Il lato oscuro della luna.

di coopercroft
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo : La luna ***
Capitolo 2: *** L'ice man ***
Capitolo 3: *** Il segreto di Alicia Smallwood ***
Capitolo 4: *** Gabryel ***



Capitolo 1
*** Prologo : La luna ***


Il piccolo giardino di Pall Mall era illuminato dalla luna piena e questa rispendeva creando un gioco di ombre nel vecchio roseto.

Mycroft, gli occhi puntati sul quel pianeta distante, si lasciava accarezzare dall'aria della notte e si perdeva in quel chiarore abbagliante.

La parte raggiante della luna lo ammagliava, ma sapeva che dietro c'era un'oscurità che ne era parte e che cancellava tanta bellezza.

La luna era un po' come lui, quello che le persone percepivano e quello che era in realtà.

Infilò la mano sotto al posino della camicia bianca, affondò le unghie nella carne, attenuò il dolore che gli attanagliava il corpo e la mente, sanguinò e macchiò la stoffa candida.

Strinse la mascella e sospirò; la parte oscura del suo essere aveva preso il sopravvento e non riusciva più a tornare alla luce.

La luna lo osservava impietosa, ricordandogli tutti gli errori che aveva fatto fino ad allora:

aveva manipolato le persone che amava, le aveva trattate con arroganza e Sherlock, lo scopo della sua vita, non aveva più bisogno di lui.

Socchiuse gli occhi, respirò profondamente e rientrò in casa consapevole che non aveva niente per cui continuare a vivere.


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Capitolo 2
*** L'ice man ***


Dicembre era sempre stato un mese difficile per Mycroft, c'era l'incombenza del Natale a cui non poteva sottrarsi. 

Per i suoi genitori era una consuetudine passare la giornata tutti insieme, ma questo Natale era diverso visto quello che era successo sei mesi prima a Sherrinford.

Violet, sua madre non gli aveva perdonato del tutto la bugia sulla morte presunta e la conseguente prigionia della sorella Eurus in quell'isola maledetta.

Anche Sherlock, benché lo avesse appoggiato, era ancora combattuto se assolverlo per quello che gli aveva taciuto su Victor, il suo compagno d'infanzia.

Eurus era sua sorella, ma era un'assassina, quello che sua madre si ostinava a non voler ammettere.

Ma alla fine il Natale era sacro e avevano messo da parte le dispute per stare di nuovo insieme, Violet spinta da un istinto materno altalenante, aveva voluto che ci fosse.

La giornata era stata eterna ed era stato bravo a evitare le occhiate di Sherlock che era l'unico che aveva intuito che in lui qualcosa non andasse. Mycroft in quei mesi era cambiato ed era difficile nasconderlo con le doti che disponeva suo fratello.

Sì, perché quel tarlo che gli rodeva dentro dopo Sherrinford era un meccanismo perfetto che lo rendeva ogni giorno più debole.

Suo fratello non gli aveva chiesto nulla, avevano parlato di pochi e inutili argomenti,  ma Sherlock lo aveva osservato con attenzione e lui aveva recitato la sua parte come meglio poteva.

Alla fine era ritornato a casa sfinito. Non aveva parlato nemmeno con Anthea, accampando un mal di testa in arrivo.

Nei giorni seguenti Sherlock lo aveva chiamato un paio di volte per il capodanno, ma lui aveva declinato qualsiasi offerta affermando che era sua consuetudine rimanere da solo e che lo sapeva da sempre che non amava  la confusione dei festeggiamenti.

Era stato bravo e alla fine suo fratello smise di chiamarlo.

Stare in perfetta solitudine la notte del 31 Dicembre davanti al camino acceso a leggere e a riflettere, lo avrebbe in parte rigenerato, ma sapeva che quello strano benessere sarebbe durato poco.

La mattina del primo gennaio si era svegliato presto con la voglia di fare due passi, in modo anonimo, senza avvertire la sicurezza. Infrangeva le regole, ma si vestì e si preparò per uscire ugualmente.

Era un periodo in cui era distratto, ma sapeva il perché, ed era bravo a tacere anche a sé stesso la sua inquietudine.

Chiuse la porta di casa, si tirò su il bavero del cappotto e in compagnia del suo amato ombrello si avviò verso la city. La strada era lunga ma si sentiva in forze, camminò a passo spedito. Era presto e la gente smaltiva i postumi del capodanno, niente di meglio che vedere la città silenziosa e deserta.

