Oneshots di coppia

di Azure_Owl
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Coccole (Martìn e Gabriel) ***
Capitolo 2: *** Rabbia (Leonard e Emil) ***
Capitolo 3: *** Ritrovarsi (Marcus e Walt) ***
Capitolo 4: *** Panico (Richard e Michael) ***
Capitolo 5: *** Rumore (Malik e Richard) ***
Capitolo 6: *** Bullismo (Aki e Mike) ***
Capitolo 7: *** Rissa (Samuel e Anthony) ***



Capitolo 1
*** Coccole (Martìn e Gabriel) ***


Era ancora mattina presto, ma c’erano già dei rumori che provenivano dalla cucina.

Martín si alzò dal letto, sbadigliando e tirandosi giù le maniche del maglione di Gabriel, che gli si

arrotolavano sempre intorno ai gomiti quando dormiva, e raggiunse la cucina.

“Come fai ad avere questa energia la mattina?” A Martín dava fastidio già il fatto che in cucina entrasse così tanta luce, l’idea poi di svegliarsi presto per cucinare andava oltre la sua comprensione.

“Buongiorno, Martín,” Gabriel sorrise quando Martín gli si avvicinò e gli diede un bacio. “ho pensato di fare qualcosa di speciale per i bambini.” Stava preparando dei pancakes, era la prima volta che Martín lo vedeva preparare qualcosa di dolce.

Martín lo abbracciò, appoggiando la testa sulla sua schiena, e chiuse gli occhi, muovendosi con Gabriel quando lui si spostava di qualche centimetro per tenere d’occhio tutto quello che c’era sui fornelli. Rimase appoggiato anche quando Gabriel si sporse per prendere i piatti. “Perché non torni a letto ancora un po’? Ci penso io ai bambini.” Martín mugugnò il suo disaccordo. Gabriel controllò che tutti i fornelli fossero spenti e si girò per guardare Martín negli occhi. “Stai bene?” Gli toccò la fronte, non era caldo né sembrava aver preso freddo. “Sto bene. Volevo stare un po’ con te…” Gabriel sorrise. “Beh, abbiamo ancora una ventina di minuti prima che i bambini si sveglino, vieni in salotto con me.” Gabriel adorava coccolare Martín sul divano, e sapeva che anche Martín adorava quei momenti.

“Ci sono momenti in cui sento come se non ti vedessi da anni.” Ammise Martín, ad occhi chiusi, appoggiato sulle gambe di Gabriel. “Io sono sempre qui,” Gabriel gli accarezzò il viso dolcemente. “e sicuramente non mi dispiacciono le espressioni d’affetto come quella di stamattina.” Entrambi faticarono a trattenere una risata.

“Provo più di semplice affetto per te, Gabriel.”

“È un sentimento reciproco.” Martín cercò ad occhi chiusi una delle mani di Gabriel, e quando la trovò se la rimise sulla guancia, sorridendo.

“Papà!” La voce di Alicia interruppe quel momento. Lei e il fratello erano entrati e avevano preso a correre verso di loro, per poi salire sul divano facendosi spazio come potevano. Diego si sdraiò in braccio a Martín,

che lo tenne per la vita, mentre Alicia andò a sedersi accanto a Gabriel. “Dai, è il momento della colazione!”

Esclamò Gabriel, un po’ dispiaciuto di dover interrompere quel momento. “Chi vuole scoprire cosa ho preparato di buono?” Entrambi i bambini si emozionarono alla domanda.

“Com’è possibile che tutti e tre abbiate così tanta energia appena svegli?” Si domandò Martín, tenendo stretto Diego e alzandosi con lui in braccio. Il bambino rise, e gli si appoggiò a una spalla. Gabriel prese per mano Alicia e tutti e quattro andarono in cucina.

“Buon appetito!” Raramente i due bambini avevano mangiato qualcosa di dolce a colazione, e non

lasciarono neanche una briciola di quello che Gabriel aveva preparato oltre ai pancakes.

Martín invece rimase a guardare i due per qualche istante, ma non mangiò. “Ehi,” Gabriel gli prese una delle mani con cui teneva le posate. “cosa succede? C’è qualcosa che non va?” Martín si sforzò di sorridere, e scosse la testa. “Ne parliamo dopo, bevi un po’ di te almeno.” Glielo versò nella teiera, ma Martín non si mosse. “Papà?” Diego iniziò a preoccuparsi per lui, dato che si era immobilizzato all’improvviso. “Che cos’ha papà?” Anche Alicia iniziava ad essere spaventata. “Scusate bambini,” Disse loro Gabriel, sperando di calmarli un attimo. “potreste tornare per cinque minuti in salotto?”

“Ma papà…”

“Alicia, per favore, porta tuo fratello di là, va tutto bene.” La bambina annuì in silenzio, prese per mano il fratellino, e lo portò via con sé.

“Perdonami… i bambini non dovrebbero vedermi così…”

“Non preoccuparti, a loro penseremo tra poco. Per favore, dimmi cosa ti succede.” Gabriel gli accarezzò la mano che stava ancora stringendo, e aspettò.

Martín, all’improvviso, iniziò a piangere, e si sporse per abbracciare Gabriel, che lo strinse a sé. “Va tutto bene, te lo assicuro. Non so perché mi sento così… è come se all’improvviso tutto fosse troppo per me.

Come se avessi paura di svegliarmi improvvisamente e rendermi conto che tutto questo non esiste

davvero...” Si allontanò di poco da Gabriel per guardarlo negli occhi. “Ma ti assicuro che non mi succede sempre. Non era mai successo così forte, non mi ero mai sentito come se mi mancaste così tanto…” Gabriel rimase in silenzio, e strinse di nuovo Martín a sé.

“Bambini, tornate qui!” Martín si agitò, ma Gabriel lo tenne stretto a sé fino a quando non vide i due bimbi tornare in cucina. “Venite qui, date anche voi un abbraccio a papà. Ha bisogno di questo in questo momento.” I due bambini corsero e si strinsero a Martín, come se da quel gesto dipendesse la loro vita.

“Che cosa ne dite, ce la prendiamo un’intera giornata a casa? O andiamo a prepararci per l’asilo?” Propose Gabriel, conoscendo già la risposta.

“Casa!” Esclamarono i bambini in coro.

“Bene, allora andiamo tutti sul lettone.” I bambini si allontanarono da Martín e corsero verso le camere, entusiasti.

“Gabriel, ma-“

Gabriel lo interruppe sorridendo, e si alzò. “Non preoccuparti, cosa sarà mai una mattinata di coccole?”

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Capitolo 2
*** Rabbia (Leonard e Emil) ***


Emil era nervoso da ore. Per tutta la giornata aveva parlato e agito con freddezza nei confronti di chiunque gli fosse capitato davanti.

Leonard l’aveva dovuto trascinare a casa, dieci minuti prima, dopo che lui aveva iniziato a litigare con il loro gruppo di amici.

“Che cosa ti prende oggi?” Una volta chiusa la porta di casa, Emil si era diretto senza esitazione verso la cucina, e Leonard l’aveva seguito, e si era seduto su una sedia, guardandolo in silenzio mentre apriva il frigo e si versava da bere.

“Emil.” Seduto su quella sedia, con un’espressione seria fissa sul compagno, Leonard sembrava più stanco del solito. Nonostante non avesse più problemi gravi con il sonno, non riusciva a liberarsi del pallore e delle occhiaie, ma ormai né lui né Emil ci facevano caso.

