La cittadina

di Jasmine54
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il risveglio ***
Capitolo 2: *** Il mercato ***
Capitolo 3: *** Il professore ***
Capitolo 4: *** Non tutto si può perdonare ***
Capitolo 5: *** La messa ***
Capitolo 6: *** L'estate ***
Capitolo 7: *** Le vacanze ***
Capitolo 8: *** La tortellata ***
Capitolo 9: *** Settembre ***
Capitolo 10: *** L'autunno ***
Capitolo 11: *** L'amicizia si coltiva ***
Capitolo 12: *** La notizia scioccante ***
Capitolo 13: *** La leggerezza ***
Capitolo 14: *** Il dilemma del sentire profondo ***
Capitolo 15: *** Il pranzo di Natale ***
Capitolo 16: *** L'inverno ***
Capitolo 17: *** La primavera ***
Capitolo 18: *** Così, la vita ***
Capitolo 19: *** Il nuovo inizio ***
Capitolo 20: *** Una decisione sofferta ***
Capitolo 21: *** Ciò che resta sospeso ***



Capitolo 1
*** Il risveglio ***


Nel primo mattino il sole aveva già allungato i propri raggi sulla pianura, dorando la cittadina ancora addormentata. Tutti i tetti, la parte alta del Duomo - che si ergeva superbo al centro della cittadina - e i campi intorno, avevano assunto il colore lasciato dal sole. Nei campi, il cinguettio degli uccelli preannunciava una bella giornata. Gli insetti erano in piena attività: si spostavano da un fiore all’altro, tra l’erba ormai alta e pronta a un taglio deciso.

Solo la cittadina dormiva ancora.

Un uomo in bicicletta, all’inizio del giorno, attraversò la piazza del Duomo. Mattiniero, aveva deciso di lasciare la propria casa per il troppo caldo e per l’insonnia che lo tormentava da sempre. La solitudine lo aiutava a rilassarsi, lo allontanava dai pensieri insistenti che lo tormentavano: sarebbe riuscito a pagare tutte le rette universitarie del figlio a Berlino? Del resto glielo aveva già promesso che, se avesse superato gli esami di maturità classica, lo avrebbe aiutato ad andare in Germania all’università. E Filippo, suo figlio, li aveva superati brillantemente.

 

Dall’altro capo della cittadina, verso il fiume Po, una donna era a passeggio con il proprio cane, un bel lupo dal pelo lucido e dallo sguardo sveglio e attento. Mentre il cane correva tra gli alberi in riva al fiume, spaventando le anatrine che si stavano svegliando, la donna scrutò il cielo e pensò al marito, che sarebbe dovuto rientrare a giorni in Italia dall’Iran, dove lavorava. Che cosa si sarebbero raccontati dopo tre mesi lontani, cosa le avrebbe regalato questa volta, dopo aver visitato i vari negozi di Teheran? Flavia, la donna, pensava alle cose che avrebbe potuto raccontare al marito, le primissime cose. Poi, gli avrebbe confidato i suoi pensieri più intimi.

Intanto, in un appartamento nel centro storico della città, un neonato si stava agitando nel sonno. Tutto sudato, non riusciva a trovare pace nella sua culla. La giovane mamma, sorpresa dal comportamento del suo piccolo, aveva svegliato il marito, e insieme avevano guardato il piccolo agitarsi. Poi, impotenti nell’atteggiamento passivo, decisero di sollevare il bambino dalla culla, di cambiarlo, metterlo nel passeggino e di uscire lungo il fiume, per un po’ di refrigerio.

 

Piano piano, la cittadina si stava risvegliando.

Alle sette e trenta le campane di tutte le chiese della cittadina suonarono all’unisono, richiamando le prime persone alla messa. Le vecchiette e le solite abitudinarie della prima celebrazione si apprestarono lungo le vie medioevali, e i loro passi risuonavano decisi sui sanpietrini. Il loro sguardo era severo, quasi corrucciato.

Questo almeno sembrò al ragazzo che le incontrò per la strada, mentre stava facendo jogging. La sua corsa era sciolta, la falcata decisa, con un ritmo scandito dall’esperienza e dall’abitudine alla corsa. In dieci minuti giunse al quartiere di Offano, dove lo attendevano i suoi amici. Proprio qui, in questo quartiere al limitare della cittadina, il ragazzo amava andare. Subito dopo, si scorgevano i campi.

“Sei riuscito a venire anche questa mattina, Marco, ce l’hai fatta ad alzarti!” gli dissero ridendo i compagni, conoscendo il ragazzo per essere un dormiglione. Saltellando sul posto, gli amici iniziarono la corsa verso la campagna, sotto un sole ancora tiepido.

Era la fine di giugno, l’estate era iniziata da poco, il calore estivo si stava preannunciando, per arrivare, deciso, nei primi giorni di luglio.

Alcuni negozi avevano già alzato le saracinesche: dopo poco sarebbe iniziato un viavai di persone verso le panetterie già aperte. Il profumo del pane invadeva le stradine della cittadina, le prime brioches calde erano già esposte nelle vetrine. I nonni e le mamme si affrettavano, come sempre, ad acquistarle per poi disporle su un bel piatto nel mezzo del tavolo in cucina. I bambini avrebbero gradito molto questo rituale del sabato mattina, con i genitori: fare colazione tutti insieme!

Giorgia e Sofia proprio quel giorno inauguravano la loro pasticceria, su cui avevano investito tutti i risparmi per la realizzazione di quel sogno.

“La cittadina è golosa, avremo tanti clienti, siamo sicure!” dicevano ai loro genitori e amici.
Dopo aver terminato il liceo, le due ragazze avevano deciso di frequentare insieme dei corsi di pasticceria a Milano e a Bologna. Ci sapevano fare con gli impasti, ci mettevano la testa, il cuore e il gusto.

L’inaugurazione sarebbe avvenuta nel pomeriggio alle sedici, l’ora di punta del passeggio cittadino. I loro cuori battevano forte, l’emozione sembrava a volte sopraffarle, ma loro sapevano controllarla: lo avevano imparato a scuola.

Nelle due piccole vetrine della pasticceria avevano esposto pezzi di cioccolato artigianale al latte, fondente e alle nocciole, oltre alle torte Sacher, alle crostate di frutta e alle mandorle. Tra un dolce e l’altro, Giorgia aveva disposto dei piccoli fiori freschi colorati. Agli angoli delle vetrine erano stati adagiati dei piccoli peluche, appoggiati agli ovetti di cioccolato per i bambini.

Tutto era pronto: dopo poche ore le persone invitate avrebbero dato un loro parere sulla qualità dei prodotti e, forse, avrebbero iniziato i loro acquisti.

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Capitolo 2
*** Il mercato ***


Il sabato mattina era giorno di mercato. Alle undici, le vie del centro e dell’intera cittadina erano gremite di gente a piedi, ma soprattutto in bicicletta.

Tutti, in pianura, da quando avevano iniziato a camminare, sapevano usare la bicicletta: prima il triciclo, poi la biciclettina con le ruote e infine la bicicletta vera e propria. Ogni persona, dai più piccoli agli anziani, ne possedeva una e ne aveva molta cura.

Bisognava però stare attenti a non lasciarla incustodita fuori dai negozi e dai bar: era facile non vederne più neppure l’ombra! Munita di catena e lucchetto, ogni bici ne possedeva una, legata sotto la sella.

Quella mattina, la gente si accalcava sulle bancarelle del mercato coperto, anche perché la frutta e le verdure fresche le coloravano e invitavano le persone ad avvicinarsi.

Tutti avevano una sporta o una borsa con le rotelle. I meloni profumati, le ciliegie rosse, le prugne, le albicocche e le pesche sprigionavano nell’aria un dolce profumo.

Pinuccia e sua figlia Sara si diressero spedite verso le bancarelle che esponevano magliette e vestiti estivi. La mamma avrebbe voluto fermarsi a osservare la frutta, visto che ne aveva bisogno per la settimana, ma la figlia, impaziente, la spinse avanti.

“Mamma, sbrigati, non voglio che qualche mia amica abbia già preso la maglietta migliore del mercato!”

“Beh, non esagerare adesso, una maglietta che sta bene a te non potrebbe stare bene a un’altra…” sorrise divertita la mamma.

“Ecco mamma, ci siamo!”

Alla bancarella i venditori cinesi stavano esponendo una serie di magliette dai disegni più strani. La figlia si diresse decisa verso di loro e si fece mostrare una T-shirt un po’ striminzita, con stampato un drago nell’atto di lanciare fiamme rosse.

“Questa maglietta non andrebbe bene neanche al tuo gatto Penna… Che inoltre scapperebbe spaventato alla vista del drago lanciafiamme!”

Sara non riuscì a trattenere la risata e, scuotendo la testa, rispose: “Mamma, non farmi sempre ridere, non sei seria… Ma alla fine hai ragione!”

Ripose la maglietta sul banco, ringraziando i venditori e dicendo loro che ci avrebbe pensato. Poi si allontanò, a braccetto della madre.

I suoi sedici anni l’avevano resa più spigliata e, pur essendo una ribelle, ci teneva molto al parere della madre, visto che con lei aveva sempre avuto un ottimo rapporto.

Mamma e figlia proseguirono il giro del mercato.

Prima delle bancarelle della frutta e della verdura, c’erano quelle dei fiori recisi e da interrare. I loro colori erano vivaci e, spesso, le donne, passando davanti, ne venivano attirate e ne compravano un bel mazzo da mettere in casa, per dare vitalità e allegria.

Ma prima ancora di quelle bancarelle c’era sempre un grande camion con frigorifero e friggitoria, che vendeva pesce fritto e pollo arrosto. Che profumo invitante, quello del pollo!

Alle bancarelle delle borse, subito dopo l’abbigliamento, tante ragazzine, quella mattina come tutti i sabati, cercavano di scegliere degli zainetti da portare in bicicletta. L’impresa della scelta era ardua, visto che le adolescenti erano tante, quanto numerosi erano gli zainetti.

“Riusciranno a terminare la loro scelta prima della chiusura del mercato? Mah!” fu il pensiero del venditore ambulante, mentre sorrideva tra sé.

Verso la fine del mercato, le bancarelle esponevano tende dai più svariati tessuti, e per tutti gli usi. Qui le giovani coppie, con gli occhi puntati verso l’alto, guardavano le tende appese e le immaginavano sulle loro finestre, non riuscendo però mai a decidersi.

“Speriamo che non gli venga il torcicollo, altrimenti addio affari!” pensò il venditore, ridendo in solitaria della propria battuta.

Le ultime bancarelle, invece, erano di merceria, e vendevano di tutto: bottoni, cerniere, spolette di cotone, matasse di lana, aghi, spilli, toppe per maglioni, adesivi per i pantaloncini dei bambini, bretelle, passamaneria, fettucce e tutto ciò che si potrebbe trovare in un negozio di merceria del centro.

Lì, le sarte della cittadina e dei paesi limitrofi, ma anche altre donne, con il biglietto in mano o con il campione del pezzo desiderato, aspettavano il proprio turno per essere servite. Il venditore e sua moglie erano avvezzi a quel viavai e alle bizzarrie di certe signore. L’uomo, con battute spiritose, alleggeriva spesso il tono serioso e pesante di alcune di loro.

 

La signora Virginia, quella mattina, stava acquistando una cerniera per il giubbetto del nipote che, non riuscendo ad allacciarlo bene, l’aveva rotta.

“Quanta pazienza ci vuole con te, Andrea…” pensò la nonna del bambino.

Dopo che il padre del bimbo se ne era andato di casa, lasciando sua figlia Agnese, il piccolo e la nipote Ilaria da soli, la signora Virginia aveva deciso di portarseli tutti a casa sua.

Era da anni che suo marito era venuto a mancare, e da troppo tempo viveva sola.

Ora, con la figlia e i nipoti, la sua vita era piena, bella e sempre più spesso felice. Era contenta di rendersi utile e di aiutare Agnese a crescere i suoi figli.

Concluse le compere al mercato, Virginia riprese la bicicletta e si diresse in centro per un po’ di svago.

La giornata era assolata, l’aria era leggera.

Le persone erano tutte andate al mercato in bicicletta e il rientro, dopo fruttuosi acquisti, sarebbe stato una bella pedalata.

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Capitolo 3
*** Il professore ***


Gli esami di maturità stavano per terminare. Mancava poco alle vacanze estive, incredibilmente agognate.

“Eccole, le vedo!” soleva dire il professore alla moglie, anche lei insegnante nella stessa scuola.

Quell’anno sarebbero andati in montagna ‘a respirare aria pulita, leggera, a riflettere o a meditare’, come diceva una delle alunne. Cosa ci trovava poi sua moglie nel voler andare ogni anno al mare? Non ne capiva la ragione, oppure sì: lei amava nuotare, camminare o, meglio, correre lungo la spiaggia al mattino presto. D’altronde lei era un’atleta, insegnava ginnastica e aveva partecipato a tante gare sportive prima di incontrare lui, più intellettuale e, forse, più pigro.

“Professor Nardini, può raggiungerci in aula, per favore? Abbiamo bisogno di lei.” Il richiamo della collega di matematica scosse l’uomo da quei pensieri, ormai lontani.

Quella mattina, inoltre, tra gli studenti da esaminare, c’era il figlio dell’avvocato Manforte.

Si sa, nelle cittadine la gente si conosce quasi tutta e le persone di rilievo si fanno sentire più delle altre.

L’avvocato aveva infatti telefonato alla preside, la signora Costanzo, e le aveva gentilmente e velatamente raccomandato il figlio.

Il professor Nardini non tollerava l’avvocato e tanto meno il figlio, che era un ragazzo svogliato, prepotente e, come si suol dire, ‘lazzarone’. L’insegnante decise così che lo avrebbe tartassato, mettendolo alle strette; del resto, la preside lo avrebbe soltanto richiamato, per poi chiudere tutti e due gli occhi.

Al professor Nardini invece non importava se, in caso di un possibile incontro con l’avvocato e la sua signora al bar, questi lo avessero guardato con disprezzo e superiorità.

Era, dopotutto, il normale atteggiamento della gente di provincia, dove di solito le persone ‘importanti’ sentono di poter dare sempre consigli a tutti, indistintamente, in virtù di una presunta superiorità.

Non erano certo quelle le cose che spaventavano il professore: lui non si era mai lasciato influenzare né dalle lusinghe né dalle intimidazioni, e per questo era conosciuto nella sua scuola e nella cittadina come “un duro”.

Ciò che gli premeva più di tutto, infatti, era la libertà di decidere e di scegliere, in tutti i campi, incluso quello scolastico.

Amava con tutto sé stesso l’insegnamento dell’italiano e della storia, materie che trasmetteva sempre con passione, anche agli studenti più ostici. Il suo rapporto con gli altri, spigliato e ricco di humor, lo facevano apprezzare dalle persone e dagli allievi più aperti e intelligenti.

Si era da poco anche iscritto a un corso di teatro, perché voleva togliersi gli usuali panni e mettersi in altri, sempre diversi, un po’ come erano i personaggi che stava imparando a rappresentare sulle scene e sul palco.

Quando, finalmente, gli esami terminarono, il professor Nardini uscì sorridendo dall’istituto, salì sulla sua bicicletta e, veloce, si diresse verso il viale che lo avrebbe condotto a casa.

Dopo aver depositato la sua cartella ai piedi della scrivania, senza svuotarla immediatamente, infilò un paio di bermuda e una maglietta in tinta con i pantaloncini: ci teneva a vestire sempre bene.

La moglie, che lo stava aspettando, avendo anche lei terminato con la scuola e con tutti gli impegni sportivi, non vedeva l’ora di partire per il mare.

Non sapeva però ancora che il professore aveva preso una decisione contraria alla sua, e i guai erano già nell’aria…

 

Intanto la cittadina si stava rilassando e gli studenti, che per la maggior parte avevano terminato la scuola, si stavano lasciando andare a un meritato riposo.

Per alcuni giorni, per le vie principali della cittadina, non ci sarebbe stato più traffico, e poche sarebbero state le persone in giro, anche perché, come sempre, il cambiamento ha bisogno di un po’ di tempo per l’adattamento.

Le scuole primarie intanto erano già chiuse, mentre quelle dell’infanzia avrebbero concluso le attività alla fine di giugno.

