Back In Black

di _Lightning_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Che te ne fai d'un titolo? ***
Capitolo 2: *** Un amichevole Spider-Man di quartiere alla Casa Bianca ***
Capitolo 3: *** Ingranaggi in movimento ***
Capitolo 4: *** The itsy-bitsy spider... ***
Capitolo 5: *** ... climbed up the waterspout ***
Capitolo 6: *** La scacchiera ***
Capitolo 7: *** La guerra a casa ***
Capitolo 8: *** La guerra in strada ***
Capitolo 9: *** Zona negativa ***
Capitolo 10: *** Sotto assedio ***
Capitolo 11: *** Down came the rain... ***
Capitolo 12: *** ... and washed the spider out ***



Capitolo 1
*** Che te ne fai d'un titolo? ***


Spider-Man: Back In Black

 

§

 

Prologo

Che te ne fai d’un titolo?

I know that it’s too late
And now there's nothing I can do
So, I try to laugh about it
Cover it all up with lies
I try to laugh about it
Hiding the tears in my eyes
'Cause boys don't cry
Boys don't cry”

[Boys Don’t Cry – The Cure]

 

 

 

Ci sono dei giorni in cui sembra di aprire per la prima volta gli occhi dopo un lungo sonno, anche se si è consapevoli di non aver mai dormito per tutto quel tempo, neanche per un minuto. Eppure, tutto risulta comunque confuso come nel tempo del sogno: legami sfrangiati, immagini fuori fuoco e viste attraverso un cannocchiale al contrario, suoni sferraglianti e soffusi che riverberano in ogni vena e osso, e quell’impressione di vedere ogni proprio gesto e parola attraverso un filtro cinematografico, mentre si è ridotti a semplici spettatori di se stessi che possono solo assistere e mai intervenire.

Tutto esiste e non esiste al contempo, è una sigaretta premuta con indolenza su un foglio fino a bucarlo, sfilacciando le maglie del reale e non reale col suo alone carbonizzato.

Lo sparo è reale. La detonazione sembra ancora permeare l’aria, e sostituisce l’ossigeno con l’odore di metallo e sangue che ora si condensa sulla sua lingua in una patina viscosa.

Peter sa che è stato quello sparo a portarlo fin lì: sa che è per questo che è fuori dall’ospedale con una divisa da infermiere addosso, e che la divisa inzaccherata di sangue e le lacrime che vorrebbero rigargli il volto e che trattiene sono anch’esse conseguenza diretta dello sparo. E allo stesso tempo sa che non è partito tutto da lì, anche se non gli riesce di guardare più indietro – ha smesso di guardarsi indietro – e in fondo che importanza ha, adesso?

Ma sa che le vere cause dello sparo, altrettanto reali ma forse non così tangibili, sono oltre la canna del fucile e oltre le spalle del cecchino. Peter serra la mascella e i suoi denti cigolano, stritolando rabbia acre e ricacciando in gola lacrime salate che vanno a ribollire come magma nel suo stomaco.

Quel colpo silenzioso, invisibile, letale, è stato messo in canna proprio davanti a lui, forse dalle sue stesse mani, in una bella giornata di sole a Capitol Hill…


 



 
Note Dell'Autrice:
 
Cari Lettori,
torno alla ribalta (?) con un nuovo progetto, ché tanto ormai è appurato che non riesco a finirne uno prima di cominciarne un altro...
L'idea di questa storia è vecchia di quasi sei mesi, e precede di molto Endgame. Non ignorerò del tutto gli eventi del film, ma non potrò neanche seguirli pedissequamente visto che quando è uscito ero già immersa fino al collo nella trama con metà dei capitoli scritti. Riadattare il tutto sarebbe stato un lavoraccio che avrebbe vanificato anche il fulcro centrale della storia, intuibile sia dall'intro che dal banner :')

Di solito mi impegno a rispettare il canon, ma questo prendetelo come un progetto a sé stante rispetto al mio "filone principale". La storia si basa sulla saga Marvel a fumetti Spider-Man: Back In Black di Straczynski, che ho voluto omaggiare col titolo; la base è quella del MCU, e nel mix ho buttato anche qualche riferimento al videogioco Spider-Man della Insomniac Games, oltre a vari ed eventuali easter eggs tratti da altri media. Buona caccia, insomma :')

Angolo dei ringraziamenti sdolcinati (avvertenze: può causare picchi glicemici):
-Un grazie gigantesco va a a Miryel per aver creato la meravigliosa grafica della storia che vedete lassù ** Io sto ancora piangendo, sallo, e spero davvero che la storia ripaghi il tuo impegno... e niente, vado a continuare a piangere <3
-Un abbraccio hulkosissimo e un bacio starkoso (ormai ho imparato l'ordine eh :P) alla mia carissima _Atlas_ che si è beccata i primi due capitoli in anteprima, e che si è messa a fare comunella con me per creare un headcanon post-Endgame comune e coerente... ma di questo parlerò più in dettaglio nel primo, vero capitolo ;) 
-Un muffin gigante a shilyss che ha sopportato i miei deliri sulla storia in più o meno tutte le sedi immaginabili, dimostrando una pazienza che manco Frigga con Thor e Loki, guarda <3
-Last, but not least, un grazie enorme a T612, vera mente diabolica dietro alle origini di questa storia, che coi suoi "progetti mastodontici" ispirati ai fumetti mi ha indotta a seguire il suo esempio scrivendone uno di mio pugno Sarai ripagata con fiumi d'angst e pugnalate a tradimento, come da tradizione <3 :')

Ultimo appunto: il titolo del capitolo è tratto dall'omonima poesia di Bukowski.
E ora mi cucio la bocca, che le note son più lunghe del prologo. Vi annuncio un pronto aggiornamento in settimana, col primo, vero e proprio capitolo di questa mia nuova follia <3 Se vi va, fatemi sapere cosa ne pensate di questo primo scorcio sulla storia: ogni recensione è apprezzata!
Hasta la vista,

-Light-


   
Disclaimer:
Non concedo, in nessuna circostanza, né l'autorizzazione a ripubblicare le mie storie altrove, anche se creditate e anche con link all'originale su EFP, né quella a rielaborarne passaggi, concetti o trarne ispirazione in qualsivoglia modo senza mio consenso esplicito.

©_Lightning_

©Marvel

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Capitolo 2
*** Un amichevole Spider-Man di quartiere alla Casa Bianca ***


Spider-Man: Back In Black

 

§

 

Capitolo I

Un amichevole Spider-Man di quartiere alla Casa Bianca




“A tournament, a tournament, a tournament of lies
Offer me solutions, offer me alternatives

And I decline
It’s the end of the world as we know it
And I feel fine”

[It’s The End Of The World As We Know It (And I Feel Fine) – R.E.M.]

 

 

 

«Dovevo vestirmi più formale?»

«Non agitarti, ragazzo: è solo il Presidente.»

La risposta flemmatica di Tony non lo tranquillizzò affatto. Peter gli scoccò un’occhiata sbieca che lui ignorò col consueto fare disincantato.

«Se avessi saputo che voleva parlare col Presidente, mi sarei almeno messo una cravatta,» protestò ancora a mezza voce, accennando alla felpa blu della Midtown e ai jeans casual che indossava, in netto contrasto con l’impeccabile completo formale dell’altro. «O il costume.» 

In quel momento si sarebbe sicuramente sentito più a suo agio con la maschera a coprirgli il volto. La tentazione di tirarlo fuori dallo zaino e appartarsi in un bagno pubblico per cambiarsi si stava facendo via via più insistente, in un bisogno fisico di sentire il tessuto sintetico aderire rassicurante alla sua pelle. Tony sbuffò e lanciò un’occhiata circospetta attorno a sé da dietro le lenti scure. Miracolosamente, nessuno dei pochi avventori a passeggio per il parco di Capitol Hill stava prestando loro attenzione, nonostante il suo mentore non passasse certo inosservato.

«Abbassa la voce,» borbottò comunque lui, con fare teso.

«Guardi che non tutti hanno un super-udito,» lo punzecchiò Peter, pur rendendosi conto dell’insolita serietà di Tony.

«Non si sa mai,» replicò questi, senza sorridere.

«Sta diventando paranoico,» sospirò rassegnato lui. 

Accontentò comunque la sua richiesta e mantenne un volume moderato nel parlare, cosa che gli riusciva sempre piuttosto difficile. Aveva inteso quel commento in modo scherzoso, ma un cipiglio contrariato andò a incidere una ruga sottile sulla fronte del suo mentore.

«Puoi biasimarmi?» proferì soltanto, seccamente.

Peter scrollò le spalle, a sfuggire quella domanda retorica a cui avrebbe potuto dare solo risposte ipocrite, visto che come al solito aveva i bracciali spara-ragnatele ai polsi. Indossarli costantemente, notte e giorno, era ormai diventata un’abitudine rassicurante – e senz’ombra di dubbio paranoica.

Quella mattina era stato particolarmente sollevato nel percepirne la tenue stretta sulla pelle. Aveva avuto un brutto presentimento, quando Happy era venuto a prenderlo a sorpresa a scuola nonostante fosse mercoledì. Di solito si trasferiva al Complesso di venerdì per tutto il finesettimana, così da mantenere la copertura del “tirocinio alle Stark Industries”, ma l’autista era stato ancor meno loquace del solito nel fornirgli spiegazioni, se non che May era al corrente della cosa. Peter aveva immaginato, con un ben noto picco di disagio, che l’avesse informata quando erano andati a cena fuori la sera prima.

Poi, invece di fare rotta verso la Tower o l’Upstate, l’aveva condotto al terminal privato del JFK. In meno di un quarto d’ora, si era trovato seduto sugli eleganti sedili in pelle di un jet, con lo zaino di scuola ancora in braccio, Happy che lo salutava energicamente da oltre l’oblò e uno steward a sua completa disposizione che l’aveva infine informato di essere atteso a Washington dal signor Stark. Peter si era limitato ad annuire frastornato, spiluccando poi senza appetito il pranzo a cinque stelle mentre messaggiava con Ned, scusandosi in modo vago per aver fatto saltare quel pomeriggio di studio con lui e MJ. Aveva tenuto per sé dove fosse diretto: non gli serviva il senso di ragno per rendersi conto che qualcosa non tornava.

L’impressione si era acuita non appena Tony gli si era fatto incontro all’aeroporto della capitale vestito di tutto punto, con degli occhiali particolarmente ampi e scuri sul naso e quell’aria di manifesta giovialità e leggerezza che assumeva quando c’era qualcosa che lo turbava. Ormai gli riusciva fin troppo facile leggerlo: era evidente come il suo mentore, a Washington, non avrebbe voluto metterci piede neanche per sbaglio. C’erano pochissime motivazioni che potessero spingere Tony Stark a fare qualcosa a lui sgradito, e nessuna di esse era positiva.

Peter si era limitato a tenere per sé la propria incontrollabile curiosità, accettando di accompagnarlo in città per alcune “commissioni” non meglio definite. Il suo mentore non era famoso per la propria riservatezza, ma aveva comunque sviato ogni sua domanda con consumata impassibilità, e Peter si era ben presto rassegnato ad aspettare un momento più propizio.

La loro prima tappa era stata il Campidoglio, dal quale Tony era uscito dopo meno di un quarto d’ora ancor più incupito, affermando con una traccia di ostilità ben palpabile di essere stato reindirizzato alla Casa Bianca dal Segretario Ross. Con perplessità di Peter, aveva rinunciato all’auto e si era incamminato a piedi attraverso l’immenso parco presidenziale, come ad allungare coscientemente il tragitto.

Anche ora, nell’avvicinarsi al candido edificio dal quale si decidevano le sorti del Paese, sembrava volersi mantenere il più a lungo possibile a distanza da esso, posando passi sempre più svogliati sul vialetto. Peter era abbastanza sicuro che quel rallentamento derivasse anche da cause fisiche, ma non gli propose di fermarsi o sedersi per fare una pausa. Sapeva quanto Tony detestasse quelle premure.

Dopo un quarto d’ora buono, erano ancora immersi in un silenzio per loro insolito, che iniziava a pesargli come una cappa funesta sulle spalle a dispetto della bella giornata di sole, col parco rigoglioso ma visibilmente incolto che si stendeva davanti a loro a perdita d’occhio. Fu quando costeggiarono la piazza del Monumento a Washington che Peter non riuscì più a trattenersi, se non altro per distrarsi dai ricordi non esattamente piacevoli che gli evocava quel luogo.

«Sa che io di politica non ne capisco nulla, vero?» esordì con un po’ di titubanza, e Tony sembrò quasi non sentirlo, per poi riscuotersi dopo un paio di passi, lo sguardo ancora perso altrove.

«Appunto. È ora che cominci ad ambientarti,» sentenziò rapido.

«Dubito di poterle essere utile, a meno che lei non abbia intenzione di rapire il Presidente,» osservò Peter, e nel parlare sollevò una manica scoprendo uno spara-ragnatele a mo’ di spiegazione, nel blando tentativo di dissipare il suo umore tetro.

Tony sollevò appena un angolo delle labbra, tirandogli subito giù il polsino con fare scherzoso.

«Buono, ragnetto. Anche se l’idea mi ha sfiorato,» gli concesse poi, con un sospiro silenzioso che sapeva d’esasperazione.

Peter tacque finché non si lasciarono alle spalle l’obelisco, continuando a mordicchiarsi nervosamente le labbra e a strattonare la spallina dello zaino mentre rimuginava su quelle parole.

«È così grave?» proruppe poi, e Tony trasalì impercettibilmente. «Qualunque cosa sia, intendo. Se c’è davvero qualcosa.»

«No,» ribatté l’altro, cacciandosi le mani nelle tasche dei pantaloni, per poi incassare la testa tra le spalle e calciar via un sasso capitato sul suo cammino.

A Peter diede molto l’impressione di uno scolaretto obbligato ad andare a lezione contro la sua volontà, e che si impegna a rendere manifesta la propria avversione lungo il tragitto forzato.

«Non lo so,» esalò infine dopo qualche istante, con palpabile reticenza e uno scatto del capo.

Peter meditò un istante, per poi stamparsi in faccia un’espressione spavalda:

«In una scala da uno a Thanos…»

Tony soppresse uno sbuffo che celava una punta di tensione.

«Ok, non è così grave,» rispose in fretta, dandogli un rapido buffetto sulla spalla mentre camminava, come a controllare che fosse ancora fisicamente lì. «Ma non è un problema che possiamo sottovalutare,» borbottò in fretta, a scacciare del tutto quell’argomento tabù.

«Possiamo?» ripeté Peter, assottigliando gli occhi nell’individuare uno spiraglio tra le parole di Tony.

Lui trattenne silenziosamente il respiro, colto in fallo, e irrigidì la mandibola. Peter batté le palpebre, a dissipare uno di quei fugaci momenti in cui gli sembrava che ci fosse troppo grigio a striargli i capelli e il pizzetto.

«Sì, possiamo,» gli confermò poi, controvoglia. «C’entriamo tutti, in questo casino,» sbottò con improvvisa frustrazione, portandosi una mano irritata alla nuca e accelerando appena il passo.

Peter si accigliò e gli tenne dietro senza più porre domande, mentre il senso di ragno gli inviava uno spiacevole, smorzato pizzicore lungo le sinapsi.

 

 

Non si era mai soffermato a riflettere su come potesse essere l’interno della Casa Bianca, ma, se l’avesse fatto, la realtà non si sarebbe poi discosta molto dalla fantasia: marmo ovunque, tappeti rossi srotolati lungo corridoi interminabili e lampadari di cristallo a diffondere una luce solo apparentemente calda, attutita dal colore candido e dominante che rispecchiava il nome dell’edificio presidenziale. L’odore penetrante di cera per pavimenti gli anestetizzava le narici, e si sforzò di reprimere una smorfia infastidita.

Lui e Tony erano stati fatti accomodare su delle scomode sedie foderate di raso rosso in un ampio corridoio delimitato da colonne, coi busti in marmo dei Presidenti che li scrutavano torvi dalle loro nicchie a volta. George Washington sembrava particolarmente seccato dalla loro presenza. Non era un luogo accogliente, e più si guardava intorno meno lo diventava, così si sforzò di mantenere lo sguardo basso, a riflettersi sul lucido marmo sotto le sue scarpe da ginnastica scolorite che stringevano lo zaino.

Tony sembrava molto più a suo agio e Peter non se ne stupì troppo: magari non veniva convocato tutti i giorni allo Studio Ovale, ma non era certo la prima volta che vi metteva piede. Sedeva comunque in tensione, con una caviglia poggiata sul ginocchio, la gamba sottostante che fremeva irrequieta e gli occhiali da sole ancora a schermargli il volto; abbassava spesso lo sguardo sull’importante orologio che spuntava dal polsino sinistro, come se fissarlo in cagnesco potesse far accelerare le lancette.

Peter scoccò a sua volta un’occhiata al quadrante, constatando che fossero passati molti meno minuti rispetto a quelli che aveva percepito scorrergli addosso. Si rese conto di fissare Tony con troppa insistenza solo quando questi abbassò a sua volta lo sguardo con fare interrogativo, e lui si affrettò a puntare di nuovo il proprio sulle punte dei piedi, sperando di farla passare per un’esternazione di nervosismo.

In verità, gli riusciva ancora difficile distogliere l’attenzione dalla mano sinistra di Tony, col suo dorso solcato da cicatrici spesse e nodose, la pelle tirata sulle nocche e il palmo più liscio del normale a causa delle ustioni che gli aveva inflitto il Guanto[1]. Lui ci scherzava spesso su e diceva che un mignolo fuori uso e una mano che avrebbe fatto impazzire una cartomante erano un prezzo di favore per essere scampato alla fine del mondo. Degli altri danni collaterali non parlava mai: si comportava come se non esistessero e gli altri seguivano il suo esempio.

Peter sapeva che, in fondo, Tony aveva ragione, su tutto, ma in testa aveva ancora impressa l’immagine del suo mentore in fin di vita, agonizzante e riverso tra le macerie intrise del suo stesso sangue, mentre cercava debolmente di strapparsi di dosso il Guanto semifuso e incandescente che gli si era saldato sulla pelle. Si riscosse da quei ricordi vividi che continuavano a frapporsi tra i suoi occhi e il mondo reale, distorcendolo.

Guardò di nuovo di sottecchi la mano, e la pelle di Tony tornò ad apparirgli rosea, guarita e intatta, con le cicatrici ingentilite dalla fede dorata che gli cingeva l’anulare. Riprese a respirare, con l’impressione di avere della polvere nei polmoni che si affievoliva e l’irrefrenabile bisogno di distrarsi a suon di parole – perché dopotutto era con Tony Stark alla Casa Bianca e non ne aveva ancora capito il perché.

«Il Presidente sa che lei è qui?» chiese sottovoce, accostandosi appena a Tony.

Questi lo squadrò per qualche istante, prima di annuire con un mugugno prolungato a rassicurarlo, seppur con leggera titubanza.

«Siamo alla Casa Bianca, non in chiesa,» lo canzonò subito dopo, con un accenno del suo solito sogghigno. «Perché devi sussurrare?»

Peter fece un sorrisetto imbarazzato che non rilassò il suo volto, tracciandovi invece nuove linee di tensione.

«Ecco, insomma…» tentennò e si poggiò allo schienale, reclinando la testa all’indietro mentre si guardava intorno con perplessità. «Sono un ragazzo del Queens, signor Stark. Che ci faccio… alla Casa Bianca?» riuscì a chiedere infine, riportando gli occhi increduli sul suo mentore.

Questi in tutta risposta si passò una mano sul mento a lisciarsi il pizzetto, segno che stava per propinargli una risposta molto generica e molto insoddisfacente.

«Mi serviva qualcuno di meno rompiscatole di Rogers, di meno compromesso di Barton, di meno appariscente di Banner… insomma, hai capito,» sbuffò, con un gesto svolazzante della mano.

Peter sollevò appena le sopracciglia, cogliendo il filo logico non del tutto celato.

«Insomma, un anonimo?»

Tony incrociò le braccia, inclinando il mento sul petto e aspettando pazientemente che la guardia di ronda li superasse prima di rispondere:

«Un… supporto neutrale,» confermò poi, in modo ancor più vago. «Per ora. Non sono del tutto certo che quando usciremo di qui sarai dello stesso avviso, ma…»

«Tony, mi spieghi cosa sta succedendo?»

Lui gli rivolse uno sguardo leggermente stralunato, come sempre quando lo chiamava per nome e lasciava da parte le formalità. Non amava farlo e, anzi, lo evitava il più possibile, ma aveva imparato abbastanza alla svelta che era un ottimo modo per interdirlo, oltre che per renderlo molto più incline a lasciar cadere qualsivoglia maschera indossasse al momento.

Anche adesso, incrociò le braccia e schioccò appena la lingua, per poi decidersi a togliersi gli occhiali da sole e riporli nel taschino. Le ombre che gli incorniciavano il volto divennero più evidenti, così come la bruciatura sulla tempia sinistra, che gli accartocciava l’orecchio e scendeva rossastra a lambirgli il profilo del viso fino a scomparire sotto al colletto della camicia. Peter non poté fare a meno di accigliarsi, spostando d’istinto lo sguardo sul suo lato intatto. L’ultima volta che l’aveva visto così corrucciato erano su un’astronave aliena. Non era un ricordo che rivangava volentieri.

«Non hai davvero nessuna idea?» interloquì Tony, senza esporsi.

Peter arricciò pensoso le labbra. Nell’ultimo periodo aveva captato una sorta di elettricità statica al Complesso, ma vista la sua volontaria estraneità ai Vendicatori non era stato coinvolto in tutte le riunioni. Sapeva solo che ultimamente erano aumentate, e che spesso Tony abbandonava il laboratorio per stare anche un paio d’ore al telefono con Steve, o il Colonnello Rhodes, o chi per loro, sempre con un’aria molto insoddisfatta ad appesantirgli il volto quando si rimetteva al lavoro. Poi, considerato l’esito dell’ultimo meeting a cui aveva partecipato, gli sovveniva più di una causa valida per quel cattivo umore latente, anche se non ne capiva appieno le dinamiche.

«Qualcuna,» ammise quindi, ma, prima che potesse continuare, Tony lo interruppe, come se gli servisse solo quella conferma:

«So a cosa hai pensato, e , c’entra anche quello,» disse, serio ma senza durezza. «Ti spiegherò tutto dopo la mia chiacchieratina con lo zio Sam,» promise, alzando il palmo imperfetto a rimarcare quelle parole. «Adesso però dovrai sorbirti un piccolo interrogatorio extra, visto che a quanto pare trascinarti alla Casa Bianca è l’unico modo che ho per parlarti di persona,» lo stuzzicò, recuperando il suo atteggiamento disinvolto e spingendolo di lato con la spalla a mo’ di sollecito.

Peter sorrise nervosamente, intrecciando le dita davanti a sé senza guardarlo, avendo intuito dove voleva portare il discorso e parzialmente deluso per non aver ottenuto spiegazioni.

«È che sono stato un po’ impegnato con gli esami e… e tutto il resto. Devo… devo recuperare, lo sa,» concluse, appigliandosi alla giustificazione più ovvia, abusata e, in fondo, vera.

Lo sguardo inquisitore di Tony gli fece capire chiaramente che quella era una scusa molto debole, per quanto fondata, e che solo per quest’ultimo motivo si sarebbe astenuto dal contestarla apertamente.

«Mh-hm,» mugugnò comunque, a esprimere tutto il suo scetticismo. «Io penso che tu mi stia anche evitando, ma sarà solo una mia impressione,» buttò lì, scrutandolo con più intensità.

Peter si agitò sul suo sedile, a corto di scuse.

«Forse ho bisogno di… tempo per pensare, per stare da solo… e riflettere, ecco,» si costrinse a rispondere, rapido e titubante.

Strinse le dita intrecciate, alla ricerca delle parole giuste, temendo che quelle non fossero abbastanza e sperandolo al contempo. Tony si rattristò, lo vide dal modo in cui compresse le labbra con disappunto, come se non fosse quella la reazione che avrebbe voluto suscitare in lui. Peter desiderò di non aver mai aperto bocca.

«Dimmi solo una cosa,» sospirò poi l’uomo, stringendosi la radice del naso tra pollice e indice come a contenere i pensieri. «C’entra Thanos?» chiese, voltandosi verso di lui.

Peter deglutì e si obbligò quindi a sostenere il suo sguardo, fattosi ora addolorato. Quella era una domanda a doppio e triplo fondo e sapeva che Tony si tratteneva dal porla tanto spesso quanto avrebbe voluto solo perché le sue ramificazioni finivano per toccare anche lui. Thanos non era solo un nemico tangibile: Thanos era il tempo perso, era il vuoto, era l’arancione degli incubi, era cenere e sangue, era la paura, lo smarrimento e la vertigine che teneva chiuse sottochiave da sei mesi.

«Non del tutto,» svicolò, sentendosi messo alle corde. «Non ci penso così spesso.»

Mentì, tacendo le notti in cui si svegliava in un bagno di sudore e col fiato mozzo, con la netta percezione delle sue ossa friabili come cenere e la sensazione di essersi dimenticato qualcosa, troppe cose.

«E a tutto il resto mi sto… riabituando. Sto riempiendo i vuoti, e per fortuna ci sono Google e Wikipedia, così è più facile, più o meno,» aggiunse in rapida successione, sfregando tra loro la punta delle dita in un riflesso nervoso quanto il suo sorriso.

«Ok,» gli accordò Tony in contrasto con la voce costretta, concedendogli il beneficio del dubbio. «Tua zia, da quanto so, sta bene, e non hai l’aria di chi ha il cuore spezzato. Quindi, per esclusione, deduco che sia comunque colpa mia,» concluse, inclinando appena di lato la testa.

Peter meditò se contraddire quel “comunque” che nascondeva altri sottintesi odiosi, di quelli che avrebbe voluto strappare a forza dalla testa di Tony pur sapendo quanto sarebbe stato futile, perché il senso di colpa è uno di quei sentimenti che pianta le proprie radici in profondità e continua a germogliare anche dopo che è stato estirpato, come erba gramigna. Si limitò a lanciargli un’occhiataccia di rimprovero, consapevole di quanto poco apparisse minaccioso senza la maschera di Spider-Man.

«Non la seguo,» lo incalzò.

«Mi eviti da quando abbiamo parlato dell’università,» dichiarò Tony alzando il mento, senza più giri di parole. «Mi fingo stupido, ragazzo, ma non lo sono,» puntualizzò, con una nota appena risentita.

Peter sospirò, umettandosi le labbra e abbassando lo sguardo a schermare gli occhi che, lo sapeva, si erano fatti più inquieti del dovuto. Il silenzio nel corridoio diventò opprimente, scandito solo dal ticchettio dell’orologio di Tony e dai passi cadenzati della guardia, entrambi assordanti per le sue orecchie sensibili. Quella faccenda dell’università lo stressava e sembrava seguirlo come un’ombra: bastava menzionarla per renderlo un fascio di nervi suscettibile alla minima perturbazione.

Quasi scosse la testa a rimproverarsi: in cuor suo sapeva perfettamente perché quella scelta ormai sempre più vicina lo turbasse a tal punto, ma non era il genere di discussione che poteva affrontare con Tony. O con May. Con chiunque, a dir la verità, incluso se stesso.

«Non la sto evitando,» si difese infine, odiandosi per la sua incapacità nel mentire, oltre che per la bugia in sé.

Evitare Tony era l’ultima cosa che avrebbe voluto fare, ma nell’ultima settimana gli era venuto naturale, in una sorta di autodifesa istintiva che aveva limitato i contatti a poche chiamate stringate e qualche messaggio di circostanza. Una reazione del tutto spropositata, per la semplice domanda che Tony aveva buttato lì lo scorso sabato pomeriggio, mentre erano a zonzo al centro commerciale del Columbus Circle appena riaperto. Era una domanda normale da porre a qualcuno della sua età, ma a lui quel punto interrogativo sembrava calzare come un vestito troppo largo in cui avrebbe solo potuto inciampare in modo ridicolo.

«Ci sto pensando, è una scelta…» annaspò in cerca della definizione più adatta, senza trovare una parola che racchiudesse al contempo “insensata”, “prematura” e “terrificante”, «… difficile,» concluse sbrigativo e parzialmente insoddisfatto, ma senza osare spingersi oltre.

Tony, per un istante, sembrò sul punto di lasciar cadere la questione, senza pressarlo ulteriormente.

«Non voglio pressarti…» esordì subito dopo, schioccando piano la lingua.

Peter presagì il “ma” in arrivo e avrebbe alzato gli occhi al cielo, se Tony non fosse stato Tony e se non ci fossero stati mille valide ragioni per non rispondergli in modo stizzito, oltre a quelli imposti dalla buona educazione che gli aveva impartito May.

«… ma magari parlarne faciliterebbe le cose, no?» propose, in modo assolutamente logico e per questo inaccettabile, soprattutto perché non l’aveva posta come una vera domanda.

«Forse,» gli concesse malvolentieri, mordendosi l’interno della guancia e continuando a tacere.

Tony sospirò, scivolando sempre più in avanti sulla propria sedia come se si stesse sgonfiando a poco a poco.

«Missione fallita, suppongo,» constatò poi con falso brio, raddrizzandosi di colpo e facendolo accigliare perplesso. «Cercavo di capirci qualcosa, ragazzino,» aggiunse ammiccando, come se quella fosse una spiegazione esaustiva.

«Uh… stiamo parlando ancora dell’università?» prese tempo Peter, confuso.

«Il punto è che tu andrai all’università, e con “tu” intendo il tuo io fisico e metaforico,» gesticolò lui, tornando a fissarlo eloquente.

Peter incrociò brevemente il suo sguardo, per poi sfuggirlo e prendere a passare un indice tra uno spara-ragnatele e il polso, in attesa di un continuo che in cuor suo temeva.

«E non sono il solo a voler sapere che fine farà il tuo alter ego a otto zampe,» esplicitò infine Tony, accennando col mento alle porte di fronte a loro.

Peter deglutì, improvvisamente conscio di quanto sembrasse minacciosa la porta dello Studio Ovale, con l’aquila ad ali spiegate che incombeva severa su di loro.

«Quindi siamo qui per questo?»

Tony annuì per metà e, di nuovo, parve seccato.

«Anche. O meglio, io sì. Sono in una brutta posizione, tanto per cambiare, e l’ultima cosa che voglio fare è trascinarti con me, di nuovo. Non me lo perdonerei mai,» sottolineò con forza, quasi con rabbia, e Peter si affrettò a contraddirlo:

«Ho scelto io di seguirla su Titano, non so più come…»

«Parlavo di Lipsia,» lo interruppe lui, in modo brusco. «Palesemente errore mio, visto che ti ho coinvolto nella nostra faida familiare… anche se a mia discolpa pensavo che si sarebbe risolta con una sana litigata, magari con un divorzio poco pacifico e alimenti da pagare, ma…»

«Lipsia?» lo interruppe a sua volta Peter, mancando un colpo. «Un momento… cioè, gli… gli Accordi? Il casino all’aeroporto? È di questo che stiamo parlando?» chiese a raffica, senza celare il proprio sgomento e cercando lo sguardo di Tony, che si stava però impegnando a sfuggirlo.

Lo vide aprire e chiudere la bocca un paio di volte, ma prima che potesse cavarsi fuori una risposta coerente fu provvidenzialmente salvato dalla voce di un addetto:

«Signor Stark, il Presidente è pronto a riceverla.»

Tony scattò in piedi come una molla, con agilità impensabile, svicolando la domanda e ignorando lo sguardo penetrante che Peter s’impegnò a scoccargli per quella brusca interruzione.

«Non fissarmi così, senza maschera non sei credibile,» lo prese in giro Tony in un sussurro, mentre si piazzava di nuovo gli occhiali da sole sul naso e recuperava la sua facciata spavalda. «Aspettami qui, e non toccare niente,» aggiunse a voce più alta, puntando un indice perentorio nella sua direzione prima di sparire oltre le porte della Sala Ovale.

Peter rimase con un palmo di naso, decisamente contrariato e con un tramestio soffuso ad agitargli cervello e stomaco. Incrociò strettamente le braccia sul petto e le caviglie attorno allo zaino fingendo disinvoltura, ben consapevole dello sguardo attento della guardia di sicurezza puntato su di lui. Probabilmente si chiedeva cosa diavolo ci facesse un adolescente alla Casa Bianca, per di più al seguito di Tony Stark. Pregò solo che non gli venisse in mente di perquisirlo: avrebbe avuto qualche difficoltà a spiegare la presenza del costume nel suo zaino, e ancor di più a giustificare gli spara-ragnatele appuntati sui suoi polsi.

Si limitò a rimanere in attesa, con le ginocchia traballanti per il nervoso e lo sguardo che oscillava tra l’emblema dell’aquila bronzea stagliata sulla porta e gli occhi di marmo freddi e inquisitori che parevano appuntati su di lui.

 

 

Tony riemerse dall’incontro dopo quasi quaranta minuti, giusto in tempo per evitare che la sua approfondita analisi del cipiglio indispettito di Abraham Lincoln si trasformasse in un danno da qualche migliaio di dollari. Peter si raddrizzò all’istante, discostandosi innocentemente dal busto marmoreo con cui era faccia a faccia, ma l’uomo gli rivolse a malapena un cenno distratto del capo mentre già si avviava verso l’uscita.

Lui recuperò in tutta fretta lo zaino, rivolse un impacciato saluto alla guardia di sicurezza impassibile e si fiondò sulla scia di Tony con le scarpe da ginnastica che squittivano in modo ridicolo sul marmo lucido. Il suo mentore lasciò andare un respiro liberatorio non appena varcò la soglia dell’edificio, e Peter colse con fin troppa chiarezza le linee di tensione scolpite nel suo volto, ora più simile alle statue che si erano lasciati alle spalle che all’immagine disincantata che sfoggiava solitamente in pubblico.

Ogni domanda gli morì sulle labbra, soffocata dal ritmo di tamburo un po’ troppo accelerato che aveva iniziato a seguire il suo cuore, e scese rapido le scale candide che davano sul prato, inalando a pieni polmoni l’aria tiepida.

Il sole li accolse più fioco di prima, velato da una nube di passaggio. Il cambiamento di luce mise in risalto quei dettagli che Peter aveva cercato di mantenere ai margini del proprio campo visivo: le aiuole e le siepi mal potate, la fontana prosciugata, il prato inframezzato da chiazze aride e i bidoni straripanti di rifiuti. La normalità in un qualsiasi parco del Queens, non certo per quello della Casa Bianca.

D’altronde, “normalità” era un concetto che ancora dopo sei mesi faticava a ingranare, lasciando il mondo a sussultare sul posto, come un motore inceppato che qualcuno sta cercando di avviare con troppa insistenza. Peter si sentiva fisicamente parte di quell’ostruzione: uno dei tanti sassolini capitati tra gli ingranaggi, che rischia di schizzar via o di essere polverizzato da un momento all’altro. Di essere schiacciato. Ridotto in cenere.

Deglutì, sentendosi di colpo palmi viscidi. Toccò gli spara-ragnatele concentrandosi sulla loro stretta rassicurante, lieto che Tony fosse ancora un paio di passi dietro a lui. Si sentiva agitato come non lo era da tempo, ma attribuì la colpa alla giornata densa di avvenimenti e pensieri che ancora sembrava lontana dal volgere al termine. In realtà era sempre agitato, ma aveva imparato ad ignorare quel fastidioso tumulto di fondo.

La nube fu trascinata via dal vento leggero, permettendo ai raggi del sole primaverile di trapelare: il mondo tornò a essere tinto di verde e bianco e azzurro, scacciando la sfumatura grigiastra dai suoi occhi e alleviandogli il respiro. Ritenne sicuro voltarsi verso il suo mentore, e lo sorprese intento a scendere rigidamente e con cautela le ampie scale di marmo, usando solo la gamba destra come appoggio. Fece per andargli incontro, ma Tony intercettò il suo sguardo e si affrettò a superare gli ultimi due gradini quasi con brio, soffocando tra i denti un’imprecazione che raggiunse comunque le orecchie di Peter.

«Signor Stark…» cominciò titubante, ma lui lo interruppe con un gesto svogliato della mano.

«Il tutore sta facendo di nuovo le bizze,» disse rapido, superandolo e costringendolo a seguirlo per non rimanere indietro. «Adesso capisco perché Rhodey si lamenta sempre…» borbottò poi, puntando con improvvisa decisione una panchina a qualche metro da loro e lasciandovisi cadere di peso con uno sbuffo sollevato.

Peter lo imitò in silenzio, con qualche brandello di preoccupazione ad aleggiargli in testa, ma tenne lo sguardo fisso sul ghiaino. Prese a smuoverlo con la punta delle scarpe, coi pensieri di nuovo impigliati su quei sassolini fermi nel punto sbagliato.

«Ragazzo,» lo richiamò Tony, facendolo quasi trasalire. «Mi stai ascoltando?» indagò, inclinandosi verso di lui e scrutandolo inquisitore da dietro il bordo delle lenti.

«Uh… sì, certo! Certo che sì,» farfugliò lui alzando di scatto lo sguardo, con gli occhi un po’ sbarrati a tradirlo. «Insomma… può essere un po’ più specifico? Intendo, di cosa avete parlato a parte… Spider-Man? Perché c’entro anch’io, cioè lui, giusto?» tentò, incassando poi la testa tra le spalle con fare insicuro.

«Spider-Man per ora è fuori dall’equazione… o meglio, è un’incognita che mi sono impegnato a far rimanere tale,» rispose enigmaticamente Tony.

Si aggiustò gli occhiali da sole sul naso, senza manifestare l’intenzione di toglierli. Peter deglutì, in attesa di un continuo, pungolando mentalmente il suo mentore che, dietro la lastra cupa che gli schermava il volto, sembrava intento a fare ordine tra troppi pensieri in subbuglio, segno che forse, stavolta, avrebbe ricevuto una risposta chiara.

«Il governo sta iniziando ad affrontare gli effetti collaterali della annullata Decimazione,» rivelò finalmente Tony, d’un fiato e senza altri giri di parole. «Noi, a quanto pare, rientriamo tra quegli effetti collaterali,» concluse, tirando le labbra con apparente scherno.

«Gli… effetti collaterali?» ripeté Peter, con una scintilla d’intuizione a che parve scottarlo ma che preferì non esplicitare.

«Non ci sono stati solo baci e abbracci in seguito al… al contro-schiocco, ma questo te lo puoi immaginare,» replicò Tony, tirando su col naso in un riflesso nervoso. «Io mi sono perso qualche sviluppo mentre ero impegnato a battere il record di dormita della Bella Addormentata nei Ghiacci, ma… insomma, il mondo è un casino. Suicidi in aumento, nuove famiglie distrutte dai ritorni, persone scomparse, la burocrazia impazzita, criminalità alle stelle, furti d’identità… e una crescente fobia per i superumani,» concluse, scoccandogli un’occhiata laterale.

Peter annuì appena di riflesso, con troppi input sensoriali a intralciargli la mente. Il clacson dall’altra parte del parco sembrò risuonargli a un palmo dal timpano, la luce si fece d’un tratto violenta, il vento dolce e primaverile era tagliente sulla sua pelle; si sentì rizzare i peli sulla nuca e fissò le pupille sensibili sul brecciolino troppo chiaro.

«In effetti, l’opinione più comune è che i Vendicatori abbiano sfasciato l’universo due volte,» concluse Tony, gravemente.

«Questo è meschino,» si riscosse Peter, aggrottando la fronte in un cipiglio al contempo furioso e addolorato. «Avete salvato il mondo e…»

«Abbiamo, Pete. Sì, continuerò a correggerti finché avrò fiato,» lo rimbrottò lui, impassibile e anticipando la sua replica, che sfumò in un sospiro arrendevole.

«Non dovreste essere… tutelati?» cambiò argomento, a disagio. «Gli Accordi non servivano a quello?» lo interrogò ancora, sempre più irrequieto e così teso da non riuscire quasi a battere le palpebre.

«Sì… e stanno funzionando contro ogni aspettativa, comprese le mie: siamo tutelati, almeno a livello legale. Certo, qualche membro dell’ONU ha tentato di allestire un processo degno dell’Inquisizione contro di noi, ma la maggioranza ci è grata e il resto dell’universo sa a malapena cosa sia successo cinque anni fa… quello è un problema fuori dalla nostra portata,» sospirò poi, in un misto d’inquietudine e sollievo. «Ma data l’alta concentrazione di superumani su suolo statunitense, il governo sta pensando di compiere una… mappatura più dettagliata,» articolò, con un gesto assente della mano.

A quel punto Peter aggrottò un poco le sopracciglia sporgendosi in avanti, con un nodo allo stomaco meno stringente che esitava però a sciogliersi.

«Ed è così grave?» chiese, senza nascondere la propria perplessità. «È… logico che vogliano sapere quanti siamo, no? O da che parte stiamo,» aggiunse, irrigidendosi al pensieri di coloro che, al contrario di lui, avevano fatto dei propri superpoteri un’arma, e non a fin di bene.

Tony sorrise amaro, ritenendola evidentemente un’affermazione ingenua.

«Non sarebbe così grave, se non conoscessi di persona chi si occuperà di dividere i “buoni” dai “cattivi”,» scosse la testa, sfregandosi la tempia ferita con fare frustrato. «I Vendicatori sono una fazione abbastanza sicura, anche se abbiamo qualche… “elemento problematico” tra i ranghi che potrebbe non superare i loro test di rettitudine morale,» spiegò, serrando la mandibola e inspirando a fondo a scacciare una repentina fitta di rabbia.

Peter non riuscì a collocare quella reazione, ma si concentrò sul nòcciolo del discorso, ovvero il proprio ruolo indefinito in quella complessa trama di equilibri politici. Si sentiva minuscolo solo a pensarci, un ragno nel senso stretto del termine, insignificante al centro di una tela molto più grande di lui.

«Io sarei già un Vendicatore, in teoria,» azzardò comunque, un po’ controvoglia e osservando l’effetto di quell’affermazione sui lineamenti di Tony.

Lui voltò la testa, fissandolo impassibile dal riparo dei suoi occhiali mentre contraeva ritmicamente le dita strette attorno ai bicipiti.

«Non è così semplice,» mormorò infine, emettendo un respiro secco. «La proposta al momento prevede un Atto di Registrazione per i superumani,» rivelò, inclinandosi in tensione contro lo schienale.

Peter boccheggiò, sentendo una puntura di spillo alla nuca mentre la reale entità di quell’affermazione gli si piazzava in gola come un blocco di cemento fresco.

«Registrazione? Vorrebbe dire che… che io dovrei…» balbettò stridulo.

«Se vorrai far parte dei Vendicatori, dovrai farlo sia come Spider-Man, che come Peter Parker,» gli confermò tetramente Tony.

«Ma non posso farlo!» sbottò Peter, quasi scattando in piedi quando un picco d’adrenalina gli risalì la schiena. «Insomma… vado ancora a scuola, e poi zia May… e tutta la storia dell’università, i miei amici… come faccio a…»

«Pete, ragazzo, ehi,» lo chiamò Tony, per poi bloccare il suo gesticolare agitato piazzandogli saldamente i palmi sulle spalle. «Ehi. Respira, mh? Non c’è nessun pericolo imminente,» scandì, e a Peter parve di vederlo mordersi la lingua dopo quelle parole, anche se al momento gli riusciva difficile decifrare ciò che vedeva o sentiva in modo logico. «Mi vedi agitato? , perché hai ragione e sono paranoico: mi agito anche quando non trovo i calzini nel cassetto o quando Pepper mi sposta le cose in laboratorio, ma adesso ti assicuro che non c’è nulla di cui preoccuparsi. Chiaro?» continuò poi, con un accenno di sorriso.

Peter annuì a scatti, focalizzandosi sulla sua stretta rassicurante e sulla sua voce pacata. Rimase ancora a occhi bassi, imbarazzato per quella reazione fuori dai ranghi e al contempo incapace di reprimere del tutto l’ansia che lo aveva colto, perché Spider-Man era l’unica parte realmente integra che esisteva ancora nella propria vita, e non era neanche un qualcosa di tangibile.

Prese un respiro profondo, cingendo gli spara-ragnatele con le mani: Tony era lì, zia May stava bene, lui era ancora un anonimo liceale del Queens. E aveva affrontato di peggio. Decisamente di peggio. Tony lo lasciò andare solo quando fu certo che si fosse tranquillizzato del tutto, per poi togliersi gli occhiali da sole con un gesto un po’ esitante, prendendo a rigirarseli in mano per la stanghetta.

«Stammi a sentire,» esordì, indicandolo con la stanghetta libera. «Il Presidente mi ha chiesto, esplicitamente, se sono ancora Iron Man,» annunciò poi, con una nonchalance che strideva con ciò che aveva appena detto.

Peter, di nuovo, si ritrovò a fare tanto d’occhi, ma cercò comunque di cavarsi le parole di bocca, sentendole pesanti e inadeguate:

«Ma… ma lei non lo è più, no? Ha lasciato… com’era il discorso del retaggio?» si salvò in tempo, rimangiandosi il vero motivo, ma non capì se Tony avesse apprezzato o meno il suo tatto maldestro.

«Peter, il Presidente degli Stati Uniti mi ha fatto una domanda,» ribadì, sollevando le sopracciglia in modo eloquente. «Gli ho detto la verità: che sono ancora Iron Man.»

«Ma… non è la verità,» protestò debolmente Peter.

«Lo è da adesso,» alzò le spalle Tony. «In questa situazione è meglio così. Credimi, avevo davvero deciso di appendere l’armatura al chiodo e sai che detesto tornare sulle mie decisioni…»

Sospirò nervoso, prendendosi le tempie tra pollice e indice, per poi ritrarsi e portare il palmo a sorreggersi il mento, coprendo parzialmente la bocca.

«Va bene, non prendiamoci in giro: è meglio per me se non ci rientro, in quella trappola di ferro,» disse, scostando appena la mano per far trapelare la propria voce, e Peter sentì un tuffo doloroso e inaccettabile al cuore.

«Allora perché l’ha detto?» sbottò, iniziando a percepire una viva frustrazione mista a una rabbia che non credeva di poter provare nei confronti di Tony.

«È una tutela, ragazzo. Ho detto che sono ancora Iron Man per salvaguardare il mio ruolo, la squadra e collateralmente te,» disse, guardandolo dritto negli occhi e facendolo quasi sobbalzare. «Se sono fuori dal “giro”, io non avrò voce in capitolo e loro avranno carta bianca.»

«Non si fida,» dedusse a mezza voce Peter, ancor più inquieto alla prospettiva che Tony riprendesse a indossare l’armatura in un ambiente ostile.

«Certo che no,» sbuffò Tony, con una mezza risatina tagliente. «La RAFT esiste ancora, Ross è ancora Segretario e io non ho in programma una nuova Lipsia,» concluse, serrando di nuovo la mascella in un tic nervoso.

«Non deve per forza…»

«Voglio,» lo troncò Tony, seccamente. «Voglio farlo,» stabilì irremovibile, senza schiodare gli occhi dai suoi.

Anche se non si addentrò nelle motivazioni che lo avevano spinto a quel gesto, per Peter fu facile immaginarle e sentirle strisciare e contorcersi in quel conosciuto groviglio di senso di colpa annidato nel suo cervello. Avrebbe voluto dirgli che non doveva sempre sentirsi in dovere di proteggerlo, ma un’affermazione simile avrebbe incrinato il precario equilibrio di entrambi, e non era questo il momento per farlo. Non quando non era neanche sicuro di dove stesse poggiando i piedi lui stesso.

«Tutto questo è... è ridicolo. È ridicolo,» ripeté ancora, con più veemenza.

«Pete, detesto quanto te queste stronzate,» gli venne incontro Tony. «Dio, abbiamo affrontato una guerra galattica e vogliono ancora metterci un guinzaglio al collo “per controllarci” …» A quel punto gettò il capo all’indietro, sfiancato, e continuò a parlare senza guardarlo: «Steve è indignato, Wanda furiosa, Rhodey litiga coi superiori ogni giorno, Bruce si è reso irreperibile e io, come al solito, sono nel mezzo. Dopo gli Accordi non posso neanche dichiararmi apertamente contrario. E stavolta sono contrario,» sospirò al cielo. «Cristo santo, sono riusciti a farmi essere d’accordo con Rogers,» cercò di sdrammatizzare, suonando solo frustrato e sprofondando poi in un silenzio meditabondo.

Peter si diede il tempo di riordinare i pensieri, mordendosi le labbra, ma era difficile distinguerli quando riusciva a focalizzarsi solo su quello che gli occupava interamente la testa come uno striscione a caratteri cubitali:

«Non voglio rivelare la mia identità,» esternò, con tutta la fermezza di cui fu capace, ma la sua voce virò comunque su una nota implorante.

«Neanch’io: sono debole di cuore, e piazzarti sul palcoscenico sarebbe un attentato alle mie coronarie,» replicò pronto l’altro, schiarendosi la voce con fare noncurante.

«Quindi, come ha intenzione di agire?» indagò Peter, allentando un poco la tensione e sperando in cuor suo che avesse già un piano.

«Un passo alla volta,» replicò lui, in modo paurosamente poco specifico. «Iniziamo col metterti in incognito sul registro dei Vendicatori, poi si vedrà. In ogni caso, potremo passare ai fatti solo quando sarai maggiorenne,» decretò, rimuginando tra sé.

«Ai fatti? Ho appena detto che non…»

«Sto vagliando tutte le probabilità,» lo interruppe Tony, in modo quasi colpevole. «Abbiamo tempo, ma per ora non puoi rimanere isolato: quando la proposta dell’Atto diverrà pubblica dovrai essere in una posizione favorevole, o finirai per esserne schiacciato.»

Peter non si fece turbare dalla scelta di parole, anche se poteva quasi percepire l’edificio crollato premergli sulle spalle e gli ingranaggi che cercavano di stritolarlo. Guardò Tony, e vide l’uomo d’affari abituato a muoversi in acque turbolente e gestire personalità importanti e suscettibili con sorrisi e strette di mano, a suo agio in un completo elegante quanto nell’armatura o nella tuta da lavoro.

«Mi fido di lei,» esalò semplicemente, d’istinto, sperando che quel semplice atto fosse sufficiente a proteggere lui e tutto ciò che lo circondava.

Tony sembrò leggermente sorpreso da quell’affermazione e prese a giocherellare più intentamente coi propri occhiali, per poi posargli una mano sulla schiena con fare incoraggiante.

«Non sei solo, ragazzino. Ci sono io, c’è May, c’è il resto della boy-band… e c’è anche Capitan Pensione, che ha ancora una certa influenza sugli animi dei bravi americani.» Roteò esageratamente gli occhi al cielo, facendolo sorridere appena. «Ti coprirò le spalle, dopotutto ho qualche asso nella manica…» scherzò, sollevando la mano sinistra in un gesto da spaccone. «Tu però dovrai muoverti in punta di zampe, da bravo ragnetto. Intesi?»

A quelle parole, gli puntò contro l’indice, fissandolo con quell’espressione di paterna, bonaria severità che poche persone sulla faccia della Terra riuscivano a guadagnarsi.

«Intesi,» annuì Peter guardandolo negli occhi, con voce più salda e pensieri più limpidi.

Il volto di Tony si distese e lui si riaggiustò gli occhiali da sole sul naso. Gli arruffò distrattamente i capelli mentre si alzava con una piccola smorfia, saldo sulle gambe.

«Bene, ora basta chiacchiere. Ho una fame da lupi,» annunciò, guardandosi rapidamente attorno col naso all’aria e le mani nelle tasche.

Peter accolse quel cambiamento d’umore come una boccata d’aria fresca, e un lieve sorriso furbetto gli illuminò il volto.

«Ho visto un Taco Bell sulla Madison,» buttò lì, alzandosi a sua volta.

«Andata,» sogghignò Tony, ammiccando poi con aria complice. «Non dirlo a Pepper.»



 

 



 
Note:

[1] In questa versione, Tony ha utilizzato il Guanto dell’Infinito con la mano sinistra. La storia, come accennato, è stata pianificata prima di Endgame, e all’epoca circolava una teoria sul braccio sinistro di Tony "destinato" a impugnare il Guanto. Visto che varie sezioni della storia si reggono sul fatto che il lato danneggiato è il sinistro, ho deciso di mantenere questo dettaglio non canonico.

Note Dell’Autrice:

Cari Lettori,
eccoci al primo, vero capitolo! Lo ammetto: stavo scalpitando da secoli per pubblicarlo, e spero davvero che lo abbiate apprezzato ♥
Come avrete notato, la narrazione è in medias res dopo Endgame, quindi molto viene dato per scontato o non viene spiegato, ma vi assicuro che tutti i nodi verranno presto al pettine. Per qualsiasi dubbio, sono a disposizione ;)

Qualche chiarimento è comunque d’obbligo: l’originale Back In Black è ambientata in piena Civil War, quindi ho cercato di fondere al meglio le due ambientazioni e di adattare temi e problematiche del fumetto al MCU, ma per forza di cose è stato necessario qualche cambiamento. Primo fra tutti, la distinzione operata da me tra Accordi di Sokovia e Atto di Registrazione. I primi regolamentano i soli Vendicatori, il secondo è indirizzato a tutti i superumani. Il problema dell’identità non si è mai posto coi Vendicatori, in quanto nessuno l’ha tenuta segreta, ma se si parla di Spider-Man e altri pseudo-vigilantes, diventa una questione rilevante. Detto ciò, la trama "secondaria" si discosta largamente da quella originale, e vorrei sottolineare il fatto che tutto ciò che ruota attorno al "nuovo Atto" è un mio headcanon, seppur derivato dal fumetto (che ho citato nel testo e citerò ancora).

E parlando di headcanon, arriviamo a Tony. Il perché e il percome sia vivo e vegeto (più o meno) troverà spiegazione in futuro, e vi anticipo che molto di ciò che lo riguarda è frutto di una visione comune mia e di _Atlas_. Seguendo la premiata logica Fottesega&Fregacazzi, abbiamo appunto fatto marameo ai fratelli Russo e costruito il nostro quasi-happy ending per lui. Qui c’è un velato accenno alle sue vicissitudini sottoforma di battuta, ma vi rimando alla one-shot della mia complice, Il risveglio di Atlante, se volete dare una sbirciata al suo PoV, in quanto è grazie ad essa se mi è venuta quest’idea in particolare ♥

Dopo ’sta carrettata di note, ringrazio tantissimo T612, Miryel, shilyss e _Atlas_ che hanno commentato il prologo e tutti coloro che hanno aggiunto la storia tra le preferite/ricordate/seguite: mi avete reso felicissima e spero che la storia risulti all’altezza delle aspettative <3 Non siate timidi e fatemi sapere che ne pensate finora: ogni commento e opinione, lunghi o brevi, positivi o negativi, sono graditi, mi permettono di migliorarmi, e sono una motivazione in più a scrivere :)
Grazie di cuore, e alla prossima,

-Light-

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Capitolo 3
*** Ingranaggi in movimento ***


Spider-Man: Back In Black

 

§

 

Capitolo II

Ingranaggi in movimento




“Should I stay or should I go?
If I go there will be trouble
And if I stay it will be double
So, ya gotta let me know
Should I stay or should I go?

[Should I Stay Or Should I go? – The Clash]

 

 

 

14 Aprile, Midtown High School Of Technology

Il corridoio era animato dal vivace chiacchiericcio del cambio dell’ora, oltre che dallo scalpiccio di centinaia di scarpe da ginnastica che si affrettavano sul pavimento di linoleum consunto. Peter si sforzò di non concentrarsi troppo su quel sottofondo basso e costante, che alle sue orecchie suonava sempre in primo piano e impossibile da escludere del tutto. S’impegnò ad abbassare il volume attorno a sé, quasi stesse girando la manopola di una vecchia radio: era un metodo che ormai padroneggiava abbastanza bene… un po’ meno nei momenti di stress, quindi si rassegnò a sopportare quel fastidioso ronzio residuo nei timpani che non gli riuscì di attutire completamente.

Come gli capitava spesso, ebbe un’esitazione minima di fronte al suo vecchio armadietto, un semplice passo trattenuto che si sforzò poi di completare per raggiungere quello che gli avevano riassegnato. Inserì in modo meccanico la combinazione e lasciò vagare lo sguardo nel piccolo cubicolo metallico, quasi del tutto spoglio nonostante l’anno scolastico inoltrato.

Per l’ennesima volta, si ripromise di appendere sul fondo almeno quel piccolo poster del Millennium Falcon che giaceva inutilizzato a casa in un cassetto. Sapeva che avrebbe ulteriormente rimandato la cosa, come gli innumerevoli piccoli gesti quotidiani che sembravano non trovare più spazio nella sua vita, ma, come ogni volta, si disse che il giorno dopo l’avrebbe fatto davvero – nonostante al momento abbellire il proprio armadietto non fosse esattamente in cima alla lista delle sue preoccupazioni.

Chiuse l’anta sovrappensiero, col senso di ragno che formicolava, e dovette trattenere l’istinto di balzare con una capriola sul soffitto quando voltò la testa e si ritrovò un paio d’occhi scuri e a mandorla a un palmo dalla faccia.


«Cavolo, Ned!» sbottò in un sibilo, suscitando un largo sorriso sornione sul volto del suo amico. «Ti ho detto mille volte di non avvicinarti di soppiatto!» lo rimproverò, ficcandosi sottobraccio il libro e il quaderno di chimica che aveva appena recuperato.

«“Di soppiatto”,» Ned mimò in aria le virgolette e si accodò a lui lungo il corridoio, zigzagando tra la fiumana di studenti chiassosi. «Ero lì da
almeno due minuti. E meno male che sei…»

«Zitto,» lo anticipò Peter, tappandogli la bocca con la mano libera in un riflesso consumato, anche se con una prontezza e una punta d’ansia del tutto nuove.

Ned, per quanto non negasse la sua buona volontà di “uomo sulla sedia”, non era molto discreto. Aveva perso il conto di tutte le volte che aveva messo a repentaglio la sua identità segreta e, nella situazione attuale, si sentì ancor più sulle spine al pensiero che potesse inavvertitamente lasciarsi sfuggire qualcosa, anche solo un minimo dettaglio che avrebbe potuto raggiungere le orecchie sbagliate.

Ispezionò rapidamente i dintorni, con pochi, veloci scatti degli occhi allenati, ma non captò nulla di strano. Il ronzio acuto nelle orecchie persisteva, il suo senso di ragno taceva, se non per quel pigolio incessante di fondo che da mesi non riusciva a collocare, e tutto ciò che vide furono volti annoiati di coetanei diretti alle proprie lezioni. Non si soffermò sulla sovrabbondanza di facce nuove, o troppo diverse da come le ricordava, e si decise a concedere di nuovo la facoltà di parola a Ned.


«Che ti prende? Tutto bene?» chiese subito lui, con inaspettata acutezza, e Peter aumentò un poco il passo, attraversando l’atrio e scoccando come sempre un’occhiata straniante alla bacheca invasa di volantini di persone scomparse.

«Sì,» rispose poi, senza girarsi e guadagnando un po’ di distacco da lui sulle scale. «Sì, benissimo, davvero,» aggiunse, rendendosi conto di essere stato troppo laconico, per i suoi standard.

Ned non se la bevve e continuò a tallonarlo.

«Su, cosa c’è? Ieri sei sparito tutto il giorno e adesso sembri su un altro pianeta!» insistette Ned, e a quelle parole Peter percepì un brivido fugace lungo la spina dorsale.

«Per fortuna sono ancora sulla Terra,» lo rimbeccò, involontariamente brusco.

Ned non se la prese a male, anche se si accigliò appena, e continuò anzi ad incalzarlo.

«Ho capito: sei in missione,» affermò, con aria saputa e dandogli di gomito non appena rientrò nel suo raggio d’azione.

«No! No, non sono in missione,» si schermì lui, desiderando in cuor suo di esserlo davvero e di avere una scusa preconfezionata per il suo comportamento anomalo. «Anzi, forse sono in pausa,» buttò lì poi, assecondando l’impulso illogico della propria bocca in cerca di una via d’uscita.

Ned quasi inciampò sui suoi stessi piedi, fissandolo a occhi sgranati e bocca spalancata.

«Che vuol dire “in pausa”?» esalò, sconvolto.

«Che vuol dire “in pausa”?» ripeté Peter, retorico, allargando le braccia con fare ovvio.

Fece per riprendere il tragitto verso l’aula a pochi metri da loro, ma Ned lo superò di scatto, piazzandoglisi davanti a mo’ di barriera. Peter inchiodò nei suoi passi, un’espressione insofferente a segnargli il volto, e desiderò di potersi rimangiare la sua affermazione. Non sapeva neanche da dove fosse scaturita, né se dovesse darle peso; di certo, adesso non sarebbe riuscito a svicolare dalla discussione in modo indolore come avrebbe voluto. O forse, in fondo, aveva
davvero bisogno di parlare con qualcuno.

Trattenne un sospiro all’incostanza dei propri pensieri e una fitta di impulsi gli mandò fugacemente in tilt i sensi, suscitando una smorfia sulle sue labbra.

«Non puoi andare in pausa,» dichiarò Ned, sistemandosi rumorosamente lo zaino in spalla quasi a ribadire quell’affermazione.

«Perché no?» indagò Peter, con lieve sorpresa e una punta d’irritazione.

«Ci siamo già giocati Iron Man e Capitan America, se te ne vai tu chi rimane?»

«Un mucchio di gente,» replicò lui, corrugando le sopracciglia. «E poi, in teoria, abbiamo di nuovo un Capitan America,» puntualizzò, incrociando le braccia e stringendo la stoffa del suo maglione.

«Dai, non è la stessa cosa,» sbuffò Ned, in tono incredulo. «Vuoi mettere col vero Steve Rogers? Insomma, quell’uomo è una leggenda, non si può sostituire!»

«Sì, beh, fa strano anche a me,» commentò, decidendosi infine ad aggirare l’amico e ad entrare in aula. «Ma non sta a noi decidere, quindi che senso ha discuterne?» concluse, scrollando le spalle a far scivolar via quell’argomento di cui, sinceramente, era stufo di sentir parlare.

