Nei giardini che nessuno sa

di kamony
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Paradiso perduto ***
Capitolo 2: *** La forza della vita ***
Capitolo 3: *** Levi. Levi e basta ***



Capitolo 1
*** Paradiso perduto ***


Nei giardini che nessuno sa

 

1. Paradiso perduto

Kuchel era distesa su un fianco, la testa riposava sul braccio. Stava guardando Noam, supino accanto lei. Aveva gli occhi chiusi e sembrava dormire, ma lei sapeva che non era così.
Era innamorata di quel giovane nobile. Le aveva rubato il cuore fin da subito. Nonostante il padre e la madre fossero due persone molto sgradevoli, Noam era diverso.
Dopo che i suoi genitori erano stati assassinati in circostanze misteriose e Kenny era sparito, si era ritrovata a dover lavorare. Purtroppo nella città sotterranea, dove gli Ackerman erano stati costretti a rintanarsi per la persecuzione che subivano da secoli, non c’erano grosse opportunità di impiego. Kuchel però era stata fortunata: i Lobov
(1) stavano cercando manovalanza nel ghetto. Era piuttosto frequente che i nobili, andassero nella città sotterranea a cercare forza lavoro, e le persone che andavano a servizio da loro ottenevano un permesso per potersi spostare in superficie. I Lobov volevano qualcuno che facesse tutte quelle faccende ingrate che neppure la servitù si degnava di eseguire. Naturalmente, lei aveva accettato subito.
Kuchel non era molto alta ed era molto magra, sembrava uno scricciolino, ma era una Ackerman. Sebbene lei non conoscesse il segreto taciuto del suo lignaggio, ne custodiva in sé la forza fisica e mentale. Era una ragazza determinata e molto risoluta, oltre che dolce e ottimista.
I primi tempi erano stati duri. I Lobov erano davvero incontentabili. Sembrava provassero gusto a tormentare le persone che lavoravano per loro, ma lei non se ne preoccupava, cercava di farsi scivolare tutto addosso. Quel lavoro era troppo importante. All’epoca aveva diciassette anni e aveva tutto l’entusiasmo e la speranza che si può avere a quell’età. Era pronta a mangiarsi il mondo, ma non poteva sapere che, invece, il mondo, si sarebbe mangiato lei.
Un giorno che era stata pesantemente redarguita dalla signora e si era pure presa un sonoro ceffone, mentre era nelle stalle per ripulirle dallo sterco di cavallo, si lasciò andare ad un pianto sommesso. Pensava di essere sola. Invece, poco distante, insieme al suo destriero, c’era anche Noam. Il ragazzo le si avvicinò gentile, le porse un fazzoletto per asciugarsi gli occhi e si scusò da parte di sua madre, lasciandola senza parole.
Era l’unico figlio maschio dei Lobov, l’erede della casata. Nonostante fosse ricco e molto attraente era un ragazzo piuttosto introverso. Non amava la vita frivola dei suoi coetanei: anzi, a dire il vero ne disertava proprio la compagnia, e per questo era la disperazione del padre.
L’amore tra Kuchel e Noam sbocciò come una fioritura in primavera. Erano giovanissimi: lei appena diciassette anni, lui diciannove.
Vivevano di incontri fugaci, baci rubati, mani che si cercavano in segreto. I loro erano sogni tanto belli, quanto impossibili, custoditi in segreto dietro notti stellate.
Proprio come quella sera, che si erano ritrovati dietro le scuderie, distesi sull’erba profumata d’estate. I grilli cantavano e le lucciole apparivano e scomparivano, rendendo magico il manto scuro della sera.
«Kuchel» disse Noam girando la testa verso la ragazza e indagandola con quegli occhi nocciola, così grandi e così intensi.
«Voglio sposarti» e le sorrise, illuminando quella giovane notte appena iniziata.
Quel momento sarebbe rimasto per sempre impresso nella mente e nel cuore di Kuchel, come uno tra i ricordi più belli e ricorrenti della sua triste storia. Un momento che sarebbe potuto tramutarsi in una vita meravigliosamente normale, ma che invece era destinato ad essere solo la sanguinante nostalgia di un miraggio audace.

 

*

 

Kenny ci aveva messo un po’ di tempo a rintracciare sua sorella.
Improvvisamente un giorno era sparita senza dire una sola parola.
Non che i due fossero molto vicini, tra loro c’erano state delle incomprensioni, come le definiva lui, ma non poteva tollerare che si fosse dissolta come inghiottita dal nulla, sfuggendo al suo controllo. Questo lo aveva indotto a vestire i panni del fratello maggiore per prenderla e riportarla a casa, soprattutto perché si occupasse del nonno. Lui di certo non voleva farlo.

