“It was the better place we ever had”

di Voglioungufo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte I ***
Capitolo 2: *** Parte II ***



Capitolo 1
*** Parte I ***


Relationships: Rock Lee/Gaara, Kakashi/Obito/Rin.
Characters: Rock Lee, Gaara, Hatake Kakashi, Uchiha Obito, Nohara Rin, Uchiha Sasuke, Uchiha Itachi, Deidara, Sakura, Suigetsu.
Verse: Stonewall!AU, historical.
Tag:  OOC, angst, hurt/comfort, Femtrans!Sasuke, femtrans!Deidara, polyrelationship
Trigger warning: omotransfobia, omofobia interiorizzata, prostituzione forzata, linguaggio violento/slur.

Note: Buon anniversario dello Stonewall day! Oggi sono 53 anni da quando i froci del Greenwich Village hanno tirato mattoni contro i poliziotti <3 questa two-shots è autoconclusiva e abbastanza indipendente, essendo un prequel, ma fa parte una serie con la long principale di 21 capitoli che tratta proprio di questo momento importantissimo della storia LGBT, quello che ha segnato la nascita del pride. Nel caso vogliate saperne di più, vi consiglio di leggerla.
L’avviso OOC perché, come per tutto il resto della raccolta, ho scritto questa storia più interessata al contesto storico che mantenendo i personaggi fedeli all’opera canonica.
Il rating arancione è per le tematiche e il linguaggio violento (appunto, per restare fedele alla storicità verranno usati degli slur come se fossero normali, quindi tenetelo conto)
La seconda (e ultima) parte verrà pubblicata fra una settimana. Nei piani doveva essere una singola one-shot, ma mi sono resa conto che stava diventando troppo lunga e ho deciso di spezzarla.
Per il resto: HAPPPY PRIDE, BE QUEER!
Ci vediamo in fondo per le annotazioni più storiche c:
Hatta












“Greenwich Village.
No, no, no. Not Green-witch. Drop the W. Drop an E.
Grenitch Village. Gren-itch. Got it?
Greenwich Village, 1967: Home to the homeless. Destination for dropouts. Refuge for the kicked out.”

(Ann Bausum — Stonewall)



 
“It was the best place we ever had”.
(Dick Kannon)
 




I


Lo aveva visto spesso, in momenti e luoghi diversi a Greenwich Village. 
La prima volta era stato al suo arrivo, quando si era spostato in quelle via con gli occhi spalancati, alla disperata ricerca di un segnale che dimostrasse che fosse finalmente tra i suoi simili. Non aveva trovato nulla, tutti gli sembravano uguali alle stesse persone prima di quel quartiere. Ma lui lo aveva notato subito: capelli rossi, pelle lattea e occhi di ghiaccio; i loro colore chiaro risaltava sullo sfondo di palpebre sporche di matita nera sbavata. Indossava una semplice maglietta bianca, arrotolata e annodata a scoprire il ventre pallido e jeans logori sugli orli, sottolineavano una figura magra e slanciata.
Rock Lee si era fermato e gli aveva sorriso. “Ehi, ciao!”
Il ragazzo aveva tirato dritto senza nemmeno guardarlo.

La seconda volta era successo di notte. Lee aveva bisogno di un posto per dormire, non poteva continuare a colonizzare una panchina a Washington Park. 
Era andato al molo, dove l’odore di carne marcia imperversava, coperto appena da quello di sudore e nicotina. Aveva aspettato lì, in attesa di una macchina. Aveva ricevuto delle proposte sensuali, ma solo per consumare qualcosa dentro i container vuoti. Lee voleva dormire su un letto vero, non partecipare a un orgia, quindi aveva rifiutato e aveva atteso.
Nell’attesa lo aveva rivisto. Bello, vestito diverso: shorts di jeans a scoprire le gambe lisce e pallide, una camicia in flanella annodata e intrecciata in modo di scoprire la pancia piatta. Sandali alti ai piedi, larghi cerchi pendevano dai lobi. Nel buio poteva appena notare il trucco sulle palpebre, ma invece gli era chiara la sua espressione sorpresa.
Lee gli sorrise ancora. Questa volta anche il ragazzo sorrise.

La terza volta lo vide ballare.
Era entrato allo Stonewall Inn timoroso ed eccitato. Per la prima volta in vita sua, si era preoccupato di apparire troppo poco gay per superare la selezione del bodyguard dietro lo spioncino. Qualcosa doveva averlo convinto, perché la porta era stata spalancata. Aveva pagato il biglietto con i suoi pochi risparmi, aveva firmato con un nome finto sul grosso librone e gli erano state date due ordinazioni gratis e un gettone per lo jukebox. 
Lee era abituato alla confusione, alla festa, alla musica alta e a tante persone dentro un’unica stanza. Ma niente lo avrebbe mai preparato allo Stonewall Inn. Una luce soffusa rossa rendeva tutto sensuale, corpi caldi e sudati ballavano nella pista da ballo. Ma la maggior parte dei frequentatori era ai tavoli, a parlare, bere, baciarsi. Due uomini si baciavano e nessuno stava dicendo niente, nessuno li stava neanche fissando. Dal jukebox le note di — avvolgevano tutte quelle persone, le univano nel segreto nascosto dentro quelle mura. Guardò meravigliato come se fosse il suo primo giorno di vita gli uomini ballare, gli uomini in drag, le lesbiche in calzoni e bretelle. La frenesia lo travolse e pensò che quello dovesse essere il luogo più bello del mondo.
Spese subito il suo gettone allo jukebox e altrettanto velocemente spese i suoi buoni per l’alchool. Ma quello non fu un problema, perché un uomo grande e ben vestito gli offrì da bere più volte e lo portò anche al centro della pista, a ballare.
Lee non aveva mai ballato con uomo.
Fu nella pista da ballo che lo rivide. Stava volteggiando scoordinato con il suo accompagnatore e sentì qualcuno fissarlo. Seguì la sensazione finché la sua testa non si voltò verso il fondo della stanza. Lì, insieme a un gruppetto, c’era il ragazzo rosso che ballava e lo stava fissando. I suoi occhi di ghiaccio erano su di lui e, quando incrociarono gli sguardi, gli sorrise. Un alzarsi delle labbra beffardo, che lo invitava ad avvicinarsi. Lee lo avrebbe fatto volentieri. Ma il suo accompagnatore provvisorio gli prese la mano, tornando a farlo danzare con lui.
Per tutta la sera non si staccarono gli occhi di dosso, senza mai avvicinarsi.


