Dance of Death

di Marti Lestrange
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** atto I — memory ***
Capitolo 2: *** atto II — august ***
Capitolo 3: *** atto III — wine ***
Capitolo 4: *** atto IV — bedsheets ***
Capitolo 5: *** atto V — time ***



Capitolo 1
*** atto I — memory ***


Questa storia partecipa all’iniziativa “Cinque fette di torta alla melassa” indetta sul gruppo Facebook “L’angolo di Madama Rosmerta” per festeggiare il loro primo anniversario ♡ a seguire il regolamento estrapolato e rielaborato a partire dal post ufficiale dedicato alla sfida di scrittura:

 

Step 1: l’iscrizione prevedeva la scelta di una strofa intera di una canzone a nostra scelta che andava riportata in risposta al post di iscrizione/presentazione. La mia scelta è stata questo passaggio di “august” di Taylor Swift: “but I can see us lost in the memory / august slipped away into a moment in time / ‘cause it was never mine / and I can see us twisted in bedsheets / august slipped away like a bottle of wine / ‘cause you were never mine”.

 

Step 2: dalla strofa della canzone presentata al momento dell’iscrizione sono state estrapolate 5 parole e bisognava scrivere un racconto in cinque capitoli dove ogni capitolo era ispirato a un prompt diverso, corrispondente alle 5 parole di cui sopra. La sfida era doppia: ricavare ispirazione da una parola qualsiasi e ideare un progetto "in cinque atti" che avesse senso nell'insieme pur avendo un prompt diverso per ogni "atto". Chi voleva poteva aggiungere un ulteriore elemento di difficoltà, utilizzando le atmosfere/il significato della canzone scelta in fase di iscrizione come sfondo del progetto di scrittura. 

 

Ecco le mie 5 parole/prompt: memory, august, time, bedsheets, wine (da usare non necessariamente in quest'ordine).

 

Erano ammesse:

~ minilong di cinque capitoli;
~ raccolte omogenee di poesie;
~ raccolte omogenee di drabble/flashfic/oneshot; 
~ raccolte omogenee di racconti di varie lunghezze;

*per “omogenea” non si intende la lunghezza dei singoli racconti, ma l'intenzione alla base del progetto, il suo filo conduttore (che può essere una tematica così come la scelta di un solo protagonista)

 

Step 3: pubblicare la storia, un po’ per volta o tutta insieme, ma comunque entro venerdì 30 settembre 2022.

 

NOTA DELL’AUTORE: personalmente, la mia scelta iniziale era andata su una coppia inedita inventata da me nel mio personale headcanon sulla famiglia Black, che qualcuno di voi ricorderà sicuramente dalla raccolta scritta in occasione dello scorso Writober → “In the name of the Black” (potete cliccarci sopra, vi porterà alla raccolta, per chi avesse voglia di leggerla). La coppia in questione è la Walburga/Damien, dove Damien è Damien Rosier, personaggio inventato da me. Questi i capitoli della raccolta dove ho scritto di loro: capitolo V e capitolo XVI. Non è necessario averli letti per comprendere questa storia, comunque, così come la raccolta. Man mano che scrivevo, però, mi sono resa conto che la vera protagonista era Walburga, quindi quello che leggerete qui è come se fosse una sorta di memoir, un racconto di un’estate, anzi, di un mese. E di ciò che quell’estate si è portata dietro. La storia viene presentata in una veste diversa, con un doppio punto di vista, uno nel passato e uno nel presente, ma lo scoprirete leggendo, non voglio svelarvi troppo, adesso. Detto ciò, vi lascio a questo primo capitolo e alla mia Walburga.

 

DISCLAIMER: I personaggi che compaiono nel canon e tutto ciò che è relativo alla saga di Harry Potter appartiene a J.K.Rowling, ma tutto il resto fa parte del mio personale headcanon. Grazie dell’attenzione e buona lettura ☾

 


 

Dance of Death.

 

[ atto I — memory ]

 

Grimmauld Place, 1985 ;

 

La memoria è un’instabile alleata. Questo è ciò su cui Walburga Black insisteva tanto, durante i nostri incontri. Lo rimarcava spesso, quasi come fosse un intercalare. O una preghiera. In linea di massima aveva ragione, per quanto ne so, anche se tendo a fidarmi poco della presunta saggezza degli adulti, perché nei miei venticinque anni di vita non ho ricevuto altro che cazzate. Ma immagino che arriverò a darle ragione, prima o poi, forse, quando anche io avrò raggiunto la sua età, e avrò vissuto ciò che ha vissuto lei. 

 

La memoria è un’instabile alleata, eppure lei sembrava ricordare tutto, o quasi. Alcuni dettagli le sono sfuggiti, com’è normale e fisiologico, mentre altri, che all’apparenza apparivano comicamente inutili o dimenticabili, le sono rimasti impressi nella mente come un marchio a fuoco, o una maledizione. Ha parlato della maledizione che sembrava perseguitare il nome della sua famiglia solo alla fine, a conclusione del suo racconto, come se fosse un degno finale di tutto quell’affaccendarsi - oppure un ultimo tentativo di giustificarsi, di spiegare, o di chiedere ammenda.

 

Conoscendo Walburga Black, dubito che l’assoluzione fosse ciò che realmente cercava, affidandomi le sue memorie. No, Walburga Black non ha bisogno del perdono di nessuno perché non si è pentita di niente, e mai se ne pentirà, né in questa né in un’altra vita - e in tutte le altre possibili vite che forse l’attendono. Ha vissuto tenendo la testa alta, percorrendo le strade tortuose della società Purosangue dei suoi anni senza mai vacillare, indossando una maschera fatta di distinzione sociale, prestigio del suo nome, tradizioni radicate, e oscurità. Pura, profonda, paralizzante oscurità.

 

Era cattiva, Walburga Black, e forse è proprio la sua cattiveria ad averla tenuta viva negli ultimi mesi, quando la malattia se la voleva portare via ma lei si aggrappava al suo letto con tenacia e perseveranza. Mi sono chiesta che cosa accendesse quella cattiveria, che cosa l’alimentasse persino quando non c’era più nulla, intorno a lei e dentro di lei, al quale attingere. Il corpo quasi immobile sotto le coperte scure, le tende tirate, i capelli ormai bianchi raccolti in una grossa treccia e una camicia da notte bianca. 

 

Mi dice di avere un solo, singolo rimorso, durante uno dei miei ultimi giorni a casa Black. Nulla a che vedere col marito Orion, scomparso prematuramente, nel sonno, e in circostanze nebulose che nessuno ha mai osato chiarire, anche se pensare che fosse morto per il dolore dovuto alla perdita del figlio sembra la spiegazione che tutti si sono fatti piacere - la più semplice, anche se infinitamente dolorosa. Il suo secondogenito era il suo specchio, e custode del suo cuore. Quando l’ha perduto, ha perduto se stesso. 

 

Il rimorso di Walburga Black non riguarda nemmeno il suo primogenito, il cui nome le trema sulle labbra incartapecorite ma non stanche come se avesse ancora il potere di distruggerla dall’interno, così come allora, pezzo per pezzo. Sirius aveva rischiato di far crollare il suo castello di carte, e lei non l’ha mai perdonato per questo. Penso seriamente che lo odi, di un odio puro e talmente semplice da lasciarti confuso. Qualcuno si starà chiedendo come sia possibile, odiare il prodotto del tuo stesso ventre, sangue del tuo sangue, un misto di tutto ciò che sei anche tu, o che sei stato. 

 

Eppure, Walburga Black odiava suo figlio. Forse perché erano più simili di quanto sembrasse, e di quanto entrambi si sforzassero di negare, e di quanto il mondo fosse preparato ad ammettere. Convergevano la loro passione in direzioni opposte e divergenti, ma se Sirius conservava dentro di sé un piccolo germe di oscurità latente, Walburga non aveva quasi nulla di buono, nel suo sangue scorreva veleno liquido, e il suo cuore era duro come pietra.

 

Il suo cuore è stato impermeabile fino alla fine. 

 

“Non sono nemmeno più sicura di averlo amato davvero, sai, Josephine?” Mi dice dopo avermi chiesto di far scorrere le tende per vedere il tramonto. Forse l’ultimo tramonto della sua vita. È come se la morte le sieda accanto, paziente, vestita di scuro - e la morte ha i suoi stessi occhi. 

 

Un rumore di passi spezza il silenzio creatosi, e la zazzera di capelli scuri di mio figlio spunta nella stanza. “Vieni a giocare, maman?”

“Dove hai lasciato tua sorella, Rod?”

“È con Kre.” esita, mordendosi le labbra. Non riesce bene a dirlo. 

“Kreacher?” gli vengo in aiuto.

 

Annuisce. I suoi occhi sono grigi. Profondi come polle. 

“Ti avevo chiesto di stare buono di sotto con Kreacher e tua sorella. Ricordi?”

“Voglio giocare con te, maman.”

 

Gli sorrido e gli faccio cenno di avvicinarsi. Rod caracolla verso di me sulle gambette cicciotte. Ha cinque anni e conserva ancora le rotondità di quando ne aveva appena due. Mi abbraccia le gambe. Mi sorride con quel sorriso che adoro. Che amo. 

 

“Qualche minuto e scendo a giocare un po’, d’accord?”

“Promesso?”

“Promesso.”

 

Mio figlio annuisce e lascia la stanza, la porta socchiusa dietro di sé come se fosse un invito a seguirlo. Mi piacerebbe farlo, ma ho acconsentito a prestare ascolto a Walburga, ed è ciò che farò, fino alla fine.

 

“È uguale a Regulus.”

Le sorrido. Ingoio un bolo di saliva e paura. Nessuno me li porterà via, nè Rodney nè Emily1. Sono miei e miei soltanto e presto sarò molto lontana da qui, non solo dal 12 di Grimmauld Place e questa casa che puzza di morte, ma anche da Londra, e da questo paese maledetto. Solo Walburga sa, o almeno pensa di sapere. Sa solo una mezza verità, la mezza verità che ha voluto ascoltare, la mezza verità che mi ha fatto comodo farle credere fosse reale. Non saprò mai se l’avesse capito e facesse solo finta di assecondarmi perché l’alternativa era qualcosa di troppo scomodo per lei da accettare, o far combaciare con la narrativa dell’orrore che era diventata la sua vita. 

 

“Vuoi che ti lasci le tende aperte?” le chiedo alzandomi. 

 

“Ho da raccontarti un’ultima cosa, Josephine1.” Non mi chiama mai Jo, come fanno tutti quelli più vicini a me, non l’ha mai fatto. Non so se perché le piacesse mantenere un certo distacco, o perché amasse rimarcare la sua posizione di superiorità, sta di fatto che non l’ho mai invitata a chiamarmi Jo, neanche durante il periodo in cui sono stata fidanzata con suo figlio, anche se brevemente.

 

Ora la guardo, stupita.

“È il tassello mancante. L’estate in cui cambiò tutto. La ricordo come fosse ieri.”

“Dici sempre che la memoria.”

 

“È un’instabile alleata, lo so,” mi interrompe, spazientita. Sta morendo e ha ancora la capacità di perdere la pazienza come un tempo, dilatando le narici, alzando gli occhi al cielo. Ma non posso dimenticare. 

“Perché? Cosa cambiò, quell’estate?”

 

“Quasi nulla, fuori di me. Tutto, dentro di me.”

Rimango in silenzio.

“Siediti, Josephine. Sarò concisa. Tu hai poco tempo, e anche io.”

 

Obbedisco. Non riesco a fare altrimenti. Apro il plico di fogli di pergamena sui quali ho appuntato le memorie di Walburga. 

“Cosa cambiò?” le chiedo dopo un momento di silenzio in cui temo si sia addormentata. “Cosa cambiò, Walburga?”