I bimbi più piccoli, senza stress e studio da smaltire, ma con tanti giochi nuovi da inventare per l’estate, erano già in giro con i nonni, le babysitter, alcune mamme. I gridolini e le risate invadevano le vie principali, tra le corse e i richiami degli adulti all’attenzione, tra cui l’invito a non cadere sui sampietrini.

Dopo il riposo pomeridiano gli abitanti della cittadina, grandi e piccoli, giovani e anziani, prendevano, come sempre, le proprie biciclette e, con aria rilassata, si dirigevano verso il centro storico, da via Cavour a via Roma. Gli amici li aspettavano lì, dove una fresca aria condizionata usciva dai negozi aperti.

Come quello delle giovani pasticcere, Giorgia e Sofia, che, già appena dopo l’apertura, avevano attirato nel loro negozio i bambini e i ragazzini, attratti irresistibilmente dalle nuove paste e dagli accattivanti incarti dei dolcetti al cioccolato.

Anche il professor Nardini, un giorno, con la moglie al seguito, entrò nella pasticceria, dicendole di voler salutare le sue ex studentesse, anche se la donna sapeva bene che il vero motivo era l’infinita golosità del marito.

Le ragazze lo accolsero con cordialità: “Professor Nardini, che piacere rivederla! Come sta? È sempre lo stesso, lei. Questa volta le porgiamo noi un dono.”

Dirigendosi verso le vetrine, Sofia prese una torta Sacher e, dopo averla confezionata per bene, la offrì al suo professore più simpatico: “Ecco prof, così si ricorderà delle insufficienze che ci ha dato!”

Ridendo di gusto, il professore le abbracciò entrambe, mentre la moglie scosse la testa: “Siete troppo gentili e buone con lui, non lo merita!” Le risate continuarono, ammiccanti.

L’aria estiva si era quindi aperta sul mondo circostante, e aveva toccato tutto e tutti. La gente sembrava più felice, contenta.

Chissà se era solo apparenza?

Intanto, chi era in giro per le strade, lo manifestava, sorridendo a tutti.

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Capitolo 4
*** Non tutto si può perdonare ***


Erano le diciotto e Marisa aveva finito il suo lavoro alla rivendita di laterizi. Era un’impiegata modello, di buon carattere, generoso e altruista, ma a volte si adombrava in modo cupo e passivo, come se fosse impotente davanti a un evento.

Un evento che nell’ultimo periodo si stava ripetendo con frequenza.

La sua collega, nonché amica, Elisa, la stava scrutando da un po’ di tempo e, quando le chiedeva cosa avesse, Marisa tergiversava, perché non ne voleva parlare.

“Sembra che abbia paura di qualcosa…” questo pensava tra sé e sé Elisa. L’unica cosa da fare era osservare Marisa attentamente.

Quel giorno le due donne avevano deciso di andare a fare un aperitivo in piazza del Duomo, con altri amici della cittadina.

“Ti farà bene stare con noi per un po’,” disse Elisa a Marisa, la quale ricambiò con un mesto sorriso.

Salvatore, il ragazzo di Marisa, quella sera era di turno in caserma, quindi lei era sostanzialmente libera. Da quindici giorni, poi, l’uomo era piuttosto tranquillo e carino, le portava dei fiori profumati e piccoli doni inaspettati. Quante volte lui le aveva chiesto scusa, quante volte aveva ripreso…

“Questa sera sono contenta, voglio divertirmi fino a tardi!” disse quindi Marisa a Elisa, mentre le due donne si incamminavano verso le rispettive macchine.

In piazza del Duomo, al bar, gli amici le stavano già aspettando, seduti, e con sorrisi divertiti. Quando Marisa ed Elisa li raggiunsero, i ragazzi si alzarono, le abbracciarono e le baciarono, come sempre succedeva ai loro incontri.

Nessuno del gruppo vide passare, lentamente, proprio a ridosso di piazza del Duomo, una mobile della polizia, con al volante Salvatore. Questi, dopo aver guardato a destra e a sinistra della piazza, si fermò bruscamente. Aveva visto Marisa sorridere a un suo amico al tavolino. La rabbia gli salì subito al viso, diventò tutto rosso, come notò anche il collega Peppino.

“A casa, questa sera, faremo i conti!” pensò iroso Salvatore, continuando il giro di ispezione per le vie della cittadina.

Alle venti e trenta circa Marisa salutò gli amici e ritornò verso casa, nell’appartamento che lei e Salvatore avevano preso in affitto nella parte ovest della cittadina, nel quartiere Barnabei.

La mamma di lei aveva aiutato Elisa ad arredarlo e lì lei credeva di avere trovato il proprio nido definitivo.

La ragazza aprì quindi la porta di casa, sapendo che Salvatore sarebbe rientrato intorno alle ventitré. Calma e serena si spogliò, e decise anche di fare una bella doccia, di lavare i capelli e di profumarsi per il suo uomo; poi lo attese, guardando uno spettacolo divertente alla televisione, tra brevi pisolini.

All’ennesimo risveglio, sentì girare la chiave nella toppa della porta d’ingresso e vide Salvatore sulla soglia, accigliato. Gli corse incontro, abbracciandolo e baciandolo, ma non fece in tempo a chiedergli se la sua giornata fosse trascorsa senza problemi quando una potente sberla la scaraventò a terra.

Lo stupore e lo shock dipinsero e trasformarono il suo bel viso.

La donna, di scatto, si ritirò in un angolo dell’ingresso, accovacciata con la testa tra le mani: la paura aveva avuto il sopravvento.

Salvatore la prese per i capelli e la trascinò sul pavimento in sala, le alzò il viso e le dette un’altra sberla, spaccandole il labbro e facendole sanguinare il naso. Con un pugno le chiuse l’occhio destro, che subito si gonfiò all’inverosimile.

“Ti ho vista questo pomeriggio in piazza del Duomo, con i tuoi amici, o meglio ‘con il tuo amichetto’… gli sorridevi, smorfiosa… Quante volte ti devo dire che non devi uscire dopo le diciotto da sola, non lo puoi fare!” Allora le dette un calcio nel fianco destro.

Marisa, ora, era in balìa della paura, non capiva cosa stesse succedendo e dove avesse sbagliato.

“Mamma, aiutami…” sussurrò la ragazza, piangendo.

La testa le girava, il fianco le faceva male, ma doveva riuscire ad alzarsi e a raggiungere il proprio cellulare.

La madre, dopotutto, l’aveva avvertita dall’inizio: c’era qualcosa nello sguardo di quel Salvatore che le faceva paura.

Marisa però, in preda al primo innamoramento, le aveva semplicemente sorriso, dicendo che andava tutto bene. In quel momento preciso, invece, pensò che la madre aveva ragione: “… niente va bene, mamma…”

Salvatore intanto, era andato in bagno a farsi una doccia, tentando di placare quella sua maledetta ira.

Per Marisa era proprio il momento adatto per chiedere aiuto. Strisciando per terra, si avvicinò alla sua borsa, posata sul divano, estrasse il telefonino e scrisse: “Aiuto!”, indirizzando il messaggio a sua madre e ad Elisa.

Le destinatarie del messaggio non risposero, ma si affrettarono a cercare soccorsi. Subito la mamma di Marisa chiamò il marito e suo fratello Emilio, che viveva di fianco a loro. Insieme salirono in macchina e si diressero verso la casa di Marisa, questa volta portando la copia delle chiavi dell’appartamento della ragazza e - non si sa mai - il mattarello di legno.

Nello stesso momento, Elisa chiamò il suo amico carabiniere Angelo e, insieme, andarono verso l’abitazione dell’amica.

Lì, Marisa aspettava, per terra, raggomitolata e tremante. Salvatore, ritornato in sala, non la degnò di uno sguardo, si sedette sul divano, e accese la televisione. Il tempo passava, sembrava non succedere alcunché, quando la chiave nella toppa incominciò a girare, la porta d’ingresso si aprì decisa e i genitori di Marisa con lo zio entrarono trafelati in casa. La mamma guardò la figlia raggomitolata a terra, sporca di sangue, e con passo deciso si avvicinò a Salvatore, dandogli un pugno nello stomaco. Il papà e lo zio lo presero e lo immobilizzarono a terra. Intanto Elisa e Angelo avevano raggiunto l’appartamento e videro ciò che sta accadendo. Tutto si svolse velocemente, i movimenti di chi stava aiutando la ragazza erano precisi e amorosi, le loro parole arrivavano da lontano a Marisa, che svenne.

La giovane donna venne portata d’urgenza al pronto soccorso e la denuncia al poliziotto Salvatore prese il suo corso.

 

Pinuccia, la mamma di Sara, l’indomani, dopo aver letto l’articolo sul giornale cittadino, esclamò: “Povera ragazza, avrà bisogno di tanto aiuto…” e intanto scosse la testa, amareggiata.

La cittadina era sorpresa e ne parlava. Per le strade, nei caffè, tutti sussurravano…

“È pure un poliziotto, che vergogna!” esclamavano tutte le donne e parte degli uomini. Gli altri alzavano le spalle dicendo: “Chissà come sarà andata veramente…”

La loro indifferenza e il loro scetticismo li attanagliavano ancora di più nella morsa dell’ignoranza.

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Capitolo 5
*** La messa ***


Per giorni si era continuato a parlare del poliziotto violento, indirizzando sguardi sospetti anche verso i colleghi, che Salvatore aveva messo in seria difficoltà.

Le donne, ma soprattutto le ragazze, erano arrabbiatissime e, guardandosi con occhi interrogativi, si chiedevano: “Di chi dobbiamo fidarci allora?”

Solo le perpetue, che ogni mattina venivano chiamate alla messa al tocco della campana delle sette e trenta, sembravano avere la risposta pronta.

“Chissà cosa avrà combinato questa ragazza per fare arrabbiare il giovane poliziotto. E poi, non puoi andare a convivere con un uomo se non sei già sposata, fai peccato!”

La loro insensibilità verso il prossimo e la mancanza di carità cristiana, nonostante il perseverare ogni mattina alla messa, le rendeva cattive e accentuava la loro misera conoscenza della vita, esaltando invece la loro ignoranza.

All’uscita dalla chiesa, sul sagrato, riprendevano il discorso dicendo: “Solo per carità cristiana ho pregato per la salvezza dell’anima della ragazza… ha peccato sicuramente anche lei! La colpa non è mai tutta da una parte.”

Non c’era niente da fare, il loro bigottismo raggiungeva vette impensate. Così pensava il giovane curato della chiesa di Santa Maria Maddalena. Tante volte le aveva esortate alla riflessione e alla compassione, ma il duro callo era difficile da togliere.

Don Elia era ottimista per natura e saggio, nonostante la sua giovane età. Amava confrontarsi con le persone e in particolare con i ragazzi aveva un rapporto di sincera amicizia. A volte, di sera, usciva con loro al bar dei motociclisti a prendersi una birra.

Gli piaceva ascoltare le battute di quei giovani e il loro modo di esaltare il motore delle motociclette nuove. “Che mondo spensierato!” pensava, sorridendo tra sé.

Don Elia non spingeva i ragazzi a seguire le funzioni: se non volevano andarci, non avrebbe potuto farci alcunché. Quindi li aiutava come poteva, dando loro consigli riguardanti il lavoro, il rapporto con la famiglia e, pur non avendo molta esperienza, anche con le ragazze.

Le perpetue cittadine spesso lo guardavano con sospetto e diffidenza, ma poi dicevano che era un ministro di Dio e dunque lo accettavano.

 

Intanto Virginia, la nonna di Ilaria, aveva interrotto i rapporti con la vicina di casa, la signora Rosalia, una settantacinquenne molto religiosa e pettegola: la infastidiva in particolare il giudizio sulle sue scelte, come il fatto di aver riportato in casa la figlia Agnese con i due nipoti.

“Che rabbia che mi fa,” diceva Virginia alla figlia.

Poi però si accantonava tutto, come si era abituati, da secoli, a fare.

La domenica mattina, alle undici, c’era messa alta in tutte le parrocchie della cittadina.

Era una funzione importante: di solito ci andavano solo gli adulti e i ragazzi più grandi, perché i bambini seguivano quella delle nove.

Erano sempre tutti vestiti bene, eleganti come se avessero dovuto presentarsi a una sfilata. Quella occasione domenicale si rivelava proprio così: una sfilata di moda, e un modo per mostrare alle persone presenti le proprie possibilità, attraverso gli abiti più belli e costosi.

“Sbrigati a vestirti, mettiti il vestito lungo fino alle ginocchia, quello che non ha scollature,” disse quella domenica mattina, presa dalla foga, la signora Rosalia alla ragazza che la nipote Antonietta le aveva lasciato per alcuni giorni.

La signora Rosalia aveva sempre guardato la nipote acquisita con sospetto, poi aveva deciso che poteva incominciare a volerle un po’ di bene.

“Zia, non sono una suora, e poi mia mamma mi permette di mettere quello che mi piace,” rispondeva, pronta, la ragazza.

Alla fine riuscirono ad accordarsi sul vestiario e a uscire di casa.

La messa ebbe inizio.

Don Amedeo, il parroco, era l’officiante.

Il suo modo di avvicinarsi alle persone era un poco mellifluo e poco convincente ma, come succede in provincia, la gente si abitua e accetta tutto, anche “ingoiando il rospo”, come si usa dire.

La predica di don Amedeo fu molto teorica, toccando poco il cuore e la mente delle persone che intanto, sedute, si sgomitavano indicando quella persona o quell’altra, magari poco distanti.

Al termine della messa, la gente si riunì sul sagrato, dove avveniva solitamente la socializzazione, con scambi veri e propri.

Mezzogiorno intanto era arrivato, e il pranzo a casa stava aspettando i fedeli. Nonne e mamme avevano sicuramente preparato un buon arrosto con patate, verdure, e altro ancora.

Il profumo che si sprigionava dalle finestre aperte era delizioso e molto invitante.

Assistere alla messa domenicale aveva lasciato in tante persone serenità e, forse, più compassione… in altre niente!

 

Dopo il pranzo domenicale, le famiglie si apprestavano, come sempre, al riposo pomeridiano di quel giorno festivo.

L’estate portava i più a rinchiudersi nelle proprie case o sotto i portici, perché il caldo nel primo pomeriggio era terribile.

Più tardi, una volta allentata la foga solare, tutti sarebbero usciti in bicicletta, con pantaloncini corti, canottiere, sandali, cappelli e occhiali da sole ma, soprattutto, con un sorriso dipinto sui volti ormai distesi.

Alcuni, come sempre, avrebbero fatto pace con il mondo, tanti altri avrebbero continuato invece a percepire e a godere degli influssi positivi che li circondavano in quella giornata.

Fino a quando questi ultimi si sarebbero esauriti, insieme alle buone intenzioni.

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Capitolo 6
*** L'estate ***


Una notte afosa di quell’estate aveva alla fine lasciato spazio a una leggera e inaspettata brezza mattutina.

La cittadina poteva quindi riprendere il proprio sonno, continuamente interrotto dal costante caldo e dall’umidità.

Marco, abituato a correre di mattina, non si era ancora deciso ad abbandonare il letto. Quel giorno sarebbe andato più tardi verso i campi, visto anche il suo periodo di ferie.

Flavia, intanto, aspettava che il marito si risvegliasse dopo il lungo viaggio che lo aveva portato dall’Iran a casa. Insieme, poi, i due avrebbero portato a passeggio il loro cane Lampo lungo il Po.

Alle sette e trenta i panettieri, ormai aperti da un po’, dopo aver esposto il pane croccante e caldo, ma anche focacce, pizzette e dolci, aspettavano come sempre gli abitanti della cittadina.

Le prime biciclette intanto incominciavano a percorrere il centro storico e le altre vie laterali, mentre piano piano le serrande di tutti i negozi iniziavano ad alzarsi.

Le commesse, leggermente assonnate, ma ormai pronte e ben vestite, si salutavano, come di consueto, con un cenno della mano.

Sofia e Giorgia intanto avevano deciso di preparare una torta speciale con la prima uva e con le mele: un’invenzione già collaudata dalle rispettive famiglie.

La loro nuova pasticceria era sempre affollata fin dal primo mattino, e le due ragazze sembravano instancabili.

