Wabi-sabi

di Nao Yoshikawa
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Tarocchi ***
Capitolo 2: *** Dolore ***
Capitolo 3: *** Vicini ***
Capitolo 4: *** Amico ***
Capitolo 5: *** Il nome ***
Capitolo 6: *** Il cambiamento ***
Capitolo 7: *** Parte seconda: l'evento traumatico ***
Capitolo 8: *** Accettazione ***
Capitolo 9: *** Sogni (o ricordi dal futuro) ***
Capitolo 10: *** Antefatto, parte prima ***
Capitolo 11: *** Il vuoto ***
Capitolo 12: *** Antefatto, parte seconda ***
Capitolo 13: *** La bambina scomparsa ***
Capitolo 14: *** Avere controllo è perdere il controllo ***
Capitolo 15: *** Un bellissimo giorno in cui nascere ***
Capitolo 16: *** Felice giorno di Natale ***
Capitolo 17: *** Non più lacrime ***
Capitolo 18: *** La bambina che ce l'ha fatta ***



Capitolo 1
*** Tarocchi ***


Parte Prima
I tarocchi
Capitolo uno


Se quel giorno, quel martedì di febbraio, Genos non si fosse fatto avvicinare da quella maga impostora, nulla di tutto ciò che in seguito avrebbe vissuto, sarebbe successo. Questo era quello che Saitama avrebbe detto per qualche tempo, salvo poi rendersi conto che non sarebbe cambiato nulla, che se una cosa doveva succedere, succedeva e basta. Genos gli avrebbe spiegato per molto tempo che la sua era stata non solo una genuina curiosità, ma un gesto gettato da una sensazione imprecisa, ma forte. Con il senno di poi, tutto avrebbe avuto più senso, i pezzi del puzzle sarebbero tornati al loro posto. Ma quel martedì di febbraio, le quattro e sei minuti e quindici secondi del pomeriggio, né l'uno nell'altro potevano immaginare (né avrebbero avuto motivo di farlo), un bel niente.
Godendo di un po' di tempo libero, niente mostri, niente Associazione eroi, niente catastrofi, Saitama era andato a fare la spesa, perché il richiamo dei saldi era irresistibile per lui. Genos allora era andato per fargli compagnia, voleva proprio provare a cucinare qualcosa di nuovo per il suo maestro. Fu mentre tornarono a casa, avevano preso un'altra strada, non quella che percorrevano sempre. Senza un motivo preciso, ed era stato in quella strada che avevano incontrato Maga Tamago.
Maga Tamago non doveva avere più di vent'anni, ma aveva un modo di parlare e muoversi che le conferivano un'aura saggia, quasi mistica. Tutta vestita di nero, con i capelli ancora più neri e un elegante mantello, ricordava una strega uscita da qualche libro per bambini, più che una maga. Maga Tamago aveva la sua piccola bancarella e la sua occupazione principale era leggere il futuro alla gente con i tarocchi. E, ovviamente, aveva voluto leggere i tarocchi anche a quei due casuali passanti.
«Maga Tamago vi leggerà il futuro. Venite a scoprire cosa il destino vi riserva. Parlo con voi, tizio pelato e tizio cibernetico.»
Maga Tamago sorrise, aveva delle piume colorate tra i capelli, orecchini e bracciali vistosi, c'era qualcosa di gitano nel suo stile e al contempo gotico.
«No, grazie» rispose Saitama, accelerando il passato. Non aveva particolare simpatia per gli impostori che volevano fare soldi facili, ma fin quando non gli arrecavano disturbo, non si faceva troppi problemi. Genos invece, chissà per quale motivo, era stato spinto a fermarsi.
«Aspetta, maestro. Sembra divertente.»
«Mah. Non direi» rispose Saitama poco convinto. In seguito, si sarebbe battuto una mano sulla fronte dicendosi che avrebbe fatto bene a rigare dritto, a non dare retta a quelle sciocchezze. Ma Genos si era fermato alla sua bancarella e lui si era fermato a sua volta.
«Vedo dello scetticismo in te, tizio pelato» disse Maga Tamago, prendendo un mazzo di carte. A Saitama partì un tic nervoso all'occhio e borbottò a Genos questa tizia non mi piace affatto.
A Genos invece piaceva. La trovava teatrale.
Maga Tamago lanciò loro una lunga occhiata, poi prese una delle carte.
«Vediamo cosa dicono i tarocchi. Ecco, L'appeso. Questa carta indica il sacrificio. Vuol dire che nel vostro futuro ci saranno situazioni difficili da affrontare con lucidità.»
Saitama non fu impressionato. Chiaro, erano eroi di professione, le situazioni difficili si sarebbero presentati a priori. Genos però sembrava volerne sapere di più.
«La fortuna» continuò Maga Tamago. «Ma è al rovescio. Di solito ha un significato positivo, ma quand'è al contrario simboleggia un destino avverso, per l'appunto.»
Saitama iniziò a provare disagio. Perché quell'impostora prediceva solo sventure?
«E poi?» chiese Genos, che pareva serio e indifferente.
«Gli amanti» Maga Tamago sorrise. «Non c'è bisogno che ve lo spieghi, giusto? Ci sarà l'amore nel vostro futuro. Vi innamorerete.»
Saitama arrossì. Per l'appunto, prediceva solo sventure. Genos non riuscì a mantenere un'espressione indifferente. Lanciò uno sguardo a Saitama.
«Il diavolo. Questa è la carta più negativa. Simboleggia il pericolo.»
Saitama afferrò Genos per un braccio.
«Questa tizia mi ha messo ansia. Ha predetto solo cose negative!»
«A-aspetta, maestro... c'è dell'altro?» domandò Genos. Si era quasi sentito in dovere di fare quella domanda.
«La morte.»
«Ecco, appunto!» esclamò Saitama.
«I tarocchi parlano chiaro. Vi aspetta un futuro difficile, fatto di avversità, sacrificio e pericoli. Ma anche un futuro d'amore, di amore vero. Inoltre» Maga Tamago indicò con un dito la carta. «Questa carta può avere un significato negativo, vero. Ma anche positivo. Questo riguarda in particolare te» disse indicando Genos. «Vivrai un evento traumatico che porterà a una nuova nascita.»
Adesso Genos appariva confuso. Dare troppo credito ad una cartomante non aveva senso, ma Maga Tamago aveva un modo di parlare che gli rendeva difficile pensare che stesse mentendo.
«E dovrei pagare per sentirmi dire che avrò una vita difficile?» chiese Saitama. «Ma a questo ci arrivavo da solo!»
Maga Tamago accavallò le gambe, unendo le mani e poggiandovi il viso.
«Non mi dovete nulla. Offre la casa.»
Genos sembrava aver perso la capacità di parlare. Non sapeva se a stupirlo fossero state le previsioni catastrofiche del suo futuro o il modo in cui lo guardava, in cui parlava. Il futuro pronunciato dalle sue labbra suonava reale.
Saitama alla fine era riuscito a trascinare a casa Genos. Non era stato molto felice di quello spiacevole incontro e anche dopo un paio d'ore non riusciva a non pensarci.
«Incredibile, quella tipa Maga Tamogo ci ha predetto un futuro orribile» borbottò Saitama, mentre leggeva distrattamente un manga. «Nono sono superstizioso, ma mi ha messo i brividi.»
«Vero, ma ci ha predetto anche una vita piena d'amore» disse Genos uscendo dalla cucina. Saitama aveva appena finito di mangiare con appetito e, lamentele a parte, non sembrava particolarmente colpito dalle predizioni di Maga Tamago. Lui invece non faceva che rimuginarci. L'amore, pensava. L'amore l'aveva già, ma era qualcosa a senso unico e che avrebbe sempre tenuto per sé. E poiché dubitava che Saitama un giorno si svegliasse a capisse di provare dei sentimenti per lui, quella donna si era sbagliata. O magari Saitama avrebbe amato qualcun altro, e questo sarebbe anche peggio. Inoltre, a lui sarebbe toccato un evento traumatico. Questo non avrebbe dovuto spaventarlo, era abituato. Il senso di inquietudine, però, non lo abbandonava.
«Secondo me era solo un'impostora in cerca di soldi. Anche se in effetti non ci ha fatto pagare. Boh. Non lo so» Saitama si distese sul futon, il manga ora era aperto sulla sua faccia. «Certo sarebbe un bel problema se le sue parole si rivelassero esatte. Insomma, mi piacciono le cose semplici, vorrei evitare casini inutili.»
«Certo, maestro. Non preoccuparti, di sicuro quella donna mentiva» Genos disse ciò solo per rassicurarlo. Perché le parole di Maga Tamago gli erano rimaste incollate addosso assieme alla sensazione di volerne sapere di più. Saitama l'indomani non ci avrebbe più pensato, ma lui invece avrebbe continuato a rimuginarci. Per questo aveva deciso, il giorno dopo, di tornare da quella donna. Di chiederle di dirgli di più. Voleva sapere di più. Che ne sarebbe stato dell'amore che provava, quali prove, momenti difficili e dolorosi avrebbe dovuto – avrebbero dovuto – affrontare. Forse era solo suggestionato e si era aggrappato a quelle parole vuote per qualche strano motivo. Ma Genos da Maga Tamago ci tornò comunque. Ma quando tornò, lì nel punto dove avrebbe dovuto trovare la sua bancarella, Maga Tamago non c'era.
Sembrava sparita. Quasi non ci fosse mai stata.

 


Wabi-sabi: parole intraducibile giapponese. Accettare l'imperfezione e la transitorietà della vita.

 
 

 

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Capitolo 2
*** Dolore ***


Capitolo due: Dolore

 - 
Intermezzo -
Tamago
 
 
 
Tamago dice che da grande diventerà un’eroina, è sempre stato il suo sogno. Anche se non ha nessuna abilità in particolare, le cose cambieranno, prima o poi. A Tamago piace fare giochi di magia o almeno ci prova. Ma la cosa che più le piace è leggere le carte. Con i pochi yen che aveva da parte, ha acquistato un mazzo di tarocchi e da allora si diverte a predire il futuro ai suoi amici, durante la ricreazione a scuola. Non bada ai bambini che la prendono in giro dicendole che quello che fa è stupido. Tamago gli risponde per le rime anche se ha paura. Deve imparare ad avere coraggio, perché i veri eroi non hanno mai paura.
E, a parte dei bulli, del buio e dei broccoli, non ha paura di niente.
Tamago a volte prova a leggersi il futuro da sola. Oh, la carta degli Amanti è la sua preferita. Anche quella della fortuna. La morte e il diavolo la terrorizzano. Lei gioca soltanto. Ma sarebbe magnifico conoscere tutto quello che le accadrò in futuro. A lei e agli altri.

 
 - Age Masu Torisaru, Jikan Jikan, tutto toglie e tutto dà -
 
Il momento del risveglio era particolare. Era un attimo in cui l’eco dei sogni rimbombava nella testa, per poi sparire lentamente, senza possibilità di riacchiapparli. 
Saitama aveva male alla testa. Age Masu Torisaru, Jikan Jikan, tutto toglie e tutto dà.
Dove aveva già sentito quella frase? Forse in qualche brutto spot pubblicitario? Ma aveva una cantilena quasi lugubre, inquietante. Di solito non ricordava mai quello che sognava, ma quella frase, forse tratta da una canzoncina, non voleva sfumare. Comunque non era quella la sua preoccupazione principale. Il fatto era che dall’incontro con quella strega-maga-cartomante-impostora, Genos era molto strano. Saitama in genere non badava troppo ai dettagli, con Genos era costretto a farci caso, perché vivevano insieme. E il cyborg era diventato più silenzioso, come se fosse soffocato da una sensazione spiacevole. Genos non aveva paura, certo che no. La sua era un’inquietudine più profonda, i motivi dovevano essere più inconsci. Stava di fatto che a Saitama dava fastidio quel suo essere distratto. Già, dava fastidio proprio a lui che in genere si interessava a poco e niente. Ma se Genos voleva continuare a vivere con lui, che si rendesse più di compagnia del suo cactus.
In realtà, Genos di cose da dire ne aveva parecchie. Era un cyborg fin troppo sentimentale perché un tempo era stato un essere umano sentimentale, sempre bravissimo a non far trasparire nulla. Adesso invece era difficile. Due parole che premevano lì, tra le labbra e la lingua. Eppure così impossibili da pronunciare.
«Genos, mi stai mettendo ansia in questo modo. Mi fissi senza parlare.»
Saitama aveva dato voce al suo dissenso qualche giorno dopo, durante la cena. Perfino mangiare gli era difficile con Genos e la sua espressione da anima in pena. Il cyborg distolse lo sguardo.
«Chiedo scusa» disse mortificato. Che ne era del suo autocontrollo e della sua maschera? Che stesse cadendo inesorabilmente?
«Non chiedermi scusa, non intendevo questo. È che sei strano, a malapena parli. Ti sei ammalato? Ah no, aspetta. Tu non puoi ammalarti.»
No, infatti Genos non poteva ammalarsi, non fisicamente. Nell’animo si sentiva insano. Innamorato dell’uomo che più ammirava. E se lo conosceva bene almeno un pochino (cosa di cui Genos era sicuro), sapeva che mai e poi mai avrebbe potuto ricambiarlo o anche solo piacergli. Perché Saitama non faceva entrare nessuno nel suo cuore. Senza intenzione o cattiveria, era così e basta. E questo rendeva tutto più difficile.
«Non è niente» sussurrò, senza che Saitama lo ascoltasse.
«Ho capito! Sei ancora preoccupato per ciò che ha detto quella cartomante. Non sapevo fossi così superstizioso. Io te l’avevo detto di non fermarti, adesso saresti molto più tranquillo.»
Genos strinse i pugni. Il malessere che sentiva era insopportabile.
«Maestro… in effetti su una cosa quella donna si è sbagliata. Ha detto che ci saremmo innamorati.»
«Bravo, vedo che la pensiamo allo stesso modo, visto che è improbabile» Saitama allungò una mano per prendere una tazza di tè. Bollente.
«… Nel mio caso si è sbagliata perché sono già innamorato.»
Quell’eccessivo calore gli bruciò il palmo e le dita, ma Saitama non riuscì a lasciare andare la tazza, né a distogliere lo sguardo dal liquido chiaro contenuto in quest’ultima. Ecco perché era sempre bene farsi gli affari propri.
«Ah, davvero?» domandò, più per circostanza che per altro.
Cambia discorso, si era detto. Prima che diventi tutto troppo strano.
Genos però non gliel’avrebbe permesso. Oramai si era esposto troppo, oramai doveva essere chiara la sua intenzione.
«D-di… Di te» disse solamente. Poi abbassò lo sguardo. Forse poteva far sorridere il fatto che un eroe di classe S come lui fosse spaventato da situazioni del genere. In realtà era solo terribile. Saitama finalmente sollevò la testa. Si guardò intorno, come se volesse assicurarci che non ci fosse qualcun altro a cui magari Genos aveva rivolto quelle parole. Fece una smorfia e poi sorrise.
«Di me? Dai, non scherzare. Non è possibile.»
Genos lo guardò Non gli aveva mai visto addosso quell’espressione di totale disagio, panico e confusione.
«… Come?»
«Sì, dico… non è possibile! Tu innamorato di me? Questa sì che è bella. Non sono tutto questo granché. Il mondo è grande, c’è chi è molto meglio di me.»
Saitama era modesto di natura, ma adesso sembrava che stesse cercando di svilirsi in tutti i modi. Genos non capì che reazione fosse quella.
«Non per me» disse infatti. Anche se era in imbarazzo, ora lo guardava dritto negli occhi. Fu Saitama a smettere di sorridere, a divenire serio.
«Ah, Genos. Perché hai dovuto dirlo? Se non lo avessi detto avremmo potuto continuare a far finta di niente. Ma adesso che hai parlato, non si può più.»
Cosa voleva dire? Che aveva sempre saputo dei suoi sentimenti ma che si era limitato a ignorarli? Che adesso, a causa di quella sua presa di coraggio (o perdita di razionalità), tutto si sarebbe rotto e sarebbe stata la fine del loro legame mentore-allievo, amico-amico, innamorato-amato?
Di nuovo, Genos volle dire tante cose. Avrebbe potuto dire che stava solo scherzando, ma non scherzava mai. Specie non sui sentimenti. Avrebbe voluto dirgli scusa, dimentica quello che ho detto, ma a che sarebbe servito?
Si era fatto avanti a che pro?
«Io devo… devo… andare via un attimo. Sì, è meglio se esco per un po’» disse Genos alzandosi. Ora come ora era impossibile pensare di rimanere nella stessa casa con lui, doveva allontanarsi, respirare e poi in caso chiedere spiegazioni. Ora no. Saitama lo rendeva umano e coinvolto. Genos rendeva Saitama coinvolto, non sé stesso. Specie adesso, ecco perché non lo trattenne. Perché tutto doveva cambiare, mutare, quando l’immutabilità era così semplice e pacifica?
 
 
Genos era arrabbiato. Anzi, era furioso come mai prima d’ora. Non gli sarebbe mai passato per la testa di mancare di rispetto al suo maestro, ma adesso che aveva mandato tutto a monte forse era inutile preoccuparsene. Saitama gli avrebbe detto molto tranquillamente visto che la situazione sarebbe imbarazzante, è meglio se smettiamo di vivere insieme. Anzi, è proprio meglio se smettiamo di frequentarci.
Maledizione, perché aveva scelto di aprirsi proprio adesso? E perché, se Saitama aveva capito, aveva sempre fatto finta di niente? Che domanda sciocca, il perché era ovvio. Perché il sentimento non era ricambiato. Forse perché era un maschio. O forse perché non era propriamente umano. O forse perché non gli piaceva e basta. Forse lo odiava.
Oh, quei sé, quei ma, quanto li detestava. E dove se ne andava ora che il buio stava calando e non aveva un’altra meta?
Lui era Demon Cyborg, dannazione. Non poteva farsi abbattere così.
Nonostante fosse febbraio, quella sembrava una classica serata estiva. Quante coppie, quante famiglie felici gli passavano accanto ricordandogli che lui a quello non avrebbe mai potuto ambire. Molta gente lo riconosceva e lo fermava, era popolare tra gli eroi di classe S. Genos era sempre distaccato, ma gentile. Quella sera però era anche distratto, mentre qualche fan gli chiedeva una foto o lo fermava per scambiarci due parole.
Forse la sua vita era destinata ad essere questa. Lottare, andare sempre avanti e non pensare ad altro. Perché dopotutto alla sua umanità aveva rinunciato proprio per essere forte.
Ci aveva rinunciato, ma non abbastanza.
«Ciao, ragazzo cibernetico.»
Genos si rese conto solo in quel momento di essere rimasto fermo e immobile in mezzo alla strada. I lampioni accesi, il cicaleggio della gente che gli passava accanto, per un attimo se n’era isolato.
«Tu sei… quella donna» mormorò. Maga Tamago lo guardava, sorrideva, le mani ingioiellate dietro la schiena. Era piccola e leggera. Al tempo stesso sembrava non avere un’età, era questo ciò che a Genos era rimasto impresso.
«Io non sono quella donna, io sono io!» rispose divertita. «Non pensavo ci saremmo rincontrati.»
Oh, avrebbe tanto voluto urlarle contro, dicendole che per colpa sua si era messo strane idee in testa, tipo quella di dichiararsi a Saitama, mandando tutto al diavolo. Ma non sarebbe stato da lui e infatti non lo fece. Ma di sicuro adesso la guardava con un certo sospetto, forse per deformazione professionale.
«E invece ci siamo incontrati. Tu sei consapevole di chi hai di fronte?»
Maga Tamago chinò la testa a destra, squadrandolo.
«Genos, nome da eroe Demon Cyborg. Classe S, quattordicesima posizione. Lo sanno tutti chi sei. E io non sono una criminale, né un essere misterioso travestito da donna, sono solo una cartomante.»
Genos non riuscì a dire altro. Gli aveva letto nel pensiero oppure i suoi dubbi erano così palesi?
«Imbrogliare le persone per soldi è comunque da criminali» insistette Genos. Maga Tamago alzò gli occhi al cielo. Si poggiò ad un palo, tenendo le braccia incrociate sotto al seno.
«La pensavi diversamente qualche giorno fa. Sembravi pendere dalle mie labbra.»
Genos distolse lo sguardo, imbarazzato e addolorato.
«Ero suggestionato, lo ammetto. Ma nessuno può predire il futuro. Su di me ti sei sbagliata di certo.»
«Su quale parte, quella della sventura o quella dell’amore? Oh, cielo. Mi sa che ho colpito un tasto dolente» disse Maga Tamago, ridendo. Genos ebbe l’impressione che lo stesse schernendo e d’altronde non c’era motivo che se ne stesse lì a raccontarle le sue paturnie.
«Io amo, ma non sono amato» disse soltanto.
«Questo lo dici tu.»
«Se dici di vedere il futuro, allora dimmi di più.»
Maga Tamago gli fu vicina con uno scatto, così veloce che Genos fu quasi sul punto d’indietreggiare. La fissò, cercò di inquadrarla ed esaminarla, senza però riuscire a capire nulla.
«Fossi in te non ci scherzerai. Brutto affare, il tempo. Affare complicato, terribile.»
Ebbe l’impressione che quelle parole non fossero rivolse proprio a lui. Perché Maga Tamago lo guardava, ma non lo vedeva. E poi quasi gli svenne addosso, o così gli parve.
«… Stai bene?»
Maga Tamago si resse sulle proprie gambe e poi sorrise.
«Sto bene. Penso proprio che tra poco dovrò andare.»
«Dove?»
«E chi lo sa, non ho una vera casa.»
Una viandante che per vivere leggeva il futuro. Sospetto lo era di certo, strano altrettanto.
«Ma per caso ci siamo già incontrati?» domandò poi Genos. Lei gli sorrise di nuovo e poi scosse la testa, guardando verso l’alto.
«Le domande difficili non mi sono mai piaciute.»
 
 
Genos non era tornato, oramai era fuori da qualche ora e come se non bastasse stava anche piovendo. Non che Saitama fosse preoccupato. Lui si preoccupava raramente e poi Genos sapeva badare a sé stesso. No, di certo non era preoccupazione quella che avvertiva, somigliava più al senso di colpa.
Ma che razza di risposta gli aveva dato? Una cosa era essere inetti in campo sentimentale, l’altra era essere insensibili.
Ma perché, perché aveva dovuto far cambiare le cose? Saitama non era mai stato un amante dei cambiamenti, gli mettevano solo ansia. L’immutabilità, quella sì che gli piaceva.
Si stava convincendo che tutto sarebbe andato bene. Ne avrebbero parlato come due persone civili, senza perdere la testa. Senza che lui perdesse la testa. Perché di sicuro avere a che fare con quei sentimenti così complessi lo mandava in crisi. Così aveva cercato di distrarsi facendo altro, si era perfino infilato nel futon, ad una certa, sperando di addormentarsi. Ma niente, era troppo abituato ad avere Genos che si aggirava per casa, che in un certo senso vegliava su di lui, anche se non c’era motivo. Fuori aveva iniziato anche a piovere. Ah, beh. Genos non rischiava di ammalarsi rimanendo a lungo sotto la pioggia.  Lo sentì rientrare che la sveglia digitale segnava mezzanotte passate. Si disse fai finta di dormire, rimanda a domani una discussione che altrimenti ti toglierebbe il sonno.
Invece si voltò dall’altro lato: Genos aveva i capelli bagnati, ma quanto aveva camminato sotto la pioggia?
«Sei tornato. Pensavo avresti passato tutta la notte fuori» Saitama sbadigliò e poi si strofinò il viso. Genos non rispose, lo fissava con quelle sue iridi non umane, eppure cariche di tanti sentimenti a cui temeva di dare un nome.
L’amore, la rabbia, la sofferenza.
«Possiamo parlare…?» domandò Genos. Sembrava più tranquillo, forse la pioggia fredda gli aveva schiarito le idee. Saitama fece una smorfia, come a voler dire dobbiamo proprio? E stanotte non si dorme, a quanto pare.
Però non voleva peggiorare la situazione, perché anche se a volte poteva non sembrare, non era insensibile. Era solo sperduto. Genos non si asciugò nemmeno i vestiti, s’inginocchiò davanti a lui.
«Ma…»
«Avevi già capito, maestro? Dei miei sentimenti per te, intendo.»
Non poteva che essere quella la sua domanda. Non poteva fare finta di niente anche adesso? Fingere di non aver capito, assumere l’aria da svampito? Oh, no. Non avrebbe funzionato, Genos gli stava guardando troppo dentro e non era certo che ciò gli piacesse.
Genos lo sentì respirare pesantemente.
«… Un po’.»
«Un po’?» domandò lui, confuso. Saitama era evasivo, nemmeno lo guardava negli occhi. Non era l’unico in imbarazzo.
«Sì, un po’ avevo intuito. Ma mi dicevo che avevo capito male. Che fosse mia impressione. Però mi sono sbagliato.»
«E dei tuoi sentimenti? Cosa mi dici? Ho bisogno di sapere.»
Poteva accettare un no. Genos aveva deciso, avrebbe ingoiato dolore e sofferenza e gli sarebbe rimasto accanto, ammirandolo da lontano. Il fatto era che Saitama non voleva dire né sì né no, perché tutto ciò era troppo per lui.
«Dai, non hanno importanza i miei sentimenti» disse infatti, come se stesse davvero parlando di una cosa di poca importanza. Genos assottigliò lo sguardo. Era la prima volta che gli veniva l’impulso di alzare la voce con lui, di afferrarlo, scuoterlo. Tuttavia non lo fece.
«Hanno importanza eccome. Se non mi vuoi, va bene. Lo accetterò e ci metterò una pietra sopra, ma non lasciarmi nell’incertezza. Ti prego…»
Saitama non l’aveva mai visto così. Lo pregava. Aveva un tremore nella voce.
«Il fatto è che io non lo so cosa sento. È come se avessi lo stomaco sottosopra. Non mi sono mai innamorato, come faccio a sapere come funziona? Tu come fai a sapere come funziona?»
«Io non lo so, infatti» disse Genos, rigido. «Quanto dovrò aspettare per una risposta?»
Saitama fece spallucce, spazientito. Poteva affrontare tutto, ma quello… voleva forse scherzare?
«Ah, non lo so! Io sono inetto, in questo. E poi, perché ti preoccupi? Tu non sei nemmeno umano…»
Saitama si bloccò subito dopo aver pronunciato quella frase. Per non essere insensibile, aveva avuto un’uscita piuttosto infelice. Ma non era sua intenzione ferire Genos, a volte si dimenticava di collegare la bocca al cervello.
«Non sono umano e poi? Cosa volevi dire?»
Dal suo tono un po’ alterato, Saitama capì di averlo davvero ferito.
«Non intendevo dire niente.»
«Non sono nemmeno umano, quindi non dovrei avere sentimenti. O ferirmi. Certo, se mi pugnali non sentirò dolore. Ma forse preferirei sentire il dolore fisico, a questo.»
E per la prima volta Saitama si scontrò con la consapevolezza di averlo deluso. Lui, il suo allievo che tanto lo aveva idealizzato e lo adorava. Che ora lo guardava come se davvero lo avesse accoltellato.
Saitama avrebbe voluto dire altro, ma qualsiasi cosa dicesse, pareva essere comunque sbagliata.
«Forse è meglio se smetto di parlare, eh?»
«No, parla, invece. Se mi dici che non può esserci futuro, mi metterò l’anima in pace.»
«Non so cosa dire» ammise, a disagio. Genos avvertì qualcosa che somigliava a un brivido. Un braccio gli tremava, come se fosse sul punto di lanciare un pugno.
«Questo è da codardi. Da te non me lo aspettavo.»
«Perché mi hai idealizzato! Ecco perché non potrebbe mai funzionare. Dico, mi hai visto?»
Genos, da che era rigido parve rilassarsi in un colpo solo. Non aveva idea di cosa passasse per la testa di Saitama, stava di fatto che doveva rendersi conto di una cosa: anche l’uomo che credeva il più potente al mondo, l’uomo che considerava il suo mentore, aveva dei difetti. A volte Genos si scordava della sua umanità e che l’umanità sapeva essere fragile. Ma lui che poteva saperne? Dopotutto non era nemmeno umano, non più.
E quella risposta era più che abbastanza, per lui.
«Va bene, ho capito. Non prenderò più il discorso. Anzi, dimentica quello che ho detto.»
Genos si alzò e Saitama si mosse altrettanto velocemente. Lo aveva afferrato per un polso, con forza.
«Oh, e dai. Non vorrai uscire con questa pioggia, vero? Senti, è notte. Domani ci vedremo più chiaro, in questa faccenda.»
«Io… non credo ci sia nulla che dobbiamo vedere, sei stato chiaro. Lasciamo tutto per com’è, è meglio» sussurrò Genos tenendo lo sguardo basso. Quello che non sapeva, era che se Saitama lo stava stringendo così forte, impedendogli di muoversi, era perché aveva paura che, una volta andato, Genos non sarebbe più tornato. Ne avrebbe avuto tutti i motivi. Aveva detto delle cose orribili e più orribili ancora erano stati i suoi silenzi.
«Comunque non me ne vado» ci tenne a precisare il cyborg. Solo allora Saitama si rasserenò e lo lasciò andare. Non stava capendo niente. Non dei sentimenti di Genos, ma dei propri.
«B-bene» balbettò e si sentì stupido. Tutta quella situazione era assurda. I sentimenti erano una cosa complicata, capire ciò che si provava realmente era difficile e ancora più difficile era pronunciarlo ad alta voce. Genos gli disse che poteva tornare a dormire, inconsapevole che Saitama non era mai riuscito a prendere sonno quella sera e che di certo non lo avrebbe fatto adesso.
Ripensò alle parole di Maga Tamago, quella donna che senza conoscerli sembrava avere una fiducia di ferro nel fatto che il loro fosse un amore destinato a compiersi.
 
 
«Sei sicura che non vuoi essere accompagnata a casa?»
Lasciare una ragazza tornare a casa da sola, al buio e con la pioggia sarebbe stato disdicevole per chiunque, per un eroe in particolare.
«Non è necessario, me la caverò» rispose lei e poi gli sorrise. «Dai. Non fare quella faccia. Lo so, l’amore può far male, ma anche Saitama prova qualcosa per te.»
Genos allora aveva sgranato gli occhi e aveva guardato da un’altra parte.
Era la prima volta che qualcuno pronunciava quelle parole, che arrivava a comprendere così a fondo il suo tormento.
«Non ho mai detto che si trattava di lui.»
Maga Tamago si mise a ridere.
«Non bisogna essere dei geni per capirlo. Abbi fede. Anzi, sii paziente. Il tempo a volte toglie e a volte dà.»
«Credo sia vero. Ascolta, ma almeno ce l’hai un om…brello?»
Genos era tornata a guardarla ma lei era sparita. Dissolta nel nulla, di nuovo, quasi come se non fosse mai esistita. Sarebbe stato facile credere che quella donna fosse tutto frutto della sua immaginazione o di pazzia incombente. Ma non era quella la soluzione esatta e in fondo Genos lo sapeva.
 
- Quando il Jikkan ti tocca tutto si rivolta. E il tempo lineare non lo è più -

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Capitolo 3
*** Vicini ***


Capitolo tre: Vicini

- Intermezzo -
Tamago
 
 
 
A Tamago scoppia la testa. Puntualmente le sembra di impazzire. Non sopporta di perdere il controllo, non sopporta essere in balia degli eventi, essere in balia di un potere che non ha voluto. Le hanno detto che il suo può essere un dono, ma lei riesce a vederlo solo come una maledizione. Le è stato dato qualcosa che non voleva e che non sa come gestire. Quanto ha pianto da bambina, terrorizzata di fronte quel potere sconosciuto? Avrebbe preferito che le fosse tolto qualcosa: una gamba, un braccio, un organo, la vista, l’udito, la possibilità di camminare. Invece le è stata data una capacità che la fa impazzire. Che la porta ad avere una percezione diversa del tempo.
 
- Io sono una maga! -
- Certo, Maga Tamago –
-  Maga! Mi piace come suona. Se un giorno diventerò un’eroina, mi chiamerò così –
- Ma il nome da eroe dovrebbe rappresentarti –
- Beh, io lo userò comunque perché ha un suono carino –
 
 
Le cose non si erano aggiustate né il giorno dopo né quello dopo ancora, tutto era rimasto uguale ma anche diverso. Genos non aveva più accennato né ad andarsene, né alla discussione. Faceva finta che non fosse mai successo e Saitama lo assecondava. Ma era tutta una messa in scena, perché il disagio che entrambi avvertivano era palese. Genos era sempre educato e rispettoso, ma Saitama notò come fosse diventato anche più gelido e distaccato. E cosa di aspettava? Doveva avergli spezzato il cuore, doveva aver ferito i suoi sentimenti. Come gli era passato per la mente di dirgli non sei nemmeno umano? Genos sapeva essere il più umano di tutti, anche più di lui. E allora aveva iniziato a pensare, a chiedersi come avrebbe potuto porre rimedio. Quella situazione non gli piaceva. Non solo perché era fastidiosa, ma perché – si era dovuto rendere conto – non gli piaceva quando Genos non era più sé stesso. Oramai si era abituato, affezionato, alla loro quotidianità. Pensava a questo per non essere costretto a fare i conti con i propri sentimenti: una matassa intricata e impossibile da sbrogliare. Comunque quello non era l’unico problema a cui doveva far fronte: nuovi esseri misteriosi erano apparsi e sin dall’inizio all’Associazione eroi era stato chiaro che prima di allora non avevano mai affrontato nulla del genere. Quindi erano stati inviati per sconfiggerli i migliori eroi di classe S, tra cui Genos, appunto. E Metal Bat, Tatsumaki, Emperor Child, King, Bang. Quando Genos aveva accettato tale missione (e dopotutto era suo dovere), avrebbe pensato che sì, sarebbe stato difficile, ma che ce l’avrebbero fatta. E in questo aveva avuto ragione, era alle conseguenze che non aveva pensato.
I mostri che avevano affrontato sembravano provenire da un altro pianeta e forse era davvero così. Era una supposizione, perché essi non parlavano, non comunicavano. Simili a meduse gigantesche, grigiastre e fluttuanti in aria, avrebbero potuto passare quasi per innocui. In effetti non avevano distrutto città, non avevano creato il solito scompiglio che facevano tutti. Ma ovunque passavano, toglievano qualcosa alla gente. Oppure la davano, senza un criterio preciso. Saitama, che volente o meno si trovava sempre in mezzo a battaglie che non gli competevano, quella volta non prese parte alla battaglia (che una vera battaglia poi non era nemmeno stata). E quando poi venne a sapere delle conseguenze, si chiese cosa sarebbe successo se anche lui ci fosse stato. Gli avrebbero tolto qualcosa? Un braccio, una gamba, la capacità di parlare? Oppure gli sarebbe cresciuto un terzo braccio o un terzo occhio? Sarebbe stato quasi divertente se solo non fosse stato così tragico.
Ma, andando con ordine, le cose cambiarono drasticamente dopo la suddetta battaglia. Saitama, scocciato e annoiato, si era presentato all’Associazione eroi. Era stato Genos ad essere decisivo per il successo della missione, poiché i suoi colleghi eroi non erano stati così fortunati.
«Accidenti, Genos. Non mi ricordo di averti mai visto così in forma dopo un combattimento» gli aveva detto Saitama nel vederlo. Si sentiva stranamente sollevato.
«Io non ho avuto conseguenze perché non ho un corpo umano. Quei mostri non hanno potuto menomarmi in nessun modo.»
Saitama si era fatto serio. C’era qualcosa di molto inquietante in tutta quella situazione. Si chiese cosa volessero quei mostri, quale fosse il loro scopo.
«Li hai fatti tutti fuori?» gli domandò.
«Tutti tranne due. A quanto pare vogliono studiarli, vogliono capire cosa esattamente sono in grado di fare. Di sicuro non sono di questo pianeta. Ma non parlano. In realtà non sembrerebbero nemmeno ostili. Il fatto è in qualche modo sono capaci di cambiarti.»
«Cambiarti come?» domandò Saitama confuso. Genos non ebbe bisogno di spiegarlo a parole. Subito dopo avevano sentito Metal Bat gridare, sembrava furioso.
«No, cazzo. Non vedo un cazzo di niente. Non mi toccate, lo so che mi state attorno. Ridatemi la vista. Ridatemi la mia vista, maledizione!»
Metal Bat non ci vedeva. I suoi occhi – iridi e pupille – erano bianche e immobili. Sembrava in un profondo stato confusionale.
«Ma cosa…?» chiese Saitama. Metal Bat aveva perso la vista in battaglia? No, non l’aveva persa, gli era saltata tolta e non era nemmeno l’unico ad aver perso qualcosa: in seguito vide Tatsumaki che aveva perso una mano e il vecchio Bang su una sedia a rotelle. Aveva perso la capacità di camminare, proprio quell’uomo anziano dalla forza straordinaria, ora era costretto su una sedia a rotelle, anche se non aveva perso la sua dignità.
Come del resto Tatsumaki non aveva perso il suo carattere forte.
«… Non siete molto in forma, eh?» aveva domandato Saitama, non sapendo bene cosa dire. Certo, capitava spesso che gli eroi riportassero gravi ferite, ma quelle erano mutilazioni, erano condizioni forse permanenti.
«Tu dici?» domandò Tatsumaki. «Poteva andare molto peggio, è grazie a Demon Cyborg se non c’è stato tolto altro.»
Ganos si schernì.
«L’unica mia fortuna è di essere un cyborg, non potevo essere mutilato in nessun modo.»
In lontananza si sentiva ancora Metal Bat sbraitare. Poi silenzio e poi singhiozzi. Saitama adesso iniziava a capire. Ad ognuno di quegli eroi era stato tolto qualcosa, una parte del proprio corpo o una possibilità. Questo era bastato a lasciarlo senza parole, anche se il più turbato era proprio Genos. Demon Cyborg, che aveva salvato la situazione. Eppure qualcosa era cambiato in lui, solo che ancora non lo sapeva, non se ne rendeva conto e ciò si manifestava in una perenne sensazione di malessere. Poteva forse essere quella che veniva comunemente chiamato disturbo post traumatico da stress? O una cosa del genere? Genos non ne aveva idea, ma come al solito non ne parlava. Non si sarebbe più esposto, né nella vita da eroe, né nella vita privata. Saitama se n’era reso conto e per quanto si sforzasse di farsi i fatti propri, gli risultava difficile. Perché di fatto Genos era assente, c’era ma non c’era. E cosa si faceva in certi casi? Si parlava, si offriva il proprio supporto? Lui in quello non era mai stato bravo.
Ma doveva tentare qualcosa, se non voleva rendere ancora più soffocante l’aria del loro minuscolo appartamento, che sembrava molto più piccolo del solito.
«Emmmh. Senti, Genos. Non cucinare, non c’è bisogno» gli aveva detto Saitama. Era passato qualche giorno dalla sconfitta di quei mostri e ancora ai notiziari non si parlava d’altro. Esseri misteriosi pericolosi sono stati sconfitti dall’eroe di classe S Demon Cyborg. Due esemplari catturati per essere studiati da un team di scienziati. Tali essere misteriosi causano menomazioni e cambiamenti negli esseri umani che vengono a contatto con loro. Si pensa a delle radiazioni o del veleno contenuti nei loro peduncoli. Circa centocinquanta feriti e nessun morto. Tra i feriti anche gli eroi di classe S Tatsumaki, Bang e Metal Bat.
Saitama spense la TV. Dovette ripetere a Genos ciò che aveva detto poco prima. Allora il cyborg gli aveva riposto in modo distratto.
«Cosa? Ma no, va bene, mi tengo impegnato.»
«Ah, prenditi una pausa, ma non ti riposi mai?» domandò Saitama. Era in evidente imbarazzo poiché, dopo aver peccato d’insensibilità, stava cercando di comportarsi almeno da persona decente. E no, in effetti Genos non riposava mai, non ne aveva bisogno.
«Per… per caso ne vuoi parlare?» domandò poi Saitama. Non doveva per forza pronunciare grandi parole, però poteva ascoltare. Genos allora si tolse il suo immancabile grembiulino rosa che gli dava tanto l’aria da casalinga.
«Di cosa?»
«Di cose. Insomma, come ti senti?» tentò Saitama. Genos se ne accorse e ne fu sorpreso, perché Saitama non gli chiedeva mai come stava. Perché Genos stava sempre bene. A livello fisico, almeno.
Dannazione. Perché glielo domandava proprio ora che si era deciso a farsi i fatti propri?
«Sono solo un po’ turbato dall’ultima missione» ammise.
«Ma va’, davvero? Com’è possibile? Hai affrontato molto di peggio.»
E questo era vero. Ma non aveva mai affrontato niente come quello. Genos gli si sedette davanti e da che teneva lo sguardo basso, lo sollevò.
«Lo so. Però mi ha lasciato addosso una sensazione strana. Per fortuna sono sopravvissuti tutti, ma mi ha turbato vedere degli eroi di classe S, inespugnabili, venire rotti in questo modo. Lo so, dovrei essere abituato, io perdo pezzi continuamente. Ma io posso essere aggiustato, le persone no. Metal Bat mi ha impressionato, ho visto la luce sparire dai suoi occhi. Forse non riuscirà più a vedere, ci pensi? E Bang non potrà più camminare. Tatsumaki non ha più una mano. Non saprei dire che strano potere quegli essere misteriosi hanno, però ti cambiano. Fuori, quanto dentro.»
Saitama lo ascoltò fino alla fine senza mai interromperlo. E si sorprese nel rendersi conto che Genos era sensibile. Era profondo, era molto più umano di tanti esseri umani. Su questo non si era mai soffermato, non lo aveva mai ascoltato per davvero. Ed era assurdo, perché lo conosceva da tanto tempo; eppure, allo stesso tempo non lo conosceva.
«Accidenti. Questa è una roba pesante, non avrei mai pensato avessi tutto questo… dentro. Ma non devi preoccuparti, ora è andato tutto bene grazie a te. Non che avessi dubbi, ovviamente. Di te non dubito mai.»
E mai Saitama faceva dei complimenti così espliciti a Genos. Ma gli era venuto dal cuore di te non dubito mai. E aveva provato imbarazzo subito dopo. Ed anche Genos, che però si era sentito anche lusingato. Ma immeritevole di tali complimenti.
«Io… grazie. Però non sono niente di-»
«Ah, smettila. Tu sei forte, non occupi un posto in classe S per niente.»
«Sono forte perché ho sempre seguito te.»
«Sbagliato di nuovo. Sei forte a prescindere da me. E su questo non intendo contrattare.»
Saitama gli aveva sorriso e Genos si era sentito sciogliersi. Come poteva pensare di disinnamorarsi di lui in quel modo?
«Va… va bene, d’accordo. Grazie, maestro.»
Genos non era l’unico a farsi certi pensieri. Saitama era anche più confuso, perché lui sui suoi sentimenti non si era mai interrogato di proposito perché ne era terrorizzato. Il fatto era che amare Genos era facile: lui era coraggioso, era forte. Sì, lo trovava anche bello e affascinante. Spesso era fastidioso e testardo, ma era anche tenero e dolce. Invece non capiva perché Genos amasse lui, cosa poteva avere che gli interessasse? Niente, e forse questo lo aveva già capito, anche se in parte sperò di no.
«Comunque io, emh… per l’altro giorno… potevo risparmiarmela quella cosa. Quando ti ho detto che non sei umano, non intendevo dire niente di male. Spesso dico cose stupide.»
Senza che se ne fossero accorti, si erano avvicinati. Erano spinti uno verso l’altro da chissà quale forza. Chissà com’era baciare Genos? Lui non aveva mai baciato nessuno, chissà se anche per lui era lo stesso? Guardò i suoi occhi e poi guardò le sue labbra, poi di nuovo i suoi occhi. La grande incognita dell’attrazione e della sessualità, robe assurde che sfuggivano al suo controllo.
«Aaaah. Senti, Genos. Ma tu come funzioni? Visto che hai questo corpo riesci a sentire qualcosa?
Saitama non ebbe bisogno di specificare cosa fosse quel qualcosa. Genos aveva capito che erano appena entrati in un campo minato.
Nessuno, per discrezione o perché non avevano abbastanza confidenza, gli aveva mai domandato come funzionasse il suo corpo. Lui ricordava bene cosa volesse dire provare dolore a livello fisico o anche sensazioni più piacevoli come l’eccitazione e il piacere. Il fatto che Saitama glielo avesse domandato in modo così diretto lo aveva lusingato e sorpreso.
«A modo mio… sento… sento l’eccitazione e tutto il resto. Solo che lo sento in modo diverso. È un po’ difficile da spiegare, se non lo provi.»
Genos era sempre stato timido e riservato da questo punto di vista. Ecco perché parlava a bassa voce, senza nemmeno guardarlo negli occhi. Saitama invece, che non era più esperto di lui, affrontava tutto con una certa sicurezza. O semplicemente non ci pensava.
«Ma non hai un’erezione, giusto?»
Genos ebbe la sensazione di andare in cortocircuito.
«… No…» ammise, serio. Ma dentro di sé avrebbe voluto sotterrarsi da qualche parte, perché lui e Satama parlavano di certi argomenti.
«Lo hai mai fatto?» domandò.
«Cosa?» domandò Genos ingenuamente.
«Come cosa? Il sesso. Lo hai mai fatto?»
Ora era ufficiale, Saitama si era messo in testa di farlo impazzire. Eppure poneva le sue domande con una tale serietà che era difficile non rispondere.
«N-no, io no. E tu?»
In effetti di quelle cose loro non ne avevano mai parlato, si erano sempre limitati a farsi i fatti propri. Questo non voleva dire che non avessero la curiosità.
«Mai, non sono mai stato interessato» disse Saitama. La vicinanza tra loro era sempre di più. Genos l’avvertiva. Voleva farsi stringere, voleva sentire qualcosa, voleva sentire lui.
«E adesso?» domandò Genos. Saitama avvicinò piano la mano al suo viso. Aveva un po’ di timore, era abituato a distruggere tutto con un solo colpo. A lui non voleva fare male, gliene aveva fatto anche troppo.
Sfiorò il suo viso. La sua pelle artificiale non era poi così diversa da quella umana. Genos socchiuse gli occhi. Era incredibile come non avessero mai avuto un contatto fisico pur vivendo insieme.
«Chiamami col mio nome.»
Genos avvertì qualcosa. Come poteva provare un brivido?
«S-Saitama… che vuoi fare?»
«Capire» sussurrò. Era molto controllato in quella situazione, ma il suo controllo sembrava uno di quelli destinati a non durare molto a lungo.
«Non ho mai baciato nessuno. Potrebbe non piacerti.»
Genos era terrorizzato. Dall’idea che fosse tropo bello per lui e non abbastanza per Saitama, dall’idea di toccare i paradiso e poi sprofondare nell’inferno. Quelli erano giorni assurdi. Genos non si sentiva nemmeno se stesso.
«Sono fermo!»
«Sta più fermo.»
Saitama, goffo, lo baciò. Lo tenne stretto a sé, ma non troppo. Era davvero difficile controllarsi. Genos era stato ad un passo dallo scostarsi. Ma non c’era riuscito e adesso di certo non si tornava indietro. E Saitama? Lui doveva aver perso la testa! Non ci capiva niente e quindi si era buttato. Ora lo sentiva. Pensava che Genos sarebbe risultato duro e rigido, invece era stranamente sciolto tra le sue braccia. E Genos, d’altronde, lo sentì tutto. Sentì la sua bocca sulla propria, la sua lingua che poi trovava la propria. Lo baciò con una certa pazienza, perché stavano imparando a conoscersi. E Genos lo sentì, quel qualcosa che era simile all’eccitazione, anche se in modo diverso.
Poi Saitama si staccò e lo guardò con un certo modo di fare interrogativo. Genos si chiese se ne pentirà subito?
«Io non sono bravo a parlare di sentimenti, non li capisco nemmeno in fondo. Questa cosa, qualsiasi cosa sia, però mi piace.»
E Genos si sentì così estremamente grato e anche spaventato. Avrebbe voluto dire calma, non corriamo.
Saitama gli avrebbe risposto non intendo correre, perché non so nemmeno da dove partire.
Non se lo dissero, ma lo capirono comunque.
 