 

“Mi innamorai,” risponde. “Mi innamorai, e poi seppellii quell’amore per sempre.” 

 

✩ ✩ ✩

 

NOTE

1. Josephine Greengrass è un personaggio di mia invenzione; Rodney ed Emily sono i suoi figli (gemelli), nati nel 1980.

 

Grazie a chiunque sia arrivato alla fine di questo primo capitolo. Vi avevo anticipato che ci sarebbero stati due punti di vista diversi, qui avete conosciuto il primo, il punto di vista sul presente: Josephine. Lei preferirebbe essere chiamata Jo, comunque, per la cronaca. Di nuovo, chi ha letto la mia raccolta sui Black ha avuto modo di conoscerla, ecco dove è comparsa: capitolo XIII e capitolo XXI

 

Non temete, la nostra Walburga tornerà in tutto il suo splendore nel prossimo capitolo. E arriverà anche Damien. Mercoledì 21/09 dovrei riuscire a pubblicare il secondo capitolo.

 

A presto, 
Marti ☾

 

Ps ho dimenticato di precisare che il titolo è preso dall’omonima canzone degli Iron Maiden, “Dance of Death”.
Ps 2 se volete mi potete trovare su instagram.

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Capitolo 2
*** atto II — august ***


dance of death.

 

[ atto II  august ]

 

La casa italiana dei Rosier si trova in mezzo al mar Tirreno, su una piccola isola chiamata Isola del Giglio. C’è sempre il sole. Il mare è azzurro, dell’azzurro più intenso e limpido che si possa immaginare. L’aria profuma di fiori e la sera si sente odore di citronella per tenere lontane le zanzare. È circondata da un giardino immenso, terrazzato, e se lo si percorre tutto si può arrivare fino al mare. Una volta l’ho fatto, nel buio, ma non mi sono persa come il signor Rosier aveva detto sarebbe successo a tutti gli incauti che ci avessero provato, durante la cena, seduto a capotavola, la pancia tesa sotto la camicia e fin troppo vino. Il signor Greengrass gli sedeva accanto, e mio padre Pollux dall’altro lato che sorrideva - ghignava - appollaiato sul bordo del suo bicchiere. 

 

La seconda sera in cui sono uscita nel buio, l’ho incontrato. Mi ero ripromessa che non sarebbe più successo, quasi due anni prima, quando ci siamo visti per l’ultima volta a casa Black per la festa organizzata in mio onore. Festa d’addio, per essere precisi. “Partirò per il Giappone, e non avrò tempo per una relazione a distanza”, avevo detto. E ci eravamo salutati senza drammi. Era così che andava, tra noi. Non l’ho mai più sentito, durante i due anni in cui ho studiato a Mahoutokoro1. Avevo imparato il giapponese per diletto ed ero arrivata su quella piccola isola dimenticata da Dio con la ferma intenzione di lasciarmi alle spalle tutto quanto: gli uomini, il sesso, ogni tipo di coinvolgimento. Dopo lo scandalo in cui ho quasi rischiato di venire coinvolta, però, mia madre Irma ha pregato mio padre di farmi tornare a casa, e mio padre me l’ha ordinato. Veloce tanto quanto mi aveva concesso il permesso di partire. Ho lasciato il Giappone a fine luglio, e a inizio agosto, quando gli Americani hanno sganciato le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, ero già in Italia, a casa Rosier, per festeggiare la fine dell’estate - e l’inizio dei festeggiamenti per il matrimonio di Damien Rosier e Medea Greengrass2. Tanti auguri, a proposito.

 

“Cosa ci fai qui?”

“Potrei farti la stessa domanda. È casa mia, ricordi?”

Alzo gli occhi al cielo anche se probabilmente non può vedermi. Il suo corpo è come elettricità liquida accanto a me, lo sento gravitarmi intorno come una falena su una fiamma, e vorrei tanto dirgli che rischia di bruciarsi, ma poi penso che sarebbe bello, vederlo bruciare per me. Di nuovo. E così mi avvicino anche io, ed è come se il mio corpo riconosca il suo, anche dopo tanto tempo. Anche dopo due anni. 

“La notte è scura, Walburga. Rischi di perderti, qui fuori.”

“Una volta mi dicevi che ero buia come la notte, o te lo sei scordato?”

 

Sorride. Riesco a vederlo. Forse perché siamo vicini. Così vicini che se solo allungassi la lingua potrei farla guizzare sulle sue labbra. Ne sento la voglia. Mi consuma da dentro.

“Non giocare con me.”

“Perché?”

“Perderesti.”

“Forse voglio. Perdere, intendo.”

“Perché sei tornata?”

 

Sospiro. Comincio a sentire freddo attraverso la sottile camicia da notte che indosso. 

“Lo sai perché. Stava succedendo un casino, in Giappone, dopo tutta la faccenda di Pearl Harbor.”

“Tu neanche eri in Giappone, in quel periodo.”

“C’è stata un’escalation.”

Mi avvicino e lo afferro per la camicia che ha ancora addosso dalla cena. Giocherello col colletto, faccio finta di volerlo mettere in ordine. Sento le sue mani sulla mia vita ora. Dove devono stare. 

“I giapponesi hanno cominciato a fare i pazzi. La situazione si stava aggravando. Ho preferito venire via prima che fosse tardi.”

 

“Hai fatto bene.” Sento una sua mano sul viso, mi appunta qualche capello dietro l’orecchio. 

“Sarei impazzito a saperti ancora lì dopo le ultime notizie.” 

Piego le labbra in un sorriso. “Allora ci tieni ancora, alla mia incolumità.”

“Ci terrò sempre, Walburga. Voglio solo che tu sia felice.”

“Sono fidanzata.”

 

Lo sento irrigidirsi, ma non mi lascia andare.

“Non ufficialmente. Non ancora.”

“Con chi?” La sua voce suona dura, con una nota d’allarme che però non mi lascio sfuggire.

“Mio cugino Orion.”

“Orion Black?”

“Quanti Orion conosci?”

“Non prendermi in giro, Walburga, non è il momento.”

 

Mi lascia andare e sento freddo all’improvviso. Allungo le mani per cercarlo, sento la sua schiena forte sotto le dita. Mi ci aggrappo, lo abbraccio da dietro, affondo il viso nel suo corpo che sa di lui, e dei momenti che abbiamo passato insieme a Hogwarts senza farci scoprire ché già sapevamo che la nostra non era una di quelle storie destinate a passare per un altare, e che entrambi ci saremmo sposati altrove, con altre persone, ma senza mai smettere di appartenerci. Gli cingo la vita con le braccia e lo sento rilassarsi, sento le sue mani sulle mie. 

“Non posso pensarci. Non posso pensare che sarai sua.”

“Non lo sarò mai. Mai e poi mai.”

“Mi hai lasciato. Mi hai lasciato e sei partita per il Giappone.”

“E tu ti stai per sposare con Medea Greengrass. Non ho nessuna intenzione di venire colpevolizzata per aver inseguito i miei sogni.” 

 

“Non c’entra niente Medea.” 

“La ami?”

Lo sento girarsi tre le mie braccia, e ora i nostri corpi sono a contatto, sento il suo respiro caldo sulle labbra. Sa ancora di Whisky Incendiario.

“Parliamo d’amore adesso?”

“Solo se riguarda Medea. Perché se la ami, allora sono pronta a farmi da parte.”

“Tu ami Orion?”

Scoppio a ridere. Alcuni uccelli volano via da qualche parte lì vicino. L’odore della notte è ancora più intenso e si sente il mare sciabordare poco più in là.

 

“Lo sai che non sono capace di amare.”

“Potresti ritrovarti ad amarlo, con il tempo. Chi lo sa.”

Scuoto la testa. “No.”

“Quando vi sposerete?”

“Non lo so ancora. Ho saputo del fidanzamento quando sono tornata dal Giappone. Credo che mio padre voglia tenermi a bada e costringermi a partorire uno o più marmocchi Black al più presto.” 

“Mio padre è uguale. E da quando è morta mia madre è ancora peggio.”

“Ho saputo.” Gli accarezzo il petto, risalgo sul collo. Sento le sue pulsazioni attraverso la pelle sottile. “Mi dispiace tanto.”

“Stava male già da tempo, Daphne3 e io eravamo preparati. Druella ovviamente ne è uscita distrutta. Le era molto affezionata.”

 

La mia mano sale più su, a cercare le sue labbra. Le sento umide e si dischiudono al mio tocco. Ne marco i confini, mentre la sua lingua saetta sulla punta del mio pollice per poi succhiarlo avidamente. E tendere il mio corpo in avanti e in alto per baciarlo è così facile, così naturale, che è un po’ come respirare. Baciare Damien Rosier è un po’ come respirare, o camminare, è qualcosa che è intrinsecamente radicato dentro di me, qualcosa che conosco sin da prima della mia nascita, qualcosa che so essere indispensabile. In quei due anni trascorsi lontana ho baciato altre paia di labbra, mi sono consolata tra altre braccia ben sapendo quali fossero quelle che avrei voluto davvero, ma nessuno mi ha mai baciata, e stretta, come Damien Rosier.

 

“Mi sei mancata così tanto…”

Approfondisco il bacio per fargli capire che anche lui mi è mancato, anche il suo tocco leggero ma forte sulla mia vita mi è mancato, e la sua lingua in gola, e il suo calore, e i suoi denti affondati nella carne, e le sue mani sulle natiche a reclamare qualcosa che gli è sempre appartenuto, e le sue dita che scivolano oltre l’orlo della mia camicia da notte, e sotto non indosso nulla, e quando lo sento dentro di me è un po’ come tornare a casa, è un sentirsi piena, di nuovo, dopo tanto tempo.

“Ti devi sposare.” 

Sento la mia voce roca, carica del piacere che le sue dita mi stanno promettendo sfiorandomi appena. Ma mi basta. Per ora.

 

“Mi vuoi?” mi chiede, lasciando le mie labbra solo per un attimo. Ora posso vederlo in viso, ora che la luna è apparsa dietro alcune nuvole basse. È bellissimo, è sempre stato bellissimo, i capelli neri spettinati, la camicia aperta, la pelle color ambra dopo tutti quei giorni passati al sole, gli occhi come due braci scure nella notte che ci circonda, le labbra dischiuse come una promessa. 

“Ti voglio sempre. Sempre.”

Mi prende in braccio e lo lascio fare. Ha questi sprazzi di machismo tipici degli uomini della sua generazione, ma ogni tanto non mi dispiace fare la parte della donzella che apprezza. Molto spesso mi è tornato utile. 

Mi adagia a terra, sulla sabbia, in un punto riparato della spiaggetta. Si stende su di me e mi bacia, e io lo bacio ché è quello che voglio, è quello che ho voluto da quando sono arrivata in Italia, a casa Rosier, e l’ho rivisto dopo due anni, sulla porta, bellissimo e tempestoso. Ed è vero: non vorrò mai altri come voglio lui, come l’ho sempre voluto. 

 

Ci spogliamo frettolosamente come abbiamo sempre fatto, reduci dei nostri incontri clandestini e veloci in qualche aula di Hogwarts. Non siamo abituati alla lentezza, ma lo sento prendermi le mani per frenarmi, sussurrare sulle mie labbra una preghiera.

“Abbiamo tutta la notte.”

Ed è vero. È così.

“Abbiamo tutto agosto, se vuoi.”

“Tu lo vuoi?”

“Non vorrò mai nessun’altra come voglio te.”

 

Lui lo dice. Ha il coraggio di scoprirsi e dirlo ad alta voce. Non so se credergli, però. Gli esemplari di sesso maschile sono così volubili, così inaffidabili. 

“Lo hai detto a tutte quelle con cui sei stato in questi due anni?”

“Non sono stato con nessuna, in questi due anni.”

Ammutolisco. “Come?”

