A Hero gonna fight for what's right

di Ella Rogers
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Nuovo Inizio ***
Capitolo 3: *** Prima di cominciare ***
Capitolo 4: *** Discrezione ***
Capitolo 5: *** Scacco ***
Capitolo 6: *** Frantumi ***
Capitolo 7: *** Vecchie Conoscenze ***
Capitolo 8: *** Il Trionfo dell'Assurdo ***
Capitolo 9: *** Dolore ***
Capitolo 10: *** Escape ***
Capitolo 11: *** Tra ricordi e diffidenze ***
Capitolo 12: *** Ricapitolazione ***
Capitolo 13: *** Diverbi e Decisioni ***
Capitolo 14: *** Heith ***
Capitolo 15: *** Volontà ***
Capitolo 16: *** Countdown ***
Capitolo 17: *** Frontline ***
Capitolo 18: *** Lost within ***
Capitolo 19: *** Into Pieces ***
Capitolo 20: *** Take a Breath and Trust ***
Capitolo 21: *** Thin Balance ***
Capitolo 22: *** Die for You ***
Capitolo 23: *** Step by step ***
Capitolo 24: *** Give and Take ***
Capitolo 25: *** Compromise and Reassurance ***
Capitolo 26: *** Doubtful path ***
Capitolo 27: *** Hum ***
Capitolo 28: *** Perfect Soldier ***
Capitolo 29: *** Monsters ***
Capitolo 30: *** Calm down ***
Capitolo 31: *** Dark Mist ***
Capitolo 32: *** One level ***
Capitolo 33: *** Losing Control ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo



Sei mesi dopo l’Inizio
 
Luglio 2015

 
 
Sperava che il resto della squadra trovasse l’Idiota, prima che commettesse una delle sue solite Idiozie, appunto.
Non avrebbero dovuto separarsi, non avrebbe dovuto permettergli di lasciare la Tower, al diavolo le conseguenze che ne sarebbero scaturite. Forse avrebbero addirittura potuto permettersi il lusso di fermarsi. Dopotutto, i Vendicatori erano stati esonerati dall’occuparsi del caso Hydra.
Il Consiglio Mondiale di Sicurezza aveva ben pensato di poter gestire la cosa senza l’aiuto di… come erano stati definiti? Ah, ecco.
 
Soggetti altamente pericolosi con gravi disturbi relazionali, comportamentali e – ciliegina sulla torta – affetti da manie di autodistruzione.
 
Quanto avrebbe voluto spaccare il grugno al calvo viscido uomo che aveva sputato quelle belle parole, come ringraziamento per aver salvato – di nuovo – il culo all’umanità.
Questa volta il Governo era addirittura sceso a patti con l’incarnazione del diavolo e solo per arrivare a controllare ogni singola maledetta cosa, vivente e non, compresi quei soggetti altamente pericolosi con gravi disturbi relazionali, comportamentali ed affetti da manie di autodistruzione. Aveva fatto male i conti, il Governo.
Alla fine della storia, ovviamente, i bastardi maniaci del controllo avevano cancellato dal loro curriculum la nota “Siamo scesi a patti con il male perché vogliamo controllare il mondo fregandocene di quello che il mondo pensa” e, ovviamente, erano rimasti intoccati.
Per essere più precisi, quasi intoccati, dato che l’Idiota aveva davvero spaccato il grugno al calvo viscido uomo, o meglio, al nuovo leader del Consiglio Mondiale della Sicurezza. Quel momento non l’avrebbe mai dimenticato. Mai.
Quando tutto era parso giungere ad una conclusione soddisfacente – avrebbe anche potuto azzardare a definirla felice come conclusione, soprattutto con il senno di poi – il Male aveva giocato un tiro mancino tanto subdolo da sconvolgere gli equilibri ristabiliti, seppur ancora precari.
 
Era stato versato altro sangue.
 
Adesso la Tower era stata eletta temporanea e abusiva base operativa dei Vendicatori e Tony, suo malgrado, aveva dovuto confessare almeno a sé stesso quanto gli fossero mancati quei pazzi dei suoi compagni. Vederli gironzolare di nuovo in quella che era stata l'Avengers Tower fino a non molto tempo prima gli faceva uno strano effetto, soprattutto se ripensava a ciò che avevano superato insieme.
Peccato che quella rimpatriata non avesse nulla a che fare con il piacere di passare del tempo assieme ai suoi più cari amici. Si chiedeva se sarebbe mai stato possibile organizzare qualcosa di divertente fra loro, senza che sorgessero problemi legati a rischio fine del mondo o a folli esaltati con manie di grandezza.
 
Era stufo di rischiare la vita. Era stanco di scorgere nei volti dei suoi compagni la sofferenza e l’ansia.
Che il cielo si fosse accanito sui Vendicatori? Scosse il capo, riascoltando l’eco di parole che parevano lontanissime, eppure erano ancora forti e nitide.
 
 
“Siamo noi a costruire la nostra storia. Non esistono destini o disegni divini in grado di fermarci, se non vogliamo essere fermati. A morire sarà colui che perderà ogni speranza. Continua a credere e non sarai mai sconfitto davvero. Cadrai, ma ti rialzerai ancora e ancora. Devi credere, Tony. In qualsiasi cosa tu ritenga degna essere il tuo appiglio, il tuo punto fermo.”
 
“E tu in cosa credi, Steve?”
 
 
Sorrise e percepì muoversi nello stomaco un distinto senso di colpa. Non avrebbe dovuto lasciarlo andare, ma tentare di fermare Steve Rogers era un’impresa ardua, soprattutto quando lui prendeva una decisione che riteneva necessaria a proteggere le persone che amava.
Erano passati cinque giorni. Quello sconsiderato di Rogers era scomparso cinque giorni prima e ancora non si era fatto vivo – nessun segno, niente di niente.
 
Pensa positivo, Stark. Pensa. Positivo.
 
Tony sobbalzò nel momento in cui una figura diventata familiare si fermò al suo fianco, con lo sguardo basso e l’aria sconfitta. Il nuovo arrivato pronunciò quella dannata parola che aveva finito per nausearlo, a causa del considerevole numero di volte che era stato costretto ad ascoltarla negli ultimi cinque giorni.
 
“Niente.”
 
Altro buco nell’acqua. Perfetto.
 
“Dovresti riposare.”
 
L’ammonimento – diretto al nuovo arrivato – proveniva da Natasha, rannicchiata sul divano con un candido lenzuolo a coprirle il grembo.
Tony la osservò districarsi dalla coperta e poggiare i piedi nudi sul lucido parquet, intenzionata ad abbandonare il comodo cantuccio. Lo sguardo dell’inventore fu poi inesorabilmente calamitato da un particolare a cui non aveva ancora fatto del tutto l’abitudine. Già da mesi, una dolce e pronunciata curva tondeggiante aveva preso forma all’altezza del ventre prima piatto ed esile della rossa.
E doveva ammettere che Natasha era più bella che mai, ma avrebbe evitato di dirlo ad alta voce, perché quell’iperprotettivo di Clint aveva una pericolosissima mira infallibile. Barton si era decisamente trasformato in una mamma chioccia con i fiocchi – tanti fiocchi.
 
“Sai che non posso, Natasha.”
 
L’abitudine, invece, era bella che fatta quando si trattava di avere a che fare con la testardaggine di super soldati scongelati.
Tony era ormai certo del fatto che uno degli effetti collaterali dell’ibernazione fosse una smisurata cocciutaggine. Steve Rogers ne era una prova lampante e Bucky Barnes confermava irrimediabilmente la teoria. Sbirciò il profilo di James, che aveva un aspetto fatiscente e le occhiaie più profonde che avesse mai visto.
 
Natasha raggiunse Barnes e, puntellate le mani sui fianchi, gli scoccò una lecita occhiata preoccupata.
“C’è già il resto della squadra fuori. Prenditi almeno qualche ora. Devi essere in forma nel caso le cose si mettessero male.”
 
Di fronte l’ostentata determinazione della rossa, il Soldato d’Inverno stirò le labbra in un mero sorriso.
Natasha aveva i nervi a fior di pelle, perché le era stato categoricamente proibito di partecipare alle ricerche.
 
“Mi sembra di star vivendo dentro un dannato dejà vu” sbuffò la donna e Tony rise, pensando che non c’era nulla di più vero.
 
La vita sapeva essere terribilmente contorta e pareva divertirsi nel beffeggiarli. Nemmeno un anno prima, era Steve quello impegnato nella disperata ricerca del migliore amico creduto morto. Ora, i ruoli si erano ribaltati. Barnes si era ritrovato nei panni di Rogers e stava sperimentando quanto fosse avvilente cercare chi non voleva essere trovato.
 
“Ti do il cambio io, Barnes” propose Tony a un certo punto.
 
“Non se ne parla. Sei rientrato meno di tre ore fa” obbiettò la Vedova, che stava facendo il possibile per preservare la salute dei compagni, dato che non poteva lavorare sul campo nemmeno di striscio.
Lei e Pepper si erano date da fare fin dall’inizio, soprattutto ricordando ai membri della squadra che morire di fame non avrebbe permesso loro di trovare Steve. Dovevano essere pronti, se le cose fossero disgraziatamente precipitate. E lo avrebbero fatto.
 
Tony e James scambiarono un’occhiata veloce e poi tornarono a rivolgere l’attenzione alla rossa.
“Hai vinto” sentenziò Barnes, alzando le mani in segno di resa, e Natasha gli regalò un sorriso leggero.
 
Prima che qualcuno facesse o dicesse altro, Sam Wilson varcò la soglia della Sala Comune seguito a ruota da un Clint Barton parecchio provato.
 
“Siete in anticipo” fece notare Stark, come se non fosse già palese. Aprire bocca, anche solo per dire cose inutili, era un ottimo metodo per lenire il senso d’inquietudine che altrimenti lo avrebbe reso isterico, molto isterico.
 
Se Sam e Clint erano lì, se avevano fatto ritorno alla base così presto, c’era un unico motivo, un motivo che mandava finalmente a farsi fottere il nauseante Niente.
 
“È almeno un’ora che proviamo a contattarvi” sbottò Wilson “Dove eravate finiti?”
 
Tony controllò il cellulare e interpellò anche JARVIS. Non c’era segno del tentativo di comunicare da parte dei suoi compagni. E questa non poteva essere una coincidenza o un semplice malfunzionamento. Mentre cercava di capire cosa fosse andato storto, non fece caso a Clint che recuperava il telecomando e accendeva il televisore, se non quando fu l’arciere stesso a richiamare la sua attenzione.
 
“Abbiamo un grosso problema… l’ennesimo grosso problema” annunciò Barton con una serietà quasi solenne.
 
Nei secondi successivi, nessuno dei presenti si mosse, troppo impegnati a fissare le immagini che si susseguivano sullo schermo piatto.
Fu Natasha a riprendersi per prima, rompendo il silenzio insopportabile che era venuto a crearsi.
“Che cos’è?” chiese, senza riuscire a mantenere salda la voce.
 
Sam abbassò lo sguardo e sopirò stancamente. “Non ne ho la più pallida idea, ma scommetto che loro sono lì. Devono essere lì.”
 
“Allora diamoci una mossa, perché non saremo gli unici interessati” Tony serrò i pugni “E io vorrei tanto essere il primo a dire un paio di paroline ad una persona in particolare.”
 
 
 
 
D’improvviso, sembrò che le lancette di un orologio, impazzite, avessero preso a girare a rovescio, costringendo a tornare a galla scottanti memorie non ancora così lontane da essersi sbiadite.
Tutto era cominciato sei mesi prima, quando il Passato era permeato nel Presente, sconvolgendolo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Adesso sai che il passato è un fil di ferro attorcigliato attorno al cuore, Steve.
Non riuscirai mai a tirarlo via. Non puoi.
Hai finto di dimenticare. Ma non hai potuto ignorarlo. Non per sempre. Perché è tornato. E il tuo cuore non ha potuto far altro che sanguinare.
Adesso sai che dal passato non si fugge, Steve. Né ora. Né mai.










Note
Eh sì, sono tornata. Ve lo avevo detto, no? Il mio non era un addio, ma un arrivederci.
Vorrei puntualizzare alcune cose, riguardo questa nuova storia.
Di fatto è il sequel di “Demons of light and darkness”, ma strutturato in modo da permettere la lettura a coloro che vorranno seguire questa storia, senza dover leggere la precedente.
“A Hero gonna fight for what’s right” ha una trama a sé stante, ma saranno presenti alcuni personaggi e citazioni di vicende appartenenti alla prima storia. Farò in modo di chiarire ogni cosa, promesso.
La storia, dal prossimo capitolo, riprenderà da dopo gli eventi di “The Winter Soldier” ed ignorerà la storyline che conduce ad “Age of Ultron”.
Ci sarà Clintasha, perché amo questa coppia.
Conoscerete o rincontrerete Anthea, personaggio di “Demons of light and darkness” e con cui Steve ha intrapreso una pseudo relazione.
M’impegnerò a scrivere note iniziali, per chiarire nomi ed eventi citati nei capitoli ed appartenenti alla storia precedente.
Naturalmente questo è solo il Prologo, perciò aspettatevi capitoli più corposi.
Vi ringrazio per la gentile attenzione.
Spero che vorrete seguirmi ancora, voi che c’eravate già durante la prima storia, e spero che si uniscano a questo viaggio altri nuovi lettori.
Per ora è tutto. Ci tenevo a precisare queste cose.
Ci vediamo precisamente tra una settimana per il Capitolo 1!
 
Un grande abbraccio ❤️

Ella

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Capitolo 2
*** Nuovo Inizio ***


Riferimenti a “Demons of light and darkness”
Nella mia personale storyline, dopo la battaglia di New York, i Vendicatori hanno affrontato un folle alieno, che era a capo di un'organizzazione denominata “Demoni della Notte”. L’alieno - Daskalos, o detto anche il Padrone - è stato sconfitto nella battaglia del Brooklyn Bridge, grazie all’aiuto di Anthea.
Anthea, anche lei di un altro mondo - ma metà umana -, aveva promesso a Steve che, dopo aver aiutato il suo popolo disperso a riunirsi e trovare un rifugio - rifugio che ha trovato ad Asgard, grazie ad una gentile concessione di Odino – sarebbe tornata da lui. Effettivamente è tornata una sera, dopo il crollo del Triskelion, ma …
Ah, Steve aveva comprato una casa a Brooklyn, prima di essere assoldato dallo SHIELD e spedito a Washington, ed è lì che è diretto.
Siamo sette mesi prima gli eventi del prologo.
 
Buona lettura!
 
 
 
Nuovo Inizio
 
La fredda brezza di Gennaio gli carezzava il viso e gli scompigliava i corti capelli biondi. Si strinse nelle spalle e un sospiro stanco gli abbandonò le labbra, mentre un brivido risaliva lento lungo la schiena. Al suo fianco dondolava ritmicamente un borsone blu, troppo leggero se si pensava che all’interno fossero custoditi tutti i suoi averi, ridotti a indumenti, qualche fotografia, l’inseparabile scudo in vibranio e ad un fascicolo proveniente da Kiev.
La luce pallida della luna rischiarava l’oscurità della notte che cullava il silenzioso quartiere di Brooklyn, una finestra affacciata su un passato sempre più sfocato e distante. O almeno, era parso sfocato e distante prima che una parte di esso avesse tentato di ucciderlo.
Era quasi riuscito a sfiorare l’idea di poter vivere in un presente che non gli apparteneva, ma l’Hydra aveva deciso di portare a termine quel che aveva iniziato settanta anni addietro e gli artigli del passato erano tornati a dilaniarlo.
Adesso, tutto era dannatamente confuso. I suoi ideali vacillavano assieme al senso di giustizia, minacciando di crollare definitivamente.
La figura di Capitan America era divenuta un’incombente ombra che schiacciava con il suo peso le spalle di un ragazzo senza più una strada da seguire, perso nel labirinto di inganni e intrighi costruito da quegli uomini corrotti dal potere.
Durante la Seconda Guerra Mondiale, distinguere il bene dal male non aveva mai costituito un problema per lui, ma nel mondo in cui si era risvegliato quasi quattro anni prima - Dio, erano già passati quattro anni - pareva non esistere una linea di confine tra giustizia e iniquità. Il bianco e il nero si confondevano e si mescolavano tra loro, dando vita ad un nauseante grigiore, un denso e soffocante fumo dietro il quale si nascondevano mostri scellerati ed assetati di potere.
Aveva creduto di potersi ributtare nella mischia, eseguire gli ordini, servire, ma aveva scoperto di non esserne più capace e a testimoniarlo c’erano i resti di ben tre Helicarrier nel Potomac.
Dopo la disastrosa caduta dello SHIELD, il Consiglio Mondiale della Sicurezza aveva tentato di mettersi in contatto con lui per assoldarlo - per metterlo al guinzaglio -, fingendo di non averlo mai considerato un pericoloso ribelle da eliminare al più presto e fingendo di non odiarlo.
La schifosa volubilità di quelli che avrebbero dovuto essere i responsabili della sicurezza sulla Terra lo nauseava.
Non riusciva più a fidarsi e non potevano fargliene una colpa.
Dal suo risveglio, quasi tutti quelli che aveva incontrato non avevano fatto altro che sputargli addosso bugie e lui, come uno stupido, ci aveva creduto.
Il tradimento lo aveva ferito, nonostante fosse riuscito a non far trapelare l’enorme delusione sfociata violentemente nel momento esatto in cui, quelli che aveva creduto compagni di squadra - la S.T.R.I.K.E -, lo avevano brutalmente aggredito in un ascensore, senza la minima esitazione.
 
Quanto aveva rimpianto gli Howling Commandos, allora. Quelle teste calde lo avevano seguito ovunque e, da veterani qual erano, gli avevano protetto le spalle, istruendolo missione dopo missione. Aveva appreso da loro l’arte della guerra, perché diversamente da quel che tutti pensavano, Capitan America non aveva ricevuto dal siero anche l’esperienza sul campo, ma l’aveva acquisita versando sudore e sangue, nonostante potesse contare su un’innata abilità strategica ed una naturale leadership.
Sorrise al ricordo di Dum Dum Dugan che si era preso la briga di insegnargli come si utilizzasse davvero una pistola.
“Sei negato, Cap” aveva sentenziato alla fine, ridendo sotto i baffi, e da quel momento in avanti Rogers aveva iniziato ad affidarsi sempre più al suo speciale scudo, creando un particolare e del tutto personale stile di lotta.
 
Lo SHIELD si era premurato di modificare ed affinare quello stile di combattimento dal momento in cui aveva accettato di lavorare per l’organizzazione in veste di spia - poco dopo la battaglia del Brooklyn Bridge.
Capitan America era stato trasformato in un’arma altamente letale, precisa e quasi infallibile, dotata di un’agilità e di una velocità impressionanti. Non era più una macchina da guerra caotica e rozza, forte solo della straordinaria resistenza.
Quante volte si era allenato con Natasha o anche con Rumlow, acquisendo una sempre più affinata tecnica di combattimento. Aveva imparato a dosare la forza, ad essere perfettamente padrone del proprio corpo ed aveva memorizzato quali fossero i punti più deboli del sistema anatomico umano.
Poi era stato tradito.
Comunque, averlo reso più forte si era rivelato un grosso errore, alla fine dei conti.
 
La fiducia che aveva riposto nei Commandos, in realtà, aveva una sua corrispondente anche nel Ventunesimo secolo: gli Avengers.
Quando ogni certezza era crollata come un debole castello di sabbia, si era riaccesa in lui la nostalgia per quei compagni eccezionali, assieme ai quali aveva debellato - già ben due volte - la fine del mondo.
Alla battaglia di New York si era susseguita quella del Brooklyn Bridge, durante la quale era morto e poi tornato in vita.
Dove aveva scoperto di essere ancora capace di amare.
E proprio in occasione di quest’ultimo scontro, i Vendicatori avevano cominciato a funzionare bene, a mettere da parte le divergenze e ad instaurare un legame potente, forse addirittura indistruttibile. Avevano imparato a fidarsi l’uno dell’altro.
Ma forze esterne avevano finito per dividerli e, riflettendoci, era passato un lunghissimo lasso di tempo dall’ultima volta che si erano ritrovati insieme nello stesso posto - tre anni prima alla Tower, precisamente.
Da allora, ne erano successe di cose. In compenso aveva continuato ad informarsi sul loro conto attraverso i file dello SHIELD, che mai aveva smesso di tenerli d’occhio - o almeno ci aveva provato a tenerli d’occhio.
Sapeva del casino in cui era finito Tony a causa del Mandarino e del disastro che Thor aveva combinato a Greenwich. Era a conoscenza del fatto che Bruce fosse rimasto alla Tower, ma non aveva idea di dove fosse finito Clint.
Gli mancava Thor e la sicurezza che sentiva nell’averlo accanto durante uno scontro.
Anche Tony gli mancava, accidenti, così come Clint e Bruce.
E la nostalgia per Natasha si intensificava giorno dopo giorno da quando si erano salutati per prendere ognuno la propria strada, esattamente un anno addietro e davanti la vuota tomba di Nick Fury.
Separatosi dalla Vedova Nera, era partito con Sam - quel coraggioso veterano divenuto presto un compagno insostituibile e fidato - alla ricerca di Bucky.
 
“Non è vero. Lei era tornata, prima che partissi” berciò la subdola vocina della sua coscienza, schiaffandogli in faccia ricordi che aveva tentato di inabissare senza mai riuscirci davvero.
Una ferita ancora aperta e grondante di sangue, ecco cos’era Lei.
 
Scosse il capo con l’intento di scacciare via i troppi pensieri che gli affollavano la testa e che instillavano nella sua anima un profondo senso di nostalgia e sofferenza.
Sporadici lampioni davano vita a pozze di luce sul grigio marciapiede deserto.
La sensazione di freddo divenne improvvisamente più intensa, fino a farlo rabbrividire ancora ed ancora. Nascose la mano libera - la destra era impegnata a stringere i manici del bagaglio - nella tasca del morbido cappotto marrone ed abbassò il capo, aumentando un poco il passo.
La consapevolezza che non fosse l’aria invernale a dargli tanta pena lo colpì duramente, non appena la vocina nella testa gli rammentò di possedere un corpo dotato di capacità fuori dal comune.
Il gelo ce lo aveva dentro, sotto la pelle e nel sangue.
 
Bucky.
 
Del Soldato d’Inverno non era riuscito a scorgere nemmeno l’ombra.
Gli ultimi mesi erano stati costellati da infruttuose ricerche e buchi nell’acqua. Ed avrebbe continuato a seguire anche la più improbabile scia di speranza, se Sam non lo avesse letteralmente trascinato a Washington D.C., pregandolo di prendersi qualche giorno, prima di buttarsi nuovamente a capofitto in quella personale missione divenuta, inevitabilmente, una ragione di vita.
Wilson gli aveva anche aperto le porte di casa sua, ma lui aveva gentilmente declinato l’invito, ricordando all’amico di possedere un appartamento a Brooklyn.
 
L’alto palazzo color panna sorgeva proprio nel quartiere che aveva visto la sua nascita, il suo precoce maturamento dopo la morte del padre, lo sbocciare e il consolidarsi dell’amicizia tra lui e Bucky, lo spegnersi della sua dolce mamma e l’accendersi di quegli ideali che l’avevano condotto da Erskine e che lo avevano reso Capitan America.
Imboccò il vialetto di ciottoli, varcando l’elegante cancello in ferro battuto lasciato aperto e dalle cui estremità prendeva vita una siepe curata, che racchiudeva la palazzina con annesso un giardino.
Le chiavi tintinnarono quando le tirò fuori dalla tasca destra del capotto e, individuata quella più grande, aprì il pesante portone verde scuro. Entrò nell’ampio e buio atrio e lo stomaco si contrasse dolorosamente. Decise di ignorare la strana sensazione, anche se divenne più intensa nel momento in cui prese a salire le rampe di scale, fino a giungere al pianerottolo dell’ultimo piano.
Trovò nel mazzo tintinnante la giusta chiave e la infilò nella toppa della porta in legno, dietro la quale lo attendevano i ricordi da cui aveva tentato di fuggire.
Forse non sarebbe dovuto tornare in quel posto. Forse avrebbe dovuto semplicemente riconsegnare indietro le chiavi alla signora Margaret e lasciarsi tutto alle spalle.
Se cominci a scappare non ti fermi più.
Gli scatti della serratura riempirono il silenzio.
Una volta dentro, si premurò di accendere le luci dell’ingresso, nei pressi del quale poggiò il borsone. Poi le gambe si mossero da sole verso la camera da letto.
Il suo sguardo venne catturato dai pallidi raggi lunari che trasparivano oltre il vetro dell’unica finestra e dipingevano macchie di luce sulla morbida moquette.
La finestra era chiusa. Lei non c’era.
Percepì il cuore raggomitolarsi su sé stesso e gli occhi presero a pizzicargli, mentre quei dannati ricordi tornavano in superficie, stordendolo.
 
 
“Mi sei mancato, Idiota.”
“Sono tornata. Per sempre.”
 
 
Aveva promesso che sarebbe rimasta. Per sempre.
Eppure, così come quella notte misteriosamente era apparsa, così la mattina dopo era scomparsa altrettanto misteriosamente.
Quando si era svegliato, lei non c’era già più.
Gli aveva lasciato solo un pezzetto di carta con su scritte poche misere parole.
 
Sta’ lontano dai guai.
Tua.
 
La disperazione lo aveva divorato non appena si era reso conto che lei era davvero andata via, di nuovo, dopo due anni passati ad aspettarla.
Quello stesso giorno era partito con Sam alla ricerca di Bucky, sforzandosi di dimenticare. Di dimenticarla. Invano.
Perché la stava ancora aspettando, dopotutto, stranamente certo che sarebbe tornata.
In fondo, le aveva promesso che l’avrebbe aspettata, sempre.
 
“Ma tornerò, per te, se mi aspetterai.”
 
Era già trascorso un altro anno.
Il desiderio di rivederla bruciava ancora da far male, contendendosi con la disperata speranza di riavere indietro Bucky, il primato di distruzione della sua anima.
 
Era stanco. Stanco di tutto.
Lui cadeva a pezzi. La sua vita cadeva a pezzi. E si sentiva terribilmente solo, nonostante il constante sostegno di Sam.
La tensione accumulata nell’ultimo periodo esplose irrimediabilmente e la rabbia gli offuscò la mente.
Lasciò a grandi passi la stanza da letto e la furia lo colse nell’oscurità del salotto.
Un vecchio giradischi finì in frantumi contro una parete. Un vaso appoggiato su un piccolo tavolino fece la stessa fine e poi fu il turno di una sfortunata lampada. Rovesciò il tavolo orfano di vaso e fece letteralmente collassare a terra il mobile bianco, costituito da tanti scomparti rettangolari, assieme a tutti gli oggetti ospitanti.
Bicchieri di vetro e piatti in coccio si schiantarono sul pavimento, emettendo suoni graffianti ed acuti, simili a grida strazianti. La libreria fu la successiva vittima dell’incontrollabile ondata d’ira.
 
Perché è andata via? Perché non riesco a trovare Bucky? Perché continuo a fallire?
Non sono abbastanza.
Non. Sono. Abbastanza.
 
La follia del momento lo spinse a prendere a pugni il primo muro disponibile, sul quale si disegnarono profonde crepe. Il bianco intonaco si macchiò di rosso laddove la fine pelle delle nocche cedette a causa degli impatti violenti.
 
“Non sapevo avessi intenzione di ristrutturare casa, Rogers.”
 
La luce della stanza si accese di colpo e il ritrovato senno sembrò scacciare via i fumi della rabbia e della frustrazione, non appena riconobbe quella voce dal marcato tono sarcastico.
Si sforzò di regolare il respiro e il battito impazzito del cuore, prima di voltarsi per incontrare lo sguardo enigmatico di Tony Stark, perfettamente a suo agio nell’elegante completo nero, nonostante avesse appena assistito ad una scena alquanto deplorevole.
 
Non ricordo di averti dato le chiavi” fu la prima cosa che Steve riuscì a dire, ancora troppo scosso per elaborare davvero quel che stava accadendo.
“La porta era aperta. Dovresti pestare più attenzione. Poteva esserci un aggressore al mio posto, adesso” lo rimproverò l’ospite inatteso, scoccandogli un sorrisetto provocatorio.
La voglia di rompere ancora qualcosa gli infiammò il petto e gli occhi presero a pizzicargli fastidiosamente.
Era sull’orlo di un crisi di nervi con i fiocchi.
 
“Stark - e la rabbia era palpabile nella sua voce - cosa diavolo ci fai qui in piena notte? Sappi che se si tratta di uno stupido scher-”
 
“No.”
Tony si era fatto improvvisamente serio e prese a parlare con una fermezza disarmante.
Niente giochetti o allusioni. Niente sarcasmo.
I suoi occhi ambrati non lasciarono nemmeno per un secondo quelli azzurri di Steve, regalandogli un momentaneo appiglio a cui il biondo si aggrappò istintivamente, per non sprofondare nell’oblio che lo stava reclamando a gran voce.
 
“Diciamo che qualcuno mi ha informato del tuo ritorno e che non potevo rischiare che scomparissi di nuovo. Ho una proposta, Rogers, ma voglio parlarne con calma e soprattutto fuori da qui.”
Il miliardario lanciò un’occhiata perplessa al concentrato di distruzione nel quale erano immersi, poi il suo sguardo tornò a posarsi sul super soldato.
 
Era comprensione quella che Steve riuscì a cogliere nel luccichio che attraversò fugace gli occhi di Stark?
 
“Che ne dici di andare a fare un giro? Ho la macchina parcheggiata proprio qui sotto. Allora, Rogie?”
 
Probabilmente, se avesse accettato l’invito di Sam, non sarebbe crollato così, perché Sam - come faceva da mesi, ormai - sarebbe stato in grado di tenere insieme i pezzi di quello che non era altro che un ragazzo distrutto e lontano dall’essere l’icona nazionale senza macchia e senza paura.
Si sentiva totalmente perso.
E forse la confusione del momento.
Forse la paura di un imminente crollo nervoso, o il rifiuto di dover rimanere solo con sé stesso.
Non seppe cosa lo spinse a seguire fin troppo docilmente Tony Stark, eppure lo fece, conscio di potersi fidare.
Lasciò sul mobiletto all’ingresso le chiavi dell’appartamento e un biglietto di scuse per la proprietaria, l’anziana signora Margaret, promettendole che l’avrebbe risarcita di ogni singolo danno. Poi, si lasciò tutto alle spalle.
 
 
 
                                         ***
 
 
 
La Porsche nera sfrecciava spedita sulla strada, incurante dei limiti di velocità.
Tony si stupì di non aver ricevuto ancora nessun ammonimento da parte del ragazzo stravaccato sul sedile del passeggero.
Dall’ultima volta che lo aveva visto erano trascorsi quasi tre anni, eppure gli sembrava ieri il giorno in cui avevano combattuto fianco a fianco contro un esercito di orribili alieni vomitati da uno squarcio nel cielo, quando le manie di un dio dall’ego smisurato avevano preso di mira la sfortunata Terra.
Si era ricreduto sull’inutilità del soldato nell’esatto momento in cui, quel giorno, lo aveva visto prendere in mano la situazione con estrema sicurezza e combattere come se non ci fosse stato un domani - cosa che sarebbe risultata vera, se i Vendicatori non avessero fermato l’invasione in tempo.
Si era ricreduto una seconda volta quando un malvagio esaltato, conosciuto come il Padrone, aveva tentato di sterminare l’umanità e Rogers non si era mai arreso, nemmeno quando la fine era parsa inevitabile, nemmeno dopo essere morto. Li aveva presi per mano e riportati a casa sani e salvi, tutti, dimostrandosi degno del ruolo di leader dei Vendicatori.
In seguito, Stark si era dovuto ricredere una terza volta, quando del Triskelion non era rimasto altro che polvere e macerie.
Capitan America non era affatto un ennesimo cagnolino al servizio del Governo e a provarlo era il fatto che avesse distrutto lo SHIELD con le sue stesse mani, attirando su di sé le ire di persone pericolosamente influenti.
Ora, doveva ammettere - almeno e solo a sé stesso - di ammirare davvero quel super soldato venuto dal passato e dall’animo incorruttibile. Pochissime persone erano in grado di farlo ricredere.
Gli era anche mancato, in fondo in fondo.
 
“Hai fatto un bel po’ di casino a Washington, eh Rogers?”
 
Steve staccò finalmente gli occhi dal finestrino, muovendosi impacciato sul sedile, ma al tempo stesso, l’ombra di un sorriso apparve sul suo volto pallido e provato.
“Non immagini quanto, Stark.”
E invece Tony era a conoscenza di ogni sporco dettaglio nascosto dietro la caduta del Triskelion. Dopo essere riuscito a persuaderla, la Hill - ora sua dipendente - era stata un’ottima fonte di informazioni.
Grazie a JARVIS, era riuscito anche ad entrare in possesso di alcuni video - detratti da diverse telecamere di sorveglianza - che mostravano lo scontro tra due super soldati, un tempo legati da un affetto difficile da eguagliare.
Ciò che aveva scoperto sul Soldato d’Inverno - sia grazie alla fuga di informazioni, sia attraverso un magistrale hackeraggio - lo aveva sconvolto non poco, soprattutto quando era incappato nella lista delle sue vittime.
A impedirgli di aiutare Rogers nelle ricerche erano stati due nomi citati in quella lista della morte.
Se mai avesse dovuto trovarsi faccia a faccia con il Braccio armato dell’Hydra, ignorava quale sarebbe stata la sua reazione ed inutile era stato ripetersi che, in fondo, Bucky Barnes non aveva alcuna colpa se non quella di essere stato trovato, settanta anni prima, dai pazzi fanatici dell’Hydra.
L’unico motivo che lo teneva lontano dal commettere atti di violenza nei confronti del suddetto assassino sedeva proprio al suo fianco ora.
 
Steve si era chiuso di nuovo nel suo guscio fatto di silenzio.
Tony era conscio di quanto delicata fosse la situazione, soprattutto dopo che era riuscito a far parlare Natasha Romanoff prima e Sam Wilson poi. Dove, quando, perché e come ci fosse riuscito non aveva importanza; preferiva tenere per sé le motivazioni che l’avevano spinto a preoccuparsi per l’incolumità e la sanità mentale del Brioso Attempato.
Ci era passato, dopotutto, sapeva cosa significasse perdere le proprie certezze e galleggiare in una personale dimensione al di fuori della realtà, nei confronti della quale si diveniva irrimediabilmente ostili.
Si sentiva il bisogno di fuggire da sé stessi e l’unico sollievo era rappresentato dalle distrazioni.
Tony aveva trovato la sua distrazione nel progettare e costruire innumerevoli armature, mentre l’attenzione di Steve era stata completamente assorbita dalle ricerche che avrebbero dovuto condurlo al Soldato d’Inverno.
Ma, prima o poi, la distrazione cominciava a non bastare più e i demoni inevitabilmente riaffioravano in superficie.
Ruggivano, graffiavano e dilaniavano tutto, ogni appiglio ed ogni certezza, fin quando rimaneva solo il nulla, un spazio oscuro dove la mente abbracciava la Follia pur di avere l’illusione di riassaporare un po’ di luce e di calore.
Stark ricordava quel gelo che, per mesi, era stato la sua seconda pelle. Ricordava l’oscurità di un oblio sul cui orlo aveva camminato, incurante del rischio di perdere per sempre sé stesso.
Ed aveva quasi dovuto perdere la persona più importante che aveva al mondo per ricordare chi fosse.
 
“È quello che faccio. Riparo cose.”
 
Aveva riparato Pepper e stava lavorando su Tony Stark.
 
Adesso, non poteva fare a meno di rivedere l’uomo distrutto che era stato nelle iridi color cielo di Capitan America.
Sam Wilson - con il quale si era messo in contatto tre settimane addietro grazie all’aiuto della Romanoff - inizialmente si era mostrato diffidente nei suoi confronti, ma bombardato dall’insistenza formato Stark, alla fine aveva ceduto, nella speranza di poter aiutare il biondo prima che fosse tardi.
A detta del veterano, Rogers aveva preso a seguire piste improbabili dopo i primi mesi di ricerca, come se inconsciamente avesse smesso di cercare James Barnes, per limitarsi a scappare. Era stato proprio per questo motivo che Wilson aveva costretto il Capitano a tornare a casa, in segreto accordo con Stark e la Romanoff.
Steve aveva bisogno di una mano che lo aiutasse a rialzarsi, il mondo di essere ripulito dalla minaccia dell’Hydra e Tony di sentirsi di nuovo parte di qualcosa, così come alcune vecchie conoscenze.
 
La comune soluzione? Semplice. Una rimpatriata.
 
“Avrei voluto esserci. Sono bravo a far saltare in aria le cose, oltre che a costruirle.”
Steve tornò a posare gli occhi sul miliardario, alzando un sopracciglio con fare perplesso.
“Pensavo ne fossi uscito, o almeno così era riportato sul file che ti riguardava in possesso dello SHIELD.”
“Hai letto il mio file?”
“Credevo fossi morto, dopo l’attacco del Mandarino a Malibù. Poi, io … non …”
Tony percepì una nota d’imbarazzo fiorire nella voce del super soldato e, nonostante vederlo annaspare in cerca delle parole lo divertisse parecchio, decise di intervenire.
Per il momento, si sarebbe sforzato di non infierire ulteriormente contro di lui. Era risaputo che far agitare i vecchietti risultasse dannoso per la loro salute.
“Fare il supereroe non è poi così male. Diciamo che mi sono preso una pausa e che ora sono pronto a ricominciare.”
Fece spallucce, mantenendo lo sguardo fisso sulla strada.
“Fare il supereroe non è un gioco, Stark” lo riprese Rogers.
“Mi chiedevo dove fosse finito Capitan Bacchettone. Sai, in fondo, credo che un pochino tu mi sia mancato, Rogie. Hai presente Pinocchio? Tu saresti il mio Grillo Parlante, anche se sentire continuamente la tua voce nella testa non sarebbe poi tanto divert-”
 
“Non avevi una proposta da farmi?” tagliò corto Steve, sbuffando.
Eppure Tony giurò di non essersela immaginata la piccola scintilla di vita riaccendere quegli occhi esageratamente limpidi.
“Guastafeste” borbottò, ignorando bellamente l’occhiataccia che ricevette, ma accingendosi comunque a tornare serio.
 
“Adesso che lo SHIELD è a pezzi, i cattivi ne approfitteranno per farsi ancor meglio gli affari loro e quando dico cattivi, mi riferisco fondamentalmente all’Hydra.”
 
Al nome del mostro dalle infinite teste, Rogers si irrigidì visibilmente.
Tony attese qualche secondo, poi continuò.
 
“I file che avete diffuso sulla rete sono scomparsi velocemente, come c’era da aspettarsi, ma JARVIS è riuscito ad immagazzinarli quasi tutti. Non ne ho per niente apprezzato il contenuto, Rogers. Ci sono basi dell’Hydra sparse per l’intero globo e molte sono in possesso di tecnologia aliena.”
“Chitauri?”
“Esatto. Lo SHIELD aveva fatto sparire i resti dell’invasione, ma è facilmente intuibile cosa sia potuto accadere poi, dato che ai vertici dello SHIELD c’era l’Hydra, in realtà.”
“Ricordo bene cosa l’Hydra fu in grado di costruire utilizzando l’energia del Tesseract.”
 
Tony lasciò trascorrere qualche attimo di silenzio, preparandosi ad entrare nel vivo della questione.
 
“Ricordi lo scettro di Loki?”
“Come dimenticarlo” asserì Steve, chiedendosi dove Stark volesse arrivare.
“Tra i file recuperati da JARVIS, ce n’erano alcuni che riguardavano quell’oggetto. Credo che tu non abbia dimenticato nemmeno cosa sia in grado di fare, giusto?”
“Plasma la mente, la controlla e …”
“Trasforma le persone in marionette pronte a servire chi lo possiede” terminò il miliardario, non nascondendo il fastidio che provava nel sapere che lo scettro fosse proprio nelle mani di pazzi ossessionati dal Controllo.
 
“So che Fury ha intenzione di ricostruire lo SHIELD, ma quando ci riuscirà potrebbe essere troppo tardi, perciò …”
 
“Frena un secondo!”
 
Steve stava guardando Stark con gli occhi spalancati e colmi di incredulità.
“Come sai che Fury è vivo e addirittura che voglia ricostruire lo SHIELD?”
“Romanoff” ammise Tony, ammiccando.
 
La confusione sul volto del biondo doveva essere evidente, perché il genio si decise finalmente a fare chiarezza, arrivando al punto cruciale di quella conversazione.
 
“Sto riunendo la squadra, Rogers, e la regola fondamentale è niente compartimentazione tra i Vendicatori. La Tower tornerà ad essere la nostra base operativa.”
 
Steve abbassò il capo e, ancora una volta, sembrò chiudersi in quel suo triste silenzio.
Il miliardario non si perse d’animo.
 
“Banner è rimasto alla Tower anche dopo la battaglia del Brooklyn Bridge. Barton e Romanoff hanno accettato l’invito qualche settimana fa e, pensa, c’è anche Thor!”
“Davvero?” si lasciò sfuggire il giovane soldato e la voce gli tremò appena.
“Sei sicuramente a conoscenza del disastro di Greenwich risalente a un anno fa e a cui non siamo stati invitati a partecipare, no?”
“Sì. Fury ha avuto un esaurimento nervoso quella volta, ma prima che potesse fare qualcosa, Thor aveva già sistemato tutto, più o meno, se si esclude la bestia aliena che scorrazzava liberalmente per la città e di cui mi sono occupato personalmente.”
Rogers sorrise, scuotendo leggermente il capo al ricordo.
“Bene. Da allora il nostro Shakespeare in estiva è rimasto sulla Terra, in compagnia della bella Jane Foster. Quando gli ho parlato dello scettro, non ha esitato a riunirsi ai suoi compagni d’armi. Quindi, caro il mio Capsicle, manchi solo tu adesso e sappi che non accetterò un no come risposta.”
 
Il fatto che Rogers se ne rimanesse zitto zitto, concentrato nel torturare il lembo inferiore della leggera felpa blu - in tinta con i pantaloni - indossata sotto il cappotto, indusse Stark ad insistere.
 
“Senti, Wilson è disposto ad occuparsi del caso persone scomparse e potrà avere l’aiuto di JARVIS in qualunque momento. Abbiamo bisogno anche di te, Rogers.”
Tony fece un respiro profondo.
“A dirla tutta, la squadra è decisamente a pezzi. Da tre anni a questa parte ne sono successe di cose.”
“Come fai a conoscere Sam? Anzi, no, non voglio saperlo. Come stanno loro?”
Stark sogghignò al sentire la nota esasperata nella voce del biondo.
“Bruce sembra essere in perenne modalità eremitica, Barton è Barton, Natasha è spesso sulle sue e Thor, beh, ci ha rivelato di aver perso sua madre e suo fratello durante la battaglia di cui Greenwich ha ospitato la conclusione.”
“Mi dispiace davvero tanto” sussurrò Steve, visibilmente sconvolto da quell’ultima rivelazione.
“Quindi Loki è morto?”
“Sì.”
 
Per i successivi minuti, il suono emesso dal motore dell’auto cullò i pensieri di entrambi.
La linea dell’orizzonte e parte del cielo sopra di essa brillavano di un pallido rosa, mentre il Sole faceva lentamente capolino.
 
“E tu come stai?” si azzardò a chiedere Tony.
Steve esitò, prima di aprir bocca.
“Sto bene” mentì e si aggrappò a quella bugia, come se sperasse di vederla tramutare in verità.
Stark scacciò via la voglia di prenderlo a schiaffi e di urlargli contro che la vecchiaia doveva averlo reso cieco.
“Farò finta di non aver sentito” replicò invece, scoccandogli un’occhiataccia, ma Rogers evitò prontamente il suo sguardo.
“Pensi che io possa aggiustare le cose?”
“Forse - Tony sorrise - dipende da te.”
 
Il biondo si lasciò scappare una risata amara e percepì il battito del cuore accelerare, come se tutti quei discorsi avessero avuto su di lui lo stesso effetto di una scarica di adrenalina.
 
“Avanti! Andiamo a recidere le teste dell’Hydra e ad incenerire quel che resta degli alieni, prima di incappare in qualche altro disastro di fronte al quale il cuore di Fury non sopravvivrebbe! Il mondo ha bisogno di noi, Capitano, non puoi tirarti indietro proprio adesso. Vendicatori uniti, giusto?”
 
 
“Il mondo orami è cambiato e non si può tornare indietro. Cerchiamo di fare del nostro meglio, e a volte il meglio che possiamo fare è ricominciare da capo.”
 
 
Le parole di Peggy risuonarono con forza nella mente confusa di Steve.
Ricominciare da capo.
Poi, i suoi pensieri scivolarono inevitabilmente su Bucky.
“Io credo che non voglia essere trovato, Steve. Sarà lui a cercare te, quando si sentirà pronto” gli aveva confessato Sam, una volta, con una sincerità disarmante.
 
E a quel punto, tutto divenne un po’ più chiaro.
 
“Sì. Proviamo a ricominciare.”
 
Lo stridio delle ruote sull’asfalto, simile al macabro richiamo di un uccello in pena, riecheggiò nell’aria.
“Sei impazzito, Stark!” sbottò Rogers, le cui unghie erano affondate nel sedile di pelle.
Fortunatamente, la strada a quell’ora era pressoché deserta.
Un camion passò di fianco la costosa Porsche e il conducente, un uomo grassoccio con barba incolta e capello da baseball calato in testa, si limitò a lanciare sguardi di disapprovazione, mentre borbottava qualcosa sui ricconi raccomandati.
Tony, come se nulla fosse, si voltò per incontrare gli occhi sbarrati di Rogers, sorridendo serafico.
“Hai detto di sì” sentenziò poi, allungandosi per piazzare qualche pacca sulla spalla di uno sconvolto Capitan America.
 
“Prossima fermata, Avengers Tower!”
La Porsche ripartì sgommando a tutta velocità, superando il camionista che sembrava ancora impegnato a borbottare tra sé e sé.
 
Solo allora il super soldato si accorse che, fin dall’inizio, Tony aveva puntato in direzione di New York, come se non avesse affatto messo in conto un suo rifiuto.
 
Dannato Stark.
Eppure, faceva meno freddo adesso.
Si sarebbe riunito ai suoi compagni, alla fine. Sì, voleva davvero rivederli.
E forse la sua vita avrebbe smesso di cadere a pezzi.
 
“Notizie di An-”
Stark si bloccò non appena scorse una scintilla di panico accendersi nelle iridi cerulee del giovane Capitano e capì che l’argomento ‘fidanzata’ era meglio non sfiorarlo nemmeno, per il momento.
Steve, da parte sua, non aveva detto a nessuno della fugace visita della ragazza in questione e non aveva intenzione di farlo.
 
 
 
Intanto, la struttura titanica della Tower spiccava ora tra le infinite vette che costellavano la Grande Mela, ergendosi in tutto il suo urlante egocentrismo e brillando laddove i raggi pallidi del Sole colpivano le pareti di vetro.
La luminescente ‘A’  era un grido di Affermazione, un’Ancora di salvezza per i comuni mortali e un’Ascia di guerra per gli attentatori - alieni e non - della pace sulla Terra.
Gli Avengers, dopo tre anni, stavano per riunirsi.
 
 
 
                                                ***
 
 
 
“L’obiettivo è tornato a New York, Sir. Ha raggiunto la città appena tre ore fa, con Tony Stark. Continua a spostarsi, Sir” comunicò uno degli agenti messi alle calcagna del suddetto obiettivo, mantenendo il capo chino.
“È un tipo alquanto sfuggente, Sir” si intromise una seconda voce, marcando le parole con sfrontato sarcasmo.
“Lo è sempre stato, mio caro Rumlow, oltre che irritante, aggiungerei. Attenderemo. In fondo, la vendetta è un piatto che va servito freddo.”
“Ai suoi ordini, Sir” replicò Brock, già pregustando il momento in cui avrebbe finalmente messo le mani sulla Stellina d’America.
 
 
 
Note
Ciao! Sono un po’ in anticipo, lo so, ma domani sarò condannata a passare la giornata sui libri di scuola ed avevo timore di non riuscire a pubblicare, perciò ho deciso di anticipare.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto. Per qualsiasi richiesta e chiarificazione, basta domandare e sarò lieta di rispondervi.
Mi sono sempre chiesta come la squadra si fosse riunita, dato il buco che c’è tra “The Winter Soldier” e “Age of Ultron”.
 
Vorrei ringraziare Eclisse LunareGiulietta BeccaccinaSiria_Iliaswinterlover97 e fredfredina per aver inserito le storia nelle liste speciali *.* Grazie con tutto il cuore!
 
Grazie a Eclisse Lunare, Siria_Ilias per aver recensito! Spero di sentirvi ancora <3

Questo capitolo, però, voglio assolutamente dedicarlo alla mia straordinaria Sister, Ragdoll_Cat.
Se questo sequel esiste è merito tuo e dei tuoi “messaggi subliminali”. È grazie al tuo costante supporto e al tuo aiuto, se ho deciso di riprendere Anthea e dare il via a questa nuova follia.
La devo a te l’ispirazione per il “Nuovo Inizio”, soprattutto per quanto riguarda il personaggio di Steve. È stata la tua storia “Certe cose non cambiano mai” a darmi lo slancio, sappilo. Quindi grazie e ancora grazie <3
Ti voglio bene, Sister!
 
Grazie a tutti coloro che leggono questa storia!
Appuntamento tra una settimana. Vi aspetto!
 
Un grande abbraccio <3
Ella

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Capitolo 3
*** Prima di cominciare ***


Prima di cominciare
 
Steve allungò un braccio per afferrare il borsone accantonato sui sedili posteriori e scese dall’auto. Sospirò profondamente, cercando di placare l’incomprensibile ondata d’ansia che lo aveva colto di sorpresa quando la Tower - l’Avengers Tower, Rogie - si era innalzata, grandiosa, davanti ai suoi occhi.
Grazie al cielo, almeno il fastidioso vuoto che gli aveva invaso lo stomaco fino a poco prima era scomparso, o meglio, aveva momentaneamente battuto in ritirata, di fronte l’abbondante pasto consumato in un confortevole Diner, non lontano da Central Park.
Stark aveva insistito nel volergli offrire la colazione e Steve non si era opposto, data la fame tremenda che improvvisamente si era accorto di avere.
I pancake ai mirtilli di Darlene, l’anziana padrona di quel locale dall’aspetto un po’ retrò - la scelta del miliardario non doveva essere stata poi tanto casuale come aveva cercato di fargli credere -, gli avevano deliziato il palato e lo stesso Tony li aveva apprezzati parecchio.
Darlene aveva anche offerto loro della deliziosa spremuta d’arancia e, visto il locale ancora vuoto, si era intrattenuta a chiacchierare, senza mostrare il minimo segno di aver riconosciuto i volti dei due Vendicatori.
La cordiale premura della signora dal dolce viso paffuto e segnato dal tempo aveva regalato un po’ di buon umore al biondo, che si era lasciato strappare la promessa di tornare a trovarla appena gli sarebbe stato possibile.
 
“Darlene è pazza di te, bel giovinotto. Ci rimarrebbe male se non tornassi a farle visita” commentò Stark, sorridendo.
“Mh mh” fu il distratto mugolio di Steve.
Lasciata la Porsche nel parcheggio sotterraneo, un labirinto di grigio cemento armato illuminato da led quasi accecanti - là dentro i Vendicatori ci avevano quasi rimesso la pelle, tre anni prima -, si infilarono nell’ascensore dagli interni color pesca. Sopra le loro teste, una mezza sfera irradiava un chiarore soffuso.
Il sibilo della cabina accompagnò la salita verso i piani più alti della Torre, quelli al di sopra della piattaforma di atterraggio e dotati di eccezionali vedute panoramiche, grazie alle immense vetrate che ne costituivano la gran parte delle pareti.
“Una volta c’era la musica negli ascensori” si lasciò scappare Rogers, assecondando il recondito desiderio di rompere quel soffocante silenzio.
“Vecchietto nostalgico” celiò Stark, aprendosi in un ghigno provocatorio e ricevendo in risposta un energico sbuffo, con annessa un’alzata di occhi al cielo.
“Ansioso, eh Rogie?”
“Che cosa te lo fa credere?”
Questa volta fu Tony ad alzare gli occhi al cielo, di fronte all’ingenuità del biondo.
Steve fremeva come un bimbo in attesa dell’arrivo di Babbo Natale e, nel mentre, torturava incessantemente un dei bottoni del cappotto.
“Manca poco alla Sala Comune. Ancora un paio di piani. Rilassati.”
 
La Sala Comune - corrispondente all’attico - era collocata all’apice della Torre e comprendeva un’unica immensa stanza dal chiaro e lucido parquet. Le pareti, esclusa quella ospitante la vetrata che dava su una splendida balconata, erano di un luminoso giallo canarino.
Uscendo dall’ascensore, ci si trovava di fronte all’estendersi della città di New York fino al visibile sprazzo azzurro dell’Oceano Atlantico; sulla destra stanziava un bancone di scuro legno pregiato con sopra una macchina del caffè e che annetteva, poco dietro, uno scaffale le cui mensole brulicavano di ogni sorta di alcolico.
Il resto dello spazio era riempito da comfort che avrebbero addolcito il tempo libero: una televisione di ultima generazione era nel mezzo e, ai suoi piedi, un ampio e morbido tappeto color panna ricopriva una buona porzione del pavimento. Divanetti e poltrone in pelle bianca erano disposti con apparente casualità davanti il sottile schermo al plasma, mentre, poco più in là, era presente un tavolo circolare in legno massello circondato da una decina di sedie. C’era anche un angolo adibito a cucina, con annessi fornelli, forno a microonde e frigorifero.
In fondo a sinistra, si intravedeva l’inizio della rampa di scale che conduceva ai laboratori personali di Stark e Banner e, inoltre, all’ascensore privato che collegava i piani adibiti ad alloggi per i Vendicatori.
Su una parete, era inchiodato al muro un bersaglio incuneato da freccette colorate e intorno al quale si potevano scorgere piccoli buchi nell’intonaco immacolato - dannato Barton e quando aveva deciso di sfidare quell’impedito di un dio asgardiano, mettendo così a rischio la salute degli ignari passanti.
 
“Casa dolce casa” sospirò Stark, spingendo il biondo fuori dall’ascensore.
Steve, per alcuni istanti, si sentì talmente confuso e perso - perché quello di casa era un concetto che non faceva più parte di lui da tempo, troppo tempo -, da non notare nemmeno le quattro paia di occhi posatesi su di lui.
 
“Tranquilli, deve trattarsi di un black out emozionale. A una certa età il sopraggiungere di emozioni troppo forti può essere destabili-”
 
L’occhiataccia della Vedova Nera fece desistere Stark dal terminare quella elucubrazione mentale, meglio definibile come cretinata.
Rogers cercò di ricomporsi alla meglio e, sorridendo cordiale, esordì con un “Come va?” un po’ traballante.
Quando fu vicino al tornare padrone di sé, il cervello lo tradì riabbracciando lo stato di loop, nell’esatto momento in cui le labbra di Natasha schioccarono dolcemente contro la sua guancia, per poi pronunciare un “Mi sei mancato” sincero.
“Anche tu” fu il lieve sussurro che la rossa non mancò di afferrare, mentre sorrideva serafica dinanzi l’imbarazzo purpureo dipinto sulle gote del giovane.
Subito dopo, un braccio circondò le spalle larghe del Capitano e Thor - con addosso un’aderente maglietta nera ed un paio di jeans - era lì al suo fianco, gli occhi scintillanti di orgoglio e un sorriso luminoso a piegargli la bocca. Steve sorrise a sua volta, rilassandosi in quell’amichevole e caloroso abbraccio.
Si appuntò mentalmente di offrire a Thor le proprie condoglianze e il proprio sostegno, non appena si fosse presentata la giusta occasione.
 
“Il nostro amico dall’occhio lesto ha perso dunque la sfida, credendo nel fallimento dell’uomo di metallo.”
Tony, piccato dalla parola fallimento associata alla sua persona, chiese spiegazioni al suddetto Occhio Lesto.
Barton, dal canto suo, si limitò ad una scrollata di spalle e raggiunse Rogers per porgergli la mano in segno di saluto, gesto che fu prontamente ricambiato.
“Ti trovo bene, Vecchio Idiota Testardo.”
Il biondo ridacchiò, rispondendo con un “Non c’è male”, mentre altre memorie tornavano a galla con straordinaria intensità.
 
Sì, gli erano mancati parecchio quei pazzi eccentrici.
 
“Devo a Nat venti dollari, Stark. Dieci perché sei riuscito a convincere il Capitano e dieci perché non hai un occhio nero” confessò poi l’arciere, con fare disinteressato, mentre rivolgeva un sorrisetto complice al super soldato.
“Un occhio nero, Legolas? Ma andiamo!”
“Banner invece ha ritenuto opportuno preparare la cassetta del pronto soccorso.”
E, a conferma di quelle parole, Clint indicò la cassettina di plastica bianca giacente sulla superficie lucida del tavolo circolare.
“Fortunatamente non ho scommesso. Felice di riaverla tra noi, Capitano.”
Bruce strinse la mano di Steve, sfoggiando il solito sorriso teso, eppure sincero.
“Beh mi consolerò sapendo che almeno la Romanoff ha puntato su di me.”
“Errato, Stark - la rossa sogghignò - io ero del parere del dottore, ma Thor mi ha giustamente ricordato di far affidamento sull’ammirevole temperamento del Capitano e aveva ragione a quanto pare.”
 
“Branco di infami sfiduciati.”
Tony mise su il broncio, ma la voce della coscienza gli rammentò lo stato in cui aveva trovato Rogers e lo scampato pericolo di finire come quel vecchio giradischi, ovvero sfracellato contro una parete.
Forse i suoi malfidati coinquilini non avevano tutti i torti, anche se non lo avrebbe mai ammesso ad alta voce.
“Che ne dite di accomodarci?”
Il padrone di casa proclamò la fine dell’assedio all’ascensore.
I Vendicatori si spinsero verso il centro dell’attico e occuparono poltrone e divanetti.
 
Eccoli, quindi, riuniti dopo tre anni. Era come se tutti loro assistessero contemporaneamente al medesimo deja vu.
Ma non erano più estranei costretti a convivere e l’aria non era così tesa, come lo era stata la prima volta in cui si erano trovati in quella stanza, tutti assieme, senza sapere cosa pensare l’uno dell’altro. Certo, c’era ancora della tensione, ma era sparito ogni imbarazzo ed ogni sguardo diffidente.
 