Evitò un paio di telecamere e in breve fu lungo il Tamigi, rabbrividì per il freddo e si strinse nella sciarpa di lana.

Non era attrezzato per uscire a piedi, specie d'inverno, il lavoro che faceva non necessitava di capi pesanti, e poi era sempre accompagnato dall'auto

Il fiume era placido, si fermò sulla sponda a guardare quel fluire silenzioso.

Chissà come era morire annegato, certo non era nel suo stile: il corpo gonfio d'acqua, irriconoscibile e putrefatto! No, se avesse deciso avrebbe dovuto ricorrere alla sua arma, quella che portava nel manico del suo ombrello.

Accarezzò l'elsa come se fosse una garanzia che poteva finirla quando e dove voleva.

Bang.

Un solo colpo e il dolore sarebbe cessato e con esso tutti i rimpianti per gli errori che aveva fatto.

Ed erano tanti, la sua arroganza lo aveva spinto a decidere delle vite degli altri, e aveva allontanato tutti.

Soprattutto Sherlock che era stato il suo unico scopo di vita, ma ora c'era John Watson il suo friends.

"È un affare di famiglia." Aveva sussurrato a suo fratello quel giorno a Baker Street alla presenza di John, quando lo aveva spinto a rivelargli di Eurus.

"È per questo che resta." Gli aveva gridato Sherlock.  Mycroft  sentì il fastidio di un verità scomoda: non contava più nulla e il suo compito era finito.

Sospirò fissando l'acqua, e strinse più forte il suo ombrello. La sua dipartita non sarebbe stata una grande perdita, non aveva seminato amicizie di alcun genere. Si sorprese a ridacchiare sentendo dentro la testa  l'epiteto della signora Hudson.

"Fuori qui, sei un rettile." La donna anziana glielo aveva gridato furiosa quando John aveva trovato il cd di Mary a Baker street con il suo testamento, e lei aveva cacciato tutti i suoi collaboratori, lui compreso.

Marta Hudson era una diretta e lui non le era mai stato simpatico.

Un brivido lo percorse, ansimò per il freddo pungente, riprese a camminare, ancora pochi passi di libertà, Anthea sarebbe arrivata da lì a poco.

Non era semplicemente un funzionario governativo con un piccolo incarico, era molto di più ed era pericoloso che fosse da solo, ma un proiettile in fronte lo avrebbe dispensato da molti altri problemi.

Si fermò a guardare il volo dei gabbiani, formavano strani cerchi intrecciati, tessevano una tela come quella di sua sorella Eurus, che li aveva quasi uccisi tutti. Sentiva il sangue della moglie e del direttore di Sherrinford che gli imbrattavano le mani, perché era stato lui con la sua stupidità a favorire la vendetta di Eurus.

Si era lasciato andare alla compassione fraterna regalandole un violino e poi quei cinque minuti senza controllo con  Moriarty, e aveva commesso un errore madornale che adesso pagava moralmente e fisicamente. 

Il cuore gli batté forte.

I gabbiani si tuffarono a prendere un piccolo pesce e se lo contesero strillando.

Lui e John Watson era stati come quel pesce, contesi nella scelta di vivere o morire, quando Eurus impose a suo fratello di scegliere tra amicizia e famiglia in quell'assurdo gioco di morte.

Mycroft  sapeva che la famiglia di Sherlock era John e Rosie,  lo spinse consapevolmente a sceglierlo. Lui non aveva nessuna aspettativa di vita, nessuno che potesse piangerlo.

Si massaggiò le tempie, le mani infreddolite.

Se solo Sherlock gli avesse sparato! Non sarebbe stato lì a pensare a come farla finita, a trovare un modo rapido e poco doloroso, perché era quel pensiero che lo attanaglia da mesi e che lo stava distruggendo.

Uno stridio di freni annunciò l'arrivo della sua auto,  si voltò con lentezza, accarezzando l'elsa del suo prezioso ombrello.

Anthea scese perplessa. "Capo, avresti dovuto avvisare, lo sai che si attivano tutte le procedure di sicurezza."

Mycroft si sforzò di sorridere, non era nemmeno tanto arrabbiata.

"Mi sono preso un pausa, niente di che." Rispose con una falsa sicurezza, lei lo osservò, non era stupida e lo conosceva, stava valutando se stesse bene.

