Alla luce del sole

di denn_nanni
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Una vacanza inaspettata ***
Capitolo 2: *** La festa migliore di sempre ***
Capitolo 3: *** Addio ***
Capitolo 4: *** Nuove conoscenze ***
Capitolo 5: *** Pregiudizi ***
Capitolo 6: *** Fotografie ***
Capitolo 7: *** Problemi in paradiso ***



Capitolo 1
*** Una vacanza inaspettata ***


CAPITOLO UNO
Una "vacanza" inaspettata

Alice.

È fine agosto, qui a Washington si comincia a percepire un po' di freddo, ma l'atmostera è tutt'altro che quella invernale. È una giornata fresca, il cielo è coperto per lo più da nuvole fitte e scure, come se anticipassero la pioggia, ma dietro di esse si intravede il sole che riesce a far filtrare solo pochi raggi. Sto seduta su una panchina, nel parco a pochi passi da casa mia, la musica rimbomba attraverso le cuffie creando un mondo diverso, guardo il cielo, sperando che cominci a piovere. Sono un persona strana e talvolta incoerente: amo la pioggia, ma allo stesso tempo correrei in spiaggia ogni volta che mi è possibile; amo il silenzio, ma ad ogni festa io sono presente.
Non sono mai stata una di quelle ragazze che si sentono sempre sole, ho tanti amici, se sono sola è perché ho voglia di starci. Sono felice del modo in cui mi sono inserita a scuola, del modo in cui ho creato il mio gruppo di amici, ma specialmente del modo in cui ho affrontato una delle esperienze peggiori della mia vita, la separazione dei miei genitori. Avevo 7 anni, troppo piccola per capire ma troppo grande per ignorare la questione; ho sempre pensato che fosse questa la causa dei miei problemi con l'amore.

Mi piace il periodo della frequentazione, quella voglia di scoprirsi e di viversi, i pochi vincoli e il piacere puro dello stare insieme perché lo si vuole; mi destabilizza invece la relazione in sé e spesso mi è capitato di scappare da persone che mi piacevano solo perché loro avevano dato segno di volere qualcosa di più. Dalle mie esperienze ho capito che legarmi in quel modo a qualcuno non fa per me.

Guardo l'orario, è pomeriggio inoltrato, mi ricordo che per la sera non c'è nulla in programma, quindi suppongo mi limiterò a fare un giro sui social, guardare un po' di TV e andare a letto, aspettando il giorno dopo.
Mi alzo incamminandomi in direzione casa, rispondendo ad alcuni messaggi arrivati poco fa. Mi dispiace un po' passare la serata in casa, dato il fine di stagione e l'imminente ripresa della scuola, il mio senior year.
«Gray!» Mi giro notando Thomas sventolare la mano in aria e mi avvicino.
«Come mai ti trovi qui, Thomas?» Comincia a spiegarmi che aveva intenzione di venire a casa mia per farmi un po' di compagnia, dato che non avevano organizzato nulla. Gli sorrido, lui mi affianca e mi avvolge la vita con un braccio, strappandomi una risata. «Thomas Rise, ci stai provando con me?» chiedo suscitandone una sua di rimando. Io e lui siamo sempre stati così, ci conosciamo dalla nascita perché le nostre madri erano amiche e siamo così amici da che mi ricordo.
Arriviamo davanti a casa, non faccio in tempo ad estrarre le chiavi che la porta viene aperta da Zayn, il mio fratellastro. Mi saluta e mi invita ad entrare, ha un'aria strana, quasi triste e la sua espressione preoccupata mi sta mettendo una certa ansia. Varco la soglia e vedo mia madre, i suoi lunghi capelli neri sono raccolti in una crocchia ordinata, lasciando totalmente scoperto il viso su cui domina un'espressione simile a quella di Zayn. Tiene le mani unite, strette in grembo, cosa che fa solo quando è terribilmente agitata.
«Cosa sta succedendo?» sposto lo sguardo da mia madre al mio fratellastro più volte. Più loro mantengono il silenzio, più io mi agito: in questi momenti il silenzio è la cosa che più odio.
«Tuo padre...» mormora mia madre con voce instabile, come se stesse per piangere. Al solo sentir nominare mio padre, mi vengono i brividi e capisco che il motivo per cui sono così strani è più che valido nonostante non sappia ancora di cosa si tratti.
«Vedi, Alice, lui è andato dal giudice questa volta, sapeva che avremmo risposto di no.» sposta il peso da una gamba all'altra, tipico di quando deve dare una brutta notizia. A volte odio riuscire a capire così bene mia madre dai gesti, perché riesco a prevedere ciò che mi dirà, mi fa venire più ansia ed è terribile.
«Ha detto che vuole... che tu vada a finire gli studi a Londra, sostiene che vivi troppo lontana da lui e un po' di tempo nella sua città non possa farti male. Perciò vuole che tu faccia anche l'università là.» Sento la mano di Thomas stringersi attorno al mio polso e tirarmi leggermente ma sono troppo sconcertata dalle parole di mia madre, che è scoppiata in lacrime, per dare qualche segno di vita al mio migliore amico. Il naso comincia a pizzicare, ma non permetto alle lacrime di scendere sulle mie guance. Mi avvicino a mia madre che sta singhiozzando e la stringo tra le braccia, la sento sussurrare «Non ho potuto fare niente...» e la stringo più forte, lasciando che si sfoghi sulla mia spalla.
«Tra quanto partirà, signora Malik?» mi stupisco della domanda di Thomas, pensavo mia madre non rispondesse invece lo fa, ho due settimane per salutare la mia vita, la mia famiglia, la mia casa, la mia scuola, tutti i miei ricordi e i miei amici, quegli amici che mi hanno fatto diventare la persona che sono ora. Il mio migliore amico estrae il telefono dalla tasca dei jeans e comincia a scrivere a qualcuno, gli chiederò dopo.
«Mi toccherà razionare il guardaroba» affermo mantenendo la voce ferma, come se non mi importasse; la realtà è che mi importa eccome, ma non voglio dimostrarmi debole, ora non ho tempo di piangere. Lei accenna un sorriso triste per poi liberarmi dalla sua stretta. Salgo in camera seguita da Thomas e Zayn. Mi volto verso il mio fratellastro, osservandolo come per imprimerlo nella mia memoria: è stato mio nemico, complice e infine amico. È arrivato insieme al nuovo compagno di mamma qualche anno dopo la separazione, avere a che fare con lui mi ricordava ciò che era successo, era un bambino altezzoso e a tratti viziato, detestavo quando lui e suo padre venivano a casa. Dopo il matrimonio, si trasferirono qui, nei primi anni dell'adolescenza, entrambi capimmo che ci eravamo più utili da complici più che da nemici, perciò il rapporto cominciò ad evolversi fino a quello che è oggi, una vera e propria fratellanza.

«Posso fottutamente sapere perché cazzo stai continuando a mandare dei dannati messaggi? È fottutamente irritante, sai?» dico irritandomi sempre di più ogni volta che le sue dita premono invio. Perché scrive? Sono in uno stato di trance e quel coglione del mio migliore amico cosa fa? Messaggia, mi sembra logico.
«Tesoro, stai calma, posso sapere come diavolo fai a mettere così tante parolacce in una sola frase? È una specie di dono?» mi chiede ridacchiando, sto per parlare ma lui continua. «Ti sto organizzando le due settimane migliori della tua vita, continuerai a osservarmi con quel sopracciglio alzato?» Le sue parole mi fanno spuntare un sorriso e mi migliorano l'umore, per un attimo avevo dimenticato il motivo per cui avessi scelto proprio Thomas come migliore amico, ma ora lo ricordo bene il perché.
«Sei da amare, Rise.» dico ridendo, lui mi segue e ci troviamo a ridere come degli scemi per nessun motivo apparente, ma è questo il bello di me e lui.
Mi informa che da domani in poi non avrò più un momento libero, potrò godermi al cento per cento i miei amici, perdo il conto delle infinite volte che l'ho ringraziato, quando mi arriva un messaggio da parte di Charlotte.

Da Charlotte:
Amica, Tania e Richie danno una festa a casa loro stasera. Facciamo il bagno in piscina. Vieni da me tra tre ore che ci prepariamo! Xx

Sorrido al suo nomignolo, la prima cosa che faccio è dirlo a Thomas che salta in piedi prendendomi le mani, mi fa alzare e inizia a saltellare contento. Scoppiamo a ridere entrambi buttandoci sul letto, riafferro il mio cellulare e rispondo velocemente ringraziandola.

Tra chiacchere inutili, battute e risate si fanno le cinque, saluto il moro davanti a me che, dopo avermi abbracciata, scende al piano di sotto per poi abbandonare la casa. Mi infilo dentro la cabina-armadio cercando un paio di vestiti che potrei mettere stasera: prendo un vestito abbastanza sobrio ma davvero carino, ha un corpetto con lo scollo a cuore nero non aderente, una cintura di pelle nera copre la cucitura tra il sopra e la gonna di tulle grigio sotto.
Involontariamente mi trovo a pensare a mio padre. Che lavoro farà? Avrà una moglie, dei figli? Avrà una bella casa? Queste domande cercano una risposta, e la cercano da dieci anni. Mi fa strano che, dopo tutto questo tempo, mio padre voglia tenermi là per vivere le cose più importanti della vita di un adolescente. Penso che alla mia età sia una cosa orribile dover rifarsi una vita da zero, nuova città, nuova scuola, nuovi amici. Soprattutto nuovi amici. Non ho paura di rimanere sola, io sono sempre stata una di quelle ragazze che riesce a fare amicizia subito, che fin da subito viene rispettata, ma non so come funzionano le cose là, e ho paura. Non voglio lasciare i miei amici, quegli amici che hanno condiviso con me tanti di quei momenti, ho tanti ricordi meravigliosi. Sicuramente, una volta arrivata nella Gran Bretagna ne perderò tanti, se non tutti. Mi mancheranno le nostre feste, le nostre risate, le nostre cazzate, soprattutto le nostre vacanze estive. Le due settimane che andavamo a Miami o a Los Angeles per il mare, non riuscirò ad andare a Las Vegas per Natale quest'anno. Spero di riuscire a scappare da là e tornare per le vacanze, tanto lo farò anche se mio padre non lo vorrà. Quanto mi mancherà Washington e tutte le belle cose che ho vissuto in questa città.
Perdo l'equilibro e barcollo per recuperarlo, troppi pensieri. Guardo il vestito, afferro un paio di scarpe nere con un tacco più alto del solito, molto sobrie come il vestito. Esco dalla cabina, appoggio il vestito sul letto e le scarpe a terra, prendo una borsa e ci infilo l'astuccio con i trucchi. Mi guardo allo specchio, mi sistemo i capelli che avrei dovuto lavare cercando di renderli almeno un po' guardabili. Guardo l'orologio al muro, sono in ritardo perciò piego velocemente il vestito e lo infilo nella borsa seguito dalle scarpe, me la metto sulla spalla e scendo.
Saluto Zayn e mia madre, che fortunatamente ha smesso di piangere, ed esco molto tranquillamente incamminandomi verso casa di Charlotte: stasera sarà una bella serata.

