Something in common - Qualcosa in comune

di Martin Eden
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Legolas ***
Capitolo 2: *** Aragorn ***
Capitolo 3: *** Legolas ***
Capitolo 4: *** Aragorn ***
Capitolo 5: *** Legolas ***
Capitolo 6: *** Aragorn ***
Capitolo 7: *** Legolas ***
Capitolo 8: *** Thranduil ***
Capitolo 9: *** Aragorn ***
Capitolo 10: *** Legolas ***
Capitolo 11: *** Aragorn ***
Capitolo 12: *** Legolas ***
Capitolo 13: *** Aragorn ***
Capitolo 14: *** Legolas ***
Capitolo 15: *** Aragorn ***
Capitolo 16: *** Thranduil ***
Capitolo 17: *** Legolas ***
Capitolo 18: *** Aragorn ***
Capitolo 19: *** Legolas ***
Capitolo 20: *** Aragorn ***
Capitolo 21: *** Legolas ***
Capitolo 22: *** Thranduil ***
Capitolo 23: *** Aragorn ***
Capitolo 24: *** Legolas ***
Capitolo 25: *** Aragorn ***
Capitolo 26: *** Legolas ***
Capitolo 27: *** Aragorn ***
Capitolo 28: *** Legolas ***
Capitolo 29: *** Aragorn ***
Capitolo 30: *** Legolas ***
Capitolo 31: *** Thranduil ***
Capitolo 32: *** Aragorn ***
Capitolo 33: *** Legolas ***
Capitolo 34: *** Aragorn ***
Capitolo 35: *** Legolas ***
Capitolo 36: *** Thranduil ***
Capitolo 37: *** Legolas ***
Capitolo 38: *** Thranduil ***
Capitolo 39: *** Aragorn ***
Capitolo 40: *** Legolas ***
Capitolo 41: *** Thranduil ***
Capitolo 42: *** Legolas ***
Capitolo 43: *** Thranduil ***



Capitolo 1
*** Legolas ***


Legolas


 

Avevo camminato così tanto che qualsiasi altra creatura sulla faccia di quella terra desolata e dimenticata dai Valar non avrebbe più sentito i propri piedi. Io invece sentivo ancora ogni tendine, ogni nervo e ogni muscolo contrarsi nello sforzo di andare avanti.

Avevo camminato per parecchi giorni e parecchie notti, stanco della battaglia, finché la mia mente si era ribellata a quella sorta di marcia verso l’autodistruzione e aveva dato ordine al corpo di fermarsi, tutto in un colpo. Mi ricordo di aver incespicato e di essere improvvisamente caduto a terra, cosa che non mi capitava dai tempi che furono, quando ero solo un bambino e per ovvie ragioni non ero ancora pienamente padrone del mio corpo.

A faccia in giù nell’erba, bagnato dalla rugiada, mi parve di risvegliarmi da un incubo.

Avevo camminato per dimenticare.

Il clangore della guerra mi sfolgorava ancora nella mente, ma ora era come se fosse un’eco lontana: lentamente, mi lasciava solo nel silenzio.

In quel silenzio rivedevo le trecce rosse di Tauriel e il suo corpo che fendeva l’aria, leggiadro come una libellula, mentre combatteva e sviscerava orchi non meno abilmente di me. Sognavo a occhi aperti le sue labbra strette e il suo sguardo indagatore, come se non fossero passati giorni da quando l’avevo lasciata al suo dolore.

Un dolore che non mi apparteneva.

Le sue lacrime erano di proprietà di Kili, il nano di cui si era innamorata, nonostante tutti, a corte, ci fossimo trovati profondamente delusi e contrariati di fronte a quella scelta.

Io più di chiunque altro.

L’avevo difesa al meglio, in ogni occasione, dimenticando contemporaneamente di salvare me stesso da quel torbido sentimento che aleggiava fra di noi.

Ero stato addestrato alla guerra, ma non all’amore.

Mio padre mi aveva insegnato tutto. E’ stato un grande esempio per me: di coraggio, compassione, indipendenza, capacità di farsi valere, di esprimere le proprie opinioni e anche di legami profondi, di quelli che non si raccontano ma si costruiscono giorno per giorno, finché diventano parte di te.

Ma non mi aveva preparato abbastanza alle sconfitte, anzi. Spesso ci azzuffavamo, ma lasciava volentieri che fossi io ad avere la meglio su di lui. Mi dava filo da torcere, senza mai esagerare. E’ stato un degno avversario, e più crescevo con lui, più me ne ero reso conto.

Così mi aveva protetto da molte sofferenze, ma volente o nolente mi aveva anche tenuto segregato in un mondo di carte magiche.

La realtà al di fuori della corte era molto diversa. Mi aveva avvertito.

Quando ero ancora molto giovane, un giorno mi portò in una stanza del palazzo che mi risultava nuova. Era chiusa da una piccola chiave che lui custodiva segretamente nelle pieghe del mantello, sempre con sé ovunque andasse.

In un primo momento non avevo capito perché ci eravamo recati lì. Non mi aveva spiegato niente. Quel giorno a colazione mi aveva guardato per un attimo dritto negli occhi e qualcosa era scattato; non so esattamente cosa, ma ci eravamo parlati in una lingua sconosciuta, che solo lui aveva capito.

Poi siamo saliti in quella stanza, in silenzio. Una volta aperte le porte, mi ero accorto che, contro ogni mia aspettativa, era inondata di luce. I raggi del sole, entrati da chissà dove, rimbalzavano su un paio di specchi sapientemente posizionati, e il riverbero del giorno spaziava con naturalezza sulle pareti riccamente decorate con quadri e arazzi.

Li avevo osservati per un momento: erano scene di una battaglia, anche se non avrei saputo dire quale. Il mio sguardo aveva subito incontrato quello di una creatura raffigurata a cavallo di un cervo, con il corpo di un elfo e un elmo che mi sembrò di conoscere. L’avevo visto raramente, ma di certo era stato in capo a mio padre.

Allora capii.

Quell’immagine rappresentava il mio defunto nonno Oropher.

Proprio in quell’istante, mentre ero ancora distratto, mio padre spalancò di colpo due ante di un armadio in fondo alla stanza. Il rumore risuonò così forte da farmi spaventare, e istintivamente mi misi in posizione di attacco, sfrecciando con lo sguardo verso l’origine del frastuono.

Trovai gli occhi di mio padre a fissarmi. Quasi rideva.

Poi si voltò e si chinò a prendere qualcosa che stava nell’armadio, senza dirmi una parola.

Faticosamente, mi rilassai, mentre lui si ergeva di nuovo in tutta la sua alta statura e pian piano veniva verso di me. Tra le sue mani c’era qualcosa avvolto in una pelle di daino.

Dal modo solenne che aveva nel camminare, capivo che doveva trattarsi di una cosa veramente importante. Già tremavo un po’. Mi feci forza: forse ero maturato abbastanza per essere considerato un cavaliere, o un esploratore, o qualsiasi cosa avesse desiderato mio padre il re.

Mi sentivo nervoso e eccitato allo stesso tempo. Ero piccolo di fronte a lui, piccolo e all’apparenza gracile, ma dentro la mia fibra era scolpita nella pietra e non vedevo l’ora di dimostrarglielo.

Quando fu di fronte a me si fermò per un momento e mi guardò abbastanza freddamente. Mi accorgevo che tentava di non darlo a vedere, ma quella sorta di cerimonia sembrava fargli un certo effetto. La solennità che metteva in ogni atto me ne suggeriva l’importanza, e sapevo in cuor mio che da quei gesti non si poteva tornare indietro. Probabilmente anche lui la pensava così.

Lentamente, sciolse la pelle di daino. Rimasi abbagliato: fra le sue mani giacevano i pugnali della nostra regale famiglia, bellissime, intarsiate di fino e lucidate per l’occasione. Solo a guardarle avresti potuto tagliarti gli occhi. Erano un manufatto elfico di cui tanto avevo sentito raccontare, ma mio padre non si era mai preoccupato di mostrarmele.

Fino ad ora.

Ero rimasto a bocca aperta:

- Prendili.- aveva detto re Thranduil – Fanne la tua forza.-

Tremante di emozione, allungai una mano verso l’elsa. Provai a sollevarla, ma mi accorsi che erano più pesanti del previsto; mio padre se ne accorse, ma si sforzò di non farmelo notare.

Feci leva sui miei polsi sottili e alzai un pugnale di fronte a me: il sole brillava sulla sua superficie acuminata e liscia, di una perfezione così pericolosa da far male. Passai un dito sul filo, cercando di stare attento.

Averli nelle mie mani mi ubriacava di un nuovo potere, completamente sconosciuto, mai provato prima. Non c’era paragone con le altre armi che fino a quel momento avevo usato: queste erano di una forgia nettamente superiore e ricche di storia. Erano le stesse degli arazzi, le stesse che avevo sempre sognato di tenere in mano, un giorno.

Quel giorno era arrivato.

- Ora sono tuoi, figlio.- continuò mio padre, mentre afferravo anche l’altro pugnale e provavo a tenerli in mano – Ora sei un guerriero.-

Non ci potevo credere. Io con i pugnali di mio padre, di cui potevo disporre come volevo, con i quali avrei potuto allenarmi e diventare più abile. Erano miei, miei!

Non stavo più nella pelle.

- Mi insegnerai a usarli?- mi ricordo di avere chiesto.

Mio padre aveva sospirato in modo strano:

- Se lo vorrai...- aveva accondisceso.

Sapevo cosa stava pensando. Erano secoli che stavano là dentro, anche se costantemente resi utili a una possibile battaglia. Il suo primo luogotenente mi aveva confidato che stavano dentro l’armadio dalla guerra in Angmar, l’ultima che il mio popolo avesse combattuto. Là dove era morta mia madre.

Nessuno aveva più avuto il piacere di vederli roteare nell’aria, meno che mai nelle mani del re, da allora.

- Sta’ attento, Legolas.- mi aveva avvertito il soldato – La bellezza di quei pugnali è traditrice.-

Era passato un anno e quelle parole mi ritornavano alla mente, riecheggiavano nella stanza.

- Sta’ attento, Legolas – mi aveva avvisato poi mio padre – Questo metallo è macchiato del sangue appartenuto al Bene e al Male: sta a te decidere quale versare, ora.-

Ero rimasto piuttosto interdetto:

- Io combatterò sempre per il Bene, padre.- avevo replicato con convinzione.

Re Thranduil non si era fatto intimorire dalla mia grinta:

- Spero che tu possa sempre essere in grado di riconoscere l’impronta dell’uno e l’ombra dell’altro, senza mai sbagliarti.- sospirò.

Mi sentivo preso in giro da quel tono che quasi mi derideva:

- Sono qui per questo, no?- insistetti.

Mio padre alzò la testa. Guardava oltre me, oltre i muri, verso un luogo dove, sapevo, non lo potevo raggiungere. Capitava spesso. Me ne dispiacque: ero così stanco di sentirmi escluso dai suoi pensieri!

Alla mia smorfia imbronciata, il re parve tornare per un attimo in sé:

- Sta’ attento, Legolas.- ripetè – Il Bene e il Male si assomigliano più di quanto tu creda. Sono come due facce della stessa goccia d’acqua. E ti affogano allo stesso modo.-

Allora non avevo capito perché mi aveva parlato così. Ma ora, ora che ero fermo disteso nell’erba, con la mente ottenebrata dai più tristi ripensamenti, nonostante al tempo stesso ce ne fossero altrettanti positivi, mi sentivo affogare, come lui mi diceva.

Le immagini di quello che avevo passato si rincorrevano senza sosta nella mia mente. Il Male che sopraggiungeva a Bosco Atro, l’incontro con i Nani, la battaglia contro Smaug, la liberazione di Pontelagolungo, le spade che stridevano, la polvere che mi entrava nei polmoni e quasi mi soffocava, la paura di non farcela; poi la gioia di poter brandire ancora una volta i miei amati pugnali...e infine, Tauriel.

Il suo ricordo era quello che faceva più male. Lei rappresentava il mio sentimento più grande, la delusione più cocente. Da quando era arrivata a palazzo, ormai quasi un’era fa, eravamo stati quasi sempre insieme, gomito a gomito, con tutto ciò che ne può derivare: screzi, litigi, ma anche risate, giochi, avventure. Era la sorella che mia madre non aveva potuto partorire.

Ma ora mi accorgevo che per me Tauriel significava molto di più di tutto questo.

L’ho capito quando, puntando una freccia contro mio padre, aveva ribaltato completamente il mio mondo. Il suo atteggiamento così insolente e ribelle aveva acceso una nuova fiamma in me, contro ogni previsione. Se prima si era trattato di una scintilla, in quel momento sono diventato fuoco.

Senza neanche pensarci mi sono ritrovato al suo fianco contro il mio stesso genitore, che mi guardava con estremo rammarico. Ho sputato parole credo irripetibili, e solo per Tauriel.

Se ci ripensavo, mi venivano i brividi.

Eppure, lei se n’era andata. Non nel corpo, non nella realtà, ma nell’animo. Io l’ho sentito. Qualcosa fra di noi si era ormai incrinato, e forse ero stato stupido io a non riprenderlo in tempo.

O forse, semplicemente, ero stato più legato io a lei di quanto non lo fosse stata lei a me.

Ma c’era ben altro.

Era stato un periodo molto confuso e pieno di ogni cosa. La vicinanza a Tauriel non solo aveva significato erigere una barriera invalicabile tra me e mio padre, ma aveva risvegliato in me anche pensieri che credevo assopiti. Pensavo di poterli controllare, invece alla migliore occasione quelli erano usciti dalla mia bocca come un fiume in piena e adesso vorticavano con più forza nella mia testa.

Fra questi, c’era anche l’immagine di mio padre che soffriva per una pena che mai ero riuscito a identificare appieno.

Le sue ultime parole

Tua madre ti amava. Più di ogni altra cosa. Più della vita.

non avevano fatto altro che gettare olio bollente su di me. Ora avevo una sete implacabile di sapere, di sondare il mio passato: un passato di cui non mi sentivo pienamente padrone, ma era la ragione per cui ero venuto al mondo.

Era la mia vita ed era la mia cura contro il baratro che sentivo a un soffio da me, con il rischio di finirci dentro ogni notte.

Avvertivo sempre più impellente il bisogno di avvicinarmi ai luoghi selvaggi e martoriati di Fornost, il luogo dove tutto era iniziato, o dove tutto era finito. Cercare qualche indizio, capire chi fossimo stati veramente come famiglia e quale fosse l’altra metà del mio cielo.

L’occasione era nata spontanea dopo l'ultima battaglia.

Forse vedendomi così perso, in pessimo stato, mio padre mi aveva chiesto di andare a nord, immediatamente. Non mi aveva parlato di Angmar, ma nemmeno me l'aveva proibito. Angmar era il mio nord e anche il nord del Mondo.

Non dovevo poi dimenticare il Dunadan, un tale noto come Grampasso. Mio padre sembrava particolarmente interessato a lui. Anche questo fantomatico personaggio stava a nord, a quanto pareva. Prendevo più piccioni con un’unica freccia. Era il mio momento.

Non avrei mai avuto un’altra opportunità per dimostrare a mio padre, e a me, quanto fosse alto il mio valore.

Non so cosa mi aspettassi di trovare. Erano passati migliaia di anni, chissà che cosa poteva essere rimasto di mia madre e dei miei fratelli: ormai neanche l’ombra. Ma era lo stesso. Bastava il benchè minimo segno, la benchè minima sensazione. Mi sarei accontentato.

Ma il silenzio, questo no.

Non potevo più accettarlo.

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Capitolo 2
*** Aragorn ***


Aragorn

 

La bruma scura di quelle terre mi salutò con un alito di vento che trasportava con sé l’odore di una giornata nuova. Quelle erano praterie ostili a qualsiasi creatura avesse il coraggio di metterci piede, ma dell’aria potevi sempre fidarti: portava novità e ti ricordava che ancora per un giorno eri stato capace di rimanere vivo per riempirtene i polmoni.

Avevo marciato per diverse lune. Un controllo come tanti ne facevo, solo reso urgente dal fatto che c’erano stati recenti e alquanto sospetti rivoltamenti al Sud del mondo. Avevo udito parlare di una certa battaglia, dove squadroni di Elfi, uomini e Nani si erano scontrati con le forze del Male, e ne erano usciti vincitori. Il drago Smaug era finalmente morto, e una parte di Terra-di-Mezzo pareva aver ritrovato la quiete dopo la tempesta.

Non avevo avuto il tempo di scoprire più dettagli. Il mio pensiero era subito corso al Nord, dove Fornost, capitale del vecchio regno di Angmar, dormiva da tempo sonni troppo leggeri.

Io e gli altri Raminghi avevamo notato strani movimenti molti mesi prima delle ultime notizie. La terra aveva preso a brulicare improvvisamente di orchi, spuntati da chissà dove, raccolti in schiere che attraversavano il territorio in lungo e in largo. Apparentemente senza un capo, senza uno scopo e senza una direzione precisa, macinavano leghe e distruggevano tutto ciò che incontravano nelle brughiere, forse nell’attesa di ricevere un segno.

Il non sapere di quale segno si trattava, e soprattutto da parte di chi, mi aveva ottenebrato il cuore di un’inquietudine difficile da domare.

Eravamo pochi guardiani sparsi lungo i confini del Nord con il Beleriand: impossibile anche solo cercare di pianificare un’offensiva valida contro quegli esseri. Avevamo bisogno dell’aiuto di altri Uomini, ma le missive e i rinforzi arrivavano con ritardo e nelle proporzioni dovute a ogni piccolo avamposto che si rispetti. A volte venivano inviati giovani imberbi e ancora lontani dal pensiero delle armi, e molto tempo era perso a spiegare che cosa ci si aspettava da loro e a insegnarglielo.

Tuttavia, l’organizzazione dei miei guerrieri procedeva spedita come mi aspettavo. In fondo, eravamo ancora in attesa di ulteriori chiarificazioni in merito a quella marmaglia che si spostava a macchia d’olio sul continente.

Da un paio di giorni ne tenevo d’occhio una. Erano poche decine di orchetti, armati con lame di fortuna – come avevano fatto a forgiarle in così poco tempo? Con quali strumenti? Sotto la guida di chi? Non erano certo bestie note per il loro brillante intelletto. Li seguivo di soppiatto dalle colline e più li osservavo, più mi convincevo che doveva esserci un piano più articolato, dietro tutto questo. Ma non conoscevo ancora il volto di chi tramava alle nostre spalle.

Chiunque avesse invocato le progenie di Melkor doveva essere molto potente. Conoscevo la storia elfica. Lo Stregone di Angmar era stato imprigionato dalla forte magia dei Valar secoli or sono, fatto sparire nel profondo della terra, avvolto in catene invincibili. Solo una magia altrettanto potente avrebbe potuto permettergli di tornare a galla, anche solo in parte.

Tutto ciò non era di mio gusto. Avvertivo nell’animo un certo subbuglio e non sapevo come proteggermi senza mostrarmi debole. Avevo a che fare con qualcosa di molto più grande di me, di tutti noi Dunedàin: molto più grande di qualsiasi esercito potessi immaginarmi sulla Terra-di-Mezzo. Come poter rimanere impassibili di fronte a una tale certezza?

Ma mi rifiutavo di vacillare. Pancia a terra, continuavo pedissequamente nei miei inseguimenti e nelle mie esplorazioni, sperando di raccogliere qualche indizio utile. Gli elementi da me raccolti, insieme a quelli dei miei uomini, mi avrebbero aiutato a tracciare un quadro più completo della situazione e a prendere decisioni più sagge.

La responsabilità che era stata di mio padre e di tutti i miei avi, sangue del sangue dell’antica stirpe dei Nùmenor, mi pesava addosso come un macigno. Sapevo che prima o poi sarebbe successo. La vita mi metteva a dura prova ancora una volta, per permettermi di mettere a frutto le mie capacità.

Difficile esser solo, in quei momenti. Fornost era come una signora silenziosa e composta, che mi fissava da lontano con quell’espressione cupa.
Stava a nord-ovest, là dove calava il sole. Una rocca ormai distrutta e alquanto sinistra, specie durante la notte. I raggi della luna non erano mai riusciti a specchiarsi sulle bianche pietre, al contrario, queste parevano assorbirla, nere come la pece, nere come un destino avverso.

Era evidente che in quei luoghi indugiava ancora la morte, sotto diverse forme. Avevo potuto constatarlo di persona quando mi ero recato in meditazione nelle terre dei miei antenati.

Avevo attraversato quelle terre in ogni direzione, ma nessun viaggio mi era rimasto altrettanto impresso. Quella volta, avevo superato le colline e mi ero diretto esattamente verso la rocca, deciso a sorpassarla in un giorno e una notte di cammino, per continuare lungo la mia rotta verso nord-est, dove mi avevano detto si trovavano le tombe dei miei padri.

Man mano che mi avvicinavo, una sensazione di pesante tristezza mi invadeva il più profondo del cuore e delle gambe, come se il terreno fosse diventato d’un tratto più vischioso e mi trattenesse, invece che lasciarmi andare. Erano stati giorni senza sole e notti senza stelle, come quasi sempre in Angmar. A quel tempo non c’erano ancora orchi a rincorrersi lungo le lande desolate ma altre presenze animavano quei luoghi, ne ero sicuro.

Non le sapevo riconoscere, non credo nemmeno di averle mai intraviste. Ma le ho sognate, ogni ora buia che passavo sveglio, a tormentarmi per non aver percorso sufficiente strada. Le avvertivo a un soffio da me, leggere come brezza estiva ma in pieno inverno. Erano una nota stonata nel quadro apparentemente perfetto ed immobile di Fornost. Le uniche presenze che impropriamente avrei definito “vive”.

Eppure, si erano rivelate incredibilmente utili nella mia missione. Nonostante l’addestramento, infatti, avevo temuto di non dimostrarmi all’altezza di un compito del genere: ero giovane, allora, e non ancora del tutto maturo. Il mio viaggio serviva a questo. A rendermi forte abbastanza per affrontare il resto dei miei anni da solo; per poter governare la vita di altri uomini, senza tradirli e senza farli soffrire inutilmente, per un capriccio della mia inesperienza. Mi aspettava un’ardua impresa.

Non era vera e propria paura, la mia; piuttosto, quasi una rabbia preventiva al pensiero di non poter farcela a portare a compimento quello che gli altri si aspettavano da me.

In quell’angolo di mondo, dove il confronto con altri esseri viventi era raro quando non ostile, la solitudine sembrava l’alternativa più preziosa e indolore. Anche io l’apprezzavo, specie in quel momento di passaggio che mi rendeva tanto nervoso.

Ma non a Fornost.

A Fornost, era il silenzio ad ucciderti.

Era nell’aria che respiravi lì. Non saprei descrivere meglio come. Questione di abitudine, immagino. Quando ero più giovane, mi sentivo come strangolato. L’ambiente sembrava quieto, ma in verità era denso di malignità, come se creature tenebrose dovessero d’un momento all’altro saltare fuori e prenderti. Alla rocca le orme di Melkor erano ancora tangibili e scottavano come fuoco ardente sotto i miei piedi, che non vedevano l’ora di togliersi di impaccio.

E poi c’erano quelle presenze. Se tendevi l’orecchio, potevi sentirle cantare e lamentarsi. Erano un popolo di dimenticati, i cui corpi erano stati falciati via dal tempo e dall’incuria, senza degna sepoltura. Loro non potevano sapere che i vivi li veneravano ancora nelle loro case, lontane miglia e miglia da lì.

La Battaglia di Fornost ad Angmar era stata una delle peggiori mai vissute dalle razze, se non la peggiore. Non c’era stato tempo per piangere, per salvare un elmo, un pezzetto della corazza lucida. Non potevo pensarci. Ma ci pensavo, assillato e assediato com’ero da quei fantasmi.

Non so come feci quella notte a non impazzire.

Con i primi fulgori del giorno, me ne andai di fretta. Sotto i raggi clementi dell’alba, anche la terra mi pareva lieve. Mi ricordo che ancora sudavo sotto la cotta di maglia, come preso dai più tremendi tremori di febbre.

Considero quella notte come la prova più dura che io abbia mai superato.

Man mano che mi allontanavo, si era allentata anche la tensione nei muscoli e nella testa. Fu un vero sollievo.

Ero ancora vivo.

Avevo marciato per due giorni, senza voltarmi indietro. Il sole tramontava rosso sulle mie spalle e sul mio viso segnato dall’insonnia, ma non volli fermarmi. Conoscevo il mio destino e conoscevo anche la mia cocciutaggine: non mi avrebbe permesso di attardarmi ulteriormente.

Finalmente, arrivai alle montagne del confine nord di Angmar.

Cominciai a cercare.

Non sapevo esattamente cosa. Non sapevo cosa stavo attendendo: una strada, un’indicazione, per quanto malconcia, era già chiedere troppo? Un simbolo di pietra, una scheggia di un’arma che mi ricordasse in un qualche modo i miei avi?

Cercai nei dintorni per tutto il giorno, ma non trovai niente.

Piuttosto deluso, mi accampai nelle vicinanze per la notte. Smangiucchiai qualcosa, anche se non avevo molta fame, poi mi avvicinai al fuoco. Mi coprii con una coperta e mi sdraiai per terra, con la schiena rivolta alla pietra e il viso verso la luna avvolta da una nuvola.

In quel momento, lo vidi. Un viso. Non so bene di chi fosse, ma si era materializzato contro il cielo scuro, brillando di un argento strano, tremolante.

Mi alzai di scatto, una mano sulla spada.

L’apparizione danzò pigramente nell’aria, per niente spaventata. Sembrava mi guardasse, o ridesse di me, non so. Forse mi conosceva, ma io non riuscivo proprio a identificarla. Ero piuttosto agitato, per quanto mi sforzassi di reagire razionalmente.

La osservai mentre lentamente si muoveva in una direzione, dritta in mezzo alle rocce. Sembrava molto sicura di dove stesse andando, anche se io vedevo solo uno sbarramento, un muro invalicabile.
La seguii con circospezione, la spada sempre alzata. La intravidi mentre si avvicinava sempre di più a un punto. Per un attimo sembrò esitare, mentre tentennava un po’ a mezz’aria. Ma quando mi avvicinai, riprese a seguire le venature di roccia verso la mia destra.
Immaginai che mi stesse aspettando.

Giungemmo insieme a un anfratto. Era molto stretto, molto basso, ma indovinai che lì doveva esserci un passaggio. Mi sentii in un attimo più tranquillo, nonostante non sapessi ancora dove mi avrebbe condotto. Speravo, nella direzione giusta.

Rinfoderai la spada. La strana figura fece come un giro su se stessa, per un secondo ebbi l’impressione che mi guardasse; poi, si dissolse nell’aria. Non un suono, non un gesto o un sorriso. Aveva compiuto il suo dovere.

Guardai il cielo e rivolsi una preghiera per questo sconosciuto. Spero sia arrivata fino a lui.

Mi infilai nell’anfratto, cercando di incastrare il mio corpo magro attraverso la fenditura: era veramente molto stretta, dovetti quasi strisciare per giungere dall’altra parte.

Dopo un tunnel che mi parve infinito, mi ritrovai di nuovo all’aria aperta, in mezzo alle montagne. Per me fu un vero colpo.

Ero di fronte a una radura straordinariamente erbosa, rotonda, circondata e solcata da speroni di roccia. Quelli al centro, però, non erano semplici pezzi di pietra, notai aguzzando la vista nel chiarore della luna: erano statue.

Ne rimasi abbagliato. Avvicinandomi, coglievo ogni particolare venatura e finalmente riconoscevo dei volti, una piega delle labbra, nei capelli. Qui la forma di un elmo; là la forma di un corno. Era uno spettacolo bellissimo e imponente.

Li riconobbi. Erano i miei padri, così come me li avevano descritti re Elrond e i miei fratelli elfi Elladan e Elrohir. Gli antichi re di Nùmenor, re della mia stirpe, dalle barbe lunghe e il corpo glorioso: Uomini che avevano dato la vita per il Mondo senza chiedere nulla in cambio, prima e dopo la Battaglia di Angmar. Ora mi parlavano.

Non sentii alcuna paura, mentre attraversavo quel mausoleo e mi portavo al centro, dove si trovava un vecchio altare. Poggiai le mani sulla fresca pietra, mi inginocchiai e vi appoggiai la fronte in una nuova preghiera.

Ero a casa.

Ricordando quel momento, non potevo sentirmi altro che bene, più forte e sicuro di me di quanto non fossi mai stato. Quella missione era stata l’inizio della mia storia di uomo adulto, e anche di erede al trono. Quando mi trovavo in difficoltà, sapevo che avrei potuto contare sui miei avi, sulle loro promesse e sulla loro saggezza, che mi erano state infuse quella notte in quella radura.

Ora, tornato sulla terra di Melkor, attingevo a quel pozzo di conoscenza solo quando lo ritenevo strettamente necessario, ma era confortante sentirsi protetto da una tale virtù.

Mi acquattai nell’erba, coprendomi con il mantello.

Riprendevo l’inseguimento degli orchi.

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Capitolo 3
*** Legolas ***


Legolas

 

Con i giorni, mi ero ripreso un poco. Un paio di notti di riposo, e mi sembrava di essere tornato come nuovo. Un po’ di stanchezza era ancora annidata nelle gambe, ma stoicamente pensavo di poterla gestire.

Dopo tanto cammino ero arrivato ai confini con il defunto regno di Angmar.

Me n’ero accorto subito. L’aria era cambiata, si era fatta più pesante e ovattata, come se attraversassi un’invisibile barriera. Nubi dense di pioggia volavano verso nord, dove scorgevo una terra brulla e sconfinata fino alle prime forme delle montagne e, alla mia destra, le forme squadrate della fortezza di Gundabad.

L’ultima volta che avevo visto quelle lucenti lastre di metallo, ero con Tauriel. Era stato un momento di grande intimità, fra di noi, nonché uno degli ultimi che ricordo di aver passato da solo con lei. In quell’occasione le avevo raccontato di mia madre e mi era parso di intravedere un lampo nei suoi occhi, qualcosa di simile alla tenerezza, e solo per me. Ma durò poco. La battaglia ci richiamava dal ventre della nostra coscienza, e già qualcos’altro, forse, richiamava Tauriel all’ordine naturale delle cose.

Cercai di scacciare quel pensiero e mi concentrai sul mio obiettivo.

Ero giunto alla fonte del mio tormento. Il luogo dove morì mia madre, dove mio padre aveva rischiato la vita per il nostro popolo; il luogo al cui cospetto mi sentivo quasi morire anche io. Un posto maledetto da ogni razza, uno scrigno di dolore che mi sembrava di percepire al contatto con ogni sparuto filo d’erba. Un paesaggio che ora aveva forme e colori, per quanto spenti e confusi.

Era come dare un nome alle mie paure. Se da un lato mi sentivo pronto ad affrontarle a testa alta, dall’altro avvertivo la spiacevole sensazione di non poterle vincere così facilmente.

Avevo una direzione: nord, nord e ancora nord, fino ai confini del Beleriand, se fosse stato necessario. Avrei esplorato in lungo e in largo quel luogo dimenticato dai Valar, lo avrei fatto mio prigioniero e avrei sondato tutte le domande che ora affollavano di nuovo la mia mente.

Solo poi avrei potuto cercare serenamente il Dùnadan.

Non avevo altra scelta.

Trassi un sospiro e mi incamminai nuovamente. Un raggio di sole sbucò proprio in quel momento dal cielo e parve salutarmi, indicandomi la via. Lo seguii con lo sguardo fin oltre gli spazi aperti e incontrastati delle Lande del Nord, finché notai la sagoma di una rocca sulla collina, contro i cui muri nessuna luce avrebbe mai potuto riflettersi. Indovinai che doveva trattarsi di Fornost, la capitale del Male.

Non mi sarei lasciato sfuggire l’occasione di farle visita.

Scesi agevolmente dal primo dirupo, con il viso rivolto verso la roccaforte. Mi aspettavano ancora leghe e leghe di marcia in quelle terre ostili, per questo ora correvo con l’arco di mio padre pronto in una mano.

Mi immaginavo come lui l’avesse usato su quel campo di battaglia, uccidendo creature immonde, fino ad uscirne vincitore. Potevano essere solo fuggevoli sogni, visto che non aveva mai voluto condividere con me quell’esperienza. Quello che conoscevo della storia, l’avevo appreso dai miei saggi maestri e dai libri. Pensare a mio padre che combatteva al fianco dei nostri Elfi e di altri valorosi guerrieri di altre epoche in quel territorio impregnato di leggenda mi inebriava di orgoglio e di sgomento.

Come avrei voluto sentirglielo raccontare almeno una volta.

Era paradossale, ma molto più probabilmente sarei stato io a raccontare a lui di come mi ero battuto sul campo di Fornost. Quando fossi tornato alla reggia, avrei dovuto dirglielo, sfidando la sua ira e i suoi occhi aguzzi, per non dire aguzzini.

Non ci volevo pensare, in quel momento. Pensare a re Thranduil mi provocava solo dolore inutile.

Passarono altri giorni di mortale silenzio. Il primo suono che mi investì le orecchie dopo quella pace forzata fu un verso acuto, stridulo, fin troppo conosciuto per qualsiasi guerriero.

Subito trassi i pugnali dal loro fodero: brillavano di un blu fosforescente e molto intenso, come sempre accadeva quando c’erano orchi nelle vicinanze. La magia elfica captava le vibrazioni del Male e mi avvertiva di prepararmi allo scontro.

Li riposi; subito incoccai una freccia nell’arco e mi abbassai. Il grido era venuto da poco più sotto di me, oltre una fitta macchia di cespugli. Non riuscivo a comprendere cosa stava succedendo poco più in là, la via mi era celata.

Mi mossi velocemente, circospetto, in quella direzione. Da dietro le piante, sbirciai.

Un manipolo di orchetti se ne stava selvaggiamente riverso sul terreno, a ridere e a rotolarsi nella terra, grugnendo come maiali.

Provavo ribrezzo di fronte a quel triste spettacolo; mi prudevano le mani al pensiero di vederli ancora vivi.

Pensai che forse un po’ di esercizio fisico mi avrebbe aiutato a distrarmi. Quegli esseri meritavano solo di morire.

Assaporavo già il momento in cui avrei spillato sangue dalle loro teste. Una rabbia antica come la mia stirpe strisciava rapidamente nelle mie viscere e mi inebriava i muscoli già tesi all’odore della guerra. I ricordi della battaglia delle 5 armate erano ancora così vividi in me, che potevo sentire il sapore della polvere in bocca. E una voglia di vita immensa, voglia di vincere.

Nascosto dai cespugli, tesi l’arco e presi la mira. L’orchetto più vicino si pavoneggiava con un compagno riguardo a un oggetto non meglio identificato: muggiva e a gesti indicava che cosa avrebbe voluto farne. Si potesse strozzare!

Decisi di cominciare da lui. Lo puntai e tirai la corda.

Ora iniziava il mio divertimento.

Proprio mentre stavo per scoccare la freccia, però, ne intravvidi un’altra solcare l’aria e infilzarsi dritta nella bocca di un altro orchetto, la cui sagoma era ornata da un elmo e un’armatura malconci: poteva essere il loro capo.

A dire il vero, doveva essere stato il capo. Ormai era caduto a terra, morto stecchito, ancora con la bocca aperta e i denti ben in mostra.

Sorpreso, mi appiattii sotto il cespuglio. Guardai alla mia sinistra, lungo la visuale libera fino a un punto dove notai qualcosa che si muoveva.

Una figura stava accovacciata tra le rocce, pronta a scoccare una nuova freccia, ma senza essere ansiosa. Gli orchi erano in fermento, correvano come pazzi di qua e di là, sotto di noi: andavano a prendere mazze e aste, e altri ordigni rudimentali con cui combattere.

Schiamazzavano perché avevano perso il loro capitano. Difficile ora prenderli di mira, in quella confusione.

Quella figura aveva rovinato il mio prezioso piano.

La vidi muoversi poco più in là e appostarsi dietro un’altra pietra. Incoccò e sparò altre due frecce, che andarono a segno; poi gli orchi cominciarono a salire in massa la collina e a lanciare quelli che sembravano affilatissimi coltelli.

La figura rinfoderò l’arco e sparì in men che non si dica, tempestata inutilmente da tutti quei proiettili. Io me ne stetti acquattato a osservare la scena, incerto se intervenire o meno.

La figura riapparve poco più sotto, con la spada in mano. Nel frattempo, un altro gruppetto di orchi, uscito da chissà dove, si riversava lungo il pendio, diretti al campo: erano molti di più di quanto potessi immaginarmi, almeno tre dozzine, forse attirati dalle urla.

Cominciai a sudare.

Lo sconosciuto si batteva come un leone. Roteava la spada con una certa maestria, ed era molto veloce: molto più veloce di quanto pensassi.

Con tutti quegli orchetti attorno, non riuscivo a vedere bene il suo viso e le insegne sulle sue vesti, semmai ce ne fossero. A giudicare dalla corporatura, poteva essere un mio simile.

Si batteva bene, ma i nemici cominciavano a essere troppi anche per la sua bravura. Lo sentivo gridare dallo sforzo e dalla determinazione con cui sgozzava quelle creature malvagie, ma temevo non avrebbe resistito a lungo. Altri orchetti si erano armati di frecce e stavano tentando di prendere maldestramente la mira.

Decisi che era giunto il momento di far pesare la mia presenza in quello scontro.

Incoccai di nuovo la mia freccia e senza esitare la puntai contro uno dei nemici che lo circondavano. Lo colpii in pieno collo, facendolo stramazzare a terra. Eccitato dall’aver fatto centro, presi altre due frecce e le scoccai, facendo centro.

Fu il parapiglia.

Gli orchetti cominciarono a correre come impazziti in tutte le direzioni. Qualcuno cominciò a roteare armi alla cieca, anche contro i suoi stessi compagni. Altri avanzarono minacciosi verso di me, con diverse pietre in mano. Presero a lanciarle, e fui costretto a spostarmi.

La figura approfittò della baraonda per togliersi di impiccio e abbattere altre bestie. Eppure quelle parevano moltiplicarsi, invece che diminuire. Oppure, erano semplicemente più agguerrite e incattivite dall’odore del sangue, quindi anche se abbattute si rialzavano e ritornavano ad attaccare più violentemente, in un ultimo sforzo prima di spirare.

Corsi giù per il pendio, scoccando frecce, verso il loro campo.

Quando ebbi usato anche l’ultima, seppi che la prima fase del piano si era conclusa. Trassi i miei pugnali baluginanti e iniziai a tranciare corpi e qualsiasi cosa si parasse di fronte a me.

Ritrovai la figura sconosciuta che si dimenava poco più in là. Ormai aveva decimato un’ala del manipolo di orchetti e avanzava in fretta verso il cuore del nemico. Andai a darle manforte.

In pochi balzi le fui accanto. Quasi la toccavo. Mentre stavamo uccidendo quanto più orchetti possibili, la vidi voltarsi e gridare:

- E tu chi sei?!-

Quasi ringhiava dallo stupore e dalla fatica. Dovevo averla sorpresa, ma non necessariamente in positivo.

Ci guardammo per un lunghissimo attimo, che mi parve infinito. Quando vidi il suo viso, il mondo mi crollò addosso.

Non era un elfo, ma un uomo. Un uomo che recava sul viso le cicatrici degli anni e la cattiveria delle battaglie e del tempo nascosta nella barba. Aveva un odore alle mie narici nauseabondo, un odore di morte e di oblio. E uno sguardo da far tremare la terra.

Non ebbi possibilità di pensare a nient’altro. Un sibilo familiare aveva colto impreparate le mie orecchie: una freccia era appena stata scoccata contro il guerriero. Mi gettai su di lui, istintivamente, come se fosse veramente un mio compagno d’armi e io lo dovessi salvare da morte sicura.

Fu un momento di distrazione, forse dato da tutto quel pandemonio, o forse fu una mia disattenzione; o forse, i Valar avevano già deciso tutto per me senza che io lo sapessi.

Avvertii il mantello che si incastrava tra i miei stessi piedi: scivolai, mi mancò il fiato mentre cadevo scompostamente contro lo sconosciuto.

Poi la freccia colpì il bersaglio con precisione micidiale e con un rumore sordo trapassò la mia pelle.

Mugolai per il dolore, accartocciandomi su me stesso come una foglia. Portai la mano al punto ferito, dal quale iniziava a uscire sangue caldo. Il mio sangue.

Era stato tutto così terribile quanto incredibile, considerato che intorno a me scorrazzavano solamente orchetti e questi non sono certo famosi per la destrezza con gli archi. Forse era stato solo un caso, ma quel caso aveva messo fuori gioco me e la mia spalla, in maniera del tutto inaspettata.

Per un attimo il male e lo sbigottimento erano stati sconcertanti. La bocca mi si era spalancata da sola in un urlo muto, mentre la mia mano si era chiusa intorno alla freccia.

Ma non avevo tempo da perdere, se volevo sopravvivere.

Raccolsi il mio coraggio, strinsi le dita intorno al legno e tirai. Con uno strappo secco il mio corpo fu di nuovo libero dal Male, anche se a caro prezzo. Altro dolore si iniettò in me, rapido e profondo.

Gli orchetti mi scavalcavano veloci: forse pensavano fossi già morto. Mi rimisi faticosamente in piedi e afferrai di nuovo i pugnali, tra sguardi attoniti e sibili minacciosi. Non ero abituato a combattere ferito; a dire il vero era successo poche volte nella mia vita. Inoltre, ero ancora giovane e inesperto, allora. Ora, invece, mi consideravo veloce, addestrato, abile; soprattutto, pensavo di essere invincibile. Ma qualcosa si era rotto nella mia invisibile corazza.

Con un urlo, mi rivoltai di nuovo sugli orchetti. Sentii la presenza dell’uomo vicino a me, quasi schiena contro schiena: sembrava stesse bene. Era accaduto tutto così in fretta, prima che la mia mente potesse reagire in maniera razionale, che senza quasi rendermene conto ero già tornato a combattere.

Li aspettavamo che si scagliassero contro di noi, proteggendoci le spalle, poi li colpivamo nei loro punti deboli, una volta scoperti. Una alla volta, le orde si dimezzarono contro le nostre armi, finché sul campo non restarono altro che cadaveri.

Ero al limite delle mie forze. Quando vidi che non restava più neanche un nemico in piedi, piantai un pugnale per terra e mi ci appoggiai sopra, inginocchiandomi. La spalla ferita pulsava e nonostante l’ardore della battaglia, dovevo ammettere che mi dava non poca noia.

Mi concessi solo un secondo per riprendere fiato, poi mi rimisi di nuovo in piedi e tenni sguainata la mia arma.

Mi voltai lentamente, cercando l’uomo.

Anche lui stava cercando il mio sguardo. Mi fissava ritto immobile, anche lui con la spada in posizione di attacco. Era la prima volta che ci osservavamo per qualche istante in più.

Accidenti a me e alla mia frenesia! Mi ritrovavo debole di fronte a un guerriero di tutto rispetto, senza poter decifrare se si trattasse di un amico o un nemico.

Mai avrei voluto mostrarmi in quelle condizioni.

Alzai i pugnali.

Forse c’era un’ultima lotta da affrontare.

Se dovevo morire, volevo morire da eroe.

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Capitolo 4
*** Aragorn ***


Aragorn

 

Era successo tutto così in fretta. Prima li avevo colti di sorpresa, con un colpo dritto in mezzo alla bocca di quello che mi era sembrato il loro capo; poi ne avevo uccisi altri due che mi sembravano suoi diretti sottoposti; infine, era scoppiato il caos.

Mi ero ritrovato a correre giù per la collina con la spada in mano, con decine di orchetti che mi venivano incontro. Pronto alla battaglia, preferivo saperli sottoterra piuttosto che liberi nel Beleriand o nelle Terre Selvagge. Pensavo che avrei fatto presto a decimarli, vista l’assenza di un capitano che impartisse loro un saggio ordine.

Non mi aspettavo di certo che altre bestie sarebbero scese da dietro la collina. In un attimo ero stato circondato, e nonostante la mia foga alcuni colpi mi avevano raggiunto, graffiandomi il viso, le gambe, le braccia. Ogni taglio era per me motivo in più per aumentare la forza dei miei fendenti e mietere vittime.

Eppure, non nego che un pensiero di morte aveva fatto capolino nella mia mente, quando mi ero reso conto di essere troppo solo in mezzo alle belve.

Quella freccia sbucata da chissà dove si era rivelata provvidenziale. Aveva trapassato un orchetto che per poco non mi sarebbe saltato addosso. Non sapevo chi l’avesse scoccata, ma doveva avere una mira prodigiosa, visto che l’aveva beccato proprio in mezzo agli occhi.

Subito mi ero guardato intorno, ma non avevo scorto nessuno. Altre due frecce erano passate sopra la mia testa e avevano abbattuto due nemici alle mie spalle.

Qualcuno mi stava aiutando, forse uno dei miei uomini? Ero convinto di averli impiegati tutti ai confini di nord-est.

Continuai senza preoccuparmene troppo, finché non avvertii una presenza vicino a me. All’inizio era solo un’ombra nella coda dell’occhio: il tempo di voltarmi e mi trovai faccia a faccia con un elfo alto, biondo, vestito di verde, due orecchie a punta e due pugnali ricurvi nelle mani.

Avevo trovato una spiegazione alle frecce lanciate in mio aiuto, ma lo sguardo assetato di sangue del nuovo venuto non mi aveva ispirato particolare fiducia:

- E tu chi sei?!- ringhiai, forse in maniera eccessiva.

Ci guardammo per un lungo attimo, senza che lui mi rispondesse niente. Poi improvvisamente lo vidi gettarsi su di me e di istinto cercai di spostarmi, ma riuscì ugualmente a raggiungermi. Quasi rovinai a terra.

Mi spostai ancora più in là, facendo forza contro il terreno. Pensavo volesse attaccarmi, invece scoprii che non era più accanto a me, quando mi voltai: al suo posto c’era un orchetto dallo sguardo truce e con una mazza ferrata pronta a colpirmi.

Lo trapassai con un pugnale che tenevo nascosto nella manica della veste.

Gridando e sputando, le creature si buttarono ancora su di me. Menavo fendenti in ogni direzione, sembravano non finire mai. Ormai ero anch’io accecato dalla rabbia, non riuscivo più a controllarmi. Li volevo morti, uno ad uno: non me ne sarei andato finché quella compagine non fosse stata sterminata. Una in meno sulla mia immaginaria mappa del nemico.

Poco dopo, ritrovai miracolosamente il mio salvatore. Era tornato in mio soccorso e mi proteggeva le spalle, combattendo schiena contro schiena con me. Se per un attimo quel contatto aveva potuto sembrarmi quasi preoccupante, ora potevo dire di aver cambiato idea.

Era un grande guerriero.

Quando anche l’ultimo orchetto fu decapitato, finalmente ebbi il tempo di riprendere fiato.

Con ancora l’eccitazione in corpo, mi girai di qua e di là, con la spada pronta a mietere altre vittime, anche se in verità non c’era più nessuno.

Sul campo era rimasto in piedi solo l’elfo. Una creatura sconosciuta, uscita da chissà dove, anche lui con una gran voglia di distruggere ogni cosa, evidentemente. Avevo visto la sua furia contro gli orchi e ora mi chiedevo se quella collera potesse essere in un qualche modo deviata su di me. Non potevo certo fidarmi così a cuor leggero. Sarebbe stato troppo pericoloso.

Lo guardai. A giudicare da come teneva ancora i pugnali alzati, non potevo immaginarmi un approccio amichevole.

Lo scrutai negli occhi, senza timore di doverli abbassare di fronte a lui.

Straordinariamente, vi lessi paura, dolore, anche se era lontano da me. Fu allora che notai la sua ferita: sanguinava. Il rosso della vita camminava lungo la manica fino alla mano e colava a terra, lontano da lui, ogni secondo di più.

Probabilmente aveva ricevuto un brutto colpo mentre lottavamo fianco a fianco. Non ricordavo di aver sentito alcun suo lamento, però. Forse ero stato troppo distratto.

In un attimo, i miei timori si sciolsero. Se in un primo momento avevo alzato la spada, pronto a vender cara la pelle, adesso mi rendevo conto che non ce n’era affatto bisogno: anzi, c’erano altre priorità. In fondo, lui era intervenuto per aiutarmi, sarebbe stato alquanto incoerente da parte sua uccidermi ora.

Come sarebbe stato incoerente da parte mia non offrirgli sostegno, dopo che mi aveva salvato la vita.

Abbassai l’arma:

- Hai bisogno di aiuto?- gli chiesi. Quasi gridai, per farmi sentire.

O forse, quel tono di voce così alto era per darmi la forza di rompere il silenzio che ora regnava sovrano.

L’elfo non mi rispose, né si mosse. In quel niente il suo sangue continuava a colare e imbrattargli i vestiti: mi pareva di poterne sentire persino lo sgocciolio. Ciononostante, la posa dell’elfo appariva maldisposta, oserei dire minacciosa.

Pensai che forse non intendesse la mia lingua, così gli ripetei la stessa domanda in elfico, sperando di far breccia nella sua corazza immaginaria.

L’eco delle mie parole risuonò forte. O forse fu solo un’impressione mia. Lo vidi agitarsi; e seppi che aveva capito ogni mia singola parola anche prima.

- Come fai a conoscere l’elfico, tu, uomo?- mi abbaiò contro in Lingua Corrente.

Rimasi zitto. Non era il caso di spiegargli che in verità ero stato cresciuto dagli Elfi e quasi mi sentivo un elfo pure io a volte. Alla morte di mio padre, io e mia madre ci eravamo rifugiati presso Re Elrond di Gran Burrone e la sua corte; lì ero cresciuto, circondato dall’amore di quelle creature, che mi avevano insegnato ogni cosa come veri genitori. Erano stati la mia fortuna ed erano parte integrante della mia famiglia. Ma sarebbe stato complicato spiegarlo a questo sconosciuto. La situazione era troppo delicata.

Un attimo di esitazione mi costò fatale. L’elfo rinfoderò i pugnali in un lampo e corse su per la collina, saltando fulmineo da un masso all’altro, e in un attimo si dileguò nel nulla, lo stesso nulla dal quale era venuto.

Partii all’inseguimento un secondo dopo, ma era già troppo tardi. Calpestai le sue orme fino a dove potei; quando arrivai in cima al crinale, tuttavia, mi accorsi che sotto i miei piedi la terra si era trasformata in ghiaia e una leggera nebbia cominciava a salire dal terreno circostante. L’imbrunire era prossimo, e io sapevo bene che i lineamenti di Fornost cambiavano radicalmente allo spegnersi del sole.

L’elfo si era mosso in maniera piuttosto veloce e attenta. Di lui non c’era più traccia. Provai a guardarmi attorno, in cerca di segni circa il suo passaggio, oppure qualche altro indizio che potesse indirizzarmi in un senso o in un altro. Ma niente. Il paesaggio rimaneva muto e insondabile di fronte ai miei occhi. Forse gli indizi c’erano davvero ed ero io a non riuscire a vederli.

Mi diedi un pugno sulla coscia.

Quelli erano i momenti in cui odiavo essere solo un uomo.

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Capitolo 5
*** Legolas ***


Legolas

 

Da troppo tempo zoppicavo.

All’inizio era solo una macchia confusa di dolore, mescolato all’altro, quello alla spalla, e per questo probabilmente il mio corpo non aveva lanciato alcun segnale allarmante. C’erano state così tante emozioni, così tante cose, nel giro di poche ore, che la mia mente non aveva potuto fare altro che cercare di assorbire il più possibile, senza riuscirci. Ora le emozioni diventavano ricordi, per quanto vividi, non del tutto integri. Si aggiungevano dettagli rimasti dapprima in secondo piano. Come quel dolore. Quel dolore non esisteva nel mio passato. Ma lo avvertivo eccome nel mio presente.

Resistetti ancora un poco. Ormai dovevo aver percorso sufficiente distanza, avrei dovuto essere abbastanza lontano da quell’uomo. Non immaginavo fosse uno di loro: avevo pensato a un elfo, vista la sua alta statura e la destrezza nella spada. In mezzo alla polvere della battaglia, non avevo posto sufficiente attenzione.

Quell’atto di generosità non premeditata mi era costato molto caro.

Finalmente, osai fermarmi. Le gambe cedettero da sole e caddi contro una corteccia, rovinando sull’erba che le mie ferite sporcavano di rosso cremisi. Mi sentii sfinito.

Con estrema fatica mi girai su un fianco, portando la mano sulla coscia. I brividi mi scuotevano e la mente sembrava annebbiata, quasi ragionavo più per inerzia che per forza di volontà.

Avvertivo sotto le dita la solidità di un crampo; o forse era un livido che si stava gonfiando.

Cosa aveva potuto colpirmi? E quando?

Non riuscivo ad essermene accorto.

Provai a muovere la gamba, prima lentamente, poi di scatto. Non si rivelò una brillante idea.

Soffocai un gemito nella terra fresca, mentre il dolore pareva rimbalzare ovunque nel mio corpo, dalla spalla al cuore, dal cuore alle costole, dalle costole agli arti inferiori.

Ero uscito vincitore dalla battaglia?

Non ricordavo.

E l’uomo, dove era andato l’uomo?

Come faceva quell’uomo a conoscere la lingua elfica?! Mi aveva spaventato.

Ero scappato come un vile, o cosciente di non poter fare nulla se non soccombere? Ero riuscito a mettere sufficienti leghe tra me e lui?

Per quanto tempo avevo camminato, saltato, corso?

Ma poi la mia mente si bloccò. Era davvero così importante?

Pensavo alla freccia, a quel rumore sordo quando aveva penetrato i miei vestiti e si era andata a conficcare dritta nella mia pelle, poco sopra al cuore. Per un attimo non avevo sentito alcun male. Poi era scoppiato tutto insieme, e quell’ondata di malvagità era stata tale da lasciarmi senza fiato.

Dovevo aver perso molto sangue, ne avevo i vestiti ormai inzuppati.

Avevo freddo. Ero mortalmente stanco. Mi si chiudevano gli occhi.

Orchi maledetti! Imprecai senza voce. Avrei voluto alzarmi e andarli a riprendere nell’aldilà per decapitarli di nuovo uno ad uno, godendomi la loro faccia mentre si sorprendevano a morire una seconda volta, e più atrocemente.

Ma ora non potevo fare nulla. Avevo ferite profonde e forse qualcosa di più viscido che si muoveva al ritmo del mio sangue, e mi soffocava, mi serrava le vene e i polmoni. Non volevo ammetterlo a me stesso, ma forse stavo morendo e non c’era niente che potessi fare per cambiare questa realtà. Stavo perdendo di vista il mondo, ogni secondo di più.

Prima di affondare in un sonno ubriaco e senza sogni, pensai che probabilmente quella freccia era stata avvelenata, come era d’abitudine per molte armi nemiche. Ed ad un tratto capii.

La prigione sarebbe stato un supplizio più sopportabile.

Ebbi paura, per la prima volta nella mia vita.

 

Non so per quanto tempo rimasi lì sull’erba, in stato di semi-incoscienza, ma quando riaprii a fatica gli occhi, era ormai buio. Era stato il freddo, a risvegliarmi. Qualcosa dentro di me si era ribellato alla morsa pressante della natura e adesso ero di nuovo vigile. Per fortuna mia.

Mi tirai su a fatica, colto dagli spasimi. Mi trascinai verso alcuni cespugli, benchè questi offrissero un ben misero riparo nella notte. Mi buttai letteralmente contro di essi e di nuovo il dolore si fece sentire, sempre più lacerante. Era come un urlo muto che mi graffiava le orecchie e mi faceva diventare pazzo.

Forse lo ero. Il mondo aveva perso i suoi contorni sfumati e quello che vedevo erano solo linee decise e dai colori fin troppo intensi, come se tutto passasse attraverso dei vetri colorati.

Immaginavo fossero i primi effetti del probabile veleno che mi aveva trasmesso la freccia degli orchetti. Magari ero già morto e nemmeno lo sapevo.

Ma un morto poteva provare così tanto dolore?

Mi appoggiai a un sasso che spuntava da terra. Il contatto della pietra contro la mia testa fu esasperante: ne sentivo tutta la ruvidezza e la freddezza, come una lama. Stavo male, ma ero vivo, incredibile a dirsi. Non dovevo sprecare quel dono. Non volevo arrendermi.

Dovevo fare qualcosa, lo dovevo fare per me, dovevo farlo con tutte le energie che mi erano rimaste.

Pensai alla ferita. Mi sforzai di scoprirla e esaminarla.

Era orribile a vedersi: un cerchio palpitante di carne e sangue dai bordi strappati, che emanava un odore a dir poco disgustoso. Distolsi immediatamente lo sguardo, colto dalla nausea. Faticavo a comprendere, a rendermi conto che quello era il mio corpo, quella era la mia carne e che dovevo fare qualcosa per preservarli.

Con il braccio sano mi strappai un lembo della veste e con un gemito di rabbia più che di dolore avvolsi strettamente la spalla piagata, sperando di riuscire a tenermi stretta almeno un po’ di vita. La sentivo fluire via, come il calore, quello vero. Al tempo stesso, però, mi sentivo come se bruciassi vivo da dentro il mio corpo.

Vicino a me c’era una pozzanghera d’acqua e di bruma. Arrancai faticosamente fino a buttarmici dentro, con la faccia, il collo e tutto il mio braccio inerme. Mi sembrò di avere un po’ di sollievo, ma subito vidi l’acqua tingersi di rosso e seppi che era una vittoria fin troppo passeggera.

Quanto sangue avrei avuto ancora in corpo? Non si era ancora esaurito?

Quante ore erano passate, quante me ne sarebbero servite per morire?

Mi scoppiava la testa.

Avevo davanti agli occhi la cima delle colline e una lunga notte dalla quale non sapevo se sarei più uscito. Le brughiere riposavano in un silenzio ovattato tra una fetta di luna, lo sgocciolio regolare degli acquitrini e un odore di fresco, come se fosse già primavera, invece che la soglia dell’inverno.

Poi, un ululato lamentoso squarciò il mio mondo. Proveniva da dietro alberi lontani, o almeno, così mi parve. Era tutto così confuso, assurdo, che non sapevo cosa fare.

L’unica cosa di cui potevo essere sicuro era che dovevo muovermi.

In quel momento, pensai a Tauriel. Mi chiedevo dove fosse, se stesse bene; se l’avrei mai più rivista. Non era facile ricordarla in un momento del genere, ma solo i Valar sanno quanto ho desiderato avere la sua mano posata sulla nuca, anche solo una volta nella vita, per sapere che impronta avesse il suo calore.

Poi tornai alla realtà.

Mi tirai su a fatica. Lì disteso avrei potuto essere facile preda per chiunque, anche per un miserrimo animale notturno. Avrei dovuto trovare un luogo più sicuro e meno scoperto, in attesa che il mio corpo mi suggerisse le possibilità ad esso rimaste.

Mi alzai e mossi qualche passo barcollante. Rischiavo di incespicare a ogni movimento; mi rifiutai di fermarmi. Avrei trovato una soluzione, l’importante era non indugiare troppo a lungo nell’immobilità, per quanto difficile fosse.

Avevo percorso ben poco spazio, quando mi resi conto che non ero più solo.

C’era un altro respiro oltre al mio, in quel lembo di terra dimenticata; c’era almeno un altro essere che divideva con me quell’esistenza malconcia, la stessa volontà di essere lì e di essere vivo.

Era alle mie spalle e io sapevo che mi stava fissando.

Mi voltai lentamente, cercando di trattenere l’ennesimo spasimo che mi squassava.

Erano in due. Due paia di occhi gialli che ora avevano di che guardare e lustrarsi in vista di un’opportunità di sopravvivenza in più. Due brutti musi che annusavano l’aria e l’erba, pregustando già l’odore di una vittoria semplice e di una lauta ricompensa per quella che poteva essere l’unica caccia della giornata. Due rostri di denti affilati che potevo intravedere dardeggiare ogni volta che mi ringhiavano contro.

Quella coppia di lupi neri del Nord stava puntando me.

Probabilmente attratti dal mio sangue, dovevano aver ripreso le mie tracce fino ad arrivare all’origine di quello che sicuramente consideravano un colpo di fortuna; e di certo non erano venuti soli.

Presto potei notare almeno altre tre paia di occhi che mi osservavano nel buio: il branco arrivava a dar manforte al loro capo.

Credere di poter scappare era impensabile. Non mi restava altra scelta che affrontarli.

Sguainai i pugnali, senza abbassare lo sguardo.

Uno dei lupi ringhiò minacciosamente, avanzando di un passo. Subito mi misi in posizione di difesa. Non potevo permettermi una mossa falsa, un’occhiata di traverso, o ero morto.

Improvvisamente, un altro lupo alla mia sinistra tentò di balzarmi addosso. Lo evitai faticosamente, sentendo le sue fauci schioccare nell’aria a un soffio dal mio braccio; approfittai del suo momento di sorpresa per menare un fendente dritto al suo collo, che quasi tranciai in un unico colpo.

Come videro il compagno cadere a terra esanime, le altre bestie cominciarono ad agitarsi e a grugnire. L’odore di sangue fresco inebriava le loro narici frementi e, sapevo, li rendeva ciechi a ogni pericolo, ma anche più letali che mai.

Due di loro partirono all’attacco, abbaiando come cani. Mi saltarono addosso e per me fu impossibile schivarli. Finii a terra.

Scalciai come un ossesso, beccando in pieno lo stomaco dell’uno e il muso dell’altro; aiutandomi con i pugnali, li ferii alle zampe e potei rimettermi in piedi, in tempo per affondare la lama nel collo di uno di loro, mentre l’altro mi azzannava la spalla sana.

Gridai per il dolore, attutito solo dal mantello. Poi gli sferrai un pugno sul naso e quello mollò la presa, stordito. Lo affrontai con cattiveria, lottando contro i miei stessi occhi , che mi tradivano sempre di più; finché riuscii a costringerlo a terra ed affondare un pugnale nel suo torace.

Rotolai di lato mentre esalava gli ultimi uggiolii e mi preparai al prossimo attacco, che non tardò ad arrivare. Un altro lupo mi addentò il mantello e tirò, facendomi di nuovo cadere e saltandomi addosso. Roteai i pugnali per fargli paura, così che non si potesse avvicinare mentre cercavo di ristabilirmi, ma a poco valsero i miei sforzi; bastò un attimo di distrazione e mi si avventò di nuovo contro, trascinandomi per il cappuccio.

Lo ferii, costringendolo a mollarmi. Ma quello ritornò alla carica senza neanche farmi riprendere fiato, e l’unica cosa a me concessa fu coprirmi con la mia arma prima che fosse troppo tardi.

Per fortuna mia, la sua foga lo tradì e puntò dritto su di me senza un secondo di ripensamento, finendo con le fauci attorno al prezioso filo della mia lama. Il freddo metallo gli trapassò agilmente bocca e cervello, facendolo morire in men che non si dica davanti a me.

Con un rantolio raccapricciante, crollò da un lato, trascinandosi dietro il mio pugnale. Ma prima che riuscissi a recuperarlo, l’ultimo lupo mi travolse, senza lasciarmi il tempo di reagire.

Era il più grosso e probabilmente il più feroce di tutti, a giudicare dal latrato che cacciò balzandomi addosso. Non mi aspettavo tutta quella furia e mi ritrovai disarmato, di nuovo incollato al terreno, con l’altro pugnale che intanto era volato lontano a causa dell’impatto.

Evitai per miracolo le sciabolate del lupo, che si andarono a conficcare nel terreno a poche dita dal mio orecchio. Le sue zampe mi pesavano addosso, con tutti gli artigli affondati nella mia pelle, a un passo dal cuore.

Lo tenevo a bada a mani nude, stringendo la sua bocca e cercando di allontanarla dal mio collo, pericolosamente scoperto. La bestia tentava di liberarsi mordendomi e provocandomi, evitando i pugni e ringhiando.

Sbavava dall’irrefrenabile voglia di distruggermi e mangiarmi, per vendicare i compagni e dare un senso a tutti i sacrifici. Avevo i suoi occhi a meno di un braccio dal viso, ed erano occhi rossi di brace, incastonati nel manto cupo come la notte.

Cercai di disarcionarlo ma fu impossibile. Calci e pugni non erano sufficienti a fermarlo. Cercavo di arrivare al pugnale più vicino, lottando ogni centimetro contro quella bestia, ma quella sembrava aver compreso il mio gioco e non mi permetteva neanche di strisciare.

Ce l’aveva quasi fatta, ormai. Non mi restava molto tempo per tentare di sopravvivere. Ero certo che il lupo sapesse delle mie ferite e anche delle mie debolezze; per quello gioiva e insisteva. Intendeva prendermi per sfinimento.

Ma non aveva fatto i conti con la mia testarda voglia di vincere.

Finalmente, riuscii a sorprenderlo sbattendogli rapidamente una pietra contro il muso. Il colpo fu piuttosto forte: sentii gocce di sangue non mio che mi cadevano sul viso mentre il mostro lasciava per un attimo la presa e guaiva per il dolore. Il tempo necessario per allungarmi faticosamente verso un pugnale, afferrare l’elsa e riportarmi verso di lui.

Fu allora che me lo vidi addosso. Il tempo di voltarmi ed era di nuovo su di me, ma stavolta non c’erano le mie mani a fermarlo. Non ero stato abbastanza veloce. Non abbastanza astuto. Non abbastanza forte.

Urlai dalla disperazione, compiendo un ultimo sforzo, veramente l’ultimo, prima che la sua bocca si chiudesse su di me.

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Capitolo 6
*** Aragorn ***


Aragorn

 

Pregai tanto Elbereth di farmi correre più veloce, ma probabilmente non aveva avuto tempo per ascoltare la mia richiesta, quel giorno, perché invece di muovermi più rapidamente mi sembrava di rallentare a ogni passo.

Avevo seguito le impronte dell’elfo per almeno un paio di leghe, dopo tanto tempo perso a cercarle e averle ritrovate quasi per caso, e solo grazie a una sottile scia di sangue che le coronava come gioielli nella terra. Purtroppo, anche questi sottili indizi erano scomparsi di nuovo e all’improvviso, dopo qualche tempo. Non c’era più niente: le brughiere tacevano e forse ridevano del mio ottimismo, in una terra dove la morte è parte della vita quotidiana di ogni creatura, e a volte anche la scelta migliore.

Ormai la notte era scivolata anche su Fornost. Di nuovo, un’altra, l’ennesima.

Mi sentivo così frustrato che avrei ucciso a vista, solo per il gusto di sfogare la mia rabbia.

Ero seriamente preoccupato per la salute di quell’elfo. Per quanto impavido e allenato potesse essere, di certo rimaneva vulnerabile alle armi; inoltre, poteva essere stato ferito da qualcosa di avvelenato, come spesso usava tra gli orchetti. Per un graffio non mi sarei certo scomodato a inseguirlo, ma le sue condizioni mi avevano suggerito che il colpo ricevuto fosse molto di più di una semplice escoriazione.

La mia totale incapacità nel ritrovarlo mi faceva sentire stupido. I sensi non mi aiutavano; la notte, nemmeno.

Poi sentii il verso dei lupi neri.

Conoscevo quel suono. Mi ero imbattuto spesso nei branchi, e anche se non sempre ci eravamo scontrati, avevo imparato ad osservarli e conoscerli da lontano. Avevo imparato ad interpretare il loro linguaggio, per evitarli quando erano affamati e per attirarli quando poteva servire catturarli o ucciderli.

Per questo, credevo di poter indovinare facilmente il significato di quell’ululato.

Avevano trovato una preda.

Subito il mio cuore aveva fatto un balzo. Forse non avevo motivo di temere, ma immaginavo ci fossero poche anime vive nel raggio di parecchie miglia. In più, sapevo che i lupi adoravano l’odore del sangue e potevano averne scovato una traccia: la stessa che stavo cercando io.

Dovevo muovermi in fretta, più in fretta di loro.

Dovevo arrivare prima, o quelle bestie non mi avrebbero lasciato niente da trovare.

Mi mossi nella direzione dalla quale ancora riecheggiava quel latrato terrificante, accelerando quanto più potevo sul sentiero accidentato. Non badai a niente, solo corsi più forte, sperando di aver ancora una possibilità, magari l’ultima, ma pur sempre valida.

Saltai qualche pozzanghera e qualche cespuglio, tendendo l’orecchio, cercando di captare un altro benchè minimo suono che mi guidasse. Ma nulla. Tutto era tornato silenzioso e nemico come prima.
A quel punto intravvidi un’orma. Era poco più di un’ombra sull’erba, ma per fortuna era stato addestrato a riconoscerne ogni profilo, con ogni tempo atmosferico e in qualsiasi condizione del terreno. Un’orma leggera che poteva appartenere solo a un elfo; peccato per una sottile goccia di sangue che sporcava leggermente la brina. Se non ci fosse stato quel leggero manto bianco, sul quale il rosso risaltava in un crudo contrasto, probabilmente non avrei mai saputo che era lui.

Poco più in là, comparvero le prime orme di lupi. Dovevano essere almeno cinque animali, contro un solo elfo, ferito per giunta. Trasalii.

Non c’era tempo da perdere.

 

Oltre un ammasso di alberelli sparuti trovai una risposta alle mie paure.

La piccola radura che si apriva davanti ai miei piedi era disseminata di corpi. Una foschia innaturale avvolgeva quello che immaginavo fosse stato un duro campo di battaglia, ma ciononostante riuscivo ancora a distinguere abbastanza bene le loro forme: erano grandi lupi neri del Nord.

Sguainai lentamente la spada. Quello stridio parve fin troppo forte per tagliare il silenzio all’apparenza immobile. Era forse un eccesso di zelo, il mio: probabilmente quelle creature erano tutte morte, pace all’anima loro.

Mi avvicinai con cautela. Il corpo più prossimo era ormai freddo e nemmeno il sangue scorreva più dalle ferite aperte. Era stato colpito mortalmente alla gola da un fendente profondo, sicuro, letale. Un colpo inferto da vero maestro.

Cominciai a sentirmi su di giri: il fautore di quella strage poteva ancora essere nelle vicinanze? Poteva arrivare un altro branco di lupi affamati, attirato dall’odore delle membra squartate?

Strinsi più forte la mia spada. C’erano troppa nebbia e buio, poche stelle in cielo: rischiavo grosso a indugiare in un luogo così scoperto.

Superai la prima sagoma con il cuore che iniziava a pulsare insistentemente contro la mia gola. Mi costrinsi a controllarlo, mentre cercavo di guardare oltre.

Purtroppo, più guardavo, più mi scontravo contro un muro grigio, e non era una bella sensazione. Mi mossi circospetto, con le orecchie tese, il corpo teso, proteggendomi continuamente le spalle.

Che cosa cercavo? Un indizio? Una traccia? C’era così tanta confusione in quelle poche braccia di terra, che nemmeno un elfo avrebbe potuto decifrare facilmente qualche dettaglio interessante.

Ormai ero passato accanto ad almeno altre tre bestie morte. Ero sempre più convinto che qualsiasi cosa a cui stessero dando la caccia poteva essere solo scappata, lasciandoli lì in balia di altri predatori notturni; oppure, semplicemente, era andata a morire lontano dalle loro fauci.

La mia presenza lì non aveva alcun motivo d’essere.

Nonostante le spiegazioni che mi mulinavano in testa, mi sentivo nervoso, così come era nervoso il mio modo di tenere alta la spada contro il nulla. Avrei dovuto andarmene, cercare rifugio; potevo ritornare l’indomani e esplorare quel luogo alla luce del sole, se proprio ci tenevo.

Non avrei risolto niente, standomene lì impalato, al massimo potevo solo peggiorare la situazione. La mia situazione.

Quell’enigma non valeva tanto quanto la mia vita, in effetti.

Ragionandoci, mi ero convinto che era meglio andarmene, ma proprio prima di girare i tacchi notai un particolare che attirò la mia attenzione.

C’era una carcassa, poco lontano da me. Un altro grosso lupo, riverso a terra, ma...sembrava avere più zampe degli altri.

Strabuzzai gli occhi: era forse possibile? Era forse una progenie del Male, una nuova razza mai vista prima?

A uno sguardo più attento, però, mi resi conto che quelle zampe in più non erano sue. La bestia giaceva sopra a qualcuno, forse un uomo. Allora tutto avrebbe riacquistato un senso.

Mi avvicinai in silenzio, pronto a scattare. Ricordo che i miei passi non facevano quasi rumore sul terreno crocchiante di rugiada. C’era sangue tutt’intorno, mucchi di terra e di erba strappata via. Tanta era l’angoscia, che quasi non mi permetteva di respirare. Più mi portavo vicino al lupo, più mi sembrava di riconoscere un’ombra distesa, imprigionata sotto gli artigli selvaggi della belva.

Finalmente gli fui sopra. Quell’ammasso di pelliccia mi impediva di vedere meglio. Ma io volevo vedere. Quella poteva essere la ragione per cui avevo percorso tutte quelle leghe appeso al filo di una speranza. Poteva esserci ancora bisogno di aiuto, ma dovevo fare in fretta.

Rinfoderai la spada e afferrai con sorprendente decisione la carcassa, cercando di spostarla da un lato.

Era veramente pesantissima. Ne ero sempre più certo: sotto quella feccia c’era qualcuno, e io dovevo saperne di più, avvicinarmi di più, fare qualcosa.

Fin troppo lentamente, rivelai un altro corpo, un viso. Sangue. Gli occhi chiusi. Capelli biondi sparsi sull’erba rossa.

In quel momento, il mio cuore perse un battito. Il respiro mi si mozzò in gola.

Lo riconobbi all’istante.

- Per Elbereth!- mi lasciai sfuggire sottovoce.

Non potevo credere a ciò che vedevo.

Non poteva essere davvero ciò che vedevo.

Con uno sforzo, riuscii finalmente a spostare il corpo del lupo, sbuffando e digrignando i denti. L’animale cadde di lato con un tonfo sordo e un pugnale conficcato profondamente nel suo collo.

Non mi ero sbagliato.

Ma, davvero, non poteva essere.

Non poteva essere lo stesso elfo che mi aveva salvato dagli orchi.

Non poteva essere vivo.

Deglutii faticosamente. La mia naturale diffidenza, che così spesso mi aveva tenuto sulla strada del buon giudizio, faceva energicamente a pugni con l’altruismo che in quel momento sgorgava dal mio cuore. Una parte di me stesso mi chiedeva di assicurarmi che fosse morto come pensavo e di andarmene; l’altra mi ricordava che, se davvero si trattava dello stesso elfo, io ero in debito di vita con lui e non poteva esserci migliore occasione per saldare il conto.

Avrei voluto non dover godere di una simile opportunità di riscatto. La vista di lui così malmesso mi colmava l’animo di tristezza, e non ero nemmeno certo di poterlo trattenere ulteriormente in quel mondo.

Mi inginocchiai accanto a lui. Allungai una mano inerme per sfiorargli la gola e dissipare ogni dubbio. Non feci in tempo a pensare ad altro, a tentare altro.

Un’altra mano saettò nel buio e una presa ancora possente si serrò sul mio polso.

Rimasi impietrito. Non me l’aspettavo per niente! Mi trattenni a fatica dal farmi sfuggire anche un solo fiato. Non era da me vacillare di fronte agli imprevisti, ma in quel momento nulla pareva più riconducibile alla normalità, e così trovavo giustificato il mio comportamento non del tutto coraggioso.

Gli occhi dell’elfo si erano spalancati improvvisamente. Li potevo intravedere attraverso le tenebre incalzanti: le cornee bianche e gli occhi azzurrissimi, così penetranti, era come se brillassero. Eppure, al tempo stesso, erano velati da una profonda sofferenza, offuscati dagli incubi.

- Bado!- sibilò minacciosamente l’elfo.

Vattene.

Mi irrigidii. Le sue parole e il suo tono di voce erano venate di una tale irruenza che mai mi sarei aspettato da una creatura così debilitata. In quel momento sembrava tutt’altro che in pericolo: quegli occhi iniettati di rabbia avrebbero intimorito chiunque.

Ma non me. Io avevo comunque la situazione sotto controllo.

Senza replicare, cercai di liberarmi dalla sua presa, ma risultò alquanto difficile. Le sue dita stringevano spasmodicamente le mie ossa, come se fossero la sua unica ancora di salvezza. Forse lo erano; o forse avrebbe solo voluto spezzarmele, chissà. Non gliel’ho mai chiesto.

Non avevo intenzione di spaventarlo, tutto il contrario, desideravo tranquillizzarlo, conquistare almeno una piccola parte della sua fiducia: lo stretto necessario affinché mi concedesse di tenere la sua vita tra le mie mani di guaritore.

Purtroppo, non sembrava aver nessuna intenzione di lasciarsi avvicinare. La sua aggressività era, probabilmente, proporzionale alla sofferenza che provava.

- Bado! Degion!- ritornò alla carica contro di me.

A quelle parole sputate con forza insieme al sangue, mi sentii stringere il cuore.