Anche Marco, al rientro dalla solita corsa, decise che si sarebbe fermato lì: “Se ne dice tanto bene in giro, inoltre le proprietarie sono carine…” pensò il ragazzo, sorridendo tra sé.

La temperatura inoltre sembrava reggere e, nonostante la torrida estate, verso le undici, come sempre, la cittadina si animò di persone, di biciclette, di rumori, di vita.

 

I fiorai, con cestini ricolmi di fiori appoggiati alle biciclette, guardavano speranzosi le signore, invitandole ad acquistare almeno un mazzo di quella profumata mercanzia.

Gli uomini in pensione, intanto, passeggiavano lungo il corso, raccontandosi aneddoti recenti e del passato, con tanto di entusiastiche battute.

E, mentre donne e ragazze si avvicinavano alle vetrine, curiose rispetto alle occasioni dei saldi stagionali, i bambini - più o meno piccoli - indicavano con il dito le pizzette esposte nelle vetrine dei panettieri, praticamente spingendo all’interno le mamme, recalcitranti.

Una musica ad alto volume, intanto, si diffondeva per le vie del centro. Tutti ormai sapevano chi era a portarla a toni così alti: “Eccolo, arriva Radio-Bici!” Imperterrito, con il viso sorridente e serafico, un giovane uomo in bicicletta - dopo aver realizzato un voluminoso impianto di riproduzione della musica sulla parte posteriore della stessa bici - attraversava come sempre il centro cittadino, noncurante degli sguardi. Tutti lo conoscevano, almeno di vista, sorridendo al suo passaggio. La sua timidezza era conosciuta, il suo modo di comunicare le emozioni agli altri si esprimeva nella musica condivisa con tutti: era proprio un personaggio!

 

Flavia e il marito, in bicicletta, intanto, quella mattina, avevano raggiunto piazza del Duomo, felici e sorridenti. Il marito, attirato dal venditore di fiori a lato della piazza, si era fermato e aveva comprato un bel mazzo di rose rosse, per poi donarle, baciandola, alla moglie. Flavia era al settimo cielo: dopo mesi trascorsi da sola, ora poteva godersi il marito, ormai estraneo alla cittadina.

La donna avrebbe dovuto raccontare tante cose alla sua amica Pinuccia. Tutte e due lavoravano nello stesso istituto scolastico, di cui Flavia era la segretaria, efficiente e amata da tutti.

Nel frattempo il sole, ormai alto nel cielo, spingeva le persone al rientro nelle proprie case. Nel tardo pomeriggio, poi, sarebbe ripresa la solita vita movimentata. In quel momento, però il sole, la faceva da padrone: gli uomini e gli animali della pianura avevano imparato a rispettarlo, adattando i propri ritmi di vita a “Lui”, signore della giornata.

Intanto Marco, dopo essere entrato in pasticceria da Giorgia e Sofia, aveva acquistato la torta del giorno e, con non poca timidezza, aveva avuto il coraggio di invitare Sofia per un aperitivo, prima soppesato ma infine accettato dalla ragazza.

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Capitolo 7
*** Le vacanze ***


Il professor Nardini e sua moglie erano rientrati da poco dalla loro vacanza a Molveno, sulle Dolomiti. Avevano percorso chilometri e chilometri a piedi, respirando aria pulita e fresca. Ora la moglie, però, voleva andare al mare.

“Ascolta, Giovanna, siamo appena rientrati dalla montagna: svuotiamo le valigie, laviamo tutto e poi, con calma, penseremo a dove andare,” disse rassegnato il professore alla moglie.

Lei, stranamente, acconsentì senza ribattere.

Le ultime settimane di luglio e, soprattutto, le prime di agosto, erano diventate le più calde dell’estate. Quell’anno in particolare si vedevano meno persone e meno biciclette in giro.

Tante famiglie con figli avevano già raggiunto le spiagge di varie località di mare. Altri erano andati ai laghi di Garda, Maggiore, d’Iseo. Altri ancora avevano optato per le località montane sulle Dolomiti, nelle valli bergamasche o in Valtellina.

I meno fortunati erano rimasti a casa, potendo comunque spostarsi in bicicletta lungo le spiagge del Po o lungo i canali che costeggiavano la cittadina. All’ombra dei pioppi, dei salici bianchi e delle felci acquatiche, si riposavano dopo l’esposizione allo spietato sole estivo. Negli zaini, di solito, non mancavano acqua, creme solari, abbronzanti e qualche frutto, mentre le stuoie venivano stese sulla sabbia o sull’erba, a lato del fiume o del canale. I cappelli, a larghe falde, riparavano testa e occhi, mentre i tafani, ronzanti, lasciavano il proprio segno sulla pelle dei meno attenti e dei più insonnoliti dal sole.

La tranquillità estiva e la libertà che questa sempre trasmette erano intervallate da richieste di pioggia, che tutti facevano, scrutando il cielo: “Quando arriverà un bel temporale?”

 

Ecco che a metà agosto, quando stavano rientrando quasi tutti dalle vacanze, il temporale arrivò violento, abbattendosi con forza e decisione sulla cittadina accaldata.

Sara e la sua amica del cuore, Ilaria, avevano trascorso le vacanze insieme al mare, sulla costa romagnola. I genitori di Sara avevano insistito, spinti dalla figlia, affinché Ilaria andasse con loro.

Agnese, la madre, un po’ imbarazzata ma contenta dell’invito, le aveva concesso il permesso.

L’affiatamento delle ragazze era iniziato già dal primo giorno di scuola, alle primarie.

Sara era mora con gli occhi scuri, Ilaria invece era bionda con gli occhi verdi.

Tanta confidenza c’era stata tra loro, tanti segreti si erano raccontate e ora, come sorelle, crescevano fiduciose insieme.

Intanto, gli ‘intellettuali’ della cittadina, - così amavano definirsi e farsi chiamare - iniziavano a tornare dalle loro vacanze all’insegna della cultura, accaldati e stanchi. Mai e poi mai avrebbero ammesso che il loro girovagare per le città italiane delle belle arti in piena estate fosse stata una tortura. Sorridevano serafici a chi li interrogava, chiedendo loro cosa avessero visitato di nuovo. Finalmente a casa, buttavano le valigie impolverate e i borsoni a terra e, sfiniti, si lasciavano cadere sui loro morbidi divani.

A settembre, quando l’aria più frizzante si sarebbe di nuovo sparsa per la pianura, allora sì, avrebbero raccontato con enfasi le proprie scoperte artistiche, aggiungendo sempre qualcosa di personale, che non guasta mai.

 

L’altra categoria di vacanzieri estivi cittadini era quella delle vacanze all’estero, il più lontano possibile. A Kathmandu, al campo base sull’Everest, nei villaggi dei Maori in Nuova Zelanda e chi più ne ha più ne metta, purché ci fosse lontananza tra la loro casa e il mondo esterno. Questi erano soliti definirsi come ‘amanti degli sforzi estremi’, sentendosi, - contenti loro - particolarmente avventurosi.

L’ultima categoria era quella dei vacanzieri veramente “in”, ovvero quelli delle mete di vacanza più costose, ricercate in particolar modo da coloro che sentivano di dare lustro alla cittadina con il proprio lavoro, spesso consistente in costosi studi privati.

Questi amavano trascorrere le proprie vacanze in zone e in alberghi veramente di lusso: le stelle appostate a lato del nome dell’hotel dovevano essere almeno cinque. Si spostavano di solito con macchine lussuose e ben pulite. Spesso i loro figli, seduti sulla parte posteriore della macchina, ben vestiti e con aria annoiata, salutavano i propri amici, sbuffando senza ritegno. Molti di loro invidiavano gli amici e i compagni di scuola che andavano in vacanza con lo zaino e poco altro, liberi e spensierati: ne erano un esempio i figli dell’avvocato Manforte - tanto detestato dal professor Nardini, - del notaio Gerardi e dell’industriale De Misi. Quest’ultimo, con la moglie, avrebbe alloggiato a Cortina nel solito Grand Hotel Savoia, frequentato da anni dalla coppia.

Ah, l’abitudine, cosa costringe a fare…!

Ogni categoria di persone della cittadina viveva le proprie vacanze estive in base a fattori oggettivi. Tutti decidevano di fare qualcosa, anche la minima, sempre che questa si avvicinasse il più possibile alla definizione di ‘vacanza’.

Di vista si conoscevano quasi tutti: almeno una volta si erano incrociati e guardati.

Ognuno aveva un proprio mondo, una cerchia di amici e conoscenti con cui confrontarsi, e con cui condividere opinioni e pensieri.

Tutti però avevano in comune una cosa: la stessa cittadina.

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Capitolo 8
*** La tortellata ***


Ferragosto intanto era arrivato, festoso e all’insegna di un caldo ancora rovente.

I preparativi per la festa erano iniziati già da giorni, e la cittadina era in movimento. I cartelli pubblicitari, posti all’ingresso della cittadina stessa e lungo le strade del centro storico, invitavano i turisti - e non solo - a partecipare alla ‘tortellata’ che si sarebbe tenuta in piazza Vittoria per ben quattro giorni di seguito.

“Che mangiata di tortelli faremo!” diceva la gente, osservando quel vitale fermento.

I tortelli venivano preparati dai venditori di pasta fresca della cittadina, tutti nello stesso modo e con la stessa ricetta.

La particolarità di quel tortello era “l’essere dolce”: gli ingredienti della ricetta venivano tramandati di madre in figlia da più di un secolo e sempre con la stessa procedura.

Su un lato della piazza era stato allestito un lungo banco dal quale, dopo aver pagato anticipatamente, si servivano piatti fumanti di tortelli dolci, sempre con una buona spruzzata di amaretti al cioccolato. Diversi tavoloni erano stati posti, parallelamente tra loro, in piazza, per permettere a tante persone di gustare quella caratteristica prelibatezza. Sul lato opposto di piazza Vittoria era stato invece allestito un grande palco per l’orchestra, che avrebbe intrattenuto le allegre e ‘golose’ compagnie.

Il tempo era buono, la gente cercava di non pensare al caldo umido di quelle serate, e tutto faceva pensare a una perfetta riuscita della festa. Tra le vie laterali e antecedenti la piazza, alcune bancarelle vendevano ingredienti per la preparazione dei tortelli e delle torte tipiche locali.

Flavia, accompagnata dal marito, si diresse verso il centro cittadino, ben vestita ed elegante. Non voleva pensare alla partenza imminente del marito e alla solitudine che la avrebbe di nuovo avvolta per giorni: desiderava solamente divertirsi, quella sera.

L’uomo che aveva sposato la coccolava, le parlava dolcemente anche se, a volte, lei lo sentiva lontano.

La donna non sapeva che il marito avrebbe voluto trascorrere più tempo a casa con lei, senza pensare al lavoro che lo attendeva in Iran, tra orari massacranti e un cibo non proprio invitante. Questo però lui non lo voleva dire alla moglie, anche se, intanto, le sorrideva.

 

Marco, nel frattempo, aveva convinto Sofia a mangiare un bel piatto di tortelli dolci e una buona fetta di torta: “Sei troppo magra, devi mangiare di più!” le aveva detto, strizzandole l’occhio. Sofia era contenta, quasi felice, di aver conosciuto Marco.

“È così attento, premuroso, e sembra non aver paura di prendersi le proprie responsabilità…” pensava tra sé la ragazza.

Una musica assordante intanto rimbalzava tra le pareti della piazza. I ragazzini per le strade scherzavano tra loro spintonandosi, anche se qualcuno di loro era imbarazzato dalla presenza delle ragazze, loro coetanee, che a loro volta bisbigliavano, iniziando a civettare, alcuni commenti sui propri compagni.

I ragazzi più grandi, invece, non amavano mischiarsi alla folla, e si fermavano nei bar poco distanti dal centro o nei locali asiatici, dove la musica era diversa. Tra di loro andava per la maggiore il sushi: fingevano di gustare il tipico piatto orientale, ma al contempo bevevano intere caraffe di birra per saziare la fame.

 

L’amica e collega di Pinuccia, Carla, intanto, aveva portato un piccolo dono a Sara, come souvenir del suo soggiorno a Cipro. Quella sera si erano incontrate tutte e tre al bar e si erano raccontate delle rispettive vacanze e degli ultimi pettegolezzi sulla cittadina.

Pinuccia aveva preso una decisione che avrebbe cambiato completamente la sua vita lavorativa. Sperava soltanto di non perdere l’amicizia di Carla, insegnante di latino nello stesso liceo e nella stessa classe.

Carla conosceva bene i tormenti di Pinuccia, la sua sensibilità verso gli altri, verso i ragazzi, ma soprattutto verso i bambini. La sua preparazione la portava a capire le dinamiche psicologiche che portavano i giovanissimi ad atteggiamenti aggressivi e di rottura con l’ambiente circostante. Carla sapeva bene che Pinuccia non era di ruolo al liceo, e che avrebbe potuto scegliere il grado di scuola in cui insegnare. In quel momento, però, non voleva pensare a un eventuale distacco, ma soltanto a divertirsi con l’amica e con la figlia.

“Mamma, hai comprato i tortelli e gli amaretti per domani sera?” chiese impaziente Sara alla madre.

“Sai che mi cimenterò con il papà ai fornelli… Vogliamo preparare una ricetta speciale, visto che ci saranno anche Ilaria e sua madre a cena,” rispose Pinuccia, un poco spazientita.

Era già la terza volta che la figlia glielo chiedeva.

“Che santa pazienza ci vuole…” mormorò tra sé Pinuccia.

La festa, intanto, anche nei giorni successivi, si rivelò un vero e proprio successo.

I tortelli venivano consumati, a chili, in piazza, nei ristoranti, nelle trattorie locali o semplicemente acquistati per essere gustati in famiglia.

L’organizzazione comunale, i venditori di pasta fresca, i cittadini, erano tutti ben soddisfatti e contenti.

La loro cucina tipica era stata ancora una volta apprezzata, anche dai turisti più sprovveduti oppure restii ai nuovi sapori.

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Capitolo 9
*** Settembre ***


Il mese più bello da godere era decisamente settembre, quando il sole emanava ancora i suoi raggi caldi, ma non più roventi, e calava prima, sulle giornate accorciate. Le sue ombre sempre più lunghe invadevano i giardini delle case, i campi, le strade. Le persone erano più rilassate dopo le vacanze estive, anche se i giovani continuavano a fremere. Volevano poter godere ancora del loro spaziare altrove, continuare le proprie esperienze, vivere nuove avventure. La loro voglia di libertà era insaziabile.

Alle otto del mattino, le vie della cittadina erano invase dai ragazzi in bicicletta, con gli zaini sulle spalle: la scuola era iniziata!

Le macchine occupavano in massa le vie percorribili: i bambini dovevano essere accompagnati a scuola, mentre i genitori dovevano riprendere il proprio lavoro.

I panettieri, indaffarati, sostituivano di continuo i cestini di focacce e brioches vuoti, e ne riponevano di pieni.

Dai bar il profumo dei caffè e dei cappuccini si diffondeva per le strade.

Le persone, abituate alla colazione fuori casa, sedute ai tavolini posti ancora sulle strade o nelle piazze, aspettavano di essere servite. La loro abbronzatura e il loro modo rilassato e ciarliero raccontavano delle recenti vacanze trascorse all’aria aperta.

Sara e Ilaria, al primo giorno di scuola, raggiunsero l’istituto in bicicletta e, dopo aver salutato i compagni, entrarono felici in aula.

Il professor Nardini le accolse con un sorriso e, stringendo loro la mano, disse: “Signorine, ben tornate a scuola! Avete trascorso delle buone e felici vacanze?”

Le ragazze, sorridendo divertite al professore, lo incitarono a raccontare delle sue, di vacanze. Il professore era del resto avvezzo all’atteggiamento spigliato e disinvolto degli studenti, e rispose loro a tono: “Fantastiche! Non volevo più che finissero…”

I ragazzi lo prendevano spesso in giro. Intanto, in quel nuovo inizio, ricercarono il proprio posto nei banchi ormai conosciuti.

 

Pinuccia, entrata nel nuovo istituto, si presentò e subito capì che aveva fatto la scelta giusta. Le maestre erano dirette nel rapportarsi con le altre persone, indice di un lavoro sempre in prima linea.