Fu il caso a farli incontrare per le strade della città sotterranea. Era mattina, anche se in quel posto umido e buio che sapeva di muffa, ogni ora era caratterizzata dalla solita penombra, a meno che non ci si trovasse vicino ad un’apertura di quella immensa grotta, che si trovava direttamente sotto la capitale Mitras.
Kuchel non si accorse subito del fratello, lui sì. La vide avanzare. Era più formosa di come la rammentava. Indossava un abito lungo con un corpetto che ne enfatizzava il seno, che sembrava improvvisamente prosperoso. I capelli erano ancora più lunghi dell’ultima volta che si erano visti: corvini e lucenti. Il viso appariva stanco, gli occhi cerulei infossati. Poi si accorse del ventre arrotondato. Kuchel non era mai stata così in carne, proprio per questo quell’addome prominente catturò la sua attenzione.
«Ti sto cercando da un sacco di tempo, dove ti eri rintanata?» le chiese adirato, rivelandosi.
«A fare la mia vita. Lontano da te» gli rispose criptica, dopo un primo momento di sorpresa per esserselo ritrovato davanti senza preavviso. «Hai abbandonato il nonno!» le disse cercando di far leva sul suo senso di colpa.
«Se il nonno è ancora vivo è grazie a me. Ogni mese gli mando abbastanza soldi per curarsi e per vivere in modo più che dignitoso» gli rispose asciutta.
«Cos’è quella?» le chiese indicando la sua pancia.
Kuchel istintivamente incrociò le braccia sopra quel ventre di circa venti settimane.
«Cosa vuoi, Kenny?» gli domandò evitando di rispondere.
«Devi tornare a casa e, soprattutto, devi smetterla di fare la cagna 
in calore. Questi sono i risultati» le vomitò addosso indicando proprio la sua pancia.
Kuchel non si scompose. Ormai la vita l’aveva messa di fronte a situazioni ben più terribili delle parole volgari di quell’essere infame che era suo fratello.
«Ti ho visto quella sera» gli disse puntandolo dritto negli occhi. Il suo sguardo era affilato come la lama di un coltello.
«C’ero anche io con Noam. Mi ero nascosta perché credevo fosse suo padre» proseguì.
Lo sguardo freddo e beffardo di Kenny fu attraversato da un lampo di stupore, che stava blaterando?
«Sei ubriaca?» le chiese annoiato.
«Tu l’hai ucciso!» gli urlò contro, con la voce ferita dal dolore di quel ricordo tremendo. «Hai ucciso lui, me e nostro figlio! Tu sei il demonio, Kenny!» gli disse tremando di rabbia.
«Sei pazza!» le rispose infastidito. Eppure il dolore della sorella sembrava così vivo, poteva quasi sentirselo addosso, sebbene gli desse solo un senso di fastidio, senza quasi toccarlo.
«Vuoi negarlo? Bene, non mi interessa. Ora lasciami passare e vattene»
«Kuchel credimi io non conosco questo Noam» si ritrovò a dirle. Era uno che non si giustificava mai. In realtà Kenny era un sociopatico. Un uomo concentrato su stesso, preda della sua smania di potere e della sua voglia di togliere vite, per aumentare il suo malsano senso di onnipotenza. Non era empatico, né sapeva cosa fosse la pietà, ma Kuchel aveva il suo stesso sangue, e benché, a volte, uccidesse anche solo per il semplice gusto di farlo, non voleva che lei gli attribuisse quella colpa, che gli pareva proprio di non avere.
«Hai ucciso talmente tante persone che neanche ti ricordi più delle tue vittime» gli disse con disprezzo «Era il figlio dei Lobov, gli hai tagliato la gola assalendolo da dietro, nelle scuderie della loro casa. Lo hai placidamente guardato morire dissanguato. Hai pulito il coltello e poi, fischiettando, te ne sei andato via!».
Cazzo! Pensò Kenny, ora ricordava tutto. Aveva fatto fuori quel moccioso, dietro un lauto compenso. I Lobov stavano acquistando molto potere, troppo per qualcuno, e così quella era stata la loro punizione, un modo per rimetterli al loro posto.
«Ora ricordo» ammise «Niente di personale, era solo lavoro. Non potevo sapere che avessi una cotta per lui» minimizzò come se fosse una cosa da niente.
Kuchel lo guardò con ancora più disprezzo: «Io lo amavo e aspettavo suo figlio. Dopo averlo visto morire ho perso il bambino» e si interruppe un attimo.
Ricordava ancora le fitte al ventre, come stilettate. Quella vita appena sbocciata, si era seccata come un germoglio su cui era stato versato del veleno. Dopo una notte di spasmi dolorosi, il frutto di quell’amore acerbo si era sciolto in un lago di sangue. Fu una sofferenza così forte che le strappò qualcosa dentro e anche una parte di lei se ne era andata per sempre, morendo intossicata da quel dolore.
«Sei il male Kenny, e ora vattene, non cercarmi mai più!».
Quel dispiacere era così forte e così potente, che riviverlo, ogni volta, le strappava l’anima. Voleva solo dimenticarlo e non pensarci più.
«Vedo che ti sei rifatta, però» le disse beffardo indicando nuovamente la pancia.
Avrebbe voluto schiaffeggiarlo, ma sapeva che era inutile. Se ne avesse avuto il coraggio avrebbe dovuto ucciderlo.
«Chi è il padre? Un altro nobile? Punti in alto eh?» la canzonò. Kenny era così. Incapace totalmente di immedesimarsi negli altri.
«No. Non so chi è il padre. Faccio la puttana» gli rispose sferzandolo con parole simili a frustate.
«Stai scherzando, vero?» le chiese accigliato, colpito da quella risposta così oscenamente semplice.
«Assolutamente no, ed è tutto merito tuo, caro fratello».
«Senti smettila! Ora ti riporto a casa, dal nonno, poi ci occuperemo di liberarci di quel problema che hai nella pancia. Non vorrai mica tenerlo?».
Kuchel aveva voluto gettargli in faccia la verità sperando di colpirlo e magari di suscitare qualcosa in lui, ma era stato tempo perso.
Strinse ancora di più le braccia a protezione del suo ventre.
Poi guardò Kenny con serena determinazione.
«Non tornerò mai più a casa. Io non ho più una casa e tu non sei più niente per me. Questa creatura sarà la mia unica famiglia. Stai tranquillo, continuerò a mandare i soldi al nonno.
Ora mi chiamo Olympia: Olympia e basta. Quindi mi lascerai in pace, e se non lo farai ti andrò a denunciare direttamente ai Lobov. Uno come te non può certo capire, non sei neanche in grado di immaginare che cosa possa fare un genitore a cui è stato portato via un figlio. E anche se sei: Kenny lo squartatore, ti troveranno e te la faranno pagare».
«Credi di farmi paura, ragazzina?» le ringhiò contro.
«No, ma neanche tu me ne fai. Ora me ne torno al mio bordello. Puoi scegliere che cosa fare: lasciarmi andare, o tagliarmi la gola a tradimento, aggredendomi alle spalle. Qualunque sia la tua scelta io sarò libera da te e dal male che semini in questo mondo».
Kenny ebbe qualcosa di simile ad uno scrupolo e si arrese lasciando Kuchel libera di vivere la sua vita.
Del resto, se era una stupida e voleva tenersi un bastardo, vivendo in un bordello, che si fottesse, a lui non importava niente. O quasi.
Quindi si fece da parte e con un gesto di scherno, simile ad una riverenza, come si riserva ai nobili, la fece passare.
«Prego, Olympia, vai pure e goditi la tua bella vita» le disse sorridendo sarcastico.
Kuchel passò oltre, senza neppure degnarlo di uno sguardo e senza voltarsi indietro.
Lui era il passato.
Ora andava verso il futuro.
E quella fu l’ultima volta che lo vide.