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Capitolo 4
*** Amico ***


Capitolo quattro: Amico
 
- Intermezzo – 
Tamago
 
«Ho paura, non lo controllo.»
Tamago ha cinque anni quando esprime la sua paura. Si rende conto di non avere controllo su niente, che da un momento all’altro, in un battito di ciglia, potrebbe ritrovarsi da un’altra parte, in un altro tempo. Allora viene abbracciata.
«Non preoccuparti, ci siamo noi con te. In qualche modo riusciremo a impedirlo.»
Ma in realtà è una bugia. Nessuno di loro può impedirlo, è inevitabile. Tamago sembra saperlo. Sembra già conoscere il fardello che ha addosso. Alla sua età non dovrebbe avere né ansia né paure.
«Non lo voglio più questo. Voglio essere normale.»
E allora piange. Spezza il cuore il suo destino.
«Tamago, il tuo può essere un dono.»
Ma lei scuote la testa. Non ci vede niente di bello nella sua abilità acquisita. Come può essere un dono qualcosa che potrebbe portarla via da tutto ciò che ama?
 
- Age Masu Torisaru, Jikan Jikan, tutto toglie e tutto dà
Chi Mai lo fermerà? –
 
Le cose erano indubbiamente cambiate e non solo perché Genos e Saitama si erano scambiati un bacio (solo uno). Genos si sentiva strano ed era sicuro che c’entrasse l’amore. Aveva sentito dire che l’amore faceva bene, che ti cambiava in meglio. Sebbene lui e Saitama non fossero una coppia (di questo non avevano parlato, per carità. Era già tanto che si fossero baciati!). Genos non era più molto arrabbiato con lui, aveva compreso che quello di Saitama era stato panico misto a confusione. Era piuttosto impacciato se si parlava di sentimenti, ma comunque anche lui era cambiato. Si era reso conto che a Genos ci teneva in modo particolare, che gli piaceva e lo attraeva (gli smuoveva qualcosa di profondo), ma visto che non era mai stato innamorato, non sapeva come funzionava. Stava cercando di essere meno indisponente e più gentile, anche se tenere a bada l’imbarazzo era più difficile di quanto pensasse. Soprattutto, Genos lo guardava in un modo così profondo che sembrava volesse guardargli dentro… roba da pazzi. Sembrava, insomma, l’inizio di un periodo felice. Genos avrebbe tanto voluto rincontrare Maga Tamago e dirle che forse ci aveva preso quando aveva parlato di amore. E magari lo avrebbe fatto quando l’avrebbe rivista. Ma per scaramanzia, per il momento, non ne avrebbe fatto parola con nessuno. Certo, Genos non si era dimenticato della sua disavventura con quegli esseri misteriosi e non avrebbe potuto. Qualche tempo dopo avevano incontrato King, anche lui era venuto a contatto con uno di quei mostri durante lo scontro. Non gli era stato tolto nulla, in compenso adesso aveva dodici dita anziché dieci.
«Non è poi così terribile» aveva detto loro. «Non mi dà nemmeno fastidio quando gioco ai videogames, anzi.»
Non solo, anche Child Emperor aveva avuto quel tipo di menomazione, gli era cresciuto un terzo occhio sulla fronte, un occhio funzionante. Dopodiché era venuto fuori che anche altre persone, civili venuti a contatto con quei mostri, avessero subito menomazioni del genere, sia dentro che fuori. Ad alcuni erano stati rimossi organi interni, anche vitali, morendo sul colpo. Ad alcuni erano stati aggiunti. Quindi era così, non si trattava solo di amputazione, ma di aggiunzione. Sembrava una magia oscura. Genos ovviamente era sempre sé stesso o almeno ciò diceva a chiunque. Lui era cambiato dentro, nella testa. E non solo, ma ancora non poteva saperlo.
«Genos, oramai sei una celebrità. E intendo più di prima. Ovunque andiamo la gente ti ferma, hai un sacco di fans.»
A Saitama dava fastidio. Tanto per cominciare, perché lui non aveva nemmeno un briciolo di fama? Era un eroe di classe B, d’accordo, ma aveva sempre dato un suo contributo, in generale. E soprattutto, come osava la gente catalizzare tutte le sue attenzioni? Ebbene sì, Saitama era leggermente geloso, ma avrebbe dovuto nevicare in agosto prima che lo ammettesse.
«Io ho solo fatto il mio dovere» aveva detto Genos. Ed era vero. «E fare il mio dovere mi ha lasciato delle cicatrici addosso.»
«In che senso? Non puoi avere delle cicatrici» gli rispose Saitama. Poi però mise in moto il cervello e si rese conto certo, deve parlare di ben altre cicatrici.
Con Saitama avrebbe potuto parlarne? Avrebbe compreso? Avrebbe saputo spiegarsi?
«Come dire, maes-Saitama» si corresse. Saitama gliel’aveva detto tante volte, chiamami col mio nome e adesso lui si stava abituando a farlo. «Il fatto è che da quando ho combattuto contro quei mostri… non mi sento più me stesso.»
Saitama si avvicinò, si inginocchiò davanti a lui, vicinissimo.
«Sì, in effetti non sei il mio solito Genos.»
Il suo Genos?
«Il tuo…?»
«Emh…. Non mio mio. Cioè, sì. Vabbé, insomma, me ne sono accorto» disse, impacciato. «Non è che quei mostri hanno cambiato anche te, alla fine?»
Genos ci aveva anche pensato. Certo era assurdo, perché non aveva un corpo umano. Però era stato un essere umano e si sentiva umano, ora più che mai. Lo erano le sue sensazioni.
«E non è che l’amore ha cambiato te?» domandò Genos. Saitama si corrucciò.
«Chi ha detto che ti amo…?»
«A-allora no?» gemette il cyborg, a disagio.
«Non ho detto nemmeno che non ti amo. Con le parole non sono bravo, però una cosa posso dirla» Saitama tossì. «Emh… ti desidero. Non riesco a togliermi dalla testa il nostro bacio. E vorrei dartene ancora e fare di più. Se possibile.»
Oh, allora sentivano le stesse cose. Anche Genos non riusciva a non pensarci. Ne voleva ancora e ne voleva di più. Era vittima del desiderio, cosa che era riuscita sempre a controllare! Ma adesso non ci riusciva. Era umano e fragile.
«S-sì. È possibile, ma certo.»
«Ah, bene. Ottimo.»
Si guardarono e scattò una scintilla. Genos si avvicinò e lo baciò, senza paura o timore, ma con una foga che bramava di essere liberata. Gli si sedette sopra e Saitama gemette, stringendolo a sé.  Genos si sentiva strano, non percepiva l’eccitazione come al solito. Si sentiva caldo… si sentiva… era una sensazione che aveva già provato.
«Genos… piano. Se fai così non potrò trattenermi.»
«Allora non trattenerti, non più» sospirò.
Certo, Genos non era più sé stesso.
Certo, d’altronde nemmeno Saitama credeva di essere più sé stesso, visto che non era da lui lasciarsi guidare dalle emozioni o dalle sue sensazioni. Invece decise di farlo, si decise a chiudere gli occhi per non vedere con essi, ma con tutto il resto.
 
Maga Tamago era riapparsa di nuovo lì, in quel tempo e in quel luogo. Non era certo un caso il fatto che fosse sempre portata a tornare lì e lo sapeva bene. Già dalla prima volta che era arrivata si era detto dì loro la verità e risolvi questo casino. Ma poi si era detta perché mai dovrebbero credermi? Oppure come glielo potersi spiegare? È complicato. Anche in un mondo in cui accade di tutto, nessuno arriverebbe a pensare a qualcosa di così assurdo.
E invece si era finta una cartomante, per una volta la sua bizzarra passione le era tornata utile, ma adesso cosa avrebbe dovuto fare? Quanto avrebbe dovuto aspettare? Non sapeva nemmeno quanto sarebbe potuta rimanere o tornare. Niente era sotto il suo controllo.
«Calma, Tamago. Non perdere la testa. Lo sai che se ti agiti è peggio. Alla tua età dovresti saperti controllare almeno un minimo. Sì, peccato che se sapessi farlo non sarei qui. Sono a casa mia, eppure non sono da nessuna parte.»
Era quasi buio ed era col buio che Tamago si metteva a pensare. E pensare non era mai una buona idea. Inoltre iniziava ad avere fame, aveva qualche spicciolo con sé guadagnato grazie al suo lavoro da cartomante. Così entrò in un kombini, la gente la guardava in modo un po’ strano: si era tolta l’impermeabile scuro che portava di solito. Era completamente oscura, dai capelli lunghissimi, all’abbigliamento attillato. Ma le sopracciglia dalla forma inarcata le davano un’espressione perennemente sorpresa sul viso tondo.
Si fermò davanti uno scaffale che vendeva ramen e ne riconobbe una marca in particolare.
«Oh, questi li mangiavo da bambina, non pensavo ne esistessero ancora» disse allungando una mano. E la sua mano venne sfiorata da quella di una bambina dai capelli scuri.
«Scusi!» esclamò lei. Tamago strabuzzò gli occhi. Avrebbe riconosciuto ovunque quella ragazza. Beh, lì era ancora una bambina a dire il vero, ma poco cambiava.
«Zenko?»
La sorellina minore di Metal Bat la guardò, confusa.
«Ci conosciamo, signora?»
«Emh… più o meno.  Sono un’aspirante eroe. Tu sei la sorella minore di Metal Bat, vero? Ti prego, posso incontrarlo?»
Tamago aveva congiunto le mani e Zenko aveva indietreggiato.
«Ma… sei tipo una fan impazzita? Perché se è così…»
Tamago cercò di darsi un contegno, comportarsi da pazza non l’avrebbe di certo aiutata.
«È che lo conosco. Mi chiamo Tamago e, sai, noi eravamo amici. Ma è tanto tempo che non ci vediamo.»
Tamago non stava mentendo e infatti Zenko se ne accorse. Si fece meno guardinga.
«Lo sai, signora? In effetti anche tu mi sei familiare. E va bene, andiamo. Ma mio fratello è convalescente, non so se vorrà ricevere visite.»
Giusto, doveva essere già successa quella cosa. A Tamago non sarebbe cambiato niente, perché aveva conosciuto Metal Bat già in quelle condizioni.
«Grazie. E non chiamarmi signora, ho solo vent’anni!» disse allegra, prendendo quella confezione di ramen che tanto le ricordava la sua infanzia. Così lei e Zenko uscirono insieme dal kombini. Certo era strano parlare con la sua versione bambina, ma non era molto diversa dalla Zenko che lei conosceva.  Le aveva raccontato di cos’era successo a suo fratello, al brutto periodo che stava passando. Temeva potesse cadere in una profonda depressione e Tamago l’aveva ascoltata, fingendo di non sapere ciò che già conosceva. Quando arrivarono, Zenko annunciò la sua presenza a quella della loro misteriosa ospite.
«Fratellone! Guarda che sono tornata. C’è anche una persona che vuole vederti.» dopodiché si rivolse a Tamago. «Non farci caso se è un po’ indisponente, per ora odia tutto il mondo. Guarda che sto entrando, eh!»
Metal Bat sembrava un’altra persona. Era molto diverso dall’eroe forte e inarrestabile che Tamago aveva conosciuto a cinque anni, quello che nemmeno la cecità più profonda aveva potuto fermare. Metal Bat non la vedeva, però la percepiva.
«Mi raccomando, sii educato. Tamago, io sono qui in casa se ti serve qualcosa!»
Tamago la ringraziò e poi osservò Metal Bat, che la guardava senza vederla realmente.
«Tamago?» domandò lui, che le stava seduto di fronte in modo disordinato e con fare annoiato. «Che nome strano. I tuoi genitori hanno gusti bizzarri.»
«Oh, non immagini quanto!» esclamò Tamago ad un tratto contenta. Metal Bat però era serio, quasi sospettoso.
«Chi sei? E come hai fatto a convincere Zenko a portarti qui? Lei non si fida di nessuno.»
Sembrava pronto a scattare per attaccarla. Era ovvio, lui non poteva nemmeno vederla e non la conosceva, era normale che la percepisse come una minaccia.
«Ti prego, tranquillo. Non sono pericolosa. Volevo solo incontrarti. Sono passata tanti anni dall’ultima volta che ti ho visto.»
Tamago si era detta che doveva fare attenzione a quello che diceva. Ma era difficile quando si faceva trascinare dalle emozioni.
«Eh? Noi ci conosciamo?»
«Emh… sì. Ma è stato tanto tempo fa, non mi sorprende che non ti ricordi. Lo sai? Eri il mio migliore amico. Io forse ero un po’ innamorata di te, dicevo che da grande ti avrei sposato.»
Metal Bat arrossì e corrugò la fronte.
«E quindi sei qui per rapirmi e sposarmi? Potrei essere interessato, ma non mi ricordo di te e nemmeno ti vedo.»
Tamago si mise a ridere.
«No. Non penso che un matrimonio tra di noi sarebbe possibile»
Troppa differenza di età, per non parlare del fatto che sei già innamorato di un’altra persona, ma potrei causarti uno shock se te lo dicessi.
Tamago si fece vicina e si inginocchiò. Era una fortuna che Metal Bat non potesse vederla, le erano venuti gli occhi lucidi. Tamago afferrò la sua mano e Metal Bat si irrigidì.
«E-ehi, non toccarmi così all’improvviso, almeno avvertimi.»
«Scusa, è che sono felice di vederti» disse Tamago. «Quindi il Jikan ti ha già reso cieco, eh?»
Metal Bat si irrigidì. L’ultima cosa che voleva era la pietà di qualcuno, come se non stesse già abbastanza male.
«Il cosa…?»
«Intendo… quei mostri» si corresse Tamago. «Lo so quanto può essere terribile.»
«Ehi, non parlarmi in quel modo. Guarda che io sto bene, anche se non ci vedo. Eroe ero, eroe rimarrò. Quei mostri hanno portato via qualcosa anche a te?»
Tamago abbassò la testa e poi la rialzò.
«Mi hanno prima dato e poi tolto.»
Metal Bat non vedeva niente da qualche tempo, se non il buio più totale. In quel momento qualcosa però lo vide, con l’occhio della mente.
 
 
«Age Masu Torisaru, Jikan Jikan, tutto toglie e tutto dà. E chi mai lo fermerà? Quando il Jikan ti tocca tutto si rivolta. E il tempo lineare non lo è più» canta Tamago, ma Metal Bat fa una smorfia.
«Questa filastrocca è inquietante, l’hai inventata tu?» domanda.
«Sì. Non ti piace, Badd?»
«Te l’ho detto, è inquietante. Voi bambini non dovreste conoscere qualche filastrocca più allegra?»
Tamago fece spallucce.
«Papà ha detto che così fa meno paura. Lui mi ha aiutato a inventarla.»
«… Ah, ora capisco.»
Tamago si avvicina, tiene i tarocchi in mano.
«Ti posso leggere il futuro?»
Metal Bat le scompiglia teneramente i capelli.
«Scusa, piccola. Ma io non credo a quella roba lì.»
«Oh, ti prego. Giuro che predirò solo cose belle, promesso.»
Se glielo chiede in quel modo, allora, Metal Bat non può proprio fare a meno di dirle di sì.
«E va bene.»
 
Metal Bat si staccò all’improvviso dalla sua presa, come se si fosse scottato.
«Cos’era quello?»
«Cosa?»
Non avrebbe saputo spiegarlo. Sembrava un ricordo, ma in quel ricordo lui non sembrava più giovane. Anzi, sembrava un po’ più vecchio. E quella Tamago molto più piccola.
«N-niente. Senti… vai via, d’accordo? Straparli troppo.»
Tamago non si offese. Si era aspettata quella reazione, dopotutto doveva apparire abbastanza bizzarra. E soprattutto, iniziava a indebolirsi ancora una volta.
 
Genos si svegliò di scatto. Sempre di scatto si era alzato e si era diretto verso il bagno. Non aveva badato a Saitama che beatamente dormiva. Di solito lui non aveva bisogno di dormire, a volte capitava che si assopisse, invece quella notte era crollato. Non aveva ancora la mente lucida, ricordava e non ricordava quello che era successo la notte scorsa. Guardò il suo riflesso nello specchio e vide che era tutto uguale. Certo che era tutto uguale, perché non avrebbe dovuto?
Ma quello che sentiva che cos’era? Era una sensazione strana, un fastidio. Ma non era sconosciuta, l’aveva provato quando era ancora umano. Somigliava alla sensazione che si provava quando si aveva fame. Fece un passo indietro. E cacciò fuori un urlo.
Saitama non gradì tale risveglio. Ancora col sonno incollato addosso, si infilò i pantaloni del pigiama (che aveva faticato a trovare) e poi aveva raggiunto Genos, sbadigliando.
«Ma si può sapere che hai da urlare di prima mattina?» domandò, anche se erano già le undici passate. Genos si voltò a guardarlo, l’espressione stravolta.
«Che mi è successo?»
Il corpo di Genos era cambiato. La parte dell’addome e del petto non erano meccaniche. E in realtà non lo era nemmeno più in basso, lì dove ora c’erano le sue parti intime. Gambe, braccia, testa e collo invece erano rimaste meccaniche. Praticamente un cyborg a metà.
«Sei cambiato ancora.»
«Cosa?» domandò lui.
«Non ti ricordi? Secondo te come abbiamo fatto sesso?»
Genos si bloccò un attimo. Nella sua mente regnava il caos. Ovviamente non si era dimenticato di aver… di aver fatto proprio quello con lui. Era quel piccolo dettaglio che gli era sfuggito.
 
 
Genos sentiva tutto. Era assurdo, com’era possibile? Avrebbe dovuto essere insensibile. Era quasi completamente buio e ciò non era un problema. Non avevano bisogno di vedersi. Saitama era sopra di lui e lo toccava, provocandogli una serie di brividi.
Genos si sentiva un po’ dispiaciuto, perché non avendo un corpo come il suo non avrebbe potuto fare granché.
«Saitama.»
«Genos, tu hai… hai un’erezione!» disse spalancando gli occhi.
«Io ho che cosa? Io non ce l’ho neanche il… l’organo riproduttivo.»
Però intanto la sua mano la sentiva chiaramente su di sé.
«Invece sì. E non è nemmeno l’unica cosa che hai» disse Saitama compiaciuto. In realtà non ci stava capendo molto. Non era lucido ed era troppo ubriaco di lui per poter pensare razionalmente. Genos non era messo tanto meglio.
«Saitama, asp- Dovrei controllare, devo capire.»
«Dopo. Adesso non posso aspettare e nemmeno tu.»
Saitama aveva ragione e Genos si fece zittire dal suo bacio, in cui soffocò i gemiti. Si convinse di star sognando. Era tutto così assurdo, così irreale, che doveva essere un sogno.
 
«Pensavo di averlo sognato. Ecco perché mi sono svegliato come un pazzo.»
Saitama si poggiò al muro e lo fissò. Adesso sì che poteva guardare il corpo di Genos e non poteva dire che gli dispiacesse.
«Il tuo corpo è cambiato.»
«Me ne sono accorto. Sono un cyborg a metà. Ma perché?» domandò. Si poggiò una mano sul petto. Aveva un cuore che batteva. Questo voleva dire che era cambiato anche internamente. Se sentiva la fame, il piacere e tutti i tipici istinti e bisogni umani, allora doveva essere così.
«Non è che quel mostro ha cambiato anche te?» domandò Saitama. Era tranquillo mentre diceva ciò, ma Genos invece tranquillo non lo era per niente. Era l’unica opzione possibile, dubitava che qualcuno gli avesse lanciato un incantesimo. Ma lui era un cyborg, avrebbe dovuto essere immune al potere di quei mostri. Invece ora si ritrovava con un corpo metà umano e metà da cyborg. Scosse la testa.
«Io così non posso rimanere. Il dottor Kuseno deve riportarmi a com’ero prima, non posso.»
Saitama non gli permise di passare.
«Non puoi uscire.»
«Perché?»
«Tanto per cominciare, sei nudo.»
Giusto. Non ci aveva pensato, non era abituato ad avere qualcosa da coprire. Arrossì e allora cercò qualcosa da indossare.
«Non potevi dirmelo?»
«Certo che potevo, ma mi piaci. Perché dici che non puoi rimanere così?»
«C’è un motivo se ho voluto diventare un cyborg. Per essere più forte. Se sono in parte umano, non sono più Demon Cyborg. Non può essere successo a me, io non sono umano» disse Genos, rivestendosi. Si sentiva così strano in quel corpo. Quante cose doveva metabolizzare?
Punto prima: lui e Saitama avevano avuto un rapporto sessuale grazie a quel miracoloso e al contempo dannato cambiamento. E questo era positivo.
Punto secondo: aveva un maledetto corpo umano. Forse stava ancora sognando, dopotutto non era certo di essere lucido.
Punto terzo: la sua umanità era esplosa. E tanti cari saluti al suo autocontrollo.
«Genos, credo che è meglio se prima ti fermi un attimo» disse Saitama. Aveva l’impressione che fosse sull’orlo di un attacco di panico.
Genos si voltò a guardarlo, lentamente.
«Un evento traumatico» sussurrò.
«Che cosa?»
«Un evento traumatico. È quello che mi ha predetto quella donna.»
Ma ancora con quella storia?
«Genos, ma… questo non era proprio il risveglio post sesso che mi ero aspettato!» esclamò Saitama. Ma Genos era già uscito e lui doveva assolutamente seguirlo.
 
 
 
 

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Capitolo 5
*** Il nome ***


Capitolo cinque: Il nome
 

- Intermezzo -

Tamago
 
 
 
Tamago cammina felice e tranquilla, perché sa che il luogo in cui vive è come una foresta incantato e niente di male può accaderle. Sa però che dovrebbe tornare indietro, perché è quasi buio e del resto lei ha solo cinque anni. Però è curiosa. Tamago ha una fattoria e conosce tutte le persone che vivono vicino a lei, che non sono poi molte. Ad un tratto il buio è più prepotente. Vede qualcosa, di alto e imponente. Le sembra un albero e poi invece si rende conto che è una persona. Dapprima si spaventa, ma non scappa.
«Eeeehi, signore! Ti senti bene, ti sei perso?»
Lui non risponde e la guarda. Pensava di farla scappare via terrorizzata. E sorprendentemente, non accade. O forse non dovrebbe sorprendersi così tanto. I bambini tendono sempre a girargli attorno.
«Non mi sono perso. Tu piuttosto, non dovresti essere qui, adesso.»
Tamago s’indispettisce.
«Antipatico» si lamenta. «Non ti ho mai visto da queste parti. Sei un po’ spaventoso. Tu come ti chiami? Io mi chiamo Tamago, che significa uovo. Ma non provare a prendermi in giro, altrimenti io… mi… mi arrabbio molto! Lo sai? Io so leggere i tarocchi, ho un mazzo proprio qui con me. Posso leggerti il futuro.»
«Non hai paura?» domanda lui.
«Io no. Anche se sei un po’ spaventoso. Ma non si giudicano le persone senza conoscerle, ecco!»
Tamago sente qualcuno che la chiama. Il buio è calato, deve tornare a casa.
«Ops. Mi chiamano. Devo tornare. Come ti chiami, signore?»
Lo vede a malapena, ora.
«Se te lo dico, deve essere un segreto.»
«I segreti mi piacciono così tanto. Allora, come ti chiami?»
Lui si china e le sussurra il suo nome. Garou.
 
      “Ho sentito dire che hai un potere straordinario
A me non piace, lo detesto. È terribile non sapere mai dove mi ritroverò.
Sei ancora una bambina ingenua. Pensa a cosa significhi poter modificare gli eventi a proprio piacimento.
Che vuol dire?
Niente. Non vuol dire niente.”
 
 
«E-ehi, Genos. Ma non puoi evitare di correre? Guarda che questa notte è stata stancante per me. Ma poi, si può sapere dove stai andando?!»
E dire che per fare stancare uno come Saitama ci voleva un grande sforzo. Oramai però era chiaro che Genos avesse su di lui un effetto particolare. E per quanto riguardava il cyborg (oramai semi-cyborg), nemmeno lui era piuttosto in sé. Quella scoperta sull’essere diventato un po’ più umano (un po’ più umano a pezzi), lo aveva destabilizzato parecchio. E anche se razionalmente sapeva che non poteva prendersela con nessuno… maledizione, quanto detestava quella cartomante! Tutto era andato in malora da quando l’aveva incontrata!
«Genos! Oh, finalmente ti sei fermato. Ma si può sapere cos’hai in testa?» Saitama finalmente era riuscito ad afferrare il suo braccio e a fermarlo.
«Quella donna ci ha lanciato una maledizione.»
«Che cosa? Ah, dai. Non crederai a queste cose.»
«Se non è questo, allora magari lei e quei mostri sono dalla stessa parte. Non so ancora in che modo né perché, ma per quanto mi riguarda è sospetta.»
Genos riuscì a staccarsi dalla sua presa e Saitama alzò gli occhi al cielo. Non potevano avere una giornata come qualunque altra? Avrebbero dovuto essere felici, insomma, avevano avuto la loro prima volta. E invece ora Genos si metteva a giocare alla caccia alla strega. Genos sapeva di non avere la certezza di ritrovarla, visto che quella donna spariva e riappariva come voleva (e questo in effetti era ancora più sospetto). Però quella volta fu fortunato: Maga Tamago dormiva vicino la sua bancarella. Si era seduta ed era crollata, aveva avuto una nottata molto movimentata anche lei, anche se per motivi diversi.
Genos si avvicinò a lei, scuotendola lievemente.
«Ehi! Sveglia! A che gioco stai giocando?»
Tamago aprì gli occhi, stordita.
«Eh?»
«Che cosa mi hai fatto? Non so ancora né come né perché, ma sono quasi certo che tu e quei mostri siate in combutta. Cosa sei, il loro capo? Li hai mandati tu? A che scopo? Parla.»
Non era da Genos perdere la calma, anzi. Ma non si sentiva più sé stesso, quindi al diavolo tutto. Tamago lo fissava, con quegli occhi grandi e scuri. E poi, dal nulla, iniziò a piangere come una bambina. Quella reazione colse Genos di sorpresa.
«Oh-oh. Hai fatto piangere una ragazza. Questo da te non me l’aspettavo» disse Saitama.
Sì, in effetti nemmeno lui se lo aspettava da sé stesso.
«E… non… dai, non piangere. Non volevo dire che…»
Saitama si chinò su Tamago e le circondò le spalle con le braccia.
«Sei stato duro, è solo una bambina.»
«Ma se avrà almeno vent’anni.»
«Sì, però è così… tenera e innocente» Saitama parlò e in parte si sorprese di sé stesso. Poi si rivolse a Tamago. «Scusalo, di solito è molto gentile. È che è successa una cosa, quindi ha un po’ perso la testa. Dai, non piangere. Se piangi, pioverà.»
Si bloccò di colpo. Ma perché aveva detto quella cosa?
 
 
Tamago tendeva ad essere molto piagnucolona quando qualcosa non andava.
«Mi sono fatta così tanto maleeeee!»
«Tamago, è stato sei ore fa! Va bene, forse non dovevo permetterti di salire su quell’albero, ma tu mi avevi detto che avresti fatto attenzione. E poi, ti ho disinfettato il taglio, ti ho messo il cerotto con su disegnati i pulcini, che devo fare ancora?» domandò Saitama. Tamago gli si buttava addosso come un sacco di patate.
«Mi brucia ancora!»
«Va bene, ho capito. Avanti, tirati su» Saitama la prese in braccio e la mise seduta. «Dai, non piangere. Lo sai che se piangi, poi pioverà. E se piove non potrai giocare fuori.»
Tamago sgranò gli occhi, una lacrima le solcò una guancia.
«Quindi… quindi se sorrido sempre, ci sarà sempre il sole?»
«Ovviamente, è così che funziona. E ti prego: non farne parola con nessuno, soprattutto con una certa persona, che sei caduta e ti sei fatta male. Altrimenti sarò io quello che avrà motivo per piangere» disse Saitama rassegnato. E Tamago si mise a ridere.
«Non lo dico a nessuno.»
 
Genos si disse dannazione, ma cosa ti è preso? Non è da te reagire in questo modo. E soprattutto, fai piangere una ragazza, accusandola senza avere prove concrete.
Tamago aveva smesso di piangere, si era asciugata gli occhi. E Saitama si era erto su di lei come uno scudo, come a proteggerla. Nemmeno questo era da lui, eppure eccoli lì.
«Io non sono in combutta con loro, ma se non mi credete non posso biasimarvi» disse Tamago, ora più calma. Che sciocca, lasciarsi andare alle lacrime. In fondo era sempre stata una bambina piagnucolona e poi una ragazza piagnucolona. Un po’ troppo emotiva.
«Tranquilla, io ti credo» disse Saitama di getto. Non era certo un ingenuo, però Tamago sembrava così sincera. «Il fatto è che sei così misteriosa che puoi destare sospetti. Dove vivi? Non ce l’hai una famiglia?»
L’espressione di Tamago si contrasse di nuovo: stava per ricominciare a piangere. Senza rendersene conto, Saitama doveva aver toccato un tasto dolente.
«Eh? S-scusa, non avevo capito fossi orfana e senza una casa. Almeno credo che sia questo.»
«… Adesso però sei tu che l’hai fatta piangere» sospirò Genos. «Sono… desolato, d’accordo? Ma le cose sono iniziate a cambiare da quando ti ho incontraao. Le tue previsioni potrebbero starsi rivelando esatte.»
«È solo un caso, non crederai davvero a queste scemenze? Cioè, senza offesa. Ma io non ci credo.»
Quei due erano proprio divertenti nel loro discutere. Per un attimo Tamago si era sentita come se fosse a casa sua, come se avesse di nuovo cinque anni. Non è che fosse cambiata tanto da allora. Impaurita era, impaurita era rimasta.
«Tutto è davvero iniziato ad andaer male da quando mi avete incontrata, non avete idea di quanto. A volte vorrei tanto non esistere» sussurrò Tamago, in un certo senso teatrale, sollevando gli occhi verso il cielo. Affermazioni forti e anche piuttosto tristi.
Saitama non si sentiva nella posizione di fare discorsi motivazionali, lui stesso conosceva l’apatia e la voglia di non fare nulla, non andare avanti. Ma oramai le cose erano cambiate.
«Non so cos’hai passato, ma tutto andrà meglio. Su» disse dandole dei colpetti affettuosi sulla testa. Genos si stupì nel vederlo così affettuoso con qualcun altro e si sentì anche un po’ geloso. Ma Tamago parve trovare giovamento da quel contatto.
«Davvero? Oh, voi siete davvero una gioia per gli occhi. Non dovete lasciarvi mai!» esclamò ad un tratto. Saitama guardò Genos e poi guardò di nuovo Tamago, un po’ inquietato.
«Emh… noi non stiamo insieme… cioè, non proprio. Ma tu come fai a sapere tutte queste cose?!»
Tamago sorrise e ad un tratto parve ritrovare la sua aura di mistero.
«Ti ricordo che sono io che leggo il futuro. I miei tarocchi non sbagliano mai.»
 
 
Saitama alla fine riuscì a far desistere Genos dal fare qualsiasi cosa e a riportarlo a casa. Per un attimo gli era venuta la voglia di prendere quella ragazza e portarla a casa con sé. Ma tanto per cominciare non c’era spazio, seconda cosa una ragazza non era certo un gatto, non poteva darle una ciotola e una lettiera e finirla lì. Terzo, in effetti non sapevano nulla di lei, anche se Saitama era convinto che Maga Tamago non fosse pericolosa. Ultimo, ma non meno importante, Genos era diffidente e di umore terribile, cosa a cui Saitama non era abituato.
Non riusciva proprio a darsi pace. Non era più abituato ad essere umano, a sentire la fame, a sentire il nervosismo come bile che gli faceva venire la nausea, a sentire il suo cuore che batteva, in modo calmo quando era tranquillo, più veloce quando si agitava.
«Posso dire una cosa?» tentò Saitama. Certo, lui la cosa la stava vivendo da esterno, ma voleva provare a non peggiorare la situazione.
«Certo, ma temo non cambierebbe molto» disse Genos. Si guardava allo specchio, si rimirava. Si toccava il viso, che era quello di sempre, si tirava i capelli, anche quelli uguali. Poi passava al suo petto e al suo addome che invece erano fatti di carne e nervi e sangue.
«A me così piace. Non dico certo che devi rimanere così per me. Dico solo che non è poi così male.»
Genos si voltò a guardarlo. E finalmente ebbe modo di ripensare alla notte che avevano passato, la notte e le sensazioni che credeva di aver sognato. Si ritrovò – con sua sorpresa – ad arrossire.
«Sono spiacente, mi sono comportato da pazzo dopo che siamo stati così bene.»
«Figurati, penso sarei impazzito allo stesso modo. Allora posso venire vicino a te? Non che io ti tema, ma se provi a farmi male, potrei fartene molto di più. E vorrei evitare, con te.»
Genos fece un cenno col capo e allora Saitama gli si avvicinò. Era giusto che parlassero di un certo argomento, visto che avevano fatto sesso e visto che di certo non potevano fare finta di niente.
«Quindi ora… cosa dovremmo essere? Tipo una coppia? Non sono sicuro di come funzioni, per me è la prima volta» ammise Saitama. Sembrava addirittura in imbarazzo. Genos fece spallucce. Nemmeno nei suoi sogni più reconditi aveva mai immaginato di arrivare a questo.
«A me… piacerebbe. Ma non siamo costretti. E poi… se non ti piaccio abbastanza…»
«Questo non l’ho mai detto.»
Genos abbassò lo sguardo. Non la maledetta gelosia, non era un sentimento che gli era mai piaciuto.
«Ho avuto l’impressione che a te piacesse lei.»
«Chi?»
«Q-quella donna, Maga Tamago. Non ti ho mai visto così affettuoso con nessuno.»
Già, Saiatama se ne rendeva conto e non se lo spiegava. Si grattò la testa, nervoso.
«Ah, no. Non mi piace in quel senso. Certo, Tamago è bella. Però mi ricorda un po’ troppo me.»
«Te?» domandò Genos sorpreso. E poi era la prima volta che sentiva Saitama definire qualcuno bello.
«Sì, non chiedermi perché, ma è così. Anche se in realtà mi ricorda un po’ te. Ma non mi piace in quel senso, la vedo più come una sorella o una cosa del genere.»
«Ti ricorda me? Non mi somiglia affatto» disse Genos, anche se in realtà non ci aveva mai fatto caso. Comunque era impossibile, non esisteva nessuno che gli somigliasse.
«Vabbé, comunque, adesso che sai che non mi piace: siamo una coppia sì o no?» domandò Saitama con una punta di impazienza. Ma Genos lo vedeva chiaramente: più che impazienza, il suo era imbarazzo. Quando Saitama era in imbarazzo, guardava da un’altra parte. La trovava una cosa molto tenera. E poi… loro una coppia? Sembrava assurdo, però gli piaceva.
«Mi piacerebbe.»
«Bene. Forte.»
«Quindi… tu sei il mio…?» domandò Genos, sperando che Saitama concludesse la frase. Altro che maestro e allievo, altro che amici e coinquilini, oramai erano andati troppo oltre.
Saitama lo fissò per qualche istante.
«Ragazzocompagnofidanzato?» domandò facendo spallucce. Lui non era mai stato il ragazzo, compagno o fidanzato di nessuno.
«Sì. E noi facciamo…»
«Ti imbarazza la parola sesso, Genos? Non mi sembravi molto imbarazzato la notte scorsa!» disse Saitama sorridendo. Già, proprio una bella nottata.
«È solo che mi fa strano. In teoria non sarebbe dovuto essere possibile. Non che mi dispiaccia!» ci tenne a precisare. «È che in questo corpo metà umano e metà meccanico non mi ci trovo affatto.»
Saitama si fece pensieroso.
«D’accordo. Io non credo a questo genere di cose, figurarsi. Ma forse era destino. Il fatto che tu abbia affrontato quei mostri e che loro ti abbiano cambiato. Tu mi sembravi credere alle parole di Maga Tamago.»
«Tu mi sembravi non crederci affatto» disse Genos, serio.
«E infatti non ci credo ancora. Senti, perché non facciamo un compromesso?»
Genos si fece più attento.
«Di che tipo?»
«Rimani così per un po’. Solo per un po’ e se poi proprio non ti piace, andrai da Kuseno e cercherai una soluzione. Magari scoprirai che così ti piace.»
A Genos non dispiaceva certo l’idea del sesso con Saitama. Anzi, ne voleva ancora, e l’eccitazione e il piacere erano belli da provare.
«Lo dici per questo o perché vuoi fare… sesso con me?» domandò.
«Io voglio fare sesso con te, molto. Lo ammetto» Saitama fece spallucce. «Ma magari ti piace davvero. La mia è solo un’idea. Ma corpo tuo, scelte tue.»
Ed era sincero e Genos lo sapeva. Dunque che fare? Temeva che quella sua nuova condizione potesse ostacolarlo nella sua carriera da supereroe. Ma la sua paura più grande era: e se non fosse più stato capace di fare a meno della sua umanità?
Però amava Saitama e amava come lo faceva sentire, fisicamente e non. Sulla pelle, dentro e fuori.
«E va bene. Non credo che perderò troppo se per un periodo rimarrò così.»
«Meno male. Allora posso fare questo.»
E così Saitama agì in modo inaspettato (perché dopotutto Genos non era l’unico a dover fare i conti con la propria umanità). Strinse le sue spalle e lo baciò, infilò la lingua tra le sue labbra. Genos socchiuse gli occhi e divenne istantaneamente incapace di pensare. Saitama agiva come uno che non voleva metterci troppa forza rischiando di fargli male (per davvero stavolta) ma agiva anche come uno di quelli che avrebbe voluto prenderlo in tutti i modi possibili. Genos glielo avrebbe fatto fare.
«Ma… oh… non pensavo avessi questo lato nascosto» ammise Genos, con un ansito.
«Già, nemmeno io. Una bella sorpresa, devo dire. Ora non ti chiederò scusa perché sto per zittirti.»
E non lo fece, però lo baciò in un modo tale che a Genos girò la testa. Una sensazione per nulla spiacevole. E poi pensò che magari non doveva essere per forza interpretabile come un trauma, quel cambiamento. Forse Maga Tamago aveva indovinato qualcosa, ma questo non voleva dire che avesse indovinato proprio tutto.
 
 
Tamago non poteva credere di essersi lasciata andare alle lacrime. Ma cosa poteva farci se era umana anche lei? Seduta su un muretto e con le gambe accavallate, guardava i tarocchi, se li passava di mano in mano.
«Se qualcuno dovesse predire a me il futuro, vedrebbe soltanto qualcosa di infausto e terribile. O forse quello vale per il passato. Non lo so, è tutto terribile adesso, così terribile che mi fa stare malissimo. A volte vorrei proprio non sentire nulla.»
Tamago parlava tra sé e sé e allora le certe le caddero, finendo ai piedi di una ragazzina che si era avvicinata incuriosita alla sua bancarella.
«Nee-chan! Non è un problema se ti chiamo così, vero?» domandò Zenko con le mani poggiate sui fianchi. Tamago strabuzzò gli occhi e si raccolse a raccogliere le carte.
«No. Non è un problema. Stai bene? E tuo fratello…?»
Zenko fece spallucce.
«Sta… così. Comunque i suoi amici eroi sono venuti a trovarlo. Lo sai, penso che tu dovresti venire con me.»
«Io non credo sia una buona idea, non sono gradita e…»
«Ho detto che dovresti venire con me» insistette Zenko, aggrappandosi al suo braccio. E sebbene fosse più piccola di lei (anche se Tamago l’avrebbe percepita sempre come più grande di lei), era davvero impossibile dirle di no.
«Va bene, magari posso venire solo per cinque min-»
Zenko la tirò via con sé, iniziando a chiacchierare sul fatto che dovessero sbrigarsi e che suo fratello fosse stato scortese a cacciarla la volta scorsa (ma lei gliene aveva dette quattro, questo ci aveva tenuto a specificarlo). Così Tamago si lasciò trascinare da lei. Non si era molto soffermata a pensare quando Zenko aveva accennato agli amici eroi di Metal Bat, e in effetti fu sciocco da parte sua.
Prima che potesse metabolizzare il pensiero che stesse per incontrare persone che non vedeva da anni, si ritrovò lì. Zenko che le teneva la mano e si annunciava a gran voce e tutti che si voltavano a guardarla. Persino Metal Bat aveva puntato lo sguardo verso di lei.
«Ancora tu?!»
«Chi è lei?» domandò Fubuki.
«È una mia amica. E nii-san, tu sei veramente maleducato, comportati bene!» lo rimproverò Zenko. «Comunque lei è Tamago.»
Quest’ultima si guardò intorno. C’era King che giocava ad un videogame con la testa bassa, come se si trovasse a disagio. C’era Child Emperor, i fratelli Bang e Bomb e le sorelle Fubuki e Tatsumaki. Ed ecco che le veniva di nuovo da piangere, ma come non avrebbe potuto? Quella era la sua famiglia!
«Oh, non sono mai stata così felice di vedervi» disse commossa. Metal Bat fece una smorfia.
«È un po’ stran-volevo dire, una tipo originale!» si corresse quando vide Zenko guardalo male.
«Però mi piace il suo stile» ammise Fubuki. Tamago le andò incontro, abbracciandola.
«Oh!» esclamò arrossendo. «M-ma cosa…?»
«Ehi, non è educato questo contatto fisico non richiesto» borbottò Tatsumaki infastidita.
Tamago le sorrise.
«Zietta Tatsumaki, ora sono più alta di te!» esclamò.
COSA?
In una sola frase era quasi riuscita a scatenare tutta l’ira di quella donna, e se si trattenne fu solo grazie alla sorella. Poi si rivolse a Child Emperor.
«Ciao. Come sei piccolo qui. Adorabile, davvero. Mi verrebbe quasi voglia di strizzarti le guance!»
Child Emperor arrossì, sconvolto. Ma chi era quella e perché gli si rivolgeva come se lo conoscesse?
«N-non sono un bambino! Cioè sì, però… un po’ di rispetto!» Ma Tamago stava già prestando a King le sue attenzioni.
«King, sono così felice di vederti! Una vera gioia.»
«… Ci conosciamo?» domandò, confuso. In realtà erano un po’ tutti confusi. Bomb e Bang erano rimasti in silenzio ad osservare la nuova arrivata, fin quando Bang non prese parola.
«Ragazza, sei un’eroina?»
Tamago si mise subito dritta, ma era sorridente.
«Un’eroina io? No, direi di no.»
«Allora fai parte dei cattivi. Spero tanto di sì» borbottò Tatsumaki, ancora offesa per prima.
«No, ma che cattiva. Io non… emh… non sono niente, ancora»
Poi calò il silenzio. Metal Bat era inquieto, stare accanto a lei gli faceva vedere e sentire cose strane, ma questo evitò di dirlo, come mai lo avrebbe spiegato?
«Niente, eh? Mi ricordi qualcosa» osservò Bang.
«Sì, in realtà anche a me» ammise Fubuki. Tatsumaki borbottò dicendo che non le ricordava nessuno di particolare e Zenko poi le disse che poteva restare, se le faceva piacere. A Tamago faceva moltissimo piacere.  Era un po’ come tornare a casa. Anche senza esserci, ancora.
 