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Capitolo 2
*** La festa migliore di sempre ***


CAPITOLO DUE
La festa migliore di sempre

Alice.

Arrivo davanti a casa di Charlotte che è già fuori ad aspettarmi, ciò mi sorprende perché, di solito, devo aspettare tantissimo tempo prima che mi venga ad aprire.
«Come mai oggi mi hai aspettata fuori?» chiedo divertita alla mia amica che scoppia a ridere e comincia a scuotere la testa.
«Non ti montare la testa, è appena passata la vicina a chiedere se anche a noi hanno tolto l'acqua.» rido anche io e non posso fare a meno di pensare a quanto mi mancherà una volta arrivata oltreoceano, in Inghilterra. Entriamo in camera di fretta senza salutare sua madre che forse nemmeno si è accorta della mia presenza. La camera di Charlotte è in disordine, come sempre dopo tutto. Ci sono libri e fogli tutti sparpagliati a terra e sulla scrivania, vestiti buttati da tutte le parti, l'unica cosa in ordine è la sua "postazione trucco" che per lei è sacra. Mi fa vedere il vestito che ha intenzione di mettere, un tubino rosso fuoco con alcune paillettes sullo scollo a cuore, arriverà circa a metà coscia, se non più su, e immagino già che le starà d'incanto. Quando le mostro il mio vestito lei sembra quasi stupita, in realtà non la biasimo, sia il vestito che le scarpe sono decisamente fuori dal mio solito outfit per le feste. Il vestito che ho deciso di indossare l'avevo comprato da principio con mia zia per il suo ricevimento di matrimonio, ma che poi non misi perché era troppo freddo così rimase nel mio armadio, mai degnato di uno sguardo. Oggi ho voglia di cambiare un po' e quell'abito mi sembrava carino.
«Wow, Alice. Potrei seriamente iniziare a sospettare una tua malattia incurabile.»
Appendiamo i vestiti nel suo armadio e andiamo verso la postazione trucco quando Charlotte inciampa in un mucchio di vestiti e cade a terra sulle ginocchia. Scoppio in una risata non riuscendo a trattenermi, provo a chiederle se sta bene ma esce come una frase sgrammaticata mentre mi premo una mano sullo stomaco. Non si dovrebbe essere fatta alcun livido dato che la caduta è stata attutita dai vestiti, lei si rialza borbottando uno "stronza" e mi precede andando a spostarmi la sedia per farmi accomodare davanti allo specchio.
«Tesoro, ho una bella notizia.» afferma incontrando il mio sguardo nello specchio. «Ho trovato questo olio per capelli che è a dir poco meraviglioso e fa sembrare i capelli appena lavati, in più li fa profumare un casino!»
Mi sistema i capelli, le sue piccole mani ci scorrono in mezzo con un po' di difficoltà, ostacolati dai nodi. Mi dice che dovrei lavarli, si allunga verso il suo armadio per prendermi un asciugamano e mi assicura che ho tutto il tempo per fare con calma.
«Sei la migliore, Lottie!» le dico pensandolo davvero, vorrei davvero augurarmi di trovare una ragazza che possa diventare per me ciò che è diventata per me Charlotte: una sorella. Mi alzo dalla sedia guardandomi allo specchio: il riflesso mostra una ragazza dal viso innocente, i capelli castani scompigliati che cadono disordinatamente sulle spalle piccole, le braccia abbandonate lungo il corpo snello, due occhi azzurri grandi e profondi.
Nella vita di tutte le persone ci sono dei momenti di stallo, momenti in cui ci si rende conto che il rumore del mondo è totalmente sovrastato da quello dei pensieri che appaiono come un grido. Capita, a volte, di sentirsi un peso dentro, io sento di aver bisogno di qualcosa, qualcosa di astratto che non so identificare in realtà; si può aver bisogno di qualcosa di astratto? No, suppongo di no.

Distolgo di scatto lo sguardo dal riflesso e lo poso su Charlotte che mi sta fissando con occhi tristi. «Mi mancherai da morire Alice, non scherzo.» mormora spezzando il pesante silenzio che si era creato. «Io... se potessi fare qualcosa...» Alzo una mano nella sua direzione per interromperla, forse in maniera eccessivamente brusca, ma se iniziassimo questo discorso, inizieremmo a piangere e probabilmente mi rovinerei la serata.

«Abbiamo tempo per salutarci, Lottie, non è questo il momento. Dobbiamo solo pensare a divertirci da matti» sentenzio severa ma lasciando le mie labbra incurvarsi in un sorriso sincero.

Al suo cenno d'assenso prendo l'asciugamano e mi dirigo in bagno stando attenta a non inciampare nei vestiti.
L'acqua scorre calda sulla mia pelle rilassandomi, massaggio i capelli con le mani e poi li espongo al getto della doccia per lavare via lo shampoo. Il balsamo emana un piacevole aroma di lime e menta, così mi trattengo qualche minuto prima di risciacquarlo.

Ancora una volta i pensieri mi consumano: la rabbia che provo per mio padre è tanta, non lo vedo ormai da un tempo lunghissimo e so che non avrò il controllo della mia reazione quando finalmente lo avrò davanti. Lo abbraccerò perché nonostante tutto mi è mancato? Farò l'indifferente per fargli capire che di tutto quello che farà per me non me ne importerà mai niente? Oppure lo prenderò a parole, dicendogli tutto quello che penso, e pure quello che non penso, rischiando di compromettere ulteriormente un rapporto già distrutto?

Il vestito è davvero molto bello e Charlotte continua a ripetermi che mi sta d'incanto. Mi lascio truccare da lei anche se un po' indecisa, non so che cosa possa combinare, specialmente perché non vuole che mi guardi allo specchio finche non ha finito. Mi fido di lei nonostante i nostri gusti differenti in fatto di trucchi e abbinamenti di colori. Mi informa che ha deciso per un ombretto scuro che pensa possa essere perfetto per far risaltare i miei occhi.
«Ho quasi finito, ho solo una cosa da farti scegliere: vuoi il rossetto o il lucidalabbra rosso?»
«Ho portato il mio lucidalabbra trasparente, non mi sembra che il mio abito stia molto bene con qualcosa di rosso fuoco.» rispondo girandomi leggermente verso lo specchio cercando di non farglielo notare. Lei se ne accorge e mi rigira la sedia in modo da farmi dare le spalle al mio riflesso. Mi chiede se può mettermi qualcosa di rosa e io acconsento sperando che non rovini tutto il trucco.
Quando finisce, mi gira verso lo specchio mostrandomi il suo "capolavoro" come lo ha definito. I miei occhi sono messi in risalto dal mascara nero e dalla linea sottile di eyeliner, l'ombretto non è eccessivamente pesante e il risultato mi piace molto. Mi complimento con lei che fa qualche mezzo inchino strappandomi una risatina. Intanto che lei si trucca, io finisco di sistemarmi passandomi le mani tra i capelli e spostandone un po' da destra a sinistra.
«Hai portato il costume da bagno, vero?» mi chiede, ridacchio piano rispondendogli che avrei voluto mettere il suo costume bianco e nero. Alza gli occhi al cielo ridendo anche lei e prende dall'armadio il costume per me e quello arancione fluorescente per lei.

Ad accompagnarci alla festa è suo fratello che, ormai, è diventato per noi come un taxista.
«Dannazione, Lottie!» esclamo portandomi una mano sulla fronte. Lei mi guarda con aria interrogativa, senza però smettere di conversare con il moro a fianco a lei. «Abbiamo dimenticato di dire a Thomas l'orario, sai che non gli piace arrivare in ritardo!»
Lei sorride e mi fa segno con la mano di tranquillizzarmi. «Gli ho mandato un messaggio mentre tu ti facevi la doccia.» mi rilasso sul sedile posteriore portando il mio sguardo verso l'esterno. Il fratello di Charlotte ferma la macchina davanti al vialetto della casa e ci fa scendere salutando con un bacio sulla guancia lei e con un sorriso me. Ci dirigiamo verso la porta d'ingresso, Charlotte continua a barcollare per via della ghiaia, si appoggia a me per non cadere, mi ringrazia e io non riesco a trattenere una risatina.
Sulla soglia della porta c'é un Norman allegro che ci saluta, a me dice di andare in cucina che Tania mi sta aspettando ma trattiene Charlotte. Entro e mi avvio in cucina vedendo la mia amica che sta discutendo pacatamente con suo fratello.
«Vodka al limone, alla pesca e whisky.» dico attirando l'attenzione su di me. Tania mi raggiunge attirandomi in un caloroso abbraccio che ricambio a fatica.
«Stasera c'è gente. Io e Richie abbiamo pensato ad una sorpresa...» sposto lo sguardo tra lei e suo fratello che sta sorridendo. Mi avvicino a lui notando di essere di un paio di centimetri più alta di lui grazie ai tacchi, lui ride accorgendosi della differenza di altezza.
«Ohw, la mia piccola Alice è cresciuta!» esclama scherzosamente dandomi un buffetto leggero sulla guancia. «Questo vestito ti dona, è meglio di tutta quella merda che metti di solito.»
«Va bene, sembra che stiate flirtando perciò la situazione necessita che io mi intrometta e vi divida prima che cominciate a limonarvi come se non ci fosse un domani.» Tania scoppia in una fragorosa risata che trasporta anche me e Richie; dopo poco tornano anche Charlotte e Norman che ha i capelli un po' scompigliati rispetto a prima, ho intenzione di chiedere alla biondina delle spiegazioni. Noi ragazze saliamo in camera di Tania per aiutarla a vestirsi così colgo l'occasione di fare la fatidica domanda a Lottie che arrossisce e comincia a parlarci di lei e Norman.

Quando scendiamo al piano di sotto, circa un'ora e mezza dopo, notiamo che il salotto si sta gradualmente riempiendo, ad accogliere le persone sulla porta ci sono Richie e Norman che hanno entrambi un bicchiere in mano. Mi avvicino a loro e gli chiedo se Thomas è già arrivato ma loro scuotono il capo dicendo di non averlo ancora visto. Annuisco mi allontano per raggiungere Charlotte e Tania che stanno salutando alcuni amici.
«Ciao ragazzi!» esclamo avvicinandomi al gruppo, ricambiano il mio saluto con alcuni sorrisi poi si dirigono verso la cucina per prendere da bere. Il DJ fa partire la musica alzando lentamente il volume. Tania ci lascia per andare a svolgere i suoi "doveri da padrona di casa" e poco dopo anche Charlotte mi abbandona per raggiungere Norman.
La casa di Tania e Richie è molto grande e sembra stata costruita apposta per farci delle feste. I loro genitori hanno vinto cinquecento mila sterline e da lì il padre ha costruito un'editoria che ha avuto molto successo e la madre lavora come notaio. Il salotto è a dir poco enorme, ha una parte rialzata su cui c'è un mobile che fa da cornice ad un televisore grandissimo, davanti al quale si trova la postazione del Dj. Il grande divano e le poltrone sono state spostate nell'angolo più appartato della stanza dove di solito si siedono i migliori amici dei proprietari, una specie di zona VIP in cui io passo molto tempo. Ora come ora non ho voglia di ballare, perciò vado al divano e mi ci accomodo guardandomi attorno cercando Thomas.