 

 

NOTE
- (1) I Lobov sono proprio riferiti al Nicholas Lobov (in questo caso ho immaginato fosse il padre di Noam) che appare in “A Choice with no regrets” capitolo 0,5B dell’anime. In questo mio missing moment, mi è piaciuto creare questo punto di contatto con l’opera originale, in cui ho immaginato che Nicholas Lobov prenda Kuchel al suo servizio, mentre anni dopo, senza saperlo, ne ingaggerà il figlio, sempre nella città sotterranea.
- Il titolo: “Nei giardini che nessuno sa” è anche il titolo di una bellissima canzone del grande Renato Zero ed è
© their respective owners

LE NOTE DELL’AUTRICE
Questa storia è sbocciata nella mia testa tempo fa, all’entrata di un casello autostradale. Un fulmine mi attraversò la mente e mi venne questa idea che poi ho sviluppato e ho tradotto in parole, che ora condivido con voi.
Ho cercato di non essere troppo pesante (e spero di esserci riuscita), dato che già di per sé, nel canon, non è che la storia di Kuchel sia esattamente rose e fiori. Ho preso le pochissime info che ci sono su di lei e ci ho costruito sopra la mia personale versione dei fatti, sperando che risulti gradita anche a voi.
Ringrazio fin da ora chi leggerà e mi piacerebbe conoscere anche le vostre impressioni, per me lo scambio in un fandom è la cosa più bella!
Si accetta tutto, critiche comprese, soprattutto se costruttive
😊
Aggiornerò una volta a settimana ma non un giorno specifico.
See you soon folks!

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Capitolo 2
*** La forza della vita ***


ATTENZIONE: questo capitolo contiene una breve scena di “quasi violenza sessuale” sebbene non si scenda in particolari e sia solo appena accennata (sennò avrei messo il rating rosso), potrebbe comunque risultare disturbante.
Lettore avvisato, lettore salvato!

 

Nei giardini che nessuno sa

 

2. La forza della vita


L’alcova a prima vista sembrava un posto accogliente.
C’era un grande letto rifinito di broccato rosso, con lenzuola oscenamente candide e profumate di una fragranza stucchevole che ricordava il glicine.
Quel profumo le feriva le narici ed era stomachevole. Aveva bevuto del liquore, ma continuava a tremare. Eppure l’aveva scelta con consapevolezza quella vita. Sembrava volesse espiare la maledizione legata al nome che portava. Quel nome che era costato la vita a Noam.
Quella era la sua prima volta.
La più difficile di tutte.
Non fu fortunata. Il suo primo cliente era un uomo sulla sessantina. Basso, grasso, sudaticcio, con un alito fetido da far vomitare. La guardava con cupidigia e si leccava le labbra, come se avesse l’acquolina in bocca. Quella ragazza era incredibilmente giovane e bella.
Kuchel sentì la nausea salirle dallo stomaco fin dentro la bocca, si chiese come avrebbe fatto a sopportarlo e a non rimettere. Ma aveva fatto una scelta da cui non si poteva più tornare indietro. Così, nonostante il ribrezzo che le faceva quell’uomo, angosciata e piena di paura si era sdraiata sul quel talamo sacrificale.
Subito quello si era calato i pantaloni e le era saltato addosso, tirandole su la gonna e strappandole i mutandoni di dosso. L’aveva violata a freddo come avrebbe potuto fare un qualsiasi animale durante una monta. Kuchel avvertì dolore. Era una violenza. Fu in quel preciso momento che la forza degli Ackerman si palesò in lei in tutta la sua maestosa potenza. Lo schifo, la paura, il dolore, la ribellione istintiva a quel gesto così prevaricatore, la fece tremare fin nel midollo. Fu un’implosione e venne attraversata come da una scossa. La sua mente di colpo si alienò completamente. All’improvviso non sentì più niente. Era lì, ma allo stesso tempo non c’era più. Fluttuava come in un’altra dimensione, dove nulla e nessuno poteva toccarla. Fu come se il suo corpo non fosse più suo.
In quella specie di trance le parve di udire la voce di Noan che le chiedeva di sposarla, sentiva il profumo dell’erba fresca, i grilli cantare, la brezza leggera di una lontana notte d’estate, poi fu solo oblio.
Quando quel porco, in pochi minuti, ebbe finito i suoi comodi, lei rinvenne come da uno svenimento.
Straordinariamente era quasi come se non le fosse accaduto niente.
La forza sovrumana degli Ackerman in Kuchel si era manifestata in modo diverso e anomalo. Nel suo caso era stata una cosa prettamente mentale, sebbene in parte riguardasse anche il suo fisico.
Questa sensazione extracorporea le fu incredibilmente utile in quell’inferno in cui si era volontariamente rintanata, anche se per fortuna non tutti i clienti erano come quello lì
.

 

*

 

Il bordello dove viveva Kuchel era gestito da una ex prostituta e da suo marito.
La donna, che aveva provato sulla sua pelle il degrado di quel mestiere, era molto più comprensiva ed empatica del marito. Quell’uomo avido invece, pensava solo al profitto, ma per fortuna era veramente legato alla moglie, di cui era stato un cliente. Poi se n’era innamorato e l’aveva sposata, elevandola da puttana a
maîtresse.
Madame B
ijou era una donna che aveva scelto di fare la prostituta per non morire di fame. Ne conosceva il fardello e non era mai del tutto riuscita a staccarsi da quella vita, forse per un malsano legame che non riusciva a recidere. Per questo, sebbene il marito potesse gestire da solo quel posto, lei aveva comunque voluto affiancarlo.
Non aveva mai capito perché una ragazza così giovane e bella, come lo era Olympia, fosse finita a vendere il suo corpo.
Aveva intuito che dietro ci fosse una voragine di dolore, che l’aveva portata ad una scelta estrema, per punirsi, o chissà che cosa.
La gente che viveva nel ghetto era tutta sopravvissuta a qualche sciagura. Ognuno si portava appresso un carico enorme, che solo la vita sotterranea poteva accogliere e a volte nascondere.
La ragazza aveva affittato una camera sopra il bordello, in cui c’era un letto, un lavatoio e una stufa per scaldarsi, ma anche per cucinare del cibo.
Kuchel aveva scelto l’opzione alcova che consisteva nel pagare un ulteriore affitto per una stanza in cui si ricevevano esclusivamente i clienti, lasciando intonsa la sua stanza personale.

