yuichi è nato. Non ho la forza di affrontare di nuovo la depressione.»
 «Non è detto di tu debba di nuovo stare così male» disse cauto. Quello era un argomento difficile per Tatsuki. 
 «Ma non possiamo averne la certezza! Oh no, oh no… pensavo fossimo stati attenti, ma mi sono sbagliata!» Tatsuki non riusciva a respirare, era in panico totale. Ishida la strinse più forte, era tutto ciò che poteva fare, almeno per il momento.
«Non so cosa… voglio fare…» sussurrò ad un tratto lei e a quelle parole Ishida si fece rigido. Non so cosa voglio fare voleva forse dire che non sapeva se tenere o no il bambino?
«Non sei… lucida, ancora. Ci penserai dopo» disse, distratto.
Mai dare nulla per scontato, annotò mentalmente.
 
Non erano bastati i gesti gentili di Sosuke a fermare Momo. Toshiro l’aveva invitata in un locale dove i suoi amici –i Vizard – quella sera avrebbero suonato. Non erano luoghi che era abituata a frequentare, ma proprio per questo non vedeva l’ora. Era perfino riuscita ad infilare un vestito di quando era adolescente e le stava ancora benissimo. Si era truccata di più, aveva lasciato sciolti i capelli. Aveva – insomma – cambiato stile e quando Toshiro l’aveva vista per un attimo era stato incapace di dire alcunché. Era inevitabilmente e ridicolmente cotto di una donna sposata, sposata con Sosuke Aizen. Momo si era avvicinata con un sorriso.
«Pensi sia troppo?» domandò indicandosi. Lui scosse la testa.
«No, stai bene. Nessuno ti darebbe più i venticinque anni.»
«Ah sì? E dire che ne ho dieci in più. Mi piace questo posto, voglio entrare!» dicendo ciò Momo lo afferrò per un braccio e Toshiro arrossì. Si disse datti un contegno, dannazione. Dentro c’era già folla, confusione e luci. Momo lo adorò.
«Posso incontrare gli altri? Deve essere forte avere per amici dei componenti di una band»
«Sì, in effetti…» Toshiro si avvicinò a lei per evitare di perderla. Era un po’ stranito dai suoi modi eccessivamente allegri. «Tutto bene?»
Momo lo guardò, sorrise e poi fece spallucce.
«Ho il sospetto che mio marito abbia un’altra donna. Anzi, ne sono quasi sicura.»
Il ragazzo trovò incredibile la facilità con cui affermò ciò. Anche se forse non doveva sorprendersi.
«Mi… mi dispiace…»
Lei scosse la testa. Non era lì per deprimersi, era lì per non pensare e divertirsi.
«Non preoccuparti, sto bene. Piuttosto, prendiamo qualcosa da bere e andiamo dai Vizard» lo afferrò di nuovo per un braccio. Momo cercava molto il contatto fisico quella sera e Toshiro non poteva dire che la cosa gli dispiacesse.
 
Hiyori aveva cambiato di nuovo colore dei capelli e ciocche viola risaltavano nella sua chioma bionda. Miyo – sempre presente, sempre la fan numero uno – se ne stava seduta sul tavolo a gambe incrociate.
«C’è un sacco di gente qui! Ne sono sicura, sono venuta qui per voi.»
«Grazie, tesoro, sono sicura che tra qualche anno sarai una groupie perfetta» disse Hiyori amorevolmente, come se niente fosse. Miyo aggrottò la fronte.
«Cos’è che fa una groupie?»
«NIENTE» intervenne Shinji. «Hiyori, non mettere strane idee in testa alla bambina. Lo fai già abbastanza.»
La sua ex lo insultò, ma lui non ci fece caso. Ultimamente aveva un po’ la testa altrove e questo erano stati in molti a notarli: sua figlia, la sua ex e i suoi amici, ma il perché per loro rimaneva un mistero. Aizen aveva continuato a cercarlo e Shinji stava combattendo con sé stesso per non cedere. Tuttavia avrebbe anche voluto parlargli, con lui non era mai stato facile limitarsi al sesso e basta (altrimenti non si sarebbe ritrovato in quella situazione). All’ennesima telefonata, Shinji si alzò di scatto.
«Vado un attimo fuori.»
«Sbrigati!» sbottò Hiyori.
Shinji si fece spazio tra la folla, uscì fuori dal locale e poi rispose finalmente alla chiamata di Aizen.
«Ah, finalmente. Ho capito che ti piace farti attendere» rispose la sua voce dall’altra parte.
«No, cretino. È che avevamo detto che sarebbe stata l’ultima volta, ma tu non capisci.»
«Non ti sono mancato nemmeno un po’?»
Shinji arrossì e poi assunse un’espressione e un tono nervoso.
«Mi hai chiamato solo per sapere questo? Guarda che sto lavorando.»
«Lo so bene. Se venissi a trovarti, andresti fuori di testa?»
Era la prima volta che glielo chiedeva, in genere Aizen faceva quello che voleva, senza guardare nessuno.
«E anche se ti dicessi no? Tu fai quello che vuoi.»
«Vero, ma questa volta voglio chiedertelo. Allora?»
Maledetto idiota. Era tutta colpa sua, lui ci provava anche a stargli lontano e a comportarsi bene, ma Aizen gli rendeva le cose difficili.
«Siamo in un luogo pubblico, non posso impedirti di venire. Ma ci sono anche mia figlia, la mia ex e i miei amici. Quindi tu fa qualcosa di strano e te ne pentirai» lo minacciò. E gli aveva anche detto, non tanto velatamente, di venire da lui.
«Sarà fatto. Shinji?»
«Eh.»
«Tu un po’ mi sei mancato. Vedi, non sono poi un bastardo senza cuore» disse, divertito.
Lo so bene, altrimenti non mi sarei innamorato, non credi?
E invece disse:
«Smettila di fare il melenso e sbrigati, se proprio devi.»
Chiuse la chiamata e tornò dentro. Adesso la colpa era anche sua, tutto quello che faceva era preceduto da una scelta. E lui aveva sempre scelto di avere una relazione con Aizen, di essere un amante, anche se aveva sempre ambito – forse ingenuamente – ad essere qualcosa di più. Adesso non aveva la minima idea di come sarebbe andata. Quando tornò dentro, vide Toshiro vicino gli altri membri della band che lo salutava. Accanto a lui, una donna. Shinji ci impiegò un po’ per riconoscerla, ma quando si rese conto che si trattava niente meno di Momo, per poco non gli venne un colpo.
«Guarda, Shinji!» esclamò Mashiro, la bassista. «Toshiro ha portato la sua ragazza.»
«Vi ho già detto che non è la mia ragazza!» si lamentò, in imbarazzo. Anche Miyo si era avvicinata alla ragazza-non ragazza di Toshiro.
«Ma a me piace, è carina. Davvero non sei la sua ragazza?»
Momo sorrise, non si sentiva affatto in imbarazzo.
«No, bambolina. Ma ti ringrazio, anche tu sei molto carina. Non pensavo che avrei incontrato una ragazzina della tua età qui.»
«Certo, perché la mia mamma è la batterista. E quello, mio papà, è il manager!» Miyo li indicò tutta fiera. Shinji rimase immobile per qualche istante. No, si era detto, io il cliché da quattro soldi con l’amante e la moglie nello stesso posto non voglio viverlo.
Si avvicinò, rigido come un bastone.
«P-piacere di conoscerti» sussurrò, facendo un inchino.
«Il piacere è tutto mio. Ma noi ci conosciamo, forse?» chiese Momo.
Povero me. Aizen non deve venire, perché ci sono io e perché c’è sua moglie che è pure in compagnia di un ragazzo più giovane.
«No, io non credo» disse, prendendo un bicchiere di qualcosa (non gli importava, purché fosse alcolico) e iniziò a inviare una serie di messaggia ad Aizen.
Non venire, stai dove sei, perché qui c’è tua moglie.
Sul serio, potresti almeno visualizzare i messaggi importanti.
Ti avverto, io scappo se la situazione si fa difficile.
E poi provò a chiamarlo ma senza successo. A quel punto i Vizard dovevano iniziare la loro esibizione e lui doveva stare lì, seduto al tavolo con Miyo e anche con Toshiro e Momo. La moglie di Aizen. Il cui marito la tradiva proprio con lui.
Finì di bere il suo alcolico.
Sono finito in un brutto film pieno di cliché da quattro soldi.
 
Nota dell'autrice
Povero Shinji, non gli sto rendendo niente facile. Prima o poi però moglie e amante si dovevano incontrare, anche se Momo non ha la più pallida idea di cosa ci sia dietro. Passando ad altro. Ah, sì. Tatsuki è incinta e questo ovviamente cambia molto le cose, visti i trascorsi suoi e la situazione con Uryu. Sta iniziando ad esserci un po' di tensione e temo che i prossimi capitoli saranno peggio, ma non sto ad anticipare nulla. Comunque aggiornerò due volte a settimana, visto che la storia è completa. Quindi ci vediamo - credo - questo weekend!
Nao
 

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** Capitolo venti ***


Capitolo venti
 
Aizen odiava frequentare certi posti, lui era abituato ad avere sempre il meglio, ad una certa raffinatezza. Ecco perché in quel locale faceva attenzione a non toccare niente e nessuno, guardandosi intorno con un certo ribrezzo.
Ma per Shinji era un sacrificio che poteva fare.
Ed era proprio di Shinji la mano che ora si aggrappava a lui, tirandolo a sé.
«Shinji, allora mi aspettavi con ansia» disse, sorridendogli.
«Ah-ah, che spiritoso! Si può sapere perché non guardi mai il cellulare? Ti ho chiamato e inviato non so quanti messaggi. Tu qui non ci puoi stare!» disse agitato, forse leggermente brillo. «C’è tua moglie!»
Aizen aggrottò la fronte, confuso. Momo non era certo tipo da frequentare certi posti. Soprattutto, di solito la sera preferiva stare a casa con Hayato.
«Momo? È qui da sola?»
Shinji si guardò intorno, spaesato. Non aveva pensato al fatto che Aizen era molto orgoglioso e probabilmente se avesse saputo che sua moglie si trovava lì con un ragazzo non l’avrebbe presa bene. Non che fosse da lui fare scenate, ma quell’incontro a quattro voleva evitarlo.
«Amh…» sorrise e decise di utilizzare tutto il suo fascino. «Comunque mi sei mancato anche tu.»
E non stava mentendo, era questa la cosa più assurdo.
«Shinji, che mi nascondi? Va bene, controllo quello che mi hai scritto.»
«No! Senti, tu… baciami» disse senza pensare. Aizen si guardò intorno.
«Ma siamo in pubblico.»
Oh, maledizione. Lo sapeva benissimo che erano in pubblico, lì non c’era in mezzo solo la reputazione di quell’avvocato da quattro soldi. E lui, allora? Tutti pensavano che fosse un donnaiolo, che non era del tutto falso e nemmeno del tutto vero.
«Oh, cazzo» sbottò, afferrandogli il viso. «Sta zitto e baciami.»
Non aspettò che fosse lui a baciarlo, fu lui stesso a fare il primo passo. Lo baciò quasi con prepotenza, lì in mezzo al caos, in mezzo a un mondo che forse li guardava o forse no, con la musica a palla e le luci colorate addosso. Aizen non si tirò indietro, anzi, lo strinse a sé e per una volta non sembrò importargli che qualcuno potesse vederli. Era diverso da tutte le volte che lo avevano fatto di nascosto, si rese conto Shinji. Avrebbe voluto che quel momento durasse all’infinito. Con un sospiro profondo si staccò dalle sue labbra, ma non da lui. Aizen lo osservava stupito e soddisfatto.
«Non male, Shinji. Allora non mi odi poi così tanto.»
«Per favore, fa silenzio. Possiamo uscire fuori? Ti prego» lo supplicò, esasperato. Ma sapeva di star sperando invano.
 
Miyo stava chiacchierando molto con Momo. E quest’ultima l’ascoltava con interesse, trovava simpatica quella bambina così matura e carina.
«Io frequento la quarta elementare, negli intervalli sto sempre in biblioteca. Tutti i miei amici però vanno in classi diversi» le raccontò, col viso poggiato sulle mani. «E poi c’è anche un bambino che proprio non sopporto. Ma è perché lui che non mi sopporta, solo che io non gli ho fatto niente. Si chiama Hayato.»
A Toshiro andò di traverso ciò che stava bevendo. Quel nome non gli era affatto nuovo, anzi.
«Hayato? È lo stesso nome di mio figlio» disse Momo sorpresa.
«No, non può essere lo stesso. Tu sei troppo gentile, quindi è impossibile.» decise Miyo. Toshiro si fece teso e, captando forse il pericolo, gli era venuta la voglia improvvisa di andare da un’altra parte.
Ma dal canto suo, Shinji non era riuscito in alcun modo a dissuadere Aizen dal suo volerne sapere di più. Scorse sua moglie (anche se per un attimo non gli sembrò nemmeno lei) e la vide accanto a quel ragazzino, l’amico della moglie di Gin.
«Ma pensa, tu guarda» si annunciò, mentre Shinji accanto a lui desiderò solo sparire. Momo si immobilizzò, le labbra schiuse, il viso rosso e la sgradevolissima sensazione di essere stata colta in fragrante, anche se tecnicamente non stava facendo nulla di male. Ci pensò Miyo a rompere l’atmosfera seria.
«Oh, ciao signor Aizen.»
«Ciao cara» la salutò e poi si rivolse alla moglie. «Non mi avevi detto che tu e il ragazzino foste amici. Che improbabile amicizia.»
Toshiro assottigliò lo sguardo. Per quanto avesse voglia di tirargli un pugno, doveva mantenere la calma.
«La band… loro sono miei amici, ho pensato che a Momo potesse fare piacere un po’ di musica dal vivo» si limitò a dire. Che diamine, lei non gli apparteneva di certo. Aizen lo fissò e poi guardò sua moglie.
«È così, dunque?»
Momo giocò nervosamente con i suoi capelli. D’accordo, si trovava lì, e allora? Quante volte suo marito spariva senza dire dove andasse e con chi?
«Assolutamente sì, io e Toshiro siamo molto amici, è un ragazzo intelligente e maturo» disse, sostenendo il suo sguardo. «È strano che anche tu ti trovi qui.»
Shinj si sentì cingere le spalle e ci mancò poco che non gli desse un pugno.
«Certo, perché io e Shinji siamo vecchi amici. Non è una fortunata coincidenza?»
Non dirle che siamo amici, idiota, sembra troppo strano. Giuro che lo ammazzo. Non ci volevo essere in questa situazione.
Ma si sforzò comunque di sorridere e ringraziò di avere tutto quell’alcol in corpo.
«Sì, infatti!»
«Tu sei amico di lui?» domandò Toshiro confuso. «Ma da quando?»
Miyo osservava la scena altrettanto confusa. Si chiese intanto come fosse possibile che Hayato fosse il figlio di due persone così gentili e poi si chiese perché sembrasse tutto così strano. Perché quelle quattro persone si comportassero come se stessero nascondendo qualcosa.
«Che vuoi farci, gli avvocati snob mi stanno simpatici» disse con un sorriso forzato. «Comunque, io dovrei… devo…»
«Rimanere qui con noi. Non puoi lasciare tua figlia da sola, giusto? Visto che ci siamo incontrati…» Aizen lasciò la frase in sospeso, ma Shinji lo capì benissimo e lo capì anche Toshiro. Tutti e quattro lì, insieme? Era una tragedia. Anzi, no. Era la fine del mondo.
 
 
 
Karin era consapevole che lasciarsi andare all’agitazione davanti a Kohei non era mai una buona idea. Era lei il punto di riferimento di suo figlio, ma quanto successo a scuola l’aveva innervosita. Soprattutto, suo figlio era tornato con una brutta ferita al braccio e anche se Kohei non sembrava farci troppo caso (se ne stava tranquillo a leggere sempre con il suo fidato pappagallo sulla spalla), Karin era decisa a non passarci sopra questa volta.
«Ora basta, sono veramente stufa di questa situazione. Ho già parlato con tutti, insegnanti, preside e quant’altro. Visto che nessuno mi ascolta, forse dovrei prendere in considerazione l’idea di trasferirlo in un’altra scuola.»
Kohei sollevò lo sguardo dal suo libro, facendosi attento.
«Ma io non voglio cambiare scuola. Qui ci sono Kaien e Masato. E Naoko e tutti i miei amici.»
Karin però non lo stava ascoltando. Piuttosto, con le mani poggiate sui fianchi, fissava suo marito, aspettando che si degnasse di darle un parere. Il fatto era che Chad non sapeva cosa dire, era tutto un gran casino. Lui e Karin non erano riusciti a rispettare nemmeno uno dei loro propositi e adesso sua moglie sembrava più stressata del solito.
«Sono d’accordo con Kohei. Il trasferimento non è una buona idea, sai quanto gli ci vorrebbe per ambientarsi.»
«E allora cosa proponi di fare?» domandò lei, insistente. Karin sapeva essere cocciuta e sapeva avere un carattere davvero molto difficile, per questo insieme a Yasutora funzionava bene. Perché lui era un gigante buono che non si arrabbiava mai, e anche quando lo faceva non si scomponeva mai troppo. Ma questo, per certi versi, era anche più spaventoso.
«Non lo so, Karin. Io non ho la soluzione a tutto. La testa sta per scoppiarmi» Chad si alzò, sovrastandola con i suoi due metri di altezza, e le passò accanto.
«E ora dove stai andando, si può sapere?»
«Kohei, vai a metterti qualcosa di più pesante, ti porto a mangiare fuori» disse Chad rivolto al figlio, il quale assunse un’espressione pensierosa.
«Va bene, ma andiamo solo in posti dove vendono ramen in brodo» dichiarò, alzandosi. Quando furono rimasti soli, Chad guardò sua moglie con un’espressione seria e afflitta.
«Tutta questa situazione è insostenibile. Mi dispiace, io ci provo a non peggiorare le cose, ma tu… non sei più tu» ammise, cercando di essere comunque gentile. Karin arrossì, sapeva appena stata di essere colpita nel vivo. Certo che non era più lei, da tanto tempo oramai.
«E come potrei esserlo? Questo non era quello che avevo sperato per noi e per nostro figlio» disse, e sentì poi le lacrime farsi strada nei suoi occhi. E questo era strano, perché lei non piangeva mai.
«Nemmeno io, davvero» Chad le portò una mano sulla testa e l’accarezzò. «Ma tutta questa pesantezza non aiuta Kohei. E non aiuta me, né noi come coppia. Temo che stiamo diventando come quelle coppie che stanno insieme per abitudine, perché devono, perché hanno un figlio insieme, ma dove effettivamente non c’è amore.»
Quello fu troppo per Karin. Come poteva dire che non c’era amore? Compì un passo verso di lui, fronteggiandolo.
«Io ti amo e tu lo sai!» disse ad alta voce.
Era una donna, diamine. No, in quel momento era solo una bambina sperduta.
«E ti amo anche io» disse Chad. «Però un rapporto va coltivato, altrimenti muore.»
Le sue parole ebbero l’effetto di una doccia gelata. In effetti, quand’è che si era presa cura della loro relazione, di loro come coppia? Chad le aveva parlato, dicendole chiaramente ciò di cui aveva bisogno. Sua sorella Yuzu le aveva dato i più spassionati consigli e lei si era sempre detta lo farò, senza mai fare nulla di concreto. Era una madre sì, ma era anche la moglie di Yasutora. Ed era una donna, una persona.
Poco dopo Kohei uscì col padre, e visto che Karin non aveva voglia di stare da sola, decise di andare Ichigo. Aveva bisogno di suo fratello, dell’allegria di sua sorella e perfino di quell’esaltato di suo padre.
Yuzu fu ovviamente felice di vederla e Isshin la strinse subito in un abbraccio, dicendole che se aveva voglia di parlare, lui sarebbe stato disposto ad ascoltarla. Karin però aveva bisogno di Ichigo, era quello più simile a lei per carattere. Ma anche Ichigo era stressato e pensieroso, mentre seduto sulla sedia mordicchiava una penna, senza fare niente di concreto.
«Non posso credere che tu e Chad abbiate litigato» disse dopo che sua sorella gli ebbe raccontato tutto. «Dovrei forse parlargli?»
«Ti prego, Ichi, ci manca solo questa» sospirò Karin, seduta di fronte a lui, mentre giocava con un portapenne. «E poi non abbiamo litigato, lo sai che con lui è impossibile. È che ha detto una cosa vera, io orami non mi curo più del nostro rapporto da tanto tempo. Sono così impegnata a cercare di essere una brava madre, che mi dimentico del resto.»
Ichigo si rilassò appena. Poteva capirla bene, in un certo senso.
«Ma Karin, tu sei una brava madre, sei come una leonessa che protegge il proprio cucciolo. Kohei è fortunato. Va bene, forse tu e Chad vi siete un po’ allontanati, ma puoi ancora fare qualcosa. Devi farlo davvero però, sono sicuro che ne gioverete tutti e tre. Però ti prego, non piangere. Altrimenti dovrò fare a pugni con Chad e perderò sicuramente» Ichigo cercò di sdrammatizzare quando vide che sua sorella si asciugava le lacrime.
«Oh, che sciocco. Figurati se lui ti prenderebbe mai a pugni» disse, sorridendo. «Nemmeno a te le cose vanno troppo bene con Rukia, eh?»
Ichigo guardò il soffitto. Era davvero così evidente?
«È tutta colpa mia. Sono stressato e per una volta che Rukia vuole fare qualcosa per sé stessa, io non riesco a sostenerla. Forse sono un bravo marito solo in teoria. In pratica faccio schifo.»
Karin lo osservò a lungo, pensierosa. E poi disse:
«Io dico che tu sei solo in panico. È una situazione nuova e temi di non poterla gestire.»
Ichigo arrossì. Avrebbe voluto dirle che era assurdo, perché dopotutto lui era un chirurgo, sapeva affrontare bene le situazioni di stress. In sala operatoria. Le questioni personali evidentemente erano tutta un’altra storia.
«Tsk, è uno schifo. Vorrei non essere così.»
«Non dirlo a me, fratellone. Nemmeno io vorrei essere così» sospirò. Ichigo prese la sua mano e la strinse. L’amore e le relazioni erano complicati, anche se per motivi diversi tutti avevano le loro personali battaglie. E probabilmente Karin aveva ragione su di lui.
A giudicare dalla confusione oltre la porta scorrevole, Rukia doveva essere tornata. Ichigo la vide entrare poco dopo, ma capì subito che doveva essere entrata più per Karin che per lui.
«Ciao, Karin. Va tutto bene?» domandò subito.
«Ah… sì, tutto bene. Avevo solo bisogno di parlare con Ichi. Ma ora sto bene, davvero.»
Rukia annuì e guardò poi suo marito, facendogli un cenno col capo. Era evidente che odiasse quella situazione, a nessuno dei due piaceva litigare, soprattutto se poi non riuscivano a far pace. Ichigo decise che doveva fare qualcosa, anche se ancora non sapeva cosa di preciso.
«Va bene, allora… resti a cena da noi?» domandò poi alla cognata, la qual accettò subito. Un po’ di tempo in famiglia le avrebbe fatto bene.
 
Masato aveva deciso che doveva far pace con Kaien a tutti i costi. Giocare da solo non era divertente ed era sicuro che anche lui fosse triste. Erano gemelli, erano sempre stati insieme! Quindi si avvicinò a Kaien che, in camera loro e seduto sul tappeto, stava costruendo qualcosa con dei lego.
«Kaien» chiamò. «Possiamo fare pace adesso?»
«Mmh» borbottò lui. «Non lo so se voglio. E poi perché? Tu hai Yuichi, che è la tua persona preferita. E voglio essere io la persona preferita di tutti.»
Era proprio geloso.
«Ooh!» si disperò lui, portandosi le mani tra i capelli scuri. «Ma non è la stessa cosa. Tu sei mio fratello, sei la mia persona preferita. Yuichi è la mia persona preferita, ma in un altro senso!»
A quel punto Kaien lasciò perdere i lego e si girò a guardarlo.
«Che vuol dire in un altro senso?»
Masato arrossì e si sedette davanti a lui. Non sapeva proprio come spiegare quello che voleva dire.
«Va bene, allora… a te piace Kiyoko, vero?»
Kaien divenne rosso come un pomodoro.
«M-ma che c’entra questo adesso? Comunque sì, lei mi piace più di tutte le nostre amiche. E allora?» borbottò, atteggiandosi a duro.
«Ecco, è la stessa cosa per me e Yuichi. Io gli voglio bene come tu vuoi bene a Kiyoko.»
Suo fratello lo osservò, metabolizzando le sue parole.
«Ma Kiyoko vuole sposarmi. Tu vuoi sposare Yuichi anche se è un maschio?» domandò. Masato annuì, impercettibilmente. Si vergognava da morire a parlare di certi argomenti. Kaien si portò un dito sotto il mento.
«Ho capito. È un po’ strano, però si può fare. E poi vi siete già baciati, quindi va bene.»
«Però non dirlo a nessuno!» lo pregò. «È un segreto! Ti prego, dimmi che non sei più arrabbiato, dimmi che torniamo a giocare insieme, dimmi…»
Kaien gli fece segno di tacere.
«Oh! Ma sei esaurito? No, sono più arrabbiato con te, perché ho capito. Circa. L’importante è che non vuoi bene a nessuno come vuoi bene a me.»
Masato sorrise. Oh, suo fratello aveva un cuore tenero in fondo, fingeva solo di essere un duro.
«Non voglio bene a nessuno come voglio bene a te.»
Con le guance rosse, Kaien annuì. Oramai aveva dimenticato la sua rabbia.
«Ah, comunque non crederai mai cos’è successo oggi con Kohei e Hayato.»
 
 
 
 
 
  
In quanto invitata ad un matrimonio, Rangiku pretendeva di avere l’abito più bello. Avrebbe potuto acquistarlo in una delle boutique più costose di Tokyo, ma vedere una faccia amica per lei era molto più importante, per questo aveva deciso di chiedere a Yumichika, stilista nonché futuro sposo molto stressato.
«Dovrei essere offeso perché non ti fai vedere mai, tuttavia sono un professionista e non riesco ad essere arrabbiato con le persone belle» le disse Yumichika, mentre le prendeva le misure.
«Oh, perdonami, ma tra una cosa e l’altra non riesco mai a venire! Al tuo matrimonio però non mancherò di certo» Rangiku se ne stava in piedi con le braccia aperte, mentre Yumichika le passava il metro dappertutto. «Allora, nervoso?»
«E perché dovrei esserlo? Forse perché il mio futuro marito non ha alcun senso del gusto e verrebbe vestito come un motociclista di serie Z? Non glielo permetterò» rispose lui. «Spero che voi altri pazzi non combiniate niente di strano quel giorno, tutte le attenzioni dovranno essere su di m-su di noi!»
Rangiku sorrise e per un attimo ripensò al suo matrimonio. Un matrimonio in grande stile ovviamente, un giorno perfetto. Era stata così innamorata.
Lo era ancora. Anche se era tutto così strano. Yumichika la punse con un ago.
«Ahi!»
«Scusa, sta ferma! Tutto bene con Gin? Sì, lo so, sono sveglio a capire quando le cose non vanno in una coppia.»
Rangiku arrossì, senza nemmeno guardarlo. Doveva togliersi dalla testa la questione sull’apparire perfetti. Perché non lo erano, erano semplicemente umani come tutti.
«È tutto un po’ strano» ammise. «Sono preoccupata per Gin. Tutti pensano che siamo perfetti perché è così che ci atteggiamo, ma non è vero. Lui è un po’ troppo influenzato da Aizen. Lo so, so che Gin ha avuto una vita difficile, so che ha sofferto la fame, la povertà e tutto, e che è anche grazie a lui se adesso è arrivato così lontano, però… non si può per sempre essere in debito, giusto? E poi, che idea balorda quello di combinare un matrimonio tra i nostri figli…»
«Tra Rin e Hayato?» Yumichika la punse di nuovo con l’ago. «No, questo non va bene, tua figlia è troppo carina e io ti voglio troppo bene per lasciare che ti imparenti con… quello! Ora girati.»
Lei sorrise, guardando la sua figura riflessa sullo specchio. E vide una donna sì bellissima, che secondo molti aveva tutto. Ma che era molto più simile alla gente normale di quanto potesse sembrare.
«Comunque ho ricontattato Kira. Lui è un uomo gentile, buono e dolce ed è sempre stato il migliore amico di Gin. Spero lo faccia ragionare.»
«Lo spero anche io. Bene» disse Yumichika. «Ti creerò un abito così bello che le altre, guardandosi allo specchio, piangeranno. Ma non sarai comunque più bella di me, chiariamo.»
Rangiku rise e poi sospirò. Forse si sarebbe accontentata anche di una vita più modesta ma rilassata. Lei comunque non si arrendeva mai e non era una che si fermava solo alle chiacchiere. Dopotutto lei aveva sposato Gin e lei sapeva come prenderlo, in un modo o nell’altro.
 
Vai a prendere tu Rin a scuola. NON TE LO DIMENTICARE.
Baci :*
 
Gin non aveva potuto certo rifiutare un messaggio così convincente da parte di sua moglie. Così era andato e con lui era andato anche Kira, avevano molto tempo perso da recuperare.
«Lo sai che non eri costretto a venire, vero?» Gin se ne stava poggiato all’auto a braccia conserte.
«Figurati, a me piace Rin, mi piace più di quanto mi piaccia tu» scherzò. «Lei ti vuole bene.»
«Anche io, per questo sarei disposto a fare di tutto per lei» disse calmo, ma al contempo con una certa decisione. Kira tossì, un po’ a disagio. Sapeva dei suoi intenti e dei suoi problemi non perché fosse stato lui a parlargliene, ma perché era stata Rangiku. E lui ci stava anche provando a fare qualcosa, a dire qualcosa, ma era difficile.
«Lo so. Però sai… a volte non bisogna fare niente di troppo eclatante. Rin sarebbe forse più felice se ci fossero meno aspettative su di lei.»
Gin lo guardò e poi sorrise.
«Rangiku ti ha detto tutto.»
«Mi ha detto tutto, sì. Mi dispiace» disse facendo un leggero inchino. «Ma è preoccupata e lo sono anche io. Lo sappiamo bene com’è stata la tua vita, ma adesso stai bene. State tutti bene, no? Puoi rilassarti un attimo, mollare la presa» Kira aveva lasciato da parte la timidezza per parlare a cuore aperto. Gin era davvero convinto che tutto quello che faceva fosse necessario e anche giusto. E Kira sapeva che non sarebbero bastate due parole a convincerlo del contrario.
«Tutto quello che io ho fatto, l’ho fatto per Rangiku e Rin. Sono arrivato fin qui affinché la mia famiglia non dovesse mai soffrire, me lo sono promesso. Lo trovi sbagliato?» domandò. Il suo sguardo lo mise un attimo in difficoltà.
«No. Però forse dovresti anche ascoltare cosa loro hanno da dire. E smetterla di sentirti in debito. A cosa serve lottare tanto se poi, quando hai ottenuto qualcosa, non riesci neanche a godertela?»
Kira era sorpreso di sé stesso e non sapeva quanto le sue parole avessero colpito Gin nel vivo. Quando era stata l’ultima volta in cui si era rilassato e aveva respirato? Nemmeno riusciva a ricordarlo, perché aveva sempre lavorato per ottenere di più e di più.
Rin corse loro incontro.
«Oh. Ci sei anche tu, Kira. Sono molto contenta di vederti.»
«Sono felice anche io di vederti» sussurrò lui, sorridendo. Gin si finse geloso.
«Kira, hai monopolizzato le attenzioni di mia figlia e questo non mi va bene.»
Rin rise e poi lo abbracciò e si lasciò prendere in braccio.
«Papà, ho detto a Kira che poi un giorno lo sposo.»
«Oh, cara. Mi dispiace deluderti, ma ha già un fidanzato»
Rin sgranò gli occhi sottili, guardando Kira.
«Davvero?»
Il diretto interessato arrossì e annuì.
«Ma non preoccuparti, tra le ragazze sei tu la mia preferita.»
E Rin, che amava essere la preferita di tutti, si quietò. Ora che c’era Kira era tutto diverso. Suo padre sembrava diverso, un po’ più calmo, un po’ più sereno. Non sapeva perché, però sapeva che le piaceva.
 
Hayato fissava i suoi genitori in silenzio. Erano strani, più silenziosi del solito. Momo beveva dalla sua tazza senza parlare con nessuno dei due, eppure era lei di solito a portare avanti la conversazione. Suo padre cercava invece, che di solito evitava il dialogo, ma quel giorno tutto sembrava andare al contrario.
«Allora Momo, c’è forse qualcosa di cui vuoi parlare?» le domandò. Momo sapeva di non avere scampo. Sosuke ci aveva sempre saputo fate con le parole, era anche per questo che non aveva mai perso una causa.
«Riguardo a cosa?»
«Riguardo alla tua uscita in segreto di ieri sera. Sul serio, Momo. Con uno più giovane?»
Hayato si fece più attento. Da un lato avrebbe voluto sparire, ma dall’altro voleva capire.
«Non di fronte al bambino» sussurrò Momo.
«Perché? Se non hai niente da nascondere, potrà anche stare qui ad ascoltare.»
In quel momento sentì di odiarlo. Mettere in mezzo anche Hayato era una mossa sporca, i problemi riguardavano loro, non lui.
«Io e Toshiro siamo soltanto amici, cosa c’è di male? Tu sparisci per ore senza che io sappia dove sei, direi che ora siamo pari» disse, sorprendendosi di sé stessa. Non aveva idea di cosa le stesse accadendo ultimamente. Rispondeva, parlava e agiva come non aveva mai fatto.
«Ah, quindi la pensi così, siamo pari? D’accordo, allora. Non devo preoccuparmi. Dopotutto, mia cara, la persona che ami di più al mondo sono io» lui le accarezzò il viso e Momo si scostò.
«E invece la persona che tu più ami al mondo sei tu stesso» disse con rabbia.
«Ti stupiresti se ti dicessi che non è proprio così» disse lui, retraendo il braccio. Avrebbe dovuto essere Momo la persona che amava di più al mondo, almeno romanticamente. E invece c’era qualcun altro.
«Una delle tue amanti, immagino. O magari è sempre la stessa? Lo so oramai che è così, non sono stupida, Sosuke» sibilò il suo nome. Non riusciva più a tenersi nulla dentro e anche per questo si era dimenticata di Hayato.
Hayato che adesso aveva le lacrime agli occhi, adesso si alzava e andava a nascondersi, perché tutto quello non voleva sentirlo. Sosuke fece spallucce.
«Ottima mossa, mia cara. Davvero»
Momo tremò mentre stringeva un pugno. Non era lei la cattiva. Non era lei a sbagliare.
Non sono io a sbagliare, giusto?
 

Quel pomeriggio, Mayuri e Nemu non si trovavano insieme a lavoro. Turni diversi, il che era piuttosto raro. Oramai dormivano separati, parlavano a malapena perché Nemu aveva deciso di punirlo rimanendosene in silenzio. E se nemmeno si parlavano, se nemmeno dormivano più insieme, se a malapena si guardavano, aveva forse senso essere sposati? Lei però non aveva tolto la fede e nemmeno lui, non l’avevano mai tolta una singola volta da quando si erano sposati. L’amore, i sentimenti e le relazioni erano difficili, molto più difficili della medicina. Mayuri non faceva altro che rimuginare su questo, nonostante non fosse da lui rimuginare su niente. Non riusciva più a sopportare quella situazione strana. Non la sopportava lui, non la sopportava Nemu e non la sopportava nemmeno Ai.
Ai si era avvicinata a lui, sembrava impegnato, fingeva di leggere e scrivere qualcosa, quando in realtà con la mente era da tutt’altra parte.
«Papà, quando torna la mamma?» domandò la bambina, che si sentiva stranamente in ansia.
«Non lo so. Non mi disturbare» le disse lui. Ai aggrottò la fronte. Oramai era arrivata al limite della sopportazione. Era solo una bambina, non un’adulta. E anche se lo fosse stata, forse poteva avere anche lei il diritto di lasciarsi andare alle emozioni? Ai, che non faceva mai capricci, che non piangeva mai, che faceva sempre la brava bambina, decise in quel momento di essere un po’ meno brava.
Si avvicinò, con i pugni chiusi.
«Tu non mi vuoi bene.»
Mayuri la guardò, un po’ sorpreso. Ma che avevano tutti ultimamente?
«Se sei convinta di questo, niente di quello che dirò ti farà cambiare idea.»
Ai aggrottò la fronte e allora iniziò a piangere. Non in modo sommesso come aveva fatto l’ultima volta con Hikaru, ma come una bambina, come quello che era.
«Guarda che ti ho sentito, eh! Voi non mi volevate e tu non mi vuoi nemmeno ora!» gridò Ai, con le lacrime che le bagnavano il viso. «Tu sei cattivo!»
«Oh, che seccatura!» sbottò lui. «Ma si può sapere che hai? Fai la brava bambina, non si piange!»
Non sapeva come doveva approcciarsi con Ai. Non l’aveva mai saputo. Era così diversa da lui, così diversa da tutti e questo era spaventoso, strano, assurdo. Per tutta risposta Ai gli andò addosso, dandogli dei colpetti con i pugni. Anche se non era mai stata aggressiva, adesso tutto quello che aveva trattenuto stava fluendo fuori dal suo corpo.
«Invece sì! Io piango perché tu sei cattivo e non mi vuoi bene! Gli altri sono meglio di te!»
Mayuri l’afferrò per un polso, guardandola in viso.
«Visto che a quanto pare tu e tua madre la pensate allo stesso modo, perché siete qui?» domandò. Ai tremò e si staccò dalla sua presa.
«Ti odio! Non voglio più parlare con te, basta!» gridò.
Quello era troppo. Ai era impazzita e lui non sapeva cosa fare o cosa dire. Questo non lo insegnavano di certo da nessuna parte.
«Ora basta, vai a chiuderti in camera e rimanici!» Mayuri le gridò dietro, ma Ai lo aveva già preceduto e si era chiusa dentro sbattendo la porta. Lui si passò una mano sul viso, imprecando.
Gli altri sono migliori di te. Ai aveva ragione probabilmente. E aveva ragione anche Nemu. Lui non sapeva amare. O amava in modo sbagliato.
Ai intanto si era davvero chiusa in camera. Preda di un’agitazione senza eguali, preda di un dolore lancinante, infilò alla rinfusa qualcosa nello zaino, vestiti e qualche spicciolo.
Decise che doveva andarsene e sperò che sua madre la perdonasse per questo. Aprì la finestra e in seguito prese JinJin in mano, socchiudendo gli occhi ricolmi di lacrime.
«Andiamo via da tutto e da tutti.»
 
Nota dell’autrice
Prima o poi doveva succedere. Si è arrivati ad un punto di rottura e Ai vede nella fuga l’unica soluzione. Nel prossimo capitolo, infatti, le accadrà una cosa un po’ pesante. Non l’ho voluta buttare in tragedia, però è un tassello importante nella sua, di Mayuri e di Nemu, anche se mi dispiace comunque perché a questa bambina ne sto facendo passare di ogni. In realtà qua ad essere arrivati ad un punto di rottura sono anche Momo-Aizen-Hayato e Karin-Chad-Kohei, ma giuro che è tutto un male necessario.
Che dire poi, simpatico l’incontro a quattro, vero? Povero Shinji, siamo ben oltre i cliché da quattro soldi.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto.
Nao

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** Capitolo ventuno ***


Capitolo ventuno
 
Ai sapeva dove Hikaru e Yami vivevano, ma non conosceva la strada per arrivarci. Forse sarebbe potuto andare alla fermata dell’autobus e chiedere informazioni. Sua madre le diceva sempre di fare attenzione e d’altronde lei non era certo mai uscita da sola. Ma in quel momento si sentiva troppo addolorata e intrepida per lasciarsi fermare da qualsiasi cosa. Vestita al solito come una bambolina di porcellana e con lo zainetto sulle spalle, la gente la guardava, stupita forse di vedere una bambina così piccola camminare da sola. Ai riuscì ad arrivare alla fermata dell’autobus, tutta quella gente la metteva un po’ in agitazione, ma cercò comunque di non pensarci. Pensò piuttosto ai suoi genitori: sua madre avrebbe pianto? E suo padre si sarebbe pentito di averla trattata così male? Sperò che la signora Yoruichi e il signor Kisuke la ospitassero o magari l’adottassero, così avrebbe avuto un fratello e una sorella. Lo sperava davvero.
Si dondolò e non si accorse di una persona accanto a lei che la stava fissando. Si accorse dopo che si trattava di un uomo, un uomo adulto, sembrava avere l’età di suo padre, forse anche qualche anno in più La fissava e si avvicinava, la fissava e si avvicinava. Ai rimase dritta e immobile, facendo finta di niente, perché sua madre le aveva sempre detto di non parlare agli sconosciuti.
«Ciao, piccolina. Cosa fai qui da sola?» le domandò l’uomo. Ai si sentì ad un tratto più piccola.
«A casa…» rispose intimidita. Si sentiva impaurita e non sapeva nemmeno perché.
«E sei qui tutta sola? È pericoloso, perché non vieni con me? Posso darti un passaggio.»
Le stava sorridendo, anche in modo gentile, ma Ai sentiva che c’era qualcosa di strano, che non doveva andare assolutamente.
«No, grazie. La mamma mi ha detto che non devo parlare con gli sconosciuti» rispose lei, facendo un passo indietro.
«Allora facciamo amicizia, così non sarò più uno sconosciuto. Ti piacciono le bambole? In auto ne ho qualcuna, te le faccio vedere.»
Lei scosse la testa. Da un lato desiderava correre, scappare e gridare. Dall’altro lato, stava morendo di paura e non riusciva neanche a muoversi. L’uomo si avvicinò, accarezzandole i capelli e ad Ai non piacque. Non era una carezza affettuosa e lei non voleva essere toccata.
«Per favore, io devo…»
«Perché non fai la brava bambina?»
Sentì le gambe deboli, a quel punto. Come se non potesse fare più nulla.
E forse era veramente così.
 
Kisuke era andato a prendere Yami dopo la sua lezione di danza, ma nemmeno lo sport faceva mai stancare la sua iperattiva figlia.
«Dov’è mamma? E Hikaru? Posso mangiare delle patatine fritte? Possiamo comprare un giocattolo per Kisuchi? Daiii!»
Yami la trottola gli girava intorno e almeno questo lo faceva ridere, lo distraeva dalla sua angoscia e dal suo malumore.
«Vada per la patatine, ma non dirlo a tua madre, altrimenti si arrabbierà» Kisuke stava per aprire lo sportello dell’auto quando vide, dall’altra parte della strada, una scena che lo turbò profondamente: vide Ai, tutta sola, con un uomo che le stava vicino, che la toccava sulla testa e poi le afferrava il braccio.
«Umh? Papà, ma lì c’è Ai!» esclamò Yami, stranita. «Ma chi è quello, un suo amico? Mi sembra troppo vecchio.»
Yami poté giurare di non aver mai visto suo padre così serio.
«Yami, entra subito in auto, devo fare una cosa.»
 
«Per favore, mi può lasciare? Devo prendere l’autobus…» Ai iniziava ad avere davvero paura. Ora avrebbe solo voluto che la sua famiglia fosse lì a proteggerla, che qualcuno fosse lì a proteggerla. Invece lei era scappata.
«Coraggio, seguimi» le disse l’uomo, di cui Ai non avrebbe più scordato il viso, in modo lascivo. L’afferrò per un braccio, ma allo stesso tempo accadde anche qualcos’altro: Ai si era sentita afferrare e trascinare all’indietro.
«Che sta facendo con mia figlia?» domandò una voce. E quella era la voce del signor Kisuke! Ai alzò piano lo sguardo verso l’alto. Era davvero lui, che la stringeva saldamente a sé, che stava sorridendo ma in un modo davvero spaventoso. L’uomo indietreggiò.
«Nulla. La bambina si era persa.»
«Oh, io non credo proprio, ho capito benissimo cosa voleva fare. Certe persone non dovrebbero stare in giro in questo modo» disse in tono minaccioso. Ai si era stretta a lui senza nemmeno rendersene conto e aveva affondato il viso sul suo addome. Non aveva visto l’uomo sconosciuto che se n’era andato, ma aveva sentito la mano di Kisuke sui suoi capelli.
«Ora va tutto bene.»
 
 
Il rumore di uno sparo. Una sensazione bruciante sul viso, su tutto il corpo, poi c’era un corpo che cadeva e l’odore acre e forte del sangue.
Non morire. Forza, coraggio, cazzo. Non così.
Nnoitra, andiamocene.
No. Quelli hanno sparato al mio migliore amico. Non mi muovo di qui.
Ci metteranno dentro.
Chi se ne frega, Grimmjow! Aiutami piuttosto, chiama qualcuno!
 
Nnoitra si svegliò di scatto e si mise subito seduto. Si era addormentato mentre lavorava. Si portò una mano sul petto dove batteva forte il cuore, così tanto da fargli venire la nausea. E non riusciva a respirare.
«Nnoitra, che c’è?» Neliel subito lo soccorse, inginocchiandosi accanto a lui. «Ti ho sentito gridare.»
Lui la guardò, confuso. Era a casa, andava tutto bene. Quello era solo un incubo. Anzi, un ricordo, il che era molto peggio.
«Ho solo… un incubo… Mi fa mancare l’aria…» ansimò. Nel afferrò la sua mano, capendo immediatamente cosa gli stesse succedendo, perché era accaduto anche a lei qualche volta.
«Hai un attacco di panico» disse, sorpresa. Pensare che Nnoitra potesse stare così male era strano. O forse no? Dopotutto era anche lui un essere umano. Suo marito si alzò, anche se si sentiva un po’ instabile sulle proprie gambe. Quell’incubo – il ricordo – lo aveva destabilizzato. Ma no, non aveva un attacco di panico, non lui, era assurdo!
«Sto… sto bene… Ma quale attacco di panico. Ho bisogno di parlare con la psicologa.»
«Non hai un appuntamento con lei tra mezz’ora?» domandò Nel. «Ti accompagno io.»
Iniziava ad essere un po’ preoccupata. Pensava che il problema di Nnoitra fosse la gelosia, che derivava da una profonda insicurezza. Ma forse si era sbagliata, forse c’era dell’altro. Nnoitra annuì e andò a sciacquarsi la faccia. Perché a certe cose doveva per forza pensare? Perché certe cose non le poteva dimenticare e basta? Dannazione, pensò, sarebbe stato costretto a farsi psicanalizzare se non voleva impazzire. E no, non voleva impazzire.
 
Quando la dottoressa Ise lo vide, così teso e nervoso, capì subito che quella seduta sarebbe andata in modo nettamente diverso dalla volta scorsa.
«Come stai, Nnoitra?» gli domandò.
«Lo sai che non sto bene, altrimenti non sarei qui.»
«Ne vuoi parlare?» domandò allora, sistemandosi con un movimento meccanico gli occhiali. Nnoitra non se la sentì di parlare del suo attacco di panico, si sentiva fin troppo vulnerabile e questo gli faceva schifo. Ma qualcosa doveva dire, se si fosse tenuto tutto dentro sarebbe impazzito.
«Io… avevo un migliore amico, una volta. Si chiamava Tesla» iniziò a raccontare, guardandosi intorno. «Siamo cresciuti insieme.»
«Parli al passato» notò subito lei, intuendo già dove sarebbero andati a parare. Almeno in parte. Nnoitra sorrisa amaramente.
«È stato ucciso. Davanti ai miei occhi, già, quando avevo diciotto anni. Avanti, adesso dillo. Dillo che sono un povero traumatizzato.»
«E anche se fosse? Sarebbe la reazione più umana. Non trattenerti, per favore.»
«Ma eravamo qui per parlare della mia gelosia ossessiva» disse Nnoitra, che si era già pentito di aver scoperchiato il vaso di Pandora riguardante il suo passato oscuro. Una parte di lui lo sapeva, era tutto collegato, ma affrontarlo, andare a ritroso, era doloroso.
«Tu lo sa che il problema della gelosia ossessiva è solo il problema più superficiale, vero? Se non mi racconti di come sei arrivato fino a qui, non potrai accettarlo né stare meglio.»
Nnoitra, che non era riuscito a stare fermo nemmeno un attimo, come un pazzo, si immobilizzò.
«Non hai mai pensato che forse sono io a voler stare male? Non mi merito di stare meglio. È colpa mia se lui è stato ucciso, è colpa mia se Nel adesso soffre, si preoccupa. Io sono così, evidentemente sono cattivo, marchiato e spezzato» disse con un sorriso amaro, come se stesse parlando più a sé stesso. Faceva proprio schifo essere umani. Faceva schifo avere emozioni e quando le lacrime volevano per forza uscire.
«Ti senti in colpa?» domandò la dottoressa Ise, assumendo un tono più confidenziale. «Nnoitra. So che sei convinto che sia così.»
«Sì che è colpa mia. Lo capisci o no che sono una persona cattiva? Mia moglie lo sa, ma mi ha sposato comunque. Mia figlia è convinta che io sia la persona migliore al mondo, e glielo lascerò credere fin quando non sarà abbastanza grande.»
Si fece di nuovo rigido. Cos’era quella sensazione di peso sul petto? Come se qualcuno lo stesse schiacciando, come se qualcuno volesse soffocarlo.
«Hai mai pensato di provare a vedere certe cose da un altro punto di vista? Dicendo questo metti una distanza tra te e le altre persone. Ma la gente che è qui per te, c’è perché evidentemente non sei così orribile come pensi.»
Chiuse gli occhi. Quello era il massimo che poteva fare per quel giorno, si era già esposto troppo e stava male. Se solo fosse riuscito a liberarsi da quella sensazione di angoscia…
Forse era vero che senza volerlo metteva una distanza tra lui e gli altri, tra lui e Nel. Quando uscì dallo studio della dottoressa Ise si sentì stravolto, un pochino più leggero, ma solo un po’. Neliel lo aveva aspettato in auto con impazienza, anche lei era vittima del senso in colpa. Forse non era abbastanza attenta. Forse non faceva abbastanza e forse si era comportata male accusandolo e basta.
«Nel, guarda che possiamo andare» le disse con tono strascicato. Aveva fatto caso solo dopo che gli occhi di sua moglie erano ricolmi di lacrime.
«Nnoitra. Scusa se piango, lo so che sopporti i piagnistei. Voglio solo dirti che mi dispiace se ho fatto qualcosa che ti ha ferito, se non ti ho capito o se ho dato qualcosa per scontato. Io ti amo tanto, forse però non ho fatto abb-»
Nnoitra strinse la sua mano, zittendola.
Oh, Neliel. Vorrei essere capace di parlare come sai fare tu. Di esprimere i miei sentimenti come sai fare tu. Quei pochi sentimenti che ho sono aridi, sono sotterrati.
«Non dire stupidaggini» l’abbracciò, affondando il viso sui suoi capelli. «Tu e Naoko siete molto più di quanto io meriti.»
«Non dire questo, per favore, mi fai stare male. Sei così duro con te stesso e non vedi ciò che di buono hai. Voglio che tu stia bene… voglio che stiamo bene» sussurrò. Nnoitra le accarezzò la schiena.
Voleva continuare a stare male? Sciocchezze, non poteva essere così egoista. Lo doveva a Nel. Lo doveva a Naoko. E forse lo doveva anche a sé stesso.
Era da tanto tempo che Orihime non si svegliava così serena, così leggera. Il suo dolore e la sua frustrazione non erano passati, erano ancora lì. Però erano diventati più gestibili e lei e Ulquiorra in qualche modo si erano venuti incontro a metà strada. Anche a lavoro la giornata era andata bene, era riuscita a essere serena e allegra con i clienti. Poi era tornata a casa: suo fratello si faceva in quattro per aiutarla, anche con Kiyoko. A quest’ultima non dispiaceva, anzi. Preferiva passare del tempo assieme al suo zio preferito, visto che era ancora arrabbiata con i suoi genitori. Orihime tornò a casa e per prima cosa sentì la voce di Kiyoko che si rifiutava di fare i compiti.
«Dai, li faccio dopo.»
«Non guardarmi così. Me la rendi difficile. Tu e quegli occhioni verdi.»
«Giuro che li faccio dopo. Guarda queste foto che ho scattato oggi.»
Orihime entrò in cucina e sorrise quando li vide così, con Sora che provava a essere severo senza riuscirci e Kiyoko che sapeva come colpire i suoi punti deboli.
«Ah, bentornata» disse lui. «Giuro che stava facendo i compiti.»
«No, non è vero» disse invece Kiyoko, facendo spallucce. E senza nemmeno guardare sua madre. Non si era accorta che adesso sorrideva un po’ di più.
«Capisco. Sora, posso parlare un attimo con Kiyoko da sola?»
La bambina guardò lo zio, come a volergli dire non andare. E lui lo capì, ma sapeva che era necessario lasciarle parlare. Poco dopo Orihime prese il suo posto, sedendosi davanti a Kiyoko. La bambina sembrava più interessata alle fotografie che aveva scattato a dei fiori.
Orihime non sapeva se ci fosse un modo giusto o sbagliato di dirlo, quindi lo disse e basta.
«Kiyoko, mi dispiace» sussurrò. Solo a quel punto la piccola alzò lo sguardo.
«Di cosa?»
«Ti ho… fatta soffrire, avrei dovuto tenerti fuori dai miei problemi. Tu sei solo una bambina.»
Kiyoko accavallò le gambe e s’imbronciò.
«Sono una bambina, ma l’ho capito cosa volete. Un altro figlio. Ma perché non posso bastare solo io? Noi tre insieme stiamo bene.»
Kiyoko era gelosa. Era una reazione normale, la sua. Ma non le piaceva l’idea che sua figlia soffrisse, che potesse pensare di non bastare.
«Tu pensi che noi ti ameremmo di meno, se avessimo un altro bambino?»
Lei annuì con decisione. Era terrorizzata all’idea che qualcun altro potesse prendere il suo posto.
«Sì, perché già mi amate meno anche ora. Non ci pensate a me, non ci pensi tu.»
A Orihime vennero gli occhi lucidi, ma non avrebbe pianto, doveva cercare di essere forte.
«Hai ragione, non ci ho pensato. Ho sbagliato. Anche gli adulti sbagliano. Ma Kiyoko… niente cambierà mai l’amore che proviamo per te. Non può succedere. Tu sei molto più di quanto io sperassi…» gemette e dovette interrompersi per non scoppiare in un pianto. Kiyoko era perfetta. Fisicamente somigliante a Ulquiorra, aveva però preso molto del suo carattere. Era la parte migliore di entrambi. Kiyoko si rilassò appena, anche se non era ancora del tutto convinta.
«Io e papà abbiamo litigato. Gli ho detto che è brutto e cattivo. Non deve più dirmi bugie. E nemmeno tu» disse con una serietà da bambina molto più grande della sua età.
Cercare di tenerla fuori dai problemi da adulti e cercare di non mentirle non era un’impresa facile, ma per lei avrebbe potuto trovare un compromesso.
 
Più tardi, Ulquiorra la trovò avvolta in una coperta, semi addormentata sul divano. La guardò un attimo (si stupiva ancora di quanto fosse bella e di quanto fosse sua) e le si avvicinò per baciarle la fronte. Orihime aprì gli occhi e sorrise.
Sì, le cose andavano decisamente meglio.
«Ho parlato con Kiyoko. Non sono sicura mi abbia perdonata, ma le ho detto che noi l’amiamo, che questo non cambierà. Ah, credo sia dispiaciuta di averti detto che sei brutto e cattivo» e nel dire ciò sorrise. Ulquiorra si sedette stancamente accanto a lei, con un sospiro.
«L’avevo perdonata due secondi dopo che me l’ha detto» disse, poi allungò un braccio e le strinse le spalle. Orihime si fece più vicina e poggiò il viso sul suo petto, ritrovando rassicurazione nel suo calore e nel suo dolore.
«C’era una cosa a cui stavo pensando.»
Ulquiorra non chiese cosa? La guardò e basta.
«Pensavo… perché quando la situazione non si sistema un po’ noi… non prendiamo in affido un bambino?»
Ulquiorra batté le palpebre, poi si guardò intorno spaesato.
«In affido?»
«Sì! Ci sono tanti bambini che vivono situazioni così difficili e che avrebbero bisogno di noi. Io ho troppo amore da dare, ho capito che non è importante che sia un figlio biologico o no. Però è un grande impegno, quindi tu…c-cosa diresti?»
Ad un tratto era diventata nervosa. Lei e Ulquiorra non ne avevano mai parlato seriamente. Suo marito sembrò pensarci per qualche attimo.
«Io penso che… sia l’idea migliore che potessi avere, onestamente.»
I suoi occhi s’illuminarono. Orihime stava sentendo crescere in sé una speranza che non avvertiva da tempo, anche se sapeva di doverci andare cauta.
«Che bello! Cioè, voglio dire… bene!» disse, cercando di ricomporsi. «Scusa, sono tutta un fremito.»
«Non scusarti» Ulquiorra prese la sua mano e le posò un bacio proprio lì, sul dorso. Lui stesso si sentiva un po’ intimorito da tutta quella situazione, ma forse era quella la possibilità che avevano cercato a lungo. 
 
L’amore era davvero strano. Era come una droga, pensava Renji. Si sentiva leggero e di buon umore senza un motivo apparente. Stava cercando di essere anche razionale, di vivere la cosa con calma – dopotutto lui e Byakuya avevano deciso di andarci piano – e non lo avevano ancora detto a nessuno. Nemmeno a Rukia, ma forse sarebbe stato meglio che glielo dicessero entrambi. Tuttavia, anche se provava a far finta di niente, la luce nei suoi occhi era evidente a tutti.
«Tu sei innamorato» gli aveva detto Ikkaku mentre si trovavano in officina. Renji, che era chinato, si alzò di scatto, sbattendo la testa contro il cofano.
«Cazzo! Sei forse stupido a chiedermi certe cose all’improvviso?» chiese massaggiandosi la testa.
«Infatti non te l’ho chiesto, l’ho affermato. Avanti, dimmi chi è.»
Renji indietreggiò, nervoso. Era la fine, quando Ikkaku si metteva in testa una cosa, era impossibile da fermare.
«N-nessuno»
«Non ti credo. Hai gli occhi che brillano e l’aria da tonto. Sei innamorato senza ombra di dubbio.»
A volte avrebbe tanto voluto non essere così trasparente, si sarebbe evitato molti problemi. Come se non bastasse, quel giorno Yumichika (che si teneva a debita distanza dall’officina) pensò bene di andare a trovare il suo futuro marito.
Due pettegoli.
«Ciao Renji, ciao amore mio» Yumchika era sempre alla moda, con qualche ciocca colorata tra i capelli scuri. Baciò Ikkaku sulle labbra, passando sopra al fatto che fosse sporco di olio di motore. Ah, l’amore.
«Renji è innamorato» disse subito Ikkaku. Yumichika lo guardò.
«Di chi? La conosciamo? Io scommetto di sì! Aspetta, è una lei o un lui?»
Dannazione! Non poteva farcela così, lui non voleva stare al centro dell’attenzione.
Mentre pensava ad un modo per sfuggire al loro terzo grado, Byakuya gli telefonò e lui trovò la scusa perfetta per allontanarsi (anche se quei due continuavano comunque a ridacchiare e a fare battute alle sue spalle).
«Oh, Byakuya. Mi hai salvato dal terzo grado di Ikkaku e Yumichika. È così evidente che mi piaci?»
Byakuya non era ancora bravo a lasciarsi andare così facilmente a certe cose, aveva un carattere più schivo. Per questo ogni volta si ritrovava ad arrossire, imbarazzato.
«Non lo so, immagino di sì. Io ti ho chiamato perché… vorrei andare a trovare Rukia e Ichigo domani sera, tu vuoi… venire con me?»
A Renji venne il panico. Forse voleva dirlo a Rukia. Forse voleva parlare della loro relazione, renderla ufficiale. Ma non era troppo presto? Però lei meritava di sapere.
Okay, respira.
«Sì, certo, non dico mai di no. Amh, Byakuya?»
«Sì?»
«Mi manchi. Okay, è melenso oltre il limite della ragione. Sono proprio stupido. Beh, a dopo!» chiuse la chiamata prima che l’altro potesse rispondere. Byakuya rimase a fissare un punto a vuoto, mentre i suoi colleghi lo guardavano ridendo a causa della sua espressione. E tentò di nascondere il viso.
Stupido Renji.
 
Nemu era appena tornata e ciò che si augurava era di non litigare appena rientrata a casa. Sicuramente, la prima cosa che notò fu il silenzio. Ai non era venuta ad accoglierla e nemmeno Mayuri (ma di quest’ultima cosa non si sorprendeva poi molto).
«Ma c’è nessuno?» domandò. S’incamminò per la casa silenziosa fino a scorgere Mayuri ricurvo su dei libri.
«Ci sono io» borbottò senza neanche guardarla. Nemu socchiuse gli occhi, rimanendo a debita distanza.
«Noi dovremo parlare prima o poi. Di tutto ciò.»
Mayuri sospirò lentamente, ma non disse una parola. Alla fine sapeva che Nemu aveva ragione, che una situazione del genere era ingestibile. Ma se non sapeva nemmeno come parlare ad Ai, non c’era speranza che riuscisse con lei.
«Già, comunque dovresti punire tua figlia, ha la lingua troppo lunga per i miei gusti» si lamentò. Nemu assunse un’espressione confusa e andò in camera della figlia, per poi tornare dopo un po’ con l’espressione stravolta.
«Mayuri, Ai non c’è.»
Finalmente riuscì a catturare la sua attenzione.
«Eh? Che vuol dire che non c’è?» domandò alzandosi in piedi.
«Vuol dire che non c’è. L’ho cercata ovunque. Non c’è nemmeno più JinJin e ho trovato la finestra aperta» Nemu aveva alzato la voce, cosa che non faceva mai. E aveva iniziato a tremare a causa della paura. «Che cosa le hai detto?»
«Io a lei non ho detto niente, perché te la prendi con me?» chiese, mantenendo la calma. «Stando qui a discutere non risolviamo niente, chiamo la polizia piuttosto.»
Forse era vero, quello non era il momento adatto per discutere, ma Nemu avrebbe tanto voluto ucciderlo. Ai era sotto la sua responsabilità, com’era possibile che se ne fosse andata e lui non si fosse accorto di niente? E soprattutto, perché era scappata così?
Stava per vomitargli addosso una valanga d’insulti, quando il suo cellulare squillò. Si guardarono per qualche istante e poi Nemu, terrorizzata, rispose senza neanche guardare il numero.
«Chi è?»
«Sono Yoruichi. Ai è qui» disse subito per tranquillizzarla. «È sana e salva, ma è meglio se venite perché c’è una cosa di cui vi devo parlare. Non posso farlo per telefono.»
Yoruichi non le aveva dato tempo di dire altro, ma d’altronde Nemu non avrebbe trovato niente da dire. Sua figlia era sana e salva e adesso avrebbe voluto piangere e lasciarsi cadere fragile sulle proprie gambe. Ma non era quello il momento.
«È con Yoruichi e Kisuke» disse, apparentemente di nuovo calma. «Ma hanno detto che devono parlarci di una cosa.»
Mayuri annuì e non pensò a niente. Se Ai era lì, evidentemente non era successo niente di grave. Lui non aveva mai paura, non avrebbe iniziato ad averne proprio adesso. O almeno era quello che si ripeteva come un mantra.
 
JinJin si trovava adesso tra le mani delicate di Yami, che lo accarezzava e gli dava da mangiare, mentre Hikaru invece tentava di distrarre Ai, che da quando era arrivata a casa sua parlava poco.
«Non ti preoccupare, sono sicura che la tua mamma e il tuo papà non si arrabbieranno. Ci parleranno i miei genitori, vedrai» disse dandole una pacca sulla spalla, ignorando il reale motivo del suo turbamento. Yami aveva provato a spiegarglielo, ma non era stata molto chiara. Nel frattempo, Yoruichi e Kisuke sembravano aver messo momentaneamente da parte i loro problemi, troppo preoccupati per Ai.
«Quella povera bambina» sussurrò lei. «Se non ci fosse stato tu…»
«Però c’ero e l’importante è questo. Ci parlo io con loro, sono un medico, so dare le cattive notizie» le disse Kisuke, che da quando era tornato non aveva abbandonato l’espressione seria che aveva ora sul viso, anche se di solito non gli apparteneva. Nemmeno dieci minuti dopo la telefonata, Nemu stava stringendo Ai tra le braccia. Si era presa uno spavento terribile e per il momento l’unica cosa che contava era che lei fosse lì.
«Ai, perché sei scappata? Mi hai fatto morire di paura quando non ti ho trovata. Cosa è successo, perché?»
Sua figlia però non le rispondeva, mormorava solo “scusa” e “mi dispiace” e “non lo farò più”. Yoruichi vide Mayuri osservare la scena senza muoversi, sembrava paralizzato.
«Ohi. Abbracciala» gli suggerì, dandogli una gomitata.
«Non credo vorrebbe» fu la sua risposta, in realtà poco convincente. Yoruichi stava per urlargli di non starsene lì a dire idiozie, ma c’era una cosa più importante da fare ed era meglio che a discuterne fossero solo gli adulti.
 