È passata un'ora dall'inizio della festa ma nessuno sembra aver visto Thomas Rise. Ho il dubbio che non venga, mi allontano dalla pista da ballo ed esco nel vialetto dove vengo accarezzata da un'arietta fresca. Prendo il telefono dalla borsetta rimanendo qualche secondo a contemplare l'immagine del blocco schermo, ovvero una foto di me e Thomas scattataci da mio fratello mentre eravamo al mare. Ci stavamo spintonando e stavamo ridendo, il bello di questo scatto è che non eravamo in posa ma eravamo spontanei. Con un applicazione, Thomas ci scrisse sopra una frase che poi si tatuò "Non c'è un me senza te".
Compongo il suo numero che ormai so a memoria e appoggio il telefono all'orecchio aspettando che risponda. Dopo vari squilli va in segreteria perciò butto giù e lo richiamo. Gli lascio tre chiamate e dieci messaggi prima tornare a ballare.

Dopo due ore, di Thomas non c'è alcuna traccia, mi sto preoccupando, gli ho lasciato altre chiamate e altri messaggi, nemmeno Tania e Richie sanno dirmi niente. Nel frattempo ci siamo spostati nella piscina nel retro della casa, non è freddo e nell'acqua si sta davvero bene. Io e Charlotte stiamo dentro l'acqua, appoggiate al bordo che chiacchieriamo del più e del meno bevendo della birra. Norman si avvicina a noi, è vestito e perfettamente asciutto, si inginocchia e dice alla mia migliore amica di seguirlo, lei senza chiedere niente esce dall'acqua, si scusa e si allontana insieme al suo ragazzo che tiene il vestito di lei. Anche io scelgo di uscire, asciugarmi e vestirmi.
Poco dopo, noto Norman e Connor che stanno trasportando un tavolino davanti alla postazione musicale all'aperto, Charlotte e Tania si mettono all'altezza del DJ che abbassa la musica lasciandola di sottofondo, poi si portano un microfono davanti alla bocca.
«Ciao bella gente!» comincia a parlare Tania. «Questa festa organizzata all'ultimo minuto è stata fatta per una persona molto speciale. Alice vieni qui!»
Stupita mi alzo dal divanetto di paglia dai cuscini color avorio e mi avvicino alle due ragazze. Loro mi sorridono, Charlotte si impossessa del microfono e comincia a parlare.
«Questo tesoro di ragazza tra poco ci lascerà. Non riesco a pensare a come potrei stare senza di lei, quanto mi mancherà. Questa festa è in suo onore quindi fatele un applauso!» Si gira verso di me e mi abbraccia di slancio, stringendomi a lei come per non lasciarmi scappare, tra gli applausi e le grida entusiaste dei presenti. Appena mi lascia, mi affretto ad asciugarmi una lacrima che non so dire se sia di tristezza perché sto lasciando la mia vita, o di gioia perché ho degli amici meravigliosi.
Sento dei segni di approvazione tra i ragazzi presenti, poi si dividono facendo uno spazio in cui vedo Thomas avanzare con una torta in mano. Mi porto una mano a coprirmi le labbra per la sorpresa, ancora più felice. Lui appoggia la torta sul tavolino davanti a noi, mi viene ad abbracciare sussurrandomi uno "scusa" e mi porta davanti a essa.

"Always in our heart, little Alice."

Sorrido e mi stringo a Thomas. «Vi voglio tanto bene...» sussurro contro il suo petto.
«Anche noi te ne vogliamo.» Mi risponde. Finiamo la serata mangiando la torta, bevendo e ballando: sono felice ora.

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Capitolo 3
*** Addio ***


CAPITOLO TRE
Addio

Alice.

Ho un vuoto nel petto che si fa sempre più pesante, man mano che la mia partenza si avvicina. Ho avuto il sostegno dei miei amici ma non serve a molto quando loro sono meno convinti di me. Mancano nove giorni e li voglio passare nel modo migliore. Giro la chiave nella serratura tenendo le buste della spesa su una mano poi apro la porta ed entro appoggiandole a terra. Richiudo la porta alle mie spalle, mi sfilo la felpa e porto le buste in cucina. «Eccomi mamma, ho preso quello che mi hai chiesto.» dico a mia madre posando la spesa sul tavolo.
«Ho una brutta e una bruttissima notizia, quale vuoi sapere per prima?» No. Mi rifiuto categoricamente di sentire sia una sia l'altra, ho già abbastanza problemi per la testa.
«Tanto prima o poi le dovrò sapere entrambe.» La guardo e apro il frigorifero per prendere una bottiglietta d'acqua. «Dai, dimmi prima la brutta.» La incito agitando la bottiglia.
«La brutta notizia è che la scuola là, comincia prima.»
«Notizia accettabile, brutta ma accettabile.» Comincio a bere.
«La bruttissima è che hai il volo domani alle quattro.» Spalanco gli occhi e l'acqua mi va di traverso, facendomi tossire senza un contegno. Questa è un'orrida, terribile, ripugnante notizia!
«Cosa significa, mamma?! Avevi detto due settimane!» chiudo la bottiglia e la ripongo sul piano prima di lanciarla da qualche parte bagnando tutta la cucina, dire che sono arrabbiata è un eufemismo. Resto ad ascoltare le scuse di mia madre, "Non potevo fare niente" "Tuo padre ha detto così", anche se so che la colpa non è sua non posso sopportare di stare in casa un minuto di più.
Mi affretto ad uscire da casa e comincio a camminare verso il primo posto che mi viene in mente: casa di Thomas: poco lontana dalla mia e mi è facile raggiungerla a piedi.
Sono stremata, arrabbiata e avrei voglia di strapparmi i capelli uno per uno; non credo di aver paura, in realtà non so dire come mi sento e questo mi mette ansia, mi mette ansia anche il fatto che non sono del tutto pronta mentalmente per andarmene. Non sono pronta a lasciare tutto. Batto violentemente le nocche sul portone sperando che faccia presto ad aprirmi. Come speravo il portone si spalanca dopo poco mostrando la matrigna di Thomas.
«Ciao Alice! Thomas non mi aveva detto che ti aspettava.»
«Non lo sa nemmeno lui», rispondo. Lei mi dice che è di sopra così salgo velocemente le scale arrivando davanti alla porta della camera del mio migliore amico e la apro. Lui scatta in piedi puntando lo sguardo su di me.
«Alice che ci fai qui?» mi chiede premendo insistentemente il tasto home del cellulare pensando che non lo possa vedere.
«Cosa stavi facendo?» gli domando guardando il cellulare. «Nulla.» mi risponde un po' incerto, sono tentata di farglielo dire ma dato il mio naturale rispetto per le persone, annuisco lasciando passare la bugia.
Si siede sul letto, io mi tolgo le scarpe e lo imito mettendomi a gambe incrociate davanti a lui.
«Dimmi, cosa è successo?» mi guarda allungando una mano che appoggia sul mio braccio e comincia ad accarezzarlo.
«Perché dovrebbe essere successo qualcosa?» mi avvicino un po' di più a lui per rendergli più comodo il movimento. Lui mi guarda e dice «Sappiamo entrambi che non ti presenteresti mai a casa di una persona senza averla prima avvisata, andrebbe contro al tuo "naturale rispetto per le persone".»
«Che ne sai tu? Potrei aver perso il mio rispetto quando mia madre mi ha detto, cinque giorni fa che dovevo abbandonare la mia vita e i miei amici per trasferirmi in una città che non ho mai visto, in cui non conosco nessuno e in cui abiterò insieme ad un semi-sconosciuto e alla sua possibile nuova famiglia di totali sconosciuti.» osservo guadagnandomi un occhiataccia da parte sua per il mio promemoria del fatto che sarei dovuta partire a breve. Mi incita a dirgli quella cosa tanto importante, prendo un lungo respiro e comincio a parlare.
«Sono tornata a casa dopo essere uscita a fare la spesa, quando sono entrata, c'era mia madre che era strana, aveva una faccia triste ma allo stesso tempo molto arrabbiata. Così le ho chiesto che aveva. Indovina che mi ha detto? Che in Inghilterra la scuola inizia un po' prima che da noi così io devo partire domani alle quattro.» abbasso lo sguardo sulle mie mani e lui lascia cadere bruscamente la mano dal mio braccio. Non dice niente e immagino che abbia una faccia sconvolta anche se non lo posso vedere.

Thomas.

"Alice, dimmi che stai scherzando. Dimmi che stai fottutamente scherzando." Questi sono i miei pensieri. Non riesco a muovermi e tanto meno a dire qualcosa, chi sa cosa si prova a perdere così all'improvviso una persona che ti aveva insegnato che non servivano legami di sangue per essere fratelli mi venga ad aiutare. So che probabilmente ci rivedremo, e forse anche presto, ma il pensiero di non vederla girare per i corridoi a scuola, non entrare in camera sua senza preavviso la maggior parte dei giorni e vederla spaventarsi, il pensiero di non poter più incontrarla al parco, in primavera, stesa su un telo, sull'erba con una penna in bocca e i libri davanti a se intenta a risolvere equazioni e problemi aritmetici, mi turba e non poco.
«Stai scherzando. Alice...» la guardo in cerca di una risata, di una smorfia che mi confermi che quello che ha detto non sia veritiero e invece non ottengo niente, solo un sospiro triste. «Dio, Alice, non stai scherzando.»
Ha bisogno di essere abbracciata anche se non lo dimostrerà mai quindi le afferro gli avambracci e la tiro su di me avvolgendola con le mie braccia. Lei ricambia l'abbraccio. È una ragazza forte, è dovuta diventarlo, e come prova c'è il fatto che non sia ancora scoppiata a piangere lasciandosi trascinare per una volta da quello che le dice il cuore e non da quello che le comanda il cervello.
«Andiamo... Voglio salutare Tania, Richie e Lottie...» Sta proprio male poverina, e come biasimarla? La aiuto ad alzarsi e la sostengo perché mi da l'impressione che se la lasciassi cadrebbe. Andiamo di sotto, salutiamo la mia matrigna entrambi un po' mogi ma, come suo solito, non si intromette e ricambia in modo solare.