“Niente, fatti gli affari tuoi.” Emil gli aveva dato le spalle, aveva svuotato il bicchiere in un sorso solo, e l’aveva sbattuto sul bancone con forza.
“Se questo è niente, allora…”

“Lasciami in pace, Leo.” Emil fece per uscire dalla stanza, e prontamente Leonard si alzò e si allungò per afferrargli un polso e fermarlo.

In un batter d’occhio, Leonard si trovò bloccato tra il muro e Emil. Trattenne un gemito di dolore quando Emil gli portò una mano alla gola. Non lo stava stringendo, cercava solo di tenerlo fermo. “Non ti farò del male, ma voglio che mi lasci in pace.”

Leonard sorrise leggermente, sapendo che questo avrebbe fatto innervosire ancora di più Emil. “Ti faccio ridere?” Lo strinse leggermente più forte, e questo non fece altro che divertire Emil ulteriormente.

Restò al gioco per qualche secondo, poi si rilassò e spinse Emil contro la parete opposta. “Sono più alto di te, sono più forte di te, mi fa ridere che tu pensi di avere la meglio.” Si avvicinò a lui fino quasi a far toccare le loro labbra, e lo guardò dritto negli occhi. “Me lo dici cosa ti succede adesso?” La cosa che lo faceva divertire di più era che non lo stava neanche più tenendo fermo, Emil si era semplicemente arreso a lui.

“Mi da fastidio.”

“Cosa?”

Emil distolse lo sguardo e strinse i pugni. “Mi possono criticare quanto vogliono, ma non devono prendersela con te.”

“I nostri amici?”

“Non lo so, miei amici non sono.” Leonard lo osservò per qualche secondo, in silenzio, poi gli fece voltare la testa di nuovo, e si rimise dritto.

“Finché non vengono a dirmi niente di persona, a me non interessa di quello che pensano. Se hanno qualcosa di cui lamentarsi, sanno che possono farlo.”

“Non dovrebbero.”

“Usciamo con loro solamente per avere compagnia, dopotutto. Se loro non vogliono la nostra,” fece una pausa. “se non vogliono la mia, possono smettere di presentarsi quando ci diamo appuntamento.”

“Ma non è giusto. Vorrei soltanto prenderli e –”

“A me non interessa di loro, Emil. A me interessa di te. Non devi tenermi nascoste le cose in questo modo, perché me ne accorgo subito.”

Emil sbuffò.

“Forza, dimmi che lascerai perdere.”

Emil distolse di nuovo lo sguardo, e Leonard gli portò una mano sotto al mento per tenerlo fermo. “Emil.”

“Lascerò perdere.” Si arrese, alla fine, togliendosi la mano di Leonard di dosso. “Per ora.”

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Capitolo 3
*** Ritrovarsi (Marcus e Walt) ***


Pioveva ininterrottamente da giorni ormai.
Marcus Sullivan non aveva mai apprezzato la pioggia, perché non appena prendeva un po’ di freddo, doveva chiedere una settimana di malattia e riusciva a malapena ad uscire di casa. E odiava ancora di più essere ammalato. Il raffreddore non era niente, se aveva con sé un paio di pacchetti di fazzoletti poteva sopravvivere per qualche ora, ma la febbre e l’influenza gli impedivano di fare qualsiasi cosa.
Aveva appena spento la luce della cucina, stringendosi addosso il maglione per cercare di calmare i brividi che non lo tormentavano, quando sentì bussare alla porta d’ingresso.
La pioggia era così forte che Marcus quasi non ci fece caso, ma quando sentì il suono una seconda volta, andò a controllare.
Aspettò ancora un’istante. Era sera tardi, non aspettava nessuno, e per di più era malato, e avrebbe rischiato di passare l’influenza a chiunque ci fosse dall’altra parte.
Chiunque fosse però, era alla sua porta con quel brutto temporale, e Marcus non avrebbe lasciato fuori nessuno con quel tempo.
Si pentì però di aver aperto la porta appena vide chi era stato a bussare.
“Ciao Marc,” Marcus ebbe l’istinto di richiudere la porta immediatamente, invece rimase immobile, lasciando che l’aria fredda entrasse in casa senza farci caso.
“Che cosa…” …ci fai qui? Che cosa ti è successo? Marcus non sapeva cosa chiedere a quell’uomo che si ripresentava nella sua vita dopo anni di assenza.
“Mi dispiace, non sapevo dove andare. Posso entrare? Ti assicuro che entro domani mattina me ne sarò già andato.” Marcus si fece da parte, richiuse la porta d’ingresso e gli fece cenno di seguirlo.
“Aspetta qui un istante,” Gli disse, facendolo entrare in cucina, che era la stanza più calda della casa. “Ti porto un paio di asciugamani e dei vestiti asciutti.”
“Non preoccuparti, mi basta solo un asciugamano.” Rispose l’altro, sedendosi.
Marcus non lo ascoltò.

Una volta entrato in bagno si guardò allo specchio. Era pallido, ma allo stesso tempo sia le sue guance che il suo naso erano rosse per la malattia. Dietro gli occhiali, i suoi occhi stavano iniziando a cedere per la stanchezza, ma non era più sicuro che i brividi che gli percorrevano il corpo erano causati solo dalla febbre. Tossì, si sciacquò le mani e il viso, e prese un paio di asciugamani puliti dal mobile sopra al lavandino. Gli avrebbe portato prima quelli, dato che per i vestiti doveva salire in camera sua.
“Ecco, salgo un attimo a…” Quando Marcus entrò in cucina, non trovò l’altro uomo seduto dove l’aveva lasciato.
Appoggiò gli asciugamani sul tavolo e andò a cercarlo, trovandolo in salotto, intento ad osservare le foto che aveva appese alla parete del divano.
“Ti ho lasciato gli asciugamani in cucina. Salgo a prenderti dei vestiti.” Lo avvisò.
“Mi dispiace essermi perso tutto questo, sai?” Sentì, quasi in un sussurro, prima di voltarsi per uscire dalla stanza.
“Walt…”
“No, è colpa mia. Sono io che me ne sono andato, e ti giuro, non c’è stato giorno in cui io non mi sia pentito della mia decisione.” Ora era chiaro, Marcus non poteva più negarlo: i brividi non erano più dovuti al freddo.
“Vado a prenderti i vestiti.” Ripeté, impedendogli di dire altro. Salì le scale verso la sua stanza quasi correndo, scappando da ricordi che non voleva riportare alla luce, e il suo primo istinto fu quello di chiudersi in camera, andare a dormire, e fingere che gli ultimi minuti non fossero stati altro che un sogno. Ma non poteva farlo.
Quando scese a portargli i vestiti, Walt era di nuovo in cucina, con un asciugamano intorno alla vita e l’altro usato per asciugarsi i capelli, che sembravano ancora più lunghi di quanto Marcus li ricordasse ora che Walt si era sciolto lo chignon che aveva avuto poco prima.
Marcus rimase fermo per qualche istante, a guardarlo senza volerlo veramente, ma poi un colpo di tosse lo tradì.
“Li ho piegati. Non c’era bisogno che mi portassi i tuoi vestiti, ma ti conosco, e mi ricordo che ti danno fastidio le cose lasciate in disordine, quindi li ho appoggiati lì. Ti ringrazio.” Indicò la maglietta e i pantaloni bagnati che indossava prima e che ora erano piegati molto velocemente sul tavolo e si legò di nuovo i capelli in una coda semplice.
Marcus gli passò i vestiti asciutti e prese i suoi bagnati, spiegandoli. “Non si piegano i vestiti bagnati, non così almeno.” Walt sorrise, ma Marcus non lo vide farlo.
Uscì dalla cucina per andare a stendere quei due capi in bagno, e nel farlo, dovette tenersi per un istante al lavandino per fermare un capogiro.
“Con tutti i momenti che poteva scegliere per ripresentarsi alla porta dopo dieci anni, proprio questo…” Si disse, portandosi una mano alla testa e sperando che quella fitta passasse velocemente.