Damien scuote la testa. Mi accarezza un fianco nudo mentre la sua erezione mi preme contro. Allungo una mano per toccarlo, e lo vedo chiudere gli occhi, gemere sotto le mie dita, mordendosi il labbro inferiore.

“Te l’ho detto. Ci sei solo tu.”

 

La cosa mi lusinga, lo ammetto. È una particolare forma di potere, questa, sapere che davanti a te c’è un uomo, nudo, tremante del desiderio di te, il suo pene tra le tue dita che tu potresti letteralmente stringere fino a fargli male, malissimo, solo per vederlo supplicarti, e quest’uomo ti sta dicendo tutto questo. Sento il piacere invadermi a ondate. Il desiderio per Damien mi fa tremare, la sensazione di potere e controllo mi da alla testa. 

“Entra dentro di me.”

Le mie mani lo invitano, gli fanno capire che ci sono. Apro le gambe come una supplica silenziosa e quando finalmente Damien scivola al mio interno, mi aggrappo alla sua schiena, i miei fianchi guizzanti a incontrarlo.

 

“Tutto agosto, quindi?” 

“Tutto agosto.”

 

 

✩ ✩ ✩

 

NOTE

  1. Mahoutokoro è la scuola di magia giapponese; source.
  2. Medea Greengrass è un personaggio di mia invenzione
  3. Daphne Rosier è un personaggio di mia invenzione, sorella gemella di Damien; entrambi sono fratelli di Druella (Black).

 

Buongiorno! Arrivo ora con il secondo capitolo perché temo che non avrò tempo stasera, come avevo invece programmato. Grazie come al solito a chiunque abbia letto, fatemi sapere cosa ne pensate di Damien, se ne avete voglia. Ci vediamo venerdì 23/09 con il terzo capitolo.

 

A presto,
Marti

ps come sempre, il mio contatto instagram ;

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Capitolo 3
*** atto III — wine ***


dance of death.

 

[ atto III — wine ]

 

Entro nella stanza e sono già nuda. Ho fatto Evanescere i vestiti che indossavo senza nemmeno tirare fuori la bacchetta. Mi fermo in mezzo al salotto, una mano sul fianco. Sciolgo i capelli che portavo raccolti e li sento ricadermi sulla schiena, folti e lunghi, a riflettere la luce ambrata del tramonto che entra dalle imposte socchiuse. 

Damien siede in una poltrona ed è completamente vestito. Indossa ancora l’abito della festa, quella stupida festa in campagna organizzata dai Malfoy alla quale mi sono annoiata a morte, a girovagare in mezzo a mamme entusiaste dei loro pargoli (nati o in arrivo), uomini assetati di politica e sesso, elfi servizievoli con i loro vassoi d’argento, e bambini urlanti che caracollavano qui e là. Diana1 Malfoy, la padrona di casa, veleggiava tutt’intorno come una falena, vestita di azzurro, i capelli biondi sciolti sulle spalle, a spargere sorrisi come caramelle. Mentre il marito Abraxas era il più rumoroso e il più ubriaco in mezzo alla combriccola di uomini radunata accanto al gazebo. 

Ma ora non mi importa più di nessuno di loro. Ora c’è solo Damien. Lui mi guarda senza parlare, gli occhi scuri, scurissimi, lampeggianti di impazienza ed eccitazione e neri di ombre a stento contenute. Con me le lascia andare tutte, quelle ombre, e io lascio andare le mie: corrono tutte insieme come cavalli impazziti. 

“Vieni qui,” sussurra. So che è già eccitato. Lo conosco meglio di me stessa ormai. Mi avvicino, quindi, e mi fermo proprio di fronte alle sue ginocchia scostate. Lo fisso, e so che lo fa impazzire. Il suo petto oscilla su e giù, su e giù, al ritmo del suo respiro, e i miei seni scoperti oscillano anch’essi. Sento la pelle d’oca, e i capezzoli scuri sono già duri. Ho desiderato Damien per tutta la festa, ne ho seguito i movimenti e mi sono fatta seguire da lui, fasciata in un vestito blu scuro che sapevo gli avrebbe fatto girare la testa. E ora è tutto mio. 

“Perché sei ancora vestito?” Gli chiedo. Alzo un piede e lo appoggio sul suo ginocchio, scoprendo tutta me stessa di fronte agli occhi del mio amante. Damien mi poggia gli occhi in mezzo alle gambe, e deglutisce. So di averlo in scacco.

“Volevo che fossi tu a spogliarmi,” risponde infine lui, la voce roca. 

Mi arrampico addosso a lui, mi siedo sulla sua vita, e sento la sua erezione premermi contro attraverso la stoffa sottile dei suoi pantaloni eleganti. Mi muovo per stuzzicarlo, e lui mi pianta le sue mani grandi e forti sulla vita. Ci guardiamo, e io ridacchio. “Ops, scusa.” 

Allora Damien mi attira a sé e mi bacia, ed è un bacio vorace, come ogni bacio che ci siamo scambiati fino a quel momento. Non c’è dolcezza, tra noi, non c’è delicatezza, o voglia di indugiare. No, c’è solo la ruvidezza che entrambi aneliamo — e ci sono le dita veloci che strappano e divergono ed esplorano; ci sono le mani che scavano e toccano e sfiorano; ci sono le bocche che accolgono e le bocche che danno; ci sono le lingue, scattanti come serpenti, velenose e pungenti, apice e declino di ogni piacere. 

Siamo amanti, io e Damien, ma ci apparteniamo, ci apparteniamo come due bestie feroci, come due esseri forgiati uguali, come due mostri che non conoscono altro che se stessi. Non c’è amore, non ci sarà mai amore, ma c’è il riconoscimento che qualcosa ci ha creati uguali, lo stesso demone che ora ci divora, e che sempre governerà i nostri moti2

 

✩ 

 

“Mentivo sapendo di mentire.”

Alzo gli occhi dalle pergamene per guardare Walburga Black negli occhi. “Cosa intendi dire?”

“Quello che ho detto, bambina. Riguardo all’amore. Mentivo.”

“Lo amavi, quindi.”

“Lo avevo amato. Quell’agosto.”

“E poi?”

La vegliarda scrolla le spalle, magre e nervose. “E poi non l’ho amato più.”

 

✩ 

 

Rimaniamo distesi per un po’, dopo. Nudi, il sudore si raggruppa sulle nostre pelli in anfratti già umidi, cola sulla schiena e il collo. Una mano di Damien, grande, forte, tenace, è poggiata sul mio seno sinistro, lo trattiene tra le dita come se fosse un tesoro prezioso, qualcosa da custodire. Quel contatto mi tranquillizza, regolarizza il mio respiro ad un ritmo ragionevole, fa scemare ciò che rimane dell’orgasmo. 

 

Mi sposto leggermente, ma la presa di Damien su di me non si allenta. Mi piace quando non vuole lasciarmi andare, mi piace soccombere sotto il suo tocco. Mi piace aprirmi per lui e lasciarlo entrare, mi piace sentirlo dentro di me, grande e forte, e allora il piacere mi invade a ondate, si propaga come un veleno pericoloso. Mi piace quando usa una delle sue cravatte per legarmi i polsi, lo fa sempre, e io fremo di desiderio ancora prima di vederlo, già pregustando ciò che arriverà, ciò che ci sarà in serbo per me dall’altra parte di una porta chiusa. 

 

Perché la nostra storia si è sempre svolta lì, dietro una porta chiusa, in un limbo che non è nè giorno nè notte, ma è fatto delle ore rubate alle nostre rispettive vite, alle nostre esistenze incastrate insieme ad altre esistenze, effimere e fasulle. Si può dire che quell’agosto iniziò tutto, ma tutto finì, anche. Ci cullammo in quella falsa atemporalità, in quel frangente di spazio dove c’era solo il cielo e il mare - dove c’eravamo solo noi. 

 

Facevamo l’amore tutti i giorni, più volte al giorno, e dove capitava. Più i giorni passavano, più la presa di Damien Rosier su di me aumentava. Era diverso dal Damien che avevo lasciato due anni prima, prima del Giappone. Avevo ritrovato un Damien adulto, un uomo fatto e finito, con le sue forze e le sue debolezze e le sue paure, e soprattutto, con le sue esigenze. Sapere che in quei due anni non aveva mai toccato nessun’altra come aveva toccato me mi aveva dato potere, ma dirgli che nessuno, in quei due anni, mi aveva sfiorata come mi sfiorava lui, ne aveva dato a lui. 

 

E io lo lasciai fare. Desideravo arrendermi, desideravo solo averlo tutto per me, amavo entrare in sala da pranzo per la colazione la mattina e guardare Medea Greengrass dritto negli occhi sapendo cos’avevo fatto tutta la notte con il suo fidanzato, adoravo vederla squadrarmi da capo a piedi come se fossi una donnaccia per poi seppellire il suo cipiglio nervoso - era sempre nervosa, Medea - dietro la sua tazza di tè. Non poteva niente. Nessuno poteva, nemmeno il padre di Damien, per cui le relazioni extraconiugali erano cosa normalissima, anzi, ero quasi sicura che incoraggiasse il figlio a tenermi come amante. 

 

Tutto questo mi spinse sempre più nel baratro. Mi innamorai. Fu inevitabile. Combattei strenuamente, ma poi un giorno mi svegliai, e ovviamente Damien non c’era, non si fermava mai fino al mattino nella mia stanza, e io facevo lo stesso nella sua, ce ne andavamo sempre un poco dopo il sesso, ma solo quando entrambi eravamo troppo sfiniti per replicare, ecco, quel giorno mi svegliai e piansi. Così dal nulla. Ero ancora nuda, le mie lenzuola erano sporche dello sperma di Damien, e l’interno delle mie cosce era pieno di lividi accennati ma già visibili dove lui mi aveva baciata e aveva affondato i denti, e io avevo urlato, il piacere che fluiva in me senza barriere. Ero nuda e piangevo. 

 

Quello sarebbe stato l’ultimo giorno prima del matrimonio, e forse era quello che mi annientò. Ciò che avevo cercato di negare persino a me stessa - ero bravissima in quest’arte - ora mi stava facendo soccombere. L’uomo che amavo si sarebbe sposato con un’altra donna, l’uomo che, realizzai solo in quell’istante, amavo di un amore oscuro, un amore che qualcuno avrebbe definito malsano, forse, ma non me ne importava, quell’uomo si sarebbe sposato con una donna che non ero io. E quindi a cos’erano serviti gli sguardi fieri e sprezzanti rivolti a Medea, se poi sarebbe stata lei a dirgli ‘sì’ di fronte ad un altare? Mi sentii una stupida. Non solo perché mi ero arresa ad un sentimento che avevo sempre disprezzato, e rifuggito, e criticato negli altri come se fosse un morbo, una malattia difficile da estirpare ma dalla quale necessitavo di stare lontana, e dalla quale mi volevo proteggere, e impermeabilizzare, ma anche perché mi ero presa la briga di sbeffeggiare la futura signora Rosier quando l’unica a perderci qui ero io, soltanto io, Walburga Black, futura moglie di quel pusillanime di Orion Black, che non faceva altro che guardarmi da lontano e giudicarmi come tutti gli altri e sperare che gli riservassi anche solo un briciolo della mia attenzione. 

 

Piansi tutte le lacrime che non avevo mai pianto. Damien Rosier fu il primo uomo a farmi piangere, e promisi a me stessa che sarebbe stato anche l’ultimo. Non mi riconoscevo più. Non volevo guardarmi allo specchio per paura di ciò che lo specchio mi avrebbe restituito. Non volevo vedere nessuna strana luce al fondo dei miei occhi, non desideravo assistere al mio sfacelo, all’ultima barriera caduta, alla fine di ogni dignità. Perché amare era sempre stato un po’ come perdere, per me, si trattava di un gioco al quale non volevo giocare, e nemmeno assistere come spettatrice silente e passiva. Semplicemente non mi interessava. 