Quando Kenny aveva ucciso Noam e lei aveva perso il bambino, le si era rotto qualcosa dentro, avrebbe voluto morire, ma il peggio doveva venire. L’avevano sorpresa nella stalla, sporca di sangue ed era stata accusata di assassinio. Nonostante tutto non poteva incolpare Kenny, anche perché essendo suo fratello, nessuno avrebbe creduto che lei non c’entrasse niente.
La molla che l’aveva fatta desistere da compiere atti estremi, era stato il nonno. Era molto malato e aveva davvero bisogno di aiuto, e se lei non avesse provveduto a darglielo sarebbe morto presto. Non poteva avere questo peso sulla coscienza dato che l’uomo, dopo la morte dei suoi genitori, l’aveva cresciuta.
Ma cosa poteva fare una ragazza così giovane che di lì a poco sarebbe stata braccata?
Aveva avuto una sola scelta: prostituirsi. Era l’unico modo veloce per avere abbastanza soldi per poter mantenere il nonno e le sue cure.
E poi fare la vita era per lei una sorta di espiazione. Un autolesionismo che sentiva come la giusta punizione per la morte di Noam. Odiava se stessa solo per il fatto di essere la sorella di Kenny. Sapeva che suo fratello era un essere malvagio. Senza coscienza. Senza empatia. Le faceva orrore avere i suoi geni e il suo stesso sangue. Voleva solo aiutare il nonno e poi forse, l’avrebbe fatta davvero finita, ma anche questa volta la vita le stava per riservare una sorpresa.

 

*

 

Era quasi la fine di aprile. La primavera era sbocciata, ma nella città sotterranea tutto, come sempre restava immutato. Si poteva intuire che la nuova stagione fosse arrivata solo dalle aperture, da cui faceva capolino un cielo terso e celeste, rallegrato a tratti dallo svolazzante cinguettio di qualche uccellino.
Kuchel, che ormai da tempo lavorava nel bordello, di certo non era il tipo da soffermarsi a guardare il cielo, né di pensare alle stagioni. Le importava poco di tutto. Era come un arbusto cresciuto in mezzo a delle pietre: la vita la subiva suo malgrado.
Stava camminando rimuginando su quello che doveva acquistare, quando un pensiero improvviso, come una saetta, le squarciò la mente. Si fermò di colpo e con sorpresa realizzò che le era saltato il ciclo. Fu come una botta in testa. Ebbe una sensazione simile a come quando ti svegli di soprassalto, infatti sussultò e restò senza fiato.
Eppure era stata attenta come sempre, aveva meticolosamente usato il ditale con la spugna imbevuta di aceto
(1), possibile che fosse rimasta incinta?
Questa eventualità la sconvolse facendola rabbrividire fin nelle viscere.
La sua esistenza era monotona, ripetitiva e assolutamente drammatica. Sembrava essere diventata una bambola di pezza, che veniva sbattuta da una parte all’altra: vuota e inerme.
Si era arresa ad un destino amaro, senza speranze, né illusioni.
Questa novità la schiaffeggiò risvegliandola dal quel torpore fatale. La prima reazione istintiva fu di panico. E ora, se fosse stata incinta, cosa avrebbe fatto? Era un’eventualità questa che non aveva messo in conto, sebbene il tipo di vita che aveva scelto, comportasse proprio rischi di questo tipo. Certo, ogni prostituta usava i suoi metodi per ovviare a certi problemi, ma nessuno di questi era infallibile. Molte di loro erano ricorse anche a procedimenti estremi e definitivi per evitare gravidanze indesiderate, ma lei intorpidita dal suo dolore, neanche ci aveva mai pensato. Faceva tutto molto meccanicamente, affidandosi ai consigli esperti di Madame B
ijou.
Passarono alcune settimane in cui fu preda di grande confusione e sgomento. La cosa più logica sarebbe stata sbarazzarsi di quel problema, oltretutto non aveva neanche la più pallida idea di chi potesse essere l’eventuale padre. Quella gravidanza era proprio il frutto del caso.
Ma esiste veramente il caso?
Intanto il tempo passava.

Ciò che la dilaniava era che quel ritardo le rammentava quello che voleva disperatamente dimenticare. Le ricordava un’altra vita, quando una stupida ragazzina innamorata aveva creduto di poter coronare il suo sogno e magari costruire un futuro felice. La famiglia era sempre stata tutto per Kuchel, forse proprio perché le era mancata.
Per questo ora era disorientata e confusa.
Si ritrovò persa in un vortice che la sballottava come una foglia in balia del vento. Non aveva con chi confrontarsi era sola ad affrontare i suoi demoni. Ma quella ragazzina piena di vita, che era stata un tempo, nonostante tutto, era ancora lì, dentro di lei che lottava per poter riemergere. E nonostante i dubbi e la paura folle, giorno dopo giorno, quella novità imprevista, le faceva formicolare qualcosa dentro, qualcosa che credeva morto per sempre.
Un giorno, mentre stava camminando per strada perse l’equilibrio, prima di cadere in ginocchio istintivamente si protesse la pancia. Quel gesto le fece salire un magone enorme. Ma fu anche una sensazione bellissima, come un eco, un richiamo lontano, quasi ancestrale. Il canto di una sirena ammaliatrice che aveva il sapore di un’insana follia.
Con il passare dei giorni Kuchel si era aggrappata all’idea di quella creatura che le sbocciava in grembo, come un naufrago si aggrappa ad un tronco d’albero per non affogare.
Quel germoglio piantato per sbaglio, era la vita che si riappropriava di lei.
Ad certo punto, come una luce che squarcia le tenebre, fu tutto adamantino, o forse lo era sempre stato, solo che lei lo poteva vedere solo adesso.
Non le importava sapere come, chi, e perché. Non era importante, non per lei che aveva perso tutto.
Ciò che contava era come si sentisse adesso: viva, nuova, forte.
Era grata per questo regalo inaspettato.
La speranza stava fiorendo.
Era l’opportunità di dare un senso a quella vita, una cosa solo sua: carne della sua carne, la sua creatura.
Tutto era cominciato ad aprile e quando a giugno ebbe la certezza matematica di essere incinta, chiese a Madame B
ijou il permesso di potersi assentare per poter andare a trovare suo nonno. La donna, nonostante la riluttanza del marito, le dette il suo beneplacito.
L’idea di Kuchel era quella di
tornare a casa. Voleva dare alla sua creatura una vita decente, soprattutto se fosse stata una bambina, eventualità che le metteva una gran paura addosso.
Raggiunse l’abitazione del nonno piuttosto velocemente anche se l’uomo risiedeva abbastanza lontano dal bordello. Come arrivò nei pressi della casa qualcosa la mise in allarme, non seppe dire cosa fosse, fu una cosa istintiva, non bussò alla porta e furtiva andò ad acquattarsi in prossimità di una finestra.
«Allora vecchio non si è ancora vista quella cagna di tua nipote?» disse un individuo corpulento dall’aspetto poco raccomandabile.
«Te l’ho detto, è quasi un anno che non la vedo. Non ho idea di dove sia, per quanto ne so potrebbe essere morta!»
«E i soldi chi te li manda eh, vecchio?» lo incalzò quello afferrandolo per il bavero.
«Mio nipote, ovvio! Come potrebbe mai una ragazzina trovare un lavoro e mantenermi senza che la scopriste!».
Non ascoltò altro. Suo nonno la stava proteggendo, da quello che probabilmente era uno scagnozzo dei Lobov, che evidentemente non si erano ancora arresi e volevano fargliela pagare.
Se voleva salvaguardare la vita del nascituro doveva tornare di corsa al bordello e rimanere rintanata lì, dove non conoscevano neppure il suo vero nome.