La quarta volta gli parlò.
Lee aveva bisogno di comprare almeno una maglietta nuova. Da quando era lì, aveva indossato sempre gli stessi vestiti con cui era partito. Non che avesse avuto altra scelta, non gli avevano dato il tempo di preparare la valigia. Non gli avevano neanche fatto sapere che stava partendo.
Suo padre aveva detto che andavano a trovare una lontana zia che viveva in un altro stato dell’Unione. Per l’occasione, si erano perfino fatti prestare una macchina. Lee era eccitato, perché era la prima volta che saliva su un mezzo simile e, come un bambino, per tutto il tempo aveva fissato lo scorrere della strada fuori dal finestrino.
Si erano fermati a un autogrill e suo padre gli aveva dato il portafoglio, dicendogli di andare a prendere da bere per il viaggio. Lee lo aveva aperto e aveva strabuzzato gli occhi.
“Sono troppi!”
“Vedi di non spenderli tutti” aveva borbotto suo padre senza guardarlo. Né lui né la madre lo avevano guardato da quando il viaggio era iniziato, restando rigidi sui sedili.
Lee aveva scrollato le spalle ed era sceso. Aveva preso dell’acqua e degli snack, spendendo meno soldi possibile perché sapeva che la famiglia aveva problemi economici.
Quando era tornato, la macchina non c’era più. E aveva capito.
Non c’era nessuna zia da andare a trovare. 
E lui era stato abbandonato in autostrada come un cane.

Non aveva neanche provato a tornare. Il messaggio era stato forte e chiaro, non avrebbe più mostrato la faccia nel suo quartiere. Immaginava che le voci sulla sua perversione fossero diventate troppo, che con il suo comportamento stesse gettando troppa cattiva luce sulla famiglia. Avevano avuto una discussione a quel proposito, suo padre aveva anche alzato la voce. Gli urlato che doveva darsi una raddrizzata, che li stava facendo vergognare e nessuno voleva più avere a che fare con loro. Lee aveva quindi provato a incontrare il suo amante di nascosto. 
…A quanto pare non era stato abbastanza.
Almeno tutti quei soldi nel portafoglio avevano avuto senso. Almeno non lo stavano lasciando senza nessuna possibilità, aveva anche trovato i propri documenti nelle varie tasche. 
Aveva fatto l’autostop fino a New York. Aveva sentito parlare di un posto dove andava la gente come lui. Grenitch… Greenitch … Greenwitch… Greenwich. Greenwich Village.
Sopravviveva in quel posto da solo già da molte settimane. Non aveva un tetto, non aveva nulla, a parte quel portafoglio e gli stessi vestiti che indossava. Era arrivato il momento di fare un cambio d’abito.
Era entrato nel negozio economico, scivolando tra gli scaffali e gli appendini di abiti cuciti male. Ma era l’unico negozio con prezzi abbordabili. 
Un gran baccano lo distolse dalla sua ricerca e spiò verso l’entrata. Lì, proprio davanti alla cassa dove il proprietario si assicurava che non rubassi nulla, c’erano due… uomini? Lee non sapeva distinguere una figura, che sembrava una donna — vestiva e atteggiava come una donna — ma era stato abbastanza nel Village per sapere di non farsi ingannare dalle apparenze.
Comunque, era certo che stessero litigando e più secondi passavano la loro discussione diventava più accesa e isterica. Il povero omino alla cassa guardava la scena con disagio e preoccupazione. Per quello che Lee stava sentendo, stavano facendo un dramma per una scenata. Ma anche a quello si stava abituando. I giovani di Greenwich Village sembravano essere bombe ambulanti di emozioni mal represse, che scattavano tutte insieme ogni volta che venivano urtati. 
Scosse la testa, deciso a continuare con il proprio shopping e ignorare il litigio. Tornò tra i capi di abbigliamento e vide una delle camice colorate che aveva adocchiate essere velocemente sfilata via dal suo appendono. Lee si trovò davanti il ragazzo con i capelli rossi. Lo fissò, un po’ sorpreso di vederlo con abiti sobri e anonimi, niente zeppe e nessun filo di trucco sul volto, e sorrise. Quel ragazzo sembrò altrettanto sorpreso di vederlo, ma ricambiò il sorriso.
“Ciao”.
La sua voce era roca e meno delicata del suo aspetto. Era incisiva come ghiaccio, affilata come un’arma… incredibilmente seducente.
“Ciao” ricambiò. Fece un passo nella sua direzione e tese la mano. “Sono Lee” si presentò, curioso di conoscere il nome dell’altro.
Il ragazzo guardò la sua mano, un po’ corrucciato dalle cicatrici che vedeva sulla pelle dell’avambraccio. Un brutto ricordo lasciato sul corpo da un gruppo di teppisti che lo aveva beccato con il suo ex-amante anni prima, il motivo per cui le voci avevano iniziato a girare.
Prima che prendesse la sua mano, un grido più acuto arrivò dall’entrata dove i due tizi stavano litigando.
“Non provare a toccarmi, sgualdrina!”
“Tu mi hai spintonato, puttana!”
Seguito dallo squittio preoccupato del proprietario. Probabilmente la discussione si stava facendo così accesa che stavano passando per le mani.
Il ragazzo rosso gli fece l’occhiolino. Infilò la camicia che teneva ancora in mano nella sua grande borsa della spesa, afferrò anche qualche indumento intimò che cacciò malamente al suo interno. Già che c’era, allungò la mano anche verso un cappello e un foulard. Lee lo guardò confuso e lui gli sorrise sibillino.
“Mantieni il segreto”.
Lo disse in un tono così basso che lo fece rabbrividire. Non riuscì a ribattere nulla e lo guardò mentre prendeva un paio di occhiali da sole, questa volta senza metterli sulla borsa ma facendoli scivolare sul naso. Con un ultimo sorriso da elfo, il ragazzo si allontanò. 
Con un sospetto, Lee si sporse a guardare di nuovo l’entrata. Come aveva immaginato, i due di prima erano arrivati a mettersi le mani addosso e spintonarsi, con il proprietario che tentava disperato di calmarli e riportare l’ordine nel negozio. Con tutta l’attenzione sui due, il ragazzo e un’altra ragazza più bassa, dai curiosi capelli rosa, riuscì a sgattaiolare oltre la porta d’entrata con le loro borse gonfie di merce rubata senza che venissero beccati. Pochi minuti dopo, quando ormai i ladri si erano sicuramente allontanati dalla zona, i due che stavano litigando fecero un’altrettanta drammatica pace, chiedendosi scusa per le cose cattive dette e abbracciandosi. Uscirono anche loro dal negozio, lasciando solo il proprietario che tornò alla cassa soddisfatto e ignaro di quanto successo. 
Lee sorrise sorpreso all’ingegnosità dell’inganno e andò a pagare le due maglie che aveva preso e i pantaloni in jeans, desideroso di essere il più lontano da lì una volta che si fossero accorti del furto.
Non era riuscito a farsi dire il nome del ragazzo.