 

Quella mattina, nuda nel mio letto, decisi che avrei ucciso quell’amore. Lo avrei ricacciato via, nelle profondità nascoste dal quale era venuto, e promisi a me stessa, ancora, che non mi sarei più fatta sorprendere, sarei stata attenta, e cauta, avrei chiuso il mio cuore e sarei tornata ad essere l’algida Walburga, vestita di scuro anche in estate, una Black fiera del suo nome e della sua eredità. Il giorno dopo, seduta sulle sedie disposte all’esterno, sotto il sole di fine agosto, sotto il cielo italiano, dentro il mio vestito di seta viola scuro, mentre Medea Greengrass diceva quel “sì” e diventava così Medea Rosier, io mi girai verso Orion Black, e gli sorrisi di un sorriso suadente, e quando lui mi sorrise a sua volta, e alzò una mano per salutarmi, timidamente, e io notai quanto fosse elegante nel suo completo scuro, un accenno di barba sul mento e gli occhi in tralice, in quel momento seppi cosa fare. 

 

Nell’agosto del 1945 mi innamorai.

 

Nel settembre del 1945 lasciai l’Italia prima del previsto per tornare a Londra.

 

Nel dicembre del 1945 tornai ad essere l’amante di Damien Rosier. 

 

Nel dicembre del 1946 sposai Orion Black.

 

(Nell’agosto del 1945 mi innamorai - e seppellii quell’amore per sempre.) 

 

✩ 

 

“A cosa pensi?”

La voce di Damien mi riscuote. Siamo di nuovo in quella stanza. La nostra stanza. Il simbolo di ciò che siamo - e di ciò che non saremo mai. 

“Al passato.”

“Sono pensieri pericolosi.”

Annuisco, la testa che scivola un pochino sul cuscino. “Dovremmo tornare alla festa o si accorgeranno che manchiamo entrambi.”

 

“Penso che tutti sappiano di noi. L’hanno sempre saputo.” La sua mano lascia il mio seno e scende ad accarezzarmi lo stomaco. Giocherella col mio ombelico. Non è rimasto quasi nulla delle rotondità che erano apparse durante il periodo in cui aspettavo Regulus. 

Sbuffo, muovendomi leggermente, e sento la sua mano scivolare via da me. Poi le sue dita mi stringono una coscia. Forte. Non mi fa male, anzi, vorrei che stringesse ancora più forte, ma non lo fa. 

 

“La cosa ti disturba? O ti turba?”

“Nessuna delle due. Da quando è nato Regulus sembra che io abbia fatto il mio dovere di donna e non serva più a nulla.”

“Avevi già dato a Orion un primogenito. Maschio, per giunta. Proprio come voleva.”

“Sembra che Sirius non lo soddisfi. C’è qualcosa in lui che lo spaventa. Io invece lo adoro.”

“Ha i tuoi stessi occhi.” Damien mi scosta un ciuffo di capelli castani dalla fronte, mi guarda in viso espressivamente. Sembra che voglia guardarmi dentro. E forse ci riesce. 

 

“Walburga…” comincia.

Scuoto la testa. Forte. “Non chiedermelo.”

Devo chiedertelo.” 

“Devi, ma puoi decidere di non farlo.”

“Regulus è mio figlio, vero?” 

 

Chiudo gli occhi. Li riapro. Li chiudo di nuovo. Sento una lacrima, una sola, scivolarmi lungo la guancia. Riapro gli occhi e Damien me l’ha appena asciugata con un bacio. È un tocco lieve, lievissimo, così distante dai suoi soliti tocchi. E mi fa male. Invece di curarmi, quel bacio lieve minaccia di annientarmi, ché semplicemente non posso permettere che qualcosa che ho badato così bene a soffocare tanti anni prima, torni a riaffiorare dai suoi vili nascondigli per afferrarmi alle spalle e divorarmi. No. Non ho fatto tutto ciò che ho fatto per innamorarmi ancora una volta di Damien Rosier. 

 

Ma poi mi ricordo chi sono: il mio nome è tutto ciò che ho. È tutto ciò per cui ho imparato a combattere, un nome nero su bianco su un pezzo di carta - su un arazzo sempre in divenire, ma che è lì da ben prima che io nascessi. Il mio nome mi definisce, e l’ho imparato col tempo. Ho imparato anche a volergli bene, ad accudirlo, a cullarlo come un bambino in fasce, e ho promesso a me stessa che lo avrei conservato, e trattato come un tesoro, e venerato. La nobile e antichissima casata dei Black. Toujours pur. Ed è ciò che insegnerò ai miei figli, che lo insegneranno ai loro figli, e così negli anni, e nei secoli, e noi sopravviveremo, perché siamo tenaci come quelle piante che resistono all’inverno, che crescono nel gelo e trovano nutrimento nel ghiaccio. Avrei fatto di tutto per preservare quel nome. Ho fatto di tutto - se solo Damien sapesse cosa. E a chi.

 

“Non lo so.”

È tutto ciò che posso dirgli. È tutto ciò che posso dargli. 

“Non lo so, Damien.”

Ed è vero. 

Non lo so. Non l’ho mai saputo.

 

✩ 

 

Sono sola. Damien si è vestito senza dire niente, neanche una parola. Mi ha accusata di non essere sincera con lui, ma come posso? Non sono sincera neanche con me stessa. Non gliel’ho detto, l’ho lasciato parlare, ancora nuda tra le lenzuola, le ginocchia strette al seno.

 

Mi ha guardata da davanti alla porta chiusa, ha sospirato passandosi una mano sugli occhi. “Non importa,” ha detto quindi. “Non importa se non vuoi dirmelo.”

“Non lo so, Damien. Credimi, non lo so.”

Ha annuito. “D’accordo. D’accordo.”

Il suo viso è tornato duro, una maschera indecifrabile, com’è sempre. Non è più solo Damien, è tornato ad essere Damien Rosier. 

“Ci vediamo più tardi.”

Ho annuito e lui è sparito in corridoio, un fruscio di vestiti e poi più niente. 

 

Sono sola. Una bottiglia di vino elfico giace ancora aperta sul tavolino al quale era seduto Damien quando sono arrivata. Mi alzo, avvolta nel lenzuolo, e cammino a piedi scalzi fin lì. Mi siedo e bevo direttamente dalla bottiglia, ignorando il bicchiere con, al fondo, ancora una rimanenza del vino bevuto da Damien poco prima. Il liquido è caldo nella mia gola, e nel mio stomaco. Sazia e riempie. Colma tutte quelle parti di me lasciate vuote. So che dovrei tornare di là, ma non mi importa. Mi prendo del tempo, tutto il tempo che mi serve. Giocherello con la collana3 che tengo al collo, l’unica cosa che non mi sono tolta prima del sesso. Damien non ci ha fatto caso, ma perché non la tolgo mai. La indosso solo quando ci vediamo. Il piccolo teschio è caldo al mio tocco, caldissimo. È il segno di ciò che abbiamo, Damien e io, e di ciò che sono stata disposta a fare per lui - per noi

 

Mi sfilo la collana e l’appoggio sul tavolino. Inghiotto dell’altro vino, sorridendo tra me e me, sollevata.

 

✩ 

 

“Era figlio di Damien? Regulus, intendo.”

Walburga sospira, si sistema meglio contro i cuscini. Il suo respiro è ormai solo più un rantolo e mi chiedo come faccia ancora a parlare. 

“Non lo so.”

“A me puoi dirlo. Sono tutti morti, ormai. Anche Regulus.”

“Davvero non lo so. Non l’ho mai saputo.”

“Orion sospettava qualcosa?”

“Orion ha sempre sospettato qualcosa, anche perché non avevamo una vita sessuale così eccitante.” 

Annuisco. 

“Penso che la verità sia morta ben prima di me, ma d’altronde, lo hai detto tu stessa, Josephine: sono tutti morti, ormai.”

 

“E quella collana? La collana che hai nominato alla fine…”

“Oh, sì, la collana.”

“Non me ne hai mai parlato…”

“Vuoi che te ne parli?”

Annuisco di nuovo. “Penso di sì. Sembrava importante.”

“Lo è stata, per un periodo. Era pericolosa, anche se all’inizio mi piaceva giocare col fuoco.”

“Che fine ha fatto?”

“L’ho data via.”

“Okay…”

Attendo, do a Walburga il tempo di raccogliere i pensieri.

 

“È stata un regalo di Damien.”

“Oh. Chissà perché, immaginavo.”

“Conteneva qualcosa di maledetto, sai?”

“Parlamene.” Le chiedo ancora. Anzi, ormai non suona neanche più come una domanda.

“D’accordo. Se è questo che vuoi.”

 

✩ ✩ ✩

 

NOTE

1. Diana Malfoy è un personaggio di mia invenzione, moglie di Abraxas
2. Il primo pezzo è tratto dal capitolo V della raccolta “In the name of the Black”, ho solo cambiato il punto di vista e l’ho leggermente riadattato.
3. La collana l’ho citata qui.

 

Mi stavo dimenticando di postare 🙈 Arrivo di frettissima, quindi. Spero che questo terzo atto vi sia piaciuto, ci vediamo domenica 25/09 con l'atto IV (il penultimo) ♡ 

 

A presto,
Marti

 

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Capitolo 4
*** atto IV — bedsheets ***


NOTA DELL’AUTORE. Per correttezza, ci tengo ad inserire un WARNING relativo a una tematica delicata: Walburga in questo capitolo affronta la sofferenza di non riuscire ad avere figli. So che questo argomento può essere particolare causa di sofferenza per molti, per chiunque ci sia passato o ci stia passando, e/o per chi si senta, più o meno direttamente, coinvolto, quindi ho preferito avvertire. Grazie per l’attenzione 🙏🏻 

 


 

dance of death.

 

[ atto IV — bedsheets ]

 

Le lenzuola sono sporche di sangue. Sembra ci sia sangue dappertutto, in quella stanza: sulle lenzuola, i cuscini; a imbrattare le pareti ricoperte di una tenue carta da parati verde, a fiori; sulle tende chiuse dalle quali non filtra raggio di sole, che sia anche per sbaglio; sul pavimento che adesso oscilla sotto i miei piedi come se mi trovassi sul ponte di una nave nel bel mezzo di una tempesta. 

 

È tutto rosso.

 

✩ 

 

Evan Rosier è nato nel sangue, quasi come se fosse una profezia. O un anticipo del sangue che avrebbe versato da adulto. Nessuno di noi sapeva. Non allora, era troppo presto. Damien mi spiegò che in Gaelico, Evan voleva dire “giovane guerriero”, e che gli sembrava estremamente appropriato per il suo primogenito. Il primo dei tanti figli che lui e Medea avrebbero avuto. “Voglio crescere un esercito di guerrieri, Walburga,” mi sussurrò prima di cambiare argomento e affondare la lingua dentro di me, ancora e ancora. 

 

Non ebbi cuore di dirgli che non me ne importava nulla, né di come avrebbe chiamato suo figlio, né di quanti figli effettivamente avrebbe voluto. Ma lo lasciai parlare, gli piaceva confidarsi con me, e io mi confidavo con lui. Non era un mistero per Damien che io e Orion stessimo faticando ad avere un bambino. Un Medimago aveva visitato entrambi e aveva asserito che eravamo entrambi sanissimi, anche se avevo il dubbio che avesse nascosto qualcosa riguardo la condizione di mio marito, qualcosa che Orion stesso sapeva e che non mi aveva voluto dire. Quindi davvero, non avevamo nulla che non andava, almeno sulla carta, almeno per quel Medimago. Non avevo raccontato a nessuno dei miei sospetti, però, nemmeno a Damien. 