La notizia ufficiale risaliva appena alla settimana prima, ma lui aveva avuto l’onore e l’onere di osservare a distanza i lunghi, movimentati, ed estenuanti preparativi che avevano portato all’annuncio pubblico del ritiro di Steve Rogers dal ruolo di Capitan America. La faccenda aveva coinvolto quasi costantemente un Tony ancora debilitato e per qualche motivo molto restio ad occuparsi della faccenda. Per il suo mentore, i giorni successivi alla conferenza stampa erano stati un vero girone infernale di telefonate e udienze con gli alti vertici del governo, e in un paio d’occasioni Peter aveva scorto persino il Segretario Ross a zonzo per il Complesso.

Dopo gli eventi del giorno prima e la riluttante conferma strappata a Tony a forza di tacos, non gli era difficile tracciare un collegamento tra quel passaggio di testimone – o scudo – e l’improvvisa convocazione del suo mentore alla Casa Bianca. Bucky era una personalità controversa, e non trovava strano che l’opinione pubblica non lo vedesse di buon occhio come successore di Steve.

«Dicevo per dire,» bofonchiò Ned, un po’ risentito per la sua reticenza. «Stark che ne pensa?»

«Mah…» Peter si sedette di peso a un banco nell’ultima fila, con aria svogliata, e Ned si appropriò di quello accanto. «Non si è opposto.»

Ci rifletté su ancora un istante, col mento affondato nel palmo e lo sguardo rivolto all’esterno, mentre rievocava la fatidica conferenza stampa a cui si era trovato suo malgrado a partecipare come spettatore. Nel corso di quelle tre ore, Tony aveva spiccicato sì e no una decina di frasi, tutte stringate e tagliate con l’accetta, in contrasto con la sua inclinazione a divagare e pretendere per sé i riflettori di turno. Ricordava chiaramente che alla fine, nel vederlo stringere la mano di Bucky per congratularsi, aveva avuto l’impressione che indossasse una delle sue prime armature, vista la pesante rigidità con cui aveva teso il braccio – ed era quello sano.

Raramente aveva visto un sorriso più falso e costipato di quello che era balenato sul volto del suo mentore in quel frangente, e gli occhi schermati dalle lenti scure erano rimasti freddi. Vista la sua decennale esperienza nel fabbricare smaglianti sorrisi di circostanza su misura, era un atteggiamento che gli dava da pensare
.

«Ma non ne sembrava entusiasta,» aggiunse quindi, ad esternare quel dettaglio sul quale finora non si era soffermato più di tanto, ma che adesso gli aveva fatto emergere un vistoso punto interrogativo in testa, come ieri alla Casa Bianca.

Aveva provato a chiedere cautamente spiegazioni a Tony sulle dinamiche della scelta di Bucky, ma lui aveva dirottato questione prima nel suo solito modo sfuggente, e poi con un atteggiamento stranamente brusco che l’aveva fatto subito desistere.

«Vedi? Capitan America non si cambia: la pensiamo allo stesso modo, noi geni,» annuì Ned con un sorrisetto soddisfatto, rimediandosi un leggero spintone da parte di Peter. «Comunque, dovrebbero cambiargli nome… una roba tipo Iron Fist o, che so…» cominciò a rimuginare poi, ma Peter aveva smesso di ascoltarlo, con lo sguardo di nuovo perso oltre la finestra.

Dal giorno prima gli sembrava che, al tramestio di fondo dei suoi pensieri e al mormorio soffuso del mondo circostante, si fosse aggiunto un cigolio spiacevole, di troppi ingranaggi arrugginiti che si rimettono contemporaneamente in moto dopo un lungo periodo di inattività, col rischio di incepparsi ad ogni ticchettio stentato. Per quanto cercasse di individuarli non riusciva a vederli con chiarezza, né tantomeno a intuire la loro funzione o il meccanismo in cui erano inseriti, e non sapeva prevedere se ne sarebbe davvero rimasto schiacciato.

Serrò di riflesso i pugni e gli spara-ragnatele premettero rassicuranti sui polsi.

«Peter!» Ned gli diede un colpetto sul gomito, facendolo sobbalzare. «Guarda che non mi sono scordato. Che vuol dire che vuoi prenderti una pausa?»

«Uh, non è nulla di definitivo, solo…» espirò seccato, non sapendo in realtà come formulare quel pensiero che lo divorava dal giorno prima. «… sto pensando di andare al MIT,» buttò fuori d’un fiato, rilassandosi di colpo nel dire quella mezza bugia. «E… e se andassi al MIT dovrei lasciare New York per qualche anno,» aggiunse, cercando di farla passare come un’affermazione noncurante.

Prevedibilmente, Ned fece tanto d’occhi.

«Serio? È per questo che ieri hai incontrato Stark?» indovinò poi, assottigliando lo sguardo.

«S-sì,» colse la palla al balzo lui. «Voleva solo… capire le mie intenzioni, magari darmi qualche dritta,» mentì ancora.

«Huh-uh, chiaro. Lui ha preferenze?»

«Non si è espresso. Credo che non voglia influenzarmi,» rispose, stavolta con sincerità.

Tirò le labbra, sentendo un piccolo vuoto allo stomaco nel costruire quella pila instabile di bugie dietro la quale cercava di nascondersi da un futuro che gli sembrava troppo vicino e allo stesso tempo irreale. Una chimera informe che lo aspettava al varco dell’età adulta, ghignando tra sé perché si era fatto attendere più del dovuto.

«Tu volevi riamere qui e andare alla NYU,» osservò poi Ned, strappandolo a quei pensieri. «Come mai hai cambiato idea?»

«Non ho ancora cambiato idea,» scosse la testa Peter, chinandosi a prendere il quaderno dal sottobanco. «Sto solo… valutando la situazione. E perché ti interessa?» chiese, aggrottando le sopracciglia e tornando a fissarlo interrogativo.

«Beh, sei il mio migliore amico, certo che mi interessa!» si scandalizzò lui, quasi offeso. «E poi, se ti trasferirai, sentirei la mancanza di un certo ragno di quartiere,» aggiunse sottovoce, con fare cospiratorio, e di nuovo gli occhi di Peter scattarono a controllare l’aula che si andava man mano riempiendo.

«Ma figurati,» proferì, in un filo d’aria appena udibile. «Non se ne accorgerebbe nessuno, forse solo J. J. Jameson che rimarrebbe senza lavoro,» masticò tra i denti, e Ned alzò gli occhi al cielo con scherno. «Se mi assentassi di nuovo per cinque anni si dimenticherebbero tutti di me. Io… io non sono Capitan America, o Iron Man,» asserì, volgendo i palmi verso l’alto in un gesto nervoso, ma stavolta cercò lo sguardo di Ned, che si era fatto più cupo.

«Senti, io non so come abbia reagito la gente cinque anni fa, quando…» scosse ripetutamente la testa, e Peter serrò le labbra, sentendo una morsa alla gola nel ricordare che anche lui era sparito, al tempo. «Ma nessuno potrebbe mai dimenticarsi di Spider-Man,» concluse poi, con un gesto definitivo del capo.

Peter forzò un sorriso a quelle parole, che alle sue orecchie suonarono come un cigolio particolarmente acuto e sgradevole.

 

 

14 Aprile, Prachya Thai, Queens


«Hai intenzione di porre fine alle sue sofferenze, prima o poi?»

Zia May additò con le bacchette il raviolo che stava rigirando nel piatto da cinque minuti buoni, e Peter si affrettò ad afferrarlo e a cacciarselo in bocca.

Si sforzò anche di mandarlo giù con gusto, nonostante al momento avesse lo stesso sapore e consistenza di un bolo di cartapesta.

«Tu e Ned avete di nuovo mangiato fuori pasto?» sospirò May senza lasciarsi ingannare, prima di scuotere la testa e tornare al suo larb.

«Sì, uh, avevamo bisogno di… di zuccheri e abbiamo esagerato coi Pop-Tarts, ma dovevamo finire il progetto entro oggi, sennò chi lo sente il signor Harrington. E abbiamo fatto anche una simulazione d’esame,» raccontò in fretta, sperando che parlare a raffica come sempre potesse distogliere May dalla sua insolita indifferenza verso il cibo thailandese.

Il suo piano B era di lanciarsi nella dettagliata descrizione degli argomenti appena studiati, che avrebbe dovuto farla desistere da ulteriori indagini.

«State veramente prendendo tutto troppo sul serio,» sentenziò lei, fissandolo con un misto di dissenso e materna preoccupazione.

«Per niente,» la contraddisse lui, raddrizzandosi sulla sedia. «Dobbiamo recuperare il programma, prendere tutte A e ottenere la lode, altrimenti…»

«Pete, non credo che l’esame di maturità possa essere più difficile di quello che fai con Tony e Banner in laboratorio,» commentò lei, arcuando le sopracciglia in modo eloquente.

Lui si limitò a masticare in silenzio l’ultimo raviolo, scoccando un’occhiata un po’ nauseata al piatto di nasi goreng che lo attendeva subito dopo. Ignorò di proposito l’osservazione di May, sicuramente guidata dalle migliori intenzioni, ma comunque ingenua: in sede d’esame non gli avrebbero certo chiesto la formula del suo fluido per ragnatele o di costruire un reattore arc.

E ultimamente lui, Ned e MJ erano davvero oberati di progetti, relazioni e compiti supplementari per recuperare i quattro mesi d’assenza a inizio anno. Il preside Morita, in accordo con le direttive nazionali, aveva dato agli “scomparsi” la possibilità di scegliere se riprendere le lezioni direttamente l’anno successivo senza ripercussioni sulla carriera scolastica, o se provare a sostenere comunque la maturità concentrando il recupero in quel secondo semestre. Un’eventuale bocciatura non avrebbe comunque influito sul loro curriculum e, nonostante Peter fosse tornato a scuola con un mese di ritardo aggiuntivo rispetto ai suoi compagni, si era messo d’impegno a salvare il salvabile.

Una sorta di mossa suicida, considerando quanto la prospettiva dell’università lo terrorizzasse. A volte provava la tentazione di farsi bocciare di proposito, così da avere un altro anno di quieta vita da liceale in cui adagiarsi, ma sapeva che così avrebbe irrimediabilmente deluso sia May che Tony. E li aveva delusi già troppe volte, per quanto lo riguardava.


May scelse quel momento per tirare in ballo la questione che Peter aveva già messo in conto di sentirsi piombare tra capo e collo quella sera:

«A proposito, cosa voleva Tony, ieri?» lo interpellò, quasi casualmente.

Continuò ad occhieggiare sospettosa il suo cibo ancora intatto, spingendolo a prenderne almeno un paio di bocconi.

«Pensavo che te l’avesse già detto Happy, mentre eravate a cena,» ribatté, prima di tradirsi con scuse contraddittorie.

Non riuscì a sopprimere una sfumatura un po’ acida nella voce e fissò lo sguardo nel proprio piatto. May contrasse impercettibilmente le palpebre, ma non commentò.

«Harold mi ha detto che Tony ti avrebbe aspettato a Washington, ma quando ho chiesto spiegazioni direttamente a lui, ha temporeggiato per dieci minuti e poi non mi ha detto nulla. Lo sai com’è fatto,» concluse, con uno svolazzo perentorio delle bacchette.

Peter soffiò aria dal naso: sì, lo sapeva, com’era fatto Tony. Cavargli di bocca una risposta sensata quando non era in vena di darla era uno dei compiti più ingrati, infruttuosi ed estenuanti che potesse immaginare.

«Quindi? Che avete fatto a Washington?»

«Uh, nulla di che. Gli ho fatto compagnia per… impegni noiosi, roba burocratica. Poi siamo andati da Taco Bell,» sorrise lui, alzando le spalle.

Prese nota dello sguardo di affilato rimprovero di May, che iniziava a mal sopportare il suo amore per il cibo spazzatura e che probabilmente sapeva tramite Pepper quanto Tony dovesse prestare attenzione alla propria dieta, così si affrettò a continuare:

«Insomma, niente d'interessante. Era un po’ che non mi vedeva, voleva solo che lo aggiornassi su… sulla scuola e le ronde… e il FEAST, mi ha chiesto come andava e se avevi bisogno di aiuto per… per gestirlo, cose così,» aggiunse con un sorriso esagerato, cercando di accattivarsi sua zia dirottando il discorso su un tema che lo annoiava a morte ma che avrebbe forse ammorbidito lei.

«Ah-ha.» Lo sguardo di May si fece penetrante, per niente impressionata. «Peter, se tu e Tony mi state di nuovo nascondendo qualcosa, ti giuro…»

«No!» scattò Peter, in modo estremamente colpevole. «No, davvero, stai tranquilla, non è nulla di…»

«… che non la passerete liscia, stavolta.»

«… importante. E non l’abbiamo passata liscia neanche la prima volta!» osservò poi, suscitando un lampo di soddisfazione sul suo volto, che assunse tratti vagamente malefici al ricordo della leggendaria lavata di capo che li aveva investiti quando aveva scoperto di Spider-Man.

«Su, sputa il rospo, prima che tu mi costringa a disturbare Pepper per sapere cosa diavolo sta architettando suo marito,» lo incalzò infine, con quel tono da “non te lo chiederò un’altra volta”.

Peter si lasciò ricadere sconfitto contro lo schienale.

«È per l’università,» disse, sfruttando prudentemente la versione un po’ raffazzonata che aveva rifilato a Ned.

Era un pessimo bugiardo, ne era cosciente: avrebbe fatto meglio a non perdere il filo delle sue stesse menzogne e mezze verità.

«Ti sta facendo pressioni per il MIT?» indagò May, scrutandolo attenta da dietro gli occhiali.

«Cos- no! No, certo che no, perché dovrebbe?» sbottò Peter, sentendosi colto in fallo, con l’irrazionale ansia che fosse in qualche modo venuta a sapere della sua conversazione con Ned.

«Sembra convinto da… da anni che ti iscriverai lì,» tentennò appena May, sfuggendo il suo sguardo per un istante.

«Beh, si sbaglia, perché non l’ho mai detto,» replicò lui di getto, risentito da quella presupposizione.

Odiava quando sua zia e Tony parlavano di lui dietro le quinte. Si rendeva conto che probabilmente doveva essere così, avere dei genitori, ma era un aspetto di quella stramba collaborazione tra i due di cui avrebbe volentieri fatto a meno. Soprattutto considerando che avevano avuto molto tempo per parlare in sua assenza, e probabilmente Tony sapeva molte più cose di lui di quanto avrebbe ritenuto opportuno come diretto interessato. Quella realizzazione gli rimescolò i pensieri con una ventata di fastidio mista a timore.

«Peter, stiamo solo parlando,» lo rimbrottò May, con fare leggermente più severo. «Nessuno vuole obbligarti a fare nulla.»

Peter gonfiò appena le guance, trattenendo uno sbuffo silenzioso, e impegnò i successivi secondi a tracciare ghirigori tra i chicchi di riso con una bacchetta.

Aveva già intuito dalla breve chiacchierata al Columbus Circle che, rinunciando al MIT, avrebbe senza dubbio spezzato il cuore a Tony. Non avevano mai parlato esplicitamente della scelta, ma era ovvio che covasse un affetto non troppo velato per quel luogo, e Rhodes gli aveva confermato in più di un’occasione che la maggior parte dei bei ricordi adolescenziali dell’amico erano legati al campus.

In un certo senso capiva quanto gli avrebbe fatto piacere vederlo percorrere le sue stesse orme, ma vi erano sicuramente motivi più pratici alla base di quella sua preferenza. Certo, negli ultimi tre mesi Tony si era rivelato molto più sentimentale di quanto ricordasse, complice probabilmente la paternità, ma rimaneva comunque un uomo pragmatico, che di rado agiva senza una ferrea logica di fondo.

Vista la delicatezza della questione, dubitava che il suo premere per il MIT, arrivando addirittura a parlarne con May, fosse frutto di una semplice deriva nostalgica. E la conversazione del giorno prima continuava a punzecchiarlo come uno spillo molesto, ricordandogli che tutte le sue decisioni erano adesso ancorate tramite fili sottili a dei delicati equilibri che ancora non comprendeva del tutto.


«Non mi dispiacerebbe andare al MIT,» disse, costringendosi a usare un tono di voce pacato e noncurante. «Ma dovrei lasciare New York, e…» esitò, per poi limitarsi a indicare col mento la TV alle spalle di May, che mostrava appunto un servizio su Spider-Man.

La sera prima aveva fatto trovare davanti alla porta del 112° distretto della NYPD sette aspiranti rapinatori impacchettati in una carta regalo di ragnatele. Andava piuttosto fiero del proprio operato, cosa che non si curò di nascondere del tutto e che portò sulle sue labbra un sorrisetto trattenuto e un po’ impacciato.

May voltò brevemente la testa verso lo schermo, per poi tornare a rivolgersi a lui con occhi luminosi, anche se non si espresse apertamente. L’attività di Spider-Man continuava a tenerla in apprensione ogni notte, ma Peter sapeva che era stata felice di vederlo indossare di nuovo il costume dopo i primi due mesi di rifiuto categorico. Gli sembrava che avessero trovato un compromesso abbastanza buono sulla questione, che ormai era parte integrante delle vite di entrambi.

«E dovresti lasciare il tuo…» May fece un gesto esplicativo con la mano, facendo per completare la sua frase e interrompendosi nel notare il cameriere che si avvicinava per recuperare i piatti vuoti, «… lavoro,» concluse, neutralmente.

Peter annuì cauto, giocherellando con l’orlo della tovaglia e attendendo di essere di nuovo soli.

«Sì, o… o andare in trasferta,» proseguì poi, dubbioso per quella metafora. «Ma ti lascerei qui,» aggiunse, mordendosi il labbro inferiore.

«Non devi preoccuparti per me,» lo rassicurò subito May. «È una tua scelta, e poi non ti trasferiresti in Texas o in California. Saresti a tre ore di macchina da qui e sono sicura che Tony sarebbe in grado di regalarti un jet o di costruirti un’armatura, se servisse a farti tornare a casa più spesso,» puntualizzò ironica, con una sicurezza che gli scaldò il cuore, anche perché sapeva che Tony l’avrebbe fatto senz’ombra di dubbio.

«Lo so, lo so, ma…»

Si concesse un gesto spazientito, con le parole che gli sfuggivano.

«Non sono ancora sicuro, proprio per… per il lavoro,» sottolineò, ricacciando indietro il resto che premeva per uscire, come una mano prepotente che cercava di spintonarlo in avanti per farlo cadere. «E a Tony dispiacerebbe se me ne andassi interrompendo il “tirocinio”,» disse, mimando delle decise virgolette a mezz’aria, «ma gli dispiacerebbe ancor di più se rinunciassi per principio a una buona università,» formulò, pensando di non essere poi molto lontano da un’interpretazione corretta, anche se basata su presupposti diversi.

Tony era preoccupato per la sua sicurezza, non per la sua istruzione. In quel momento, i dilemmi accademici erano solo il fanalino di coda di una lunga serie, ma non aveva intenzione di puntare i riflettori su problematiche che non riusciva ancora a inquadrare lui stesso.

May notò la sua espressione e si pronunciò in un lieve sospiro comprensivo, allungando poi una mano a sfiorargli con dolcezza una guancia.

«Non devi decidere adesso. Concentrati sulla scuola, dai il meglio di te in tutto ciò che fai, come sempre, e non metterti fretta,» lo rassicurò, con un sorriso gentile. «Il resto verrà da sé. Non importa quello che è successo: hai tutto il tempo del mondo,» concluse incoraggiante, e forse con un lieve scintillio lucido negli occhi.

Peter annuì contro il suo palmo, accogliendo l’impressione che quel mondo fosse un po’ meno cupo e complesso, con zia May a sostenerlo assieme a lui.

«E adesso andiamo via di qui… prima che il cameriere mi chieda di nuovo il numero,» concluse lei, ricomponendosi in fretta e roteando gli occhi al cielo con fare teatrale.

Si alzò con rinnovata energia, dopo aver lasciato i soldi sul tavolo.

«Già… non vorrai far ingelosire qualcuno,» commentò Peter a mezza voce alle sue spalle, in una battuta che gli uscì per una volta spontanea e priva di astio.

«Peter!» lo riprese lei, girandosi di scatto con un misto di imbarazzo e sorpresa.

Lui si limitò a sogghignare sotto i baffi, affrettandosi a imboccare l’uscita.

 

 

15 Aprile, Jamaica, Queens


Era difficile “muoversi in punta di zampe” con uno sgargiante costume rosso-blu addosso e la naturale inclinazione ad essere attratto da ogni reato, illecito e situazione losca gli si parasse davanti, rifletté tra sé e sé Peter quella sera mentre si spostava da un palazzo all’altro in velocità, godendosi il fischio del vento nelle orecchie e la sensazione di vuoto allo stomaco ad ogni ampia oscillazione appeso alle sue ragnatele.

Quella notte in realtà stava procedendo senza eventi degni di nota: stava pattugliando la zona di Jamaica e Jamaica Hills, e finora aveva dovuto solo fermare un conducente brillo e riconsegnare un paio di portafogli smarriti ai legittimi proprietari. La frequenza radio della polizia di zona chiacchierava in sottofondo, con qualche chiamata ed emergenza minore di cui gli agenti si erano occupati con prontezza, e lui continuò a volteggiare pigramente seguendo la griglia regolare delle strade, con le luci dei lampioni che scorrevano rapide sotto di lui in nastri luminosi.

Gli era sempre piaciuta New York di notte, ma ultimamente quello era l’unico momento in cui riusciva a guardarla senza angosce sommerse, forse perché il buio celava le brutture più evidenti che si era lasciata dietro la Decimazione, ancora ardue da cancellare. Inspirò a fondo la fresca aria notturna attraverso la maschera e la buttò fuori assieme a quelle considerazioni, da cui fu strappato del tutto quando l’acuta sirena di un antifurto raggiunse le sue orecchie.

Karen gli segnalò subito l’origine, ovvero un negozio di liquori a meno di un chilometro da lì. Accelerò e si affrettò a svoltare l’angolo in velocità, mettendo rapidamente a fuoco la vetrina rotta in questione. L’allarme s’interruppe in quel mentre, e Peter si appollaiò sul lampione di fronte al negozio, vedendo così due tipi incappucciati intenti a far razzia di bottiglie.

Si schiarì rumorosamente la voce, ed entrambi i criminali alzarono di scatto la testa; uno dei due gli puntò contro una pistola.


«Ehi, signori Delinquenti, non è educato entrare senza bussare!» li riprese in tono severo, strappandogli subito l’arma di mano con una ragnatela.

Questi si affrettò a mettersi a tracolla il borsone con la refurtiva, mentre l’altro sfoderava a sua volta una pistola; Peter saltò giù dal suo trespolo, togliendosi dalla linea di tiro e facendo risuonare a vuoto lo sparo, per poi disarmarlo con un calcio ben assestato sul polso.

«Dovreste…» cominciò, schivando un montante e ricambiando con un gancio, «… imparare…» continuò, scartando di lato, «… un po’…» proseguì, assestandogli un colpo sul fianco, «… di buone maniere!» concluse, mandandolo definitivamente al tappeto con un calcio laterale.

Lo ancorò al suolo con una buona dose di ragnatele, lasciandolo a dimenarsi inutilmente. Si piantò quindi le mani sui fianchi, un po’ a corto di fiato, e spedì un proiettile di ragnatele al secondo malvivente in fuga alle sue spalle senza neanche guardare, inchiodandogli il piede all’asfalto e spedendolo bocconi per terra.

«Uff… ma cosa vi costava arrendervi subito?» commentò, rimediandosi una trafila di insulti molto coloriti che lo convinse a tappare la bocca a entrambi con un po’ di innocua ragnatela-scotch. «Dovreste ringraziarmi, così evito solo che vi accusino anche di disturbo della quiete pubblica!» concluse, spiccando già in una corsa e trovando un appiglio su un palazzo vicino per riprendere a oscillare lungo il tragitto della sua ronda.

Per qualche minuto si godette la tranquillità notturna, soddisfatto del lavoro appena svolto, finché un crepitio di statico non si insinuò nella frequenza della polizia.

«Quelli sulla 91ª sono opera tua?»

Una voce femminile conosciuta risuonò d’un tratto nel suo auricolare, e un largo sorriso si allargò sul volto di Peter.

«Buonasera, Yuri,» esordì, impegnandosi a camuffare leggermente la voce per renderla meno squillante. «Ancora sveglia?»

«Sempre sveglia, di solito a causa tua. E per te sono sempre il Capitano Watanabe,» puntualizzò fermamente. «Allora?»

«Beh, sono l’unico spara-ragnatele in città… quindi direi che, sì, sono opera mia,» confermò lui con malcelato compiacimento.

«Bene, Spider-Cop, se sei ancora in zona magari hai voglia di dare un’occhiata anche ai vecchi magazzini sulla 93ª, vicino alla ferrovia,» gli riferì la donna, stringata e pragmatica come sempre.

Peter prese lo slancio, fece una mezza capriola a mezz’aria e spedì una ragnatela alle sue spalle, compiendo una rapida inversione di marcia mentre Karen già gli segnalava il percorso più rapido tra i palazzi per raggiungere la nuova destinazione.

«Subito, capo,» disse, percependo il mezzo sospiro dall’altra parte della comunicazione per quell’appellativo. «E che succede di bello, laggiù?»

«Ci hanno segnalato “movimenti sospetti” nell’area di carico e scarico. Probabilmente si tratta di merce rubata o contraffatta… è un po’ che teniamo d’occhio la zona,» lo informò lei, che dal rumore del vento di sottofondo doveva essere in auto. «Io per ora sono impegnata a Rego Park con quel racket di armi russo,» aggiunse, con una punta di durezza che gli fece quasi provare pena per i russi.

«Ricevuto, ti informo se scopro qualcosa.»

Peter chiuse la comunicazione, diminuendo gradualmente la velocità man mano che si avvicinava all’obiettivo. Era raro che Yuri lo contattasse, anche se le lasciava sempre aperta la frequenza radio: di solito si limitava a redarguirlo come da copione per la sua ingerenza nelle operazioni della polizia, ma di tanto in tanto gli affidava qualche incarico mediamente rilevante quando era occupata altrove.

Gli piaceva pensare che si fidasse di lui, in barba alla disapprovazione della NYPD per Spider-Man e alle accese invettive radiofoniche di Jameson. Si chiese di sfuggita quanto queste sarebbero diventate aspre dopo l’annuncio pubblico dell’Atto di Registrazione. Chissà se a quel punto Yuri sarebbe stata ancora così disposta a collaborare con lui.


Scacciò quei pensieri nel momento in cui arrestò la sua avanzata e si accovacciò su un tabellone pubblicitario antistante i magazzini ormai in disuso, su cui campeggiava il volto tondeggiante di Campbell, candidato alle elezioni comunali. Molti lampioni erano spenti, o più probabilmente rotti di proposito, e il cortile interno era recintato da una rete di filo di ferro arrugginita e squarciata in più punti. Il lotto adiacente era occupato da uno sfasciacarrozze, coi cumuli di automobili che bloccavano alla vista l’uscita sul retro del magazzino. Un posto perfetto per traffici illeciti, rilevò Peter, individuando anche un furgone nero e sospetto tra le pile di metallo contorto.

Focalizzò l’udito sull’area in questione ed escluse il borbottio del traffico qualche traversa più in là, assieme al pigro sferragliare dei pochi treni merci notturni sui vicini binari; prese nota dei lucernai sul tetto dell’edificio, da cui avrebbe potuto avere un’ottima visuale all’interno.

«Karen, modalità ricognizione,» mormorò, attivando il visore termico e perlustrando i dintorni.

«Una traccia di calore rilevata,» lo informò l’IA, proprio mentre la individuava anche lui, davanti all’uscita sul retro. «All’interno della struttura rilevo altri cinque operativi.»

In un angolo della sua visuale apparve il feed sgranato delle telecamere interne riattivate da Karen, che gli confermò appunto la presenza di cinque uomini, intenti a scoperchiare delle casse con un piede di porco e a ispezionarne il contenuto, in modo decisamente poco legale.

«Ottimo. Primo obiettivo: il palo,» concluse Peter, con un formicolio trepidante che lo attraversò preannunciando lo scontro imminente.

Balzò con una ragnatela ben piazzata sul tetto del magazzino e poi si lasciò cadere a candela sullo sfortunato sesto membro del gruppo, che, più che fare la guardia, sembrava intento a gustarsi la sua sigaretta senza un solo pensiero al mondo. Pochi istanti dopo lo trascinò sul tetto con una ragnatela a mo’ di pesce preso all’amo. Lo lasciò lì, imbozzolato e ridotto al silenzio, mentre lui si affacciava dagli ampi lucernai nell’ambiente sottostante.

L’unica luce proveniva dalle torce degli individui ancora intenti a rovistare nelle casse; erano a volto scoperto, tutti ben piazzati e probabilmente armati. Chiunque fossero, non si stavano preoccupando troppo di essere scoperti… il che voleva dire che erano o molto inesperti, o molto sicuri di sé. In ogni caso, non poteva rischiare un cinque contro uno diretto.

Forzò silenziosamente la chiusura arrugginita di uno dei lucernai e scivolò all’interno, proseguendo poi carponi sul soffitto, invisibile al buio, fino a portarsi direttamente sopra di loro. Cambiò con un piccolo movimento del polso il tipo di ragnatela e la puntò verso i malviventi, senza però trattenersi dal richiamare la loro attenzione:

«Ehi, ragazzi!» esclamò, e cinque torce scattarono in alto all’istante, illuminandolo a giorno. «Dite cheese!» finì, lasciando partire la granata-web.

Il micro-ordigno impattò proprio in mezzo al gruppetto, ed esplose sparando una ventata di ragnatele in ogni direzione; tre avversari furono inchiodati al muro, uno a terra e l’ultimo contro un mucchio di casse. Peter si lasciò cadere con leggerezza a terra, assicurandosi che nessuno di loro fosse in grado di muoversi, e ignorò le loro vivaci proteste miste a insulti per sbirciare oltre il bordo di una delle casse scoperchiate.

I suoi occhi si assottigliarono nel vedere quelle che, a una prima occhiata, riconobbe come confezioni di metadone. Fece un passo indietro, notando solo ora il logo della Oscorp impresso sulla cassa.

Subito si sentì i palmi sudati, assieme a uno spiacevole pizzicore sul retro del collo, come se quel ragno l’avesse appena morso di nuovo. Trattenne l’impulso di grattarsi ed esaminò invece le altre casse aperte, tutte marchiate Oscorp: contenevano merce innocua, perlopiù fusti di vernice a uso industriale, ed erano intonse; le altre, con tutt’altro tipo di contenuto, erano state caricate su un muletto per essere trasportate sul furgone all’esterno.

Un’analisi più approfondita rivelò un’altra partita di medicinali, stavolta codeina, e una di… gas lacrimogeno? Peter prese in mano una delle bombolette: sembrava del tipo solitamente in dotazione alla polizia, e Karen confermò la sua analisi. 
Peter tamburellò pensoso sul bordo della cassa e scoccò un’occhiata obliqua agli uomini ancora immobilizzati e stranamente docili, per poi decidersi a chiamare Yuri. Lei rispose al secondo squillo:

«Hai risolto, Spider-Cop?»

«Uh…» Peter esitò, fissando nervoso il contenuto della cassa. «Sì, sì, niente di più semplice, ma… c’è qualcosa che dovresti vedere.»

«Ovvero?»

«Credo che questi tizi stessero derubando voi, cioè la NYPD, oltre che la Oscorp.»

«La Oscorp?»

La voce di Yuri si fece leggermente più acuta, cogliendolo di sorpresa.

«Uh-huh, la merce rubata è loro…» si guardò attorno, individuando un paio di container sul fondo anch’essi col logo della multinazionale. «… è tutto loro, qua dentro.»

«Arrivo subito.»

 

 

«Prima di tutto, quello che ti dirò adesso rimane tra noi due, è chiaro?» esordì Yuri, non appena ebbe finito di esaminare le casse divelte, voltandosi a guardarlo a braccia incrociate.

I cinque criminali erano già in manette sul furgoncino blindato della polizia, diretti con tutta probabilità a Ryker’s. Peter si accigliò, ma annuì comunque.

«Va bene, capo. Sono bravo a mantenere i segreti,» aggiunse, con tono fermo e un’esitazione che tremolò solo nei suoi pensieri.

«Possiamo parlare come persone normali?» lo riprese lei, inclinando all’indietro la testa per inquadrarlo seduto sul muro a un paio di metri d’altezza.

«Uh, sì… giusto.»

Peter scivolò a terra con lieve impaccio, cercando di assumere una posa sicura di sé. Gli riusciva difficile farsi prendere sul serio così: quando era in una postura normale si sentiva un qualunque adolescente del Queens vestito per Carnevale, e aveva l’impressione che chiunque riuscisse a intuirlo. S’impegnò a rimanere impettito e a tenere il mento alto, in modo quasi sfacciato, e ringraziò che la maschera celasse la sua espressione ben poco convincente.

Yuri, dal canto suo, riusciva a incutere timore nonostante fosse un palmo più bassa di lui e relativamente mingherlina; compensava con l’aggressivo giubbotto di pelle e con il calcio della pistola che sporgeva dalla fondina da spalla, che, appaiati al suo cipiglio spesso severo e agli occhi stretti, facevano rimpicciolire la maggior parte dei criminali che le capitavano a tiro. Lo squadrò da capo a piedi, per poi arrivare direttamente al punto della questione:

«Questo magazzino appartiene a Wilson Fisk,» esordì, facendo irrigidire di riflesso Peter. «È molto probabile che anche gli uomini che hai catturato lavorino per lui… e il fatto che ci sia merce della Oscorp in un suo magazzino non è rassicurante.»

Peter strusciò un piede a terra, riflettendo rapidamente.

«Mmh, Osborn non è esattamente famoso per essere… irreprensibile,» formulò cauto. «Potrebbe essere d’accordo con Fisk.»

«Di questo sono sicura,» ribatté Yuri, con improvvisa veemenza. «Sono anni che cerco di incastrare Fisk come Kingpin e ho sempre avuto il sospetto che Osborn coprisse i suoi illeciti e lo sostenesse nel traffico di droga.»

«Beh, abbiamo appena trovato una pista, no?» commentò Peter, accennando alle casse di medicinali e alle granate. «Questo, più che un furto, sembra un rifornimento a beneficio di Fisk.»

«È un collegamento labile… non possiamo provare che quegli uomini fossero di Fisk. Lui e Norman Osborn passerebbero entrambi come vittime di un banale furto con scasso, e sfrutteranno a loro vantaggio il fatto che parte della merce era destinata alla polizia offrendosi di collaborare con noi,» osservò logicamente Yuri, scutendo appena la testa.

Peter si passò una mano sul collo, cedendo all’urgenza di sfregare il fantasma del morso di ragno nonostante fosse scomparso da anni. Parlare della Oscorp lo metteva in agitazione. Lo faceva sentire come se avesse un debito da estinguere con qualcuno che non si era mai guadagnato le sue simpatie, e verso il quale non era neanche certo di dover essere grato. Scosse la testa, riscuotendosi:

«Anche se sono “coperti” e questa era un’operazione concordata, mi sembra comunque strano che siano stati così… distratti,» osservò, cercando di ragionare e ripensando all’impressione che aveva avuto nel vedere all’opera quei delinquenti. «Hanno agito da principianti… Kingpin usa solo professionisti,» continuò, osservando attento la reazione di Yuri, che con suo sollievo sembrava concordare.


«Sì, e per questo penso che sia stata una disattenzione voluta,» sentenziò, di nuovo con fermezza dettata da un decennio d’esperienza sulle strade di New York. «Abbiamo ricevuto la soffiata di quest’operazione tramite un informatore anonimo. Fisk voleva che noi ci mettessimo sulle tracce di Osborn. Voleva che sospettassimo un’alleanza con lui, ovvero con Kingpin.»

Peter si trattenne dal chiedere esplicitamente il perché, temendo di risultare troppo ingenuo. I giochi di potere non facevano per lui: era un supereroe di quartiere, il suo compito era salvaguardare la gente comune. Spesso gli riusciva difficile ampliare la visuale, ma ultimamente si trovava costretto a farlo troppo spesso; quei suoi diciassette anni mal contati iniziavano ad andargli stretti in un mondo troppo adulto.


«Incastrarlo non sarebbe controproducente?» chiese quindi, mascherando solo in parte la propria perplessità.

«Norman Osborn vincerà quasi certamente le elezioni,» profetizzò Yuri, come se fosse un dato di fatto. «Evidentemente, Kingpin non lo vuole come sindaco e punta a infangarlo.»

«Anche se lo sostiene pubblicamente?»

«Dovresti sapere meglio di me che la maschera pubblica è diversa da quella privata, Spider-Man,» lo rimbeccò lei, senza asprezza ma con una nota d’ironia.

Peter incassò in silenzio, limitandosi ad annuire nel percepire più nettamente il peso nel petto che lo opprimeva da un paio di giorni ogni volta che si parlava d’identità segrete e maschere.

«Osborn è una personalità forte, oltre che narcisista e votata ai propri interessi. Kingpin preferirà piazzarci una sua marionetta…»

«... Campbell,» dedusse Peter, voltandosi a guardare il cartellone elettorale che si intravedeva da uno dei finestroni.

«Probabile,» annuì Yuri con un'alzata di spalle, forse senza ritenerlo un fattore così rilevante.

«E… cosa suggerisci di fare per spedire entrambi in ferie a Ryker’s per qualche decennio?» chiese lui, col solito tono gioviale che gli usciva spontaneo quando indossava il costume.

Yuri indurì i lineamenti, assottigliando pensosa gli occhi.

«La polizia ha le mani legate e troppe mazzette di quei due in tasca… se agissi su iniziativa personale mi troverei trasferita a Oyster Bay, o peggio, e assemblare una task force sarebbe controproducente e attirerebbe troppo l’attenzione…» ragionò a raffica, quasi tra sé.

«Beh, io attiro già l’attenzione, e in effetti sono una specie di task force,» ribatté lui d'impulso, con più sicurezza di quanta sentisse. «Quindi, se per ora indagassi per conto mio…»

Lo sguardo di Yuri si fece interessato.

«… avresti molta più libertà di movimento di noi e potresti raccogliere più informazioni per conto nostro,» concluse, incrociando le braccia e affinando gli occhi. «Sì, avrebbe senso,» concordò, senza sbilanciarsi troppo e lanciandosi di riflesso un’occhiata alle spalle.

«Affare fatto, allora?» propose Peter, tendendole d’istinto la mano.

Yuri lo scrutò così intensamente che per un momento credette che riuscisse a vedergli attraverso la maschera.

«Affare fatto. Adesso sei ufficialmente Spider-Cop,» concluse con un accenno di sorriso, accettando l’offerta con una stretta decisa.

Peter si sentì quasi schizzare il cuore dal petto per la trepidazione, e si aprì in un largo sorriso sotto la maschera.

Poco più tardi, fissati i dettagli dell'operazione, sfrecciava di nuovo nel cielo notturno dopo aver accampato una scusa su alcuni impegni urgenti – rivelare che il coprifuoco di zia May fissato alle due stava per scadere avrebbe minato la sua credibilità – e per la prima volta in tutti quei mesi si sentì veramente e in tutto e per tutto Spider-Man, impegnato a proteggere la sua città. L’università, i cinque anni di buco, l’Atto di Registrazione: tutto scivolò per un istante in secondo piano; diventò minuscolo, come se lo stesse guardando dalla cima di un grattacielo che solo lui poteva raggiungere.

Quella notte si rigirò a lungo nel letto, con un misto di ansia e aspettativa che continuava ad assestargli delle schicchere elettriche lungo le sinapsi impedendogli di addormentarsi. Eppure, l’euforia per quella nuova missione era disturbata da un subdolo, strisciante presentimento di fondo che gli serrava le viscere, ricordandogli che, forse, adesso non stava procedendo esattamente “in punta di zampe” come gli aveva consigliato Tony.

Anzi, aveva la netta impressione di essersi appena piazzato proprio tra le ruote dentate di quel meccanismo difettoso.



 




 
Note:

La scelta di Bucky come nuovo Capitan America è oculata e non intesa come una ripicca verso Endgame; anzi, trovo che Sam sia molto più indicato di lui sotto tutti i punti di vista. Detto questo, Bucky è canon nel fumetto e il tutto troverà spiegazione in seguito.
– Si presuppone, come in tutte le mie storie, che gli unici a sapere i fatti della Siberia siano le persone presenti nel bunker all'epoca, e che Tony non abbia rivelato la cosa a nessuno, se non Pepper e Rhodey.


Note Dell'Autrice:

Cari Lettori:
ammetto che un po' fremevo per pubblicare questo capitolo (pure perché oggi a Roma si festeggiano San Pietro e Paolo e mica potevo rimandare, visto che qui c'è il San Peter de noantri).
Spero che la lettura non sia risultata troppo pesante, vista l'abbondanza di dialoghi e nuove informazioni, ma mi serviva un capitolo col quale gettare le basi per alcuni temi della storia. Ho volutamente dosato i dettagli, optando per rivelarli a poco a poco, piuttosto che fare spiegoni su spiegoni, limitandomi a quelli strettamente necessari. Comunque, da qui in poi si entra nel vivo ;)

Ringrazio immensamente tutti coloro che hanno commentato gli scorsi capitoli, ovvero
T612, Miryel, shilyss e _Atlas_, che si beccano un abbraccio enorme anche se fa un caldo disumano <3 Grazie infinite anche a tutti coloro che seguono silenziosamente e/o hanno aggiunto la storia tra le preferite/ricordate/seguite <3 Non siate timidi e fatevi avanti, ogni commento è gradito e apprezzato! <3

Detto questo, vi aspetto al prossimo capitolo, che spero di pubblicare presto... sessione e caldo permettendo :')
Sayonara,

-Light-

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Capitolo 4
*** The itsy-bitsy spider... ***


Ad Atlas, per questo giorno speciale, con l’augurio di raggiungere le stelle <3

Spider-Man: Back In Black

 

§

 

Capitolo III

The itsy-bitsy spider...




“And I still feel that rush in my veins
It twists my head just a bit to think
All those people in those old photographs are dead
And in the end I’d do It all again
I think you’re my best friend
Oh, don’t you know that the kids aren’t al–
Kids aren’t alright

The Kids Aren’t Alright – Fall Out Boy]

 

   

 

15 Aprile, Queens
 

 

Era in ritardo, dannazione, era in dannatissimo ritardo.

Peter lanciò la ragnatela successiva, destreggiandosi nel vicolo tra due palazzi con una mano sola, mentre con l’altra pestava frenetico il pollice sul touchscreen del cellulare. Fece almeno sei o sette errori di battitura, ma inviò comunque il messaggio per sbaglio prima di poterlo correggere: “Scufsi ho avto un contratmpo sfo srirvandoù”.

Imprecò tra i denti e accorciò la ragnatela, appena in tempo per non schiantarsi addosso a un cartellone pubblicitario come una frittella sul soffitto.

«Ti ricordo che non hai ancora ventun anni e che sono solo le nove di sera, è troppo presto per i cocktail,» recitò la voce robotica di Karen, imitando in modo estremamente convincente e quasi inquietante quella di Tony nel leggere il suo messaggio, incluso il velato sarcasmo.

Peter sospirò tra sé e si decise a chiamarlo, cosa che aveva evitato di fare prima conoscendo la spiccata antipatia del suo mentore verso i telefoni.

«Ragazzino, spero per il mio bene che tu sia sobrio: non ho alcuna intenzione di beccarmi altre sfuriate di tua zia,» esordì lui, rispondendo a metà del primo squillo.

«Sono sobrio, signor Stark!» lo rassicurò subito, un po’ affannato. «Sono decisamente molto sobrio, ma…» s’interruppe per schivare un lampione e appigliarsi alle travi metalliche del Queensboro Bridge, continuando i suoi volteggi a pelo d’acqua sui flutti dell’East River, «… ho avuto qualche contrattempo e…»

«Sì, avevo decifrato il messaggio in codice,» lo prese in giro Tony, con uno sbuffo divertito. «Fa niente, Pete, la cena è pronta e noi non andiamo da nessuna parte… a parte la signorina, che adesso andrà a letto,» aggiunse, e dal suo tono d’un tratto severo capì che si stava rivolgendo direttamente a Morgan, impegnata con tutta probabilità a demolire da cima a fondo la Stark Tower.

Sentì una protesta da parte della bambina, tempestivamente messa a tacere dalla voce di Pepper. Peter, pur sorridendo tra sé, si sentì un po’ in colpa per aver fatto così tardi e aver deluso la bambina, che di sicuro lo stava aspettando con impazienza.

«Arrivo tra dieci minuti!» annunciò, facendo leva con più forza sull’estremità della ragnatela per superare la banchina del fiume e approdare a Manhattan.

«Arriva tra venti, ma arriva intero,» replicò Tony, prima di chiudere la chiamata e dedicarsi probabilmente all’inseguimento della figlia per i novantatré piani della torre.

Peter ignorò il consiglio e continuò la propria spericolata corsa aerea tra i grattacieli della metropoli, dando fondo a tutta la propria abilità nello schivare in velocità gabbiani, cartelli e lampioni sul suo percorso. Non era certo la prima volta che arrivava in ritardo a cena dagli Stark, ma quel giorno si sentì particolarmente in difetto.

Ripassò tra sé la propria scusa, se mai avesse avuto bisogno di metterla in scena, ovvero che aveva passato il pomeriggio con Ned e MJ per finire la relazione di fisica, e che mentre si avviava alla Tower nei panni di Spider-Man si era trovato a incappare in un paio di scippi che l’avevano rallentato. Una scusa molto blanda, lo sapeva, e ringraziò che Tony avesse disattivato del tutto il Protocollo Triciclo e potesse accedere alla sua posizione solo in caso d’emergenza.

Era abbastanza certo che il suo mentore non avrebbe apprezzato il suo nuovo interesse per gli affari loschi di Fisk e Osborn, né la sua ufficiale-ufficiosa collaborazione con Yuri. Soprattutto, non il giorno prima di una riunione decisiva per lui e i Vendicatori – motivo per cui quella sera, su insistenza di Tony, si sarebbe fermato a dormire alla Tower dopo quasi tre mesi dall’ultima volta, così da poter partire di buon’ora per l’Upstate.

Avrebbe tenuto scrupolosamente per sé il fatto di aver passato quel venerdì a ispezionare magazzini nel South Queens in cerca di merce di contrabbando targata Oscorp, anche se mentire gli lasciava sempre un retrogusto amaro in bocca, in particolare se era costretto a farlo con May e Tony.


Una parte di lui temeva in sordina di attirarsi un bis della doppia strigliata prima a Staten Island e poi a casa – un ricordo che anche dopo… dopo tutto quel tempo si palesava nella sua testa ogni volta che faceva qualcosa di azzardato – ma d’altro canto, non stava facendo altro che il suo lavoro di vigilante di quartiere. Non c’erano alieni, né gemme magiche, né armi chitauriane, né portali dimensionali: solo crimine vecchio stampo, fatto di pistole e ricatti e spaccio e corruzione. Non stava facendo nulla di davvero pericoloso, si ripeté, e quello era esattamente il tipo di missione per Spider-Man – una missione normale.

Tirò un grosso respiro attraverso la maschera e inalò la frizzante aria serale, avvicinandosi alla sagoma svettante della Tower col cuore un po’ più leggero.

 

 

 

 

15 Aprile, Stark Tower
 

 

Come sempre, entrò direttamente dal terrazzo. Si arrampicò a tempo record sulle pareti di vetro del grattacielo, che riflettevano le prime luci serali di New York dandogli la surreale impressione di avanzare su un tappeto di stelle elettriche. Troncò le contorte associazioni di pensieri che avevano fatto capolino nella sua mente e scavalcò agile il cornicione, per poi attraversare con passo elastico la pista d’atterraggio per il Quinjet, accostandosi infine alla spessa parete di vetro dell’attico.

Bussò delicatamente sulla porta-finestra e riconobbe i passi leggeri di Pepper che si avvicinavano rapidi, per poi vederla sbucare da dietro il divano. Gli aprì con un sorriso gentile, facendogli cenno di entrare; lui eseguì, e si tolse la maschera solo quando fu ben all’interno del salone. Si voltò verso di lei, come sempre un po’ impacciato:


«Scusi il ritardo, signorina Potts… uh, volevo dire Stark, ma ho avuto qualche…»

«Alt,» gli intimò subito lei, alzando una mano con fare deciso. «Cosa avevamo detto?»

Peter deglutì e sorrise imbarazzato, stringendo la maschera in una mano e pettinandosi i capelli scarmigliati con l’altra.

«Pepper,» disse quindi, ricevendo un cenno d’approvazione soddisfatto. «Scusa il ritardo,» concluse, e lei si limitò ad alzare le spalle, a indicare che non era un problema.

«Su, vai a cambiarti; starai morendo di fame.»

Peter non contestò quell’affermazione decisamente veritiera e dieci minuti dopo era in pigiama, seduto al tavolo della cucina e intento a spazzolare una porzione doppia di polpette. Intuì dal loro gusto opinabile che quel giorno fosse toccato a Tony cucinare, ma aveva troppa fame per farci davvero caso. Si trovò a parlare del più e del meno con Pepper, che si era seduta accanto a lui per fargli compagnia, e fu lieto che nessuna delle sue domande riguardasse l’università o Spider-Man, ma piuttosto il FEAST, sua zia e i suoi amici; lui replicò con domande altrettanto innocue, apprezzando quella rara parentesi di normalità in casa Stark.

«Tony dov’è?» si decise a chiedere mentre metteva il piatto nel lavandino, non vedendolo ancora comparire.

«In “missione”,» replicò lei, e nonostante il tono palesemente ironico Peter mancò comunque un battito, non riuscendo a mascherarlo del tutto. «Stasera Morgan è particolarmente iperattiva,» specificò Pepper, quasi gli avesse letto nel pensiero.

«Sì, certo, immagino,» replicò lui, annuendo e forzando un sorrisetto comprensivo, per poi sedersi di nuovo con fare un po’ nervoso.

Non era del tutto sicuro che Tony le avesse detto della sua intenzione di riprendere le vesti di Iron Man e l’ultima cosa che voleva fare era causare attriti di coppia tra loro, così si guardò bene dall’aggiungere altro.

«Sei preoccupato?» gli chiese lei d’un tratto, prendendolo alla sprovvista.

«Io?» bevve un sorso d’acqua per prendere tempo e si rigirò poi il bicchiere tra le mani. «No, non sono… perché dovrei essere…»

«Tony mi ha detto della vostra visita a Washington,» mise in chiaro Pepper, frenando con voce pacata i suoi sconclusionati tentativi di sviare il discorso. «Inclusa la faccenda di Iron Man,» specificò, stringendo le labbra ad esternare la sua contrarietà.

Peter abbassò gli occhi sulla tovaglia, ancora parzialmente stupito per il suo intuito, ma concluse che vivere con Tony Stark per quasi un quarto di secolo portasse a sviluppare una sorta di senso di ragno per quello che passava in testa alla gente.

«Quindi diceva sul serio,» constatò soltanto, facendo vibrare inconsciamente il ginocchio sotto al tavolo. «Sul fatto di voler… tornare.»

«Sì…» Pepper inclinò il capo con fare pensoso, e scostò le ciocche ramate che le scivolarono davanti al volto. «Anche se a detta sua sarà solo da dietro le quinte, un atto puramente formale. Per forza di cose,» specificò, con un misto incerto di tristezza e sollievo, picchiettando un paio di volte le unghie sul tavolo.

«È un bene, no?» tentò Peter, imbastendo un’espressione ottimista.

«Lo conosco,» puntualizzò lei, con un sorrisino ironico. «Per lui non esiste un “dietro le quinte”.»

Sospirò, ma non sembrava irritata, solo in lieve apprensione. Volle lasciarsi tranquillizzare dalla sua compostezza: sapeva che si era trovata ad affrontare situazioni ben più problematiche di un semplice “ritorno formale” di Iron Man. Batté un paio di volte le palpebre con un fremito trattenuto, sfocando la visione di lei di spalle, china tra le macerie e con una mano avvolta dall’armatura posata sulla luce traballante del reattore arc.

«Tony ha detto che sarà una “tutela” per me,» le rivelò deviando l’onda dei suoi pensieri, e assecondando l’idea di doverle quella sincerità.

«Lo so, e la penso come lui,» lo rassicurò prontamente con sguardo improvvisamente deciso, a troncare qualunque sua protesta.

«Non era mia intenzione causare problemi,» mormorò comunque lui, puntando di nuovo gli occhi verso il basso.

Pensare a Tony di nuovo nell’armatura per colpa sua gli causava un senso di nausea, soprattutto di fronte a una persona che aveva rischiato di perderlo innumerevoli volte in passato. Scacciò di nuovo il ricordo dell’ultima battaglia, contraendo teso la mandibola; sentì i denti che sembravano scricchiolare su una patina di cenere e si costrinse a deglutire nonostante la bocca secca.

Il breve sospiro di Pepper lo riscosse.

«Peter, non sei tu a causare problemi.»

Lui rialzò appena lo sguardo, vedendo che la sua postura era ancora rilassata, e il volto sereno, sebbene più serio, forse offuscato da ricordi non troppo dissimili dai propri.

«Non è la prima volta che il governo fa la voce grossa, e Tony ormai è abituato a gestire situazioni di questo tipo… sa come muoversi. E stavolta non ci sono fazioni: siete tutti dalla stessa parte e vi sosterrete a vicenda,» concluse con fermezza.

Peter la fissò, volendo crederci, ma non riuscì a dissipare la propria aria dubbiosa. Si reclinò sullo schienale, incrociando le dita davanti a sé per impedirsi di gesticolare.

«Tornare ad essere Iron Man mi sembra… insomma, il Dottor Strange ha detto che col fatto del… del coma e dei danni …» notò l’espressione corrucciata di Pepper e si frenò. «Mi… mi sembra azzardato,» tartagliò infine, lasciandosi sfuggire un piccolo scatto della mano.

«Forse, ma non riusciresti a dissuaderlo,» lo avvisò lei abbassando per un istante gli occhi chiari, con un’ombra fugace a scurirli. «È fatto così, se può fare qualcosa, la fa… e anche tu, da quanto mi dice,» aggiunse, ora con un lieve sorriso.

Peter contrasse le labbra in una smorfia impacciata.

«Sì, ma… ma si dà troppo da fare, per un supereroe di serie B,» si schermì in fretta, scrollando le spalle con noncuranza.

«Se ti sentisse parlare così, darebbe di matto,» lo rimbrottò lei tra il serio e il faceto, accigliandosi appena.

Sembrò sul punto di aggiungere altro, ma si frenò, limitandosi ad allungare una mano per scostargli la frangia dalla fronte in una carezza gentile.

«Non lo fa solo per Spider-Man,» concluse, con fare ovvio.

Lui non poté fare a meno di farsi scappare un timido sorriso, chinando appena il capo per nasconderlo, piacevolmente imbarazzato per quelle parole e quel gesto inaspettato.

Di quei cinque anni di vuoto, forse quello era uno degli aspetti che più lo disorientava: essere ormai parte integrante della famiglia di Tony, nonostante il tempo trascorso con loro fosse in realtà così poco. Non riusciva a capacitarsene: era come se qualcuno l’avesse intessuto nella loro vita mentre lui era addormentato, facendolo risvegliare con dei nuovi, saldi legami annodati alle corde del suo cuore, intrecciati a quelli già tesi tra lui e zia May e zio Ben.

Avrebbe voluto ribattere, trovare qualcosa da dire, dissimulare, e in quel momento vide di nuovo Pepper socchiudere le labbra e subito serrarle, come frenando il principio di una frase. Di nuovo, tacque, per poi distogliere rapida gli occhi e puntarli alle sue spalle, attratti da uno scalpiccio di passi.

«Comarelle, avete finito di sparlare di me?» li interruppe Tony dal corridoio, a voce abbastanza alta da preannunciare il suo arrivo.

Entrò in salone con fare gioviale, d’umore decisamente più allegro di quando l’aveva visto a Washington; l’impressione era accentuata dal fatto che non indossasse un completo formale, ma una maglia sbiadita degli AC/DC e dei pantaloni da casa sformati, dai quali sbucava l’estremità del tutore a cingergli la caviglia. Tony gli rivolse un cenno di saluto, e Peter ricambiò un po’ goffamente.

«Missione compiuta?» gli chiese Pepper, alzandosi per andargli incontro con una viva nota speranzosa.

«Profuma d’acqua di rose e dorme come l’angioletto che non è,» replicò Tony, intercettandola tra la cucina e il salone per lasciarle un bacio sulla guancia e appropriandosi poi della sedia libera accanto a Peter.

Avvicinò con un piede la sedia dal lato opposto per stendere la gamba sinistra, trattenendo una smorfia infastidita, per poi riprendere a parlare vivacemente:

«Ho dovuto fare gli straordinari, stasera: c’è voluta un’imitazione di Cap per farla entrare nella vasca e tre storie epiche per farla addormentare. E non sa che sei arrivato, altrimenti non sarei riuscito a farla rimanere a letto neanche con l’armatura,» sospirò poi, puntando l’indice contro Peter.

Lui sorrise sotto i baffi, gongolando per quell’apprezzamento indiretto, per poi arricciare le labbra un po’ contrito:

«Scusi il ritardo,» disse, senza troppi giri di parole, e quella laconicità attrasse l’attenzione di Tony.

«Cos’hai da dire a tua discolpa?» lo interrogò puntualmente, mettendo su un cipiglio intimidatorio che, Peter lo sapeva, era del tutto giocoso, ma bastò comunque a fargli attorcigliare lo stomaco per le bugie che vi svolazzavano dentro.

«Uh, ho avuto problemi da… da Spider-Man di quartiere,» rispose in fretta, pizzicandosi il dorso della mano e sforzandosi di sostenere il suo sguardo. «Mai incontrati tanti scippatori in vita mia, poi c’era una signora che aveva perso il cane e… e cose così,» svagò, stirando le labbra in una piega che doveva assomigliare a un sorriso.

«Immagino.»

Gli occhi nocciola di Tony si appuntarono con insistenza su di lui, improvvisamente acuti, per poi rasserenarsi quasi a comando.

«Sei pronto per domani?» cambiò argomento, in un modo brusco che allarmò Peter.

Tentennò in modo visibile, e si agitò sul bordo della sedia puntando i piedi contro il pavimento.

«Non lo so,» si lasciò sfuggire poi, in un eccesso di sincerità. «Nel senso, non ho mai… partecipato davvero a una riunione, e tecnicamente non sono un Vendicatore, quindi…»

«Sei un Vendicatore. L’hai detto anche tu e soprattutto lo dico io,» replicò schietto Tony, irremovibile su quel punto. «Comunque, non dovrai fare molto… solo ascoltare un paio d’ore di entusiasmanti recriminazioni e accuse reciproche che spero non sfoceranno in uno scontro su larga scala,» sciorinò, e Peter non riuscì a capire se fosse sarcastico o meno.

Probabilmente era in parte serio, considerando le accese discussioni di cui era stato suo malgrado testimone al Complesso di tanto in tanto. Colse di sfuggita Pepper, seduta a leggere sul divano, che si voltava verso di loro accigliata. Anche Tony intercettò il suo sguardo e sollevò gli occhi al cielo, a sottolineare che, , era sarcastico.

«L’unico pericolo è la noia, ragazzino, te l’assicuro.»

«Detta così, sembra facile,» replicò lui, intrecciando le dita davanti a sé e raddrizzando le spalle in uno sfoggio di sicurezza parzialmente fasullo.

«È facile,» confermò Tony, facendosi però più intento, con qualche ruga a solcargli la fronte. «Sarà solo una chiacchierata e parlerò principalmente io; tempo una settimana, e Ross e il Presidente Ellis si ritroveranno col nostro rifiuto in carta bollata sotto il naso,» lo rassicurò, con un gesto svogliato della mano.

Troppo svogliato per qualcuno di così apprensivo, considerò di sfuggita Peter, ma strinse le labbra e accettò quell’ottimismo gonfiato, di cui sentiva di aver bisogno. Voleva accantonare al più presto quella storia dell’Atto. Era una distrazione di fondo che lo pungolava in momenti inopportuni, quando si sarebbe dovuto concentrare sulla maturità, e su zia May, e sulle indagini con Yuri, e sull’università – o sul far finta che quest’ultima non esistesse. La sua vita era ormai permeata da una cacofonia di suoni di sottofondo che non gli dava tregua, e poterne silenziare anche solo uno era una prospettiva allettante.

«Lo spero.» Peter si alzò per riempire il bicchiere, così da voltare anche le spalle a Tony e nascondere il proprio scetticismo. «Chi ci sarà domani?» svagò poi, sorseggiando l’acqua.

Un brillio furbetto passò negli occhi di Tony, e il suo volto si distese del tutto in un’espressione sorniona.

«I soliti: il nonnetto rimbambito, quell’orso bisbetico di Rhodey, il dottor Jekyll verde, Katniss, il Lillipuziano…» alzò le spalle con studiata lentezza, fissandolo con vivo interesse. «E, visto che ci tieni tanto a saperlo… , ci sarà anche Shuri,» buttò lì, con la massima noncuranza e un’intonazione quasi cinguettante.

Peter rischiò contemporaneamente di strozzarsi con l’acqua, inciampare nei suoi stessi piedi e scaraventare per terra il bicchiere; il che risultò in un sonoro verso nasale, un colpo di tosse soffocato e una manovra da acrobata per scampare il disastro.

«Non… non…» cercò di articolare dopo aver tossito e preso fiato, sentendo le proprie guance che s’incendiavano.

«Non… cosa? Non vedi l’ora? Neanch’io,» sogghignò Tony, piantando i gomiti sul tavolo a sostenere il mento e divertendosi come un bambino dispettoso.

«Tesoro, so che per te è difficile, ma non essere molesto,» risuonò la voce di Pepper, solo apparentemente serafica e con un sottotono minaccioso molto marcato.

«Mi sto solo interessando…»

«Quello è essere molesti.»

«… della vita sentimentale del nostro ragnetto.»