Vattene o ti uccido.

C’era una tale voglia di vivere in quel pensiero, che io neanche ci speravo. Mi ero aspettato un essere moribondo, veramente prossimo alla morte, al quale avrei potuto dare conforto negli ultimi istanti. Invece mi trovavo davanti a un guerriero di tutto rispetto, combattivo e pericoloso come se fosse ancora nel pieno delle sue forze.

Allo stesso tempo, però, ebbi l’assoluta certezza che l’elfo non mi stava vedendo: non aveva la più pallida idea di cosa stesse facendo. Era completamente in preda a deliranti sogni. Lo deducevo dalle sue iridi annebbiate, dove il Bene e il Male si erano mischiati così tanto che per lui non era più possibile distinguerli.

Mi resi conto che dovevo al più presto togliermi d’impaccio. Ci trovavamo in un posto scoperto, troppo scoperto in quelle lande desolate e dimenticate dai Valar. C’era bisogno di un posto più sicuro, per tutti e due. Non potevo permettergli di continuare così. Aveva già cercato di evitarmi troppo a lungo.

Avrei trascinato via anche lui, con le buone o con le cattive.

Inspirai profondamente, cercando di farmi forza e di trovare parole giuste che mi permettessero di convincerlo a farsi portare via:

- Dinen...- posi la mano libera su quella serrata dell’elfo. Mi accorsi che, nonostante tutto, tremava.

Calmati.

Non sapevo esattamente perché avesse deciso di rivolgersi a me in Sindarin, ma volli rispettare questa sua volontà. Forse mi aveva scambiato per un suo simile, e in quella circostanza poteva essere un bene.

Il contatto con la mia mano non gli piacque particolarmente. Tentò subito di liberarsi, ma invano. Ogni minimo movimento era dolore allo stato puro. Lo guardai contorcersi e cercare disperatamente aria.

Non mossi un muscolo, con la mia mano ancora appoggiata sulla sua. Dovevo avere pazienza, anche se mi era difficile mentre lo vedevo respirare ormai a singoli singhiozzi. Non avrebbe resistito a lungo.

- Im mellon le.- gli sussurrai piano, sperando che potesse sentirmi.

Sono tuo amico.

A quelle parole, un moto di ribellione parve scuoterlo inspiegabilmente:

- Degion!- tentò ancora di difendersi.

Non mollava la presa e forse furono i Valar che non gli permisero di utilizzare l’altro braccio, altrimenti sarebbe stato peggio per me. Gli lanciai una rapida occhiata e considerai che poteva essere rotto o leso, e che occorreva intervenire al più presto.

Ti uccido!

Invece rimasi zitto, dritto, senza fare mosse false. Non mi sentivo particolarmente intimorito da quelle parole: immaginavo fossero abbandonate al vento.

Le ultime forze dell’elfo stavano ormai scivolando via: anche la presa sul mio polso si era un po’ allentata. Ancora non molto e si sarebbe stancato di resistere, e tutto sarebbe stato più facile. Era stremato.

- Dinen...- ci riprovai.

Calmati.

Ti prego.

Lentamente, liberai la mano dalla sua stretta. Decisamente, era troppo debole per mantenerla ancora.

Aveva dei nervi straordinariamente forti, anche se non me ne stupii più di tanto. Conoscevo gli Elfi, e conoscevo tutte le loro virtù. Ci avevo convissuto per tutta la mia giovane età. Durante gli anni a Gran Burrone avevo imparato ad apprezzarli senza sentirmi inferiore, ad accettare i loro buoni consigli e mi ero abituato ad essere testimone della loro perfezione. Re Elrond e i suoi figli mi avevano insegnato ogni cosa, erano stati come padri per me, che avevo perso il mio vero genitore troppo presto: per questo conoscevo la loro lingua e le loro usanze, e anche i loro segreti. Mi avevano sempre fatto sentire come uno di loro. Mai nemico, mai ospite. Avevo cercato di ripagare le loro aspettative e di dimostrare che mi meritavo la loro piena fiducia. Avevo fatto tesoro della loro esperienza, prima di partire inseguendo la mia.

Perchè con questo elfo avrebbe dovuto essere diverso? Per me era solo un altro Elladan o un altro Elrohir, i miei fratelli maggiori acquisiti, grandi guerrieri e cercatori di tracce; intelligenti e scaltri come faine, ma onesti e sinceri con chi se lo meritava. Loro mi avevano insegnato a combattere con destrezza, a saltare e a rischiare per vincere.

Immaginavo che anche questo elfo sapesse di cosa parlavo. Da quel poco che avevo potuto notare mentre lottavamo fianco a fianco, condividevamo molte più capacità di quanto non sembrasse.

Alto e magro, ma assolutamente in grado di compiere imprese straordinarie, vestito di verde: doveva trattarsi di un Silvano. Non mi era mai capitato di vederne uno con i miei occhi, ma era esattamente come mi avevano raccontato a Gran Burrone: creature figlie della Foresta nel portamento e nel cuore, schivi ma comunque eleganti, forti come cortecce e veloci come animali del sottobosco. Erano legati ad Arda, la terra, da millenni di storia, più di quanto non lo fossero a Valinor, il paradiso degli Dei oltre il mare. Si occupavano del mondo con l’ostinazione di chi cura una piantina dalle caratteristiche difficili: lo facevano con gioia.

Per questo, lasciare che ne morisse uno sarebbe stato come uccidere un pezzo di Terra-di-Mezzo.

Pensando a questo, accompagnai lentamente la mano dell’elfo sul suo petto affannoso, in corrispondenza del cuore. Premetti piano, cercando di infondergli calore, sicurezza.

- Hûn le verkoh dringa.- gli feci notare, parlando nella sua lingua.

Il tuo cuore deve continuare a battere.

Spalancò gli occhi. Mi aveva capito. Mi aveva capito e forse si era aperto un varco tra di noi, un varco che potevo sperare di percorrere insieme a lui.

Indubbiamente era rimasto sconvolto dalla troppa vicinanza, e probabilmente dalle forze che sentiva mancare del tutto. Non credo gli fosse capitato molto spesso.

- Naergon..- si lamentò, dopo aver preso un attimo di fiato.

Era ormai prossimo ad abbassare le palpebre, ma non voleva cedere. Una scintilla di orgoglio gli ordinava di resistere ancora, contro ogni cosa, stoicamente come forse gli avevano insegnato i padri.

Sento dolore.

Lo ammirai molto.

Mi chinai lentamente su di lui. Cercavo di non lasciare trapelare la mia preoccupazione, ma il tempo era una lama sottile che riapriva le sue ferite e le rendeva velocemente insanabili. Dovevo agire, per il suo bene.

- Bronia.- dissi, mentre allungavo una mano verso la sua fronte e finalmente riuscivo a toccarlo.

Resisti.

Per fortuna, non riuscì ad opporsi. Ormai aveva chiuso gli occhi, abbandonato le membra: come se un forte colpo di vento avesse spento la candela della sua vita.

Subito la mia mano era corsa alla sua gola, per verificare che fosse solo svenuto. E infatti.

Un cuore batteva ancora, seppur stancamente, sotto quella pelle diafana.

Tirai un sospiro di sollievo. L’ultimo, ad essere sinceri.

Avevo davanti a me molto lavoro da fare, molte ore insonni da passare, molti giorni da contare e da spendere in sua compagnia.

Per prima cosa, lo avvolsi nel suo mantello. Recuperai i suoi due pugnali dai corpi freddi dei lupi, li rinfoderai e me le assicurai addosso, assieme alla mia spada. Lo stesso feci con il suo arco, perché non andasse perso.

Poi gli infilai un braccio sotto le spalle e l’altro sotto le gambe: non senza sforzo lo sollevai da terra, lontano dall’orrore e dalle insidie, lontano dalla notte nascosta nell’erba. Non era affatto leggero, ma io, nonostante la marcia, mi sentivo ancora pieno di energie e non avevo timore di crollare in tempi brevi. Ora avevo una missione.

Dopo i primi passi incerti, cominciai a procedere più spedito tra massi e asperità, in cerca di un rifugio poco accessibile. Dovevo allontanarmi il più possibile e accendere un fuoco in un luogo sicuro prima che il suo corpo si facesse troppo gelido. La pelliccia del lupo ucciso poteva averlo protetto e tenuto al caldo, anche se non riuscivo a capacitarmi di come avesse potuto sopportarne il peso tutte quelle ore, ma adesso serviva qualcosa di più.

Dopo poco, notai un ammasso di pietre dalla forma familiare, posizionato al limitare alla pianura: doveva essere uno di quei ruderi come tanti se ne vedevano, nei dintorni di Fornost, memore e testimone della guerra e della disperazione durante i giorni di Angmar. La vegetazione si era arrampicata e infittita fino a ricreare un ambiente appartato e protetto, all’ombra dei cui muri avrei anche potuto accendere un fuoco senza timore di essere scorto.

Pensai che non avevo molto tempo a disposizione per cercare altro e mi diressi là. Deposi delicatamente l’elfo per terra, così come la bisaccia e le armi, cercando di fare meno rumore possibile, anche se non sembrava esserci anima viva.

Mi sporsi dal mio improvvisato nascondiglio. Tutt'intorno, leghe e leghe di fumose terre in cui qualsiasi dettaglio noto era da considerarsi un dono più che un caso. Una timida luce di luna era spuntata e bagnava la cruda terra di nuova speranza e mi permetteva tracciare una rapida mappa dei dintorni, così come mi permise di adocchiare della legna asciutta al margine del rudere. Corsi a prenderla e tornai dall'elfo.

Mi accingevo a un'operazione per niente piacevole, ma necessaria.

Scostai con delicatezza i lembi della sua veste strappata. Scoprii diverse morsicature, com’era prevedibile, e un’altra ferita, mal fasciata e soprattutto, infettata. Sicuramente era stata causata da una freccia.

Non doveva aver avuto molto tempo per se stesso.

Trassi dalla bisaccia una fiaschetta di Miruvor, il liquore preferito dagli Elfi, nonché un distillato di altissima gradazione alcolica: era l’unica cosa che mi fosse venuta in mente adatta a tamponare e pulire le ferite.

Mi sistemai con un ginocchio sul petto dell’elfo, in modo da tenerlo fermo. Immaginavo già cosa sarebbe successo, appena versata una goccia di Miruvor sulla carne viva e infiammata.

Il dolore doveva essere stato lancinante, almeno a giudicare da come il suo corpo aveva saltato, seppur incosciente. Gli tappai la bocca con una mano per soffocare un gemito.

Attesi qualche secondo prima di procedere, finché non si fu calmato. Raccolsi le poche bende che avevo conservato nelle mie borse e le intinsi in una ciotola d’acqua. Intanto, mormoravo parole in lingua elfica antica, un po’ per doveri curativi e un po’ per rincuorarmi. Speravo che anche l’elfo potesse sentirle e trarne giovamento.

Lavai con cura le sue ferite, cercando di fare piano, ma lui sobbalzava a ogni tocco. Osservai il segno lasciato dalla freccia: oltre al sangue ormai raggrumato, notai una macchia scura che tracciava un sentiero di morte attorno ai lembi. Probabilmente, si trattava di una punta avvelenata: una forma di guerra piuttosto abietta per far capitolare le vittime senza far troppa fatica, tipica degli orchi.

Pensavo: quell’elfo aveva viaggiato tutte quelle ore con il veleno in corpo e pure si intestardiva a sopravvivere? Generalmente, la pozione faceva il suo effetto in brevissimi tempi, portando a una morte molto tormentata.

La resistenza di quella creatura andava oltre l’inverosimile.

Mentre ancora lo stavo studiando, improvvisamente il suo corpo si inarcò, preso dalle convulsioni. Sussultai, allarmato. Non avevo avuto il tempo di riflettere su come far fronte a una reazione del genere, anche se era prevedibile.

Il veleno degli orchi non risparmiava anima viva.

Pensai velocemente, mentre afferravo le bisacce e frugavo in tutte le tasche, in maniera sempre più spasmodica. Finché lo trovai.

Portavo sempre con me una boccetta di antidoto universale per i casi di emergenza, che andavano dagli avvelenamenti da piante e animali pericolosi a casi più estremi. Era l’unica cosa che mi fosse venuta in mente per evitare il peggio.

La stappai e costrinsi l’elfo a inghiottirne l’intero contenuto senza rovesciarlo, nonostante fosse ormai impossibile trattenere i suoi movimenti inconsulti. Sperai forte, mentre i secondi passavano e la mia ansia saliva, quasi a darmi alla testa.

Lentamente, il suo corpo smise di agitarsi e giacque come morto sotto le mie mani, che corsero tremanti a controllare il battito del cuore.

C’era ancora. Debole, ma c’era.

Sudavo freddo, ormai, e in abbondanza. Mi asciugai la fronte, mentre rimuginavo se saremmo riusciti a passare indenni la notte, se le mie cure avrebbero avuto un senso e se avremmo mai avuto l’opportunità di ringraziarci per esserci salvati a vicenda. Domande che rimanevano senza una risposta.

Trassi della lana dalla bisaccia e un sacchetto dove conservato una miscela di erbe curative essiccate: immaginavo non ne avrei trovate molte a Fornost. Le mescolai all’acqua e le lasciai in infusione, mentre accendevo un piccolo fuoco. Misi a cuocere il tutto, lanciando ogni tanto un’occhiata al ferito.

Applicai la lana direttamente sui suoi tagli, dopo averla intinta nella pozione curativa. Avrebbe aiutato a rimarginarle più in fretta e avrebbe assorbito ogni malanno.

Non avevo altro. Non c’era altro.

Mi occupai del resto del suo corpo: controllai che non avesse ossa rotte e altre ferite gravi, ma così non mi sembrava. Infine, lo avvolsi nel mantello e gli posi la bisaccia sotto la testa, come un cuscino, giacché faceva fatica a respirare.

Poi, finalmente, mi decisi a tirare il fiato.

Cercai di raccogliere un po’ le idee, mentre tenevo i miei pensieri dentro al fuoco che bruciava, e loro bruciavano con lui, tutti sconnessi. Forse ero solo stanco e giustamente preoccupato per l’elfo, anche se la loro immortalità aveva del proverbiale, pensai con una punta di ironia.

– Questa volta hai voluto guardare la morte troppo da vicino, guerriero.- mi rivolsi a lui, ma ovviamente non udì le mie parole.

Gli posi una mano sulla fronte: era consumato dalla febbre. Sembrava prosciugato a dir poco. Nelle membra e nel viso aveva un pallore cereo di cui poco prima non mi ero accorto. Strano. Eppure era così evidente. Potevo vederlo nonostante i bagliori rossi del fuoco.

Allora mi resi conto che lo stavo perdendo.

Il mio cuore saltò un battito. Dove avevo sbagliato?

L’elfo stava morendo tra le mie braccia, e io cosa stavo facendo?!

Lo scossi leggermente:

- Avanti...- cercai di incoraggiarlo, o forse stavo incoraggiando me? - Coraggio!-

Avevo fatto il possibile per lui, ma forse non era stato sufficiente. Forse anche lui aveva fatto il possibile per se stesso e nonostante ciò, non era stato sufficiente.

La sua debolezza in fondo mi sorprese. Quel grande soldato era davvero stato sconfitto così impietosamente dal nemico? No, non poteva essere!

Capii che mi restava un’unica possibilità, sperando che non fosse troppo tardi. Dovevo tentare il tutto per tutto, o rassegnarmi.

Mai.

Imposi una mano sulla sua fronte e l’altra sul suo cuore. Chiusi gli occhi, per raccogliere tutte le energie che mi erano rimaste: molto poche, a dire il vero.
Era l’unica cosa che non avevo ancora tentato: magia elfica di guarigione.

Ero consapevole che cercare di infondere nell’elfo una nuova energia avrebbe potuto rivelarsi una scelta azzardata, se non pure pericolosa, considerato che io in fondo non ero una creatura forte come loro e lui era fin troppo debilitato. Avevo studiato abbastanza per affrontare una simile situazione: l’avevo visto fare tante volte a re Elrond, quante mi bastavano per comprendere che si trattava davvero dell’ultima àncora di salvezza e che avrebbe potuto facilmente ritorcersi contro di noi.

Lentamente, cominciai a trasferirgli un po’ di energia vitale, che sgorgò dalle mie dita come se fosse linfa. La sentivo fluire via da me, lasciandomi solo e impietrito; il corpo dell’elfo la succhiava come se fosse acqua.

Restai finché potei. Purtroppo avevo dei limiti e non avrei mai potuto aiutarlo come in verità volevo, pena la mia stessa morte. Ma ero certo di star facendo la cosa giusta, e come tale aveva la priorità anche sul mio benessere fisico.

Quando sentii che proprio non ce la facevo più, mi staccai.

Avevo il fiatone. Mi sentivo spossato, svuotato, come se mi fossi allenato fino allo sfinimento. Feci uno sforzo sovrumano per non crollare a terra. Di nuovo, mi asciugai il sudore dalla fronte, coprendomi il viso con le mani: erano gelide. Tutto il mio calore se n’era fuggito nel corpo dell’elfo.

Quando ebbi il coraggio di guardare, mi accorsi che gli occhi del mio salvatore erano leggermente schiusi. Era tornato, forse solamente per un secondo; forse ancora cieco e debole, ma poteva avere orecchie per un gesto di amicizia?

- Athron mae?- riuscii a sussurrare, riprendendo il contatto con la sua fronte. Volevo che avvertisse la mia presenza, che non si sentisse solo.

Ma a quel punto le sue iridi pallide si rovesciarono e lui svenne di nuovo.

Mi incupii. Non mi restava altro che aspettare e sperare, allora, volente o nolente. Per quel giorno, i miracoli erano bastati: la magia aveva bisogno di tempo per sortire i suoi benefici effetti.

Quindi, con le poche forze che ancora mi rimanevano, rimboccai le coperte al mio inatteso compagno di viaggio e appoggiai la testa sul suo cuore.

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Capitolo 7
*** Legolas ***


Legolas

 

Era stato lo scintillio di un secondo: avevo rivisto la luce.

Una luce ottenebrata da qualcosa che gravava su di me, ma pur sempre luce. Una figura, o almeno così mi era sembrato, la tagliava in due, come il martello sul ferro caldo.

Era durato molto poco. Poi d’improvviso era tornato tutto freddo e scuro, e di nuovo avevo avuto paura.

Avrei voluto muovermi, ma il mio corpo non mi rispondeva.

Nel buio mi apparve improvvisamente un’immagine nitida, stagliata contro il dolore che provavo in ogni fibra. Lunghi capelli d’oro fino, un lungo mantello verde.

Padre.

Ada…

Non avevo mai avuto così timore di perderlo come in quel momento. Avrei avuto bisogno di sentirlo vicino, anche solo per un attimo. Sentirlo accanto a me.

- Ada...- gemetti nel sogno, nel mio delirio completamente incosciente.

Non l’avrei implorato per nulla al mondo, ma adesso mi sembrava così lontano, così irraggiungibile, come se ci fosse un abisso a dividerci. Era più lontano di quanto lo fosse stato mai nella mia vita.

Non so cosa avrei dato per riaverlo.

C’era stato un tempo in cui mio padre era stato solo mio: ma non ricordavo quando.

Ora mi sembrava che fosse l’unico ad essere mai esistito, per me.

Speravo che mi ascoltasse, che per una volta lasciasse da parte tutto e mi corresse incontro a braccia aperte, come quando era tornato dalla guerra di Angmar.

Ora come allora, stavo male, troppo male per pensarlo lontano.

Ada...






*NOTA DELL'AUTORE*
Ciaoooo a tutti! Oggi ho solo questo breve capitoletto da postarvi, ma non vi preoccupate...la storia non è finita!
Mi farebbe molto piacere sapere cosa ne pensate, sia nel bene che nel male, quindi non esitate a lasciarmi qualche commento, qualche messaggio o qualche recensione! Avete forse qualche curiosità?! Vi risponderò il più in fretta possibile.
Alla prossima!

 

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Capitolo 8
*** Thranduil ***


Thranduil

 

Ebbi un tremito. Un filo di aria fredda, intrufolatosi chissà come nella mia caverna, mi aveva soffiato sul viso una bava di oblìo mentre me ne stavo momentaneamente assopito sul trono. Non dormivo da giorni. Da quando Legolas aveva lasciato il Palazzo Reale e Bosco Atro, dopo la Battaglia delle 5 Armate.

Io e i miei soldati eravamo tornati a casa molto provati dalla guerra: un po’ di riposo ci era dovuto e non avrebbe potuto farci altro che bene. Per quel che mi riguarda, tuttavia, ritenevo di non averne granché bisogno. Non dopo...lasciamo stare. Erano passati migliaia di anni. Eppure mi sembrava che la morte mi fosse scivolata addosso come in quel momento, tantissimo tempo prima.

Mi tirai su, stizzito per essermi abbandonato a qualche istante di fiacchezza. Odiavo rischiare di mostrarmi debole, specie se di fronte a me avevo lo specchio vuoto delle vetrate della mia sala del trono. Da troppo tempo mi restituivano un’immagine che non mi piaceva, ma di cui non potevo fare a meno, come quella cicatrice che deturpava il mio viso ogni volta che la rabbia mi infiammava.

L’immagine di Legolas fece capolino nella mia mente. Tentavo inutilmente di non pensare a lui, ai pericoli che poteva correre, a quanto tempo ancora ci avrebbe visti separati. Non ero nemmeno riuscito ad abbracciarlo, prima che partisse. Eravamo troppo sconvolti entrambi da tutto quello che era accaduto.

Legolas, in particolare, anche da ciò che non era accaduto.

Era talmente furioso con se stesso, con il mondo intero, come me prima di lui, che non avevo saputo fermarlo. La storia si ripeteva uguale in seno alla nostra famiglia. Non esisteva medicina a quel male: solo una buona dose di autocontrollo avrebbe potuto salvare mio figlio, come in passato aveva salvato me dalla follia.

Anche se la follia conosce mille insidiosi nascondigli dove annidarsi.

Era la prima volta che viaggiava così fuori dai nostri confini, e senza scorta. Nonostante ormai fosse un adulto, non si può dire che fossi abituato alla sua lontananza per più di qualche giro di luna. Era dura, incredibilmente dura, probabilmente più per me che per lui.

Speravo che se la sarebbe cavata egregiamente. Non potevo nemmeno immaginare che cosa avrei fatto se mi fosse giunta voce che nessuno l’aveva mai più rivisto. Se nessuno l’avesse mai più ritrovato.

Non avrei potuto sopravvivere una seconda volta allo stesso dolore.

Nessuna tomba.

Nessun ricordo.

Niente.

Quel silenzio era insopportabile.

- Mandate a chiamare il Capo delle Guardie.- ordinai a un mio devoto.

Con qualcuno avrei dovuto sfogarmi, per quanto ingiustamente. Tauriel era l’unica che avrebbe potuto capire il mio stato d’animo, l’unica con la quale avrei potuto permettermi di mostrarmi per come realmente ero.

In fondo, ero stato come un padre per lei. Lei aveva visto il mio meglio e il mio peggio senza sentirsene sconquassata. Lei era l’avversario adatto, la sola con cui avrei potuto aspirare a un sincero confronto.

Inoltre, lei era anche uno dei motivi per cui mio figlio si era allontanato dal regno: quale migliore scusa per innescare una discussione?

- Subito, mio Signore.- mi rispose il mio servitore, sparendo dopo un inchino.

Attesi per diversi minuti, interminabili, seduto sul trono, costretto ad ascoltare voci che erano nella mia testa, ma che non riconoscevo. Erano mie fedeli compagne di viaggio a molto tempo: bisbigliavano frasi in una lingua da sempre sconosciuta, ma che avevo imparato a decifrare. Cercavo di ignorarle, tenerle a bada, ma ora era impossibile. Quelle alimentavano il brivido freddo che sentivo correre sotto la mia pelle.

Allora cercai di pensare a Legolas. Legolas era l’antidoto contro ogni veleno, specialmente nei momenti più tristi della nostra vita insieme. Come quando ero tornato da Angmar, senza più un esercito che potesse essere definito tale.

Senza di lei.

La mia Regina.

Le braccia di Legolas, ancora bambino, intorno al mio collo, erano stata l’unica cosa che ero stato in grado di riconoscere con chiarezza. Senza essere consapevole del suo potere, mi aveva tirato fuori dal baratro. Legolas mi aveva ricordato di essere vivo quando credevo di morire.

Così come ora la sua assenza mi ricordava che mi sentivo morto senza di lui.

Stavo perdendo la pazienza.

Mi alzai e mi diressi a grandi passi verso il portone, nella penombra, deciso a voler sapere che cosa impediva di esaudire la mia impellente richiesta. Nell’aprire la porta quasi mi scontrai con il paggio a cui avevo dato l’ordine:

- Quindi?- quasi lo aggredii.

Il povero diavolo mi scrutò di sottecchi con infinita deferenza. Aveva timore a parlare, sembrava quasi si vergognasse di portarmi notizie sgradite.

Con la forza dello sguardo, lo costrinsi a vuotare il sacco:

- Tauriel si è impiccata, mio Signore.- disse, tutto di un fiato – Mi rincresce, mio Signore.-






*NOTA DELL'AUTORE*
Ciaooo! Questo è il primo capitolo dedicato a re Thranduil! Anche lui avrà una piccola parte nella storia, questo è solo un assaggio! 
Ditemi cosa ne pensate ;) A presto con nuovi aggiornamenti!

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Capitolo 9
*** Aragorn ***


Aragorn

 

Non sapevo cosa fare.

Mi ero avvicinato subito, attirato dai suoi lamenti. La notte era ancora alta, l’alba lontana: non sapevo come comportarmi, se c’era altro che potessi fare.

Lo vedevo stare male, una sofferenza terribile che non riuscivo ad alleviare. Probabilmente non ero la persona più adatta a condividere quel momento con lui. Ovviamente no.

Forse le sue erano allucinazioni date dal veleno. Chiamava suo padre. Qualcuno che forse avrebbe dovuto essere lì, al suo fianco. Gli avrei lasciato volentieri il posto.

Fortunatamente conoscevo l’antica lingua elfica e qualcosa di Sindarin, ma ora non mi serviva a molto. Anche se cercavo di calmarlo, di sussurrargli parole gentili, quelle parevano cadere nel vuoto.

- Sta’ buono...- tentai di nuovo, poggiandogli delicatamente una mano sul petto ansimante, per confortarlo - Ssssh….-

C’erano troppi orchi in giro, troppe creature assetate di sangue. Eravamo costretti a stare nel buio, nel silenzio e all’erta. Qualsiasi bisbiglio, borbottìo o lamento avrebbe potuto esserci fatale. Eravamo soli, tristemente soli, e non si poteva immaginare un’anima amica per miglia e miglia.

Oppure poteva esserci qualche mio uomo, qualche altro Ramingo del Nord, uno dei Dùnedain. Avrebbe potuto prestarci soccorso, se fosse stato in grado di trovarci.

L’elfo smise lentamente di gemere e io tirai un sospiro di sollievo. Ero stanchissimo, e la posizione raccolta in quel rudere cominciava a starmi stretta; rischiavo di addormentarmi ad ogni secondo, se non avessi fatto qualcosa per distendere almeno le gambe.

Preso dalla disperazione, mi trascinai all’aperto e mi alzai. Sentii le ossa scrocchiare, fin troppo forte. Posi la mano sull'elsa della mia spada e mi accovacciai di nuovo, lontano dai raggi di una luna malata e sopita tra le nubi.

Speravo che il sole sarebbe sorto presto, domani.

Pensai. La situazione stava peggiorando a vista d’occhio e non potevo permettermi di aspettare oltre: avrei rischiato di trasportare solo un corpo morto. Avevo bisogno di un rifugio più sicuro, di rifornimenti curativi più efficaci: solo così avremmo potuto uscirne.

Seppur a malincuore, trassi il piccolo corno d’avorio che tenevo appeso alla mia spalla. Il suono di quello strumento poteva essere udito a miglia di distanza e significava solo una cosa, in tutte le lingue di Arda: aiuto.

Non avevo altra scelta. L’unica era sperare che i miei alleati riconoscessero quel suono, mentre per i nemici si confondesse con gli altri ululati della notte, anche se nutrivo scarse speranze.

Ero agguerrito e in caso di scontro ero deciso a vendere cara la pelle; in cuor mio speravo non ce ne fosse bisogno. 

Suonai il corno. Un fiato poderoso, che si ripercosse per tutta la valle. Me ne pentii quasi all’istante. Sgattaiolai di nuovo nel mio rifugio, accanto all’elfo, che non si era svegliato: trassi la spada a attesi.

Trascorsero lunghi momenti di assoluto silenzio. Non una risposta a quel corno, non un rumore fuori posto: avrei potuto tranquillamente dimenticare di aver fatto quel tentativo.
Passò un'ora, forse due. Poi, d’un tratto, mi parve di udire un debole scalpiccio di zoccoli di cavalli. Notai che si faceva sempre più chiaro man mano: qualcosa si stava avvicinando.

Alzai la spada contro un nemico ancora invisibile, ma ormai tangibile, poiché lo sentivo a poche braccia da noi.

Non lo vedevo, ma indovinai dai fiochi rumori che doveva essersi fermato nei nostri pressi.

Amico o nemico? Poteva aver visto qualcosa, oppure avvertito i profumi delle erbe che avevo cotto, o aveva forse intravisto l’elfo disteso e avvolto dalla notte?

Un leggero tonfo, e mi immaginai tutt’altro scenario. Sempre accucciato lì, pronto a scattare, dedussi che il cavallo non doveva esser venuto solo. Ascoltai.

Avvertivo la presenza di qualcuno, vicinissimo. Così vicino che avrebbe potuto essere l’ultima cosa che vedevo su quella terra:

- Chi va là?!- ringhiai, saltando fuori da quel nascondiglio con l’arma pronta ad attaccare.

Avevo il dovere e la responsabilità di proteggermi e proteggere quella vita inerme che avevo trovato sulla mia strada, e che volente o nolente ora giaceva tra le mie mani.

Alzai la spada contro un’ombra velata da un mantello. Dovevo avere un aspetto spaventoso, perché la vidi sussultare, prima di rivolgermi i palmi in segno di resa.

Il suo respiro era roco e profondo, e la sua voce ancora di più:

- Vengo in pace.- disse, cercando di apparire innocuo.

A quel punto, abbassai immediatamente l’arma. Non mi pareva vero, eppure la realtà si stagliava davanti ai miei occhi contro il cielo scuro. Un incredibile colpo di fortuna.

Conoscevo quella voce e quell’uomo, molto più di quanto potessi sperare.

- Bjorn!- esclamai, palesando la mia identità.

Bjorn era uno dei miei migliori luogotenenti, nonché uno dei migliori amici mi abbia mai concesso nostra madre Elbereth. Un guerriero onesto e leale, sul quale avevo sempre potuto contare, fin da quando ci eravamo riconosciuti contro una stessa ombra malvagia. Uno di fianco all’altro l’avevamo combattuta e continuavamo a combatterla, sostenendoci e aiutandoci nel momento del bisogno.

Uno di quei momenti lo stavamo vivendo proprio allora.

Bjorn mi corse incontro e in un attimo ebbi le sue braccia forti intorno alle mie spalle, in segno di conforto: ricambiai con sincero affetto, sollevato dall’averlo con me in un momento così difficile.

Lo scostai quel tanto che bastava per guardarlo in viso; snocciolai la mia storia in pochi minuti, cercando di non trasmettergli eccessivamente la mia preoccupazione. Ma Bjorn, come al solito, mi capì al volo.

- Dov’è?- mi chiese con gravità.

Lo condussi dove tenevo l’elfo. Appena lo vide, il suo viso si oscurò e la bocca prese una strana smorfia. Senza dire niente, appoggiò due dita sul suo collo e stette in silenzio ad ascoltare.

- Dobbiamo portarlo subito al nostro villaggio, al sicuro.- sentenziò poi, in modo risoluto – Prendi il mio cavallo e parti subito, Aragorn. E’ la soluzione migliore per entrambi voi.-

Non tentai nemmeno di contrariarlo. Sapevo meglio di lui di che cosa poteva aver bisogno l’elfo, e tutto quello che serviva non l’avevo con me.

Annuii in silenzio e mi diressi verso il destriero, mentre Bjorn spostava delicatamente l’elfo dalla nostra improvvisata tana e lo alzava da terra. Si sorprese di quanto fosse leggero e inerte quel corpo; me lo passò dopo che fui montato sul cavallo, aiutandomi a posizionarlo cavalcioni sulla sella.

Io mi assicurai che fosse ben stretto tra le mie braccia, con la testa reclinata sulla mia spalla il più comodamente possibile, per permettergli di respirare.

Bjorn spronò il cavallo con una manata sulle natiche:

- Va’!- mi disse – Vi raggiungerò a tempo debito. Ma ora vola!-

Spronai anch’io l’animale, mormorando un sincero grazie. Non era mia consuetudine abbandonare gli amici in territorio nemico, ma ormai era diventata una questione di priorità, e sapevo che Bjorn non avrebbe avuto certo problemi. Era forte e sano, e sapeva combattere agilmente quanto me, nonostante la stazza robusta.

Se non ci fosse stato lui, davvero non so come avrei potuto uscirne vivo.

Galoppai di buon passo fino all’alba nella direzione datami dal luogotenente, e ben presto cominciai a riconoscere i sentieri tracciati dalle nostre guardie, man mano che mi allontanavo da Fornost e da Angmar. Il sole tornava finalmente a filtrare attraverso le nubi, e mi sembrava non ci fosse più nulla di cui temere, ma solo da sperare.

Sentivo che il cuore dell’elfo era quasi stanco di battere.

Per fortuna giunsi al villaggio prima di quanto pensassi. Verso sera intravvidi le prima tende, contornate dalla solita palizzata contro gli animali selvatici; il gruppo di Dunedàin si era spostato evidentemente verso la mia direzione, in quei giorni, così come io avevo dato ordine prima di andare in avanscoperta. C’erano dei confini da proteggere, e uomini e donne non avevano atteso la nuova luna per scendere in campo e compiere il loro dovere.

Questo linea di condotta si era rivelata di inusitata lungimiranza.

Dozzine di occhi si posarono su di me mentre passavo trottando: occhi preoccupati, occhi impietositi, altri insospettiti a guardare il fardello che mi portavo appresso. Sapevo di dover loro delle spiegazioni, e non intendevo tirarmi indietro: solo, lo avrei fatto in un secondo momento. Adesso non c’era tempo a sufficienza.

Riconobbi abbastanza in fretta la tenda consolare: l’ultima in fondo, dove sempre la desideravo posizionata. I miei uomini ormai conoscevano le mie abitudini e le mie preferenze, e non le tradivano mai. Questo mi riempì di gioia, mentre scendevo con attenzione dal destriero e mi trascinavo dietro il corpo sempre più debole dell’elfo.

Lasciai le redini a uno scudiero e mi fiondai dentro la tenda. Il mio ospite non si muoveva né si lamentava minimamente.

Lo posai lievemente a terra, sopra un mucchio scomposto di coperte e mantelli, abbandonati lì probabilmente per caso. Sistemai alla meglio il ferito e gli tastai ancora una volta la fronte: notai che, per quanto male avessi potuto pensare, la situazione sembrava abbastanza stabile.

Ma non potevo rilassarmi di certo per così poco.

Scostai il suo mantello e scoprii le bende: erano già picchiettate di rosso.

Lentamente, scoprii anche le ferite: dovevo ammetterlo, erano meno peggio di quel che pensassi. Probabilmente i miei sforzi erano valsi a qualcosa.

Sorrisi.

Poi mi ricordai di una cosa.

Andai alle bisacce che i miei uomini avevano abbandonato alla rinfusa in un angolo: cercai per un po’, finché trovai quella in cui custodivo i rimedi officinali. Trassi un vasetto nascosto in una tasca interna, scartandolo dal panno di lana che lo avvolgeva. Per fortuna ne era rimasto ancora un po’.

Lo aprii e un odore fresco ed intenso si espanse intorno: era un medicamento piuttosto potente che avevo confezionato tempo prima.

Ancora una volta, ringraziai re Elrond e gli elfi per le promesse mantenute, per la conoscenza che mi avevano infuso senza trattenersi e che ora mi era tanto utile.

Tornai dall’elfo. Intinsi due dita nell’unguento e con cautela glielo cosparsi sul petto, in corrispondenza delle zone più colpite. Avvertii sotto le mie dita un leggero tremito quando passai sulla sua pelle, ma poi parve andar meglio.

Il medicinale fece da subito il suo effetto, specialmente quando glielo passai sul viso e sul collo.

Forse era l’unica cosa che poteva dargli un vero sollievo.



*NOTA DELL'AUTORE*
Ciaooo come staite?! Torniamo ai nostri eroi! Li avevamo lasciati in difficoltà ma ora sembra che il prode Aragorn abbia trovato una soluzione!
Il personaggio di Bjorn vi piace? Avrà una piccola parte in tutta la storia!
Fatemi sapere cosa ne pensate :) alla prossima!

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Capitolo 10
*** Legolas ***


Legolas

 

Tutto quello che ricordo, dopo quella lunga notte scura, infinita, è che improvvisamente avevo sollevato le palpebre e per un attimo avevo pensato di essere ancora immerso nel sogno.

All’inizio erano solo macchie di colore sfocate e sconosciute, che mi danzavano davanti agli occhi come su una fiamma accesa; al contrario di ciò che ci si potrebbe aspettare, per la mia mente quelle erano comunque immagini rassicuranti e mi infondevano il calore di cui sentivo un disperato bisogno. Perlomeno, erano un indizio dopo tanto tempo (quanto?) passato in balia del dolore e del nulla.

Inspiegabilmente, avevo la sensazione di essere come tornato a casa, fra quattro mura amiche, lontano da qualsiasi pericolo. O forse era quello che il mio cervello, ottenebrato dai sensi ancora più morti che vivi, mi lasciava credere.

Mi doleva incredibilmente la testa. Forse ero diventato temporaneamente pazzo, con quel cuneo di sofferenza che mi trapassava perfettamente da una tempia all’altra, nella penombra. Per questo mi sorprendevo a essere così tranquillo in una situazione tanto confusa quanto apparentemente soverchiante. Il mio corpo non aveva perso memoria delle ferite patite in battaglia, ma non si rivoltava e non si tendeva all’idea di essere di nuovo tra le braccia della sorte. Strano.

Riconobbi la morbidezza di una coperta appoggiata sul mio corpo, e di un cuscino dietro la mia nuca. Man mano che riacquistavo consapevolezza della realtà, una scintilla di agitazione cominciò a farmi tremare.

O forse era solo il freddo?

Mi sentivo disorientato, con la pelle che bruciava al solo pensiero di poterla sfiorare e il resto delle membra abbandonate a una gelida immobilità. Era come se il mio corpo non mi appartenesse. Non mi sentivo in me, ma ero vivo, vivo e vegeto, nonostante tutto.

E in pericolo. Forse.

Girai faticosamente la testa da un lato, sperando di cogliere qualche altro indizio che mi facesse capire dove mi trovavo. Ogni gesto mi costava una fatica immensa, come se sulle mie ossa fosse crollata una pietra enorme e pesantissima. Mi sentivo rotto, come un giocattolo vecchio e buttato via. Una sensazione che non avevo mai provato prima e che già odiavo.

Ma ero vivo, dovevo solo ringraziare Ilùvatar, che aveva avuto pietà di me! Non dovevo deluderlo, non dovevo sprecare il suo dono.

Trassi un respiro più profondo e feci uno sforzo, tentando di muovermi, ma i muscoli non mi obbedirono. Provai a muovere le dita, ma anche quelle erano lente e intorpidite. Sentii una nota di panico far capolino nella mia mente, mentre cercavo di concentrarmi su tutto ciò che avevo attorno, e che ora tutto mi sembrava fuorchè amico.

Benchè la mia vista fosse ancora annebbiata, indovinavo lo scintillio di un braciere, poco più in là, che gettava una luce morbida sulla forma di una tenda; per terra, all’altezza del mio viso, c’erano borse, armi, altre coperte: un arredamento piuttosto scialbo, ma decisamente funzionale. Quella era la casa di una persona che amava combattere, di certo.

Cercai di muovere la testa, sperando di poter scorgere altri particolari. Cercavo i miei pugnali, ma chissà dove erano finiti. Non li avevo più addosso e nemmeno vicino a me.

Dovevo ritrovarli. Erano la mia àncora di salvezza in quel mondo ostile e il mio ricordo più caro. Avrei ucciso per riaverli.

Le forme si fecero un po’ più chiare. Il mal di testa non accennava a diminuire, ma il mondo stava prendendo una piega diversa, il che poteva essere considerato già un passo avanti.

Poi lo vidi.

Se ne stava seduto poco più in là, non troppo lontano dal braciere, chino su un oggetto che non riuscivo a identificare. Chi era? Un amico? Un nemico? Il mio carceriere? Il mio salvatore?

Avevo bisogno di certezze, in un senso o nell’altro, per ritornare di nuovo a vivere.

Alto e scuro di capelli, dal corpo magro ma muscoloso, aveva un che di familiare, ma non riuscivo a ricordare. Eppure dovevo sforzarmi.

Il mio spirito di sopravvivenza era di nuovo acceso.

La figura si voltò verso di me, come se mi avesse sentito. Mi guardò intensamente da dietro una cortina di penombra per un lungo momento, senza dir nulla. Intravedevo il collo e il mento, fermi nei punti luce di una strana scacchiera con l’oscurità della notte, e un accenno di sorriso che non sapevo da dove provenisse.

Poi lo sconosciuto si avvicinò cautamente a me. Il suo passo felpato era quasi impercettibile sul suolo, come se camminasse sull’aria invece che sulla terra. Mi domandai se per caso non si trattasse di un elfo, un mio simile, se mi potesse capire e aiutare.

Pochi sulla Terra-di-Mezzo sapevano muoversi con simile leggiadria; potevamo avere qualcosa in comune, magari più di quanto potessimo desiderare.

Quando si chinò su di me, tuttavia, le mie aspettative furono disattese. Ora lo vedevo bene in viso: c’erano molti più anni di quelli che non dava a vedere, fra le piccole rughe accanto agli occhi. Mi raccontavano di esperienze già vissute, che avevano lasciato un evidente segno su quella pelle non abituata. Forse erano venati di preoccupazione e privazioni, chissà. O forse era semplicemente un Mortale, un uomo, ai quali era negato il dolce oblio del tempo che scorre inevitabile, senza mai giungere a una fine.

Ormai potevo esserne certo. Vedevo la sua barba, i suoi lineamenti duri e avvertivo delle sensazioni, anche se ero ancora troppo debole per decifrarle. Ma mi fidavo di loro.

Quella creatura non era un elfo.

Eppure, mi resi conto che non era nemmeno uno sconosciuto.

Non dimenticavo mai un viso, specialmente se avevo avuto modo di vederlo da vicino.

- Voi siete quell’uomo...- sussurrai faticosamente. Stentai a riconoscere la mia voce, così brutta e flebile.

Mi parve di vederlo sorridere di nuovo, ma non avrei mai potuto esserne certo. Era durato troppo poco per dirlo.

Anzi, ora l’uomo sembrava decisamente serio in volto.

- E voi quell’elfo.- ribatté, piuttosto sicuro.



*NOTA DELL'AUTORE
Ah rieccoci! Dove eravamo rimasti? Ah già, il nostro amico Legolas ha finalmente aperto gli occhi: e che sorpresa XD 
Spero vi sia piaciuto questo capitolo e chiedo venia per essere stata assente così a lungo: il lavoro chiamava!
Fatemi sapere cosa ne pensate così posso continuareeee :)))

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Capitolo 11
*** Aragorn ***


Aragorn

 

L’elfo si era svegliato appena passata la prima ora dopo la mezzanotte. Lo avevo inteso dal rantolo che emetteva, il quale aveva cambiato improvvisamente ritmo.

Il periodo di degenza era quasi terminato.

Mi sentii sollevato. Ci avevo impiegato così tanto tempo, curandolo e proteggendolo, tenendolo con me, che non credo avrei potuto accettare un fallimento.

Lo vedevo tentare di muoversi, nella penombra. Doveva provare ancora molto dolore, ma ciononostante mi rendevo conto che, così come nella radura dove l’avevo trovato, l’elfo l’aveva spuntata con la morte una seconda volta.

Un sorriso fugace mi scappò sulle labbra. Modestamente, ero anche un bravo guaritore.

Notai che riusciva a tenere gli occhi aperti. Non capivo se fosse anche capace di vedermi, se la febbre avesse fatto il suo corso lasciandolo lucido, oppure se avesse bisogno di me. Non capivo nemmeno se fosse spaventato, assetato o affamato.

Mi alzai per avvicinarmi. Mi muovevo cautamente, per non agitarlo. Il nostro primo incontro non era stato particolarmente amichevole, e non era il caso di fargli passare un altro brutto momento. 

Mi chinai lentamente di fianco a lui, dove potesse vedermi, ma non lo toccai. Non sapevo quali avrebbero potuto essere le sue reazioni da sveglio; magari nemmeno si ricordava di me, dopo tutto quello che aveva passato. Forse era meglio così. Non ci tenevo particolarmente ad approfondire la mia conoscenza con lui, solo il necessario per fargli capire che ero suo amico e che doveva stare tranquillo.

Come avevo immaginato, la sua vista non era ancora tornata acuta come era abituato. Ci mise un po’ a mettere a fuoco la mia faccia. A comprendere.

- Voi siete quell’uomo...- mugolò con voce roca.

Mi venne ancora da sorridere. Non tutto era perduto, e forse la sua buona memoria non era una cosa del tutto negativa. Ma non dovevo lasciarmi distrarre.

- E voi quell’elfo.- dissi, cercando di apparire innocuo.

Lo vidi trattenere improvvisamente il respiro. Mi aveva riconosciuto, ma proprio come avevo temuto, si stava agitando. Un sussulto e la mia buona azione poteva andare perduta.

Alzai una mano in segno di pace:

- Va tutto bene.- lo rassicurai.

Il caso volle che in quella, purtroppo, qualcuno interrompesse bruscamente il nostro colloquio, balzando nella tenda ansimando:

- Aragorn!-

L’elfo si voltò verso il nuovo venuto. Era sempre più nervoso e il suo respiro si era fatto corto e irregolare: non era il caso di sottoporlo a una peggiore prova di attenzione.

Accidenti a te, Bjorn! Non era stato certo il massimo della pacatezza!

Lo stesso uomo che mi aveva trovato nei dintorni di Fornost si immobilizzò immediatamente, piuttosto interdetto. Probabilmente aveva camminato ore e ore senza sosta per raggiungermi e non si aspettava un simile benvenuto.

Provavo per lui una sincera amicizia, la migliore e la più onesta che avessi potuto concepire per un uomo, da quando lo avevo incontrato. Era il mio braccio destro e un ottimo luogotenente, oltre a un felicissimo cialtrone, soprattutto in tempi di pace. Era in quei momenti che dava il meglio di sé, sfornando storie dove l’umorismo piccante non poteva mai mancare.

Ma quella sera non scherzava. Aveva l’aria di chi porta notizie fresche di sorta e ne voleva assolutamente parlare con me. Potevano essere importanti per i nostri piani di difesa dei confini a nord. Lo speravo, almeno.

Anche Bjorn si era voltato verso l’elfo e lo fissava. Immaginavo avesse pensato che quella creatura non avrebbe mai potuto sopravvivere a tutta la violenza subita; adesso, invece, il peggio era passato. Intravedevo negli occhi di Bjorn un velo di contentezza.

Era una persona veramente generosa.

Lasciai Bjorn alle sue meraviglie e mi rivolsi di nuovo all’elfo, cercando di ristabilire un contatto. Fra noi due uomini, probabilmente non sapeva più da chi doveva difendersi per primo:

- Va tutto bene.- ripetei, una volta catturato faticosamente il suo interesse – Non vi faremo nulla. Torno subito.-

Sperai che il tono sereno delle mie parole fosse arrivato fino al cuore dell’elfo. Mi bastava un minuto, forse due, il tempo di capire cosa stava succedendo e prendere delle decisioni di conseguenza; poi sarei tornato ad occuparmi di lui e avrebbe potuto farmi tutte le domande che voleva. Immaginavo che avrebbe preteso molte spiegazioni da me.

Mi alzai in piedi, sempre molto lentamente, e invitai Bjorn a indietreggiare. Il mio amico non era un uomo stupido e intuì subito che cosa avevo intenzione di fare: chinò la testa in segno di rispetto, giunse le mani in un rapido saluto e si dileguò in silenzio oltre la tenda, fuori.

Il pensiero di lasciare l’elfo da solo, anche se solo per poco tempo, mi incupì. Speravo che quei minuti preziosi gli servissero per calmarsi, così la conversazione sarebbe stata più tranquilla al mio ritorno.

Fui distratto da Bjorn, che mi tempestò di domande:

- Quindi l’elfo si è svegliato?-

- A quanto pare.- bofonchiai, cercando di non dar troppo fiato alla notizia. Volevo evitare orde di curiosi alla mia tenda e anche evitare un’inutile angoscia a quel povero essere.

Il mio compare sorrise:

- Sono felice per lui. Hai fatto un buon lavoro, amico mio. Del resto, se ne poteva dubitare?- mi diede una pacca sulla spalla, mentre ci allontanavamo un poco.

Grugnii, poco convinto. Il mio lavoro non era ancora concluso. Inoltre rimanevano non pochi punti oscuri in quella vicenda.

Chi era quella creatura? Da dove proveniva? Perchè viaggiava sola in una terra così pericolosa come Fornost?

- Avrò due domandine da fargli. Magari quando starà meglio.- cercai di tergiversare – Hai fatto tanta strada di corsa per essere qui così presto, Bjorn. Mi porti nuove?-

- Li ho avvistati a sud.- mi disse in un soffio – Orchi. Viaggiano accompagnati da altre immonde creature: Mannari, Troll...un manipolo piuttosto consistente.-

- Ma non erano a nord-est, qualche giorno fa?!- lo interruppi, stupito.

- No, no – Bjorn scosse la testa – Quest’orda è nuova. Si deve essere formata recentemente. Molto recentemente. Pochi giorni fa.-

- Sono troppi.- sentenziai – Sono troppi, non possiamo inseguirli tutti. Abbiamo pochi uomini e sono già impiegati lungo i confini. Se quelle creature continuano ad aumentare avremmo bisogno di unirci, ma ci servirà tempo. I Raminghi sono impegnati su tutti i fronti.-

Bjorn assunse un’espressione piuttosto abbattuta. Anche la mia non doveva essere da meno.

- Troveremo un modo.- cercò di incoraggiarmi, appoggiandomi una mano sulla spalla.

Sospirai:

- Lasciami pensare a come possiamo fare.-

- Tu hai sempre qualche buona idea, Aragorn.-

Sentirmi chiamare per nome fu per me di estremo conforto. Bjorn era uno dei pochi a cui avevo rivelato la mia vera identità, le mie vere origini, perché mi fidavo ciecamente di lui. Per gli altri ero semplicemente Grampasso, quello con più esperienza, venuto dal Sud per guidarli attraverso acque burrascose in quell’epoca di rivoltamenti.

- Torno dall’elfo. – annunciai.

Bjorn mi rivolse un cenno d’assenso:

- Anche lui ha bisogno di te, adesso.- accondiscese.

- Vai a riposare, sarai stanco - lo consigliai – Ci ritroveremo più tardi.-

- Ai tuoi ordini, Aragorn.-

Finalmente si dileguò, e io ebbi un attimo di tempo per raccogliere i pensieri. Ce n’erano fin troppi che mi danzavano per la testa.

Avrei voluto riuscire a prenderli uno ad uno e riposizionarli dove mi sarebbe parso più utile, ma non ce la facevo. Anche io ero stanco, avevo dormito forse troppo poco: sarebbe stato il caso di ritornare in forze prima di affrontare tutto questo.

Quindi, trattenendo uno sbadiglio, mi incamminai di nuovo verso la mia tenda.





*NOTA DELL'AUTORE*
Eccomi con un nuovo capitolo! Stiamo preparando il terreno per i "grandi rivoltamenti": riuscite ad immaginare cosa può succedere?
Sognate...sognate! A presto con un nuovo pezzo:)

 

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Capitolo 12
*** Legolas ***


Legolas

 

Dovevo fare qualcosa.

Non solo ero stato trovato indifeso, ero stato medicato e trasportato in un luogo di cui non conoscevo nulla, neanche l’esatta ubicazione; ora scoprivo anche che il mio salvatore (o carceriere?) non era venuto solo, ma accompagnato da un altro uomo, un altro guerriero.

Anche se la nostra rapida conoscenza era avvenuta in toni del tutto smorzati, la situazione non mi convinceva per nulla. Inoltre, udivo altri suoni provenire dall’esterno della tenda: altre voci, clangore di armi, strascico di carretti. Probabilmente quei due uomini non erano dei solitari, anzi: mi trovavo in un vero e proprio accampamento.

Nemici o amici? Questa era la mia domanda più pressante.

C’era solo un modo per scoprirlo.

Con immenso sforzo, riuscii a farmi obbedire dalla mia schiena e a mettermi seduto su quella specie di giaciglio dove ero stato collocato, credo, ormai da giorni. Il dolore per le ferite si faceva ancora sentire, ma mi imposi di non pensarci.

Mi guardai attorno in cerca dei miei pugnali, ma non li scorgevo. Sicuramente erano stati riposti lontano da me, se non dimenticati in qualche angolo. Una cieca rabbia mi montò dentro. Chiunque li avesse toccati o portati via meritava morte certa, per mano mia.

Senza di loro non mi sentivo più Legolas Verdefoglia, figlio del re di Bosco Atro, ma un elfo qualunque, su una strada qualunque, perso in un mondo qualunque, senza una via di uscita. Dovevo ritrovarli al più presto.

Con tutta la mia rigenerata forza di volontà, riuscii a reggermi in piedi, barcollando. I contorni avevano preso a danzare davanti ai miei occhi, ma io cercavo di oppormi a quel rollio rimanendo concentrato su pochi ma essenziali dettagli, come il bagliore del braciere poco lontano, i confini della tenda e il mio fagotto di coperte. Tentai di muovere qualche passo, e mi accorsi, dopo i primi indugi, che potevo farcela. Il corpo mi rispondeva, seppur a fatica, come se dovesse riabituarsi al proprio padrone, alla mia mente.

Cercai di respirare il più profondamente possibile, lasciando che l’aria penetrasse i polmoni e tornasse fuori, ripulendoli da ogni male: mi sembrava di esser stato sott’acqua per molto tempo e che la terra non mi fosse più così famigliare.

Mi diressi verso il braciere, il punto di riferimento più chiaro in quella penombra. Avrei potuto rubarne un pezzo, fabbricare una torcia, fare più luce e magari individuare più facilmente le mie armi. O sarei uscito a cercarle.

Tutti i miei piani vennero crudelmente spazzati via da un tono di voce alquanto perentorio, che mi sorprese alle spalle:

- Dove pensate di andare?-

Sussultai violentemente, anche perché lo riconobbi all’istante.

L’uomo era tornato a prendermi.

Mi voltai. Era di fronte a me, a debita distanza, ma leggevo nei suoi muscoli tesi la prontezza di un predatore pronto a colpire. Mi guardava con occhi sgranati, come se non potesse credere che già mi fossi alzato in piedi. Con quello sguardo mi stava silenziosamente chiedendo come mai avevo osato sfidare le mie condizioni di salute solo per il capriccio di fare due passi in bilico sulla mia debolezza.

- Io...- farfugliai.

Non volevo dare troppe spiegazioni, ecco tutto. Non volevo che pensasse a me come a una zavorra a cui badare, non volevo che si rivolgesse a me come mio padre si rivolgeva ai suoi sottoposti quando non erano stati all’altezza delle aspettative. Per questo me ne stetti a testa alta, per quanto le forze me lo permettessero.

Se tra le sue intenzioni ce ne fossero state di cattive, non mi avrebbe facilmente mandato a tappeto.

Non una seconda volta.

L’uomo parve irritarsi:

- Volete ripetere l’errore di qualche giorno fa?- mi attaccò, trattenendo a fatica lo sconcerto.

Non capivo esattamente di cosa parlasse, ma stetti al suo gioco. Intuivo che dietro le sue parole alterate in verità poteva celarsi una seria preoccupazione, ma tutto quello zelo mi pareva piuttosto inverosimile, date le circostanze. Avrebbe anche potuto fingere, ma fino a quando?

Dovevano essere state lunghe giornate, con me.

- Io...avevo bisogno di camminare.- tentai di giustificarmi.

Mi tenevo in guardia circa il fatto che non avevo la più pallida idea di chi fosse realmente: una moltitudine di congetture mi affollavano la testa e rimbombavano oltremodo nella mia mente stanca.

L’uomo fece un passo in avanti, grave in volto:

- Non siete ancora guarito.- mi fece notare, con più gentilezza.

Aveva ragione, sentivo i segni delle recenti battaglie sotto la mia pelle e il dolore era insistente, a dir poco estenuante. Ma ero sopravvissuto, nonostante tutto. Anche grazie a lui.

Mi resi conto che aveva fatto per me più di chiunque altro, almeno negli ultimi mesi.

- Vi sono debitore.- mormorai, abbassando uno sguardo colpevole.

La mia risposta evidentemente non gli piacque, perché ribattè con forza:

- In verità, no. Ero io ad avere un debito nei vostri confronti. E ora l’ho saldato.-

Aveva ragione anche su questo. Ero stato io a intromettermi nei suoi affari quel giorno alla radura, aiutandolo a decimare orchetti a costo della mia stessa vita; forse era stato grazie a questo mio sacrificio che avevamo avuto l’occasione di conoscerci. A me non interessava nessuna ricompensa, comunque, nemmeno nel caso si trattasse di salvarci la vita a vicenda.

Cercai di cambiare discorso:

- Mi avete seguito?-

Volevo saperlo. Da troppo tempo mi ronzava in testa questa domanda, più o meno da quando avevo capito che mi trovavo davanti alla stessa persona, continuamente.

L’uomo contrasse le labbra in un gesto nervoso:

- Probabilmente seguivamo la stessa strada.-

Mentiva. Lo sapevo che mentiva. Non so per quale motivo intendesse tenermi sulle spine, ma io sapevo che per tutto quel tempo non aveva fatto altro che desiderare di trovare me, e non una qualunque strada. Il motivo di questo attaccamento era un enigma che avrei risolto, ma per il momento ero la parte debole e dovevo navigare in acque poco sicure.

- Io...non avevo compreso che eravate voi.-

Cominciavo a essere nervoso anch’io. L’uomo alzò le spalle; poi mi guardò con una certa noncuranza, così ostentata, così falsa, che mi spaventò.

Non riuscivo a decifrare quanto in realtà gli interessasse la mia salute e quanto la sua. Lui parlò:

- Ve l’avrei detto, ma eravate svenuto.-

Quella parola, così lontana dalla mia realtà, mi provocò un tuffo al cuore. Forse non avrei dovuto vergognarmene, ma in verità non potevo farne a meno. Non potevo credere di essere rimasto incosciente così a lungo, per quale ragione? Il mio corpo non era forse così forte, la mia mente non forse così lucida? A cosa erano serviti gli anni di allenamento con mio padre per evitare proprio questo? Mi sentii avvampare il viso per il disonore.

- Per quanto tempo?- chiesi, pur immaginando la risposta.

L’uomo mi scrutò e e mi parve di scorgere pena nei suoi occhi:

- Due giorni.- biascicò.

Chiusi per un attimo le palpebre. Ci ero andato vicino, estremamente vicino. Troppo vicino. Non ero lì per farmi ammazzare, sia chiaro. Avevo una missione importante da compiere. Dovevo rendere onore ai consigli e agli ordini di mio padre, trovare il Ramingo, visitare Fornost e i suoi insanguinati campi di battaglia, dovevo…non fallire. Non deludere la mia famiglia un’altra volta.

Troppe cose.

Avvertii il mancamento quando ormai era troppo tardi. In un attimo tutto si fece di nuovo buio, e la testa mi si riempì di stelle.

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Capitolo 13
*** Aragorn ***


Aragorn
 

Lo vidi rischiare di accasciarsi pesantemente al suolo e non so come, ma fui lesto a partire verso di lui ed afferrarlo mentre rovinava a terra. Era passato troppo poco tempo, come avevo previsto. Non avrebbe mai dovuto alzarsi dal suo giaciglio.

Lo sostenni passandomi il suo braccio sano sulle spalle e reggendolo contro il mio fianco; lo guidai verso le sue coperte.

Non era svenuto, aveva quasi subito riaperto gli occhi, rendendosi tuttavia conto di non aver energie sufficienti per tentare null’altro.

- Venite con me.- gli dissi, nella maniera meno dura possibile – Non dovete sforzarvi.-

Lo feci adagiare con cautela. Mi lasciò fare: ormai la sua mente era lontana da lì. Era pensieroso, e terribilmente cereo in volto. Sperai di non aver detto qualcosa di troppo offensivo, perché non me n’ero accorto. Avevo solo ovviato un po’ alla verità, per non farlo sentire in trappola: volevo mostrarmi come un suo amico, almeno per il tempo necessario a scoprire chi fosse.

Avevo ancora molte domande da porgli.

- Vi porto dell’acqua.- mi offrii, allontanandomi.

Non sono certo mi abbia sentito. Probabilmente cercava solo di respirare profondamente e riacquistare la freschezza mentale necessaria per intavolare un qualsiasi tipo di discorso. Non sapeva dove si trovasse, che ci facesse lì, che cosa fosse successo esattamente. Al massimo poteva ricordare i versi strazianti del mannaro mentre lo uccideva, poi...doveva esser stato il buio totale.

Versai dell’acqua da una brocca in cui avevo lasciato delle erbe curative in infusione. Non lo perdevo d’occhio, temendo un’altra crisi, e credo che questo non me l’abbia mai perdonato. Era evidente quanto ci tenesse alla sua indipendenza e alla sua capacità di cavarsela da solo, ma aveva dovuto rivedere pesantemente le sue possibilità fisiche.

Tornai da lui in punta di piedi; ciononostante, capii che l’avevo strappato bruscamente a chissà quali ragionamenti:

- Tenete.- gli allungai una tazza piena d’acqua – Bevetela; dopo vi sentirete meglio.-

Ebbe un attimo di esitazione. Quell’acqua odorava di erbe curative, così come tutto il resto in quella tenda. Sperai potesse essere confortante per lui il calore di quell’acqua tiepida, man mano che scendeva lungo la sua gola. Mi accorsi che la beveva volentieri. Doveva essere assetato.

Lo fissavo con una certa apprensione, mista a una grande ammirazione. Ero un muto spettatore della sua rinascita. Grazie a quelle poche gocce era già ritornato un po’ più in sé e questo mi riempiva il cuore di gioia.

Ritirai la tazza dalle sue mani e gliela riempii di nuovo:

- Forse più tardi dovreste mangiare qualcosa.- gli suggerii – Avete bisogno di recuperare le forze. Siamo in pochi e queste non sono terre nelle quali indugiare a lungo.-

Lo vidi sospirare. Immagino non fosse questo quello che desiderava sentirsi dire.

- Che cosa mi è successo?- chiese, con una durezza che ancora ricordo. Non si era ancora perdonato il fatto di essere stato sconfitto e di aver rischiato di pagar cara quella distrazione.

Scelsi accuratamente le parole, prima di rispondere:

- Credo che siate stato avvelenato.-

Sobbalzò appena. Come avevo previsto, bastava un niente per riportare la sua mente agli errori commessi, e questo rimuginare non poteva che causargli altro danno. Immaginai che doveva trattarsi di un guerriero di tutto rispetto, allevato in seno a qualche accademia, o qualcosa del genere. Una disciplina così ferrea poteva applicarsi solo in ambienti altolocati.

Così avevo imparato qualche altro dettaglio utile su di lui.

- Il peggio è passato, ormai.- tentai di tranquillizzarlo – Avete resistito al di là di ogni umana immaginazione. Siete davvero molto forte.-

Ancora non mi chiedeva ulteriori spiegazioni, chiuso in se stesso come un riccio, ma io mi accorgevo che stava pensando. La sua mente viaggiava molto più veloce della mia e nel tempo questa qualità non poteva far altro che migliorare, pari passo con la sua guarigione. In men che non si dica ci saremmo ritrovati come in quella radura, con due spade in mano, con la sola differenza che magari stavolta non ci sarebbe stata nessuna freccia avvelenata a dividerci.

O a unirci.

In risposta, anche la mia mente cominciò a galoppare, elucubrando altre possibili strade o spunti di conversazione. Ma in quel mentre non ne trovai.

Gli posai una mano sulla fronte e mi resi conto che era madida di sudore:

- Vi prego, ora concedetevi un altro po’ di riposo.- gli dissi, affabile.

Annuì senza dire nulla. Forse era stanco e la mia presenza lo stava disturbando.

Non era il caso di insistere, per quella sera.

Lentamente, mi alzai e senza dir nulla lo lasciai solo. Mi posizionai dall’altra parte della tenda, dove mi attendeva una mappa aggiornata con gli ultimi spostamenti degli orchi. Potevo pensare a problemi più concreti, in attesa che l’elfo si addolcisse un po’.

Dopo poco, mi resi conto che era già ricaduto in un sonno profondo.




*NOTA DELL'AUTORE*
Ciaooo a tutti! Eccoci con un nuovo capitolo! Spero vi piaccia, in tal caso lasciatemi una recensione! Sono ben accette anche le critiche...ma mi piacerebbe davvero sapere cosa ne pensate! :) So che forse in questo momento il racconto potrebbe sembrare un po' lento...vi chiedo fiducia perchè poi magari mi ringrazierete! ;) A presto

 

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Capitolo 14
*** Legolas ***


Legolas

 

Aragorn era un uomo di poche parole e molto misterioso. Eppure lo vedevo muoversi con una sicurezza invidiabile in mezzo alle sue cose: sembrava sempre pronto e sempre cosciente di cosa dire e cosa fare. Non solo con me, ma anche con tutti i suoi uomini: doveva essere un capitano, o qualcosa del genere. Non avevo osato chiedere.

Mi aveva portato da mangiare quella notte stessa. Era uscito e rientrato con un piatto ricco di diverse leccornie: uova, carne secca, qualche verdura. Il tutto condito sapientemente, almeno a giudicare dall’aspetto, quando me lo porse con gentilezza e delicatezza:

- Spero sia di vostro gusto.- cercò di essere cordiale – Avete bisogno di recuperare le forze. Vi chiedo di sforzarvi solo il minimo necessario per sentirvi colmo.-

Purtroppo, il solo odore del cibo, per quanto potessi essere affamato, risultò insopportabile. Mi diede immediatamente il voltastomaco, prima ancora di poter assaggiarne un pezzetto. Quanto avrei voluto farlo! Penso mi si leggesse negli occhi.

Invece venni scosso da un improvviso conato; tossii in maniera davvero poco galante e per poco non rischiai di rigettare anche la saliva che avevo in gola. L’uomo lasciò subito il piatto da parte per sorreggermi, darmi pacche sulla schiena, finché riuscii a riprendere fiato:

- Mi dispiace...- boccheggiai.

- Non importa - mi tranquillizzò subito lui, facendomi appoggiare di nuovo al cuscino – Non preoccupatevi. Non è niente. E’ tutto nella normalità delle cose...-

Proprio non capivo come potesse dire una cosa del genere!

- Vi lascio il piatto qua vicino, nel caso più tardi andasse meglio.- aveva detto – Spero riuscirete a mangiare qualcosa. Ne avete bisogno.-

Feci un respiro profondo. Avevo veramente fame, ma il nodo allo stomaco mi pareva insormontabile:

- Farò del mio meglio.-

L’uomo mi guardò con aria impietosita, ma si riscosse appena in tempo, prima che potessi di nuovo irritarmi con lui. Detestavo sentirmi così sotto esame.

Stava già per sgattaiolare via, quando mi decisi a fargli quella domanda:

- Il vostro nome è Aragorn?-

Era stato l’unico nome che avevo udito, da quando avevo di nuovo aperto gli occhi sul mondo, anche se pronunciato pochissime volte e sottovoce. Mi era difficile pensare quell’appellativo accoppiato a qualcun altro, ma il sesto senso mi suggeriva che non tutto era così ovvio come sembrava. L’unico altro uomo che avesse accesso alla tenda, tale Bjorn, lo sussurrava come se si trattasse di un segreto.

Era quello il vero nome del mio salvatore? O lo era soltanto quando era in mia presenza?

Aveva una strana assonanza con un ricordo che ora, nella mia mente ancora ottenebrata dai postumi del veleno, non trovava corrispondenza.

Di fronte alla mia domanda, l’uomo si irrigidì impercettibilmente. Solo uno sguardo attento e interessato come il mio avrebbe potuto accorgersene.

Non era per niente quel che sembrava.

- Perchè vi preme saperlo?- mi chiese, quasi in un sibilo.

Lo stavo innervosendo, lo sentivo.

- E’ per ringraziarvi meglio.-

La tensione saliva ogni secondo di più.

Aragorn si voltò e quasi rise di me:

- Non immaginavo, viste le vostre condizioni, che abbiate avuto un udito così fino...ai miei inviti a trattar bene il vostro corpo siete stato piuttosto sordo.-

Avvampai dalla rabbia ma mi costrinsi al silenzio.

C’era qualcosa di viscido e losco, sotto, ne ero certo.

Lo odiavo già.

Doveva aver pensato la stessa cosa anche lui, perché il suo tono di voce era gradualmente cambiato, fino ad assumere le sfumature colorite dell’inquietudine:

- E voi chi siete, se posso restituirvi il favore?- mi chiese.

A quel quesito così diretto, anche se scontato, trasalii.

Non ero per nulla sicuro di voler rivelare la mia vera identità, nemmeno il mio vero nome. Mentire non era di certo una mia dote: preferivo la verità alla menzogna, in qualsiasi circostanza, così come mio padre mi aveva insegnato. Ma ero anche un principe, l’unico principe di Bosco Atro. Dovevo proteggere la mia casata e il mio popolo: non potevo dare troppe spiegazioni sul perché mi ero recato a Fornost, senza nemmeno la protezione di una scorta di soldati. Non potevo ripetere due volte l’errore di rischiare di morire. E non potevo rischiare di ritrovarmi faccia a faccia con le mie fragilità in un momento simile.

Non sapevo se quegli uomini là fuori potevano essere innocui, oppure briganti, cacciatori di taglie; o forse amici, se potevano aiutarmi nella mia ricerca.

Non sapevo nulla di questo Aragorn.

Cercai di riflettere nel minor tempo possibile, accusando un improvviso dolore al capo. Lui mi guardava composto, in attesa, e non sembrava sospettare niente. Anzi, avrei giurato potesse essere ancora preoccupato per me.

- Mi chiamo Fadhel.- mentii, alla fine, ma solo in parte – Vengo da Bosco Atro.-

Aragorn annuì in maniera strana:

- L’avevo intuito.-

Sudai freddo.

Questo non l’avevo previsto.

- I vostri vestiti parlano chiaro.- precisò – Siete un Silvano. Siete un messaggero di re Thranduil?-

Andava dritto al punto senza perdere tempo, come una lama che conosce perfettamente la strada per uccidere un avversario in meno di un secondo. Conosceva il nome di mio padre? Conosceva la storia del mio popolo? Doveva aver notato i ricchi ghirigori sulle mie vesti. Aveva avuto il tempo di notare un sacco di cose, evidentemente.

Due giorni.

Due giorni sono troppi.

Cos’altro poteva aver scoperto su di me, in quei due giorni? Mi conosceva più di quanto io non conoscessi lui? Mi stava forse lasciando parlare per puro diletto, per poi sorprendermi con un colpo dritto al cuore?

Di nuovo, tardai nella risposta. Decisi di restare il più vicino possibile alla verità:

- Sì, sono un messaggero.- risposi.

L’uomo mi guardò negli occhi e per un attimo temetti potesse leggere in me ogni menzogna. Tentai di sorreggere il suo sguardo quanto più mi fu possibile - mi costò non poca fatica. Un rivolo di sudore mi solleticava la nuca, ma non osai muovere un muscolo per un lunghissimo istante.

Lui sorrise ambiguamente:

- Bene. Recate un annuncio?-

Trattenni il fiato. Quella conversazione sembrava tutta un interrogatorio di terzo grado. Ma dovevo sottopormi a quel flagello senza apparire troppo turbato, se mi premeva uscirne almeno vivo.

Si era seduto comodo di fronte a me, alla mia altezza. Quell’uomo non era stupido: cercava di imbrogliare le carte con un finto animo disponibile, ma si era dimenticato che il brivido della caccia gli percorreva ogni ruga del viso, e io potevo vederlo chiaramente. Più di quanto lui credesse.

- Lo attendevate?- lo sfidai, sperando in qualche dettaglio in più.

Non parve scomporsi:

- Ogni tanto, una buona notizia sarebbe gradita.- scherzò, ma non troppo.

Tentò un’altra sortita:

- Non siete voi il mio messaggero?- quasi era ironico.

Ci pensai su, indeciso, ma l’invito alla prudenza ebbe presto la meglio su me:

- No. Ho un’altra missione da compiere.-

Aragorn cercò di nuovo i miei occhi e non disse niente. In quel momento seppi che la schermaglia fra di noi si era trasformata in qualcos’altro: un braccio di ferro per la sopravvivenza di due compagini che, per quanto lontane, condividevano molta più vita di quanta ne potessimo immaginare.

Riprese a parlare con cautela, ma anche fierezza:

- Re Thranduil non è solito spedire esploratori così lontani dal suo regno - mi fece notare – a meno che non abbia un grande interesse. Dev’essere una missione veramente importante, la vostra, se oltretutto viaggiate da solo.-

Il dialogo si faceva via via più serrato. Mi sentivo incatenato, bloccato, messo alla gogna, ed era sempre più difficile mantenere la calma senza poter contare su niente, neanche sulle proprie gambe.

Quell’uomo conosceva troppi particolari. Ne ero certo, ormai, mi stava nascondendo qualcosa. E mi leggeva come un libro aperto. Magari non capiva ogni singola parola, ma ci stava provando, a intuire come sarebbe andata a finire la mia storia.

- Cosa siete venuto a cercare qui?- mi chiese con la spietatezza di uno strale.

Deglutii, cercando di racimolare tutto il mio coraggio per gettarglielo addosso. Era l’unica arma che mi fosse rimasta.

- Un uomo.- affermai con forza - Come voi.-

Con mia sorpresa, questa volta fu il suo turno a trasalire.






**N.d.A
CIAO! Eccomi con un nuovo capitolo! Spero che vi piaccia! 
Attendo le vostre recensioni, come sempre! :) a presto

 

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Capitolo 15
*** Aragorn ***


Aragorn

 

La nostra conversazione non mi era piaciuta per niente.

Il fatto di non sapere chi mi trovassi realmente davanti mi inquietava, perchè era chiaro che il mio ospite mentiva, per quanto maldestramente, ma si stava impegnando con tutte le sue forze.

Conoscevo gli Elfi meglio di chiunque altro, e ne conoscevo anche i rarissimi difetti. Uno di questi, se si può definirlo tale, è l’assoluta mancanza di disonestà e incoerenza, caratteristiche che invece abbondano negli uomini.

Mi ero accorto subito dei suoi tentennamenti: ci stava cascando a più riprese. Doveva avere un motivo molto valido o molto disperato per nascondersi dietro un paravento tanto stupido, ma non riuscivo a indovinarlo. La cosa non mi piaceva. Erano quattro giorni che stavo in sua compagnia e ancora non sapevo chi tenevo a dormire sotto la mia stessa tenda.

E poi era arrivata quell’affermazione tanto forte.

Non faticavo a credere che ci fosse qualcuno di più grande e potente alle spalle dell’elfo, ma improvvisamente questa consapevolezza mi era parsa ostile. Mi aveva gettato in faccia la sua verità, e questa volta potevo esser certo che fosse la verità: glielo si leggeva a chiare lettere nello sguardo.

Ora la mia domanda era: quale uomo del Nord poteva essere così importante da andare cercato? Quale uomo, buono o cattivo che fosse, poteva interessare agli Elfi, ora come ora?

I tempi delle grandi alleanze erano ormai finiti. La guerra contro l’Oscurità si era conclusa, chi aveva potuto era ritornato nella sua patria, infischiandosene degli amici e dei restanti nemici: sarebbero serviti tempo e volontà per riesumare gli antichi accordi.

Ma l’impellenza che ribolliva nelle vene di questo nuovo venuto mi portava a tutt’altro pensiero.

Tutto sommato, non c’era molto tempo a disposizione: gli orchetti imperversavano nelle terre del Nord, il Male si stava riorganizzando e probabilmente gli Elfi erano stati i primi a captarlo, nelle viscere della natura stessa. Forse avvertivano un certo bisogno di identificarsi in una speranza, qualcuno in cui credere; un predestinato; oppure, al contrario, desideravano avere qualcuno contro cui puntare il dito, qualcuno in cui riconoscere il nemico e contro cui scatenare l’antica rabbia. Estel, Elessar, i miei nomi elfici, mi suggerivano ben poche risposte.