Arrivati a casa Davis, Tania ci accoglie nella sala dove troviamo il fratello e Lottie che stanno dando libero sfogo alle risate. Il loro umore cambia poi dal bianco al nero a seguito della notizia. Notizia, di questo si è trattato: Alice ha parlato in tono monocorde tutto il tempo, si è limitata a narrare i fatti, come di consueto, senza alcuna divagazione sui suoi sentimenti.
"Magari Londra non è così male, Alice. I pregiudizi annebbiano la vista." Queste sono le parole di Richard. Mi fa ridere come il mio migliore amico sta facendo il moralista in questo momento. Ad Alice fa schifo quando le persone cercano di fare la morale.
Quando ormai non c'è più niente da dire, a parte i saluti, Alice si alza. «Addio.» E quella parola mi lacera il cuore. Mi sento male, ho delle fitte atroci. Volto lo sguardo verso di lei e incontro il suo.
«Non dire addio perché dire addio significa andarsere e andarsene significa dimenticare.» Le parole mi escono da sole. Lei viene verso di me, mi abbraccia forte, molto forte, più del suo solito. Si gira verso gli altri, sorridendo li abbraccia uno per uno, sorprendendo tutti e forse anche se stessa. Sussurra un "ci vediamo" a ciascuno di loro e poi io e lei, insieme, usciamo dalla casa portandoci dietro auguri di un buon viaggio. Questa ragazza al mio fianco è stata una costante, è sempre stata mia e sempre lo sarà, il nostro legame non è amore, in realtà non mi vedrei mai ad amarla, ma non è nemmeno amicizia. È qualcosa di più intenso che noi ci limitiamo a esporci sorridendoci e semplicemente essendo noi stessi. Lei non cambierà, io non cambierò. Resteremo uniti, sempre.

Alice.

Mi alzo dal letto quasi alle undici, la partenza per l'aeroporto è programmata per mezzogiorno, mi tocca prepararmi in fretta, ma le lunghe ore passate a fare i conti con i miei pensieri mi hanno tenuta sveglia più del dovuto. Ho passato la serata a fare le valige, a scegliere i vestiti, piegarli accuratamente in modo da occupare meno spazio possibile, raccogliere tutti i miei effetti personali in piccole bustine. Normalmente avrei amato questa parte, il brivido del viaggio, ma non c'era nulla di lieto, niente da festeggiare.
I miei amici si erano offerti di passare la notte con me, ma volevo stare sola, avevo bisogno di metabolizzare le mie emozioni con i miei tempi, e questa solitudine ha portato a qualcosa di buono, tra me e me ho preso una decisione importante: accoglierò questa esperienza come un'avventura. Probabilmente soffrirò e sarò triste per un primo momento, sono sentimenti umani. Non posso impedire la mia partenza, ma posso impedire che questo segni per sempre un periodo importante della mia vita. Ero troppo piccola per capirlo allora, quando i miei genitori si separarono, ma crescere significa imparare dai propri errori ed è quello che io mi riprometto di fare.

Non ho potuto impedire a Thomas di accompagnarmi in aeroporto quindi eccolo caricare le mie valige nella sua macchina mentre mamma mi riempie di baci e di abbracci tra le lacrime che le scorrono a fiumi sugli zigomi pronunciati. La rassicuro dicendo che starò bene e che la chiamerò appena arrivata. Salgo in macchina dopo averle dato l'ennesimo abbraccio, e in fretta partiamo. Il mio migliore amico collega il suo telefono all'auto e mette la musica, così mi lascio coccolare dalle note e dalle parole, osservando gli edifici che conosco ormai come le mie tasche sparire dietro l'auto.
I miei potrebbero essere solo pregiudizi e Richard potrebbe avere ragione, anzi sicuramente ha ragione lui, ma è estremamente difficile. Tutto quello che so su mio padre non è pregiudizievole, è solo una sbrodolata di fatti, e questo mi porta ad odiare tutto quello che è collegato a lui, a partire dalla terra in cui ora abita. Man mano che riconosco le strade nei pressi dell'aeroporto, mi sale sempre di più un groppo alla gola; forse avrei dovuto fare qualcosa, avrei potuto parlare con mio padre, magari lo avrei impedito. Sarei riuscita a finire la scuola qui, avrei poi potuto valutare eventualmente un università in Inghilterra. Mio dio, perché non l'ho fatto? Mi sono arresa, mi sono arresa senza nemmeno combattere, e questa non è la persona che sono. Non posso cominciare a mettere in dubbio qualsiasi aspetto di me proprio ora che mi serve tutto il contegno di cui sono capace.
Mi tranquillizzo mentre cammino per gli ampi corridoi dell'aeroporto; non avrei cambiato niente, avrei reso il tutto più doloroso e spiacevole. Probabilmente mi sono comportata nel modo più razionale e adulto che potessi fare. Magari qualcuno al mio posto avrebbe scatenato un putiferio.
Ci accomodiamo su uno dei divanetti bianco latte, in paziente attesa. Chiacchieriamo del più e del meno, nessuno di noi osa menzionare quello che sta succedendo, quasi come se tacendolo non accadesse più. Quando chiamano il mio volo per l'imbarco, la realtà ci piomba addosso e fa scoppiare quella piccola bolla che ci eravamo creati.
Mi alzo in piedi, raddrizzo le spalle, e guardo Thomas davanti a me. «È solo un arrivederci.» mormora con la testa bassa. Lo abbraccio forte e non riesco più a trattenere i singhiozzi. Mi concedo di piangere davanti a lui, perché è lui e so che non mi farà mai pesare le mie debolezze. Quando se ne accorge, non riesce a trattenere un leggero sorriso, mi passa il pollice sulla guancia per asciugarmi le lacrime e mi sussurra un "ci vediamo", appoggiando candidamente le sue labbra sulla mia fronte. Lo saluto ancora e poi mi volto, camminando nel modo più convinto che riesco, senza voltarmi indietro.

Una volta salita sull'aereo, cerco il mio posto e mi ci accomodo. Mi lego la cintura, metto il telefono in modalità aerea e me lo stringo in grembo: questo è l'unico apparecchio che mi permetterà di parlare con loro nei prossimi mesi. Appoggio la testa al finestrino e guardo fuori. Mi addormento, sperando che sia meno pesante di quello che mi aspetto

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Capitolo 4
*** Nuove conoscenze ***


CAPITOLO QUATTRO
Nuove conoscenze

Alice.

Oggi a Londra è previsto bel tempo, ma da quello che so spesso è grigio e piove. Forse anche il tempo atmosferico si prende gioco di me ora. Cammino a passo spedito per il corridoio principale. Mia madre mi ha detto che mi aspetteranno in aeroporto. Ma saprò riconoscere mio padre? Chissà quanto sarà cambiato dall'uomo che ricordo io... Continuo a camminare per l'ampio corridoio e mi stupisco notando un uomo vestito di tutto punto che tiene un foglio in mano con scritti il mio nome e il mio cognome. Mi avvicino a lui che mi squadra. «Lei è la signorina Gray?» mi chiede cordialmente piegando in quattro il foglio. Annuisco, lui mi prende le valigie accompagnandomi verso l'uscita intanto si presenta.
«Io sono George Jefferson, l'autista di suo padre signorina Gray. Lei mi può chiamare Jeff.» lo guardo interessata, quanti soldi deve avere uno che si può permettere un autista? «Suo padre è al lavoro signorina, ma mi ha chiesto di informarla che sarà di ritorno verso l'ora di pranzo.»
Arriviamo ad un auto nera, una Range Rover. "Mio padre ha i soldi che gli escono dal culo." penso aiutando George o Jeff o come voglio chiamarlo a caricare le valigie nel baule spazioso. Salgo nei sedili posteriori, estraggo il mio telefono dalla borsa. Jeff o George sale davanti e mette velocemente in moto l'auto.
Il silenzio che cala nell'abitacolo è alquanto imbarazzante perfino per me perché sento che dovrei fare un milione di domande ma mi sto limitando a tacere. Mi decido ad iniziare una conversazione destinata a finire presto.
«Quanto dista ancora casa?» chiedo a Jeff, che ci pensa su prima di rispondere.
«Non molto, signorina Grey.» annuisco consapevole del fatto che mi sta guardando dallo specchietto retrovisore.
«Mi può parlare di mio padre, Jeff?» chiedo appoggiando il cellulare di fianco a me. Lui comincia a illustrare la sua personalità e riesco a fare un quadro del suo aspetto. Mi racconta anche alcuni episodi della sua vita lavorativa e poi passa a parlare della moglie e del figlio. Il tempo trascorso in macchina non è noioso, tutt'altro, Jeff è molto dettagliato nella descrizione della signora Gray e del "signorino" Gray. Arriviamo alla casa poco dopo e, a dire la verità, chiamarla casa è un errore, è una villa e immagino con piscina. Un'ombra di malinconia cala sul mio viso al ricordo di tutte le giornate indimenticabili passate nella piscina dei Davis.
Il cancello si apre, Jeff percorre il vialetto ciottolato fino ad arrivare al garage. Mi chiede di scendere così io apro lo sportello, scendo dalla macchina e mi allontano un po' lasciandolo parcheggiare e osservando il giardino. È molto grande, sembra che prosegua anche dietro la casa, un piccolo sentiero sempre fatto di sassi porta alla scalinata in cima alla quale si trova la porta. Ci sono cinque alberi sistemati in modo asimmetrico nel giardino, due davanti e tre dietro e offrono un ampio spazio ombreggiato. Su uno di questi alberi si intravede una casetta incastrata tra i rami, mi sa che più tardi farò un giro per il giardino. Jeff scarica le valigie e me le porta dentro casa, entro anche io.
L'interno non è interamente placcato in oro ma ha l'aria di essere tutto terribilmente costoso. Nell'entrata c'è, oltre ad un tappeto beige e due attaccapanni appesi ai lati del piccolo corridoio, un ripiano ordinato e perfettamente spolverato sulla sinistra sul quale sono disposte varie chiavi con la propria targhetta insieme a un soprammobile a forma di gatto, sulla coda lunga di questo sono infilati alcuni braccialetti. Davanti a me, poco più avanti, c'è una scalinata che probabilmente porta alle camere e al piano di sotto. Ci sono due spazi aperti appena prima dell'inizio della scala, mi avvicino e entro a destra.
Davanti a me si apre un ampio salotto, un caminetto spento sulla sinistra della stanza, un enorme TV, dei divani formano una "U" davanti ad essa. Ci sono quattro finestre che eseguono alla perfezione il loro compito di illuminare completamente la stanza, nonostante il sole sorto da poco. Decido di entrare nella stanza di fronte, una sala da pranzo simile al salotto, anche questa piena di finestre con un grande tavolo al centro. Mi prendo del tempo per gironzolare per la casa, facendomi un'idea dell'ambiente in cui ora vivo. Jeff nel frattempo ha già portato le mie valige nella camera e, dopo avermela indicata, è scomparso. Entro finalmente nella stanza in cui dormirò, noto con piacere che non è del tutto inadatta a me: l'arredamento è tutto bianco e nero, sarebbe perfetto se i muri non fossero dipinti di rosa perlato, l'armadio è più grande di quello che avevo a casa. La stanza in generale è molto luminosa, come il resto della casa. La pecca più grande che trovo è la mancanza di uno specchio, dovrò dirlo con mio padre.
Mi siedo sul letto, prendo le auricolari dalla tasca, le collego al cellulare e faccio partire la musica. Mi stendo dopo essermi tolta le scarpe e chiudo gli occhi. Sono in Inghilterra, non ci credo di essere davvero a così tanti chilometri da casa, fatico a credere che tra me e i miei amici ci sia un oceano.