 

Questo nostro accanimento però mi logorava dentro. Era sempre più dura constatare che il nostro impegno e i nostri sforzi non davano alcun risultato, e diventava sempre più dura man mano che i mesi passavano e che un sacco di altre donne della nostra cerchia restava incinta o partoriva un marmocchio. Queste nascite venivano sempre accolte con un gran baccano di feste e brindisi, soprattutto se si trattava di un maschio: voleva dire che le famiglie Purosangue avrebbero avuto un futuro, che sarebbero sopravvissute al tempo e alla storia, imperiture. Era anche il mio desiderio: vedere la casata dei Black allungarsi e srotolarsi avanti a noi negli anni, nei secoli, e per merito mio, mio e di Orion. E invece sembrava che dovessi essere punita per chissà quale errore o fio passato, forse come contrappasso per qualcosa che avevo fatto in una vita precedente, chi lo sa. 

 

Non arrivava nessun bambino, e la gente parlava. Li potevo quasi sentire sussurrare alle mie spalle, tirare fuori chissà quali malignità, soprattutto sul mio conto: in fondo, era sempre la donna, il problema; gli uomini erano sempre sani, attivi, dei veri “stalloni”. Non mancavano mai un colpo. Quindi, era colpa mia. Il povero Orion, si vedeva, era magro e pallido, io lo stancavo troppo, e lui si sforzava tanto, si sfiniva a forza di penetrarmi, anche tutta la notte, a volte, povero cuore. E io, io ero una strega arida, una donna asciutta dal ventre sterile e vuoto, una spianata desertica dove niente sarebbe cresciuto mai, ed ero quindi destinata a veder perire il mio nome, e secoli e secoli di storia e tradizioni ed eredità. Questo era quello che si sussurrava dietro alle mie spalle, e che gli uomini borbottavano ad Orion in segno di solidarietà nei loro salotti, una mano sulla spalla, quando bevevano Whisky Incendiario e fumavano sigari e parlavano dei loro affari. Ma non erano mai parole di biasimo, o critiche. No, lui non veniva messo in discussione, anzi, veniva compatito. Quella sbagliata ero io. 

 

Quel giorno ci siamo tutte riunite a Rosier Hall per assistere alla nascita. Continuo a ripetermi che non me importa nulla, di vedere Medea Rosier partorire, e non faccio che chiedermi perché si debba sottostare a quell’usanza inutile, ma dentro di me morivo dalla curiosità di vedere il bambino, e di farmi intimamente del male pensando che quello era il figlio di Damien, sangue del suo sangue, e che se io non riuscivo a dare un figlio a Orion, chissà come potevo anche solo pensare di darne uno a Damien, seppur non legalmente. 

 

Evan viene al mondo strillando a pieni polmoni, facendosi sentire in tutta la tenuta. Gli uomini, tra i quali il padre, sono a bere al piano di sotto, come si usa. Pensando al giorno in cui, forse, sarei riuscita a dare a Orion un figlio, avrei preteso di averlo lì, accanto a me, a sentire e vedere tutto. Non è giusto che la futura madre sia lasciata sola dal marito durante un momento come quello. E Orion merita di soffrire, anche se indirettamente, tanto quanto avrei sofferto io. Medea ora giace esangue sui cuscini incastrati dietro la sua schiena. La Guaritrice che l’ha fatta partorire si sta occupando delle ultime cose. Ha perso del sangue, ma nessuno sembra preoccupato. 

 

Mi porto una mano al collo, dove la collana regalo di Damien mi pulsa sopra la pelle, come a volermi dire, “sono qui, ci sono, ti sto aspettando”. È calda al mio tocco, caldissima, come se fosse appena uscita dalla fornace che l’ha plasmata. 

 

“Contiene qualcosa di infinitamente pericoloso,” mi disse Damien quando me la regalò.

“Che cosa, esattamente?”

“Un demone. Ed è tuo, ora. Da controllare, e sfruttare, come meglio credi.”

“Damien…”

“Niente ma. Una donna come te merita un’arma che sia degna di lei. Puoi avere il mondo intero, Walburga. Puoi anche dargli fuoco.”

“Tu potresti perire insieme ad esso. Non hai paura?”

“Tu mi lasceresti perire?”

“Dipende.”

 

La luce negli occhi di Damien mi spaventò. Per la prima volta da quando avevamo iniziato quella nostra malsana relazione, Damien mi fece paura, ma non per me stessa, no, quello mai, ma paura per ciò che avrebbe potuto fare al resto del mondo, per me, in nome mio. 

 

“Mi lasci tra le mani qualcosa per cui potrei rischiare di perire io stessa, lo sai, vero?” 

“Sei troppo abile. E ciò che c’è là dentro non può nuocerti, fintanto che non lo liberi. Non liberarlo, Walburga. Sfruttalo.”

 

Chissà se Damien aveva immaginato. 

No, sicuramente no.

 

✩ 

 

Non posso dire di non averlo premeditato. Sarei una bugiarda. 

 

Ero già arrivata a Rosier Hall sapendo. Avevo indossato i miei vestiti migliori, sapendo. Mi ero pettinata bene apposta, sapendo. Avevo persino messo del profumo, sapendo. E Orion se n’era accorto, e si era avvicinato per annusarmi, mentre aspettavamo che qualcuno venisse ad aprirci davanti alla porta di casa Rosier. Non aveva fatto domande. In fondo, non era inusuale, per lui, vedermi perfettamente acconciata e vestita. 

 

Il fatto è che mia cognata Druella Black aveva dato alla luce un’altra bambina, soltanto una settimana prima. Andromeda. Bella come la luce dell’aurora, fulgida come l’agglomerato di stelle di cui portava il nome. E io ero crollata. Ero tornata a casa ed ero crollata. Orion non mi aveva vista piangere, mi ero chiusa in camera mia senza che mi vedesse, adducendo come scusa un mal di testa improvviso. Avevamo camere separate, Orion e io. 

 

Non potevo sopportarlo. Non avevo nulla contro Druella, davvero, ma sembrava che qualcuno mi stesse schiaffeggiando, e si stesse prendendo gioco di me. Forse avevo deriso troppo le insistenze dei miei genitori, quand’ero più giovane, e loro volevano vedermi sposata, e con dei pargoli al seguito. Forse avevo peccato di superbia. E adesso venivo punita. Adesso che desideravo un bambino più di qualsiasi altra cosa al mondo, adesso che sarei stata disposta a sacrificare ogni cosa, in nome di quel bambino non ancora concepito, il fato mi sbeffeggiava, castigandomi. 

 

E Medea… Ora allunga le braccia ed Evan le viene restituito, pulito, avvolto in un lenzuolino bianco, un cappellino azzurro sulla piccola testa glabra. Medea è stanca, ed è sporca del suo stesso sangue, ma gli accarezza il visino, le guance rosse e sane, passa un dito su quelle labbra così piccole che sembrano un bocciolo di rosa. Le rose dei Rosier. Medea è stanca, ma è bellissima. È comunque bellissima. E felice.

 

La porta si apre con gran fracasso e Damien irrompe all’interno. Roland1 Lestrange e Abraxas Malfoy lo seguono da vicino, probabilmente hanno cercato di impedirgli di entrare fino ad un attimo prima, ma inutilmente. Rimangono fuori, però, rispettosi del momento e della sacralità di quella stanza. Damien mi passa davanti e neanche mi guarda. Io mi scosto, lo vedo sfilare davanti a me e lo vedo anche scivolare via da me, come se fosse fatto di aria. Ha occhi solo per Evan, ora. Il suo primogenito. Il suo giovane guerriero.

 

Lo capisco, ma allo stesso tempo gli vorrei strappare via ogni cosa, persino la pelle. Vorrei cavargli gli occhi e metterli dove non potrà più trovarli, cosicché non potrà più guardare suo figlio; vorrei tagliargli le mani, cosicché non potrà più toccarlo, e accarezzarlo; vorrei sradicargli il cuore via dal petto, cosicché non potrà più amarlo. La mia mano corre alla collana. “Voglio crescere un esercito di guerrieri, Walburga.” Le sue parole mi riecheggiano nella testa come un’eco. Anche quelle si prendono gioco di me, adesso. 

 

So cosa fare.

 

✩ 

 

Lasciamo Rosier Hall che è tardi. Fuori è molto buio, una notte perfetta per gli incantesimi. Damien ci ringrazia di cuore, in piedi nell’ingresso con il suo prezioso Evan tra le braccia. Sorride come non ha mai sorriso prima. Mi guarda negli occhi un po’ più fissamente rispetto a come guarda gli altri, ma io distolgo lo sguardo, mentre Orion mi aiuta a indossare il cappotto. Salutiamo e siamo fuori. Ci incamminiamo lungo il viale alberato per poi Smaterializzarci oltre i cancelli della tenuta. Camminiamo in silenzio, entrambi con le mani rintanate nelle tasche per proteggerci dal freddo di gennaio. Non parliamo, ma tutti e due sappiamo esattamente cosa sta pensando l’altro. Ogni nuova nascita corrisponde un po’ alla nostra morte.

 

Una volta a casa, non ci guardiamo neanche negli occhi. Orion entra in camera mia e richiude la porta, ed è la prima volta che mi spoglia così febbrilmente, ed è quasi famelico, è quasi come se desiderasse avermi, e non soltanto per fecondarmi, ma come avrebbe dovuto volermi sempre. Io mi concedo a lui perché è ciò che devo fare, e perché il fine ultimo di questo atto è tutto ciò che voglio: un bambino. Ma quella notte i miei gemiti sono più alti, l’orgasmo mi colpisce quasi sorprendendomi. Quando Orion viene dentro di me, lo trattengo un po’ più del solito, stringo le gambe come a non volerlo lasciare andare. Quando però questo avviene, noto che mio marito sta piangendo. Distolgo lo sguardo, non voglio che mi veda guardarlo. Gli sfugge un singhiozzo ma non faccio domande, fisso il soffitto, sporca di sperma e sudore. Sento il letto cigolare un’ultima volta e poi lui è scomparso, si è richiuso la porta alle spalle con il suo solito “buonanotte, Walburga” sussurrato a mezza voce. Questa volta, però, la voce è rotta. Io fisso il soffitto ancora un attimo e poi scendo a toccarmi. Sono ancora sensibile, quasi sobbalzo al mio stesso sfioramento. E so cos’è cambiato stanotte, di tutte le notti in cui Orion ha eiaculato dentro di me, in cui abbiamo fatto sesso non con l’intezione di fare sesso ma solo di procreare: stanotte mi è piaciuto. 

 

✩ 

 

A mezzanotte mi alzo, e mi preparo. Le lenzuola sono rimaste sporche di sperma e di sudore, le cambierò il giorno dopo. Invece io sono andata in bagno, ho lavato via tutto con l’acqua e il sapone. Ho indossato una camicia da notte pulita, e ho raccolto i capelli dietro la nuca con un paio di bacchette di legno. 

 

Accendo le candele e l’incenso, preparo il cerchio per l’evocazione. Sul pavimento, traccio il sigillo del demone con un gessetto bianco, che poi cancellerò con un colpo di bacchetta. Mi sfilo la collana, l’appoggio dentro il cerchio. Quello che sto per fare mi spaventa e mi eccita insieme. Ha un potere immenso: la magia che sto per padroneggiare è più potente di qualsiasi altra magia abbia mai praticato. Non ho mai evocato un demone, ma so come si fa. Qualcuno in Giappone me l’ha insegnato, diversi anni prima - una vita fa, quasi. 

 

Chiudo gli occhi e lascio che il fumo intorno a me mi trasporti. Sono ancora lì, eppure allo stesso tempo non ci sono più. Il mio corpo è ancorato alla terra sulla quale sono rannicchiata, ma il mio spirito è altrove. 

 

Ripeto il nome del demone tre volte. 

 

E attendo.

 

Quando riapro gli occhi, lo vedo di fronte a me nello specchio. 