“Caffè. Ho bisogno di caffeina. Chi altri vuole favorire? La Stark Coffee può sfornare caffè di tutti i gusti, basta …”
 
Per Steve le parole si trasformarono presto in confusi BlaBlaBlaBla.
La mente del super soldato faceva ancora fatica a metabolizzare le ultime ore, perché la sua vita aveva appena subito l’ennesima svolta e lui ne era stato a malapena partecipe, troppo distratto da un’inquietudine che, da mesi, gli rendeva difficile perfino respirare.
Nonostante si fidasse cecamente di Sam, non partecipare alle ricerche di Bucky acuiva il distruttivo senso di colpa che gli stava corrodendo l’anima con sadica lentezza.
Lo aveva lasciato cadere, non lo aveva cercato, aveva permesso a quei fanatici bastardi di schiavizzarlo e adesso non era là fuori a tentare di salvare ciò che rimaneva di quel fratello creduto morto.
 
“James c’è sempre stato per te, sempre” sibilò la consueta vocina nella sua testa.
 
Uno scoglio nel mezzo di un mare in tempesta, un appiglio al di fuori dell’oblio, acqua fresca in un arido deserto, uno scudo contro la meschinità del mondo: Bucky Barnes era stato tutto questo per quel gracile ragazzino di Brooklyn e lo era rimasto anche dopo la nascita di Capitan America.
 
“E tu, nemmeno con la forza di cui il siero ti ha dotato, sei stato in grado di proteggerlo.
Lo hai ucciso sul quel dannato treno, invece.
Non sei abbastanza, in fondo. Non lo sei mai stato.”
 
Un tocco delicato lo strappò fuori dal quel circolo vizioso avviatosi nel suo cervello.
La piccola mano di Natasha si era insinuata furtiva sotto il capotto e sotto la felpa e poteva sentirne il calore sulla schiena, nonostante il tessuto della maglietta.
C’era un ronzio sommesso proveniente da qualche parte e gli sguardi dei presenti puntavano, divertiti, su uno strano marchingegno con il quale Stark sembrava discutere.
Solo Natasha, seduta sul divanetto al suo fianco, teneva gli occhi smeraldini in quelli cerulei dell’ultimo arrivato e la mano era ancora lì, non si era mossa.
 
“Dovresti …”
 
Le parole della Vedova, sussurrate con placida fermezza, raggiunsero le orecchie di Steve, scivolando sul blaterare del miliardario riguardo cioccolato, panna e “Thor il caffè è caffè per il retrogusto amaro! Sei zollette di zucchero ne ucciderebbero l’essenza.”
 
“ … smetterla. Non è colpa tua, Steve.”
 
Perché Natasha sapeva. Ricordava nitidamente quella volta in cui aveva visto Steve Rogers spento, eclissato dall’ombra della colpa, distrutto ed impotente, come mai prima.
 
                                                 ***
 
“Era lui.”
Tiene lo sguardo basso e le iridi color del cielo hanno perso del tutto la loro luce.
Si è lasciato imprigionare dai bastardi traditori, senza opporre resistenza.
Non sta elaborando un piano per uscirne vivi. Sembra che il pensiero di una morte imminente non lo tocchi affatto. Ha smesso di lottare. Si è fermato nell’esatto momento in cui ha riconosciuto quel volto.
“Ci siamo guardati in faccia. Era come se non mi conoscesse.”
La sofferenza è palpabile nel debole suono della sua voce.
“Come è possibile? È successo settant’anni fa.”
Wilson sembra incredulo e preoccupato per entrambi i compagni di quel team improvvisato. Natasha è gravemente ferita e Steve sta sanguinando dentro.
“Zola. Il reparto di Bucky fu catturato nel ’43. Ha eseguito esperimenti su di lui che l’hanno aiutato a sopravvivere alla caduta.”
Il biondo alza gli occhi e c’è terrore in essi. Non può sfuggire alla realtà che lo schiaffeggia violentemente, privandolo di ogni forza.
“Poi l’hanno trovato e …”
Non riesce a continuare. Natasha è certa di aver percepito nella voce profonda del giovane un tremito e si sente in dovere di rassicurarlo, nonostante la debolezza trasformi le sue parole in un laconico lamento.
“Non è colpa tua, Steve.”
La rossa lo osserva abbassare il capo di fronte a quell’affermazione così spaventosamente intensa e si rende conto di quanto davvero lui sia distrutto, sconfitto e scosso.
Steve non riesce ad aggrapparsi alle parole della compagna, perché, semplicemente, non crede siano vere.
“Anche quando non avevo niente, avevo Bucky” sussurra debolmente, sprofondando nell’abisso del dolore.

 
                                                        ***
 
Poi Capitan America - il senso del Dovere - aveva nascosto ogni incrinatura, ogni timore e sconforto, sotto una vecchia divisa e dietro il metallo indistruttibile di uno scudo.
Ma quando Steve Rogers era stato catapultato di nuovo nella realtà, le ombre erano tornate ad insidiarsi nelle sue iridi cristalline e il senso di colpa lo aveva schiacciato.
Adesso, Steve versava nella stessa impotenza e disperazione di quel giorno, senza però che riuscisse a trovare una scappatoia per riabbracciare una parvenza di tranquillità.
O, forse, era lui stesso a non volere uscirne, cosicché la disperazione e il dolore lo punissero per non essere abbastanza.
 
“Natasha. Per. Favore.”
La rabbiosa frustrazione era appena sotto la pelle, pronta ad emergere al minimo cedimento.
La stanza era sparita e tutti con essa.
Solo gli occhi della rossa e la sua mano premuta contro la schiena erano ancora con lui, a sorreggerlo.
 
“Per me un caffè alla banana, se è in gra-”
“Sì, è in grado, Barton. Ricorda che sono un genio.”
 
Di colpo, Steve si alzò dal divanetto, attirando l’attenzione dei presenti.
“Vado a darmi una sistemata. Il mio piano è rimasto lo stesso, Stark?”
Tony, preso alla sprovvista, annuì solamente e il biondo si precipitò verso le scale per raggiungere l’ascensore.
“Ci penso io.”
Natasha seguì il Capitano, sotto gli sguardi interdetti degli altri.
 
 
 
“Riuscirà a guidarci, Stark, o anche solo a sopravvivere alla prima missione? Non è che non mi fidi, lo sapete, ma non credo sia pronto. E ne parlerò direttamente con lui, se ce ne sarà bisogno.”
Clint era sempre stato schietto e Tony si ritrovò, incredibilmente, senza parole.
Steve stava peggio di quel che aveva creduto, dopo aver ascoltato la confessione di Sam.
“È a pezzi, signor Stark.”
Lo era davvero a pezzi, Rogers.
 
“È quello che faccio. Riparo cose.”
 
“Ascoltatemi attentamente. Sì, è vero, Capitan America non sembra affatto in condizioni per intraprendere una guerra contro l’Hydra o qualsiasi altro cattivo di turno. Ma non facciamo gli ipocriti. Ditemi chi tra noi è abbastanza sano, da essere sicuro di non crollare, quando i giochi inizieranno. E quando inizieranno, non ci saranno possibilità di sospenderli, sia chiaro.”
Stark si passò una mano tra i capelli, sospirando.
“Rogers è incapace di nascondere quello che sente. Fa schifo quando si tratta di mentire su ciò che lo riguarda. Noi siamo bravi ad eclissare quel che non vogliamo gli altri vedano, ma possiamo ritenerci davvero idonei ad issarci sulle spalle la protezione della Terra?”
 
“No.”
“Davvero, Thor?” chiese Clint, spiazzato.
Le parole di Tony avevano incrinato anche la maschera di indifferenza dell’arciere.
“Nemmeno un dio è in grado di sfuggire al dolore. E il dolore della perdita è il più grande tra gli altri. Neanche lo scorrere del tempo, a volte, può lenirlo.”
L’asgardiano si alzò dalla poltrona e raggiunse la vetrata, tenendo gli occhi fissi sul cielo punteggiato da batuffoli di ovatta. Incrociò le braccia al petto e strinse le labbra in una linea dura.
“I guerrieri affrontano il dolore combattendo. Il Capitano farà altrettanto, ne ho la certezza. Non è uno sconsiderato e sarà in grado di sostenere la nuova battaglia.”
 
“La vendetta può rendere ciechi. Non scordiamo che per lui sarà una guerra personale. Stiamo parlando dell’Hydra” intervenne Bruce, stropicciandosi nervosamente le mani.
“E nemmeno io sono pronto. Non lo sono mai stato e forse non lo sarò mai. Ricordiamo che Hulk è distruzione, non protezione.”
 
“E ricordiamo anche che non saremmo qui, se non ci fosse stato Hulk ad aiutarci a debellare la fine del mondo, per ben due volte.”
“Tony …”
“Non ti ascolto, Bruce.”
 
L’aria divenne soffocante e tesa. Un coltello avrebbe potuto tagliarla a fette, come fosse un morbido panetto di burro.
La prima volta, sull’Eliveivolo, c’erano state scaramucce dettate dall’istinto di imporsi in quel gruppo male assemblato di entità eccentriche. Contro i Chitauri, erano emersi l’istinto di autoconservazione e il senso di responsabilità, grazie ai quali erano riusciti a combattere insieme, come una letale macchina ben oliata.
In seguito, si erano aggiunti il bruciante senso del dovere - da grandi poteri derivano grandi responsabilità, no? Non ci si può nascondere in un angolino ed aspettare che il male prenda il sopravvento - e quello di reciproca protezione - non esiste lasciare che il cattivo di turno faccia del male ad uno della squadra - quando Daskalos, un demone scellerato e sadico, se l’era presa con la sfortunata razza umana.
 
Ma adesso che l’iniziativa doveva partire dai Vendicatori stessi, adesso che non c’era urgenza o obbligo a tenerli uniti, adesso che la Terra non li chiamava a gran voce … potevano ancora funzionare insieme?
Non c’era alcuna fine del mondo ad oliare la macchina - arrugginita - questa volta.
C’erano loro e nient’altro.
 
“Va bene. Nessuno di noi è pronto. Ma lo saremo mai? Quindi, perché non limitarci a fare quel che sappiamo fare meglio.”
 
“Va’ avanti. Voglio proprio sentire questa tua inestimabile perla, Barton.”
 
Clint, alzatosi in piedi sulla poltrona, sorrise mestamente.
 
“Dico, Stark, che non dovremmo metterci a rimuginare su responsabilità e su tutte quelle questioni riguardanti la salvezza della Terra. Non siamo in grado, adesso, di pensare così in grande e di promettere al mondo che ci saremo sempre. Quindi, per ora, limitiamoci a fare ciò che ci riesce davvero bene anche senza impegnarci troppo. Qual è la cosa che abbiamo in comune? Quella che Fury odia con tutto sé stesso?”
 
Gli occhi di Tony si illuminarono, mentre le labbra si arricciavano in un ghigno compiaciuto.
 
“Creare il caos.”
 
“Ma a discapito dei cattivi, ovviamente.”
 
“Giusto, Rogie.”
 
E Stark quasi si morse la lingua, nel realizzare che Steve era lì, in cima alla rampa di scale.
Natasha, al suo fianco, sorrideva apertamente e gli occhi, accesi di febbrile eccitazione, erano rivolti all’arciere ancora in piedi sulla poltrona.
Il suo Clint. Era da un po’ che non lo vedeva così … Clint, precisamente da quando lo SHIELD era crollato e lui si era ritrovato a vivere una vita che pareva aver perso di senso, così come era accaduto a lei.
Rogers era alla Tower da meno di un’ora e già le acque si stavano agitando, risvegliatesi finalmente dalla struggente calma piatta.
I Vendicatori avevano bisogno di uscire dalla soffocante bonaccia e che cosa poteva esserci di meglio, se non una tempesta con tanto di tuoni e fulmini?
Era il momento di innalzare le vele e lasciarsi trasportare dal nuovo vento, con la fiducia di avvistare, prima o poi, la terra della salvezza.
 
“Da quanto siete lì?” balbettò Barton, infilando le mani nelle tasche dei jeans scuri e balzando giù dalla poltrona con elegante agilità.
“Più o meno da ‘Ascoltatemi attentamente’ e prima che qualcuno di voi dica qualcosa … sì, avete pienamente ragione a dubitare di me in questo momento. Faccio schifo nel mentire - Steve scoccò a Tony un’occhiata eloquente - quindi non ci proverò nemmeno. Sono distrutto, è vero, ma in questo modo non potranno farmi a pezzi ancora, dato che lo sono già. La vendetta mi sfiora, ma non mi tocca - perché è colpa mia, solo colpa mia, avrebbe voluto urlare, eppure tacque - e starmene con le mani in mano mi sta uccidendo. Combattere eviterà di farmi impazzire.”
Rogers appuntò le mani sui fianchi, guardando un punto indefinito del pavimento e stirando un sorriso rassegnato.
“Quanto al creare caos, credo di essere uno dei migliori candidati dopo la caduta del Triskelion. Barton ha ragione. Se aspettassimo di essere pronti, beh, tanto varrebbe consegnare direttamente la Terra nelle mani dell’Hydra.”
 
“Quindi facciamo casino?” incitò Natasha, con gli occhi che brillavano di una rinnovata luce.
Non era riuscita a costruirsi una nuova copertura dopo il crollo dello SHIELD, ma, ora come ora, le era davvero necessaria? Probabilmente no.
Lei e Barton avevano bisogno di sentirsi di nuovo parte di qualcosa ed era per questo motivo che aveva accettato l’invito di Stark, che li aveva trovati entrambi a Budapest, solo qualche settimana addietro.
 
“Facciamo casino” ripeterono gli altri, quasi all’unisono.
Anche Bruce, nella sua camicia azzurra stropicciata, sembrò scostarsi un poco da tutte le rimostranze mosse dal cervello.
 
Steve lanciò un’occhiata al borsone rimasto ai piedi del comodo sofà e sorrise, perché a volte il Caso - o Destino se vi si credeva - si divertiva a spargere accidenti qua e là, con apparente disorganizzazione, aspettando pazientemente che gli ignari vi incappassero.
Per Rogers, questa volta, l’accidente si identificava con la dimenticanza.
Lui era un tipo attento, eppure era riuscito a dimenticare di prendere e portare nel suo alloggio il borsone contenete tutti gli effetti personali.
Proprio la dimenticanza lo aveva ricondotto nell’attico, quando Tony aveva iniziato quel discorso dall’effetto sconvolgente.
Clint aveva dato uno schiaffo a tutti loro, risvegliandoli dal torpore e motivandoli quel tanto che bastava a renderli capaci di rischiare e combattere ancora.
E Steve aveva trovato la forza di gettare fuori parte dei timori che gli rubavano il sonno da un bel po’ di tempo.
Senz’altro un ottimo accidente, paragonabile a un ciocco di legna da ardere, che riesce a ravvivare un fuoco debole e smorto.
 
‘Si ricomincia’ fu il pensiero del super soldato, mentre l’adrenalina scivolava rapida nelle vene, accendendo i sensi assopiti.
 
 
 
                                                 ***
 
 
 
Natasha aveva insistito per accompagnarlo e Steve non aveva avuto la forza di protestare, soprattutto perché ce ne sarebbe voluta fin troppa per dissuadere la letale Vedova dai suoi propositi.
Il monolocale che Tony gli aveva messo a disposizione, già tre anni prima, non era cambiato affatto.
Seguito dalla Romanoff - stretta in un paio di short grigi quasi completamente coperti dalla lunga maglia viola -, Steve si diresse verso la camera da letto, dove l’immancabile vetrata offriva una stupenda vista sulla città. La luce che vi entrava faceva risplendere l’azzurro delle pareti in tinta con la morbida moquette. Il letto ad una piazza e mezzo era sulla destra, con la testata appoggiata alla parete, e dalla parte opposta stanziava la scrivania d’ebano, nel cui cassetto avrebbe sicuramente ritrovato l’album da disegno che vi aveva lasciato tre anni addietro. A riempire la stanza, c’erano anche un guardaroba e un piccolo comodino al fianco del letto.
Gli alloggi dei Vendicatori non differivano poi molto gli uni dagli altri, se non si contavano i particolari che, secondo Stark, servivano a dare un tocco di personalità, come per esempio il colore delle stanze - ed era ovvio il motivo dell’azzurro per quella di Rogers.
 
Steve abbandonò la borsa all’ingresso della camera e si spogliò del cappotto e della felpa, rimanendo con la sola maglietta grigia a maniche corte. Appoggiò i vestiti sulla sedia di fronte alla scrivania e si voltò a guardare la compagna, i cui occhi penetranti parevano scavargli un cratere nella schiena.
Natasha, che si era seduta sul letto, gli fece cenno di accomodarsi al suo fianco, non smettendo di studiarlo nemmeno per un attimo.
Il super soldato l’accontentò e il materasso emise un sbuffo nello schiacciarsi sotto il peso del suo corpo.
Rimasero in silenzio per alcuni attimi, lui a giocherellare con le mani e lei a osservarlo di sottecchi.
Di colpo, Steve prese a ridacchiare, lasciando che la tensione si dissolvesse una volta per tutte.
 
“Tu e Stark siete in combutta con Sam, vero? Ecco con chi parlava al telefono ultimamente, evitando che io ascoltassi.”
Natasha fece spallucce, ma un sorriso da gatta le piegò le belle labbra piene.
“Eravamo preoccupati per te, Steve. Ops! Forse Stark non voleva che te lo dicessi, ma pazienza.”
“Stark? Preoccupato per me? Non riesco nemmeno ad immaginarlo.”
Il biondo alzò un sopracciglio con fare perplesso e, al tempo stesso, provocante.
La Vedova gli assestò un pungo amichevole sulla spalla, scuotendo il capo con finta rassegnazione.
“Allora, stai controllando che non faccia nulla di stupido?” celiò Rogers, ma l’incrinatura nella voce tradì il suo proposito di buttarla sullo scherzo.
La rossa lo scrutò in viso, cercando quei timidi e sfuggevoli occhi azzurri.
 
“Come stai?”
 
Eccola, la domanda da un milione di dollari.
 
“Sto bene” rispose istintivamente il giovane, forse perché fin troppe volte lo aveva ripetuto a sé stesso, nella speranza di credervi.
“Sai che sei hai bisogno, io ci sono, vero Steve?”
Era un invito. Un invito a sputare fuori timori ed incertezze. Un invito ad accettare la mano tesa di un’amica, pronta ad aiutare senza alcun tornaconto personale.
 
Natasha sorrise mestamente, di fronte il mutismo del biondo.
Insistere lo avrebbe solo indotto a chiudersi a riccio e a mettersi sulla difensiva, perciò si limitò a sviare il discorso, consapevole che lui aveva bisogno di tempo.
 
“Come vanno le cose tra te e Barton?”
 
“Non c’è male. I due anni di lontananza sono volati a causa di tutte le cose che sono successe. Dopo il crollo del Triskelion, sono tornata a Budapest, dove Clint mi concesse una seconda possibilità per ricominciare da zero parecchi anni fa. Il nostro primo incontro fu alquanto turbolento.”
La rossa sorrise al ricordo e poi scosse il capo, come per scacciarlo.
“Beh, comunque, non mi sarei mai aspettata di trovarlo lì. Siamo entrambi persi senza lo SHIELD. Non siamo in grado di vivere normalmente, non più. Poi, qualche settimana addietro, Stark ci ha trovati e non abbiamo esitato ad accettare.”
 
Natasha non si capacitava di quanto facile le venisse aprirsi con Steve. A nessuno - l’unica eccezione era Clint - aveva mai dato alcuna informazione sul suo passato, nemmeno di striscio.
Eppure a Rogers aveva parlato del KGB - a casa di Sam - e adesso non aveva avuto alcuna rimostranza nell’accennare a Budapest. Se lui le avesse chiesto di più, molto probabilmente gli avrebbe raccontato di come Clint l’aveva salvata ed aiutata ad uscire dal marciume e dall’oscurità della Stanza Rossa, sia fisicamente sia e soprattutto mentalmente.
Steve, però, non si sarebbe mai permesso di spingerla a rivangare episodi di un passato, da cui lei tentava ancora di fuggire.
E Natasha, questo, lo apprezzava davvero.
 
 
Ma c’era qualcosa. Qualcosa che la Vedova non riusciva a confessare.
Un ricordo tornato a galla appena un anno prima. Un ricordo lontano, sbiadito da una nebbia artificiale, la quale sembrava stesse diradandosi sempre di più.
Ne era terrorizzata.
 
“Dove è stato Barton durante quei due anni? Non ho mai saputo nulla sulla sua missione.”
La voce del Capitano richiamò la Romanoff alla realtà.
Nonostante l’accendersi del senso di colpa, la rossa sotterrò momentaneamente quel ricordo bruciante.
Steve avrebbe saputo. E avrebbe dovuto parlarne anche con Clint, prima o poi.
Ma non era il momento.
 
“Seguiva una pista in Europa parecchio pericolosa su traffici illegali di armi di distruzione di massa e su sperimentazioni umane. Lo ha affiancato una squadra formata da una decina di componenti. Pochi sapevano della missione, perché si pensava ci fosse qualche doppiogiochista all’interno dello stesso SHIELD e indovina un po’ chi gestiva i traffici, alla fine?”
Rogers emise un verso pieno di disapprovazione e rabbia.
“Hydra.”
“Sotto falso nome, ovviamente. Usava i potenti corrotti come copertura e la verità è venuta a galla solo dopo la distruzione del Triskelion. Clint dice che quei bastardi sono tornati a nascondersi, non appena è arrivata la notizia della morte di Alexander Pierce, che aveva il compito di occultare i sotterfugi dell’Hydra, dato che si trovava parecchio in alto nella gerarchia dello SHIELD.”
“Non posso credere che l’Hydra abbia covato i suoi piani indisturbata per tutto questo tempo.”
“Non stupirti, Rogers. Il mondo in cui viviamo è un terreno fertile per pazzi maniaci del controllo, finti predicatori di pace e uomini corrotti dal potere e dal denaro.”
 
Cadde il silenzio, mentre l’eco delle parole di Natasha riecheggiava nella testa del super soldato, costringendo le certezze a vacillare ancora.
 
Per chi bisognava combattere? Per cosa? Perché?
Potevano pugnalarti alle spalle in ogni fottuto istante.
Come distinguere il falso dal vero? La menzogna dalla verità?
 
“Hai chiamato l’infermiera?”
 
La Vedova tentò di alleggerire l’atmosfera, fattasi improvvisamente pesante e Steve, preso alla sprovvista, ridacchiò, ma i suoi occhi continuarono a fissare il vuoto, persi nella confusione dell’incertezza.
 
“Troppo occupato.”
 
‘Sì, troppo occupato ad aspettare una persona’ avrebbe voluto spiattellargli in faccia la Romanoff, ma si trattenne.
Non erano state poche le volte in cui Natasha lo aveva sorpreso a fissare il cielo con nostalgia, come se si aspettasse di vederla comparire da un momento all’altro.
Ma, puntualmente, di lei nessuna traccia.
 
“Adesso Sam entrerà da quella porta ad avvisarci che la colazione è pronta.”
Steve rivolse uno sguardo divertito alla compagna, alzando entrambe le sopracciglia e piegando la bocca in un sorrisetto complice.
“Sempre che voi non vi nutriate di altro” scimmiottò il biondo, ma l’imitazione fu alquanto disastrosa e la Romanoff non riuscì a trattenere le risa.
 
Entrambi, però, sobbalzarono non appena captarono un rumore di passi provenire dal salotto e farsi sempre più vicino.
Dalla porta della camera fece capolino Thor.
 
“Spero di non aver interrotto niente” esordì il dio, senza alcuna malizia nello sguardo.
“No, tranquillo. Stavamo solo facendo una chiacchierata” spiegò Natasha, stringendo le labbra, come se volesse reprimere qualcosa.
 
“Volevo invitarti a guerreggiare amichevolmente nella stanza degli allenamenti, Steve.”
“Oh, certo. Va bene. Mi cambio e ti raggiungo” balbettò impacciato l’interpellato.
Thor annuì sorridendo e sparì, accompagnato dal suono pesante dei suoi passi.
 
Solo allora Natasha liberò la risata trattenuta, piegandosi in avanti e tenendo le mani sulla pancia.
“Che succede?”
“Dovevi vedere la tua faccia, Steve. Credevi davvero fosse Sam, eh?”
La rossa si alzò in piedi e scompigliò con una mano il ciuffo sbarazzino del Capitano.
 
“Fa’ il bravo.”
 
E lo lasciò lì, con in faccia un’espressione tra il confuso e il divertito.
 
 
 
                                              ***
 
 
 
La palestra della Tower si trovava qualche piano più in basso rispetto alla piattaforma di atterraggio ed era provvista di una vasta gamma di attrezzature, comprendenti sacchi da boxe rinforzati, per la gioia del Capitano - che poi Stark ancora si chiedeva cosa Rogers ci trovasse nel prendere a pugni un povero ed inerme sacco dondolante.
Il pavimento era costituito da lucido parquet chiaro, mentre sul bianco soffitto si susseguivano ad intervalli regolari lampade a led di forma rettangolare. La porta d’ingresso, in vetroresina e dotata di due ante scorrevoli, era diametralmente opposta ad una parete costituita da uno specchio continuo, caratterizzato da solchi filiformi orizzontali e verticali, i quali lo dividevano in tanti quadrati perfetti.
C’era un tatami a ridosso della vetrata da cui la luce sgusciava all’interno della sala, illuminandola.
Il verde materasso quadrangolare, spesso una manciata di centimetri e lungo una decina di metri, era perfetto per allenarsi al combattimento corpo a corpo, arte fondamentale per non morire durante i diversi incarichi lavorativi.
 
Il placido silenzio era infranto dal suono cadenzato di respiri grevi e profondi.
Gli schianti dei colpi inferti, assieme a gemiti fugaci, rimbalzavano tra le pareti, creando un’eco lieve.
Era la prima volta che Thor proponeva a Steve di allenarsi assieme e forse lo aveva fatto per scaricare la tensione accumulata da quando aveva lasciato Asgard.
I guerrieri affrontano il dolore combattendo.
Senza contare che, per il dio, Rogers era un valido avversario, resistente a tal punto da reggere anche colpi intrisi di rabbia e frustrazione.
Sì, perché Thor si stava visibilmente sfogando e il Capitano traeva beneficio dalla situazione, lasciandosi andare a sua volta, incurante della forza che imprimeva in ogni pugno ed in ogni calcio.
Non c’era eleganza o precisione nel modo in cui si stavano affrontando. Erano entrambi in balia di un tumulto inarrestabile di emozioni ed i piedi nudi si muovevano caotici sul tappeto.
Emozioni affini.
Senso di colpa. Rabbia. Tristezza.
Il volto di Bucky perseguitava Steve nel buio del sonno, tanto quanto i volti di Frigga e Loki bruciavano dolorosamente nel cuore di Thor.
 
Le nocche del dio incontrarono lo sterno destro del super soldato.
Steve gemette e perse per un secondo la stabilità. L’aria si infranse contro l’interno dei denti serrati, desiderosa di uscire, ma lui la tenne dentro e ruotò rapido il bacino per schivare l’affondo diretto al costato.
Quando l’asgardiano riuscì a fare di nuovo breccia nelle sue difese, altre scintille di dolore scoppiettarono all’altezza del plesso solare, ma Rogers non si scompose e piazzò un calcio sul petto del compagno, respingendolo indietro di uno spazio sufficiente ad eseguire un calcio rotante diretto al volto.
Thor afferrò la caviglia del super soldato, evitando di ritrovarsi la pianta del piede stampata in faccia, e la tirò in avanti con forza.
Steve percepì il terreno venirgli a mancare sotto i piedi e, nell’istante di un respiro, si ritrovò con la schiena schiacciata contro il tatami, ansimante.
I muscoli dolevano piacevolmente e la stanchezza gli annebbiava il cervello. Il sudore gli aveva appiccicato sulla pelle il tessuto bianco della maglietta ed anche i pantaloncini neri erano piuttosto fradici.
Thor lo afferrò per un polso e, con uno strattone deciso, lo rimise in piedi.
 
“Su Asgard si tengono spesso combattimenti tra i guerrieri migliori. Saresti un ottimo candidato, Capitano.”
 
Avevano lottato per quasi tre ore e il dio, a dispetto di Rogers, pareva già pronto per un’altra ripresa, nonostante le gocce di sudore che scivolavano sul suo viso e il respiro un po’ pesante. Guardando bene, la maglia nera e i pantaloncini in tinta dell’asgardiano non contavano più di un paio di chiazze umide.
 
“Stai ancora tentando di convincermi, Thor?”
 
Si diressero verso una lunga panca in legno e si sedettero.
Steve appoggiò la schiena contro la parete retrostante e chiuse gli occhi, godendo della sensazione dei muscoli indolenziti e dei sensi intorpiditi.
Sfiorare i limiti della resistenza era un ottimo palliativo allo stress e al costante nervosismo. E tornare sul campo di battaglia era la cosa che più bramava in quel momento - se doveva essere sincero almeno con sé stesso -, perché era l’unico modo per incanalare e gettare fuori la frustrazione e la rabbia.
Rogers aveva bisogno di Capitan America ed aveva bisogno di mettere da parte il ragazzino di Brooklyn, altrimenti sarebbe impazzito.
 
“Ma non potrai scappare per sempre” bisbigliò la consueta vocina nella testa.
 
“L’invito è sempre valido. Asgard è davvero bella.”
“Non ne dubito. E Thor.”
“Si?”
“Mi dispiace. Per tutto. Io ci sono, se hai bisogno.”
 
E Steve si chiese se anche Thor sentisse una vocina accusatrice nella testa, se percepisse il cuore più pesante, se di tanto in tanto gli pizzicassero gli occhi e se avesse rinunciato ormai a dormire sonni tranquilli.
Negli occhi chiari del dio c’era quella scintilla familiare, quella che il giovane Capitano intravedeva ogni qual volta incontrava il proprio riflesso in uno specchio.
Una pericolosa incrinatura dell’anima.
 
“Poco meno di un anno fa, ho fatto rientro ad Asgard per prendere parte alla commemorazione della regina Frigga, mia madre. È morta con onore, sacrificandosi per la salvezza dei Nove Regni. Eppure non passa un solo giorno in cui non rimprovero me stesso per non averla protetta come avrei dovuto. Lei era straordinaria, Steve.”
Thor si passò entrambe le mani sul volto, segnato da una spossatezza che pareva invecchiarne i tratti.
“Per lei, Loki ha combattuto ed è morto al mio fianco. Il mio fratellino … è morto tra le mie braccia.”
 
Rogers lasciò al silenzio l’arduo compito di muto sostegno, perché le parole sarebbero state solamente di troppo.
Non era a conoscenza di cosa fosse successo quel lontano giorno in cui Thor aveva perso la madre, ma sapeva perfettamente cosa significasse veder morire la donna che ti aveva messo al mondo.
Non c’era niente che potesse fare per aiutare il compagno, se non stargli accanto.
Come aveva fatto Bucky con lui, quando Sarah si era spenta.
Steve provava dispiacere anche per la morte di Loki, il quale si era dimostrato un quasi fedele alleato durante la battaglia del Brooklyn Bridge.
E, in fondo, poteva anche capire quale dolore Thor provasse per aver visto Loki spirare.
Rogers aveva guardato suo fratello cadere dal maledetto treno, dopo che quello aveva imbracciato lo scudo per proteggerlo.
 
“Alla commemorazione ha preso parte Lady Anthea. È venuta a porgere le condoglianze al re e a donarmi il suo sostegno. Abbiamo anche conversato.”
 
Il cuore di Steve mancò un battito al solo sentire quel nome.
Thor aveva visto Anthea. E aveva parlato con lei.
“Come sta?” si azzardò a domandare il Capitano, mentre un groppo fastidioso prendeva forma nella gola, rendendo la voce più rauca.
Se l’asgardiano notò il repentino cambio di atteggiamento dell’altro, comunque non lo diede e vedere.
 
“Faresti fatica a riconoscerla. Sta impegnando anima e corpo affinché il suo popolo possa tornare fiorente e tale proposito ha già visto risultati incoraggianti. Il Padre degli Dei le ha lasciato la piena libertà di agire nel territorio che le ha concesso per dare asilo agli oneiriani. È una sovrana meritevole, nonostante la giovinezza.”
 
Il super soldato non sapeva se essere felice o triste per ciò che l’asgardiano gli aveva raccontato con un tono orgoglioso.
Anthea era diventata una guida essenziale per gli oneiriani, quindi, come poteva anche solo sperare che sarebbe tornata da lui e, soprattutto, che sarebbe rimasta?
Si era caricata sulle spalle il destino del suo popolo e lottava perché esso tornasse a splendere. E, molto probabilmente, prima o poi avrebbe auspicato ad avere al suo fianco un re, un marito, il padre dei suoi futuri figli.
Ora, più che mai, Steve doveva farsi forza e smettere di attendere un suo possibile ritorno.
Forse quell’ultima notte che avevano passato assieme, per lei, aveva rappresentato un addio, un estremo saluto all’uomo che l’aveva aiutata a riprendere la retta via.
 
“Mi ha chiesto di ricordarti di stare fuori dai guai.”
 
Dio!
A Steve tremarono le mani dalla voglia di prendere Thor per le spalle e scuoterlo e implorarlo di dirgli se lei sarebbe tornata.
Fortunatamente, un molesto intruso gli impedì di comportarsi come un bambino in piena crisi ‘voglio le caramelle, datemi le mie caramelle’.
 
“Stark ha ordinato pizza per cena.”
Barton era presso la porta in vetro, con le braccia incrociate al petto e un sorrisetto sghembo in viso. Sembrava parecchio più giovane con addosso dei semplici jeans attillati, abbinati ad una maglietta rosso fiammante.
“Jane adora la pizza ed ha provveduto a farmene mangiare di diverse. Quella con il nome di Diavola è senza dubbio la migliore.”
“Ottima scelta, Thor. A proposito, come sta Jane?” chiese Clint, mentre gli altri due lo raggiungevano.
 
“Jane è rimasta a Londra per portare avanti i suoi studi sulla Convergenza. Il buon dottor Selvig dice che potrebbe vincere il Premio Nobel.”
Il dio comunicò la notizia del tutto ignaro di cosa davvero comportasse vincere il Premio Nobel e poi uscì dalla palestra, blaterando qualcosa sul ritemprare il corpo con quello strano tubo spara acqua di cui gli sfuggiva sempre il nome.
“Doccia, Thor! D-o-c-c-i-a!” gli urlò dietro Barton, prima di rivolgersi ad un ancora non tanto presente Rogers.
 
“Devo ringraziarti per aver badato a Natasha mentre ero via e per averla protetta. Mi ha detto del vostro fugace bacio della salvezza e che pensava fossi più arrugginito.”
Steve si maledì, perché, da come Clint stava sorridendo, doveva essere arrossito fino alla radice dei capelli.
Occhio di Falco avrebbe potuto benissimo competere con Stark nella sfida ‘Metti in imbarazzo quegli ingenui dei tuoi amici e fatti una risata a loro spese’.
“Nemmeno lei era tanto male” borbottò il Capitano, evitando gli occhi della spia.
“Attento, Rogers. Sono piuttosto possessivo.”
 
Steve sbarrò gli occhi, congelato.
 
“Scherzavo!”
L’arciere sogghignò, regalando al compagno qualche amichevole pacca sulla schiena.
Rogers allora prese a ridacchiare impacciato, ma quando Clint aggiunse un sibilante “O forse no”, se la squagliò in direzione dell’ascensore, con la faccia ancora in fiamme.
 
“Avanti, Rogers! Scherzavo! Davvero! Aspetta!”
E Barton gli corse dietro, annaspando e sbellicandosi al tempo stesso.
 
 
 
                                                     ***
 
 
 
“Il dottore richiede l’Arma Zero, Sir. È pronto per la fase finale.”
 
“Diamo inizio al Piano Omega, dunque. Invitiamo i cosiddetti Vendicatori ad unirsi ai giochi.”
 
“Ai suoi ordini, Sir. Hail Hydra!”
 
 
 
 
 
Note
Ed eccoci arrivati alla fine!
Questo è, prevalentemente, un capitolo di passaggio. Ci tenevo a mettere in luce le varie interazioni fra i Vendicatori.
Tranquilli, l’azione non mancherà. Siamo solo all’inizio, in fondo.
Per qualunque dubbio, sono qui.
 
Ringrazio con tutto il cuore coloro che hanno inserito la storia nelle speciali liste e che assiduamente continuano a stare dietro le mie elucubrazioni mentali <3
 
Grazie a Siria_Ilias e alla mia Sister Ragdoll_Cat  per le recensioni stimolanti e dolcissime <3
 
Alla prossima settimana!
Un grande abbraccio <3
Ella

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Capitolo 4
*** Discrezione ***


Discrezione
 
Quattro giorni dopo il Risveglio.
Base SHIELD. New York.
 
“Lei non ha il potere di opporsi a una richiesta dei piani alti, Fury.”
 
La voce dell’uomo risulta quasi stridula ed è impregnata di velenosa disapprovazione.
È sprofondato nella poltrona di pelle posta dinanzi la scrivania di Fury, la cui ostinazione lo sta facendo sudare parecchio, tanto che continua a tamponarsi la fronte con un fazzoletto di stoffa pregiata. Ma alcune gocce di sudore gli sono sfuggite e scivolano fino al doppio mento e lungo il collo taurino.
Nick invece è in piedi, appoggiato al davanzale della sola finestra che illumina l’ufficio, con le braccia incrociate al petto e lo sguardo più corrucciato del solito.
 
“Sì, quando la richiesta comporta un sequestro di persona.”
 
“È un’arma che appartiene al Governo degli Stati Uniti. Ed è ritenuta ormai non operativa sul campo, date le testimonianze dello psichiatra. Ce ne prenderemo cura nel modo più adeguato.”
 
Fury ringhia di rabbia e sbatte con violenza le mani sulla scrivania, provocando un sussulto spaventato nell’uomo stritolato da un elegante completo nero, visibilmente piccolo per contenere i rotoli di grasso dell’addome.
 
“Non parlare di lui come se fosse un dannato oggetto. Il tuo strizzacervelli da strapazzo può andare al diavolo. Finché il ragazzo sarà sotto la mia tutela, voi terrete lontano da lui le vostre manacce, chiaro? Non permetterò che lo chiudiate in un laboratorio per farne una cavia priva di volontà.”
 
“Ma non può proteggerlo per sempre, mio caro Fury. È solo questione di tempo e verremo a prenderlo, che lei lo voglia o meno.”
 
“Non se torna operativo. Ha appena iniziato la riabilitazione psicofisica e mi sono premurato di inserirlo nel progetto Avengers, progetto che gli stessi piani alti hanno approvato.”
 
Nick alza un angolo della bocca di fronte allo stupore che stira i tratti del viso dell’uomo, il quale si passa con stizza il fazzoletto ormai umido sulla sommità del capo calvo.
 
“Sapevo che, non appena avuta la notizia del ritrovamento, vi sareste fatti vivi, così ho preso le mie precauzioni. Il progetto Avengers conferisce al ragazzo un’immunità contro la quale non potete nulla. Quindi, addio e saluti il generale Ross da parte mia.”
 
“Non finisce qui, Fury. Non rinunceremo mai alla possibilità di averlo. Nel frattempo, si guardi le spalle” sputa quell’inutile tirapiedi, con la faccia rossa di rabbia.
 
“Minacciato dallo stesso governo per cui lavoro. Questa mi mancava.”
 
Fury si dirige verso la porta e la spalanca, mentre il fastidioso ospite recepisce il messaggio sottinteso e si alza goffamente dalla poltrona.
 
“Non si faccia più vedere” è l’allegro saluto del direttore dello SHIELD.
 
E l’uomo grugnisce in risposta, raggiungendo il gorilla pompato - che è la sua guardia del corpo - in corridoio. Poi si volta con l’intenzione di rispondere a tono, ma Nick gli sbatte preventivamente la porta in faccia.
Così, umiliato, si trascina per i corridoi della base per raggiungere l’uscita, seguito dall’omaccione in nero.
“Me la pagherà” sibila, digrignando i denti e grugnendo di rabbia.
La sua marcia furiosa si blocca di colpo, quando gli occhi schiacciati catturano la figura di un ragazzo biondo, oltre la parete di vetro che dà su una stanza asettica, molto probabilmente l’infermeria.
 
“Signor Benson, l’uscita è di qua” lo riprende la guardia con tono remissivo.
 
Benson gli fa cenno di aspettare ed entra nella stanza, ignorando gli sguardi allarmati di alcuni agenti che circolano nei dintorni.
 
“Lei non ha il permesso di stare qui. Per favore, se ne vada.”
A parlare è una donna bruna in camice bianco, la cui prima mossa è quella di piazzarsi tra lui e il biondo seduto sul lettino.
Benson la scansa come fosse un insetto fastidioso e guarda avido l’arma che i piani alti bramano di possedere. Per replicarla.
 
Il suono dell’elettrocardiogramma, collegato tramite appositi elettrodi al torace nudo di Capitan America, è il solo che riempie la stanza per alcuni infiniti attimi.
 
“Ha bisogno di qualcosa, signore?”
 
Sarebbe parsa un’innocua domanda, se il tono e lo sguardo di Steve Rogers non fossero stati così freddi ed intimidatori.
L’uomo ricomincia a sudare, ma si stampa in faccia il suo miglior finto sorriso di condiscendenza.
 
“Niente di particolare, Capitano Rogers. Comunque i miei superiori le mandano i più sentiti auguri per un prossimo recupero.”
 
“Grazie, ma sto benissimo. Quindi può riferire loro che non mi servono auguri.”
 
Lo sguardo del biondo è ostile, gelido e del tutto consapevole.
 
“Fury deve averla messa al corrente, a quanto pare.”
 
“Sì, lo ha fatto.”
 
Benson ride e i suoi occhi vengono attraversati da una scintilla morbosa.
“Ci rivedremo, giovanotto” sibila acido, a pochi centimetri dal viso del Capitano.
 
E Rogers è troppo educato per sputargli in faccia, perciò si limita a guardarlo con puro disprezzo.
 
Poi il fastidioso ospite si dilegua definitivamente, lasciandosi alle spalle una velata minaccia e una pericolosa promessa.
 
 
 
                                        ***
 
 
 
Presente.
Avengers Tower.
 
“Assolutamente no!”
 
Il tono di Clint non ammetteva repliche. Era una negazione categorica e ciò sorprese non poco gli altri Vendicatori.
Stark era rimasto con la bocca mezza aperta e le parole incastrate in gola, dopo che Occhio di Falco aveva stroncato il suo discorso con fin troppa enfasi.
La sera prima avevano mangiato pizza e bevuto birra, ridendo e scherzando, come fosse stata una rimpatriata tra vecchi compagni di liceo.
Ma la pace, ovviamente, non poteva durare troppo ed infatti già scoppiettavano le prime scintille premonitrici di incendio.
Erano circa le undici del mattino e i Vendicatori si erano incontrati nella Sala Comune, per discutere alcuni punti fondamentali al loro piano d’attacco ai danni dell’Hydra.
 
Peccato che già al primo punto della lista si fossero inceppati.
 
“Non puoi dire ‘assolutamente no’ ed usare lo sguardo assassino. Quindi, saresti così gentile da offrire una spiegazione sensata al perché non dovremmo appoggiarci al Consiglio?”
Tony dava le spalle ad una lavagnetta bianca sulla quale aveva scritto precedentemente ‘Accordi con Consiglio Mondiale per convalidare le azioni della squadra’ e attendeva che Barton, seduto al tavolo circolare assieme agli altri, facesse luce sulla sua improvvisa orticaria per il Governo, quando poi aveva lavorato per l’agenzia governativa più potente, rimanendovi fedele fino alla fine.
 
“Nei due anni passati a scorrazzare per l’Europa sono venuto a capo di una sola cosa che potrei definire certa. Traffici illegali, progettazioni tassativamente vietate di armi di distruzione di massa, sperimentazioni umane, subdoli compromessi con la criminalità organizzata e lo schifoso elenco continua, ve lo posso assicurare … comunque tutta questa merda non riguarda solo l’Hydra, ma ci sono altre organizzazioni pericolose che agiscono senza alcun timore di essere scoperte e sapete perché? Perché membri del Governo le appoggiano, occultandole, e ne traggono fuori parecchi profitti. Avevo raccolto prove davvero allucinanti con la mia squadra, ma ovviamente i fascicoli non sono mai arrivati allo SHIELD e sono spariti nel nulla. Se facciamo accordi con il Governo, scordatevi di poter dare la caccia ai cattivi e cominciate ad abituarvi ai compromessi. Non è da escludere che ai piani alti possa esserci qualcuno che appoggia l’Hydra.”
 
Ad eccezione di Thor, che degli intrighi governativi su Midgard non aveva mai capito niente, gli altri Vendicatori poterono solo ascoltare la conferma a ciò che, in fondo, già sapevano.
Ad esempio, Tony era consapevole che la stessa A.I.M., associazione terroristica con il pallino per le sperimentazioni umane, era stata finanziata e protetta da entità dell’alto Governo americano e, in parte, estero.
E i Demoni della Notte, allora? Anche quell’organizzazione di disertori era nata e cresciuta all’interno dello SHIELD, come aveva fatto l’Hydra, e nessuno se ne era mai accorto, perché qualcuno di molto influente l’aveva coperta, oltre che finanziata.
Peccato che questi potenti rimanessero quasi sempre intoccati, anche quando le organizzazioni criminali venivano costrette ad uscire dal loro nascondiglio e a mostrarsi per ciò che erano agli occhi della parte dell’umanità spiacevolmente inconsapevole dei sotterfugi messi in atto dai loro governanti.
 
“Nel caso decidessimo di lavorare in proprio, allora non avremmo l’immunità e il Consiglio Mondiale potrebbe affibbiarci la targhetta di nemici di Stato in qualsiasi momento. Non siamo visti di buon occhio, là in alto, e non c’è più Fury a guardarci le spalle. Siamo vulnerabili da questo punto di vista.”
Anche Bruce aveva ragione.
Potevano rischiare di venir braccati dal Governo, come fossero loro la vera feccia.
 
“Non dimenticatevi che abbiamo ancora l’approvazione della gran parte della popolazione americana e perciò il Consiglio non potrebbe agire contro di noi senza creare scalpore. E non va tralasciato il fatto che ci temono. Tutti hanno visto cosa siamo in grado di fare, insieme.”
 
“Rogers non ha tutti i torti. Non si azzarderanno a toccarci, non subito almeno. Ma intanto avremo recuperato lo scettro e distrutto tutti i manufatti alieni rimasti, evitando l’ennesimo disastro. Possiamo trovare il giusto modo di agire, stando attenti ad allarmare il meno possibile gli enti governativi” asserì Natasha, picchiettando con le unghie sulla superficie liscia del tavolo.
 
“La cosa più importante è recuperare lo scettro. È troppo pericoloso nella mani di midgardiani immeritevoli.”
Quella di Thor era un’inesorabile verità.
Già il Tesseract si era lasciato dietro una scia di morte e distruzione, un senso di piccolezza ed il sapore acido dell’essere troppo deboli rispetto alla concorrenza sviluppatasi al di fuori dei confini del pianeta.
L’umanità non era minimamente pronta ad affrontare guerre interplanetarie, così come continuava ad essere incapace di controllare quel potere sconosciuto proveniente da altri mondi e che sembrava dannatamente felice di passare a fare una visitina alla Terra, come per ricordarle quanto fosse debole ed indifesa al suo cospetto.
Senza contare che dal momento in cui i Vendicatori avevano fermato un’invasione aliena, il pianeta era finito sotto riflettori ambigui, perché i fottuti alieni ci avrebbero pensato due volte prima di organizzare altre spedizioni di conquista, ma d’altra parte, la Terra aveva implicitamente dichiarato guerra ad un pericoloso, imprevedibile e potente Ignoto.
Prima lo scettro veniva sottratto all’Hydra, meno probabilità c’erano di finire in grossi guai.
 
“Riguardo questo, Bruce ed io abbiamo tracciato un algoritmo per scovare possibili emissioni di radiazioni gamma, perché pensiamo che l’energia dello scettro sia simile a quella del Tesseract. Sono stati rivelati picchi insoliti ultimamente, ma sono spariti talmente in fretta da impedirci di tracciarne la provenienza, fino a ieri sera. Ecco perché ho anticipato a questa mattina la riunione di famiglia. Abbiamo una pista.”
 
“Detroit. JARVIS ha avvisato me e Tony subito dopo cena. È stata rilevata una forte emissione di raggi gamma che è perdurata per quasi un’ora, perciò è stato possibile tracciarne la provenienza.”
L’attenzione si era spostata su Banner, che si era preso la briga di concludere quel che il miliardario aveva iniziato.
 
“Ma non siamo sicuri che sia lo scettro, giusto?” si intromise Steve, perplesso.
Il Capitano sentiva che c’era qualcosa che non tornava, ma non riusciva a visualizzarla, nonostante il cervello si stesse prodigando nell’eseguire salti mortali per trovare quella nota stonata.
“Non al cento per cento. Al novanta, direi. Credo anche che potremmo perdere la traccia, se non agissimo nell’immediato, e poi ci toccherebbe aspettare che si ripeta un simile picco di radiazioni. Ma il tempo che passerebbe prima di registrare di nuovo l’evento è indefinibile. Potrebbero trascorrere giorni, settimane, mesi … chi lo sa.”
Mentre parlava, Tony aveva scritto sulla lavagna il secondo punto da discutere sotto la voce di ‘Buttarsi - alternativa migliore a mio parere - o aspettare - non verrà considerato il parere di Capitan Cautela - ?’.
 
“Divertente Stark, ma io avrei detto la prima comunque. È troppo rischioso lasciare che passi altro tempo. L’Hydra ne ha già avuto fin troppo” berciò Rogers, incrociando le braccia al petto, in attesa del parere degli altri.
“Io appoggio il Capitano” affermò Thor, sicuro.
“Non avevamo dubbi, Point Break. Okay, contando me, siamo in tre che optano per la prima soluzione. Barton?”
“Quando si parte?”
La posizione dell’arciere era chiara.
 
“C’è una cosa che non mi convince. Stark ha detto che il segnale è stato captato ieri sera. La tempistica è sospetta. Steve è arrivato proprio ieri ed era l’ultimo mancante all’appello. Sembra quasi che, chiunque stia muovendo i fili dietro le quinte, abbia atteso che i Vendicatori fossero di nuovo tutti assieme.”
Il ragionamento di Natasha non faceva una piega ed insinuò il senso del dubbio in ognuno dei presenti.
 
“Credo valga la pena rischiare, questa volta. Faremo attenzione” decretò Rogers e la Vedova annuì, seppur ancora non del tutto convinta.
 
“Bene. Io vi seguirò come medico per eventuale e spero non necessario pronto soccorso. L’Altro entrerà in campo solo in caso di emergenza.”
“Accordato, Bruce. Ci sposteremo con il Quinjet, il mio nuovissimo gioiellino” spiegò Stark, orgoglioso.
“Abbiamo un jet personale? Facciamo le cose in grande allora.”
Clint sembrava parecchio eccitato all’idea di ributtarsi nella mischia. Anche lui aveva un conto in sospeso con l’Hydra, dopotutto.
“Sono Tony Stark, Legolas. Faccio sempre le cose in grande.”
All’affermazione seguirono diverse alzate di occhi al cielo e qualche sbuffo esasperato.
 
“Un’ultima cosa. Come pensiamo quindi di agire, per evitare lo stato d’allerta da parte del Consiglio Mondiale?”
 
“Semplicemente, agiremo con discrezione, Romanoff.”
 
Nessuno ebbe la forza di replicare e perciò la discussione giunse definitivamente al termine.
Non si erano scannati, alla fine. Stavano migliorando.
 
“Ci vediamo qui fra tre ore, pronti a partire.”
“Rogie è entrato in Soldier Mode. Comportatevi bene o addominali per tutti.”
“Non provocarmi, Stark.”
“Altrimenti, Capitan Bacchettone?”
 
“No, adesso cominciano. Io me la filo.”
E Clint venne prontamente seguito da Natasha, Bruce e dallo stesso Thor.
 
I teatrini tragicomici messi in scena da Iron Man e Capitan America non stavano migliorando affatto, invece.
 
 
 
                                     ***
 
 
 
“Ma qualcuno tra voi, sa minimamente cosa significhi discrezione?”
 
La voce decisamente alterata della Romanoff risuonò nelle orecchie dei Vendicatori, attraverso le onnipresenti ricetrasmittenti.
La base Hydra identificata grazie alla fuga di radiazioni gamma si era spacciata per un diroccato edificio abbandonato, passando inosservata fino ad allora. Dietro la scorza un po’ malandata e sporca della struttura, si era nascosto uno vero e proprio squadrone della morte. Le vecchie e care armi caricate da energia indubbiamente alinea, più pericolose e potenti che mai, erano sbucate fuori di nuovo.
Eppure c’era ancora qualcosa che non tornava.
Un punto nero su una superficie bianca: lo sguardo non può fare a meno di piantarsi proprio lì.
Allo stesso modo, Rogers non riusciva a distogliere la mente da quel qualcosa che pareva fuori posto, nonostante la situazione poco consona per dedicarsi alla riflessione.
 
“Cap, dove diavolo sei?”
 
Dopo l’arrivo poco silenzioso della squadra - perché Stark non poteva di certo rinunciare ad un’entrata trionfale -, i nemici erano dilagati fuori dal loro nascondiglio, imbracciando le armi ad energia aliena e creando il panico in quel quartiere spoglio e malandato di Detroit.
Era dunque iniziato un vero e proprio scontro per la gioia di Thor e il divertimento di Barton, il quale si era appostato sul tetto dell’edificio per tenere meglio la situazione sotto controllo.
Natasha, invece, non aveva preso molto bene lo scoppio troppo chiassoso di quella lotta che si sarebbe potuta evitare e le imprecazioni in russo avevano riempito le orecchie dei colleghi per dieci minuti buoni.
Decisamente, gli Avengers erano incapaci di agire senza che a seguirli ci fosse un iniziale e rumoroso caos.
 
“Sul furgone.”
 
Il Capitano, nemmeno lui troppo felice per quell’arzilla baraonda, aveva comunque mantenuto come suo solito il sangue freddo, comunicando ordini precisi: la Romanoff e Stark sarebbero dovuti entrare all’interno dell’edificio per raccogliere quanti più dati ed informazioni possibili, prima che l’Hydra si prodigasse nel farli sparire per continuare a tenere occultati i suoi sporchi segreti; assieme a Barton e Thor, invece, lui avrebbe dovuto sedare ogni resistenza mossa dallo squadrone d'assalto nemico.
Un piccolo imprevisto aveva però cambiato i piani di Rogers, il cui occhio attento aveva scorto un furgone nero blindato uscire da un vano laterale della struttura, con la netta intenzione di filarsela indisturbato.
Capitan America aveva agito di conseguenza, perché non poteva far scappare quei codardi, non quando c'era lui a dirigere la missione.
E adesso si trovava letteralmente sul furgone, aggrappato con le mani alle estremità laterali del tettuccio, mentre il guidatore sgommava per la strada, incurante del senso di marcia o del colore dei semafori.
 
“Non c’è molto qui dentro, se escludiamo la focosa accoglienza che ne è uscita. Solo polvere, immondizia e polvere. Che si fa adesso, Cap?”
Il silenzio radio indusse Iron Man a domandarsi se il Capitano fosse ancore vivo, oppure se stesse semplicemente dormendo - non gli passò nemmeno per l'anticamera del cervello che forse potesse essere un tantino impegnato a non morire.
“Rogers ci sei? Avanti, Rogie, rispondi.”
 
“Un attimo!”
 
La voce di Steve risuonò alquanto affannata, oltre che palesemente scocciata, all’interno dell’elmetto dell’armatura.
“Rilassati. Non essere così nervoso o ti verrà un embolo.”
Tony non venne degnato di risposta, così si rivolse direttamente a Natasha, poco distante da lui ed intenta a sondare le spoglie pareti interne dell'edificio.
“Niente passaggi segreti?”
La Vedova rispose con uno sbuffo ed incrociò le braccia sotto i seni, stizzita.
“No, come mi aspettavo dopo che ci hanno permesso di entrare senza fare una piega. Non ci sono nemmeno venuti dietro. Qui non c’è niente.”
Lo sguardo della rossa vagò per l’ampio spazio vuoto che li circondava e la sua fronte corrugata esprimeva la stessa perplessità che si era insinuata nella mente di Stark.
A che gioco stava giocando l’Hydra?
“Va bene. Raggiungo Rogers, allora.”
Iron Man attivò i propulsori e schizzò verso l'alto, forando il tetto dell’edificio, mentre Natasha tornò ad immergersi nel cuore dello scontro che si stava consumando all’esterno.
 
 
 
Le grida spaventate della gente, lo stridio delle ruote sull’asfalto e lo strombazzare alterato dei clacson, creavano una cacofonia assordante.
Eppure Steve la sentiva a malapena, troppo impegnato ad evitare di essere sbalzato via a causa delle brusche sterzate con cui il guidatore sperava di sbarazzarsi di lui.
 
“Rogers, posizione per favore.”
 
Il Capitano alzò il busto, quel tanto che bastava per sbirciare il paesaggio che gli scorreva veloce intorno. Il fischio del vento gli torturava le orecchie lasciate scoperte dall’elmetto azzurro e le sferzate costanti d’aria lo costringevano a tenere gli occhi socchiusi.
Non aveva la minima idea di dove si trovasse in quel momento, ma un piccolo particolare si presentò degno di nota.
 
“Ci dirigiamo verso un fiume, credo. Lo vedo in lontananza.”
 
“Okay, Capitan Precisione. Provvedo ad individuarti. Non muoverti.”
 
“Opzione scartata” fu la pronta risposta di Rogers, il quale già cominciava a darsi da fare per mettere fine a quella corsa pericolosa.
 
“Non graffiarmi l’uniforme, Cap.”
 