«Io non ho una vita sentimentale!» protestò Peter, realizzando in ritardo che non fosse una cosa di cui vantarsi.

«Appunto!» esclamò Tony, indicandolo con ovvietà. «Potresti fare buon uso dei miei preziosi consigli…»

«“Playboy”, ti ricordo che tu ci hai messo dieci anni per dichiararti e altri dieci per sposarmi,» lo rimbeccò Pepper, sollevando la testa dal suo libro con un sorrisetto e facendo affievolire quello emerso sulla faccia di Tony. «Pete, non dargli retta.»

«Certo che no!» scosse energicamente la testa lui, cercando di contenere l’imbarazzo, già largamente manifesto sulle sue guance porpora.

Tony sbuffò contrariato, ma, con suo immenso sollievo, lasciò cadere l’argomento. Almeno per i successivi dieci secondi.

 

 

 

 

Dopo aver passato il dopocena a giocare a Triple Yahtzee e a schivare altre domande imbarazzanti di Tony, Peter coltivava la segreta speranza di poter andare subito a letto senza passare per il via, evitando qualsiasi altra discussione potenzialmente scomoda – ovvero la discussione che sentiva aleggiare nell’aria da giorni e che gli girava attorno come un avvoltoio affamato.

Per questo, non appena Pepper ebbe dato loro la buonanotte, fece per seguire prontamente il suo esempio… solo per sentire i suoi piani di fuga infranti da un secco colpetto di tosse alle sue spalle. 
Girò mollemente sui talloni con aria rassegnata, inquadrando Tony in una posa a dir poco sospetta, con le mani giunte davanti a sé e la testa reclinata all’indietro a scrutarlo di sottecchi.

«In realtà avevo intenzione di farti andare a letto presto, ma…» si bloccò, incrociò le braccia e si passò una mano sul pizzetto, osservandolo con attenzione. «Ma, come al solito, sei sfuggente e devo incastrarti e ricorrere all’inganno per riuscire a parlare con te cinque minuti,» concluse, con un lieve sbuffo.

Peter contò mentalmente fino a cinque, con la forte tentazione di girare di nuovo i tacchi: quindi era per quello che gli aveva proposto di dormire alla Tower. Altro che traffico newyorkese nel Queens alle sette di mattina.

«Non possiamo parlare domani?» sospirò, incrociando strettamente le braccia e ostentando una completa indifferenza all’argomento.

Lanciò un’occhiata implorante in direzione del corridoio. Tony scosse appena la testa, accigliandosi.

«Nossignore. Te la sei già cavata l’ultima volta.»

Sembrava realmente poco entusiasta di doverlo braccare a quel modo, ma anche esasperato e perplesso la sua strenua reticenza. Peter si impegnò a mostrarsi a sua volta più seccato che poté quando fece dietrofront strascicando i piedi, indirizzandogli un’occhiata un po’ risentita. Si lasciò cadere di peso sul divano, col collo gettato all’indietro contro lo schienale e lo sguardo vacuo al soffitto.

Tony si sedette con più cautela sull’altro sedile, incastrandosi nell’angolo tra schienale e bracciolo. Non lo perse di vista un istante, come se fosse intento a studiare il suo comportamento per agire di conseguenza.


«Non mi diverto a tormentarti, sai?» esordì infine, alzando appena le sopracciglia.

Peter scrollò le spalle, senza esprimersi. Non poteva comunque sottrarsi. O meglio, avrebbe potuto farlo senza alcuna difficoltà – d’altronde, se avesse deciso di fuggire dalla finestra Tony non avrebbe certo potuto fermarlo – ma non voleva neanche che quella discussione continuasse a pendere su di lui come una spada di Damocle. Sperò solo di riuscire a raccogliere le fila delle varie bugie, mezze verità e depistaggi che aveva imbastito con lui, Ned e May negli ultimi giorni, anche se si sentiva pericolosamente vicino a perderne il controllo.

«Non capisco tutta questa urgenza,» proferì infine, schiudendo appena la mandibola. «Ho ancora un mese per inviare le domande alle università, e so già di voler studiare biofisica, quindi la scelta si riduce al MIT, alla Berkeley, alla…»

«Pete,» lo bloccò subito Tony, scuotendo il capo, «per quanto mi riguarda potresti anche decidere di studiare teologia in Utah, e non avrei nulla da ridire,» lo interruppe Tony, stringendosi la radice del naso tra pollice e indice.

Peter voltò la testa verso di lui, in un moto d’incredulità.

«Va bene, in quel caso forse … ma non è questo il punto,» sospirò lui, lasciando ricadere la mano e trattenendo un accenno di sorriso un po’ forzato, in netto contrasto con gli occhi seri.

Non esplicitò quel “punto”, ma Peter poteva intuirlo benissimo, come l’aveva già intuito a Washington. Non stavano parlando dell’università, ma dell’Atto di Registrazione, così come non stavano parlando di Peter Parker, ma di Spider-Man. Il fatto che i contorni di quegli argomenti si sovrapponessero in modo quasi perfetto non faceva che aumentare la sua riluttanza ad affrontarli. E poi, gli sembrava di vederli aggirarsi concentricamente attorno al vero e proprio nucleo rovente, che gli si bloccava puntualmente in gola.

«Il punto è che non voglio decidere adesso

«So che non è una scelta facile per te, soprattutto viste le circostanze, e non voglio che tu ti senta in dovere di scegliere quello che preferirei io…» continuò Tony a ruota libera, come se non lo avesse sentito – o semplicemente senza averlo ascoltato, il che era più plausibile.

«Lei preferirebbe il MIT,» completò Peter, senza curarsi di farla suonare come una domanda e rassegnandosi ad assecondare il suo discorso.

«Beccato,» ammise lui, storcendo la bocca colpevole.

Peter soffiò aria dal naso, stringendo l’orlo della maglietta e chiedendosi se zia May avesse riferito a Tony della loro discussione al ristorante. Molto probabile.

«Lo preferisce perché ci si è laureato lei, perché è una buona università o perché così smetterei di essere Spider-Man?» indagò infine a bruciapelo, guardandolo negli occhi.

Tony ebbe una frazione di secondo d’esitazione che conteneva già di per sé la risposta.

«Non devi per forza smettere solo perché sei in “trasferta” in Massachusetts,» svicolò poi, alzando le spalle. «O dovunque tu vorrai andare.»

Peter aggrottò la fronte, scurendosi in volto e trattenendo un commento piccato: aveva decisamente parlato con zia May.

«Dovrò smettere per forza,» ribatté, senza scomporsi, ma stringendo con più forza la stoffa della maglietta sulle braccia. «Spider-Man è… è a New York, non posso semplicemente trasferirmi e poi tornare come se niente fosse,» disse, agitandosi un poco.

«Cos’è, non puoi “proteggere gli indifesi” e “rendere il mondo un posto migliore” da un campus universitario?» commentò Tony, con una nota di condiscendenza che lo punse sul vivo.

«Signor Stark, non posso passare da amichevole Spider-Man di quartiere a… a sfigato Spider-Man del campus,» s’impappinò con fastidio, visto che spesso si sentiva comunque abbastanza sfigato anche come supereroe.

«Non rimarresti con le mani in mano, da quel che ricordo il MIT pullula di teste di–»

«Non è quello che intendevo,» lo interruppe Peter, di getto, irritato da quell’ironia fuori luogo, e Tony sembrò irritarsi di rimando, con un lampo negli occhi scuri. «Io… io vorrei solo–»

«Senti, ragazzino, non importa cosa vuoi tu,» sbottò d’un tratto Tony, brusco, e Peter ammutolì altrettanto rapidamente, quasi l’avesse colpito in pieno volto. «Mi interessa Spider-Man e cosa vuoi farne, il resto per ora è irrilevante. Ed evitare il discorso non lo farà sparire magicamente.»

Per quanto il suo tono fosse rimasto piatto e asettico, lo vide incupirsi e inclinare la bocca verso il basso, come se fosse molto insoddisfatto delle parole che stava pronunciando, o forse solo irritato per le risposte che non stava riuscendo ad ottenere. 
Peter incespicò nell’aria che si rifiutava di uscirgli dalla bocca, preso alla sprovvista dal riemergere di quel modo di fare duro che Tony sembrava ormai aver abbandonato quasi del tutto con lui.

Contrasse la mascella, sostenendo però lo sguardo spigoloso, quasi tagliente del suo mentore. Adesso non gli si stava rivolgendo come un suo pari, come Tony a Peter, ma come Iron Man a Spider-Man, ed esigeva che lui si comportasse di conseguenza. Esigeva risposte.


Peccato che lui, in quel momento, si sentisse più Peter che Spider-Man; o forse nessuno dei due, che era la situazione ben peggiore, perché lo lasciava in bilico con se stesso. Non era in grado di formulare le risposte che voleva Tony, e ciò gli torse lo stomaco in una stringente rete di frustrazione, oltre che di subdola, pungente paura che parve intrappolargli le membra.

Distolse gli occhi e scosse soltanto la testa, serrando e rilassando ritmicamente la bocca nel tentativo di trovare una replica efficace, ma il pensiero di scatenare altre domande lo rese muto, lo bloccò sul posto. Bloccato, come sempre, come un ragno difettoso che s’impiglia nella sua stessa ragnatela.

Alzò il volto, incontrando di nuovo gli occhi di Tony. Realizzò che il suo sguardo si era intristito, smussando le sue iridi di solito calde, ora venate di ombre profonde. Peter si sforzò di ritrovare la voce, ma lui sospirò appena e staccò la schiena dal divano, spostandosi accanto a lui. Gli strinse la spalla, a frenarlo.

«Ammetto che sarei molto più tranquillo a saperti concentrato su un manuale di robotica, piuttosto che a dondolare dalle tue ragnatele nel Queens mentre prendi a pugni i cattivi,» buttò fuori d’un fiato, a bassa voce e precipitoso come ogni volta in cui socchiudeva la porta blindata dei suoi pensieri. «Ma non posso neanche impedirti di fare ciò che vuoi.»

La sua voce venne incrinata da una nota sofferente, e Peter deglutì a forza. La mano incollata alla sua spalla gli trasmise la parte del discorso che evitavano sempre di esternare a parole. Aveva la consistenza salda, eppure effimera, dei cinque anni svaniti in un soffio, di un abbraccio ripetuto al contempo a distanza di pochi istanti e di lunghi anni, di quel singolo battito di ciglia che lo aveva reso cenere trasmutando la realtà attorno a lui in modo irreversibile.

«Non ho ancora deciso, tutto qui,» gracidò infine, tenendo ostinatamente a distanza l’argomento nonostante lo stesse già corrodendo dall’interno.

Tony trattenne uno sbuffo e si passò una mano sul pizzetto, ricomponendo una facciata neutrale.

«Senti, ho voluto lasciarti i tuoi spazi in questi mesi, ma adesso…» fece un gesto vago, snervato, sollevando il palmo ferito verso l’alto, «… stanno succedendo troppe cose, e ne cambieranno altrettante. L’Atto è alle porte: voglio essere in grado di gestirlo e ho bisogno di te per farlo in modo efficace,» sottolineò, inclinandosi appena sulle ginocchia per cercare il suo sguardo, che lui tenne basso. «Non so perché l’università in particolare ti spaventi così tanto, ma…»

«Non mi spaventa,» replicò subito Peter, con un picco stridulo che esprimeva tutto il contrario.

Tony non proseguì, limitandosi a rimanere in attesa, quasi trattenendo il fiato. Peter si rese conto con orrore di avere la vista appannata, e si trovò a continuare senza quasi rendersene conto:

«È solo che… avrei dovuto finirla quest’anno,» gracchiò infine, stringendo di nascosto gli spara-ragnatele celati dalla maglietta a maniche lunghe.

Il peso di quell’affermazione gli rimbombò nel petto, in un’eco bloccata che non riusciva a propagarsi. Vide Tony sgranare impercettibilmente gli occhi, in un moto di addolorata comprensione che gli oscurò il volto. Ritrasse la mano e vi poggiò il mento, coprendosi la bocca e chinando il capo.

Rimase in ascolto, insolitamente silenzioso, con uno sguardo distante che gli richiamò quello che aveva avuto su Titano, pochi istanti prima che lui gli scomparisse davanti – era lo stesso, lo riconobbe, perché sapeva che quei cinque anni pesavano sulle spalle di entrambi con un senso di colpa complementare, di chi ha perso e di chi è venuto a mancare.


«E… e invece la sto per iniziare, e tutto questo… non ha senso, non riesco a capire come sia…» risucchiò un respiro, troncando quel flusso di parole. «Adesso vorrei solo…»

Peter provò di nuovo a riprendere il filo del discorso, facendo sobbalzare le mani in grembo a tirarsi fuori a forza le parole. Chiuse brevemente gli occhi, quasi potesse rimescolare le carte in tavola per riaprirli su una partita nuova, non una già iniziata e lasciata a metà in cui era stato gettato a forza.

«… continuare a fare ciò che ho sempre fatto,» esalò infine.

Espresse quel desiderio infantile guardando il cielo notturno fuori dalla vetrata, come se le stesse stelle che si erano dimostrate così ostili verso di loro potessero esaudirlo in un guizzo di compassione. Il resto della frase gli pendeva dalle labbra, tentatore, e gli si incuneò sotto la lingua premendo per fuoriuscire. La mano di Tony si adagiò di nuovo sulla sua spalla, più ferma. Peter sigillò la bocca e spostò lo sguardo in basso, per poi cedere e schiuderla appena:

«Ma non posso. Non posso perché… perché non posso fare quello che ho sempre fatto se niente è come prima,» sbottò, odiando il tremito nella sua voce nel trasporre in suoni stentati quel concetto opprimente.

Solo allora sembrò ergersi nella sua mente in tutta la sua imponenza, e il suo cervello fece una piroetta su se stesso, colto dalle vertigini.

Cinque anni.

Cercò di figurarseli come qualcosa di materiale, da poter contare con delle biglie su un abaco, ma sentì solo un trillo infastidito del senso di ragno. Presero la forma di un macchinario sterminato, piegato e deformato sotto il suo stesso, mastodontico peso; un ammasso contorto di ruote dentate, pistoni e leve che tritura ruggine per arrancare inutilmente e poi bloccarsi tra lamenti e urla di meccanismi rotti. E lui era ora un sassolino sul punto di sbriciolarsi, ora un componente in più, superfluo, che non trovava posto nel progetto di quella macchina infernale.

Fu scosso da un brivido, e Tony lo percepì, stringendo ancora la presa sulla sua spalla.

«Pete,» cominciò poi, bloccandosi subito per tirare un respiro e sfregarsi la tempia. «So come ci si sente ad essere… scollegati,» proferì poi, guardandolo lateralmente, ad osservare la sua reazione.

Peter deglutì e basta, non fidandosi abbastanza della propria voce per replicare in modo spigliato. Sapeva che le lacrime nei propri occhi erano inequivocabili, ma cercò in tutti i modi di trattenerle, sentendole aggrapparsi strenuamente alle ciglia per non scivolare via. Strinse le labbra fin quasi a farsi male per celare la smorfia istintiva e tremolante che gli deformò il viso.

«Anche adesso…» Tony esitò di nuovo, contraendo le dita sulla sua pelle. «A volte non riesco a credere che tu sia… realmente qui,» proseguì con suo profondo sconcerto, e un ulteriore strato liquido si unì a quello che già gli annacquava gli occhi. «Mi sento un folle. Guardo Morgan, Pepper, te, e mi convinco che mi risveglierò sulla Benatar in preda a un delirio per carenza d’ossigeno.»

Fece un brusco scatto col capo a scacciare il ricordo, e staccò infine la mano dalla sua spalla per stringere la propria, quella ferita, rigirandosi la fede nuziale al dito in un gesto calmante. Le piaghe sul suo volto sembrarono farsi più profonde, e la ciocca di capelli quasi bianchi sulla tempia era più evidente che mai nella luce soffusa del salone.

«Siamo qui grazie a lei, signor Stark,» gli ricordò Peter, ignorando la propria gola strozzata nel gettar fuori quelle parole. «Il resto non importa, ce… ce l’ha fatta,» concluse semplicemente, con un sorriso traballante come quella vittoria che non sembrava veramente tale.

Tony non rispose. Tenne lo sguardo puntato fuori dalla vetrata, divisa dallo skyline illuminato di New York, con pollice e indice a stringersi le tempie. Peter si chiese se non avesse detto qualcosa di sbagliato. Conosceva Tony, ma non così a fondo da capirlo davvero: c’erano ancora quelle volte in cui vedeva i suoi occhi diventare freddi, schivi, e non capiva perché; non riusciva a identificare quali ferite o tasti sensibili avesse inavvertitamente sfiorato. Si sentì la bocca secca e amara al pensiero.

«Signor Stark, non volevo farla preoccupare con… con quei discorsi. In fondo, ci stiamo passando tutti noi scomparsi. Sto bene, davvero,» mentì per spezzare il silenzio, con una tagliola che gli azzannava il cuore. «Ho solo bisogno di…» si rimangiò quella parola, quel “tempo” che sembrava perseguitarlo in ogni forma, viva, reale e strisciante.

Tony inspirò a fondo dal naso, come se avesse appena preso una decisione difficile. Si spianò le sopracciglia corrugate con le dita, senza riuscire a cancellare le linee contratte sulla fronte, e si sporse appena verso di lui. Gli bloccò un avambraccio con delicatezza e Peter si accigliò, più sorpreso che allarmato, almeno finché non gli tirò su la manica scoprendo a colpo sicuro uno dei due spara-ragnatele.

Peter smise di respirare. Si pietrificò sul posto, sbarrando gli occhi, coi muscoli rigidi e le pupille dilatate. Captò lo sguardo significativo di Tony, severo, ma animato da una punta di rammarico.

«Dormire con questi addosso lo chiami “stare bene”?» chiese retorico, lasciandolo andare, e Peter ritirò di scatto il braccio, circondandosi subito il polso con le dita per nascondere il congegno. «Potrei sprecare la nottata a dirti che non ne hai bisogno,» affermò, con un cenno del mento nella sua direzione, «ma ci sono passato, e so che sarebbe inutile.»

Peter si tirò giù di scatto la manica, sentendosi avvampare, in viso e dentro al petto, in una massa di vergogna che minacciava di bruciarlo vivo. La delusione nella voce di Tony era palpabile, e la sentì scavargli nei polmoni.

«Sono solo una… precauzione,» esalò, con un filo di voce sul punto di sfaldarsi.

«E riesci a dormire anche senza, giusto?» indagò Tony, con precisione chirurgica.

Peter rimase muto, con le labbra serrate, senza negare. Tony non commentò e si passò di nuovo una mano sul volto con fare stanco, nell’ennesimo tentativo di distenderlo.

«May lo sa?»

Peter scosse la testa, rischiando di far traboccare le lacrime, e si morse le labbra per impedirlo.

«Dovresti dirglielo.»

Peter annuì, ancora senza parlare, e sentì la mano di Tony che si posava a cingergli la nuca in un contatto rassicurante. Tirò piano su col naso, riuscendo a controllarsi, ma tenne lo sguardo piantato sul pavimento lucido, freddo sotto ai suoi piedi scalzi.

«Non le ho detto nulla. Né dell’Atto, né dell’università, né di… di tutto il resto,» confessò poi, deglutendo un groppo salato.

«Il resto?» indagò Tony, aumentando un poco la stretta. «C’è altro che dovrei sapere?»

Peter tornò a focalizzarsi su quella sorta di fioco “bip” di fondo che il suo senso di ragno emetteva ormai da sei mesi. Una cadenza regolare, snervante, un fischio all’orecchio che gli solleticava la coscienza senza per questo destarla del tutto, come una calamita attaccata al cervello che si divertiva a scombinargli i pensieri muovendosi di tanto in tanto. Adesso gli sembrò che persino Tony riuscisse a percepire quel sottofondo molesto, acuto e vivido quanto lo era per lui.

Nessuno sapeva del senso di ragno: era l’unica abilità che non aveva mai rivelato, proprio perché essa stessa sembrava volerlo dissuadere dal farlo; anche adesso gli mandò una tenue scossa di avvertimento che lo fece tendere sul posto. Non gli riuscì di scollare la lingua dal palato per mettere sul piatto dei suoi problemi anche quello, che incarnava al contempo la punta dell’iceberg e l’intera, gigantesca massa di ghiaccio sottostante celata anche ai suoi occhi.

«Dei cinque anni,» svicolò dopo qualche secondo, con voce un po’ roca. «Di quello che le ho appena detto.»

Tony lo fissò, con una netta ombra di dubbio nello sguardo, ma lasciò scivolar via la mano in una breve carezza, senza insistere.

«Ragazzino, non so se sono la persona più adatta con cui parlare. Sono un consulente, ma non quel tipo di consulente,» si espresse poi, scrollando il capo. «In compenso, sono il re del tempo perso e delle decisioni sbagliate, oltre che dei difetti caratteriali e dei traumi irrisolti,» storse la bocca, con amara ironia, e Peter ribatté d’istinto:

«Signor Stark, non penso che…»

«Non interrompermi, sto improvvisando.»

Tony alzò un indice, bloccandolo sul nascere, e Peter richiuse stolidamente la bocca.

«Ci ho messo vent’anni a capire che stavo sbagliando,» continuò poi, più piano, con una nota di rimorso ben palpabile. «Cap ne ha passati settanta nel ghiaccio. Bruce ne ha persi quasi dieci per colpa di Hulk. Nat ha passato mezza vita a fare ciò che non voleva,» si interruppe brevemente, tirando un rapido respiro e sfregandosi la radice del naso, «Thor… Thor non ha neanche un’età quantificabile, quanto tempo pensi che abbia perso, in millecinquecento anni?» sbuffò, con fare appena più leggero. «Abbiamo tutti deviato dal percorso. Abbiamo tutti perso tempo, rimandato occasioni, imboccato strade più lunghe o più corte, per scelta nostra o meno… il tempo è relativo, non devo spiegartelo io. Se pensi che ci si può anche viaggiare, lo è ancor di più… ma paradossalmente il nonnetto è più esperto di me su questo tema.»

Gli posò di nuovo una mano sulla nuca e gli arruffò i capelli con fare un po’ burbero.

«Tu però non ne hai bisogno. Sei nel tuo tempo,» concluse, indicandolo con sicurezza a ribadire il concetto. «E ho giurato che nessuno verrà più a rubartelo, né a te, né a Morgan, né a nessun altro,» aggiunse, con una nota dolceamara a tingere quelle parole.

Peter stava respirando appena, superficialmente, per non sconvolgere del tutto il proprio equilibrio emotivo traballante. Alle parole di Tony si sommavano quelle di May, simili e complementari. Erano concetti semplici, che si ripeteva lui stesso per tenere a bada i demoni. Sentirli pronunciare da loro sembrava renderli più veri, e al contempo più irraggiungibili. Più stringenti, come se tutti cercassero di indirizzarlo su una strada a lui invisibile, stretta e impervia, tendendogli però la mano per guidarlo.

Si chiese repentinamente se anche zio Ben gli avrebbe detto le stesse cose. Se gli avrebbe dato un’energica pacca sulla schiena, sorridendogli in quel suo modo un po’ enigmatico che gli accendeva gli occhi chiari e limpidi, incorniciati da rughe d’espressione. Se gli avrebbe ripetuto che quella era ancora l’età in cui avrebbe deciso chi essere per il resto della vita, e che sono anche le questioni irrisolte a determinarlo.

Evitò di guardare direttamente Tony, temendo le parole che gli sarebbero potute sfuggire di bocca se l’avesse fatto, temendo di assecondare l’istinto che gli suggeriva di contraddirlo, di spingerlo via, in un contorto meccanismo di autodifesa che si era già rivelato difettoso una volta.

Invece respirò a fondo, riprendendo a fatica il controllo. Cercò di spiegare davanti a sé in file parallele quei discorsi pronunciati da persone amate; cercò di seguirli fino al loro snodo comune, senza però trovarlo. Riuscì solo a percepire un groviglio caldo di protezione e orgoglio e affetto che intrecciava tutte le corde del suo cuore.

Forse, per adesso, era tutto ciò di cui aveva bisogno – come Peter, come adolescente liceale del Queens che vorrebbe guardare al futuro senza perdere la rotta. Quelle di Tony e May e Ben non erano coordinate precise. Lui non aveva neanche una mappa, ma poteva credere di avere almeno una bussola in mano, con il Nord ben visibile sul quadrante.


«Lo so,» riuscì a dire infine, con un sorriso un po’ stentato che pareva però trarre energia ciò che aveva appena sentito. «Ma…»

«Niente ma: io mantengo sempre le mie promesse,» ribadì Tony, scherzoso, ma non troppo. «E ti prometto che risolveremo tutto… tu però devi parlane anche con May,» insistette poi, scrutandolo con lieve severità.

Peter scrollò il capo, intrecciando nervosamente le dita.

«Non voglio farla preoccupare, e…»

«Quindi far preoccupare un cardiopatico è giustificabile?» lo interruppe lui, sollevando scandalizzato le sopracciglia e portandosi teatralmente una mano al cuore. «Hai una stramba scala di valori, Spider-Man.»

Peter incespicò a metà frase, sbarrando gli occhi ancora lucidi.

«Sì, cioè… no, assolutamente no, non volevo…» gesticolò, sotto il tiro dello sguardo inquisitore di Tony, che però sbotto in una risatina – una brezza fresca, carica d’ossigeno.

«Sto scherzando, ragnetto,» scosse la testa, dandogli una spallata con un mezzo sogghigno. «Frequentare Capitan Serietà ti sta facendo perdere il senso dell’umorismo,» commentò poi, mentre si alzava con lieve impaccio facendo leva sulle ginocchia.

Peter sbuffò appena in risposta, asciugandosi di nascosto gli occhi col polso, con Tony che gli dava sensibilmente la schiena.

«Adesso fila a letto,» gli intimò poi, in tono falsamente severo. «Domani ci aspetta una giornata impegnativa, ti voglio riposato,» concluse, soffocando uno sbadiglio che la diceva lunga su quanto poco quella prospettiva lo entusiasmasse.

Pete si trovò a imitarlo senza volerlo, suscitando un’espressione divertita sul suo volto. Lo seguì senza protestare fino alla porta della camera di Morgan, lieto che avesse voluto chiudere lì la discussione senza insistere sulle risposte ancora in sospeso. Sapeva che ne avrebbero parlato ancora – dei cinque anni, del futuro, di Spider-Man – era inevitabile, ma per ora voleva godersi la bolla di quiete che gli si era formata nel petto.

«Grazie, Tony,» disse a voce bassa, prima di scivolare oltre la soglia.

Lui non replicò, ma fece una buffa smorfia, alzando con fare indecifrabile le sopracciglia.

«’Notte, ragazzo,» gli augurò semplicemente, schiudendo piano la porta di Morgan per poi accostarla con delicatezza dietro di lui.

Nella lama di luce, Peter intravide per un attimo il suo sorriso pieno, non più trattenuto.

 

 

 

 

Avanzò nella stanza in punta di piedi, seguendo il ritmo delicato del respiro di Morgan, per poi raggiungere il letto superiore gattonando sul muro e poi sul soffitto. Si lasciò scivolare cautamente sul materasso, ma, proprio quando stava per tirare un sospiro di sollievo, una delle molle emise un lamento penetrante, facendogli stringere occhi e denti.

«Mamma?»

La voce assonnata e lievemente impaurita di Morgan si levò da sotto di lui, e si affrettò a rassicurarla.

«Ehi, Mo,» sussurrò, per poi sporgere la testa dal letto per sbirciare al piano inferiore. «Sono io. Non volevo svegliarti,» disse, osservando la bambina che sorrideva appena stropicciandosi gli occhi, cercando di abituarli al buio.

«Ciao, Peter,» sbadigliò, facendo sporgere una mano da sotto il lenzuolo per salutarlo. «Sei in ritardo,» dichiarò poi, immusonendosi un po’.

Peter piantò i piedi contro il muro, ancorandosi alla superficie liscia con la punta delle dita, e si sporse col busto oltre il bordo del letto rimanendo appeso a testa in giù.

«Scusa, ma stasera c’erano un sacco di cattivi in giro,» si difese, notando il broncio della bambina che si scioglieva in un sorriso divertito.

«Sei buffo,» disse indicando i suoi capelli dritti, vittime della gravità, e quell’affermazione suonò come un’accettazione di scuse. «E li hai presi tutti?» s’interessò poi, facendosi intenta.

«Certo che sì, sono Spider-Man, no?» si vantò lui, sentendosi più orgoglioso nel vedere lo sguardo ora sinceramente ammirato della bambina che nell’avere il proprio nome stampato sui giornali.

A quel punto Morgan si girò sulla pancia, puntando i gomiti sul cuscino a sorreggere il mento, e Peter capì che non sarebbe riuscito a farla riaddormentare così presto come sperava. Da quel punto di vista, aveva ereditato tutta la testardaggine del padre… già si immaginava le occhiate di brutale rimprovero che gli avrebbe rivolto Pepper il mattino dopo per non aver adempito ai doveri di bravo “fratello maggiore”.

«Anch’io voglio fare Spider-Man da grande,» dichiarò lei, con un guizzo determinato negli occhi scuri. «Ma mamma e papà non vogliono,» si lamentò poi, inclinando di lato la testa con fare contrariato.

«Beh, sei ancora piccola… magari quando sarai più grande cambieranno idea,» disse conciliante Peter, col vivo sospetto che Tony non avrebbe apprezzato la sua indulgenza riguardo a quel determinato argomento. «Non c’è altro che vorresti fare?» chiese in fretta, cercando di distoglierla.

«Mmm…» la bambina ci pensò su, con gli occhi rivolti alle doghe del letto superiore. «L’esploratrice, la meccanica, la pilota e l’astronauta,» elencò poi con aria sognante, contando via via sulle dita. «E papà ha detto che va bene tutto, tranne l’astronauta,» concluse, ripiegando l’ultimo dito contro il palmo e aggrottando le sopracciglia in un’espressione dubbiosa che gli ricordò enormemente Tony.

Peter strinse le labbra, incupendosi un poco e sentendo un rinnovato pizzicore allo stomaco.

«Già, non gli piace molto lo spazio,» considerò soltanto, con fare vago e sperando che la questione finisse lì.

«Perché?» indagò subito lei, assottigliando gli occhi.

Peter ragionò rapido, messo alle strette da uno dei fatidici “perché” che costellavano la vita di Morgan, e che riuscivano a mettere in difficoltà chiunque, che fosse uno scienziato con sette dottorati o un super soldato ultracentenario. Infine, decise di sfruttare l’occasione a proprio vantaggio:

«Se te lo dico, mi prometti che vai a dormire?»

«Promesso,» rispose pronta lei, e Peter quasi poté vederla incrociare le dita sotto le lenzuola con un sorrisino furbetto.

Sospirò tra sé, ma le diede il beneficio del dubbio e si ridistese sul proprio letto, nonostante rimanere a testa in giù non gli causasse alcun disturbo. Magari così Morgan avrebbe ceduto al sonno più facilmente.

Il suo sguardo si fissò sulle sagome puntute delle stelle contro il soffitto buio. Non sembravano poi così minacciose, appese lassù a portata di mano in quel gruppetto sparuto e aguzzo: poteva contarle – venticinque – poteva raggiungerle allungando un braccio, avrebbe anche potuto staccarle da lì, se avesse voluto. Gli sembrò un’illusione labile, un goffo tentativo di rendere innocuo il freddo manto stellato che occhieggiava su di loro oltre il soffitto.

So come ci si sente ad essere… scollegati.

Cercò di immaginarsi cosa si provasse a vagare per ventotto giorni in quella distesa priva di dimensioni, di tempo, di calore, ma ciò gli causò solo un vuoto allo stomaco che sembrò bloccargli il respiro. Sentì i propri pensieri cadere a spirale e perdersi nei miliardi di puntini luminosi dietro le sue retine, e il cicalio sommesso del senso di ragno ebbe un picco turbato che gli fece vibrare i timpani. Per un attimo quel vuoto gli sembrò familiare, anche se non ne capì il perché.

Deglutì a vuoto, sapendo che Morgan aspettava ancora una risposta.

«A tuo papà non piace lo spazio perché… perché è noiosissimo,» inventò poi sul momento, con le corde vocali che stridevano tra loro.

«Davvero?» chiese lei, suonando troppo scettica per la sua età.

«Sì, davvero,» replicò con convinzione assolutamente fasulla lui.

«Ma nello spazio ci sono un sacco di cose,» protestò lei, probabilmente con le pagine accattivanti di un libro illustrato davanti agli occhi.

Quelle parole prive di malizia si distorsero, evocando entità troppo spaventose per trovare posto in una favola della buonanotte. Come si spiegava a una bambina di sei anni che nello spazio, oltre alle nebulose, alle stelle, alle comete, si annidavano paure così grandi da aver rischiato di divorare l’universo intero? E che il brillio delle galassie lontane e delle polveri stellari tinte di colori fiabeschi non era abbastanza per colmare la solitudine di chi vi si era quasi perso?

«Lo spazio è…» cominciò, titubante, per poi forzarsi a continuare. «È troppo pieno, anche se dovrebbe essere completamente vuoto e… ed è troppo vuoto anche quando sembra pieno,» s’incartò nelle sue stesse parole, mordendosi la lingua per evitare di complicare ulteriormente la questione.

Quell’ultimo, convoluto ragionamento portò con sé il silenzio, tanto che Peter si sporse dal letto per verificare che non si fosse addormentata, ma Morgan sembrava intenta a rimuginarvi su, col lenzuolo a coprirla fino al naso e gli occhi socchiusi per la concentrazione.

«Ho capito,» annuì infine, quasi con solennità.

Peter si chiese cosa, esattamente, avesse capito, e se quelli fossero concetti adatti a una bambina di prima elementare – non voleva darle cattiva ispirazione per eventuali incubi. Comunque fosse, ciò sembrò almeno mettere un punto alla questione, inaugurando finalmente il momento di dormire. Le sue speranze furono infrante dalla voce di Morgan che risuonò ancora una volta nella stanza, quasi più energica di prima.

«E tu cosa vuoi fare da grande?»

Peter tartagliò, cercando di prenderla come un’altra domanda leggera, priva dei doppifondi che gli facevano perdere l’equilibrio ogni volta che gli sfrecciava in testa – l’innocente domanda di una bimba di sei anni che filtrava il mondo adulto attraverso occhi ancora limpidi.

«Uh… ancora non lo so,» confessò, mordicchiandosi l’interno della guancia, e pur fissando il soffitto poté quasi vedere l’espressione vagamente accusatoria della bambina per quella risposta deludente. «Magari lo scienziato,» buttò lì, passandosi pensoso una mano sulla fronte.

«Oh,» replicò seria lei, come se la ritenesse una questione di somma importanza. «Come papà,» concluse, e dal tono sembrò molto contenta di quella rivelazione.

«Sì, come papà,» confermò Peter.

Ripeterlo sembrò dare solidità alla cosa, come se per un istante fosse riuscito a intravedere dei contorni netti nella massa nebulosa che inghiottiva il suo futuro, permettendogli di fissarli nella mente e di tracciare una rotta frettolosa per raggiungerli. Fu un istante, poi la nebbia tornò ad ammantare quel percorso labile.

Proprio allora il suo senso di ragno pigolò blandamente, e subito dopo un bussare lieve ma deciso risuonò nella stanza, facendo trattenere il respiro a Morgan.

«Ragazzi, adesso a nanna,» intimò loro la voce di Pepper, e Peter colse Tony che dall’altra stanza brontolava qualcosa riguardo ai ragazzini troppo iperattivi, ma col sorriso nella voce. «E non fatemi entrare lì dentro,» aggiunse la donna, più minacciosa.

Entrambi tacquero in tacito accordo, fingendo di dormire. Quando i passi di Pepper si furono allontanati, Morgan si lasciò scappare un risolino soffocato, e Peter si sporse di nuovo dal letto intimandole ripetutamente il silenzio con l’indice davanti alla bocca, senza risultati evidenti. A quel punto decise che, a mali estremi, servivano estremi rimedi:

«Morgan,» la chiamò, nel tono più stentoreo che gli riuscì sottovoce. «Giuro che se non dormi ti faccio il solletico,» sentenziò, arricciando minacciosamente le dita nella sua direzione e facendole sgranare gli occhi come un coniglietto braccato.

Peter ridacchiò e lasciò ricadere le mani, sapendo di aver vinto a tavolino.

«Buonanotte, Peter,» si arrese infatti lei, raggomitolandosi con le ginocchia al mento.

«’Notte, Mo,» rispose piano, con un accenno di sorriso.

Si tirò su e si adagiò sul materasso fissando le stelline fosforescenti nel buio sopra di lui, che avevano ripreso i contorni di innocui, brillanti sogni infantili attaccati al soffitto.



 
Note Dell’Autrice:

Cari Lettori,
arrivo con un po’ di ritardo con questo capitolo, che ha subito un bel po’ di rimaneggiamenti in seguito alla visione di Far From Home. Non tanto perché volessi ispirarmi al film (che, anzi, ignorerò in toto), ma perché sentivo di dover "coprire dei buchi" che secondo me ha lasciato. Non mi dilungo per evitare di fare spoiler, ma chi l’ha visto credo abbia capito di cosa sto parlando... anche se ho scoperto di essere in minoranza nel dire che non l’ho apprezzato :’)

Comunque, sappiate che per tutta la scrittura mi prudevano le mani per non poter scrivere anche il PoV Tony: mi preme sottolineare che le sue azioni e parole rispecchiano come sempre la minima parte di ciò che gli passa per la testa, e spesso in modo molto costruito. E godetevi lo pseudo-fluff finale, perché questa è l’ultima parentesi di quiete: dal prossimo capitolo i famosi ingranaggi si metteranno davvero in movimento ;)

Grazie infinite ad _Atlas_ (<3), Miryel, shilyss e T612 per aver commentato gli scorsi capitoli, e a tutti coloro che seguono i nsilenzio e hanno aggiunto la storia tra le seguite/ricordate/preferite (venghino, signori, venghino!)
Al prossimo aggiornamento, 

-Light-

P.S. Il titolo cita una famosa filastrocca inglese, appunto "The itsy-bitsy spider" traducibile come "Il piccolo ragnetto", e i prossimo capitoli seguiranno appunto i successivi versi... con tutte le implicazioni del caso ;)






 
Avviso!

Cari Lettori,
Back in black è attualmente in pausa, ma non è abbandonata e verrà portata a compimento.
Attualmente mi divido tra il preparare l’ultimo esame e la stesura della tesi, quindi credo possiate immaginare quanto poco sia il tempo effettivo per scrivere. Oltretutto, ho avuto un calo d’ispirazione per quanto riguarda la Marvel, e sto cercando di aspettare tempi più rosei per riprendere questi personaggi.
Ciliegina sulla torta (in quanto fatto positivo): la storia ha preso una piega molto più complessa del previsto ed è raddoppiata nella sua lunghezza. L’ho divisa in due parti con due fulcri narrativi, ma devo ultimare di scrivere almeno la prima prima di pubblicare. Questo per evitare refusi, incoerenze e, soprattutto, per offrire a voi che leggete il massimo della qualità, senza dover molto poco elegantemente ricorrere a retcon o correzioni a posteriori. Ho visto che la storia è seguita da molti (grazie, davvero <3), ed è una ragione in più per curarla al massimo :)
La storia riprenderà, spero, entro fine settembre. Nel frattempo potrebbe spuntare qualche cosetta estemporanea sul mio account o su quello di traduzione (iron_spider).

STAY TUNED!

-Light-

 
 
©Marvel
 

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Capitolo 5
*** ... climbed up the waterspout ***


Spider-Man: Back In Black

 

§

 

Capitolo IV

... climbed up the waterspout



“Head down,
Swaying to my own sound
Flashes in my face now
All I know is everybody loves me
Everybody loves me”

[Everybody Loves Me – OneRepublic]

 

 

   

16 Aprile, Upstate New York

Il mattino seguente fu un frenetico susseguirsi di risvegli concitati, preparativi all’ultimo minuto, partite di acchiapparella improvvisate attorno al tavolo della cucina, richiami esasperati di Pepper, comparsate di Tony che si aggirava tra il bagno e l’armadio per metà in pigiama e per metà in completo formale e toast divorati a testa in giù sul soffitto per far ridere Morgan e farle finire tutta la colazione.

Peter si ritrovò seduto sul sedile del passeggero dell’Audi di Tony senza ben capire come vi fosse arrivato, né come fosse riuscito a liberarsi dall’abbraccio disperato di Morgan quando aveva capito che non l’avrebbe accompagnata a scuola, ma un sorriso rimase ad aleggiare sulle sue labbra nonostante la giornata si prospettasse una delle più intense della sua vita.

Tony guidò in un insolito silenzio rinforzato dagli occhiali scuri, interrotto solo dagli sporadici sbuffi e imprecazioni per il traffico congestionato dell’ora di punta. Peter non lo ruppe, sebbene gli echi della loro conversazione notturna sembrassero rimbalzare nello spazio ristretto dell’abitacolo. Si limitò ad osservare la città che scorreva fuori dal finestrino, sostituita infine dalla campagna verdeggiante dell’Upstate punteggiata da villini. Poggiò la tempia contro il vetro, socchiudendo gli occhi per il riflesso del sole, e seguì con gli occhi il moto dolce e ondulato delle colline con una lieve, crescente stretta allo stomaco.

Questa divenne una fitta quando superarono il primo cratere, subito seguito dai molti altri che ancora butteravano il suolo, parzialmente coperti dall’erba che stentava a crescere nella terra smossa. La battaglia aveva lasciato cicatrici non ancora del tutto sanate, memento di una sconfitta evitata per un soffio – per due meri schiocchi di dita. Superarono l’obelisco ai caduti, lucido marmo bianco ingrigito dal cielo nuvoloso. Sbirciò in direzione di Tony e lo trovò con lo sguardo puntato fermamente sulla strada ed entrambe le mani sul volante, come se stessero attraversando un tunnel e ai loro lati stessero scorrendo solo pareti di cemento spoglie.

Imboccò a velocità sostenuta ma controllata l’ampia curva che aggirava una collinetta – prima ricoperta di abeti, adesso brulla e parzialmente franata, con radici contorte e rami che sporgevano dal terreno – e il Complesso apparve davanti a loro. O almeno, ciò che ne rimaneva.

Le macerie erano costellate di ponteggi e transenne, una decina di ruspe e mezzi pesanti erano parcheggiati in quello che un tempo erano il patio esterno e la pista d’atterraggio del Quinjet. Lo scheletro di una nuova struttura iniziava ad ergersi all’ombra di una gru. I puntini arancioni degli operai si aggiravano nel cantiere, che loro superarono rapidamente, diretti all’edificio più piccolo approntato qualche centinaio di metri più in là, sulla riva del lago. Era poco più di un cubo di cemento, con una vetrata che si affacciava sull’acqua lucida come uno specchio grigio. Il simbolo dei Vendicatori si stagliava in cangiante metallo sopra all’ingresso principale, grande e quasi fuori luogo per quello che a una prima occhiata poteva sembrare un banale magazzino o un hangar.


Con uno stridio di gomme, Tony fermò l’auto nello spiazzo antistante la struttura, di fianco a una Harley Davidson d’epoca. Tirò poi un sonoro respiro.

«Casa dolce casa,» chiosò poi sarcastico, aprendo al contempo la portiera.

Si fermò con una suola già puntata sull’asfalto, inclinando il volto per scrutare Peter da dietro il bordo dei Ray-Ban bluastri.

«Pronto per la riunione di famiglia?»

Peter annuì con un groppo in gola, affrettandosi a scendere a sua volta.

«Certo. Prontissimo,» confermò sbattendo la portiera con un po’ troppa forza, tanto da far sobbalzare Tony, che però non commentò.

Lo vide scrollare le braccia, aggiustandosi la giacca antracite in modo che gli ricadesse diritta sulle spalle, e di riflesso Peter si lisciò impacciato le pieghe della sua camicia grigio chiaro, che si era sentito tenuto a indossare nonostante Tony gli avesse detto che avrebbe anche potuto presentarsi in tuta da ginnastica e sarebbe stato comunque vestito meglio di Rogers o Banner. Si accodò al suo mentore, che gli fece strada con le mani in tasca oltre le porte a vetri e così all’interno dell’edificio.

Non era certo la prima volta che vi entrava, ma di solito trascorreva la maggior parte del tempo nel laboratorio, e non era mai stato in sala riunioni in via ufficiale: Tony aveva insistito per farlo partecipare di tanto in tanto, dietro le quinte, così che prendesse dimestichezza con le procedure. Ma di fatto non aveva mai aperto bocca e poteva dire di conoscere solo il dottor Banner, oltre ad aver scambiato qualche parola col Capitano – ora ex-Capitano – Rogers. Non aveva mai neanche incontrato tutti i Vendicatori insieme.

Gli sembrò che l’ultimo bottone della camicia iniziasse a premergli in modo opprimente contro il pomo d’Adamo, ma trattenne la tentazione di slacciarlo e deglutì a forza nonostante la bocca secca, con gli occhi un po’ vacui puntati sulla schiena di Tony, ancora dritta davanti a lui.

 

 

 

 

16 Aprile, Complesso dei Vendicatori, Sala riunioni

 


«Sei in ritardo, Tones.»

«Buongiorno anche a te, raggio di sole.»

Tony non degnò di un’occhiata Rhodes che lo fissava in cagnesco a braccia conserte e tenne aperta la porta, permettendo a Peter di svicolare dentro nel modo più rapido, discreto e silenzioso possibile. Desiderò subito di potersi appiattire contro la parete: c’erano tutti, davvero tutti, ogni singolo Vendicatore ed eroe, anche quelli che non aveva mai conosciuto o visto di persona.

Steve Rogers era seduto a un capotavola, affiancato da Bucky Barnes e Sam Wilson; Bruce Banner, Wanda Maximoff e Scott Lang erano seduti su un lato, con Rhodes, Clint Barton e Shuri di fronte. C’erano anche due aloni bluastri in mezzo al tavolo, a segnalare due proiettori olografici per ora vuoti. L’altro capotavola e la sedia alla sua destra erano liberi, in loro attesa. Il peso di troppi sguardi incuriositi si appuntò su di lui, inchiodandolo sul posto.


Tony fu pronto a trarlo d’impaccio, sospingendolo deciso verso le loro sedie con una mano premuta saldamente sulla sua schiena:

«Lui è Peter Parker, ovvero Spider-Man; Parker, credo che tu li conosca già tutti, in un modo o nell’altro, quindi bando ai convenevoli,» esordì sbrigativo, e Peter registrò con ansia la punta di insolito, brusco distacco con cui gli si stava rivolgendo.

«S-salve a tutti, piacere,» riuscì a cavarsi fuori di bocca, con un mezzo sorriso un po’ goffo, prima di sedersi titubante sulla sedia indicatagli alla destra di Tony tra un mormorio di saluti e commenti che comprese appena.

Si diede dell’idiota e fece schizzare indeciso lo sguardo tra le sue mani contratte e l’orda di figure mitologiche che lo attorniava; lui, un semplice ragazzino del Queens che si arrampicava sui muri, in mezzo agli eroi dell’universo intero. Deglutì di nuovo, con un senso di soffocamento che lo prese alla gola.

«Dio, ragazzo, ma sei almeno maggiorenne?» sbottò Falcon, sporgendosi dal suo posto due sedie più in là e fissandolo corrucciato.

«Uh, in realtà no… ma lo sarò tra poco, ad agosto,» si affrettò a chiarire, cercando di mantenere ferma la voce e di non tentennare.

La sua risposta causò più di uno sguardo sconcertato e un paio di occhiate ostili indirizzate a Tony, che incassò la testa nelle spalle con gli occhi schermati dalle lenti fissi sul tavolo di vetro.

«Diciassette anni, Stark? Veramente? E sentiamo, quanti ne avevi a Lipsia?» rincarò a quel punto Hawkeye, a braccia incrociate e con gli occhi acuti e socchiusi indirizzati verso di loro.

«È un calcolo piuttosto facile, fringuello, dovresti arrivarci anche tu,» scandì Tony, anticipando la sua risposta senza perdere una tacca d’impassibilità e picchiettando sul tavolo con la mano ferita, in un movimento un po’ rigido.

Peter si strinse comunque le mani sotto al tavolo, sentendo una pressione fisica sulle spalle che gli toglieva le parole di bocca. Gli tornò in mente il commento di Tony della sera prima, spacciato per sarcastico, e comprese che non lo era poi così tanto. Sperò solo che il tutto non sarebbe davvero sfociato in uno scontro su larga scala, anche se solo verbale.

«Stiamo andando fuori tema,» si alzò la voce un po’ roca di Rogers, rivolgendo a tutti loro un’occhiata eloquente, resa più intensa dagli occhi che sembravano essersi fatti ancor più chiari con la vecchiaia.

«Sorprendentemente, sono d’accordo col fossile,» bofonchiò Tony, e incrociò il suo sguardo all’altro capotavola ignorando quello degli altri presenti.

«Peter, è un piacere averti qui, e credo di parlare per conto di tutti noi,» continuò poi Steve, con un sorriso gentile, che Peter si ritrovò a ricambiare timidamente. «Adesso, direi di affrontare gli ordini del giorno, visto che a quanto pare siamo tutti,» continuò poi, poggiando le mani solcate da macchie e venature sol tavolo.

«E Thor e Carol?» chiese Rhodes, aggrottando le sopracciglia in direzione dei due dischi azzurrini e ancora vuoti.

«Thor arriverà in ritardo, forse, e tanto per cambiare non credo che Danvers abbia tempo da dedicare alla Terra,» intervenne Clint, con una punta d’accusa che sembrò trovare consenso in almeno metà dei presenti.

Tony storse la bocca, ma non commentò, mantenendosi neutrale, e Peter si mosse inquieto sulla sua sedia scomoda, temendo di romperla da un momento all’altro con un movimento troppo brusco. Sentiva quei mille ingranaggi ticchettare in sottofondo e non sapeva su quale concentrarsi, né riusciva a capire se funzionassero in sincrono o se ci fossero dei difetti invisibili ai suoi occhi. Aveva l’impresisone che un suo singolo respiro troppo forte potesse inceppare il meccanismo.

«Direi che c’è un solo ordine del giorno,» parlò a quel punto Wanda, raddrizzandosi un poco per inserirsi meglio nel discorso. «Ovvero l’Atto di Registrazione,» concluse, e un’ombra di accento più marcato colse quell’ultima parola, come se la considerasse del tutto estranea.

Molti annuirono nervosi e Peter notò come Bucky si fece istantaneamente più teso, inclinandosi appena verso Steve quasi a celare il proprio braccio metallico.

«Beh, non c’è molto di cui discutere, no?» commentò Scott, sorridendo in modo ironico. «Non ci hanno ancora rivelato nulla di…»

«Io potrei avere qualche informazione di prima mano,» intervenne Tony, piattamente, scrutandoli da dietro le lenti.

Si udì uno sbuffo da parte di Clint, e Sam scosse la testa.

«Perché la cosa non mi sorprende?» commentò poi.

«Perché tu difficilmente riusciresti a ottenere un invito nello Studio Ovale, Wilson,» replicò serafico Tony, scatenando un deciso coro di mormorii perplessi che crebbe d’intensità.

Peter si sentì balzare il cuore nel petto a quella reazione. Era convinto che tutti fossero a conoscenza della loro visita a Washington… invece, a quanto pareva, Tony aveva deciso di rivelare solo ora la cosa. Non aveva nemmeno menzionato la sua presenza, quindi ritenne più opportuno tacere su quel dettaglio. D’istinto, non la reputò comunque una mossa saggia, ma non sentiva di avere le conoscenze o la dimestichezza necessarie per giudicare il modus operandi di Tony. Rimase in silenzio, stringendo le labbra e scoccando occhiate di sottecchi al suo mentore, che dal canto suo era comodamente poggiato contro lo schienale imbottito, molleggiando di tanto in tanto.

«E avresti tenuto per te la cosa… perché?» indagò Bruce, accigliandosi cupo.

Tony camuffò un’espressione seccata, non troppo da non rendere palese il suo disappunto.

«Mettiamo subito le cose in chiaro,» esordì poi, togliendosi bruscamente gli occhiali da sole per squadrarli senza filtri. «Non ho agito alle vostre spalle e non vi sto nascondendo nulla, quindi seppellite l’ascia di guerra e i vecchi rancori. Ero al Campidoglio per motivi slegati dall’Atto e ho deciso di fare una capatina da Ross perché so che il solo vedermi aumenta le sue probabilità di infarto… da cosa nasce cosa e mi sono ritrovato con un biglietto di sola andata alla Casa Bianca. Sarebbe stato scortese dare buca al Presidente, non credete?» concluse, con un’eloquente alzata di sopracciglia, sempre evitando accuratamente di menzionare il fatto che non ci era andato da solo.

Inforcò di nuovo gli occhiali con un gesto noncurante, guardando fisso Steve, che sostenne la sua occhiata senza scomporsi.

«E cosa sei venuto a sapere?» lo interrogò poi, sempre con quel tono di voce anziano e basso.

Tony scrollò appena le spalle, includendo nel proprio campo visivo tutti i presenti.

«Quello che sapevamo già, ovvero che l’opinione pubblica non ci vede di buon occhio e che il governo sta di nuovo mettendo in mezzo parolacce come “controllo”, “supervisione”, “regolamenti” e altre cose che personalmente mi fanno andare per traverso la colazione.» 

Peter notò con vivo disagio che aveva omesso la sua intenzione di tornare ad essere Iron Man, ma, quando tentò di intercettare il suo sguardo, Tony tenne il proprio saldamente puntato sugli altri presenti, ed ebbe l’impressione che lo stesse facendo di proposito.

«Non eri stato tu ad aver voluto un regolamento?» lo punzecchiò a quel punto Clint, con una smorfia sarcastica.

«Non eri stato tu a infrangere qualunque legge esistente perché la pensione ti andava stretta?» ribatté Tony, quasi annoiato.

«Vi scongiuro, non divaghiamo ancora,» intervenne Bruce, con un lieve sospiro esasperato.

Entrambi chiusero di scatto la bocca, astenendosi dal continuare quello che sembrava un battibecco piuttosto annoso. Qualcuno si schiarì sonoramente la voce, richiamando a sé l’attenzione.

«Non per interrompervi, ma... noi cosa possiamo fare? Come possiamo muoverci… sempre che, insomma, potremo muoverci, cioè, se avremo voce in capitolo?» chiese a raffica Scott, in modo sconclusionato.

Tony tossicchiò e assunse una postura impettita, quasi teatrale.

«Il Presidente Ellis ha detto che ci comunicherà lo stretto indispensabile, perché “nonostante i nostri meriti” non siamo sulla lista di “persone affidabili”, soprattutto considerando l’operato di “certi nostri ex-membri” per quanto riguarda la gestione delle “informazioni sensibili”,» declamò poi, mimando di volta in volta le virgolette con manifesto sarcasmo.

«E questo che diavolo vorrebbe dire?» scattò Clint, con un lampo pericoloso negli occhi.

«Esattamente quello che pensi, Barton,» s’incupì Tony, irrigidendo la mascella. «Suppongo che a Ross non sia ancora andata giù la fuga di dati in seguito all’incidente Insight, e abbia influenzato il nostro beneamato Presidente,»

«E vuoi ancora stare a sentire quel bastardo invece di spaccargli la faccia?» continuò Barton, parlandogli sopra. «Io avrei…»

«Tu avresti mandato a puttane ogni trattativa, ed è esattamente questo il motivo per cui sta facendo lui da intermediario,» lo interruppe seccamente Rhodey, venendo in aiuto e zittendo Barton.

«Quindi permettiamo che sputino sulla memoria dei nostri caduti solo per tenerceli amici? Sei davvero così superficiale, Stark?» intervenne Wanda, glaciale.

«Maximoff, Rogers e io abbiamo contrattato per mesi col governo russo per far seppellire Nat qui e non a Mosca. Non mi definirei superficiale,» sbottò Tony, tagliente, con voce a stento ancora moderata.

«Lei sarebbe stata la prima a dire di evitare i colpi di testa,» intervenne Steve, con voce mesta e il mento reclinato sul petto.

«E che siamo veramente incapaci di badare a noi stessi senza lei a farci da balia,» aggiunse Bruce, suscitando un sorriso malinconico sui loro volti.

Peter rimase in silenzio, sentendosi contagiare da quella tristezza collettiva pur non avendo mai davvero conosciuto l’agente Romanov. Di lei aveva solo qualche fotogramma strappato allo scontro a Lipsia: troppo poco per conoscerla, abbastanza per ricordare degli occhi letali piantati in un viso troppo dolce, con la curva delle labbra perennemente inclinata in un’espressione scaltra.

Quella breve parentesi di raccoglimento fu interrotta da ronzio proveniente da uno dei due dischi olografici, che sfrigolò e traballò fino a mostrare la sagoma inconfondibile di Thor, a braccia incrociate e con uno spesso mantello a pendergli dalle spalle.

«Salve, Vendicatori,» esordì formalmente, con un cenno del capo biondo che gli fece scivolare qualche ciocca davanti al volto.

«Thor, non ti aspettavamo più,» lo accolse Steve, e anche gli altri lanciarono qualche parola di saluto all’asgardiano.

Lui li scrutò uno ad uno e Peter percepì nettamente il modo in cui i suoi occhi diseguali si soffermarono leggermente più a lungo su di lui, come a inquadrarlo. Ricambiò con un impercettibile cenno della testa, messo in soggezione, e questo sembrò bastare al semidio, che rimase silenziosamente in ascolto mentre Steve gli riassumeva rapido la breve parte di riunione che si era perso.

«Tutto questo come influirebbe su Nuova Asgard?» s’interessò infine, tirandosi distrattamente una treccina nella folta barba e facendo tremolare l’ologramma.

«Non credo proprio che gli Stati Uniti siano interessati a un’altra guerra aliena,» replicò tranquillo Steve. «Non è un’iniziativa su scala globale: l’ONU si è fatta da parte, forse solo la NATO potrebbe esserne influenzata in futuro,» concluse Steve, sottolineando quel concetto come se dovesse in qualche modo essere rassicurante.

«Vedo che almeno hai studiato un po’ di geopolitica, durante il tuo corso di recupero estensivo nel passato,» borbottò Tony a mezza voce, rivolgendogli un sorrisetto che Steve ricambiò, alzando le spalle ossute.

«E il fronte mistico?» chiese Wanda, ignorando quello scambio e inclinando appena il capo mentre giocherellava con una lunga ciocca rossiccia.

«Strange rimane nel suo eremo, almeno così mi ha detto» replicò Tony. «I Sancta Sanctorum non si sono mai affiliati a nessuno e fanno parte a sé. E dubito che qualcuno del Congresso voglia imbarcarsi fino a Kamar Taj per consegnare loro un ordine di comparizione.»

«Conveniente,» commentò Scott. «E scusate la domanda improvvisa, ma… se c’entrano solo il caro vecchio Nuovo Mondo, tu perché sei qui?» chiese poi, scrutando Shuri, che alzò le spalle esili parlando per la prima volta:

«Sono qui solo in veste di osservatrice. L’iniziativa riguarda gli Stati Uniti, ma mio fratello vuole tener d’occhio la situazione. Non sarebbe la prima volta che il Wakanda viene coinvolto nell’onda d’urto di decisioni avventate,» concluse, con lo sguardo che oscillò tra Tony, Bucky e Steve.

Peter percepì un pizzicore lungo i nervi nella frazione di secondo in cui gli sguardi di Tony e Bucky s’incrociarono, rompendo quel contatto altrettanto repentinamente. Si accigliò, osservando di nascosto Tony, ma lui aveva già recuperato il proprio aplomb.

«Signori, non per risultare molesto…» intervenne poi, con un gesto che servì a richiamare l’attenzione di tutti, «… ma vogliamo concentrarci sul problema? Ovvero che qualcuno ha intenzione di stilare un appello arbitrario di tutti i supereroi su suolo statunitense come se fossimo scolaretti?»

«Non vedo un vero problema, Tony,» commentò Bruce, scuotendo appena la testa perplesso. «Sanno già tutto su di noi, perché dovremmo…»

«So che detto da me è assurdo, ma il mondo non ruota solo attorno a noi,» lo rimbeccò Tony cercando lo sguardo di Steve, che si fece più serio, in un moto di comprensione.

«Tutti i presenti sono tutelati dagli Accordi,» dichiarò allora l’ex-Capitano, pacatamente, per poi rivolgere uno sguardo prima a Scott e poi a Peter, che si mosse di nuovo inquieto.

«Visti i precedenti sto cercando di non interpretarlo come sarcasmo, nonnetto,» borbottò Tony, per poi notare la direzione del suo sguardo e tirare le labbra.

«Dobbiamo però considerare anche coloro che non fanno parte dei Vendicatori e che ad oggi proteggono strenuamente la loro identità segreta,» continuò Steve, puntando un indice contro il tavolo.

La bolla di silenzio che seguì fu assordante e a Peter sembrò quasi un richiamo, al quale non fece in tempo a opporsi:

«Quindi…» esordì, con voce un po’ troppo stridula che lo fece sembrare ancor più piccolo. «… qui dentro l’unico problema sarei io?» concluse comunque, più saldo, deglutendo rumorosamente e puntandosi un pollice sullo sterno.

Gli occhi di tutti si spostarono su di lui, in un gesto di conferma. Tony sospirò, ora visibilmente agitato.

«Tu, lui,» indicò Scott, che fece una smorfia, «il diavoletto di Hell’s Kitchen, quei tizi usciti da Street Fighter, un folle armato di katane e un mucchio di altri casi umani fuori New York che hanno molto poco in comune con voi e molto più con un soggiorno a Ryker’s o Seagate,» sciorinò, seccato.

«Possono non piacerti i loro metodi, ma ripuliscono le strade,» osservò laconico Clint.

«Fossi in te, mi asterrei dal commentare,» gli suggerì Bruce, insolitamente brusco. «Hanno messo una buona parola per via del tuo contributo, ma…»

«Non c’è bisogno che me lo ricordi,» scattò Clint, mordace. «Penso solo che se si rifiutano di registrarsi dovrebbero essere regolamentati, non messi in gabbia,» continuò poi, stentoreo.