La maggior parte delle colleghe era spiritosa, e accolse Pinuccia con slancio e con una franca stretta di mano.

“Ti troverai bene da noi, spero proprio che ti abituerai presto a questi diavoletti furiosi,” le disse, salutandola, la rappresentante del plesso scolastico dove avrebbe insegnato.

“Mi chiamo Silvana, e spero che insieme lavoreremo con armonia e, diciamolo, con senso dell’umorismo!”

Pinuccia le sorrise, condividendo quel pensiero.

Il primo impatto era stato superato brillantemente. Ma si sarebbe visto poi, nel lavoro quotidiano…

Marco, intanto, aveva ripreso la routine del suo lavoro a Milano, all’interno di un ufficio della regione. Quell’occupazione era interessante e, inoltre, c’erano sempre novità in vista.

 

La signora Virginia era spesso a casa da sola: i nipoti erano a scuola e la figlia Agnese stava lavorando come cassiera in un supermercato della cittadina.

In una di quelle mattine di settembre si preparò un caffè d’orzo, visto che il dottore le aveva proibito il caffè vero e proprio.

Dopo poco sarebbe uscita in cortile, avrebbe pulito le fioriere e spazzato la sua parte sotto il portico davanti a casa, per poi fare due passi nel quartiere. Avrebbe di certo acquistato dei tranci di pizza per i nipoti, e il pane al sesamo per la figlia.

Poi, sicuramente, avrebbe fatto una capatina in chiesa.

A quell’ora della giornata non avrebbe trovato altre donne, si sarebbe rilassata, ringraziando la Madonna per averle dato una svolta positiva nella sua vita solitaria: ora aveva compagnia, eccome!

Era una donna positiva, semplice ma intelligente. Le piaceva il suo mondo, anche se ristretto alla cittadina di origine. In compenso, questo era ricco di conoscenze, di amicizie, di persone che condividevano lo stesso sentire. C’erano sempre novità che la attiravano come una calamita, e c’erano i suoi due nipoti, che voleva crescere con i valori solidi dell’amicizia, della condivisione e dell’amore.

Tutto questo pensava la signora Virginia in chiesa, seduta su di una panca di legno, assorta nel silenzio, circondata dalla sacralità silenziosa del luogo.

La signora Rosalia, intanto, interrompendo il corso dei propri pensieri, era entrata in casa.

La porta era sempre aperta in cascina e, con il cortile in comune, non c’era mai bisogno di suonare il campanello. Il semplice “permesso?” era sufficiente per curiosare nelle case altrui.

Questo almeno era un atteggiamento costante della signora Rosalia, ma Virginia non badava a queste cose e l’accoglieva sempre, sorridendo.

 

La preside Costanzo, nel frattempo, rinchiusa nel proprio ufficio in direzione, era preoccupata. La figlia Aurora, adolescente, aveva deciso di non mangiare più. Il suo dimagrimento veloce l’aveva portata alle soglie dell’anoressia.

“Cosa posso fare? Come posso rimuovere quella rabbia e quel rifiuto ostinato nei confronti del mondo circostante?” pensava la preside, al limite delle lacrime. All’improvviso si scosse: “Non è così che devo reagire, devo essere di esempio a questa figlia lontana con il pensiero.”

La segretaria Flavia, bussando alla porta della direzione, avvisò la preside che c’era un problema nella classe quarta D.

“Cosa sarà mai successo ancora in quella classe irrequieta e scombinata?” pensò tra sé la preside Costanzo.

Sapeva di non piacere troppo ai ragazzi, né tantomeno a sua figlia, figuriamoci!

Poi, con passo deciso, si incamminò lungo il corridoio della scuola.

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Capitolo 10
*** L'autunno ***


La campagna, intanto, si stava preparando ad accogliere l’autunno.

I contadini, con i loro potenti macchinari, avevano iniziato a mietere il granoturco. La mietitrebbiatrice tagliava le piante, per poi scaricare la granella nel carro. Al suo passaggio per le strade adiacenti ai campi lasciava polvere e pezzetti di foglie di granturco, ancora impigliati tra le ruote della macchina.

Tutto sapeva di momenti ripetuti nel tempo, di lavoro secolare, pur essendo cambiate le attrezzature.

Le rondini sorvolavano il cielo in formazione, già preparandosi a trasmigrare verso il loro lungo viaggio.

Ai bordi dei campi, due uomini in bicicletta guardavano il lavoro che uno dei contadini, loro amico, stava svolgendo fin dal primo mattino.

“Kociss, sei arrivato tardi ad aiutarmi, hai portato anche il tuo amico Tarzan?” rise divertito il contadino, spegnendo la mietitrebbia.

Kociss era l’amico dai capelli nero corvino, legati con una coda di cavallo e con un abbigliamento sempre molto sportivo e semplice.

Tarzan, invece, era l’altro uomo, dai capelli grigi, lunghi sino alle spalle, e dalla barba incolta.

Quell’amicizia, come i rispettivi soprannomi, risaliva a più di trent’anni prima.

“È presto per pranzare, non avete altro da fare? Alle dodici e trenta a casa mia, sotto il portico: oggi pastasciutta al ragù e salamelle,” disse indaffarato il contadino, per poi riprendere subito il suo lavoro.

I due uomini lo guardarono sorridendo e pensando: “Porteremo il Pinot nero, che a Gian piace tanto, vedremo se poi avrà ancora la forza di lavorare!”

La loro giornata libera dal lavoro nell’officina meccanica del signor Pandolfi li aveva disorientati. Abituati al ripetersi monotono delle giornate, ora dovevano inventarsi cosa fare.

Il signor Pandolfi aveva dovuto accompagnare la moglie alle terme di Sirmione, sul lago di Garda. L’uomo era contento sia per la moglie, che finalmente avrebbe potuto curarsi, sia per sé, che finalmente avrebbe potuto giocare a carte tutte le sere con gli amici.

Come spesso accade, del resto, la mente umana, accanto alle azioni positive che elabora e che poi mette in pratica, ne escogita altre con secondi fini, intuiti solo da chi sa osservare attentamente.

 

Quel pomeriggio, lungo via Roma, una squadra di atleti di basket stava passeggiando in allegria. I ragazzi arrivavano da Novara, per giocare una partita con il team della cittadina. Il loro modo di camminare con scioltezza ed elasticità parlava di ore e ore di allenamento sportivo ininterrotto.

All’improvviso, a metà del loro passaggio lungo il corso, sentirono una musica: era una canzone in voga, a loro cara, che stava attirando anche, tra balli e canti, l’attenzione dei passanti.

Il protagonista, o meglio, il regista di quella allegra rappresentazione, era proprio lui, “Radio Bici”, il quale, con un sorriso stampato in faccia, dopo aver attraversato il corso, si allontanò, sempre canticchiando.

Soltanto la moglie del notaio Gerardi e la sua amica contessa Soleni Melzi storsero i propri nasi raffinati: a loro risultava volgare, nonché privo di interesse, tutto ciò che proveniva dalla strada.

“Mah, ogni testa è un piccolo mondo,” pensò Sofia, che intanto aveva assistito alle smorfie delle due signore, affacciata alla vetrina della sua pasticceria.

Quanto avrebbe voluto ballare con i ragazzi in mezzo al corso!

Quante discrepanze c’erano tra gli abitanti della cittadina… e quanti modi diversi di affrontare le situazioni che si presentavano in quella piccola, seppur rappresentativa, comunità.

Tutto però sembrava incastrarsi alla perfezione, e ogni cosa tornava infine al proprio posto.

 

Intanto, a fine mese si sarebbe svolta la giornata di apertura gratuita dei musei della regione, con la possibilità di visitare le belle case nobiliari.

Anche i due musei storici della cittadina, con i loro reperti, avrebbero testimoniato il proprio passato ai visitatori.

Le case nobiliari sarebbero state accessibili solo alle persone iscritte via e-mail, dopo aver lasciato un recapito e un numero telefonico.

“Quante storie, per entrare in queste case!” esclamò spazientita Giovanna, la moglie del professor Nardini. “Mi sono dimenticata di iscrivermi, sono stata così impegnata…”

Il professor Nardini porse quindi alla moglie la risposta di conferma della e-mail di prenotazione, da lui inviata.

“Quanto sei caro, come potrei fare a meno di te?” abbracciandolo, con slancio. “Ci andrò con Flavia e Carla, così spettegoliamo un po’!”

La sera, intanto, scendeva dolcemente sulla cittadina. Gli ultimi raggi obliqui del sole toccavano le case, attraversandole, e giungendo alle persone, sempre più quiete.

Più tardi, quando il buio avrebbe coperto ogni cosa, e quando le luci dei lampioni avrebbero rischiarato le vie cittadine, gli abitanti sarebbero usciti di nuovo dalle proprie case.

Avrebbero, come al solito, vagato per il centro storico, si sarebbero attardati davanti a una tazza di caffè o a un bicchiere di vino al bar, e poi, con un dialogare dai toni più pacati e bassi, avrebbero fatto ritorno alle loro dimore.

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Capitolo 11
*** L'amicizia si coltiva ***


La lezione di yoga sarebbe iniziata alle nove del mattino.

Pinuccia si era alzata alle sei e trenta, aveva svegliato la figlia Sara, preparato la colazione e, dopo averla consumata insieme, come ogni mattina, aveva iniziato a sistemarsi.

Il marito era già uscito di casa, perché a Milano lo attendeva una riunione alle otto, un orario alquanto insolito. Era così bizzarro lo studio di architettura nel quale l’uomo lavorava ormai da più di venticinque anni! Le riunioni venivano concordate al momento o, peggio, alle undici di sera, quando tutti erano già a casa, rilassati. Tuttavia il lavoro era interessante, fantasioso e molto originale. Spesso questo portava il marito di Pinuccia a viaggiare all’estero: Berlino, Parigi, Stoccolma, Budapest… l’ultima volta addirittura in Brasile, a San Paolo.

Pinuccia e Sara si erano ormai abituate alla valigia pronta all’ingresso di casa e, ogni volta, al rientro del padre e del marito, lo accoglievano con un grande abbraccio, aspettandosi sempre un regalino che avrebbe fatto perdonare, in qualche modo, la sua assenza.

Quello era il giorno libero di Pinuccia e, non dovendo andare a scuola, la donna ne approfittò per seguire la lezione di yoga che avrebbe tenuto la sua ex collega di ginnastica, Nicoletta.

La ricordava brava e tranquilla, ma anche piuttosto ferma e decisa. Le piaceva il suo modo di lavorare e la fiducia che lasciava sempre trasparire nei confronti delle altre persone.

“Chissà cosa mi aspetterà questa mattina, il gruppo di yoga è sempre particolare, selettivo verso le nuove amicizie…” pensò Pinuccia, con in mano il borsone e già pronta per uscire.

Poi, decisa, si chiuse la porta alle spalle e suonò il campanello della vicina di casa, la signora Amalia. Voleva rassicurarsi sulle sue condizioni, visto che la donna aveva una certa età e viveva da sola: la figlia e il marito dicevano che Pinuccia teneva l’anziana vicina “sotto la propria ala protettrice”.

La signora Amalia, accompagnata sempre dal suo gatto Arturo, le aprì la porta e, con un dolce sorriso, le comunicò che quel giorno sarebbe andata a trovare la sua amica Virginia, che Pinuccia conosceva bene. Avrebbe preso il pulmino, già prenotato, e sarebbe rientrata per le sedici.

“Che bella giornata mondana la aspetta, signora Amalia, buona chiacchierata!” le augurò contenta Pinuccia, per poi scendere le scale, canticchiando.

Nicoletta, intanto, la stava aspettando in palestra: aveva già per tempo avvisato le sue allieve, abituali e collaudate, dell’arrivo della nuova iscritta.

Pinuccia entrò in palestra, salutando tutte con un sorriso - come per sua abitudine - e con l’animo disposto a nuove conoscenze, magari anche a future amicizie. Le gentili signore la scrutarono e, abbozzando un sorriso tirato, si concentrarono sui rispettivi tappetini.

La lezione era comunque molto interessante. Pinuccia, abituata allo step della palestra, doveva controllare i nuovi movimenti, per poi rilassarsi alla fine di ogni esercizio.

Il silenzio totale e la serietà della pratica yoga la sconcertarono un po’, e allora incominciò con leggeri accenni a battute ‘delicate’ nei confronti di alcuni esercizi particolari. Nicoletta, che la conosceva, sorrideva divertita mentre, dal fondo e da altre parti della palestra, risuonavano alcune risatine.

“Il ghiaccio si è rotto, finalmente,” pensò soddisfatta Pinuccia, mentre la lezione procedeva con maggior serenità.

Dopo un’ora e mezza di esercizi, che non avrebbe mai immaginato di poter fare, Pinuccia ringraziò Nicoletta soddisfatta, salutando le nuove compagne e uscendo dalla palestra.

In quel momento una giovane signora la rincorse, chiamandola e, una volta raggiunta, la ringraziò per l’intervento ‘rompighiaccio’ che aveva svolto: anche per lei era stata la prima lezione.

Clara, questo era il nome della donna, aveva notato l’alterigia del gruppo e pensava a come sarebbero state le altre lezioni, continuando di quel passo. Pinuccia, abituata ai musi lunghi di certe colleghe, la ringraziò e, con un leggero tocco sul braccio di Clara, le dette appuntamento alla prossima lezione.

È proprio vero: ogni ambiente è geloso di quello che rappresenta e di ciò che ha. Poche sono le persone disposte a cambiare.

Saranno sempre queste, poi, a trascinare tutte le altre.

 

Intanto Amalia aveva raggiunto l’amica Virginia, che l’aveva invitata nella sua cascina, adiacente alla cittadina. A pranzo avrebbero mangiato un bel risotto alla parmigiana, due fettine di arrosto di tacchino e insalata. Niente dolce… per evitare l’insorgere del diabete.

Quante cose avevano da raccontarsi, quante vicende avevano vissuto insieme, da ragazze prima, e da giovani donne poi.

Amalia era la più fragile tra loro, ma era una brava ascoltatrice. Non amava spettegolare - fatto strano per quella generazione - ed era restia a dispensare consigli. Rispettava Virginia, suo opposto, in quanto più esuberante, vivace e sicura, sempre pronta a buttarsi in ogni nuova avventura. La loro era proprio un’amicizia collaudata da più di quarant’anni: perfetta.

Ilaria, tornando dalla scuola, le vide sedute sulle poltroncine in cortile al sole, e provò affetto per loro. Si avvicinò ad Amalia e le disse: “Sei arrivata finalmente, mia nonna non ce la faceva più a trattenersi dalla gioia per il tuo arrivo!”. Poi, con slancio, la abbracciò e la baciò. Virginia guardò la nipote con affetto e ammirazione, pensando che stava proprio crescendo bene: la sua amicizia con Sara era destinata a durare nel tempo, un po’ come la sua con Amalia.

“Quanti bisticci si fanno, quante divergenze di opinioni si devono avere, per collaudare un’amicizia. Quante volte si deve cedere o cambiare idea, per accontentare una parte o l’altra. Però ne vale sempre la pena!” pensò Virginia, sorridendo tra sé.

Intanto, dalla finestra di casa della signora Rosalia, si notava un movimento, tra lo spostare e il risistemare delle tende: come avrebbe voluto anche lei, Rosalia, avere un’amicizia così collaudata!

La sua vita e le sue scelte però erano state diverse.

Aveva preferito restare sola con il marito, servirlo, litigare spesso, questo sì, senza lasciare che altre persone si mettessero tra loro o entrassero a far parte, anche solo esternamente, della loro vita.

Il resto era solitudine.

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Capitolo 12
*** La notizia scioccante ***


Vittorio era seduto al tavolino del caffè “Duomo”, proprio in piazza.

La giornata vibrava di aria frizzante, ma lui resisteva ancora all’aperto. Mentre osservava il lento e sempre più scarso passaggio delle persone, rifletteva sull’articolo che avrebbe dovuto scrivere, entro quel giorno, per il giornale cittadino. La notizia in questione lo aveva sorpreso. Come avrebbe potuto raccontare - senza entrare nel patetico e senza scadere nel banale - la storia di un bambino di due anni appena abbandonato in un campo, soltanto con la compagnia di un cagnolino?