Sì, perché Tony Stark si era davvero impegnato nella progettazione di quel tessuto nato dalla fusione di kevlar e fibra di carbonio e dotato di estrema elasticità e resistenza.
L’azzurro era rimasto il colore dominante e il miliardario non aveva dimenticato di dotarla dei famosi segni distintivi: sul petto del super soldato si stagliava la stella argentata, mentre l’addome era fasciato da righe bianche e rosse. Non mancavano guanti, cinta, stivali ed elmetto, che parevano fatti su misura. Resistenti cinghie di cuoio marrone creavano dietro la schiena il supporto per lo scudo in vibranio.
Il tocco di Stark, però, era perfettamente visibile nel meccanismo magnetico posto sull’avambraccio sinistro dell’uniforme, in grado di richiamare indietro lo scudo anche da distanze considerevoli.
Rogers - ovviamente, non lo avrebbe mai ammesso - aveva apprezzato parecchio quel regalo inaspettato. Non avrebbe più dovuto indossare tutine luccicanti o cimeli da museo.
 
Era arrivato il momento di agire.
Il Capitano si sporse pericolosamente in avanti, per poi voltarsi velocissimo sulla schiena. Lo scudo emise un verso stridulo nel picchiare contro il tettuccio del veicolo.
Inspirò profondamente. Con un deciso colpo di reni, eseguì un perfetta capriola all’indietro e mollò la presa nel momento in cui i suoi stivali incontrarono il parabrezza del furgone, frantumandolo.
Steve si ritrovò all’interno della vettura e riuscì a cogliere del panico nelle facce dei due sottoposti dell’Hydra. Sfruttò l’effetto sorpresa per spingere fuori l’agente occupante il posto del passeggero, con annesso lo sportello.
Si mosse poi fulmineo verso il guidatore che, in preda all’istinto di autoconservazione, sterzò bruscamente, costringendo il veicolo ad eseguire un testacoda abbastanza violento da spingere il Capitano verso il vano orfano di sportello.
Rogers reagì immediatamente, gettandosi di nuovo contro l’agente al volante, ma la corsa fuori controllo del furgone fu disastrosamente interrotta dal corrimano che costeggiava il suggestivo riverwalk affacciato sul Detroit River.
Il muso dell’abitacolo si schiacciò, accompagnato dal macabro stridio della lamiera danneggiata. La velocità dello schianto fece sì che il furgone fosse sbalzato oltre la linea sicura del corrimano e finisse direttamente nel fiume.
 
La sensazione del vuoto fece avviluppare lo stomaco di Rogers e l’entrata furiosa dell’acqua gelida nell’abitacolo gli tolse il respiro.
Ma aveva tutto sotto controllo.
Individuò il guidatore che si muoveva goffamente verso i sedili posteriori, come in cerca di qualcosa. Lo afferrò per un braccio e si spinse fuori dal veicolo, che stava inesorabilmente inabissandosi. Gli bastarono pochi colpi di gambe per raggiungere la superficie e tornare a riempire i polmoni di aria.
Qualche attimo dopo, il Capitano era fuori dall’acqua, mentre il fuggitivo si lamentava ai suoi piedi per il dolore che si era accesso all’altezza del setto nasale, ora ridotto ad un ammasso informe di sangue.
 
“Già finita la festa?”
Iron Man atterrò alle spalle del super soldato, che si voltò immediatamente, mostrandogli una scatoletta costituita da uno spesso materiale nero e liscio, decorato da filamenti dorati che si intrecciavano con disordinata armonia.
“Sarebbe affogato, pur di recuperarla. Deve essere importante.”
 
Sì, quello scrigno doveva avere una certa importanza, se aveva spinto l’Hydra ad improvvisare una fuga istantanea, con annesso il sacrificio di una cinquantina di soldati, mandati allo sbaraglio a combattere contro gli Avengers, nella speranza di tenerli occupati.
Eppure c’era ancora qualcosa di sbagliato.
Perché tenere in una base così scoperta, priva di difese efficaci, ciò che pareva avere un valore rilevante?
Mentre l’acqua andava a formare una pozza ai suoi piedi, gocciolando dall’uniforme fradicia - ma integra -, Steve assecondò l’irrefrenabile impulso di aprire la scatoletta, all’apparenza innocua.
 
“Non può essere.”
 
E si sentì mancare, mentre lo stomaco si contraeva dolorosamente.
 
“Rogers, stai bene? Cosa c’è dentro?”
Stark si avvicinò al biondo, sollevando la maschera dell’elmetto.
Quando finalmente scorse il contenuto dello scrigno, percepì il bisogno di aggrapparsi al compagno per rimanere in piedi, ma per orgoglio si limitò a gorgogliare rassegnato.
 
“Merda.”
 
Si protrasse un silenzio carico di tensione, talmente pesante da avere la mera impressione di percepire le spalle curvarsi.
Poi, una risata isterica infranse quell’atmosfera fattasi improvvisamente soffocante.
L’uomo steso dal Capitano si era rimesso in piedi. La sua faccia insozzata di sangue pareva una macabra maschera dell’orrore. Gli occhi illuminati da una scintilla malata erano piantati in quelli limpidi di Rogers, in un chiaro segno di sfida.
 
Allora, tu cosa avevi di così speciale?”
 
Quella domanda, apparentemente priva di senso, venne seguita dal saluto rivolto al mostro dalle infinite teste.
Poco dopo, il corpo dell’uomo si accasciò al suolo, morto, mentre dalla bocca schiusa fuoriusciva schiuma bianca dall’odore nauseante.
 
E nella mente di Steve Rogers risuonò, bruciante, l’eco di parole lontane eppure, adesso, così spaventosamente vicine.
 
 
 
                                                     ***
 
 
 
“Tutto questo non ha senso.”
 
Il Quinjet, sotto l’efficiente controllo di JARVIS, sfrecciava lungo il cielo plumbeo, di ritorno da quella prima missione, i cui risvolti erano stati del tutto inaspettati.
Il tremore rabbioso che impregnava la voce di Thor aveva fatto scattare il campanello d’allarme negli altri Vendicatori e lo stesso Bruce, informato dettagliatamente circa l’accaduto dalla Romanoff, temeva di uscire fuori di sé, tanta era la tensione che appesantiva la fosca atmosfera.
Su un ripiano metallico posto al centro del velivolo, stanziava l’oggetto che era la fonte di quella palpabile agitazione che cresceva minuto dopo minuto.
 
Tra i soldati dell’Hydra, coloro che non erano riusciti a filarsela avevano masticato l’usuale pasticca di cianuro, cosicché i Vendicatori non avrebbero potuto carpire informazioni riguardo i piani dell’organizzazione.
Le menti di quei fanatici erano talmente plagiate, da far apparire il sacrificio come un qualcosa di estremamente facile e naturale da compiere.
Poi erano arrivate le forze dell’ordine e gli Avengers avevano deciso di dileguarsi per evitare ulteriori problemi, non senza aver prima requisito tutti gli armamenti di derivazione aliena. Nessun civile era stato ferito, perciò erano stati abbastanza bravi ad arginare immediatamente lo scontro e mettervi fine.
Certo, avere un dio dalla propria parte era un vantaggio enorme, soprattutto quando i nemici erano umani e non alieni venuti da chissà dove.
Dovevano probabilmente aspettarsi un qualche richiamo dai piani alti del Consiglio Mondiale, comunque, ma quella era l’ultima delle loro preoccupazioni.
Adesso, ogni pensiero verteva su un comune ricordo rimasto vivido nella memoria, nonostante fossero passati quasi tre anni.
 
“Deve esserci una spiegazione. Forse c’è qualche traditore nel tuo palazzo dorato, Thor.”
Era un’insinuazione greve e paradossale era stata la leggerezza con cui Barton l’aveva espressa. Ma, in fondo, sulla Terra il tradimento non era un concetto poi tanto lontano dalla quotidianità.
Per l’asgardiano, invece, l’infausta ipotesi fu un colpo diretto al cuore, perciò ribatté immediatamente a tono, esternando quanto il suo orgoglio ne avesse risentito.
“Non emanare sentenze, se non ci sono prove a favore di ciò che affermi.”
Clint indietreggiò di un passo, quando la figura possente del dio si protese nella sua direzione, sovrastandolo.
Gli occhi di Thor erano divenuti glaciali e l’arciere sentì il disperato bisogno di rimangiarsi l’accusa, ma fu preceduto dall’intervento repentino di Rogers, che si frappose tra loro.
 
“Manteniamo la calma.”
Lo sguardo del Capitano indugiò sul viso di Thor, come in attesa di una possibile reazione non troppo gentile. Il dio, però, parve riacquistare la solita pacatezza e rivolse a Barton un cenno di scuse, che fu prontamente ricambiato.
In quel momento, sarebbe bastato davvero poco affinché la situazione divenisse incontrollabile. Sarebbe stata sufficiente una piccola e innocua scintilla ed un incendio dalle ingenti dimensioni sarebbe divampato, bruciando ogni cosa.
 
Dagli eroi ci si aspettava forse più fermezza o maggiore distacco emotivo, ma la realtà, quella vera, non corrispondeva affatto a questa comune e falsa credenza.
Gli Avengers camminavano continuamente su un filo sottilissimo, sotto il quale si estendeva un implacabile oblio. E il filo era divenuto ancora più sottile, a causa degli eventi che avevano segnato gli ultimi anni. Ogni membro della squadra, a suo modo, aveva assaggiato una fetta del dolore vero, quel dolore che si insinua subdolo sotto la pelle e raggiunge il cuore, circondandolo in una morsa pericolosa.
Tradimenti, crisi di identità, infausti lutti, li avevano fatti barcollare - poco ci era mancato perché alcuni cadessero - e, nonostante fossero riusciti a rimanere in piedi, i loro equilibri interiori erano ancora visibilmente compromessi.
Erano come foglie in balia del vento, adesso, anche se si ostinavano a non darlo a vedere.
 
Quando il Quinjet diede inizio alla fase di atterraggio, nessuno si era ancora azzardato a spiccicare parola.
I fasci di luce azzurra provenienti dallo scrigno posto sul ripiano, parevano lunghe dita minacciose, pronte a strangolare qualsiasi forma di vita.
Il velivolo, intanto, raggiunse la piattaforma sporgente della Tower. Il portellone d’uscita discese sibilando e i raggi rossi del Sole calante dipinsero macchie informi sui volti dei Vendicatori, ancora immobili e con gli sguardi calamitati in direzione di quel piccolo cubo dalla potenza infinita.
“Cosa facciamo?”
Fu Steve a chiedere. Steve, nella cui mente un’ideale pellicola del tempo aveva preso a riavvolgersi, riportando a galla immagini e parole non più così sbiadite.
 
Allora, tu cosa avevi di così speciale?”
 
“Tornerò ad Asgard seduta stante, amici. Devo avere la certezza che la mia gente non sia in pericolo.”
“E il Tesseract? Non mi piace molto l’idea di tenerlo così vicino alla Tower, visto come è andata l’ultima volta.”
Stark puntò un dito accusatore contro il Cubo, giacente ancora sulla fredda lastra di metallo, all’interno della scatola nera.
“Lo porterò con me e chiederò a Padre stesso di averne cura.”
Prima che qualcuno potesse anche solo dire o fare qualcosa, Thor si impossessò dello scrigno ed uscì a passo di carica dal jet, seguito dallo svolazzare del mantello.
Stava accadendo tutto così in fretta.
Un attimo prima combattevano assieme, ricolmi di un rinnovato spirito guerriero, quello dopo erano in balia della confusione e dinanzi ad un ennesimo punto di rottura.
Era sorprendente - quasi esilarante - il fatto che ogni qual volta si riunissero, gli Avengers si trovassero immischiati in situazioni assurde, inspiegabili, contorte e Dio solo sa cos’altro.
Perché, almeno per una volta, le cose non potevano filare lisce?
“Aspetta!”
Una sferzata di gelido vento invernale ricordò a Rogers di essere ancora bagnato dalla testa ai piedi.
Il Capitano batté i denti e si apprestò a raggiungere Thor, che già aveva impugnato Mjolnir e aveva rivolto lo sguardo verso il cielo infuocato dalla luce del tramonto.
“Thor!” lo richiamò, ottenendo l’attenzione sperata.
Gli altri membri della squadra erano poco dietro di lui, del tutto ignari di cosa stesse passando nella testa del loro leader.
“È tutto sbagliato” esalò Rogers, non appena raggiunto il norreno.
 
“È prestabilito. Deve esserlo per forza. Non nascondi un’arma di infinita potenza in un edificio abbandonato. Non la servi su un piatto d’argento ai tuoi nemici e non li lasci scappare con la suddetta arma, senza muovere un dito.”
Lo sconcerto e la rabbia erano del tutto eclissate dalla lucida decisione impregnante la voce del giovane Capitano.
Thor rimase immobile, con lo sguardo affondato nel cielo che brillava tempestoso negli occhi del compagno e la confusione a imperversare nel cuore e nella testa.
 
“Cosa pensi vogliano ottenere?”
Il tono soffice e posato della Romanoff fu un richiamo alla realtà per entrambi i guerrieri, impegnati ancora in un intenso scambio di occhiate che vedeva la lotta tra l’attendere - il non andare - e il dover andare.
“Io - e Steve lasciò cadere lo sguardo a terra - non lo so. Ma quando l’Hydra si muove, non lo fa mai senza senso, fidatevi. Per favore, Thor, aspetta.”
 
“Mi dispiace, Capitano. Sento il dovere di tornare. Ho preso la mia decisione e sono disposto a subirne le conseguenze.”
L’espressione tesa di Thor rifletteva il desiderio di comprensione, desiderio che fu esaudito.
“Capisco” fu infatti la debole replica del super soldato.
 
“Il Tesseract rimarrà qui.”
Barton si fece improvvisamente avanti, facendo sì che tutta l’attenzione si concentrasse su di sé.
 
“Ma sei impazzito?”
Bruce posò una mano sulla spalla di un esterrefatto Stark, bloccando ogni suo tentativo di delirante eruzione emotiva. Era incredibile il modo in cui il dottore riuscisse a placare la mente iperattiva del miliardario con la sua sola presenza, ma probabilmente c’era un’intesa particolare, unica nel suo genere, tra coloro catalogati come geni, un’alchimia naturale.
“Sono d’accordo con Barton. Se ci fosse anche il cinque per cento delle possibilità che il Capitano abbia ragione e con la quasi certa consapevolezza che ad Asgard qualcuno stia facendo il doppio gioco, proporrei di tenere il Cubo sulla Terra. Saremo in tanti a tenerlo d’occhio e a proteggerlo in caso di attacco, mentre tu, Thor, sarai da solo e per di più non hai la minima idea di cosa stai andando ad affrontare.”
Il ragionamento di Banner non aveva pieghe significative. Dopotutto riportare il Tesseract ad Asgard, sarebbe stato come restituirlo nelle mani di colui che aveva avuto la sorprendente abilità di spedirlo di nuovo sulla Terra.
“Non ho protetto il Tesseract come dovevo, perciò non posso obiettare contro la vostra decisione. Vi chiedo solo di far uso della più elevata prudenza.”
E detto ciò, il dio tornò a rivolgersi al cielo.
“Vale anche per te, Thor. Fa’ attenzione.”
Una volta percorso il Bifrost, non ci sarebbe stato modo di comunicare con l’asgardiano, Steve lo sapeva bene, come era quasi certo di star commettendo un errore nel lasciare andare il compagno. Ma non aveva il diritto di costringerlo a rimanere, non quando la nefasta ombra del pericolo campeggiava sulla sua famiglia.
Lui stesso non avrebbe agito diversamente, di fronte alla medesima situazione.
 
“Abbi fiducia, Steve.”
Ci fu un rombare assordate e l’aria venne squarciata dalla colonna di luce che collegava i lontani mondi sparsi nell’universo.
E Thor sparì in quella stessa luce, lasciandosi dietro uno strano senso di vuoto.
 
 
“Bene. Adesso troviamo un posto adeguato per quella cosa, perché la sola vista inizia a darmi fastidio.”
Tony prese lo scrigno dalle mani di Barton e si diresse verso la porta a vetri che dava direttamente sul suo personale ufficio, avente più le fattezza di un confortevole salotto dal moderno arredo.
Il miliardario fu però preceduto dall’arrivo di una trafelata Virginia Potts, stretta in un elegante tailleur rosato. L’evidente stato di allerta della donna era, probabilmente, la conseguenza del boato emesso dal Bifrost.
 
“Cos’è successo? Siete praticamente su tutti i notiziari.”
 
“Niente di cui stupirsi allora, tesoro.”
 
Dopo un sospiro stanco, Tony circondò la vita della fidanzata con un braccio e la baciò dolcemente sulle labbra, sussurrandole un ‘Ben tornata’ sollevato.
 
 
 
                                               ***
 
 
 
Seduto sul bordo del letto, Barton contava fino a dieci, faceva un sospiro e ricontava daccapo, mentre le mani erano impegnate a giocherellare con la punta di una freccia.
Gli era sempre risultato semplice rimanere calmo e distaccato, anche nel bel mezzo di situazioni caotiche e all’apparenza fuori controllo. Era in grado erigere un invisibile muro attorno a sé e di isolarsi dal mondo, riuscendo in tal modo a preservare lucidità e concentrazione. E lui aveva bisogno di lucidità e concentrazione, se voleva che le sue frecce andassero a segno.
Era lui, quello con il compito di guardare le spalle. Ogni esiguo movimento rientrava nella sua sfera di competenza, perché chi era in grado di sapere se, quell’unica mossa ignorata, avrebbe potuto portare a conseguenze tragiche?
Il risultato doveva essere un cento su cento e mai una freccia doveva essere destinata al vuoto.
Ultimamente, però, il cervello aveva smesso di collaborare. Il muro invisibile presentava falle sempre più evidenti e il suo sguardo verteva inesorabilmente in una precisa direzione. Erano le spalle esili di Natasha ad aver acquisito una priorità imprescindibile e questo era il motivo che l’aveva spinto ad accettare la missione di spionaggio che lo aveva tenuto separato dalla donna per ben due anni.
Lavorare con la rossa, infatti, avrebbe significato compromettere ogni singola missione. Era lei la falla nel suo muro.
Ora erano di nuovo insieme - non che la cosa gli dispiacesse ovviamente - e la fottuta paura di fare la mossa sbagliata lo torturava. A niente serviva ripetersi che Natasha sapeva cavarsela benissimo da sola.
Oltretutto, si era aggiunta anche la riapparizione del Tesseract a turbarlo considerevolmente, assieme ai ricordi ad esso legati - aveva tentato di uccidere la sua Nat.
Un bussare sommesso interruppe quel mantra fatto di numeri che già aveva ripetuto decine di volte, senza però ottenere il risultato sperato.
Aveva ancora i nervi a fior di pelle e si stupiva del fatto che non fossero schizzati via.
 
La testa rossa di Natasha fece capolino da dietro la porta.
“Posso?” domandò, melliflua, entrando comunque senza attendere risposta.
La donna indossava solo una maglietta nera, lunga fino a metà coscia e visibilmente troppo grande per lei.
Clint ripose la freccia nella faretra ai piedi del letto e si abbandonò sul materasso, sbuffando con finta esasperazione.
“Potresti trasferirti direttamente qui, Nat. Gli altri sanno.”
La rossa ancheggiò fino al limitare del letto e, con movimenti sensualmente felini, si accomodò sul corpo dell’arciere.
“Ma così perderei tutto il divertimento dello sgattaiolare furtivamente per arrivare a te” soffiò ad un palmo dal naso del compagno.
“Come siamo romanti-”
“E soprattutto perderei la mia amata privacy” aggiunse poi interrompendolo, con un sorriso da gatta a piegarle la bocca.
“Ah, sì?”
Con una mossa improvvisa, Clint ribaltò le posizioni, costringendo l’esile corpo di Natasha sotto il suo. La baciò con trasporto ed assaporò con meticolosità quelle labbra piene e morbide.
“Anch’io potrei sentire il bisogno di privacy, adesso.”
“Davvero, agente Barton? E io che le avevo portato una sorpresa.”
Lo sguardo provocatorio della bella rossa fu immediatamente ricambiato da un sorrisetto beffardo e sagace.
“Continui, Miss Romanoff. Ha conquistato la mia attenzione.”
Questa volta, fu Natasha a sovvertire le posizioni. La donna si sedette a cavalcioni sull’addome dell’arciere e, con una lentezza che incentivava la smania, sfilò via l’unico capo che le copriva il corpo, mostrando l’intimo rosso fuoco di pizzo finissimo, con tanto di bustino semitrasparente.
Tutto quel ben di Dio, messo più che mai in risalto dal congeniale completino, mandò letteralmente in pappa il cervello di Barton, il cui sangue defluì con velocità preoccupante verso il basso.
Ogni congettura mentale sfumò in un singolo istante, dinanzi la bruciante passione che Natasha era in grado di far accendere in lui.
 
“Lo sai che ti amo, vero?”
 
Clint non era mai stato un tipo da frasi sdolcinate, cioccolatini o fiori.
Eppure non riusciva a spegnere il bisogno di ricordare almeno a lei, alla sua Natasha, quanto fosse importante per lui averla accanto.
Adesso che erano di nuovo in guerra, esposti a pericoli più grandi di loro, quel bisogno era divenuto imprescindibilmente più forte.
In fondo, gli sarebbe mancato il periodo di calma piatta vissuto a Budapest, prima che arrivasse la chiamata di Tony. Non era certo di riuscire a convivere con la possibilità di poterla perdere un giorno sì e l’altro anche, soprattutto adesso che fra loro le cose si erano stabilizzate, dopo anni passati a ripudiare sentimenti inammissibili per lo stile di vita che perseguivano.
 
Natasha non rispose direttamente alla domanda, ma lasciò che fosse il suo stesso corpo a dimostrare al compagno la reciprocità del sentimento.
 
E poi ci fu solo la danza infuocata di membra vibranti, sulle note languide della passione.
 
 
 
                                                ***
 
 
 
“Terra chiama Rogie.”
 
Steve si sforzò di riemergere dal groviglio ingarbugliato dei suoi pensieri, mentre Tony continuava imperterrito a pungolargli il petto con l’indice destro, sotto lo sguardo rassegnato di Bruce.
I tre Vendicatori si trovavano nel laboratorio personale del miliardario ed erano stati abbandonati dalle due spie già da un po’.
Naturalmente, Stark non era riuscito a trattenersi di fronte il veloce doppio congedo dei due e, non appena erano spariti dietro le porte scorrevoli dell’ascensore, si era dilettato nel sparare a raffica commenti lascivi e piccanti, i quali erano stati sedati solo grazie all’occhiata glaciale che il Capitano gli aveva riservato con fin troppa discrezione.
La luce azzurra del Tesseract si rifletteva sulle superfici vitree della struttura cilindrica in cui era stato rinchiuso e, come un magnete, attirava su di sé lo sguardo dei presenti.
Il pericoloso manufatto alieno, infatti, rappresentava un’incombente minaccia solo attraverso la silenziosa e statica presenza.
 
“Non vedo alternative, quindi vada per questa sistemazione. Per ora.”
Rogers si passò una mano tra i capelli umidi, inspirando profondamente.
 
“Bene, allora possiamo levare le tende.”
Con un cenno di saluto, Tony si diresse verso l’ascensore, farfugliando qualcosa su il ‘Ben tornato’ che doveva a Pepper. La donna, infatti, era tornata alla Tower quel giorno stesso, dopo una settimana passata a Boston, alle prese con affari importati legati al progetto dell’auto sostenibilità.
Da quando la Potts era divenuta Amministratrice Delegata, le Stark Industries stavano fioccando soprattutto nel campo della ricerca, lautamente finanziato da esterni rimasti ammaliati dalla decisa personalità della donna.
 
Il super soldato si apprestò a seguire l’esempio di Tony, ma una presa decisa sulla spalla destra lo costrinse a fermarsi.
“Va tutto bene?”
Banner lo studiò con attenzione, nell’attesa di una risposta che tardò ad arrivare.
Steve sospirò, odiandosi per non essere in grado di nascondere meglio le emozioni.
“Credo di sì.”
“Mi accontenterò, per questa volta” fu la semplice replica del dottore.
 
 
 
                                                  ***
 
 
 
“Hanno abboccato. Poveri ingenui.”
 
La voce graffiante di Rumlow si innalzò orgogliosa, creando un’eco che rimbalzò tra le pareti metalliche della stanza.
Sorrisi compiaciuti, morbosi quasi, si disegnarono sui volti di coloro che continuavano a giocare dietro le quinte, indisturbati, come fossero fantasmi la cui presenza rimaneva occultata agli occhi del mondo.
 
“Prepari gli uomini, dottore.”
 
Tutte le teste si voltarono all’unisono verso la ritrovata testa dell’Hydra, mentre
l’interpellato scattava in piedi per eseguire ciò che gli era stato comandato.
 
Ed ogni secondo scandito dalle lancette di quell’ideale orologio di morte, preannunciava l’avvento di una nuova guerra.
 
 
Tic Tac
 
Tic Tac
 
Tic Tac
 
 
 
Note
È vero, oggi sono più in ritardo del solito.
Cosa dire? Spero vi sia piaciuto questo nuovo capitolo.
Cominciamo ad entrare nel vivo della storia.
Siete un po’ confusi? È normale.
Lo scorcio di passato iniziale non è scritto a caso. È puramente frutto della mia fantasia, ovviamente, ma avrà il suo peso più in là. Per il resto, è tutto da scoprire.
 
Come sempre vi ringrazio, miei cari lettori.
Ringrazio tanto tanto quelle due dolci anime che recensiscono, rassicurandomi con le loro squisite parole.
Non vedo l’ora di sapere cosa ne pensate!
 
Allora, alla prossima!
Un abbraccio <3
Ella

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Capitolo 5
*** Scacco ***


Scacco
 
Erano passati un paio di giorni dalla partenza di Thor e dall’inizio di quello che si prospettava essere un gioco ostico e pericoloso.
Dopo l’inaspettato ritrovamento del Tesseract, si era protratta una calma piatta e abbastanza fastidiosa.
Nessuna visita a sorpresa o richiamo da parte del Governo.
Niente di niente. Ed era peggiore di un qualsiasi qualcosa.
I Vendicatori erano su tutti i notiziari e i giornalisti non si stavano affatto risparmiando nello strutturare ipotesi per lo più assurde sulla loro azione a Detroit. Senza contare le bizzarrie che uscivano dalla bocca dei comuni individui, ogni qual volta venivano intervistati lungo le strade affollate di New York. Si parlava di una nuova invasione aliena, dello scoppio imminente di una guerra, di avvistamenti di navicelle spaziali e ‘I Vendicatori ci salveranno’ era il motto all’ordine del giorno.
Si poteva dire che quel che era accaduto a Detroit avesse causato parecchio scompiglio nella società. Eppure non vi era stato il minimo segno di una presa di posizione da parte del Consiglio Mondiale e Stark si chiedeva cosa stessero confabulando ai piani alti, perché davvero non trovava una spiegazione logica - e per lui tale costatazione era particolarmente grave - al mutismo fuori luogo di quelli che a tutti gli effetti erano ficcanaso di primissima categoria.
Tony non era riuscito a trovare un po’ di tranquillità, nemmeno quando Rogers aveva stabilito ronde in un’ampia zona intorno alla Tower.
Il Capitano, Barton e la Romanoff si erano divisi la suddetta zona e passavano la maggior parte della mattinata fuori, a controllare che non ci fossero individui sospetti intenzionati a riprendersi il Cubo, anche se Stark era convinto che i tre ex agenti dello SHIELD avessero solo trovato un modo per distrarsi, data l’atmosfera tesa.
Sbuffò, osservando i dati ricavati dall’iniziale analisi che lui e Banner avevano eseguito sul Tesseract e chiedendosi come potesse esistere un tale concentrato di energia.
 
“Tony” la soffice voce di Pepper infranse il silenzio e Stark fece roteare lo sgabello su cui era seduto. La osservò varcare la soglia del laboratorio in cui era rinchiuso da troppo tempo, accogliendola con un sorriso.
“C’è un certo Henry Benson giù nella hall. Lo conosci?”
Stark si alzò dallo sgabello e portò una mano sotto il mento.
“Fammi pensare … no. Mai sentito. Cosa vuole?”
Il miliardario raggiunse la fidanzata e rimase a fissarla, in attesa di una risposta. Pepper era turbata e quando Pepper era turbata, significava che c’erano guai in vista.
Era una donna dotata di grande intuito, la Potts, e Tony non poteva non ripetersi quanto fosse fortunato ad averla accanto.
“Dice di voler incontrare il Capitano Rogers.”
Se Stark fu sorpreso dalla notizia, non lo diede a vedere.
“Rogers è fuori” affermò semplicemente.
“Cosa vuoi che gli dica, allora? È parecchio insistente e non sembra voler demordere.”
 
 
 
                                             ***
 
 
 
“Che cosa hai combinato, Rogers?”
 
La fredda aria invernale lo investì con una folata improvvisa, portandolo a incassare la testa nelle spalle larghe e forti. Con un gesto veloce abbassò ulteriormente la visiera del cappello blu e lanciò sguardi furtivi tutt’intorno, mentre individui ignari gli sfrecciavano accanto, assorbiti dal caotico scorrere della vita.
“Sai che odio quando non vai al punto, Stark.”
Uno sbuffo falsamente esasperato riverberò all’interno del suo orecchio destro, temporaneamente occupato dall’auricolare, il cui filo rosso spariva nell’ampia tasca del morbido cappotto marrone.
“Chi è Harry Benson?”
Questa volta fu Steve a far scivolare l’aria fuori dai polmoni, in un sospiro contrito.
“Perché me lo chiedi?”
Il Capitano stava spudoratamente evitando di rispondere all’interrogativo diretto e Stark, per quella volta, evitò di farglielo notare.
“È alla Tower e vuole te.”
Il pensiero di Steve non poté fare a meno di annidarsi attorno a quel vuole te, due parole che erano espressione di una spaventosa realtà e che sfociavano al di fuori del semplice intendimento figurato, perché Henry Benson lo voleva letteralmente.
Naturalmente il miliardario non poteva sapere.
Un nuovo sospiro contrito e piuttosto profondo.
“Sto arrivando.”
“Niente segreti tra Vendicatori, ricordi?”
“Sì” rispose asciutto Rogers, eseguendo un brusco dietrofront ed accelerando il passo, nonostante la matta voglia di trovare un angolino buio e rimanere nascosto lì, in attesa che la tempesta passasse. È che proprio non riusciva a trovare una briciola di forza nel suo animo devastato e, per quanto si sforzasse di tenere insieme i pezzi del suo spirito, questi non volevano affatto collaborare.
Era decisamente stufo di continuare a sbriciolarsi come intonaco vecchio ed inservibile. Dal giorno del risveglio, non aveva fatto altro che andare incontro ad una sorta di autodistruzione.
Da quando era nato, non aveva mai smesso di combattere, che il nemico fosse un debole e rachitico corpo, la malattia, la paura, la guerra, l’Hydra o alieni venuti da chissà dove.
Eppure era dannatamente consapevole che abbandonare lo scudo, avrebbe significato privarsi dell’ultima barriera che lo proteggeva dal finire in pezzi.
Capitan America aveva la forza di continuare a lottare, a dispetto di uno Steve Rogers stremato e tormentato.
 
“E Rogers. Smettila di sospirare, mi metti ansia.”
 
Dall’altro capo del telefono, Tony rimase ad ascoltare il  tu tu  ripetitivo della chiamata tranciata brutalmente.
 
 
                                                     ***
 
 
Non appena Steve varcò la soglia dell’ufficio privato di Stark, lo sguardo maligno di Henry Benson saettò fulmineo su di lui.
 
“Steve Rogers.”
 
Ricordava perfettamente quella voce così dannatamente falsa e gracchiante, così come non aveva dimenticato lo sguardo avido e morboso dell’uomo.
 
“Signor Benson.”
 
A Tony bastò intercettare gli occhi di Capitan America, per capire quanto fosse sgradita e indisponente la vista del grassoccio individuo dalla testa calva.
Ci furono attimi di teso silenzio, durante i quali il miliardario si sentì di troppo dinanzi lo scambio d'indecifrabili sguardi tra gli altri due.
Fu Benson a rompere il ghiaccio, alla fine. Si presentò come il commissario del Consiglio Mondiale della Sicurezza e non attese oltre per esplicare il perché della sua presenza lì.
 
“Sono arrivate parecchie lamentele dai piani alti, dopo la vostra visita a Detroit. È lo stesso Consiglio Mondiale ad avere approvato il progetto Avengers e perciò non avete l’autorizzazione per agire di vostra volontà.”
“Se non avessimo agito di nostra volontà qualche tempo fa, adesso l’Hydra governerebbe il mondo. Non ricordo che il Consiglio ci abbia fornito assistenza dopo il crollo del Triskelion, anzi, ha pensato bene di etichettare alcuni tra noi come probabili nemici di Stato.”
Steve rispose all’accusa con estrema calma, mentre andava ad affiancare Stark, appoggiato alla grande scrivania in mogano dell’ufficio. Benson stanziava invece di fronte ai due Vendicatori, comodamente seduto su una poltrona in pelle nera.
“Avete distrutto un’organizzazione che era stata posta a salvaguardia dell’umanità. Si aspettava un ringraziamento, forse?”
Era bravo Benson, a rigirare la frittata.
“Lo SHIELD era compromesso. Avete avuto prove concrete, no? E allora, mi chiedo, perché l’Hydra continui a farsi i suoi comodi e perché il Consiglio non si stia muovendo per far fronte al problema.”
La voce di Rogers cominciava a incrinarsi pericolosamente, ma il commissario non parve preoccuparsene.
“Il Consiglio è già attivo su questo fronte e non deve rendere conto a nessuno, tantomeno a un gruppo di pazzi sconclusionati.”
 
“Non le conviene provocarci” sibilò allora Stark, il cui autocontrollo aveva già cominciato a vacillare dall’esatto momento in cui il ciccione aveva aperto bocca.
Benson aveva fatto una mossa decisamente azzardata nell’essere venuto, da solo, ad affrontare un discorso così delicato con Capitan America e Iron Man nella stessa stanza. Due potevano essere le spiegazioni per la cotanta sicurezza che emanava la sua figura: o era uno squilibrato, o poteva contare su mezzi che andavano ben oltre il semplice appoggio dell’intero Consiglio Mondiale.
“Signor Stark, lei-” cominciò quindi tranquillo il commissario, prima di essere interrotto bruscamente.
“State dando asilo e finanze a qualche altro fanatico schizzato? C’è un posto vacante, no? Aldrich Killian è morto, se non ricordo male.”
 
“Cosa vuole il Consiglio?” intervenne a quel punto Rogers, anticipando qualsiasi altra velenosa e altrettanto giustificata frecciatina da parte del compagno, il quale si limitò ad emettere un grugnito rabbioso.
Gli occhi del Capitano, freddi come mai prima, si piantarono in quelli scuri e schiacciati di Benson, sul cui viso era fiorita di nuovo quella soffocante espressione avida.
“Il Consiglio Mondiale vuole che lei smetta di fare di testa propria, Capitano. I miei superiori la invitano a mettersi a loro disposizione, come dipendente, possiamo dire. Lavorerà per il Consiglio e l’azione degli Avengers sarà richiesta solo in casi di estrema necessità. Sarà lei a coordinarla.”
 
Quello non era un invito, ovviamente. Era un maledetto ultimatum, un punto di non ritorno, indifferentemente dalla positività o negatività della risposta.
Già dopo la caduta del Triskelion, il Governo aveva tentato invano di reclutare Capitan America, in modo da poterlo controllare. I piani alti lo temevano, perché era un cane sciolto, privo di qualsiasi legame sociale o politico, a differenza di uno come Stark, che, nonostante la tendenza a fregarsene delle regole, doveva rispettare alcuni limiti, dato che aveva una società composta da centinaia di persone che lavoravano per lui da tutelare.
Ma c’era un altro fattore, forse quello possedente il peso maggiore, che aveva acceso nel Consiglio il desiderio di mettere le mani sul Capitano.
Steve Rogers aveva un carisma tale da riuscire a portare le persone dalla propria parte, così com'era successo durante la battaglia consumatasi vicino le sponde del Potomac: gli agenti SHIELD si erano rivoltati in massa, credendo ciecamente alle parole di Capitan America, nonostante egli fosse stato accusato di tradimento.
Dato che non potevano farlo fuori fisicamente, i piani alti erano disposti a scendere a compromessi, pur di tenerlo a bada.
E Steve lo sapeva. Ne era divenuto consapevole nel momento in cui gli esponenti del Consiglio Mondiale non si erano fatti scrupoli ad appoggiare la caccia all’uomo che Pierce aveva scatenato contro di lui.
 
“Hai sprecato il tuo tempo, allora, caro Benson. Lui non accetterà e gli Avengers continueranno a lavorare autonomamente, che il Consiglio lo voglia o no.”
 
Rogers si sentì mancare nell’udire quelle parole e rivolse al compagno uno sguardo incredulo. Tony non poteva essere così pazzo. Il Governo lo avrebbe perseguitato per il resto dei suoi giorni.
Lo stesso Benson, che era parso così sicuro di sé, rimase pietrificato per qualche istante, prima di iniziare a sputare fuori l’indignazione scaturita da quel rifiuto baldanzoso.
 
“Voi non avete chiaro il concetto di subordinazione. Non avete la facoltà di prendere decisioni e imporre regole. Se il Governo comanda, voi eseguite, non esistono né se e tanto meno ma. Sapete perché avete la fortuna di essere ancora in circolazione? Perché siete utili. Se diverrete un peso o un impiccio, beh in quel caso, se fossi in voi, comincerei a guardarmi le spalle. I piani alti dispongono di risorse eccezionali e state certi che non si faranno scrupoli nell’utilizzarle. Quindi, evitate di scavarvi la fossa prima del tempo, soprattutto lei signor Stark.”
 
Era un’esplicita minaccia e se Benson riusciva a minacciare con così tanta tranquillità i Vendicatori, significava una sola cosa: le suddette eccezionali risorse di cui il Governo era in possesso dovevano essere estremamente eccezionali.
 
“I piani alti non sono poi tanto diversi dall’Hydra, allora, se intendono imporre il loro volere con la forza, a discapito di chiunque agisca al di fuori dei loro progetti. Forse è il Governo che farebbe meglio a guadarsi le spalle.”
 
Rogers sentì immediatamente il desiderio di mordersi la lingua.
Perché diavolo non riusciva a starsene zitto e buono una volta tanto?
Stava condannando tutti.
Forse avrebbe solo dovuto accettare la costrizione del Consiglio ed evitare inutili spargimenti di sangue.
 
“E glielo sta dicendo colui che ha distrutto il Triskelion, mio caro Benson, perciò non sottovaluterei le sue parole.”
La mano di Stark strinse con energia la spalla del super soldato.
I Vendicatori non erano e mai sarebbero stati i cagnolini del Governo e, a quel punto, un aperto scontro con quegli uomini di potere diveniva inevitabile.
Fury aveva rappresentato l’elemento cuscinetto che aveva impedito il cozzare tra le due inconciliabili entità e la sua dipartita - anche se fittizia - aveva decretato il crollo dell’ultimo muro di malsana accondiscendenza e forzata tolleranza.
Benson aveva affermato che il Consiglio non avrebbe esitato a rendere inoffensivo chi avesse rappresentato un ostacolo al suo volere. Cosa c’era allora di diverso tra un tale modo di fare e la fortunatamente sventata soppressione di vite umane, attraverso titanici carri armati da spedire in orbita?
Le parole del commissario avevano un non so che di raggelante e Steve si sorprese a pensare a un uomo il cui volto non aveva ancora smesso di bruciare nella memoria, mentre il battito del cuore gli rimbombava violento nelle orecchie.
 
“Voi, inietti, come vi permettete di minacciarci?”
Benson recuperò la posizione eretta con un movimento goffo e lento, mentre il viso si accedeva di rabbia.
“Ma sapete? Non importa. Era prevedibile. Siete solo un branco di scellerati che si divertono a giocare agli eroi.”
 
“Non è stato il Consiglio a fermare ben due offensive aliene, da quanto ne so. E non è stato il Consiglio a sventare un attacco terroristico di dimensioni epocali. Quindi non credo che il nostro possa essere definito un semplice gioco, signor commissario.”
 
“Fare il supereroe non è un gioco, Stark” lo aveva ripreso Rogers, solo qualche giorno prima, e Tony non era mai stato più d’accordo con il biondo, nonostante fingesse di pensarla diversamente, solo per stuzzicarlo.
Il miliardario percepì il proprio ego fare scintille, non appena si accorse dello sguardo orgoglioso che il Capitano gli stava rivolgendo.
 
Il sorriso sornione di Stark fece perdere completamente le staffe a Benson, che si sentì deriso e oltraggiato. Con andamento furioso, il grassoccio commissario si precipitò verso la porta, ma prima di lasciare la stanza, si voltò indietro un’ultima volta.
 
“Ci rivedremo, giovanotto” esordì, puntando gli occhi sulla figura del super soldato.
“Non puoi sfuggire al tuo destino. Nessuno di voi può farlo. Potete dilatare il tempo, opponendovi, ma non evitarlo.”
E Benson sparì, lasciando i due Vendicatori piuttosto interdetti.
Parlare di destino era decisamente paradossale, per uno che lavorava con persone che si divertivano a controllare i poveri mortali.
 
Steve rabbrividì, quando capì che il commissario aveva inteso ricordargli quella pericolosa promessa che si era lasciato alle spalle parecchi anni prima.
 
 
 
                                     ***
 
 
 
“Penso che sarò davvero costretta a chiamare una baby sitter per voi due idioti.”
 
Natasha incrociò le braccia sotto i seni, spiegazzando la camicetta bianca che metteva in risalto le belle forme, adesso tese e pronte a scattare.
Il cipiglio severo e il fatto che continuasse a battere con nervosismo il piede destro contro il parquet, indussero i due Idioti a preoccuparsi seriamente per la propria incolumità.
Tale preoccupazione non toccava affatto Barton, che se ne stava stravaccato sul divano a sghignazzare senza freno alla vista di due uomini grandi e grossi - o almeno uno di loro lo era, sull’altro avrebbe avuto qualcosa da ridire -, comportarsi come impacciati bambini appena colti in fallo.
Dal canto suo, Bruce decise di rimanere fuori dalla discussione. Non era cosa nuova per lui trovarsi nel mirino del Governo, dopotutto. Certo, gli sarebbe piaciuto evitare lo scontro, ma in cuor suo aveva sempre saputo che, prima o poi, quel momento sarebbe arrivato.
 
“Che cosa avete nel cervello?” continuava intanto Natasha, che aveva preso a camminare avanti e indietro, sbuffando frustrata.
“Da Stark avrei anche potuto aspettarmelo, ma da te, Steve … accidenti, dovevate trovare un compromesso. Non avevamo bisogno di un’esplicita dichiarazione di guerra, non ora che Thor non c’è e il Tesseract è misteriosamente riapparso.”
 
“Volevi consegnare loro Rogers, per caso? Sai che non possiamo fidarci, soprattutto perché l’Hydra è ancora in circolazione e nessuno ci dà la certezza che non sia immischiata con gli affari dei piani alti. Hai dimenticato quello che ci ha detto Legolas?”
 
“Non mettermi in mezzo, Stark. Sono innocente questa volta e non voglio finire in bianco per colpa vostra.”
Barton capì che in bianco ci sarebbe rimasto comunque, perché lo sguardo omicida della Romanoff lo perforò come un proiettile.
 
Ci fu un istante in cui tutti pensarono che la rossa avrebbe commesso una strage senza precedenti, proprio lì, togliendo al Governo il peso di dover convivere con i potenti Vendicatori.
Ma Natasha si limitò a lasciarsi cadere sul divano, al fianco di Clint, incapace di capire cosa le fosse preso.
Era da qualche settimana che si era resa conto di non riuscire più a tenere a bada le emozioni. Le sembrava di aver assunto una di quelle droghe che amplificano esponenzialmente anche la più piccola sensazione.
Si sentiva così strana. Diversa.
Forse la scomparsa dello SHIELD l’aveva toccata davvero nel profondo.
 
“Okay” soffiò fuori, rimettendosi in piedi, mentre i compagni tornavano a rivolgerle tutta la loro attenzione.
“Sia chiaro che non voglio consegnare Steve al Consiglio, perché sappiamo tutti quanto quei bastardi aspirino a farlo fuori. Ci sono passata, quando ero la spietata Vedova Nera, il terrore rosso, un’assassina fuori da ogni controllo. Oggi sono qui per un motivo: scelsi di essere controllata, scelsi di seguire gli ordini che lo SHIELD mi imponeva e, per questo, il Governo smise di braccarmi come fossi stata un bestia.”
 
Nessuno osò fiatare. Per rispetto e per ammirazione.
Natasha fece un respiro profondo e continuò.
 
“Forse ho paura. Ero terrorizzata, quando ho scoperto che lo SHIELD era solo un’altra sporca menzogna e probabilmente avrei dato di matto se non ci fosse stato quell’Idiota al mio fianco” e la donna rivolse al biondo un’occhiata veloce ma intensa.
“Non crediate neppure per un secondo che io sia dalla parte del Consiglio. I piani alti mi odiano e il sentimento è reciproco, ma non posso sopportare di perdere una delle poche cose che danno valore alla mia vita. Non voglio che gli Avengers smettano di esistere. Voi siete gli unici che ritengo degni della mia fiducia, adesso. Ho perso già lo SHIELD, che mi faceva credere di avere un posto nel mondo. Senza di voi, mi sentirei completamente svuotata ed è per questo che avrei voluto trattare la situazione con i guanti, senza inutili colpi di testa.”
 
Quello di Natasha era uno sfogo con i fiocchi. Voleva che gli altri sapessero, perché era stufa di nascondersi dietro una maschera di freddo cinismo, quando era di fronte a loro.
Quegli Idioti erano riusciti a farla uscire dal guscio, alla fine.
Si stava rammollendo e, acciden-
E questo era prevedibile, dopotutto.
Steve l’aveva avvolta in un abbraccio, schiacciandola contro il suo petto e Natasha si rilassò in quella stretta gentile.
 
“Io farei attenzione, Barton.”
 
Per quella volta, Clint lasciò che l’innocente frecciatina di Stark gli scivolasse semplicemente addosso.
Era orgoglioso della sua Natasha. Era orgoglioso di poterla finalmente ammirare senza veli. Vedeva, nella sua interezza, la donna che aveva solamente scorto tanti anni prima, a Budapest, quando lo SHIELD lo aveva incaricato di uccidere quella da tutti conosciuta come una macchina assassina senza sentimento alcuno. Era stato proprio il sopravvissuto sprazzo di umanità che aveva scorto in quella bellissima giovane dai capelli rossi come il sangue, ad averlo spinto a preservarne la vita.
Da quando lo SHIELD era crollato, nella rossa qualcosa era scattato e quello stesso qualcosa aveva iniziato ad infiammarsi durante la loro permanenza a Budapest.
Era cambiata, Natasha.
 
“Mi dispiace, Natasha. Rimedierò, in qualche modo.”
Steve si staccò dalla donna e le riservò uno sguardo intenso.
In risposta, la Romanoff scosse il capo, sorridendo lievemente.
“Rimedieremo, Steve. Insieme, come sempre.”
 
 
 
                                             ***
 
 
 
Osservò l’uomo grassoccio uscire dall’immenso grattacielo e venire immediatamente affiancato da una scorta composta di due omaccioni in nero. Per quanto grosse, le due guardie del corpo non avrebbero di certo rappresentato un problema.
La sua preoccupazione era stata un’altra, ma essa si era dissolta, non appena aveva individuato il soggetto in questione.
Si concesse un respiro di sollievo.
 
Lui non c’era. Non lo avevano preso.
Lui era ancora al sicuro.
 
Confondendosi nella schiera di persone che affollavano la strada, seguì l’uomo grassoccio, stando ben attento a mantenere una certa distanza.
Erano mesi che portava avanti la sua personale caccia all’Hydra, ma era riuscito a scovare solo pesci piccoli, inutili per il raggiungimento dell’obiettivo che si era prefissato.
Il cuore ancora pulsante dell’organizzazione che per anni aveva controllato la sua vita, era nascosto da qualche parte nel mondo, in attesa di tempi più maturi. O forse i tempi erano già maturati e i giochi avevano già avuto inizio.
Ma l’avrebbe scoperto presto, cosa stessero macchinando quei bastardi, perché aveva appena trovato una via d’accesso ai loro più oscuri segreti.
 
Continuò a pedinare il commissario, con estrema discrezione.
Nell’arte dell’invisibilità era un maestro. Camuffarsi da fantasma era facile come respirare, grazie a tutte quelle abilità che gli erano state conferite artificialmente.
Dopotutto, non voleva che all’Hydra arrivasse la voce della sua non morte.
Aveva, per questo, ucciso tutti gli agenti dell’organizzazione con cui era stato costretto ad entrare in contatto.
Non poteva fidarsi di nessuno. Non doveva commettere errori.
Stava giocando contemporaneamente il ruolo del cacciatore e della preda. Era alla ricerca nel nucleo ancora vivo dell’Hydra e, al tempo stesso, si sforzava di rimanere invisibile, affinché l’organizzazione non lo trovasse.
 
In realtà, si stava nascondendo anche da Lui.
E avrebbe continuato a nascondersi - creando altre false piste -, se quella mattina non fosse incappato in Henry Benson, proprio mentre cercava di allontanarsi il più possibile da New York, dato che Lui era tornato.
Rischiava di incontrarlo e non era pronto, dannazione.
 
Una cosa era certa: conosceva Henry Benson e sapeva che era immischiato negli affari sporchi dell’Hydra. Non ricordava nitidamente le circostanze del loro incontro - le sue memorie parevano essersi trasformate in un ammasso informe di fili -, ma non aveva importanza.
Importava solo che il commissario non fosse uno dei tanti inutili pesci piccoli, uno di quelli sacrificabili.
 
Benson, seguito dalle due guardie, imboccò una stradina secondaria, tirandosi fuori dalla folla.
Quello era il momento perfetto per agire.
Oscurò meglio il volto, tirando in basso la visiera del cappello ed infilò le mani nelle tasche della larga felpa nera, mentre imboccava lo stesso vicolo dentro cui il commissario era sparito.
 
Un altro passo verso la redenzione.
Un altro passo verso l’uomo con lo Scudo.
Un altro passo verso Steve Rogers.
 
 
 
“Non combatterò contro di te. Tu sei mio amico.”
 
“Perché io sarò con te fino alla fine.”

 
 
 
                                                      ***
 
 
 
Doveva assolutamente imparare a tenere la bocca chiusa, o almeno evitare di sparare idiozie prive di senso.
Era colpa della sua lingua impertinente, se quella sera Natasha non lo aveva raggiunto come al solito. Sì, doveva essere per quel “finire in bianco” decisamente fuori luogo, se Nat era rimasta in camera sua.
Eppure, la russa non era quel tipo di persona che se la prendeva per piccolezze del genere. Forse, l’aveva offesa più di quanto immaginasse.
Fortunatamente era bravo, quando si trattava di farsi perdonare. Conosceva parecchi espedienti per ammorbidire la compagna.
 
Quando sgattaiolò all’interno dell’appartamento della Romanoff, la sua attenzione fu catturata da uno strano rumore.
Rimase fermo nel buio, in ascolto, e sentì nuovamente quello strano suono soffocato. Si mosse, allora, cercando di capire da dove provenisse, e si ritrovò davanti la porta chiusa del bagno, dalla cui fessura inferiore fuoriusciva una lingua di luce.
Il suono era scomparso.
“Natasha” chiamò piano.
Non ricevette alcuna risposta, perciò, preoccupato, si decise ad entrare. Non appena abbassò la maniglia, una voce rauca e stanca risuonò oltre la porta.
 
“Non entrare.”
 
L’arciere si bloccò e un solco di confusione prese forma tra le sue sopracciglia.
“Nat, stai bene?”
A rispondergli fu il soffocato suono di prima, ma questa volta il suo cervello impiegò un istante per identificarlo.
Clint aprì la porta con fin troppa forza, sbarrando gli occhi nel trovarsi di fronte la minuta figura di Natasha, inginocchiata ai piedi del water. La donna aveva i capelli scompigliati, la fronte imperlata di sudore e tremava come una foglia.
 
“Ti avevo detto di non entrare” esalò con un filo di voce.
 
Barton fece per rispondere, ma Natasha tornò a piegarsi sul water, quando un nuovo conato le fece contrarre dolorosamente l’addome.
L’uomo si precipitò subito in aiuto della compagna, inginocchiandosi al suo fianco, e non esitò a poggiarle delicatamente una mano sulla fronte umida.
 
Dopo un tempo che parve infinito, Natasha sembrò non avere più nulla da tirare fuori. Clint la aiutò a rimettersi in piedi, sostenendola saldamente per la vita e sospirando sollevato nell’accorgersi che lei si era rilassata e che lo stava lasciando fare.
Natasha non sopportava farsi vedere nei momenti di debolezza.
Nella Stanza Rossa, il mostrare debolezza veniva punito severamente.
 
Clint le rimase vicino, osservandola sciacquarsi il viso e la bocca con l’acqua che correva veloce dal rubinetto del lavandino.
“Stai bene?”
 
La rossa incrociò gli occhi del compagno attraverso lo specchio posizionato appena sopra il lavello.
“Sarà stato il sushi che Stark ci ha fatto mangiare per cena. Mi riprenderò.”
Afferrò un asciugamano di spugna e si tamponò il viso provato e segnato da occhiaie scure e profonde. Era pallida e si sentiva strana.
 
“Rimango con te.”
“Sto bene, davvero.”
“Okay, ma rimango lo stesso.”
 
Natasha scosse il capo, sorridendo lievemente. Quando Barton si metteva in testa qualcosa, non c’era niente da fare.
In fondo, non le dispiaceva per nulla averlo lì. Se c’era una persona con cui poteva permettersi di essere debole, quella era Clint.
 
“Allora andiamo a letto. Sono stanca.”
Natasha non vedeva l’ora di infilarsi sotto le coperte, per abbandonarsi ad un sonno ristoratore, cullata dal calore del compagno.
Sfortunatamente i piani della russa andarono a monte.
 
La voce atona di JARVIS infranse il silenzio della notte.
 
“Agente Barton. Agente Romanoff” esordì l’AI.
“Il signor Stark richiede la vostra presenza nel suo laboratorio. È un’emergenza.”
 
“Oh, ma che tempis-”
“Muoviti Barton.”
“Sì signora!”
 
 
 
                                                 ***
 
 
 
“Mi chiedo se questa sia la conseguenza del rifiuto a voler scendere a trattative con il Consiglio.”
 
“Sai che la tua insinuazione insinua che il Consiglio sia immischiato negli affari dell’Hydra, Stark?”
 
“Già. Hai proprio ragione, Barton. Insinui bene insinuando che la mia insinuazione insinui una tale eventualità.”
 
“Smettetela.”
Lo sguardo assassino di Rogers incenerì Stark e Barton.
 
“Stai forse insinuando che quello che Legolas ha insinuato io stessi insinuando sia un’insinuazione che non andava insinuata?”
 
Una venuzza rigonfia prese a pulsare sulla tempia destra del super soldato.
Signor Stark.
Forse l’ultima volta che Rogers aveva utilizzato quell’appellativo, risaliva a quattro anni prima, durante il suo primissimo incontro con Iron Man.
Il richiamo ebbe il suo effetto, perché Tony roteò lo sgabello, per tornare a rivolgere lo sguardo allo schermo del computer.
Gli altri Avengers si strinsero attorno al miliardario, in modo da poter osservare l’immagine satellitare di un quartiere a Washington. Affiancata alla suddetta foto, ce n’era un’altra che ritraeva il quartiere Midtown di New York, dove s'innalzava grandioso l’Empire State Building.
 
Solo Banner se ne stava in disparte, appoggiato al piano di lavoro del laboratorio. Era stato il primo a essere informato da Stark, dopo che era giunta una nuova segnalazione di un’anomala emissione di raggi gamma, e non riusciva a capacitarsi di quel che stava accadendo.
Due emissioni anomale, decisamente aliene, provenienti da due luoghi tra loro abbastanza lontani.
Se il Tesseract era alla Tower, allora doveva essere rimasto in giro solo lo scettro di Loki. Eppure c’erano state due emissioni anomale e il Tesseract non era coinvolto.
 
“Ne hanno un’altra.”
Bruce si lisciò la camicia azzurra sul petto, mentre i presenti rivolgevano a lui tutta la loro attenzione.
“Hanno un’altra di quelle maledette armi e questa cosa ce la stanno spiattellando in faccia. Non si stanno più nascondendo, ormai. Ci hanno appena sfidato.”
 
“Se l’Hydra era lo SHIELD, allora era a conoscenza della rintracciabilità di queste armi aliene, se stuzzicate. Ci hanno attirato a Detroit, utilizzando il Tesseract, e ce lo hanno lasciato portare via.”
La voce di Steve era intrisa di fredda consapevolezza.
“Ma perché?”
“Vorrei essere in grado di risponderti, Stark.”
 
Erano a un punto morto. Da quel momento in avanti, avrebbero dovuto muoversi con estrema cautela, così come si fa quando si è impegnati a costruire un castello con le carte.
 
“Che facciamo questa volta?” chiese Natasha, che intanto aveva riacquistato un po’ di colore in viso.
 
“C’è più del novanta per cento delle possibilità che questa sia una trappola. Non dimentichiamo, inoltre, che sono in possesso di un’arma micidiale, che potrebbe essere lo scettro di Loki, oppure qualcosa di assai più pericoloso.”
“E Thor non c’è” aggiunse Stark, come a voler chiarificare lo svantaggio a loro discapito, se mai avessero ingaggiato battaglia.
“Quindi restiamo qui?” si azzardò a proporre Clint, mentre l’aria si caricava di una strana atmosfera, brulicante di dubbi ed incertezze.
“Visto come stanno le cose …”
La sospensione teatrale di Natasha era l’ennesimo espediente, per far sì che una persona in particolare si risvegliasse dall’improvviso coma e si decidesse a chiudere lì quel meeting notturno improvvisato - molto improvvisato, dato che i Vendicatori erano in pigiama, ad eccezione di Bruce che si era sforzato di indossare la solita camicia sopra i pantaloni grigi della tuta.
 
“Forse dovremmo, sì.”
Le orecchie dei presenti si tesero verso il suono incerto della voce del Capitano, rigidamente dritto, con le braccia incrociate sul petto e un pericoloso solco tra gli occhi, persi a contemplare un punto indefinito del lucido pavimento.
“Sarebbe un grosso azzardo perfino per noi, dopotutto” argomentò il super soldato, tamburellando con l’indice destro sopra il braccio sinistro e sospirando ripetutamente.
 
Stark, ancora seduto sullo sgabello girevole, si tese in direzione di Barton, in piedi lì accanto, e sussurrò in modo che solo l’arciere potesse udirlo.
“Prepara l’arco, Legolas.”
 