«Perché ho un senso di deja-vù?» sospirò Rhodes, a mezza voce, e Tony intercettò il suo sguardo, prima di prendere la parola:

«Stiamo parlando di soggetti maggiorenni, socialmente emarginati e con una fedina penale chilometrica. Lang, esclusi i suoi… torbidi precedenti, non rientra nei parametri. E tanto meno Peter, Cristo, va ancora a scuola,» disse tra i denti, facendo scattare gli occhi qua e là.

«Sì, insomma… non sarò il più virtuoso qua dentro, ma non credo di meritarmi un altro soggiorno alla RAFT,» commentò Scott, stringendosi nervoso nelle spalle e scoccando un’occhiata leggermente risentita a Tony.

«Qui nessuno sta parlando di RAFT,» specificò subito questi, con un gesto perentorio. «E non ho dato io l’OK per quella roba. Vorrei che fosse chiaro una volta per tutte,» aggiunse, stizzito.

«Stark, non è questo il punto,» lo rimbrottò Wanda, gelida.

«No, infatti, quindi non capisco perché continuiamo a tornarci, Grimilde,» concordò lui, altrettanto freddo.

Peter fu attraversato da un lieve brivido nell’intercettare il picco di magia che attraversò l’aria; sembrò l’unico a farci caso, e si sforzò di non darlo a vedere. Percepiva il cuore di Tony che batteva accelerato accanto a lui, e anche gli altri esternavano cenni di nervosismo più o meno evidenti, soprattutto Clint e Scott. Bucky si passò una mano tra i capelli corti, tirandosi la frangia come se dovesse ancora abituarsi al nuovo taglio. Thor osservava tutto in modo distaccato, ma vi era un cipiglio cupo sul suo volto seminascosto dalla folta barba. Shuri manteneva un diplomatico silenzio, sedendo compostamente e in modo insolitamente regale rispetto al suo tipico atteggiamento estroverso, gli occhi scuri che perlustravano la stanza.

Peter si sentiva in un campo minato e si immobilizzò sul posto, temendo che ogni respiro di troppo potesse scatenare un’esplosiva reazione a catena.

«Il minimo che possiamo fare è evitare un’altra caccia all’uomo,» intervenne in quel mentre Bucky, parlando per la prima volta e venendo accolto da un momento di silenzio.

«Grazie, Zoolander, sentivamo tutti il bisogno della tua opinione scontata,» masticò acido Tony, senza nemmeno guardarlo.

«Tony.»

Il richiamo di Steve tagliò secco l’aria, suscitando uno sbuffo da parte sua e qualche occhiata perplessa.

«Cosa?» sbottò lui, con fare annoiato. «Ho detto che ha ragione, devo anche stringergli di nuovo la mano?» specificò poi, aggiustandosi meglio gli occhiali sul volto.

Steve trattenne visibilmente un sospiro, ma lasciò cadere la questione, di qualunque cosa si trattasse. Peter adesso era seriamente preoccupato per il ritmo discontinuo del battito di Tony, e gli rivolse una discreta occhiata laterale, sorprendendolo a fissarlo accigliato. Distolse immediatamente lo sguardo, per poi concentrarlo sul piano lucido del tavolo.

«Nessuno vuole un’altra caccia all’uomo,» ribadì Steve, una volta accertatosi che la situazione tesa fosse rientrata, per quanto possibile. «E direi che l’ultima parola spetta ai diretti interessati,» concluse, guardando alternatamente Scott e Peter, che desiderò di avere addosso la tuta dell’altro per poter rimpicciolire all’istante sotto il peso di quello sguardo centenario.


«Io ho famiglia,» dichiarò Scott, senza esitazioni. «Ed è già… è già abbastanza complicato, per Cassie, senza che io venga anche coinvolto in… in un qualcosa che non so neanche se andrà a mio vantaggio. No, aspettate: non andrà affatto a mio vantaggio, in nessun caso,» si corresse subito, scuotendo la testa. «Ci sono già passato, e non ho intenzione di rivelarmi al mondo e metterli di nuovo in pericolo, non ora che… che abbiamo ritrovato un equilibrio,» concluse, più serio di quanto Peter l’avesse mai visto prima.

Colse un cenno d’assenso molto esplicito da parte di Clint, che poi incassò la testa tra le spalle con espressione quasi malinconica.

Nessuno commentò, e tutti spostarono la sua attenzione su Peter, che quasi sobbalzò, sapendo che era il suo turno per parlare. Solo che non aveva assolutamente idea di cosa dire, o meglio, di come dirlo. Quel vortice di fili che gli si annodava in testa non era certo più sbrogliato della sera prima, e tirandone uno rischiava di sfaldare l’intera tela, trascinando con sé mille altre questioni in bilico.

Però… quella era l’
unica risposta davvero chiara che aveva. L’unica che rimaneva immutata a prescindere da tutti gli intrecci che avrebbe potuto intessere. L’unica cima di sicurezza, il suo filo conduttore: no, non voleva rivelare la propria identità segreta, assolutamente no.

Non riusciva neanche lontanamente a immaginare le possibili ripercussioni che una rivelazione del genere avrebbe potuto avere sulla propria vita… ma al centro di tutte c’era May. E Ned, e MJ, e Tony. Possibili vittime, tutti loro, per causa sua. Lui stesso – Peter Parker, non Spider-Man – una possibile vittima. Era già sparito tra le braccia di Tony e aveva già lasciato un vuoto incolmabile nella vita di May. Una volta era abbastanza.

Prese fiato per rispondere, ma fu anticipato:

«Per ora la posizione di Peter sulla faccenda, in quanto minorenne, è subordinata al volere della zia, suo tutore legale,» intervenne con formale decisione Tony, troncandolo sul nascere.

Peter si voltò di scatto verso di lui, serrando le labbra risentito, le guance che si gonfiavano leggermente in quell’espressione affatto minacciosa che gli si dipingeva sul volto quando si alterava.

«Credo che Peter sia in grado di esprimersi da solo, Tony,» lo redarguì pacato Steve, poggiandosi flemmaticamente sui gomiti e scoccando a lui uno sguardo placido che Peter interpretò come un incoraggiamento.

Esitò. Coglieva le occhiate scottanti che gli stava inviando Tony, ammonitrici, quasi spaventate oltre il filtro blu e freddo delle lenti. Sentì la rabbia montare per un singolo istante, pronta ad erompere, per poi essere lenita subitaneamente da parole pronunciate da lui stesso: mi fido. L’aveva detto, ma non stava traducendo quelle parole in azioni.

Ricordò l’ultima volta che non aveva dato ascolto a Tony e represse un sussulto. Era stata l’ultima volta per cinque anni, quello era certo, e coglieva l’urgenza nel modo in cui Tony continuava a fissarlo, rigido e contratto.


«È vero,» sparò infine, e si sforzò di assumere un tono adulto nonostante ciò che stava per dire non lo fosse affatto. «Devo ancora discuterne con lei, non potrei mai tenerglielo nascosto,» si affrettò a spiegare, cercando di mettere in sordina il fatto che l’ultima parola, secondo Tony, sarebbe spettata a lei. «Ho già le idee molto chiare, riguardo all’Atto,» proferì poi, con un moto di fierezza che gli sembrò subito esagerato. «Ma non posso agire alle sue spalle,» concluse, alzando appena il mento con decisione, perché quella parte era assolutamente vera, veniva dal profondo del suo cuore.

Si era ripromesso di non mentire mai più a zia May da quando aveva scoperto di Spider-Man, ma si era ritrovato a disattendere quella promessa fin troppo spesso, soprattutto ultimamente. E, almeno in questo caso, le doveva l’assoluta sincerità. Quando avrebbe trovato il coraggio di parlarle, s’intende.

I presenti lo fissarono attentamente, valutandolo, soppesando quel loro nuovo membro troppo giovane e troppo inesperto, e Peter si obbligò a non vacillare sotto gli sguardi degli eroi che aveva ammirato per una vita intera. Tony gli rivolse un impercettibile cenno del capo, e Peter dedusse di essersi mosso sulla sua stessa lunghezza d’onda. Se poi si sarebbe anche rivelata quella giusta,  non sapeva ancora dirlo.

 

 

 

 

16 Aprile, Complesso dei Vendicatori, Upstate New York

 

L’aria al di fuori della sala riunioni era decisamente più respirabile, e Peter assaporò appieno quel misto di mobili nuovi, deodorante per ambienti e caffè, ancora non del tutto familiare.

Lui e Tony divorarono in pochi bocconi due muffin a testa scovati nei meandri di una credenza, un pranzo di fronte al quale sia May che Pepper sarebbero inorridite, e sul volto di entrambi si dipinse un sorriso furbetto, a metà tra il colpevole e il compiaciuto. Dopo, Tony gli porse una lattina di Coca-Cola alla vaniglia, prendendola dal frigo con la punta delle dita e tenendola il più possibile lontana da sé, con un’espressione di puro disgusto stampata in faccia. Peter alzò gli occhi al cielo, l’accettò e prese poi un sorso di quell’intruglio che, chissà perché, dal morso del ragno non trovava più disgustoso nella sua dolcezza da capogiro.

«Quella,» esordì Tony, indicando la bevanda, «è l’unica cosa a questo mondo che non riesco a spiegarmi. E ne ho viste, di cose strane,» sottolineò, prendendo un sorso del suo caffè doppio senza zucchero.

Peter alzò le spalle con un sorrisino, continuando a bere con gusto. 
Nonostante le sue solite battute, era evidente che Tony fosse ancora abbastanza teso, soprattutto perché la seconda parte della riunione li attendeva dopo la mezz’ora di pausa pranzo, e Peter stesso si sentiva ancora sulle spine, come se qualcosa lo spingesse a rimanere costantemente sulle punte dei piedi, col rischio di ustionarsi sui carboni ardenti sottostanti.

«Avevo detto a Rhodey di lasciarti il posto accanto a Shuri, ma quel somaro non mi ha voluto dar retta,» continuò poi Tony, sogghignando da dietro la sua tazza.

Peter evitò di dare una replica della sera prima e finì di bere prima di rispondere, senza poter però impedire alle sue guance di incendiarsi:

«Signor Stark, la smetta di impicciarsi,» disse, e voleva suonare scherzoso, al massimo un po’ petulante, ma finì per risultare più serio di quanto intendesse. «Non… non in quel senso,» aggiunse quindi, a stemperare il suo scatto, ma rimase inevitabilmente accigliato.

Tony prese un altro sorso di caffè, per poi schioccare la lingua, senza risentirsi.

«Non è stato molto… elegante, da parte mia,» ammise poi, sfuggendo il suo sguardo, col proprio ancora schermato dai suoi perenni scudi Ray-Ban. «Avrei preferito evitare di farti passare da bella statuina,» sbottò, adesso chiaramente a disagio.

Peter meditò se fargli pesare ulteriormente quel suo intervento decisamente poco lusinghiero nei suoi confronti, e si morse le labbra per non farlo. Era chiaro che il suo mentore avesse la sua ricca dose di problemi da gestire, molti dei quali a lui incomprensibili nonostante lo riguardassero.

«Lo stava facendo per il mio bene. Non mi è piaciuto, questo no… ma credo di capirne il senso,» gli concesse Peter, seppur un po’ duramente. «Ma… ma è chiaro come il sole che la penso come Scott. Insomma, perché dovrei avere un’opinione differente, e perché loro dovrebbero aspettarsi che…»

«Fa parte del gioco, Pete,» lo fermò Tony, facendosi più serio, quasi tetro. «Mai esporsi, mai prendere esplicitamente posizione se non si è certi che sia solida, e soprattutto mai farlo quando non si sa la posta in gioco,» scandì, fissandolo negli occhi oltre il bordo degli occhiali.

«La posta in gioco,» ripeté Peter, deducendo che quell’espressione avesse per Tony un significato molto diverso da come la intendeva lui.

La posta in gioco era la sua famiglia e l’abilità di proteggerne i componenti. Non gli riusciva di allargare la propria visione ad altro. Si rendeva conto lui stesso di quanto fosse limitata. Focalizzata su un solo obbiettivo, mirata. Tony invece aveva sempre una veduta aerea, panoramica, esattamente come quando erano in missione in coppia e si dividevano i compiti. Erano una buona squadra. Una vita fa, ormai – almeno ufficialmente.

«Intendo le conseguenze,» rispose con ovvietà Tony. «Che succederà se ti schieri? Come reagirà il governo? Si tratterà di semplici limitazioni al tuo operato, di una multa per ogni ragnatela che spari, o rischiamo di vederti portare alla RAFT

«Ma lei ha detto che la RAFT…»

«Lo so cosa ho detto,» decretò Tony, un po’ bruscamente. «Ma non sono io a decidere. Non sono mai stato io a decidere, e il solo pensiero che tu ti possa avvicinare a quel posto maledetto mi toglie il sonno,» aggiunse, scrollando la testa in un moto frustrato per poi inspirare bruscamente, come se si fosse esposto troppo.

Poggiò poi la tazza in modo repentino, con un lieve tremito delle dita, e si strinse la mano ustionata premendo con forza il pollice contro il palmo segnato; trattenne una smorfia che a Peter parve dolorante.

«Signor Stark, sta…» cominciò, facendo per avvicinarsi, ma Tony si ricompose all’istante, frenandolo con un gesto.

«Sono crampi, ce li ho in continuazione e non è nulla di cui preoccuparsi. Non cambiamo argomento,» lo incitò poi, in fretta e poco convincente, tornando a stringersi la mano nel chiaro tentativo di distendere un muscolo contratto. «Voglio che tu rimanga nel “limbo” finché possibile, perché al momento è la posizione più sicura. Queste cose si muovono con lentezza, con quei pachidermi di burocrati a gestire il tutto, e vengono applicate ancor più lentamente. Con tutta probabilità gli Accordi di Sokovia sarebbero entrati in pieno vigore anni dopo la loro firma, se noi non ci fossimo messi a bisticciare come ragazzini esaltati,» portò ad esempio, con una secca alzata di sopracciglia che la diceva lunga, su quanto ancora gli bruciasse quel diverbio.

Mille domande premettero sulle labbra di Peter, ma si sforzò di contenerle. Tony non amava parlare della cosiddetta Guerra Civile: si portava quell’ombra negli occhi ogni volta che veniva menzionata, ma non l’aveva mai esternata. E questo non gli sembrava il frangente più adatto per ripescarne fuori il ricordo. Magari, dopo tutta questa faccenda, gliel’avrebbe chiesto. Davanti a una porzione maxi di Follia Stark al cioccolato e Spider-Pops, possibilmente, così da addolcire la sua richiesta indiscreta.

«Non potrò rimanere in eterno nel “limbo”,» osservò poi, sentendosi formicolare le dita nell’esprimere quel pensiero con quelle parole.

Il senso di ragno pigolò a intermittenza, incerto, come se non sapesse neanche lui in che direzione orientarsi, e sentì le pupille che si dilatavano appena, rendendo fastidiosa la luce delle lampade. Si umettò le labbra, cercando un punto d’equilibrio senza capire come potesse essersi sbilanciato, e si poggiò con forzata noncuranza al lavello dietro di sé, prendendo un sorso della bibita.

«No, infatti,» concordò Tony scrutandolo con attenzione, come se avesse intuito il suo turbamento; ad ogni modo, parve decidere di non darvi peso. «Ma sei in una posizione scomoda, nel microcosmo della tua Grande Mela,» continuò, con una decisione e un intento quasi studiati che misero in leggero allarme Peter, come se avesse mirato sin dall’inizio a quell’argomento spinoso.

Non era stato del tutto onesto con Tony riguardo al suo operato e il suo mentore aveva la preoccupante abitudine di portarsi sempre un passo avanti a tutti senza farsi notare. Si diede dell’ingenuo per aver pensato di poter svicolare al suo controllo, e allo stesso tempo si risentì, perché avrebbe comunque dovuto essere in grado di sfuggirgli. In realtà non avrebbe nemmeno dovuto essere “controllato”: il tempo del Protocollo Triciclo era finito da un pezzo. Masticò tra sé tutte quelle considerazioni, tacendo e cercando di mantenersi in precario equilibrio sulle sue stesse bugie, che a questo punto lo stavano più che altro avvolgendo come una delle sue dannate ragnatele.

Fissò lo sguardo sul palmo di Tony, ormai sbiancato dalla pressione che vi stava esercitando, e arricciò le labbra, mordicchiandosele nervoso.

«Non mi sembra che sia cambiato poi così tanto, da… da prima, ecco» concluse, saltando a piè pari quel “cinque anni fa” ancora troppo rumoroso da pronunciare.

Tony strinse di scatto la sinistra in un pugno e poi la rilassò, distendendo finalmente anche il volto in un moto di sollievo, con solo una piega appena accennata a segnargli gli angoli della bocca. Peter si rilassò assieme a lui, e cercò di mettere in secondo piano la propria preoccupazione.

«Beh, non direi,» ribatté poi, pacato, ma studiando attentamente la sua reazione. «Tanto per cominciare, quell’idiota molesto del Daily Bugle ti sta col fiato sul collo. E poi sai che Osborn vincerà le elezioni,» aggiunse, storcendo le labbra con palese disappunto.

Peter contò quattro battiti accelerati del proprio cuore prima di rispondere:

«Di politica non ne capisco nulla, gliel’ho detto,» disse alzando le spalle con fare volutamente impacciato e con le parole di Yuri che gli risuonavano in testa, troppo simili a quelle di Tony.

L’idea che Osborn diventasse sindaco di New York iniziava a causargli un vivo senso di repulsione, soprattutto pensando agli equilibri sul filo del rasoio con Fisk. Si sfregò il retro del collo, scacciando un prurito immaginario.

«No, infatti. Eppure, hai comunque pestato i piedi a chi gli copre le spalle,» osservò puntualmente Tony.

Peter quasi boccheggiò.

«Io non ho… come fa a… non mi ha monitorato, vero?» sbottò poi, senza riuscire a trattenersi.

L’altro sospirò sonoramente e sembrò persino un po’ dispiaciuto per quel suo saltare alle conclusioni.

«Non li vedi, i telegiornali?» chiese invece, ignorando la sua accusa indiretta. «“Spider-Man sulle tracce della malavita newyorkese?”. Il sequestro al magazzino? Non si parla d’altro, e anche se per ora sei citato solo fra le righe e per sensazionalismo, devi iniziare a guardarti intorno, Pete… soprattutto quando sconfini dal tuo “quartiere”,» proseguì poi, e lui non riuscì a capire se fosse un’accusa o meno.

Di certo, la cosa sembrava impensierirlo più del necessario, e non aveva davvero bisogno del suo mentore che seguiva ogni sua mossa proprio in questo momento. Non adesso che poteva finalmente portare a termine qualcosa di buono, che lo facesse di nuovo sentire a casa, nel mondo reale.

«Ho solo seguito una pista di Yuri, cioè… del Capitano Watanabe,» cercò di minimizzare.

«Una pista che ha attirato l’attenzione di due degli uomini più influenti e pericolosi di New York,» lo rimbeccò Tony, e inclinò appena la testa mettendo involontariamente in risalto il lato ferito, che gli dava un’aria più severa. «Non è proprio il momento di puntarsi addosso i riflettori, ragazzino,» concluse, rendendo infine palese la propria disapprovazione.

Peter colse una debole eco del tono duro che aveva usato quella volta a Staten Island, ma non era più un “ragazzino”. Non lo sarebbe stato in circostanze normali, e tantomeno lo era adesso.

«Lo so, signor Stark. Lo so,» rispose però, in modo quasi meccanico. «Sto solo cercando di fare il mio dovere, gliel’ho già detto,» disse poi, cercando di sfuggire all’ennesima discussione che lo faceva sentire con le spalle al muro.

Tony sospirò e, di nuovo, parve insolitamente mesto. Ammorbidì il tono, forse memore della sera prima.

«È difficile, Pete. Ci sono passato anch’io per la fase del “voglio fare ciò che è giusto e fregarmene degli altri”… ma non funziona sempre così,» dichiarò, con una punta d’amarezza.

«Io però voglio farlo senza avere un’identità pubblica,» ribatté lui, rendendosi conto in ritardo di averla fatta suonare come una velata accusa, quando in realtà aveva sempre ammirato la scelta di Tony, il suo rivelarsi al mondo per chi era realmente.

Con sua sorpresa, Tony ridacchiò.

«Per fortuna che non vuoi essere come me al cento per cento,» sorrise sotto i baffi. «E non devi,» aggiunse, sempre col sorriso, ma con una punta di serietà in più che richiamava vecchie discussioni.

Peter fece un piccolo sorriso in risposta, stringendosi nelle spalle e finendo in un sorso il resto della sua bibita per evitare di doversi esprimere. Sapeva ciò che intendeva Tony, ma non aveva ancora la minima idea di come diventare “migliore di lui”, o essere anche solo alla sua stessa altezza.

«Quindi… per quanto devo rimanere nel… nel “limbo”?» chiese poi, trattando ancora quella parola come se avesse dei lati aguzzi e taglienti che avrebbero potuto ferirlo.

Tony si accigliò, volgendo brevemente gli occhi verso il soffitto.

«Uh… direi che sarebbe sensato tenerti in disparte finché non sarai maggiorenne,» concluse infine, rispondendogli senza guardarlo direttamente. «Magari non subito, prima vorrei almeno organizzarti una festa coi fiocchi e farti prendere la patente,» sorrise poi, strizzandogli l’occhiolino a ricordargli le lezioni di guida che avevano avuto in programma cinque anni prima.

Peter però non sorrise in modo spontaneo e si agitò sul posto, sfregando le suole delle scarpe contro il pavimento.

«Fino ad agosto? Non è… non è troppo? Insomma… sono quasi quattro mesi. E se…»

«Tempo al tempo, ragazzo,» lo bloccò Tony, di nuovo con quel suo fare un po’ saputo di chi è abituato a muoversi in acque peggiori. «In quattro mesi potrebbe succedere di tutto. Mi concedo in via del tutto eccezionale un po’ di ottimismo: potrebbero anche cestinare in toto l’Atto di Registrazione,» scherzò, anche se era evidente quanto quella fosse una possibilità remota. «Fai solo il tuo lavoro, ragnetto: lascia stare i pezzi grossi e continua a essere il miglior vigilante che New York abbia mai avuto,» concluse, sporgendosi per scompigliargli burberamente i capelli.

Peter arrossì, lusingato ma poco convinto, e si risistemò le ciocche sulla fronte con dita nervose. Intuì che la discussione era giunta al termine quando Tony gettò un’occhiata all’orologio da polso, sollevando le sopracciglia. Peter colse con la coda dell’occhio Sam e Bucky che camminavano appaiati verso la sala riunioni parlottando vivacemente tra loro, seguiti poi a ruota da Wanda e Shuri.

«Già, è ora,» dichiarò Tony, uscendo dalla zona cucina e facendogli cenno di seguirlo. «Puoi tornare a casa, se vuoi, chiamo Happy per farti venire a prendere. Il resto della riunione durerà all’infinito e sarà una noiosa accozzaglia burocratica riguardo all’annullata Decimazione, con troppi nomi da ricordare, sproloqui finanziari e…»

«No, voglio rimanere,» ribatté Peter, annuendo tra sé. «Anche solo per ascoltare, per… per farmi un’idea. Sono un Vendicatore, dopotutto, no?» alzò le spalle, pesanti per quel titolo che portava ora con orgoglio, ora controvoglia.

Tony strinse appena le labbra e, anche quando sorrise, i suoi occhi rimasero seri, adombrati dalle lenti.

«Giusto,» rispose, un po’ meccanicamente, per poi sciogliere la sua espressione tesa. «Bene, almeno mi terrai sveglio: accuso sempre una certa sonnolenza quando si parla di burocrazia dopo pranzo…» sbuffò, facendogli strada giovialmente verso la sala riunioni.

Peter lo seguì con un pizzico di sicurezza in più nei propri passi, ascoltandolo con un orecchio solo e i pensieri rivolti altrove, sferraglianti di fervida attività anche nel corso della riunione. Arrivò alla sua propria conclusione riguardo a Fisk, a Osborn e al suo compito come “miglior vigilante” di New York, ed era abbastanza sicuro che non coincidesse con quella di Tony. Ovvero, che aveva poco più di tre mesi per mettere la parola fine alla sua indagine, e dimostrare a se stesso, alla città e al suo mentore che quel titolo se lo meritava davvero.




 
Note dell’Autrice:

Massalve!
Non aggiorno questa storia da... da troppo, in effetti. Avevo promesso un aggiornamento entro fine settembre, ma ci si è messa di mezzo la vitah e mi sono ritrovata a procrastinare come se non ci fosse un domani. A dir la verità mi ero un po’ scoraggiata con la storia in generale, e per questo ringrazio infinitamente in primis voi che avete recensito e la avete aggiunta alle seguite e alle altre liste anche mesi dopo l’ultimo aggiornamento <3 Un grazie speciale va a
Miryel, che mi ha giustamente dato una sonora strigliata inseguendomi con una ciavatta, oltre a una montagna d’incoraggiamento per rimettermi al lavoro col caro Petey-Pie :’) Grazie Co’, si nun era per te nun ce la potevo farcela! [cit.] <3

Bando alle smancerie, e spero semplicemente che il capitolo vi sia piaciuto, sebbene di raccordo; consideratelo un modo per riprendere un po’ il ritmo narrativo :D
Un bacione a tutti voi, e spero a presto,

-Light-

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Capitolo 6
*** La scacchiera ***


Spider-Man: Back In Black

 

§

 

Capitolo V

La scacchiera



 

“We get some rules to follow
That and this
These and those
No one knows
We get these pills to swallow
How they stick
In your throat
Tastes like gold”

 [No One Knows – Queens Of The Stone Age]

 

 

 

 

 

 

 

3 Maggio, Sede del FEAST, Forest Hills, Queens
 

Tenere sott’occhio i machiavellici ingranaggi di New York e il modo in cui si incastravano e inceppavano tra loro sarebbe stato difficile sotto qualsiasi circostanza, ma con una prova di maturità alle porte sarebbe stata un’impresa impossibile per chiunque, anche per un adolescente con potenziamenti ragneschi.

Peter strizzò gli occhi per mettere a fuoco l’ottava equazione differenziale che svolgeva di fila, nonostante fossero in teoria un semplice ripasso di un argomento affrontato all’inizio dell’anno – ma non per lui, che si era ritrovato a comprimere i primi mesi in poche settimane nel folle quanto per lui necessario tentativo di rimettersi in pari. A gennaio aveva davvero provato a stare al passo col programma tramite Ned e MJ, anche senza frequentare la Midtown, ma aveva capito ben presto che non sarebbe mai riuscito a concentrarsi sullo studio mentre passava le giornate seduto accanto al letto d’ospedale di Tony in attesa che si svegliasse.

I testi scolastici si limitavano ad entrargli dagli occhi, ristagnare per qualche minuto nel cervello e poi volatilizzarsi nel nulla, senza che lui riuscisse a trattenere alcuna informazione. Giornate intere passate nel grigio dell’ala medica al Complesso, con solo le visite per Tony a ravvivarle. Chi passava di lì aveva sempre una parola anche per lui, soprattutto Pepper e Happy, ma anche quelle spesso finivano per scivolargli addosso, come se non fossero realmente dirette a lui. Titano era stato più vicino che mai, allora.

Si premette con forza il retro della matita sulla fronte a spremersi via quel brutto ricordo, fece a mente un paio di calcoli, saltò più passaggi di quanto il professor Harrington avrebbe ritenuto opportuno e segnò il risultato con un tratto di grafite leggero, per poi ricalcarlo dopo essersi accertato che fosse giusto – lo era, come gli altri sette.

Liberò uno sbuffo sollevato e lasciò cadere la biro tra le pagine del quaderno, scrocchiandosi poi il collo. Ned alzò brevemente lo sguardo dalla sua relazione di chimica per puntarlo su di lui: recepì il messaggio implicito e si affrettò a completare la frase che stava scrivendo per poi imitarlo. MJ rimase invece concentrata sul libro assegnatole per letteratura inglese, con le cuffiette nelle orecchie che sparavano una musica affatto calma e un’espressione imbronciata in volto, finché Ned non le sfilò un auricolare facendola trasalire e riportandola nel mondo reale.

«Pausa, ora, prima che inizi a colarci il cervello dalle orecchie come in Indiana Jones,» dichiarò, e per una volta nemmeno lei ebbe nulla da ridire e si tolse anche l’altro auricolare, piantando a faccia in giù Cuore di Tenebra senza troppo riguardo per le pagine già spiegazzate.

Peter si stropicciò gli occhi con la base dei palmi, sapendo che quella sarebbe stata solo una pausa illusoria: dopo la sessione di studio intensivo era di pattuglia e, nonostante fosse su di giri al pensiero di poter compiere ulteriori progressi nella sua indagine, una parte piuttosto veemente di lui avrebbe solo voluto ficcarsi sotto alle coperte e dormire per qualche giorno.

A dispetto del surplus di energia iperattiva che si ritrovava, iniziava ad accusare una certa stanchezza mentale; più per la difficoltà di gestire tutte le fila che si era ritrovato annodato alle proprie dita, in effetti. Se ne tendeva una, ne faceva muovere collateralmente un’altra e, da burattinaio maldestro qual era, la marionetta con le sue sembianze ad esse appesa finiva per inciampare e scivolare più del dovuto, soprattutto se doveva coordinare al contempo i panni di Spider-Man e quelli di Peter Parker.

Soffiò via un sospiro, trovandosi a fissare il vuoto e prestando solo mezzo orecchio a Ned e MJ intenti a discutere del finale della quinta stagione di Stranger Things [1], mentre la sua mente s’imbarcava in tutt’altro luogo.

 
 

«Sei sicuro che sia la scelta migliore?»

«Non saprei, nonnetto: di solito lo scopro sempre quando è ormai troppo tardi.»

Il sospiro con il quale Tony chiuse la frase arrivò chiaramente sin lì, e Peter si pietrificò nel disimpegno della sala comune, ringraziando di avere dei passi molto lievi e che l’udito di Capitan… del Capitano Rogers non fosse più così fino. Tony lo stava ormai aspettando da un pezzo, ma invece di venire a recuperarlo aveva ritenuto opportuno eclissarsi dal momento esatto in cui aveva preso a parlare piuttosto vivacemente con Shuri, senza risparmiarsi un occhiolino complice nella sua direzione. Peter aveva avuto il forte impulso di sparargli una ragnatela in faccia.

E adesso, l’impulso era quello di segnalare la propria presenza, come sarebbe stato opportuno e educato fare… ma rimase con la suola delle scarpe incollata a terra, le orecchie istintivamente tese verso le voci di Tony e Steve. Una persona normale non avrebbe udito altro che un brusio indistinto, visto il volume ridotto in cui stavano discorrendo… ma non lui. Tecnicamente, non stava origliando: li sentiva forti e chiari. Non suonò molto credibile nemmeno a se stesso, come ultimamente gli accadeva sempre più di frequente.

«Credi che farti coinvolgere in via ufficiale lo terrà più al sicuro?»

Peter mancò un respiro.

«È già coinvolto e lo sarebbe stato in ogni caso… a prescindere da me. Anche se, in effetti, sarei comunque stato la causa scatenante. Il Big Bang di tutte le beghe legali supereroistiche, o qualcosa del genere.»

«Invece è fortunato ad averti dalla sua parte.»

«Certo… è quello che mi ripeto la notte per dormire, no?»

«Tony…» Fu Steve a sospirare stavolta, profondamente, e la sua voce suonò più stanca della sua già veneranda età. «Non sono gli Accordi. Non è… quel tipo di situazione. E noi non siamo le stesse persone di allora.»

«Lo spero davvero.» Peter lo sentì muoversi inquieto sul posto, strusciando i piedi a terra. «C’era una morale, vero? Fai sempre discorsi con una morale, e anche abbastanza evidente: fingo di non coglierla solo per lasciarti il gusto di spiegarmela.»

«Non c’è una morale… ma forse dovresti fare un passo indietro. Il fatto di esporti in prima linea, di tornare ad essere Iron Man nelle tue condizioni…»

«Le mie “condizioni” sono ininfluenti,» lo troncò Tony, con una vena di tensione. «Il punto è che ho già assistito troppe volte a situazioni stabili che precipitano: non so starmene con le mani in mano, o “dietro le quinte” come vorrebbero Pepper e Rhodey e Happy e chiunque abbia un briciolo del buonsenso che non ho mai avuto, incluso a quanto pare tu.»

Si udì una sedia che cigolava sotto il peso di Steve che cambiò posizione, irrequieto.

«Non fraintendermi: non ho alcuna intenzione di interferire, Tony. Ho rinunciato a quel diritto assieme allo scudo… e a questo proposito, ti ringrazio per aver dato una possibilità a Bucky. Lo farebbe lui, di persona, ma…»

«C’erano delle priorità da rispettare e questo è un compromesso sopportabile,» lo fermò Tony, facendo fischiare un sospiro tra i denti. «L’ho fatto perché era la cosa giusta da fare. Ma non chiedermi mai più di stringergli la mano, per il bene della mia sanità mentale e della sua integrità fisica.»

Ci fu un battito di silenzio sospeso, in cui Peter quasi non si arrischiò a deglutire.

«Gli dispiace.»

«Lo so, ma così va il mondo: a forza di priorità e compromessi.»

«Però sei tu a determinare e accettare entrambi.»

«Perché sono aperto ai compromessi, al contrario di un certo soldatino a stelle e strisce di mia conoscenza…» sbuffò Tony, schioccando la lingua. «E la mia priorità è la mia famiglia, adesso che ne ho una. Ma non posso farne la priorità. Capisci cosa intendo?»

«Fin troppo bene. Per quello che vale, ci sono anch’io a coprirti le spalle.»

Peter sentì Tony esalare una mezza risata, forse ironica, forse sincera.

«Vale quel che vale… ovvero un briciolo di fiducia, Rogers.» Si udì risuonare quella che sembrò una lieve pacca sulla schiena ossuta di Steve. «Ora, piantala di farmi diventare melenso come te e accompagnami a recuperare il ragazzo, prima che me lo ritrovi futuro erede di riserva al trono del Wakanda.»

Peter si affrettò a tornare sui suoi passi, col cuore troppo rapido che gli batteva tra i denti.

 
 

«Peter?»

La voce di Ned lo riscosse e lui si schiarì la voce per prendere tempo, nel tentativo di non dare loro a vedere di essersi distratto; fu tradito dai suoi occhi che si sbarrarono leggermente e rinunciò subito alla farsa.

«Scusate, stavo ripassando a mente,» proferì con una mezza verità, anche se avrebbe preferito “ripassare” nozioni di fisica piuttosto che quella conversazione che gli si riavvolgeva in testa da due settimane, volente o nolente.

«Ti sta per esplodere il telefono,» gli annunciò serafica MJ, con un cenno del mento verso il suddetto che, realizzò Peter, aveva appena cessato di vibrare a raffica.

Ringraziò di aver disattivato la suoneria, così da evitare la cacofonia di spari laser di Star Wars, che avrebbero turbato la quiete della sala lettura del FEAST, e si affrettò a controllare: sulla tendina delle notifiche spiccavano ben sei messaggi non letti. Uno da Tony, quattro da May e uno da Yuri, reindirizzato a quel numero da quello “ufficiale” di Spider-Man che le aveva dato. Sentendosi un po’ in difetto aprì subito quest’ultimo: era una comunicazione stringata e puntuale con una spolverata d’ironia tipica del Capitano Watanabe:

 
Capo Yuri
Stanotte tra le 21 e le 2 al molo 7, Hell's Kitchen, magazzino D. Novità scottanti, vieni armato. O il tuo equivalente di armato.

 

Un pizzicore adrenalinico gli percorse le vene in un lampo e i suoi pollici scattarono a compilare l’immediata risposta, che inviò prima di poterci ripensare:

 
Peter
Ricevuto, Agente Ragno a rapporto con ragnatele extra!

 

Lei visualizzò subito, senza rispondere, ma poté quasi udire il suo sospiro esasperato.

I messaggi di May erano un semplice promemoria del fatto che stasera non avrebbe fatto in tempo a passare dal FEAST e di chiedere quindi al signor Li se avesse bisogno di una mano a chiudere la sede; che al suo ritorno dalla ronda l’avrebbe probabilmente già trovata a dormire, e che a casa lo aspettava una porzione di polpettone in microonde.

«Vi va di cenare al thailandese, stasera?» chiese in fretta, scoccando un’occhiata speranzosa agli altri due.

«Perché no, dopotutto è martedì,» gli accordò Ned, un po’ assente e chiaramente risollevato dal pensiero della cena dopo una giornata di studio che l’aveva provato più del solito.

«Andata,» fu la laconica risposta di MJ, corredata però da un lieve sorriso.

Peter annuì soddisfatto, passando infine al messaggio di Tony con un fremito d’angoscia: non era quasi mai lui a scrivergli, e ogni volta che accadeva si sentiva entrare in lieve agitazione, soprattutto considerati i recenti tumulti e il fatto che aveva di nuovo preso ad evitarlo attivamente.


Tony Stark
Ciao Peter

 

Il suddetto fissò l’enunciato corrugando le sopracciglia, temendo di aver sviluppato una forma di dislessia fulminante. I tre puntini in cima alla chat gli annunciarono che Tony “stava scrivendo”, e attese il seguito con un groppo in gola. Sta scrivendo. Pausa. Sta scrivendo. Pausa più lunga. Sta scrivendo.

Era legale tutto ciò? Non poteva semplicemente chiamarlo? Deglutì rumorosamente, sotto gli sguardi ora curiosi e impensieriti di Ned e MJ.

«È il signor Stark,» chiarì a mo’ di spiegazione, un po’ rigidamente e optando per l’appellativo formale.

«Quindi adesso sei in missione?» sussurrò esaltato Ned, aprendosi in un gran sorriso.

Peter alzò gli occhi al cielo e gli intimò di tacere con un indice alle labbra, scoccando occhiate ansiose verso i soli due altri avventori della sala lettura, entrambi addormentati nelle poltroncine o in procinto di farlo. Evitò rapido lo sguardo di MJ, ancora non del tutto a suo agio nel saperla a conoscenza della propria doppia identità – anzi, particolarmente a disagio in luce degli ultimi avvenimenti.

«No, te l’ho detto: sono quasi in pausa,» replicò testardo, e vide l’amico incupirsi e MJ corrugare le sopracciglia in quel suo modo particolare, di quando captava un turbamento nella Forza… o qualunque altro metodo extrasensoriale avesse per capire che stava dicendo una bugia.

Tornò allo schermo del cellulare, con Tony che a quanto pareva era intento a trascrivere per intero un romanzo via chat. Forse aveva indagato più a fondo sulla sua “operazione collaterale” e aveva deciso di porvi un taglio netto – o di provare a farlo. Forse voleva spiegargli cosa diavolo fossero quelle “priorità” e “compromessi” di cui aveva parlato con Steve, visto che teoricamente riguardavano anche lui. Forse, conoscendo Tony, aveva appena rivisto un episodio di Clone Wars con Morgan e stava per criticare punto per punto il funzionamento teorico di un caccia stellare. Con lui, tutto era possibile.

Infine, l’agognato messaggio arrivò con un ronzio, facendogli cadere la mandibola: in ordinata processione apparvero sulla chat un’emoticon con gli occhiali da sole, una con gli occhi a cuore, un ragno, una ragnatela e una sfilza di cuori variopinti in ordine cromatico.

Cosa… diavolo era? Un messaggio in codice?

«Peter?» lo richiamò Ned, probabilmente allarmato dalla sua espressione.

«Uh… credo che Tony abbia avuto un ictus e sia crollato sul touchscreen,» dedusse Peter, sollevando basito le sopracciglia e rimanendo a bocca semiaperta. «Oppure ha ricevuto lezioni di messaggistica da zia May,» aggiunse, tornando ad accigliarsi nel fissare quell’accozzaglia di emoticon.

A coronare il tutto arrivò in coda anche un breve audio, e Peter si affrettò a portare il telefono all’orecchio.

«Tranquillo, non sono stato contagiato dal morbo degli ultraquarantenni… Maguna mi ha solo indebitamente sottratto il telefono,» si udì un risolino in sottofondo, sovrastato dallo sbuffo divertito di Tony, «comunque, stasera mentre sei di pattuglia puoi passare di volata alla Tower?»

L’audio terminò bruscamente con quella che parve una colluttazione tra padre e figlia e Peter si coprì la bocca col dorso della mano, soffocando una risatina e inviando poi un cuore indirizzato al messaggio di Morgan… per poi realizzare la richiesta di Tony e rabbuiarsi repentinamente.

Non era sicuro che sarebbe riuscito a passare alla Tower entro il coprifuoco, considerando l’impegno con Yuri… anzi, non era sicuro di volerlo fare. Non era mai entusiasta di parlare con Tony in quel periodo, non quando ogni conversazione finiva per tramutarsi in una sorta di interrogatorio. Non quando lui gli stava chiaramente celando parte di quello scricchiolante meccanismo di cui faceva suo malgrado parte – quella più pericolosa.

Il suo senso di ragno ebbe un picco, uno dei tanti insensati a cui aveva quasi cominciato a non fare più caso. Ormai aveva stabilito che non reagiva più soltanto per pericoli imminenti, ma anche in relazione a ciò che lui considerava un potenziale pericolo. Era snervante e lo innervosiva, soprattutto perché pensare a Tony non avrebbe dovuto scatenare reazioni moleste. Eppure, ecco là quel formicolio spiacevole ad increspargli la pelle. Lo detestava, lo faceva sentire difettoso.

Si costrinse però a riflettere in fretta: era online e doveva rispondere in tempi ragionevoli e non sospetti – sospetti? Stava davvero pensando in quei termini? Iniziava a sentirsi come durante i primi tempi in cui aveva indossato la maschera di Spider-Man: costantemente sul filo del rasoio con scuse e bugie rifilate a May. Una vita fa, quando il costume non era altro che una tuta sdrucita e la morte una macchia nella sua vita e non dentro di lui. Serrò la mascella e compilò la risposta, sapendo che Ned e MJ, nonostante stessero di nuovo chiacchierando tra loro, lo tenevano d’occhio di sfuggita, preoccupati dai suoi visibili sbalzi d’umore.



Peter
Sono di pattuglia a Bayside, ma farò il possibile!

 

La replica di Tony si fece attendere qualche secondo di troppo – almeno così ritenne Peter:



Tony Stark
Mi trovi sveglio. Se si fa tardi, puoi sempre rimanere per la notte e fare una sorpresa a Mo. Col via libera di May, ovviamente.

 

Il sottotesto incalzante era più che chiaro, ma Peter continuò a cavalcare l’onda della propria malfatta scusa, inviando un pollice in su e uno smiley generico a chiudere la conversazione in modo neutrale. Uscì in fretta dalla chat, cogliendo la sequenza “May-Tony-Yuri” sulla schermata delle anteprime.

Si sentì appeso a un filo molto, molto sottile che rischiava sempre più di cedere sotto al suo stesso peso, ma si costrinse a bloccare il telefono e a rituffarsi a testa bassa nello studio, parlottando e scherzando con Ned e MJ e lasciando che portassero alla deriva un po’ di quei pensieri cupi che lo attorniavano.

 

 

 

 

3 Maggio, Sede del F.E.A.S.T., Forest Hills, Queens

 

Ovviamente, il signor Li ebbe bisogno di una mano per chiudere la giornata lavorativa al FEAST, così la cena al thailandese fu rimandata e Peter si ritrovò ad affiancarlo, piuttosto volentieri in realtà. Il collaboratore e braccio destro di zia May nell’organizzazione di beneficenza chiedeva raramente e malvolentieri favori: anche stavolta, Peter si dovette quasi imporre per aiutarlo a scaricare i rifornimenti settimanali dal camion alle cucine del FEAST – stando ben attento a non trasportare mai più di quanto un normale adolescente di diciassette anni piuttosto in forma avrebbe potuto trasportare. E dire che avrebbe probabilmente potuto spostare l’intero camion, se ci si fosse messo d’impegno... ma a volte era bello dimenticarsi di essere Spider-Man e rendersi utile anche solo come Peter Parker.

Martin Li, per una volta libero da giacca e cravatta, era un uomo sempre cordiale e sorridente, ma non molto loquace; così si trovarono ad operare il corposo trasferimento in silenzio, con il sottofondo della radio accesa nella zona mensa. Li fischiettava di tanto in tanto a tempo con la musica e Peter si ritrovò a mente un po’ più libera mentre prendeva un ritmo nel tragitto che percorrevano metodicamente avanti e indietro.

L’intermezzo musicale fu interrotto dallo speaker radiofonico, una voce rauca che Peter riconobbe all’istante e che gli fece venire voglia di spegnere il dispositivo – o di fracassarlo contro il muro:

«Buonasera, New York, e bentornati a “Solo i Fatti” con J. Jonah Jameson, l’unico notiziario che vi dirà davvero come stanno le cose!»

Il signor Li sospirò, lanciando un’occhiataccia alla radio, ma il carico di scatoloni che gli occupava le mani parve farlo desistere dall’intento di spegnerla. Peter sorrise segretamente, contento di condividere l’astio per Jameson con qualcuno, ma non si fidò ad esternare commenti.

«In questa puntata ci occuperemo ancora di politica! Le elezioni per il sindaco di New York sono ormai alle porte e Osborn sembra essere definitivamente in testa alle…»

Peter uscì nell’aria tiepida della sera, tagliando fuori campo la voce del giornalista, anche se riusciva comunque a sentirla molto chiaramente. Forse avrebbe dovuto interessarsi di più all’andamento delle elezioni e della campagna elettorale, considerando il tipo d’indagine che stava portando avanti e il fatto che una vittoria di Osborn l’avrebbe infastidito sia a livello personale che “professionale”. Campbell non gli stava poi molto più simpatico, considerando che era mosso da un lord del crimine, quindi non poteva dire di avere una preferenza vera e propria… non ne capiva davvero nulla di politica e ringraziò di non avere ancora diritto di voto.

«… magari dovrei candidarmi io, chissà! Se non altro, nel mio programma figurerebbe di certo un ridimensionamento dell’attività illecita di quell’insetto molesto, che ultimamente si diverte a gettar fango su uomini rispettabili in corsa per il mandato!»

Peter roteò gli occhi al cielo nel rientrare nell’edificio, e non trattenne un commento a mezza voce:

«Aracnide, non insetto,» puntualizzò seccato, posando un po’ bruscamente l’ultimo carico in cima alla pila già instabile di scatoloni.

Udì uno sbuffo divertito da parte del signor Li, che l’aveva evidentemente sentito.

«Se deve criticare qualcuno potrebbe almeno informarsi, no?» commentò, additando la radio con fare critico mentre riponeva un paio di scatole nella credenza.

Peter scrollò le spalle, sorridendo nervoso.

«Beh… capita a tutti di sbagliare sui dettagli. Ma Jameson…» cominciò titubante, cercando di smorzare l’astio, ma il signor Li si limitò a sbuffare di nuovo.

«Ma Jameson non sta simpatico a nessuno, quindi dà ancora più fastidio,» concluse, cogliendo al volo l’antifona.

Peter tirò le labbra in un mezzo cenno d’assenso, osservandolo mentre spegneva infine la radio troncando l’ennesima invettiva del giornalista contro Spider-Man.

«Dopotutto, Spider-Man cerca solo di aiutare, come facciamo noi,» aggiunse poi l’altro, con una naturalezza che fece quasi vacillare Peter.

«Uh… immagino di sì,» rispose esitante, come sempre sulle spine nel parlare di sé in terza persona. «Per questo non capisco perché Jameson si accanisca così tanto coi super,» continuò poi, sia per sincera curiosità che per spostare il fulcro del discorso dal proprio alter ego.

Il signor Li sembrò prendersi qualche secondo per riflettere, approfittandone per controllare di aver sistemato tutto e facendogli poi cenno di uscire dalle cucine.

«Forse è invidia, forse solo frustrazione perché una singola persona con dei poteri riesce a fare più di quanto riuscirebbe a fare lui, o chiunque altro,» rifletté poi, mentre chiudeva a chiave la porta delle cucine e si avviavano all’esterno. «Forse è paura. Dopotutto, esistono persone come Spider-Man e i Vendicatori che stanno scontando una pena a Ryker’s per i loro crimini… non tutti i supereroi sono buoni, Peter,» concluse un po’ amaramente, rivolgendogli uno sguardo quasi dispiaciuto.

Peter deglutì in silenzio, annuendo appena in risposta e stringendosi nelle braccia mentre si congedavano con un cenno dalla guardia notturna, per poi avviarsi all’esterno sulla strada mal illuminata.

«Magari…» cominciò Peter, finendo di aggiustarsi lo zaino sulle spalle, e il signor Li si fece attento. «Magari i supereroi dovrebbero solo diventare… “normali”. Come se fosse un lavoro vero e proprio… anzi, come il volontariato,» sottolineò con un gesto verso l’insegna del FEAST, col cuore che batteva un po’ più forte con tutti i pensieri dell’ultimo mese che gli si accavallavano in testa. «Con i Vendicatori ha funzionato, no?»

Il signor Li scrollò le spalle nella giacca elegante che era tornato a indossare, con un’espressione gioviale sul volto.

«Sarebbe bello potermi considerare un “collega” di Spider-Man e Daredevil,» ammise divertito, con uno sguardo all’edificio squadrato dell’associazione. «Chissà, tutto è possibile. In fondo, è ancora un mondo nuovo,» concluse, con la leggerezza di chi vede quel mondo da lontano, al sicuro dietro un binocolo.

Peter si umettò le labbra cercando di mostrarsi indifferente, ma erano fin troppi giorni che la sua mente era tappezzata di poster di se stesso nelle vesti di Spider-Man, a volto scoperto. Era un mondo nuovo, su questo non aveva alcun dubbio… ma lui era ancora bloccato in quello vecchio, e non aveva idea di dove fosse la porta da varcare per uscirne.

 

 

 

4 Maggio, Hell’s Kitchen, Manhattan,

 

Peter schivò un altro proiettile, si gettò all’indietro atterrando sulle mani e si diede lo slancio verso la parete, per poi schizzar via come una molla e atterrare l’assalitore con un diretto in volo ben piazzato. Sparò al contempo una ragnatela contro l’altro criminale, tappando la canna della pistola appena un istante prima che facesse fuoco. La strattonò poi via dalla sua presa per evitare che gli esplodesse in mano. Una pallottola vagante gli sfiorò comunque il braccio – trattenne un sibilo tra i denti prima di appendersi al soffitto per oscillare fuori tiro, almeno per il tempo di una boccata d’ossigeno.

Erano… troppi, decisamente troppi. Yuri l’aveva sopravvalutato; lui si era sopravvalutato, pur di non dirle che avrebbero avuto bisogno di rinforzi. E adesso si trovava da solo contro dieci uomini armati, a corto di ragnatele speciali e con quella che a giudicare dalle fitte era una costola incrinata… avrebbe davvero dovuto fare più attenzione a quella pila di casse d’acciaio pericolante.

Era così affannato che non aveva neanche il tempo di elargire le sue solite battute di spirito, né riusciva a stare appresso a tutti gli input sensoriali che si intersecavano tra loro, e ciò voleva dire schivare due proiettili su tre e sperare che il terzo non lo colpisse.

Sfrecciò sul soffitto, evitando per un soffio la raffica di piombo che segnò i suoi passi concitati. Quello che vide dall’alto non gli piacque affatto: gli scagnozzi di Fisk – od Osborn, chi poteva dirlo – si erano sparpagliati nell’ampia sala del magazzino portuale, vanificando la sua idea di usare le granate-web per concludere alla svelta quello scontro non preventivato.

Lasciò comunque partire l’ultima verso i tre uomini più vicini tra loro. Furono scagliati contro la parete retrostante, con un impatto tale da farli svenire sul colpo, immobilizzati dall’esplosione di ragnatele. Ebbe appena il tempo di esultare mentalmente, che un secondo proiettile gli sfiorò il polso con cui stava ondeggiando a destra e a manca.

Perse di colpo la presa sul suo appiglio elastico, ma sfruttò a proprio vantaggio l’incidente, atterrando come un macigno addosso a uno degli uomini. Lo spedì bocconi, per poi inchiodargli a terra le mani. Schizzò via dalla zona di tiro, urtandone un altro a tutta forza e mandandolo a rovinare addosso a un terzo che si era incautamente avvicinato. Sparò una raffica di ragnatele per lo più alla cieca, immobilizzandoli alla buona, per poi trasferirsi nuovamente sul soffitto.

Polso e spalla bruciavano sotto il costume intaccato dai colpi, ma non erano che graffi superficiali che sarebbero guariti in poche ore. La costola era più problematica: iniziava a mancargli il fiato e rischiava di rompersela. Vide con la coda dell’occhio uno dei tre che aveva appena messo fuori gioco che si liberava dall’intrico di ragnatele e recuperava la pistola, resettando il conto degli avversari.

«Andiamo, ragazzi, fate i bravi! Non vi sembra…» balzò lateralmente, carponi sul soffitto, «un pochino…» si lasciò cadere a siluro su uno degli assalitori replicando la mossa di poco prima, «… sleale?!» concluse, prendendolo di peso per la maglia e scaraventandolo addosso agli altri due.

L’ultimo rimasto, quello che aveva disarmato all’inizio, lo fissò spaesato per qualche istante quando si voltò nella sua direzione; parve riflettere per un paio di secondi sul da farsi, ad occhi sgranati, e poi se la diede a gambe senza pensarci due volte.

«Arbitro, fallo! Scappare è contro le regole!» lo richiamò Peter, sebbene affannato.

Sparò una blanda ragnatela nella sua direzione, riuscendo a farlo incespicare nei suoi stessi piedi e a mettersi KO da solo.

«Ahia,» commentò lui, strizzandosi nelle spalle nel vederlo impattare malamente faccia a terra.

Si concesse qualche secondo per ammirare il proprio operato, assicurandosi che nessuno dei malviventi riuscisse a muovere un muscolo e immobilizzando quelli svenuti ma ancora esenti da manette di ragnatele, poi si piantò le mani sui fianchi e aspettò che gli passasse il fiatone prima di contattare Yuri:

«Capitano, via libera,» annunciò, deglutendo poi a fatica con la bocca secca.

«Wow, Spider-Man, ho sentito dei Quattro di luglio più tranquilli,» replicò lei nel suo orecchio.

Udì la portiera di un’auto che sbatteva all’esterno, seguita dal cigolio della porta di servizio e da due paia di passi in avvicinamento.

«Sì, uh… erano più di cinque. Il doppio, in effetti, ma che Quattro di luglio sarebbe senza invitati?» tentò di scherzare, anche se in verità si sentiva un poco risentito per essere stato mandato allo sbando con informazioni così lacunose.

Tenne per sé quei pensieri, ricomponendosi quando il capitano della polizia entrò a passo di marcia nel magazzino, lanciando una critica occhiata attorno a sé e sembrando compiaciuta nel vedere i nuovi “addobbi” ragneschi, ancora fin troppo rumorosi sebbene imbavagliati. Un uomo dall’aspetto torvo, alto, con una folta barba e capelli lunghi e corvini le teneva dietro ad ampie falcate, con un semiautomatico imbracciato con la stessa nonchalance con cui si sarebbe portato un ombrello. Gli si fecero rapidi incontro, e Peter vide Yuri accigliarsi con ogni passo che faceva.

«Sei ferito?» indagò, adocchiando gli strappi sul costume, e Peter si limitò a fingere di scrollarsi della polvere immaginaria dalle braccia.

«Un paio di graffi… mi toccherà darmi al cucito,» concluse con un sospiro falsamente irritato, pizzicando la stoffa aderente nel punto in cui lasciava intravedere una sottile linea rossastra sul bicipite.

Quello sul polso era decisamente più fastidioso, e un po’ di sangue aveva impregnato il tessuto sintetico. Non si curò di renderlo noto e si limitò a far entrare in azione i nanobot medici con un battito di palpebre per far rimarginare alla svelta la ferita. A volte la paranoia di Tony era sensata, si trovò ad ammettere.

Yuri sembrò ritenersi soddisfatta della risposta e portò le mani ai fianchi, ruotando qua e là la testa come un segugio in cerca di una pista e scoprendo la fondina da spalla.

«Bene, sbrighiamoci a fare un sopralluogo. Teoricamente la polizia è informata dell’operazione e dovrebbe tenersi alla larga, ma se qualche squadra decidesse di unirsi alla festa non potrei impedirlo,» dichiarò svelta, evitando di guardarlo.

Peter colse senza difficoltà il sottinteso, ovvero che con la baraonda che si era scatenata avevano decisamente attirato l’attenzione di terzi. Avrebbe potuto scusarsi, ma il bruciore dei graffi e il dolore sordo alla costola lo trattennero.

«Cosa speri di trovare?» chiese invece, con una traccia di sospetto. «È il quinto magazzino in cui facciamo irruzione in un mese e il primo che vuoi perquisire…»

«Dmitri [2] ci ha dato qualche dritta utile,» dichiarò spiccia Yuri, accennando al gigante nerboruto accanto a lei, che si limitò a un lento cenno del capo, suggellando la sua natura di uomo di poche parole. «La mafia russa a Rego Park non vede di buon occhio l’alleanza tra Fisk e Osborn, e ha deciso di collaborare,» spiegò poi, con un’occhiata affilata in direzione dell’uomo, che ricambiò in modo altrettanto poco amichevole.

«Due teste a governare: troppe,» dichiarò secco questi, stringendo il fucile con le mani ampie come badili. «Una, tante… ma non due.»

«Uh, certo, chiarissimo,» replicò Peter, schiarendosi la gola e impettendosi nonostante fosse una testa e mezzo più basso di lui, per poi sporgersi verso Yuri e abbassare la voce. «Sicura che non ci ritroveremo sepolti in una fossa a Central Park?»

«Sei qui apposta per impedirlo. E cerca di non parlare troppo come al solito: tende a irritarsi,» lo ammonì lei impassibile, già intenta ad esaminare le diciture sulle casse stipate nel magazzino.

Peter le si accodò, tallonato da Dmitri che non sembrava intenzionato ad aiutarli, ma solo a supervisionarli fissandoli truce.

«Non hai risposto alla domanda,» le fece notare dopo un po’, appollaiato in cima a un container mentre lasciava a Karen il compito di decifrare marchi e simboli delle merci circostanti. «Ovvero: cosa speri di trovare?»

«Indizi, prove,» fu la piatta risposta di Yuri, mentre sfogliava rapida quello che sembrava un registro o libro contabile. «C’è qualcosa di grosso, sotto a questi traffici illeciti. Qualcosa di cui dobbiamo ancora venire a capo… non è una semplice questione di soldi o elezioni,» mormorò, disinteressandosi al registro e adocchiando poi una porta sul fondo del magazzino.

«Qui non c’è niente di niente,» la informò quindi Peter, scendendo a balzelloni dal proprio trespolo. «Merce innocua. Tessuti, giocattoli, vestiti… nulla di lontanamente pericoloso; non sono nemmeno prodotti della Oscorp. È un semplice… magazzino,» constatò, arrivando a terra e affiancandola nella sua marcia verso la porta, che recava l’insegna “uffici”.

«Per questo non mi convince,» ribatté sicura Yuri, abbassando la maniglia e trovandola chiusa. «Abbiamo sempre sequestrato merce contraffatta, o armi, o materiali potenzialmente nocivi… e questo è l’unico magazzino che non abbiamo trovato da soli, ma grazie a una soffiata esterna a Fisk.» Accennò a Dmitri, seduto su una cassa e intento a fissare il vuoto. «Quindi siamo usciti dal loro schema. Non si aspettavano una collaborazione coi russi.»

Peter non obiettò, sentendosi ancora troppo poco pratico di quel mondo per poter davvero avere voce in capitolo. Le fece cenno di scansarsi e aprì senza difficoltà la porta con una semplice spallata, per poi farle un gesto esageratamente galante con tanto di riverenza per invitarla a varcare per prima la soglia. Yuri trattenne un’alzata d’occhi al cielo e sfoderò la pistola, addentrandosi nel corridoio buio. Si intravedeva una mezza dozzina di porte, alcune socchiuse, altre che avrebbe probabilmente dovuto forzare.

Non riponeva troppe speranze nelle affermazioni di Yuri: certo, era un’agente navigata ed esperta che cercava di incastrare Kingpin e Osborn già da molti anni, ma gli sembrava che tutte le piste di quel caso fossero fin troppo labili. Sovrapposizione di impronte tra i due magnati, per lo più, ma mai qualcosa di schiacciante, mai dei nomi e dei passaggi ben chiari che portassero allo scoperto Kingpin sotto la facciata di Fisk.

Tutte le loro azioni illecite passavano per semplici transazioni tra due uomini d’affari, e a nulla valevano gli scontri come quello di poco prima: Kingpin rimaneva il mandante nell’ombra, l’unico colpevole senza volto che orchestrava quei colpi bassi per minare la stabilità di New York e la reputazione di due “uomini perbene” come Fisk e Osborn. E Spider-Man, a detta di Jameson e della stampa becera, era complice di quel caos.

Peter non si capacitava di come potesse essere finito dalla parte sbagliata pur facendo la cosa giusta, e temeva sempre più il momento in cui l’Atto di Registrazione sarebbe stato reso noto al pubblico, conscio che da quell’istante in poi avrebbe avuto un riflettore costantemente puntato in testa e due schieramenti da fronteggiare. Proprio come aveva predetto Tony.

Eppure, era disposto a correre quel rischio. Kingpin e Osborn erano sagome stagliate sullo sfondo della propria vita sin da quando aveva memoria: gli omicidi, le stragi, i regolamenti di conti portati avanti dal primo; gli scandali, le indagini, le ricerche illecite di cui era stato accusato il secondo. E poi Osborn

Aprì la terza porta con molto più slancio delle precedenti, rischiando quasi di scardinarla, e udì l’esclamazione trattenuta di Yuri dietro di sé. Si costrinse a mostrarsi disinvolto a dispetto dell’ampia intaccatura che la sua spalla aveva impresso nel metallo.