«Allora… che c’è? Cosa dovete dirci?» domandò Nemu, che non riusciva a stare ferma. Mayuri invece se ne stava immobile, a braccia conserte. Non stava avendo reazioni, né in positivo né in negativo.
Kisuke tossì.
«Amh, allora… vedete, io ho trovato Ai per caso alla fermata dell’autobus. E quando sono arrivato lei… non era sola. C’era un uomo con lei che l’ha avvicinata.»
Si bloccò all’improvviso. Anche se era abituato a dare cattive notizie, questa volta era peggio. Questa volta si sentiva troppo coinvolto. Nemu iniziò a scuotere la testa.
«No. No. Non può essere. Per favore, non lo voglio sentire.»
«L’ha toccata?» domandò invece Mayuri, molto più pragmatico.
«No, cioè… l’ha toccata qui, sulla testa. Ma non credo si sia spinto oltre» ci tenne subito a chiarire. «Ma quello che è successo rimane un fatto gravissimo. Ai è spaventata. Non sta a me dirvi certe ovvietà, ma poteva andare molto peggio.»
Nemu scoppiò in un pianto disperato, si coprì il viso tra le mani, mentre Mayuri stringeva un pugno, nervoso. Avrebbe dovuto ringraziare Kisuke Urahara per sempre, e anche se questo era un pensiero che odiava, ce n’erano altri che odiava molto di più.
«Poteva andare molto peggio» ripeté. E poi non disse altro. Improvvisamente si era richiuso nel suo mutismo. Yoruichi si avvicinò per consolare Nemu.
«Va tutto bene, sta tranquilla. Però adesso Ai ha bisogno di voi.»
Già. Di voi, di tutti e due. Nemu sollevò lo sguardo: c’erano lacrime e rabbia in lei. In più di dodici anni che si conoscevano, quella era la prima volta che scoppiava.
«È tutta colpa tua» sibilò.
«Non è colpa mia» rispose Mayuri.
«Nostra figlia poteva essere violentata, ammazzata. E la colpa sarebbe stata tutta tua!»
«Dammi la colpa di tutto, ma non di questo.»
La situazione sembrava surreale. Era come se i ruoli si fossero invertiti. Yoruichi strinse le spalle di Nemu, perché sembrava intenta a saltare addosso a Mayuri.
«Ascoltatemi, non così. Non adesso almeno. Fatelo per Ai, va bene?»
«Tutto quello che io faccio, lo faccio per lei. Fin ora ho sbagliato. Dovevo proteggerla meglio. Proteggerla da te!» gridò puntandogli il dito contro. Kisuke avrebbe tanto voluto afferrare Mayuri e dirgli reagisci, dannazione. Dì qualsiasi cosa.
E invece non fece niente. E lui non ebbe reazione. Sembrava bloccato. 
Non lo aveva mai visto così.
Nemu si asciugò gli occhi e respirò profondamente. Quella era stato un colpo orribile, più per Ai che per lei. Ma adesso aveva capito. Adesso non doveva più stare in silenzio o reprimere. Nessuno doveva.
«Va bene. Vieni a casa con noi perché non voglio peggiorare le cose. Ma… non mi parlare e stai lontano anche da lei. Dopotutto è la cosa che sai fare meglio» poi guardò Kisuke e Yoruichi. «E grazie, grazie di tutti e due.»
Erano tutti e tre sconvolti dalla sua scenata più che giustificata. Kisuke guardò Mayuri, ma non gli si avvicinò. Si immedesimò in lui e provò a immaginare come avrebbe reagito se al posto di Ai ci fossero stati Yami o Hikaru e se al posto suo ci fosse stato lui.
Ma non seppe immaginarlo.
«Stai… bene?» domandò, forse un po’ ingenuamente.
Lui non rispose. Per la prima volta in vita sua non aveva più le parole.
 
Nota dell'autrice
Scrivere la parte di Ai è stata dura e non poco. È già difficile scrivere certe cose con personaggi adulti, con i bambini poi è ancora peggio. Non ho voluto fare accadere niente di troppo tragico perché non ce l'avrei fatta, ma è comunque successo qualcosa di piuttosto serio (immagino che se tua figlia di otto anni ti scappa di casa e viene molestata da un uomo non sia proprio piacevole, ecco). E anche se è brutto dirlo, qualcosa del genere ci voleva, perché almeno Nemu si è presa uno scossone (anche Mayuri in realtà. Tempo al tempo...). Per Orihime e Ulquiorra invece ho pensato a questa strada. Pensavo potesse essere bello per loro prendere in affido un bambino, ma ovviamente per ora ne hanno solo parlato. Una cosa che invece ho amato scrivere è tutta la parte che riguarda Nnoitra. Lui con il suo attacco di panico e il suo profondo dolore: ha perso il suo migliore amico quando era più giovane e per questo non ha mai smesso di accusarsi (che poi ironico visto che nell'anime Nnoitra tratta Tesla MALISSIMO, qui invece erano amici per la vita). Comunque è ancora da approfondire. Spero che il capitolo vi sia piaciuto :)

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** Capitolo ventidue ***


Capitolo ventidue
 
Kurosaki e Ishida non erano mai stati tanto malinconici e silenziosi. Hanataro li conosceva da poco, eppure aveva già capito che qualcosa non andava. Erano entrambi pensierosi, tristi, strani. Erano i suoi senpai e si sentiva quindi in dovere di fare qualcosa, visto che loro per lui c’erano sempre stati (e soprattutto lo avevano spesso salvato dai guai).
«Amh, vi sentite bene?» domandò Hanataro. Tra non molto sarebbero dovuti entrare in sala operatoria, ma nessuno di loro sembrava nel mood giusto per affrontare una giornata di lavoro.
«Sono un pessimo marito» disse Ichigo senza rendersene conto.
«Tatsuki è incinta» disse Ishida quasi contemporaneamente. La sua affermazione attirò le attenzioni di entrambi i suoi colleghi.
«Cosa?» domandò Ichigo, cadendo dalle nuvole.
«Cosa?! Congratulazioni! Ma allora tornate ufficialmente insieme?» domandò Hanataro contento. Ishida avrebbe voluto condividere il suo entusiasmo, ma era più preoccupato che altro. E Ichigo lo capì subito.
«Non ne sei felice, vero?» gli chiese.
«Non è questo, io sono molto felice. Avrei sempre voluto un altro figlio, ma Tatsuki no. E poi ci stavamo riprovando, appunto, ma così le cose cambiano. E poi non so nemmeno se vuole tenerlo e io non so che fare. Mi sento impotente e incasinato.»
Ishida sembrava davvero a pezzi. E lo era. Tatsuki non sembrava troppo decisa a portare avanti quella gravidanza. Forse aveva ragione? Forse non era la cosa giusta da fare? Era giusto lasciare tutto per com’era? O forse era giusto il contrario? Ishida avrebbe tanto voluto avere la risposta giusta.
«Mi dispiace» disse Ichigo, che non aveva saputo trovare niente di più originale da dire. «Non so, forse questa può essere la vostra seconda possibilità.»
«È quello che ho pensato anche io. È quello che spero…» Ishida sospirò. Non riusciva a credere che fosse successo proprio in quel momento. Aveva inoltre il brutto presentimento che Tatsuki si sarebbe allontanata, lei era fatta così: per proteggersi innalzava dei muri, gli stessi che aveva abbattuto quando aveva deciso di riprovarci con lui. Nonostante la situazione non proprio felice, Hanataro aveva colto solo il lato entusiasmante della vicenda, essendo anche un grande amante dei bambini.
«Dottore, lo sa? Ishida avrà un altro figlio.»
L’entusiasmo era tanto da averlo reso anche più coraggioso nei confronti di Kurotsuchi. Ishida avrebbe tanto voluto dire al suo kohai di non diffondere quella notizia così, con tanta leggerezza, ma la reazione di Kurotsuchi lo sorprese tanto.
«Ah. Congratulazioni. Adesso però abbiamo un’operazione da affrontare» disse, senza alzare la voce, quasi distratto. I tre chirurghi si guardarono, scioccati. Era la prima volta che lo vedevano così.
«Ma… che succede?» domandò Hanataro, dopo che Kurotsuchi si fu allontanato. Ichigo fece spallucce.
«Non lo so, ora che ci faccio caso sono tuti un po’ strani. Urahara se ne va in giro tutto serio, Kurotsuchi è troppo tranquillo, quasi gentile. E l’infermiera Kurotsuchi invece sembra arrabbiata. Il mondo va al contrario» si rese conto. Ishida annuì, anche se in quel momento era fin troppo preoccupato per i suoi problemi. Pensava soltanto a Tatsuki e al figlio che avevano concepito.
 
Tatsuki avrebbe voluto tanto confidarsi con le sue amiche, ma non ne aveva il coraggio. Soprattutto, voleva evitare di parlarne con Orihime, vista la situazione. Chi invece aveva capito tutto senza bisogno che le dicesse nulla era Kanae, sua suocera.
«Ma si può sapere come hai fatto a capirlo?» domandò Tatsuki, mentre se ne stava seduta e cercava di sorseggiare una tisana. Non sapeva se aveva la nausea per la gravidanza, per l’ansia o entrambi.
«Immagino che l’essere sposata con un medico mi abbia aiutata ad avere un occhio critico. E poi si capisce guardandoti in faccia che c’è qualcosa di diverso. Che la gravidanza renda più belle non è poi un luogo comune» disse la donna. «Sei preoccupata, vero mia cara?»
Tatsuki annuì. Nemmeno quando aveva scoperto di essere incinta di Yuichi era stata colta da un panico così profondo.
«Non è solo per me e Uryu che sono preoccupata. So che lui si prenderebbe cura di noi, è sempre stato un padre esemplare. E non sono preoccupata per Yuichi, lui ha sempre voluto un fratellino o una sorellina, ma… sono preoccupata per me. Lo sai come ho vissuto male il primo post-gravidanza. E se succedesse di nuovo…»
«Lo so, mia cara. La fregatura è che non ci sono certezze. Io però so che qualsiasi cosa tu sceglierai di fare, Uryu ti amerà lo stesso. Sei tu la sua anima gemella.»
Tatsuki si asciugò una lacrima. Dannazione, era diventata così emotiva. Ma come poteva non piangere? Aveva una famiglia che l’amava incondizionatamente e in parte sentiva di non meritarlo. Ryuken era appena rientrato e quando la vide, si soffermò un attimo a guardarle. Se Kanae aveva capito, era chiaro che sapesse anche lui.
«Su, non piangere» le disse. «Andrà bene. Te lo prometto.»
Tatsuki annuì, sorpresa. Ryuken era la versione ma un po’ più matura e ancora più seriosa di Uryu. Kanae rise.
«Non farci caso, sei come una figlia per lui, scateni il suo istinto di protezione.»
«Va bene, non infieriamo» borbottò. «Comunque, a prescindere da quello che deciderai di fare, noi ci saremo.»
Tatsuki li ringraziò, asciugandosi le guance umide. Era davvero fortunata anche nei momenti difficili. Adesso però doveva respirare e agire, decidere.
 
Ai non era venuta a scuola quel giorno e Hikaru sembrava inconsolabile e preoccupato. Era la sua gemella che cercava di consolarlo come solo lei sapeva fare.
«Non ti preoccupare, Ai starà bene. Lei è forte e noi le vogliamo bene.»
Yami aveva cercato di spiegare ai suoi compagni quello che era accaduto, anche se nemmeno lei era certa di capire fino in fondo. L’unica a capire, anche se era più grande di solo un anno, era proprio Miyo, alla quale era venuta una nausea terribile.
«Povera Ai, è… è orribile…» sussurrò. «Se fosse successo a me… adesso avrei paura anche a uscire di casa.»
«Mmmh» fece Naoko, pensierosa. «A me non è successo, però penso che sarei scoppiata a piangere. Se penso che uno sconosciuto si avvicini a me e provi a toccarmi… che poi, mi chiedo, ma perché un adulto dovrebbe fare questo con una bambina? O anche con una persona grande.»
Rin aveva sentito la discussione e si era avvicinata a Miyo.
«Pff. Se qualcuno prova a toccare le mie amiche, io lo prendo a pugni! Lo prendo a pugni!» disse Yami.
«Anche io!» disse Kaien. Rin li guardò e poi disse una cosa che in seguito nessuno di loro (soprattutto Miyo) avrebbe dimenticato.
«Queste cose possono succedere. Magari è successo anche a me e nemmeno me lo ricordo.»
I suoi compagni sollevarono lo sguardo in contemporanea verso di lei.
«Come… forse è successo anche a te?»
«Ho detto magari. Le persone strane e cattive sono ovunque. E noi siamo piccole e siamo vulnerabili. Non so come si fa a difendersi» disse Rin con naturalezza.
Miyo iniziò a mordersi le unghie. Sensibile per com’era tutto ciò la turbava. E non sapeva nemmeno che cosa dire. Nessuno di loro lo sapeva. Era davvero solo una bambina. Non fu l’unica turbata: anche Naoko infatti era rimasta altrettanto sorpresa da quello che Rin aveva detto. Antipatica per quanto potesse essere, era anche molto saggia e ciò che aveva detto l’aveva colpita. Anche se non lo capiva fino in fondo, sentiva che era comunque sbagliato.
Così, durante la pausa di metà mattinata, si avvicinò al suo banco.
«Emh, Rin?»
«Eh?» domandò lei, guardandola.
Naoko non sapeva cosa dire. Rossa in viso, si tolse il fiocco che portava tra i capelli.
«Se vuoi, puoi provarlo. Con il colore dei tuoi capelli ci starebbe bene.»
Rin la guardò e poi sfiorò il fiocco di velluto. Sentì gli occhi bruciarle come se le venisse da piangere. Era stata una mattinata strana. Con tutti quei discorsi aveva iniziato a prendere consapevolezza che non tutto quello che facevano gli adulti era giusto. E poi Naoko che si avvicinava a lei.
«Naoko. Mi dispiace per quello che ti ho detto. Non conosco la tua famiglia. Però se tu sei brava, devono esserlo anche loro.»
Naoko annuì, fiera. Era proprio così. Improvvisamente non si sentiva più arrabbiata. Le mise il fiocco tra i capelli e, notò, le stava proprio bene.
«Uffa, sta meglio a te che a me. Vabbé, puoi tenerlo. A casa ne ho altri dieci dello stesso colore.»
Il viso pallido di Rin si colorò di rosso. Si sfiorò il fiocco e sorrise.
Che strano, pensò, Sono felice, ma mi viene da piangere.
 
 
Shinji aveva accettato di vedere Aizen solo per un motivo: per insultarlo e maledirlo. Non aveva ancora avuto l’occasione di farlo dopo la loro splendida serata finita in maniera (quasi) disastrosa, ma adesso aveva circa due o tre cose da dirgli. E poi, ovviamente, voleva vederlo perché gli mancava, perché oramai non poteva più farne a meno.
Ci era ricascato.
«Dammi un buon motivo per cui non dovrei ammazzarti. Non potevi evitare? No, dovevi per forza fare la tua scena madre. È stato così imbarazzante, così disagiante. Non so se ho la forza di andare avanti. Grazie.»
Aizen gli aveva dato un bicchierino di sakè. La camera d’albergo era sempre la stessa, oramai era la loro, il luogo in cui condividevano i loro momenti più intimi.
«Non è andata poi così male. Momo non sospetta di te, pensa ci sia un’altra donna.»
«E questo dovrebbe farmi sentire meglio? Almeno anche lei ha un nuovo amico. Oh, dovevi vederla, sembrava proprio una ragazzina innamorata» lo stuzzicò. Aizen era tremendamente orgoglioso. Per quanto non fosse in diritto di parlare, detestava l’idea di essere tradito e umiliato. Si avvicinò a Shinji e lo afferrò per un braccio.
«Tu mi provochi.»
«Pff. Io ti provoco? E dai, Sosuke. Non potresti dare torto a tua moglie, tu la tradisci da anni. Non credi sia arrivato il momento di lasciarvi? Sarebbe meglio per tutti.»
Sosuske sorrise, accarezzandogli i capelli.
«Così sposerò te?»
«Per carità, no! Io non mi sposerò mai, sono un uomo libero. E poi si dispererebbero in troppe. Ma sono serio. Io sono qui, ma non con l’intenzione di fare l’amante a vota. Non più.»
Si odiò quando arrossì. Era davvero orribile sentirsi così esposti. Sosuke afferrò il suo viso con delicatezza e lo guardò negli occhi.
«Dammi solo tempo, d’accordo? Tra l’altro non so come la prenderebbe mio figlio.»
«Beh, di certo tuo figlio adesso non sprizza di gioia. Tu sei troppo duro con lui, i bambini hanno anche bisogno di affetto. Non sarà questo a renderli deboli.»
Sosuke sapeva perché amava Shinji. Perché in lui ci aveva trovato tutte le qualità che a lui mancavano. Era l’unica persona che trovasse migliore di lui sotto molti aspetti, anche se non gliel’aveva mai detto.
«Lo so. È che io sono fatto così»
«E allora prova a migliorarti. Non sei poi così perfetto, Sosuke Aizen» Shinji sospirò e gli accarezzò i capelli. Aizen gli baciò una mano.
«Dimmi che mi ami.»
«No.»
E lo baciò. Non riuscivano a stare lontani l’uno dall’altro. Dopo aver fatto l’amore, molto spesso crollavano addormentati l’uno nelle braccia dell’altro, a prescindere da che ora fosse. Era stato così anche quella tarda mattinata. Si erano addormentati e Sosuke si era svegliato dopo un po’, aveva sentito il letto vuoto accanto a sé. In un primo momento aveva creduto che Shinji se ne fosse andato. Invece poi aveva sentito la sa voce provenire dal bagno. Quindi si era alzato, indossando i pantaloni. Aprì appena la porta e scorse Shinji intento a pettinarsi i capelli e a canticchiare Like a Virgin.
Si poggiò allo stipite e lo guardò. Non capiva come fosse possibile amare così tanto una persona del tutto diversa da lui. Shinji era un pazzo, viveva per la musica, era impulsivo, spesso aveva un carattere impossibile, parlava sempre a voce troppo alta. Ma era una brava persona e un bravo padre. Avrebbe potuto imparare tanto da lui.
«Sosuke, grazie per la privacy» borbottò lui, cercando di sistemarsi la frangia.
«Sei bravo a cantare, dovresti farlo. Sarebbe meno stressante che fare il manager.»
«Sì, e poi chi è che prende il mio posto? Tu?» chiese alzando gli occhi al cielo.
«Non so come si fa, ma posso imparare» disse facendo spallucce. Shinji lo guardò. Quando parlava del futuro non sapeva mai se scherzasse oppure no. Perché lui al futuro ci aveva pensato tanto, aveva pensato a tante opzioni, una più irrealistica dell’altra. Non sapeva se poteva immaginarsi con lui, ma oramai era chiaro che senza non sapeva proprio viverci.
«Questo sì che sarebbe divertente. Comunque devo andare, ho degli impegni. E per favore, evita di farti vedere dai miei amici, la mia ex sospetta troppo e ogni scusa è buona per darmi contro.»
«Non lo farò, promesso. Ciao, Shinji.»
Lui arrossì e gli sorrise.
«Ciao, Sosuke. A più tardi.»
 
 
Per Yoruichi era arrivato il momento di dire a suo marito la verità. Quello che era successo tra Nemu e Mayuri in qualche modo l’aveva scossa e forse ciò non era poi un male. Soi Fon non le rivolgeva più la parola, si limitava a comportarsi da normale studentessa e almeno per il momento andava bene così. Era giusto che si allontanassero almeno un minimo, anche se Yoruichi una cosa la sapeva bene: lo faceva più per sé stessa che per la ragazza. Per cercare di calmare il suo grande tumulto interiore, la sua confusione. Non sopportava più quella situazione. Non aveva nemmeno potuto aspettare che Kisuke finisse il suo turno a lavoro. Sapeva che era indispensabile tenere il lavoro separato dalla vita personale, cosa in cui lei però aveva già fallito. Aveva chiesto di lui direttamente a Nemu.
«Il primario è nel suo ufficio in questo momento. Ah, comunque» disse, seria. «Per favore, chiamami infermiera Hachigou. È il mio cognome da nubile.»
Hanataro lo sentì e s’impanicò.
«Come il cognome da nubile? No, non è possibile! Mi dica che non vi siete lasciati, la prego!»
«Va bene, grazie» disse Yoruichi, frettolosa. Suo marito era in effetti nel suo studio, sembrava nervoso. E Kisuke non era mai nervoso. E fu sorpreso quando vide sua moglie lì.
«Yoruichi, mia cara. Non hai lezione oggi?»
«Dovevo venire a parlarti. Lo so che avrei potuto aspettare, ma sai che la pazienza non rientra nelle mie virtù» la donna si sedette davanti a lui. «Kisuke, in effetti c’è qualcosa che non va tra noi.»
«Questo mi sembra evidente. Pensavo che il problema si limitasse al sesso, ma ho capito che c’è altro» disse in tono gelido. Non usava quel tono nemmeno per rivolgersi ai pazienti nei momenti più difficili. Yoruichi si sentì attraversare da un brivido.
«È vero che non ti ho tradito. Però è vero che… c’è una persona che non mi è indifferente» disse, vergognandosi. «Questo mi ha mandato in tilt. Non solo per la mia relazione con te, ma anche personalmente.»
Kisuke prese a giocare nervosamente con una penna. Era arrabbiato. Anche quando si arrabbiava si tratteneva sempre.
«Chi è lui?»
«È una lei» rispose subito e Kisuke lasciò cadere la penna.
«Quindi hai scoperto di essere… cosa? Bisessuale? O forse ti piacciono sono le donne?»
«Questo è il punto. Pensavo di essere troppo vecchia per certe cose. Pensavo di essere semplicemente un’etero a cui piace sperimentare, ma… evidentemente non è così. A quanto pare non esiste un’età per certe cose. E non capisco nemmeno perché faccio così fatica ad accettarlo» non lo stava nemmeno più guardando negli occhi. Si guardava le unghie smaltate di nero, torturandosi le dita. Kisuke annuì, anche se appariva un po’ confuso.
«E quindi ti piace una donna.»
«Una ragazzina, Kisuke. Dannazione, è una mia studentessa. Capisci perché non te l’ho detto? Sono una donna orribile.»
Yoruichi non si piangeva mai addosso, né faceva la vittima. Se era così dura con sé stessa, evidentemente quelle cose le pensava per davvero.
«Cosa ti aspetti che ti dica, adesso?» domandò Kisuke. «Non mi fa certo piacere, ma lo sappiamo che può capitare di prendersi una cotta per qualcuno. Anche se si ama una sola persona. Sta a te decidere cosa fare.»
«Pensi davvero che io voglia mandare a monte il nostro matrimonio? Io ti amo Kisuke e amo i nostri figli, se ti sto parlando è perché voglio che tu sappia. Ma forse non puoi capirmi.»
Non si sentiva nella posizione di arrabbiarsi. Al posto di Kisuke si sarebbe arrabbiata molto di più e gliel’avrebbe fatta pesare. Stava attraversando un momento della sua vita di cambiamento, stava ancora prendendo consapevolezza.
«D’accordo, ma io non so cosa dirti. Provi qualcosa per un’altra persona, ebbene? Come pensi dovrei sentirmi io, invece?»
Yoruichi rilassò le spalle. Aveva ragione. Doveva essere terribile.
«Mi… dispiace…»
«Non l’hai deciso tu. Beh, almeno adesso so qual è il problema. E il mio compito è risolvere i problemi. Non so ancora come, ma lo farò, se tu sei disposta ad aiutarmi.»
Yoruichi annuì, anche se nemmeno lei sapeva come avrebbero potuto risolvere quel problema. 
 
 
Molto spesso Chad non sapeva come approcciarsi a suo figlio, anche dopo tutti quegli anni. Kohei era diverso e no, non era solo per l’Asperger. Aveva un animo ancora più sensibile di quanto lo avesse lui, e capiva tutto, capiva ogni cosa. Allo stesso tempo viveva nel suo mondo e difficilmente permetteva a qualcuno di entrare. Kohei era molto più legato a Karin e in tanti gli dicevano di non prendersela, perché era normale che i figli maschi fossero più legati alla madre. E lui non se la prendeva, però era frustrante, sembrava non riuscire ad arrivare mai al cuore di suo figlio. A creare con lui una sorta di legame.
«Non c’è proprio niente che vuoi fare?» domandò Chad. Kohei se ne stava la maggior parte del tempo a leggere con il suo fidato pappagallino poggiato su una spalla o sulla testa, era quello il suo migliore amico, si trovava molto meglio con gli animali che con le persone.
«No. Se vuoi io leggo ad alta voce e tu ascolti» disse Kohei serio. Chad asserì, perché quello era pur sempre meglio di niente. Come se non bastasse, le cose con Karin non andavano benissimo. Anche se non aveva alzato la voce (non era proprio nella sua natura), temeva di essere stato troppo duro. Però aveva detto la verità: lui e Karin più che una coppia oramai sembravano due amici che insieme crescevano un bambino. E non era proprio questo che si era augurato per loro. Kohei, vedendo il padre distratto, smise di leggere e lo fissò.
«Perché ti sei fermato?» domandò Chad.
«Perché non mi ascolti. Tu e la mamma litigate per colpa mia.»
Non era una domanda, ma un’affermazione. Kohei lo guardava con una tale serietà da rendergli difficile rispondere.
«No…. Non è così, non devi nemmeno dirlo.»
«Litigate per colpa mia. Mamma si occupa sempre di me. Anche se non lo dite lo so che prima eravate più felici. Prima di me, voglio dire.»
Non c’era la minima emozione nella sua voce, ne parlava come avrebbe parlato di qualsiasi cosa. Diceva sempre tutto quello che pensava con estrema facilità.
«Kohei, non è così. Io e la mamma, noi… siamo felici anche adesso, solo che ora le cose sono più…»
Non avrebbe voluto dire più complicate, ma di fatto era così. Kohei fece spallucce.
«Lo so. Non litigate per me. Altrimenti dovrò andarmene.»
Chad avrebbe voluto abbracciarlo, ma non poté farlo perché suo figlio apprezzava il contatto fisico solo quando era lui a deciderlo.
«Non dire queste cose, non devi andare da nessuna parte» fu tutto quello che riuscì a dire. Un po’ pochino, rispetto a quello che stava pensando.
Perché era tutto così difficile? Non si sentiva in grado di fare più niente, oramai.
«Yasutora e Kohei, sbrigatevi. Dobbiamo andare» li chiamò ad un tratto Karin. 
Ah, giusto. La cena da Ichigo e Rukia.
 
«Eeeeehi! Che succede, perché quest’atmosfera lugubre?»
Renji era entrato in casa di Ichigo tutto allegro, ma si era immediatamente reso conto che qualcosa non andava. Percepiva una strana tensione tra Rukia e Ichigo e tra Chad e Karin, e se non fosse stato per i bambini, Yuzu e Isshin, sarebbe stato deprimente.
«Ammmh, ma che c’è?» domandò proprio a Isshin, con un sorriso tirato sulle labbra.
«Non lo so, fa finta di niente, ti prego» rispose l’uomo. «Byakuya, ma che bello vederti, sei in gran forma.»
Byakuya salutò tutti e poi si ritrovò i gemelli che cercavano di attirare la sua attenzione in tutti i modi (riuscendoci, tra l’altro), e infine c’era sua sorella.
«Sono così contenta che tu sia venuto qui di tua spontanea volontà! Che siate venuti insieme!» Rukia ammiccò in direzione di Renji, il quale sentì all’improvviso caldo. Si sentiva un po’ nervoso all’idea di dire a tutti della loro relazione. E se Byakuya avesse cambiato idea? Dopotutto era presto. Però quella era la sua, la loro famiglia.
«S-sì. Comunque io mi siedo accanto a Ichigo» sperava che almeno lui potesse distendere i suoi nervi, ma Ichigo era stressato, nervoso e sembrava improvvisamente portarsi addosso più anni di quelli che in realtà aveva.
«Kaien e Masato, non fate casino!» li rimproverò infatti.
«Non sono stato io!» rispose il figlio più grande. Lui e gli altri due bambini avevano ben pensato di costruire un fortino proprio in mezzo al salotto. Rukia sembrava altrettanto nervosa.
«Ichigo, quello che sta facendo casino sei tu, quindi ora siediti in modo composto, perché dobbiamo mangiare.»
Byakuya si guardò intorno, confuso. Di litigi tra Ichigo e Rukia ne aveva visti tanti, ma mai li aveva visti così nervosi l’uno nei confronti dell'altro.
«Stai bene, Rukia?» domandò infatti. In genere era lei a preoccuparsi, adesso toccava a lui. Sua sorella sorrise, mentre gli si sedeva di fronte.
«Sto bene, sono solo un po’ stanca, per fortuna Isshin e Yuzu mi danno una mano»
«Io invece non faccio niente tutto il giorno, eh?» borbottò Ichigo. Yuzu si schiarì la voce, iniziando a servire da mangiare e chiacchierando amabilmente sulla cucina, sul tempo o su qualsiasi altra cosa che potesse distrarre da quell’atmosfera cupa. Karin mangiava a malapena quello che aveva nel piatto e suo padre se ne accorse.
«Karin! Perché non mangi? Stai forse male? Yasutora, mia figlia sta male? NON MENTIRMI!»
«Eh… eh? No, non sta male. È tutto a posto» sussurrò, senza nemmeno guardarlo. Non sapeva mentire.
«Io lo so che mi stai nascondendo qualcosa. Non mi dite che volete lasciarvi, vero?» chiese, col suo solito modo di fare melodrammatico ed esagerato. E più Karin non rispondeva, più le domande aumentavano. Ichigo sospirò, annoiato.
«Non so loro, ma è probabile che Rukia mi lasci presto» la stuzzicò. Sua moglie strinse un pugno.
«Sai, non ti sopporto quando fai la vittima. Hai ben poco di cui lamentarti, hai sempre avuto quello che volevi.»
«E perché, tu no? Tu hai scelto di dedicarti alla famiglia per otto anni, io non ti ho mai detto niente.»
«Già, appunto, tu non dici e non fai mai niente!»
Era incredibile come, in mezzo a tutto quel caos, Byakuya mangiasse come se nulla fosse. Renji invece iniziava a sentirsi a disagio. Sentì Yuzu sussurragli “Renji, ti prego, dì qualcosa, cambia discorso”.
E va bene, si era detto. Dipendeva da lui allora. Così alzò la voce.
«Lo sapete che io e Byakuya ci siamo messi insieme?»
Calò istantaneamente il silenzio, interrotto solo dal tossire di Byakuya, qualcosa gli era andato di traverso per lo shock. Non era esattamente così che aveva pensato di dirlo. Anche perché a dirlo non era stato lui.
«V-voi?» chiese Rukia. «Cos…? QUANDO? E NON MI AVETE DETTO NIENTE? RENJI, SEI UN TRADITORE!»
«È… è successo, da poco, va bene? Comunque ci stiamo andando piano. Vero, Byakuya?»
«Ah, non guardare me, sei così bravo a prendere l’iniziativa» disse lui, serio. Adesso si sentiva a disagio, non riusciva a credere che fosse tutto… reale.
Ad un tratto si sentì la voce di Masato.
«Oooh. Significa che vi siete fidanzati? Bello!» esultò il bambino.
Ichigo invece tentò un approccio più impacciato. Lui non ne aveva mai saputo nulla, al contrario di sua moglie.
«Amh… congratulazioni, credo. Però vi consiglio di non sposarvi.»
Rukia, che si era trattenuta fin troppo, gli diede un colpetto sulla testa.
«Sei un cretino!»
Dopodiché si alzò, aveva bisogno di aria. Mentre Byakuya desiderava sparire, mentre Renji desiderava nascondersi sotto il tavolo, mentre Ichigo stentava e riconoscersi e Karin e Chad si sentivano sbagliati, Yuzu si ritrovò a pensare che fosse proprio un peccato. In genere aveva sempre amato le cene di famiglia.
 
Ishida era rientrato stanco. Più mentalmente che fisicamente. Sapeva che Tatsuki si trovava a casa dei suoi, perché l’agitazione e l’ansia erano troppe. Tatsuki, dal canto suo, aveva cercato di comportarsi normalmente con Yuichi, che però doveva aver di sicuro captato qualcosa. Alla fine era crollata addormentata sul divano, trovando un po’ di sollievo dall’ansia e dalle nausee. Quando Ishida l’aveva trovata così, tutta accovacciata come a volersi proteggere, aveva sentito la stanchezza sparire. Non sapeva se dovesse credere al destino o chissà a che altro, ma quella gravidanza era arrivata proprio in quel momento. Era un segno, un qualcosa che poteva avvicinarli. O allontanarli. Non c’era niente di scontato. Si avvicinò a sua moglie e le accarezzò i capelli con delicatezza per non svegliarla. Tatsuki era stata così male dopo la nascita di Yuichi e non voleva vederla ridursi di nuovo così. Ma aveva l’impressione che questa volta sarebbe stato diverso, che anche se si fosse presentato un problema, avrebbero saputo affrontarlo. Tatsuki aprì gli occhi.
«Scusa, non ti volevo svegliare.»
«Non fa niente» sussurrò. «I tuoi genitori sono dei santi, lo sai? Sono così fortunata. Non dovrei stupirmi, visto che anche tu sei un santo.»
Tatsuki gli fece spazio per farlo sedere. Accidenti. Lei che non aveva mai avuto bisogno di rassicurazioni, adesso non bramava altro. Uryu le si sedette accanto e le lasciò poggiare la testa sulla sua spalla.
«No, non sono un santo, sono solo una persona.»
«Per sopportare me, non puoi essere umano. Uryu, tu vorresti tenerlo?»
Lui le accarezzò i capelli.
«Sì» disse con sicurezza. «Ma visto che sei tu quella maggiormente coinvolta, la decisione ultima spetta a te.»
«E se poi torniamo di nuovo a litigare? Se capiamo che insieme non possiamo proprio stare? Soffriremmo e stavolta saremmo in quattro a farlo.»
«Se pensassimo sempre ai se, non faremmo mai nulla. La vita è fatta di rischi. Per quanto riguarda me, io sono sicuro di amarti e che voglio passare il resto della mia vita con te.»
Tatsuki arrossì. Uryu doveva smetterla di sorprenderla così. O forse no. Forse il bello era proprio questo. Nascose il viso sul suo petto.
«Ti amo anche io. Uryu, io… niente. Volevo solo dire grazie. Per non esserti arreso con me. E dire che io non torno mai indietro sui miei passi.»
«Lo so. Per questo sono stupito» lui sorrise e poi la rassicurò ancora. Tatsuki non aveva ancora preso una decisione, ma le sembrò più leggera, meno preoccupata. Forse anche lei stava iniziando a comprendere che quella poteva essere la loro seconda possibilità.
 

Nota dell'autrice
ma 
che
ansia.
Me ne sono resa conto poco prima di pubblicare, ansia per tutti, tensione per tutti, ma d'altronde non poteva essere diversamente visti gli eventi degli scorsi capitoli. La cena a casa di Rukia e Ichigo non è andata proprio benissimo e il povero Renji s'è ritrovo a dare la notizia della sua relazione con Byakuya così, come scusa per fermare la discussione. Almeno però lo sanno. Su Kisuke e Yoruichi NO COMMENT perché mi piange il cuore a far loro del male, però con le coppie Shinji/Sosuke e Uryu/Tatsuki mi sono rifatta un pochino. BEH, spero che il capitolo vi sia piaciuto, ansia a parte.
A presto,
Nao

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** Capitolo ventitré ***


Capitolo ventitré
 
Per Nel ogni giorno era un giorno pieno, ma amava il suo lavoro e non l’avrebbe cambiato per nulla al mondo. Non solo, andava anche molto d’accordo con i suoi colleghi. E poi c’era Szayel Aporro Gantz, il collega che Nnoitra non poteva soffrire e che in qualche modo vedeva come un rivale. Ma non aveva motivo di preoccuparsi: tanto per cominciare Sszayel Aporro non ci aveva mai provato. In secondo luogo, anche se lo avesse fatto, Nel non sarebbe stata interessata. A prescindere dal fatto di essere sposata o meno, lui non era proprio il suo tipo. Poi però, la sua collega Menoly le aveva fatto notare come lui la guardava, come si rivolgeva a lei.
«Cerca sempre di farsi bello ai tuoi occhi, di risultare interessante. E lo fa anche in maniera spudorata, possibile che tu non te ne sia mai accorta?»
E no, Nel in effetti non si era mai accorta di nulla.
«No, non ci ho fatto caso. Eppure sa benissimo che sono sposata, ha anche conosciuto Nnoitra.»
«Già, me ne hai parlato. Forse Nnoitra non ha poi così torto ad essere geloso.»
In effetti Nel lo aveva attaccato all’inizio, accusandolo di essere geloso per nulla. Beh, nulla ora le sembrava eccessivo, ma comunque non aveva motivo di preoccuparsi. Era lei ad essere preoccupata, perché oramai aveva capito da un po’ che la gelosia e l’insicurezza di Nnoitra erano solo la superficie di qualcosa di ben più profondo.
«Io comunque non sono interessata. E non voglio farlo preoccupare, sta già affrontando i suoi problemi con qualcuno che può aiutarlo, perché io evidentemente non sono in grado» Nel stava rimettendo a posto degli strumenti e si era voltata dando le spalle a Menoly.
Nnoitra non aveva mai avuto una vita facile, di lui conosceva tutto, ma pensava che oramai il suo passato se lo fosse lasciato alle spalle. E forse si era sbagliata in modo clamoroso, era stata superficiale. Certe cose potevano segnare una persona a vita.
«Ehi, non buttarti giù. Tu fai il possibile per stargli accanto, ma non puoi risolvere tutti i problemi di una persona. Sarebbe troppo comodo» disse Menoly in tono pratico. E aveva ragione, lo sapeva. Però lei amava Nnoitra, che si era sempre mostrato forte ma che era più fragile di quanto volesse far vedere.
Sszayel Aporro entrò, salutandole e soffermandosi su Nel. Allora lei iniziò a farci caso. In effetti lui la guardava in modo diverso da come guardava Menoly o qualsiasi altra donna lì dentro. Era davvero interessato a lei in quel senso.
«Ciao, Nel. Stacchi tra poco, non è vero? Sono libero anche io.»
Quella voleva forse essere un invito sottointeso? Nel sapeva che avrebbe fatto bene a lasciar correre, ma dopotutto lei non sapeva lasciar correre. Quindi lo guardò negli occhi e glielo chiese.
«Sszayel Aporro, sei interessato a me?»
Menoly rise e cercò di non farsi vedere. Tipico di Nel affrontare le cose di petto.
«Potrebbe essere» rispose lui tranquillo e sempre con quell’espressione divertita in viso.
«Ti ricordo che sono sposata.»
«Lo so, pensavo solo che ogni tanto mi piacerebbe frequentare qualcuno come te.»
Non le piacque molto il suo tono, né quello che aveva detto. Cosa intendeva dire con qualcuno come te?
«Che cosa vuoi dire, scusa?» domandò già sulla difensiva.
«Su, non arrabbiarti. Lo sai com’è, le persone sono più portate a frequentare gente simile a loro. Tu sei una donna in carriera, realizzata. E pulita soprattutto.»
Nel capì subito cosa intendesse dire con pulita. Non sapeva come avesse saputo (anche se in realtà del passato di Nnoitra non aveva mai fatto segreto), ma ciò che disse la fece arrabbiare tanto da portarla a schiaffeggiarlo. Sszyael Aporro non si mosse, anzi, parve quasi compiaciuto.
«Non osare insinuare certe cose, d’accordo? Tu non conosci mio marito, non lo sai che persona è. Pensi lui non sia alla mia altezza? Beh, lo penso io e di quello che ti passa per la testa non me ne importa nulla. Quindi sei pregato di starmi lontano.»
Sszayel Aporro si massaggiò la guancia ora arrossata.
«Hai un caratterino, vedo. È uno dei motivi per cui mi piaci.»
Nel alzò gli occhi al cielo e decise di ignorarlo (o lo avrebbe colpito di nuovo). Nessuno poteva osare parlare male di Nnoitra. Lei era una di quelle che lo conosceva meglio di tutti. E lo amava profondamente. Amava anche i lati che lui invece odiava.
 
Nnoitra stava provando a concentrarsi sul lavoro, ma era difficile. Già di natura tendeva ad essere nervoso, ma ultimamente quel peso sul petto e la mancanza di fiato lo tormentavano. Così come i brutti pensieri, che in genere era sempre stato bravo a scacciare via. Ora no. Ora era lui che si faceva dominare.
«Cazzo, così non riesco a fare niente» si lamentò, lasciando andare il pennino. Era indietro sul lavoro e questo gli avrebbe procurato non poche grane, anche se per il momento a preoccuparlo era la sua saluta mentale. Si alzò e lasciò perdere tutto, andando in bagno e mettendosi a cercare nell’armadietto. Se non ricordava male doveva avere degli ansiolitici da qualche parte, anche se erano anni che non ne usava più. E infatti, come si era immaginato, erano scaduti da un pezzo e non se la sentiva di rischiare tanto. Si sciacquò il viso con l’acqua gelida e guardandosi allo specchio si chiese ma perché devi ridurti così?
«Mi detesto» sibilò. Non riusciva a vedere nulla se non solo ciò di negativo che aveva fatto nella sua vita. Non si era accorto che Naoko dietro lui lo guardava, con in mano i pennelli che aveva intenzione di sciacquare.
«Papà, perché dici che ti detesti?»
Lui si voltò di scatto. E ora cosa avrebbe potuto dire? A Naoko non sapeva mentire.
«Non… non è niente» mentì. Sua figlia lasciò cadere i pennelli nel lavandino e lo guardò con un cipiglio serio.
«Non mentire. Lo sai cosa faccio io quando sto tanto male? Piango, così poi mi sento meglio. Funziona, dovresti farlo anche tu. Ora che ci penso, io non ti ho mai visto piangere.»
Nnoitra s’inginocchiò e le posò una mano sulla testa. Era felice che Naoko somigliasse a Nel e non a lui.
Lui non sapeva affrontare le emozioni in modo sano. Lui voleva solo essere forte a tutti i costi.
«Ma non posso piangere. Io sono un adulto, devo essere forte.»
«E allora? Non vuol dire niente! Se vuoi piangere, va bene. Tanto ci sono io che ti abbraccio e anche la mamma» disse con naturalezza.
Quelle parole in effetti smossero qualcosa in Nnoitra. Prima che Naoko arrivasse, a lui i bambini non erano mai piaciuti, ma doveva ammettere che sapevano essere straordinari. Naoko soprattutto.
«Ci penserò, grazie» disse dandole una carezza. Voleva essere forte per lei, quando invece era sua figlia a dargli forza.
Quando sentirono Aries abbaiare, capirono che Nel doveva essere tornata. Naoko le corse incontro, donandole un abbraccio e Nel fu ben felice di ritrovarsi con sua figlia che la stringeva e il suo cane che le faceva le feste. Nnoitra invece se ne stava a guardarla da lontano. Chissà se almeno con lei poteva parlare. Nel aveva capito, Nel lo conosceva e conosceva la sua storia.
«Amore mio, tutto bene?» domandò Nel. Sentiva di volerlo proteggere, ma non voleva dirlo ad alta voce per non infierire sul suo orgoglio. Nnoitra scosse la testa.
«Nel, io continuo a pensare a lui e a tutto quello che avrei potuto fare per salvarlo.»
Nel sgranò gli occhi, capì immediatamente di cosa stesse parlando. Mise giù Naoko e le raccomandò di andare in camera con Aries. Quando rimasero soli, lei si avvicinò a suo marito, accarezzandogli una guancia.
«Nnoitra, tu lo sai che non avresti potuto fare molto. E che non è colpa tua.»
«Invece è colpa mia. Io ero una persona cattiva. Lo sono tutt’ora» disse sottovoce. Nel gli accarezzò il viso e sfiorò la benda che portava sull’occhio, sotto cui si nascondeva una cicatrice. Non la toglieva mai, solo quando faceva l’amore con lei.
«Non è vero.»
«Invece è vero.»
«No.»
«Sì.»
Erano tutti e due molto testardi. Nel lo baciò con passione.
«Ho capito che voglio proteggerti, non perché ti reputo debole, ma perché ti amo.»
Non gli lasciò tempo di rispondere. Non voleva niente, voleva solo lui. E d’altronde la voleva anche Nnoitra. Perché quando stringeva il suo corpo al proprio, quando erano una cosa sola, lui dimenticava tutto il male che (secondo lui) era e aveva fatto.
 
 
Toshiro aveva notato come le cose fossero cambiate da quando era arrivato in quella casa. Tanto per cominciare Rin sembrava, almeno in parte, più serena, ma anche più pensierosa. Gin aveva preso a fargli meno antipatia, ma semplicemente perché quando il suo migliore amico Kira gli stava attorno, usciva il lato migliore di lui. E poi c’era Rangiku, lei più o meno era sempre rimasta la stessa. Anzi, si era fatta più attenta, nei confronti della sua famiglia e nei suoi. Questo gli aveva fatto temere che potesse capire qualcosa su lui e Momo. Anche se in pratica ancora non c’era nulla. Rangiku giocava con sua figlia. Non lo faceva da un pezzo, troppo impegnata con il lavoro e gli eventi mondani. Ma ora si era ripromessa che avrebbe sempre trovato un po’ di tempo per Rin.
Rin che non amava né le bambole né i giochi tranquilli, ma amava saltare, arrampicarsi e scoprire.
«Possiamo fare una pausa adesso?» ansimò Rangiku, in ginocchio sul tappeto. «Tu sei giovane e attiva, io sono un po’ meno giovane e mi stanco più facilmente.»
«E va bene!» disse Rin, arrendendosi dopo aver corso in cerchio per l’enorme salotto. Teneva Sir Biss tra le mani e lo accarezzava, a debita distanza da Toshiro che ne aveva paura.
«Mamma, una domanda.»
«Sì?» chiese lei, togliendosi i capelli dal viso. Rin assunse un’espressione seria.
«Non sposo Hayato, vero? Nel senso, non sono costretta, no?»
Rangiku sorrise e le accarezzò la testa.
«No, non sei costretta. Tuo padre si è messo in testa questa cosa, ma sono sicura che sta già cambiando idea. Non c’è proprio motivo. Si preoccupa per te e vuole che tu abbia un certo tipo di vita. Ma quella puoi averla a prescindere.»
Rin corrugò la fronte, pensierosa. C’era qualcosa che proprio non capiva.
«Ma perché si preoccupa? Io sto bene, noi stiamo bene, quindi perché?»
Anche Toshiro, che se ne stava seduto un po’ più lontano, parve interessato. Già, perché? Alla fine conosceva Gin da anni, senza conoscerlo davvero. Rangiku sospirò e si sedette meglio.
«Perché non è sempre stato così. Tuo padre è orfano ad è cresciuto nella fame e negli stenti per tanto temo. Credo che sua madre fosse cinese e lui è cresciuto in un villaggio della Cina. A volte me ne parlava. Diceva che bisognava fare a botte per sopravvivere» Rangiku stava cercando di dosare le parole, non doveva dimenticarsi che Rin era solo una bambina. «Quindi, quando poi è diventato abbastanza grande è venuto in Giappone, ha iniziato a studiare e lavorare, con gran fatica aggiungerei, grazie soprattutto a Kira. Poi ha conosciuto Aizen, che gli ha suggerito di continuare a studiare e così ha iniziato giurisprudenza» gli venne da sorridere al ricordo. «Io frequentavo un’altra facoltà, ma è lì che ci siamo conosciuti.»
Se ci ripensava ora era incredibile. Era proprio destino che s’incontrassero. Rin la fissava, aveva gli occhi stranamente spalancati.
«Cavolo» sussurrò Toshiro. «Questa cosa non la sapevo, non l’avevi mai raccontata.»
«Gin non ama che se ne parli, ha avuto una vita difficile. Quando ci siamo innamorai mi ha detto Rangiku, diventerò una persona importante che guadagna molto così che né a me e alla mia famiglia manchi nulla. E infatti c’è riuscito. Ma ora dovrebbe rallentare e respirare. Rin, che c’è?»
Rin aveva infatti gli occhi lucidi.
«Niente, è che è una storia così triste. Povero papà. Però non si deve preoccupare per me, io sto bene. Adesso sto meglio di prima» si sfiorò il fiocco rosso che aveva tra i capelli, il segno palpabile del fatto che ora non fosse più sola. Rangiku l’abbracciò.
«Lo so. Sono felice di questo. Lui ha fatto tanto per noi, forse noi ora possiamo fare qualcosa per lui.»
Toshiro arrossì. Povero Gin, l’aveva sempre giudicato così male, anche se alla fine non era affatto cattivo. Tutt’altro! All’improvviso si ricordò che doveva vedersi con Momo e fu una buona scusa per alzarsi e lasciare magari loro un po’ d’intimità.
«Io… devo uscire un momento.»
«Va bene, fai attenzione Toshi» disse Rangiku, pensierosa. Toshiro era strano, ed era quasi sicuro che c’entrasse l’amore. Rin se ne accorse a sua volta.
«Toshi è strano, nasconde qualcosa, vero?»
«Temo di sì. Spero solo faccia attenzione» sussurrò. Aveva uno strano presentimento.
 
Toshiro si era sentito un po’ in soggezione quando Momo gli aveva detto di venire a casa sua. Stare nella stessa casa in cui vivevano suo marito e anche suo figlio lo faceva sentire un po’ a disagio, ma vista l’ora non c’era molta scelta. E poi né Aizen né Hayato erano presenti. Toshiro era nervoso, mentre se ne stava seduto sul morbidissimo sofà con Momo che gli serviva da bere. Ma lui aveva la gola troppo chiusa per poter anche solo pensare di mandare giù un sorso.
«Tuo marito ti ha per caso fatto storie?» domandò. Momo si sedette accanto a lui: era tornata a indossare i suoi tailleur eleganti.
«Un pochino. Ma sai, non credo che m’importi. Dopotutto io sono quasi sicura che mi tradisca da anni» disse accavallando le gambe, con un gesto che, senza che ne avesse intenzione, risultò sexy. Toshiro ingoiò a vuoto.
«Ma se lo pensi, perché non lo lasci e basta? Prendi tuo figlio e vattene da un’altra parte. Oppure lo butti fuori di casa.»
Momo rise. Oh, sarebbe stata proprio una bella scena.
«Prima di adesso non avevo mai preso in considerazione l’idea del divorzio e della separazione. Mi ero detta che dovevo semplicemente essere fedele, starmene al mio posto e tutto sarebbe andata bene. Ma non funzionano così i rapporti, vero?»
Lui scosse la testa.
«No, infatti.»
Momo lo guardò negli occhi, poi si alzò e si sedette al piano, iniziando a suonare. Per Toshiro quella fu peggio di una seduzione palese. Vedeva il suo collo, i suoi capelli neri e la sua schiena e aveva l’impressione che non sarebbe riuscito a trattenersi.
«Ammetto, Toshiro, che da quando ti conosco le cose sono cambiate. Questo è assurdo, non è vero?» domandò. Se non lo guardava negli occhi, riusciva ad essere più sincera. «Ora non giudicarmi male. Ma penso che tu mi piaccia. Anche se sono sposata, anche se sei più giovane di me. Questo è patetico, non è vero?»
Non riuscì più a muovere le mani sul piano: lui la stava stringendo da dietro in una morsa possessiva.
«Hai ragione, ed è ancora più patetico che io ricambi, ma è così.»
Respirò il suo odore e si sentì debole. Momo chiuse gli occhi quando sentì il suo fiato sul collo. Forse era egoista, forse stava sbagliando il come. Ma per una volta voleva stare bene. E con Toshiro stava sempre bene. Voltò piano il viso fino a quando le loro labbra non si sfiorarono. Quello fu il momento in cui Momo si ricordò cosa fosse un bacio vero, la passione vera e forse… forse anche l’amore. Lui non la lasciò andare quella sera. E lei non gli chiese mai di farlo.
Ai stava imparando a piangere. A lasciar fluire fuori le sue emozioni attraverso le lacrime. Ora non c'era più niente a trattenerla e piangeva per tutto. Per essere scappata di casa, per aver fatto preoccupare la sua mamma, per la paura che si era presa quando quello sconosciuto le aveva sfiorato i capelli. Certo, voleva tornare a scuola il più presto possibile, aveva bisogno dei suoi amici, soprattutto di Yami che la faceva ridere e di Hikaru che sapeva asciugare le sue lacrime. Quando stava a casa, però, stava sempre attaccata a Nemu per cercare una protezione costante. Ecco perché Nemu aveva preso un permesso da lavoro, per stare accanto a sua figlia che ora più che mai aveva bisogno di lei. Era stata debole e remissiva, ma adesso era arrivato il momento di pretendere. Per sé stessa e per lei. 
«Mamma, io mi sento in colpa» confidò quel giorno, mentre Nemu prima le pettinava i capelli e intrecciava le ciocche in una treccia.
«Perché ti senti in colpa?» 
«Perché… Se non fossi scappata…» sussurrò mordendosi il labbro. Aveva addosso una sensazione di amarezza tale da farla stare male. 
«Non dirlo. Quello che è successo non è colpa tua. Nel mondo ci sono delle persone orribili, ma mai in nessun modo sarà colpa tua.»
Nemu si stava sforzando di mantenere un tono rassicurante. Anche se era ancora un po' sotto shock, era sua figlia ad aver bisogno di sicurezza adesso. 
«Ho detto a papà che lo odio, ma ovviamente non è vero. È che ero arrabbiata. Ma forse lui odia me» disse mestamente. Ai sembrava rassegnata, ma lo era davvero? Poteva una bambina rassegnarsi a questo? 
Nemu le baciò i capelli mentre guardava il loro riflesso allo specchio. Ai somigliava a lui, ma caratterialmente non era simile a nessuno dei due. 
«Non è così. So che è difficile da credere, ma non è così. Ai, mi dispiace tanto per tutto. Non sono stata una brava madre.»
«Per me sì. E poi, anche se fosse… sbagliare va bene. Vero che va bene?» domandò Ai sollevando lo sguardo. Nemu annuì. 
Andava bene sbagliare. Andava bene essere fragili ogni tanto. Andava bene essere umani. Lei lo aveva capito, ma Mayuri lo avrebbe mai compreso? 
 
Ai non gli parlava, non gli girava più attorno, né cercava le sue attenzioni. Non è che Mayuri si aspettasse niente di diverso, non dopo che lei gli aveva detto di odiarlo, non dopo averla fatta scappare e messa in pericolo. 
È colpa tua. 
Ma peggio ancora era Nemu che lo guardava come se l'avesse accoltellata. Era come se i ruoli si fossero invertiti, era lui adesso quello che parlava di meno. 
Era assurdo. Perché era arrivato a tanto? 
A lavoro non era concentrato, a casa sua si sentiva un estraneo. Non avrebbe potuto continuare così a lungo. 
«Dov'è Ai?» domandò quel tardo pomeriggio, prima di iniziare il suo turno serale e probabilmente notturno. 
«Sta leggendo. Stalle lontano» rispose lei, mentre si metteva a sistemare la sua tenuta da infermiera, ma era giusto una scusa per non guardarlo negli occhi. 
«Ora non posso nemmeno più chiedere di mia figlia?» domandò Mayuri piccato.
Nemu lasciò perdere la divisa e lo guardò. 
«Però non era tua figlia tutte le volte che l'hai trattata male, vero?» 
Adesso che era venuta fuori la sua determinazione, niente l'avrebbe fatta dietreggiare. 
«Quanto ancora vuoi rinfacciarmelo?» domandò lui con un sospiro. 
«Fino a quando sarà necessario. Tu non hai capito, non stai capendo nemmeno ora. Ai in questo momento ha bisogno di affetto e rassicurazione più che mai, ma ovviamente tu non sei in grado di fare questo, non più almeno» si strinse le braccia attorno al busto, come se avesse freddo. «I bambini hanno bisogno di dimostrazioni, semplici ma sincere. Hanno bisogno di essere abbracciati, e ogni tanto magari di ricordargli che sono amati. Beh? Che c'è? La tua famiglia non te l'ha mai detto, ti voglio bene?» chiese, sapendo già la risposta e sapendo anche di andare a toccare un tasto un po' dolente.
Mayuri fece spallucce. 
«Mi conosci da una vita, la risposta la conosci già.»
Nemu rilassò appena le spalle. 
«Hai ragione, e di questo mi dispiace. Ma non ti autorizza a essere un padre orribile a tua volta. E poi…» chiuse gli occhi, voltando il capo da un'altra parte. «Io non credo che tu mi ami quanto ti amo io. Per questo non so se ha più senso continuare.»
Mayuri assunse per la prima volta un'espressione confusa. 
«Vuoi che ci lasciamo?» chiese e la sua stessa voce gli parve estranea. 
A Nemu si spezzava il cuore anche solo pensarci. 
«Io non lo voglio, devo pensare al bene di Ai, ma anche al bene mio. E lo giuro, sarei disposta a cambiare idea sei dimostrassi che mi sbaglio, che sai essere umano. Ecco perché non voglio fare niente di impulsivo. In questo momento sarebbe troppo da sopportare per Ai, perché lei ti vuole bene e grazie al tuo comportamento pensa che la odi.»
Aveva parlato a lungo. Mayuri poggió la schiena contro il muro e guardò verso l'alto. Non aveva più bisogno che la gente gli ricordasse certe cose. Tutti pensavano di essere odiati da lui (a causa dei suoi comportamenti), ma ancora non sapevano chi fosse oramai la persona che più odiava al mondo. 
«D'accordo» disse soltanto. Ogni altra parola sarebbe stata inutile. Nemu annuì e gli passo accanto. Ora c'era una distanza tra loro, toccava a Mayuri accorciarla. O prolungarla. Rimasto solo, si accorse che dov'era poggiato non era un muro ma una porta, che oltra quella porta c'era Ai che singhiozzava. Ai non piangeva mai, ma adesso non riusciva a fare altro. Mayuri aprì la porta e vide la bambina che gli dava le spalle, che stava accovacciata su sé stessa e piangeva pensando a chissà cosa. 
I bambini hanno bisogno di essere abbracciati e ogni tanto bisogna ricordare loro che sono amati. 
Abbracciala, si disse. Poggiale una mano sulla testa, falle sentire qualcosa. E ci provò, provò a sfiorala. Ma quando avvicinò la mano ai suoi capelli la ritrasse, dando ascolto alla voce che gli diceva non ne hai più il diritto, è troppo tardi. 
Poi sentì una sensazione fastidiosa alla gola, come un groppo che gli impediva di respirare, e sentì gli occhi bruciare. Non gli succedeva da una vita e dovette farsi violenza per dominarsi. 
Non essere debole, controllati. 
Ai avrebbe meritato di sapere che lui non la odiava. Perché Mayuri in realtà non odiava veramente nessuno, fatta eccezione per sé stesso, oramai. 
 
Orihime e Ulquiorra erano molto decisi sul prendere in affido un bambino, ma sapevano che non poteva essere una scelta presa impulsivamente e che c'erano alcuni preliminari a cui pensare. Una dei più importanti era indubbiamente Kiyoko, la quale non aveva ancora abbandonato la paura di non essere abbastanza e che tendeva ad essere ancora un po' fredda e diffidente nei confronti di entrambi i genitori. 
«Dai, Ulquiorra. Vai, non mi dire che hai paura?» 
«Non ho paura. Ma perché devo andarci da solo? Kiyoko ce l'ha anche con te.»
«Sì, ma ha litigato con te, avanti.»
Orihime e Ulquiorra parlavano sottovoce davanti la porta semichiusa. Nella sua cameretta, Kiyoko stava mostrando fiera le fotografie che aveva scattato il giorno stesso a suo zio Sora. 
«Lo sai, penso che tu diventerai una fotografa professionista un giorno. Sei un'artista, ce l'hai nei geni» sentì dire Hime a suo fratello. Si immaginava già Kiyoko arrossire e sorridere a quei complimenti. Diede un colpetto a suo marito. 
«Coraggio.»
Ulquiorra sospirò e chiuse gli occhi. Non aveva paura, neanche per sogno. Solo che non amava molto il conflitto e con Kiyoko di conflitti ce n'erano stati anche troppi. 
«Scusate se vi interrompo. Sora, devo parlare un attimo con Kiyoko» disse facendosi avanti. La bambina aggrottò la fronte: ma possibile che tutti volessero parlare con lei? E possibile che suo zio (quei traditore!) acconsentisse ogni volta? Con cipiglio offeso e un certo fare melodrammatico, Kiyoko, sistemò le sue fotografie. 
«Kiyoko, possiamo parlare?» domandò Ulquiorra, cauto. 
«Di cosa?» chiese lei. 
Lui si inginocchiò e le poggiò una mano su una spalla. 
«So che sei arrabbiata con me e so che la mamma ha già parlato con te. Ma io non l'ho fatto, quindi voglio che ora mi ascolti.»
Kiyoko si voltò, Ulquiorra vedeva nei suoi occhi i propri, erano identici. 
«Non è vero che non ci basti. Non è mai stato così e mai lo sarà» disse con convinzione. Lui lo sapeva, ma era importante che a sua figlia entrasse in testa. Kiyoko si mise a braccia conserte. 
«Però volete comunque un altro figlio. Quindi non vi basto.» 
Cocciuta la ragazzina, chissà da chi aveva preso? 
«No, non è vero» insistette. «Un genitore ha abbastanza spazio nel suo cuore per volere bene a tutti i suoi figli.»
Kiyoko stava iniziando a cedere. Lo capiva dal suo sguardo che questa volta suo papà non mentiva. 
«Ma non è possibile questa cosa.» 
Ulquiorra le portò le mani tra i capelli, accarezzandola.
«Tu vuoi bene sia a me che alla mamma, vero? Non potresti scegliere tra nessuno dei due, vero?» 
«Non fare questo gioco, non c'è una risposta, non posso scegliere» borbottò. 
Sulle labbra di Ulquiorra apparve un sorriso, raro quanto vero. 
«Appunto, è la stessa cosa. Kiyoko, ti ho amato dal primo istante che ti ho tenuta tra le braccia, e anche prima di averti. Tutti e due ti abbiamo amata da subito.»
La bambina arrossì totalmente e sentì gli occhi divenirle lucidi. 
«… Non mi dici più bugie, vero?» 
«Promesso.»
«E quindi ora non litighiamo più?» 
«No. Ma se capiterà, faremo subito la pace, okay?» 
A quel punto Kiyoko si lasciò andare. Era un po' stanca di essere arrabbiata, non era proprio da lei. Lo abbracciò e iniziò a piagnucolare. 
«Va tutto bene, piccola. Ci sono io» sussurrò Ulquiorra, stringendola forte. E sentì che un altro pezzo del suo cuore era tornato al proprio posto. 
Dall'altro lato della porta, illuminata dalla luce che entrava dalla finestra, Orihime si commosse. 
«Ulquiorra ci sa proprio fare con lei» disse Sora divertito. «Allora… Voi questa cosa volete davvero farla?» 
Orihime annuì. 
«Come ho detto a Ulquiorra, io voglio essere una madre. E ci sono tanti modi per esserlo. E insomma… grazie per esserci stato.»
Sora le poggiò una mano sulla testa, come se fosse stata una bambina. 
«Ma figurati, perché mi ringrazi? Io ci sarò sempre. E Kiyoko è fortunata ad avere te. Chiunque avrà la fortuna di averti come madre sarà felice. Noi questa fortuna non l'abbiamo avuta.»
Lei si asciugò le lacrime, anche se stava sorridendo
«Ma io ho avuto te e tu me.»
Rimasero in silenzio, a osservarsi, mentre ascoltavano Kiyoko che si calmava pian piano. 
 