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Capitolo 6
*** Il cambiamento ***


Capitolo sei: Il cambiamento

Intermezzo
Tamago
 
 
Anche se le cose vanno male per Tamago, è contenta di essersi trovata un nuovo amico. Garou le ha fatto promettere di non dire a nessuno di lui, ma non le ha spiegato perché e d’altronde lei non fa domande. È sempre contenta di farsi nuovi amici, l’aiuta a non pensare alla sua condizione.
«La carta degli Amanti vuol dire che ti innamorerai di qualcuno. Lo sai? Io ho un amico che secondo me starebbe benissimo in coppia con te. Te lo posso presentare?»
Garou non si sarebbe mai avvicinato a Tamago se non avesse saputo del suo potere. Lei non è molto propensa a parlarne
«Lascia perdere, non è l’amore che cerco» la zittisce lui. «Cosa sai dirmi del tuo potere?»
A Tamago cadono i tarocchi di mano e rimane lì a fissarli.
«Che non mi piace, è spaventoso. Mi fa venire il mal di testa. Voglio tanto guarire, ma non sa come fare.»
Per una bambina forse non è niente di che, ma la capacità di viaggiare nel tempo farebbe comodo a chiunque, a lui soprattutto. Ecco perché vuole saperne di più.
«Tsk, il tuo è un dono.»
«Non è vero. Sei cattivo, Garou. A me non piace. Sento il tempo in modo diverso. Come se fosse un cerchio e io mi spostassi da un punto all’altro.  Posso finire ovunque, mi è successo, ma non è mai stato per troppo tempo. Ho paura di sparire e non tornare più e i miei papà sarebbero così tristi!»
Garou fa una smorfia. Un potere del genere gli darebbe infinite possibilità. Lo renderebbero più simili a un dio. Allora s’inginocchia e la guarda.
«Allora lascia usare a me il tuo potere.»
Lo dice in un modo che Tamago quasi si spaventa. Ma sa che non deve, perché Garou è suo amico. Nessuno vuole farle del male.
«Ma non si può! E comunque adesso me ne devo andare. Vedi, è buio. Ma se vuoi ci vediamo domani, eh.»
Sembra una valle incantata, con le farfalle e gli alberi, il luogo in cui lei e Garou s’incontrano. Lui non la trattiene, aspetterà ancora.
 
Genos è preoccupato. Non gli è mai piaciuto che Tamago se ne andasse da sola nella valle. Ha solo cinque anni! Soprattutto non gli piace adesso che è così instabile e potrebbe sparire da un momento all’altro.
«Ora vado giù a cercarla» dice.
«Starà già tornando. Siamo meno di cento in questo posto e ci conosciamo tutti, che vuoi che le succeda?» domanda Saitama. Genos però sa essere molto convincente alle volte. Saitama non direbbe che lo teme, ma meglio non metterselo contro in certi casi.
«Va bene, d’accordo. Non guardarmi così, vado a cercarla io.»
Ma non fa in tempo a dirlo che Tamago entra, sbattendo la porta.
«Sono tornata!» si annuncia sempre così. Genos si avvicina e la stringe tra le braccia così forte che Tamago geme.
«Ti ho detto che quando fa buio devi essere a casa.»
«Sono a casa. N-non respiro. La valle per ora è piena di farfalle.»
Per il momento è un periodo tranquillo. Tamago non ha crisi, è piuttosto allegra e vispa, ma non per questo possono fingere che vada tutto bene. Saitama li guarda e li riguarda. Vede in Tamago e Genos il motivo per lottare. Per essere più forte.

 
Age Masu Torisaru, Jikan Jikan, tutto toglie e tutto dà. E chi mai lo fermerà? -
 
Erano passate quasi due settimane da quando Genos aveva accettato di provare a tenersi quel corpo pseudo umano con annesse conseguenze. E doveva ammettere che la sua relazione con Saitama ne stava beneficiando parecchio. C’era il sesso, che era bellissimo e di cui non potevano fare a meno. Saitama sapeva essere così passionale e Genos non era da meno. E certe volte non riuscivano proprio a togliergli le mani – e le labbra – di dosso. Ma c’era ancora altro di altrettanto piacevole. Tipo i baci, gli abbracci, le carezze l’uno all’altro. Non solo, anche dormire insieme e godere del calore reciproco. Tutte cose che Genos conosceva ma di cui si era scordato. Saitama si sentiva abbastanza stupido e, anche se non aveva mai provato droghe in vita sua, era sicuro che la sensazione fosse simile a quella che stava vivendo. La sua apatia sembrava essersi sopita, un po’ come se avesse trovato una motivazione per andare avanti. Erano state due settimane piene, in cui avevano fatto di tutto.
«Genos, sai. Tu sei diverso»
Saitama glielo sussurrò sulle labbra dopo l’ennesima volta in cui si erano amati e voluti. Genos ansimava (adesso si stancava, ma a questo poteva sopravvivere). Erano ancora appiccicati l’uno all’altro, quando Genos lo guardò.
«Certo che lo sono. Guarda il mio corpo.»
«No, non dicevo quello. Intendo proprio che tu… sembri tutto luminoso. Come se avessi una lampadina accesa dentro. Non è che è qualche tua funzionalità?»
A Genos venne da ridere.
«No, non credo. Ho sentito dire che quando si è innamorati, si cambia. Forse per questo.»
«Ed è anche per questo che non riesci a staccarti da me? Giuro che non pensavo fossi così voglioso. Ma la cosa non mi dispiace mica.»
Genos arrossì. A certe cose non si abituava mai.
«Ho scoperto qualcosa che mi piace. Però ora è ora di pranzo, ho fame.»
Saiatama alzò gli occhi al cielo.
«E hai anche riscoperto il piacere del cibo.»
«Emh. Sì. Non so, da quando ho questo corpo ho sempre fame.»
«Lo so, Genos. La settimana scorsa siamo stati al ristorante di sushi. Ti è costato un patrimonio, per fortuna non ho pagato io» borbottò Saitama stringendo il cuscino. Guardò Genos che si alzava. Era davvero bellissimo e particolare. Sì, era circondato da un’aura strana, non avrebbe saputo spiegarlo. Anche Genos si sentiva diverso. Piuttosto felice. E oramai le previsioni che Maga Tamago aveva fatto non lo spaventavano. Certo, ci aveva azzeccato per quanto riguardava l’amore e il trauma. Forse anche per la nascita. Forse intendeva la nascita della storia tra lui e Saitama.
Fu colto da un forte senso di nausea e da un capogiro. Saitama se ne accorse e gli parve strano, ma dopotutto era anche normale adesso che Genos era anche umano.
«Stai bene? Non sono abituato a vederti così. Oh. Adesso puoi ammalarti anche tu» si rese conto. Lui non era preoccupato, figurarsi. Voleva solo sapere come stava. Genos fece un gesto con la mano, come a voler minimizzare.
«Non è niente di che, ma ammetto che questo è uno dei motivi per cui l’umanità non mi piace. Posso ammalarmi.»
«Forse hai mangiato troppo» suggerì Saitama. «Anche a me succede.»
Genos si ritrovò ad arrossire (oramai succedeva fin troppo spesso) e poi si alzò.
«Ho un incontro all’Associazione eroi» disse ad un tratto. Probabilmente avrebbero parlato dei mostri che avevano catturato e studiato. Saitama allora si alzò.
«Vengo anche io» decise. Genos lo guardò, guardò tutto il suo corpo e poi distolse lo sguardo.
«Non è necessario.»
«Non lo faccio perché necessario, ma perché voglio. Oramai per te è difficile liberarti di me.»
Genos sorrise. Liberarsi di lui? E perché avrebbe voluto? Adesso aveva tutto quello che aveva sempre voluto.
E anche qualcosa in più.
 
Per Tamago era un miracolo riuscire a rimanere per così tanto tempo nello stesso posto. Forse il fatto che fosse un po’ più serena del solito la stava aiutando. Non era un segreto che l’agitazione peggiorava le cose. Quando aveva sentito della riunione tra eroi, si era immobilizzata un attimo e poi d’istinto aveva detto voglio esserci anche io.
Non un’idea saggia. Se avesse visto i Jikan, cosa avrebbe potuto fare? Eliminarli per cambiare il suo futuro, che poi era il suo passato, sarebbe stata la cosa più facile da fare? Ma non aveva le capacità di farlo. Chiedere a qualcuno degli eroi di eliminarli al posto suo? Perché avrebbero dovuto farlo, perché avrebbero dovuto rischiare ancora per una sconosciuta?
E poi, Tamago sapeva che intromettersi nel tempo non era mai una buona idea. Lei si stava già intromettendo troppo, ma che scelta aveva? Cosa aveva da perdere ancora?
«Non ho capito perché lei è dovuta venire con noi, non è neanche un eroe» disse Tatsumaki con una certa diffidenza. Continuava a non fidarsi troppo di Tamago. Era strana. Starle accanto le trasmetteva sensazioni strane.
«Finalmente qualcuno che la pensa come me» borbottò Metal Bat. Stare accanto a Tamago gli faceva arrivare quelli che avrebbe definito ricordi. O visioni. O echi. Non sapeva come chiamarli, ma erano strani e su questo non c’erano dubbi.
«Non siete molto gentili» disse Child Emperor, che alla fin fine l’aveva presa in simpatia, così come Bang del resto.
«Siate pazienti. Quella ragazza mi ricorda qualcuno.»
«Solo per questo dobbiamo farle da baby-sitter o non so che altro?»
Tatsumaki guardò Tamago. Alla riunione erano presenti anche altri eroi come Atomic Samurai e Zombie Man e alcuni di classe A come Sweet Mask, scocciato per quella chiamata improvvisa. Almeno aveva trovato una valida compagnia in Tamago, che gli si rivolgeva come se fosse una sua fan accanita e questo non gli dispiaceva.
«Lo sai? Da piccola mi sarebbe piaciuto entrare a far parte dell’Associazione Eroi. Ma ho dovuto rinunciare abbastanza in fretta.»
«Ma l’Associazione eroi esiste solo da pochi anni» rispose lui con ovvietà. Tamago cambiò allora discorso, disse che gli avrebbe letto i tarocchi se voleva. Sweet Mask stava quasi per dirle sì, quando arrivarono Saitama e Genos, che catalizzarono tutta la sua attenzione.
«Ma tu guarda, anche tu qui?» domandò Saitama, che era sinceramente felice di vederla.
«Vi conoscete?» domandò Fubuki.
Beh sì, ci ha predetto sventure e amore, pensò Genos. Poi si ricordò che nessuno lì sapeva di loro come coppia, e grazie tante, visto che non lo avevano detto a nessuno.
«Sì, siamo amici. Più o meno» disse Tamago, in imbarazzo
«Capisco. Voi due comunque siete strani. Soprattutto tu, Demon Cyborg» disse Tatsumaki.
Oh bene, se n’erano accorti. Saitama guardò Genos. Non gli creava problemi il fatto che loro sapessero. Certo, non sapeva come avrebbero reagito. Se fosse dipeso da Genos, avrebbero spiegato tutto in maniera graduale, ma Saitama fu più veloce a precederlo.
«Sì, allora. Io e Genos ci siamo messi insieme. Quei mostri hanno reso Genos per metà umano. A proposito, possiamo non perdere troppo tempo? Io e Genos non possiamo fare le nostre cose qui.»
Tamago fu l’unica a trattenere le risate. Gli altri avevano avuto reazioni piuttosto diverse. Metal Bat non vedeva, ma sentiva chiaramente. Così si era alzato, agitando la mazza con il rischio di colpire qualcuno in pieno.
«Aaah? Voi due?»
«E in che senso Genos è per metà umano?» domandò Fubuki. Bang invece li guardava come se volesse dire beh, era ora.
Genos desiderò per la prima volta in vita sua colpire Saitama. Un po’ di delicatezza no?
 
«È successo tutto in fretta» disse Genos, che sapeva benissimo che come spiegazione non bastava di certo. Tamago era tutta concitata. Poi le venne in mente qualcosa.
«Oggi che giorno è?»
«Il ventuno marzo, perché?» domandò Saitama.
Il ventuno marzo, l’equinozio di primavera. Allora lei esisteva già, lì. Da pochissimo, era praticamente invisibile, però c’era. Afferrò Genos per le spalle e lui sussultò.
«Oggi la tua vita cambierà. Farai una scoperta che metterà tutto in discussione.»
Come mai non aveva usato le carte per fare quella previsione? Se fosse stato così, forse Genos avrebbe avuto meno timore? Invece Tamago l’aveva guardata negli occhi e gli aveva fatto una previsione. E fino a quel momento non aveva sbagliato.
«Che vuol dire? Cosa devo scoprire?»
Tamago indietreggiò, tremante.
«Il tuo inconscio lo sa già. Emh, ora scusate. Devo andare un attimo al bagno delle signore.»
In realtà era palese che quella fosse una scusa per allontanarsi. Genos fu subito colto da una sensazione di terrore e angoscia, sensazione che aveva già sperimentato.
«Va bene, lo ammetto. Quella ragazza mi piace, ma è parecchio strana» disse Saitama.
«Io è da quando l’ho incontrata che lo dico» aggiunse Metal Bat. «Dice cose strane. E poi è da quando l’ho incontrata che non riesco a togliermi dalla testa una filastrocca strana. Fa tipo Jikan Jikan, tutto toglie tutto dà e poi chissà cosa.» Saitama non badò a Genos, visibilmente scosso. Metal Bat aveva catturato la sua attenzione.
«Cos’hai detto?»
Saitama a volte assumeva espressioni così serie da far paura. Metal Bat non lo vedeva, però poteva percepirlo.
«Eh… niente. È una sciocchezza. Quella ci farà uscire tutti fuori di testa.»
Saitama non era certo tipo da impazzire facilmente. Né lui né Genos lo erano, ma aveva l’impressione che ci fossero molto vicini.
 
 
Tamago era scesa lungo una scala a chiocciola piuttosto instabile. Non sapeva perché lo stava facendo, proprio come quindici anni prima. Ma ai tempi era stata una bambina, non poteva sapere cosa le avrebbe riservato il futuro. Adesso era adulta e sapeva ancora meno. Scese e scese ancora giù nell’oscurità. Se fosse stata fortunata, non avrebbe trovato nessuno a impedirle di entrare. E proprio come quindici anni prima, era stata fortunata e nessuno le aveva sbarrato la strada, niente le avrebbe impedito di entrare. I due Jikan sembravano galleggiare a mezz’aria oltre il vetro, i tentacoli lunghi e che si muovevano in modo quasi ipnotico.
Si avvicinò, tesa ma non impaurita, perché dopotutto cosa aveva da perdere?
 
«I due esemplari alieni che avete catturato, sono stati studiati e analizzati. Non sappiamo da quale pianeta arrivino, ma li abbiamo denominati Jikan.»
Saitama fissò Metal Bat per qualche attimo e, anche se lui non lo guardava, di sicuro stavano pensando la stessa cosa.
«Non sembrano ostili nel senso che non attaccano o uccidono il prossimo. Ma chiunque venga a contatto con loro – e questo lo avete visto da voi – subisce cambiamenti. Il contatto con queste creature vi cambia. Vi muta. Sia dentro che fuori.»
 
Tamago poggiò la mano sul vetro. Sembravano esseri così pacifici, loro. E in fondo lo erano, non fosse stato per quel piccolo problema.
«Ci rivediamo, eh? Se solo fossi in grado eliminarvi, sarebbe tutto risolto. Ma non so come fare. E non so questo a cosa potrebbe portare. Mi sono intromessa così tanto che forse ho già rovinato tutto.»
 
«Non sappiamo in base a cosa agiscono, se seguono uno schema o se sia tutto casuale. I Jikan sono intelligenti, ma non comunicano come noi. Hanno un loro linguaggio.»
Metal Bat batté una mano sul tavolo.
«Beh, che volete? Devo chiederglielo io il perché mi è stato fatto? Che sia difficile farli fuori o meno non me ne importa, lasciatemelo fare.»
Genos gemette. Avvertì qualcosa di strano, Tutto stava iniziando a girare e sentiva qualcosa. Che non era dolore, ma che risucchiava via tutte le energie. Saitama se ne accorse.
«Va tutto bene?»
 
Tamago batté un pugno sul vetro.
«Perché è toccato a me? Perché questo? Nessuno mi può dare una risposta. Non sono stata una bambina, poi una ragazza e ora una donna felice. È stato questo che mi ha strappato alla mia famiglia. Riprendetevi questo potere, io non lo voglio. Non è un dono, è una maledizione»
Tamago passò in fretta dalla rabbia alle lacrime. Era sempre stata una bambina, una ragazza e poi una donna molto emotiva. Chiunque lo sarebbe stato al pensiero di non avere controllo su niente. Come lei.
Poggiò la fronte contro il vetro e chiuse gli occhi, una lacrima le rigava il viso.
Poi si sentì stanca e scomparve. In chissà quale parte del tempo. E che importanza aveva? Il tempo non è una linea dritta, ma un cerchio. Percepisco tutto e tutto insieme.
 
 
Genos tentò di alzarsi. Si ricordò di quand’era stato umano, della stanchezza che ogni tanto lo assaliva tutto insieme, dell’influenza e della febbre che lo rendevano debole. Ciò che sentiva non era simile a niente di tutto ciò, ma era l’unico metro di paragone che aveva. Cadde e Saitama, che forse doveva averlo percepito, fu abbastanza veloce da afferrarlo. E da preoccuparsi, lui che non si preoccupava mai. Adesso ne aveva motivo, ne avrebbe avuto più di uno.
 
«Ma perché piange tanto?» domanda Saitama.
«È una neonata, non penso possa fare altro» risponde Genos tenendola in braccio, cercando di cullarla, né troppo forte né troppo piano. È un po’ provato, non pensava potesse arrivare ad esserlo.
«Dai, dalla a me, prenditi una pausa» gli dice Saitama. Ma Genos non molla la neonata, quasi mai.
«Perché con me piange sempre? Forse lo percepisce anche lei che a questo non ero pronto.»
«Non ero pronto nemmeno io, se è per questo. Se riesco a trovare il ciuccio, forse smetterà di piangere.»
Genos cerca di consolare la bambina. Si sente incapace, nessuno gli ha insegnato quello, non è stato programmato per quello.
Saitama trova il ciuccio. Lo avvicina alla bambina e glielo lascia. E lei allora si quieta.
«Ecco, ha funzionato. Mi chiedo se funzionerebbe anche per gli adulti» Saitama prova a sdrammatizzare. Genos sospira, ora più calmo. Ci sono momenti in cui sembra impazzito.
«Sono anche un eroe, ma questa… questa è la cosa più difficile di tutti» ammette.
«Non dirlo a me. A me basta un pugno per sconfiggere un nemico. Ma qui la questione è diversa. Tranquillo, ce la caveremo.»
Saitama lo abbraccia, Genos si fa abbracciare. Ora che sono tutti e due più calmi, anche la bambina si è quietata, si addormenta e tra le sue braccia ci dormirà tutta la notte.
 
 
Genos si svegliò all’improvviso e quel sogno svanì quasi subito. Ma gli rimase in testa l’eco di un pianto e quel pianto lo faceva star male, troppo male.
«Ah, ti sei svegliato finalmente!»
La voce di Saitama lo fece sussultare. Giusto, si ricordava di essere svenuto, di aver avvertito un certo malessere. Ma quanto aveva dormito? Per ore? Inoltre, non gli sembrava di essere a casa sua. Al contrario, quello era il laboratorio di Kuseno. Oh, per fortuna! Ora basta, si era detto. Non poteva continuare a rimanere per metà umano, era tutto troppo strano. Doveva tornare un cyborg al cento per cento. Per quanto riguardava la questione sesso, avrebbe trovato una soluzione. Si mise seduto di scatto.
«Eh, è meglio se non ti alzi» suggerì Saitama.
«Dov’è Kuseno? Devo parlare con lui. Questa storia finisce qui, l’umanità è troppo seccante e fragile e io sono un eroe, non posso permettermi di essere fragile» disse deciso. Saitama alzò gli occhi al cielo: davvero testardo!
Genos non ebbe bisogno di cercare Kuseno, perché fu lo scienziato a venire da lui, serio e pallido come se avesse appena visto un fantasma.
«Dottor Kuseno, meno male! Deve aiutarmi, deve ridarmi il mio corpo da cyborg. Se l’ha fatto una volta può rifarlo, vero?» domandò concitato.
«Ragazzo, è meglio se ti siedi. E anche tu» disse a Saitama, il quale si indicò.
«Che ho fatto?» domandò.
«C’è… qualche problema?» chiese Genos, stranito. Kuseno sospirò.
«Non credo sia possibile ridarti il tuo corpo da cyborg. Non per un po’ di tempo, almeno.»
Genos si irrigidì. Maledizione, e ora? Qual era il dannato impedimento?
«Perché no…?»
Un altro sospiro. Perché non glielo diceva e basta.
«Ho trovato qualcosa. Dentro di te, intendo.»
Saitama non capì, ma fu come se il suo inconscio ci fosse arrivato prima di lui.

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Capitolo 7
*** Parte seconda: l'evento traumatico ***


Parte seconda
L'evento traumatico

Capitolo sette: Due in uno
 
Intermezzo
Tamago
 
Scompare di nuovo e, quando succede, chiude gli occhi. Si è spostata nel cerchio e per questo non saprebbe dire dov’è finita. Quando è finita.
Li aveva proprio lì, ad un solo passo, ma cosa avrebbe potuto fare lei?
Lei non è forte, non ha una grande forza fisica o una qualche abilità.
È solo quello. Vent’anni persi, si dice.
Qualcosa le fa male alla schiena, si rende conto di essere stesa su macerie. Si guarda intorno, ciò che resta di una casa. Osserva il modo in cui la luce entra dalla finestra, dai vetri rotti. Ha un tuffo al cuore, perché quella è la casa in cui è cresciuta. Lo sa che è così, perché i ricordi non svaniscono. Ora sta percependo il futuro, il suo futuro dove non è ancora riuscita a cambiare le cose. Non le era ancora successo di tornare a quel momento. Le pizzicano gli occhi per le lacrime. È stata una vita a tentare di ricongiungersi alla sua famiglia e adesso che c’è riuscita, che c’è quasi riuscita, non può farsi fuggire l’occasione. Se solo avesse avuto la capacità di controllare tutto, non sarebbe arrivata fino a quel punto. È forte l’istinto di farsi cadere in ginocchio e piangere. Piagnucolona e debole, si dice.
«Rivoglio tutto com’era» si dice. «Voglio tornare indietro… avanti… qualsiasi diavolo di cosa sia, per una volta non può essere come voglio io?!»
A quel punto, grida.
Farebbe prima a piantarsi un coltello nel cuore. Farebbe meno male che una vita di dolore.
 
 
«Cos’ha trovato?» domandò Genos, confuso e anche un po’ teso. Saitama si grattò la testa, altrettanto confuso. Perché aveva la sensazione che la sua intera esistenza fosse appena cambiata in modo drastico?
«Genos» lo chiamò Kuseno. «Quei mostri hanno influito su di te, giusto?»
Genos abbassò lo sguardo. Non era ovvio? Non era evidente?
«È questo il punto del discorso» ammise.
«Ti sei reso conto che sei cambiato anche internamente?»
Certo, era ovvio. Aveva tutti gli organi al suo posto, il problema era proprio quello.
«Sì, ma… non capisco dov’è il problema.»
In cuor suo Genos sapeva che avrebbe fatto bene a iniziare a temere. Saitama si alzò. Sembrava… teso? Teso, lui?
Kuseno era davvero in difficoltà. Quanto poteva essere terribile ciò che stava per dirgli?
«C’è qualcosa dentro di te. Intendo, qualcosa di vivo.»
Nel sentire quelle parole, Genos e Saitama si guardarono qualche istante, non erano certi di avere capito bene.
«Qualcosa, cosa?» domandò Saitama. Non poteva essersi ammalato, giusto? No, altrimenti perché definirlo qualcosa di vivo?
«Intendo dire che c’è un essere umano.»
Genos ancora non parlava. Aveva capito, non era certo stupido. Però allo stesso tempo non capiva. Come poteva essere possibile?
«Un… umano nel senso… come un bambino? Ma non è possibile, io sono un uomo.»
«Tu sei un cyborg. Cioè, metà» gli ricorda Saitama, anche se dentro di sé c’era una vocina che gli intimava di tacere.
«Quelle creature ti hanno cambiato più di quanto pensi. Internamente, intendo. Ho controllato bene, non mi sono sbagliato. Tu… aspetti.»
«Aspetta?!» esclamò Saitama. «Ma com’è successo?!»
Quella domanda gli uscì spontanea. Ovviamente sapeva com’era successo, ma perché avrebbe mai dovuto pensare che potesse accadere a loro?
Non aveva senso, continuava a ripeterselo. E poi si chiese cosa diavolo ho combinato?! Ma non era colpa sua, non ne aveva idea. Non si era mai fatto prendere dal panico, non avrebbe iniziato adesso.
Genos non diede segnali di vita. Oh, che fossero maledetti la sua umanità e i cambiamenti che aveva subito. Era questo il dannato trauma che Tamago gli aveva predetto? Cosa poteva esserci peggio di questo?
«Io non… non è possibile» ripeté.
Ma in un mondo in cui tutto accadeva, poteva stare lì a dire che una cosa era impossibile?
«Come si aiuta una persona sotto shock?» domandò Saitama. Anche lui era sotto shock, in verità. Genos scosse la testa.
«Non… non può togliermelo?» domandò d’istinto. E cos’altro poteva fare?
«Non è di questo che mi occupo di solito, però in teoria potrei. Siete propri sicuri?» domandò Kuseno.
No. Non erano sicuri di niente. Genos era caduto nel mutismo, Saitama non si poteva tirare indietro, anche se avrebbe tanto voluto rinchiudersi in un guscio per non uscirne più. A lui le cose troppo complicate non erano mai piaciute.
«Sicuri? Non so nemmeno più come mi chiamo, in questo momento. Non so cosa devo dire. Sono il primo a cui capita una cosa del genere.»
Non si accorse di come Genos lo guardava. Come se avesse voluto ucciderlo, era la prima volta e Saitama un po’ si sentì in soggezione.
«Tu sei il primo a cui capita? Sta succedendo a me, non a te» Genos non aveva alzato la voce, però era arrabbiato. Sembrava avercela a morte con lui.  Saitama non voleva peggiorare la situazione.
«Va bene, hai ragione, sta succedendo a te. Mi dispiace, se avessi saputo sarei stato più attento. Però una soluzione si trova. Vero che si trova?» domandò. Il suo tono era vagamente esasperato.
La faceva facile, lui. Genos non voleva pensare, tanto meno voleva decidere. Prima doveva metabolizzare quella notizia assurda. Che era vera, lo sapeva perché lo sentiva. Si sentiva strano da un po’, ma pensava che le cause fossero altre: l’amore, il suo cambiamento. Non anche quello. Il suo corpo stava ospitando un qualcosa che forse sarebbe diventato un essere umano.
Che era una cosa accadeva ogni giorno, ad altra gente. Non a lui.
«Io devo… ho bisogno di stare da solo. E di prendere aria. È diventato tutto pesante. Grazie, dottor Kuseno, io… le farò sapere… qualcosa…»
Saitama lo vide alzarsi e uscire. E ora? Che doveva fare? Genos credeva di essere l’unico sconvolto, beh, non era così. Lui era solo più bravo a non mostrarlo.
«È meglio se gli corri dietro» gli suggerì Kuseno.
Sì, gli sarebbe corso dietro, probabilmente per farsi ammazzare. Se non ora, non sarebbe più successo.
 
«Genos, aspetta. Fermo.»
Saitama aveva timore a toccarlo. Aveva talmente tanta tensione che aveva paura di fargli male involontariamente, solo sfiorandolo.
Genos si fermò. Ora di sicuro non era più sé stesso. Il vecchio sé stesso gli sembrava un lontano ricordo. E come poteva essere sé stesso se ora erano due corpi in uno, in pratica?
«Puoi dirmi che è un incubo?» domandò. Saitama avvertì l’odore di pioggia. Proprio un cliché da due soldi, una scena struggente con tanto di pioggia. E lui era proprio il peggiore per affrontare quel genere di cose, con cui non aveva familiarità.
«È troppo realistico per essere un incubo. Tu sei… hai paura?» fu il meglio che riuscì a domandargli.
Ovvio che avesse paura. Aveva appreso una notizia che lo aveva stupito più di tutto quello che aveva mai affrontato.
«Mi hai ingravidato, fai un po’ tu» disse Genos, glaciale.
Era davvero strano sentirglielo dire.
«Ora non metterla su questo piano, che potevo saperne io? Non l’ho fatto di proposito. Non so che devo fare, capisci? Cosa si fa in questi casi?»
Saitama appariva sperduto. Genos non l’aveva mai visto così, si impressionò.
Cosa vuoi che ne sappia di cosa bisogna fare in certi casi? Avrebbe voluto dirgli. Ma non era colpa sua, non era colpa di nessuno dei due. Era solo successo. Ripensò ai tarocchi di Maga Tamago. La fortuna al contrario, simbolo di avversità. Il diavolo, il pericolo. La morte, l’evento traumatico che portava ad una nuova nascita e che riguarda soprattutto lui. Adesso aveva senso.
«Non lo so cosa si fa» sussurrò. Sentiva la pioggia bagnarlo. Non ci aveva mai fatto caso. Era fredda e crudele. Saitama gli si avvicinò, cauto. Non poteva capire quello che stava passando Genos, ma voleva quanto meno provarci, perché ora si rendeva conto di quanto lo amava e di quanto le sue preoccupazioni fossero le sue. Di quanto il suo dolore fosse il suo e di quanto la sua felicità fosse anche sua.
I sentimenti erano spaventosi più di tutto il resto.
«Posso abbracciarti?» domandò. Genos lo guardò, sorpreso. A Saitama doveva risultare insopportabile, eppure lui era lì, stava cercando di farlo stare meglio. Fece un cenno con il capo e Saitama azzerò le distanze, abbracciandolo. Ma senza usare troppa forza.
Sto stringendo a me qualcuno che ha una delicatezza e fragilità che non troverò più da nessuna parte.
«Genos» lo chiamò. «Non so cosa stai sentendo, però… se vuoi piangere, puoi farlo.»
Genos non piangeva da anni. Non aveva lacrime, non le aveva tutt’ora. Eppure, si strinse a lui e si lasciò andare. Chiunque lo avesse visto sotto la pioggia, non avrebbe mai pensato che stesse piangendo senza lacrime.
 
La situazione era quella e oramai era chiaro, ma Genos non ci avrebbe creduto del tutto fino a quando non lo avrebbe visto con i suoi occhi. Così aveva detto a Saitama compra quei cosi, i test di gravidanza.
E Saitama non aveva nemmeno avuto il coraggio di dire non puoi andarci tu?
Meglio non provare ancora il suo stato d’animo così fragile. Così, tutto scocciato e in imbarazzo, era andato nella prima farmacia che aveva trovato e li aveva comprati. Di certo avrebbe fatto a meno degli sguardi curiosi della gente attorno a lui. Che si facessero i fatti propri, non era dell’umore per sopportare nessuno.
Poi era tornato a casa e Genos gli aveva detto aspetta, fammi fare da solo.
E così si era chiuso al bagno e Saitama fuori ad aspettare come un’anima in pena. Nervoso. E pensava.
Ma com’è possibile sia successo a me? A noi? E cosa devo fare, adesso? Non posso certo scappare, sono tante cose, ma non un codardo. Non ho paura. Non ho paura.
Non ho paura.
Genos uscì dal bagno, l’espressione seria, quasi spaventosa. Saitama lo fissò.
«Beh?»
«Li ho fatti tutti» sussurrò. «Sono usciti tutti positivi! C’è davvero qualcosa dentro di me.»
Saitama annuì. E poi disse.
«Cazzo. Avrò un figlio.»
Sentirglielo dire fu così strano da farlo tremare. Chissà cosa gli passava per la testa.
«Tu non… non lo avrai» disse Genos.
«Non lo teniamo, quindi?»
Genos si poggiò al muro. Si sentì ad un tratto esausto.
«Non lo so.»
«Esiste l’aborto. Se vuoi fare quello, non mi opporrò.»
E come avrebbe potuto? Non era il suo corpo quello messo in gioco.
«Ma riguarda anche te» disse stancamente Genos. «Noi lo… lo abbiamo fatto insieme. Tu lo vorresti?»
Saitama fece spallucce. Non ci aveva mai pensato in venticinque anni della sua esistenza, adesso invece si ritrovava a dover pensare a tutto e tutto insieme. Lo voleva tenere? Non aveva mai nemmeno preso in considerazione l’idea di avere una famiglia e di avere figli. Non aveva nemmeno mai preso in considerazione l’idea di fare coppia con qualcuno, però eccolo lì, adesso.
«Non lo so, forse sì. Ma la scelta finale spetta a te, sei tu che… sei più coinvolto.»
Genos non voleva scegliere, non voleva proprio pensare a niente.
«Io però non so che fare. Né che scegliere.»
«Allora tu non farlo. Dovremmo prenderci del tempo per decidere, perché questa è una cosa importante. Perché una volta che scegli, non puoi tornare indietro.»
Saitama si era seduto, Genos accanto a lui aveva chiuso gli occhi. Non poteva nemmeno immaginarsi a vivere un’esperienza come una gravidanza, la vedeva innaturale. Poi si ricordò che tutta la situazione era strana, forse anche innaturale, chissà.
«Ci ho messo nei guai» mormorò.
«No, io ci ho messo nei guai. Anche se non l’ho fatto di proposito. A quanto pare non sbaglio un colpo.»
«Non fa ridere. Se fossi al posto mio non rideresti.»
«Se fossi al posto tuo, sarei caduto nell’esasperazione più totale. Tu sei più forte di me, a prescindere da qualsiasi decisione prenderai.»
Genos alzò piano la testa e lo guardò. Non si era mai considerato più forte di lui. Né fisicamente, né emotivamente.
«Io non sono forte.»
«Certo che lo sei. Ma nonostante questo mi fai venire voglia di proteggerti. Vedi? Ora sono diventato sentimentale. Cosa mi dovrà succedere ancora?»
Con quel suo tono, Saitama riuscì a farlo ridere. Era ciò di cui aveva bisogno.
 
 
Tamago aprì gli occhi, di nuovo. Adesso aveva la tendenza a perdere i sensi ogni qualvolta che il tempo si muoveva su di lei in modo anomalo. E più perdeva la calma, più non riusciva a gestirlo.
«Ahi» si lamentò. Aveva male alla testq, era finita da qualche parte fuori dalla città. Alberi e alberi, le ricordava un po’ la valle della sua infanzia. Si alzò, tutta dolorante, con il cuore a pezzi. Tentare di ignorare l’angoscia che da una vita le si era attaccata addosso sarebbe stato inutile. Rifiutarla sarebbe stato inutile. Faceva parte di lei, un po’ come quella sua abilità di percepire il tempo in modo diverso. Questo, tuttavia, non riusciva proprio ad accettarlo. Non si tolse le foglie dai capelli. Si lasciò alle spalle gli alberi e si ritrovò davanti uno strapiombo. Come aveva immaginato, era finita fuori dalla città, che ora vedeva in lontananza. Sotto di lei, invece c’era il vuoto. Si avvicinò a quel vuoto, allungando una mano e rimanendo così, in sospeso. Sarebbe stata così facile, un suicidio in grande stile per smettere di soffrire. Ci aveva pensato tante volte, soprattutto quelle volte in cui la solitudine e la sofferenza divenivano insopportabili. Se lo avesse fatto, però, non avrebbe più potuto rivedere i suoi amici e la sua famiglia. Ora era riuscita a rivederli. Se si fosse buttata, non avrebbe più potuto fare niente. Ma non era forse la sua stessa esistenza, il motivo del dolore di coloro che amava?
Si strofinò un braccio contro il viso, cercando di cancellare le lacrime.
«Sono una piagnucolona e sono anche inutile. La mia famiglia sarebbe stata molto più felice senza di me. Non ero nemmeno voluta. Forse questo mondo non mi vuole.»
Tamago alternava momenti di grande sconforto e momenti in cui si diceva di non arrendersi. Quello era uno di quei momenti di sconforto profondo. Trattenne il fiato. Quanto avrebbe fatto male se si fosse buttata?
Quasi saltò, ma qualcosa la trattenne, un fruscio, poi dei rumori sospetti.
«Chi è ora? Una non può neanche contemplare il suicidio in santa pace?!» gridò, esasperata. Quasi come una bambina.
«Io ero venuto qui per stare da solo, non pensavo di incontrare una ragazzina sull’orlo di una crisi di nervi.»
Tamago spalancò gli occhi, sembrava quasi che le sopracciglia volessero arrivarle dietro la testa. Riconobbe l’uomo che era comparso dagli alberi, scocciato, minaccioso, molto più alto e massiccio di lei. Lo aveva chiamato il mio amico migliore e lo aveva anche temuto.
«Ga-Ga-Ga…» balbettò.
«Eh? Chi dovresti essere tu?» domandò Garou. La squadrò. Non gli parve una persona normale, ma nemmeno un eroe o un essere misterioso. In realtà non avrebbe saputo classificarla in nessun modo.
«S-sono Tamago» sussurrò.
«Non conosco nessuno con questo nome assurdo.»
Garou aveva sempre avuto la capacità di farla sentire in soggezione e divertirla. Per questo le era sempre piaciuto.
«Beh… non ancora» Tamago s’incamminò verso di lui, rimanendo ancora sulla difensiva. Al contrario di Metal Bat, Garou avrebbe potuto attaccarla, dopotutto non aveva motivo di non farlo.
«Beh, che cosa vuoi? Sono venuto qui per stare da solo. Non mi piacciono le ragazzine, peggio ancora se sono eroine.»
Non c’era bisogno che ricominciasse con la solita tiritera, Tamago la sua antipatia per gli eroi la conosceva bene.
«Più che eroina, potrei più essere simile ad un mostro, ma non ha importanza. Grazie, mi hai riportato in me, per il momento.»
«Che cosa? Io non ho fatto niente, non darmi meriti che non ho. Se vuoi ammazzarti, fai pure, nemmeno ti conosco.»
Tamago aggrottò la fronte. Garou non aveva mai amato essere definito un eroe, lui l’antitesi di un eroe. Ma definirlo del tutto cattivo sarebbe stato inesatto. Tamago strinse i pugni e si avvicinò di nuovo al bordo dello strapiombo.
«Guarda che mi butto.»
«Sei forse pazza? Fai pure.»
«E va bene, lo faccio!»
Tamago saltò, ma non cadde mai perché Garou era stato ben più veloce ad afferrarla dalla vita e a riportarla al sicuro. Non lo aveva voluto, si era mosso istintivamente, il suo corpo, le sue gambe, tutto.
Tamago ansimò e poi sorrise.
«Dicevi?»
Garou distolse lo sguardo, infastidito.
«Tsk, l’ho detto che sei pazza. Non ti ho salvato perché lo volevo, mi sono mosso da solo.»
«Dici così tutte le volte» Tamago fece spallucce. A Garou non sfuggì quella frase. Si voltò a guardarla.
«Ci conosciamo o no?»
«Potrei raccontarti tutto, ma non mi crederesti» ammise Tamago. Sarebbe stata la prima persona a cui avrebbe raccontato tutto, se avesse avuto il coraggio.
«Mettimi alla prova» dichiarò lui. Inconsciamente aveva percepito qualcosa.
 
 
Tamago cammina su un tronco d’albero che fa da ponte sopra il lago. Ora è pomeriggio, quindi non ha fretta di tornare a casa. Garou la guarda. Il potere che lei ha, a lui servirebbe. Avere quel potere è quasi come essere un dio.
«Allora, mi spieghi o no come funziona?» domanda impazientemente. Tamago non ne parla volentieri, è difficile tirarle fuori qualche informazione. La bambina sbuffa e si toglie i capelli dal viso.
«Ma te l’ho detto. Mi sposto in punti a caso del tempo. Anzi, forse è il contrario. Comunque non decido io, il brutto è questo. A volte sparisco per qualche minuto, l’altro giorno sono sparita per un’ora, ma non so dove. Cioè… quando.»
«Hai mai parlato con nessuno o fatto qualcosa? Intendo, mentre eri lì»
Tamago ha le braccia aperte per mantenersi in equilibrio.
«No! Ho paura, i miei papà mi hanno detto di non parlare con nessuno.»
«Oh, per favore. Se io avessi un potere del genere, dominerei ogni cosa. Potrei cambiare il tempo e gli eventi a mio piacimento.»
«Ma Garou! Può essere pericol-!»
Tamago scivolò e cadde. Garou però l’afferrò prima che cadesse in acqua, bagnandosi lui stesso.
«Ma vuoi stare attenta o no?!»Tamago sgranò gli occhi e arrossì.
«Mio eroe!»
«Tsk, non chiamarmi eroe, non sono l’eroe di nessuno!» borbottò mettendola in piedi.
«E io te lo dico stesso!» la bambina lo sfidò. «Tu fai paura, paurissima, ma sei anche molto simpatico.»
Garou non poteva stare lì a farsi dire quelle cose da una bambina, era davvero ridicolo. E poi lei gli serviva, non era certo lì per fare amicizia.
Tamago non sapeva che Metal Bat – nonché suo baby-sitter non ufficiale - stava venendo a cercarla per riportarla indietro. Era cieco oramai da diversi anni, ma non era più un problema. Aveva imparato a vivere e ad essere un eroe anche senza la vista. Anzi, gli altri suoi sensi si erano sviluppati. Ecco perché per lui non era stato un problema andare a cercare Tamago.
«Ehi, Tamago! Se sei qui rispondi, devo riportarti a casa!»
«Badd?» domandò, scivolando dentro l’acqua e bagnandosi. «Ahi! Sono qui!»
Garou ebbe solo qualche istante per metabolizzare tutto. Nessuno doveva sapere di lui, ma d’altronde gli occhi di Metal Bat non lo avrebbero visto. Il resto però lo avrebbe percepito.
«Ah, sei qui e… e non sei sola, sento» Metal Bat corrugò la fronte, attento. «Non sei abbastanza basso per essere un bambino, quindi devi essere un adulto.»
«Lui si chiama Garou, ed è il mio migliore amico.»
«Accidenti a te, ma non era un segreto?!» domandò Garou. Metal Bat non era un grosso problema, ma era meglio che i genitori della bambina non sapessero di lui, per ovvi motivi.
«Aspetta, tu sei… sei Garou? Sei quel maledetto… ma che cazzo ci fai tu qui con lei, si può sapere?»
Tamago si portò le mani davanti la bocca, sorpresa.
«Non si dicono le parolacce e comunque lui è mio amico. Lo conosci?»
«Certo che lo conosco, è pericoloso!» Metal Bat l’afferrò per un braccio. Garou sospirò, annoiato.
«Ora non fare tante storie, non sono un adescatore di bambini. Non l’ho toccata.»
«Badd, sei cattivo e mi fai male. Siamo davvero amici, Garou è bravo con me.»
«Beh, hai sentito la ragazzina, sono un amico eccezionale. I marmocchi mi amano.»
Metal Bat era molto confuso. Non capiva perché Garou fosse lì e perché Tamago lo avesse definito suo amico. Anzi, in verità un piccolo sospetto ce l’aveva. La strinse più forte.
«Sta lontano da lei. Ha tanta gente che sarebbe disposta a farsi ammazzare per proteggerla e io sono tra questi. Tamago, ti riporto a casa.»
E dicendo ciò la tirò con sé.
«Ahi! No, sei cattivo, lasciami. Brutto e prepotente, non ti voglio più come amico!» gridò, piagnucolando.
Oh, non sarebbe stato di certo Metal Bat a impedirgli di fare ciò che voleva.