"La prossima volta mandami un messaggio." Armeggiò sul cellulare, probabilmente toglieva lo stato di allerta.

Era una donna preparata ed efficiente, lui sapeva di potersi fidare, Anthea alzò gli occhi.

"Mycroft il primo ministro aspetta i dipendenti alla White Hall per il saluti di rito per l'anno nuovo, te lo ricordavi?"

Lui sorrise per la sua cura.

"Sì certo, portami a casa a cambiarmi, indosso qualcosa di adeguato." La sua voce era incolore, come sempre del resto, niente doveva tradire la sua voglia di urlare che voleva starsene da solo, che era stanco di fingere di stare bene.

E invece annuì e salì in auto, riprese la sua solita efficienza.

Tutti lo conoscevano per l'uomo della Governance, l'Ice man dagli oscuri poteri,

e lui, beh, sapeva recitare bene la sua parte.


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Capitolo 3
*** Il segreto di Alicia Smallwood ***


 

Mycroft aveva indossato un vestito gessato blu scuro, una camicia bianca con una cravatta un tono più chiaro con piccoli disegni floreali.

Anthea lo aveva aspettato paziente e quando era sceso aveva approvato il suo look adeguato. Si era tranquillizzata per la sua scappatella mattutina vedendo che teneva al suo aspetto, se avesse percepito un cambiamento nelle sue solite abitudini avrebbe fatto troppe domande,  Mycroft non voleva sapesse nulla del tormento che lo agitava da un po' di tempo.

“Approvato Anthea?” Gli chiese per distoglierla dai suoi dubbi.

“Approvato Sir.” Lo aiutò a indossare il crombie scuro sorridendo e aggiustandogli la sciarpa azzurra.  Partirono per la White Hall a bordo del Bmw nero, Albert era un autista attento e fidato.

 Qualche accenno sul tempo, fu l’unica conversazione che tennero.

Arrivarono alla sede in perfetto orario, Mycroft era anestetizzato, non pensava a nulla, pronto per sostenere il suo ruolo.  Anthea lo seguiva con il Blackberry in mano  gettandogli una occhiata di tanto in tanto.

L’edificio adiacente a White Hall era sfarzoso, nell’ingresso Mycroft si liberò del cappotto depositandolo nel guardaroba, osservò un quadro raffigurante la famiglia reale inglese, emblema del cuore della governance a cui aveva sacrificato tutta la vita.

Si aggiustò la giacca e si incamminò verso la sala delle riunioni.  Era affollata di impiegati di alto livello e dirigenti dell’ Mi6, salutò brevemente i presenti mentre Anthea si defilò.

Iniziò ad avvertire il solito mal di testa da stress, soffiò aria indispettito.  Si accomodò per ascoltare il discorso del primo ministro senza alcun entusiasmo.

Insomma la solita routine che conosceva bene, si rassegnò ad affrontare la noiosa mattina del primo di Gennaio.

“Ciao, Mycroft.” La voce familiare e il profumo di Alicia Smallwood gli giunsero dal dietro, si voltò a guardarla.

Il suo bel volto che in gioventù lo aveva attratto, era devastato dalla malattia.

“Come stai Alicia? Prego siedi vicino a me.”

Lei sorrise dolcemente, era sempre stata elegante e misurata nei modi,  la mano di Alicia tremò quando la  posò sulla sua che era abbandonata al bracciolo della sedia.  Si accomodò senza guardarlo.

Mycroft trasalì a quel contatto, e lei se ne accorse. Fu allora che girò il volto verso di lui.

“Ti faccio questo effetto nonostante sia passata solo una settimana, caro Myc?” Lui strinse le labbra, non rispose e abbassò la testa, vederla in quelle condizioni era troppo e aumentava la sua emicrania.

Era brava a capire quello che passava nella sua testa. “Non è colpa tua, Myc. Ma ora sentiamo tutte le promesse del nostro datore di lavoro, poi vorrei parlarti.” Mycroft annuì, tenne la sua mano ferma, percepì la sua malattia attraverso la sua pelle sottile, Alicia non aveva più molto tempo ormai.

Il suo cuore rallentò, era lui che doveva morire, non quelli a cui voleva bene. La sorte era cieca e malvagia, uccideva le persone sbagliate.

“Va tutto bene Myc,” Gli sussurrò , stringendogli la mano.