 

Il suo riflesso ha le mie sembianze. È pieno dei miei desideri più profondi, trabocca oscurità. 

 

Sorrido.

 

La magia è già compiuta. 

 

✩ 

 

Quando mi risveglio sono nel mio letto. Non so cosa sia successo dopo che il demone è apparso nello specchio. È tutto confuso - è tutto nero. 

 

Mi alzo, puntellando i gomiti sui cuscini. Fuori è già giorno inoltrato. Mi chiedo quanto ho dormito. La porta si apre e il viso di Orion spunta all’interno.

 

“Sei sveglia.” E non è una domanda. 

“Cos’è successo?”

 

Orion entra e richiude la porta. Occhieggia il bordo del letto e io gli faccio cenno senza parlare di sedersi, così prende posto sul materasso, ad un’appropriata distanza da me, come se non volesse disturbare. 

 

“Non so cosa sia successo, ma mi sono spaventato da morire, Walburga.”

 

È forse la prima volta in cui l’espressione di mio marito tradisce un’emozione. È sempre stato impermeabile, Orion Black, quasi passivo, come se la vita e gli eventi gli scorressero addosso senza che da lui arrivasse la benché minima reazione. È difficile da leggere, anche. È come se un velo gli oscurasse lo sguardo e impedisse agli altri di scorgervi neanche il più piccolo bagliore. È un modo per difendersi, magari, oppure è soltanto la maschera che indossa davanti al mondo. 

 

Questa volta, gli occhi di Orion sono accesi di paura: semplice, cieca, paralizzante paura. Le sue mani corrono a prendere le mie. Lo lascio fare, il suo tocco oggi non mi disturba. “Per favore,” inizia, “non ti ho mai chiesto nulla, né come marito né come uomo, ma per favore, Walburga, non farlo più. Qualsiasi cosa tu abbia…” esita. “Non lo so,” aggiunge poi scuotendo la testa. “Non lo so, ma eri bianca, pallida, sembravi morta. Stringevi quella collana,” e indica il comodino, e ricordo solo ora la collana - e tutto mi torna alla mente: l’evocazione, il fumo, il fuoco; l’immagine del demone nello specchio, quella richiesta che era suonata come una preghiera, ciò che gli avevo domandato; mi volto a lanciare un’occhiata al piccolo teschio di corvo argentato, sembra così innocuo, ora. “Non so cosa sia e da dove venga, ma è pericolosa. Molto pericolosa.” 

 

Ora lo so. Ciò che ho fatto mi riecheggia nella mente. Non posso ripetere quelle parole. Non posso più. 

 

Mi ritrovo ad annuire. “Va bene.” 

“Va bene?”

“Non la metterò più.”

Orion mi sorride. Il suo viso si distende. “Grazie.”

 

Non gli dico che non lo sto facendo per lui ma che lo sto facendo per me. Non gli dico che lo sto facendo perché ho paura: la sento bruciare dentro di me, ancora adesso, proprio come stanotte qualcos’altro ha minacciato di annientarmi, proprio come stanotte ha tentato di fare, ma non poteva ribellarsi, non poteva trovare scampo, non al giogo che lo teneva rinchiuso. Non la indosserò più, a parte quando vedrò Damien. Non posso deluderlo e non voglio attirarmi domande alle quali non saprei come rispondere senza scoprirmi. E Damien non deve sapere, non deve sapere cos’ho fatto, per nessun motivo. Mi tremano le mani, ancora strette in quelle di Orion. 

 

“Ti faccio portare qualcosa da mangiare da Kreacher.”

“D’accordo.” 

Orion mi lascia le mani e si alza. Mi lancia un’ultima occhiata e sparisce oltre la porta. Questa volta non la richiude. 

 

Io mi riappoggio ai cuscini e sospiro. Mi volto a guardare la collana, che riposa sul comodino. Sembra quasi innocua, ma io so cosa cela al suo interno. Quel qualcosa se n’è tornato nelle sue profondità, stanotte, di nuovo quieto. Non posso permettere che ci riprovi. Non posso rischiare di nuovo tutto quanto. 

 

Penso a Damien, e al pericolo che ho corso per perpetrare la mia vendetta. Non me ne pento, dopotutto. Il pentimento non è da me, e non rientra nell’elenco delle mie debolezze. La rabbia, quella sì, e l’invidia, e il rancore. Mi rendono debole eppure mi rendono viva. Non posso rinunciarvi, sarebbe come rinunciare a una parte di me stessa. Tiro su la collana e la vado a mettere sul tavolino da toilette. Dal letto non posso vederla, e per adesso è meglio così.

 

✩ 

 

“Hai davvero evocato un demone, quindi.” Sono sbalordita. “Si tratta di magia nera un sacco avanzata.”

La vecchia Walburga sorride di un sorrisetto compiaciuto. Alla sua età, e così vicina alla morte, sa ancora gioire delle sue “prodezze”. 

“Lo so,” risponde. “Non ne avevo paura, fino a quel momento.” 

“Non l’hai più evocato, dopo quella notte?”

“No, mai.”

 

“Cosa gli hai chiesto? Cosa hai chiesto a quel demone?” Posso immaginarlo, lo sento quasi crepitarmi sotto pelle, ma voglio sentirlo dire da lei. Voglio che esca dalla sua bocca, dalle sue labbra incartapecorite. 

“Gli ho chiesto di non dare più alcun figlio a Damien e Medea Rosier.” 

Rimango in silenzio. Il crepitio si ferma. 

“Ha funzionato.” Lo so. Lo so perché Medea Rosier, Medea Greengrass, era mia zia. Una sofferenza muta si impossessa di me, ma mi sforzo per non lasciarla uscire sotto forma di rabbia cieca. 

“Non hanno più avuto figli dopo Evan, ma questo lo sai. Almeno, penso sia stato per colpa di ciò che avevo fatto. E, quando Evan è morto, non è rimasto loro più niente. Niente per cui augurarsi di vedere un nuovo giorno al termine della notte, niente di cui essere fieri, niente da amare. Li ho privati della cosa più preziosa che avrebbero mai potuto avere.”

 

Ricordo bene mio cugino Evan. Era un uomo molto bello e molto oscuro. Abilissimo con gli incantesimi e in battaglia, ma forse era caduto per la sua troppa sicurezza. Aveva peccato di superbia. 

 

“Evan è caduto in battaglia da eroe. Quel dannato di un Moody l’ha fatto fuori senza riserve. Che ironia.” Walburga ridacchia, e suona come un latrato. 

Non le chiedo a cosa si riferisca, non penso di averne voglia. Anzi, penso di averne abbastanza dei suoi racconti del terrore, ma c’è un’ultima cosa che voglio sapere. 

 

“Che ne è stato della collana?”

“La collana del corvo?”

Annuisco. 

“L’ho data via.”

Sbarro gli occhi. “Come? E a chi?”

“A mia nipote. Mia nipote Bellatrix2.”

 

✩ ✩ ✩

 

NOTE

1. Roland Lestrange è un personaggio di mia invenzione, padre di Rodolphus e Rabastan.
2. Walburga regala a Bellatrix la collana: lo potete leggere nel capitolo XIX della raccolta “In the name of the Black”

Altri piccoli punti vengono dipanati 👀 Ci stiamo avvicinando all'ultimo atto, dove tutti i nodi arriveranno al pettine. Siete pront*? 

Grazie a chiunque stia leggendo/seguendo questa piccola avventura ♡ A martedì 27/09 con l'ultimo capitolo!


Marti

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Capitolo 5
*** atto V — time ***


dance of death.

 

[ atto V — time ]

 

La memoria è un’instabile alleata. Walburga Black era solita insistere su questo punto, ma penso che la sua memoria fosse tutto tranne che instabile. Penso che ricordasse benissimo, fin troppo bene, ogni singolo istante di quei sessant’anni che invece sembrano novanta, e le pesano addosso come una montagna intera, da quando quella strana malattia l’ha colpita un anno fa, e l’ha portata dritta alla morte. Non ha più tempo, Walburga Black.

 

“Il tempo è un amico benevolo, Josephine. Ti aiuta a mettere una pezza sulle ferite, a guarire dai graffi e dai lividi, a metabolizzare certe cicatrici che nessuna stella potrà mai coprire ma che il tempo, il tempo sa come rendere lievi.” 

 

La guardo, alzando gli occhi dai fogli ora pieni di nuovi appunti. Mi chiedo ancora a cosa serva tutto questo. Chissà a chi potranno mai interessare le memorie di una vecchia stanca e malata. Eppure Walburga sembra tenerci molto. Prima di iniziare mi ha fornito due indirizzi, con sopra scarabocchiati i nomi di Andromeda Tonks e Narcissa Malfoy. “Perché anche Andromeda?” le ho chiesto, ben sapendo che la nipote era stata “bandita” dalla famiglia - e dall’albero genealogico - quando aveva deciso di sposare Ted Tonks. “Non fare domande di cui non ti riguarda conoscere la risposta, bambina,” è stata la sua risposta, e io non ho mai più domandato. Avrei solo dovuto mandare una copia di ciò che avevo scritto ad Andromeda e Narcissa e loro ne avrebbero disposto come meglio avrebbero creduto. Un’altra copia l’avrei tenuta io, in quanto madre di Rod ed Emily. Avrei poi deciso io se tramandare loro quelle memorie, un giorno. 

 

“Dici che il tempo ha tutto questo potere?”

Annuisce. “Sì. Tante cose sono successe in questi anni che stento quasi a crederci, eppure siamo ancora qui, anche se io ci sarò ancora per poco, ahimè.” 

“Perché non hai accettato le cure dei Medimaghi?” È da un po’ che desidero chiederglielo.

“Perché ho perso tutti quelli che ho amato, bambina.”

“Ci sono ancora i tuoi nipoti.” In realtà non lo penso, in realtà non ho mai desiderato Walburga nelle vite dei miei figli, ma non posso essere troppo sincera con una donna a due passi dalla morte. 

 

Walburga sospira. 

“Loro sono così tuoi… Assomigliano fisicamente ai Black ma hanno il tuo animo. Sono le tue creature, così tue che è come se fossero circondati da un’aura che li cela al mondo intero e alle sue interferenze. Spero che tu riesca a proteggerli per sempre, e celarli a ciò che di cattivo c’è là fuori.”

“Il male è anche dentro. Dentro di noi. È in tutte le cose.”

“Sarà. Ma c’è una cosa che protegge più di qualsiasi altra: l’amore.”

 

È strano sentirla parlare d’amore. Inarco le sopracciglia.

“Non guardarmi come se mi fossero spuntate le corna, insolente che non sei altro.” Sa essere ancora dannatamente dispotica. Mi mordo la lingua per non replicare. “Non ho mica vissuto per niente, sai? So molte cose.”

“Non lo metto in dubbio.”

“Ho amato anche io. Te l’ho appena raccontato.”

“Hai amato anche i tuoi figli?”

 

La donna mi guarda con occhi sottili. “A modo mio, sì.”

“Quell’amore non ha protetto Regulus dalla morte, però.” 

Non mi risponde subito. La vedo sospirare, torcersi le dita. Non tocco l’argomento Sirius, non penso che sia una buona idea. Sono sicura che Walburga abbia amato Sirius, fino ad un certo punto. Poi, non l’ha amato più. Mi chiedo come si possa smettere di amare un figlio, sangue del tuo sangue, e solo in nome di quello stesso sangue che ti ostini a voler mantenere puro. Non potrei mai smettere di amare Rodney o Emily, qualsiasi cosa accada e qualsiasi scelta facciano. 

 

“Forse sono stata punita. Forse perdere la cosa più preziosa che avevo al mondo è stato il prezzo che ho dovuto pagare per ciò che ho fatto.” 