Quando tornò in cucina, Walt era di nuovo seduto al tavolo. Marcus lo raggiunse, dimenticando per un attimo gli asciugamani. Aveva bisogno di sedersi.
“Cosa ti è successo?” Gli chiese, dopo qualche secondo di esitazione.
“Sono stati degli anni difficili. Ho cercato di tornare più volte, ma più il tempo passava e più mi sentivo in colpa a ripresentarmi senza preavviso,”
“Non è quello che ti ho chiesto. Come sei finito a casa mia, sotto questa pioggia?”
Walt, che fino a un istante prima aveva tenuto lo sguardo fisso sul tavolo, ora lo alzò per guardare Marcus negli occhi. “Non ho una casa. Avevo chiesto a mia sorella se poteva ospitarmi per qualche giorno, ma quando sono arrivato qui, non ha voluto neanche aprirmi la porta.” Iris era sempre stata così. Marcus, anche se non era ancora sicuro se lasciarlo entrare fosse stata la scelta giusta, non l’avrebbe mai chiamato per poi voltargli le spalle, nemmeno dopo che Walt le aveva voltate a lui.
Si alzò di scatto. La sua testa ne risentì, ma cercò di non pensarci.
Non avevano bisogno di discutere di nulla. Avrebbe lasciato dormire Walt nella stanza degli ospiti e lui se ne sarebbe andato la mattina dopo. Se nemmeno lui era cambiato in tutti quegli anni, Walt era un uomo di parola.
“È tardi. Stavo andando a dormire prima che arrivassi. Tu puoi restare nella stanza degli ospiti per stanotte.” Walt non ribatté, si alzò e seguì Marcus in silenzio.
Gli asciugamani rimasero sul tavolo, appallottolati.
La casa di Marcus non era molto grande, ma era piena di spifferi. In cucina aveva risolto il problema coprendo tutti i punti da cui poteva entrare l’aria, e con il forno e i fornelli non era tanto difficile scaldare la stanza. La sua camera, quando la porta restava chiusa, tratteneva il calore allo stesso modo, mentre le scale e i corridoi, essendo molto vicini alla porta d’ingresso, erano i più freddi. Marcus ricominciò a rabbrividire in un attimo quando salirono verso le camere.
Quando arrivarono in cima. si appoggiò al corrimano, tossendo di nuovo, e Walt si preoccupò per lui e gli si avvicinò.
“Va tutto bene… ho solo preso freddo.” Disse Marcus, allontanandolo.
“Non serve essere così orgoglioso,” Gli disse Walt, avvicinandosi di nuovo. Gli si mise davanti e gli appoggiò una mano sulla fronte.
“Sei bollente,”
Marcus si tirò indietro. “Tu hai le mani gelate.”
Walt si scusò. “Non ti è mai piaciuto il freddo.”
“Non mi è mai piaciuto stare male.” Aggiunse Marcus, pentendosene immediatamente.
“Vai a riposare. Ti ho già disturbato abbastanza.”
Marcus annuì. Non si reggeva più in piedi, e non aveva intenzione di chiedere aiuto, non a Walt.
“Ci sono delle coperte sul letto, ma se hai ancora freddo, ce n’è un’altra nell’armadio. Se poi richiudi la porta, non dovrebbe entrare troppo freddo.” Walt annuì, e Marcus si voltò per andare verso la sua stanza.
“Marc,” Lo richiamò Walt, qualche istante dopo.
Marcus si girò, vedendo Walt fermo davanti alla porta chiusa della stanza degli ospiti. “grazie.” Si limitò a dire, prima di entrare nella stanza e richiudersi la porta alle spalle.
Marcus rimase fermo per un paio di minuti, poi entrò anche lui nella sua stanza.

Pensava che, una volta a letto, si sarebbe addormentato subito, invece, quando Marcus si era seduto sul letto, era stato colto da un pianto improvviso e silenzioso.
Era arrabbiato con Walt. Aveva cercato di dimenticarlo per così tanto tempo, lui se n’era andato senza dire niente, mandando in fumo ogni tipo di progetto che avevano fatto insieme.
Non bastava che lui fosse tornato, non bastavano le sue scuse. Non sarebbero dovute bastare.
Cinque minuti dopo, Marcus era di nuovo in corridoio. Bussò alla porta della stanza degli ospiti, e la aprì.
Nemmeno Walt dormiva. Era in piedi, davanti alla finestra, e si era girato sentendolo entrare.
“Che succede?” Chiese, confuso.
“Succede che sto per fare una cosa di cui sicuramente mi pentirò più tardi.” Rispose, rigido.
Con qualche passo raggiunse Walt, e lo strinse a sé. Non riuscì a trattenere i singhiozzi questa volta.
“Marcus,”
“Stai zitto. Non dire neanche una parola.” Lo interruppe, severo.
Walt obbedì, e lo strinse a sua volta, accarezzandogli la schiena e aspettando che si calmasse.
“Non posso perdonarti.” Gli disse Marcus, dopo qualche minuto di silenzio.
“Lo capisco…”
“Puoi restare però.” Aggiunse Marcus, sciogliendo l’abbraccio e sfregandosi il viso per asciugare le lacrime. Solo in quel momento si accorse di aver lasciato gli occhiali nella sua stanza. “Finché ne avrai bisogno. Ti chiederò soltanto di darmi una mano con le faccende.”
“Farò del mio meglio.” Promise Walt, poi sorrise debolmente. “Mi sei mancato.” Marcus fu scosso da un altro brivido. Non sapeva se abbracciarlo di nuovo, arrabbiarsi o tornare in camera sua.
“Non saremo altro che coinquilini da domani mattina.” Gli disse, decidendo di andarsene.
Walt lo fermò afferrandogli una mano. “Da domani mattina.” Ripeté. Quando Marcus tornò a voltarsi, Walt gli appoggiò l’altra mano sulla guancia e lo baciò.
“Ti odio.” Disse Marcus, guardando verso il basso e sorridendo suo malgrado.
“Farò del mio meglio.” …per farti cambiare idea, per farmi perdonare, per provarti che sono cambiato.

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Capitolo 4
*** Panico (Richard e Michael) ***


“Dai, dobbiamo consegnarlo entro lunedì. Perchè non è ancora pronto? Pensavo che voi sfigati finiste sempre i compiti in anticipo.” Richard aveva seguito Michael per tutto il corridoio, restando a un paio di passi di distanza da lui, e non aveva smesso di fargli domande. “Vuoi prendere un'insufficienza?” Michael aveva continuato a camminare dritto verso il bagno, e Richard stava iniziando a perdere la pazienza. “O vuoi vendicarti facendola prendere a me un’insufficienza.” In un attimo, Richard aumentò il passo e lo raggiunse, stringendogli una spalla per fermarlo.