La sola certezza che mi rimaneva era che quell’uomo potevo essere io.

Dovevo saperne di più, assolutamente.

La conversazione era continuata in toni smorzati ma molto meno amichevoli:

- Un uomo?- avevo ripetuto con moderazione, sforzandomi di mantenere un’espressione indecifrabile. Ma una mano era già corsa al pugnale che tenevo nascosto in fondo alla cintura.

Non l’avrei mai fatto se non debitamente provocato, ma ero pronto a scattare per difendermi.

- Prima ditemi dove mi trovo.- l’elfo mi aveva interrotto, puntandomi contro quello sguardo così penetrante, che non sapevo se apprezzare o detestare. Poi aggiunse un tiepido – Per favore.-

Ebbi un attimo di esitazione. Facevo bene a raccontargli la verità? Che male poteva farmi?

Era all’interno di un accampamento di guerrieri perfettamente addestrati e armati fino ai denti, mentre lui era stato tenuto lontano da qualunque oggetto potesse recare offesa.

Non mi conveniva in ogni caso farlo adirare più di tanto.

Mi decisi a parlare:

- Siete in un accampamento di Dùnedain, Raminghi del Nord.-

Gli si illuminarono gli occhi, come se improvvisamente si fosse reso conto di essere proprio dove sperava. Forse aveva trovato anche quello che cercava, pensai con una punta di apprensione. Mi disprezzai molto per avergli concesso quel dettaglio.

Strinsi più forte l’elsa del pugnale.

Se aveva mentito, come pensavo, non sarebbe stato facile tornare indietro; se aveva detto la verità, poteva essere il momento giusto per barattare e ottenere nuove informazioni su di lui.

Quale sarebbe stata la sua prossima mossa?

Lo vidi tentare di mascherare la sua trepidazione:

- Aragorn…-

C’era qualcosa che voleva dirmi, o chiedermi, ma d’un tratto le parole faticavano ad uscire dalla sua bocca.

Ebbi un tremito. Forse si era accorto del pugnale. Forse si era accorto della mia insolita freddezza, forse aveva capito che io lo avevo capito, e non sapeva più cosa fare.

Era la parte debole in tutto ciò, cosa che odiava, di sicuro.

Finalmente trovò il coraggio di proferire parola:

- Sto cercando un uomo di nome Grampasso. Dicono che viva qui al Nord, in uno degli accampamenti dei Dùnedain. Anche lui è un Ramingo. Voi forse lo conoscete? E’ forse uno dei vostri uomini?-

Credetti di svenire.

Grampasso era un nome che conoscevo fin troppo bene. Era così che mi facevo chiamare da chiunque non avesse con me un rapporto di lealtà sufficientemente stretto; ma probabilmente l’elfo mi aveva sentito parlare solo con Bjorn, e per Bjorn io ero Aragorn, solo Aragorn, il vero Aragorn.

Non potevo crederci.

Quell’elfo cercava me?!

Perchè?

Ero assai geloso della mia identità. Era meglio tenerla celata il più a lungo possibile, almeno finché mi fossi sentito pronto ad affrontare la Terra-di-Mezzo, con tutte le sue annose questioni, e a ricostituire l’antico regno degli Uomini. Non sapevo di chi avrei potuto fidarmi veramente, a parte Bjorn.

Gli elfi rappresentavano di solito degli amici, degli alleati, ma non conoscevo assolutamente niente di questo abitante di Bosco Atro, né che cosa era venuto a fare a Fornost. Da solo. Anche tra gli elfi potevano esserci traditori, ottenebrati dall’avidità o da altri vizi del mondo. E, in assoluto, fra di loro vi erano anche i più bravi sicari.

Dovevo riuscire a scoprire qualcosa di più, prima di potermi lasciare andare a qualsiasi rilassatezza.

- Non è qui.- risposi con circospezione – Perchè volete parlare con lui?-

- E’ importante.- tagliò corto l’elfo, in tono sibillino.

Era chiaro che non avrebbe confessato facilmente. Si teneva stretti a sé la vita e il silenzio, la sua unica arma di difesa.

- Sapete dove posso trovarlo?- azzardò.

Ci pensai, forse un po’ troppo. Faticavo a trovare una scusa plausibile che non insospettisse eccessivamente l’elfo. Come me, anche lui mi stava scrutando di sottecchi e cercava di carpire informazioni dal mio comportamento. Immaginavo che non provasse alcuna fiducia nei miei confronti, specie in quel momento.

- Mi dispiace, ma è in missione.- insistetti – Non so quando tornerà.-

L’elfo fece una smorfia contrariata. Non capivo se si era bevuto davvero la mia storiella o se mi stava tendendo una trappola: dai suoi occhi azzurri non trapelava, stranamente, alcun sentimento. Niente che io potessi decifrare almeno.

Sudavo freddo. Non potevo confidarglielo, ma probabilmente avevo il corpo più ghiacciato di quanto non lo fosse stato il suo in punto di morte. La minaccia mi era troppo vicina, e la spada veramente troppo lontana.

- D’accordo.- concluse poi – Vorrà dire che appena mi rimetterò in piedi, andrò a cercarlo.-

Poi, senza lasciarmi neanche il tempo di ribattere, senza dare alcun’altra spiegazione, si coricò su un fianco, con il viso rivolto dall’altra parte, dove io non lo potessi vedere. Per non scoprirsi ulteriormente, o forse esausto per lo scambio di battute.

Me ne stetti un po’ ad osservarlo.

Avevo l’impressione di dover imparare molte cose da lui.

 

Finalmente era andato a riposare. Erano state lunghe ore sull’attenti, con le orecchie sempre all’erta. L’avevo visto e sentito muoversi con una certa agitazione, ma prima dell’alba si era finalmente abbandonato al sonno. Tuttavia, immaginavo che il suo fosse un riposo solo apparentemente profondo.

Per questo feci molto piano. Avevo lasciato i suoi pugnali a pochi piedi da lui, sotto un mucchio di pelli, anche se non poteva saperlo. Lentamente, in silenzio, glieli rubai da sotto il naso e mi portai fuori dalla tenda.

L’elfo non si mosse.

Non intendevo sottrarglieli sul serio, ma se c’era qualcosa di cui dovevo sapere, di sicuro lo avrei ritrovato in quell’armeria, un dettaglio che in un primo momento avevo erroneamente trascurato. Speravo in un particolare che, alla luce delle recenti rivelazioni, poteva essere rivalutato.

Estrassi uno dei pugnali dell’elfo dal suo fodero.

Era una lama di rara bellezza, forgiata in solido ferro da sapienti mani e arricchita da intarsi incredibili. Riluceva nella pallida luce delle stelle come l’arma di un Dio. Un’arma che non solo poteva essere mortalmente letale ma anche dannatamente bella e invidiabile. Un’arma degna di un re.

Ma mai di un servitore.

- Tu non me la racconti giusta, elfo.- sentenziai tra me e me.

Passai delicatamente una mano sul filo e poi sul piatto del pugnale, stando attento a non tagliarmi. Ero certo che l’elfo se ne sarebbe accorto anche se l’avessi ripulito, e dopo si sarebbe fatto un sacco di domande. Troppe domande.

Quindi, feci in fretta a rimetterlo nella guaina e passare all’arco.

Era forse lui il re di Bosco Atro? Me lo ricordavo diverso...ma forse era la mia memoria a non essere buona. L’avevo visto solo una volta a Gran Burrone, quando ero ancora un bambino: una creatura alta, austera, dai capelli biondi, quasi diafani, e con occhi fieri. La somiglianza con il viso dell’elfo era innegabile, anche a distanza di tempo, ma dubitavo seriamente si trattasse della stessa persona. Potevano forse essere parenti? Un mandato speciale dalla famiglia reale?

Sì, per cercare un uomo. Era per questo che viaggiava così armato, pensai con una punta di ironia. Forse era stato inviato lì per uccidermi, o scortarmi in chissà quale posto. Per conto di chi? Re Thranduil avrebbe potuto veramente desiderare la mia morte? Chi era quella maledetta creatura uscita da chissà dove?

Mentre ancora ragionavo, i pugnali si accesero di un blu fosforescente: magia elfica!

Me ne stetti impietrito, con quelle armi in mano, per un lunghissimo secondo, senza essere in grado di fare niente, temendo di esserne bruciato, oppure semplicemente di essere scoperto. Sapevo cosa significava quel bagliore, che lingua stava parlando: il nemico era nelle vicinanze e io non stavo facendo niente per impedirlo. Mi sentivo sempre più inutile e incosciente, sempre più cieco e sempre più sordo a certi segnali che non riuscivo a comprendere.

Nel dubbio, ero pronto a dare l’allarme. Ma la luce durò poco, anzi, quasi subito si affievolì e scomparve, prima che potessi gridare qualsiasi ordine.

La cosa mi lasciò perplesso.

Assolutamente, doveva esserci qualcosa che covava sotto la cenere, qualcosa che dovevo scoprire al più presto e probabilmente aveva a che fare con quell’elfo.

Riposi velocemente le sue armi dove le avevo trovate, ma il timore mi tormentò tutta la notte.




**NOTA DELL'AUTORE**
Ciao a tutti! Ecco un altro episodio di questa intricata storia: come andrà a finire?
Agli occhi di Aragorn il mistero si infittisce, invece che sciogliersi; per Legolas, la paura è forse la sua guida, oppure già si prepara allo scontro?
E Thranduil dov'è?! Fra poco lo rivedremo alle prese con tutt'altri problemi! 
A presto e, come sempre, fatemi sapere che ne pensate ;)

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Capitolo 16
*** Thranduil ***


Thranduil

 

Purtroppo, non c’era nulla che io potessi fare. Ero arrivato troppo tardi.

Alla notizia della morte di Tauriel, mi ero precipitato nelle sue stanze, quasi correndo, scartando chiunque si parasse sulla mia strada; ma quando ero arrivato, mi ero reso subito conto che non c’era più niente da fare.

Il suo corpo giaceva sul letto, ancora con la corda al collo. Quelle buone anime dei miei paggi dovevano essersi impegnati a restituirle quella dignità che le si addiceva, adagiandola sulle coperte morbide dove avrebbe dovuto riposare, invece che morire.

Alla sua vista, la mia vecchia ferita aveva iniziato a pulsare, come se rispondesse a un invisibile richiamo. Mi ero portato la mano al viso cercando di nasconderla, ma mi sembrava che a poco valesse contro quella realtà che non volevo vedere.

Sopportando quel dolore indicibile, mi avvicinai a lei. Era così pallida e così stanca, così piccola, come non la ricordavo. L’avevo vista crescere insieme a Legolas, un po’ come una seconda figlia affidatami mio malgrado, dopo la morte dei suoi genitori. L’avevo voluta forte, brava e perfetta, come lo ero stato io prima di Angmar.

Ora mi rendevo conto che non c’era bisogno di andare in terre lontane per incontrare il Male.

Quello sul letto era solo un riflesso di ciò che era stata Tauriel. Il resto, se l’era portato via Mandos nelle sue aule: il bene più prezioso, il coraggio, era ormai scomparso, prosciugato dall’ultimo sforzo verso il mondo dei Valar.

Non so perché, ma strozzai un urlo in gola, che improvvisamente premeva per uscire. Probabilmente una parte di me stava pensando alla reazione che avrei potuto avere se su quel letto ci fosse stato Legolas. Egoisticamente, per un secondo ho gioito che non fosse così. Tuttavia, avvertivo disperazione dentro al cuore.

Tauriel era stata la mia miglior avversaria. La degna figlia che mia moglie avrebbe desiderato, se fosse vissuta.

Tauriel era stata vittima dell’amore, come la sua madre adottiva prima di lei.

Mi sentivo responsabile una seconda volta nella vita.

Rischiava di essere una cosa insopportabile per me.








**NOTA DELL'AUTORE**
Eccoci con un breve ma intenso capitoletto dedicato a Thranduil, alle prese con la morte di Tauriel. Quando si dice "a ognuno il suo" (dolore in questo caso)!
Che ne pensate? 
Anche Thranduil avrà qualcosa da dire in questa storia, sta solo aspettando il suo turno! ;)
A presto con nuovi aggiornamenti :)


 

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Capitolo 17
*** Legolas ***


Legolas

 

Ormai non potevo più tornare indietro. Avevo mentito troppo e per troppo tempo. L’unica cosa che potevo fare era scappare, il più lontano possibile, tanto per iniziare; in seguito, avrei ripreso la mia marcia verso nord, sperando mi venisse un’idea per rintracciare Grampasso.

Ero convinto che Aragorn non mi avesse detto tutta la verità riguardo al suo compare, ma per quanto ci rimuginassi, non riuscivo ad arrivare al bandolo della matassa. Più ci pensavo, più mi sentivo stupido, ed era un affronto che non riuscivo più a sopportare.

Erano passati sufficienti giorni da quando mi aveva trovato e portato all’accampamento. Le sue cure erano state precise e costanti, tanto che in poco tempo mi ero ripreso completamente, senza ricadute di sorta.

Appena avevo potuto, avevo richiesto le mie armi, che mi erano state consegnate personalmente da Aragorn. A dire il vero, avevo notato una certa frettolosità nel ridarmele, quasi ne avesse timore o scompiglio. Non ne capii il motivo, finché non le ebbi tra le mani. Come le sguainai, compresi.

Su una di esse notai una strana opacità che non aveva mai conosciuto prima. Le tenevo sempre lucidate, erano state il mio primo amore ancora prima di scendere in battaglia: erano l’anima di mio padre, una delle poche cose in cui sentivo viva la sua presenza nella maniera più profonda. Non avrei mai potuto permettere che si sporcassero di qualsivoglia incuria, né da parte mia né da parte di altri.

Avevo guardato Aragorn di sbieco, sperando di intuire dal suo comportamento qualche ammissione inconfessata, ma fu bravo a resistermi. Rimanevo convinto che ci fosse qualche sorta di continuità tra lui e la condizione dei miei pugnali, ma non avrei mai potuto dimostrarlo senza un dettaglio realisticamente fuori posto.

Ma ero sicuro che qualcuno li aveva toccati. Senza il mio permesso.

In ogni caso, per me era giunto il momento di riprendere la mia marcia. Non sapevo ancora dove mi sarei diretto, ma qualsiasi posto avrebbe potuto andar bene, purché più vicino a quell’uomo di nome Grampasso.

Nei giorni precedenti, avevo preso a passeggiare per il villaggio in cerca di informazioni su questo mitico essere, ma avevo notato una certa diffidenza intorno a me: una cortina di ferro, oserei dire. Le donne e i bambini mi schivavano come le peste, mentre i guerrieri parlavano malvolentieri e quando provavo ad affondare di più nel nome di Grampasso, si chiudevano in un mutismo ostile, quasi fossero stati avvertiti di non fiatare.

Più passava il tempo, più mi convincevo che l’ombra di quel personaggio era molto più ampia di quello che mi aspettavo. Tanto da incutere un reverenziale rispetto anche negli uomini fisicamente lontani da lui.

O forse era molto più vicino di quello che sospettassi?

Il clima di ambiguità che si era creato mi opprimeva ogni giorno di più. Avevo potuto parlarne liberamente solo con Aragorn, che nonostante le reticenze si era dimostrato molto più affabile degli altri uomini. Anche a lui avevo chiesto di Grampasso, e qualche informazione me l’aveva data, a fatica, ma non mi bastava; anzi, mi innervosiva, perché mi rendevo conto che c’era di più, ma non potevo arrivarci discorrendo.

Ormai il mio tempo all’accampamento si era concluso.

- Devo partire.- annunciai un giorno, proprio quando il sole per la prima volta riuscì a fendere la nebbia che avvolgeva quelle terre desolate. Ora potevo di nuovo vedere lontano mille miglia, e per quanto poco mi rinfrancasse scorgere solo lande vuote e silenziose, sentivo che la mia strada era di nuovo tracciata in quella bruma.

Aragorn accondiscese con un gesto del capo:

- E’ stato un piacere godere della vostra compagnia.- mi disse in tono palesemente ironico.

Ricambiai lo sguardo fiero con una sicurezza che in realtà non avevo, ma desideravo ardentemente, se non altro, per dimostrargli che ancora possedevo una dignità, anche di fronte al suo disprezzo.

Non avevamo avuto altri scontri, ma tra noi aleggiava un pesante non detto, che rotolava come un macigno dalla mia alla sua bocca e viceversa ogni volta che ci rivolgevamo la parola.

- Vi ringrazio ancora per le attenzioni che mi avete dedicato.- ed ero sincero mentre per l’ennesima volta gli mostravo la mia gratitudine – Abbiate cura di voi e dei vostri uomini, ora.-

- Senz’altro.-

Era un tono di sfida, quello?

- Avete preso sufficienti provviste?- mi chiese poi.

- Ne ricaverò lungo la via.- risposi piuttosto acidamente.

Strinsi le labbra e imbracciai le armi, pronto ad andare. Mi voltai con impazienza mista a tensione, le orecchie tese. La stessa mano che mi aveva salvato avrebbe potuto anche uccidermi in quel momento; ma non successe nulla.

Mi allontanai a passo di marcia, rincorso da sguardi curiosi e altri intimoriti; non me ne importò più di tanto.

Avevo una missione da compiere.

Sul terreno rischiarato appena da un sole ammalato, mi muovevo di nuovo leggero come l’aria, senza lasciare impronte. Il mio inesauribile fiuto mi portava in una direzione: mi fidavo del mio sesto senso.

Anche se avrei fatto meglio a fidarmi del mio cuore.





N.d.A
Ciao a tutti, sono appena tornata dalle vacanze!!! Ecco un nuovo capitolo, anche se un po' cortino, spero vi piaccia! Vi prometto che con il prossimo farò meglio :) Ve l'aspettavate? Spero di no...il viaggio continua!

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Capitolo 18
*** Aragorn ***


Aragorn

 

L’elfo avvertiva un bisogno sfrenato di riprendere la sua marcia: lontano da lì, lontano dai suoi ricordi, lontano da chiunque. Lo riconoscevo dai suoi gesti, dalla sua smania sempre più visibile sotto la pelle, dietro agli occhi.

Era giunto per lui il momento di andare.

Non avevamo più avuto screzi, ma qualcosa ribolliva ancora nella sua pentola, e potevo ben immaginare di cosa si trattasse. Del resto, anche la mia ribolliva di domande mai pronunciate, di dubbi intensi come colori al tramonto, come non ne vedevo da anni nelle fosche Terre del Nord. L’ultimo raggio di luce nella mia vita era stato proprio quell’elfo, che era piombato come un fulmine a ciel sereno e aveva scombussolato il mio equilibrio e quello dell’accampamento. Non solo per i suoi modi di fare, così regali e al tempo stesso plebei, ma anche per quell’aura magica che si portava appresso, oltre al mistero fitto fitto che lo circondava. Più lo osservavo, più avevo desiderio di nascondermi alla sua vista penetrante, geloso più che mai della mia identità e di quello che per lui poteva significare.

Avevo resistito finché si era stancato. Fu un sollievo per me vederlo fare fagotto e allontanarsi a testa alta, con una postura da vero cavaliere, o da vero re. I miei sospetti - quelli che non erano mai passati, quelli che non avevano mai trovato risposta - crescevano ad ogni passo che lo portava via da me.

Forse non avrei mai più avuto modo nella vita di chiederglielo, ma davvero morivo dalla voglia di conoscere il suo vero nome.

Uno dei miei guerrieri mi si avvicinò intanto che seguivo meditabondo l’ombra che l’elfo si lasciava alle spalle mentre spariva pian piano nella foschia. Guardò anche lui nella stessa direzione, con addosso un’espressione per niente convinta.

Eravamo in molti a nutrire non pochi dubbi su quell’elfo.

- Seguitelo.- mi sorpresi ad ordinare, all’improvviso – Chiama Rembrandt e portalo con te. Dovete partire prima che scompaia del tutto.-

Era stata una decisione affrettata e quasi inconsapevole, nonché potenzialmente dannosa. In teoria, non avevo uomini da impiegare in simili inseguimenti; in pratica, stavo infrangendo tutte le mie regole. Ma se c’era una possibilità di scoprire qualcosa, non era certo stando con le mani in mano, chiusi dentro l’accampamento.

- Subito, Grampasso.-

Prima che sparisse anche lui, precisai:

- Non fategli del male. Lui non ne ha fatto a noi. Solo, tenetelo d’occhio finché non avrà rivelato la sua vera identità e le sue vere intenzioni.-

Il mio fido guerriero intese perfettamente che cosa mi premeva al cuore.

- D’accordo.- disse, e corse a chiamare Rembrandt.

 

Mi avevano avvertito di una nuova visita nel pomeriggio. Avevano avvistato un cappello grigio che si muoveva con discreta lentezza tra le asperità: un vecchio con un bastone. Dalla descrizione accurata dei miei uomini, avevo capito subito che poteva trattarsi solo di Gandalf, lo Stregone Grigio, mio grande amico e mentore da decenni. Probabilmente era venuto per me.

Ero felice di rivederlo.

Lo aspettai all’accampamento, dove la sua alta e magra figura comparve presto, scortata dai miei guerrieri. Su di loro svettava con insolita alterigia, benchè non ci fosse traccia di essa nell’animo di Gandalf. Si lasciò condurre docile come un agnello fino al mio cospetto, mostrandosi gentile con tutti. Dai suoi gesti, tuttavia, intuii una certa apprensione.
Aveva urgente bisogno di conferire con me.

- Gandalf!- lo chiamai, mentre mi muovevo nella sua direzione – Gandalf!-

Quando si voltò e mi vide anch’egli, un sorriso benevolente gli si aprì sul viso:

- Aragorn, quanto tempo!- esclamò.

- Sei sempre lo stesso. – replicai io, raggiungendolo e abbracciandolo.

Rise. Adoravo il suono della sua risata: mi ricordava quella di mio padre. Immaginavo che, se fosse vissuto, avrebbe avuto quella voce quasi gracchiante, come di uno che la sa lunga, ma non vuole raccontartela. Sognavo, quando vedevo Gandalf e i suoi capelli argentati, e mi auguravo di poter vivere abbastanza a lungo per giovare di una saggezza anche infinitesima rispetto alla sua, purchè fatta della stessa pasta.

Ma lui era bravo a farmi tornare alla realtà, sempre troppo presto.

Mi guardò in viso e improvvisamente si fece serio:

- Sono qui per avvertirti.- mi disse, cingendomi le spalle con un braccio – Portami dove possiamo stare tranquilli.-

Ordinai ai miei uomini di tornare liberi dai ranghi e lo condussi personalmente alla mia tenda. Era l’unico luogo lontano da orecchie indiscrete, l’unico dove potessi rifugiarmi in cerca di idee, oppure di riposo.

Gli proposi di accomodarsi, ma declinò con fervore l’offerta. Lo vedevo piuttosto nervoso: era chiaro che preferiva passeggiare su e giù, come era solito fare quando non aveva ancora trovato una soluzione agli innumerevoli enigmi di cui si faceva carico.

Io mi sedetti, invece, di fronte a lui.

- Hai sentito degli orchetti?- esordì il mago, degnandomi finalmente di uno sguardo.

- Certo. Li ho anche incontrati. E li ho anche sgozzati, se è per questo.- mi vantai.

Lui scosse la testa:

- Non sono i soliti orchetti, Aragorn.- continuò, senza darmi la benchè minima soddisfazione – Sono una nuova specie di creature immonde. Sono più forti, più robusti e sbucano a migliaia come da un formicaio. Il Male si sta risvegliando e noi non sappiamo perché: nella Terra-di-Mezzo sono tutti sul chi va là, specialmente dopo che anche il colle di Dol Guldur ha ripreso a borbottare.-

Quel nome suscitò in me un forte sgomento: nessuna creatura nata dalle viscere di Dol Guldur era mai stata facilmente battuta sul campo di battaglia.

Fui come risvegliato da una specie di torpore, mentre la foga di Gandalf mi risucchiava in un’altra ridda di parole:

- Viaggiano accompagnati – ansò – da schiere di altre progenie del Male: Lupi Mannari, Vermi Mangiaterra, Troll e Draghi. Oh Valar, mancano solo i Balrog e mi sembrerebbe di tornare a secoli fa, quando la Terra-di-Mezzo assisteva atterrita alla disfatta dei Noldor e di Gondolin.-

La memoria di quei racconti mi agitava. Mi mossi, a disagio, mentre la mia mente si sforzava di elaborare un piano d’attacco il più in fretta possibile.

- Dobbiamo fare qualcosa.- sentenziai.

- Assolutamente.- annuì Gandalf – Nella Terra-di-Mezzo, poche armate di elfi, nani, uomini e altre creature coalizzate hanno appena sconfitto le forze dell’Oscurità vicino al monte di Eregon, non senza gravi perdite. Ma ci sarà bisogno dell’aiuto di tutti quanti noi per salvare il mondo. - mi guardò eloquentemente - Aragorn, è ora che tu abbandoni il comando di questo manipolo di soldati, lasciandolo a un tuo fedele, e tu mi segua nella Terra-di-Mezzo. Andremo da Re Elrond, tanto per cominciare, e lì decideremo il da farsi.-

Ero spaventato da quelle parole. Doveva avermelo letto in faccia:

- Abbiamo bisogno di te, Aragorn.- mi ricordò ancora una volta – Tu sei predestinato. Come lo sono stati i tuoi avi, prima di te. Il tuo momento è giunto.-

Sentii le lacrime che mi pungevano ai lati degli occhi. Nel tentativo di nasconderle, mi presi la testa tra le mani.

Il momento era infine giunto.

L’avevo sempre saputo, fin da quando ero bambino, che prima o poi sarebbe arrivato. La mia vita non era stata altro che una lunghissima preparazione a questo istante: un duro allenamento per scolpirmi i muscoli e la mente, in modo da poter affrontare la sfida che il mio sangue portava con sé dai tempi della Caduta degli Uomini.
Avevo addosso tutto il peso di quegli anni, ma non mi sentivo veramente pronto.

Forse perché non si è mai veramente pronti ad affrontare certe battaglie.

Mi riscossi. Non era da me soccombere in quel modo. C’era un’unica maniera per uscire vivo da quella tempesta, ed era attraversarla con la spada sguainata e gli occhi di fuoco, come mi avevano insegnato i miei maestri. Con la consapevolezza di non essere uno tra i tanti, ma di incarnare la speranza di tutti i popoli sotto un unico stendardo.

Quei pensieri mi rinvigorirono.

Mi alzai, più risoluto. Gandalf mi guardava con curiosità, finché una luce di comprensione gli si accese negli occhi. Sorrise.

- Ora ti riconosco, Aragorn.- annunciò – Sei il degno figlio di tuo padre.-

Senza dir nulla mi diressi verso l’entrata della tenda. Improvvisamente sapevo cosa fare: tutti gli antichi meccanismi si erano riaggiustati e rimessi i moto, e il tempo che volava inesorabile veniva di nuovo canalizzato nel minuscolo orologio nella mia testa. Non c’era un minuto da perdere.

Gandalf tossicchiò rumorosamente, ma io non ci feci caso più di tanto. Una mia mano era già sulla stoffa logora di quella che sarebbe stata la dimora di qualcun altro, in mia assenza. Magari di Bjorn.

Dovevo assolutamente parlare con lui di tutta questa faccenda e della mia imminente partenza.

- Mi permetti un’ultima domanda, Aragorn? - il mago mi fermò quando stavo per varcare la soglia.

Mi voltai e gli feci rapidamente un cenno di assenso, anche se mi sembrava avessimo parlato ormai di tutto e toccasse solo agire.

Gandalf si pizzicò distrattamente la radice del naso:

- Hai forse incontrato un elfo, sulla tua strada, recentemente?-

Il sangue mi salì improvvisamente alla gola e me la chiuse. In un battibaleno, il mio incubo ritornava. I dubbi ritornavano.

Gli unici a non tornare erano stati i miei uomini.

Gandalf si accorse facilmente del mio turbamento:

- Tu lo hai visto.- rincarò la dose, molto sicuro di sé.

Deglutii faticosamente. Molte domande affollavano la mia mente ora:

- Ho visto un elfo.- lo fronteggiai – Ma tu come lo sai?-

- Non lo sapevo.- Gandalf si dondolò faticosamente da un piede all’altro – Ma immaginavo che sarebbe passato di qua.-

- Chi è?- ruggii, quasi senza volerlo – Lo conosci?-

Gandalf fece un sorriso ambiguo:

- E’ forse alto, biondo, corpo atletico, con carattere da vendere?-

Ero sbalordito. Non potevo credere che stavamo parlando sul serio della stessa creatura. Eppure quella descrizione calzava a pennello. Gandalf doveva saperne molto di più di quanto non mi avesse detto, era evidente. E io dovevo farmelo dire, a tutti i costi.

Prima che potesse essere troppo tardi.

- Sì.- acconsentii.

La mia sete di sapere doveva essergli giunta forte e chiara, oppure la mia faccia appariva ridicola viste le circostanze, perché scoppiò a ridere:

- Vorresti raccontarmi cosa è successo?- si informò.

- Cosa ha a che fare con te?- lo aggredii tutto d’un fiato.

Non l’avevo fatto apposta, ma cominciavano a essere troppe cose e tutte insieme, e tutte a mia insaputa. Avevo in mente di dover proteggere la mia gente e mi lasciavo abbindolare dagli eventi? In virtù di cosa? E per quale motivo dovevo addossarmi tanta fatica in più per capire?

Volevo una spiegazione. Pretendevo una spiegazione.

Fosse stata l’ultima cosa che facevo.

- Calmati.- cercò di rabbonirmi Gandalf – Non è niente di grave.-

Non dissi niente, per evitare altre brutte figure. Ma ero teso, non poco.

Il mio amico mi invitò a sedermi:

- Forse è il caso che ti racconti la storia dall’inizio.- esordì, mentre io ubbidivo al suo ordine.

- C’è una storia da raccontare?- chiesi, sarcastico.

Lo stregone non ci fece caso, e continuò:

- Se ti ha impressionato davvero come credo...- disse – quell’elfo dev’essere senz’altro il principe Legolas.-

- Principe?- ripetei. Ero esterrefatto.

- Sì...- Gandalf sorrise – Legolas Verdefoglia, figlio di re Thranduil, erede al trono al regno di Bosco Atro.-

Facevo fatica ad articolare le parole:

- Aveva detto di chiamarsi Fadhel…- biascicai.

- Un po’ di accortezza non ha mai ucciso nessuno, anzi, ha salvato la vita a molti.- mi fece notare Gandalf, forse sorpreso dalla mia immaturità.

- Sapevo che non mi stava dicendo la verità!- sbottai, battendo un pugno sulla mia coscia – Dopo tutto quello che ho fatto per lui!-

Gandalf rizzò le orecchie:

- Che cosa è successo?- si fece serio in un attimo.

Così gli raccontai tutto: da quando avevo trovato l’elfo mezzo morto nel bosco a quando se n’era andato via. Gli raccontai anche del primo incontro, quello in cui per poco non ci eravamo ammazzati.

Più andavo avanti a raccontare più mi pareva assurdo il tutto, come se rivivessi un sogno al contrario. Ancora di più mi chiedevo come non avessi potuto accorgermi di nulla.

Avrei dovuto capirlo. In effetti, l’avevo sospettato. Dai vestiti, dalle armi, dalla perfezione con cui si muoveva nel combattimento...com’ero stato stupido!

Gandalf ascoltava con il fiato sospeso. In particolare, trattenne il respiro quando gli dissi delle condizioni in cui aveva versato l’elfo; infine, tirò un sollievo quando gli confermai che si era rimesso perfettamente, oserei dire quasi nuovo.

Pareva preoccupato più per lui che per me.

- Dov’è ora?- osò chiedermi in un momento di pausa.

- Perchè è così importante?- ribattei, furioso più con me stesso che con lui – Non dev’essere troppo lontano. Gli ho messo degli uomini alle calcagna.-

Lo guardai intensamente. Ero stanco di aspettare.

- E’ anche per lui che sei venuto, Gandalf?-

- Oh no – disse – Legolas non ha bisogno di una balia che si interessi a lui!

(avrei detto il contrario)

ma essendosi distinto assai in guerra, avrei avuto piacere di sapere a quale fine fosse andato incontro, così da solo. L’ho visto allontanarsi di buon passo dai campi di cadaveri, con in viso un adombro che non mi piacque. Suo padre è stato impenetrabile al riguardo; ma io sono affezionato al suo ragazzo.-

Il tono di Gandalf si era fatto solenne, nonché intenerito:

- Legolas non si è mai tirato indietro. Non si è mai negato a dare un aiuto. Nonostante il suo rango, non ha esitato a schierarsi dalla parte di chi aveva bisogno di aiuto e della giustizia, anche quando ciò ha significato mettersi contro suo padre il re.-

Io ascoltavo con attenzione. Quei fatti erano a me sconosciuti, e la storia alle loro spalle lo era anche di più, ma il timbro di voce che Gandalf usava nel parlare di quell’elfo allietava le mie orecchie in modo inusitato. Il mio amico sembrava essergli molto riconoscente per il ruolo giocato durante la battaglia contro il drago Smaug e quella che ai posteri sarebbe stata nota come Battaglia delle 5 Armate.

Questo Legolas si era distinto per abilità nel combattimento ma anche per umiltà, al contrario di suo padre. Probabilmente perché suo malgrado sapeva che cosa fosse l’umanità, anche nelle sue imperfezioni. Era pur sempre una creatura terrena.

Più ascoltavo, più mi rendevo conto che davvero aveva meritato di essere salvato.

Gandalf sciorinò tutta la storia senza interruzioni, quasi fosse un flusso di coscienza tra sé e sé, incurante di me medesimo, ancora in piedi vicino a lui:

- A buon rendere, potrebbe rivelarsi un prezioso alleato.- erano state le sue conclusioni - So che suo padre l’ha mandato qui a cercarti…e guarda caso, anche io cerco te, probabilmente per lo stesso motivo.-

Un lampo mi attraversò la mente:

- In effetti aveva detto di star cercando Grampasso.- annuii.

Il mago mi osservò di sottecchi. Era stato lui, anni addietro, ad appiopparmi quel nomignolo, e da allora non avevo mai cessato di usarlo.

- Ovviamente tu non gli hai detto nulla.- borbottò, quasi compiaciuto.

Feci un sorrisino indeciso tra il mesto e il vanaglorioso:

- Ovviamente.-

A quel punto, Gandalf scoppiò a ridere:

- Questa è bella! A un passo dall’obiettivo… Non se lo perdonerà mai!-





*N.D.A
Ooooooops! Ma che cosa abbiamo qui?! XD Mi immagino la faccia di Legolas se lo venisse a sapere...ma lo verrà a sapere? Forse lo scoprirete nel prossimo capitolo! Aspetto i vostri commenti :)

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Capitolo 19
*** Legolas ***


Legolas

 

Camminavo ormai da ore su quella terra brulla, eppure non mi sentivo per niente stanco. Il riposo forzato mi aveva riempito di energie oltre ogni immaginazione. Riprendevo quindi il mio viaggio verso il nulla, con rinnovato spirito indomito e nuove frecce nella mia faretra.

Ogni tanto una mano correva alla spalla, dove la pelle ancora non si era rimarginata del tutto: una punta di fastidio si affacciava sull’orlo della mia coscienza e mi ricordava che mi era stata donata una seconda possibilità.

Ripensavo ad Aragorn e alle sue cure, e mi chiedevo che cosa l’avesse spinto ad insistere così tanto nel salvarmi la vita.

Forse non avrei mai saputo il suo vero nome, né la sua vera storia, ma quel poco che sapevo mi bastava per definirlo un uomo leale, anche se non mi aveva detto tutta la verità su di lui.

Ne ero consapevole.

Mentre marciavo nella nebbia del tardo pomeriggio, mi parve di distinguere un rumore. Non un comune rumore: qualcosa che stonava appena con tutto il resto, come un filo scappato via dalla trama di un vestito.

Continuai a camminare imperterrito, ma a un passo appena percettibilmente più lento e irregolare. Questo mi permetteva di confondere le idee al nemico, se di nemico si trattava, perché non avrebbe più potuto indovinare facilmente il ritmo del mio incedere, e si sarebbe inevitabilmente scoperto.

Infatti, ora udivo bene i suoi passi felpati e cadenzati, che cercavano di ricalcare i miei, ma senza riuscirci. Probabilmente non si trattava di un esperto inseguitore, o magari stava solo cercando di fare del suo meglio.

Mi fermai di botto, con il chiaro intento di sorprenderlo. Come immaginavo, anche il flebile rumore, leggero come un battito d’ali di farfalla, si spense nel silenzio, pochi attimi dopo.

Trassi un respiro e chiusi gli occhi, concentrandomi. Sullo sfondo nero delle mie palpebre chiuse, rivedevo il contorno dei paraggi nei loro colori indecisi, mangiati dalla nebbia; avvertivo gli odori acuirsi, i raggi di luce filtrare nei miei occhi e guidarli verso un punto preciso. Finchè ne ebbi la certezza.

Trassi rapidamente una freccia dalla faretra, la incoccai e mi voltai, mirando con sicurezza al cuore della mia vittima. All’ultimo, virai appena un po’ più a destra, per non permettere che il colpo fosse mortale, e lanciai il primo proiettile. Poi ne incoccai subito un’altra e la feci piombare nel bel mezzo di un cespuglio.

Un gemito soffocato mi giunse alle orecchie prima che traessi i pugnali dal fodero.

Dalle fronde vidi un uomo strisciare in avanti, con la mia freccia conficcata tra il collo e la clavicola, un punto dolorosissimo e pericolosissimo: bastava un niente, un soffio, e poteva essere la sua fine.

Un altro uomo spuntò da dietro alcuni massi, trascinandosi appresso una gamba malridotta dall’altro mio colpo maestro.

Subito mi avvicinai a grandi passi verso quest’ultimo, lasciando il suo compagno rantolante per terra. Lo sollevai per il bavero, alleviandogli per un attimo il dolore alla gamba:

- Chi vi manda?!- ruggii, premendo forte sul collo dell’uomo – Parla!-

Lo sconosciuto digrignò i denti, irrigidendosi. Così malmessi, a malapena sarebbero riusciti ad essere poco meno che inoffensivi, tuttavia nessuno dei due aveva perso coraggio.

Quello ferito a terra mi artigliò una caviglia, tentando di fermarmi, ma io me lo scrollai velocemente di dosso.

Avrebbero potuto essere le sue ultime parole nella vita, ma l’uomo che tenevo tra le mani prese comunque fiato e senza paura sibilò per tutti e due:

- Io non tradisco!-

Mi inalberai ancora di più, a quell’affronto. Strinsi ulteriormente la stretta sulla sua carotide, che pulsava impazzita:

- Parla!- gli ingiunsi.

Lui si mosse disperatamente in cerca di aria.

Osservandolo meglio, mi resi conto che lo conoscevo. Lo avevo intravisto all’accampamento dove Aragorn mi aveva portato e curato: lucidava le pelli e fabbricava frecce, quando non montava la guardia ai confini del piccolo villaggio. Aveva moglie e figli lì.

Per un istante mi sentii un verme, ma l’istinto di sopravvivenza fu, ancora una volta, predominante:

- Io so chi sei.- affermai, minaccioso – Ti ho già visto. Eri all’accampamento in cui mi sono svegliato. Non osare mentirmi! So che hai moglie e figli che ti aspettano a casa.-

A quel punto, l’audacia dell’uomo parve vacillare. Aveva tenuto il pensiero lontano dai suoi cari finché aveva potuto, quel tanto che bastava per morire da eroe. Ma adesso, penetrato dai miei occhi indagatori, stretto nelle sue angosce, non sembrava più così sicuro di riuscire a resistere. Ad andarsene serenamente lontano da questo mondo.

Nonostante ciò, sputò con rabbia:

- Tu sei solo uno straniero!-

La sua faccia tosta mi sorprese, anche se non mollai la presa. Mi ripulii il viso con la manica della tunica e tornai alla carica, più violento di prima.

- Voglio sapere chi di voi mi vuole morto!-

Vidi il terrore negli occhi di quell’uomo. Gli mancava l’aria, le labbra diventavano blu. La sua sarebbe stata una morte lenta e atroce, tra le mie dita, se solo lo avessi voluto. Qualcosa in lui scattò. Cominciò a dimenarsi, sempre più incontrollatamente. Per un guerriero del suo calibro sarebbe stato meglio essere abbattuti da un colpo netto di spada, piuttosto che impazzire così, lentamente, in mia balia.

Mi fece pena. Io disponevo di tutta la forza possibile, sufficiente ad uccidere un uomo con la sola potenza delle mani. Lui che cosa aveva a disposizione? Solo una fetta di coraggio che si andava assottigliando sempre più.

Venni scosso dal rimorso. Avevo davvero intenzione di uccidere un uomo nel fiore degli anni, con moglie e figli a carico, senza che mi avesse in alcun modo attaccato?

Per me sarebbe stato più che abbastanza capire perché mi stavano seguendo.

Allentai la presa:

- Chi vi manda?!- strepitai – Non voglio farti del male, né sottrarti alla tua famiglia prima del tempo. Voglio solo sapere la verità e so che tu puoi dirmela.-

L’uomo parve riprendere vita. La proposta suonava allettante, il mio viso probabilmente così chiaro e sincero. Ci stavo provando. Non ero così malvagio come forse gli avevano fatto credere. All’accampamento non avevo creato problemi e non avevo mai avuto alcuna intenzione di fare loro del male. Speravo di aver toccato i tasti giusti per fargli sciogliere la lingua.

Non avevo comunque dimenticato il mio obiettivo.

Attesi un poco, senza muovere un muscolo, una sfida a singolar tenzone con il suo sguardo iniettato di sangue. Alla fine, la spuntai.

- G-grampasso.- disse l’uomo, in un soffio.

A quel nome, credo che i miei occhi avessero cominciato a dardeggiare. Inavvertitamente, la mia presa sul suo collo si era fatta di nuovo decisa e l’uomo mi fissava sempre più comprensibilmente spaventato, con le sue dita che stringevano mollemente i miei polsi.

- Grampasso?!- ripetei – Dov’è? Ho bisogno urgente di parlargli!-

L’uomo sbarrò gli occhi:

- Perchè?- si intromise.

- Questo non ti riguarda!- ruggii – Dimmi dove lo posso trovare!-

L’uomo quasi si paralizzò dal terrore e io me ne accorsi. A volte indugiavo troppo nella durezza dei miei gesti, un po’ come mio padre. In quel momento più che mai mi resi conto di quanto gli assomigliassi, ma non per le caratteristiche che avrei desiderato.

La cosa mi ridestò come da un sogno. Appoggiai il malcapitato a terra, pur mantenendo saldamente il mio potere su di lui. Gli lasciai il collo e lo presi per il bavero del vestito, trascinandolo a una spanna dal mio viso:

- Ti prego...- lo supplicai – Devo trovare Grampasso. Gli Elfi e soprattutto gli uomini di Arda hanno bisogno che lui si palesi. Grampasso potrebbe essere la speranza di tutti noi, anche della tua.-

L’uomo spalancò gli occhi. Forse non capiva di cosa stavo parlando, ma un ricordo poteva essersi affacciato nella sua mente, forse un’antica storia.

Forse lui conosceva la risposta a molte mie domande, ma se volevo farlo confessare, mi conveniva essere cauto. Potevamo essere alleati, piuttosto che nemici; potevamo guardarci con occhi benevolenti e in due avremmo potuto risolvere quel mistero.

Era chiaro come il sole che entrambi stavamo aspettando un segno del destino.

Sono certo che anche l’uomo fu colto da simili considerazioni. Probabilmente se ne sentì rinfrancato, perché avvertii il suo sguardo farsi meno ostile. Lo tenevo ancora per il bavero, ma mi accorgevo che non ce ne sarebbe stato bisogno, dato che non aveva più intenzione di scappare, tanto meno di attaccarmi.

Lentamente, lo sciolsi dalle mie mani e lo riappoggiai saldamente per terra.

Lo sconosciuto mi osservò sconcertato per un attimo. Non ci provò nemmeno, a ribellarsi, anzi. Un nuovo pensiero aleggiava nella sua mente, anche se non riuscivo pienamente a coglierlo. Eppure parlava di pace.

Si schiarì la voce:

- Al villaggio...- disse, rauco.

Sobbalzai.

- Quale villaggio?-

L’uomo inspirò quanta più aria potè. Il fiato era ancora corto, ma ne aveva abbastanza per ribadire il concetto:

- Da dove siamo partiti.-

Il respiro mancò a me.

Non ci potevo credere. Quindi Grampasso era tornato al villaggio poco dopo che me n’ero andato...o era sempre stato lì e i suoi compagni l’avevano solo coperto?

Ero stato tanto vicino al mio obiettivo e non l’avevo riconosciuto: come avevo potuto essere così cieco?

Avevo sperato nel mio intuito e nella mia esperienza, ma i miei stessi sensi mi avevano tradito. Non potevo incolpare solamente le mie ferite per questo. Né potevo incolpare chi non mi aveva dato gli indizi necessari per riconoscere quest’uomo senza volto, senza un nome che potesse definirsi proprio: era ovvio che chi conosceva li avrebbe tenuti nascosti. Scovarli avrebbe dovuto essere compito mio e la mia gente contava su di me.

Mi sentii un incapace. La vergogna fu talmente cocente che temetti di arrossire.

Mi ripromisi che dovevo assolutamente rimediare alle mie pecche.

- Possiamo tornare indietro e ritrovarlo.- accondiscesi – Insieme.-

L’uomo mi guardò con un misto di terrore e stupore. Tossicchiava come se stesse per morire invece che ricominciare a vivere.

Lanciò un’occhiata al suo compagno d’armi, che per tutta la nostra conversazione aveva giaciuto semisvenuto tra gli sterpi, con la mia freccia conficcata nelle carni. Respirava ancora, ma non avrei saputo dire per quanto tempo avrebbe resistito.

Gli lanciai un’occhiata anch’io e alla vista di quel sangue indebitamente versato, mi pentii della mia azione.

- Mi dispiace.- sussurrai, chinandomi per esaminarlo – Pensavo che voleste uccidermi.-

Il ferito esalò:

- Non erano questi gli ordini di Grampasso.-

Subito la mia curiosità si riaccese:

- Grampasso vi ha ordinato solo di seguirmi?-

Tornai all’uomo che era rimasto in piedi. Mi minacciava con lo sguardo, di nuovo torvo. Restituii la sfida, pronto a prendere in mano i pugnali di mio padre.

- Come posso riconoscerlo?- insistetti, mentre quello a terra cercava disperatamente un modo per tirarsi su. Lo controllavo con la coda dell’occhio, ma la mia attenzione era appuntata sul suo compagno, per intimorirlo e costringerlo a cedere.

Lui non si sorprese della mia foga. Qualcosa lo convinse che era meglio dire tutta la verità:

- Ha mani da guaritore...- ammise.

Un’immagine mi si parò immediatamente davanti agli occhi. Un uomo alto, capelli castani, occhi azzurri, che sembrava più giovane della sua età: solo da queste semplici caratteristiche si poteva già dedurre che poteva appartenere a un’antica stirpe. Ma non potevo essere certo che si stesse parlando proprio di lui.

Eppure, lui mi era rimasto impresso, aveva lasciato come un’impronta nel mio animo, da quando mi aveva salvato da morte certa. Ero sicuro di non sbagliarmi.

Ora volevo solo dare un senso ai miei sospetti:

- Qual è il suo vero nome?- ripresi il discorso, focalizzandomi di nuovo sulla figura di questo fantomatico Grampasso.

- Non lo so.- rispose l’uomo, lievemente agitato.

Una sua mano stava per correre alla daga appesa alla cintura, ma io gliela bloccai con un colpo fulmineo dell’arco sul dorso delle sue dita.

L’uomo si tenne il punto dolente, digrignando i denti.

Lo inchiodai al suo posto puntandogli contro la mia arma:

- Come puoi non saperlo?- sibilai.

L’uomo a terra sussultò, ma io non mi distrassi. Lo lasciai affogare nel sangue, avendo altro da fare. Ma per sicurezza, gli posi un piede in mezzo alle scapole e schiacciai.

Vidi che l’altro era rimasto colpito dal mio gesto. Ripartivamo da capo.

Si torse nervosamente le dita:

- Pochi sanno il suo vero nome, è il suo segreto.- confessò.

A quel punto, ci provai:

- E’ forse Aragorn?-

Improvvisamente, un sibilo si incuneò tra di noi. Una freccia dalle piume nere era apparsa nella nebbia e in un attimo si era conficcata nella schiena del mio interlocutore, in corrispondenza perfetta con il cuore. Sentii un rumore sordo, mentre la carne veniva trafitta e una punta di ferro riemergeva dai vestiti dell’uomo, che la fissò con stupore.

Con il suo corpo mi aveva involontariamente fatto da scudo.

Un secondo più tardi, era già rovinato a terra, accanto all’altro; il quale, alla vista del compagno morto e rigurgitante sangue, fu colto da spasmi e raccapriccio.

Io mi abbassai fino al loro livello e mi guardai attorno. Con un po’ di attenzione in più riuscii a scorgere qualcosa nella foschia.

C’erano almeno una decina di orchetti tutti intorno a noi, a debita distanza: un manipolo uscito da chissà dove e arrivato lì in un silenzio soprannaturale, decisamente inconsueto se attribuito a una marmaglia del genere.

Feci appena in tempo a strisciare fra due massi, prima che una gragnola di frecce si scaricasse su di noi. Il superstite venne subito trafitto, prima che potessi fare qualsiasi cosa per aiutarlo. Le sue pene erano finite nel peggiore dei modi, lontano dalla sua famiglia.

Me ne rammaricai profondamente, ma mi costrinsi a non pensarci. Io ero illeso e dovevo approfittarne.

Incoccai un paio di frecce, preparandomi alla battaglia.

Non riuscivo a vederli bene e non potevo sporgermi, ma a prima vista non sembrava trattarsi dei soliti orchetti. Questi erano più alti e forti e indossavano una specie di armatura, non saprei dire se di cuoio o di qualche altro materiale; portavano elmi e lance, come veri soldati, come veri guerrieri. Erano capeggiati da un orco più grande, che in quel momento stava gridando loro di avanzare, ma in una direzione che non era la mia.

Giudicai impossibile che non mi avessero scorto, anche attraverso la nebbia; ma se così fosse stato, dovevo ravvisarlo come un immenso colpo di fortuna. Infatti, poco più avanti, una marea di quelle creature immonde stava avanzando a grandi passi attraverso la pianura, addentrandosi con sveltezza in quelle terre, come se le conoscessero benissimo. Si muoveva verso la direzione dalla quale ero venuto, ovvero verso il villaggio dei Dunedàin.

C’era un’altra cosa.

Sotto i miei piedi avvertivo uno strano brulichio, come se un fiume sotterraneo stesse mangiando miglia e miglia di terra, portando via con sé tutto quello che trovava. Massi, detriti, ossa rotte. Mi era capitato di sentire quella vibrazione solo un’altra volta nella vita, e non era stata una sensazione piacevole.

Riposi l’arco e mi accovacciai ad ascoltare. Ormai gli orchetti erano lontani e si erano riuniti al gruppo: avrebbe avuto poco senso inseguirli, con il rischio di avere la peggio. Cercai un indizio più sicuro di quello che andavo pensando, chiudendo gli occhi e concentrandomi solo su quello che il suolo aveva da dirmi, mentre soffriva trucidato da una forza oscura e potente.

Non ci volle molto a capire.

Poco più in là, un fracasso spaventoso attirò il mio delicato udito. Aguzzai la vista in quella direzione e fu allora che si palesò una sagoma, che avrebbe fatto inorridire qualsiasi essere senziente: un enorme verme nudo, spuntato dai rovi e dai sassi, che si contorceva ed emetteva grida così acute che sembravano stridore di lame.

Mi coprii le orecchie per non ammattire.

Un chiostro di denti acuminati baluginò nel pallido sole dell’imminente tramonto, mentre il mostro si rituffava di nuovo nel sottosuolo, cieco ad ogni grazia e ad ogni arma.

Quello era un Mangiaterra, una chimera che evidentemente non esisteva solo nei libri. Era stato risvegliato dall’oblio dalla stessa forza oscura che noi ci ostinavamo a combattere, ma sulla quale non avevamo alcuna garanzia di poter vincere.

Forse c’era un disegno ben più grande dietro a tutto questo, un piano che noi figli dei Valar non avremmo mai potuto immaginare né concepire, mentre un cuore nero batteva sotto la terra, lontano dai nostri occhi, in ogni dove, ovunque.

Rimaneva solo una speranza, fintanto che non ci fosse balenata nella mente un’idea migliore.

Dovevo trovare il Dùnadan.

I suoi uomini erano morti, ma io ero ancora vivo.

Dovevo tornare e salvare quel villaggio innocente, e la gente che vi abitava.

Dovevo farlo per tutti noi.







*NOTA DELL'AUTORE*
Eccomi! Scusate il ritardo, ma ero anch'io in ferie! Riprendo le normali attività lasciandovi un nuovo capitolo di questa intricata storia, sperando che sia di vostro gusto, cari lettori! Finalmente qualcosa si scuote...come desideravate!
Fatemi sapere cosa ne pensate - aspetto come sempre i vostri commenti (sia positivi che negativi)!
A presto!

 

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Capitolo 20
*** Aragorn ***


Aragorn

 

Gandalf non aveva intenzione di fermarsi a lungo. Erano passate poche ore da quando era comparso sulla soglia della mia tenda e già sembrava avere molta fretta di andarsene. Dove, non mi era dato saperlo. Intuivo, dalla sua facile noncuranza, che non gli interessava mettermi al corrente dei suoi affari.

Si sarebbe fermato quella notte soltanto, poi avrebbe proseguito per la sua strada.

Avevamo cenato in maniera frugale presso la mia tenda, perché non aveva molta fame. A dire il vero, credo ci fosse ben altro a rovinargli l’appetito, ma non si decideva a parlarmene. Io lo osservavo di sottecchi, sperando di carpire qualche particolare. Inutilmente.

Avevamo studiato le prossime mosse. Lui avrebbe continuato verso nord, Elbereth solo sa perché, mentre io avrei dovuto pianificare un’adunata verso sud, in attesa del suo ritorno. Da lì, una volta costituito un valido regime che potesse sostituire il mio comando per qualche tempo, avremmo proseguito per la Terra-di-Mezzo, verso Gran Burrone. Avrei rivisto Elrond, il mio padre adottivo, e i miei fratellastri elfi Elladan ed Elrohir. Per non parlare della sua figlia minore, Arwen.

Probabilmente sarebbe stata l’ultima volta in cui avremo potuto sederci intorno a un tavolo gustando la gioia di esserci ritrovati, prima di precipitare nel buio di quei tempi funesti.

Io e Gandalf stavamo mettendo mano al Miruvor quando udii il suono profondo del corno di guerra. Una delle vedette dell’accampamento lo aveva suonato con urgenza, mettendoci tutto il fiato che aveva in gola. C’era una strana angoscia nella forza con cui quello strumento emetteva le sue potenti note, che ci scossero fin nelle viscere.

Balzai in piedi. Quasi mi gettai fuori dalla tenda, scavalcando un Gandalf piuttosto sorpreso. Mentre lui si alzava a fatica dallo sgabello, io ero già corso da Bjorn, che mi stava venendo incontro:

- Orchi!- mi comunicò ansiosamente – Arrivano in forze!-

Subito la mia mente si attivò in cerca di una soluzione.

- Fai sgomberare!- ordinai, dirigendomi verso uno dei posti di guardia.

Non ci sarebbe stato bisogno di così tanta solerzia: la mia gente sapeva cosa fare. Le donne e i ragazzi più giovani avevano già cominciato a sbaraccare, mentre tutti gli uomini si stavano armando fino ai denti, pronti a vender cara la pelle. Aspettavano solo un mio ‘via’.

Dovevo prima aver chiara la situazione.

Salii in fretta la scala che conduceva a una delle torrette di avvistamento. Affiancai una delle mie guardie, che mi fece posto nello spazio angusto.

Mi accorsi che tremava un po’.

- Che succede?- chiesi, cercando di fendere la nebbia con gli occhi.

Tutto ciò che vedevo era una corolla di piccoli fuochi, laggiù, tra il crepuscolo e il buio incipiente. Sentivo un rumore di sottofondo, come una vibrazione cavernosa e non capivo cosa poteva essere. Ma gli orchetti, quelli li scorgevo, o per meglio dire, li immaginavo serrati in fila, da cui lanciavano ruggiti e altri versi animaleschi.

Solo in quel momento realizzai che erano dappertutto, sparsi su tutto il fronte nord.

Non ne avevo mai visti così tanti radunati tutti nello stesso luogo.

Un brivido mi corse giù per la schiena:

- Dobbiamo muoverci.-

Erano troppi per pensare di poterli ammazzare tutti. Avrebbero potuto soverchiarci a causa del loro numero, oppure raggiungere le nostre retrovie, cosa che volevo assolutamente evitare.

Abbandonai velocemente la postazione, ridiscendendo la stretta scala e tornando alla mia tenda. Gandalf era poco lontano dalla soglia, si guardava intorno cercando di mettere insieme i pezzi:

- Che succede?- mi chiese pure lui, e io avrei tanto voluto avere una risposta coerente da dargli, ma non ne trovavo nessuna.

Mi infilai dentro e mi vestii rapidamente di tutte le armi che possedevo. Pensavo, intanto. L’unica possibilità che mi venisse in mente per impedire un massacro era distrarre gli orchi quel tanto che bastava per permettere alle famiglie di mettersi in salvo nei campi poco lontani. Lì era pieno di nascondigli e gallerie nel terreno che tutti ben conoscevamo, al contrario dei nemici. Ci saremo ricongiunti poi.

Tornai fuori, incrociando Gandalf:

- Gli orchi ci stanno attaccando?- mi chiese, incredulo quanto me.

- Sì. E sono tantissimi.- boccheggiai – Temo sarà faticoso riuscire a respingerli, dato il loro numero e la velocità con cui avanzano. Non siamo preparati per contrastare una simile orda.-

Mi leccai il labbro inferiore, già coperto dalla polvere dell’imminente battaglia.

- Dobbiamo raggiungere i nostri fratelli più a sud minimizzando le nostre perdite - stabilii – e lì organizzare un’offensiva per fermarli.-

- Buona idea, Aragorn.- si complimentò lo stregone – In questo frangente non vale la pena fare gli eroi.-

- Non credere che non mi bruci battere in ritirata. Ma li ho visti con questi occhi. Sono troppi per le nostre forze. Ho donne e bambini da proteggere. Vai con loro!- gli consigliai.

- Neanche per sogno! Io resto con te per aiutarti!- esclamò Gandalf, facendosi vivace e picchiando il suo bastone per terra.

Alzai gli occhi al cielo, ma accondiscesi.

Era già tutto pronto, i guerrieri schierati, il resto dell’accampamento in marcia verso gli alberi. Era stato Bjorn a indirizzarli.

- Sapevo che avresti interpretato il mio pensiero alla perfezione!- mi complimentai con lui mentre mi accompagnava sul limitare del terrapieno, dal quale sarebbe stato possibile osservare gli orchi pur tenendoci nascosti dietro alcuni massi.

- Sono una marea mostruosa...- mormorò Bjorn, quasi fra sé e sé – Mai visti così tanti in una volta sola. Qualcosa non va...non mi piace per niente.-

Ci eravamo accovacciati dietro alcune pietre, seguiti da una decina di arcieri, già con le frecce incoccate, pronti a proteggerci le spalle. Dovevamo cercare di prendere più tempo possibile, dare spazio agli altri che stavano scappando della direzione opposta.

Davanti ai nostri occhi si stendeva un battaglione di orchi che avrebbe fatto tremare il cuore a qualsiasi valoroso gruppo armato del Beleriand. La nebbia si era un po’ diradata, ma confondeva ugualmente gli odori e le idee, quindi non potevamo essere certi dell’effettivo numero di nemici che ci saremmo trovati davanti una volta usciti allo scoperto.

Avrebbe potuto essere utile individuare i loro colonnelli, per farli fuori e lasciare il resto della marmaglia senza una valida guida, così sarebbe stato più facile sopraffarla; ma non riuscivo a trovarli. Il clangore della loro marcia si faceva furente, man mano che si avvicinavano.

Erano armati fino ai denti.

Stentavo a dare l’ordine. C’era troppo caos, la situazione era più che nuova e io mi ritrovavo senza esperienza a tal proposito, troppo intimorito dalla paura di sbagliare e mettere a repentaglio anche solo una vita dei miei uomini. Stavo cercando di pensare velocemente a un piano, ma non me ne veniva in mente neanche uno che non prevedesse un sacrificio che non ero certo di voler accettare.

Bjorn mi toccò il braccio:

- Cos’è questo rumore?-

Mi misi in ascolto.

Era la stessa vibrazione che avevo sentito da in cima la torretta e che non ero riuscito a identificare. A contatto con il terreno, la avvertivo molto più chiaramente, come se si trattasse di un terremoto. All’inizio pensavo fosse la marcia degli orchi, a far tremare così il suolo, ma ora non potevo dire di esserne così certo.

C’era qualcos’altro, sotto i nostri piedi, che si divincolava da arcane catene e cercava il sole.

Che cosa poteva essere?!

D’un tratto, udimmo un boato. Un’ombra si era levata dal terreno, sputando zolle ed erbacce tutt’intorno. Una pioggia di sassi si scaricò su di noi e fummo costretti ad abbassarci e a proteggerci la testa con le nostre armi.

- Che diavolo è?!- sbraitò Bjorn, alzando di nuovo gli occhi sull’orizzonte.

Contornato dai fuochi sempre più vicini e incandescenti degli orchi, idolatrato come un Dio, un essere spaventoso era spuntato dalle viscere del mondo per rivelarsi in tutta la sua baldanzosa stazza e spogliarci di ogni coraggio. Lo fissammo attoniti e per un attimo credemmo di essere già morti.

Era un verme lungo almeno un centinaio di piedi e largo come una nave, che si contorceva come un serpente per svariate braccia di altezza. Non avevo mai visto una creatura più grande e feroce di quella. Si abbatteva con voracità su tutto ciò che trovava, travolgendo piante, massi e orchi, che seppelliva vivi sotto le sue portentose dimensioni. Con la bocca piena di zanne tranciava corpi, legno, terra, con la stessa facilità con cui noi comuni mortali avremmo addentato una mela.

Per un attimo, mi si fermò il cuore.

Bjorn fu il primo a riprendersi dallo stupore. Ordinò ai nostri uomini di battere in ritirata e di sparpagliarsi lungo il filo del terrapieno, pronti ad abbattere con ogni mezzo chiunque paresse loro una figura di spicco tra le file degli orchi.

Una volta riprese le mie facoltà mentali, mi confrontai con lui:

- Cos’è quella...cosa?!- gridai – E’ più grande di un palazzo! Non ce la faremo mai!-

Mi meravigliai delle mie stesse parole. Proprio io, allenato alla guerra e accecato dall’odio verso le sordide creature di Melkor, stavo per fuggire di fronte a loro. Quasi non potevo credere a me stesso.

Bjorn mi scrollò prepotentemente:

- Dobbiamo distrarli!- provò a farmi ragionare - Dobbiamo almeno tentare! La nostra gente conta su di noi! Dobbiamo almeno dar loro una possibilità per scappare!-

Ma io non lo stavo più ascoltando. Assistevo sopraffatto a quel dispiego di forza inaudita, la forza della natura, che si faceva sempre più vicino e pericoloso:

- Gandalf!- esclamai – Gandalf forse può aiutarci! Torniamo indietro!-

Proprio in quel momento, l’enorme verme emise un urlo orribile e si inabissò nella terra, lasciando dietro di sé un visibile cratere. Avvertii di nuovo quella vibrazione, e seppi che era lui, era quel mostro. E io non potevo fermarlo.

Presi Bjorn per un braccio e lo trascinai indietro, verso il nostro accampamento. Lo vedevo in lontananza: ormai erano rimaste solo le torrette, qualche asse buttato da una parte, il carbone pronto per il fuoco e un manipolo di uomini pronti a vender cara la pelle.

Gandalf sbucò da quei ranghi serrati per venirmi incontro:

- Dove sei stato?!- mi interrogò – Che cosa sta succedendo?!-

- Gandalf, c’è un...-

Non feci in tempo a finire la frase.

Con un altro boato raccapricciante, la creatura della notte sbucò senza alcuna fatica dal terreno, buttandoci tutti gambe all’aria. I miei uomini non arretrarono, anzi; rimessisi prontamente in piedi, cominciarono a lanciare le loro frecce, non sapendo bene dove mirare. La pelle del verme pareva impenetrabile e i loro proiettili rimbalzavano penosamente contro la sua scorza dura. Qualcuno cercò un punto debole, mirando alla bocca, ma invano. La bestia non aveva occhi, era cieco come una talpa, ma emetteva delle urla che in compenso facevano impazzire il nostro senso dell’udito.

Io venni scaraventato a terra da una forza prodigiosa, diviso da Gandalf e anche da Bjorn. Sopra di me torreggiava l’immondo, in cerca di carne fresca.

Rotolai più in là e mi rialzai, sguainando la spada. L’onda di polvere sollevata dall’essere era tale da impedirmi di vedere qualsiasi cosa. Solo la sagoma del verme emergeva da quel nulla, frapponendosi tra me e e i miei amici.

Da qualche parte, in lontananza, si accese un coro di versi inneggianti alla morte.

Gli orchi erano prossimi e i miei uomini senza un capitano.

Cominciai a correre, evitando i colpi di frusta che il verme gettava a casaccio con la sua grande coda, sperando di colpirmi. Il mostro avvertiva le vibrazioni del mio corpo e mi dava la caccia, travolgendo qualsiasi cosa si trovasse intorno a lui.

Continuare a scappare sarebbe stato inutile.

A quel punto, decisi di fronteggiarlo. Era mio preciso dovere tentare, se non altro, per permettere al resto del mio villaggio di raggiungere un nascondiglio sicuro. Al tempo stesso, era mio preciso dovere tentare di sopravvivere.

Mi stavo per lanciare contro l’orribile creatura, quando la sua attenzione fu attratta da una lancia che improvvisamente gli arrivò dritta addosso. Poi un’altra, e un’altra ancora.

I proiettili rimbalzavano su quella schifosa pelle coriacea, ma contribuirono a destabilizzare il nemico, che subito si volse verso la fonte del fastidio.

Era Bjorn. Lo riconobbi dall’armatura leggera e lucente che brillava anche attraverso la polvere scura. Cercava di distogliere il mostro da me, per permettermi di fuggire.

Non l’avrei mai lasciato solo.

- Bjorn!- gridai – Bjorn, andiamo via!-

Forse non fui io a distrarlo, ma Bjorn mi guardò e tentò di raggiungermi. Il verme intuì con incredibile esattezza da che parte si sarebbe diretto e frappose la sua enorme coda tra di noi, sbarrandogli il passo; poi si erse come una montagna su di lui, preparandosi all’offensiva.

Sudai freddo.

Mi gettai contro quell’ammasso di carne, urlando. Affondai la mia spada con tutta la forza che avevo: sorprendentemente, quella rimase perfettamente incastrata tra una piega e l’altra della pelle. La cosa straordinaria, a questo punto, fu che sentii chiaramente il mostro urlare di dolore.

Avevo indovinato senza premeditazione alcuna un suo punto debole.

Non bastò. Il verme, visibilmente alterato, si avventò allora su Bjorn, ormai prigioniero delle sue spire. La mira fu imprecisa e l’attacco finì contro il duro terreno, sollevando ancora polvere; tuttavia, ebbi la netta sensazione che Bjorn fosse stato ferito, perché lo sentii gridare.

Non osai pensare a cosa poteva avergli fatto. La sua richiesta di aiuto mi accese di nuova linfa, tanto che corsi a prendere un’ascia dimenticata per provare ad assestare un altro colpo prima che il mostro si inabissasse del tutto nella terra.

Nella notte sempre più cupa e illuminata ormai solo dal fuoco degli orchi, ancora più vicini, mi parve che non ci fosse altra via d’uscita.

La testa del verme mi sorprese alle spalle. Esplose di nuovo tornando in superficie, sfiorandomi con i suoi denti acuminati. Rotolai più in là, più vicino alle sue spire, con l’ascia stretta al petto.

Era una lotta impari. Con la sua coda mi inchiodò a terra, schiacciato dalla sua forza. Quella cosa molle aveva una potenza spropositata. Le mie mani e i miei piedi artigliavano il suolo inutilmente; l’ascia era finita sotto di me e mi era impossibile usarla.

Davanti ai miei occhi, nella confusione, vidi i miei uomini correre da una parte all’altra gridando ordini. Poco più un là, intravidi il corpo di Bjorn che, miracolosamente, strisciava verso di me.

Nessuna traccia di Gandalf.

Con un colpo potente dei suoi muscoli, il verme mi girò supino. Contro la luce pallida della luna vidi balenare il chiostro di zanne e un altro urlo spaventoso mi inghiottì le orecchie, mentre quel mostro mi puntava. Probabilmente sentiva il mio odore, avvertiva la morbidezza del mio corpo e delle mie ossa contro il suo e non aveva intenzione di perdere un’occasione.

Ero finito.

In quell’attimo, una creatura veloce come un fulmine si frappose fra me e il mostro, distraendolo. Saltò abilmente da una spira all’altra, fino alla testa, senza fermarsi nemmeno un secondo. Un paio di pugnali si illuminarono per un attimo davanti ai miei occhi attoniti, prima di scontrarsi con i denti dell’immonda creatura e produrre un rumoroso stridio.

Il verme si avventò immediatamente sull’intruso, ma quello non si fece spaventare: lo centrò pesantemente sul muso, vicino alla bocca piena di denti aguzzi, il suo punto più sensibile.

Pochi istanti dopo, ero di nuovo libero di muovermi.

Subito afferrai l’ascia abbandonata e contemporaneamente controllai dove poteva essere finito Bjorn.

Il mostro gridò di nuovo, questa volta per rabbia, dedussi. L’agile figura lo stava facendo impazzire, ma non potendola vedere, il nemico arrancava dietro la rapidità dei suoi movimenti, cercando di intercettarla con la sua stazza, senza riuscirci.

Ci misi un po’ a capire che, anche stavolta, si trattava di quell’elfo.

Legolas.

- Per Elbereth!- mi lasciai sfuggire.

Come mai era tornato indietro? E i miei uomini dove si erano cacciati?

Non c’era tempo per pensare a simili inezie. Mi dedicai alla ricerca di Bjorn e lo vidi che annaspava in mezzo alla polvere, cercando di tirarsi in piedi.

Corsi in suo aiuto:

- Aragorn!- ansimò lui, afferrandomi il braccio che gli porsi.

Aveva uno sguardo molto sofferente e indovinai che da qualche parte, dove non potevo vedere, c’era una ferita che sanguinava copiosamente.

Avrei dato qualsiasi cosa per permettergli di sopravvivere.

Nel frattempo, Legolas cercava di attirare il mostro lontano da noi, ma non era per niente facile. L’elfo saltava da un punto all’altro, senza sosta, colpendo con i suoi pugnali la dura pelle coriacea. Avrei voluto dirgli che doveva mirare tra una piega e l’altra, così come avevo fatto io, ma era troppo lontano e sicuramente non mi avrebbe udito. Avrei voluto dargli manforte, ma non potevo essere in due luoghi allo stesso tempo.

Il verme era talmente imbestialito che i suoi movimenti inconsulti rischiavano di ucciderci da un momento all’altro.

- Vattene!- gridò Bjorn, tra le lacrime – Va’ via, tu che puoi!-

- Io non ti lascio qui!- lo scossi di rimando – Tu vieni via con me.-

- Non posso muovermi!-

Solo allora mi resi conto che non era neanche in grado di stare in piedi. Ballonzolava su un piede solo perché - me ne resi conto in quel momento - dall’altra parte, dove prima c’era una gamba forte e soda, ora era rimasto un moncherino sanguinolento.

Un acidissimo conato di vomito mi assalì alla bocca dello stomaco e vacillai.

Bjorn ne approfittò per darmi una poderosa spinta ed allontanarmi da lui:

- Vattene!- gridò con tutto il fiato che aveva in gola – Vattene!-

Forse fu un caso o forse il mostro lo sentì, perché improvvisamente e in maniera del tutto inaspettata piombò su di noi. A nulla valsero gli sforzi dell’elfo per fargli cambiare direzione. L’enorme testa si inabissò tra me e Bjorn, dividendoci inesorabilmente.

Legolas riuscì a toccare terra poco prima che il mostro lo trascinasse giù e corse da me:

- Dobbiamo andare via!- gridò, per farsi sentire al di sopra del frastuono.

Era visibilmente provato, graffiato, con gli abiti lacerati in più punti. Non serviva certo un indovino per comprendere che aveva finito le carte da giocarsi, almeno per quella partita.

Ma io non avevo occhi che per Bjorn, di nuovo rovinato a terra, soffocato nel suo stesso sangue.

- Bjorn!- urlai il suo nome, mentre Legolas mi tratteneva per le spalle.

Il mio amico non si voltò. Non si mosse nemmeno. Non seppi mai se era già morto, a quel punto, o se morì poco dopo. Questa è l’ultima immagine che conservo di lui, l’unica che mi venga in mente quando ogni tanto lo incontro nei miei sogni.

L’enorme testa del verme rispuntò violentemente dallo stesso buco in cui era scomparsa. Subito Legolas si appese a una delle zanne, venendo trascinato verso l’alto. Tentò inutilmente di condurre la bestia lontano da lì, da me e dal mio amico, dal nostro accampamento, ma oltre che cieco quell’essere era diventato anche sordo a ogni tipo di invito o fastidio. Si contorse per liberarsi dell’elfo e fece per gettarsi con rinnovata foga nel punto dove era steso Bjorn.

Come un pazzo, mi buttai sul mostro, ascia alla mano, urlando come un ossesso. Cercai la piega, la maledetta piega, tra una spira e l’altra e la trovai, per Elbereth, ne trovai una proprio sotto il mio naso. Lì conficcai la mia ascia.

Non ottenni l’effetto sperato. Con un colpo di coda il verme mi prese e mi sollevò da terra: volai come un uccello ad almeno quaranta piedi di distanza, contro una delle torrette di guardia.

Sentii scrocchiare tutte le ossa del corpo.

Strinsi i denti mentre scivolavo verso il basso, portando detriti e legno insieme a me. Per fortuna quelli attutirono la mia caduta quando finii sopra un ammasso di frasche. Rotolai un po’ più in là, sperando di non finire infilzato in qualche picca.

Nel frattempo, gli orchi erano riusciti a sfondare agilmente l’offensiva dei miei uomini e ora invadevano l’accampamento abbandonato.

Atterrai di nuovo al suolo. Un dolore acuto alle costole. Digrignai i denti e istintivamente portai una mano dove il sangue già usciva. Mi costrinsi a non guardare, a pensare, a rendermi utile.

Dopo quel primo momento di confusione, mi tirai su e cercai di spostarmi, magari trovare un’arma e tornare a combattere.

Ora che ero di nuovo in piedi, anche il dolore sembrava meno soverchiante.

Prima che potessi reagire, una mano si aggrappò con forza al mio petto, facendomi trasalire.

All’inizio pensai a un orco: stavo già per precipitarmi a morderla, quando un’altra mano mi bloccò, afferrandomi per i capelli.

- Venite con me.- mi intimò Legolas.




*NOTA DELL'AUTORE*
Un po' di azione, finalmente! Questa settimana il capitolo è più lungo degli altri, ma semplicemente non riuscivo a smettere di scrivere! Qualcosa ha spezzato il fragile equilibrio delle Terre di Angmar, di Aragorn, di Legolas e di tutti i personaggi...e ora che si fa?!
Aspetto i vostri commenti ciaoooo

 

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Capitolo 21
*** Legolas ***


Legolas

 

Non gli permisi di rispondere. Lo trascinai quasi di peso verso il terrapieno, lontano dall’accampamento. Non c’era più niente che potessi fare, né per quel pezzo di terra abitato, né per quegli uomini. L’unica cosa che avesse senso, in un momento di perdita del genere, era sforzarsi di continuare a vivere.

Aragorn faticò ad opporsi. Era esausto e ferito e non gli erano rimaste molte altre possibilità a parte fidarsi di me. Del sangue colava dal suo costato in maniera preoccupante e gli inzuppava la casacca lacerata dallo scontro.

Il Mangiaterra era alle mie spalle, ma per fortuna si era completamente disinteressato a noi. Stava pasteggiando con i corpi dei morti: dove li trovava, li divorava senza lasciarne traccia. Gli orchi scorrazzavano dappertutto, indaffarati a dare la caccia ai pochi superstiti.

Mi sforzai di non guardare. Quelle povere anime perdevano la vita in un posto come Fornost, per mano del Male, e probabilmente non avrebbero mai trovato pace.