Nota dell'autrice
È letteralmente dal primo capitolo che Orihime e famiglia soffrono, e finalmente la rislaita ha avuto inizio. Certo, ora inizia un percorso complesso, ma che porterà loro a delle soddisfazioni... e soprattutto Kiyoko adesso è più serena. Mentre Momo e Toshi diventano ufficialmente amanti, non mi sono risparmiata nell'angst per Ai e per Nnoitra (che mi perdonino, sigh). Mayuri e Nemu si lasceranno? Nnoitra spaccherà la faccia a Sszayel Aporro? Rimanete su questi lidi per scoprirlo.
Alla prossima :*
Nao

Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** Capitolo ventiquattro ***


Capitolo ventiquattro
 
Renji non si era ancora abituato all'idea di essere impegnato. Non solo perché erano oramai tanti anni che non aveva una storia, ma soprattutto perché si era talmente immaginato di stare con Byakuya che ora non gli sembrava vero.  Non è che fosse cambiato molto tra loro, di fatto si comportavano come prima, con la differenza che ora erano una coppia. Renji era sempre stato un tipo molto fisico e Dio solo sapeva quanto desiderasse stringerlo tra le proprie braccia, ma manteneva comunque una certa distanza tra lui e Byakuya. Quest'ultimo infatti era decisamente più timido e poi, dopo tutto quello che stava passando, dubitava che avesse voglia di buttarsi così in un rapporto fisico. 
Dormivano perfino separati. La sera precedente erano rimasti a parlare fino a tardi, così Byakuya aveva pensato che fosse meglio farlo rimanere per la notte. E così Renji aveva dormito sul futon sul pavimento, sognando ben altro. 
«Byakuya, non così…» gemette nel sonno. E Byakuya, che da bravo mattiniero era sveglio da un po', assunse un'espressione impagabile mentre arrossiva. 
«Ma tu sentilo» sussurrò. Tra le altre cose, Byakuya non era mai stato con un uomo. Non ne sapeva niente, avrebbe significato andare incontro a qualcosa di nuovo. E questa era una delle cose che lo terrorizzavano. Però Renji gli piaceva. E gli voleva bene, anche di più e questo non l'avrebbe creduto possibile fino a poco tempo prima. 
«Renji…? Devi svegliarti» gli sussurrò, dandogli un colpetto su una spalla. Lui si lamentò, rigirandosi. 
«Voglio dormire.»
«Devi andare a lavoro. E dovrei andare anche io, per cui…» 
Renji aprì gli occhi e dovette combattere con il suo istinto. Se fosse dipeso da lui sarebbero stati tutto il giorno appiccicati, ma questo non sarebbe andato bene. Quindi si arrese e si mise seduto. 
«Byakuya, a te non imbarazza stare con me, vero?» 
Byakuya, che stava cercando qualcosa nel suo armadio, si fermò per guardarlo. 
«Non mi imbarazza» 
«Perché io lo capirei se al resto del mondo volessi semplicemente dire che siamo amici, eh!» disse in imbarazzo, arrossendo. 
«Renji, non devi preoccuparti per questo. E poi già qualcuno lo sa, non mi porrei il problema. Tu… non badare ai miei complessi, d'accordo?» 
Renji avrebbe voluto dirgli che non era così che funzionava per lui, i problemi della persona che amava erano anche i suoi, specie se in parte riguardavano anche lui. Ma decise che non era il caso di iniziare la giornata con tanta pesantezza. 
«D'accordo. Posso fare una doccia?» domandò stiracchiandosi. Byakuya arrossì. Che volesse andarci piano o no era un essere umano anche lui, a certe cose ci aveva pensato. 
«Certo, fai con comodo» disse senza nemmeno guardarlo. Non c'erano dubbi, Renji gli piaceva e ci teneva anche in modo particolare. Per questo cercava di ignorare il fastidioso peso allo stomaco che conosceva bene: il senso di colpa. Perché se da un lato voleva Renji, dall'altro lato si chiedeva come avrebbero potuto convivere le due cose. La sua storia attuale e ciò che era ora solo nella sua memoria. Aprire il cuore inevitabilmente portava paura. Si chiese se sarebbe stato abbastanza coraggioso. 
 
Miyo se ne stava seduta sul banco ad osservare il cortile fuori dalla finestra, quando Hayato Aizen venne a cercarla. Ogni volta che se lo ritrovava davanti, con le mani infilate nelle tasche e l'espressione corrucciata, le veniva l'ansia. Loro non si piacevano e questo era evidente. 
«Hirako, ti devo parlare adesso» disse lui. Miyo ne avrebbe fatto volentieri a meno, ma con un sospiro saltò giù dal banco e lo seguì in corridoio. 
«Possiamo sbrigarci? Non voglio perdere la lezione di giapponese.»
Hayato però era talmente serio che gli sembrava anche più grande della sua età. 
«Qualcosa non va nella mia famiglia. Non è mai andata bene, ma adesso le cose sono anche peggio.»
Miyo, confusa, non capì perché ad Hayato fosse venuta voglia di farle certe confidenze, ma prima che potesse chiedere, lui continuò. 
«Credo sia a causa vostra. Cioè, di tuo padre, perché da quando lui e mio padre si sono incontrati è cambiato tutto.»
Miyo arrossì. In effetti le cose erano cambiate anche per lei, anche se in maniera meno evidente. 
«In che senso?» 
«Non lo so in che senso! È per questo che chiedo a te, tuo papà ti vuole bene e sono sicuro che se glielo chiedi, te lo dirà. Io non so niente» il suo pugno, infilato nella tasca, tremò appena. «Mamma dice che papà la tradisce con un'altra donna. Ma non lo so, secondo me non è questo.»
Quando Hayato le fece quella confidenza, a Miyo venne un dubbio. Un dubbio molto stupido a dire il vero, non era possibile. 
«Mi stai chiedendo aiuto?» 
Hayato annuì. 
«Tu non mi piaci e la mia famiglia è già brutta così. Non voglio che le cose peggiorino. E poi mio padre ti adora. Non so perché, ma tratta meglio te che me. Quindi sotto c'è qualcosa. E io non lo sopporto più.»
Miyo si morse il labbro. Vero, il signor Aizen era sempre stato molto gentile con lei, ma per quanto riguardava il suo rapporto con il figlio non ne sapeva niente. Per quanto riguardava il rapporto tra Aizen e suo padre beh… quest'ultimo gli aveva detto che erano solo amici, ma adesso Miyo iniziava ad essere poco convinta. E sperava tanto, tantissimo, che le sue sensazioni fossero sbagliate. 
 
Hiyori batteva nervosamente le bacchette della batteria sul tavolo. Si trovavano in sala prove da due ore, avevano già provato e aveva perfino trovato il tempo di andare a prendere Miyo, visto che Shinji non era pervenuto. Quel maledetto ultimamente si comportava in maniera strana, a malapena stava dietro alla band e aveva sempre la testa tra le nuvole. 
«Idiota di uno Shinji. Ma che fine ha fatto? Come osa non rispondere alle mie chiamate? E se fosse un'emergenza? Faccio bene a non fidarmi di lui!» 
Miyo fece una smorfia, mentre fingeva di leggere. Ora che Hiyori ci faceva caso, anche sua figlia era strana, sembrava pensierosa. 
«Piccola, tutto a posto? Per caso qualcosa non va e io non ne so niente?» 
La bambina mosse le gambe. Lei non sapeva niente di certo e non avrebbe voluto saperne niente. Anche se era matura per la sua età, non era un'adulta. 
«Non lo so» disse con una vocetta piccola. 
«Te lo dico io, secondo me Shinji è innamorato!» intervenne Mashiro, mentre sistemava le chitarre. «Forse ha una fidanzata.»
Hiyori fece spallucce. 
«Per me può avere tutte le fidanzate che vuole, basta che non si comporti da irresponsabile!» 
Miyo teneva ancora gli occhi incollati alle pagine senza leggere per davvero. Shinji arrivo mezz’ora più tardi, con addosso sempre quell’aria sfuggente e un po’ distratta. E l’accoglienza che ricevette non fu delle migliori, non da parte di Hiyori almeno.
«Finalmente, eh! Si può sapere che fine avevi fatto? Per ora sei sempre in ritardo!»
«Oh, e lasciami in pace» si lamentò lui. «Io avrei anche una vita al di fuori di qui.»
«Ti sei dimenticato che dovevi passare a prendere Miyo» disse lapidaria.
«No, non è vero» disse Shinji convinto, poi però guardando l’espressione di sua figlia capì di aver fatto un errore di calcolo. «Aspetta, è vero? Ma non è possibile, toccava a te oggi.»
«Sì, sì, senti. Non mi interessa cosa fai nella tua vita privata, non mi sta bene però che molli Miyo ogni tre per due per sparire chissà dove» Hiyori si era fatta pericolosamente vicina. «E poi perché tutto questo mistero? Se hai una storia esci allo scoperto e basta. A meno che tu non faccia qualcosa di strano, tipo andare con una persona sposata.»
Quella di Hiyori voleva essere una provocazione, fondata però su un sospetto che aveva sempre avuto. Non aveva mai chiesto perché non erano fatti suoi, ma a giudicare dall’espressione di Shinji (che a mentire era bravo solo fino a un certo punto), doveva averci preso. E poteva immaginare anche con chi.
«Non. Ci. Credo! Dopo tutti questi anni, di nuovo? Ma che ti dice il cervello?»
Hiyori aveva alzato la voce, attirando l’attenzione degli altri. Miyo invece fissava la scena già da un po’.
«Possiamo non parlarne? Abbiamo capito che non ti riguarda.»
«Mi riguarda se ignori tutto il resto, tua figlia compresa e i tuoi impegni per andare a fare l’amante di qualcuno che è sposato!»
Miyo voleva sparire. Perché ne stavano parlando? Perché lo facevano davanti a lei? Lei non era abbastanza adulta per questo.
«Oh, Hiyori» disse Shinji con un sorriso. «Non c’è assolutamente bisogno che cerchi di svilirmi, che cerchi di umiliarmi, perché a fare questo ci riesco già da solo. È proprio per questo che ci siamo lasciati, perché tu hai troppa rabbia dentro e un carattere insopportabile e hai sempre usato me per sfogarti. Allora, che ne pensi di farti una vita anche tu e di non rompere?»
Hiyori lo colpì al viso con forza. Shinji era abituato a quel suo modo di fare, ma non fu tanto il dolore fisico, quanto quello psicologico. Si sfiorò una guancia che ora bruciava.
«E tu che pensi di essere una brava madre, vero? Sei orribile.»
«Almeno in questo siamo uguali!»
Miyo a quel punto non ce la fece più. Batté la mano così sul tavolo da farsi male.
«Basta, ora dovete smetterla! Non vi sopporto più!»
Entrambi si voltarono a guardarla, stupiti. La dolce e pacata Miyo stava ribollendo di rabbia.
«Miyo…?» sussurrò lui.
«No, ora parlo io, Shinji. Mi sono stancata di sentirvi sempre discutere, litigare e farvi male. È orribile, non ci pensate a me.»
«Non è vero e… Non chiamarmi col mio nome» disse indispettito. «Io sono tuo padre.»
«Davvero? Perché sembro io la madre e voi i bambini. Papà, qualsiasi cosa nascondi, la devi smettere. Non mi piacciono le bugie né le persone che nascondono qualcosa. E tu mamma, la devi smettere di trattarlo così male. Tu forse non lo ami, ma io gli voglio bene, e non devi più fargli male. E tutti e due! La dovete smettere di trattarmi come se avessimo la stessa età, okay? Io non sono grande, tutto questo è troppo per me!»
Con quello sfogo, Miyo si era portata sull’orlo del pianto. Si alzò e decise di andare a sfogarsi in solitudine, perché ne aveva abbastanza. Né Shinji né Hiyori dissero una parola, né gli altri membri della band. I bambini erano proprio la voce della verità.
 
Yoruichi oramai stava sperimentando da un po’ di tempo l’orribile sensazione di andare a lavoro con un peso sullo stomaco. Tutto era reso più difficile da Soi Fon, che si era chiusa nel suo silenzio gelido. A parlare al posto suo c’erano i gesti e gli sguardi sprezzanti. Ebbene, Soi Fon a quanto pareva l’odiava e Yoruichi se ne dispiaceva. Al di là di tutto Soi Fon era la sua studentessa migliore e sì, le era anche affezionata. E le piaceva, ma questo non era importante.
Quel pomeriggio di lezioni, Soi Fon fu l’ultima a uscire. Le consegnò il suo tema con un gesto svogliato e annoiato.
«Soi Fon, non così» disse severa. «Ti ricordo che sono la tua insegnante.»
La ragazza la fissò, a braccia conserte. Era testarda come solo un adolescente poteva essere.
«Ah, lo è davvero?»
Un sospiro. Che stanchezza le relazioni, di qualsiasi tipo.
«Non ti sembra assurdo continuare in questo modo? Comportiamoci da persone civili e mature e…»
Smise di parlare quando sentì Soi Fon ridere. Anzi, sghignazzare.
«Il problema di voi adulti è proprio questo. Non prendete mai sul serio noi adolescenti, minimizzate sempre tutto. Ma sì, passerà, dite. E passeranno anche i miei sentimenti, dopotutto è solo una cotta, vero? Ma che ne sa, se non è nemmeno nella mia testa?»
Yoruichi si alzò, guardandola negli occhi. Al diavolo, non poteva avere paura.
«Stammi bene a sentire: io ho sempre preso sul serio tutto e tutti, te soprattutto. Non so che idea tu abbia di me, ma probabilmente mi hai idealizzata troppo, perché sono un essere umano come tutti. Sono mesi che non riesco ad avere un rapporto sessuale con mio marito, sono giorni che discutiamo perché, pensa un po’, alla mia età ho capito che forse non sono solo gli uomini a piacermi. E come una stupida mi sono presa una cotta per una mia studentessa, come se fossimo in un film da quattro soldi. E sto provando a fare la cosa giusta, eccome se ci sto provando. Ma a quanto pare non ci riesco, quindi ti sarei molto grata se non mi rendessi le cose più difficili!»
In quello sfogo dato dallo stress e dalla disperazione, Yoruichi ci aveva messo anche la sua dichiarazione. Soi Fon la guardò per qualche istante e poi prese il suo viso e la baciò. Yoruichi rimase per qualche attimo immobile, era la prima volta che baciava una donna. Ma prima che potesse formulare un pensiero sensato, stava già ricambiando.
Sì, non c’erano dubbi. Le piacevano anche le donne, aveva una cotta per lei e le stava piacendo baciarla. Ed era sposata. Soi Fon si allontanò dopo qualche attimo, consapevole del fatto che ora si sarebbe invertiti i ruoli: ora lei ad aver sbagliato.
«Io… mi… mi dispiace» sussurrò, ancora col fiato corto. «Non avrei dovuto.»
Yoruichi si sfiorò le labbra.
«Io non avrei dovuto» disse. «Ora scusa, Soi Fon. Ma è meglio se vai.»
E per una volta lei non ebbe nulla da controbattere.
 
Renji odiava i vestiti eleganti, odiava i vestiti attillati e odiava non poter essere libero di muoversi come voleva, ma non mancava molto al matrimonio e Yumichika lo avrebbe ammazzato se si fosse presentato vestito come un motociclista, (o come un tossico, come gli ripeteva sempre lui). Byakuya, che aveva certamente più stile, si era offerto di aiutarlo a trovare il vestito giusto, impresa non proprio facile, perché Renji era alto un metro e novanta e tutto muscoli. Era già il quinto completo che provava in quel negozio.
«Ci sto troppo stretto qui dentro» disse guardandosi allo specchio.
«Lo sai che non hai molta scelta, vero? Secondo me ti sta bene quello blu, dovresti prendere quello» disse Byakuya che, anche se non sembrava, era molto divertito. Renji si guardò allo specchio, sistemandosi le maniche.
«Se dovessi sposarmi io, non costringerei nessuno a vestirsi in questo modo. E io sono anche il testimone… per la seconda volta» aggiunse, senza pensare. Poi si morse la lingua, consapevole di aver parlato troppo. Certo, la prima volta era stato al matrimonio di Byakuya, tanti anni prima.
«S-scusa, non volevo.»
«Non preoccuparti, hai detto una cosa vera. Comunque ascolta me, è meglio se prendi quello blu.»
Arrivò poco dopo uno dei commessi del negozio per prendere le misure, mentre Renji arrossiva e sbuffava come un ragazzino.
«Byakuya, sicuro che mi stia bene?»
«Dammi un po’ di fiducia. E poi è solo per il matrimonio, potrai resistere per qualche ora» disse in un modo talmente serio da essere divertente.
«È il vostro matrimonio?» domandò il commesso, impegnato a prendere le misure. Il viso di Renji divenne dello stesso colore dei suoi capelli. Si vedeva così tanto che fossero una coppia? Byakuya rispose al posto suo.
«No, è il matrimonio dei nostri amici. Lui è solo un mio amico.»
Secondo Renji sarebbe stato più opportuno fermarsi alla prima frase. Soltanto un amico. Non capì perché gli stesse facendo così male, dopotutto lui per primo aveva proposto di non dire agli altri della propria relazione, ma era anche vero che Byakuya gli aveva detto di non preoccuparsi. Inoltre ora si sentiva un po’ sminuito. Era anche un amico, certo, ma non solo quello. Cercò di togliersi quell’espressione delusa dalla faccia, ma non fu molto bravo a riuscirci e se ne rimase silenzioso fino alla fine. Quando uscirono, Byakuya guardò l’orologio che aveva al polso.
«Ho ancora un po’ di tempo. Prendiamo qualcosa da bere?»
Renji fece spallucce.
«Sì, come vuoi» disse, più seccato di quanto avrebbe voluto. Byakuya sollevò le sopracciglia, confuso.
«D’accordo, credo»
Renji si sarebbe volentieri scolato dell’alcol, ma erano le tre del pomeriggio e non gli sembrava il caso, quindi optò per un analcolico che neanche toccò. Non poteva crederci, ma era davvero arrabbiato con Byakuya. E non gli capitava mai di arrabbiarsi con lui, era una sensazione strana e che non sapeva come gestire. Adesso era Byakuya che parlava, che si sforzava di essere loquace, forse perché aveva percepito quella tensione e stava evitando di incappare in un silenzio imbarazzante. Renji lo ascoltava distrattamente, guardando però da tutt’altra parte. Forse era immaturo comportarsi così, ma chi se ne importava? Era il suo stato d’animo.
«Renji?» chiamò Byakuya ad un certo punto, vedendo che non rispondeva. «Renji. Renji, stai facendo cadere tutto sul tavolo.»
La sua mano, che era stretta alla cannuccia, si fermò.
«Scusa.»
Byakuya lo guardò, uno sguardo profondo e da brividi.
«Che succede?»
«Niente.»
«D’accordo, se vuoi giocare al gioco del silenzio, allora ci gioco anche io» disse sfidandolo. Giusto. Renji a volte si dimenticava che nemmeno Byakuya era un santo, aveva quei lati del suo carattere un po’ affilati che Renji conosceva piuttosto bene.
«Oh» alzò gli occhi al cielo. «Che ti importa se non parlo o meno, tanto solo un amico.»
Ci avrebbe anche provato a parlare in modo civile, ma sapeva essere molto emotivo.
«Ah» disse Byakuya.
«Come sarebbe a dire ah? È tutto quello che sai dire? Mi sento svilito.»
«Non era mia intenzione» disse subito. Sembrava in imbarazzo, ma Renji non ci badò.
«Lo so, ma lo hai fatto. E lo so, io per primo ti ho detto che non ci sarebbero stati problemi se avessi voluto farmi passare per un amico e basta. Però non credo mi stia molto bene» lo guardò dritto negli occhi. «Allora avevo ragione. Ti vergogni. È perché sono un uomo?»
«Ma cosa dici? Ovvio che non è questo»
«E allora cosa? Non sei convinto? O forse non sono … abbastanza? È impossibile per me non fare certi pensieri. È ovvio che non sono all’altezza, temo che stando con me dovrai accontentarti.»
Renji sapeva che paragonarsi a Hisana non era né sensato né giusto. Ma alle volte era inevitabile pensare che quei due fossero nati per stare insieme e che con lui Byakuya si stesse accontentando.
«No, Renji. Non sei tu» Byakuya gli strinse il polso, anche se in genere si teneva lontano dal contatto fisico. «Sono io il problema. Non vorrei che tu ti accontentassi di una persona rotta. Perché non so nemmeno se potrò mai guarire.»
Renji lo ascoltò. Poi si scostò dal suo tocco, era bruciante. Da un lato avrebbe voluto stringerlo a sé, ma dall’altro era una situazione molto complicata.
«Sapevo a cosa andavo incontro stando con te, non mi aspettavo certo che fossimo una coppietta felice e contenta. Però piuttosto che svilirmi, non dire nulla, d’accordo?» domandò.
Byakuya annuì e smise di essere loquace. Quello era a conti fatti il loro primo litigio da coppia, ma avevano sperato entrambi che fosse per un motivo ben diverso e invece era andata così.
 
Toshiro Hitsugaya era ufficialmente diventato l’amante di una donna sposata. In passato molti dei suoi compagni di università scherzando gli avevano detto che avrebbe fatto quella fine, anche se nel loro immaginario finiva sempre con Rangiku.
Forse era innamorato. Anzi, lo era di sicuro, perché se fosse stato lucido e in sé non avrebbe mai fatto niente del genere. E invece ora eccolo lì, mentre si rivestiva dopo l’ennesimo pomeriggio di passione. Momo si pettinava i capelli davanti allo specchio, con una luce negli occhi che non aveva oramai da anni. Era cambiata, si sentiva bene, si sentiva innamorata e si sentiva più forte. Anche se stava sbagliando tutto. 
Toshiro però non voleva continuare così a lungo. A lui l’idea di fare l’amante non piaceva e poiché era sicuro che il matrimonio tra Momo e Aizen oramai non potesse più funzionare, voleva qualcosa di più.
«Momo, noi non andremo avanti così per sempre, vero?» chiese mentre si abbottonava la camicia. Lei si volse a guardarlo. Aveva ancora le labbra rosse dei suoi baci e dovette trattenersi per non prenderla di nuovo lì.
«No, di certo non possiamo continuare così. Sosuke non mi ama e d’altronde non credo di amarlo più nemmeno io. Da molto tempo oramai.  Però sono un po’ spaventata.» ammise. «Da lui, sì, ma anche da quale potrebbe essere la reazione di Hayato.»
«Tuo figlio è già infelice così, questa relazione fa male a tutti  e tre. E poi non devi dirgli che stai con me, non subito almeno. Penso mi odierebbe e basta» disse Toshiro, avvicinandosi a lei.
Momo si sistemò i capelli. Non riusciva ancora a credere che lei, la moglie devota e all’apparenza perfetta, avesse un amante. Ma Toshiro le piaceva davvero tanto,perché le aveva fatto riscoprire il lato bello della vita. E le aveva fatto capire cosa dovesse esserci realmente in una relazione.
«Lo so, hai ragione. Parlerò con Sosuke, ma temo la sua reazione. È molto orgoglioso, poco importa che mi ami o meno.»
Toshiro s’inginocchiò davanti a lei e le afferrò le mani. Cosa importava se aveva perso la ragione? L’amore sapeva essere straordinario, sapeva dare coraggio.
«Non preoccuparti, ci sono io. Se proverà a fari del male  o a dirti qualcosa di spiacevole, non ti resterà che farmelo sapere.»
Momo lo guardava. Non come facevano gli altri, che spesso e volentieri lo scambiavano per un ragazzino più giovane della sua età. Lo guardava come un uomo. Il giovane uomo di cui era innamorata. Forse avrebbe fatto scandalo, la moglie dell’avvocato Aizen con un’amante. Ma era disposta anche a questo.
Toshiro se ne andò prima che o Hayato o Aizen potessero tornare a casa. Non aveva però tenuto di conto (e non avrebbe avuto motivo) di incrociare Gin in portineria. Proprio quel maledetto doveva incontrare. Quando Gin lo vide lo osservò, sorpreso e divertito.
«Toshi, ma che ci fai tu qui?»
Merda, pensò. E ora che gli dico? Mi sembra troppo presto per dirgli di me e di Momo, senza contare che è il migliore amico di suo marito.
«Tu cosa fai qui?» disse serio, cercando di apparire tranquillo, ma dentro di sé era agitato.
«Stavo cercando Aizen a dire il vero, dovrei parlargli.»
«Aizen non c’è» affermò, stupidamente. E poi si morse la lingua. Se Gin avesse saputo, lo avrebbe detto a Rangiku e lì sì che sarebbe stata dura da spiegare. Non ebbe però bisogno di dire nulla, perché Gin aveva capito, aveva capito già da un po’. Perché Gin capiva sempre tutto, anche se molto spesso stava in silenzio.
«Non ti preoccupare, non lo dirò a nessuno» disse, serio, senza sarcasmo e senza fare battute. Toshiro cambiò espressione. Ora sì che Gin lo terrorizzava parecchio. Avrebbe dovuto dargli una spiegazione. E probabilmente avrebbe anche dovuto dirgli grazie.
 
Yami aveva messo a soqquadro mezza casa, alla ricerca del gatto perduto. O più probabilmente nascosto dentro qualche armadio.
«Hikaru, mi aiuti a cercare Kisuchi? Non lo trovo più, scappa sempre da me.»
«Allora tu non tirargli la coda e vedrai che non scappa. Va bene, ora ti aiuto» il fratello lasciò da parte i suoi fumetti per aiutarla. Intorno a loro regnava un po’ il caos, Kisuke era rientrato da poco e stava cercando di fare del suo meglio. Anche se era un po’ preoccupato per Yoruichi, era in ritardo.
«Papà, la mamma quando viene?» domandò Yami.
«Tornerà presto, non preoccuparti» la rassicurò Kisuke, che in realtà non lo sapeva. Le aveva lasciato diversi messaggi, anche in segreteria, ma sua moglie non rispondeva e questo lo metteva in agitazione. Di sicuro non era da Yoruichi scappare dai problemi in questo modo (o scappare da lui). Ma quando la vide tornare, un’ora più tardi, oramai alle nove passate, capì quanto effettivamente fosse stata in tensione.
L’abbracciò senza pensarci.
«Mi hai fatto preoccupare.»
Yoruichi era rigida nel suo abbraccio. Non se lo meritava, quell’affetto o quell’accoglienza. Non meritava proprio niente di tutto ciò e lei oramai stava cedendo.
«Kisuke…» gemette, con gli occhi lucidi. Lui le accarezzò una guancia.
«Che succede?»
Scosse la testa. Si sentiva in colpa. Ma perché non poteva essere normale?
«Dovresti lasciarmi» sussurrò. Che codarda, non aveva nemmeno il coraggio di farlo lei. Perché non lo voleva, ma con quale faccia tosta poteva ancora stare con lui?
«Non so perché dici questo, ma non ci penso proprio a farlo» disse, accarezzandole la testa.
Ti prego, smettila di essere così affettuoso con me. Così buono.
Lei strinse il suo petto e abbassò lo sguardo.
«Mi ha baciata» ammise. Kisuke metabolizzò piano la notizia, cambiando lentamente espressione. Non sapeva cosa provasse, sicuramente fastidio, un po’ di stupore. Un bacio poteva anche essere solo un bacio. O forse no.
«E a te è piaciuto» disse, non domandò. Lei annuì, avrebbe voluto non piangere e darsi un contegno come faceva sempre, ma non ci riuscì, non quella volta.
«Sì. Per questo ti dico di lasciarmi. Io non sono più. Insomma, mi vedi? Sono confusa, non riusciamo nemmeno più a toccarci, non meriti questo. E mio Dio, smettila di essere sempre così gentile, arrabbiati con me ogni tanto, rendimelo più facile!» aveva alzato la voce. Alle volte avrebbe tanto voluto davvero che Kisuke perdesse il controllo, ma non era nella sua natura. Anche quando era furioso rimaneva calmo.
«Yoruichi, io sono arrabbiato, ma non vedo a cosa servirebbe perdere la testa. Se la situazione è questa…»
«Tu non puoi accettare questo!» si portò una mano sul viso. Sapeva che i momenti di confusione in una coppia potevano capitare. Ma ora erano capitati proprio a lei. Non si erano accorti di Hikaru e Yami, quest’ultima con il gatto ritrovato tra le braccia, che li fissavano, preoccupati entrambi.
«Mamma e papà ora si lasceranno?» domandò Yami rivolta al fratello, ma la domanda arrivò ai diretti interessati. Kisuke sospirò, portando una mano tra i capelli di Yoruichi.
«No, che non si lasciano. Abbiamo solo delle discussioni, non dovete preoccuparvi per questo. Io non lascerò mai vostra madre, a meno che lei non mi ami più» parlò a loro, ma chiaramente si stava rivolgendo a lei. Yoruichi era stanca. Forse era vero che stava ingigantendo tutto, ma era spaventata, da ciò che sentiva e non sentiva. Lui aveva appena detto che non l’avrebbe mai lasciata a meno che lei non avesse smesso di amarlo? Ma come si poteva non amarlo?
Si asciugò le lacrime e si ricompose.
«Scusate. A volte anche io perdo la testa. Non vi preoccupate, okay? È solo un periodo un po’ stressante.»
I gemelli si guardarono, non molto convinti, ma decisero comunque di credere loro. Kisuke poi la guardò. Gentile, ma distante.
«Yoruichi, accetta questa cosa senza combatterla. E solo dopo potrò farlo anche io. Solo ti prego, davvero… non tradirmi. Se e quando non vorrai stare più con me, non ti resterà che dirlo.»
Yoruichi annuì. Non voleva tradirlo, anche se si era fatta baciare da un’altra. Ora capiva perché Kisuke le era sempre piaciuto tanto: perché lui accettava la vita così come veniva, anche quando sembrava impossibile.

Nota dell'autrice
Veramente, quanto mi sta facendo soffrire far soffrire Yoruichi e Kisuke? Che poi a me Soi Fon non sta nemmeno chissà quanto simpatica nell'anime, ma ammetto che la ship con Yoruichi mi piace. Quindi scrivere di questo triangolo è anche soddisfacente. Ho l'impressone che in questi capitoli siano tutti un po' sclerati, ma penso sia inevitabile considerando tutte le sofferenze che stanno passando. Ora anche Miyo si è arrabbiata, è stufa di essere trattata non come una bambina ma come una piccola adulta. Ho anche fatto litigare Renji e Byakuya, sono CRUDELE.
A presto :D
Nao
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 25
*** Capitolo venticinque ***


Capitolo venticinque
 
Tatsuki ci aveva rimuginato per giorni e giorni. Quando due sere prima era venuta da lui dicendogli: Uryu, ci ho pensato. Magari potremmo tenerlo. Io non me la sento di rinunciarci, sento che non è la cosa giusta. Ma prendo questa decisione consapevole che non sarà facile. Che avrò paura. E chiariamo subito un’altra cosa: non voglio che sia questo l’unico motivo per cui stiamo insieme. Non lo accetterei.
Tatsuki aveva detto questo mentre tremava e mentre lo guardava negli occhi. Era davvero decisa, ma non aveva abbandonato la paura che tutto potesse andare storto. Ishida non aveva detto una parola, l’aveva solo abbracciata senza fare promesse. Non voleva essere bravo a parole, ma con i fatti. Voleva che funzionasse e lo volevano entrambi.
Nemmeno due giorni dopo, Tatsuki stava arrivando al St. Luke, nel reparto di ginecologia per fare la sua prima ecografia. Unohana aveva dato subito la sua disponibilità e Ishida era talmente ansioso da far cadere tutto di mano. Era quindi costretto a sterilizzare gli strumenti più di una volta.
«Ishida, non era meglio se ti prendevi il giorno libero?» domandò Ichigo.
«No, perché il lavoro mi aiuta a distrarmi, più o meno. Mi raccomando, voi sapete questa cosa, ma non ditela troppo in giro. Mio figlio non sa ancora niente e nemmeno gli altri. Glielo diremo presto, però» spiegò, anche se non riusciva ancora a metabolizzare. Hanataro sembrava ancora più contento di lui.
«Non è una cosa commovente? Non sentite anche voi questo profumo di amore nell’aria?»
Ichigo in realtà sentiva tutt’altro, la sua negatività e quella di Kurotsuchi e Urahara, che non sembravano nemmeno più loro stessi, visto che uno era silenzioso e l’altro aveva perso il suo solito brio.
«Yamada, secondo me ci saresti stato bene in ginecologia» gli disse proprio Urahara, cercando di stemperare un po’ l’atmosfera, che avrebbe dovuto essere allegra. Il ragazzo arrossì, iniziando ad agitarsi. Il pensiero di prendersi cura delle donne nel loro intimo gli stava facendo uscire il fuoco dalle orecchie.
«I-io? Ma io…»
«Ah!» gridò Ishida, prendendo il cellulare in mano. «È Tatsuki! Vado, vado!»
Era agitato. Era una sua versione inedita, visto che a lavoro era sempre preciso e attento. Ad Hanataro venne da ridere.
«Povero Ishida, secondo me si metterà a piangere.»
«Pff, sempre meglio di quello che è successo a me. Quando ci hanno detto che avremmo avuto due gemelli, sono svenuto» ricordò Ichigo, con una certa malinconia. Urahara rise.
«Sul serio, Kurosaki? Io invece ero felice, anche se è svenuta Yoruichi» ricordò anche lui con la stessa malinconia.
«E lei, dottore?» domandò Hanataro e Kurotsuchi. «Come ha reagito?»
Ichigo si aspettava che gli dicesse non sono affari tuoi. Invece, Kurotsuchi lo guardò, ci pensò qualche istante e poi rispose.
«Non ho pianto, né sono svenuto. Ero troppo impegnato e metabolizzare che di lì a qualche mese ci sarebbe stata un’altra persona che io avevo contribuito a creare. Non potevo credere che fosse vero finché non l’ho vista. Anche se quando li vedi nell’ecografia tutto sembrano fuorché bambini, ma… Ai c’era.»
Urahara sorrise. Era molto sorpreso di sentirlo parlare così, quasi non ci credeva. Hanataro si commosse.
«È una cosa così carina. Non è giusto, adesso voglio un figlio anche io, ma non ho nemmeno una fidanzata!»
Ichigo rise. Kurotsuchi invece disse che aveva altro da fare, ma a Urahara non la dava a bere di certo. Nessuno dei due era più lo stesso e non era certo che ciò gli piacesse, ma del resto cosa poteva farci?
 
Tatsuki era altrettanto nervosa, sebbene Unohana fosse bravissima a rassicurare. L’aveva già seguita durante la sua prima gravidanza e le aveva detto di non preoccuparsi, che era normale sentirsi agitate anche se aveva già esperienza. Tatsuki era certa di voler tenere il bambino. Forse era una follia, ma oramai aveva deciso, consapevole che c’era il rischio che tra lei e Uryu non funzionasse comunque.
Ishida arrivò col fiato corto. Aveva corso, sebbene non ci fosse motivo.
«Dottor Ishida, respiri. È arrivato in tempo» gli disse Unohana, divertito.
«Io…sì, sto respirando!» ansimò. «Tatsuki, stai…bene…?»
Lei fece spallucce.
«Non sono io quella che ha bisogno di una bombola di ossigeno.»
«Non si preoccupi, i padri sono sempre i più nervosi, anche la prima volta è stato così, se non erro» Unohana prese del gel per ecografie, avvicinandosi a Tatsuki, che era già stesa. Ishida arrossì mentre si sistemava gli occhiali: non era certo colpa sua se tendeva ad essere emotivo su certe cose. Accanto a Tatsuki, attese. Fu lei a cercare la sua mano. Se durante la prima gravidanza aveva cercato di essere sempre forte, di non lasciarsi andare alle emozioni, ora aveva deciso di rilassarsi un po’ di più. Sussultò quando sentì il gel gelido sul proprio ventre. Ad una certa non capiva più se fosse lei a cercare conforto in lui o Uryu che lo cercava in lei, probabilmente entrambi. Di sicuro lui rischiava già uno svenimento. Unohana passò l’ecografo sul suo ventre, guardando lo schermo. 
«Sei alla dodicesima settimana, corretto?»
«Eh, già…» gemette Tatsuki. «Uryu, mi fai male.»
«S-scusami» disse lui, impaziente. «Come sta? L’ha trovato?»
Unohana stesse in silenzio per qualche istante e poi sorrise.
«Certo che sì, guardate pure con i vostri occhi.»
Tatsuki conosceva già quella sensazione. Quella in cui ci si rendeva conto che dentro di sé c’era un essere umano. Piccolo, che ancora poco somigliava ad un essere umano, però c’era. Fu colta da un brivido, un misto tra commozione e panico.
«Uryu, stai respirando?» domandò, senza staccare gli occhi dall’immagine nello schermo. Lui annuì e senza rendersene conto stava già lacrimando. Si asciugò gli occhi, senza molto successo.
«Oh, Uryu» sospirò Tatsuki. Certo che era tenero, però. Le era sempre piaciuto quel suo lato più emotivo che emergeva solo in determinate occasioni.
«Dottor Ishida, vuoi un fazzoletto?» chiese Unohana.
«No, no, sto bene. E il bambino sta bene? Nel senso… è tutto a posto, non ci sono complicazioni?» domandò. Era un genitore ed era un medico, aveva bisogno di sapere.
«Dall’ecografia sembrerebbe di sì, ma se volete possiamo fare un esame di screening per stare più tranquilli. Intanto… vi faccio sentire il battito.»
Tatsuki strinse più forte la mano di Uryu. Poi sentirono entrambi il battito del bambino e questa volta a Uryu non bastò certo asciugare le lacrime e far finta di niente.
«Scusate. Giuro che ora mi riprendo.»
Sua moglie sorrise e gli accarezzò i capelli.
«Va bene così. È un bel momento» sussurrò. Uryu le baciò il dorso della mano mentre pensava che sì, era un bel momento. Che loro erano qualcosa di così bello che non poteva finire, che tutto ciò stava accadendo per una ragione. Quella fu solo l’ennesima conferma di quanto lui amava lei. E di quanto lei amava lui. 
 
Nnoitra si mordeva le nocche. In passato aveva avuto l’abitudine di farlo tutte le volte che era nervoso e ora quell’abitudine era tornata. Trattenersi stava diventando impossibile. Tra le sedute con la dottoressa Ise, Naoko che gli suggeriva di lasciarsi andare e Neliel che era lì per lui, per dargli tutto il suo amore, stava crollando.
«Come vanno le cose con tua moglie?» domandò la dottoressa Ise. Lui la guardò smettendo di mordersi le nocche.
«Va bene. Peggio comunque non poteva andare. Sono io che sto male. E sì, prima che me lo chieda, è per quello che le ho raccontato la volta precedente.»
«Vuoi provare a parlarne? Non preoccuparti delle tue reazioni. Non fa niente se ti lasci andare.»
Nnoitra sorrise, di quei sorrisi amari, di chi oramai era arrivato al limite.
«Parli come mia figlia, anche lei mi ha detto una cosa del genere. Sei proprio sicura di voler sapere perché sto così? Potresti avere paura.»
«Correrò il rischio. Ti ascolto.» disse Nanao Ise, professionale. Nnoitra sospirò. Non ne parlava da anni e temeva più la propria reazione che il rivivere quei momenti di inferno.
S’indicò l’occhio bendato.
«Qui sotto c’è il monito che mi ricorda sempre cosa sono stato e cosa sarò sempre: feccia. Ero giovane, avevo appena finito la scuola e, cazzo, a quell’età ti senti invincibile. A me e a Grimmjow è sempre piaciuto metterci nei guai, cercare lo scontro, le risse. Eravamo dei piccoli, stupidi delinquenti ed eravamo in quattro. Io, lui, Tesla e Ulquiorra. Anche se Ulquiorra ne stava fuori, più che altro. Io e Tesla eravamo cresciuti insieme» mentre lo diceva gli mancò per un attimo il respiro. «E sempre Tesla mi aveva detto di non andare in giro armato, perché poteva essere pericoloso. Sta zitto, gli dicevo. Cosa vuoi che succeda? E lui che faceva? Stava in silenzio, anche se disapprovava. E poi è successo» strinse un pugno. Ora stava guardando un punto indefinito. Stava guardando al suo passato, come se gli scorresse davanti come un film. «Io e Grimmjow avevamo bevuto un po’ troppo. E c’è stata una rissa subito dopo. Cazzo, quanto ero stupido. Tesla me lo aveva detto di evitare, quella sera. Come se sapesse che sarebbe accaduto qualcosa di brutto. E forse io avrei dovuto essere ucciso. Non ero l’unico armato, lo sai? Ma non capisco perché hanno colpito lui, anziché me. Io ho perso un occhio, ma il mio migliore amico ha perso la vita. A quei bastardi ho tagliato la faccia. Grimmjow mi ha detto in seguito che sembravo impazzito. Ma non ho ucciso nessuno. Avrei voluto, avrei dovuto. Questo comunque non avrebbe cancellato le mie colpe. Perché alla fine… è come se lo avessi ucciso io.»
 
«Cazzo, cazzo… Grimmjow, chiama qualcuno, chiama aiuto.»
L’odore di sangue era nauseante. Il sangue era appiccicoso sulle sue dita e non sapeva più se quello che aveva addosso fosse il suo o quello di Tesla.
Grimmjow era immobile. Vedeva Nnoitra, l’occhio sinistro completamente andato. Vedeva Tesla, una ferita all’addome profonda. Lo vedeva tossire sangue.
«Ma non possiamo… se ci trovano così.»
«Non me ne importa, chiama qualcuno! Tesla, resisti, okay? Non hai il permesso di morire!»
Lo disse mentre tremava. Mentre si sentiva sempre più un bambino e sempre meno un adulto. Tesla boccheggiò, provò a parlare.
«Zitto, cazzo. Sta zitto, stupido. Non parlare, starai bene. Ti ho vendicato, okay? Ho ricambiato quello che ti hanno fatto.»
Tesla provò a respirare. Anche se i suoi respiri somigliavano più a dei rantoli.
Gli sorrise, toccandogli la mano.
«Nnoitra…n-non preoccuparti» gemette. Nnoitra non capì cosa di cosa non dovesse preoccuparsi. Sarebbe andata bene, lo avrebbero guarito.
«Tesla…» sussurrò all’improvviso. Lo vide chiudere gli occhi. C’era troppo sangue.
«Tesla» lo chiamò di nuovo, sentendo che il respiro gli mancava. «Svegliati. Diamine, razza di idiota… non può finire così!»
Perdonami, è colpa mia. Se fossi stato migliore non sarebbe finita così.
Ti ho ucciso.
 
Nnoitra si ricordò perché evitava sempre di pensarci. Perché era doloroso. Perché ora aveva le guance bagnate di lacrime. Quando se ne accorse se ne asciugò una con le dita, ma senza successo. Non c’era pietà negli occhi di Nanao Ise, ma c’era comprensione.
«Grazie per avermelo raccontato. Lo so che stai facendo un grande sforzo. Capisco che ti sente in colpa, ma…»
«Certo che mi sento in colpa!» disse lui, ora arrabbiato. «La colpa è mia. Se io fossi stato migliore, una persona migliore, questo non sarebbe successo. Ero e sarò sempre una persona cattiva. È per questo che temo che Neliel un giorno possa accorgersene. Per questo che temo chi è migliore di me. Patetico, vero? Guardami, io sono spezzato ce l’ho scritto in faccia. Le persone non cambiano! Se io fossi stato…»
S’interruppe. Aveva troppi rimpianti e oramai non poteva farci niente. Il passato era oramai sfuggito alle sue dita.
«Nnoitra» Ise lo chiamò per nome. «Hai fatto degli errori, ma ti rendi conto che nella maniera più assoluta non sei stato tu ad ucciderlo, vero? Non avevi il controllo. Devi imparare ad accettare che non in tutto possiamo avere il controllo. Ma una cosa puoi provare a farla: perdonarti per gli errori che hai fatto e per quelli che farai, sei un essere umano. E perché se Neliel è con te, se tua figlia ti vuole bene, se hai degli amici, è evidente che non sei così cattivo come pensi.»
A Nnoitra uscì un singhiozzo. Ora che era tutto uscito fuori, temeva di non essere più in grado di riprendersi. La complessità del suo animo gli faceva schifo. Le sue insicurezze, i suoi traumi, tutto.
Nnoitra, non preoccuparti.
 
 
«Non mi piacciono i broccoli, sono brutti.»
Anche Rin a volte faceva i capricci. Se non ci fosse stata Rangiku ad essere un po’ più severa, Gin gliele avrebbe date tutte vinte. Con le bacchette prese la verdura incriminata e l’avvicinò alla bocca di Rin, la quale scosse la testa.
«I bambini per crescere hanno bisogno di mangiare le verdure. È per questo che Toshiro è cresciuto poco, perché non mangiava le sue verdure da piccolo.»
«Ehi, chi ti ha dato certe confidenze?» borbottò lui, mentre giocava con il cibo che aveva nel piatto. Gin sorrise, ma non disse niente. Era stato di parola e non aveva detto niente a Rangiku. Toshiro non avrebbe mai immaginato che si sarebbero ritrovati a condividere un segreto, ma quello che si chiedeva era: avrebbe mantenuto il segreto anche con Aizen? Sperava di sì, altrimenti sarebbe successo un guaio. Rangiku aveva fatto caso a come sia suo marito che il suo amico più caro fossero silenziosi. Ed erano strani, sembrava che stessero nascondendo qualcosa.
«Umh, sentite voi due» disse dopo essere riuscita nel suo intento di far mangiare i broccoli a Rin. «Per caso mi nascondete qualcosa? Chiariamo, se andate d’accordo sono contenta, lo sono un po’ meno se mi nascondete qualcosa.»
Accidenti, pensò Toshiro. Ma come aveva fatto a capirlo? Non sarebbe stato capace di mentirle guardandola negli occhi, ma per fortuna non dovette neanche provarci. Gin parlò al posto suo.
«Figurati, mia cara. Non ti nascondiamo niente.»
Maledetto. Quando Rangiku lo avrebbe scoperto, si sarebbe arrabbiata. Che gli piacesse o meno, ora era in debito con lui. E poi continuò a parlare.
«Però c’è una cosa che devo dire. A Rin.»
Nel sentirsi chiamare, la bambina alzò lo sguardo.
«Sì?»
«Non è giusto che io decida del tuo futuro, vero?» domandò. Sia Toshiro che Rangiku si fecero attenti. Allora finalmente lo aveva capito. Rin mosse le gambe sotto il tavolo.
«Beh. Io sono ancora piccola. E ci sono tante persone che vorrei sposare. Quindi preferirei decidere io» disse candidamente. La risposta aveva fatto ridere Gin. I bambini erano puri. Ragionavano in modo molto più semplice.
«Hai ragione, principessa. Però voglio che tu sappia una cosa: tutto quello che io ho sempre fatto o detto, l’ho fatta e l’ho detta perché per te voglio il meglio.»
Rangiku si commosse E Toshiro capì che, per quanto ambiguo o strano Gin potesse sembrare, alla fine era una brava persona. Lui oramai non si sentiva più in diritto di giudicare nessuno. Rin annuì e poi sorrise.
«Oh, ma papà, io ho il meglio. Ho te, la mamma. Ho Toshi, e adesso… adesso ho anche una migliore amica, Miyo. Certo, mi piace avere tante belle cose, tanti bei giocattoli. Ma preferisco voi e i miei amici. Se non ci siete voi, poi diventa tutto brutto e vuoto.»
Rangiku si asciugò una lacrima. Sentir parlare Rin così, le faceva capire che lei e Gin avevano fatto un buon lavoro. E questo lo pensò anche Toshiro.
«Hai ragione» disse Gin. «Noi adulti avremmo tanto da imparare da voi bambini. Adesso, potete scusarmi un attimo? Devo vedere Aizen. Poi torno e giuro che facciamo tutto quello che volete.»
Rangiku pensò subito che Gin volesse vedere Sosuke per comunicargli la sua decisione. Toshiro invece fu colto dal panico che stesse andando lì a dirgli ehi, sai, hai presente il ragazzino che vive con noi? È l’amante di tua moglie.
Ma no, dopotutto non era capace di questo. O almeno lo sperò.
 
Gin forse poteva apparire strano ultimamente. Ma nemmeno Aizen era quello di sempre. Era molto assente e sembrava essere di fretta, questo era uno dei motivi per cui si vedevano così poco, tranne che e a lavoro. Si erano visti vicino ad un hotel su richiesta di Aizen e quando Gin era arrivato, aveva notato i suoi tentativi di nascondere una strana impazienza.
«Aizen» lo chiamò, arrivando davanti l’hotel e guardandosi intorno. «Però, che posticino. Che c’è, la tua amante ti aspetta lì?»
Aizen lo guardò con una serietà un po’ strana. Subito dopo sorrise.
«Su, Gin. Ho un po’ fretta, cosa dovevi dirmi di tanto importante?»
«Ah? Ah, sì. Ascolta, si tratta di ciò che avevamo concordato. Mi riferisco al matrimonio tra Hayato e Rin. Io credo che non sia una buona idea. Sono solo bambini, dovranno amare chi vogliono. Se dovessero finire insieme, sarebbe giusto che ci finissero perché lo vogliono loro. No?»
Gin invece faceva tutto quello che diceva Aizen e capitava raramente che gli desse contro. Ecco perché non sapeva cosa aspettarsi. Ma poiché Sosuke aveva altro per la testa, si limitò ad un’alzata di spalle.
«Sì, forse hai ragione tu. Meglio non pressarli, se una cosa deve nascerà, nascerà da sola. C’è altro?»
Gin era sorpreso e anche un po’ confuso. Adesso ne era certo, Sosuke nascondeva qualcosa.
«Aizen» lo chiamò. Chissà se sospettava che sua moglie avesse un altro? Lui era il suo capo, ma Toshiro faceva parte della sua famiglia, quasi fosse un fratello.
«Sì?»
Gin scosse la testa.
«Oh, nulla. Grazie per la comprensione.»
E poi ebbe il sospetto che probabilmente anche Aizen doveva avere un amante. Ah, i matrimoni. Talvolta sapevano essere solo apparenza.
 
Ichigo era sempre più stanco. Forse era la stanchezza mentale a influire anche su quella fisica. Di certo la situazione con Rukia non era delle migliori. E come se non bastasse, Yuzu e Isshin giocavano al gioco del silenzio con lui.
«Si può sapere perché non mi parlate?» domandò. Si era appena alzato, dopo aver recuperato un po’ di sonno.  Yuzu si tolse il grembiule e Isshin borbottò qualcosa.
«Oh, e dai! Smettetela di farmi sentire un estraneo in casa mia!» borbottò battendo la mano sul tavolo. Yuzu lo guardò, severa.
«Non ti preoccupare, riservo lo stesso trattamento anche a Karin. La devi smettere di fare lo stupido. Tu e Rukia ora chiarite e basta.»
«Lei con me non vuole parlare, è arrabbiata. Peggiorerei le cose.»
A quel punto Isshin si alzò, sembrava stranamente imponente. E afferrò suo figlio per un braccio.
«Non mi sono mai immischiato nel tuo matrimonio e non intendo farlo adesso. Però forse ti serve comunque una spinta.»
Terrorizzato, Ichigo guardò sia suo padre che sua sorella.
«… Che volete farmi?»
 
Lo stress di Rukia non era da meno. Aveva tanto da studiare e, come se non bastasse, iniziava ad avere il timore di non essere in grado. Aveva sentito dire che era normale, ma man mano che andava avanti continuava ad essere terrorizzata e ad avere dubbi: e se avesse commesso un errore? E se davvero fosse stata fuori tempo? E se non fosse riuscita a raggiungere i suoi obiettivi. No, doveva riuscirci, lo doveva a sé stessa. Ma mentre se ne stava china sui libri, non riusciva a capire una parola. Probabilmente a causa del caos che veniva dalla cucina. Rukia si voltò e vide poco dopo la porta aprirsi: Isshin aveva calciato dentro Ichigo.
«MA CHE CAZZO FAI, DANNATO VECCHIO? TI UCCIDO!»
«A mali estremi, estremi rimedi, figlio caro. Fate la pace e vi farò uscire» disse richiudendo la porta.
«Ehi-asp…! No, non ci credo, mi ha chiuso dentro!» disse, voltandosi poi verso sua moglie, che lo guardava con aria sconvolta.
«Ichigo…?»
«Lascia stare, mio padre pensa che dovremmo parlare.»
Rukia sospirò, richiudendo il libro.
«In realtà adesso sto affrontando un brutto momento» ammise, provata. Ichigo si avvicinò.
«Che c’è che non va?»
Oramai non le domandava nemmeno più nulla. Questo non era giusto. Rukia sospirò.
«Niente, è che è più impegnativo di quanto pensassi. Non che pensavo fosse facile, però… sono insicura. E se alla fine fallisco? Mi sembrano tutti più bravi di me e non mi piace.»
Ichigo poteva capirla bene. Anche se era abbastanza sicuro di sé, ricordava i primi tempi del tirocinio in ospedale, sembrava che non ne facesse mai una giusta. Ma Rukia era ben più in gamba di lui, poteva riuscire in tutto.
«E chi se ne frega?» domandò, forse un po’ brusco. «Non guardare gli altri, guarda dritto davanti a te. Questa è… è la tua strada e hai tutte le carte in regola per riuscirci.»
Ed era sincero. Rukia arrossì, distogliendo lo sguardo.
«Oh, ma a te converrebbe che io mollassi tutto.»
«Chi se ne frega di quello che converrebbe a me? E poi, non mi converrebbe come tu dici, io voglio che ti realizzi. Che poi io faccia schifo a dimostrarlo è un altro discorso. Sono un cretino, lo so. Scusa se ho perso la testa» disse poggiandole una mano sulla testa. Rukia sentì il suo calore e si rasserenò appena.
«Ichi, io ho bisogno di te in questo percorso. A volte mi piace trovare il sostegno nelle persone che amo. In te, soprattutto.»
Ora era stato Ichigo ad arrossire. Si sentiva veramente stupido. Abbracciò Rukia, baciandole la testa.
«Mi prenderò una camomilla extra per i miei nervi e il mio stress. Il resto è più importante» sussurrò. E Rukia sorrise. Piccola piccola, stretta nel suo abbraccio, come una bambina.
 
Ad essere rimasto fuori era il cellulare di Ichigo. Nel sentirlo vibrare, Masato si alzò. Vide che era il dottor Ishida e non fece in tempo a rispondere. Senza volerlo, si mise nella situazione di sapere ciò che il suo migliore amico bramava di sapere a sua volta.
Un messaggio.
Ma perché non rispondi mai? Vabbé, comunque io e Tatsuki stiamo cercando di capire come dire a Yuichi che siamo tornati insieme e che avremo un altro figlio. Mi sembra un bel carico per un bambino. Tu non pensi?
Quasi non gli cadde il telefono di mano. Era vero. Era un bel carico per un bambino. Era un bel carico per lui, che aveva fatto una promessa a Yuchi.
 
Se a Ichigo le cose andavano male, per sua sorella Karin non era di certo da meno. Anche Yasutora si era chiuso nel suo mutismo, lui non litigava mai. Anche quando discuteva lo faceva con calma, anche adesso che avrebbe avuto motivo di arrabbiarsi. Karin osservava Kohei con fare pensieroso. Suo figlio aveva messo in una fila ordinata le carote e stava ora decidendo da che ordine iniziare a mangiare.
«Uno… due… mamma, mi fissi.»
«No, non ti fisso.»
«E invece sì, mi rendi nervoso. Ho chiesto anche a papà, ma lui non mi dice la verità. Voi litigate per colpa mia.»
Kohei era sveglio. Troppo sveglio. Così tanto che Karin spesso non sapeva come rispondere.
«Non è così.»
«Non. Mi. Mentire» disse osservando il suo piatto. «Lo sai… lo sai cosa? Ti preoccupi troppo. Io sto bene. Vero, a volte qualcuno mi tratta male, però sto bene. Ho degli amici, soprattutto Kaien e Masato. E c’è Naoko. Lei non è spaventosa come le altre bambine, né mi dà fastidio. Voglio regalarle una piuma» poi scosse la testa. «Però, se non la smettete di litigare io vado da zio Ichigo. Anche se pure lui e la zia Rukia litigano.»
Karin aveva le lacrime agli occhi. Perché lei che era un’adulta certe cose non riusciva a capirlo? E perché invece suo figlio – che lei aveva sempre ritenuto ingiustamente debole – capiva tutto alla perfezione?
«No, dai, non piangere ora. Quando mi viene da piangere o sono nervoso, mi ripeto in mente tutte le razze di aquile esistenti. Funziona. Davvero. Non sono sicuro che il cibo di colore arancione mi piaccia.»
Karin fece una cosa che non faceva spesso. Lo abbracciò senza chiedere né aspettare che fosse lui a venire da lei. Kohei non si mosse. Rimase immobile.
«Kohei, tu sei un dono. E sei forte. Sono io a non esserlo abbastanza, sono io che ho paura di tutti.»
Il ragazzino sospirò e goffamente tentò di ricambiare l’abbraccio.
«Ma no. Tu sei forte. Ma non devi essere sempre triste, seria e preoccupata. Ora ridiamo, vero?»
Da qualche parte dentro di lei, esisteva ancora quella ragazzina felice, spensierata, allegra e che amava inseguire un pallone. Annuì, sorridendo.
«Ora ridiamo. Promesso.»
Chad li vide così abbracciati e rimase qualche attimo fermo, senza sapere bene che fare.
«Tutto bene?» domandò cauto.
«Bene, bene. Tutto bene. Ora però ridiamo» disse, mentre Karin lo lasciava finalmente libero.
«Ridiamo…?» chiese guardando sua moglie. Karin annuì, con gli occhi arrossati.
«C’è qualcosa di importante che noi due dobbiamo recuperare.»
 
«Mamma, ma perché papà ancora non torna?»
Naoko aveva tutte le mani impiastricciate di tempere e colori, aveva finito con lo sporcare perfino il tavolo. Neliel non ci aveva fatto caso, troppo occupata a non lasciarsi prendere dal panico. Nnoitra non rispondeva alle sue chiamate, conosceva la sua tendenza a isolarsi quando qualcosa lo turbava. Ma che avesse almeno la decenza di non farla preoccupare. Così alla fine aveva chiamato i rinforzi: Grimmjow e Ulquiorra. Aveva pregato loro di contattarlo. E magari anche di trovarlo. Alle volte gli amici sapevano essere la cura migliore e non si era sbagliata.
Grimmjow aveva subito preso la situazione in mano e alla terza chiamata, Nnoitra gli aveva finalmente risposto.
«E finalmente! Si può sapere dove ti nascondi, brutto cretino? Ti piace proprio fare preoccupare le persone.»
«Non credo che questo sia l’approccio giusto» suggerì Ulquiorra. Sentirono Nnoitra sospirare.
«Non sono morto e non sto tentando il suicidio. Avete presente il nostro ex liceo? Sto lì.»
A giudicare dal suo tono e da ciò che aveva detto, poteva esserci solo un motivo. Grimmjow e Ulquiorra si fecero un cenno a vicenda.
Anche se era sera e faceva freddo, Nnoitra era sceso dall’auto, aveva preferito sedersi su quei gradini che un tempo aveva calpestato. Quando lui, Ulquiorra, Grimmjow e Tesla erano ancora piccoli.
Non conteneva le lacrime. E allo stesso tempo stava in silenzio.
Esseri umani alle volte faceva schifo.
I suoi due migliori amici non ci impiegarono molto ad arrivare. Ulquiorra e Grimmjow sapevano che non era necessario né giusto parlare. Quindi, quando arrivarono, si sedettero accanto a lui – uno a destra e uno a sinistra – e senza chiedergli il permesso afferrarono le sue mani, stringendole. In un altro momento, Nnoitra avrebbe detto loro di non fare i sentimentali. Ma adesso era quello di cui aveva bisogno. Li strinse e abbassò lo sguardo, scoprendosi sollevato. Scoprendo che faceva un po’ meno freddo. Rimasero in silenzio tutti e tre, senza nemmeno guardarsi.
Essere umani alle volte era necessario.

Nota dell'autrice
In questo capitolo c'è uno dei miei pezzi preferiti, ovvero tutto quello dedicato a Nnoitra, in particolare la parte finale. Tutta la sua umanità e il suo dolore sono usciti e alla fine non ha bisogno di grandi parole, ma del sostegno silenzioso dei suoi amici. Per il resto, direi che sta andando tutto abbastanza bene, tra Ishida e Tatsuki, tra Ichigo e Rukia, Karin e suo figlio... cosa farà Masato adesso che è venuto a conoscenza di un certo segreto? Rimanete sintonizzati su questi canali, a presto!!!

Nao
 

Ritorna all'indice


Capitolo 26
*** Capitolo ventisei ***


Capitolo ventisei
 
Masato non era mai stato bravo a dire le bugie. Soprattutto, non se doveva dirle a Yuichi. Se ne stava pensieroso con i gomiti poggiati sul banco, mentre dietro di lui, Yami faceva un sacco di moine ad Ai, che era finalmente tornata a scuola. 
«Oh, Ai! Finalmente sei tornata, mi sei mancata troppo!» Yami la stava abbracciando e Ai stava arrossendo. 
«Anche tu mu sei mancata. Mi siete mancati tutti» disse guardando Hikaru. Quest'ultimo non vedeva l'ora che fosse pomeriggio per andare a casa di Ai, per passare un po' di tempo con lei. A causa di una lezione di danza Yami non sarebbe venuta, questo voleva dire che sarebbero stati soli. Beh, più o meno, c'era il dottor Kurotsuchi a tenerli d'occhio e questo lo terrorizzava abbastanza, ma andava bene così. Kaien, che aveva più o meno capito cosa fosse successo ad Ai, batté la mano sul banco. 
«Io giuro, se qualcuno toccherà ancora le mie amiche… gli darò un pugno. Io sarò un uomo che protegge tutte le donne!» 
Nel sentirlo parlare in questo modo, Kiyoko era arrossita. Kaien era forte ed era sempre più sicura che da grande lo avrebbe sposato. 
«Proteggi anche me?» domandò battendo le ciglia. Lui gonfiò le guance, in imbarazzo. 
«Beh. Sì. Anche tu sei una ragazza!» 
Masato, che in genere si accorgeva di tutto, non si accorse di come Kiyoko guardava Kaien. Che poi era lo stesso modo in cui lo guardava Yuichi. 
Yuichi che gli si era avvicinato, osservandolo. 
«Amh… Stai bene, Masato? Sei troppo silenzioso. Non parli nemmeno con me.»
Non lo guardò negli occhi. Si sentiva in colpa, aveva promesso che lo avrebbe aiutato a scoprire se i suoi genitori fossero tornati insieme, ma adesso perché gli era così difficile dirlo? 
«Ecco…  ti devo dire una cosa, ma non so come dirtela.»
Yuichi sgranò gli occhi e lo afferrò per le spalle. 
«Hai scoperto qualcosa!» 
Non era una domanda. Aveva capito. Masato arrossì. Non aveva alcuna speranza di nasconderglielo. 
«Va bene, Yuichi. Io adesso te lo dico perché ti voglio bene. Però se te lo dico mi devi dare un bacio.»
Le guance pallide di Yuichi divennero rosse di imbarazzo. 
«Dobbiamo… darci un bacio?» 
«È… come si dice? Ah sì, un compromesso. Però se non vuoi, non fa niente.»
Stava provando ad imitare Kaien, ad essere coraggioso come lui. Ma essere coraggiosi era difficile. Yuichi respirò profondamente. 
«Va bene. Avanti dai, dimmelo.»
Non appena Yuichi gli ebbe detto di sì, però, Masato si sentì improvvisamente più coraggioso. 
«Per sbaglio ho letto un messaggio che tuo papà ha mandato al mio e… è vero, loro stanno insieme» e avranno un altro figlio. Ma non era sicuro che questo dovesse dirlo. Gli occhi di Yuichi divennero enormi dietro i vetri degli occhiali. 
«Ma davvero? Lo sapevoooo! Perché non me l'hanno detto? È una cosa bella!» 
Masato non lo sapeva. A dire il vero, l'unica cosa che ora gli interessava era baciarlo. 
«Non lo so, però…allora, dove ci baciamo? Non possiamo farlo in classe davanti a tutti.»
«Ah, giusto. Beh. Ci chiudiamo in un’aula vuota e lo facciamo. Però cominci tu, io mi vergogno» disse giocherellando con i propri occhiali. Masato annuì. 
E con il pensiero di quel bacio in mente, non riuscì a seguire nemmeno una lezione. Sapeva che i baci erano cose da grandi. Ma lui era grande. Ed era molto nervoso. Durante l'intervallo, Kaien e il resto dei suoi amici andarono in cortile per godere del sole. Lui e Yuichi no. Loro andarono nell'aula di disegno, dove c'erano tempere, colori, un segno rosso sul muro che aveva lasciato Naoko. E si guardavano. 
La prima volta era stato molto più facile. Forse perché era stato un gioco. 
«Dai, Masato. Spicciati» gli mise fretta Yuichi. 
«Uffa, un attimo» disse avvicinandosi. «E stai fermo.»
Yuichi aggrottò la fronte è, nonostante la timidezza e tutto, decise di fare il primo passo e stampargli un bacio dritto sulle labbra. Masato rimase così, immobile e con le labbra protese. Era stato bello. 
«Fatto» disse Yuichi. «Però non ho capito se adesso siamo fidanzati, ci siamo già baciati due volte.»
«Emh, non lo so. Forse sì. Però non lo diciamo a nessuno, è un segreto. Come per Kaien e Kiyoko. Lo so che sono fidanzati anche loro, anche se non lo dicono.»
Yuchi sorrise. 
«Okay! Oggi sono molto felice. Andiamo a mangiare? Voglio un panino con i fagioli rossi.» 
 