*


Convincere il marito di Madame Bijou, a farle tenere il bambino, era stata un’impresa ardua.
Non ne voleva sentir parlare di marmocchi ma soprattutto non voleva perdere i suoi guadagni. Olympia avrebbe potuto lavorare solo fino a quando non le si fosse vista la pancia e poi addio introiti, e lei gli rendeva molto bene. Non era proprio cosa.
Eppure la caparbietà di Kuchel ebbe la meglio.
Gli promise che lo avrebbe ripagato di ogni perdita, e che avrebbe aggiunto gli interessi per ogni giorno di lavoro perso, oltre che darsi da fare per tenere il bordello pulito, ovviamente gratis. Alla fine, soprattutto grazie alle insistenze della moglie, l’uomo si convinse.

Era il 25 dicembre, anno 818 quando Kuchel dette alla luce suo figlio.
Il parto fu doloroso e sfiancante, ma niente fu paragonabile all’immensa gioia che provò, quando finalmente strinse tra le braccia quel fagottino che emetteva il suo primo vagito.
Lo aveva atteso e immaginato per nove mesi, tra gioie e timori.
Fu grata e felice che fosse un maschio. Era ancora sporco e tremante, ma vivo e caldo. Piangeva forte e Kuchel pianse insieme a lui. Lacrime dolci, che non aveva mai versato prima. Dentro si sentì come divorare da un fuoco. Era quell’amore così grande e così prepotente, che solo una madre che ha tessuto suo figlio in grembo può provare. Un amore più forte del dolore, del degrado, della paura e della morte. Un amore tanto intenso, da far male al cuore.
Guardò la sua creatura, le parve la cosa più bella e più preziosa del mondo. In vita sua non aveva mai provato una gioia così devastante, che la faceva tremare fin nell’angolo più remoto dell’anima.
Lo strinse forte al petto, lo guardò innamorata come si guarda un miracolo, gli baciò la fronte e disse:
«Tu sei Levi. Il mio Levi».

 

NOTE
Significato nome Levi: nome ebraico לֵוִי (Lewi), che tradizionalmente viene interpretato come "congiunto", "unito", "affezionato" o "unione", "vincolo", dal verbo lawah, "affezionarsi". (Fonte Wikipedia)
Non ho prove, ma non credo che Isayama abbia scelto questo nome a caso (tra l’altro ha usato un sacco di nomi ebraici e io l’ho imitato, anche Noam è di origine ebraica). Personalmente a me piace pronunciarlo Le-vi, senza inglesizzarlo in Li-va-i, anche per rispetto alla cultura ebraica, da cui il nome stesso proviene. Poi, ovviamente ognuno lo legga e lo chiami pure come vuole (mai Rivaille però eh!!!), e ci mancherebbe altro ;)
L’anno di nascita di Levi (che non conosciamo esattamente) me lo sono inventato studiando un po’ le timelines dell’opera originale, prendetelo comunque come headcanon, perché ci si può avvicinare, ma non ci sono certezze.
(1) Ditale e spugna imbevuta di aceto sono metodi “anticoncezionali” antichi. Il ditale era in voga tra il ‘500 e il ‘700 circa e la spugna imbevuta di aceto, non saprei dirlo con precisione, ma pare fosse molto famosa già dall’antica Roma.

 

LE NOTE DELL’AUTRICE
Questo capitolo mi ha fatto vedere i sorci verdi.
È stato in assoluto il più rognoso da scrivere per tanti motivi. Il passaggio più ostico fra tutti è stata la prima volta da prostituta di Kuchel.
Spero solo di aver reso al meglio la scena senza calcare la mano sulla situazione. Ci tenevo molto a fare le cose a modo, troppo spesso il non-con o la prostituzione vengono usati in modo che personalmente non mi piace e danno anche una visione non realistica di cosa queste cose (tremende) possano essere per un essere umano.
Certi argomenti, per me, sono e restano molto seri, e ci tenevo a non urtare la sensibilità di nessuno, perché non si sa mai chi legge dall’altra parte dello schermo e che bagaglio di vita si porta a presso.
Ora smetto di tediarvi e vi do appuntamento al prossimo capitolo, che sarà anche l’ultimo!
Un grazie sentito a chi legge, tanta riconoscenza a chi commenta e anche un grande grazie a chi ha già messo questa mia fic tra seguiti-ricordati-preferiti
Buon week end a tutti!
🌼

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Capitolo 3
*** Levi. Levi e basta ***


Nei giardini che nessuno sa

 