Nota dell'autrice
Beh che dire, Genos non l'ha presa benissimo e ha ragione da vendere. Altro che evento traumatico, povero. Saitama invece deve metabolizzate. Povero anche lui, sta facendo del suo meglio per non peggiorare le cose , ma qualsiasi cosa dica può essere usata contro di lui. Mi sono divertita a scrivere questo capitolo, o almeno mi sono divertita a scrivere le parti SaiGenos, perché quelle di Tamago hanno ben p0coo da ridere. Un dramma esistenziale non da poco il suo e anche nel presente compare Garou... inizio di altri guai?
A presto!
Nao

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Capitolo 8
*** Accettazione ***


Capitolo otto: Accettazione
 
Intermezzo
Tamago
 
«Badd, mi fai male! Lasciami stare!»
Metal Bat però non ascolta Tamago. Anche senza vedere, prosegue spedito fino a quando non arriva alla casetta in cui la bambina vive. E poi si ferma all’improvviso.
«Tamago, tu con quello non dovresti avere niente a che fare. Io lo conosco, è pericoloso.»
«Cattivo! Lui è mio amico. Siamo amici da un po’. Tu sei solo geloso.»
Metal Bat sa che è inutile parlare con lei, è una questione tra adulti.
«Devo parlare con i tuoi genitori.»
Allora Tamago gli si mette davanti, come a volergli impedire di passare (cosa piuttosto improbabile).
«Non dire loro niente! Già si preoccupano troppo. Io voglio solo fare qualcosa di normale!» esclama con le lacrime agli occhi. E anche se è solo una bambina, Tamago sa già che normale non lo sarà più.
«Lo so, lo capisco. Ma non posso fare finta di niente.»
Tamago si aggrappa al suo braccio, piagnucolando.
«Badd, aspetta. Se ci sei tu con me, non mi può accadere niente. Non ci andrò più da sola, ma tu non dirlo a nessuno. Questo è… è… un compromesso, giusto? Ti prego, per favore.»
Dire no a Tamago è difficile, soprattutto se lo supplica in quel modo.
«Ma io non posso» sussurra. La bambina gli va dietro, piagnucolante e imbronciata, con il freddo attaccato addosso a causa della caduta in acqua di poco prima. Genos se ne sta vicino l’orto e guarda storto Tamago nel vederla arrivare così conciata.
«Ma che è successo?»
«Sono… sono scivolata» geme la bambina, strofinandosi un occhi e guardando Metal Bat come se fosse diventato il suo più grande nemico. Lui non la vede, ma non è necessario per percepire la sua rabbia.
«Perché piange?» domanda Saitama.
«Che cos’è successo?» chiede Genos, vagamente più minaccioso. Guai a toccare o a far del male a Tamago in qualsiasi modo, potrebbe ammazzare qualcuno, ciò è risaputo. Del resto, da quando Tamago ha acquisito il suo potere, le parvenze di normalità sono state rare e la stessa Tamago cerca di non pensarci. Saitama fa del suo meglio, Genos anche. Ma risulta difficile.
«Non è… successo niente. Ha solo fatto un po’ di capricci per tornare a casa» sussurra. E quella non è una bugia dopotutto, no?
Tamago spalanca gli occhi. Metal Bat la sta forse coprendo? Non dirà a nessuno della sua amicizia con Garou?
«Non sei proprio abile come baby-sitter» commenta Saitama.
«Tu invece come padre sei eccellente, eh? Ma guarda te…»
Genos alza gli occhi al cielo.
«Tamago, vieni qui. Rischi di prenderti un raffreddore.»
«Arrivooo!» esclama la bambina correndogli incontro e facendosi prendere in braccio. Ad un tratto ha smesso di piangere. «Badd, GRAZIE!»
Metal Bat sa a cosa si riferisce quel grazie. Lui ha la sensazione che se ne pentirà e che da quella scelta cambierà tutto.
 
 
 
Genos non faceva altro che rimuginare sulla situazione. Oramai era passato qualche giorno e se ne doveva fare una ragione. Lui e Saitama avevano concepito una vita e su questo non c’erano dubbi oramai. Ma era ancora assurdo da credere, anche solo da immaginare. Fisicamente, poi, non era stato benissimo. Era come se, prendendo consapevolezza del suo stato, fosse tutto triplicato. Aveva sempre fame. Aveva la nausea, ma almeno non vomitava. Aveva sentito dire alla televisione che le donne incinte potevano avere sbalzi d’umore e per fortuna questo non gli era successo (non in modo abbastanza evidente, almeno). Tutto taceva, tutto era in una calma inquietante. Chissà come si sarebbe evoluta la situazione? Saitama si limitava ad osservare. Non voleva rendere la situazione ancora più difficile. Ma era difficile!
«Non pensi che prendere aria ti farebbe bene?» gli domandò.
Genos stava anche imparando a sperimentare la stanchezza. Più la spossatezza, in realtà.
«Non credo di essere dell’umore.»
«Non dirlo a me, però… dai, è strano vederti così. Non mi piace. Non costringermi a portarti in braccio, sarebbe imbarazzante.»
Genos se ne stava raggomitolato contro il futon e sollevò lo sguardo verso di lui.
«Non riesco a fare niente, mi fa impressione pensare che c’è qualcosa dentro di me.»
«Beh, magari a lui fa impressione sapere che si trova dentro una persona, che ne sai?»
Giusto, non faceva una piega in effetti. Genos sospirò.
«Possiamo tornare subito?»
«Certo che possiamo. Dai, ti aiuto io.»
Saitama si era fatto più gentile, addirittura accorto. Nemmeno lui stesso se n’era reso conto, gli veniva naturale. Alla fine riuscì a convincere Genos ad uscire. Fuori faceva  bel tempo, dopotutto la primavera era appena arrivata, quindi l’aria era impregnata del profumo dei fiori di ciliegio. Un profumo che Genos avrebbe apprezzato in genere, mentre invece adesso lo trovava fastidioso.
«Aiuto, c’è una lista infinita di cose da comprare, è finito tutto» si rese conto Saitama. «Vuoi aspettarmi fuori?»
«È… meglio. Ti sarei molto grato se mi portassi qualcosa. Puoi prendermi i pocky?»
«Sì, d’accordo. Non sparire» gli raccomandò.
Genos sospirò, andò a sedersi. Per uno come lui non abituato a sentire tutti quei disagi (non più almeno) riscoprirlo a queste condizioni era tremendo. Si sentiva malato, eppure non lo era.
«Ciao, Genos. Ci rivediamo.»
Tamago era comparsa accanto a lui. Dal nulla, sembrava.
«Eh? Compari all’improvviso, come facevi a sapere dov’ero?»
«Non lo sapevo, ma io non ho una dimora fissa, vado un po’ ovunque» Tamago incrociò le gambe. «La primavera è bella, vero? Io ho sempre desiderato nascere in primavera. E invece sono nata in inverno, a ridosso del Natale. Ci pensi?»
«Emh… sì, posso immaginare.»
Prendersela con lei era inutile, oramai aveva capito che accadeva ciò che doveva accadere. Anche se tendeva ancora ad essere diffidente.
«Non hai una bella cera» disse Tamago.
«Me ne sono reso conto da me. Ma non chiedermi cosa ho, non ci crederesti.»
«Ah, no? Tu provaci, ti assicuro che di cose assurde ne ho viste!»
Genos avrebbe preferito non dirlo a nessuno, perché dirlo a qualcuno avrebbe significato renderlo più reale, cosa che di fatto era.
«Oh…» sospirò. «Scommetto che questo non lo avevi previsto. Ci crederesti se ti dicessi che c’è un bambino dentro di me?»
Per un attimo a Genos parve che Tamago sapesse. Per un attimo (per diversi attimi da quando l’aveva conosciuta in realtà), gli era parso che Tamago non giocasse semplicemente a vedere il futuro. Lei sorrise.
«Ti credo.»
Genos allora la guardò di nuovo: lei non lo stava prendendo in giro, era del tutto sincera.
«Mi credi? E non stai qui a chiedermi il perché e il come?»
Tamago fece spallucce
«Non credo sia importante, a questo punto. È importante che quello che stai vivendo è straordinario… ed è adorabile! Ne sei contento?»
Tamago avrebbe potuto evitarsi quelle domande, ma non aveva resistito. Voleva sapere cosa pensava, se quello che le avrebbe detto avrebbe corrisposto a ciò che le aveva detto da bambina. Genos ci pensò un po’ su, poi scosse la testa.
«Non lo so come mi sento. Penso di non averlo ancora realizzato. In realtà non so nemmeno se voglio tenerlo, perché… è successo per errore.»
Tamago sembrò diventare tutt’ad un tratto piccola. Certo, non era proprio così il modo in cui gliel’avevano raccontato.
«Lo sai, anche io esisto per un errore. Mi piace pensare di aver reso felice la mia famiglia, però… ho dei dubbi» disse, ridendo. Ma la sua risata nascondeva una tristezza che Genos notò immediatamente.
«Sono spiacente. Non intendevo ferirti.»
«Figurati. Avere un figlio è una grande responsabilità. E di sicuro tu non ti aspettavi di finirci in mezzo in questo modo. Però sono sicura che tu Saitama ve la cavereste.»
«Anche questo lo hai letto nelle tue carte?» domandò Genos un po’ scettico.
Ma Tamago sorrise, si avvicinò al suo viso con le mani dietro la schiena, scuotendo la testa.
«No. In realtà non so come faccio a saperlo, ma guardandoti in faccia riesco a capirlo. Tuo figlio sarebbe fortunato ad avere te.»
A Genos quasi fece impressione sentir dire tuo figlio sarebbe fortunato ad avere te.
Ma, per quanto cercasse di negarlo, la realtà non era forse quella?
Saitama invece non si era proprio reso conto dei due che stavano parlando là fuori. Dopo aver comprato ciò che serviva, prima di andare alla cassa, si soffermò sul reparto libri, reparto che in genere saltava a piè pari. Di solito lì vendevano solo libri di giardinaggio, cucina, libri per bambini e sui bambini. Tutte cose che in genere non gli interessavano, ma ora il suo sguardo quasi in modo automatico era finito sulla parte di libri che parlava dei bambini, dei neonati e della cura di quest’ultimi, oltre anche a qualcuno che parlava di gravidanza, eccetera.
Lui di bambini non sapeva niente, soprattutto non sapeva niente di piccole creature appena nate e bisognose di praticamente tutto. Forse una lettura non gli avrebbe fatto male. Ma non avrebbe detto niente a Genos, visto che non c’era niente di sicuro. Così comprò ben due libri (non avrebbe badato a spese, almeno per quella volta). Dopodiché uscì e solo allora si accorse di quei due che conversavano.
«Ma tu guarda, Maga Tamago» disse Saitama. «Genos ti ha fatto piangere di nuovo?»
«Non ho fatto piangere nessuno» disse lui, in imbarazzo.
«Affatto. Parlavamo solo del… lieto evento» Tamago era sorridente. Saitama guardò lei e poi guardò lui.
«Ah, lei sa? Sei la prima, lo abbiamo scoperto da poco. Tu sapevi che sarebbe successo, non è vero? Ce l’hai proprio detto il giorno dell’equinozio di primavera, farai una scoperta che cambierà le cose.»
Era vero. Tamago sapeva tutto, pensò Genos. Ecco perché gli aveva creduto. Il sorriso della ragazza si spense.
«Lo sapevo, sì.»
«Ma chi sei tu? Si può sapere?» domandò Genos, duramente. «Ti comporti come se ci conoscessi molto bene, praticamente sai tutto ciò che ci succederà. Se non puoi dirmi quello che voglio sapere, allora faresti bene a non dirmi niente affatto. Chi sei? Da dove vieni?»
Genos era di nuovo partito in quarta. Certo, però, non aveva torto. Anche lui avrebbe voluto sapere lei chi era e da dove veniva. Lui sentiva di conoscerla molto bene, allo stesso tempo però non la conosceva. Tamago si fece seria e fece un passo indietro, stringendo i pugni. Dire o non dire tutto? Era molto più difficile di quanto sembrava e non solo per il fatto di essere creduta o meno. Era schiacciata dal senso di colpa.
«Te l’ho detto, io mi chiamo Tamago. Maga Tamago per la maggior parte delle persone. Non sono un’eroina e non faccio parte dei cattivi. Però se proprio vuoi saperlo… in effetti vi conosco. E voi conoscete me.»
Genos scosse la testa.
«Io non ti conosco, non ti avevo mai vista prima di quella volta in cui ci hai letto i tarocchi. E non puoi essere un’umana qualsiasi, tu conosci il futuro!»
«Amh, ragazzi… piano, stiamo attirando l’attenzione» bisbigliò Saitama. Che disagio e che situazione, come litigavano quei due!
«Lo sai, come te io non ho scelto di essere così. Non ho avuto scelta» disse Tamago, più arrabbiata. «Io ti ho sempre creato problemi, non è vero?»
«Ti ho detto che nemmeno ti conosco» ripeté Genos.
«Invece sì. E hai preso la decisione sbagliata. Se avessi saputo che avrei così sofferto, che avrei fatto soffrire tutti, avrei preferito non nascere mai. Quindi, già che ci sei, fai un atto di altruismo e non far nascere quel bambino, ti sarà grato.»
Genos si era sentito attaccato nel vivo? Ma come osava? E poi, non gli aveva appena detto tutto l’opposto?
«Come osi? Come osi parlarmi così? È una questione personale e tu sei una ragazzina.»
Genos sembrava davvero molto arrabbiato. Saitama ebbe paura che potesse fare qualcosa di sciocco, così lo afferrò delicatamente da dietro.
«Genos, calma. Devi perdonarlo, ma con tutto quello che sta succedendo è un po’ instabile.»
«Non sono instabile. Ma hai sentito quello che mi ha detto? Da quando ti ho incontrato, tutto è andato male.»
«Genos! Ora smettila!» esclamò Saitama, questa volta con un tono più severo. Come tutto era andato male? E loro allora, erano un male? Era grazie a Tamago se si erano trovati, questo doveva contare qualcosa. Tamago aveva gli occhi lucidi, ma non avrebbe pianto, era fin troppo furiosa per farlo.
«Tu non sai niente, quindi non parlare» gli disse. Genos fece una smorfia, ma non rispose. In effetti non sapeva niente, e aveva la sensazione che invece avrebbe dovuto sapere qualcosa. Chi era quella ragazza che incontrava sempre sul suo cammino? E perché sembrava avercela con lui?
Genos però era fuoristrada. Più che con lui, Tamago ce l’aveva con sé stessa e con tutto ciò che rappresentava. Allora se ne andò. Non sparì, i due la videro chiaramente allontanarsi, con i pugni chiusi. Saitama la guardava e continuava a pensare che lei gli somigliasse, ma che somigliasse anche a Genos. Per alcuni dettagli del carattere a cui nessuno avrebbe mai pensato. Saitama si voltò a guardarlo.
«Perché litigate sempre?»
Genos ritrovò la sua calma. Era incredibile come non fosse più sé stesso. Colpa della gravidanza, di sicuro. Non andava bene.
«Non è mia intenzione litigare, lei dovrebbe imparare a tenere a freno la lingua.»
«Sì, ma tu non fai altro che dirle che da quando l’hai incontrata va tutto male. Non è molto gentile.»
«Ma perché la difendi sempre? Noi nemmeno la conosciamo.»
Saitama fece spallucce.
«Secondo me invece sì» disse, convinto.
Genos guardò dall’altro lato.
«Io comunque non ricordo.»
Se ne tornarono a casa. Non è che a Genos piacesse litigare con Tamago o farle male di proposito. Ma quando se la ritrovava accanto si sentiva strano, come se la rifiutasse. E il fatto che fosse così misteriosa non aiutava certo.
Aveva preso a mangiare, pensieroso. Pensava alle parole di Tamago.
«Secondo te sarei un bravo genitore?» domandò. A Saitama caddero di mano le bacchette e iniziò a tossire. Una domanda inaspettata, ma più che giusta.
«Amh… tu? Beh, in realtà… in realtà ti ci vedo abbastanza bene.»
«E perché?» domandò Genos, Voleva saperne di più, voleva sapere lui cosa pensava.
«Perché… non lo so, ma se provo a immaginarti mi sembra naturale. Forse perché sei forte, protettivo e sensibile.»
«Ma chi, io?» domandò stranito.
«E chi? Io? Io non sono sensibile, non ho niente di che da insegnare o trasmettere. Ma tu invece hai tanto da offrire. Ecco perché penso che saresti bravo.»
Genos arrossì a quelle parole. Adesso che gliel’aveva detto, stava iniziando a immaginarsi in quelle vesti.
«Ti schernisci troppo. Secondo me invece anche tu saresti bravo. Sei… piuttosto divertente. Rassicurante. E non ti piacciono i piagnistei, quindi lo vizieresti molto.»
«Quindi tu sei il genitore più severo e io quello che le dà tutte vinte? Sì, direi che ha senso» ammise Saitama. «Però queste cose non diciamole ad alta voce, lui potrebbe sentirci.»
Genos abbassò lo sguardo.
«Non credo abbia le orecchie, non credo nemmeno che abbia tutto il resto.»
«Fa lo stesso. Ho comprato dei libri, oggi. Perché di bambini non so niente, volevo informarmi almeno un minimo. Ho letto qualcosa, non è poi così noioso.»
Genos sentì un groppo alla gola. Era molto tenero vedere Saitama che s’interessava. Lo vedeva coraggioso. Ma altro che coraggio, Saitama era terrorizzato, solo che cercava di non pensarci e di concentrarsi su altro. Ma per lui era anche più facile, era Genos quello con un essere vivente dentro di sé.
«Capisco. Allora… tu mi sembri propenso a tenerlo.»
Lo guardò negli occhi.
«No. Sì. Cioè… non dico che mi dispiacerebbe. È che in fondo è una cosa… carina? Noi stiamo insieme, ora questo. Mi sembra che tutto stia accadendo per una ragione.»
Già, questo era evidente.
Allungò una mano, Saitama la strinse.
«In tutto questo marasma non mi sono nemmeno soffermato a pensare che io e te abbiamo creato una vita.»
«Davvero? Io invece non penso ad altro. L’idea mi avrebbe provocato un certo ribrezzo e panico, fino a qualche tempo fa. Ora provo ancora panico, ma non ribrezzo» disse Saitama. «Secondo te a chi somiglierà?»
«Io non so… forse a tutti e due?» chiese Genos, timido ma più a suo agio. «Non lo riesco a immaginare.»
Invece gli ci bastò qualche istante per immaginarlo. Una persona che somigliava un po’ a entrambi, era incredibile a dirsi, eppure era così. Genos si toccò l’addome. Per il momento non voleva pensare a come sarebbe cambiato tutto. Pensava solo che qualcuno aveva trovato appiglio e riparo dentro al suo corpo per nove mesi. Sarebbe diventato una persona e poi (ecco un’altra cosa a cui non voleva pensare) sarebbe uscita dal suo corpo. Spaventoso. Ma anche miracoloso.
«A cosa pensi?» domandò Saitama. Genos ad un tratto si sentì calmo. Non in generale, ma solo in quel momento. E respirò.
«Penso che non mi dispiacerebbe conoscere la persona che nascerà da me. Non so, penso che mi incuriosisca sapere chi che potrebbe diventare. E poi… beh. L’abbiamo fatta noi. Non può non essere una cosa buona, giusto?»
Crescere un piccolo essere umano non era certo come crescere un gatto, cane o criceto (e anche in quel caso, nessuno dei due sarebbe stato portato). Lo sapevano, eppure avevano la sensazione che non sarebbero stati poi un fallimento, ma che qualcosa di buono poteva offrire. Entrambi, a modo loro.
«Proprio così. Allora lo teniamo? Spero di sì, perché è da giorni che penso a quale nome potrebbe avere. Il problema è che non mi viene niente in mente.»
Genos sgranò gli occhi e poi sorrise. Lo abbracciò, lo strinse a sé e Saitama socchiuse gli occhi. Era una pazzia, certo. Ma considerando il mondo pazzo in cui vivevano, poteva anche considerarla normale.
 
Tamago era arrabbiata e quando succedeva non era molto diverso rispetto a quando era triste.
«Mi dice che sono una ragazzina. E va bene! Mi dice che è colpa mia se tutto va male. Beh, non ho bisogno che me lo ricordi, io lo so già. Ma non ho scelto io di nascere, non ho scelto proprio niente! Io… io… Ah, vorrei tanto chiudermi in camera mia come facevo da bambina, peccato non avere nemmeno una casa!»
Si fermò, passandosi una mano sul viso. Sarebbe stato tutto molto buffo, se solo non fosse stato tutto così tragico. Era arrivata al parco e vista l’ora non c’era nessuno, non c’erano bambini. Si sedette sull’altalena vuota.
«Non è colpa mia se abbiamo litigato. È colpa sua, il cinquanta percento dei miei geni me li ha dati lui. Che ci vuole Tamago, va lì e dirgli ciao, sono tua figlia venuta dal futuro. Perché i Jikan non potevano darmi che so, la capacità di mangiare senza ingrassare? No, invece mi è toccato questo.»
Tamago fece per calciare e cadde all’indietro. Si fece mala alla testa.
«Ah! Stupida testa d’uovo!» piagnucolò. Poi vide avanzare l’immagine di qualcuno sottosopra: Garou.
Lo stesso Garou che aveva scaricato quando si era mostrato interessato alla sua storia.
«Ne fai di casino, eh?» domandò.
Tamago si voltò, rimettendosi in piedi.
«G-Garou. Non mi hai seguita, vero?»
«Forse, ma visto che non hai paura di me, di che ti preoccupi? Allora quello che hai detto è vero? Vieni dal futuro?»
Tamago si morse la lingua. Parlava sempre troppo. Si tolse di dosso un po’ di polvere.
«Figurati, stavo solo vaneggiando. Sono solo ubriaca.»
Gli voltò le spalle, sentiva addosso tutto il peso del suo sguardo. Garou era sempre stato capace di guardare oltre. Si avvicinò e le posò una mano su una spalla.
«Io e te dobbiamo farci una bella chiacchierata.»
A volte Garou le faceva paura. Era uno di quei momenti.

Nota dell'autrice
Che dire, Genos e Tamago ad andare d'accordo non ci riescono, sono tutti e due un filino emotivi in questo momento della loro vita. Adesso cosa vorrà Garou da lei? E poi Genos decide di tenere il bambino... anzi, bambina a questo punto. Questi momenti tenerissimi tra lui e Saitama sono una delle mie cose preferite da scrivere, anche perché Saitama ha preso molto sul serio la situazione. Avrà un carattere impossibile, ma è responsabile.
A presto ^^

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Capitolo 9
*** Sogni (o ricordi dal futuro) ***


Capitolo nove: Sogni ( o ricordi dal futuro)
 
Intermezzo
Tamago
 
 
Metal Bat è stato di parola. Ha davvero mantenuto il suo segreto. Tamago non si chiede il perché, per lei è naturale che il suo migliore amico mantenga i suoi segreti. Un segreto che adesso condividono in tre. Metal Bat sa che si è messo nei guai, che non può sperare di tenere nascosta una cosa del genere a Saitama e Genos a lungo. Se a Tamago accadesse qualcosa non glielo perdonerebbero mai e lui non lo perdonerebbe a sé stesso.
Tamago non sa nulla. Sa che loro due si conoscono, ma non sa altro. Metal Bat le ha detto però lui mira a essere un cattivo, non un eroe.
E lei gli ha risposto non è possibile, lui non è una persona cattiva.
Si sentirebbe in colpa a spezzare i suoi sogni innocenti. A Tamago è già stata portata via troppo serenità.
Tamago insegue una farfalla. Alle volte le si poggiano sulle dita come per magia.
«Aspetta, aspetta! Ti prendo!» grida, con le braccia tese in avanti. Allora Metal Bat e Garou rimangono da soli. Garou lo fissa, si ricorda bene di lui, di quando era ancora in grado di vedere. Eppure quell’eroe non ha perso la sua fierezza. Anche se non può vedere, osserva tutto.
«Chiariamo subito una cosa, bastardo. Che cosa vuoi da Tamago?»
«I bambini mi adorano» risponde subito da lui.
«Tsk, non dire cazzate. Scommetto che tu sai del suo potere, non è vero?»
Le pupille di Metal Bat sembrano trasparenti, fatte d’acqua, eppure lo trafiggono.
«Ne so meno di quanto ne sappia tu. Lei non ne parla» dice Garou e poi la guarda. Quella bambina che è riuscita a far posare la farfalla sopra il suo dito.
«Io le voglio bene. Ed è anche mio compito proteggerla. È per questo che sono qui. Perché se solo tu la sfiori con un dito…»
«Non le torcerò un capello. Non mi interessa ucciderla» dice Gaoru. Il che è vero. È più interessato al suo potere che ad ucciderla.
«Ma se solo le fai del male in qualsiasi modo, sappi che ti ucciderò. Lei ha già sofferto troppo. Le è stato dato questo potere, che non sa gestire. È già un bel peso per una bambina così piccola.»
Garou fa una smorfia. È davvero insopportabile il modo in cui tutti gravitano intorno a quella bambina. Il modo in cui lui anche lui ci gravita.
«Non pensavo avessi un cuore così tenero» gli dice Garou, come a prenderlo in giro.
«Avrò un cuore tenero, ma ti rompo il culo se fai qualcosa a Tamago. Mi sfugge il motivo, ma lei ti adora.»
A quel punto lei torna da loro mostrando orgogliosamente la farfalla che tiene su un dito.
«Guardateee! È tutta nera e arancione!» esclama contenta.
Tutto è bello e colorato. Almeno in quei giorni lo è. Almeno in quei giorni può starsene tranquilla.
 
Tamago sentì il muro graffiarle la schiena. Aveva sempre trovato Garou imponente e minaccioso, ma adesso ne aveva davvero paura.
«N-non possiamo parlarne in maniera più tranquilla?» domandò Tamago. Garou non l’avrebbe uccisa. Non poteva farlo! Però qualche dubbio iniziava ad averlo.
«Vieni davvero dal futuro, non è vero? Ho capito subito che c’era qualcosa che non andava in te.»
Le strinse il braccio e Tamago sibilò. A che serviva nasconderlo oramai?
«Sì, è vero. Vengo dal futuro. Ora però vuoi lasciarmi? Mi fai male!»
Lui allentò un po’ la presa e lei si massaggiò il punto offeso. E adesso che lo sapeva cosa sarebbe cambiato?
«Fammi vedere.»
Tamago abbassò le braccia, era un po’ in soggezione.
«Non si può.»
«Come funziona, allora?»
Si fece piccola piccola.
 
Dammi il tuo potere.
Ma io non so come fare.
Allora fammelo usare. Una marmocchia come te non se ne fa nulla.
Garou, smettila di dire così. Mi fai star male. Cattivo, sei cattivo.
La testa iniziava a girare.
Non agitarti o perderei ancora di più il controllo.
«Non c’è un modo, non lo controllo. Con il tempo non si scherza.»
«Quante chiacchiere inutili. Mostramelo!»
Tamago si sentì debole. Si sentì divenire leggera e trasparente come aria. Ma la stretta di Garou non si era allentata nemmeno un attimo.
 
 
E così la decisione era stata presa. Non si tronava indietro, oramai era andata. Tra qualche mese sarebbero stati in tre e c’era molto, moltissimo a cui pensare. Saitama si era gettato a capofitto nella lettura, aveva bisogno di assimilare più informazioni possibili. Non solo, aveva anche fatto qualche ricerca. Cosa ci voleva per accudire un neonato?
Una culla, un passeggino, pannolini, latte in polvere, disgustosi omogeneizzati. Forse servivano anche uno di quei cosi che ti mettevi accanto e ti permettevano di sentire quando il bambino piangeva? Ma non avrebbe dormito con loro, almeno all’inizio?
Sempre se avessero dormito. E se fosse stato uno di quei neonati terribili che non dormiva, ma piangeva tutto il tempo? Saitama non era certo che sarebbe riuscito a sopportarlo. Ma non doveva concentrarsi su questo, adesso. Piuttosto, non era sicuro che il suo appartamento fosse abbastanza grande per tutti e tre. Un neonato non occupava troppo spazio, ma prima o poi sarebbe cresciuto. Senza contare che un bambino poteva attentare alla sua vita in molti modi: battendo la testa, inciampando, ingerendo qualcosa di velenoso, strozzandosi e via dicendo.
Era peggio che andare a combattere un mostro temibile, altroché!
E poi aveva fatto qualche calcolo.
«Quanto mi verrà a costare tutto ciò? No, meglio se non ci penso. Ho sempre odiato spendere troppi soldi. Ma lo devo fare, se abbiamo deciso di farlo nascere, dovrà pur avere una bella vita. E poi… devo smetterla di parlare come se ci fosse qualcuno ad ascoltarmi.»
Saitama in effetti aveva iniziato spesso a fare dei monologhi ad alta voce.  Quella situazione stava avendo effetti bizzarri su entrambi. Genos però era quello su cui stavano avvenendo più cambiamenti. Non ancora visibili, certo. Ma emotivamente si sentiva come se fosse sulle montagne russe. E aveva una fame atroce. Lui, che per tanto tempo era stato abituato a non avvertire la fame. Lui, che meno di chiunque altro si sarebbe aspettato di vivere quello. E invece eccolo lì.
«Saitama, stai bene? Mi fai preoccupare» gli disse Genos, un po’ sofferente. Saitama non era uno solito a perdere la testa o a farsi prendere dal panico. Piuttosto, affrontava il panico in modo diverso. In quel caso, lo affrontava divenendo iperattivo nei pensieri e nei gesti.
«Eh? Sì, sto bene, facevo solo una lista di tutto quello che serve ad un neonato. Ecco perché certa gente ci pensa molto prima di fare figli. Sono costosi e poi sono un impegno a vita. Senza contare il fatto che sono soggetti a molti pericoli. Per esempio, potrebbe cadermi mentre lo tengo in braccio. Forse dovrei fare pratica con un bambolotto.»
Genos lo fissò, serio, ma in realtà avrebbe riso volentieri. Saitama era così tenero. Così perfetto in quel ruolo e nemmeno se ne rendeva conto. Genos non sapeva ancora se invece si sentisse adatto, se in effetti lo sarebbe stato. Non gli sembrava nemmeno reale. E poi era assurdo come due eroi come loro, che avevano affrontato qualsiasi cosa, fossero terrorizzati all’idea di prendersi cura di un neonato. Ma non era solo questo. Un figlio era davvero un impegno a vita. Un essere vivente a cui dare tutto ciò di cui aveva bisogno, insegnargli a stare al mondo, esserne responsabile.
Sì, forse anche degli eroi come loro potevano permettersi di avere paura.
«Nemmeno io sono molto pratico con i bambini. Ma sono sicuro che tu gli piacerai. La tua faccia ai neonati deve piacere.»
«Cos’ha la mia faccia di così particolare?» domandò, indicandosi.
Poi, mentre conversavano, udirono qualcuno oltre il muro, battere alla porta e chiamarli. Nel marasma erano spariti da un po’ e in quanto loro eroi (soprattutto in quanto Genos eroe di classe S), non era ottimale.
«C’è qualcuno lì dentro? Sono io, sono Fubuki!» esclamò la donna.
Genos guardò Saitama.
«Io non mi faccio vedere. Temo che mi si legga in faccia che c’è qualcosa di diverso in me.»
«Aspetta, non avrai intenzione di nasconderlo a tutti? Penso che ad un certo punto sarà evidente e poi non puoi nasconderti in casa. Tu sei un eroe.»
«Sì, ma questo eroe adesso non può combattere contro niente, ti pare? Avanti, vai tu.»
Genos lo spinse e Saitama si lamentò. Ma perché toccava sempre a lui? Ah, giusto, perché lo aveva ingravidato e perché oramai ne era innamorato. Ma questo, pensandoci, gliel’aveva detto? Era andato da lui a dirgli Genos, ti amo?
No, altro da aggiungere alla lista delle cose da fare.
Aprì la porta, annoiato.
«Ehi. Che cosa vuoi?»
«Come che cosa voglio? Che fine avete fatto? Che fine ha fatto Genos, soprattutto? Sono giorni che non si fa più vedere, né sentire. Sta bene?»
Fubuki fece per entrare, ma Saitama glielo impedì.
«Ecco, vedi… il fatto è che Genos è indisposto al momento. È davvero dispiaciuto, ma per circa nove mesi non potrà fare l’eroe.»
Era difficile nascondere un evento di tale portata e poi Saitama odiava dire le bugie, era troppo difficile.
«Perché nove mesi? Almeno posso parlare con lui? Non può semplicemente ritirarsi così, dal nulla. Cosa diranno all’Associazione eroi?»
«Non lo so cosa diranno, però ecco cosa ti dico io: dubito che per i prossimi nove mesi Genos sarà in grado di combattere. E inoltre, penso che per i prossimi vent’anni – come minimo – io e lui avremo anche altre priorità. Che vuoi farci, così è la vita. Ora se non ti dispiace, puoi andartene? Stavo leggendo una rivista interessante. Ci vediamo.»
«Ma-»
«Ho detto CI VEDIAMO!»
Saitama chiuse la porta e poté sentire Fubuki insultarlo.
Oh, merda, pensò. Prima o poi si sarebbe saputo, difficile che una cosa del genere passasse inosservata.
«Se n’è andata?» domandò Genos.
«Se n’è andata. Ma non credo che possiamo nasconderlo a lungo. E poi non c’è motivo. Cosa diranno quando ci vedranno con un bambino? Gli diremo che lo abbiamo rapito? E poi mi è venuto mal di testa, dove ho messo quelle dannate aspirine?»
Genos cercò nel cassetto e trovò un flaconcino. Si avvicinò a lui e gli si inginocchiò accanto.
«Ecco. Sei diventato loquace da quando è successa questa cosa. È quasi come se non fossi te stesso.»
Saitama si versò dell’acqua e poi ci fece cadere dentro l’aspirina.
«Meglio così, perché me stesso ora è terrorizzato. Se mi fermo solo un attimo, inizio a pensare e io non voglio pensare. Certo, è dura, ma almeno non sono io che dovrò affrontare tutto il dolore e… il parto. Il solo pensarci mi repelle.»
Genos lo aveva guardato in un modo che fece rabbrividire Saitama. Non si era mai soffermato sul fatto che alle volte facesse davvero paura.
«Emh, scusa. Non devo pensare a me. Ma a te. A voi» disse, bevendo.
Genos si avvicinò cauto. Erano orribili quegli sbalzi d’umore. Alle volte si sentiva furioso con il mondo intero. Alle volte sentiva di voler piangere. A volte aveva voglia di sesso nei momenti meno consoni e a volte voleva solo amore come in quel caso.
Poggiò la testa sulla sua spalla e solo allora Saitama si rilassò.
«Ma noi stiamo bene. Non preoccuparti. Se vuoi piangere, puoi farlo.»
«Va bene, ma non lo farò. Uno dei due in lacrime basta e avanza. Sarò un eroe, ma sono anche un essere umano» ammise, socchiudendo gli occhi.
«Io non sono nemmeno quello, fai un po’ tu. Puoi stringermi?»
Saitama non se lo fece ripetere due volte. Lo strinse a sé. Poi cercò giocosamente le sue labbra e lo baciò. Non bastarono né uno, né due, né quattro o dieci baci a frenarli. Volevano di più. Volevano sempre di più.
 
Quando Tamago si spostava e arrivava, era come se si aprisse uno squarcio nell’aria. Velocissimo, giusto un battito di ciglia. Ma quella volta non era sola: Gaoru era saldamente attaccata al suo braccio e la prima cosa che fece fu scostarsi.
Non era mai successa una cosa del genere. Il suo potere generalmente non influiva sugli altri, ma Garou era con lei in quel momento. Niente però lo aveva preparato alla sensazione sgradevole che stava provando. La nausea era forte ed era come se tutto intorno a lui girasse. Inoltre era arrivato anche un grande senso di debolezza. Barcollò e poi si accovacciò.
Merda, pensò. Cos’era tutto ciò?
«Non è una bella sensazione, vero? Non ci si abitua mai» Tamago era altrettanto scossa, un po’ pallida in viso. «Com’è possibile che tu sia qui con me?»
Garou imprecò e poi si rialzò, guardandola. Che ragazza maledetta, aveva capito sin da subito che c’era qualcosa che non andava. Tra l’altro aveva l’impressione di conoscerla davvero molto bene.
«Dove siamo?»
Tamago si guardò intorno
«Forse intendi quando siamo. Credo… nel futuro. Cioè… nel futuro per te, di dieci anni, mi pare. Per me è il passato. Ma non badarci, è più facile pensarlo che spiegarlo» dopodiché si guardò il polso. «Tu eri aggrappato a me e sei finito qui. Come…»
Si ritrovò davanti Garou, che la fissava.
«Hai un potere interessante, tu. Mi sarebbe utile.»
Sempre la stessa storia. Dopotutto a Tamago era già successo. Indietreggiò. Garou non le avrebbe fatto del male. O almeno sperava.
«Credimi, non c’è niente di bello in questo potere. Non lo controllo. So che l’idea di spostarsi nel tempo può fare gola a molti, ma è terribile. Ed è anche pericoloso!»
Intorno a loro non c’era nessuno. Non era la prima volta che Tamago capitava lì, vicino la casa in cui aveva vissuto. Era come se tentasse sempre di ritornare lì dove era stata felice.
Per Garou sarebbe stato facile: poteva costringerla in qualche modo a condividere il suo potere con lui. Minacciarla, farle male, sfidarla. Ma non era questo ciò che gli venne più naturale fare. Assottigliò lo sguardo e, dopo averle lanciato un’altra minacciosa occhiata, si sedette.
«Ho come l’impressione di conoscerti. E se davvero vieni dal futuro, forse ti ho conosciuto. Ti conoscerò. Allora, spiegami come funziona. Come fai a viaggiare nel tempo?»
Tamago sospirò, un po’ più tranquilla. Al diavolo tutto, a lui poteva dirlo. Non aveva scuse o modo di mentire.
«Non direi che si tratta di viaggio nel tempo in senso stretto. D’accordo. Ora immagina il tempo come una linea dritta. C’è il passato, il presente e il futuro. Si può andare solo avanti, no? Bene, è così per tutti. Ma non per me.»
«Continua» disse Garou, interessato.
«Per me il tempo… è come un cerchio. Per me non c’è il prima, l’adesso e il dopo. Mi muovo su questo cerchio a caso, percependo e spostandomi sul tempo così come arriva. Ho avuto questo potere grazie ai Jikan. Ma non ho mai imparato a gestirli. Sono quindici anni che vago su per questo cerchio. Quindici anni di sofferenza.»
Garou fece una smorfia, non tanto perché Tamago gli desse fastidio con le sue lacrime (non solo almeno), ma perché più parlava, più sentiva di conoscerla. E non era certo che gli piacesse.
«Ehi, no. Adesso non metterti a piagnucolare. Allora? Non è poi così terribile. Avanti, unisciti a me. Sai quante cose potremmo fare? Con la mia ambizione e la tua capacità, potremmo essere alla pari di un dio. È un dono.»
Tamago scosse la testa. Quelle parole non gli suonavano nuove.
«Sono stata separata dalla mia famiglia quindici anni fa. Quando ero bambina, una volta sono scomparsa e non sono più riuscita a tornare nel mio tempo. Ma nel frattempo sono cresciuta. Ho visto tante cose, anche se non sono mai andata troppo indietro o avanti. In realtà io cercavo il modo di riunirmi alla mia famiglia. E ci sono riuscita, nel tuo tempo» lo guardò negli occhi. «Il mio obiettivo sarebbe cambiare il futuro. Non dovrei farlo, perché intromettersi è pericoloso. Ma che altra scelta ho? La mia famiglia deve sapere, così potranno impedirmi di avvicinarmi ai Jikan, e poi…»
«Aaah. Maledizione. Ma perché ti ho chiesto? Senti, non mi interessano i tuoi problemi personali. E non posso nemmeno farti fuori, a me interessa il tuo potere. Non puoi cambiare il futuro, non capisci la portata di quello che hai!»
Tamago sgranò gli occhi. L’ultima volta che si erano visti, lei era solo una bambina. Adesso era adulta. Adesso sapeva spiegarsi.
«Ti devo raccontare una storia.»
«Bah, non mi interessa.»
«Riguarda anche te. Io e te ci siamo conosciuti nel futuro.»
Garou la guardò.
«Ebbene?»
Tamago, intestardita, prese il suo viso tra le mani.
«Ebbene, ora mi ascolti, Garou! È importante!»
Maledetta ragazzina. Si appiccicavano tutti a lui, senza lasciarlo in pace.
«Spero per te che non sia una storia noiosa.»
 
Genos stava tenendo in braccio una bambina. Era una cosetta carina e paffutella, a cui si sentiva molto legato. La bambina non stava ferma un attimo, voleva saltellare e ridere e si lamentava e piagnucolava.
«Dalla a me! La faccio camminare!» esclamò Saitama.
«Ma ha sei mesi. Non è un po’ presto?»
«Sì, ma a lei piace, guarda che energia. E poi, andiamo, lo sai che lei preferisce me, perché sono il più simpatico»
Genos si sentì offeso nell’animo.
«Questa è una bugia. È chiaro che il preferito sono io. Io l’ho fatta nascere.»
«Ma io ho aiutato!»
La bambina si lamentò per attirare le loro attenzioni, agitando i pugnetti.  Genos sospirò e le baciò la testa, sentendo il suo profumo.
«E va bene. Però non usarla per fare sollevamento pesi, pensa se ti cadesse.»
«Non la farò cadere, sto attento. E poi a lei piace!» disse Saitama prendendo la bambina, che aveva preso a sorridere contenta, sembrava entusiasta e concitata. Alle volte era come se li capisse.
«La vizi troppo» disse Genos.
«Anche tu la vizi troppo! È la mia unica figlia, per cui… pazienza! Adesso la porto a fare un giro, ciao ciao!»
Genos sorrise e poi scosse la testa.
«Sei sicuro che non vuoi che venga?»
«Ma no, posso sia badare a lei che combattere contro mostri brutti e cattivi.»
«Va bene, ma non fare come l’ultima volta, l’hai lasciata da sola nel passeggino per un’ora!»
Saitama però se n’era già andato. Ah beh. La bambina sarebbe stata bene.
 
 
Genos aprì gli occhi. Da quando aveva scoperto del suo stato interessante, gli capitava di fare quei sogni. C’era sempre la stessa bambina, però non conosceva il nome. Si era fatta mattina, ma doveva essere ancora presto.
«Genooos. Ti ho sentito sussultare nel sonno» disse Saitama, lamentoso. «Hai avuto un incubo?»
«Ah, scusa… no, in realtà era un bel sogno. Penso che avremo una bambina.»
«Come fai a saperlo?» domandò Saitama, più attento.
«Perché la sogno sempre. Anche adesso. Nel sogno, discutevamo per chi fosse il suo preferito.»
Saitama si fece serio.
«Ero io, vero?»
Genos sorrise e poggiò la fronte sulla sua.
«Era un sogno molto dolce. Non mi dispiacerebbe se fosse così.»
«E perché non dovrebbe? Il futuro è ancora tutto da scrivere.»
Futuro. Che bella parola. Era bella perché portava con sé infinite possibilità.
Sia belle, che brutte.