D’un tratto, con la coda dell’occhio, intravidi una luce. Al centro di quella furiosa battaglia, qualcuno accendeva una luce di speranza, color azzurro del cielo, e tuonava parole magiche contro il mostro, che ora si contorceva come in preda alle convulsioni. Riconobbi dalla voce una vecchia conoscenza di mio padre, anche se non avrei potuto esserne sicuro.

In quel momento, avevo altre priorità.

Tornando al villaggio, avevo notato uno spiraglio nella roccia, una piccola spaccatura abbastanza protetta, con un unico accesso. Lì Aragorn avrebbe potuto recuperare un po’ di forze, al sicuro, mentre io potevo essere libero di controllare dove si era diretta la sua gente e in caso intervenire per facilitarla.

Tuttavia, prima di tutto dovevo sincerarmi che l’uomo sopravvivesse.

Trovai la grotta e ci infilammo lì, al riparo. Aragorn si trascinò a fatica: aveva dato tutto ma non era bastato.

Ero di nuovo in sua compagnia, ma le parti si erano invertite. Lui era piuttosto malconcio, mentre io riuscivo a reggermi sulle mie gambe, forse un po’ stanco ma sicuramente vigile e fiero, così come mi aveva visto per la prima volta in quella radura.

Nella semioscurità vedeva i miei occhi brillare di un bagliore che doveva apparirgli un po’ sinistro; si era infatti rannicchiato in un angolo, dal quale mi lanciava occhiate ostili di tanto in tanto.

Indovinai che aveva bisogno di un attimo di silenzio per ripensare a tutto quello che era accaduto e perdonarsi per non aver potuto fare di più.

Non era mia intenzione pressarlo, ma la sua debolezza quasi mi infastidiva. Ero ansioso di tornare là fuori, far roteare di nuovo i miei pugnali, incoccare le mie frecce e abbattere nemici. Eppure mi sentivo legato a lui, come se non potessi lasciarlo solo in un momento del genere.

Mi ritornavano alla mente i nostri incontri, le nostre conversazioni, i nostri sguardi, e non potevo fare a meno di bruciare di rabbia al pensiero che era stato così facile ingannarmi.

- Perchè mi avete mentito?- sibilai nel silenzio.

Aragorn alzò stancamente la testa. Mi rendevo conto che quella non era la circostanza più opportuna per iniziare una discussione, ma qualcosa mi impediva di lasciare perdere. Chiarire le cose mi premeva in modo a dir poco paradossale.

Aragorn era cosciente di non avermi detto la verità, di avermi depistato e tutto il resto. Mi aveva allontanato in tutti i modi a lui disponibili. Lo trovavo comprensibile. Ma adesso era costretto a parlarmi.

Tossì, visibilmente affaticato, confuso, sconvolto. Dubitai che avesse udito o capito le mie parole.

Attesi per un tempo che mi parve infinito al sua risposta, fissandolo duramente.

Se ne accorse.

- Per lo stesso motivo per cui voi avete mentito a me, presumo.- affermò, goffo.

Non era stato per nulla convincente.

Mi accesi:

– So chi siete, Grampasso.- sputai fuori con nervoso.

Ebbi l’impressione che anche lui, in quel momento, si fosse sentito improvvisamente preso in giro e tradito da me, perché lo sentii controbattere:

- E io so chi siete voi, Principe Legolas di Bosco Atro.-

Trasalii, ingoiando l’amaro boccone. La mia messinscena era durata ben poco. Del resto non mi era mai piaciuto mentire, non ne ero mai stato veramente capace.

- Come avete fatto a scoprirlo?- quasi lo aggredii, mentre cominciavo a passeggiare su e giù come un leone in gabbia.

Aragorn mi osservava dal suo angolino, senza osare fare passi falsi. Decise di non perseverare nell’errore che ci era stato proprio: continuare a dire bugie non sarebbe stato saggio. Specialmente dopo che mi aveva visto dar prova di tanto valore contro il Mangiaterra.

Immaginai fosse per questo.

Lentamente, cercò di tirarsi su, per mostrarmi quanto ancora potesse essere forte:

- Un caso fortuito.- raccontò con voce flebile.

Sapeva che l’eco delle sue parole mi irritava e voleva che le sentissi tutte, dalla prima all’ultima.

– Poco dopo la vostra partenza, è giunto Gandalf il Grigio all’accampamento. Mi ha parlato di quello che è successo nella Terra-di-mezzo, della battaglia contro gli orchi sulle rive di Esgaroth, del vostro regno e di vostro padre. Di come la vostra presenza in battaglia sia stata determinante. E di come siete finito qui.-

Mi mancò il fiato. Non sapevo che Gandalf avesse intrapreso quel viaggio verso Fornost, forse per seguirmi. Non avevamo avuto modo di parlare o confrontarci, dopo la Battaglia delle Cinque Armate. Ero certo che avrebbe desiderato intavolare un discorso con me, ma io avevo preferito partire subito, lasciando a tutti ben poca scelta. Del resto, mi sentivo come se avessero prosciugato tutte le mie parole.

Nonostante la mia massima fiducia e stima in Gandalf, avrei preferito che non avesse confidato ad Aragorn certi dettagli.

- Mi chiedo solo perchè non me l’avete detto prima.- concluse l’uomo – Ci saremmo risparmiati un sacco di grattacapi.-

- Di questi tempi e in queste terre occorre avere...come dire...un minimo di accortezza.-

Lo vidi sorridere nella penombra rischiarata dalla luna, come se quella frase non gli suonasse nuova:

- Un’accortezza oserei dire quasi eccessiva.- mi rimbrottò.

Mi mossi, visibilmente su di giri:

- Voi vi siete forse comportato meglio?-

Aragorn alzò il viso e mi guardò, piccato. Nonostante il risentimento, non potè fare a meno di comprendere che in effetti avevo le mie ragioni. Mentire era stata la soluzione più semplice, se non la più saggia. Non avevo di che redarguirlo per il suo atteggiamento così sospettoso, così come lui non avrebbe dovuto aver niente da ridire sul mio.

Ero solo, ferito, e principe ereditario: chi avrebbe potuto biasimarmi?

Dopo qualche secondo di pesante silenzio, Aragorn giudicò utile lasciar cadere l’argomento e concentrarsi su cose più importanti:

- Credo sia il caso di andare a vedere che cosa è successo là fuori, Vostra Maestà.-

Tentò di alzarsi e avvicinarsi all’entrata della grotta, appoggiandosi contro la fredda pietra. La notte ormai era alta: le stelle erano coperte e l’atmosfera sembrava ovattata. Per non parlare dell’assenza di qualsiasi suono, raggelante, come se ogni fiammella di vita si fosse spenta.

Entrambi noi non avevamo il coraggio di affacciarci con il pensiero a che cosa poteva successo nell’accampamento, né a cosa avremmo trovato al nostro ritorno lì. L’unica certezza, per ora, era di trovarsi di nuovo insieme, incredibilmente vivi.

- Io credo sia il caso di chiarire alcuni particolari.- lo fermai prima che facesse un altro passo.

Lui mi guardò stralunato.

- Prima di tutto, evitate di chiamarmi “vostra Maestà”- lo redarguii – Non mi piace, quel titolo.-

Solo mio padre può essere chiamato Vostra Maestà, il Re

Aragorn strabuzzò gli occhi:

- D’accordo.-

Lasciai cadere un respiro:

- Inoltre – proseguii solennemente – credo siano dovute alcune presentazioni.-

La testa di Aragorn scattò in alto: sapeva che stavo parlando di lui. Ebbe un attimo di esitazione, ma io lo inchiodai al suo posto, senza lasciargli via d’uscita. Senza usare le parole, gli comunicai che non l’avrebbe passata liscia, stavolta, se non mi avesse detto la verità.

Desideravo capire più di quanto desiderassi portare a termine la mia missione.

- Chi siete realmente?- gli chiesi.

L’uomo inspirò profondamente, ergendosi in tutta la sua statura: era veramente alto, più di quanto avessi notato di primo acchito.

I miei sospetti potevano essere fondati.

- Io sono Aragorn, figlio di Arathorn, rinominato dagli elfi Estel ed erede al trono di Isildur, nonché membro dell’antica stirpe degli Uomini di Nùmenor.- dichiarò, tenendo i pugni stretti.

Ormai i nostri volti distavano a malapena da un paio di spanne. Nel buio incrociavo lo scintillio dei suoi occhi, ora di nuovo all’erta, e avvertivo le vibrazioni della sua voce forte che mi investivano le orecchie.

- E’ questo l’uomo che state cercando?- mi provocò, com’è sempre stato suo solito fare.

Lo fissai intensamente, ma questa volta senza ostilità. Anzi.

Il disegno divino mi era stato finalmente svelato.

Non era stata una follia: non avevo sbagliato nel misurare la grandezza di quell’uomo. Della storia, così come della sua persona, ora avrei potuto fidarmi. Mi era tutto chiaro.

Capii che quel filo nobile che legava le nostre razze, il nostro passato e il nostro futuro, non era mai stato spezzato.

Sorrisi, perché solo allora compresi le vere intenzioni di mio padre.

 

Mi raccontò che Gandalf lo aveva sorpreso all’accampamento poco dopo la mia dipartita e in quell’occasione gli aveva parlato di me e del mio coraggio. Quasi mi commossi al sentire tante qualità raccontate su di me dall’eminente figura dello Stregone. La nostra familiarità era ridotta al minimo indispensabile, tuttavia avevo sempre nutrito una certa deferenza verso il suo sconfinato sapere e la sua proverbiale audacia. Era anche alla sua razionale esperienza che mi ispiravo nei momenti in cui mi sembrava che tutto il mondo dovesse chiudersi su di me, con la precisa intenzione di divorarmi.

Era stato ospite fisso di mio padre per qualche anno e spesso alla reggia sentivo parlare di lui, anche quando non era presente.
Mentre lui non mi aveva mai parlato di Aragorn.

Cercavo di mettere insieme tutti i pezzi con pazienza, mentre l’uomo di fronte a me mi spiegava che il vero obiettivo di Gandalf era richiamarlo ai suoi doveri di erede di Nùmenor, prima che fosse troppo tardi per tutti quanti:

- Quindi tornerete nella Terra-di-Mezzo?- chiesi.

- E salverò il mondo in uno schiocco di dita, certo. Senza ombra di dubbio.- lui rise, mentre cambiava faticosamente posizione.

Era ansioso di tornare là fuori, con me o senza di me, con o senza la spada, ma il suo fisico malandato non gli concedeva tregua.

- Non potete sottrarvi al vostro destino.- gli feci notare, mentre lo osservavo.

Non come sto cercando di fare io

- Non intendo sottrarmi, anzi.- mi rassicurò - Ma vorrei capire perché voi siete qui?-

- Mio padre mi ha mandato a prendervi.-

- Per portarmi dove?-

Per un attimo esitai.

Non conoscevo la risposta a questa domanda.

- Non lo so.- biascicai, con una certa vergogna.

Grampasso spalancò gli occhi, sorpreso:

- Credevo aveste un motivo più valido per affrontare le terre di Angmar da solo, in piena notte, in pieno inverno, e pure ferito.-

Era una sfida, quella? O un’offesa?

Non lo sopportavo quando si elevava a figura dominante della situazione. In quel momento lo odiai. Lo odiai perché mi metteva di fronte a verità che non riuscivo ad affrontare, ad errori su cui avrei preferito ragionare da solo.

Una ramanzina non mi tornava per niente utile.

- La motivazione di ogni guerriero che si rispetti non è solo all’esterno di lui, ma vive anche dentro.- mi difesi.

- Concordo.- sbuffò Aragorn.

- Non vi permetto di sminuire la mia motivazione.-

L’uomo aggrottò le sopracciglia, interdetto:

- Io non...- iniziò, ma io lo interruppi.

- Non sono qui per me, sono qui per voi. Per voi e per il mio popolo. Lo stesso popolo per la cui salvezza ho combattuto nell’ultima battaglia, dove cinque armate sono state messe in campo, e solo una parte si è salvata. Una minima parte. E’ un privilegio per me essere annoverato tra i vincitori: mi è stata data la possibilità di portare avanti un piano più grande di me, dove il mio contributo potrebbe rivelarsi cruciale. Non importa quale sarà il prezzo da pagare. Non spetta a voi stabilire il valore della moneta di scambio.-

L’avevo ammutolito.

Continuai:

- Vi devo molto: vi devo la mia vita e il rispetto che si conviene alla vostra pietà e alla vostra saggezza. Probabilmente, è stata molto più grande della mia. Ma il vostro turno è finito; ora lasciate che sia io a stupirvi.-

Finalmente riuscii a calmarmi. Ero stato come un fiume in piena, un’ondata di emozioni represse che neanche sapevo di possedere. Gliele avevo rivoltate addosso, nonostante lui fosse la mia àncora di salvezza in quel mare di guai.

Per tutto il tempo, lui non aveva proferito parola e anche adesso pareva aver timore a parlare con me. Forse era rimasto impressionato dalla mia irruenza e questo aveva inibito la sua naturale predisposizione a reagire. Tanto meglio, perché io, dal canto mio, non avevo intenzione di protrarre una discussione senza senso.

Lo squadrai.

Era molto più complicato di così. La sua attenzione veniva continuamente sviata dalla piaga che recava al fianco: l’uomo non se n’era lamentato, ma la sua mano era sempre lì, a tenerla. Ero così preso da me stesso che non gli avevo lasciato via di scampo.

Sospirai. A volte ero troppo impulsivo, come mi rimproverava spesso mio padre.

Mi avvicinai e per la prima volta abbandonai il mio risentimento per far spazio alla gentilezza:

- Posso vedere?- gli chiesi.

Aragorn mi guardò dapprima un po’ di sbieco. Evidentemente, non gli piaceva l’idea di essere medicato, tanto meno gli piaceva l’idea di essere stato ferito. Probabilmente non gli piaceva nemmeno l’idea di aver dovuto stare zitto tutto quel tempo.

- Non è niente.- minimizzò.

Non demorsi:

- Se potrò aiutarvi anche solo un decimo di quello che voi avete aiutato me, dovrebbe essere sufficiente.-

Forse fu quel malcelato ringraziamento, o la gratitudine che trapelava da ogni virgola, a persuaderlo. O forse, semplicemente, lo vinse la stanchezza.

- Va bene...- accondiscese.

Sorrisi, nel buio.

- Sdraiatevi – gli dissi.

Aragorn si sedette per terra con un gemito soffocato. Aspettai che si distendesse, poi tastai con delicatezza le sue costole, in cerca di probabili fratture. Come passai sulla parte destra del suo corpo, l’uomo sobbalzò un paio di volte, trattenendo un grido. Avvertii sulle dita la viscosità e il calore della vita che se ne andava.

- Tutto quel sangue non è mio...- mi fece notare lui. Poi chiuse gli occhi.

Immaginai a cosa stesse pensando.

- Mi dispiace per il vostro amico...- ed ero sincero mentre condividevo quel sentimento con lui.

Strappai una parte del mio mantello per fasciare i suoi tagli e stritolare quel dolore. Oltre che alle costole, Aragorn aveva avvertito una fitta al cuore: per questo lo sentii sussultare.

Avevo visto come quei due si erano capiti con uno sguardo, come bastava una parola per sottintenderne altre cento: un’affinità che poteva esistere solo tra compagni d’armi e anime simili. Probabilmente quell’uomo era stato uno dei migliori soldati di Aragorn: un devoto, una persona su cui contare e di cui potersi fidare, soprattutto.

Magari la sua presenza gli era stata di conforto quando si era trovato in difficoltà; aveva creduto in lui, lo aveva spalleggiato e sostenuto, e aiutato nel migliore dei modi. Sicuramente doveva essere andata così.

Che perfido destino! Potevo sentire dentro di me quel dolore. Mi detestai per non essere riuscito a fare di più, o meglio, a sottrarre quell’uomo dalle grinfie del Male. Per Aragorn non sarebbe stato facile abituarsi all’assenza di quel caro volto.

- So che avete fatto il possibile.-

La sua voce, così piena di accorata indulgenza, mi sorprese. Lo fissai, incredulo.

- Grazie.- concluse Aragorn, senza guardarmi.

Era l’unica cosa che gli venisse da dire, forse per non far pesare su di me quel turbamento. In fondo, lo sapeva, la colpa non era stata mia. La guerra continuava ad essere brutale attraverso i secoli, purtroppo. Nessuna consolazione.

Nessuna pietà.

Ora l’uomo respirava a un ritmo più costante, senza soffrire troppo.

- Avete bisogno di qualcosa?- gli chiesi.

- Solo di un buon sonno.- mi rispose – Anche se dubito riuscirò a dormire. Voglio uscire e sapere che cosa è successo là fuori. Dov’è finito Gandalf.-

Scossi il capo:

- Non sarete di aiuto a nessuno in queste condizioni. La battaglia si è ormai conclusa, in un modo o nell’altro. E’ un rischio inutile, quello che intendete correre. Siete ancora debole, dovete riposare almeno un poco, prima di pensare di fare qualunque cosa. Siamo al sicuro, qui dentro. Nel caso ci fosse ancora qualche nemico nei dintorni, non ci potrà cogliere di sorpresa. Dobbiamo aspettare che venga giorno. Non vi preoccupate, vi starò vicino e monterò io la guardia.-

Aragorn annuì mestamente.

- Chiamatemi quando sarà il mio turno.-

- Non ci sarà nessun vostro turno.-

Mi fissò, allibito:

- Non potete stare in piedi tutta la notte.- mi fece notare - Probabilmente domani dovremo combattere ancora. Mi servite in forze.-

- Come se fosse la prima volta!- risi – Non ho bisogno di dormire per essere in forze.-

Anche stavolta gli toccò stare zitto, ed ebbi l’assoluta certezza che lo faceva malvolentieri.







**NDA**
Eccociiiii scusatemiiii per il ritardo! In questo periodo sto lavorando e studiando molto, non ho avuto molto tempo per scrivere e revisionare!!!
Spero vi sia piaciuto questo nuovo capitolo, aspetto come sempre le vostre recensioni!
Ciaooooo

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Capitolo 22
*** Thranduil ***


Thranduil

 

La cerimonia era stata solenne, ma al tempo stesso veloce e frugale. Non volevo in alcun modo che quel dolore ci travolgesse, nel caso ci indugiassimo dentro un minuto di più.

Il corpo di Tauriel era stato deposto in una bara di legno di faggio, riccamente intarsiata, che avevo fatto confezionare appositamente in due giorni. Ciò che restava di lei era stato preparato, lavato con cura, rivestito e abbellito per l’occasione, l’ultima di cui avrebbe potuto godere alla luce del sole.

Non avevo avuto il coraggio di assistere a quella formale cerimonia. Né come re, né come unico familiare a disposizione.

Non condividevamo nemmeno lo stesso sangue, ma la sentivo mia come non mai, specie in un momento come quello.

Una volta pronta, l’avevo accompagnata in un tripudio di iris bianchi fino al luogo che avevo scelto per lei, dove speravo avrebbe potuto trovare un minimo di pace.

Non ci è dato sapere con quali criteri le anime navighino attraverso le aule di Mandos, né con quali prerogative possano essere ammesse a Valinor oppure rimandate sulla terra sotto altra forma. A me non era dato sapere se i miei sforzi sarebbero valsi a qualcosa per cancellare il gesto di Tauriel, che nella nostra cultura equivaleva a una condanna ben oltre la vita terrena.

Il suicidio per amore non era ammesso come degna motivazione per rifiutare il sacro dono della vita.

Speravo che gli Dèi potessero avere pietà di lei.

Il corteo funebre si era fermato ai piedi di due enormi querce, poco lontano dal palazzo. Ricordavo che, nei tempi che furono, quello era stato un luogo di gioia per Tauriel, come anche per Legolas. Lì i miei figli, come me prima di loro, avevano giocato a nascondino, avevano preso in mano le prime spade di legno, avevano costruito la loro roccaforte contro noi adulti, troppo occupati nelle faccende del reame. Legolas e Tauriel erano due figli, per me, almeno prima che cominciasse questa assurda guerra nella Terra-di-Mezzo.

Ripensai a Legolas e a quanto il suo cuore avesse potuto battere forte per Tauriel, da prima di quando io me ne potessi accorgere. Ecco che, in quel momento, avevo cominciato a vedere le cose differentemente.

Non volevo che si frequentassero. Mio figlio doveva rimanere concentrato sui suoi doveri, come ci si sarebbe aspettato da un rampollo della casata reale. Non intendevo concedere alcuna deroga a Legolas, nemmeno per conoscere i piaceri dell’amore.

Inoltre, non era mia intenzione mescolare il nostro sangue con quello di una creatura di rango inferiore. Non era così che doveva funzionare.

Terzo ma non ultimo punto, non potevo concepire l’idea che due fratelli di fatto potessero amarsi così tanto, al punto da mandare all’aria tutti i miei piani.

Quando sono stato messo di fronte alla realtà, ho creduto che i miei incubi potessero avverarsi. Ne avevo parlato prima con Tauriel, poi con Legolas, cercando di allontanarli. Solo Tauriel si era dimostrata ligia alle mie parole.

Soltanto in seguito ne ho compreso il motivo.

La forza della verità aveva aperto una breccia nel mio animo e per la prima volta mi sono chiesto quando, se e dove avevo sbagliato. La mia proverbiale preveggenza non mi aveva salvato dall’abominio a cui stavo assistendo. Tauriel, la mia Tauriel, si metteva contro di me, per amore di un nano di nome Kili. Un senza passato e un senza gloria, ai miei occhi, come tutta la banda dei suoi squinternati amici. Ma lei ci credeva lo stesso, credeva nei loro valori e nel valore della loro impresa, una probabile missione senza ritorno. Mi recriminava il fatto di non volermi sporcare le mani con una guerra che non mi apparteneva, mi tacciava di essere pavido di fronte alla possibilità di aiutare la Terra-di-Mezzo e i suoi abitanti.

L’avevo odiata, in quel momento. Sì, odiata più che mai, mentre sulla mia pelle bruciava il fuoco della vergogna.

Legolas l’aveva difesa contro di me, arrivando al punto di minacciarmi con la spada. Avevo sentito un dolore dentro, micidiale, come se mi avesse trapassato. Persino in quell’assurdo momento, avevo pensato a Tauriel, a quanto era riuscita a portarmi via nonostante io le avessi dato tutto.

Li avevo visti allontanarsi insieme e tutto quello che mi era rimasto era un pugno di cenere nel mio cuore.

Ma adesso, di fronte al suo corpo bianco, mi ritrovavo a sperare che da quelle ceneri potesse germogliare qualcosa di buono e puro come il perdono.

Perdonami, Tauriel

Lo chiedevo a lei, ma forse lo chiedevo di più a me stesso, mentre la mia mente correva a Legolas e a tutto quello che aveva dovuto affrontare, da solo, senza di me al suo fianco. Forse era stato giusto così, forse era proprio questo che da genitore avrei dovuto imparare: lasciare andare.

Ma ero così terrorizzato dall’idea che qualcuno avesse potuto lasciare andare me, che non abdicavo all’idea di concedere alla vita di allontanarsi.

Non prima di potermi accomiatare definitivamente.

Per chiudere ufficialmente la cerimonia, mi restava solo una cosa da fare.

Feci un passo avanti, avvolto nel mio pesante mantello nero. Tutto pesava, in quel momento. Anche l’aria del mio bosco, la mia casa, pareva volersi stringere addosso a me e trascinarmi dove Tauriel mi avrebbe voluto: accanto a lei. Sempre e comunque, come ogni bravo genitore.

Non ero stato all’altezza di quel compito e me ne rendevo conto solo ora. Solo quando non mi era rimasto più niente.

Feci quello che dovevo fare.

Trassi da sotto il mantello la spada del nano Kili. L’avevo gentilmente chiesta in dono a quei maledetti nani, per ripulirmi almeno la coscienza.

Mi ero umiliato di fronte a loro, per chiedere un’assoluzione che non mi meritavo, ma di cui sentivo il bisogno, dopo tutto quello che era successo e che doveva ancora succedere.

Seppur fiaccati dalle perdite ingenti e sopraffatti dalla morte del loro capo Thorin Scudodiquercia, dopo aver confabulato un poco si erano accordati per farmi avere quell’arma. Non ci fu bisogno di ulteriori spiegazioni. All’inizio, speravo di poterla consegnare a Tauriel da viva, perché serbasse un ricordo del suo amore, per permetterle di avere il coraggio di vivere. Non avevo fatto in tempo.

Adesso mi toccava l’ingrato compito di congedarla affinchè se ne andasse dove voleva.

Mi sentivo tradito due volte da lei. La prima, per aver amato non un nostro simile, e per aver sposato la sua causa a discapito della nostra; la seconda, adesso, per non avermi permesso di rimediare alle nostre incomprensioni.

Mi avvicinai con la spada in mano. Quella lama era così nera, come se avesse continuato a bere sangue al di là della battaglia. L’appoggiai delicatamente sul suo petto, stringendo le sue mani fredde sull’elsa. Il buio di quella spada contro la sua carne bianca appariva spettrale. Mi ricordava qualcosa che non volevo ricordare.

La mia guancia prese a bruciare come il fuoco, ma io chiusi gli occhi e non permisi all’odio, né ai brutti ricordi, di entrare.

Mi concentrai solo su Tauriel, sui suoi occhi chiusi e i suoi capelli rossi sparsi sul cuscino all’interno della bara.

L’odore di quei fiori mi dava la nausea.

Ora ti apparterrà per sempre, Kili

Finalmente il bruciore passò. Quando riaprii gli occhi ero di nuovo io, di fronte allo stesso dolore. Un dolore che non mi ero permesso di vivere, perché mi ostinavo a negarlo. Quel corpo di donna ormai macilento, che sapevo essere stato vivo, mi metteva una tristezza infinita nel cuore.

Per fortuna tu non hai dovuto subire anche questo, mia amata

Mi allontanai e feci cenno ai miei servitori di predisporre il tutto per la tumulazione. Poi mi voltai.

Non ero in grado di affrontare anche quell’ultimo calcio del destino.

Inchiodato al mio posto, più per dovere che per volontà, mi sentii mancare la terra sotto i piedi quando la bara passò a filo contro gli architravi della tomba. Aveva un sapore definitivo, che io mai avrei potuto agognare, godendo di eterna vita.

Mi chiesi se il segreto non stesse tutto lì, nel sapersi concedere un riposo forzato, esercitando quel poco di libero arbitrio che ci lascia a disposizione il grande Ilùvatar.

Poi, contro la mia volontà, una lacrima riuscì finalmente a trovare un varco verso il mondo.










**NOTA DELL'AUTORE**
Eccomiii di nuovo, scusatemi, ma  è un periodo veramente incomprensibile! Per quelli che mi hanno chiesto che fine ha fatto Thranduil, ora hanno una risposta. Il prossimo capitolo sarà un po' più impegnativo, abbiate pazienza! Farò del mio meglio!
Aspetto come sempre le vostre recensioni, un bacione e a presto

 

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Capitolo 23
*** Aragorn ***


Aragorn

 

Quando riaprii gli occhi, dopo essere caduto in un sonno profondo e oscuro, dove le urla di Bjorn continuavano a tormentarmi, l’elfo era ancora là dove l’avevo lasciato, a guardia della spaccatura nella roccia.

Non aveva mancato alla parola: era stato sveglio per quel che restava della notte, sempre vigile, senza disturbare il mio riposo, e non pareva per nulla stanco, nemmeno un po’ assonnato.

Quella pausa obbligata, per fortuna, mi aveva restituito lucidità e una buona dose di forza. Il mio corpo aveva incassato il brutto colpo, ma lo ritrovavo più rinvigorito rispetto alla sera prima, quando i recenti avvenimenti avevano stremato non solo il mio fisico ma anche il mio animo.

Mi tirai su, stropicciandomi gli occhi. Scoprii con infinito piacere che la ferita alle costole aveva smesso di sanguinare e pulsare. A dire il vero, quasi non mi sembrava di essere andato a sbattere contro quella torretta.

Legolas alzò la testa. Stava lucidando i pugnali che – sembrava un’èra prima – gli avevo sottratto dal fodero quando era ancora debole e indifeso. Su quelle lame ogni segno della battaglia era scomparso, ma lui continuava ad accarezzarle come scorgesse sempre piccolissime imperfezioni alle quali era necessario rimediare.

Mi avvicinai lentamente, spiando da sopra la sua spalla e ammirando quei manufatti elfici in tutta la loro pregiata qualità. Ma prima che potessi aprire bocca, l’elfo parve indovinare i miei pensieri:

- Appartenevano a mio padre.- spiegò, senza che io gli avessi posto una vera domanda.

Subito mi balenò in mente la figura di re Thranduil: alto e severo, con capelli così biondi da fare male alla vista e uno sguardo da scorpione. Era così diverso dagli altri re elfici che conoscevo. Non mettevo in dubbio le sue preziose virtù, ma dovevo ammettere che tra tutti i sovrani al cui cospetto mi ero trovato, Thranduil era quello che mi incuteva più soggezione. Pur non essendo mai stato poco cordiale con me, faticavo a metterlo in relazione con suo figlio, che sembrava risplendere della luce saggia dell’altruismo.

Erano quasi due gocce d’acqua nel corpo, ma sull’anima avevo qualche dubbio.

Non glielo dissi. Lo lasciai parlare:

- Quando è tornato dall’ultima battaglia, ad Angmar, li ha appesi al muro e non li ha più toccati. Poco tempo dopo sono finiti in un armadio - mi stava raccontando Legolas in quel momento – Non ha spiegato nulla, ma credo avesse bisogno di prendere le distanze da tutto quel dolore. Mia madre...sapete, mia madre è morta durante quella guerra.-

Tacqui, trattenendo il fiato.

Non mi aspettavo proprio una rivelazione del genere.

- Quando divenni adulto me li consegnò e mi insegnò come usarle al meglio.- terminò lui – Non ho mai dimenticato.-

Ripensai a quando l’avevo visto volteggiare nell’aria, con quella leggiadria nei gesti e negli affondi che faceva sembrare qualsiasi lotta uno spettacolo di danza. Non mi ero sbagliato: tanta perfezione nei movimenti, nell’uso delle armi e tanta ricchezza di esperienza poteva provenire solo da un ambiente regale.

Ancora non dissi niente. Guardai oltre la sua testa, in un mondo dove la polvere ora la faceva da padrone. Sotto il suo sguardo allarmato, lo superai e mi sporsi fuori. Non c’era nessuno e non si udiva alcun suono.

- C’è silenzio.- giudicai, con preoccupazione – Troppo silenzio.-

Legolas si alzò e venne accanto a me, cercando di oltrepassare la foschia con la sua vista acuta.

- Non c’è nessuno per miglia e miglia.- aggiunse.

E Gandalf dove sarà finito? pensai tra me e me

Sarà ancora vivo?

L’angoscia cresceva in me come un’erbaccia in pieno sole.

- Vado a vedere.- si offrì l’elfo, già pronto a partire.

Non mi lasciai sfuggire l’occasione:

- Vengo anch’io.- affermai con tono perentorio.

Credo che avrebbe voluto impedirmelo, ma qualcosa nei miei occhi lo fece desistere. Saggiamente, decise di non contraddirmi.

Uscii per primo dal nostro nascondiglio, con lui a ruota, a proteggermi le spalle. Immediatamente trovai una spada abbandonata sul campo e me ne impossessai, tenendola ben alta davanti a me. Appena fuori, i cadaveri degli orchi avevano cominciato a riempire il terreno di viscide membra e di un odore pestilenziale. Qualche animale aveva già cominciato a banchettare con i loro corpi: qualche volpe si aggirava lì intorno e ci osservava di sbieco, mentre tranciava brandelli di carne.

Mi mossi con circospezione attraverso quel campo di battaglia, sul quale ancora non avevo visto un solo uomo morto. Ma dovevano esserci, almeno qualcuno.

Soffrivo al solo pensiero di scoprire chi dei miei compagni avrei dovuto seppellire per primo.

Inconsciamente, speravo di non dover rivedere anche Bjorn. Gli ultimi istanti della sua vita mi avevano già segnato nel profondo e sapevo che avrei avuto bisogno di molto tempo per abituarmi all’idea che lui non sarebbe più stato al mio fianco. Ora facevo finta di niente, ma il suo fantasma già mi perseguitava e mi chiedeva giustizia.

Dovevo giustizia a lui, e a tutti quanti.

L’elfo mi seguiva con prudenza, pronto a scoccare frecce con il suo arco. La nebbia si stava alzando e le prime sagome di costruzioni dell’accampamento si facevano più chiare, anche se distrutte.

Nessuna traccia dell’enorme verme, a parte i grandi crateri che deturpavano l’erba.

Mi sforzavo di guardarmi attorno e non guardare per terra. Il mio respiro si era fatto sempre più pesante. Ero contento di non essere solo in un momento del genere, ma di avere un guerriero come Legolas al mio fianco. Anche se quasi temevo per la sua vita più che per la mia, specie alla luce delle ultime rivelazioni.

Suo padre re Thranduil non mi avrebbe certo perdonato una distrazione.

Gli lanciai un’occhiata, che lui ricambiò. Mi fece un cenno e capii che era ora di separarci: io sarei andato da una parte, lui dall’altra, per esplorare i dintorni e sperare di trovare qualche indizio.

Con il cuore in gola, cominciai il mio giro. Il silenzio mi schiacciava sotto il suo peso, interrotto solamente da deboli fruscii e qualche cinguettio: persino a Fornost l’aria trovava il coraggio di animarsi, illudendoci che tutto fosse tornato come sempre.

Arrivato al limitare delle torrette, mi chiesi per un attimo che azione sarebbe stato più razionale intraprendere. Non vedevo più l’elfo, a causa della densa nebbiolina, ma ero certo che lui vedesse me. Nel nulla, gli feci segno che mi sarei inoltrato tra i ruderi.

Poco prima che potessi compiere un altro passo, una luce azzurra scoppiò alle mie spalle, disegnando un’ombra scura davanti ai miei piedi. La sorpresa fu così repentina e accecante che sobbalzai dalla paura e mi voltai tentando un affondo con la spada, in maniera forse un po’ troppo avventata.

- Aragorn!- gridò una voce che stentai a riconoscere – Aragorn, sei vivo!-

Vidi una freccia che dall’altra parte del campo si infrangeva contro la luce azzurra e veniva spezzata da una forza invisibile. Poco dopo apparve l’elfo, con l’arco in mano e un’altra freccia pronta a partire.

- Sciocchi!- gridò la voce.

La luce si smorzò pian piano, rivelando una figura che non avrei mai pensato di rivedere così presto.

Era Gandalf.

- Che diavolo...- cominciai, mentre l’arma quasi mi cadeva dalle mani per la sorpresa e lo sgomento.

- Riponi le tue armi, Legolas Verdefoglia – ammonì lo stregone – Non sono io il tuo nemico.-

Vidi l’elfo avvampare di vergogna e in fretta posare l’arco. La cosa mi rassicurò: non era un’allucinazione quindi.

Ammirammo la figura dello Stregone in tutta la sua statura e serietà:

- Principe Legolas...che gioia ritrovarti!- lui si rivolse per primo all’elfo, che aveva piegato la testa in segno di deferenza.

- Mithrandir...- salutò, con contegno.

Gandalf si girò quindi verso di me, studiandomi con attenzione. Sicuramente aveva notato le bende macchiate di sangue attorno al mio torace.

Eravamo entrambi piuttosto malconci.

- Dove vi eravate cacciati? Temevamo foste morti!- tuonò il mago, sbattendo il bastone per terra.

- Abbiamo dovuto nasconderci...- cercai gli occhi del mio nuovo amico, incontrando il suo appoggio in quella comune versione – Io non ero in grado di combattere. Legolas mi ha protetto.-

Gandalf gli dedicò uno sguardo carico di riconoscenza e benevolenza, che l’elfo apprezzò molto.

- Si può sempre contare su di te.- lo lodò - Grazie per averlo salvato.-

- Dovere.- rispose il principe, arrossendo un pochino.

Poi lasciò vagare il suo pensiero sul campo di battaglia, stringendo gli occhi quel tanto che bastava per mettere a fuoco particolari che io non sarei mai stato in grado di cogliere.

Gandalf riprese la parola:

- Sono riuscito ad allontanare il verme Mangiaterra con la magia. Purtroppo non sono riuscito ad ucciderlo. E’ fuggito via, ma almeno ci ha lasciati in pace.- ansimò – Gli orchi si sono accaniti in particolar modo sui tuoi uomini, Aragorn, ma loro hanno saputo difendersi. Li hai addestrati bene. Io ho dato solo un piccolo contributo. Abbiamo subito poche perdite in confronto ai nemici, come puoi ben vedere...- con un ampio gesto della mano fece strada sul campo, disseminato di cadaveri – Altri però sono scappati e noi non li abbiamo inseguiti.-

- Mi dispiace averti coinvolto, Gandalf.- mi scusai – Avrei dovuto essere qui con voi.-

- Non ci saresti stato utile, se non atto alla battaglia.- ribattè Gandalf – L’intervento di Legolas è stato provvidenziale. Ti ha portato via da qui, dove nessuno avrebbe potuto nuocerti. Una decisione saggia, visto che ci servi vivo.-

Di nuovo lo stregone guardò significativamente l’elfo, ed ebbi l’impressione che quei due si conoscessero da molto più tempo di quanto potessi immaginare.

Mi chiesi come mai Gandalf non mi aveva mai parlato di questo principe dal cuore d’oro.

- Dove sono i miei uomini? E gli altri?- chiesi.

- Si sono rintanati dove tu gli hai spiegato. Io sono rimasto da solo, qui ad aspettarvi. Sarei venuto a cercarvi, se non vi avessi visto arrivare.-

Sospirai. Dovevo raggiungerli al più presto e riorganizzare le fila, mandare le donne e i bambini il più lontano possibile, inviare messaggi agli accampamenti più vicini. Il mio cervello ricominciava a pianificare un’offensiva.

- La battaglia non è ancora finita – Gandalf mi distolse dalle mie macchinazioni – E io ho anche un’altra cosa da dirvi.-

Da “dirci”?

Mi chiesi in che misura Legolas potesse essere implicato nella faccenda. Anche l’elfo sembrava sorpreso di far parte di quel grande gioco.

Gandalf trasse un sospiro stanco:

- Questo è anche il motivo della mia venuta. – precisò - Gollum è scappato da sotto la montagna.-

Quella creatura tornava a perseguitarmi. Già il nome mi faceva ribrezzo. La sua storia era avvolta nel mistero, ma quel poco che si sapeva di lui, mi era già stato raccontato dallo stregone tempo addietro. Per un motivo a noi sconosciuto, Gollum era l’ultima persona (si sarebbe potuto definirlo tale?) alla quale era stato concesso di tenere in mano l’Unico Anello del Potere di Sauron, il Dio delle Tenebre. Quell’individuo era perciò maledetto due volte, per il suo aspetto corrotto dal Male e per la sua avida sete di potere, trasmessagli dall’Anello.

A volte rivedevo Gollum nei miei sogni e Gandalf mi aveva ammonito: avrebbe avuto un ruolo nella nostra vicenda.

Anche Legolas sussultò.

- Chissà cosa gli dice quella sua testa suonata.- proseguì lo stregone – Non è saggio lasciarlo a piede libero. E’ meglio trovarlo e provare a parlargli, potrebbe tornarci utile per capire che cosa si sta muovendo sotto terra, dove le forze del Male trovano rifugio. Potrebbe essere diretto a Dol Guldur...-

- In tal caso, re Thranduil sarà già sulle sue tracce.- avevo cercato di rassicurarlo, ma il mago non sembrò per nulla persuaso. Probabilmente non riponeva una grande fiducia nel sovrano elfico.

Come me, del resto.

- L’ho visto molto turbato dopo la battaglia delle Cinque Armate.- spiegò – Non sono certo abbia la forza mentale per iniziare una caccia all’uomo. Inoltre, in questo periodo lo vedo particolarmente asserragliato in se stesso, concentrato perlopiù a proteggere la sua gente che non inseguire fantasmi.-

La cosa mi fece pensare. Ricordavo Thranduil come un essere dall’incrollabile fibra e una disciplina ferrea, il tipo di creatura a cui affideresti volentieri la tua vita se la volessi proteggere, certo che lui compirebbe un ottimo lavoro. L’immagine che invece Gandalf mi andava restituendo era molto lontana da quella che avevo vissuto: mi parlava di un elfo dal coraggio instabile, fortemente provato dagli eventi e invecchiato, ecco, se fosse stato un uomo avrei detto che era invecchiato.

A quel punto, dopo qualche istante di pesante silenzio, Legolas si intromise:

- Non ero a conoscenza di questo fatto, ma è grave.- sentenziò – Se partiamo subito, forse riusciamo a intercettarlo...-

- Partiamo?- ripetei, come inebetito.

Legolas mi guardò eloquentemente:

- Non posso tornare nella Terra-di-Mezzo senza l’erede di Isildur.-

A quel punto mi sentii chiamato in causa più che mai, e la mia bocca si mosse da sola:

- Non potrò andare da nessuna parte se prima non sistemo questi orchi e metto al sicuro i Raminghi del Nord.- dissi con un fil di voce.

Gandalf osservava la scena senza dir nulla: sembrava prendersi del tempo per rimettere tutti i tasselli dell’enigma al loro posto.

Legolas mi scoccò un’occhiata infuocata. Attese qualche secondo, prima di rispondere:

- D’accordo, lo capisco. Allora mi occuperò di Gollum dopo aver sistemato questi orchetti. Mi sembra abbiano la priorità.-

Gli fui immensamente grato per il suo sostegno.

- Non potete affrontare da soli quella marmaglia – intervenne Gandalf – E non potrete sconfiggere da soli il Mangiaterra. Il destino mi chiama altrove, io non posso aiutarvi. Il mio consiglio è che vi allontaniate da qui il prima possibile. Non deve succedere niente a nessuno dei due.-

- Io non lascerò i miei uomini senza un capitano, Gandalf – mi opposi – Costi quel che costi. La mia vita è qui.-

- Siamo gli unici che possiamo fermarli e abbatterli – Legolas non si tirò indietro – Ho esperienza con le creature del Male, ne ho sconfitte molte a Bosco Atro. Se solo...-

- Tu non hai idea di cosa si nasconde qui. La terra stessa è marcia. Qualsiasi tentativo è tempo perso! Nasceranno nuove specie nemiche sui cadaveri di quelle vecchie. Non riuscirete a fermarle!-

Legolas cercò supporto nei miei occhi, ma io non sapevo più cosa dire. Riconoscevo che Gandalf aveva ragione: sarebbe stato molto meglio utilizzare il tempo a nostro vantaggio, impiegandolo in un’impresa che avesse almeno una possibilità di riuscita, anche se non immediata. Ma non mi arrendevo all’idea di lasciare soli i Dùnedain.

Ancora una volta, Legolas parlò anche per me:

- Possiamo farcela.- affermò, sicuro di se stesso.

A quel punto Gandalf montò in collera. Ebbi l’impressione che l’atteggiamento dell’elfo richiamasse ricordi talmente amari che il mago non poteva più ignorarli.

- Testardo come Thranduil.- bofonchiò.

A quel nome, Legolas sussultò:

- Non mi paragonate a mio padre.- sibilò poi.

Gandalf, visibilmente irritato, sbattè di nuovo il bastone per terra e rincarò:

- Non solo testardo, pure orgoglioso come lui!-

A Legolas mancò il fiato, come se solo in quel momento si fosse reso conto di aver rischiato di mancare di rispetto allo Stregone:

- Perdonatemi.- abbassò la testa con deferenza, puntando lo sguardo a terra – Io...-

Eravamo tutti eccessivamente nervosi. Anche Gandalf lo sapeva, e nel momento in cui questo pensiero gli illuminò la mente, subito cambiò tono:

- Principe Legolas - lo interruppe, con rinnovato ardore – perdonate voi me. Avrei dovuto frenare prima la lingua. Avete ereditato le migliori qualità di vostro padre, come il valore e la generosità, e ne avete regalate in abbondanza, molto più di quanto ci si potrebbe aspettare da voi. Fate bene a camminare fiero sulle vostre gambe. Siete di grande esempio per tutti.-

Legolas tremò.

- Purtroppo la vostra vita non è stata facile.- lo stregone si avvicinò e gli strinse un braccio – Siete stato addestrato contro i pericoli, contro i mostri, contro i soldati e qualsiasi cosa potesse nuocervi. Siete cresciuto senza paura in un mondo che ha conosciuto quasi soltanto quel sentimento. Ancora una volta, ne uscite vincitore. Avete imparato molto e molto in fretta. Avete avuto un maestro molto severo. E non avete esitato a mettere le vostre conoscenze a disposizione di chi è stato meno fortunato di voi.-

La faccia di Legolas era attonita.

- Vostro padre vi ama.- sussurrò Gandalf – Vi ama profondamente ed è orgoglioso di voi. Lui vive per voi.-

L’elfo tratteneva a fatica le lacrime.

- Non è molto abile nel dimostrarlo...- continuò il mago – La sua mente è ottenebrata da mille pensieri e il suo cuore offuscato da cattivi presagi. Era un regnante molto diverso, prima della battaglia di Angmar. Da allora il suo cuore è stato corrotto dal male, così come il suo viso.-

Legolas era sempre più visibilmente in difficoltà, non sapendo cosa dire.

- Re Thranduil fa del suo meglio.- Gandalf era implacabile – Ha sempre fatto del suo meglio, ne sono certo. Con il suo popolo, nei confronti di suo padre Oropher, con te...ed era molto innamorato di tua madre.-

Il viso diell’elfo scattò:

- Tu sai cos’è successo?- lo disse in un soffio.

Gandalf non si mosse. Lo fissò intensamente ma in maniera gentile, quasi si trovasse indeciso se rivelargli qualcosa di più o proteggerlo dal peso di quelle informazioni. Non capivo il motivo di tanta reticenza, a dire il vero, ma sembrava importante nasconderlo quasi quanto poteva essere importante per Legolas venirne a conoscenza.

Tuttavia, notai che il mio nuovo compagno d’armi si dondolava ancora più ansiosamente da un piede all’altro, man mano che l’opportunità di sapere si chiudeva nel mutismo ostinato di Gandalf.

- Lascia stare i morti, Principe Legolas.- concluse lo stregone – Lascia che riposino in pace, finché è possibile.-

- Perchè non mi è dato sapere? Perchè devo rimanere l’unico a non sapere?- sbottò l’elfo – Tutta la vita senza poter conoscere i suoi lineamenti, il suo profumo, la sua voce! Sapete che cosa significa? Sapete che cosa si prova? Non ho nemmeno una tomba su cui io possa piangere!-

Ecco, ritornava la sua antica rabbia, quella che avevo intravisto in qualche occasione, senza poterci attribuire un senso. Ora mi rendevo conto che l’aveva, e forse anche più di uno.

Gandalf non si fece spaventare. Rimase al suo posto, ben ancorato al suo bastone. Il suo sguardo, tuttavia, tradiva una certa tristezza:

- Non stavo parlando di tua madre, ora.- chiarì.

L’elfo non ribattè: era ancora piuttosto scosso. Gandalf ne approfittò spudoratamente per cambiare discorso:

- Sei nel posto giusto, figliolo. L’uomo che cerchi è proprio alle tue spalle.- gli fece notare.

Legolas mi guardò, ma non disse nulla.

 

- Che cosa è successo alla madre dell’elfo?-

Non so con quale coraggio osai porre quella domanda. Forse perché vedevo Gandalf un po’ più tranquillo, dopo che Legolas si era allontanato, apparentemente senza rancore. La loro discussione, nonostante tutto, aveva destato la mia curiosità.

Gandalf non mi stava ascoltando. Era molto concentrato sul risanare le mie ferite; ma non ero certo che quello fosse sufficiente a distoglierlo dalla mia indiscrezione.

- Gandalf?- lo richiamai.

Lui alzò la testa. Mi guardò, poi si guardò intorno, per un attimo dubbioso. Mi aveva sentito benissimo.

Non capivo il motivo di tutto quel mistero.

- Prometti che non glielo dirai?- sussurrò, rimettendosi al lavoro.

Era il commento più strano che avessi sentito provenire dalla sua bocca. Sgranai gli occhi.

- Perchè non dovrebbe saperlo?-

Gandalf sospirò:

- Sono cose orribili a dirsi. Cose orribili da sopportare. Legolas è forte, ma vorrei evitare di turbarlo ulteriormente. E’ stato un momento difficile per lui.- si fermò, mentre controllava che l’elfo non gli comparisse alle spalle.

Non vedendolo arrivare, si rilassò:

- Thranduil si è adoperato tantissimo perché non sapesse, perché non soffrisse...ma non può nulla contro l’imprevedibilità di un sentimento potente come l’amore che lega un figlio alla propria madre.- continuò - Forse la sua non è stata la scelta più saggia, ma questo il re ha deciso, e io lo rispetto.-

Tacqui. In effetti, non era precisamente nel mio interesse scoprire quei particolari, e forse non avevo nemmeno fatto bene a chiedere. Non conoscevo quelle creature: non conoscevo Re Thranduil, né Legolas. Nemmeno Gandalf, a dire il vero.

Ma sapevo cosa significava essere solo in un mondo potenzialmente ostile.

- E’ morta qui, ad Angmar.- cominciò Gandalf, assorto nei ricordi – Io c’ero.-

 

Fuori, a poche leghe di distanza, infuriava la battaglia. Lei non ne aveva voluto sapere, di ascoltarlo. Era venuta con il suo seguito di Guardie scelte, per dargli manforte quando ne avrebbe avuto bisogno.

Sua moglie era una grande Regina, degna di un grande Re. Thranduil a volte si sentiva soggiogato da tanta bellezza e tanta compostezza, tanta audacia racchiusa in un corpo tanto esile.

Aveva fulgidi capelli d’oro e uno sguardo da cerbiatta, ma non c’era nulla di docile nel suo temperamento quando si scendeva in battaglia. Nonostante fosse una donna, era un guerriero nel cuore, e non avrebbe mai abbandonato il campo. Non senza il suo consorte.

La regina sosteneva che, se guerra doveva essere, era inutile la sua presenza a Boscoverde – tale era il nome di Bosco Atro, una volta – poiché questa non avrebbe certo cambiato le cose, se l’esercito elfico fosse stato sconfitto. Quella guerra doveva essere vinta, assolutamente. Per questo aveva lasciato il regno e Legolas in mano al Reggente e si era recata ad Angmar. Il suo posto era lì con Thranduil.

Non era donna da rimanere con le mani in mano. Lei si sentiva in dovere tanto quanto il re di salvare il suo popolo e suo figlio Legolas.

Mentre il re era impegnato al fronte, un pugno di Esploratori elfici della Regina teneva d’occhio le retrovie, per proteggere le spalle alle armate della Terra-di-Mezzo. Fu così che si accorse di un passaggio segreto, verso Nord, scavato dai Mangiaterra. Lei lo comprese subito: da lì gli orchi avrebbero potuto accorrere in gran numero e sorprendere così le truppe degli alleati.

Per non distogliere l’attenzione dello sposo dalla principale linea militare, la Regina partì immediatamente con la sua personale spedizione, diretta al passaggio sotterraneo, in totale segretezza: aveva intenzione di disporre un muro di soldati e pietre per rallentare – se non impedire – ogni azione nemica. Thranduil non era al corrente di questo piano e quindi non riuscì a fermarla: se ne accorse quando era ormai troppo tardi.

Purtroppo, qualcosa andò storto. Gli orchi l’aspettavano già al varco del passaggio: sbucarono dal nulla in gran numero, buttandosi quasi a peso morto sul drappello della Regina. Ormai in trappola, lei non poteva più tornare indietro: così sguainò la spada e iniziò a combattere come una belva feroce.

Quando Thranduil sentì il corno di allarme della Guardia Elfica, erano ormai troppo lontani.

In quel momento gli orchi attaccarono anche sul fronte principale, capeggiati da un Drago. Quella creatura si avventò precisamente su Thranduil e il re dovette difendersi. Ero con lui in quel momento. Con il mio aiuto e il suo coraggio, siamo riusciti a sconfiggere quella progenie malefica, ma a quale caro prezzo! Con le sue vibrisse, il Drago osò sfregiare il viso del re, lasciandolo tramortito nel bel mezzo della battaglia. Ho temuto sul serio che morisse. Per fortuna intervennero i suoi soldati, che prontamente lo portarono via dal campo. Ancora adesso Thranduil reca una cicatrice di quello scontro e se si può dire guarito del corpo, altrettanto non si può dire del suo animo.

Da certe tenebre non c’è cammino di ritorno.

 

- Non siamo riusciti a proteggerli.- concluse Gandalf - Sono sicuro che la Regina pensò soprattutto a Legolas e a come salvarlo. Lui era giovane, troppo giovane, non può ricordare.-

Ero allibito di fronte a un simile racconto. Mi mancavano le parole per esprimere anche solo la metà delle emozioni che mi suscitava.

- Suo padre invece è ancora vivo.- balbettai.

- Doveva rimanere vivo per suo figlio.- riprese lo stregone – Credo che Thranduil si sarebbe lasciato morire quel giorno, quando non abbiamo trovato la sua sposa, ma un mucchio di cenere. La sua intera esistenza era distrutta. Restare vivo per la triste eternità che gli rimane, credo che lui lo consideri il giusto scotto per non essere stato abbastanza attento a lei.-

- Non è stata colpa sua, lui era impegnato sull’altro fronte. Non è stato a causa di un suo egoismo.-

- Lo so.- replicò il mio amico – Ma lui resta convinto che avrebbe potuto fermarla e non l’ha fatto. Rimane convinto che era suo dovere pensare lui a tutto. Correre in aiuto del regno, proteggere suo figlio...invece che fosse la moglie costretta a farlo.-

Aggrottai le sopracciglia, piuttosto abbattuto:

- E’ una storia molto triste.- affermai.

- Già.-

Riflettei per un minuto.

- Loro...Legolas e suo padre...non si parlano per questo motivo?- mi azzardai a chiedere. Mancava ancora qualche pezzo al quadro completo.

- Oh no...- si riscosse il mio amico - Thranduil adora suo figlio, vorrebbe esaudire tutti i desideri di sua moglie e vederlo diventare un grande regnante, come i suoi predecessori. Non è facile essere madre e padre insieme.-

- I desideri di cui parli sono quelli di sua moglie, di suo figlio oppure i suoi?-

Gandalf mi osservò attentamente e sorrise di quell’impulsivo quesito:

- Una domanda acuta, figliolo.- mi diede una pacca sulla spalla – Penso tu abbia centrato il nocciolo della questione.-

Non ero felice di esser stato così intelligente. La verità lasciava parecchio a desiderare.

- Thranduil è ossessionato dall’idea di far fronte a qualsiasi cosa nella qualità e nei tempi che servono - rivelò Gandalf – e non vede l’ora di vendicare tutto il male che gli è stato riversato addosso ingiustamente. In questo rancore sconsiderato io riconosco l’impronta del nemico, qualcosa di malvagio che è latente in lui e lo divora, lo confonde. Il re cerca di tenerlo a bada, ma a volte è vulnerabile a certi pensieri. Nella sua affannata corsa verso ciò che è bene, spesso si dimentica delle persone che gli stanno accanto. Tra queste, suo figlio Legolas.-

Mugugnai qualcosa che non mi piacque. Il pensiero di Legolas stretto tra due fuochi, la gravosa responsabilità di erede e l’esigente pretenziosità dell’unico genitore rimastogli, mi faceva male come se al suo posto ci fossi io. Ripensavo al tutto e non potevo fare a meno di provare compassione per quella famiglia dilaniata dal destino.

Dopo un attimo di silenzio e di fronti aggrottate, mi decisi a porre quell’ultima domanda:

- Gandalf...- quasi bisbigliai – Perchè non c’è una tomba?-

Mi sembrava piuttosto grave il fatto che non ci fosse una tomba. Mi ricordava tristemente quanto avessi sofferto anche io, non sapendo su che pietra piangere, passando le notti a trattenere la pena per briglie ormai logorate, voltandomi a ogni bisbiglio, a ogni battito di ciglia, perché mi sembrava che i miei genitori fossero ovunque, mi circondassero. Ad occhi inesperti avrebbe potuto sembrare quasi una sensazione piacevole; in verità era un’ossessione tremendamente estenuante. Per questo mi sentivo così vicino all’elfo. Comprendevo il suo dolore. Per quanto intoccabile quella creatura potesse sembrare, cominciavo a intravedere le scalfitture in quella perfezione marmorea.

Gandalf restò zitto per un lunghissimo minuto. Anche il suo respiro sembrava essersi del tutto estinto. Si era tramutato in una statua di cera. Mi voltai a fissarlo ed era bianco come un lenzuolo, freddo come l’acqua ghiacciata.

- Perchè non c’è un corpo.- mormorò, e sembrò riprendere fiato per dire qualcos’altro, ma la sua voce fu spezzata da qualcosa che gli si era incagliato negli occhi. Erano lucidi e fragili come calici di cristallo.

Mi avvicinai a lui:

- Dov’è il corpo, Gandalf?- volevo saperlo – Dove l’hanno portato?-

Lui si alzò di scatto in piedi:

- Questi non sono affari che ti riguardano.- tagliò corto – E io non sono autorizzato a rivelarti questi particolari inutili e macabri.-

Anche io mi alzai in piedi. Non ero per nulla intimorito, anzi. Mi rivedevo in quella storia. Ma qualcuno aveva avuto pietà di me e mi aveva fornito una versione, per quanto romanzata, della morte dei miei genitori, a cui potevo ripensare quando volevo: era pur sempre un frammento da tenere in un angolino della mente e del cuore per i momenti bui. Sempre meglio di niente. Ma il silenzio...il silenzio non era una condizione accettabile.

- Ci tieni così poco al tuo amico elfo?- gli feci notare – Voi che sapete la verità, o una parte di essa, non vi sentite colpevoli di avergli fatto perdere una seconda volta sua madre, non concedendogli niente, neanche una lapide? Che diritto avete di negargliela?-

A Gandalf si illuminarono gli occhi. Mi riconosceva come il “suo” Aragorn, l’erede di Isildur, il leale e fiero capo degli Uomini di Nùmenor, uno che non si lasciava spaventare. Forse seppe in quel momento che io e Legolas eravamo già legati per la vita da una profonda amicizia, a nostra insaputa, nonostante la giovane età. Eravamo sulla stessa lunghezza d’onda. Potevamo essere compagni e migliorarci a vicenda. L’uno fare tesoro dell’esperienza dell’altro.

Non si mostrò per niente allarmato, mentre credevo di averlo messo fieramente con le spalle al muro:

- Amico mio...- disse quasi sorridendo, benchè non ci fosse nulla da ridere – Non hanno portato via nessun corpo. Non è mai stato trovato. Probabilmente la Regina è stata dilaniata dalle spade, fatta a pezzi, oppure bruciata e offesa fino nelle sue viscere. Non lo sappiamo. Non è rimasto nulla di lei, su questa terra. A parte Legolas.-

Vacillai. Mi immaginavo la scena, con tutta la crudeltà che potevo concepire: disegnavo nella mia mente il fumo, le lame che roteavano, il sangue che sprizzava scintille lucenti nel tramonto, il riverbero sopra ogni cosa, capelli lunghi, biondi e innocenti abbandonati sull’erba rossa...

Era troppo da sopportare, persino per uno sconosciuto come me.

- Non è così che Re Thranduil la vuole ricordare.- proseguì quietamente Gandalf – Non c’è niente di nobile nel celebrare una tale morte. Lui non vuole ricordarla da morta. Lui vuole ricordarla viva e vegeta, invincibile, più forte e bella di chiunque altro. Credo che in fondo al suo cuore, non sapendo dove in effetti sia andata a finire, abbia sperato e speri ancora di poterla ritrovare. Per lui era perfezione pura, e a quella agogna. Anche se non vi è mai stato tanto lontano come in questo momento.-

Cominciavo a capire. Il principe era stato coinvolto suo malgrado in un terribile ingranaggio, che con il tempo avrebbe finito per stritolarlo.

- Legolas...- esalai.

Gandalf mi guardò e seppe che avevo capito tutto:

- E’ esatto.- mi incoraggiò.

A quel punto, scoppiai:

- Il dolore di Thranduil non gli dà il diritto di trattare il figlio come una marionetta! Ciò che è stato, è stato, non può essere recuperabile e neanche restituito!-

- Non fraintendere.- mi rimproverò lo stregone – Thranduil ama perdutamente suo figlio, come amava perdutamente sua moglie, e sta cercando di proteggerlo in tutti i modi possibili, forse perché crede di non averlo fatto con la Regina. Come dicevo innanzi, la mente di Re Thranduil è ottenebrata dal Male e la sua visione delle cose a volte è distorta. - mi illuminò – La ferita che ogni tanto appare sulla sua guancia sinistra è il simbolo della sua lotta. Attraverso quella ferita, il Drago trasmise a Thranduil molti sentimenti cattivi, come l’avidità indisciplinata, l’ossessione, la bramosia, la vendetta. Sentimenti che di solito agli Elfi sono sconosciuti, essendo puri di cuore come i Valar li hanno voluti e creati.-

Fece una pausa.

– Una volta contagiati, non se ne può guarire. Thranduil ha un carattere molto forte, lo ha sempre avuto, per questo è un grande maestro nelle armi e condottiero, una vera attitudine al comando e benvoluto dalla sua gente. Ma dopo essere sopravvissuto a quella battaglia e a tutto ciò che ne è derivato, è divenuto spietato, a volte anche con i suoi simili. Sono convinto che lui nemmeno sa cosa lo spinge a fare certe cose, e tutti i giorni lotta contro i suoi demoni: lo so perché lo vedo nei suoi occhi, vedo il vecchio Thranduil che se ne va per fare posto a quello nuovo. E’ come se albergassero due anime nello stesso corpo. A volte stento a riconoscerlo.-

Ero sempre più sbigottito. Tutte quelle informazioni mi affollavano la testa e non ero certo che sarei stato in grado di smaltirle tutte prima di poter incrociare ancora gli occhi di Legolas. Il nostro rapporto, se così si poteva definire, rischiava di essere ormai compromesso.

- La presenza di Legolas è l’unica cosa che lo fa tornare indietro, alla realtà, che gli dà conforto… Dà conforto a molti. In questo assomiglia molto alla madre.-

Ho salvato la vita a un angelo dei Valar?

- Legolas non è stato contagiato dal Male?- mi intromisi.

Gandalf scosse la testa:

- No, lui no. Quando è stato concepito, non c’era l’ombra del Male a Bosco Atro. Legolas è nato puro. Aspettava i genitori presso la reggia. Ne ha visto tornare solo uno da lui. Era solo un bambino.-

Sorrise ancora, godendosi la mia espressione cruda e meravigliata allo stesso tempo:

- Sapevo che vi sareste affezionati.-

 

Lo trovai appeso al suo malumore, sul ciglio del dirupo. Era in solitudine di fronte al tramonto, con i gomiti sulle ginocchia e la testa tra le mani, perso a fissare il vuoto.

Era una delle rare occasioni in cui il dimenticato regno di Angmar si liberava dalla nebbia per lasciar filtrare i raggi del sole morente.

Mi avvicinai con circospezione ma senza cercare di ingannarlo sulla mia effettiva presenza. Udì subito i miei passi, lo intuii da come la sua testa era scattata leggermente indietro; ma evidentemente non ero abbastanza importante per indurlo a voltarsi.

Mi affiancai a lui, in piedi:

- Vi ho portato delle vettovaglie...- iniziai.

Gli recavo in dono del pane e qualche pezzo di formaggio raccattato nei dintorni, in attesa di poterlo invitare a cenare con noi. Non riuscivo a capire se la compagnia di Gandalf poteva essergli d’aiuto o di fastidio, ma non osavo chiederlo e, nel dubbio, avevo lasciato da parte lo stregone.

Poichè Legolas non si muoveva, né mi aveva risposto, gli poggiai una mano sulla spalla.

Era come caduto in trance.

- Tutto bene?-

Al mio tocco, si volse. Probabilmente gli venne naturale scostarsi, come se io fossi ancora un suo nemico; ma così facendo mi concesse anche un po’ di posto accanto a lui, di cui io approfittai prontamente.

Mi sedetti, ancora con il magro spuntino in mano, cercando di indovinare quali ombre si celassero su quel viso.

Desideravo alleviare il suo dolore perché curare le sue ferite interiori era come curare me stesso. Condividevamo lo stesso destino, ormai.

Lo vidi mentre cercava di nascondersi al mio sguardo inquisitore:

- Non potete capire...-

La interpretai come una muta richiesta di aiuto.

- Lasciate che vi racconti una storia...- iniziai.





****NOTA DELL'AUTORE****
Ecco il nuovo capitolo! E' un po' più lungo degli altri, ma spero sia anche piacevole! Qui si scoprono tanti altarini! :D Ho tante idee e spero di riuscire a svilupparle tutte! Aspetto come sempre le vostre recensioni, a presto!

 

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Capitolo 24
*** Legolas ***


Legolas


Non avevo voglia di parlare, ma qualcosa nello sguardo di quell’uomo mi aveva convinto a restare seduto e concedergli la mia attenzione, finché ne avessi avuto le forze. La stanchezza cominciava ad assediarmi e sentivo di aver bisogno di appoggiarmi da qualche parte a riposare, per frenare quei pensieri che mulinavano impazziti.

Avrei voluto essere lasciato solo a meditare sulle parole di Gandalf, in particolare quelle che aveva riservato a me e mio padre, oltre che a mia madre. Anche stavolta, ci ero andato vicino, tanto vicino. Poi lo stregone aveva chiuso ostinatamente la bocca e quel segreto era tornato fuori dalla mia portata.

Nessuno, a Bosco Atro, aveva mai accennato niente su mia madre. Probabilmente dietro richiesta di re Thranduil, ogni singolo suddito era stato istruito a tal fine, perché se ne parlasse il meno possibile. Mio padre era stato duro come un masso per secoli, su questo punto: non c’era soffio, spada o dolcezza che potesse ammorbidirlo. Su quell’argomento vigeva il più pesante silenzio, una cortina di ferro. Era un luogo proibito del suo animo.

Per anni mi ero intestardito a fargli scucire qualche dettaglio, ma i miei sforzi non erano valsi a nulla. Il signore sovrano non aveva ceduto, né dato il minimo segno di crollo. Non mi capacitavo di come potesse essere così impenetrabile con me e con se stesso, quasi un incitamento all’autodistruzione.

Era colpa della cicatrice. Ogni volta che l'avevo vista apparire, arrampicata sulla sua guancia come un’edera, come un parassita, per me era stato un pugno al cuore. Ne avevo timore come di un uccello del malaugurio, come un presagio di guerra.

Avvertivo che non faceva parte di lui, ma gli era stata appiccicata addosso, come un marchio di riconoscimento, come un sigillo sul suo corpo prigioniero; come un tarlo quella deturpava la quercia che era sempre stata mio padre. In quei momenti più che mai mi ero sentito impotente, come sicuramente si era sentito impotente anche Thranduil al cospetto del dolore per la perdita di mia madre.

E pensare che avremmo potuto essere liberi da quel fardello. Sarebbe bastata una frase, una parola. Una lapide. Un ritratto. Qualcosa di semplice, qualcosa che entrambi potessimo tenere custodito con amore.

Non capivo perché a noi dovesse essere precluso questo minimo conforto.

Mi voltai verso Aragorn, che aveva iniziato a raccontare sommessamente. L’armonia di quella voce aveva il potere di calmarmi; ebbi l’impressione che avrei potuto stare molto tempo ad ascoltarla, forse per tutta una vita. Era una litania che conoscevo e nella quale mi riconoscevo, anche se non ne sapevo il motivo.

- Persi mio padre quando ero molto giovane, praticamente un bambino – iniziò – Rammento poco di lui. Per esempio, riconoscerei il profumo delle sue mani e delle vesti, ma per riportare alla mente il suo viso ora dovrei sforzarmi. Se n’è andato presto, prima con l’animo e poi con il corpo. Era un gran combattente e ha incarnato fino in fondo il suo ruolo, pagandolo con la vita. Mi hanno cresciuto gli Elfi di Gran Burrone, presso i quali io e mia madre trovammo rifugio dopo che mio padre fu ucciso in un’imboscata degli Orchi. Sono stati anni belli, di cui conservo parecchi ricordi. Al contrario, quel genitore senza volto a volte mi perseguita. Avrei voluto tenerlo tra le mie braccia per più tempo: ma il destino ha deciso diversamente. Anche mia madre, dopo i primi anni, forse consumata da una malinconia irrefrenabile, si è allontanata da me per andare a morire lontano. Non ne ho mai compreso la vera ragione, e nemmeno il mio padre adottivo. Forse si sentiva sola, o le ricordavo troppo mio padre. Gli Elfi le hanno dedicato un effigie, quanto più fedele possibile, ma ovviamente non è la stessa cosa. Quando sono partito da Gran Burrone, ho lasciato tutto dietro di me, compresa quell’immagine. Ero solo un ragazzo.-

Mi sorrise, come se volesse incoraggiarmi ad aprirmi con lui. Cercava di mostrarsi complice, o semplicemente amichevole. Da un lato ammiravo questa sua innata generosità; dall’altra però mi suscitava una strana curiosità mista a diffidenza.

Mi sovvenni di qualcosa che era stato confidato a me, da una voce fin troppo conosciuta

Suo padre Arathorn era un brav’uomo

suo figlio potrebbe crescere e diventare un grande

Adesso mi sembrava di comprendere.

Quasi per contrapposizione, Thranduil era tornato con prepotenza nella mia testa: a lui e ai suoi silenzi erano legati anni di subbuglio, anni di quesiti irrisolti. In quel momento, potei solo sperimentare una gran rabbia. La stessa che in certi momenti mi aveva spinto a pensare che forse sarebbe valsa la pena fare un cambio: se fosse morto lui invece di mia madre la Regina?

Ce l’avevo con mio padre, per tutto il male che mi aveva più o meno volontariamente causato, per tutta l’avarizia che aveva dimostrato; per l’amore che ancora una volta mi aveva negato, senza un preciso motivo. Ma rimaneva pur sempre mio padre, e le persone mi riconoscevano in lui.

Come riconoscevano mia madre in me.

Mi vergognavo di certi miei pensieri: ma da qualsiasi parte volessi voltarmi, trovavo sempre un antro nero, nel quale non riuscivo a specchiarmi, a trovare indizi. Al mondo avevo dato il mio contributo, avevo collaborato, e molto di più di mio padre. Il mondo che cosa mi aveva dato in cambio? Un silenzio inspiegabile, come se i miei sforzi non fossero bastati. Per questo mi sentivo mancante, costantemente.

Aragorn cercava di aiutarmi ad uscire da quel baratro. Lo faceva dannatamente bene, con la stessa dolcezza che avrebbe avuto un genitore con il suo bambino quando per la prima volta apre gli occhi sulle domande della vita vera.

Mi pentii di essermi scostato quando lo avevo sentito avvicinarsi, ma era stato più forte di me.

- Mi rincresce...- mormorai, senza sbilanciarmi più di tanto.

Aragorn mi pose una mano sul braccio:

- La scomparsa di vostra madre è stato sicuramente un grave colpo per voi. Io ed altri possiamo solo immaginare che cosa ha significato. Sono certo che Gandalf non voleva offendervi né irritarvi...- cercò di distogliermi.

Dal suo tocco capii che c’era dell’altro che avrebbe voluto dirmi, ma qualcosa gli impediva di confessarmelo.

Lo guardai più attentamente. C’era qualcosa, nei suoi occhi, che tradiva una certa inquietudine. Come se sapesse la risposta alle domande che trovava scritte nei miei.

Avrei voluto provare a forzare quella serratura, ma il tempo fuggiva via veloce e in un attimo era già stata smarrita quella fugace opportunità. Di nuovo.

Un timido fiocco di neve danzò davanti ai miei occhi, posandosi sul naso. Lo seguì un secondo, poi un terzo.

Sia io che Aragorn guardammo verso l’alto cielo e prendemmo coscienza, in un battibaleno, che era davvero iniziato l’inverno. Gli ultimi avvenimenti ci avevano riempito del sacro fuoco dell’ardore, ma ora ci rendevamo conto che la natura faceva il suo corso, incurante dei nostri dilemmi, incurante di Angmar e di qualsiasi altra cosa.

Aragorn si alzò spazzolandosi i vestiti, recuperò le vettovaglie e mi tese una mano:

- Venite… Andiamo a costruirci un riparo per stanotte.- mi invitò.

La proposta suonava allettante. L’aria esalava un gelo penetrante, non c’era neanche una stella in cielo e io non mi sentivo più così tanto sicuro di voler rimanere da solo di fronte alla notte.

Presi la sua mano e mi lasciai librare in piedi.

 

Molto più tardi, sotto la cadente tettoia di un rifugio di fortuna fabbricato con quelle poche cose che si erano salvate dalla furia della battaglia, tutti e tre ci scaldavamo le membra attorno a un timido fuoco, ognuno immerso nelle proprie preoccupazioni.

Io ogni tanto guardavo fuori, dove la neve non aveva mai cessato di cadere e adesso formava un leggero strato bianco sopra i cadaveri, nascondendone l’olezzo.

Sapevo che Gandalf mi osservava di sottecchi, ma non volevo dargli motivo di accendere una nuova discussione con me: attendevo paziente che ci desse le ultime istruzioni, poi l’avremmo visto allontanarsi nella nebbia.
Da questo punto di vista, lo conoscevo troppo bene per sperare in qualcosa di diverso.

Nel frattempo, io osservavo Aragorn, ma con altri occhi, stavolta. Era seduto accanto al falò e fumava una vecchia pipa da cui sbuffavano piccole volute di vapore: questa sembrava più un gingillo che qualcosa di serio, un amuleto contro il suo nervosismo. Il suo sguardo si immergeva pensoso tra le fiamme e lui ascoltava Gandalf con un orecchio solo, ma cercava di non darlo a vedere.

Durante la cena aveva tratto dalla una tasca un fulgido anello d’oro massiccio, che si era infilato al dito indice. Ero sicuro di non averglielo mai visto addosso. Aveva l’aria di essere un manufatto importante. Ad un’occhiata più acuta, nel sigillo riconobbi il blasone della casata di Nùmenor.

Quel gesto stava forse a significare che Aragorn aveva accettato l’incarico a pieno titolo. Ora, scevro di dubbi, si preparava mentalmente ad affrontare tutto ciò che a questa decisione avrebbe conseguito. Non c’era più traccia di tentennamenti nelle pieghe del suo viso.

Ero davvero di fronte alla persona giusta.

- Bene, io vi devo lasciare...- annunciò Gandalf, a un certo punto – Il destino mi chiama altrove, Aragorn. Ti aspetterò là.-

- Ma fuori nevica!- protestò l’altro.

Io alzai la testa senza troppa convinzione.

Era vero, fuori nevicava e c’erano ancora molte cose da improntare, molte cose sulle quali si rendeva necessario pianificare. Ma queste cose non avevano niente a che vedere con la mia persona.

Mentre loro parlavano, io mi perdevo in quel buio senza luna, nel quale sentivo riecheggiare ricordi lontani. Mi sforzavo di immaginare il volto di mia madre dipinto in quel buio, che rispecchiava perfettamente ciò che finora sapevo di lei.

Dovevo tornare a casa con Aragorn al mio fianco, ma non avrei abbandonato mai il mio primo obiettivo, ovvero, andare a far visita al campo di battaglia di Angmar. L’unica speranza che mi era rimasta per dare sollievo a un me stesso sempre più abbattuto, giaceva in quel luogo. In fondo, Fornost non era lontana. Si trattava solo di decidere come e quando arrivarci.

Mentre Gandalf si alzava, Aragorn cercò di bloccarlo, rivolgendogli domande che oserei giudicare futili. La sua presenza gli era indubbiamente di conforto, forse molto più della mia. Il suo orgoglio non vacillava di fronte alla possibilità di sembrare immaturo.

Credo avrebbe voluto soltanto non sentirsi orfano in quel nulla.

Gandalf lo ignorò del tutto, salutandolo calorosamente ma con voce ferma. Capii da quel tono smorzato, ma netto, che non avrebbe accettato replica alcuna, né alcun tentativo di dissuasione. Lo capì anche Aragorn, che frenò la lingua appena in tempo per non cadere nel ridicolo.

Nel passarmi vicino, lo stregone mi mise una mano sulla spalla e io intuii che voleva comunicarmi qualcosa in privato. Subito mi alzai in piedi e uscii dal rifugio assieme a lui.

Aragorn, saggiamente, non ci seguì.

Una volta fuori, Gandalf condivise con me la sua tensione:

- Veglia su di lui, Legolas Verdefoglia – mi pregò – E’ ancora troppo giovane per aver appreso una certa malizia nei confronti del pericolo. Al contrario tuo.-

Sorrisi con condiscendenza:

- Non lo perderò di vista.- promisi.

Lui mi diede una pacca sulla spalla:

- Dirò a tuo padre che sei vivo e gli porterò i tuoi saluti.- mi incoraggiò.