Mycroft cercò di  ascoltare ma presto la sua  attenzione svanì. Sentirla vicina gli piaceva, e poi lei sapeva.

Alicia, nel brindisi di Natale, quando lui le aveva allungato il calice di vino, aveva scoperto parte del polso e lei aveva visto i piccoli i graffi arrossati sotto il polsino della candida camicia.

Lo aveva guardato socchiudendo gli occhi e aveva capito. Lui aveva bevuto un lungo sorso di vino senza dire nulla.

Doveva smettere di torturarsi le braccia o presto se ne sarebbero accorti tutti.

Il discorso fu lungo e noioso, Alicia tossì un paio di volte, Mycroft le porse una mentina, lei l’aveva ricambiato con un sorriso riconoscente.

Alicia non sarebbe più tornata al lavoro, aveva anticipato la pensione, la malattia avanzava troppo in fretta e aveva deciso di passare gli ultimi giorni nella casa in Scozia, dove era nata, in compagnia delle due figlie.

Il marito Henry era morto un anno prima.

Mycroft aveva accettato la sua decisione, senza chiederle di restare.

Un altro pezzo della sua vita che se ne andava.

Holmes strinse la mascella, afferrò il suo polso con troppa foga, sfregando la manica della camicia.

Alicia si voltò a guardarlo, lo fermò afferrandogli la mano e trattenendolo. Lo redarguì con gli occhi.

Mycroft, non si era accorto di quello che stava facendo si fermò di colpo, mentre il polsino si sporcò di sangue, uno dei tagli si era riaperto. Tiro la manica della giacca per nasconderlo.

Fece un respiro profondo e cercò di calmarsi, sapeva farlo se si impegnava.

Alicia ascoltava, applaudì alla fine del discorso, si scusò con lui e andò a salutare i suoi ex colleghi.

Mycroft la aspettò dritto in piedi vicino alla porta della sala, lei alla fine gli fece cenno di seguirlo.

Entrarono in un vecchio ufficio in disuso. Accese la luce che illuminò una vecchia scrivania e piccolo divano. Alicia lo invitò a sedersi.

Titubò sorpreso per quel suo fare misterioso.

“Che devi dirmi Alicia? Ci siamo già congedati pochi giorni fa.” Le disse sedendosi al suo fianco, lui non amava troppo gli addii.

Lei le toccò il ginocchio. “Quello che devo dirti non ti piacerà.” 

Mycroft aggrottò le sopracciglia, le loro gambe si sfioravano, mentre il mal di testa aumentò.

Alicia gli perse la mano. “Mycroft, per molti anni  siamo stati molto vicini, ci conosciamo bene perché abbiamo collaborato insieme.”

Lui sospirò, si ricordava di come erano stati spesso in sintonia su certe decisioni al limite della legalità.  Avevano sopportato dei casi che li aveva stremati ma resi complici. La sua amica continuò il suo discorso.

“La mia malattia avanza e in parte è stata la causa di una scoperta che potrebbe non piacerti.”

Lui la osservò con attenzione, aveva la sensazione di qualcosa di spiacevole.

Gli sfiorò la mano che teneva stretta al ginocchio.

“Quando mi dovetti sottoporre al trapianto del midollo, tu ti offristi, ma non eri totalmente compatibile, così cercai tra i donatori che avessero le tue caratteristiche.  Avviai un data base per cercare le compatibilità esistenti.”

Lui la fermò, alzando la mano.  “Che stai per dirmi?” Alicia sorrise era sempre stato così veloce nel vedere oltre le parole.

“Beh, mio caro amico, alla fine trovai un soggetto compatibile che mi allungò la vita, questo già lo sai.”

Alicia sorrise vedendo la faccia corrucciata di Mycroft.

“E quindi?”   chiese esasperato non riuscendo a trovare una risposta.

 “In quella ricerca  trovai un giovane che aveva tutte le tue caratteristiche, era praticamente la tua copia e quella di Sherlock, si discostava solo in alcuni punti per la madre. Feci delle ricerche per essere sicura ed ebbi la conferma che era un Holmes, un fratello, anzi un fratellastro con il Dna in comune di Sieger Holmes. Tuo padre.”

Mycroft scattò in piedi, era confuso, prese a camminare avanti e indietro, le mani affondate nelle tasche di calzoni, elaborava informazioni e azioni accadute nel passato.