Ci penso, e convengo tra me e me che forse ha ragione. Penso con insistenza alla zia Medea e sono sicura che abbia ragione, nonostante il prezzo che ha pagato sia stato Regulus. 

“Penso che tu abbia ragione,” dico ad alta voce quindi, sincera. “Quella magia non arriva mai senza un fio da pagare. Ti presenta sempre il conto, presto o tardi.”

“Durante quegli anni ho perso tutto. Prima Regulus, e poi Orion. Non ha retto la notizia della morte di suo figlio, ma d’altronde, è sempre stato un uomo delicato, troppo delicato per questo mondo.”

 

Ho sempre considerato Orion Black una vittima, una di quelle persone destinate a soffrire per partito preso. Stava dentro quel matrimonio come se ci fosse capitato per caso e faceva il padre come meglio riusciva. Penso non abbia lasciato quasi nulla dietro di sé, un’impronta, o una traccia del suo passaggio. Se n’è andato silenzioso com’è arrivato. 

 

“Damien è morto l’anno scorso.”

Non dico niente, so che Walburga non ha finito. 

“Non è più stato lo stesso, dalla morte di Evan, nel novembre dell’80. Abbiamo entrambi perso i nostri figli.”

Vorrei dirle che ne aveva ancora uno, di figlio, ma taccio. I suoi rapporti con Sirius si erano guastati da troppo tempo, già allora, e niente avrebbe potuto porre rimedio a quella spaccatura. E Sirius neanche voleva. 

 

“Quasi un anno dopo finì tutto quanto. Ci furono i processi. Damien stava già male dopo il colpo al cuore che gli era venuto alla notizia di Evan. Non fu mai mandato ad Azkaban, ma gli fu ordinato di non lasciare i confini di Rosier Hall. È lì che è morto, l’anno scorso, in maggio. Mentre fiorivano le rose.”

Ricordo tutto dei processi, ovviamente, ma non lo specifico. Walburga ha bisogno di esorcizzare i suoi ultimi demoni, e io non ho la forza per oppormi, non all’ultimo desiderio di una donna in fin di vita. 

 

“Eravamo necessari l’uno all’altra, Damien e io. Così necessari che ciò che ci univa non ci faceva respirare. Il nostro era un amore distruttivo. Forse è per questo che è finito o avremmo rischiato di ridurre il mondo in cenere.” 

“Riguardo la collana…” inizio. “Come si chiamava il demone? Non me l’hai detto.”

“Tu non hai chiesto.”

“Te lo chiedo ora.”

“Rosier.”

 

Spalanco gli occhi. “Come?”

“Si chiamava, si chiama, Rosier1. Il demone del possesso. Dell’amore irrazionale.”

“Un regalo davvero… come dire… accattivante.” 

“Era così che Damien concepiva il nostro amore. Ma basta parlare della collana, sono stanca di rammentarla.” Sbuffa, chiudendo per un attimo gli occhi. 

 

“Hai detto che quell’agosto cambiò tutto.” 

Annuisce, sospirando, e tossisce leggermente quando riapre gli occhi per tornare alla realtà. Mi fa segno di versarle dell’acqua nel bicchiere che tiene sul comodino, e l’accontento. Beve a piccoli sorsi, come un cagnolino. 

“Quello che avevamo iniziato come un gioco quando eravamo ragazzi a Hogwarts si trasformò radicalmente. Nulla aveva avuto importanza, prima, era solo un rincorrerci qui e là, un nascondersi in qualche vecchia aula polverosa… Niente, davvero. Furono quei due anni di lontananza a cambiarci. Ma questo te l’ho già detto prima. Lo sai.” 

 

“Non ho mai vissuto niente come quell’agosto. Mai più.” Aggiunge quindi dopo un momento di pausa. 

 

Scende il silenzio, rotto solo dall’orologio che ticchetta, cadenzato e regolare. Il tempo sarà anche un amico benevolo, ma scorre. Scorre inesorabile. 

 

“C’è un’ultima cosa che ti chiedo, Josephine. Un ultimo favore a questa carcassa morente.” 

“Che cosa?” Come sempre, ho paura di ciò che Walburga Black potrebbe chiedermi. Dietro ogni sua richiesta potrebbe celarsi qualcosa di pericoloso, o un inganno ben congegnato. 

“Apri il primo cassetto del comò.” Non chiede mai niente “per favore”, Walburga Black. Tutto suona come un ordine, per lei. E lo è, anche. 

 

Mi alzo e raggiungo la cassettiera, come mi ha detto. Apro il primo cassetto.

“Cosa dovrei cercare?”

“Sotto le camicie da notte c’è una busta di velluto bordeaux: prendila, ma fa’ attenzione, è pesante, e il contenuto è vecchio e prezioso.” 

Obbedisco, e la sento prima di vederla. Il velluto è liscio sotto le mie dita. La sollevo, ed effettivamente pesa, è come se contenesse un volume spesso. 

“Vieni qui.”

 

La raggiungo e Walburga allunga le sue mani storte verso di me. Le deposito la busta in grembo e attendo. Lei ne accarezza il dorso varie volte, come se stesse cullando un bambino. La lascio fare, sento che ne ha bisogno. La guardo sorridere, e mi chiedo se si renda conto che io sono ancora qui, in questa stanza che puzza di morte, e posso vederla. 

“Aprila per me, dentro c’è un libro, ma come ti dicevo, è vecchio e delicato. Le sue pagine sono antiche di qualche secolo.” 

 

Faccio come dice. Infilo la mano all’interno, anche se a malincuore, e ne sfilo via un libro. Da come pesava, sembrava si trattasse di un volume spesso, e invece è piuttosto nella norma. È più grande del formato romanzo, e la copertina è di un rosso ormai sbiadito. Non c’è titolo, almeno all’esterno.

“Aprilo alla prima pagina.”

È come se Walburga mi avesse letto nel pensiero.

“Figli dei dannati2?” leggo ad alta voce e in un soffio. La fiamma della candela accesa sul comodino ondeggia e Walburga se ne accorge. 

 

“Ti hanno sentita.”

“Chi?” Inarco un sopracciglio. “Chi mi ha sentita?”

“I Rosier.” 

Improvvisamente vorrei lasciar andare quel libro. Vorrei buttarlo fuori dalla finestra. Pesa tra le mie mani, brucia nei punti in cui i miei polpastrelli lo stringono. 

“È una delle tre copie del libro sulla famiglia Rosier2,” spiega finalmente Walburga. “Damien le stava cercando, erano andate inspiegabilmente perdute. Una era in suo possesso, e qui c’è la seconda. Ne manca una terza. Damien è morto senza sapere dove fosse.”

 

“Sembra un libro oscuro,” convengo non senza un brivido.

“Lo è. Ed è potente. Per questo ti chiedo che venga seppellito con me.”

La mia testa scatta in alto, lascia andare il libro. I miei occhi puntano su Walburga.

“Cosa?”

“Hai sentito bene. Prima che la mia bara venga sigillata, questo libro dovrà essere all’interno.”

“Perché? Perché non nasconderlo altrove?”

 

“Perché è pericoloso. E già due persone sono morte cercando di unire tutte e tre le copie. Nessun altro dovrà morire nell’intento.”

“Chi stai proteggendo?” È così raro, sentire parole preoccupate uscire dalla sua bocca. 

“La sua discendenza.”

“C’è una discendenza? Evan Rosier è morto.”

“Oh, sì che c’è.”

“Me lo dirai?”

“Che cosa?”

“Chi sono queste persone, è ovvio3.”

 

“Oh, no, non penso. Questa persona è lontana da qui e non penso che tornerà in Inghilterra, per adesso.” 

Fedele a Damien fino alla fine, la vecchia pipistrella.

“Va bene.” Scrollo le spalle. “Non me lo dire. È okay.”

“Me lo devi promettere, Josephine. È l’unica promessa che voglio che tu mantenga, anzi, che devi mantenere.”

“Più di tutte le altre? Persino di quella di mandare questi scritti alle tue nipoti?”

Walburga esita, poi annuisce. “Anche più di quella, sì. Lo senti che peso ha, quel volume? Non sembra, a vederlo, non diresti che è così pesante, giusto?”

 

Scuoto la testa. “Effettivamente mi sono stupita quando l’ho tirato fuori, quindi non lo direi, no.”

“È il peso di tutte le vite che ha tolto, delle anime che vi sono imprigionate.”

Sento una corrente di aria fredda percorrermi la schiena, come se stesse soffiando un vento invernale. Rabbrividisco. Torna il desiderio - la necessità - di lasciar andare quel libro. Non lo voglio. Non lo voglio con me o vicino ai miei figli. 

“Non lo voglio,” esplicito ad alta voce. E così lo poso nuovamente sul grembo di Walburga, sopra la fodera di velluto. 

 

“Lo so, bambina. Lo so che peso ha. È per questo che deve morire con me.”

Annuisco, e penso che abbia ragione. 

“Nessuno lo cercherà, sotto terra. E nessuno sa che ce l’ho io.”

“Perché l’ha dato a te?” le chiedo quindi. Mi pulisco le mani nei pantaloni, è come se fossero sporche. “Perché Damien te l’ho lasciato qui?” 

“Non voleva tenere le due copie nello stesso posto fintanto che non avesse trovato la terza. Diceva che Belial4 e Vinda Rosier4 li stessero cercando e che volessero rivendicare chissà quali diritti sulla famiglia, non so tutto neanche io. Damien non mi hai mai parlato dei suoi parenti francesi così bene. Non ne voleva parlare. Penso che si odiassero platealmente. I due hanno unito le forze per battere Damien sul tempo.”

 

“Che fine hanno fatto? Vinda e Belial, intendo.” 

“Non lo so. Non so se Vinda sia ancora viva, mentre parliamo. In quanto a Belial, ha sposato una francese e hanno avuto dei figli, ma non so altro.”

Le credo. Mi sembra sincera. 

“Quindi? Prometti?”

Annuisco. “Prometto di seppellire questo libro con te.” 

“Brava bambina.”

 

“Vorrei qualcosa in cambio, però.”

Gli occhi di Walburga sono sottili. Grigi come non mai. Intravedo la bellezza che è stata un tempo, che era ancora quando l’ho conosciuta. 

“Attenta a cosa chiedi, la verità potrebbe non piacerti.”

“Ci starò attenta. E penso che saprò conviverci, con questa verità.”

“Cosa vuoi sapere?”

 

Faccio un sospiro. “Hai detto di non sapere di chi fosse figlio Regulus. Penso che tu abbia mentito.”

Walburga distoglie lo sguardo. Non risponde subito, e quando lo fa, lo fa con un’altra domanda. “Perché non mi chiedi di Sirius?”

“Oh, Sirius è così dannatamente figlio di Orion, Walburga. Non ci sono dubbi.”

“Orion era un debole.”

“Orion è stato forte, molto forte, perché è stato tuo marito, e lo è stato fino alla fine.” 

 

La donna non protesta. Non so se sia d’accordo con me, ma poco importa. 

“Lo amavi, vero?”

“Chi?”

“Sirius. Credi che sia sciocca? O cieca? Non sono come tua madre.”

“Non mettere in mezzo mia madre, ora.”

“E tu non tergiversare. Rispondi alla domanda.”

“No se tu non risponderai alla mia, prima.”

 

Si lascia scappare una risata, uno dei suoi soliti rantoli. 

“Che importanza ha, adesso? Regulus è morto.”

“Non ne ha, infatti. Ma i miei figli potrebbero avere sangue Rosier nelle vene, e ha tutta l’importanza del mondo.”

“No, Josephine. Non ne ha. Regulus era un Black. Di nome e di fatto. Non avrebbe potuto rivendicare nulla, anche se fosse stato suo figlio.”

“Non mi importa di rivendicare una casa polverosa e qualche manufatto oscuro, ma ti ricordo che Medea Greengrass è mia zia. Ho sopportato i tuoi racconti che includevano la sua sofferenza senza fiatare. Me lo devi. Merito di sapere se Regulus era figlio di Damien Rosier.” 