Quella frase non mi piacque. Rivolsi il mio viso all’oscurità:

- Non è necessario.- declinai l’offerta.

La neve continuava a cadere sui nostri visi e sui nostri capelli, come sul suo cappello improvvisamente ancora più grigio.

Il suo sguardo era quello di chi si sente colpito al cuore. Lui meglio di chiunque altro sapeva quanto e da quanto tempo io e mio padre non calpestavamo più lo stesso sentiero. L’ultimo nostro scontro, durante il periodo che aveva preceduto la Battaglia delle Cinque Armate, altro non era stato che uno in più rispetto alle nostre lotte intestine.

- Non essere arrabbiato con lui, Legolas...- cercò di rabbonirmi – Ha meno colpe di quelle che porta addosso.-

Mi divincolai, forse un po’ troppo bruscamente:

- In questo momento, vorrei solo sapere cosa è successo a mia madre.- cercai di spiegare. Ma non era quello. No, era tutto molto più profondo di così, affondava le unghie in un groviglio di sentimenti tenuti faticosamente a freno. Mi trascinavo dietro quel nodo da anni, ma non ero capace di districarlo, di esporlo, e forse fu per questo che Gandalf si mise a ridere di fronte al mio infantilismo.

- Forse qui ad Angmar capirai...- mi predisse, sibillino.

Gli scoccai un’occhiata ostile, ma me ne pentii subito. La mia fiducia in Gandalf era sempre stata ben riposta: non avevo motivo di non fidarmi di lui.

- Lo spero.- sospirai.

Mi strinse forte una spalla:

- Buona fortuna.-

 

Il giorno dopo, io e Aragorn partimmo alla volta delle lontane colline, la cui cupola grigia si levava al di sopra della piana che ci aveva accolti fino a quel momento.

La neve era caduta copiosa tra i sassi e l’erba, coprendo qualsiasi traccia di fuga.

- Che cosa vedi?- mi chiese febbrilmente l’uomo, mentre avanzavamo.

Non vedevo nulla che potesse anche solo aiutarci ad orientare le nostre intenzioni verso i corretti destinatari. Qua e là scorgevo ora ciuffi di terra saltati, ora un bracciale, ora un chicco di miglio: troppo poco per poter esprimere delle ipotesi.

Non capivo come mai Aragorn ci tenesse così tanto. A quel tempo era ancora giovane, troppo giovane per poter portare su di sé l’esperienza e la saggezza di un vecchio condottiero, troppo giovane per avere moglie e figli propri da accudire. La sua inusuale attenzione verso quegli uomini aveva un altro perché, che gli premeva persino più forte della paura del pericolo incombente sulla Terra-di-Mezzo.

Avevo accettato di seguirlo per il semplice motivo che non potevo tornare senza di lui; ora capivo che lui mi aveva accettato per il semplice fatto che non poteva stare senza di me. Ora che era stato lasciato solo, sentiva ancora più pesante il suo fardello e aveva bisogno di un compagno con cui dividerlo.

Devo dire che non mi dispiaceva essere quel compagno.

I giorni di marcia non bastarono ad avvicinarci all’obiettivo. Aragorn era sempre più impaziente e nervoso: masticava la sua pipa con crescente agitazione. Era solo un ragazzo, ma fumava come un vecchio piuttosto navigato. A volte mi veniva la tentazione di strappargli quel malarnese dalla bocca e gettarlo lontano: non potevo sopportare che si rovinasse la salute a quel modo.

Spesso al tramonto lo trovavo a passeggiare su e giù appena al di là del nostro cerchio di fuoco, senza mai riprendere fiato:

- Non devono essere troppo lontani.- bofonchiava, instancabile.

Io sospiravo e alla fine lo assecondavo come meglio potevo. Non avevo cuore di dirgli che rischiavamo di trovarli tutti morti, dal primo fino all’ultimo bambino: non era questo che voleva sentirsi dire.

Una notte lo trovai ancora sveglio mentre le ultime braci lambivano i foschi pensieri che gli attraversavano l’anima. Aveva lo sguardo rivolto verso terra, le ginocchia abbracciate, come se si fosse perso in uno stato di ipnosi. L’avevo osservato a lungo e non si era mosso da lì per ore.

Pensai davvero che fosse caduto vittima di qualche sortilegio; avvenimento non così fuori dall'ordinario in un posto come Fornost.

Mi allungai fino al suo giaciglio, muovendomi con circospezione e pensando a come avrei potuto agire in caso si trattasse davvero di un incantesimo.

Prima ancora che potesse vedermi, la sua testa scattò in su come se si fosse ripreso da un sogno. Io trattenni il fiato.

I suoi occhi, quando si girò, erano vitrei ed inespressivi. Ma sotto quell’apparente calma c’era un tizzone ardente che bruciava, esattamente come quelli ai suoi piedi.

- Vorrei che mi raccontaste della vostra ultima battaglia.- disse – Quella che Gandalf ha nominato nei suoi discorsi.-

Il suo tono era pacato, ma dentro io avvertivo il frastuono di un’onda in piena. Mi sedetti accanto a lui, mentre i suoi occhi si allontanavano rapidamente per fissarsi sull’orizzonte scuro.

- Non riuscite a dormire?- cercai di sviarlo.

Non avevo assolutamente alcuna voglia di ritirar fuori ricordi difficili da gestire.

- Che cosa vi turba di quel combattimento?- mi interruppe.

Se n’era accorto. Era troppo intelligente per poter pensare di raggirarlo.

Non risposi subito. Anche io fissai l’orizzonte, lì dove si era fermato anche lui. C’era un silenzio insolito intorno a noi, come se non vivessimo in mezzo alla natura, ma in un limbo tra la vita e la morte.

Forse era questo che mi turbava più di ogni altra cosa.

- E’ una notte tranquilla – tergiversò, forse per mettermi a mio agio – Abbiamo tutto il tempo per parlare.-

Il suo invito mi risuonò quasi come una velata intimidazione. Lo guardai e lui non ricambiò il mio sguardo, non mi diede nessun supporto su cui appoggiarmi. Ma era lì. Forse per lui era più che abbastanza; a me forse non sarebbe bastata una buona cavalcatura per scappare dal mio passato.

Distolsi gli occhi:

- E’ stata una battaglia molto dura, in cui abbiamo subito non poche perdite...- cominciai, controvoglia.

- Chi erano le controparti?- si informò.

Gli sciorinai in pochi minuti i fatti principali, cercando di omettere i dettagli meno importanti. Le mie rappresaglie con Tauriel e mio padre, ad esempio. Il mio odio per quei nani che alla fine avevo pure tentato di salvare, ad esempio. I miei sentimenti traditi, le mie delusioni e le mie paure, ad esempio.

Lasciavo che le impressioni scivolassero tra le parole e permeassero la sottile aria tra i nostri due corpi, sperando fosse sufficiente.

Lui mi ascoltava con devota concentrazione: per questo ero quasi sicuro che sapesse che c’era dell’altro di cui non volevo riferire.

- Vostro padre?- osò chiedermi, alla fine.

Mi rabbuiai, ma nella notte forse non si notò.

- E’ tornato a Bosco Atro con quello che rimaneva del nostro esercito...- tagliai corto.

Ero convinto che volesse saperne di più, ma qualcosa lo trattenne. La sua mente era ormai lontana da lì, leghe e leghe lontano. Pensai che avevo scampato il pericolo.

Ripensare a mio padre, però, mi aveva fatto salire un groppo in gola.

- Non siete riusciti neanche a dirvi addio...- mugugnò pensoso, dopo un po’.

Forse è meglio così

- Forse perché avrebbe potuto essere un addio per sempre.- mi lasciai sfuggire.

- La possibilità non vi dispiace.- mi fece notare – Perchè?-

Quell’improvvisa irruzione nel mio privato mi punse sul vivo.

Mi alzai senza rispondere.

- Si tratta di vostra madre?-

Mi fermai.

Di nuovo quella sensazione, come se lui sapesse ma non volesse mettermi a conoscenza; come se Aragorn fosse amico e nemico insieme, così come la prima volta che l’avevo incrociato sulla mia strada.

Speravo di essermi lasciato alle spalle quel senso di pericolo; invece aveva ripreso a torturarmi.

- Che ne sapete voi di mia madre?- abbaiai.

Ero veramente arrabbiato. Avrei avuto bisogno di qualcuno che mi rassicurasse, che mi facesse sentire parte integrante, e non solo accessoria, del suo essere. Mi trovavo in compagnia dell’unica persona su quella terra di cui avrei potuto fidarmi, invece mi ritrovavo con un pugno di polvere.

Aragorn venne vicino a me:

- So che la state cercando.- disse – Quando tutto questo sarà finito, potrei aiutarvi a trovarla. Potrei farvi da guida.-

Mi tendeva la mano. Era di nuovo al mio fianco, mi prestava soccorso.
Le sue oscillazioni erano a dir poco fastidiose. E la sensazione comunque non mi mollava.

- Ci penseremo quando sarà il momento.- presi tempo.

- Potrebbe essere più vicino di quel che pensate.- insistette.

Sbuffai:

- Non sono certo di voler compagnia in questo viaggio.-

Ecco, l’avevo detto. Quella era una questione tra me e me, tra me e la mia famiglia. Non tolleravo l’intrusione di estranei, a maggior ragione se l’estraneo era Aragorn, un uomo già fin troppo implicato nelle delicate faccende degli Elfi.

Non ero geloso di lui o del suo valore: molto più semplicemente, temevo di crollare, di mostrare tutte le mie fragilità, e non volevo un pubblico per quello scialbo spettacolo.

Se doveva succedermi qualcosa di inenarrabile, avrei preferito non ci fosse chi potesse rivelarlo ai posteri.

- Ma io desidero la vostra, però.- replicò lui.

Lo guardai con occhi sbarrati.

– Non ho più motivo di non fidarmi di voi.- proseguì - Siete giunto due volte in mio soccorso. Io, solo una. Anche adesso, non vi siete tirato indietro. Ora posso dire che so cosa fa di voi il guerriero che siete. Mi ricorderò di voi alla fine.-

Ero esterrefatto, senza più parole.

- Andrà tutto bene...- mi sorrise in maniera confortante.

Di fronte alle sue labbra debolmente increspate, qualcosa dentro di me si sciolse.

Erano le parole che avrei voluto sentirmi dire. Non so da chi, non ci avevo mai veramente riflettuto. Da mio padre non potevo aspettarmele, di certo. Mia madre non c’era mai stata, a stento ricordavo la sua voce. Se avessi avuto un fratello, forse sì, avrebbero potuto essere parole che facilmente sarebbero uscite da quella bocca.

Sì, avrei voluto un fratello come Aragorn.



***NOTA DELL'AUTORE***
Rieccoci con il nuovo capitolo! Lo so, ci ho messo molto ma qui è un casino con il lavoro! Chiedo scusa! Spero vi sia piaciuto e che continuerete a seguire questa storia a cui sono molto affezionata! Aspetto i vostri commenti!
A presto e tanti baci


 

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Capitolo 25
*** Aragorn ***


Aragorn

 

Camminammo per diversi giorni, finché individuammo una traccia.

Non era più che una debole ombra in mezzo all’erba, ma io subito mi buttai a terra per scrutarla, e poi cercarne altre, cieco e fiero di fronte a un tale indizio dopo non so quante ore di agonia.

L’elfo non sembrò condividere affatto la mia gioia:

- Non fate rumore.- mi ammonì – Non siamo soli.-

All’inizio non compresi appieno le sue parole, forse perché nemmeno lo stavo ascoltando. Ma un suono metallico d’improvviso fendette l’aria e un brivido freddo si arrampicò sulla mia schiena, facendomi sudare. Ci appiattimmo contro le onde erbose delle collinette che da un po' costeggiavamo, sottovento, per scavallare senza essere visti: oltre il crinale scorgemmo un accampamento di orchi e al centro, un recinto con pochi esseri viventi ancora in carne.

A uno sguardo più acuto, capii che si trattava inequivocabilmente dei nostri fuggitivi. O una parte di essi.

Avvertii il cuore infiammarsi di rabbia. Avrei voluto subito partire all’attacco con la spada sguainata, specie quando vidi un orco avvicinarsi tutto baldanzoso a un bambino spaventato. Quello scappò correndo tra le braccia di sua madre, che però stava già piangendo lacrime amare e sembrava quasi assente, tanto che nemmeno il tocco del figlio riuscì a scuoterla. A occhio e croce, indovinai che qualcos’altro fosse successo nel mentre: una consapevolezza tremenda man mano che i miei occhi vagavano sul piccolo campo e scorgevano brandelli di vestiti e ossa ancora sanguinanti vicino ai fuochi.

Capivo, anche se avrei voluto non capire, che dovevano già essere morti diversi prigionieri. Il manipolo di nemici non era poi così numeroso, ma evidentemente molto feroce.

Subito avvertii tutti i miei muscoli farsi tesi e una lama di vendetta si fece spazio nel mio cuore, lasciandosi dietro terra bruciata.

Legolas intuì quello che mi stava succedendo e mi trattenne per una spalla:

- No – mi sussurrò – Non è il momento.-

Davvero non riuscivo a capacitarmi di come potesse starsene così calmo in un momento del genere. Quei poveri resti non gli facevano effetto alcuno, forse perché non si trattava dei suoi congiunti? A me sembrava di impazzire: ero costretto a guardare e sentirmi impotente, ma dentro mi sentivo come un indemoniato.

Se non ci fosse stato l’elfo, a domarmi, probabilmente avrei compiuto l’azione più stupida di tutta la mia vita, in quel momento.

Ce ne stettimo lì immobili ad assistere ai riti propiziatori di quegli orribili mostri. Qualsiasi loro gesto suscitava in me un rigurgito di disgusto.

Uno di essi, sul bordo di luce attorno l’accampamento, stava succhiando quel che restava di un osso. Poi lo buttò via, lanciandolo dietro di sé, nella nostra direzione. Quello piombò poco più che metà strada con il nostro nascondiglio.

Uno sguardo più attento mi bastò per avere la certezza che quell’osso era umano.

Era l’affronto peggiore che potessi sopportare, e in effetti non riuscivo a sopportarlo. Sentii che la mia rabbia faticosamente repressa stava per esplodere.

Afferrata l’elsa della spada, feci per saltare fuori dai cespugli; ma Legolas mi balzò febbrilmente addosso, bloccandomi a terra:

- No!- sibilò – Aspettate ancora. Aspettiamo il buio.-

- Li stanno ammazzando tutti come cani!- cercai di divincolarmi, ma mi teneva fermo – Lasciatemi andare! Se mi aiutate, possiamo farcela: sono in pochi, possiamo batterli!-

- Aragorn!- mi scrollò con una violenza sconcertante – Ho visto tanti uomini e tanti elfi morire a pochi pollici dal mio viso, e molti di essi erano amici: pensate forse che non provi pietà di fronte ai vostri cari? Vi sbagliate di grosso: vi sto solo aiutando a sfruttare al meglio le esigue carte favorevoli che abbiamo!-

Di fronte a quel discorso tanto razionale, tacqui, al colmo della vergogna, e mi lasciai tirare indietro. Legolas afferrò la mia spada e la rinfoderò.

Si fidava di me, ma io non mi fidavo più così tanto di me stesso.

Non guardai. Mi presi la testa tra le mani e affondai gli occhi nel cupo grigiore della brughiera, cercando invano qualcosa che potesse attirare così tanto la mia attenzione da distarmi. Ma niente sembrava così importante.

La mia gente veniva uccisa a poche braccia da me e tutto quello che ero in grado di fare si riduceva ad essere muto spettatore di quel massacro.

Che razza di uomo ero?

Mi passai le mani sul viso e sulle orecchie per impedirmi di ascoltare anche il minimo rumore. Digrignavo i denti al pensiero di tanto scempio, di corpi umani inerti e smembrati da zampe repellenti, mangiati dai vermi e da altre fetide creature. La testa si affollava di fantasmi, rischiando di farmi ammattire.

Poi, avvertii l’impronta rassicurante delle dita di Legolas sulla mia spalla. Lui era i miei occhi, vigilava per me su quelle povere anime, assisteva a tutto, imperturbabile: davvero non sapevo come non poteva lacrimargli il cuore, e se lacrimava, come faceva a trattenere quelle lacrime senza che trabordassero dalle sue ciglia.

Mancavano ancora molte ore al tramonto, ma io non sapevo se sarei sopravvissuto a quell’attesa. Se dopo tanto vano aspettare fosse rimasto ancora un superstite, sicuramente mi avrebbe additato come un traditore, un debole, e ne avrebbe avuto tutte le ragioni. La mia vita di certo ne sarebbe stata segnata per sempre. Già lo era. Non c’era niente che potessi fare.

Legolas era il mio unico faro in quel buio. Lui sapeva cosa fare, cosa evitare e cosa era opportuno tentare: poteva guidarmi attraverso acque poco sicure, senza timore di sbagliarsi, perché non era coinvolto quanto me in quella faccenda. Guardava oltre, come forse sarebbe stato giusto. Lui era un Elfo e per questo non gli erano preclusi obiettivi più alti, né le capacità per raggiungerli.

Speravo ne avrebbe cedute un po’ anche a me.

Mi scosse:

- Non fate così.- mi redarguì – Siete molto più prezioso di quel che pensate.-

Nonostante il suo incoraggiamento, avvertii prepotente dentro di me il punteruolo della disperazione:

- E’ troppo per me…- sussurrai, in un soffio.

Legolas abbandonò momentaneamente il suo posto di vedetta per accucciarsi di fronte a me. Piantò i suoi occhi azzurri nei miei, al punto che temetti potesse sondare le profondità più oscure del mio animo, lì dove si annidavano paure, aspettative e qualche grammo di legittima impulsività. Sentimenti che forse nemmeno gli appartenevano, o faticava a capire.

Pregai in un suo perdono.

- Ho promesso di stare al vostro fianco finché tutto questo sarà finito.- disse – Non ho ancora cambiato idea.-

Sospirai senza aggiungere nulla.

- Voi mi aiuterete - continuò lui – e così aiuterete voi stesso.-

Alzò la testa, fiutando l’aria. Forse un rumore l’aveva insospettito, perché si guardò attorno con aria guardinga. Ma poi tornò da me:

- Avete davanti a voi anni nobili e pieni di ogni cosa – proseguì – La vostra storia non finisce qui, Aragorn. E’ da qui che inizia.-






**NDA**
Eccomi di nuovo! Questo capitolo non è molto lungo, ma spero vi sia piaciuto lo stesso! I nostri eroi si trovano di fronte a situazioni sempre più difficili da sopportare, ma del resto, è questo il loro destino! Come si concluderà questa vicenda? Mille cose hanno ancora da accadere nel mezzo!
Non vedo l'ora di sapere i vostri pensieri, scrivetemi! Ciaoooo

 

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Capitolo 26
*** Legolas ***


Legolas

 

Appena calò l’oscurità, mi mossi lesto verso il bordo del crinale, mi sporsi appena e posai di nuovo i miei occhi sull’accampamento di orchi.

Aragorn pensò si trattasse di un mio segnale per attaccare. Non attendeva altro. Mi seguì, sempre più in preda all'ansia, ma io gli feci cenno di non avvicinarsi ulteriormente.

Avevo un piano.

- Come prevedevo, si apprestano a passare la notte qui.- gli comunicai, vagando con la vista sopra abbozzi di ripari, ossa rotte e scie di sangue. Avrei voluto avere la forza di sorvolare tutti quei dettagli, ma non potevo. Il mio cuore, come sicuramente quello di Aragorn, piangeva di fronte a tanto strazio, ma non dovevamo permettere che il nostro sentire avesse la meglio: c’era una battaglia da vincere e per il bene di tutti almeno io dovevo rimanere sufficientemente distaccato.

Aragorn, purtroppo, non era in grado di fare altrettanto:

- Quanti?- mi chiese febbrilmente. Sapevo a cosa si riferiva.

- Credo due o tre.- risposi con cautela, anch’io con l’anima in subbuglio dallo schifo e dal dispiacere.

Lo vidi mentre si passava una mano sul viso e asciugava il sudore freddo che gli cadeva negli occhi.

Sapevo che non se lo sarebbe mai perdonato.

Dopo un po’, pronunciai quelle parole che tanto avrebbe voluto sentire:

- Andiamo.-

Sgusciammo agilmente a lato della collina, scendendo tra gli sterpi e i massi. La nebbia ci aveva già raggiunto e avvolto, come sempre, ma in questo caso poteva tornare utile per nascondersi, mentre l’ultimo raggio di sole spariva oltre le montagne.

Nonostante la visibilità si fosse ridotta di molto, potemmo avvicinarci abbastanza velocemente senza pericolo di essere scorti. Un rapido movimento degli occhi, un sottile scintillio e io con il mio arco avevo già centrato alla gola le due guardie che pattugliavano la zona da noi attraversata. A parte le vedette, non c’erano altri impedimenti che ci dividessero in modo sostanziale dall'accampamento.

Scivolammo quindi in mezzo al nulla, poi tra le file di orchi che già dormivano della grossa, convinti di avere le spalle protette dai loro compagni. La voglia di ucciderli si era fatta incredibilmente intensa, ma con un’occhiata decidemmo all’unanimità di trattenerci. Rischiare di svegliare l’intero battaglione prima che i prigionieri fossero al sicuro non era una buona idea. La buona idea era riuscire a raggiungere il centro, liberare i fuggiaschi dalla loro gabbia e scortarli quanto più lontano possibile; solo in seguito combattere. Così non avremmo permesso a nessun orco di proporre un ricatto sventagliandoci in faccia vite che non gli appartenevano.

Raggiunsi in punta di piedi il recinto dei prigionieri. Aragorn si guardava intorno nervosamente: i suoi occhi mortali non gli permettevano di capire se altre sentinelle fossero nei pressi, se stessero guardando dalla nostra parte. Era preoccupato.

Non c’era tempo da perdere.

Lo richiamai tirandolo per un braccio:

- Aiutatemi.-

Forzai la serratura del recinto, incrinandola con la punta di un pugnale. Aragorn fece del suo meglio per scardinarla del tutto, finché il legno si aprì con uno schiocco fin troppo sonoro.

Subito con i sensi all’erta, scandagliammo i dintorni, guardinghi.

Nessuno pareva essersi accorto di nulla. Forse i nemici l’avevano scambiato per un rumore nella notte e per questo nessuno si era levato lo sfizio di andare a controllare.

Per noi fu come pioggia dal cielo quando il terreno è riarso.

Aragorn entrò per primo nella gabbia, mentre io sorvegliavo il passaggio. Si diresse quasi correndo verso il mucchietto di superstiti, tutti ammassati gli uni sugli altri, in un angolo, per scaldarsi: erano rimasti più che altro donne e bambini. Nessun uomo, pochi giovani ragazzi. Chi mancava alla conta era probabilmente già stato ammazzato.

Distolsi lo sguardo. Certe scene servivano solo a distrarmi: non era il momento di lasciarsi andare alla compassione, finché non fossero stati tutti in salvo. Solo allora avrei potuto essere di conforto a qualcuno che ne sentisse il bisogno, solo allora avrei potuto concentrarmi ad elargire protezione e sicurezze che non avevo.

Una donna si lasciò scappare un gridolino. Io feci cenno ad Aragorn, ma lui era già intento a zittirli e a bisbigliare istruzioni. Li fece alzare e li mise in fila, una misera fila, con le madri che si tenevano i bambini stretti al petto, avvolti in pochi scialli, per non permettere loro di vedere nulla o di piangere.

Quando mi sfilarono davanti, alcune di loro mi guardarono con un misto di sorpresa e apprensione. Forse mi avevano riconosciuto e ricordavano la diffidenza che mi avevano riservato gratuitamente presso il loro villaggio. Forse se ne pentivano. Ma non era il momento di pensare al passato. Sorrisi, sperando di far loro capire che non importava, ci saremmo ringraziati più tardi.

Andai con i prigionieri, guidandoli verso la collina e indicando loro di fare piano. Passammo di nuovo tra le file di orchi addormentati, cercando di fare in fretta. Loro mi seguivano docilmente, sforzandosi di essere insieme rapidi ed eterei, nonostante le privazioni e la paura.

Eravamo quasi arrivati al limitare dell’accampamento quando sentii un suono alle mie spalle. Qualcosa era caduto per terra, provocando un tintinnio sinistro e straordinariamente penetrante; di fatto, al mio udito era sembrato un rumore fortissimo.

Mi voltai. Vidi che Aragorn era accorso e aveva messo un piede sopra l’oggetto misterioso, tentando inutilmente di soffocare il suono.

Qualche orco si rigirava nel sonno grugnendo, e non era escluso che qualcuno avesse già aperto gli occhi.

Aragorn si chinò a raccogliere l’oggetto, manovrandolo con attenzione. Era un sonaglio per bambini, probabilmente caduto da qualche tasca.

- E’ mio!- gridò qualcuno dalla fila, sicuramente un poppante – Ridammelo!-

Immediatamente qualcuno cercò di reprimere quel grido, ma il frugoletto aveva già cominciato ad agitarsi e a singhiozzare, forse logorato da tutta quella confusione.

Aragorn lo raggiunse cercando disperatamente un modo per farlo tacere, mentre la madre lo stringeva a sé e tentava di chiudergli la bocca coccolandolo.

Non so cosa successe esattamente dopo. Uno strepito spaventoso fece eco a quei capricci e subito un orco, spuntato da chissà dove, si gettò a capofitto su di noi.

Prima che potessi incoccare una freccia, mi resi conto che Aragorn, con lucida maestria e precisione inviadiabile da quella distanza, gli aveva già conficcato un coltello da lancio in mezzo agli occhi.

- Corriamo!- mi ordinò e io non confutai il suo volere, spingendo la fila verso il dorso della collina.

Ma era troppo tardi.

Uno alla volta gli orchi si alzarono e corsero a cercare le loro armi, nella crescente follia generale: l’aria si riempì presto dei loro versi gutturali e in noi scese il panico. I bambini cominciarono a piangere e io non sapevo più cosa fare: tutto quel baccano mi faceva impazzire.

Fermai una donna che mi stava passando accanto e le spiegai in fretta dove dirigersi con gli altri; lei annuì e subito assunse il comando, trascinandosi dietro una piccola creatura di dieci anni o poco più.

Mi facevano un’immensa pena mentre scalavano il pendio scosceso, feriti nel corpo e nell’animo, spingendo i bambini avanti. Qualche dardo degli orchi già li aveva presi di mira, colpendoli alla schiena.

Incoccai le mie frecce e cercai di fare fuori quanti più nemici possibile, dando la priorità a quelli che più tentavano di bloccare la nostra marcia.

Nel frattempo, Aragorn mi aveva raggiunto:

- Non ci resta che combattere!- mi fece notare, e in effetti non vedeva l’ora di fargliela pagare cara.

Sguainò la spada e gridò, con tutto il fiato che aveva in gola, attirando l’attenzione su di sé. La fila si era intanto serrata alle nostre spalle e io proteggevo le retrovie, per quanto mi fosse possibile.

In due tenevamo in mano l’accesso alla collina. Gli orchi si erano armati e si apprestavano ad attaccare. Si erano disinteressati ai fuggiaschi in un battibaleno; invece, vedevo i loro occhi brillare di sospirata vittoria quando si posavano su di noi, due semplici combattenti contro un’orda di malvagità.

Non solo semplici combattenti, avrei voluto dir loro, ma due grandi guerrieri.

Uno dei loro capi diede l’ordine; subito un pugno di orchi caricò nella nostra direzione, con i coltellacci già pronti per affondare nelle nostre carni.

Ecco che riprendeva la battaglia.

Io e Aragorn ci battemmo come bestie contro bestie, fianco a fianco, alla stessa stregua della prima volta. Era come se avessimo perfezionato l’intesa dei nostri corpi: dove Aragorn non arrivava, c’era la mia mano a sorreggerlo nel momento del bisogno; dove io rischiavo di venire colpito, c’era la sua attenzione a cavarmi di impaccio. Vedere gli orchi decimati contro le nostre lame ci riempì di rinnovato ardore, come in quella radura.

Nella smorfia di rabbia sul volto dell’uomo rivedevo la mia, nella sua voglia di vincere c’era anche la mia e mi instillava nuova energia. C’erano ammirazione e rispetto, c’era amore in quello che faceva, la lealtà che avrei ricercato in un compagno di viaggio.

Ero certo che insieme ce l’avremmo fatta, anche contro ogni aspettativa.

Il cospicuo gruppo di orchi si dimezzò presto contro le nostre armi, mentre noi ne uscivamo con pochi graffi. Eravamo esperti nell’arte di uccidere e non lesinavamo gli sforzi, per niente. Era un modo per sfogare pensieri sopiti, di dimostrare al mondo che c’era ancora una speranza e cominciava da lì.

Poi Aragorn si girò e vidi il suo volto tramutarsi in una maschera di pietra, mentre un qualche sentimento rallentava la sua mano.

La nostra danza si era improvvisamente interrotta.

Sulle prime, non capii. Lo spinsi da parte mentre recuperavo una torcia che qualche orco aveva abbandonato per terra e la roteavo per tenere lontani gli avversari:

- Che vi prende?!- urlai al di sopra della calca.

In tutta risposta lui partì contro gli orchi, tranciando i corpi con la spada, senza aspettarmi. Si dirigeva verso un punto preciso, oltre un mucchio di cadaveri.

Aguzzando la vista e tendendo le orecchie, compresi.

C’era un bambino, là. Tutto raggomitolato su se stesso, vestito di stracci, piangeva incessantemente nel bel mezzo della mischia, coprendosi il capo con le manine ancora acerbe. Poteva avere due o tre anni, in anni umani.

Non so in quale momento ci era sfuggito di lasciarlo indietro, non so se era lo stesso che prima aveva strillato per la perdita del suo sonaglio. L’unica cosa certa era che non avrebbe mai dovuto essere lì.

La sua pelle bianca e lucida rifletteva nella notte l’innocenza e la paura più pure, in procinto di essere travolte.

Aragorn lo stava per toccare: ma un orco grande il doppio degli altri si frappose fra lui e il bambino, assestando un gran colpo con la sua mazza. Aragorn la evitò per un pelo, capriolando più in là e tornando poi alla carica per ferire il nemico alle gambe.

Purtroppo, nel frattempo altri nemici erano arrivati a dare manforte.

Assolutamente, dovevo intervenire.

Mi liberai di un paio di mostriciattoli non troppo lesti e corsi dove c’era più bisogno di me. Per un attimo rimasi indeciso su dove buttarmi: se aiutare Aragorn a disfarsi degli oppositori o puntare direttamente sul bambino, prima che ci arrivasse chicchessia, e portarlo via da lì. L’uomo cercava di raggiungerlo ma gli era impossibile, ogni suo tentativo veniva sbarrato da una spada o una lancia. Si incattivivano contro di lui, distogliendo l’attenzione dalla piccola vittima.

In un secondo la mia decisione fu presa. Corsi più forte, per darmi slancio, e saltai. Saltai prima su un mucchio di cadaveri, poi sulle spalle di Aragorn, poi sulla testa di un orco e fui dall’altra parte del muro.

Il bambino era a un soffio.

Con un ultimo sforzo arrivai e lo strinsi al petto, mentre lui si aggrappava disperatamente a me.

Gli orchi, piuttosto impressionati, vennero distratti dalla mia presenza, permettendo ad Aragorn di decapitarli. In men che non si dica erano già morti.

- Tieniti.-

Mi assicurai il bambino addosso, passando la fettuccia della faretra attorno al corpicino e stringendola con la fibbia. Poi balzai di lato, evitando per un pelo una daga che voleva mandarmi all’altro mondo.

Ripresi a correre. Scoccai qualche freccia verso la collina: una colonna di orchi aveva già cominciato a tallonare i fuggiaschi. Mi precipitai in quella direzione, sguainando i pugnali e impegnandomi a liberare la via. Non fu difficile.

Saltando quanto più rapidamente mi fosse possibile, guadagnai altri metri sul pendio erboso, dal quale godevo di una visuale privilegiata. Aragorn nel frattempo si era aperto un varco tra i nemici e correva anche lui verso di noi, inseguito da un misero gruppo di orchetti.

Con l’ultima manciata di frecce li decimai, infilzandone due alla volta.

Mentre il mio amico mi raggiungeva, notai che si era fatto un inusuale silenzio. Le orribili creature erano tutte morte, disseminate sul campo di battaglia come erbacce estirpate da un giardino. Avevamo vinto.

Proprio allora, quando meno ce l’aspettavamo, si udì ancora più forte il pianto del bambino che tenevo legato a me. Solo allora mi resi conto che effettivamente era in salvo, ero riuscito a trascinarlo via da lì.

Una sensazione magnifica.

Rinfoderai l’arco e lo liberai dalle cinghie della faretra, che ormai avevano lasciato un profondo segno rosso sulla sua pelle nuda:

- Dinen...- gli sussurrai, stringendolo con compassione e cullandolo – Avo grogo...-

Non avere paura.

Speravo che il tono rassicurante della mia voce potesse sortire qualche effetto amorevole su quel corpo e quella mente squassata dai gemiti. Quel bambino sarebbe cresciuto e diventato un uomo: il mio augurio era che conservasse i ricordi atroci di quella notte come un tesoro che lo aiutasse ad essere migliore. Forse era troppo presto per pretenderlo, ma sentivo che era mio dovere instillare quella goccia di fiducia che gli uomini tendono a perdere, quando si trovano in estrema difficoltà.

Lo cullai ancora per qualche istante, pensando a quando ne avrei avuti di miei: speravo che per quel momento ogni guerra fosse finita, che tutto quell’orrore rimanesse lontano nel tempo e nella mia memoria, così magari sarei stato capace di sorridere con loro, come si fa quando si deve scacciare un brutto sogno e non serve mai prenderlo troppo sul serio.

Mi sarebbe piaciuto avere dei figli, un giorno.

Aragorn finalmente mi raggiunse. Aveva già riposto le armi, era sporco e malmenato, ma tutto sommato ancora vivace:

- Datelo a me.- prese delicatamente tra le braccia il piccolo che piangeva e cercò di calmarlo, ninnandolo anche meglio di me.

Mi lanciò un’occhiata significativa, ma io elusi quello sguardo. Lasciai vagare la vista sull’accampamento distrutto e sui fili d’erba che sussurravano maledizioni. Non c’era anima viva, ma non mi fidavo pienamente di quella quiete.

Sguainai di nuovo un pugnale e mi incamminai in direzione opposta alla carneficina, superando Aragorn a grandi passi:

- Vi faccio strada.-






***NOTA DELL'AUTORE***
Ciao ragazzi e ragazze, eccomi qua! Ecco risolto - almeno in parte - il cruccio di Aragorn, che finalmente è riuscito a portare in salvo la sua gente! Come volevasi dimostrare, su Legolas si può sempre contare...nonostante alcune realistiche perdite.
Dopo aver rivisto (per la milionesima volta) il LOTR di Peter Jackson in tv, mi è venuta ancora più voglia di rimettere mano alle mie storie, qunidi non sono escluse nuove revisioni allamia serie LOTR! 
Intanto continuiamo con questa...e con le vostre recensioni!
Grazie e a prestissimo!


 

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Capitolo 27
*** Aragorn ***


Aragorn

 

Non ci mettemmo molto a raggiungere i nostri fuggiaschi: eravamo più veloci di loro e ancora trasportati dall’ardore della battaglia.

Non erano andati molto lontano. Li trovammo che cercavano di avanzare tentoni sul terreno difficoltoso, con troppa paura nelle ossa per accendere anche una misera torcia nell’oscurità di quella notte.

Il loro scalpiccio pietoso si sentiva appena, in quel silenzio.

Quando li superammo per metterci in testa, correndo, qualcuno cacciò un grido, facendoci sobbalzare. Subito le donne fecero coro, stringendosi le une alle altre e raccogliendo bastoni e sassi per proteggersi. Avrebbero aggredito qualunque cosa si sarebbe frapposto tra loro e il cammino, anche a costo della vita.

Onde evitare di spaventarli oltremodo, finimmo presto per rivelarci, vivi e indenni. La nostra reale presenza era sicuramente di conforto, per tranquillizzarli e infondergli nuova speranza.

Come è ovvio, abbandonarono immediatamente le armi improvvisate e mi si gettarono addosso. Volevano toccarmi, assicurarsi che fossi davvero io, mi baciavano le mani e i piedi.

Quella era la mia gente, erano quello che rimaneva della mia famiglia; io li amavo, come avevo amato Elrond e Gran Burrone. Li abbracciai quanto più forte possibile, accogliendoli contro il mio petto.

Ora più che mai mi rendevo conto che ogni volta avrebbe potuto essere l’ultima.

Qualcuno accorse per prendersi cura del bambino ancora aggrappato a me, il quale piangeva in modo sommesso. Lui si dimenò nervosamente, e strillò ancora più forte di prima. Era venuto per lui il momento di lasciarmi, ma non si sentiva pronto. Allora mi sporsi verso di lui, gli presi le manine tra le mie e le strinsi, gliele baciai, poi gli sfiorai il viso e la testa, in segno di commiato e benedizione.

I suoi capricci si acquietarono poco a poco e poi finalmente qualcuno riuscì a portarlo via. Lo avremmo accudito al meglio, se non avessimo trovato sua madre.

Altri bambini mi saltellavano intorno, afferrandomi per la cintura e tirando dalla loro parte, per sottrarmi agli adulti. Tutti mormoravano il mio nome come in un mesto inno che suonava come un canto di vittoria, rivalsa e di coraggio. Gli stessi sentimenti che provavo io in quel momento e che tenevo taciuti solo per dare spazio a chi sentisse il bisogno di sfogarsi, di rigenerarsi.

Legolas era stato in disparte per tutto il tempo, osservandoci e tenendo d’occhio i dintorni contemporaneamente. Era circospetto e ancora in tensione. I suoi sensi di elfo lo avvertivano che occorreva continuare a stare all’erta, perché non era finita.

Pure io, a livello istintivo, mi ritrovavo nella sua sensazione, ma ero anche troppo euforico e non mi risultava facile collegare i pezzi.

Tuttavia, mi sembrò doveroso fargli un sentito ringraziamento da parte di tutti per averci salvato ancora una volta.

Attirai la sua attenzione con un gesto e lui mi venne vicino con movimenti cauti, per non irrompere in maniera indelicata tra la mia gente. Sapeva come muoversi con il popolo, sapeva di essere diverso da noi e cosa questo comportava. Conosceva i limiti e non tentava di valicarli, anzi: era chiaro che aveva fatto del rispetto il suo stendardo.

Lo presentai come si conveniva a un caro amico e dissi loro che dovevano rendergli grazie per avere strappato alla morte me e quel bambino. Per sottolineare il concetto, mi misi accanto a lui, quasi spalla a spalla, per dimostrare loro che non dovevano avere timore.

I ragazzi lo guardavano stupiti: quel guerriero alto e biondo appariva molto più in forze di me. A loro doveva sembrare impossibile, per questo lui assorbiva il loro più devoto e completo interesse. Probabilmente incarnava perfettamente la loro idea di prode cavaliere in groppa al destriero, sempre pronto a difendere i più deboli dagli oppressori. Era rassicurante sognare assieme a loro che fosse veramente così, almeno in parte.

Invece, gli adulti gli si avvicinavano incuriositi e grati, con le mani giunte in segno di deferenza. Alcuni di loro già conoscevano gli elfi, altri ne avevano solo sentito parlare, ma sempre in bene. Forse alcuni si ricordavano di avere già visto Legolas presso il nostro villaggio, prima che fosse attaccato.

Lui li guardò tutti con infinita misericordia, rivolgendo ora un cenno di saluto, ora un mezzo inchino. Quell’incontro tra mondi era la scena più affascinante a cui avessi mai assistito ed ero immensamente felice che ci fosse stato concesso quell’attimo di tregua per godercela.

Il bambino che avevamo salvato dagli orchi si fece avanti, spingendosi tra gli stracci degli adulti. Guadagnata la prima fila, se ne stette per un po’ lì ad contemplarci, portandosi un dito alla bocca con fare lezioso. In particolare, era attratto dall’elfo, che subito lo riconobbe e gli sorrise.

Il bambino ricambiò. Poi, tra lo stupore generale, corse a buttarsi sulle gambe di Legolas. Gli arrivava a malapena sopra le ginocchia. Ancora malfermo, ma sicuramente molto deciso, gliele strinse con tutta la forza di cui era capace.

L’elfo non barcollò minimamente. Al contrario. Si chinò fino ad incontrare gli occhi del suo prediletto. Scostandolo leggermente, glieli asciugò con il pollice, mentre gli donava un altro sorriso confortante e una carezza sui capelli arruffati. Gli disse qualcosa in elfico che non fui abbastanza rapido a comprendere. In ogni caso, ebbi l’impressione che si stessero parlando in una lingua a me sconosciuta.

Il bimbo lo abbracciò.

Non piangeva più.

 

Più tardi, dopo aver fabbricato rudimentali capanne nelle quali passare la notte, con qualche pietra e qualche fascio di frasche, raggiunsi Legolas al suo posto di guardia, in cima a un masso sulla sommità della collina.

Lui non si mosse neppure, ma ero certo che avesse rilevato la mia presenza, proprio perché non lo vidi scostarsi di un millimetro.

Era veramente difficile coglierlo impreparato.

Mi arrampicai anch’io sul gigantesco sasso e mi misi al suo fianco. Lui a malapena mi guardò: era impegnato a scandagliare attentamente i dintorni perché, lo sentivo, c’era qualcosa che ancora lo preoccupava. Solo che non si decideva a parlarmene.

La sua magra figura contro il manto scuro del crepuscolo sembrava tremolante, come se fremesse. Il suo respiro era regolare, ma i muscoli erano ancora tesi come prima di un’immaginaria battaglia. A dire il vero, in quel mentre appariva più come un animale in vagabondaggio, un’anima che si è persa ma non vuole darlo a vedere.

In particolare, Legolas non si sarebbe mai abbassato ad ammetterlo.

Non sapevo da che parte iniziare e il silenzio cominciava a pesare sui miei nervi stanchi. Decisi quindi di fare un tentativo:

- Avete combattuto fieramente per una causa non vostra.- mi complimentai – Avete salvato me, avete cercato di salvare l’accampamento, vi siete buttato contro quel mostro pieno di zanne senza esitare e così facendo avete cercato di dare una speranza anche a chi sapevate non poteva farcela. Ora mi aiutate a traghettare verso la salvezza i pochi che sono rimasti. Non ci avete lasciato soli. Sono...colpito. Davvero.-

Non ottenni facilmente la sua risposta. Solo dopo un po’ lui si voltò a guardarmi, con un sorriso appena accennato, come se si fosse risvegliato dal torpore solo in quell’attimo:

- La vostra gente mi piace.- ammise, tornando poi a controllare braccio per braccio le terre brulle e nebbiose di Angmar.

Eravamo di nuovo a un punto morto del nostro dialogo. Presi coraggio e posi una mano sulla sua forte spalla, cercando di trasmettergli quanta più riconoscenza fossi capace:

- Non so se potrò mai sdebitarmi...- continuai.

Lui rise:

- Io non voglio nulla da voi.- spiegò – Spero solo che alla fine di tutto questo accettiate di venire con me nella Terra-di-Mezzo.-

- Giusto, è vostro padre che vuole qualcosa da me. O sbaglio?-

Dall’espressione contrariata sul suo viso capii che mi ero spinto un po’ troppo oltre in un momento che forse era il meno adatto di tutti. Non c’era stato tempo per riflettere, né per prendere fiato. Legolas non aveva ancora recuperato le energie spese e non era escluso che ci stesse provando, almeno finchè non ero arrivato io a impedirglielo.

Ero stato stupido a porre quella domanda. Il fatto è che mi premeva troppo saperlo.

La figura di re Thranduil incuteva deferenza anche a distanza di miglia e miglia.

- Ho solo l’ordine di trovarvi e scortarvi nella Terra-di-Mezzo...provvederemo poi a capire.- tagliò corto l’elfo, senza guardarmi.

Capii che la conversazione era finita.

Ritirai la mia mano senza aggiungere un bisbiglio. Non era mai stata mia intenzione suscitare la sua irritazione, ma la mia lingua era stata più veloce. Me ne rammaricavo.

Abbandonai il posto di guardia e scesi dal masso, scoccando solo un’ultima occhiata alla sua schiena, che rimaneva voltata verso il nulla, come se non fosse successo niente.

In quel momento ebbi l’assoluta certezza che facesse parte della natura stessa e come un belva trova rifugio in lei, anche lui trovava sicurezza sotto le fronde di qualunque albero, tra gli steli di qualsiasi erba e vi si faceva spazio, come se fosse anch’egli uno di loro. Non si sarebbe mai sentito solo, nemmeno se avesse dovuto non rivedere un uomo per millenni.

Ero ancora giovane allora e gli invidiavo questa familiarità con il mondo, dal quale io mi sentivo escluso.

Feci per andarmene, convinto che non avesse alcun bisogno di avere a che fare con me, almeno fino al mattino, quando mi sentii richiamare:

- Aragorn!- la sua voce mi inseguì nell’eco di quella notte che aveva l’aria di essere eterna.

Mi voltai. La sua figura torreggiava sopra di me contro il manto scuro della volta celeste.

Mi sorprese quel suo sorriso appena abbozzato, quella predisposizione d’animo che gli avevo visto così raramente sul viso e quella smorfia a metà strada tra una sana presa in giro e un amore fraterno. La sua ruvidezza sembrava essere stata momentaneamente accantonata.

Si inginocchiò quel tanto che bastava per farmi sentire più vicino a lui:

- Sono contento di avervi incontrato.-







**NDA**
Che fatica, ragazzi! Il mondo esterno non mi lascia pace! Perdonate il ritardo, sappiate che la storia sta andando avanti e riserva ancora molte sorprese! Continuo a scrivere ma a singhiozzo, in particolare quest'ultima settimana, mi dispiace! :'( Spero che possiate apprezzare anche i capitoli dove l'azione lascia un po' di spazio ai sentimenti, francamente io ne sentivo un po' la mancanza ^^
Fatemi sapere cosa ne pensate! 
A presto

 

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Capitolo 28
*** Legolas ***


Legolas

 

- Avete figli?- mi domandò una sera, senza tanti giri di parole.

La sua domanda mi colse di sorpresa.

Il mio viso scattò subito verso di lui, come se mi avesse punto con un ago. In effetti era proprio così che mi sentivo, poiché ero sempre stato molto sensibile all’argomento.

Dopo la morte di mia madre, mio padre non si era più risposato, né aveva mai osato levare una sola occhiata alle avvenenti dame che avevano frequentato la corte, o a quelle che avevano avuto l’ardire di avanzare qualche velata proposta. Quindi, nessun altro piccolo principe aveva sgambettato per i corridoi, e con quell’effimera figura se n’era andata anche la speranza di poter ricostruire qualcosa di buono dalle macerie che ogni giorno si accumulavano dentro di noi. Solo molto più tardi sarebbe arrivata Tauriel a palazzo: avrebbe potuto colmare il vuoto, ma non ci era mai veramente riuscita.

Thranduil non si era fatto distrarre. Lui era sempre stato soltanto per me, forse perché in me viveva una parte di sua moglie, dell’unico essere che avesse mai amato: amato così tanto profondamente da sentirsi spezzato in sua assenza.

Nemmeno io potevo competere con un simile amore.

Mi chiedevo se, fronte a tutto quel dolore, avrei potuto rimediare condividendo con lui la gioia di un figlio mio, un giorno. Ma non ne ero per niente certo.

Il tempo era passato e nulla di tutto ciò era accaduto.

- No, non ho figli.- replicai, un po’ stranito.

- Avete moglie?-

Non capivo perché Aragorn insistesse tanto.

- Non è venuto il tempo per me di pensare al matrimonio.- aggiunsi.

Non si arrese così facilmente:

- Ma c’è una donna nel vostro cuore.-

Deglutii nervosamente. Aveva colto nel segno.

Aragorn mi osservava. Era un po’ di giorni che mi osservava, come a volere carpire i miei segreti. In effetti la mia mente era stata occasionalmente rapita da certi pensieri, che si dischiudevano quando vedevo i bambini giocare a rincorrersi.

Non potevo immaginare come Aragorn avesse potuto comprenderlo: dal mio modo di scuotere la testa, dalle pieghe sul mio viso? Come aveva potuto capire senza che io parlassi di nulla?

La sua curiosità era qualcosa di estremamente fastidioso, di fronte alla quale mi ritrovavo disarmato. Distolsi gli occhi per non permettergli di vedere una profonda tristezza. Ai suoi dovette apparire un’ammissione di colpa.

Mi stupii di come, per tutto quel tempo, in verità, io non avessi pensato a Tauriel. Mi era venuto quasi più naturale non pensarla, o forse non avevo potuto godere di sufficiente tranquillità per dedicarmi a una riflessione. Ma qualcosa era trapelato comunque dal mio animo e si era espanso tutto intorno, fino ad arrivare ad Aragorn.

- Non è esatto.- nicchiai.

Subito rizzò le orecchie. Era stato quasi un sussurro, ma era quello che sperava.

Si alzò e venne più vicino. Impossibile sfuggirgli.

- Lei vi ama?- continuò.

No.

- Perchè ora siete così interessato alla mia vita privata?- cercai di dissuaderlo.

Quella che era partita come una gentile diatriba rischiava di trasformarsi in qualcosa di potenzialmente disastroso. Non avevo alcuna intenzione di permetterlo. I tasti drammatici del mio passato erano e dovevano rimanere in mano a me, chiusi a chiave nel mio silenzio.

- Ho visto con quanta tenerezza avete abbracciato quel bambino e come vi siete occupato di lui anche ieri...- precisò – Quindi mi chiedevo se era la lontananza dalla vostra famiglia a farvi soffrire così tanto.-

Apparentemente, la considerazione poteva sembrare sensata. Io nemmeno mi ero accorto di essermi mostrato così amorevole nei confronti di quel poppante. Ma era vero, avevo giocato con lui tutta la mattina: me ne ero occupato volentieri, mentre sua madre era impegnata a ricucire gli abiti a un vecchio. Non pensavo di aver dato tanto nell’occhio.

I toni così diretti di Aragorn mi meravigliavano ogni volta. Avrei voluto avere la possibilità di confrontarmi con lui senza trasalire, ma pareva una strada impraticabile.

- Anche voi avete l’aria di uno che soffre...potrei porvi la stessa domanda.- tentai di sviarlo.

Distolse lo sguardo indagatore da me per appuntarlo sull’orizzonte appena rischiarato da qualche stella. La sua espressione cambiò di colpo, come se si fosse perso in quel cielo non del tutto amico. O si fosse assentato.

Il suo improvviso mutamento mi turbò.

Forse gli erano giunti accenni di tempeste sempre più vicine e io rappresentavo la persona più leale alla quale appoggiarsi, nel raggio di miglia. Forse stava solo cercando un po’ di conforto e lo chiedeva a me, anche se io non mi sentivo esattamente la persona più adeguata a ricoprire quel ruolo consolatorio.

Le notizie potevano riguardare la sua famiglia, se da qualche parte ce n’era una. Non dovevo lasciarmi sopraffare dall’egoismo.

- Voi avete moglie?- ricambiai, sperando di potergli dare l'aiuto di cui aveva bisogno.

Stupito, ma più che altro scornato da tanta confidenza, Aragorn ribatté seccamente:

- Sono promesso.-

Mi raggelai. Tacqui, senza avere il coraggio di aggiungere altro.

Non era decisamente come avevo pensato.

Dopo un po’, tuttavia, avvertii uno di quei sospiri a me ormai noti, che preludevano a un nuovo inizio di conversazione, secondo i canoni dell’uomo:

- Lei è come voi.- disse, lasciando la frase volutamente aperta a molteplici interpretazioni.

Alzai la testa. Faticavo ad afferrare il suo concetto.

- Come me?- ripetei, confuso.

Aragorn sorrise:

- E’ un elfo.-

Rimasi sbalordito dal sentirgli dire quelle parole. Ancora più sbalordito del fatto che un elfo e un uomo potessero vivere nell’unanime speranza di potersi, un giorno, unire in una famiglia. I matrimoni tra razze diverse non erano ben visti, anche se esisteva più di una leggenda che narrava simili storie, dalle quali erano discese non poche dicerie, nel bene e nel male.

Credo me lo lesse in faccia, perché si mise a ridere:

- Non ve l’aspettavate...- mi fece notare.

Ancora tacqui, rosso di vergogna.

- Sono cresciuto alla corte di re Elrond, a Gran Burrone...- iniziò Aragorn – Ve l’ho già raccontato una volta. I miei fratelli Elladan e Elrohir mi hanno insegnato tutto di voi Elfi, le leggende, i canti, le abilità…mentre re Elrond mi insegnava come curarvi e Arwen mi insegnava come amare.-

Mi strizzò l’occhio. Credetti di capire, ma tergiversai:

- E’ lì che avete imparato l’elfico Sindarin.-

- Già.- sorrise compiaciuto.

Per un po’ nessuno di noi due parlò più. Sembravamo due statue immobili nella notte incipiente, ognuno immerso nei propri foschi presentimenti.

Con la coda dell’occhio, vedevo le sue mani muoversi nervosamente. Mi volsi appena per capire che stesse facendo e notai che teneva una piccola pergamena tra le mani, che lui srotolava e arrotolava continuamente. La accarezzava come se fosse il suo tesoro più grande; e probabilmente era davvero così. Immaginai che doveva trattarsi di un dono molto importante, proveniente da una persona ancora più importante.

- Appartiene alla vostra amata?- osai chiedere.

Non si girò verso di me, preferendo la volta celeste, ma aggiunse:

- Così come le appartengo io.- il suo sguardo si fece sognante e così anche il mio.

Non avrei saputo dire se quella donna assomigliasse o meno a Tauriel. Non so perché, ma la immaginavo molto diversa, più adatta ad Aragorn: con vestiti lucenti, uno sguardo fiero, da regina, che le attraversava il viso e lunghi capelli che toccavano terra.

Niente a che vedere con la mia Tauriel. Tauriel era un guerriero nel corpo e nell’animo e tale sarebbe rimasta fino alla morte: fuggevole come un’ombra, dura come corteccia. Era così lontana da quello che gli altri si potevano aspettare da lei: probabilmente era per questo che provavo per la sua figura una sincera ammirazione, oltre che sentimenti che mai si erano accesi per nessun'altra.

Di nuovo le dedicai un mesto sorriso, uno pensiero malcelato, man mano che faceva capolino nella mia mente. Sapevo che avrei dovuto smettere, ma ora che era ritornata alla mia memoria risultava incredibilmente difficile.

Non avevo più sue notizie da un sacco di tempo e avrei dovuto attendere ancora molto per riceverne.

Non mi accorsi che Aragorn mi stava guardando a sua volta:

- Perchè non mi parlate di lei?- mi chiese – Forse ne avete bisogno.-

Le sue parole mi sfiorarono come un tizzone ardente. L’ultima cosa che volevo era dover parlare di Tauriel. Mi istigavo a dimenticarla, anche se era un pugno allo stomaco, e intendevo continuare su quella linea.

- Non c’è nulla da dire.- sbocconcellai di malavoglia, evitando accuratamente di incontrare gli occhi di Aragorn.

Ai suoi non avrei saputo resistere.

- Pretendete troppo da voi stesso.- interloquì, senza insistere più di tanto.

Non dissi nulla.

Credo che intuì, senza che glielo spiegassi, che il mio era un amore impossibile. Non fu necessario precisare.

Mi sentii sollevato.








***N.d.A***
Ciao a tuttiiii!!!!! Rieccomi, finalmente! Questo capitolo è un po' una pausa nella narrazione della nostra storia, ma ho avuto piacere di concedere un momento più intimista ai nostri due eroi, che forse spiega un sacco di cose. Vi ricordate il film, in particolare ne "Le due Torri", che cosa succede?! Questa è la mia personale interpretazione a quello che forse è rimasto un arcano...a voi trarre le conclusioni ;)
Se vi piace, lasciatemi una recensione, risponderò appena possibile!
A presto

 

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Capitolo 29
*** Aragorn ***


Aragorn
 

 

Ripensai a lungo alle parole di Legolas, intrise di un dolore così grande che neanche i canti e le poesie avrebbero potuto descriverlo accuratamente. Avevo avvertito le vibrazioni della sua mente e del suo corpo farsi intense quando avevo provato ad affrontare il discorso “moglie”.

Non avevo la più pallida idea di che cosa si celasse nel cuore dell'elfo, ma ero certo che parte della motivazione che lo aveva spinto fino a Fornost doveva avere a che fare con la sua consorte.

Se di consorte poteva trattarsi.

Era molto più probabile che si trattasse un amore nostalgico, o tormentato, a turbare il mio amico, ma non avevo osato andare oltre un certo limite: lì i suoi occhi si facevano di fuoco e io sapevo che dovevo lasciar perdere.

Al suo confronto, potevo dire di essere stato fortunato. Arwen era sempre stata una creatura meravigliosa e meravigliosamente innamorata. Di me, da non crederci.

Quando mi guardava la sua pelle diafana sembrava brillare di più, come se nella sua anima si accendesse una luce diversa, che veniva poi riflessa verso l’esterno. I ricordi erano dolci nel ripensare a quel suo fulgore, che risplendeva per me.

Ci eravamo promessi che ci saremmo rivisti e stretti le mani, una volta che fossi tornato e fossi cresciuto abbastanza da rendermi consapevole del mondo. Lei con profonda indulgenza mi aveva lasciato andare, abbracciando l’impegno di attendermi a Gran Burrone, anche se non sapevamo quanti anni sarebbero passati.
Ma il tempo per un Elfo ha ben poca importanza, dato che respira assieme alla natura stessa quel sapore di eternità.

La sentivo vicina a me in ogni momento, come se il suo pensiero fosse in sincrono con il mio, similmente a una danza nuziale. Forse questo era già preludio a quelle che sarebbero state le nostre nozze, quando sarebbe arrivato il tempo.

Non ne avevo ancora parlato con Re Elrond, suo padre. Non ve n’era stato bisogno.

- Torna a casa, Aragorn.- mi aveva detto, quando era stata ora di partire – Vai nel mondo e riempi il tuo cuore di virtù. Ci rivedremo allora e ci confronteremo. Non un giorno prima.-

Nessuna parola su Arwen, ma sapevo che aveva capito.

Avevo lasciato trascorrere gli anni rievocando le leggende di Beren e Lùthien, di re Tuor e Elwen, e di tutte quelle coppie divise dalla propria razza, il cui amore era stato talmente grande da travalicare ogni confine, persino la volontà dei Valar. Sognavo di poter godere anch’io di quella fortuna, in nome del mio sentimento per Arwen, ma i tempi erano bui e anche la faccia di re Elrond lo era. Tutto sommato, non ero troppo sicuro che mi desiderasse come suo erede.

Probabilmente mi aspettavano ancora numerose battaglie prima di poter stringere finalmente la mano di Arwen.

Da un lato, invidiavo Legolas. Il suo corpo non era avvinto da catene pre-matrimoniali, anche se un’ombra più grande gravava evidentemente sul suo animo. Quando guardava il cielo in quel modo strano, oserei dire malinconico, la mia curiosità si accendeva e avrei voluto aiutarlo. Sapevo cosa significava soffrire per amore. E lui era una creatura che aveva già sofferto abbastanza, per la mancanza di quello.

Non capivo perché non mi coinvolgesse, perché non mi degnasse di una spiegazione. Desideravo essere suo valido alleato più di ogni altra cosa, ma avevo l’impressione che il nostro rapporto fosse sempre appeso a un filo, pronto a ledersi. Legolas non si lasciava avvicinare, come un animale selvatico, e quella confidenza che credevo di essermi guadagnato evaporava come un miraggio all’orizzonte ogni volta che tirava fuori quel tono che non ammetteva repliche. Ma poi l’allarme rientrava, con qualche timida battuta.

Di certo, lui era ancora con noi, e questo era fonte per me di grande sicurezza e speranza.

Qualche giorno dopo il memorabile scontro con gli orchetti, raccogliemmo i pochi rimasti e ci rimettemmo in marcia, verso pezzi di terra più lontani e meno sorvegliati. Era tutta mia intenzione concentrarmi in quella missione, la quale rappresentava solo un piccolo passo avanti in una scala infinita, almeno per come vivevo io la situazione.

Legolas stava alla testa del piccolo gruppo: ci guidava avvertendoci in anticipo di cosa avremmo trovato sul nostro cammino. Ai suoi occhi e alle sue orecchie niente era celato, nemmeno a miglia di distanza.

Approfittava della sua posizione privilegiata per aprirci la strada. Saltava da un maso all’altro, controllava dall’alto, eliminava impedimenti come rami e tronchi, sceglieva vie alternative per aggirare pozzanghere e lingue di terra instabile; faceva da scudo e da supporto a chi non ce la faceva più.

Il bambino che aveva salvato gli trotterellava al fianco quando poteva, come se l’avesse eletto a suo vero padre: come se solo con lui si sentisse veramente al sicuro. Ogni tanto Legolas lo prendeva in braccio o lo aiutava a scendere nei percorsi più ripidi, sotto gli occhi vigili della madre, che non lo perdeva mai di vista.

Era un quadretto a dir poco commovente. Io, a chiusura della fila, avevo tutto il tempo per notare questi piccoli particolari, oltre che ad osservare e a pensare molto.

Sapevo dove eravamo diretti, ma non sapevo se avrei trovato qualcuno pronto ad accoglierci: la cosa destava in me non poche preoccupazioni.

Una notte, mentre montavo la guardia, Legolas mi raggiunse sorprendendomi alle spalle:

- Non vi sembra che manchi qualcosa?- sussurrò con una tiepida nota di angustia.

Mi voltai e non riuscii a indovinare l’espressione del suo viso, troppo intento ad interrogare i dintorni in attesa di un segno, come se lo percepisse in fondo alle viscere ma non trovasse un riscontro concreto con gli altri sensi.

- Che cosa cercate, esattamente?- gli chiesi.

Legolas trasse un sospiro. Forse avevo deluso la sua intelligenza con la mia poca perspicacia. Ma ero troppo stanco e troppo preso da mille pensieri per seguirlo sulla via delle sue elucubrazioni.

- Quella creatura immonda…- rivelò.

- Il Verme Mangiaterra?- mi illuminai.

- Esatto. Non era con gli orchetti.-

Non ci avevo pensato minimamente, ma era vero. Da quando ci eravamo lasciati alle spalle ciò che era rimasto del mio accampamento, non avevamo più sentito quella che ormai, ne ero certo, era per noi diventata una familiare vibrazione sotterranea.

Niente si muoveva sotto i nostri piedi, nè davanti ai nostri occhi.

Ecco perché Legolas era sempre così circospetto.

Appariva decisamente strano. Mi ero convinto che il Verme fosse alla mercè degli orchi, i quali potevano scagliarlo contro chi volevano, o magari usarlo per scavarsi nuove vie attraverso le colline e le montagne. Tuttavia, non lo avevamo scorto nei pressi del loro punto di ritrovo, non era accorso in loro aiuto quando li avevamo decimati e non ci aveva inseguiti, anche se eravamo stanchi e debilitati. Delle prede perfette.

Avevamo sbagliato tutti i nostri calcoli e ce ne accorgevamo solo in quel momento.

Guardai l’elfo e lessi nei suoi occhi la stessa identica voglia che avevo io di recidergli quella testa cieca. Entrambi, per motivi diversi, non vedevamo l’ora di vendicarci del male subito gratuitamente da quella fetida creatura. Avevamo non pochi conti in sospeso con essa.

Per prima cosa, mi venne in mente Bjorn.

- Dobbiamo trovarlo.- affermai, a metà strada tra un’orgogliosa rabbia e un’insana veemenza.

Legolas chiuse gli occhi. Anche lui forse cercava risposte alle domande che non ci eravamo posti a tempo debito e non sapeva dove sbattere la testa.

Ma di una cosa mi parve piuttosto persuaso:

- Credo che sarà lui a trovare noi.-

 

Il giorno seguente, neanche a dirlo, avvistammo dei curiosi crateri.

Fu uno dei bambini a scoprirli per primo, poiché quasi ci cadde dentro. Correva davanti a me e davvero fui lesto ad acciuffarlo prima che rotolasse via, verso le tenebre. La solita foschia che accompagnava le terre di Fornost non mi aveva permesso di accorgermi prima della pesante traccia del passaggio del Verme.

Chiamai Legolas, che fu subito accanto a me. Esaminò rapidamente la traccia, si guardò intorno e una mano corse all’elsa di uno dei suoi pugnali affilati:

- Dobbiamo muoverci.- sentenziò, come se già avesse sentito o subodorato una presenza maligna.

Cominciò a salire velocemente lungo il pendio di una collina, dalla quale avrebbe potuto dominare facilmente i dintorni. Lo affiancai, lasciando momentaneamente la fila di fuggiaschi che, silenziosi, si trascinavano oltre:

- Voi andate avanti – mi disse Legolas – io resterò qui e fungerò da esca. Sono certo che è qui da qualche parte e ci osserva...lo terrò lontano da voi.-

- Non vi lascerò solo contro quel mostro.- scossi la testa – E’ troppo grande, persino per voi.-

- Non vi angustiate – mi cacciò indietro – Credo di aver imparato qualcosa dalle mie precedenti sconfitte, e questo qualcosa mi terrà in vita.-

Ancora non volli capire:

- Dobbiamo riuscire a colpirlo dove ci sono le pieghe della pelle...ho scoperto che è il suo punto debole.- aggiunsi, senza rendermi conto che avevo parlato al plurale.

Legolas mi guardò dapprima un po’ confuso, poi la sua espressione corrucciata si sciolse in un mezzo sorriso:

- Grazie.- disse, senza aggiungere nulla.

 

Quella notte, non dormimmo sonni tranquilli.

Avevamo cercato un luogo adatto dove riposare e l’avevamo trovato appena al di sotto di un terrapieno, dove una moltitudine di massi arroccati forniva un riparo affidabile e anche una buona visione dei paraggi. Dalla sommità potevo vedere una piana fatta di nulla e il fiume che avevamo costeggiato, il quale si gettava a capofitto giù da un dirupo. Nei pressi rimbombava chiaro il canto amico di una cascata, l’unico suono in tutta la valle. A parte questo, la solita vacuità ci avvolgeva stretti come in un sudario.

Il primo turno di guardia spettava a me, ma Legolas si era rifiutato di ristorarsi e si era seduto in cima a un masso, a vegliare il sonno placido dei bambini. Sembrava scrutare l’orizzonte ma in verità lo vedevo assorto, impenetrabile, raccolto in qualche suo pensiero. Forse pensava a suo padre, alla sua casa lontana, chissà.

Mi alzai e feci per andargli incontro, se non altro per fargli (o avere?) un po’ di compagnia.

Spirava un vento gelido da Sud ed ero nervoso, come se qualcosa nell’aria fosse pronto a rivelarsi, con tutte le sue velleità negative.

Forse ero io ad essere troppo pessimista.

Stavo proprio per raggiungere Legolas, quando lo vidi alzarsi di scatto, gli occhi puntati su un preciso braccio di terra, ancora lontano da noi:

- E’ qui.- mormorò con una leggera punta di sgomento.

Provai anch’io a guardare nella stessa direzione, ma all’inizio non scorsi anima viva. L’aria era immota, la nebbia pure, e perciò era difficile per i miei occhi di uomo distinguere.

Mi impegnai di più. Allora intravidi un movimento, in mezzo al niente.

Avvertii i muscoli di Legolas farsi tesi.

Poi mi colpì la famigliare vibrazione. Cresceva lenta ma costante, mentre i miei occhi si abituavano alle forme incerte della prospettiva e finalmente lo avvistavano.

Il nostro nemico era alle porte.

Velocissimo, Legolas corse giù per la collina. Non mi aveva fatto un solo cenno né mi aveva comunicato di avere un piano, probabilmente perché ancora non l’aveva: per questo, aveva ben pensato di lasciarmi indietro.

Ma io non avevo alcuna intenzione di portare il peso che la mia coscienza avrebbe avuto, se l'elfo avesse avuto bisogno di me e io non fossi stato al suo fianco, come con Bjorn prima di lui.

Sguainai la spada e cominciai a correre anch’io giù per il pendio. Nel frattempo, Legolas aveva preso a scagliare frecce, attirando il mostro dalla sua parte. Notai che aveva deviato verso destra, attirandolo lontano dal nostro rifugio e più vicino al fiume e alle cascate.

Credetti di intuire. L’idea di scaraventarlo giù dal baratro non era affatto malvagia.

Ora la voglia di vederlo affogare mi riempiva di nuova forza in corpo.

Il verme provò ad addentare il mio amico, ma sbagliò mira: con un baccano di inferno finì col muso contro la terra, inabissandosi per poche braccia. Riemerse subito, gridando di sconquasso, con Legolas che gli saltellava attorno cercando di applicare i consigli che gli avevo dato: ovvero, di centrare le pieghe nella pellaccia dura di quel mostro.

Il Mangiaterra sembrava aver capito l’andazzo, o forse si ricordava delle ferite da me inferte, perché non si lasciava distrarre, né convincere a lasciar scoperte le sue parti deboli.

D’un tratto, lo vidi che cercava di azzannare Legolas con più precisione che mai. La mia rabbia fu repentina, improvvisa: i brutti ricordi mi riempirono di fuoco e in quel momento promisi a me stesso che mai, mai e poi mai avrei abbandonato quel campo di battaglia, se non da morto o da vincitore.

Lanciai la spada come se fosse un coltello contro il mostro, mirando al punto dove avrebbero dovuto esserci i suoi occhi. Il grido disumano che lanciai mi seccò la gola e riecheggiò per tutte le sinistre colline, fin troppo forte.

Straordinariamente, il tiro sviò l’attenzione del mostro. La spada rimpallò crudelmente verso terra, ma almeno il verme aveva perso per un attimo la cognizione dello spazio: così Legolas era riuscito a sfuggirgli.

L’immondo si voltò allora verso di me. Non mi vedeva ma ero sicuro che mi riconoscesse perché, fra tanti, io ero forse uno dei pochi che aveva osato sfidare la sua grandezza, il suo mito, per distruggerlo.

Lo schivai mentre cercava di prendermi, rotolando finchè Legolas non mi intercettò e mi trascinò via.

A poche braccia da noi, il fiume muggiva come una bestia recalcitrante e si buttava in un varco tra le rocce, rompendosi in mille pezzi di cristalleria quando arrivava sul fondo. La cascata avrebbe avuto un che di magnifico se avessimo potuto ammirarla in circostanze diverse, completamente diverse da quelle che stavamo vivendo ora.

Legolas mi spinse da quella parte:

- Dobbiamo attirarlo verso il crepaccio!- mi urlò contro – Lasciamolo caricare: non può vedere il dirupo e scivolerà prima di potersi fermare!-

Ricominciai a correre. Dietro di me udivo lo schiantarsi dei sassi al passaggio del maledetto, che pur cieco sembrava puntarci con un’accuratezza al limite dell’infallibile. Due volte tentò di attaccarci, digrignando i denti a pochi piedi dalle nostre gambe. Quasi mi sembrava di sentire il suo alito sul collo.

Quando arrivammo al ciglio, la foga era talmente tanta che per poco non rischiai di sbilanciarmi. Legolas mi afferrò per un braccio, impedendomi di cadere giù.

- Al mio tre, corri più veloce che puoi dalla parte opposta alla mia!- gridò, mentre il verme si avvicinava pericolosamente.

Attendemmo pochi, fugaci secondi, in cui tutti i rumori del mondo vennero inghiottiti dai versi selvaggi del mostro; versi che avrebbero potuto farmi delirare, se non ci fosse stato Legolas a tenermi.

Quelle grida erano unite inevitabilmente agli ultimi ricordi di Bjorn e sapevo che non le avrei mai dimenticate.

Dovevo reagire. Dovevo farmi valere e rivendicare tutto quel dolore. Ero l’unico che poteva farlo.

Sentii il “tre” di Legolas solo all’ultimo secondo. Lui mi spinse via, proprio nel momento in cui tra di noi si frapponeva un muro di polvere sollevata dall’immondo essere.

Anche se non era proprio ciò che più mi poteva dare onore, cominciai a correre lungo il ciglio del burrone, guardandomi intorno in cerca di qualsiasi cosa potesse anche solo vagamente assomigliare a un’arma.

Sotto ai miei piedi l’erba riarsa vorticava come impazzita, scossa da tremiti con cui ancora oggi non conosco paragoni. Voltandomi, però, mi morse l’atroce sospetto di doverli sentire ancora a lungo.

Il nostro stratagemma non aveva funzionato.

Il gigantesco mostro era riuscito a fermarsi prima del baratro e ad evitare di precipitare. Adesso si contorceva, proprio in mezzo a noi, e ci divideva.

Si volse prima verso di me. Se avesse avuto occhi, ne ero certo, avrebbero brillato di vendetta e spietatezza mentre si avventava come un ossesso sulla mia esile figura.

Lo gabbai correndo in mezzo ai massi, i quali l’avrebbero certamente confuso: gli ostacoli contro la sua bocca sarebbero stati troppo numerosi e di consistenza troppo coriacea. Intanto pensavo a qualche altra astuzia.

Legolas non si era tirato indietro. Aveva scagliato qualche freccia, tanto per punzecchiarlo, poi aveva preso a bersagliarlo di pietre, finché era riuscito ad ottenere il suo interesse. A quel punto gli balzò addosso e proprio come io gli avevo detto, lo vidi cercare un punto debole tra una piega della carne e l’altra, dove conficcare il suo pugnale.

Ci arrivò in fretta. L’arma restò incastrata profondamente nel corpo del mostro, che stridette come una femmina derisa e si dimenò ancora di più. Legolas dovette abbandonare la lama e saltare a terra.

Sapevo quanto tenesse ai suoi pugnali: non vi avrebbe mai rinunciato né ne avrebbe lasciato uno nella pancia del mostro. Infatti, l'elfo ritornò alla carica di scatto, cercando di raggiungere l’obiettivo.

Forse fu troppa la sua foga, e questo lo rese baldanzoso nei confronti del pericolo: per un momento non badò più a quello che gli succedeva intorno. L’errore gli costò caro.

Anche se era riuscito a evitare diverse possenti offensive, vidi la coda del verme schioccare come una frusta e la sua punta investì Legolas sulla schiena, schiaffandolo a terra.

Inebetito dalla batosta, l’elfo perse i sensi. A quel punto mi intromisi, cercando di allontanare il mostro da lui, gridando come un indemoniato perché si buttasse su di me, che ero ancora vivo e vegeto e scattante.

Raggiunsi il mio intento. La creatura si gettò su di me lasciando in pace Legolas, che nel frattempo si era ripreso. Senza esitare, l’elfo tornò a saltare e stavolta arrivò subito al suo pugnale, con grande sconcerto del verme. Afferrò saldamente l’elsa con entrambe le mani, tentando di disincastrarlo.

La creatura si opponeva come un elefante imbizzarrito. Ogni tentativo di interrompere quel crudele balletto, da parte mia fu inutile. Mi toccava solo assistere impotente alla scena.

All'improvviso, con un feroce colpo della potente testa, il verme riuscì a sbilanciare Legolas. Costretto a retrocedere, l’elfo scivolò malamente verso il basso, dove un altro importante colpo di coda lo schiaffò ancora a terra. Non fu in grado di rialzarsi subito. Forse era stanco o a corto di idee; il mostro ne approfittò per attaccarlo una terza volta.

Legolas, sempre stretto al suo pugnale ritrovato, incassò senza battere ciglio. La mia apprensione saliva. Vidi la sua magra figura sfuggire per un pelo alla peste, ai denti, ai gozzovigli di terra, finché non ci fu più un terreno sul quale continuare a strisciare.

Infine, con estrema paura, lo vidi rotolare oltre il ciglio del burrone.






***N.D.A***
Rieccoci! FInalmente un po' di azione! Mi scuso per il ritardo, ma è sempre più difficile tirare fuori del tempo per me!
Vi è piaciuto questo capitolo?? Siamo quasi alla resa dei conti (la prima...;) ma, ovviamente, NON ci piace vincere facile!
Spero di riuscire ad aggiornare presto questa storia, così non rimarrete troppo con il fiato sospeso! Nel frattempo, preparatevi, perchè anche un altro personaggio sta per tornare in scena - forse ve n'eravate quasi dimenticati, ma non io :)
A presto

 

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Capitolo 30
*** Legolas ***


Legolas

 

Ero appeso poche braccia sotto al dirupo, afferrato a uno sperone di roccia, in bilico.

Il mostro imperversava sopra di me, cercandomi. Con la coda mi aveva dato un poderoso quanto inaspettato spintone, facendomi capitombolare. Per fortuna non avevo perso la bussola e con prontezza ero riuscito ad abbracciare quello sputo di pietre, poco più in basso.

Una dispettosa pioggia di sassi mi cadeva addosso, rendendo scivolose le mie mani e la parete sulla quale cercavo disperatamente un altro appiglio, per darmi slancio e risalire prima che tutto si sgretolasse sotto le mie dita.