“Un fratello così giovane! Ma come è possibile.”  Si girò a guardarla. “Mio padre…è stato lui che ha tradito…”

“Credo di sì, ma questo non riguarda più me, dovrai gestire tu la cosa e decidere cosa fare.”

Mycroft crollò nuovamente sul divano.

Infierì sul polso senza accorgersi di quello che faceva, Alicia gli calmò le mani.

“Perché me lo dici adesso che te stai andando.” Sentì la voce della rabbia dentro do sé.

“Ho aspettato ed ero indecisa se dirtelo, infondo la vostra famiglia stava bene così.”

Lei le appoggiò la mano sulla sua schiena.

“Ma mi accorsi che eri in difficoltà  Myc, cercavo il  momento giusto ma eri preso da Eurus e dopo il disastro di Sherrinford non sai stato più lo stesso. lo vedevo da come ti comportavi, soffrivi e poi ho visto i segni sui polsi. Ti ho intravisto fissare l’arma che porti sempre con te in quel maledetto ombrello e ho capito cosa volevi fare.”

Lui nascose il volto fra le mani, sussultò. Alicia non cessò di accarezzarlo.

“Ti conosco da tempo e capisco quello che stai passando dopo Sherrinford.” Alicia sospirò. “Io non posso aiutarti, perché il mio tempo è breve, ma ti offro un motivo per vivere, o per lasciare tutto e finirla.”

Fu garbata mentre gli accarezzava la schiena, Holmes si scoprì il volto, gli occhi lucidi. “Prova a vivere Mycroft, trova tuo fratello, quel ragazzo forse ha bisogno di te.”

Prese una busta dalla borsa e gliela mise in mano. “Questo è tutto quello che so.”

Si alzò e gli bacio la fronte. “Mycroft, non so se sia un bene o un male, ma non voglio lasciarti senza una speranza. Hai la vita davanti, non lasciarti andare.”

Alzò il volto a fissarla per imprimerla nella sua mente, era l’ultima volta che la vedeva. Non sapeva gestire quel carico di emozioni e si spaventò.

 “Alicia non so se sarò in grado di essere ancora un buon fratello, con gli altri due ho già ampiamente fallito…e sto male da tempo.”

“Lo so, è mio ultimo regalo Myc, non sprecare la tua vita. Le cose non vanno sempre come vogliamo.  Addio mio Ice man.”

Non alzò lo guardo mentre se ne andava, il dolore nella testa si fece intenso.

Erano stati così vicini durante tutti quegli anni, forse si era innamorato ma non aveva mai avuto la forza di dirglielo, nemmeno adesso che se ne stava andando.

Rimase a fissare la busta che gli tremava nella mano.  

Alicia gli aveva lasciato  una eredità pesante.

Non la aprì la infilò nella tasca interna della giacca, certo sapere di avere un altro fratello era l’ultima cosa che si aspettava.

Se alzò prese il suo ombrello, spense la luce e uscì.

 

 

 

 

 

 

 

  

 

 

 

 

 

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Capitolo 4
*** Gabryel ***


Anthea lo aveva aspettato nell’ingresso, c’era una certa preoccupazione sul volto della giovane donna quando lo vide arrivare, Mycroft si era attardato a riprendere fiato dopo le rivelazioni di Alicia, ed era stato l’ultimo a uscire.

Era irritato e nervoso, non aveva sollevato la testa mentre le passava accanto, le fece solamente un cenno con la mano.

Non avere nessuna libertà di azione e sapere che ogni sua mossa era seguita, lo rendevano scontroso e instabile.

Anthea non aveva colpa, questa era la vita che si era scelto e lei svolgeva semplicemente il suo lavoro. Una volta ne sarebbe stato orgoglioso, ma ora sentiva il bisogno di un po' di tranquillità.

 Fuori c’era un tiepido sole, inusuale per quel primo gennaio.  Lei lo seguì senza dire nulla, gli aprì lo sportello dell’auto e aspettò ordini.

Mycroft  si fermò, titubante, Pall mall non era eccessivamente lontana e aveva voglia di riflettere.

“Anthea, se non è un problema vorrei tornare a casa a piedi e da solo.” La osservò preparandosi alla sua sorpresa.

Lei lasciò il cellulare, abbandonò le mani lungo i fianchi mosse la testa castana, impensierita.