“Lasciami.”

“Non vedo perché dovrei ascoltarti, tu non lo stai facendo.” Gli strinse ancora più forte la spalla, e Michael si fermò all’improvviso, facendo quasi inciampare Richard. Lui si sarebbe lamentato, avrebbe trovato un altro modo tra i tanti di insultare quel ragazzo che gli stava tanto antipatico, se solo non avesse visto la sua espressione. “Che ti succede adesso?” Senza lasciare la spalla di Michael gli si parò davanti, abbassandosi per guardarlo negli occhi infastidito.

“Lasciami, voglio solo andare in bagno…”

Richard rimase immobile per qualche istante, pensando a come fare per infastidirlo ulteriormente, ma alla fine lo lasciò e si fece da parte, restando fermo in corridoio mentre Michael raggiungeva il bagno.

Lo seguì comunque, non intenzionato ad arrendersi, ed entrò nel bagno qualche minuto dopo di lui.

“Smettila, ti prego,” Sentì dire a Michael, che lo aveva visto ancora prima che lo vedesse Richard. “il compito è quasi finito… entro lunedì sarà pronto. Ho solo bisogno che tu mi lasci in pace.”

Richard rimase fermo di nuovo a guardare Michael, che se ne stava in un angolo del bagno, seduto sul pavimento con la testa nascosta sulle ginocchia. Se la sua voce non fosse bastata per capirlo, il suo corpo non cercava neanche di nascondere un forte tremore che l’aveva colpito all’improvviso e che lui non riusciva a controllare.

“Non c’è bisogno di fare tutta questa scena per un compito…” Richard non sapeva bene come comportarsi. Non aveva idea di cosa stesse succedendo al compagno né di cosa potesse fare per aiutarlo. Non voleva neanche provare ad aiutarlo in realtà. Era solo uno che esagerava per stare al centro dell’attenzione. Dentro di sé però Richard sapeva che non era veramente così, e questo gli impediva di uscire da quel bagno e lasciare Michael da solo.

“Cosa… posso fare?” La domanda fu ignorata e sembrò patetica anche alle stesse orecchie di Richard, che si sentiva sempre più nervoso.

Fece un passo in avanti, e Michael si irrigidì istantaneamente, portandosi una mano sulla spalla che lui gli aveva toccato pochi minuti prima.

“Ehi, che ti succede? Se continui a ignorare le mie domande non andiamo da nessuna parte.”

Michael alzò la testa per guardarlo, ancora disperatamente stretto a se stesso e alla sua spalla. “Scusami, il fatto è che quando mi sento così mi agito se qualcuno mi tocca…”

Richard alzò un sopracciglio, incerto se credergli o meno. “Ti serve qualcosa? Dell’acqua? Una medicina?”

Michael scosse la testa. “Di solito passa subito…”

“Bene.” Richard si guardò alle spalle, quasi convinto che, da un momento all’altro, uno dei loro compagni sarebbe entrato in quel bagno e avrebbe spezzato quell’atmosfera di disagio che si era creata, ma non entrò nessuno. “Possiamo aspettare anche per tutto il pomeriggio per quanto mi riguarda.” Richard sbuffò e si sedette a sua volta sul pavimento, con Michael che lo guardava come se si aspettasse letteralmente qualsiasi altra azione da parte sua e non quella. “Smetti di fissarmi in quel modo. Non ho nulla da fare, e al momento tu sei più importante delle lezioni.” Quasi non si accorse di quello che aveva detto, ma fu veloce a correggersi. “Non ho intenzione di prendere un’altra insufficienza lavorando con il secchione della classe, okay? Quindi devi riprenderti.” Poi sospirò, cercando di concentrarsi su qualsiasi cosa che non fosse Michael. “Farò anche io una parte. Sarà più semplice collaborare.”

Richard intravide Michael muoversi leggermente in silenzio, e non si accorse che gli aveva fatto un piccolo sorriso.

“Forza. Ci sono migliaia di posti più comodi del bagno per perdere tempo. Possiamo andare da qualche altra parte?” Richard si alzò, incapace di rimanere fermo ad aspettare come aveva detto pochi istanti prima. “In un posto meno freddo magari, qui si gela.” Questa volta, Richard vide chiaramente Michael rilassarsi leggermente e rilasciare la presa che aveva mantenuto sulla sua spalla per tutto quel tempo.

“Ti offendi se ti do una mano ad alzarti?” Richard era sollevato all’idea che Michael si fosse ripreso senza troppi problemi.

Gli porse una mano e tirò quando Michael la strinse, facendolo alzare. “Forza, usciamo di qui.”

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Capitolo 5
*** Rumore (Malik e Richard) ***


A Richard non piaceva l’idea di stare fuori casa a pochi minuti dalla mezza notte, ma c’era Malik con lui. Gli aveva promesso che l’avrebbe riportato a casa se Richard si fosse sentito troppo a disagio, quindi lui poteva resistere ancora un po’.

Malik però si era allontanato da qualche minuto per salutare degli amici, e Richard stava camminando sul lungofiume, cercando di allontanarsi il più possibile dalla folla che festeggiava. Aveva scritto a Malik che si allontanava, ma non aveva ancora ricevuto risposta. Mancavano poco più di dieci minuti, dov’era finito?

Ad un certo punto, Richard trovò una panchina abbastanza lontana da tutti i ragazzi che festeggiavano, e ci si sedette. Non c’erano tante persone intorno a lui, Malik l’avrebbe visto subito. Nell’attesa, Richard pensò di distrarsi con della musica, ma cercando nelle tasche si accorse di non avere gli auricolari con sé. Forse li aveva presi Malik. Dov’era finito?

Pensò di chiamarlo, ma sarebbe stato inutile. Richard non riusciva a sentire neanche i suoi pensieri in quel casino, era impossibile che Malik sentisse il cellulare suonare. Mancavano meno di cinque minuti a mezzanotte. Le prime urla di gioia, e i primi brindisi cominciarono a sentirsi, e Richard cominciò a pentirsi di aver accettato l’invito di Malik quella sera.

Si alzò dalla panchina e si allontanò ancora. Malik aveva visto il suo messaggio, fortunatamente, e l’avrebbe raggiunto. All’improvviso, un gruppo che non aveva notato lanciò un petardo colorato a pochi metri da Richard, che si agitò, ma continuò a camminare lontano da tutti.

Mise via il telefono, e si portò le mani alle orecchie, per cercare di coprirle. Mancavano meno di due minuti a mezza notte. Sentì il conto alla rovescia gridato da decine di voci, e premette le mani sulle sue orecchie ancora più forte. Non servì a molto, perché il primo fuoco d’artificio che sentì a mezzanotte, lo fece sobbalzare. Doveva allontanarsi dal lungofiume. Forse tra le vie i festeggiamenti sarebbero stati più tranquilli. Forse quei rumori così forti si sarebbero sentiti meno. Richard corse sul marciapiede che costeggiava il lungofiume, troppo agitato per controllare se Malik gli avesse risposto. Non era sempre così sensibile, ma forse il petardo che era scoppiato a pochi metri da lui era stato troppo. Non se lo aspettava, e questo l’aveva turbato più di tutto.