La partita non era conclusa: avevo ancora non poche carte da giocarmi e assolutamente non vedevo l’ora.

Quella bestia aveva i minuti contati.

Alzando lo sguardo verso il ciglio del burrone, vidi Aragorn che si affacciava con il viso sconvolto dalla disperazione. Forse mi credeva già morto, ma le sue aspettative furono puntualmente disattese.

Quando si rese conto che ero lì, vivo e scattante, il suo affanno si trasformò in gioia. Nel tumulto generale, mi ero momentaneamente dimenticato di lui, ma una parte di me sapeva che lui non si sarebbe dimenticato di me: anche stavolta, mio malgrado, avevo creduto in lui e lui non mi aveva deluso.

Vedere il suo volto fu per me di grande sollievo. Significava che c’era ancora una speranza, che potevamo farcela.

Aragorn si piegò fino ad afferrare la mia mano e il mio polso, fin dove riusciva ad arrivare senza cadere:

- Sono qui! – mugugnò in mezzo alla fatica – Non ti lascerò andare!-

Mi tratteneva e mi tirava verso la vita con tutte le forze di cui era capace.

Era tornato a prendermi.

Quella consapevolezza mi diede una fresca, inusitata forza. Mi puntellai con i piedi contro la parete, sostenuto dalle mani di Aragorn, e mi diedi una spinta per cercare un altro attacco, più in alto. La lucidità mentale mi era completamente tornata e finalmente mi sentivo di nuovo nel mio elemento, la Terra, e riuscivo a vederla di nuovo come una risorsa. Improvvisamente non avvertivo più in me esitazione alcuna. Non sarebbe bastato un drago a buttarmi giù.

Trovai l’appiglio. Lo strinsi forte con le dita, cercando una presa più agevole. Aragorn sbuffava e digrignava i denti per la fatica, ma resisteva.

Stavo per risalire, quando vidi la sagoma scura del Mangiaterra ergersi minacciosamente alle spalle del mio amico. Si apprestava ad attaccarci.

Fu tutto troppo veloce per riuscire a ricordare l’esatta sequenza degli eventi. In un attimo avevo visto tutta la vita passarmi davanti agli occhi, rendendomi conto che si sarebbe interrotta in quel secondo, se non avessi agito; non mi lasciai tentare dall’indecisione, ma reagii di istinto, lo stesso istinto che tante volte mi aveva salvato quando sembrava non esserci più speranza.

Poteva essere l'ultima occasione.

Con uno scatto repentino, afferrai Aragorn per i vestiti e lo tirai giù con me. Nello stesso momento, anche il Mangiaterra era partito alla carica, tanto che i suoi denti sfiorarono le caviglie del mio compare mentre questi precipitava al mio fianco.

Lo tenni saldamente per quel braccio che mi aveva teso, mentre lui si aggrappava alle mie gambe, più sorpreso che spaventato dall’improvviso cambio di strategia.

Le dita che mi tenevano ancorato alla parete di roccia rischiarono di cedere. Da qualche parte, sentivo la pelle lacerarsi e il sangue correre tra le unghie e le falangi: strinsi forte le labbra per non urlare dal dolore. Feci uno sforzo sovrumano per restare.

Era troppo tardi, per il verme. Lo vedemmo mentre in un’esplosione di polvere si catapultava oltre le nostre teste, dritto verso il vuoto. L’impeto o la rabbia non gli permise di frenarsi in tempo. Una volta che la maggior parte del suo corpo molle fu oltre il ciglio, il suo enorme peso lo trainò verso il basso, là dove non avrebbe avuto scampo.

Il suo urlo di sconfitta ci ferì le orecchie mentre scivolava inesorabilmente verso la morte. Cadde, con la bocca aperta e i denti aguzzi sguainati contro il nulla, gli occhi inesistenti, sporco di terra e di sangue rappreso, finché l'intera sua massa si infranse contro la magnificenza delle cascate e delle rocce, e anche l’ultimo suo respiro si perse tra i flutti.

Un ritrovato fragore di natura che tutto sovverte e tutto appiattisce si impadronì poi della scena, cercando di ristabilire un nuovo equilibrio al quale noi restavamo agganciati con gli ultimi brandelli di energia.

In men che non si dica, era tutto finito.

 

Con immensa fatica ci impegnammo a ritornare in superficie.

Nonostante fosse visibilmente esausto, Aragorn andò per primo, tenendosi a me, mentre io cercavo di non mollare la presa. Neanche per un attimo i nostri corpi si sciolsero, tanto che se a uno dei due fosse capitato di incontrare la malasorte nel fondo del dirupo, anche l’altro di certo l’avrebbe seguito. Ma non era così che doveva andare. Da probabili vittime della situazione, avevamo capovolto il destino a nostro favore e ora ci apprestavamo a tornare alla luce.

Risalimmo verso la salvezza con alle spalle il respiro freddo della cascata, che sembrava aumentare di intensità; o forse erano solo i nostri sensi acuiti dalla tensione. Non ci scambiammo una sola parola, ancora scossi dai recenti avvenimenti.

Aragorn raggiunse il bordo e si voltò subito per tendermi una mano che io afferrai volentieri, nonostante non ne avessi essenziale bisogno. Ma il contatto umano era di necessità assoluta, dopo tutto quello che avevamo passato.

Tra le sue mani mi sentivo al sicuro come in nessun altro posto sulla terra.

Fu facile tornare a calpestare il suolo, come se non avessimo conosciuto il vuoto sospeso tra il mondo e l’oltre; invece avevamo sconfitto un'altra volta le progenie di Melkor, e anche se non si può dire che avessimo vinto la nostra personale guerra contro il Male, di certo avevamo allungato una pedina vincente sull’invisibile scacchiera di quei tempi difficili.

Quando superai la scarpata e finalmente mi ritrovai con l’erba sotto i piedi, mi buttai supino in terra, allargando le braccia e respirando a pieni polmoni, incurante di mostrarmi sopraffatto dalla stanchezza e dalla soddisfazione.

Davanti ai miei occhi c’era solo il cielo finalmente azzurro e il fresco di una nuova brezza mi riempiva il viso.









**NDA**
Ecco la degna conclusione di questa intensa battaglia! I nostri eroi ce l'hanno fatta!
Avete notato il cambio sostanziale in questo capitolo?! Indovinate un po'.... ;)
Lo so, è un po' cortino, ma è perchè sto lavorando molto al prossimo, che sono sicura apprezzerete moltissimo. Faremo qualche passo indietro, nel tempo e nello spazio, per aggiungere essenziali dettagli a questa storia.
Aspetto come sempre le vostre recensioni, così posso sapere cosa ne pensate.
Allora siete pronti?! Alla prossima :)

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Capitolo 31
*** Thranduil ***


Thranduil
 

Erano stati giorni bui, densi di foschia, fuori e dentro di me, e notti senza stelle che potessero farmi da guida.

La presenza costante di Tauriel alla reggia, per tutti quegli anni, aveva lasciato il posto a un vuoto incolmabile che io e anche tutti gli altri sentivamo, pur non parlandone mai. Ogni volta che un’ombra fuggevole si affacciava alla sala del trono o attraversava il giardino, istintivamente pensavo potesse essere Tauriel rediviva e sussultavo dal piacere e dal terrore; o magari quell’ombra poteva essere Legolas, di cui non avevo notizie da molto tempo.

Avevo inviato Esploratori fino ai confini del regno, con il preciso ordine di interrogare chiunque avessero incontrato sulla loro strada circa un eventuale avvistamento di mio figlio; alcuni si erano persino spinti oltre, ma tutti erano tornati a casa a mani vuote.

Mio malgrado, avevo dovuto cedere alla tentazione di avvalermi dell’aiuto di re Elrond di Imladris, con il quale avevo combattuto fianco a fianco in molte battaglie: era l’unico che potesse comprendere fino in fondo il mio tormento.

Non amavo dovermi mostrare debole di fronte a lui, né di fronte ad altri, ma egli con la sua capacità di predire il futuro rappresentava la mia ultima speranza.

Purtroppo, a nulla erano serviti i miei sforzi di raccogliere indizi presso di lui. Ero partito da Bosco Atro pieno di aspettativa, ma quell’ottimismo si era presto infranto contro l’impossibilità, da parte di Elrond, di accontentarmi. Non sapeva nulla di mio figlio e non aveva saputo dirmi nient’altro, nemmeno dopo aver atteso qualche giorno e aver provato qualche sortilegio. Nulla. Le visioni del re rimanevano oscure perfino a lui stesso. E non parlavano di Legolas.

Si era parecchio sorpreso di vedermi lì, accompagnato da poco più che un manipolo di soldati. Non ero solito, infatti, uscire dai confini del mio regno per recarmi in visita presso altre corti, specialmente da non invitato.

Ma per mio figlio avrei fatto questo ed altro.

Re Elrond era felice di vedermi. Mi invitò a restare, offrendomi tutto il suo appoggio. Ma io ero troppo amareggiato per accettare, e con la coda tra le gambe ero tornato in seno al mio palazzo vuoto.

Inoltre, c’era un altro problema da risolvere.

Mi era giunta voce che Gollum era scappato dal suo nascondiglio sotto le Montagne Nebbiose e si era avventurato nelle Terre Selvagge, in cerca di chissà cosa. Probabilmente non avrebbe tardato molto a varcare i confini di Bosco Atro e poi sarebbe stato mio compito inseguirlo e catturarlo per fargli confessare i suoi loschi piani. Era stato Gandalf a riferirlo a un mio emissario, avendolo incontrato in una locanda a nord della Contea degli Hobbit. Ora lo stregone si dirigeva verso la mia reggia per darmi tutto il suo fondamentale sostegno.

Non avevo la forza di poterci pensare. Avevo avuto solo l'ardire di inviare qualche distaccamento verso sud, così da farmi trovare preparato. Le mie spie erano al lavoro per scovare quella creatura delle tenebre, anche se immaginavo sarebbe stato un arduo compito.

Quasi a farsi beffe di me e della mia incapacità di tenere le cose sotto controllo, anche il monte Dol Guldur aveva ricominciato a borbottare: ora sfornava orrende creature che scorrazzavano felici nei boschi all’estremità più lontana di Bosco Atro.

Il macigno sul mio cuore diventava sempre più pesante. Senza Tauriel e senza Legolas, proprio ora che avrei avuto più bisogno della loro presenza, sentivo che l’angoscia mi avrebbe presto inghiottito. In particolare, l’assenza di mio figlio era la più prepotente e non c’era modo di cancellarla, né di metterla da parte.

Avevamo avuto molto screzi, specie nell’ultimo periodo, ma in nessun modo questo era riuscito a scalfire il mio amore di genitore. Mi aveva fatto soffrire, rivoltare, arrabbiare, ma contro il suo ricordo niente di questo aveva più un senso.

Lo rivolevo indietro, costasse quel che costasse.

Ora più che mai capivo a fondo le parole che Gandalf aveva enunciato, quando io non avevo voluto capire ed ero, come troppe volte, accecato dalla cupidigia

 

Quelle gemme non sono tutto ciò che tua moglie ti ha lasciato, amico mio. Ti ha lasciato un figlio. Dimmi, quale avrebbe avuto un valore maggiore per lei?

 

E quale avrebbe avuto valore maggiore per me?

Ora potevo dire di conoscere la risposta.

Com’ero stato stupido a paragonare un paio di gemme lucenti alla vita di mio figlio! Nessun bene materiale avrebbe mai potuto reggere il paragone.

Lo ripensavo chissà dove con i miei pugnali da battaglia in mano e speravo potessero dargli conforto e manforte in un periodo così buio. Così come per me durante la battaglia di Angmar, quei pugnali erano da sempre l’unica cosa certa, l’unica cosa su cui avessi potuto realmente contare. Finchè non fossi morto, loro mi avrebbero sostenuto qualsiasi decisione avessi preso, mi avrebbero protetto fino all’ultimo.

Così pensavo.

In verità, provavo un sentimento ambivalente nei confronti di quelle armi, perché a loro erano legati ricordi indelebili, che solo io potevo conoscere, poichè incastonati come funghi sul marcio del mio animo.

Ricordi che appartenevano solo a me. Non a mia moglie, non a mio figlio, a nessuno.

Quando avevo consegnato i pugnali a Legolas, perché portasse avanti la tradizione di famiglia, mi ero lasciato sfuggire come essi, in realtà, si fossero macchiati sia del sangue del Bene che del Male. Per questo era stato per me un enorme sollievo liberarmene e vederli allontanarsi dalla reggia. Lui non aveva capito, giustamente, a cosa mi riferissi, ma io non gli ho mai fornito una spiegazione, conscio di aver già parlato troppo. Credo che con il tempo Legolas si sia dimenticato di quell’appunto, e forse è meglio così. Forse questo è stato il mio modo di spezzare la catena, dopo che per tanto tempo mi ha avviluppato.

 

La battaglia di Dagorlad è uno degli scontri più sanguinosi che si ricordino negli annali di storia antica, ma allora i miei occhi non avevano ancora sufficiente esperienza per fare simili paragoni. Ogni conflitto mi pareva ugualmente duro, ugualmente inutile. Ugualmente imperdonabile.

Eravamo lì per dare manforte agli Uomini, che ci avevano chiesto supporto contro il Regno di Mordor, dal quale Sauron si apprestava ad attaccare in grandi forze. Sarebbe stata la loro rovina, se noi Elfi non avessimo fatto fronte comune contro quell’immane minaccia.

Nonostante la malvagità delle Forze Oscure ci sfiorasse solo di striscio, a Boscoverde il Grande, mio padre aveva deciso di partire per rispondere alla chiamata degli Alleati, lasciando quindi il Regno in mani sicure e ponendosi a capo di un contingente diretto al Morannon, il Cancello Nero di Mordor.

L’avevo seguito più per dovere filiale che per vera convinzione: non mi sembrava una mossa saggia sguarnire i nostri confini per andare a combattere una causa non nostra.

Solo in seguito abbi modo di comprendere ed ammirare appieno la sua lungimiranza. Salvare quegli uomini dalla distruzione era come salvare noi stessi, anticipando le mosse del nemico.

Ciò non toglieva che, di fronte a un Male che avanzava sempre più consistente, noi apparivamo come una magra consolazione per il regno degli Uomini e di Elendil. Ci accolsero come fratelli, ma non potei fare a meno di notare come quelle truppe sembrassero allo sbaraglio. La minaccia a Sud cresceva ogni minuto che passava, ed era amaro ammettere che per quella gente forse non c’era davvero più speranza. Alcuni di loro se n’erano resi conto: senza vergogna, desiderosi di una vita migliore, avevano finito per lasciarsi ammaliare dalle promesse dei probabili vincitori di quella guerra, e ora li ritrovavamo a militare al servizio del nemico, rivoltatisi contro i loro stessi compatrioti.

Era una situazione a dir poco incresciosa.

I superstiti si appoggiavano a noi come un bambino che si affaccia all’età adulta si appoggia alle mani del proprio genitore. Immagine quanto mai verosimile, visto che il popolo degli Elfi calpestava la Terra-di-Mezzo da molto più tempo e aveva molta più esperienza e motivazione per salvaguardarla.

Ero lì, ma il mio cuore era rimasto a Boscoverde. Mia moglie mi mancava terribilmente. Il tenero ricordo dei suoi morbidi capelli biondi abbandonati sul mio petto era ciò che mi teneva in vita, specie nei momenti in cui, guardandomi attorno, venivo preso da scoramento. Ero ancora giovane e già il mio dovere mi chiamava altrove, lungo una strada che avrebbe potuto essere anche senza ritorno. Una possibilità alla quale io non volevo cedere.

Dovevo tornare, per lei e per i miei futuri sudditi: la mia famiglia.

Mio padre Oropher entrò nella mia tenda armato di tutto punto. Mi strappò ai miei pensieri con un tintinnio acre di ferro contro ferro e mi fece cenno:

- Vieni.- mi ordinò.

Lo seguii fuori. Mi condusse fino al margine dell’accampamento, sopra un’altura dalla quale si poteva contemplare tutta la piana di Dagorlad, ora meglio conosciuta come le Paludi Morte, in memoria di quella battaglia che si sarebbe combattuta di lì a poco.

- Vedi?- mi chiese, indicando il Nero Cancello con un movimento del capo.

All’ombra di Mordor, che mai conosceva il raggio clemente del sole, schiere di creature orribili si stavano radunando dall’altra parte della pianura.

- Questa potrebbe essere la nostra ultima battaglia insieme – disse mio padre il re – Ma non sarà l’ultima per te. Tu devi tornare e riabbracciare la tua consorte, che ti sta aspettando. Promettimi che se i piani dovessero saltare, non penserai neanche un secondo a me, a noi, ma scapperai e tornerai a casa nostra.-

Lo guardai, sinceramente spiazzato.

- Che state dicendo, padre?- mi mossi nervosamente – Avete davvero intenzione di morire qui? State scherzando?-

Un’ombra scura gravava sul suo viso e mi parlava di foschi presagi, a cui non volli dar retta.

- Potrebbe succedere. – ribattè, fermo nelle sue posizioni – In tal caso il regno di Boscoverde passerà nelle tue mani, figliolo. Promettimi che tornerai e lo proteggerai da qualsiasi cosa, con tutte le tue forze.-

Non mi aveva mai parlato in quel modo e questo più di ogni altra cosa mi incuteva timore e sgomento.

Il suo tono di voce, invece, era calmo, sicuro, quasi profetico.

- Perchè pensate che dovrebbe capitare proprio ora?- gli chiesi.

- Ho fatto un sogno – mi raccontò – in cui un cervo della nostra foresta veniva ucciso da un grosso lupo nero. Nonostante si fosse battuto con energia, il povero animale non riusciva a salvarsi e il predatore si saziava delle sue carni. Una civetta osservava la scena. La mia civetta.-

Trattenni il respiro. Il volatile se ne stava appollaiato sulla sua spalla da quando avevamo lasciato il Reame Boscoso e anche adesso, vedendo Oropher uscire dalla tenda, si era posato delicatamente dietro al suo collo.

Quella civetta era stata la compagna inseparabile di mio padre da quando sua moglie (mia madre) era salpata per i Porti Grigi. Quasi come se fosse una parte della sua anima.

- E’ solo un sogno.- ribattei.

Mio padre strinse la labbra in una smorfia alquanto sinistra.

- E’ molto di più di questo.-

 

Il giorno dopo, partimmo per la piana di Dagorlad, serrati in ranghi. Gli Uomini ci spalleggiavano da un lato e dall’altro, mentre nelle retrovie avevamo i maledetti Nani delle Montagne Nebbiose. La loro presenza, tuttavia, ci faceva sentire un po’ più riparati.

Da lontano, udivamo l’eco del cantare tiranno delle schiere di Mordor, pronte a vender cara la pelle. Noi Elfi, con i nostri arcieri per primi, i nostri lunghi archi e gli elmi lucenti, gli avremmo dato del filo da torcere.

La fortezza degli Emyn Muil non poteva cadere sotto i colpi di quelle mazze e catene, perché avrebbe significato la rovina per tutti noi. La disfatta avrebbe aperto un varco spropositato attraverso la Terra-di-Mezzo, ora un po’ più sguarnita, dato che molti si erano aggiunti alla causa ed erano schierati con noi, quel giorno. Vivere o morire. Eravamo tutti servi di un’unica vittoria, che assolutamente doveva essere nostra.

Camminavo fianco a fianco a mio padre, che cavalcava il suo sommo cervo bianco. Le corna risplendevano nel timido sole di quel mattino, mentre le nubi si aprivano e lasciavano intravedere il campo nemico, anch’esso pronto a dar battaglia.

Si trattava solo di fetide creature. Con la nostra vista acuta, io e mio padre avevamo già intuito i loro punti deboli e la scarsa organizzazione; l’unica cosa che ci lasciava perplessi era l’enorme numero e la quantità di bestie da soma utilizzate da quei vampiri, ognuna delle quali recava con sé caratteristiche diverse.

Impossibile domarle tutte.

Mio padre Oropher digrignò i denti:

- Non li faremo passare a nessun costo.- sibilò.

Io annuii, stringendo forte la spada.

Lanciai un’occhiata a Elrond di Imladris e a Amdìr, re di Lothlorien, disposti sulle due ali del nostro esercito. Anche loro erano pronti e scambiarono con me con cenno del capo.

La tromba dei nemici squillò per prima. Subito una serie di Orchi e Troll si diedero una mossa, capeggiati da pochi mastri a cavallo di Mannari. Venivano verso di noi a passo lento, ma minaccioso.

Conoscevamo la loro tattica: si spingevano avanti fin dove potevano, per poi prendere la rincorsa all’ultimo, incalzati dalle file rimaste indietro.

Mio padre alzò il braccio, pronto a dare il via ai nostri soldati. Gil-Galad, davanti alla linea degli arcieri, alzò anche lui il braccio, pronto a partire.

Quando i mostri furono finalmente a tiro, diedero l’ordine.

Una pioggia di frecce dorate piovvero sui nemici, trafiggendoli con precisione mortale. Gli orchi caddero a terra come foglie rinsecchite, calpestati dai Troll improvvisamente impazziti. Alcuni di essi erano stati accecati dai dardi e si muovevano in preda al dolore e alle convulsioni, spazzando via corpi su corpi, a casaccio; le altre bestie, inebriate dall’odore del sangue, cominciarono a scalciare e latrare, chiedendo di essere liberati dalle loro briglie.

Non dovettero attendere molto.

I primi a partire furono i Mannari. Comparvero alle spalle degli orchi e li superarono in corsa, puntando dritti sui nostri scudi. Macinavano braccia di terra a una velocità incredibile, ed erano molti di più di quanto pensassimo all’inizio.

Ancora lanciammo frecce, ma non furono sufficienti per far fronte a quell’orda malvagia. Inoltre, non potevamo permetterci di sprecare troppe munizioni per loro.

Così fummo costretti a difenderci con le altre armi in nostro possesso, benchè non fossimo ben equipaggiati per una lotta corpo a corpo. Speravamo non ce ne sarebbe stato bisogno.

Anche io, come tutti gli altri guerrieri, calai l’elmo sulla testa e strinsi più saldamente l’elsa della mia spada. Quello era il momento della verità.

Mio padre gridò l’ordine e un clamore feroce si levò da tutte le nostre fila, prima che i fanti partissero all’attacco, e dietro tutti gli altri soldati, di tutte le razze.

Il primo scontro fu cruento. I nostri combattenti balzarono tra le fila di mostri, tranciando membra, deviando lance e cercando di bloccare ogni offensiva. Avanzavano faticosamente, travolti dalla forza sovrumana delle progenie di Melkor; il sangue di tutti sprizzava e colava ovunque, confondendosi addosso.

Gli Elfi Silvani, più leggeri e più agili, evasero i Troll e le mazze, per permetterci di incunearci quanto più possibile in quel maldestro esercito. Avevano ricevuto l’ordine di andare avanti e stavano compiendo il loro dovere con eroismo, senza nemmeno sapere se sarebbe valso a qualcosa.

Il nemico era goffo, ma il numero delle riserve era spropositato, come se nuovi guerrieri nascessero continuamente dalla terra fresca e ci si gettassero contro. Un numero senza fine.

Combattei fino allo stremo, senza guardarmi troppo attorno, facendo leva sul mio valore e gli insegnamenti impartiti da mio padre, abbattendo intere file di nemici. Ero giovane, forte e testardo: quella non era la mia prima vera battaglia e non avevo paura di morire, perché ero convinto che grazie al coraggio ne sarei uscito vincitore. Tutti ne saremo usciti vincitori.

Oropher mi seguiva da poca distanza; potevo sentire il suo cervo bramire imbizzarrito. Anche lui spazzava via orchetti e briganti senza sosta, facendo roteare sopra la testa i famosi pugnali della nostra casata. Non avevo mai visto nessun altro utilizzarli con tale leggiadria e letalità allo stesso tempo, quasi la sua fosse una danza, benchè nella morte. Se qualcuno si fosse fermato ad osservare, avrebbe tessuto canti su quell’audacia e quella destrezza, su quello spettacolo che era mio padre quando lottava mettendoci il cuore.

Dopo che l’ennesima orda ci fu addosso, lo persi di vista. Alzando il capo e non trovandolo, subito mi allarmai, mentre intorno a me si consumava una carneficina.

I nostri guerrieri venivano crudelmente abbattuti dalle asce e le mazze nere, spaccati a metà da belve immonde e scaraventati in aria da Troll imbestialiti. Anche le altre compagini stavano subendo danni considerevoli, in particolare gli Elfi.

In un attimo, mi resi conto che forse la nostra battaglia si stava avviando sulla via della perdita.

Non poteva essere. Non doveva essere.

Con un urlo, presi in mano una seconda spada e mi avventai su nuovi avversari. Intanto cercavo mio padre con gli occhi, inutilmente. Nessuna traccia nemmeno del suo destriero.

Fu come se avessi perso la mia luce.

Diversi manipoli di orchi ci stavano accerchiando. Eravamo rimasti in pochi fratelli, nel cuore dell’esercito nero: la loro attenzione era tutta calamitata su di noi. Il nostro destino sarebbe stato segnato, se alle nostre spalle non fossero accorsi improvvisamente Gil-galad ed Elendil.

Forti del nostro sacrificio, approfittarono della distrazione dell’esercito di Mordor e piombarono su di esso con tutta la forza che era loro rimasta.

Per fortuna, gli Uomini avevano messo in campo la loro cavalleria e Elrond proteggeva l’ala destra, tagliando di fatto una via di fuga alle truppe del Signore Malvagio. Si apriva una nuova speranza, che dovevamo sostenere fino all’ultimo respiro.

Così ripresi a dar manforte.

Incitavo i guerrieri a fare del loro meglio e anche io facevo lo stesso. Mi feci dare un cavallo e partii al galoppo, attraversando di corsa lo schieramento e prendendo seriamente in mano il controllo di ciò che si era salvato della nostra compagine.

Difeso dagli Alleati, ordinai agli Elfi Silvani la ritirata.

Il terreno era ormai inzuppato di sangue. Mi rifugiai nelle retrovie, sentendomi improvvisamente stanco e sopraffatto, pur contro il mio volere. Batteva ormai il mezzogiorno sulla piana di Dagorlad e io avevo finito le energie, anche se non avrei dovuto.

Un grande re non si esaurisce per il troppo impeto, né per la troppa paura.

In quel momento, io li possedevo entrambi.

Il resto dell’esercito, ricevuto il via dai loro comandanti, si riversò sulla piana con tutta la sua potenza. La battaglia durò tutto il giorno e tutta la notte, fino al giorno successivo, quasi senza sosta. Anche io ritornai sul campo, dopo aver ripreso fiato, seguito da Elrond e Elendil.

In qualsiasi angolo io potessi posare lo sguardo, c’erano cadaveri ammassati gli uni sugli altri, che mai avrebbero ricevuto memoria né adeguato riconoscimento per il miracolo che avevano compiuto. Li accarezzavo con lo sguardo man mano che passavo – il mio corpo ormai si muoveva senza che io potessi in alcun modo indirizzarlo, come se ci fossero altre mani e altre braccia al posto delle mie, una volontà diversa dalla mia.

Io avrei solo voluto gettarmi per terra e piangere per tutte quelle creature che noi avevamo condotto alla morte, senza presagire quello avrebbe significato.

Dopo innumerevoli sforzi, riuscimmo a stroncare le linee nemiche. Incalzati dai nostri destrieri, gli orchi e le altre bestie si ritirarono scompostamente verso il Morannon e la luce di Monte Fato, che pulsava sempre più perniciosamente, sobillato dall’incitamento del Signore Oscuro.

Mentre gli Alleati si dispiegavano verso le montagne, io mi fermai sul ciglio della disperazione a guardarmi attorno. Intorno a me era calato d’un tratto un silenzio di tomba, come se tutto fosse finito, mentre probabilmente era finito solo per me e il mio popolo.

I Silvani avevano sofferto un lutto indicibile e nessuna vittoria avrebbe potuto riempire quel vuoto. Ora me ne rendevo conto.

In quel nulla, ripresi a cercare mio padre Oropher. Avrei trovato sicuramente una risposta nei suoi occhi, che mi facesse dimenticare tutto quel dolore.

Non l’avevo visto tra i vivi, e nemmeno lo vedevo tra i morti. Non sapevo cosa pensare. L’avevano forse catturato per proporci un riscatto? O una tregua?

Cominciai a tremare.

Poco più in là, vidi il suo alce abbattuto da un fendente che gli aveva squarciato il collo. Quasi l’aveva decapitato, a dire il vero.

Lo raggiunsi. Quella vista era terribile raccapriccio, orrore allo stato puro. Girai cautamente attorno alla carcassa, camminando su braccia di terra nuda e macchiata di cadaveri, sui quali avevano cominciato a scendere foschia e una pioggerella sottile che riverberava nell’assenza di altri suoni.

In quel silenzio si levò il mio grido:

- Oropher!- chiamai, sorpreso di quanto la mia voce suonasse stridula.

Non rispose.

Con il fiato corto, cominciai a cercarlo sempre più forsennatamente. Alcuni superstiti mi fissavano con malcelata pietà, ma non osarono intromettersi.

Capovolsi corpi, li esaminai uno ad uno: nessuno di essi era mio padre. Ormai poggiavo i piedi solo su morbide membra e su sangue nero e vischioso, che imbrattava fino alla caviglia i miei stivali segnati dalla battaglia. Stavo perdendo la pazienza e le speranze e il mio animo ormai era pieno di rammarico.

Alzai lo sguardo al cielo, in una muta preghiera. Ormai i miei occhi erano bagnati di lacrime e pioggia, che si portava via la polvere e i peccati.

Vidi la sua civetta. Volava alta nel cielo, probabilmente cercandolo anch’essa. Il riflesso argenteo delle sue ali aveva qualcosa di particolare: sulle sue piume si rispecchiava un debole raggio di sole. Volli credere che quella fosse la mia fortuna, che mi permetteva di ricongiungere i cocci della mia vita e di tornare a casa a curarmi le ferite.
Speravo che quell’animale onirico, dall’alto della sua saggezza, potesse dirmi dove si trovava mio padre.

Dopo un breve volo di ricognizione, a un tratto vidi che la civetta aveva preso a girare in cerchio attorno a un punto preciso, senza osare scendere. Aveva avvistato qualcosa.

Subito mi diressi là, senza mai staccare gli occhi dal cielo.

Arrivato fin sotto la sua delicata ombra, venni preso da scoramento. Non ci misi molto a capire, abbassando lo sguardo di nuovo ai miei piedi.

Nessuno, in quel lembo di terra, era rimasto indenne, nessuno stava esalando respiri vivi. Ma degli altri, non mi importava. Io rivolevo solo mio padre Oropher.

A una seconda occhiata, distinsi la sua magra figura abbandonata ai piedi di un mucchio di cadaveri. Il mio cuore perse un battito dall’emozione. Corsi là, nonostante la mia disumana stanchezza, lanciando via la spada che mi appesantiva.

Era riverso a terra, con il mantello blu che lo copriva per buona parte, rendendolo un bersaglio perfettamente visibile. Tuttavia, non c’era più nessuno nemico che potesse nuocergli. Lo riconobbi dall’elmo ammaccato, sul quale si stagliavano netti i contorni della nostra casata.

Mi inginocchiai accanto a lui e tentai di smuoverlo. Lo rivoltai sulla schiena, per vederlo in viso. Era una maschera di sangue e di terra, ma sotto quei detriti i suoi occhi socchiusi custodivano ancora una scintilla di vita.

- Thranduil...- sussurrò a stento – Figlio mio...-

Sospirai dal sollievo di averlo ritrovato. Ma quella parentesi finì presto.

Una brutta ferita gli solcava la pancia fino al petto, causandogli un dolore inenarrabile. La mia mente cercò invano una soluzione, una sottile fiducia che lo facesse sopravvivere il tempo necessario per intervenire, ma brancolavo nel buio dello sconforto.

Le armate di Mordor erano state sconfitte, Barad-dûr bloccata, ma a quale caro prezzo!

Prima ancora che potessi anche solo pensare di portarlo via da lì, la sua mano inguantata si chiuse voracemente sul mio braccio:

- Non farlo.- biascicò – Non c’è più niente da tentare.-

- Che state dicendo?- lo redarguii – Siamo ancora vivi, tutti e due. Non vi lascerò andare.-

- Thranduil - sbuffò penosamente – non intestardirti sulla vita che non puoi darmi. Concentrati invece sulla pace che abbiamo conquistato e che adesso andrà difesa a spada tratta.-

- Lo faremo insieme.- insistetti caparbiamente – Finchè lo riterrete opportuno.-

- Ritengo opportuno che tu lo faccia da solo – alzò su di me lo sguardo fiero, mentre io l’avevo ficcato a terra – Guardami.-

Lo guardai e provai la più profonda afflizione. Aveva ragione: non avrei potuto salvarlo, nemmeno con tutte le più buone intenzioni del mondo.

- Amdìr re di Lothlorien è morto e io lo raggiungerò tra poco..- mi fece ragionare – La nostra parte in questo mondo è finita. Ora tocca a te e a voi tutti che siete sopravvissuti alla battaglia. Non rendete vano il nostro sacrificio. Portate avanti quella che era la nostra battaglia per il Bene.-

Lo fissavo impietrito, incapace di pronunciare una sola parola. Lacrime non ammesse mi si riversavano in gola e la bruciavano di desolazione.

- Prendi questi...- faticosamente, mio padre avvicinò uno dei suoi pugnali, che gli giaceva accanto, mentre l’altro era poco lontano – Ora sono tuoi.-

Presi delicatamente quella lama e la fissai brillare nel sole pallido. Le lacrime ormai scorrevano senza più impedimento né pudore sulle mie gote.

Quella era veramente la fine, se mio padre mi stava permettendo di brandirle.

- Portane alto l’onore, a partire da adesso.- sussurrò Oropher.

Ritornai da lui in men che non si dica:

- Permettetemi almeno di provare a salvarvi...- lo supplicai.

- Al contrario.- mi prese per un braccio e tirò con le poche forze che gli rimanevano – Liberami da questo corpo inutile. Aiutami a trapassare alle aule di Mandos e io ti sarò eternamente grato, figlio mio. Io non vedrò le bianche città di Valinor, io non salperò dai Porti Grigi e non mi congiungerò con gli altri fratelli, ma ti guarderò dalle aule di Mandos e veglierò su di te e i tuoi eredi. Aiutami ad andare. Spero che il destino vi riservi maggiore clemenza.-

Rimasi sconcertato di fronte a quella richiesta.

Mi stava pregando di ucciderlo?

- Non posso farlo...- mi negai.

- Io ti ordino di farlo.-

Di fronte a quel tono, non avrei mai potuto tirarmi indietro. Seppur agonizzante, mio padre conservava ancora quell’autorità che lo contraddistingueva. Anche ora, anche di fronte al suo corpo morente, io ero scosso e tremavo.

Tremavo di fronte al suo desiderio di morire.

- Lasciami andare.- mi implorò, mentre lentamente la sua luce si spegneva – Liberami da questo dolore.-

Mi aiutò ad appoggiare la lama del pugnale sotto la sua armatura, in corrispondenza della ferita già aperta: spinse leggermente, per farmi capire che era giunto il momento.

- Ora tu hai il comando. – abdicò in mio onore – Rendi Boscoverde il Grande ancora più grande di quanto non lo sia mai stato. Sono certo che ne sarai capace. Rendimi fiero.-

Non potevo sopportare oltre quella vista. Bloccato in un limbo, senza la possibilità di salvarlo e nemmeno il coraggio di ucciderlo, tentennavo di fronte al mio dovere. Mai avrei potuto prevedere di essere lì in quella circostanza, a fare quello che stavo facendo. Mi sembrava pura follia.

Ma non potevo sottrarmi. Gli dovevo quella liberazione.

Attesi per un lungo attimo. Chiusi gli occhi e affondai la lama nel suo petto, dal quale esalò un sospiro roco. Nemmeno il sangue aveva più la forza di zampillare, tanto era stanco mio padre di rimanere in quel mondo.

Non mi salutò, non gridò; non fece assolutamente niente. La sua mano, appoggiata sulla mia ormai un’èra fa – così sembrava - ricadde lungo il suo fianco, morta.

Ero di nuovo solo, questa volta per davvero, e lo sarei stato per sempre. Il vuoto lasciato dalla figura di Oropher, dopo che mia madre se n’era andata ai Porti Grigi, era e sarebbe rimasto incolmabile.

Distolsi lo sguardo da quel corpo. Quel corpo che era stato mio padre, il mio mentore, il mio precettore. Quella figura che era stata tutto per me, ora non c’era più. Il suo fardello passava addosso a me.

Sulla piana ormai silenziosa e disseminata di centinaia di defunti come lui, un lampo bianco fendette l’aria e la nebbiolina che da quel momento in avanti avrebbe perennemente avvolto le future Paludi Morte.

Era la sua civetta. Svolazzando maestosa come sempre, andò ad appollaiarsi sull’elsa di una spada che infilzava a terra un nemico. Le piume attorno alle sue zampe si colorarono del rosso purpureo del sangue ancora fresco, sporcandone la bellezza.

Lei si mosse stizzita, scoccandomi un’occhiata che credo fosse di rimprovero. Io, con i pugnali in mano, ancora chiazzati della morte di mio padre, non ebbi il coraggio di sostenere i suoi occhi ambrati, sentendomi colpevole.

Aveva assistito tutta la scena e di sicuro non mi avrebbe mai perdonato.

Probabilmente, non lo avrei fatto nemmeno io.

Poi l’animale si voltò e volò via. Per sempre.

 

Ancora oggi mi chiedo se il lupo nero nel sogno di mio padre rappresentasse il Nemico Oscuro o me medesimo, come se anche io facessi parte di quel Male che ci intestardivamo ad estirpare. Forse il male è già dentro di noi: tutto sta nel decidere quanto fomentarlo, quanto imbrigliarlo, e quanto lasciarlo libero di agire per nostro conto.

Con questo male dentro di me ho trascinato gli anni chiedendomi se davvero tutto fu perduto quel giorno, o se avessi potuto cambiare le sorti del tempo di mio padre con un’oncia in più di coraggio: il coraggio di disobbedire. La prima, forse unica volta nella mia vita. Se questo avesse significato rivederlo vivo, avrei pagato qualsiasi prezzo.

Il rimorso mi mangia ancora le viscere.

Con quel peso nel cuore ero ritornato a casa, rinunciando all’assedio di Barad-dûr e al resto della battaglia, che lasciai in mano agli uomini e ai Noldor. Noi Elfi delle selve avevamo già sofferto abbastanza.

Quando mi vide, mia moglie mi corse incontro e mi abbracciò promettendomi che sarebbe stata accanto a me fino alla fine. Non ebbe bisogno di altre spiegazioni.

Ho cercato di portare alto l’onore della casata e di proteggere Boscoverde, finché l’Oscuro Male non diventò troppo soverchiante. Dopo l’assedio di Barad-dûr e la sconfitta di Mordor, gli anni si susseguirono pacifici per un po’; tuttavia, lentamente, inesorabilmente, le frange inferiori del regno si guastarono sotto l’influsso della risalita di Morgoth al potere, con la Nuova Era. Ecco che allora Boscoverde si tramutò in Bosco Atro, e io non ebbi la forza per impedirlo.

Troppo concentrato a difendere la poca gente rimasta, mi chiusi come un riccio al Nord, abbandonando quella che era l’antica capitale del Regno per scrivere una storia nuova, che fosse solo mia. Dopo Dagorlad, non riuscivo più a vedere le cose alla stessa maniera.

Sapevo che non era finita. Neanche dopo che Isildur tagliò il dito a Sauron, non mi sentii più tranquillo. Il Male non aveva smesso di tramare angherie, stava solo cercando un altro rifugio.

Ed ecco scoppiare la guerra anche ad Angmar, patria del Re Stregone, Capo dei Nazgûl e braccio destro del Signore Oscuro. Gli Alleati riarmarono le fila del vecchio esercito unito e anche io vi presi parte, atterrito dall’idea di poter essere travolto e con me la mia gente. Avevo lasciato che il Male si spargesse troppo oltre, e non potevo più reggere l’onta di non aver avuto l’ardimento di mio padre re Oropher. Volevo essere degno di lui, o degno in generale di fronte agli altri sovrani elfici, che mai si erano tirati indietro.

Così andai. Combattei e morii anch’io in quella battaglia, dove persi la mia regina. Tornai a casa solo, sorretto a malapena da due fidati luogotenenti, ferito nel corpo e nell’animo dalle grinfie di un Drago.

Fu durante la guerra in Angmar che usai per l’ultima volta i pugnali di mio padre. Avrebbero dovuto servirmi per proteggermi, ma dopo essere tornato malconcio, seppur vincitore, e senza mia moglie, ebbi l’impressione di non essere un meritevole erede di quelle lame. Averli tra le mani mi dava un dolore indescrivibile.

Così decisi che non avrei più combattuto guerre che non erano mie. Chiusi le mie armi in un armadio dove non avrei potuto vederle. Mi asserragliai nel regno, cercando di fare del mio meglio affinché nessuno straniero osasse più disturbare la quiete dei miei alberi. O forse pensando che questo era davvero la cosa migliore per tutti.

Il tempo si è trascinato sotto i ponti del mio animo, lento e inesorabile, portandosi via un pezzetto di me ad ogni onda. Incurante di questo e di tutto il resto, ho solo sperato che a tutto ci fosse una fine, per non essere costretto a guardare in faccia il mio fallimento.

Ancora oggi non so se pesa di più il sangue versato dalla parte del Bene o dalla parte del Male.
Spero che Legolas riuscirà a risolvere questo arcano.







***ANGOLO DELL'AUTORE***
E con questo luuuuuuungo capitolo riprendiamo un po' anche le fila del nostro terzo personaggio chiave, per troppo tempo lasciato da parte (perdonate!!!).
Spero vi piaccia l'interpretazione che ho dato del passato di Thranduil: ho immaginato molto, rimesso insieme i pezzi che già Tolkien aveva accennato nei vari Racconti e ne lo Hobbit, lavorato alacremente per scrivere questo capitolo! Non tutto il mistero si è ancora sciolto (sennò dov'è il divertimento?!) ma forse attraverso i suoi ricordi possiamo imparare a conoscerlo e anche un po' a capirlo. In fondo, è il padre di Legolas, e se non ci fosse stato lui, non ci sarebbe stato neanche il nostro beniamino! 
Aspetto le vostre recensioni come sempre, ciaooo

 

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Capitolo 32
*** Aragorn ***


Aragorn

 

- Ho bisogno di fare ancora una cosa prima di tornare a casa.-

Legolas era taciturno da un paio di giorni, per questo mi sorpresi molto di sentirmi interpellato dalla sua voce.

Dopo lo scontro con il Mangiaterra, avevamo ripreso il cammino verso nord-est, senza concederci neanche un minuto di riposo: avevamo goduto dell'acclamazione da parte dei nostri protetti solo il tempo necessario, prima di ripartire a piede svelto. In poco meno di due giorni avevamo messo sufficienti leghe tra noi e quei brutti ricordi, tanto che nella compagnia non se ne parlava neanche più. Solo quando finalmente avvistammo un altro accampamento Dunedàin, la consapevolezza di averla scampata per un pelo ci piombò di nuovo addosso.

Fummo accolti con ogni onore: altri uomini e altre donne si occuparono dei miei fuggiaschi, mentre io venni portato direttamente dal capitano, che mi offrì tutto il suo aiuto.

Legolas, come al solito, se n'era stato in disparte, poco interessato alle nostre faccende private; mi aveva atteso pazientemente per più di due ore, a pochi passi dalla tenda consolare, circondato da un capannello di guerrieri dubbiosi. Anche stavolta fu mio compito presentarlo e di far capire che non si trattava di una minaccia per noi. Il capitano gli strinse una mano così come si fa tra uomini.

Niente di tutto questo sembrava avere avuto un significato, per Legolas. Aveva partecipato con poco trasporto ai festeggiamenti, al banchetto, a qualsiasi cosa rappresentasse la celebrazione di una vittoria. Forse perché la sua vittoria appariva ancora lontana, se non addirittura irrealizzabile.

Eppure non si era arreso.

Il suo era un tono basso e vibrante, risoluto. Il tono di chi ha già deciso.

Lo guardai eloquentemente. Ormai credevo di sapere come leggere tra le sue righe. In quei mesi insieme l’avevo osservato molto; avevo imparato a conoscere ogni suo sguardo, ogni suo adombro.

- Devo vedere il campo di Fornost. Devo vedere dove mio padre ha combattuto e dove mia madre ha perso la vita per noi.- mi spiegò.

Ecco che cosa covava sotto la cenere. Era solo a un passo dalla verità, che non aveva mai smesso di ricercare con tutte le sue forze. Non avrebbe di certo potuto abbandonare ora.

- Posso accompagnarti, se lo desideri.- gli proposi spontaneamente.

Mi sentivo vicino a quell’elfo, perché anche io avevo perso un genitore di cui non ricordavo praticamente nulla. Io avevo avuto una madre e Legolas un padre su cui contare, ma il vuoto di quella presenza assente era sempre gravosa, anche dopo anni. Condividere quel dolore, anche se non mi apparteneva, era quasi come dividere a metà anche il mio. Con la differenza che io avevo avuto la possibilità di andare a visitare le tombe dei miei cari e ne avevo tratto conforto. Legolas non avrebbe mai avuto quel privilegio, ma qualsiasi cosa gli potesse recare sollievo era per me motivo in più per appoggiarlo.

- Perchè mai dovresti?- mi chiese - E’ una cosa che devo fare da solo.-

Mi si strinse il cuore. Niente mi avrebbe reso più felice che essere al suo fianco in un momento del genere, ma ero pronto a rimettermi alla sua volontà, nel caso avesse insistito sulla sua linea.

- Nessuna creatura di questa terra dovrebbe essere lasciata sola contro i suoi demoni.- dissi.

Ci guardammo per un lungo istante, che tutto lasciava intendere.

- Apprezzo il tuo supporto - mi tranquillizzò Legolas - e apprezzo la tua compagnia. Non nego che non mi dispiacerebbe se venissi con me. Ma il tuo destino è verso sud.-

Immaginavo che mi avrebbe rimbrottato. 

- Quella battaglia può aspettare un paio di giorni. Tu no.- replicai.

Legolas mi scoccò un'occhiata esterrefatta e riconoscente. Non riusciva ad esprimere a parole quanto provava, ma ai miei occhi non ce n'era bisogno.

Aveva capito che tenevo veramente a lui, e questo era ciò che realmente contava.

- So quanto è importante avere qualcuno che ti stia vicino in questi momenti. Siamo abbastanza vicini a Fornost, conosco la via e le sue insidie. Possiamo andare e tornare in pochi giorni. Ti aiuterò io.- ricaricai, più deciso.

Legolas mi sorrise:

- Avrei dovuto prevederlo, data la tua evidente caparbietà.-

Sorrisi anch’io:

- Adesso, però, riposiamoci. La nostra vittoria ha da essere festeggiata a dovere – gli passai un boccale di birra – e anche la nostra amicizia.-

Legolas osservò per un attimo il liquido ambrato che oscillava nella sua coppa. Sembrava un po' confuso, come se non avesse idea di quel che avrebbe dovuto fare. Capii che non aveva avuto molto tempo per festeggiare nella vita: per questo non vi era abituato. Non ancora.

Feci tintinnare il suo boccale contro il mio. Lo stridio sicuramente disturbò il suo delicato udito, ma si sforzò di non darlo a vedere. Ricambiò con solerzia al mio gesto, alzando il bicchiere in mio onore.

Quel gesto sancì per sempre il nostro sincero sodalizio.

 

Partimmo con i primi albori del giorno, appena fu possibile vedere un po’ più lontano del proprio naso. Ne avevamo avuto abbastanza dei pericoli di Angmar – speravamo almeno di poter iniziare la nostra ricerca da avvantaggiati.

Legolas non aveva dormito bene, quella notte. Leggevo chiaramente la stanchezza sul suo viso ma non volli chiedergli perché, né distrarlo dai suoi intenti. Ero certo che non stava più nella pelle al pensiero di poter mettere una pietra sopra al suo passato e ricominciare da zero. Rispettavo questo suo speciale rito di passaggio e non volevo ritardarlo ulteriormente.

Non feci domande, non mi cimentai in conversazioni oziose. Era ansioso di andare, quindi mi misi in spalla la bisaccia che avevo preparato e a testa bassa, come un mulo, decisi che quello sarebbe stato un giorno da ricordare.








***NDA***
Ciaooo a tutti! Ecco un breve capitoletto prima di Pasqua! Conclusa la battaglia, si passa subito a un'altra avventura per i nostri eroi, senza un attimo di riposo: Legolas ha fretta! Che cosa succederà? Quali pericoli troveranno lungo la strada?
Sbizzarritevi! Aspetto le vostre recensioni :) a presto!

 

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Capitolo 33
*** Legolas ***


Legolas

 

La rocca di Fornost si stagliava davanti a noi come un gigante silenzioso e potente, come un faro nella nebbia invernale. La scrutavo con un misto di trepidazione e riverenza, conscio che il momento tanto agognato era sempre più vicino, il mio ritorno al passato sempre più realistico.

Una parte di me ancora si stupiva di come avessi fatto a ricongiungermi con il mio obiettivo, dopo mille peripezie; l’altra, invece, allo spuntare del sole, premeva per spingermi in quella direzione e alimentava la mia sete.

A volte esortavo Aragorn a camminare più veloce, come se mancassero poche braccia all’arrivo, invece dovevamo coprire ancora diverse leghe. Credo che il mio amico avesse intuito perfettamente il mio stato d’animo tempestoso e mi assecondava come meglio poteva, anche se lo obbligavo a marciare per ore e ignoravo i suoi consigli sulla migliore strada da seguire.

Non volevo perdere di vista Fornost neanche per un attimo, come se la mia vita fosse appesa al filo del suo mito. Man mano che la vedevo avvicinarsi, mi illudevo di vincerla. Ne ero ossessionato, ormai.

Viaggiavamo anche di notte, benchè non fosse per nulla facile: colpa del buio pesto e dei sentieri quanto mai accidentati. Aragorn, già provato dai recenti avvenimenti e privo di una motivazione forte come la mia, faticava a starmi appresso. Mi trovavo costretto a rispettare la sua umanità, così come lui si trovava costretto ad accontentare la mia inesauribile fonte di energia, a costo di bruciarsi i piedi.

Lui meglio di me vedeva il potere malvagio di quei luoghi prendere il sopravvento sulla mia persona e cercava di arginarlo, ma l'impresa risultava titanica per le sue magre forze.

Una sera, mentre eravamo accampati, mi venne vicino mentre io osservavo Fornost ancora una volta e cercavo di carpirne i segreti, indovinando nuove scanalature in quelle pietre, nuove voci in quel coro muto.

Quando versavo in quelle condizioni, mi dimenticavo del mondo intorno – era come se non vi appartenessi più.

- Che cosa ricordi di più di tua madre? Qualsiasi segno potrebbe tornarci utile...- domandò Aragorn, per distrarmi.
Quasi sobbalzai.

Non ci avevo mai pensato realmente. Solo ora che mi veniva richiesto, la mia mente si metteva in moto, ambiva a una risposta andata perduta.

Inspirai a fondo, mentre mi sforzavo di richiamare alla mente le poche immagini che conservavo di lei:

- Soprattutto, ricordo l’odore. Era pungente come quello di un’orchidea selvatica; a volte appena percettibile e inafferrabile come quello di un ruscello che zampilla tra le rocce.- dissi dopo un po’.

Non avevo altro. Solo quella brezza di pensiero che mi passava tra i capelli e sui lineamenti che tutti dicevano recare la sua impronta.

Aragorn aggrottò le sopracciglia, spaesato:

- Che cosa ricordi di più del periodo insieme a lei?- continuò.

Anche stavolta, non risposi subito. Ci pensai bene. I ricordi erano sfocati, a volte instabili, a volte ingannevoli. Ma un particolare era sempre presente, come un filo d’oro nella trama di un orlo:

- La felicità.- risposi.

Aragorn sorrise:

- E’ una cosa stupenda.- commentò.

Io abbassai lo sguardo fino a terra. Faticai non poco a trattenere le lacrime.

Il mio amico tentò di consolarmi appoggiandomi una mano fraterna sulla spalla:

- Credo sia l’unica cosa per cui valga la pena ricordare. E vivere.-

Non ribattei. La mia attenzione era di nuovo puntata su Fornost, l’origine di tutte le mie sciagure. Non avrei fatto un solo passo indietro. Neanche per idea. Neanche in virtù di un assennato presagio che mi diceva che sarebbe stato meglio chiudere in quel momento con ciò che era stato, e custodire le cose belle, le quali erano più che sufficienti.

Ma io ero testardo, e Aragorn lo sapeva.

Mi lasciò stare. Si accucciò sotto al nostro improvvisato rifugio, al riparo dalla neve, e si addormentò.

 

Non riuscivo ad assopirmi. Il mio riposo era più un dormiveglia sconnesso, così come quando ero stato in preda alla febbre e al veleno degli orchi: un fatto che ormai sembrava lontano secoli. Riemergevo a più riprese da dentro quell’oscurità, affondando gli occhi chiusi e i pensieri aperti su un paesaggio morto, che molto assomigliava a quello che stavamo attraversando. Avvertivo il mio cuore accelerare i battiti, i muscoli tendersi, come se dovessi rispondere a un pericolo imminente.

Aragorn mi aveva costretto a una pausa perché mi vedeva terribilmente stanco, ma di quella forzatura non riuscivo a rallegrarmi, anzi. Sembrava che la mia mente e il mio corpo non potessero godere del dolce abbandonarsi delle membra, poichè percorsi dagli incubi.

Anche nel mio sogno stavo attraversando un acquitrino, come quello presso il quale ci eravamo fermati a recuperare le energie. Camminavo a tentoni nel buio che non arretrava mai, al contrario, sembrava sempre più opprimente man mano che mi avvicinavo a Fornost. Nel sogno non c’era Aragorn accanto a me, ma non ero per niente preoccupato della sua assenza.

Forse nel mio viaggio onirico avevo proseguito la marcia da solo. Tuttavia, mi sentivo accompagnato da una presenza, che però non riuscivo a intercettare: la sentivo nelle ossa. Mi voltavo di scatto ogni volta che mi pareva di sentirla abbastanza vicino, ma dall’oscurità non arrivavano sorprese, benchè io non avessi paura di guardare.

Poi, d’un tratto, riuscivo a distinguerla. Un leggero tremolio, un barlume appena accennato e una figura di materializzava davanti a me: lunghi capelli diafani, bordati da un elmo e, poco sotto, le spalle di un’armatura. Aveva un viso sottile, ma il copricapo calato sui suoi occhi non mi permetteva di definire altri dettagli: poteva essere un uomo o una donna, non avrei saputo dirlo.

Volevo provare a parlargli. Tentavo di raggiungerlo, ma quello mi sfuggiva sempre più in là, come attirandomi in una precisa direzione. La cosa destava in me non pochi sospetti, forse anche qualche timore, ma non potevo smettere di inseguirlo e così cercavo di stargli dietro.
Si intrufolava nei meandri della mia mente e mi faceva sbandare, come mi capitava nel sogno, nel quale riecheggiava l’ombra di quella pallida figura e la sua voce esile, che pronunciava parole per me incomprensibili. Era lontana come uno squittio di animale dei boschi, penetrante come il livore che quel volto irradiava, ogni volta che rallentavo.

Cadevo infine nell’erba, tradito da una radice. Quando sollevavo la testa, la figura era sparita, non mi aspettava più.

Venivo preso dalla disperazione e la cercavo nel buio, chiamandola per un nome sconosciuto. Ma non riuscivo più ad alzarmi.

Mi giravo e la radice era lì, avviluppata alla mia caviglia; per quanto la strattonassi, era inutile. Ero suo prigioniero e non c’era verso di tagliarla, reciderla, strapparla.

Forse cominciavo a gridare, ma non si udiva alcun suono. Raspavo nella terra e scivolavo, mi dimenavo per terra, come se più radici mi tenessero, mentre la nebbia si chiudeva su di me.

Poi mi voltavo e di fronte a me c’era un teschio nudo che emergeva dal nulla, con la mascella fracassata e le ossa del cranio non del tutto integre. Io muovevo la testa e anche lui contemporaneamente si muoveva, imitandomi in ogni piccolo gesto.

Capivo allora che quel teschio potevo essere io.

Svegliandomi di soprassalto forse avevo urlato, non lo so, mi sembrava di essere senza fiato. Balzai a sedere come colpito da una frusta. Il gelo della notte mi addentava le gote ormai scarne, ammutolite.

Aragorn non era accanto a me, o almeno, io non ero in grado di scorgerlo.

Mi alzai e mi accorsi che mi tremavano ancora le caviglie, tanto il mantello di quell’incubo mi si era attorcigliato addosso. Mi passai le mani sul viso e cercai il famigliare mormorio del fiume accanto al quale avevamo passato la nostra intera giornata, risalendolo fin quasi alla sorgente.

Lo trovai dopo pochi passi, illuminato debolmente da uno spicchio di luna. L’acqua correva veloce e gelida, come tutto in quella stagione.

Mi accovacciai e affondai le mani in quella linfa ghiacciata. Mi buttai un po’ di frescura sulla faccia. Ebbi la sensazione di venire finalmente salvato dalla bruma, un po’ per forza, un po’ per coscienza. Attraverso le dita fredde avvertivo la brezza della notte ancora alta, il rumore dell’acqua che scorreva, la tranquillità e la solitudine di quei luoghi deserti.

Credetti di sentirmi meglio. Probabilmente era stato solo un brutto sogno.

Quando però abbassai le mani, lasciando di nuovo liberi i miei occhi, il mondo circostante mi suggerì che non tutto era come sembrava.

Davanti a me, sull’altra sponda del fiume, intravidi un bagliore. Dapprima pensai che potesse trattarsi di Aragorn, munito di qualche piccola torcia. Eravamo le uniche forme di vita senziente per migliaia di leghe e in teoria avremmo dovuto essere soli, a parte qualche bestiaccia.

La debole luce si fece sempre più intensa e in un attimo acquisì una forma sinistra. Sotto al mio sguardo attonito, si materializzò la magra figura del fantasma del mio sogno: lo riconobbi dall’elmo, la lucente armatura, i capelli lunghi che scappavano fuori sciolti sulle spalle. Una veste bianca che si rifletteva su un manto di leggera neve appena caduta. Un volto scuro, irriconoscibile sotto il copricapo.

Eppure qualcosa si muoveva in quel buio, come riflessi di occhi che saettavano, in netto contrasto con l'immobilità della creatura inginocchiata sulla riva.

Rimasi pietrificato di fronte a quell’apparizione, senza poter fare nulla. Ero inchiodato a terra.

Lo spettro non dava cenno di volersi muovere. Mi sforzai di inanellare le idee in maniera quanto più possibile razionale, per non perdere la testa. Ripensai a tutto quello che mi aveva raccontato Aragorn circa le consuetudini di quei luoghi e decisi che fosse il caso di andarsene senza disturbare, prima di avere la spiacevole sicurezza che quell'essere non fosse solo frutto della mia immaginazione.

Mi costrinsi a distogliere lo sguardo, ad ignorare l'inatteso ospite quel tanto che bastava per non farlo sentire provocato. Abbassai gli occhi, incontrando lo scorrere incessante del fiume.

Quando misi a fuoco il mio riflesso, però, i nervi non ressero. Scattai all'indietro, di nuovo con il fiato corto, capitolando in maniera veramente poco dignitosa.

Nell’acqua rischiarata dalla luna, al posto dell’immagine confusa del mio volto, vi era disegnato il volto dello spettro, con tutti i suoi macabri lineamenti e in particolare quel lampo al posto degli occhi.

Non era tutto. Nel disperato tentativo di sfuggirgli, avevo affondato le mani nel fango: le vidi nere nella notte, viscide e bagnate. Lì dove prima ricadeva la fioca luce degli astri, ora vedevo solo macchie scure e sentivo come un odore metallico, un odore inconfondibile per chiunque calcasse i campi di battaglia.

Una profonda certezza, inquietante.

Sulle mie dita scorreva il sangue dei morti.

Indietreggiai scompostamente, lottando contro l’incredibile voglia di dare le spalle e scappare. Ma sarebbe stato pericoloso? Non potevo saperlo. Forse avevo varcato la soglia di un invisibile confine; senza rendermene conto potevo aver recato offesa a qualcuno o a qualcosa, e non c’era possibilità di rimediare.

Lo spettro era ancora al di là della sponda e pareva fissarmi: niente più di questo. Ma la mia paura era annidata ovunque, tra i fili d’erba, nell’ululato del vento: faticavo a tenerla a bada. Continuai a indietreggiare, senza staccare gli occhi dal nemico. Una mano era intanto corsa all'arco, come se potesse servire…

Improvvisamente mi scontrai con un corpo. Un corpo vero, vivo, caldo. Con la mano libera lo afferrai come se fosse la mia unica àncora di salvezza:

- Aragorn!- sospirai di sollievo, mentre davo un’occhiata oltre le mie spalle.

- Che succede?- chiese l’uomo, mettendosi immediatamente all’erta.

Deglutii:

- C’è uno spettro.-

Feci per indicare il punto in cui l’aveva visto accucciato, ma mi accorsi ben presto che quel punto era vuoto. Non c’era più traccia di lui, né della sua flebile luce.

Sgranai gli occhi e i sensi. Non avvertivo più la strana sensazione che mi aveva affiancato fino a un momento prima, quel fastidioso affanno che non mi aveva lasciato scampo. Nessun bagliore cereo nell’oscurità.
Mi pareva di diventare matto.

- C’era uno spettro.- insistetti.

Aragorn non stentava a darmi credito, ma precisò:

- Ti credo. Era solo?-

Fui sorpreso da quella domanda:

- Non ti stupisce.- affermai.

- Hai idea di quanti sono morti qui, dopo che arrivò lo Stregone Nero? Migliaia. Gente di ogni razza, che non ha mai incontrato pace. Ciò che veramente mi stupisce è che quello spettro non sia accompagnato.-

Inspirai, per niente tranquillizzato:

- Che cosa possiamo fare?-

- Nulla. Solo, non disturbarli eccessivamente. Sono gli spiriti di chi ha qualche conto in sospeso con questa terra, oppure degli insepolti. Non ci faranno del male. Non devi temere.-

- La so, la Storia.- ribattei – Chi non arriva alle Aule di Mandos resta a vagare sulla Terra nei secoli dei secoli. Pensavo fosse solo una leggenda.-

- Ci sono luoghi dove la realtà supera la leggenda: Fornost è uno di questi.-

Aveva ragione.

Annuii distrattamente, costringendomi alla calma. Non aveva senso lasciarsi travolgere dall’angoscia: avevo bisogno di tutto il mio coraggio e della mia presenza di spirito per uscire indenne da quella trappola per vivi.

Nel cupo silenzio, cominciai a udire dei lamenti. Erano talmente acuti ed esacerbati da non poter lasciare indifferente nemmeno una pietra. Più li ascoltavo, più quelli aumentavano di intensità e si animavano in un coro a più voci, ma senza trasmettere alcuna gioia.

Rabbrividii nonostante tutti i miei buoni propositi.

- Li senti anche tu?-

Aragorn si concentrò, ma capii che non riusciva proprio a percepirli. Forse era uno spettacolo riservato a me e al mio udito sopraffino; forse erano soltanto nella mia testa e quindi solo io potevo captarli, come se quelle creature avessero deciso di parlare esclusivamente con me.

Mi mossi cercando di discernere le mille voci, ma era una tale confusione che rischiavo di perdermi in quel tormento.

Aragorn si accorse di quel che provavo. Subito mi pose le mani sulle spalle e mi scosse con una certa decisione:

- Devi restare con me, Legolas!- parlò forte al mio orecchio, tentando di sovrastare quel mormorio – Non lasciarti andare!-

La sua voce mi riscosse e mi fece tornare. Strabuzzai gli occhi, anche se non potevo chiudere le orecchie. Mi presi la testa tra le mani, avvertendo un dolore indescrivibile, dentro, che pareva dilaniarmi:

- Potrebbe esserci anche mia madre, fra di loro.- ammisi – Cosa non darei per poter rivedere il suo viso! Non lo ricordo...-

Aragorn si aggrappò stretto a me, trasferendomi un po’ del suo calore. A contatto con il suo corpo, mi sentii legato a doppio filo con il mondo: e fu un bene. In quel vorticare infinito di voci non avrei saputo come orientarmi.

Urlavano forte, sempre più forte. Mi sembrava di impazzire. Provavo quello che loro dovevano aver provato morendo, senza potersene lamentare, senza poter fare qualcosa per evitarlo. La sofferenza era la stessa, ero un catalizzatore per le loro anime dannate e perdute, l'unico, forse, che potesse dar loro adito.

Mi concentrai solo sul mio respiro e mi costrinsi a credere che tutto sarebbe finito presto.

In effetti, non durò molto. Il baccano dapprima scemò e poi svanì, come era nello stile dei fantasmi del passato.

Rialzai la testa, stralunato in quell’improbabile silenzio. Per Aragorn non era cambiato nulla, almeno a giudicare da come mi guardò interrogativamente:

- Stai bene?- si informò.

Mi sciolsi dal suo abbraccio e mossi qualche passo incerto sull’erba, inghiottendo profondi respiri. Cercavo di raccogliere i dettagli di ciò che avevo appena vissuto, scandagliando i ricordi ancora freschi, sperando in un segno.

Aragorn comprese all’istante:

- Hai sentito tua madre?-

Stentai a rispondere. La verità era che non avevo la più pallida idea di che cosa mi fosse successo. Se anche vi fosse stato un indizio, non ero certo di essere in grado di coglierlo, e questo mi faceva bruciare di rabbia come non mai.

- Non ricordo bene che suono avesse la voce di mia madre, così come non ricordo bene le sue fattezze.- sussurrai mestamente.

Aragorn rimase interdetto:

- Allora come potrai riconoscerla?- riprese.

Chiusi gli occhi per un momento, immaginandomi una scena felice in cui potessi presto gettarmi sul suo grembo. Ma mi resi conto che il mio pensiero era fin troppo ottimista.

Non tutto dipendeva dalla mia volontà, purtroppo.

- Ho fiducia che lei riconoscerà me.- sospirai.










***N.d.A.***
Eccomiii con un nuovo capitolo! La nuova avventura dei nostri eroi non comincia nel migliore dei modi, anzi: il cammino è disseminato di insidie. Quanta fatica per arrivare a scoprire un briciolo di verità! Legolas non intende darsi per vinto, e neanche Aragorn. La domanda è: gradino dopo gradino riusciranno a salire tutta la scala?! In cima potrebbe non esserci il premio che sperano...
Commentate pure! Mi piace sempre leggere quello che ne pensate!
Alla prossima :)

 

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Capitolo 34
*** Aragorn ***


Aragorn

 

Camminammo per altri due giorni, instancabilmente. Eravamo ormai giunti quasi ai piedi della roccaforte di Fornost, che ci osservava dalla cima di una falesia, sempre più fosca e sinistra di quanto non lo fosse mai stata.

C’era un silenzio soprannaturale, tutt’attorno, interrotto solamente dal passaggio saltuario di qualche stormo di corvi. Il loro gracchiare mi coglieva ogni volta di sorpresa, come se non mi aspettassi di trovarli lì; in effetti, data l’evidente mancanza di cibo in quell’inverno, dovevano avere un altro motivo, altrettanto valido, per indugiare su quella piana. Non sapere quale fosse e se avesse a che fare con noi, mi riempiva di malanimo.

Legolas non sembrava accorgersene. Scandagliava i dintorni con la precisione di uno specchio riflesso. Non c’era nebbia che potesse tenergli testa, né affaticamento.

Io facevo la mia parte. Cercavo delle tracce, degli indizi, per terra, dove lui non guardava. Un paio d’occhi in più potevano giusto servire, ma non riuscivo a trovare niente. Forse la nostra era una ricerca vana; solo che ormai ci eravamo incaponiti e nemmeno un branco di buoi avrebbe potuto smuoverci da lì.

Anche io mi sentivo parte di un tutto, come se tra gli steli ingrigiti dalla stagione e i rovi anneriti avessi potuto raccattare un pezzo di me. Seguivo le orme di Legolas cercando invano le mie, quelle che avevo lasciato molto tempo fa. Quelle di un ragazzo al quale era stato promesso un grande futuro in cambio della sua totale devozione ad esso. Quelle di un'anima spaventata che a lungo aveva vagato rinnegando il suo vero nome. Quelle che infine mi avevano ricondotto verso la luce della conoscenza.

Mi piaceva l'idea di ricalpestare la Storia, per comprendere appieno il mio compito. Ma per il momento non vedevo altro che un labirinto senza via d'uscita.

Dovevo solo avere pazienza, ecco tutto.

Poi, un giorno, accadde qualcosa.

Vidi Legolas che si bloccava improvvisamente, fissando un punto preciso del paesaggio. Guardai anch’io in quella direzione, ma l’oggetto della sua attenzione si trovava più lontano di dove potessi vedere:

- Laggiù.- indicò con sicurezza.

Passammo le successive due ore diretti su quel punto, allontanandoci momentaneamente da Fornost e dalla sua ombra. Avere quella città fantasma dietro le spalle non era meno terribile che averla davanti agli occhi. Ogni tanto mi voltavo indietro a controllare che nessuno ci inseguisse: non volevo trovarmi di balia di qualche altra creatura fetida e non essere preparato.

Non successe nulla. I miei piedi ormai andavano in fumo quando finalmente giungemmo dove Legolas voleva arrivare:

- Guarda.- mi richiamò.

Guardai.

Davanti a noi si apriva un cerchio di terra brulla, senza più erba né pozzanghere, né neve. Come un piccolo deserto in mezzo alla natura, pareva recare l’impronta di tempi andati e mai più ricresciuti.

Lo strano pianoro era sovrastato da una modesta collinetta, anch’essa brulla, in cima alla quale svettava un curioso monumento: era stato quello ad attirare la vista di Legolas.

Prima ancora che potessi mettere a fuoco, il mio amico era già avanzato su per la collina. Subito sfoderai i coltelli da lancio: quel luogo era fin troppo esposto per i miei gusti, e i nemici avrebbero potuto avvistarci da ogni dove. Non capivo come l’elfo avesse potuto lasciare da parte ogni prudenza per correre fino alla cima. Ora toccava a me proteggergli le spalle.

Gli feci un fischio, ma lui nemmeno si voltò. Era ormai giunto dove voleva.

L'effigie era alta quasi quanto lui, e assolutamente ben piantata. L'elfo allungò una mano per toccarla; tuttavia, come la sfiorò, una specie di scossa fece tremare il suo corpo, così come anche il mio.

- Che cos’è?- gli gridai preoccupato, ma Legolas non rispose. Ci girava attorno, osservando, incerto sul da farsi.

Decisi di lasciar perdere la guardia e mi avviai anch’io su per la collina, appiattendomi lungo il pendio. Arrivai in fretta, sicuro di voler togliermi quanto prima quella pietruzza dallo stivale.

Non toglievo gli occhi di dosso a Legolas, che pareva quasi stregato dalla situazione, tanto da aver persino dimenticato di stare all’erta.

Quando gli fui davanti, mi resi conto di che cosa ci fosse di così profondamente disturbante.

La forma era composta da una serie di spade legate insieme, sormontata da un’asse in ferro: su di essa, vi erano iscritte delle rune elfiche ormai rese quasi illeggibili dal tempo e dalla pioggia. Mi avvicinai di più, stringendo gli occhi per cercare di distinguere le lettere, ma era impossibile. Troppa l’incuria da parte delle nubi e dei venti, forse troppo stanche le mie pupille mortali.

Legolas se ne stava ritto di fronte a me, al di là del mazzo di spade arrugginite, con lo sguardo come perso nel vuoto. Ma non lo era affatto, solo lo era ad occhi inesperti. I suoi pensieri si concentravano tutti su un unico riferimento, a me invisibile. Dovetti fare il giro e far combaciare le nostre spalle, per rendermi conto.

Sul retro della spranga di ferro, un simbolo era stato inciso, marchiato a fuoco nel metallo: si stagliava nitido contro il sole che adesso accorreva per illuminarci il cammino a cui non eravamo più interessati.

In quel sigillo riconobbi l’antico stemma di Boscoverde il Grande, così come l’avevo studiato sui libri.

Capii allora che era probabilmente ci trovavamo di fronte alla tomba della Guardia Elfica di re Thranduil.

La portata di quella tragedia mi investì con tutta la sua forza. Non osai pensare a cosa potesse scatenare nella mente del mio amico.

Lì giaceva la parte migliore della sua razza, esseri nobili che avevano dato la vita per il loro Re e per il loro mondo. Avevano rappresentato il misero prezzo che le Armate Unite avevano pagato per distruggere la roccaforte di Fornost e sbaragliare le schiere del re Stregone. La battaglia di Angmar non era ricordata per la sua particolare atrocità, difatti – ma ora sembrava inammissibile anche solo pensarlo, di fronte a quel tumulo. Lì erano stati versati anime e sangue per il Bene supremo, per il bene comune. Pareva assurdo eliminare il tutto in una riga di Storia.

Lo sguardo di Legolas si alzò lentamente verso la vecchia capitale del Male. Vagabondò per un po’ fra le sue guglie e i suoi antichi bastioni, ritornò sui campi, mentre un vento freddo si intrufolava sotto i nostri vestiti e ci scompigliava appena i capelli. Poi tornò alle spade raccolte, senza che fosse stata versata una sola parola.

Non ce n’era bisogno.

Notai che l'elfo aveva gli occhi lucidi, come se avesse riconosciuto in quelle poche braccia di ferro una parte inedita di se stesso.

Io mi inginocchiai a terra e cominciai a pregare.

 

Erano giorni che ci giravamo attorno senza trovare nulla.

Dopo quell'intenso ricordo ai caduti in guerra, non era apparso alcun altro indizio che potesse ricondurci alla madre di Legolas. Non potevo certo dire di essere ferrato sull'argomento, ma mi fidavo delle mie sensazioni, e le mie sensazioni mi dicevano che non c’era più niente che potessimo recuperare.

Legolas si sentiva in gabbia. Erano due notti che non dormiva: sondava i dintorni con la tenacia di un segugio da caccia, in cerca del benchè minimo dettaglio, un tassello fuori posto, un frammento di passato dimenticato lì da una memoria inesperta.

Mi rincresceva vederlo in quello stato. Le ore insonni avevano segnato il suo viso di nuova stanchezza, nonché di assoluta delusione. Non individuava il bandolo della matassa e se ne dava la colpa, come forse accadeva da troppi anni.

Si era chiuso in un mutismo ostile. Non c’era verso di calmarlo; eppure ero sicuro che si sarebbe calmato da sé, prima o poi. Io sarei stato pronto a sorreggerlo, quando e se avesse ceduto per l'estenuazione accumulata. Dovevo essere lì e basta, come avevo giustamente previsto, da leale amico quale mi consideravo.

Aspettavo con pazienza il momento in cui sarebbe crollato. Sentivo che era prossimo. La sua stella ci aveva condotto quanto mai vicino alla verità, ma non bastava. Il mistero non era ancora stato districato e lui non retrocedeva di un passo.

Nonostante continuassi ad accompagnarlo, avevo cominciato a farmi delle domande e ad avere paura delle risposte. Sapevo che non c’era fine al peggio, ma dopo tutta quella fatica, il cuore di Legolas avrebbe retto a un nuovo scempio?

A dire il vero, non ero nemmeno convinto che ci sarei riuscito io stesso.

E se non avessimo trovato assolutamente nulla? In tal caso, la disillusione sarebbe stata ancora più cocente.

Il medesimo giorno ci eravamo incamminati verso le mura di Fornost, arrivando alla base della falesia dopo appena un tramonto e quasi tutta una notte di cammino. Avevamo riposato appena, chi per colpa di troppi pensieri e chi per fare la guardia, dandoci un solo cambio.

Ora che eravamo lì, dopo un rapido giro di ricognizione avevo il dubbio che non ci fosse ulteriore accesso alla bastia.

Cercammo nei dintorni uno straccio di passaggio, uno scavo qualunque, infine i resti di quello che avrebbe potuto essere un punto di ingresso: non c’era niente. Ci dividemmo per un po’, ma nessuno dei due trovò una via. Legolas mi comunicò che era sua intenzione provare a spiccare un balzo e arrampicarsi fino in cima. Lo dissuasi: si sarebbe trasformato in un facile bersaglio per ogni razza di avvoltoi e dabbasso sarebbe stato difficile per me coprirgli le spalle.

Inoltre, anche se c’era silenzio, non sapevamo se al di là dei muri troneggiasse qualche guardiano – un enorme Drago, una schiera di orchi e troll, chi avrebbe potuto dirlo. A noi di certo non conveniva attirare troppo l’attenzione.

Legolas sbuffò, un po’ abbattuto.