“Ci vorrebbe Sergio: lui sì che, con la sua esperienza e con la sua capacità narrativa, riuscirebbe a raccontare con semplicità ed empatia questa triste vicenda…” pensò Vittorio.

Sergio era il suo migliore amico, nonché compagno di studi, più brillante e capace di lui nel buttarsi in tutto ciò in cui credeva, senza troppe remore; ora però lavorava per un importante giornale nazionale e viaggiava molto, anche all’estero. Al rientro da ogni viaggio, i due si sentivano, immancabilmente, raccontandosi le rispettive novità.

Grazie a Sergio, Vittorio aveva imparato ad essere diretto nel narrare, senza essere brutale, ma comunque convincente.

“La verità va descritta senza mezzi termini, così com’è: l’importante è la tua empatia. Devi sempre metterti nei panni di chi ti legge, pensando se ciò che tu stesso leggi lo vorresti venire a sapere in quel modo. Non esagerare mai con la verità: a volte, ricorda, fa male…” questo gli aveva consigliato Sergio.

Dopo aver terminato il suo caffè, Vittorio ritornò dunque alla piccola redazione del giornale cittadino.

La notizia fu pubblicata il mattino seguente e la cittadina - come sempre davanti a fatti così toccanti - rimase scioccata di fronte al testo dell’articolo:

Un bambino dell’età di due anni è stato trovato in un campo da un contadino, sotto un albero, addormentato con la testa reclinata sopra il suo cagnolino che presumibilmente lo ha scaldato, dato che il bimbo indossava un giubbotto leggero e poco imbottito.”

Questo era soltanto un estratto dell’articolo di Vittorio su quella terribile vicenda.

I carabinieri, intanto, allertati dal contadino, erano arrivati subito sul posto con una assistente sociale. Il piccolino era stato poi prontamente portato in ospedale per tutti i controlli del caso, insieme al cagnolino, che non aveva mai abbandonato il bimbo, seguendolo come se avesse dovuto prendersene cura. Il pediatra aveva trovato il piccolo un po’ denutrito, ma in buona salute. Le infermiere gli avevano subito portato un bel biberon di latte caldo e lo avevano cambiato e rivestito. Anche il cane aveva avuto la sua dose di cibo. Ora, tutti e due riposavano in una cameretta del reparto pediatrico.

Le infermiere vegliavano sul piccolo come se fosse loro figlio, chiedendosi, sconcertate, chi mai avesse potuto abbandonare un bambino così piccolo in un campo. Per fortuna c’era il suo cagnolino!

Tra la gente della cittadina il fatto fu commentato con esclamazioni e giudizi spesso irripetibili, sebbene, in questo caso, giustificabili.

Le pie donne della messa mattutina scuotevano la testa e si apprestavano a pregare per l’anima del piccolino (e forse anche del cane). Fare tutto ciò non era però sufficiente.

Forse era il caso di aiutarlo pragmaticamente ed affettivamente: dargli una casa, un affetto solido e sicuro, farlo vivere in pace con il mondo. Ma loro, le pie donne, votate solo allo spirito e alla salvezza dell’anima, non la intendevano così.

La ricerca della madre ha avuto inizio subito dopo il ritrovamento del piccolo, ma senza risultati. Il mistero avvolge la vicenda.” Così informavano gli articoli di Vittorio nei giorni successivi.

Inoltre, si era saputo che il cagnolino aveva il nome Lollo: così si rivolgeva a lui il piccolo, che, invece, non conoscendo il proprio nome, era stato chiamato dal corpo medico e infermieristico Francesco, come il patrono d’Italia.

Francesco e Lollo furono affidati al pediatra che aveva visitato per primo il bimbo: il Tribunale dei Minori, con l’aiuto dell’assistente sociale, amica della moglie del pediatra, aveva concesso loro l’affidamento temporaneo.

La coppia era affidabile e molto stimata, sia nella comunità medica che nella cittadina: i requisiti erano a posto.

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Capitolo 13
*** La leggerezza ***


I giovani e i ragazzi in generale, che frequentavano gli ultimi anni delle superiori e l’università, venendo a conoscenza della notizia scioccante, fecero un breve accenno al fatto, dicendo che era sbagliato e assurdo, per poi passare oltre: dovevano andare avanti. Ben curati nell’aspetto, all’ultima moda, sciorinavano fatti a raffica, come se mangiassero le noccioline durante i loro famosi aperitivi. La scioltezza dei movimenti e la leggerezza dei loro modi apparentemente spigliati traevano in inganno quegli adulti che li vedevano felici, liberi e soddisfatti di sé stessi. Il loro cercare la compagnia del gruppo ogni volta, il buttarsi a capofitto negli appuntamenti serali, nelle scelte concordate tutti insieme, nelle opinioni, espresse senza divergenze con il gruppo, indicavano un’insicurezza di base.

L’esperienza in generale conta, la maturità anche, ma il desiderio di rischiare da soli, di buttarsi in qualcosa di anelato e costruito dopo lunghe riflessioni, è solo la conquista di pochi.

Con i telefonini sempre in mano, i computer sempre accesi e pronti, quei ragazzi si isolavano dal dialogo diretto con gli altri, anche dai compagni stessi. Presi individualmente erano abbastanza timidi, restii a interloquire, garbati nei modi, ma la fretta di fuggire li spingeva sempre ad andare avanti, anche senza una destinazione precisa.

Sara, quel pomeriggio, era seduta davanti al computer nella sua stanza, nell’intento di svolgere una ricerca dal titolo “Come misurare la realtà con i numeri”. Un argomento ostico per la sua età, anche se lei aveva una passione segreta per la fisica. Non lo avrebbe mai ammesso a sua madre, ma questo è un altro discorso.

All’improvviso, nel bel mezzo della ricerca appassionata, suonarono alla porta: in casa non c’era nessun altro. Sbuffando, si alzò, non avrebbe voluto aprire, magari fingendo che in casa non ci fosse nessuno, ma la luce accesa nella sua stanza la tradì.

Aprì la porta e di fronte a lei vide il suo vicino di casa, Luca.

“Cosa vorrà mai questo qui a quest’ora?” pensò, quasi indispettita.

“Ciao Luca, dimmi…”

“Sempre carina tu, eh… Niente, volevo invitarti questa sera al Master Pub per il compleanno di Michele. Ci sarà anche Filippo, suo fratello, che è tornato apposta da Berlino per festeggiare. Dato che lo conosci anche tu, magari potrai salutarlo!”

“Ma oggi è mercoledì, domani si va a scuola, io ho un’interrogazione alla prima ora, non posso, mi dispiace.”

“Ritorniamo presto a casa, anch’io devo andare a scuola. Ci divertiamo un po’, una birretta in compagnia e la serata passerà veloce…”

“Proprio questo è il punto, il tempo passa veloce, senza che noi ce ne accorgiamo. Sarà per un’altra volta, Luca, possibilmente nel fine settimana.”

A questo punto Luca, ferito nel suo orgoglio di cacciatore, avrebbe voluto spiattellarle in faccia che era una secchiona snob, ma il buon senso, in quel momento, lo frenò.

“Va bene Sara, magari verrò un fine settimana a proporti un’altra uscita.”

Poi, con fare risoluto, si allontanò, senza salutarla.

“Cafone, ignorante e pure lazzarone, ecco cosa sei!” pensò Sara, ritornando alla sua interessante ricerca.

Il suo rapporto con Luca non era sempre stato così brusco e intollerante. Si conoscevano da quando erano bambini, avevano frequentato insieme la scuola materna Montessori, tra giochi, merende e cartoni animati condivisi.

Mai e poi mai Sara avrebbe immaginato che Luca si sarebbe potuto innamorare di lei.

Quando lui le aveva confidato il suo amore, alcuni anni prima, Sara lo aveva guardato come se fosse impazzito, gli aveva anche riso in faccia e dato una pacca sulla schiena, schernendolo e dicendogli di non fare battute sceme, ma lui l’aveva presa tra le braccia e aveva cercato di baciarla. Sara aveva reagito dandogli una potente sberla, con conseguente disappunto e offesa profonda di Luca. Da qui erano iniziati alcuni dissapori, almeno da parte di Sara, con la totale rinuncia di lei ad uscire con l’amico d’infanzia.

La ragazza aveva vissuto l’atteggiamento di Luca quasi come un’offesa, come un tradimento alla loro amicizia.

Ormai lo aveva accantonato.

Quanto avrebbe voluto, invece, chiedergli di Lorenzo, un ex amico del ragazzo! Più intelligente e preparato, Lorenzo frequentava il secondo anno di Fisica a Milano e, per non far mancare alcunché, era pure atletico e sportivo. Quante doti accumulate tutte in un unico ragazzo…

Sara, comunque, non si perdette d’animo… anzi, lo avrebbe cercato su Facebook.

Lorenzo faceva parte di una squadra di basket, di cui era il capitano. Dal temperamento deciso, sapeva farsi valere e incitare il gruppo. Andava d’accordo con i propri compagni e aveva regole precise per tutto.

Nella cittadina, come ovunque, c’era anche questa categoria di ragazzi: gli sportivi praticanti. Questi, in quanto orgogliosamente parte di una squadra, sapevano condividere con i propri compagni non soltanto il duro allenamento, ma anche il tempo libero. Sapevano sempre cosa fare, con ideali precisi, e senza troppi tentennamenti tra il decidere e l’agire. Continuavano a crescere con idee man mano più chiare, sapendo bene quello che volevano, e sempre pronti a tutto per i propri compagni. Erano in grado, inoltre, anche di ascoltare le altre persone, almeno nella maggior parte dei casi.

Sara stimava molto Lorenzo per le sue doti, ma nello stesso tempo lo temeva un po’.

“In che cosa potrebbe peccare il suo carattere? Non è che alla fine si viene a scoprire che è pedante con le ragazze, quando è solo con loro?! Lo vorrei proprio sapere…”

Tra una pagina di lettura della ricerca e l’altra, Sara fece dunque stare in mezzo ai propri pensieri anche Lorenzo, non riuscendo ormai a toglierselo dalla testa.

 

La cittadina, coi suoi abitanti, era quindi uno spaccato di vita, capace di mettere in evidenza anche le varie caratteristiche delle nuove generazioni.

Certo è che il sabato sera, nella cittadina come ovunque, tutti i ragazzi escono in gruppo, si incontrano in pizzeria o al pub, per divertirsi un po’. Il loro atteggiarsi è sempre disinvolto, leggero, ma si sa, sono giovani…

Le loro discussioni variano nelle tematiche: quello che è sicuro è che tendono a non parlare troppo del lavoro, della scuola, dell’università. Le ragazze chiamano all’appello i maschi, incitandoli a raccontare qualcosa di spiritoso, oppure a decidere dove andare dopo il pub.

Alla fine sono però le femmine, almeno certe femmine, a risolvere le situazioni e a decidere.

L’importante, specialmente per i ragazzi delle nuove generazioni, è raccontarsi ciò che hanno fatto sui social o, meglio, scriversi e taggarsi direttamente, anche se soltanto a un metro di distanza.

Il linguaggio è spesso un optional.

Quanta fatica ha fatto l’uomo primitivo per cercare di farsi capire dai propri simili, quanti sforzi per decifrare quel suono che sarebbe stato poi indicato come “nome”, appartenente a quel determinato oggetto, o animale, o persona!

Vista così, la cosa sembrerebbe uno sforzo inutile, ma non lo è.

Tanti anziani, o meglio, certi pensionati, tuttora non comprendono tali cambiamenti, e ancora sciorinano alle persone a loro accanto ‘come si viveva ai loro tempi’, ‘quanto si stava bene’…

Sarà poi tutto vero?

Come saranno stati loro, anziani e pensionati, da giovani?

Forse più ‘scavezzacollo’, come si usava dire allora a quei ragazzi o giovani poco attenti alle conseguenze delle proprie azioni e delle proprie scelte?

Questo non ci è dato sapere.

Si deve solo ascoltare.

“Tutto il mondo è paese”, e anche la cittadina, come si è visto, presentava le stesse abitudini del resto del mondo.

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Capitolo 14
*** Il dilemma del sentire profondo ***


L’aria, intanto, si era fatta più fredda e profumata di neve.

Nelle strette vie cittadine il vento aveva iniziato a mandare tenui sibili, che sembravano aumentare con l’oscurità del cielo. Lievi fiocchi bianchi svolazzavano qua e là, colpendo ogni cosa in quel loro girovagare. La notte aveva lasciato da poco il posto al mattino, ma il buio non sembrava volersene andare.

Sicuramente, al risveglio della cittadina, i suoi abitanti avrebbero trovato una coltre bianca di neve.

E così fu.

Il professor Nardini, dopo aver alzato le tapparelle della sua camera da letto, aveva esclamato meravigliato: “Oh, proprio oggi! Devo essere a scuola presto questa mattina, ho dei colloqui! Dovrò sbrigarmi, se non voglio essere bloccato dal traffico.”

La moglie invece, molto più pratica e atletica, decise che a scuola ci sarebbe andata a piedi: scarponcini da neve, giubbotto imbottito, guanti, cappello di lana e, naturalmente, il suo borsone da ginnastica. Una colazione veloce, un bacio al marito e via!

Pinuccia intanto aveva deciso che avrebbe accompagnato Sara a scuola, anche per salutare la sua amica Claudia.

“Alla prima ora la troverò sicuramente, come al solito,” pensò la donna.

Sara era invece felice per ben due motivi: il primo era perché sperava di incrociare Lorenzo, che magari quel giorno non sarebbe andato agli allenamenti e all’università per via del maltempo. Il secondo era la neve, che la faceva sognare e rilassare.

 

Marco, intanto, era già in pullman, in direzione Milano, sperando di non arrivare troppo tardi in Regione. Quel giorno si sarebbe dovuta tenere una importante riunione riguardante lo sgombro della palazzina Neri, ormai occupata da tempo. Intanto, nel suo cuore, palpitava il desiderio di Sofia, la sua vicinanza. Gli mancava il fatto di non poterla vedere e sentire tutti i giorni. Messaggi e sms andavano bene, ma erano soltanto parole, prive di ogni speciale emozione.

Nel frattempo, nella cittadina, il traffico era più lento, visto che gli spazzaneve non avevano fatto in tempo a ripulire tutte le strade battute dal traffico mattutino. La neve aveva rallentato il movimento degli automobilisti e dei pedoni, anche se i bar erano comunque già occupati dagli abitudinari della prima colazione.

Nella cascina dove vivevano la signora Rosalia e la signora Virginia stava per aver luogo una inaspettata confessione.

Forse era a causa del mutare del tempo, che porta sempre le persone a fare pulizie profonde dentro di sé, per poi lasciar fluire liberamente il sentire.

La signora Rosalia si era svegliata con una profonda angoscia e con un forte senso di solitudine. Probabilmente la donna non avrebbe descritto in questo modo il proprio sentire, apostrofandolo invece con un semplice: “Non mi sento a posto…”

Affacciandosi alla finestra che dava sul cortile, pensò se raccontare o meno a Virginia ciò che le stava accadendo.

Se ne vergognava un po’, ma non voleva confessarlo a padre Amedeo, pensando che il sacerdote non l’avrebbe, forse, capita.

Con passo deciso uscì di casa, sbattendo la porta, noncurante del marito ancora sonnecchiante, e dirigendosi verso l’uscio della vicina.

La signora Virginia aveva terminato da poco di lavare le tazze della colazione. Alzò gli occhi dal lavello allo sbattere improvviso della porta d’ingresso.

“Ah, Rosalia, ciao. Cosa ti è successo?”

La signora Rosalia non aveva mai capito come Virginia sapesse comprendere al volo ciò che una persona aveva dentro di sé, solamente con lo sguardo.

Accolta dalla vicina, si sedette sul divano, come sfinita, e balbettando disse: “Non credo di sentirmi bene…”

Virginia le si accostò preoccupata e, prendendole le mani tremanti, cercò di capire che cosa l’avesse mai turbata in quel modo.

In quel momento Rosalia incominciò a piangere e, come per incanto, si schiuse dentro di sé una porta ormai bloccata da anni.