Mi sento completamente fuori posto in questo lusso. L'appartamento in cui vivevamo io e mia madre è molto modesto, non una catapecchia, ma adatto per due persone soltanto. Avevamo un bagno, un locale con salotto e cucina e due camere. Nemmeno la casa del suo nuovo compagno è eccessivamente grande. Qui ho l'impressione che possano viverci comodamente dieci persone. Ricordando i racconti di Jeff su mio padre, immagino che l'ampia sala da pranzo sia spesso usata per cene di lavoro o comunque formali.
In questo momento penso di essere in casa da sola, potrei fare quello che voglio ma risulta difficile dato che non conosco l'ambiente. Infatti da quando mio padre mi ha abbandonato non ho mai visto la sua nuova casa, tanto meno ho mai immaginato potesse essere così grande e lussuosa. Deve essere stato davvero devastante per lui in questi anni il pensiero di star vivendo in questo modo mentre la sua famiglia si trovava oltreoceano acondurre un'esistenza modesta, penso con sarcasmo. Mi immergo nei miei pensieri, rimanendo in uno stato di dormiveglia per diverso tempo.

Ad un tratto mi ricordo che non ho fatto un giro per il cortile. Sono davvero stanca, ma il luogo estraneo mi impedisce di addormentarmi, così mi metto di nuovo a sedere, stiracchiandomi e sbadigliando, mi rinfilo le scarpe ed esco dalla camera con la musica che mi aiuta a metabolizzare il tutto.
Mi avvicino alla casetta che avevo intravisto tra i rami di un grande albero, è davvero carina e avrei voglia di salirci per vedere com'è dentro ma non lo faccio per la paura che la scaletta di corda appesa al ramo non mi regga. Mi allontano andando verso il retro della casa dove prosegue il giardino e, come avevo previsto, nel centro c'è una grande piscina coperta da un telone verde. Mi guardo intorno, è tutto molto curato, immagino che mio padre abbia un giardiniere. La siepe è perfettamente squadrata, preceduta qua e la da aiuole piene di fiori. Nell'angolo a sinistra è collocata una casetta di legno. Mi avvicino, apro la piccola porticina e sbircio dentro, trovando solo attrezzi da giardino e oggetti per la piscina. Mentre richiudo la porta, noto un buco nella siepe, nascosto dalla casetta. Mi avvicino prestando attenzione a non calpestare i bellissimi fiori e scopro un piccolo cancellino di legno, un po' malmesso, alto e stretto. È leggermente aperto. Sento la curiosità montarmi dentro e, anche se so che dovrei farmi gli affari miei, sgattaiolo al di la di esso, alla scoperta di qualsiasi cosa esso chiuda.
Sbuco in un piccolo giardino interamente recintato, decisamente meno curato di quello da cui sono arrivata, immagino che sia un luogo non molto frequentato. L'unica cosa che riempie il luogo è un salice, ancora abbastanza piccolo per non essere notato dietro l'alta siepe. Sorrido spontaneamente. Da bambina, disegnavo questi alberi nelle mie ambientazioni di fate, mi affascinavano molto, ma non ne avevo mai visto uno dal vivo. Adesso che me lo trovo davanti, posso percepire la sensazione di magia che mi immaginavo.
«Cosa ci fai qui?» sobbalzo per lo spavento e mi giro verso un ragazzo abbastanza alto, castano che sta fermo in piedi stringendo una sigaretta tra le labbra e un accendino nella mano. Non lo avevo proprio visto, doveva essere nascosto dal tronco dell'albero.
«Sono una persona curiosa.» gli rispondo, facendolo ridere.
Si avvicina a me. «Questo si intuisce, non tutti riescono a vedere un buco così ben nascosto.»
Mi stringo nelle spalle osservando le sue mani che armeggiano con l'accendino per accendere la sigaretta.
«Non dovresti intrufolarti nelle proprietà altrui.» mi dice con un tono severo ma sorridendo. È un ragazzo carino, i suoi occhi sono di un azzurro acceso, pieno di vita, non è tanto più alto di me, però mi supera. "Se i ragazzi sono simili a lui qui, allora ho fatto bene a venire!", penso tra me e me trattenendo una risatina. «Comunque, sono Louis.»
Mi fa un cenno con la testa che ricambio. «Alice.»
«Ora si capisce tutto, stai cercando il tuo paese delle meraviglie.» mormora, facendo riferimento al racconto di Lewis Carroll. Se avessi ricevuto un dollaro per ogni volta in cui una persona ha fatto una battuta simile, probabilmente mi sarei potuta permettere una villa simile a Washington.
«Scusami per l'intrusione, sono appena arrivata in zona, non so nulla di qui.» mormoro con una punta di imbarazzo. Avrei potuto immaginare di star compiendo azioni discutibili. Lui in risposta semplicemente scrolla le spalle e mi sorride.
Mi sembra un ragazzo a posto, la mia prima conoscenza. Ci sediamo sotto al salice a chiacchierare. Mi fa molte domande, è incuriosito dalla mia improvvisa apparizione; lui ha vissuto qui per tutta la sua vita, si può dire che in zona conosca tutti e tra quei tutti, anche mio padre. Sotto sua richiesta, gli spiego brevemente la mia situazione, omettendo quante più informazioni possibili. Sono una persona molto socievole, con chi conosco sono parecchio aperta, ma con gli estranei preferisco non spifferare troppi affari miei. Lui mi racconta che è figlio unico, che vive nella casa dietro la nostra. Solo allora noto un cancellino, simile a quello da cui sono entrata io ma sicuramente meno trascurato, dalla parte di casa sua. Mi dice che questo posto appartiene a loro, che lui viene spesso per rilassarsi e mi permette di tornare quando voglio.
Presto si fanno le undici e mezza, a detta di Jeff mio padre sarebbe tornato per mezzogiorno quindi sarebbe meglio farmi trovare a casa. Mi alzo e lo saluto, lui mi guarda dal basso e mi invita a tornare il giorno successivo, nel pomeriggio. Annuisco, poi torno da dove sono venuta, dirigendomi verso la porta d'ingresso. Mi tocca suonare perché ovviamente non ho le chiavi, altra cosa che devo far presente a mio padre. Mi apre Jeff, che nel frattempo si è messo in abiti più comodi, ma comunque curati e mi dice che posso aspettare mio padre in sala. Faccio come mi dice, e rimango in attesa, curiosa.

 

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Capitolo 5
*** Pregiudizi ***


CAPITOLO CINQUE

Pregiudizi

 

Alice.

 

Per anni ho atteso questo momento. Credo sia stato uno dei motivi per cui non ho fatto di tutto per rimanere a casa mia, la curiosità che mi contraddistingue. Nei miei ricordi lui è un uomo alto, in carne, con una barba molto lunga, folta e scura, i capelli tenuti corti, anch'essi neri come la pece. Ricordo che era un po' burbero, ma gentile con me, non c'è nulla in particolare che lo distingua dal resto. 

Sfrego le mani più volte e osservo ossessivamente l'orario sul display del mio telefono. Più passa il tempo, più divento nervosa. Da questo primo incontro potrebbe dipendere la qualità della mia intera permanenza in questa casa, e dire che non sento un po' di ansia da prestazione è una menzogna. 

Lo so, mi sono promessa di prendere con filosofia questa esperienza, di non precludermi ogni cosa bella solo per colpa della mia testardaggine; purtroppo però, ogni scenario che immagino nella mia testa è disastroso, catastrofico. Vedo me stessa in diverse salse: ammutolisco, scoppio in lacrime, do di matto, scappo in camera o scappo di casa. Vedo lui, un uomo con le stesse sembianze di quello che ho visto per anni solo in qualche foto dimenticata, che mi urla contro, mi ignora o non fa altro che vantarsi di quello che è la sua nuova vita.

 

Per un attimo, un istante, un barlume di lucidità sembra attraversare la mia mente completamente obnubilata dall'ansia: se mi ha voluta qui, non sarà certo per rovinarmi la vita, sbaglio? Ma questo saggio pensiero sparisce nel nulla, con la stessa velocità con cui è arrivato. Così torno a crogiolarmi nelle tristi immagini di una conoscenza che non si doveva fare. Se fosse meglio per entrambi proseguire con le nostre vite, all'oscuro di quella dell'altro? Se fossimo due persone completamente incompatibili che possono solo farsi la guerra? 

Perché mi vuole qui? Dieci anni fa non mi ha voluta più, mi ha buttata via come se fossi un giocattolo rotto, e ha deciso di prendere su le sue cose e andare a figliare in un altro stato. Perché mettermi in questa situazione scomoda? 

Fino ad ora, ho vissuto come desideravo: pochi litigi con mia madre, una convivenza relativamente semplice con Zayn e suo padre, quasi completa autonomia in parecchi ambiti nonostante la minore età. Se tutto dovesse cambiare? Sono dentro la casa di uno sconosciuto che afferma di essere mio padre, ma il legame di sangue poco c'entra con la triste verità: lui non mi conosce. Come io non conosco lui o la sua nuova famiglia. E se, per quanto io mi sia promessa di dargli una possibilità, non riesco a digerire la cosa? Normalmente sono abbastanza incline ad accettare i miei errori ed eventualmente muovermi per rimediare, ma questo quando non si tratta dell'uomo che mi ha creato solo problemi, disagi che ho faticato molto per accantonare, tra cui la paura di essere abbandonata. Per questo motivo sono grata di avere persone come Thomas e Charlotte, loro mi fanno sentire sempre nel posto giusto, non starei così bene con me stessa o con gli altri. Probabilmente non sarei diventata quella ragazza che attrae inevitabilmente le altre persone, sicura di sé, anche se all'apparenza, ma molti si fermano a quella, schietta e solare. Adesso loro non sono con me, posso dire di aver perso le mie stampelle. Ora devo imparare a camminare da sola. 