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Capitolo 10
*** Antefatto, parte prima ***


Capitolo dieci
 
Tamago
Antefatto – Parte Prima
 
Trasferirsi in quella valle era stata la decisione migliore che potessero prendere. In realtà, l’idea era stata di Saitama (cosa ancora più stupefacente), ma Genos era subito stato d’accordo. Abbastanza lontani dal caos della città per poter vivere nella tranquillità, ma abbastanza vicini da poter intervenire nel momento del bisogno. Entrambi avevano preso in considerazione più di una volta l’idea di andare in pensione, ma Tamago li ammirava troppo e allora non volevano darle una cocente delusione. Genos scostò le tende e aprì le finestre. E sentì l’odore dell’aria fresca e incontaminata. Poi udì un rumore provenire dal giardino: doveva essere Saitama che si dedicava al suo orto. Ebbene sì, perfino l’indolente Saitama era cresciuto. E alle sue zucchine e pomodori ci teneva parecchio.
«Buongiorno! Da quanto sei sveglio? Alle volte mi preoccupi» gli disse Genos dalla finestra.
«Ehi, guarda che le verdure hanno bisogno di un sacco di cure!» esclamò Saitama, in ginocchio sulla terra e prendendo in mano un pomodoro. «Ad esempio, guarda qui. È gigante e ha un odore pazzesco. E l’ho fatto io.»
Genos stava per dirgli io ho fatto un essere umano, ma rimango umile; tuttavia, il pensiero andò proprio a Tamago.
«Per caso Tamago è lì in giro?»
«Eh?» Saitama si guardò intorno. Tamago era sempre la prima a svegliarsi. Era curiosa, diceva sempre che c’era tanto da scoprire.
Uscì dal pollaio, tenendo in mano un cestino.
«Ho preso le uovaaa!» gridò. E si dimenticò a chiudere la porta e le galline uscirono fuori.
«Tamago!» esclamò Genos. «Le galline!»
«Sono state brave, vero? Papà guarda, quest’uovo ti assomiglia!» gridò la bambina prendendo un uovo in mano. Saitama s’indispettì.
«Da che pulpito. Non prenderti gioco di me solo perché tu hai i capelli e io no.»
Tamago lo guardò per qualche istante.
«Tu sei pelato.»
«E tu sei un tappo. Come la mettiamo adesso?»
Di sicuro non ci annoiava mai con quei due sempre pronti a battibeccarsi affettuosamente. Erano così carini. Genos scese, raggiungendo il giardino.
«Tamago, devi andare a scuola.»
Sua figlia alzò gli occhi al cielo. La scuola non le dispiaceva troppo, in fondo alla valle c’era appunto la scuola che frequentava assieme ad una cinquantina di bambini in tutto. Ma anche nei posti più piccoli e nei cerchi più ristretti poteva nascere qualche antipatia.
«Ma io non ci voglio andare. Mi prendono tutti in giro perché leggo i tarocchi, mi dicono che sono strana.»
Tamago, anche se piccola d’età, sapeva di essere diversa già per la sua stessa esistenza. E questo non le dispiaceva, ma che la prendessero in giro…
«Tu non sei strana» le disse Genos accarezzandole la testa.
«Hai ragione, tu non sei strana. Hai solo un mezzo cyborg e un tizio che dà pugni incredibili come genitori, ma per il resto sei come tutti gli altri» disse Saitama con la sua solita schiettezza.
«Intendevo dire che ognuno ha i suoi hobby, veramente» ammise Genos. Tamago si convinse, anche se solo in parte.
«Io, comunque, oggi non ci voglio andare. Dai, oggi vengono tutti gli altri eroi a trovarvi. E poi vado solo all’asilo, la scuola mica è importante.»
«E questo chi te l’ha detto?»
Tamago sorrise, indicando Saitama.
«Papà.»
Saitama si guardò intorno.
«Io vado a curare un altro po’ il mio orto.»
«Ma Saitama!» esclamò Genos. «Ah. E va bene, tanto non succederà nulla se salti un giorno. Portiamo quelle uova dentro, prima che ti cadano.»
E così, la vita procedeva in modo splendido. Lento, tranquillo, normale anche con la sua anormalità. Genos e Saitama si amavano e poi Tamago rendeva le loro giornate colorate. Erano certi (e in realtà non si erano mai posti il problema) che niente avrebbe mai rovinato quella loro felicità.
«Giochiamo a nascondino?» domandò Tamago concitata.
«Dopo. Stanno per arrivare ospiti» disse Saitama.
«Allora lo prendiamo un cane?» Tamago gli si buttava addosso e lo abbracciava, nella speranza di convincerlo a fare tutto quello che voleva (spesso ci riusciva).
«Abbiamo già dodici galline, un gallo e due mucche. E non ci scordiamo di te»
Saitama le scompigliò i capelli e Tamago finse di offendersi. Poi arrivarono i primi ospiti: King, Metal Bat e Zenko.
«Ciaoooo!» esclamò la bambina correndo loro incontro. «Che bello vedervi! Badd, prendimi sulle spalle! Zenko, giochiamo! King, me lo presti il tuo videogioco nuovo? Daiii!»
Genos avvertì King di non lasciarsi convincere (anche perché dubitava che i suoi videogiochi fossero adatti a un’infante). Metal Bat invece se la caricò in spalla.
«Okay, piccoletta. Ma non ti dimenare come un pesce o ti lascerò cadere.»
«Ehi, non è giusto, lasciala anche a me!» esclamò Zenko, oramai adolescente, indispettita.
Poi le diede un regalo. Tamago era molto, molto amata e ogni scusa era buona per viziarla. Si trattava di un libro, stava imparando a leggere. Un libro molto particolare, con delle parole speciali e intraducibili in ogni altra lingua.
«Wabi… wabi… wabi-sabi! Mi piace questa parola come suona, è divertente. Pa’, mi leggi cosa vuol dire? Da sola non ci riesco!»
Saitama si avvicinò a lesse.
«Allora… accettazione dell’imperfezione e della transitorietà della vita.»
A Tamago brillarono gli occhi.
«Oh. E che cosa significa?»
«Amh... te lo spiegherò quando sarai più grande» le disse lui. Non avrebbe saputo come spiegarlo nemmeno ad una persona adulta. Ad ogni modo, la tavola era imbandita, ma gli ospiti tardavano ad arrivare. Tamago s’infilava sotto il tavolo e poi usciva, irrequieta.
«Zietta Fubuki e zietta Tatsumaki sono in ritardo. Bang anche! Ma dove sono tutti?»
«In effetti non è da loro tardare» ammise Genos. «Non è che c’è stata una qualche emergenza.»
«Spero di no, perché io ho fame. Posso mangiare prima che arrivino gli altri?» domandò Saitama speranzoso. Capirono che effettivamente c’era qualche emergenza quando Metal Bat ricevette una chiamata.
«A quanto pare siamo richiesti alla sede dell’Associazione eroi.»
«Aaah, che palle! Cioè, volevo dire… che scocciatura!» borbottò Saitama. «Che c’è che non va?»
«È per i Jikan, a quanto pare.»
E nell’udire quel nome, si fece serio. Genos divenne più serio di lui. Tutto era tranquillo da cinque anni a quella parte, ma non potevano dimenticare che se erano arrivati a quel punto, il merito era anche di quelle creature, tanto odiate da molti. Quindi dovevano andare. Erano entrambi d’accordo che portarsi Tamago dietro non sarebbe stata una grande idea, forse sarebbe stato meglio lasciarla a casa con qualcuno. Ma la bambina aveva subito dichiarato, nel sentirli, vengo anche io.
Tamago diceva sempre da grande diventerò un’eroina, sembra divertente.
Come tutti i bambini, sognava e vedeva solo il lato magico delle cose. Si divertiva a predire il futuro agli altri per gioco. Per sé stessa aveva previsto o un futuro da eroina, oppure uno in cui diventava una famosa maga, una maga vera però.
L’ingrato compito di sorvegliare Tamago fu affidato a Zenko e a Emperor Child, oramai adolescenti, che in un modo nell’altro si ritrovavano spesso a sorvegliare quella bambina.
«Ma io voglio giocare» disse Tamago all’improvviso. «Allora io faccio l’eroina e voi cattivi. Tu, Emperor Child, sarai un mostro terribile con tre occhi.»
Lui sospirò.
«Grazie, Tamago. Sai sempre come farmi sentire a mio agio.»
«Oh, non c’è bisogno di piagnucolare!» esclamò Zenko. In realtà tutti lì avevano accettato la loro situazione post incontro con i Jikan. Silver Fang, che aveva perso l’uso delle gambe, continuava ad avere una grande energia malgrado fosse invecchiato ancora. La perdita di una mano non aveva certo fermato Tatsumaki, mentre Metal Bat, che era quello che aveva vissuto peggio il suo cambiamento, ora era perfettamente abituato. Con i suoi sensi super sviluppati, teneva saldo il suo postto in classe S.
Questo non voleva dire però che i vari scienziati e studiosi del caso non avessero cercato una soluzione alla loro condizione.
«Sentite, non ho voglia di annoiarmi» borbottò Metal Bat. «Non voglio illudermi che io possa tornare a vedere. E comunque va bene così, oramai sono abituato all’oscurità.»
«Se i Jikan ti hanno tolto la vista, potrebbero anche ridartela» disse Fubuki pensierosa.
«Già, e magari si prenderanno qualcos’altro, che dici? Meglio di no.»
In cinque anni erano stati fatti molti studi sui Jikan (nome che era stato dato loro a posta). Nessuno era ancora arrivato a capire da quale pianeta provenissero, né cosa volessero. I due esemplari catturati erano sopravvissuti e non avevano bisogno di nutrirsi. Alcuni erano arrivati a dire che i Jikan avessero qualcosa di divino, che fossero stati mandati tra gli umani per insegnare loro qualcosa. Il che aveva senso, in parte.
«Comunque, a quanto pare i due esemplari si sono riprodotti. Ora ce n’è un terzo» disse Bang.
«Un baby Jikan?!» domandò Saitama. «Sarebbe quasi carino se solo non fosse spaventoso. Non è pericoloso? Secondo me dovrebbero farli fuori.»
Anche se i Jikan gli avevano fatto il dono di avere Tamago, non si sapeva quello che avrebbero potuto combinare più avanti. In molti avevano provato a comunicare con loro. Ma I Jikan non parlavano una lingua umana. Però erano in grado di comprenderli. Se avessero trovato il modo, avrebbero potuto chiedere loro tutto.
Ad un tratto Genos sentì Zenko imprecare.
«Ma come fai a perdere una bambina di cinque anni? Non è un mazzo di chiavi!»
«Ma io non l’ho persa!» protestò Emperor Child. «Lei si è allontanata.»
Genos divenne rigido. Alle volte Tamago era proprio brava a cacciarsi nei guai, ma perché si era lasciato convincere a portarla?
«Voi due, lo sapete che se le capita qualcosa, vi ammazzerò. Vero?»
«Ehi, non guardare me!» protestò Zenko.
«Già, e non minacciare la mia sorellina» s’intromise Metal Bat. Tatsumaki sbuffò.
«Ma insomma, piuttosto cerchiamola.»
Saitama cercò di mantenere la calma. E di farla mantenere agli altri.
«Dai, non c’è bisogno di agitarsi. Cosa potrebbe mai accadere a Tamago? Qui è al sicuro.»
 
Tamago si era già allontanata parecchio, aveva sceso molte scale di corsa. Adorava quel posto, adorava incontrare sempre eroi diversi. Era un gioco, un gioco bellissimo, ancora più bello dei videogiochi di King o dei suoi sogni ad occhi aperti. La vita da eroi era così entusiasmante, non vedeva l’ora di crescere. Non sapeva ancora che tipo di eroina sarebbe stata, ma in fondo aveva tutto il tempo per pensarci.
Forse si era allontanata troppo, si rese conto ad un certo punto.  Sapeva che non doveva allontanarsi, ma si era lasciata prendere dall’euforia. Era scesa giù per le scale e poi si era fermata: davanti a lei c’era quella che sembrava una teca gigante e dentro c’era qualcosa, a separarli una lastra di vetro. Tamago si guardò intorno, forse non doveva stare lì e di sicuro ben presto l’avrebbe trovata. Ma ciò che stava oltre il vetro la incuriosiva: sapeva che si trattava dei Jikan, degli alieni (alieni veri, non di certo finti), ed era grazie a loro se lei era potuta nascere. Però era la prima volta che li vedeva e in particolare si soffermò sul più piccolo dei tre, sembrava il figlio dei due più grandi: se ne stava sospeso a mezz’aria, i lunghi tentacoli fluttuavano come se fosse immerso nell’acqua. Tamago si fece più vicino, senza paura.
«Ciao» salutò. «Scommetto che hai la mia età, sembri piuttosto piccolo. Io ho cinque anni e mi chiamo Tamago, tu come ti chiami?»
Il Jikan rispose con un verso profondo, somigliava un po’ alle fusa dei gatti.
«Scusa, ma non ti capisco. Tu sei molto carino lo sai? Mi spiace che tu sia dietro questa teca, io purtroppo non posso liberarti, sarebbe un guaio.»
I tentacoli del piccolo di Jikan si mossero nell’aria, anche se non a caso. Era come se stesse cercando di comunicare con lei.
«Stai cercando di parlare con me?» disse strizzando gli occhi. Io sto imparando adesso a scrivere.  Non solo ancora molto brava, ma la mia parola preferita è Wabi Sabi. Però non so spiegare bene cosa vuol dire. Mi piace come suona!»
Poi alitò sul vetro e con il dito scrisse quella parola.
I lunghi filamenti del Jikan si adagiarono sul vetro, quasi a voler sfiorare la sua. E Tamago rimase così, ammaliata, catturata. Per qualche secondo non percepì nient’altro, quasi fosse scomparso tutto. Sentiva su di sé un peso che la schiacciava e poi udì un fischio fastidioso alle orecchie. Iniziò a scuotere la testa.
«Ahi… non capisco… ma cosa…?»
«TAMAGO! Vieni via immediatamente da lì!»
Genos si era mosso istintivamente nel vederla lì. L’afferrò in una presa salda e la trascinò indietro, senza darle tempo di capire.
«Ma cosa ci facevi qui da sola?» domandò Saitama guardandosi intorno. «Non dovevi allontanarti così, può essere pericoloso.»
«Ma io sto bene!» esclamò Tamago. «Stavo solo parlando con quel piccolo Jikan!»
«Tu cosa?» esclamò Genos. Poi la mise giù e iniziò a guardarla attentamente, a controllare che fosse tutto a posto. Non se lo sarebbe mai perdonato se, per una sua disattenzione, fosse successo qualcosa a Tamago.
«Papà, così mi fai il solletico!» rise la bambina, che non comprendeva la pericolosità della situazione. Per lei i Jikan erano delle creature buffe e curiose. Ed era vero che avevano apportato cambiamenti importanti nei suoi amici eroi. Ma lei li aveva conosciuti così e non le sembrava stessero male o fossero infelici.
«Beh, mi sembra davvero stare bene» disse Saitama, anche se in realtà se ne stava in guardia. I Jikan toglievano e davano qualcosa a chiunque venisse con loro a contatto, era da ingenui pensare che per Tamago sarebbe stato diverso. Genos sospirò e prese il viso della bambina tra le mani.
«Devo farti controllare. Okay, Tamago? Per favore, non ti allontanare più.»
Lei annuì, energicamente.
 
 
Alla fine, era venuto fuori che Tamago era perfettamente in salute. Il suo corpo era normale, niente in più e niente in meno. E per quanto la cosa avrebbe dovuto rassicurare sia Saitama che Genos, avevano sempre il presentimento che qualcosa dovesse accadere, anche se davanti a Tamago non ne parlavano.
Le cose cambiarono durante la sera del festival estivo. Tamago adorava quegli eventi, vestirsi a tema e mangiare dolci.
«A cavalluccio, a cavalluccio!» esclamò tirando Saitama per un braccio. Aveva camminato a lungo tra le varie bancarelle, aveva mangiato tanto zucchero filato e adesso era stanca.
«Sei così pigra» sospirò Saitama. «Ma va bene. Non iniziare a dimenarti, però.»
«Io sono brava. Ma dov’è papà Genos? Io voglio i miei mochi!»
Genos era arrivato proprio in quel momento.
«Ti verrà il mal di pancia con tutti questi dolci.»
«Ne mangio solo uno!» esclamò lei, dimenandosi. «E dobbiamo sbrigarci, tra poco ci sono i fuochi d’artificio.»
«Ehi! Tamago, ferma, così finirai col cadere!» l’avvertì Saitama, invano.
Tamago aveva voluto scegliere il punto perfetto per osservare i fuochi d’artificio, ed era tutta contenta ed entusiasta. Genos le raccomandò di stare seduta tra loro e di non allontanarsi, perché era buio e poteva essere pericoloso. La piccola si sedete, i capelli scuri acconciati in uno chignon e un altro mochi in mano.
«Quando cominciano?» bisbigliò Tamago.
«Tra poco. Sicura che non hai paura dei rumori forti? L’anno scorso eri così spaventata.»
«Perché prima ero piccola, ora ho cinque anni e sono grande!» disse con l’aria di chi la sapeva lunga. Poi si udì un boato e Tamago istintivamente si strinse a tutti e due. Fu solo un attimo lo smarrimento, poi si perse ad ammirare i fuochi d’artificio e sorrise, contenta.
E accadde tutto in una frazione di secondo. La manina di Tamago, che fin ad un attimo prima era stata stretta a quella di Genos, era sparita. Era sparita lei, del tutto.
«Ma cosa…? Tamago?» si allarmò, guardandosi intorno. «Ma dov’è finita?»
Malgrado il frastuono dei fuochi d’artificio, Saitama riuscì a udirlo. Tamago non c’era, ma non era lì accanto a lui fino ad un attimo prima?
 «Dov’è andata?»
«Non lo so, cerchiamola.»
Genos aveva imparato, con la nascita di Tamago, un nuovo tipo di apprensione soffocante. Saitama cercava sempre di essere meno tragico, ma inevitabilmente quell’apprensione aveva contagiato anche lui. La cercarono a lungo, provando anche a tenere lontano il panico.  Loro erano eroi. Ma era diverso quando si era coinvolti in questo modo così personale.
«Sto iniziando a spaventarmi. E se qualcuno l’ha rapita? E se si è persa? E… no, non voglio pensare ad altro, è meglio.»
«Su, tranquillo. Lo sai che Tamago tende a fare sempre come vuole, sarà qui intorno»
Saitama si sbagliava, non immaginava nemmeno quanto. Si avvicinò a Genos e lo abbracciò, dandogli qualche colpetto sulla schiena come per consolarlo. Genos avrebbe voluto dirgli di non consolarlo, non era lui quello finito chissà dove.
E in realtà il problema di Tamago non era nemmeno dove fosse finita, ma quando.
La bambina ricomparve a qualche metro da loro, l’espressione stravolta.
«Tamago, eccoti! Mi hai fatto morire di paura» Genos le corse incontro, s’inginocchiò davanti a lei. «Mi avevi promesso che non saresti più scappata.»
Forse lui non ci aveva ancora fatto caso, ma Saitama aveva percepito qualcosa.
«Tamago?» la chiamò. «Che succede?»
La bambina gonfiò le guance. Sembrava star compiendo uno sforzo enorme. Avrebbe avuto tanto da dire e invece le uscirono solo singhiozzi e lacrime. Si strinse a Genos e lui l’abbracciò, turbato. Allora era davvero successo qualcosa di terribile!
Si disse mantieni la calma, è fondamentale.
«Povera bambina mia, cosa… che è successo?» domandò Saitama, gentile e affettuoso, ma a sua volta profondamente turbato. Tamago si strofinò gli occhi.
«Gira tutto.»
«Cosa… cos’è che gira? Ti fa male la testa?» chiese Genos.
La testa le faceva un male atroce, ma non era quello a turbarla.
«Il tempo. Gira tutto» proclamò, in un tono lugubre e un’espressione così assente che per un attimo la resero più simile ad una bambola animata che ad un’umana.
 
 
Per Garou sarebbe stato facile credere che tutto quello che Tamago gli aveva raccontato non fosse altro che una bugia. Per sua sfortuna, non ci riuscì, era convinto che lei gli stesse dicendo la verità.
«Tutta questa storia è assurda» commentò.
«Se è per questo, lo è la mia stessa esistenza. Io sono un’anomalia. Sono contronatura, capisci dove sta il mio dilemma?» domandò, indicandosi, con un’espressione triste. Garou non seppe che dire. Non sarebbe stato di certo lì a consolarla. Ora comunque iniziava a comprendere che il non avere controllo su quel potere poteva portare a scocciature varie.
«Se sei contronatura non lo so, ma sei figlia di quei due. Questo sì che è strano. Poche storie, perché non glielo dici e basta?»
«Io ci ho provato, ma non so come fare. È come se fossi bloccata. Mi sono messa in testa che sarebbe meglio uccidere i Jikan, ma ti sembro forse abbastanza forte per farlo? A meno che non voglia farlo tu.»
«Tsé, nemmeno per sogno. A me quelle creature servono.»
Garou ebbe in quel momento un’illuminazione. Se i Jikan avevano donato quel potere a Tamago, magari avrebbero fatto lo stesso con lui. Era un rischio, avrebbe potuto uscirne con qualche danno permanente o addirittura rimetterci la vita. Ma se ci fosse stato anche una sola possibilità, avrebbe voluto provare.
«Visto e considerato il tutto, penso che farò una visita a quegli esseri. E chissà che non mi diano quello che voglio.»
Tamago fece una smorfia e poi si aggrappò al suo braccio.
«Tu non puoi farlo, non è così che funziona! Il Jikan ti toglie e il Jikan ti dà, non sottovalutare il loro potere.»
«Ora mi hai proprio stancato. Hai detto che non sei un’eroina, no? Allora non cercare di salvare il mondo.»
La stretta di Tamago si fece più stretta.
«Non sto cercando di salvare il mondo, sto cercando di salvare te. Non voglio che soffra anche tu.»
«Eh… eh?!» domandò Garou. Non le aveva chiesto di preoccuparsi. Loro non erano amici. Poi accadde qualcosa che nessuno dei due aveva preventivato: Tamago stava perdendo di nuovo il controllo e questa volta il viaggio avrebbe riservato loro una grande sorpresa.
«Ehi, che cosa stai facendo? Perdi di nuovo il controllo?»
Tamago nemmeno lo udì. Non vide e non sentì nient’altro.
 
 
Io voglio tornare a casa mia.
 
 
Genos sentì quella voce e gli cadde un piatto di mano.
Il piatto si ruppe in mille pezzi e Saitama sollevò lo sguardo.
«Ma che succede?» domandò.
Genos si sentì come quel piatto: ridotto in mille pezzi. Come se non stesse facendo caso a qualcosa di fondamentale che continuava a sfuggirgli.
«Scusa. Nulla è tutto a posto.»

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Capitolo 11
*** Il vuoto ***


Capitolo undici
Il vuoto
 
La sensazione di vuoto e di aver perso qualcosa d’importante non si era attenuata. Se possibile era peggiorata e ciò a Genos causava un groppo alla gola. In realtà erano cambiate tante cose per ovvi motivi. Si stava ritrovando a vivere una gravidanza e con questa novità stava imparando a venirci a patti. Non aveva altra scelta visto che era del tutto coinvolto, emotivamente e fisicamente.  Ancora si ostinava a non voler uscire di casa o ad uscire molto poco. Demon Cyborg sembrava scomparso dalla circolazione, ma non è che avesse avuto scelta: in quelle condizioni era impossibile affrontare qualsivoglia minaccia. E poi, per quanto gli riguardava, stava già affrontando una situazione che superava di gran lunga il resto.
«Sei settimane» sussurrò Genos guardando il calendario.
Saitama sollevò la testa. Oramai si dedicava molto alla lettura, anche se quest’ultime niente avevano a che vedere con i suoi adorati manga.
«Cosa?»
«Sei settimane che… è cambiato tutto» disse Genos, guardandolo. L’estate non era ancora ufficialmente arrivata, eppure faceva un gran caldo. A poco serviva il ventilatore. Se i calcoli erano esatti, il bambino sarebbe dovuto nascere a dicembre, vicino al Natale. Un periodo allegro in cui nascere, senza dubbio. Ma Genos non ci pensava e se lo faceva era con una certa distanza. Era terrorizzato dall’idea del parto. In realtà gli causava anche un certo ribrezzo, gli faceva impressione.
Saitama si stiracchiò.
«Di già? E tu come ti senti?»
«Mi sento… poco me stesso» ammise Genos, sedendosi accanto a lui. «Adesso ricordo bene cos’è la stanchezza, la fame continua, il bisogno di sesso… dell’emotività ne farei a meno, quella mi causa più problemi che altro.»
Saitama allungò una mano con delicatezza e la passò tra i suoi capelli.
«Non ti preoccupare, a me piaci. Con l’emotività e tutto il resto. Senti, pensavo… ma secondo te il bambino da dove esce? Ti dovrai fare tipo un taglio?»
Saitama non aveva ben afferrato il concetto del non parlare del parto, anzi, sembrava incuriosito dalla cosa.
«Sto per sentirmi male» boccheggiò Genos.
«Ma come, un eroe come te è così impressionabile?» domandò Saitama, scherzoso. In realtà da ridere o scherzare c’era ben poco, ma faceva tutto ciò che era in suo potere per rendere l’atmosfera più leggera.
«È una cosa diversa, anche tu saresti impressionabile.»
Saitama ci pensò su. In effetti la cosa gli creava un terrore viscerale.
«Hai ragione» dopodiché scese ad accarezzarlo sul collo e infine scese a poggiargli una mano sull’addome, poi sul ventre. Genos rimase immobile.
«Ho letto che a sei settimane i bambini sono grandi come semi di una pera. E sono anche piuttosto brutti, degli embrioni dalla testa grossa.»
Genos fece un’espressone come a voler dire proprio tu non dovresti fare commenti sulla grandezza delle teste altrui. Saitama lo capì e s’indispettì.
«Sai tante cose, oramai stai diventando un esperto» disse Genos. Era ammirevole il suo impegno.
Vide Saitama arrossire lievemente.
«Sono… argomenti interessanti e utili. Ma tu vorresti un maschio o una femmina? E come dovremmo chiamarlo? Secondo te un giorno dovremmo spiegargli le circostanze del suo concepimento? Ah, e chiariamo, io non sono uno di quelli che parlerebbe di cose sessuali col proprio figlio. È troppo imbarazzante.»
Genos fu colto in contemporanea dal panico e dalla voglia di ridere. Saitama era già calato nel suo ruolo di futuro padre. Ma poneva domande ancora troppo difficili per lui.
«S-Saitama.»
«Hai ragione, scusa. Niente domande difficili.»
Genos si rasserenò. Questo non era quello che aveva immaginato per loro, in realtà aveva avuto intenzione di viversi, sin dall’inizio, la loro relazione giorno dopo giorno, senza pensare troppo a progetti futuri. Il destino però aveva in mente altri piani. Era felice perché aveva creduto che una situazione del genere li avrebbe allontanati e invece erano più uniti che mai, si amavano e…
Ma Saitama gli aveva mai detto chiaramente di amarlo? Ora che ci pensava, no, sapeva di piacergli, che provava un affetto speciale nei suoi confronti. Ma quelle due paroline magiche, ti amo, non gliele aveva mai sentite dire.
«Saitama, mi ami?» domandò all’improvviso. Saitama si bloccò e sorrise, nervoso. Stava imparando da poco a relazionarsi in quel modo e di certo non era mai stato bravo con le dichiarazioni. Quello che sentiva però doveva essere amore. E ne era certo perché non riusciva a immaginare la sua vita senza Genos. Perché piuttosto che avere qualcun altro che non fosse lui, avrebbe preferito stare da solo. Che tutto il terrore assumeva una sfumatura di dolcezza accanto a lui, che Genos lo stava rendendo migliore, più umano. E tutto ciò voleva proprio dirglielo, gli sarebbe piaciuto tanto.
«… Non è ovvio?» rispose invece.
«Tu non me lo hai mai detto.»
«Beh, nemmeno tu!»
«Questo non è vero. Ti ho sempre amato» disse Genos. Fin ora era sempre stato esplicito, ma mai fino a questo punto. Era una bella sensazione. Saitama arrossì e la cosa non gli piacque. Pensava ancora che i sentimenti fossero una cosa difficile.
«Sempre?»
Sempre. Era una bella parola. Aveva un bel suono. Faceva paura, ma una di quelle paure che precedevano qualcosa di lieto.
«E anche io. Cioè, non da sempre. Inizialmente nemmeno ti volevo qui intorno, né ti volevo come allievo. Ma tu sei testardo e, anche se non sembra, fai sempre come vuoi e…»
Saitama stava straparlando! Genos non si avvicinò, poggiando quasi la fronte sulla sua.
«Anche tu cosa?» domandò. Voleva sentirglielo dire.
I sentimenti erano una cosa difficile, ma amare Genos era così facile come respirare. Saitama chiuse gli occhi e trattenne il fiato.
«Anche io ti amo» gli disse. E anche per lui fu tanto bello quanto incredibile. Genos lo baciò, lo strinse a sé con una certa possessività, il suo desiderio per lui non svaniva mai. In tutti i momenti difficili, potevano nascondersi momenti felici. E viceversa.
Qualcuno arrivò alla loro porta, cercandoli a gran voce. Saitama si staccò dal bacio, scocciato.
«Oh, ma insomma! Chi è, che cosa volete?» borbottò.
«Tatsumaki, idiota. Apri» rispose la donna dall’altro lato.
Genos guardò Saitama, impanicato. Liberarsi di Tatsumaki non era facile e nessuno dei due aveva voglia di assaggiare la sua ira.
«Devo proprio?» tentò Saitama. Tatsumaki, a braccia conserte, sospirò.
«Guarda che entro lo stesso, butto giù la porta.»
Giammai! Saitama andò ad aprire, non potendo fare a meno di assumere un’espressione colpevole.
«Sì?» domandò.
Tatsumaki però lo ignorò. Entrò e puntò lo sguardo su Genos, soggetto d’interesse della sua visita. Genos distolse lo sguardo: aveva paura che, anche solo guardandolo, Tatsumaki avrebbe potuto capire.
«Allora? Che succede qui? Demon Cyborg si è dato alla macchia? Questo non lo puoi fare, un eroe del tuo calibro ha delle responsabilità» e si voltò verso Saitama, come se si fosse ricordata solo in quel momento della sua esistenza. «Che cosa hai combinato?»
Saitama si guardò attorno, ancora più colpevole. Ma perché tutti sospettavano di lui? Era così evidente?
«Io? Niente! E comunque Genos per un po’ non potrà combattere, è indisposto.»
«Come fa un cyborg ad essere indisposto? Io lo vedo tutto intero.»
Genos si disse che era arrivato il momento di smetterla con il suo mutismo. Non poteva sperare di mantenere quel segreto per mesi. E poi lui non era un codardo. Lui era Demon Cyborg. Il più umano tra tutti i cyborg (o pseudo cyborg o quel che diamine fosse).
Genos si alzò, tossì per schiarirsi la voce.
«È successa una cosa. Quei mostri hanno influito anche su di me, sul mio corpo. Mi hanno reso umano. In parte.»
Tatsumaki inarcò le sopracciglia e poi tornò seria. Genos le sembrava sempre lo stesso.
«Che cosa? E perché non ce lo hai detto?»
Saitama si grattò la testa, nervoso, e andò accanto a Genos, come a volergli dare un po’ di sostegno morale.
«Perché non è finita qui» disse guardando Saitama. «Non c’è un modo semplice per dirlo, quindi lo dico e basta: avremo un bambino.»
Calò il silenzio. Tatsumaki all’inizio sorrise, come se fosse convinta  che quello fosse uno scherzo. Quando vide le espressioni dei due, però, smise di sorridere.
«… Cosa?» domandò, gli occhi ridotti a due fessure.
«Sì, ho reagito anche io così la prima volta» sospirò Saitama. «Però è vero. Quelle creature lo hanno cambiato dentro. E io ho fatto il resto. Ecco perché non può combattere, per adesso. Sarebbe pericoloso.»
Tatsumaki non disse nulla. Stava metabolizzando le loro parole. In un mondo dove tutto era possibile, non avrebbe dovuto ritenere impossibile quella vicenda, certo. Però era strano. Li guardò. Non credette che stessero mentendo, poteva leggere loro negli occhi tutta la verità e la paura. Si sedette e accavallò le gambe.
«Se anche gente come voi fa figli, direi che il mondo sta per finire» affermò sarcastica. A Genos venne da ridere. Tra tutte le cose che avrebbe potuto dirgli, quella non se l’aspettava di certo. Saitama sorrise, in imbarazzo.
«Fa così strano pensarci in questo modo?»
«Un po’, soprattutto tu» Tatsumaki si alzò e si avvicinò a Genos. Fissò il suo addome, come se volesse trapassarlo con il solo sguardo. «È… lì, giusto?»
«Già. Non preoccuparti, qualche giorno e ti abituerai all’idea» Genos fece spallucce. «Allora… per il momento pensi che sia possibile per me congedarmi?»
Tatsumaki arrossì e si ritrovò a pensare a quanto assurda fosse la vita, a volte.
«Credo… di sì.»
«Già, e mi raccomando: non lo dirai a tutti adesso, vero?» domandò Saitama. Gli scocciava l’idea di essere sulla bocca di tutti, quelle erano vicende molto personali!
«Non lo dirò a nessuno» disse Tatsumaki. Solo a due o tre persone.
 
 
Garou iniziava a credere che aver seguito quella ragazzina fosse stata un’idea pessima. Avrebbe fatto prima ad andare da quei mostri direttamente, anche lui voleva un potere straordinario da usare. Adesso invece si trovava… nemmeno lui sapeva dove. Attorno a lui era buio, non c’era nulla. Respirava senza problemi, ma aveva come la sensazione che non ci fosse aria. Né superfici, né luce, anche se Tamago la vedeva chiaramente.
«Si può sapere dove diavolo ci hai portato?!»
Tamago non gli rispose subito, intenta a guardarsi intorno.
«È il Vuoto.»
«Tsk, che nome originale! Cosa è il Vuoto?»
Tamago finalmente si degnò di guardarlo.
«Questo. Ci sono già finita una volta. Succede quando… è come se andassi in sovraccarico. Il Vuoto è uno spazio nel tempo dove tutto è fermo. Anche noi siamo fermi.»
Suonò terribilmente inquietante a Garou, che fu percorso da un brivido.
«Portaci via da qui subito.»
«Ti ricordi che non posso controllarlo, vero? Stai tranquillo, come ho detto ci sono già finita, da bambina. Non so per quanto ci sono rimasta, perché come ho detto qui il tempo non scorre. All’inizio è stato terribile, tutto questo buio. Poi alla fine mi sono resa conto che questa calma perenne mi piaceva. Insomma, niente caos.»
Roba da matti, pensò Garou. Non voleva stare lì ad ascoltare le sue chiacchiere. Non voleva stare lì senza far niente, se non si agiva si pensava troppo. Si sedette, facendo una smorfia.
«Ti ucciderei.»
«Non lo farai.»
«Sai cosa? I tuoi genitori ti hanno educata male. Ma alla fine sei figlia di quella testa pelata, non sono sorpreso. È forte, ma l’ho sempre trovato strano.»
Tamago s’indispettì.
«Mio padre non è strano, ha solo una personalità particolare» Tamago sospirò. «Quando riuscirò a venire fuori di qui, andrò a cercarli. Dirò loro tutta la verità. Anche perché… ho bisogno di un abbraccio.»
Gli occhi le divennero lucidi e Garou sperò che non le venisse in mente di abbracciare lui.
«Non iniziare a piagnucolare. D’accordo, fa quello che devi, sono fatti tuoi. Sempre che ti credano.»
«Tu lo hai fatto» disse Tamago, ora seduta davanti a lui.
Accidenti a lei. Garou fece una smorfia.
«Senti, non mi hai ancora raccontato la seconda parte della storia. Anche perché voglio sapere io che ruolo ho giocato.»
Tamago alzò lo sguardo, sorprese. Le venne da sorridere.
«Questa parte, per te, è ancora più incredibile.»
 
Tatsumaki non lo aveva detto proprio a tutti. Giusto a qualche persona a cui poteva interessare, il che non era una roba da poco.
Saitama era teso.
Saitama aveva sempre odiato avere casa sua piena di gente e condividere i propri spazi. Faceva eccezione Genos, ma per il resto avrebbe fatto volentieri a meno del resto. E poi, che immenso fastidio il modo in cui tutti stavano attorno a Genos, gli parlavano con curiosità, affetto, accortezza.
Proprio così, Saitama stava vivendo la brutta bestia della gelosia, ma sarebbe stato in silenzio a scottarsi la lingua con il suo tè.
«Questa cosa fa davvero impressione. Beh, almeno non devo vederti» disse Metal Bat, seduto tutto scomposto.
Genos fece una smorfia.
Fubuki parlò al posto suo.
«Oltre alla vista ti hanno tolto anche l’educazione?» domandò, rivolgendo poi uno sguardo intenerito a Genos. Un bambino, che storia! E che condizione atipica ma assolutamente deliziosa… i bambini erano carini. «Quando nascerà?»
«Vicino Natale» rispose pensieroso. «A quello però sto cercando di non pensarci.»
«Già, nemmeno io» disse Metal Bat, ricevendo in cambio una forte gomitata da Tatsumaki. Non era colpa sua, in quanto uomo gli veniva naturale immedesimarsi in Genos e provava male solo a pensarci. Lui non vedeva il lato tenero e carino della cosa.
«Mi piace, è un bel periodo per nascere. Vorresti un maschio o una femmina? Se non hai scelto un nome, potrei suggerirtene qualcuno io. Beh, se avessi una bambina e vorresti per caso darle il mio nome, non mi dispiacerebbe» disse Fubuki.
Saitama si bruciò di nuovo la lingua. Che dolore.
«Non darei a ma figlia nessuno dei vostri nomi» disse, sincero. «E poi prima di scegliere un nome dovrei vederla in faccia. Il che è un problema, perché i bambini appena nati non sono tutta questa bellezza.»
Genos s’indispettì.  Una grande iniezione di fiducia per la loro eventuale figlia non ancora nata.
«Ma comunque sia c’è ancora tempo per pensarci.»
Tatsumaki lo osservò.
«Ma almeno hai fatto qualche controllo? Un’ecografia, un esame, qualcosa?»
Genos si guardò attorno, colpevole.
«… Non c’è stata l’occasione.»
«Ah beh, che idiozia. Devi farlo, altrimenti come fai a essere certo che il bambino stia bene?» domandò a braccia conserte. Saitama alzò gli occhi al cielo.
«È che non so quanto sarebbe stato opportuno entrare in una clinica di ospedale e mettermi a dire scusate, potete fare un’ecografia al mio compagno pseudo cyborg che ho ingravidato? Troppo strano.»
«Tanto oramai di questa cosa ne verranno a conoscenza tutti. Forse potrei trovare qualcuno che può aiutarvi. E chiariamo, mica lo faccio per fare un favore a voi, ma i controlli sono importanti» ci tenne a chiarire Tatsumaki.
Genos arrossì. Oh, era così strano essere al centro dell’attenzione. Di quel tipo di attenzione.
«Ti posso toccare?» domandò ad un certo punto Fubuki. Genos sollevò lo sguardo, sorpreso.
«Emh… va bene. Ma non si sente ancora niente, temo.»
«Non fa niente, va bene comunque.»
Fubuki si avvicinò, poggiando la mano sul suo ventre. Era incredibile che lì dentro ci fosse un bambino.
«Mh, voglio sentire anche io» disse Tatsumaki, voltandosi poi a guardare Badd. «E tu?»
«…Preferisco essere amichevole a distanza» rispose in imbarazzato. Saitama s’indispettì. Ma come osavano stare tutti lì a toccarlo? Insomma, un po’ di rispetto! Genos sembrava abbastanza tranquillo. Beh, lui no.
«Ehi. Ehi! Giù le mani, non lo consumate troppo!» si lamentò.
«Qui qualcuno è geloso» commentò Tatsumaki. Saitama arrossì, colpito nell’orgoglio.
«Sono solo… protettivo, direi» borbottò. Non era colpa sua, gli veniva istintivo.
Se ne doveva fare una ragione.
 
Poco più tardi se ne andarono tutti e Saitama poté tirare un respiro di sollievo. Maledizione, iniziava a credere che sarebbe stato geloso (voleva dire protettivo) anche dei momenti con il bambino. Oh, non voleva diventare uno di quei genitori sclerati che saltavano su alla minima cosa strana.
«Saitama, senti.»
Genos lo riportò alla realtà. Si stava facendo tardi, era ora di andare a dormire.
«Sì?»
Genos non sapeva come dirglielo, né come spiegargli ciò che sentiva.
«Per caso ti è capitato di rivedere Tamago?» domandò, senza guardarlo.
«Tamago? In realtà è da un po’ che non la vedo. Ma perché ti interessa? Pensavo che nemmeno ti piacesse!»
Non è che non gli piacesse! Solo che non sapeva come prenderla, gli dava sensazioni molto strane.
«Non è questo, è solo che… mi sento strano. Non so cosa sia, ma ho come la sensazione che… lei non sia più qui, che sia scomparsa. Il che non ha senso, però…»
Saitama afferrò le sue mani, serio. Era felice di sapere che sentissero le stesse cose.
«Lo sento anche io. Come un vuoto, vero? Da quando quella ragazza è arrivata, succedono cose strane. Mi capita anche di fare dei sogni.»
«Anche io faccio dei sogni strani. Anche se ultimamente io sogno sempre…» abbassò lo sguardo. «Sogno sempre che avremo una bambina. Forse è vero. Ma non capisco cosa c’entri Tamago con noi.»
«Allora quando la vedremo, glielo chiederemo» disse Saitama, con semplicità. In fondo sapeva anche lui che non sarebbe stato così facile come credeva. Comunque aveva la testa piena di pensieri: quei mesi sarebbero stati frenetici. Genos si distese accanto a lui nel futon.
«Fin ora tutto quello che lei ha detto si è avverato. Sono un po’… spaventato. Dal dopo…»
Saitama posò con delicatezza una mano sulla sua guancia. Non gli avrebbe detto cose come non pensarci o sii positivo. Non sarebbe stato da lui, piuttosto gli disse:
«Ho paura anche io. Per quanto mi riguarda, proteggerò tutti e due. Sono un eroe dopotutto, il mio compito è quello.»
Non l’aveva mai visto così risoluto. Quella era una delle cose che amava di più: quando Saitama si metteva in testa di proteggere qualcosa, lo faceva a tutti i costi.

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Capitolo 12
*** Antefatto, parte seconda ***


Capitolo dodici
Antefatto – Parte seconda
 
 
Il destino a volte aveva dei piani davvero strani. Saitama e Genos, dal canto loro, erano sempre stati attenti con Tamago. Nella maniera giusta, pensavano. Forse, invece, si erano sbagliati in modo clamoroso. Se avessero posto più attenzione, se avessero avuto un occhio di riguardo, magari a Tamago non sarebbe successo nulla. O forse sarebbe comunque accaduto. Come quando era cambiato Genos, ma almeno il suo cambiamento aveva portato a qualcosa di buono. A cosa poteva portare questo, invece? Tamago era stata da tutti i medici e specialisti possibili, seppur inutilmente. La bambina era in perfetta salute, era più corretto dire che avesse acquisito il potere di percepire e muoversi nel tempo in modo diverso. Qualcosa che solo a sentirlo appariva terrorizzante.
«Dai, che assurdità è mai questa? Una cosa del genere non è possibile» commentò Saitama. Lui era fatto così, quando qualcosa lo spaventava troppo, ecco che l’allontanava, ecco che tentava in tutti i modi di esorcizzarla. Genos non era dello stesso avviso. Lui c’era già passato.
«Non è possibile, dici? Intendi come quando non era possibile che io aspettassi lei? Dannazione, Saitama. È la stessa cosa, lo abbiamo visto con i nostri stessi occhi!»
Fubuki fece loro segno di abbassare la voce.
«Ragazzi, non litigate. Tamago può sentirvi.»
Era strano a vedersi. Saitama e Genos non litigavano mai.
«Mi dispiace, è che io non riesco a capire come sia possibile una cosa del genere» ammise Saitama.
«Avete provato a parlare direttamente con lei?» domandò Bang.
Genos sbuffò. Era spesso agitato e nervoso.
«Certo che ci abbiamo provato, ma ogni volta Tamago si blocca. Non mi sorprende, per lei deve essere un trauma. È scomparsa ed è finita chissà dove. Questo è troppo per una bambina della sua età!» disse alzando la voce.
Nessuno osò parlare. Erano tutti preoccupati per le sorti di Tamago, ma per Genos e Saitama doveva essere mille volte peggio.
«Se volete, ci parlo io» propose Metal Bat.
«Non te la prendere, Badd. Ma Tamago cade facilmente nel mutismo, per ora» aggiunse Saitama. «Ha bisogno di sentirsi protetta. Almeno… io al suo posto, avrei bisogno di questo.»
«Allora fate questa cosa e basta, insomma» borbottò Tatumaki. Lei, dal canto suo, avrebbe agito in modo più diretto, ma sapeva che non era il caso.
 
Tamago se ne stava tutta avvolta in una coperta come una mummia. Comprendeva quello che le era accaduto, tuttavia non del tutto. Lei e quel cucciolo di Jikan erano stati a contatto e lui le aveva dato un potere strano. Era scomparsa ed era finita chissà dove, chissà quando. Nessuna le aveva spiegato niente, ma in qualche modo aveva compreso. Quella situazione le aveva creato degli scompensi anche a livello fisico. La testa le doleva in modo atroce, il dolore arrivava a ondate. E poi aveva paura, paura di scomparire di nuovo. Dove sarebbe finita la prossima volta? E per quanto? E se non fosse riuscita più a tornare indietro? Questa era la cosa che più la spaventava.
«Ehi, piccola Tamago. È tutto a posto, non c’è bisogno che ti nascondi» Saitama si era avvicinato a lei e aveva spostato la coperta di dosso. «Ah, eccoti qui faccetta d’uovo.»
Tamago sorrise debolmente.
«Mi fa tanto male la testa.»
Genos si chinò su di lei, accarezzandole i capelli.
«Mi dispiace» si scusò, come se fosse colpa sua.
«Papà, quando passa questo? È come l’influenza, non è vero?» domandò. Le domande dei bambini erano sempre difficili, quelle di Tamago lo erano ancora di più. Come poterle mentire? Ma come poterle dire la crudele verità?
«Tamago… non so se passa, questo» ammise Genos. «Ma va bene lo stesso.»
Sua figlia scosse la testa, imbronciata.
«Invece non va bene. È stato terribile, bruttissimo. Quando sono scomparsa… ho avuto così paura. E poi sono comparsa da un’altra parte, ma non ho capito dove. Però sapevo che mi ero spostata nel tempo, ne ero sicura. Avevo così paura che non mi sono mossa, non ho parlato con nessuno. Sono mancata per pochissimo, vero? A me è sembrato tanto tempo. E ho paura… e se scompaio e non torno più?» iniziò a piagnucolare. Alla fine era stata Tamago ad affrontare il discorso, a posare l’attenzione su quella che era poi la paura di tutti.
«Non può succedere questo. Non importa quando o dove finirai, ti ritroveremo sempre. O magari tu ritroverai noi, il che è molto probabile» Saitama le asciugò le lacrime. «Tu puoi anche fare grandi cose.»
Cercava in tutti i modi di tirarle su il morale. Di rendere leggera anche una situazione così pesante. Genos lo apprezzò e si rese conto che in seguito avrebbe dovuto chiedergli scusa per come lo aveva trattato in quei giorni. Il dolore, dopotutto, era di entrambi. Tamago parve apprezzare quell’approccio.
«Ha ragione e poi… troveremo un modo per gestirla. Imparerai, come Metal Bat ha imparato a vivere senza vedere e Bang senza camminare. E come io… come io ho imparato a vivere sapendo che c’eri tu dentro di me.»
Tamago si risollevò un pochino a quelle parole, perfino il mal di testa sembrava essersi sopito.
«Davvero? Si può…?»
Saitama la prese in braccio.
«Certo che si può. Pensa al lato positivo: a te è sempre piaciuto giocare a predire il futuro, adesso potrai vederlo veramente.»
Tamago assunse un’espressione curiosa.
«A questo non ci avevo pensato. Però… voi non litigate più. Io vi sento…»
Saitama arrossì, colpevole.
«È colpa mia» disse subito Genos. «Non sono molto bravo ad affrontare questo, ma… voglio darci un taglio, per cui… Saitama…»
«Non fare quella faccia, ti avevo già perdonato. Tamago ha ragione, non va bene litigare, soprattutto adesso.»
Tamago si accoccolò alla sua spalla, sentendosi finalmente protetta e al sicuro. Se i suoi papà dicevano che andava bene, che era possibile trovare una soluzione, allora lei ci avrebbe creduto.
 