Passò molti giorni senza rivederlo.
In una di quelle notti stava camminando verso lo Stonewall, desideroso di poter ballare, ascoltare musica e risentire quella sensazione viscerale che lo aveva preso la prima volta. Sperava di rincontrarlo lì e, questa volta, di stringere le sue mani al centro della sala.
Non ci arrivò mai.
Un uomo gli si affiancò e gli sorrise. Era un bell’uomo, con volto ben scolpito, abiti stretti e ben tenuti. Ricambiò il sorriso, lusingato dalla sua attenzione. Subito dopo si trovò sbattuto contro il muro ed ebbe paura. Qualcosa di freddo e metallico venne premuto sul suo addome, la canna di una pistola.
Il bell’uomo gli tese davanti agli occhi un distintivo. Era un poliziotto in borghese, uno di quelli che gli altri ragazzi di strada chiamavano Lilian.
“Vieni con me senza opporre resistenza” gli disse.
Venne schedato e quella notte la passò in cella, colpevole di aver ricambiato un sorriso.
Colpevole di essere frocio.

Venne rilasciato il pomeriggio successivo. Quando gli restituirono il portafoglio di suo padre trovò i propri documenti, ma non le banconote. Avevano lasciato solo gli spiccioli.
Era rimasto senza soldi. 
Lee aveva sempre saputo quanto fossero importanti, aveva sempre visto la sua famiglia lottare per essi per sopravvivere dignitosamente. In quelle settimane aveva capito ancor di più quanto fossero fondamentali.
Senza soldi non poteva mangiare, prendere dei vestiti, rifugiarsi in una stanza quando faceva brutto tempo. Era stato attento a non spenderli, a farli bastare…
Ora non c’erano più.
Odiava l’idea, gli faceva andare il cuore in gola, ma non aveva molte scelte. Tornò al molo, questa volta con l’intenzione di accontentarsi di un letto su cui dormire, ma anche per pretendere dei soldi. Non sapeva neanche cosa dire per pretenderlo, come fare per essere scelto.
Andò alla zona del molo e non raggiunse i conteneir. Rimase su un marciapiede, non era l’unico, ma ognuno stava per conto proprio. Ci si guardava con sospetto e Lee si chiese se temessero l’arrivo di un poliziotto in borghese. Ripensandoci, capiva perché la prima volta il ragazzo rosso non aveva ricambiato il suo sorriso: doveva averlo creduto un Lilian.
Proprio mentre lo pensava dei passi lo raggiunsero, delle zeppe malandata si affiancarono a lui. Alzò gli occhi consapevole di sapere già chi aveva di fronte. Si scontrò con jean larghi, sbiaditi e strappati; con la camicia che qualche giorno prima aveva adocchiato al negozio, aperta sul petto magro coperto da un reggiseno femminile nero. Il volto del ragazzo dai capelli rossi era sempre bellissimo, anche con il trucco che si scioglieva sulle palpebre per il sudore di quella notte caldissima.
“Ciao” disse, tono basso e incerto.
Lee sapeva di non aver un bell’aspetto visto dove aveva passato l’ultima notte. Ricambiò con un sorriso sentendosi tristissimo e miserabile.
“Ciao”.
Il ragazzo si sedette accanto a lui e Lee notò che appesi agli orecchi aveva degli orecchini con delle pietre colorate, con la stessa sfumatura acquamarina dei suoi occhi. Doveva aver messo il rossetto sulle labbra, perché erano rosse e lucide, bellissime per essere baciate.
Deglutì, distogliendo lo sguardo. “Non mi hai detto il tuo nome, l’ultima volta”.
Accennò un sorriso. “Gaara” disse semplicemente e Lee si rigirò quel suono nella mente, finché non riprese la parola. “Come mai sei qui?”
Lee si strinse nelle spalle. Per qualche motivo, non voleva dirgli che era lì per prostituirsi perché aveva bisogno di soldi. Sapeva che non aveva senso vergognarsi, che probabilmente anche l’altro ragazzo era lì per quello… ma ammetterlo ad alta voce aveva il suono della sconfitta. Non voleva ammettere di aver perso l’unica e ultima cosa carina che avevano fatto i suoi genitori per lui.
“Mi serve un posto dove passare la notte” rispose, perché messo in quel modo sembrava fosse davvero una sua scelta, che lo stesse facendo per la preferenza personale di stare su un letto e non su una panchina.
Gli occhi occhi di Gaara penetrarono su di lui fin troppo consapevoli. 
“Da quanto sei qui?”
Scrollò le spalle. “Non lo so, qualche settimana”. Lee non aveva tenuto conto dei giorni, gli sembrava deprimente farlo. “È forte qui” aggiunse con un sorriso più convinto.
“Forte” ripeté Gaara soprappensiero, come se non si fosse aspettato di sentire il Village descritto in quel modo.
“Tu, da quanto?”
“Dal ‘56” rispose sempre con quel tono un po’ distratto, spostò di nuovo gli occhi su di lui quando sussultò nel sentirlo. Fece un sorriso divertito che lo faceva assomigliare a un folletto dell’Irlanda. “Avevo tredici anni”.
Lee si sentì sinceramente male a sentirlo. “Io… mi dispiace” mormorò senza neanche sapere se fosse la cosa giusta da dire.
Gaara scosse la testa noncurante. “Meglio in questo buco di merda che con loro” sibilò e non se la sentì di chiedere chi fossero quei loro. “Almeno adesso ho una famiglia decente”.
Non seppe come replicare, immaginava che facesse riferimento a una famiglia di scelta, a un gruppo di scappati di casa con cui aveva legato lì. Aveva visto molti gruppetti simili, le persone del Village cercavano di trovare forza nell’altro — anche se aveva assistito a litigate davvero violente e pericolose — e lui stesso aveva cercato di unirsi a uno di quei gruppi. Ma a quanto pare essere uno sporco negro creava degli svantaggi anche in quel ghetto.
Si chiese se in quella famiglia avesse già un amante, probabilmente sì visto che era spesso quello il legame che si creava. Il solo pensiero gli fece venire un crampo allo stomaco e pensò a Neji, che doveva pensare fosse sparito nel nulla e basta. Chissà se era venuto a sapere di quello che aveva fatto la sua famiglia, chissà se era riuscito a trovare qualcun altro nel frattempo… in fondo lui era un ragazzo bianco, bello, ricco e non lo amava. Neanche Lee lo aveva amato davvero. Erano stati insieme perché erano gli unici due gay che conoscevano, gli unici in grado di capire l’altro e le loro pulsioni perverse… erano uniti solo dalle circostanze di essere isolati. Ma Lee avrebbe voluto davvero trovare una persona da poter amare e il ragazzo davanti a lui era così bello… fin’ora era l’unico che gli era rimasto impresso di quelli che aveva incontrato.
“Mi sarebbe piaciuto ballare allo Stonewall con te, quell’altra sera” disse, in un impeto di coraggio.
Ricevette un altro pigro sorrisetto da gatto. “Il tuo accompagnatore non sembrava volerti lasciare andare”.
Rise ricordandolo. “No, era abbastanza appiccicoso”.
Gaara inarcò un sopracciglio nel vederlo chiamare così. “Non stava con te?”
Scosse la testa. “Mi ha solo offerto da bere e chiesto di ballare”. Aggrottò la fronte. “Credo mi abbia dato anche un nome falso”.
“Molti lo fanno” confermò Gaara.
Lee lo guardò attento, un po’ nervoso. “E tu… hai qualcuno con cui ballare?”
Non rispose subito, prendendosi qualche secondo per osservarlo e Lee si sentì un po’ imbarazzato. Si rese conto di quanto si fosse seduto vicino a lui, gli sarebbe bastato allargare appena le ginocchia per far sfiorare le loro cosce. Poteva veder l’inchiostro della linea di eye-liner sopra le ciglia imbrattate di mascara.
“No… per il momento” aggiunse, socchiuse le palpebre ed ebbe la sensazione che le iridi chiare fosse puntate sulle sue labbra. “Al momento ballo solo con la mia famiglia”.
Si trovò la gola secca. “Sembrano tipi forti” disse e si maledì internamente, perché in realtà non gli stava dando nessuna informazione su di loro per poter dire qualcosa del genere.
Gaara ridacchiò. “Lo sono. Te li farò conoscere”.
“Erano i tipi che litigavano al negozio?”
Scoppiò in una vera risata. “Era solo un trucco”.
“Sì, me ne sono reso conto” ridacchiò anche lui.
Una macchina si fermò non molto lontano, lasciò il motore acceso e aprì le portiere. Era la prima macchina che fermava da quando era lì e tutti i ragazzi sul marciapiede si irrigidirono. In particolare Gaara e gli bastò lanciare un’occhiata alla sua espressione perché il cuore gli finisse nello stomaco.
“È per te” indovinò. 
Gaara annuì. Senza dire niente si alzò, ma invece di raggiungere la macchina rimase in piedi a fissarlo; sembrava molto combattuto. Alla fine si piegò verso di lui.
“Domani sera, verso le sette e mezza, vediamoci al Mama’s Chick’n’Ribe. Parliamo un po’”.
Lee non aveva la più pallida idea di dove fosse quel posto, ma annuì sorpreso dalla richiesta. Ed emozionato, il cuore che era precipitato nello stomaco schizzò in gola.
Gaara non aggiunse niente e lo guardò entrare nella macchina, un gesto elegante mentre chiudeva la portiera dietro di sé. La macchina partì e alcuni fischi di indignazione e rabbia vennero emessi dagli altri ragazzi sul marciapiedi.
Poco dopo, iniziarono a passare altre macchine e il marciapiede si svuotò.