 
 
                                            ***
 
 
 
L’Empire State Building, che per trentasei anni aveva conservato il primato di edificio più alto del mondo, prima che i Russi glielo sottraessero, si innalzava in tutti i suoi centotré piani all'angolo tra la Fifth Avenue e la West 34th Street.
Gli ultimi trenta piani e l’apice del grattacielo, illuminati da una luce di un giallo incredibilmente intenso, si stagliavano su un orizzonte macchiato di nuvole grigiastre, che formavano una coltre sull’esiguo spicchio di luna crescente.
 
Stark, Rogers, Barton e Romanoff si erano ritrovati dinanzi l’ingresso del grattacielo, dopo aver parcheggiato le auto in East 36th Street.
Il miliardario aveva, a malincuore, messo a disposizione due delle sue preziosissime Audi e si era visto costretto a lasciare che Barton ne guidasse una; difatti, Tony non poteva di certo guidarne due contemporaneamente, ma per il futuro si ripromise di progettare qualche intelligenza artificiale da inserire nei suoi amati gioiellini, in modo da avere più possibilità di riaverle indietro sane.
 
“Le porte sono aperte.”
Natasha, che era andata avanti, rimase quasi sorpresa nell’osservare roteare le porte girevoli, dopo averle spinte con la certezza di trovarle bloccate.
L’Empire chiudeva ufficialmente alle due di notte e in quel momento le tre e mezzo erano state superate di qualche minuto.
 
“Il nostro satellite rileva la presenza di sedici individui all’ottantaseiesimo piano, dove è situato l’Osservatorio. Il resto dell’edificio appare completamente vuoto. Non riscontro più alcuna emissione di raggi gamma.”
La voce di Banner comunicò il tutto con fermezza, attraverso le ricetrasmittenti. Il dottore era rimasto alla Tower, perché gli Avengers non potevano di certo rischiare di distruggere l’Empire, uno dei maggiori simboli di New York, oltre che attrazione turistica per eccellenza - cosa di cui l’Hydra sembrava non preoccuparsi, invece.
Il mostro dalle infinite teste stava attendendo placidamente l’arrivo delle sue prede ed aveva schierato sul campo sedici soli uomini.
I Vendicatori si scambiarono occhiate veloci. Il bagliore dei lampioni disegnava sui loro volti macchie di luce, che mettevano in risalto i lineamenti tesi.
Approfittando del fatto che la strada fosse deserta e che non ci fosse nessuno nei dintorni, si intrufolarono all’interno dell’edificio con la guardia alta, ma ad accoglierli ci fu solo il buio più totale e l’eco dei loro stessi passi.
 
“Adesso ci penso io.”
In pochi attimi, la valigetta che Tony aveva tenuto in mano fino ad allora, si scartocciò aderendo al corpo del proprietario.
Dal centro del petto metallico di Iron Man, si propagò una luce tanto intensa da illuminare buona parte dello stanzone d’ingresso. I tre ex agenti dello SHIELD, intanto, si spogliarono dei soprabiti utilizzati per nascondere le uniformi e le armi, abbandonandoli a terra.
Era quasi assurda la facilità con la quale erano giunti fino a quel punto. Il fatto che nessuno avesse provato a fermarli, faceva sì che la teoria della trappola divenisse sempre più tangibile e sicura.
Rogers strinse con forza le cinghie di cuoio attorno alle spalle e lo scudo aderì maggiormente sulla sua schiena. Si perse ad osservare i riflessi creati dalla luce sulle pareti ed il pavimento, cui la commistione di marmi di diversa provenienza conferiva un colore simile all’ambra, impreziosita da sfumature nere e dorate.
In fondo all’atrio, sulla destra, vi erano delle scale mobili momentaneamente ferme. Barton le indicò, richiamando l’attenzione dei colleghi.
“Quelle portano agli ascensori. Stark, puoi farli funzionare gli ascensori?”
“Nulla di più semplice.”
“Che mi dite riguardo le scale, invece?” chiese il Capitano.
“Organizzano ogni anno una gara e i partecipanti devono salire fino all’Osservatorio. I migliori ci impiegano dieci minuti circa. È divertente. Da guardare, intendo.”
Steve annuì in direzione di Clint, soddisfatto della risposta.
 
“Okay, ascoltate” esordì il Capitano, ormai conscio che tornare indietro non sarebbe stato possibile e, al tempo stesso, certo che non avrebbe in alcun modo reso le cose facili al nemico.
 
 
                                               ***
 
 
“Sicuro di stare bene, Nat?”
“Non mi sembra il caso di parlare di questo, ora.”
 
Le due spie erano nella cabina del terzo ed ultimo ascensore, quello che li avrebbe condotti sino all’Osservatorio. Dovevano solo attendere che Rogers fosse in posizione e poi Stark avrebbe fatto il resto. Ci avevano impiegato circa un paio di minuti a raggiungere l’ottantesimo piano con i due precedenti ascensori ed ora c’erano solo pochi secondi a separarli dall’ottantaseiesimo.
Certamente, i movimenti degli ascensori non erano passati inosservati, perciò bisognava evitare ulteriori azzardi, dato che già essere lì, nella ragnatela del nemico, era un azzardo enorme.
Eppure, nessun membro della squadra aveva avuto la volontà di opporsi alla proposta di Steve, momentaneamente non incline all’Aspettare. Probabilmente l’Aspettare non andava giù a nessuno fra loro, data la situazione.
Avrebbero agito, colpendo da fronti differenti.
 
“E comunque ho preso degli integratori alla Tower. Il mio stomaco ha fatto capricci ed ecco tutto. Sto bene.”
Clint decise di lasciar cadere la discussione, nonostante il senso di inquietudine che gli aveva invaso lo stomaco non accennasse ad alleviarsi. Qualcosa non andava in Natasha e il fatto che non riuscisse a capire cosa, gli dava terribilmente fastidio.
“Ci sono” comunicò Rogers, interrompendo il filo dei pensieri dell’arciere.
“Complimenti, Capitano. Meno di cinque minuti. Dovresti partecipare alla gara annuale del ‘Sali i 1576 scalini dell’Empire se non ti spaventa l’idea di morire di infarto’, stracceresti la concorrenza.”
“Sì, ma a condizione che partecipi anche tu, Barton.”
Mentre Steve riprendeva fiato, Clint cominciò a delirare, affermando che soffriva di allergia da scale.
 
 
 
Il Capitano era in cima alle scale e una sola parete lo separava dal nemico. Il piano era interamente illuminato e le luci, incastonate nel soffitto decorato da ampi altorilievi a forma di soli stilizzati, si riflettevano sul lucido pavimento in marmo a strisce bianche e grigie.
 
“Aspettate il segnale. Non intervenite prima.”
 
Il super soldato uscì allo scoperto con lo scudo davanti a sé, ma con la consapevolezza che nessuno gli avrebbe sparato addosso.
Perché attirarli fin lì? Perché sfidarli con un ridicolmente piccolo manipolo di uomini?
Ucciderli a sangue freddo non era l’obiettivo dell’Hydra, non quella volta.
Steve smise di pensare, quando una voce conosciuta pronunciò il suo nome, sputandolo fuori come fosse un disgustoso cibo indigesto.
Un brivido percorse la schiena del giovane Capitano, mentre il ricordo del tradimento prese a bruciargli lo stomaco.
 
“Chi non muore si rivede, eh Rogers?”
 
Brock Rumlow era lì, con le braccia incrociate dietro la schiena e il portamento fiero. Il volto era sfregiato e deturpato, ma non abbastanza da renderlo irriconoscibile, perché lo sguardo affilato e il ghigno strafottente erano gli stessi, così come non erano affatto cambiati i lineamenti duri e spigolosi.
“Ti credevo sepolto sotto le macerie del Triskelion.”
La risata tagliente di Rumlow riempì l’aria per alcuni interminabili secondi, poi si arrestò di colpo. L’uomo assunse un’espressione truce, che le cicatrici trasformarono in una maschera di folle sadismo.
E Steve si rese conto che, per la prima volta da quando l’aveva conosciuto, Brock Rumlow si mostrava a lui per quello che realmente era, privo di qualsiasi velo di finzione.
“Credevi male, Rogers. Credevi male.”
La sua voce era un ammasso informe di puro odio. Brock era una belva che fremeva dalla voglia di sgozzare la tanto bramata preda.
Il Capitano si sforzò di analizzare la situazione, deviando l’attenzione sul gruppo di uomini alle spalle del suo ex compagno di squadra. Bruce aveva detto che in tutto dovevano essere sedici, ma Steve ne contò uno in più e lo sguardo gli cadde su un’imponente figura, più indietro rispetto al gruppo.
Quell’uomo lo superava in altezza e in robustezza, aveva un sacco di tessuto che gli copriva il volto ed era talmente immobile, che pareva non respirasse. Come gli altri, era vestito da una semplice divisa nera, ma non possedeva alcuna arma.
Brock sorrise nello scorgere perplessità negli occhi del super soldato e si lasciò andare ad una nuova e gelida risata.
“Fai bene a preoccuparti, Rogers. Perché non dici ai tuoi amichetti di unirsi alla festa? Sappiamo che non sei solo.”
Steve ignorò il commento dell’uomo, per nulla sorpreso o preoccupato del fatto che sapesse.
“Siamo a conoscenza del fatto che siete in possesso di due armi aliene” disse invece, asciutto.
“Non sono affari che ti riguardano.”
Anche la risposta di Brock fu estremamente asciutta e priva di qualsiasi sfumatura emozionale nel tono della voce.
“Perché qui?” riprovò allora Steve, con l’intento di estrapolare informazioni utili.
 
Gli altri Avengers erano in ascolto, pronti ad agire in qualsiasi momento. Sembrava quasi che il tempo si fosse fermato e che l’aria fosse divenuta improvvisamente soffocante.
 
Rumlow rise ancora una volta, prima di degnarsi di rispondere.
“Non si porta un elefante in cristalleria. L’elefante è grosso ed è pericoloso se istigato, ma può essere abbattuto se un branco di leoni lo scova da solo, separato dalla sua mandria. Non sei d’accordo, Rogers?”
Quelle parole erano inquietanti e prima che la consapevolezza colpisse i Vendicatori come uno schiaffo in pieno volto, Brock continuò a parlare in quel modo assurdo, trattenendo a stento un ghigno di sadico compiacimento.
“Se l’aquila lascia incustodito il proprio nido, chissà, potrebbe arrivarci il serpente a mangiare tutte le uova, rimaste disgraziatamente indifese. Oh, dimenticavo. Da qui potrete godervi lo spettacolo.”
 
“Steve”
Il quasi disperato richiamo di Stark, attraverso la ricetrasmittente, fu seguito da un boato assordate. Le vetrate dell’Osservatorio tremolarono sensibilmente, mentre in un punto non distante si accendeva il bagliore ardente di lingue di fuoco che incendiarono il cielo.
Le fiamme avevano assediato un particolare piano dell’Avengers Tower.
Iron Man, rimasto fino ad allora in modalità invisibile, proprio ad un palmo dalle vetrate dell’Osservatorio in attesa del segnale di Rogers, ritornò a splendere di rosso ed oro e, senza alcuna esitazione, partì alla volta del nido rimasto incustodito.
 
“Capitano, cos-”
Barton fu interrotto dall’allarmato “Andate!”, esploso nel suo orecchio destro, così come in quello di Natasha.
Le due spie corsero fuori dall’ascensore e Clint armò l’arco con una delle sue frecce-cavo, facendo intuire alla compagna il modo in cui intendeva scendere gli ottanta piani che li separavano da terra.
 
Accadde tutto troppo in fretta, perché dubbi o flebili sospetti interrompessero quel caotico modo di agire. In pochi minuti, i Vendicatori si ritrovarono divisi in tre gruppi, due dei quali contavano un solo elemento.
Il piano dei laboratori della Tower, laddove era custodito il Tesseract, stava venendo divorato dalle fiamme e le comunicazioni con Banner si erano interrotte di colpo.
 
Anche la lucidità di Rogers venne meno. Il Capitano si arrischiò a dare le spalle al nemico, per poter raggiungere velocemente le scale e tornare alle auto.
L’Avengers Tower aveva la priorità assoluta. Banner la aveva.
La distrazione gli costò cara, perché il suo corpo fu utilizzato per demolire una parete dell’Osservatorio. Steve riemerse dalle macerie a fatica e si portò una mano sulla tempia sinistra, da dove presero a fuoriuscire rivoli di sangue che gli macchiarono il viso.
A due passi di distanza, stava colui che era riuscito a lanciarlo come fosse stato una bambola di pezza. Due occhi completamente neri e inespressivi lo fissavano con una intensità tale da far venire i brividi.
“Tu sei il passato, Rogers. Ecco il futuro.”
Rumlow affiancò il possente uomo dagli occhi simili ad un oscuro e profondo oblio e contemplò estasiato il liquido vermiglio che continuava a sporcare il volto del giovane super soldato.
 
Esistono limiti, addirittura per te, Capitano. Non è forse così?
 
 
 
                                                         ***
 
 
 
Nelle successive ore, i programmi televisivi trasmisero un solo ed unico servizio speciale che i cittadini di New York, destati dal boato improvviso, furono i primi a guardare, seguiti poi a ruota dagli abitanti del resto dell’America e di buona parte del mondo.
Henry Benson accusava i Vendicatori di tradimento e di pericolose macchinazioni contro il Consiglio Mondiale della Sicurezza.
Durante la trasmissione, più volte le voci di Tony Stark e Steve Rogers ripeterono parole che scavano loro la fossa, dentro cui veniva trascinata l’intera squadra.
Le preoccupazioni di Natasha erano state fondate.
 
“ … è il Governo che farebbe meglio a guardarsi le spalle.”
“E glielo sta dicendo colui che ha distrutto il Triskelion, mio caro Benson, perciò non sottovaluterei le sue parole.”
 
 
 
 
Scacco.
 
 
Note
Eccoci giunti alla svolta, o meglio, allo Scacco. Le cose si complicheranno da qui in avanti e, credo, parecchio anche.
Non ho molto da dire questa volta, se non che vi ringrazio di essere giunti, miei cari lettori, fin qui, subendo lo sclero della mia follia.
Rumlow è tornato. Bucky ha fatto capolino nella storia.
E tante insinuazioni sono state insinuate, tocca solo a voi coglierle!
 
Voglio dedicare un saluto dolcioso alle New Entry che hanno aggiunto la storia nelle speciali liste!
StevenRogers e happyfun, sempre presenti veterane! Spero che il sequel vi appassioni come la prima storia <3
Anny2001 e selenagomezlover99, che hanno avuto il coraggio di iniziare a seguirmi, così come ha fatto Giulietta Beccaccina. A voi mando un Abbraccio, come scusa preventiva per ciò che vi ritroverete a leggere (ho la mente contorta, sappiatelo) <3
 
Grazie, ovviamente, al resto della comitiva!
fredfredina, winterlover97, Ragdoll_Cat (la mia Sister, a cui non si può nascondere nulla <3), Siria_Ilias (Tony sempre implicato nei casini, visto? Colpa di tutto quell’insinuare), Eclisse Lunare (Clintasha! E un pizzico di Romanogers, perché noi, in fondo, amiamo entrambe le coppie <3).
 
Bene! Al prossimo appuntamento!
Un buon San Valentino a tutti (grazie alla buona anima che mi ha ricordato della festa, perché me ne ero completamente dimenticata!)
 
Tanto Amore <3
Ella

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Capitolo 6
*** Frantumi ***


Frantumi
 
Quasi scoppiò in lacrime, quando si trovò dinanzi lo spettacolo raccapricciante del fuoco che divampava inarrestabile, divorando una parte della Tower. Le ampie vetrate del piano in cui risiedevano i laboratori erano esplose e fumo nero come la pece formava una spessa cappa soffocante nel cielo appena schiarito dalla prossima alba.
Ma se lo stomaco era in subbuglio, il cuore batteva dolorosamente e gli occhi pizzicavano, era perché la sua Pepper si trovava in quell’inferno. Il loro appartamento era prossimo ai laboratori, perciò il fuoco doveva averlo già raggiunto.
E le comunicazioni con Bruce si erano interrotte. E di Hulk non c’era traccia.
A niente servì chiamare il fedele JARVIS, che pareva essere stato disconnesso.
 
In un istante che parve lungo quanto un’intera vita, Tony si ritrovò ad osservare la sua Pepper cadere sempre più in basso, verso enormi fauci di fuoco. Rivide lo sguardo disperato della donna, la mano protesa ancora verso di lui e un grido d’aiuto rimastole impigliato tra le corde vocali. Mai come quella volta, si era sentito così impotente. Aveva pensato di seguirla, dopo averla fatta pagare cara a chi gliela aveva portata via.
Poi Pepper era tornata e Tony, anche se per un infinitesimo di secondo, era riuscito a credere nell’esistenza di un qualche Dio, Dio che aveva voluto concedergli una seconda possibilità, forse per pietà o forse perché non era lo schifo di uomo che credeva di essere.
 
Senza che il cervello se ne rendesse conto, Iron Man era già tra le fiamme, all’interno della camera da letto. Le lingue di fuoco lambivano l’armatura e il metallo divenne presto rovente, nonostante all’interno dello scheletro Tony fosse ancora al sicuro, se non si considerava il caldo soffocante che gli opprimeva i polmoni. Sondò la stanza, pregando e pregando e pregando, e chiamò con forza il nome della donna.
Il fuoco, intanto, divorava ogni cosa. Tony riacquistò di colpo la lucidità ed attivò degli impianti inseriti nell’armatura, i quali funzionavano come estintori di maggior potenza e raggio d’azione. Le fiamme, aggredite dai getti di schiuma bianca, cominciarono a ritrarsi.
Tony appurò che di Virginia non c’era traccia in quella stanza, perciò si precipitò nelle successive, tutte inondate da fuoco e fumo nero. Più andava avanti, più l’armatura si trasformava in una prigione incandescente e l’ossigeno cominciava a venire meno, mentre la pelle si ribellava, inviandogli frecciate di dolore al cervello.
Ma la mente di Tony era troppo offuscata dal gelido panico, perché si rendesse davvero conto delle bruciature che gli stavano macchiando le braccia e il torace.
“Pepper!”
La voce venne inghiottita dal ruggire delle fiamme. Pepper non era né in bagno, né in cucina, né in salotto. Stark respirò a fondo, pensando che forse la donna fosse riuscita a mettersi in salvo … no! Pepper non avrebbe potuto andare lontano, perché le fiamme si erano diffuse troppo velocemente per permetterle di fuggire, senza finire corrosa dal fuoco o soffocata dai fumi.
Fu mentre continuava a cercarla all’interno del grande salotto, completamente avvolto da una nebbia scura, che lo sguardo gli cadde sulla minuscola fessura tra le porte dell’ascensore, congiunto al salotto attraverso un piccolo corridoio. Si fece largo tra le lingue di fuoco e in un attimo fu lì, a forzare le porte scorrevoli dell’ascensore con tutta la forza di cui disponevano le giunture delle braccia dell’armatura.
La cabina si aprì tra scricchiolii e metalliche grida. Iron Man si fermò solo quando lo spazio gli permise di entrare all’interno, dove Virginia, coperta da una candida camicia da notte bruciacchiata, lo guardava con occhi terrorizzati e il viso sporco di cenere.
 
“Tesoro, sono qui adesso. Ti porto fuori.”
 
La donna lasciò che alcune lacrime le rigassero le guance arrossate, mentre Stark utilizzava quasi tutta l’energia rimasta nell’armatura per attivarne l’impianto di raffreddamento, così da poter stringere tra le braccia la sua Pepper.
 
Poi la voce atona di JARVIS risuonò nell’elmetto dell’armatura e l’impianto di sicurezza, rientrato in funzione, estinse le fiamme in pochi minuti.
 
 
 
                                                     ***
 
 
 
“Esistono limiti, addirittura per te, Capitano. Non è forse così?
 
Steve trattenne il fiato, ricacciando indietro ricordi appartenenti ad un altro tempo. Si rimise in piedi e fronteggiò senza alcun segno di paura il gigante che Rumlow aveva definito il futuro.
La sensazione di aver fatto l’errore più grande di tutta la sua vita gli fece accartocciare lo stomaco e stringere dolorosamente il cuore. I Vendicatori erano caduti nella trappola, affondandoci fino al collo, ed era stato lui a condurceli.
Il tempo di pensare finì nel momento in cui Brock si fece avanti, sorridendo come un lupo famelico.
“Sfortunatamente ho l’ordine di testare il colosso, ma avrò il mio tempo per farti male, Rogers. Avevo detto che non era una cosa personale, ma adesso è personale.”
 
L’uomo dagli occhi completamente neri inspirava ed espirava velocemente, come se fosse in stato di perenne iperventilazione. Aveva il capo calvo, la pelle del viso era grigiastra e in alcuni tratti quasi trasparente, tanto che si potevano scorgere i capillari scuri che la percorrevano appena più in profondità.
Rumlow si fece da parte e si rivolse allo strano energumeno.
“È tuo.”
 
Se lo avesse investito un tram, probabilmente gli avrebbe fatto meno male. Il colosso si era mosso fulmineo e lo aveva visto troppo tardi, ovvero quando con un pugno dalla potenza sovraumana lo aveva colpito in pieno petto, spezzandogli il respiro.
Non sapeva minimamente chi o cosa stesse affrontando, tuttavia capì che abbassare la guardia era un errore che non poteva permettersi di fare. Lo scudo era seppellito da qualche parte sotto le macerie della parete crollata, ma poteva farne a meno finché il nemico non usufruiva di armi da fuoco.
Il colosso lo guardava come un leone contempla la propria preda, prima di saltarle alla gola. Attaccò di nuovo, velocissimo, e Steve si fece trovare pronto. Parò il pugno con entrambe le braccia, tenute incrociate all’altezza del petto, si spostò di lato ed assestò un poderoso calcio sul fianco del nemico, all’altezza del fegato. Nel vederlo piegarsi in avanti e grugnire di dolore, il Capitano sorrise sollevato, perché quello che aveva di fronte era un uomo, forse un uomo potenziato, ma pur sempre un uomo.
Steve sapeva di non essere invincibile e riconosceva i propri limiti. Aveva affrontato alieni e mostri al di fuori della sua portata e ci aveva quasi rimesso la pelle. Con il tempo, lavorando per lo SHIELD, aveva imparato a studiare il nemico e a rendersi conto quando le sue forze gli avrebbero permesso di sopraffarlo.
Il potenziato che aveva dinanzi era alla sua portata. L’adrenalina gli invase le vene e quasi riuscì a sentirne il sapore sulla lingua, mentre il cervello accantonava la rigida razionalità, lasciando che fosse l’istinto a muovere il corpo.
Era in momenti come questo che Steve Rogers diveniva l’ombra di Capitan America.
Rapido, preciso ed agile come un acrobata, il Capitano costrinse il nemico in ginocchio in pochi minuti, mentre l’espressione di Rumlow passava dall’incredulità, alla rabbia ed infine alla rassegnazione.
Un ultimo calcio laterale in piano collo e il gigante collassò a terra privo di sensi, con gli occhi spalancati.
 
“Le cose vecchie sono le migliori” sostenne Rogers, soddisfatto.
 
Brock concesse al super soldato un applauso, ritenendosi alquanto sorpreso.
“Credo di aver commesso una gran cazzata ad insegnarti a combattere decentemente, quando ancora fingevo di essere tuo amico. Il tocco della Vedova, poi, è inconfondibile.”
 
Rogers rivolse all’ex compagno uno sguardo glaciale. Nonostante non volesse ammetterlo, il tradimento ancora gli bruciava e tanto anche. Aveva passato in compagnia di Brock Rumlow ben due anni ed era arrivato a considerarlo un amico.
Brock, assieme a Natasha, lo aveva seguito negli allenamenti fin dall’inizio. Steve non riusciva a non attribuirgli il merito di averlo fatto maturare esponenzialmente.
 
“Forse ti abbiamo sottovalutato, Rogers, ma non importa. Avevamo messo in conto questa eventualità e …”
Rumlow si bloccò di colpo, nel momento in cui i suoi occhi si posarono sul corpo del potenziato, la cui pelle era divenuta di colpo rossastra.
Steve lo sentì imprecare sonoramente contro ‘quei dannati effetti collaterali’, prima che il colosso si trasformasse in un ordigno umano, esplodendo con un boato.
Il super soldato fu spinto dall’onda d’urto contro una delle vetrate dell’Osservatorio, la quale si infranse nell’impatto con la sua schiena, così come il vetro di sicurezza che circondava la terrazza panoramica esterna. Il biondo si ritrovò nel vuoto in un battito di ciglia, ma il sangue freddo gli permise di afferrare con le sole dita il bordo del muretto di pietra da cui partiva, andando verso l’alto, il vetro di sicurezza ormai a pezzi.
Presto, però, le dita cominciarono a protestare contro la gravità che richiamava il corpo verso il basso, da cui lo separavano circa trecento metri.
Dopo aver lottato diversi minuti per la sopravvivenza, le dita cedettero.
Tuttavia Rogers non precipitò di un solo centimetro. Rumlow lo teneva saldamente per un polso, con quello che era niente meno che un arto meccanico - e Steve si rese conto solo allora che Brock aveva sempre tenuto le braccia dietro la schiena.
 
“Non guardarmi così. Non potevo lasciar cadere la Stellina d’America, no?”
Rumlow non riuscì a mascherare la dose di panico che gli aveva offuscato gli occhi scuri. Respirava con un certo affanno, mentre continuava a stringere con forza il polso del biondo. Brock si fece passare da uno dei suoi sottoposti una siringa ricolma di liquido giallastro.
Rogers sbarrò gli occhi, costatando che sospeso nel vuoto era del tutto impotente, alla mercé di quel traditore, che adesso aveva nelle mani la sua vita.
Il pizzicore della siringa, che Rumlow gli infilò senza gentilezza nel collo, fu nulla in confronto al fastidio che provò quando il liquido giallastro cominciò a penetrargli dentro.
“Che vuoi fare?” sibilò il Capitano, a denti stretti.
Come risposta, Rumlow gli sorrise sadicamente e, con uno strattone, lo tirò su, riportandolo con i piedi sulla solida terrazza.
 
Fu quando la vista si offuscò di colpo e le gambe iniziarono a tremare sensibilmente, che Steve si rese conto di essere spacciato. Gli uomini dell’Hydra lo accerchiarono, pronti a mettergli le mani addosso, non appena l’intruglio introdotto nel suo sangue avesse compiuto il proprio dovere.
Qualunque cosa gli avessero iniettato, era in grado di spezzare le difese del siero di Erskine.
Rumlow era proprio di fonte a lui, gli arti meccanici in bella vista e un ghigno sghembo a piegarli le labbra.
“C’è qualcuno che non vede l’ora di rivederti, Rogers. Tra un po’ non riuscirai più a muoverti. Fa’ il bravo e non complicare le cose.”
 
Steve scosse la testa, sorridendo appena.
“Dovresti conoscermi. Non sono bravo a starmene con le mani in mano.”
 
 
 
                                                 ***
 
 
 
“Accidenti, Steve. Rispondi!” sbottò Natasha, dopo che per l’ennesima volta aveva provato a mettersi in contatto con il Capitano, attraverso la ricetrasmittente. Peccato che a risponderle fosse sempre e solo il silenzio.
Clint, impegnato al volante, lanciava occhiate allo specchietto retrovisore, controllando che nessuno li seguisse.
Le due spie avevano sentito il boato proveniente dai piani alti dell’Empire. Non sapevano se Rogers stesse bene e non avevano più avuto notizie da Stark, per non parlare di Banner.
“È un dannato casino.”
Natasha si morse il labbro inferiore con forza, mentre veniva invasa da un crescente senso di nausea.
Barton indirizzò uno sguardo alla compagna e rimase assai interdetto, quando si accorse che aveva perso colore, diventando pallida come un cencio. La rossa non stava affatto bene.
Le ruote della preziosa Audi di Tony stridettero, lasciando linee scure sull’asfalto. Entrambe le spie rimasero a guardare sconcertate l’Avengers Tower, da cui fuoriusciva fumo nero e denso. Il fuoco era stato debellato, molto probabilmente dall’impianto di sicurezza che Tony era riuscito a far ripartire, restaurando la connessione con JARVIS.
Scesero dal veicolo e avanzarono verso la struttura.
Natasha provò ancora a mettersi in contatto con il resto della squadra, ma fu tutto vano.
“Che cosa facciamo?” chiese al compagno, rivolgendogli uno sguardo angosciato.
Clint stava per aprire bocca, ma fu bloccato dall’arrivo improvviso di furgoni neri, da cui uscirono decine di uomini armati, con giubbotti antiproiettile e caschetti muniti di visiere trasparenti.
I due Vendicatori si videro presto accerchiati e tenuti sotto tiro da fin troppi fucili di precisione.
 
“Clinton Francis Barton. Natalia Alianovna Romanoff. Il Consiglio Mondiale della Sicurezza ha decretato per tutti i membri dei Vendicatori lo stato di arresto. Non opponete resistenza e consegnatevi” annunciò uno degli uomini, con tono piatto.
 
“Sta scherzando, vero?” si lasciò scappare Barton.
C’erano uomini dell’Hydra a un tiro di schioppo da lì, i quali avevano preso il controllo dell’Empire e, solo pochi minuti prima, avevano causato un’esplosione all’ottantaseiesimo piano.
E il Consiglio aveva mandato un’ingente quantità di soldati ben addestrati per arrestare i Vendicatori? Questa era pura follia e la puzza di marcio era quasi asfissiante.
“Non credo” sussurrò Natasha, anche lei confusa dalla piega degli eventi. La donna costatò di aver già visto molte delle facce di quegli uomini che ora la circondavano. Avevano lavorato nello SHIELD, ne era certa. O forse servivano l’Hydra.
 
Le due spie si resero conto che non avrebbero potuto fare nulla per uscire da quella situazione: erano sotto tiro e il minimo movimento avrebbe fatto sì che i loro corpi fossero ben imbottiti di piombo.
La fortuna, però, non li aveva del tutto abbandonati. Iron Man, come un angelo piovuto dal cielo, piombò tra i soldati inviati dal Governo, i quali, presi alla sprovvista, ruppero le linee nel tentativo di evitare i fasci di energia che schizzavano fuori dai guanti dell’armatura.
Clint e Natasha non indugiarono un solo istante ad approfittare del caos per mettere mano alle armi e subito affiancarono Stark nello scontro, scoppiato a circa cinquanta metri dall’ingresso della Torre.
 
“Ascoltate” esordì di punto in bianco Tony, la cui voce risuonò forte e chiara nelle ricetrasmittenti di tutti i membri della squadra.
“Sono riuscito a riconnettermi con JARVIS e a ristabilire le comunicazioni. La linea è sicura” continuò, mentre si liberava di alcuni uomini che avevano preso a sparargli addosso con armi più pesanti.
Le due spie, pur essendo concentrate nella lotta, prestarono attenzione alle parole del miliardario, aspettandosi il peggio.
“Sono entrato nella Tower, ho portato fuori Pepper e quando sono tornato per Banner, beh lui non c’era. Da nessuna parte. E nemmeno il Tesseract.”
 
Natasha cercò di digerire il più velocemente possibile le parole di Stark. Stese tre uomini di fila con i morsi della Vedova, rotolò dietro l’Audi, rimasta nel mezzo della battaglia, per proteggersi dai proiettili e lanciò un’occhiata a Barton, che faticava a utilizzare il suo arco nella mischia.
“Dobbiamo filarcela. Subito” sbottò, prima di uscire allo scoperto e, agile come un gatto, stendere un altro paio di uomini. Mise poi mano alle pistole posizionate nelle fondine sulle cosce, rispondendo al fuoco nemico.
Stavano arrivando i rinforzi, poteva vedere già altri furgoni neri avvicinarsi a tutta velocità. Era inutile continuare a combattere lì. Bisognava riunirsi, riorganizzarsi e soprattutto capire cosa diavolo stesse accadendo.
 
Il Sole cominciava a sorgere, ma i nuvoloni grigi all’orizzonte preannunciavano un temporale con i fiocchi. Le strade della città erano percorse dalle forze di polizia, che avevano il compito di mantenere l’ordine e rispedire a casa quei folli sedotti dalla curiosità.
I Vendicatori erano al centro della tela di un ragno, che aveva saputo pazientare e attendere il momento propizio. Niente di ciò che appariva come fortuito o imprevisto lo era davvero.
 
“Ragazzi, mi sentite?”
 
La voce impastata di Steve si intrufolò nelle orecchie di Natasha, Clint e Tony, ancora impegnati a trovare un modo per uscire da quel caos. Risposero affermativamente quasi all’unisono, attendendo che il Capitano continuasse e sentendosi sollevati nel saperlo vivo.
Sfortunatamente, il sollievo scomparve in un soffio, lasciandosi dietro un sapore amaro e la sensazione di cadere a pezzi.
 
 
                                             ***
 
 
Li aveva colti alla sprovvista. Aveva visto l’incredulità negli occhi di Rumlow, quando come un fulmine si era gettato verso le scale, investendo con la sua intera mole quei poveracci che avevano tentato di fermarlo.
Steve aveva una sola certezza adesso: lo volevano vivo.
I muscoli erano in fiamme e divenivano sempre più rigidi, impedendogli di muoversi con scioltezza. Riuscì a percorrere solo la prima rampa di scale e già i soldati dell’Hydra gli erano alle calcagna.
 
“È inutile correre, Rogers” tuonò la voce di Brock, che se la stava prendendo comoda, lasciando che fossero i suoi uomini a riacciuffare il super soldato.
 
Steve smise di correre. Dagli uomini dell’Hydra lo separavano adesso una cinquantina di scale e la distanza si accorciava secondo dopo secondo. Doveva essere arrivato all’ottantesimo piano, o giù di lì.
Aveva bisogno di tempo. Aveva bisogno di mettersi in contatto con i suoi compagni.
Si affacciò oltre il corrimano di metallo delle scale e, senza alcun indugio, lo oltrepassò con un balzo, lasciandosi cadere.
Le ossa delle mani e delle braccia scricchiolarono dolorosamente, nel momento in cui riafferrò il corrimano, che si piegò inesorabilmente nel bloccare la sua discesa.
“Fa male” sussurrò a denti stretti, percependo i muscoli bruciare ed intorpidirsi.
Guardò ancora in basso. Valutò con superficialità la distanza che ancora lo separava dal piano terra e stabilì, ad occhio e croce, la fattibilità di percorrerla in caduta libera senza spezzarsi entrambe le gambe. Forse solo una.
Mollò la presa sul corrimano.
La tibia, il perone, il femore e l’intera colonna vertebrale sembrarono imprecare sonoramente nell’impatto con il pavimento in marmo dell’atrio, ancora immerso nella penombra. Rogers ignorò la sensazione del suo corpo che si tramutava in un peso morto e percorse lo stanzone d’ingresso in cerca di un posto sicuro.
Era riuscito a guadagnare minuti preziosi con la sua trovata geniale - suicida - e non poteva permettersi di gettarli al vento.
Lo sguardo gli cadde sulle scale mobili ferme.
“Gli ascensori” mormorò tra sé e sé.
Più trascinandosi che camminando, risalì le suddette scale e arrivò ad uno degli ascensori, posti in fila ordinata su un corridoio ampio e lungo. Forzò le porte scorrevoli e riuscì ad aprirle. Una volta dentro, dovette fare un ultimo sforzo per richiuderle. Poi si accasciò a terra, sfinito.
“Non ancora” pregò, quando la testa cominciò a farsi pesante, mentre la vista si oscurava.
Portò la mano all’orecchio destro e si concentrò sulla respirazione.
 
“Ragazzi, mi sentite?”
 
La risposta non si fece attendere e Steve sorrise appena, nel sentire la voce dei suoi compagni.
“Sono ancora nell’Empire e-”
 
“Siamo sotto attacco, Rogers. Il Consiglio ci vuole tutti in gattabuia. Banner è scomparso, il Tesseract è scomparso e la Tower è bruciacchiata. Siamo nei guai fino al collo e non riesco a contattare Banner. L’Avengers Tower stava bruciando e Pepper è quasi morta. Dobbia-”
 
“Tony.”
Steve riuscì ad interrompere il fiume incontrollato di parole del compagno. Il senso di colpa tornò ad attanagliargli lo stomaco, a causa di ciò che aveva appena sentito. Ma doveva rimanere calmo e riflettere.
Il suo udito percepì dei passi percorrere l’atrio. I soldati dell’Hydra erano lì e lo stavano cercando.
“Ascoltate, per favore. Ho poco tempo. L’unica cosa certa è che il Consiglio, in un modo o nell’altro, è immischiato negli affari dell’Hydra. Non credo nelle coincidenze. Era tutto preparato e so che voi la pensate allo stesso modo.”
Lasciò passare qualche secondo prima di parlare ancora, per essere sicuro che gli altri non avessero da ridire.
“L’unica cosa che ci rimane da fare è battere in ritirata. Trovate il modo di mettervi al sicuro. Dividetevi se necessario, ma non lasciatevi catturare.”
Il fiato gli mancò di colpo e la testa gli cadde in avanti. I muscoli erano divenuti quasi del tutto insensibili.
Strani scricchiolii provenivano dall’altra parte della porta e Steve intuì che, molto probabilmente, gli uomini dell’Hydra avevano sentito la sua voce.
 
“Non pensavo ti piacesse giocare a nascondino, Rogers.”
 
Rumlow era arrivato. Doveva fare in fretta. Si concentrò su ciò che Stark gli aveva detto, ignorando il rumore assordante dei colpi brutali che Brock, forte degli arti meccanici, stava infliggendo alle porte dell’ascensore, piegandone lo spesso metallo.
“State nascosti. Troverò il modo di raggiungervi e poi troveremo Banner. Non fidatevi di nessuno.”
Esitò un istante e poi aggiunse una parola che credeva di dovere ai suoi compagni.
 
“Scusatemi.”
 
“Tana per te, Capitano.”
La risata tagliente ed insana di Rumlow lo accompagnò nell’oblio, ma prima di finirci dentro, Steve cacciò dall’orecchio la ricetrasmittente e la frantumò.
 
 
                                            ***
 
 
“Scusatemi.”
“Tana per te, Capitano.”
 
Il cuore di Natasha perse un battito. La donna chiamò ripetutamente il nome del Capitano, ma i suoi tentativi si rivelarono vani.
Un soldato riuscì a prenderla alle spalle, avvolgendola con le possenti braccia. La rossa cominciò a ribellarsi, dando fondo alle poche forze che ancora aveva in corpo.
“Sta' buona, sporca assassina” sputò fuori l’uomo, facendole sbattere il viso sul cofano di uno dei furgoni blindati.
Natasha assaggiò il già noto sapore del sangue e lottò per rimanere sveglia.
Era stanca. Continuavano ad arrivare uomini armati fino ai denti, in una macabra sfilata che sembrava non avere fine.
Conati dolorosi le fecero avviluppare lo stomaco e desiderò con tutta sé stessa fuggire il più lontano possibile da lì.
Di colpo, la stretta dell’uomo su di lei svanì. La rossa si voltò giusto in tempo per osservare il suo assalitore crollare a terra, agonizzante, con una freccia che gli trapassava orizzontalmente la gola. Cercò Clint con lo sguardo e lo trovò a lottare con troppi uomini alla volta, in seria difficoltà. Eppure l’arciere non smetteva di vigilare su di lei.
 
“Avete sentito il Capitano? Mettiamoci in salvo, a qualunque costo” rimarcò Barton.
Era quello il loro obiettivo, adesso. Tutto il resto passava in secondo piano, anche la scomparsa di Bruce e il non sapere se Steve fosse ancora vivo.
 
Quel giorno, piovve dal cielo un secondo angelo dalle ali meccaniche e con lui una scarica di proiettili che spinse i soldati a cercare riparo.
“Saltate su uno di quei furgoni! Vi copro le spalle!”
Sam Wilson, con tanto di occhialetti da sciatore, fu la manna dal cielo che diede una svolta a quella lotta impari.
 
Clint e Natasha, rapidi, si infilarono in uno dei furgoni blindati e partirono a tutto gas.
Tony affiancò Falcon, dando fondo a ciò che rimaneva della sua artiglieria.
“Guadagniamo tempo per Barton e Romanoff. Poi ce la svigniamo.”
“Ricevuto, signor Stark, e la ringrazio per le ali nuove.”
“Non c’è di che. In questo momento, sono dannatamente felice di avertele costruite.”
Riuscirono a tenere a bada i soldati per un bel po’, prima di esaurire le munizioni e venire costretti alla fuga.
“Stammi dietro” fu l’invito di Iron Man e Falcon non esitò a seguirlo.
 
I Vendicatori, braccati come animali, si dispersero alla ricerca di un posto sicuro, dove trovare riparo.
 
La squadra era ridotta in frantumi.
 
 
 
                                                ***
 
 
 
Henry Benson accavallò le gambe e si accomodò meglio sulla poltrona. Il ghigno da sciacallo gli stirava la faccia, assottigliandogli i piccoli occhi scuri.
 
“Quindi ci sta dicendo che gli Avengers complottano da sempre contro il mondo e che le due invasioni aliene potrebbero essere state organizzate da loro, per far sì che li credessimo degli eroi al servizio dell’umanità. Ho capito bene?”
 
La giovane e bella conduttrice si mosse a disagio sulla poltrona attigua, celando la sua confusione dietro un sorriso di circostanza. Era stata chiamata quella stessa mattina, per dirigere quest’intervista improvvisata ad uno dei commissari del Consiglio Mondiale della Sicurezza. Erano in diretta internazionale, perciò avrebbe potuto considerare l’incarico come un incentivo per fare carriera, eppure, dopo aver ascoltato le prime parole dell’ospite, aveva desiderato non essere lì.
Era nata e cresciuta a New York, ma la sua vita sarebbe terminata quattro anni prima, se i Vendicatori non l’avessero salvata da quegli orribili alieni che erano piovuti dal cielo, come una piaga infernale. Intrappolata in una banca, aveva avuto la sfortuna di vedere da troppo vicino quei mostri.
Aveva ancora stampata nitida nella memoria l’immagine del giovane con lo scudo, l’immagine di Capitan America, intravisto appena fuori dalla banca. E aveva saputo fin da subito di dovergli la vita, così come la doveva ad ogni membro di quella squadra straordinaria.
Adesso, Benson stava dicendo al mondo intero cose che non aveva la forza di accettare, nonostante le prove fornite dal commissario fossero inequivocabili.
 
“Lo SHIELD aveva creato questa fantomatica squadra con la convinzione di tenere al sicuro l’umanità. Ma si sa, il potere dà alla testa, mia cara. La ricorda la battaglia del Brooklyn Bridge?”
 
“Certamente.”
 
“Bene. Quindi saprà anche con chi erano in combutta i Vendicatori quella volta, ricordando le testimonianze dei civili che si trovavano lì, prima che il campo fosse sgombrato.”
 
La donna sistemò una ciocca mora dietro l’orecchio ed annuì.
“Loki.”
“E ognuno di noi sa chi è Loki, giusto signorina?”
“Sì” rispose suo malgrado l’interpellata, ancora incredula. Si chiese se tutti coloro che in quel momento si trovavano davanti al televisore, sentissero un sapore amaro in bocca e una morsa allo stomaco. Se le avessero detto che la Terra era piatta, denigrando il celebre Galileo Galilei, forse le avrebbe fatto meno male.
Nella vita sono poche le certezze di cui si è in possesso, perciò vederne crollare una delle più importanti destabilizzava l’animo. Era bello vivere nella consapevolezza di essere vegliati da persone straordinarie. Ci si sentiva protetti dall’Ignoto oltre il confine del cielo terrestre e da coloro che, sulla Terra, aspiravano a imporre un ferreo dominio, attraverso la guerra e la paura.
Adesso, tale certezza stava crollando come un debole castello di sabbia.
 
“Poi Capitan America ha distrutto il Triskelion. Lo SHIELD ha protetto il mondo per anni e cosa ne è rimasto? Polvere. Sì, l’Hydra si era infiltrata al suo interno, ma noi saremmo stati in grado di provvedere, eppure Steve Rogers ha preferito dissertare e distruggere ogni cosa, privando il mondo di un'intelligence fondamentale al mantenimento della pace.”
 
La donna rimase zitta. Non avrebbe potuto ribattere in alcun modo, in fondo, senza contare che la famigerata fuga di notizie era stata più un miraggio, che una concreta opportunità di capire cosa stesse accadendo all’interno di una delle organizzazioni più segrete e potenti al mondo. Le informazioni diffuse in rete erano scomparse una dietro l’altra, in pochissimo tempo.
Il motivo era chiaro: c’erano cose che dovevano rimanere nascoste o, per lo meno, confuse.
Benson emise un finto sospiro, come a voler dare l’impressione di essere costernato, a causa dell’onere di divulgare quelle scottanti verità.
 
“Non è finita qui. Perché, solo pochi giorni fa, i Vendicatori si sono riuniti di loro stessa iniziativa e Detroit ne ha risentito. Io stesso, come portavoce del Consiglio Mondiale, ho cercato di giungere ad un accordo con loro, ma tutti hanno potuto ascoltare la sentenza di Steve Rogers e Tony Stark. Ci minacciano. Senza contare che il Tesseract, l’arma che ha rischiato di distruggere New York, si trovava nelle loro mani.”
 
Furono passate immagini del Cubo, ora nelle mani dell’FBI.
Passò qualche attimo di silenzio e la tensione si fece palpabile. Poi Henry Benson puntò lo sguardo nella telecamera, così da potersi rivolgere direttamente al mondo.
 
“I Vendicatori sono ufficialmente dei fuorilegge. Chiunque tenti di prestare loro aiuto, sarà punito con pesanti sanzioni. Il Consiglio Mondiale ha il compito di preservare la sicurezza e farà tutto ciò che è in suo potere, affinché questi pericolosi soggetti siano confinati dove non potranno più nuocere. Oggi è un triste giorno. Tutti noi credevamo di aver trovato degli eroi e invece …”
 
Benson non aggiunse altro ed abbassò lo sguardo. Sembrava avesse ripetuto quel discorso e quei piccoli gesti infinite volte.
 
“Grazie, signor Benson” azzardò la conduttrice, stirando le labbra nell’ennesimo sorriso di circostanza.
 
 
 
                                                   ***
 
 
 
Clint sbirciò il profilo della compagna, che si era chiusa in un silenzio assordante.
Avevano abbandonato il furgone blindato non appena si erano accorti di non essere seguiti, per poi rubare la prima auto che era capitata a tiro, un’utilitaria grigia che non avrebbe dato nell’occhio. Ovviamente, Barton si premurava di non percorrere strade principali, sperando di poter raggiungere un luogo sicuro, senza essere notati da nessuno. La fortuna aveva voluto che nell’auto ci fossero un paio di cappotti da uomo e le due spie li avevano immediatamente indossati, affinché non si vedessero le uniformi da combattimento.
 
“Che ne dici della nostra casa sicura a Washington? Ad eccezione di Fury e Coulson, nessuno sa della sua esistenza. Senza contare che è a circa tre ore di viaggio da qui. Non rischieremo di allontanarci troppo, in questo modo.”
 
Natasha stette ancora in silenzio, ma poi si decise a riscuotersi.
“Sì, non vedo valide alternative. Comunicherò a Stark, appena tornerà in linea.”
“Forse si è accorto che la linea non era molto sicura e ha preferito chiudere le comunicazioni, ma sai com’è Stark. Non lo batte nessuno in queste cose. Presto si farà sentire.”
La rossa annuì e si sistemò meglio il cappuccio del cappotto sulla testa.
“Dovremmo prendere dei vestiti e delle parrucche. Siamo troppo esposti” fece notare al compagno, che si limitò ad annuire.
Dopo qualche minuto di esitazione, Natasha si fece forza e dette voce alle sue preoccupazioni.
“Pensi che Steve riuscirà a raggiungerci? E Bruce?”
Clint si voltò a guardarla e, mai come in quel momento, Natasha pareva così fragile e stanca. Aveva il viso pallido e sporco e tentava di rannicchiarsi il più possibile in quel cappotto troppo grande per lei.
Sembrava passata un’eternità da quando si erano rincontrati a Budapest, tre mesi prima, e di comune accordo avevano deciso di concedersi una vacanza, stabilendo un’unica regola: non una parola su quanto era successo. Avevano concordato di bandire qualsiasi discorso riguardasse questioni lavorative, dato che comunque il lavoro lo avevano perso con il crollo del Triskelion.
Erano stati bene, davvero bene, ma la consapevolezza di star vivendo la vita sbagliata li aveva colpiti entrambi, tanto che la chiamata al raduno di Tony era stata un sollievo. Eppure, proprio per quella chiamata, adesso si trovavano a dover affrontare una nuova situazione assurda.
Clint si era convinto di una sola cosa: chiunque stesse muovendo i fili da dietro le quinte, aveva avuto la pazienza di attendere che i Vendicatori fossero di nuovo insieme, così da poterli distruggere.
 
“So che non è da me dire cose del genere, ma abbi fede, Nat. Steve non ci ha mai deluso finora e Bruce è l’osso più duro che esista al mondo. Per adesso atteniamoci al piano: stiamo nascosti e non lasciamoci catturare.”
Stettero in silenzio per un po’, ognuno immerso nei propri pensieri. Sarebbe stata dura, ma erano abituati a vivere situazioni estreme, dopotutto. La prima regola era non perdere la calma e riflettere, in modo da evitare errori che avrebbero potuto essere fatali.
“Grazie, Clint. Per tutto” bisbigliò Natasha, improvvisamente, sorridendo appena.
Barton ricambiò il sorriso e staccò una mano dal volante, invitandola con un cenno del capo a farsi più vicina. La rossa si accoccolò contro di lui, che la strinse a sé con possessività e la osservò poggiare la testa incappucciata sul suo petto.
 
“Mi sembra di star vivendo un dejà vu. Il fatto di essere ricercati e braccati, la macchina rubata e tutto il resto.”
Clint capì che Natasha si stava riferendo a quando lei e Steve si erano dati alla macchia, per sfuggire alle grinfie di uno SHIELD più corrotto che mai.
“Ce la caveremo, Nat.”
Fu con qualche secondo di ritardo, che nel cervello dell’arciere si accese una lampadina.
 
“Con tutto il resto, intendi che anche Steve ti ha …”
Clint accennò al loro essere schiacciati l’una contro l’altro.
Natasha, dal canto suo, gli conficcò il gomito nelle costole, facendo uso di poca gentilezza, e borbottò un ‘Geloso’ con tono tra lo scocciato e il divertito.
 
 
 
                                                      ***
 
 
 
“È …”
“Inquietante? E non hai visto la mia faccia tatuata sul suo braccio. Ma è un ottimo cameraman. L’ho assunto più o meno un anno fa ed è lui a gestire la pubblicità per i prodotti delle Stark Industries. È più bravo di quanto sembri.”
Sam fece spallucce, lanciando l’ennesima occhiata all’amico fidato e parecchio singolare, che Stark aveva contattato tramite JARVIS.
Il veterano era seduto con la schiena poggiata alla parete destra del Van - ora nascondiglio provvisorio - in cui stavano viaggiando, senza avere una meta precisa. Stark era seduto alla sua sinistra, con un ginocchio piegato contro il petto e la testa abbandonata in avanti.
“Abbastanza, signor Stark. Ma se lei si fida, credo di potermi fidare anche io.”
“Dammi del tu, Sam. Capisco la tua perplessità, ma Gary mi ha già aiutato una volta e si è mostrato all’altezza della missione. Non è forse così, Gary?”
Tony aveva alzato la voce di proposito, in modo che anche l’uomo al volante del piccolo Van potesse udirlo.
“Sono al suo servizio, signor Stark. Rischierò la mia vita, pur di aiutarla ancora” disse Gary, con voce altisonante.
Tony strizzò l’occhio in direzione di Wilson, che mimò un ‘pazzo’ con la bocca, non nascondendo di essere abbastanza divertito.
 
L’armatura di Iron Man era ripiegata nella lucente valigetta rossa e al suo fianco giaceva quella specie di zaino da cui spuntavano le ali meccaniche di Falcon.
In un cantuccio, in fondo al Van, Pepper dormiva profondamente, avvolta in un paio di coperte pesanti che Gary aveva gentilmente messo a loro disposizione.
Tony voleva evitare a tutti i costi che la fidanzata corresse il pericolo di divenire oggetto di ricatto. Era già successo e non ci teneva affatto a ripetere l’orribile esperienza. Doveva trovarle un posto sicuro, per evitare di coinvolgerla interamente in quel casino senza capo né coda. Gary gli era parso come l’aiutante perfetto per rimanere nascosto, ma operativo. In quel Van vi erano computer e apparecchiature che gli avrebbero permesso di rintracciare gli altri e di capirci qualcosa.
Gary aveva accennato a un certo discorso - a cui aveva affermato di non credere assolutamente - tenuto dal commissario del Consiglio Mondiale della Sicurezza, Henry Benson, e Stark aveva deciso che quello poteva essere un punto di partenza per fare chiarezza, dato che, come Rogers, credeva che il Consiglio fosse in combutta con l’Hydra.
Possibile che l’organizzazione filonazista fosse giunta così in alto? I membri del Consiglio erano stati sostituiti da poco tempo, dopo l’uccisione dei precedenti da parte di Pearce. Forse c’era un piano di emergenza a cui lo stesso Pearce aveva dato inizio, dal momento in cui si era visto messo alle strette. O forse Pearce non centrava nulla e l’Hydra stava seguendo una nuova testa.
 
“Perché Steve non era con voi?”
Tony riemerse dall’ingarbugliato filo dei suoi pensieri, incontrando lo sguardo serio e preoccupato di Sam.
“Gary, perché non accendi la radio. Ho bisogno di buona musica per rilassarmi.”
Detto, fatto. La musica elettrica degli AC/DC - Shoot To Thrill - animò l’interno del Van, strappando un mugolio infastidito a Virginia.
Stark mostrò a Gary il pollice destro e si ripromise di ripagare per bene quell’uomo, appena le cose fossero tornate alla normalità.
Coperto dalle note stridenti della musica, l’inventore tornò a rivolgersi a Wilson.
“Evitiamo che altri al di fuori di noi sappiano” esordì Stark, mantenendo un tono pacato.
“Non avevi detto di fidarti di lui?”
“Mi fido. Ma pochi riescono a mantenere i segreti sotto tortura e Gary non fa parte di quei pochi.”
Sam annuì e fece per ripetere la domanda a cui Tony non aveva ancora dato risposta, ma fu interrotto.
“Tu non eri a Washington, non è così?”
Wilson boccheggiò per qualche secondo, sorpreso.
“No, ero a New York. Sono incappato in una pista che mi ha condotto lì, ma non volevo che Steve sapesse, o tutti i nostri sforzi per far sì che si riunisse alla squadra sarebbero sfumati. Quindi mi sono mosso con cautela. Alloggiavo in un albergo non molto lontano dalla Tower, perciò il boato mi ha svegliato e poi ho visto le fiamme.”
Sam attese la prevedibile prima reazione dell’inventore.
“Il Soldato d’Inverno era a New York?”
“Così pare. Ma adesso non ha importanza. Dove è finito Steve?”
Tony sospirò.
“Non lo so. L’Hydra ci ha teso una trappola nell’Empire, ci siamo divisi e il suo ultimo ordine è stato quello di scappare e trovare un posto sicuro dove nasconderci. Ha detto che era certo che il Consiglio fosse implicato negli affari sporchi dell’Hydra. Prima che ci dividessimo, Rogers discuteva con un certo Rumlow e-”
“Rumlow? È vivo?”
L’espressione sconvolta di Wilson risvegliò una pungente preoccupazione in Stark, che imprecò tra i denti.
“Ho quasi paura a chiederti chi sia questo tizio?”
“È un accanito seguace dell’Hydra che gode del dolore altrui, anche se forse accanito è un eufemismo. Lavorava con Steve nello SHIELD, prima che lo tradisse senza la minima esitazione. Pensavo fosse morto carbonizzato o schiacciato sotto le macerie del Triskelion. L’ho affrontato ed è completamente fuori di testa, credimi. Farneticava qualcosa sull’ordine e il dolore e sono certo che ora ce l’ha a morte con Steve. Per favore, non dirmi che ha preso il Capitano.”
 
Tony si alzò di scatto e batté le mani sulle guance.
“Sarà meglio che mi metta a lavoro seduta stante” decretò, raggiungendo i computer, addossati contro la parete sinistra del Van.
“Intanto, tu controlla che Gary percorra strade secondarie e tieni d’occhio l’orizzonte. Digli di spegnere la musica. Ho bisogno di ascoltare le macchinazioni del mio cervello e nient’altro.”
 
Dopo essersi ripetuto che sicuramente Steve stava bene e che non doveva preoccuparsi per lui - cosa che risultò inutile -, Sam si sforzò di provvedere ai compiti che Stark gli aveva assegnato.
Adesso anche lui era immischiato fino al collo in quell’assurda situazione, perciò tanto valeva rendersi utili.
“Ma cosa avevo in mente, quando ho deciso di seguire Capitan America nelle fauci della morte?” borbottò tra sé e sé, schiaffandosi una mano sulla fronte, mentre prendeva posto affianco ad un sorridente - inquietante - Gary.
 
 
 
                                            ***
 
 
 
“Abbiamo l’Arma Zero, Sir. Crossbones sarà qui in meno di quattro ore.”
 
“Bene. Prepariamoci ad accogliere come si deve il nostro ospite speciale. Non vogliamo che la sua permanenza qui sia spiacevole, giusto? Avvisa il dottor Lewis.”
 
“Ai suoi ordini, Sir.”
 
Una risata agghiacciante riverberò nell’aria, densa di rossa follia.
 
 
 
 
 
Note
Ed eccoci arrivati alla fine di questo nuovo capitolo. Eh sì, è un casino, lo so.
Che posso dire? Le cose peggioreranno!
E non ho molto da aggiungere, colpa della montagna di roba che ho da studiare e che mi frigge il cervello.
Ah, quasi dimenticavo, il dottor Lewis è una vecchia conoscenza. Steve lo ha incontrato in “Demons of light and darkness”. È uno con l’ossessione per la sperimentazione umana.
Un saluto alla New Entry, Trafalgar Norah. Grazie per aver deciso di inserire la storia nelle preferite <3
Grazie a tutti voi che continuate ad esserci e grazie a coloro che recensiscono. Vi voglio bene, sappiatelo.
Prossimo appuntamento: 6 Marzo, causa Simulazione Terza Prova! Voglio piangere!
 