Avrei voluto accontentarlo, ma davvero, l’ambiente era troppo scoperto. Quasi mi stupivo dell’ingenuità dell’elfo, che aveva evidentemente abbandonato ogni cautela in nome di un bisogno più grande. Dovevo almeno tentare di arginare quella pericolosa deriva.

Più tardi, durante una delle mie perlustrazioni, notai uno stretto angolo a ridosso di due vecchi muri diroccati. Pensai che da lì avremmo potuto risalire la cresta, essendo un po’ più riparati da occhi indiscreti. Ma un’altra cosa mi colpì maggiormente.

Uno strano sfavillio scaturiva da quel cantuccio, il quale avrebbe dovuto essere inglobato dalle tenebre. Invece, brillava di una debole luce.

Ad un’occhiata più precisa, nella penombra riconobbi la delicata sagoma di una fila di orchidee selvatiche, bianche come la folgore. Come mi portai vicino, percepii anche il loro pungente profumo e mi meravigliai di come non ce ne fossimo accorti prima, battendo la zona palmo a palmo.

Senza che avessi potuto avvertirlo, Legolas era già comparso alle mie spalle e si era diretto lì a grandi falcate, senza proferir parola, e ora osservava quei fiori cercando nelle vicinanze qualcosa che potesse ricondurre a sua madre.

Avevamo avuto lo stesso pensiero: quell’odore e quelle forme erano le uniche cose nel raggio di cento miglia che potevano assomigliarle.

Non so se si aspettasse davvero di scovare qualcosa che ci desse assoluta certezza che lei fosse ancora viva. Io avevo i miei timori ma mi tenni in disparte, senza imporre la mia presenza. Faceva male vedere Legolas divorato dalla bramosia mentre scavava un po’ qui e un po’ là, a mani nude, mentre ripassava le pietre con gli occhi, mentre interrogava quel buio e quella debole luce e non trovava risposta. Ma era la sua battaglia, non la mia. Non mi era permesso intromettermi in quella lotta.

Poi, d’un tratto, intravvidi un debole tremolio sopra la sua testa. Sulle prime pensai a un riverbero del sole, ma mi sembrò troppo forte per essere solo un abbaglio.

Una figura magra campeggiava dietro la nuca di Legolas, quasi gli si posava addosso. Sulle prime pensai di scacciarla, temendo un intrigo malefico, ma qualcosa mi trattenne. C’era una tale leggiadria, in quella forma evanescente, che mi suggeriva fosse quanto più lontano da un nemico si potesse immaginare.

Lentamente, lasciai l'elsa della spada che avevo pensato di sguainare.

La figura parve attraversarmi con lo sguardo per un attimo, come se mi avesse sentito. Ma non era interessata a me. Subito si voltò e avvolse nelle sue braccia eteree il mio amico Legolas, che manco se ne accorse, preso com’era dalla sua affannosa ricerca.

C’era qualcosa di talmente materno, in quel casto abbraccio, che pensai di aver trovato ciò che andavamo cercando.

Sua madre, quell'anima mai dimenticata, poteva essere veramente lì, tra noi.

Non sapevo come comportarmi. Quelle braccia e quelle mani diafane non riuscivano ad afferrare l’inverosimile, il sogno tanto agognato, la possibilità di toccare un Legolas cresciuto, lì a un passo.

Se avesse avuto occhi, se avesse avuto viso, probabilmente avrei potuto distinguere una smorfia di rammarico.

Purtroppo, dopo pochi istanti scomparve.

Era stata la visione fugace di qualche minuto. Dubitai persino dei miei occhi: sembrava troppo bello per essere vero. E se fosse stata solo una mia illusione, data dalla fame e dallo sfrenato desiderio di trovare qualcosa che ci desse sollievo?

In quelle terre, sogni e incubi si mescolavano, giorno e notte non avevano più senso. Tutto era in lenta agonia, anche il proprio intelletto. Solo una cosa mi appariva sempre più chiara e netta: la sensazione che ormai non c’era più niente che potessimo fare.

Per questo decisi di tenermi tutto per me, di non dire niente a Legolas, per non turbarlo. Lui, imperterrito, continuava a guardarsi intorno, a scrutare invisibili segni tra le rocce, in mezzo ai fiori in boccio.

- Forse non è morta…- continuava a ripetersi e a ripetermi – Io sento che qui c’è qualcosa di lei...-

Sospirai. Intuivo, senza saperlo con certezza, che la sua ricerca sarebbe stata vana. Era mio preciso dovere rendergli pace, quella poca che gli sarebbe rimasta.

- Io credo lo sia, Legolas. Ma credo anche che ci sarà sempre per te.- affermai.

Lui mi guardò con occhi sgranati, come se si sorprendesse che io lo avessi pugnalato così, alle spalle. Si stupiva che non lo incoraggiassi più, che non gli fossi più accanto nella sua impresa. Ma in verità io c'ero, non l'avevo abbandonato. Non avrei mai potuto farlo. Non avrei mai potuto perdonarmelo. Dovevo solo impedirgli di farsi del male ulteriormente.

Il viso di Legolas si fece scuro: i suoi occhi scrutarono ancora una volta le aspre pareti di roccia, si posarono appena sulle orchidee e iniziarono a incupirsi.

Appoggiò una mano a quei muri nello stesso momento in cui io gliene posavo una sulla spalla.

- E’ meglio fare ritorno.- cercai di rabbonirlo, mentre a ovest cominciavano ad addensarsi nuvole cariche di pioggia. Un vento freddo spirava verso le nostre anime nude, rischiando di portarcele via.

Legolas mi lanciò un’occhiata dubbiosa. Temetti che potesse leggere i segreti della mia mente: rischiava di essere già la seconda volta nella nostra neonata amicizia. Anche stavolta, forse immaginò che ci fosse qualcosa che io sapevo e lui no, ma per fortuna lasciò perdere. Rimuginò piuttosto attentamente sulla mia proposta e per un istante ebbi persino l’impressione che non avrebbe accettato. Sotto la mia mano il suo corpo era rigido e teso, come pronto a scappare, o pronto a combattere un’altra volta. Contro le ombre, però.

Guardò di nuovo la parete di orchidee in fiore e sospirò:

- Non saprò mai chi eri.-

La tensione si allentò. Si liberò dalla mia stretta e in un attimo ripartì verso casa.









***NDA***
Ciaooo!!!!! Ve l'aspettavate?! Ahahaha i colpi di scena sono sempre stati la mia passione e spero che la piega che ha preso questa storia non vi abbia deluso perchè, come dissi sopra, io adoro i copi di scena!
Quindi...sarà veramente finita così? Oppure: quali altri retroscena si nascondono nella mia mente malata?!
Aspetto i vostri commenti grazieeeee

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Capitolo 35
*** Legolas ***


Legolas

 

La prudenza di Aragorn aveva un suo perché e io sapevo che avrei dovuto ascoltarlo prima di condannarlo. Ma ci ero andato talmente vicino, talmente vicino che davvero mi era sembrato di poterla toccare con un dito, e mi ero lasciato prendere dall’entusiasmo.

Non so quanto tempo avessi passato imbambolato davanti a quei fiori, come se ogni sfumatura argentea potesse richiamare il suo viso o il suo spirito dall’aldilà. Perchè era morta, io lo sapevo, nel mio cuore. Ma il mio cuore si rifiutava di accettarlo.

Aragorn aveva spezzato questo circolo vizioso posando la sua mano giudiziosa sulla mia spalla.

Andiamo via.

Era doloroso voltare le spalle a quella che era stata la mia speranza, la cosa che mi aveva tenuto in vita fino a lì, nei momenti di peggior panico. Era difficile dover ammettere di aver fallito, ora che più che mai mi sentivo prossimo all’obiettivo. Ma non rimaneva altro da fare. Di fronte a me c’era soltanto muta pietra.

Dovevo arrendermi all’evidenza.

Mi divincolai in maniera scostante, ma era il mio modo per dargli ragione. Aragorn lo capì fin troppo bene.

Insieme ci incamminammo verso l’ultimo bagliore del giorno che tramontava, nascondendosi tra le montagne.

Non riuscii a voltarmi. Se avessi posato ancora gli occhi su quelle rocce o su quel muro di fiori, probabilmente non avrei più avuto il coraggio di tornare; la mia anima avrebbe dimorato lì, persa tra mille crucci, e forse sarei morto di stenti, alla fine. Perché ero sicuro che non avrei trovato null'altro se non la morte per mia stessa mano.

Mi chiesi se quel giorno di tanti secoli prima, mia madre avesse formulato anche solo uno dei miei pensieri, mentre si sentiva stretta in quella morsa senza una via d’uscita. Senza futuro e senza amore, l’amore mio o di mio padre, accanto a lei. Mi chiesi se i suoi ultimi istanti di vita sarebbero stati come i miei prima di impazzire.

Non riuscii ad immaginarmela.

Desideravo con tutte le mie forze che almeno uno di quei fiori mi riconducesse a lei. Nonostante ci fossimo allontanati, il loro odore penetrante giungeva fino alle mie narici e mi impediva di dimenticare. Avevo l’impressione che da quel momento in avanti quel profumo mi sarebbe rimasto addosso come un ricordo.

Avvertivo i passi rassicuranti di Aragorn dietro i miei, a difendermi le spalle da quel dolore. Pensai a mio padre, e anche se non ne avrei mai avuto il coraggio, desiderai ardentemente di potergli parlare a cuore aperto. Di quello che era accaduto, di quello che non era accaduto, e di quello che sarebbe accaduto poi. Avrei voluto che lui fosse al mio fianco, senza corazze a proteggerci. O a dividerci.

Quando avevo posato gli occhi su quel monumento ai caduti, mi era sembrato che il mondo si schiudesse davanti a me, nella sua vera natura, per la prima volta nella mia esistenza. Nella mia mente, avevo rivisto il mio genitore piangere ai piedi di quelle spade, sporco di sangue, sporco di sconfitta, e avevo cercato di capire il suo dolore. Una barriera inesorabile lo separava in quel momento da mia madre, dalla sua gloria e dal coraggio dei suoi soldati.

Era stato solo, come forse non lo era mai stato nella sua vita.

Era solo davvero, in maniera totalmente diversa da quello che avrei potuto essere io. Avrei voluto tirare fuori quel Thranduil dalle grinfie del passato e abbracciarlo, dirgli che avevo compreso e l’avevo perdonato. Non si può sopravvivere a tutto quel dolore restandone illesi.

Ai piedi di quel monumento era nata la speranza di me, e si era perso qualcosa di lui. Quella era una cosa tra noi due.

Sovrappensiero, riposi le mani nel tascone del mantello, al caldo. Sotto le dita trovai qualcosa che non mi aspettavo.

Tastai delicatamente prima di poter capire che cosa fosse quella cosa morbida, senza stringere. Avevo paura di spezzare quell’attimo così strano.

Trassi fuori dal tascone tre piccoli gioielli profumati: davanti ai miei occhi vibravano i fiori dell’orchidea, fragili come l'aria.

Davvero non capivo come potevano essere finiti nella mia tasca. Non ricordavo di averli raccolti.

Mi fermai a guardarli, impietrito. Aragorn mi raggiunse e sbirciò da sopra la mia spalla. Avvertii la sua sorpresa, per non dire sgomento. Ci scambiammo un’occhiata che tutto diceva, ma nessuna parola. Non era necessario confrontarsi su quel dettaglio. I

Eppure, io mi sentivo tranquillo, come non mai, come se qualcuno mi avesse già suggerito la soluzione a quell’arcano. O meglio, quei fiori erano la soluzione all’arcano, anche se ancora non potevo rendermi conto di quanto.

Qualunque cosa fosse successa, mi avrebbe accompagnato per il resto della vita, come avevo sempre desiderato. Avevo qualcosa che mi sarebbe appartenuto per sempre, come i miei simili.

Rimisi i fiori in tasca e in silenzio ricominciai a camminare, seguito dal mio compagno di viaggio. Stavolta, ogni passo appariva più leggero e andava sempre meglio man mano che mi allontanavo da quei luoghi, con la mia orchidea in boccio a portata di mano.
Non sapevo quanto avrebbe potuto resistere prima di marcire; se davvero avesse significato qualcosa; in ogni caso, io la riconoscevo come una parte di mia madre, dell’unica donna che avessi mai amato veramente.

E lei sarebbe rimasta come eterna primavera nel mio cuore.

 

Dopo quell’esperienza, non posso dire che tutto tornò come prima. Una diversa consapevolezza mi investì di nuova linfa, dandomi quella forza che mi era mancata per molto tempo.

Era come se una parte di me avesse tirato un invisibile chiavistello e avesse finalmente chiuso una porta. Come se fosse stata rimessa al suo posto e non ci fosse più bisogno di interpellarla. Non importava non essere riusciti a trovare il bandolo della matassa: quella fase si era oramai conclusa, donandomi tutto ciò che poteva essere donato. Dovevo ringraziare e non chiedere di più.

Era ora di tornare a casa.

Aragorn mi vide mentre ancora una volta raccoglievo le mie cose e mi bardavo per un nuovo viaggio. Stavolta non mi chiese dove andavo, forse perchè era ovvio; così come era ovvio che il mio ruolo, nelle terre di Angmar, era finito.

La sera, durante la cena, gli annunciai che partivo verso casa mia, verso i miei alberi, da mio padre. Era la prima volta che pronunciavo il suo nome di fronte ad altre persone, un po’ come se con lui avessi fatto pace. La notte precedente lo avevo sognato, dopo tanto tempo, che mi sorrideva.

Un sorriso si accese anche sul volto di Aragorn nel sentirmelo dire:

- Ed io verrò con te.- mi promise.

Nei giorni seguenti si prodigò molto nell'organizzare il nuovo gruppo di Dunedàin. Lasciò il comando a un suo fedele, ma al contrario di quanto pensassi, non lo fece con rammarico. Anzi, anche Aragorn sembrava aver trovato la sua personale pace con il mondo, dal quale non faceva più così fatica ad accomiatarsi.

Come mi aveva anticipato, partì con me quando fu ora. Prendemmo due cavalli e ci lanciammo al galoppo nella nebbia della mattina, con il mio destriero che faceva strada.

La via pareva tranquilla e scevra di pericoli. Ripercorrere quella distanza all'indietro, verso la Terra-di-Mezzo, mi faceva uno strano effetto: era come ripercorrere all'indietro la scia del tempo, come se tutto dovesse ancora accadere. In verità, così come non è possibile ridare alla cenere le forme di ciò che è andato bruciato, ero certo che nemmeno io sarei più stato l’elfo che conoscevo e che aveva percorso quelle leghe verso l’ignoto.

Ero grato di poter andarmene. La mia vita era molto lontana da lì.

Passarono molti soli e molte lune prima di raggiungere un paesaggio a me più familiare. Avevamo proseguito verso sud, trovandoci in poco tempo nei pressi di Brea, il “crocevia delle razze”: una cittadina nota per essere patria e rifugio di molti forestieri, che lì si incontravano da tutte le contrade e bevevano birra assieme.

Non ci avvicinammo alle luci delle locande, al contrario. Ci fermammo poco distanti dalla palizzata che proteggeva l’entrata in città – la prudenza non è mai troppa –, in un luogo riparato. Né io né Aragorn avevamo voglia di dividere le nostre poche ore di riposo con un branco di sconosciuti e schiamazzi tutt’intorno. Inoltre, non avevamo denaro con noi, nessuno dei due.

Mentre eravamo accampati, intenti a ristorarci, notammo che nonostante tutte le nostre precauzioni, per la prima volta dopo molti giorni non eravamo più soli:

- Chi si rivede!- esclamò una voce – Sapevo che sareste passati di qua!-

La figura di Gandalf fece capolino da alcuni cespugli, avvicinandosi con grazia al nostro fuoco. Aragorn saltò subito in piedi per salutarlo e abbracciarlo, come era suo solito fare. Io mi alzai e gli dedicai un inchino di deferenza.

- Ho sognato della vostra venuta in queste terre...- spiegò lo stregone – Tanto valeva venire a controllare.-

Ci strizzò l’occhio.

Ovviamente, non ci dissuase. Di certo i poteri di Gandalf superavano la nostra fantasia, ma ogni volta che scrutavo lo stregone non riuscivo a liberarmi dell’idea che in verità ci fosse sempre molto di più di quanto non ci raccontasse.

- Quali nuove dalla Terra-di-Mezzo?- gli chiese Aragorn.

- Non molte, e nessuna di queste è buona.- bofonchiò lo stregone – Allietatemi la gola con la vostra acqua, e ripresa la voce vi metterò al corrente.-

Gli concedemmo un sorso. Gandalf si mise comodo, trangugiò quel poco che ci era rimasto, prima di pulirsi la bocca e tossicchiare:

- Sono pronto.-

Immaginai che fosse più interessato a parlare con Aragorn che con me; presi quindi le borracce e feci per andare in cerca di acqua fresca, lasciandoli un po' da soli.

- Resta, Legolas Verdefoglia – mi fermò lo stregone – E' bene che anche tu sia a conoscenza delle ultime notizie.-

Lasciai perdere le borracce e mi sedetti, prestando la mia attenzione. Aragorn era accanto a me.

- Non siamo ancora riusciti a trovare Gollum – brontolò Gandalf – Che sia maledetto! Ogni volta che mi concentro su di lui, le visioni sono distorte, come se ci fosse uno specchio malvagio che con il suo riverbero acceca la mia preveggenza. Arriviamo sempre troppo tardi ai suoi nascondigli e non riusciamo ad anticipare le sue mosse. Forse qualcuno lo protegge: è assolutamente necessario trovarlo prima del nemico! Aragorn, ho bisogno di te e della tua esperienza. Devi aiutarmi a cercarlo, come prima cosa. Inoltre, è imprescindibile che tu ti faccia un po' di amici in questo mondo: una volta trovato Gollum, lo affideremo alle cure di re Thranduil e tu andrai nel Mark alla corte di re Thengel sotto falso nome, per servirlo e tentare di ricucire un po' di vecchie alleanze.-

Il piano era già predisposto, senza soluzione di continuità. Sembrava pure un buon piano. Aragorn aveva un bel daffare e il tempo era tiranno: gli sarebbe servito almeno qualche annetto per portare a compimento quei propositi. Dopo quella sera, ero certo che non l’avrei rivisto a breve. Non mi restava altro che accettarlo.

Mi doleva il cuore al pensiero di doverlo lasciare andare così presto. Speravo di poter godere ancora a lungo della sua compagnia, e di mostrare a mio padre di aver portato a termine la missione. Ma tant'è, che mi sarebbe toccato rimettermi al destino.

Lo stregone parve aver decifrato perfettamente i miei pensieri:

- Non ti biasimare, Legolas Verdefoglia – mi disse – Tuo padre capirà. E ti amerà lo stesso, più di quanto tu non creda. La sorte ormai ti unisce ad Aragorn più di qualsiasi altro legame di fratellanza o di amicizia. Vai e aspettaci a Bosco Atro. Torneremo.-

Non c’era bisogno di rassicurarmi. Mi sentivo molto meno angosciato rispetto all'inizio ed ero certo che le parole di Gandalf avrebbero trovato corrispondenza nella realtà molto presto. Unica cosa, se così doveva essere, desideravo allontanarmi subito, per non dover patire quell’addio alla luce del sole. Inoltre, avevo di nuovo fretta di essere a casa, che non vedevo ormai da molto, molto tempo.

Mi alzai e senza aggiungere nulla a quel discorso mi diressi a preparare il cavallo. Aragorn comprese al volo e mi seguì, mentre Gandalf si tenne in disparte.

Il mio amico mi si strinse al fianco:

- Namarie.- mi congedò – Ci rivedremo.-

Mi voltai e lo abbracciai al colmo della gratitudine, prima che potesse indovinare l’espressione del mio viso. Senza di lui non avrei mai potuto affrontare i mille pericoli che incombevano nella mia mente e fuori. Potevamo essere i nuovi Beleg Cùthalion e Turin Turambar, di cui molto si era cantato e tramandato; magari senza la cattiva stella di Turambar, che li portò alla morte.

Fu un momento molto toccante, persino per me.

Aragorn mi disse:

- Vai pure a casa...ti raggiungo lì.-

Gli credetti.

A mio padre avrei trovato una buona scusa.





**Nda**
E' sempre più difficile trovare il tempo di aggiornare le stories! Scusatemi: questa estate ha l'aria di essere più incasinata delle altre :P
Questo capitolo segna decisamente un checkpoint, un punto dal quale non si ritorna indietro: finisce qui la prima parte della nostra storia, spero vi sia piaciuta! Ma non è finita: ancora qualcosa è rimasto da dire.
Chi ha voglia di scoprire come sarà il ritorno a casa di Legolas?? Tra poco tornerà in scena pure Thranduil, e ho in mente per voi alcuni colpi di scena!
Fatemi sapere cosa ne pensateeeee: ho bisogno del vostro supporto ora più che mai!
A presto

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Capitolo 36
*** Thranduil ***


Thranduil

 

- Mio Signore...- annunciò il paggio, e io vidi lucide lacrime che facevano capolino agli angoli di quegli occhi raggianti – Il Principe Legolas è tornato!-

Ebbi un attimo di vertigine. Avevo appena sentito dare gran fiato alle trombe di benvenuto, ma non mi sarei mai aspettato un simile ospite.

Non pensavo che potesse ancora giungere quella notizia; cominciavo a temere che non avrei rivisto Legolas, non in tempi brevi. Ormai avevo perso quasi tutte le speranze e mi crogiolavo in una lenta decadenza, che ogni giorno portava via una lama di luce al mio già scarso ottimismo.

Ma l’urgenza con cui quel servo aveva parlato, la smorfia sul suo viso, quel leggero incavarsi delle sue guance e quelle parole mi avevano riportato immediatamente alla vita. Non vedevo l’ora di riposare gli occhi su quel viso a me caro, anche se mi vergognavo a dimostrarlo.

Poco dopo, dietro di lui apparve la sagoma di mio figlio.

Scattai in piedi. L’emozione stava per sopraffarmi, come odiavo capitasse, specie in momenti così delicati. Ma non riuscivo a trattenerla.

Legolas era più magro e appariva più slanciato, nonostante la trascuratezza degli abiti. Doveva aver viaggiato e combattuto molto, come era normale che fosse. C’erano nuovi segni e ombre sul suo volto, come se fosse cresciuto tutto in una volta. Ed era solo.

Mi tremavano le gambe. Per tanto tempo avevo sognato quell’incontro: l’avevo cullato nella mia mente, nelle mie notti e nei miei giorni. Adesso che si stava realizzando mi trovavo a corto di parole, come se non vi fossi preparato. Appariva quasi un controsenso, ma sapevo in cuor mio che la realtà può superare la fantasia ben più di una volta nella vita. Niente di strano, dunque.

Mi costrinsi a muovermi verso di lui. Avevo l’impressione di barcollare a ogni passo, anche se qualcun altro avrebbe detto che avevo marciato quasi in tono minaccioso. Ogni volta che puntavo il piede per terra era come se cedesse, come il ventre morbido di una bestia che ha appena partorito.

Mi fermai solo quando fui abbastanza vicino a lui. Legolas non aveva mai abbassato lo sguardo: la sua consueta deferenza nei miei confronti era del tutto scomparsa. Non mi aveva salutato, né accennato a un inchino. Non mi era corso incontro a braccia aperte, non mi aveva lasciato via di scampo. Ora mi fissava senza dir nulla, anche se gli leggevo nel cuore un sincero sentimento di amore.

Mi sfidava apertamente, come se avesse un conto in sospeso con me che ci teneva a concludere.

Pensavo di sapere quale fosse.

Non era il momento giusto per affrontare certi discorsi. Avevo solo voglia di abbracciarlo.

- Perchè la tua veste è così tanto rattoppata?- gli chiesi, per sviare l’attenzione.

Non sfuggiva mai nulla ai miei occhi, così tersi e obiettivi. Sotto quei vestiti laceri poteva nascondersi qualche ferita, che era mio preciso dovere curare; oppure qualche privazione che era mio preciso dovere sanare.

Lo colsi di sorpresa. Legolas tentò di mascherare l’agitazione: forse non voleva perdersi in resoconti ora. Non voleva raccontare di come era stato sconfitto, di cosa aveva sofferto o di come si era rimesso in piedi dopo aver rischiato di morire. Comprensibile.

Nemmeno io, al suo posto, avrei desistito.

Insistetti. Era pur sempre mio figlio, carne della mia carne, sangue del mio sangue, e io dovevo sapere se stava bene. Se era tutto intero.

- Sto bene.- replicò – Non preoccuparti.-

Ma io possiedo la mente più acuta di una donnola in cerca di cibo:

- Lasciati controllare da un guaritore.-

- Sto bene, ho detto.-

Quella sicurezza mi lasciò senza fiato.

Lo guardai e nei suoi occhi rividi mia moglie. Sua madre. Come non l’avevo mai vista prima o non l’avevo mai voluta vedere.

Fiera ed indomita, testarda e con un’immensa voglia di essere molto più di quello che ci si aspettava da lei.

Lei era Legolas, e Legolas ora mi recava in dono parte di quell’anima che nonostante le nostre differenze avevo amato più di ogni altra cosa.

Qualcosa era accaduto, in lui; o forse fuori. Poco importava.

Forse non avrei mai saputo che cosa fosse realmente successo a mio figlio, ma l’unica cosa di cui ero certo era che fosse tornato.

Come se ogni cosa si fosse infine rimessa al suo posto.





***Nda***
Ciao! Come promesso, ecco un nuovo capitoletto: ricordate, questo è solo l'antipasto!
Finlmente rivediamo Thranduil (in tutto il suo splendore...), ma diavolo, si deve confrontare con un Legolas che non è più il figlio che conosce! Come la prenderà?
I personaggi, credetermi, crescono con me ad ogni pagina, per quelllo che a volte mi serve un po' più tempo per analizzarli e descriverli: vorrei dar loro tutto lo spazio di cui necessitano, e a volte non è facile fare delle scelte, lasciare un po' di mistero, insomma, centrifugare tutto insieme! 
Aspetto le vostre recensioni e suggerimenti, vi voglio bene!
A presto

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Capitolo 37
*** Legolas ***


Legolas

 

Casa.

Non avrei saputo quantificare il tempo che era passato: il tempo diventava un problema secondario, tra i miei boschi. Il fruscio degli alberi era sempre lo stesso, da migliaia di anni: l’avrei riconosciuto tra mille altri. Nessuna foresta suonava uguale alle mie orecchie - Bosco Atro aveva per me un senso speciale. Come se un invisibile ed ineguagliabile strumento musicale fosse stato accordato finemente al mio udito e al mio cuore e mi permettesse di non smarrirmi mai.

La reggia si parò presto davanti ai miei occhi abituati a riconoscere i segreti di quel parco. Quei rami intrecciati, quei bagliori riflessi sulle gocce di rugiada, che rimbalzavano fino alle sue porte seminascoste. Per un viandante sperduto sarebbe stato impossibile imboccare il sentiero che l’avrebbe condotto fino a lì, ma per me ogni corteccia recava un’evidente impronta che avrebbe potuto guidarmi anche ad occhi chiusi.

Quando gli scudieri mi videro arrivare, ebbero un attimo di vertigine: non potevano credere che fossi davvero io. Poi, però, esultarono. Presero le briglie del palafreno e mi aiutarono a scendere di sella, desiderosi di toccarmi, di rendersi conto che ero veramente io e che ero veramente vivo.

Mi accorsi solo allora di quanto mi fosse mancata la mia gente, quanto avessi desiderato sentire tutti quegli occhi su di me. Mi erano mancati esattamente come io ero mancato a loro: mi accoglievano come un figlio che torna dalla guerra e io li abbracciavo come una famiglia.

Si inginocchiarono con piacere al mio cospetto, rivolgendomi parole calde di bentornato, ma io li feci alzare senza perdermi in inutili convenevoli.

Poi chiesi di mio padre.

Come al solito, doveva trovarsi nella sala del trono, in meditazione. Espressi il mio desiderio di vederlo e le guardie mi accompagnarono immediatamente, scortandomi e facendo urlare le trombe di benvenuto.

Il re era già stato avvertito, prima dal suono degli strumenti e poi dal paggio messaggero. Per questo lo trovai in piedi di fronte al trono, quando entrai nella sala quieta, teatro di tanti confronti tra di noi.

Mi venne incontro squadrandomi da capo a piedi. Non riuscì nemmeno a salutarmi. Immaginavo che troppa emozione l’avrebbe sopraffatto e avrebbe fatto fuggire il suo animo nobile dietro la coltre, nel suo antro. Vi ero abituato.

Dopo un’iniziale, leggera insistenza per farmi controllare da un guaritore (non l’avevo mai visto tanto preoccupato per me in più di duemila anni), finalmente si decise a chiedermi quello che più gli stava a cuore:

- Dove sei stato?-

Anche se mi aspettavo quella domanda, al sentirgliela pronunciare ebbi un sussulto. A dire il vero, avrei voluto evitare di dirglielo, ma sapevo che mio padre lo avrebbe ugualmente scoperto. A volte sembrava mi leggesse nella mente. Era la persona con cui avevo vissuto quasi in simbiosi fino all’età adulta, che conosceva ogni mia piccola cicatrice, che mi era stata accanto in ogni momento e mi aveva allenato alla vita. Non potevo pensare che non l’avrebbe intuito, in un modo o nell’altro. E io non sono certo il tipo da nascondersi inutilmente dietro un filo d’erba.

- Sono stato dove mi hai detto tu. A nord.- risposi con circospezione, ma poi sentii forte il bisogno di rivelare anche il resto – Dove una volta sorgeva il regno di Angmar. A Fornost.-

Vidi il volto pallido di mio padre farsi ancora più cereo e atterrito:

- Cosa sei andato a fare a Fornost?- quasi mi aggredì, ma si trattenne in tempo.

Ricordi dolorosi cominciavano ad affollarsi nella sua mente: li vedevo muoversi dentro di lui. Ora era come se appartenessero anche a me.

Rimasi per un attimo in silenzio.

- Perché sei andato a Fornost?- ripetè con veemenza il re.

Trasalii.

Forse tornava ad avvertire sulla pelle le scottature, le urla, i pianti: ogni cosa. Ogni cosa come allora. Gli scoppiava dentro. Io ero solo un muto spettatore, come non avevo potuto esserlo quando più ne avrebbe avuto bisogno.

- Ho visto il tuo passato.- dissi in un soffio.

Thranduil non riusciva più a starmi a sentire. Si era voltato di schiena perché non voleva mostrarmi quanto pativa in quel momento. Ne ero certo, avrebbe voluto scappare lontano, lontano dai miei occhi, per non infangarmi con la sua debolezza. Ma non c’era nessun riparo, nessun posto dove potesse sentirsi abbastanza al sicuro e in ogni caso, non sarebbe mai stato al sicuro da se stesso.

Mio padre portò una mano alla guancia. Sentiva il morso del Male che lo attanagliava e che correva giù per lo zigomo, gli inondava la bocca e bruciava, Dio come bruciava! La cicatrice sulla guancia doveva aver preso ad ardere come il fuoco.

Soffriva!

Potevo accorgermi delle sue difficoltà anche senza comprenderle appieno. Mossi un passo per aiutarlo:

- Non ti avvicinare!- tuonò, puntandomi contro una mano esile – Sto bene!-

Mentiva. Lo sapevo che mentiva, e lo sapeva anche lui.

Ciononostante, non osai contraddirlo. Anzi, feci un passo indietro. Gli avevo dimostrato solo disobbedienza ultimamente, dovevo almeno portare un po’ di rispetto per il suo dolore.

Non era mia intenzione fargliela passare liscia, in ogni caso.

Eravamo pur sempre in lizza, come due leoni in un’arena, come guerrieri di fazioni diverse sotto lo stesso tetto. Ci volevamo bene, ma avevamo prospettive spesso in conflitto, così come le soluzioni. Non importava. Era il mio genitore anche in quei momenti.

- Padre...- mormorai, usando un tono dolce nello sguardo e nella voce – Ti vedo bene anche da qui.-

Thranduil sollevò di scatto la testa. Notai che per un attimo gli era mancato il fiato.

Non l’avevo esposto a parole, ma gli stavo offrendo supporto. Non capitava spesso.

- Ho trovato il Dùnadan. Si chiama Aragorn, figlio di Arathorn e Gilraen del Sud. Altrimenti noto come Grampasso.-

Il re sbarrò gli occhi e si voltò verso di me. Il dolore che deformava il suo viso si ritrasse piano piano, mentre ammirava il mio successo nell’impresa. Avevo portato a frutto quello che lui aveva desiderato da me ed ero diventato motivo di orgoglio.

Non me l’aveva mai detto con quegli occhi.

Durò poco. Subito si ritrasse nella sua corazza e io seppi che aveva ancora bisogno di tempo per adattarsi alla mia presenza:

- Dov'è ora?- osò chiedermi.

- E' con Gandalf.- risposi prontamente – Ma verrà qui appena possibile. Occorre solo attendere.-

Mio padre masticò amaramente quelle parole.

- Vai a riposare...- mi consigliò – Ceneremo insieme stasera. Io e te soli.-

Non succedeva spesso, per questo mi sorprese. Quel confronto doveva essere importante per lui, anche se cercava disperatamente di non darlo a vedere. Tanto importante da avermelo chiesto quasi in un sussurro, come per timore che io potessi rifiutare.

Forse c’era qualcosa di più, in quello sguardo, ma non ero in grado di decifrarlo. Osservai mio padre piuttosto guardingo, sperando di cogliere qualche dettaglio - ma niente.

Nessuno meglio di re Thranduil era tanto abile a non mostrare i propri sentimenti.

- D’accordo.- accondiscesi, rimandando la partita a più tardi.

 

La cena era stata elegantemente disposta su un lungo tavolo in legno pregiato e intarsiato, coperto da una tovaglia altrettanto finemente ricamata. Una tovaglia per occasioni speciali, ebbi modo di notare.

La sala era stata apparecchiata con decine di candele e qualche lanterna. Nella costante penombra della reggia, quelle luci tremolanti donavano un tocco sinistro a tutta l’atmosfera, caricandola di attesa. O forse ero io a dover riacclimatarmi a quei luoghi, dopo tanto tempo lontano dai miei alberi.

Mi sedetti a un lato della tavola. I nostri solerti servitori volteggiavano tutt’intorno, lanciandomi di tanto in tanto un sorriso o un’occhiata furtiva, oppressi dal timore reverenziale verso di me e verso l’ombra di mio padre, che non era ancora arrivato.

Avevo una strana sensazione. Come essere a casa, ma non essere prettamente tornato a casa: mancava un ultimo tassello a quel quadro e non riuscivo ad afferrarlo.

Quella era la mia tana, il mio nido, ma forse non mi apparteneva più come un tempo...o questo, almeno, era quello che voleva farmi credere. Mi sentivo come uno straniero alla mia tavola, ospite a una cena imbandita in mio onore. L’onore di un forestiero.

Forse ero solo cambiato io, senza rendermene conto.

Finalmente apparve anche mio padre. I servitori si bloccarono all’istante e gli riservarono un inchino profondo, man mano che lui li sorpassava, diretto alla sua sedia.

Anche io mi alzai, in segno di rispetto, ma lui subito mi pregò di rimettermi al mio posto con un cenno della mano.

Appena si fu accomodato, il consueto ronzio dei paggi riprese esattamente da dove si era interrotto. Poco dopo, ci ritrovammo soli, nella grande sala, in attesa che arrivassero le pietanze calde.

Thranduil trasse un sospiro mesto, senza alzare gli occhi dal bicchiere già pieno di ottimo sidro:

- E’ passato molto tempo da quando sei partito.- esordì.

Un modo come un altro per iniziare una conversazione.

Non risposi. Mi aspettavo una domanda, una qualsiasi domanda, ma a quelle poche parole seguì un pesante silenzio, come se fosse lui ad aspettarsi qualcosa da me.

Non capivo dove volesse andare a parare, per niente. Che cosa desiderava? Che cosa potevo dargli?

Forse cercava di comunicarmi un dettaglio importante ed ero io a non avere orecchie per lui?

Non dirmi che gli sono mancato?

Se così fosse stato, non l’avrebbe ammesso facilmente. Ebbi paura di quell’incertezza. Non ero pronto a farmi trapassare di nuovo dalla spada gelida dei suoi occhi.

- Non sembra che sia cambiato nulla.- tergiversai, piuttosto nervoso.

- E’ cambiato tutto, invece.- affermò con forza mio padre.

Quel tono vagamente di rimprovero mi allarmò.

Sicuramente eravamo un po' frastornati dalla serie di eventi che ci aveva travolti, separati, uccisi e fatti rinascere, ma non era solo quello. Io sentivo che c’era dell’altro.

- C’è qualcosa in particolare di cui vuoi parlarmi?-

Thranduil si mosse stizzosamente sulla sedia.

Sì, c’era qualcosa che voleva dirmi, ma non si decideva a farlo. Forse la cosa lo sconvolgeva, lo preoccupava, forse era troppo persino per lui. Ma non lo avrebbe mai confessato, non di fronte alla mia persona almeno.

Ci teneva così tanto ad essere il mio eroe.

Provai ad incoraggiarlo:

- Padre, tu sai che puoi contare su di me.-

Il re parve ravvedersi. Finalmente alzò gli occhi:

- Sei andato fino laggiù - iniziò lentamente – per rivedere tua madre.-

Ricambiai quello sguardo con rinnovata sicumera:

- Sì.- affermai con decisione.

Thranduil sospirò:

- Sono stato uno sciocco a impedirti di serbare anche solo un ricordo di lei.- ammise, con mia somma sorpresa – Io volevo solo proteggerti.-

Rimasi zitto. Tutte le mie parole sembravano essersi volatilizzate.

Avrei voluto avere qualcosa di intelligente da ribattere, ma niente mi sembrava all’altezza. Stavo seduto, rigido come una bacchetta, e l’unica cosa che mi pareva avere un senso era il mio silenzio.

Il re si scosse:

- E’ tuo diritto sapere.- sentenziò.

 

Mi raccontò che mia madre gli aveva protetto le spalle da sempre, fin da quando si erano conosciuti. Dal momento in cui c’era stata lei, al suo fianco, gli era sembrato che niente al mondo avrebbe potuto scalfirlo. Lei era il suo amuleto, il suo lasciapassare verso un mondo migliore. Senza, mio padre si sarebbe sentito come un guerriero a cui manca un braccio.

Per questo, forse, trovò il coraggio di chiederle di non lasciarlo solo contro le creature malefiche di Angmar.

Al contrario di quanto aveva lasciato credere per tutti quegli anni, andare in guerra non era stata un’idea di mia madre, ma una precisa risposta al bisogno di Thranduil di averla vicino.

Non l’aveva mai ammesso prima d’ora.

Lei accettò con fervore e spirito di sacrificio, come il suo ruolo di Regina, d’altronde, le imponeva. Ma non fu per obblighi regali che seguì mio padre fin laggiù. Erano come una cosa sola, una rarità che andava preservata qualsiasi fosse il prezzo da pagare. Divisi erano nulla; insieme erano la forza.

In tutto questo, io rappresentavo la pietra più preziosa nella loro collana, un coronamento al loro sogno d’amore. Anche io, come quell’amore, dovevo essere preservato: per questo mi lasciarono nel rifugio sicuro di Boscoverde, che allora non era grande solo nel nome ma anche nel prestigio.

Non ricordo niente di quel periodo. Come potrei? Ero troppo giovane. Mio padre invece si ricorda tutto, ogni singolo dettaglio. Ricorda il bacio che mi diede sulla testa prima di andare a bardare il suo cavallo; ricorda che mi ero attaccato alle gonne di mia madre e che stavo per piangere, perché non volevo lasciarla andare. Una balia era venuta a consolarmi e a distrarmi, mentre loro saltavano in sella e si confondevano nel tramonto.

Mia madre mi diede un bacio con la mano, affidandolo al vento.

Erano molto preoccupati per me, ma essendo vicini, la loro sofferenza veniva comunque stemperata dal calore che traevano l’uno dall’altra. Gli zoccoli dei cavalli pestavano pesantemente il terreno mentre si allontanavano dalla reggia e i più cupi pensieri affollavano le loro menti. Parlavano di piani d’attacco, di strategie di retroguardia, di provviste, ma non di me. Ero diventato un discorso proibito, un pensiero rimandato. In fondo, io ero molto più al sicuro di quanto non lo fossero loro, a così tante leghe da Boscoverde. Anzi. Ero un motivo in più per combattere fino in fondo quel conflitto.

Mia madre era una grande guerriera. Maneggiava con eguale maestria l’arco e la sciabola, avendo imparato da bambina. Una passione, la sua, che l’aveva condotta fino a Thranduil. Proprio per questo motivo lui l’aveva notata in mezzo a tanti, durante un torneo al quale erano invitati solo i migliori cavalieri del Regno. Il padre di mia madre era fra quelli e viaggiava con la sua bellissima figlia al seguito. Pochi avevano capito quanto quella figlia avrebbe potuto essere anche letale, se sfidata a duello.

Mio padre la vide affaccendarsi dietro le armi che lei e il suo genitore si erano portati appresso. La vide tirare di spada, affilare le punte delle lame e scaricare la tensione facendo centro per ben tre volte, infilando un pugnale dietro l’altro nello stesso punto del bersaglio.

Stupito e ammirato di fronte a tanto talento, volle conoscerla di persona. Il resto è storia.

Si fidava di lei e del suo acume. Una volta giunti in Angmar, ve ne sarebbe stato un estremo bisogno.

I primi mesi pesarono come macigni sulle loro spalle: complici il lungo viaggio, l’angoscia annidata nei muscoli e nelle ossa, la costante apprensione per me, da solo alla reggia, e la sempre più fosca premonizione che quella battaglia avrebbe potuto anche essere l’ultima per uno dei due, spinsero i miei genitori a stringersi sempre di più l’uno all’altra. La notte non riuscivano a dormire: si alzavano a turno per controllare le mappe, per tracciare nuovi piani o semplicemente per montare la guardia assieme agli altri soldati. Ogni bisbiglio, ogni minimo particolare fuori posto scatenava le loro paure accumulate.

Sempre verso il mattino, poi, spesso si univano nella danza dell’amore, facendolo piano e in silenzio. Non c’era bisogno di parole. Lo facevano così, al meglio, sperando che il mattino seguente si potesse ancora rubare un momento dolce alla loro eterna vita. Forse cercavano un fratello per me, chissà.

L’avevano fatto anche quella maledetta mattina. Mio padre spergiura che non sapeva nulla del pericolo cui mia madre andava incontro. Ma vederla indossare l’elmo e la cotta di maglia più greve, invece che l’artiglieria leggera, l’aveva stupito. Prima che potesse chiederglielo, lei era già salita in groppa a un cavallo e un gruppo di tiratori scelti, la Guarda della Regina, era già pronta a partire, a sua insaputa. Lui non aveva dato l’ordine di allontanarsi.

- Che diavolo sta succedendo?!- gridò, ma in quella sentì lo stridio di una Bestia Alata squarciare le nubi, prima che ogni suono fosse inghiottito da un boato di voci atterrite.

Subito qualcuno l’aveva portato via da lì e gli aveva fatto indossare un elmo, sotto il quale l’odore di mia madre, rimasto impigliato tra i suoi capelli, sembrava ancora più forte.

La Bestia Alata era arrivata a mietere vittime con il suo fuoco sacro di orrore. I guerrieri di tutti gli eserciti lì schierati avevano schiamazzato per lo sgomento. Alcuni venivano azzannati, altri rapiti dai grossi artigli della bestia o disarcionati. Non sembrava esserci nessuno in grado di fronteggiare una creatura di tale portata.

Mio padre assunse direttamente il comando e si fiondò sul campo di battaglia, sbraitando ordini. Il pensiero di mia madre, nella sua mente, si affievolì poco a poco senza mai spegnersi del tutto. C’erano altre priorità.

Nel bailamme generale, non avrebbe comunque potuto scorgerla, nemmeno grazie alla sua vista acuta.

Non seppe mai che cosa successe esattamente. Mentre pareva che la battaglia volgesse al meglio per lui e gli alleati (qualcuno era riuscito persino ad abbattere la Bestia Alata con una catapulta), in mezzo al clangore delle armi, un suono fin troppo ben conosciuto gli giunse alle orecchie.

Dalle retrovie, da un punto che lui non era in grado di distinguere, aveva cantato il corno della Guardia Elfica: una richiesta di aiugo.

Subito Thranduil si era messo in allarme e aveva dato disposizioni per rinforzare le fila verso la sorgente di quel suono. Il suo cuore impazziva all’idea di sapere sua moglie in pericolo, ovunque lei fosse. Gridò con tutte le sue forze per farsi sentire, spinse i migliori soldati ad andare in quella direzione mentre lui, purtroppo, avrebbe dovuto attendere sul campo.

In quel momento, apparve il Drago.

Ardente e smisurato, sbucò da un cratere nel terreno, facendo riverberare l’alba di tutta la sua malvagità. Per un attimo, gli eserciti si bloccarono a fissare, allibiti e terrorizzati, quell’apparizione mefitica, il cui olezzo si poteva sentire a miglia di distanza.

Solo Thranduil non aveva occhi per il pericolo imminente. Tutta la sua persona era rivolta a Est dove, al di là di un muro di orchi e altre schifose bestie, si era avventurata la parte migliore di lui.

Gandalf lo raggiunse che se ne stava ancora come incantato di fronte a quella visione di distruzione. Non era capace di muoversi.

- Thranduil!- lo richiamò – Abbiamo bisogno del tuo aiuto! Devi venire con me!-

Una mano sulla spalla è tutto quello che mio padre ricorda prima che l’ombra del Drago si piantasse su di loro.

L’orribile essere sgusciò nell’aria, caricando un colpo contro le sue due vittime. Era maestoso e feroce, come qualsiasi creazione di Morgoth, o forse di più. Non sarebbe bastato tutto il coraggio di questo mondo ad abbatterlo.

Ciononostante, come un riflesso incondizionato, lo spirito fiero del re d’un tratto prevalse, spingendolo a difendersi da quell’attacco. Ma era troppo tardi.

Una delle vibrisse del Drago aveva schioccato sinistramente e l’attimo seguente era piombata con precisione assassina sul volto di mio padre, ustionandolo dall’occhio fino al collo, lì dove ancora oggi si nota una cicatrice che mai guarisce, anzi, peggiora quando il suo umore imbelle o cede a bieche visioni.

Il colpo, sebbene non mortale, fu determinante. Thranduil finì a terra, svenuto, sanguinante, con la spada perduta e volata lontano. Lo sguardo costernato di Gandalf seguì la parabola del corpo del re che rovinava a terra, sospinto dalla forza del Drago. Fu per vera fortuna che non terminò la sua vita infilzato in qualche picca.

Subito il mago si frappose fra mio padre e la creatura del Male, respingendola con la sua magia. Il re era ancora vivo, seppur incosciente. Alcuni soldati, che avevano assistito alla scena, accorsero in suo aiuto, sollevandolo dalla polvere e trasportandolo via. Rimase soltanto Gandalf contro il Drago: solo dopo incredibile fatica riuscì a metterlo in fuga, salvando l’intero esercito.

Mio padre si risvegliò il giorno dopo. Avvertiva un dolore fortissimo, in ogni parte del corpo, come se gli avessero rotto tutte le ossa contemporaneamente. Gli era difficile persino formulare un pensiero sensato.

Gli avevano bendato il volto e l’avevano lasciato alle cure e alla compagnia di Gandalf, che appena aveva potuto era saltato di nuovo al suo fianco.

Le sue prime parole furono per la Regina, il ricordo più vivido. Non rammentava assolutamente che cosa gli fosse successo, né quando. Ma il suono del corno della Guardia Elfica era una ferita aperta che nonostante le cure non era riuscita a chiudersi. Per questo ora Thranduil gridava dal dolore, un dolore che solo lui poteva capire.

Gandalf aveva tentato di spiegargli che in sua assenza era stato fatto il possibile. Avevano cercato di individuare il corno finché questo aveva continuato a suonare, travolgendo orchi su orchi e guadagnando pochi metri alla volta. Sembrava che quella marmaglia non dovesse finire mai. Avevano insistito, nonostante fosse richiesto il loro supporto sul fronte principale, finché le forze l'avevano permesso. Purtroppo, il suono del corno si era spento poco a poco, fino a cessare del tutto, parecchie ore prima del tramonto.

Gandalf sapeva dove andare a cercare la Regina. Lei gli aveva rivelato di aver scoperto un passaggio segreto scavato dai nemici per sorprendere gli alleati alle spalle: la sua intenzione era stata quella di sabotare il passaggio e chiuderlo il più in fretta possibile, prima di soffrire probabili conseguenze.

Evidentemente, il piano non aveva funzionato. Gandalf era inconsolabile:

- Mi dispiace...- continuava a ripetere, come una litania, con le lacrime agli occhi – Mi dispiace...-

Thranduil aveva cacciato un urlo così profondo da superare persino il tuono di un sopraggiunto temporale.

Come se la sua voce si fosse del tutto consumata, rimase muto e immobile, come senza vita, per giorni. Non dormiva, non mangiava, non rispondeva. Gandalf credette di vederlo giacere morto da un momento all’altro. Con quelle bende intorno all’occhio e alle spalle, inoltre, sembrava già mezzo avvolto in un sudario, come se la sua fine fosse segnata.

Per lo stregone, vederlo in quello stato era un grande dolore. Non resisteva più così a lungo al suo fianco: ogni tanto aveva bisogno di aria, di obiettivi nuovi, per non sentirsi inutile.

Durante una di quelle pause, decise di andare fino in fondo alla questione della Regina, sperando di poterne riportare a Thranduil almeno un frammento. Da quando il re si era risvegliato, nessuno aveva osato andare fin laggiù, dove la Guardia Elfica aveva evidentemente perso la vita.

Con un manipolo di soldati, Gandalf si era recato all’imboccatura del passaggio menzionato dalla Regina, non trovando altro che cenere. Nemmeno le armi erano rimaste intatte su quel campo. Tutto era stato travolto, annichilito, ridotto a brandelli, fino a rendere ogni cosa irriconoscibile o fin troppo simile a un pugno di polvere.

Avevano scavato, a mani nude, con il cuore in gola, in quei mucchi di macerie, sperando in un segno. Che non era arrivato.

Dopo un giorno e una notte di ricerche vane, anche la buona volontà di Gandalf aveva dovuto arrendersi di fronte al destino ineluttabile.

Della Regina non vi era più traccia.

Sconfitto, il mago aveva fatto ritorno al campo, dove aveva trovato Thranduil nell’esatta posizione in cui l’aveva lasciato. Sempre più abbattuto, Gandalf si era seduto accanto a lui, con la testa tra le mani, senza dire nulla.

Il re non l’aveva degnato di uno sguardo.

In quel momento, nella mente dello stregone aveva fatto capolino il ricordo di me, Legolas, da solo alla reggia di Boscoverde. La guerra era ormai finita, la vittoria celebrata e i morti compianti. Era ora di fare ritorno a casa, dove ancora albergava una piccola speranza.

Gandalf aveva appoggiato una mano sul braccio freddo di Thranduil:

- Non tutto è perduto per te, mio sovrano.- aveva detto, risoluto – Lo spirito di tua moglie sopravvive in vostro figlio Legolas. Devi prendertene cura.-

Sotto le dita, Gandalf avvertì un fremito di vita.

Il mio nome aveva scosso i fragili nervi di Thranduil, che solo in quel momento trovò il coraggio di distogliere lo sguardo dal cupo orizzonte per riportarli, dopo diversi giorni, sul volto di una persona. Di uno dei suoi più grandi amici.

- Legolas...- sussurrò, con una voce che non era la sua.

Sulla sua guancia si arrampicava e pulsava senza sosta il fascino del Male, incarnato da quella cicatrice rossastra, che l’avrebbe accompagnato per il resto della vita. Il ricordo di me, suo figlio, tuttavia, fu di fondamentale importanza.

Thranduil si riscosse, i suoi occhi ricominciarono a dardeggiare come era loro abitudine; poi si alzò di scatto. Gandalf ebbe l’impressione che lo spirito del re fosse finalmente tornato nel loro mondo.

Anche lui si alzò:

- Sono ai vostri comandi, Re Thranduil.-

 

- Tornammo con quello che rimaneva del nostro esercito, attraversando la Terra-di-Mezzo a testa alta, orgogliosi di aver fatto la nostra parte. Non vedevo l’ora di rivederti: eri l’unica cosa che mi teneva ancora in vita. Non sapevo come ti avrei detto di tua madre, non sapevo se avresti capito. Se io ti sarei bastato. Non avevo niente di lei da poter conservare, da poterti recare in dono. Mi sentivo due volte colpevole per questo, per non averti portato indietro tua madre.-

Avevo le lacrime agli occhi. Mai, prima di allora, mio padre si era aperto così tanto nei miei confronti; mai una volta il suo scudo si era incrinato per lasciare trasparire questa storia.

Era un momento molto importante per entrambi noi.

- In verità, c’è una tomba.- riprese lui - Una piccola lapide simbolica che ho fatto piantare in mezzo al bosco. Ti permetterò di andare a vederla.-

Ero senza parole. Per tutto quel tempo avevo creduto che fosse impossibile per me avere pace, che i miei occhi avrebbero dovuto guardare il cielo senza mai sapere dove fermarsi…

Ora invece mi veniva confessato che c’era un modo per fermare il mondo che vorticava, c’era una pietra miliare sulla quale potevo sedermi e piangere.

Il mio viaggio era forse servito a farla comparire.

Non sapevo se essere contrariato o sollevato. Nel dubbio, preferii tacere e rimandare la sentenza a più tardi, quando mi sarei sentito di nuovo lucido. Ora come ora, erano troppi i sentimenti che mi si agitavano dentro, e non sapevo come fare a gestirli.

Dopo diversi minuti di silenzio, in cui si sentirono solo tintinnare i coltelli dei servitori che tagliavano la carne arrostita, riuscii a staccare il pensiero dal racconto di mio padre. Anche se ero ancora scosso, mi balenò per la mente un’altra questione che avevo lasciato in sospeso – la quale, in effetti, mi pareva molto più abbordabile rispetto alle recenti rivelazioni.

Ora avevo la possibilità di chiuderla per sempre.

- Dov’è Tauriel? Ho bisogno di parlarle.- chiesi.

In tutto quel tempo, stranamente, non avevo quasi mai pensato a lei. Anche adesso, mi veniva difficile. Non mi pareva vero di essere riuscito a segregarla in un angolino della mia mente, ma così era stato. Non l’avevo dimenticata, questo no, tutto il contrario: sapevo che prima o poi me la sarei ritrovata davanti e avremmo dovuto chiarirci. Ma mi sentivo pronto ad affrontarla, e questa era già una grande vittoria.

Mio padre fece una smorfia afflitta. Cercò di sfuggirmi, muovendosi nervosamente sulla seggiola, calamitando gli occhi a qualsiasi cosa non fossero i miei.

Poi finalmente si decise a dirmelo:

- Tauriel è morta.- biascicò piano, come se il dolore ancora gli avvolgesse la gola.

Cosa?!

- Cosa?!- ripetei.

- E’ morta, Legolas. Un po’ di tempo fa. Mi dispiace.-

Mi mancò il fiato. Una grossa goccia di sudore mi solcò il viso, confondendosi presto con le altre che già invadevano il mio collo, sotto i vestiti. Ogni dettaglio di quella scena mi è rimasto impresso, come amplificato, per molti anni di seguito. Soprattutto, la sensazione di stare soffocando.

Mollai di colpo la selvaggina che stavo mangiando e allontanai il piatto:

- Che cosa è successo?!- proruppi.

Thranduil sussultò. Poi sospirò eloquentemente. Descrisse i fatti con un’acutezza che ancora ricordo:

- Credo non fosse in grado di sopportare l’idea di aver perso il suo amore, il nano Kili. E anche, forse, di aver spezzato l’amicizia con te, il vostro fragile equilibrio. Suppongo.-

Non potevo crederci. Le sue parole lasciavano intendere che Tauriel avesse compiuto il più ignobile e codardo dei gesti, da sola, magari nella sua stessa camera. Non potevo credere a una simile versione dei fatti.

Tauriel era una vera guerriera, non riuscivo a capire come avesse potuto farsi sopraffare a quel modo.

- Lei...si è tolta la vita?- boccheggiai.

Mio padre il re scosse la testa:

- Che cosa importa ora?-

Mi infiammai all’istante:

- Me lo dici così, come se si trattasse di una qualsiasi altra cosa?!-

Un’antica rabbia si risvegliava. D’un tratto tornavo di nuovo con la mente al momento in cui mio padre si metteva contro Tauriel, la minacciava con la spada, incolpandola di tradimento. Le aveva mai veramente voluto bene? Se non ci fossi stato io a salvarla, non so come avrebbe potuto andare a finire.
Per questo faticavo a credere al suo dolore.

- Noi abbiamo avuto tutto il tempo per piangerla. Ora quel tempo è lontano.- tagliò corto il re.

- L’hai mai amata, padre?- lo provocai.

Thranduil si inalberò:

- Me lo chiedi dopo 600 anni che l’ho nutrita e protetta? Dopo averla celebrata con tutti gli onori e aver appeso drappi neri alla reggia per lei? Dopo aver pianto notti insonni per lei? Manca anche a me, che cosa credi?-

Mi sentii in colpa. Forse l’avevo giudicato troppo duramente; pretendevo troppo, come mi ricordava Aragorn qualche volta. Avrei dovuto essere più indulgente, verso me stesso come verso gli altri. Compreso mio padre.

Il discorso mi aveva fatto passare tutta la fame, non ancora del tutto soddisfatta. Anzi, mi sentivo scombussolato, come se il cibo dovesse tornare indietro, fuori dalla mia bocca.

- Non riesco a cenare.- mugugnai.

- Suvvia, Legolas. Mangiare e bere sono i primi passi per risolvere questo genere di problemi. L’autodisciplina, Legolas, è ciò che torna più utile in questi momenti. Mangia, ora.-

Lo fissai, esterrefatto. Davvero non capivo come fosse capace di restare così distaccato, non lasciar trapelare il benchè minimo subbuglio. Il suo, doveva esser stato un allenamento duro, negli anni, costantemente contrapposto alla sofferenza continua, senza mai lasciarsi attraversare, ma combattendola come un valoroso paladino fa, magari sapendo di non poter vincere, ma continuando a provarci fino alla morte.

Lui era già stato al mio posto. Aveva già provato un tormento simile per la sua Regina. Si era costretto a mangiare, a bere, a badare a me, per non pensare. Per non perdere la testa. Per non perdere il controllo e il favore dei sudditi. Perchè se lui fosse crollato, il regno stesso sarebbe crollato. Era uno strazio che non aveva potuto permettersi.

Non aveva lasciato il tempo di decantare neanche il ricordo di mia madre.

Era tutto così disumano.

- A volte vorrei essere come te: tu riesci a distinguere così bene le questioni veramente importanti e ad affrontarle senza vacillare.- abbaiai con la precisa intenzione di colpirlo, per un attimo di nuovo rabbioso.

Ma me ne pentii quasi subito.

Potevo solo immaginare quante volte rischiava di finire nel baratro.

Thranduil mascherò la sua ombrosità dietro a un pezzo di carne:

- Ho imparato anch’io, con tutto ciò che ne deriva. Questa è stata la tua prima esperienza e spero non sarà l’ultima. Solo così potrai crescere.-

Ci fu un silenzio pesantissimo, che mi lasciò impietrito. Mio padre continuava a mangiare e tracannare sidro, spiandomi di tanto in tanto, ma senza più obbligarmi ad imitarlo. Mi sembrava di vivere in un’altra dimensione, come se fra noi si fosse improvvisamente aperto uno spazio, un vuoto incolmabile. Un altro.

Mi sentivo terrorizzato al solo pensiero di trovarmi di nuovo solo contro un destino ostile. Avevo bisogno di allungare una mano, sapere che qualcuno era con me, in quel momento: il più vicino era proprio re Thranduil.

Soppesai attentamente le sue parole. Solo attraversando il dolore, la crescita poteva essere possibile. Occorreva quindi cominciare da qualche parte e chissà, forse a suo modo mi stava tendendo una mano.

Fissai il mio piatto ancora mezzo pieno. Il solo pensiero di cenare mi dava il voltastomaco, ma qualcosa mi disse che dovevo farlo. Quindi riavvicinai la pietanza e mi sforzai di mangiare, senza dire una parola.

Vidi che Thranduil se ne compiaceva.

- Parlami del Dùnadan.- cambiò discorso.

Non sapevo da che parte iniziare. Inoltre, parlargliene adesso sembrava terribilmente fuori luogo. Immaginai che l’avesse fatto apposta per distrarmi dal vero problema.

Come era nel suo stile.

Ma anche io avevo bisogno di quella distrazione, quindi accettai la sua proposta.

Gli raccontai delle avventure insieme a Aragorn, omettendo dovutamente qualche particolare. Ad esempio, non gli raccontai della mia ferita causata dalla freccia avvelenata, né di essere quasi morto. Sono certo ne fosse già a conoscenza, in un qualche modo, ma non osò chiedere lumi o dettagli. Forse sarebbe stato troppo anche per lui.

Gli snocciolai tutta la confidenza che mi aveva fatto Aragorn sull’antica stirpe di Nùmenor, la sua infanzia e la sua conoscenza di Re Elrond di Gran Burrone. A quel punto notai che a mio padre era scappato un sorrisetto sotto i baffi.

- Sapevo che vi sareste trovati d’accordo.- mormorò.

La sua considerazione mi colse del tutto impreparato.

- Tu lo conoscevi già?-

Il suo sorriso si fece più ampio.

- Ho avuto il piacere di conoscerlo a Gran Burrone, durante una visita a re Elrond, tempo fa. Molto tempo fa. I giorni erano ancora chiari. Mi piaceva viaggiare, una volta, anche se ho cavalcato sempre più raramente. Elrond mi raccontò tutto della sua famiglia. Ora i tempi sono maturi e lui deve prendersi la sua parte di storia. L’impero degli Uomini rinascerà presto con lui, nel Sud.-

Pausa.

- C’eri anche tu.- aggiunse poi.

Rimasi di stucco. Non solo per il fatto che mi avesse fatto compiere quel viaggio sapendo in parte le risposte alle nostre incertezze, ma anche perché mi stava dicendo che io e Aragorn avevamo già percorso un pezzo di strada assieme.

- Non lo ricordo.- mormorai.

- Lo ricordo io.-

Ripensai a tutte le volte che avevo avuto l’impressione di condividere con Aragorn molto più di quello che era concesso vedere con gli occhi.

- Quindi io e lui ci siamo già incontrati?- indagai.

Stentavo a crederci.

Mio padre scosse la testa:

- No, non vi siete incontrati. Tu eri troppo interessato a tutto e lui stava sempre a studiare con i suoi lettori. L’ho visto perché è entrato nella stanza mentre parlavo con re Elrond. Tu eri stanco, eri andato a riposare.-

Quell’inattesa rivelazione aveva rimescolato tutto il mio sangue. Non solo per via di Aragorn, ma anche e soprattutto per il fatto di essermi reso conto che una volta la mia famiglia era stata molto diversa.

- Non abbiamo viaggiato spesso al di fuori di Bosco Atro.- appuntai.

- Io sto bene qui.- spiegò Thranduil - Non ho bisogno di fare le moine ad altri sovrani. Né ho bisogno che loro ne facciano a me. Quella è stata una visita dettata dal buonsenso, non dalla mondanità.-

- Di cosa si trattava?- volli sapere.

- Di cose da adulti. I tuoi occhi erano ancora vergini di tante cose.-

- Ma ora non lo sono più, padre.-

Thranduil sorrise mestamente, osservandomi con una strana dolcezza:

- E’ vero - disse – ma secondo me non sei ancora pronto ad affrontare certe battaglie.-

- Mi stai sottovalutando?-

- Al contrario. Ma ogni cosa ha il suo tempo. Le regole sono regole.-

Mi stava deliberatamente provocando? Ma perché? Si divertiva cosi tanto?

Aveva fatto così tutta la vita. Aveva forgiato il mio carattere con queste frasi, questi doppi sensi. E anche se mi aveva insegnato tutto il resto - a stare dritto sulle gambe, a tirare con l’arco - ciò non cancellava il profondo disgusto che provavo quando si comportava da perfetto sconosciuto.

- Per una volta, non potresti fare un'eccezione?- chiesi.

- No – rispose secco - Quando sarà il tuo momento, quando sarai re, farai valere la tua legge. Ora vige la mia.-

Di nuovo, ero rimasto senza parole. Il re non si mosse, non si sconfinferò minimamente. Continuò a mangiare senza guardarmi, come se si trattasse di una cosa qualunque. Probabilmente, per lui lo era.

Ma non per me.

Mi alzai e gli andai vicino, all’altro capo della tavola. Potrei giurare che per un momento si fosse chiesto che cosa mi spingesse a quella familiarità: un lampo nei suoi occhi gli aveva colorato per un attimo il viso. Non era pronto. Non era mai stato pronto, da quando mi ero fatto ormai adulto.

Gli poggiai una mano sulla spalla:

- Mi dispiace.- gli dissi, prima di scivolare via.

Avvertii le sue dita sfiorarmi prima di perdermi ancora una volta.











***N.d.a***
Ciaooo! Spero vi sia piaciuto questo lungo capitolone! L'ho scritto proprio con amore, cercando di non dimenticarmi niente, al contrario, renderlo indimenticabile! Qualche nodo qui finalmente si scioglie, e spero di avervi sorpreso con qualche colpo di scena! Non è finita qui: ancora un po' è rimasto da dire, ma verrà svelato nei prossimi capitoli.
Fatemi sapere cosa ne pensate grazieeeee
Buona estate e spero in compagnia dei miei racconti :)))

 

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Capitolo 38
*** Thranduil ***


Thranduil

 

Quei suoi pianti disperati mi facevano impazzire. Correva come un ossesso per tutta la reggia, mandando in frantumi i miei piani e qualche vaso; correva e gridava che voleva sua madre, che ero un padre cattivo, che non gliela volevo far vedere.

Non sapevo gestire una personalità come Legolas, rigoglioso come un virgulto e irruento come solo i bambini sanno essere. Oramai nessuno, tanto meno io, riuscivamo a tenergli testa.

Tutto era precipitato nel momento in cui avevo dovuto togliere del tutto le bende e mi ero mostrato a lui per quello che ero: un relitto. Sulle prime, non mi aveva nemmeno riconosciuto. Il dolore più grande, per me, era stato quando mi aveva strillato contro:

- Tu sei un mostro!-

Per lungo tempo non aveva voluto vedermi. Se ne stava asserragliato nelle sue stanze, come una creatura selvatica nella sua tana. Non voleva mangiare, non dormiva nemmeno. I servitori lo sentivano urlare e prendere a pugni il muro a qualsiasi ora del giorno e della notte.

Di me non ne voleva sapere.

Soffrivo in silenzio mentre aspettavo che tutto quel dolore finisse, inconsapevole che invece sarebbe durato per sempre. Pensavo fosse un castigo che spettasse solo a me, non a mio figlio. Non sono stato un migliore genitore rispetto a essere un migliore marito.

Ma ero pur sempre suo padre, e avrei continuato a esserlo qualsiasi cosa fosse successa. Qualsiasi cosa si fosse frapposta tra noi. Io ero suo padre.

Ero tutto ciò che gli rimaneva.

 

Vederlo adesso, dopo centinaia di anni, sembrava magia. Lui non poteva saperlo, ma era uguale a sua madre. Rivedevo in lui le nostre parti migliori, in particolare quelle di lei.

Ne andavo fiero. Come può un padre non essere orgoglioso del proprio figlio, quando questo figlio è Legolas? Sapevo che non mi avrebbe mai deluso, anche se ogni tanto ci provava. Ma io ero sempre disposto a perdonarglielo.

Riabbracciai con la mente i campi di battaglia di Angmar. Prima di tornare a Bosco Atro non avevo potuto evitare di andare a vedere con i miei occhi quella che per me era stata una disfatta.

Come c’era da aspettarsi, non era rimasto niente sulle nude pietre. Altre creature – Nani, Uomini – cercavano al suolo qualcosa che appartenesse ai loro compagni d’armi, senza troppe speranze.

Mentre passavo, alzavano a malapena la testa: un accenno di saluto, neanche una deferenza, al massimo mi lasciavano campo libero. Stanchi, mesti, insoddisfatti della vittoria. Come me.

Anche io cercavo ancora qualcosa tra quelle rovine.

Ero certo che avrei riconosciuto il corpo di mia moglie dalla lucentezza con cui avrebbe brillato in mezzo agli altri, per alcune rare pietre che solo noi Elfi Silvani potevamo saper riconoscere. Le portava sempre addosso, vicino al cuore, incastonate in una bardatura di cuoio: le gemme di Lasgalen, mio dono di nozze.

Erano l’unico oggetto che poteva aprire la mia strada verso la sua sorte, che mi avrebbe dato un minimo conforto. Le rivolevo perché erano mie come mia era lei, e non era giusto marcissero lì: entrambi quei gioielli dovevano avere giusta sepoltura, per mano mia e non di altri.

Cercai e cercai. Mi aiutarono, ma nessuno vide niente. Mi sembrò strano. Non c’era stata via d’uscita per gli oppositori, schiacciati dal nostro trionfo: giacevano tutti morti sul campo, insieme alla mia Guardia Elfica. Mia moglie avrebbe sicuramente combattuto fino alla morte per non cederle, e piuttosto si sarebbe buttata da un dirupo affinchè non le toccasse nessuno.

Quindi dovevano essere lì, da qualche parte.

Mi riscoprivo preda di sentimenti contrastanti. Da un lato pensavo che mia moglie potesse essere ancora viva, da qualche parte, magari catturata, e si impegnava a custodire quelle gemme gelosamente; al contrario, poteva essere morta lontano da occhi indiscreti, e in tal caso potevo ritrovarla e portarla a casa.

Non sapevo in quale ipotesi sperare.

Guardandomi attorno, tuttavia, realizzai che i Nani superstiti stavano frugando quei luoghi da molto prima di me, e loro erano esperti in fatto di gioielli: se ci fosse stato qualcosa, l’avrebbero scovato e se ne sarebbero di certo appropriati indebitamente, come era sovente accaduto nei secoli dei secoli.

La mia ferita prese a pulsare prepotentemente. La paura e la rabbia ottenebrarono il mio pensiero, sotto lo sguardo attonito di Gandalf.

Mi bastò poco per perdere di nuovo il controllo. D’un tratto avevo afferrato una spada abbandonata e avevo cominciato a inveire contro il mondo, minacciando i vili Nani con quell’arma. Chiesi a gran voce che mi fosse portato al cospetto il capo di quella marmaglia sgangherata.

Inizialmente perplessi, quelle fetide creature mi portarono il loro comandante, che era ancora vivo. Sempre con la spada in mano, lo attesi con impazienza, mentre i miei occhi scandagliavano incessantemente i dintorni, in cerca di un indizio che mi tirasse fuori da quell’incubo senza fine.

Gandalf tentò senza successo di farmi desistere. Ma non poteva nulla contro il Male che oscurava la mia mente. Mi parlava di Legolas, ma io non ascoltavo. La mia mente era ottusa su quelle gemme.

Con gli occhi infuocati affrontai il capo dei Nani senza neanche offrirgli un giaciglio su cui posare le sue fiacche membra.

 

- Tu sai?- lo aggredii – Un avido cercatore di preziosi come te potrebbe già averle trovate. Parla! Dove sono le gemme di Lasgalen, di fulgida bellezza opalescente, che appartengono alla mia casata?-

Il capo dei Nani mi guardò con evidentemente compatimento, incrociando le braccia davanti al petto e scuotendo la testa. Per tutto il conflitto non ci eravamo guardati in faccia, tanto quel personaggio mi faceva ribrezzo. Dai tempi di re Thingol, dopo la disfatta del regno del Doriath e la razzia che ne era conseguita per mano dei Nani, avevo smesso di provare sentimenti affabili verso quelle creature.

- Io non le ho viste...e se le avessi viste non te le consegnerei, mio Re.- mi prese in giro.

Affannato, presi a passeggiare nervosamente su e giù dal campo di battaglia, sempre più annichilito dagli eventi. Gandalf mi veniva dietro senza riuscire a bloccarmi:

- Dunque confermi le mie parole!- mi inalberai, quasi ruggivo menando la spada – Avido sei, come tutti gli altri della tua razza! Non hai diritto di impadronirti del regalo di nozze di mia moglie. Dimmi dove sono quelle gemme, ORA!-

- Non le ho, mio Re.- replicò il nano – E’ inutile che insisti. Ti propongo un accordo: ti aiuterò a ritrovarle, se in cambio avrò la tua benevolenza. I miei Esploratori sono certamente più abili dei tuoi. Se ci tieni così tanto, parliamo di come si può concludere questo affare.-

- Come osi ricattarmi?- ero sempre più fuori di me – Non ti basta questo scempio: devi mangiare sulle carogne di un popolo intero!-

Gandalf si intromise:

- Mastro Nano!- lo rimproverò – Non hai pietà di questa creatura, che ha vinto con te ma ha perso tutto ciò che aveva di più caro! Dillo a me: dove sono quelle gemme? Sarai ricompensato, ma non aggiungere altro dolore a questa sofferenza! Mi appello al tuo buon cuore.-

Il nano non aveva dato cenno di voler retrocedere. Si sedette faticosamente a terra, esausto, non invitato:

- Gandalf, io non ho niente che vi possa interessare.- ma nei suoi occhi bruciava quella brama. Io la vidi distintamente.

Alzai la spada e feci per gettarmi su di lui:

- Tu MENTI!-

Il nano sobbalzò e stava già per afferrare la sua ascia, mentre io, accecato dalla rabbia, mi buttavo sopra di lui. Gandalf mi balzò addosso, mi fece sbilanciare, cademmo a terra e fui travolto dalla sua magra figura e dal suo bastone, che mi pose di traverso sulla carotide.

Mi mancò l’aria. Mollai l’arma e tentai di liberarmi.

Non facevo Gandalf così energico.

- Basta così!- sibilò il mago, in attesa che mi calmassi.

Allentò un po’ la presa, quel tanto che bastava per farmi respirare. Qualche secondo più tardi, vedendo che ero diventato inoffensivo, si levò dal mio petto e mi aiutò a rialzarmi.

Ero sporco di terra, di sangue, e la mia gota bruciava come se mi avesse appena morso l’inferno. Era un dolore insopportabile, sia quello fuori che quello dentro di me. Non potei fare a meno di toccare la ferita. Al solo sfiorarla, quella si infiammò di più.

Mi accovacciai, vinto dallo strazio, e gemetti.

Non mi ero ancora fermato da quando mi ero rimesso in piedi, dopo la battaglia di Fornost.

- Un guaritore!- urlò Gandalf – Un guaritore, presto!-

Qualcuno mi afferrò per le spalle e mi girò supino; poi altre mani affondarono nei miei vestiti e mi sollevarono dalla polvere alla quale avrei voluto assomigliare. Ormai i miei occhi non vedevano quasi più nulla, tanto ero annebbiato dall’orrore.

Ma lo sguardo di quel nano, lo ricordo. Come se fosse ieri. Sogghignava del mio tormento, dei miei guai. Teneva qualcosa in mano, qualcosa di lucente.

Forse fu solo un’allucinazione - non posso dire di aver visto bene cosa fosse. Ma il pensiero mi balenò per la mente.

E da quel momento fu odio.

 

Stetti male, quella notte. Non bastarono né gli unguenti, né le magie di Gandalf. Qualcosa dentro di me continuava ad urlare.

Al dolore per la perdita di mia moglie e delle gemme si aggiunsero i terribili ricordi della caduta dei miei antenati a Menegroth per mano dei Nani, che non fecero altro che esacerbare il mio rancore.

Avevo a lungo taciuto questi dettagli a Legolas, per non turbarlo ulteriormente. Nel mio regno non si parlava di quelle piccole creature delle montagne: nemmeno ero certo che Legolas ne avesse mai visto uno.

Ma l’avevo sottovalutato. Mio figlio era molto più sveglio di quanto non lo fossi io alla sua età: aveva studiato, aveva viaggiato, spesso a mia insaputa, fuori dai confini del regno, aveva parlato con stranieri, si era fatto conoscere e aveva conosciuto i limiti della nostra cultura, superandoli.

Non avrebbe dovuto sorprendermi eccessivamente, quindi, la sua naturale predisposizione al compromesso e alla tolleranza, che avevo potuto constatare quando quella strampalata compagnia di Nani, guidati da Thorin Scudodiquercia, era giunta alla mia porta.

Legolas era così diverso da me. Lui non aveva vissuto abbastanza, lui non poteva saperlo. Lui aveva insegnato a me cosa significava speranza e benedizione. Non potevo che essergli grato, anche se mai avrei potuto essere d’accordo.

Se solo avesse saputo! Mi avrebbe sicuramente compreso. Ma ormai era troppo tardi persino per parlare. La sua e la mia vita erano andate avanti ed era mia intenzione continuare su quel sentiero. Non aveva senso rivangare.