Gli faceva male il culo ed era esausto. 
A quanto pare la situazione era un po’ diversa quando chiedevi in cambio del sesso non solo un posto letto, ma anche dei soldi. In quest’ultimo caso si diventava un oggetto agli occhi dell’altro. Gli faceva male il culo, ma soprattutto bruciava per l’umiliazione che sentiva di aver subito.
“Ti sto pagando perché tu lo faccia, checca”.
Bruciava perché era vero. Era vero, aveva scelto lui di andare, aveva chiesto lui di essere pagato, di diventare un oggetto. Eppure ne aveva odiato ogni secondo.
Il giorno successivo lo aveva passato con una strana apatia addosso. Aveva guardato i propri soldi, letteralmente guadagnati rompendosi il culo, e si era preso un hotdog. 
Mentre lo mangiava su una panchina a Christopher Park capì perché alcuni di quei ragazzi si disperavano così tanto per spacciarsi un po’ di droga.








Annotazioni storiche:

Non mi dilungherò troppo sul contesto della storia, avendone già abbondantemente parlato nella long principale, quindi darò solo alcune linee guida.
Tra gli anni ‘50 e ’60 l’America era uno degli stati con regole più restrittive sull’omessualità di tutto il mondo — le pene erano molto più severe rispetto ai paesi comunisti, considerati il male in terra in quel periodo. In tutti gli estati, eccetto l’Illinois, considerava l’omosessualità un reato. Chi veniva beccato nell’atto — sia in pubblico che in privato — poteva essere rinchiuso in prigione, dove subiva violenza fisica e psicologica. Con l’unica eccezione del teatro, le persone che veniva identificate come gay venivano licenziate da qualsiasi luogo lavorativo e questo era perfettamente legale; nel provato familiare non c’era più comprensione. La maggior parte dei giovani era costretta a scappare per salvarsi da abusi domestici, se non venivano direttamente cacciati di casa. Molti si trovano costretti ad affrontare terapie di conversione, dove subivano “cure” di elettroshock e castrazione forzata (sia chimica, sia con la rimozione dei testicoli), molto spesso venivano lobotomizzati. 
In questo contesto, la popolazione gay tendeva a concentrarsi in zone specifiche della grandi città dove sapevano di poter essere RELATIVAMENTE al sicuro. Greenwich Village, a New York, era uno dei luoghi più importanti. La situazione lì non era comunque migliore, le persone lgbt dovevano confrontarsi con la mafia dilagante, gli abusi dei poliziotti, l’odio degli abitanti della zona e la prostituzione. Come Lee, molti erano costretti a vendere il proprio corpo anche solo per avere un posto dove dormire la notte. Il tasso di morte era altissimo, soprattutto a causa dei suicidi. 

Lilian è il nome che veniva affibbiato ai poliziotti in borghese, quando tentavano di mimetizzarsi nella comunità con lo solo scopo di adescare persone lgbt e rinchiuderle in cella. Bastava anche solo ricambiare un sorriso. Altri nome con cui venivano chiamati: Lily Law, Betty Badge o Patty Pig.

I ragazzi di strada erano la principale componente del quartiere e della comunità lgbt. Non tutti erano scappati di casa, alcuni preferivano restare lì per sfuggire a situazioni familiari pesanti. Ricorrevano spesso al furto per sopravvivere e la scena descritta da Lee al negozio rappresenta uno dei loro espedienti: fingevano che alcuni litigassero, catturando l’attenzione del proprietario/cassiere/commesso in modo che i compagni potessero prendere quello che dovevano e scappare senza essere notati. Altri volte lanciavano mattoni/pietre contro le vetrine delle finestre (ciao Deidara).

Penso di aver esaurito quanto successo in questo capitolo. Vi lascio una mini-bibliografia con alcuni dei testi che ho studiato per creare questa ambientazione.

-    “Stonewall” di Anna Bausum (da cui la citazione a inizio capitolo)
-    “Stonewall: The Riots That Sparked the Gay Revolution” di David Carter (pieno di testimonianze ed esempi specifici).
-    “Baby, you are my religion: woman, gay bars and theology before Stonewall” di Marie Cartier
-    “Stonewall: the definitive story of the lgbtq rights uprising that changed America” di Martin Duberman.
-    “The Stonewall reader” della New York Public Library.