Alla prossima!
Un grande abbraccio <3
Ella

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Capitolo 7
*** Vecchie Conoscenze ***


Vecchie conoscenze
 
Due anni prima
Gennaio 2013
Washington. Triskelion.
 
Si era aspettato di trovarsi davanti un uomo maturo, stretto in una mimetica impreziosita da luccicanti medagliette al valore, pronto ad imporre la sua presenza e a dare ordini.
Invece, il viso acerbo - inequivocabile segno di giovinezza -, assieme a un fare quasi impacciato, avevano mandato a benedire ogni singola previsione che aveva elaborato riguardo il suo primo incontro con Capitan America, incontro avvenuto tre settimane prima, nell’ufficio del direttore Fury.
Un ventisettenne. Un metro e novanta, vero, ma pur sempre un ragazzino di nemmeno trent’anni.
 
Mancavano meno di due anni alla completa attuazione del progetto Insight e Pearce temeva che questa complicazione spuntata fuori dai ghiacci dell’Artico potesse causare dei problemi, se non venivano prese le giuste precauzioni.
Era stato Pearce stesso a convincere Fury ad assegnare il super soldato alla STRIKE, affinché potesse gestirlo e controllarlo, evitando che si intromettesse in affari che non lo riguardavano.
Si chiedeva cosa Pearce avesse da temere, dato che avevano a che fare con un moccioso incapace. Capitan America possedeva sì una forza fuori dal comune, ma non era assolutamente in grado di sfruttarla. Non era equiparabile nemmeno ad un agente di Livello Due, se si considerava il modo primitivo ed inefficace con il quale combatteva.
Quasi tre settimane di addestramento e Rogers non era ancora riuscito ad infliggergli un colpo decente, perché era così scontato da fargli pena.
Mettere al tappeto Capitan America era diventato uno dei suoi passatempi preferiti e, probabilmente, anche Natasha Romanoff ci aveva preso gusto, dato che non mancava mai agli allenamenti.
 
“Devi renderlo operativo. Sei uno dei migliori, Rumlow, e Rogers è stato assegnato alla tua squadra, perciò lo seguirai nell’addestramento.”
Questi erano stati gli ordini diretti di Nick Fury e Brock non aveva ben compreso cosa avesse voluto intendere il direttore con ‘renderlo operativo’.
Poi avevano iniziato il famoso addestramento e si era chiesto come Rogers fosse riuscito a sopravvivere fino ad allora. Ucciderlo sarebbe stato uno scherzo, per un agente preparato come lui.
Il moccioso era goffo, lento, prevedibile, rumoroso. Era un insieme di forza, mostruosa resistenza ed istinto, ma nient’altro. Fare breccia nelle sue difese era facile, come conficcare un coltello in un panetto di burro. Trasformarlo in una spia qualificata sarebbe stato un lavoraccio. Un lavoraccio spassoso.
Una cosa era certa: il destino di Rogers era ormai segnato, scritto su un algoritmo. Il siero non lo avrebbe salvato, così come non l’avrebbe fatto l’addestramento.
Capitan America era stato classificato dall’Hydra come un impiccio di cui doversi sbarazzare.
L’organizzazione possedeva già un personale Super Soldato, in confronto al quale Rogers era niente.
 
 
“Sono pronto. Avanti.”
 
Brock, strappato dai suoi pensieri, rivolse il capo verso il moccioso petulante. Aveva i capelli biondi arruffati e il viso arrossato, ma un’aria determinata.
“Non sei ancora stanco di finire con il sedere per terra, eh Rogers?” lo provocò, sorridendo divertito.
Il giovane sorrise a sua volta, ormai abituato al rude modo di fare del suo supervisore.
“Ho tutto il giorno libero.”
“Come vuoi, ragazzino. Ma ricorda, devi-”
“Incassare e non subire il colpo, mantenere una posizione di equilibrio, evitare di sbilanciare il corpo usando troppa forza, essere più veloce e meno prevedibile, studiare l’avversario e aspettare il momento giusto per spezzarlo. Ho capito.”
 
“E non scoprire la parte sinistra del corpo, perché non ci sarà sempre lo scudo a proteggerla” intervenne Natasha, appoggiata alla parete, con le braccia incrociate sotto i seni.
Erano nel centro di addestramento del Triskelion da ore, soggetti agli sguardi curiosi degli agenti impegnati negli allenamenti quotidiani.
“Ricorda i movimenti che abbiamo provato ieri, Steve. Concentrati. Devi essere veloce ed agile. Non istintivo, ma calcolatore” aggiunse la rossa, con tono squisitamente professionale, anche se non riuscì ad evitare di sogghignare, già consapevole di come sarebbe andata a finire.
E infatti, tempo alcuni minuti, e Rogers fu di nuovo al tappeto, mentre Brock gongolava vittorioso.
“Ti tocca ripetere un altro centinaio di volte i movimenti, Steve” comunicò allora la donna e il biondo, con l’orgoglio sotto i piedi, si diresse verso la parete a specchio, dove avrebbe potuto controllarsi, mentre simulava le mosse insegnategli dalla Vedova.
 
“Lo definirei un caso disperato” sentenziò Rumlow, raggiungendo la rossa.
“Non sei affatto lungimirante.”
La Vedova si staccò dalla parete e fece per andarsene, ma Brock la richiamò, costringendola a fermarsi.
“Cosa intendi dire?”
Natasha fissò gli occhi smeraldini in quelli scuri del collega e fece spallucce.
“Goditi questa tua momentanea superiorità, Rumlow, perché non durerà per sempre.”
“Stai forse insinuando che arriverà a darmi ordini, quel pivellino?”
“Ne sono certa. È pur sempre il leader dei Vendicatori e non lo hai mai visto in azione.”
Brock rise, scuotendo il capo.
“È diverso e tu lo sai bene. La realtà in cui viviamo noi, non ha nulla a che vedere con i Vendicatori.”
“Hai ragione, ma anche Rogers non è chi tu pensi sia. Imparerai a conoscerlo e capirai. Tienilo d’occhio.”
 
Natasha riprese la sua avanzata verso l’uscita del centro di addestramento, lasciando Rumlow abbastanza perplesso. L’uomo lanciò un’occhiata a Rogers, scoprendolo concentrato nell’eseguire i movimenti come fosse una danza continua, ma ancora troppo meccanica. Nulla a che vedere con la flessuosità della Vedova.
Sbuffò esasperato.
“Dannato, Fury. Proprio io devo fare da baby sitter a quel moccioso maldestro” borbottò tra sé e sé.
Eppure, in fondo, il ragazzino non era così male. Possedeva un animo forte e una volontà ferrea e guardarlo rialzarsi ogni qual volta finiva al tappeto, animava in lui la smania di scoprire fin dove il giovane avrebbe potuto spingersi.
 
Rumlow avrebbe davvero imparato a conoscere Steve Rogers e avrebbe lui stesso contribuito alla distruzione del progetto Insight, trasformando il moccioso maldestro in un guerriero inarrestabile.
 
 
 
                                                        ***
 
 
 
Presente
 
Riemergere dall’oblio dei sensi fu più doloroso dell’affondarci.
Gli doleva ogni singolo muscolo, le tempie pulsavano con violenza e lo stomaco sembrava essersi avviluppato su sé stesso, a causa dell’insopportabile senso di nausea. Alle orecchie giungevano suoni ovattati, mentre la vista era tanto offuscata da impedirgli di vedere anche ad un palmo dal naso. Si impose di non perdere la calma, respirando piano e profondamente. Ci volle un po’, ma riuscì a mettere a fuoco i propri piedi e a riacquistare la sensibilità del corpo.
 
‘Dannazione! Non di nuovo!’ fu il suo primissimo pensiero, nell’esatto momento in cui si accorse di trovarsi nella medesima situazione di appena un anno prima.
Ma questa volta era solo. Era fregato.
 
“Ben fatto, Rogers. Davvero ben fatto” rincarò la voce della coscienza, voce quanto mai simile a quella di Natasha. O forse quella di Anthea?
 
Le pesanti restrizioni di acciaio gli impedivano di muovere braccia, gambe e busto e lo costringevano seduto su una fredda panca, fissata alla parete sinistra del blindato.
Il ticchettio costante della pioggia creava un’eco cupa all’interno del furgone, che procedeva spedito verso una meta a lui ignota.
Una piccola lampadina oscillava dal soffitto della cabina metallica, spargendo una fioca luce che aveva appena la forza di farsi largo nella penombra.
 
“Straordinario.”
 
Steve si riscosse e due mani furono sul suo viso, prima che riuscisse a mettere a fuoco la figura che si era chinata di fronte a lui, affinché i loro volti si trovassero alla medesima altezza. Un fascio di luce accecante gli colpì l’occhio destro, costretto a rimanere aperto da dita estranee.
 
“La pupilla risponde perfettamente agli stimoli esterni. Lui è decisamente migliore del Soldato d’Inverno dal punto di vista metabolico. Il suo fisico ha smaltito il paralizzante in poco più di un’ora.”
 
La figura riacquistò la posizione eretta e il biondo alzò lo sguardo, incontrando un paio di chiarissimi occhi verdi, accesi da una scintilla di eccitazione.
La donna che lo stava osservando con ammirazione non doveva avere più di trent’anni. Indossava un paio di jeans e un attillato pullover rosso, che metteva in mostra le forme sinuose e prorompenti; il viso dalla mascella leggermente squadrata risaltava per l’esotica tonalità ambrata e i capelli nerissimi erano raccolti in uno chignon composto.
Steve la osservò frugare nella copiosa borsa a tracolla e tornare ad accovacciarsi. La donna alzò gli occhi su di lui, solo dopo aver tirato fuori una specie di penna nera dalla punta argentata. Gli sorrise dolcemente, per poi prendere a pungolarlo con quella che Steve scoprì non essere affatto una penna.
La punta di quell’aggeggio doveva emettere elettricità, perché al suo tocco i muscoli si contraevano dolorosamente.
 
“Anche la risposta muscolare è immediata e pressoché perfetta. Il paralizzante ha perso completamente il suo effetto e oh!
La donna passò l’indice sulla tempia sinistra del super soldato, pensierosa.
“Brock” chiamò di punto in bianco.
 
Steve, caduto in un profondo stato di catalessi, contrasse la mascella non appena Rumlow - adesso privo delle protesi meccaniche - entrò nel suo campo visivo.
Il biondo, però, non fece né disse niente e l’ex compagno di squadra parve parecchio soddisfatto di assistere a quella reazione.
 
“Cosa c’è, Kristen?”
“Ricordi se questa è opera tua?”
Rumlow osservò il punto indicato dalla donna, dove una strisciolina bianca percorreva in verticale la tempia sinistra di Rogers.
“Colpa del prototipo” sentenziò alla fine l’uomo e gli occhi di Kristen si illuminarono.
“Eccezionale. Il paralizzante non ha minimamente influenzato la guarigione accelerata. Le cellule hanno creato nuovo tessuto e risanato le ferite, nonostante la sostanza che gli avete iniettato avrebbe dovuto ridurre al minimo ogni singola funzione vitale.”
Brock fece spallucce, per nulla toccato dall’esaltazione della moretta, che emise uno sbuffo spazientito.
“Sai cosa significa questo, Brock?” lo riprese.
“Cosa, Kristen?”
“Significa che lui è notevolmente superiore ai prototipi, tra cui molti sono rimasti uccisi da questo stesso paralizzante. Il Soldato d’Inverno impiegava poco meno di quattro ore per smaltirne gli effetti.”
“I nostri prototipi sono più potenti” le ricordò Rumlow.
“Solo dal punto di vista muscolare. Soffrono tutti di effetti collaterali. Al di fuori dell’ibernazione, non sopravvivono più di ventiquattro ore e sono goffi” ribatté piccata la mora.
“Non è forse per questo che ci serve lui?”
Brock puntò il dito contro Steve, che si stava sforzando di farsi scivolare addosso tutte quelle assurdità, per mantenere la calma e tenere alta la concentrazione, con l’unico obiettivo di riuscire cogliere anche la più labile possibilità di tirarsi fuori da quella brutta situazione.
“Ammettilo, Brock. Erskine ha creato un’Arma che detiene ancora il primato, anche dopo così tanti anni.”
 
“Io non sono un’Arma.”
 
Kristen sbarrò gli occhi e si tirò indietro, intimorita dallo sguardo gelido del giovane super soldato. Quegli occhi chiari, prima vacui e inespressivi, avevano assunto un taglio aggressivo e brillavano di rabbia.
 
Rumlow spinse via la donna e si parò dinanzi il biondo, dedicandogli un’espressione compassionevole.
“Come sei ingenuo, Rogers. Mi fai quasi pena.”
“Sei tu quello costretto a vivere nell’ombra e sei sempre tu quello controllato da un’organizzazione di folli esaltati. Esegui gli ordini come una brava marionetta e non ti rendi conto che per chiunque ci sia al comando, tu sei una misera pedina sacrificabile. Hai lasciato che ti deviassero la mente, Rumlow. Sei tu a fare pena a me.”
A Steve quelle parole costarono caro, perché Brock si piegò sulle ginocchia e gli strinse una mano attorno alla bocca, affondando le dita nelle sue guance.
 
“Non credo che la lingua sia indispensabile, giusto Kristen?”
 
Gli altri sottoposti dell’Hydra presenti sul furgone spostarono l’attenzione sul loro leader, increduli, mentre Kristen non riuscì a far altro che boccheggiare, visibilmente scossa.
“Sì o no, Kristen?” rimarcò con tono pacato l’uomo dal viso sfregiato, mantenendo gli occhi scuri fissi in quelli cerulei del Capitano.
Steve tentò di divincolarsi, ma finì solo per emettere un mugolio sofferente quando Rumlow rafforzò la presa. L’espressione dell’ex agente dello SHIELD era una commistione di morboso sadismo, puro odio e rabbia controllata a stento.
 
“Brock, per favore, fermati” pregò Kristen e tremò nell’accorgersi che Rumlow aveva sfilato dalla tasca posteriore dei pantaloni un coltellino affilato.
L’uomo era troppo perso nella propria follia, per prestarle attenzione.
 
“Il prezzo della libertà è alto. Lo è sempre stato. Ed è un prezzo che io sono disposto a pagare. E se sarò il solo, allora così sia. Ma scommetto che non lo sarò” recitò freddamente Rumlow, assaporando lo sguardo di fuoco del biondo.
“Avremmo già raggiunto l’auspicato Ordine, se tu, non avessi interferito e mandato all’aria tutto. Mancava così poco alla realizzazione del nostro più grande progetto. Avrei dovuto ucciderti, quando ancora mi credevi un amico.”
La punta del coltello disegnò una linea rossa appena sotto l’occhio destro del super soldato, ma Steve non si scompose, nemmeno quando Rumlow strinse ancor più forte la morsa sulle sue guance, con la chiara intenzione di fargli male e di godere nel vederlo impossibilitato a emettere anche solo un fiato.
 
“Un’altra parola, Rogers. Un’altra parola e giuro che ti taglio la lingua.”
Brock mise via il coltello e mollò la presa con riluttanza.
 
Steve, dal canto suo, decise di non sfidare ulteriormente la sorte, perché era certo che Rumlow avrebbe tenuto fede al giuramento. Si limitò quindi ad abbassare la testa, imponendosi di soffocare la rabbia che gli bruciava dentro.
Ingoiò l’orgoglio e, per il resto del viaggio, tenne gli occhi fissi sui suoi piedi.
 
 
 
                                              ***
 
 
 
Natasha venne fuori dal bagno, seguita da una nuvoletta di vapore.
Clint la osservò raggiungere l’armadio a piccoli passi, avvolta in un asciugamano di spugna stretto appena sopra i seni e con i capelli ancora umidi. I riccioli rossi le sfioravano le scapole nude e l’arciere si chiese quando fossero cresciuti tanto.
 
Erano arrivati alla casa sicura meno di un’ora prima. Il piccolo appartamento, posto all’ultimo piano di un vecchio palazzo, contava tre sole stanze: una camera da letto, la cucina e il bagno.
Nell’armadio di fronte al letto, c’erano vestiti che odoravano di chiuso, ma perfettamente utilizzabili. La rossa afferrò una larga felpa verde e una tuta grigia. Raggiunse il letto e vi gettò sopra l’asciugamano, mancando Clint per un soffio.
L’uomo, con addosso una t-shirt bianca e una tuta blu, se ne stava stravaccato sul piumone, particolarmente interessato alla visione di una Natasha squisitamente nuda.
Non si sarebbe mai stancato di contemplarla.
Quando si erano ritrovati a Budapest, riassaggiare quel corpo morbido e candido dopo due anni di lontananza, gli aveva aperto le porte di un paradiso che mai aveva creduto potesse esistere.
Clint non avrebbe mai dimenticato il modo in cui si erano amati quel giorno. Era stato diverso. Speciale.
 
“Ero quasi giunto alla conclusione che nella doccia ci fossi affogata, Nat.”
Barton stava cercando di alleggerire la tensione da quando erano arrivati lì. Aveva anche proposto alla compagna di fare la doccia insieme, ma lei aveva declinato l’invito, concedendogli l’onore di occupare il bagno per primo. L’uomo aveva accettato l’offerta a malincuore, non per la mancata occasione di assaporare la sua donna, ma per la tristezza che continuava ad albergare negli occhi verdi di lei.
 
Natasha Romanoff gridava sconforto da tutti i pori e Clint mai l’aveva vista così afflitta, prima di allora. Natasha era sempre stata cinica e capace di eclissare le emozioni, avvalendosi di una perfetta espressione da bambola di porcellana.
Adesso, nella porcellana c’erano crepe profonde e irreparabili, da cui sgorgavano quei sentimenti che lei era sempre riuscita a controllare.
 
La russa si lasciò cadere di fianco al compagno, sul morbido e scricchiolante materasso, dopo essersi infilata i comodi indumenti.
Con un gesto improvviso, Clint le avvolse la vita con le braccia e la tirò a sé, facendole aderire la schiena al proprio petto. Infilò le mani sotto la larga felpa e, con dolcezza, le carezzò i fianchi e il ventre, ascoltandola rabbrividire sotto quel tocco gentile.
Era così che Barton le ricordava di amarla e di esserci. Con i gesti.
Clint passò di nuovo il palmo sul ventre della donna e si stupì nel sentirlo sensibilmente più … tondo.
Perché non l’aveva notato prima?
Come se avesse intuito i pensieri del suo fidanzato, Natasha scivolò via da quel caldo abbraccio e si mise seduta, appoggiando la nuca alla testiera in legno del letto.
 
“Ho messo su qualche chilo” sentenziò la rossa, evitando di guardare il compagno negli occhi.
 
‘Peccato che sono giorni che il cibo lo pilucchi e non lo mangi’  fu l’immediato pensiero di Clint.
Strani picchi emotivi, pallore, debolezza, conati improvvisi e ora … quello.
Natasha aveva qualcosa che non andava e Clint provava quasi paura, per la piega che stavano prendendo i propri pensieri, adesso.
 
“Che cosa facciamo adesso?” azzardò, riconquistando l’attenzione della rossa.
Natasha si allungò ad afferrare il piccolo oggetto che aveva lasciato sul comodino, posto proprio di fianco al letto. Quell’arnese così minuto era l’unico collegamento che le due spie avevano con il resto della squadra, o meglio, con Tony, unico ancora reperibile - o almeno speravano ancora lo fosse.
La donna mostrò la ricetrasmittente al compagno, che invece si era accorto di aver perduto la sua durante la colluttazione, appena prima di fuggire con il furgone.
 
“Aspettiamo fino a domani. Se Tony non si farà sentire, allora toccherà a noi muoverci.”
 
“Sono d’accordo, Nat. Se permetti, ora vado a cercare qualcosa da mettere sotto i denti. Tutto questo combattere e scappare mi ha messo fame.”
 
 
 
                                                   ***
 
 
 
“E brava la mia Stellina d’America.”
 
Rumlow gli scompigliò i capelli con una mano e Steve si morse la lingua con forza, per frenare gli insulti ammassati sulle corde vocali.
“Chi è adesso la docile marionetta, eh?”
“Non-”
 
Rogers sbarrò gli occhi, maledicendosi.
‘Accidenti, sta’ zitto!’  lo ammonì la voce della coscienza.
Il giovane alzò lentamente il capo, sapendo già cosa aspettarsi. Rumlow lo stava guardando con un ghigno strafottente stampato in faccia, mentre giocherellava con il coltellino, passandolo da una mano all’altra.
Steve contrasse la mascella e sbiancò.
“Sei proprio uno stupido, Rogers.”
 
Kristen, con uno slancio veloce, si frappose tra Rumlow e il super soldato.
“Siamo quasi arrivati. Evita di fare sciocchezze, Brock. Lui lo vuole intero, okay? È stato buono per quasi tre ore, perciò accontentati e smettila di comportarti come un pazzo.”
Kristen lanciò un’occhiata di rimprovero all’uomo, che pareva essersi dimenticato degli ordini ricevuti. La mora era finalmente tornata in sé, dopo lo spavento che Rumlow le aveva fatto prendere, minacciando di spargere sangue, e non aveva nessuna intenzione di lasciare a quel folle la possibilità di mandare tutto all’aria.
Rumlow alzò le mani, in segno di resa.
“Solo perché sei tu, dolcezza” bofonchiò, non nascondendo il fastidio che gli aveva procurato quell’interruzione. Scoccò un’occhiata oltre la spalla della donna, rivolgendo alla sua preda un sorrisetto di accondiscendenza.
“Sei dannatamente fortunato, Rogers.”
Steve abbassò gli occhi, per evitare di fare o dire qualcosa che l’avrebbe condannato al perenne mutismo. Il cuore gli batteva all’impazzata e percepiva il sudore freddo imperlargli la schiena e la fronte. Doveva rimanere calmo e possibilmente zitto.
 
‘Evita di fare idiozie, Steve’ si rimproverò.
 
Il rumore assordante di un tuono lo trascinò fuori dai suoi pensieri. La speranza che Thor fosse tornato lo colpì quasi con violenza, ma si affievolì poco dopo, quando il furgone frenò alquanto bruscamente e Rumlow sentenziò che erano giunti al capolinea.
 
Kristen si avvicinò al biondo, mentre gli agenti dell’Hydra erano impegnati a preparare l’attrezzatura, per trasportare il prigioniero. Estrasse dalla borsa una siringa già riempita da un liquido trasparente e fece scattare fuori l’ago.
“Indebolirà i tuoi sensi, ma l’effetto verrà meno in fretta. Per favore, non fare resistenza o peggiorerai le cose. Mi dispiacerebbe veder rovinato questo bel faccino” gli sussurrò con tono apprensivo.
Steve non si mosse, nemmeno quando la donna gli inserì l’ago nel collo e spinse il liquido nelle vene, fino all’ultima goccia.
“Molto bravo” si complimentò la mora, massaggiando con cautela il punto leso dalla siringa.
Intanto, Rumlow aveva indossato le protesi meccaniche e i suoi sottoposti si erano muniti di taser a prova di super soldato.
 
Rogers tese ogni singolo muscolo, nonostante la vista avesse cominciato ad appannarsi e l’udito a catturare sempre meno i suoni esterni. Uno dei carcerieri prese ad occuparsi delle pesanti restrizioni in acciaio che lo tenevano bloccato e Kristen si fece da parte.
Fu in quel momento che un'illuminazione gli colpì il cervello, scatenando in lui una reazione adrenalinica.
L’agente liberò il prigioniero dall’ammasso di acciaio intorno all’addome e da quello che gli teneva insieme gli avambracci. Successivamente, con l’aiuto di un collega, gli applicò delle strette manette magnetiche attorno ai polsi, che andarono ad unirsi forzatamente dietro la schiena.
Steve respirò piano, ripetendosi di aspettare ancora un po’.
I due sottoposti dell’Hydra si tesero verso i pesanti meccanismi che gli immobilizzavano le caviglie, sbloccandoli contemporaneamente.
 
Eccolo, il momento.
 
Con una forza ed una velocità impressionanti, Rogers investì i due soldati e scardinò il portellone del furgone con una spallata, rischiando di rimetterci qualche osso.
Le orecchie captarono appena le grida caotiche che si accesero alle sue spalle, mentre la pioggia gli infradiciava l’uniforme.
Il cielo, oscurato da nubi grigie, scintillò a causa della discesa inarrestabile di un fulmine e un rumore sordo riempì l’aria.
Il Capitano si vide immediatamente accerchiato. I soldati gli saltarono addosso tutti assieme, con i taser in pungo e la palese intenzione di stordirlo, fino a fargli perdere conoscenza.
Era difficile mantenere un perfetto equilibrio con le mani bloccate dietro la schiena e, qualsiasi cosa gli avesse iniettato la donna, stava cominciando a dare i suoi frutti, perché la testa si era fatta pesante e la vista era adesso punteggiata da macchie scure. Eppure Rogers non si scompose ed impedì al nemico anche solo di sfiorarlo, muovendosi con estrema agilità. Assestò calci precisi e potenti, rendendo inoffensivi gli assalitori, uno dopo l’altro. Percepì spezzarsi rotule, femori e costole sotto le sferzate inarrestabili dei suoi colpi.
Improvvisamente, una stiletta di dolore si propagò lungo la gamba destra e cadde bocconi, confuso.
Il mondo circostante si prendeva gioco di lui, vorticando in modo nauseante, mentre la terra bagnata gli inzuppava il viso e il gelo della pioggia si intrufolava sotto la pelle.
Strinse i denti e si rialzò goffamente, gemendo nel momento in cui le manette gli segarono i polsi, fino a farli sanguinare. La gamba lesa lo tradì, crollando sul ginocchio, e il biondo seppe che la sua iniziativa era disastrosamente fallita.
Mentre era ancora in ginocchio, un calcio lo colpì su un fianco e cadde sulla schiena. La figura sfumata di Rumlow entrò nel suo campo visivo. L’uomo gli stava dicendo qualcosa - molto probabilmente stava urlando -, ma Steve non riuscì a sentire una sola parola, quasi avesse dei tappi nelle orecchie.
Conscio di aver bruciato la possibilità di mettersi in slavo, il giovane Capitano smise di combattere. Brock se lo caricò in spalla senza alcuna gentilezza e cominciò a muoversi.
 
Steve chiuse gli occhi.
 
 
                                                      ***
 
 
La sostanza estranea che gli era stata iniettata stava perdendo i suoi effetti. L’udito era tornato a funzionare decentemente, le macchie nere che avevano oscurato la vista erano scomparse e il mondo aveva smesso di girare come una trottola impazzita.
Era disteso su una specie di lettino operatorio. Percepiva il freddo acciaio contro la schiena nuda ed archi metallici gli avvolgevano il corpo in più punti, rendendogli impossibile qualsiasi movimento. Un arco gli circondava la fronte e così era costretto a fissare il grigio soffitto in cemento armato, da cui pendeva una lampadina che emanava una luce fioca. I polsi gli bruciavano parecchio, a causa dei profondi tagli lasciati dalle manette.
Per una frazione di secondo, il giovane percepì il panico mordergli lo stomaco e la voglia di urlare gli attanagliò le corde vocali. Respirò piano, sforzandosi di controllare il palpitare furioso del cuore, deciso a non darla vinta ai suoi aguzzini.
Potevano spezzarlo nel fisico, ma non avrebbe permesso loro di spezzarlo anche nella mente.
Aveva freddo. Il Gelo era tornato in tutta la sua più distruttiva potenza.
La parte inferiore della divisa era ancora umida, così come l’interno degli stivali. Sperò che non gli avessero rovinato il resto dell’uniforme, o Stark non gliela avrebbe fatta passare liscia.
I capelli erano fradici e alcune gocce, sfuggendo ai ciuffi biondi, gli solcavano placidamente la fronte, le tempie e le guance.
Istintivamente, tentò di forzare le restrizioni, digrignando i denti per lo sforzo.
 
“Non provarci. È vibranio.”
 
Rogers spostò lo sguardo sulla figura torreggiante di Rumlow, la cui espressione distesa e tranquilla lo preoccupava non meno di quella da sadico omicida. Era pericoloso anche senza quelle spaventose protesi meccaniche: Brock era un maestro nell’arte del torturare psicologicamente e fisicamente le sue vittime e Steve lo sapeva, perché lo aveva visto con i suoi occhi.
Il biondo cacciò un gemito soffocato, quando un dolore acuto si propagò lungo l’intera gamba, per la pressione esercitata dall’ex compagno su un preciso punto della coscia, ovvero là dove gli aveva sparato, ponendo fine alla sua tentata fuga.
“È un bel buco. Sei stato bravo, prima. Incauto. Ma bravo” commentò Brock, con fare disinteressato, e Rogers stentò a capire il senso di quelle parole.
“Studia, attendi e spezza” recitò alla fine, ricordando quel che Rumlow gli aveva sempre ripetuto durante l’addestramento al Triskelion, parecchio tempo addietro.
“E dire che non avrei scommesso un soldo bucato su di te, moccioso maldestro.”
 
Steve rimase in silenzio, mentre il dolore del tradimento tornava ad ardergli dentro.
“Mi fidavo di te. Credevo davvero fossimo amici.”
Non capiva perché glielo stesse dicendo, soprattutto ora che lo aveva ridotto alla stregua di una impotente bambola di pezza. Eppure non era riuscito a tenersi dentro quel pensiero doloroso, rimasto intrappolato nel cuore fino ad allora.
Brock Rumlow era stato il suo supervisore, la sua guida durante le prime missioni e poi il suo braccio destro, quando era stato in grado di occupare il ruolo di Capitano della STRIKE. Era stato suo amico. Gli aveva detto di essere fiero di lui, una volta, quando era riuscito a riportare il team a casa, dopo che la missione era pericolosamente degenerata. Si erano coperti le spalle a vicenda e, nonostante il carattere un po’ burbero, Brock non aveva mai discusso un suo ordine.
Poi, in quel dannato ascensore, era cambiata ogni cosa.
 
“Sei sempre stato troppo ingenuo. Lo SHIELD, il Consiglio Mondiale e l’Hydra si sono serviti di te. Ti hanno sfruttato. E tu, dimmi, cosa ci hai guadagnato? Perché non chiedi al Consiglio il motivo per il quale ti trovi qui? Sapranno risponderti sicuramente.”
 
“Smettila.”
 
“A nessuno piace avere tra i piedi un soldato incontrollabile. E i tuoi amati Vendicatori? Che fine hanno fatto, eh? Ti hanno abbandonato anche loro, Rogers.”
 
“Prega che non mi liberi, Rumlow” ringhiò il super soldato, gli occhi ridotti a due fessure e la mascella contratta.
“Mi stai forse minacciando, ragazzino?”
“Oh no, la mia non è una minaccia. È una promessa.”
Brock rise, inclinando la testa all’indietro e portandosi una mano al petto.
“Davvero convincente, Rogers. Solo che non è molto saggio dire certe cose, quando si è nella tua posizione. Devo farmi dare del nastro isolante, così non sarei più costretto a sentirti delirare.”
“Fottiti” fu la gentile risposta del Capitano.
Brock strinse rudemente le dita attorno ai capelli del giovane e si chinò, affinché i loro volti fossero a un palmo di distanza. Steve percepiva il fiato caldo del suo aguzzino sulla faccia e ne ebbe ribrezzo.
“Tu hai rovinato tutto. Non immagini nemmeno cosa ti farei, se solo ne avessi la possibilità. Mi pregheresti in ginocchio di prendere la tua vita.”
“Continua a sognare, Rumlow.”
Steve osservò gli occhi di Brock accendersi come due tizzoni ardenti e si preparò all’inevitabile punizione, tendendo ogni singolo muscolo.
 
 
“Calma, Rumlow. Non vogliamo indisporre il nostro ospite, giusto?”
 
Sir.”
 
Lo stomaco di Steve si accartocciò su sé stesso, mentre il cuore prese a pompare più sangue del dovuto. Sudore freddo gli imperlò la fronte e la schiena nuda.
Quella voce.
Nel suo inconscio si era instillata la cieca certezza di quell’incontro sbagliato e irreale. Se lo era aspettato, Steve, se lo era aspettato dal momento stesso in cui gli era stata rivolta quella maledetta domanda.
Allora, tu cosa avevi di così speciale?”
Il giovane aveva cercato di inabissare ogni sospetto nell’angolo più recondito della sua mente, ignorando la voce sibillina della coscienza. Si era detto che non poteva essere vero, che la paranoia lo stava facendo diventare pazzo.
Aveva mentito a sé stesso, quando invece già sapeva.
 
“Schmidt.”
 
“Oh ma che onore, il grande Capitan America si ricorda ancora di me. Hai ricevuto i miei messaggi?”
 
Rogers percepì consistenti brividi risalire la colonna vertebrale, nel momento in cui si ritrovò faccia a faccia con l’odiata vecchia conoscenza. Inorridì, così come era inorridito la prima volta che lo aveva osservato strapparsi la finta pelle dal volto e rivelare il suo vero essere.
“Mi chiedo quanti morti debbano ancora resuscitare, perché smetta di rimanerci male.”
Cercò di darsi un tono, frenando l’istinto di dibattersi follemente contro le restrizioni. Cominciava ad avere paura, perché potevano fare di lui quel che volevano. Non aveva la possibilità di combattere o difendersi. Era impotente.
“Vuoi uccidermi? Oppure, torturarmi e poi uccidermi?”
Schmidt scoppiò a ridere, con quel suo modo di fare sadico e raggelante, mentre i tratti del viso mostruoso parvero accartocciarsi.
“L’idea è allettante. Hai distrutto tutto quello per cui avevo lavorato, tanti anni fa. E poi vengo a scoprire che, di nuovo, hai ridotto in polvere i progetti della mia Hydra. Ammazzarti con le mie stesse mani allevierebbe la rabbia, ne sono certo, ma non puoi cavartela così facilmente. Voglio toglierti tutto, anche te stesso.”
 
Teschio Rosso poggiò un dito sulla fronte del super soldato, poco sopra l’anello di metallo che gli bloccava la testa, e gli occhi brillarono di follia. Poi, si voltò indietro, spezzando il contatto con il biondo.
 
“C’è un’altra persona che muore dalla voglia di rivederti. Venga, dottore.”
 
Il giovane Capitano fu sorpreso da un capogiro tremendo e quasi assecondò la recondita possibilità di cedere ad un eventuale svenimento, ma non poteva permetterselo, non davanti a quegli individui, che aspettavano solo di vederlo crollare.
 
“Capitano. L’ultima volta che ci siamo visti mi ha sparato e, per colpa sua, sono finito a marcire in una delle prigioni dello SHIELD.”
 
Steve si disse che forse doveva smetterla di smantellare i sogni altrui, perché, davvero, cominciavano a esserci in giro fin troppe persone che desideravano mandarlo alla forca.
“Dottor Lewis, non sono affatto felice di rivederla” sibilò, fulminando con lo sguardo l’ultimo arrivato, un uomo di età avanzata, con una folta chioma bianca e gli occhi piccoli e scuri.
 
“L’Hydra non poteva di certo lasciare che un cervello come quello del dottore andasse sprecato. Grazie alla sua collaborazione, oggi siamo in grado di dare vita ad un nuova generazione di super soldati. I grandi condottieri si distinguevano per la potenza del loro esercito ed io farò altrettanto” spiegò Schmidt e la tronfiezza gli accese lo sguardo tagliente e infossato.
 
“Dopo diverse sperimentazioni, sono riuscito a potenziare l’uomo, Capitano. Manca solo un ingrediente, affinché il processo sia completo.”
Adam Lewis sorrise e la sua espressione era talmente compiaciuta, da far desiderare a Rogers di spaccargli la faccia a suon di pugni.
 
“Ho bisogno del sangue del primo Super Soldato della storia.”
 
 
 
                                                       ***
 
 
 
“Brutto ciccione pelato!” sbottò Tony, non appena il video dell’intervista a Henry Benson terminò.
“Fuorilegge un corno! Babbuini puzzolenti, ecco chi ci ritroviamo a salvaguardia del pianeta! Oh, ma prenderò a calci quel loro culo spelacchiato e sì che lo farò! Sono forse impazziti ai piani alti? Ditemi perché! Perché, dannazione, ci stanno facendo questo?”
“Tesoro, calmati adesso.”
Pepper, nella sua candida camicia da notte, poggiò delicatamente una mano sulla schiena tesa del compagno, mentre Sam stava ancora cercando di trattenersi dall’unirsi a quel coro di insulti assolutamente giustificati.
 
Avevano riportato Gary nel Queens, dove il cameraman si era trasferito dopo essere stato assunto da Stark.
Adesso Wilson era al volante del Van che lo stesso Tony aveva promesso sarebbe tornato sano e salvo al proprietario, non appena le cose si fossero sistemate. Naturalmente, Gary aveva acconsentito senza la minima esitazione a lasciar loro l’amato mezzo e, crogiolarsi nella felicità di aver aiutato Tony Stark, era stata per lui una già sufficiente ricompensa.
 
“Dovremmo trovare un posto dove fermarci e trascorrere la notte” suggerì il pararescue.
Tony, alle prese con due computer, emise uno sterile verso di approvazione, troppo assorbito dal lavoro, per articolare una risposta compiuta.
 
“Fatto!” esultò, dopo dieci minuti buoni.
“JARVIS, sei online. Saluta la combriccola.”
 
“Signorina Potts. Signor Wilson.”
La voce elettronica dell’AI risuonò all’interno del Van e Sam ne rimase alquanto sconcertato.
“Cos’è?” chiese infatti il veterano.
“La mia personale intelligenza artificiale. Adesso, sta surclassando le ridicole barriere che proteggono gli sporchi segreti del Consiglio. Ho scoperto che la task force che ci ha attaccato oggi, risponde agli ordini del generale Ross.”
 
“Ross? Thunderbolt Ross? Giravano parecchie voci ambigue sul suo conto, riguardo-”
“La sperimentazione umana per riprodurre il siero del Super Soldato” concluse l’inventore e Sam annuì, emettendo un verso quasi sofferente, perché l’implicazione dietro quell’affermazione non era affatto rassicurante.
 
“Mettiamo il caso che Rogers abbia ragione e che quindi il Consiglio sia stato plagiato dall’Hydra” riprese Tony, a un certo punto.
“Consideriamo, inoltre, il fatto che anche Ross sia implicato in tutto questo. Sappiamo che per le entità che ho appena nominato, gli Avengers sono una grossa spina nel fianco e ho quasi paura ad ammettere che, quei bastardi, pur di fermarci, abbiamo fatto ricorso ad alleati extraterresti. Ci hanno privato dei due pesi massimi della squadra, quelli contro i quali niente avrebbero potuto, se non supportati da un esterno. Tre armi aliene sono sulla Terra. Due le conosciamo, l’altra è un mistero. E hanno smesso palesemente di braccarci, ritenendo opportuno muoversi con maggiore cautela e senza fretta.”
 
“Sai che le tue sono solo supposizioni, vero?” azzardò Wilson.
 
Stark sospirò e si decise a raggiungere il posto del passeggero, di fianco al veterano, mentre Pepper tornava nel suo caldo cantuccio, tra le coperte, molto più tranquilla ora che il suo fidanzato aveva riacquistato una certa pacatezza. Era pericoloso avere a che fare con un Tony Stark fuori di senno e lei sapeva come evitare che ciò accadesse.
La ramata stette comunque attenta al discorso tra i due uomini, per cercare di capire cosa stesse succedendo. Sperava che altri stessero bene. Erano anche suoi amici, in fondo, e non li avrebbe ringraziati mai abbastanza per il sostegno che regalavano a Tony, attraverso la sola sincera presenza.
 
“Si dà il caso, Sam, che io sia un genio e che conosca fin troppo bene la mentalità di coloro che stanno ai piani alti.”
“Steve non ha esagerato affatto nel descrivermi il tuo ego” si lasciò scappare Falcon, sorridendo serafico.
“Mi hai appena dato un motivo in più per ritrovare quel piccolo stronzetto, Wilson.”
Stark inarcò un sopracciglio e stirò le labbra in un ghigno beffardo, mentre Sam se la rideva e, al tempo stesso, pregava che il miliardario lo ritrovasse per davvero, Steve.
Se c’era di mezzo Rumlow, il super soldato rischiava fin troppo.
 
“Per riprendere il discorso. Perché hanno smesso di braccarci in modo serrato e sistematico, accontentandosi di averci dispersi? La risposta può essere solo una: hanno già preso ciò di cui avevano bisogno per procedere con i loro sporchi sotterfugi.”
 
“Steve” esalò Sam, imprecando interiormente. Aveva fatto una fatica assurda per riportare Rogers ai Vendicatori, convinto che quelli l’avrebbero aiutato a riprendersi dal trauma causato dalla ricomparsa di James Barnes, e invece era andato tutto a rotoli.
 
“Dopo la battaglia di New York, rivoltai come un calzino il database dello SHIELD, perché non mi fidavo affatto ed ero curioso di sapere cos’altro tramassero, oltre la produzione di armi aliene.”
“Il Capitano mi ha parlato delle armi aliene, una volta. Uno dei motivi che lo ha spinto a distruggere lo SHIELD, assieme all’Hydra, era proprio la sua scarsa fiducia nel modo di fare dell’agenzia.”
“Sono contento di sapere che, qualche rara volta, io e Rogers la pensiamo allo stesso modo. Comunque, mi sono imbattuto in diverse richieste da parte del Consiglio e dell’esercito americano di voler appropriarsi di Capitan America, per riprodurre il siero. Le risposte di Fury sono sempre state negative e, comunque, sono convinto che Rogers non avrebbe mai permesso ai piani alti di sfruttarlo come cavia da laboratorio e, mai, avrebbe lasciato che il siero finisse nelle mani sbagliate. In più, Capitan America ha dimostrato di non essere disposto a scendere a compromessi, urtando parecchio i grandi capi. Non so, ma ho il brutto presentimento che potremmo perdere Rogers per sempre, se non riusciamo a ritrovarlo in tempo. E se trovo Cap, molto probabilmente trovo Bruce, che è nella lista dei desideri di Ross da quando è nato.”
 
“Quindi sei convinto che abbiano già preso Steve.”
Sam faticava a rimanere concentrato nella guida. Più ascoltava i ragionamenti di Tony, più lo stomaco si contorceva per l’ansia e il timore. Si chiese come i membri degli Avengers riuscissero a mantenere una facciata di lucida calma, anche in situazioni del genere.
Tre compagni dispersi, due nascosti chissà dove e tutti, sicuramente, in grave pericolo. Sarebbe già impazzito, al posto del miliardario. E pensare che Steve, una volta, gli aveva proposto di unirsi alla squadra. Ora come ora, il veterano non sapeva se sarebbe stato in grado di resistere all’assurdo stile di vita che conducevano - o erano costretti a condurre a causa di interferenze esterne - i Vendicatori.
Non avrebbe comunque abbandonato la baracca, non quando Steve aveva bisogno di aiuto.
 
Tony si passò una mano tra i capelli e abbassò il capo, mostrando per la prima volta i profondi segni della stanchezza e della preoccupazione che gli segnavano il viso.
“Era piuttosto disperato, quando ci ha parlato per l’ultima volta. Poi, il collegamento con lui è stato tranciato di netto, quindi presuppongo che abbia distrutto la ricetrasmittente, per essere sicuro che il nemico non fosse in grado di rintracciare noi. Si è scusato.”
 
“Capisco. È sempre il solito avventato. Mi chiedo se mai imparerà a dare un minimo d'importanza alla sua vita.”
 
Stark ridacchiò alle parole di Sam, che stava mostrando di conoscere Steve più di quanto si aspettasse.
“Lo spezzeranno. Non era pronto per questo” confessò poi, di punto in bianco.
“Qui ti sbagli Stark. Ha la testa dura, il Capitano. Dovresti preoccuparti più per l’esaurimento nervoso che farà venire a quei disgraziati che hanno avuto la malsana idea di rapirlo.”.
 
“Sai, Wilson? Mi stai proprio simpatico. Adesso torno a lavoro. Vediamo di ritrovare anche i due assassini provetti. È ora di muoversi.”
 
Mentre il Van continuava a procedere, senza una meta precisa, il temporale ancora imperversava violento, illuminando il cielo con accecanti scariche di elettricità.
 
Ed il tempo, inesorabilmente, scorreva.
 
 
 
                                          ***
 
 
 
Aveva cercato di nascondersi da lui, perché si reputava indegno del perdono che gli avrebbe donato, senza alcuna esitazione.
Ma adesso, lui era in pericolo.
Gli avrebbero fatto del male. Non aveva fatto nulla per proteggerlo, troppo impegnato a combattere i demoni che si dibattevano nella sua mente danneggiata.
Ora, poco gli importava di rimanere nell’ombra: lo avrebbe strappato dalle mani degli aguzzini, fosse stata l’ultima cosa che avrebbe fatto.
Non poteva permettere che gli facessero quel che lui stesso aveva dovuto subire.
 
Sapeva dove l’avevano portato, grazie all’inconsapevole aiuto ricevuto da Henry Benson, uno dei primi che avrebbe ucciso con le sue stesse mani.
 
Dopo la distruzione dell’Hydra, due erano state le certezze che era riuscito a recuperare: il suo nome era James Buchanan Barnes e conosceva Steve Rogers, o meglio, Steve Rogers era il suo migliore amico.
Non sapeva perché, ma nel mezzo di quella nube densa e scura che riempiva la sua testa, non nutriva alcun dubbio su tali ritrovate sicurezze, ora due pilastri che sorreggevano la sua esistenza.
 
Washington.
Era finalmente arrivato, dopo ore alla guida dell'ennesima auto rubata.
C’era ancora tempo. Ora, aveva bisogno di un piano.
 
 
 
                                                  ***
 
 
 
“Romanoff, sono Stark. Mi ricevi?”
 
“Finalmente ce l’hai fatta. Cominciavo a dubitare delle tue capacità, Stark.”
 
“Divertente. Comunque la linea adesso è super sicurissima e non esagero. Ci muoviamo?”
 
“Che cosa hai in mente?”
 
“Diciamo che ho un buon punto di partenza. Oltre che nell’Empire, avevamo rilevato emissione di raggi gamma a Washington, quindi-”
 
“Okay, Stark, ti aspettiamo qui, allora.”
 
“Siete a Washington?”
 
“Casa sicura. Vuoi l’indirizzo?”
 
“Nah, vi rintraccerò tramite la ricetrasmittente. Non muovetevi da lì. Ho parecchie cosette da raccontarvi.”
 
 
Natasha chiuse la comunicazione e si voltò in direzione di Clint, seduto su una delle sedie attorno al tavolo della cucina.
Era passato esattamente un giorno da quando i due ex agenti dello SHIELD avevano raggiunto Washington.
La pioggia non aveva ancora cessato di bagnare la terra e le nubi scure ombreggiavano la città. La luce pallida del Sole era appena visibile oltre la densa cappa vaporosa.
C’era silenzio, rotto solo dal picchiettare continuo delle minute gocce d’acqua.
 
“Pausa finita” decretò Natasha.
 
“Serviamo a quei bastardi un controscacco con i fiocchi” fu il commento dell’arciere, che sorrise alla compagna, pronto a rigettarsi nella mischia.
 
 
 
 
 
                                                        ***
 
 
 
 
 
Località sconosciuta.
 
“Perché stai facendo questo? Sono tuo amico.”
 
“Non lo hai compreso? Eppure dovrebbe essere chiaro. Vendetta.”
 
 
 
Note
Come promesso, ecco il nuovo capitolo.
Troppo violento e sadico? Sinceramente, non penso sarei riuscita a scrivere diversamente, addolcendo la pillola.
Non puoi che odiare colui che ha osato distruggere ciò a cui hai dedicato la vita. C’è odio e nient’altro.
Il Consiglio è implicato in tutto questo, è evidente ormai. Se qualcuno può sporcarsi le mani al tuo posto, perché non approfittare? I potenti hanno ottenuto ciò che volevano, senza alcuna fatica, lasciando campo libero all’Hydra, che diverrebbe anche un perfetto capro espiatorio, se le cose degenerassero.
E degenereranno. Come sì può pensare di stipulare un patto con il diavolo e guadagnarci solo, senza alcuna ripercussione?
Chissà se Tony, Natasha, Clint e Sam riusciranno a ribaltare la situazione? Non sono così soli come credono di essere, fortunatamente. Potranno contare su aiuti alquanto inaspettati.
Per il prossimo capitolo, credo di pubblicare di nuovo fra due settimane, non di più, promesso.
 
Grazie a tutti voi che leggete e ci siete sempre ♥
 
In particolare, voglio ringraziare la mia Sister Ragdoll_Cat  ♥, per il costante sostegno e per la sua capacità di riempirmi la testa di allettanti idee (accidenti a te! ♥). Hai visto? Avevi ragione: è Teschio Rosso la ritrovata testa dell’Hydra. Spero ti sia piaciuto questo capitolo SteveCentric, nonostante quel che ha dovuto subire quel povero sfigato di Rogers! Perdonami! Ti voglio bene!
 
Un saluto e un abbraccio a DalamarF16, che ha aggiunto la storia nelle preferite (la storia non scappa, quindi tranquilla cara ♥) *.*
 
Bene, per oggi è tutto! Alla prossima!
Un abbraccio grandissimo ♥
 
Ella

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Capitolo 8
*** Il Trionfo dell'Assurdo ***


Il Trionfo dell’Assurdo
 
I corridoi della base sotterranea erano tutti uguali, spogli e punteggiati da macchie di umidità. Le infondevano un fastidioso senso di claustrofobia, tanto che aveva la necessità di uscire fuori a prendere aria più spesso del consentito.
Senza parlare poi delle grosse lampade che percorrevano il soffitto ed emettevano una luce fin troppo bianca. Le facevano venire il mal di testa.
Eppure era disposta a sopportare l’inconfortevole ambiente e anche l’assurda follia dei suoi superiori, pur di partecipare alla fase finale del Piano Omega. L’ingegneria genetica era il suo campo per eccellenza e lei era una delle migliori in circolazione, nonostante la giovane età.
Steve Rogers rappresentava una possibilità irripetibile, per svelare il segreto nascosto dietro un potenziamento cellulare rimasto ineguagliato.
Era eccitata dall’idea di poter studiare il super soldato, anche se i sensi di colpa avevano cominciato a pungolarle lo stomaco dal momento in cui aveva visto il biondo per la prima volta, privo di sensi e tra le braccia meccaniche di Rumlow.
Steve Rogers era giovane e umano. Niente a che vedere con i prototipi privi di sentimento su cui stava lavorando.
Aveva scorto una forza d’animo difficile da piegare in quegli occhi chiarissimi.
 
Ma Schmidt lo avrebbe spezzato.
 
Portava in equilibrio sui palmi delle mani un vassoio, con il cibo per il super soldato. Aveva deciso lei stessa di occuparsi della salute del ragazzo, necessaria alla prosecuzione del loro progetto.
Non si fidava molto di quel sadico di Rumlow o degli altri cretini dal grilletto facile che giravano per la base.
Certo, il bel faccino di Rogers aveva fatto la sua parte, se doveva essere del tutto sincera con sé stessa. La affascinava parecchio.
Si fermò dinanzi la cella di contenimento e ordinò ai due carcerieri presenti di farla entrare.
La spessa porta in acciaio, priva di aperture, iniziò lentamente a scorrere verso sinistra e Kristen vi entrò non appena lo spazio fu sufficiente a lasciarla passare. Poi la porta si richiuse alle sue spalle, accompagnata da un sibilo sommesso.
La cella, tutta squisitamente in acciaio, era abbastanza grande da contenere una branda malandata e un tavolino di plastica, con annessa una sedia traballante.
Steve Rogers era seduto sul freddo pavimento, la schiena appoggiata alla parete, le ginocchia piegate ed usate come appoggio per le braccia. Alzò il capo e i suoi occhi chiari si posarono su di lei, attenti.
Kristen, dal canto suo, si concesse qualche attimo per osservare il super soldato, privato della parte superiore dell’uniforme. Il siero aveva fatto davvero un lavoro sublime con quel corpo.
Anatomicamente squisito, poteva definire il ragazzo.
Il viso pallido e segnato da occhiaie scure, era l’unica nota stonata che le fece storcere il naso.
Quella stessa mattina, gli avevano prelevato parecchio sangue, fin troppo secondo il proprio giudizio. Quel degenerato di Lewis non aveva voluto ascoltarla, quando gli aveva consigliato di fermare la procedura, prima di intaccare le funzioni vitali del ragazzo. Una sola seduta e già avevano rischiato di ucciderlo, sottraendogli quasi due litri di sangue. Fortunatamente, le capacità del siero di Erskine andavano oltre le loro aspettative.
 
Kristen appoggiò il vassoio sul tavolo e si rivolse al super soldato, che la guardava diffidente, chiaramente sulla difensiva.
“Che ne dici di mangiare qualcosa?”
Il biondo rimase in silenzio, non intenzionato a muoversi.
La donna sospirò e percorse quei pochi passi che la separavano da lui. Aveva ancora addosso il camice bianco che usava per lavorare e i capelli scuri erano raccolti in una coda ordinata.
“Sei testardo, ma non stupido. Capirai che con questo atteggiamento farai del male solo a te stesso.”
Si piegò sulle ginocchia, affinché i loro volti fossero alla stessa altezza.
“Non costringere Schmidt a prendere provvedimenti. Ci servi sano.”
 
Gestire Steve Rogers si stava rivelando più difficile del previsto. Era passato un giorno e mezzo dal suo arrivo alla base, e già una decina di uomini ci aveva rimesso qualche osso. Bastava una singola distrazione e il super soldato scattava come una molla, nel tentativo di riconquistare la libertà.
Brock era il solo in grado di evitare che il biondino si prodigasse nel far saltare i denti al primo sfigato che si trovava troppo vicino, al momento sbagliato.
Rogers era davvero incontrollabile. Lo stesso Schmidt si teneva a debita distanza, quando il giovane non era completamente immobilizzato.
Sedativi e droghe non riuscivano a tenerlo buono per molto.
E Rumlow era il solo - di nuovo - a gioire di questo spirito ribelle.
 
“Brock non vede l’ora di metterti le mani addosso, quindi non offrirgli questa opportunità su un piatto d’argento. Cerca di collaborare.”
Il tono della mora era gentile, quasi apprensivo, ma Rogers continuava a tenere la guardia alta, consapevole che quella era una farsa per penetrare le sue difese.
Potevano continuare a sognare, per quanto gli riguardava.
 
“Ripagherò Rumlow. Con gli interessi” sibilò, seccato.
“Non vuoi rassegnarti, eh?”
Kristen fece per allungare una mano verso di lui e Rogers si irrigidì visibilmente.
“Non toccarmi.”
La donna lo ignorò ed infilò le dita tra i suoi capelli biondi, per poi farle scivolare lungo la linea della mascella contratta.
“Altrimenti?” lo sfidò, sorridendo serafica e percependo un brivido di eccitazione percorrerle la schiena.
Il super soldato le afferrò il polso ed allontanò la sua mano da lui, incenerendola con lo sguardo. La donna ammiccò appena con il capo e decise di non giocare troppo con il fuoco, anche se era certa che il ragazzo non le avrebbe torto un solo capello.
“Va bene, hai vinto. Comunque non hai una bella cera. Senti freddo?”
Rogers, che intanto l’aveva lasciata andare, alzò un sopracciglio, perplesso.
“Mi prendi in giro?” indagò.
“Mi sto solo preoccupando per te.”
“Dopo avermi dissanguato. Grazie tante.”
 
Kristen sbuffò, esasperata. Comprese che era inutile tentare di abbindolarlo, facendo gli occhi dolci e offrendo un sostegno apparente.
 
“Sai di star aiutando un pazzo a intraprendere una guerra? L’Hydra non porterà la pace nel mondo, credimi. Spargeranno fiumi di sangue innocente e la libertà diventerà un lontano ricordo. Sei ancora in tempo per contribuire a fermare tutto questo.”
 
Era gelida la voce del Capitano e tagliente. La sua rabbia era palpabile.
La mora sistemò un ciuffo ribelle dietro l’orecchio e, per la prima volta da quando era entrata lì, scostò lo sguardo, evitando di guardare il ragazzo in viso.
 
“Per qualsiasi cambiamento c’è un prezzo da pagare. Io sono disposta a pagarlo. L’Hydra lo è.”
Ridacchiò con fare isterico e tornò ad immergere gli occhi verdi in quelli cerulei di lui.
 
Steve non riusciva davvero a capacitarsi della condizione in cui versavano i sottoposti dell’Hydra: il loro cervello era stato letteralmente strapazzato, se credevano che uccidere centinaia di innocenti fosse un prezzo pagabile.
La vita non ha un prezzo.
Nessuno aveva il diritto di sostituirsi a Dio, giocando con la vita di tutti coloro che non avevano la forza ed i mezzi per difendersi. Steve rimaneva sempre sconvolto dinanzi a tanta meschinità. Gli uomini, invece di collaborare, si ammazzavano tra loro, perseguendo la chimera del potere e del dominio. Se la Terra non era ancora sprofondata in una condizione di guerra perpetua, era perché esistevano ancora persone capaci di credere nei valori umani più genuini, quelli che nascevano e fiorivano nel cuore di ognuno.
L’Hydra era convinta che tranciare le vite altrui fosse normale ed inevitabile, se si voleva raggiungere un obiettivo.
E Steve non avrebbe permesso un tale scempio. Avrebbe dato la sua vita per fermare i folli piani di Schmidt, definitivamente.
 
“Brock mi aveva detto di stare attenta. Sai essere convincente, ma sprechi solo fiato con me. Ora vado via. Mangia qualcosa.”
La donna si rimise in piedi, lasciando a Rogers un ultimo sguardo di avvertimento.
“Davvero, Capitano. Ti conviene immagazzinare energie o ti farai male, molto male. Domani c’è la prova del nove.”
 
Il giovane osservò la mora dirigersi verso la porta, che intanto si stava aprendo lentamente. Si chiese cosa fosse la prova del nove. Nulla di piacevole, sicuramente.
 
“Comunque, il mio nome è Kristen Myers. È stato un piacere parlare con te” affermò d’un tratto la donna, senza voltarsi a guardarlo.
Poi sparì oltre la lastra di metallo che confinava la cella.
 
 
 
                                                  ***
 
 
 
“È un suicidio.”
 
La piccola cucina della casa sicura era decisamente affollata, nonostante stesse ospitando solo cinque persone. Quattro di loro occupavano le sedie attorno al tavolo in legno verde ed erano impegnati a spremere le meningi, alla ricerca di una via d’uscita da una situazione più complicata del previsto.
Tony aveva già riassunto alle due spie le diverse teorie, di cui aveva già discusso con Sam durante il viaggio.
Sia Clint sia Natasha avevano ascoltato in silenzio, cercando di digerire ogni singola parola il più velocemente possibile. Entrambi, aderendo al progetto Avengers, avevano messo in conto la possibilità di ritrovarsi contro coloro che il progetto lo avevano approvato. I detentori del potere non avrebbero mai accettato di convivere con entità in grado di surclassarli senza troppi problemi.
 