Orihime era indaffaratissima in quei giorni. Tra il lavoro, la famiglia e il suo nuovo obiettivo, oramai non aveva più tempo per pensare e di questo ne era molto contenta. Sembrava tornata un po’ l’Orihime di sempre, allegra e affettuosa, ma in un certo modo sembrava anche più matura. Come se da ragazza si fosse trasformata in donna in maniera definitiva.
«Sei sicuro che Nnoitra stia bene?» domandò Orihime, mentre teneva gli occhi incollati ad alcuni documenti e allo stesso tempo controllava qualcosa sul suo portatile. Prendere in affido un bambino era molto più difficile di quello che aveva creduto, per non parlare poi delle mille mila telefonate e incontri con gli assistenti sociali.
«Bene mi sembra un po’ troppo» disse Ulquiorra bevendo il suo tè. «Sospettavo che non l’avesse mai superato. Nnoitra… non ne parla quasi mai, di quei tempi. Mi sento anche in colpa. Anche se non prendevo parte alle loro scorribande, avrei potuto fare qualcosa per impedirlo.»
Orihime sollevò lo sguardo verso suo marito.
«Eravate dei ragazzini, non avresti potuto fare niente comunque. Nnoitra e Grimmjow sono fortunati ad avere un amico come te. Sei come un angelo custode.»
Ulquiorra arrossì, sempre con quel suo cipiglio serio. Ad un angelo non ci somigliava affatto, ma avrebbe accettato comunque quel paragone.
Orihime si stiracchiò.
«Sai, penso che dovremmo dire a Kiyoko che c’è la possibilità che arrivi qualcuno di nuovo in questa famiglia.»
«Va bene, ti copro le spalle.»
«Ulquiorra.»
«… Era solo una battuta, credo» disse, cercando di fare un po’ di spirito, ma non era mai stato molto bravo in questo.
Kiyoko aveva tappezzato la parete della sua camera di fotografie da lei scattate. Orihime aveva cercato di spiegarle che forse sarebbe stato meglio sviluppare solo le fotografie più belle, ma Ulquiorra le aveva detto lasciale fare quello che vuole.
Oh, gli artisti. Chi li comprendeva era bravo.
In piedi sul proprio materasso, Kiyoko aveva appena attaccato una fotografia scattata il giorno prima ad un gatto nero che prendeva il sole in giardino. Le piaceva particolarmente.
«Mia piccola fotografa» disse Orihime entrando. «Hai un momento?»
«Solo uno» disse lei scendendo dal letto con un salto. «Devo scattare altre fotografie adesso che la luce sta cambiando.»
Ulquiorra si guardò intorno, provando un moto d’orgoglio. Era così felice che Kiyoko avesse l’indole da artista, ma considerando la sua sensibilità, non si aspettava niente di meno.
«Faremo in fretta, c’è una cosa di cui dovremmo parlarti.»
Kiyoko, che aveva preso la sua macchina fotografica, la riposò immediatamente, facendosi seria. Ulquiorra e Orihime si guardarono, quasi stessero decidendo silenziosamente chi dovesse parlare per primo. E per prima parlò Orihime.
«D’accordo. Sai che ci sono tanti bambini che non hanno una casa o una famiglia? O che ce ne sono altri che hanno una famiglia, ma che per qualche motivo non possono stare con loro?»
Kiyoko sgranò gli occhi, preoccupata.
«Sì, lo so. Ma noi possiamo continuare a stare insieme, giusto?»
«Kiyoko, non preoccuparti, starai qui fino ai tuoi trent’anni» disse Ulquiorra con un tono talmente serio che fece ridere Orihime. Forse trent’anni erano un po’ troppi, ma preferiva fare finta che Kiyoko non sarebbe mai cresciuta. «Quello che volevamo dirti è che vorremmo accogliere in casa nostra un bambino che ne ha bisogno. Tu cosa pensi?»
Kiyoko prese molto sul serio quella domanda e assunse un’espressione pensierosa per alcuni minuti interminabili. Se suo padre le aveva detto che non doveva preoccuparsi, perché l’amavano, perché nessuno l’avrebbe sostituita, poteva crederci. Certo, da un lato non amava ancora l’idea di condividere tutta la sua vita con una persona che non conosceva. Che avrebbe dovuto imparare a conoscere. E d’altronde non trovava giusto che ci fossero bambini infelici, tutti meritavano una famiglia affettuosa e bella come la sua.
«Mmh. Penso che si può fare. Però ci sono delle regole. Intanto, io non voglio condividere la mia stanza con nessuno. Seconda cosa, voglio che sia una bambina e che sia piccola, ma non troppo perché i neonati sono troppo carini. Diciamo più piccola di me» guardò Ulquiorra. «E questa regola è per te: se mi accorgo che mi adori anche solo un pochino meno… io me ne vado e scappo con Kaien, ecco.»
Aveva colpito nel vivo con quell’affermazione. Ulquiorra chiuse gli occhi.
«Questo è un ricatto bello e buono, ma tanto non c’è pericolo che io possa adorarti meno.»
Kiyoko si rilassò, più tranquilla.
«Allora va bene. Allora me lo promettete?»
Kiyoko era stata così dolce e spontanea in ciò che aveva detto che Orihime l’aveva abbracciata. Certo, avrebbe in seguito dovuto dirle che non potevano scegliere il sesso o l’età del bambino, ma aveva l’impressione che sua figlia avrebbe accettato di buon cuore tutto. Kiyoko era brava e buona. Magari un po’ era anche merito loro.
 
 
Sosuke guardò Shinji con la coda dell’occhio. Lo vedeva nervoso, non riusciva a stare fermo, sembrava star soffrendo nello stare seduto. E poi pensava, pensava tropo.
«Shinji, non fare così. Vedrai che a Miyo passerà, lei ti adora.»
«Già, ma è da qualche giorno che a malapena mi rivolge la parola. E poi ha detto una cosa giusta. Io e Hiyori non andiamo d’accordo, ma non dovremmo farglielo pesare in questo modo. Merda!» disse dandosi un colpetto in testa. «Ho sbagliato tutto.»
Forse non era stato un genitore così irreprensibile come aveva creduto.
«Non hai sbagliato. E poi con me perdi di sicuro. Almeno tua figlia non ha paura di te. È che io ho sempre creduto che la disciplina fosse importante.»
Shinji fece una smorfia.
«Ah-ah. Sì, ma i bambini hanno anche bisogno di amore incondizionato e di sentirselo dire, ogni tanto. Piuttosto, sei proprio certo di volermi portare a casa tua? A me l’hotel piaceva, anche se faceva troppo Pretty Woman. E non fare battute su questo» chiarì. Aizen sorrise, accostando l’auto.
«Non preoccuparti, Momo non c’è. Sarà occupata.»
Shinji chiuse gli occhi. Almeno quelle ore in cui si trovava con Sosuke, non pensava a niente. Più o meno.
 
Momo era occupata. Occupata con Toshiro.
Con cui aveva riscoperto la passione. E l’amore. Quando era con lui non era più la moglie perfetta, la madre perfetta. Era Momo Hinamori e basta. E Toshiro, oh quanto era diventato stupido. L’amore forse ti rendeva davvero folle. O forse erano i suoi baci infuocati a renderlo folle.
«Momo…» ansimò, mentre le scompigliava i capelli e poi scendeva a baciarle il collo.
Momo sapeva di star sbagliando ed essere egoista. Che si sarebbe bruciata col fuoco. Si diceva che sarebbe stata pronta.
«Toshiro… non vuoi almeno raggiungere il letto?» ansimò. Il vestito le stava già fin troppo stretto. Lui scosse la testa e la baciò ancora, ancora, infilando una mano sotto la sua gonna. Anche lui si era detto che sarebbe stato pronto. O almeno così pensava.
Le luci si accesero. Accadde tutto troppo velocemente. Shinji si portò una mano sul viso e allo stesso tempo desiderò scomparire. Toshiro si era staccato dalle labbra di Momo, ma non si era allontanato abbastanza. Il colorito di Momo passò dal rosso al bianco in un attimo. E Sosuke Aizen invece non aveva avuto alcuna reazione. Li guardava, senza battere ciglio.
«Sosuke…» sussurrò sua moglie.
Non era proprio così che si era figurata il tutto. Per niente, anzi. Aizen sorrise e guardò Toshiro, il quale stava cercando di ricomporsi.
«Allora avevo ragione. È con lui che mi tradisci, eh? Momo, non sapevo amassi i ragazzini. O forse avevi solo voglia di un toy-boy.»
Momo ansimava, in panico. Toshiro la guardò, doveva dire qualcosa.
«Ascolta… è colpa mia, sono io che l’ho sedotta.»
«Cosa? No, non è vero!» disse subito Momo. Toshiro le lanciò un’occhiataccia. Si sarebbe preso lui tutta la colpa se fosse stato necessario.
«Non raccontarmi storie, ragazzino. Mia moglie ha pensato bene di andare a cercare attenzioni da un altro. Dovevo immaginarmelo.»
Momo sentì la rabbia montarle dentro. Lei non era andata a cercare le attenzioni in un altro uomo. Si era innamorata, che era diverso.
«Questo non è vero! Io non sono come te!» gridò. «Lo so bene che hai anche tu un’ amante, quindi non prendiamoci in giro.»
A Shinji venne la nausea. Nessuno badava a lui, nessuno sospettava di lui. Ma la cosa lo riguardava eccome.
«Sosuke» gemette, stringendo il suo braccio.
«Solo un secondo, Shinji. Sto solo cercando di comprendere perché mia moglie sia stata così sciocca, dal momento che aveva tutto.»
«Lei non aveva niente, bastardo» sibilò Toshiro. Dubitava che Aizen lo avrebbe picchiato, era di sé stesso a non essere sicuro. Anche se avrebbe perso sicuro.
Shinji non ce la fece più.
«Basta! Zitti un attimo. Sosuke, tua moglie ha ragione: non prendiamoci in giro.»
Lui assottigliò lo sguardo.
«Che cosa vuoi…?»
Guardò Momo. La guardò negli occhi.
«Mi dispiace… è vero, Sosuke ha un amante e quell’amante… sono io» disse ad alta voce. Era la prima volta che trovava il coraggio di dirlo. Toshiro sgranò gli occhi, fissandolo. Lui era l’amante? Non sapeva se fosse più turbato dal fatto che fosse un uomo o dal fatto che fosse Shinji, appunto. Totalmente opposto a quel bastardo. Aizen sospirò e Momo sgranò gli occhi. Aveva sempre creduto che suo marito la tradisse con una donna molto diversa da lei. Beh, di sicuro lui era diversa da lei.
«Tu…» mormorò, avvicinandosi a Shinji e schiaffeggiandolo. «Sei sempre stato tu! Sin dal principio!»
Shinji sibilò, toccandosi una guancia. Era stanco di prenderle, ma stavolta credeva di esserselo meritato. Toshiro lo guardò.
«Shinji, ma…»
«Mi dispiace, Toshiro. Non sei l’unico che si è innamorato.»
Shinji innamorato di Aizen era assurdo anche solo da pensare. Momo invece pensava a quanto l’odiasse in quel momento e basta. Anche se non era nella posizione per poterlo odiare. 
«Sapevi che era sposato e sei andato con lui comunque. È per questo che sono stata infelice così a lungo?» 
Probabilmente lo avrebbe colpito di nuovo, ma Sosuke glielo impedì. Strinse Shinji a sé, così forte da fargli male. 
«Ora non facciamo scenate. Non mi pare che io abbia alzata un dito sul tuo amante, Momo. Quindi non toccare Shinji e… davvero. La nostra storia non la conosci.»
Shinji bruciava. E non era per lo schiaffo, ma per la vergogna. Per il dolore che si erano causati. 
Tsk, non ho bisogno che tu mi protegga, avrebbe voluto dirgli. 
O forse un po' ne aveva bisogno. 
«D'accordo. Shinji e… Toshiro. È meglio se andate, credo che io e mia moglie dovremmo parlare in privato.»
Toshiro avrebbe evitato di lasciare Momo da sola con lui, ma quando lei lanciò uno sguardo, come a dirgli stai tranquillo, non poté opporsi. E Shinji, invece, non vedeva l'ora di scappare.
Quando rimasero soli, Momo cercò di non crollare sulle sue stesse gambe. Cercava di controllare il battito del suo cuore, di respirare, di non pensare che si era arrivati alla temuta resa dei conti. Ed era così confusa da quella piega inaspettata. Come se niente fosse, Aizen si accese una sigaretta.
«E così mi tradisci con il ragazzino, eh? Bene, vedo che vi siete divertiti alle mie spalle.»
Momo lo aveva sempre temuto. Anche adesso lo temeva, era in soggezione. Ma se era arrivata fino a quel punto, non poteva permettersi di comportarsi da codarda adesso.
«E tu allora? Non sapevo nemmeno ti piacessero gli uomini. Da quanto… da quanto esattamente questa cosa va avanti?» ogni parola pronunciata le costava uno sforzo enorme. Aizen inspirò il fumo della sigaretta.
«Il mio orientamento sessuale non è importante, adesso. Comunque, se ci tieni a saperlo, è iniziata sette anni fa. Siamo andati avanti per un po’, ma poi Shinji ha deciso di chiudere per ovvi motivi. Sono io che l’ho cercato, un po’ di tempo fa.»
Quindi, pensò Momo, mentre io me ne stavo a casa con nostro figlio a comportarmi da moglie fedele e accondiscendente, tu avevi un amante?
E dunque da quanto tempo non la amava più? Se mai ci fosse stata una volta in cui l’aveva amata.
«Tu… sei innamorato di lui?» domandò, tremando appena. Aizen guardò da tutt’altra parte. Non era tipo da dichiarare il proprio amore ai quattro venti. E infatti non lo fece, lo disse talmente piano che per poco Momo non lo udì.
«Non riesco a immaginare una vita in cui lui non c’è. Shinji è totalmente diverso da me. È un pazzo, parla sempre troppo, è indolente e svogliato. E tutto questo lo amo, sì.»
Parole così dolci un tempo le aveva riservate anche a lei.
«E allora perché non mi hai lasciato?» domandò, ma poi sorrise amaramente. «Che domanda sciocca. Chiaro, per questo lederebbe alla tua reputazione. Un divorzio è già pesante, ma pensa cosa succederebbe se si sapesse che mi hai lasciato per un uomo. È sempre così, pensi a te stesso. E un po’ in effetti mi dispiace per Shinji.»
Ed era sincera. Sapeva fin troppo bene cosa volesse dire amare Sosuke.
«E perché parliamo solo di me? Hai un amante anche tu, direi che non sei nella posizione di giudicarmi. Oh, Momo» le sorrise, in un modo che lei detestò. «Sei innamorata come una ragazzina. Forse la mia reputazione sarebbe intaccata, ma anche la tua.»
Momo strinse i pugni. Gli avrebbe lanciato qualcosa, ma non lo avrebbe fatto.
«Non me importa, io non sono te! Ora va’ via. È colpa tua se Hayato è sempre stato infelice. Hai cercato di plasmarlo a tua immagine e somiglianza, ma non ci sei riuscito. Dovrai avere il coraggio di guardarlo negli occhi e dirgli che tra noi è finita. E dopodiché non ti ci farò più avvicinare.»
Sul viso di Aizen calò un’ombra.
«Non osare.»
«Non fingere che t’importi. Tu hai sempre pensato solo a te stesso» disse, ferita. Non voleva più vederlo e non gli avrebbe lasciato Hayato neanche morta. Ma Aizen dalla sua aveva le giuste conoscenze e la capacità di vincere sempre.
«D’accordo, mio cara. Convinciti pure in questo modo. Sarà una liberazione, immagino. Il nostro matrimonio, dopotutto, è finito da ben prima di oggi.»
Momo si sfilò la fede. In genere la toglieva sempre durante i suoi momenti di intimità con Toshiro, ma adesso l’aveva sfilata per non indossarla più. E inoltre si sentiva irriconoscibile.
«Su questo siamo d’accordo.»
 
Anche se Shinji era nervoso e con il morale a terra, non aveva fumato nemmeno una sigaretta, aveva promesso a Miyo di evitare. Era un disastro, era sfuggito tutto al suo controllo, ma perché si era illuso che le cose potessero andare bene? Cosa sarebbe successo adesso? Si era vergognato così tanto, ma oramai era inutile piangersi addosso. Era stato lui a volerlo, ad accettare di essere l’amante di un uomo sposato. Nella sua vita di casini ne aveva combinati tanti, raramente avevano portato a qualcosa di buono. Miyo rientrava in quell’eccezione.
Miyo aveva appena finito di studiare e capì subito che qualcosa non andava. E poiché alla fine il gioco del silenzio non piaceva nemmeno a lei, gli si avvicinò.
«Stai bene?»
«Ah? Sì, sto bene» provò a mentire. Almeno per una volta voleva evitare di coinvolgerla nei suoi problemi, ma Miyo era troppo sveglia per non capire. Gli si sedette accanto e l’abbracciò.
Shnji sospirò.
«Non sei più arrabbiata con me?»
«Sì, un po’. Ma ti voglio bene comunque. Ti dico quello che tu dici a me ogni volta che sono triste: tutto si può aggiustare. Anche tu, tu sei forte!»
Shinji la strinse a sé, baciandole la testa.
«Cosa ho fatto io di bene per meritare te?»
«Tante belle cose, penso! E poi io non faccio niente di eccezionale, noi siamo una squadra.»
Certi bambini erano sorprendenti, lei più di tutti. Poco importava che lui fosse di parte: Miyo era la parte migliore di sé. E sì, probabilmente anche di Hiyori, sarebbe stato sciocco prendersi tutto il merito.
«Lo so, lo siamo» le disse. Avrebbe voluto dirgli una di quelle classiche frasi figlia mia, non innamorarti mai, perché l’amore fa star male, ma sapeva che sarebbe stato inutile. L’amore accadeva. Era accaduto a lui. E sempre a lui toccava venirne a capo. Era un momento difficile, ma reso un po’ più dolce dal sostegno disinteressato di quella bambina.
 
Passare il tempo insieme era bello. Ai si trovava bene con Hikaru e Hikaru si trovava bene con lei. Erano… com’è che si diceva? Animi affini forse, o una cosa del genere.
«Ai, tu ti senti mai invisibile?» domandò Hikaru mentre strappava dei fili d’erba. Ai guardò verso il cielo. Sapeva benissimo cosa volesse dire sentirsi invisibili.
«A volte. E tu invece?»
«A volte» rispose subito lui, come se non avesse atteso altro che quel momento. «È che io non mi faccio notare spesso. Quello lo fa Yami, lei ha un carattere diverso e si mette sempre nei guai. Io sono più tranquillo e le attenzioni su di me ci sono soprattutto quanto sto male. Non mi piace.»
Anche se Ai era figlia unica, capiva che forse Hikaru era un po’ geloso della sorella. Tra fratelli, succedeva spesso che due fossero completamente diversi gli uni dagli altri. Come Masato e Kaien. E come Hikaru e Yami, appunto.
«Però per me non sei invisibile» sussurrò mentre arrossiva. «Sei il mio migliore amico, il mio preferito.»
Nascose il viso nelle ginocchia. Voleva bene a tutti i suoi amici, ma Hikaru era un po’ più speciale.
«Nemmeno tu sei invisibile. E anche tu sei la mia persona preferita» ammise. Anche se non tutto andava bene, anche se i suoi genitori erano strani ultimamente (e più volte la paura che potessero lasciarsi lo aveva sfiorato), con Ai era tutto un po’ meno spaventoso.
Hikaru tossì. Aveva come la sensazione che qualcosa gli fosse entrato in gola. E tossì ancora e rantolò.
Ai sollevò lo sguardo e subito dopo si immobilizzò. Hikaru stava ansimando. Sembrava non riuscire a respirare bene. Giusto, lui soffriva d’asma, forse era proprio quello, un attacco d’asma.
«H-Hikaru... Vuoi che ti prenda l'inalatore? Ce l'hai, vero?»
Lui scosse la tasta, sgranando gli occhi con preoccupazione. Aveva un attacco d'asma e non aveva con sé l'inalatore. Come aveva potuto dimenticarlo? Eppure se lo portava sempre dietro. Ai fu colta dal panico. Geniale e intelligente per quanto potesse essere, era solo una bambina, impotente e spaventata dinnanzi il suo amico che non respirava. Si alzò subito.
«Aspetta, Hikaru. Vado a chiamare aiuto!» gridò, correndo dentro casa.
Aveva paura e le veniva da piangere, ma avrebbe pianto dopo. Ora soveva sbrigarsi. Sua madre non c'era. Sarebbe stata adatta, lei era un'infermiera. Ma anche suo padre avrebbe saputo come aiutarla. Quindi si precipitò dentro casa, gridando come una forsennata.
«Papà! Dove sei? Aiutami, ti prego!»
Mayuri, da che era seduto nel suo studio, si alzò di scattò e uscì, trovando Ai che gridava e si agitava in un modo che terrorizzò perfino lui.
«Ai?»
«Hikaru ha un attacco d'asma e non ha l'inalatore! Aiutami!» gridò di nuovo, nel panico. La bambina era scossa dai tremiti, dal terrore più nero.
Accidenti. Doveva accadere una cosa del genere proprio adesso?
Ma lui era un dottore, non si tirava mai indietro se qualcuno aveva bisogno di aiuto.
 
Mayuri raggiunse Hikaru che se ne stava riverso sull'erba e lo tirò su, mentre Ai gli girava attorno tutta preoccupata.
«Che devo fare? Chiamo un’ambulanza?»
«No, Ai. Non fare niente, cerca solo di stare tranquilla un attimo» disse professionale, senza la minima traccia di panico nella voce. Aiutò Hikaru a mettersi seduto. Lui non era abituato ad avere a che fare con i bambini, non in quel modo almeno. In genere erano Kurosaki e Ishida che si occupavano della parte della rassicurazione. Ma Hikaru aveva bisogno anche di questo. Che fosse capace o meno, ora doveva farlo, non c’era scelta.
«Ragazzino. Hikaru. Va tutto bene. Guardami, okay? Ti puoi fidare. Stai respirando troppo velocemente» poggiò le mani sulle sue guance, guardandolo negli occhi. Ai era bloccata, sia per la paura che per la sorpresa. Non aveva mai, mai visto suo padre così, di solito era molto distaccato, come se mettesse un muro tra lui e gli altri, anche tra lui e i pazienti.
«Respira e ispira. Lentamente. Lo so che ti è già capitato. Puoi farcela con le tue sole forze» gli disse. Urahara non faceva altro che parlare dei suoi figli, sempre, e gli aveva raccontato anche dell’asma di Hikaru. Almeno non tutti i mali venivano per nuocere, ogni tanto.
Hikaru decide di fidarsi. Provò a respirare, più piano, ora che si sentiva più al sicuro.
Provò ad aprire la bocca per dire qualcosa.
«Non parlare, pensa solo a respirare. Andrà tutto bene» e più Mayuri parlava e più si sorprendeva di sé stesso. Hikaru era solo un bambino. Spaventato, inerme e in quel momento fragile e si stava affidando a lui. Ai non osava muoversi, stringeva i pugni fissandoli. Vedeva Hikaru che man mano si rilassava e sorprendentemente iniziava a respirare in maniera più lenta e profonda, anche senza il suo inalatore. Poi, quando qualche minuto dopo l’attacco d’asma fu passato, si lasciò andare tra le sue braccia e Mayuri lo strinse.
E riprese a respirare anche Ai.
«Sta bene?» domandò subito.
«Ha ripreso a respirare. Meglio se lo portiamo dalla sua famiglia» le disse, prendendo in braccio Hikaru.
Aveva detto riportiamo. Quindi era compresa anche lei. Ai annuì e mentre lo seguiva le sue guance si bagnarono di lacrime. 
 
Nota dell'autrice
Io l'avevo detto che non risparmio nemmeno i bambini. Povero Hikaru, per fortuna aveva Mayuri che l'ha aiutato e che quando vuole sa essere rassicurante, che si stia avvicinando il momento del suo passo evolutivo più importante? Ah, sì, i grandi tradimenti vengono allo scoperto e il mio Shinji le prende sempre (MI DISPIACE SHINJI). E adesso? E Yuichi che è venuto a sapere da Masato dei suoi genitori che sono tornati insieme? Che succederà? Il prossimo capitolo, per quanto mi riguarda, è particolarmente emozionale, quindi alla prossima :*
Nao
 

Ritorna all'indice


Capitolo 27
*** Capitolo ventisette ***


Capitolo ventisette
 
 
Quando Yoruichi aveva ricevuto quella telefonata, era scappata letteralmente da lavoro. Anche se Hikaru era fuori pericolo e si trovava con suo padre e altri medici altamente specializzati, lei era pur sempre una madre preoccupata, una madre che si sentiva in colpa sebbene non avesse controllo su quella situazione.  Arrivò al St. Luke con i capelli in disordine e il fiato corto. Incrociò subito lo sguardo con Nemu, la quale sorrise per rassicurarla.
«Yoruichi. Va tutto bene, Hikaru sta bene.»
Il ragazzino se ne stava seduto su una barella, adesso respirava a pieni polmoni, anche se era ancora un po’ scosso.
«Hikaru, vuoi un lecca-lecca?» gli domandò Ichigo, che con i bambini era piuttosto bravo.
«Glieli prendo io!» borbottò Ishida, che non voleva essere da meno. Hanataro invece era tutto preso da Ai, quella bambina deliziosa di cui l’infermiera Kurostuchi le aveva tanto parlato. Si era chinato per poterla guardare negli occhi.
«Ti senti bene ora? Deve essere stato spaventoso.»
«Un pochino, ho perfino pianto!» rispose la bambina, che aveva già preso in simpatia quel giovane chirurgo. «Però adesso sto bene. Ho cercato di essere coraggiosa. Ci sono riuscita almeno un po’?»
Hanataro sorrise, accarezzandole i capelli.
«Sei stata bravissima. Somigli tanto a tuo papà, lo sai. Anche se lui mi fa un po’ paura.»
Ai arrossì. E sorrise.
Yoruichi arrivò in quel momento, quasi travolgendoli e abbracciando Hikaru.
«Tesoro mio, stai bene?» domandò baciandogli la testa.
«Umh… mamma, sto bene, non ti preoccupare» ansimò il bambino, ricambiando l’abbraccio. Yoruichi lo guardò, esaminò il suo viso con attenzione, come se dovesse trovarci qualcosa. Sentì poi la mano di Kisuke sulla sua schiena.
«Sta tranquilla, Yoruichi. Un brutto attacco d’asma, ma il peggio è passato.»
«Sì, capisco. Grazie per essere intervenuto subito.»
Kisuke sollevò le sopracciglia e poi sorrise.
«Dovresti ringraziare il dottor Kurotsuchi, è stato lui a prendere in mano la situazione. Ha calmato Hikaru e poi l’ha portato qui.»
Hikaru annuì.
«Mi ha aiutato davvero tanto.»
Yoruichi guardò suo marito e suo figlio, sorpresa. E poi guardò Nemu. Quest’ultima e Mayuri non si erano ancora rivolti la parola, anche perché lui sembrava scomparso chissà dove.
«Lo ringrazierei, ma non so dov’è» ammise Yoruichi. Kisuke le disse di non preoccuparsi, che lo avrebbe cercato lui. Nemu, facendo attenzione a non farsi vedere, lo seguì.
Mayuri si era in effetti allontanato un attimo, nervoso per com’era avrebbe appestato l’atmosfera. E non capiva perché fosse nervoso: il ragazzino stava bene, tutto era andato bene. Eppure era inquieto. Nervoso. Un po’ come una bomba pronta ad esplodere. Kisuke lo trovò, mentre armeggiava distrattamente con alcune cartelle cliniche.
«Amh… Kurotsuchi» si annunciò. «Io… grazie per esserti preso cura di mio figlio.»
«Non ringraziarmi, ho fatto il mio dovere» fu la sua ovvia risposta. E poi aggiunse. «Tu hai aiutato mia figlia. Ora siamo pari, no?»
«Sì… immagino di sì…» disse e poi lo guardò. Sapeva che tra lui e Nemu le cose andavano male ultimamente. Aveva evitato di parlarne, tutti avevano evitato, ma adesso gli sembrava proprio che Mayuri avesse bisogno di parlare.
«Ascolta… pensavo… so che stai passando un periodo difficile.»
Mayuri assottigliò lo sguardo.
«Non guardarmi in questo modo, Urarahara. L'ultima cosa che voglio è la tua pietà. Mi guardate tutti come se fossi un cane bastonato. Io non intendo crollare, perché se crollo non so cosa può succedere.»
Kisuke annuì. Esattamente come pensava.
«E non vuoi scoprirlo perché hai paura.»
«Non ho paura, io non...»
Urahara gli fu vicino in un secondo. Adesso era arrivato il momento di essere un po’ rudi, che gli piacesse o meno. Lo guardava dritto negli occhi, in un modo che a Mayuri non piaceva, sembrava volesse guardargli dentro.
«Mi hai stancato. Davvero non ti sopporto più.»
Mayuri sgranò gli occhi, sconvolto. Come osava rivolgersi a lui in quel modo tanto confidenziale?
«Chi ti ha chiesto niente, eh?» domandò e poi sentì un nodo alla gola. Kisuke prese il suo viso tra le mani, probabilmente sarebbe stato ammazzato in seguito per questo, ma non gli importava.
«Mayuri, smettila di dominarti. Respira e lasciati andare e dì tutto quello che ti passa per la testa, perché non può fare più male di così.»
Lo odiò. Lo odiò così tanto, eppure non riuscì a reagire come avrebbe voluto.  Si scostò dalla sua presa.
«Voi che dica tutto ciò che mi passa per la testa? E va bene, ti accontento. Mia moglie mi odia, mia figlia mi odia, e hanno ragione perché mi sono fatto odiare. Io non so amare in maniera normale, è evidente, è come se avessi un maledetto blocco che mi impedisce di muovermi. Lo sai che cosa ho pensato quando, anni fa, Nemu mi disse che avremmo avuto una femmina? Ne ero contento, mi piaceva l’idea di avere una figlia, e pensavo che sarebbe stata come me. Ma sai cosa?
Sono felice che non sia come me! Dicono che Ai mi somiglia, è una bugia. Lei è molto meglio di me! E poi!» sentiva di aver perso il controllo, quasi non riusciva a respirare. Si sentiva un pazzo. «Anche se non c'ero, non posso togliermi dalla testa l'immagine di un tizio che tocca mia figlia e se solo penso a quello che poteva succedere... Gli spaccherei la faccia, cazzo! E non sono stato nemmeno capace di abbracciare lei. Di metterla al sicuro. Lo capisci che non ho più
diritto su niente, vero? Non dopo averla messa in pericolo in questo modo.»
Kisuke cercò di essere cauto e di usare le parole in modo corretto.
«Ma perché tutte queste cose non le hai mai dette?»
«Perché, razza di cretino, se non te ne sei accorto, io non sono capace di esprimere
quello che sento. Ho trattato male mia figlia solo perché sono... Sono terrorizzato,
ti va bene? Anche se sono contento che non mi somigli, è così diversa da me che
io non ho mai saputo come prenderla, mai. Non ci so fare con le persone
sensibili, con gli animi come il suo.  E più cresceva e più me ne rendevo
conto e più ne ero terrorizzato. E ho più paura adesso, che lei è così fragile.
E sono diventato così anche con Nemu, che è l'unica che tanti anni fa ha saputo
vedere quel poco di buono che c'è in me!» non se n'era reso conto, ma aveva gli
occhi lucidi. «Come vedi ci sono tante cose in cui ho fallito nella mia vita, non sono perfetto e non sono invincibile come faccio credere. E ora sei felice? Volevate tanto vedere la mia parte più umana? Bene, questo sono io. E io non riesco a sopportarmi, perché… perché vorrei fare la cosa giusta e invece mi perdo. Mi detesto, nemmeno io mi tollero più!»
Kisuke non disse niente. Aveva sospettato che in Mayuri ci fosse qualcosa di più di quanto sembrasse, ma non immaginava tanto. Non sapeva quali potessero essere le parole giuste da dire. Ma ci provò comunque.
«Io però non ti detesto. E nemmeno gli altri.»
Mayuri assunse un'espressione sorpresa. Urahara non lo guardava con pietà né
superiorità. Semplicemente lo capiva.
Nemu aveva ascoltato la conversazione da dietro la porta con il batticuore e un’espressione incredula. Oh, se solo lui certe cose gliele avesse detto certe cose prima, quante sofferenze si sarebbero risparmiati tutti e due. Capì che c’era un lato di suo marito che conosceva poco e ora tutto le era un po’ più chiaro. A quel punto decise di farsi avanti e Mayuri cercò inutilmente di ricomporsi. Bene, accadeva tutto come sempre al
momento opportuno.
«Scusate, io… non vi volevo interrompere» disse un po’ timida. Kisuke si sistemò il camice. Aveva fatto il suo lavoro, adesso toccava a loro, ed era sicuro che sarebbe andata bene.
«Figurati. Io adesso torno da mio figlio, voi… beh, vado» si sistemò il camice un’altra volta e lanciò uno sguardo a Nemu che lo guardò come a volergli dire grazie. Non avrebbe mai e poi immaginato che suo marito nascondesse tanto, non lo aveva mai visto in quello stato. Mayuri sbuffò.
«Cosa hai sentito?»
Nemu fece spallucce.
«Sinceramente… tutto. Scusa, non volevo origliare. Ma se non lo avessi fatto, non avrei capito quello che senti.»
«Ti prego. Non infierire, è già abbastanza dura così.»
 Non riusciva nemmeno a guardarla negli occhi. Ora si sentiva svuotato, avere a che fare con i sentimenti era stancante. Nemu si avvicinò, si sentiva come se le sue difese fossero crollate. Erano crollate le difese di entrambi e ora si poteva solo respirare. Non ne poteva più di tutta quella rabbia.
«Volevo dirti che non è colpa tua quello che è successo ad Ai» mormorò. Le veniva da piangere e questa volta non si sarebbe più trattenuta. E questo rendeva tutto più difficile, Mayuri guardò da un’altra parte.
«Invece sì.»
Lei lo baciò. In un luogo pubblico o davanti agli altri, non si lasciavano mai andare così, ma anche se ci fosse stato qualcuno a guardarli, non importava. Nemu rimase incollata alle sue labbra e lui la strinse a sé. Da quant’è che non lo faceva più oramai? Lei lo amava ancora e lui d’altronde non aveva nemmeno mai smesso. Si sentirono entrambi sollevati, come se fino a quel momento avessero trattenuto il fiato e fossero tornati a respirare. Nemu si staccò e gli sfiorò una guancia umida.
«Io… questo tuo lato umano mi piace. È stato tutto così difficile, io ho sofferto e anche Ai. Però… adesso vorrei provare a rifare tutto, un passo alla volta. Se tu sei disposto a collaborare, ovviamente.» gli sussurrò mentre lo guardava finalmente negli occhi. Mayuri non sapeva da dove avrebbe dovuto cominciare, con Nemu e con Ai. Aveva sbagliato, aveva fatto un vero e proprio casino, era stato un maledettissimo idiota. In quel momento però sapeva di sentirsi solo sollevato. Annuì e poi disse, così dal nulla:
«…Ti amo» le disse e quasi incespicò nelle sue stesse parole, che erano state appena un sussurro. Come un ragazzino idiota. Nemu sgranò gli occhi e poi scoppiò a piangere e lo abbracciò. Finalmente un po’ di luce. Finalmente potevano risalire.
Mayuri aveva sempre odiato i piagnistei. Ma oramai che importanza aveva? Avere lei lì, stretta a sé, era ciò di cui aveva bisogno in quel momento.
 
Per Uryu e Tatsuki era arrivata la resa dei conti: dare due notizie bomba a loro figlio. Sicuramente Yuichi sarebbe stato contento del loro ritorno insieme come coppia, forse sarebbe stato contento anche all’idea di diventare un fratello maggiore. Ma, nonostante ciò, erano terrorizzati sia lui che Tatsuki. Non ebbero bisogno di prendere il discorso: Yuichi – che sapeva già grazie a Masato – si presentò a loro tutto serio, un po’ teso. Era il momento di affrontarli.
«Mamma e papà, dobbiamo parlare» disse sedendosi sul pavimento, a braccia conserte. Tatsuki guardò subito Uryu: possibile che in qualche modo loro figlio avesse saputo?
«Che coincidenza, pure noi dobbiamo parlarti» disse lei infatti.
«Allora credo che dobbiamo parlare della stessa cosa» Yuichi li indicò con un dito. «Io lo so che voi due siete tornati insieme.»
Colpiti e affondati. Forse non c’era da sorprendersi che Yuichi avesse capito, che le cose fossero cambiate era abbastanza evidente. Ishida tossì.
«È… è vero, Yuichi. Io e tua madre siamo tornati insieme. Prima che ti arrabbi, sappi però che c’è un motivo se non te lo abbiamo detto subito. Noi volevamo esserne certi, la situazione era già difficile e non volevamo farti male ancora» ammise.
«E infatti stavamo pensando ad un modo per dirtelo» continuò Tatsuki. Era difficile spiegare a suo figlio che l’amore era strano, ti portava a prendere decisioni, poi a cambiarle, poi ad avere paura. Yuichi assunse un’espressione concentrata.
«Sono un pochino infastidito perché non me lo avete detto subito, dovevate dirmelo perché io sono troppo contento! L’ho voluto tanto e finalmente è successo.»
Lo disse in un modo talmente spontaneo e innocente che Tatsuki si commosse. Oh, stupidi ormoni, non riusciva a sopportarlo. Uryu sorrise, sollevato.
«In realtà c’è un’altra cosa che è successa e nemmeno questa era prevista» disse guardando sua moglie.
«Aspetto un bambino» disse lei. E quando pronunciò quelle parole, sembrò ancora più vero. Perché era vero.
Yuichi corrugò la fronte, dapprima. Poi i suoi occhi si spalancarono. Dopodiché arrossì, le sue labbra tremarono e iniziò a piangere.
«A-accidenti!» esclamò Uryu portandosi una mano sulla testa. «No, non piangere. È una cosa bella, perché sei triste?»
«Ma io non piango perché sono triste!» piagnucolò il bambino con gli occhiali tutti bagnati. «Piango perché un fratello o una sorella era proprio quello che volevo!»
Tatsuki non resse più. Abbracciò suo figlio e lo abbracciò anche Uryu, erano entrambi commossi dai sentimenti semplici di Yuichi. Furono grati entrambi per quella seconda possibilità che stavano provando a darsi.
 
Neliel si rendeva conto che Nnoitra non era più lo stesso. Suo marito non era nemmeno nervoso o di cattivo umore, era semplicemente assente. Da quando era tornato quella sera assieme a Grimmjow e Ulquiorra, sembrava sempre un po’ per i fatti propri, addirittura triste. Anche Naoko aveva percepito questo cambiamento, per questo cercava di influenzarlo con la sua naturale allegria, anche se non ci riusciva molto. Il fatto era che dopo aver esternato tutto quello che sentiva e provava, Nnoitra si sentiva troppo esposto. Pensava, era tornato tutto a fluire, il dolore, il rimpianto e la sofferenza. E Neliel voleva solo cercare di capire, anche se questo significava insistere.
«Nnoitra, ti prego. Lo so che è egoista da parte mia chiederti questo, ma ti prego. Parlami, perché vederti così è terribile.»
Naoko stava giocando con Aries in giardino, quindi erano soli per il momento. Nnoitra si sarebbe volentieri sotterrato sotto il tavolo, ma sapeva che da Nel non si sfuggiva di certo. Accartocciò un pezzo di carta su cui stava cercando di disegnare una bozza, gettandola via.
«Te ne ho accennato l’altra volta» le disse, un po’ burbero, ma in realtà più triste. Neliel si ricordò subito.
«È per Tesla. È strano, erano anni che non ne riparlavi.»
«Già, a quanto pare tutte le mie insicurezze derivano da lì. Mi sento in colpa perché non ho potuto evitarlo. Perché se fossi stato una persona migliore, lui sarebbe ancora vivo. Perché io sono… io sono…» stava cercando di trattenere il tremitio delle sue mani senza troppo successo. Non riuscire più a controllarsi faceva veramente schifo, lo faceva sentire fragile, che era la cosa che più odiava al mondo. Neliel poggiò una mano sul suo polso. Non disse niente, lo guardò e basta.
«… Io sono orribile. E sono terrorizzato all’idea che tu questo possa capirlo prima o poi, non appena conoscerai qualcuno migliore di me. E si dà il caso che sono tutti migliori di me. Io non ti merito, questo l’ho sempre saputo.»
Neliel lo ascoltò senza dire una parola. Sentirlo parlare in questo modo era doloroso. Certo, forse Nnoitra aveva fatto degli errori in passato, era stato giovane, sciocco e avventato, ma non potevano essere degli errori di gioventù a fare di lui la persona che era.
«Nnoitra, tu hai torto» disse all’improvviso. Non le importava di risultare troppo diretta, se lui le aveva aperto il suo cuore, lei avrebbe fatto lo stesso. «Tu non sei… una persona orribile. Tu sei un essere umano. Che sbaglia, che ha difetti e pregi come tutti. Non devi essere così duro con te stesso, non devi incolparti se Tesla è stato ucciso. Ci sono cose su cui non possiamo avere il controllo.»
«Ma Neliel» Nnoitra chiamò il suo nome tra i denti. Sentiva che stava per scoppiare in lacrime. «Non valgo nemmeno la metà di quanto vali tu e odio, io odio come certa gente mi guarda. Non lo sopporto, così infieriscono e basta. Contano più gli errori che le azioni buone.»
Fu allora che Neliel si batté un pugno su una gamba e lo guardò negli occhi intensamente.
«Questo non è vero. Non è vero che vali così poco e non è vero che gli errori contano di più delle buone azioni. Non per me, non per Naoko, né per Grimmjow, Ulquiorra e tutti i nostri amici che ti vogliono bene» si avvicinò ancora e prese il suo viso tra le mani. Nnoitra cercò di non guardarla e la pregò sottovoce. Non voleva piangere davanti a lei.
«Ti prego.»
«No, io ti prego. Devi imparare a perdonarti e a guardarti intorno. Il fatto che tu sia cambiato a cresciuto tanto ti fa onore. Se una persona è capace di brillare lo si vede al buio, non sotto il sole. E io ti amo e se non mi credi passerò il resto della mia vita a ricordartelo.»
Nnoitra chiuse gli occhi. E iniziò a lacrimare. Oramai non aveva più nulla importanza.
«Nel…»
«Lo sai, lui sarebbe molto fiero dell’uomo che sei diventato» gli disse con dolcezza e quello per Nnoitra fu troppo. Non pianse in maniera controllata, ma dando sfogo a tutta la rabbia e il dolore che si teneva dentro. Neliel lo abbracciò. Nnoitra aveva sempre avuto la fissazione di voler essere forte, non capendo che ci voleva una grande forza per lasciarsi andare in questo modo. Ora lo aveva capito.
Naoko rientrò in quel momento e quando vide i suoi genitori, non si preoccupò troppo. Sapeva che suo padre aveva bisogno di quello, era stata lei a suggerirglielo, dopotutto. Perciò si avvicinò e cercò di farsi spazio in quell’abbraccio.
«… Naoko…?» la chiamò lui. Lei lo baciò in fronte, ricordandosi di tutte quelle volte in cui si era trovata al suo posto, magari dopo essere caduta ed essersi fatta male.
«Ci siamo io e mamma, non preoccuparti» gli disse con un sorriso. Neliel singhiozzò, ma sorrise. E Nnoitra abbracciò la bambina. Forse non era del tutto vero che di cose buone non ne aveva mai fatte. Naoko ne era un esempio.
 
 Quel pomeriggio era compito di Byakuya prendersi cura di gemelli. Era un po’ di tempo che non passava del tempo con loro e per questo si era offerto volontario. O forse era in parte era una scusa, perché stare da solo con Renji lo metteva un po’ a disagio. Dopo la loro discussione, Byakuya non sapeva bene come comportarsi. Quando era sposato con Hisana era raro che avessero litigi o attriti, avevano entrambi un carattere molto tranquillo. Non poteva però dare torto a Renji. Se fosse stato al suo posto, si sarebbe infastidito anche lui. Solo che, a differenza sua, era bravo a non mostrarlo.
«Zio Renji, comprami un ghiacciolo.»
Vista la bella giornata, Byakuya aveva pensato che sarebbe stato carino portare i bimbi fuori per una passeggiata. Gli faceva un certo effetto trovarsi in quella situazione, lui che di figli ne aveva sempre volti, si ritrovava a pensare che sembravano proprio una famiglia.
«Un altro?» si lamentò Renji. «Sei troppo iperattivo.»
«Ne ho mangiato uno all’arancia, ora ne voglio una fragola» disse sorridendo. Renji era troppo debole con i bambini e poi Kaien gli piaceva, era scatenato come lui.
«Oh, e va bene, ma non dirlo a tuo padre, Ichigo si lamenta sempre» si arrese infine. Masato invece il suo ghiacciolo non lo aveva ancora finito e se ne stava seduto accanto a Byakuya, con cui era sicuramente più affine vista la somiglianza di carattere.
«Allora è proprio vero? Tu e zio Renji siete fidanzati?» domandò all’improvviso. Byakuya arrossì e chiuse gli occhi. Parlare con gli adulti era un conto, ma con i bambini era sempre più difficile.
«Sì. Tu cosa ne pensi?» domandò. Era davvero curioso di sapere come risultasse la loro relazione agli occhi dei bambini. Masato sorrise.
«Mi piace questa cosa. Certo, siete un sacco diversi, tipo come mia mamma e mio papà. Però sì, siete una bella coppia. E poi, lo sai, anche io mi sono fidanzato.»
Byakuya lo guardò, non potendo nascondere un’espressione sorpresa.
«… Ti sei fidanzato?»
Masato si portò una mano davanti la bocca. Tanti cari saluti al suo segreto.
«Ops. Accidenti, avevo promesso a Yuichi di non dirlo a nessuno.»
«Yuichi? Ti piace Yuichi?» chiese sorpreso. Aveva dato per scontato che suo nipote avesse una simpatia particolare per una bambina, ma si era sbagliato in modo clamoroso. Dopotutto niente andava dato per scontato, soprattutto con i bambini.
«Certo che mi piace Yuichi!» affermò Masato come se fosse la cosa più ovvia del mondo. «Lui è il mio migliore amico, ed è buono, bravo e tanto bello. Io e lui siamo come te e zio Renji. Per alcune persone è strano che due maschi stiano insieme, per me no. Anzi, io penso proprio che Yuichi mi piacerebbe anche se avesse la coda e un corno sulla testa. Sarebbe molto buffo.»
Byakuya cercò di non darlo a vedere, ma si commosse. Masato aveva capito tutto dell’amore senza nemmeno rendersene conto.
«Tu dici delle cose giuste, Masato… avrei da imparare da te, perché io non credo di essere tanto bravo» ammise sottovoce, guardando Renji che si trovava poco più lontano. Masato, che aveva finito di mangiare il ghiacciolo, si portò una mano sotto al mento.
«Ma non è possibile, non essere bravi. Guarda che è facile. Tipo adesso, devi andare lì e abbracciarlo. O dargli un bacio. O fare qualcosa di super romantico, tipo dare a lui l’ultimo biscotto di una confezione. Io l’ho fatto, non lo do a tutti l’ultimo biscotto.»
Byakuya mosse una mano verso la sua testa e gli donò una carezza. Sarebbe stato magnifico se per gli adulti fosse stato così facile. Forse in parte poteva esserlo.
«Okay, siamo tornati» annunciò Renji, evidentemente provato. «Ho paura che con tutto questo zucchero Kaien diventi iperattivo, vallo a spiegare ai suoi genitori.»
Byakuya si alzò. La conversazione con Masato gli aveva infuso nuovo coraggio.
«Renji, devo dirti una cosa.»
«Ah? Ma… ora…?» domandò stranito.
«Io e Kaien andiamo a raccogliere i sassi» disse prontamente Masato, tirando il fratello per un braccio. Renji rilassò appena le spalle. Stava cercando di passare sopra a certe cose, perché l’ultima cosa che voleva era forzare Byakuya, ma era difficile trovare un compromesso tra i suoi sentimenti e i propri. Byakuya era arrossito e questa era una cosa che odiava.
«… Io non posso darti l’ultimo biscotto della confezione» le parole gli uscirono di bocca senza che potesse fermarle. Renji si guardò intorno, confuso.
«…Non sono sicuro di aver capito.»
Byakuya distolse lo sguardo. Perché doveva essere un disastro a parlare?
«Perdonami, non mi so esprimere. Volevo solo dirti che io non mi vergogno di te nella maniera più assoluta e che se c’è uno che sta causando problemi sono io, perché a quanto pare sono più codardo di quanto pensassi.»
Renji si portò una mano tra i rossi capelli, un po’ in disordine.
«Non è necessario che ti insulti, non sei un codardo.»
«Lo sono eccome. Lo sai, sono impaurito. E inizio a temere di non poterti dare tutto ciò che meriteresti. E tu non meriti un amore a metà. Cosa succede se poi non sono in grado e se ti faccio soffrire? Io a soffrire ci sono anche abituato, ma a te vorrei evitarlo.»
Byakuya non lo guardava negli occhi. Se lo avesse guardato si sarebbe sentito troppo esposto e questo Renji lo capì. Allungò una mano e gli strinse una spalla.
«A quello converrebbe pensarci dopo, non credi?»
«E tu vorresti dirmi che va bene accontentarti?»
«Accontentarmi io? Hai presente vero che sono anni che ti amo?»
Byakuya lo guardò finalmente negli occhi. Non gliel’aveva mai detto in maniera così esplicita. Quando Renji se ne rese conto, desiderò scomparire.
«Amh… cioè… va beh, lo sapevi già, no? Oh, che cretino che sono, ma perché devo sempre rendere l’imbarazzo ancora più imbarazzante?»
Byakuya si guardò intorno.
Masato gli aveva detto di fare qualcosa di romantico, cosa in cui lui non era proprio portato. Ma teneva a Renji in un modo in cui non credeva possibile. Così si avvicinò e lo baciò sulle labbra. Veloce, timido quasi fosse un bambino. Renji rimase immobile, con un dito sollevato a mezz’aria.
«… Stavi impazzendo, dovevo fermarti» disse Byakuya.
«Ah» disse Renji, inebetito. «Dovrei impazzire più spesso. Quello era il nostro primo bacio?»
Byakuya tossì.
«Non era… proprio un bacio vero. Se capisci cosa intendo.»
Renji lo attirò a sé, guardandolo in viso, in maniera intima.
«Renji… che c’è?» sussurrò Byakuya. Certi gesti sapevano essere anche più intimi del sesso. Lui scosse la testa.
«Niente, pensavo. Che mi fai faticare parecchio, certe volte non ti sopporto. Ma ne vali la pena.»
Alla fine dei conti, il più romantico era comunque stato Renji. Byakuya abbassò la testa. Eccolo lì, lo sfarfallio allo stomaco. Quella sensazione irrazionale di vertigine. Allora era ancora in grado di provare quel genere di emozione.
«Sono così felice di sentirtelo dire» sussurrò. Forse si erano davvero avvicinati più di quanto pensassero.
 
Era giunto il momento di tornare a casa, anche per Kisuke. In genere non tornava mai prima della fine del turno, anzi, era sempre uno degli ultimi ad andarsene, ma quel giorno le cose erano un po’ cambiate. Hikaru adesso stava bene, ma sia lui che Yoruichi apparivano un po’ scossi. Prima di lasciare l’ospedale, la piccola Ai lo aveva chiamato.
«Signor Kisuke, signor Kisuke!» esclamò correndogli incontro.
«Oh, la piccola Ai» disse inginocchiandosi. «Dimmi pure.»
Ai era decisa a dirgli quello che Hikaru le aveva confidato. Non era giusto, sapeva bene cosa significasse sentirsi invisibile. E quindi, al suo amico più caro lo avrebbe detto.
«Lo sai? Hikaru mi ha detto una cosa. Mi ha detto che lui spesso si sente invisibile. Perché non è uno che attira l’attenzione. Ma quando ha gli attacchi d’asma ecco che allora riceve tutte le attenzioni. Questo però non gli piace. Lui non lo dice, ma io lo capisco, quindi ho pensato di dirlo al posto suo. Mi prometti che starai più attento?»
Kisuke l’aveva ascoltata. E poi le aveva dato una carezza, si sentiva quasi commosso. O forse era solo provato. Era vero, Hikaru era diverso da lui, da Yoruichi e anche da Yami. Una personalità più tranquilla, che a volte si perdeva nel marasma.
«Grazie per avermelo detto, Ai. Ti prometto che adesso ci farò più attenzione. Hikaru è fortunato ad avere un’amica come te.»
La bambina arrossì e sorrise. Era sicura che per Hikaru le cose sarebbero andate meglio.
 
E sempre Hikaru, quando era tornato a casa, non era riuscito a scrollarsi di dosso Yami. Quando la sua gemella aveva saputo di quanto successo, aveva avuto un momento di crisi: suo fratello era stato male e lei non era potuta essere presente? E questo lo pensava nonostante fosse consapevole che, in ogni caso, non avrebbe potuto fare nulla. E così lo aveva preso per mano e come al solito aveva detto io e Hikaru dormiamo insieme stanotte.
Era andata davvero così, si erano addormentati abbracciati. Yoruichi invece si sentiva ancora scossa, non solo per quello che era successo al figlio, ma per tutto quello che stava accadendo. Kisuke si era seduto accanto a lui senza dire nulla e per una volta aveva deciso di smetterla di fingere che fosse tutto a posto. Perché nemmeno Kisuke Urahara era immune ai dubbi, immune al dolore. Immune al terrore di non aver fatto abbastanza. Guardò sua moglie con la coda dell’occhio e allungando una mano afferrò la sua. Yoruichi singhiozzò e lasciò che le lacrime le bagnassero il viso. Kisuke di solito le diceva sempre che anche se c’era qualcosa di rotto, poteva sempre essere aggiustato. Che anche se fosse rimasto il segno, avrebbe comunque assunto un nuovo valore. Yoruichi gi diceva sempre che era troppo ottimista, ma ora avrebbe dato qualsiasi cosa per sentirlo parlare così. Invece Kisuke non disse nulla, ma le donò la sua silenziosa presenza.

Nota dell'autrice
Mayuri e Kisuke adesso possono fare come JD e Turk e cantare la canzone del medico e del chirurgo. Ma vaneggiamenti a parte, FINALMENTE Mayuri si è sbloccato. E almeno lui e Nemu hanno fatto un passo in avanti. C'è chi quando ha paura delle cose, reagisce con rabbia e chiusura e a lungo andare questo fa male. Ma non sono gli unici, anche Byakuya e Renji si chiariscono grazie alla dolcezza di Masato che è saggio più di certi adulti. Direi che è il capitolo dei chiarimenti un po' per tutti (più o meno, per Kisuke e Yoruichi non va ancora così bene). Che succederà adesso?
A preso.
Nao
 

Ritorna all'indice


Capitolo 28
*** Capitolo ventotto ***


Capitolo ventotto
 
 
«Momo? Momo, puoi parlare?»
Toshiro sentiva degli strani rumori dall’altro capo del telefono. Sarebbe stato assurdo nascondersi adesso che erano stati scoperti, ma rimaneva comunque il fatto che Rangiku non lo sapeva. E non aveva il coraggio di dirglielo, magari lo avrebbe fatto più avanti, quando la situazione si sarebbe aggiustata (se si fosse aggiustata).
«Sì, Toshiro. Sosuke nemmeno c’è. E anche se ci fosse, oramai…»
Per Momo tutta quella situazione era strana: aveva deciso di porre fine al suo matrimonio, lo aveva deciso dal momento in cui si era lasciata andare a Toshiro. Si era detta pronta ad affrontare le conseguenze ma, stava scoprendo, era tutto molto più difficile di quanto pensasse.
«Non possiamo vederci?» domandò. Era sciocco pensare ad una cosa del genere, ma aveva bisogno di vederla, di parlare con lei, una telefonata non gli bastava.
«Ora no, Toshiro. C’è mio figlio in casa. Ma non ti preoccupare, ci vedremo presto.»
«Se quel bastardo ti tocca, farmelo sapere» sibilò tra i denti. Nella maniera più assoluta non si fidava di Sosuke Aizen, ora meno che mai.
«Non preoccuparti di questo. Sosuke non è un violento, almeno di questo sono sicura. Ma le cose tra sono tese e vorrei evitare che vi incontraste.»
Toshiro sospirò. Ottimo lavoro, si disse. Sei riuscito ad incasinarti, a incasinare tutti e due.
«Va bene, va bene, non preoccuparti. Non preoccuparti, ne verremo fuori.»
Non poteva vederlo, ma Momo stava sorridendo dall’altro capo del telefono. E nel frattempo, Toshiro era in grande difficoltà. Non era un bugiardo patologico e si sentiva in colpa: Aizen era il capo di Gin, lui e Momo avevano frequentato casa sua e le cose si sarebbero potute complicare e non di poco. Tutto ciò perché si era innamorato.
Rangiku, dal canto suo, qualcosa aveva intuito, ma non osava chiedere (anche perché in piccola parte credeva che non fossero fatti suoi). Quella era una bella giornata: la finestra era aperta, un leggero vento scuoteva le tende e lei era con la sua famiglia. Rin teneva Sir Biss arrotolato sul suo braccio, nonostante sua madre l’avesse pregata più volte di non portare un serpente a tavola mentre mangiavano. E poi c’era Gin con loro, Gin che quella mattina aveva deciso di prendersela più comoda.
«Ho parlato con Aizen» disse rivolgendosi sia a Rangiku che alla piccola. «Patto annullato. È stato facile.»
Rin sollevò un braccio.
«Evviva. Così finalmente potrò sposare Toshiro. O Kira. Però lui è fidanzato, ma va bene uguale, non sono gelosa.»
Rangiku sorrise, allungando una mano e stringendo quella di Gin. I loro anulari sinistri luccicavano per via della fede in oro bianco.
«Inoltre» continuò Gin. «Pensavo che magari potrei prendere… un periodo di pausa da lavoro. Non crollerà il mondo, Aizen ce la può fare anche senza di me e poi… credo di dovermi dedicare a qualcosa di molto più importante.»
Rangiku capì. Lo capì anche Rin, che tutta contenta si alzò e lo abbracciò.
«Non ci posso credere, era proprio quello che volevo. Possiamo guardare un film? Possiamo andare a passeggiare in spiaggia? Possiamo dipingere la mia camera di rosa, verde e giallo?»
Rin, come la maggior parte dei bambini, desiderava cose semplici. Cose normali, ma vere.
«Tutto quello che vuoi, Rin. Sono tutto vostro.»
«Oh, Gin» Ranigku lo guardò innamoratissima, come se fosse la prima volta. Finalmente Gin stava imparando a rilassarsi. A capire che il mondo non sarebbe crollato se avesse mollato un po’ la presa.
Toshiro si sedette accanto a Rangiku con fare pensieroso e cupo, che di netto contrastava con il resto dell’atmosfera allegra.
«Ah, eccoti qui, Toshi» le disse lei. «Devo forse iniziare a preoccuparmi?»
Toshiro guardò Gin, il quale ricambiò lo sguardo, facendo poi finta di niente.
«Non è… necessario…» disse pensieroso. Cercò di versarsi da bere, ma fece cadere la brocca sul tavolo. Rin assunse un’espressione seria.
«Toshi, hai la fidanzata?»
Diede per sbaglio una ginocchiata sotto il tavolo. A domande così dirette non sapeva mentire.
«… All’incirca» sussurrò.
«Va bene, adesso basta» disse Rangiku. «Toshiro, so che non sono fatti miei, ma mi stai facendo preoccupare. Cosa c’è che non va? Non frequenterai cattive compagnie? Hai combinato qualcosa e non sai come uscirne?»
Sì, mi sono innamorato di una donna sposata e ho incasinato tutto.
Era nervoso. Non riusciva neanche a guardarla.
«Beh, dai Rangiku, Toshiro non è certo un bambino» cercò di venire in suo aiuto, Gin. Ma sua moglie non era convinta.
«Toshi, che succede?»
Oh, merda. Non ce la faceva a mentirle, non ce la faceva a mentire in maniera così spudorata, e se avesse incasinato anche le loro di vite? Proprio ora che tutto stava iniziando ad andare bene? Lentamente alzò lo sguardo.
«Mi dispiace, Rangiku… però è successo che… mi sono innamorato di Momo Hinamori e sono diventato il suo amante. Ma adesso suo marito l’ha scoperto.»
Rangiku inarcò talmente tanto le sopracciglia che ebbe quasi l’impressione che potessero arrivarle dietro la testa. Toshiro, il suo piccolo migliore amico con Momo Hinamori? La donna con cui aveva condiviso pomeriggi, i cui figli giocavano insieme, i cui mariti lavorano insieme?
Guardò Gin, il quale invece distolse lo sguardo. E capì che lui sapeva.
«È… uno scherzo o cosa? Ma… Ma Toshi… con Momo? Cosa…? GIN.»
«Mi dispiace, Rangiku. Non potevo dirlo a nessuno.»
«A-aspetta, Gin non c’entra» disse subito Toshiro. «La colpa è mia, ho incasinato tutto, non sapevo come dirtelo, temevo ti saresti arrabbiata.»
«Io…» Rangiku si guardò intorno. «Non sono arrabbiata, ma impanicata. Aizen è… è lui, insomma.»
«Se è per questo non c’è da preoccuparsi, anche lui ha un amante, è solo ferito nell’orgoglio» borbottò rosso in viso. Quindi il sospetto che Gin aveva sempre avuto era vero: Aizen aveva un amante. Rangiku stava metabolizzando pian piano la cosa e più lo faceva più si rendeva conto di quanto fosse stata sciocca a non accorgersi di niente.
«Oh, Toshiro, ma perché? Lo so, al cuore non si comanda. Ma è una situazione così difficile.»
Aveva detto un’ovvietà, lo sapeva. Toshiro sapeva già del casino in cui si trovava. Rin li aveva ascoltati. Strinse un pugno. Toshiro si era innamorato della madre di Hayato? Ma questo non aveva senso.
«Sei cattivo, Toshi» disse lei. «Dovevo sposarti io. A te invece piacciono le donne vecchie!» Rin tirò fuori la lingua, colta da un attacco acuto di gelosia. Toshiro non le rispose. Con Rin ci avrebbe fatto pace, o almeno sperava.
Pronunciare certe parole ad alta voce rendeva sempre tutto più reale.
 
Hayato era rimasto ad origliare la conversazione di sua madre con l’altro.
Nessuno gli aveva spiegato niente, ma aveva capito tutto. Sua madre e suo padre stavano per lasciarsi, perché sua madre aveva un altro. Anche suo padre aveva un altro, un altro uomo, questo l’aveva sentito dire a Momo. Adesso sapeva cosa sarebbe successo: si sarebbero lasciati. Di questo ne sarebbe stato anche sollevato, visto che sapeva benissimo che i suoi genitori non si amavano. Molto meno gli piaceva quella guerra che era scoppiata per chi dovesse tenerlo con sé. Da un lato avrebbe preferito rimanere con sua madre, sempre più affettuosa. Ma l’idea di avere a che fare anche con l’altro non gli piaceva molto. Da un lato temeva che, allontanandosi da suo padre, avrebbe perso l’occasione di farsi volere bene. Ma anche lì, l’idea di avere a che fare con l’altro, che poi era Shinji Hirako, non gli piaceva affatto. Si era chiesto se Miyo avesse capito e in caso, ma come l’avesse presa. Perché lui si sentiva arrabbiato e non sapeva chi odiare per primo.
Momo si voltò e scorse suo figlio che la fissava, pensieroso e imbronciato.
«Hayato» sussurrò.
«Parlavi con quello. Lo detesto» borbottò stringendo i pugni. Doveva essere colpa dell’altro se sua madre era cambiata. Suo padre almeno era rimasto lo stesso.
Momo sospirò stancamente.
«Hayato… ci sono cose che non puoi ancora capire.»
«Io invece lo capisco bene. Tu lo hai tradito!» gridò puntandogli il dito contro. Momo corrugò la fronte. Non aveva intenzione di farsi accusare più, nemmeno da suo figlio.
«Ci siamo traditi a vicenda. Io mi sono innamorata, non mi aspetto che tu capisca, sei troppo piccolo.»
Hayato strinse i pugni. Era così stanco di sentirsi dire che era troppo piccolo e per capire. Lui invece capiva benissimo: capiva che a volte gli adulti facevano cose stupide.
«Non mi interessa! Io comunque adesso non voglio stare con nessuno dei due. Me ne vado…»  ci pensò su qualche attimo. Da Rin non poteva andare perché in casa sua ci stava anche l’altro. Da Miyo, peggio che mai. «Vado a stare da Kaien Kurosaki.»
Kaien non lo definiva un amico, però avevano smesso di litigare, di azzuffarsi. Chi poteva chiudere la porta in faccia ad un ragazzino, dopotutto?
Momo sapeva che doveva essere paziente, perché se c’era qualcuno che stava soffrendo, quello era proprio Hayato. E aveva ben ragione di soffrire. Quindi si fece più vicina, prese il suo viso tra le mani.
«Mi dispiace che sia andata così, Hayato. Lo so, ci siamo comportati da irresponsabili. Sto cercando di rimediare.»
Hayato corrugò la fronte. Non riusciva a credere più a niente. Perché doveva fidarsi, dopotutto?
«È tardi ormai» disse gelido. E Momo ne fu terrorizzata da quanyo gli ricordò Sosuke.
 