3. Levi. Levi e basta.

Da quando era nato suo figlio Kuchel, mai, neppure una sola volta si era pentita della scelta che aveva fatto.
Quel bambino era il suo piccolo eden e l’aveva resa felice. Anche vendere il suo corpo aveva acquistato un altro significato, che glielo rendeva meno penoso e più accettabile.
«Che cosa sta facendo il mio piccolo Levi?» gli chiese, di rientro nella stanza dove lo aveva lasciato qualche ora prima.
Il bambino, orgoglioso, le mostrò una serie di piccoli origami fatti con della carta riciclata dalla madre per lui. Era molto ingegnoso e lei lo aveva abituato a tenersi occupato. Per diverse ore era impegnata a lavorare e voleva che non si annoiasse, o peggio, che tentasse di uscire da solo.
«Ma sono bellissimi! Dopo andiamo all’apertura
(1), e vediamo se oggi c’è il sole!» gli disse. Poi gli si avvicinò, delicatamente gli scostò i capelli dagli occhi, lo strinse a sé e lo baciò copiosamente sulle guance.
Lui abbracciò con slancio la sua mamma e si lasciò coccolare tutto soddisfatto.
Levi era un bambino sereno e anche molto buono. Kuchel lo riempiva di amore e attenzioni. Ogni notte gli sussurrava una dolce filastrocca per fargli prendere sonno. Dormivano nello stesso letto. La donna gli aveva cucito con pezze e stracci una specie di coniglietto. Aveva due bottoni diversi come occhi, e tanti scampoli colorati come corpo: Levi lo adorava. Lo aveva chiamato Jizo
(2) ed era fermamente convinto che fosse una specie di angelo custode, che vegliava su di lui l’intera notte.
Sua madre faceva sempre tardi, ed era fondamentale che lui stesse  tranquillo e dormisse. Per questo Kuchel aveva speso una piccola fortuna e gli aveva comprato anche un carillon.
«È magico, sai?» aveva detto al piccolo Levi «Tu dormi, e prima che finisca di suonare la mamma sarà tornata. Ma se per caso ritardassi e tu ti svegliassi, basta farlo ripartire, io lo sentirò, così appena possibile arriverò da te».
Questo piccolo stratagemma aveva funzionato, anche perché Levi adorava sua madre, e pendeva dalle sue labbra. Del resto era una delle pochissime persone con cui si poteva relazionare. Era un bambino molto solo, ma vivendo dentro un bordello non poteva essere altrimenti. Malgrado ciò la a sua vita era abbastanza piena, questo anche grazie a Kuchel che si impegnava moltissimo con lui nel poco tempo libero che aveva.
Tra le tante cose che gli aveva insegnato, una molto importante era l’igiene personale e la pulizia della stanza dove vivevano.
Ogni giorno, prima che lei andasse a lavorare, gli metteva una specie di bandana in testa e un fazzoletto legato dietro la nuca a protezione della bocca, poi insieme si mettevano a togliere sporco e polvere.
«La pulizia è fondamentale. Ricordalo. Così non prolificano i germi, né i topi, né gli scarafaggi» e poi canticchiava: «Se puliamo in allegria, sporco e malattia fuggiranno via!».
Per lui era quasi diventato un gioco. La vedeva poco, ma quando erano insieme, Kuchel dedicava tutto il suo tempo a lui e Levi ne era felicissimo. La sua mamma era il suo mondo. Un modo bellissimo, profumato, dolce e pieno di amore. Era assurdo, ma era un bambino molto più amato e seguito di tanti altri che vivevano situazioni certamente più agiate della sua.
Era abituato ad aiutare anche in cucina, per esempio pelava le patate per la zuppa di pane e verdure, che mangiavano la sera. Lui, in piedi sulla sedia accanto alla mamma, ne sbucciava una, lei tutte le altre ma lo lodava e lo faceva sentire importante.
Kuchel però aveva presto notato che Levi aveva un’insana attrazione per i coltelli. Ogni tanto si fermava ad osservarli rapito, cercava di specchiarsi nella lama, e poi li lucidava in modo quasi ossessivo. Questo la turbava, perché gli ricordava Kenny e la cosa non le piaceva per niente.
«Devi stare attento a non farti male. Servono solo per tagliare le patate, le cipolle e il pane» lo ammoniva, anche se lei stessa se ne portava sempre uno dietro, per difendersi da eventuali clienti violenti.
«Luccica!» aveva detto lui con quegli occhi grigio-blu così vivi e brillanti.
Kuchel aveva cercato di non dare troppo peso alla cosa, ma si era ripromessa che quando fosse stato più grande gli avrebbe parlato in merito. Non voleva che Levi diventasse come Kenny.
Non faceva altro che raccomandarsi. Gli spiegava che vivevano in un modo difficile e talvolta crudele, la violenza inevitabilmente faceva parte di esso, ma non poteva, né doveva diventare una scusa per fare gratuitamente del male agli altri. Gli diceva che da grande avrebbe forse dovuto difendersi, ma che per nessun motivo avrebbe mai dovuto usare la violenza per sottomettere gli altri, o per trarne qualche vantaggio.
Voleva che questi concetti gli si instillassero nella mente, tanto da diventare uno stile di vita. Voleva solo il meglio per lui. Per questo, gli stava anche insegnando a leggere e scrivere. Voleva che fosse istruito, che usasse la sua intelligenza. Lo voleva elevare rispetto alla media delle persone che vivevano nella città sotterranea.
Un tempo, ne era certa, suo figlio sarebbe diventato un grande uomo.

 

***



Il tempo scorreva veloce e Levi cresceva a vista d’occhio.