Pepper, intanto, per smaltire l’agitazione, era alle prese con una vecchia moka, che di avvitarsi non ne voleva sapere.
La doccia l’aveva rimessa a nuovo e Natasha aveva provveduto a darle alcuni abiti puliti, evitandole di gironzolare per la casa con addosso una misera vestaglia bruciacchiata. La tuta grigia era un po’ corta, colpa della differenza di altezza tra lei e la Romanoff, e anche le maniche della maglia bianca le lasciavano scoperta una porzione dei polsi.
Si sentiva meglio del previsto e il pensiero di star facendo l’abitudine ad una vita il cui domani era tanto inaspettato quanto fatale, la fece ridacchiare interiormente.
Cosa non si faceva per le persone amate? Avrebbe potuto darci un taglio, abbandonare Tony e rifarsi una vita normale, con un fidanzato normale e degli amici altrettanto normali.
Invece eccola lì, costretta a nascondersi e costretta a guardare, di nuovo, il suo uomo rischiare la pelle.
Innamorarsi di Tony Stark era forse stato l’errore più grande della sua vita. Ma anche il più bello.
Dopo un altro paio di tentativi, la diabolica macchinetta del caffè si decise a collaborare e Pepper la mise su uno dei fornelli a gas, sospirando.
Alle sue spalle regnava il silenzio già da diversi minuti e si chiese se mai i suoi compagni di disavventura sarebbero riusciti a giungere ad un accordo. Si appoggiò con la schiena al piano cucina, ritornando ad osservare i tre Vendicatori sopravvissuti all’ambaradan del giorno prima. Fortunatamente, la dimezzata combriccola aveva rimpinguato le sue fila grazie all’aggiunta di un nuovo improvvisato eroe, che aveva avuto la folle idea di infilarsi in un gran casino, forse nemmeno del tutto conscio delle conseguenze di quell’azione avventata.
La parola ‘suicidio’, pronunciata proprio da Wilson, alleggiava ancora nell’aria. Se Pepper era rabbrividita nell’ascoltarla, i Vendicatori sembravano non averla minimamente considerata, quasi fosse stata una sciocchezzuola venuta fuori dalla bocca di un bambino, che ancora faticava a comprendere il mondo degli adulti.
Suicidio? Cosa assolutamente normale per gli Avengers.
 
“Sarà una toccata e fuga” spiegò Stark, tranquillo, mentre giocherellava con un tovagliolo di carta, spiegandolo e ripiegandolo in continuazione.
 
“Certo, Stark. Bussiamo, chiediamo se per puro caso hanno preso i nostri amici e, se no, ce ne andiamo. Scusandoci per il disturbo, ovviamente. Mentre, nel fortunato caso uno dei nostri sia veramente lì, radiamo tutto al suolo e veniamo accusati di alto tradimento. Oh no, aspetta, siamo già accusati di alto tradimento.”
Clint gesticolava e dondolava sulle gambe posteriori della sedia contemporaneamente, esprimendo con tono abbastanza pacato cosa pensava dell’idea fottutamente stupida di Iron AndiamoAllaGaribaldina Man.
“Vorrà dire che saremo accusati di doppio alto tradimento. Pazienza” fu la risposta ovvia del miliardario, ora alle prese con la costruzione di un aeroplanino di carta, come se tenere le mani occupate fosse per lui un palliativo all’ansia che gli stava rodendo il fegato. Cosa aveva in testa, quando riunire la squadra gli era parsa un’idea brillante? Adesso era in un fottuto casino.
Erano in un fottutissimo casino.
Se davvero esisteva un’entità che dominava il destino dei mortali, Tony cominciava ad odiarla e parecchio anche.
Presto o tardi, gli sarebbe venuta una nevrosi isterica. Donnetta in perenne periodo mestruale con attacchi d’ansia e crisi da mancanza d’affetto, ecco come si vedeva da lì a poco. Altro che genio, miliardario, playboy, filantropo. E dato che le cose stavano già andando grandiosamente, ci si metteva anche il senso di colpa a minare la sua precaria stabilità mentale, perché dannazione! Una maledetta volta che aveva deciso di tendere la mano ai suoi amici - e lo aveva fatto con il cuore, solo e soltanto con il suo muscolo pulsante di vita che si era rivelato essere meno duro di quel che aveva sempre creduto -, ogni cosa era andata drammaticamente storta.
E storta era un eufemismo!
Se fosse successo qualcosa a Bruce o a Steve, non se lo sarebbe mai perdonato. Mai.
Ci teneva davvero alla squadra. Dopo il Mandarino, aveva sentito il pressante bisogno di averli ancora una volta accanto e il problema Hydra era stato più una scusa - ma quanto era egoista? -, che la vera e propria motivazione della rimpatriata.
Tutta colpa di Capitan Sentimentalismo. Stare a contatto con San Rogers era stato un attentato all’affascinante stronzaggine e alla smisurata egocentricità che da sempre caratterizzavano la sua personalità.
 
“E sentiamo Tony SonoUnGenio Stark, come pensi di risolvere il problema, alla fine? Lavoretto di chirurgia plastica e cambio di identità?”
La voce di Barton era salita di un’ottava e la ruga di espressione tra gli occhi era divenuta pericolosamente profonda. Stark riemerse dalla riflessione schifosamente sentimentale che non aveva fatto altro che aumentare il malessere.
“Non rinuncerei alla mia faccia per nulla al mondo, Legolas. Preferirei il carcere.”
 
Sam scoppiò a ridere, impossibilitato a trattenersi ancora, mentre Clint passava in rassegna tutte le torture più atroci che conosceva, chiedendosi quale avrebbe fatto rinsavire Stark più velocemente.
La questione era semplice - metaforicamente semplice. Il secondo segnale registrato la notte dell’attacco alla Tower proveniva dal maledetto Pentagono. Poteva essere un’altra trappola, ma era anche l’unica pista in loro possesso, l’unica chance di ritrovare Bruce e Steve.
Clint non era riuscito a trattenersi di fronte alla sfiga che continuava a perseguitarli. “E perché non andare direttamente alla Casa Bianca, già che ci siamo” aveva infatti commentato, impregnando le parole di tagliente sarcasmo.
L’ultima cosa che dovevano fare era infangarsi ulteriormente con azioni avventate. Forse non avevano ancora perso completamente la fiducia delle persone comuni e questo offriva loro la possibilità di riscattarsi. Un attacco al Pentagono avrebbe significato dare ragione al Consiglio mondiale e alle sue accuse da strapazzo.
 
“Vado io.”
 
Scattarono tutti sull’attenti alle parole di Natasha, concentrata a contare le venuzze che increspavano la superficie lignea del tavolo. Solo dopo un po’, la rossa si decise ad alzare gli occhi sui compagni, mostrando loro un’espressione imperscrutabile.
“Mi infiltrerò senza troppe difficoltà. Sono la migliore nel lavoro sotto copertura. In questo modo non rischieremo di essere costretti alla fuga, di nuovo. E sì, Barton, andrò da sola.”
Clint quasi soffocò con le parole che Natasha gli aveva fatto andare di traverso, bloccando sul nascere ogni suo tentativo di ribattere.
La Romanoff era appena rientrata in possesso della sua solita pacata freddezza. Gli occhi verdi brillavano ferini, esprimendo la rabbia provata nei confronti di coloro che avevano osato toccare la sua squadra - la sua famiglia. Il sangue le ribolliva nelle vene, risvegliando in lei quei pericolosi istinti che la Stanza Rossa si era premurata di curare ed affinare.
Natasha aveva improvvisamente voglia di uccidere, uccidere lentamente e dolorosamente. Voleva vedere il sangue di quei bastardi abbandonare i loro corpi. Soprattutto, voleva vederli supplicare pietà e piangere.
 
“Natasha.”
 
La Vedova si alzò di scatto dalla sedia e si aggrappò con forza al bordo del tavolo. Piantò i bellissimi occhi smeraldo in quelli di Clint e parlò con una fermezza disarmante, tale da zittire ogni altro tentativo dell’arciere di opporsi alla sua decisione.
 
“Siamo rimasti solo noi quattro. Non possiamo permetterci di venire dimezzati o peggio. Quindi andrò io e niente discussioni.”
 
Tony, ripresosi dallo sconcerto - le manie di comando di Rogers avevano contagiato anche Natasha -, alzò una mano, pentendosene subito dopo, quando la rossa cacciò fuori l’aria dai polmoni con un po’ troppa prepotenza. Lo stesso Sam, lì vicino, si era teso come una corda di violino, impressionato dalla versione pericolosamente autoritaria della Romanoff.
 
“Cosa ti serve?”
 
Natasha ghignò felina e tornò a sedersi, accavallando le gambe con fare rilassato. La femme fatale perfetta, pensò Wilson, osservandola.
 
“Una personalità importante che ha accesso al Pentagono a cui sgraffignare l’identità per qualche ora, Stark. Possibilmente donna e che non sia attualmente nei paraggi.”
 
“Vuoi usare il velo fotostatico, come quella volta al Triskelion” si intromise Sam, ricordando la velocità con la quale era possibile cambiare faccia, grazie alle sofisticate apparecchiature dello SHIELD.
“E dove ne troviamo uno?” aggiunse poi il pararescue, interdetto.
“Questa è una casa sicura dello SHIELD, Wilson. Se sai dove guardare, trovi qualsiasi cosa. Qualsiasi.”
La Vedova ammiccò soddisfatta, scostando un ciuffo ribelle dal viso.
 
Intanto, Barton era rimasto in silenzio, ancora congelato. Se avessero fatto del male a Natasha, sarebbe andato direttamente alla Casa Bianca e avrebbe raso tutto al suolo. Che lo accusassero di tutti i tradimenti possibili ed immaginabili.
Nat non si toccava.
 
“Mettiamoci al lavoro” decretò Stark, alla fine, ma una pressione decisa sulla spalla gli impedì di alzarsi dalla sedia.
 
“Che ne dite di un caffè prima?”
Pepper appoggiò il vassoio occupato dalle tazze colme di liquido scuro sul tavolo e sorrise, mentre Tony si avventata sul concentrato di caffeina di cui aveva disperato bisogno, affinché il suo cervello continuasse a funzionare correttamente.
Anche il resto del gruppo parve apprezzare quella piccola gentilezza.
Quello di Virginia era un gesto calcolato. Se c’era qualcosa di cui i Vendicatori avevano bisogno, era una parvenza di calma, così da evitare che i nervi saltassero fuori come grilli impazziti e se la dessero a gambe.
 
Sangue freddo.
 
 
 
                                                    ***
 
 
 
Planetoide di Asgard
Città di Oneiro.
 
Pulsazione. Dolore.
 
Dieci mesi.
Erano trascorsi dieci lunghissimi mesi, dall’ultima volta che lo aveva visto.
Il giorno che aveva rimesso piede sulla Terra, dopo due anni passati a viaggiare nell’infinito universo in cerca degli oneiriani, era stato strano.
Ancora non ricordava come ci fosse arrivata su Midgard. Le memorie erano confuse e rese vacue da un velo di nebbia sottile, ma troppo denso per spingere lo sguardo oltre. Forse aver percepito l’energia vitale del suo cuore affievolirsi di colpo, aveva mandato a benedire la razionalità grazie alla quale non era ancora tornata da lui.
Aveva avuto un momento di debolezza. Solo un momento di debolezza.
Quel giorno si era ritrovata nella casa dove aveva consumato la verginità e lui era tornato, bellissimo come sempre. Era rimasta nascosta nell’ombra, tentando di frenare l’istinto di stringerlo, ma non ci era riuscita e gli era saltata addosso, prendendolo alla sprovvista. Quella stessa notte si erano amati e aveva compreso che non c’era altro posto dove desiderasse essere, se non tra le braccia di Steve Rogers.
Per sempre gli aveva promesso.
Invece era andata via, senza spiegargli che era stato un errore tornare, perché gli oneiriani avevano ancora bisogno di lei.
Non aveva avuto la forza di parlargli, certa che non sarebbe riuscita a lasciarlo se avesse indugiato oltre.
Così era sparita e il senso di colpa l’aveva divorata.
 
Che codarda. Debole e stupida codarda.
 
La nuova città di Oneiro continuava a crescere, giorno dopo giorno. Gli oneiriani avevano bisogno di una guida, perciò non poteva abbandonarli, nemmeno se la voglia di riabbracciarlo era talmente forte da farle male.
Gli ingenti e numerosi impegni che la vita da sovrana comportava, erano riusciti a distrarla almeno un po’. Il dolore aveva smesso di bruciarla dall’interno e si era trasformato in malinconica nostalgia, simile ad vuoto rimasto aperto nello stomaco.
Il Consiglio di anziani che la affiancava nella gestione del piccolo regno in crescita insisteva sulla necessità di dare al popolo un re, ma non era pronta per questo.
Non lo sarebbe mai stata.
 
Pulsazione. Dolore.
 
Districò le gambe dal groviglio delle lenzuola e si alzò dal letto, percependo un brivido risalirle la schiena, nel momento in cui i piedi nudi toccarono il freddo pavimento di marmo. Mosse qualche passo per raggiungere la grande finestra della stanza e le bastò un pensiero, affinché le ante in vetro si aprissero.
Una fievole brezza si intrufolò all’interno, facendo ondeggiare il leggero tessuto di seta azzurra che le copriva il corpo. Il suo sguardo venne catturato dalle luminose stelle che si stagliavano nel cielo buio e il cuore pulsò ancora con forza, facendole male.
Si portò una mano al petto e strinse il labbro inferiore tra i denti, mentre una piccola lacrima le scivolava lungo la guancia sinistra, lenta e silenziosa.
Era la prima volta che un dolore così forte la svegliava a notte fonda. Il suo cuore continuava a pulsare in modo strano ed un unico pensiero le riempiva la mente.
 
Steve.
 
La sensazione che lui fosse in grave pericolo le si era appiccicata sulla pelle.
Avrebbe tanto voluto tornare sulla Terra, ma quello era un periodo delicato e gli anziani non le avrebbero permesso di partire.
Una nuova dolorosa pulsazione le spezzò il respiro.
Steve era nei guai.
Il legame tra loro era sopravvissuto, nonostante lui fosse morto durante lo scontro con Daskalos. Anche se quel legame era adesso troppo debole per darle certezze.
Si appoggiò con le mani al davanzale in pietra e abbassò il capo. La morbida treccia che raccoglieva i lunghissimi capelli le scivolò su una spalla.
 
“Dannazione, Steve.”
 
La voce, impregnata di sincera preoccupazione, infranse il silenzio della notte.
Lui non era solo. C’erano i Vendicatori a guardargli le spalle. Steve era in pericolo ogni giorno, in fondo.
E allora perché il dolore la stava uccidendo?
Rivolse ancora lo sguardo al cielo, mentre il cuore palpitava sempre più velocemente, in un crescendo di ansia ed angoscia.
Poteva davvero abbandonare i suoi doveri e tornare sulla Terra?
 
Quell’Idiota” sussurrò tra i denti.
 
Forse non doveva preoccuparsi tanto. Steve era forte ed era in grado di badare a sé stesso. Probabilmente, quella era una crisi passeggera. Il legame era pur sempre influenzato dalle sue emozioni.
Le mancava. Ecco tutto.
Si voltò di scatto, raggiungendo di nuovo il letto e si infilò sotto le coperte, improvvisamente infreddolita.
Non riuscì a prendere sonno. Gli occhi rimasero testardamente sbarrati, costringendola a fissare il vuoto.
E lento, come un letale predatore, il Gelo le si intrufolò sotto la pelle e nelle ossa, facendola tremare.
 
 
 
                                           ***
 
 
 
“Avanti ragazzino, in piedi.”
 
Una morsa fredda si chiuse attorno al suo braccio, ridestandolo dal sonno in cui era inevitabilmente sprofondato, nonostante la volontà di rimanere vigile.
Non sapeva quanto effettivamente avesse dormito, ma il fisico era riuscito ad accumulare energie sufficienti, affinché potesse camminare senza incespicare nei suoi stessi passi. Il martellio che aveva preso d’assedio la sua testa pareva finalmente essersi placato.
Mentre si alzava dalla scricchiolante branda, sotto lo sguardo glaciale di Rumlow, passò in rassegna una serie di opzioni che avrebbero potuto condurlo fuori da lì. Il problema era che non aveva la minima idea di dove fosse collocata l’uscita. A dirla tutta, ignorava anche dove lo avessero portato.
C’erano troppe variabili che catalogavano come pessima idea il tentativo di un’azione avventata in quello stesso momento. Aveva bisogno di informazioni, così da poter elaborare un piano di autoestrazione decente.
Nuova falla nel ragionamento: non poteva sapere quanto tempo avesse a disposizione. Schmidt avrebbe potuto ucciderlo quel giorno stesso.
‘Non vuole ucciderti. Vuole toglierti tutto. Anche te stesso’ gli ricordò la sempre più invadente vocina della coscienza, vocina che gli faceva venire seri dubbi riguardo il suo stato mentale.
C’era sempre la tattica dello sfondamento alla cieca, le cui conseguenza, nella maggior parte dei casi, erano abbastanza disastrose. Praticamente, era una tattica del tipo ‘Io ho un piano:attacco!’.
 
“Conosco quello sguardo. Non fare cazzate, Rogers.”
 
Un angolo della bocca di Steve si incurvò appena all'insù.
Brock, palesemente infastidito, gli lanciò una maglietta nera in faccia, cogliendolo alla sprovvista.
“Hai paura che prenda freddo?” chiese il biondo con calcolata nonchalance, mentre indossava l’indumento, deciso a stare al gioco.
Niente sfondamento alla cieca per quel giorno.
L'immagine di Natasha che annuiva soddisfatta in sua direzione gli si intrufolò in testa, incurvandogli la bocca in un sorrisetto orgoglioso. Lei odiava gli sfondamenti alla cieca.
 
“Sai che mi istighi violenza?”
Brock incrociò le braccia al petto e sfidò il Capitano con lo sguardo, curioso di scoprire fin dove il ragazzino avrebbe osato spingersi.
“La cosa è reciproca” ribatté quello, con un sopracciglio inarcato in modo alquanto provocatorio. Non c’era ombra di paura o incertezza nel suo sguardo limpido.
Rumlow scoprì i denti, esibendosi in un perfetto sorriso da squalo. A suo tempo, aveva apprezzato parecchio la particolare insolenza di Rogers, uno dei pochissimi in grado di sfidare Fury a viso aperto e di contestarlo con una facilità disarmante.
La Super Spia aveva sempre stravisto per il ragazzo, nonostante avesse cercato di non farlo notare, come suo solito. E questo era tutto dire.
 
“Voltati.”
Brock accompagnò l’ordine con un gesto circolare dell’indice, mentre con l’altra mano frugava in una delle tasche dei pantaloni.
“Non hai detto per favore.”
Gli occhi chiari di Steve si piantarono in quelli scuri dell'ex supervisore ed erano decisi, gelidi, brillanti della sete di rivalsa.
Volevano Steve Rogers in ginocchio? Allora avrebbero dovuto spezzargli entrambe le gambe.
Gli uomini armati appena fuori la cella non osavano muoversi, spiazzati ed increduli.
Rogers e Rumlow parevano due feroci predatori, pronti a saltarsi alla gola.

“Voltati” ripeté Brock, lentamente. Poi mise mano al taser infilato nella cintura e lo puntò in direzione del biondo, come ultimo avvertimento.
Steve sorrise, mostrando i denti bianchissimi, prima di roteare su sé stesso e dare le spalle all’altro.
E Rumlow dovette nascondere la sorpresa dietro un’espressione neutra, perché non se la sarebbe mai aspettata una simile mossa. Si liberò del taser, rinfilandolo nella cintura, e ridusse la distanza che lo separava dal ragazzo, conservando un certo stato di allerta. Rogers, però, non si mosse, nemmeno quando gli piazzò una particolare pistola contro la cervicale, poco più sotto del punto in cui arrivavano i capelli.

“Adesso sentirai un pizzico.”
 
Nonostante avrebbe dovuto intuirlo dal tono spudoratamente sarcastico di Rumlow, Steve fu completamente spiazzato dal dolore fulminante che gli colpì il cervello e gli spezzò il respiro, costringendolo ad annaspare in cerca d’aria.
Istintivamente, si portò una mano dietro il collo e le dita incontrarono una piccola placca metallica, artigliatasi alla pelle come una maledetta sanguisuga. Lo pervase un’improvvisa voglia di vomitare, nonostante non mangiasse nulla da un paio di giorni. Come se non bastasse, ebbe l’impressione che nella sua testa qualcuno stesse festeggiando con i fuochi di artificio. Chiuse con violenza gli occhi e cercò di riacquistare una parvenza di controllo sul proprio corpo, ora scosso da tremiti involontari.
Faceva dannatamente male stare al gioco.
“Cosa...?” fu il laconico lamento che tirò fuori a fatica, dopo lunghi minuti.
Rumlow strinse una mano attorno al suo braccio e lo costrinse a voltarsi di nuovo verso di lui, così da poterlo guardare in faccia.

“È una garanzia. Cerca di fuggire e stramazzerai a terra prima di accorgertene.”

Rogers emise un basso verso gutturale, affatto contento di quella svolta inaspettata.
Si chiese se sarebbe stato abbastanza forte da superare anche quest’ennesimo ostacolo.
“Troverò il modo di raggiungervi …” aveva promesso ai suoi compagni e non aveva intenzione di mancare all’appuntamento.
 
“Non sarà questo a fermarmi.”
 
Brock scosse il capo, rassegnato di fronte a tanta testardaggine. Non era cambiato il ragazzino, nemmeno dopo ciò che era accaduto allo SHIELD. Nemmeno dopo il tradimento. Nemmeno dopo aver scoperto di aver passato settant’anni nel ghiaccio per niente.
Aveva perso tutto per niente.
Doveva crescere, smetterla con quel suo stupido ed ingenuo ottimismo e accettare il fatto che per lui non c’era alcuna via di salvezza.
Schmidt aveva in serbo qualcosa di annientante per il super soldato.
Steve Rogers avrebbe cessato di esistere, una volta per tutte.
 
“Andiamo. Ci stanno aspettando.”
Brock spinse il biondo fuori dalla cella e, accompagnati dal manipolo di soldati armati, si immersero nei labirintici corridoi della base.
Camminarono in silenzio per un po’ e Steve si sforzò di memorizzare ogni svolta, porta, macchia di umidità che incontrava durante il percorso. Ma dell’uscita non scorse nemmeno l’ombra.


“Ho un conto in sospeso anche con il tuo amico di merende, lo sai Rogers?”
 
“Ecco che ricominciano” fu il pensiero unanime di quei sfortunati soldati che quella stessa mattina avevano ricevuto il compito di badare a Capitan America. E Crossbones, se bisognava dirla tutta.
 
Steve, intanto, si era irrigidito. Non voleva nemmeno immaginare l’eventualità che Rumlow arrivasse a Sam, Sam che lo aveva seguito per mezzo mondo, supportandolo e sopportandolo con il suo spirito scaccia depressione.
 
“Quindi basta toccare l’argomento amichetti del cuore, per zittirti. Buono a sapersi.”
 
Il super soldato si bloccò, provocando l’arresto dell’intero plotone di esecuzione.
Fu veloce, troppo veloce, perché Crossbones riuscisse a prevederlo.
Il Capitano gli si lanciò letteralmente addosso e lo sbatté a terra con tanta violenza, da provocare un’eco dell’impatto tra le mura di quei corridoi spogli. Lo bloccò lì, contro il freddo pavimento, artigliandolo per le spalle e posizionandogli un ginocchio all’altezza del plesso solare.
 
“Puoi prenderti gioco di me, insultarmi, torturarmi, uccidermi o qualsiasi cosa insana e perversa ti venga in mente. Ma tocca i miei compagni e niente ti salverà da me. Niente.”
 
Per la prima volta, Rumlow provò il brivido della paura nel trovarsi di fronte lo sguardo affilato e freddo del Capitano, uno sguardo che pareva penetrarlo da parte a parte. In un battito di ciglia, Steve tornò in piedi, lasciandolo andare.
Gli uomini di scorta, che avevano impugnato ogni arma a loro disposizione, fecero piccoli passi indietro, per mettere più distanza tra loro e il super soldato.
“Riposo, soldati” ordinò Crossbones, una volta riacquistata la posizione eretta.
Rinfoderate le armi, il plotone di esecuzione tornò a muoversi, nonostante la tensione fosse tutt’altro che scemata.
Brock affiancò Steve, che continuava a guardare fisso dinanzi a sé, pronto ad affrontare qualsiasi cosa i bastardi avessero in serbo per lui.
 
“Non è finita qui, Rogers. Ti farò rimpiangere di aver osato tanto” sibilò il traditore, poco prima che varcassero l’entrata di quella che aveva tutto l’aspetto di una grande cabina di un ascensore.
E quando Steve incontrò lo sguardo di Brock, in un silenzioso incoraggiamento a provarci - non puoi piegarmi, Rumlow, mettiti il cuore in pace per una buona volta -, stavano già scendendo verso il basso.
 
Era tempo della prova del nove.
 
 
 
                                                      ***
 
 
 
E poi si chiedevano perché tante organizzazioni a delinquere riuscissero a prendere per i fondelli esercito, servizi segreti e tutto l’arsenale tecnologico preposto alla sicurezza del pianeta.
Le erano bastati un velo fotostatico e un abito elegante, perché le cinque immense muraglie pentagonali in cemento armato divenissero un’inezia superabile senza sforzo alcuno.
Per la seconda volta, l’identità della britannica Hawley - unica sopravvissuta alla strage degli ex rappresentati del Consiglio di Sicurezza attuata da Pearce - le aveva permesso di far fronte ad una situazione parecchio complicata.
Stark aveva scoperto che la donna faceva ancora ufficialmente parte del Consiglio, ma aveva preso una specie di anno sabatico, se così poteva essere definito - forse stava ancora smaltendo il trauma della caduta del Triskelion.
A fare le sue veci c’era un certo Jones, che fortunatamente si trovava in Inghilterra, impossibilitato a metterle i bastoni fra le ruote.
 
Doveva solo stringere a sé i brandelli di lucidità che ancora le permettevano di non abbandonarsi ad una crisi isterica e doveva fingere. Tutto qua.
La gonna del tailleur grigio le stringeva appena l’addome, ma non lasciò che quel pensiero - perché non poteva essere vero, non era vero - offuscasse la sua concentrazione.
Scortata da due uomini, era diretta verso colui - non aveva la minima idea di chi fosse questo colui, a dire la verità - che avrebbe potuto fornirle risposte soddisfacenti.
Le era bastato affermare “Voglio essere aggiornata” con una certa puntigliosità - naturalmente dopo aver passato vari controlli che non erano riusciti a smascherarla - e molte porte - se non tutte - le erano state aperte, senza troppe domande.
Avere in mano quel potere era esaltante. Osservare tutti quei militari stretti in divise piene di medagliette luccicanti piegare il capo al suo passaggio, l’aveva fatta sorridere compiaciuta - vi ho fregati tutti.
L’unica cosa che la preoccupava era il non avere dietro un qualsiasi mezzo attraverso il quale rimanere in contatto con i compagni, appostati da qualche parte nel grande parcheggio fuori da lì. Non se l’era sentita di rischiare, perché, nonostante tutto, si trovava all’interno del quartier generale del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti d’America. Non era un bene giocare troppo con il fuoco.
Clint, Tony e Sam, comunque, non sarebbero stati il suo piano di estrazione, se le cose fossero degenerate. Le avevano promesso - e aveva dovuto faticare per strappare loro quella promessa - di non intervenire, in nessun caso. Non potevano permettersi di essere catturati tutti e nemmeno di dare l’impressione di aver organizzato un attacco terroristico al Pentagono.
 
“Niente colpi di testa, chiaro?” li aveva avvertiti - minacciati -, prima di dare il via alla missione.
 
“Manca tanto?” chiese, servendosi di un tono impregnato di urgenza.
Il Pentagono era un’intricata composizione di corridoi. Ci voleva un navigatore per non rischiare di perdersi.
“Siamo quasi arrivati, signora” la informò educatamente uno dei due man in black.
Pochi minuti dopo, stavano entrando in una specie di ufficio immacolato, arricchito da costosa mobilia in legno pregiato.
Un uomo alto, stretto in un elegante completo nero, le venne incontro. Nonostante i capelli bianchi, testimoni di una certa età, la sua stretta di mano e lo sguardo deciso erano segni di una forza ancora vigorosa.
 
“Miss Hawley, è un piacere riaverla tra noi.”
 
Era ora di recitare. Recitare in modo impeccabile.
 
“Generale Ross” salutò, ricambiando la stretta di mano.
“Mi dispiace essere giunta qui senza alcun preavviso, ma il nuovo status delle cose mi ha causato parecchi dubbi e perplessità. Odio essere lasciata indietro, soprattutto dopo quanto avvenuto al Triskelion.”
Ross si portò una mano al viso e lisciò i folti baffi.
Natasha non seppe quanto tempo effettivamente trascorse, prima che il generale si decidesse a parlare, ma le sembrò infinito. Era consapevole di trovarsi dinanzi ad un uomo particolarmente acuto, perciò doveva ben ponderare ogni mossa ed ogni parola. Inoltre, non sapeva niente riguardo la natura dei rapporti tra la Hawley e Ross.
“Bene. Allora accomodiamoci.”
Ross spedì i due uomini fuori dall’ufficio, ordinando loro di chiudere la porta una volta usciti. Tornò ad occupare la poltrona in pelle nera dietro la grande scrivania in mogano e, con un cenno della mano, invitò la donna a prendere posto sulla poltrona di fronte.
 
“Da dove vuole che cominci?”
Natasha decise di non esitare ed andò dritta al punto.
“Dagli Avengers. Dichiarati fuori legge, eppure non vedo forze armate impegnate nella ricerca. Perché? Siete riusciti a prenderli già tutti?”
L’espressione di Ross si fece imperscrutabile, tanto che la donna temette di aver fatto un passo falso. Ma la Hawley, secondo le informazioni ricavate da Tony, non era a conoscenza delle recenti manovre del Governo, proprio perché ne era rimasta fuori nell’ultimo anno. Perciò chiedere era lecito.
“Perché è venuta qui? Jones è informato sulle ultime decisioni. Poteva chiedere a lui.”
 
Dannazione! Sangue freddo. Pensa, Natasha, pensa.
 
“Jones è informato sulle decisioni. Io voglio di più. Sapevo che lei era di stanza al Pentagono, generale, e non potevo farmi sfuggire l’occasione di una piacevole chiacchierata. Non mi può biasimare, se non mi accontento delle mezze verità. Tutti i miei colleghi sono morti, perché in possesso solo di mezze verità. Non commetterò ancora l’errore di dare per scontato ciò che non lo è. Non dopo Pearce e il progetto Insight.”
 
In realtà, né Natasha né gli altri Avengers, erano a conoscenza della presenza di Ross al Pentagono. Per la Vedova, era stata una sorpresa trovarselo davanti. Quello era un osso duro.
Doveva essere estremamente e letalmente convincente.
In quel momento, era contenta di essere parecchio brava nell’arte del mentire. In fondo, la verità è questione di circostanze.
 
“Capisco. Non posso darle torto. La caduta del Triskelion e tutte le sue conseguenze ci hanno fatto perdere la fiducia nei nostri stessi collaboratori. Lei è una donna intelligente, miss Hawley, perciò vedrò di rispondere alle sue domande come meglio posso. Ma la avverto, nemmeno a me è dato sapere ogni cosa.”
 
Interiormente, Natasha tirò un sospiro di sollievo. Ora c’era la fase dell’accontentarsi, ovvero quella fase in cui non bisognava insistere, solo ascoltare.
Con un cenno del capo, la donna invitò Ross a dare inizio al discorso.
 
“Posso dirle che la metà degli Avengers è stata resa inoffensiva. I rimanenti hanno i giorni contati. Una volta ottenute le nuove armi, saremmo in grado di riportare l’ordine. Non ci saranno più fagocitazioni o sporchi intrighi. Il mondo smetterà di essere vulnerabile.”
 
Natasha dovette far appello a tutta la propria forza di volontà, per non scattare come una molla, con la sola intenzione di strozzare l’uomo dinanzi a lei.
Inoffensivi aveva detto. Cominciava a farle male lo stomaco.
E perché metà? Gli Avengers erano sei in tutto. Avevano reso inoffensivi solo due della squadra.
Bruce e Steve.
‘Oh no! Non può essere vero.’
Fu in quel momento che la rossa ricordò le parole di Steve. Le dannatissime parole di Steve, quelle che avevano preso fin troppo alla leggera.
 
“ … quando l’Hydra si muove, non lo fa mai senza senso, fidatevi. Per favore, Thor, aspetta.”
 
Thor.
 
Okay, poteva mandare a benedire la fase dell’accontentarsi. A quel punto, doveva sapere di più.
 
“Cosa ne avete fatto degli Avengers catturati?”
 
Ross storse il naso, parve riflettere un attimo, ma alla fine si decise a rispondere.
 
“Del dio asgardiano si è occupato un nostro collaboratore esterno. Non ci darà più problemi, da quel che so. Sono all’oscuro riguardo la collocazione di Steve Rogers, nonostante abbia più volte richiesto di essere informato. È Henry Benson a gestire gli affari con i nostri temporanei alleati, perciò lui è in possesso delle informazioni sul super soldato.”
 
Il viso di Ross assunse un’espressione rancorosa per alcuni istanti e la Romanoff capì che al generale non andava giù il fatto di non avere la possibilità di mettere le mani su Capitan America, dato che da sempre era ossessionato dall’arcano rappresentato dal siero del super soldato.
 
“Bruce Banner è qui, sotto la mia tutela. E non si preoccupi per l’omone verde, perché non potrà aiutare il nostro caro dottore.”
 
“Sta’ calma, Natasha” si impose, cercando di farsi scivolare addosso tutte quelle scottanti informazioni. La rossa sentì improvvisamente bisogno d’aria.
Ross aveva parlato di nuove armi, di un esterno e di temporanei alleati. Aveva affermato che Thor, Steve e Bruce non avrebbero più causato problemi.
E Bruce era lì, proprio lì.
Natasha doveva osare di più, o non sarebbe venuta a capo di nulla.
 
“Rimane molto sul vago, generale. Cosa sono queste nuove armi? Abbiamo nuovi alleati?”
 
Ross sorrise freddamente e si alzò di colpo dalla poltrona, ma la Romanoff non si scompose, pronta a qualsiasi eventualità.
 
“Venga con me, miss Hawley. Le mostro qualcosa di interessante.”
 
La donna accettò l’invito e un campanello d’allarme iniziò a suonare nella sua testa, come un grido di avvertimento.
Lo ignorò, Natasha, ormai decisa ad andare fino in fondo.
Per la sua famiglia.
 
 
 
                                                ***
 
 
 
Una grande stanza vuota dalle sporche pareti in cemento armato era illuminata da un paio di led accecanti, attaccati all’alto soffitto in modo non del tutto sicuro. Steve pensò che era un miracolo che non fossero ancora caduti. Per dirla tutta, era un miracolo che il soffitto ancora reggesse, date le profonde crepe che lo percorrevano per tutta la lunghezza.
Alla sua destra, una scala arrugginita conduceva su di uno spiazzo sopraelevato, protetto da un vetro parecchio spesso.
Era dietro quel vetro che stanziava il pubblico, pronto a godersi lo spettacolo.
Steve detestò il modo in cui quegli uomini, stretti in abiti costosi, presero a squadrarlo. Le loro espressioni compiaciute gli davano la nausea, mentre gli sguardi altezzosi accendevano in lui una cieca rabbia.
Anche Kristen era lì, appostata in un angolo. Il super soldato intercettò il suo sguardo e lei gli sorrise fievolmente.
 
“Adesso ci siamo tutti. Direi di cominciare.”
 
Dal fondo della sala, Teschio Rosso venne avanti, affiancato da Lewis e da quel maledetto di Benson.
L’attenzione di Steve, però, venne catturata dall’uomo moro rimasto alle spalle delle tre persone che stava odiando con ogni fibra del suo corpo.
Il soggetto era poco più alto di lui ed aveva un fisico possente, non sproporzionatamente grosso come quello dell’energumeno che aveva affrontato sull’Empire. Indossava un paio di pantaloni cargo mimetici, anfibi neri e una maglietta attillata verde militare.
Lo sconosciuto dovette accorgersi del suo sguardo insistente, perché smise di fissare il pavimento ed alzò gli occhi su di lui. Quegli occhi erano azzurri, freddi e totalmente inespressivi. I tratti duri del viso, assieme a leggere rughe e alla barba incolta, davano l’impressione di trovarsi dinanzi ad un quarantenne.
 
“Abbiamo raggiunto risultati eccezionali. I nuovi super soldati hanno una potenza ed una velocità senza pari. Non provano stanchezza, dolore o qualsiasi tipo di sentimento possa interferire con la loro prestazione. Conoscono solo l’obbedienza.”
Le parole di Adam Lewis risuonarono nella stanza e Steve storse il naso, disgustato.
Nuovi super soldati? No. Avevano dato vita a macchine. Macchine fatte di carne.
Senza sentimenti, l’uomo non è tale.
A quel punto, fu Teschio Rosso a prendere la parola e tutti gli sguardi furono su di lui.
“La dimostrazione di oggi vi offrirà la possibilità di osservare da vicino le abilità del nuovo super soldato. Il suo cervello è stato riprogrammato in modo tale da renderlo un combattente letale. Imbattibile.”
Schmidt fece una pausa teatrale e posò gli occhi sul giovane Capitano, regalandogli un sorriso meschino.
“Signori, oggi assisteremo all’annientamento dell’Arma Zero, meglio conosciuta come Capitan America. Direi, dunque, di non indugiare oltre.”
 
Lewis fu il primo a raggiungere la scala, così da poter prendere posto tra il pubblico di sciacalli. Anche Benson si decise a muoversi, non prima di aver salutato Rogers con un cenno del capo e quanto era compiaciuto quel bastardo.
 
Schmidt, invece, si rivolse al nuovo super soldato.
“Annientalo, ma non ucciderlo” ordinò.
“Come lei comanda, Sir” rispose quello, con voce atona.
 
Bene. Steve si ritrovava ad affrontare un super super soldato, potenziato con il suo stesso sangue. Non sapeva cosa aspettarsi. Forse avrebbe dovuto dare ascolto a Kristen e mettere qualcosa sotto i denti. Senza contare che aveva ancora la nausea, indotta dalla maledetta sanguisuga attaccata dietro il suo collo.
Mentre guardava Teschio Rosso allontanarsi verso la scala, gli venne voglia di spaccare quella sua rossa testa bacata.
 
“Buona fortuna, Rogers” gli sussurrò Rumlow, che si apprestò poi a raggiungere anche lui la zona sopraelevata.
 
Ma che bella situazione!
I suoi fan più accaniti si erano riuniti e non aspettavano altro che vederlo sconfitto ed annientato. Per loro era solo un’Arma, un’Arma difettosa, finalmente sostituibile con una migliore e nuova di zecca.
 
L’uomo super potenziato mosse qualche passo verso di lui, fronteggiandolo a viso aperto. I muscoli gonfi e tesi erano pronti a scattare, mentre gli occhi gelidi studiavano l’avversario con meticolosa cura.
Rogers sorrise, intenzionato a non piegarsi, nonostante le prospettive di quello scontro non fossero le migliori per lui.
 
“Quando vuoi, ultra soldato.”
 
 
 
                                                       ***
 
 
 
“Eccola, arriva.”
 
Tony, Clint e Sam si schiacciarono contro i finestrini dell’utilitaria grigia.
Osservarono la Hawley - la loro Natasha che era sana e salva - salire su un’elegante auto nera, quella che Stark aveva noleggiato sotto falso nome, con tanto di autista, così da non suscitare sospetti. Un membro del Consiglio di Sicurezza non sarebbe di certo andato in giro con un veicolo sgangherato, no?
 
“Metti in moto, Stark.”
“Calmo, Barton. Non sono abituato a certi trabiccoli.”
 
Dopo essere riuscito a far partire il trabiccolo, Tony si immise nel traffico, seguendo l’auto su cui era salita Natasha.
In un’area di servizio abbastanza lontano dal Pentagono, l’auto nera fece una breve sosta e, dopo aver pagato l’autista, la Romanoff scese, per dirigersi verso la sgangherata utilitaria, ferma poco più in là.
Stava andando tutto secondo i piani. Ora, dovevano solo tornare alla casa sicura.
La rossa prese posto vicino a Sam, sui sedili posteriori. Con una certa urgenza, si liberò del velo fotostatico. Afferrò il paio di occhiali da sole e la parrucca bionda che Clint le passò ed indossò il tutto, senza spiccicare una sola parola.
 
“Allora?” sbottò Stark, mentre cercava di rimettere in moto l’auto.
 
“I vostri travestimenti fanno schifo.”
Natasha stirò le labbra in un fievole sorriso. Tra cappelli, occhiali e parrucche, quegli idioti erano riusciti a nascondere le loro identità, ma erano parecchio ridicoli.
Il commento scherzoso, però, passò inosservato, perché ai tre uomini non era sfuggito il tremito nella voce della rossa e, tanto meno, il suo eccessivo pallore.
 
“Nat, stai bene?”
Fu Clint a chiedere, seduto di fianco a Tony, che era finalmente riuscito a far ripartire quel catorcio che avevano come mezzo di trasporto.
 
“Bruce è al Pentagono. L’ho visto. È in una specie di sonno indotto.”
 
Un pesante silenzio riempì l’auto, ora diretta verso la casa sicura, divenuta ufficialmente la temporanea base della squadra.
E quello era solo il primo dei duri colpi che Natasha aveva il compito di infliggere ai suoi compagni.
 
“E poi …”
 
La rossa tremò, sotto lo sguardo allarmato di Sam. Non c’era più colore sulle sue guance, tanto era pallida.
“Che cosa hai visto, Nat?”
La voce gentile di Clint la aiutò a riemergere dalla confusione che imperversava nella sua testa.
Inorridita dalla spaventosa immagine rimasta nitidamente impressa sulla retina dei suoi occhi di giada, Natasha si sforzò di cacciare fuori le parole che le erano rimaste impigliate in gola.
 
“Daskalos. Ho visto Daskalos.”
 
 
 
 
 
 
 
Note
Ehilà!
Fortunatamente sono riuscita ad aggiornare in tempo, anche se non sono del tutto convinta di questo capitolo (e quando mai sono convinta io?).
Se qualcosa non vi è chiara, io sono qui, come sempre.
Lo avevo detto che la situazione si sarebbe complicata, ma tutto ha una risposta e una spiegazione. Naturalmente ci sono indizi sparsi qua e là, ma anche quelli sono ambigui, se devo dirla tutta.
Riuscirò a sorprendervi? Chissà!
Bene, vi lascio in pace ora, miei coraggiosi lettori ♥
 
Per le dolci recensioni, dedico un sentito grazie a Eclisse Lunare ( piccolo cioccolatino ripieno di dolce caramello ;) ) e a Ragdoll_Cat, che è costretta a vedere Steve soffrire, perché la mia mente è intimamente diabolica (ricorda, mia cara Sister, tutto ciò è anche colpa tua e sai bene il perché).
 
Grazie a tutti voi che mi seguite, naturalmente ♥
Spero che la storia continui a piacervi, nonostante le assurdità che ogni tanto (okay, spesso) vengono fuori.
 
Alla prossima, allora!
Un abbraccio stritolante ♥
Ella

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Capitolo 9
*** Dolore ***


Dolore
 
Bisognava ammettere che Capitan America era figlio di un caso fortunato e irripetibile.
Nessuno sarebbe stato in grado di ricrearlo, perché era un pezzo unico, la cui nascita era dovuta ad un susseguirsi di eventi incidentali, contingenti, straordinari.
Non esistevano stampini capaci di riprodurlo, nonostante in molti ci avessero provato e ancora continuavano a tentare, incrociando le dita ogni qual volta si andava a testare l’ennesima formula, venuta fuori da anni di lavoro.
Quante versioni del siero del super soldato esistevano nell’odierno mondo? In quanti avevano lavorato alla riproduzione della luminosa perla nata dal genio di Abraham Erskine?
La genetica era una scienza certa, ma la manipolazione dei geni era un terno al lotto, era quasi come gettare svariati ingredienti in una pentola e mettere il tutto sul fuoco, ignorando il sapore, il colore e la forma di ciò che ne sarebbe venuto fuori alla fine. Tentativi, errori, intuizioni, avevano portato gli scienziati alla capacità di prevedere parzialmente gli esiti di determinate manipolazioni del codice genetico, ma niente era mai certo.
La modificazione cellulare era un tentativo di beffare le leggi della natura. Un tentativo di controllare la natura.
Erskine aveva dimostrato al mondo che stravolgere le leggi naturali era possibile, trasformando una malato ragazzino rachitico in una macchina da guerra, trasformando l’uomo in superuomo.
Da allora erano passati parecchi anni e nonostante le tecnologie più avanzate e le più accurate conoscenze anatomiche, continuava ad esserci un unico Steve Rogers, sul quale erano costantemente puntati occhi desiderosi di mettere le mani su un tale gioiello della scienza e del fato.
 
Ma se non potevi ricostruire da zero, perché non mettere insieme tutto il materiale buono che già si aveva a disposizione? Perché non costruire su fondamenta già solide?
 
Adam Lewis aveva accorpato in un’unica formula il meglio del meglio derivato dalla manipolazione genetica.
Non aveva riprodotto l’Arma Zero.
L’aveva superata.
Su quella perfetta torta di candida panna che rappresentava la sua formula, Lewis aveva avuto la premura di piazzare due rare e bellissime ciliegie: il siero di Erskine - amplificazione e stabilità  - e l’Extremis - pseudo immortalità. Naturalmente vi era anche un ingrediente segreto, quello più importante e decisivo.
Adesso, il dottore poteva compiacersi nell’osservare alcuni dei più importanti capi militari schiacciare quasi la faccia contro il vetro di protezione, rapiti dalle capacità della sua creazione.
E non avevano ancora visto niente.
Doveva ringraziare Schmidt, se finalmente stava raccogliendo i frutti di anni trascorsi confinato in laboratori. L’Hydra era stata una manna dal cielo, dopo la disastrosa sconfitta dei Demoni della Notte.
Nonostante una permanenza abbastanza lunga nelle prigioni dello SHIELD, la scomparsa del Padrone era stata una liberazione, una liberazione dal terrore di poter venire ucciso in ogni singolo momento. Il periodo passato al servizio di quel mostro, però, era stato scientificamente inestimabile, dato che gli aveva permesso di studiare un essere raro e geneticamente bellissimo. L’essere che, alla fine, Steve Rogers gli aveva sottratto, costringendo i Demoni della Notte e lo stesso Padrone ad uscire allo scoperto.
I Vendicatori avevano vinto, contro ogni aspettativa.
E la sua cavia prediletta aveva distrutto i rimasugli dell’organizzazione fondata dal demone folle, perché quel Rogers l’aveva contagiata con stupidi sentimentalismi e valori di giustizia.
Se da una parte odiava il Capitano, dall’altra riteneva di doverlo ringraziare, perché era merito suo se ora era lì, a gustarsi il successo perseguito per un’intera vita. Guardare quell’ingenuo ragazzino annaspare nella speranza di contrastare il nuovo super soldato era qualcosa di impagabile.
Poteva ritenersi soddisfatto della sua creazione, anche se la punta di diamante delle proprie sperimentazioni era altrove, ancora non del tutto idonea all’utilizzo sul campo. L’aiuto della promettente Kristen Myers gli apriva dinanzi ottime prospettive, se doveva essere sincero. Doveva solo far capire alla donna che non c’era posto per i sentimenti, non in quel lavoro.
Lewis voltò appena il capo, spiando la figura della Myers, ferma in un angolo al fianco di Rumlow. Le increspature sulla fronte della mora testimoniavano un turbamento del tutto fuori luogo, dato che la prova del nove procedeva egregiamente.
 
“Si difende bene, il ragazzo.”
Benson si era fatto più vicino e pareva non intenzionato a staccare gli occhi dal combattimento agguerrito tra i due super soldati.
 
“Signor Benson, mi sembrava giusto offrire al pubblico uno spettacolo che non avrebbe dimenticato facilmente. Stia tranquillo. Steve Rogers è finito.”
Adam sorrise e concentrò la sua attenzione su Capitan America.
‘Non ci sono i Vendicatori a guardarti le spalle, questa volta, piccolo bastardo’.
 
                                                            *
 
Non stava andando poi così male. Riusciva a contrastarlo. Era un combattimento ad armi pari, alla fine dei conti.
 
‘Ma chi vuoi prendere in giro, Rogers?’
 
Eccola, la consueta vocina, che avrebbe fatto meglio a tacere in certe situazioni, perché, davvero, non era un cretino. Sapeva di essere inferiore all’Ultra Soldato, ma autoconvincersi che poteva farcela era un buon stratagemma, per evitare di farsi massacrare.
L’Ultra Soldato era veloce, dannatamente forte, letalmente preciso e maledettamente bravo a fare breccia nelle sue difese.
 
Steve incassò l’ennesimo colpo, di nuovo diretto al costato sinistro, il lato che testardamente - stupidamente - continuava a lasciare scoperto, a causa della sindrome che Natasha aveva denominato DipendenzaDaScudo.
Questo suo handicap non era ovviamente passato inosservato all’avversario, che sembrava studiarlo con meticolosa cura, quasi come stesse elaborando il metodo migliore per fargli male, per annientarlo ma non ucciderlo.
L’Ultra Soldato era un calcolatore, non il concentrato di forza bruta ed istinto che aveva affrontato sull’Empire.
 
Il biondo ruotò rapido il bacino, evitando un diretto nello stomaco, e rispose con un calcio indirizzato al volto dell’avversario, calcio che fu prontamente intercettato e parato con un braccio. Fu così costretto a retrocedere, ma l’Ultra Soldato fu più svelto e lo afferrò per le spalle, per poi piazzargli una ginocchiata in pieno petto.
Strinse i denti, Steve, impedendo all’aria di abbandonare i polmoni, perché ‘Non lasciare mai che un colpo ti mandi in debito d’aria, Rogers’ gli aveva sempre ripetuto la Vedova Nera.
Niente aria equivaleva a zero lucidità e pessimo equilibrio. In altre parole, ‘sei morto, Rogers’. Natasha era solita accompagnare quell’affermazione con uno sguardo glaciale e il movimento del pollice destro che percorreva la giugulare come ulteriore avvertimento.
Nonostante la sensazione di avere lo sterno non del tutto apposto e le mani dell’avversario strette ancora sulle spalle, il Capitano staccò entrambi i piedi da terra, raccolse le ginocchia al petto e poi stese le gambe in orizzontale con forza. L’Ultra Soldato, questa volta, subì il colpo: le suole degli stivali di Rogers si schiantarono contro il suo addome e gli regalarono un volo di alcuni metri, a cui rimediò con una perfetta capriola all’indietro, non appena la schiena toccò il pavimento.
I due super soldati cominciarono a muoversi in circolo, l’uno attendendo la mossa dell’altro, o meglio, Steve ne approfittava per recuperare le forze, mentre l’avversario - per nulla stanco - era già pronto a saltargli alla gola.
 
“Niente pausa, eh?”domandò sarcasticamente Rogers, quando il soldato tornò all’assalto, più veloce e brutale di prima.
 
Si scambiarono una serie di colpi rapidi e precisi, ma presto Steve si vide costretto ad assumere un comportamento di difesa, perché l’uomo dai capelli scuri aveva totalmente stravolto l’iniziale ritmo dello scontro e pareva non volergli lasciare alcuna possibilità di contrattaccare.
 
‘Cambio di tattica’ si disse il biondo, risoluto.
 
Lasciò volontariamente che un calcio lo colpisse sul fianco destro e la potenza del colpo fu tale da farlo cadere e ruzzolare abbastanza lontano dal nemico. Ignorò le fitte di dolore alle costole e, prima che l’Ultra Soldato lo raggiungesse, scattò in piedi e verso di lui, prendendolo in contropiede. Lo afferrò per i fianchi e lo sbatté contro la prima parete disponibile, beandosi del suono sofferente che uscì dalla bocca della macchina assassina che non prova dolore, vero Lewis?
Tenne l’uomo bloccato contro il muro e gli rifilò una scarica di ginocchiate dirette allo stomaco, esultando interiormente nel vedere il viso del nemico, prima freddo ed inespressivo, sfigurato dal dolore. Infine, gli piazzò una testata sul setto nasale e poté sentire distintamente il crack dell’osso che si spezzava. Fiotti di sangue scuro e denso macchiarono la faccia dell’Ultra Soldato, i cui occhi di ghiaccio si erano spalancati all’inverosimile.
 
Steve si tirò indietro e lasciò andare l’avversario. Respirava con una certa fatica e l’adrenalina gli impediva di sentire dolore, nonostante le botte prese. Gli fece pena quell’uomo al quale l’Hydra aveva sottratto l’anima, per trasformarlo in una macchina priva di sentimenti.
Peccato che i sentimenti fossero la vera fonte della forza degli uomini. Autoconservazione, rabbia, disperazione, odio, amore, vendetta, volontà di proteggere, qualsiasi sentimento poteva darti la forza di non mollare e di combattere, anche quando tutto sembrava già perduto.
Steve aveva appena dimostrato agli sciacalli lassù, riparati dietro il vetro, che non si sarebbe piegato di fronte a niente e nessuno. Sì, potevano buttarlo giù, calpestarlo anche, ma mai lo avrebbero visto piegare il capo ed arrendersi.
Il giovane Capitano alzò il capo ed intercettò lo sguardo di Schmidt, la cui espressione rimaneva impassibile.
 
“Signori, adesso inizia il vero spettacolo” annunciò improvvisamente Lewis, rivolgendo a Rogers un ghigno enigmatico.
 
“Ma che diavolo!”
Steve si ritrovò ad osservare, incredulo, gli occhi dell’Ultra Soldato trasformarsi in due tizzoni ardenti, mentre la pelle del suo viso sbrilluccicava in modo alquanto sinistro. L’osso visibilmente deviato del naso tornò al suo posto, integro, mentre tagli e lividi evaporavano nel giro di pochi secondi.
Quell’uomo stava letteralmente diventando incandescente. Sembrava bruciare dall’interno.
Ma qualcos’altro fece nascere in Steve un moto incontrollato di paura.
La pelle del potenziato, di colpo, cominciò ad assumere una colorazione diversa e spaventosamente familiare, un orribile nero violaceo, mentre numerose vene gonfie e pulsanti emergevano dall’epidermide mutata.
Il Capitano si sorprese a indietreggiare, colpito da ricordi fisicamente dolorosi. Artigliò con forza la propria spalla destra, laddove si trovava l’unica e sola cicatrice che il siero di Erskine non era riuscito a far sparire. L’unica e sola prova rimasta della sua pseudo morte.
Quando il potenziato alzò lo sguardo su di lui, il cuore di Steve mancò un battito.
Un paio di occhi rossi come il sangue presero a sondarlo con maniacale attenzione e parevano quasi irriderlo.
 
NoNoNoNoNoNoNo!
 
“Cosa hai fatto, Lewis?”
La voce di Steve era un misto di panico e rabbia e disgusto. Continuava a indietreggiare, sotto lo sguardo vermiglio di un uomo che di umano non aveva più nulla.
 
“Ammirate. Adesso possiamo competere con gli dei.”
Nessuno osò spiccicare parola alcuna, perché nessuno ne ebbe la forza. Ciò che era appena avvenuto andava oltre ogni aspettativa dei presenti.
Solo Schmidt, Rumlow e Kristen non si scomposero nell’ascoltare l’annuncio trionfante di Adam.
 
Intanto, un sempre più sconvolto Steve Rogers aveva ormai smesso di indietreggiare, perché la schiena aveva incontrato una delle pareti della stanza. La sua mente continuava a ripetere No! come una mitraglietta impazzita.
Non ricordava di aver mai provato un tale panico, prima di allora. La sensazione di essere tornato un rachitico ragazzino malato gli si appiccicò addosso, mentre l’eco di parole lontane risuonava violenta nelle sue orecchie.
 
“È tempo che tu muoia, Steve Rogers.”
 
Doveva muoversi, difendersi, combattere. Doveva mantenere la calma, respirare e ‘Dannazione, Rogers! Respira perdio!’.
 
“Ragazzi, dove siete? Ho disperatamente bisogno di voi.”
 
 
 
                                                    ***
 
 
 
“Vuoi dell’acqua? Una coperta? Un cuscino? Oppure vuoi stenderti sul divano?”
“Clint, smettila immediatamente. Sto bene, okay?”
 
Natasha tirò un lungo e stanco sospiro, mentre con una mano riassestava la chioma rossa. Era seduta su una delle sedie poste intorno al tavolo della cucina, circondata da tre crocerossini improvvisati.
Scambiò uno sguardo con Virginia, seduta dalla parte opposta del tavolo e decisamente divertita dalla situazione. La ramata scosse il capo con rassegnazione e le regalò un sorrisetto di sostegno.
“Ho bisogno della vostra più completa attenzione” affermò la Vedova, sospirando per l’ennesima volta.
Quello che aveva visto nella sezione sotterranea del Pentagono, luogo a dir poco impenetrabile, era stato un violento colpo al cuore.
La battaglia del Brooklyn Bridge scottava ancora nella sua memoria. Ripercorrere quegli eventi era come camminare su brace ardente.
Natasha aveva davvero creduto che quel giorno sarebbe morta, insieme a tutti i suoi compagni. La Terra aveva rischiato di scomparire per sempre. Se chiudeva gli occhi, poteva ancora vedere nitidamente il corpo senza vita di Steve.
La figura di Daskalos le aveva fatto visita spesso nel sonno, nei primi mesi dopo la conclusione di quella sanguinosa battaglia.
I pensieri le scivolarono inevitailmente su Anthea. Una egoistica nostalgia le pervase l’animo, quando si ritrovò a sperare che la ragazza tornasse per aiutarli e, soprattutto, per aiutarlo.
Inspirò ed espirò lentamente un’ultima volta, prima di iniziare a parlare. Con o senza l’oneiriana, i Vendicatori avrebbero comunque lottato, anche se le possibilità di uscirne vivi continuavano a ridursi giorno dopo giorno.
 