“Virginia, so di non essere una brava persona. Oggi però non ce la faccio più e ho deciso di chiederti aiuto. Sai che per me è difficile fare questo passo…”

“Dimmi, Rosalia, se posso aiutarti lo faccio volentieri.”

Rosalia continuò con voce roca e titubante: “So di essere stata una persona egoista, soprattutto nei confronti di mio marito. Ho smesso di cercare i figli subito dopo il primo tentativo, non ascoltando l’uomo che avevo sposato, che mi diceva di riprovare più e più volte. Ho scavato, negli anni, una buca profonda, nella quale ci siamo trovati a vivere noi due da soli, lontano da tutto e da tutti. Mio marito ha trovato conforto nel suo lavoro fuori casa, io invece in casa tra le mie, o meglio, ‘le nostre’ cose. Ti ho sempre ammirata, Virginia, per la tua voglia di vivere, anche quando tuo marito Alfredo è morto e tu hai poi portato in casa tua figlia, insieme ai nipoti. Come avrei voluto essere te, come avrei voluto dirti che ti ammiravo… Invece ti ho semplicemente detto che stavi sbagliando, che dovevi lasciare tua figlia e i tuoi nipotini a casa loro, da soli. Che cattiveria, Virginia! Perdonami!”

Il pianto della donna diventò un grido di dolore.

La signora Virginia, in un primo momento, rimase molto sorpresa, quasi disorientata, da quella spontanea confessione. Si riprese subito, però, capendo che lo sforzo di Rosalia di aprire il proprio cuore era stato grande, meritando altrettanto rispetto.

“Rosalia, vieni qui, ti abbraccio… Sei stata bravissima e coraggiosa. Hai capito il tuo errore, e non hai avuto paura di confidarlo. Se vorrai, io ti aiuterò.”

Nell’ascoltare queste parole, la signora Rosalia abbracciò forte, a sua volta, Virginia, e la ringraziò, commossa.

Forse aveva capito che il vivere isolati non conduceva da nessuna parte, e soprattutto allontanava dalle altre persone… da tutti.

“Rosalia, tra poco è Natale: tu e tuo marito siete invitati da noi a pranzo, se vi va. Ci saranno anche altre persone.”

“Virginia, grazie di cuore, accetto volentieri. Ti aiuterò a preparare il pranzo, e mio marito magari ti darà una mano ad abbellire il tuo grande albero di Natale, con i tuoi nipoti.”

La neve, la vicinanza del periodo natalizio, l’armonia appena ritrovata, resero quel momento semplicemente magico.

La speranza era che la costanza avrebbe sempre avuto la priorità su altri atteggiamenti che, a volte, sembravano emergere, inaspettati.

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Capitolo 15
*** Il pranzo di Natale ***


Mancava poco al Natale.

Le vie e le piazze della cittadina erano state decorate con luci e grandi alberi natalizi. I negozi avevano fatto a gara nell’addobbare le vetrine e nell’attirare i passanti, con le trovate più originali. Si era poi accesa una frenesia dell’ultimo momento nelle persone, che dovevano sveltirsi nel fare gli ultimi acquisti, e i regali dimenticati all’ultimo minuto. Tutti volevano essere pronti per il grande giorno, senza dimenticare alcunché e nessuno.

Oltre ai regali da acquistare, ci sarebbe stato anche il pranzo da preparare… questo era molto importante!

“Che grande abbuffata faremo a Natale!” pensavano i giovani insaziabili. Le ragazze, intanto, si consultavano su come vestirsi e presentarsi alla tavolata: “Non voglio mettere il vestito dell’anno scorso, cercherò di fare un abbinamento originale con quello che ho, sempre se non potrò acquistare qualcosa di nuovo,” si dicevano tra di loro al telefonino, sospirando.

 

La contessa Soleni Melzi aveva deciso di invitare a cena, aspettando l’arrivo del Natale, le persone secondo lei più influenti: l’avvocato Manforte, il notaio Gerardi e il famoso dentista cittadino, il dottor Corbelli, dalla personalità dominante e decisa: nel suo studio dentistico tutto il personale era assoggettato ai suoi voleri. Nel caso in cui qualcuno avesse fatto presente al dottore che qualcosa non era andato nel modo giusto, lui accusava il paziente di essere “un visionario” e si arrabbiava.

Come sempre, il brutto carattere e l’arroganza non danno tregua ai comuni mortali!

La contessa, intanto, aveva acquistato i suoi regali di Natale a Milano, anche se la donna preferiva chiamarli ‘piccoli presenti’.

Gli ospiti avrebbero capito che non era ‘niente di impegnativo’ e che non bisognava essere eccessivi nell’ostentare. Anche perché un invito alla sua tavola era già un riconoscimento sociale!

La contessa Soleni Melzi, dama raffinata, elegante, dotata di una cultura che andava oltre le conoscenze comuni, spaziava in ambienti altolocati, in cui le informazioni di qualsivoglia natura arrivavano prima che ai comuni mortali. Le conoscenze culturali e sociali, purtroppo, si limitavano a una cerchia d’élite ristretta: forse era per questo motivo che non si potevano proprio definire ‘complete’ e ‘totali’. Ma questo non era importante per la contessa, avvezza ad essere ascoltata nella propria cerchia di conoscenti e di alcune amicizie. Era abituata a dare ordini, o meglio a “consigliare”, come la dama preferiva definire le proprie istruzioni al personale della sua casa e a chi avesse osato chiederle un consiglio.

Il suo sentire personale era comunque indefinito, e poco chiaro a chi le stava vicino.

L’importante, per la contessa, era però dimostrare sempre, quotidianamente, che la sua superiorità d’animo e il controllo emozionale erano una “dote specifica” appartenente soltanto ad una certa élite nobiliare.

Oh, come riscalda la spontaneità del cuore!

 

Il professor Nardini, intanto, aveva da poco sfornato le tartine al salmone, al pomodoro, all’aglio, alla scamorza affumicata, alle acciughe e, per finire, all’olio di oliva e aromi. Il profumo invitante aveva invaso la cucina e si stava propagando nella sala da pranzo. La tavola era stata abbellita per l’occasione, e gli invitati avevano trovato i loro posti a sedere, indicati da un nome scritto su un bigliettino, tenuto tra le mani da un angioletto. L’albero di Natale era adornato da festoni lucenti ma, soprattutto, da pupazzetti di stoffa e lana cruda che Giovanna, la moglie, aveva acquistato in montagna a Molveno durante le vacanze estive. I commensali avevano posto sotto l’albero i doni natalizi, che sarebbero stati aperti dopo il pranzo.

Anche Claudia con il marito, e la segretaria Flavia con il consorte ritornato dall’Iran per Natale, erano stati invitati, in nome di un’amicizia che andava oltre il lavoro.

Giovanna indossava un grazioso abito di lana rosso, impreziosito da una collana di pietre dure che il marito le aveva appena donato. Per una volta aveva abbandonato le sue tipiche tute all’ultima moda, sebbene funzionali e pratiche!

Claudia e il marito avevano portato alla coppia un panettone artigianale farcito di cioccolato e canditi, mentre Flavia e suo marito, due bottiglie di vino del ‘Franciacorta’.

Il pranzo, intanto, si stava animando: il buon vino e i vari piatti di portata riscaldavano il fisico, sciogliendo quelle poche resistenze nell’espressione, quelle che a volte trattengono le persone quando non vogliono esporsi più di tanto.

Non era comunque quello il caso, visto che la conversazione della comitiva continuava a fluire liberamente e senza freni.

Ognuno dei commensali aveva acquistato un libro da regalare agli amici, secondo il personale sentire. Le risate avevano preso piede, mentre le battute scherzose e incalzanti richiedevano un po’ di spazio, per aver modo, a chi le accoglieva, di riprendersi per una successiva risposta a tono.

 

A casa della signora Virginia, intanto, la tavolata aveva numerosi invitati: oltre alla figlia e ai due nipoti, c’erano Sara e i suoi genitori, la signora Rosalia e suo marito e naturalmente la signora Amalia, amica di Virginia. L’ambiente caloroso e festoso aveva portato gli invitati a lasciarsi subito andare, sentendosi quasi tra amici.

I ragazzi avevano messo musiche natalizie come sottofondo al pranzo, e disegnato bigliettini segnaposto per gli invitati.

La signora Rosalia era eccitata ed emozionata e, con il suo abito elegante marrone e beige, si spostava dalla cucina alla sala, aiutando Virginia a portare in tavola le varie leccornie, con un sorriso sincero.

Il papà di Sara, intanto, si era avvicinato al marito della signora Rosalia e aveva iniziato con lui una conversazione, che ogni tanto esplodeva in una risata.

Mentre Amalia seguiva Agnese, cercando di capire come potesse esserle d’aiuto nella preparazione, i ragazzi sistemavano i pacchetti regalo sotto l’albero, ben ordinati e pronti per essere aperti.

Come avrebbero voluto togliere tutte le belle carte colorate e i loro fiocchi, per curiosare! Ma, come diceva il professor Nardini, “ogni cosa a suo tempo!” ripeterono all’unisono Ilaria e Sara.

I tortellini in brodo, le crespelle al pomodoro e l’arrosto di cappone con le patate erano i piatti che Virginia e Rosalia avevano preparato insieme. Tra gli antipasti c’erano affettati di ogni genere, oltre che una varietà di formaggi di mucca, capra e pecora, abbinati alle marmellate. Pinuccia aveva portato la sua famosa insalata russa e due bottiglie di Barolo. Amalia aveva acquistato da Sofia e Giorgia il panettone artigianale alle mandorle, con due bottiglie di spumante.

“Pancia mia fatti capanna!” pensarono i commensali soddisfatti.

Il pranzo ebbe inizio.

I regali sarebbero stati aperti prima del panettone, così la gioia dei doni sarebbe stata rafforzata dal dolce e dallo spumante.

 

In un’altra parte della cittadina, Sofia, reggendo tre pacchetti regalo, era giunta all’abitazione di Marco. Con una sorpresa inaspettata, era stata invitata a trascorrere il Natale a casa sua, con i suoi genitori e il fratello Gabriele. La gioia di Sofia era stata esplosiva: mai avrebbe immaginato di essere invitata a casa di Marco proprio in un giorno così importante per tutta la famiglia.

“Vuol dire che anch’io, ormai, faccio parte della loro famiglia?” aveva pensato, felice e un po’ timorosa, Sofia.

I genitori e il fratello di Marco la accolsero con affetto sincero.

Sofia, ringraziando per l’ospitalità, pose nelle loro mani i suoi preziosi doni. Marco la prese tra le braccia, sussurrandole di amarla.

“Che affermazione compromettente,” pensò tra sé Sofia.

I posti a tavola erano già stati decisi: Sofia si sarebbe seduta alla destra del padre di Marco, mentre questi di fianco alla madre. Gabriele sarebbe stato accanto a Sofia.

Un bicchiere di prosecco dette inizio al pranzo natalizio e tutti sembrarono rilassarsi.

A volte, lo sguardo apprensivo della madre di Marco sorprese e intimorì la ragazza. Così Sofia, rivolgendosi alla signora, le chiese, per stemperare: “È vero che è stata un’atleta, da giovane? Così mi ha detto Marco!”

La signora, un poco scossa, e come se si fosse ritrovata di nuovo nei propri vecchi panni, le rispose allegramente interessata: “Sì, ho partecipato a varie gare podistiche, vincendone alcune. Quanto mi piaceva…” il suo sguardo, prima sereno, a quell’affermazione si rabbuiò di nuovo.

Il marito, abituato a quegli sbalzi d’umore, appoggiò la sua mano sopra quella della moglie, continuando il discorso bruscamente interrotto dalla donna.

“Sonia, in una delle ultime gare podistiche, è stata vittima di un incidente stradale, per opera di uno scapestrato ubriaco. Mancava poco al traguardo… lei e la sua squadra erano insieme e procedevano ai primi posti, quando una moto è sbucata all’improvviso da una stradina, centrando alcuni di loro, tra i quali Sonia.”

“Oh, mi dispiace tanto!” esclamò Sofia. “Poi, cosa è successo?”

“I soccorsi sono giunti subito. I primi ad essere stati investiti hanno avuto le gambe rotte o meglio, spezzate in più punti, mentre Sonia ha avuto il ginocchio frantumato. È stata una vera tragedia. Nessuno di loro ha potuto più correre e partecipare a gare sportive.”

“Quanto mi dispiace… ma ora sta bene, vero?” chiese Sofia, con sincerità alla donna.

La signora Sonia, intuendo l’animo buono di Sofia, sperò in cuor suo che fosse proprio come lei lo aveva sentito. Sorrise alla ragazza e, toccandole la mano, le disse: “Ora tutto è passato, io posso camminare e fare yoga… a volte aiuto pure a fare lezione ai piccolini, in palestra.”

Sofia le sorrise apertamente, guardando Marco, che ricambiò con un occhiolino.

Il pranzo intanto era iniziato con le sue portate succulente, come anche gli scambi di auguri natalizi ad ogni bottiglia di vino aperta.

I regali, poi, avrebbero fatto il resto.

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Capitolo 16
*** L'inverno ***


Le feste natalizie appena trascorse avevano colmato, almeno per quel momento, la frenesia del vivere. Sembrava, osservando le persone, che ognuna di esse avesse trovato nel profondo del proprio essere quel posto tranquillo e di pace che porta a dire: “Io sono veramente così, e qui ci voglio restare!”

Si sa, però, com’è la mente umana… Il raziocinio affiora sempre in superficie: se non si ha l’abitudine ad andare a fondo di sé stessi, e di trattenere ciò che fa star bene, lo si può perdere dopo poco.

Anche nella cittadina intanto il lavoro era ripreso: le scuole avevano riaperto e i negozi cominciavano a disporre gli ultimi capi invernali invenduti, anche se il freddo aveva intensificato la sua morsa.

Le panetterie, le pasticcerie e i supermercati avevano iniziato a sostituire i panettoni e i gustosi torroni alle mandorle e al cioccolato con nuovi dolcetti. Le focacce e il pane con le uvette venivano messi in bella mostra nelle panetterie, mentre le torte alla pasta di mandorla o alla frutta secca e le brioches dorate iniziavano ad abbellire le vetrine delle pasticcerie.

L’abbuffata era stata gradita nei giorni di Natale ma, trascorsi quei giorni, l’appetito, o meglio, la golosità, era tornata a tentare di nuovo quasi tutti.

Gli atleti si trattenevano, dicendo di aver preso peso: come disperati erano già tornati in palestra e, quando il tempo lo permetteva, a correre all’aperto.

La pioggia, mista a neve, intanto, cadeva ogni tanto senza preavviso. I riscaldamenti nelle abitazioni avevano preso un ritmo costante, regolare. Non si pensava più alle lunghe passeggiate all’aperto, all’uscire con la bicicletta, ma soltanto a doversi incontrare in qualche bar o pub, in un caffè o in una pizzeria, oppure in quali case, a turno, condividere una cena con una compagnia allegra e amica.

Le multisale cinematografiche proiettavano film che sollecitavano gli interessi più variegati: il martedì sera erano in programmazione i film d’essai, il mercoledì pomeriggio le pellicole a costo ridotto per i pensionati, mentre i fine settimana erano riservati a ogni genere di film per bambini, ragazzi, giovani e adulti.

Il teatro aveva già presentato in autunno la propria locandina, con spettacoli di ogni genere, spesso rappresentati da attori e da comici di grido.

La vita sociale e lavorativa, inoltre, aveva ripreso il regolare ritmo, spesso piuttosto incalzante.

Le vacanze natalizie e i buoni propositi erano ormai lontani.

Ora il sentire intimo veniva ancora relegato in secondo piano, acquietato per un altro po’.

 

Un sabato sera, Sara era in attesa di incontrare Lorenzo al Master Pub. Non le piaceva essere sempre la prima, aspettarlo e fare la figura dell’impaziente.

“Che rabbia, gli darei un pugno in testa! Ogni volta è la stessa storia, ha sempre qualche imprevisto che lo blocca. Non mi convince più di tanto questo atteggiamento. Ne parlerò a Ilaria,” pensò tra sé. Quando però lo vide arrivare, allegro, bello, atletico, il suo cuore fece un balzo.