Angolo dei gufi:
Mi era mancato scrivere su questa AU <3 e posso dare un piccolo approffondimento ai GaaLee rimasti in sottofondo nella long principale, oltre che poter aggiungere nuove casette che ho imparato sull’argomento u.u
Spero che questo intro vi sia piaciuto, nonostante l’OOC e mille errori che avrò dissimilato in giro >.< come sempre, fatemeli notare senza problemi u.u
Ci vediamo la prossima settimana :D

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Capitolo 2
*** Parte II ***


“It was the best place we ever had”.
(Dick Kannon)
 
 
II

 
 
 
 
 
Non aveva dimenticato l’appuntamento. 
Chiese in giro e riuscì a farsi indicare dove fosse quel posto… Mama’s chick qualcosa. Tutti quanti avevano sorriso con entusiasmo quando aveva detto il nome.
Entrò nel locale che a prima vista sembrava un ristorante qualsiasi, con l’odore di fritto e pollo nell’aria. C’erano già molti clienti sulle tavole apparecchiate spartanamente, ma non vedeva Gaara tra essi. Rimase sull’entrata, cercando la testa rossa, finché un cameriere non lo individuò.
“Ehi! Hai fame, vuoi sederti?” Gli si avvicinò con un sorriso cordiale, gli increspati in modo dolce.
Lee si sentiva lo stomaco chiuso, quell’hotdog era stato difficile da digerire e non riusciva a volere altro cibo.
“Sono con una persona” borbottò. “Gaara”.
“Oh”. Il suo sguardo si illuminò di riconoscimento. “Vieni, è passato ad avvisarci e abbiamo tenuto il posto”.
Si accigliò mentre lo guidava a un tavolo apparecchiato per cinque persone. Forse voleva presentarlo alla sua famiglia? Aveva sperato potessero essere solo loro due, per conoscersi meglio…
Si accomodò a una delle sedie mentre il cameriera continuava a fissarlo.
“Sono Joan Crawford, comunque,” si presentò, “ma mi chiamano tutti Jack”.
Strinse la mano gli veniva tesa. “Lee” ricambiò, avaro di parole. Non riusciva a trovare il suo solito entusiasmo. 
Ma al cameriera non parve importare. “Vuoi che ti porti qualcosa mentre aspetti?”
Al solo pensiero di avere davanti uno di quei piatti fritti e unti che stavano assaggiando gli altri clienti gli venne la nausea. Scosse la testa, passandosi i palmi sudati sui pantaloni. Jack interpretò male il suo nervosismo.
“Il conto è sulla casa, amico” lo rassicurò.
Gli rivolse un debole sorriso, ma non erano i soldi il problema. Del resto li aveva appena guadagnati, che li usasse per qualcosa.
“Un po’ di acqua va bene” disse quindi.
“Acqua e basta?” si assicurò Jack incredulo.
“Sì, va bene così”.
Il cameriere sembrò voler protestare qualcosa, ma alla fine annuì e si allontanò verso il bancone. L’acqua gli venne portata subito e ringraziò Jack, dopodiché si ritrovò solo ad aspettare. Per passare il tempo e sentirsi meno in imbarazzo, lì solo seduto su una tavolo per troppe persone, spiò di nascosto gli altri clienti del locale. Sembrava tutta gente normale… tralasciando che una coppia di uomini si stava tenendo per mano sotto il tavolo, discreti ma visibili a tutti. Eppure nessuno nella stanza sembrava esserne indignato o infastidito, non ci facevano nemmeno caso. Come se non fosse nulla su cui prestare attenzione. 
Alla cassa una donnona prendeva tutta l’attenzione, con il suo abito blu e un filo di perle al collo. I suoi modi erano bruschi, i lineamenti grechi e chiacchierava con alcuni avventori. Teneva una mano socchiusa a pugno, come se stesse soppesando delle monetine. Ogni tanto scoppiavano a ridere e la loro risata occupava il locale, senza essere troppo fastidiosa.
La porta del ristorante si aprì e gli occhi di Lee vennero subito catturati dai capelli rossi e corti. Gaara indossava abiti casual come al negozio, sullo un rimasuglio di trucco violaceo sulle palpebre. Dietro di lui stavano due uomini e una donna. La loro entrata catturò qualche saluto dagli altri frequentatori e Lee si sentì un po’ a disagio nel vedere i tre adulti. L’unica cosa che lo rassicurò fu il fatto che l’uomo più alto e la donna avevano la sua stessa pelle scura.
Gaara lo individuò subito e il gruppetto lo raggiunse, prendendo posto sulle sedie lasciate libere. Lee li osservò senza ben sapere cosa dire.
“Ciao” fu Gaara a prendere l’iniziativa. Spostò gli occhi verso i suoi accompagnatori. “Volevo presentarti delle persone”.
Il primo uomo, quello con la pelle chiara e i capelli grigi, alzò mollemente la mano in segno di saluto.
“Kakashi”.
“Obito” proseguì l’altro uomo.