Avevo passato tutta la mia esperienza di genitore a distrarlo dal vero Male, quello che non ti lascia scampo; mi ero fatto scudo contro quei pensieri, ricacciandoli ogni volta che si presentavano.

Man mano che passava il tempo, era quasi diventata un’abitudine. Mi ero sostituito a tutto, finché Legolas non aveva più sentito così grande la mancanza di sua madre. Ma lei era sempre nel suo cuore. Era una consapevolezza solo rimandata, lo sapevo.

In verità, l’avevo fatto più per proteggere me che per proteggere lui. Forse avevo sbagliato, ma in buona fede. La mia fiducia in quella piccola oncia di futuro aveva dato i suoi frutti.

Ora lo guardavo come si ammira l’immagine di sé nella propria migliore versione.

Non sarebbe stata né la prima né l’ultima volta e mi auguravo potesse capitare ancora a lungo, che io potessi vivere talmente tanto da vedere la sua grandezza – o vederlo salpare per il mondo migliore, se lo avesse voluto, per il mondo dei Valar, mentre io non sentivo il bisogno di andarmene.

La nostra separazione, in un modo o nell’altro, sarebbe comunque avvenuta. Cercavo di abituarmi quanto più presto a quell’idea. Del resto, non avevo messo al mondo mio figlio perchè vivesse come una suppellettile.

Per ora, potevo solo sperare di godermi ancora un po' la sua compagnia.






***NDA***
Ciaooo!! Questo capitolo è dedicato a un flusso di coscienza di Thranduil, qualcosa che forse nei precedenti era mancato!
Ho deciso di dare spazio e voce ai sentimenti di questo personaggio (ne sentivamo il bisogno), nella vana speranza di renderlo "più umano" (ahahaah): è un lavoro che mi ha divertito e spero aiuti ad avere una visione più completa degli eventi (adoro comporre puzzle! E questa storia lo è stato dall'inizio alla fine....con immensa fatica :P )
Ho lasciato qualcosa indietro per i prossimi capitoli! Quindi vi invito a continuare a leggere e a commentare :)
Grazie, alla prossima

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Capitolo 39
*** Aragorn ***


Aragorn

 

Il tempo era diventato, per me, un concetto relativo.

Il sole era salito e tramontato parecchie volte, le stagioni si erano susseguite veloci e incessanti: almeno tre primavere erano passate dall’ultima volta che avevo visto Legolas.

Mi ero avventurato nella Terra-di-Mezzo, riconoscendola passo dopo passo, per quel poco che avevo potuto viverla prima di trasferirmi nel Beleriand. Tutto mi appariva più come un’epifania, nonostante conservassi alcuni ricordi della forma delle montagne e delle piane.

Mi ero messo in cammino animato dalla voglia di ritrovare Gollum, quella fetida creatura. Avevo scandagliato ogni fessura tra le rocce, le radure e le sponde dei fiumi e dei laghi, e ora iniziavo con il bosco.

Dopo che Gandalf mi aveva spiegato tutta la sua storia, avevamo deciso di dividerci, sperando di fare più in fretta. In particolare, Gandalf era rimasto a vagare nel nord, mentre Legolas aveva probabilmente proseguito verso Est, ovvero casa sua. Ma a sud, dove nessun Elfo osava addentrarsi, specialmente dopo che Thranduil aveva perentoriamente proibito a chiunque dei suoi di appropinquarsi a Dol Guldur, mi ero recato solo.

In quella terra senza ormai più un nome non esistevano sentieri, né antichi cippi: tutto era abbandonato a se stesso, coperto di rovi e infangato di tracce, così aggrovigliate tra loro che era difficile distinguerle. Nessuna però corrispondeva all’immagine che io avevo di Gollum; nessuna portava il suo odore.

Mi sentivo un incapace. Quell’essere non era leggiadro come un elfo, né altrettanto intelligente. Come potevo lasciarmelo sfuggire così?

C’era qualcosa che non mi tornava. Qualcosa di incredibilmente fuori dalle mie corde.

Poi, d’improvviso, capii.

Dovevo ragionare con la sua testa.

Una creatura in fuga, spaventata dalla sua stessa ombra, come avrebbe potuto affrontare l’incognita di un paesaggio sconosciuto?

Prima di tutto, si sarebbe mosso di notte, non visto, insalutato ospite. Poi si sarebbe mosso lasciandosi guidare da un insano intuito, verso terre che non avevano mai visto rispecchiata la sua faccia.

Non avevo la più pallida idea di che cosa potesse passargli per la testa, ma se volevo un vantaggio su quella ignobile creatura, avrei dovuto adattarmi a quella condizione, sperando in cambio dello sforzo mi fosse concesso qualche suggerimento.

Così mi misi nei suoi panni. Cominciai a dormire di giorno per stare sveglio al chiaro di luna e gattonare come un bambino che si appresta a conoscere il mondo secondo una diversa prospettiva. La visione delle cose si ribaltava, così come il mio corpo quando era troppo stanco di quella farsa. Ma io insistevo, perché sentivo che era l’unica via per avvicinarsi a lui. Non fu per niente facile, soprattutto doverlo fare per più notti di fila. Non ero più abituato a simili esercitazioni.

Dopo una settimana, mi sembrava di aver mutato pelle: ero diventato una di quelle anime notturne, imparentate con la malvagità di Morgoth, le stesse che tanto veneravano le tenebre. Il sole quasi mi dava fastidio. Non mi piacevano più né il suo calore e i suoi colori: preferivo il crepuscolo e i suoni che con esso si risvegliavano.

Mi immaginai che fosse questa la sensazione che doveva accompagnare Gollum nelle sue scorribande, se tali si potevano definire. Ero sulla buona strada.

Infatti, come se fossero trasudate dal terreno stesso, ecco che finalmente riuscivo a intravedere le sue tracce. Miracolo! Mi buttai a capofitto, cercando di non confonderle. A dire il vero, ora parevano fin troppo riconoscibili, con quella curiosa forma dei piedi, come non ne avevo mai viste prima. Per fortuna Gandalf aveva saputo descrivermele accuratamente.

Erano le orme di qualcosa di innaturale.

Le tracce mi condussero a un piccolo villaggio sul limitare della foresta, dove scovai qualche altra informazione interessante.

I vecchi del paese, raccontandosela davanti a un bicchiere di vino, parlavano di uno strano essere che da un po' di tempo aveva fama di rapire i bambini nel bosco, presso una grotta che da tenero ricetto per amanti, era era ormai definita da tutti come maledetta. Questa leggenda derivava dal fatto che ultimamente a diversi giovani era capitato di scontrarsi con un mostriciattolo (definirlo uomo sarebbe stato troppo), che aveva tentato di derubarli. Qualche bambino era effettivamente sparito, per essere ritrovato morto in fondo a una scarpata o dentro a una trappola per animali selvatici.

Il tutto mi parve decisamente rilevante. Stetti ad ascoltare ora qui ora là, presso l’osteria del paese e tra i banchi di mercato in mezzo alla piazza, senza mai fare domande, ma tendendo l'orecchio. Di solito intercettavo le chiacchiere verso sera, quando mi trovavo pronto per il mio giro di perlustrazione.

La mia presenza non era passata inosservata. Nonostante mi impegnassi notevolmente a mescolarmi tra la gente, una volta tramontato il sole erano pochi gli uomini che rimanevano in piedi. Così la mia figura balzò inevitabilmente all’occhio, soprattutto delle sentinelle.

Strinsi amicizia con un paio di loro, per non destare ulteriori sospetti. Poco alla volta venni a sapere più dettagli riguardo a quella complicata storia e potei fare domande: per esempio, dove si trovava questa grotta alquanto scandalosa.

A quella richiesta, i miei nuovi amici mi guardarono storto, forse perchè la proposi con troppo sprezzo del pericolo, mentre loro nutrivano un autentico timore. Me la indicarono senza storie, ma bisbigliarono alle mie spalle qualcosa che non mi piacque.

Del resto, ero il secondo straniero piombato in quel villaggio in tempi non troppo gai.

Non era molto lontana. Nottetempo mi avvicinai a quel luogo in punta di piedi, confondendomi tra i cespugli, finché trovai un punto di osservazione dignitoso.

Non troppo distante dall’imboccatura della grotta, era perfetto durante le ore di luna piena, come quelle che stavo vivendo, poiché grazie a quella luce ero in grado di vedere un po’ più in là all’interno dell’antro. Ero sicuro che prima o poi qualcosa sarebbe successo, se non quella notte, almeno nelle notti successive.

Poi scorsi un timido agnello passeggiare beato nei pressi della piccola caverna. Brucava l’erba tranquillamente, senza nemmeno guardarsi intorno.

Doveva esser stato perduto da qualche pastore della zona. Trattenni il fiato.

Sulle prime pensai di catturarlo, per riportarlo al villaggio dal legittimo proprietario, e magari farmi qualche altro amico che mi fornisse informazioni per la mia ricerca. Senza un aiuto, era come cercare un ago nel pagliaio, e io non avevo tutto il tempo del mondo per portare a termine quella missione. Già l’ansia mi premeva sulle spalle, schiacciate da obiettivi altissimi.

Per ricevere, avrei dovuto anche dare: una moneta di scambio era necessaria. Così come appariva imprescindibile, in alternativa, avere qualcosa da mettere sotto i denti durante quelle lunghe notti.

Fu solo un particolare, che mi trattenne.

Il mio istinto mi disse che quell'agnello poteva rappresentare anche un'ottima esca per la mia caccia. Qualcun altro, oltre a me, poteva aver fame, in quel momento. Forse era in cerca di cibo.

Forse era vicino. Così lasciai là l’ovino, senza staccargli gli occhi di dosso neanche per un attimo. Avevo solo cambiato postazione, per non permettergli di fiutarmi.

Passò almeno un’ora. L'agnello se ne stava sempre lì, per nulla turbato dalla mia presenza o da quella di chicchessia. Pascolava l’erba beato, belando di tanto in tanto senza allontanarsi.

Restare fermo per così tanto tempo non fu per niente facile per me, abituato a muovermi per non lasciarmi mai scoprire. Più restavo immobile, più il sonno mi assediava da ogni parte, per non dire la noia. Senza qualcosa che mi tenesse attivo, rischiavo di fallire per aver socchiuso le palpebre una volta di troppo.

Si alzò una fredda brezza. Mi strinsi di più nei vestiti e mi sistemai meglio all’interno del mio nascondiglio. Avevo i muscoli tesi, senza che vi fosse tuttavia una vera ragione per cui tenderli.

Ma io sapevo che il vento avrebbe potuto cambiare da un momento all’altro.

D'un tratto, l’agnello alzò la piccola testa, come se avesse sentito un rumore. Io non avevo udito nulla, ma mi fidavo dell’intuizione fatale di quella preda. Infatti, la vidi indietreggiare e cominciare a tremare, come se un’ombra malvagia si fosse allungata improvvisamente su di lui.

Nell’oscuro volto della grotta, notai un fuggevole movimento. Uno scintillio di occhi affamati.

Fu molto veloce. In un lampo, una figura magra e quasi nuda saltò addosso all'agnello, affondando i denti nelle tenere carni del suo collo e spezzandoglielo con un potente schiocco tra le mani arcuate. Una forza malefica si era impadronita di quel lembo di carne e il sangue già macchiava la terra, prima che io potessi realizzare quello che era davvero successo.

Era lui. Lo sapevo senza nemmeno bisogno di vederlo nitidamente. Era la persona che stavo cercando.

La voglia di balzare fuori dai cespugli e piombargli addosso fu grande, ma ebbi la prontezza per frenarmi. Non era mia convenienza. Piuttosto, mi ritirai dalle frasche in silenzio e cominciai a strisciare in direzione della grotta, avvicinandomi ma mantenendo la mia presenza nell'oscurità. I miei occhi ormai abituati alla flebile luce di luna e stelle mi permettevano di indovinare facilmente le sagome dei dintorni.

Dopo pochi, felpati passi, gli fui alle spalle. Gollum stava divorando l'agnello, crudo, come un animale. Come un predatore. Troppo intento nel mestiere, non si curava di guardarsi attorno, anche perchè nessuno avrebbe avuto il coraggio di avvicinarsi a uno spettacolo così agghiacciante, dopo tutte le storie che si erano costruite attorno a lui.

Ero certo, però, che quell’essere tenesse sempre un orecchio teso, e non era escluso avesse già udito qualche mio respiro sbagliato. Eppure banchettava senza requie, non troppo spaventato.

Dovevo approfittare del fatto che non si fosse ancora ritirato nella grotta: ormai ero a pochi passi. Non afferrai il coltello, né tanto meno la spada: mi servivano le mani libere.

Notai un guizzo della sua testa calva, come se avesse annusato qualcosa nell'aria. Forse si era già accorto di me.

Non esitai oltre.

In un attimo, gli balzai addosso. Affondai una mano nella carcassa dell'agnello, sprizzando sangue ovunque, e un'altra mano l’avevo sulla viscida pelle di Gollum, sulla sua nuca.

Lui mollò immediatamente la presa sulla lauta cena e le sue unghie mi morsero i polsi, mentre io lo cingevo con le gambe e gli passavo un braccio intorno alla gola.

Quella piccola creatura si rivelò piuttosto forzuta. Cominciò a dimenarsi come un pesce, sbilanciandomi. Quello che credevo un lavoro alla mia portata, scoprii che non lo era affatto. In quattro e quattr'otto mi ritrovai atterrato, con Gollum che cercava di sfuggirmi a qualsiasi costo, grugnendo, sputando e mordendo.

Ero più grosso e più alto di lui, per non dire più robusto, ma quella creatura mi stava dando non poco filo da torcere, colpendo nei miei punti deboli: gli occhi, il basso ventre, ovunque potesse arrivare.

Fui costretto ad tirarmi indietro, senza mollare la presa attorno al suo collo, sperando di mozzargli il respiro affinchè si calmasse almeno un po'. Tentò di affondare i gomiti nelle mie costole, ma riuscii ad evitarlo per un pelo.

Avevo della corda per legarlo, nella bisaccia, ma non sarei mai riuscito a prenderla se non lo avessi prima reso inoffensivo, almeno temporaneamente.

Non mi accorsi che attraverso quei gesti convulsi ci avvicinavamo sempre di più a una pozza d’acqua poco discosta dall’ingresso della grotta. Un'ultima spinta e mi ritrovai con la testa sotto la superficie – era freddissima – e il repentino cambio di ambiente in fondo mi sorprese. Mollai la presa.

Appena si sentì libero, Gollum fece per scappare. Io lo afferrai per un piede e lo tirai giù, spingendogli la testa sotto l’acqua, rischiando di farlo affogare. La presa sulla sua pelle si fece ancora più scivolosa, ma io mi impegnai a tenerlo stretto. Non dovevo dimenticare, poi, di evitare di farlo morire nello scontro.

Aveva ancora molte cose da dirmi. Mi serviva vivo.

Lottammo per qualche altro minuto, ringhiando e sputando nel fango. Lui tentò di arpionarmi per ributtarmi la testa sott’acqua; io gli sferrai due pugni nello stomaco ed ebbi la meglio, visto che lui era quasi pelle e ossa. Approfittai del suo dolore e della sua distrazione per afferrarlo di nuovo.

Mi girai prono, trascinandomelo dietro. I miei piedi erano ben saldi per terra e finalmente ero riuscito ad emergere dall'acqua, mentre Gollum giaceva sotto di me.

Bloccai le sue gambe tra le mie, gli tirai su la testa per fargli prendere un po’ d’aria e poi lo ricacciai giù:

- Se non vuoi morire, sarà meglio che ti arrendi ora!– gridai, non pensavo così forte.

Poco più in là, gli occhi vitrei dell'agnello morto ci fissavano senza espressione.

Gollum alzò improvvisamente le mani e smise di dimenarsi. Probabilmente lo scontro o la fame l'avevano fiaccato, senza contare che vedevo sempre meno bolle comparire sulla superficie della pozzanghera, segno che il suo respiro si era quasi estinto. Attesi ancora qualche momento, prima di farlo respirare.

Lo sbattei sul terreno, decisamente sconfitto. Prima che potesse anche solo realizzare quello che era successo, avevo tratto la corda dalla bisaccia e gliel’avevo passata attorno ai polsi, poi intorno al collo, in modo che ogni movimento dei suoi arti contribuisse a mozzargli il fiato in gola. Ogni tentativo di fuga, con quel cappio, non sarebbe apparso più un obiettivo appetibile.

Ero bagnato fradicio, ma felice. Tutto sommato, dopo giorni e giorni di inseguimenti, finalmente l’avevo trovato e catturato.

- Ebbene, adesso te la dovrai vedere con me.- lo minacciai – Ho qualche domanda da farti.-

Ancora taceva. Anzi: non diceva parole sensate, ma piangeva. Assolutamente, piangeva come un bambino preso a sculacciate. Sotto i miei occhi per nulla inteneriti, tentava di liberarsi e poi si fermava, tentava e poi si ri-fermava, quando sentiva che la corda rischiava di strozzarlo.

Doveva essere molto provato.

Non mi era concesso riposo per accontentare quella creatura. Lo costrinsi a sollevarsi sulle gambe lunghe e magre, tenendolo per il torace. Quello cercava di buttarsi a terra per ostacolarmi, ma con un calcio diretto negli stinchi gli feci cambiare idea.

- Andiamo – lo spronai – Ci hai già fatto perdere fin troppo tempo.-

Nella notte ancora alta, lo trascinai via.







***N.d.A
Ritorniamo per un po' al fianco del nostro prode Aragorn (non vi eravate dimenticati di lui, vero?!)! Dopo un po' di tempo lo ritroviamo nell'azione: dopo anni di vuote ricerche, finalmente ha scovato Gollum!
Un altro tassello entra quindi nel puzzle dei nostri amici. Tutti loro forse non sanno esattamente cosa stanno facendo, ma nel disegno divino ognuno ha un ruolo, finchè la Storia non vedrà degna conclusione (così come la conosciamo nel Signore degli Anelli ^^). A volte non è facile ragionare al contrario, cioè facendo finta di non conoscere certi dettagli, dopo che li hai ormai imparati a memoria XD Ma il bello della scrittura è anche questo: rimettersi sempre in gioco!
Alla prossima mossa!


 

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Capitolo 40
*** Legolas ***


Legolas

 

Quel giorno avevo sognato che Gandalf era venuto a bussare alle nostre porte, avvolto nel suo cappuccio grigio.

Poche volte nella mia vita era capitato: per questo, anche nel sogno pensai che dovesse trattarsi di un’occasione speciale, nel bene o nel male. Ero io che lo incontravo sulla soglia, e lui con quell’usuale e sorniona letizia mi invitava ad accompagnarlo da mio padre:

- Buone nuove in arrivo!- chiocciava, mentre il sole si spegneva alle sue spalle – Rallegratevi, la nostra buona stella non ci ha abbandonato!-

Erano parole piuttosto lontane da qualsiasi realtà che io e mio padre stessimo vivendo.

Il Male aveva preso sempre più piede a Bosco Atro: le schiere di Ragni erano ormai dilaganti, e senza l’aiuto di Tauriel non riuscivo a tenerli a bada. Le frange meridionali del regno erano cadute indebitamente in mano loro, tanto che ora nessun elfo Silvano poteva avventurarsi tra quelle selve a cuor leggero. Ogni tanto avevamo tentato qualche incursione, per decimare le loro tane e dar loro fuoco, ma il colle di Dol Guldur continuava imperterrito a borbottare e a proteggere quegli avanzi di sventura, e sembrava non ci fosse scampo per quella parte di bosco.

Non ero abituato alle sconfitte e dover abbandonare il campo mi era bruciato come non mai. Per questo, alle parole di Gandalf nel sogno, avevo opposto uno scettico sorriso. Forse ce l’avevo ancora stampato sul volto quando mi svegliai.

Il sole non era ancora sorto ma già si intravedeva il suo gentile saluto tra le chiome verdi: lo potevo ammirare dalla mia stanza. In quell’alba senza nubi, riconobbi la speranza che ancora albergava nei nostri luoghi e che io e mio padre ci impegnavamo strenuamente a sostenere.

Mi vestii, mi sciacquai la faccia con l’acqua fresca, ferma in un catino, e con il viso ancora bagnato mi diressi nel salone, dove sapevo che avrei trovato re Thranduil già in piedi. Sembrava non dormisse mai, o almeno non dormisse mai il suo pensiero, costantemente rivolto agli affari del reame. Temevo che prima o poi sarebbe stato sopraffatto da tanto oneroso lavoro, ma ancora non mi permetteva di affiancarlo e prendere su di me un po’ di quel peso.

Quando varcai la soglia, l’odore dell’aria, ancora prima degli occhi, mi avvisò che c’era una grossa novità a palazzo.

Alzai lo sguardo ed eccolo lì, Gandalf, di fronte a me. Thranduil era davanti a lui, voltò appena la testa quando mi sentì entrare.

Lo stregone mi rivolse un caldo sorriso:

- Legolas!- mi venne incontro – Che gioia rivederti! Tuo padre stava giusto affermando che la tua presenza sarebbe stata imprescindibile.-

Thranduil fece una smorfia che poteva essere di disappunto, anche se non potevo esserne certo.

Al contrario, ero molto più certo che il mio fosse stato un sogno premonitore.

Gandalf volle abbracciarmi. Accolsi con gioia quel nuovo modo di darsi il benvenuto, e istintivamente ricambiai con slancio. Un viso amico, dopo tanto tempo, mi era di conforto. Magari avrebbe saputo darci qualche saggio consiglio.

Mio padre fece ancora quella faccia, lo vidi con la coda dell’occhio.

Lui non si lasciava andare a simili convenevoli.

Un po’ imbarazzato, feci un passo indietro e mi inchinai solennemente per celebrare il lieto arrivo:

- Quali nuove, Mithrandir?- chiesi.

- Novelle interessanti.- replicò lui – Ne stavo giusto parlando a tuo padre. Ma prima di riprendere il discorso, permettete che vi introduca anche un terzo interlocutore.-

Fece cenno a qualcuno che se ne stava a un lato della sala: uno dei nostri paggi, probabilmente. Quello si mosse con rapidità innata: corse ad aprire una porta laterale e sorprendentemente dal cubicolo avanzò un’ombra a me molto nota, seguita da un’altra piuttosto deforme.

Non potevo credere ai miei occhi, ma quello era proprio Aragorn, il mio migliore amico.

Un sorriso nacque spontaneo sulle mie labbra quando lo vidi entrare. Ero davvero felice di rivederlo. Gli andai incontro, in tempo per accorgermi di quanto poco presentabile fosse. La caccia e l’esperienza l'avevano stremato, oltre che ridotto a brandelli. Era forse passato qualche anno, e si vedeva sul suo viso. Gli misi una mano sulla spalla e lo invitai a rilassarsi, prendendo quell’essere immondo, Gollum, sotto la mia custodia.

Mio padre guardava, impassibile. Non amava concedere familiarità agli sconosciuti, nemmeno se questi si fossero rivelati personaggi chiave nei suoi piani.

Non avevo raccontato molto delle nostre avventure o della nostra solida amicizia, per timore di venire dileggiato, ma sarebbe stato troppo ottimista pensare che mio padre non avrebbe fatto caso a quei piccoli particolari di noi.

La nostra confidenza non gli era sfuggita.

Gandalf osservava la scena e dopo un po' si intromise, per spezzare quello spiacevole silenzio:
- Mio Sire – cominciò – Gollum è stato catturato: lo affido a te, affinchè tu lo tenga sottochiave in una delle tue segrete e non possa nuocere. Aragorn deve venire con me per allenarsi alla nuova vita che lo attende. Inoltre, dobbiamo tornare a cercare l'Unico Anello, scomparso, ci ha detto Gollum. Qualcuno deve averlo. E io ho anche idea di chi potrebbe averlo preso...-

Aragorn e lo stregone si lanciarono un'occhiata complice.

Io non riuscivo a seguirli.

Mio padre li guardava entrambi con diffidenza:

- Posso sapere qual è il tuo piano, Mithrandir?.- interrogò, senza mezzi termini.

Gandalf scosse la testa:

- Voglio solo portare questo ragazzo fuori di qui – indicò Aragorn - Non abbiamo tempo da perdere. Spero capirai e ci perdonerai per non esser stati, in questa occasione, ospiti degni della tua tavola.-

Era chiaro che stava nascondendo qualcosa a mio padre.

- Perchè tutto questo mistero? - continuò imperterrito re Thranduil.

- Tornerò per dirti anche il resto, se mi lascerai andare ora, mio sovrano...- tentò di persuaderlo Gandalf – Del resto, se riesci a far capitolare Gollum e a farti raccontare qualcosa di utile, dovremmo reincontrarci per forza. Ma non fargli del male, te ne prego. Non lo merita...ancora.-

Gollum scoccò un’occhiata preoccupata a me e poi allo stregone, che lo apostrofò semplicemente con un colpo di ciglia. La creatura si mosse nervosamente e poi si buttò a terra, gemendo.

Legato com’era, non avrebbe comunque potuto tentare nulla di più, se non squarciare i nostri timpani con i suoi lamenti.

Avevo voglia di tirargli un pugno sul muso, ma mi trattenni.

Mio padre inarcò un sopracciglio.

- Legolas, se vuole, può venire.- aggiunse Gandalf, notando il mio smarrimento.

Non ero pronto a separarmi di nuovo da Aragorn, non senza aver scambiato qualche parola con lui. Non prima di essermi sentito veramente a casa, al fianco suo, e lo stregone l’aveva capito benissimo. Stava solo cercando di rimediare al mio bisogno.

Anche Aragorn sembrava sulle spine. Non capiva il motivo di tanto contrasto tra Gandalf e il re, evidentemente. A dire il vero, non lo comprendevo appieno nemmeno io. Era come se lo stregone non si fidasse più di mio padre, almeno, non più del necessario per portare a termine una missione che solo lui conosceva.

Il sentimento, evidentemente, era reciproco.

Scoccando un'occhiata veloce a Thranduil, compresi senza ombra di dubbio che non era suo desiderio sapermi di nuovo lontano da lì, anche se il motivo mi rimaneva oscuro. Di solito mi spronava fare del mio meglio, a dare aiuto; invece stavolta appariva titubante. Le circostanze, poi, non aiutavano certo a stemperare la tensione.

- Legolas può fare quello vuole .- sentenziò, con un tono che non ammetteva replica.

Mi sentii in difficoltà, in trappola. Come se un mio avvicinarmi a Gandalf potesse ora essere considerato un tradimento.

Io volevo andare, rendermi utile; d’altra parte, volevo anche essere vicino a mio padre, poiché sembrava avesse bisogno di me. Come poche volte nella vita.

Ancora una volta, non permettei che il mio egoismo avesse la meglio. Non volevo che Thranduil si sentisse abbandonato nel suo regno, senza un valido erede a disposizione e con cui gestire quella spinosa faccenda. Ero quasi certo che Gandalf aveva parlato solo per il mio bene, perché di me si fidava e avrebbe voluto darmi la possibilità di mettermi alla prova, ma la mia presenza in quella faccenda non era affatto una questione di vita o di morte. Glielo leggevo negli occhi.

Alla fine risposi:

- Va bene così.-

 

Prima di partire, ebbi l’occasione di conversare con Aragorn ancora una volta.

Lui e Gandalf erano rimasti una sola notte, il tempo di ristorarsi, ma lo stregone era stato irremovibile circa la sua idea: Aragorn avrebbe dovuto fare fagotto subito e andare a Rohan, dove avrebbe servito alla reggia di re Thengel sotto falso nome, tentando di ricucire pazientemente i vecchi fili delle alleanze tra gli Uomini dell’Ovest e il regno di Gondor, ormai andate in rovina.

Non avrei voluto essere al suo posto: era una posizione scomoda e delicata, e lui ancora privo della necessaria cognizione. A questo serviva il suo viaggio: a superare quella mancanza.

Gli giunsi alle spalle, mentre preparava il cavallo. L’animale mi sentì per primo: alzò le orecchie e sbuffò, poiché riconosceva i miei passi - era uno dei nostri migliori stalloni.

Aragorn si voltò e sorrise nel vedermi:

- Mae govannen, Legolas – mi salutò, ponendomi una mano sulla spalla.

Mi avvicinai e accarezzai il destriero, già pieno di nostalgia per entrambe quelle creature:

- Avrei voluto avere più tempo a disposizione per passarlo con te. Ti avrei mostrato il regno.- esordii, poco convinto.

Non c’era molto da vedere, durante quei tempi, ed ebbi il timore di aver appena fatto una promessa che non sarei stato in grado di mantenere.

Lui mi fissò per un attimo ed ebbi la certezza che mi avesse capito:

- Che cosa c’è? Questioni?- interloquì – Si respira un’aria strana alla tua reggia, Mio Sire.-

Scossi la testa, ridendo:

- Per te voglio essere Legolas, sempre e solo Legolas. E l’aria strana non deriva da me, ma da mio padre.-

- E’ esattamente come lo ricordavo.- mormorò Aragorn, accarezzando anche lui il cavallo.

- E’ esattamente come lo vedi.- aggiunsi.

Lui abbassò gli occhi sul cumulo di paglia lì accanto, pensieroso. Poi li chiuse:

- Non posso restare, ma lo vorrei.- mi disse – Ho ancora molte cose da imparare da voi Silvani. Non ho mai passato sufficiente tempo sotto i vostri alberi. E’ come se mi mancasse qualcosa.-

- Quando potrai farlo, mi troverai qui.- lo incoraggiai – Ti insegnerò tutto quello che vorrai sapere.-

Lui mi ringraziò e finì di sellare il cavallo.

- Avremo ancora bisogno l’uno dell’altro, prima di quanto crediamo – mi predisse.

La pensavo allo stesso modo.

- Sta’ attento.- mi raccomandai.

- Senz’altro. Devo arrivare vivo alla fine dei miei giorni.- rise.

Un’ombra greve avanzò sui nostri visi.

- Teniamoci in contatto.- mi propose.

- Sai dove trovarmi. Ci aiuterà Gandalf.-

Annuì.

Strinse per bene la cinghia sotto la pancia del cavallo, poi infilò un piede nella staffa e si issò. Lo stallone sbuffò ancora, questa volta per il fastidio, ma Aragorn teneva ben salde le redini e con un’altra carezza e due parole dolci lo aveva già conquistato. Io contribuii ben poco a tranquillizzare la bestia, prima che Aragorn gli piantasse i talloni nei fianchi e lo spronasse a partire.

Li precedetti lungo la stalla fino al portone, che spalancai per loro.

Aragorn mi rivolse ancora un sorriso colmo di gratitudine:

- Namarie, Legolas.-

Strinsi le labbra, incapace di dire una sola parola. Qualcosa nel mio cuore si stava strappando, anche se non ce n’era motivo. Gli auguravo ogni bene e la mia certezza era che presto avremmo combattuto schiena contro schiena, come i nostri avi prima di noi.

Non c’era nulla di cui preoccuparsi.

Con un ultimo incitamento, Aragorn partì, senza voltarsi.

Lo salutai con la mente come si saluta un fidato compagno d’armi, il proprio braccio destro.

D’ora in avanti avrei dovuto cavarmela da solo.












***NDA***
Argh, che fatica questo ultimo capitolo! Il tempo è sempre meno, ma io sento che c'è ancora qualcosa da dire su questa storia...non voglio fermarmi!
Prima o poi doveva accadere: i nostri eroi si reincontrano, ma il destino si fa beffe di loro e li separa un'altra volta, così come noi sappiamo (più o meno bene) dal SIgnore degli Anelli... Ci sarà spazio per approfondire ulteriormente questa amicizia, ma ciò non è possibile ora. Inutile dire quanta sofferenza questo porta...
Così l'ho immaginato, e spero di non avervi deluso. Alla prossima!

 

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Capitolo 41
*** Thranduil ***


ANNI DOPO

 

Thranduil

 

Era una mattina come tutte le altre, alla reggia. Mi ero alzato di buon'ora, spinto da chissà quale presentimento.

Avevo aperto gli occhi di nuovo sul mondo con una nota di fastidioso nervosismo, e la mia ferita che, stranamente, pulsava. L’avevo sfiorata, e per un attimo mi era sembrato di sentire di nuovo il fuoco del Drago che mi cuoceva, che mi sfigurava, come un agnello infilzato. Forse nella notte ero stato preda di qualche sogno astruso, che ora non ricordavo. In effetti, era meglio così.

Con il senno di poi avrei capito che devo sempre stare ad ascoltare le mie sensazioni.

Non avendo riposato ottimamente, il mio umore vacillava. Quel giorno ero pieno di impegni, non c’era comunque un momento da perdere, al di là di come mi sentissi.

Dopo aver opportunamente riempito lo stomaco con frutta dolce e una bevanda fresca, mi accinsi come prima cosa ad accogliere i questuanti nella sala del trono.

Legolas non si era presentato a colazione: immaginai che fosse uscito presto, forse per andare a caccia nei boschi o ad allenarsi. Era diventato sempre più imprevedibile e insofferente, negli ultimi tempi, e ogni mio tentativo di parlare con lui a quattr'occhi era miseramente fallito. Probabilmente era giunto il momento che da tempo temevo: ovvero, che fosse per lui ora di volare di nuovo lontano dal nostro nido.

Aveva recuperato sufficienti energie per riprendersi dalla delusione di Fornost, dalla morte di Tauriel e dal ripristinato regno di Bosco Atro, con tutte le sue regole. Le aveva seguite diligentemente ed altrettanto diligentemente si era occupato del reame, durante tutti quegli anni. Sapevo che lui e Aragorn si tenevano in contatto tramite qualche messaggio – Gandalf intercedeva per loro - anche se non era sempre così semplice intercettare quell'uomo. Più facilmente, era lui che sapeva dove trovarci.

Lo stregone era tornato a farci visita, ma era venuto solo. Mi aveva portato notizie fresche, ma nessuna novità di sorta. L’Unico Anello rimaneva celato alla sua e alla nostra vista. Forse per questo lui appariva sempre più affaticato e affranto, come se non ne venisse a capo. Legolas non era presente, in quel momento, quindi si era trovato costretto a parlare solo con me: sospettavo di non essere il suo interlocutore preferito. Mio figlio avrebbe sicuramente stemperato gli animi, che non avevo la più pallida idea del perché dovessero rimanere così sospettosi. Ma tant’è.

Mi aveva chiesto notizie di Gollum e io l'avevo rassicurato circa il fatto ce quella fetida creatura era stata trattata come si conveniva, e con non pochi riguardi rispetto a quelli che si meritava. Ma rimaneva in cella, dove speravo di vederla marcire.

Non che avesse intenzione di tornarlo a prendere. Voleva solo sapere se aveva dato altre informazioni sul famoso Anello del Potere. Ma no, non c'era stato verso di far parlare quella lingua biforcuta, e dopo una serie di tentativi andati a vuoto, per non aizzare oltre ogni logica anche l'animo più gentile dei miei carcerieri, avevo dovuto dare ordine di smettere. Le lamentele di quell'essere erano continue e azzardate, ma sempre meno provocanti che sputi e tentativi di azzannarsi per darsi la morte o azzannare chiunque gli si parasse davanti.

Era stato sbattuto nelle prigioni più profonde con le mani legate dietro la schiena, ma nonostante fosse lontano, persino a me sembrava di sentirlo gridare di notte.

A proposito di Gollum. Erano un paio di giornate che riflettevo sull'opportunità di adottare un approccio diverso, che coinvolgesse magari anche la mia persona. Ero convinto che il Male dentro di lui e il Male dentro di me avrebbero potuto avere qualcosa da dirsi e forse questa poteva essere la chiave che ci avrebbe permesso di arrivare alla verità.

Certo, era una strada rischiosa. Provocare l’Oscurità che sopravviveva nella mia persona era una mossa audace come scendere in battaglia completamente disarmato. Purtroppo, solo io potevo decidere di provare questo metodo, in quanto nessun altro poteva vantarsi di questa privilegiata convivenza. Avrei chiesto a Legolas di assistermi, chiaramente. Nessuno, né tanto meno io, sapeva come avrebbe potuto andare a finire, né la percentuale di successo che era possibile ottenere.

Attesi quindi di confrontarmi con mio figlio, quando fosse tornato. Mandai un paggio a cercarlo.

Nel frattempo, cercavo di tenere a bada la mia crescente ansia. Era una sensazione spiacevole e fastidiosa, come un disturbo nelle frequenze della mia psiche. La sensazione che qualcosa non tornasse, che qualcosa mi fosse sfuggito. Ma avevo da fare, non potevo permettermi un attimo di pausa o un approfondimento.

Feci entrare il primo questuante, con un ordine secco e solenne.

Potevano essere giorni che attendeva il suo turno, ed era mio dovere come minimo ascoltarlo.

Questi si inginocchiò con sollecitudine di fronte a me. Mi implorò di concedergli la mia benedizione, e lo feci. Doveva essermi molto devoto.

Quando cominciò definire più dettagliatamente la sua richiesta, tuttavia, la mia mente fu rapida a scivolare via. Il presentimento di prima non accennava ad andarsene, anzi. Mi ritrovai a pensare che il mio posto assolutamente non era lì, ma altrove. Dove, non mi era ancora dato saperlo, ma il mio cuore già batteva forte per ulteriori obiettivi.

Mentre eravamo ancora lì a parlare, rientrò il mio paggio, seguito a ruota da Legolas. A giudicare dal suo volto scuro, capii che aveva qualcosa di cui avvertirmi. Scattai subito in piedi. Il suddito si zittì, facendosi da parte. Andai incontro a mio figlio con la certezza che fosse successo un fatto grave.

Come temevo:

- Quali nuove?- gli chiesi in fretta.

- Gollum.- mi rispose – E' scappato dalle celle. Non so come.-

Era già la seconda volta in pochi anni che accadeva. Prima erano riusciti a ingannarmi gli infami nani di Erebor, con a capo Thorin Scudodiquercia e lo hobbit Bilbo, miracolosamente riuscito a intortare le mie guardie, ma ora ci riusciva a anche questo Gollum, l’ultimo e più infimo essere della Terra-di-Mezzo!

Ero palesemente alterato, anche se non aveva senso prendersela con Legolas, già mortificato di suo.

- Andrò fuori a cercarlo.- disse con convinzione.

Scossi la testa:

- No – replicai – Andrò io a cercarlo.-

Feci portare l'arco e preparare la cavalcatura, abbandonando il questuante a se stesso. C’erano altre priorità. Legolas mi seguì, tentando di opporsi:

- Lasciami venire con te!- mi pregò.

Riconoscevo quella rabbia negli occhi: era la stessa che bruciava nei miei.

Ma uno dei due doveva rimanere calmo e astuto, o tutto sarebbe stato perduto a causa dell’impulsività che, come si sa, è sempre una cattiva consigliera, specie nelle questioni così delicate.

In maniera naturale mi addossai anche quell’incarico:

- Non è necessario.- cercai di tranquillizzarlo - Conosco questi boschi meglio di chiunque altro. Lo scoverò in men che non si dica.-

- Due paia di occhi sono meglio di uno.- insistette Legolas.

- Senza ombra di dubbio, ma i rischi è meglio rimangano in capo a uno solo di noi due.-

Si fermò in mezzo al corridoio, in maniera così repentina, che mi stupii di non averlo più al mio fianco. Mi bloccai anch’io, voltandomi. Gli scoccai un’occhiata interrogativa.

Mi stava guardando. Con due occhi, miei Valar, talmente azzurri e pieni di dolore che quasi mi vergognai delle mie parole. Ancora una volta non avevo creduto in lui e nelle sue capacità. Forse non mi avrebbe perdonato.

Qualche cosa dentro di me si sciolse. Dopo tanto tempo passato finalmente assieme, fianco a fianco, tempo in cui avevo imparato a conoscerlo, ad amarlo di più, se fosse possibile - non potevo deluderlo di nuovo, me ne rendevo conto.

Per troppe volte l’avevo trattato come un bambino mentre invece era un guerriero di tutto punto, un degno successore. Mi mancava solo la forza di confessarglielo.

Così, dopo qualche battuta, accondiscesi. Quell'esperienza da un lato mi allietava, perchè avrei potuto di nuovo cavalcare fianco a fianco con mio figlio, dopo tutto ciò che ci aveva tenuto divisi e che ancora non si era interamente aggiustato. Quello poteva essere un altro passo verso il nostro ritrovato legame.

Per un attimo pensai anche a Tauriel, il mio miglior luogotenente, ora un vuoto incolmabile, ma mi costrinsi a cacciarla via dalla mia mente. Non era più possibile cambiare il passato, ma potevo ancora riscrivere il nostro futuro. Dovevo rimanere concentrato su questo.

Imbracciate le armi, partimmo anticipati da un gruppo di Esploratori, abilissimi nello scovare tracce. Ci avrebbero aperto la via.

Li seguimmo attraverso il bosco, fidandoci ciecamente del loro intuito. Nel frattempo, noi risparmiavamo le energie e la concentrazione per quando la caccia si sarebbe fatta più serrata.

Proseguimmo poi lungo il pendio di un’altura piena di rovi: dopo aver tentato inutilmente di reciderli, si rese necessario abbandonare i cavalli e continuare a piedi. Quindi, notevolmente rallentati.

Dove era andato a nascondersi quel manigoldo da quattro soldi?

Una persona normale non avrebbe mai potuto addentrarsi così agevolmente nel fitto della boscaglia, senza essere sbranato da quelle piante voraci. Ci guardavamo attorno ma non riuscivamo a scorgere un brandello di abiti, di carne, di sangue. Nulla. Noi stessi faticavamo ad aprirci un varco sufficiente, e non senza lasciare qualcosa di noi su quel terreno.

Le ragnatele tutti intorno ci avvisavano della presenza di ragni velenosi: troppi, a giudicare anche dal copioso numero di prede che trovammo appese lungo il cammino. Quell’abitudine sinistra mi ricordava strani incroci con la stirpe di Ungoliant, la regina madre di ogni aracnide della foresta. Forse eravamo stati troppo fiduciosi nel pensare di poter penetrare quel lato del bosco.

La tensione si faceva soffocante. Non avevamo né il tempo né le forze per affrontare quell’angolo di mondo dimenticato: eravamo pochi e preziosi, così come erano rimasti in pochi e preziosi Elfi Silvani.

Dopo un po', giudicai non più prudente andare oltre. Se fosse capitato qualcosa a me o a mio figlio, soprattutto a mio figlio, non me lo sarei mai perdonato. Il regno non era pronto per rimanere senza una guida.

Davvero non capivo come quella creatura avrebbe potuto affrontare quelle schiere di malvagie creature, da lì in avanti. Lo stesso nostro pericolo, lo correva anche Gollum, ma non pareva importargliene. Si era diretto esattamente nella tana del nemico.

- Forse parlano la stessa lingua... - sospirai, sentendomi sconfitto.

Legolas desiderava continuare a cercare, lo comprendevo dal suo modo nervoso di muoversi. Cercai di dissuaderlo:

- Non ha senso andare oltre. Da morti non serviremmo. Piuttosto, possiamo pensare di tornare qui in forze.-

Legolas mi guardò piuttosto affranto. Sorprendentemente, però, per la prima volta, si arrese alla ragionevolezza con una certa facilità.

Forse lui stesso capiva di trovarsi di fronte a una lotta impari.

Tornammo indietro, dove avevamo lasciato i cavalli. Montammo in sella e tornammo a casa spalla contro spalla, con lo stomaco rimescolato da quella strana vicenda. Nella debole luce soffusa, tra gli alberi, non sembrava esserci altro spazio se non per noi due. Anche il pugno di Esploratori, compatti alle nostre spalle, non sembrava avere più un peso nè una presenza (l’aveva mai avuta?).

Mi voltai verso mio figlio e lo vidi in quella nuova luce, più grande e adulto che mai. Lui non mi degnava di un’occhiata: scandagliava i dintorni, sperando in un indizio che non c’era. Leggevo sul suo volto l’amara delusione di non aver potuto fare di più.

Quello di cui io ero certo, al contrario, è che mi sarebbe toccato punire pesantemente qualcun altro per la sua superficialità.

Lo scalpiccio degli zoccoli dei nostri cavalli fu il solo rumore che potemmo sentire durante il nostro ritorno. Ebbi come la sensazione che quel momento fosse destinato a rimanermi dentro per molto tempo, forse perché sarebbe stato l’ultimo. Non ero solito avere quel tipo di percezioni, che tanto invece erano care a Elrond; nel tempo forse avevo imparato a lasciarmi permeare da certe visioni.

Non dissi niente per non turbare ulteriormente la compagnia.

- Devo pensare a cosa è meglio fare.- annunciai, rientrando.

Legolas lasciò le briglie agli scudieri e mi venne dietro:

- Possiamo riprovarci domani, con la luce piena del giorno...quanta distanza pensi che possa percorrere, a piedi?-

Sbuffai:

- Gollum è solo un minuscolo cruccio in un ginepraio di problemi più grandi. Non sono certo sia buona cosa perdere tempo a inseguirlo. Tanto più che, nonostante abbia passato alcuni anni in nostra compagnia, non ci ha detto mai di più rispetto di quello che già sapevamo. E’ quindi un essere inutile, e tutto sommato è bene che sia andato incontro al suo destino. Se lo mangeranno i ragni.-

Legolas sbarrò gli occhi:

- Che vuoi fare?!- esplose, al colmo dello stupore.

Sospirai. Feci quello che mi sembrava più giusto:

- Penso mi concentrerò su obiettivi più alla nostra portata.- tagliai corto, ma la verità era che non avevo la più pallida idea della direzione in cui sarebbe convenuto muoversi.

- Dobbiamo almeno provare a riprenderlo!- insistette Legolas.

Il mio tono si fece di fuoco:

- Non servirà a niente.- replicai – I miei soldati mi servono QUI.-

Legolas spalancò la bocca per dire qualcosa, ma altrettanto rapidamente la richiuse. Non era affatto felice della mia decisione: lo vidi che cadeva nello sconforto.

Sapevo che non poteva capire. Lui non era a conoscenza di tutti i dettagli, di tutte le mie preoccupazioni. C’erano perversi cambiamenti intorno a noi e io avevo il dovere di tenerli sotto controllo e farmi trovare pronto. Per questo non avevo tempo da perdere in quisquilie. Dovevo rispettare delle priorità.

- Dobbiamo almeno avvertire Gandalf.- tentò.

Sapevo cosa intendeva dire.

Ma sapevo anche che lo stregone non poteva più aiutarci, dato che la sua magra figura si era persa nel sud e non aveva lasciato dietro di sé nessun sentiero.

Alzai la testa:

- No, non lo faremo.- decisi, risoluto – Dovremo cavarcela da soli, finché sarà possibile.-

 

Cercammo per una settimana, quasi solo per accontentare Legolas. Infatti, non aveva lasciato perdere; al contrario, era riuscito a convincermi che quella ricognizione aveva una sua utilità.

Nessuna traccia tuttavia apparve ai miei occhi stanchi, nessuna traccia agli occhi acuti di mio figlio, sempre più deluso.

Perlustrammo in lungo e in largo, fin dove i Ragni avevano tessuto troppe trappole. Non mi sembrò razionale insistere e mettere a repentaglio la vita dei nostri guerrieri. Così come noi non saremmo facilmente sopravvissuti a un attacco di massa di quelle creature, nemmeno Gollum avrebbe potuto. Confidavo in questo.

Tuttavia il mio malanimo non accennava a diminuire.

Passò altro tempo che a posteriori giudicai di valore, perché avevo ancora mio figlio a fianco. Il mio peso sul cuore, tuttavia, non si decideva ad andarsene.

Rimasi a lungo indeciso se dare fiato alle trombe e alla notizia, avvertendo gli altri popoli vicini che un nemico in più poteva nascondersi tra loro; ma alla fine vi rinunciai. Non aveva senso interrompere brutalmente quei tempi di precario equilibrio per una creatura che poteva essere già morta.

Legolas uscì altre due volte, violando il mio ordine, per andare a cercarlo. Tornò sempre a mani vuote. Lo aspettai con pazienza, sempre pronto a fargli notare quanto il suo comportamento stesse mettendo oltremodo in pericolo l’incolumità del nostro regno; ebbi l’impressione di non avere scalfito l’animo di Legolas più di tanto.

Era mortalmente sicuro di ciò che faceva.

Finchè arrivò quella lettera. Elrond mi convocava a Gran Burrone, dove aveva adunato il Bianco Consiglio, richiamando tutti i rappresentanti più importanti della Terra-di-Mezzo. Aveva bisogno urgente di consultarsi con gli esponenti delle razze più numerose per intavolare una prima offensiva contro il Regno di Mordor, che nel frattempo si stava riarmando alacremente, incessantemente.

Come sempre, mi aveva tenuto in considerazione e gliene fui grato.

Ma sentivo che il mio ruolo, in quel mondo, ormai volgeva al termine. Gli orchi premevano da sud e anche a nord l’ombra non era più tanto chiara. Truppe di uomini Esterling marciavano sulle Terre Selvagge e il pensiero di lasciare abbandonata la mia terra, o in mano a un reggente, mi riempiva il cuore di sgomento. Avevo già vissuto quel disastro e non volevo in alcun modo ripercorrerlo. Avrei protetto il mio popolo o sarei morto con esso.

C’era tuttavia una speranza che ancora non si era spenta.






***NdA***
Ecco un altro nodo finalmente sciolto e spiegato. E anche Gollum ce lo siamo levato dalle.... 
La fine di questo capitolo vi ha fatto vibrare le meningi?! Stiamo per ricongiugnerci alla storia principale ideata da Tolkien...
Lo so, forse questo significa che siamo vicini alla fine, ma non temete: non vi lascerò a bocca asciutta!
Continuate a leggere e a commentare, io mi impegnerò al massimo per non deludervi!
A presto

 

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Capitolo 42
*** Legolas ***


Legolas

 

Il tramonto era ormai sceso alle mie spalle da un po’ di tempo, quando mio padre mi mandò a convocare.

Le stelle erano già spuntate quando varcai per l’ennesima volta la sala del trono, dove re Thranduil se ne stava sepolto, con una nuova missiva in mano: l’ultima che era arrivata.

Come entrai, notai subito uno strano adombro sul suo viso, come se le nuove non fossero buone.

Mi avvicinai con passo felpato, così come lui mi aveva insegnato, per non strapparlo troppo bruscamente ai suoi rimugini. Ma lui non ebbe nessuna difficoltà ad accorgersi di me.

Appena si voltò a guardarmi, mi fermai e piegai frettolosamente la testa in segno di deferenza.

Era di nuovo vigile.

- Re Elrond ha convocato il Bianco Consiglio.- esordì – Richiedono la nostra presenza. Sembra una questione molto urgente. Probabilmente riguarda quell’Anello di cui ci parlò Gandalf, ricordi?-

Tacque per un attimo, mentre io ripensavo a tutti i recenti avvenimenti. La venuta di Aragorn, la presa in consegna di Gollum, i racconti sull’Unico Anello – infine, la fuga di quella creatura malefica.

Ancora non potevo capacitarmi di come nessuno di noi fosse riuscito a fermarlo e a ritrovarlo, soprattutto io. Dopo l’episodio di Thorin Scudodiquercia, il quale era riuscito a evadere dalle nostre celle non si sa come, eravamo stati molto più attenti ma, evidentemente, non abbastanza.

Mi bruciava ancora quello smacco, come una lacerazione sulla pelle.

Faticavo a comprendere come mai mio padre, per tutto quel tempo, avesse desiderato che rimanesse una cosa solo nostra. Per vergogna? Eppure qualcuno avrebbe potuto aiutarci. La collaborazione avrebbe dovuto essere il perno fondamentale alla base di ogni alleanza, anche se ormai da troppo tempo queste sembravano vertere sempre di più a nostro favore, senza che noi realmente compensassimo i nostri vicini con i nostri umili servigi. Va da sé che risultava difficile poi chiedere supporto nei momenti bui.

- Devi andare ad avvertirli.-

Come se mi avesse letto nel pensiero, re Thranduil tirò su la testa, piuttosto risoluto:

– Andrai tu a Gran Burrone e dirai di Gollum e dei movimenti giù a sud, tra Dol Guldur e le Terre Selvagge. Devono esserne tutti informati. Potrebbe esserci bisogno di te. Ti allineerai con la volontà di re Elrond. Non possiamo tirarci indietro, stavolta.-

Lo fissai, piuttosto incredulo. Non pensavo sul serio che avrei avuto l’onore di udire quelle parole.

Ma perché proprio ora? E perché proprio io?

Mio padre intendeva allontanarmi dal regno, addirittura con il compito di compiacere totalmente re Elrond, qualsiasi cosa questo comportasse, con il rischio di non vedermi quindi tornare – non in tempi brevi almeno?

Dopo tutto quello che avevamo passato, forse da mio padre mi sarei aspettato qualcosa di diverso.

Irritato più da questa pensiero che dalla richiesta vera e propria, scattai:

- Come mai tutta questa solerzia?- ironizzai – Che ti prende? Cerchi di redimerti ai loro occhi, dopo che hai voluto tenere ostinatamente chiusi i tuoi quando gli altri avrebbero avuto bisogno del tuo appoggio e tu non c’eri? Forse è una sorta di compensazione al fatto che non stai mandando rinforzi a Lothlorien e Erebor, dove sai che li stanno aspettando?-

Gli orchi imperversavano sempre più assiduamente fra quelle terre, tra assalti a sorpresa, agguati e sempre con rinnovate forze. Lo sapevamo ormai da due anni; mandavamo numerosi Esploratori a tenere monitorata la situazione, tuttavia il re non aveva mai proferito verbo circa la sua volontà di soccorrere quelli che avrebbero dovuto essere nostri amici. Li aveva lasciati soli e io non potevo nulla, perché ero solo suo figlio e contro il suo diniego anche la mia volontà si era infranta.

L’avevo ferito. Caspita, quanto l’avevo ferito! Ma Thranduil non si lasciò intimorire: ebbi l’impressione che quasi quasi si divertisse di fronte al mio broncio.

Scosse eloquentemente la testa:

- Cerco solo di non essere egoista più del necessario.- chinò il capo – E’ giunto il momento che alcune responsabilità passino a te. Sei coraggioso e forte, hai fatto grandi passi in avanti. Occorre continuare su questa strada e forse questa è la tua prima grande occasione per dimostrare chi sei.-

Mi guardò intensamente, al punto che mi sentii quasi soggiogato da tutto quello che credeva di vedere in me.

Aveva ragione: ora era il mio turno a dimostrare che il regno di Bosco Atro poteva avere un peso, che non si trattava solo di una massa di alberi fagocitati dai ragni. Potevo dimostrare che gli Elfi Silvani erano ancora un popolo combattivo, su cui si poteva contare. Potevo farlo.

Essere il depositario di tanto potere mi faceva girare la testa.

- Probabilmente reincontrerai anche Aragorn, al Consiglio.- aggiunse mio padre.

Il solo pensiero che ci fosse Aragorn al mio fianco bastò per farmi sentire meglio. Qualsiasi cosa, se affrontata insieme, assumeva tutt’altro contorno. Solo unendo le forze avremmo potuto uscirne vivi, noi tutti.

Subito mi convinsi che era veramente la cosa giusta da fare.

- Parto domani.- accondiscesi.

Mio padre annuì con una certa gravità. Poi si chinò di nuovo per studiare quella missiva, senza posare gli occhi su di me.

Non avevamo più niente da dirci.

Prima di volare ai piani superiori per un tonificante riposo, approfittai dell’occasione:

- Non vieni anche tu al Consiglio?-

Dopo un momento di sorpreso silenzio, mio padre ridacchiò:

- No, io sto bene qui, sotto gli alberi. Non ho intenzione di mescolarmi con quella gente.-

In verità, c’era dell’altro. Oscuri rivoltamenti aleggiavano nella foresta, Dol Guldur non la smetteva di rumoreggiare e c’erano malefiche creature da tenere a bada, confini da proteggere, villaggi da trarre in salvo. C’era bisogno di un re che vegliasse su tutto e su tutti e combattesse fino alla fine per la sua discendenza.

Ma non lo disse. Lo capii da solo. Come avevo imparato a capire molte cose di mio padre senza che lui esprimesse alcunchè.

Per esempio, intuii quella richiesta inespressa, trattenuta nei suoi occhi, quando fuggevolmente mi degnò di uno sguardo.

- Ti prometto che tornerò.- tentai di rassicurarlo, perché sapevo che ne aveva bisogno.

- Tu devi tornare.-

Lo affermò con forza inaudita, data la sua proverbiale freddezza. Si leggevano tra le righe di quelle parole il rammarico e la paura di perdermi un’altra volta, magari per sempre.

Capii in quel momento che ero veramente tutto ciò che gli era rimasto. Non riuscivo ad immaginare che cosa avrebbe fatto, se io non ci fossi stato. Ero ormai diventato il suo punto di riferimento, che si decidesse ad accettarlo o no.

Nonostante questo, si sentiva di sacrificarlo per il bene della Terra-di-Mezzo, in nome di una giustizia a cui forse nemmeno credeva.

Questa era la generosità di mio padre.

Deglutì faticosamente:

- Vai dove ti diranno. Dai loro tutto l’aiuto di cui hanno bisogno, tutto l’ aiuto che chiedono. Saprai cavartela. Hai la mia benedizione. Ora vai.-

Mi cacciò via con un gesto della mano, trattenendo quella che sembrava una sincera tristezza. Si vedeva che aveva necessità di rimanere un po’ solo. Forse gli serviva per calmare l’apprensione.

Sospirai. Da una vita intera speravo di potermi godere un Thranduil diverso, un po’ più vicino a me, ma non mi era stato concesso. Avevo dovuto imparare a vivere senza reclamarlo, né aspettarmelo. La Storia aveva già preteso troppo da lui e i miei obiettivi aggiungevano un inutile peso ai suoi anni già vissuti.

Me ne andai come me n’ero andato tante volte: senza guardare per paura di avere qualche tipo di rimorso nei suoi confronti.

- Legolas… mi richiamò il re.

Mi fermai.

Si alzò più faticosamente del solito, sovrastato da un dispiacere che probabilmente si trascinava dietro da troppo tempo. Sentivo le sue ossa scricchiolare mentre con passi lenti si avvicinava a me.

- Sei cresciuto sano e forte come io e tua madre abbiamo desiderato fin dal primo momento che sapemmo della tua esistenza. - gli si rompeva la voce – Stai facendo grandi cose, stai rendendo onore alla famiglia e alla casata. Siamo fieri di te. Entrambi.-

Un nodo mi strinse forte alla gola, ma lo mandai giù. Avrei voluto dire qualcosa, fare qualcosa, ma tutto il mio corpo era impietrito.

Se mi avesse toccato, se solo mi avesse sfiorato, in quel momento, sono sicuro che mi sarei messo a piangere. Erano le parole che attendevo da molti anni.

Ma non era il momento di lasciarsi andare ai sentimentalismi. Non era mai stato tempo.

Quando mi fu finalmente accanto, trovai il coraggio di posare i miei occhi nei suoi. Vi lessi pudore, orgoglio e una sana punta di invidia. Lui vedeva in me quello che non era riuscito a vedere in se stesso durante i secoli. Ero la sua rivincita.

Non mi aveva mai voluto suo specchio riflesso, anzi: in assenza di mia madre come termine di confronto, si era impegnato – anche troppo – per scolpirmi diverso da lui, per spingermi dove lui non era riuscito ad arrivare. Perchè io avessi le qualità che a lui erano state precluse. Perchè io avessi una mente abile e caparbia, molto più della sua.

Il lavoro gli era riuscito perfettamente.

Sorrisi. Dopotutto, non era andata poi così male.

Gli posai una mano lieve sul braccio:

- Sei un bravo padre.- gli confessai.

Gli occhi del re brillarono:

- E tu un bravo figlio.- ricambiò.

Ci scambiammo una veloce occhiata, quasi un complice giuramento: ovunque fossimo, non ci saremmo lasciati mai. Saremmo sempre stati quei due elfi legati da una semplice mano sul braccio, dove per sempre sarebbe rimasta l’impronta del nostro calore.

Restai ancora per un attimo, il necessario perché lui assorbisse quanto più possibile il beneficio della mia presenza. Non sapevamo se ci saremmo rivisti e non avevo più dubbi che la cosa l’avrebbe fatto soffrire molto. Aveva tutta la mia comprensione.

E io avevo finalmente l’assoluta certezza di averlo con me.







***NDA***
Aaaaah ecco che un po' di nodi si sciolgono! Avevo tanta voglia di scrivere una scena dolce per questi due personaggi....speriamo di esserci riusciti! 
Se vi è piaciuta lasciatemi un commento grazieeeee
A presto

 

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Capitolo 43
*** Thranduil ***


Thranduil
 



Tremai. C’era amore in quello sguardo, amore puro, amore vero, amore come nessuno – a parte mia moglie – avrebbe potuto darmi.

Abbassai lo sguardo sulle mie mani appena posate sulle ginocchia. Non erano più dieci lunghe dita che avevano percorso i piaceri del letto e della battaglia, ma arti rattrappiti che ora vacillavano. Le spinsi più a fondo contro la carne, cercando di controllare quel fremito.

Legolas aveva bloccato il passo. Non mi alzai subito: con gli occhi bassi e una gran voglia di non essere più lì, di poter guardare quella scena dall’esterno, presi tempo. Poi mi staccai faticosamente dal trono e mi avvicinai.

Sentii come se tutte le mie ossa si fossero rotte e ricostruite nello stesso momento.

Legolas non mi mise fretta, anzi, mi aspettò con pazienza. Quello era il mio corpo, quello era mio figlio, e quelle erano le nostre mani che leggermente si accostavano, si accarezzavano furtive. Prima che la sua si appoggiasse sul mio braccio:

- Sei un bravo padre.- mi disse.

- E tu un bravo figlio.- ricambiai, cercando di non balbettare.

Il viaggio a Fornost l’aveva profondamente cambiato. Ero certo non mi avesse raccontato ogni cosa; potevo solo immaginare le bestie che avevano tormentato i suoi sogni, i nemici che avevano graffiato la sua corazza, senza mai riuscire a penetrarla. Il mio unico figlio era uno spirito inossidabile che avrebbe resistito a qualunque tempo e a qualsiasi circostanza, al contrario mio. Io forse mi sarei spento un giorno tra i ricordi e quando ciò non sarebbe più stato sopportabile forse mi sarei ucciso. Non sarei stato codardo come i miei fratelli, non sarei salpato per i Porti Grigi invocando la pietà di Dèi a cui non credevo più da molto tempo.

Finchè la luce di Legolas sarebbe stata così chiara e sfavillante, mi accontentavo di poter essere specchio per la sua grandezza.

Mi teneva ancora la mano sul braccio. Non ero abituato a tale confidenza: mi chiesti che cosa poteva turbare l’animo di mio figlio così tanto da cercare riparo proprio in me.

Alzai gli occhi, incrociando i suoi:

- C’è una cosa che non ti ho detto, padre.- esordì, con voce insicura.

Quel tono mi preoccupò:

- Che succede?-

Gli leggevo in faccia un timore sconosciuto per la maggioranza della sua vita. Era come se Legolas avesse paura di me e del mio giudizio, dopo che mai mi era sembrato gliene potesse importare qualcosa.

Ma perché? Per quale motivo? Quale ragione poteva essere così soverchiante da rischiare di incrinare il nostro rapporto?

Dopo un attimo di esitazione, infilò l’altra mano all’interno della sua veste per trarne fuori qualcosa di lucente. Vedevo brillare i raggi del sole di marzo attraverso le sue dita, una luce a me fin troppo nota, mai dimenticata.

La memoria di cose andate mi travolse ancora una volta.

Non osavo nemmeno respirare. Legolas se ne accorse, ma non disse nulla, non interruppe l’incanto. Aprì le dita e una luce bianca investì i miei occhi, illuminando il volto di entrambi.

Le riconobbi immediatamente: erano le gemme di Lasgalen.

Come potevano essere in mano a lui?

- Queste gemme parlano di te.- mio figlio mi osservava piuttosto inquieto – Che cosa sono?-

Non potei fare a meno di coprirmi la bocca con le mani. Quasi mi commossi.

Quelle gemme non parlavano solo di me, ma di mia moglie. Le rammentavo ancora attorno al suo collo, quando ci eravamo sposati: quando mi ero inginocchiato per porgergliele e dopo mi ero alzato per adornarla con quel meraviglioso monile, creato apposta per noi dai nostri migliori mastri elfici.

Le rammentavo mentre lei se le passava tra le dita, e le dita passavano sui suoi seni e il suo ventre arrotondato, in attesa di Legolas.

Quelle pietre erano la testimonianza più cara della mia famiglia, della mia stirpe, e del mio amore. Non pensavo sul serio di poterle rivedere.

Caddi in ginocchio di fronte a mio figlio. Per tutto quel tempo avevo pensato che erano andate perdute e con loro anche il Thranduil di qualche secolo prima.

Mi girava la testa.

Lui si precipitò al mio fianco, sostenendomi:

- Come fai ad averle tu?- mi azzardai a chiedere, con i singhiozzi trattenuti a stento.

Legolas sospirò. Poi confessò:

- Sono tornato da Angmar con tre fiori in boccio nella tasca...- mi spiegò – Mi ricordavano mia madre. Li ho tenuti gelosamente con me, cercando di farli sopravvivere, finché sono arrivati qui. Una notte, mentre controllavo che non si fossero sciupati, quelli si sono trasformati in queste pietre tra le mie mani.-

Non dissi niente. Cercai solo di inghiottire aria.

- Per tutto questo tempo le ho custodite nella mia stanza. Le rimiravo ogni sera, sembrava mi sussurrassero poesie. Mi hanno tenuto compagnia in questi anni bui e soli. Cercavo il momento giusto per dirtelo, anche perché non mi sentivo mai pronto a separarmene.- mi spiegò – Sono di mia madre vero?-

Avrei voluto parlare, spiegargli tutto, ma non mi riuscì un solo suono.

Avrei voluto piegarmi fino alla terra e baciare quell’erba, la natura, i grandi Valar che mi avevano permesso di realizzare quel piccolo sogno. Invece fui solo in grado di accartocciarmi su me stesso.

Legolas mi abbracciò. Forse pensava che che mi stessi sentendo male, e in effetti non era un pensiero troppo lontano dalla realtà.

Teneva ancora in mano le gemme. Allungai una mano a stringere il suo pugno chiuso, da cui partiva quella flebile luce. Le avevo desiderate così ardentemente che mi sembrava di averne il cuore ustionato.

Lui capì senza dir nulla. Era venuto il momento di lasciarle andare, di restituirle a chi appartenevano veramente.

Aprì le dita e le gemme scivolarono pigramente tra le mie mani, che ora Legolas teneva tra le sue. In quelle sfaccettature acquamarine, mi parve per un attimo di rimirare il viso di mia moglie, a me tanto caro, a me tanto mancato. Quelle pietre erano leggerissime e pesantissime allo stesso tempo.

Non riuscivo a smettere di far rotolare i sospiri.

- Come si chiamava?- mi chiese Legolas – Mia madre.-

Il mio viso scattò verso di lui, esterrefatto. Come aveva potuto dimenticare il nome di sua madre? Non riuscivo a concepirlo.

Legolas abbassò lo sguardo imbarazzato:

- L’ho sempre e solo chiamata meleth Hatha (adorata madre)...- spiegò.

Trattenni il respiro.

Aveva ragione. Era troppo piccolo per conoscere altri particolari, e dopo la morte di mia moglie io non avevo mai più pronunciato il suo nome. Avevo inoltre fatto togliere tutti i suoi ritratti, impedito agli altri di dire anche solo una parola su di lei.

Era l’ultimo atto di un sipario che andava a chiudersi: una liberazione.

- Mìriel.- risposi, sciogliendo quel groppo in gola che per anni mi aveva soffocato.

 

Poco più tardi, ormai di mio figlio nessuna traccia: tanto meglio.

Non ero in grado di resistere oltre.

Scesi dal proscenio, raggiungendo la veranda. Un paggio mi lanciò un’occhiata incuriosita, ma non osò avvicinarsi o farmi domande.

Con uno schiocco spalancai le finestre, come non facevo da un po’. L’aria fresca del bosco entrò con forza nel palazzo e nelle mie narici, rimaste a secco di buon profumo di casa.

L’estate si era ormai conclusa e le folte chiome degli alberi vivevano quella fase in cui il fogliame volge lentamente dal tenero verde germoglio al rosso fuoco del camino. Fra poco sarebbe stata ora di raccolto, di andar a far legna, di costruire nuovi manufatti. L’autunno è per noi Silvani una seconda primavera, nonché la stagione più celebrata.

Ero grato al mondo per aver avuto la possibilità di vederlo arrivare ancora una volta con mio figlio nella nostra casa. Questa certezza era per me fonte di buoni sentimenti, che mi rinvigorivano.

Per questo, forse, ebbi il coraggio di fare quel passo: come non lo compivo da molto tempo. Di solito mi fermavo solo al davanzale, preso da chissà quale rimorso, da chissà quale difficoltà. Raramente ero riuscito ad andare oltre, e in quelle poche volte si era sempre trattato di una sofferenza indicibile, che non mi aveva lasciato dormire la notte.

Ora invece era con passo leggero che posavo lo stivale sulla terra ancora bagnata di rugiada e con ancora un po’ d’erba incolta. Era con pace che attraversavo quella piccola anticamera verde, piena di fiori coltivati con amore dai miei servitori. Era con rinnovato coraggio che imboccavo quel sottile sentiero che si perdeva nel bosco, lungo un percorso che solo io potevo vedere e comprendere.

Era passato molto tempo, ma non avevo dimenticato neanche un singolo passo che mi aveva visto ricongiungermi a lei.

Superai una piccola macchia di cespugli, aggirai le radici aggrovigliate di un paio di salici e introducendomi tra i loro rami piangenti sbucai infine in una radura piuttosto raccolta e ormai invasa dalla polvere del tempo e dagli sterpi. Qualche animale aveva lasciato segno del suo passaggio dipingendo le proprie orme vicino al ruscello che irrigava quei luoghi.

Non c’era più traccia dei fiori che avevo piantato per lei, ma la pietra resisteva ancora. Corsi ad abbracciarla e a pulirla della cenere della passata stagione.

Mi inginocchiai di fronte ad essa e la accarezzai come se si trattasse di mia moglie.

Quella lapide sorgeva su una terra vuota, che nulla aveva a che fare con il suo corpo, nemmeno l’aveva mai toccato. Ma quel luogo le somigliava talmente tanto, che la prima volta che l’avevo rivisto dopo Angmar, ebbi l’impressione di averla riconosciuta.

Non vi eravamo recati spesso, ma lì, proprio lì, accanto a quel torrente, mi aveva detto di aspettare un figlio da me.

Per questo l’avevo scelto, e l’avrei scelto mille volte ancora, anche se il destino me l’aveva portata via.

Posai un bacio su quella dura pietra e per la prima volta non mi sentii colpevole di aver vissuto tanto a lungo. Così avevo potuto vedere con i miei occhi i successi di nostro figlio per raccontarli a lei sottovoce, benchè fossi convinto che dalle Aule di Mandos lei sapesse già tutto.

Infilai una mano nella tasca e tirai fuori le gemme di Lasgalen. Quelle riverberarono di un intenso riflesso bianco e verde, come a salutare quei luoghi, come se si sentissero a casa.

E come avrebbe potuto essere diverso?

In mezzo agli alberi erano state forgiate, lucidate, custodite e infine incastonate. Ero convinto potessero avvertire l’eco della loro storia in quel bosco, che potessero riconoscermi dal tocco.

Io le avevo volute, disegnate, contemplate e infine regalate con amore; le avevo impregnate di ogni virtù. Ero un po’ come un padre per loro, anche se non ero sicuro potessero avere un’anima.

Ma di certo una parte della mia era racchiusa in quelle sfaccettature.

Le avvicinai alla lapide e con un po’ di concentrazione riuscii a richiamare a me un’antica magia, con la quale modellai la pietra, lì dove la mia mano improvvisamente incandescente si posava. Creai un avvallamento adatto alle mie predilette, che ruotavo con fare giocoso nell’altra mano.

Sapevo che quella sarebbe stata la nostra ultima volta.

Fu un piacere posare le gemme di Lasgalen nel luogo che d’ora in avanti le avrebbe accolte e serbate, accanto al ricordo di Mìriel. Di nuovo addosso a lei, in un certo qual modo.

Quel gioiello le apparteneva e le sarebbe appartenuto per sempre. Non aveva senso che lo tenessi io, né nessun altro.

Fu facile chiudere anche quel cerchio. Una volta appoggiate nei loro vani, le pietre persero lucentezza, quasi a volersi nascondere; capii che, in effetti, renderle invisibili a occhi indiscreti sarebbe stata la cosa più saggia da fare.

Con la magia, quindi, feci in modo che altri non potessero più godere di quella meraviglia, a parte me e a quelli del mio stesso sangue. La meraviglia più grande restava sempre e comunque Mìriel, che solo io avevo avuto l’onore di accarezzare.

Chiusi gli occhi e trassi un sospiro confortato.

Un giorno avrei mostrato quel luogo anche a Legolas, così avrebbe avuto pace. Anche lui come i suoi simili avrebbe avuto una reliquia da celebrare, per quanto falsa e ipocrita potesse sembrare agli occhi altrui, poiché onorava non un corpo, ma uno spirito vagante.

Avrei tanto voluto conoscesse sua madre, invece ha avuto soltanto me. Nemmeno il miglior padre, perché so benissimo di non esserlo stato. Sono stato severo con lui e anche con me stesso, perché non riuscivo a perdonare. Perdonare avrebbe significato lasciarmi tutto dietro alle spalle, accettarlo, e suonava quasi come un tradimento. Non era stato semplice prendermi ogni responsabilità sul mio cuore già provato. Forse avevo fallito nel mio ruolo, di regnante e di genitore, ma avevo dato tutto ciò che mi era stato possibile dare in quel momento.

Ero sicuro che Legolas mi aveva capito. Il suo viaggio era servito anche a questo, a ricalcare le mie orme e ad immaginarsi nelle mie vesti: aveva passato una vita al mio fianco senza realmente sentire i miei pensieri. Io non gliel’avevo permesso, per vergogna mia.

Ora sapevo che avevo fatto male a privarmi di tale condivisione.

Posai ancora un bacio sulla lapide e mi alzai. Il bosco cantava come ai tempi d’oro, quando le ombre oscure non avevano ancora allungato le loro sudicie dita sulle chiome dei miei alberi. Una litania che continuavo ad amare e ricercare, anche se fin troppo spesso mi ritrovavo faccia a faccia con un silenzio martoriato.

Forse quello era un segno di buon auspicio.

Mi incamminai di nuovo lungo il vecchio sentiero. I raggi obliqui del sole morente mi colpivano le scapole, disegnando sul mio mantello bianco una striscia rossa come il sangue. Mi costrinsi a non pensare a tutti gli abiti lacerati e alle ferite ancora aperte, fuori e dentro di me.

La strada del ritorno fu anche più breve dei quella dell’andata. Legolas mi aspettava.

Ci guardammo negli occhi, ma non ebbi il coraggio di dirgli niente. Mi chiedeva dov’ero stato, senza parole. Non risposi, ero troppo spossato. Ai suoi interrogativi avrei dato adito più tardi. Ma un sorriso, quello potevo regalarglielo.

E allora glielo regalai, stringendogli un braccio con fare materno.

 

Venne anche quel momento.

Era già mattina prima che fosse stata notte, almeno per me, che non avevo dormito.

Poco dopo anche Legolas comparve alla stessa soglia di quella sala, pronto a partire.

- L'ora è buia. Temo di non sapere quando tornerò, stavolta. Potrebbe passare molto, molto tempo, più di quanto è possibile calcolare.- mi fece notare.

Alzai lentamente il capo. I miei occhi si perdevano ormai oltre le finestre, oltre la luce sfavillante del sole e il verde delle mie terre. Poi capii, in maniera più serena del previsto, che sapevo bene cosa fare.

Distesi le labbra in un sorriso giovane.

- Non importa.- affermai, piuttosto mestamente, ma anche con una certa solennità – Io posso aspettare.-

 

 

FINE
 





***N.d.A***
Signori e signore, è la fineeee! XD 
Prima o poi doveva succedere: ho deciso di finirla così, mi sembrava giusto. Ogni cosa al suo posto.
VI eravate dimenticati dei fiori, vero?! Ahahaah io no invece! Con questa ultima chicca si chiude il cerchio dei nostri eroi, poco prima del Bianco Consiglio che tutti noi conosciamo, e della prossima avventura.
Con un po' di tempo, dovrei riuscire a rimettere in sesto anche alle altre fanfic che avevo dedicato allaGuerra dell'Anello (hanno bisogno di una revisione TOTALE). Ma vi invito a leggere, tra un po', come già anni fa decisi di far andare avanti la storia, che ovviamente non può essere finita qui...
Grazie per avermi seguito in questo viaggio, spero di avervi lasciato delle belle sensazioni!
Alla prossima



 

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