“Scusami bella, ma l’allenatore ha avuto un incidente mentre tornava a casa, e io sono dovuto andare a riprenderlo,” le disse Lorenzo, trafelato dalla corsa.

“Anche questa poi…” pensò impaziente Sara, che preferì però tacere e aggiungere, educatamente: “Spero che non abbia avuto delle conseguenze…”

“No no, ora è a casa sua, c’è la moglie che lo accudisce…”

“È proprio come un bambino,” pensò Sara dentro di sé, sempre più arrabbiata, ma all’apparenza amorevole e comprensiva. Probabilmente la sua rabbia sarebbe esplosa in un secondo momento. Intanto, però, quella serata, si svolse all’insegna dell’amore e della serenità.

 

La signora Virginia, nel mentre, stava assistendo a una scenata tra la figlia Agnese e la nipote Ilaria. La ragazza avrebbe voluto trascorrere il fine settimana a Piazzatorre in montagna, con il suo fidanzatino Christian e altre coppie.

“Mamma, è inutile che continui a dirmi di no, tra pochi mesi sarò maggiorenne e allora sì che non ti chiederò più il permesso di uscire e di andare dove voglio con Christian!” rispose irosa Ilaria alla madre.

“Per ora non sei ancora maggiorenne, e quindi resterai a casa o tutt’al più andrai al pub o al cinema, come fanno gli altri ragazzi.”

Agnese avrebbe voluto prendere a sberle la figlia: non le piaceva proprio quel Christian. Lo riteneva arrogante e saccente.

La signora Virginia, intanto, cercando di fare da paciere tra la figlia e la nipote, ricevette un ingrato: “Tu stai zitta, mamma, non ti impicciare!”

Virginia allora ammutolì, si diresse in salotto e accese la televisione. “Che facciano quello che vogliono, io la mia parte l’ho già fatta tanto tempo fa,” pensò, ormai rassegnata. Poi, scuotendo la testa, si diresse in cucina per prepararsi una tisana rilassante alla passiflora e melissa.

 

Il lungo e freddo inverno spingeva spesso le persone, e i giovani ancora di più, a cercare spazi e confronti più liberi, con la voglia di costruire e creare. Forse si era ritornati a quel sentire intimo e profondo, da tempo accantonato?

Con l’arrivo di febbraio, i campi furono ripuliti, arati e seminati. Le giornate, intanto, si erano allungate un po’. Il primo sole non sembrava ancora dare tepore, ma spingeva il freddo inverno a dare il suo meglio, e a terminare ciò che aveva iniziato mesi prima. Le febbri e i raffreddori sembrano però acuirsi, e così le prime malattie infettive infantili.

Pinuccia, a scuola, era alle prese con la varicella e la parotite.

“Chi si ricordava più di queste malattie infantili!” confidò Pinuccia alla sua famiglia raccolta a cena mentre, con un gesto automatico, incominciò grattarsi la testa.

“Oddio, non saranno i pidocchi? Questo è il loro periodo! Infatti Fabio, della classe seconda, ha continuato a toccarsi la testa per un prurito intollerabile!” Pinuccia era nel panico, non più abituata a problemi di ordine pratico e diretto. Ora capiva più che mai le maestre, e il loro fare deciso e disinvolto.

Il marito sorrise mentre, intanto, schiacciando l’occhio a Sara, le intimò di non avvicinarsi troppo alla madre, portatrice di parassiti vaganti. Tutti risero, divertiti, di quella sana complicità.

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Capitolo 17
*** La primavera ***


Ai primi di marzo il vento aveva iniziato a ululare, e ad agitare le chiome degli alberi come non succedeva più da tempo.

Ogni spostamento era accompagnato da un fischio, ogni soffio intenso da uno sbattere secco delle imposte o da un oggetto caduto a terra.

La polvere vorticava nell’aria secondo una danza solo a lei nota.

Il sole aveva acceso le giornate ancora fredde e riscaldato le piccole gemme che si stavano formando sui rami degli alberi, sui cespugli, sulle siepi.

Le margherite e le viole coloravano i campi e i bordi dei fossi. Quando il vento si riposava dal suo turbinare, sembrava di scorgere piccole api sui primi fiori e insetti richiamati dal sole tiepido.

Durante le giornate poco ventose, la signora Virginia usciva nel suo giardino dietro casa, cominciando a zappettare e a seminare. Quell’anno sarebbero cresciute le calle bianche, le petunie, le portulache, le belle di notte e, naturalmente, le rose. Di queste ne aveva acquistate tre piantine al mercato: una rossa, una rosa e una gialla. Il glicine, che si arrampicava sopra la porta di casa per poi ricadere in giardino, era stato potato in febbraio.

La signora Rosalia si recava spesso a casa di Virginia a lavorare a maglia e, intanto, le due donne si raccontavano i bei tempi della loro giovinezza, ma anche delle piccole gioie del momento. Con i suoi alti e bassi di umore, Rosalia cercava di essere positiva, come aveva promesso alla signora Virginia.

Nel loro cortile viveva anche la famiglia della signora Marietta, che lavorava nel palazzo della contessa Soleni Melzi, insieme al marito Giacomo, giardiniere, e al figlio Vito, che aiutava il padre nel suo lavoro. Non erano mai a casa prima delle diciotto.

Marietta era una signora tranquilla e lavoratrice, sempre impegnata nelle pulizie. Il marito e il figlio, una volta giunti a casa, a loro volta pulivano gli attrezzi del mestiere, poi li riponevano e, finalmente, si lasciavano andare.

Padre e figlio avevano un buon rapporto, pur mancando di quella confidenza complice che spinge ad essere sé stessi in ogni momento: nessuno dei due l’aveva però ancora cercata.

A volte, la voce del padre sovrastava, con le sue sfuriate, i silenzi e i musi lunghi della moglie. Cercava di farla reagire alla sua infinita rassegnazione e stanchezza: “Ti ha succhiato anche il cervello, andare a servizio dalla contessa. Lascia perdere lei e le sue pretese da gran dama! Puoi fare a meno di lavorare, ci siamo io e Vito che bastiamo per tutti e tre.”

Questo era quanto aleggiava nell’aria del cortile, nelle giornate ‘no’ di Marietta.

Rosalia confidò a Virginia che Marietta le raccontava spesso del palazzo della contessa, della sua raffinatezza e delle sue ricchezze. Poi, amareggiata, aggiunse: “Povera Marietta… Fa la donna di servizio tutto il giorno dalla gran dama, e non si accorge di essere sfruttata!”

Virginia, sorridendo, non avrebbe voluto iniziare una discussione senza Marietta, l’interessata, e allora aggiunse: “Quando la troveremo a casa da sola la inviteremo a bere un caffè o un tè da me, così ci faremo raccontare. Solo allora decideremo se intervenire e avvisarla,” sottolineò, con voce marcata.

Rosalia aveva capito e, finalmente, assentendo con la testa, continuò il suo lavoro a maglia.

Marietta non sapeva, o meglio, non voleva sapere, che la contessa Soleni Melzi spesso la costringeva a orari oltre il loro accordo. Talvolta la contessa non ricordava le ore di lavoro in più che aveva fatto Marietta e non gliele pagava, se non dietro insistenza della donna, spinta dal marito. La pulizia del tappeto d’ingresso del palazzo e di quello del salone le toglievano le forze. Inginocchiata a terra, con la spazzola in mano, era costretta a pulire ogni piccola parte di quei costosi tappeti di seta.

Guai a dire alla contessa che forse era il caso di portarli in lavanderia!

“Ogni oggetto nel mio palazzo deve essere pulito dal personale della casa, per questo viene pagato,” soleva dire con orgoglio e arroganza la contessa alle sue amiche.

Intanto Marietta continuava a subire, perché così aveva deciso, perché cosi voleva vivere la propria vita, in modo dipendente e assoggettata ai capricci di chi aveva più che mai bisogno di lei.

 

Dall’altro capo della città, Pinuccia stava cercando in tutti modi di acquietare i suoi alunni.

“Sicuramente sarà il vento di questi giorni che fa svolazzare senza posa questi piccoli furetti…” pensava, ormai rassegnata.

Dopo vari tentativi, nel cercare di far scrivere loro alcuni pensieri riguardanti il papà, aveva deciso di farli disegnare per un po’.

In quel modo la scolaresca si sarebbe azzittita.

I pensieri degli alunni correvano sui fogli bianchi, riempiendoli con personaggi fantasiosi e liberi. La mano seguiva il ritmo del loro sentire e la voce bassa, quasi sussurrata, ad ogni tratto sul foglio, aveva la forza di dare vita a figure spesso incomprensibili allo sguardo di un adulto.

Il vento, che ormai la faceva da padrone, accompagnava le giornate con la sua mutevole intensità.

 

Aprile, intanto, era giunto, e così anche la Pasqua.

Gli alberi erano ormai in fiore, così come i prati e i giardini.

Le rondini avevano fatto ritorno e si vedevano planare dall’alto con leggerezza, per poi risalire con un rapido scatto.

Le campane delle varie parrocchie avevano un suono più festoso, leggero. Le persone amavano quel suono… vi erano abituate. Quando mancava da un po’ di tempo, lo cercavano e si chiedevano cosa fosse successo.

Si sa, in generale non tutti trovano pace e conforto in una chiesa, non tutti vogliono essere guidati dal noto richiamo, ma tutti lo conoscono e lo apprezzano, da sempre.

Le giornate intanto si erano fatte più lunghe e luminose.

Sofia e Giorgia avevano esposto in vetrina le uova, i pulcini e i coniglietti, tutti di cioccolato finissimo. Le colombe pasquali erano ben confezionate, alcune erano state esposte su dei bei piatti, sui ripiani della vetrina: si notavano a vista le mandorle e gli zuccherini che le abbellivano.

“Mamma, voglio gli ovetti di cioccolato al latte, ti prego…!” si sentiva chiedere dai bambini, passando davanti alla pasticceria.

Durante le vacanze pasquali erano inoltre iniziati i primi brevi viaggi e le prime uscite fuori porta.

I laghi e il mare erano i posti più ambiti, ma anche le città d’arte, soprattutto italiane, visto che il caldo era ancora lontano.

Altri preferivano visitare le principali città europee: Parigi, Madrid, Berlino, Londra, anche solo per raccontare poi agli abitudinari dei bar di cibi e di diverse usanze, spesso non condivise. Ma questo non si poteva dire.

La vacanza doveva apparire a chi era rimasto a casa come un sogno realizzato dai pochi fortunati.

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Capitolo 18
*** Così, la vita ***


Maggio era giunto, con la sua prima carezza calda sulla pelle. Aveva richiamato tutti all’aria aperta, con magliette a mezze maniche, pantaloncini corti o bermuda, gonne piuttosto corte - delle ragazze e non solo - ma soprattutto con le biciclette.

Sulle ciclabili della cittadina, per le vie del centro e nelle periferie era infatti tutto un vociare, un salutarsi ad alta voce con sorrisi felici sulle labbra. Anche le persone più reticenti e poco empatiche si lasciavano tentare da un approccio appena accennato.

In un giorno di maggio, il professor Nardini stava sfrecciando per via Roma verso la scuola: aveva una supplenza inaspettata da coprire.

 

La signora Virginia, intanto, era appena tornata dal negozio del ciclista, da cui si era fatta mettere due bei cestini sulla bicicletta: uno davanti e l’altro dietro la sella. “Ci starà tutta la mia spesa, così non dovrò, almeno nelle belle giornate, farmi accompagnare in macchina da Agnese…” pensò tra sé soddisfatta mentre, pedalando, si dirigeva in centro per gli acquisti e per curiosare un po’ tra le vetrine.

Alle undici del mattino, per le vie cittadine, c’era un bel traffico di biciclette, tra chi andava in una direzione e chi, nel senso contrario, si fermava in mezzo alla strada a chiacchierare con amici e conoscenti.

Alcune donne in carriera si spostavano, come di consueto, da un ufficio all’altro. Spesso indossavano completi eleganti con tacchi alti, borsette firmate in spalla, e avanzavano con l’immancabile valigetta da lavoro in mano. Poi, dopo occhiate distratte alle vetrine dei negozi di abbigliamento e con una semplice alzata di spalle, si ritraevano, rimandando al tardo pomeriggio. Il loro incedere era veloce e altezzoso, la scia di profumo che lasciavano odorava di costoso e raffinato.

Loro sì che sapevano cosa significasse avere delle grandi responsabilità!

Scuotendo la chioma perfetta, dopo essersi rispecchiate in una vetrina, passavano, ticchettando, con una postura quasi marziale.

Alcuni gruppi di ragazzi, quel giorno, giunti nel mezzo di via Roma, attirarono con il loro vociare lo sguardo dei passanti: erano usciti dalla scuola prima del previsto, perché la professoressa di matematica aveva fatto sciopero.

Tra questi c’erano anche Sara e Ilaria, le amiche inseparabili.

La signora Virginia le scorse subito e le chiamò ad alta voce.

Il suono di una musica, intanto, si stava avvicinando: era ancora Radio-Bici.

Le ragazze, al suo arrivo, cantarono in coro la canzone da lui scelta nel suo défilé lungo il corso. L’uomo era compiaciuto e soddisfatto: anche questa volta aveva fatto centro nella scelta del pezzo.

Intanto, in un angolo tra piazza del Duomo e via Roma, si intravide il venditore di fiori, un ometto sempre sorridente e contento. Il grande cesto che portava sulla bicicletta raccoglieva mazzi dei più svariati fiori e profumi: le fresie multicolori, le rose dalle tinte gialle, rosa, bianche e rosse, i tulipani, i grandi anemoni blu, le margherite bianche dai petali larghi. Presto intorno a lui si formò un capannello di donne. Tutte lo conoscevano e sapevano che i suoi fiori erano di lunga durata… non come quelli venduti da Mario, il fioraio del negozio di via Trani!

“Nonna, voglio comperarti un mazzo di fresie multicolore, come piacciono a te,” disse Ilaria, guardando Virginia con affetto.

“Grazie cara, mi piacciono tanto questi fiori. Tuo nonno me li regalava tutte le settimane, anche se quelli che avevo erano ancora belli.”

Con un sospiro pieno di ricordi, Virginia abbracciò la nipote.

“Ma ci sei anche tu Sara, vieni che facciamo un abbraccio a tre!”

Il cerchio affettivo si chiuse.

 

La panettiera Manuela, nel mentre, aveva appena esposto in bella mostra nella sua vetrina delle forme di pane alle uvette, come sempre storcendo il naso. Sara se ne accorse e rise, raccontando alla signora Virginia e a Ilaria quanto aveva visto.

“Ora entrerò a comprare un bel pezzetto di pane con l’uva… piace tanto alla mamma! Poi voglio vedere cosa mi dirà quando glielo chiederò!” La ragazza si diresse dunque verso la panetteria, con passo deciso.

“Buongiorno, signora Manuela, come sta?”

“Uhm, ‘giorno. Cosa vuoi?”

L’accoglienza della donna era ben nota nella cittadina, la sua gentilezza non era da meno, ma il suo pane era ottimo: il resto contava poco.

“Una metà di quel buon filone di pane con l’uva.”

“Bene, a me non piace per niente!” fu la risposta della donna mentre tagliava il filone e lo incartava ben bene, facendolo sparire velocemente dalla propria vista.

Sara dovette trattenersi dal ridere e, con gentilezza, la salutò, augurandole una giornata felice.

Il perché la signora Manuela fosse così scorbutica e scostante, non era saputo da molte persone. Il padre, anche lui panettiere, praticamente da sempre, soleva alzarsi tutte le mattine alle tre e trenta per impastare e far lievitare il suo buon pane, le sue brioches e quant’altro.

La moglie del panettiere, purtroppo, veniva svegliata ogni mattina dal marito durante quella levataccia e, per quella ragione, rimaneva nervosa e scorbutica per tutto il giorno con i figli, con il marito stesso e con i clienti della panetteria.

I figli della coppia, tre maschi e una femmina - Manuela appunto - avevano interiorizzato quell’atteggiamento burbero e un po’ maleducato verso il prossimo, come se fosse un ‘normale e naturale’ modo di fare.

In particolare Manuela, essendo femmina e l’ultima dei figli, stava sempre con la mamma, i cui modi poco piacevoli di relazionarsi erano entrati inevitabilmente nella testa e nell’anima della figlia.