“Qualcosa non va capo?” Chiese scrutandolo con attenzione, lo aveva visto parlare con Alicia e sapeva quanto erano affezionati.

Lui ridacchiò vedendo il suo bel volto oscurarsi. “No, è festa e voglio prendermi una pausa. Credi che possa farlo con le giuste precauzioni?” Alzò le sopracciglia e rimase candidamente in attesa, le mani appoggiate all’auto.

“Penso di sì, ma non cambiare direzione. Sai le difficoltà che abbiamo per la tua sicurezza.”

Lui annuì, prese il suo ombrello e si avviò silenzioso, si girò e alzò la mano per salutarla.

“Buon anno Anthea, grazie.”  Probabilmente aveva già le telecamere di mezza Londra puntate addosso.

Assaporò quella poca libertà che gli concedevano e camminò senza forzare il passo.

Certo la sua segretaria avrebbe rimuginato un bel po', però ne aveva bisogno, era piacevole sentire l’umidità della tarda mattinata che gli pizzicava il viso, presto sarebbe scesa la nebbia, ma aveva ancora tempo.

Qualche famiglia passeggiava con i figli al seguito, i piccoli guardavano le luminarie scintillanti, trascinando per le braccia i loro papà distratti.

Uno dolore immotivato gli prese lo stomaco. Come sarebbe stata la sua vita se avesse avuto una famiglia? Si era occupato costantemente di Sherlock, quel fratello irrequieto che spesso si infilava in un sacco di guai e che faticava a sopportare le sue attenzioni.

 O Sherlock! Quante volte lo aveva perdonato, capito, assolto per quello che gli aveva combinava,  mettendo in pericolo anche la sua di vita. A volte aveva dovuto scendere a patti con Governance per lui.

Il suo senso di colpa non si era mai spento per averlo abbandonato quando era andato con lo zio Rudy a Londra.

E anche Sherlock non glielo aveva perdonato.

Ora viveva con John e Rosie, la sua famiglia strampalata, Mycroft sapeva che suo fratello amava segretamente John Watson e sperava che un giorno lui lo ricambiasse. Ma non era gay, e John lo aveva sottolineato più volte.

Eppure c’era qualcosa nello sguardo del buon dottore che lasciva intravvedere un certo interesse per Sherlock e c’era sempre la possibilità che fosse bisex. Ridacchiò come una vecchia comare che tesseva la tela per coronare un amore non corrisposto.

Nel rapporto con Sherlock aveva avuto le sue colpe, non poteva negarlo, e adesso sapere che c’era un altro fratello … barcollò e appoggiò le mani sul muricciolo  che delimitava il parco di White Hall.  C’erano dei bambini che giocavano con un pallone e gli mancò il respiro.

“Tutto bene signore?” Una voce lo interpellò con apprensione. 

“Sì, certo, stavo solo riprendendo fiato.” Guardò con un sorriso rassicurante il policeman, lo ringraziò con un cenno del capo e si rimise in subito in cammino prima che si precipitassero a prelevarlo allarmati.

Chissà perché lo prendevano per un vecchio! Aveva solo 42 anni, anche se  dopo Sherrinford era cambiato e non in meglio.  

Camminò ondeggiando il  suo fidato ombrello. Era quasi a casa, si portò la mano sulla tasca interna e prese la lettera. C’era una panchina libera che costeggiava la riva del Tamigi, la raggiunse e si sedette.

Fissò la carta beige, Alicia usava le buste tutte di quel colore. Si tolse i guanti, li appoggiò alla panchina e aprì la lettera. Il primo foglio, era un certificato del DNA del ragazzo comparato con quello della famiglia Holmes. Come membro della Governance tutti i suoi parenti erano schedati e Alicia non voleva lasciare dubbi. Lesse il resto con il cuore in gola.

 

“Gabryel Alexander  nato il 25 maggio del 2002, di anni venti. Caratteristiche fisiche:

Capelli castano scuro, occhi grigi, altezza 1,75.

Una cicatrice sopra l’orecchio destro sotto l’attaccatura dei capelli. Una frattura al piede sinistro che gli causa talvolta una leggera zoppia.

Figlio di Margaret Achard, da lei ha preso il cognome, il padre risulta ignoto.

Diplomato alla Turing school of mathematics technology.  Vive a Londra nell’appartamento ereditato dalla madre.