«Ops. Non conosco la mia forza,» ridacchiò, ma la risata gli morì in gola nel mettere a fuoco ciò che aveva davanti.

Era un piccolo ufficio, certo, come i precedenti tre… e se stavano cercando qualcosa di sospetto, l’avevano decisamente trovato: le pareti erano ricoperte di ritagli di giornale, foto e mappe, con linee di pennarello che viaggiavano da un pezzo di carta all’altro a formare schemi, tracciati e direttive. Foto di Osborn, di Fisk, di Campbell, poster elettorali, ritagli di giornale su Spider-Man e le recenti operazioni, grafici della Borsa, mappe di New York a vari ingrandimenti… tutto si sovrapponeva e intersecava in un patchwork tenuto insieme da frecce e linee tratteggiate.

«Porca vacca,» esalò a mezza voce, permettendo poi a Yuri di entrare.

La udì proferire a sua volta qualcosa d’incomprensibile in giapponese, per poi avanzare verso la parete più vicina con occhi spalancati, quasi a stamparsene ogni dettaglio nelle retine. La vide poi fare un passo indietro, con rughe d’espressione incise in mezzo alla fronte a segnalare la propria contrarietà.

«Che c’è? Abbiamo decisamente trovato qualcosa,» osservò Peter, seguendo con occhi rapidi i flussi di dati che gli stava inviando Karen in sovraimpressione ogni volta che inquadrava una nuova porzione della stanza.

«È quasi troppo sospetto per essere davvero sospetto,» dichiarò lei, mordendosi il labbro inferiore e riassestando nervosa la presa sul calcio della pistola, per poi rinfoderarla.

Si avvicinò rapida al centro di tutta quella ramificazione di documenti, seminascosto da un vecchio computer abbandonato sulla scrivania. Tirò da parte lo schermo a tubo catodico e la sentì trattenere bruscamente il fiato quasi in sincrono con lui, anche se per un motivo del tutto differente, visto che il suo sguardo era puntato all’angolo opposto della stanza. Sentì il sangue defluirgli dal volto e accumularsi nello stomaco, freddo e viscoso.

«Municipio di New York… diciotto giugno,» lesse Yuri, con voce contratta. «Il giorno del discorso elettorale di Campbell e Osborn…»

Peter la sentì a malapena e la sua voce gli arrivò come fosse sott’acqua a mille metri di profondità. Registrò appena le parole “attentato” e “forze speciali”. Tutta la sua attenzione era focalizzata su un unico punto che sembrava inghiottire il resto: una semplice foto seminascosta tra altre scartoffie, ma per lui ben riconoscibile. L’aveva già vista, dopotutto.

La vedeva tutti i giorni sulla libreria del salotto, a casa: la sede del FEAST con festoni variopinti e palloncini ovunque, a festeggiare il ritorno di tutti dopo cinque anni, con in primo piano, vicini, loro: May, Happy, il signor Li… e lui, Peter Parker, perfettamente riconoscibile e cerchiato in rosso.



 




 
Note:
[1] Quel Dmitri, quello di Far From Home, al quale ho voluto dare un cameo :')

Note dell'Autrice:

Carissimi!
No, non mi sono definitivamente dimenticata di questa storia... è che ogni capitolo è un parto trigemellare, quindi ci vuole sempre il suo tempo :') Ci tenevo molto ad aggiornare entro Natale, in realtà, quindi consideratelo come un "regalo" in ritardo, ché ovviamente tra pranzi, cene e compagnia bella il tempo per scrivere è stato molto ridotto.

Che dire... spero di avervi lasciato col fiato sospeso, e qualunque dubbio/supposizione/sospetto in merito all'ultima parte troverà ovviamente lumi nel prossimo capitolo. Questo a dir la verità è stato un capitolo aggiunto per fare da collante ed evitare un malloppo di trenta pagine, di qui la poca introspezione e il focus sui fatti, piuttosto che su Peter in sé. Rimedierò presto, non temete <3
Piccolo avviso: chi conosce i fumetti/videogioco avrà sicuramente già mangiato la foglia relativamente a certi dettagli... se così fosse, non spoilerate in eventuali commenti (sempre super-graditi, sappiatelo), così da mantenere la suspense per gli altri ;)
Ah, e giurò che risponderò a tutti coloro che hanno recensito; avrei voluto farlo prima di pubblicare, ma purtroppo il tempo è tiranno e ci tengo a farlo per bene <3
Detto questo, vi auguro Buone Feste e un Buon Anno Nuovo!

Cheers,

-Light-

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Capitolo 7
*** La guerra a casa ***


Spider-Man: Back In Black

 

§

 

Capitolo VI

La guerra a casa




“Always I know
You'll be at my show
Watching, waiting
Commiserating
Say it ain’t so, I will not go
Turn the lights off, carry me home”
[All The Small Things – Blink-182]


 
 

 
4 Maggio, Casa Parker
 
Entrò dalla finestra sentendosi incorporeo e atterrò pesantemente sul pavimento. Non si tolse la maschera. Non mosse un passo, non richiuse i vetri. A malapena respirava o deglutiva; ogni battito di palpebre era una schicchera delle ciglia sulle guance. Continuavano a ronzargli in testa le parole di Yuri, insensate.

Task force, sventare l’attentato, non seminare il panico… cos’altro aveva detto? Era tutto un vortice confuso e caleidoscopico, al centro del quale si stagliava nitida l’immagine del proprio volto.

Riflettori, riflettori puntati esattamente su di lui, sulla sua casa, sulla sua famiglia. Su May. Su Happy, e quindi Tony. Quindi Pepper, Morgan. La sua famiglia. La sua priorità.

Ora c’era una ragnatela potenzialmente mortale ad avvolgerla, in cui li aveva intrappolati lui stesso non sapeva nemmeno come. C’era quel cerchio rosso a contornargli la visuale, a restringerla a tunnel fino ad accecarlo, e qualunque pensiero razionale ne veniva risucchiato. C’era quella foto accartocciata nella tasca del costume, sottratta prima che Yuri potesse chiamare la squadra antiterrorismo e iniziasse a ispezionare ogni centimetro quadro di quell’ufficio.

Aveva commesso un crimine, ne era consapevole. Gli scottava la punta delle dita da quando aveva strappato la foto dal muro. Una tutela per se stesso… e agli occhi degli altri? Ostruzione alle indagini? Complicità? Cosa significava quella foto, come si incastrava Peter Parker nel mosaico infernale costruito da Kingpin e Osborn? Perché lui?

Si tolse di scatto la maschera quando si rese conto di essere rimasto in apnea troppo a lungo, con la fibra sintetica incollata alle labbra. Trasse una boccata rumorosa, asfittica. Fu allora che il senso di ragno urlò, così forte da sovrastare tutto il resto e diventare al contempo inudibile: un unico, assordante berciare che gli intersecò i sensi. La nausea gli contorceva lo stomaco – gli premeva nelle orecchie a ondate e sentiva il freddo in gola, sentiva il suono del proprio respiro sotto la pelle, la penombra della stanza che gli impastava la lingua. Il coacervo di stimoli gli si appuntava nel petto, strangolante.

Gliel’aveva detto MJ, cosa fosse la sinestesia, mentre studiava per il compito di inglese – e ora ci si trovava dentro, a berla a grosse sorsate con ogni respiro, con lo sfasamento dei sensi che gli ingarbugliava le sinapsi, familiare.

Gli ricordava qualcosa. Un vuoto. Il vuoto.

Basta. Basta, pensò, con le mani che erano andate a coprirsi le orecchie senza nemmeno realizzarlo, mentre i pensieri cadevano a spirale nella sua testa, contorcendosi in silhouettes che rimasero confuse anche quando qualcuno premette l’interruttore della luce inondando a giorno la stanza.

«Peter!»

Un ruggito distorto e lontano si infranse sui suoi timpani, mentre qualcuno gli si avvicinava, con mani delicate ma ferme che gli scostarono le braccia dal volto – e se una parte di lui avrebbe voluto rimanere chiuso a riccio per difendersi dal mondo diventato troppo caotico, troppo parte di lui, un’altra riconobbe quel calore e vi si rifugiò, cedendovi istantaneamente con cieca fiducia.

«Zia May…» gracchiò con voce irriconoscibile, sentendosi avvolgere dalle sue braccia esili ma salde, e riconobbe il suo profumo di patchouli e casa che gli solleticò le narici resettando il caos sensoriale in atto.

«Peter? Peter, che succede? Sei ferito? Ti… ti senti male?»

Le domande rimbalzarono sulla sua corteccia cerebrale, troppe e troppo serrate per essere davvero assimilate, ma riuscì comunque a scuotere la testa, sentendo la sua presa farsi più salda, ma non soffocante. Un plaid caldo in una giornata invernale che gli riaccendeva a poco a poco una fiammella in corpo. Si risintonizzò, una tacca alla volta, con lo sfrigolio di frequenze sbagliate che scemava pian piano divenendo semplice rumore di fondo.

E subito venne investito dal senso di colpa, realizzando solo allora che, mentre il senso di ragno gli scampanava nelle orecchie da quando aveva lasciato il magazzino, Karen gli aveva parlato più volte. Forse gli era squillato il telefono e forse l’aveva sentito, forse no – forse l'aveva ignorato. Lo prese ora con mani traballanti temendo di disintegrarlo, senza staccarsi da May, che gli lasciò libertà di movimento. Vi trovò, oltre il velo liquido che gli intasava gli occhi, otto chiamate perse da Tony e più del doppio da lei. Erano le tre del mattino passate.

Rialzò il volto, incontrando gli occhi castani e agitati da gorghi color miele di sua zia, ma in qualche modo ancora saldi, intenti a scrutare ogni millimetro del suo volto. Gli scostò i capelli dalla fronte sudata, premendo le labbra tra loro senza dir nulla, in attesa. Peter sospirò appena, sentendosi febbricitante, e riuscì a interporre un filtro appena sufficiente a contenere l’esubero d’emozioni che si accavallavano dentro di lui. Era zia May: poteva lasciarsi andare, poteva permetterle di capire, poteva rifugiarsi da lei e chiedere consiglio… ma non stavolta. Non del tutto. La foto premeva nella tasca, appuntita, pericolosa.

«Scusa,» mormorò in un soffio, affondando il viso nella sua spalla. «Non ho sentito il telefono. Non… non ero attento, mi sono–»

«Va tutto bene,» lo interruppe lei, e la sentì scuotere la testa a scacciar via ogni giustificazione superflua. «Va tutto bene, calmati. Sei qui, sei a casa.»

Non gli chiese nulla: si limitò a stringerlo e ad accarezzargli i capelli scomposti, in un gesto calmante che lo riportò ai pomeriggi domenicali a Flushing Meadows, quando lo consolava dopo essersi rotto di nuovo gli occhiali per una brutta caduta. Lo riportava anche altrove, a una sera di novembre in un grigio corridoio d’ospedale, ma si tirò via di peso da lì: spinse con foga le doppie porte d’uscita e le lasciò sbattere dietro di sé, a barricare quel momento nel ripostiglio della memoria.

Si raccolse semplicemente nel tepore di quelle coccole che, forse, si concedeva troppo poco spesso e concedeva altrettanto di rado a lei. Adesso sentiva che ogni carezza districava un poco i pensieri e le preoccupazioni che affollavano la sua scatola cranica, comprimendogli il cervello con una pressa idraulica. Una parte di lui si sentiva sotto l’edificio crollato, con le ossa sul punto di cedere; un’altra era segregata nel vuoto cosmico e ambrato che l’aveva fatto sentire incorporeo così a lungo – cinque anni nascosti nella sua coscienza, troppo a fondo per essere davvero percepiti – e l’altra era racchiusa nelle mani di zia May come un uccellino ferito.

Non aveva nemmeno bisogno di parlargli, per far sì che i suoi battiti cardiaci triplicati si calmassero pian piano: era come se avesse una connessione diretta con lui, come se fosse in grado di intingere gentilmente la punta di una stilografica al centro del suo cuore per poi scrivere lei stessa un elettrocardiogramma pulito, regolare, a tempo col suo. Lo avvolse un senso di sonnolenza, mentre la cacofonia esterna scemava pian piano diventando un chiasso attutito che lo cullava.

«Stai meglio?» gli chiese May dopo qualche minuto, e percepì le vibrazioni calde della sua voce nel timpano premuto contro di lei.

Peter notò la scelta di parole, affatto casuale. Non disse “bene
, ma “meglio”. Perché lei sapeva che non stava bene, e che chiederglielo sarebbe stato come pretenderlo – lo conosceva, e sapeva quanto fosse incapace di mentire e quanto comunque ci provasse per nascondere ogni suo turbamento. Si limitò ad annuire, temendo che anche quel piccolo movimento fosse sufficiente a mandarlo in frantumi come una delicata bolla di vetro soffiato.

«Allora chiamo Tony,» concluse lei, strofinandogli la schiena. «Era molto preoccupato, non…»

«Non gli ho fatto sapere nulla e sono sparito, lo so. Mi aveva chiesto di vederci, stasera,» la anticipò lui, annuendo di nuovo senza scoprire il volto.

May sospirò appena, un soffio che gli agitò capelli e pensieri.

«Vuoi parlarci tu?»

Peter compresse le labbra, conficcandovi i denti fino a sentire una stilettata di dolore.

«No. Non ora,» decise infine, con un nodo ad arricciargli le corde vocali. «Non dirgli… di questo. Non… non farlo preoccupare troppo, poi si agita, e lo sai che…»

«Lo so, tesoro: non gli fa bene,» lo placò subito lei. «Gli dico soltanto che hai avuto una nottataccia e che ti sei dimenticato di avvertirlo.» Si scostò da lui, con una mano premuta sulla sua guancia bollente. «Va bene?»

Era una bugia fragile, ma avrebbe acquisito autorevolezza se pronunciata da lei, così Peter annuì, forzando un minuscolo sorriso appena intuibile che fece rilucere gli occhi di May. Amava averla sempre dalla sua parte.

«Tu intanto cambiati e mettiti sotto le coperte.»

Gli schioccò un bacio sulla fronte, lasciandolo seduto per terra – non si era nemmeno reso conto di essere scivolato in ginocchio, e batté le palpebre confuso. May gli sorrise, incrollabile anche in quel pigiama di pile celestino oversize, e uscì dalla stanza col telefono già premuto sull’orecchio. Rimase in corridoio, e Peter poté captare anche da lì la risposta affannata dall’altro capo della cornetta, che arrivò dopo il primo mezzo squillo.

«È lì? Sto per attivare il tracciamento, se non…»

«È qui, Tony, sta bene… sì, si è dimenticato… no, ti ho detto, sta bene, te lo giuro…»

Peter chiuse le orecchie, e si immerse in una bolla di ronzii e gorgoglii che rimasero in sottofondo. Si alzò con le gambe di gelatina e si tolse la tuta impostando il pilota automatico, sobbalzando nell’avvertire le lievi contusioni che si tendevano assieme ai suoi muscoli, e l’escoriazione sul polso che bruciava leggermente. Ignorò qualunque input fisico, sentendo che anche il semplice prenderlo in considerazione avrebbe potuto scatenare un’altra ondata di sfasamento sensoriale.

Si premurò unicamente di chiudere la foto nel cassetto della scrivania. Non la guardò: la mise a faccia in giù sotto un libro di algebra, sentendosi imperlare la fronte solo a quel gesto. Si forzò a togliere anche gli spara-ragnatele, rischiando di farseli sfuggire dalle dita tremanti. Nelle ultime settimane aveva provato a rinunciarvi, almeno per la notte.

Quando May rientrò in camera, si era già imbozzolato a letto. Aveva indossato quei ridicoli pantaloni di Hello Kitty rosa, quasi a punirsi per aver mentito a Tony, e una vecchia maglietta di zio Ben – quella scolorita di Woodstock che metteva orgoglioso nelle uscite fuori porta per “sentirsi un po’ più giovane”. Era impossibile, ma ogni volta che la metteva aveva l’impressione di sentire quel lieve sentore di giacche di cuoio, vernice e caffè che lo riportava alle periodiche grandi ristrutturazioni del loro minuscolo appartamento. Non la metteva spesso, col timore recondito di consumare l’odore di quei ricordi; con la consapevolezza che era in questi esatti momenti, che avrebbe avuto bisogno di Ben lì con lui assieme a May.

Sua zia si sedette sulla sponda del letto, rivolta verso di lui, e gli scostò la ciocca ribelle e ondulata che gli ricadeva sempre sugli occhi, in quel modo scherzoso ma dolce che gli suggeriva silenziosamente un taglio di capelli ogni sei mesi. Peter sorrise appena, senza nemmeno volerlo.

«Non è per l’università, vero?» esordì May, limpida ma senza alcuna durezza.

Lui scosse la testa e affondò la guancia nel cuscino, prima ancora di poter raggruppare tutte le bugie dell’ultimo periodo, sapendo di non poterle comunque gestire tutte. Ce n’era solo una da dire, adesso, e tutto il resto scivolava in secondo piano. Priorità. Aveva finalmente la priorità che tanto aveva cercato – e non avrebbe mai voluto trovarla.

«È… anche per quello,» aggiunse poi, schiarendosi la voce arrochita. «Ma questo… no, non è per quello.»

La pausa successiva fu densa, e temette di annegarvi dentro finché May non la spezzò, in un incalzare gentile:

«Mi vuoi dire cosa sta succedendo?»

«Perché, Tony non te l’ha detto?» si lasciò sfuggire di getto, incapace di nascondere la punta di risentimento che gli strizzò la frase in gola.

May sospirò a labbra chiuse, e la vide corrugare strettamente la fronte, con gli occhi illuminati da ombre cangianti nella luce soffusa dell’abat-jour.

«Mi ha detto che c’è stata una proposta, o meglio, una… minaccia di schedare i potenziati da parte del governo. Che tu sei coinvolto, e che devi prendere una decisione in tempi brevi. Ma non mi hai detto cosa hai deciso, né come la pensi; e mi ha raccomandato di aspettare che fossi tu a parlarmene.»

Peter assorbì in silenzio quell’informazione, a pugni stretti. Tony gli aveva davvero dato tempo, anche se a modo suo, e sotto tutto il conflitto che sentiva in corso tra loro, gli fu grato. Gli voleva bene, a dispetto di tutto ciò che faceva, allo stesso modo in cui non si può fare a meno di amare un parente problematico; e forse in quel caso anche di più, visto che non c'era nemmeno un legame di sangue a giustificare quel fatto.

«Hai già deciso cosa…»

«Lo sai, cos’ho deciso, e sai anche perché,» replicò lui, in un modo troppo duro di cui si pentì subito. «Insomma… puoi immaginarlo.»

La sentì inspirare a fondo, troppo a fondo, e la vide distogliere lo sguardo, lasciandolo scorrere sullo spazio ristretto della sua caotica stanza. Portò una mano a stringergli il braccio da sopra le coperte, quasi disattenta, con la mente altrove.

«N-non sei d’accordo?» tartagliò lui, nel riconoscere il dubbio che si addensava sul suo volto marcandone i lineamenti decisi.

«Non si tratta di essere d’accordo,» scosse la testa lei, mordicchiandosi le labbra. «Tony è stato chiaro: rifiutarsi di essere identificati vorrebbe dire entrare in clandestinità.»

Fu Peter a sfuggire il suo sguardo, stavolta. Tony non gliel’aveva ancora detto chiaramente: era stato un timore che lui stesso aveva esitato a esternare, ma quel fatto era stato nell’aria già dal momento in cui avevano messo piede fuori dalla Casa Bianca. E adesso... adesso era peggio. Molto peggio. Gli sembrava di camminare in un campo minato.

«Lo sono già,» replicò, con un brivido che gli increspò la pelle al solo pensiero che la sua identità non fosse ora così protetta come avrebbe voluto. «Ma mi ha detto lui di “non espormi”, per il momento.»

Si costrinse a non guardare verso il cassetto in cui aveva nascosto la foto, come se così facendo avesse potuto prendere fuoco e rivelare la propria presenza al mondo. Come se farlo potesse riaprire il vuoto e tutto ciò che continuava a precipitarci dentro – o in cui lui continuava a gettare pensieri a caso per non ritrovarsi con la testa troppo affollata.

«Forse l’ha detto… ma non vuol dire che sia la scelta più saggia. Neanche tornare ad essere Iron Man è una scelta saggia, ma dubito che se ne renda conto… Tony non è lucido, in questo momento. Sì, mi ha detto anche di quello che vuole fare, ma lo sapevo già da Pepper,» rispose poi, alla domanda muta che gli risalì agli occhi.

Peter deglutì di nuovo a fatica, con la disturbante immagine di Tony che si affannava a fare il giocoliere con troppe situazioni delicate che gli lampeggiò brevemente davanti agli occhi. Era fin troppo simile alla propria.

«Cos’altro ti ha detto? Prima, cosa ti ha detto?»

«Voleva venire qui: ha capito che c’è era qualcosa che non andava. Gli ho detto di no,» lo rassicurò subito, quando lui ebbe un fremito nervoso e si raddrizzò un poco contro la testiera del letto. «Ma vuole parlarti il prima possibile. Credo che sia successo qualcosa e sembrava in ansia; mi ha detto solo che… che sta ricevendo pressioni importanti dall’alto, ed è preoccupato. Non lo dà a vedere, ma…»

«Lo dà a vedere benissimo,» sbuffò Peter, con un’ombra di riso amaro e un pensiero più consapevole ai messaggi insistenti di quel pomeriggio. «May, io so cosa voglio fare. Lo so io, lo sai tu, lo sa Tony e lo sanno i Vendicatori! Non cambierò idea solo perché siete preoccupati per me, visto che siete sempre preoccupati per me.»

«E allora perché prima eri ridotto così?»

Peter ammutolì, dirottando lo sguardo oltre il vetro della finestra, verso le luci lontane di Manhattan che non offrivano rifugio a lui. A Spider-Man, forse, in grado di raggiungerle con un tiro di ragnatela… ma non a Peter Parker rannicchiato nel proprio letto troppo piccolo, con uno spiffero sul collo e un poster scolorito di Iron Man sopra la testa.

Prese un grosso respiro, sentendo il peso di un blocco di marmo triturato nei polmoni, e un lampo doloroso lungo le sinapsi scosse dal senso di ragno. La bugia gli salì alle labbra e venne poi respinta, smussata, levigata e sostituita dalla risposta a un’altra domanda. Una che, in fondo, non si discostava molto dalla realtà, e che le aveva nascosto fin troppo a lungo. Assecondò le parole che gli aveva detto Tony quella sera, già una vita prima, e fu sincero:

«Perché… perché ho chiuso gli occhi per un attimo e sono passati cinque anni. Perché sono… morto, e non sono morto. Perché a volte ci penso, anche se non dovrei, e… e allora mi rendo conto che non m’importa né dell’università, né di quello che mi succede se non rivelo chi sono. Né di nient'altro.»

Il suo mormorio fu un tutt’uno con la federa del cuscino. Desiderò subito che soffocasse del tutto quelle parole troppo egoiste, troppo puntate su di sé e allo stesso tempo volte a sviare l’attenzione dall’altro sé. Era un gioco d’incastri che non sarebbe durato a lungo, lo sapeva.

Anche senza guardarla, intuì le lacrime negli occhi di May; le percepì, ne avvertì la scia salata nell’aria. E sentì anche il suo silenzio, lo spazio che gli stava lasciando per fargli riversare fuori ogni pensiero e ogni stilla di preoccupazioni che gli intossicava l’anima – quella vera e reale che metteva nel costume ogni giorno, non quella persa a mezza via nel tempo.

«Sai – non te l’ho mai detto – ma ho questo… potere, io,» continuò quindi, di nuovo di getto, con un tremolio a inibirgli la voce. «Di avvertire i pericoli, credo, o le brutte situazioni, non… non so nemmeno io come funzioni esattamente. È un campanello d'allarme, diciamo. Lo chiamo “senso di ragno”… anche se forse non è così fantasioso. Ma, insomma, ultimamente è impazzito. Sente pericoli ovunque, perde colpi, non si spegne un attimo e mi confonde e… e prima è andato in tilt completo,» riuscì a dire infine, a frasi smozzicate che non volevano saperne di superare la barriera dei suoi denti. «Sono un disastro, May. Sono vivo, ma non… non funziono più. Non riesco a funzionare.»

Sentì che gli passava una mano tra i capelli, quasi impalpabile.

«Pete,» disse poi, e c’erano lacrime piene anche nella sua voce; non volle guardarla. «Noi, e intendo chi è rimasto qui e vi ha aspettato, non riusciamo nemmeno a immaginare cosa vi passi per la testa o cosa significhi quello che avete vissuto. È inconcepibile, nessuno sarebbe in grado. E tantomeno posso farlo io con te, anche se ti conosco da quando sei nato, perché ora sei un supereroe, e io no. Vorrei conoscerti così bene anche adesso,» disse, con un rammarico che gli stritolò lo stomaco.

«Mi conosci ancora bene,» la fermò con impeto, alzando un poco il busto e costringendosi a sorridere appena nel guardarla; sentì comunque una lama sotto il cuore nell’incontrare le sue iridi calde e velate. «Nascondi ancora i Choorios nel terzo sportello dietro alla farina per non farmeli finire tutti. E lasci ancora lo straccio a pois sulla scrivania quando devo assolutamente pulire la mia stanza. E... e… ah! Mi metti ancora il post-it verde sul frigo per le chiavi di casa, così non rischio di battere il record di dieci volte chiuso fuori di zio Ben. Anche se adesso in effetti potrei arrampicarmi…» concluse, portando una mano al mento e fingendo una posa pensosa un po’ traballante.

May rise appena, leggera, e fece traboccare una lacrima che si affrettò ad asciugare prima che superasse il bordo degli occhiali. Gli posò una mano sulla guancia, sfiorandogli più volte lo zigomo con pollice. Sospirò attraverso un sorriso che gli colmò il petto.

«È questo, quello a cui volevo arrivare: non potrò capirne nulla, di… di ciò che hai passato o di cosa significhi avere un superpotere. Ma so che tenerti tutto dentro e fingere che non esista non risolve il problema. Non devi forzarti a parlarne, ma non devi nemmeno forzarti a non farlo. Parla con me, con Ned e MJ, con Tony, con chi vuoi… ma non permetterti di “andare in tilt” solo perché credi di dover essere di essere Spider-Man anche con chi ami. Perché è a Peter, che noi vogliamo bene, con o senza maschera. Non te lo dimenticare mai,» concluse, con quella sua schiettezza che rendeva meno complesso il mondo.


E lui si sentì meschino, schiacciato da quelle parole e allo stesso tempo sollevato verso l’alto da un vapore soffuso che lo scaldò dall’interno cogliendolo di sorpresa – essere amato era una sensazione conosciuta che faceva parte della sua essenza sin da quando riusciva a ricordare, sulla quale però si soffermava troppo poco spesso. Annuì appena, soverchiato da troppe emozioni che si confondevano tra loro, come se dell’acqua in eccesso avesse inondato un acquerello mischiandone i colori e rendendo irriconoscibili i contorni. Ma erano sfumature soffuse, delicate, che lenirono quella faglia interna che slittava e smottava e si allargava ogni giorno.

«Va bene,» mormorò in punta di labbra, e May gli diede un buffetto a suggellare quella promessa.

«Ora dormi,» gli intimò, stringendo le labbra severa. «E domani, voglio che tu vada a parlare con Tony subito dopo scuola, intesi?»

Peter si sentì sprofondare un po’ il cuore appena risollevato. Ma sapeva di doverglielo, per lo meno per l’ansia che gli aveva provocato quella sera; non riusciva nemmeno a immaginarsela senza provare un blocco allo stomaco. E lo doveva a se stesso, per ribadire la propria posizione e chiedere che venisse rispettata, ora più che mai. Senza trucchi e senza compromessi.

«Non c’è quella riunione del FEAST, domani? Avevi bisogno di aiuto, non ti…»

«Martin l’ha rimandata. E comunque, questo è più importante.»

«Va bene, allora. E dirò a Tony cosa voglio fare. Insomma, lo sa già, ma… ma ha sempre così tante cose per la testa che a volte penso che non mi ascolti nemmeno,» sbottò infine, frustrato e col ricordo della riunione dei Vendicatori che ancora lo punzecchiava.

«Ti ascolta, Pete. A modo suo, ma lo fa, credimi,» sospirò May, scuotendo la testa, e poi si adombrò all’improvviso, socchiudendo le ciglia. «Ricordati sempre che sono stati cinque anni anche per lui.»

Glieli lesse tutti quanti in volto con un vuoto al petto, esattamente quello che glielo faceva contorcere nel pensare ai propri – o al momento in cui aveva creduto di perdere per sempre Tony, lì, tra polvere, sangue e macerie non molto dissimili da quelle tra le quali si era dissolto lui, e poi su quel letto d’ospedale con la vita attaccata a un elettrocardiogramma sussultante. Annuì e basta, lasciando che i loro occhi intersecati si privassero a vicenda di quell’assenza reciproca e ancora non del tutto riempita.

E in quell’istante, desiderò di poter vedere Tony adesso e fare lo stesso con lui: fargli capire che era tornato per restare, e che non gli sarebbe sparito davanti nel momento in cui avesse abbassato lo sguardo. Che erano al sicuro, che poteva smettere di preoccuparsi e rispolverare armature credendo di dover sempre salvare tutti – di nuovo. Gliel’avrebbe detto domani, in qualche modo. Assieme a tutto il resto.

Accolse intorpidito il bacio della buonanotte di May – così frequente, da quando era tornato – e rimase a fissare quel cassetto chiuso di fronte a lui, custode di segreti e angosce che continuavano a mordicchiargli e rodergli la mente coi loro bordi frammentati.
Chiuse gli occhi sul buio che lo circondava, ma non sui suoi pensieri, che continuarono ad agitarsi con un fitto brusio di fondo dietro il sipario delle sue palpebre.
 
 
 
 

 4 Maggio, Stark Tower


 
L’ufficio di Tony alla Stark Tower non gli era affatto familiare. E ancor meno gli era familiare l’immagine del suo proprietario che lo occupava, abituato com’era a vederlo indaffarato in laboratorio, al Complesso o nell’attico, vuoi per un progetto in corso o per tenere a bada Morgan.

Era uno spazio ampio, con una parete a vetrate affacciata a picco sulla città e le altre adorne di quadri e pezzi d’arte con tutta probabilità selezionati accuratamente da Pepper: tutti evocavano un’idea di movimento e chiassosità che ben si addiceva al suo proprietario, senza per questo risultare molesti all’occhio. Da quest’ultimo punto forse Tony si discostava un poco, pensò tra sé Peter mentre bussava alla porta già aperta.

Il suo mentore alzò di scatto gli occhi dai documenti che stava compilando, sul chi vive, per poi ammorbidire subito la sua espressione nel vederlo – vi lesse un netto sollievo e si sentì scrutare da capo a piedi in cerca di ferite visibili.

«Ma guarda, allora è vero che il ragnetto del Queens arriva sempre in tempo per salvare la situazione,» lo accolse, facendogli cenno di entrare e gettando da parte la penna con un guizzo delle dita. «Mi hai risparmiato un tunnel carpale alla mano buona.»

«Buongiorno, signor Stark,» replicò lui, forse eccessivamente formale, ma aggrappandosi a quel saluto e alla spallina dello zaino come fossero tangibili ancore per mantenere una parvenza di stabilità. «Beh, allora sono contento di essere arrivato al momento giusto,» aggiunse, notando come ora Tony stesse aprendo e chiudendo la mano sinistra con una linea di fastidio a indurirgli il volto.

Peter arricciò appena le sopracciglia, stringendo le labbra, e dedusse che quel giorno stesse accusando più del solito quei piccoli deficit che gli aveva inciso addosso il Guanto. Non si alzò nemmeno dalla scrivania per venirgli incontro, preferendo inclinarsi contro lo schienale con le gambe allungate ad alleviare la tensione muscolare. Anche la sua espressione rimase adombrata a dispetto del sorrisetto che la inclinava, attenuato dalla piega all’angolo delle labbra che lasciava intuire quanto in realtà fosse forzato. Si chiese se non fossero strascichi dell'agitazione di ieri sera e non volle rispondersi, avvertendo una morsa al cervello al solo pensiero.

«È una delle “giornate no”,» lo anticipò Tony, con una scrollata di spalle noncurante nella giacca gessata, elegante e stemperata da una delle sue buffe magliette – questa con l
irriverente scritta BRAT nero su bianco. «Nulla che un po’ di yoga o pilates non possa gestire… fermatemi solo se dovessi iniziare a indossare tuniche da santone o a bere quegli intrugli indigesti per bruciare calorie,» concluse, tendendo la voce assieme alle braccia mentre si stiracchiava un poco.

Tony gli strappò un sorriso, per quanto anch’esso teso. Rimase fermo dall’altro lato della scrivania con fare impacciato, conscio che i convenevoli fossero finiti e che, adesso, non poteva evitare l’argomento che gli pendeva tra capo e collo dalla sera prima. Inghiottì aria e ragionevolezza prima di parlare:

«Scusi per ieri,» esordì, incrociando i suoi occhi e sostenendo il suo sguardo fattosi attento. «Per averle dato buca e averla ignorata. E mi dispiace se si è preoccupato. Avrei dovuto rispondere, ma… mi sono lasciato distrarre, ed ero molto impegnato con…»

«Lo so,» lo fermò Tony, senza la minima increspatura nella voce, né sul volto. «O meglio, lo immagino: Karen mi ha mandato un update medico per l’utilizzo dei nanobot rimarginanti. Sei ferito?»

Peter incassò l’informazione, umettandosi le labbra in bilico tra il risentimento e il senso di colpa. Scosse appena il capo, tirando su la manica quel tanto che bastava per scoprire il segno già rimarginato sul polso, quasi invisibile se non in controluce. Tony sembrò trattenere un sospiro contratto, per poi lasciar sfarfallare lo sguardo dalla cicatrice al suo volto, come se stesse cercando di estrapolare col pensiero le dinamiche di quella ferita senza dovergliele chiedere. Lo vide rassettarsi la giacca, tirandola con un gesto secco, ma non gli sfuggì il modo in cui si lambì il fianco sinistro, quello rimasto più sensibile. Gli si seccò la bocca e si affrettò a parlare, badando bene a tenersi sul vago:

«I nanobot sono fantastici, davvero, anche se era solo un graffio… una piccola disattenzione, tutto qui.»

«Vediamo di non compierne troppe, di disattenzioni,» bofonchiò Tony, con un ultimo scatto delle iridi nocciola verso di lui che parve trafiggerlo. Sai di che parlo, comunicò in muto.

Peter si obbligò a mantenere un’espressione distesa, ma il suo volto si scurì comunque e soffiò piano aria dal naso. Di colpo non gli sembrava più una discussione amichevole, quella. Nell'ultimo periodo Tony sembrava provar gusto nel cambiare continuamente il piano del loro rapporto: da Tony a Peter, da Iron Man a Spider-Man, da Tony Stark a Peter Parker… e tutte le varianti intermedie, creando di volta in volta una barriera o un passaggio tra loro due a seconda del suo umore o delle sue mire.

Lui dal canto suo, non riusciva nemmeno più a scindersi del tutto nei suoi due se stesso: era costantemente Spider-Man, sempre al vertice di un’oscillazione con le ragnatele nel momento in cui lasciava la presa per lanciare quella successiva – costantemente alla ricerca dell’appiglio successivo.

«Quindi… ora sono qui. Di cosa voleva parlarmi?» chiese, tendendo la mascella come a prepararsi a un colpo in arrivo.

Se possibile, Tony s’incupì ancor di più, accentuando delle occhiaie violacee che non gli vedeva addosso dai tempi della Guerra Civile, quando l’aveva reclutato col sorriso sulle labbra, uno zigomo livido e sonno perso a frammentargli lo sguardo. Adesso a rafforzare di quei segni scuri c’era anche un sottile reticolo di rughe che gli arricciava gli angoli degli occhi, più visibili sul lato intaccato. L’uomo lo fissò, stringendosi il mento con la mano ferita, per poi passarla sovrappensiero sullo sfregio che gli marchiava il volto.

«Del fatto che dovrei seriamente cambiare numero di telefono,» proferì infine, con un mezzo sospiro che gettò di lato. «Mi ha chiamato Norman. Quel Norman.»

Peter non poté fare a meno di sgranare gli occhi, sentendo il respiro che gli si raggomitolava in gola, occludendola. Aspettò un continuo, mentre Tony si obbligava a smetterla di stuzzicarsi le ferite e piantava con fermezza il palmo sulla scrivania, a trovare un appoggio solido. C’era un lieve tremito ad attraversargli le dita.

«A quanto pare, anche lui ha preso posizione rispetto all’Atto. Riesci a indovinarla?»

«Credo… credo di sì,» scandì, lentamente. «È favorevole? Ci vuole schedati, vero?»

Tony annuì impercettibilmente, storcendo le labbra come se avesse appena assaggiato qualcosa di molto amaro.

«L’avevo previsto,» affermò, per poi far scattare appena di lato la testa. «Non così presto, ma l’avevo previsto. Normie è un opportunista con legami con la malavita… avere dei protettori dell’ordine pubblico a zonzo gioca a suo sfavore. E faremo tutti finta di non sapere chi si nasconda dietro la figura di Kingpin, anche se è abbastanza massiccia da poterne nascondere quattro, di alter ego.»

A quel punto sollevò le sopracciglia in modo eloquente, in quello che fu chiaramente e senza mezzi termini un rimprovero e un te l’avevo detto neanche troppo tra le righe. Peter se lo lasciò scorrere addosso, ma deglutì a fatica. Adesso iniziava a scorgere le singole fila sottili della ragnatela e i punti in cui erano agganciate. Si chiese se davvero non avesse sottovalutato la situazione – e si rispose di sì.

L’impulso di distruggere la foto non appena avrebbe messo piede in casa si fece impellente, insopprimibile, anche se era consapevole che farlo non avrebbe cambiato assolutamente nulla. Era comunque nel mirino, poco importava se di Osborn o Kingpin-Fisk: occhi diversi, stesso fucile.

Tony schioccò la lingua, a richiamare la sua attenzione, e si rese conto di essersi distratto, lasciandosi sopraffare dagli impulsi incrociati inviati dal senso di ragno. Riportò di scatto gli occhi sul suo mentore, che lo fissava in un modo che, d’istinto, ritenne spiacevole. Sospettoso. Si trovò a ricambiare nello stesso modo suo malgrado.

«Quello che non avevo previsto, Spidey, è la… veemenza con la quale intende far rispettare l’Atto quando – perché ormai è un “quando” definitivo – entrerà in vigore...»

«Quando?» lo interruppe Peter, senza poter evitare che la propria voce s’impennasse. «Un momento, ma voi non dovevate contrattare col governo? Con Ross e tutti gli altri?»

Tony bloccò il movimento della mano a mezza via verso il telefono, evadendo deliberatamente il suo sguardo.

«Il governo ha troncato le trattative giusto ieri, dicendo che “stavamo temporeggiando troppo”. Non si fida di noi e in particolare non si fida di me. Non posso dargli torto, visto che neanch’io mi fido di me stesso,» sbuffò, con un gesto rassegnato che smosse l’aria. «Certo, si fidava di Rogers… questo ovviamente prima che cedesse lo scudo a un ex-pregiudicato,» concluse, tirando un sorriso amaro che gli risalì agli occhi, inacidendoli.

Peter si agitò sul posto, trattenendo ogni domanda e commento, ma pensando che quella fosse una frecciatina gratuita e vana, scagliata verso un bersaglio che non gli riusciva di identificare. Eppure… Tony aveva detto a Steve di aver fatto la cosa giusta, nel nominare il Sergente Barnes suo successore, anche se sempre con quell’astio malcelato.

Si morse in silenzio le labbra, col senso di ragno che gli si contorceva sottopelle. Non capiva a che pro Tony stesse rifilando versioni rimaneggiate di ciò che pensava a destra e a manca, ma quello fu l’ennesimo e definitivo sprone a non confidarsi rispetto alla sua presupposta fuga d’identità. Non ancora, almeno.

«Cosa intende con “veemenza”?»

«Guarda tu stesso,» lo invitò Tony, tendendogli il proprio telefono su cui aveva appena aperto una pagina web.

«Sable International?» lesse Peter, spostando gli occhi dal logo squadrato di una S che campeggiava sulla homepage a Tony

Questi lo scrutava in attesa di reazioni e lo invitò a continuare a leggere con un cenno del mento.

«Sicurezza internazionale, task force d’emergenza, servizio di scorta privata…»

«Mercenari,» tagliò corto Tony, con lampi di fastidio che gli balenavano sul volto. «Mercenari organizzati, ricchi e con una divisa futuristica su cui io e la Xbox dovremmo chiedere i diritti [2], ma pur sempre mercenari.»

Peter deglutì, continuando a scorrere col pollice sul touchscreen e trovandosi davanti delle foto che gli addensarono sangue e respiro: militari in corazze bianche integrate schierati rigidamente, fucili alla mano; armamenti bellici su larga scala; la foto di una donna compita dai capelli grigio ferro e i lineamenti scolpiti nella roccia che fissava inespressiva le sue truppe.

Riconobbe lei e i suoi soldati da qualche telegiornale che aveva intravisto, impegnati in operazioni militari a supporto di questo o quell’esercito – e con metodi che erano stati spesso criticati e condannati. Chiuse secco la schermata, restituendo il telefono a Tony, che sembrava non avere alcuna intenzione di rilassare i lineamenti del proprio volto.

«Ti presento la task force di “contenimento” per i potenziati e vigilanti che si rifiuteranno di aderire all’Atto di Registrazione,» annunciò poi, pomposo e con un gesto vagamente teatrale che assunse un sottotono fin troppo funereo.

Peter si mosse di scatto sul posto, coi piedi improvvisamente irrequieti che lo portarono dall’altro lato della scrivania, a un passo da Tony, che dal canto suo si limitò a ruotare sulla sedia da ufficio per continuare a fronteggiarlo.

«Non può farlo,» asserì, additando il telefono con forza, come a frantumarne lo schermo e il contenuto a distanza. «L’Atto non è nemmeno stato reso pubblico, non può minacciare di…»

«Norman non mi ha chiamato per minacciare,» lo interruppe Tony, tetro. «Mi ha chiamato per mettermi al corrente di questa sua decisione per “mantenere l’ordine pubblico a New York” quando sarà sindaco. Li ha già assoldati. Il che vuol dire che la decisione più grossa, lassù,» e puntò un indice verso l’alto, «è già stata presa alle nostre spalle. Stanno solo aspettando il momento giusto per renderla pubblica, e sospetto che sarà dopo la sua elezione. Parliamoci chiaro: qual bamboccio di Campbell tutto sorrisi e brillantina non ha speranze contro di lui.»

Peter scosse la testa e la girò di lato con un colpo di frusta, iniziando a sentire un senso di soffocamento, una cappa viscida che gli si posava addosso affaticandogli il respiro.

«Osborn… Osborn voleva avere lei dalla sua parte,» riuscì a dedurre, deglutendo a fatica più volte e continuando a tenere in moto i pensieri, evitando che deragliassero. «Voleva… cosa? Finanziamenti? Appoggio politico?»

«No, e sì,» rispose rispettivamente Tony, con due piccoli movimenti del capo. «I soldi non gli mancano. Voleva consenso pubblico rispetto a questa sua nuova politica, visto che ormai sono “in pensione”. Nada, ecco cosa gli ho offerto. Non faccio affari con la Oscorp, né tantomeno con Norman come singolo. E gli ho ricordato che la faccenda della Tower non mi è andata ancora giù, e che dovrebbe astenersi dal contattarmi ancora, a meno che non voglia rivedermi alla sua porta con un’armatura addosso, alla faccia della pensione,» quasi masticò tra i denti, serrando la mascella e battendosi un colpetto sullo sterno, dove un tempo c’era il reattore.

«La Tower?» si stupì Peter, schiudendo la bocca senza raccapezzarsi, e Tony scosse la testa con un sonoro sospiro che fece trasparire tutta la sua reticenza, alzando i palmi in un gesto brusco.

«Lunga storia: te la racconterò davanti alla prossima porzione di cibo spazzatura,» deviò il discorso con un ultimo svolazzo della mano.

Peter annuì circospetto, accantonando però all’istante l’argomento.

«Okay. Okay, quindi… Norman ci vuole schedati. O in gabbia. O in pensione. E io non voglio fare nessuna di queste tre cose. Quale sarebbe il piano, signor Stark? Perché ha un piano, vero?»

Tony si morse il labbro in modo impercettibile, con gli occhi che si assottigliarono appena come se stesse mettendo a fuoco un bersaglio.

«Il piano… è cambiare rotta, visto che hanno intenzione di schierare l’artiglieria pesante. La Sable non scherza, e ha anche qualche piccolo rancore post-Sokovia [3]… quindi dubito che andrebbe a braccetto con noi Vendicatori e che la mia opinione, in particolare, conti qualcosa.»

Peter spostò il peso da un piede all’altro: tutto ciò gli ricordava troppi momenti spiacevoli, di piani arrabattati in fretta e furia su un pianeta desertico nella speranza di salvare tutti – solo per fallire.

«Cambiare… rotta,» ripeté, cercando il suo sguardo e trovandovi solo granito, invece del porto rassicurante che aveva sempre offerto.

«Sì, e prendere quella più sicura. Temo un coinvolgimento diretto della RAFT. Oltre a molte altre cose che preferirei non nominare, ma che forse dovrei rivendermi a qualche regista di film horror per arrotondare.»

Tony tacque, dopo quelle parole, e sembrò aspettarsi da lui una reazione con l’aria di chi già l’aveva prevista. Con largo anticipo, anche.

«Mi sta dicendo che la “rotta” più sicura sarebbe rivelare che sono Spider-Man?» scandì, pronunciando ogni parola con intensità crescente e una tensione nella lingua e nei pugni.

«Potrebbe,» replicò stringato Tony, con prontezza sospetta e molleggiando contro lo schienale con un fare a metà tra il nevrotico e il flemmatico. «Non credere che sia contento di dirtelo, o di prendere in considerazione l’ipotesi. Ma…»

«È questo che intendeva con “vagliare tutte le possibilità”. Lei lo sapeva, che saremmo arrivati a questo,» lo interruppe Peter, con durezza, rinfacciandogli le sue stesse parole di quel giorno alla Casa Bianca.

Tony non vacillò nello sguardo, ma lo vide farsi severo. Un Tony che aveva visto raramente e che somigliava più a Iron Man che al suo mentore.

«Ho una discreta abilità, derivata da pessime decisioni, nel prevedere in quanti modi una situazione potrebbe andare a puttane. Credimi quando ti dico che avevo già preso ogni precauzione nel caso fosse andato storto qualcosa.»

«E adesso… adesso è andato storto. E il piano sarebbe assecondarli?»

«La situazione attuale è in linea con altri scenari simili che mi ero prefigurato, Sable a parte. E non ho comunque intenzione di farti esporre prima che tu compia diciotto anni, quello è fuori discussione,» continuò l’altro, in tono saldo.

Si interruppe, per poi lasciarsi sfuggire un sospiro che gli addolcì i tratti, seppur per un attimo. Si abbandonò allo schienale girando leggermente sulla sedia.

«Pete, dirti di tenerti lontano da Kingpin e Osborn per il momento era un suggerimento sensato, per quanto odioso. Adesso hanno un ulteriore motivo per scagliarsi contro di te, oltre all’Atto; ma potremmo mitigare la cosa se deciderai di mostrarti almeno collaborativo fino a…»

«Non posso decidere di rivelarmi volontariamente! O prepararmi a farlo!» sbottò Peter, lasciando che la sua voce esplodesse con molta più forza di quanto si fosse aspettato e prendendo a gesticolare scattosamente. «Non funziona così! Parla come se fosse un qualcosa privo di conseguenze, come se… se non le importasse nulla, di quali potrebbero essere, né per me, né per May e…»

«Peter!» lo richiamò Tony, facendolo ammutolire, ma non c’era rabbia nella sua voce, né rimprovero: suonò addolorato, in realtà, e vide la piega tra le sue sopracciglia incidersi più a fondo. «So quali potrebbero essere le conseguenze e te le ho evitate in tutti i modi per...» s’interruppe, spostando lateralmente gli occhi per un millisecondo, a guardare quel vuoto interposto tra loro. «… te le ho evitate finora. Non ti sto dicendo che devi dichiarare la tua identità segreta, ma di compiere di nuovo la tua scelta, consapevolmente e prendendo in considerazione questo… assetto più problematico. E il tuo futuro, anche.»

Peter trasse un paio di respiri brevi, volti a riprendere un controllo che gli stava sfuggendo sempre più di mano, e non trattenne un’alzata d’occhi al cielo che esasperò, notando il lieve fremito indecifrabile che vibrò nelle dita di Tony.

«Il MIT, quindi. Niente Spider-Man, niente identità da rivelare, giusto?» annuì, sarcastico. «Proprio come voleva lei

A quel punto Peter riconobbe la scintilla che si accese sul volto del suo mentore: la stessa di fin troppi anni prima, quando l’aveva apostrofato così duramente perché, da lui, si aspettava di meglio di così. Ma le parole che pronunciò non furono affatto spigolose come allora, anzi, solo terribilmente frammentate, come se le avesse ricomposte in fretta e furia per pronunciarle ancor più velocemente, deviando a braccio da un discorso preparato:

«Io non voglio nulla, Peter, almeno non per me stesso. L’ultima volta che ho voluto qualcosa per me stesso non…» si interruppe, e lo vide far slittare la mandibola in un riflesso nervoso che gli tirò il volto. «Ho voluto… ho trovato una famiglia. E adesso voglio proteggerla, perché è il motivo per cui sono qui, adesso, nonostante tutto,» concluse quasi con foga, e con un dolore a offuscargli le iridi che lo catapultò con uno strappo allo stomaco a Titano – di nuovo, incessantemente, una cima di sicurezza fissata nel punto sbagliato.

Lo scaraventò davanti agli occhi privi di luce del suo mentore nel realizzare quello che stava accadendo. Al momento in cui si erano fatti liquidi e vivi quando l’aveva rivisto. Assorbì quelle parole, invece di farsele rimbalzare addosso, e le trovò meno pungenti, in grado di adagiarsi accanto al cuore senza infliggergli danni.

Ricordò le parole di May: erano stati cinque anni per tutti, anche per lui. Cinque anni così lunghi da convincere Iron Man ad arroccarsi in una casa sul lago che lui non aveva ancora visto e forse non avrebbe visto mai, perché custodiva ancora troppi ricordi angoscianti. Faceva fatica a crederlo, ma sapeva di essere incluso in quella “famiglia” di cui parlava Tony. E che era proprio Tony, a non voler credere che lui ne facesse di nuovo parte, trattandolo come se dovesse evaporare da un momento all’altro al minimo tocco o sguardo troppo intenso.

«Signor Stark, non ci sono più alieni o Titani folli, là fuori Non c
è nessuno che sta per schioccare di nuovo le dita,» si costrinse a dire, nel modo più morbido che gli riuscì.

Vide quella macchia spenta di assenza e perdita allargarsi sul volto di Tony, che contrasse la mano sinistra con uno spasmo doloroso per entrambi.

«A volte non ci credo neanch’io… ma è così. Abbiamo vinto e ci meritiamo di vivere… e non posso vivere nella paura perché continuo a non crederci, o perché voi avete paura che accada di nuovo. Non posso smettere di essere Spider-Man, come lei non vorrebbe mai smettere di essere Iron Man.»

E smettere di essere Spider-Man voleva dire smettere di essere Peter Parker, perché Peter Parker era morto cinque anni prima e forse non era mai tornato. Ma questo non lo disse, lo inghiottì assieme alle sue paure.

«Lo so, che può capirmi. Che mi capisce

Tony risucchiò un respiro che gli oscillò tra le guance e incrociò le braccia al petto, così strettamente da sembrare soffocante. Reclinò il mento sul petto, fissando le scartoffie sulla scrivania senza vederle.

«Capisco Pepper, piuttosto,» disse a sorpresa, con un sorriso appena accennato e imbevuto di una malinconia difficilmente collocabile. «La prima cosa che mi ha detto, quando ha scoperto che ero Iron Man, è stata…» scosse la testa, schermandosi per un istante gli occhi con le ciglia. «… che voleva licenziarsi. Perché prima o poi mi sarei ucciso a causa della mia scelta. E che lei non voleva rendersi complice di ciò.»

Tony liberò un risolino muto che gli scivolò tra le labbra assieme a un brutto ricordo ormai divenuto dolce.

«La cosa buffa, a parte il fatto che è stata profetica, è che dopo ci è voluto un altro anno per “ufficializzare” tra noi… anche dopo questa dichiarazione piuttosto palese. E io dovrei essere un genio.»

Peter serrò le labbra, le compresse fino a sbiancarle per trattenere un accenno di sorriso che gli venne spontaneo, nel sentirlo parlare a cuore aperto di aneddoti usati come diversivo, era vero, ma pur sempre parte di lui e vicini al cuore. Era raro, che si aprisse così, e a discapito di tutto fece tesoro di quella confidenza.

Gli rivolse uno sguardo meno ostile, meno infuriato col mondo che non girava più a tempo coi suoi passi. Tony ricambiò con un misto di malinconia e scoramento che non avrebbe mai associato a lui. Stava invecchiando, si rese conto con un blocco nel respiro, e sentì una bolla di ansia tremolante risalirgli alle labbra.

«Pepper ha smesso di cercare di fermarmi da molti anni... lo considera il suo
“fallimento migliore”,
» sospirò sorridendo, con una rara tenerezza nella voce sporcata dall'ombra del senso di colpa. «E nonostante questo, adesso neanch’io voglio essere complice,» concluse, piantando gli occhi nei suoi, e sembrò trattenere un continuo che Peter intuì fin troppo facilmente, con una puntura di spillo al centro del cuore: non di nuovo.

Abbassò lo sguardo, schermandolo col capo appena inclinato e rendendosi conto di averlo fatto per la prima volta nel corso della discussione. Fu una boccata d’aria dopo una lunga apnea. Era possibile sentirsi in colpa per il senso di colpa di qualcun altro? Forse no, ma lui ci stava riuscendo e lo sentiva premere nel petto, odioso. E per questo parlare di nuovo fu ancora più difficile e allo stesso tempo indispensabile, così come rialzare testa e occhi.

«Però lei ha comunque continuato ad essere Iron Man
Non ha rinunciato.»

Tony dirottò lo sguardo altrove, divenendo evasivo e nascondendosi dietro un’illusoria cortina metallica; infine lo puntò di nuovo nel suo, e fu come vedere una sovrapposizione perfettamente coincidente tra il suo volto e la maschera di ferro che si era creato. Scosse appena il capo, la voce bassa ma limpida, carica di quello che, alle orecchie di Peter, suonò come orgoglio latente per se stesso e per lui. Sofferto, ma sincero:

«No. Non ho rinunciato.»

E quella, per Peter, fu una risposta sufficiente a scacciare ogni suo dubbio.



 



 
Note:
[1] Le divise della Sable somigliano molto sia ad alcune armature di Tony, sia a quelle del videogioco Halo, sviluppato appunto da Xbox -> qui.
[2] La Silver Sable International e la sua fondatrice, Silver Sablinova. sono originarie della Symkaria in fumetti e videogioco. Visto che questo Stato non esiste (per ora) nel MCU, ho preferito assimilarle alla Sokovia sia perché più familiare, sia per il collegamento più immediato con i Vendicatori e i vari retroscena ad essi collegati.
NB il titolo è un omaggio a quello di un capitolo del Back In Black fumetto originale.



Note dell'Autrice:

Carissimi Lettori!
No, non è uno scherzo: sto aggiornando davvero! E anche il prossimo aggiornamento sarà in tempo record!
Direi che c'è la possibilità che la fine del mondo sia vicina, se non fossimo già in una situazione precaria a livello globale, quindi mi limiterò a dire che l'unico lato positivo di questa quarantena è aver ritrovato la voglia e il tempo per riprendere in mano la storia. Per il resto, come ho già detto in recenti aggiornamenti, spero che tutti voi e i vostri cari stiate bene e spero soprattutto che questo capitolo serva a distrarvi per qualche minuto. O forse dovrei dire qualche ora, data la lunghezza... e vi va bene che ho spostato un pezzo al prossimo, o vi sareste beccati quasi 10.000 parole in un colpo solo! Come sono magnanima, eh?

Deliri a parte, volevo ringraziare tutti, tutti, ma proprio tutti coloro che hanno aggiunto la storia tra le liste, in particolare le seguite: siete tantissimi e mi si scalda il cuore ogni volta che guardo quel numeretto che per me significa tantissim <3 Se mai vorrete lasciare un commento, siete sempre i benvenuti :')
Un grazie a chi ha commentato gli scorsi capitoli, ovvero
_Atlas_, Miryel, shilyss, T612, Eevaa, ichigouzumaki, Paola Malfoy, ed Erika 97. grazie, ogni parola è importante <3

Vi mando un saluto, con la promessa di aggiornare presto,

-Light-

 

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Capitolo 8
*** La guerra in strada ***


Spider-Man: Back In Black


§

 
Capitolo VII
 

La guerra in strada
 
 
 
“'Cause I've done it before,
And I can do it some more,
I've got my eye on the score,
I'm gonna cut through the floor,
It's too late,
It's too soon,
Or is it
Tick tick tick tick tick tick tick...” 
[Tick Tick Boom – The Hives]

 
 
 
8 Maggio, Rego Park, Queens
 
Yuri aveva un discreto talento nello scegliere i punti d’incontro più squallidi e malmessi di New York, di quelli che non avrebbero sfigurato sulla pellicola di un noir vecchio stampo o di un poliziesco urbano.

Così Peter non si stupì troppo, quando si trovò a dover scalare la parete esterna annerita di un’ex-fabbrica di scarpe in una delle zone più malfamate di Rego Park. Superò carponi un poster elettorale con la gigantografia di Campbell, schivando il suo sorriso bianco e artefatto e trattenendo l’urgenza di scollarlo dal muro, poi ruppe il chiavistello di una finestra con uno scatto delle dita per calarsi all’interno.

La visione notturna gli venne in aiuto nel mostrargli più chiaramente la sala interna immersa nell’ombra, e Karen gli evidenziò degli appigli favorevoli sulle travi che segmentavano il sottotetto. Individuò subito Yuri, appoggiata contro la balaustra del ballatoio superiore, affacciato su macchinari arrugginiti e in disuso. Una torcia elettrica poggiata per terra era l’unica fonte di luce che metteva in risalto la sua silhouette minuta.

Attraversò adagio l’ampio spazio, scegliendo le travi più solide e rinunciando alle ragnatele nel constatare quanto fosse pericolante la struttura interna; si calò con un balzo agile direttamente davanti a Yuri, atterrando a piedi uniti per poi alzarsi a braccia tese, come un ginnasta a fine esercizio. Lei non si scompose, limitandosi a scrollare appena la testa, e Peter si trattenne dal pronunciare il “ta-daan” squillante che si era programmato, soffocandolo tra labbra e maschera.

Il Capitano Watanabe era una persona già di per sé piuttosto seriosa, che incuteva timore a un solo sguardo, ma adesso i suoi occhi scuri e mobili erano avvolti da un’ombra fredda che rasentava l’ostile. Non era solo estremamente concentrata o presa dal caso: era furente, sobbolliva di rabbia repressa a fatica e condensata nella presa rigida con cui si stringeva le braccia incrociate.

«Ehi, salve, capo… stai per dirmi che ci sono altri guai in vista, vero? Lo so che me lo stai per dire,» cercò comunque di sdrammatizzare, piantandosi le mani sui fianchi e scrutando i dintorni con gli occhi della maschera che si allargavano e restringevano con un sibilo meccanico.

Di nuovo, Yuri scosse piano il capo, facendo ondeggiare il caschetto liscio e corvino, in un negare che era in realtà una conferma piena di scoramento.

«Ci sono dei guai, sì… ma non sono in vista, anzi,» sciolse le braccia dal busto alzando i palmi al cielo, per poi farli ricadere contro le cosce con uno schiocco, «sono nascosti fin troppo bene.»

«Uh-huh… capisco. Cioè, no, quindi spiegati,» si corresse, guardandosi intorno nel sentirsi allo scoperto e optando infine per l’accovacciarsi sui talloni in una posa decisamente ragnesca che si rimediò un’occhiataccia.

Yuri si astenne dal commentare e sollevò una mano con le ultime tre dita stese e bene in vista.

«Hanno passato il caso all’FBI, quindi io sono fuori dai giochi,» ripiegò il medio, «abbiamo sequestrato una partita di esplosivi della Fisk Construction al di fuori di un suo cantiere,» ripiegò l’anulare, «e la pista sospetta del magazzino è un buco nell’acqua,» concluse, facendo sparire anche il mignolo in quel suo bizzarro modo di contare. [1]

«Oh,» esalò lui, con quel soffio di frustrazione che trapelò dalle maglie strette della maschera, troppo debole per esprimere appieno lo sconcerto causato da quelle tre rivelazioni. «… porca vacca,» si espresse poi, sgranando al contempo gli occhi.

«Esattamente,» sospirò lei, pressando poi le labbra sottili fin quasi a sbiancarle. «Hai preferenze sull’argomento da cui iniziare?»

«Direi…» si bloccò, troncando la prima frase che gli era venuta in mente.

Voleva smaniosamente sapere ogni più microscopico dettaglio sul collage di foto e ritagli che avevano scoperto e, sebbene sapesse che fosse una domanda del tutto naturale, una parte di lui si convinse che sarebbe sembrato sospetto mostrare troppo interesse, e si obbligò a dirottarlo sulla seconda questione, comunque non meno importante:

«… uh, Fisk e i fuochi artificiali mi sembrano un’accoppiata pericolosamente perfetta, con un attentato in vista. E perfetta anche per mettergli un paio di braccialetti in acciaio ai polsi, no?»

Yuri negò, terribilmente seria.