Alcuni giorni scorrono in una routine consolidata, altri invece sono destinati a diventare indimenticabili. Quello in particolare, Levi, se lo sarebbe portato addosso, come un marchio, per tutta la vita.
Sua madre stava preparando il tè per entrambi.
Era un loro rito. Ogni giorno alla stessa ora metteva a bollire l’acqua sulla stufa. Lui intanto prendeva le tazze e le metteva sulla tavola. Poi prendeva i biscotti al burro che Kuchel preparava una volta a settimana e li disponeva con cura su un piattino sbeccato, quindi si sedeva e attendeva. La guardava mentre con cura preparava quell’infuso così buono che a lui piaceva tanto.
Kuchel canticchiava sommessamente, sorridendo. Quella vita non era più così tanto infame. Aveva il suo bambino. La sua ragione di vita. Il suo più grande amore. Stava mettendo da parte più soldi possibili per poter un giorno comprare la sua libertà e quella di Levi. Sarebbero usciti per sempre dalla città sotterranea per dare una svolta alle loro esistenze. Magari si sarebbero spostati da Mitras. Potevano trasferirsi a Trost, o a Shiganshina, chissà.
Era così piena di fiducia, tutto le sembrava migliore e finalmente si concedeva di pensare al futuro con speranza e gioia.
Levi la osservava mentre versava l’acqua calda e fumante sulle foglie secche del tè. Nell’aria si sprigionava quell’aroma speziato, particolare, che gli solleticava le narici, facendogli anticipare la fragranza di quel liquido fulvo, che di lì a poco avrebbe sorbito con calma. Lui non mangiava mai i biscotti con il tè. Gli piaceva gustarlo da solo e molto caldo.
Se avesse dovuto associare sua madre ad un odore, sarebbe sicuramente stato quello del fresco pulito del bucato e quello del tè.   
Una volta pronto l’infuso, si sedeva anche lei. Stavano in silenzio, uno di fronte all’altra e se lo assaporavano in santa pace. Gustandosi la speciale magia di quel momento particolare tutto loro. Ogni tanto si guardavano e da sopra le tazze i loro occhi si incontravano sorridendosi.
Dopo aver bevuto decisero che sarebbero usciti.
Ogni volta che andavano in giro per la città sotterranea era una festa. Si preparavano con cura. Levi era sempre pulito e pettinato, poi sua madre era solita mettergli un foulard bianco al collo che lo faceva assomigliare ad un signorino. Anche Kuchel si vestiva in un modo molto rispettabile e ordinato. Ci teneva a farlo crescere con una certa propensione alla dignità personale. Non era detto che perché abitassero in una specie di ghetto, sottoterra, non potessero ambire ad essere persone migliori, decorose e, perché no, anche ambiziose. Avevano il sacrosanto diritto ad aspirare ad una vita migliore di quella.
Ma quel giorno purtroppo cambiò il corso del loro destino.
Kuchel, poco prima che uscissero, ebbe una reazione molto strana e molto spaventosa.
Improvvisamente le si irrigidì il volto. Non riusciva ad aprire la bocca, né a parlare. Levi si spaventò a morte. Lei, che era ancora padrona di sé, scosse la testa come per rassicurarlo e gli strinse il braccio, quindi si lasciò cadere sul letto.
La cosa, purtroppo, si rivelò ancora più grave di quello che sembrava al momento.
Nei giorni a seguire Kuchel non migliorò. Anzi peggiorava a vista d’occhio.
Levi smarrito e ostaggio della paura, cercò comunque di reagire.
Si dava un gran da fare, tentando di farle abbassare la febbre che era salita altissima, facendole impacchi sulla fronte con una pezza bagnata. Ma la donna aveva sempre forti spasmi e non riusciva a mangiare.
Lui stava costantemente vicino alla sua mamma. Le teneva la mano, le carezzava i capelli, le parlava. Lei, come poteva, cercava di tranquillizzarlo, ma sempre più spesso aveva questi spasmi terribili che ormai le inibivano anche la parola.
Più passava il tempo, più Kuchel si aggravava.
Levi era nel panico totale.
Il padrone del bordello pensando che Kuchel avesse contratto una malattia infettiva, aveva tassativamente proibito al bambino di uscire dalla camera e nessuno poteva andare da loro. Solo Madame B
ijou, mossa a pietà, ogni tanto gli lasciava del cibo e dell’acqua fuori della porta.
Inizialmente aveva procurato loro anche del laudano
(3), ma quella medicina si rivelò del tutto inefficace. Intanto sua madre non riusciva a mangiare e farla bere era un’impresa ardua. Le bagnava le labbra con uno straccio umido, diversamente non era possibile farle assumere acqua.
Purtroppo però qualsiasi cosa intentasse, niente sembrava portare giovamento.
Levi non sapeva più che fare. Ad un certo punto, al culmine della disperazione, si convinse assurdamente che forse la mamma stava male perché la stanza non era abbastanza pulita.
Sì, doveva essere quello il problema, pensò fiducioso, del resto glielo diceva sempre quanto fosse importante l’igiene.
Si mise in testa che se avesse pulito e sanificato tutto alla perfezione, la malattia se ne sarebbe andata via, proprio come gli canticchiava sempre Kuchel quando facevano le pulizie.
Così si mise la pezzola in testa e il fazzoletto alla bocca e cominciò a pulire come un forsennato.
Spolverò e spazzò più e più volte ogni singolo angolo della stanza, la stufa, il lavabo. Poi, inginocchiatosi in terra, prese a strofinare con forza, come se volesse scrostare il pavimento fino a consumarlo. Era disperato e metteva tutte le sue energie, la sua paura e la sua rabbia, in quell’azione ossessivo compulsiva, che avrebbe dovuto calmarlo, ma che invece non riusciva neppure a stancarlo al punto di smettere.
Ogni tanto alzava gli occhi, per scorgere qualche miglioramento, ma sua madre sembrava stare sempre peggio. Aveva la bocca serrata e lo sguardo vitreo rigirato all’indietro. Sembrava in trance. Ad un certo punto si era alzato di scatto da terra ed era andato ad accendere il carillon magico. In un moto di disperazione sperava che quella musica la svegliasse, la riportasse a lui.
Lacrime di sconforto gli pungevano gli occhi, ma non si dava per vinto, si rimise in ginocchio e continuò a lottare, pulendo ostinatamente, con tutta la forza che aveva in corpo.
Si ripeteva come un mantra: Se pulisco tutto, la malattia andrà via. Se pulisco tutto, la malattia andrà via.
Quella follia durò due giorni e due notti.
All’alba del terzo era stremato, aveva le galle sulle mani e sua madre era morta per una crisi respiratoria.
Levi aveva urlato così forte che tutti avevano capito. Poi aveva pianto così tanto da restare senza voce e senza lacrime.
Era scivolato a terra con gli occhi sbarrati dal terrore. Non era pronto a questo distacco e soprattutto lo atterriva la consapevolezza di essere rimasto completamente solo in quel mondo ostile, in cui nessuno era venuto ad aiutare né lui, né la sua mamma.
Con lei se n’era andato via tutto il suo mondo. Non sapeva niente dell’esterno, della vita. Per Levi la realtà era Kuchel, il bordello e le uscite una volta a settimana. Non c’era altro nella sua piccola e ingenua realtà.
Temeva, perché era molto intelligente, che non l’avrebbero più fatto uscire da quella stanza. Erano certi che la donna avesse una malattia infettiva, ma si sbagliavano per fortuna.
Kuchel era morta di tetano e non avrebbe potuto infettare nessuno.
Levi però ne era ignaro ed era convinto che presto, quel morbo mostruoso avrebbe ucciso anche lui. Era solo questione di tempo, quindi rassegnato rimase a terra, seduto, abbracciato alle proprie ginocchia, accanto al letto di morte di Kuchel, aspettando il suo turno.
Passarono diversi giorni.
Se ne stava lì: affamato, disperato, ma soprattutto rassegnato, con le forze che lo stavano lentamente abbandonando. Aspettava che la morte venisse trovarlo e se lo portasse via, invece arrivò qualcun altro.