 Attualmente non lavora è seguito dagli assistenti sociali.

Arrestato per uso di droga nel 2020, recidivo nel 2021. Ricoverato per overdose al san Bart.

Sotto sorveglianza per hackeraggio di siti di interesse finanziario.

Recidivo per abuso alcool, uso di stupefacenti e per danni al patrimonio.

 

Mycroft si passò la mano sulla fronte, e soffiò aria a pieni polmoni.  

L’unica cosa buona era che aveva la stessa mente matematica del padre. Per il resto c’era da lavorare parecchio.

 Sherlock, non l’avrebbe presa bene, e Sieger suo padre, ancora meno, si chiese se sapesse di aver avuto un figlio.

Gran bella eredità gli aveva lasciato Alicia! Se quel ragazzo era la sua via di salvezza, era meglio prendesse l’arma nel manico del suo ombrello e si sparasse lì, senza pensarci troppo.

Rimise il foglio nella busta.

Cosa doveva fare adesso che sapeva dell’esistenza di Gabryel, nelle condizioni in cui si trovava? Il suo pensiero di farla finita era quasi costante, e sapere di avere un fratello che era in condizioni peggiori delle sue lo sconvolse.

Piantò le unghie sotto la manica e calmò il dolore dell’anima con il dolore fisico, finché sanguinò e si fermò solo quando il sangue che gli imbrattava le dita della mano.

Si asciugò con il fazzoletto, come sempre si ripromise di non farlo più, ma i buoni propositi  duravano poco e poi ricominciava.

Riprese a camminare con l’emicrania che riprese a tormentarlo,  tornò a casa, aprì la porta consapevole di avere un problema in più: Gabryel.

La partenza di lady Smallwood era un'altra incognita da affrontare,  lei l’aveva aiutato trattenendo a Sherrinford sua sorella anche dopo gli omicidi che aveva commesso. Ma ora chi l’aveva sostituita non era più disposto a mantenerla rinchiusa, visto che non poteva sfruttare  la sua immensa intelligenza.  

Eurus “era andata oltre”, non dava segni di presenza attiva. Era come morta, immobile con gli occhi fissi, inutile per l’Mi6.

Era un tormento accompagnare Sherlock e i suoi genitori una volta al mese per sentirla suonare.

Odiava quel giorno, e odiava vedere sua madre adorante, mentre lui rivedeva il sangue che aveva versato, e lo vedeva ovunque.

Eurus era stata la causa di tutto, desiderava che morisse e questo lo tormentava… perché era sua sorella.

Come avrebbero reagito tutti loro nel sapere che non poteva più tenerla a Sherrinford? Era stato ridimensionato e aveva dovuto ripulire tutti i danni che aveva causato.

Si era dissanguato finanziariamente e aveva dovuto accettare qualche intervento sul campo, “il lavoro di gambe” che tanto odiava.

Arrivò a casa, affaticato.

 Avvisò la sicurezza che era al sicuro, salì al piano di sopra a medicarsi le ferite. Si tolse la giacca e la camicia,  i polsini erano sporchi di sangue, la buttò dentro un sacchetto nero per liberarsene, non voleva insospettire la signora Green che si occupava della casa. Meglio evitare spiegazioni per quelle macchie.

Prese la cassetta di primo soccorso,  si sedette allo scrittoio sotto la finestra della camera. L’avambraccio destro era segnato da profondi sfregi rossi, un paio sanguinavano.

Disinfettò con cura, strinse la mascella per bruciore che avvertiva. Non riusciva a mettere fine a quella tortura che si imponeva, doveva smetterla.

Non ci riusciva e tornava a ferirsi con più forza quando avvertiva il tormento dentro alla testa che lo martellava e gli rendeva la giornata buia e dolorosa.

La sua più grande paura era farsi scoprire, far vedere la sua debolezza.

 Mise un paio di cerotti, e guardò il braccio sinistro che era in via di guarigione, sceglieva con attenzione ora in ora l’altro per non destare sospetti.

Era bravo a mascherare l’angoscia che lo divorava. Ripose la cassetta e si cambiò la camicia, prese il sacco nero e lo portò nel bidone all’esterno.

Rimase sulla porta di casa, gli occhi chiusi a godersi un po' di calore del pallido sole. Rientrò appagato e passò il resto della giornata in perfetta solitudine.

 

 

 

 

 

 

 

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