«Sono suoi materiali per le sue demolizioni. Li abbiamo trovati fuori dai cantieri in una nave cargo sull’Hudson, ma non è abbastanza per collegarlo a un attentato… tanto più che la nave non è intestata a lui, ma a dei prestanome che stiamo investigando e che ricondurranno sicuramente a quelli che abbiamo ricollegato a Kingpin. Vuole far slittare tutta l’attenzione sul suo alter ego, ma farlo ora, coi sospetti che ha già addosso, vuol dire esporsi…»

«E a che pro? Autoincriminarsi? Non ce lo vedo, Willie, a costituirsi.»

«No, infatti sta giocando con noi, e non mi è chiaro in che modo. Sembra voglia depistarci, e allo stesso tempo metterci sulla pista giusta. Non vedo il suo schema,» quasi ringhiò, digrignando i denti in un moto insofferente.

Peter tacque, mentre le rotelle delle sue meningi viaggiavano a una velocità tale da surriscaldargli il cervello. Vedere da parte di Fisk delle mosse così allo scoperto gli faceva chiedere quanto, esattamente, avesse in pugno la città. Quanti gli coprissero le spalle, oltre ad Osborn, e quanto fossero profonde le sue radici criminali che infestavano New York sino alle fondamenta e alle fogne da cui traevano nutrimento, avvelenando al contempo la metropoli.

Non trattenne una smorfia di disgusto, celata a Yuri ma palese nella sua posa affatto rilassata, con gli occhi puntati sul metallo arrugginito della balaustra e sulle ombre aguzze dei macchinari dormienti.

«E la polizia cos’ha intenzione di fare? Non mi sembra il momento di rimanere con le mani in mano,» chiese quindi, suonando fin troppo autoritario persino alle sue orecchie, ma Yuri si limitò a un piccolo scatto del capo.

«Non possiamo prenderlo di petto, purtroppo,» sottolineò, col tono di chi si vede rimandare un evento a lungo atteso. «Quegli esplosivi, da soli, non vogliono dire nulla. Ma finché non ci vedremo chiaro terremo Wilson Fisk sotto torchio e Norman Osborn sotto scorta. Gli abbiamo sconsigliato di tenere il discorso pubblico, ma ha detto di non “voler cedere alle intimidazioni”, e temo sappia perfettamente che la minaccia arriva da Fisk. È una dimostrazione di forza, a questo punto,
» sospirò, contrariata.

Peter le fece eco, altrettanto sconfortato di fronte a quella decisione che, tra le altre cose, avrebbe messo anche in potenziale pericolo delle vite umane, non solo Osborn. Come se ciò potesse importargli.

«Capito, nessuno dei due ha intenzione di cedere. E che mi dici della nuova pista? Davvero non può aiutarci a capire chi sta organizzando questo “fuori programma” elettorale?»

«Può aiutarci, ma non come vorremmo,» precisò Yuri, con lo stesso, identico cipiglio che non aveva abbandonato il suo volto dall’inizio della conversazione, quasi fosse in una sala interrogatori intenta a venire a capo di un sospettato troppo caparbio. «Nel senso che i nostri profiler dubitano che sia un’operazione su larga scala. Quel collage sembrerebbe opera di una personalità ossessivo-compulsiva con complesso narcisistico e tendente forse alla schizofrenia…»

«Beh, non dubitavo che chiunque l’abbia composto fosse fuori di melone,» commentò nervoso Peter, prima di riuscire a trattenersi, e Yuri lo inchiodò sul posto con un singolo sguardo.

«Intendevo dire che è personale. D’altronde, perché lasciare una pista così palese, se non per sfidarci e ottenere la nostra attenzione? È un modus operandi tipico di un serial killer.»

«Oh,» si ricompose Peter, dandosi mentalmente dell’idiota.

Avvertì un piccolo, minuscolo briciolo di speranza che si faceva strada in lui e che si affrettò subito a smorzare. Era un bene non avere alle calcagna Osborn o Kingpin in persona, ma chiunque conoscesse o sospettasse di lui, in quel momento, anche un singolo lunatico, era una minaccia sufficiente a minare la sua posizione. Soprattutto adesso che stava per rischiare seriamente di dover scendere a patti col governo – almeno secondo Tony.

Eppure, non poteva abbandonare del tutto l’idea di vincere, di riuscire a non rivelarsi in un modo o nell’altro. Tony era dalla sua parte, questo lo sapeva; semplicemente, possedeva l’irritante capacità di analizzare la situazione da ogni prospettiva, e non rifiutava di prendere in considerazione strade che non combaciavano con quelle scelte da lui. Ciò non giustificava i suoi raggiri e i suoi silenzi, ma Peter era conscio di poter contare ciecamente su di lui in caso di bisogno… e d’altronde, anche lui gli stava tacendo molte, troppe cose.

Voleva pensare che ciò rendesse pari il punteggio di quella partita che si erano trovati a giocare con fazioni intercambiabili, ma non riusciva a non sentirsi in difetto. Così come si sarebbe sentito in difetto a confessare tutta quella faccenda sia a lui che a May, scaricando su di loro delle responsabilità che erano sue e sue soltanto.

Se fosse stato lì, Ben gli avrebbe detto che fare del bene era un obbligo morale, soprattutto quando se ne aveva la capacità. Che non era una questione di scegliere, perché le responsabilità non ammettono scelte. E ora che non era più nemmeno certo di chi fosse lui stesso, doveva almeno esserlo su ciò che era in grado di fare, e farsi carico di quei fardelli rimasti in sospeso per cinque anni. Lo doveva agli altri, ma soprattutto a se stesso.

«Quindi, dite che è opera di un lupo solitario?» si affrettò a chiedere, rendendosi conto di essere rimasto in silenzio troppo a lungo, destando l’attenzione di Yuri.

«Così sembrerebbe, almeno a una prima analisi… qualcuno che non vede di buon occhio la nomina di Osborn a sindaco, o con qualche sospeso con lui. Il che…»

«… vuol dire più o meno mezza Grande Mela. Fantastico, quindi facciamo un porta a porta per chiedere chi ce l’ha con Norman?» esclamò con falso brio, strappandole un sorrisetto gramo.

«Già, è quello che intendevo con “buco nell’acqua”. Dobbiamo sperare che la scientifica cavi fuori qualcosa dalle prove, fosse anche mezza impronta digitale, e attendere un profiling completo per restringere il cerchio. Sperare che abbia dei precedenti, magari, e che sia rintracciabile nel sistema.»

Peter annuì assente, con la domanda successiva che gli si aggrovigliò in bocca, poiché suonava sospetta alle sue orecchie colpevoli.

«E, uh, insomma… è saltato fuori qualcos’altro, da queste analisi? Non so, un movente più specifico… qualcosa?» sviò poi, pregando con tutto il cuore che non vi fosse qualche altro reperto che potesse far risalire a lui, Peter Benjamin Parker.

E che non si fossero accorti di un tassello mancante nello schema. La fotografia gli lampeggiò in testa a colori brucianti, impressa sulla pellicola della sua mente. Collegata a colpi decisi di pennarello rosso al logo della Oscorp, una connessione inconfutabile che poteva avere un'unico esito, lo stesso che gli mordeva il collo ogni volta che ci pensava.

Yuri lo scrutò per un lungo momento, con uno sguardo inquisitore che gli rattrappì la schiena come se vi fosse scivolata una goccia d’acqua gelata.

«Sono per lo più deliri di un folle accecato dal rancore, Spider-Man,» rispose con improvviso riserbo. «Ma ci sono anche alcuni documenti… controversi. Accuse riguardo alla Oscorp, alla liceità dei suoi esperimenti e a varie diatribe con altre aziende per la proprietà intellettuale di alcune ricerche… Norman ha avuto a ridire sia con la AIM che con le Stark Industries: probabilmente il tuo amico corazzato saprà dirti qualcosa di più al riguardo, se pensi che possa esserci utile,» concluse, con un cenno del mento verso di lui.

Peter si irrigidì come un ciocco di legno nell’alzare le spalle con fare noncurante, come a dire che lo avrebbe fatto. Mentalmente, lo aggiunse alla lista di cose che Tony aveva ritenuto opportuno non condividere… che c’entrasse quella faccenda della Tower? Quasi si piazzò una mano in faccia per la frustrazione: iniziava a perdere il filo, o meglio, i fili di tutto quell’intreccio.

«Tutto è utile, a questo punto,» disse, dimenticandosi di rendere più profonda la propria voce e suonando terribilmente diciassettenne; si schiarì la voce in imbarazzo.

«Ti posso passare le foto della scientifica, se…»

«Già fatto, è tutto qui dentro,» la interruppe lui, additando gli occhi della maschera e suscitando un suo sospiro rassegnato che però, forse, celava una punta di approvazione. «E pensavo che condividere informazioni riservate fosse illegale, Capitano Watanabe! Meno male che mi porto avanti col lavoro e ti evito di infrangere la legge.»

«Oh, lo è… ma ho una concezione molto flessibile della legge,» ribatté pronta lei, concedendosi stavolta un sorrisetto. «Dopotutto, adesso che sono fuori dal caso dovrò trovare vie traverse per rimanere aggiornata… dopo dieci anni che sto addosso a Fisk, voglio la soddisfazione di mettergli io stessa le manette ai polsi,» continuò, con un’impennata fiera nel tono e le mani sui fianchi.

«Qui c’è anche premeditazione di reato… o in qualunque modo la chiamiate voi sbirri. Insomma: rischi grosso se ti scoprono, o sbaglio?»

«Rischio la sospensione, sì… nel peggiore dei casi, addio pistola e distintivo. Ma non è la cosa peggiore che ho fatto, e quando voglio sono uno spettro. Fidati, ho i miei metodi,» concluse, strizzandogli l’occhiolino in uno sfoggio d’umorismo per lei del tutto atipico. [2]

«Oh, quindi stai entrando anche tu in clandestinità! Lo sapevo che avrei lanciato una moda, prima o poi,» sbuffò lui, fingendosi tronfio e avvertendo un lieve senso di disagio nell’esternare quelle parole, seppure in un contesto ancora innocuo, soprattutto con l’ombra della Sable che si stagliava cupa all’orizzonte.

«Già… chi l’avrebbe mai detto, che sarei finita a fare squadra con l’Arrampicamuri?»

«Lo considero un onore, io; tu dovresti fare lo stesso!» sorrise lui smagliante, piantandosi un pollice contro il petto, sul piccolo ragno nero che lo decorava.

«È un risvolto interessante, lo ammetto,» non si allargò lei, con un’espressione che sembrò però distendersi di qualche tacca. «E adesso smamma e al lavoro, Spider-Cop: tu pensi ai traffici di Osborn e io a parargli le chiappe dal nostro pazzoide. È ora di entrare davvero in scena… o meglio, dietro le quinte.»

Peter annuì entusiasta, balzando in piedi e sparando subito una ragnatela per slanciarsi fuori di lì, nel buio notturno della sua città.

«Contaci, capo!»
 
 
 
 
 

10 Giugno, Midtown School of Technology, Queens


Cos’era la frenesia? Frenesia era dover affrontare la maturità con la minaccia dei due uomini più potenti di New York a pendergli tra capo e collo.

Adesso che se ne stava rigidamente in piedi sul palchetto rialzato nella palestra scolastica, non riuscì a connettere con chiarezza i puntini che l’avevano portato fin lì con un tocco in testa, una toga addosso e le mani sudate in attesa del proprio altrettanto sudato diploma. La sua mente era altrove e focalizzata su tutt’altro soggetto, come l’obbiettivo difettoso di una macchinetta fotografica – ancora più difettosa perché il focus di tutto era lui.

Lui, che nella vita chiedeva solo di far da sfondo. Anzi, nemmeno: solo di essere un passante tra i tanti in una foto ricordo vacanziera, di quelli che entrano a tradimento nell’inquadratura e rimangono immortalati per sempre lì in un album di famiglia, totalmente ignorati o, al massimo, additati come “quello che è entrato in campo e ha un po’ rovinato la foto”. Non avrebbe chiesto di meglio, in vita sua, se non essere quella macchiolina che si nota e non si nota, ma sulla quale non si spende comunque un pensiero di troppo.

E adesso si ritrovava al centro del palco sia per se stesso che per gli altri – anche fisicamente, con tutta quella fila di studenti che lo precedeva e che si faceva sempre più corta avvicinandolo ai riflettori. A quelli che avrebbe dovuto evitare, perché non era proprio il momento di puntarseli addosso.

Deglutì a fatica, mentre il vociare dell’altoparlante lo assordava e solo due persone lo separavano da quel traguardo rincorso per più anni del necessario, obbligandolo a una rimonta che, forse, non avrebbe nemmeno dovuto intraprendere. Ma non aveva potuto fermarsi, pena il dissolvimento da quella vita appena riconquistata ma non ancora riabbracciata.

E quindi, era scattato al colpo di pistola del via sentito in ritardo e aveva macinato quel distacco a rotta di collo, un voto brillante dopo l’altro, col conto di troppe notti insonni perse su progetti ad accumularsi su altre notti insonni passate ad oscillare per le strade del Queens, con domande d’ammissione compilate in fretta e furia e inviate ai quattro angoli degli Stati Uniti senza soffermarsi troppo sulle distanze. Con l’università che d’un tratto diventava l’ultimo dei suoi problemi, soppresso dal ticchettio di fondo di una bomba ad orologeria terribilmente vicina a scoppiare – tra pochi giorni, tra pochi giorni – e a innescare una serie di esplosioni a catena dalle quali non era certo di poter uscire illeso.

Voltò lo sguardo un po’ sgranato verso il pubblico, sentendosi soffocare dalla cappa di calore della toga. Individuò subito May: in quarta fila esterna, con gli occhi adoranti puntati solo e unicamente su di lui e le mani strette trepidanti al petto. Forse più emozionata di lui, in effetti, o almeno emozionata per i motivi giusti. Incurvò un sorrisetto, un po’ spontaneo nel vederla così, un po’ forzato nel doverlo strappare al caleidoscopio di pensieri che gli girava in testa.

Tony non c’era. Aveva giurato più o meno solennemente di esserci, perché “non poteva perdersi per nessuna ragione al mondo il diploma del suo ragno preferito”, aveva detto mesi fa, in una di quelle rarissime esternazioni d’affetto che ogni tanto si lasciava scappare. A sua discolpa, poi, aveva aggiunto che parlare con Morgan lo confondeva; di non farci troppo caso; che era l’età ad averlo fatto rammollire – e non quei cinque anni, mai quei cinque anni. A ripensarci,
 Peter si sentiva a sua volta confuso, con troppi di quei fili intessuti al cuore che si tendevano in tutte le direzioni.

Gliel’aveva detto da un letto d’ospedale. Praticamente la seconda o terza frase articolata che aveva pronunciato a stento in sua presenza. Con le flebo che gli uscivano dal braccio, una mascherina per l’ossigeno che rendeva la sua voce un filo ovattato e un bendaggio a celare troppo poco i danni irreversibili del Guanto – rosso su nero su grigio. Aveva riso asfittico nel dirglielo, battezzandosi “mummia” di nome e di fatto – aveva riso e stentato una mezza imitazione per Morgan, per strapparle brutti pensieri che non dovevano nemmeno avere occasione per attecchire in lei.

Peter, invece, aveva quasi pianto, perché oltre la risata aveva scorto il dolore fisico e lo sgomento mentale di chi è sopravvissuto e si chiede come. Fino a pochi istanti prima erano stati entrambi riversi nella polvere, sull’uscio schiuso della morte, e adesso si ritrovavano vivi e dilaniati in questo mondo.

Si era trattenuto, sorridendo su uno strato di tristezza, solo perché là dentro c’erano anche Pepper e Morgan, oltre a Iron Man accartocciato su un letto d’ospedale, minuscolo, con addosso una veste a pois che si ostinava a insultare a gran voce – “è terribilmente demodé e oltremodo oscena: datemi qualcosa che almeno mi copra le chiappe!” – per fare baccano e assordare la morte e non sentirla.

Gli si appannò lo sguardo anche ora. Ringraziò che quel velo liquido potesse essere scambiato per commozione, e non per rammarico e delusione nel vedere che quella promessa così lontana non si stava realizzando, per motivi probabilmente del tutto giustificati o che esulavano dalla volontà di Tony.

Lo sperava, e non lo sperava. Nessuna delle due opzioni era davvero meglio dell’altra, ma non ebbe il tempo di rifletterci troppo, che si ritrovò con una pergamena in mano, un applauso nelle orecchie e un sorriso un po’ ebete in faccia.

Era diplomato. Era diplomato ed era ancora su Titano, mezzo cenere, mezzo carne viva. Il suo cuore batteva a singhiozzo per l’emozione, per la paura, per lo smarrimento di non riuscire a concentrarsi su quell’istante che coronava i suoi sforzi e il suo impegno – e metteva fine alla vita normale e guidata dell’anonimo Peter Parker per scaraventarlo in un mondo di decisioni tutte sue.

Riuscì a stento a godersi il momento, mentre stringeva tutte le mani di rito e scendeva poi dal palco per venire soffocato dall’abbraccio di May, con un senso di capogiro crescente nel ritrovarsi nell’atrio, di fronte ai flash del fotografo scolastico. Si sforzò di tenere lo sguardo sull’obbiettivo, l’ennesimo puntato su di lui, con la pergamena stretta in una mano e l’altra gettata attorno alle spalle di un esilarato Ned, che ricambiava il mezzo abbraccio con l’entusiasmo consono a quel giorno.

Un po’ glielo trasmise, corroborandogli le vene e suscitando un pizzico d’orgoglio e felicità anche nel suo petto, perché dopotutto ce l’aveva fatta. Spider-Man o non Spider-Man, fine del mondo o meno.

Alzò per un secondo gli occhi verso May – fiera, raggiante e con un sorriso contagioso che le aveva visto indossare come un gioiello solo nel guardare lui o Ben – e cercò di sorridere a sua volta, nonostante fosse di nuovo al centro di tutto, o forse proprio per quello: per gli sprazzi di normalità che gli erano concessi e ancora dipingevano la sua vita di tanto in tanto, quando essere il fulcro dell’attenzione non era pericoloso e non dipingeva mirini attorno a sé.

Ci riuscì quando, accanto a May, si delineò a sorpresa e con insolita discrezione la figura di Tony Stark: le mani piantate nelle tasche del gessato, l’andatura claudicante e un mezzo sogghigno soddisfatto stampato sul suo volto di solito sempre intento a dissimulare. Gli ammiccò da dietro gli occhiali, senza una parola, per poi sollevare le lenti e scoprire le iridi brillanti; e per quell’istante fu Tony, Tony e basta, con tutto il resto del suo mondo accartocciato e gettato da parte per farsi spazio.

Peter fece lo stesso, sollevando trionfante il pugno aggrappato al suo successo verso lui e May – come Peter Parker. E basta.

Cheese.


 
 

 
18 Giugno, Municipio di New York, Manhattan
 

Peter non aveva mai prestato particolare attenzione al Municipio di New York. D’altronde, le occasioni per bazzicare Manhattan si erano presentate solo da quando aveva iniziato a frequentare la Stark Tower, e se si orientava a menadito nel cuore della Grande Mela era più grazie a Tony che gliene aveva fatto conoscere ogni angolo recondito, che ai suoi sensi di ragno.

Quando il suo mentore si era reso conto che lui, abituato com’era agli edifici in mattoni rossi più contenuti e alle strade più ariose del Queens, era sempre preso da un senso di spaesamento nel trovarsi ai piedi di quei grattacieli monolitici, si era improvvisato guida turistica trascinandoselo dietro da Harlem al Financial District e dall’Upper East all’Upper West Side –  facendogli collateralmente scoprire mille localini etnici in cui rimediare un boccone tra una ronda “fuori sede” e l’altra.

La zona del Municipio, per esempio, la ricordava molto bene per via del chioschetto di enchiladas piazzato nel City Hall Park antistante l’edificio, il quale però aveva lasciato ben poca traccia nella sua memoria, al contrario del sapore infuocato del piatto messicano che aveva privato entrambi del senso del gusto per qualche minuto. Adesso, invece, la costruzione di un bianco accecante sotto il sole di mezzogiorno monopolizzava la sua attenzione per i motivi più sbagliati.

Si rese conto di odiarlo in modo anche abbastanza veemente. Innanzitutto, perché pensare che Osborn avrebbe potuto sedersi nell’ufficio di sindaco gli rivoltava lo stomaco e gli faceva pizzicare il fantasma del morso sul retro del collo; in secondo luogo, perché la sua collocazione spaziale era un incubo, considerando che c’era un potenziale attentato in vista. Non c’erano edifici vicini sui quali appostarsi permettendogli di intervenire tempestivamente, gli alberi del parco gli offrivano un vantaggio troppo esiguo e una distanza troppo ampia e, ciliegina sulla torta, era in campo totalmente aperto a fare la gioia di qualunque cecchino avesse avuto l’idea di piazzarsi sui grattacieli costeggianti Broadway e Park Row.

Peter si morse l’interno della guancia, appollaiato sul suo scomodo trespolo che preannunciava crampi, ovvero l’asta di una bandiera verticale piantata a una decina di metri dalla scalinata d’ingresso. Là sopra era posizionato il podio, ombreggiato dal portico colonnato. La stoffa a stelle e strisce sventolava pigra appena sotto di lui, ostruendogli di tanto in tanto la visuale, ma era il punto d’osservazione migliore che avesse trovato, a meno di mischiarsi alla piccola folla accalcata oltre le barriere di contenimento.

Spostò appena il peso sul suo appoggio, coi piedi aderenti al pomello d’ottone e gli avambracci abbandonati mollemente sulle ginocchia, e il suo costume sfrigolò sommessamente, facendo tremolare l’aria a ricordargli che la modalità mimetica funzionava solo se rimaneva perfettamente immobile. Sospirò tra sé, avviando il secondo giro di ricognizione e lasciando spaziare lo sguardo sui dintorni con un fremito d’impazienza a fargli formicolare i nervi.

Le due camionette della polizia avevano appena finito di schierare i propri agenti e la volante si era spostata di qualche metro per avere più copertura. La fiumana che affluiva alla piazza dai cancelli laterali sembrava interminabile e lo costrinse a usare tutta la sua concentrazione per scannerizzare ogni singolo volto in cerca di potenziali attentatori.

Si chiese perché mai la gente avesse tanta voglia di sentir blaterare per un
ora quel narcisista di Osborn. O Campbell, piuttosto: quello l’avrebbe capito ancora meno. Vi erano due stendardi appesi ai terrazzi del Municipio, uno per ciascun candidato, con le rispettive gigantografie in pose plastiche che sarebbero state più adatte a un Capitan America d’epoca, che a un semplice sindaco.

Scosse la testa tra sé, mentre un venticello leggero portava con sé la scia dell’Hudson e un costante strombazzare di clacson arrivava sin lì dal Ponte di Brooklyn. Perlustrò il parco senza voltarsi sfruttando le telecamere di Karen, senza rilevare alcuna minaccia o attività sospetta, né alcun tipo losco fortuitamente individuabile.

Il chioschetto di enchiladas era ancora lì: chiuso, e le serrande arrugginite e coperte di graffiti stinti lasciavano intuire che lo fosse da molto. Anche il parco aveva un che di alieno, con la vegetazione cresciuta senza controllo a malapena rimessa in riga in vista del discorso e un paio di alberi caduti da chissà quanto ancora recintati da bande rosse e bianche. Distolse lo sguardo da quelle sbavature che si aggiungevano alle mille altre della città, ricordando a tutti loro che erano tornati l’esistenza tangibile di quei cinque anni.

Si morse di nuovo la guancia, rischiando stavolta di spillare sangue, e si costrinse a rilassare la mandibola e a smetterla di digrignare i denti. Non era il primo appostamento che faceva. Ma, al contrario di tutti gli altri, qui sapeva perfettamente cosa aspettarsi. Ed era fin troppo consapevole che, se il peggio fosse davvero accaduto, non era certo lui il supereroe più adatto a limitare i danni, nonostante si fosse preparato a tutti i possibili scenari catastrofici. Erano i momenti in cui l'Iron-Spider quasi gli mancava... ma non abbastanza da convincersi a indossarlo.

«Peter, c’è il Capitano Watanabe in linea.»

Peter trattenne un sussulto persino nel sentire la voce pacata di Karen, e deglutì amaro.

«Passamela e tieni aperta la comunicazione.»

«Spider-Man, sei in posizione?»

Escluse la voce di Yuri direttamente nel suo orecchio, ricercandola all’esterno, e la individuò nel giro di pochi istanti: era poggiata a una balaustra laterale appena dietro le barriere di sicurezza, con l’onnipresente giacchetto di pelle addosso e una spalla a reggere il telefono mentre trafficava con le fondine.

«Ovvio, anche se non mi vedi non vuol dire che non ci sia. Vuoi giocare a “trova Spider-Man”? È tipo “trova Wally”, ma più difficile,» sorrise lui, forzato, mentre lei sbuffava in silenzio facendo però scattare lo sguardo qua e là alla sua ricerca. «Problemi logistici, capo?» chiese poi, nel vederla strattonare una fibbia poco collaborativa e facendole capire definitivamente che poteva vederla – e la vide anche alzare gli occhi al cielo a quella realizzazione.

«Questo posto è un problema logistico

«Già, chi l’ha progettato doveva avere molta poca simpatia per il sindaco dell’epoca.»

«È un invito a nozze per i cecchini. Tieni gli occhi aperti: abbiamo un paio dei nostri tiratori sui tetti, ma sei la nostra visuale aerea

«Ricevuto,» rispose pronto, senza sentirsi affatto tale.

Ingollò una boccata d’aria, col peso di quell’ennesima responsabilità in mezzo alle scapole. E con le riflessioni di quei giorni che tornavano a girare in circolo, pur coi sensi sempre all’erta che monitoravano i dintorni in automatico. Non lo avrebbe mai ammesso, ma la parentesi di assoluta normalità che aveva portato con sé la fine della scuola gli aveva arieggiato i pensieri chiusi troppo a lungo nello sgabuzzino della mente. Più che pensieri, il diritto di non averne – la spensieratezza, seppure effimera, che seguiva un successo.

Un piccione gli sfiora il capo, il vento vira da ovest a sud, il gorgoglio di un tombino risale tre strade più in là.

La cena di festeggiamento al thailandese con May e il resto della sua famiglia acquisita era stato uno sprazzo arancione per una volta privo di tinte cupe, ed era andata a incastrarsi dentro di lui assieme ai tasselli per metà in ombra e per metà illuminati che formavano il suo piccolo mosaico personale dei momenti indimenticabili. E subito dopo se n’era aggiunto un altro, non appena aveva messo piede fuori dalla porta del ristorante, nella sera newyorkese punteggiata di lampioni: un tassello tinto d’inchiostro nel realizzare che la città, là fuori, era solo addormentata. Dormiva il sonno di un vulcano assopito e pronto a eruttare, mentre l’attesa strisciava tra i palazzi in viticci infestanti, ricordandogli che quei momenti di spensieratezza non erano altro che, appunto, momenti.

Profumo di ciambelle, le ruote di un monopattino sul lastricato, la volante si sposta di qualche metro con un lampeggiare rosso-blu, i flutti dell’Hudson sciabordano contro un battello.

E anche in seguito se li era goduti quanto più possibile, quei momenti, tra una ronda frenetica e l’altra, tallonato dall’attesa per il giorno fatidico e divorato dall’impellenza di parlare con tutti e con nessuno. Di bruciare quella foto e tutti i collegamenti che tracciava – con la Oscorp, quella maledetta Oscorp che sembrava non aver mai ritratto gli artigli da lui – e riappropriarsi della propria identità, di entrambe. Di chiedere aiuto per quella missione solitaria che aveva troppe matasse da districare e troppi vicoli ciechi in cui rimanere intrappolato.

Avrebbe dovuto parlarne con Tony. Lo sapeva. Avrebbe dovuto, e non voleva. No, non poteva: Tony non era più Iron Man. Lo aveva realizzato quel giorno nel suo ufficio alla Tower, dopo quella discussione in cui aveva dimostrato di saperne indossare ancora la maschera, ma non l’armatura. Era ancora Iron Man nel cuore, e lo sarebbe sempre stato anche per lui… ma non lo era nel fisico e nella mente. Coinvolgerlo in quell’operazione non significava avere Iron Man al proprio fianco che combatteva con lui, ma Tony nelle retrovie che combatteva contro ansia e tachicardia e un corpo rotto. Sapeva anche questo, ma non lo rendeva più facile da accettare.

La bandiera frusta il vento con uno schiocco, uno scalpiccio di passi attraversa il colonnato, Yuri toglie e rimette la sicura dell’arma, l’aria gli preme addosso, compatta.

Si odiava per quei pensieri che gli sembravano inutilmente crudeli, ma intuiva che Tony avesse preso coscienza di quel fatto nel momento stesso in cui aveva riaperto gli occhi in un letto d’ospedale con metà corpo quasi carbonizzata. Era troppo intelligente per non averlo realizzato e abbastanza folle e orgoglioso da ignorarlo. Si somigliavano troppo, a volte, e a volte talmente poco che gli veniva da chiedersi come facessero a sopportarsi, o a non…

Una schicchera elettrica gli fa scintillare le sinapsi.

Puntò di scatto gli occhi verso il palco: Osborn aveva preso posto dietro al leggio, ben riconoscibile mentre era intento a salutare la folla esplosa in un’ovazione. Lo fece in modo affettato, viscido, con un palmo appena alzato in una posa quasi statuaria. Lo ricordava così anche quel giorno lontano alla Oscorp, quando aveva accolto la loro scolaresca in gita parlando della propria azienda, nello sguardo l’esaltazione di chi è cieco ad ogni difetto quando si guardava allo specchio. Era rimasto immutato, coi capelli rossicci ben pettinati e appena screziati da qualche filo grigio, il sorriso troppo ampio e gli occhi così chiari da apparire vitrei.

«In campana, Spider-Cop,» gli arrivò con un gracchiare di statico.

Mormorò un assenso. Era in campana, certo, su un campanile con tonnellate di bronzo – di cemento – sopra di lui pronte a riverberare al rintocco in arrivo. Percepì il senso di ragno contorcersi, espandersi e ritirarsi in pulsazioni ritmiche. Gli sfrigolava sottopelle, a mezza via tra vene e nervi, gli apriva i pori immettendogli in circolo l’essenza di ciò che lo circondava, filtrandola ad ogni respiro nel tentativo di catturare il pericolo tra le sue maglie.

Sentì chiaramente un nichelino che cadeva sul marciapiede della Broadway, un “taxi!” gridato sul lungofiume… e al contempo non li sentì: rimasero vibrazioni impercettibili sul suo sismografo ben tarato. Si era allenato notti intere per ricalibrarlo, nei vicoli e sui tetti più bui di Hell’s Kitchen, e non si era mai sentito così uno col mondo e al contempo consapevole di se stesso. Come diceva Matt? Doveva vedere il mondo e le sensazioni che gli inviava come il suo parco giochi personale: e lui non doveva fare altro che sfruttarlo a suo piacimento.

Si sentì pronto, per la prima volta in tutti quei mesi. Innestò un pensiero dentro di sé, se lo incastonò sotto lo sterno a dargli energia. Forza, Spider-Man.
 
 
 
 
«Cari concittadini!» esordì Osborn, stirando un altro sorriso da rivista patinata. «Carissimi concittadini, sono lusingato nel vedervi così numerosi e vi ringrazio per essere qui oggi, dimostrando così di avere a cuore la nostra splendida città e il suo futuro. Come sapete, il mio sguardo è sempre stato rivolto al futuro in quanto scienziato, e adesso mi trovo a farlo anche come politico. E come politico e scienziato, dico che il futuro va costruito su fondamenta solide, fondamenta che ho intenzione di progettare io stesso assieme a voi e grazie a voi, così da rendere il domani a portata di mano.»

Peter aggrottò le sopracciglia sotto la maschera, storcendo appena la bocca a quelle parole pompose. Il futuro, a lui, sembrava un qualcosa da tenere a bada piuttosto che un orizzonte da raggiungere. In realtà, non riteneva nemmeno così importante farlo. Osborn ne parlava alla stregua di un qualcosa di tangibile che avrebbe voluto afferrare lui stesso con le proprie mani, usando come trampolino di lancio tutti coloro disposti a sostenerlo… e incurante di chi avrebbe schiacciato.

Era un concetto spigoloso che proiettava ombre aguzze, non importava da che lato lo guardasse, e trovava molto più a misura d’uomo quello propugnato da Tony, nonostante venisse chiamato proprio “Il Futurista”. Un giorno, prima dei cinque anni, gli aveva confessato di detestare quel titolo. Il futuro sta bene dove sta, gli aveva detto in laboratorio, quasi seccato, Quel che conta è il retaggio. Che è sempre il futuro, in effetti, ma quello che non potrai mai vedere: lo carichi  per anni e poi lo lanci davanti a te, oltre l’orizzonte. Puff, sparito, un fuoricampo. Una gran bella fregatura... ma ne vale la pena.

«… e come potrei non avere a cuore il futuro di New York? Mia moglie, in particolare, ha amato profondamente questa città. Ha combattuto con tutte le sue forze per vederla splendere, gestendo molteplici progetti di ricerca e tutela ambientale. Lei si è ormai spenta, ma non il suo sogno: ed è per questo che, nel mio programma, figura il finanziamento e il ripristino di molti di quei progetti ecologici rimasti finora orfani…»

Peter sbuffò tra sé a quella definizione: aveva un bel coraggio a definirli “orfani”, quando persino i sassi sapevano che quei finanziamenti erano stati prontamente dirottati nelle ricerche vere e proprie della Oscorp, che avevano ben poco a che vedere con gli intenti ambientalisti della moglie. Ragni radioattivi, per esempio. Un prodigio della scienza, davvero. O l’ingaggio della Sable. Già, ce li vedeva bene dei soldati-Robocop come spazzini volontari a Central Park.

«… anche se di questa parte del programma si occuperà in prima persona mio figlio Harry, che vi è sicuramente più legato… ma non vorrei cadere nel cliché comune a tutti i padri e finire fuori tema!» rise Osborn, in modo latrante che suscitò però una pronta risposta dai suoi sostenitori.

Peter decise che ne aveva abbastanza per turarsi selettivamente le orecchie evitandosi di sentirlo anche tessere le lodi del figlio prodigio. Escluse del tutto quella cantilena di banalità e lusinghe vomitevoli. Si ricordò per chi fosse lì: per la gente, ignara, che sarebbe rimasta coinvolta nel fuoco incrociato di una guerra che non sapeva nemmeno di combattere. Distolse lo sguardo da Norman, lasciandolo viaggiare a zig-zag sui dintorni senza incontrare alcun ostacolo che lo impallinasse. Tese ogni muscolo del proprio corpo, sempre più ad ogni linea di discorso trito pronunciata da Osborn.

Adesso, da un momento all’altro. Adesso.

Da un momento all’altro. Gli bruciò il senso di ragno, come se lo stesse sforzando troppo, o come se stesse facendo troppo attrito rischiando d’incendiarsi.

Adesso? 

Le sensazioni divennero quasi dolorose, ma mantenne il controllo. Da un momento all’altro…

«… grazie per la vostra attenzione, cari concittadini, e… vi aspetto alle urne!»

L’applauso gli scrosciò contro i timpani, con ogni singolo battito di mani ben distinguibile quando rimbalzava sulla membrana tesa allo spasmo. Si preparò allo scatto, col fiato che gli si addensava in bocca e le dita che gli tremavano sugli spara-ragnatele. Osborn face un ultimo cenno di saluto alla folla – si girò di profilo, offrì un bersaglio perfetto da tirassegno.

Applausi, applausi, applausi, un fischio acuto, un’ovazione di cento voci, una marea che cresce e defluisce senza onde anomale.

Voltò le spalle al suo pubblico – adesso, adesso, adesso – si addentrò nell’ombra del colonnato e sparì oltre la barriera della propria scorta. Lo intravedeva tra il marmo, lontano da bombe e cecchini, protetto dagli agenti di Yuri. Fuori pericolo.

Il battito di silenzio che seguì sembrò espandersi per tutta New York, per poi concentrarsi in un sibilo acuto e attorcigliato nelle sue orecchie. Nulla.

Campbell prese posto sul podio prima occupato da Osborn e si lanciò nel suo poco avvincente discorso. Parte della folla si disperse, disinteressata, solo qualche capannello rimase ad ascoltare il candidato sfavorito – qualcuno troppo educato per andar via, qualche spettatore pagato, pochi sinceri interessati e qualche fedelissimo. Sentì lo statico della comunicazione radio con Yuri, ma lei non parlò, e in quell’assenza di commenti sentì tutto il suo sconcertato sollievo.

«No, non l’hai sognato,» interloquì, rilassandosi una cauta tacca alla volta, sempre tenendo su giri il senso di ragno che continuava a girare a vuoto.

«Stavo per chiedertelo. Tra i tuoi poteri non figura la telepatia, spero.»

«No… ancora no, ma potrei chiedere qualche lezione, se può servire a rendermi più simpatico. Perché ti sto già simpatico, giusto?»

«Sbagliato. Al massimo ti tollero, Spider-Cop.»

Peter si lasciò andare a una risatina, un’esalazione leggera che gli tolse uno strato di metallo solido di dosso. Era bello, respirare, pensò con una contrazione ai polmoni.

«Wow, è, tipo, la cosa più carina che tu mi abbia mai detto.»

La udì sbuffare, e captò il sollievo anche in lei, sebbene altrettanto fievole e stemperato dalle successive parole:

«Non montarti la testa. E, soprattutto, non abbassiamo ancora la guardia: potrebbe essere un diversivo. Osborn dovrà comunque fare le foto di rito dopo il discorso di Campbell, non cantiamo ancora vittoria.»

Peter emise un sonoro sbuffo, impegnandosi per renderlo il più infantile possibile.

«Magari il tuo superpotere è il pessimismo, ci hai mai pensato?»

Yuri non rispose, ma la udì comunque sospirare anche a quella distanza, cosa che gli strappò un sorrisetto di breve durata. Il fatto che il loro lupo solitario non avesse colto l’occasione per colpire Osborn era sicuramente un bene, ma… ciò significava che avevano anche perso la loro finestra d’opportunità per svelare gli intrighi sotterranei di Kingpin. La cui marionetta, piazzata su quel palchetto assolato, pareva sbeffeggiarli mentre blaterava a vuoto promesse elettorali irrealizzabili e pagate coi soldi del crimine.

Peter reclinò all’indietro la testa, scrocchiandosi il collo indolenzito, per poi accigliarsi senza capire perché e sintonizzarsi in automatico sulle idiozie sparate dal candidato più fantoccio che avesse mai visto.

«… ed è per questo che la promozione del FEAST e di associazioni di volontariato affini è uno dei fulcri del mio programma!» stava annunciando Campbell, con un ampio gesto in direzione di un uomo in completo nero che stava giusto salendo sul palco.

Peter, già abbastanza sgomento per la menzione del FEAST, sbarrò gli occhi. Riconobbe il signor Li che, sorridendo, strinse energico la mano paffuta di Campbell. Ecco, quello era decisamente un fuori programma. Fisk che promuoveva associazioni di beneficenza? Era conscio che dovesse mantenere una facciata da filantropo, ma credeva ci fosse un limite all’ipocrisia, e poi… proprio il FEAST. Perché proprio il…

Una cascata gelida gli scivolò a tradimento lungo la schiena, azzannandolo alla nuca e facendolo sobbalzare e tremolare nel trovarsi davanti agli occhi l’anello di collegamento che aveva cercato per un mese intero.

Fisk, che aveva le mani in pasta anche lì, così vicino a lui, che sfiorava la sua vita da chissà quanto. Così vicino a May. E il signor Li che, ignaro, o forse solo preoccupato di garantire fondi alla struttura, era entrato a testa bassa nella tana del leone, fornendo a Kingpin lo spioncino perfetto su un certo adolescente impacciato e strambo che aveva la fortuna di fare un tirocinio alle Stark Industries e di poter chiedere a Spider-Man di rallegrare le serate di beneficenza.

Quanto poteva essere stato complesso fare due più due, considerando i mezzi di cui disponeva un lord del crimine? Quanto era stato ingenuo lui, per esporsi così tanto?

Il senso di ragno gli inviò una scossa violenta lungo gli arti, e chiuse gli occhi a scacciarla: no, non di nuovo. Non poteva andare in tilt anche adesso, non poteva…

Un’altra scossa, più forte. Più mirata. Incanalata in tre punti precisi, che gli brillarono dietro le retine come quelli di un radar – uno fisso, due lampeggianti – pericolo.

Spalancò gli occhi: il mondo riacquistò senso e lo perse nello stesso secondo. Agì prima ancora di poter elaborare l’impulso nervoso che gli era arrivato, con gli occhi che registravano passivamente forme e colori privi di logica: tra la piccola folla uniforme, spiccavano due chiazze bianco-nere, brucianti, sbagliate. Dei negativi di quelle che avrebbero dovuto essere normali persone, ora dipinte di un bianco abbacinante e di un nero senza fondo, ritagliate da un fotografo e male incollate sopra una foto a colori. Il principio di un grido incrinò il silenzio.

Non pensò a nulla di ciò che stava facendo: balzò verso l’alto dal suo trespolo, infrangendo il mimetismo, lanciò le ragnatele su quelle due anomalie – che pulsavano, raccoglievano energia devastante che ribolliva sotto pressione pronta a esplodere – e le trasse verso l’alto come pesci presi all’amo per poi scagliarle lontano con una mezza rotazione, a impattare sul lastricato nell’angolo più vuoto della piazza. In quella frazione di secondo sospesa a mezz’aria, sparò una scarica di ragnatele contro di loro – di quelle modificate per attutire le esplosioni, su cui aveva appositamente speso notti insonni nelle ultime settimane.

Atterrò con un tonfo leggero, piegandosi su un ginocchio e su una mano, una gamba tesa dietro di lui, mentre gente impazzita prendeva a correre ovunque attorno a lui, smarrita, confusa, in una reazione a catena istintiva di mandria calpestante presa dal panico. Si slanciò con una capriola verso il palco, verso il terzo punto ora lampeggiante, pregando di essere in tempo.

Lo vide con un inciampo nel respiro: Martin Li, anche lui trasformato in quella versione da incubo di un negativo fotografico, coi lineamenti inghiottiti dal nero e gli occhi impossibilmente bianchi e brucianti d’ira fissi su di lui. Pulsava di energia pronta a divampare. Sentì due scoppi attutiti e smorzati dietro di lui, seguiti da urla impaurite, pestare di piedi in fuga e uno sparo a culminare il tutto.

Non capì, e pur non capendo sparò le ragnatele oltre Campbell che indietreggiava terrorizzato, oltre i tre poliziotti che impugnavano le pistole, oltre quello che si stava gettando addosso a Li, verso quella bomba umana innescata che doveva assolutamente fermare.

Non colpirono mai il bersaglio: l’esplosione le spazzò via e scaraventò lontano anche lui, precipitandolo nel buio.



 
Note:
[1] Yuri ha origini giapponesi, pur essendo nata a New York; essendo per cultura piuttosto tradizionalisti ho voluto lasciarle il modo di contare “all’orientale”, ovvero partendo dal mignolo e risalendo verso il pollice.
[2] Piccolo easter egg relativo ai fumetti, in cui Yuriko Watanabe è Wraith (Spettro), un vigilante di New York.


Note Dell'Autrice:

Cari Lett– NO POSATE TORCE E FORCONI! *fugge nella notte*
Se non si fosse capito, sì, mi piacciono i cliffhanger! :D Però non odiatemi, non aggiornerò tra sette secoli come al solito, giuro <3

Chi ha giocato il videogioco di Spider-Man per PS4 aveva probabilmente già mangiato la foglia riguardo a Martin Li e la sua "condizione", e anche la scena finale sarà risultata familiare, nonostante l'abbia riarrangiata e adattata al nuovo contesto... e ciò che segue si discosta a sua volta dalla trama del gioco, seguendo binari indipendenti che manterrò top-secret <3 Non mi dilungo in ulteriori spiegazioni, in quanto tutto (incluso il marasma finale volutamente non chiaro) verrà ampiamente approfondito nel prossimo capitolo. Che spero vi sorprenderà, sin dalle prime righe :D
Ringrazio di cuore tutti, ma proprio tutti coloro che hanno commentato, letto e/o aggiunto la storia alle loro liste finora <3 Un grazie particolare alla mia Guascosa
Miryel, che supporta sin dagli albori questa storia e mi dà sempre la carica per scriverla al meglio (oltre a dimostrare straordinare doti telepatiche e amore condiviso per le cazzate tristi). Grazie, Guasco' <3

Alla prossima, spero a prestissimo,

-Light-

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Capitolo 9
*** Zona negativa ***


Alla mia Guascosa Miryel, lei sa perché 

Spider-Man: Back In Black





§



Capitolo VIII
 
Zona negativa
 
 
“One thousand miles away
There's nothing left to say
But so much left that I don't know
We never had a choice
This world is too much noise
It takes me under
It takes me under once again

 [Savior – Rise Against]



 
Era immerso nel buio.

O almeno, così pensò Peter nei primi istanti di coscienza dopo il contraccolpo, quando gli riuscì di scollare le palpebre doloranti: gli bruciavano gli occhi, terribilmente – che gli fosse finita qualche scheggia in volto? O magari era stato il calore dell’esplosione, o lo spostamento d’aria, o chissà cos’altro – e dovette sbattere più volte le ciglia per scacciare l’oscurità dell’incoscienza dalle retine.

Solo che quella non sparì. Anzi, si addensò, diventando viscosa. Quasi tangibile.

Richiuse per un istante gli occhi, strizzandoli a forza dietro la maschera e guadagnando percezione del proprio corpo adagiato su una superficie dura, marmorea – i gradini del Municipio, riconobbe a tentoni trovando il vuoto sotto un palmo mentre si raddrizzava a sedere – e poi lo colpì anche un pizzicore di spilli su tutto il corpo attraverso la fibra sottile del costume. L’aria calda gli sfiorava con più insistenza la bocca e il lato destro della mandibola, e percepì solo allora i margini slabbrati della maschera, lacerata a lasciar scoperta una porzione del mento.

Il mondo tambureggiava attorno a lui a ritmo dei suoi stessi battiti sincopati, col fragore di una tempesta che cresce d’intensità tra nubi massicce e plumbee.

Riaprì di scatto gli occhi, con una vampa d’energia che gli risalì le vene nel realizzare di essere a terra, allo scoperto, vulnerabile, e di nuovo incontrò il buio. Non un buio totale, comprese infine, guardandosi stralunato attorno: linee bianche e luminescenti su fondo nero dipingevano uno scenario privo di colori, ma reale. Un negativo del mondo.

Non ebbe modo di metabolizzarne la visione: fece appena in tempo a sentire la schicchera inviatagli dal senso di ragno, che era già balzato verso l’alto con una mezza capriola, schivando per un soffio il getto d’energia di un bianco accecante che si abbatté nel punto in cui giaceva fino a un istante prima. Si attaccò con mani e piedi al muro del Municipio – un negativo del Municipio – rincorrendo subito con gli occhi la direzione del getto, e impietrì, mentre un puzzle incompleto andava a incastrarsi a forza davanti ai suoi occhi.

Martin Li, a malapena riconoscibile in quella versione da incubo, torreggiava in cima alla breve scalinata, con masse bianche e nere che gli roteavano attorno, simili alle correnti di ruscelli agitati. Sembrava controllarle col pensiero, o forse erano estensioni del suo corpo: non avrebbe saputo dirlo con esattezza, sapeva solo che erano pericolose, e che doveva evitarle e fermare Li. Due obbiettivi lineari il cui compimento non lo era affatto, soprattutto non con quella che sembrava una commozione cerebrale a premergli tra cervello e cranio.

Il tempo continuava a scorrere in quel modo surreale di quando si trovava nel pieno dell’azione, dove un secondo sembrava espandersi in minuti interi e poi dimezzarsi, e assorbì lo tsunami d’informazioni che il suo senso di ragno registrò nel millisecondo di stasi in cui si trovava: dei corpi riversi a terra ai piedi di Li, una macchia di inchiostro luminescente – e quindi carbonizzata, in quello che doveva essere il mondo reale – nel punto in cui erano esplosi i suoi complici, una folla terrorizzata che fuggiva via calpestandosi a vicenda e…

Peter schivò il secondo colpò, schizzando via come una molla dalla parete per atterrare direttamente davanti a Li – ed era indiscutibilmente lui, anche con quei lineamenti accecanti e simili a una maschera oscura. Boccheggiò sotto la propria, di maschera, incapace di raccordare l’immagine del collaboratore e capo di sua zia, amabile, cordiale e umile, con quella di cacofonica e sfolgorante follia che aveva appena ucciso a sangue freddo delle persone. Deglutì un bolo di segatura fresca: ai suoi piedi, la sagoma massiccia di Campbell era immobile, così come quella del poliziotto; gli altri due si contorcevano debolmente sul posto, investiti dal raggio dell’esplosione, ma non in modo letale.

Sentì la rabbia arrivargli direttamente ai pugni in una cascata lavica e mirò una ragnatela immobilizzante a Li, che si limitò a intercettarla con i flussi d’energia che lo attorniavano. Non sembrava nemmeno concentrato totalmente su di lui: scandagliava con le pupille opalescenti i dintorni, come se stesse cercando qualcosa, o qualcuno. La seconda ragnatela lo raggiunse in pieno volto, e fu gettata da parte con la stessa semplicità con cui si scaccia un insetto molesto. Qualunque cosa stesse cercando Li, Peter non aveva alcuna intenzione di lasciargliela trovare.

«Ehi, signor Rullino Fotografico Pazzoide! Cercavi me?» lo aizzò, sforzandosi quanto più possibile di camuffare la voce e facendosi quasi sfuggire dalle labbra un “signor Li
”.

Non doveva riconoscerlo, e se già lo conosceva – il collage forse non più così anonimo gli balenò sul fondo degli occhi – era di vitale importanza che non gli desse modo di rivelarlo. Con sua sorpresa, non gli si scagliò di nuovo addosso, né si lanciò in deliri d’onnipotenza o risate disturbanti come molti dei super-schizzati con cui aveva avuto a ridire amavano fare: si limitò a fissarlo negli occhi… e, sì, ebbe la netta intenzione che sapesse con assoluta certezza chi avesse davanti. O forse la paranoia di Tony stava attecchendo.

«Fatti da parte, Spider-Man. Non è la tua battaglia, anche se ne sei anche tu una vittima.»

Cosa? Erano già arrivati al punto in cui cercava di convincerlo che la sua fosse una causa giusta? E che diamine intendeva con vittima?

La sua risposta fu una ragnatela-shock che non raggiunse il bersaglio e finì a sfrigolare pochi metri più dietro, deviata dal campo d'energia. Nella visione periferica, acuita dal senso di ragno, percepì un formicolio di puntini in avvicinamento, presumibilmente la polizia. Male. Doveva risolvere in fretta la questione, prima che venissero coinvolti degli innocenti. I suoi occhi corsero ai corpi riversi a terra e a uno dei poliziotti che tentava di trascinarsi via dallo scontro, una mano a stringersi la gamba che lasciava una scia più chiara, rilucente e viscosa sul nero dei gradini. Altri innocenti.

Spiccò il balzo e lo avvitò a mezz’aria, evitando per un soffio l’ennesimo raggio di materiale non identificabile, ma che era più che certo l’avrebbe ferito gravemente se l’avesse centrato. Avvertì la pelle d’oca rizzarsi sotto il costume nel punto in cui lo sfiorò, incandescente, o forse così freddo da essere ustionante. Atterrò a piedi uniti direttamente sul petto di Lì e lo fece barcollare all’indietro, dandosi al contempo una spinta verso l’alto per superarlo: atterrò dietro di lui con una capriola, spalle contro spalle, e lo afferrò per il collo un attimo prima di toccare il suolo, sfruttando lo slancio per scaraventarlo davanti a sé. Fece partire di nuovo le ragnatele-shock e stavolta lo colpì in pieno, facendolo contorcere per qualche istante nell’elettricità.

Una forza devastante gli mozzò il respiro: due getti di energia, uno oscuro e vorticante, l’altro fluido e lattiginoso, lo investirono in pieno, lanciati dal palmo aperto di Li. Sopra e sotto, già così difficili da distinguere in quel mondo negativo, si confusero quando capitombolò per terra, riacquistando l’equilibrio solo dopo un rotolamento scomposto.

Quando rialzò lo sguardo, Li non era più in vista: lo individuò solo grazie a un pizzicore acuto delle sinapsi, che si fece quasi doloroso nel ricomporre la scena davanti ai suoi occhi: dal Municipio sbucò un capannello di poliziotti in rapido movimento, al centro del quale avanzava Osborn, malfermo sulle gambe. Martin Li, un lampo nero e bianco che lasciava dietro di sé scariche negative, si stava dirigendo a rotta di collo proprio verso di lui, come se avesse fiutato e puntato una preda.

Il trillo d’allarme divenne una sirena antiaereo che gli lacerò i timpani. Di nuovo, scattò senza ricordare di aver ordinato al proprio corpo di farlo, sulla scia di quello che fino a poco più di un minuto prima non avrebbe mai pensato di poter affrontare come nemico, tantomeno potenziato.

Superò i corpi riversi sul mattonato, registrandoli come macchie sbiadite e fluorescenti, con un punteruolo che gli si piantò a fondo nello stomaco. Fu questione di un battito di ciglia: Martin Li si scagliò contro Osborn e, pochi, pochissimi millimetri prima che potesse mettere a segno un colpo fatale, Peter riuscì ad arpionarlo per le spalle con un getto di ragnatele, arrestando il suo impeto come un cane preso al guinzaglio.

Piantò i talloni a terra e tirò con tutte le sue forze, tanto da incrinare i mattoni per la pressione, e scaraventò Li dietro di sé, contro un pilastro del colonnato che quasi cedette sotto la potenza dell’urto. Non regolò minimamente lo slancio: agì e basta, senza inibire le energie in surplus che gli danzavano dentro, e seppe che, se Li fosse stato un normale essere umano, l'avrebbe ucciso sul colpo.

Vi fu un singolo istante sospeso in cui incontrò gli occhi sbarrati di Osborn, con le mani ancora alzate a proteggersi il volto distorto in un’espressione sgomenta. Peter quasi si sentì senza maschera, come se Norman Osborn avesse davvero potuto ricordarsi di quel quattordicenne goffo e impacciato che così tanti anni prima era stato in gita ai suoi laboratori, in un giorno che aveva cambiato la sua vita per sempre, assieme a quella di migliaia di altre persone.

Poi si voltò di scatto, tornando al bersaglio coi muscoli che pulsavano non per il dolore, ma per le frenetiche scariche di adrenalina che sembravano chiedere altra azione, impedendo al proprio corpo di fermarsi. Coprì con due falcate più simili a balzi la distanza tra lui e Martin Li, accompagnandovi una ragnatela-shock che lo colpì in pieno petto, troncando il suo tentativo di alzarsi. Il mondo in negativo sfarfallò come un neon difettoso, mostrando i propri veri colori, per poi lampeggiare in uno staccato più lento, psichedelico. Li, riverso a terra e stordito dalla corrente ad alto voltaggio, fece un ultimo, disperato tentativo di alzarsi, mentre cercava chiaramente di mantenere la presa su quel mondo parallelo e negativo che scaturiva dalla sua volontà.

«Fermo! È finita, non muoverti!» gridò senza voce Peter, bloccandogli le mani contro la colonna con due ragnatele ben piazzate, ma lui le liberò senza apparente sforzo con una semplice torsione dei polsi, e fu costretto a lanciarne altre, stavolta in forma di corde per trattenerlo, e fu come tentare di domare il pennone di una nave in tempesta.

Vi fece leva, dando inizio a un tiro alla fune che non aveva nulla di giocoso, fino ad accorciare le distanze e ritrovarsi faccia a faccia con Li, stordito, incapace di reagire, ma ancora combattivo e in grado di mantenere in piedi il suo mondo negativo, seppur traballante. I suoi occhi bianchi e traslucidi, privi di pupilla, si piantarono nei suoi, come se riuscisse a vederli oltre quelli della maschera. E poi sorrise, un sorriso distorto e privo di gioia che sembrò scavargli dentro.

«Sei davvero così convinto che la Oscorp ti abbia fatto un regalo, Spider-Man?» bisbigliò, con voce che sembrava provenire da un altoparlante rotto e riverberante. «Così tanto da voler difendere Osborn?»

«Non l’ho mai pensato!» si ritrovò a gridare, senza lasciare la presa dalle ragnatele e torcendole in un moto istintivo che costrinse Li ad accasciarsi.

Il collage di foto balenò dinanzi ai suoi occhi, coi tasselli alla rinfusa che si riaffastellavano in un ordine logico, con quelle linee di collegamento tra l’insospettabile Peter Parker e il colosso scientifico che diventavano più nette. Sentì la gola che diventava di carta vetrata alla realizzazione che, , era stato quasi sicuramente l'uomo di fronte a lui ad assemblare quella mappa, e ad assicurarsi che venisse rinvenuta. Ma perché?

Martin Li mise su un sorriso inaspettatamente più umano, che smorzò i suoi lineamenti disegnati da linee evanescenti sempre più deboli. Per un momento ebbe l’impressione di fissare il bonario signor Li, e non un supercriminale che aveva appena ucciso persone innocenti.

«Non siamo poi tanto diversi. Forse, siamo persino dalla stessa parte, Peter

Lui annaspò aria caustica, per poi dare uno strattone frutto del panico alle ragnatele, abbattendolo a terra: Li nom oppose resistenza ma, nell’istante in cui impattava con forza la testa contro il marmo, gli scagliò addosso un’ultima, potente onda di energia. Fu sbalzato all’indietro, con le ragnatele che si sganciarono in automatico per evitargli fratture, e colse un ultimo flash di mondo negativo che gli oscurò la visuale, facendolo atterrare carponi invece che in equilibrio sulle punte di mani e piedi come stava tentando di fare.

Il mondo tornò a colorarsi: il bianco del Municipio, il verde del parco, il rosso-blu del suo costume, l'azzurro del cielo stracciato da rade nubi. Batté le palpebre, facendole svolazzare come ali di un uccellino impaurito, con le retine ferite che lamentarono quel drastico cambio di tonalità. E distinse qualcosa, qualcuno, che per un momento gli fece credere di essere ancora intrappolato in quel mondo adimensionale in bianco e nero: uomini, una dozzina, vestiti di un bianco accecante se non per i caschi integrali neri che indossavano e i fucili altrettanto scuri puntati verso Martin Li. E verso di lui.

Il senso di ragno emise un debole scoppiettio tardivo, a informarlo di quella che, a tutti gli effetti, sembrava l’ennesima minaccia, ma non riuscì a cogliere in tempo quell’opportunità di fuga, troppo intontito dallo scontro – e dalle foto, dai lampi di arancione che balenavano randomici nella sua visuale, dalla cenere e dal volto di Martin Li sovrapposto a quello del Titano, in un caleidoscopio inenarrabile di caos mentale.

Si tirò su sulle ginocchia, traballante. Martin Li era adesso immobile davanti a lui, svenuto per il colpo e lo sfinimento. E un drappello di agenti Sable – erano loro, dovevano esserlo per forza – si fiondò verso di lui, manette per potenziati alla mano. Peter ci mise qualche secondo di troppo per realizzare che erano diretti anche verso di lui, e con le stesse intenzioni. Si rialzò del tutto, confuso e pronto a lanciare una ragnatela per squagliarsela in un batter d’occhi, quando udì un rombo d’aereo, assordante e fin troppo vicino.

Gli agenti corazzati inchiodarono sul posto, puntando allarmati le armi verso il cielo. Anche Peter s’immobilizzò, con le ossa improvvisamente ricoperte da una patina gelida, in contrasto col bollore dello scontro appena concluso che ancora gli infiammava i muscoli. Si trovò a dover inghiottire il proprio cuore, schizzato in gola con un sobbalzo incontrollabile. Conosceva quel suono. Ed era la prima volta in vita sua che non lo trovava rassicurante.

«Ehilà, Spider-Man,» disse una voce metallica sopra di lui. L’armatura di Iron Man atterrò con un sonoro clangore nel piazzale, le fredde fessure azzurrine piantate su di lui. «Vedo che anche stavolta non mi hai invitato alla festa.»


 


 
Pochi minuti dopo, Thirty Park Place, Manhattan


Il silenzio sul tetto del Thirty Park Place era solo apparente.

Oltre al vento che fischiava, più teso a quell’altezza vertiginosa e carico dell’umidità di un temporale estivo in arrivo, si udiva il mormorio del traffico, assieme al coro di sirene della polizia che sciamavano a frotte verso la piazza del Municipio. Peter, inoltre, avvertiva anche tutti quei microrumori e vibrazioni preclusi al normale orecchio umano, e il senso di ragno continuava a pulsare cadenzato come un sonar, rimandandogli indietro migliaia di informazioni con ogni battito.

Il rombo dei propulsori preannunciò l’arrivo di Tony, che sbucò oltre il bordo del grattacielo con un guizzo rosso-oro. Il sole a picco baluginò sulle placche dell’armatura. Peter si trovò a deglutire, con un sordo miscuglio di emozioni che gli avvolgeva il cuore, bendandolo e strizzandolo al contempo come una fasciatura a fin di bene, ma troppo stretta. Per mesi aveva covato la segreta speranza di veder tornare Iron Man e poter seguire la sua scia nel cielo terso mentre si gettava a capofitto nella missione successiva… e adesso che finalmente quell’immagine si materializzava di fronte ai suoi occhi, non fece altro che suscitargli una spiacevole sensazione.

Un dolore soffuso che dal nervo ottico passava direttamente allo stomaco, bypassando il cervello che continuava a riproporgli l’istantanea di quello stesso uomo in un letto d’ospedale. Non era un qualcosa che gli suscitava gioia, ma né tantomeno sconforto. Aveva solo la vivida impressione che fosse fuori posto, quasi un fotomontaggio di qualcosa che non sarebbe mai dovuto accadere, ma che si desiderava con tutto il cuore. Che Tony aveva desiderato far accadere e, come tutto ciò che voleva, aveva realizzato.