Un giorno, quando era sul punto di cedere all’oblio, la porta si aprì ed entrò un uomo molto alto. Aveva i capelli lunghi, un cappello in testa e una valigetta in mano.
Come se non lo avesse notato, si era subito diretto al letto dove giaceva sua madre.
Sembrava molto preoccupato del suo aspetto.
« Kuchel è davvero impressionante come tu sia diventata magra…» aveva detto Kenny con un sincero velo di dispiacere, che gli aveva offuscato la voce.
Levi che era accucciato nell’ombra «È morta» gli disse con un filo di voce.
Era sporco, magro, affamato. Sembrava anch’egli più moribondo che vivo.
Quell’uomo dallo sguardo tagliente si era girato e aveva visto quel mucchietto di ossa abbandonato sul pavimento. Un bambino dal viso magro e affilato, in cui spiccavano due occhi incredibilmente blu, tristi e sofferenti. La fame lo stava consumando.
Rimase molto colpito. Avvertì qualcosa che gli era estraneo, ma che potrebbe definirsi un moto di pietà.
«Come ti chiami?» gli chiese infine.
Sapeva da sua madre come rispondere a quella domanda. Glielo aveva detto mille volte. Si era sempre raccomandata e lui avrebbe sempre fatto tesoro delle sue parole e dei suoi insegnamenti, ora e nel tempo avvenire.
«Levi. Levi e basta» replicò stanco.
Quella risposta colpì Kenny come uno schiaffo. Forse quella fu una delle poche volte in cui ebbe una sorta di rigurgito di coscienza, una cosa che somigliava lontanamente ad un senso di colpa verso sua sorella. Si mise a sedere a terra, all’altezza del bambino. Lo guardò. Rifletté sul fatto che anche se adesso, grazie a lui, gli Ackerman non erano più perseguitati, non valesse comunque la pena di usare quel cognome.
Si ritrovò a dare ragione a Kuchel, anche se l’aveva cercata proprio per dirle che erano finalmente liberi da quella spada di Damocle.

«Io sono Kenny. Kenny e basta. Conoscevo tua madre» gli disse.
«Sei… » stava domandando il bambino.
«No, non sono tuo padre. Ma da oggi mi prenderò cura di te».
Levi non seppe spiegarselo se non molti anni più tardi, ma istintivamente fu come sollevato che quell’uomo non fosse suo padre.
Kenny si occupò delle esequie del corpo di Kuchel. Levi insistette tanto perché Jizo fosse sepolto con la sua mamma, e lui aveva acconsentito. Dopo che Kenny si fu occupato della faccenda, come promesso, tornò a prenderlo.
Levi uscì da quel bordello con solo tre cose: il foulard bianco, una scatola di tè e il carillon magico.
La sua vita era giunta ad una svolta epocale, ma questo lui non poteva saperlo.
Solo il tempo avrebbe scritto il suo destino, rendendo giustizia a Kuchel e al suo coraggio di madre, che aveva permesso di donare a quel mondo infame il soldato più forte dell’umanità.



Il testo sotto la fanart è tratto dalla canzone di Renato Zero che da anche il titolo alla fic stessa: Nei giardini che nessuno sa.
(all rights are property of their respective owners)
Le elaborazioni grafiche invece sono opera mia :D


Disclaimer
Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro.
Kuchel, Kenny e Levi (purtroppo) non mi appartengono, ma sono proprietà di Hajime Isayama.

NOTE
 (1) Parlo spesso dell’apertura nelle mie fic quando descrivo la città sotterranea, da me chiamata anche ghetto. Credo che sappiate tutti cosa è dato che appare nell’OVA  “A Choice with no regrets”  ed è appunto uno buco da cui si intravede l’esterno (più che altro il cielo) e da dove entrano anche gli uccellini, uno dei quali viene salvato da Isabel proprio nel primo episodio del suddetto OVA.
(2) Jizo secondo la tradizione giapponese è custode dei bambini, ma significa anche ventre della terra che richiama la città sotterranea
(3) Nel ‘450 il laudano era un “medicinale” a base di oppio e alcool, veniva utilizzato per trattare numerosi disturbi medici, soprattutto come analgesico.
Come avrete notato il dialogo tra Levi e Kenny è (quasi) identico a quello dell’anime. Ovviamente l’ho adattato alle esigenze della mia storia.


LE NOTE DELL’AUTRICE
Un saluto a chi sta leggendo!
In questo capitolo ho inserito alcuni dei miei headcanon più ricorrenti su Levi. Chi ha letto le mie storie sicuramente li ha riconosciuti. Come ad esempio il rito del tè tra lui e Kuchel, o il carillon.
Mi rendo conto che questa breve storia possa essere risultata forse pesante o troppo triste, ma avevo voglia di scriverla e l’ho condivisa con piacere con voi. Le mie storie sono così: nascon da sole, io non posso che mettermi al loro servizio e raccontarle. Vado dove mi porta l’ispirazione.
Ho parlato molto di Levi e continuerò a farlo perché è il personaggio di Snk con cui empatizzo di più.
Di lui ho già scritto qui: L.A. CONFIDENTIAL
{Confidenzialmente Levi Ackerman}
Ringrazio chiunque abbia dedicato un po’ del suo tempo a leggere questa fic e in particolare ringrazio chi ha voluto lasciarmi le sue impressioni
e chiunque abbia messo la storia fra seguite-ricordate-preferite 🌼
Non siate avari con gli autori (non parlo solo di me, ma di chiunque voi leggiate) scriviamo unicamente per passione e le vostre impressioni sono spesso la benzina per la nostra creatività. Condividiamo le nostre storie proprio per avere uno scambio con chi le leggerà, su una passione comune, perciò non siate timidi diteci la vostra!
😉
Colgo l’occasione per augurare buone ferie a tutti, mi ritroverete presto con una nuova storia, ma questa volta basta tragedie, anzi! 😁

Questo capitolo è dedicato alla mia amica Lou (innominetuo) lei sa il perché! Grazie di tutto!

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