Natasha riferì ai compagni ciò che Ross le aveva detto, senza trascurare alcun dettaglio. Parlò della presenza di un collaboratore esterno, degli alleati temporanei con i quali il Consiglio della Sicurezza era sceso a patti e della possibilità che anche Thor fosse in serio pericolo.
“Quando ho chiesto di più, Ross mi ha portata in una specie di bunker sotterraneo e il suo discorso ha preso una piega diversa. Mi ha ripetuto di nuovo che non gli era dato sapere tutto, ma la lingua gli si è sciolta parecchio, quando ha cominciato a parlare delle nuove armi che i temporanei alleati stanno costruendo, se così si può dire, dato che si tratta di uomini potenziati.”
 
“Rogers-”
 
“Stark, lasciami finire. Sotto il Pentagono c’è Bruce, c’è il Tesseract e c’è lo scettro di Loki. Per ora, quindi, siamo all’oscuro della collocazione di Steve, Thor e della terza arma aliena, quella che alla fine dei conti ci ha attirato sull’Empire, per poi sparire nel nulla. Ma chi sono i temporanei alleati, di cui Ross non conosce l’identità?”
“Hydra” convenne Barton all’istante.
“Bene. E su questo dovremmo essere d’accordo.”
Tony e Sam annuirono in direzione della Vedova, invitandola a proseguire.
“Il generale ha affermato che il Tesseract e lo scettro erano nelle mani dei collaboratori, cioè dell’Hydra. L’Hydra li ha ceduti al Consiglio, in cambio di immunità, libertà di azione e Capitan America. Il Tesseract, però, è tornato momentaneamente all’Hydra, perché noi lo trovassimo e lo portassimo alla Tower. Ed è stato il nuovo capo dell’Hydra ad insegnare alla task force di Ross il modo per creare piccoli portali, usando il Cubo, modo alquanto semplice, da quello che il generale mi ha spiegato.”
 
“Ecco come quei bastardi sono arrivati ai laboratori senza alcuna difficoltà! Hanno preso Banner alla sprovvista e bloccato Hulk in tempo. Poi hanno riattraversato il varco, portando con loro il nostro dottore e il Tesseract, non prima di aver mandato a fuoco il laboratorio, però. Quei fottuti …”
La venuzza sulla tempia destra di Tony si era gonfiata parecchio, ora che il quadro della situazione si era fatto un tantino più chiaro.
 
“Ottima ricostruzione, Sherlock, ma c’è anche un’altra cosa da sottolineare. Il nuovo capo dell’Hydra sa come usare il Tesseract, quindi è lui ad essere in diretto contatto con l’Esterno, che ha riportato sulla Terra il Cubo e che, molto probabilmente, ha poi atteso il prevedibile ritorno di Thor su Asgard. L’Esterno è Daskalos, no?” azzardò Clint, appoggiato al davanzale delle finestra.
 
Natasha però scosse il capo, guadagnandosi sguardi stralunati da parte di Barton e Stark.
Sam, dal canto suo, aveva perso già da un po’ il filo del discorso. Gli sembrava che stessero discutendo di un’orgia pazzesca, perché davvero! quanta gente era implicata in quell’immenso complotto? E c’erano anche degli extraterrestri - sfortunatamente non innocui come il caro vecchio ET -, che dovevano essere parecchio annoiati, se trovavano divertente complicare la già complicata esistenza dei terrestri.
 
“Ho detto di aver visto Daskalos, è vero. Ma è un guscio vuoto, un corpo artificialmente creato da uno scienziato dell’Hydra. E non chiedetemi come sia stata possibile una cosa del genere, perché non lo so. L’Esterno rimane un’incognita.”
 
“Allora, ricapitoliamo. L’Esterno è in contatto con il capo dell’Hydra, che ha Steve e la terza arma aliena e che a sua volta è in contatto con il Consiglio attraverso Henry Benson, ovvero l’uomo che ci ha screditati in diretta tv e che gestisce le risorse dell’esercito americano, tra i cui comandati troviamo un Ross che sa poco e niente, ma si accontenta del fatto che presto avrà a disposizione un esercito di super soldati, oltre che la possibilità di dissezionare Bruce, che è al Pentagono con Tesseract e scettro di Loki. In più c’è la versione moderna di Victor Frankenstein, intenzionata a dare la vita a un mostro pericolossissimo ed assetato di sangue. Ho dimenticato qualcosa?”
Clint aveva il fiatone e anche il mal di testa, dopo il riassunto veloce di una situazione assurda e ‘facciamo prima a buttarci dalla finestra, ragazzi’.
 
Elementare, Watson. Peccato che adesso siamo punto e a capo. Assalto al Pentagono? Voglio vendicare la mia piccola sfortunata Torre, per favoreee!”
 
Una forchetta si piantò sulla superficie lignea del tavolo, a un centimetro dalla mano di Tony, che borbottò un “Permalosa” in direzione della Vedova, dopo ovviamente essersi ripreso dallo shock.
 
“Se anche riuscissimo ad arrivarci, ci rimarremmo dentro a quel dannato bunker. Ross mi ha orgogliosamente detto che è stato costruito con una lega di acciaio e vibranio, perciò nemmeno Hulk potrebbe tirarci fuori, se ci imprigionassero lì. Sfortunatamente, noi non abbiamo frammenti di energia del Tesseract per indurre quel maledetto Cubo ad aprire un portale, Stark.”
 
Ciò che accadde nei secondi successivi fu memorabile.
Gli occhi di Tony si spalancarono all’inverosimile ed una luce sinistra accese le sue iridi ambrate. Slanciò con talmente tanta forza le braccia verso l’alto per esultare, che cadde all’indietro con tutta la sedia e, da steso sul pavimento, cominciò ad alternare insulti con canti di gioia molto coloriti.
Pepper lasciò cadere la testa sul tavolo, in paziente attesa che il suo fidanzato smettesse di fare il cretino. Avrebbe contato fino a trenta, prima di provvedere lei stessa a farlo smettere, utilizzando le maniere forti.
 
“Io non ci ho capito un fico secco di tutta quella roba su contatti, rapporti e mostri. Ma una cosa è certa. Stark ha il nostro pass per arrivare al bunker” asserì Sam, che intanto aveva raggiunto il miliardario per porgergli una mano e rimetterlo in piedi.
 
“Grazie, Wilson. La nostra New Entry ha detto bene. Volevo scoprire se l’energia del Tesseract fosse compatibile con i reattori delle armature e ne ho presa un po’. Questa è lungimiranza, miei cari.”
Tony si era illuminato come un albero di Natale ed evitata di saltellare, solo perché gli faceva male l’osso sacro per lo schianto sul pavimento.
 
“Questo è culo, Stark, altro che lungimiranza! E che culo!”
 
“Nah, Occhio Lesto. È lungimiranza. Ho infatti l’armatura con il potere dell’invisibilità giù nel Van, così posso arrivare alla Tower in poco tempo, prendere il nostro pass, che ho preventivamente lasciato in officina e non in laboratorio e, per finire, tornare qui. Non visto e indisturbato. Bruce, Tesseract e scettro. Tre piccioni con una fava. Ma quanto sono Genio?
 
Questa volta Natasha non mancò il bersaglio, perché il tacco dodici delle scarpe abbinate all’elegante tailleur colpì in piena fronte il miliardario e lo rispedì a terra.
 
“Meno parole e più fatti, Genio spudoratamente fortunato.
 
 
 
                                                ***
 
 
 
“Tirati su, avanti!”
 
Niente. Il corpo non dava segno di volergli obbedire.
Ad ogni respiro, stilettate di dolore percorrevano il petto, l’addome e la schiena. Si chiese se almeno una costola fosse ancora intera e se il pubblico fosse soddisfatto dello spettacolo, perché non era certo di poter concedere il bis.
Percepiva la famigliare sensazione della calda umidità del sangue sulla nuca. Gocce di liquido vermiglio scivolavano dalla fronte spaccata e gli finivano negli occhi.
Grumi di sangue gli ostruivano la gola, ma tossire non era una buona idea, perché sarebbe andato in mille pezzi, molto probabilmente. La pelle bruciava fastidiosamente, a causa dei tentativi del mostro di scioglierlo come gelato al sole, perciò il pavimento freddo - che doveva essere stato cosparso di colla, perché non riusciva a staccarsi da lì per rimettersi in piedi - gli dava un po’ conforto.
 
Ma ehi! Anche se adesso era tutto rotto, c’era il siero che scorreva nelle sue vene. Sarebbe guarito velocemente, no? Quindi non c’era da preoccuparsi.
 
‘Sei davvero patetico, Rogers’ berciò la vocina, indignata, riportandolo alla fredda realtà.
Sì, perché la realtà era che Steve avrebbe desiderato morire in quell’esatto momento. Il dolore era troppo da sopportare. Non era solo il corpo a gridare sofferente, ma anche la sua instabile mente.
Era un incubo. Un maledetto incubo maledettamente reale.
Tra poco si sarebbe svegliato e puf!
E puf! un bel niente.
 
Una morsa si chiuse attorno alla sua caviglia destra, interrompendo il flusso irregolare e ‘vatti a far curare, Rogers’ dei pensieri.
Il potenziato prese a strascinarlo sul duro pavimento senza alcuna gentilezza, strappandogli versi di protesta, molto simili a lamenti agonizzanti.
L’adrenalina stava scemando in fretta, tanto che il biondo cominciò a percepire distintamente ogni ferita, a causa dell’efficientissima trasmissione di impulsi dolorosi, meglio definita come la più disastrosa falla del siero di Erskine, grazie alla quale Steve sentiva il dolore esponenzialmente di più dei comuni mortali. Okay, era più difficile infliggergli ferite gravi, perché la resistenza e la forza da super soldato erano una protezione efficace e difficilmente scalfibile, ma quando veniva ferito in modo serio malediva il giorno in cui si era arruolato - se avesse avuto la possibilità di tornare indietro, l’avrebbe comunque rifatto.
Quello era uno di quei momenti in cui odiava il siero con tutto sé stesso.
La percezione sensoriale era talmente elevata e raffinata, che poteva sentire sfrigolare l’epidermide ustionata, i muscoli gemere per l’impossibilità di tendersi ancora e le ossa ... beh era meglio non parlare delle ossa.
Sentiva il sangue riversarsi nell’addome e pregò le cellule di sbrigarsi a riparare quel danno, prima che l’emorragia interna lo uccidesse.
Il mostro smise di usarlo come straccio per pulire il pavimento e, con sempre poca grazia - Andiamo! Hai già infierito abbastanza, no? - lo abbandonò al centro della sala.
Rogers fu costretto ad ascoltare l’applauso degli sciacalli lassù e tutte le stucchevoli congratulazioni - leccaculo! - che rivolsero al dottor Lewis e a Schmidt, colui che aveva reso possibile il miracolo scientifico che avrebbe rivoluzionato il mondo.
 
“Fanculo a tutti!” fu l’urlo interiore che non riuscì a tirare fuori, perché già respirare faceva abbastanza male e quindi non gli sembrava il caso di mettersi a gridare ingiurie a squarcia gola, nonostante avesse tanto voluto prendere a male parole quei bastardi.
Da quando era diventato così volgare? Al diavolo!
 
Forte solo di una testardaggine senza pari, Steve costrinse tutte le parti ancora funzionanti del proprio corpo a sostenerlo nell’impresa di sollevarsi da terra.
Di colpo tornò il silenzio nella stanza e il giovane si rese conto di avere tutti gli occhi puntati addosso. Era riuscito a tirarsi su, alla fine, anche se non del tutto.
Un ginocchio era ancora a terra, mentre l’altra gamba lo sorreggeva appena. Il pugno destro era puntellato sul pavimento, mentre la mano sinistra era poggiata sull’addome dolorante e livido, nascosto parzialmente dalla maglia sbrindellata.
 
Non era completamente da buttare, in fin dei conti.
 
 
 
 
 
 
“È un folle. Perché non rimane giù?”
Kristen strinse fra i denti l’unghia laccata del pollice destro, mentre osservava Rogers tirarsi su a fatica.
Il mostro che lei stessa aveva contribuito a creare era di nuovo pronto a scagliarsi sulla preda. Doveva fermare quello scempio. Fece per muoversi, intenzionata a raggiungere Schmidt, l’unico in grado di fermare il potenziato.
Rumlow, però, la afferrò tempestivamente per un braccio e le rivolse uno sguardo parecchio eloquente, come se le avesse letto nel pensiero. La donna tentò di divincolarsi, ma le parole di Teschio Rosso bloccarono ogni sua iniziativa e le fecero tirare un sospiro di sollievo.
 
“La dimostrazione è terminata. Riposo, soldato.”
 
Il potenziato smise di concentrarsi sul Capitano e parve come spegnersi. Rimase rigidamente ritto sul posto, con le mani allacciate dietro la schiena e lo sguardo rosso sangue puntato dinanzi a sé.
Schmidt fece segno a Rumlow di occuparsi di Rogers e invitò le eminenti personalità a seguirlo in un luogo più confortevole, dove avrebbero potuto discutere di affari.
Anche Lewis seguì il corteo di sciacalli, non nascondendo affatto la soddisfazione per l’esito positivo del test.
Una volta che le illustri signorie furono scomparse nell’ascensore posto sulla zona sopraelevata, Rumlow ordinò ai suoi sottoposti di riportare il potenziato nei laboratori, mentre lui raggiungeva il Capitano.
Kristen lo affiancò prontamente.
 
“Da quando ti preoccupi per lui?”
La domanda di Rumlow la freddò, tanto da farla boccheggiare per qualche secondo.
“Non è così.”
Brock ridacchiò e si fermò a metà della scala in ferro. Si voltò per guardare la donna in viso e lei sostenne il suo sguardo.
“Sai cosa ti avrebbe fatto Schmidt se-”
“Evitiamo di parlarne, okay? Ho sbagliato, lo so, e ti ringrazio per avermi fermata” gli confessò, anche se la sua voce non suonava del tutto convinta.
Rumlow, comunque, lasciò cadere il discorso e riprese a muoversi, portandosi così dinanzi al Capitano, ancora mezzo inginocchiato, ma abbastanza lucido da irrigidirsi alla vista dell’ex compagno.
 
“Ti vedo piuttosto sofferente, Rogers.”
 
Steve roteò gli occhi, con fare palesemente seccato, del tipo ‘non mettertici anche tu’.
In risposta, Rumlow lo afferrò per un bracciò e lo strattonò verso l’alto, costringendolo in piedi.
Il biondo si morse l’interno della guancia, per trattenere le grida di dolore. La gamba sinistra non riusciva a sostenerlo e pareva che nell’addome qualcuno avesse appiccato un incendio. Ebbe un momento di buio totale e, se non ci fosse stato Brock a sorreggerlo, sarebbe crollato al suolo, regalando al suo corpo sfinito l’ennesima botta.
Crossbones emise un verso scocciato e iniziò a camminare, tirandosi dietro il ragazzo, ma dovette fermarsi dopo un paio di passi, perché si accorse di star trascinando un peso morto.
“Datti una mossa, Rogers.”
“Ma per favore, Rumlow!”
Steve si ritrovò piegato in due, scosso da colpi di tosse, tutto perché si era sforzato a gridare contro quel traditore, che intanto se la rideva.
 
“Che c’è che non va, eh Stellina?”
 
“Smettila, Brock. Sei irritante.”
Kristen si portò al fianco di Rogers e gli passò un braccio intorno alla vita, così da offrirgli un minimo di sostegno. Con la mano libera alzò i resti della maglia nera e imprecò tra i denti.
“Hai un’emorragia interna. Respira piano e non parlare.”
La donna diede un’ultima occhiata all’addome livido del super soldato, prima di rivolgersi a Rumlow.
“Adesso, tu smetti di fare il cretino e mi aiuti a farlo arrivare fino all’infermeria ancora vivo. O vuoi che Schmidt ci uccida entrambi, per aver perso la fonte principale del nuovo serio?”
La mora, per un istante, credette che Rumlow l’avrebbe picchiata per quell’affronto, ma l’uomo scosse semplicemente il capo, ghignando.
“Come vuoi tu, dolcezza” convenne e, con un gesto del tutto imprevisto, fece scivolare una mano dietro la schiena del Capitano e l’altra dietro le sue gambe, per poterlo sollevare da terra.
Steve, sconvolto, aveva spalancato gli occhi talmente tanto, che l’azzurro dell’iride si era fatto vitreo.
“Oh, non fare quella faccia. So anche essere gentile, principessa. E non sforzati di esprimere la tua gratitudine. Hai sentito la dottoressa, no? Non devi parlare.”
Naturalmente, Steve non riuscì a lasciar correre e, in un flebile ma ben udibile lamento, riuscì a comunicare il sentimento di cui il suo cuore si era riempito, grazie alle esperienze squisitamente distruttive degli ultimi giorni.
 
“Ti odio.”
 
Brock, dal canto suo, non poteva concedere l’ultima parola al ragazzino.
 
“Ti amo anch’io, principessa.”
 
E Kristen si chiese se Rumlow fosse sempre stato così lunatico, oltre che pazzo. Durante il test era rimasto in silenzio, senza commentare - il che era strano, molto strano -, avvolto in un’aura di oscura rabbia, quasi volesse esserci lui al posto del potenziato. Lo aveva visto fremere come un bambino, ogni qual volta Rogers aveva subito un colpo.
Adesso, lo sguardo livido di rabbia era stato sostituito da quello ‘come amo prenderti per il culo’, che Rumlow sfoggiava quando era particolarmente euforico.
La Myers ancora si stupiva, nonostante lavorasse con lui da mesi.
Pazzo lunatico.
Da quando poi aveva messo le mani sul Capitano, sadismo e follia avevano raggiunto picchi preoccupanti.
C’era un particolare che a questo punto non riusciva più ad ignorare. Il sadico pazzo lunatico aveva un occhio di riguardo per lei, perché era l’unica che poteva permettersi di contraddirlo, senza guardarsi una pallottola in testa. Non era certa della motivazione, ma questo riguardo non le dispiaceva ed era pronta a sfruttarlo, quando si presentava l’occasione buona.
 
“Perché non baci la principessa, Brock? I baci fanno miracoli.”
 
Mentre entravano nello sgangherato ascensore, Rumlow per poco non si soffocò con la sua stessa saliva e Steve emise un laconico verso disgustato.
 
“Se vi vergognate, posso chiudere gli occhi” celiò ancora la donna, trattenendo a stento il sorriso beffardo che tentava di piegarle le labbra.
 
“Va’ al diavolo” fu la risposta sincronizzata dei due ex colleghi, cosa che li pietrificò entrambi sul posto, mentre Kristen sogghignava compiaciuta.
 
Perché, ci si poteva chiedere.
Perché alcune volte sembrava di assistere ad uno sketch stupido e non molto sensato?
La fredda razionalità non era sufficiente, quando sulla carta d’identità, nella casella riguardante la professione, c’era inserita la voce supereroe o assassino provetto o spia o dottore con problemi a gestire la rabbia o aspirante dominatore del mondo o anche sexy genio (Tony Stark lo aveva fatto davvero).
Bisognava essere almeno un po’ folli per sopravvivere, altrimenti sarebbe stato come andare a fare la guerra senza fucile.
Era assurdo, ma la follia preservava la loro sanità mentale, che altrimenti avrebbe fatto le valigie di corsa, per scappare il più lontano possibile.
 
Nel silenzio calato improvvisamente all’interno della cabina in lenta salita, Steve rivide la mutazione del potenziato. Rivide la pelle violacea. Rivide gli occhi rossi come il sangue.
E due canini acuminati affondavano nella sua spalla destra, condannandolo a morte.
Ecco, dover stare in braccio a Rumlow non sembrava più così terrificante, adesso.
 
 
 
 
 
 
Kristen dovette - a malincuore - lasciare i due ex compagni da soli nell’infermeria, perché lei non era un medico e lì serviva un medico, al più presto. Prima di scomparire oltre la porta, però, si premurò di perforare Rumlow con uno sguardo che parlava da sé.
 
L’infermeria era una piccola stanza dalle pareti bianche, che accentuavano la luminosità delle lampade al led ancorate al soffitto. Alla parete dirimpetto l’ingresso stanziava un grande armadio di metallo, dentro il quale c’era l’occorrente necessario per un pronto soccorso. Nel mezzo c’era un lettino ricoperto da un’imbottitura grigia, su cui Rumlow depositò Steve.
 
“Avresti dovuto chiuderti a riccio, dopo i primi dieci colpi andati a segno. Invece hai preferito mantenere un atteggiamento di attacco e questo ti ha esposto troppo. Sei fortunato, se non ti ha spezzato tutte le costole.”
 
Brock gli strappò di dosso gli ultimi resti della maglia nera, rimanendo spiazzato per qualche attimo nello scoprire completamente la chiazza violacea che si estendeva sull’addome del giovane.
 
“Mi stai rimproverando? E comunque non mi sono esposto perché volevo provare l’ebbrezza di essere spezzato come un grissino.”
 
Steve faticava a tirare fuori ogni singola parola, ma non sembrava preoccuparsi delle proprie condizioni. Il dolore lo stava stordendo talmente tanto, da spingerlo verso l’abbraccio dell’incoscienza.
Stranamente, Rumlow non replicò e il silenzio si fece soffocante.
 
“Non prendere anche il nuovo siero.”
Per la prima volta da quando si erano rincontrati, Rogers vide Rumlow perdere la sua compostezza. Ciò spinse il super soldato a racimolare gli ultimi brandelli di forza, in modo da poter portare avanti il discorso.
“Credevi che non me ne fossi accorto? È da quando hai impedito che cadessi dall’Empire, che ho capito che eri stato potenziato. Sei stato troppo veloce e mi hai tirato su, come se non pesassi nulla. Le protesi meccaniche sono solo un’ulteriore arma, non è così?”
“Rogers-”
“Non prendere anche l’altro maledetto siero.”
Il traditore scoppiò a ridere ed era freddo il suono della sua risata.
“Non ho bisogno dei tuoi inutili consigli. E poi non ho intenzione di diventare un mostro viola. Sei più tranquillo adesso?”
“Io-”
“Tu cosa, Rogers? Non ti capisco. Non ti capirò mai. Dopo tutto quello che è successo, ti preoccupi per me? Hai paura che diventi troppo forte? Oppure sei solo un povero pazzo disperato?”
Brock aveva alzato parecchio la voce. Quel ragazzino riusciva a farlo andare in escandescenza con fin troppa facilità.
“Se non ti uccido è solo perché ci servi. Ti è chiaro questo, stupido moccioso?”
 
Il biondo si tirò su a sedere con estrema lentezza. Puntò gli occhi azzurri in quelli scuri dell’altro, sfidandolo ancora una volta, incurante delle proteste del suo corpo.
“Sei stato tu a tradirmi, non io. Quello che è successo è colpa tua. Hai scelto la parte sbagliata.”
E questo fu un colpo duro per Crossbones, tanto che Steve si ritrovò ad annaspare, con una mano dell’uomo stretta intorno alla gola.
“Sta’ zitto. Mi hai fatto crollare addosso un grattacielo e se non fosse stato per il siero ricavato dal sangue del Soldato d’Inverno, sarei paralizzato in un letto adesso.”
Rumlow non sembrava intenzionato a lasciar respirare il super soldato, privo della forza di dibattersi. Aveva la sua vita stretta fra le dita e avrebbe potuto spezzarla hic et nunc, ma, in fondo, a quello stupido ragazzino restava un giorno, ormai.
L’indomani di Steve Rogers non ci sarebbe rimasta traccia alcuna.
Schmidt aveva piani precisi e nessuno lo avrebbe fermato.
 
“Buona notte, Cap.”
 
                                                         *
 
Fu il suono ritmico prodotto dall’elettrocardiogramma a ricondurlo tra le grinfie della realtà.
Il suono del suo cuore. Un cuore che, nonostante tutto, continuava a sostenerlo in quella vita tramutatasi in un cammino verso la totale autodistruzione.
Era colpa sua.
Un ingenuo che si era lasciato pilotare, fin dal momento del suo risveglio. Un inconsapevole burattino nelle mani dei potenti. Un’arma che avrebbe dovuto rimanere tra i ghiacci dell’Artico.
Lui era tutto questo.
Il suo sangue aveva dato vita ai nuovi super soldati, mostri potenti abbastanza da mettere il mondo in ginocchio.
Dov’era Capitan America adesso?
Legato ad un dannato letto, tenuto in vita da flebo e a corto di idee.
Aveva perso la cognizione del tempo.
Gli altri erano vivi? Lo stavano ancora aspettando?
 
“Sei sveglio.”
 
Steve voltò il capo verso destra ed incontrò gli occhi verdi di Kristen, avvolta nel suo solito camice bianco. Era visibilmente turbata.
 
“Da quanto sono rinchiuso in questa maledetta base?”
 
La donna sorrise, mentre gli sfilava l’ago della flebo dal braccio. Scansò di un poco il candido lenzuolo e gli tastò l’addome contuso, storcendo il naso, quando vide il ragazzo contrarre la mascella e serrare gli occhi.
 
“Tre giorni. Sei a metà del quarto, per la precisione. Ma la tua permanenza qui non durerà ancora molto.”
 
Qui dove?”
 
Il silenzio di Kristen durò diversi minuti.
Steve la osservò liberarlo dalle restrizioni che lo costringevano disteso. Le tremavano appena le mani e fin troppe ciocche sfuggivano all’elastico rosso che raccoglieva la chioma scura.
“C’è una specie di bagno lì” cominciò la Myers, indicando una porta alle spalle del biondo.
“Hai dieci minuti. Troverai asciugamani e anche un cambio di vestiti. Una mossa falsa e mando in tilt il tuo sistema nervoso. Se tenti di rimuovere il meccanismo, sarà anche peggio, ti avverto.”
Portò una mano dietro il collo, in modo da ricordare al Capitano la presenza della sanguisuga meccanica. Non lo guardò mai negli occhi, nemmeno per un istante.
 
Rogers, spiazzato e confuso, decise di seguire le istruzioni ricevute.
Una volta in piedi, avvolse il lenzuolo intorno al corpo, perché lo avevano praticamente lasciato con addosso solo i boxer - cosa diamine avrebbe detto a Stark, ora che dell’uniforme aveva perso tutti i pezzi? -, e si diresse verso il bagno, zoppicando appena.
Prima che si chiudesse la porta alle spalle, la flebile voce di Kristen lo richiamò un’ultima volta.
 
“Sotto le macerie del Triskelion, Steve. Ecco dov’è qui.”
 
 
 
Più passavano i minuti e più la tattica dello sfondamento alla cieca lo allettava.
Si era fatto una doccia veloce, ripulendosi dai residui di sangue, mentre aveva cercato di indovinare quale sarebbe stata la prossima mossa di Teschio Rosso.
Dalle parole di Kristen, avevano intenzione di trasferirlo. Era a Washington, ora.
Dove volevano portarlo?
 
Quando tornò nell’infermeria, con addosso un paio di pantaloni cargo neri e una maglietta del medesimo colore, aveva i capelli ancora umidi. Gli abiti che gli avevano fornito stonavano parecchio con gli stivali marroni della sua uniforme - almeno un pezzo glielo avevano lasciato quindi.
Ad attenderlo non trovò Kristen, ma Adam Lewis.
 
“Fai una mossa fal-”
“Lo so. Quante volte avete intenzione di ripetermelo?”
 
Lewis sorrise e invitò il biondo a seguirlo fuori dalla stanza. Camminarono per i corridoi in silenzio, almeno fin quando Rogers non decise di averne abbastanza.
 
“Avete bisogno di altro sangue? No, perché non credo me ne rimanga molto.”
 
Il dottore si fermò dinanzi ad una porta a vetri, dietro la quale Steve intravide Schmidt, Rumlow, Kristen e Benson. C’erano, inoltre, un paio di uomini in camice bianco, che stavano lavorando ad un computer, posto vicino una strana sedia di metallo.
 
“Divertiti finché puoi, perché tra poco userai la lingua solo per dire ‘Come lei comanda, Sir’ e nient’altro.”
 
Le porte a vetri si spalancarono, lasciandoli passare, e Steve cominciò a sentire una strana agitazione muoversi nello stomaco. C’era qualcosa nella sua memoria che cercava di raggiungere la coscienza e l’urgenza di afferrare quel ricordo fuggevole lo mise sulla difensiva, soprattutto quando Schmidt gli venne incontro fin troppo contento.
Fu Teschio stesso a mettergli delle manette luccicanti intorno ai polsi, mentre Lewis gli rimuoveva la sanguisuga dietro il collo.
Ma cosa?
 
“Siamo pronti per la procedura di cancellazione, Sir.”
 
Nella stanza scese un gelido silenzio.
E Rogers comprese. Gli occhi azzurrissimi scintillarono consapevoli, mentre il corpo si irrigidiva, sotto gli sguardi dei presenti.
Riconobbe il macchinario che aveva visto sulle foto contenute nel fascicolo di Bucky, quello che Natasha aveva recuperato per lui tempo prima, e le parole di Schmidt assunsero spaventosa consistenza.
“Voglio toglierti tutto, anche te stesso.”
Volevano fargli il lavaggio del cervello. Volevano cancellarlo.
 
“Mi sembrava di aver detto di non fare parola della procedura” berciò Teschio Rosso, fulminando con un’occhiataccia lo scienziato che si era lasciato scappare una parola di troppo. Spostò poi l’attenzione sul Capitano, immobile e apparentemente perso.
“Avanti, ragazzo. Sarà una cosa veloce.”
Ma quando lo prese per un braccio, intenzionato a trascinarlo sulla macchina mangia anima, Rogers lasciò che il panico e la rabbia gli offuscassero la ragione.
 
E ci fu il caos più totale.
 
Il super soldato assestò una testata a Schmidt, stordendolo. Gli bastò poi una spallata per liberarsi di Lewis e correre verso la porta.
Fu però placcato da dietro e finì disteso sul pavimento, con Rumlow sulla schiena. Cominciò a dibattersi e a strisciare verso l’uscita, intenzionato a non fermasi.
“Smettila, Rogers!” gli urlò Crossbones, che perse la presa su di lui e venne sbalzato all’indietro da un potente colpo di reni.
Risuonarono le urla stridenti dei vetri della porta che andavano in frantumi, quando Steve si gettò contro di essi con violenza e rotolò nel corridoio.
Una fitta intensa all’addome lo fece rannicchiare in posizione fetale.
Prima che riuscisse a rimettersi in piedi, Rumlow e Schmidt lo artigliarono per le gambe e lo trascinarono di nuovo nella stanza, ignorando le sue grida di rabbia e i tentativi di divincolarsi. Sembrava un povero pesciolino finito disgraziatamente nella rete del pescatore.
 
“Ci hai provato, ma ti è andata male” lo schernì Teschio Rosso, una volta che il super soldato fu bloccato sulla maledetta sedia, con polsi e caviglie intrappolati in morse di vibranio.
 
“Vogliamo cominciare, Sir?” chiese Lewis, con tono avvelenato. Il super soldato aveva osato regalargli un volo terminato contro una parete della stanza. Non vedeva l’ora di trasformarlo in un burattino privo di volontà.
 
“Non potete farlo” ringhiò Rogers, ancora con il fiato corto e la tremarella come effetto collaterale della crescente agitazione.
Doveva tornare dai suoi compagni. Doveva ancora ritrovare Bucky.
Non poteva finire così. Non voleva che finisse così.
 
‘Eppure hai perso. Non puoi fare più niente. Sei finito’ sibilò la voce della sua coscienza, freddandolo.
 
L’ira.
La frustrazione.
L’umiliazione.
Il terrore.
Era troppo da sopportare. Troppo da tenere dentro.
Era giunto ad un punto di rottura e tornare indietro, ormai, era impossibile. C’era solo un baratro oscuro ad accoglierlo, nient’altro. Poteva vederlo, poteva sentirne il richiamo suadente, mentre la sua ferrea volontà si sgretolava come morbida creta.
 
La prima lacrima scivolò fuori dall’occhio destro, sfuggendo al suo controllo. Lenta e silenziosa, gli carezzò lo zigomo e la guancia. Poi, senza che potesse far nulla per evitarlo, altre gocce scintillanti di dolore si unirono alla prima.
Abbassò la testa, odiandosi per la debolezza esternata dinanzi a coloro che non aspettavano altro, se non di vederlo crollare. Trattenne a stento i singhiozzi, contraendo la mascella con rabbia.
Gli avrebbero tolto tutto. Gli avrebbero portato via l’anima.
Sapeva che lo stavano osservando. Era calato un silenzio surreale ed assordante.
Se solo fosse riuscito a liberarsi, molto probabilmente avrebbe attuato una strage. Avrebbe ucciso senza provare vergogna o sensi di colpa.
 
Teschio Rosso si abbassò sulle ginocchia, portando il volto alla sua stessa altezza. Gli prese il mento tra le dita guantate e lo costrinse a sollevare il capo, assaporando la visione di quegli occhi azzurri ora liquidi e vacui.
 
“Fa male, Steve?”
 
Glielo chiese con un tono tale da sembrare dispiaciuto, scandendo con meticolosità il suo nome. Con il pollice della mano intenta a tenergli fermo il viso, Schmidt asciugò una lacrima rimasta in stasi sulla guancia arrossata e sorrise compiaciuto.
Per un secondo, Steve ebbe la malsana idea di supplicare.
Un flebile “Non farmi questo” gli scappò dalle labbra, prima che potesse ricacciarlo dentro.
Le emozioni lo stavano stordendo, tanto che faticava ad ascoltare i suoi stessi pensieri.
 
Schmidt rise piano, scuotendo il capo.
“Ragazzo mio, avresti dovuto pensare alle conseguenze delle tue azioni sconsiderate. Ormai è tardi per tornare indietro” disse con calma, dando l’impressione di avere a che fare con un bambino duro di comprendonio.
“Chissà come reagiranno i tuoi amici, quando ti manderò ad ucciderli” aggiunse poi e quanto velenoso sadismo c’era nei suoi occhi infossati.
Lasciò andare il giovane, riacquistando la posizione eretta, e si rivolse a Rumlow, la cui espressione si era fatta imperscrutabile.
“Mettigli il paradenti. Non voglio che si faccia del male, durante la procedura. Mi serve sano.”
Brock si mosse immediatamente e questo provocò in Steve un’agitazione maggiore.
 
“Affrontami Schmidt! Affrontami da uomo!” gridò forte, nel più puro ed intenso panico. Panico che andava ben oltre la vista di occhi rosso sangue.
Non avevano il diritto di prendersi la sua vita.
Il solo pensiero di poter fare del male ai suoi compagni gli dava la nausea.
Teschio Rosso, che gli dava le spalle, ignorò le parole di sfida.
 
“Affrontami!” ripeté allora il biondo, disperato, mentre Rumlow gli si avvicinava.
 
L’ex compagno, senza alcuna gentilezza, gli infilò il paradenti in bocca e Steve gemette, percependo bruciare l’orgoglio ferito - fatto a pezzi.
“Addio, Rogers” lo salutò freddamente Brock, prima di tornare al suo posto, al fianco di Benson, nel cui sguardo c’era la smania di veder cancellato definitivamente il problema Capitan America.
 
La diabolica macchina mangia anime emise stridii laconici, mentre lo schienale metallico della sedia scendeva lentamente e un paio di bracci meccanici andavano a far chiudere una morsa d’acciaio ai lati del viso del super soldato. La visione dell’occhio sinistro fu oscurata da quella trappola infernale e il collo cominciò a dolergli, a causa della posizione forzata.
Steve lottò ancora contro le restrizioni in vibranio. I polsi scricchiolarono rumorosamente, mentre con i denti mordeva forte quel corpo estraneo nella bocca, per soffocare la voglia di gridare come un dannato.
Schmidt si voltò finalmente a guardarlo, forse attirato dal suono delle ossa sul punto di spezzarsi, e Steve lo sfidò ancora, perforandolo con un’occhiata di fuoco.
 
“Non renderti le cose più difficili. Tra poco sarà tutto finito.”
Appena Teschio Rosso terminò quello che voleva essere un consiglio spassionato, giunse la prima scarica di elettricità, che oscurò per un istante la già dimezzata visione del giovane.
 
“Risposta cerebrale ottimale. Possiamo procedere, Sir” decretò Lewis, assistito da altri due scienziati, oltre che da una mentalmente assente Kristen.
 
“Bene. Mi avvisi quando lo ha spezzato, dottore.”
Schmidt fece cenno a Benson di seguirlo ed anche Rumlow si accodò, dopo aver lanciato un’ultima occhiata in direzione di Rogers, conscio di aver già assistito a una scena simile, quando al comando c’era ancora Pearce.
 
Nella stanza rimasero solo i dottori e due guardie armate, sopraggiunte poco prima.
 
“Continuiamo” ordinò Lewis ai suoi sottoposti, dopo aver controllato sul monitor i parametri vitali del ragazzo.
 
Kristen scivolò silenziosa di fianco la macchina e, non vista, posò delicatamente una mano sul braccio di Rogers, che spostò la pupilla dell’unico occhio disponibile su di lei.
 
E arrivò la seconda scarica, seguita dalla terza e la quarta.
 
Steve si fece forza, imponendosi di rimanere lucido. Si attaccò ai suoi ricordi con tutta la disperazione che aveva in corpo, vertendo i pensieri sulle cose più importanti che aveva al mondo.
 
La sua squadra. I suoi amici. La sua famiglia.
 
‘È colpa mia. Ho commesso un errore madornale e imperdonabile, perché sono stato troppo avventato.
Mi dispiace.
Non sono abbastanza. Non lo sono mai stato.
Sam, evita di fare quel che faccio io, ti faresti solo del male.
Bucky. Perdonami. Non sono stato in grado di salvarti.’
 
I pensieri sbiadivano velocemente, mentre l’elettricità continuava a torturargli il cervello.
Gli parve di sentire lunghe dita fredde arpionare la sua anima e tirare. Tirare forte.
Immagini, suoni, sensazioni, tutto. Tutto si stava tramutando in un mare denso e nero.
 
Anthea. Vide l’immagine di Anthea sfumare.
 
Ancora una scarica. Più prolungata.
Poi, un suono sordo ed indistinto lo raggiunse, nonostante fosse sull’orlo dell’incoscienza.
 
Una mano fredda si strinse attorno al suo braccio con forza, strappandolo al buio.
 
“Sta’ sveglio, Steve.”
 
 
 
 
 
Note
Ciao!
Premetto che ho preso in prestito lo Scudo di Cap, perché così, se avrete voglia di lanciarmi addosso pietre o bombe a mano, almeno non ci rimarrò secca.
Dal prossimo capitolo si svolta, ragazzi miei! Evviva!
 
Che dire, invece, di questo capitolo? Nulla, che è meglio *si nasconde ancora dietro lo Scudo*.
 
Voglio assolutamente salutare le New Entry che hanno scelto di inserire la storia in una delle speciali liste: Mary Grifondoro, the little strange elf (come promesso!),  _Abyss_, TheMonstersAreHuman e Ravinpanica (a te devo un ringraziamento speciale! Ti aspetto!)
Spero di non aver dimenticato nessuno o mi getto da una finestra!
 
Grazie alla mia Sister Ragdoll_Cat (ce l’ho fatta alla fine! Giuro che rispondo alla tua recensione appena posso! Grazie per il supporto, mia cara! Ti vendicherai, dunque? ♥ ) e alla piccola Eclisse Lunare (per oggi, Fragolina Caramellata! ♥ ), per le dolci recensioni.
 
Naturalmente, ringrazio con tutta me stessa voi coraggiosi che continuate a seguirmi e a leggermi.
Verso l’infinito e oltre! (cosa c’entra non lo so >.< ).
Un abbraccio grandissimo ♥
Alla prossima!
 
Ella

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Capitolo 10
*** Escape ***


Escape
 
Kristen si obbligò a rimanere immobile, accucciata proprio dietro la macchina mangia anima. Se spingeva lo sguardo alla sua destra, poteva scorgere il corpo del dottor Lewis, steso lungo il pavimento e privo di sensi.
Era successo tutto troppo in fretta, perché qualcuno nella stanza avesse avuto anche solo una possibilità di difendersi dall’intruso. Soldati e scienziati erano crollati al suolo, uno dopo l’altro, colpiti da un fantasma comparso dal nulla.
Un fantasma parecchio incazzato.
Forse, era stata risparmiata perché non ritenuta una minaccia. O forse lui non l’aveva vista. Qualsiasi fosse la motivazione, aveva ora l’occasione di dare l’allarme.
L’apparecchietto per le emergenze pesava come un macigno nella sua mano. Il pollice era piazzato sopra il pulsante di accensione, ma non affondava per premerlo, perché Kristen non ci riusciva.
Una leggera pressione e tutti i soldati dell’Hydra presenti nella base sarebbero affluiti lì, per freddare l’inaspettato intruso. Se invece avesse rinunciato a dare il segnale, avrebbe regalato all’intruso minuti preziosi e forse sufficienti ad uscire dalla base, perché comunque Schmidt non sarebbe rimasto ancora per molto all’oscuro del sabotaggio.


La Myers si sporse appena oltre il suo angolino sicuro e riuscì a scorgere un paio di occhi dello stesso colore di un cielo durante la tempesta. L’azzurro era stato quasi del tutto inghiottito da un grigio metallico che conferiva allo sguardo una scintilla fredda e letale, così come freddo e letale era il braccio bionico su cui spiccava una stella rossa.
Sapeva fin troppo bene quale fosse l’identità dell’uomo che le era di fronte. Aveva lavorato con lui - su di lui -, quando era stato scongelato per l’ultima volta, meno di un anno prima.
E le era parso di lavorare su di una macchina, una macchina dall’aspetto umano. Era stato facile manovrarlo, senza essere atterrita dal senso di colpa. Lo aveva trattato come un mero involucro vuoto, certa che non ci fosse un’anima in lui ed entusiasta dell’inestimabile occasione offertale da Alexander Pierce, che si era detto impressionato dalle sue capacità e le aveva avanzato l’offerta di un lavoro fisso.
 
Peccato che non ci fosse stato il tempo di accettarla l’offerta, grazie a Capitan America.
 
Aveva rischiato di passare la restante parte della sua vita in una prigione, accusata di cooperazione con il nemico, con quell’Hydra che aveva creduto fosse SHIELD e basta.
Solo dopo il crollo del Triskelion, Kristen aveva capito perché le era stata intimata dallo stesso ora defunto Pearce tanta segretezza, riguardo gli affari del soggetto dal braccio di metallo. Perché quelli erano affari dell’Hydra e non dello SHIELD.
Aveva odiato Pearce, per averle mentito e quasi distrutto la vita. Aveva odiato lo SHIELD e il Governo, per non averla aiutata, perché lei era stata ingannata, in fondo.
Ancora si rimproverava per essersi fatta raggirare troppo facilmente. Era bastato un codice genetico artificialmente rafforzato, per mandarle in pappa il cervello.
 
Adesso doveva la sua libertà a Schmidt, il protettore inaspettato che le aveva donato la possibilità di riscattarsi e di rifarsi una vita e, cosa più importante, le stava offrendo l’occasione di realizzarsi.
Kristen era divenuta una delle menti più in vista nel campo dell’ingegneria genetica praticata prettamente su essere umani. Il nuovo potenziato era anche una sua creatura e avrebbe dovuto sentirsi orgogliosa di sé stessa, dinanzi ad un risultato che aveva superato ogni aspettativa.
 
Peccato che la sua testa fosse ora satura di devianti dubbi, grazie a Capitan America.
 
Violenza. Abuso.
Erano queste le parole che non riusciva a scrollarsi di dosso.
Lavorare con un soggetto cosciente e non consenziente era stato come ricevere un crudo schiaffo in faccia. L’esperienza aveva fatto crollare il cinismo che da sempre la caratterizzava e nel cuore era sbocciata la compassione.
Quanti uomini aveva utilizzato come cavie? E quanti tra loro erano stati davvero consenzienti? Sotto l’influsso di droghe e sedativi, le erano sembrati giocattoli inanimati e non si era sentita poi così male nell’usarli.
Allora perché adesso si sentiva maledettamente sporca?
La sola idea che migliaia di persone morissero a causa di ciò che lei aveva contribuito a creare le faceva contorcere le budella.
 
“Per qualsiasi cambiamento c’è un prezzo da pagare. Io sono disposta a pagarlo. L’Hydra lo è” aveva affermato, ma non ne era più certa.
Non aveva più alcuna certezza.
Grazie a Capitan America.
Rumlow l’aveva avvertita. Le aveva detto di non farsi coinvolgere dallo spirito del giovane super soldato.
 
“Sai essere convincente, ma sprechi solo fiato con me.”
Non era stato poi tanto sprecato quel fiato, alla fine dei conti. E aveva anche capito perché il giovane era tanto temuto dai piani alti.
Un leader carismatico, ecco qual era l’arma più potente posseduta da Steve Rogers.
Era riuscito a far rivoltare in massa centinaia di agenti SHIELD, spingendoli a dare la vita per fermare il progetto Insight. Da nemico di Stato a leader di una rivolta conclusasi con la distruzione del Triskelion, proprio una bella impresa.
 
E lei voleva davvero che lo spirito del ragazzo svanisse per sempre?
 
Sorrise appena, mentre tornava a rannicchiarsi dietro la macchina, e chiuse gli occhi, abbandonando il capo all’indietro e ascoltando il Soldato d’Inverno portare via il testardo ragazzino dagli occhi limpidi.
Si chiese se un giorno si sarebbero rincontrati e se avrebbe mai potuto perdonarla, per i crimini di cui si era macchiata. Si chiese anche chi sarebbe stata la fortunata che l’avrebbe fatto suo. E si chiese come diavolo fosse riuscita a farsi abbindolare da lui in un modo tale, da arrivare a mettere in discussione perfino se stessa.
 
Rimase immobile, con il dispositivo ancora tra le dita e nessuna intenzione di dare l’allarme.
 
‘Buona fortuna, Steve Rogers.’
 
 
 
                                                    ***
 
 
 
Non era stato difficile recitare la parte del folle disperato che tenta di derubare un riccone accompagnato da due guardie del corpo belle grosse.
Quando quattro giorni prima Henry Benson aveva svoltato in quella stradina secondaria, dopo essere uscito dalla Tower tutto soddisfatto, James era riuscito a inscenare una fittizia aggressione, con l’unico obiettivo di piazzare sotto la pelle dello schifoso subdolo bugiardo una minuscola cimice spia, attraverso la quale aveva potuto sentire le sue conversazioni e seguire i suoi spostamenti.
Aveva dovuto lasciarsi malmenare un po’ dalle due guardie in nero, ma ne era valsa la pena, soprattutto con il senno di poi.
Dopotutto, era stata una buona idea requisire l’attrezzatura dello SHIELD - o dell’Hydra - dalle case sicure di cui conosceva la collocazione, quelle che gli erano state indicate da Pierce come punto di ritrovo, in caso di contrattempi sul lavoro.
 
James era venuto a conoscenza degli sporchi piani dell’Hydra, proprio attraverso l’ignaro Benson.
Screditare i Vendicatori, affibbiare loro la colpa di cospirazionismo contro l’umanità, prendere possesso della Stark Tower, prendere possesso di un certo Bruce Banner.
E prendere possesso di Capitan America.
Quei bastardi erano riusciti dove anche il Soldato d’Inverno aveva fallito. Solo che, questa volta, l’Hydra non aveva intenzione di limitarsi a uccidere il Capitano.
Ciò che James aveva sentito venir fuori dalla bocca di Benson, durante le sue amabilissime chiacchierate con un certo Sir, lo aveva allarmato parecchio - da quanto non provava una così profonda ansia?
Era arrivato a Washington prima dello stesso Benson, ma della base non aveva scorto nemmeno l’ombra, nonostante avesse cercato e cercato e cercato - ed era forse paura quella instillatasi nel suo animo? Poteva ancora provare paura?
 
Poi c’era stata la svolta.
Henry Benson era arrivato a Washington e gli aveva mostrato la via d’accesso alla base dove Steve era stato portato.
James avrebbe preparato un accurato piano di estrazione, se la parola cancellazione non avesse fatto capolino un solo giorno dopo l’arrivo del commissario.
Era stato quel Sir a pronunciarla e, sempre attraverso la non notata cimice, aveva potuto ascoltare la risata irritante di Benson.
 
Entrare nella base, che si diramava sotto le macerie del Triskelion, non era stato difficile e sperava che uscirne sarebbe stato altrettanto semplice, nonostante la quasi completa inorganizzazione del recupero.
 
Doveva portarlo fuori da lì.
 
 
La sua mano di metallo lasciò andare il collo di una delle guardie armate che aveva trovato a protezione della stanza.
Raggiunse a grandi passi il giovane intrappolato nella maledetta macchina e qualcosa nel suo stomaco si mosse con dolorosa violenza, mentre immagini rarefatte gli affollavano la mente.
Steve, il piccolo Steve ora non più così piccolo e … Credevo fossi più piccolo …
 
No. Non era tempo di piegarsi sotto il peso dei ricordi.
 
Strinse le fredde dita lucenti attorno la spalla destra del biondo, i cui occhi azzurri erano spenti, svuotati di qualsiasi emozione. Parevano quasi vitree biglie opache.
Inanimati.
“Sono qui.”
E le dita di metallo affondarono con maggiore insistenza nella spalla del giovane super soldato, che parve reagire sensibilmente.
 
“Sta’ sveglio, Steve.”
 
Trovò il meccanismo per sbloccare le morse in vibranio che artigliavano il ragazzo e lo sollevò di peso, tirandoselo contro e sorreggendolo per la vita con l’arto bionico.
Steve si reggeva in piedi a malapena. L’impressione di avere tra le mani una bambola rotta gli fece accapponare la pelle ed era peggio di quando l’aveva tirato fuori dal Potomac mezzo morto.
Riuscì a trascinarlo fuori dalla stanza, ma non fece molto strada, prima che un vociare sommesso e ancora lontano raggiunse il suo fine orecchio.
 
“Andiamo, Steve. Riprenditi.”
 
James si ritrovò a scuotere il biondo per le spalle con una certa violenza, nella speranza di scorgere anche solo un guizzo fuggevole attraversargli le iridi.
E, alla fine, tra uno scossone e l’altro, ci fu davvero quella sperata e fievole scintilla.
 
 
 
“Sto per vomitare” balbettò Rogers, prima di piegarsi in avanti e rigettare l’anima sul pavimento.
Quando riuscì a recuperare il controllo, gli occhi arrossati ma vivi si spalancarono esageratamente nel realizzare di chi fossero le braccia che lo stavano sostenendo, evitandogli di crollare a terra, spossato e ridicolmente tremante.
“Bucky?”
Con l’indice gli toccò il petto, per essere sicuro che quello non fosse solo uno stupido scherzo della sua mente ora non così sana.
No. Non era un’allucinazione. Era proprio lui, con indosso la spiacevolmente familiare uniforme nera e la faccia di chi non dorme da giorni.
 
“Dobbiamo muoverci” si limitò a comunicare Barnes, con una certa freddezza.
 
L’espressione totalmente confusa e persa di Rogers indusse James a sforzarsi di essere più Bucky e meno Soldato d’Inverno.
“Steve, senti. Lasciamo a dopo le spiegazioni, okay?”
 
Steve.
Il giovane Capitano non riuscì ad evitare di sorridere, perché gli faceva uno strano effetto ascoltare il proprio nome pronunciato da Bucky, Bucky che sembrava ricordare e che era venuto a tirarlo fuori dai guai. Decise che si sarebbe aggrappato alla piccola e calda fiammella accesasi improvvisamente nel suo animo, per sfuggire al gelo e al buio che lo stavano ancora reclamando. Doveva farsi forza e guardare solo avanti, per il momento.
 
“Ti seguo.”
 
James annuì e prese ad avanzare lungo i corridoi, con passo veloce e sicuro. Ogni tanto, lanciava qualche sguardo dietro di sé, per accertarsi che Steve ci fosse ancora, dato che versava in pessime condizioni fisiche, nonostante cercasse di non darlo troppo a vedere.
Era così strano averlo tanto vicino. Quella vicinanza lo destabilizzava parecchio, perché metteva la sua mente in subbuglio. Immagini sfocate di una vita lontana tendevano ad accavallarsi l’una sull’altra, sottraendogli concentrazione e lucidità.
Non era più abituato a sopportare la forza delle emozioni. Il freddo vuoto che aveva abitato il suo cuore tanto a lungo, si era colmato di troppe cose troppo in fretta.
 
Rogers, dal canto suo, si sforzava di mantenere il passo, mentre osservava una sfilza di uomini stesi a terra - non aveva idea se vivi o morti - che testimoniava il precedente passaggio del Soldato.
Poi, l’occhio gli cadde su una porta a vetri alla sua destra, poco distante dal punto in cui il corridoio svoltava verso sinistra.
“Il mio scudo.”
Il cerchio in vibranio, che aveva perso durante la colluttazione sull’Empire, era proprio oltre quella porta.
 
“Steve” lo richiamò James, quando si rese conto che il biondo aveva smesso di seguirlo.
“Dammi un attimo.”
 
Il Soldato non fece nemmeno in tempo a replicare, che Rogers aveva già mandato in frantumi i vetri, per entrare nella piccola stanza dalle grigie pareti e un pavimento composto da lucenti piastrelle bianche. Era quasi del tutto spoglia, dato che oltre un tavolino e un armadio metallici non c’era altro.
Steve si affrettò a recuperare lo scudo giacente sul tavolo e, solo dopo, notò un pezzo di tessuto blu spuntare da uno zaino nero gettato nell’angolo tra la parete e l’armadio.
“Grandioso” esultò, scoprendo i pezzi della sua uniforme malamente ammassati nello zainetto, che mise in spalla.
Soddisfatto, fece per uscire dalla stanza, ma qualcosa - una sensazione - lo trattenne. Si voltò indietro e, senza esitazione, spalancò le ante dell’armadio, spezzando con facilità la catena che le teneva bloccate.
 
“Steve.”
 
Il secondo richiamo di Barnes, il giovane Capitano nemmeno lo udì.
C’era una sola cosa nell’armadio. Un lungo cilindro di vetro contenente una spada dall’elsa bianca.
 
Quella spada.
 
Steve sarebbe rimasto fermo lì ancora per parecchio, a fissare l’arma aliena - la terza presente sulla Terra, dopo il Tesseract e lo scettro di Loki -, se Bucky non l’avesse preso per un braccio e costretto a muoversi, con una certa urgenza.
 
“Stanno arrivando. Andiamo, Steve.”
 
Il suono ritmico di passi veloci si stava facendo pericolosamente vicino.
Barnes prese a correre, tenendo saldamente Rogers per un polso, quasi avesse paura di perderselo. Sapeva bene che il biondo stava faticando parecchio a stargli dietro, ma non potevano permettersi il lusso di perdere altro tempo, non quando erano così vicini all’uscita.
Mancava davvero poco. Ancora una svolta e …
 
Cazzo” imprecò fra i denti il Soldato, bloccandosi di colpo, e Rogers quasi gli finì addosso, preso alla sprovvista dall’arresto improvviso.
 
Uno squadrone di soldati con le armi spianate separava adesso i due super soldati dalla scala che conduceva alla botola, che rappresentava la loro via di salvezza. Così vicina, eppure irraggiungibile.
 
“Pensavi davvero di entrare e uscire indisturbato, portandoti via le mie cose?”
 
La situazione già brutta divenne orribile, quando gli uomini di cui avevano sentito i passi poco prima arrivarono alle loro spalle, capeggiati da Teschio Rosso e Rumlow.
Tornare indietro non era più possibile. Erano praticamente pressati tra due squadroni armati e pronti a riempirli di piombo.
Barnes si sforzò di sorvolare sulla presenza fuori dal tempo - non che lui e Steve fossero da meno - e si affrettò a raggiungere la pistola nella fondina stretta attorno la coscia destra, perché non aveva intenzione di arrendersi senza lottare. Percepì Rogers tendersi dietro di lui, mentre i nemici si avvicinavano ulteriormente.
 
“Avanti, Soldato d’Inverno, consegnami il ragazzo e, forse, potrei risparmiare la tua vita. C’è posto anche per te nel mio personale esercito.”
 
Barnes percepì la rabbia incendiargli le membra e gli istinti assassini gli raschiarono lo stomaco, desiderosi di esprimersi nella loro più pura brutalità.
“Ho smesso di eseguire ordini” sibilò glaciale, assottigliando lo sguardo in direzione di Schmidt.
“Scelta sbagliata” lo irrise quello e gli bastò un cenno, perché Crossbones puntasse la pistola proprio in faccia al Soldato.
Nello stesso istante, Rogers si frappose tra i due, con lo scudo alto davanti a sé.
 
“La tua è una mossa inutile, Capitano. Se non sarà Rumlow a ucciderlo, lo farà uno qualsiasi dei miei uomini e tu non puoi di certo prevedere da dove arriverà ogni singolo colpo. Fa’ il bravo e arrenditi.”
Il sorriso sulla faccia di Schmidt si fece più tagliente. Non aveva gradito affatto quell’intrusione e odiava che qualcuno che non fosse lui stesso si prendesse la briga di modificargli i piani. Quindi, avrebbe riportato Rogers indietro, lo avrebbe cancellato e riprogrammato, trasformandolo nel suo personale giocattolo, senza contare il vantaggio di poter avere tranquillamente a disposizione uno degli ingredienti del nuovo siero.
Il Soldato d’Inverno, di cui Rumlow gli aveva parlato mesi prima, era solo un impiccio se non intendeva sottostare al suo comando. Avrebbe potuto riprogrammare anche lui, ma a cosa gli sarebbe servita un’arma ormai superata?
Schmidt odiava tutto ciò che era inutile o incontrollabile e, grazie al suo nuovo personale esercito, avrebbe realizzato una bella pulizia mondiale.
Questa volta, non avrebbe permesso al ragazzino a stelle e strisce di rovinargli i piani.
 
“Farò tutto quello che vorrai, ma lascialo uscire da qui.”
 
Bucky dovette reprimere la voglia di picchiare Steve in quello stesso momento.
Rumlow, invece, non si stupì più di tanto, perché conosceva Rogers, sapeva che il ragazzino si sarebbe fatto ammazzare per i suoi amici.
E James Barnes era molto di più di un amico.
 
“Ti sfugge il fatto che non sei nella condizione di contrattare, ragazzo. Ma, devo ammetterlo, la tua proposta è allettante” convenne Schmidt e portò una mano al mento, con fare pensoso.
La tensione in quel momento era tanto elevata, che credere nell’eventualità di rimanere tutti fulminati non era poi così assurdo.
Il silenzio si protrasse per lunghissimi secondi, durante i quali gli occhi infossati di Teschio Rosso sembrarono accendersi progressivamente di una luce morbosa.
 