Avrebbe imparato a convincerci, ma le prime settimane furono davvero difficili. Saitama e Genos la tenevano d’occhio quanto potevano, anche se Tamago era uno spirito libero. Viveva in una bellissima valle e sarebbe stato un peccato rinchiudersi dentro casa, anziché correre fuori e inseguire le farfalle o raccogliere fiori. Genos e Saitama la lasciavano fare, anche se con una certa apprensione. La notte, però, lei dormiva tra loro, Genos teneva una mano su di lei, o sul petto o sulla testa. L’idea che potesse sparire nel bel mezzo della notte lo terrorizzava.
Comunque a Tamago capitò ancora di scomparire, anche se per poco. E ogni volta era spaventoso e rimaneva qualche giorno chiusa in casa, nascosta sotto le coperte. Poi però usciva di nuovo. Ci conviveva, cercando di alleggerire un po’ il peso di quella situazione insopportabile. Saitama aveva anche inventato una filastrocca – un po’ macabra in effetti – per cercare di esorcizzare la paura.
 Age Masu Torisaru, Jikan Jikan, tutto toglie e tutto dà. E chi mai lo fermerà?
Quando il Jikan ti tocca tutto si rivolta. E il tempo lineare non lo è più.
Tamago a volte se la ripeteva a mente quando le capitava di pensare che fosse tutto terribile. Lei stava soffrendo e anche la sua famiglia soffriva. Questo non andava bene, lei non voleva quello, non l’aveva mai voluto. Eppure era successo. Poi aveva fatto amicizia con Garou, che era un po’ spaventoso, ma a lei piaceva comunque. E Garou e Badd stavano sempre insieme e Tamago era sicura che si sarebbero innamorati. Questa era la sua predizione continua, con o senza tarocchi.
«Tamago, smettila di dire che io e questo qui finiremo insieme. Non è fattibile!» le disse Metal Bat.
«Per l’appunto. Non perderei tempo con uno così» disse Garou, scocciato.
«Con uno così? Cosa intendi con uno così? Guarda che ti ammazzo!»
Tamago rise. Sì, decisamente quei due si piacevano molto. Le cose sembravano star andando meglio, si sentiva più leggera, ma Tamago in realtà non abbassava mai la guardia. Quando la bambina si allontanò un attimo per raccogliere dei fiori, Badd si rivolse a Garou.
«Guarda che so benissimo che punti al suo potere. Mi dispiace deluderti, ma non hai modo di usarlo. Non è un potere che può trasmetterti. E poi dico, non ti vergogni all’idea di voler usare una bambina così piccola per i tuoi scopi?»
Garou fece una smorfia.
«Stai facendo tutto tu, io non ho nemmeno parlato. Sì, il suo potere m’interessa, ma non puoi darmi torto: su una ragazzina è sprecato.»
«Su di te invece è pericoloso. Ecco perché ti ho sempre tenuto d’occhio.»
Garou sorrise. Anzi, ghignò.
«E io che pensavo di piacerti.»
Metal Bat arrossì. Poteva immaginare la sua espressione soddisfatta. Quanto non lo sopportava!
«Non dire cazzate! Piacermi, tu? Almeno fai in modo che Tamago non ci senta, altrimenti chi la tiene più?» sospirò. «Però non so… non riesco a prenderti completamente sul serio. Ho l’impressione che tu a lei ti sia affezionato.»
Garou corrugò la fronte.
«Ora sei tu che dici cazzate. Non mi sono affezionato a nessuno.»
«Se avessi voluto farle male, lo avresti già fatto.»
«Certo, perché farle male non mi serve. E non voglio farla piangere… perché non sopporto i piagnistei!» chiarì subito.
A Metal Bat venne da ridere. Davvero una situazione insolita. Loro lì, a badare ad una bambina, come due vecchi amici. Come una coppia, a dire il vero. Era inevitabile pensarla in questo modo.
«Comunque adesso devo riportare Tamago a casa. Si è fatto tardi» disse alzandosi, ad un tratto nervoso. «Ci… vediamo domani?»
«Vediamo? Bel senso dell’umorismo, eh. Sì, d’accordo» disse Garou un po’ a disagio. Non solo le chiacchiere di Tamago, adesso anche Metal Bat si ostinava a dire cose sciocche e strane. Lui non si era affezionato a nessuno, né alla ragazzina né a lui. Soprattutto non a lui.
 
Metal Bat riportò a casa Tamago, la quale, nonostante la giornata piena, non era affatto stanca.
«Allooora, Badd. Nel tuo futuro vedo…amh… Amore e dolore.»
«Wow, grazie Tamago. Il dolore era proprio quello che mi serviva, pensandoci. Dell’amore faccio anche a meno.»
«Si è fatto tardi, per te, piccola Tamago» disse Genos accarezzandole la testa. «Dovresti dormire.»
«Uffa. Non è giusto però!» piagnucolò la bambina.
«Su, non fare così. Tu vai e io tra poco arrivo per leggerti una storia» propose Saitama. Anche se le sue storie non erano mai fiabe classiche, erano racconti pieni di violenza e di mostri poco adatti ad una bambina, ma a Tamago piacevano. Convinta, la bambina andò in camera sua. Era un peccato, fuori la serata era bellissima. Così apri la finestra e si mise in ginocchio sul davanzale. Oh, se qualcuno dei grandi l’avesse vista, le avrebbe intimato aspramente di scendere di lì. Tamago aveva paura di tante cose. Di sparire, di cadere, di perdersi. Eppure poteva accadere da un momento all’altro, era davvero strano a pensarci. Però era anche tranquilla, sapeva che in un modo o nell’altro avrebbe ritrovato sempre la sua famiglia e le persone che amava. Fissò un punto lontano, il cielo era così pieno di stelle da farle girare la testa. Si rese conto troppo tardi che la sua testa stava girando e che la sensazione di cadere nel vuoto non era solo una sensazione: Tamago cadde dalla finestra, ma non arrivò ma al suolo perché scomparve appena prima di cadere. Dissolta nel nulla, questa volta per un tempo più lungo.
 
Saitama era arrivato qualche istante dopo nella cameretta della figlia. La finestra era aperta, un alito di vento gelido gli arrivò addosso, facendolo tremare.
«Tamago, dove ti nascondi?» domandò Saitama. Si guardò attorno e poi si affacciò alla finestra. E fu assalito da una sensazione strana. Come se avvertisse ancora la presenza di Tamago che era stata lì, ma che si era dissolta. Poteva vederla, lei che si metteva in piedi e poi cadeva, senza mai arrivare a terra.
«Tamago?» ripeté, un po’ più allarmato. Doveva stare calmo, lo sapeva. Non era la prima volta che accadeva, ma ebbe anche la spiacevole sensazione che questa volta fosse diverso.
Tornò al piano di sotto, con un’espressione stralunata.
«Genos…»
«Che c’è? Tamago ti crea problemi per andare a dormire?» domandò Genos voltandosi. E scorgendo solo dopo l’espressione di Saitama. Gli bastò quella per capire ciò che doveva capire. Non gli disse nulla, semplicemente salì in camera sua e si accorse ben presto che ti Tamago non c’era nemmeno l’ombra: la finestra era aperta, il vento scuoteva le tende. Metal Bat li raggiunse poco dopo, inquietato dal silenzio innaturale.
«Ma che succede? Non mi dite che Tamago è sparita?» domandò. Genos non rispose, rimase piuttosto a osservare un punto fisso davanti a sé. Fu Saitama a parlare.
«Su, non è il caso di farsi prendere dal panico. È già successo, non dura mai troppo.»
Ma in realtà cercava di convincere sé stesso. Come si poteva rimanere tranquilli sapendo che la propria bambina, innocente e fragile, era scomparsa chissà dove? Se non si poteva avere la certezza che sarebbe tornata?
Di solito Tamago non stava mai via più di quindici o venti minuti. E così attesero, tutti e tre, prede del mutismo. Genos aveva imparato a chiudersi in sé stesso e a tacere quando la paura diventava insostenibile.
Non era bello, era come cadere vittima di una paralisi. Quando scoccò la lancetta del ventunesimo minuto, Genos si alzò, teso, nervoso.
«Non è ancora tornata, perché non è ancora tornata?»
«Genos, calma, aspetta. Magari ci impiegherà un po’ di più questa volta» gli disse Saitama. Avrebbe voluto abbracciato per tranquillizzarlo, ma non lo avrebbe fatto. Temeva di farlo stare peggio.
«Non puoi dirmi di stare calmo o accettare. Tamago è sparita. Non so dove, non so quando. Non sappiamo se è in pericolo o meno, come puoi pretendere che me ne stia qui ad aspettare?»
Saitama, che aveva fatto il gesto si avvicinarsi ancora, si retrasse. Aveva ragione da vendere.
«È che io non saprei… non saprei come e dove cercarla» ammise, stringendo un pugno. La sensazione di impotenza che ne derivava era terribile. Certo, Tamago era sparita. Erano stati degli illusi, dei superficiali, a pensare di poterla gestire?
«Non lo so nemmeno io. Cazzo. Che devo fare?» domandò Genos.
Metal Bat intanto era impallidito. Povera Tamago. Che n’era stato di lei? Per un attimo gli era anche venuto in mente che magari non era sparita, forse Garou l’aveva rapita. Dare la colpa a lui era più facile, rendeva la situazione più risolvibile. Genos lo guardò.
«Che cosa c’è? Perché fai quella faccia?» domandò, avvicinandosi minaccioso. «È da un po’ di tempo che te ne vai in giro con quell’espressione sospettosa. Ti avevo affidato mia figlia, quindi spero per te che non ci sia qualcosa che non so, altrimenti giuro che… che…»
Saitama lo strinse da dietro. Piano, per evitare di romperlo.
«Genos, aspetta. Lui non c’entra con questa storia, la colpa non è di nessuno.»
Metal Bat sentì il tono minaccioso nella sua voce. Non gli sembrava il momento giusto per parlarne, ma non gli sembrava il momento giusto nemmeno per mentire.
«Non ha nulla a che vedere con questo» sussurrò.
«Parla, ho detto.»
E così Metal Bat gli raccontò tutto. Di Tamago e di Garou, delle intenzioni di quest’ultimo. E si rese conto di quanto fosse stato stupido a reggere quel gioco. Genos lo aveva ascoltato in silenzio e poi, con tono glaciale, aveva proclamato.
«È mia figlia, non avevi il diritto di nascondermi niente. Come hai potuto? Sei un idiota.»
Saitama lo fissò, scuotendo la testa.
«È solo una bambina. E Garou è… è lui.»
«Lo so! Non c’è bisogno che continuate a ripetermelo, lo so. Ma Garou non l’ha mai toccata, non ha mai fatto niente di strano. C’ero io a proteggerla.»
«Se pensi che io mi fidi di te, te lo puoi scordare! Dimenticati di rimanere da solo con Tamago, se mai ritornerà!»
Gli diede le spalle. Era così furioso che avrebbe spaccato il mondo, ma a poco sarebbe servito.
«Genos, dove vai?» domandò Saitama.
 
Gaoru era ignaro della faccenda. Dava per scontato che avrebbe rivisto Tamago l’indomani, lei assieme a quell’idiota di Metal Bat, il suo baby-sitter. E anche il giorno dopo, e quello dopo ancora. E magari avrebbe capito come sfruttare il suo potere, come farlo suo. E avrebbe continuato a non affezionarsi. Perché non c’era motivo di fare una cosa del genere. Meditava sotto una cascata. Forse sarebbe stato meglio lasciare perdere quell’idea, era troppo complicato. Ma oramai si sentiva coinvolto.
Maledizione, pensò. Un motivo in più per rinunciare. Legarsi a qualcuno portava con sé sempre troppo dolore. A volte anche sacrificio.
Genos non ci aveva messo molto prima di trovarlo: Garou se lo vide arrivare addosso come una furia e non ebbe tempo di reagire. Finì dentro l’acqua e si rialzò che era zuppo.
«Ehi! Maledetto, che problemi hai?»
Lo riconobbe solo dopo. Il cyborg lo guardava come se avesse voluto ucciderlo.
«Dov’è Tamago?» domandò. Garou lo fissò e poi fece spallucce.
«E io che ne so?»
«Bugiardo. So tutto. So che l’hai avvicinata perché sei interessato al suo potere. Quindi adesso tu mi dici dov’è o giuro che ti uccido!»
«Oh, okay. Questo non è un comportamento da eroi, eh? E comunque, ti ho detto che non ho idea di dove sia la mocciosa. Se pensi che io l’abbia rapita, sei fuori strada.»
Genos però non lo ascoltava. Aveva bisogno di prendersela con qualcuno, altrimenti il dolore sarebbe stato troppo.
Saitama e Metal Bat li trovarono poco dopo. Sapevano entrambi che la furia di Genos era impossibile da fermare.
«Aspetta, fermo. Mi vuoi ascoltare, dannazione?» domandò Metal Bat. «Lui non c’entra niente. Io non so come faccio ad esserne sicuro, però lo so!»
Garou lo fissò. Avrebbe voluto dirgli brutto stupido, perché difendi me? Non lo merito di certo.
«Io non ti ascolto. Garou, maledetto. Dimmi dov’è la mia Tamago.»
Garou non si mosse, era quasi faccia a faccia col cyborg. Evidentemente la bambina era sparita e non era più tornata. L’idea non gli piacque. Anzi, forse gli dispiacque.
«Io non so dov’è la tua Tamago. So che dare la colpa a me e pensare che sia stato io a rapirla è la cosa più facile. Perché lei è scomparsa e adesso tu non hai un nemico da combattere, né possibilità di riprenderla. Non hai controllo.»
Saitama si mise in mezzo ai due, come a fungere da scudo. Era assai raro vederlo così, con quell’espressione seria, furiosa sul viso.
«Ora basta, stai parlando un po’ troppo» poi abbassò la voce. «È vero che miravi al suo potere?»
Garou sospirò, senza togliergli gli occhi di dosso. Il suo sguardo gli faceva male, era troppo pieno di dolore.
«È vero. Ma non l’ho rapita. Mi… dispiace. Ma non so dove si trovi. Se è davvero sparita, nessuno di noi può saperlo, no?»
Saitama capì che non stava mentendo. Genos parve cadere in ginocchio. Sarebbe stato così facile se fosse stato lui il colpevole e invece eccolo lì. Senza alcun controllo in niente.
 
 
Tamago gli aveva raccontato tutta la storia. Quindi era così. Avevano accusato lui per primo, quando in realtà in quella situazione non era il cattivo. Beh, non nel pratico, almeno. Si era affezionato a quella bambina, che adesso era una giovane donna. Che era cresciuta muovendosi da un punto all’altro nel tempo. Che ora si trovava nel Vuoto assieme a lui. Gli mostrava i suoi tarocchi e gli parlava.
«Dimmi una cosa» gli disse ad un tratto. «Credi che in qualche modo io e quello, Metal Bat, ci fossimo davvero legati?»
Tamago sorrise, guardando un carte.
«Non lo credo, l’ho sempre saputo.»
«Perché lo hanno detto i tarocchi?»
«Perché lo hanno detto i vostri gesti. Non so come andranno le cose adesso, né cosa potreste diventare. Ma mi piace pensare che l’amore resisti sempre. In ogni tempo. In ogni luogo. In ogni universo. È l’unica cosa che mi mantiene in vita.»
 

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Capitolo 13
*** La bambina scomparsa ***


Capitolo tredici: La bambina scomparsa
 
 
Intermezzo
Genos
 
Genos aveva fatto caso a come tutti lo evitassero. Non voleva vedere su di sé gli sguardi pieni di pietà, né voleva sentire una sola parola. A mente lucida – per quanto potesse definirsi lucido - si rendeva conto che prendersela con Garou era stata un’idea non solo stupida, ma anche avventata e inutile. Aveva ragione lui, avere qualcuno con cui prendersela era più facile che accettare la realtà. Non aveva idea – né lui né nessuno – dove e quando fosse finita Tamago. Il viaggio nel tempo era qualcosa di sconosciuto a tutti loro, ancora. Ma Genos doveva convincersi del fatto che Tamago stesse bene, che fosse viva ovunque si trovasse, anche se era ancora piccola e innocente. Non aveva idea di dove si trovasse e come raggiungerla, non sapeva sé stesse bene o meno e questo lo stava facendo impazzire.
Stava facendo impazzire lui, Demon Cyborg. Sempre attento, sempre in prima linea, sempre razionale al punto giusto. Ma da quando Tamago era arrivata e anche prima, quando aveva scoperto l’amore, nemmeno lui era stato lo stesso.
«Ehi, Genos. Non ti disperare, okay? Vedrai che tornerà.»
Quello era il modo di Saitama di affrontare il panico e la paura. Aveva imparato a vivere queste emozioni in tre momenti, quando aveva capito di amare Genos, quando aveva scoperto che sarebbe diventato padre e quando aveva tenuto in braccio Tamago per la prima volta: da quel momento la costante e fastidiosa paura che le persone che amava potessero essere ferite, non lo aveva mai abbandonato. E quindi adesso cercava di essere sé stesso ma senza riuscirci totalmente. Genos alzò lo sguardo, strinse il polso di Saitama.
«E se non dovesse tornare? Non credere che me ne starò con le mani in mano. La colpa è mia, avrei dovuto fare più attenzione. Cazzo…»
Genos piangeva senza lacrimare. Il che era strano, perché se aveva messo al mondo una bambina, allora avrebbe dovuto essere in grado di piangere come tutti. Saitama non poteva capire come Genos si sentiva, non del tutto almeno. Non sapeva cosa significasse rimanere per nove mesi con un essere vivente che ti cresce dentro, che ad una certa scalcia e si muove. Rimanere poi sperduti per un attimo, quando la tua bambina veniva al mondo e ti ritrovavi svuotato, l’attaccamento viscerale. Ma anche Saitama aveva sentito Tamago dal primo istante in cui aveva saputo della sua esistenza. Era stato il suo shock, la sua idea da metabolizzare e poi la gioia da abbracciare. Era sua quanto di Genos e ora era stata loro strappata via. Lo abbracciò, era tutto quello che poteva fare.
«Non è colpa tua. Non è… non è colpa nostra. Non avremmo potuto impedirlo comunque» ammise. «Noi siamo supereroi, ce la faremo» sussurrò.
E ce la dovevano fare, non esisteva un’altra opzione. O sarebbero caduti entrambi nell’oblio della disperazione. Genos si aggrappò a lui, a tutto ciò che restava della sua famiglia.
«Non mi darò pace finché non l’avremo ritrovata. Saitama, lei non è…?»
«Ah? No, che non lo è, vuoi scherzare? Parliamo di nostra figlia, ha i nostri geni. È ancora piccola ma niente di male può accaderle» e poi sorrise. Perché lui non si deprimeva nemmeno quando la disperazione gli faceva mancare l’aria. Genos annuì, con la fronte poggiata sulla sua e gli occhi chiusi. Poi si alzò. Non sapeva nemmeno dove avrebbe dovuto cercarla, ma intanto avrebbe cominciato.
«Diamoci da fare, allora»
Poi si allontanò verso gli altri eroi che stavano parlando in gruppo. Erano tutti un po’ sotto shock da quanto accaduto e nessuno si spiegava come fosse possibile a livello logico. Senza contare il fatto che Tamago era molto amata, da tutti. Saitama rimase a fissare Genos che si allontanava e solo allora si lasciò andare ad un sospiro, quasi a gettare fuori parte della sua disperazione. Ma non era solo: Bang era comparso dietro di lui.
«Eh? Ah, sei tu, Bang. Da quanto sei qui?» chiese Saitama, un po’ preoccupato.
«Non preoccuparti, nessuno saprà mai che sei giù di morale. Anche se, umanamente, è il minimo. Mi spiace per quanto successo, preferisco dirlo a te che a Genos. Temo mi lancerebbe addosso qualcosa.»
«Genos è sempre stato il più apprensivo dei due, sta cercando di non impazzire. Se non la trovassimo…» scosse la testa. Ma che andava a pensare? Ovvio che l’avrebbero trovata.
«Lo so, impazzirebbe.  È ammirevole da parte tua essere il tuo sostegno. L’amore e la paternità ti hanno migliorato» asserì Bang e Saitama fece una smorfia, poi però tornò serio.
«Ehi, Bang. Tu pensi davvero che lei ritornerà?  Cerco di essere positivo, ma non ci riesco. Tamago è…» e per un attimo gli risultò difficile parlare. «È la mia bambina, capisci? Mi ci sono voluti dei mesi per metabolizzare l’idea della sua esistenza e… non credo mi basterebbe una vita per metabolizzare la sua… scomparsa» si limitò a dire.
Bang gli passò accanto.
«So cosa significa volere così tanto bene a qualcuno ma non riuscire a proteggerlo. Ma sono fiducioso e credo davvero che la ritroveremo. Dopotutto, se ha la tempra di Genos, possiamo stare tranquilli.»
Saitama sorrise e guardò verso l’alto. La vita era molto più semplice prima. Prima dell’amore, prima della famiglia e tuttavia non l’avrebbe cambiata per nulla al mondo. Sarebbe passato per il dolore ancora perché quegli ultimi anni erano stati perfetti. Anche se ora il tempo per crogiolarsi nelle gioie passate era finito: Tamago aveva bisogno di loro.
 
 
 
 
Genos era parecchio nervoso all’idea di dover fare un’ecografia, ma andava fatta comunque. Non sapeva cosa le terrorizzasse di più, se l’idea che il bambino potesse avere qualcosa che non andava, o se il vedere effettivamente la vita che gli cresceva dentro. Un conto era saperlo, un conto era vederlo. Tatsumaki aveva davvero trovato qualcuno per aiutarlo. Alla sede dell’Associazione eroi avevano adibito un’aria dedicata solo a coloro che erano venuti a contatto con i Jikan. A prendersi cura di loro, i migliori medici e sperimentatori del Giappone e non solo.
Ma Genos era comunque unico nel suo genere.
«Questo posto non mi piace, è pieno di gente strana» sussurrò Saitama a disagio.
«Non credo che siamo nella posizione di dire una cosa del genere» ammise Genos. «La dottoressa che Tatsumaki ci ha indicato dovrebbe essere qui.»
Genos ci aveva già parlato al telefono e le era sembrata un tipo piuttosto singolare. Si chiamava Yukiko Akiko, ma, aveva specificato, tutti mi chiamano soltanto Dottoressa Kiko.
Anche Tatsumaki aveva parlato alla dottoressa di loro. E infatti fu la stessa Kiko a venire loro incontro. Saitama si rese conto che la più strana lì dentro era proprio lei: piccolina come una bambina, aveva un paio d’occhiali simili a due fondi di bottiglia, i capelli che sembravano essere stati tinti e ritinti di azzurro diverse volte. E infine sembrava anche un po’ goffa.
«Tu devi essere Genos! Lo pseudo cyborg ingravidato!»
A Genos non piacque molto essere definito in tal modo, però alla fine era la verità.
«E tu devi essere… la dottoressa Kiko?» domandò incerto.
«In carne ed ossa. E tu devi essere Saitama. Gran bel colpo, Saitama!»
Kiko sembrò volerlo abbracciare, ma Saitama si scostò abilmente, facendola cadere.
«Sicura che sei un medico?» domandò. Kiko si rialzò, lisciandosi il camice bianco sgualcito.
«Certo che sono un medico. Tatsumaki mi ha spiegato la situazione. Davvero affascinante quello che il Jikan ti ha fatto. Sei l’unico al mondo. Lo sai, vero Genos?»
Genos si guardò attorno, arrossendo.
«Difficile non saperlo. Comunque possiamo fare questo controllo?»
Prima che cambi idea, avrebbe voluto aggiungere. Kiko l’afferrò per un braccio e lo trascinò con sé, mentre Saitama andava loro dietro e ascoltava le chiacchiere di quella donna così strana. Chissà se potevano fidarsi, comunque non avevano scelta.
Genos, che nella sua vita aveva affrontato di tutto, si ritrovò un po’ inquietato di fronte tutti quegli strumenti che non conosceva. Non se ne intendeva molto in quel campo, non ancora almeno. Sembrava un po’ una camera dell’orrore.
«Su, stenditi, ci penso io!» esclamò Kiko. Genos si guardò intorno e fece spallucce.
«V-va bene, lo faccio.»
«E io che faccio?» domandò Saitama.
«Sostegno morale, è importante!» Kiko si sistemò gli occhiali spessi sul naso. «Adesso ti metterò del gel freddo sull’addome, poi ti passerò l’ecografo e… e poi nulla, comparirà tutto qui, su questo schermo!»
Non era poi così terribile come sembrava e adesso che si era reso conto di questo, Genos iniziava ad essere un po’ teso.
Sussultò quando sentì il gel freddo sull’addome e poi sospirò.
«Di quante settimane hai detto che sei?»
«… Dodici… settimane, più o meno» ammise. Che cosa avrebbe dovuto vedere? Era la prima volta che aveva un’ecografia. Era la prima volta che viveva una gravidanza, a dire il vero. La dottoressa Kiko aveva cambiato espressione, sembrava molto seria e concentrata mentre passava l’ecografo. A Saitama quel silenzio iniziava ad innervosire.
«Beh?» domandò.
«Soltanto un momento» disse, sollevando un dito. «Ecco qui. Ecco il bambino!»
Genos sollevò lo sguardo verso lo schermo. In realtà fu un po’ deluso, non vedeva niente degno di nota. E Saitama diede voce ai suoi pensieri.
«Io non vedo niente»
«Qui, guardate!» esclamò Kiko. «Questa è la testa, queste sono le braccia.»
Genos assottigliò lo sguardo. Ecco, adesso lo vedeva. Era proprio la sagoma di un piccolo essere umano. Che era davvero dentro di lui.
«Ah, sì. Adesso lo vedo» disse Saitama. «Però ha la testa grossa.»
«Ma…» Genos lo guardò. «Non parlare male del bambino.»
«Non ne parlo male, ho solo detto che ha la testa grossa. Vedi, come la mia! Ad ogni modo, è tutto a posto?» domandò. Alla fine, era quello che gli interessava sapere.
«Sììì!» esclamò Kiko contenta. «Pesa dodici grammi ed è lungo sei centimetri. Se volete posso farvi sentire il suo battito. È così emozionante!»
Genos guardò Saitama. Fino a quel momento era stato abbastanza controllato, lo erano stati entrambi.
«Sì, immagino vada bene.»
Saitama si fece più vicino. E poi sentirono distintamente il suono di un cuore che batteva, veloce e forte.
«… Questo è davvero il suo cuore che batte» quella di Genos era un’affermazione, non una domanda. C’era qualcosa di vivo dentro di lui, lo aveva sempre saputo, ma adesso lo sentiva.
«Questa è la cosa più straordinaria che io abbia mai sentito» disse Saitama, assorto. E probabilmente ci sarebbe stato altro a sorprenderlo ancora di più, nei mesi successivi. Per il momento però quello gli sembrava la cosa più straordinaria. Genos mosse la mano e gli strinse la sua. Saitama rimase fermo, se solo avesse stretto avrebbe rischiato di romperlo, considerando lo stato emotivo in cui si trovava.
«Vero… vero…» disse Genos e accennò ad un sorriso. «Sono molto felice che stia bene.»
E dire che l’avevano creato in due. Questo era altrettanto straordinario.
 
Non si sarebbero liberati facilmente di Kiko e questo oramai era evidente. C’erano altri controlli che Genos avrebbe dovuto seguire e poi alcune accortezze. Tipo il cosa mangiare, gli sforzi da fare, gli integratori da prendere, insomma… una roba non da poco.
«È stato abbastanza strano» disse Saitama quando uscirono di lì. «Cioè, lo hai visto? È proprio una persona, solo molto piccola e indifesa.»
 «Non preoccuparti, ha tutto quello di cui ha bisogno» disse Genos. «Beh… dovrò prendere un congedo. Dovranno fare a meno di Demon Cyborg per un po’.»
«Tranquillo, penso a tutto io. Più o meno» disse Saitama. «Emh… adesso che si fa?»
Genos fece spallucce.
«Adesso dobbiamo solo aspettare.»
Aspettare. A dicembre mancavano ancora diversi mesi, erano solo in estate dopotutto.  Genos e Saitama camminarono insieme. Ad un certo punto Genos si fermò e lo afferrò per un braccio.
«Che c’è che non va?» domandò. Genos ricordava che proprio in quel punto avevano conosciuto Tamago per la prima volta, quando oramai mesi prima aveva predetto loro il futuro. Senza mai sbagliare. Il cyborg scosse la testa.
«Niente, stavo solo pensando a Tamago.»
A Saitama venne da ridere e lui se ne accorse.
«…Cosa?»
«È che siete divertenti, voi due. Prima discutete come fratelli e poi ti preoccupi per lei.»
«Non direi che sono preoccupato. Ma non la detesto così tanto da volerla in pericolo. In realtà non la detesto affatto. Ma quando dormo, la sogno spesso. E non so, ho come l’impressione che sia in pericolo. Non so come faccio a saperlo, è più una sensazione.»
Genos era concentrato mentre parlava. Saitama alzò gli occhi al cielo.
«Non saprei. Quella è una ragazza strana, ma se la caverà, ovunque si trovi» almeno questo era ciò che sperava.
«Sì, immagino tu abbia ragione. E immagino anche che quando la rincontrerò dovrò chiederle scusa. Per… beh, per quello che le ho detto.»
«Oh, tu sì che sei un bravo ragazzo, Genos» Saitama gli accarezzò la testa quasi fosse stato un cucciolo, facendolo arrossire. Poi insieme se ne tornarono a casa.
 
Poiché prima o poi si sarebbe venuto a sapere comunque, Genos e Saitama avevano deciso che lo avrebbero detto e basta. E poi per Genos era necessario prendersi un congedo. Avrebbero dovuto fare a meno di lui per un po’.
«Quindi tu hai… un bambino dentro di te?» domandò Emperor Child. Genos arrossì
«A quanto pare.»
«E di cosa ci sorprendiamo, esattamente?» domandò Bang, saggio. «Qui siamo un vecchio in sedia a rotelle, un cieco, un ragazzino con tre occhi, un tizio con delle dita in più e una donna senza mano.»
King si sentì depresso nel sentirlo parlare così.
«Era proprio necessario mettere il dito nella piaga?» domandò.
«Tu con questa frase metti il dito nella piaga» sospirò Fubuki. Poi sorrise. Strano, era strano. Però che bellezza, le piaceva l’idea che sarebbe arrivato un bambino di lì a qualche mese.
«Evidentemente i Jikan non hanno portato solo a morte e distruzione, allora» disse Metal Bat. Lui se ne stava in disparte, pensieroso.
«Come hai detto, scusa?» domandò Saitama. I Jikan. I Jikan. Dove aveva sentito quel nome? Ah, sì. Nella filastrocca che ogni tanto gli sovveniva alla mente dal nulla. Come un ricordo. Ma com’era possibile ricordare qualcosa che doveva ancora succedere?
«È così che hanno deciso di chiamare quelle creature. Anche se per me è un nome troppo giocoso, ma comunque…Chissà cos’altro potrebbero fare. Voglio dire, se a Genos hanno dato questo, a qualcun altro potrebbero donare, non so… l’immortalità, il teletrasporto o la capacità di viaggiare nel tempo.»
Alla parola viaggio nel tempo, Genos si sentì il respiro mancare. Gli si era attaccata addosso una brutta sensazione.
«Perché è calato il silenzio?» chiese Metal Bat. «Anche se non vi vedo, so che mi state guardando male.»
«Poteri del genere sono pericolosi, se messi nelle mani sbagliate» disse Bang. «Ma fin ora non è successo nulla di così straordinario.»
«Infatti era solo per dire, non c’è bisogno che mi prendiate così sul serio!»
Genos si era messo a pensare. Non riusciva a togliersi Tamago dalla testa e alla sua passione per i suoi tarocchi, al futuro che aveva loro predetto.
«Ehi, che c’è?» chiese Saitama, attento. Lui scosse la testa.
«Niente, pensavo. Nulla di importante.»
Non se la sentiva ancora di dirlo. Non aveva la certezza, ma ne era abbastanza sicuro. Tamago. Se i Jikan erano capaci di donare capacità uniche, forse potevano arrivare a tanto. E lui aveva la sensazione che Tamago fosse stata sfiorata dal “tocco” dei Jikan e che si portasse addosso un peso a cui fin ora non aveva fatto caso. Ad un tratto si sentì protettivo verso di lei. Ma si sentì anche impotente e irritato. Perché non sapeva lei dov’era, né come raggiungerla.
 

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Capitolo 14
*** Avere controllo è perdere il controllo ***


Capitolo quattrodici: Avere il controllo è perdere il controllo

Intermezzo
Metal Bat
 
 
Era accaduta l’ultima cosa che avrebbe voluto non accadesse mai. Tamago sparita. Erano passate ore e aveva la terribile sensazione che non sarebbe più tornata. Razionalmente sapeva che la colpa non era sua, ma comunque non riusciva a fare a meno di pensarci. Cos’avrebbe potuto fare per impedirlo, alla fine?
Ora si aggirava per il giardino, affranto. Poteva sentire la voce di Tamago se solo si concentrava. E poteva anche vederla. Perché lui la guardava con gli occhi della mente e anche così sapeva com’era fatta. Sapeva che aveva la testa tonda, i capelli lunghi e neri, gli occhi grandi, le sopracciglia arcuate. Adesso però poco contava. Contava il fatto che quella bambina così piccola, a cui si era legato quasi fosse un’altra sua sorellina minore, si era persa nel tempo.
Il vento si mosse. Fece muovere le foglie secche. A Metal Bat bastò prestare un po’ di attenzione per comprendere che non si trattava di vento.
«Che fai qui? È meglio se te ne vai, la situazione è difficile» disse stringendo i pugni. Perché Garou era tornato? Perché Tamago gli serviva? Per ricordargli che aveva fatto un grande errore a concedergli di passare del tempo con Tamago?
Se lei fosse stata lì, le avrebbe detto di smetterla di fare il cattivo perché le persone non erano mai del tutto cattive. Tamago era sempre stata molto più saggia di certi adulti.
«Non starò qui ancora per molto. Incredibile, per una volta che davvero non faccio nulla di male, ecco che vengo accusato di aver rapito una bambina.»
«Puoi biasimarli? Era nei tuoi piani.»
«Appunto. Ma non l’ho fatto. E piantala di essere incazzato con me anche tu.»
Metal Bat si voltò e gli andò incontro, talmente all’improvviso che Garou quasi indietreggiò. Lo guardava con le sue pupille oramai grigie, che sembravano volerlo guardare dentro, fino all’anima.
«Sono incazzato eccome. Perché voglio bene a Tamago e non posso pensare che non tornerà più. Non è giusto che una bambina così piccola affronti un peso del genere. Questo riesci anche solo a capirlo o no, razza di idiota?»
La voce di Metal Bat tremava. Sembrava sull’orlo delle lacrime. Che cosa patetica, un eroe navigato come lui che si metteva a piagnucolare.
«Non sono uno stupido, certo che posso capire» disse lui. «Anche se non mi vedi, ti assicuro che non sto certo saltando dalla gioia.»
«Certo che no. Tamago ti serve. Vuoi il suo potere.»
Garou voltò il viso da un’altra parte. Non gli piaceva la sensazione che Metal Bat potesse guardarlo dentro, si sentiva violato.
«Anche. La ragazzina mi piaceva.»
«Non parlare di lei al passato! E poi… ti piaceva?»
«Beh? Sapeva… sa il fatto suo ed è forte. Ed è perfino riuscita a farmi piacere te. Ah… questo è piuttosto patetico. Due come noi ridotti così, eh?» domandò poi, con un sorriso simile ad un ghigno. Se magari fosse stata un’altra situazione…
Se fosse stata un’altra situazione, Metal Bat gli avrebbe detto che anche lui gli piaceva, perché non era poi così male. Non era male per niente. Che riusciva a sentirlo totalmente. E che questo lo terrorizzava.
«Ma…ma per favore, non diciamo cazzate. Io non piaccio a te e noi non ci piacciamo» Metal Bat arrossì e poi abbassò la voce. «O magari forse un po’ sì. Ma anche se fosse, non è il momento adatto. Qualsiasi cosa sia, dobbiamo troncarla sul nascere.»
«Sono d’accordo»
«Allora facciamolo»
«E facciamolo.»
Ma mentre dicevano ciò si erano avvicinati di più l’uno all’altro. Fu Garou il primo a cedere. Lo afferrò e poi con passione e quasi violenza lo baciò. In un modo che fece mancare il respiro ad entrambi. E si odiò, perché quella non era poi una cosa molto da cattivi e perché si sentiva fin troppo umano, in quel momento. E per Metal Bat fu lo stesso. Niente era mai come sembrava. E Garou non stava mentendo, nei suoi gesti e nelle sue parole.
«Bastardo, chi ti ha dato il permesso?» sussurrò rimanendo vicino alle sue labbra.
«Come se potessi chiedere il permesso, tanto meno a te» disse Garou, allontanandosi. «Farò la mia parte per trovare quella mocciosa. Me la pagherà per avermi portato a questo. Ma tu non dirlo a nessuno» e dicendo ciò si portò un dito vicino le labbra. «Abbiamo i nostri segreti, d’ora in poi.»
Metal Bat dei segreti era anche stufo, ma quelli li avrebbe tenuti per sé volentieri.
 
Rientrò dopo un po’. Se n’erano andati tutti. Genos si trovava nella cameretta di Tamago, dove c’erano ancora i suoi giocattoli sparsi per casa. Solo il mazzo di tarocchi mancava, quelli se li portava sempre dietro. Si era seduto suo letto, pensieroso. Alternava momenti di rassegnazione a momenti in cui avrebbe volentieri spaccato il mondo. E a che sarebbe servito?
«Genos, sei qui vero?» domandò Metal Bat.
«Cosa c’è ora?» domandò lui, scocciato. Metal Bat sapeva che doveva essere l’ultima persona che Genos desiderava vedere. Ma non gli importava, aveva comunque qualcosa da dire.
«Ascoltami bene, adesso. So che ogni parola sarà inutile, ma non me ne starò a guardare. In qualche modo vi aiuterò.»
«Non puoi fare niente» disse il cyborg duramente.
«E io lo faccio lo stesso» dichiarò lui. Genos sospirò e poi cambiò discorso.
«Posso farti una domanda? Perché hai pensato che fosse una buona idea nascondermi che Garou girava attorno a mia figlia?»
Quella era una domanda semplice e al contempo difficile a cui rispondere.
«Perché Tamago mi aveva pregato di non dirlo a nessuno. E anche perché… se io avessi davvero avuto l’impressione che Garou avesse voluto farle male, non gli avrei permesso di avvicinarsi. Ma non credo lui sia mai stato intenzionato a farle male. Nn lo so, Tamago ha qualcosa di speciale. Unisce le persone.»
Ha unito noi due.
«Da come ne parli, sembra che tu lo conosca in modo molto intimo.»
Metal Bat arrossì.
«Non lo so, però lui non ha fatto nulla di male.»
«Lo so. Ho sbagliato a prendermela con lui, con chiunque. È responsabilità mia.»
Metal Bat sentì Saitama entrare.
«Responsabilità di entrambi» disse con una certa solennità. Comprese che forse lì si sentivano tutti un po’ responsabili dell’accaduto. Percepì uno spostamento d’aria, Genos si era alzato.
«Non importa quanto tempo dovrà passare, Io la ritroverò a qualsiasi costo.»
 
 
La cosa più fastidiosa del Vuoto era l’impossibilità di sapere con esattezza quanto tempo fosse passato. Tamago era abituata, ma per Garou quella era una gran brutta storia. Meditava molto, ma alle volte era difficile non perdere la calma. La cosa che più lo faceva arrabbiare era il fatto che Tamago non sembrava nemmeno volerci provare ad andare via di lì. A sforzarsi di controllare quel potere. Se aveva imparato a conoscerla almeno un po’ (ed era così, non aveva avuto altra scelta), aveva capito che Tamago si stava adagiando sugli allori. Che forse dal vuoto non voleva nemmeno scappare, perché nel vuoto niente accadeva e poteva godere della pace che altrimenti non avrebbe voluto. Ma lui di marcire lì non aveva intenzione.
«Mi hai proprio stancata!»
Tamago alzò lo sguardo. C’era abituata agli scleri di Garou, prima o poi gli sarebbe passata. O almeno speravo. Non gli rispose neppure.
«Adesso mi ignori anche? Peggio di cosa non poteva andare, bloccato qui con te!»
«Non sono stata io a dirti di aggrapparti a me. Colpa della tua ossessione per il potere» gli rispose per le rime. Garou fece per rispondere, ma poi si bloccò. Non sapeva nemmeno più lui per cosa vivesse ed esistesse. Il suo futuro (il passato per Tamago. Che dannati rompicapo i viaggi nel tempo) era disastroso. E lo era il passato e perfino il presente.
«Ora stammi bene a sentire» Garou lasciò da parte le “buone maniere” e l’afferrò per un braccio, guardandola negli occhi. «Mi hai stancato. Mi hai stancato tu con le tue lamentele, con i tuoi piagnistei e con i tuoi lamenti.»
Tamago s’indispettì come una bambina.
«Mi dispiace se siamo bloccati, d’accordo? Io ci sto provando.»
«Tu non ci stai provando, tu ti stai lamentando! Che cazzo, tira fuori un po’ di determinazione. Questo potere, non è che tu non puoi controllarlo, è che non vuoi controllarlo, perché ne hai paura.»
Tamago si staccò da lui. La stava colpendo nel vivo con quelle parole, non voleva ascoltarlo.
«Non è vero.»
«E invece è vero. Sei terrorizzata da tutto. Insomma, guardati! Sei riuscita a ritrovare la tua famiglia e non hai fatto altro che temporeggiare. Questo è patetico!»
A Garou non importava di risultare insensibile. Voleva che si desse una svegliata.
«Tu non capisci. Non lo sai come mi sento. Io non dovrei nemmeno esistere, sono stata concepita per errore. Per colpa di coloro che mi hanno dato questo potere.»
«E chi se ne frega? Hai presente del mondo assurdo a cui viviamo?» Garou adesso aveva alzato la voce. «Mi fai incazzare. Perché mi porti a fare questi discorsi idioti e perché non reagisci. Forse tu non avresti dovuto esserci e cazzate varie, però ci sei. E poi te lo giuro, te lo giuro davvero, se non mi porti via da questo posto deprimente, giuro che ti ammazzo davvero!»
Tamago si asciugò una lacrima che le era scivolata sul viso. Non riusciva a trattenere il pianto convulso.
«Oh, merda! Ma perché piangi sempre? Devi reagire. Fallo o perderò la testa!»
Garou l’afferrò e iniziò a scuoterla. Tamago si lamentò e gli disse che le stava facendo male, ma lui non la udì. Stava accadendo qualcosa e capirono entrambi che cosa. Stavano scomparendo dal vuoto.
 