Al solo pensiero di Lottie e Tommy, un piccolo sorriso colmo di malinconia si fa spazio sul mio viso. Ma la loro presenza, anche se solo nella mia immaginazione, mi rinvigorisce come potrebbe fare un sorso d'acqua fresca in una giornata torrida. Mi rendo conto di aver raddrizzato le spalle, e di sentire dentro di me quel calore vivace che provo quando sono quella persona che mi piace essere. Che allieva sarei, se non dimostrassi di aver davvero imparato tutto quello che loro hanno potuto insegnarmi su come affrontare la vita?

Ed è proprio con questo spirito che mi alzo dal comodo divano quando sento il portone di casa aprirsi e richiudersi. Faccio un respiro profondo e mi striscio i palmi delle mani sui jeans, per poi dirigermi verso l'ingresso.

 

L'uomo che entra nella mia visuale è quasi l'esatto opposto di qualunque cosa potessi ricordare. Immagino che dieci anni siano davvero un'enorme quantità di tempo. Alto, un fisico asciutto con qualche accenno di muscoli chiaramente curati in palestra, i capelli corti freschi di barbiere così come la rasatura sul suo viso. Indossa un paio di pantaloni blu marino di taglio elegante ma estivi, una camicia bianca di cotone con le maniche arrotolate al gomito e ai piedi delle... vans?

Lo osservo, e incrocio il suo sguardo. I suoi occhi sono così scuri, che da questa distanza sembrano neri. Nessuno parla. Vedo sul suo viso transitare diverse emozioni, alcune chiare, come la sorpresa e il nervosismo, altre impercettibili. Ho passato talmente tanto tempo a guardare Lie To Me* che mi infastidisce da morire l'incapacità di decifrare la miriade di sfumature dei suoi occhi. Che situazione imbarazzante, due persone che si squadrano e si studiano così apertamente senza proferire parola. Il suo sospiro rompe quella tensione, e mi rendo conto di aver trattenuto il respiro per la maggior parte del tempo. Ho talmente tante emozioni che galoppano nel mio cervello che mi sembra di non provare niente: né gioia, né tristezza, neppure rabbia o odio. Solo il più puro stupore. 

«Chiedo scusa,» Deglutisce. «non avevo idea di cosa aspettarmi.» dice incerto, tentando poi di ricomporsi. Dalla mia parte, non ho la capacità di riprendere possesso delle mie facoltà mentali, mi sento in balia delle onde in una barca alla deriva. Ancora silenzio. Mi immagino una scimmietta che sbatte con insistenza i piatti nel mio cervello, questo è tutto quello che sento dentro.

Poi senza nemmeno accorgermene e avere il tempo di metabolizzare, mi trovo stretta tra le sue forti braccia, un leve fremito attraversa il suo corpo. Non riesco a ricambiare l'abbraccio, un po' per la mia avversione per gli abbracci agli sconosciuti, un po' per la sorpresa, un po' per la suddetta scimmia che ha deciso di metterci ancora più forza nel suonare quei piatti. Il tempo sembra procedere a rallentatore, per quanto tempo rimane abbracciato a me? Secondi? Minuti? 

Quando mi libera dalla sua stretta, lo vedo visibilmente imbarazzato, con le gote leggermente arrossate, lo sguardo basso e la postura incurvata. «Mi dispiace, non... volevo metterti a disagio...» mormora facendo un passetto per allontanarsi da me.

«Non fa niente» È l'unica cosa che riesco a dire. Che oratrice, Alice! 

Solo ora sento un calore inimmaginabile montarmi dentro. Le mie guance devono essere del colore dei pomodori maturi, e probabilmente ho gli occhi lucidi, anche se spero che lui non lo noti. La scimmia è stata spazzata via dal fiume di domande che avrei da porgli, ma pare che in questo momento il collegamento cervello-bocca sia guasto. 

«Immagino che avremo molte cose di cui parlare. Ma prima, mi piacerebbe davvero mettere qualcosa sotto i denti, sto morendo di fame.» mi dice accennando un sorriso amichevole. 

Annuisco appena, e insieme ci dirigiamo nella cucina. Lui sembra tornato a suo agio, disinvolto e padrone di se stesso, completamente trasfigurato rispetto all'uomo scioccato di qualche minuto fa. Mi fa scegliere tra alcuni cibi e quindi inizia a cucinare. La cosa mi stupisce perché immaginavo avessero anche un cuoco o un governante o qualcuno di simile, invece mi trovo una cucina con mio padre che mi cucina il pranzo. 

Non parliamo molto, lui è impegnato nella preparazione e io non so cosa dire. Mi dice che sono stata fortunata ad aver beccato una giornata così bella e soleggiata: come avevo sentito, qui spesso c'è brutto tempo. Poi mi da qualche informazione generale sulla scuola, scopro di dover incontrare il preside il venerdì prima dell'inizio delle lezioni perché mi possa accogliere e conoscere, così sarò poi libera di iniziare con tutti gli altri il lunedì successivo. Non che abbia avuto molto tempo di pensare alla scuola, però non mi sarebbe piaciuto fare la scena della nuova arrivata come succede nei film, quella che interrompe la lezione a metà accompagnata dal preside, che sfila davanti ai compagni per accomodarsi nell'unico banco vuoto. 

Una volta pronto il pranzo, ci mettiamo a mangiare e con piacere scopro che è un ottimo cuoco, la pietanza è squisita e mi fa dimenticare per un momento il nodo allo stomaco che mi sta provocando questa situazione, mangio tutto con gusto; lui deve averlo notato perché mi spiega che ama cucinare e che lo fa spesso, anche per gli ospiti. Solo qualche giorno hanno qualcuno che lo fa per loro, quando sono molto impegnati, quando hanno molti ospiti oppure quando vogliono godersi del tempo in famiglia.

Mi rabbuio improvvisamente a quella parola: la tua nuova famiglia. Con noi queste cose non esistevano. Ora la sento, la rabbia. Con fatica, cerco di trattenere l'istinto che ho di far uscire tutto quello che mi sto tenendo dentro. 

«Non pensavo ti importasse qualcosa della famiglia.» sputo acida portando lo sguardo su di lui. Sembra non essere toccato dal mio commento e la cosa mi infastidisce, volevo provocare una reazione, una qualunque.

«Lo capisco, che mi odi intendo.» inizia a parlare, posando la forchetta al lato del piatto e appoggiando la schiena alla sedia. «Rispetto questa cosa, rispetterò i tuoi tempi, ma sappi che per me la famiglia è importante, tu come loro.» 

Noah Gray è una sorpresa. Mi aspettavo tante cose, ma non una risposta del genere; l'uomo che ricordo io probabilmente si sarebbe arrabbiato molto e avrebbe alzato la voce. Questa persona che ho davanti, invece, ha inconsapevolmente saputo come rassicurarmi, nonostante io abbia ancora molto da dire. Decido di togliermi un dente. 

«Mi è difficile da credere, dato che ci hai abbandonate come se non valessimo nulla.»

Si rabbuia. Bingo. Si passa velocemente la lingua sulle labbra e abbassa lo sguardo. «Incasserò le tue accuse, vorrei che tu ti fidassi di me e ti prometto che lavorerò sodo per guadagnarmi la tua fiducia. Vorrei che tu mi conoscessi, senza pregiudizi, allora parleremo e risponderò a tutte le tue domande.» La sua mano si fa strada tra i capelli, scompigliandoseli appena con un gesto nervoso. È davvero un bel uomo, e improvvisamente ho la forte curiosità di conoscere gli altri due componenti di questa famiglia. Dopo una breve pausa riprende. «So che sarà una strada in salita, ma possiamo provarci?»

Sono colpita dalla maturità di questo sconosciuto, in nessuno dei miei scenari accadeva una cosa simile. Mi sento in colpa ora, per aver tentato deliberatamente di ferirlo; mi rendo conto che devo mettermi al suo livello se voglio avere delle risposte serie. Non servirà a niente essere cattiva. Sono ancora furiosa, credo che ci vorrà diverso tempo per farmi passare l'astio, ma mi sta chiedendo di provare a dargli una seconda chance, mi sta chiedendo una tregua, per mostrarmi chi è. 

Mi sta inconsapevolmente chiedendo di tener fede a quella promessa che mi sono fatta la mattina scorsa in camera mia. Devo imparare dai miei errori.  

Annuisco, sperando di non rimanere delusa.

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Capitolo 6
*** Fotografie ***


CAPITOLO SEI
Fotografie

Alice.

Il resto del tempo passato con mio padre è stato strano per me, tuttavia, la sua conoscenza non è stata del tutto spiacevole. Non so se è stato lo shock, o se avevo ingigantito tutto come mio solito, ma non mi sono sentita tanto arrabbiata quanto credevo. È chiaro che, per quanto poco conoscessi mio padre e nonostante Yaser, il compagno di mia madre, sia stato sempre quanto più presente possibile per me, ho sentito la sua mancanza. Chiunque però avrebbe accantonato questo sentimento, trasformandolo in astio, per evitare di essere consumati da esso, no?
Certo è che non ha potuto cancellare i dieci anni di distanza in sole due ore. Ho evitato di fare altri commenti eccessivamente acidi per preservare un minimo il contegno sebbene alcuni sarebbero calzati a pennello, in generale però penso di essere stata adeguatamente schiva e silenziosa da fargli capire che ci sarà molto da lavorare. Ho accettato di conoscerlo mettendo da parte quelli che lui definisce "pregiudizi", anche se per me non lo sono, e ho intenzione di provare a mantenere la parola, almeno per un po'.

Ho scoperto diverse cose su di lui che ovviamente non sapevo. È tornato in Inghilterra perché lui è nato qui e ha vissuto qui per tutta la sua gioventù; si è trasferito a Washington DC subito dopo la high school per frequentare la Georgetown University, laureandosi cinque anni dopo in management per tecnologia e cybersecurity. Qui in Inghilterra lavora in una compagnia che si occupa di informatica per le grandi logistiche e mi ha lasciato intendere – non che avessi alcun dubbio visto il tenore di vita – di essere uno molto importante li dentro.
Mi sono accorta che siamo molto simili; l'ho sentito nel modo in cui ha parlato dei suoi amici e della sua scuola, ho notato che anche l'umorismo è affine al mio. Osservandolo meglio ho potuto constatare di aver ereditato diversi tratti del viso e alcune movenze. È davvero un bell'uomo, ha quarant'anni ma io gliene avrei dati meno; mi ha detto che nel tempo libero va in palestra oppure fa nuoto, suo sport preferito e altra cosa che condividiamo.
In tutte le sue chiacchiere, non ha mai fatto riferimento alla nostra famiglia, alla mia infanzia, alla mamma. Non si sente neanche un po' in colpa? Come fa a parlare dell'università e del periodo dopo, tralasciando completamente quella che dovrebbe essere una parte fondamentale? Quando se n'è andato, ha voluto dimenticare? Se si, cosa lo ha spinto a ricordarsi di me e a volermi conoscere?
Tutte queste domande frullano per la mia mente mentre rimugino su mio padre. Non so per quanto potrò andare avanti senza ricevere le risposte di cui ho bisogno.