Rukia non aveva dormito molto, era sommersa dallo studio e anche un po’ stressata. E dire che generalmente non si stressava mai, nemmeno per i gemelli o altro, quella era più che altro prerogativa di Ichigo.
E Ichigo, che di studio matto e disperato ne sapeva qualcosa, aveva detto posso anche sacrificare qualche ora di sonno e aiutarti. In verità Ichigo stava cercando di farsi perdonate perché si sentiva in colpa. Anche Rukia in realtà si sentiva in colpa, perché lei e suo marito non si erano capiti. Quindi aveva accolto la sua proposta e si era lasciata aiutare, ripetendo pagine e pagine e pagine. E fu così che Ichigo si ritrova a scoprire un nuovo lato di sua moglie: era una vera secchiona, oltre che perfezionista.
«Rukia, direi che non devi preoccuparti» le disse mentre fissava i suoi appunti e cercava di venirne a capo. «Sono ignorante in materia, ma mi sembri preparata. E poi, non hai detto che il tuo insegnante, Ukitake, ti adora?»
«Ma appunto per questo voglio andare bene!»  esclamò lei, che si aggirava per la stanza come una pazza. «Va bene, d’accordo, non c’è bisogno di stressami. Un esame si può ripetere. Tu ne hai falliti tanti quanto studiavi medicina.»
«Oh, grazie Rukia» disse Ichigo inarcando un sopracciglio. Rukia arrossì.
«Scusa, non intendevo dire questo. Dico solo che ce l’hai fatta e… non so se te l’ho mai detto, ma io ti ammiro molto. Per quello che fai e per quello che sei diventato.»
Ichigo arrossì tanto che il colorito del suo viso creò un contrasto particolare con i suoi capelli arancioni. E cos’era quella dichiarazione tanto sentita completamente a caso? E poi, se c’era qualcuno da ammirare, quella era lei.
«Sinceramente, Rukia… non credo sarei arrivato così lontano senza il tuo sostegno. Sei tu quell’ammirevole dei due. Quella altruista, paziente, dolce. Io ho un brutto carattere, perdo subito le staffe, tu sei… beh… mi stringi per mano e mi riporti alla realtà.»
Ichigo non la guardava nemmeno. Non era bravo a improvvisare romanticherie varie, però ci provava. Rukia si avvicinò e si sedette in braccio a lui.
«Allora forse siamo entrambe due persone da ammirare» sussurrò, gli accarezzò i capelli e poi lo baciò. Andavano avanti a studiare da ore e forse una più che meritata pausa avrebbe fatto bene ad entrambi.
A Kaien e Masato era stato detto di non fare confusione né di disturbare, ma nessuno dei due aveva tenuto conto dell’imprevisto.
«Mamma, papà!» gridò Kaien battendo contro la porta dello studio. Ichigo imprecò, staccandosi dalle labbra di sua moglie.
«Kaien, spero sia qualcosa di urgente!»
Il bambino aprì la porta e li guardò.
«Qua fuori c’è il mio compagno Hayato Aizen che mi ha chiesto se può vivere con noi.»
Ichiro e Rukia si guardarono straniti. Di certo quello contava come imprevisto.
 
Kaien e Masato fissavano Hayato, il quale se ne stava seduto a braccia conserte. Ichigo non era da meno, quel ragazzino era un Aizen in miniatura, stesso aspetto e stesso brutto carattere. Ma era pur sempre un bambino e loro degli adulti.
«Come facevi a sapere dove abitavo? Come sei venuto?» domandò Kaien.
«Con l’autista» rispose Hayato come se fosse la cosa più naturale del mondo. «Mio padre ha un agenda con su scritto i nomi, i numeri di telefono e gli indirizzi delle persone importanti che conosce, l’ho trovato lì.»
«Questo è inquietante» commentò Rukia.
«… Aizen mi considera importante? Beh, io sono un chirurgo molto bravo, è vero» commentò invece Ichigo, stupito e un filino lusingato. Rukia lo guardo: non è questo il punto, gli comunicò silenziosamente.  E poi tornò ad Hayato.
«I tuoi lo sanno che sei qui?»
«Mia mamma se lo immagina, anche se non pensava venissi qui davvero. Io comunque a casa non ci torno. I miei si stanno lasciando perché mio padre si è innamorato di quel manager col taglio di capelli osceno e mia madre di quel ragazzino basso.»
Ichigo assimilò quelle informazioni e poi assunse un’espressione che era la definizione di shock.
«… Aspetta… ma stai parlando di Shinji? Cioè, il nostro Shinji? Questo non è… non ci posso credere, mi dovrà raccontare un bel po’ di cose. Ma giuro che lo sfotterò a vita se…»
Rukia gli diede una gomitata sul costato ricordandogli poi che il punto non era quello. Poteva immaginare come Hayato si sentiva. Non lo conosceva se non dai racconti dei suoi figli, e sebbene avesse un’aria un po’ arrogante, alla fine le sembrava solo un ragazzino senza punti di riferimento e che stava soffrendo.
«Io… capisco che è una situazione difficile. Però non puoi scappare, non è così che funziona. E io devo per forza avvertire i tuoi genitori. Ma non ti preoccupare, non ti cacciamo certo via. Solo che bisogna trovare una soluzione, capisci cosa intendo?»
Hayato arrossì, annuendo. Lei gli stava simpatica. In realtà tutti e quattro gli ispiravano molta simpatia, erano una famiglia diversa dalla sua.
«Però non ho capito perché sei venuto proprio qui» commentò Kaien.
«Kaien Kurosaki, sii un po’ più educato» borbottò Rukia. Hayato guardò da un’altra parte.
«… Io non ho molti amici, ho pensato che tu eri la cosa più simile ad un amico. Anche se ci siamo picchiati tante volte.»
Kaien arrossì, sorpreso dalle sue parole. Certo che quell’antipatico di Hayato di passi in avanti ne aveva fatti. Masato sorrise e disse.
«Ah, non ti preoccupare. Tutti litigano, questo non vuol dire che non ci si può volere bene.»
E poi si convinse che Kaien e Hayato sarebbe potuta nascere una solida di amicizia.
 
«Un… ragazzino si è presentato a casa tua e vuole vivere con voi?»
Karin era rimasta piuttosto stupita nell’apprendere cosa il fratello le aveva detto.
«Già. Ma perché? Aizen non mi sta simpatico, perché proprio suo figlio?» sospirò Ichigo al telefono. «Non lo so, capita tutto a me. Ma lamentele a parte… a te come va?»
Karin si guardò intorno. Quand’è che Chad sarebbe tornato? Si sentiva nervosa come una ragazzina, il che era assurdo – se ne rendeva conto – ma che poteva farci?
«Va… bene? Sto aspettando che Chad torni. Papà è passato a prendere Kohei poco fa, per cui…» lasciò la frase in sospeso e arrossì. Ichigo capì e s’imbarazzò a sua volta, visto che non ci teneva molto a immaginare sua sorella e uno dei suoi migliori amici in atteggiamenti intimi, per quanto normale fosse.
«Va… va bene, d’accordo, ho capito. Allora divertiti.»
«Ichigo, ma insomma!» borbottò lei. Poi sentì un rumore: Chad doveva essere tornato. «Aaaah. Devo andare, a dopo!» esclamò chiudendo la chiamata. Chad effettivamente era appena rientrato da lavoro: si bloccò un attimo quando vide Karin tutta agghindata con un bell’abito scuro ed elegante. Karin odiava quel genere di abbigliamento, lo trovava scomodo, ma quella sera aveva voluto fare qualcosa di speciale, una cena a lume di candela e poi chissà…
«Karin» la chiamò, sorpreso in modo piuttosto piacevole. Karin arrossì.
«Ciao, Yasutora. Allora, che ne pensi? Sto bene?» domandò allargando le braccia. Karin era minuta, aveva il seno piccolo, non era cambiata molto rispetto a quando era una ragazzina. Quello che non sapeva era che per suo marito lei era sempre stata l’unica, la più bella, a prescindere da tutto.
«Bene? Bene è riduttivo. Ma guarda, sei… sei bellissima» disse afferrando con dolcezza la sua mano.
«G-grazie! Allora… Kohei non c’è. L’ho lasciato a mio padre e a Yuzu. Quindi siamo soli» sussurrò. Chad si guardò intorno.
«Intendi proprio soli?» domandò sottovoce. Tra lui e Karin ultimamente non era andata benissimo. C’erano state incomprensioni, anche un allontanamento importante dal punto di vista emotivo. Ma Karin aveva deciso che non voleva più sentirsi così pesante. Forse gli eventi della sua vita non erano stati tutti rosa e fiori, ma voleva attingere alla forza che aveva sempre avuto, ma di cui si era dimenticata. E anche se non aveva proprio un’anima romantica (al contrario di Chad) voleva comunque fare qualcosa di carino.
«Già. Quindi ho pensato… perché non fare una cena a lume di candela? Non è troppo banale, vero?» domandò portandosi le mani sui fianchi. Chad avrebbe voluto risponderle che in realtà non aveva molta fame, che lei gli aveva causato ben altri desideri, ma rispose in tutt’altro modo.
«No, credo sia perfetto invece.»
Karin sospirò, sollevata. Ma c’era anche altro che doveva dire.
«Yasutora, senti» disse facendo un passo in avanti. «Io… volevo solo dirti che mi dispiace. Mi dispiace per come mi sono comportata, credo di essere uscita fuori di testa ad un certo punto. Ero e sono tutt’ora preoccupata per Kohei, e so che non dovrei, perché lui è fantastico e non sarà di certo la mia apprensione a renderlo forte. Questa situazione lo fa star male, ma la cosa peggiore è che ho fatto star male te. Non sei solo l’uomo che amo, sei anche il mio migliore amico e io non voglio che si rovini tutto!»
Aveva parlato senza riprendere fiato. Ora si mordeva le labbra mentre Chad la guardava. Lo sapeva, lui aveva un animo profondamente buono e altruista, si arrabbiava di rado ed era molto incline al perdono. Certo aveva avuto ragione ad arrabbiarsi con lei.
«Karin…»
«I-io mi chiedevo se potevi darmi una seconda possibilità» alzò gli occhi al cielo. «Insomma, io non voglio diventare come quelle coppie in cui si sta insieme per abitudine e dove si finisce con l’odiarsi l’un l’altro. E chiariamo, io sono facile da odiare.»
Smise di parlare quando la mano di Chad si posò sulla sua testa. Mano che poi scese sul suo viso, sul suo mento.
«Io non ti odierei mai, non ti odierei nemmeno se decidessi di lasciarmi, se non mi amassi più. Però nemmeno io voglio finire… in quel modo. Tu mi sei mancata tanto. Mi è mancata la mia piccola Karin.»
Lei arrossì, sentiva gli occhi lucidi e non sapeva più se fosse per la commozione o per il mascara che la stava irritando. Lui le dava sempre l’appellativo di piccola Karin perché accanto a lui sembrava sempre una bambina. E invece era una leonessa.
E dopotutto, lui era una tigre*, per cui funzionavano bene.
«Sono qui, non me ne andrò più, promesso» sussurrò. E poi lo guardò. «Non sono sicura che quello che ho cucinato sia commestibile però. Ho avuto qualche problema col forno» ammise, trattenendo a stento le risate.
«Ah, non credo che ci saranno problemi, perché era ad altro a cui stavo pensando…» ammise Chad. Karin fece spallucce e lo guardò come una bambina dispettosa che faceva una smorfia ad un adulto. Gli disse di seguirlo e lui obbedì subito.
 
Dopo quanto successo, Tatsuki aveva lasciato il suo appartamento da single per tornare a vivere con Uryu nella casa in cui si erano sposati, dove Yuichi era cresciuto e dove adesso avrebbero cresciuto un altro figlio. Mentre Yuichi faceva il bagno, Uryu fissava le carte del divorzio sopra il tavolo. Erano ancora lì, proprio come loro erano rimasti in quel limbo per tanto tempo, senza sapere che fare. Avrebbe dovuto strapparle? O forse doveva tenerle lì, perché non era certo che le cose sarebbero andate bene? Non lo sapeva e poiché non era a questo che voleva pensare, aveva preso la scusa per dedicarsi ad una delle sue passioni per cui a scuola a volte era stato preso in giro: l’uncinetto. Molti dei vestiti che Yuichi aveva indossato da neonato era stato lui a farli, alla faccia dell’hobby inutile o da femmine come dicevano alcuni trogloditi sessisti.
«Ahi» si lamentò all’improvviso. Si era punto con l’ago e si era portato il dito alle labbra per succhiarlo. Tatsuki era appena rientrata e quando lo vide le cadde la borsa di mano.
«Uryu, ma quanta roba hai fatto? Sono mancata solo un paio d’ore!» esclamò indicando i vari calzini, babbucce, cappellini e quant’altro. Lui sollevò lo sguardo, corrucciato.
«Lo sai che l’uncinetto mi rilassa.»
Tatsuki si sedette davanti a lui e poi tirò fuori una busta.
«Sta bene» sospirò. «Il bambino, intendo. Sta bene, non ha nessuna malattia genetica, niente di niente.»
Ishida rilassò le spalle, poiché era stato teso per un pezzo.
«Meno male, non sai che peso mi… Perché mi guardi così? C’è altro che devi dirmi?»
Sua moglie sventolò la busta, pensierosa.
«Con questo esame si vede anche il sesso. Vuoi sapere cos’è?»
Lasciò perdere gli strumenti per l’uncinetto e la guardò.
«Lo voglio» disse subito. Tatsuki sorrise e aprì la busta, porgendogliela. Quando Uryu lesse, rimase immobile scosso da un leggere fremito.
«Umh… stai bene?» domandò Tatsuki, preoccupata nel non vederlo reagire. Uryu si tolse gli occhiali e si strofinò gli occhi. Si diceva che non poteva commuoversi per tutto, però di fatto era così.
«Scusami, è solo che io… speravo proprio fosse una bambina, ed è così.»
Tatsuki sorrise. Yuichi era proprio tale e quale a suo padre, non c’erano dubbi. Di questo ne era molto fiera.
«Sì, sono contenta anche io» disse accarezzandogli un ciuffo di capelli. Ishida cercò di ricomporsi. Avrebbe avuto una bambina, era così felice che avrebbe fatto qualche pazzia, ma non era nel suo carattere. No, lui faceva sempre qualcosa che fosse anche utile.
«Le farò un vestito. Anzi, gliene farò tanti. E ci metterò dei lustrini.»
«Uryu! Solo perché è femmina non vuol dire che debba portare i lustrini.»
Lui la guardò confusa.
«Non lo faccio per questo, lo faccio perché piacciono a me!»
Tatsuki sgranò gli occhi e poi rise. Poi la risata scemo e si morse il labbro, un po’ preoccupata.
«Tatsuki, che c’è?»
Si era così entusiasmato da essersi dimenticato che per Tatsuki quella gravidanza era motivo di gioia e anche di preoccupazione. Non che per lui fosse poi così diverso.
«Sto bene. Davvero, io sono molto contenta. Sono contenta di aver deciso di portare avanti la gravidanza, sono contenta perché posso immaginare come lei sarà, però… sono anche terrorizzata. Più della prima volta. E se starò male?»
Tatsuki di solito non aveva paura di niente. Ma già una volta le era capitato di avere la depressione post-parto, che poi aveva mandato in rovina tutto il resto. Non voleva che accadesse di nuovo, era terrorizzata al solo pensiero. Ishida le accarezzò una guancia e la guardò negli occhi.
«Se starai male, questa volta sapremo come fare. Ma non lo sappiamo, la vita è fatta di rischi. Come quando ci si innamora.»
Loro stavano rischiando tutto decidendo di riprovarci, di provare ad essere ciò che non erano riusciti ad essere. E anche se aveva paura, non era codarda. Tornare indietro sulle proprie decisioni le aveva richiesto un coraggio non indifferente.
«E io dal canto mio cercherò di non riversare tutto su di te. Depressione o meno, non è stato giusto la prima volta, non lo sarebbe neanche la seconda. Lo sai che ti amo, vero?» domandò. Ishida arrossì e constatò che gli ormoni della gravidanza rendevano Tatsuki estremamente dolce e languida.
«Lo so e ti amo anche io. Allora, diamo la notizia a Yuichi?»
«Certo, immagino che avrà una reazione molto simile alla tua» disse con un sorriso, mentre si lasciava stringere un fianco.
 
Renji e Byakuya non vivevano propriamente insieme. Sarebbe stato troppo presto, ma oramai Renji si ritrovava molto spesso a passare la notte da lui come qualsiasi coppia (eccezion fatta per il non condividere il letto). Tuttavia i passi in avanti c’erano stati. Renji aveva cucinato per tutti e due e da amante del cibo piccante non era proprio riuscito a trattenersi.
«Questa roba si chiama kimchi, è coreana. Ma è la prima volta che la preparo, non so come sia venuta fuori» disse a Byakuya, il quale aveva comunque deciso di superare la sua avversione per il piccante e di assaggiarlo.
«Oh, mio…» disse tossendo. «È…»
«Brucia troppo?» chiese preoccupato.
«Un pochino, ma è sopportabile. Circa» Byakuya si asciugò una lacrima. «Non era necessario darsi così da fare.»
Renji arrossì mentre si stiracchiava.
«Figurati, mi sembra il minimo, tu mi ospiti sempre, per cui…»
«Già» Byakuya aveva ancora la gola che bruciava. Mise giù le bacchette e poi lo guardò. «Stavo pensando che magari potremmo… dormire insieme.»
A Renji per poco non andò di traverso il cibo. Si mise a tossire davanti lo sguardo serio (e per questo molto divertente) di Byakuya.
«Ti ho sconvolto?» domandò infatti.
«No… cioè sì. Ma in senso buono. Per me va bene» rispose cercando di ricomporsi. «Tu sei uno che non ama essere toccato mentre dormi, vero?»
Renji di solito dormiva abbracciato ad un cuscino. Dubitava però di poter strizzare Byakuya allo stesso modo.
«Dipende» ripose Byakuya in un tono che Renji non capì se voleva essere misterioso, provocante o chissà che altro. Essendo entrambi molto stanch,i decisero di andare a dormire piuttosto presto e Renji dovette ammettere di essere più in imbarazzo di quanto credesse. Dormire con qualcuno era anche più intimo del sesso. Lui e Byakuya si stesero l’uno accanto all’altro. Uno a destra e uno a sinistra. Byakuya soffriva più il freddo e tendeva a coprirsi, Renji invece aveva caldo e dormiva scoperto. Entrambi fissavano il soffitto senza guardarsi negli occhi. Per Byakuya era molto strano tornare a condividere il letto con qualcuno, avvertire la sensazione di calore accanto a sé. Era estraniante, ma piacevole.
«Ti da fastidio se mi muovo? Tendo ad avere un sonno un po’ agitato» ammise Renji. Byakuya scosse la testa.
«No, non preoccuparti.»
«Mmh, b-bene. Allora, buonanotte!» borbottò Renji spegnendo la luce. Si voltò dall’altro lato e Byakuya fece lo stesso. Ma nessuno dei due riuscì a chiudere gli occhi. Senza rendersene conto, si voltarono nello stesso momento, di nuovo, e si ritrovarono a guardarsi negli occhi, ad ascoltare il respiro l’uno dell’altra. Renji gli accarezzò una guancia, poi i capelli.
«Tu sei… te l’ho mai detto che sei bello? Molto più che bello, anzi.»
Byakuya aveva assottigliato lo sguardo ed era arrossito.
«Lo sei… anche tu…»
Renji si avvicinò e lo baciò. La baciò con delicatezza, perché aveva sempre paura di ferirlo o di dargli dispiacere. Ma lo baciò anche con passione e Byakuya rispose, abbracciandolo e sentendo qualcosa. Sia all’altezza dello stomaco, che un po’ più giù.
Sospirò.
«Penso di essere eccitato, adesso» ammise Renji.
«Già, anche io.»
«Davvero? Ma allora non ti sono indifferente.»
«Questo non l’ho mai detto. Comunque non c’è bisogno che ti volti dall’altra parte. Soffro il freddo» gli confidò. Vide appena il sorriso di Renji, che adesso lo stava abbracciando con delicatezza.
«Non dovrai più soffrirlo, non preoccuparti»
Byakuya chiuse gli occhi. E si riscoprì al sicuro tra le sue braccia.
 
*ovviamente perché Yasutora =tora = tigre
 
Nota dell’autrice
Beh che dire, grandissimi passi in avanti per Karin e Chad e per Byakuya e Renj, eh? In realtà oramai quasi tutti fanno progressi, eccetto le nostre due coppie coinvolte in tradimenti. Hayato intanto scappa e si rifugia a casa di quello che oramai considera un amico. Forse una grande amicizia nascerà, ma adesso cosa succederà? Non perdetevi il prossimo capitolo 😊

Ritorna all'indice


Capitolo 29
*** Capitolo ventinove ***


Capitolo ventinove
 
Tutti gli alunni di Yoruichi si erano accorti che qualcosa non andava nella loro insegnante, di solito così sicura e piena di energia. Ma nessuno osava chiedere, né intromettersi nella vita di una donna adulta, tutti tranne Soi Fon. La ragazza era tremendamente dispiaciuta di quanto accaduto negli ultimi tempi, si sentiva in colpa per aver messo la sua insegnante in una situazione così difficile. Adesso era anche preoccupata, perché Yoruichi sembrava assente, aveva perso la sua solita vitalità. Doveva per forza essere colpa sua. Se il matrimonio di lei si fosse trovato in difficoltà la colpa sarebbe stata solo e soltanto sua. Non poteva dar retta alla parte immatura di sé che le diceva che sarebbe stato tanto meglio, non era giusto. Per questo aveva deciso di prendere coraggio, di comportarsi come una persona matura per una volta e parlare direttamente con Yoruichi. Quest’ultima, a metà mattinata, decise si allontanarsi dall’aula, poiché voleva avere poco a che fare sia con colleghi che con alunni. Soi Fon però non demorse e le andò dietro a ritmo sostenuto. La seguì fin all’auto, Yoruichi aveva deciso di passare lì le sue pause ultimamente. Il che era da asociali, ma non gliene importava.
«A-aspetti, prof Shihoin!» esclamò la ragazza, facendole segnale e quasi inciampando. Yoruichi assottigliò lo sguardo.
«Soi Fon. Cosa c’è?» domandò aprendo lo sportello. Con il fiato corto, la ragazza le arrivò di fronte.
«Sta… bene? Lo so che non sono fatti miei, ma è così assente. Alcuni pensano che abbia scoperto di avere una malattia. Non è così, giusto?»
Yoruichi non era malata, però ci si sentiva parecchio. Chiuse gli occhi e si sistemò i capelli portati in una lunga coda.
«Nessuna malattia, sono solo un po’ preoccupata per mio figlio. Ha avuto un brutto attacco d’asma qualche giorno fa.»
«Ecco perché è scappata all’improvviso» si ricordò. «Sta bene, adesso?»
«Sono solo un po’ scossa nel ripensarci, anche se sembro forte e intrepida, una madre si preoccupa sempre per i propri figli. Dì agli altri che non devono preoccuparsi.»
Soi Fon capì che Yoruichi intendeva chiudere la conversazione. Ma lei si morse il labbro, agitandosi: aveva ancora qualcosa da dire.
«Prof… Yoruichi» la chiamò per nome. «E dico sul serio. Lo so, ho una cotta per te, mi sono comportata da pazza, ma non potrei vivere in pace sapendo che il tuo matrimonio è fallito per colpa mia.»
Yoruichi sgranò gli occhi, sorpresa sia dalla sua presa di confidenza improvvisa, sia dalle sue parole. Sarebbe stato bello, se fosse stato così semplice.
«Oh, Soi Fon. Il problema non è questo» disse richiudendo lo sportello e poggiandosi all’auto. «Se il mio matrimonio sta passando un periodo difficile non è perché tu hai una cotta per me e io ti ricambi. È che mi sono resa conto di essere attratta anche dalle donne.»
Soi Fon si guardò attorno, confusa.
«… Continuo a non capire dove sia il problema.»
Yoruichi sorrise. Già, in effetti se la situazione era complicata, era perché lei stessa l’aveva complicata, anche se senza volerlo.
«Infatti non è un problema. Solo che pensavo che arrivata alla mia età, con un matrimonio, una famiglia e il tutto, avessi superato quella fase. Il che è una cosa piuttosto stupida, non c’è un’età prestabilita. Ecco perché provavo questa sensazione di disagio, ecco perché non riuscivo più a lasciarmi andare. Perché stavo soffocando qualcosa che è parte di me e non me n’ero nemmeno accorta.»
Oramai lei e Soi Fon non erano più un’insegnante e un’allieva. Avevano superato da un pezzo la fase da è inopportuno. La ragazza si poggiò accanto a lei. Pensierosa.
«Sì, credo di poterlo capire. Però è anche colpa mia.»
«Non è colpa tua se mi piaci, io sono l’adulta, io devo fare la cosa giusta.»
«Non sono una bambina, anche io so cosa è giusto e cosa è sbagliato» disse guardandola negli occhi. «D’accordo, sei bisessuale, e allora? Ti piaccio, e allora? A volte può capitare, capita spesso, solo che nessuno lo dice perché non è visto di buon occhio. Ma siamo esseri umani.»
Anche lei era un essere umano. Che stava attraversando un periodo normale e di cui stava però facendo una tragedia. Se si fosse fermata prima a respirare, come stava facendo adesso, forse le cose sarebbero andate diversamente.
«Già, è proprio vero» ammise. Soi Fon era in gamba, ne avrebbe fatto di strada.
«Yoruichi, ecco dov’eri!»
La voce di Kisuke era arrivata come un fulmine a ciel sereno. Lui era lì, forse l’aveva telefonata per avvisarla e lei non aveva sentito? Certo, aveva il cellulare in fondo alla borsa e in modalità silenziosa.
«K-Kisuke, ma che ci fai qui? Pensavo fossi a lavoro!»
Soi Fon si guardò intorno, spaesata. Avrebbe preferito scappare, ma allo stesso tempo non riusciva a muoversi.
«Veramente comincio tra un’ora!» ammise Kisuke. «Ti sei dimenticata il portafogli con i documenti e i soldi. Ho dovuto chiedere di te ai tuoi colleghi, dicono che per ora tendi a sparire» il suo sguardo si posò ben presto su di lei. Quella ragazza che aveva tanto scosso l’animo di sua moglie. Quella ragazza che in teoria era una rivale, ma che in pratica non riusciva a odiare, perché Kisuke non odiava nessuno. Anzi, vedendola provò subito simpatia.
«Scommetto che tu sei Soi Fon, vero? Yoruichi mi ha molto parlato di te.»
Che situazione strana e surreale. Loro due che parlavano, lì.
«E-eh? S-sì! Piacere di conoscerla signor… primario Urahara!» esclamò la ragazza facendo un inchino.
«Suvvia, non è necessario essere così formali» la rassicurò Kisuke guardando poi sua moglie. «Ascolta, visto che ho un po’ di tempo, possiamo parlare?»
Yoruichi annuì e guardò Soi Fon, che se ne tornò in classe. I due si infilarono in auto e allora fu Kisuke che iniziò a parlare.
«Così quella è Soi Fon, eh? Sembra simpatica in effetti.»
«Kisuke…» Yoruichi guardava dritto davanti a sé. «Non sei nemmeno un po’ infastidito?»
«Mmmh? Beh, non molto. Se fosse stato un uomo forse mi sarei più arrabbiato perché mi sarei paragonato a lui, chiedendomi cosa avesse in più di me. Ma con una ragazza non posso paragonarmi. Anche se più di me ha di sicuro la giovinezza» disse, per poi ridere. Yoruichi si massaggiò la testa.
«Dai, sii serio. Kisuke, io… sono bisessuale.»
Lo disse come se stesse pronunciando chissà quale difficile dichiarazione di guerra.
«Va bene» rispose suo marito. «Lo sai che non è un problema, per me puoi essere quello che vuoi. Accidenti Yoruichi, non immaginavo ti facessi tanti problemi per questo. Da giovane sperimentavi molto.»
«Sì, ma sperimentavo molto con gli uomini e in seguito con te» sospirò in imbarazzo, guardando fuori dal finestrino. «Non ci vuole un genio per capire che i nostri problemi sessuali derivano da questo. Non dalla mia sessualità, ma dal non volerlo ammettere. Io non voglio che le cose vadano male. Perché ti amo. Secondo te, se mi capita di provare attrazione per un’altra persona, sono orribile?»
Kisuke l’avrebbe baciata lì seduta stante, magari lo avrebbe fatto dopo.
«No, io credo… che questo possa capitare. Non sono sicuro che a me sia successo, però potrebbe. Certo, magari potrei provare una fascinazione per qualche altra donna, ma se si parla di amore, amo solo te. Non andrei mai con qualcun'altra.»
«Io non sono andata con Soi Fon, non lo avrei fatto a prescindere» disse Yoruichi. «Io… accidenti. Ti amo davvero e voglio stare con te e mi dispiace se non sono stata sincera. Con te e con me stessa. Mi viene da piangere, che sciocca.»
«Ehi» Kisuke allungò un braccio e la strinse. «Se vuoi piangere, non c’è problema. Lo sa che ti amo anche io, è bello sentirtelo dire. Non ti agitare, affronteremo la cosa un passo alla volta.»
Yoruichi annuì e si strinse nel suo abbraccio. Sentirsi protette era davvero meraviglioso.
«… Comunque se in futuro volessi provare una cosa a tre, potrei essere d’accordo» disse ad un tratto Kisuke. Yoruichi lo guardò, con un certo fare omicida.
«Di questo ne riparleremo in futuro. Vedo che sai prenderla con filosofia.»
«Vedo il buono in ogni cosa, mia cara. Ah, e poi c’è un’altra cosa» le disse. «Su Hikaru. Ho promesso ad una certa persona che ci avrei fatto attenzione, perché a quanto pare nostro figlio si sente invisibile.»
Yoruichi assimilò questa notizia e si sentì immediatamente mortificata. Ne aveva avuto il sospetto, in realtà.
«È così? Il mio povero bambino.  Ma perché sbagliamo?»
«Perché siamo umani. Va bene così, però. Se fossimo perfetti, sarebbe noioso» disse Kisuke. A lui la loro imperfezione piaceva, così com’era.
 
Shinji si stava ritrovando a fare qualcosa che in genere si rifiutava sempre di fare: dare ragione alle parole di Hiyori. La sua ex non faceva altro che ripetergli – da quasi dieci anni oramai – quanto fosse un fallito, un idiota e un immaturo. E lui era sempre stato bravo a difendersi, a cercare di farsi valere, ma adesso iniziava a non essere più sicuro di niente. Con Miyo non era poi un genitore così eccezionale, per quanto riguardava la realizzazione professionale, non era niente di che. E per quanto riguardava l’amore, aveva fallito su tutti i fronti, era addirittura divenuto un rovina famiglie. Sosuke aveva trovato un momento per passare da lui (erano stati giorni di fuoco, dove lui e Momo avevano discusso parecchio e vedersi anche solo per parlarne era difficile, ma ne avevano bisogno entrambi).
Era la prima volta che Aizen entrava a casa di Shinji, che era la metà della metà della sua abituazione, ma era più vissuta, con tutti i libri di Miyo sparsi in giro. C’era un’atmosfera molto calda, che da lui era sempre mancata.
«Ti prego, dimmi che la cosa si risolverà a breve» disse Shinji, che un attimo primo se ne stava seduto, poi si alzava, camminava e si risedeva.
«Dipende cosa intendi. Io e Momo divorzieremo» disse Aizen continuando a guardarsi intorno. I suoi occhi caddero su un libro poggiato sul tavolo e lesse il titolo ad alta voce. «La piccola principessa?»
«Eh? Ah, sì. È uno dei libri preferiti di Miyo» rispose Shinji. «Comunque la situazione non mi tranquillizza più di tanto. Tu sarai sulla bocca di tutti e potrei esserlo anche io. Non era questo che intendevo quando dicevo di voler essere famoso. Sarò l’amante rovina famiglie, eccellente» borbottò, sedendosi di nuovo. «Ma quello che ci rimette di più sei tu. Vorrei tanto capire se ne varrà la pena. Anzi, te lo dico io. Non ne valgo la pena.»
Aizen si voltò a guardarlo, un po’ sorpreso. Che ne era dello Shinji sicuro di sé, sempre strafottente e con quell’aria da eterno ragazzino addosso?
«Ti fai così tanti problemi.»
«E forse faccio bene. Ma quello che mi preme sapere è: se non avessi scoperto tua moglie a tradirti e io per la disperazione non avessi detto tutto, saresti comunque arrivato a questa decisione? Me lo avevi promesso così tante volte.»
Aizen non capì perché Shinji dovesse rendere tutto così complicato. Che importava oramai ragionare per se o per ma? Stava di fatto che la loro relazione era venuta allo scoperto e che ci sarebbero stati dei cambiamenti.
«Shinji, non è importante.»
«Fanculo, è importante eccome!» gli si avvicinò, quasi come se volesse attaccarlo ma non lo fece. «Voglio sapere ora che succede. Divorzi con tua moglie e vieni a vivere con me? E poi cosa, crescerai Miyo con me? Oppure hai in mente di continuare a farmi fare l’amante? Perché non sono sicuro che la cosa mi vada bene. Pensa che notizia, l’avvocato Sosuke Aizen lascia la moglie e va a vivere con un manager da quattro soldi. Beh, che vuoi fare? Fin ora non hai avuto una vita familiare ottimale.»
Ascoltandosi, Shinji capì quale fosse la sua paura: e se al posto di Momo ci fosse stato lui un giorno? Se Sosuke si fosse stancato? Chi poteva dargli la certezza che non sarebbe andata così? Aizen lo capì a sua volta. Amava Shinji, non aveva mai mentito su quello, ma comprendeva la sua sfiducia e i suoi dubbi. Perché di dubbi ne aveva anche lui. Si chiedeva se sarebbe stato capace di stravolgere così tanto la sua vita.
«Che cosa cerchi di fare?» gli domandò. Shinji sospirò.
«Di fare qualcosa di giusto. Di comportarmi come un adulto, cosa che non ho mai fatto. Lo sai che ti amo, ma non voglio finire in una relazione strana. Se devo stare con te, voglio starci senza riserve. Lo devo a me stesso e poi lo devo anche a Miyo, che è abbastanza grande da capire certe cose.»
Erano ben poche le persone in grado di essere determinate con lui, Shinji era una di quelle persone ed era uno dei motivi per cui gli era sempre piaciuto. Per una volta era lui quello insicuro su cosa dire.
«Lo capisco. Non posso darti certezze, io… dammi tempo.»
Shinji annuì e si sentì un po’ meglio, ma capì anche che la consapevolezza di non avere alcuna certezza lo rendeva nervoso.
 
Quel giorno era stata Neliel a prendere Naoko a scuola, prima di andare a lavoro. A Naoko piaceva tanto stare alla clinica veterinaria, perché amava gli animali quanto sua madre e perché le piaceva vederla all’opera. Conosceva quasi tutti i suoi colleghi, tutti tranne uno: Sszayel Aporro Gantz, un tizio che era sì gentile ma che non le era piaciuto dal primo istante. Non sapeva perché, ma c’era qualcosa che non la convinceva.
«Così questa è tua figlia, eh? Ma tu guarda, è identica a te» disse, guardandola, Naoko, che non era mai stata timida, era semi nascosta dietro sua madre. Avrebbe voluto dirgli che anche se non lo conosceva, aveva sentito parlare di lui: era quel tizio
 che ci provava sempre con sua madre, il tizio che suo padre non sopportava. E quindi per partito preso non lo sopportava nemmeno lei.
Neliel le accarezzò la testa.
«Saluta, tesoro.»
Lei gonfiò le guance, imbronciandosi.
«Ciao» borbottò, diffidente.  Se quel tizio sperava di conquistarsi la sua simpatia, stava sbagliando di grosso. «Mamma, quando viene papà?»
«Tra poco, aveva un incontro con i suoi editori. Mio marito è un mangaka» ricordò ò Nel. Sszayel Aporro sorrise.
«E fa anche un vero lavoro?» domandò lui. Neliel era troppo educata per rispondere (soprattutto per fare scenate sul luogo di lavoro), ma Naoko invece non si creava problemi.
«Mio papà fa un vero lavoro. E tu sei un… scemo!» disse facendo una linguaccia. Neliel avrebbe voluto baciare sua figlia, ma sapeva di non poterlo fare.
«Naoko, ma ti sembra il modo di rivolgerti ad una persona che non conosci?»
«Figurati, i bambini sono bambini» disse Sszayel Aporro, con un certo istinto omicida negli occhi. Naoko gli aveva appena dichiarato guerra.
La bambina si chiese in seguito come potesse una persona così sgradevole essere un bravissimo veterinario. Non bravo quanto sua mamma, certo, però ci sapeva fare. Aveva un modo lascivo di rivolgersi a lei che non le piaceva. Se ci fosse stato suo padre, gliene avrebbe cantate quattro. Lei si limitava a tenerlo d’occhio, seduta, attenta. Anche lei era gelosa.
Quando Nnoitra entrò alla clinica, Naoko gli corse incontro come se non lo vedesse da una settimana.
«Scusa il ritardo, sei pronta ad andare a casa?» domandò lui. Il suo sguardo s’incrociò subito con quello del suo rivale. Neliel rimase immobile, era una situazione un po’ strana.
«Ah, piacere di rincontrarti. Nnoitra, il mangaka, giusto. Immagino tu ti ricordi di me» disse lui, con un certo fare teatrale e fastidioso. Nnoitra assottigli lo sguardo.
«Già, so chi sei e tu sai chi sono io. Quello che ci prova spudoratamente con mia moglie.»
Neliel lo guardò, come a pregarlo di non fare scenate lì. Lui si morse la lingua, perché non era certo sua intenzione mortificarla.
«Oh, che esagerazione. Non direi che ci provo spudoratamente.»
«Bugiardo. Papà, io l’ho visto, eh» Naoko decise di aiutarlo. Neliel s schiarì la voce.
«Ve ne prego, se dovete parlare fatelo fuori» disse Neliel.
«Mi piacerebbe, ma non vorrei che lui tirasse fuori una pistola o mi aggredisse. So che non è nuovo a certi atteggiamenti»
Quell’uomo era proprio un bastardo a infierire così sulle debolezze di una persona. Nel lo avrebbe volentieri preso a calci e Naoko era così arrabbiata che le veniva da piangere.  Nnoitra era l’unico che sembrava tranquillo.
«Vogliamo scherzare?» domandò. «Tanto per cominciare io non ho mai avuto una pistola, e inoltre parli della versione di me stesso di quando… quindici anni fa? Non faccio male proprio a nessuno» parlava a bassa voce. Li era solito a scattare, ma quella volta aveva deciso di agire diversamente. «Io sarò stato una persona non proprio retta, ma forse c’è un motivo se Neliel ama me, se mia figlia mi adora e se invece tu sei così solo da doverci provare con una donna sposata.»
Neliel nascose un sorriso dietro una mano, Naoko invece rideva, troppo orgogliosa di suo padre che con solo le parole lo aveva asfaltato. In quel momento decise da grande voleva essere come lui. E l’espressione di quel tizio? Impagabile.
«Come osi?»
«Come oso? Così» disse allargando le braccia. «Così. Ah, e poi non te la prendere, ma non sei il tipo di Neliel. A lei piacciono alti, virili e tenebrosi, quindi perdi in partenza.»
E quello invece fu il momento in cui Neliel decise che una volta a casa avrebbe ricompensato Nnoitra a dovere, visto che vederlo agire in quel modo l’aveva eccitata. Ma soprattutto, era fiera di lui.
 
Ai stava imparando a comportarsi come una bambina della sua età. A essere spontanea, a giocare, cadere, a essere spensierata. Continuava ad amare lo studio, amava il conoscere, amava leggere montagne di libri. Ma amava anche costruirsi i fortini, saltare sul divano, lanciare i cuscini, raccogliere i fiori per studiarli, sporcandosi le ginocchia.
«Ah! Sono atterrata su un pianeta sconosciuto!» gridò Ai, avvolta in una coperta e saltando sul divano. «Devo raccogliere un campione per studiarlo. Chissà se ci sono forme di vita quassù. Io sono la prima bambina nello spazio, venuta quassù per studiare forme di vita sconosciute.»
Mayuri la guardava senza avere il coraggio di avvicinarsi. Ai aveva imparato a lasciarsi andare perché lui aveva smesso di criticarla. Ma non si poteva dire che si fossero ancora riappacificati. Non sapeva come fare. Nemu, dietro di lui, lo accarezzò.
«Su, avanti, va da lei.»
«Aspetta, non voglio, non so che dire» si lamentò lui.
«Non devi avere paura, sii te stesso. Cioè… sii te stesso veramente. Devi pensare di meno e sentire di più, va bene?»
«Io non ho paura di niente» disse e poi sospirò. «E va bene.»
Non è che avesse paura di Ai, aveva paura dei propri sentimenti. Pensare troppo e sentire poco, era proprio la frase che lo rappresentava meglio. Ai saltò giù dal divano con un salto e poi si fermò di scatto quando lo vide. E smise di ridere.
«Giuro che poi metto a posto. Devo smetterla di fare confusione?» domandò subito. Lui scosse a testa.
«No, non è per questo che sono qui» iniziò a dire, ingessato e teso. «Dobbiamo parlare.»
Ai si strinse una ciocca di capelli, un po’ nervosa. Parlare? Non parlavano da tanto, sembrava una vita.
«… Che cosa ho fatto?» domandò, dando subito per scontato l’aver combinato qualcosa. Sua figlia nemmeno lo guardava, era terrorizzata e insicura e la colpa era sua. Essere terribili con le altre persone era un conto, ma anche con lei…
«Non hai fatto niente. Io… che diamine, non sono bravo con queste cose, l’ho detto a tua madre, ma lo devo fare. Ai, io… Devi perdonarmi.»
La bambina si rilassò appena e assunse un’espressione confusa. Non poteva credere alle sue orecchie.
«Amh… continua» disse Ai dondolandosi nervosamente.
Le emozioni, che gran seccatura. Mayuri si inginocchiò, voleva guardarla in viso.
«Ho… sbagliato. Mi piace credere che io non sbagli in niente, ma con te invece l’ho fatto. Non per colpa tua, sono io. Io non sono bravo con i sentimenti. Probabilmente non li so vivere in modo normale perché…» abbassò la voce. «Credo, perché ne ho paura. Per quanto mi costi ammetterlo, sono umano anche io. E sono arrivato al mio limite.»
Più lui parlava, più Ai sembrava meno tesa. Capiva quello che diceva, anche se da sola non ci sarebbe mai arrivata. Forse quando si era adulti era più difficile, perché per lei invece vivere i sentimenti era facile.
 «E poi» continuò Mayuri, che stava facendo uno sforzo enorme per tirare fuori tutto. «Pensavo di volerti come me. Ma io non voglio che tu sia come me, sei molto meglio. Perché sei geniale ma hai un animo buono, senti tutto e sei molto più coraggiosa. Forse sono io che dovrei essere un po’ più come te. Non posso rovinare tutto ancora, perché io ti… io ti voglio bene. Molto più di quanto so dimostrare.»
Ai si commosse. Iniziò a singhiozzare e si asciugò una guancia.
«Scusa, non devo piangere.»
«Invece sì. Ai, sii te stessa e basta» Mayuri le afferrò una mano. «Mi dispiace. E mi dispiace per quello che ti è successo, perché non ti ho protetto, perché ho fallito. Odio il fallimento, lo odio soprattutto perché ho fatto soffrire te. Non ti posso promettere che sarò perfetto, ma anche io proverò a sentire di più. Se tu puoi perdonarmi.»
Ai capì di aver aspettato quel momento così a lungo. Era bellissimo lasciarsi finalmente andare.
«Sì. Perché ti voglio bene anche io. Non ci posso credere, finalmente è successo!»
Mayuri l’abbracciò. Sentire e affrontare i sentimenti era doloroso, ma nel dolore ci trovò il sollievo. Ai singhiozzava tra le sue braccia e lui riusciva ad essere umano.
«Va tutto bene, Ai. Andrà tutto meglio» le disse, mentre le baciava la testa. «E devo confessare anche che ti ho detto una bugia: sono io che ho deciso di chiamarti proprio Ai.»
La bambina lo guardò, i suoi occhi erano enormi per la sorpresa.
«Ma… davvero?»
Nemu aveva ascoltato tutto e finalmente si era avvicinata, asciugandosi gli occhi.
«Sì, è vero. Me lo ricordo.»
«Nemu, hai preso l’abitudine di origliarmi» Mayuri assottigliò lo sguardo e poi le fece segno di avvicinarsi. «E inoltre, Ai, perché tu lo sappia. Ho sbagliato anche con tua madre, ma nel caso te lo fossi chiesto: io la amo, non immagini quanto. E credo che anche lei mi ami molto, altrimenti non mi sopporterebbe.»
Nemu arrossì e si avvicinò, dandogli un bacio. Ai si portò le mani davanti la bocca, meravigliata.
«Non ci posso credere, sembra un sogno bellissimo.»
Mayuri arrossì e si imbronciò, guardando Nemu. Poi accennò un sorriso e capì che entrambi stavano pensando alla stessa cosa.
 
«Non abbiamo ancora deciso un nome. Come la chiamiamo?»
Mayuri stringeva tra le braccia quella bambina piccola e indifesa, che anche se appena nata aveva già gli occhi spalancati sul mondo. Da quando l’aveva vista aveva una sensazione fissa allo stomaco. come se gli mancasse l’aria. Ma non era una sensazione spiacevole, era solo strana. Come quando si era innamorato di Nemu. Questa sensazione era simile, ma più sconvolgente. E dunque quale nome poteva andare bene per quella bambina che avevano fatto insieme, che era arrivata all’improvviso e che aveva bisogno di tutti e due?
«Pff, vediamo…» Mayuri la guardò in viso. Essere completamente serio e impassibile risultava un po’ difficile. «La chiamiamo… Ai.»
«Ai?» chiese Nemu sorpresa. «Mi piace. Significa amore.»
Non avrebbe mai pensato che suo marito scegliesse un nome così dolce. Lui fece spallucce.
«Lo so. È il suo, l’ho capito guardandola negli occhi.»
Ai aveva fatto dei versetti, come se avesse capito. Che sarebbe stata amata. Anche se alcuni periodi della sua vita sarebbero stati bui, alla fine sarebbe stata amata sempre.
 
Orihime si sentiva, dopo tanto tempo, più serena. Adesso che aveva la mente più lucida si rendeva conto di aver perso di vista delle cose importanti, delle persone importanti. Ulquiorra, Kiyoko, ma anche le sue amiche. Era da tanto che non passavano del tempo insieme. Neliel non c’era quella sera, ma lei, Tatsuki e Rukia avevano comunque trovato un modo per vedersi. Era grazie a Rukia se Orihime aveva preso la decisone di prendere in affido un bambino, grazie ai suoi suggerimenti e varie conoscenze, ma quella sera più che concentrata su sé stessa, Orihime era concentrata su Tatsuki. Era da tanto che non la vedeva e la trovava diversa: innanzitutto il suo viso magro si era arrotondato ed era cambiata la luce nei suoi occhi. Che fosse l’amore? Sì, anche, ma doveva esserci dell’altro. E poi quella sera al ristorante, Tatsuki aveva preferito il pesce alla carne dicendo che quest’ultimo non le andasse. Rukia sapeva. E sapeva anche che Tatsuki non voleva avere segreti, che avrebbe voluto dirlo subito ad Orihime, ma aveva paura di risultare indelicata e anche adesso stava cercando le parole giuste.
«Voi due mi nascondete qualcosa» disse Orihime puntando loro contro le bacchette. Rukia e Tatsuki si guardarono. Dovevano proprio avere la faccia di due persone che nascondevano qualcosa. Tatsuki smise di giocherellare col cibo che aveva nel piatto e decise di parlare, era stufa di portarsi quel peso addosso.
«E va bene. Però, prima di dirti quello che devo dirti, sappi che non ne ho parlato prima non perché mi piace avere segreti, ma non sapevo come non essere indelicata. Io… sono incinta» confessò. Rukia studiò la reazione di Orihime. Se la conosceva bene (e la conosceva molto bene infatti) sarebbe stata molto felice per lei, forse anche un pizzico amareggiata. Anche se oramai il periodo più oscuro se l’era lasciato alle spalle, certe situazioni non si superavano con facilità del tutto.
«Lo avevo immaginato» disse Orihime. «Guardandoti in faccia si vede che sei diversa. E poi emh…»
«Sto ingrassando, lo so. Sei arrabbiata?»
Orihime non era arrabbiata. Era molto felice che Tatsuki fosse incinta, che le cose andassero così bene tra lei e Ishida. Certo, una piccola parte di lei la invidiava e si chiedeva come mai il destino alle volte fosse così strano e anche crudele: lei che aveva a lungo desiderato un altro figlio, non era arrivato (non in maniera tradizionale almeno), Tatsuki che non aveva cercato un’altra gravidanza invece era arrivata. Si disse che forse era così che doveva andare, che forse era nel su destino essere una madre solo in modo diverso.
«Arrabbiata io? E perché dovrei? Tu sei una delle mie migliori amiche. Questo vuol dire che tu e Ishida non divorzierete più?»
Tatsuki arrossì. Si sentiva un’idiota per essersi preoccupata così tanto.
«No, io credo proprio di no. Ci amiamo, e anche se sono terrorizzata sono felice di avere questa bambina.»
«Conosci già il sesso?!» Orihime alzò la voce senza rendersene conto. «A-aspetta, non ditemi che ero l’unica a non saperlo.»
«Lo sapevo soltanto io. E Ichigo» ammise Rukia. «Ma io l’ho saputo tramite Ichigo, quindi non vale.»
«Abbiamo aspettato parecchio per dirlo» ammise Tatsuki. «Volevamo essere sicuri che fosse tutto a posto.»
Orihime capì. In effetti anche lei avrebbe fatto lo stesso. E in effetti anche lei aveva una cosa da dirle. Guardò Rukia e poi parlò.
«Sono contenta che tu me l’abbia detto, perché in effetti anche io sto pensando di allargare la famiglia… Vorremmo prendere un bambino in affido» disse. A parte Rukia e suo marito era la prima a cui lo diceva. Tatsuki sgranò gli occhi.
«Davvero? Ma… ma… non ci posso credere, che bello!» alzò anche lei la voce e quando se ne accorse arrossì. «Voglio dire… penso sia una cosa bellissima.»
«Lo so… lo è…» ammise Orihime. Lei e Tatsuki erano migliori amiche dall’età di dodici anni. Avevano condiviso tutto, erano state le damigelle l’una al matrimonio dell’altro, erano rimaste incinte la prima volta nello stesso periodo. Adesso avevano una nuova esperienza da affrontare, anche se in modo diverso. Rukia si stiracchiò.
«Bene, allora proporrei un brindisi. Cioè, Tatsuki brinderà con l’acqua, ma avete capito.»
La poca amarezza che Orihime aveva fu trascinata via come dalla corrente di un fiume. Oramai sapeva.

Nota dell'autrice
Oggi è un giorno particolare per me, quindi sono commossa a leggere di tutte queste riappacificazioni. Nnoitra finalmente si è preso le sue soddisfazioni e gli unici che ancora non hanno chiarito sono Shinji e Sosuke, ma la loro è una situazione più complicata. E siamo quasi cal capitolo trenta, quindi... -7 al finale? Panico.
Nao

Ritorna all'indice


Capitolo 30
*** Capitolo trenta ***


Capitolo trenta
 
 
Masato aveva notato il cambiamento in Yuichi.
Il suo migliore amico, la sua persona speciale, adesso sembrava aver riacquistato la serenità, non aveva più lo sguardo malinconico che celava dietro gli occhiali.
«Ma ci pensi che avrà una sorellina? Sono proprio contento, era quello che volevo» gli raccontò Yuichi. «E anche la mia mamma e il mio papà… io spero che non si lascino più. Sarebbe brutto, vero?»
Masato, come era solito a fare, s’incantava a guardare Yuichi parlare. Gli era sempre piaciuto perché aveva una dolcezza e una sensibilità simili alla sua.
«Sì, certo. Ma non credo che si lasceranno. Non so come lo so… però lo so» disse, facendo spallucce. E Yuichi gli sorrise.
«Se me lo dici tu, ci credo. Io credo sempre a tutto quello che mi dici e sarà sempre così,»
Masato arrossì. Sotto il banco strinse la sua mano e rimasero così, senza nemmeno guardarsi, mentre il mondo intorno a loro cambiava. In molti avevano iniziato a cambiare: Naoko, Kiyoko e Ai, ad esempio, sembravamo più serene. Anche se il cambiamento più grande stava avvenendo in Rin, oramai migliore amica indiscussa di Miyo. Anche se le due avevano interessi molto diversi, riuscivano a coinvolgersi l’un l’altra. E sia Masato che Yuichi sussultarono quando udirono un tonfo: Rin aveva poggiato dei pesanti libri sul loro banco, facendoli spaventare.
«E questi?!» esclamò Yuichi sistemandosi gli occhiali.
«Gliel’ho prestati io, qui ci sono gli altri» spiegò Miyo posandone altri due davanti a loro. «Però trattali bene.»
«Certo che li tratto bene!» esclamò Rin, che anche se era un po’ arrabbiata con Toshiro e anche se sua mamma era un po’ arrabbiata sia con lui che con suo papà, stava piuttosto bene. Salutò le altre bambine. Naoko constatò soddisfatta che indossava il fiocco che lei le aveva regalato.
C’era un’atmosfera piuttosto rilassata, come non era da tempo. A stonare un po’ era Hayato. Dopo la sua fuga a casa Kurosaki, Rukia era stata costretta a telefonare a Momo. Il bambino non era stato molto felice di doversene tornare a casa, ma alla fine si era dovuto arrendere. Adesso era arrabbiato: aveva bisogno di dare la colpa a qualcuno. Perché se i suoi genitori si erano lasciati, doveva per forza essere colpa di qualcuno, no?
Entrò in classe e puntò Miyo. Poi l’afferrò per un braccio.
«Ahi! Che c’è, che ho fatto?» domandò lei. La sua reazione attirò l’attenzione dei suoi altri amici. Rin e Kaien in particolari si erano fatti molto attenti.
«Dimmi la verità. È vero? Mio padre e il tuo, loro…? Stanno insieme insieme?» domandò diretto. Miyo arrossì mentre i suoi amici si guardavano l’un l’altro un po’ confusi, possibile che Hayato avesse perso la testa?
«Questi non… sono fatti nostri, non lo so» sussurrò Miyo, a disagio.
«Bugiarda, tu sai! Allora è vero! È colpa vostra se la mia famiglia è rotta! Rovina famiglie, ma perché non ve ne andate?»
Miyo strinse i pugni così forte che si conficcò le unghie nei palmi delle mani. Le capitava raramente di piangere, era sempre molto solare e allegra, ma adesso le veniva difficile, perché sapeva che in parte Hayato aveva ragione.
«Ehi!» gridò ad un tratto Rin. «Guarda che non è mica così che funziona. Anche tua madre sta con un altro. Con quel traditore di Toshiro! Quindi prenditela anche con me, se vuoi!»
Hayato arrossì, arrabbiato. Era finito in una situazione che lo aveva messo a disagio.
«Tu fatti gli affari tuoi! Non sei più mia amica, non ti voglio più parlare!» Hayato guardò Miyo, gli occhi ridotti a due fessure. «E poi due maschi che stanno insieme… mi fa proprio schifo.»
Quella frase turbò un po’ tutti. Miyo, che si trovava in mezzo, soprattutto Yuichi e Masato. Davvero c’era qualcuno a cui faceva addirittura schifo l’idea che due maschi stessero insieme?
«Non è vero…» intervenne infatti Yuichi, facendosi coraggio. «Non è vero, non fa schifo. Tu sei un cretino e basta!»
Come se fossero tutti nemici, Hayato sarebbe stato pronto ad attaccare. E Kaien capì che doveva intervenire.
«Ohi» disse dandogli un colpetto su una spalla. «Hayato, se noi adesso siamo amici, tu devi trattare bene anche loro. Perché non mi piace quando qualcuno tratta male i miei amici. E poi la cosa che hai appena detto…mmh» le sue guance si colorarono di rosso. «Tanto tempo fa le pensavo anche io, ora però penso che non è giusto.»
Hayato sospirò profondamente. Era ancora arrabbiato, ma Kaien Kurosaki (che per tanto tempo aveva trovato irritante) aveva anche la capacità di non fargli perdere la testa. Hayato guardò Rin – l’amica di sempre che ora non voleva più vedere – e guardò Miyo. Che con quegli occhioni innocenti e dolci, era insopportabile.
«Pff, vabbé. Non voglio parlare più con nessuna di voi due. Sceme!» disse infine.
«Scemo ci sarai tu. Stupido, imbecille, cretino!» borbottò Rin, ma Hayato se n’era già andato. «Non lo ascoltate. Non lo ascoltare soprattutto tu Miyo, siccome è arrabbiato deve prendersela con qualcuno.»
Miyo sembrava un po’ spaesata. I conflitti non le erano mai piaciuti.

«Sì, io… adesso vado in classe, quindi… a dopo.»
Rin la osservò preoccupata. Conosceva bene la lingua tagliente di Hayato e sapeva che in quella situazione tutte e tre le loro famiglie erano coinvolte. Si stava sforzando di capire come se ne potesse venire fuori, ma forse quella era una situazione che potevano risolvere solo gli adulti. O almeno lo sperava!
 
«Quindi Rangiku è arrabbiata di nuovo con te, vero?»
Kira era in assoluto la persona migliore con cui parlare, nonché uno dei pochi che avesse il privilegio di vedere Gin depresso, preoccupato.
«Sì, ma questa volta le ho nascosto questa cosa ha fin di bene. Non volevo incasinare tutto, ma ci sono riuscito lo stesso» Gin era già al terzo bicchierino di… qualcosa. Una roba straniera, tipo tequila, non gli era dispiaciuto. «Il migliore amico di mia moglie è l’amante della moglie di Aizen, che è il mio capo, con cui mi sono sempre sentito in debito. Non so lui come potrebbe reagire se sapesse che sapevo. Sai, ho capito che tenere segreti e nascondere le cose non fa al caso mio, è stressante. Ce n’è ancora di quella roba da bere?»
Gin era sempre stato bravo a mantenere i segreti e a nascondere qualcosa al momento opportuno. Era per questo che a molti non piaceva o risultava inquietante, perché non si capiva mai cosa gli passasse per la testa. Ma Kira, che lo conosceva bene, alla fine sapeva che era solo una persona come tante.
Shuhei Hisahi – il compagno di Kira – non era molto contento di quella incursione in casa propria.
«Il tuo amico depresso non se ne può andare a casa? O al massimo va ad ubriacarsi al bar!» si lamentò.
«Sssh, Shuhei. Non essere così indelicato» lo pregò Kira. Gin però non ci fece nemmeno caso, troppo concentrato sul suo dramma.
Ma Rangiku non era arrabbiata con lui. Non più almeno, adesso era più preoccupata per la situazione di Toshiro che per altro. Lui era solo un ragazzo che si era innamorato e si era messo in una situazione complicata. E poiché gli voleva bene come un fratello minore, qualcosa doveva pur fare. Anche lei si presentò a casa di Kira, seria e con una certa aria di rimprovero verso suo marito.
«Sei venuta a riprenderti tuo marito?» domandò Hisagi, un po’ scorbutico. «Sta diventando piuttosto insopportabile.
«Sì, posso immaginare» rispose lei giocherellando con i propri capelli. «Gin, non c’è bisogno di disperarsi, non sono arrabbiata con te.»
Gin sollevò lo sguardo, i suoi occhi apparivano stranamente grandi.
«Davvero? Non sei arrabbiata perché io e Toshiro avevamo un segreto?»
«No, sono solo preoccupata per lui. Coraggio, vieni qui.»
Gin si rese conto innanzitutto di aver bevuto un po’ troppo, cosa che non era da lui. Secondo, era stato proprio stupido a disperarsi in quel modo. Afferrò la mano di sua moglie e poi l’abbracciò stretta.
«Scusa se mi sono rifugiato qui. Ho capito che mantenere i segreti è troppo stressante, e anche nascondere le cose.»
Rangiku sorrise intenerita e gli accarezzò i capelli. Quel suo lato così tenero e umano era ciò che amava di più, di lui.
«Non dovrai più farlo, sta tranquillo» sussurrò, mentre Kira commentava il fatto che fossero davvero una coppia adorabile, due anime gemelle destinate a trovarsi sempre nonostante le diversità.
Rangiku trascinò via Gin da casa di Izuru e lo fece sedere al sicuro in auto. Lì, Gin iniziò a riacquistare un po’ di lucidità.
«Non credo che dobbiamo preoccuparci per lui» disse. «Aizen sta con quel tipo… il padre di quella bambina, Shinji Hirako. A quanto pare è il suo amante.»
Rangiku inarcò le sopracciglia. Continuavano le sorprese, a quanto sembrava.
«Rimane comunque il fatto che sono preoccupata. Toshiro è giovane, ancora studia. Che cosa farà adesso? Avrà una relazione con Momo? Si occuperà anche di suo figlio? E che succede se le cose vanno male? E poi di Aizen non mi fido, orgoglioso per com’è potrebbe rendergli la vita un vero inferno, io…» si fermò un attimo e cercò di respirare. Non era da lei essere apprensiva o negativa, anzi, ma quella situazione l’aveva mandata in paranoia.
«Lui è in gamba, sa quello che fa. Comunque potrà contare su di noi» la tranquillizzò stringendole una mano. «Forse dovresti parlare con lui. Pensa che adesso lo odi.»
Rangiku strinse un pugno, nervosa.
«Da un lato lo prenderei a pugni! Ma da un lato so che al cuor non si comanda, quindi al diavolo, andiamo da lui. Ma se non è a casa nostra, né all’università, immagino ci sia un solo posto dove può essere.»
Nessuno dei due si era sbagliato in effetti e Toshiro aveva chiesto a Momo di incontrarsi, cosa che non era ancora successa da quando erano stati scoperti da Aizen. Adesso iniziava ad essere un po’ teso. Aveva sempre saputo di essersi cacciato in una situazione un po’ strano, eppure la consapevolezza non lo aveva preparato ad affrontare quegli eventi.
«Non pensi sarebbe stato meglio vederci fuori?» domandò mentre Momo lo tirava dentro. Non si sentiva molto a suo agio a tornare a casa sua, se avesse avuto davanti Aizen o anche suo figlio non avrebbe saputo come reagire.
«Sosuke non c’è. Adesso che è uscito allo scoperto, non ha problemi a passare più tempo col suo amante» disse, non riuscendo a nascondere un certo ribrezzo.
«E dai… lo so che è difficile, ma Shinji è mio amico. E tutto questo è molto strano» ammise, scompigliandosi i capelli. Doveva ancora capire come avessero fatto quei due ad innamorarsi, anche se non poteva giudicare. Si trovavano tutti sulla stessa barca. Momo sospirò.
«D’accordo. Comunque ti avevo detto di aspettare che le acque si calmassero.»
«E a che serve? Tanto oramai lo sanno tutti» Toshiro la guardò negli occhi, serio. «Per caso non sei più convinta? Di noi due, intendo.»
Dubitava che Momo avrebbe continuato la sua relazione con Aizen, ma non era nemmeno scontato che volesse continuare con lui. Lui era un ragazzino, alla fine dei conti. Magari lei aveva bisogno di un uomo.
Momo arrossì.
«Mi dispiace, ti ho dato questa impressione? Non è questo, sono solo preoccupata. Intanto voglio divorziare, questo è sicuro. Sosuke non ha motivo per dirmi no, nemmeno lui vuole più questo matrimonio. È il dopo che mi spaventa. Sono terrorizzata all’idea che tutto potrebbe andare male, di nuovo. Perché mi sono innamorata di te e non voglio… non voglio che vada tutto male.»
Momo aveva con sé il trauma dell’amore che finiva, che si spegneva inesorabilmente sotto i suoi occhi senza che potesse fare nulla. Aveva paura che con Toshiro fosse solo uno di quegli incendi violenti ma che si estinguevano in fretta. E non lo voleva, nella maniera più assoluta. Toshiro, dal canto suo, aveva paura diverse: sarebbe stato in grado di essere l’uomo che lei meritava? Strinse le sue spalle, tremando appena.
«Non lo voglio nemmeno io, ma se non tentiamo non lo sapremo mai. Se dovrà finire, finirà sia che ci preoccupiamo o no.»
Poi le baciò la fronte e Momo ricordò perché lui l’aveva conquistata. Perché era diverso da lei, ma in senso positivo. Perché le alleggeriva la vita. Già si vedeva: loro a vivere insieme e lei che suonava il piano.
Poi squillò il cellulare di Toshiro, una chiamata da parte di Rangiku.