Si sentì meschino e al contempo terribilmente obbiettivo, oltre che pervaso da un senso di colpa meno spiccato rispetto a quel giorno lontano a Capitol Hill: Tony sarebbe tornato in quell’armatura anche senza il casus belli dell’Atto di Registrazione, lo comprese solo nell’istante in cui lo vide atterrare di fronte a lui col caratteristico staccato profondo e metallico degli stivali corazzati. Notò il modo in cui vacillò appena sulle ginocchia, nonostante il sostegno dell’armatura, e poté abbandonare del tutto la speranza che fosse teleguidata.

Colse l’ironia di quella situazione, quando fino a pochi – troppi – anni prima si era infervorato perché, al contrario, aveva creduto di non averlo davanti in carne ed ossa.

«Immagino che le importi davvero, se è qui di persona,» non si trattenne dal commentare, e non suonò pungente, affatto, piuttosto rammaricato.

L’elmo dell’armatura scattò appena lateralmente, e nell’ambiguità di un volto artificiale e privo d’espressione, poteva essere o un moto di perplessità o un’esternazione di sufficienza. Peter vi proiettò quest’ultima, visualizzando chiaramente il corrispettivo volto di Tony: labbra assottigliate, un sopracciglio inarcato con indolenza e fin troppe rughe sulla fronte, a segnalare l’intensità del suo disinteresse di facciata.

«Friday, un po’ di privacy per il vis-à-vis superomistico, prego.»

Peter captò un lieve tremolio che andò ad avvolgere il perimetro del terrazzo come una cupola, e intuì che un segnale di criptazione per eventuali intercettazioni fosse scaturito dall’armatura. Tony ne uscì in quell’istante, lasciandosela a fluttuare silenziosa alle spalle, a circa un metro da terra. Era vestito in modo troppo elegante – blazer e pantaloni del completo blu scuri, camicia chiara, distinta – per essere partito da casa, e Peter si chiese con un’ombra di sospetto molesto dove fosse prima di precipitarsi qui.

«Giù la maschera, Spider-Man: abbiamo anche la copertura ottica,» aggiunse quindi, roteando svogliatamente un indice puntato verso l’alto a indicare la zona isolata.

Peter eseguì con un istante d’esitazione, consapevole di avere almeno due brutti lividi e un’escoriazione in volto. Trovò conferma del proprio stato nel notare il modo in cui Tony sgranò impercettibilmente gli occhi per poi irrigidirsi, distogliendoli di scatto. Non chiese nulla, però. Tendeva ad essere loquace anche nei momenti di rabbia e stress, ma questa era la seconda volta che lo vedeva così: silenzioso, truce e con nemmeno l’ombra di un sorriso sardonico a graziargli le labbra.

Peter alzò il mento, senza proferir parola, trovando più differenze che similitudini con quell’episodio, soprattutto nel modo in cui Tony era inclinato sul lato sano, in modo da non forzare troppo il tutore. Forse era un’impressione, ma i segni delle ustioni che gli solcavano il volto si erano fatti più evidenti, e in alcuni punti sfioravano il violaceo invece del solito rosso slavato. Lo vide stringersi il polso sinistro, in quel gesto abituale e rivelatorio di profondo turbamento, e si trovò a reprimere domande fuori luogo su come si sentisse. Era fin troppo chiaro che non avrebbe mai dovuto indossare l’armatura, non adesso, almeno.

«Signor Stark, senta…»

Bastò l’indice alzato dell’altro a farlo tacere, con suo irritato sconforto.

«Non sono arrabbiato,» esordì, in un modo spropositatamente calmo che quasi supportava quell’affermazione. «Non perché non lo sia, chiariamoci… ma perché “arrabbiato” non copre neanche lontanamente lo spettro di emozioni che mi trovo tra le mani al momento. Quindi, per comodità, diciamo che io sia semplicemente arrabbiato

Peter si rabbuiò, impedendosi di distogliere gli occhi dai suoi. Si chiese in che vesti stessero parlando, adesso, e scoprì che non gli importava più di tanto. Non quanto tutto ciò che era successo nell’arco di appena dieci minuti e che, potenzialmente, avrebbe potuto devastare la sua vita e quella di chi amava, Tony incluso. Torse la maschera tra le mani, vedendo che il suo mentore non accennava a parlare per primo, e colse l’opportunità per farlo lui, facendo probabilmente il suo gioco:

«Cosa… qual è il bilancio?»

L’altro lasciò fischiare flebilmente l’aria tra i denti, spostando gli occhi verso il Municipio ancora brulicante di frenetica attività.

«Non così tragico come avrebbe potuto essere senza il tuo intervento,» ammise infine, e si morse distintamente l’interno della guancia prima di continuare. «Due vittime: Campbell e un poliziotto, Davis. Due feriti gravi, anche loro poliziotti.» Peter sentì una secchiata di cubetti di ghiaccio scivolargli tra le vertebre. «Oltre a una mezza dozzina di feriti. Tutti lievi, perlopiù traumi acustici, slogature e ginocchia sbucciate. Le ragnatele attutenti hanno contenuto di molto il raggio delle esplosioni… almeno ti sei preparato adeguatamente, o sarebbe stata una...»

«No,» ribatté in automatico Peter, impedendogli di pronunciare la parola strage, o qualche suo sinonimo. Il suo sguardo si perse a mezza via tra lui e Tony. «No, non ero preparato a… tutto questo non era previsto. Non erano previsti superumani. Non era previsto il signor Li e non…»

«Il signor Li?» strabuzzò gli occhi Tony. «Cos’è, uno scherzo? Conosci quel pazzoide? Ti prego, dimmi che non è uno dei vigilanti mascherati con cui fai le tue scorribande notturne, o avrò davvero molto da spiegare a Ross e al Dipartimento della Difesa,» sbottò, pizzicandosi con forza la radice del naso.

«No!» si affrettò a chiarire lui, alzando una mano a difesa. «No, niente di tutto questo, è solo…» si rese conto di non poter mentire, e vi rinunciò a malincuore sentendosi sull'orlo del baratro di bugie che si era scavato attorno. «È il fondatore del FEAST. E il capo di zia May. Mi… mi conosce. Cioè, conosce Peter Parker,» si affrettò a rettificare.

La pausa attonita che seguì palesò tutto il sincero sconcerto del suo mentore. La paura, anche, che pareva ora vibrargli negli occhi scuriti.

«Ti… conosce,» ripeté, quasi stesse maneggiando un ordigno letale – e non aveva poi tutti i torti.

Peter dovette farsi violenza fisica e mentale per non lasciar trasparire nemmeno una singola emozione sul suo volto.

«Sì. Ma sono sempre stato prudente, al FEAST. Non c’è alcun pericolo,» affermò, badando bene a instillare una goccia di verità in ognuna di quelle affermazioni.

Sentiva le ginocchia sul punto di liquefarsi sotto al peso di quelle menzogne, quasi fossero acido che, dalla lingua, colava lungo ogni singolo articolazione nel tentativo di farlo cedere e smascherarlo. Non seppe dire se Tony si stesse bevendo o meno quella colossale bugia; sta di fatto che il suo volto rimase una maschera di tensione, e si poggiò più vistosamente sulla gamba sana, quasi gli avesse provocato un dolore fisico.

«Spero davvero che sia così, altrimenti… beh, non ho più l’età per andarmi a cercare gli orari di visita della RAFT, ragazzino, quindi farai meglio a non finirci,» concluse, arpionandosi una mano tra i capelli e voltandosi scatto il capo verso lo skyline di Manhattan con uno sbuffo concitato.

«Prima…» Peter si interruppe, posandosi a sua volta una mano sulla fronte accaldata, a sorreggersi i pensieri troppo numerosi che rischiavano di traboccarne. «… la– la Sable. Era la Sable, giusto? Da dove salta fuori? L’evento era sotto la protezione della NYPD, perché diavolo…»

«Normie ha voluto testarla, a quanto pare. Come “corpo di protezione privato”,» aggiunse Tony, mimando delle tetre virgolette, e non accennò a voltarsi nel dirlo. «Non guardarmi così, ragazzino. Non ne sapevo nulla: sono l’ultimo che approverebbe un esercito di Stormtrooper dalla dubbia moralità a spasso per la Grande Mela.»

Peter inghiottì altre domande assieme all’ansia che gli batteva nello stomaco. Ma captò distintamente il modo in cui si era espresso Tony: da quando aveva facoltà di approvare decisioni simili? O era un
espressione metaforica? Tenne per sé quel dubbio, che si unì al vortice che circondava la figura del suo mentore, ormai sempre più simile all’occhio di un ciclone in avvicinamento.

«Adesso…
» Tony si cacciò le mani in tasca, in una posa apparentemente rilassata che trasudava di fatto irrequietezza. «Martin Li. Il signor Li. Vuoi spiegarmi?»

Peter raccolse un sospiro dietro ai denti, per poi rilasciarlo lentamente, e si rassegnò a raccontargli, per sommi capi, di come lui e Yuri avessero scoperto dell’attentato. Della trama intersecata tra Fisk e Osborn e i loro loschi traffici, delle intercettazioni di merce rubata, delle armi e degli scontri, della guerra sotterranea che prendeva nel mezzo vite innocenti in una scalata al potere celata nell'ombra.

Tony si accigliava con ogni nuovo risvolto che aggiungeva, quasi lo stesse riconducendo a tutte le occasioni in cui aveva accampato o inventato scuse per i propri ritardi, o aveva semplicemente evitato di rivelargli in cosa consistessero davvero le sue ronde notturne – ovvero una caccia all'uomo molto più grande di lui.

Omise accuratamente di menzionare la foto, e tutto ciò che vi si legava a doppio filo: quella tra Spider-Man e la Oscorp, tra lui e Osborn, era una faccenda che avrebbe potuto definire strettamente personale. E dopo l’altalenante atteggiamento di Tony, non riusciva  a prevedere cosa avrebbe scatenato rivelargli di quel particolare. Rabbia? Delusione? Panico? La decisione categorica di allontanarlo da New York e farlo vivere come un “normale adolescente”? Quella di smascherarlo di fronte a tutti in cerca di un “compromesso”? Peter non sapeva dirlo, ma era certo di poter trovare una strada non battuta che gli evitasse entrambe le eventualità, ai suoi occhi egualmente apocalittiche. Lo sperava.

Tony non proferì una sola parola, durante il racconto. Si limitò a ridurre gli occhi a due fessure e a tormentarsi l'interno della guancia in un tic nervoso, rimproverandogli tacitamente di non aver condiviso quelle informazioni vitali. Rimase nel ruolo di Iron Man, seppur a fatica.

«Io… non so perché proprio Martin Li,» mentì in parte, alla fine, scuotendo affranto la testa.

Dopotutto era vero: non aveva ancora alcuna certezza, se non che aveva indagato sulla Oscorp e collateralmente su di lui. Perché? gli rimbombò di nuovo in testa. Era un'altro nodo della faccenda che gli sarebbe toccato sciogliere. Da solo. Niente Tony, niente Yuri, niente zia May o Ned o appoggi esterni. Solo lui, e quel giorno alla Oscorp che l'aveva intersecato suo malgrado con Norman Osborn.

«Credevamo fosse un lupo solitario che lavorava per Fisk, ma ha appena ucciso quello che era il suo candidato marionetta, e poi ha tentato anche di uccidere Osborn… non torna più nulla.»

Tony soffiò dal naso, in un gesto nervoso e al contempo impaziente.

«E i suoi poteri? Sai dirmi qualcosa? Friday ha registrato una sorta di campo elettromagnetico attorno all’area dello scontro; la gente sembrava impazzita, l’aria era distorta, ma sono arrivato troppo tardi e non sono riuscito a rilevare nulla di più specifico.»

«Non… so spiegarlo,» esordì Peter, stringendosi nella spalle e gesticolando a mezz’aria. «È come se riuscisse a generare una sorta di… di zona negativa

Tony sospirò, facendo scattare di lato gli occhi con esasperazione.

«Perché ogni volta che spunta fuori un nuovo cattivo mi sento in un libro di Stephen King?»

Peter esitò nel raccogliere quel tentativo di alleggerire la tensione, e preferì continuare come se non l’avesse sentito:

«È potente. Molto. Sa lanciare getti di energia, ha mandato in tilt i sistemi della tuta e sembrava invulnerabile, almeno ad alcuni attacchi…»

«Uno dei cecchini di vedetta ha riferito di aver sparato un colpo, prima che Li “sparisse nel buio”, parole sue, ma sembra non averlo nemmeno scalfito.»

«Forse può attutire la forza cinetica? Assorbirla. Non lo so. È stato un incubo, non capivo più nulla, nemmeno col senso di ragno e…»

E ho fallito, pensò, senza dirlo, con il cerchio alla testa che si strinse gelido. Tony schiuse la bocca, per poi serrarla e arricciare le labbra, scontento. Forse si era rimangiato delle parole consolatorie, e a ragione. Non aveva fatto nulla per meritarsele, se non sbagliare e fallire… ed era solo all’inizio di un labirinto di cui intravedeva l’ingresso e nel quale avrebbe imboccato svolte sbagliate. Fino ad arrivare in un vicolo cieco, e allora avrebbe dovuto tornare sui suoi passi.

«Peter…» esordì poi, e dalla voce capì che adesso era Tony, quel Tony mentore e paternalistico che si preparava a dirgli qualcosa di sgradevole
per il suo bene.

«Lo so, che è colpa mia. Lo capisco da solo,» lo fermò, con uno scatto del capo.

Si sfregò un punto dolente sul volto, con forza intenzionale.

«Non è una questione di colpe. Ma di fiducia, e in chi la riponi,» cambiò rotta Tony, e ogni sua parola non faceva che irritarlo di più, gettando benzina su un fuoco morente che iniziò a divampare all'istante. «Non puoi fare tutto da solo. Ho tentato di dirtelo con le buone, ma…»

«Non ero solo, Tony!» sbottò infine, senza trattenere più quel risentimento latente, che era cresciuto dentro di lui fino ad occupare del tutto l
intercapedine del suo cuore. Lo vide sobbalzare. «Non sono mai solo! Sono Spider-Man! È parte di me. Ho questi poteri e devo usarli, non ho una scelta! E se non bastasse essere sempre con Spider-Man... beh, ho Karen a guidarmi, e ho l’appoggio di Yuri. Non sei l’unico che può darmi aiuto. E sul campo non dovrei nemmeno aspettarmelo, perché per me non eri più davvero Iron Man fino a cinque minuti fa!»

Pronunciò quella frase a rotta di collo e si sentì come se avesse impugnato un coltello e sferrato una pugnalata a Tony in pieno petto. Tacquero entrambi, con quella cortina plumbea di parole che si sedimentò tra loro.

«Qui stiamo divagando,» enunciò poi Tony muovendo a malapena la bocca, in modo così metallico da fargli credere che avesse rimesso l’armatura. Incrociò le braccia. Peter vacillò sul posto a quella freddezza tangibile. «Rimaniamo sull’argomento più urgente, ovvero il fatto che, dopo l’attacco di un superumano, l’opinione pubblica sarà più che favorevole a far rinchiudere te, Li e tutti quelli come lui in cella di massima sicurezza. La Sable avrà libertà d
’azione, l’Atto passerà in un batter d’occhio, a questo punto… e tu ti anche sei inimicato un boss del crimine sventando un suo attentato, tanto per non farci mancare nulla.»

«Combatto ogni giorno contro i tirapiedi di Fisk: che differenza potrà mai fare una volta in più? Non è la prima volta che ci scontriamo.»

«Io l’ho detto, che dovevi cominciare a prendere dimestichezza con la politica,» lo gelò di nuovo Tony, ancora impassibile, come se il suo corpo stesse semplicemente facendo da tramite a pensieri distanti dalle sue emozioni. «Adesso te lo dico chiaro e tondo, perché finora mi sono limitato a chiedertelo e consigliartelo: devi lasciar stare Fisk e Osborn, ragazzino,» continuò poi, con più veemenza, tagliando a metà l'aria con la mano ferita. «Sono fuori dalla tua portata e sei già in una posizione vulnerabile. Molto più vulnerabile di quanto mi farebbe dormire sereno la notte. Cosa pensi che abbia fatto, in tutto questo tempo?» aggiunse poi, con la voce che s
’impennò in un improvviso interrogativo retorico.

Peter serrò pugni e labbra, con le sopracciglia che scesero ad oscurargli gli occhi. Non lo accusò di avergli taciuto fin troppe cose, anche se avrebbe voluto. Non si sentiva ancora così forte della propria ipocrisia, per un passo del genere.

«Ti ho tutelato, come promesso. Lo sto facendo anche ora: col mio arrivo ho legittimato il tuo intervento al Municipio ponendolo sotto la competenza dei Vendicatori. Se non ci fossi stato io, la Sable ti avrebbe arrestato, e adesso saresti alla RAFT o a Ryker's a far compagnia a Martin Li. Hai la più pallida idea di quanto mi stia esponendo per pararti il culo, Parker? E a questo punto non so nemmeno se valga ancora la pena di tenerti al sicuro, visto che sembri voler sabotare ogni tentativo di farlo.»

Peter avvertì un vuoto in espansione proprio in mezzo ai polmoni.

«Lo dica,» lo incitò, tornando ad assumere un tono formale, contratto. «So che sta per dirlo.»

Tony annuì, quasi tra sé, come a dare più forza a ciò che stava per affermare:

«Bene: a questo punto inizio davvero a pensare che rivelare la tua identità sarebbe la mossa più sicura. Ti porrebbe sotto la nostra tutela ufficiale. A volte essere in piena vista è la scelta più sensata.»

Peter scosse la testa, gettando un
’occhiata laterale al nulla prima di tornare a confrontarlo.

«Ma io non voglio

«Pensi che io voglia? Ma non voglio nemmeno che tu, dopo esserti messo sotto i riflettori, ti metta anche a ballare, cantare e tutto il teatrino per il gusto di rimanerci e mandare avanti lo show,» lo rimbeccò, e la sua voce assunse una sfumatura sardonica che pizzicò i nervi sbagliati, quelli dell’orgoglio che, di rado, prendeva il sopravvento sulla ragione:

«Io faccio solo il mio dovere,» affermò, compiendo un passo avanti e piantandosi faccia a faccia con Tony.

«Il tuo dovere è salvaguardare te stesso e ciò che fai, non cercare un piedistallo dal quale essere abbattuto.»

«Non ho nessun “piedistallo”! E non mi sembra che Iron Man o Capitan America scendano mai dai loro per fare ronde notturne nel Queens.»

Le narici di Tony fremettero impercettibilmente e le sue sopracciglia si inclinarono in un angolo duro. Peter sostenne il suo sguardo, anche senza l’ausilio della maschera.

«Parker, non te lo ripeterò: lascia perdere.»

«Altrimenti che fa? Mi toglie di nuovo il costume?» lo scimmiottò lui, infervorandosi.

«Non hai più quindici anni,» ribatté freddamente l’altro, prendendolo in contropiede. «Se non sei in grado di seguire le mie direttive, sei fuori.» Indurì le labbra in una piega severa. «E questo non è un bel momento per essere 
fuori”.»

Peter mantenne il contatto ancora per qualche istante, fondendo gli occhi con quelli di Tony in uno scontro elettrico. Poi si rimise la maschera, con deliberata lentezza.

«Magari è , che voglio stare,» disse, prima di voltargli le spalle e scagliare una ragnatela per slanciarsi tra i grattacieli di New York, lontano da lui.


 
 


Due giorni dopo, Casa Parker

 
«... il Daily Bugle porge le più sentite condoglianze alle famiglie Campbell e Davis. Prevedibilmente, vista la riservatezza di cui godono i potenziati, non si hanno ancora notizie sulle oscure origini dell'omicida e nuovo pericolo pubblico noto ormai come Mister Negative, titolo da me modestamente inventato e che trovo perfettamente calzante, se posso per–»

Peter spense bruscamente la radiolina che gracchiava con la voce di Jameson sulla scrivania, liberando un sospiro seccato, e tornò ad occuparsi delle sue mille, piccole contusioni che tardavano a guarire nonostante i suoi poteri. Un ennesimo memento della sua fallibilità e di quanto straordinariamente pericoloso fosse Mister Negative. Aveva smesso di chiamarlo 
“signor Li” a forza, per evitare di tracciare connessioni a lui stesso e a May che, per ora, voleva solamente ignorare – così come il suo telefono, che giaceva sulla scrivania con qualche decina di messaggi senza risposta, sia per Peter Parker che per Spider-Man, come se facesse davvero differenza.

Fece appena in tempo ad estraniarsi da quei pensieri, che fu interrotto nuovamente.

«Pete, vai tu?» chiamò May dal bagno.

Peter sobbalzò per la seconda volta nell’arco di pochi secondi e si impose con stizza di darsi una calmata, perché non poteva logorarsi così i nervi per un semplice campanello e un normalissimo richiamo di zia May.

«Sì, un secondo!» replicò, tamponandosi con una smorfia tesa un’ostinata escoriazione sulla clavicola con un po’ d’ovatta imbevuta di disinfettante.

Cacciò sotto il letto i suoi strumenti medici improvvisati e s’infilò una maglietta della Midtown in stato ancora dignitoso strada facendo, nel caso zia May avesse deciso di chiedere l’origine della nuova collezione di marchi rossi e blu in tinta col costume. Quelli in volto, per fortuna, erano già sbiaditi, e aveva ormai una discreta dimestichezza col fondotinta di sua zia per celare i danni un po' troppo evidenti.

«Arrivo!» chiamò lungo il corridoio senza però affrettarsi troppo, sistemandosi il colletto in modo da coprire le contusioni.

Accostò l’occhio allo spioncino più per abitudine che altro: aveva già percepito i passi del corriere allontanarsi giù per le scale, probabilmente dicendosi che il suo contratto lavorativo non includeva aspettare cinque minuti alla porta per un ragazzino pigro.
Aprì con un mezzo sospiro, illuminandosi nel vedere il pacco Amazon contenente il tanto atteso regalo di Ned sullo zerbino.

Lo afferrò rapido, facendo già per rientrare, quando un fruscio di carta riportò i suoi occhi per terra, sulle piastrelle beige del pianerottolo: il cedolino di consegna era scivolato dal pacco. Incastrò la scatola sotto il braccio e si chinò a raccoglierlo, aprendolo in un gesto automatico mentre accompagnava la porta dietro di sé.

E la sbatté con così tanta forza da rischiare di crepare lo stipite e far cadere il quadro lì a fianco, attirandosi un’esclamazione allarmata da parte di May, che non registrò, perché il mondo attorno a lui sembrò scivolare nello spazio siderale – muto, intangibile, distante – mentre fissava ad occhi sbarrati il biglietto, coi polmoni sottovuoto e il cuore pronto a spappolarsi come un mese fa nel magazzino.

Al centro del foglio, in inchiostro nero, spiccava la sagoma minacciosa e aguzza di una corona.

 
 
 

Note Dell'Autrice:

Cari Lettori... vi ricordate ancora di me?
"Non aggiornerò tra sette secoli come al solito!" [cit. me stessa nelle scorse note]. Ehm... sì, ho detto 'na baggianata, per essere eleganti.
Ma ci si son messe di mezzo la vita, lo stress, la quarantena, prima, la fine della quarantena, dopo, bestemmie e insulti con la mia meravigliosa università, e infine un prepotente calo d'ispirazione in campo Marvel. Poi, non so voi, ma il mio corpo è fisiologicamente convinto di essere ancora a marzo, quindi dire che sono sfasata è un eufemismo :') Tutto ciò per dire che questo capitolo è stato un parto per mille e più motivazioni non tutte legate alla scrittura di per sé, pur essendo più breve dei precedenti.

E spero risulti anche più "conciso", in un certo senso. Scrivere di Peter sottintende partire spesso per la tangente introspettiva e sciorinare pistolotti mentali su ogni singolo respiro che fa o non fa... in questo caso, ho voluto tagliare il capitolo in modo più diretto, e spero si noti senza risultare fuori luogo. Siamo alla svolta decisiva, adesso, sia con Tony, che con Kingpin, che con Osborn e tutta la faccenda dell'Atto, e il prossimo capitolo farà da collante al tutto, gettando un po' di luce su molti punti in sospeso. Chi ha giocato al videogioco ne avrà già ricollegato un paio, ma la trama, come già detto, prenderà un'altra direzione ;)

Come al solito vi lascio con un bel cliffhanger, che non fanno mai male... nella speranza di aggiornare presto e non i ntempi biblici. Stavolta non prometto nulla sulla mia rapidità, però :')
Un grazie abnorme va alla mia Atlante _Atlas_, senza la quale non sarei mai riuscita a finire in tempi decenti il capitolo <3 Continua a bacchettarmi, che funziona :D
E dopo 'sto sproloquio, vi lascio nell'attesa *risata malvagia*

-Light-

Angolino dello spam: complice del ritardo di questo capitolo è stata anche la mia nuova storia fresca di stesura, su StarWars/The Mandalorian, Vode An, che vi invito ad andare a sbirciare, se vi interessa il fandom :)

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Capitolo 10
*** Sotto assedio ***


Spider-Man: Back In Black

 

§

 

Capitolo IX

Sotto assedio

 

 

Now everybody do the propaganda
And sing along to the age of paranoia
Welcome to a new kind of tension
All across the alien nation
Where everything isn’t meant to be okay”
[American Idiot – Green Day]

 

22 giugno, Casa Parker, Queens
 

Come si viveva con una minaccia di morte sulla testa?

Peter fissava il soffitto della sua stanza, ovviamente senza trovare risposta a quell’interrogativo che, di per sé, suonava già ai limiti dell’assurdo. 

Peccato che fosse fin troppo tangibile. Per un attimo, quasi rimpianse di non avere delle stelline fluorescenti attaccate in camera, come Morgan. Il suo sguardo vagava nel bianco, incapace di appuntarsi su un punto fermo che non fossero le tenui macchie d’umidità negli angoli. A volte l’intonaco assumeva sfumature calde, arancioni, che lo riportavano a Titano e al vero vuoto, quello che aveva quasi imparato a riconoscere come parte di sé.

Chiuse infine gli occhi, che negli ultimi giorni si erano fatti così pesanti e difficili da tenere aperti.

Come si viveva, con quella consapevolezza incastrata nel cuore?

Stava iniziando suo malgrado a scoprirlo. Assieme alla paura recondita, irrazionale e del tutto antiscientifica, che il cassetto della sua scrivania si liquefacesse per la densità di segreti che si trovava costretto a contenere.

Alla foto – quella col cerchio rosso indelebile sul suo volto – si era aggiunto il foglio con la corona. Due minacce, una latente e una molto più attiva, che gli pendevano addosso come una duplice spada di Damocle.

Ormai Peter attraversava a sguardo basso il salotto di casa per non vedere quella stessa foto esposta sulla libreria, tra un souvenir dell’Egitto e un bonsai finto, posti lì quasi a renderla falsamente innocua. E stava a capo chino anche nel camminare per le strade del Queens, pur di non vedere il marchio FISK impresso sulle gru e sui camion da trasporto nei pressi dei suoi cantieri sparpagliati per tutta la città.

Kingpin sapeva. Sapeva chi fosse Spider-Man e si era premurato di condividere quell’informazione con lui con gelida naturalezza, quasi fosse una semplice trattativa d’affari.

Era un fatto talmente terrificante, che Peter non riusciva a coglierne del tutto la portata. Certo, aveva paura e gli batteva nello stomaco a ogni ora del giorno e della notte, che fosse sveglio o colto da un sonno agitato. Ma era convinto che quella quantità di paura non fosse nemmeno lontanamente adeguata alla situazione. 

Forse i suoi istinti di conservazione avevano imposto un blocco, un limite oltre il quale quel sentimento paralizzante non poteva crescere... altrimenti si sarebbe trovato a rattrappirsi collassare su se stesso, incapace di muoversi ancora o di pensare – come quando aveva ricordato il vuoto sconfinato di quei cinque anni passati nel limbo.

Era un bene che ci fosse quel limite, si ripeteva Peter. Era un bene, perché non si sentiva così lucido da mesi, da quando era tornato. Non brancolava più nel buio, adesso.

Aveva un nome e una minaccia ben definita a cui attribuirlo. Aveva tra le mani mille fili apparentemente ingarbugliati, ma che dovevano necessariamente condurre da qualche parte, verso Kingpin e il signor Li e Osborn. 

Aveva modo di reagire.

Kingpin sapeva di lui da mesi, come minimo da settimane – quanto tempo ci voleva per organizzare un attentato in modo così contorto e certosino? Per ingaggiare Li e mettere i bastoni tra le ruote a Osborn, per tessere una tela sotterranea di accordi e depistaggi? Per accorgersi del ragazzino strambo che ronzava attorno al FEAST?

C’era solo da chiedersi cosa stesse aspettando per rivelarlo; perché non avesse fatto pervenire la notizia con tanto di fiocco a Jameson e alle altre testate giornalistiche. Quello era l’unico interrogativo in grado di far vacillare la sorta di calma illusoria che l’aveva posseduto.

Peter strizzò gli occhi, comprimendo con forza i bulbi oculari fino a sentirli pulsare.

No, non era calma. Rabbia latente, piuttosto, di un tipo che non gli era mai capitato di provare. Perché gli stava bene tornare pesto e contuso a casa una notte sì e l’altra pure, e gli stava bene rischiare una caccia all’uomo per mano della Sable, e anche giocare al “vigilante” e inimicarsi Tony e tutti i Vendicatori. Ma se c’era qualcosa che non gli stava bene, era una minaccia diretta alla sua famiglia.

E due persone erano morte per colpa sua e della sua irragionevolezza. Per quanto May tentasse di ripetergli che lui avesse fatto tutto il possibile; per quanto lasciasse ad accumularsi le chiamate e messaggi in segreteria di Tony, probabilmente colmi di parole simili; per quanto, in fondo, sapesse di aver evitato il peggio al Municipio, quelle due macchie sporcavano solo la sua coscienza.

Peter fece appello a tutte le sue energie per tirarsi su a sedere sul letto, dopo più di un giorno in cui era diventato il suo tiepido rifugio di passività ed elucubrazioni.

In poco meno di quarantotto ore era giunto a una consapevolezza così amara da scacciare qualunque volontà di intraprendere altri colpi di testa, e di iniziare invece a usarla. Ovvero, che non era più questione di meritarsi il titolo di miglior eroe che New York avesse mai avuto – ma di meritarsi ancora il titolo di eroe.

 


 

23 giugno, Casa Parker, Queens


La risposta a molte delle sue domande arrivò pochi giorni dopo la comparsa del biglietto minatorio e della sua decisione di “ripartire da capo e usare la testa”. Quell’intento si era concretizzato in un modo tutto sommato semplice: disporre fisicamente i pezzi del puzzle di fronte a sé e tentare di riordinarli.

Da ore, Peter era intento a stampare, scrivere e incollare i pezzi del proprio collage personale, non così dissimile da quello di Martin Li... solo che lui preferiva usare come piano di lavoro il soffitto della sua camera. 

Stare attaccato a testa in giù gli dava l’impressione di riuscire a pensare meglio – o forse solo quella di essere Spider-Man intento a venire a capo di qualcosa, e non un neodiplomato che brancola nel buio della malavita e degli intrighi politici.

Grazie a Karen era riuscito a reperire molto del materiale secretato sulla Oscorp, giacente negli archivi della NYPD e dello SHIELD. E stava scoprendo, con suo profondo imbarazzo e rammarico, che ragionare sulla situazione invece di buttarcisi dentro a capofitto poteva essere molto più fruttuoso di quanto credesse. 

Certo, stava scalfendo solo la punta dell’iceberg, perché le informazioni veramente scottanti erano ancora fuori dalla sua portata, a meno di parlare coi diretti interessati... ma a quello avrebbe pensato dopo. Un passo alla volta, si ripeté.

Per ora, l’unica certezza era che tutto partiva dall’odio di Martin Li per Osborn e la Oscorp. Peter aveva lasciato da parte le trame politiche per concentrarsi su quello. Non ne capiva nulla, del resto... ma se c’era una dote che era certo di possedere, quella era l’empatia. Cercare di ricostruire gli apparenti vaneggiamenti di un folle – che tra l’altro, considerò con un brivido, conosceva – gli sembrava enormemente più semplice che trovare il bandolo della matassa di ritorsioni tra Wilson Fisk e Norman Osborn.

Nel riesaminare il marasma di foto e articoli accumulati in quell’ufficio, Peter aveva finito per trovare un filo logico dietro a quelli che sembravano solo i deliri di un folle accanito contro Osborn: gli esperimenti della Oscorp.

Erano un tema ricorrente, non solo per le accuse e gli scandali in cui era stata coinvolta la società al riguardo. Vi era un’ossessione di fondo al riguardo che legava tra loro tutti quei mille tasselli ridondanti... inclusa la sua foto, ma non nel modo in cui aveva creduto e temuto all’inizio.

Non era la sua identità segreta, il fulcro. Il rischio di essere smascherato era solo un danno collaterale. Martin Li non avrebbe tratto alcun vantaggio personale nel rivelarla. Fisk sì, certamente, o anche Osborn... ma non lui in prima persona.

No, no, c’era altro. Doveva esserci altro.

Molleggiò sui talloni, come a incitare una soluzione rapida, poi si alzò in piedi a testa in giù, attaccato al soffitto. Scrutò da una distanza maggiore il miscuglio di informazioni cartacee e digitali che aveva raccolto attorno a sé nella penombra della stanza, spezzata dagli ologrammi azzurrini proiettati dal costume. L’intonaco era tappezzato di segni di scotch e da qualche sbaffo di pennarello sfuggito ai margini di fogli e foto, ma a quelli e all’ira di May avrebbe pensato dopo.

Incrociò le braccia, assottigliando gli occhi come a scorgere qualche collegamento invisibile in controluce, infine li chiuse del tutto, ripercorrendo al contempo i passi di quell’ultimo periodo.

Esperimenti illeciti. Un odio ancestrale per Osborn. Kingpin e Fisk. Il collage di foto lasciato in bella vista. Il modo in cui erano arrivati al magazzino. I poteri da incubo di Mr. Negative.

Non siamo poi tanto diversi. Forse siamo persino dalla stessa parte, Peter.

Fu quando la voce distorta di Martin Li gli risuonò nei timpani, e mise l’accento sulla parte giusta della frase, che Peter sgranò gli occhi. Non tanto il fatto di essere dalla stessa parte – mai, non sarebbero stati mai dalla stessa parte – quanto quello di assomigliarsi, in qualche modo.

Non erano diversi? Ovvio, aveva pensato finora Peter: erano entrambi dei superumani o potenziati, che dir si volesse. 

Peter non l’aveva scelto. Era stato un banale incidente con un ragno OGM sfuggito al suo terrario Oscorp. E Li, invece? Come li aveva ottenuti, quei poteri? C’entrava la Oscorp anche in quel caso? Non gli sembrava poi così assurdo, adesso.

Peter si mordicchiò il labbro e si passò le dita tra i capelli dritti per la gravità, scavando ancora nella propria mente. L’unica persona di sua conoscenza che avesse volontariamente accettato di potenziarsi era il Capitano Rogers. Ma quelli erano altri tempi, altre situazioni, altre moralità.

Anche tra i supercriminali con cui aveva avuto a che fare nel corso degli anni non c’era nessuno che avesse desiderato i propri poteri. Electro, Rhino, Tombstone, Scorpion, Lizard... tutti loro erano capitati nel mezzo di incidenti più grandi di loro che li avevano privati dell’umanità e di una vita normale. Cosa avessero scelto di fare coi loro poteri, poi, era unicamente imputabile ai diretti interessati – ma lui stesso e Murdock erano la prova vivente che si poteva scegliere.

Martin Li, qualunque fosse la sua storia, non aveva scelto per il meglio. Anche se aveva aperto e gestito il FEAST con dedizione per così tanto tempo. Anche se aveva aiutato May e lui quando i tempi si erano fatti economicamente duri. Anche se era rimasto vicino a sua zia per cinque anni, dandole una causa per andare avanti. Anche se gli aveva detto che sarebbe stato bello, essere colleghi di Spider-Man. Anche se l’aveva visto così spesso parlare con senzatetto o disoccupati o emarginati nel tentativo di garantire loro un futuro, una possibilità. La stessa che, forse, era stata strappata a lui.

Che Norman Osborn gli aveva strappato.

Ma perché proprio adesso?

Peter riaprì con lentezza gli occhi, fissando l’accozzaglia di fogli strappati di fronte a lui e identificando la risposta in un articolo sul punto di staccarsi. Si accovacciò di nuovo e allungò le dita a strappare il ritaglio di giornale, che annunciava la candidatura di Osborn alle elezioni di New York.

Un criminale sotto mentite spoglie, causa dell’incidente che ti sconvolge la vita, che si pone a capo di una città... era un’ipotesi sensata. La prospettiva faceva bruciare lo stomaco a lui, che alla fine non poteva lamentarsi più di tanto del suo lato ragnesco. 

Deglutì un groppo di saliva amara.

A distanza di così tanto tempo, era in grado di dire che non era colpa di Osborn, se lui aveva compiuto delle scelte sbagliate e non aveva accettato le responsabilità dei suoi poteri sin da subito. Non provava simpatia per lui, era vero; e non gli piaceva avere un conto in sospeso con una persona del genere. Ma non si era mai guardato alle spalle e aveva semplicemente finto che nessuna Oscorp o Norman Osborn fossero mai esistiti.

Qualcun altro avrebbe ragionato nello stesso modo? Cosa avrebbe potuto scatenare una sete di vendetta tale in una persona come il signor Li?

Peter accartocciò nel palmo la carta sottile del giornale, spedendo la pallina nel cestino con un tonfo leggero. Si trovò a stringere i denti, gli occhi puntati sulla corona nera che spiccava sul soffitto – l’altra estremità del filo, opposta a Mr.Negative. Da qualche parte nel mezzo, c’era la causa che aveva innescato di tutto quell’incastro di ingranaggi in cui era finito schiacciato.

Un unico interrogativo gli risuonava martellante in testa, in cerca di risposte: cosa aveva perso Martin Li?


 




Uscì dalla stanza con più domande che risposte, un cipiglio che gli scuriva il volto e una nuova, folle determinazione a farsi strada in lui con ogni pulsazione del cuore. La sentiva scorrere nelle vene, riempiendole una goccia di sangue alla volta. 

Non poteva concedersi distrazioni. Non poteva concedersi passi falsi. Era tutto in bilico, appeso al filo di una ragnatela. Il mirino di Kingpin era puntato su di lui – su May – e se fino a pochi giorni prima si era sentito terrorizzato e allo sbando a pensarci, intento a dimenarsi su una mina vagante in procinto di esplodere alla minima sollecitazione, adesso che la minaccia si era addensata e concretizzata sapeva di dover rimanere immobile.

Almeno, immobile agli occhi di Kingpin. 

Non poteva prenderlo di petto, ovviamente. Non poteva avvicinarsi a Osborn ed estorcergli informazioni. Non poteva nemmeno contattare Tony o Yuri, vista la pressante paura che Kingpin potesse vederla come una "infrazione" di quel tacito accordo di non aggressione stipulato tra loro senza essersi nemmeno mai visti. 

Ma poteva rimanere a distanza e trovare gli incastri mancanti del meccanismo. Kingpin voleva che Spider-Man sparisse e... beh, sarebbe sparito, almeno dal suo radar.

Anche se sentiva un principio di nausea al pensiero di lasciare che i suoi illeciti fiorissero all’ombra della sua negligenza volontaria. Magari avrebbe comunque potuto fare qualche piccola ronda nel suo territorio abituale, un paio di sortite sporadiche nei luoghi più malfamati, qualche occasionale intervento anticrimine che non avrebbe turbato gli equilibri...

Con quei pensieri in testa, si diresse in cucina per mettere sotto i denti il primo vero pasto in due giorni, ma si bloccò a metà tra la penisola e il salotto, trattenuto dal telegiornale che blaterava in televisione. 

Zia May era seduta rigidamente sul divano, seguendo con occhi nervosi le immagini e i titoli brillanti che scorrevano sullo schermo:

NUOVA REGOLAMENTAZIONE DEI SUPERUMANI? WASHINGTON ANNUNCIA CONTROLLI PIÙ RIGIDI E NORMAN OSBORN PROMETTE SICUREZZA A NEW YORK”.

Il Municipio di New York era ben distinguibile alle spalle di una giornalista, recintato da transenne che a malapena contenevano una folla di manifestanti. Su più di uno striscione, si intravedeva il simbolo della sua maschera sbarrata da un divieto.


ONESTÀ E TRASPARENZA NON PORTANO MASCHERE, recitava un altro.

Peter si avvicinò cauto, in punta di piedi, fermandosi dietro sua zia. Lei non si mosse di un millimetro, nonostante non l’avesse visto per più di una manciata di minuti negli ultimi giorni. Gli aveva lasciato i suoi spazi, anche se in modo sofferto, e Peter aveva apprezzato quella concessione.

«Pete,» mormorò quando le si avvicinò ancora, in modo insolitamente distratto, anche se non privo di premura.

Gli strinse il braccio, tirandolo appena per farlo avvicinare. Lui non oppose resistenza, ma rimase in piedi, diritto come un fuso. Il senso di ragno scampanellava. Se da una parte colse il sollievo di May, nello sguardo rapido che gli rivolse, dall’altra percepì con chiarezza la sua ansia a malapena contenuta e probabilmente causata dal telegiornale in onda.

May era stanca, quanto lui e forse anche di più. La notizia di Martin Li l’aveva devastata, oltre che intimorita. Lei eEra praticamente il suo braccio destro: avevano collaborato per anni e si era instaurato un rapporto di fiducia. Peter riusciva a malapena a concepire che Mr. Negative convivesse con la pacata gentilezza del signor Li, ma era chiaro che May stesse combattendo una vera e propria battaglia interiore per razionalizzare quel fatto. Per accettare che il suo collega più fidato fosse un supercriminale pluriomicida che aveva quasi ucciso suo nipote.

Le fece una carezza sulla mano e si poggiò coi gomiti sullo schienale, posandole poi un palmo discreto sulla spalla. Si mise a seguire le notizie con lei, con una vibrazione più marcata a scuotergli il senso di ragno. 

Era solo il suo nervosismo ad acuirlo, lo sapeva, ma c’era aria di novità, in quel servizio straordinario che ondeggiava dietro lo schermo. Ne ebbe conferma nel vedere i capelli rossicci di Norman Osborn comparire nell’inquadratura, che lo mostrava seduto alla lucida scrivania di un ufficio amminsitrativo.

Non indossava la solita espressione spavalda, anzi. Rughe di preoccupazione adornavano il suo volto che, privo della patina di bonaria affabilità, rivelava ogni suo angolo e spigolo più aguzzo, rendendolo freddo e decisamente poco amichevole. L’impressione era acuita dal completo verde bottiglia, che sembrava far emergere ombre altrettanto verdastre nei suoi occhi. Si sistemò il fermacravatta d’oro prima di parlare, con voce grave:

«Le accuse a me rivolte sono assolutamente prive di fondamento. La Oscorp può vantare le regolamentazioni e i controlli di gran lunga più stringenti sulla piazza rispetto ai propri metodi di sperimentazione e ricerca. La malavita ha di certo altri canoni al riguardo... consiglierei a chi di dovere di indagare negli ambienti giusti, prima di infamare l’operato di una ditta rispettabile, che ha alle spalle decenni di lotte ambientaliste e stretta collaborazione con la NYPD. Il caso di Martin Li, o "Mr. Negative", che dir si voglia, non può essere imputato a noi sulla base di illazioni fomentate dalla ricerca di un capro espiatorio.»

L’indignazione di Osborn sembrava quasi genuina. Non c’era da stupirsi che fosse il candidato prediletto per le elezioni e che così tanta gente avesse scelto di appoggiarlo.

«A riprova della mia buona fede, non posso che garantirvi la totale sicurezza per la nostra amata città. E non ho intenzione di farlo con semplici ed evanescenti chiacchiere: la Sable International, mio corpo di protezione privato che ha dimostrato la propria efficienza nei tragici eventi al Municipio, offre la propria cieca collaborazione alla polizia e alle forze armate nel contenimento dell’ormai innegabile minaccia rappresentata da potenziati e superumani. Se è la guerra, che vogliono, l’avranno.»

Peter si sentì essiccare la lingua, mentre il comunicato si interrompeva bruscamente, lasciando la parola ai commenti agitati dello studio stampa. Si attendeva un annuncio ufficiale da Washington, ma Peter quasi non gli diede peso. Sapeva già quale sarebbe stato, come l’aveva saputo Tony mesi prima, da quel giorno a Capitol Hill.

Aveva altro di cui preoccuparsi: “sparire” rimanendo operativo si sarebbe rivelato più complesso del previsto, con la Sable a dare manforte alla polizia. Ma non impossibile, non per Spider-Man. Non per qualcuno che conosceva la città come le proprie tasche e che aveva ancora qualche asso nella manica. Sotto il letto, per la precisione, anche se presentava delle complessita con cui doveva ancora fare i conti.

Scosse la testa, seguendo distratto le immagini che si susseguivano sullo schermo – dibattiti su dibattiti. La cosa più assurda di tutta la situazione era che Norman Osborn stesso non fosse stato che una marionetta nelle mani di Kingpin. Pur di non veder infangata la sua reputazione, ormai comunque compromessa, Norman aveva mobilitato un corpo paramilitare per tenere a bada i super, lasciando di fatto campo libero alla malavita e ai suoi traffici.

Adesso iniziava a capire perché Kingpin fosse considerato il vero re di New York. Aveva la città alla sua mercé e non aveva nemmeno dovuto esporsi in prima persona: Fisk rimaneva arroccato nel suo grattacielo, seduto dietro la buona facciata di magnate filantropo mentre tesseva la propria tela diabolica, in cui lo stesso Spider-Man, il signor Li e Osborn erano rimasti intrappolati.

Fu solo dopo una manciata di secondi che si accorse dello sguardo di May fisso su di lui, ustionante.

«Tu sai cosa sta succedendo, vero? Oltre a quello che ci fanno vedere, dico.»

Peter annuì con lentezza, sentendosi il detentore di verità che non riusciva ancora del tutto a comprendere, ma che, finalmente, riusciva almeno a inquadrare.

«Il governo... hanno finalmente la scusa perfetta per promulgare l’Atto. Adesso tutti ci odieranno,» sintetizzò, alzando le spalle e non osando aggravare il suo carico di preoccupazioni.

May scosse la testa, scomponendo i lunghi capelli castani e facendosi quasi scivolare gli occhiali dal naso.

«Non odieranno Spider-Man, Pete. Non potrebbero mai.»

«Aspetta e vedrai,» sorrise amaro lui, abbassando gli occhi sulle cuciture sfilacciate del divano e prendendo a tormentarne una.

Ci fu un silenzio teso, inframezzato solo dalla voce di un reporter sul luogo dell’attentato. Si scorgevano ancora le striature nere delle esplosioni e degli stralci di ragnatele attutenti qua e là sul piazzale. Un servizio sui defunti Campbell e Davidson prese a scorrere in sottofondo, con un encomio funebre pronunciato dall’attuale sindaco, un ometto insignificante e stempiato pronto a cedere una poltrona divenuta fin troppo scottante.

Poi, sullo schermo, presero a scorrere delle foto di Martin Li, immortalato nel pieno delle sue attività al FEAST. Cercavano di ricostruire come una persona così generosa e dedita al volontariato potesse essersi tramutata in un mostro. Con un balzo al cuore, Peter pregò che in nessuna di esse figurassero lui o May, ma i giornalisti sembravano aver mantenuto il focus unicamente sull’insospettabile Mr. Negative.

E Peter pensava di sapere chi dover ringraziare per quell’insolita discrezione. Pepper era sempre stata molto abile a fare in modo che l’attenzione della stampa non divagasse, e non si sarebbe stupito nel sapere che Tony avesse deciso di sfruttare la sua autorità in merito.

«Pete,» lo chiamò May, e non seppe se fosse la prima volta o meno.

Quando spostò lo sguardo su di lei, vide che aveva gli occhi lucidi. Si sentì mancare capendo cosa stesse per chiedergli.

«May...»

«Devo saperlo,» ribatté lei, scuotendo la testa. «Tu sai... sai qualcosa su Martin? Sai quando... da quanto...» si coprì la bocca col palmo, intrappolando il tremito nelle sue parole e voltandosi di scatto verso la televisione. «Perché ha–»

Peter lasciò crollare in avanti il capo, prendendo a tormentarsi le dita, pizzicando i polpastrelli sin quasi a farsi male.

«Non... non so nulla di certo, ma...» prese un grosso respiro, «... ma forse posso immaginarlo.»

Anch’io sono così per colpa di Osborn, non disse, anche se avrebbe voluto. Anch’io sono stato arrabbiato con lui e col mondo.

May si voltò di nuovo, quasi captando quei pensieri. I suoi occhi erano furenti.

«Tu non lo faresti mai.»

Peter tacque. C’era stato un momento, anni prima – troppi rispetto a quelli effettivi – in cui forse l’avrebbe fatto. In cui avrebbe usato i propri poteri per punire chi gli aveva portato via zio Ben. Ma... no, alla fine non l’aveva fatto, perché le responsabilità avevano avuto la meglio sui poteri. E quindi scosse piano la testa, sentendo la mano di May che saliva ad accarezzargli la guancia.

«Non lo faresti mai,» ripeté, afferrandogli il mento e costringendolo a guardarla.

«No,» confermò Peter, sforzando un sorriso rassicurante.

May allentò la stretta, scostandogli poi delle ciocche di capelli dalla fronte. Non ebbero modo di proseguire il discorso, perché sullo schermo si palesò l’annuncio di una diretta dalla Casa Bianca, e pochi secondi dopo comparve il Presidente Ellis al leggio.

Dietro di lui erano schierati gli alti ranghi del governo – incluso Ross, coi baffi che nascondevano la piega truce delle labbra. E, con profondo sconcerto di entrambi, al margine estremo del gruppetto di funzionari faceva capolino Tony, con un paio di immancabili occhiali appuntati sul naso e l’ormai caratteristica postura un po’ sbilenca.

Peter sbiancò le nocche, sordo ai primi istanti del discorso di Ellis, lo sguardo fisso unicamente su quella figura impettita nel suo gessato d’alta sartoria, le mani incrociate davanti a sé e gli occhi schermati, insondabili.

Era lì volontariamente? Perché appoggiava l’Atto? O perché, come gli piaceva dire, stava “tenendo d’occhio la situazione da ogni lato”? O magari era stato obbligato in quanto rappresentante dei Vendicatori... e allora, dov’era il Capitano Rogers?

Di nuovo inganni e sotterfugi e bugie. Peter fu lieto di non aver risposto alle sue chiamate e di aver ignorato i suoi messaggi. Era un’indifferenza che Tony si meritava appieno – chissà che non l’avesse fatto ravvedere sui suoi errori. 

Ma, sotto quell’irritazione latente, si faceva strada la consapevolezza che, nella pratica, Tony non aveva mai davvero avuto voce in capitolo sull’Atto. Forse era quello che gli era piaciuto credere e far credere a lui. Ma, vedendolo ammassato sullo sfondo insieme a tutte le altre giacche e cravatte anonime, gli fu chiaro che la sua influenza non fosse mai stata così grande da garantirgli una posizione privilegiata.

E ne ebbe la conferma definitiva nell’udire la promulgazione ufficiale dell’Atto e i suoi dettagli. Perché Tony, per quanto sfuggente e doppiogiochista e pragmatico, non avrebbe mai avallato nulla del genere.

Per un secondo, gli occhi di Tony furono visibili dietro di lenti: sembrò fissare esattamente l’obbiettivo di una telecamera. E, Peter ne fu certo, guardava esattamente lui, perché lo vide intascare il telefono nel momento esatto in cui una vibrazione scuoteva il suo nella tasca posteriore dei pantaloni. 

Lo estrasse, continuando a fissare lo schermo davanti a lui, dove Ellis prendeva a rispondere alla miriade di domande scatenate dal suo discorso epocale, e trovò infine la forza di abbassarlo su quello più piccolo del telefono.

Decine di notifiche invadevano la home, ma le ignorò, concentrandosi sull’ultima, di cui aprì l’anteprima con un pollice tremante.


 

Tony Stark
Non leggerai neanche questo, ma ci provo. Da oggi, usa la Iron-Spider. La odio anch’io, ma usala. Se non vuoi farlo per te stesso o per me, fallo per May. Basso profilo, Spidey. Te lo dico da Tony e non da Iron Man.


 

Non si irritò per quel messaggio, né provò l’impulso di scagliare via il telefono, né si rimproverò per aver appena infranto il voto d’indifferenza totale. Trovo quelle parole sensate, in realtà, e al contempo terrificanti. Non aveva mai letto un Tony più serio di quello. Più impaurito... tanto che le sue stesse parole sembravano vibrare. 

Si rese poi conto che era in realtà colpa della sua mano, scossa da un tremito che gli risalì ogni nervo ipersensibilizzato e in qualche modo incapace di registrare la stretta convulsa di May sul suo braccio.

Rialzò gli occhi verso il televisore, dove scorreva un riassunto scritto di quanto appena pronunciato da Ellis, in qualche modo ancor più definitivo delle semplici parole emesse nell’etere su cui non si era voluto concentrare finora.

I superumani non registrati erano ufficialmente clandestini su suolo statunitense – ogni superumano, potenziato e mutante era tenuto a consegnarsi alle autorità o a rivolgersi ai Vendicatori per essere identificato e registrato entro le successive quarantotto ore. La Sable, di stanza a New York, era autorizzata a intervenire oltre i confini statali e aveva facoltà di neutralizzare qualunque non registrato gli fosse capitato a tiro. I Vendicatori, unico fronte unito ufficiale, erano tenuti a convertire all’Atto i potenziati di loro conoscenza con qualunque mezzo.

Peter deglutì, i pugni stretti, e intercettò lo sguardo angosciato di May.

Ecco, cosa stava aspettando Kingpin: la guerra aperta.


 



 

26 giugno, Casa Parker, Queens


Alla calma solitamente segue la tempesta – e viceversa.

Ma quello che si era abbattuto sugli Stati Uniti era un uragano con l’occhio del ciclone che, invece di essere un fragile porto sicuro incentrato su New York, si era trasformato nell’epicentro di un ancor più devastante terremoto.

Peter faticava a tener conto di tutto ciò che stava accadendo e accumulava un post-it dopo l’altro sul suo collage appeso al soffitto, cercando di non rimanere indietro rispetto alla valanga di novità che lo investiva ogni giorno, facendolo sentire un naufrago in balia delle onde.

Il telegiornale strepitava ininterrottamente dal salotto e non aveva cuore di imporre a May di spegnere quella scatola infernale, non quando lui stesso si ritrovava masochisticamente ad ascoltare le invettive di Jameson ogni sera. Il progetto che aveva in mente, la riconquista che avrebbe voluto attuare in quei giorni, sfumò di fronte alla nuova emergenza.

Raccoglieva ogni goccia d’informazione che fuoriusciva dai suoi altoparlanti. E non erano mai buone nuove.

Iron Fist era stato arrestato e incarcerato nella sezione speciale di Ryker’s senza mezzi termini, trattato alla stregua di un criminale quando si era rifiutato di collaborare. 

Daredevil era sparito ufficialmente dalla circolazione, facendo perdere le sue tracce nei vicoli bui e nebbiosi di Hell’s Kitchen. Quel pazzo di Deadpool aveva inviato una trasmissione clandestina dal Canada, invitando tutti i supereroi reietti a varcare il confine verso il “paese della gentilezza” – molti di loro erano stati trattenuti con la forza alla frontiera. 

Dalla Costa Ovest, quattro nuovi volti erano emersi identificandosi come “I Fantastici 4”: si erano dichiarati istantaneamente a favore dell’Atto di Registrazione, preferendo però rimanere sulle loro nell’assolata California, senza prender parte alla guerra civile ormai in atto nelle strade di New York, dove la Sable pattugliava senza sosta ogni Avenue e Boulevard in cerca di trasgressori. 

Tony era apparso più di una volta in veste di portavoce dei Vendicatori, condannando i mezzi utilizzati dalla Sable e invitando i clandestini a rivolgersi al Complesso per una “transizione pacifica”. A quelle parole, Zia May aveva quasi scagliato la tazza della colazione contro lo schermo.

Peter, in quel marasma di arresti, dichiarazioni e scontri a fuoco tra vigilanti, Sable e polizia, usciva a malapena di casa nelle vesti di adolescente del Queens, e aveva limitato le sue ronde notturne agli angoli più limitrofi del Bronx e di Brooklyn. Luoghi che esulavano dai suoi soliti schemi, nella speranza di riuscire comunque ad aiutare qualcuno, anche una singola persona per notte. 

Yuri, non sapeva con quale coraggio e sprezzo del pericolo per se stessa, gli inviava di tanto in tanto aggiornamenti sulle retate e posti blocco organizzati dalla NYPD, ma non aveva alcun potere sulle iniziative individuali della Sable.

Resisti, Spider-Cop. Abbiamo ancora bisogno di te, gli aveva scritto una sera, facendogli capire che tutto ciò era reale – che era davvero un supercriminale e che sarebbe davvero potuto finire a Ryker’s e poi alla RAFT, scontando la colpa di aver voluto rendersi utile.

Per la prima volta in vita sua, vide la sua New York come una gabbia, con le sbarre che diventavano sempre più serrate e stringenti. 

Non respirava più, quando scendeva dal suo appartamento per fare spesa alla bodega all’angolo, cercando di affrettarsi il più possibile. Non respirava più, quando declinava gli inviti di Ned e MJ a casa loro, accampando la scusa dopotutto vera di volerli tenere al sicuro – non vedeva l’ora che partissero a fine mese per visitare le loro future università. 

Non respirava più, quando rientrava a casa alle quattro del mattino e veniva trafitto dagli occhi enormi e colmi di sonno di zia May, sollevata nel vederlo sano e salvo di ritorno da una ronda. Non respirò più, quando si rese conto che, ormai da tre giorni, le chiamate e messaggi di Tony erano cessati del tutto, sprofondandolo in un silenzio radio totale.

L’ultima volta che non aveva respirato a quel modo era ad anni luce dalla Terra, su un pianeta ricoperto di sabbia rossastra e asfissiante. 

E adesso stava per accadere la stessa cosa. Stava per sparire di nuovo, un pezzetto alla volta. e non come si era prefigurato né in modo momentaneo. Sarebbe stato per sempre.

Sarebbe arrivato l’ultimo giorno in cui avrebbe indossato il costume di Spider-Man. Si avvicinava, lo sentiva ormai dietro l’angolo... e non poteva permetterlo. 

Non quando finalmente iniziava a raccapezzarsi e incollare insieme i pezzi frastagliati del mosaico, non quando le figure di Norman Osborn e Wilson Fisk avevano acquisito una parvenza di senso. Non quando era a un passo dalla leva d’emergenza dell’intero macchinario – gli mancava solo la chiave, ma sapeva dove trovarla. 

Gli mancava solo l’occasione. E l’aria.

Doveva tornare a respirare. C’era un unico modo per farlo, l’unico che non avrebbe mai voluto accettare e che lo rincorreva a perdifiato da mesi.

Quando rientrò a casa, quella notte, trovò come sempre zia May ad attenderlo, rannicchiata sul suo letto con una tazza di tè forte in mano nonostante l’afa di giugno. I capelli scomposti le ricaddero sulle spalle nell’alzarsi quasi di corsa, rischiando di rovesciare la bevanda ormai fredda.

Gli andò incontro a braccia tese, stringendolo subito a sé con forza. Come ogni volta, ormai, come se tornasse ogni volta da un fronte in guerra.

Si tolse la maschera dopo aver cautamente abbassato le tapparelle e respirò l’aria chiusa ma familiare della sua stanza. Rilassò le spalle, anche se un cavo d’acciaio continuò a tendergli l’intero corpo da capo a piedi mentre si metteva il pigiama. 

Non intimò a May di uscire – sapeva che era inutile e che sua zia aveva bisogno di sapere che fosse illeso, sotto al costume, o non sarebbe riuscita a chiudere occhio nemmeno per quelle poche ore che li separavano dall’alba. Poi sarebbe andata al FEAST, tentando di mandarlo avanti da sola con la manciata di volontari superstiti, nel tentativo di distrarsi dalla minaccia costante che correva lui. E inconsapevolmente, anche lei.

Peter sospirò, scacciando quei pensieri. Era stata una nottataccia. Aveva speso più tempo a schivare le ronde della Sable che a compiere il suo dovere e aveva dovuto compiere un immenso giro di depistaggio prima di tornare a casa, nel caso qualcuno lo stesse pedinando. La prospettiva dell’Iron-Spider, dotata di un sistema mimetico all’avanguardia, si faceva sempre più allettante. Ma non era ancora il momento di usarla.

Si stava giusto infilando una maglietta scolorita di Ritorno al Futuro, quando May ruppe il silenzio:

«Mi ha chiamata Tony.»

Peter si bloccò con l’orlo della maglia ancora stretto tra le mani, sentendosi cadere la mandibola.

«E tu hai risposto?» scattò prima di rendersene conto, ma un semplice dito alzato di May lo obbligò a tacere, anche se non scacciò il cruccio dalla sua fronte.

«Ho pensato di non farlo per principio. Poi ho pensato che tu sei là fuori ogni notte col rischio di essere arrestato, o peggio, e ho deciso che tenevo più alla tua incolumità che all’orgoglio.»

Peter quasi gonfiò le guance, come se quello fosse un gesto adeguato alla gravità della situazione. Poi, sentì il cuore risalirgli di scatto in gola al pensiero che Tony avesse in qualche modo scoperto di Kingpin. Non si sarebbe sorpreso – e allo stesso tempo pregava irrazionalmente con tutto se stesso che ne fosse ancora all’oscuro. Avrebbe solo complicato tutto.

«E cosa voleva?»

«Non lo immagini?» ribatté May, sollevando appena le sopracciglia arcuate.

Peter scosse la testa, lasciandosi cadere seduto ai piedi del letto, la testa china a fissare il tappeto blu notte ormai stinto. Soffiò aria dalla bocca, quasi a svuotarsi del nervosismo e dell’adrenalina ancora in circolo che lo attanagliavano.

«Sì,» rispose infine, alzando le spalle. «Vuole che faccia “la mia scelta”. Per l’ennesima volta.»