La giornata sta giungendo al termine, dalla finestra di camera mia si può osservare un bellissimo tramonto, il cielo e le nuvole sono colorate di un bel rosso carminio che mi trasmette un senso di pace ma allo stesso tempo di testarda determinazione.
Per la prima volta in tutta la giornata, estraggo il mio telefono e me lo rigiro tra le mani un po' prima di sbloccarlo. Vorrei chiamare Thomas ma mi rendo conto di non avere accesso ad internet, perciò scendo al piano di sotto, vagando come un'anima in pena cercando disperatamente la password del WiFi.
Giro i piani della casa e apro varie porte dando una veloce occhiata, vedo la camera da letto di mio padre e di sua moglie Dalila, la camera del mio fratellastro Nathan, trovo una stanza dei giochi e poi finalmente trovo uno studio, e immagino che il router si trovi li.
Nella stanza c'è una scrivania molto semplice e spoglia, sopra di essa solo un MacBook e un paio di cartelle con dei fogli. C'è una libreria piena di libri enormi che sembrano manuali di legge, probabilmente di Dalila, e un'altra con libri, cartelle e raccoglitori catalogati. Trovo quello che mi serve nel mobile dietro la scrivania così mi avvicino e digito la password sul telefono.
Faccio per uscire quando una cosa mi colpisce: la parete in cui si trova la porta è piena di foto. Mi avvicino quasi sentendomi una ladra e inizio ad osservarle una ad una. Ci sono foto di Nathan, di famiglia, del matrimonio. Dalila è davvero una bella donna, non mi ero ancora soffermata a guardare alcune delle foto sparse per la casa. I capelli corvini come quelli di papà sono tenuti a caschetto in alcune foto, oppure lunghi fino a metà schiena in altre, gli occhi azzurri e leggermente a mandorla appaiono sempre sorridenti, anche quando il resto del viso non concorda. Sembra una donna molto felice. Ci sono diverse foto in cui papà è di fianco a Nathan e lo abbraccia o lo guarda e vedo nei suoi sguardi un amore sconfinato, che io non ho mai ricevuto da lui. Mi sento un groppo alla gola, sento che vorrei piangere. Piangere quelle lacrime che mi sono tenuta dentro quando ho iniziato a capire che mio padre se n'era andato, che non ci sarebbe stato per me il mio primo giorno di high school, che non mi avrebbe vista nel bellissimo vestito del prom e non ci sarebbe stato al mio diploma. Ho tenuto tutto quel peso addosso per tanto tempo, fino a quando non mi sono resa conto che dovevo farmene una ragione e che mia madre stava facendo tutto il possibile per non farmi mancare niente.
Guardare queste foto della famiglia perfetta mi fa incredibilmente male, mi sembra ironico ora il fatto di dovermi diplomare nella città di Noah per un suo ingiustificato rinnovato interesse per me, lontana dalla mamma che mi è sempre stata accanto.
Poi vedo qualcosa che non mi aspettavo. Nella fila più alta di foto, non ritrovo più i visi di tutte le altre. Vedo l'uomo barbuto dei miei ricordi che gioca con una bambina molto piccola, e poi un'altra, dove la stessa bambina un po' più grande è tutta insabbiata mentre cerca di costruire un castello di sabbia, e infine una foto di quella bambina ancora più grande che stringe un orsetto di peluche tra le braccia, seduta sulle gambe di mio padre, entrambi sorridenti.

Sono io. Queste foto sono mie.

Non so descrivere come mi sento, imbambolata a osservare queste immagini, l'ultima in particolare. Ricordo alcune cose di quel giorno: piangevo perché avevo portato a scuola il mio pupazzo, una scimmietta, e un bambino me lo aveva strappato dalle mani e rotto. Quando il pomeriggio tardi papà è tornato a casa, mi ha vista triste e quando gli ho raccontato cosa era successo, ha preso su me e la mamma e ci ha portate al negozio di giocattoli, dicendomi di scegliere il pupazzo che preferivo.
Non mi aveva dimenticato? Mi ha sempre avuta sotto agli occhi? Per quale motivo è sparito per così tanto tempo allora? E non si è fatto mai sentire? Sono sempre stata convinta che lui non mi volesse più bene. Quando chiedevo alla mamma se era andato via per colpa mia, lei mi rispondeva che non dovevo sentirmi colpevole di niente, ma non ha mai detto chiaro e tondo che io non c'entravo niente; forse per lei non avrei mai capito l'enorme differenza, ma io mi sono resa conto che non era quello che volevo sentirmi dire, e che anzi, lasciava libera interpretazione alla mia mente ferita e piena di immaginazione.

Scappo fuori dallo studio, tornando velocemente nella mia camera e richiudendomi la porta alle spalle, con un leggero affanno. Mi sento sconvolta, mille dubbi si fanno largo tra i miei pensieri, ho bisogno di chiamare il mio migliore amico e raccontargli, mi prendo del tempo per ricompormi prima di avviare la videochiamata.
«ALICE!» urla quel demente non appena risponde alla chiamata. Sento del rumore in sottofondo mentre il video carica e poi mi appare lui in primo piano, a torso nudo e con i capelli bagnati.
«Cavolo siete in piscina, bastardi!» esclamo ridendo riconoscendo il giardino dei Davis. Immediatamente nell'inquadratura si fanno spazio confusionariamente Charlotte, Richard e Tania che si parlano sopra per salutarmi e farmi sapere a chi manco di più. Rido di gusto a quella scena, li saluto più volte anche io fino a quando Thomas non si riappropria del telefono e si mette ad inveire contro gli altri.
«Scusami, dannazione, quando ci si mettono sono dei selvaggi.» mormora sconsolato mentre si allontana dal frastuono. Ha ragione, quando vogliono sono dei selvaggi, ma vorrei davvero essere lì con loro; questa accoglienza mi ha riscaldato il cuore e mi ha fatto dimenticare per un momento quello che ho visto nello studio. Thomas si perde a raccontarmi varie cose a cui non presto molta attenzione, persa come sono nei miei pensieri. «Come al solito parlo solo io!» Thomas interrompe il mio flusso di pensieri dandosi un sonoro schiaffo sulla fronte provocandomi una risatina. Mi intima quindi di raccontare tutto.
Gli racconto esaltata della casa, della piscina e del quartiere. Gli faccio vedere la mia camera, il bagno e la vista dalla mia finestra. Lui fa vari commenti divertiti, e inizia a rivolgersi a me scherzosamente con l'appellativo di "Sua Maestà". Gli racconto del giardinetto col salice e di Louis, provocando fischi e sguardi di intesa da parte sua. Sta cercando di farmi ridere e di tirarmi su il morale, e lo adoro per questo.
«Okay, bella la tua storia da principessa col principe dagli occhi azzurri, ma ora raccontami di Noah.» Dritto al punto insomma.
Mi passo una mano tra i capelli e inizio a giocare con una ciocca mentre penso a cosa dire.
«È stato... strano.» mormoro mentre prendo tempo. «È giovane, completamente diverso da come lo ricordavo. Sembra sapere il fatto suo, sai quegli uomini sempre sicuri di sé? Eppure quando mi ha vista, credo stesse per avere un infarto.» Questo è quello che ho pensato, è sembrato sconvolto, mi ha squadrata dalla testa ai piedi; ora che ho visto quelle foto nello studio, ho capito di essere ben diversa dalla bambina che ricordava.
«Sono sicuro che gli mancavi, anche se tu non ci credi.» sentenzia, riferendosi alle innumerevoli volte in cui abbiamo affrontato questo discorso anche in passato. Ho sempre sostenuto fermamente che non potesse sentire la mia mancanza, non mi è mai passato per la testa nemmeno un istante che lui potesse invece avermi sotto gli occhi spesso. Sto per raccontare a Thomas dello studio, ma qualcosa mi blocca. Forse voglio tenermelo per me, forse voglio affrontare questa cosa da sola, senza dover per forza ascoltare i consigli altrui, anche se questi vengono da una delle persone di cui mi fido di più. Non voglio essere influenzata da nessuno. Decido quindi di tacere questo particolare e gli riporto invece alcune delle cose che mio padre mi ha raccontato della sua vita.

Dopo un'oretta buona, ci salutiamo, saluto anche gli altri e chiudiamo la chiamata. Sospiro prima di chiamare mia madre, sarà sicuramente preoccupata.
Resto al telefono con lei una mezz'oretta, a lei racconto ancora meno cose, mi limito a dire che non abbiamo avuto molto tempo per chiacchierare e che il posto è carino. Qualcosa mi blocca dal raccontarle della casa e di Noah, nonostante le sue mille domande, anche abbastanza insistenti. È così che si sentono i figli di coppie divorziate quando parlano dell'altro genitore? Alla fine della chiamata, la sento triste, non so dire se a causa della situazione o a causa delle mie risposte poco soddisfacenti; le dico di salutare Zayn e Yaser e di prendersi cura di lei poi chiudo la chiamata.
Mi stendo sul letto e osservo il soffitto. Mi sento confusa, stanca, frustrata, arrabbiata, felice e triste allo stesso tempo. Non so cosa pensare, il mio umore è stato sulle montagne russe tutto il giorno e questo mi ha prosciugato le energie. Chiudo gli occhi e lascio che la stanchezza prenda il sopravvento.

***Spazio autrice***
Ciao a tutti quelli arrivati fin qua! Spero che la storia vi stia piacendo, se avete qualche consiglio o critica, sarò lieta di ascoltarlo!
Al prossimo capitolo!

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Capitolo 7
*** Problemi in paradiso ***


CAPITOLO SETTE
Problemi in paradiso

Alice.

Seduta su una panchina in un parco non troppo distante da dove abito, osservo pigramente le persone che vi passeggiano. È una cosa che amavo fare a casa, mi rilassava notare le espressioni, le movenze, degli sconosciuti ed estraniarmi per breve tempo dalla mia vita; sento che è proprio quello che mi serve. Mi trovo qui perché oggi sono tutti in casa e, nonostante non ci siano stati scontri particolari tra noi, l'idea di una giornata intera con tutta la famigliola non mi allettava.

Sono passati cinque giorni dal mio arrivo e non sono ancora riuscita ad acclimatarmi, non che mi aspettassi diversamente. Ho conosciuto Dalila e Nathan, due persone a modo e molto solari. Lei è esattamente come l'ho vista nelle foto, i capelli scuri a caschetto le incorniciano il viso magro e le mettono in risalto gli occhi di un azzurro chiarissimo, ha un fisico formoso, è alta quanto me e, come mio padre, è stata molto comprensiva e discreta nei miei confronti, cosa che a malincuore devo ammettere di avere molto apprezzato. Nathan, invece, è un bambino dai capelli castano scuro e gli occhi bruni, un vulcano in eruzione ma sempre ben educato, forse potremo andare d'accordo, anche se a me i bambini non piacciono.