«Eh?» rispose lui. «Sì?»

«Apri la porta. Sì, siamo qui dietro» disse risoluta.
Momo avrebbe voluto sparire. Lei era amica di Rangiku, chissà cosa avrebbe pensato di lei, ma quando se la ritrovò davanti non vide nei suoi occhi né giudizio né pietà. In realtà sia lei che Gin convennero silenziosamente che quei due insieme stavano meglio di quanto fossero mai stati Momo e Sosuke.
«Eeehi. È tutto a posto, Toshiro. Rangiku non è più arrabbiata con te. Ma soprattutto non è più arrabbiata con me» disse Gin allegro. Sua moglie invece era seria. Sollevò un dito e poi prese a parlare.
«Io non sono qui per giudicare, figurarsi. Sono l’ultima persona che può farlo, ma una cosa la voglio dire. A tutti e due» e guardò prima Toshiro e si rese conto di quanto fosse cresciuto oramai. «Lo ammetto, forse ti ho sottovalutato. Sei giovane, ma non sei stupido. Sei sempre stato maturo per la tua età. Sei… anche stato sempre più maturo di me in effetti. Ti sei messo in una situazione difficile e sono preoccupata per te, però… Gin mi ha fatto riflettere sul fatto che tu sei… in gamba, e ha ragione.»
Toshiro arrossì e guardò Gin. Non molto tempo prima non lo aveva mai sopportato. Adesso però erano amici. Sì, di sicuro lo erano.
«E tu, Momo» disse rivolgendosi a lei, che sussultò. «L’amore ci rende pazzi, alle volte, so cosa vuol dire amare in maniera totale un uomo. Però voglio solo che tu sappia che se farai soffrire Toshiro, non ti perdonerò. È come se fosse mio fratello minore e anche se è un adulto in grado di cavarsela da sola, io lo proteggerò sempre. E questo è quanto.»
Se non avesse avuto un carattere poco incline alle lacrime, Toshiro sarebbe scoppiato a piangere. Commosso però ci si sentiva comunque: Rangiku gli voleva bene. E lui le voleva bene, come se fosse stata sua sorella.
«Rangiku…» la chiamò.
«Lo so, non devo immischiarmi, ma sappiate solo questo. Poi insomma, non mi meraviglia che Momo si sia innamorata di te.»
Momo arrossì. Avrebbe voluto dire che aveva ragione, che c’erano tanti motivi per cui si era innamorata di lui e che l’ultima cosa che voleva era farlo soffrire. Un groppo alla gola però le impedì di parlare. Non era triste. Stava solo iniziando a sentirsi meglio.
 
 
Rukia aveva il suo primo esame quella mattina. E Ichigo aveva preso la sua decisione non solo di accompagnarla, ma anche di assistere. Riguardo a questo, sua moglie aveva cambiato idea svariate volte.
No, non puoi rimanere, mi sentirei troppo in imbarazzo.
Rimani, per favore. Se ci sei tu mi sento più coraggiosa.
Ma alla fine Ichigo era rimasto, per calmare l’ansia di Rukia. Per rassicurarla, nel suo modo un po’ impacciato e all’apparenza burbero.
«Ma dai, cosa ti preoccupi a fare? Sai tutto e io ti ho ascoltato tanto che potrei sostenere l’esame al posto tuo.»
«Puoi farlo?» chiese Rukia seduta accanto a lui, un po’ tremante. Solo due volte era stata così nervosa, il giorno del suo matrimonio e il giorno in cui aveva atteso che il test di gravidanza le dicesse se fosse incinta o meno. Stessa sensazione di nodo allo stomaco, stessa nausea.
«Su, non fare la scema. Guarda che ora tocca a te. E se ti dimentichi qualcosa, vai avanti lo stesso» gli disse Ichigo, che di esami universitari era un esperto. Anche lui un tempo aveva passato nottate sui libri, ma a differenza di Rukia affrontava tutto con un’apparente strafottenza che gli rendeva le cose più facili.
«E va bene, vado!» disse alzandosi in piedi di scatto. «N-non ti muovere di qui finché non ho finito!»
«Non mi muovo, promesso» la rassicurò, rimanendosene seduto in mezzo agli altri studenti che nervosi sfogliavano i libri e ripetevano a mente. Rukia era piccola nell’aspetto, ma allo stesso tempo sembrava grande. Ichigo la vide sospirare, poi sedersi davanti la commissione d’esame e dopodiché la sentì parlare. Le aveva raccomandato di non andare troppo veloce, cosa di cui Rukia doveva essersi dimenticata a causa dell’ansia (e probabilmente si era anche dimenticata di respirare). Era una macchina da guerra, anzi di informazioni. E si rasserenò anche lui quando la sentì rispondere ad ogni domanda. Tutto quel lavoro era servito, alla fine e Rukia riuscì ad ottenere quasi il massimo dei voti.
Quando finì, gli andò incontro e quasi si lasciò cadere.
«Sono distrutta, stanca, sfinita» sussurrò, sentendosi improvvisamente debole sulle proprie gambe. Ichigo l’afferrò e l’avrebbe presa tra le braccia per sollevarla, ma evitò.
«Sei stata brava. Ma su questo non ho mai avuto dubbi.»
Rukia arrossì e lo abbracciò.
«Ma non ce l’avrei mai fatta senza di te» sussurrò, abbracciandolo. Ichigo si disse che in realtà non è che avesse fatto granché, anzi, non si era nemmeno comportato troppo bene ultimamente. Lui aveva fatto solo quello che chiunque avrebbe fatto, sostenerla.
«Ma sì che ce l’avresti fatta, tu sei in gamba anche senza di me» disse e ringraziò che Rukia non potesse vedere il rossore sulle sue guance. Insieme uscirono fuori e trovarono vicino alla scalinata che conduceva all’edificio universitario, Renji e Byakuya seduti sulla moto.
«Ma come, l’esame è già finito? Hai visto, siamo arrivati in ritardo» si lamentò Renji. Byakuya guardò la sorella.
«In realtà siamo venuti in ritardo di proposito. Renji avrebbe fatto un tifo fin troppo sfegatato. Com’è andata?»
«Ehi, non ti rivolgere a me come uno che non si sa controllare, capito?» borbottò, in imbarazzo. Rukia e Ichigo si guardarono, sorpresi. Si sbagliavano o c’era forse un’intesa particolare tra quei due?
«È andata molto bene. E vedo che va molto bene anche fra voi due, eh?» domandò alludendo a chissà cosa. Byakuya guardò verso l’alto, facendo finta di niente.

«Sì, va bene…»
«Benissimo!» aggiunse Renji. «Scusatelo, è timido, ma questo lo sapevate già. Allora, mangiamo qualcosa? Sto davvero morendo di fame.»
Quella era senza dubbio una bella giornata. Per tutti.
 
Quel pomeriggio era stato Sosuke ad andare a prendere Hayato a scuola. Sapeva che avrebbe dovuto parlargli, ma non era mai stato bravo a rivolgersi a lui. Hayato, dal canto suo, sembrava ostile. Se ne stava seduto sul sedile di fianco a lui a braccia conserte, imbronciato, come se fosse sul punto di esplodere. Ovviamente suo figlio sapeva. Di lui, di Momo, del loro divorzio. In quella situazione, Shinji sarebbe stato molto più bravo di lui.
«Hayato, c’è forse qualcosa che vorresti dirmi? Qualcosa che dovrei sapere?» domandò.
Hayato aggrottò di più le sopracciglia. Sì, in effetti c’erano molte cose che avrebbe voluto dire.
«Tu lo sai cosa voglio dire. Lo so cosa hai fatto, cosa avete fatto tu e la mamma. Quindi vi lasciate?»
«È così» disse diretto. Girarci attorno sarebbe stato inutile. «So che non ti piace la situazione, ma non puoi scappare come hai fatto l’altra volta.»
Non poteva? Hayato si sentiva in diritto di fare quello che voleva. Come i suoi genitori del resto, no?
«Io invece lo faccio. Perché non lo sopporto. Mamma vuole quel… quel ragazzino. E tu vuoi stare con quello!»
Aizen corrugò a sua volta la fronte.
«Quello ha un nome, Hayato. Le cose sono più complicate di quanto pensi.»
«E chi se ne importa. Io non voglio stare né con te né con mamma. Anzi, non voglio stare proprio con nessuno!»
Aizen si sorprese di non riuscire a gestirlo. Era sempre bravo a gestire tutto, meno che suo figlio a quanto pareva.
«Hayato, smettila con questi capricci.»
Hayato però non era disposto a scendere a compromessi. Così mentre si trovavano ad un semaforo, aprì lo sportello ed uscì, iniziando a correre.
«Hayato, fermo, dove…? Dannazione, quel ragazzino» si lamentò Aizen, scendendo a sua volta dall’auto.
 
Hayato non sapeva dove stava andando, voleva solo allontanarsi il più possibile. Non molto lontano da lì, una ragazzina bionda stava uscendo dal magazzino dove i Vizard facevano le loro prove.
«Torno subito, vado nella libreria qui di fronte!» gridò aprendo la porta. Mentre si girava, qualcuno le venne addosso.
«Ahi! Ma che… cosa?!» esclamò Miyo massaggiandosi la testa. Era Hayato, rosso in viso e con il fiato corto per la corsa, che la fissava.
«Ancora tu?» si lamentò il ragazzino. «Possibile che t’incontro ovunque?»
«E io che c’entro, tu mi sei venuto addosso. Perché mi guardi così?» domandò indietreggiando. Non le piaceva come Hayato la guardava. Era arrabbiato. Lo era da quella mattina, ma adesso aveva perso il controllo.
«Ti guardo così perché non ti sopporto. Perché io sono invisibile e tu invece no!»
Miyo indietreggiò ancora, ma non capì. Cosa aveva fatto stavolta? Se lo chiedeva mentre Hayato le afferrava i capelli e lei si lamentava ad alta voce. Shinji la sentì subito e quando li vide non ci pensò due volte prima di intervenire.
«Ehi, ehi, lasciala subito, ma sei impazzito? Cosa ci fai tu qui da solo?» chiese liberando Miyo dalla presa di Hayato.
«Guarda che ti prendo a pugni, è tutta colpa tua!»
Shinji lo guardò, lo osservò. Ah, eccolo lì il piccolo Hayato, figlio dell’uomo che amava, che di sicuro vedeva in lui la causa di tutti i suoi mali. E non poté dargli torto. Strinse Miyo a sé con un braccio, mentre cercava di capire come fosse arrivato da solo quel ragazzino.
«Non è necessario prendermi a pugni. Piuttost,o come sei arrivato qui?» domandò
Ma la risposta arrivò poco dopo proprio con Sosuke. Quest’ultimo non era a lui che rivolse l’attenzione, ma ad Hayato: lo afferrò per il colletto della maglietta.
«Come ti sei permesso a scappare così? Può essere pericoloso!»
Poi alzò la mano e fece per colpirlo sul viso. Shinji lo capì prima che potesse agire, così strinse il suo braccio e lo fermò. Solo a quel punto Sosuke si accorse di lui.
«Shinji.»
«Sosuke. Questo genere di cose non mi piacciono molto. Quindi ti prego di non colpirlo»
Aizen, che non ascoltava nessuno tranne che lui (anche se solo ogni tanto), allora abbassò il braccio. Hayato se ne stava ancora sulla difensiva, Miyo anche. Era una situazione strana, imbarazzante, più per i due adulti che per i due bambini.
«Va bene, allora adesso andiamo» disse Sosuke. Ma suo figlio si era impuntato.
«Io non vado da nessuna parte. A casa con te, con voi, non ci torno. La colpa è vostra!»
Shinji alzò gli occhi al cielo. Oh, ragazzino insopportabile. Ma non ce l’aveva con lui, in realtà lo capiva. Era solo un bambino. Ferito, confuso, probabilmente con una carenza d’affetto da parte di suo padre.
«Colpa mia, Miyo non c’entra mica con questa storia» ci tenne a precisare. Non si era accorto che a sua figli veniva proprio da piangere. A lei che non erano mai piaciuti gli scontri, tutta quella situazione risultava stressante. E poi uscì anche Hiyori, allertata da tutta quella confusione.
«Oh! Si può sapere cosa è tutta questa… confusione?»
Shinji desiderò sparire. Hiyori sapeva dei suoi trascorsi con Aizen e – tanto per cambiare – la cosa non gli era mai andata a genio. Gli aveva sempre detto che andare con un uomo sposato non era proprio il massimo e che come persona non gli ispirava la minima fiducia. Tutte cose che non gli sarebbero interessate, se non avessero avuto una figlia in comune
«Tu!» esclamò indicandolo. «Tu sei quel… bastardo, Sosuke Aizen.»
«Ci conosciamo?» domandò il diretto interessato. In realtà lui Hiyori la conosceva bene perché Shinji gliene aveva parlato.
«Shinji, ma cosa sta succedendo qui? Ah, ora capisco, è con lui che stai. Con questo tizio snob e pure sposato?» domandò, già arrabbiata.
«Questi non sono affari che ti riguardano, non stiamo insieme» reagì Shinji. Anche quello era un incontro che si sarebbe evitato volentieri.
«Infatti non me ne frega nulla di te, ma hai idea della situazione in cui hai messo anche Miyo?» lo accusò.
Ma nessuno guardava Miyo. Che aveva sgranato gli occhi e aveva indietreggiato.
«L’abbiamo tenuta fuori, infatti» s’intromise Sosuke.
«Già, lo sto notando, eccome!» ribatté lei.
Miyo non voleva sentire nulla. Voleva solo che tutti la smettessero di litigare, che andassero oltre. Lei non era fatta per sopportare questo. E quindi sentì il bisogno di scappare anche lei. Solo Hayato la guardò e la trovò strana.
«Ma che c’è?»
Miyo fece cadere il suo libro di mano. E non molto presente a sé stessa attraversò la strada, si mise a correre e accadde tutto velocemente e lentamente al contempo. Non aveva visto il semaforo rosso e qualcosa le era venuto addosso.
Un’auto. E aveva fatto così male che per un attimo le era mancata l’aria. Poi cadde sull’asfalto e non sentì più nulla. Né le grida, né le parole. Finalmente un po’ di meritata tranquillità.
Hayato gridò perché aveva visto tutto. Era stato come guardare un film, ma molto peggio. Quello era successo per davvero. A lei. A quella bambina della sua età a cui aveva detto di sparire.
Io sono invisibile e tu no.
«MIYO!»
Il secondo grido fu quello di Hiyori, che si era gettata in strada per raggiungere il corpo della sua bambina inerme sull’asfalto.  Sosuke fu molto più controllato, anche se quell’immagina aveva scosso anche lui, per qualche attimo. Mise la mano davanti gli occhi di Hayato.
«Non guardare. Chiudi gli occhi, chiudili. Shinji, chiamo un’ambulanza. Shinji?»
Shinji però non lo sentiva. Aveva smesso di vedere ogni cosa, di sentire ogni cosa. Aveva smesso anche di respirare.
 

Nota dell'autrice
Stava andando tutto bene, doveva succedere il casino indicibile. Povera Miyo, lei è sempre stata così buona e io sono così crudele. Infatti il prossimo capitolo è bello peso, almeno per me lo è stato, Non ho altro da aggiungere, sigh.

Ritorna all'indice


Capitolo 31
*** Capitolo trentuno ***


Capitolo trentuno
 
 
Quando Ichigo e Ishida si erano visti arrivare Miyo su una barella, non avevano trovato le parole. E d’altronde loro non erano lì per parlare, erano lì per fare il loro lavoro. Ma era stato strano per entrambi, perché potevano mettersi con facilità nei panni di Shinji. Se al posto di Miyo ci fossero stati Yuichi o Kaien o Masato non avrebbero saputo come reagire, anche se quello era il loro lavoro.
«Nemu, abbiamo la pressione e il battito cardiaco?» domandò Kurostuchi all’infermiera.
«Il battito è debole e la pressione sta calando. Emorragia interna, una frattura al braccio destro. Il respiro è irregolare» gli comunicò lei.
Faceva sempre un certo effetto quando arrivava un bambino con traumi di quel tipo. Pareva più ingiusto del solito.
«Yamada, Kurosaki e Ishida, mi servite in sala operatoria» disse Kurostuchi rivolto agli altri tre chirurghi. «Ha bisogno di una trasfusione prima di tutto.»
«Ci penso io!» gridò Hanataro, che aveva preso subito la situazione in mano. Ichigo alzò lo sguardo quando sentì delle voci provenire dal fondo il corridoio. Era soprattutto Hiyori che si agitava. Poi c’era Aizen e c’era anche suo figlio, Hayato, che se ne stava seduto, pallido e con gli occhi spalancati.
«Ti odio! La colpa è tutta tua!» gridò Hiyori colpendo Shinji. «Sei stata tu a farle questo!»
Shinji, che se n’era rimasto in silenzio per tutto quel tempo, nel sentirsi accusare di una cosa di cui non aveva colpa, reagì con tutta la violenza che aveva in corpo.
«Sta zitta! Non è colpa mia! Perché devi farmi questo, perché?»
Shinji piangeva. Nessuno lo aveva mai visto reagire così, a Sosuke fece quasi impressione perché non credeva possibile vedere uno come lui – sempre così strafottente e quasi senza pensieri – ridursi in quelle condizioni.
«Perché tu fai solo scelte sbagliate!» gridò Hiyori.  Shinji si portò una mano sulla fronte, esasperato.
«Io non ho… cazzo… Hiyori, sta zitta, mio Dio sta zitta o giuro che ti ammazzo!»
Aizen fece segno loro di non esagerare, perché si trovavano pur sempre in un ospedale. Ma fu l’arrivo di Kisuke Urahara a cambiare drasticamente le cose.
«Voi due, statemi bene a sentire!» disse ad alta voce, con un tono severo che raramente qualcuno lì dentro aveva sentito. «Capisco la situazione, ma siamo in un ospedale. Se dovete discutere, andate fuori. Non è ciò di cui vostra figlia ha bisogno, adesso.»
Shinji si zittì subito e, sorprendentemente, anche Hiyori. Shinji si sedette e, anche se sfogava il suo pianto silenziosamente, il suo corpo sembrava scosso dagli spasmi. Sosuke avrebbe voluto fare qualcosa, ma per la prima volta in vita sua non sapeva come agire. Non si era mai trovato in una situazione del genere e, per quanto potesse sembrare assurdo, la cosa aveva turbato anche lui. Ichigo si avvicinò a Shinji, si sentiva in dovere di dirgli qualcosa non in quanto medico, ma in quanto amico.
«Ehi, Shinji. Tranquillo, okay? Le stanno facendo la trasfusione, vedrai che starà meglio. La frattura sembra brutta, ma a quella ci pensiamo noi.»
Con uno scatto, Shinji si aggrappò al suo braccio. Stava tremando e dalla sua espressione sembrava quasi irriconoscibile.
«Ichigo… ve la sto affidando, vi prego. Lei è una delle poche cose buone che io abbia mai fatto. Fa che non le succeda niente.»
Ichigo dovette respirare profondamente. Non era il momento di lasciarsi andare alle lacrime, alla commozione o alla paura. Dopo aver fatto il suo lavoro ci sarebbe stato tempo. Annuì.
«Te lo prometto, Shinji.»
Kurotsuchi lo chiamò poco dopo.
«Kurosaki»
«Sì, arrivo subito. Adesso vado, vi faremo sapere subito!!»
A malincuore si staccò dal suo amico e andò in sala operatoria. Kurostuchi fece per seguirlo, ma qualcosa lo fermò un attimo. Lui non era uno di quelli che si perdeva in rassicurazioni. Ma pensò che se al posto di Miyo ci fosse stata Ai, una rassicurazione in più non gli avrebbe guastato.
«Ehi, voi due» disse rivolgendosi a Shinji e Hiyori. «Io non sbaglio mai un intervento. Vostra figlia starà bene e vi posso assicurare che faremo del nostro meglio»
Hiyori si asciugò una lacrima e Shinji fece un cenno con la testa, sorpreso ma anche sollevato. Poi si lasciò cadere sulla sedia e chiuse gli occhi. Hiyori si alzò, aveva bisogno di aria. E Sosuke non sapeva da chi andare per primo, se da Shinji o da Hayato. Pensò che prima dovesse pensare a suo figlio, pallido come un fantasma.
«Hayato» lo chiamò, prendendo il viso tra le mani. «Sei con me? Vuoi dell’acqua?»
«Eh… no, io non ho… ma…» il bambino alzò lo sguardo. «Miyo starà bene, giusto? Non… morirà, vero?»
Hayato si sentiva preoccupato per lei. E si sentiva in colpa. Se quell’auto l’avesse investita perché l’aveva voluto lui? No, lui non aveva voluto questo, però le aveva detto che doveva sparire.
«Ma che dici? No che non morirà. Si è fatta molto male, ma si riprenderà» Sosuke non era mai stato un tipo rassicurante. Tanto meno con suo figlio, ma adesso si stava sforzando di esserlo perché Hayato aveva già su di sé il trauma di aver assistito all’incidente. Non si era accorto che Shinji si era avvicinato a loro e aveva dato qualcosa ad Hayato.
«Dovresti bere. Altrimenti avrai un calo di pressione» gli disse. Hayato lo guardò, un po’ in soggezione, ma poi accettò il brick di succo di frutta e lo ringraziò sottovoce. Sosuke si voltò a guardarlo. E Shinji lo guardò a sua volta. Non voleva parole. Sosuke lo capì e allora fece ciò che non pensava avrebbe mai fatto in pubblico, davanti a suo figlio soprattutto. Lo strinse tra le braccia. Shinji rimase un attimo rigido e poi si lasciò andare in quell’abbraccio e chiuse gli occhi. In quel momento si sentiva così male, così spaventato. Ma si sentiva anche così bene tra le sue braccia che si chiese come fosse possibile.
Hayato li osservò in silenzio, mentre beveva. Vederli fu strano. Non era sicuro che gli piacessero, però pensò che non era nemmeno così orribile come pensava. E poi adesso questo non aveva importanza. Voleva vedere per Miyo. Per dirle cosa non lo sapeva nemmeno lui, però intanto voleva che stesse bene.
Passarono un paio d’ore. Shinji era stato più volte sul punto di fumare per distendere i nervi, ma ogni volta si ricordava che a Miyo non sarebbe piaciuto affatto. E così non lo fece. Lui e Hiyori non parlarono, non discussero, stettero solamente in silenzio, l’uno accanto all’altro. E Sosuke se ne rimase lì, mentre cercava di convincere suo figlio ad andare a casa, non era necessario che rimanesse lì.
«Ho chiamato tua madre. Può venirti a prendere.»
Hayato scosse la testa.
«Rimango qui.»
«Preferisci che ti accompagni io?»
«No, ho detto che rimango. È importante, per favore» lo pregò. Sosuke non insistette più di tanto: non aveva mai visto suo figlio in quelle condizioni. Gli sembrava diverso e come lui si scoprì preoccupato per le storti di quella bambina. Che era la figlia dell’uomo che amava.
«Forse non dovevo accusarla» disse ad un tratto Hayato. «Lei è una bambina come me. Però è più buona di me. E piace a tutti. Io non proprio.»
Aveva sempre detto a suo figlio che non aveva bisogno di nessuno. Che l’amicizia e l’amore spesso erano superflui, ma adesso nemmeno lui si sarebbe preso sul serio. Se si trovava lì era per amore.
«E a te non piace, vero?» domandò. Hayato mosse le gambe, un po’ nervoso. Non era abituato a quelle attenzioni da parte di suo padre. Scosse la testa.
«Prima sì. Ora no. Litigare sempre con tutti è faticoso. Rin è riuscita a fare amicizia perché Miyo l’ha aiutata. Io da lei non mi sono fatto aiutare perché… sono geloso» ammise. «È vero, lei non è come me, non è ricca, però sembra felice. Suo papà l’abbraccia sempre. Tu invece non lo fai mai. Non lo hai mai fatto.»
Hayato lo stava rimproverando aspramente. Sosuke sapeva di non essere stato n bravo marito e, da quando aveva ripreso la sua relazione con Shinji, aveva capito anche di non essere un bravo padre. È che lui era sempre stato così: rigido, severo, uno che lasciava poco spazio ai sentimentalismi. Con i bambini poi era tutto più complicato, perché Hayato lo prendeva ad esempio. Lui influiva sull’uomo che un giorno suo figlio sarebbe diventato. Questo era spaventoso, ma era la verità.
Così decise di rivolgersi a lui come se fosse un ragazzo molto più grande della sua età.
«Hai ragione, Hayato. Ho avuto delle mancanze nei tuoi confronti. Per me essere forte significava proprio questo. E pensavo saresti diventato forte anche tu, ma… evidentemente a volte sbaglio anche io» ammise e guardò di soppiatto Shinji , che aveva preso ad esempio sotto molti aspetti. Hayato sospirò. Iniziava a sentire la stanchezza sia fisica che emotiva di quella giornata.
«Sì, è vero sbagli» il bambino lo guardò. «Ma almeno mi vuoi bene?»
Era solo un bambino. Aveva già sofferto abbastanza per le decisioni sbagliate degli adulti. Così, per la prima volta dopo tanto tempo, lo circondò con un braccio e lo strinse, addirittura un po’ impacciato.
«Sì, che te ne voglio, Hayato. Mi spiace per tutto questo.»
Se c’era una cosa che Hayato sapeva bene, era che suo padre non chiedeva mai scusa. Quindi per lui fu straordinario. Si scaldò nel suo braccio e poi sorrise.
 
Hiyori era appena rientrata. Era nervosa, ma piuttosto che impazzire se ne stava in silenzio. Si era appena seduta accanto a Shinji ed entrambi sapevano che avrebbero dovuto parlare. Di qualcosa. Se non l’avessero fatto ora, non lo avrebbero fatto più.
«Quello che mi hai detto… tu hai torto» disse Shinji, fissando un punto dritto davanti a sé. «Non è colpa mia quello che le è successo. O almeno, razionalmente so che non è vero, ma non posso che incolparmi. Dovevo fare più attenzione.»
«Shinji, non cominciare» rispose Hiyori, scocciata. «Lo so, ho torto. Accusarti di questo non è giusto. Non è importante di chi sia la colpa, ma solo che Miyo stia bene.»
Sorprendentemente, erano d’accordo su qualcosa. Shinji continuava a non guardarla.
«Lo sai, Miyo ci sta male. Per noi due che discutiamo sempre, intendo. Anche se non stiamo più insieme dovremmo andare d’accordo per lei. Perché è così difficile andare d’accordo?»
Hiyori fece spallucce. Ora si sentiva svuotata e non aveva voglia di tirare fuori il suo brutto carattere.
«Beh, io ti do sempre dell’idiota e del fallito. E ti insulto sempre.»
«Vero, ma lo faccio anche io. Però a volte sono irresponsabile, superficiale e immaturo. Diamine!» disse dandosi un colpetto su una gamba. «Siamo due esseri umani pieni di difetti. Miyo da chi ha preso?»
Quella domanda strappò a Hiyori addirittura un mezzo sorriso.
«È la parte migliore di me e te, immagino.»
Shinji alzò gli occhi al cielo, si stava lasciando andare troppo alle lacrime e stava cercando di darsi un contegno.
«Lo è davvero. Ma giusto per sapere, tu pensi davvero che sia un fallito?»
Si rese conto che quella era la prima conversazione vera dopo tanti anni. Hiyori arrossì.
«No… non lo penso. Se una volta sono stata con te, evidentemente qualcosa di buono l’ho visto. E poi stai crescendo bene Miyo. E lei ti adora. Forse sei addirittura il suo preferito»
Anche Shinji sorrise.
«Oh, non te la prendere, è tipico di tutte le bambine. Ma posso assicurarti che ti adora anche lei.»
Hiyori accavallò le gambe. Più che imbronciata, sembrava in imbarazzo.
«Chiaramente, sono fortissima io. Ah, chi ha una madre che suona in una band» poi finalmente lo guardò in viso. «E per quanto riguarda la tua relazione con quello lì… Non so se lui mi piace, sei stato il suo amante per anni. A me basterebbe che fosse gentile con Miyo e magari anche con te.»
«Ah. Hiyori, ti preoccupi per me? Questo mi spaventa, quasi.»
Lei gli diede un colpetto su una spalla. E poi rimasero in silenzio. Sembrava tutto surreale. Ma entrambi si sentirono più leggeri.
 
Un’ora più tardi arrivò anche Momo. E Nnoitra e Nel con Naoko e Gin e Rangiku con Rin. Quest’ultima infatti era voluta andare subito quando aveva saputo che la sua migliore amica aveva avuto un incidente.
«Ehi, ehi, signor Hirako, quando possiamo vedere Miyo?» domandò Naoko a voce alta (anche se gli adulti non erano certo più silenziosi).
«Non lo so, ci vorrà un po’ temo. Ma grazie per essere venute» disse stancamente. Rin frugò nel suo zaino e poi prese qualcosa e la porse a Shinji.
«Io ho portato questo. È il libro preferito di Miyo, vero? La piccola principessa. Me lo aveva prestato e le ho promesso che gliel’avrei ridato. Magari le farà piacere.»
Con le mani tremanti, Shinji prese il libro preferito di sua figlia.
«Grazie, Rin. Sono felice che Miyo sia così amata.»
Momo, nel frattempo, stringeva Hayato tra le braccia. Fino a qualche anno prima lo avrebbe preso in braccio e cullato, ma oramai suo figlio era così cresciuto. Si era addormentato e Sosuke lo aveva coperto con la sua giacca.
«Non me la sento di svegliarlo. E poi ha detto che vuole stare qui. Povero bambino mio, ha visto proprio tutto?» domandò, inginocchiata davanti ad Hayato.
«È così. Penso che starà bene, lui è forte» disse Sosuke, un po’ a disagio. Era la prima volta che Momo lo vedeva così, ma d’altronde lei era nella stessa situazione: si trovavano insieme, c’era Shinji e la situazione era così delicata.
«Sì, lo è…» sussurrò Momo. Sapeva che prima o poi lei e suo marito avrebbero dovuto parlare. Anche se sentiva che qualcosa era cambiato. Mentre Momo parlava con Hiyori e Rangiku, Gin si sedette accanto a Sosuke. Anche per lui era una situazione un po’ strana.
«Ehi» lo salutò.
«Ehi» ripeté Sosuke. Gin sospirò.
«E così tra te e Momo è proprio finita, vero?» domandò.
«Già. Avremmo dovuto farlo molto tempo prima. Immagino che tu sapessi di lei e Toshiro, vero?» domandò, ma senza alcun tono di rimprovero.
«Sì, e mia moglie si è anche arrabbiata con me all’inizio. Mi spiace. Ti sono sempre stato fedele, ma loro sono la mia famiglia. E a proposito di questo» Gin assunse una posizione eretta. «Volevo solo dire che… io ti sono grato, davvero. Se non mi avessi aiutato a prendere la strada della giurisprudenza magari non avrei tutto questo, adesso. E poi mi hai preso come tuo assistente. Però, ecco… credo che non voglio sentirmi in debito a vita nei tuoi confronti.»
Gin aveva sorriso, ma più che nervosismo per altro.
Sosuke era sempre stato consapevole dell'effetto che aveva sulle altre persone. Era autorevole e sicuro di sé e li metteva a disagio. E quando faceva qualcosa per qualcuno, era bravo a far sentire quel qualcuno in debito. Con Gin, suo malgrado, era stato lo stesso. 
«Allora non sentirtici. Non dirmi che hai paura di me, Gin.»
«Non ho paura. Mi sento in soggezione, tutto qui. Sai, tu fai questo effetto su tutti meno che… beh, su di lui» disse indicando Shinji con lo sguardo. «Lui sembra okay. Mi sta simpatico perché non subisce la tua influenza. Mi dà l'idea di uno che ti andrebbe contro a tutti i costi, se ne avesse motivo.»
Sosuke socchiusi gli occhi. Oh, come aveva ragione, Gin. Essere temuti e rispettati era bello, certo. Ma a volte abbassare quella maschera era anche piacevole. 
«Sì, non hai idea di quanto.»
Nnoitra aveva osservato per tutto il tempo quei due, Aizen e Ichimaru. Se ne stava stretto a Nel, il quale aveva ben capito il suo disagio. 
«Nnoitra, non essere nervoso.»
«E chi sarebbe nervoso? Solo che… adesso io vado lì e… c'è una cosa che devo dire ad entrambi quegli idioti. O lo faccio ora o non lo faccio più!» disse deciso. Sembrava tanto un bambino che si accingeva ad affrontare una sfida, e Neliel fece tenerezza. Nnoitra stava imparando a prendersi le sue rivincite. 
«Allora fallo. Su, sono qui se hai bisogno.»
Nnoitra arrossì e poi si infilò le mani nelle tasche. Si sentiva stupido, ma quella era una cosa che sentiva di dover fare. Così andò da Gin e Sosuke che stavano parlando, i quali si zittito o nel vederlo. 
Sbuffò e poi parlò. 
«Ichimaru e Aizen, volevo solo dire che io non sono un delinquente. Quando ero più giovane ho fatto un mucchio di cazzate, ma adesso le cose sono cambiate.»
Gin sorrise, un po' colpevole. 
«Lo so.  Posso immaginare perché tu abbia tirato fuori il discorso.»
Perché i bambini ripetevano ciò che sentivano dagli adulti. Perché Rin aveva ripetuto quello che lui aveva detto, scontrandosi più volte con Naoko. Ma ora loro due erano amiche. Nnoitra annuì e poi guardò Sosuke. 
«Tu mi hai impedito di finire nei guai e ti ringrazio, davvero. Ma non voglio essere in debito con te a vita e poi… che diamine, non guardarmi dall'alto in basso. Sono una persona onesta e più o meno tranquilla adesso. Quindi… vedi di portarmi rispetto» aveva distolto lo sguardo all'ultimo. Forse era stato un po' troppo passionale, però il concetto rimaneva. Sosuke lo guardò e poi guardò Gin. 
«Certo che siete in tanti a sentirvi in debito, eh? D'accordo, Gilga… Nnoitra. Immagino tu abbia ragione, le persone cambiano. Per il guardarti dall'alto in basso, non prenderla sul personale. Faccio così con tutti.»
Nnoitra alzò gli occhi al cielo. Quella poteva contare come una sorta di riappacificazione. 
«Ma che meraviglia. Allora visto che le nostre figlie sono amiche, possiamo diventarlo anche noi» propose Gin allegro tutto d'un tratto. 
«Ora però non farti film strani, Ichimaru, io gli amici me li scelgo bene. Almeno spero» disse chiudendo gli occhi. E sentendo una sensazione molto simile al sollievo. 
Gli ospedali erano luoghi strani. Un sacco di gente arrivava, altra se ne andava, i reparti si riempivano, si svuotavano, infermiere e dottori in ogni parte. Nemu iniziava ad essere nervosa, anche se non lo dava a vedere perché il suo compito era rassicurare. Dopo quasi quattro ore, quando vide Mayuri e gli altri uscire dalla sala operatoria, tirò un sospiro di sollievo. 
Shinji si alzò subito e così anche Hiyori. 
«Tutto a posto» disse subito Mayuri. «Ci ha dato da fare quella frattura al braccio. Dovrà fare riabilitazione, ma se ma caverà.» disse soltanto.
Hiyori quasi si accasciò, prossima ad un crollo. Shinji la sostenne, anche se avrebbe avuto bisogno di qualcuno che sostenesse anche lui. 
Era andata bene. Per fortuna. Quando l'aveva vista stesa sull'asfalto non era stato capace di reagire. 
«La… la possiamo vedere?» 
«Sì sveglierà tra poco» disse Ichigo. «Voi due potete andare. Io ve l’avevo detto che sarebbe andato tutto bene.»
E poi sorrise. Shinji allora lo abbracciò, un gesto inaspettato che lo stupì solo fino ad un certo punto. «Grazie. Grazie davvero.»
«Ma figurati. È solo il mio lavoro» lo rassicurò. Ma nel momento in cui lo sentì abbracciarlo, si lasciò andare anche lui ad un sospiro di sollievo.
 
Miyo ricordava di essere corsa in strada e di essere stata investita da un’auto. E ricordava bene anche il dolore, anche se in genere i ricordi potevano apparire confusi dopo un trauma del genere. Ma non i suoi, lei ricordava tutto lucidamente. Si sentiva ancora un po’ debole e intontita, oltre a non poter muovere il braccio destro. Un chirurgo giovane e gentile – di nome Hanataro, se non aveva capito male - le aveva detto che era stata brava e che ora doveva stare a riposo e che più tardi avrebbe potuto vedere i suoi amici. I suoi amici? Chi era venuta a trovarla? Naoko e Rin di sicuro. E che aveva fatto Hayato, invece? Se n’era tornato a casa?
Le prime persone che vide furono però sa madre e suo padre, che per la prima volta dopo anni non sembravano astiosi l’uno verso l’altro o sul punto di scoppiare a litigare. Hiyori l’aveva abbracciata, ricordandosi di essere delicata. Miyo era sempre stata molto più matura per la sua età, ma rimaneva sempre e comunque una bambina e in quel momento sembrava ancora più piccola.
«Miyo…. Stai bene. Ho avuto così paura» ammise Hiyori. E lei non aveva mai paura. Miyo si strinse nel suo abbraccio il più possibile.
«Anche io» sussurrò. Shinji le posò una mano sulla testa e le baciò la fronte. Lo sapeva, non era colpa sua se Miyo era stata investita, ma forse si sarebbe potuto evitare. Non voleva che soffrisse, non lo aveva mai voluto.
 «Miyo, devi perdonarmi» le disse. Lei però sorrise, provando a fare spallucce ma facendo una smorfia a causa del dolore al braccio.
«Ma non è stata mica colpa tua… Sono io che sono corsa in strada. Io volevo, emh… scappare credo perché…»
«Perché non sopporti di sentirci litigare» concluse Shinji. «E hai ragione. In questo abbiamo sempre sbagliato. Ci siamo sempre comportati da immaturi mentre tu continui ad andare avanti e a crescere e a sopportare. Ma… non dovrai più farlo» decise. E Hiyori gli diede ragione.
«È vero. Noi non stiamo più insieme, ma questo non vuol dire che non possiamo andare d’accordo» disse mordendosi il labbro. «Certo sarà difficile, ma… noi non vogliamo più che tu soffra. Che ti faccia male. Siamo pieni di difetti, ma tu hai preso il meglio… da tutti e due» disse rivolgendosi a Shinji. Miyo spalancò gli occhi, per lei quella situazione aveva qualcosa di straordinario. Non desiderava altro, che andassero tutti d’accordo. Che fossero tutti felici. Non poté impedire ad una lacrima di solcarle il viso.
«Se vuoi piangere, fai pure. Ma ora andrà tutto meglio» le promise Shinji, mentre l’abbracciava. Mentre Hiyori l’abbracciava. E mentre lei sorrideva, tra le lacrime.
Doveva essere sollievo.
«Ah, prima che me ne dimentichi» disse ad un tratto Shinji. «Rin mi ha chiesto di riportarti una cosa importante» dicendo ciò tirò fuori il libro e glielo restituì. Miyo sgranò gli occhi meravigliati.
«Il mio libro! Ma allora Rin c’è davvero. Chi altro c’è? Voglio vedere tutti!»
«Con calma, Miyo. Sei ancora debole, più tardi vedrai tutti» le disse Hiyori, felice però che sua figlia non avesse perso la sua solita allegria.
 
Naoko e Rin erano felicissime che Miyo si fosse ripresa. Hayato, che si era svegliato, era a sua volta sollevato, ma anche spaventato. Aveva paura di affrontare Miyo, si sentiva in colpa. Per tutto quello che gli aveva detto e che forse neanche pensava davvero. Miyo era una bambina come lui. Per certi versi era anche stata più fortunata, ma non era colpa sua se la sua famiglia era sempre stata un po’ disastrata. Con suo padre forse le cose sarebbero andate meglio. Con sua madre, chissà. Non era certo che sarebbe riuscito ad accettare quei due estranei, ma per il momento
«Possiamo vedere Miyo? Ti prego! Presto arriveranno anche gli altri nostri amici. Dai, dai!» disse Naoko tirando per il braccio il povero Hanataro, fin troppo debole con le bambine adorabili.
«Più tardi potrete vederla, ma non dovete fare confusione, Miyo è ancora debole!» esclamò lui, mentre Naoko si aggrappava al suo braccio, facendogli quasi perdere l’equilibrio. Hayato sospirò e si alzò.
«Mamma, possiamo andare a casa ora?» domandò il bambino. Momo si rese subito conto che c’era qualcosa di diverso in suo figlio, ma non se ne sorprese troppo. Quello doveva essere stato un trauma anche per lui.
«Va bene. Non vuoi vedere Miyo, quindi?» chiese. Hayato era voluto rimanere lì fino a quel momento, era strano che avesse cambiato idea. Lui annuì.
«Sta bene. Quindi non ha bisogno di me, ma dei suoi amici» disse tutto serio. Non sembrava arrabbiato, né in procinto di fare l’arrogante. Sembrava solo molto stanco e rassegnato, motivo per cui non insistette.
Sosuke invece aspettò Shinji. Stano e stravolto lo era anche lui, ma Shinji doveva esserlo ancora di più, per questo resistette. Lo vide uscire dopo un po’ dalla stanza di Miyo, con un’espressione più sollevata.
«Sta bene?» domandò subito. E non era una domanda di circostanza. Voleva davvero sapere come stava quella bambina. Che non era sua, però ci si sentiva legato comunque.
«Sta bene» sospirò. «È stato più forte lo spavento che altro. E tuo figlio…?»
«Era molto stanco ed è andato a casa. Ma era sollevato che Miyo stesse bene. Credo si sentisse un po’ colpevole.»
Shinji fece spallucce.
«L’unico colpevole sono io, a dire il vero. E non mi riferisco a questo, ma a tutto il resto. I miei problemi non dovranno più pesare su di lei com’è stato fino ad ora.»
Sosuke inarcò le sopracciglia, aveva l’impressione che la cosa riguardasse anche lui.
«Ebbene?» domandò infatti. Shinji respirò profondamente. Gli costava tanto dire quelle parole, ma oramai era finito il tempo di scherzare. La paura di perdere Miyo era stata così tanta da scatenare in lui un cambiamento repentino. Gli dispiaceva solo che si fosse dovuto arrivare a tanto.
«Sosuke… se tu non mi ami abbastanza da stare con me alla luce del sole, va bene. Ma io non voglio essere un amante né qualcuno di cui tu debba vergognarti. E devo pensare a Miyo.»
«Cosa…? Ma Shinj..i.»
«Non rendermela più difficile, Sosuke. Quando sarai pronto a crescere anche tu, allora forse potremmo riparlarne e…»
Lui gli afferrò le spalle, facendolo sussultare. Shinji non gli aveva mai visto quell’espressione, sembrava… addirittura triste?
«Lo sai che ti amo, maledizione a te.»
Fino a qualche ora prima si sarebbe lasciato andare tra le sue braccia. Ma adesso stava cercando di essere forte.
«Lo so. Ma non quanto io amo te. E questo è sempre stato così, mi pare.»
Sosuke fece per parlare, ma non seppe che dire. Forse Shinji aveva ragione. Forse lui non lo amava abbastanza, forse in generale c’era un limite a quanto amore poteva dare. Ma per la prima volta da quando lo conosceva si sentì come cadere nel vuoto. Lui non controllava più niente.
 
Quando ebbe recuperato le forze, Miyo poté ricevere le visite dei suoi amici e compagni di scuola. Kiyoko le aveva portato un disegno, Yami la sua allegria, Ai il suo sostegno. I ragazzini invece sembravano voler sapere più che altro dell’incidente.
«E dimmi, l’auto andava veloce? Ha fatto tanto male?» domandò Kaien, concitato. «Sembra fortissimo!»
«Ma come fortissimo? Non c’è niente di forte, sono sicuro che è doloroso!» intervenne Yuichi.
«È una cosa figa, invece! Miyo, dici che ti rimarrà qualche cicatrice? Tipo come se fossi una supereroina!»
Miyo rise. Lei non si sentiva una supereroina, in realtà. Preferiva di gran lunga essere normale, con i suoi libri, i suoi amici e la sua famiglia. Si era accorta che mancava qualcuno, che Hayato non c’era.
«Hayato è andato via?» domandò ad un tratto. Rin fece spallucce.
«È rimasto finché l’operazione non è finita. Poi se n’è andato. Forse voleva parlarti, ma non ne sono sicura» ammise.
Miyo si guardò ancora intorno, come se sperasse di vederlo apparire da un momento all’altro.
Voleva parlare con lui.
 
Nota dell'autrice
Ovviamente non potevo fare male ad uno dei bambini, quindi Miyo se l'è cavata, alla fine. Questo è stato anche il momento dei chiarimenti per tutti, Aizen e Hayato, Aizen e Nnoitra, Shiinji e Hiyori. Chi non ha chiarito, ma anzi ha rotto, sono Shinji e Aizen, sigh. Dopo quanto successo, Shinji vuole rivedere le sue priorità, ora sta ad Aizen fare qualcosa se non vuole perderlo.
Alla prossima.
Nao
 

Ritorna all'indice


Capitolo 32
*** Capitolo trentadue ***


Capitolo trentadue
 
Ai era stanca, aveva auto una giornata impegnativa. Prima la scuola, poi aveva ricevuto la terribile notizia dell’incidente di Miyo. Poi era andata in ospedale a trovarla. Adesso invece non aveva voglia di fare proprio niente. Se ne stava lì, in ginocchio sul pavimento, un braccio poggiato sul tavolo, ad accarezzare Jin Jin.
«Ai, vuoi andare a dormire?» domandò Nemu, mentre si scioglieva la treccia. Lei scosse la testa.
«Sono stanca, ma non tanto da dormire. Sono preoccupata per Miyo.»
«Non preoccuparti per lei. Starà bene, te lo posso assicurare» aveva risposto Mayuri. A sua volta sentiva addosso una stanchezza strana, più emotiva che fisica. Per questo diceva sempre che emotivamente era bene non farsi coinvolgere quando facevi il medico. Alle volte falliva anche lui. Oramai ci stava scendendo a patti con l’idea di essere un essere umano come tutti. Ai sollevò la testa e fece segno ai suoi genitori di avvicinarsi.
«Devo fare una domanda.»
«Solo una?» domandò Mayuri stancamente, sedendosi di fronte a lei. Ai si fece attenta e si aggrappò al suo braccio.
«È vero che non mi volevate?»
Quella domanda le premeva da tempo. Certo, ora le cose stavano iniziando ad andare meglio, ma Ai non dimenticava. Quelle cose poi non si potevano dimenticare e lei voleva sapere. Oramai non poteva fare più male di così. Nemu arrossì, mentre e si torturò le ciocche di capelli. Mayuri guardò sua moglie e poi guardò Ai. Quante volte le aveva detto di non porre domande sciocche? E invece aveva sempre posto le domande più intelligenti, più giuste, a cui nemmeno un adulto avrebbe saputo rispondere.
«Questa è una domanda difficile a cui rispondere» ammise Mayuri, che in genere aveva sempre la risposta a tutto. Nemu si inginocchiò accanto a lui, portandogli una mano su una spalla. Quella era una domanda a cui doveva rispondere anche lei. E lo avrebbe fatto senza mentire o girarci attorno.
«Quando ho scoperto di essere incinta, è stato inaspettato» iniziò a raccontare Nemu. «All’inizio mi sono così spaventata, Ai. Non sapevo cosa avrei fatto né se sarei stata in grado di fare la madre. Però sai… la paura e il panico sono durati poco» le sue labbra si incurvarono in un sorriso. Quel periodo era stato il più strano e meraviglioso della sua vita. «Ti ho sempre voluto, Ai. Ma la paura a volte ti blocca.»
Ai sospirò e si sentì un po’ sollevata. Per tanto aveva convissuto con l’idea che non fosse stata voluta. Mayuri capì che ora toccava a lui parlare.
«Per me la cosa è andata un po’ diversamente. Paura, avevo paura, certo. Direi che ero terrorizzato. Dicevo che con i bambini non ci sapevo fare, che non avevo istinto paterno. Non l’ho realizzato subito perché mi sembrava assurdo che da me potesse nascere qualcosa. Cioè… io ci ho messo il cinquanta per cento del lavoro, chiaramente. Insomma, in modo molto stupido e confusionario sto cercando di dire che è vero: all’inizio ero terrorizzato. Come avrei fatto? Non si studia certo per essere genitore, nessuno te lo insegna. Però volevo anche conoscerti, vedere come saresti stata. Chi saresti diventata. Anche io penso di averti sempre voluta. Ma lo hai visto anche tu, Ai, come io sia negato in certe cose. Anche se ora ci sto provando e…»
Mayuri aveva parlato a lungo, ma si era fermato quando aveva visto sia Ai che Nemu trattenere a stento le lacrime.
«… Ora che ho detto di sbagliato?» domandò a disagio. Nemu scosse la testa.
«Niente. È che tutte queste cose non me le avevi mai dette. Sono felice di saperle.»
Ai singhiozzò.
«Ma allora io non sono un errore.»
E dicendo ciò si asciugò le lacrime sulla manica. Mayuri si protese in avanti e prese il suo viso tra le mani.
«Oh, che pazienza. Di errori ne ho e ne abbiamo fatti tanti, ma tu rientri tra ciò che di buono abbiamo fatto.»
«Direi la cosa migliore» aggiunse Nemu. Ai si sentiva così calda in quel momento. Non doveva immaginare di essere avvolta in un abbraccio, perché ora ad abbracciarla erano veramente entrambi i suoi genitori. Era affamata di affetto e amore e finalmente poteva riceverlo nel modo in cui desiderava.
Dopo quel confronto emozionante e qualche lacrime, Ai crollò tra le braccia di Mayuri, il quale poi la mise a letto, attento a non svegliarla. Poi, mentre richiudeva la porta, sollevò lo sguardo su Nemu. Lei se ne stava poggiata allo stipite, alle spalle la loro camera da letto. Aveva sul viso un’espressione che raramente le vedeva addosso: maliziosa, dolce e innamorata. Lui si avvicinò, serio, senza dire una parola, perché credeva di avere già capito.
«Lo sai, a me non è mai piaciuto dormire da sola» sussurrò.
Lui annuì.
«E se devo essere onesta, nemmeno a me è mai piaciuto»
Nemu sorrise e poi gli lanciò un’occhiata lasciva. L’espressione di Mayuri si rilassò, cosa che succedeva raramente. E accennò addirittura a un sorriso, mentre chiudeva la porta e lasciavano tutto il mondo fuori.
 
Yoruichi e Kisuke si erano messi d’accordo su una questione importante: dovevano parlare con Hikaru. Loro figlio se ne stava a leggere i suoi manga con il gatto appollaiato sulle sue gambe. Yami stava ascoltando la musica nella sua cameretta. E loro lo spiavano.
«Vai prima tu» sussurrò Yoruichi.
«Ma perché io? Dai, va prima tu.»
«Kisuke, comportati da adulto!» borbottò lei.
«Ma io sono adulto, è solo che non so come approcciarmi, mi sento stupido.»
Yoruichi sospirò e poi lo guardò.
«Va bene, con calma. Allora andiamo insieme.»
Loro erano una squadra e come tale dovevano comportarsi. Cercarono di approcciarsi a Hikaru nel modo più naturale possibile, ma il bambino capì subito che doveva esserci qualcosa sotto: era molto raro che i suoi genitori gli parlassero insieme e nello stesso momento.
«E-ehi, mio caro. Cosa stai leggendo?» domandò Kisuke, un po’ impacciato.
«Un fumetto fantascientifico molto interessante» Hikaru sollevò lo sguardo su di loro. «Voi dovete parlarmi, vero?»
Yoruichi sbuffò.
«Ma insomma, non riusciamo proprio a nascondere niente. Sì, in realtà è proprio così. Ma non preoccuparti, non hai fatto niente di male, anzi.»
Kisuke capì che doveva essere lui il primo a prendere il discorso, dopotutto era a lui che Ai aveva fatto quella confidenza.
«Sì, vedi Hikaru. Ai ha parlato, mi ha detto che ti senti invisibile e trascurato» disse con un’allegria decisamente fuori contesto, che gli fece guadagnare un’occhiata omicida da parte di sua moglie. Hikaru invece arrossì.
«Ma… ma… ma come te l’ha detto? Anzi, me lo dovevo aspettare» disse nascondendo il viso dietro il suo fumetto. Ma Yoruichi cercò il suo sguardo.
«Se c’è qualcosa che devi dirci, puoi dirla. Noi siamo qui per ascoltare.»
Quelle parole ebbero l’effetto di far arrossire ancora di più Hikaru, non abituato a tutte quelle attenzioni. Posò il fumetto e sospirò.
«Amh… quello che ha detto Ai è vero. È che io… non lo so… a volte mi sento invisibile. Tranne quando ho gli attacchi d’asma, lì non sono invisibile. Però non mi piace avere le attenzioni solo in quei casi. È che… uffa. Io con voi non c’entro niente. Mamma, sicuro che non mi avete adottato?»
Yoruichi provò una grande tenerezza nel sentire suo figlio porle questa domanda. A volte Hikaru aveva certe uscite che potevano sembrare divertenti, ma né Yoruichi né Kisuke ridevano mai. Hikaru si sentiva diverso da tutti per via del suo animo timido, tranquillo, a volte malinconico. Gli accarezzò i capelli.
«Bambino mio, certo che no. Sei decisamente nato da me, non posso sbagliarmi. È vero, tu sei diverso da Yami, e sei diverso da noi e se tu ti sei sentito invisibile, la colpa è nostra.»
Hikaru sgranò gli occhi, il suo viso andava a fuoco. Tutte quelle attenzioni erano strane, ma gli piacevano eccome. Kisuke sorrise, imbarazzato.
«È proprio vero. Se puoi credermi, figlio mio, per noi non sei mai stato invisibile, ti abbiamo sempre visto. Dovevamo farlo meglio ed è quello a cui miriamo d’ora in poi. Puoi perdonarci?»
Oh, Hikaru era proprio incline al perdono. Soprattutto verso la sua mamma che ora lo stringeva, e verso il suo papà, a cui forse non somigliava caratterialmente, ma che adorava comunque. Quindi fece finta di pensarci su.
«Mmh. Sì, posso. Forse è bene che Ai ve l’abbia detto, io sono troppo timido per dire queste cose» borbottò e allora Yoruichi lo strinse più forte. In quel bambino, per certe cose, lei si rivedeva. Anche lei tendeva a chiudersi, a non dire quello che le passava per la testa quando era preoccupata. Quindi non erano poi così diversi.
«Ai è una brava bambina, mi piace proprio. Vi do la mia benedizione» disse Kisuke, che dava già per scontato che quei due sarebbero finiti insieme un giorno. Anzi, in realtà lo sperava.
«Papà, uffa, non dire così! Che vergogna» disse cercando di nascondere la sua espressione imbarazzata. Poi però divenne subito serio. «Voi non state per lasciarvi… vero?»
Quella era anche stata la paura di Yoruichi per un po’. Ma adesso sapeva che non si sarebbero lasciati. Doveva solo imparare ad accettare le situazioni così come venivano, quelle su cui non aveva controllo, senza giudicarsi. Perché dopotutto amava Kisuke più di ogni altra cosa e dubitava che qualcuno avrebbe mai preso il suo posto.
«Oh, no» lo rassicurò Kisuke. «Io e tua madre abbiamo discusso molto di recente, è vero. Ma adesso andrà tutto meglio. Vero, mia adorata Yoruichi?»
Lei sentì il suo braccio che si stringeva attorno alle proprie spalle. E sentì un brivido che le piacque parecchio.
«Ma certo, tesoro. Sta tranquillo, Hikaru. Ci impegneremo.»
Il bambino annuì e si sentì come se un grosso peso fosse sparito dal suo stomaco. Sapeva bene cosa si provava quando gli mancava il respiro, ma adesso la sensazione era tutta il contrario: poteva respirare a pieni polmoni.
 
 
Che Hayato fosse strano dall’incidente di Miyo, Momo lo aveva notato sin da subito. Suo figlio ne stava affrontando di ogni, dalla separazione tra lei e Sosuke, all’aver assistito all’incidente di una sua compagna di scuola. Anche se Hayato, più che traumatizzato, le sembrava chiuso in sé stesso e questo per molti versi era anche peggio. Così aveva chiesto l’aiuto di Toshiro, l’aiuto per sé stessa a dire il vero.
«Sono davvero preoccupata per Hayato. Ho provato a parlarci, ma mi dice che è tutto a posto e che non ha niente da dire. Non l’ho mai visto così colpevole, s’incolpa per quello che è successo a Miyo. Ma perché?»
Momo camminava avanti e indietro, mordendosi un’unghia. Toshiro, seduto tra i cuscini di seta del sofà, sembrava un po’ pensieroso.
«Shiro, ma mi ascolti?» domandò Momo attirando la sua attenzione.
«Amh. Sì, scusa. È solo che c’è una cosa che non ti ho detto» l’ultima cosa che voleva era fare preoccupare Momo, ma non poteva tenerglielo nascosto. «Temo che casa tua sia circondata dai giornalisti»
Momo aveva esclamato un che cosa?! e aveva compiuto un salto strabiliante, affacciandosi alla finestra. Vivendo al decimo piano di un lussuoso palazzo non era certo facile accorgersene, ma stava comunque cercando di scovare i paparazzi da lassù. Con il tempo Momo si era abituata alla stampa, in quanto moglie di uno degli avvocati più famosi e facoltosi di Tokyo. Ma era sempre stata abituata a stare sullo sfondo accanto a Sosuke, appunto, non al centro dell’attenzione. Si era già saputo della loro separazione? E anche del tradimento? I giornalisti adoravano le storie di tradimenti.
«Shiro! Ma perché non me lo hai detto subito?»
«Mi dispiace, non mi sembrava il caso!» esclamò lui, arrossendo. «Hanno provato a farmi delle domande, ma sono scappato. Ma penso si capisca che sono io il tanto famigerato amante. Magnifico, ho sempre sognato di essere al centro di uno scandalo» disse con ironia. Momo se l’era aspettato. Ed era sicura che per Sosuke sarebbe stato anche peggio. Per quanto suo marito fosse decisamente più bravo di lei a gestire quella situazione, le dispiaceva comunque.
Sospirò e andò a sedersi accanto a lui.
«Tra qualche settimana se ne saranno già dimenticati. Almeno spero. Mi dispiace se ti ho messo in questa situazione, di certo non ti auguravi questo.»
«No, direi di no, ma ce la posso fare. So che voglio stare con te, quindi tutto il resto non importa» disse facendo spallucce. Toshiro non era uno che si perdeva in dichiarazioni smielate, aveva sempre quel modo un po’ buffo e timido di pronunciarsi. E Momo lo adorava.
«Ti va bene anche se sarà difficile? Non intendo solo adesso. Ma saremo spesso sotto giudizio. E con mio figlio sarà così difficile.»
Momo si portò una mano sul viso e Toshiro prese quella stessa mano e la guardò negli occhi.
«Sono piccolo, ma resistente. Ci vuole ben altro per farmi paura. Le chiacchiere non mi spaventano. Hayato invece un po’ mi spaventa, ma per quello ci vuole tempo.»
Momo annuì. Poi si fece piccola piccola e si strinse tra le sue braccia Era strano, c’era stato un tempo in cui aveva amato essere stretta tra le braccia di Sosuke, così alto e forte. Toshiro invece era perfino più basso di lei, più giovane. Però si sentiva al sicuro, come se niente potesse farle male.
 
Gin Ichimaru era un uomo calmo. Soprattutto, era uno che non si stressava mai, soprattutto al lavoro. Ma ultimamente la sua pazienza era messa a dura prova, perché i giornalisti avevano preso a tormentare anche lui, in quanto assistente di Sosuke Aizen. Quel giorno era sbottato e con il suo solito sorriso – quella volta un po’ nervoso – aveva detto: Se volete fare gossip da quattro soldi, andate a cercare qualcun altro, perché io non collaborerò di certo a tutto questo. Buona giornata.
Poi si era richiuso nel suo ufficio e aveva sospirato, mentre Aizen lo guardava.
«E dire che di solito la gente mi piace e mi diverte. Non in questo caso. Siamo assaliti dai giornalisti nemmeno fossimo delle rockstar.»
«Figurati, ci sono abituato» disse Sosuke, tranquillo. Anche se proprio tranquillissimo non era. Per quanto bravo fosse ad affrontare quelle situazioni, per adesso era troppo nervoso, addirittura triste per via di Shinji. Aveva voluto chiudere con lui esattamente come aveva fatto anni prima, ma questa volta il motivo era ben diverso. Non c’era nessun ostacolo alla loro relazione, se non proprio sé stesso. Le cose sarebbero cambiate? Di sicuro. Sarebbe stato facile? Non per forza. Aveva forse paura? No, lui non aveva paura di niente, non poteva avere paura, non lui. Gin lo guardava e aveva già capito: conosceva Sosuke Aizen da una vita e ora lo vedeva umano come non mai. Lo vedeva spogliato della sua invincibilità. Questo era strano.
«Le cose con Shinji non vanno molto bene, eh?» domandò.
Aizen non gli aveva detto nulla, lo aveva capito da solo, Sosuke giocherellò con una penna.
«Ha deciso di chiudere. La prima volta non ha fatto così male e non capisco perché. Questa situazione sfugge al mio controllo. Lo sai che evito sempre di farmi coinvolgere sentimentalmente, questa volta invece non sono stato molto bravo. Magnifico» sorrise, stanco. Gin allora si avvicinò.
«Lui deve piacerti davvero molto» commentò.
Sosuke sollevò lo sguardo.
«A me Shinji non piace, io lo amo» dichiarò, sicuro. Dirlo al diretto interessato era un conto, ma dirlo anche a Gin, al resto del mondo, era decisamente un altro conto. Gin gli sorrise.
«Allora non deve essere così difficile capire cosa fare» affermò, infilandosi le mani in tasca. Sosuke fece spallucce.
«Forse. Comunque devo anche pensare a mio figlio. Ho capito che lui ha bisogno di me. Intendo, del mio lato più umano.»
«Ah, su questo sono assolutamente d’accordo!» esclamò Gin ad un tratto più allegro. «E a proposito di Hayato… tu e tua moglie siete ancora decisi a farvi la guerra per l’affido?»
Fino a qualche tempo prima, a Sosuke sarebbe piaciuto avere il controllo anche su quella situazione, prendere con sé Hayato e crescerlo come lui voleva e riteneva più giusto. Adesso però non era più sicuro di niente. C’era tanto a cui doveva pensare e non sapeva a cosa dedicarsi per primo.
«No, immagino di no. Se Hayato vorrà vivere con lei, lo accetterò. È sicuramente un genitore migliore di me.»
Gin sollevò le sopracciglia e poi sorrise. La presenza di Shinji a Sosuke faceva proprio bene. Sperò, in cuor suo, che le cose si rivolvessero al più presto, ma adesso toccava ad Aizen fare la sua mossa.
 