“Rin” concluse la donna. Quest’ultima gli sorrise materna e sembrò voler aggiungere qualcosa, protendendosi verso di lui, ma vennero interrotti dalla donna alla cassa.
“Era da un po’ che non vi vedevo da queste parti” disse con il suo vocione pieno di energia.
“Ciao Mama” salutò Obito. “Siamo stati impegnati”.
“Dura stare dietro agli adolescenti, mh?” commentò quella. “Dite a Deidara che non mi sono dimenticata che mi ha rubato due bicchieri”.
Gaara emise un risolino. “È il motivo per cui gira al largo da qui”.
Mama alzò gli occhi al cielo. “Vi porto il solito?”
Kakashi annuì. “Lee, tu hai già ordinato?”
Sì sentì un po’ a disagio nello scoprire che conoscevano già il suo nome, non riuscì a dire nulla perché Mama parlò al posto suo.
“Il moccioso non ha ordinato nulla, solo acqua”.
Corrugò le sopracciglia, sentendosi un po’ offeso. Non era un moccioso, aveva vent’anni!
“Paghiamo noi, puoi prendere quello che vuoi” intervenne con tono conciliante Obito.
Si morse il labbro. “No, io… non ho fame”.
Ricevette sguardi poco contenti a quella sua affermazione. 
“Hai già cenato?” chiese Rin.
“No, ma…”
“Una porzione anche per lui” lo interruppe con tono che non accettava repliche.
Mama annuì con soddisfazione. “Ve li portiamo in un attimo, tesori”.
Appena se ne andò tornò Jack, che distribuì lattine di Coca-Cola a tutti quanti.
“Allora…” iniziò Gaara mentre apriva il proprio barattolo. “Ieri notte hai trovato un posto alla fine?”
Gli si serrò la gola alla domanda così diretta, non se l’aspettava, e faticò ad annuire. Sperò non chiedesse altro, non voleva parlarne, non voleva ricordare quello che aveva fatto. Soprattutto sotto lo sguardo vigile degli altri tre adulti.
Il suo silenzio, però, valse più di mille parole.
“Ti andrebbe un posto dove puoi stare senza dover…” Obito lasciò la frase in sospeso, anche se era piuttosto ovvio il continuo. E proprio perché era ovvio, Lee arrossì.
“Non posso permettermelo” ammise.
Prima, quando aveva il portafoglio pieno, aveva cercato di risparmiare per usare quei soldi per qualche stanza d’albergo in inverno, nelle notti più fredde; ma ora aveva perso anche quella possibilità.
“Non devi pagare un affitto” lo rassicurò Kakashi. “Solo… qualche offerta quando te la senti di poterlo fare”.
Rin annuì. “Sakura ci dà un dollaro al mese, per dirti”.
Lee strinse le labbra confuso e un po’ sopraffatto.
“Non capisco”.
“Hai bisogno di un posto dove stare” spiegò quindi Gaara. “Puoi stare da noi”.
Guardò i tre adulti. “Senza pagare un affitto?”
“Solo qualche offerta quando te la senti, sì” confermò Kakashi.
Li guardò incredulo, gli sembrava troppo bello per essere vero. Infatti…
“La condizione è che tu sia gentile con Deidara e vada d’accordo con lei” aggiunse Obito appoggiandosi allo schienale della sedia.
Rin gli diede un colpetto sul braccio. “Non giocare ai preferiti. Deve andare d’accordo con tutti, non vogliamo drammi in casa”.
“E tenere pulito, accontentarsi di poter dormire per terra e non fare casini in giro” aggiunse Kakashi. “Ma Gaara ha detto che sei un bravo ragazzo, giusto?”
Non seppe perché, ma a quella osservazione arrossì e si voltò verso il ragazzo al suo fianco. Stava bevendo la sua coca-cola e le labbra strette sulla cannuccia gli ricordarono altro, che lo fece arrossire ancora più furiosamente.
“C-cerco di esserlo” balbettò, anche se in fondo era ovvio il contrario. Era gay e non voleva smettere, quello era un problema, quello lo rendeva un poco di buono.
“Puoi stare quanto vuoi” continuò Obito. “Se non ti trovi bene da noi, sei libero di andartene”.
“Senza pressione” aggiunse Kakashi.
Lee era ancora sbalordito, li guardò con la paura crescente che lo stessero prendendo in giro.
“Perché?”
Perché erano così gentili con lui?
Rin sorrise e allungò una mano, stringendo la sua. Lee provò una strana sensazione, come se quella stretta provenisse da sua madre e gli mancò, tantissimo.
“Se è in nostro potere, è giusto aiutare” spiegò. “La strada è un brutto posto per i bambini”.
Non seppe come ribattere, gli occhi castani di Rin erano troppo dolci. Pensò fosse una bella donna, con il suo caschetto corto e liscio, il volto ovale e dai colori familiari. Per un momento ebbe la sensazione di star tornando a casa. 
Sentì le spalle più leggere, i muscoli rilassarsi, come se per tutto il tempo fossero stati contratti per sopportare un peso.Aveva un nodo in gola e gli occhi lucidi, annuì mentre cercava di pronunciare una sola parola.
“Grazie”.
 