Per Tamago e Garou fu come cadere dal cielo dritto sulla terra. Una sensazione altrettanto spiacevole come le precedenti.
«Cazzo!» imprecò Garou, steso a terra di schiena. «Qualche volta mi ammazzerai. Ma… ma vedo che abbiamo lasciato quel posto infernale. Non sono mai stato così felice di rivedere la luce del sole.»
Tamago si mise in piedi, un po’ dolorante. Era riuscita ad andarsene. Anche se in realtà non l’aveva controllato, era solo successo.
«E ora dove siamo finiti?» si lamentò Garou, massaggiandosi la schiena. Tamago si guardò attorno. Erano atterrati in un vicolo angusto, a qualche metro di distanza doveva esserci la città.
Iniziò a camminare.
«E dove vai adesso?» borbottò Garou andandole dietro.
La vita e il mondo erano andate avanti senza di lei. Tamago si guardò attorno e poi guardò il calendario appeso dentro un negozio.
«Dodici anni avanti. Cioè dodici anni dalla mia scomparsa.»
«Che bellezza, eh» borbottò. «Senti, non voglio incontrare il me stesso più vecchio, quindi andiamocene.»
Tamago osservò il riflesso nella vetrina. Non il suo riflesso, tuttavia. Si voltò, gli occhi sgranati e poi afferrò Garou per un braccio.
«Vieni, veloce!»
Stava iniziando a stancarsi di lei che lo trascinava da un posto all’altro senza dirle una parola. Lo portò in quello che sembrava un ristorante di sushi.
«Adesso abbiamo anche il tempo di andare a pranzo fuori?»
«Sssh, ascolta. Anzi, guarda. Quelli seduti laggiù sono i miei genitori, vero?»
Garou assottigliò lo sguardo. Il cyborg era sempre uguale, anche se sembrava avere addosso un’aura oscura tanto quanto i vestiti che indossava. Anche Saitama era lo stesso. Un po’ più vecchio ma non troppo dissimile dalla versione che conosceva. La cosa conturbante era la sua espressione.
«E allora? Pensavo fossi già stata nel futuro.»
«Mi sono ritrovata in molti punti del passato e del futuro, ma non ho mai incontrato loro. Voglio avvicinarmi.»
«Io non credo proprio che sia una buona idea.»
Era abbastanza sicuro che stessero già incasinando abbastanza le cose. Ma alla fine Tamago lo convinse a sedersi a qualche tavolo di distanza. E li ascoltarono.
«Allora niente?» domandò Genos, scocciato. Sembrava di fretta.
«Genos, dammi tregua. Le stiamo sperimentando tutte» disse Saitama.
«Non è abbastanza!» il cyborg batté una mano sul tavolo e poi abbassò la voce. «Sono dodici maledetti anni che cerchiamo. Lei non è mai tornata. Lo so che pensate tutti che dovrei rassegnarmi.»
«Io non l’ho mai detto» dichiarò Saitama duramente. Erano cambiati tutti e due. Avevano le espressioni piene di dolore e a Tamago parve che ci fosse anche una certa freddezza tra loro. E non le piacque, era fin troppo innaturale.
«Senti, Tamago. Ce ne vogliamo andare? Finiremo nei guai» bisbigliò Garou seduto davanti a lei, ma venne zittito in malo modo.
Genos continuava ad essere rigido, non c’era né dolcezza né calore nei suoi occhi.
«Sono disposto anche ad uccidere, per lei.»
«Non dire così. Noi non uccidiamo» rispose Saitama.
«Noi? Non c’è nessun noi. Oramai non stiamo insieme da anni.»
Saitama fece per dire qualcosa, ma oramai non erano rare le volte in cui rimaneva senza parole. La scomparsa di Tamago aveva spezzato perfino il legame tra lui e Genos e ora il cyborg sembrava odiarlo. Come se fosse colpa sua. Come se non si sentisse già abbastanza colpevole da solo.
«Ci tengo comunque a te.»
«Allora tienici di meno. Se qui abbiamo finito, adesso me ne vado.»
Saitama allungò una man e afferrò la sua. Da quanto tempo era che non si toccavano così? Genos tremò per un attimo e non riuscì a staccarsi dalla sua presa.
«Lasciami stare.»
«E invece non ti lascio stare. Devi spiegarmi perché è finita così. Pensi che a Tamago piacerebbe vederci così?»
Tirare lei in ballo era crudele. Ma cosa pretendeva esattamente Saitama? Erano troppo spezzati ed evidentemente il loro amore non era stato abbastanza forte da resistere.
̆«Ma Tamago non è qui, adesso. Ti prego, non rendere tutto così difficile. Non farci soffrire entrambi» e questa volta il suo tono più che arrabbiato e duro, sembrava soltanto malinconico.
«Stiamo già soffrendo» sospirò Saitama. Era stanco. Lo era nell’anima. Allentò la presa e Genos si tirò indietro.
«Mi farò vivo io» gli disse. «Riguardati.»
Quella situazione era assurda. Loro si amavano ancora, lui lo sapeva. Ma si era anche dovuto rendere conto, crescendo e maturando, che l’amore non bastava. Lasciò andare Genos e se ne rimase lì da solo. Sconsolato, triste e solo.
«Accidenti» Garou aveva osservato tutta la scena assieme a Tamago. «Le cose non vanno bene per quei due… Tamago?»
La ragazza aveva gli occhi fissi su Saitama. Non era possibile. Quindi era così che andava? Il dolore sarebbe stato talmente grande da portare i suoi genitori a lasciarsi? Ebbe un tuffo al cuore. Aveva visto le loro espressioni, aveva sentito le loro parole cariche di dolore. Era stata come una pugnalata al petto. Si alzò lentamente e Garou sembrò prevedere le sue intenzioni.
«Tamago, che cosa stai facendo?»
«Cosa pensi? Io devo andare da loro… da uno dei due… non posso lasciare che vada così, io…»
Garou, che aveva già compreso fin dal principio, l’afferrò malamente e le tappò una bocca con la mano per impedirle di parlare, sotto gli occhi dei curiosi. Tranne Saitama, lui non si era accorto di niente.
«Garou, per favore, lasciami. Fammi andare!» Tamago gridò una volta che Garou l’ebbe portata fuori, a debita distanza. La stringeva così forte da farle male.
«Sei forse idiota? Se adesso tu vai lì, manderai tutto a puttane!»
«Ma non hai visto? Tutto questo è successo per colpa mia! A causa della mia scomparsa!» esclamò, fuori di sé. Il dolore era insopportabile.
«Allora, se vuoi risolvere le cose, devi tornare indietro. E devi riuscirci, non ci sono alternative!» Garou l’afferrò per le spalle. «Avevi una missione, vero? Bene, allora riportaci indietro, senza lamentele. Sono stato chiaro?»
Tamago aveva serrato le labbra. Garou era un po’ duro, ma non diceva nulla di sbagliato. Aveva sempre cercato di controllare quel potere, fallendo miseramente. Una volta aveva sentito dire che il miglior modo per avere il controllo, era perderlo.
Si guardò attorno.
«Io voglio solo salvare me stessa e la mia famiglia.»
«E allora fallo» disse Garou. «Non te lo sta impedendo nessuno, se non tu.»
Tamago si lasciò andare ad una serie di respiri profondi. Adesso doveva essere lucida. Doveva ricordarsi il perché era arrivata fino a quel momento. Ora sapeva di dover impedire quel futuro a tutti i costi, per sé e la sua famiglia. Allungò una mano verso quella di Garou.
«Non posso prometterti che funzionerà. Ma se non ci provo, non lo saprò a prescindere.»
Tamago aveva ancora le guance bagnate di lacrime, ma la sua espressione era un po’ cambiata. Sembrava più risoluta, perfino più adulta. Garou si ritrovò a pensare che fosse assurdo, in un modo o nell’altro si ritrovava sempre a fare da baby sitter a lei. Forse era proprio destino. Strinse la sua mano.
«Vedi di non deludermi.»
 
 
 
I mesi erano volati molto più in fretta di quanto Genos e Saitama avessero preventivato. Si erano lasciati alle spalle l’estate e l’autunno e adesso era quasi inverno. Ergo, voleva dire che mancava pochissimo alla nascita del bambino. Anzi, bambina, perché Genos un’ecografia aveva confermato il dubbio di Genos. Il suo sesto senso (almeno credeva si trattasse di quello), non aveva sbagliato.
«Ce l’ho fatta, ci sono riuscito!» esclamò Saitama vittorioso.
«A far cosa?» domandò Genos. Era cambiato molto. La sua pancia si era arrotondata per accogliere la bambina e poi c’era qualcosa di diverso nel suo sguardo. Sembrava molto più umano di quanto non fosse mai stato.
«La culla, l’ho montata. È stato un inferno, ma ci sono riuscito. Il problema è che è troppo grande. Non ci entra più niente in questo buco di appartamento.»
«Già, dovremmo proprio lasciarlo al più presto. Forse una casa in campagna.»
«Però io non voglio fare il contadino, è troppo faticoso» Saitama si trascinò fino a lui, stanco. «Si muove? Posso sentire?»
La bambina dentro di lui si muoveva sempre. Non era una sensazione a cui ci si abituava mai del tutto, in special modo se accadeva durante la notte o nei momenti meno opportuni. Allora Genos si ritrovava sempre a sussultare visti i numerosi caldi e probabili testate che riceveva-
«Adesso si muove meno. Forse perché ci sta stretta lì dentro» ammise Genos. Saitama poggiò la mano sulla sua pancia e dopo qualche istante sentii un colpo delicato.
«Vedi? Mi riconosce sempre. Dopo tutti questi mesi oramai sa chi sono io e chi sei tu. Allora, stai scomoda là dentro? Tra non molto uscirai.»
Saitama era davvero molto tenero, totalmente calato nel suo ruolo di genitore. Per Genos non era diverso, però era preoccupato. Per quanto avessero cercato di prepararsi, aveva l’impressione che sarebbero stati comunque impreparati.
All’improvviso si strinse il ventre con fare protettivo, irrigidendosi.
«Emh… tutto a posto?» domandò Saitama, già temendo un travaglio anticipato. Genos aveva sentito qualcosa. Ma come spiegarli qualcosa di cui nemmeno lui capiva il significato? Si sentiva già molto protettivo verso quella bambina non ancora nata. Anche adesso, si sentiva in dovere di proteggerla.
«Non è niente. Solo… una sensazione» ammise.
Non lo sapeva ancora, ma in quel momento Tamago, la ragazza di cui aveva allontanato il pensiero per mesi, era tornata.
 

 

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Capitolo 15
*** Un bellissimo giorno in cui nascere ***


Capitolo quindici:: Un bellissimo giorno in cui nascere
 
Intermezzo
Tamago
 
Era sparita di nuovo, non sapeva né quando, né dove. Ma sapeva che stava piovendo e lo sapeva perché la pioggia le cadeva addosso, fredda e crudele. Le lacrime di Tamago si mescolavano alle gocce di pioggia. Si diceva che se avesse chiuso gli occhi, respirato profondamente e contato fino a tre, sarebbe tornata indietro. Non poteva durare a lungo, no? In fondo non durava poi troppo e presto si sarebbe riunita alla sua famiglia. Ecco perché si era accovacciata su sé stessa, le gambe contro il petto, la fronte poggiata sulle ginocchia. Sarebbe finita presto. Riparata dalla pioggia, ma ancora bagnata fradicia e infreddolita, Tamago sperò di addormentarsi e di risvegliarsi, all’indomani, a casa sua, nel suo letto. Il destino sarebbe stato molto più avverso e nei quindici anni a venire la sua vita sarebbe stato un continuo non rimanere mai troppo a lungo nello stesso tempo.
 
 
Tamago si tirò su e sentì qualcosa di umido bagnarle la faccia e i vestiti. Si trattava di pioggia. C’era la pioggia anche la notte in cui era sparita. Le bastò guardarsi per qualche attimo intorno per capire: era tornata nel punto giusto del tempo. Si rese conto solo qualche istante dopo che la mano di Garou era ancora stretta alla sua.
«Siamo tornati?» domandò.
«Credo proprio di sì»
«E come hai fatto?»
«Io… io non lo so… io stavo...»
Garou vide con la coda dell’occhio un autobus che veniva loro incontro: erano apparsi proprio al centro della strada, ottimo!
«Attenta!» gridò e poi la trascinò dietro con sé, quasi scivolando sull’asfalto umido. «Devi migliorare anche l’atterraggio.»
Tamago però non lo ascoltava. Si sentiva troppo euforica, confusa e agitata. Non era stata il caso a portarla lì, era stata lei a portarli tutti e due lì. Per la prima volta non era stato il tempo a scorrere su di lei, ma lei a scorrere sul tempo.
«Allora, come hai fatto?»
Garou e Tamago camminavano sotto la pioggia indisturbati, sotto gli occhi confusi dei passanti.
«Non lo so con precisione» ammise lei, lo sguardo assorto. «È che ho avuto talmente paura di quel futuro, che mi sono detta devo a tutti i costi tornare indietro. Questo è strano. Di solito la paura mi fa fare cose che non voglio, invece in questo caso mi ha aiutata.»
Garou fece una smorfia.
«E va bene, ma non sono qui a farti psicoterapia. Adesso che siamo nel presente, non dobbiamo per forza stare appiccicati, no?»
Tamago si aggrappò al suo braccio, la fronte aggrottata.
«Non sarai ancora convinto di quella tua idea assurda? Dopo tutto quello che abbiamo condiviso non puoi farlo. Noi siamo amici, Garou. E tu sei una persona buona, solo che a volte fai cose cattive. Come tutti, del resto, no?»
Ma perché doveva succedere proprio a lui? Non si era mai considerato una persona buona, anzi. Aveva sempre mirato ad essere il cattivo della storia.
Di quella storia, però, di certo non era il cattivo.
«Accidenti, sei proprio una palla al piede. Tamago, io non posso aiutarti.»
«Ma mi hai già aiutata. È grazie a te che sono qui.»
Non voleva starla a sentire ancora. Era già tutto troppo strano, non aveva ancora metabolizzato tutto quello che Tamago era e rappresentava.
«Io… non ho niente a che fare con questo.»
«Invece sì. Cavolo, la vuoi smettere di avere paura? In questo non sei poi così diverso da me!» Tamago alzò la voce. Era la prima volta che si arrabbiava così tanto con lui, ma ciò fu quasi una fortuna. Le urla di Tamago avevano attratto le attenzioni di un eroe di classe S che quel giorno aveva accompagnato la sua sorellina a fare shopping.
«Ehi! Vi sento, guardate. Non ho mai apprezzato chi fa piangere le ragazze. Zenko, stai indietro.»
Zenko, sotto il suo ombrello, diede una gomitata a Metal Bat.
«Fratellone, quella è Tamago. E insieme a lui c’è… uno molto strano.»
Tamago e Garou si erano immobilizzati. Era successa proprio l’ultima cosa che avrebbe voluto: si era ritrovato davanti a Metal Bat, la persona di cui (stando alle parole di Tamago), si sarebbe innamorato. E questo non poteva succedere. Non doveva succedere!
Tamago guardò i due con gli occhi lucidi. Poi, senza pensarci ancora, andò loro incontro e li abbracciò.
«Eh?!» esclamò Metal Bat. «Che storia è questa? Tamago, sei davvero tu?»
Tamago non rispose. Singhiozzò e li strinse più forte a sé, felice come non mai di aver ritrovato i suoi amici, felice di essersi presa quella seconda possibilità.
«Oh, quanto sentimentalismo» sbuffò Garou. Ed era anche bagnato fradicio. Metal Bat riconobbe subito la sua voce.
«A-aspetta un momento. Io ti conosco, tu sei quel bastardo di Garou, l’ex allievo di Silver Fang. Cosa… si può sapere che diamine succede qui?!»
Tamago si staccò pian piano dall’abbraccio, sorrise a Zenko che la guardava seria, come se avesse iniziato a intuire qualcosa.
«Vi spiegheremo tutto quello che dovete sapere. Possiamo spostarci in un posto tranquillo e magari… all’asciutto?»
Garou l’aveva sentita bene. Aveva detto vi spiegheremo, aveva incluso lui. Pensò anche fosse una fortuna che Metal Bat non potesse vederlo. Perché lui invece lo vedeva bene e non poteva credere che quello lì era la persona che un giorno avrebbe amato. E come, poi?
 
Vista la pioggia e il gelo, i quattro si erano spostati dentro un locale che vendeva frozen yogurt. Zenko aveva detto che aveva bisogno di qualcosa di dolce e zuccherato, perché sicuramente Tamago avrebbe rivelato loro qualcosa di stupefacente. E così eccoli lì, Zanko e Metal Bat da una parte e Tamago e Garou dall’altra. Tamago aveva iniziato a raccontare tutto dal principio, dalla sua storia, al suo potere, al come era arrivata lì e perché. Metal Bat non l’aveva interrotta nemmeno una volta, ma più lei parlava, più gli sembrava assurdo.
«Aspetta un momento, vorresti forse farmi credere che tu vieni dal futuro? Certo, sei sempre stata strana, ma non pensavo fossi pazza.»
«Non sono pazza!» Tamago batté una mano sul tavolo. Garou non parlava, aveva la sensazione si essere stato incastrato. Zenko invece la guardava con aria seria. Metal Bat sorrise, accomodante.
«Dai, ma non è possibile. I viaggi nel tempo non sono possibili. Vero che non sono possibili?»
Sperava che qualcuno gli desse ragione, ma in cambio ricevette solo il silenzio. Tamago, rigida, strinse una mano all’altra.
«In un mondo in cui accadono cose assurde, tra eroi, cattivi, mostri e alieni, ti stupisci forse di questo, Metal Bat?» domandò a bassa voce. «E poi pensaci. Da quando mi hai incontrato, è diventato tutto molto strano, vero?»
Fu Zenko a rispondere a posto del fratello.
«Vero. Da quando ti ho vista la prima volta, ho avuto la sensazione di conoscerti molto bene. E anche tu sembravi conoscermi. Solo che non me lo spiegavo.»
Metal Bat non poteva mentire sugli improvvisi flash che arrivavano all’improvviso. Un po’ come se fossero ricordi, ma di non era sicuro di averli vissuti veramente. Sospirò e si fece serio anche lui.
«Non so cosa sia, ma mi è capitato di vedere dei ricordi. Con te bambina. Ma io ero più grande di adesso, per cui non ha senso. Tra l’altro io non dovrei nemmeno poter vedere. Ti ricordo che sono cieco!»
Metal Bat gesticolava e Tamago afferrò il suo polso.
«Non tutto va visto con gli occhi. Allora ti sei ricordato di me.»
«A… A quanto pare… ma non ha senso…»
«Hai ricordato anche che eri il mio migliore amico e che ti sei innamorato di Garou?»
Nell’udire quelle parole, Zenko si mise a tossire ed esclamò un che cosa?
Garou si irrigidì. Non sapeva quale forza lo stesse trattenendo dallo spaccare qualcosa.
«E ora che cazzo c’entra questo discorso? Dico, me lo fai a posta?»
Metal Bat era arrossito. Quello era anche più assurdo del viaggio in tempo in sé. E poiché aveva perso la capacità di parlare, almeno per il momento, fu sempre Zenko a parlare al posto suo.
«Allora sei venuta qui per ritrovare la tua famiglia. Beh, visto che l’hai trovata dovresti dirglielo, prima di sparire di nuovo.»
«Per questo sono qui…»
Tamago aveva guardato la vetrata che dava sulla strada e spalancò gli occhi. La pioggia aveva smesso di cadere e al posto suo era arrivata la neve candida che ora si adagiava sull’asfalto e sulle auto. Tamago si alzò, guadandosi intorno. Non aveva fatto caso a nulla fino a quel momento, troppo presa dall’euforia, però c’erano delle decorazioni natalizie e lucine anche in quella stessa yogurteria. Quanto tempo era stata nel Vuoto?
«Che giorno è oggi?» domandò.
«E-eh?» sussurrò Metal Bat. «È il ventuno dicembre, perché?»
È un po’ difficile dimenticarsi della sera in cui sei nata, Tamago. C’era stata la più grande e improvvisa bufera che ricordi in vita mia.
«Oh, cazzo!» esclamò. E per quanto non fosse solita ad imprecare, niente avrebbe potuto esprimere la sua sorpresa.
 
Una nevicata improvvisa, proprio quello che ci voleva, pensò Saitama. L’inverno prometteva di essere rigido quell’anno. Mancavano solo quattro giorni a Natale e un piccolo alberello decorato troneggiava in un angolo dell’appartamento. Almeno lì dentro si stava al caldo.
«Lo sai, Genos? Secondo me nascere sotto Natale non è tutto questo granché. Insomma, nessuno si ricorderebbe e poi, pensa che sfortuna ricevere un solo regalo. Del tipo ecco, questo è sia un regalo di compleanno che per Natale. Nostra figlia è un po’ sfortunata.»
«Ma nostra figlia non accenna nemmeno a voler uscire, a dire il vero.»
Cercavano di parlare per distrarsi. Tra il venti e il venticinque, ecco cosa aveva detto loro la dottoressa Kiko, di tenersi pronti. Ma cinque giorni erano tanti e non passavano mai.
Saitama, disteso sul futon con le mani dietro la testa, fissò il soffitto.
«Forse perché fa troppo freddo. Ci parlo io…» e dicendo ciò si trascinò fino a Genos, chinandosi sul suo ventre. «Puoi uscire? Quest’attesa è snervante, sono sempre sull’attenti. Io! E poi non sappiamo nemmeno come chiamarti.»
Genos fece spallucce e poi sorrise.
«Magari appena nascerà, ci verrà in mente.»
Saitama ci pensava da giorni. Chissà come sarebbe stato? I neonati non gli erano mai piaciuti particolarmente, troppo impegno, troppi pianti, troppe notti insonni. Ma quel caso era un po’ diverso, voleva tenere in braccio quella bimba non ancora nata.
Poi sentirono qualcuno bussare alla porta con energia.
«Nemmeno una burrasca tiene lontani gli scocciatori!» esclamò Saitama.
«È soltanto Kiko, è venuta a trovarci adesso perché a Natale sarà impegnata.»
«Ah, che gioia» disse sarcastico. Era un po’ stanco, aveva avuto un po’ d’insonnia ultimamente, era sempre in allerta nel caso in cui Genos gli dicesse okay ci siamo. Genos invece sembrava tranquillo. O forse era solo stanco. Una gravidanza non era uno scherzo, soprattutto quell’ultimo mese era pesante sia fisicamente che emotivamente. Però non era sicuro di essere pronto a separarsi da lei.
Kiko si accorse dello stato d’animo d’entrambi.
«Accidenti, che facce. Dai amici, siate felici. Tra qualche giorno è Natale, fuori nevica, ci sono le luci. E se tutto va bene, riceverete un pacco regalo molto speciale!» Kiko si tolse il cappotto pieno di neve, bagnando il pavimento.
«Guarda che non è divertente, cinque giorni sono tanti!» esclamò Saitama, infastidito.
Genos scosse la testa.
«Per caso vuoi del tè?»
«Volentieri, grazie…» Kiko si guardò intorno. «Ma tu guarda. Casa vostra è carina, ma mi sembra un po’ piccola per crescere una bambina. E poi quelli si infilano ovunque, sbattono la testa sugli spigoli, eccetera. Forse dovreste cercare una casa più grande.»
«Oh, ma guarda, non ci avevo pensato. Io e Genos pensavamo ad una fattoria» borbottò Saitama sarcastico, semi accasciato sul tavolo. Perché non poteva andare a uccidere un mostro con un pugno? Era molto più facile di tutto ciò che stava accadendo adesso.
«Bella idea. Puoi fare il contadino» disse Kiko. Saitama non disse niente. Quella donna era esagerata in tutto, ma almeno era una brava ginecologa, e questo era l’importante. Genos arrivò e le porse una tazza di tè. Quei due bisticciavano di continuo, Saitama era piuttosto teso, per quanto gli scocciasse ammetterlo.
«E ditemi, ditemi» disse Kiko afferrando la tazza di tè senza ustionarsi. «Dopo che la bambina sarà nata, vi dedicherete di nuovo a tempo pieno alla vostra carriera supereroistica?». Saitama fece spallucce. Dubitava che avrebbe avuto più modo di dedicarsi a qualcosa a tempo pieno, come dormire, cazzeggiare o anche combattere mostri.
«Prima dovremo abituarci a… tutto. Comunque non è un problema, Genos potrebbe tornare, lui è un classe S dopotutto. Io invece posso rimanere a casa con la piccola testa d’uovo.»
Genos s’indispettì. Per Saitama, da quello che l’ecografia mostrava, la bambina aveva la testa grossa, a suo dire.
Dopodiché il cyborg si concentrò sulle immagini del televisore, che aveva lasciato a volume basso. A quanto pareva fuori si era scatenata una vera e propria bufera di neve improvvisa, con tanto di calo delle temperature. Non si vedeva una bufera così da almeno trent’anni.
«Oh, no. Hai sentito? Hanno raccomandato di non uscire. Come faccio adesso?» domandò Kiko aggiustandosi gli occhiali. «Posso rimanere a dormire qui?»
«Ma non ci penso neanche, vattene a casa tua. Genos, diglielo anche tu.»
Genos non lo stava nemmeno ascoltando. Proprio nell’attimo in cui si era ritrovato a pensare fosse proprio una coincidenza, una bufera di neve in quei giorni, avvertì un dolore lancinante al basso ventre. Aveva letto tutto il possibile sul travaglio, sulle contrazioni e sui dolori, ma sapeva anche che viverlo doveva essere di sicuro tutt’altra cosa. Si irrigidì e chiuse gli occhi, piegandosi su sé stesso. Seguirono pochi istanti di silenzio, istanti che in seguito Saitama avrebbe ricordato come gli istanti di terrore prima della tempesta. Altro che quiete.
«Dimmi che non è quello che penso» riuscì a dire poco dopo. Kiko in quel momento abbandonò la sua aria svampita e si avvicinò a Genos.
«Ehi, cosa senti?»
«Io… non lo so… ahi…» ansimò. «Non ho mai avuto contrazioni, sai com’è. Ma considerando il dolore che sento, non credo di avere dubbi.»
Saitama era impallidito.
«Non può nascere adesso.»
«Non c’è tempo da perdere. Dobbiamo andare alla mia clinica» Kiko era risoluta. Salvo poi ricordarsi di un piccolo inconveniente. «Ma… fuori c’è la bufera.»
«Proprio quello che intendevo!» esclamò Saitama. «E ora come si fa?»
Kiko si concentrò.
«Silenzio. Sto cercando di pensare. Non possiamo muoverci e le ambulanze sono bloccate. Come si fa nascere un bambino in questi casi?»
A quel punto Saitama si spazientì.
«Ehi, dottoressa! Io queste cose non lo so! Non ho studiato medicina o qualsiasi cosa tu abbia studiato, è per questo che ci siamo rivolti a te.»
«Non mi sembra il caso di arrabbiarsi, sto cercando di aiutare!» ribatté lei.
«Non sta funzionando molto bene, ti pare?»
Sia Saitama che Kiko sembravano essersi dimenticati di Genos, preda di forti dolori e anche piuttosto provato.
«Se non la smettete di discutere, giuro che ucciderò entrambi» gemette. E Genos non aveva mai minacciato Saitama in quel modo, quindi era meglio non provocarlo. Kiko sospirò.
«E va bene. Se non possiamo muoverci non è un problema. La farò nascere qui.»
Saitama sgranò gli occhi.
«Qui nel nostro appartamento? Ma non è… non si può fare.»
«Non abbiamo molta scelta» disse Kiko risoluta.
«Aspetta un momento, aspetta!» Saitama l’afferrò dalle spalle. «Vuoi forse dirmi che vuoi fare un intervento chirurgico qui? Lo hai mai fatto?»
Kiko trattenne il fiato.
«No. Ma dovrai fidarti di me.»
Genos si era accovacciato.
«Vi siete dimenticati di nuovo di me, voi maledetti… ah…»
Saitama allora capì di non avere scelta. Aveva il panico addosso, ma stava cercando di non cedere. Perché tutta quella situazione lo aveva ridotto a quello stato?
«Scusa, io… ci sono adesso. Quanto fa male?» Saitama gli si avvicinò e gli poggiò una mano sulla testa.
«Abbastanza. Ti direi che ho affrontato di peggio, ma non voglio sfidare il fato.»
Certo che Genos era davvero forte. Al posto suo non ce l’avrebbe mai fatta a sopportare quella situazione. Era anche per questo che l’amava. Kiko, intanto, si stava dando da fare. Nella sua borsa da lavoro aveva trovato qualcosa che poteva tornarle utile, ma aveva dovuto disinfettare tutto da cima a fondo. Quella era una situazione di urgenza estrema, solo perché Genos era più cyborg che umano non voleva dire che non ci fossero rischi. Per lui o per la bimba, chiaro.
«Oh, accidenti» sussurrò Kiko dopo aver indossato i guanti. «Ma non abbiamo nulla per… per il dolore. Come faccio ad aprirti se sentirai tutto?»
Genos scosse la testa. Era sofferenza, ansimava e ogni scarica di dolore sembrava sul punto di ucciderlo.
«Non importa, il dolore posso sopportarlo.»
Saitama scosse la testa. Gli veniva da vomitare, non era certo di essere pronto a quello, all’odore acre del sangue.
 «Non ce la posso fare» sussurrò.
«Oh, andiamo! Tu sei un eroe! esclamò Kiko.
«No. Prima di essere un eroe, sono un essere umano. E nemmeno dei migliori» stava combattendo contro sé stesso. Per la prima volta stava sperimentando la paura più nera. «Però… non posso lasciare Genos da solo in un momento come questo.»
Genos strinse la sua mano.
«Ti ringrazio.»
«No. Sei tu quella che fa la parte più difficile, questo è il minimo che posso fare» Saitama gli baciò la fronte e poi divenne serio. «Fai quello che devi, ma che stiano bene entrambi o non ti perdonerò mai.»
Kiko sorrise.
«Attento a come parli. Sono una professionista.»
Kiko aveva detto ciò per cercare di infondersi coraggio, in realtà era un gran salto nel buio. Le contrazioni si erano fatte più forti e ravvicinate e Genos stava cercando di non muoversi o dimenarsi. Saitama accanto a lui si faceva stritolare la mano senza fiatare. Kiko si era coperta bocca e naso e teneva in mano un bisturi monouso. Non aveva mai usato quell’affare, ma aveva visto farlo diverse volte.
«Sto andando e… perdonami per il male che ti farò» e poi respirò profondamente. Incise la sua carne con il bisturi e  Genos cacciò fuori un urlo. Era una sensazione estraniante, avvertire tutto il dolore lì, in quell’unico punto. Saitama fece una smorfia.
«Resisti» fu solo in grado di dire. Avrebbe voluto non guardare, ma non riusciva a distogliere lo sguardo da Kiko, dalle sue mani che incidevano e tagliavano. Genos stringeva così forte la sua mano che temeva che gliela rompesse.
«Cazzo… ferma, ferma, ti prego… è troppo doloroso così!» gridò Genos.
«Mi dispiace, ma oramai ci sono, la sto tirando fuori. Resisti un altro po’.»
Genos ricadde all’indietro, stremato dal dolore e da un’insolita fatica. L’odore del suo stesso sangue gli dava la nausea, sentire le mani di Kiko letteralmente dentro il suo corpo era strano. Aveva affrontato di tutto, perché questo non era capace di affrontarlo? Trattenne il respiro, gemendo di dolore, piangendo senza lacrime e non riuscendo più a impedire al suo corpo di dimenarsi.
Kiko tirò fuori la bambina e le liberò subito le vie aeree. Scoppiò a piangere e solo allora Saitama ebbe il coraggio di guardare.
«Ma è…»
«Devo essere veloce in questa operazione» disse Kiko tagliando il cordone. «Tienila, devo ricucire Genos.»
Genos dal canto suo sembrava intontito. Aveva percepito subito il distacco con la bimba, il vuoto del suo corpo e poi i suoi vagiti.
«Aspetta… fammi… vedere…»
«Non ora, Genos. Devo ricucirti, resisti solo un altro po’. La bambina sta bene, non preoccuparti. Saitama, avvolgila in quel panno lì.»
Saitama però non si era mosso. Kiko gli aveva mollato quella bambina indifesa e piangente tra le mani, sporca ancora di sangue e liquido amniotico. La fissò ed ebbe l’impressione di non capirci più nulla. Lei l’avevano fatta loro, lei era stata dentro Genos fino a qualche attimo prima e adesso era lì tra le sue bracca. Capì anche che niente avrebbe potuto prepararlo a quel momento.
«Eh…? Ah sì, lo faccio subito.»
Genos era intanto sofferente. Di sicuro la peggior esperienza della sua vita. E poi voleva sua figlia, si sentiva spezzato in due adesso che l’aveva lontano, seppur fosse tra le braccia sicure di Saitama.
«Scusa, mi spiace» disse Kiko dopo un po’. «Non volevo essere dura, ma è una situazione estrema, questa…»
«Lo… so…» sussurrò, sollevando la testa. «Saitama, puoi avvicinarti?»
Saitama si fece vicino, con la bambina avvolta nell’asciugamano. Non aveva smesso un attimo di lamentarsi e piagnucolare.
«Non ci posso credere. È qui, la sto tenendo in braccio senza farla cadere. Sei stato… bravo, Genos. Anzi, più che bravo…»
Si sentì esausto all’improvviso, abbandonando tutta la tensione. Si chinò su di lui e gli baciò la testa, con Genos che fissava la bambina. Allungò una mano, sfiorandola.
 «Sei tu… sei proprio tu, vero? Certo che sei tu. Sei una bambina bellissima» disse stancamente. Solo allora sua figlia si quietò.
 
Poco più tardi, la bambina era stata pulita, nutrita e ora riposava tra le braccia di Genos, terribilmente indolenzito e impossibilitato dal muoversi a causa dei punti. Di sicuro non avrebbe più avuto figli, era stato abbastanza traumatico così. Ma era tutto il contrario dell’infelicità, mentre fuori imperversava la bufera. Era il giorno più freddo dell’anno, eppure c’era un piacevole calore, lì in casa sua. E la bambina era perfetta.
«Emh… grazie…» disse Saitama rivolgendosi a Kiko, intenta a disinfettare la qualsiasi. «Se non fosse stato per te… non avrei saputo cosa fare. Ero un po’ in panico.»
«Figurati, è stata un’avventura anche per me. E vostra figlia è adorabile. Viste le condizioni del suo concepimento e della sua nascita, non mi stupirei se un giorno fosse destinata a grandi cose.»
E chissà, forse Kiko aveva ragione. Ma Saitama non voleva pensare al futuro, solo al presente. Tornò da Genos e poggiò delicatamente una mano sulla testolina morbida e piena di capelli neri della piccola.
«Lo sai, ti ci vedo davvero bene come padre.»
«Davvero? Ma tu pensa. La tengo così con me, come se lo facessi da tempo» Genos le baciò la fronte. «Non è bella?»
Saitama la squadrò. Beh, bella era un aggettivo generoso.
«Insomma, a dire il vero è piuttosto bruttina. Ha il testone ed è tutta gonfia.»
Genos s’indispettì.
«Non permetterti mai più a dire una cosa simile. Piuttosto, non abbiamo ancora trovato un nome.»
Saitama sorrise.
«Io so come dovremmo chiamarla. Tamago.»
«Tamago?»
«Beh, sì. Perché non chiamarla come colei che ha dato inizio a tutto? Se non fosse stato per Tamago, noi ora non saremmo qui, probabilmente…»
Genos fissò la bambina. Si rese conto che quel nome le calzava a pennello, che era sempre stato il suo.
«Tamago mi piace. Piace anche a te?» sussurrò. La bambina si mosse e iniziò a piagnucolare.
«Oh, no. Non dirmi che ha di nuovo fame, ha mangiato poco fa» sbuffò Saitama. «Beh, Tamago sa come farsi ascoltare.»
Fuori non accennava a smettere di nevicare. Era da poco scoccata la mezzanotte.
Ventuno dicembre, ore ventidue e trenta, pochi giorni prima di Natale. Un bel giorno per venire al mondo.
 

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Capitolo 16
*** Felice giorno di Natale ***


Capitolo sedici: Felice giorno di Natale
 
Era il giorno di Natale. Il primo Natale in tre. Erano passati tre giorni dalla nascita di Tamago e le ore trascorrevano lente. Era come se il tempo avesse deciso di rallentare, il che era un bene, considerando che sia Genos che Saitama stavano imparando a fare i conti con il loro nuovo ruolo di genitori. Tamago era adorabile e, Saitama aveva dovuto ammetterlo, adesso che era passato qualche giorno, era diventata proprio carina, con quelle guance paffute. E si era dovuto rendere conto anche di un’altra cosa: i neonati piangevano, ma sua figlia piangeva ancora di più. Non voleva dormire nella culla che aveva montato a posta, non voleva stare in nessun posto che non fossero le braccia di uno dei suoi papà. E quindi dovevano tenerla a turno.
«È la mattinata di Natale più strana che io abbia mai vissuto» sentenziò Saitama assonnato. Stava dando il biberon a Tamago, che era anche costantemente affamata. Era piuttosto stanco, non è che avesse dormito molto nelle ultime settantadue ore.
«Anche per me» ammise Genos guardando entrambi. Lui l’aveva presa con più filosofia, non gli dispiaceva avere Tamago sempre in braccio. Dopotutto per mesi erano stati una cosa sola, era naturale per lui. Si guardò attorno. C’era parecchio disordine. La tempesta era finita, anche se adesso era tutto imbiancato.
«Forse dovrei… mettere un po’ a posto… gli altri verranno oggi.»
«Ma insomma» borbottò Saitama. «Perché sempre tutti a casa mia?»
«Veramente è anche casa mia» disse Genos. «È Natale, e poi vogliono conoscere Tamago.»
Saitama si fece serio. Genos non era l’unico protettivo nei confronti della bambina. Perché tutti avrebbero voluto coccolare, strapazzare e baciare quell’esserino e non era sicuro che a cosa gli piacesse.
La bimba fini di mangiare e Saitama se la poggiò sul petto, battendole pianissimo contro la schiena per farle fare il ruttino. Doveva controllarsi in modo molto preciso, perché non avrebbe mai voluto farle male. E ci riusciva, forse l’istinto paterno vinceva sul resto.
«Tutti vogliono Tamago. Ma lei è piccola e innocente. Ma dopotutto somigli a colei a cui abbiamo dato il nome. Pensi dovremmo cercarla? Oramai sono mesi che è sparita. Le farebbe piacere conoscere nostra figlia.»
«Ci avevo già pensato» disse Genos stancamente. «Ma devo prima riprendermi, un parto è un’esperienza traumatica. Però ne è valsa la pena.»
Si era avvicinato a Saitama. I die su guardarono negli occhi. Fuori faceva freddo, un freddo che penetrava fino alle ossa. Eppure, da quando era nata Tamago, avvertivano solo un piacevole tepore. Saitama ad un tratto fece una smorfia.
«Tua figlia mi ha appena vomitato su una spalla. Ti prego, tienila, così vado a fare un bagno nella candeggina.»
Genos gli disse che era proprio esagerato, mentre prendeva in braccio la piccola Tamago e le baciava la testolina scura. Sua figlia sembrava felice e soddisfatta, adesso.
 
 
Tamago aveva passato quei tre giorni a casa di Metal Bat e Zenko.
Quella mattina provava una grande nostalgia. Il Natale le era sempre piaciuto, ricordava ancora nitidamente quelli passati nella sua fattoria, il cibo, i regali e i giochi. Oh, era così bello.
Ci pensava mentre se ne stava affacciata alla finestra, in piedi. Era nata tre giorni primi, faceva quasi impressione e pensarci.
Zenko la scorse vicino la finestra.
«Tu e mio fratello dovreste andare adesso.»
Metal Bat infatti era pronto per andare a conoscere la bambina. Che poi era Tamago. Non voleva nemmeno pensarci, gli scoppiava la testa.
«Sì… andiamo…» borbottò. Tamago annuì. Aveva un nodo in gola, era nervosa. Ma oramai non si tornava indietro. Era tornata per mettere le cose in chiaro, non per rimuginare ancora.
Garou si era invece una pausa da lei in quei tre giorni (affermava di meritarselo, dopo essere stato bloccato con lei per mesi). Oramai aveva rinunciato quasi del tutto all’idea di ottenere in qualche modo quel potere. Aveva altro per la testa e quell’altro prendeva il nome di Metal Bat. Non voleva certo finirci insieme, né nel prossimo futuro né mai. E dopotutto, il futuro era ancora tutto da scrivere. Quindi aveva deciso che non sarebbe successo, che gli sarebbe stato lontano. Da lui e anche da Tamago. Queste almeno erano le sue intenzioni, i fatti erano stati tutt’altri. I fatti lo avevano portato davanti casa di Metal Bat (come una stalker da quattro soldi) e aveva aspettato che i due uscissero. Sentiva di dover parlare con lui. Di cosa, poi non lo sapeva ancora.
Ed eccoli lì, Metal Bat e poi Tamago, con la sua aria malinconica. Tamago che lo aveva adocchiato subito e poi aveva sorrise.
«Buon Natale, Garou!» disse, gioiosa. Era una piagnucolona, ma quando era felice, la sua allegria era contagiosa. Metal Bat si bloccò. Quello era un problema che doveva tenere di conto, evidentemente.
«Sì, buon Natale. Devo parlare un attimo con lui» borbottò, le mani infilate nelle tasche. Gli occhi di Tamago sembrarono brillare.
«Amh… vi lascio da soli, allora» sussurrò, allontanandosi. Metal Bat sospirò.
«Uno ci prova anche a fare finta di niente, ma me la rendi difficile così.»
«Oh, e sta zitto. Lo sai no? Che noi due finiremo insieme, nel futuro.»
Metal Bat poteva vederlo anche senza la vista Lo vedeva lì, serio, con la fronte aggrottata, forse anche col viso arrossato.
«Lo so. L’idea mi è strana e mi fa anche ridere. Comunque, qual è il problema? Ora che lo sappiamo possiamo evitarlo. Sei venuto qui per dirmi questo, vero?»
«Ovviamente. Allora siamo d’accordo. Non dovremo innamorarci.»
Metal Bat aggrottò la fronte.
«Ma io non posso controllare i miei sentimenti. Nessuno può.»
Merda, pensò Garou. Perché gli doveva rendere tutto così difficile?
«E chi se ne frega? Non innamorarti di me.»
«Non è che tu sei già un po’ innamorato di me. Sei qui, dopotutto.»
«Brutto bastardo, io…»
Non riuscì ad aggiungere altro. Garou non aveva mai creduto a cose stupide come l’anima gemella o destino e altre idiozie. Dell’amore non gli era nemmeno mai interessato. Ma l’arrivo di Tamago aveva cambiato tutto, sia nel suo futuro, che nel suo presente.
Tamago iniziò ad agitarsi, sistemandosi la sciarpa.
«Badd, possiamo sbrigarci? Fuori si gela!»
Metal Bat scosse la testa, come a voler scacciare vie i suoi pensieri.
«E non ti agitare, sto arrivando. Beh, adesso io me ne devo andare.»
«Va’» rispose semplicemente Garou. Il suo compito era finito o almeno questo continuava a ripetersi. In verità, sentiva di avere ancora un ruolo in questa storia e di sicuro non era quella del cattivo.
 