Ora, all’età di quarantacinque anni, Manuela non aveva ancora smesso quell’abitudine e sembrava addirittura vantarsene con le poche persone che la tolleravano, per il modo con cui “metteva in riga” la clientela.

Povera Manuela, quanto era lontana dalla verità, quanta chiusura mentale aveva dovuto tollerare per farsi accettare dalla madre e dai fratelli!

Sara, una volta uscita dal negozio, raccontò l’accaduto, facendo sorridere Ilaria e sua nonna.

“Ora sarà meglio che torni a casa a cucinare. Vuoi unirti a noi, Sara?” chiese, speranzosa, la signora Virginia.

“Grazie mille, prima chiedo alla mamma se sarà a casa per pranzo, e poi le farò sapere.”

Virginia allora salutò le ragazze, salì sulla sua bella bicicletta nuovamente attrezzata e ripartì verso casa.

 

L’aria era profumata: la vita aveva ripreso in maniera naturale il proprio corso. Tutto era un esplodere di novità, di cose da fare, di appuntamenti da non mancare, di programmi da decidere a breve scadenza, di scuole da terminare, di decisioni da prendere…

Sofia e Marco - dopo averci pensato a lungo, ponderando i pro e i contro - avevano deciso di andare a convivere.

Avevano scelto un appartamento situato al piano terra, con un bel giardinetto e vista sul fiume.

“Cosa si vuole di più dalla vita?”

Esclamarono all’unisono i due piccioncini, abbracciandosi, saltellanti.

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Capitolo 19
*** Il nuovo inizio ***


Il papà di Sara era tornato dal lavoro contento, sprizzando gioia.

“Forse ci sono novità? Ha qualcosa di interessante da comunicarci?” si chiese Sara, abbracciandolo sulla porta di casa. Intanto cercava di capire, dallo sguardo e dall’atteggiamento del padre, che cosa lo avesse reso così euforico.

La cena intanto era pronta. Pinuccia, ai fornelli, una volta tanto aveva preparato dei piatti speciali: lasagne vegetariane e branzino con patate al forno. Per finire, aveva acquistato una confezione di gelato che marito e figlia adoravano, ai gusti cioccolato gianduia, caffè bianco e torta Sacher.

Forse la mogliettina era già al corrente della novità che sarebbe stata svelata questa sera?

Tutto era ancora da scoprire…

Le lasagne, servite con del Pinot nero frizzante, vennero gustate all’istante, in attesa della buona novella.

“Sara, tra due settimane dovrò partire per un viaggio di lavoro a Mosca per cinque o sei giorni, vuoi accompagnarmi?” chiese speranzoso il padre della ragazza.

Sara per un momento si azzittì. Deglutì piano il suo vino frizzante e poi esplose con un: “Sì!!!”, seguito da un abbraccio al padre.

La sua mente stava già lavorando con frenesia. Doveva dirlo subito a Lorenzo - lui sarebbe stato sicuramente felice di restare con i

i compagni, - poi a Ilaria - che sarebbe impazzita dall’invidia - e naturalmente al professor Nardini e agli altri insegnanti.

I giorni prima della partenza sono, di solito, un continuo preparare e disfare le valigie, scegliere un abito per poi cambiarlo, fare una lista delle persone alle quali portare un regalino, studiare gli itinerari da visitare. Senza dimenticare le scorte di cibo di emergenza… Non si sa mai!

Pinuccia sapeva - e temeva - già che quello sarebbe stato un viaggio che avrebbe permesso alla figlia di scegliere in quale città vivere il proprio periodo universitario. Come avrebbe fatto senza il cicaleccio continuo di Sara, le sue osservazioni a volte pungenti ma veritiere, la sua confortante compagnia… quella complicità?

Il cuore le si strinse in una morsa: al momento era meglio non pensarci.

 

Il crepuscolo intanto, colorando il cielo di un rosa ormai spento, stava lasciando il posto alla sera, tra il profumo del fieno e il canto delle cicale.

La calma di fine giornata venne di colpo interrotta da un grido di dolore. I cani subito si allertarono, scattanti, mentre gli abitanti del cortile si riversarono nell’aia, curiosi.

La signora Virginia e la signora Marietta si guardarono con aria interrogativa e subito diressero lo sguardo verso la casa di Rosalia.

Il marito di Rosalia, il signor Aldo, si era spento, andandosene in silenzio, colto da un malore. Rosalia era scioccata, disperata, persa. Non sapeva più cosa fare. Virginia e Marietta la presero tra le braccia, e lei si sciolse in un pianto disperato.

Il tempo avrebbe lenito il dolore: ora però la vedova avrebbe dovuto elaborarlo giorno per giorno, trovando un proprio nuovo e profondo spazio personale in quel mondo che continuava a correre.

La donna non sapeva ancora che dentro di lei era già in corso un cambiamento radicale, che l’avrebbe portata a ricollocarsi nel proprio personale mondo interiore e nel rapporto con gli altri.

 

La cittadina sembrava non cambiare mai, con le stesse abitudini e lo stesso sentire comune.

Ma questo variava eccome: erano gli abitanti stessi a cambiare.

Il professor Nardini aveva sostenuto un esame per accedere al ruolo di dirigente d’istituto, e l’aveva superato. Dall’anno successivo non avrebbe insegnato più, e il suo impegno di lavoro sarebbe stato più complesso e impegnativo, ma anche più stimolante.

Sara, dopo il suo rientro dal viaggio a Mosca, aveva deciso che avrebbe frequentato lì l’università.

“Mi ha stregata questa città, mamma!”

Pinuccia, ormai rassegnata, le sorrise. Non le avrebbe mai detto: “Non andare, è lontana, quando avrai bisogno di qualcosa a chi potrai rivolgerti?” Questi pensieri egoistici non sarebbero serviti a fermare sua figlia, giustamente.

Il passo era stato fatto.

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Capitolo 20
*** Una decisione sofferta ***


Sara stava lottando con sé stessa. Come avrebbe detto a Lorenzo che sarebbe andata a Mosca all’università, e che un po’ di lontananza avrebbe giovato a entrambi?

Il loro rapporto non era sempre lineare e sereno.

Spesso aveva intoppi e situazioni da lei incomprese. Quante volte lei aveva accettato le scuse di lui per appuntamenti mancati all’ultimo minuto, magari per compagni di squadra da incoraggiare e sostenere prima di una partita… E quante volte si era sentita sola, abbandonata e poco amata. Il solo pensare a quanto era accaduto la deprimeva e la rendeva impotente.

“Basta, ho deciso che sarò io a prendere una decisione finale. Ti terrò testa!” Subito digitò il numero di Lorenzo che, strano ma vero, rispose all’istante.

“Ciao bella ragazza, ti stavo pensando proprio ora e stavo decidendo di proporti un fine settimana a Iseo. So che ti piace tanto.” Sara si bloccò e, per qualche secondo, tacque. Il suo cuore palpitava forte: lo amava ancora.

“Ciao Lorenzo, sì, è una splendida idea. Sei sicuro di essere libero?” Ancora non credeva alla sua proposta e sperava che questa si avverasse.

“Non è che, all’ultimo momento, il tuo allenatore ti vorrà accanto a sé?” chiese, ironica, Sara.

“Non preoccuparti bella. Sergio ha preso tre giorni di vacanza con la moglie,” rispose allegro Lorenzo.

“Ah, ecco perché sei così deciso!” replicò Sara, ridendo.

Il fine settimana era assicurato. Ci sarebbe stato tempo per chiarirsi, per comunicare la sua decisione a Lorenzo e per capire ciò che lui volesse fare del proprio futuro.

Andava bene la passione per lo sport, ma con i suoi studi in Fisica lui avrebbe potuto trovarsi un lavoro sicuro e capace di garantire, a entrambi, un futuro. Di tutto questo avrebbe parlato a Lorenzo nel fine settimana e, forse, si sarebbero chiarite tante cose.

Il viaggio in macchina fu piacevole, e i due parlarono del più e del meno con toni scherzosi, sapendo di essere soli e liberi.

Quando arrivarono a Iseo, il lago si mostrò loro di un bel blu, quasi elettrico. La giornata era limpida e pulita, il cielo era di un azzurro intenso e si specchiava nelle calme acque fredde del lago.

Decisero di prendere il traghetto che porta a Montisola e di trascorrere lì il fine settimana.

Una volta giunti a Sensole, piccolo borgo sulla costa sud-est di Montisola, lasciarono i loro bagagli in un simpatico alberghetto che si affacciava sulle rive del lago e incominciarono la loro passeggiata. La scioltezza iniziale di entrambi aveva lasciato poi il posto a un silenzio ricco di attese. Sara accennò a Lorenzo della sua intenzione di trasferirsi a Mosca per completare gli studi, attendendo con ansia la sua reazione.

Lorenzo non sembrò scioccato e le rispose che era un’idea originale, non aggiungendo altro. Sara intuì un certo sollievo in Lorenzo, sempre con la testa altrove, e ne rimase amareggiata. Aveva capito che lei sarebbe stata sempre al secondo posto per Lorenzo, anche se questi diceva di amarla e di volerla come compagna. Ma poi?

Sara prese allora il coraggio a quattro mani e parlò a Lorenzo. Gli raccontò tutto ciò che aveva sempre provato, della sua delusione nell’attenderlo per ore e talvolta nel dover ritornare a casa sola, perché lui non si era presentato.

Dell’amore tiepido che lui le aveva sempre offerto con poco slancio, e di tanto altro.

Lorenzo ascoltò. Questa volta il suo pensiero era presente, il viso era corrucciato, ma subito si riprese, cercando di abbracciarla.

“Cosa vorresti dirmi con questo abbraccio? Parlami, non stai giocando a basket con i tuoi compagni!” replicò Sara.

Lorenzo scosse la testa e le disse che lui aveva sempre fatto il possibile e che era sempre stato sincero. Ora, però, anche lui sentiva che qualcosa era cambiato tra loro, e concordava sul fatto che forse era meglio per entrambi prendere del tempo.

Sara rimase scioccata. Amava ancora quel bel ragazzo sportivo, atletico e intelligente, ma purtroppo poco comunicativo.

Ora era arrivato il momento di staccarsi da lui, di lasciarlo definitivamente. Accettò dentro di sé quella decisione sofferta e chiuse per sempre il suo cuore a colui con il quale era stata pronta a vivere insieme una lunga avventura.

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Capitolo 21
*** Ciò che resta sospeso ***


Gli anni trascorrono veloci o lenti, secondo il sentire di ognuno.

Le generazioni si susseguono, ma rimane sempre lo stesso il modo di vivere la vita cittadina, tra abitudini collaudate e novità introdotte dai più giovani.

I più anziani, o meglio, quelle persone che si sono lasciate prendere dalla stanchezza o dal non voler più accettare i cambiamenti imposti dal tempo, si trascinano per le vie spenti, senza un briciolo di entusiasmo. Questi di solito sono i più diffidenti, i più pettegoli.

Gli altri, pur avendo la stessa età, si buttano invece decisi sulle nuove scoperte tecnologiche e, certe volte, pensano di dare lezione ai più giovani, esperti in materia. Altri ancora, magari, organizzano viaggi culturali in varie città, e talvolta si spostano anche fino alle coste africane per le vacanze estive.

È bello, comunque, vedere questi contrasti generazionali lungo le vie cittadine. Tra discorsi e risate, tutto sa di familiare.

Questo, del resto, era anche quello che stava accadendo nella ‘nostra’ cittadina.

 

La signora Virginia continuava a vivere la propria positività con gioia e felicità. Accanto a lei c’era sempre la signora Rosalia, ormai sua amica e complice inseparabile.

La signora Marietta, senza ascoltare il marito, aveva deciso di portare avanti il proprio assiduo lavoro dalla contessa Soleni Melzi. L’abitudine di una vita l’aveva cristallizzata, nonché resa indispensabile in quella casa dove tutto era possibile, e spesso dovuto.

 

Ilaria non era voluta andare all’università, dando retta a Christian, il suo ragazzo “che sa sempre tutto”, come diceva Agnese.

La ragazza aveva iniziato a lavorare in una libreria del centro, subito dopo aver terminato il liceo. Era felice di quel lavoro, e lo avrebbe messo sicuramente al primo posto nella sua vita, se non fosse stata sempre assillata da Christian, con la sua pretesa di attenzioni continue.

 

Sara, dopo aver appreso ben quattro lingue, stava terminando il suo master a Mosca. Ormai ci viveva da un po’ di tempo e lì aveva trovato anche un ragazzo, un giovane professore universitario. A volte Lorenzo la chiamava ancora, per sapere come stesse, o forse per cercare di riallacciare il loro rapporto. Sara era comunque piuttosto determinata, e aveva detto più volte al ragazzo di non volere essere contattata.

“Spero che capisca, altrimenti blocco il suo numero,” aveva confidato Sara alla sua amica di corso, Svetlana.

Pinuccia, dopo la partenza di Sara, aveva inizialmente vissuto momenti di infelicità, nonché un senso profondo di vuoto all’interno delle consuete dinamiche della vita familiare.

Poi, a distanza di tempo, era riuscita a colmare quel vuoto grazie al lavoro. Con l’impegno nell’insegnamento e nell’educazione dei suoi piccoli alunni aveva riempito in parte il desiderio della presenza di sua figlia.

Per fortuna, poi, Sara faceva ritorno a casa ogni tre o quattro mesi… E allora sì che mamma e figlia si scatenavano in chiacchiere, confidenze e passeggiate insieme!

Trascorsi anni dal suo esordio nell’istituto, Pinuccia aveva inoltre potuto individuare e conoscere meglio le insegnanti e le persone che ci lavoravano.

C’era sempre rispetto tra loro, ma come si sa, non sempre la sincerità e la capacità lavorativa esaltano le persone.

Pinuccia aveva comunque avuto modo di fare amicizia con diverse colleghe e di rendersele amiche: gli scambi di lavoro e le confidenze le avevano rese complici nelle scelte scolastiche e nel rapporto con i genitori.

Anche i bambini erano piuttosto legati a Pinuccia, perché lei li sapeva coinvolgere nelle varie attività, con attenzione ai loro bisogni, ma anche ai loro doveri.

Spesso poi, fuori dal lavoro, Pinuccia usciva con le colleghe per un caffè, per un tè o per una pizza la sera, nei vari pub che lei e Sara erano solite frequentare.

 

Dall’altro capo della città, intanto, un bambino, accompagnato dalla madre e da un cagnolino, stava andando a scuola.

“Lollo, stai buono, ritornerò a casa nel pomeriggio,” disse il bimbo al suo cane, abbracciandolo. La mamma fece l’occhiolino a Francesco, accompagnato da una carezza.

Come era cresciuto il piccolo trovato sotto un albero, ora felice nella famiglia del pediatra!

“La mamma biologica del bambino non si è mai presentata alla nostra porta, per fortuna…” pensò tra sé la donna. Con il cuore gonfio di emozione, sperò, in cuor suo, di non doverla mai incontrare.

 

Ognuno, con il proprio sentire, contribuiva a rendere sempre unica e viva la cittadina.

Questa, nelle varie stagioni, continuava a organizzare eventi, mercati, film d’essai all’arena, mostre e, naturalmente, sempre per Ferragosto, la famosa ‘tortellata’.

Come si poteva non amare quella cittadina, capace di renderti parte di sé, una volta deciso di vivere lì?

Il desiderio di libertà, durante la bella stagione, invogliava a uscire in bicicletta, attraversando le molteplici ciclabili divise dai campi limitrofi e dalle strade principali per mezzo di una staccionata di tronchi in legno, ben intagliati e incastrati tra loro.

La natura che circondava la cittadina, anche grazie ai parchi circostanti, ne esaltava la bellezza e quell’apparente raffinata semplicità.

I turisti, che ogni anno attraversavano le vie cittadine apprezzandone la storia, la bellezza e la cucina, avrebbero voluto anch’essi vivere in quello spazio, a metà tra il passato e il presente.

Poi, però, una volta tornati nelle loro case, ripensando con gioia a quei luoghi, sentivano che, forse, nonostante tutto, non avrebbero voluto cambiare.

 

Perché ogni cittadina è un luogo normale e, insieme, speciale.

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