Le ordinazioni arrivarono e l’odore di fritto assalì il naso di Lee. Dopo quel momento in cui aveva sentito la tensione sciogliersi anche il suo stomaco si era aperto; guardò con fame negli occhi le patatine unte e croccanti. Le porzioni erano tutte abbondanti, anche quelle delle alette di pollo, e non riuscì a ricordare l’ultima volta che aveva visto così tanto cibo, che aveva potuto mangiare così tanto.
Mentre cenavano, gli fecero delle domande su di lui. Soprattutto Obito, che dei tre sembrava il più chiacchierone. I suoi capelli neri avevano striature d’argento, il viso aveva molte rughe di espressione, ma non sembrava vecchio. Gli chiese molte cose: da dove venisse, come fosse arrivato lì al Village, sui suoi genitori, quando aveva capito di essere gay… Lee rispose a tutte le domande, anche se alcune sentiva che erano troppo private. Ma quelle persone gli stavano spontaneamente offrendo un posto dove dormire quasi gratis, il minimo che poteva fare era essere sincero. Nessuno di loro parve però felice di scoprire come i suoi lo avevano mollato a un autogrill, lasciando che si arrangiasse. Rin aveva un’espressione di fuoco, quasi volesse andare a cercare i suoi genitori solo per dirgliene quattro.
Obito riuscì a spostare la conversazione anche su argomenti più leggeri, soprattutto quando nominò il basket, sport che Lee amava con tutto se stesso. Anche loro erano abbastanza appassionati da conoscere non solo le partite più famose. 
Durante tutta la conversazione rimase molto consapevole di Gaara al suo fianco e più di una volta ebbe la tentazione di intrecciare le loro mani sotto il tavolo, come avevano fatto i due uomini prima. Ma non lo fece, perché non osava correre il rischio di rovinare tutto.
La porta del ristorante si era aperta un paio di volte nel mentre, il locale si era riempito e il chiacchiericcio si era fatto più alto, ma ogni conversazione si interruppe quando venne sbattuta con forza. 
Lee si voltò come tutti, verso il ragazzo (o la ragazza?) che era entrato trafelato, tenendosi la milza con una mano; nell’altra reggeva degli stivaletti rossi con il tacco. Il suo aspetto generale era molto androgino, con il volto maschile, il petto piatto e la vita sottile, ma aveva abiti femminili e il trucco sul volto, i capelli ben pettinati.
“Mio fratello… non mi lascia…” ansimò annaspando tra una parola e l’altra.
Quel poco però dovette bastare, perché Mama schioccò le dita.
“Tranquilla, tesoro. Jack, nascondi Sasuke in cucina”.
Il cameriere scattò subito all’ordine, si avvicinò alla ragazza e l’accompagnò oltre le porte, lasciando per un momento che del vapore entrasse nella stanza. Mama si rimise ai suoi conti alla cassa e anche i frequentatori ripresero la conversazione da dove era stata interrotta. Il chiacchiericcio però aveva una sfumatura più nervosa rispetto a prima.
“Allora, Lee, dicevamo dei tuoi cinquanta canestri di fila” riprese Kakashi, gli occhi grigi puntati all’entrata come se fosse in attesa.
Lee cercò di riprendere il discorso, ma non ci volle molto che la porta venisse aperta una seconda volta. La persona che entrò assomigliava alla ragazza, ma ne era anche completamente diversa. Avevano gli stessi tratti del volto, una corporatura simile — come se fossero fratelli — ma l’uomo sulla soglia indossava abiti maschili molto seri, scuri ed eleganti. I capelli neri e lisci erano abbastanza lunghi da poterli raccogliere in una coda sottile.
Senza battere ciglio raggiunse la cassa. Anche se nessuno aveva smesso di parlare al suo arrivo, era ovvio che avesse l’attenzione di tutto il ristorante. Lee riuscì tranquillamente a sentire quello che disse a Mama.
“Cerco mio fratello, l’ho visto entrare qui”. 
La donna greca non alzò neanche lo sguardo dai suoi conti. “Non sapevo avessi un fratello” commentò velenosa.
L’uomo fece una smorfia. “Parlo di Sasuke”.
“Ah, tua sorella!” Scoccò la lingua sul palato mettendo enfasi sulla parola. “No, non è qui”.
“L’ho visto entrare qui” insistette.
“Ti sei sbagliato, allora, agente. Lei non è qui… giusto, ragazzi?” chiese alzando il tono della voce.
Ricevette più di un mormorio di assenso, tutti sostennero di non averla vista entrare, altri addirittura che non sapevano di chi stesse parlando.
Quell’uomo, un poliziotto, non parve affatto felice.
“So che è qui, non farmi perquisire il posto” minacciò.
Mama lo guardò con disprezzo. “Senza un mandato?”
“Posso averne uno” sussurrò, “visto la tua clientela”.
Lee vide Rin sussultare e fece per alzarsi, ma Kakashi la fermò aggrappandosi al suo posto. La tenne seduta, scuotendo la testa in avvertimento. Lo sguardo della donna si riempì di rabbia e frustrazione, ma obbedì all’implicita richiesta. Del resto Mama sembrava avere la situazione sotto controllo.
“E visto la mia clientela ho già pagato ai tuoi superiori la Brown bag Friday”. Gli puntò l’indice contro. “Questa settimana dovete lasciare in pace me e i miei figli, chiaro? Adesso fuori di qui!”
“Voglio solo parlare con Sasuke, sono suo  fratello” sibilò fra i denti.
“C’è un motivo se lei non vuole parlare con te. Fatti un esame di coscienza, agente”.
“Non potete dargli corda in questa pagliacciata, è ridicolo”.
Appena lo disse, molti frequentatori si alzarono di scatto dalle loro tavole, fissandolo minaccioso; anche Gaara lo fece, scatenando un sospiro di sconforto da parte di Kakashi, e Lee si ritrovò a imitarlo prima di pensarci. 
Mama fece un sorriso soddisfatto. “Ti conviene uscire, agente… Prima che succeda una vera pagliacciata”.
L’uomo strinse i pugni. “Sono dalla vostra parte, lo sapete, ma così vi scavate la fossa da soli”. 
Nonostante le sue parole, fece un passo indietro e distolse lo sguardo da Mama. Sembrava frustrato, esasperato e… depresso. “Fai sapere a Sasuke che lo sto cercando”.
“Ti cercherà lei quando lo vorrà” tagliò corto Mama, sottolineando ancora una volta il pronome femminile.
Il poliziotto sembrò voler insistere, ma alla fine rinunciò. Forse riconosceva che era una causa persa, o forse le persone che lo fissavano minacciose erano un monito sufficiente. Uscì dal locale, lasciando dietro di sé l’aria tesa. Gaara tornò a sedersi e Lee lo imitò, così molti altre frequentatori. Ma il chiacchiericcio di prima non riprese, tutti sembravano in attesa. Uno dei clienti vicino alla vetrata del locale stava sbirciando fuori, le spalle rigide. Dopo minuti interminabili si voltò a lanciare un segnò a Mama, solo a quel punto la donna lasciò andare un sospiro stanco. Annuì e i frequentatori sembrarono coglierlo come un segnale di via libera. Lentamente, un bisbiglio per tavolo, le conversazioni ricominciarono. 
Dalla porta della cucina uscì Jack, accompagnato da Sasuke. La ragazza sembrava esausta, con il trucco sbavato sulle guance in scie di lacrime. La fece sedere proprio su un tavolo vicino al loro e Lee poté osservarla meglio, doveva essere uno di quei travestiti che prendeva molto seriamente la propria espressione femminile. Era stato bello vedere come Mama l’avesse difesa con forza con l’altro uomo, mantenendo il punto.
Suo fratello… ricordò. 
Pensò alla propria famiglia e provò una grande empatia nei suoi confronti. Era così assurdo che le persone che sarebbero dovuto essere loro più vicine erano quelle che anche più li respingevano. 
“Dovremmo dirle qualcosa?” bisbiglierò Rin, lo sguardo triste.
Obito scosse la testa. “Sai com’è fatta, non apprezzerebbe”.
Lee osservò la ragazza mentre scacciava le scie di trucco sciolto dalle guance, passò le dita sulla frangia per darsi un aspetto più composto. Mama si avvicinò con un piatto di patatina fritte, ma Sasuke le declinò stancamente.
“Cos’è successo, tesoro?” chiese la donna materna, passandole delle salviettine.
Quelle vennero accettate. “Il solito. Stavo aspettando un Johnny, ma è arrivato Itachi e quando ha capito cosa stavo facendo lì…” sospirò. “Non vuole proprio lasciarmi in pace”.
“Quel Lily gira un po’ troppo in giro”. Tirò su con il naso con sdegno. “Non mi piace quanto si immischia”.
“Almeno non è uno di quelli che ci sbatte dentro” mormorò Kakashi tra sé.
“Magra consolazione” replicò Rin furiosa.
Lee lanciò un ultimo sguardo a Sasuke. Si stava alzando, nonostante i tentativi di Mama di farla restare. Aveva da fare.
Anche quando uscì dal ristorante rimase una piccola nuvola nera, quell’episodio aveva guastato l’umore a tutti.
Fissando la propria coca-cola, con Obito che tentava di fare riprendere il discorso su argomenti vari, Lee pensò che tutto quello non fosse giusto.
 