Non poté fare a meno di suonare caustico, in un modo che non sentiva appartenergli, ma che si fece largo a forza sulla sua lingua. May sedette vicino a lui, osservandolo con una tranquillità che non rispecchiava il tumulto ombroso dei suoi occhi, una muta conferma di ciò che lui aveva appena supposto. Cercò di rivolgerle uno sguardo rassicurante, ma fallì miseramente.

«Non l’ha detto esplicitamente. Ha solo ribadito che può ancora proteggerti, se ti muovi adesso.»

Peter annuì distratto, senza nemmeno soppesare davvero quelle parole ormai vuote, dette da lui. Ci aveva pensato così tanto, in quei giorni. Ogni singolo secondo; una parte del suo cervello era sempre, costantemente dedita a venire a capo di quella scelta, ineluttabile sin dal principio.

Peter Parker o Spider-Man?

Gli era sembrato così semplice rispondere, quel giorno a Capitol Hill.

Il silenzio della notte era opprimente. Non sarebbe dovuto esistere, a New York: era una città che pulsava e respirava costantemente, incapace di essere muta. Adesso, però, sembrava aver perso la propria voce sotto gli stivali della Sable intenti a marciare per le sue strade. Persino le luci che si scorgevano dalla finestra sembravano più smorte.

Colse May che si agitava sul posto, stringendo tra loro le dita in un gesto repentino. Peter serrò a sua volta le labbra, con un vuoto che gli allargò il petto. La stava facendo preoccupare di nuovo. E la stava mettendo in pericolo – era già in pericolo.

«Zia May?» la chiamò semplicemente, invitandola a esternare ciò che l’aveva turbata.

Lei si riscosse di colpo, parlando subito, come per riflesso:

«Il punto è questo, Peter: se non ti rivelerai...» ingollò una boccata d’ossigeno con difficoltà, come se fosse solida. «Se non ti rivelerai, Tony potrebbe fare comunque il tuo nome? Per proteggerti?»

Peter si irrigidì, sentendosi gelare da quella possibilità che, no, non aveva considerato.

«Non... non credo.»

«Ma non lo sai per certo.»

«No. No, non lo so,» ammise controvoglia, slittando i denti tra loro con un cigolio molesto.

Fu il suo turno di immettere ossigeno solido nei polmoni, prendendo quel coraggio che stava accumulando da giorni, dall’arrivo del biglietto, dall’annuncio dell’Atto. Perché quella era l’unica cosa che potesse fare, l’unica strada che davvero gli rimaneva.

«May, in realtà io... ho preso una decisione. Non è quella che vorrei prendere, però.»

Fece fischiare l’aria tra i denti. Le stava tacendo il pericolo che correva. Quante bugie le aveva detto, ormai? Ma questa era l’ultima, se lo ripromise. Ancora e ancora, giurando di disfare quella fragile tela di bugie in cui si era imbozzolato da troppo tempo.

«Forse, però... è quella che devo prendere.»

Perché sì, ci aveva pensato. A lungo, in circoli viziosi di “se” e di “ma” e di “forse”. Ed era arrivato a un’unica conclusione a cui non aveva voluto dare contorni definiti fino ad ora: non poteva permettere che Kingpin continuasse ad avere quell’asso nella manica. 

Non poteva permettere che fosse il re indiscusso di quella partita in eterno scacco, né poteva accettare di essere una semplice pedina sacrificabile al minimo capriccio suo e di Osborn. Avrebbe dovuto giocare lui per primo, mandare all’aria la partita rischiando il tutto per tutto.

Era una decisione basata su ideali d’adamantio, ma retta da fondamenta reali fragili come cristallo.

«Zia May... devi fidarti di me. Qualunque cosa farò, devi fidarti e fare ciò che ti dico. Ti prego.»

Lo disse d’un fiato, senza guardarla se non nel pronunciare le ultime parole. Aveva parlato con un tale miscuglio di autorevolezza e incertezza che non sapeva nemmeno lui su che tono propendesse la sua voce. 

Oscillava, come ogni altra cosa nella sua vita. Come la sua identità e i suoi ideali, come Spider-Man da un palazzo all’altro, come Peter dal limbo alla realtà, come May tra la sicurezza e il pericolo. Voleva soltanto fermarsi, e sperare che anche tutto il resto facesse lo stesso.

Infine, May rispose con gli occhi improvvisamente lucidi, e lo fece in un modo che non si aspettava.

«Quando ho scoperto che eri Spider-Man, ero furiosa.»

Peter corrugò le sopracciglia, scrutandola attento a quella dichiarazione improvvisa. Una bolla di senso di colpa risalì acida lungo l’esofago.

«Lo so. Ti avevo mentito e...»

«Non è solo per quello,» lo fermò subito lei, giungendo più strettamente le dita lunghe e affusolate. «È che... per mesi avevo sentito parlare di questo Spider-Man come un criminale, come qualcuno che prendeva la giustizia nelle proprie mani e si sostituiva a chi di dovere. Ti avevano insultato per tutto quel tempo solo perché indossavi una maschera.»

«Non mi è mai importato di cosa...» intercettò lo sguardo di sua zia, fattosi addolorato, e abbassò il proprio. «Forse... forse un po’ sì,» ammise, con un pizzico di amarezza.

Tacque, ripensando a quei primi tempi che, a dispetto delle malelingue, gli sembravano ora quasi rosei. Nonostante zio Ben fosse venuto a mancare e nonostante si fosse trovato con un fardello di responsabilità tra capo e collo, indossava il costume come se fosse la sua libertà personale appallottolata nello zaino. 

Adesso anche il costume gli pesava addosso come piombo – una fitta di nostalgia gli attraversò le ossa, colmandolo di quei momenti sul filo del rasoio, ma comunque sereni, in qualche modo. 

Quando pattugliava le strade di New York con Iron Man. Quando, tra una ronda notturna e l’altra, si fermava a prendere un churro espresso a Jackson Heights. Quando andava in trasferta a Manhattan e si fermava a fare due chiacchiere con Matt sui ponti di Hell’s Kitchen, per poi prendere nel sacco i malviventi di turno. Quando tornava a casa esausto, ma soddisfatto di ogni livido e acciacco perché era stato utile a qualcosa e qualcuno.

Gli sembrava che tutto ciò fosse stato inghiottito dalla voragine dei cinque anni che continuavano a inseguirlo – e alla fine l’avevano raggiunto, minacciando di sottrargli tutto ciò che aveva di caro.

Sentì la mano di May premergli sul ginocchio e realizzò di essersi fatto assente, perso in quella dimensione idilliaca e cristallizzata nel passato. Rialzò lo sguardo su di lei, sapendo di sembrare solo un diciassettenne spaurito, e non un eroe casualmente salvatore dell’universo. May sorrise appena.

«Io so che mio nipote non è un criminale. Sono fiera di te, Pete... lo sai, anche se non te lo dico abbastanza spesso. Non hai bisogno di una maschera per nascondere ciò che fai, perché non potrà mai essere sbagliato nelle intenzioni. Tu sei incapace di fare del male a qualcuno. Hai sempre protetto chi non poteva farlo da solo e hai sempre difeso i valori che io e Ben ti abbiamo trasmesso.» Fece una pausa, stringendo le labbra in un sorriso impaurito e commosso. «E se adesso deciderai di farlo a volto scoperto... io sono pronta a correre il rischio.»

Peter le strinse la mano d’istinto, aggrappandosi a quella stretta calda che conosceva meglio di qualunque altra.

Inspirò forte dal naso... e stavolta l’aria non sembrò acido nelle narici, né densa come melassa. Non bruciò nemmeno nei polmoni. Entrò e uscì lievemente, filtrata a dovere, senza intoppi di sorta.

Si strinse i polsi, cingendo gli spara-ragnatele con le dita in cerca di un ulteriore appiglio, ma sentiva di averlo già trovato. Fiducia

Si sentì calmo, per la prima volta da mesi. Il senso di ragno scampanellava in sottofondo... ma era un semplice scacciapensieri mosso dal vento, un cicalio tranquillizzante.

Solo allora comprese che, finalmente, anche lui era pronto a correre il rischio. Si alzò saldo sulle gambe, posando un bacio leggero sulla fronte di May.

«Prepara una borsa. Dobbiamo andarcene da qui.»







 


Note dell’Autrice:

Cari Lettori,
eviterò qualunque tentativo di spiegare o motivare la mia assenza in questi mesi... sappiate solo che Back in Black è tornata ♥ Con i soliti aggiornamenti saltuari e sospirati, ma è tornata.

Spero abbiate gradito il capitolo. Purtroppo è un po’ di raccordo, perché andava scoperto qualche altarino e fatto il punto della situazione, ma dal prossimo ricominciamo col movimento ;)
Grazie di cuore a tutti coloro che hanno continuato a seguirla, votarla, leggerla e commentarla durante tutto questo tempo. Il vostro supporto è importante, sappiatelo ♥ E grazie alla mia Guascosa
Miryel ♥ So che lo aspettavi!

Alla prossima (promesso!)

-Light-

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Capitolo 11
*** Down came the rain... ***


Spider-Man: Back In Black

 

§

 

Capitolo X

Down came the rain...

 

 

"Shout, shout, let it all out
These are the things I can do without
Come on, I’m talking to you, come on
In violent times
You shouldn’t have to sell your soul
In black and white
They really, really ought to know"
[Shout – Tears For Fear]

 

23 giugno, Astoria Heights, Queens
 

Era incredibile quanto fosse semplice violare e ingannare dei sistemi governativi avendo a disposizione i mezzi giusti. E uno degli innegabili vantaggi della Iron-Spider era avere molto più dei "mezzi giusti": offriva un vero e proprio arsenale di hackeraggio e spionaggio portatile.

Peter aveva provato nausea, nel ripescare fuori la valigetta rosso-oro da sotto al letto, e ancor più nel liberare i nanobot dal loro alloggio sentendoseli zampettare addosso come una miriade di formiche metalliche. Quello era il costume in cui era morto. Ed era stato progettato e assemblato in modo da essere complementare a quello di Iron Man, a Tony – l’ultima persona con cui avrebbe voluto interagire al momento...

Gli ci era voluto ogni briciolo di forza di volontà per permettere al costume metallico di saldarsi su di lui come una seconda pelle, e ancor di più per non lasciarselo scivolare di dosso dopo pochi istanti. L’impressione era di essere rinchiuso in una gabbia opprimente, pronta però a sfaldarsi al minimo tocco.

Non avrebbe mai voluto indossarla, anche solo per principio, ma sentiva di aver già dimostrato la propria buona dose di testardaggine e ribellione. In quel momento non poteva permettersi di aggrapparsi a emozioni così futili e immature, non quando lui stesso pendeva da un filo di una ragnatela troppo sottile. Rinunciare a quella protezione e ai vantaggi che offriva sarebbe stato come fare un torto a se stesso e a May, piuttosto che a Tony.

Si sforzò di vedere il tutto da una prospettiva diversa: era il costume in cui era tornato, e gli era stato donato da qualcuno che, a dispetto di tutti i dissapori, gli voleva bene e teneva alla sua incolumità. Era uno strumento; un semplice strumento senz’anima.

Volteggiava così tra i grattacieli del Queens affacciati sulla baia, reso pressoché invisibile dai nanobot riflettenti e risultando non tracciabile grazie alle frequenze di disturbo emesse dal costume. Quando superò l’imbocco del Rikers Island Bridge senza destare alcun allarme, grazie ai sensori che gli indicavano i coni di rilevamento delle telecamere, seppe di aver fatto la scelta giusta, a superare le proprie paure e antipatie. Lasciandogli l’Iron-Spider, Tony gli aveva inconsapevolmente offerto l’opportunità perfetta per portare avanti quella parte di piano folle che, senza quel costume hi-tech, gli sarebbe risultata impossibile.

Proseguì per un tratto sotto al ponte, agganciando le ragnatele a piloni e travi di sostegno; verso la fine della struttura impennò l’oscillazione verso l’alto, sfiorando le onde turbolente dell’East River e slanciandosi poi oltre il parapetto. Atterrò su uno degli ultimi lampioni che costeggiavano la strada sopraelevata, proprio al limitare della zona sorvegliata.

La massiccia silhouette del penitenziario di massima sicurezza si stagliava nel riverbero della città perennemente sveglia, sorgendo dall’isola di Ryker’s come se fosse tutt’uno con le sue coste a strapiombo. Aveva l’aria di una fortezza stregata, che non avrebbe sfigurato come scenario di un film horror, magari con un paio di lampi a illuminarla tetramente. Quasi avesse letto la sua mente, il cielo mandò un basso e minaccioso brontolio, foriero di un temporale estivo.

Peter fissò la struttura dal suo trespolo, permettendo a Karen di scandagliare l’area circostante, rivelando telecamere, sensori di movimento e ronde delle pattuglie. L’intera area era un intersecarsi e sovrapporsi di diversi sistemi di sicurezza, umani e non, meticolosamente studiati per far sì che i carcerati non sconfinassero dal loro luogo di reclusione.

Un’area ben definita del penitenziario riluceva appena le fioco riverbero artificiale, rivestita d’acciaio e placche di vibranio, a segnalare la sezione destinata ai superumani e potenziati in attesa di trasferimento alla RAFT. Peter vi puntò lo sguardo, ingrandendola con un battito di ciglia, e Karen provvide a delineare in rosso il perimetro esterno della struttura e in blu la planimetria interna delle celle, comodamente recuperata da uno degli archivi SHIELD a cui aveva accesso. Una di esse si evidenziò in verde lampeggiante, a segnalare quella occupata da Mr. Negative, alias Martin Li.

Tramite un altro paio di sguardi e indicazioni a mezza voce, Karen stilò un tortuoso percorso di balzi, oscillazioni e brevi arrampicate che gli avrebbe permesso di evitare ogni sistema di sicurezza, disabilitando al bisogno questa o quella telecamera fino al punto d’accesso più vicino, ovvero una minuscola bocchetta d’aerazione affacciata sull’esterno.


Peter rilasciò un respiro, perso nellafosa e umida aria di giugno. Gli formicolarono le dita mentre già si preparava a sfrecciare verso il suo obiettivo. Stava commettendo una follia, ne era ben conscio. Ma era una follia che, nellottica del suo piano per far sopravvivere Spider-Man, era dimportanza cruciale. Non aveva tempo da perdere.

Spiccò il balzo, col lieve vibrare del lampione come unico segnale della sua presenza. Si lasciò cadere per qualche decina di metri, oltre il parapetto del ponte, per poi lanciare una ragnatela e sollevarsi in un arco aggraziato che lo portò ad appigliarsi in punta di dita al muro di cinta esterno. Gattonò silenzioso a filo col cornicione, seguendo un percorso zigzagante che gli permise di evitare le telecamere, per poi scavalcarlo con un salto ben calibrato, atterrando su un camminamento metallico. La guardia di ronda era appena sotto di lui, intenta a scendere le scalette, mentre unaltra già saliva a prendere il suo posto.

Svelto, Peter si calò lungo lalta struttura delle scale come un ginnasta sulle parallele, oscillando coi palmi dalle balaustre per frenare la caduta e rimanendo nellombra densa delle mura di Rykers. Rimase invisibile a occhi umani e atterrò nel cortile in cemento armato, ancora tiepido dopo lintenso calore diurno.

Attese tre secondi e cinque decimi netti, quanti ne segnava il timer di Karen nella sua visione periferica, e, quando anche il senso di ragno scampanellò in sincrono con lo zero, si slanciò rasoterra, rotolando oltre una telecamera ormai cieca. Schivò il cono di luce di un riflettore mobile e si issò rapido sulla cima della torretta di guardia centrale, rimanendo al riparo di unantenna parabolica lampeggiante. Trattenne il respiro quando la guardia di turno lassù sollevò il naso verso lalto, pressappoco nella sua direzione. Luomo aggrottò le sopracciglia, andando a fissare esattamente il punto in cui si trovava. Peter sudò freddo, a dispetto della consapevolezza di essere invisibile; con un battito di ciglia, Karen prese subito a formulare una rapida via di fuga in caso di allarme... ma la guardia estese infine un palmo davanti a sé, come a controllare se stesse piovendo, e scrollò le spalle con indifferenza, lo sguardo di nuovo puntato sul cortile irrorato da accecanti fasci di luce zigzaganti.

Peter permise allaria trattenuta nei polmoni di fuoriuscire lentamente, in un sibilo soffuso che raschiò contro la superficie dura della maschera, invece di trapelare oltre le strette maglie sintetiche come al solito.

Riprese la sua avanzata e, dopo qualche altro volteggio, un paio di capriole e un salto acrobatico allindietro per evitare il fuoco incrociato di due telecamere ravvicinate, posò infine piede sulla superficie corazzata della sezione potenziati. Era gelida nonostante la temperatura elevata – lo percepì anche attraverso la duttile lamina metallica dei polpastrelli e delle piante dei piedi. 

Il suo senso di ragno prese a ronzare sommessamente, quasi percependo la presenza disturbante che i supercriminali rinchiusi là dentro si erano lasciati alle spalle. Al momento, Martin Li ne era lunico occupante. Lo sentiva, ne riconobbe laura negativa. Era come se un piccolo buco nero oscurasse una porzione del suo radar ragnesco.

Peter deglutì, strisciando pancia a terra – o meglio, a muro – fino alla bocchetta dareazione. Con una lieve pressione delle dita sullo sterno, il ragno che lo decorava fuoriuscì dal suo alloggio e, dopo essersi sgranchito le sottili zampette dorate, sintrufolò nel ristretto cunicolo seguendo il semplice movimento delle pupille di Peter, che continuò a guidarlo nellintrico di biforcazioni. 

Esitò un istante, prima di incitarlo a sbucar fuori nella cella di Mr. Negative, rimanendo ad osservarne langusto e spartano interno dalla soglia del condotto.

Martin Li non dormiva. Era seduto sulla sua brandina di metallo inchiodata al pavimento, con lo sguardo fisso verso la porta blindata. Il letto era lunico arredo, a parte il gabinetto nellangolo opposto. Non vi erano finestre, nemmeno una misera feritoia che permettesse al prigioniero di scorgere il sole, di distinguere il giorno dalla notte.

Peter, ancorato al muro esterno, contrasse appena le dita contro la superficie levigata. Comprendeva il perché di quelle misure di sicurezza, ovvio: aveva visto Mr. Negative in azione, così come elementi altrettanto pericolosi come Rhino o Shocker, in grado di radere al suolo un intero edificio in un battito di ciglia. Ma ciò non rendeva più umane o più giuste quelle condizioni. E la RAFT, dai racconti che aveva carpito al Complesso dalle bocche di chi vi aveva passato poco tempo – ma pur sempre troppo – era ancora peggio.

Sarebbe potuto finire anche lui in una cella simile, se la Sable lavesse accalappiato per le strade di New York alla stregua di un cane randagio. Aveva sempre compreso le preoccupazioni di Tony in merito alla sua possibile reclusione, ma, in quellistante, sentì di capirle un po più a fondo.

Il ragno robotico svicolò fuori dal condotto e andò a piantare i morsetti delle sue zampe anteriori nel circuito della telecamera di sorveglianza, precipitandola in un loop infinito degli ultimi venti secondi. Fu fin troppo facile, a dirla tutta: probabilmente, chi aveva progettato la cella non si aspettava nemmeno che qualcuno potesse arrivare fin lì. Di certo, non si aspettavano che qualcuno fosse in possesso delle planimetrie interne di Rykers.

Il ragno si calò dal soffitto tramite un sottile filo sintetico e atterrò con un sommesso tap sul pavimento di piastre in vibranio. Gli occhi scuri e senza fondo di Li scattarono allistante verso il rumore, illuminandosi per un singolo momento di una luce perlacea; prima che potesse decidere che quel congegno fosse una minaccia, Peter attivò il dispositivo di trasmissione: il ragno emise un fascio di luce azzurrina, proiettando unimmagine di Spider-Man, e Peter si trovò a osservare la scena dagli occhi della sua controparte olografica, trovandosi faccia a faccia con Li.

«Oh, buonasera» esordì, con voce fin troppo squillante. «Passavo di qua, sa comè, e ho deciso di fare una capatina tra una retata della Sable e laltra.»

Lologramma gesticolò in sincrono con le sue intenzioni, alzando le spalle e andando poi a incrociare le braccia in una posa spavalda che non sentiva affatto sua. Fingere di non essere un adolescente sfigato era normalmente difficile, anche con lausilio della maschera e del costume. Fingere con Martin Li, che conosceva il volto delladolescente sfigato di fronte a sé, rendeva il suo scudo di falsa spigliatezza e umorismo sopra le righe del tutto superfluo.

«Peter.»

Sentirgli pronunciare quel nome fu sufficiente a farlo quasi barcollare sul posto. Il tono del potenziato fu piatto e privo dinflessione, ma tradì una punta di... gentilezza? La stessa con la quale lo accoglieva al FEAST, quando, dopo scuola, passava a dare una mano a lui e a zia May.

«Mr. Negative» ribatté Peter, per un istante restio ad abbandonare le apparenze; poi schioccò sommessamente le labbra, sbuffando appena: «Sembra che adesso io e lei siamo davvero diventati colleghi, eh?»

Martin Li non ribatté e si alzò dalla brandina. Senza il consueto completo elegante sembrava più basso, più ingobbito, come se le sue stesse spalle avessero un peso fisico e opprimente. Luniforme grigia e stinta di Rykers gli cadeva sformata addosso; lorlo dei pantaloni larghi strusciava a terra, coprendo quasi del tutto i piedi nudi. Peter non riusciva a venire a patti col fatto che la sua voce, a dispetto di tutto, suonasse esattamente come la ricordava: pacata, con un timbro rasserenante e una lieve inflessione orientale che ne smussava le parole.

Il riflesso di un sorriso sardonico gli illuminò il volto per un singolo istante.

«Lo siamo da sempre, Spider-Man.»

«Forse lo siamo stati, ma non da potenziati e di certo non da supereroi. Non cè niente di "eroico" in ciò che fa lei come "Mr. Negative"» ribatté Peter, affilando ogni parola con la delusione che continuava a covargli dentro.

Li sollevò appena le sopracciglia scure. Sembrò divertito, o forse solo incuriosito dalla sua osservazione.

«Adesso sei qui come Peter o come Spider-Man?»

Quella domanda imprevista lo fece quasi vacillare, ma lologramma rimase statico, senza cedere al suo guizzo di nervosismo reale. Peter incrociò più strettamente le braccia, per poi piantare le mani sui fianchi.

«Vorrei dire "entrambi"... ma così saremmo in quattro qua dentro, tra noi e i nostri alter ego, e mi sembra già abbastanza stretto» ribatté, ruotando il capo a indicare la cella.

Peter strusciò la pianta di un piede a terra – anzi, a mezzaria – per poi riportare lo sguardo su di lui, scrollando appena la testa.

«Sono qui semplicemente per avere delle risposte. Non credo faccia differenza chi le richiede.»

Stavolta, Martin si concesse un sorriso pieno, sebbene incolore.

«E cosa ti fa pensare che io voglia dartele?»

«Perché noi "non siamo così diversi". O sbaglio?»

E, prima che Li riuscisse a proferire anche una sola parola, gettò sul tavolo il suo asso:

«Lei quanto odia Osborn per ciò che le ha fatto?»

La sola menzione del suo nome fece sfrigolare laria compressa in quel cubicolo di vibranio. Gli occhi di Li si ammantarono dellormai nota luce fluorescente per un istante, per poi tornare opali dalla pupilla indistinguibile dalliride.

«Lhai capito, quindi» affermò, con appena la sporcatura di un interrogativo in quelle parole.

«Non è stato difficile» mentì Peter, ripensando a quanto fosse stato in realtà ottuso. «Ci sono passato anchio, dopotutto. Le opzioni con cui acquisire dei superpoteri in modo accidentale sono limitate, qui a New York... e la maggior parte di esse ha a che fare con la Oscorp.»

«Ottimo intuito, Peter

Li sorrise, con una striatura denergia negativa non repressa che gli sbocciò in volto, striandogli i denti di nero e gli occhi di bianco.

Il picco di quellonda oscura scemò subito, restituendogli i suoi colori naturali, ma Peter sentì comunque un brivido che gli risaliva la schiena. Prima che potesse chiedergli altro – come, dove, perché aveva acquisito i suoi poteri – Li riprese a parlare:

«Immagina,» esordì, con la voce improvvisamente pesante quasi se fosse resa viscosa dal catrame, «che, per colpa dei tuoi poteri – dei poteri che tu non hai mai desiderato – qualcuno di molto vicino a te morisse

Peter, aggrappato allesterno, quasi perse la presa sulla superficie metallica della prigione. Sentì il cuore precipitare verso il basso, sprofondandogli nelle viscere.

Non voleva immaginarlo. Non voleva nemmeno permettere al proprio cervello di comprendere appieno le parole di Martin Li, per evitare che si trasformassero in immagini – in ricordi e paure future in cui cercava di districarsi ogni giorno.

«Ecco, questo è quanto io odio Osborn. Ed è il motivo per cui ho accettato lincarico dellattentato. Lobiettivo era rovinarlo. Trascinare il suo nome nel fango e mettere a nudo gli orrori che nasconde dietro il suo marchio.»

«Si aspetta che io le creda? Ha tentato di ucciderlo!»

«Ho detto che quello era lobiettivo, Peter. Non il mio obiettivo.»

Peter frenò il suo impeto, sforzandosi di analizzare quellaffermazione che, in qualche modo, gli suonava logica. Non credeva che il discorso sarebbe andato a toccare direttamente lui, ma non poté tirarsi indietro nel vedere unapertura per saperne di più:

«Allora... era quello di Kingpin?»

Li sorrise di nuovo, stavolta con una tinta tetra a scurirgli le labbra.

«Kingpin voleva un martire. Un Campbell qualsiasi da sacrificare in piazza per attirare lattenzione sui superumani. E su Osborn. Ha funzionato, a quanto pare, e Norman perderà di certo lappoggio per diventare sindaci... Kingpin ha già pronto un altro fantoccio da piazzare al suo posto.»

«È per questo che ci ha lasciato una pista, in quel magazzino?»

Li non rispose, ma non negò nemmeno. Bastò quel breve silenzio, a confermare che fosse lui, lautore del collage.

«Uccidere Osborn senza sollevare dubbi sul suo operato lavrebbe reso un martire della causa contro i superumani. No, su questo concordo con Kingpin: Norman Osborn e la Oscorp devono affondare nel fango da loro creato.» fece una breve pausa, stringendo gli occhi a mandorla. «E se tu non ti fossi intromesso, Spider-Man, adesso non ci sarebbe nemmeno qualcuno da portare sul banco degli imputati con uno stuolo di avvocati alle spalle. Non sarebbe stato un martirio, ma una giusta esecuzione!»

Li sfrigoló di rabbia, generando un breve scoppiettio nellaria. Di nuovo, Peter non riuscì a conciliare limmagine del mite signor Li con quella dello spietato Mr. Negative. Scelse di ignorare quellultima invettiva, osservando, invece, i mille pezzi di quel puzzle monumentale che andavano finalmente al loro posto. Ad eccezione di uno.

Peter puntò il dito contro di lui:

«Ma così, in ogni caso... lei sarebbe finito qua dentro. Perché accettare questo rischio? Non ha senso, non ha nemmeno cercato di–»

Si interruppe, realizzandolo solo allora: Li non era fuggito quando ne aveva avuto loccasione, né aveva tentato di farlo in seguito

Martin Li, a quel punto, sembrò intristirsi. Le rughe irate che increspavano il suo volto si appianarono, lasciando spazio a scalfitture più minute attorno agli occhi.

«Tu quanto odi Osborn, Peter?»

Lui batté le palpebre, di nuovo colto alla sprovvista dalle improvvise virate di Li.

«Odiarlo? Non mi ha fatto nulla. Perché mai dovrei–»

«Se pretendi sincerità da me, forse dovresti essere il primo a dimostrarla, non credi?» lo interruppe bruscamente, quasi in un ringhio.

Peter serrò le labbra. Quella era la verità. Ammettere di odiarlo sarebbe stata una bugia molto più comoda, che gli avrebbe fornito qualcuno con cui prendersela per i propri errori, oltre a se stesso. Si chiese se May gli avesse mai raccontato di Ben, di come era morto. Se Li avesse mai collegato tutti quei fatti apparentemente privi di contatto.

«Non odio Osborn» ripeté poi, con ogni parola che pesava in gola. «Osborn mi ha dato dei poteri contro la mia volontà. Ma sono io a scegliere che uso farne. Se qualcuno morisse per colpa loro, il responsabile sarei solo io. E nessun altro.»

E nessun altro, si ripeté, serrando gli occhi sui ricordi ancora troppo vividi.

Inaspettatamente, Li ridacchiò, un suono gutturale che rimase intrappolato dietro alle sue labbra serrate.

«Che parole nobili. Ma tu hai avuto una scelta, dopotutto.»

«Anche lei ce lha!» quasi gridò Peter, smorzando la voce a fatica. «E sta scegliendo di fare del male a delle persone innocenti!»

«Osborn non si è mai fatto scrupoli. Non puoi battere un mostro del genere giocando pulito! Non vado fiero di ciò che ho fatto, ma era necessario – era lunico modo che mi rimaneva!»

Li si arrestò, quasi affannato, con nuovi lampi neri e bianchi che gli balenavano sul volto e negli occhi. Poi risucchiò un respiro, scuotendo la testa quasi tra sé.

«Mi chiedi perché non sono scappato» riprese allora, serrando i pugni. «Non sono scappato perché anchio ho delle "responsabilità". Io sono un testimone. Anzi, una prova. La prova degli illeciti di Osborn, come lo sei anche tu» aggiunse, indicandolo seccamente. «Dubito che mi permetteranno mai di testimoniare contro la Oscorp, ma finché esisto posso pensare di avere ancora uno scopo nella vita che mi rimane,» finì, quasi in un mormorio.

Peter avvertì una confusa girandola di emozioni nello stomaco. Rabbia, per i crimini di Li. Compassione, al pensiero che fosse disperato al punto da considerarsi alla stregua di un oggetto funzionale al suo obiettivo. Tristezza, nel sapere che nessuno, nella situazione corrente, avrebbe mai dato adito alle parole di un superumano macchiatosi di omicidio.

Trasse un respiro profondo, prima di battere rapido le palpebre, impartendo un comando al robot. Il suo ologramma lo eseguì, e la maschera di Spider-Man si ritirò dal suo volto, permettendo a Martin di fissarlo negli occhi, sebbene solo digitalmente. Luomo non trattenne la sorpresa e mosse un passo indietro, nonostante sapesse già chi ci fosse là sotto.

«Signor Li,» cominciò, prima di potersi fermare, «io non posso liberarla, né posso prometterle che Norman Osborn verrà condannato grazie a lei. Non voglio farlo,» si corresse, aggrottando le sopracciglia, «perché... perché lei è esattamente dove dovrebbe essere. Ed è giusto così.»

Li reclinò la testa allindietro, in muto ascolto, le labbra ancora schiuse per lo sconcerto.

«Ma posso fare in modo che abbia giustizia. Una giustizia vera, senza altre morti innocenti.»

Li scosse la testa con forza, anche se i suoi occhi rimasero incerti – forse speranzosi.

«Mi sembra che tu abbia già abbastanza problemi così, per essere un ragazzino» commentò poi con amarezza, gettando unocchiata verso il muro, oltre il quale la Sable pattugliava le strade a caccia di superumani.

«Questo non mi ha mai fermato, signor Li» ribatté pronto Peter, sollevando il mento in un guizzo di fierezza. «Da grandi poteri derivano grandi responsabilità. E io ho scelto di non tirarmi mai più indietro.»

Le parole di zio Ben sembrarono riversarsi direttamente dal suo ricordo sino alle sue labbra, chiedendo di essere ripetute. Ne avvertì il sapore salato in fondo alla gola.

Gli occhi di Martin Li, ora neri e insondabili, ma non più carichi dira, si appuntarono nei suoi, come se volessero sondarlo nel profondo. Poi, gli voltò le spalle, offrendogli il grigio sbiadito della propria uniforme.

Peter, fuori dalla cella, tirò le labbra e appoggiò il capo contro il muro viscido di pioggia, accettando la sconfitta. Non insistette. Quella conversazione era stata una piccola vittoria, nonostante tutto: aveva avuto delle risposte, anche se non tutte. Avrebbe potuto riferirle a May, almeno una parte. Per il resto, rimaneva tutto nelle sue mani: nulla era cambiato.

Ordinò alla maschera di ricomporsi davanti al suo volto; stava per congedarsi e recuperare il ragno robotico, quando Li sollevò di scatto la testa, parlando senza preavviso:

«Sottosezione C, Esperimento GR-27, file 33-42. Li Martin, Shī e Yue» enunciò, scandendo con chiarezza ogni parola, in particolare quei nomi, dai quali trapelò un accento più morbido e cantato, reminiscente della sua patria. «Non avrai certo difficoltà a intrufolarti negli archivi della Oscorp. E se sei ancora convinto che io abbia avuto una scelta, forse cambierai idea dopo aver letto quel rapporto» concluse, sempre senza guardarlo.

Peter annuì in silenzio, pur sapendo che non poteva vederlo.

«Signor Li» lo chiamò unultima volta, spingendolo stavolta a lanciargli unocchiata sbieca da sopra la spalla. «Se crede di non aver avuto una scelta, pensi al FEAST e a tutto ciò che ha sempre fatto per gli altri. Era quella, la sua unica responsabilità. E lha gettata via con le sue mani.»

Vide il guizzo di rabbia negli occhi di Li, ma non gli diede modo di esternarla: Peter disattivò lologramma, lasciandolo nel buio della sua cella e dei suoi pensieri animati da scariche negative.

 


 


Note dell’Autrice:

Cari Lettori... ho forse scuse? Nah, manco ci provo a elaborarle; sarebbero inutili!
Riprendo questa storia una volta ogni mille anni, lo so, ma va così. Sono solo contenta di portarla avanti quando posso, e che ci sia ancora qualche sporadico lettore che la scopre e qualche fedelissimo che la segue ♥

Al prossimo aggiornamento, con uno dei capitoli più esplosivi della storia!

-Light-

P.S. Vi informo che ho riletto e revisionato questo capitolo un po’ alla carlona, quindi se notate delle sviste/ripetizioni segnalatele pure, ma ci tornerò comunque su nei prossimi giorni. Dopo così tanto tempo, o finivo di scrivere e pubblicavo subito, o sarei entrata in stallo per altri 6 mesi :’)

 



 

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Capitolo 12
*** ... and washed the spider out ***


Spider-Man: Back In Black

 

§

 

Capitolo XI

... and washed the spider out




“Will you bite the hand that feeds?
Will you chew until it bleeds?
Can you get up off your knees?
Are you brave enough to see?

Do you wanna change it?"
[The Hand That Feeds  – Nine Inch Nails]

 

 

 

23 giugno, Manhattan, Star Tower


C era una linea molto sottile tra coraggio e follia e, man mano che Peter avanzava carponi sulla parete di vetro esterna della Stark Tower, gli diveniva sempre più chiaro quanto si stesse sbilanciando verso questultima.
Poteva ripetersi mille volte di stare seguendo un piano ben preciso, affatto improvvisato, ma la sensazione rimaneva quella di essere un funambolo sul punto di cadere nel vuoto.

Si arrampicò in un paio di balzi sulla gigantesca “K” dell’insegna
 STARK che campeggiava in cima alla Tower e volteggiò oltre la balaustra della piattaforma datterraggio per elicotteri, dandosi lo slancio con una ragnatela. Nessun sensore dallarme si attivò, proprio come previsto da Karen: nonostante vi fosse una caccia alluomo - anzi, al ragno - in corso, Tony sembrava aver provvidenzialmente dimenticato di inserire i suoi dati biometrici nella lista delle potenziali minacce.

Scansionò lattico della Tower tramite la visione termica, trovando ben presto ciò che cercava. Si focalizzò sul puntino rosso, non rilevando altre presenze. Avanzò quindi senza esitazioni verso la porta a vetri, aprendola senza impedimenti, e si addentrò nel salone senza curarsi di mascherare la sua presenza.

«Buonasera, signor Stark,» si annunciò, una volta arrivato alle spalle del padrone di casa, seduto sul divano.

Tony non sobbalzò nemmeno, probabilmente al corrente della sua presenza sin dal momento in cui aveva iniziato a scalare la Tower.

Si limitò ad alzare lo sguardo verso lenorme schermo TV di fronte a lui, fissandolo dal riflesso sulla superficie spenta e nera.

«Ehi, Parker,» disse, con voce più tesa del normale. «Iniziavo a chiedermi quando ti saresti fatto vivo.»

«Mi aspettava?» chiese Peter, senza curarsi di nascondere il sottotono pungente di quella domanda.

«In verità, no,» lo sorprese Tony, voltandosi infine a guardarlo. «Per una volta, posso dire che mi hai sorpreso in positivo. Non pensavo che ti avrei visto più, dopo lannuncio di Osborn.»

«Neanchio,» replicò freddamente Peter, abbassando per un istante lo sguardo, anche se celato dalla maschera.

Non gli diede la soddisfazione di mostrare rammarico per quella loro separazione, anche se era stata dolorosa.

Tony non accennò ad alzarsi e Peter si chiese, in sordina, se fosse per via delle ferite. Lustione che gli attraversava il volto, in effetti, sembrava spiccare in modo più deciso, nel salone illuminato solo dalla luce soffusa di una lampada da lettura e dalle nuci di New York oltre la vetrata. Che avesse usato di nuovo larmatura? Forse si era unito alla caccia all’uomo nelle vesti di Iron Man, fingendo di schierarsi dalla parte della Sable? Peter non sapeva e non voleva darsi risposta.

«L’allarme non è suonato,» osservò Peter, cercando di mostrarsi indifferente a quel fatto.

«Stanno cercando Spider-Man, non Peter Parker,» replicò prontamente lui. «Vedo che hai accettato il mio consiglio,» continuò poi, additando la Iron-Spider.


Peter scrollò le spalle, d’un tratto consapevole del peso metallico posato sulle sue spalle.

«Sarebbe stato da stupidi non farlo, con la Sable che mi spara a vista.»

Vide Tony accigliarsi a quell’affermazione, e sentì il cuore sprofondare in un piccolo buco nero. In realtà, era stato abbastanza scaltro da non farsi mai individuare, né tantomeno sparare addosso, ma poteva permettersi una piccola bugia, dopo tutte quelle che gli aveva rifilato Tony. L’uomo scosse la testa, massaggiandosi la radice del naso come a placare una fitta di emicrania.

«Perché sei venuto da me, Peter?»

La voce di Tony sembrò addolcirsi appena sul suo nome, come se stesse tentando, in qualche modo, di riportare il discorso sul terreno che aveva sempre conosciuto - quello del mentore e del protetto. Peter deglutì, sentendo la bocca secca e i palmi sudati nel ripensare a tutti quei discorsi e discussioni, ormai così lontani da sembrare appartenere a un’altra epoca, ancor più lontana di quella prima dello schiocco.

Almeno, quando era sparito, non aveva avuto alcuna nozione del tempo che passava, anche se la parte più recondita della sua mente ricordava fin troppo bene la prigione ambrata in cui aveva vagato per cinque anni. In quei mesi, invece, era stato perfettamente consapevole di ogni passo che aveva compiuto, di ogni errore, di ogni azzardo, di ogni conseguenza che si era abbattuta su di lui e su chi gli stava accanto.

Prese un respiro profondo, prima di rispondere. Le parole tremarono appena, non per l’insicurezza, ma per il peso che portavano con sé:

«Sono qui per mostrare a New York di essere davvero il miglior vigilante che abbia mai avuto.»

 

§



Due ore dopo...

Il confine tra coraggio e follia si era annullato del tutto nel momento in cui Peter aveva varcato la soglia della sede centrale del Daily Bugle, sotto gli occhi esterrefatti della sicurezza e dei pochi reporter che si erano trattenuti a fare le ore piccole - follia, quella che stava per compiere era una totale follia.

Nonostante il passo fermo che si imponeva di mantenere, sentiva le gambe di gelatina e ogni paio d’occhi che gli si appuntava addosso sembrava perforarlo da parte a parte attraverso la cromatura della Iron Spider. Tony avanzava senza la minima esitazione accanto a lui, avvolto dai toni speculari rosso-oro della sua armatura, col passo di chi entra a casa propria e si aspetta che vengano rispettate le proprie regole.

Nel giro di un quarto d’ora dal loro arrivo, si ritrovarono stipati in un ufficio secondario, con la promessa che il signor Jameson avrebbe approntato al più presto la sala principale per quella conferenza stampa improvvisata. Peter storse il naso al solo sentire il suo nome e, a dispetto della maschera metallica che celava il volto di Tony, era certo che anche la sua espressione non fosse molto più amichevole.

«Perché il Daily Bugle, di tutti i giornali?»

«Strategia, ragazzo,» replicò Tony, picchiettando l’alloggio per nanoparticelle sul suo petto per permettere all’armatura di ritrarsi in un batter d’occhi. «Piazzarsi sul palcoscenico nemico vuol dire coglierne anche gli applausi, oltre ai fischi.»

Detto ciò, si lasciò cadere poco elegantemente sulla sedia imbottita più vicina, del tipo che ci si poteva aspettare di vedere nella sala d’attesa di uno studio medico. Peter si accigliò, invisibile, nel notare la smorfia che attraversò il volto del suo mentore. L’uso dell’armatura e tutti quegli sforzi lo stavano chiaramente provando, ma Peter sigillò le labbra e non commentò. Aveva preoccupazioni ben più urgenti del benessere di Tony, al momento, per quanto si sentisse meschino a pensarlo.

Una parte della sua mente rimaneva agganciata come un uncino doloroso a zia May, pregando con tutto se stesso che fosse davvero al sicuro. Non aveva motivo di dubitare di Murdock, anch’egli nel mirino della Sable e con il medesimo interesse a fare squadra contro Osborn e Kingpin, ma sapeva fin troppo bene che gli imprevisti erano sempre in agguato dietro l’angolo. Il fatto di non sapere dove fosse sua zia era solo un’ulteriore precauzione - le cose potevano benissimo andare storte, la Sable avrebbe potuto comunque decidere di arrestarlo o interrogarlo: era meglio sapere il meno possibile.

Dall’altra parte, sentiva la pressione schiacciante di ciò che si stava apprestando a fare, con un sapore acido di bile che, a tratti, gli invadeva la bocca, facendogli montare la nausea. Ma quella era l’unica carta che poteva giocare, l’unica arma che gli rimaneva contro Kingpin, l’unico modo per rompere la ragnatela in cui l’aveva intrappolato. Nulla di tutto ciò rendeva più facile quel passo nel vuoto: stava controllando a stento l’impulso di camminare avanti e indietro nel piccolo ufficio, limitandosi a molleggiare sulle ginocchia e sui talloni con la sensazione di oscillare a chilometri d’altezza.

«Signor Stark,» chiamò infine, facendogli alzare di scatto lo sguardo, che si fissò interrogativamente su di lui.

A occhi ingenui, con il suo solito completo su misura, l’orologio di marca e il pizzetto ben curato, poteva sembrare il solito Tony Stark, geniale, impertinente e dalla battuta pronta. Bastava intaccare la superficie, però, per capire che indossava la maschera di Iron Man, anche se l’armatura era ben riposta nel suo alloggio. Oltre al reattore arc ancorato sul petto, indossava gli occhiali EDITH e il bracciale in grado di sprigionare il guanto-repulsore. Tony era pronto alla guerra, e non si curava di nasconderlo agli occhi di chi l’aveva già visto combattere.

«Dimmi,» lo incoraggiò con un cenno del mento, notando il suo prolungato silenzio.

Peter prese un lungo, grosso respiro prima di continuare, decidendo di abbattere ogni barriera. Appianando i livelli del discorso, portando entrambi sullo stesso gradino del podio, dimenticando per un istante di no nessere più il Tony Stark e il Peter Parker di cinque anni prima.

«Lei... lei perché ha rivelato di essere Iron Man?»

L’occhiata che Tony gli rivolse fu strana e indecifrabile, persino per i suoi standard. Capì di averlo spiazzato, come di rado accadeva. Storse il naso, inspirando seccamente e scostando altrove lo sguardo.

«Per i riflettori, no? Per la buona pubblicità, per ricostruirmi un’immagine... strategia, ragazzo, proprio come la nostra adesso.»

Peter scosse la testa e, dopo una rapida occhiata attorno a sé, ritirò la maschera dal volto, fissandolo direttamente negli occhi.

«No. Era famoso anche prima, e non...» allargò le braccia, irritato. «Tony, la mia è una domanda seria, non te la farei se non ... non te la farei nemmeno in questo modo, se volessi la solita bugia che rifili a tutti, no?»

Tony tirò le labbra, riempiendosi di ombre gli occhi.

«Che risposta vuoi sentire, Peter?»

«La verità,» rispose lui, senza nemmeno pensare. «Solo la verità.»

Tony incrociò le braccia, sospirando dal naso.

«La verità è che io sono un caso particolare. Lo sono da sempre... chiedi a chi mi conosce da più di un quarto di secolo,» concluse, stropicciandosi la fronte, come se l’emicrania si stesse intensificando.

Peter spostò il peso da un piede all’altro, domando l’impazienza. Chiedere a Tony Stark di parlare a viso aperto era un po’ come chiedere a un gatto di scendere dal tavolo: laborioso e dagli esiti imprevedibili.

«Quando ho fatto quella conferenza stampa, nel 2008... non ho agito d’istinto,» disse poi il suo mentore, con gli occhi che fissavano un punto in fondo alla stanza senza vederlo. «O meglio, sì. In quel momento , e ho mandato all’aria tutti i piani del buon vecchio Barbanera anche per principio, ma... non è stata una decisione presa sul momento, o un’epifania mistica. È stato anche quello, sì, ma...»

La sua voce si spense e portò un palmo a sfregarsi il pizzetto, come rendendosi conto di divagare. Peter compresse le labbra, stringendo i pugni e non scolalndo gli occhi dai suoi che rifiutavano di incontrarli. Fuori dalla porta, poteva sentire un brusio concitato e lo scalpiccio di passi affrettati che spronavano il suo cuore a battere più forte, a scatti.

«Ci avevo pensato a lungo, già nei miei tre mesi di vacanza forzata in una grotta, anche se non pensavo che sarei mai andato in giro nelle vesti di un Robocop volante.»

Fece un’altra pausa e, finalmente, alzò gli occhi in quelli di Peter, con la rara intensità che assumevano quando non si sforzava di nascondersi dietro le sue facciate di circostanza.

«La mia conclusione, all’epoca, è stata che l’identità da nascondere era la mia. Quella di Tony Stark, non quella di Iron Man. Ed è stato incredibilmente facile farlo; è bastato pronunciare quattro parole in mondovisione.»

Peter deglutì, sentendole riecheggiare nelle orecchie esattamente come da bambino, quando aveva visto per la prima volta il suo supereroe in tv: io sono Iron Man.

«È stato facile perché non eri davvero tornato,» mormorò quasi senza pensare, e Tony distolse di scatto gli occhi, con una scintilla di panico sul volto.

Di chi si sorprendeva a vedersi compreso e realizzava al contempo che non avrebbe voluto davvero. Fu uno squarcio, di quelli che snudano l’anima a tradimento scoprendo le emozioni vive e pulsanti sotto corazze e armature. Peter si aspettava di vederci paura e sensi di colpa, ma ci lesse dentro un rimpianto lontano che confondeva i propri contorni con un rimorso vicino - di chi sopravvive, sempre, anche quando chi gli sta intorno non ci riesce.

«Siamo tornati entrambi, Pete,» mormorò Tony, con un sorriso privo di allegria. «Ma non torni mai davvero, dopo che sopravvivi a una bomba nel petto o a uno schiocco cosmico. Una parte di te rimane sempre lì.»

Peter annuì, capendo fin troppo bene ciò che voleva dire Tony.

«Però c’è sempre un modo per riprendersela,» ribatté, sperando con tutto sé stesso che quello fosse il modo giusto, come lo era stato per Tony così tanti anni prima. «E se ci sei riuscito tu, allora...»

«Non è questione di riprendersela,» lo interruppe Tony, scuotendo la testa, «ma di accettare che rimanga laggiù e che possiamo vivere anche senza. Nel mio caso, anche meglio di prima.»

Peter ondeggiò sul posto, sentendosi come se gli fosse crollato addosso un palazzo, di nuovo, con la stessa sensazione di peso schiacciante sulle spalle e pulviscolo sottile nei polmoni. Con la stessa sensazione di essere friabile come una statua di sabbia pronta a sgretolarsi. Aveva pensato molto a quegli anni di vuoto, da quando era tornato e, ogni volta, aveva avuto la netta sensazione di aver lasciato indietro su Titano la parte più importante di sé: Spider-Man.

Forse, se avesse accettato quel fatto, ciò che stava per fare avrebbe davvero avuto un senso, nell’intricata ragnatela in cui si stava dibattendo da mesi. Forse, invece, avrebbe distrutto definitivamente anche ciò che era sopravvissuto allo schiocco. Non lo sapeva; non l’avrebbe saputo finché non avesse compiuto quel passo.

«Adesso faresti la stessa scelta?» riuscì a chiedere, sapendo che la sua voce doveva suonare tutt’altro che salda.

«Non lo so,» ammise Tony, con inaspettata rapidità. «A pensarci bene, in questi anni Pepper e Happy hanno rischiato la vita, Rhodey ha perso l’uso delle gambe, io e Cap ci siamo quasi ammazzati a vicenda, Thanos ha annullato l’universo per cinque anni... non dico che sia tutto riconducibile al rivelare la mia identità, nemmeno io sono così megalomane,» sorrise infine, con un’inclinazione amara e fugace delle labbra, «ma essere al contempo se stessi e qualcun altro porta degli svantaggi per chi ti circonda. Lo sai già, o non mi faresti queste domande.»

Peter annuì, mantenendo il contatto visivo per qualche altro secondo, prima di lasciare che la maschera di Spider-Man tornasse a celargli il volto.

Certo, che lo sapeva. Lo sapeva fin troppo bene.

 

§



Sala conferenze stampa del Daily Bugle, 2 del mattino


«Signor Stark...»

«È solo panico da palcoscenico, ragazzo. Respira.»

«Mi viene da vomitare.»

«Un po’ più in là, prego, non sulle mie scarpe.»

Tony lo scansò appena da sè con una mano sulla spalla, a metà tra un gesto giocoso e di rassicurazione. Per quei singoli momenti, Peter poté fingere che non fosse successo nulla, che non vi fosse una voragine di sfiducia tra loro, che non si trovassero su lati opposti della barricata, pronti a stringere un accordo solo perché costretti dalle circostanze. Sapeva quanto quella fosse un’illusione, ma il suo stomaco sottosopra gli impediva di ragionare lucidamente, così non si scansò dalla presa di Tony, rimanendo al suo fianco nel tentativo di regolarizzare il respiro.

Appena oltre il separé di fronte a loro vedeva il piccolo palco illuminato a giorno dai riflettori e leggio dietro il quale lui e Tony stavano per prendere posto al segnale di Jameson - Peter non riusciva ancora a credere di essere nella stessa stanza con l’uomo che l’aveva diffamato per anni. Né poteva ignorare il piccolo distaccamento della Sable schierato in fondo alla sala, una ferrea linea di tute integrali bianche oltre le sedie riservate ai pochi giornalisti, i pochi che avevano ottenuto un pass per quella conferenza stampa straordinaria.

Tony aveva operato una cernita severissima al riguardo e, se non era riuscito a impedire che la Sable fosse presente "per ragioni di pubblica sicurezza", aveva almeno interdetto l’accesso a personalità dalle simpatie troppo vicine a Osborn e Fisk. Peter fu scosso da un tremito, col senso di ragno che inviò un segnale di puro panico quando posò lo sguardo sulla telecamera puntata sul leggio - la stessa che, tra pochi minuti, sarebbe stata puntata sul suo volto scoperto e probabilmente verdognolo per l’angoscia.

Follia, era pura follia.

«Puoi sempre ripensarci, Pete,» gli sussurrò Tony, voltando le spalle agli operatori e cameraman per evitare qualsiasi orecchio e occhio indiscreto. «Non sarebbe la prima conferenza stampa che mi mandi all’aria... certo, stavolta per essere coerente dovrei annunciare il mio divorzio, ma non credo che Pepper sarebbe d’accordo e-»

«Voglio farlo,» sbottò Peter, ringraziando che Yony non potesse - ancora - guardarlo in volto. «Non avrei voluto che accadesse, e non così. Ma ormai le ho dato la mia parola, e stavolta può contare su di me.»

Tony gli rivolse un sorrisetto teso.

«Quanta formalità, io mi ero preparato una battuta molto più sdolcinata.»

Peter, suo malgrado, sentì gli angoli delle labbra tirarsi verso l’alto.

«Del tipo?»

«Troppo tardi, occasione bruciata,» sbuffò Tony, facendo cenno verso il palcoscenico. «Vai, Spidey. Sono quattro parole: buttale fuori senza pensare.»

Peter annuì con forza, accettando quel supporto che, dietro tutto il risentimento e la sfiducia, gli era mancato. Un ultimo dubbio fece capolino nella sua mente e non ritenne opportuno trattenerlo, non quando si sentiva già sul punto di liquefarsi per l’ansia:

«Signor Stark, è sicuro che questa sia...»

«No,» lo anticipò Tony, leggendogli nel pensiero con facilità disarmante. «Ma è la cosa giusta da fare adesso,» concluse, scrutandolo da dietro il bordo degli occhiali e piazzandogli le mani sulle spalle. «Comunque vada, non sarai solo, dovessi mettermi contro tutta New York, i Vendicatori e gli Stati Uniti... tanto mi odiano già tutti abbastanza, non farà molta differenza.»

Peter annuì di nuovo, registrando appena il modo leggero con cui Tony tentava di parlare - annuire era l’unica reazione che riusciva ad avere senza rischiare di crollare a terra inerte. Avvertiva il flebile tremito nella mano sinistra di Tony, la cui presa era meno salda, segno che anche la sua era una spensieratezza forzata.

«E so che anche tu hai avuto motivo per odiarmi,» aggiunse Tony in fretta, a voce ancor più bassa. «Ma questa, nonostante tutto, è una tua decisione, e sono fiero di te per aver deciso di prenderla al mio fianco.»

Peter, stavolta, scosse a scatti la testa, e le parole successive gli scivolarono di bocca senza il proprio consenso:

«Non l’ho deciso io, in realtà,» esalò, in un soffio d’aria leggero.

Doveva dirglielo.

Tony corrugò la fronte.

«Come, prego?»

«Le sembra che abbia scelta?»

Peter digrignò i denti, sentendosi per un istante solo un ragazzino sul ciglio del baratro. Doveva dirgli che non era solo coraggio e volontà di mostrarsi al mondo; doveva dirgli che quella era una scelta forzata, per proteggere chi amava, non solo per se stesso e la propria immagine.

«Se non lo faccio, non potrò più essere Spider-Man...»

Si interruppe subito. No, non era quella, la verità. Non per Spider-Man, né per Peter Parker – nessuna decisione che prendeva era mai per se stesso.

«Se non lo faccio... io non posso non farlo, capisce?»

Tony serrò la mano sulla sua spalla, ogni tremito svanito, la luce nei suoi occhi che si fece più cupa, più penetrante.

«Cosa, Parker?» Gli tremolava la guancia ferita in modo impercettibile. «Cosa non mi hai detto?»

Peter lo guardò dritto negli occhi, nonostante Tony non potesse vederlo.

«Kingpin sa chi sono. Sa che sono Peter Parker.»

Il cuore di Tony smise fisicamente di battere per un intero secondo. Peter lo udì, distintamente, un colpo a vuoto nel suo petto che si propagò per tutti gli arti.

«Questa è l’unica via d’uscita che ho per proteggere zia May e incastrare lui e Osborn. Non posso continuare a scappare e nascondermi, non posso smettere di essere Spider-Man e non posso mettere in pericolo May continuando a esserlo. Lo affronterò a volto scoperto e sarò solo io a subirne le conseguenze. È per questo, che sono venuto da lei.»

Vide Tony boccheggiare, la presa sulle sue spalle che era ormai diventata una morsa ferrea quanto quella della sua armatura. Non ebbe tempo di reagire, né di replicare, né di spiccicare parola, perché uno dei tecnici li chiamò a gran voce:

«Andiamo in onda tra trenta secondi, prendete posto, per favore!»

Tony ci mise ben più di qualche secondo a riprendersi e Peter non sapeva cosa con chiarezza gli stesse leggendo negli occhi: preoccupazione, forse; sorpresa, senz’ombra di dubbio; delusione, probabilmente.

Ma vide anche qualcos’altro, un’ombra, una variazione di colore nell’iride nocciola, come se tutti i meccanismi nella testa di Tony si fossero mossi all’unisono come un unico corpo perfettamente oliato e avessero iniziato a muoversi frenetici in cerca di una soluzione. Peter, in quel momento, ebbe paura di cosa avrebbe potuto fare.

Tony si riscosse repentinamente. Evitò i suoi occhi, lo lasciò andare e picchiettò un dito sull’alloggio per nanoparticelle. In pochi istanti, Peter ebbe al suo fianco Iron Man, con l’armatura rosso-oro che si accordava in perfetta armonia con la sua Iron-Spider: un simbolo, anche quello, per comunicare al mondo che non era da solo.

«Forza, Parker,» enunciò con voce ferma e resa robotica dal casco. «Si va in scena.»

Senza nemmeno dargli tempo di replicare, si avviò fuori dall’ombra del dietro le quinte, prendendo posto dietro il podio. Peter lo seguì come in sogno, mentre il countdown raggiungeva i meno dieci secondi, lampeggiando fuori tempo rispetto al suo cuore impazzito.

Guardò davanti a sé, nella scatola nera della telecamera. Si chiese se zia May lo stesse guardando.

“Mi chiamo Peter Parker, e sono Spider-Man da quando avevo quattordici anni.”

Ripeté a mente quelle parole, così semplici, eppure in grado di annodargli la lingua.

Il bip acuto della diretta lo fece quasi sobbalzare. Fissò l’occhio rosso della telecamera, che adesso ricambiava il suo sguardo.

Adesso.

Doveva farlo adesso, senza ulteriori esitazioni. Niente preamboli, niente presentazioni. Doveva togliersi la maschera e parlare, dire la verità nuda e cruda.

Prese un respiro silenzioso.

«Signore e signori, non credo che io o Spider-Man abbiamo bisogno di presentazioni,» cominciò Tony, rompendo inaspettatamente il silenzio, «soprattutto in luce dei recenti avvenimenti.»

Peter lottò contro il nodo gordiano che gli aveva ostruito la gola, senza riuscire a cavarne un singolo suono. Toccava a lui, doveva parlare, rivelarsi, fare quel passo nel vuoto e verso la follia da cui era scappato finora. Sarebbe stato più semplice affrontare di nuovo Thanos.

«Siamo qui oggi, anzi, stanotte, perché abbiamo un annuncio da fare.»

Peter si accigliò, scoccando un’occhiata invisibile a Tony. "Abbiamo"? Forse era una semplice formula di circostanza, un modo per fargli capire che non era solo, neanche adesso.

«Buonasera,» gracchiò, odiando la propria voce che gli grattava contro le corde vocali. «Come ha detto Iron Man, sono- siamo qui proprio... per un annuncio,» ripeté, guadagnando tempo, o forse perdendolo - di certo perdendo sempre più coraggio.

Si preparò a ritrarre la maschera, pronunciando le parole più difficili della sua vita:

«Mi chiamo Peter Parker,» disse piano, «e sono Spider-Man da quando avevo quattordici anni

Le pronunciò... o, almeno, credette di averle pronunciate, visto che sentì le corde vocali vibrare e gli altoparlanti riverberare - ma quelle parole rimasero intrappolate tra bocca e maschera, rese mute contro la sua volontà, e non fu la sua voce a risuonare, ma quella di Tony:

«Dopo gli accesi dibattiti sull’Atto di Registrazione dei Superumani, i miei colleghi e io siamo giunti a una conclusione. Ovvero, che Spider-Man è da considerarsi membro effettivo e ufficiale dei Vendicatori, a prescindere dalla sua posizione rispetto all’Atto, da cui richiediamo formalmente l’esenzione. Ogni suo intervento e operazione ricadrà sotto la diretta responsabilità mia e dei Vendicatori, con le rispettive conseguenze per chi vi interferirà o tenterà di ostacolarlo.»

Che cosa?

Un gong riecheggiò nei suoi timpani e il terreno sembrò ondeggiare sotto i piedi di Peter, più simile a una massa liquida, un oceano scosso da un improvviso maremoto, lo stesso che aveva appena scosso le fondamenta del suo piano - lo stesso che stava per investire lui e May con forza distruttiva.

Fissò l’occhio della telecamera e quasi poté vedere quelli piccoli, neri e lucenti di Fisk che lo fissavano di rimando, sogghignando, pronto a scagliare all’attacco il suo esercito dopo quella dichiarazione di guerra.

«Questo è tutto, grazie per l’attenzione,» concluse Tony, alzando una mano a mo’ di saluto e segnale, prima che la sala esplodesse in un’ovazione sconcertata - ma Tony si stava già ritirando, trascinando Peter stava via dal palco, dietro le quinte.

Lui lo seguì senza nemmeno più sentire il proprio corpo, come se un secondo schiocco lo avesse privato di ogni volontà, oltre che della voce. Barcollò, incespicando nei propri piedi, sentendo il mondo che gli implodeva attorno come cinque anni prima.

Adesso gli veniva davvero da vomitare.

 

§

 


Note dell’Autrice:
Non provo nemmeno a giustificare i tempi di aggiornamento di questa storia.
Sappiate solo che questo capitolo è parzialmente pronto da quando ho iniziato a scriverla e, sì, vi ho lasciato con un altro cliffhanger. Non odiatemi, o almeno, non troppo.
Grazie a tutti coloro che continuano a leggere la storia, anche dopo tutto questo tempo ♥
Alla prossima, spero presto,
-Light-

 

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