 

“Era suo figlio.” 

Cala il silenzio. Si sentono solo i nostri respiri, quello di Walburga molto più flebile, si sta quasi spegnendo. 

“Regulus era figlio di Damien. Sei contenta, ora?”

No, non lo sono. O meglio, Walburga aveva ragione: non cambia niente. Rimane solo il fatto che ero fidanzata con Regulus, avrei dovuto sposarlo, e Regulus non era riuscito a fare quell’ultima cosa per me, come aveva detto, perché voleva proteggermi, e perché voleva dare rispettabilità a mio figlio - ai miei figli, ancora non sapevo che avrei dato alla luce due gemelli. 

 

Scuoto la testa. “No. Non lo sono.” Mi asciugo una lacrima, però, che sento scorrere lungo la mia guancia. 

“Parti, Josephine. Va’ in Francia. Io non supererò la notte e ti basterà un giorno per seppellirmi, non ho più nessuno che venga a piangermi.” 

“Tu lo sapevi, vero?”

“Stai parlando di me o di te, adesso?”

“Lo sai di cosa sto parlando. Sapevi di me e Sirius. Lo hai sempre saputo.”

 

“Mi merito una tua risposta alla mia domanda, Josephine.” 

Vorrei urlarle di smetterla di chiamarmi Josephine. Mia madre mi chiamava così, e mia madre non c’è più. Io sono solo Jo. 

“Sì. Sì, lo amavo.”

 

✩ 

 

Dopo aver raccolto le mie cose, il libro sui Rosier debitamente riposto nella fodera di velluto, indugio sulla porta. Walburga ha gli occhi chiusi ora, sembra stia dormendo. 

 

“Josephine?” mi chiama invece. Un’ultima volta prima che il tempo scada. Mi volto a guardarla e attendo.

 

“Glielo dirai? Dirai a Sirius che ha due figli?” 

Scuoto la testa. “Non lo so. Non ha più importanza, ora. È ad Azkaban.”

Walburga annuisce. Non aggiunge altro, così le do le spalle e chiudo la porta. 

 

✩ 

 

59 anni dopo ;

“Artie5?”

Dalla stanza di fianco non arriva suono. Aggrotto le sopracciglia. 

“Artie?!” ripeto quindi, alzando il tono di voce. 

Il mio gemello spunta nel vano della porta aperta, uno sbuffo di polvere sulla guancia, i capelli castano-rossicci (eredità della parte Weasley) scompigliati.

 

“Meda5? Mi hai chiamato?”

Alzo gli occhi al cielo. “Tipo, sì, sei sordo?”

“Scusa, ero concentrato.”

È passato circa un anno da quando la bisnonna è morta, eppure non eravamo ancora riusciti a mettere mano alle sue cose, prima di oggi. Nessuno ci era riuscito.

 

Andromeda Black aveva lasciato un vuoto difficile da colmare e andare in quella che era stata la sua casa per più di quarant’anni, a mettere in ordine e impacchettare pezzi di vita e ricordi e oggetti a lei cari, non sembrava non solo consono, ma neanche prudente, e per i nostri stessi sentimenti, per i sentimenti di noi che invece eravamo rimasti. La bisnonna aveva vissuto per novant’anni, ne avrebbe compiuti novantuno a gennaio, e se n’era andata un mese prima del suo compleanno, in un dicembre particolarmente nevoso, e ad un mese esatto di distanza da quando eravamo stati a Clivedon House insieme a Narcissa e Scorpius5

 

Sembra incredibile che abbia visto per l’ultima volta quella vecchia tenuta, dov’era nata e cresciuta, per poi andarsene via così, da un giorno all’altro. La sera prima ero andata a trovarla, io sola, Artie non aveva potuto perché impegnato al Ministero fino a tardi in non ricordo quale importante consegna per il prozio Percy, e le avevo portato un dolce che avevo comprato apposta per lei, e mi aveva ringraziato con un bacio sulla guancia, con quel suo profumo di talco e fiori, e mi aveva promesso che l'avrebbe mangiato per colazione. Non lo aveva mai mangiato, quel dolce. 

 

Il ricordo di quella visita a Clivedon House mi ha tenuto compagnia per mesi. Ancora oggi continuo ad addossare a quella casa - e a ciò che rappresentava per la bisnonna, e a tutto il carico di ricordi, anche e soprattutto dolorosi, che quei muri contenevano - la responsabilità della sua morte. Certo, era vecchia, e aveva vissuto a lungo, ed era stata felice nonostante tutto, ma nessuno di noi era preparato. Nessuno di noi avrebbe mai voluto lasciarla andare. 

 

Ora, Artie e io ci siamo ritrovati qui, a tirare le fila. Lui ha scelto di dedicarsi allo studio del bisnonno Ted, che è rimasto tale e quale a prima della sua morte, nel 1998. Suona un po’ come un’altra epoca - ed era davvero un altro mondo. Un mondo che nessuno di noi, fortunatamente, vedrà mai. Io sono invece nella stanza della donna dalla quale ho preso il nome, un paio di vecchi pantaloncini e una canotta, e i miei fedelissimi anfibi. Proprio il mese scorso ho cambiato i miei capelli da biondi a lilla. Essere una Metamorfomagus6 ha i suoi vantaggi, risparmi sulle tinte. 

 

“Ho trovato una cosa,” dico quindi, facendo cenno a mio fratello di raggiungermi sul pavimento. 

Lui obbedisce e si siede accanto a me a gambe incrociate, sistemandosi gli occhiali sul naso. “Che cosa?”

“Un plico di pergamene piuttosto consistente. È datato 1985.”

“Per Godric!”

“Già. Ben prima che mamma e papà nascessero.”

“Poco dopo la fine della Prima Guerra Magica.” Artie ha sempre avuto una passione per Storia della Magia. Sono gusti. 

Annuisco, sfogliando i fogli che appaiono ovviamente ingialliti e fragili. Essere però rimasti chiusi tutti quegli anni in un cassetto dello scrittoio della bisnonna li ha preservati da qualsiasi altra interferenza del tempo.

 

“Cosa c’è scritto alla fine?” esclama Artie afferrandomi un polso e impedendomi di girare pagina. 

Faccio come dice, vado alla fine della collezione di fogli fittamente scritti con una grafia piccola e minuta ma estremamente ordinata. Ho come la sensazione che siano stati ricopiati. In effetti, Artie ha visto giusto: al fondo ci sono alcune parole trascritte alla fine del foglio, e in due grafie diverse. Le prime frasi sono state scritte con la stessa grafia del resto.

 

‘Quelle che, forse, se siete arrivati fin qui, avete letto, sono le memorie che Walburga Black mi ha affidato prima di morire. Non so quale scopo fosse celato dietro la sua intenzione; da parte mia, ho solo acconsentito a realizzare l’ultimo desiderio di una donna sola e vicina alla morte. Narcissa, una copia è andata a te, e Andromeda, la seconda copia è per te. Una terza è rimasta a me, e ai miei figli Rodney ed Emily. Non so ancora se li metterò a parte di alcuni dei peggiori segreti riguardanti la loro famiglia. Il mio lavoro qui è finito. Dopo il funerale partirò per la Francia. Ho imparato che anche dentro la più nera oscurità si può celare un barlume di luce. In quanto a voi, spero possiate trovare la pace che anelate. Josephine Greengrass.’

 

Proprio sotto, c’è un breve appunto vergato dalla bisnonna, posso riconoscere la sua calligrafia elegante.

 

‘Ho trovato la pace che ho anelato per tanto tempo. Tutto è guarito. Grazie. Andromeda Black.’

 

Alzo gli occhi su Artie, che mi sta già guardando.

 

“Che facciamo?” mi chiede.

“Be’, mi sembra ovvio. Lo leggiamo.”

 

✩ 

 

The end ;

 

“but I can see us lost in the memory / august slipped away into a moment in time / ‘cause it was never mine / and I can see us twisted in bedsheets / august slipped away like a bottle of wine / ‘cause you were never mine”.

 

“Non voglio che questo agosto finisca.”

Damien mi sfiora i capelli, sciolti sulla coperta stesa al sole. Sta quasi tramontando dietro la linea del mare. È mite sulle nostre pelli. Piacevole come una carezza.

“Non voglio sposarmi, e andare via di qui con una donna che non sei tu, e lasciarmi alle spalle quest’estate.” 

 

“Non essere sciocco,” mormoro. Il mio cuore duole. Duole già anche se io cerco di non ascoltarne il lamento. “Devi sposare Medea. Come io sposerò Orion. Sarà più facile così. Sposarci potrebbe rovinarci, e sai benissimo che le nostre famiglie non hanno mai avuto alcun interesse a vederci insieme.”

“Mi chiedo perché.”

“Non ha molta importanza, ora. Tu sposerai Medea.”

“E tu Orion.” Damien sospira. “Non voglio che ti tocchi. Se ci penso mi va il sangue al cervello. Ci sono giorni in cui lo vorrei morto.”

“Non cambierebbe niente. Morto Orion ne arriverebbe un altro.”

 

Ora Damien giocherella con il neo che ho sotto il seno destro. “Sei mia, Walburga. Ogni parte di te, ogni cosa.” 

Annuisco. Gli sorrido. “Certo che sono tua. Da sempre. Per sempre.” 

Ci baciamo, la mia lingua cerca la sua e per un attimo, un attimo ancora, in quel momento fuori dal tempo, siamo una cosa sola. 

“Anche quando il tempo passerà, e saremo entrambi grigi e stanchi, ricorderò questo agosto. Lo ricorderò.”

 

Gli scosto un ciuffo di capelli scurissimi - color nero corvo - da davanti alla fronte. Il mio dito scende sulle sue labbra piene e lui me ne bacia la punta, la trattiene tra le sue labbra ancora un po’. Penso a tutto ciò che sarei disposta a fare per lui. 

“Non lo dimenticherò mai,” dico. “Fino al mio ultimo respiro.”

 

✩ ✩ ✩

 

 

NOTE

1. 
Tutte le (anche se poche) informazioni sul demone Rosier le ho reperite qui.

2. “Figli dei dannati” è tratto dal titolo di una canzone degli Iron Maiden, “Children of the Damned”, ed è, come ha detto Walburga stessa, un libro sulla famiglia Rosier; chi ha letto “The Haunting of Heydon Hall” lo ha sentito nominare nel capitolo dodici.

3. Se siete interessati ad approfondire e a conoscere la discendenza dei (miei) Rosier, vi consiglio di leggere la mia long “The Haunting of Heydon Hall”.

4. Belial Rosier è un personaggio inventato da me; Vinda Rosier è un personaggio introdotto in “Animali Fantastici”.

5. Artie e Meda (abbreviazioni di Arthur e Andromeda) sono i gemelli figli di Teddy Lupin e Victoire Weasley, che se volete potete ritrovare qui, insieme al riferimento alla visita a Clivedon House di cui parla Meda; questo fa ovviamente parte del mio headcanon; a tal proposito, vi consiglio la mia “Death in the Night”, se ancora non l’avete letta. 

6. Ho pensato che Meda potesse essere una Metamorfomagus come suo padre Teddy e sua nonna Tonks. 

 

Eccoci qui arrivati all’ultimo atto di questa mini long. I nodi sono venuti al pettine, quindi mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate di questo finale. Cosa farò con tutta questa carne che ho impunemente messo sul fuoco? Chi lo sa 😂 Stavo pensando di partecipare al Writober con una raccolta sulla famiglia Rosier, ma è tutto in forse. Intanto, ringrazio chiunque abbia seguito/letto questa piccola storia ♡

 

A presto,
Marti

 

Ps se volete rimanere aggiornati sulle mie “pazzie”, seguitemi su instagram

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