 
Era successo proprio ciò che Saitama aveva preventivato: tutti adoravano Tamago, tutti volevano tenerla in braccio e coccolarla. Adesso la bambina si trovava in braccio a Fubuki, la quale la guardava con gli occhi che brillavano.
«È bellissima, ed è così piccola. Ma è perfetta. Ha delle guance così paffute e delle manine così piccine! Tatsumaki, non vuoi tenerla in braccio?»
Sua sorella non sembrava molto convinta. Non si sentiva molto sicura con un neonato.
«Non saprei.»
«Guarda, è facile, basta tenerla la testa. E poi Tamago sembra una bambina così buona.»
«Credimi, è tutta apparenza» ammise Genos. Però, davvero, Tamago si stava comportando bene, forse le piacevano le attenzioni e le coccole. A parte Tatsumaki e Fubuki erano presenti Silver Fang, King ed Emperor Child. All’appello mancava Metal Bat, in ritardo.
«La piantate di passarvela come se fosse una bambola? Altrimenti comincerà a piangere» si lamentò Saitama. E se qualcuno avesse osato dire che era apprensivo, lui avrebbe detto che non era affatto apprensivo. Lo era solo un pochino, com’era normale e giusto che fosse.
«Rilassati, tua figlia è in buone mani» lo rassicurò Fubuki. «Attenti, da grande spezzerà molti cuori.»
Genos aveva mantenuto un’espressione seria, a contempo minacciosa e in qualche modo comica.
«È inutile pensarci, accadrà tra tanti, tantissimi anni.»
Sua figlia aveva solo tre giorni, diamine.
Proprio in mezzo a quel piacevole caos, arrivò Metal Bat, con Tamago che cercava di nascondersi dietro di lui senza alcun successo. Così quella era la casa in cui era nata. Non ricordava nulla, per lei casa sua era la fattoria in mezzo al verde. Però lì e era cominciato tutto.
«Scusate il ritardo, ho avuto a che fare con un impiastro» borbottò. «E ho portato una persona, spero non sia un problema.»
Dicendo ciò afferrò Tamago per un polso e la trascinò davanti agli altri. Quando fece ciò, calò un silenzio interrotto solo dal piagnucolare della bambina.
«Non ci posso credere, sei tu!» esclamò Saitama. «Che fine avevi fatto? Sei sparita per mesi?»
«Emh…» rispose lei, forzando un sorriso. «Ho affrontato un lungo viaggio, ma adesso… sono qui.»
Faceva quasi impressione vedere i suoi genitori lì, dopo averli visti nel futuro separati e sofferenti. Poi guardò la bimba in braccio a Fubuki. Era lei. Era sé stessa appena nata, questo fu ancora più impressionante.
«Lei è Tamago» disse Genos. «Le abbiamo… dato il tuo nome perché pensavamo fosse adatto.»
Metal Bat guardò la piccola e poi guardò Tamago. La Tamago adulta. La stessa versione della stessa persona. E se fino a quel momento aveva potuto avere qualche dubbio, sparì nel momento in cui sfiorò la manina chiusa a pugno della neonata. Loro erano la stessa persona.
«… Sono… lusingata davvero» mormorò.
«Sì, beh. Avremo tempo per parlare di questi mesi. Buon Natale, Tamago!» disse Saitama. Si chiesero tutti quale strano potesse avere quella ragazza, visto che in genere lui non era mai così gentile con nessuno dei suoi ospiti. Ma con lei sì.
Tamago si ritrovò così seduta in mezzo agli amici che conosceva da sempre. E sentì un piacevole calore avvolgerla, lo stesso calore dei Natali della sua infanzia. Era strano ma anche tenero vedere Genos cullarla, farla addormentare. Erano tutte cose che non poteva ricordare, ma che era poteva vedere. Era venuta lì per dire la verità. E chissà perché, si chiese, le veniva da piangere.
Bang le passò un bicchiere contenente qualcosa da bere.
«Hai un’espressione un po’ depressa per il giorno di Natale.»
«Eh?! Ah, no. Sono solo pensierosa…» sotto il tavolo si torturò le mani. «Sono venuta qui oggi perché ho una cosa importante da fare. Sto prendendo coraggio.»
Bang la guardò. Anzi, in realtà sembrava volerla guardare fin dentro l’anima e Tamago se ne accorse.
«Cosa sei tu per loro?» domandò. Tamago arrossì e capì che lui doveva aver intuito qualcosa. Guardò sé stessa mezza addormentata in braccio a Genos e sorrise.
«Qualcosa di bello, spero…» e bevve ciò che aveva nel bicchiere. Poi sentì quei due discutere.
«Non faccio nessun discorso smielato. Al massimo posso dire grazie tante e quando ve ne andate non sbattete la porta» borbottò Saitama, che proprio non riusciva ad essere troppo ospitale.
 «Dovresti essere un po’ più gentile» sospirò Genos.
«Ho aperto la mia casa a tutti, sono gentile! Ho fatto pure tenere Tamago in braccio a tutti loro.»
«… Non a me» disse King, depresso.
«Perché devo ancora capito se mi fido» rispose Saitama.
Tamago a quel punto si alzò in piedi di scatto. Che ci fosse dell’alcol in ciò che aveva bevuto? Perché all’improvviso aveva caldo e si sentiva un po’ più coraggiosa.
«Posso dire due parole?»
Genos era abbastanza stupito.
«Direi di sì»
Tamago si schiarì la voce. Non era proprio così che se l’era immaginato, di fatto lei non aveva nemmeno mai parlato in pubblico.
«D’accordo, allora. Sapete, io da bambina ho vissuto dei Natali del genere e oggi ho riprovato le stesse sensazioni di allora. So che per tutti voi sono quasi un’estranea, che conoscete poco di me, però io sento che non è così… Insomma, non è così.»
Metal Bat fece una smorfia. Che non ci girasse troppo attorno, non ne poteva più di mantenere quel segreto.
«Figurati, a me stai più simpatica di tutti loro» commentò Saitama, ricevendo una gomitata molto forte da Tatsumai. Tamago sorrise e poi continuò.
«Vorrei anche dire che ci ho impiegato molto per convincermi a tornare. Avevo paura di dover affrontare la realtà, ma adesso non posso più tornare. Di me non sapete molto, ed è perché io non ve l’ho permesso. Ma ora…» ingoiò a vuoto, sentendo il cuore battere forte. «Dovete sapere… soprattutto voi, Saitama e Genos, che io… che io sono vostra figlia e vengo dal futuro!»
Calò un silenzio profondo. Metal Bat era sul punto di urlare diamine, ma ti sembra credibile, detta così? Ma non riuscì a dire una parola. In realtà nessuno riuscì a dire una parola. Tatsumaki si guardò attorno, confusa.
«Beh…? L’avete fatta ubriacare?»
Saitama guardò Genos, come a volergli dire aiutami. Ma Genos non sapeva cosa dire tanto quanto lui.
«Tamago, hai bevuto troppo, è meglio se ti siedi» tentò il cyborg. Ma lei scosse la testa.
«No, ascoltatemi tutti. Sono davvero io, sono Tamago. La vostra Tamago.»
Saitama scosse la testa.
«Ma no. È lei la nostra Tamago. L’abbiamo anche… chiamata anche te» disse poco convinto. Quello che diceva non aveva senso, ma d’altronde cosa aveva senso? Le sue previsioni, i Jikan, i sogni che gi era capitato di fare?
Tamago arrossì.
«Eh… avete chiamato vostra figlia come vostra figlia, appunto. Io e lei siamo la stessa persona. Come pensi che sapessi tutto ciò che vi sarebbe accaduto? Non penserete davvero che sappia leggere il futuro! No, io ho il potere di percepire e spostarmi nel tempo in modo anomalo.»
Saitama avvertì una fitta alla testa. Troppe informazioni assurde tutte insieme. Genos invece sembrava non stare ascoltando. Avevano tutti un po’ un’espressione stravolta, eccezion fatta per Bang e per Meta Bat, che si era alzato.
«È vero quello che lei dice. Mi ha raccontato tutto e non sta mentendo.»
Saitama fece una smorfia e guardò sua figlia che dormiva nella culla. E poi guardò Tamago. Come potevano essere la stessa persona? Questo avrebbe però spiegato il perché lei gli fosse piaciuta sin da subito, il perché si fosse sempre sentito così protettivo nei suoi confronti. Ma era assurdo da realizzare o immaginare. Eppure lei era lì. Genos si avvicinò a Tamago in silenzio e lei non si mosse. Temeva abbastanza la sua reazione, perché fino a quel momento non aveva detto nulla. Genos la guardò scettico, prese il suo viso tra le mani e la squadrò. Guardò i suoi occhi, il suo naso, la sua bocca. Non sapeva cosa fosse. Non era solo la palese somiglianza con la bambina che aveva messo al mondo qualche giorno prima. Era qualcosa di più inconscio, eppure più potente del resto. Sentì che quella era davvero Tamago. Non avrebbe potuto non riconoscerla, perché per un periodo erano stati una cosa sola. Ora tutto tornava.
«Sei tu la mia Tamago» lo affermò, senza chiederlo. Non aveva bisogno di chiedere.
Tamago si rilassò di colpo. E si sentì come se si fosse appena tolta un grosso peso dallo stomaco. Saitama si avvicinò, quasi impaurito. Quindi era lei la bambina che aveva sognato? Era a causa sua se sentiva e vedeva cose che non aveva mai vissuto?
«Sei tu?» domandò. Tamago annuì, con gli occhi lucidi. Forse poteva permettersi di piangere, un po’. Se lo meritava. Li abbracciò entrambi, soffocandoli con una forza che nessuno dei due si aspettava. Genos guardò Saitama e capì tutto, capì che tutto ciò che era successo aveva solo portato in quel momento. E lo capì anche Siata, che ora accarezzando Tamaga adulta, avvertiva la stessa sensazione di quando aveva accarezzato Tamago bambina.
«Non piangere, va tutto bene. Noi siamo qui. E tu sei qui, evidentemente. Ci dovrai un bel po’ di spiegazioni.»
Gli altri, che se n’erano rimasti al silenzio, fissavano i tre come se avessero davanti qualcosa di impossibile. Tatsumaki si avvicinò, scettica.
«Tu sei… vieni dal futuro?»
Tamago si asciugò gli occhi.
«Proprio così, zietta! Allora mi credete!»
«È un po’ difficile non crederti» ammise Bang. «Dopotutto c’è sempre stato qualcosa di speciale in te.»
King, Fubuki ed Emperor Child erano stati contagiati dalla curiosità. Volevano parlare con Tamago, cercare di capire, farle domande. Tamago avrebbe risposto a tutto, ma a tempo debito. Prima aveva un’importante questione da spiegare. Lo fece mentre Genos e Saitama davanti a lei si passavano a turno Tamago per cercare di tenerla buona. Era davvero sempre stata una piagnucolona.
«Allora… com’è possibile che tu sia qui?» domandò Genos, incredulo che quella bellissima giovane donna fosse sua figlia. Tamago sospirò.
«Dovrei spiegare tutto dall’inizio. Beh… la mia vita era bella. Vivevo in una fattoria e…»
«Fattoria?! Io farò il contadino, tra qualche anno?!» domandò Saitama. Poi si guardò intorno e capì di aver fatto la domanda sbagliata. Si scusò e la invitò a continuare.
«Dicevo… che la mia vita era felice, eravamo tutti amici e Metal Bat era anche il mio baby sitter» spiegò. Genos lo guardò.
«Immagino tu sapessi.»
«Non da molto, ma sì. Ti conviene conoscere il resto della storia, prima di commentare» borbottò lui. Tamago scrollò le spalle.
«Non sono nata con questa abilità, ovviamente. Me l’hanno data i Jikan. Mi hanno dato la possibilità di spostarmi nel tempo.»
Tamago parlava concitata, ma era evidente, dal suo sguardo, che ci fosse qualcosa di oscuro dietro. Per forza, altrimenti non si sarebbe trovata lì.
«Ma…?» la spronò Genos.
«Ma questo non è un potere che posso controllare. Ci ho provato, ma ne sono sempre stata vittima. E così un giorno sono sparita e… e non sono più tornata» ammise con difficoltà. «Ho cercato di tornare in tutti i modi. E poi sono capitata qui. Avrei voluto dirlo subito, ma temevo non mi aveste creduta perché… perché una cosa de genere è impossibile. Il problema è che ciò ha causato sofferenza a tutti voi» quella era la parte che più era difficile rivelare. «Sono capitata anche nel futuro, per pochissimo. E in quel futuro voi… voi non stavate più insieme! Sono impazzita quando vi ho visti e ho capito che non potevo più perdere tempo. Vi prego non lasciatevi e impeditemi di diventare quello che sono!»
Tamago si rese conto troppo tardi di aver parlato senza pensare. Il discorso che si era preparato a mente era sparito. C’era solo lei che parlava e parlava. Saitama aveva un’espressione stralunata. Genos, che sembrava impassibile come al solito, porse la neonata a Saitama.
«Vogliate scusarmi solo un attimo. Ho bisogno… di un solo attimo per pensare.»
«Cosa? Ma… Genos, adesso…?» domandò lui. Lo avrebbe compreso solo dopo il bisogno di Genos di isolarsi, fare mente locale, metabolizzare. Perché le informazioni da metabolizzare erano tante e le emozioni da affrontare altrettanto.

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Capitolo 17
*** Non più lacrime ***


Capitolo diciassette: Non più lacrime
 
Adesso Genos trovava un senso a tutto ciò che era successo, ma non riusciva comunque a metabolizzare certe cose. Nel futuro, lui e Saitama avevano perso Tamago. Nel futuro, avevano sofferto tutti e tre. Non erano stati capaci di proteggere la loro unica figlia. Lui non ne era stato in grado. Eppure adesso quella figlia eccola lì. Se ne stava in piedi a parlare con gli altri che, curiosi, avevano iniziato a porle un sacco di domande. Lei era diventata grande e al contempo dormiva nella sua culla, era assurdo anche solo pensarci. Saitama gli parlava, ma recepiva ben poco di ciò che gli stava dicendo.
«… Lo so che è tutto assurdo. Mi sta scoppiando la testa. Insomma, succede un casino del genere, nel futuro? Addirittura ci lasciamo? Col cavolo, una cosa del genere non può accadere!»
Genos finalmente ritornò in sé. Non era l’unico a voler impedire quel futuro. Ma non c’era niente di scritto, come potevano avere la certezza che sarebbe tutto cambiato in meglio
«Non sono stato capace di impedirlo. Non sono un granché come genitore.»
«Questo non è vero. E, come vedi, io non sono tanto meglio» Saitama sospirò e guardò Tamago. La sua bellissima bambina, cresciuta da sola tra il dolore e chissà che altro che non conosceva. «Dobbiamo cercare di capire.»
Allungò una mano e strinse quella di Genos. Adesso sarebbe stato tutto diverso, pensarono mentre si avvicinavano a lei.
«Non posso credere che tu venga dal futuro» commentò Child Emperor. «Puoi spostarti a tuo piacimento nel tempo?»
Tamago arrossì.
«No, e il problema è proprio questo. Non sono mai riuscita a controllarlo completamente. Sono arrivata qui la prima volta per pura fortuna» smise di parlare quando vide i suoi genitori davanti a sé. Saitama sorrise, in imbarazzo.
«Così eccoci qua, eh?»
Genos si sentiva ancora più in imbarazzo di lui, anzi. Si sentiva colpevole.
«Tamago… mi dispiace per quello che hai passato. Eri solo una bambina, avrei dovuto pensarci io a proteggerti.»
«Noi» lo corresse Saitama. La ragazza lo guardava, le spalle dritte e l’espressione contratta in una smorfia di dolore. Oh, se solo avessero saputo tutto ciò che aveva visto e provato. Le parole non sarebbero bastate. E, pensandoci, non ne aveva bisogno.
«La colpa non è vostra» e dicendo ciò allargò le mani. «Forse posso mostravi direttamente ciò che mi è successo. Se solo stando a contatto con me siete stati capaci di vedere degli sprazzi del futuro, allora forse toccandomi sarà tutto più chiaro.»
Genos guardò Saitama e viceversa. Non si sentivano pronti a vedere quel futuro disastroso, ma che altra scelta avevano? Così toccarono e poi strinsero le mani di Tamago. E videro tutto, come se le immagini passassero loro davanti agli occhi. Gli anni felici, poi il momento in cui Tamago aveva acquisito i poteri. La sua scomparsa, la loro sofferenza e la sua, il tentato suicidio, la voglia di mettere fine a tutto. La fine della loro storia d’amore, che lasciava posto solo al rancore e alla rabbia. Arrivò tutto insieme e Genos fu il primo a staccarsi dalla sua presa.
«Non è vero. Tutto questo è successo a te, a noi. Tu non dovevi soffrire così.»
«No, e nemmeno voi. Alle volte ho pensato che se non ci fossi stata, sarebbe stato meglio per tutti.»
Saitama scosse la testa. Non se n’era nemmeno accorto, ma aveva le guance bagnate di lacrime. Lui non piangeva mai. Ciò che aveva visto però gli aveva toccato l’anima.
«Non so chi siano questi tutti di chi parli, ma di certo la cosa non riguarda noi»
Le accarezzò la testa, con dolcezza.
«Cosa dobbiamo fare?» domandò ancora Saitama. Tamago si rasserenò sotto il suo tocco.
«Dovete solo impedirmi di venire a contatto con I Jikan. Non so come, ma avete visto quello che succede. Io non posso…»
«Ma aspetta!» gridò Metal Bat, che fin ora aveva evitato di immischiarsi per lasciare loro un po’ di intimità. «Vuoi veramente rinunciare ai tuoi poteri? Questa è una cosa stupida, un potere come il tuo può essere  un dono. E tra l’altro hai anche detto ua bugia. Non sei mai riuscita a controllarlo? Balle! Quando sei tornata qui con Garou sei riuscita eccome, mi pare!»
Per Saitama e Genos non fu troppo strano sentire pronunciare il nome d Garou. Avevano visto anche questo. Certo era un po’ strano pensare che la loro bambina fosse diventata amica di uno come lui. Tamago fece spallucce.
«È stato solo un caso» si schernì.
«Ragazza, ascolta» intervenne Silver Fang. «Tutto quello che è accaduto a noi, di certo è accaduto per un motivo. Anche negli attimi più bui può trovarsi un po’ di luce, basta cercare. Se tu hai questo dono, magari sei solo destinata a compiere qualcosa di straordinario.»
Tamago se l’era immaginato tante volte. Da bambina aveva sognato di diventare un’eroina, sarebbe stato bello usare quel potere per aiutare le persone. Ma fin ora non aveva aiutato nessuno.
«Però io ho solo portato sofferenza.»
«Non è vero, questo» Genos poggiò anche la sua mano sulla sua testa. «Noi possiamo anche fare quello che vuoi, cercare di impedire il contatto tra te e il Jikan. Ma noi ti ameremmo a qualsiasi condizione. È sempre stato così.»
«Puoi ben dirlo!» aggiunse Genos. «Ti abbiamo voluto bene quando ancora non sapevamo chi fossi» e poi abbassò la voce. «Però io ti voglio più bene.»
Tamago si mise a ridere. Aveva le lacrime agli occhi, non perché fosse triste. Ma perché si sentiva scaldata magari fuori ci fosse il gelo.
«Ragazzi, attenzione!» gridò ad un tratto Metal Bat. Aveva avvertito qualche istante prima la terra tremare sotto i loro piedi. Come un terremoto.
«Ah! Ma che succede?» domandò Tatsumaki. «Un terremoto?»
«No, macché! Sono i Jikan, li sento» Metal Bat si concentrò. «Oh, no. Merda. Temo siano scappati.»
«Scappati?! Questo non era previsto!» esclamò Saitama.
«Perché questo effettivamente non è successo. Ma adesso sì» spiegò Tamago. «E ora?»
Il suo compito poteva anche dirsi finito. O forse no.
Si sentì ad un tratto coraggiosa. Risoluta. Non che non avesse paura, quella l’accompagnava sempre come una fedele amica. Ma adesso non aveva più voglia di scappare.
«E ora si va da loro, questo è quanto» sussurrò, sollevando la testa,
 
Quando Genos aveva chiesto a Kiko di prendersi cura di Tamago mentre non c’erano, quest’ultima aveva cercato di porre delle domande, ma il cyborg gliel’aveva impedito. Si era detto che prima di riprendere la carriera da eroe si sarebbe preso de tempo, per sé stesso e per Tamago.
Sempre per Tamago, adesso si ritrovava a fare il contrario.
E poi, i Jikan in qualche modo andavano fermati, quindi era a prescindere un loro compito.
«Tamago, so che forse non dovrei ricordartelo» disse Saitama andando dietro sua figlia. «Ma l’ultima volta che sei venuta a contatto con loro, hai iniziato a viaggiare nel tempo. Non dovresti lasciare fare a noi?»
«Neanche per sogno! E poi rischiano di far male a delle persone innocenti!»
Tastumaki scosse la testa.
«Mi chiedo proprio da chi abbia preso la testardaggine.»
Fuori c’era il gelo, ma aveva smesso di nevicare. Tutto intorno era coperto da un bianco candido, il sole appariva tiepido: I Jikan erano così imponenti da coprire anche la fioca luce dell’inverno. Tamago poté giurare di ricordarli molto più piccoli. Alcune persone venivano sfiorate dai tentacoli dei Jikan, che avanzavano a pochi metri da terra.
«Merda» imprecò Metal Bat. «Non li vedo, ma non ci vuole la vista per capire che questo è un vero casino.»
«E ci serve un piano. Abbiamo un piano?» domandò Saitama. Tamago si guardò attorno. Lei non era un’eroina, stava solo improvvisando.
«Qualcuno di voi deve occuparsi di mettere in salvo i civili. Io vado dai Jikan.»
«Aspetta un attimo» Genos l’afferrò per un braccio. «Non hai il potere di fare nulla!»
«Per l’appunto. Fai andare me. Potrei eliminarli con un solo colpo» disse Saitama. «Se adesso io li uccido, tu non li incontrerai mai e avrai una vita normale. Non era quello che volevi?»
In teoria sì, lo era. Ma adesso Tamago sentiva che c’era qualcosa che doveva fare, che doveva capire.
«Sì, ma… oh, ascoltate! Fate quello che volete, cercare di catturarli, ma non uccideteli. Io devo andare…»
La stretta di Genos si fece più stretta.
«Non intendo perderti di nuovo!»
Ricordava troppo bene quello che aveva visto accadere nel futuro e se c’era una sola possibilità che ciò accadesse, doveva evitarlo.
«Se le cose non cambiano, forse mi perderai lo stesso! Qui stiamo rischiando tutti alla fine, no?»
Saitama non sapeva cosa Tamago avesse in mente. Sapeva solo che, per quanto in passato gli fosse scocciato ammetterlo, si fosse sempre fidato di lei.
Si avvicinò a lei e la baciò sulla fronte.
«Sì, sei proprio la mia ragazza, non c’è che dire. Solo che tu sei molto più eroica di noi.»
«Parla per te…» borbottò Genos, allontanando la mano da lei. «D’accordo, Tamago. Ti copriamo le spalle.»
Tamago annuì e poi si rivolse a Metal Bat.
«Coprimi le spalle anche tu.»
«Tsk, sono qui per questo, ti ricordo!»
 
C’era qualcosa di diverso, questa volta. I Jikan, creature pacifiche da quando avevano messo piede sulla terra, sembravano adesso inquiete. I loro tentacoli, sottili e trasparenti come quelli delle meduse, sfioravano tutto ciò che incontravano, condannando o donando. Lei che cosa aveva da perdere? La sua vita era già stata abbastanza difficile. Mentre gli altri si occupavano di tenere a bada i Jikan (facendo attenzione anche a non farsi colpire a loro volta), Tamago passò sotto i loro tentacoli. Era terrorizzata oltre il limite della ragione. Adesso non c’era un vetro a separarli.
«Ehi! Io sono venuta qui per capire, non per combattere!» gridò, agitando le braccia. Meta Bat alzò la testa.
«Ma vostra figlia è forse impazzita?!»
«Cazzo!» imprecò Genos. «Tamago, smettila di giocare a fare l’esca!»
In quel momento la terra sotto i loro i piedi tremò un’altra volta. Talmente forte che Metal Bat perse l’equilibrio.
«Maledizione» subito portò una mano davanti a sé, per percepire la presenza dei Jkan o dei loro tentacoli attorno a sé. Ma era stordito e Metal Bat non avrebbe mai saputo cosa avrebbe potuto ottenere o perdere, se fosse stato sfiorato. Qualcuno l’aveva spinto, prendendo il colpo al posto suo.
«Ah! Cosa…? Chi è stato?»
Poi si fece attento.
«Chi vuoi che sia stato?» domandò una voce scorbutica.
Garou. Garou era arrivato per salvare lui. Garou ora si sfiorava il braccio dolorante, come se tutte le sue ossa fossero state frantumate.
«Garou…» mormorò. «Bastardo, ma che cosa fai tu qui?»
«Senti, vai al diavolo, d’accordo? Sono monco adesso, per colpa tua! Ma dovevano farlo» dicendo ciò si fece serio. «Non posso certo starmene a guardare mentre fanno del male alla persone che amo.»
Una dichiarazione nel bel mezzo di un campo di battaglia non era certo ciò che Metal Bat si aspettava.
«La persona che… io?»
«Non mettere il dito nella piaga. A che serve dire che non ci innamoreremo? Tanto sta già succedendo. E visto che tu sei cieco e io senza un braccio, temo che dovremmo anche collaborare.»
Metal Bat sorrise. Propri strano il destino, doveva ammetterlo. Ma al so fianco ci avrebbe combattuto volentieri. Lo sentiva giusto, naturale.
Intanto, uno dei due Jikan aveva rivolto le attenzioni di Tamago. Quest’ultima non si era mossa. Anzi, si era piantata sull’asfalto come a voler dire io ti aspetto. Tu che aspetti?
Poi i tentacoli del Jikan le sfiorarono il viso. E non ebbe paura, né sentì dolore. Sentì solo una voce che la chiamava.
 
La sensazione che provò fu familiare. E capì subito perché: era tornata nel vuoto, anzi, qualcuno ce l’aveva portata.
«Ma cosa…?» domandò guardandosi intorno. Non era sola: il Jikan era lì con lei, solo che ora splendeva di una luce che irradiava da dentro, rendendo il suo corpo quasi trasparente.
«Tamago»
La chiamò una voce femminile.
«C-chi è?»
«Sono io, Tamago. Sono davanti a te.»
Davanti a lei c’era solo il Jikan. Il Jikan femmina ad essere precisi.
Non aveva idea che parlassero. Ora che ci pensava, era la prima volta che li udiva. Il Jikan parlava con voce calma e rassicurante, con fare quasi materno. Tamago si avvicinò, cauta.
«Ma tu parli? Com’è possibile? Pensavo stessero cercando un modo per comunicare con voi.»
Non aveva paura. In realtà, lì ne Vuoto, si sentiva tranquilla, come se niente contasse più.
«Noi parliamo con chi è disposto ad ascoltarci. Come te, cara Tamago. Anche se ci hai tanto odiato.»
Tamago arrossì. Si sentiva violata, lei le guardava dentro. Questo non le piaceva, le faceva venire voglia di piangere.
Scosse la testa.
«Beh, per forza. Voi siete il nemico. Avete fatto male a me e anche a tante persone. Quello che non capisco è perché. Perché siete arrivati su questa erra?»
Di sicuro doveva star parlando a nome di tutti, a quel momento. Era quella la domanda che chiunque si era posto: perché?
Il Jikan le fece segno, con i suoi lunghi tentacoli, di avvicinarsi ancora. E Tamago obbedì.
«Sai, cara Tamago. Dal pianeta in cui noi veniamo, non esiste una parola per guerra. Su questo pianeta è tutto diverso. Ma è per questo che esistete voi eroi, non è vero?»
«Ma io non sono un’eroina, per niente. Forse lo sarei stata, però…»
«Però non hai creduto abbastanza in te.»
«Come potevo credere in me? Questo potere mi controlla. L’unica volta in cui non mi ha controllato è stata… è stata…» si guardò le mani. Era stata nel momento in cui la sua volontà si era concentrata tutta sul voler salvare la sua famiglia. Quando per un attimo aveva distolto l’attenzione dal voler controllare quel potere.
«Più lo controllerai e più ti sarà nemico. Tutto può essere un dono o una maledizione, dipende dal punto di vista. Guarda il tuo amico… Metal Bat, giusto?»
Tamago sollevò la testa.
«Lui ha perso la vista… però è stato felice. Cioè… sarà felice.»
«E che mi dici del cyborg chiamato Genos? Era così spaventato all’inizio. Eppure ha avuto te.»
Tamago si commosse nel sentirgli dire ciò e le venne da sorridere.
«Stai cercando di dirmi che tutto quello che succede, succede per una ragione?»
Il tentacolo sottile del Jikan si posò sulla sua guancia. Non fu sgradevole. Tamago sentì anzi un piacevole calore su tutto il viso.
«In tutti i momenti di difficoltà, puoi scoprire la gioia. In tutti i momenti di gioia puoi scoprire il dolore. Ma questo in pochi riescono a capirli. L’hanno capito i tuoi genitori, lo hanno capito i tuoi amici eroi… e ora stai capendo anche tu. Puoi anche lasciare che ci uccidano per eliminare ogni pericolo. Oppure no. Ma Tamago, il futuro non è scritto e io ho visto l’eroina e la persona che potresti diventare. Ma devi avere fiducia, nella gente che ti ama… e in te stessa.»
Tamago chiuse gli occhi. Oh, una piagnucolona come lei, un’eroina? Era incredibile anche solo a pensarci. Le venne da sorridere.
«Quindi voi siete delle creature che sono venute da lontano per dare insegnamenti all’umanità? Non è molto originale» affermò Si sentì molto simile a Saitama in quel momento: lui avrebbe detto la stessa cosa.
«Sei destinata a grandi cose. Ma solo tu puoi decidere.»
Le accarezzò la testa e Tamago respirò profondamente.
«Io decido di non voler avere più il controllo su nulla» dichiarò.
 
 
«Genos, aspetta.»
«Cosa devo aspettare, Saitama? Non dirmi che Tamago è scomparsa di nuovo. Lo sapevo che non era una buona idea, io…»
«Volete finire di litigare voi due?!» gridò Tatsumaki. «Questo qui è duro da far fuori.»
Saitama alzò gli occhi al cielo.
«Io potrei eliminarli. Ma non se è quello che Tamago vuole.»
«A me sembra quello che voleva invece» Genos afferrò la sua mano. «Ti prego, fallo.»
Saitama era combattuto. Era davvero quella la volontà di sua figlia?
 
Sollevò lo sguardo, verso il cielo che stranamente non gli bruciava gli occhi.
Il sole aveva una forma strana…
«Tamago?»
«Cosa?» domandò Genos. Era assurdo: Tamago non sarebbe piovuta dal cielo.
Ma la ragazza che atterrò dal cielo, cadendo perfettamente in piedi e con un’espressione nuova, era proprio caduta da lì.
«Tamago! Sei caduta dal cielo» notò Saitama, sollevato. Sembrava diversa. Non avevano idea di dove fosse stata, eppure sembrava improvvisamente maturata.
«Avremo tempo dopo per parlare. Adesso non dovete più combattere.»
«Figlia mia, stai bene?» domandò Genos. Come poteva dir loro di non combattere? Tamago era avvolta in una calma serafica.
«Proprio quello che ho detto. FERMATEVI!» gridò poi ad alta voce.
Metal Bat rimase con la mazza sospesa a mezz’aria.
«Tamago…?»
Garou ansimava accanto a lui, stanco e provato dal fatto che avesse appena perso un braccio. Tamago s’incamminò vicino ad uno dei due Jikan.
«Tamago, che fai?» domandò Genos, in allerta. Non riusciva a capire. Tamago sollevò una mano e si lasciò sfiorare dal Jikan. E non le accadde niente.
 «Eh…?» ansimò Garou. «Non le sta accadendo niente. Proprio niente.»
Tamago sembrava a suo agio. Sembrava risplendere di una nuova luce.
Sì, capisco. Ora ho capito tutto.

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Capitolo 18
*** La bambina che ce l'ha fatta ***


Capitolo diciotto: La bambina che ce l'ha fatta
 
 
Tamago si assicurò che la coppia di Jikan fossero ricondotti al sicuro, dove nessuno avrebbe loro fatto male. L’umanità non era ancora pronta a comprendere tali creature, ma era certa che presto ci sarebbe arrivata.
Aveva ripreso a nevicare, mentre aiutava i suoi amici eroi ad aiutare i civili coinvolti in quell’attacco.
Poi, ad un tratto, si sentì stringere da due paia di braccia.
«Tamago! Cosa succede? Non vuoi più che vengano eliminati?» domandò Saitama, dimenticandosi di calibrare la sua forza. Tamago si ritrovò quindi soffocata nel suo abbraccio.
«P-piano, non respiro!»
«Mollala, fa piano!» Genos riuscì a staccare Saitama da lei. E poi la guardò in viso, come ad accertarsi che stesse bene, che non fosse ferita. «Tamago, ma che è successo? Sei sparita per qualche attimo…»
La ragazza stava sorridendo. Già, come poter spiegare quello che era successo? Era difficile metabolizzarlo anche per lei.
«Diciamo che ho capito alcune cose. I Jikan non sono pericolosi, non lo sono mai stati. Ho capito che spesso il nostro più grande nemico spesso è la paura. E noi stessi. Forse non devo per forza rinunciare ai miei poteri.»
Saitama la osservò, interessato.
«Sei sicura che tu l’abbia concepita con me? Mi sembra troppo intelligente!»
Tamago nascose un sorriso dietro una mano, mentre Genos alzava gli occhi verso il cielo e osservava la neve cadere. Tra tutto quel bianco splendente, una giovane donna stava avanzando spingendo un passeggino. Aveva il fiato corto e sembrava agitata.
«Genoooos, Saitamaaaa!»
«Tu? Ma come ti viene in mente di uscire con la bambina con questo gelo?!» esclamò il cyborg. «Se si becca la febbre per colpa tua…»
«Beh, scusa! Ero preoccupata…!» Kiko si fermò. La bimba dormiva beatamente e lei stava cercando di prendere aria. Poi sollevò lo sguardo e vide per la prima volta Tamago. Inarcò un sopracciglio e, senza che nessuno le dovesse spiegare nulla, intuì. Dopotutto avrebbe riconosciuto ovunque la bambina che aveva aiutato a venire al mondo.
«… Tamago?»
«Ciao, Kiko. È un piacere conoscerti di nuovo» Tamago fece un inchino.
 
«Garou. Bastardo, parlami! Devo chiamare un’ambulanza?»
Garou aveva perso un quantitativo di sangue significativo. E adesso si premeva lì dove non molto tempo prima c’era stato il suo braccio.
«Se non la smetti di agitarti, ti arriva un calcio sui denti.»
«Non dovresti parlare così ad uno che si preoccupa per te! Perché lo faccio, poi?»
Metal Bat si chinò su di lui, allungando una mano per aiutarlo. Garou fece per afferrarla, ma lui si retrasse all’improvviso, facendogli perdere l’equilibrio.
«Maledetto figlio di… Ti sembra il momento di farmi questi scherzi idioti?»
Garou smise di parlare quando vide la sua espressione. Metal Bat batteva le palpebre, guardandosi intorno. Il che non aveva senso, visto che era cieco. Metal Bat stava vedendo il buio rischiararsi e pian piano metteva a fuoco il mondo intorno a sé. Infine posò lo sguardo su Garou e fu come conoscerlo di nuovo.
«Ma… Garou, io ti vedo.»
«Tu… tu cosa?» domandò lui, sconvolto. Metal Bat lo stava guardando. Lo vedeva. Sussultò quando si rese conto che il dolore era scomparso e che il braccio era tornato al suo posto, come se fosse sempre stato lì.
«Ma non è possibile. Che diamine sta succedendo…?»
Non ebbe il tempo di fare altre domande. Metal Bat lo afferrò e lo aiutò ad alzarsi e poi lo guardò negli occhi. Si era abituato al buio ed era certo che sarebbe andato avanti così per tutta la vita. Adesso invece vedeva a soffice neve e vedeva lui.
«Non sono mai stato così felice di vederti.»
«… Come?»
Metal Bat prese il suo viso tra le mani e senza pensare ad altro lo baciò. Garou oppose una leggera resistenza e, infine, si arrese e ricambiò il bacio.
 
«Senti, non è che potrei chiederti un piccolo favore?» chiese Tamago al Jikan.
«Cosa posso fare per te, Tamago?»
La ragazza sorrise.
«Potresti ridare ai miei amici ciò che hanno perduto? Anzi, puoi farlo per tutte le persone che hanno perso qualcosa? Sicuramente al mondo c’è cje fa cose cattive, ma c’è anche gente che fa cose buone. I miei amici, loro… sono bizzarri, però credo abbiano capito. Ora vivranno in modo diverso. Soprattutto una certa persona.»
«Sì, capisco. Sei una brava ragazza, Tamago. Anzi, Maga Tamago.»
«Io? No, non credo. Sono solo una persona che ogni tanto fa cose buone e ogni tanto fa cose meno buone. Come tutti. Allora ci rivediamo… presto?»
Si sentiva indissolubilmente legata a quelle creature, adesso. Ed era giusto così. Dopotutto lei esisteva per merito loro.
«Giusto il tempo di un battito di ciglia.»
 
 
Garou e Metal Bat avevano dimenticato del mondo intorno a sé. Il loro bacio passionale ed esasperato aveva impedito loro di concentrarsi su altro.
Gli altri però su di loro si erano concentrati e li guardavano con delle espressioni divertite.
Metal Bat se ne rese conto e ad un certo punto si staccò dal bacio, guardandosi intorno.
«Beh» disse Tatsumaki. «Questo è un risvolto inaspettato. Almeno credo.»
Garou non era riuscito ad impedirsi di arrossire.
«Si può sapere cosa avete da guardare e… vecchio Bang!»
Bang stava di nuovo in piedi e lo guardava fieramente.
«È un piacere trovarti qui con noi, Garou.»
E così era successo quello che più aveva temuto: lui non era il cattivo, non lo era mai stato. Era stato l’aiutante della protagonista, il che era piuttosto bizzarro.
Tamago si mise a correre e andò loro addosso, abbracciandoli.
«Ragazziiii! È tutto a posto, andrà tutto bene. Sono così felice! Badd, ci vedi!»
Metal Bat la strinse a sé.
«Non so cosa tu abbia combinato, ma ha funzionato.»
A Garou gli abbracci non erano mai piaciuti. Non gli erano mai piaciute le smancerie. C’erano delle eccezioni, però, come quelle. Garou vide Saitama guardarlo e fargli un cenno con la testa.
«Grazie per esserti preso cura di mia figlia.»
Garou lo fissò, rigido.
«Tamago è in gamba, ve lo concedo, a te e al cyborg.»
Tamago si staccò dall’abbraccio e si guardò attorno. Era meraviglioso, tutti i suoi amici stavano bene, Bang era di nuovo sulle sue gambe, King, Tatsumaki ed Emperor Child non avevano più addosso i segni del loro contatto con i Jikan e Badd ci vedeva e Garou aveva di nuovo il suo braccio.
«Sono così felice che state tutti bene» sussurrò, emozionata e poi guardò la nuova coppia appena formatosi. «Sapevo che su voi due non avevo mai sbagliato.»
Garou fece una smorfia e poi le poggiò una mano sulla testa.
«Meglio se non infierisci oltre, piccola Tamago.»
 
 
Con i Jikan al sicuro e la città che sarebbe stata ricostruita, Tamago lì non aveva più niente da fare. Aveva appreso un’importante lezione ed era certa che quel futuro terribile adesso non si sarebbe realizzato. Non aveva idea di cosa l’aspettasse, certo, ma di sicuro le cose erano cambiate per forza.
«Quindi non ho capito male, quella è veramente vostra figlia venuta da futuro. Qualcuno mi dà delle spiegazioni?» domandò Kiko aggiustandosi gli occhiali. Saitama le poggiò una mano sulla spalla.
«Magari un giorno te lo racconterò, è una storia che ha dell’incredibile.»
Genos teneva in braccio la piccola Tamago, che stranamente non dormiva né piagnucolava. Aveva perfino aperto gli occhi e sembrava incuriosita da tutto ciò che stava accadendo intorno a sé.
«Quindi te ne vai?» domandò Genos. Tamago sorrise.
«Beh, se riesco effettivamente a tornare al punto giusto, vorrà dire che il mio passato è cambiato. Ma sono positiva, dopotutto sono cambiata anche io.»
Si erano riuniti tutto intorno a lei. Sapeva che non doveva essere triste, dopotutto loro erano la sua famiglia, li avrebbe rivisti ben presto.
«Certo sarà strano dover aspettare anni per parlare così con te» ammise Garou. «Non era poi così male…»
«Vi prego, non fatemi piangere. Abbiate cura della me bambina. E non siate troppo severi, sono sempre stata una bambina sensibile.»
«Come se fosse possibile per noi essere severi» Saitama le poggi una mano sulla testa e l’accarezzò. «Lo sai che ti voglio bene, vero?»
Tamago arrossì. Si era sempre sentita molto amata. Ora più che mai.
«Lo so. E anche io.»
«Guarda che ti voglio bene anche io» borbottò Genos.
«Sì, sì. Ma io di più» rispose Saitama. Tamago sorrise e poi li abbracciò entrambi. Un amore così grande non poteva essere spezzato. Ora lo sapeva, quel futuro non poteva più realizzarsi.
«Oh» disse ad un tratto Tamago, tirando fuori dalla tasca qualcosa. «Lascio a voi il mio mazzo di Tarocchi. Dopotutto è così che ci siamo conosciuti, no?»
«Ma… Tamago, sei sicura?» chiese Genos. «Ce li hai da sempre.»
Lei ammiccò.
«Allora vorrà dire che me li ridarai fra cinque anni.»
Che strana questione il tempo, si ritrovò a pensare Saitama. Adesso anche lui lo vedeva più come un cerchio che come una linea.
«Allora, sei pronta?» domandò Metal Bat.
Tamago si staccò dall’abbraccio e sospirò.
«Se tutto va bene, ci vediamo tra poco» sussurrò. Guardò i suoi amici e poi chiuse gli occhi, congiungendo le mani come se stesse pregando. Vide, con l’occhio della mente, il posto in cui era e quello in cui voleva andare. Non cercò di controllarlo. Né di combattere. Ma abbracciò tutto quello che aveva fino a quel momento rifiutato. Fu una sensazione così calda e bella che le venne da piangere. Quando capì che stava per sparire, sollevò una mano per salutarli, ancora una volta. E poi scomparve, lasciando posto al silenzio e alla neve che cadeva lenta.
«È andata» Saitama fece spallucce. Genos guardò la neonata che in braccio a lui faceva adorabili versetti e sorrideva.
«Sei felice, vero? Questa volta lo sarai sempre, io lo so.»
Garou tossì, cercando di allontanare quel moto di tristezza. Dopotutto Tamago era lì, era solo un po’ più piccola.
«Che storia…» sussurrò. Metal Bat annuì.
«Mi sento strano» ammise.
«Forse perché adesso ci vedi e perché è successo un fottuto casino, che dici?»
Lui scosse la testa.
«Mi sento strano in modo diverso. Non mi sento completamente sé stesso.»
Saitama sollevò la testa.
«L’ultima volta che ho sentito una cosa del genere, dopo un po’ e venuta fuori Tamago. Io ci farei attenzione, se fossi in voi.»
Metal Bat arrossì, mentre Garou la prese con molta meno filosofia.
«Senti, vedi di farti gli affari tuoi, perché questo non ci rende amici!»
Poi si sentì Kiko ridere.
«Beh. Io l’ho sempre detto dal giorno in cui è nata: Tamago è destinata a grandi cose!»
 
 
*
 
 
Tamago riapparve da un’altra parte. Andò a sbattere contro qualcosa e atterrò contro il pavimento in legno.
«Ahi, che razza di atterraggio» si lamentò, alzandosi subito su. Si trovava dentro una casa e c’era silenzio. Guardandosi attorno, si accorse del letto, di tanti poster appesi alla parete, della libreria e di tanti gingilli che decoravano la stanza, come acchiappasogni e amuleti. Non poteva sbagliarsi. Quella era la stanza che aveva lasciato quando aveva cinque anni, solo che adesso era un po’ diversa.
«Non è possibile… non è possibile… Sono tornata indietro? Cioè… avanti?»
Indietreggiò, ma nel farlo andò a scontrarsi con qualcuno.
«Tamago, ma-»
«AH!» gridò. L’altra ragazza gridò di rimando.
«Ma che c’è?! Sono solo andata un attimo al bagno!» gridò. Tamago la squadrò. Capelli chiarissimi, quasi bianchi, sguardo affilato. Immediatamente ai suoi ricordi si aggiunsero quelli di un’altra vita. Quella felice, quella in cui tutto era andato bene La indicò con un dito.
«Tu sei Erika, sei la mia migliore amica.»
«Aw, sei così tenera e carina. Ovviamente lo sono» disse Erika giocando con una ciocca dei suoi capelli. «Ma lo sai che preferisco essere chiamata Erikamikaze»
«Il tuo… nome da eroe?» tentò. Adesso stava iniziando a collegare i pezzi. In quel futuro le cose erano andate in modo diverso. Lei lì era Maga Tamago, era quello il nome che aveva scelto.
«Siamo un po’ lente oggi, eh?»
Un ragazzo era apparso seduto sul davanzale della sua finestra, come se niente fosse. Con i capelli neri in disordine e l’espressione corrucciata gli ricordava terribilmente Badd.
«E tu che vuoi?» gridò Erika. «Ci stavi spiando? Non puoi lasciarci un po’ di tempo da sole tra ragazze?»
Tamago strabuzzò gli occhi, indicandolo.
«Eishi!»
«Cosa?» domandò il ragazzo.
«Tamago voleva dire Eishi, non rompere le scatole e lasciaci sole. Tu sei solo geloso perché ti piace Tamago, altroché!»
Eishi si alzò, avvicinandosi a lei con un pugno chiuso.
«Adesso ti ammazzo, maledetta.»
 
 
«Si può sapere perché devono sempre essere tutti a casa mia?!»
Certe cose non cambiavano mai.
«E non ti lamentare! I nostri figli sono amici, fattene una ragione!» si lamentò a sua volta Metal Bat. Non era certo colpa sua se i suoi gemelli avevano il brutto vizio di scappare per starsene con la loro amica del cuore. Lui ci provava anche ad essere severo, ma Garou gli diceva di lasciarli fare.
«Non c’è motivo di litigare. Ecco, dovrebbero essere di sopra» li informò Genos. E a giudicare dallo scalpiccio che sentiva lungo le scale, non si era sbagliato. Per prima scese Erika, imbronciata.
«Eishi è cattivo, lo sapete che mi ha tirato i capelli?»
«Io sono cattivo?» domandò suo fratello. «E tu sei una strega, ma pensi di essere la preferita. Beh, ti sbagli.»
«… Brutto insetto, ti schiaccio!»
Garou si intromise tra i due, afferrando le loro teste.
«CALMI. Non mi fate incavolare, oggi non sono dell’umore.»
«Ma pa’, tu non sei mai dell’umore…. Ahi!» si lamentò Eishi.
«Fate i bravi tutti e due, altrimenti vi uccido» sibilò. Metal Bat parve stupito.
«Però, meno male che dovevo lasciarli fare.»
«Tu chiudi il becco.»
Saitama si passò una mano sul viso, stanco. I figli facevano anche più casino dei genitori. L’ultima a scendere fu Tamago, la quale guardò i suoi genitori e sorrise.
«Siete voi! Siete proprio voi, ma che meraviglia!» gridò, correndo ad abbracciarli. Genos le accarezzò la testa e guardò Saitama. Alla fine erano riusciti a crescere Tamago. Il suo incontro con il Jikan era avvenuto ma, a differenza della prima volta, le avevano insegnato a vivere quel potere senza approcciarsi con la paura. Non sempre era stato facile, ma la loro bambina, ora divenuta una giovane donna, aveva imparato. E adesso era un’eroina, adesso era felice, adesso non c’era più l’ombra di nessuna minaccia.
«Perché, avevi qualche dubbio?» domandò Saitama. «Io no, non ho mai dubitato nemmeno un istante di noi.»
Tamago si asciugò un occhio da cui era appena scivolata una lacrima e Genos sollevò il suo viso.
«Lo sai che siamo fieri di te?» le domandò. Tamago riuniva davvero in sé le loro migliori qualità, sue e di Saitama. Sua figlia sorrise, commossa.
«Sì, e io lo sono di voi» sussurrò.
Erika si avvicinò a loro, abbracciando Tamago.
«Scusate se interrompo questo momento toccante.»
«Sì, lo stai facendo» borbottò Saitama.
«… Ma dobbiamo sbrigarci. Oggi liberano i Jikan.»
«Che cosa?!» esclamò Tamago. Quello di certo non lo aveva previsto.
 
In quegli anni chiunque aveva imparato cosa fosse un Jikan. In quei quindici anni erano stati compresi, studiati e qualcuno era perfino riuscito a comunicare con loro. Certo, non bene come Tamago, ma si erano fatti grandi progressi. Adesso però era arrivato il momento di liberare quelle creature straordinarie e intelligenti e lasciare che tornassero al loro pianeta. Si erano riuniti tutti insieme e Tamago aveva finalmente incontrato i suoi amici. Alcuni erano cresciuti, come Emperor Child e Zenko che erano due adulti. Altri erano semplicemente invecchiati. Un pensiero andò a Bang, che se n’era andato qualche anno prima, dopo una vita piena e soddisfacente. Nel ripensarci, a Tamago venne da piangere. Era una sensazione di malinconia e tenerezza e forse era normale che così fosse.
Era una bella giornata malgrado fosse inverno. Tamago guardava verso l’alto, pensierosa, mentre ascoltava Erika lamentarsi.
«Papi, ho fame. Mi compri il gelato?»
«Ma Erika, non hai sei anni! Però beh… se me lo chiedi così» Metal Bat si faceva mettere in difficoltà facilmente.
«Tsk, visto? Tu li vizi troppi» sentì dire a Garou.
«Io non sono affatto viziato!» protestò Eishi.
A Tamago venne da ridere. Che famiglia di pazzi. Beh, la sua non era meno. In tanti erano venuti ad assistere alla liberazione dei Jikan. Tamago sentì una stretta al cuore, come se stesse lasciando andare dei vecchi amiic.
«Non preoccuparti. C’è un po’ di quelle creature dentro ognuno di noi. Beh, in alcuni casi non è certo figurato» disse Saitama poggiandole una mano su una spalla. Sua figlia sospirò.
«È davvero incredibile a come le cose mutino all’improvviso.»
«Vero. Com’era quella parola che ti piaceva tanto?» chiese Genos.
Tamago sorrise e guardò i Jikan che ascendevano al cielo, muovendo i tentacoli sottili. Ebbe quasi l’impressione che la stessero salutando.
E poi gridò:
«Wabi-sabi!»

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