**
 
“Sì, abbiamo un letto solo. Abbiamo anche un bagno solo, ma riusciamo a gestirci”.
La stanza era in penombra, senza tende a lasciare che le luci dei lampioni della strada schiarissero l’interno. L’ambiente era disordinato, di quel tipo di disordine che avrebbe fatto impazzire sua madre. Il letto matrimoniale era sfatto, cuscini storti e le lenzuola spiegazzate a scoprire il materasso. C’era un altro materasso a terra e due sacco a pelo srotolati. Una valigia era aperta, riversando sul pavimento in una scia tutti i vestiti stropicciati. Le ante del piccolo armadio erano spalancate a mostrare il proprio buco nero; la scrivania era ingombra di oggetti vari, soprattutto trucchi, parrucche e collane a gioielli a buon mercato. Le scarpe seminate sul pavimento rendevano il passaggio un percorso a ostacoli.
Lee pensò fosse bellissima.
“Va bene” disse infatti, un po’ incredulo di poter dormire su un letto vero senza dover sopportare le mani di uno sconosciuto.
Da quello che aveva visto, la casa era stretta e si sviluppava su due piani. Un breve corridoio in entrata portava all’imbocco delle scale, al salotto e alla cucina; al piano superiore un altro breve corridoio collegava alle due camera da letto — la loro e quella dei tre adulti — terminando con un bagno un po’ angusto. Era spoglia, pochi mobili e pochi orpelli, ma già a primo sguardo si vedeva comunque il tentativo economico e spontaneo degli abitanti di rendere la casa più personale, sicuramente vissuta. In ogni caso, Lee avrebbe fatto un’esplorazione più accurata il giorno dopo, in quel momento si sentiva esausto.
Al momento la stanza era vuota, dei coinquilini nominati non si vedeva traccia. Nel piccolo soggiorno aveva intravisto una ragazza addormentata sul divano — Sakura se ricordava bene — sulla quale Kakashi aveva appoggiato teneramente un lenzuolo.
Senza porsi troppi problemi, Lee si slacciò le scarpe e le abbandonò sul pavimento deciso ad adeguarsi alle abitudini degli altri coinquilini. Si gettò di schiena sul materasso, un sospiro di sollievo coprì il cigolio delle molle vecchie sotto il suo peso. Tutta la stanchezza di quelle settimane al Village lo investì come un treno in corsa. Non era più abituato a un letto vero, per un momento credette di potersi addormentare all’istante.
Sentì uno smottamento accanto a sé e subito dopo avvertì le braccia nude di Gaara che sfioravano le sue. 
“Casa” mormorò semplicemente. 
Casa, ripeté mentalmente Lee troppo incredulo per rispondere. 
Voltò il capo, osservando il bel profilo di Gaara. Voleva ringraziarlo per la fiducia, per aver fatto da ambasciatore con i proprietari della casa, per averlo considerato un bravo ragazzo.
Di tutto quello che stava pensando, riuscì solo a chiedere: “Perché?”
Gaara non aveva bisogno di altro per capire.
“Tutti si meritano una casa” disse. Si voltò a propria volta, incatenando gli occhi chiari sui suoi. “E per sopravvivere in strada bisogna essere abbastanza cattivi. Tu non lo sembri”.
Corrucciò le sopracciglia, ancora confuso. Voleva chiedergli che cosa gli avesse fatto capire che lo meritava, perché lui e non altri; perché non il ragazzo che aveva sentito essersi gettato nel fiume qualche giorno prima. 
Ancora una volta non ebbe bisogno di dire nulla di tutto questo, Gaara capì semplicemente guardando la sua smorfia.
“La prima volta che ti ho visto, tu mi hai sorriso. Ma io ho fatto finta di non vederti”. Strinse le labbra in una scusa non detta. “Credevo fossi un Lilian… un poliziotto travestito”.
Lee rivide quella scena, ma sotto la nuova prospettiva. Si immaginò al posto di Gaara, che sembrava conoscere più o meno tutti i gay della zona, che incontrava uno sconosciuto che senza motivo gli sorrideva. Ripensò anche alla propria esperienza, quando per aver semplicemente risposto a un saluto era finito schedato, una notte in prigione. Poteva capire perché fosse stato così diffidente. 
Sentì l’amarezza inacidirgli lo stomaco. Come potevano in clima simile, in una diffidenza totale verso gli sconosciuti, potersi riconoscere e incontrare?
“Sono stato sorpreso di vederti al porto… Immagino di essermi sentito in colpa. Probabilmente eri appena arrivato, avevi bisogno di un amico per ambientarti e io ti ho ignorato. Ho voluto rimediare”.
Rimase davvero sorpreso, senza rendersene conto socchiuse la bocca. 
“Non era… necessario…” mormorò.
Gaara sorrise. “In realtà non l’ho fatto solo per quello”. Distolse lo sguardo, guardando il soffitto senza smettere di sorridere. “Ma anche perché eri carino”.
Un sorriso spontaneo nacque sulle labbra di Lee. Sentì le guance bruciare e ringraziò il buio per nascondere il suo rossore. Non gli andava di far vedere a Gaara che arrossiva come una scolaretta al primo complimento.
“Anche tu sei carino” replicò cercando di essere sfacciato. “È per questo che ti ho sorriso”.
Gli sembrò che l’espressione di Gaara si addolcisce. Sentì le sue dita fredde e lunghe cercare le sue più callose e calde. Ricambiò la stretta senza esitare.
“Sei troppo stanco?” gli chiese Gaara.
Esitò. “No, perché?” mentì alla fine, curioso e con il cuore che batteva più forte di prima.
“Potremmo andare allo Stonewall Inn”.
Allargò il sorriso. “Sì!” Dopo quella notte, non era più tornato. “È forte quel posto”.
“Mh, è un buco di merda” smorzò l’entusiasmo. “Ma è il posto migliore che abbiamo”.
“Possiamo ballare, lì” gli fece notare.
“Già, possiamo ballare” echeggiò. Si voltò a guardarlo e, anche nell’oscurità, Lee poté vedere quanto fossero chiari gli occhi di Gaara, come la luna fuori. “Balleresti con me?”
Le loro mani erano ancora intrecciate. Lee aumentò la stretta, mordendosi l’interno della guancia per l’emozione.
“Ogni notte” promise.
 
 
 
 
 
 
 
Note storiche:
Il ristorante citato esiste(va?) realmente, viene menzionato nel libro di David Carter come uno dei luoghi più sicuri per gli omosessuali nel Village. Anche il cameriere è un personaggio realmente esistito, nonché anche la persone che ha offerto la testimonianza nel libro. I dettagli che sono descritti, soprattutto quelli su Mama, sono tutti stati presi dalla sua testimonianza. 
Lee che chiama Sasuke travestito è sbagliato, lo so, ma storicamente necessario. La concezione di persona transgender/transessuale non era ancora molto diffusa, stava nascendo proprio in quel periodo, e la maggior parte di queste persone venivano semplicemente considerate come uomini gay che si travestivano, lesbiche butch, drag
queens/kings. Alcune persone più consapevoli conoscevano il termine e lo usavano, ma erano davvero una minoranza ristretta e Lee al momento non ha abbastanza informazioni sulle diverse sfumature queer per poter fare questa distinzione. Nel Village c’erano molti travestiti, molte queens, quindi vedendola la sta associando a questi modi di gender non conforming. Sa anche che queste persone prendevano molto seriamente la propria espressione femminile usando pronomi femminili, quindi non si pone il problema di quali usare. 
Johnny invece è un termine con cui vengono chiamati i clienti della prostituzione. Non so se è storicamente accurato che Sasuke lo usi in questo periodo (anni ’60) non sapendo quando è stato coniato. Cercando su internet ho trovato solo conferma di quello che sapevo già: termine molto diffuso nei paesi anglofoni per l’abitudine che avevano i clienti di presentarsi alle/ai prostitute/i come “John” per mantenere l’anonimato. Quindi sì: Sasuke stava intendendo che stava aspettando un cliente prima di essere beccata da Itachi e costretta a scappare.

 
 
Dovevo postare il continuo dopo una settimana, invece mi sono trovata nella cacca per un esame, mi sono presa il covid e poi sono andata in burn out di scrittura. RIP.
Doveva esserci un’altra ultima scena, ma non riuscivo a scriverla e stava passando troppo tempo. Quindi ho deciso di tagliarla, anche se così alcuni dei personaggi che ho citato nella scheda iniziale al primo capitolo non sono comparsi rip.
Mi rendo conto adesso che l’ho conclusa che questa fic più che una GaaLee vera e propria è una pre-ship, cioè il momento che appena precede il loro stare insieme. Spero sia stata apprezzata lo stesso.
Grazie come sempre per la pazienza con cui mi aspettate <3 Cercherò di non sparire per troppo tempo.
Un bacio,
Hatta.
 
 

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