Per strada c’erano diversi ragazzi che accendevano stelline colorate. Richard si fermò a guardare loro, con le orecchie ancora tappate. Le stelline erano belle, sfrigolavano, non facevano rumori forti e improvvisi. Qualche attimo dopo, Richard si sentì più tranquillo, e riprese il telefono per controllare i messaggi. Malik gli aveva scritto che l’avrebbe raggiunto in un attimo, e lui lo aggiornò dicendogli che era tornato sulla strada, nella via dei negozi. L’avrebbe aspettato lì.

Mise via il telefono un’altra volta, e tornò a guardare i ragazzi con le stelline colorate. Era tentato di chiedere loro se poteva averne una anche lui, ma non lo fece. Non si sentiva abbastanza coraggioso per andare a parlare con degli sconosciuti.

Nonostante Richard avesse ancora le orecchie tappate, un altro scoppio lo fece spaventare di nuovo. Lo stesso gruppo di ragazzi di qualche minuto prima aveva lanciato un altro petardo verso il fiume. Nonostante lui si fosse allontanato, quel rumore era ancora troppo forte. Spaventato, Richard fece qualche passo indietro, con le mani ancora premute contro le orecchie, e quasi inciampò sulla gamba di un ragazzo seduto.

“Scusami…” Gli disse, sperando di non avergli fatto male e cercando di allontanarsi per tornare davanti ai negozi che aveva indicato per messaggio a Malik. Il ragazzo però si alzò e lo seguì.

“Dove credi di andare?” Richard non lo sentì, e continuò a camminare fino a quando questo non lo afferrò per la giacca, facendolo quasi cadere all’indietro. “Che problema hai, che giri tremando e con le orecchie tappate come un idiota?” Richard esitò a rispondere, a disagio, e questo si alterò ancora di più, spintonandolo per ottenere una risposta. Era chiaramente ubriaco, e Richard non aveva idea di cosa fare. Era troppo terrorizzato per reagire in un modo qualsiasi.

“Sto… aspettando una persona. I rumori mi danno fastidio, per questo ho le orecchie tappate. Non volevo urtarti prima, mi dispiace…” Ma l’altro ragazzo non lo stava ascoltando. Gli diede un’altra leggera spinta, quasi divertito, e Richard cominciò a indietreggiare. “Allora sei anche stupido, oltre che idiota! Perché sei qui se hai paura? La mammina ti ha obbligato a venire?” In quel momento, una ragazza intervenne e lo prese per un polso. “Dylan, smettila. Non è successo nulla.” Richard ne approfittò per girarsi e controllare se vedeva Malik arrivare, ma ricevette una spinta così forte che lo fece cadere a terra. “Dylan!” Il ragazzo ormai non ascoltava più nessuno. Sembrava ostinato a infastidire Richard per qualche motivo, e né lui né la ragazza riuscivano a fermarlo.

“È colpa sua. Mi è venuto addosso. È patetico, non dovrebbe stare qui.” Tirò un calcio a Richard prima che la ragazza riuscisse ad impedirglielo. “Matt! Aiutami, non startene lì a dormire!” La voce della ragazza era disperata, e nessuno dei suoi tentativi di fermare Dylan riuscì ad impedirgli di prendersela con Richard.

“Ehi, tu!” Richard ormai era accasciato sul pavimento del marciapiede, tremante e raggomitolato per cercare di attutire al meglio i colpi che stava ricevendo dall’altro ragazzo. Ogni fuoco d’artificio ormai gli faceva saltare un battito. “Fermati! Chiamo la polizia ora!” La voce di Malik si fece chiara quando lui si avvicinò e spinse via Dylan. La ragazza riuscì a fermarlo prima che se la prendesse anche con Malik.

“Qualsiasi siano i tuoi problemi, non sarà certo ubriacandoti e facendo rissa che li risolverai!” Gli disse Malik, per poi andare a soccorrere Richard. “Ehi, Richard, perdonami, non avrei dovuto lasciarti da solo…” Cercò di farlo mettere seduto, ma per qualche istante Richard oppose resistenza. “Richard, va tutto bene, te lo assicuro. Sono qui ora, guardami.” Richard mosse leggermente la testa e aprì gli occhi per guardarlo. “Devo portarti via da qui, e controllare quelle ferite, riesci ad alzarti?” Richard si tirò su, ma rimase seduto. Cadendo si era ferito a un gomito, e Dylan l’aveva colpito in diversi punti che ora gli facevano male. E i fuochi d’artificio non erano ancora finiti.

“Okay, una cosa per volta,” Malik portò le mani alle orecchie di Richard e le coprì di nuovo, tenendogli la testa leggermente stretta e accarezzandola con i pollici. Richard non smise di guardarlo neanche per un secondo. In qualche istante, riuscì a sincronizzare il suo respiro con quello di Malik, e a calmarsi un po’. Meglio? Gli chiese Malik, senza togliergli ancora le mani dalle orecchie. Lo fece soltanto quando Richard annuì.

“Okay, ora ti aiuto ad alzarti.” Fu più difficile del previsto. Richard ancora tremava, e perdeva sangue sia dal gomito che fa un ginocchio. Ogni movimento leggero gli faceva male. “Ragazzi,” La ragazza che aveva cercato di fermare Dylan prima tornò vicino a loro. “vi chiedo ancora scusa per Dylan, di solito non è così, ma da il peggio di sé quando beve.”

Malik rise infastidito. “Non dovrebbe bere allora, o almeno dovrebbe farlo lontano dalle altre persone.” Un po’ si dispiacque quando la ragazza abbassò lo sguardo, ma non aggiunse altro e portò Richard via da lì.

“Perdonami, è stato maleducato da parte mia lasciarti da solo per tutto quel tempo. Volevo che fosse un bell’appuntamento, e invece ti ho solo causato problemi…” Lentamente, i due erano riusciti a raggiungere la macchina, e ora stavano tornando verso casa.

“Non importa. È tutti finito. Solo, non chiedermi più di uscire a Capodanno.” Richard cercò di ridere per sdrammatizzare, ma non riuscì. “Invece, hai preso tu i miei auricolari?”

Malik ci pensò un attimo, poi scosse la testa. “No, devi averli lasciati a casa. Però metti pure una canzone sullo stereo della macchina, non mi da nessun fastidio.”

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Capitolo 6
*** Bullismo (Aki e Mike) ***


I genitori e gli amici di Aki si erano riuniti all’aeroporto per l’arrivo di Aki.

Non vedevano l’ora di rivederlo dopo il mese di ritiro sportivo che lui aveva passato a Sydney con la squadra di nuoto, e non doveva mancare molto all’atterraggio.

Gli amici di Aki si erano presentati quasi inaspettatamente davanti alla casa dei suoi genitori per andare a prenderlo tutti insieme, e avevano chiesto ai due se potevano portarlo fuori a cena.

“Lo riporteremo a casa in un batter d’occhio!” Aveva assicurato Sheba, considerando il fatto che loro volevano passare del tempo con l’amico tanto quanto i suoi genitori.

I due avevano accettato volentieri. Sapevano che anche ad Aki avrebbe fatto piacere passare del tempo con i suoi amici, e poi loro sarebbero stati contenti di sapere tutto quello che il figlio aveva fatto di bello in quel mese il giorno dopo.