La notizia della separazione di Sosuke e Momo era arrivata perfino sul web. Renji leggeva la notizia ad occhi sgranati, incredulo.
«Non ho parole, dico sul serio. Sapevo che Aizen fosse importante e famoso, ma non fino a questo punto. Povero Shinji, per fortuna nessuno sa ancora niente di lui, ma che brutta situazione, non lo invidio per niente!»
Byakuya gli lanciò uno sguardo: Renji se ne stava seduto sul pavimento mentre mangiava un pocky.
«Sono sicuro che Shinji ne saprà venire fuori, è un tipo in gamba lui. Cambiando un attimo discorso: ti andrebbe di uscire?»
Renji finì di divorare il pocky che aveva in bocca e che per poco non gli andò di traverso.
«Ma certo! Dove andiamo?» domandò. Byakuya non rispose. Forse era una sorpresa, forse voleva portarlo in qualche posto speciale? E a dire il vero Renji non vedeva l’ora di scoprire l’arcano. Non presero la moto, ma l’auto. E quando venti minuti dopo arrivarono davanti al cimitero, Renji guardò Byakuya, pensando ad uno scherzo.
«Vuoi uccidermi? Che ho fatto?» domandò, iniziando a sudare freddo. Byakuya avrebbe riso, se solo la situazione non fosse stata così seria.
«Macché, no. Avanti, scendi» gli disse. Renji lo seguì, più confuso che altro, un cimitero era un posto un po’ strano per un appuntamento. Poi però capì perché si trovavano lì: lo stava portando alla tomba di Hisana. E infatti non si erano sbagliati: lui l’aveva condotto proprio lì e Renji in un primo momento non seppe cosa dire (cosa si diceva in certi casi?). Vide Byakuya chinarsi per cambiare l’acqua ai fiori, lo sguardo basso e malinconico. Poi lo vide congiungere le mani.
«Ciao, Hisana. Scusa, non vengo da un po’… ma ultimamente la mia vita è stata pazzesca. Sono venuto qui con Renji, come puoi vedere?»
Nel sentirsi chiamato in causa, Renji arrossì e si inginocchiò a sua volta. Se la ricordava bene Hisana, donna dal temperamento dolce e mite, era stata la compagna perfetta per Byakuya.
«Amh, sì. Sono io» disse goffamente. Ma Byakuya che intenzioni aveva? Messo lì si sentiva fuori posto, era come se stesse assistendo a qualcosa di troppo intimo. Byakuya gli aveva portato una mano sulla spalla, come a donargli una carezza.
«Volevo solo dirti che io e Renji stiamo insieme. Lui con me è paziente, e sai bene quanta pazienza ci voglia per stare con me. Sai, mi ama da una vita e con me non si è mai arreso. E di questo lo ringrazio.»
Il viso di Renji divenne dello stesso colore dei suoi capelli. Se Byakuya aveva avuto intenzione di sorprenderlo, ci stava riuscendo. Si voltò a guardarlo, sconvolto.
«Quindi… puoi stare tranquilla. Perché adesso sto bene. E starò bene perché adesso so che non sono immeritevole di amore come pensavo. So che avresti voluto questo per me, ma mi ci è voluto tempo.»
Di solito era Renji quello loquace dei due. Adesso era Byakuya che parlava, lui che stava zitto, lui che si asciugava una lacrima. Maledizione, era riuscito a farlo commuovere. Byakuya aveva voluto che il suo passato e il suo presente (che sempre avrebbero fatto parte di lui) s’incontrassero.
«Ma insomma, avresti almeno potuto avvertirmi, non così» singhiozzò e poi sospirò e cercò di darsi un contengo. Le labbra di Byakuya si incurvarono in un sorriso. E poi strinse la sua mano.
«E quindi, anche se lo conosci già… volevo presentarti il mio compagno, Renji.»
Quest’ultimo sgranò gli occhi. Era successo, Byakuya lo aveva riconosciuto come suo compagno, come suo futuro. Era una sensazione piacevole, di calore proprio lì, all’altezza del cuore. Tirò su col naso e poi sorrise.
«Io, amh… non preoccuparti, Hisana. Mi prenderò io cura di questo testardo. Ma anche lui si prenderà cura di me! Accidenti, troppe emozioni» borbottò poi, strofinandosi il viso con una mano. L’espressione di Byakuya era seria, ma serena. Era come se fosse tornato a respirare. Come se fosse in pace con sé stesso e come se potesse finalmente ricominciare.
«È vero. Ehi, Renji…» lo chiamò. Renji riconobbe nel suo sguardo qualcosa che non aveva mai visto. Sembrava volerlo. Totalmente e senza riserve.
 
Un’ora dopo erano tornati a casa. A casa di Renji, che però oramai era come se fosse la loro. Che probabilmente lo sarebbe diventata. Renji guardò Byakuya, il quale si stava lisciando i capelli.
«Ho bisogno di una doccia» sussurrò. Renji arrossì a distolse lo sguardo. C’era una tensione palpabile e lui, come un perfetto idiota, non sapeva come gestirla.
«S-sì, va bene.»
Byakuya assottigliò lo sguardo e sospirò. Doveva prendere lui l’iniziativa. Si sbottonò la camicia.
«Falla con me» disse soltanto, togliendosi la camicia e lasciandola cadere sul pavimento. Renji sgranò gli occhi. Ebbe l’impressione di sentire il coro dell’alleluia. E poi sorrise.
«Sì, certo. Vengo subito.»
 
 
Quando qualche giorno dopo Momo aveva visto suo figlio venire da lei, chiedendole di accompagnarlo in ospedale, era rimasta colpita. Con Hayato non aveva preso il discorso, il ragazzino non sembrava proprio propenso. E in effetti non si era sbagliata: in un primo momento Hayato si era rifiutato di vedere Miyo, si sentiva troppo in colpa. Poi però ci aveva pensato, in quei giorni. Si era detto che di difetti ne aveva tanti, ma che almeno non era un codardo. Non voleva esserlo e quindi doveva parlare con lei. Momo era stata subito disponibile. Un po’ stava imparando a capirlo, suo figlio. Ma che avesse un animo più profondo di quanto potesse sembrare, l’aveva intuito. In questo le somigliava.
Somigliava sia a lei che a Sosuke. Così lo aveva accompagnato al St. Luke.
«Vuoi che venga dentro con te?» domandò. Hayato scosse la testa.
«Vado da solo. Rimani qui, eh» le raccomandò. E poi compì un respiro profondo.
 
Miyo stava meglio. Stare in ospedale non era poi così male. L’infermiera Kurostuchi ogni tanto passava a vedere come stava. E poi c’era Hanataro che la faceva ridere e lo stesso si poteva dire per il dottor Kurosaki. Sua madre e suo padre, inoltre, non litigavano più. Certo, era strano e Miyo era sicura che i due si stessero sforzando molto per non litigare. E magari qualche volta sarebbe capitato ancora, ma per quanto le riguardava andava bene così. Ora sembravano impegnati a dedicarsi a lei e questo le piaceva. Non vedeva però l’ora di uscire da lì, tornare a scuola, vedere i suoi amici.
Per fortuna sua, Shinji le aveva portato una pila di libri ed essendo quella la sua passione, non si lamentava di certo.
Miyo non si aspettava che Hayato venisse a trovarla. Sapeva che prima o poi si sarebbero incontrati (o scontrati). Che lui venisse in ospedale l’aveva sorpresa, ma nemmeno tanto. Quando lo aveva visto entrare, aveva messo da parte il suo libro.
«Hayato?» domandò, battendo le palpebre. Hayato era sempre lui, con quell’espressione arrogante e imbronciata, ma Miyo ci lesse dentro tanto altro, come il senso di colpa e il sollievo.
«Sì, sono io. Allora stai meglio» borbottò.
«Eh, sì. Tra qualche giorno torno a casa, ma non potrò usare il braccio per un po’. Per fortuna che per leggere i libri non mi servono mani» Miyo cerco di buttarla sul ridere, ma si accorse anche che Hayato era serio e quindi ci rinunciò. «Amh… gli altri mi hanno detto che sei rimasto qui fin quando l’intervento non è finito. Grazie. Non dovevi.»
«Invece dovevo» Hayato strinse i pugni. «È colpa mia se ti hanno investita, vero? Io ti dicevo sempre che dovevi sparire. Però non volevo questo. Non riesco a smettere di pensarci.»
Miyo inarcò le sopracciglia. Hayato credeva di essere il colpevole del suo incidente? Perché tutti si sentivano in colpa? Non era stata colpa di nessuno e lei non si sentiva arrabbiata.
«Ma non è stata colpa tua! È successo e comunque io sto bene. Non ci devi pensare, su, su!» esclamò allegra, come se nulla fosse. Hayato sollevò lo sguardo e allora decise di arrendersi, di smetterla di tenersi dentro quello che invece si teneva.
«Lo sai, penso che ti ho sempre invidiata. Perché tu sei buona e io invece no.»
Miyo sorrise e gli fece segno di avvicinarsi.
«Le persone non sono buone o cattive. Noi siamo persone e possiamo comportarci o bene o male. Se tu adesso vuoi iniziare a comportarti bene, non è mica troppo tardi!»
Davvero non era troppo tardi? Hayato si sentiva così male.
«Io… lo spero. Non eri tu quella invisibile, ma io. E non è colpa tua se la mia famiglia è un disastro. Mia madre e mio padre non si amano. Mia madre ama quel ragazzino e mio padre…»
«Ama il mio, lo so. Pensi che diventeremo fratelli?» domandò Miyo spontanea. Hayato fece una smorfia.
«Non lo so, sarebbe troppo strano! E poi… non so nemmeno se stanno ancora insieme, non ci capisco niente.»
Miyo sorrise, divertita.
«Ah, ma non hai detto che sarebbe brutto. Hai visto? Questo è un passo in avanti.»
Hayato arrossì e si rifiutò di rispondere. Aveva visto suo padre con Shinji. Lo guardava in un modo strano. Forse doveva essere quello l’amore.
«Comunque, se loro si amano, devono assolutamente stare insieme! Credo che si amino da tanto tempo» Miyo strinse un pugno. «Gli adulti sono testardi.»
«E complicati» concluse Hayato. E poi la guardò. «Mi dispiace per…»
«Tutto a posto, non ti preoccupare» Miyo gli sorrise. Ed era sincera.
Lei era sempre stata sincera.
Quando Shinji era tornato da sua figlia, tutto si era aspettata meno che vedere Hayato. Gli fece un effetto strano, soprattutto perché lui somigliava molto a Sosuke.
«Ah… non sapevo avessi visite. Emh… Hayato» lo salutò con un cenno del capo. Hayato ricambiò lo sguardo. Non era sicuro che Shinji gli piacesse. Però era gentile e se suo padre lo amava, doveva avere qualcosa di buono. Ma per capirlo doveva conoscerlo.
«Adesso io… me ne devo andare perché mia madre mi aspetta. Ci… ci vediamo, okay?»
Shinji lo osservò allontanarsi, un po’ sospettoso. Poi si disse che avrebbe potuto chiamare Sosuke, ma… no, era meglio di noi.
«Tu e Hayato siete amici, adesso?» chiese a Miyo, la quale era tornata a leggere.
«Sì, credo di sì. E tu e suo padre dovreste prendere esempio da noi» disse severa. «Io non ho capito se state ancora insieme no. Ma tanto se vi amate veramente tornerete insieme, io ne sono sicura!»
Le parole di Miyo risuonarono come una pericolosa predizione. Shinji era rimasto talmente colpito e turbato da non sapere cosa rispondere. Era già tornato da lui una volta. Come poteva tornare di nuovo?

Nota dell'autrice
Dopo tante peripezie e sofferenze, era giusto che alcune situazioni venissero chiartire, qui mi sono concentrata su alcune, nel prossimo ci saranno anche gli altri personaggi. Ai, Mayuri e Nemu finalmente si comportano come una famiglia, Yoruichi e Kisuke chiariscono con Hikaru, Byakuya fa un bellissimo gesto e lui e Renji oramai sono una coppia fissa. Gli unici a cui va un po' meno bene sono Toshiro e Momo e Shinji e Aizen, ma la situazione di quest'ultimi due si protarrà fino alla fine, il perché lo vedrete. Questo capitolo, come il prossimo, è piuttosto tranquillo, questo perché dopo succederanno un bel po' di cose :P
Alla prossima.
Nao

Ritorna all'indice


Capitolo 33
*** Capitolo trentatré ***


Capitolo trentatré
 
Orihime stava bene. E questa era una cosa che non avrebbe più dato per scontato.
Era una bella giornata. C’era il sole, aveva da un lato Ulquiorra che dipingeva e da un lato Kiyoko che cercava tra i cespugli qualche fiore particolare da fotografare. Si davano le spalle e, nel vederli così, Orihime si rese conto di quanto fossero identici nell’aspetto e nel temperamento. E dire che aveva rischiato di rovinare tutto, mentre invece adesso si sentiva carica di una nuova energia. E non vedeva l’ora di accogliere in casa sua un bambino che aveva bisogno di affetto, di una famiglia. Stava bevendo qualcosa di dolce e mangiando una ciambella (aveva ripreso a sperimentare con i dolci, questo voleva dire che era davvero di buon umore), mentre parlava con Rukia, Tatsuki e Nel sul loro privato gruppo Whatsapp.
 
Da Tatsuki: Ieri ho comprato il vestito per il matrimonio. Ma mi sa che è inutile, metto su peso a vista d’occhio.
Da Neliel: ma che esagerazione, il matrimonio è tra meno di un mese. Non so a voi, ma a me i matrimoni piacciono proprio. Ve lo ricordate il mio?
Da Rukia: difficile da scordare, Grimmjow ha avuto una sbronza epocale. E dire che era il testimone. Adesso scusate, finisco di riordinare i miei appunti,
Da Tatsuki: e io vado a cercare del cibo. Hime, dovresti portarmi uno dei tuoi cupcake particolari, ne ho bisogno.
Orihime sorrise.
Certo, te ne porto quanti ne vuoi.
E poi si stiracchiò. Aveva avvertito una sensazione dolce-amara nell’apprendere della gravidanza di Tatsuki. Ora però si sentiva leggera. Malinconica, certo. Ma confidava che quella malinconia sfumasse con l’avvenire della bellezza della vita. Si alzò e si avvicinò a Ulquiorra. Lo vedeva usare colori quali il verde – come i suoi occhi e quelli di Kiyoko – il rosso, il giallo. Colori allegri e pieni di vita.
«Ti sei dato all’astrattismo?» domandò maliziosa. Ulquiorra fece spallucce.
«A volte ho solo bisogno di lasciare fluire quello che sento attraverso il pennello. Ti piace?» domandò. Orihime strinse il suo braccio e poi posò la testa sulla sua spalla. Era tenero che chiedesse la sua opinione anche dopo tutti quegli anni.
«Mi piace qualunque cosa tu faccia, mio artista» sussurrò. Lo baciò a tradimento e Ulquiorra sospirò nel suo bacio. Poi Kiyoko saltò fuori da un cespuglio, gridando.
«Questa è in assoluto la foto più bella che io abbia fatto. Voglio proprio fare questo lavoro da grande!»
Ulquiorra voltò appena il capo,
«Sono così orgoglioso di lei che potrei commuovermi.»
E lo disse in un modo così serio che Orihime scoppiò a ridere.
 
Tatsuki posò il cellulare e si fiondò sulla vaschetta di gelato che l’aspettava. Non riusciva proprio a resistere al cibo dolce. Seduta al tavolo, sentì Uryu lamentarsi, mentre si chinava per raccogliere vestiti e giocattoli sparsi a terra.
«Lo sai che cosa avete in comune tu e tuo figlio? Il disordine e il fatto che non mettete niente al proprio posto.»
«Forse tu dovresti essere meno pignolo» rispose lei, senza scomporsi. Uryu sollevò lo sguardo, facendosi quasi scivolare gli occhiali sul pavimento. Se fossero stati quelli di un tempo, avrebbero trovato in quella sciocchezza un motivo per discutere. Ma adesso Uryu la guardava e non faceva altro che ripetersi quanto bella fosse e quanto l’amasse. Forse l’amore gli aveva davvero mandato in pappa il cervello. E si ritrovò a sorridere come un’idiota.
«Sì, in effetti io sono pignolo.»
Tatsuku arrossì.
«M-ma io stavo solo scherzando. E poi è vero, io non metto mai nulla al proprio posto. Lascia, ci penso io» aveva lasciato cadere il cucchiaino e si era alzata, ma Uryu le aveva fatto segno di stare lontana.
«No, tu sei incinta.»
«E allora?» domandò cercando di togliergli i vestiti dalle mani. «Non sono malata, sono in perfetta forma. Dai, non fare l’apprensivo come al tuo solito.»
«E tu non fare la testarda come al tuo solito»
Tatsuki sorrise indispettita e lo baciò all’improvviso, facendolo arrossire. Questo lo facevano spesso da adolescenti: lui che parlava e lei che gli rubava i baci. Quando tutto era leggero e facile. Ora erano adulti, ma forse la leggerezza che tanto bramavano non era andata del tutto persa. Era tornata. Yuichi si era fermato a guardarli e un po’ imbarazzo aveva tossito.
«Papà, ti aiuto io, okay? Mamma, tu sta ferma.»
Tatsuki sgranò gli occhi, stupita. Suo figlio e suo marito si erano coalizzati contro di lei, ma doveva ammettere che ricevere tutte quelle attenzioni non le dispiaceva, e si disse anche che avrebbe ringraziato Uryu a vita per avere avuto pazienza. Dentro lei e davanti a loro c’era una bellissima seconda possibilità.
 
Anche Neliel aveva gettato il telefono in un angolo ed era andata a molestare Nnoitra, il quale si era rimesso a lavorare con costanza sulle sue tavole. Ma quando l’aveva vista arrivare, Nnoitra aveva smesso di disegnare e le aveva detto oggi c’è una storia che voglio raccontare a Naoko.
Allora Neliel non aveva fatto domande, perché aveva già capito e perché quello per Nnoitra rappresentava l’ennesimo passo importante. Parlare con Naoko, che era una delle persone che più amava e di cui più temeva di perdere l’amore.
Naoko aveva la salopette sporca di colore e di colore aveva sporcato anche la coda del povero Aries, ora accucciato accanto a lei.
«Nao» la chiamò Nnoitra, prendendola in braccio. «Non tormentare quel povero martire.»
Naoko si lasciò andare ad un gridolino eccitato, perché ora si trovava a testa in giù e ora Nnoitra l’aveva adagiata sul divano. Poco dopo Neliel si era seduta accanto a lei e Nnoitra l’aveva raggiunta.
«Allora… vuoi sentire una storia?» domandò Nnoitra, che a raccontarle a voce non era proprio bravo. Ma voleva parlare a sua figlia di lui. Del migliore amico che aveva perso e che non aveva mai smesso di essere importante. Naoko si fece attenta, percependo l’importanza di quel momento.
«Sì! Una storia su cosa?»
«Non su cosa, ma su chi» sussurrò. «Si tratta del mio migliore amico. Lo sai, lui era molto diverso di me, ma siamo stati amici per tutta la vita.»
Quando Naoko lo sentì parlare al passato, capì. Era una persona che non c’era più. Guardò sua madre, cercando una conferma che trovò. Di questa persona suo padre non le aveva mai portato e il fatto che avesse deciso di farlo adesso, doveva significare di qualcosa d’importante.
«E come si chiamava?» domandò,
A Naoko, Nnoitra non voleva raccontare della tristezza legata alla morte di Tesla. Voleva parlare di tutto ciò di bello di cui ricordava. Dei momenti felici, anche se inevitabilmente lo facevano sentire triste. E andava bene così.
«Tesla. Lui era la mia ombra, io la sua. E sono sicuro che ti avrebbe adorata, mia piccola Naoko» disse, addolcendosi all’improvviso e sentiva quella sensazione familiare di dolcezza e amarezze al contempo. Neliel strinse la sua mano, molto commossa. Naoko sorrise e lo guardò negli occhi.
«Raccontami ancora.»
 
Rukia finì di sistemate i suoi appunti e poi rimise a posto i libri. Avrebbe avuto un altro esame di lì a breve, ma a differenza della prima volta, la stava vivendo con molta meno ansia. Anche perché poteva contare sull’aiuto di Ichigo, che finalmente aveva lasciato da parte il panico.
Aprì la porta dello studio: nella sala da pranzo c’era la sua caotica, ma tanto meravigliosa famiglia. Kaien, Kohei e Masato che giocavano insieme, capitanati da Isshin. Kohei che andava d’accordo perfino con Kaien, gli aveva mostrato il suo adorato libro sulle aquile e il cugino si era mostrato interessato. E poi c’erano Yuzu e Karin che parlavano mentre preparavano da mangiare.
«Così le cose tra te e Chad vanno bene, eh? Quanto bene?» domandò Yuzu con un certo tono malizioso che mise in imbarazzo la gemella. Karin infatti era arrossita, ma nei suoi occhi c’era una luce tutta nuova, la luce di chi aveva ritrovato la direzione giusta.
«Yuzu, smettila di mettermi in imbarazzo» borbottò, ma poi il suo sguardo si addolcì. «Ad ogni modo sì, le cose vanno molto bene. Adesso abbiamo più tempo per noi, sembriamo… una coppietta appena sposata. E questo fa bene anche a Kohei. Guardalo, è decisamente più socievole del solito» disse indicando il figlio, che si trovava tra i suoi cugini. Forse era l’effetto dell’amore (o forse per il semplice fatto che si era lasciata andare), ma si sentiva insolitamente calma. Il mondo sarebbe stato sempre pieno di pericoli, ma lei voleva prendere esempio da Chad, sempre così calmo e col sangue freddo di affrontare le avversità. Yuzu l’abbraccio all’improvviso e per poco Karin non si tagliò un dito.
«Mi sembra naturale! Perché l’amore, mia cara sorellina, è ciò di cui tutti hanno bisogno. Non sai che bello sentirti dire certe cose. Ma a che ora arriva lui? Tu sei troppo misteriosa al contrario suo!»
Rukia rise e finalmente le due si accorsero di lei. Karin la implorò di liberarla dalle molestie di Yuzu. C’era caos. Ma quel caos che amava. Ichigo uscì di fretta, tenendo il camice in una mano e uno zaino nell’altra.
«Sono in ritardo, come al solito! Rukia, ci penso io ai bambini dopo.»
«Oh, Ichigo. Non strapazzarti troppo, oggi sono libera. Non devo studiare per forza in modo matto e disperato» lo rassicurò, poggiandosi con la schiena al muro. Nonostante fosse di fretta, Ichigo si fermò all’improvviso, si chinò su di lei e la baciò appassionatamente sulle labbra. Roba che Rukia avrebbe voluto non lasciarlo più andare, ma dovette farlo.
«D’accordo. A più tardi» le disse e poi sorrise, lasciando sua moglie lì, con le gambe tremanti e un batticuore degno di una ragazzina. Karin si trattenne dal ridere, mentre Yuzu si lamentava.
«Accidenti a voi due! Adesso anche io ho tanta voglia di innamorarmi!»
Mentre usciva, Ichigo salutò velocemente Renji, il quale era quel giorno venuto da Rukia per parlarle. Non per chiederle aiuto, ma per riferirle una lieta notizia. Era così felice che non riusciva a tenerselo per sé. Byakuya – più timido e riservato – lo avrebbe perdonato. Renji fu accolto calorosamente in quella casa che ora sarebbe stata anche un po’ sua, da quella famiglia che ora era anche un po’ sua.
«Renji! Ma tu guarda, non ti aspettavo» disse Rukia tutta contenta, guardando poi dietro di lui. «E mio fratello non c’è?»
«Amh, no. Lui è a lavoro e io ero venuto qui per… beh, in realtà non c’è un motivo in particolare» disse arrossendo e tirandosi per errore una ciocca di capelli. C’erano Yuzu e Karin che lo guardavano con una certa curiosità, come due pettegole.
«Volevo solo dirti che con Byakuya le cose vanno bene. E intendo… molto bene.»
Quando Rukia lo guardò negli occhi, capì che tra Renji e suo fratello doveva essere successo qualcosa d’importante. Che entrambi dovevano aver superato quel muro che ancora li divideva. E capì anche il resto. Sgranò gli occhi e si portò una mano davanti la bocca.
«Oh, mio… voi lo… lo avete fatto
Renji aveva sperato (un po’ stupidamente in realtà) che Rukia non lo dicesse davvero ad alta voce. E invece lo aveva detto! Adesso aveva Yuzu e Karin che gli giravano attorno curiose e con gli occhi che brillavano.
E poi Kaien saltò su, incuriosito da tutto quel trambusto e chiese a gran voce Chi ha fatto cosa?
Nessuno però si degnò di rispondere. Renji indietreggiò, sorridendo nervoso.
«Emh… è così sorprendente come notizia?» domandò, impaurito come se fosse una preda pronta ad essere divorata. Rukia soprattutto era euforica.
«Sono così felice! Mio fratello non sarà mai così diretto. RACCONTAMI TUTTO.»
E con raccontami tutto, Rukia intendeva racconta come ci siete arrivati, com’è successo e com’è stato, non tralasciare nessun dettaglio. Renji si sentì in imbarazzo. Ma Rukia c’era sempre stata, magari qualcosa poteva raccontargliela…
 
 
 
Ichigo arrivò al St. Luke e salutò Ishida e Hanataro. Quest’ultimo finalmente si stava ambientando e Kurostuchi aveva smesso di prendersela con lui in continuazione, limitandosi solo ad un aspro rimprovero una volta ogni tanto. In realtà sembrava che Kurotsuchi fosse cambiato. Ma chi non lo era lì dentro, dopotutto?
Perfino il primario Urahara sembrava tornato quello di sempre e, mentre beveva il suo caffè, raccontava della sua vita a Mayuri. Quest’ultimo ci teneva sempre a ribadirlo, loro non erano amici, nella maniera più assoluta. Però si erano aiutati a vicenda nel momento del bisogno e di sicuro il loro rapporto era cambiato.
«Lo sai, penso proprio che le cose me e la mia cara Yoruichi stiano iniziando ad andare meglio. Certo, è stato strano. Non il fatto che le piacciano anche le donne, figurati. Ma il fatto che le piacesse qualcuno che non sono io. Però la terapia va bene e noi parliamo molto di più. Ho temuto davvero che potesse lasciarmi, sai?»
«Ti prego. Vi ho individuati bene, voi siete di quelle coppie che per quanto possano litigare, non si lasceranno mai. E siete così sentimentali da essere fastidiosi» rispose Mayuri, scocciato. O almeno fingendo di esserlo. Ascoltarle le chiacchiere di Urahara non era poi così terribile. Ma questo ovviamente non gliel’avrebbe mai detto.
Kisuke sorrise e stava per ringraziarlo, quando sentì una voce a lui familiare. Era suo figlio che gli stava venendo incontro correndo.
«Ehi, ma cosa fai tu qui?» domandò Kisuke, abbracciandolo.
«Sono venuto con mamma. Mentre Yami è a lezione di danza, lei mi accompagna in fumetteria. Prima però siamo passati a salutare» poi abbassò la voce. «È stata una sua idea. Le mancavi molto, credo»
«Ma davvero? Lo sai che anche lei mi è mancata molto?» domandò Kisuke, complice. Yoruichi, qualche metro più addietro, inarcò un sopracciglio. Quei due! Potevano anche essere diversi, ma in quel momento non le erano mai sembrati così simili.
«Non confabulate voi due! Su, Hikaru, adesso andiamo. Kisuke noi… ci vediamo dopo?» domandò, un leggero rossore sulle guance. Kisuke sorrise, in imbarazzo.
«Ma… ma certo.»
Kurostuchi si era allontanato proprio per evitare di assistere a certi sentimentalismi. Lasciarsi quei due, ma per favore. Di amore pensava di capirne ancora poco, ma capiva che di sicuro quei due erano anime gemelle, qualsiasi diavolo di cosa volesse dire. Poco prima di andarsene, Hikaru chiese a sua madre di aspettarlo un attimo e poi si avvicinò proprio a Kurotuchi.
«Ehi, dottore!» esclamò. Lui abbassò lo sguardo su quel ragazzino. Di solito timido, ma che ora lo guardava dritto negli occhi.
«Sì, Urahara?» domandò, come se si stesse rivolgendo a Kisuke. Ma Hikaru non parve in soggezione, anzi gli sorrise.
«Niente. È che non l’ho ancora ringraziata per avermi aiutato quella volta. Quindi grazie!» rispose.
Kurotsuchi era sorpreso. Non capiva perché lo ringraziava. Lui non aveva fatto proprio niente.
«… Questo è… è il mio lavoro, non ringraziarmi» rispose infatti.
«Ah, e poi voglio che ringrazi anche Ai da parte mia. Lei mi ha aiutato, ha detto al posto mio quello che riuscivo a dire. Lo sa, io ad Ai voglio tanto bene. Lei gli somiglia. Cioè, forse è al contrario. Siete entrambe due persone che aiutano gli altri. Solo che lei, dottore, fa un po’ paura. Solo un po’.»
Accidenti alla lingua lunga dei bambini. Nemmeno lui sapeva come rispondere. Le parole di Hikaru lo avevano colpito. Nessuno gli aveva mai detto che Ai gli somigliasse caratterialmente, come persona. Doveva essere senso di orgoglio quello che sentiva lì nel petto.
«D’accordo, la ringrazierò da parte tua. E…» ci pensò un attimo prima di dire ciò che stava pensando. «Mi fa piacere che Ai abbia qualcuno che tenga a lei così tanto.»
Hikaru sorrise tutto contento e poi tornò da sua madre, mentre Kurostuchi lo seguiva con lo sguardo. Accidenti, doppio accidenti ai bambini. L’unica che gli piaceva era Ai. O almeno fino a quel momento.
Nemu quasi si scontrò con lui. E si allarmò quando lo vide con lo sguardo fisso nel vuoto.
«Ma che è successo?» domandò. Mayuri corrugò la fronte, facendo una smorfia.
«Hikaru, quel ragazzino. Credo di essermelo preso a cuore. Dannazione. Ma non dirlo mai a Urahara o sarà il mio tormento a vita» disse senza guardarla negli occhi, burbero. A Nemu venne da sorridere. Ma non era sorpresa, anzi.
 
Yoruichi non avrebbe mai smesso di essere impegnata. E questo le piaceva molto. Aveva accompagnato Hikaru in fumetteria, poi lo aveva strapazzato di baci e infine era andata dalla sua terapista. La dottoressa Kotetsu aveva notato il suo cambiamento nel corso di quelle settimane e, anche se Yoruichi non poteva definirsi ancora realizzata, poteva dire di essere molto più serena. Oramai non aspettava nemmeno più che Kotestu le facesse delle domande: lei raccontava tutto, perfettamente a suo agio.
«Ed è andata così. Credo che io e mio marito stiamo imparando a ritrovarci. E per quanto riguarda la mia cotta, beh… l’ho semplicemente accettata. Così come ho accettato il fatto di essere attratta dalle donne. Giuro che non avrei mai pensato di potermi porre questo tipo di problemi… proprio io!» disse accasciandosi comodamente sulla poltrona. La dottoressa Kotetsu rise. Quella donna le stava proprio simpatica.
«Mi fa piacere che le cose vadano bene. E suo marito? Oggi dovevate venite insieme, se non sbaglio.»
«Ah, Kisuke sta arrivando. Credo sia stato trattenuto a lavoro. Tra l’altro» e dicendo ciò tirò su le gambe. «Non siamo ancora riusciti ad avere un rapporto sessuale completo, ma al pensiero non mi sento più a disagio. Non ho motivo. Ho esternato tutto quello che dovevo esternare.»
Era vero. Sapeva che la sua cotta per Soi Fon sarebbe passata. L’attrazione che sentiva era vera, ma era anche vero l’amore che provava per suo marito. Ed era sicura che anche a Soi Fon sarebbe passata, che avrebbe incontrato una ragazza di cui innamorarsi. Quelle erano cose che nella vita che potevano succedere.
«E mi dica, si sente felice adesso?»
Yoruichi ci pensò subito qualche attimo. Le cose andavano meglio, in amore, in famiglia, con i suoi figli. Ma che cos’era la vera felicità? Forse i momenti più semplici, più normali e addirittura banali. Non si sentiva perfetta, né infelice, né perfettamente felice.
Era perfettamente normale e di ciò ne era grata. Le ci sarebbe voluto un po’ per spiegarlo a parole, ma lo avrebbe fatto dopo, perché mentre parlavano arrivò finalmente Kisuke, tutto di corsa e visibilmente stanco.
«Ce l’ho fatta!» esclamò tutto contento. «Scusate il ritardo»
La seduta andò benissimo e quando uscirono, lo fecero con Kisuke che la stringeva forte a sé, camminando vicini come quando erano una coppietta.
«Siamo forti, vero Yoruichi cara?» chiese lui. «Cosa ti andrebbe di fare adesso? I bambini sono con Ai, noi siamo liberi.»
«Ma… tu non sei stanco?» domandò Yoruichi. Eccome se lo era, Kisuke le dava l’idea di poter crollare addormentato da un momento all’altro. Ma lui non ci diede importanza.
«Cosa vuoi che sia, il mio amore è più forte della stanchezza!»
Yoruichi arrossì, dandogli una gomitata. Aveva sempre l’abitudine di sorprenderla. E questo le piaceva da morire. Mormorò un come sei sciocco, mentre tirava fuori il cellulare. Aveva appena ricevuto una mail da parte di Soi Fon. E la lesse.
 
Prof Shihoin
Spero di poterglielo dire anche guardandolo negli occhi, ma prima ho trovato maggior coraggio agendo in questo modo. Volevo solo dirle che di sicuro la stimerò sempre e che è una donna molto coraggiosa. E anche se un po’ mi costa ammetterlo, lei e suo marito siete proprio una bellissima coppia, dove si vede che c’è l’amore. Questo è il tipo di amore che io vorrei per me, un giorno. Non so se ciò che sento mi passerà oppure no, ma in ogni caso sappia che sono felice di averla come insegnante. E che un giorno diventerò una scrittrice. Questo lo so, perché lei mi ha detto che posso riuscirci.
Allora ci vediamo a scuola, prof.
 
Yoruichi sentì gli occhi divenirle lucidi. Prima Kisuke, ora Soi Fon. Si asciugò velocemente gli occhi. Era contenta che Soi Fon avesse capito. Che fosse cresciuta. Anzi, erano cresciute entrambe. Le avrebbe risposto come si deve, ma dopo. Prima sentiva il bisogno impellente di fare altro.
«Kisuke» disse, mentre entrava in auto. «Andiamo a casa. Adesso, ho bisogno di te.»
«Hai bisogno di me?» domandò lui, che inizialmente non capì a cosa si riferisse. Poi lesse il desiderio e il bisogno nei suoi occhi. E capì. E provò un brivido.
«Mia cara… tutto quello che vuoi» sussurrò. Il desiderio era così palpabile da essere soffocante. Ma a nessuno dei due dispiacque.
 
 
Rin si era nascosta sotto il letto. Era immobile e in silenzio. E rimase immobile e in silenzio anche quando entrò qualcuno. Avvertì dei passi e si irrigidì. Poi Gin si chinò all’improvviso, scovandola.
«Trovata!» gridò. Rin si lasciò andare ad un gridolino entusiasta. Nascondino era proprio un gioco divertente, doveva giocarci più spesso
«Aspetta! Papà, sono incastrata!» esclamò poi, ridendo e mentendo spudoratamente.
«Ah, è così? Allora ci vuole un pronto intervento. Avanti, vieni qui» dicendo ciò Gin l’afferrò, trascinandola fuori. «Non eri poi così incastrata, eh?»
«Anche se mi hai trovata, ho vinto lo stesso io» disse battendo le mani. Era una vita che Gin non giocava con Rin. Che non si rilassava. E cosa si era perso! Quelli erano momenti dolci e speciali. Importanti per lui quanto per Rin.
«E va bene, non discuto. Piuttosto» e dicendo ciò le sussurrò qualcosa all’orecchio. «Cogliamo alla sprovvista la mamma.»
 
Un compito di un’amica era anche quello di ascoltare gli scleri via telefono del proprio amico prossimo al matrimonio. Il termine giusto per Yumichika era esaurito. Ma poteva capirlo, organizzare un matrimonio sapeva essere stressante. Per non parlare poi dei dubbi e delle paure.
«Rangiku, sono terrorizzato. E se va qualcosa storto? Non credo potrò sopportarlo. Ikkaku è tranquillo! Certo, a lui cosa importa? Sono io quello stressato»
«Ehi, guarda che sono stressato anche io!» Rangiku sentì la voce di Ikkaku. «Però, vedi, non sono scappato. Devo amarti veramente tanto!»
Rangiku scosse la testa e si trattenne dal ridere. Ah, quei due. Ci sarebbe stato davvero da ridere.
«Oh, avanti Yumichika. Oramai ci siamo quasi. Andrà tutto bene, niente può andare male.»
A parte l’apocalisse, un terremoto, un incendio, un attacco alieno o semplicemente un amante di Ikkaku che sbucava all’improvviso, aggiunse dopo Yumichika. Rangiku sentì all’improvviso qualcosa caderle addosso. Quel qualcosa era niente meno che sua figlia, che le era saltata addosso per attirare la sua attenzione. E Gin l’aveva seguita a ruota.
«Ahi! Ehi, piano. Yumichika scusa, sono sotto attacco, a dopo!» gridò. «Vi siete coalizzati contro di me, non è vero?»
Rin rideva. Ed era un suono adorabile, una risata vera. Gin era più sereno, come se avesse lasciato andare tutta la tensione. E ora la baciava e mentre lo faceva non aveva niente da nascondere, né intenti né paure. Rin tirò i capelli di Gin.
«Nessuno bacia me, mi sento esclusa!»
E allora la baciarono entrambi.
Toshiro uscì dalla sua camera e arrossì quando li vide. Gin, Rangiku e Rin avevano trovato la loro serenità. Erano una famiglia, era anche la sua famiglia. Ma la sua famiglia ora era anche Momo, o almeno lo sarebbe stata.
«Oh, Toshi» lo chiamò Rangiku, ancora abbracciata a Rin. Era un po’ preoccupata per le sorti dell’amico, di certo non lo avrebbe voluto in mano ai paparazzi. «Vai… da Momo?»
«Sì, io… vado da lei. So che dovremmo evitare, ma oramai sanno tutti di noi, quindi… pazienza» disse facendo spallucce. Gin si alzò.
«Ti accompagno io. Nessuno si avvicinerà se ci sono io, so essere molto persuasivo»
Toshiro accettò volentieri il suo aiuto. Si poteva dire che oramai fossero amici. Incredibile, ma vero.
«Ehi, Toshi» disse Rangiku. «Questo passerà. Lo sai che ti sosterrò. Io sostengo sempre l’amore»
Il ragazzo arrossì. Era e sarebbe sempre stato grato a Rangiku, per tutto.
«Lo so e ti ringrazio per questo» disse soltanto. Rin si staccò dalle braccia di sua madre e si avvicinò a Toshiro, con la fronte aggrottata e a braccia conserte. D’accordo, si era detta, forse non lo avrebbe mai sposato. Però sarebbe sempre stato il suo fratello-zio più grande.
«Toshi» disse seria. «Volevo dirti che sì, sono un po’ offesa con te, perché io sono tanto bella e tu non hai voluto aspettarmi. Però va bene così, ti piacciono le donne più grandi. E poi Momo è simpatica, anche se non quanto me. Quindi va bene, possiamo tornare ad essere amici.»
Toshiro sgranò gli occhi e poi si inginocchiò per abbracciarla. Benedetta Rin. Non avrebbe sopportato la sua rabbia.
«Grazie, Rin. Sei una brava bambina» sussurrò, baciandole la fronte. Rin arrossì e poi sorrise. Oh, aveva ottenuto un bacio da lui, questa sì che era una grande vittoria.
 
Gin gli aveva detto di stare su col morale e di non preoccuparsi, che tutto si sarebbe risolto. Con Aizen poco propenso a guerre e battaglie a causa dei suoi problemi d’amore, avrebbe dovuto lasciare che fosse il tempo a sistemare tutto. E Toshiro voleva crederci, per davvero, ma era comunque un po’ giù di morale. Una delle cose che più lo terrorizzava era avere a che fare con il figlio di Momo. Più che di terrore si trattava di un sincero disagio. Fino a quel momento era stato bravo a non beccarlo ogni volta che si trovava a casa di Momo, ma non quel pomeriggio. Quel pomeriggio scorse Hayato che, da che era seduto al piano forte accanto a sua madre, lo osservò con gli occhi storti. Perché Momo non gli aveva detto di evitare?
«Ah. Emh… forse dovrei tornare più tardi…» disse in imbarazzo. Momo però si alzò e lo prese per mano. Gli sembrava inutile tutta quella scena, Toshiro e Hayato già si conoscevano.
«Sta tranquillo. Hai incontrato giornalisti, mentre venivi qui?»
«Eh? Ah, no. Nessuno» era un po’ distratto dallo sguardo di Hayato. Sembrava volerlo analizzare, sembrava guardarlo come un estraneo. Cosa che di fatto era, era l’altro, l’uomo che sua madre amava. Entrambi i suoi genitori amavano qualcun altro. Hayato era sicuro che questo non accadesse a tutti, ma in fin dei conti la cosa la stava metabolizzando abbastanza bene: suo padre e sua madre non avevano mai dato l’idea di amarsi come facevano tutti. Se fosse stato quello di un tempo, probabilmente avrebbe insultato quel tipo. Ora, Toshiro continuava a non piacergli e non gli piaceva l’idea che stesse con sua madre, ma c’era qualcosa che lo portava a comportarsi in maniera diversa.
Così lo indicò con il dito.
«Tu non mi piaci.»
Toshiro arrossì e guardò Momo. Quest’ultima aveva sperato che suo figlio se ne stesse buono.
«Sì, lo so che non ti piaccio» rispose, calmo. Lui era l’adulto, lui doveva comportarsi in maniera matura. Anche perché, alla fine, ad Hayato lo capiva.
«…Però se devi stare qui, stacci. Basta che non mi parli troppo» borbottò. Momo sospirò. Per molti poteva essere niente di che, ma il fatto che Hayato accettasse quanto meno la presenza di Toshiro in casa sua, era già un grande passo in avanti. E Toshiro dal canto suo non ebbe nulla da obiettare. Ci sarebbe stato tempo per spiegarli che lui a sua madre ci teneva davvero, che l’amava, che voleva costruirsi un futuro con lei. Che avrebbe imparato a volere bene anche a lui, perché era suo figlio.
Momo sorrise e poi si sedette al piano, con Hayato seduto accanto a lei e Toshiro che l’ammirava.

Nota dell'autrice
Altri chiarimenti e meno tre capitoli alla conclusione della storia. Nel prossimo capitolo, finalmente il tanto atteso matrimonio... un matrimonio ricco di sorprese, vi consiglio di esserci ;)

Nao

Ritorna all'indice


Capitolo 34
*** Capitolo trentaquattro ***


Capitolo trentaquattro
 
A Rukia i matrimoni erano sempre piaciuti. C’era sempre una bella atmosfera allegra e amichevole, come se chiunque lì brillasse di luce propria. E poi, puntualmente, non poteva fare a meno di ripensare al proprio matrimonio, avvenuto oramai dieci anni prima. Eppure sembrava ieri.
«Ichigo, hai di nuovo il colletto in disordine. E anche la cravatta. Lascia, faccio io.»
Rukia si sollevò sulle punte per aggiustare la camicia e la cravatta di Ichigo. Quest’ultimo, stretto nel suo smoking blu scuro stava benissimo, peccato fosse anche poco comodo.
«Ma fa caldo, ci saranno più di trenta gradi. Siamo in primavera, non in estate accidenti» si lamentò, facendosi però sistemare dalle sue abili mani. Rukia sorrise e poi si guardò intorno: aveva perso i gemelli di vista, i bambini avevano fatto gruppo e si erano cacciati chissà dove. Oh beh, dopotutto la cerimonia non era ancora iniziata.
Per il grande evento, Yumichika e Ikkaku avevano scelto una location all’aperto, scelta azzeccata vista la bella giornata. E c’erano fiori, fiori ovunque, che stavano facendo starnutire Ishida.
«Ho bisogno di un fazzoletto. E di un antistaminico, magari. Stupido polline. E stupida allergia» si lamentò, togliendosi gli occhiali e asciugandosi le lacrime. Tatsuki era accanto a lui e se lo trascinò dietro per raggiungere Ichido e Rukia.
«Tatsukiii! Ma tu guarda!» esclamò Rukia tutta contenta. «Stai benissimo. E sei così magra… come fai ad essere così magra anche se sei incinta?»
Tatsuki rispose che magra non si vedeva per niente. Al gruppo si unirono ben presto anche Ulquiorra e Orihime e Nnoitra e Neliel. Nnoitra sembrava un po’ nervoso e no, non era per il polline o per il caldo, ma perché ce l’aveva con qualcuno in particolare.
«Quel tipo, Zaraki, non mi piace» si lamentò mentre lo guardava da lontano. «Non lo so, dal momento in cui mi ha guardato mi ha dato l’idea di volermi sfidare»
Sua moglie gli tirò una ciocca di capelli.
«Non osare fare cose stupide. Comunque abbiamo perso Grimmjow di vista. E anche Naoko» disse Neliel, più preoccupata per Grimmjow che per le sorti di sua figlia.
Naoko infatti stava benissimo. Le bambine erano tutte entusiaste, adoravano essere vestite con degli abiti così carini (anche se la stessa Naoko si era già sporcata le calze di seta bianche) e si sentivano parecchio propense a dimostrazioni d’affetto nei confronti dei loro amici.
«Chi sarà il mio cavaliere stasera? Dunque, vediamo. Kiyoko sta con Kaien, Ai sta con Hikaru. Masato e Yuichi? Nessuno dei due vuole essere il mio accompagnatore?»
Yuichi, che se ne stava seduto sul bordo di una fontanella, per poco non cadde. Se ci fosse stato un ballo (e nei matrimoni c’erano sempre), lui avrebbe ballato con Masato! Dopotutto erano fidanzati. Anche se questo non lo sapeva nessuno.
«Ecco, veramente… io… emh… faccio coppia con Yuichi e basta» mormorò Masato, arrossendo. Kaien lo guardò, un sopracciglio inarcato. Poi però fece spallucce: in effetti cosa c’era da sorprendersi? Suo fratello e Yuichi erano sempre appiccicati. E nemmeno Naoko si fece troppi problemi. Piuttosto indicò Kohei, impegnato a osservare le formiche sull’erba.
«Allora balli tu con me, Kohei.»
«Eh? Ma io non so come si fa» rispose lui, in imbarazzo ma non così a disagio, perché Naoko gli piaceva, tra tutte le sue amiche era la più buona, bella e brava. Naoko gli strinse una mano.
«Tranquillo, nemmeno io so come si fa!»
Miyo sospirò. Adesso stava meglio, anche se aveva ancora il braccio fasciato.
«E io faccio da tappezzeria. Come al solito» disse alzando gli occhi al cielo, come una che si fosse già rassegnata al suo ruolo di lettrice solitaria. Ad un tratto i bambini sentirono qualcuno parlare a gran voce: si trattava di Yachiru Zaraki, sorella adolescente di Zaraki, una ragazzina dai capelli tinti di rosa e con una grande energia.
«Bimbi, voi! Mi raccomando, tutti al vostro posto. Deve essere tutto perfetto quando Yumichika arriva. In quanto io sorella del testimone, è mio compito controllare che sia tutto perfetto. E quindi sarete seduti alternando maschi e femmine. Coraggio, seguitemi!»
Kaien guardò i suoi amici come se si fosse ritrovato davanti ad una pazza. Però Yachiru era simpatica ed energica, quindi non fece troppe storie.
«Ehi, Ken-chan, Ikkaku. Qui ci penso io, non avete nulla da temere!» gridò la ragazzina, sbracciandosi.
Un nervoso Ikkaku, in piedi sotto l’arco nuziale di fiori, le fece un cenno col capo. E dire che fino a qualche ora prima non era affatto nervoso. Ora invece aveva le vertigini.
«Non ti metterai a piangere, spero» gli disse Zaraki, scocciato. Anche se in realtà così scocciato non era, perché la sua nuova ragazza (o almeno, non c’era ancora nulla di ufficiale, ma era giusto definirla così, oramai), gli aveva posato un bacio poco prima di andare a sedersi insieme agli altri invitati. E anche se si sforzava di non darlo a vedere, la sua presenza lo aveva parecchio ringalluzzito.
«Ma che piangere, non dire sciocchezze! Sono solo nervoso. Merda, e che faccio se Yumichika cambia idea all’ultimo minuto?» domandò Ikkaku. Zaraki sbuffò. Lo sapeva, in quanto suo testimone, era suo compito stargli accanto e non farlo impazzire. Peccato che lui non fosse molto bravo con le parole, anzi.
«Ah, non fare il cazzone. Non cambierebbe mai idea» cercò di consolarlo, goffamente. E in parte ci riuscì.
 
Ikkaku non era l’unico nervoso tra i due. Rangiku infatti si stava ritrovando a dover tranquillizzare un nervosissimo Yumichika, il quale stava cercando di non farsi venire un attacco di panico.
«Perché Renji ancora non è arrivato? È il mio testimone, dannazione a lui. Giuro che appena arriva… No, io non posso permettere che lo stress intacchi la mia perfetta bellezza. Ci sono stato ore a prepararmi!»
Gin, che se ne stava seduto a guardarlo, avrebbe tanto voluto fare una battuta per sdrammatizzare, ma da come Rangiku lo guardò, capì che forse sarebbe stato meglio tacere. Oh, Rangiku era bellissima. Sembrava lei la sposa, ma anche questo fu attento a non dirlo.
«Su, su. Adesso respira» Rangiku prese Yumichika per le spalle. «Tutto può andare soltanto bene, te l’ho detto.»
Yumichika respirò profondamente e poi inspirò. Doveva fidarsi di Rangiku, o si fidava o gli sarebbe venuto un esaurimento nervoso. Ma gli veniva da piangere e diamine, ci aveva impiegato ore anche a truccarsi, non avrebbe mandato tutto all’aria in questo modo.
«Va bene, sono calmo. Ah, non è vero! E se Ikkaku cambia idea? Sono stato più insopportabile del solito, ultimamente.»
Gin tossì. Forse poteva dire la sua senza pronunciare parole sbagliate.
«Ma no, ti avrebbe già mollato. E invece è qui perché ti ama. Scommetto che anche lui è in panico, me lo sto immaginando piuttosto bene.»
Poi rise e suo malgrado rise anche Rangiku. Yumichika non rise, però si rilassò appena. Fu una fortuna per Renji arrivare proprio in quel momento, perché se fosse arrivato qualche istante prima, Yumichika se lo sarebbe divorato. Col fiato corto, la giacca un po’ sgualcita, ma c’era. E no, le suppliche e le minacce dello sposo non erano bastate a convincerlo a tingersi i capelli.
«Scu… scusate il ritardo» ansimò, piegato su sé stesso. «La moto non partiva.»
«Finalmente!» esclamò Yumichika. «Stava per venirmi un esaurimento nervoso. Adesso precedimi, brutto screanzato!» lo afferrò per l’orecchio, tirandolo così forte da farlo diventare rosso come i capelli di Renji. Rangiku rise ancora e poi si voltò verso suo marito.
«Amore mio, andiamo?» domandò, tendendo un braccio. Gin le fece il baciamano.
«Prima devo fare una chiamata ad una persona. Ti raggiungo tra poco.»
Rangiku non pose alcuna domanda, perché immaginava molto bene a chi Gin dovesse fare la sua telefonata.
 
Sosuke aveva pensato di buttarsi sul lavoro. Non era mai stato uno che si deprimeva e traeva sempre il meglio dalle situazioni. Ma quella volta era difficile. Allora doveva essere quello l’amore. L’amore quello vero, quello che ti portava a compiere idiozie, quello che ti faceva soffrire. Il dolore dell’amore era quello. Guardava lo schermo del portatile senza però osservarlo per davvero. Invece vide benissimo con la coda dell’occhio la chiamata di Gin sul display del telefono.
«Gin?» rispose. «Dimmi.»
«Allora, non vieni? Sei invitato anche tu, ti ricordo»
Sosuke ebbe l’impressione di vedere il suo sorriso beffardo. Si tolse gli occhiali e si massaggiò gli occhi.
«Non mi sembra il caso visto che sono presenti sia la mia quasi ex moglie e il suo amante adesso compagno, immagino.»
Gin annuì. E poi sorrise di nuovo.
«Sosuke, vallo a raccontare a qualcun altro.»
Quel suo tono gli fece sgranare gli occhi. In tanti anni era la prima volta che si rivolgeva in tono così confidenziale.
«Che vuoi dire?»
«Voglio dire che non sono Momo e Toshiro a impedirti di venire. È per Shinji. Tu hai paura. Anzi, sei terrorizzato. E va bene, alla fine sei umano anche tu. Ma magari questa è la tua ultima occasione, che ne sai? Non è possibile che tu ti sia rassegnato all’idea di perderlo. Ottieni sempre quello che vuoi. Vuoi cominciare a mollare proprio adesso?»
Si era veramente arrivati al colmo! Era la prima volta che Gin si comportava da amico. Che lui gli permetteva di comportarsi come tale. Non stava dicendo cose inesatte: Sosuke nella vita aveva sempre ottenuto ciò che voleva. E adesso che avrebbe dovuto fare di tutto per avere Shinji, ad un passo da lui, si comportava come un codardo.
«Io non lo so, Gin. Senti, devo andare adesso.»
E chiuse la chiamata. Gin aveva ragione. Ragione su tutto. Sosuke Aizen poche volte in vita sua aveva avuto paura o anche solo timore.
Era una di quelle volte.
 
Shinji era nervoso all’idea di trovarsi nello stesso luogo in cui era presente Momo Hinamori. Ma non aveva potuto fare altrimenti: Yumichika aveva richiesto che i Vizard si esibissero al suo matrimonio e in quanto manager (e amico) doveva essere presente. Aveva appena preso posto, accanto a Hiyori e al resto della band. Per sua grande fortuna, Momo e Toshiro si trovavano seduti dal lato opposto, anche se a debita distanza. Non volevano dare troppo nell’occhio, anche se in molti lì già sapevano.
«Stupido Shinji!» bisbigliò Hiyori. «Vuoi stare fermo? Ti muovi tutto e mi stai facendo innervosire!»
«Mi dispiace! Ma la presenza di Momo mi rende nervoso, sai com’è» si lamentò. Sperava tanto di non incrociarla. Non avrebbe saputo che dirle e d’altronde cosa si diceva in certi casi? Scusa se sono stato l’amante di tuo marito? Scosse la testa, cercando di non pensare a Sosuke. Lui non l’aveva più cercato e d’altronde era giusto così. Era quello che voleva, no?
Lui non fa mai quello che dico, ha dovuto cominciare proprio adesso.
«Ti prego, niente scenate. Sennò Yumichika ci ammazza» gli suggerì la sua ex.
Non aveva intenzione di fare scenate. Sperò che fosse lo stesso anche per gli altri.
Il resto degli invitati prese posto e i bambini, sotto direzione di Yachiru Zaraki, si accomodarono tutti insieme. Anche Hayato era arrivato da poco, seduto rosso in viso tra Rin e Miyo. Rin sembrava particolarmente euforica, Miyo più tranquilla.
«Hayato, quando ci sposiamo noi, voglio anche io un matrimonio bellissimo» decise. Hayato sentì le guance andare a fuoco. Sapeva di non doverci fare troppo caso, Rin blaterava sempre di sposarlo (e non solo a lui), ma in quel momento gli fece un effetto strano.
«Io non mi sposerò mai» rispose infatti, facendo una linguaccia. Poi Miyo gli diede una gomitata, gli fece segno di zittirsi. Un delicato suono di violini ed ecco che la marcia nuziale era iniziata. Ben presto le attenzioni degli invitati furono tutte su Yumichika, luminoso, bello (e nervoso) nel suo completo bianco. E i fiori in mano, perché aveva preteso i fiori, tulipani bianchi e profumatissimi. Ikkaku lo attendeva sotto l’arco e si era immobilizzato come un idiota nel vederlo. Allora Yumichika non era scappato, non aveva cambiato idea. Accanto a lui si ergeva Zaraki, che odiava i matrimoni e le smancerie come poche cose al mondo, ma che tutto sommato era soddisfatto del suo ruolo di testimone, e avrebbe afferrato Ikkaku nel caso fosse svenuto. E in effetti lo sposo era vicino allo svenimento, anche se era più lo shock e la consapevolezza dello stare per sposare il suo compagno di una vita. Renji, che aveva il colletto troppo stretto, sorrise quando vide arrivare Yumichika e guardò tra gli invitati. Byakuya era uno sfacciato che non aveva occhi che per lui, anche in un momento come quello, ma ne fu felice.
Yumichika arrivò di fronte il suo futuro marito, sorridendogli.
«Oggi sei bello quasi quanto me, tesoro» gli disse. E lo fece ridere.
«Questo non è possibile. Tu sei inarrivabile»
Zaraki tossì, in imbarazzo. Quei due dovevano proprio guardarsi in modo così innamorato? Al solo pensiero che anche lui potesse fare quella fine quasi si sentì male.
La cerimonia finalmente iniziò. Rukia e Neliel scattavano foto a più non posso, mentre i più sensibili si lasciavano andare alla commozione. Alcuni avevano un certo contegno, come Ichigo e Ishida. Altri decisamente meno.
«Urahara, la vuoi piantare? Mi stai dando fastidio» si lamentò Mayuri. Da un lato aveva Nemu, ma dall’altro aveva niente meno che Kisuke Urahara che piagnucolava come se non ci fosse un domani. Il primario si asciugò gli occhi con un fazzoletto.
«Mi dispiace, è che i matrimoni mi commuovono e mi fanno venire voglia di donare amore. Posso darti un abbraccio?»
«Fallo e questo matrimonio si trasformerà in un funerale» gli disse minaccioso, capendo che Urahara si era messo in testa di dargli fastidio. Nemu e Yoruichi intimarono loro di stare zitti come se si stessero rivolgendo a due bambini. Mayuri borbottò qualcosa e si imbronciò, con Kisuke che continuava a molestarlo.
Anche tra i bambini c’era un gran fermento. Le bambine in particolare furono attentissime mentre Ikkaku e Yumichika si scambiavano le promesse e poi le fedi. Nemmeno Masato e Yuichi erano rimasti indifferenti a tanto amore nell’aria. Anzi, ad un certo punto Masato si era accorto di come Yuichi lo fissava.
«Perché mi guardi così?» domandò. Yuichi sospirò e poi sorrise.
«Niente, pensavo… perché quando diventiamo grandi questa cosa non la facciamo anche noi?»
Masato era rimasto immobile, con il cuore che batteva all’impazzata. Una promessa d’amore da mantenere fino a quando sarebbero cresciuti? Masato in quel momento non pensò che spesso le cose cambiavano crescendo. Sapeva solo che Yuichi era la sua persona speciale e che probabilmente lo sarebbe stato per sempre. Così annuì energicamente.
«Ma certo. Lo voglio fare!» disse ad alta voce e Naoko, che si trovava in mezzo a loro, li zittì sonoramente. Un matrimonio, pensarono entrambi, si trattava di qualcosa di davvero bello e speciale. Quindi perché non scegliersi a vicenda?
Yumichika e Ikkaku si baciarono. E Masato sentì uno sfarfallio allo stomaco, vagando con l’immaginazione in un futuro lontano. Ad un tratto si sentì la voce di Yachiru, che si era trattenuta anche troppo per i suoi gusti.
«Siii, viva gli sposi! Vi voglio beneee!»
Ikkaku la guardò male, ma era fin troppo addolcito nell’abbraccio di suo marito per badarci. E poi si udì uno scrocio di applausi.
«Che carini» disse Rukia, asciugandosi una lacrima. «Finalmente si sono sposati. Piango sempre ai matrimoni. A te non capita mai, nii-san?»
Byakuya, seduto accanto a lei, in parte aveva seguito la cerimonia, ma per buona parte aveva fissato Renji per tutto il tempo. Non era da lui, ma stava iniziando a comprendere che l’amore spesso ti cambiava.
«Lascia perdere, Byakuya ha la testa da un’altra parte» disse infatti Ichigo. Byakuya finalmente lo sentì e tossì, in imbarazzo.
«Non so di cosa state parlando. Piuttosto, vado a congratularmi con gli sposi.»
 
Renji adesso si sentiva sollevato. Si sentiva nervoso come se il matrimonio fosse stato il suo (anche se fare da testimone, specie poi ad uno come Yumichika, non era certo una passeggiata). Si era sbottonato il colletto per cercare di respirare, e poi vide Byakuya che gli si avvicinava.
«Come sono andato? Ero terrorizzato all’idea di sbagliare» ammise.
«Sei andato molto bene. Tu sei… come dire. Sei perfetto» gli disse Byakuya e nel sentire quel complimento tanto inatteso, Renji arrossì.
«Figurati, sono molto imperfetto, invece.»
Non agli occhi di Byakuya però. Byakuya che ora gli aveva poggiato una mano sul petto e Renji che invece gliel’aveva poggiata su una guancia, dimenticandosi del fatto che fossero in pubblico e che nessuno (esclusi i suoi familiari) sapessero.
«Ah, vedo che sei in compagnia, eh!»
Yumichika si era avvicinato stretto a Ikkaku. Già, Byakuya almeno in teoria era andato a congratularsi con loro, e invece aveva deviato. Si staccò da Renji.
«Congratulazioni a tutti e due. Bella cerimonia.»
«Già, puoi ben dirlo. Tutto questo sforzo è servito» sospirò Ikkaku, infinitamente più rilassato. Yumichika invece non aveva staccato gli occhi da Renji.
«Ma per caso vi siete messi insieme?»
Renji guardò Byakuya. E adesso? Anche se il loro rapporto era molto migliorato, non si erano ancora messi d’accordo sul dirlo o meno a tutti.
«No» rispose di getto.
«Sì» rispose Byakuya senza remore, stringendogli un braccio avvicinandolo a sé. «Stiamo insieme.»
Stiamo insieme, lo aveva detto davvero ad alta voce. Senza vergogna, senza alcun dubbio. Se avesse visto l’espressione sconvolta di Renji, probabilmente lo avrebbe trovato buffo.
«Sì?! E non mi hai detto niente? Ma che razza di testimone sei, si può sapere? Ikkaku, tu ne sapevi qualcosa?» domandò Yumichika, offeso. Ikkaku fece spallucce.
«… Avevo intuito qualcosa.»
Ma Renji non li stava ascoltando. Fissava Byakuya, il quale doveva essersene accorto, perché ad un certo punto si era voltato chiedendo cosa?
Renji scosse la testa.
«Niente. È tutto assolutamente perfetto.»
 
Il ricevimento si sarebbe tenuto nella stessa location della cerimonia e di questo Shinji ne fu grato. Se i Vizard dovevano esibirsi, non c’era tempo da perdere. La cosa interessante era che, da quando lui e Hiyori avevano smesso di litigare e avevano invece iniziato a collaborare, il lavoro andava molto meglio.
«Avete sistemato gli strumenti? Se non lo avete fatto, fatelo. Hiyori, lascio il controllo a te, io vado a vedere se hanno iniziato a servire gli alcolici, perché ne ho bisogno!»
Shinji si era depresso. La cerimonia inevitabilmente lo aveva fatto pensare a Sosuke e se c’era una cosa che odiava era essere di un sentimentalismo del genere. Ecco perché per quella sera voleva bere, seguire la band e non pensare.
Momo non gli toglieva gli occhi di dosso mentre Toshiro le parlava. La cerimonia l’avevano seguita distanti, lui seduta accanto a Gin e Rangiku, lei due file davanti.
«Credi che serva a qualcosa fingere? Oramai lo sapranno tutti di noi» le disse Toshiro, tenendo in mano un bicchiere.
«Eh? Ah, sì. Lo so, è solo che volevo essere discreta, ma in effetti…»
Non è che Toshiro si sentisse completamente a suo agio. Nessuno dei suoi amici lo avrebbe mal giudicato e lo sapeva, ma era comunque strano se pensava che al posto suo avrebbe dovuto esserci Aizen. Si era poi accorto di come Momo non togliesse gli occhi di dosso a Shinji.
«Ma cosa c’è?» le chiese infatti.
«Io… io voglio parlare con lui.»
«A-aspetta!» il ragazzo l’afferrò per un polso. «Sei sicura che sia il caso? E se litigate?»
«Non voglio litigare, voglio solo parlargli. Davvero, Toshiro» Momo lo guardò in un modo che Toshiro non poté fare altro che lasciarla andare, anche se a malincuore. Lì intorno, Miyo giocava con Hayato. Avrebbe tanto voluto che per gli adulti fosse così facile, lasciarsi tutto alle spalle e dimenticare. Ma dimenticare non era facile. Shinji si era avvicinato ad un cameriere e aveva preso qualcosa da bere. Il sollievo dato dall’alcol fu immediato.
«Amh… Shinji» lo chiamò lei, arrivandosi alle spalle. Lui spalancò gli occhi e pian piano si voltò. Non si vedevano dal giorno in cui Miyo aveva avuto l’incidente e nemmeno allora si erano parlati molto.
«Momo… cioè, Hinamori» disse, un po’ teso.
Quindi eccolo lì, l’uomo che amava suo marito. L’uomo che probabilmente anche suo marito doveva amare. Aveva fatto male. Adesso il male stava sfumando.
«Ti prego, non agitarti, non sono qui per crearti problemi. Io in realtà ero venuta qui perché…. Perché volevo chiederti scusa. Mi dispiace averti colpito quella volta e averti detto quelle cose orribili. Non è da me, ma ero così arrabbiata.»
Shinji non capiva perché lei gli stesse chiedendo scusa. Era stato lui a rovinare la sua famiglia, era quello che continuava a ripetersi.
«Me la sono cercata, io non dovevo fare l’amante di un uomo sposato, tanto per cominciare» disse, un po’ in imbarazzo mentre si lisciava i capelli.
«È… è vero, ma non mi pare che io mi sia comportata meglio. Penso che alla fine sia stato meglio così, Sosuke non mi amava da tempo. E mi sono resa conto che nemmeno io lo amavo come pensava. Io amo Toshiro» e dicendo ciò sorrise. «Ed è evidente che Sosuke ama te.»
Era quello che Shinji aveva creduto. Era stata un’illusione dolce in cui crogiolarsi.
«Forse non mi ama abbastanza perché non sono abbastanza per lui. Mi vedi, no?»
Momo si fece seria e l’osservò. Per lei era strano parlare a quel modo all’amante di Sosuke, ma in parte sentiva di poterlo capire.
«Sì, ti guardo. Tu sei il suo totale opposto, credo sia anche per questo che vi attraete. E poi, anche se è doloroso da ammettere, lui ti guarda come non guarda  nessuno. Se lo conosco bene, credo che non sappia come gestire questo sentimento così grande. Forse ne ha addirittura paura. Lui è uno che ottiene sempre quello che vuole e se ti lascia andare è un idiota totale. Ognuno ha la propria persona. Non pensi?»
Shinji sentiva la gola e gli occhi bruciare. E non era l’alcol. Se una cosa del genere l’aveva capita perfino Momo, perché Sosuke non la capiva?
«… Io ho voluto chiudere con lui. E lui non va dietro a nessuno.»
«È vero, ma… già una volta ti è venuto dietro» disse Momo. Poi furono interrotti dalle grida entusiaste di Miyo e Hayato, lui che aiutava lei a fare scorta di stuzzichini. Momo sorrise nel vederli.
«Dovremmo proprio prendere esempio dai nostri figli, non pensi?»
«Già, ma casco male qui. Miyo è molto più matura di me. Ad ogni modo non credo che tra me e Sosuke le cose andranno bene, oramai ci ho rinunciato. Ma tu e Toshiro funzionerete. Trattamelo bene il piccoletto.»
Toshiro, avvertendo la tensione farsi meno tesa, era arrivato accanto a Momo.
«Piccoletto a chi?»
 