Ho rivisto Louis una sola volta, seppur per poco tempo. Mi ha raccontato un po' di cose riguardo la città, le scuole, università varie. Abbiamo parlato di cosa vogliamo fare dopo il diploma, lui ha le idee molto chiare, vuole studiare psicologia, mentre io non ne ho idea. Non ho mai speso troppo tempo pensando a cosa mi sarebbe piaciuto fare, mi sembrava di avere tutto il tempo del mondo; ora che sta per iniziare l'ultimo anno, mi rendo conto di aver temporeggiato un po' troppo e se ero confusa ed indecisa a Washington, la situazione venendo a Londra è solo peggiorata. D'altro canto, il preside della high school che frequenterò mi ha assicurato, nel nostro incontro, che le attività di orientamento saranno un punto centrale nel percorso dell'ultimo anno.
Adesso l'unica cosa a cui voglio pensare è il primo giorno di scuola, ovvero domani. Non è esattamente una delle situazioni migliori, mi andrò ad inserire in una classe già consolidata da anni, conoscerò dei professori nuovi per solo un anno e dovrò cavarmela con le nozioni apprese in una scuola diversa. Non mi è mai capitato di essere così in ansia per qualcosa perché fino ad adesso mi sono mossa in ambienti a me familiari; sotto qualche punto di vista, questa esperienza mi insegnerà molte cose, aiutandomi a crescere come non sarebbe successo rimanendo nella mia comfort zone.

Chiudo il libro che stavo leggendo e lo ripongo nella borsa nuova che mi sono comprata in un pomeriggio shopping con mio padre. Abbiamo acquistato tutto quello che mancava: lo specchio, una SIM, la vernice per ridipingere camera mia e le cose per la scuola. Si era offerto anche di pagarmi quella borsa che mi piaceva tanto, ma ho deciso di farmi un regalo di arrivo con i soldi che mi sono guadagnata con dei lavoretti, dopotutto sarebbe ipocrita da parte mia sfruttarlo più dello stretto necessario, visto che in primo luogo non sarei voluta venire.
Guardo l'orario, le cinque. Decido di tornare a casa per scoprire se Louis è al salice, giusto per avere un po' di compagnia. Nonostante il tempo passato assieme, non abbiamo pensato a scambiarci i numeri, quindi immagino di dover fare alla vecchia maniera. Mi alzo dalla panchina e mi incammino pigramente. Quella che due ore fa era una leggera brezza è diventato vento che, con mio enorme disappunto, mi scompiglia i capelli, il cielo si è ricoperto di nuvole grigie, perciò mi affretto, nonostante il meteo non prevedesse pioggia per oggi. Le persone intorno a me non sembrano turbate da questo repentino cambio di atmosfera, c'è chi chiacchiera pacificamente sui marciapiedi, chi va in bici e chi porta a spasso il cane; immagino che anche io, come loro, dovrò abituarmi al variabile meteo londinese.

Una volta giunta a casa, mi dirigo subito sul retro per sgattaiolare nel giardinetto, ma Louis non c'è, e non c'è stato nemmeno nei giorni scorsi e un po' mi è dispiaciuto. Ho avuto la tentazione di provare a suonare il campanello ma ho desistito tutte le volte per non sembrare eccessivamente pedante, dopotutto non ci conosciamo e non ha nessun tipo di obbligo nei miei confronti; dal canto mio mi avrebbe fatto bene un po' di compagnia.

Inizio a sentire qualche goccia di pioggia sui capelli, così mi sbrigo rientrare in casa. Saluto la famigliola che si trova in salotto per poi raggiungere la mia camera e mettermi dei vestiti più comodi. Mi stendo sul letto, dopo aver preparato con cura tutto ciò che mi servirà per la scuola domani, e mi abbandono ai social per smorzare un po' la noia fino a quando una chiamata non mi interrompe. Rispondo immediatamente e metto in viva voce.

«Alice...» sento mormorare dall'altro capo del telefono. Charlotte ha un tono sommesso e triste che mi mette subito in allarme e istintivamente mi metto seduta, come se dovessi correre immediatamente a casa sua per consolarla, ma anche se volessi non potrei farlo.

«Lottie, stai bene? Cosa è successo?» La sento iniziare a piangere, i singhiozzi, seppur contenuti, si sentono chiaramente attraverso l'altoparlante del cellulare. Sto in silenzio per un po' rispettando i suoi tempi fino a quando non ricomincia a parlare.

«Abbiamo litigato... di brutto.» dice con la voce tremante. Il primo a cui penso è Norman, il ragazzo con cui si stava frequentando, e mi viene voglia di picchiarlo perché sono state veramente poche le volte in cui ho sentito la mia migliore amica così provata da un litigio. Chissà cosa le ha fatto o le ha detto per ridurla in questo stato.

«Tu e Norman?» chiedo cautamente per essere sicura di non dilungarmi in una sfilza di insulti e minacce inutili. La sua risposta tuttavia mi lascia così sorpresa che rimango in silenzio per qualche istante: «Io e Thomas» dice.

Mi sono sempre resa conto che Charlotte e Thomas hanno due caratterini molto difficili, per certi versi incompatibili, ma si sono sempre voluti un gran bene e quelle poche volte in cui i rapporti rischiavano di incrinarsi seriamente per qualche incomprensione, io sono sempre stata la mediatrice e li ho aiutati a riconciliarsi.

Allora Lottie inizia a raccontare. «Lui e Norman hanno avuto un battibecco abbastanza acceso su una totale sciocchezza mentre eravamo a casa di Richard ieri sera;» ovvero stanotte per me. «avevo visto che era un po' giù di morale e pensavo fosse perché gli manchi, ho dato per scontato che avesse reagito un po' così, sopra le righe, perché già aveva gli affari suoi. Poi però ha annunciato che se ne andava, e lo ha fatto davvero! L'ho seguito per richiamarlo, farlo tornare indietro e rimanere con noi ma lui non ne ha voluto sapere.

«Mi ha urlato contro, dicendo che con quel pallone gonfiato di Norman lui non ha mai voluto e non vuole più averci a che fare. Ho cercato di capire cosa volesse dire, lui si è scaldato ancora di più dicendomi che ovviamente non posso capire cosa intende perché io sono una stronza spocchiosa tanto quanto quel "damerino" – lo ha proprio chiamato così! – con cui spreco il mio tempo. Li mi sono zittita e ho lasciato che se ne andasse, lo sai che io di solito scatto quando sono arrabbiata ma in quel momento, giuro, non sono riuscita a replicare, ero così sconvolta! Sono tornata dagli altri e mi sono messa a piangere.» si interrompe un attimo, probabilmente per riprendere fiato e riordinare le idee. «Poco fa sono andata a casa sua, pensavo che gli servisse solo tempo per calmarsi. Quando sono arrivata, ho suonato e lui è uscito chiedendomi testualmente "che cazzo ci fai qui?". Gli ho detto che volevo chiarire, era ovvio che aveva reagito così perché era di cattivo umore già da prima e che quindi volevo sapere come stesse e cose così. Lui non solo mi ha detto che non ha niente da rimangiarsi perché pensa tutto quello che ha detto, ma ha anche aggiunto che l'unico motivo per cui era di malumore era il fatto di essere costantemente obbligato a uscire con noi!» Lottie ricomincia a piangere più rumorosamente questa volta. Il suo racconto mi ha lasciata basita, pietrificata nella mia posizione. Per un momento mi passa per la testa che la mia amica stia ingigantendo l'accaduto, perché mi sembra impossibile che Thomas si sia potuto comportare da tale coglione, ma dubito anche che Lottie si stia inventando delle cose apposta. Non posso giudicare avendo sentito solo la sua versione, ciò non toglie che io possa rimanerci malissimo ugualmente.

Rimaniamo al telefono per una mezz'oretta, passata da lei a commiserarsi e ad analizzarsi e da me a consolarla. Sono io che chiudo, forse un po' bruscamente, la conversazione perché ho bisogno di sentire che cosa Thomas ha da dire a riguardo. Quando ormai mi ero decisa a chiamarlo, dopo aver riflettuto attentamente su cosa dire, mio padre bussa alla mia porta e mi dice che è arrivata la pizza.

Passo la cena a rimuginare, a ripetermi un discorso che avrei voluto fare a Thomas, partecipando poco alla conversazione della famigliola. Mio padre deve essersi accorto che qualcosa non va perché mi rendo conto che mi sta studiando con sguardo attento, il mento appoggiato alla mano e gli occhi appena strizzati. Ci faccio poco caso, e appena tutti hanno finito di mangiare, mi alzo e mi dileguo annunciando che sarei andata a preparare le cose per la scuola.

Faccio partire la chiamata mentre sono ancora sulle scale, mi accomodo nella sedia dinanzi alla scrivania mentre attendo una risposta. Che non arriva. Ritento un paio di volte, e il mio discorso va in fumo, perché Thomas mi sta chiaramente ignorando.

Metto il telefono in carica e mi avvicino alla finestra, aprendola e sedendomi scompostamente sul davanzale. Sta piovigginando, la notte è particolarmente scura e le luci di macchine, lampioni ed edifici sembrano più intense. C'è una piacevole malinconia dietro quel panorama, il rumore del poco traffico serale, la pioggia che cade leggiadra, i tetti scuri delle case del vicinato si stagliano minacciosi nelle strade illuminate.

Mi sento inutile, così distante dalle persone che avrebbero bisogno di me. Non dovrei essere qui a ricominciare, dovrei essere la a fare da spalla a coloro che lo necessitano. Da Londra, io non posso fare molto più che qualche chiamata facilmente ignorabile, non come se fossi a casa, dalla quale uscirei per poi correre sotto casa di Thomas per obbligarlo a non chiudersi in se stesso.

Nulla di tutto ciò è possibile ormai, una volta i problemi di uno erano i problemi di tutti, a questo punto, invece, io devo affrontare problemi solo miei, così come i problemi loro possono essere miei solo in parte. Mi ritrovo a sperare che, come io ho imparato da loro come si affronta la vita, loro abbiano imparato da me la mediazione, ora è turno di tutti dimostrarlo. Sono via da poco meno di una settimana e già tutto crolla, non posso fare a meno di pensare che se fossi rimasta, magari non avrebbero litigato, oppure avrebbero litigato e risolto dopo poco come sempre. Invece adesso devo rimanere a guardare e pensare a me stessa.

È con questi pensieri che mi preparo per dormire e mi corico, sperando di riuscire a contattare Thomas l'indomani oppure di ricevere qualche buona notizia.

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