Quando l’aereo fu atterrato, e i passeggeri cominciarono a riversarsi all’uscita dell’aeroporto, Anja fu la prima a vedere l’amico. “Bentornato!” Gli fece cenno con una mano, per attirare la sua attenzione, e quasi si mise a saltare, entusiasta.

Aki li raggiunse, sorpreso che fossero tutti lì ad accoglierlo.

“Sorpresa!” Esclamò Sheba. “Siamo venuti qui per portarti fuori!” Il ragazzo lo affiancò e gli mise un braccio intorno alle spalle, ma Aki si ritirò in fretta, con un sorriso di scuse.

“Cosa avete in mente?” Chiese agli amici, andando a salutare anche i suoi genitori, che gli presero i bagagli.

“Niente di impegnativo.” Mike si fece avanti, sorridente, e Aki fu felice di vederlo. “Abbiamo pensato di andare a mangiare qualcosa insieme, poi ti riaccompagniamo a casa.”

“Posso andare?” Chiese Aki, rivolto ai genitori.

“Certo.” Gli assicurò suo padre.

“Ci vediamo a casa.” Aggiunse sua madre. “Divertitevi ragazzi.”

 

Quando arrivarono in paese, il sole era tramontato da poco, e i lampioni sul fiume si accesero proprio quando i quattro ragazzi ci passarono accanto.

“Sono felice che tu sia tornato!” Esclamò Anja, iniziando a correre spensierata. “CI sei proprio mancato!”

“Non correre!” La riprese Mike, ridendo. “Il ristorante sarà lì anche quando arriveremo!”

A differenza dell’amica, lui non aveva intenzione di allontanarsi troppo da Aki, ed era rimasto indietro a camminare lentamente al suo fianco. Allungò una mano verso di lui, ma Aki mise le sue in tasca, continuando a guardare davanti a sé.

“Siamo davvero contenti che tu sia tornato, sai?” Gli disse, ignorando il suo gesto. Ali non era mai stato espansivo, e Mike cercava sempre di rispettare i suoi spazi. “Avrete del tempo libero prima della gara?”

Aki si girò di scatto verso Mike, come se avesse improvvisamente ricordato qualcosa. “No. Voglio dire, si, scusa.” Rispose, quasi balbettando. “Abbiamo qualche giorno prima di riprendere con gli ultimi allenamenti. La competizione è a fine mese.”

“Non vedo l’ora di venire a vederti.” Ammise Mike. Aki era sempre stato molto bravo. A tredici anni aveva vinto il suo primo argento in un campionato, per la sezione dei ragazzi, e crescendo non aveva fatto che migliorare.

“Ragazzi, mi sa che dovremmo aspettare un po’.” Sheba fu il primo a vedere la lunga fila davanti al ristorante in cui volevano andare. Non capitava spesso di trovarlo pieno, ma in giornate serene come quella molte persone, a quanto pareva, dovevano pensare a quel posto per passare una bella serata in compagnia. “Spero che voi non siate troppo affamati.”

Anja rallentò, la sua allegria sembrò spegnersi leggermente. “Non è giusto, dovremo aspettare un’eternità!”

Sheba ridacchiò, e la raggiunse. “Stai tranquilla, con la nostra compagnia vedrai che un’eternità passerà in un istante.”

Alla vista di quella folla invece, Aki si fermò. Mike si accorse solo qualche secondo sopo che non era più al suo fianco.

“Aki, va tutto bene?” Gli chiese, preoccupato.

Aki non rispose subito.

“Non dobbiamo fermarci qui se non ti va.” Gli disse Mike, cercando di rassicurarlo. Sheba e Anja tornarono indietro, cercando di capire perché i due amici si erano fermati. “Ci sono altri posti in cui mangiare.”

Aki esitò, con uno sguardo che Mike non riuscì a capire. “No, va bene. Non è un problema l’attesa. Non mi aspettavo che ci sarebbero state così tante persone a quest’ora.” Disse, riprendendo a camminare.

“Vero.” Concordò Sheba. “Saranno venuti tutti qui per festeggiare il tuo ritorno!” Aggiunse, scherzando.

Aki ridacchiò, a disagio.

Mike riprese a camminare solo un paio di secondi dopo. Non chiese nulla ad Aki, ma continuò ad osservarlo. Si stava comportando in modo strano, Mike sperava che non fosse successo niente di grave.

 

I quattro ragazzi furono fortunati due volte. La prima perché non dovettero aspettare più di tre quarti d’ora per entrare. Era tanto tempo, ma tra una chiacchiera e l’altra, Sheba aveva avuto ragione, quasi non ci avevano fatto caso. La seconda perché non arrivarono molte persone dopo di loro, quindi quando riuscirono a entrare, il ristorante si rivelò più tranquillo del previsto.

Quando le loro ordinazioni arrivarono, Aki si fece silenzioso. Iniziò a mangiare, senza quasi ascoltare quello che gli amici si stavano raccontando accanto a lui.

Stavano ridendo di qualcosa, e in modo giocoso, Sheba e Anja iniziarono a bisticciare e a punzecchiarsi, rubando del cibo dai rispettivi piatti e spostandoli all’improvviso in modo che le posate dell’altro finissero per ritrovarsi a toccare la tovaglia invece che il cibo.

Quando li vide comportarsi in quel modo, Aki prese a mangiare più velocemente, finendo in un attimo quello che aveva davanti.

“A quanto pare non ero l’unica ad avere fame.” Commentò Anja, divertita.

“Dopo tutti gli allenamenti e il viaggio, anche io divorerei qualsiasi cosa,” Fece Sheba, mettendo giù le posate per pulirsi la bocca con il tovagliolo. “e il cibo qui è sempre buonissimo.”

Aki però non li stava più ascoltando. Arrivato alle ultime forchettate, stava cercando quasi ossessivamente di prendere gli ultimi piselli senza farli ricadere sul piatto.

Mike si preoccupò per quel comportamento, e allungò una mano per afferrargli il polso, bloccando i suoi movimenti. Aki si tese all’istante.

“Cosa ti succede, Aki? Mi sto preoccupando.”

Sheba e Anja si fecero improvvisamente seri, non capendo cosa stava succedendo.

Aki era rimasto immobile, con lo sguardo basso verso il piatto e la forchetta ancora stretta nella mano.

“Stai bene?” Gli chiese Sheba, che non aveva mai visto nessuno in quello stato.

“Scusatemi,” La voce di Aki uscì quasi in un sussurro.

“Non devi scusarti, Aki. Noi stavamo scherzando. Non c’è niente di male nell’essere stanchi o affamati.” Anja si alzò per andarsi a sedere accanto ad Aki, e allungò una mano verso la sua spalla.

Aki si ritrasse con uno scatto.

A quel punto, la preoccupazione di Mike raggiunse un livello superiore. Costrinse le dita di Aki ad aprirsi, lasciando cadere la forchetta, e lo fece alzare. “Scusateci.” Disse ai due amici. “Torniamo subito.” Sheba e Anja annuirono in silenzio, confusi, e li guardarono dirigersi verso l’uscita del ristorante.

 

“Per favore, dimmi cosa ti è successo.”

Mike aveva portato Aki in una vietta poco lontana, dove non passava nessuno. Non l’aveva più sfiorato, ma era rimasto davanti a lui, a pochi passi di distanza.