Si era fatta sera e c’era profumo di fiori. C’era perfino qualche lucciola, come se si trovassero in estate piena.
Il ricevimento iniziò ben presto e i Vizard diedero ben presto inizio alla festa. Anzi, prima della festa vera e propria ci voleva un ballo lento, per la gioia delle coppie e a disperazione dei single. La cantante Lisa aveva preso a cantare una canzone strappalacrime e romantica, con Yumichika al centro che ballavano.
«Amo questa canzone!» gridò Neliel tirando Nnoitra per un braccio. «Andiamo.»
«Per l’amore di… odio i lenti!» si lamentò lui, venendo trascinato senza sforzo alcuno da sua moglie. Grimmjow bevve, era già il terzo drink.
«Anche io li detesto!» si lamentò. Poi si accasciò e poggiò la testa sul tavolo. Infine sollevo lo sguardo e si accorse di una ragazza bionda, alta e dalla carnagione scura vicino al buffet. Nessun accompagnatore vicino a lei, quindi forse poteva avere il via libera.
«Amh… vado a prendere qualcosa da mangiare» disse a Ulquiorra, il quale però lo udì a malapena. Anche lui era stato trascinato da Orihime, seguiti poi da Tatsuki e Ishida e da Karin e Chad.
 
«Mayuri, balliamo?» domandò timidamente Nemu a suo marito. Oh, erano anni che non facevano una cosa del genere, non era proprio da loro. Ai però sbucò all’improvviso.
«No, no, il primo ballo con me, con me!» esclamò tutta agitata. Nemu inarcò un sopracciglio, non aveva tenuto di conto di avere una rivale.
«Ma questo è un ballo per coppie.»
«E chi se ne infischia! Papà, scegli me, dai!»
Questa poi era veramente una situazione surreale. Mayuri sospirò e scosse la testa.
«Silenzio. Ballo con tutti e due, non c’è bisogno di litigare. Però vi avverto subito, se Kisuke Urahara fa un’altra mezza battuta gli infilo la testa nella fontana»
Ai si portò le mani davanti la bocca e rise. E rise anche Nemu, che si sentiva così enormemente grata e felice che tutto stesse andando bene.
Nel frattempo anche i bambini erano stati coinvolti da quel momento magico: Kiyoko riuscì ad ottenere il suo ballo con Kaien, Naoko si divertì a ballare con Kohei. Yami fece coppia con suo fratello fino a quando non furono raggiunti da Ai e allora la sorella le cedette volentieri il fratello. Yuichi aveva abbracciato Masato e allora avevano preso a muoversi lentamente, a girare, dimenticandosi di tutto. Rin invece se ne stava appiccicata ad Hayato, il quale più che ballare si muoveva appena, rigido come un bastone.
«Aaah, mi sento proprio una principessa con il proprio principe. Allora mi sposi? Adesso che posso scegliere io se sposarti o no, lo preferisco»
Hayato s’imbronciò.
«Non lo so, ci devo pensare. Posso ballare anche con Miyo?» domandò cauto. Rin si sarebbe ingelosita se fosse stato qualcun altro, ma visto che era la sua migliore amica, allora…
«Va bene. Ma non vi baciate o mi arrabbio!»
Hayato pensò che a baciare Miyo non ci pensava proprio, lei non gli piaceva in quel senso. Si avvicinò a Shinji che stava cautamente facendo fare una giravolta a Miyo.
«Emmh…. Signor Shinji, p-posso ballare con Miyo?» domandò in imbarazzo. Padre e figlia assunsero un’espressione sorpresa e lo stesso Shinji avvertì la dolcezza e l’amarezza di quel momento.
«Sì, immagino di sì. Se lei vuole, allora…»
«Voglio!» esclamò porgendogli la mano buona. «Ma piano, perché sono monca.»
Hayato le prese la mano e poi guardò Shinji. Si sentiva in dovere di dire qualcosa, qualsiasi cosa.
«Comunque, anche se ancora lei non mi piace proprio molto, penso che se ama mio padre dovreste stare insieme e basta. Altrimenti tutto questo sarà stato inutile, ecco.»
Miyo disse all’amico che era assolutamente d’accordo, Shinji invece si portò una mano sul viso. Tutti avevano capito. Tranne lui. Guardò Miyo e Hayato e pensò che per lui quella sera non ci sarebbe stato un lieto fine.
 
Aizen si era seduto in auto, ma non era ancora partito. C’era solo una meta dove poteva andare, quella più giusta. Oppure avrebbe potuto lasciar perdere tutto e tornare indietro. Ma sì, niente glielo impediva. Poi però ripensò alle parole di Gin.
Forse quella era la sua ultima possibilità.

Nota dell'autrice
Un bel matrimonio, eh? Ma non è ancora finito, tra l'altro Aizen deve ancora fare la sua mossa... quindi non mancheranno le sorprese. Sono quasi tutti felici e contenti, magnifico. Siamo quasi alla fine, ma a dopo i sentimentalismi.
Alla prossima :)
Nao

Ritorna all'indice


Capitolo 35
*** Capitolo trentacinque ***


Capitolo trentacinque
 
Grimmjow se n’era tornato al tavolo tutto ringalluzzito e rosso in viso e Nnoitra ebbe ragione di credere che non si trattasse solo dell’alcol. L’aveva visto avvicinarsi a quella donna da capelli biondi. Perché il suo amico, per quanto amasse il divertimento, sognava anche il vero amore. In fondo aveva un animo molto sensibile.
«Mi ha dato il suo numero. Credo che le chiederò di ballare. Ah, ho fatto colpo. Sarà per lo smoking» disse Grimmjow tutto contento, così contento che aveva momentaneamente lasciato da parte gli alcolici.
«Tsk, allora vedi di non rovinare tutto» borbottò Nnoitra. Grimmjow ad un tratto si fece serio e aveva preso ad osservarlo in un modo che a Nnoitra diede fastidio.
«Perché mi guardi così?» domandò infatti.
«Volevo sapere se stai bene» rispose l’amico. Che di certo non si era scordato del suo crollo. Nnoitra arrossì e fece una smorfia. Pensandoci, stava molto meglio. Avrebbe dovuto lavorare su sé stesso ancora a lungo e di ciò ne era consapevole. E se prima avrebbe trovato tale ragionamento stupido, ora pensava semplicemente di averne bisogno. Aveva perfino instaurato un rapporto decente con la sua terapista, e per uno come lui, che era sempre diffidente col prossimo, era un grande traguardo.
«Sto meglio» disse soltanto. «Ma davvero.»
Grimmjow annuì, sollevato. Non era da loro scambiarsi smancerie. Lui, Nnoitra e Ulquiorra si limitavano ad esserci.
Neliel non si era accorta del momento solenne tra i due. Dopo aver bevuto qualche shottino di troppo, aveva raggiunto Nnoitra, sedendosi in braccio a lui.
«Amore mio, non sono bellissimi i matrimoni? Risposiamoci anche noi!»
«Ma sei pazza? Il primo matrimonio è già stato abbastanza stressante. E non sbaciucchiarmi in pubblico, accidenti!» borbottò, arrossendo e mentre sua moglie lo coccolava senza alcun ritegno.
Seduti accanto a loro, Karin era appena saltata su tutta entusiasta.
«Ma… ma… davvero sei incinta? E ce lo dici solo adesso?»
Le guance di Tatsuki si colorarono di un grazioso color pesca. Oramai era il momento di dirlo a tutti, anche perché iniziava a vedersi (nonostante Rukia si ostinasse a dire che fosse magrissima).
«E già. È stato inaspettato? Assolutamente sì, ma credo… credo sia arrivata nel momento opportuno» ammise Tatsuki accarezzandosi il ventre. Avevano così sofferto all’idea di lasciarsi, quando avevano creduto che non ci fosse alternativa. E invece si erano ritrovati nel modo più bello possibile.
«Tu e Uryu dovete amarvi davvero tanto» sospirò Orihime, sorridente e con lo sguardo un po’ perso nel vuoto. E Tatsuki, che sin da ragazzina non si era mai lasciata andare a sentimentalismi, le rispose:
«Non immagini nemmeno quanto.»
Ishida la sentì e le sorrise. Era stato fortunato, ma la sua non era stata solo fortuna. Ci avevano messo tutti e due la loro buona dose d’impegno. Ichigo aveva iniziato a straparlare, anche lui era leggermente brillo.
«Ben fatto, Ishida. Lo sai, sono davvero fiero di te, non ti sei mai arreso. Non mi aspettavo altro eeeh…pff, domani mattina negherò di averlo detto» borbottò.
«Kurosaki, non riuscirai a farmi piangere. E poi non ce l’avrei fatta senza il tuo sostegno» rispose lui, altrettanto e felicemente brillo.
«Come sei sentimentale. Ti voglio bene» disse cercando di abbracciarlo, ma quasi cadendo nel provarci.
«Anche io ti voglio bene!»
Ulquiorra li osservò mentre cercavano di donarsi un abbraccio decente e poi scosse la testa.
«Ma che scemi…»
In realtà avevano un non so che di tenero, quei due.
I due rimasero appiccicati nel loro goffo abbraccio anche quando videro Zaraki Kenpachi avvicinarsi assieme alla dottoressa Retsu Unohana.
«Ma tu guarda, finalmente vi siete decisi a far uscire la vostra storia allo scoperto» li prese in giro Zaraki. Ichigo strabuzzò gli occhi. Finalmente Zaraki aveva avuto una gioia ed era riuscito a conquistare quella donna a cui era andato dietro per anni.
«Dottoressa Unohana. Scusi, ma non siamo presentabili» si scusò Ishida, aggrappato a Ichigo per non cadere. Lei, stretta al braccio di Zaraki, sorrise quasi in modo materno.
«Figuratevi, è una festa, in questi casi sta bene perdere il controllo. Non pensi anche tu, Ken?»
Ichigo e Ishida non riuscirono a trattenere le risate nel sentirlo chiamare così. Accanto a Unohana, Zaraki perdeva la sua aura minacciosa e di questo il diretto interessato ne era consapevole.
«Che avete da ridere voi due?! Guardate che vi ammazzo!» borbottò.
Nnoitra si alzò di scatto nel sentire la voce di Zaraki. L’alcol aveva dato alla testa anche lui.
«T-tuuu! Sei Kenpachi Zaraki, vero? Ti ho visto, sai, mi guardi come se volessi sfidarmi. Bene, io non ho paura!»
«Aaaah? Parli con me? Non hai paura di me, noto, ma bene!» ghignò Zaraki. Neliel si aggrappò a Nnoitra e cercò di farlo sedere. Unohana invece dovette sforzarsi molto meno: a lei bastava uno sguardo per intimare a Zaraki di darsi un contegno e, ora che Ishida e Ichigo se n’erano accorti, gliel’avrebbero rinfacciato a vita.
 
Mayuri si era chiesto perché in un modo o nell’altro la sua famiglia fosse destinata a incontrare la famiglia Urahara. Oramai era chiaro che fossero costretti dal destino ad avere gli uni a che fare con gli altri. A questo si era rassegnato, ma ringraziando il buon senso Yoruichi non era insopportabile come suo marito. Anzi, ci si poteva parlare tranquillamente (o quasi).
«Lo sai, dottore, Nemu mi ha raccontato tutto di te. Di come vi siete conosciuti, del vostro matrimonio. Così sei stato tu a fare la prima mossa con lei, eh? Ma bravo, ti piacciono più giovani!»
La cosa brutta era che Yoruichi non era nemmeno ubriaca. Lo provocava di proposito e ci riusciva anche piuttosto bene.
«Nemu, spero che tu non le abbia detto davvero tutto!» disse rivolgendosi a sua moglie. Per carità. Doveva pur mantenere la sua reputazione, cosa che sarebbe stata difficile se tutto il mondo fosse venuto a conoscenza della sua vita privata. Nemu fece finta di pensarci.
«No, non tutto. Solo quello che riguarda noi due.»
«Tsk, mi prendete in giro? Ma come osate?»
Yoruichi gli diede all’improvviso una pacca sulla spalla, ridendo.
«Suvvia, non ti scaldare, tutti abbiamo un lato tenero» dicendo ciò Yoruichi rivolse la sua attenzione ai bambini. Ai, Hikaru e Yami ridevano, sembravano davvero felici. E sapeva che, se suo figlio era felice, il merito era anche di quella bambina.
«Lo sai, dottore. Tua figlia è proprio brava.»
L’espressione di Mayuri, da che era contratta, si rilassò appena.
«È merito suo» disse indicando Nemu. Quest’ultima arrossì e poggiò una guancia sulla sua spalla.
«Anche tuo.»
Oh, quei due. Di strada ne avevano fatta. E anche lei e Kisuke erano cambiati. Magari avrebbero potuto fare un’uscita a quattro, qualche volte.
Ai si avvicinò correndo, tutta agitata e contenta.
«Papà, mamma! Ho cambiato idea sul matrimonio. Ho deciso che da grande sposerò Hikaru!»
Mayuri assunse un’espressione impagabile. Soprattutto quando scorse dietro di sé la presenza di un brillo, entusiasta e molesto Urahara Kisuke che ora gli aveva portato un braccio intorno alle spalle.
«Oooh, hai sentito Ai? Non è meraviglioso? Mio figlio e tua figlia da grandi si metteranno insieme. Poi si sposeranno. Noi diventeremo consuoceri e poi loro avranno dei figli, potremmo occuparcene insieme, e poi…»
«Urahara!» lo interruppe a lui, rassegnato. «Grazie mille, ci tenevo proprio a non dormire, stanotte. Vedi di non correre. Peggio di un film dell’orrore.»
Ma niente poté intaccare il buon umore del primario, quella sera. Proprio niente. Yoruichi e Nemu si guardarono, ed entrambe concordarono che gli anni seguenti avrebbero potuto assumere una piega interessante.
 
Era davvero un bellissimo matrimonio. La musica era stupenda, i due sposi erano innamoratissimi e amichevoli, il tutto era innaffiato da una buona dose di alcol. Rangiku se ne stava stretta a Gin, sentendosi altrettanto innamorata come se fosse stata la prima volta in cui s’incontravano. La sensazione di malinconia e tristezza l’aveva abbandonata, aveva abbandonato entrambi. Rin era felice e aveva finalmente tanti amici su cui poter contare, addirittura aveva un’amica del cuore. E Gin non aveva più niente da nascondere, né più ansia di inseguire sempre un obiettivo. Oramai aveva capito quanto gli piacesse abbassare la guardia, ogni tanto, e godersi ciò che aveva. Perché se era arrivato fino a lì, magari il merito era anche suo.
«Sei più bella del solito stasera, mia cara» le sussurrò Gin, facendola arrossire.
«Che adulatore che sei. Ma sei tanto bello anche tu» mentre diceva ciò, Rangiku pensò che sarebbe stato divertente imboscarsi da qualche parte e lasciarsi andare a un po’ di passione, forse avrebbe potuto proporglielo per davvero. Ma non davanti a Toshiro, che si stava avvicinando a loro con Momo.
«Ah, finalmente avete finito di far finta di non conoscervi?» domandò Gin allegro. Toshiro arrossì.
«Non facevamo finta di non conoscerci, tanto qui lo sanno tutti che stiamo insieme. E con tutti intendo mezza Tokyo…»
«Oh, Toshi. Non preoccuparti, il gossip si esaurisce in fretta. Piuttosto, sono felice che Aizen non voglia darvi problemi e che ti concederà il divorzio in fretta» commentò Rangiku. E poi disse. «Per te deve essere strano ritrovarti nello stesso posto con l’amante di tuo marito.»
Momo pensò che si, in effetti era strano, ma non era poi così terribile. Anzi, a Shinji poteva anche capirlo, perché aveva amato anche lei Sosuke.
«Un po’. Ma sono riuscita a parlarci. A quanto pare lo ama veramente. Sosuke… penso anche. Ma nel caso mi sbagliassi…»
«Ne soffrirebbe troppo. Stupido Aizen, a me continua a non piacere» borbottò Toshiro. Shinji, che in genere era amichevole con tutti (anche piuttosto casinista) non parlava con nessuno, piuttosto si limitava ad osservare l’esibizione dei Vizard, anche se sembrava un po’ assente. Gin allora si staccò da sua moglie.
«Sapete cosa? Allora vado a parlarci io. Sono la cosa più vicina ad un migliore amico per Aizen, vediamo cosa posso fare.»
Momo avrebbe voluto dirgli che non era necessario, ma Rangiku le poggiò una mano su una spalla e con aria rassegnata disse.
«Lascia perdere. A Gin piacciono gli intrighi d’amore, perché pensi che andiamo così d’accordo?»
 
Shinji pensava che per quella sera le sorprese fossero finite. Dopo una chiacchierata a tu per tu con Momo Hinamori, non si aspettava che Gin Ichimaru venisse a parlare con lui. E quando lo salutò con fare allegro, Shinji lo guardò male e con una certa diffidenza.
«Su, non guardarmi così. Le nostre figlie sono amiche, dovremmo andare d’accordo anche noi!» disse Gin.
«Pff, per questo o perché sei il galoppino di Aizen?» domandò scocciato.
«Ti correggo, io ero il galoppino di Aizen, ora mi limito a fare l’amico che dà buoni consigli» dicendo ciò gli si sedette accanto. «Gli ho detto che se non fa qualcosa rischia di perderti per sempre. Ci ho messo impegno, ma ora sta a lui decidere.»
A braccia conserte, Shinji guardò dritto davanti a sé. Tutti avevano capito. Tutti, solo il diretto interessato sembrava non capire.
«Beh, ti ringrazio, ma non funzionerà. Sosuke la sua decisione l’ha già presa. Idiota io ad innamorarmi, a cedere. Lo sapevo che sarebbe finita così, finisce sempre così. Per me.»
Gin non era mai stato troppo bravo a consolare gli altro, non in modo normale almeno, cercava sempre di buttarla sul ridere quando possibile. Però in quel caso rimase in silenzio. Poi alzò lo sguardo verso Rangiku, Momo e Toshiro e si rese conto che una quarta persona si era unita a loro.
«Umh. Sai, non credo che sia ancora finita. Per te.»
 
«Cosa fai tu qui?» domandò Toshiro d’istinto. Che Momo non stesse più con lui lo sapeva bene, ma il ragazzo continuava a non nutrire simpatia per lui. Ne aveva combinate troppe e ora si presentava lì per fare cosa, esattamente?
«Prenditela con Gin, ha la lingua biforcuta» disse Aizen, perfettamente controllato come al solito. Momo capì in fretta che l’unico motivo per cui poteva essere venuto lì era Shinji e ciò la sorprese non poco: Sosuke non si sbilanciava mai. E poi capì che c’erano tante parti di lui che per anni non aveva conosciuto e che forse avrebbe conosciuto quella sera stessa.
«D’accordo, ma puoi evitare di far soffrire qualcun altro? La lista è già lunga» lo provocò Toshiro e Rangiku gli tirò i capelli sulla nuca per farlo star zitto.
Aizen sospirò e guardò Momo.
«Non sono venuto qui con l’intento di creare problemi, ma per parlare con Shinji» ammise ad alta voce. Poi sentì qualcuno aggrapparsi al suo braccio: si trattava di Yumichika, con al seguito Ikkaku. Anche loro sembravano leggermente brilli, Yumichika se ne andava in giro col suo bellissimo mazzo di tulipani, abbracciando tutti.
«Sosuke Aizen, finalmente sei venuto! Non pensavo, sai. La moglie, il marito e l’amante nello stesso posto, che storia!» commentò, ridendo.
«E daaai, non metterli a disagio, stupido» disse Ikkaku, che sembrava però altrettanto divertito. Aizen riuscì a liberarsi dalla sua presa e finalmente vide Shinji accanto a Gin. E lo chiamò.
«E-ehi!» esclamò Yumichika. «Qualsiasi cosa facciate, non rovinatemi il matrimonio. E soprattutto, non catalizzate l’attenzione su di voi!»
 
Non ci credo, era questo ciò che Shinji aveva detto nel vederlo. Poi si era alzato e come primo istino ebbe quello di dargli un pugno, ma anche quello di stringerlo. Non fece nessuna delle due cose.
«Sosuke, cosa stai facendo qui?» domandò, mentre sentiva il cuore che batteva veloce e una strana sensazione di acido allo stomaco.
«Una persona mi ha aiutato a rinsavire. E inoltre io ottengo sempre quello che voglio. Te, in questo caso.»
Shinji respirò profondamente e lentamente. Si era sempre buttato nelle cose, senza pensare. Ma ora doveva andarci piano.
«Se sei venuto qui a fare false promesse, però, non voglio nemmeno ascoltarti. E poi io non posso stare con una persona che si vergogna anche solo a dire di stare con me. Non è quello a cui miro. Tu ti senti disposto a mettere a rischio il tuo prestigio, la tua popolarità, tutto? Solo per me?»
Per la prima volta Aizen non seppe che dire. Certo, a lui la sua popolarità, il suo prestigio e il rispetto piacevano, gli piaceva essere temuto da molti, adorato d’altrettanti. Ma gli piaceva anche Shinji. Anzi, non gli piaceva soltanto. Ma quegli istanti di silenzio a Shinji non piacquero.
«Pff, lo sapevo, figurarsi. Puoi anche andare» e dicendo ciò gli diede le spalle e iniziò a camminare.
«Vagli dietro! Ora o mai più Aizen, ora o mai più!» disse Gin dietro di lui, divertito ma anche concitato. Voleva vedere come sarebbe andata a finire.
 
Lisa, la cantante dei Vizard, aveva preso a parlare agli invitati. Era ora che gli sposi facessero un discorso di ringraziamento. Ecco perché ora erano tutti attenti, con gli occhi fissi su Yumichika e Ikkaku.
«Allora, cosa volete dire ai vostri invitati?» domandò Lisa. Yumichika prese il microfono in mano, perfettamente a suo agio. E poi aprì la bocca per parlare, ma la voce che si udì poco dopo non fu la sua.
«Shinji, puoi fermarti un attimo?»
Nessuno dei due si era reso conto di essere capitati nel momento più sbagliato, quello in cui tutte le attenzioni sarebbero state inevitabilmente catalizzate su di loro.
«Mi vuoi lasciare in pace?» domandò Shinji, voltandosi a guardarlo. «Il tuo silenzio è stato chiaro.»
Hiyori assunse un’espressione sorpresa. Ma cosa stava succedendo? La stessa espressione fu condivisa dagli invitati, sia grandi che piccini.
«Papà?» domandò Hayato confuso. Miyo si alzò in piedi: non aveva occhi che per loro due in quel momento.
«Shinji, sto cercando di fare la cosa giusta. Per noi due, intendo» disse Aizen, che ora stava iniziando ad accorgersi di essere capitato nel bel mezzo di un discorso importante. Sotto gli occhi di tutti.
«Ehi!» esclamò Yumichila. «Come osate interrompere il mio momen-»
«Lascia perdere» disse Ikkaku. «Voglio capire come va a finire.»
Shinji sospirò di nuovo. A lui non importava di essere al centro dell’attenzione, non ci stava nemmeno facendo caso.
«Ho fatto l’amante per troppo tempo. Ora sono cresciuto, miro ad altro. E se tu quest’altro non puoi darmelo, va bene. Non è una tragedia.»
Aizen poteva sentire chiaramente la voce di Gin che gli diceva è l’ultima occasione. Cos’è che voleva lui? Voleva Shinji. Ma lo voleva ogni giorno della sua vita, anche a costo di rendersi difficile quella stessa vita. Se con Momo fosse andato tutto male perché era lì, in quel momento preciso, a cui doveva arrivare?
E così si lasciò andare.
«Shinji, sposami» disse chiaramente.
Di reazioni ce ne furono tante. Ichigo salto su dicendo non ci posso credere, non è vero. Toshiro si sorprese tanto che per un attimo fu sicuro di star sognando. Miyo si portò le mani davanti la bocca, entusiasta e commossa e Hayato si guardava intorno confuso. E poi c’era Shinji. Che era arrossito così tanto da essere quasi irriconoscibile. Quel maledetto gli aveva detto sposami. E lo aveva fatto davanti a tutti, cogliendolo di sorpresa. Doveva starlo prendendo in giro. Non c’era altra spiegazione. E rise.
«Oh, dai, ma cosa vai dicendo adesso? Non è divertente.»
Sosuke però non stava ridendo, non stava scherzando. Era serio, terribilmente.
«Infatti non è divertente, sono serio. Non scherzo mai su certe cose» allargò le braccia. «Ora lo sanno tutti. Lo sanno tutti che ti amo e che sei l’unico per cui arrivo a tanto. E non intendo passare un altro istante con qualcuno che non sia tu, quindi voglio che mi sposi» disse, tranquillo, come se nulla fosse. Ma dentro di sé fremeva, quasi non si riconosceva. Shinji parve accorgersi solo in quel momento di essere sotto gli occhi di tutti, che lo fissavano con aspettativa e col fiato sospeso.
«Ma… ma io… ma io non posso sposarmi» disse, ora in difficoltà. Il matrimonio non era mai stato nei suoi piani, era vero. Ma questo perché non aveva mai amato così tanto qualcuno da desiderare un legame del genere. E d’altronde Aizen gli aveva appena chiesto di sposarlo. Davanti a tutti, proprio tutti.
«Allora non vuoi?» domandò Sosuke. Miyo non ce la fece più a stare zitta.
«Papà, dì di sì! Dai!» gridò. Hiyori le diede corda.
«Nostra figlia ha ragione, stupido di uno Shinji. Se ora dici di no, giuro che ti lancerò qualcosa!»
Era giusto che lui fosse felice.
Hayato alzò gli occhi al cielo e guardò suo padre.
«Beh! Se sei felice così, allora…»
Shinji si guardò intorno.
«Ma insomma, vi siete accaniti contro di te?»
Yumichika sbuffò e si avvicinò a Shinji. Lui era lo sposo e nessuno lo stava guardando! Però amava le storie d’amore travagliate.
«Lo sai, penso che questi ora serviranno più a te che a me» disse porgendogli il suo mazzo di tulipani. Shinji li prese in mano, confuso e tremante. Stava davvero succedendo a lui, proprio a lui! Guardò Sosuke. Oh, quanto avrebbe voluto ucciderlo. Oh, quanto lo amava. In un modo in cui non credeva possibile.
«… E se va male…?» domandò a Sosuke, che si era avvicinato a lui. Sosuke che ora gli accarezzava una ciocca di capelli e sorrideva.
«E se invece va bene? Perché io sono sicuro che andrà bene»
Shinji sollevò lo sguardo. Lui sposato a Sosuke Aizen. Sembrava assurdo anche solo così, ma d’altronde anche lui voleva passare il resto della sua vita con quell’odioso, assurdo e sorprendente uomo. Sospirò, con la fronte aggrottata.
«Sosuke, dannato. Me la pagherai per tutto questo. Ma ci penserò dopo che ti avrò sposato.»
Miyo si lasciò andare ad un gridolino entusiasta. Sosuke sorrise, scese ad accarezzargli il viso e poi lo baciò. E capì che a volte lasciarsi andare non era poi così male. Poi udirono uno scrocio di applausi.
«Non ci posso credere!» ripeté Ichigo. «Questo non me lo aspettavo di certo.»
E non era l’unico, in realtà. Momo era arrossita. Non sapeva come si sentiva. In parte sicuramente sollevata. Perché ora lei avrebbe avuto la sua vita e Sosuke la propria.
«Stai… stai bene, Momo?» chiese Toshiro, temendo che quella scena potesse far soffrire Momo. Lei annuì.
«Io… sì, sto bene! È solo tutto molto strano. Ma non in senso negativo.»
Rangiku accanto a loro era commossa. E guardò suo marito.
«Ma si può sapere cosa gli hai detto?»
«Gli ho solo detto che forse questa era la sua ultima occasione. Non pensavo arrivasse a tanto. Ah-ah, ben fatto Sosuke!»
Lisa, la cantante dei Vizard (tutti sufficientemente scioccati eccetto Hiyori), si schiarì la voce).
«Amh… Shinji, per la prima notte di nozze è ancora presto»
Shinji si staccò, rosso in viso e sorridendo.
«Emmmh. Scusate. Scusa, Yumichika. Ma grazie per i fiori.»
«Figurati. Immagino ci ritroveremo al tuo matrimonio, allora» disse Yumichika scostandosi i capelli dal viso. Miyo corse incontro a Shinji, abbracciandolo.
«Finalmenteee! Non ci speravo più. Mi avete fatto così penare!»
Aizen sorrise.
«Scusa, piccola Miyo. Ora però ho capito. Ho capito tutto.»
Ci aveva impiegato anni. Ma alla fine tutto era tornato al suo posto.

Nota dell'autrice
BEH, che dire. Shinji si meritava una gioia dopo tutti gli anni di sofferenza. È riuscito a far mettere la testa a posto ad Aizen (e anche Gin ha contribuito). Tra l'altro, una proposta di matrimonio proprio in grande stile. Yumichika lo perdonerà per avergli rubato la scena. Tra qualche giorno posterò l'ultimo capitolo di questa lunga e per me travolgente avventura.
- Nao

Ritorna all'indice


Capitolo 36
*** Capitolo trentasei ***


Capitolo trentasei
 
Qualche mese dopo…
 
Orihime era in ansia, ma una di quelle ansie positive che precedevano un lieto avvenire. Il viaggio in auto era stato silenzioso, eccezion fatta per Kiyoko che ultimamente era diventata molto loquace. Con la sua fidata macchina fotografica legata al collo, la bambina poneva molte domande a cui i suoi genitori non sarebbero stati in grado di rispondere, non ancora almeno. Ulquiorra era sempre il più bravo a non lasciar trapelare il nervosismo, al contrario di sua moglie. Orihime infatti non faceva altro che agitarsi sul sedile, mentre fantasticava.
«Orihime, ricordati di respirare» le suggerì Ulquiorra.
«Ma non ci riesco! E se non dovessimo piacergli?» domandò lei preoccupata.
Quello era il giorno in cui finalmente avrebbero conosciuto e portato a casa con loro il bambino che avevano preso in affido. Orihime non vedeva l’ora, ma allo stesso tempo aveva paura. Anche quando aspettava Kiyoko aveva avuto paura: di non essere capace. Ora che aspettava di conoscere quel nuovo membro della famiglia, le paure erano praticamente le stesse e anche nuove.
«Ma non è possibile che tu non gli piaccia, mamma. Tu sei la mamma più buona, bella e dolce del mondo» disse Kiyoko mentre armeggiava con la macchina fotografica. Ulquiorra fece spallucce.
«Hai sentito? E poi io sono d’accordo con lei. Comunque siamo arrivati» annunciò, mentre entrava nel parcheggio.
Almeno Kiyoko riusciva ad alleggerire l’atmosfera con le sue risate e le sue domande curiose. All’inizio era stato strano per lei abituarsi all’idea che sarebbe arrivato qualcuno di nuovo in casa sua, qualcuno con cui avrebbe vissuto e condiviso tutto. Adesso però l’idea la entusiasmava, era felice di avere un nuovo compagno di giochi e non solo.
L’attesa fu snervante per Orihime. Aveva passato la notte precedente a preparare montagne di dolci e di biscotti. Non aveva idea di cosa potesse piacere al nuovo arrivato, quindi aveva preparato un po’ tutto.
Kiyoko si stiracchiò e sbadigliò. Poi si aggrappò alla mamma, tirandola per un braccio.
«E io starò simpatica a Satoshi?» domandò, rivelando che in fondo qualche timore ce l’aveva anche lei.
Satoshi era il nome del bambino che avrebbero preso in affido. Orihime non lo aveva ancora mai visto, ma lo amava già. Non c’era niente di più naturale di questo.
«Certo che gli starai simpatica» disse Ulquiorra. «Io piuttosto spero di non spaventarlo, con la mia faccia.»
Non si sarebbe sorpreso in caso contrario, lui con la sua espressione sempre seria, mono espressiva.  Orihime rise.
«Ma la tua faccia non ha niente che non va, a me piace molto»
«Sì, anche a me. Oh!» esclamò Kiyoko tirando ancora più forte il braccio di Orihime. «Eccolo, forse arriva!»
La bambina non si era sbagliata. Accompagnato dall’assistente sociale, un bambino dall’aria timida, circa della stessa età di Kiyoko, era entrato nel loro campo di visivo. Orihime notò subito i suoi occhioni scuri, spaventati ma curiosi e come primo istinto ebbe quello di correre lì ed abbracciarlo. Ma non lo fece: per quello ci sarebbe stato tempo. Kiyoko fu la prima ad avvicinarsi, sembrava aver abbandonato la sua solita timidezza.
«Ciao, io mi chiamo Kiyoko e d’ora in poi vivremo insieme. A me piace scattare le fotografie, a te piace? Qual è il tuo colore preferito? E il tuo animale preferito? Ti piacciono più i biscotti o i muffin?»
In un primo istante Satoshi non rispose. Se ne rimase a fissare quella bambina dai grandi occhi verdi senza riuscire a dire una parola. Orihime allora si avvicinò, stringendo un braccio intorno alla figlia.
«Ciao, Satoshi» disse dolcemente. «Io sono Orihime. Adesso verrai a casa con noi. Lo sai, sono molto contenta di conoscerti, finalmente. Ero un po’ in ansia, ma adesso l’ansia è sparita.»
E non stava mentendo. Davvero, ogni ansia era sparita. Come quando aveva stretto per la prima volta Kiyoko tra le braccia. Ora come quella volta, sentiva solo il cuore traboccarle d’amore.
Il bambino parve rilassarsi nel sentirla parlare. Pensò che quella donna gli piaceva, sembrava proprio gentile e profumava di zucchero a velo.
«Ero ansioso anche io. Adesso però un po’ meno» poi sollevò lo sguardo su Ulquiorra ed ebbe un sussulto. Ulquiorra si disse immediatamente di cambiare espressione e di smetterla con quella faccia lugubre, avrebbe spaventato il bambino.
«Io… io sono Ulquiorra. Piacere di conoscerti, Satoshi. Spero che ti troverai bene, con noi» gli disse, un po’ ingessato, ma gentile. Ciò parve rassicurare un po’ il bambino, che finalmente accennò un sorriso.
Kiyoko si tolse la macchina fotografica dal collo.
«Satoshi, possiamo fare una foto? La nostra prima foto insiemeeee! Così poi l’appendo in camera» bisbigliò. Satoshi arrossì.
«Mi… piacerebbe. Non ho molto foto mie… con qualcuno…»
Orihime sorrise, intenerita e un po’ malinconica. Avrebbero fatto di tutto – lei, Ulquiorra e Kiyoko – per donargli la felicità, la serenità, come ogni persona, bambino o adulto che fosse, meritava.
«Con noi potrai averne quanto ne vuoi» Orihime gli porse la mano. Satoshi esitò qualche istante. Si vedeva che era diffidente, ma anche curioso e desideroso di affetto. Così poi strinse la mano di Orihime, che ancora non conosceva bene, ma da cui era già incredibilmente amato.
 
Di foto in effetti ne scattarono più di una.
Una delle più belle, Orihime la inviò alle sue amiche, a Rukia, Neliel e Tatsuki. Ritraeva tutti e quattro, la loro famiglia al completo.
Tatsuki si commosse quando vide la fotografia. Era giusto così: conosceva Orihime da una vita e sapeva che aveva troppo amore nel cuore, da voler donare. Quel bambino si sarebbe trovato bene con loro, era stato fortunato.
«Mamma, ma piangi?» domandò Yuichi. Finalmente le cose andavano bene, perché la sua mamma e il suo papà erano tornati insieme. Anche se la vita era frenetica perché non mancava molto all’arrivo della sua sorellina (che non vedeva l’ora di conoscere).
«Mi sono solo commossa» rispose Tatsuki. La gravidanza la stava prendendo bene. Certo, arrivata quasi al termine si sentiva ipersensibile, stanca e anche un po’ troppo grossa, e di sicuro non aveva smesso di avere paura. Ma Uryu si prendeva cura di lei. Come sempre.
«Papà, dai, sbrigati! Avevi detto che mi insegnavi a giocare a dama, uffa!» si lamentò Yuichi, semi accasciato sul tavolo. Ishida lo raggiunse, con gli occhiali storti sul naso e le guance rosse. Si dava molto da fare e inoltre era in ansia, perché sapeva che il momento de parto era imminente. Il solito esagerato, ma Tatsuki lo adorava, era così carino.
«Arrivo, arrivo! Stavo mettendo a posto. Adesso mi siedo e ti insegno.»
Tatsuki sorrise, bevendo un sorso di limonata ghiacciata. Uryu doveva davvero calmarsi, perché rischiava uno svenimento.
«Uryu, riposati per un po’, davvero. È tutto sotto controllo, non c’è bisogno di stare sull’attenti.»
«Sull’attenti, io? Non vedo di che parli, io mi limito solo ad avere un piano organizzato per tutto» rispose, aggiustandosi gli occhiali. «Ah, Yuichi. Ho scordato la scatola della dama.»
Yuichi si alzò e quasi non scivolò su una pozza scivolosa sul pavimento.
«Ma… mamma, per caso ti è caduta della limonata sul pavimento?»
Tatsuki fece una smorfia e poi abbassò lo sguardo. In effetti a causare quella pozza era stata lei, peccato non si fosse accorta di niente: le si erano rotte le acque.
«Oh, accidenti.»
«Oh, accidenti» ripeté Ishida alzandosi in piedi. «Va bene, niente panico. Yuichi, abbiamo provato un sacco di volte.»
Yuichi scattò, veloce come un soldatino. La cosa assurda era che Tatsuki fosse assolutamente tranquilla.
«Uryu, guarda che non stiamo andando in guerra, sto solo andando a partorire. Io, appunto, non tu!»
Suo marito però non l’ascoltava. Aveva preso in mano la situazione, meglio non contraddirlo.
«Andrà tutto bene. Respira. Senti dolore? Ce la fai a camminare?»
Qui l’unico che avrebbe avuto davvero bisogno di respirare era Uryu, sull’orlo dell’iperventilazione. Dolore non ne sentiva ancora e poi ce la faceva benissimo a camminare fino all’auto.
«Yuichi!» chiamò Ishida, carico di borse. «Sbrigati!»
Il bambino raggiunse il salotto poco dopo, aveva uno zaino in spalla: i suoi genitori lo avevano preceduto. Spalancò gli occhi quando si accorse che le chiavi dell’auto erano ancora appese vicino alla porta.
«Papà, aspetta, stavi per scordarti una cosa importante!» disse esasperato, afferrando le chiavi e correndo fuori prima di assistere ad uno sclero senza precedenti.
 
Il reparto era silenzioso. Troppo silenzioso. Kurostuchi non poteva dire di esserci abituato, anzi. Era però in quei momenti che stava sempre con la guardia alta. E di solito non sbagliava mai. Hanataro quasi gli cadde addosso nella sua sfrenata corsa.
«Yamada! Non si corre nei reparti, ma quante volte te lo dovrò ripetere?» si lamentò, scocciato.
«Ma dottor Kurostuchi, la moglie di Ishida-senpai è in travaglio, devo andare! Kurosaki-senpai, sbrigati!»
Ichigo sbucò da dietro l’angolo, altrettanto concitato.
«Arrivo! Scusi dottore, siamo in pausa da adesso!»
«Voi cosa…? Che?! Vi ho detto che in reparto non si corre, idioti! Tsk, ragazzini» borbottò, facendo ridere Nemu, che dietro la sua scrivania sistemava alcuni documenti.
«Non te la prendere, Mayuri. Una nascita catalizza sempre tutte le attenzioni su di sé»
«Ahimè, lo so bene. Ma gli farò fare gli straordinari, a quei due» disse ricomponendosi. Si ritrovò ben presto il braccio di Urahara intorno alle spalle. Il primario si era preso troppa confidenza. Anzi, era più giusto dire che Mayuri gli avesse concesso di prendersi un po’ di confidenza. Adesso lo definiva quasi un amico.
«Ah, certe cose non cambiano mai, sei sempre troppo severo con quei ragazzi.»
«E tu sei sempre troppo indulgente. E molesto. Che dici, pensi di togliere il braccio da lì o devo staccartelo con un bisturi? Nemu, guarda che ti sento che ridi. Non è divertente. Non vi mettete contro di me»
Minacce inutili le sue, lo sapeva bene. Oh beh. Era un prezzo che poteva pagare senza troppi problemi.
 
Yuichi attendeva pazientemente seduto tra i suoi nonni. Si chiedeva quanto ci impiegasse un bambino per nascere. Nove mesi erano già tanti, quanto ancora bisognava attendere? Però aspettava paziente, soprattutto perché la signora Kurosaki era venuta e aveva portato con sé Masato. Quest’ultimo ci teneva a stare psicologicamente accanto al suo migliore amico, alla sua persona speciale.
«Allora, allora, come ti senti? Io non so come ci si sente ad essere un fratello più grande, perché sono il più piccolo. Ma tu invece come ti senti?» domandò Masato. Yuichi fece spallucce.
«Sono molto curioso. Chissà se la mia sorellina mi somiglierà come vi somigliate tu e Kaien.»
«Beh! Sono sicura che se somiglierà a te sarà tanto, tanto carina!» gli sussurrò e poi arrossì. Si era fatto più audace e perché non avrebbe dovuto? Voleva bene a Yuichi, cosa c’era di male a dimostrarlo?
Ichigo e Hanataro arrivarono come due furie, quasi cadendo sul pavimento. In veste di migliore amico pseudo apprendista/ammiratore di Ishida, dovevano essere presenti ad un momento così importante.
«Siamo… arrivati… in tempo?» ansimò Ichigo, che avrebbe potuto sicuramente riprendersi meglio se Hanataro non si fosse aggrappato a lui. Sua moglie si alzò, andandogli incontro.
«Ancora tutto tace. Sei adorabile a voler essere presente a questo momento.»
Ichigo arrossì. Lui, adorabile? Non era proprio il termine che avrebbe usato per definire sé stesso.
«Io? Ma va. È che io e Ishida ci siamo sempre stati l’uno per l’altro. Questo mi sembrava il minimo. Hanataro, ma perché piangi?» domandò esasperato.  Oramai avrebbe dovuto farci l’abitudine con l’emotività di quel giovane chirurgo dall’animo sensibile.
«Per due motivi. Perché mi commuovo sempre a questi eventi e perché lei, signora Rukia, è davvero gentile e altruista, si compensa bene con Kurosaki-senpai…»
Ichigo lo guardò con un certo fare omicida. Da quando Hanataro aveva conosciuto Rukia, le si era affezionato. E di questo non si sorprendeva, perché tutti amavano Rukia. Lui l’amava. Perché era altruista, gentile, era luce nel buio.
«… Vorresti indirettamente dire che io non sono né gentile, né altruista?» domandò minaccioso e Hanataro andò a nascondersi dietro Rukia, nonostante fosse un po’ più alto di lei.
L’entusiasmo lasciò posto ad un moderato silenzio, interrotto ogni tanto dal chiacchiericcio dei bambini. Ichigo si era ritrovato seduto, Rukia con la testa poggiata alla sua spalla, Hanataro poggiata alla sua altra, dolorante spalla. E attese. Se tutto stava andando bene, Ishida al massimo era solo svenuto per l’agitazione, oppure Tatsuki gli aveva dato un pugno mettendolo KO.
In ogni caso se la sarebbe cavata.
Quando oramai non ci speravano più, scorsero finalmente Ishida, il quale non era però da solo.
«Uryu» lo chiamò sua madre, destandosi dal suo torpore. Yuichi saltò su, notando subito il fagottino che suo padre teneva in braccio.
«È nata?!»
Lui annuì, visibilmente commosso.
«Vi presento Yoshiko» sussurrò e accarezzò delicatamente la testa della sua bambina. Yoshiko dormiva beata tra le sue braccia, il viso paffuto ancora un po’ arrossato.
Circondata da gente che già l’adorava pur conoscendola appena.
«Oh, Ishida. Ma è bellissima» disse Rukia, commossa. «E come sta Tatsuki?»
«Sta bene, ora sta riposando. È stata una forza, non che avessi dubbi.»
Hanataro piagnucolava. Ryuken, suo padre, gli aveva detto ben fatto. E Ishida capì che si stava riferendo a tutto. Yuichi guardava incanto la bimba. Allungò un dito e le sfiorò una manina: questa si chiuse subito a pugno attorno al suo dito.
«Hai visto cos’ha fatto?» domandò Masato, incantato altrettanto. Yuichi annuì. Era felice che Yoshiko fosse nata. Le voleva già un bene immenso.
«Ciao, Yoshiko. Io sono Yuichi, tuo fratello maggiore. Sei molto carina e tonda!» disse, non staccandosi dalla presa salda della sorellina.
Ishida si sentì fiero. Di Yuichi, di Yoshiko, di Tatsuki e anche di sé stesso. Perché non si era arreso.
«Sai, un pochino ti somiglia. Però è più bella di te» gli disse Ichigo.
«Su questo non ci sono dubbi, Kurosaki. Comunque… grazie»
Ichigo non chiese a cosa si riferisse. Aveva già capito ogni cosa.
«Ma figurati» fu la sua semplice risposta.
Yoshiko era già molto contesa. Hanataro voleva tenerla in braccio ma Ishida, già colto da un grande istinto di protezione, gli aveva detto che se prima non si calmava, non gliel’avrebbe data nemmeno morto. L’onore di essere il primo toccò a Yuichi.
Kurostuchi li guardava. Nessuno si era accorto di lui, ma era tanto meglio così, non era ancora così tonto da farsi coinvolgere anche nei sentimentalismi altrui. Non lo avrebbe mai detto esplicitamente, ma alla fine era fiero di quei tre (perfino di Hanataro).
«A cosa pensi?»
Nemu era arrivata silenziosa, accanto a lui.
«Inevitabilmente penso a quando è nata Ai. Dimmi che non avevo la stessa espressione idiota di Ishida» le disse, con il suo solito tono serio e che fingeva di essere sprezzante.
«… Amh, solo un pochino. Però hai ragione a ripensarci. È stato un bel momento, uno dei tanti» Nemu si fece vicina e lui le circondò le spalle con un braccio.
«Comunque il nostro turno è finito. Andiamo a casa da nostra figlia?» domandò Mayuri.
Lei annuì, felice. Perché finalmente aveva davvero un posto da poter chiamare casa.
 
Tre mesi dopo
 
Gin rideva. E rideva davvero, perché oramai aveva imparato come si faceva. La vita sembrava più leggera quando si lasciava andare qualcosa e quando si trovava la giusta attenzione da dare a ciò che contava davvero.
«La prossima volta devi portare Shuhei. Mi diverto troppo a stuzzicarlo, è proprio il tuo opposto» aveva detto Gin rivolgendosi a Kira. I due oramai erano tornati amici come un tempo. Anche di più.
«Sì? Beh, posso provarci. Lo sai, lui a volte tende ad essere un po’ asociale. Ma per me farà questo piccolo sforzo» gli rispose Kira. Che oramai frequentava casa Ichimaru come se fosse casa sua, che oramai si era affezionato a Rin come se fosse davvero un po’ sua.
«Avanti, dobbiamo andare in vacanza tutti insieme, noi. A Rangiku piacerebbe. Con Aizen e Momo le uscite non erano granché. Ma è chiaro, loro non si amavano nemmeno lontanamente rispetto a te e Shuhei.»
Kira era timido e Gin si divertiva a metterlo affettuosamente in imbarazzo. Già, proprio come i vecchi tempi.
Rangiku entrò in soggiorno e quando vide i due, beati a chiacchierare e bere come se nulla fosse, corrugò la fronte.
«Gin, non sei ancora pronto?! Guarda che tu sei il testimone, sbrigati!»
«Ops» sorrise suo marito. «Hai ragione, il dovere mi chiama. La nostra Rin è pronta?»
«Da un pezzo, anche!» rispose lei, sistemandosi i boccoli sulle spalle.
Rin in effetti era già pronta, nel suo vestito candido e bianco. Era dicembre e nevicava. Amava l’idea di un matrimonio in inverno, era così romantico.
«Toshi, allora quando tornate tu e Momo?» domandò Rin, seduta sul letto ad osservare Toshiro che cercava di infilare gli ultimi vestiti in valigia. Lui e Momo sarebbero partiti per un lungo viaggio in Europa. Aveva messo in pausa l’università e l’avrebbe ripresa una volta tornato. E poi, magari, sarebbero anche andati a vivere insieme.
«Credo tra un mese, circa. Non sono mai stato in Inghilterra, ma sono sicuro che sarà forte» rispose Toshiro, lanciando poi uno sguardo alla bambina, che sembrava un po’ malinconica. «Non essere triste, Rin. Tornerò.»
«Sì, ma non qui» rispose facendo spallucce. «È che sai… l’idea di averti qui a casa con me mi piaceva. So che non può essere più così. E sono contenta se tu sei felice, però è comunque triste.»
A quel punto Toshiro lasciò perdere la valigia e si inginocchiò davanti a lei. Rin aveva preso le parti migliori di Rangiku. E anche di Gin, a cui si era suo malgrado affezionato.
«Rin, anche se non vivremo insieme, ci vedremo tutte le volte che vorrai. Lo sai che ti voglio bene, vero? Non voglio bene a nessuno come a te. E di questo puoi starne certa, sei l’unica.»
E Rin, che tanto amava essere l’unica, arrossì e gli gettò le braccia al collo, stringendolo.
Rangiku era andata lì per richiamare sua figlia, ma quando li aveva visti abbracciare, si fermò un attimo, intenerita.
«Toshiro» lo chiamò ad un tratto. «Se non ti sbrighi, tu e Momo perderete il volo. E noi il matrimonio.»
«Sì, certo. Fate voi gli auguri a Shinji da parte mia. E voi, riguardatevi, eh.»
Rangiku ebbe quasi l’impressione che gli occhi di Toshiro fossero lucidi. E dire che lui a certi sentimentalismi non si lasciava mai andar, quella era una sua prerogativa. Il suo Toshiro era cresciuto, doveva farsene una ragione.
«Riguardati anche tu!» esclamò, abbracciandolo all’improvviso, quasi soffocandolo. Toshiro fece per lamentarsi, ma poi decide di godersi l’abbraccio. Anche lui si sentiva cresciuto. Adesso avrebbe iniziato la sua vita insieme a Momo e la cosa lo elettrizzava. E lo spaventava, inevitabilmente, come accadeva per ogni nuovo inizio.
 
 
«… Così, il giorno del nostro matrimonio, tuo padre era in anticipo. Io penso che fosse un po’ nervoso»
«Ma per favore, eri tu ad essere in ritardo. Voi spose vi fate sempre attendere.»
«Ero in perfetto orario. Credimi, Ai. Quando mi ha visto mi ha guardata come se fossi un angelo. Non è uno sguardo che riserva a tutti.»
Ai si era portata le mani sulla bocca, emozionata e sorridente. Ah, quindi il matrimonio dei suoi genitori era stato bellissimo. Stava amando sentirne parlare e si disse che un giorno anche lei avrebbe avuto un amore e un matrimonio altrettanto belli.
«Tsk, che esagerazione» disse Mayuri, tenendo Ai per mano. «Piuttosto, perché l’idea di sposarsi a dicembre? Il freddo è atroce.»
Fuori era tutto imbiancato, ma la cerimonia si sarebbe tenuta all’interno. I tre erano appena entrati, quando scorsero Kisuke e Yoruichi con i gemelli. Quei due non avevano pudore, stavano appicciati a scambiarsi effusioni come se fossero da soli.
«Ah, eccovi arrivati» disse Yoruichi. «Non è che avete visto uno dei due sposi? Sembra essersi defilato!»
«No, in realtà no» disse Nemu, guardandosi intorno. Aizen era già lì, tranquillo almeno all’apparenza. Era stato appena raggiunto da Gin, in clamoroso ritardo, ma almeno ce l’aveva fatta.
«Oh, guardate!» esclamò Kisuke. «Ci sono Ishida e Tatsuki con la piccola! Voglio andare a vederla!»
«Eh, lasciami!» si lamentò Mayuri, poiché Kisuke si era aggrappato al suo braccio. «Sei fastidioso come al solito!»
La piccola Yoshiko aveva per il momento attirato le attenzioni su di sé. Anche se aveva solo tre mesi, era molto allegra e sorrideva a tutti.
«Ciao, Yoshiko. Come stai crescendo» disse Orihime con dolcezza, accarezzandole una manina. «Tatsuki, posso tenerla?»
«Poi tocca a me, a me!» esclamò Neliel, tutta entusiasta. Ma anche Rukia e Karin volevano avere l’onore di tenere tra le braccia quella paffuta neonata. Tatsuki alzò gli occhi al cielo e promise che a turno l’avrebbe data a tutti.
«Tua figlia piace» disse Nnoitra a Ishida. «E pensa un po’ quando sarà un’adolescente.»
Ishida gli lanciò uno sguardo omicida (cosa sorprendente per lui).
«Per favore, nessuno è degno di lei» disse sistemandosi gli occhiali.
Nnoitra gli disse che lo capiva. E anche Ulquiorra. Ichigo invece lo prese bonariamente in giro dicendogli che la sua apprensione adesso era del tutto venuta fuori.
 
I bambini, come al solito, facevano gruppo per i fatti propri. Satoshi era stato accolto immediatamente da tutti, in particolare aveva stretto amicizia con Naoko e Kohei, due personalità diverse ma a cui si sentiva affine.
Rin arrivò correndo, fiondandosi su Miyo.
«Waaah! Miyo, sei stupenda!» gridò. Miyo indossava un abito rosa chiaro molto delicato e aveva insistito per la coroncina di fiori veri sulla testa. Visto che era la damigella, voleva fare la sua figura.
«Grazie, anche tu! Non pensi che pure Hayato stia bene?» domandò tirandoselo per un braccio. Hayato era in effetti molto elegante, imbronciato ma sereno.
«Sì, state tutti e due bene! Ma allora quando inizia la cerimonia?»
Hayato si infilò le mani nelle tasche.
«Boh, quando Shinji si decide, penso. Miyo, tuo padre mica cambia idea, vero?»
«Ma no! Va bene, ci vado a parlare io, sono brava con queste cose!» decise la bambina.
 
Shinji non era scappato. Certo che no! Per essere nervoso e in ansia però, lo era. Non avrebbe mai immaginato di sposarsi, soprattutto non con Sosuke. Ancora dopo mesi faticava a crederci. Quello era un passo importante. Il più importante di tutti.
«Sono questi i giorni in cui vorrei tanto ricominciare a fumare» disse mentre camminava avanti e indietro. Hiyori lo osservava annoiata, seduta sulla sedia con le gambe accavallate. Anche se era la sua ex, voleva comunque essere presente al matrimonio. Anche perché se sono presenti tutti i membri della band, non posso certo mancare io, ma ti pare!
«Non svenire, eh. Comunque, il tuo abbigliamento è un po’ tamarro, in questo non cambi mai.»
«Che?! Io non sono tamarro, sono originale!» si lamentò, Solo perché aveva deciso di indossare il cravattino arancione e solo perché sulla giacca bianca aveva ricamato dei ghirigori blu, non voleva certo dire che fosse tamarro o chissà cosa.
«Dai, ti prendo in giro. Respira, andrà tutto bene. Quello non ti molla più. L’ho visto poco fa, è nervoso anche lui. Solo che è più bravo a nasconderlo.»
Shinji respirò profondamente. Se solo ripensava a tutto quello che avevano passato, se solo si riguardava indietro… Il sé stesso di qualche anno prima non ci avrebbe mai creduto, vedendolo.
«Non ho mai avuto paura dei rischi. Proprio oggi dovevo cominciare»
«Come sei noioso, stupido di uno Shinji! È come quando abbiamo formato la band e come quando abbiamo deciso di tenere Miyo. Ci siamo buttati ed è stata la scelta migliore. Magari è così anche questa volta.»
Hiyori lo stava davvero tranquillizzando. Shinji gliene fu grato. Forse come coppia non avevano funzionato, ma come amici e genitori di Miyo invece funzionavano benissimo.
La bambina entrò e si fermò, una mano poggiata sul fianco e l’altra mano che reggeva il bouquet.
«Papà. Lo sai vero che la cerimonia sta iniziando?»
«Eh? Ah, sì. Sono solo un po’ ansioso.»
«Ma non ti devi preoccupare! Ci siamo io e Hayato accanto a te, coraggio» disse porgendogli una mano.
Ma sì, si disse. Quello era uno di quei casi in cui abbracciare l’avventatezza. Le strinse la mano.
«E va bene. Facciamo questa cosa.»
 
Presero tutti posto. C’era un grande fermento e un chiacchiericcio, da un lato i bambini che chiacchieravano, da un lato Renji che raccontava a Yumichika e Ikkaku della convivenza con Byakuya iniziata qualche mese prima.
Sosuke era in piedi, teso. Gin, accanto a lui, faceva quello che ogni bravo testimone faceva.
«Vedo che siamo un po’ in ansia. Non avrei mai pensato di vederti così.»
«Così intendi in ansia o sposato con un uomo?»
«Amh, tutti e due. Questo farà scalpore» disse con un sorriso.
Sosuke chiuse gli occhi, annuendo.
«Oh, lo so. Ma non temere. Ho la vaga impressione che a Shinji un po’ di notorietà piaccia»
Gin gli diede una gomitata quando, nello stesso momento, vide Shinji e sentì il suono della musica, non una marcia nuziale classica. Shinji era rosso in viso, un po’ in imbarazzo perché in fondo tutti gli occhi erano su di lui. Hayato gli camminava a destra, Miyo gli camminava a sinistra, stringendogli la mano come a infondergli coraggio e sorridendo a tutti in modo raggiante.
«Ah, Sosuke. Ti ammazzerei quando mi porti a fare cose che altrimenti non fare mai e poi mai» disse fra sé e sé. Aizen sorrise nel vederlo. Adesso aveva l’impressione (anzi, la certezza) di essere al punto giusto e al momento giusto. Diede una carezza ad Hayato e una a Miyo e poi guardò Shinji. Quest’ultimo assottigliò lo sguardo,
«E così ci siamo, Aizen» sussurrò.
«A quanto pare è così. Sappi che ti sono grato per non esserti arreso con me» gli sussurrò, accarezzandogli una guancia. Il colorito di Shinji divenne bordeaux ed ebbe l’impressione che qualcuno dei suoi amici lo trovasse divertente. Ma il suo sguardo si addolcì.
«Figurati. Sono uno che non si arrende. Nemmeno tu lo hai mai fatto.»
Si guardarono e per un attimo ebbero l’istinto di scambiarsi un bacio. E lo avrebbero fatto se Miyo non li avesse richiamati.
«Emmmh! Il bacio dopo, eh!»
«Sì, hai ragione piccola Miyo» rispose Sosuke, allontanandosi appena. Hayato arrossì.
«Pff, sdolcinati» disse. Ma in realtà era sereno. Lo erano tutti. E quella era la sua famiglia. Allargata, strana, ma sua.
 
A cerimonia finita, Ichigo espresse il suo stupore dicendo che non ci poteva credere, che sembrava tutto assurdo e che, di nuovo, non ci poteva credere. Però era così e adesso Sosuke Aizen e Shinji Hirako erano sposati. Robe da pazzi, ma che quei due si amassero era evidente a tutti.
«C’è da impazzire» disse mentre seduto al tavolo beveva un drink. «Non ci posso credere.»
«E che cavolo, sembri un disco rotto!» si lamentò Nnoitra. «Penso che l’unico che possa gestire Aizen sia proprio Shinji. Poi oh, non sarà poi così male se si è innamorato.»
«Sei così profondo, Nnoitra!» esclamò Grimmjow. «Però hai ragione. Per esempio, Tia ha saputo vedere i miei lati positivi!»
Nnoitra e Ichigo si guardarono e mormorarono un non di nuovo. Grimmjow innamorato e con una relazione da qualche mese era di un melenso senza eguali. E chi lo avrebbe mai detto?
Byakuya si avvicinò, guardandosi intorno.
«Dov’è mia sorella?»
«Si è allontanata un attimo. Emh… sei sicuro che sia saggio lasciare il tuo compagno da solo? Renji mi pare aver alzato un po’ troppo il gomito» disse Ichigo. Renji infatti stava abbracciando tutti, grandi e piccini, talvolta beccandosi qualche insulto. Byakuya sospirò.
«Magari dopo, se lo faccio adesso si appiccicherà a me. Vado a cercare Rukia.»
 
Rukia non sentiva il freddo. Fuori c’era silenzio e la neve scendeva. Guardava il panorama, il laghetto ghiacciato davanti a lei. E sorrideva, beata, le braccia poggiate al muretto di pietra. Byakuya la trovò dopo un po’ e nel vederla così assorta si avvicinò.
«Non hai freddo?» domandà.
«Byakuya! No. Mi stavo solo godendo un po’ di silenzio. Tutto a posto con Renji?»
«Sì, sta solo molestando gli invitati, tutto nella norma
Byakuya guardò insieme a lei il panorama. E poi rimase in silenzio, lo rimasero entrambi.  C’era tanto da dire, eppure non c’era niente. Era tutto lì, tutto lì,
«Rukia, come stai?» domandò Byakuya ad un tratto. Rukia lo guardò e sorrise.
«Sto bene. E tu?»
Byakuya annuì, serio.
«Sto bene.»
Poi tornarono a guardare il panorama.
 
 
scorre via la più piccola amarezza
l'utopia si trasforma in certezza
che vuoi che sia
tutto passa in un istante
troverai nel tuo cuore le risposte che non hai

è tutto qui
è la tua vita
piccoli istanti che scorrono così
tutto va via
ma i tuoi ricordi puoi portarli dentro te*
 
Fine
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
(per ora).


 
*canzone del film I Robinson - Una famiglia spaziale.

Nota dell'autrice
Ebbene sì. È la fine. Dopo mesi, tanti scleri, risate, lacrime e sofferenza, questa storia giunge al termine. Alla fine hanno tutti avuto il loro lieto fine, anche Shinji che, poveraccio, ha sofferto per anni e che adesso è sposato con Aizen (che finalmente ha messo la testa a posto). Yoshiko è nata e sarà amata dalla sua famiglia, che poi è allargata visto che comprende un sacco di amici, grandi e piccini. E Orihime e Ulquiorra accolgono Satoshi, un bambino che ha bisogno di una famiglia e di amore, che di sicuro non gli verrà negato. 
Mi piaceva concludere la storia così com'è inizata: con un dialogo tra Byakuya e Rukia. Adesso stanno entrambi bene. Davvero bene.
Ma la cosa importante è: è la fine PER ORA.
Sì, perché vorrei pubblicare un sequel (di cui ho scritto poco più che una decina di capitoli), ambientato qualche anno dopo. Non era mia intenzione all'inizio, ma ci sono delle cose che voglio ancora raccontare. Mi piacerebbe pubblicarlo a ottobre, assieme all'uscita del continuo dell'anime, sigh.
Intanto, spero che questo lungo viaggio vi abbia lasciato qualcosa.
Un abbraccio a tutti.
Nao

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=4009897