“Sono solo stanco.” Provò a giustificarsi Aki, senza alzare lo sguardo da terra.

“Sappiamo entrambi che non è vero.” Ribatté Mike, aspettando paziente e sperando che Aki decidesse di dirgli la verità.

“Sai che a me puoi dire tutto.” Gli disse, abbassando la testa e avvicinandosi per guardarlo negli occhi. “È da quando sei arrivato che ti comporti in modo strano. Non ho idea di quello che ti è successo in queste settimane, ma ti ascolto. Non tenerti tutto dentro in questo modo.”

Aki ricambiò il suo sguardo per un istante, poi decise di dirgli la verità. “Non è stato facile passare un mese con quei ragazzi.” Ammise, a fatica. “Non mi sono mai trovato bene nella nuova squadra, ma passare tutto quel tempo anche con i membri delle altre squadre è stato ancora peggio.”

“Gli allenatori restavano con noi soltanto quando eravamo in piscina o in cortile ad allenarci, quindi i ragazzi più grandi avevano tutto il tempo e le occasioni per fare quello che volevano.” Il ritiro era soltanto per le squadre di ragazzi maggiorenni, quindi probabilmente gli allenatori contavano sulla loro responsabilità.

“Così, da un giorno all’altro, i più grandi hanno iniziato a prendersela con noi.” Aki distolse lo sguardo. “Quando hanno capito che alcuni di noi non sapevano come difendersi, hanno iniziato a fare di tutto per renderci il soggiorno difficile.” Aki si strinse le braccia al petto, cercando di non tremare. Mike avrebbe voluto fare qualcosa, ma sapeva che se l’avesse interrotto, o se l’avesse sfiorato, Aki non gli avrebbe più detto nulla, quindi aspettò, a un paio di passi da lui, pronto a sostenerlo qualsiasi cosa fosse successa.

“All’inizio si limitavano a commentare tra loro alcune delle nostre caratteristiche. Si divertivano a ridere di chi portava gli occhiali, di chi era troppo lento o troppo basso, e di chi, come me, sembrava troppo esile per aver vinto così tante medaglie.” Era vero che Aki era sempre stato molto più esile di altri nuotatori, ma questo non lo aveva mai ostacolato. “Abbiamo provato ad ignorarli, cercando di stare tra noi e di conoscerci a vicenda per passare al meglio quel tempo, ma poi loro hanno iniziato a prendersela davvero con noi.” Quando Mike lo vide rabbrividire, allungò istintivamente una mano verso di lui, e questa volta, Aki la afferrò e la tenne stretta.

“Cercavano sempre di unirsi a noi, fingendosi amichevoli, mettendoci le braccia attorno alle spalle, dandoci pacche sulla schiena, e più dicevamo loro di andarsene, più loro continuavano a tornare ad infastidirci.” Aki fece una pausa, tanto che Mike pensò che non avrebbe aggiunto altro. Invece Aki strinse leggermente la sua mano, e proseguì. “C’erano sere in cui, se non mangiavamo velocemente, non mangiavamo. All’improvviso loro si alzavano dal loro tavolo, venivano al nostro, e ci toglievano il piatto da davanti, buttandone il contenuto. Ci sono stati giorni interi in cui non siamo riusciti a toccare cibo, e i membri delle altre squadre lo sapevano, ma non hanno mai fatto nulla per aiutarci. Alcuni di loro si divertivano a prendersela con noi allo stesso modo.” Mike lo guardò, capendo finalmente perché si era comportato in quel modo per tutta la sera. “Ho paura di cosa potrebbe succedere al prossimo allenamento.” Ammise Aki, concludendo.

Mike non riuscì più a stare fermo, e portò una mano dietro la testa di Aki, avvicinandolo a sé e stringendoselo al petto. “Mi dispiace che tu abbia dovuto passare un mese intero con quegli animali.” Gli disse, a bassa voce, furioso. “Devi parlarne con i suoi genitori. Dopo resterò con te. Non voglio che tu rimanga in squadra con loro.”

Mike sentì Aki singhiozzare, e fece del suo meglio per tranquillizzarlo, tenendolo stretto e accarezzandogli la schiena.

“Non credo di voler continuare con il nuoto, per il momento.” Ammise Aki, sottovoce.

Mike annuì, spostandosi per asciugargli le lacrime e guardarlo negli occhi. “Non sei costretto a fare nulla che ti faccia star male, Aki.” Gli assicurò, tenendogli il viso con entrambe le mani.

Aki annuì, abbassando lo sguardo solo per un istante, poi si sporse in avanti per baciare Mike. “Grazie.” Gli disse subito dopo, tornando ad abbracciarlo. “Anche voi mi siete mancati.”

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Capitolo 7
*** Rissa (Samuel e Anthony) ***


Quando gli avevano detto quello che stava accadendo, Samuel si era rifiutato di crederci.

Aveva quasi finito il turno serale del sabato, era esausto, e non riusciva a pensare ad altro che al suo letto e alla compagnia del suo fidanzato.

Era andato tutto bene fino a quando Ethan, il suo collega, era entrato nel locale agitato. “C’è una rissa a pochi metri da qui, Tony se la sta prendendo con un altro ragazzo!” Gli aveva detto, e Samuel si era allarmato.

Non era possibile, perché Tony era lì, e perché stava facendo rissa?

Preoccupato, Samuel chiese a Ethan di dargli il cambio, e Ethan non obiettò. Era andato ad avvisarlo proprio perché sapeva che Samuel poteva fare qualcosa in merito.

“Fai attenzione.” Gli disse soltanto, prima che Samuel si chiudesse la porta del locale alle spalle.

All’interno la musica copriva qualsiasi rumore proveniente dall’esterno, ma una volta fuori, per Samuel non fu difficile capire dove andare. Sentiva le urla delle persone che si erano radunate a guardare e, cosa che lo preoccupava di più, sentiva il rumore di oggetti di metallo che cadevano a terra. Erano nel vicolo in cui tenevano le bombole e gli attrezzi.

Corse subito per vedere con i suoi occhi cosa stava succedendo, e fece un passo indietro quando vide che stava succedendo davvero.

Anthony era lì, a cavalcioni su un altro ragazzo che riusciva a malapena a divincolarsi, e lo stava prendendo a pugni con una violenza che Samuel non aveva mai visto.

Dopo un attimo di shock, Samuel si fece largo tra la folla. Non era mai stato molto forte, e nel farlo, si guadagnò anche qualche gomitata, ma proseguì fino a quando non si trovò in prima fila.

Aveva avanzato di pochi metri, ma l’essere ancora più vicino lo fece stare improvvisamente male.

“Anthony!” Lo chiamò, cercando di gridare più forte della folla che lo circondava.

Ma non venne sentito. Doveva fermarsi, o quel ragazzo sarebbe morto.

Samuel ebbe un brivido al ricordo di un altro paio di mani, nel suo passato, che avevano fatto quello che Anthony stava facendo in quel momento.

Senza pensarci, e forse stupidamente, Samuel decise di agire direttamente e corse a cercare di bloccare Anthony ma, come avrebbe potuto prevedere, lui non si accorse neanche della sua intromissione, e gli diede uno spintone che fece cadere Samuel all’indietro.

Prima che potesse sbattere la testa, Samuel si bloccò con un gomito, che iniziò subito a sanguinare a contatto con la pietra.

Samuel non si arrese però. Tornò in piedi e, questa volta, riuscì ad afferrare il braccio di Anthony prima che lui sferrasse un altro pugno.

Infastidito, Anthony si scrollò Samuel di dosso con violenza, e lo fece cadere di nuovo, ma almeno questa volta Samuel era riuscito ad ottenere la sua attenzione.

La folla intorno a loro sembrava ancora più entusiasta all’idea di vederlo picchiare qualcun altro, e quando Samuel realizzò che in quello stato avrebbe veramente potuto farlo, si rannicchiò su se stesso e si portò il braccio graffiato davanti alla faccia.

“Perchè lo stai facendo?” Gridò, terrorizzato. “Che cos’è successo?”

Anthony sbuffò, furioso, ma non se la prese con lui.

“Sam?” Lo riconobbe, confuso. “Cosa ci fai qui? È già finito il turno?”

Samuel si tolse il braccio da davanti al volto. Era sull’orlo delle lacrime, ma si impose di essere forte. “Cosa ci fai tu qui?” Chiese, prendendosela con se stesso per il tono di voce che gli era uscito. “E cosa ti è saltato in mente?” Anche lui era arrabbiato, dopotutto. Era spaventato, e Anthony aveva fatto una promessa quando si erano conosciuti.

Quella sera, lui l’aveva infranta.

Anthony non rispose, ma si alzò, leggermente instabile sulle gambe, e offrì una mano a Samuel per aiutarlo ad alzarsi. La folla intorno a loro, che iniziava ad annoiarsi, si diradò lentamente, e qualcuno riuscì a portare via il ragazzo ferito ora che Anthony era distratto.

Samuel si fece forza e si alzò da solo, rifiutando la mano di Anthony.

“Seguimi.” Gli disse soltanto, voltandosi prima che lui potesse vedere le lacrime che avevano iniziato a rigargli il viso.

Anthony non obiettò.

 

Quando Ethan vide rientrare Samuel, e vide che stava piangendo, gli andò incontro preoccupato. Vide Anthony solo qualche istante dopo.

“Che cosa è successo?” Chiese, abbracciando l’amico.

Samuel non emise alcun suono, allora Ethan si rivolse a Anthony.

“Volevo fare una sorpresa!” Disse Anthony, contrariato. “Lui non lavora mai fino a quest’ora, volevo venirlo a prendere e offrirgli una cena.” Spiegò, senza distogliere lo sguardo da Samuel, che nel frattempo si era allontanato da Ethan ed era andato a prendere un tovagliolo per asciugarsi le lacrime. “Quel ragazzino ha pensato bene di venire a derubare me! Ha decisamente scelto la persona sbagliata!” Si vantò, convinto di essere nella ragione.

“Pensavi di organizzare una cena romantica con te in questo stato?” Chiese Ethan, incrociando le braccia al petto. “Quanto hai bevuto venendo qui?”

“Non sono affari tuoi, Evan.” Ribatté Anthony, sulla difensiva.

“Il mio nome è Ethan.” Se la prese il ragazzo.

“Ethan, vai a casa. Ci penso io qui.” Intervenne Samuel, che si era abbastanza ripreso.

“Sei sicuro? Posso chiudere io. Non ci sono tante persone in giro a quest’ora.”

“Vai, non ti preoccupare. Ci vediamo lunedì.”

Ethan non insistette.

“Buonanotte allora.” Disse Ethan, dirigendosi alla porta. “E fai attenzione.” Aggiunse, lanciando un’ultima occhiataccia a Anthony.

Quando rimasero da soli, Anthony provò a dire qualcosa, ma Samuel non lo ascoltò.

“Siediti.” Gli ordinò Samuel, stanco ma ancora arrabbiato.

Anthony fece come gli diceva e prese una delle sedie dai tavoli.

Provò a parlare, ma Samuel continuò a non ascoltarlo ancora per qualche minuto, fino a quando non tornò con l’occorrente per medicare le ferite che Anthony aveva ottenuto con quella rissa.

“Sam, io-”

“Tony, fai silenzio.” Ora che il terrore non occupava più la maggior parte dei suoi pensieri, Samuel si sentiva esausto. Non voleva sentire altre scuse. Voleva solo assicurarsi che le ferite sul corpo del suo ragazzo fossero medicate, chiudere il locale e andare a casa.

“Ho rovinato tutto, lo so.” Biascicò Anthony, a bassa voce.

“Non hai idea di quanto io sia arrabbiato con te.” Gli disse Samuel, pulendo i segni delle unghiate che ad un certo punto l’altro ragazzo gli aveva lasciato su un braccio.

“Volevo davvero che fosse una bella serata.”

“E cosa ti ha fatto pensare che mi avrebbe fatto piacere vederti arrivare ubriaco?”

Anthony sembrò realizzare solo in quel momento la gravità della situazione, e prese Samuel per il polso per bloccare il suo movimento. Samuel si irrigidì istintivamente, e Anthony lo lasciò andare.

“So di averti promesso che non sarei mai stato questo,” Disse Anthony, guardando Samuel dritto negli occhi.

“Stasera hai infranto quella promessa.” Samuel si costrinse a non pensare di nuovo a cosa si provava ad essere la vittima dell’ira di una persona sotto gli effetti dell’alcool, ma non ci riuscì, e dovette allontanarsi di qualche passo da Anthony per paura di sentirsi male un’altra volta.

In quel momento, Anthony notò che anche Samuel era ferito.

“Sono stato io?” Chiese, indicando il gomito sanguinante di Samuel.

Samuel non rispose, e Anthony capì che era così.

“Perdonami, ti prego.” Chiese, abbassando lo sguardo. Aveva superato il limite, tutto in una volta, e avrebbe dovuto accettarne le conseguenze, ma non poteva accettare di far soffrire Samuel in quel modo.

Samuel sospirò, e prese un cotoncino pulito per ricominciare a disinfettare le ferite di Anthony.

“Non farti più venire in mente idee del genere.” Gli disse Samuel, serio.

“Lo prometto.” Rispose Anthony immediatamente.

“Non voglio promesse,” Fece Samuel, senza guardarlo negli occhi. “Non farlo e basta. Non avrai un’altra opportunità.”

Dopo queste parole, tra i due cadde il silenzio. Sarebbe dovuto passare del tempo prima che Anthony potesse essere perdonato, ma lui avrebbe aspettato.

Nonostante quella sera era stato la versione peggiore di sé, rompendo quel rapporto che aveva costruito a fatica con Samuel negli ultimi anni, avrebbe fatto in modo di migliorarsi, per lui.

“Sai cosa?” Gli disse Anthony, all’improvviso.

“Cosa?” Accettò di ascoltare Samuel.

“Non penso di essere mai stato più innamorato di te di quando sono ora.”

Samuel rise debolmente, e fece leggermente più pressione su una delle sue ferite, causando un gemito di dolore a Anthony.

“Me lo sono meritato.” Ammise lui, con un sorriso.

“Te lo sei meritato.” Convenne Samuel, finendo di medicarlo velocemente per poi pensare al suo braccio.

Anthony era importante per lui, e con il tempo l’avrebbe perdonato, ma allo stesso modo decise che si sarebbe tenuto a distanza, almeno per quella sera, perché non poteva permettere al ricordo di quelle altre mani di prendere il posto delle sue.

 

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