“Perché non cominci con il metterti in ginocchio e pregarmi di lasciare andare il tuo amico? Mettici impegno, mi raccomando. Convincimi.”
 
Lo scudo di Capitan America cadde sul pavimento e l’eco del tonfo parve quasi un laconico lamento.
“Non farlo, Steve. Mi ucciderà comunque, lo sai.”
Nella voce di Bucky persisteva un’incrinatura che poteva quasi identificarsi con un senso di ansia mista a rabbia.
Steve era consapevole che di Schmidt non doveva fidarsi, non era di certo uno stupido, ma cos’altro avrebbe potuto fare?
Erano maledettamente spacciati. Non c’erano vie di fuga. Nemmeno combattere era una soluzione ammissibile, perché i nemici si sarebbero accaniti su Bucky e lui non avrebbe potuto proteggerlo da tutte le pallottole che gli avrebbero scaricato addosso.
Cosa avrebbe potuto fare? Cosa avrebbe potuto offrire, se non l’unica cosa che Schmidt non avrebbe rifiutato, perché troppo orgoglioso, egocentrico e sempre in carenza di adulazione?
Sé stesso. Ecco cosa stava offrendo a Teschio Rosso. Ed era quasi certo che quel bastardo, pur di vederlo piegato al suo volere, avrebbe tenuto in vita Bucky.
Steve avrebbe fatto qualsiasi cosa, per concedere al suo migliore amico - a suo fratello - anche uno straccio di possibilità di avere salva la vita.
Bucky era venuto fin là sotto per strapparlo alle grinfie dell’Hydra e questa consapevolezza dava a Steve la forza sufficiente ad affrontare un’umiliazione senza precedenti.
 
Schmidt fece un passo avanti, portandosi pericolosamente vicino a Rogers, e gli indicò il pavimento con la mano.
“Avanti. Non essere timido.”
Per un secondo, il giovane super soldato assaggiò la possibilità di spaccargli la faccia, ma affogò la pungente voglia istantaneamente. Si voltò a guardare Bucky, che gli ripeté di non farlo, ma non aveva scelta. Prese un profondo respiro e tornò a puntare le iridi sulla faccia mostruosa dell’odiato nemico.
Quando poggiò il primo ginocchio a terra, ebbe l’impressione di sentire il suo stesso spirito dibattersi e gridargli di smetterla. Ignorarlo gli costò uno sforzo immane.
Poteva definitivamente seppellire il suo orgoglio.
 
“Bravo ragazzo.”
 
 
 
Uno schianto improvviso fece sussultare ogni singolo presente.
La botola che sbarrava l’uscita era schizzata verso il basso e profonde crepe si erano disegnate sul grigio pavimento di cemento, laddove il cerchio di metallo si era schiantato.
Tutte le lampade a led si spensero simultaneamente e la base piombò in un fitto e raccapricciante buio.
 
Istintivamente, Steve cercò lo scudo a tentoni e lo trovò abbandonato alla sua sinistra. Riconobbe il braccio bionico di Bucky, quando una mano fredda gli afferrò una spalla e lo tirò indietro, lontano da Schmidt.
 
Un grido infranse il silenzio e a questo ne seguirono altri, accompagnati da tonfi e spari.
 
“Cos’è?”
“Un mostro! È un dannato mos-”
“Il mio braccio!”
“È qui! È qui!”
 
Steve e Bucky rimasero immobili, accovacciati a terra, indecisi su come muoversi.
Un fascio di calda luce penetrava dal foro orfano della botola e rischiarava appena qualche metro del corridoio. Rogers notò un’esile figura muoversi veloce tra il mucchio scomposto di soldati, ma prima che riuscisse a formulare un pensiero coerente, qualcosa trascinò lui e James verso il vano.
Sospinti da una forza invisibile, furono letteralmente scaraventati fuori dalla base e entrambi provarono per alcuni istanti l’ebbrezza di vincere la forza di gravità.
 
Steve si ritrovò a rotolare tra polvere e detriti.
Era fuori.
Fuori.
Libero.
Il sole rosso del tramonto incendiava il cielo e la fredda brezza invernale gli scompigliò i capelli con gentilezza.
Peccato che quel mero momento di labile felicità venne stroncato fin troppo presto, perché i soldati dell’Hydra - quelli sopravvissuti all’attacco del nuovo intruso - stavano dilagando fuori dalla base ed erano intenzionati a riacciuffarlo.
Rogers scattò in piedi e si guardò intorno, in cerca di Bucky, ma non riuscì ad individuarlo in quella landa deserta che nemmeno un anno prima aveva ospitato il Triskelion.
Dove era andato a finire?
 
“Rogers!”
 
‘Oh, no. Non Rumlow’ si lamentò interiormente il biondo.
Non poteva affrontalo. Non aveva la forza di combatterlo. I suoi sensi erano completamente falsati, a causa del trattamento ricevuto dall’Hydra, e dall’addome provenivano insopportabili stilettate di dolore. Non si spiegava come fosse ancora in grado di stare in piedi.
Si preparò a difendersi come meglio poteva, consolato dal fatto di avere lo scudo con sé, ma Rumlow non riuscì nemmeno lontanamente a sfiorarlo.
Il Capitano lo vide perdere il contatto con la terra, quasi come fosse un burattino attaccato a dei fili invisibili che erano stati strattonati verso l’alto. Il marionettista fece in modo di scaraventare l’uomo parecchio lontano, regalandogli un bel volo.
 
‘Non dare di matto, Rogers’ si impose Steve, quando fu a un passo dal realizzare quel che era accaduto.
Una mano si appoggiò con delicatezza sulla sua spalla sinistra e il biondo non poté evitare di rabbrividire, a causa di quel leggero contatto.
 
“Ti ricordavo più alto.”
 
Non avrebbe dovuto stupirsi. Anzi, avrebbe dovuto capirlo prima, quando il sistema elettrico della base sotterranea era andato in tilt.
Il marionettista non poteva essere nessun altro, se non lei.
Il giovane super soldato voltò appena il capo, per poterla guardare in viso. Il cuore si contrasse in modo strano, quando si ritrovò a specchiarsi in occhi blu come gli abissi.
Lei, però, aveva lo sguardo fisso dinanzi a sé e il taglio pericolosamente affilato che esso aveva assunto esprimeva una gelida rabbia.
Una scintilla fugace illuminò la notte racchiusa in quelle iridi inumane.
 
Nell’istante successivo, ogni singolo nemico presente venne come risucchiato nella cavità che costituiva l’accesso alla base. Gli uomini si dibatterono inutilmente contro la forza incorporea che pareva averli artigliati per le gambe e che li trascinava di nuovo sottoterra. Nemmeno Brock fu risparmiato e le sue ingiurie fecero piegare le labbra di Rogers in un fievole sorrisetto.
Dopo che la piazza fu ripulita, un ingente ammasso di detriti andò a sigillare l’entrata della base.
 
Steve si accorse che lei gli teneva ancora la mano sulla spalla e la vicinanza era tale da permettergli di avvertire il suo calore.
Non poteva che definirsi stordito e confuso in quel momento. Era un miracolo che riuscisse a mantenere un minimo di contatto con la realtà.
Di colpo, la sua salvatrice fece mezzo giro su sé stessa, spezzando il contatto tra loro, e il biondo la imitò meccanicamente.
 
“Scusami per averti spedito così lontano. Ho perduto la presa su di te nell’istante sbagliato.”
 
Barnes si fermò a un paio di passi dai due, con in viso un’espressione diffidente e, al tempo stesso, parecchio confusa. Scannerizzò letteralmente l’ultima arrivata, colei che li aveva sottratti ai tentacoli dell’Hydra e che aveva mostrato di possedere capacità sovrannaturali.
Un corpetto nero le fasciava il busto e le lasciava scoperte le spalle, per poi fondersi con un paio di pantaloncini in tinta che le coprivano meno di metà coscia. Quella specie di costume doveva essere fatto di una lega particolare, perché aveva la lucentezza del metallo, ma pareva dotato di confortevole elasticità. Una cinta argentea le cingeva i fianchi stretti e argentei erano anche i due bracciali che le circondavano i polsi. Neri erano invece i lunghi stivali che le arrivavano poco sotto il ginocchio. I lunghissimi capelli biondi dai caldi riflessi caramello erano raccolti in un’elegante treccia, il cui culmine le sfiorava il fondoschiena.
James sospettò che la ragazza non fosse propriamente umana e gli occhi, dotati di un innaturale magnetismo, davano concreta forma a quella teoria. Si sorprese, poi, nello scorgere lo sguardo intenso che Steve le stava rivolgendo.
 
“Dovremmo muoverci. Prima o poi riusciranno a uscire, quindi sarà meglio non farci trovare ancora qui.”
La giovane mise fine al silenzio imbarazzante che si era venuto a creare.
“Chi sei?” sputò fuori James, dato che Rogers continuava a essere non molto presente.
“Una che tiene al cretino che continua a cacciarsi nei guai, nonostante le raccomandazioni.”
Chiamato in causa, Steve emise verso di disappunto e rivolse alla ragazza uno sguardo parecchio eloquente.
“Dovrei essere io quello arrabbiato, Anthea” la riprese, punto nel vivo.
Anthea emise un sospiro contrito e regalò al biondo un sorrisetto sghembo.
“Te lo concedo, Steve.”
 
A quel punto Barnes era ancora più confuso di prima.
“Tu la conosci?” chiese al Capitano, inarcando un sopracciglio con fare perplesso.
“Storia lunga, Bucky. Un giorno te la racconterò.”
 
Un fragore abbastanza intenso provenne dall’ostruito ingresso della base.
Steve, Bucky e Anthea si scambiarono un ultimo sguardo e poi si mossero, decidendo di optare per un corsa abbastanza sostenuta.
La terra che aveva ospitato il Triskelion era una specie di isolotto nel mezzo del Potomac, tra Washington e la Virginia. Non ci impiegarono molto a raggiungere una delle sponde.
Il sole stava intanto sparendo oltre l’orizzonte e l’abbraccio della notte diveniva sempre più tangibile.
 
“E adesso? Qui non c’è nessun collegamento con l’altra sponda, che è anche parecchio lontana” sbottò Rogers.
“Abbiamo sbagliato. Dovevamo andare dalla parte opposta. Lì c’è l’unico ponte rimasto intatto” fu la replica irritata di Barnes.
 
Steve non poteva stare in piedi ancora a lungo. O meglio, non poteva più stare in piedi e punto. Aveva voglia di svenire e nient’altro. La stanchezza e i traumi subiti dal suo fisico e dalla sua psiche stavano riaffiorando in superficie e aveva la sensazione di sentirne il peso su ogni lembo di pelle. Come se non mancasse, le costole e l’addome non avevano smesso di dargli il tormento nemmeno per un secondo.
Si piegò sulle ginocchia e la cosa attirò l’attenzione degli altri due.
 
Anthea si accovacciò al fianco del giovane super soldato e gli sorrise fievolmente. Non voleva assolutamente esternarlo, ma dentro sentiva ardere una rabbia e un rancore letalmente distruttivi.
Era passato parecchio tempo, era maturata, eppure vedere Steve in quello stato le faceva talmente male, che gli istinti assassini si erano ridestati con fin troppa enfasi.
 
“Vi porto io di là.”
“E come?”
Sul viso candido della ragazza nacque un’espressione che a Steve non piacque per niente.
“Oh no.”
“Vi mollerò a qualche metro di distanza dalla sponda, così atterrerete in acqua ed eviteremo che vi si spezzi qualche osso. Pronti?”
“Non credo di aver capito” ammise Barnes, intervallando lo sguardo tra i suoi due nuovi compagni di disavventura.
“Tranquillo. È questione di un attimo” lo rassicurò la giovane.
 
Steve e Bucky sperimentarono cosa provasse un sassolino scagliato da una fionda, ma non fu poi così male, se non si considerava l’atterraggio brusco nelle gelide acque del Potomac.
Anthea li seguì poco dopo, atterrando elegantemente dinanzi a loro, sulla terra umida.
 
“Sei diventata brava” bofonchiò il Capitano, mentre si trascinava fuori dall’acqua, preceduto da un James sempre più sconcertato.
L’oneiriana gli rispose con un sorrisetto orgoglioso. La sua attenzione, però, fu presto deviata da una presenza che colpì i suoi sensi come una coltellata.
Dall’altra parte della sponda, due occhi sanguigni brillavano nella penombra e parevano quasi due raccapriccianti fari. Il loro possessore era immobile, non intenzionato a schiodarsi da lì.
“Andiamo via, per favore. Non è lui, Anthea.”
Steve la stava ora tirando per un braccio, palesemente preoccupato. Anche lui aveva notato la pericolosa figura - l’Ultra Soldato - e non aveva di certo intenzione di ingaggiare un combattimento con quell’essere estremamente potente, che per grazia divina non mostrava la volontà di raggiungerli.
 
“Seguitemi. Ho un posto sicuro” convenne allora Bucky, quando si rese conto che la ragazza non era propensa a muoversi, nonostante gli sforzi di Rogers.
 
“Va bene” si limitò a mormorare Anthea, alla fine.
Ma il turbamento sul suo viso non accennò a scomparire.
 
 
 
                                                   ***
 
 
 
Il cuore le batteva talmente forte, che ebbe paura l’avrebbe tradita.
Quando il suono di passi pesanti si fece pericolosamente vicino, Virginia pregò di venire risucchiata dal pavimento su cui era stesa. Nascondersi sotto il letto le era parsa una buona idea, ma ora che riusciva a ragionare un tantino più lucidamente, si diede della stupida per non aver trovato un rifugio più sicuro.
 
‘Tony, ti prego torna’ gridò interiormente.
Il miliardario però era partito qualche ora prima, per raggiungere la Tower e recuperare il frammento di energia del Tesseract.
 
Un paio di stivali scuri si palesarono davanti al suo viso e dovette premersi una mano sulla bocca per evitare di lasciarsi sfuggire un qualsiasi suono. Sudore freddo le imperlava la fronte e si chiese quanto rumore avrebbe potuto emettere una gocciolina nello schiantarsi contro il pavimento.
Gli stivali sparirono dalla sua vista e la ramata quasi credette di averla scampata, o almeno lo credette fin quando una mano non l’agguantò per una caviglia e la costrinse a venire fuori dal suo nascondiglio.
Non riuscì a ricacciare indietro le grida di puro terrore che le infiammarono presto la gola. Scalciò come un’ossessa, mentre l’uomo la imprigionava da dietro con le possenti braccia.
 
“Lasciami!”
 
Era davvero terrorizzata.
L’avrebbero usata per ricattare Tony e questo non poteva sopportarlo.
 
“Non hai sentito la signorina?”
 
L’uomo emise un grugnito addolorato e mollò la presa su di lei, per poi crollare sul pavimento, privo di sensi.
Quando Pepper si voltò, Sam teneva ancora il vassoio argentato con cui aveva colpito l’uomo a mezz’aria.
 
“Odio essere colto del tutto impreparato” commentò il pararescue, parlando più a sé stesso che alla donna.
 
 
Ed erano stati davvero colti del tutto impreparati, quando una task force - se dell’Hydra o del Governo non lo sapevano, ma non aveva poi molta importanza, in fondo - aveva scardinato la porta d’ingresso, irrompendo all’interno dell’appartamento.
Era immaginabile il caos che si era scatenato in seguito.
La casa sicura si era trasformata in un campo di battaglia e i corridoi erano ora pericolose zone di fuoco.
Come li avessero rintracciati era un mistero. L’ipotesi che Ross potesse aver intuito qualcosa e avesse di conseguenza fatto braccare la finta Hawley era tanto probabile, quanto quella di essere stati riconosciuti da un qualche civile quando avevano messo piede fuori da lì, o quella di una falla nella linea sicura di Stark - okay, quest’ultima era forse la più improbabile.
Qualunque fosse la spiegazione, per i Vendicatori - o per ciò che restava di loro - non cambiava il fatto di essere finiti in trappola, come poveri topolini tra gli artigli di un gatto parecchio cattivo.
 
Tuttavia, la situazione non scalfì affatto la freddezza dei due assassini provetti. Non era la prima volta che affrontavano un’imboscata e non avevano intenzione di farsi prendere o uccidere come novellini inesperti. Erano pur sempre due membri degli Avengers e Fury li aveva scelti non a caso, ma perché possedevano capacità impressionanti.
No, di certo, la Romanoff e Barton non si sarebbero lasciati intimorire da una manciata di agenti armati, anche se li avevano colti di sorpresa. Pur con indosso vestiti comuni e con i pochi mezzi a loro disposizione, non avrebbero permesso che ciò che rimaneva della squadra venisse reso inoffensivo - per usare il gergo di Ross.
 
“Se arrivo in camera da letto, posso recuperare l’arco nell’armadio.”
“Ho solo sei colpi” constatò Natasha, controllando l’arma che era riuscita a sottrarre ad uno dei nemici.
“Ce li faremo bastare” replicò tranquillamente l’arciere.
“Al tre” aggiunse poi e scambiò un’occhiata d’intesa con la compagna.
 
A uno, la Romanoff era già fuori dal bagno dove si erano rifugiati e, con una precisione maniacale, riuscì a colpire i nemici che li avevano pazientemente attesi nel corridoio e che avevano creduto fossero disarmati, perché la rossa aveva avuto la premura di non farsi notare, quando si era impossessata della pistola.
 
“Avevo detto al tre.”
Clint si schiacciò contro una parte del corridoio e sgraffignò un’arma ad un uomo freddato poco prima dalla rossa, che a sua volta stava facendo rifornimento per prepararsi ad affrontare i restanti nemici.
Natasha fece spallucce e si affacciò nella cucina, tirandosi immediatamente indietro, nel momento in cui una pallottola rischiò di trapassarle la fronte.
“Stima?” chiese Barton, proprio dietro di lei.
“Ne ho visti tre, ma ne stimo cinque. Pronto?”
 
Vedova Nera e Occhio di Falco si gettarono nella cucina a capofitto e fecero appena in tempo a sparare un paio di colpi a testa, prima che una raffica di proiettili proveniente dal corridoio collegato alla stanza da letto fece il lavoro al loro posto.
 
“Quello che ho steso di là aveva un mitra” gongolò Sam, facendo capolino nel salotto.
 
Pepper era alle spalle del pararescue e, ad eccezione dell’eccessivo pallore, sembrava stare bene.
 
“Prendete tutto quello che ritenete utile. C’è l’elevata probabilità che arrivino i rinforzi. Dobbiamo trovare un modo per allontanarci da qui.”
 
Sam e Clint scattarono immediatamente alle parole di Natasha, che intanto raggiunse la Potts per sincerarsi delle sue condizioni.
La rossa poteva solo immaginare quanto fosse difficile far fronte ad una situazione del genere per una persona estranea al mondo in cui lei era cresciuta. Sangue e morte erano ormai per la Vedova compagni di vita, mentre Pepper non era ancora abbastanza temprata, affinché riuscisse ad affrontarli senza rimanerne ferita dentro.
“Cerca di tenere duro. Troveremo il modo di metterti al sicuro.”
Virginia sorrise appena, rivolgendo a Natasha uno sguardo colmo di gratitudine.
“Non dimenticare che sono la fidanzata di Tony Stark. Se sopravvivo a lui, posso sopravvivere a tutto.”
La rossa sorrise felina, genuinamente divertita. Poi si decise a muoversi, per racimolare le cose che le sarebbero state utili a preservare la propria vita e quella dei compagni.
 
Pochi minuti dopo, erano di nuovo tutti in cucina. Le due spie e il pararescue avevano riempito un paio di zaini con armi sottratte ai nemici, qualche vestito e materiale per un rudimentale pronto soccorso, componente immancabile nelle case sicure dello SHIELD. Barton aveva l’arco in spalla e la faretra conteneva meno di dieci frecce.
Sam, per precauzione, aveva già indossato il suo speciale zainetto, recuperato nell’angolo della stanza da letto dove lo aveva abbandonato quando erano arrivati lì. In quella stanza, sul pavimento, c’erano ancora le coperte e i cuscini che lui, Tony e Clint avevano dovuto usare come letti di fortuna, dato che, da bravi uomini, avevano deciso di cedere l’unico letto alle due donne del gruppo.
 
Adesso non avevano più un posto sicuro e l’incertezza di ciò che sarebbe accaduto da quel momento in avanti era una brutta bestia da affrontare.
 
“Sono qui sotto. Vedo venti uomini e quattro blindati. Sembra che la zona sia stata evacuata.”
Clint smise di spiare dalla finestra e cercò lo sguardo di Natasha, ma qualcos’altro monopolizzò la sua attenzione.
Uno dei soldati si era sollevato su un gomito ed aveva una pistola in mano.
La pistola puntava dritta alla nuca della sua Natasha.
 
Accadde tutto in fugaci frazioni di secondo.
 
Clint balzò in avanti, spinse la rossa di lato, ma non fece in tempo a scansarsi per evitare il proiettile sparato dal nemico.
 
“No, dannazione!”
La Vedova si gettò come una furia sull’uomo che aveva premuto il grilletto. Con un primo calcio ben assestato sulla mano, lo disarmò. Il secondo calcio lo colpì direttamente in faccia e la bocca gli si riempì di sangue.
Non soddisfatta, la rossa scivolò seduta sulla schiena del nemico, gli prese la testa fra le mani e, con un unico, veloce e brutale movimento, gli spezzò l’osso del collo.
 
Con il fiato corto e il cuore che batteva forsennatamente, Natasha raggiunse poi Clint, che un Sam parecchio scioccato stava sostenendo.
All’altezza della spalla destra, una chiazza rossa si stava allargando a vista d’occhio sul tessuto della maglia bianca.
La rossa controllò la ferita con occhio attento e si accorse che il proiettile non aveva trapassato la spalla, era ancora infilato nella carne.
 
“Nat, non è grave. Lo sai.”
La voce di Clint era incrinata da una nota di dolore, ma continuava ad avere quella solita pacatezza rassicurante.
 
Natasha tentò di ricacciare indietro l’ondata di rabbia e ansia, regolarizzando il respiro, mentre prendeva dallo zaino preparato poc’anzi un rotolo di bende e uno dei suoi pugnali. Raggiunse i fornelli e, una volta accesi, sterilizzò l’estremità della lama con il fuoco. Tornò da Clint, che intanto Sam aveva fatto sedere su una delle sedie ancora intatte.
Il tavolo intorno al quale avevano discusso quello stesso pomeriggio, per accordarsi su come portare avanti il piano che prevedeva l’intrusione al Pentagono, era rovesciato su di un lato e crivellato dai colpi di arma da fuoco. La lampada, che una volta era appesa al soffitto, era ora sul pavimento, ridotta in frantumi.
Si stava facendo sera e la stanza era immersa nella penombra, perciò Natasha faticò a tirare fuori il proiettile dalla spalla del compagno.
Barton aveva perso colore. Stava perdendo molto sangue e quasi non sentiva il metallo ardente del pugnale rigirarsi nella propria carne.
 
“Ci sono” esalò la rossa, quando finalmente riuscì nell’impresa.
Subito dopo lanciò a Sam il rotolo di bende, ripulì il coltello sulla manica della felpa verde e lo infilò nell’ampia tasca davanti del comodo indumento.
 
“Stringi bene quelle bende, Sam.”
 
Sam annuì e lanciò uno sguardo d’intesa a Barton, che si stava sforzando di rimanere cosciente.
Il pararescue non riusciva a togliersi dalla testa l’immagine della letale russa che, senza alcuna pietà o esitazione, spezzava il collo all’uomo macchiatosi della colpa di aver attentato alla vita dell’arciere. Si domandò quale gelida oscurità si celasse nel cuore della Vedova Nera e a chi appartenesse lo sguardo che aveva scorto sul suo viso, mentre toglieva brutalmente la vita al nemico.
“Imparerai a conoscerla” gli confidò Clint, come se avesse intuito i suoi pensieri, e Wilson si limitò a prendere un bel respiro.
 
Natasha, intanto, aveva recuperato la ricetrasmittente nella tasca della tuta grigia e stava cercando di mettersi in contatto con Tony.
Non potevano uscire, perché c’era una squadra ad attenderli fuori dal palazzo. Quindi, era fuori discussione raggiungere il Van o la macchina, per tentare una fuga in strada. Se la zona era stata evacuata, allora c’erano sicuramente soldati appostati in ogni angolo del quartiere.
Perché adesso? Perché non li avevano attaccati prima?
Doveva essere accaduto qualcosa che li aveva costretti a cambiare strategia. Avevano davvero scoperto il trucco della finta Hawley? Forse Ross si era messo in contatto con quella vera e aveva scoperto di essere stato ingannato. Ma ciò non spiegava come fossero riusciti a trovarli. Quella casa sicura non era registrata nei dati dello SHIELD.
Per il momento, la rossa decise di zittire dubbi e domande.
La priorità era mettersi in salvo ed evitare che la squadra venisse smembrata definitivamente.
 
“Stark, mi ricevi?”
Dopo un lunghissimo lasso ti tempo - sembrò essere lunghissimo, dato che non trascorse nemmeno un minuto -, Stark rispose alla chiamata.
“Ti mancavo, Romanoff?”
“Stark, sta’ zitto e apri le orecchie.”
“Agli ordini, signora.”
“Ci hanno trovati. Hanno circondato il palazzo e Clint è ferito. Devi farti venire un’idea abbastanza buona per tirarci fuori da questo casino. Noi cercheremo di resistere.”
“Non tarderò” furono le uniche parole di Iron Man, prima che la comunicazione si chiudesse.
 
Natasha ripose la ricetrasmittente in tasca e sospirò.
“Dimmi che sta venendo a prenderci” la supplicò Sam, che aveva appena terminato il bendaggio.
La rossa annuì sicura e dopo tornò a concentrarsi su Clint, ancora seduto scompostamente sulla sedia e in lotta contro il dolore che non accennava a diminuire.
 
“Lo rifarei. E lo farò ancora, se sarà necessario, Nat. Evita i rimproveri, perché sai che non serviranno a niente.”
 
Natasha assottigliò gli occhi, ma poi cedette e un sorrisetto le piegò le belle labbra. Clint la conosceva troppo bene e aveva ragione. Non era la prima volta che la proteggeva, rischiando la pelle, e non c’era niente che l’avrebbe convinto a smetterla.
Lei avrebbe fatto lo stesso, in fondo. Lo avrebbe fatto per ognuno dei suoi compagni, se doveva dirla tutta.
 
“Avanti, prepariamoci ad accogliere i nuovi ospiti. Dobbiamo tenere duro fino all’arrivo di Stark. Spero troverà un modo per tirarci fuori da qui.”
 
“Stai certa che ci riuscirà, Natasha.”
Pepper venne avanti e sorrise confortante ai tre combattenti.
 
“Lui è Tony Stark, signori” celiò Sam, facendo ridere gli altri.
 
 
 
                                                   ***
 
 
 
Stavano camminando da quasi tre ore, ormai. Si erano tenuti vicino la sponda del Potomac per parecchi chilometri, prima di inoltrarsi su una strada che conduceva a Georgetown.
Non avevano dovuto nemmeno preoccuparsi degli sguardi dei passanti, perché Anthea aveva schermato la loro presenza, attraverso quello che lei stessa aveva definito come uno spesso muro di energia.
James poteva scorgerlo dal tremolio dell’aria intorno a loro e da un inusuale tepore, che scalfiva la corazza del freddo invernale.
Ancora non riusciva a credere di essere uscito intero da quella maledetta base e il merito era della sconosciuta sopraggiunta come un provvidenziale angelo custode.
La giovane si era decisamente aggiudicata un pezzetto della sua fiducia, anche se il potere di cui era dotata lo costringeva a rimanere sull’attenti.
Gli occhi bui, inoltre, erano in grado di metterlo in soggezione ed erano impregnati di un oscuro mistero. Parevano essere capaci di leggere l’anima.
 
“Il mio nome è Anthea, comunque.”
 
Il Soldato quasi sobbalzò. Erano rimasti in silenzio per molto tempo, soprattutto da quando Steve si era arreso alla stanchezza, accettando non senza rimostranze - aveva blaterato qualcosa riguardo l’orgoglio ormai deceduto - l’aiuto che gli aveva offerto - imposto - James.
Adesso, il biondo era completamente abbandonato contro la sua schiena, con le braccia attorno al suo collo e la fronte poggiata sulla sua spalla destra, quella umana.
Bucky gli teneva le mani strette sotto le cosce, vicino l’incavo del ginocchio, evitando così di farlo scivolare. Poteva sentire il respiro caldo e regolare del ragazzo carezzargli il collo.
 
“James Barnes. O Bucky, se preferisci.”
 
Anthea gli sorrise con gentilezza e accelerò di un poco il passo, per affiancarlo, mentre continuava a giocherellare con i lacci di cuoio fissati all’interno dello scudo di Steve.
“Sei un nuovo membro dei Vendicatori?”
Il Soldato scosse il capo. Sapeva chi erano gli Avengers, ne aveva sentito parlare parecchio da quando aveva recuperato una propria coscienza.
Natasha Romanoff era una di loro.
“Sono un assassino pericoloso e instabile. Non credo di avere i requisiti adatti. Senza contare che ho quasi ucciso il loro leader.”
La vena di ironia nella voce di Bucky mascherava il profondo pentimento che gli logorava l’anima giorno dopo giorno.
“Quindi sei stato tu. Dieci mesi fa. Perché?”
Il tono della ragazza si era fatto più freddo e, nonostante la domanda fosse implicita, James capì perfettamente cosa gli stava chiedendo.
“È complicato.”
 
Non si rivolsero né la parola né lo sguardo per un po’, poi fu Anthea a rompere il giaccio.
 
“Non avrei comunque il diritto di giudicarti. E fidati, se ti dico che i Vendicatori danno una possibilità anche ad assassini pericolosi e instabili. L’hanno data a me.”
“Sei un’assassina pericolosa e instabile?”
James la guardò con genuina curiosità.
“Lo ero e potrei esserlo ancora.”
Gli occhi della giovane si posarono sul viso addormentato di Steve e un piacevole calore le invase il petto.
“Ma non lo sono, grazie a lui. Diciamo che mi ha fatta tornare in me, prima che fosse tardi.”
Il Soldato non poté fare a meno di pensare al fatto che anche a lui era capitata la medesima cosa. Steve era riuscito a risvegliare una parte di Bucky, permettendogli di riacquistare la capacità di intendere e di volere.
 
La luce pallida della luna si tuffava nelle acque del Potomac, le quali brillavano di riflesso. Il fiume era ancora visibile in lontananza, oltre la coltre di alberi del parco di Georgetown.
Una leggera brezza sussurrava nel silenzio.
 
“Cosa gli hanno fatto?”
“Volevano fargli il lavaggio del cervello. Elettroshock. Poi l’avrebbero riprogrammato, per trasformarlo in un burattino al loro servizio.”
Il tono di James era tagliente, pieno di rabbia, rancore e odio.
“È quello che hanno fatto a te, non è vero? Ne parli con fin troppa consapevolezza.”
Anche la voce di Anthea era pericolosamente incrinata. Bucky la osservò serrare i denti con forza e tendersi talmente tanto, che parve potersi spezzare.
“Sì. Ho ucciso tante persone per conto di quei manipolatori. E poi mi hanno mandato a uccidere Capitan America.”
“Il braccio di metallo?”
“Un loro regalo, per rendermi più forte.”
 
Anthea annuì distrattamente, troppo assorbita da un vortice doloroso di ricordi. Anche lei aveva provato le pene dell’elettroshock, solo che i suoi aguzzini non erano riusciti a scalfire il suo particolare cervello.
Si era detta che sarebbe rimasta poco sulla Terra, giusto il tempo di controllare che Steve stesse bene.
E non stava bene. Affatto.
Quando Daskalos e i Demoni della Notte incombevano su di lei, il biondo aveva lottato per proteggerla e per permetterle di conquistare l’agognata libertà.
Poteva quindi abbandonarlo, ora che lui aveva bisogno di aiuto?
No. Non poteva. E non voleva.
Ora toccava a lei proteggerlo. Al diavolo il resto!
 
 
“Ci siamo.”
 
Davanti a loro c’era una grande casa a due piani. Si intravedeva un ampio attico attraverso le vetrate che costituivano la facciata anteriore del primo piano.
 
“È casa tua?” chiese Anthea, sorpresa.
 
“No. Apparteneva al mio ex capo, Alexander Pearce. Lui si è trasferito all’inferno.”
James sogghignò e si sistemò meglio Steve sulla schiena.
“Non sembra avere intenzione di svegliarsi troppo presto” constatò poi, dato che il biondo non aveva fatto una piega, nonostante lo scossone per tirarlo più su non era stato molto gentile.
 
“Lasciamolo dormire. Devo prepararmi psicologicamente ai suoi prossimi progetti suicidi per sconfiggere i cattivi. Non so se riuscirei a non picchiarlo, ora come ora.”
 
Bucky rise. Quella ragazza conosceva dannatamente bene Rogers.
 
 
 
 
 
 
Note
Ciao!
Lo so, sono in ritardo, ma ho passato due settimane di fuoco. La maturità si avvicina e l’ansia comincia a farsi sentire >.<
Cercherò di non superare le due settimane per il prossimo capitolo, promesso.
 
Per quanto riguarda questo capitolo, spero di avervi soddisfatte. La faccenda si complica e ci sono tanti interrogativi rimasti aperti (Mea culpa! Una cosa più semplice non potevo farla, eh?), perciò non sarà facile ricostruire il puzzle.
Vi consiglio di stare attenti ai dettagli, anche a quelli che sembrano stupidi e piazzati a caso. Presto o tardi, tutti i nodi verranno al pettine.
L’avete riconosciuta la spada dall’elsa bianca? Viene direttamente da “Demons of light e darkness”, così come colei a cui appartiene.
 
Un saluto alle due New Entry, _Alesia_ e mrslightwood. Vi mando un abbraccio grande grande! Grazie di aver deciso di seguirmi ♥
 
Voglio poi ringraziare the little strange elf (Dimmi che sei ancora viva! Ti pregooo! Spero che i risvolti non abbiano deluso le tue aspettative, mia cara! Un bacione ♥) e Grazie a Ravinpanica (hai recensito TUTTA la storia precedente, facendomi piangere e ridere di felicità! E adesso eccoti qui, a sostenermi in questa nuova avventura ♥ Sarò sempre disponibile ad ascoltare i tuoi consigli! Un abbraccio forte ♥).
Grazie anche alla mia Sister Ragdoll_Cat, che ha la grande capacità di sopportarmi (Che ne dici? Trattato di pace o vendetta? E tranquilla per le recensioni, so che arriverai, perché lo fai sempre ♥ Tanti baci dolciosi!).
E spero che Eclisse Lunare non se la sia presa per il povero Clint xD
 
Naturalmente, grazie a tutti coloro che seguono e leggono questa storia, in particolare a voi delle liste speciali. Troverò il modo di ringraziarvi tutti!
 
Adesso vi lascio :D
Alla prossima!
Un abbraccio a tutti ♥
 
Ella

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Capitolo 11
*** Tra ricordi e diffidenze ***


Tra ricordi e diffidenze
 
Si appoggiò allo stipite della porta e rimase a guardarlo in silenzio.
Da poco uscito dalla doccia, Rogers era impegnato a rinfilarsi i pantaloni cargo, che si stringevano attorno alle caviglie e i polpacci e gli fasciavano il sedere in un modo tale da farla sogghignare compiaciuta.
Ma le labbra tornarono ben presto a formare una linea dura, non appena lo sguardo le scivolò lungo la sua schiena. Ematomi violacei si stagliavano crudelmente sulla pelle chiara del super soldato e bruciature aventi la forma di lunghe dita erano nitidamente impresse sulle braccia.
Lo ascoltò lamentarsi sommessamente, mentre tentava di indossare la maglia nera con movimenti cauti e lenti.
 
“Non mi permetterai di darti una sistemata, giusto?”
 
Steve sussultò appena, prima di voltarsi. Abbassò velocemente la maglietta, stringendo i denti per il gesto brusco. Ad Anthea, però, non sfuggirono le brutte contusioni che gli percorrevano l’addome scolpito.
L’oneiriana avrebbe potuto guarire le sue ferite, aiutarlo a recuperare più in fretta le forze, ma il super soldato non le avrebbe permesso di fare niente di tutto questo, perché lui sapeva in cosa consisteva quel particolare processo di guarigione.
Se Anthea lo avesse curato, avrebbe preso su di sé un dolore che non le apparteneva e Steve non era intenzionato ad accettare un tale compromesso.
 
“Sai che sono contrario. Non ti lascerò prendere il mio dolore” fu infatti l’incontestabile risposta del biondo.
E la ragazza sorrise, constatando che era rimasto il solito altruista testardo.
Rogers, intanto, si era seduto sul letto sfatto e stava infilando gli stivali marroni. Strette le stringhe, si rimise in piedi e puntellò le mani sui fianchi, prendendo un bel respiro profondo e cercando di scacciare i rimasugli di un sonno stracolmo di incubi e inquietudini.
 
Dalla finestra socchiusa della stanza da letto entrava una lieve brezza, assieme alla luce pallida del sole appena sveglio. Una piccola nuvoletta di vapore sgusciava dalla porta del bagno interno alla camera, prova del fatto che Steve era stato parecchio tempo sotto il getto d’acqua bollente della doccia.
Anthea non riuscì a sopportare un secondo di più il silenzio imbarazzante che si era venuto a creare, perciò si fece forza e cercò gli occhi limpidi del ragazzo, scoprendoli distanti più che mai.
 
“Potevi venire ad avvisarci di essere ancora vivo” gli disse, per rompere il ghiaccio.
Rogers, però, parve non cogliere la vena scherzosa nella voce dell’oneiriana e si rabbuiò di colpo, come se un brutto pensiero avesse appena messo le radici nel suo animo.
Effettivamente fu così. Anthea poté percepirlo, grazie al sottile legame che ancora esisteva tra loro. Legame che, tuttavia, Steve non pareva sentire affatto.
 
“Ho avuto bisogno di un po’ di tempo per digerire gli eventi degli ultimi giorni.”
E avevo fottutamente paura di non trovare più né te né Bucky. Paura di venire a scoprire che ve ne foste andati’ fu il pensiero che Steve preferì tenere per sé.
Il terrore di rimanere solo gli era penetrato sotto la pelle e lo sentiva agitarsi nello stomaco.
Di riflesso, l’oneiriana divenne partecipe di quel timore che mai, prima di allora, era stato tanto intenso nel giovane Capitano.
In un soffio, frantumò la distanza tra i loro corpi e gli avvolse le braccia esili attorno al collo. Se lo tirò letteralmente addosso, con tanta forza da rischiare di far perdere l’equilibrio ad entrambi.
Steve si rilassò in quel caldo abbraccio, mentre la ragazza gli carezzava i capelli ancora umidi con dolcezza, solleticandogli l’incavo del collo con il respiro.
“Dio, Steve.”
Anthea poggiò la fronte sul petto del biondo e fece scivolare le mani sulle sue spalle larghe, stringendo forte il tessuto della maglia nera tra le dita.
 
Steve aveva chiuso gli occhi e si era quasi totalmente abbandonato contro di lei. Avrebbe voluto farle tante domande, dirle che era arrabbiato perché lo aveva lasciato senza alcun avviso, mandando a benedire la promessa del Per sempre.
‘Magari non adesso’ si disse.
In quel momento, voleva solo godersi il calore della ragazza. Gli era mancata così tanto, dopotutto. Si accorse che era diventata più alta, tanto che gli sarebbe bastato piegare il capo per sfiorarle il naso, mentre si guardavano negli occhi.
Non era più la ragazzina spaventata e straripante di insicurezza. La sua figura emanava una fermezza ed una sicurezza assurde, se si pensava a ciò che aveva dovuto subire ed affrontare in passato. Gli occhi magnetici dal colore inumano avevano assunto un taglio più deciso, più maturo. Erano grandi, gli occhi di Anthea, blu come gli abissi dell’oceano ed impreziositi da una brillante corona dorata che circondava la nera e lucida pupilla. I lineamenti del viso avevano quasi del tutto perduto i tratti della fanciullezza, mentre le forme del corpo erano divenute più armoniose ed erano messe in risalto da quello che doveva essere un abito proprio del suo popolo.
Anthea era cresciuta, era cambiata e Steve non riusciva a credere che fosse proprio lì.
Eppure, era conscio che non sarebbe stato in grado di comportarsi come se gli ultimi dieci mesi non fossero esistiti, come se lei non l’avesse tradito, lasciandolo senza degnarsi di rivolgergli una sola maledetta parola.
 
“Mi farai morire, presto o tardi. Lo sai questo?”
Anthea si era tirata indietro, ma le mani stringevano ancora le braccia del super soldato. Gli stava rivolgendo uno sguardo tra il severo e il rassegnato.
“Non farmi la predica.”
La ragazza fece spallucce, sorridendo appena.
“Non credo servirebbe, comunque. Sei un Idiota patentato, Rogers.”
“Rogers? Davvero? Ti ricordo che sono io quello arrabbiato” ribatté il super soldato, piccato.
Anthea abbassò il capo e pose fine al contatto tra loro, incrociando le braccia sotto i seni e cacciando fuori un sospiro contrito. Non era facile per lei ignorare la palpabile freddezza insita nel tono del biondo.
“Lo so.”
Ed alzò le mani in segno di resa, sconfitta.
“Finisci di darti una sistemata e cerca di non stressarti con troppe elucubrazioni mentali” aggiunse poi, con tono autoritario.
Steve la osservò dirigersi verso la porta. La lunghissima treccia oscillava ad ogni passo, carezzandole la base della schiena.
“È strano sentirti pronunciare il mio cognome. Mi hai sempre chiamato solo Steve.”
L’oneiriana, che si era bloccata nel sentirlo parlare, si voltò a guardarlo, con un sopracciglio inarcato e un sorrisetto sghembo a piegarle le labbra.
“Ti ci abituerai, Capitano Rogers. Non riesci proprio a stare lontano dai guai, eh?”
“Sono loro che trovano me.”
“Hai già usato questa scusa.”
“Il giorno in cui sei andata via, lo so.”
Quell’ultima costatazione, Steve la fece con palese durezza e Anthea ne rimase spiazzata, anche se avrebbe dovuto aspettarsi di ricevere, presto o tardi, l’accusa di averlo abbandonato.
Il Capitano possedeva tutte le ragioni per avercela con lei, dopo quanto era accaduto dieci mesi prima.
Anthea si sentiva profondamente in colpa e sapeva che, inesorabilmente, Steve aveva eretto fra loro un sottile ma tangibile muro, perché lei aveva commesso il grave errore di tradire la sua fiducia.
 
Non riuscivano più a guardarsi negli occhi, senza avvertire un triste gelo insinuarsi subdolamente nei loro cuori.
 
“Ci sono un paio di cose che devo chiederti, Anthea” asserì asciutto Rogers, di colpo.
 
Ma non ci fu tempo per parlare ancora, perché James irruppe nella stanza e puntò gli occhi sul Capitano.
 
“Devi venire a vedere.”
 
Steve ebbe un momento di esitazione. Era dannatamente strano riavere Bucky. Lo aveva cercato per mezzo mondo e adesso era lì con lui. E ricordava.
Quanto avrebbe voluto abbracciarlo, sapere quali ricordi avesse recuperato e offrirgli tutto il supporto possibile. Peccato che fossero implicati in una situazione scandalosa e che lui stesso avesse disperatamente bisogno di una spalla a cui appoggiarsi.
 
In un teso e scomodo silenzio, scesero tutti e tre al piano terra e raggiunsero l’attico, costituito da un’intera parete di vetrate.
Steve si guardò intorno con fare curioso. Il design moderno e raffinato di quel posto entrava in netto contrasto con un evidente stato di abbandono, testimoniato dai veli di polvere che ricoprivano il parquet e la mobilia. Intercettò il suo scudo e lo zaino contenente l’uniforme da Capitan America abbandonati su una poltroncina in pelle marrone.
“Dove siamo?” chiese.
Barnes scosse appena il capo, mentre li guidava verso un televisore a schermo piatto acceso e sintonizzato su un notiziario.
“Non ha importanza, Steve. Concentrati su questo.”
 
Nonostante non avesse gradito molto la risposta dell’amico, Rogers fece come gli era stato detto e spostò l’attenzione sul notiziario.
Apprese che erano le cinque del mattino e che, da quasi nove ore, speciali task force dell’FBI e dello stesso esercito americano avevano preso d’assedio una palazzina nei pressi di Capitol Riverfront.
 
“Sembra che i Vendicatori non siano disposti ad arrendersi. Della prima squadra inviata nel palazzo non si hanno notizie e ciò non può essere interpretato se non come una dichiarazione di guerra da parte degli ex eroi, non intenzionati a consegnarsi alla giustizia …”
 
Rogers smise di ascoltare. Un’ardente rabbia gli infiammò il petto e, preso da un senso di disperazione, si mise le mani tra i capelli, serrando la mandibola con violenza.
‘È colpa tua. Solo tua. Tua.’
Scattò in direzione della poltroncina marrone, mentre si sfilava la maglia e la gettava sul pavimento. Cominciò a tirare fuori dallo zaino i pezzi della divisa, ignorando gli sguardi insistenti dell’oneiriana e del Soldato.
 
“Cosa vuoi fare?” sbottò Anthea, a un certo punto.
“Mi pare evidente” fu la sola glaciale risposta del biondo, che intanto si era liberato degli stivali ed aveva già indossato la parte superiore dell’uniforme.
La ragazza si strinse il ponte del naso tra il pollice e l’indice della mano destra, cacciando fuori un ringhio frustrato.
“Vuoi affrontare a viso aperto una decina di squadre armate, quindi?”
Tolti i pantaloni, il Capitano infilò la parte inferiore della divisa, dove c’era il piccolo foro lasciato dal proiettile con cui Rumlow gli aveva trapassato la gamba destra. Poi passò ai guanti senza dita.
“Accidenti, Steve. Mi stai ascoltando?”
Anthea coprì la distanza che li separava con tre ampie falcate e artigliò il biondo per un braccio, costringendolo a voltarsi verso di sé.
“Non provare a fermarmi.”
Quasi faceva fatica a riconoscerlo. Non aveva mai visto tanto odio in quegli occhi limpidi. Dov’era finita la bellissima luce capace di scaldarle il cuore?
Lasciò andare il suo braccio e sospirò, annuendo appena.
“Sono con te, allora.”
 
“Preparo l’attrezzatura” asserì Barnes, guadagnandosi l’attenzione di entrambi.
 
Steve rimase per un attimo con il fiato sospeso e le parole faticarono a venire fuori. Era in balia di un’ondata inarrestabile di emozioni e non riusciva a gestirle. Quel che era accaduto nella base nascosta sotto il Triskelion lo aveva profondamente e irrimediabilmente segnato. Stava cercando di accantonare pensieri che continuavano a scavargli nell’animo, ferendolo con i loro artigli acuminati e gelidi come le acque di quell’oceano in cui avrebbe voluto rimanere sepolto. Lo consideravano un’Arma, non una persona. E l’avevano usato, senza che se ne rendesse conto.
Fin quando aveva seguito gli ordini, i piani alti, pur controllandolo attraverso lo SHIELD, gli avevano comunque lasciato una certa libertà.
Aveva combattuto cellule terroristiche, mercenari al servizio di uomini che non si facevano scrupoli ad uccidere per denaro e potere. Si era fatto in quattro per migliorarsi, sperando di sentirsi di nuovo utile e parte di un mondo che non gli apparteneva, ma a cui era stato costretto ad adeguarsi.
Poi aveva scelto di fare di testa propria, seguendo gli ideali per i quali Erskine gli aveva concesso il privilegio di possedere una forza fuori dal comune.
Non un soldato perfetto, ma un uomo giusto.
Lui aveva cercato di esserlo, un uomo giusto, fino in fondo. Eppure, adesso, era braccato alla stregua di sporca feccia, ritenuto un soggetto pericoloso e altamente instabile. Il Consiglio Mondiale di Sicurezza - di Sicurezza, perdio! - aveva fatto accordi con Teschio Rosso, per poter cancellare lui e tutti gli Avengers dalla lista dei suoi problemi.
Su quella lista c’era anche il Soldato d’Inverno. E avrebbero aggiunto Anthea, nel momento in cui l’avrebbero vista combattere al suo fianco. Ma se la ragazza aveva la possibilità di abbandonare la Terra, per Bucky non era lo stesso.
Il Soldato d’Inverno era già condannato alla pena di morte e non poteva permettersi di essere catturato. Era riuscito a rimanere invisibile agli occhi di tutti fino a poco tempo prima, eppure era uscito allo scoperto per sottrarlo ad un’esistenza fatta di buio ed obbedienza.
 
“Non ho un piano, Bucky. Andrò lì senza pensare alle conseguenze. Sei sicuro di volermi seguire?”
 
Barnes si passò una mano tra i capelli, riportando indietro alcuni lunghi ciuffi scuri. Sul suo viso nacque un’espressione che colpì Rogers nel profondo, perché in quel momento sembrava proprio il suo Bucky.
Il sorrisetto sbieco, un sopracciglio leggermente arcuato verso l’alto e lo sguardo tra il rassegnato e il divertito.
Quella era l’espressione ‘Hai fatto una cosa stupida, lo sai Steve?’, quella stessa espressione che aveva trovato ad attenderlo dopo ogni rissa persa, dopo ogni tentativo di arruolarsi sotto falso nome e, una volta diventato Capitan America, dopo ogni mossa azzardata sul campo di battaglia.
 
“E tu che avevi detto che tutta la stupidità me l’ero portata appresso io. Ti è rimasta appiccicata, Steve.”
 
Ulteriore colpo al cuore. Il sarcasmo di Bucky sapeva maledettamente di casa.
Steve non poté evitare di ridere e si portò una mano al viso, per coprire gli occhi umidi.
Dietro la postura rigida, l’espressione guardinga e la freddezza dello sguardo, James Buchanan Barnes esisteva ancora.
 
Bucky si fece più vicino e strinse tra le dita - quelle umane - la spalla sinistra del biondo, invitandolo a scoprire il viso e a guardarlo.
“Ti seguirò, perché non posso evitarlo. I miei ricordi sono ancora confusi e faccio fatica a distinguere ciò che è vero da ciò che non lo è, ma so chi sei tu e cosa significhi per me. Fino alla fine, no?”
“Fino alla fine” ripeté il Capitano.
“Devi promettermi una cosa, Steve. Sono instabile e, alcune volte, è il Soldato d’Inverno a prendere il sopravvento. E lui ha una missione rimasta in sospeso. Quindi, sta’ attento. Non abbassare del tutto le tue difese quando sei con me. Ti chiedo solo questo.”
Rogers si limitò ad annuire. Nel sentire quella confessione, lo stomaco gli si era attorcigliato su sè stesso e la voglia di sterminare l’Hydra una volta per tutte si era fatta improvvisamente bruciante.
 
L’oneiriana non riusciva a staccare gli occhi dai due super soldati. Sembravano essere legati da un’antica e fortissima amicizia, nonostante James le avesse detto che aveva tentato di uccidere Capitan America. Avrebbe voluto sapere di più, capire cosa era accaduto tra di loro, ma non era quello il tempo di fare domande.
Una cosa era certa. Bucky era riuscito a sciogliere un po’ dell’odio insinuatosi negli occhi di Steve, permettendo a una scintilla di luce di fare capolino.
Osservò Rogers rinfilare gli stivali e stringere le cinghie di cuoio intorno alle spalle, prima di posizionare lo scudo dietro la schiena.
Barnes, intanto, era sparito su per le scale, per recuperare l’attrezzatura di cui aveva parlato.
 
“Anthea.”
La giovane incastonò le iridi buie in quelle più chiare di Steve, che ora sembrava combattuto ed incerto.
“Grazie per averci salvato ieri e mi dispiace di essere stato così duro con te prima” sputò fuori, tutto d’un fiato.
Anthea, sorpresa, fece un gesto di diniego con il capo e sorrise.
“Sono io che devo farmi perdonare. E non devi ringraziarmi.”
“Okay” fu l’unica cosa che il biondo riuscì a dire e si passò una mano tra i corti capelli biondi perennemente arruffati, esternando un certo nervosismo.
 
“Ti trovo bene, comunque.”
“Grazie, Steve.”
 
E il lieve rossore sulle guance del giovane super soldato fu sufficiente a provocarle le palpitazioni.
Il suo Steve non era sparito del tutto, allora.
 
 
                                                               *
 
 
“Sai davvero utilizzare tutte quelle armi?”
 
Steve occhieggiò al borsone nero abbandonato sui sedili posteriori, al fianco di Anthea.
 
“Mi hai visto in azione, no? Ho parecchi talenti, grazie all’Hydra. Tu invece? Ancora allergia per le armi da fuoco? O meglio, per qualsiasi arma non sia il tuo scudo?”
Il biondo fece spallucce e si lasciò scappare un sorrisetto compiaciuto.
“Io e il mio scudo ti abbiamo battuto, se non ricordo male.”
“Dillo alla tua faccia, Steve. Non credo sarebbe d’accordo” ribatté James, seriamente divertito.
 
Scherzare su quanto era accaduto durante i loro due violenti scontri era un buon modo per iniziare ad esorcizzare i demoni che inesorabilmente ne erano venuti fuori.
 
“Mi spiegate? Voglio capire” si intromise Anthea.
La giovane si sporse tra i sedili anteriori e attese spiegazioni che non arrivarono.
“Storia lunga” risposero i due all’unisono, facendola sbuffare sonoramente.
 
Alla guida di un’Audi SQ7 nera, rubata dalla casa dirimpetto a quella in cui si erano rifugiati per la notte - che Rogers ignorava ancora fosse di Pearce, dato che Barnes aveva preferito omettere questa informazione -, Steve stava percorrendo Rock Creek e Potomac Parkway, in direzione di Capitol Riverfront, che si trovava a circa venti minuti da Georgetown.
Erano quasi le sei del mattino e dal cielo plumbeo scendevano piccoli fiocchi di neve, i quali volteggiavano leggeri fino a posarsi sul sottile strato bianco che già ricopriva i terreni e le strade.
Meno di dieci minuti e sarebbero giunti sul posto.
Il Capitano lanciò una fuggevole occhiata allo specchietto retrovisore, per scorgere la figura esile dell’oneiriana, la quale era tornata al suo posto, dietro il sedile anteriore del passeggero, e aveva gli occhi puntati fuori dal finestrino, persa in chissà quali pensieri.
‘Ti trovo bene’ le aveva detto e si diede dello stupido per quell’uscita stupida, perché il suo cervello era andato stupidamente in loop, quando l’aveva guardata davvero, evitando di pensare al motivo per cui era arrabbiato con lei. E quell’uniforme, attillata quanto la tuta in pelle della Vedova, non lasciava molto all’immaginazione. Certo, non avrebbe dovuto soppesare certe cose, data la situazione per niente consona, ma diamine! era stato a letto con lei - e solo con lei - più di una volta e quei pensieri gli erano subdolamente entrati in testa, senza che potesse fare nulla per fermarli.
Stupido.
 
“Hanno evacuato e circondato il quartiere. Nessuno può entrare o uscire passando inosservato. E c’è un elicottero della televisione” snocciolò Barnes, richiamando alla mente le immagini e le informazioni ottenute dal notiziario.
“La tattica consiste nello sfondamento alla cieca, perciò passare inosservati non sarà un nostro problema.”
“Come vuoi tu, Rogers” fu il commento atono di Anthea, che intercettò lo sguardo del biondo attraverso lo specchietto e assottigliò gli occhi in un muto e minaccioso rimprovero.
 
Barnes sogghignò. La ragazza aveva un bel temperamento ed era palesemente legata a Steve da un qualcosa che andava oltre l’amicizia. Quel qualcosa lo aveva visto perfettamente quando le aveva parlato del destino che l’Hydra avrebbe riservato a Rogers, se non lo avessero strappato ai suoi viscidi tentacoli in tempo.
Gli occhi le si erano oscurati tanto da apparire abissali, senza fondo, e James aveva percepito l’aria tremare intorno a loro, come scossa da un potere oscuro e spaventoso.
Era stato un istante. Un intenso istante che gli era rimasto impresso nella mente.
 
 
 
“Ci siamo” annunciò Steve.
 
Quelle due parole posero fine a tutte le congetture mentali che avevano affollato le teste dei tre combattenti.
A cinquecento metri da loro c’era un posto di blocco, soprasseduto da otto uomini armati con indosso giubbotti antiproiettile e caschetti muniti di visiera trasparente.
C’erano due blindati fermi dietro di loro.
 
“Schermo i proiettili.”
 
Prima che i due super soldati afferrassero quelle parole, Anthea aveva già frantumato il finestrino e vi era sgusciata fuori, per raggiungere il tettuccio dell’auto.
Una volta comprese le intenzioni dell’oneiriana, Rogers affondò il piede sull’acceleratore, non preoccupandosi delle munizioni che i soldati avevano preso a scaricare addosso alla macchina. I proiettili, infatti, rimbalzavano su una specie di campo di forza e nessuno di essi riuscì a raggiungere il parabrezza.
“Siamo letteralmente in una botte di ferro con lei” convenne Bucky, mentre si allungava verso i sedili posteriori per afferrare il borsone e lo scudo del compagno.
Rogers, intanto, aveva superato il posto di blocco, aggirando i due blindati e il manipolo di uomini.
L’auto slittò appena sulla neve accumulatasi ai margini della strada, ma poi tornò in carreggiata.
 
“Ci vengono dietro” constatò il Capitano, tenendo d’occhio lo specchietto retrovisore.
 
Gli uomini del posto di blocco erano saltati sui loro veicoli e si erano lanciati all’inseguimento.
Il Soldato, armato di kalashnikov, scardinò lo sportello dell’auto e si sporse fuori.
 
“L’avevo presa in prestito l’auto.”
“Fanculo, Steve.”
 
James centrò le ruote anteriori della prima auto, che finì contro una ringhiera delimitante il giardino di un’abitazione. Erano nel mezzo di un centro abitato, perciò le strade erano strette e costeggiate da lunghe file di palazzine, che fortunatamente erano state evacuate.
Rogers sterzò parecchio bruscamente a sinistra e ci mancò poco che Bucky fosse sbalzato fuori dal veicolo.
 
“Steve!”
Il richiamo arrivò sia dal Soldato sia dall’oneiriana. Quest’ultima era ancora sul tettuccio dell’auto e non era caduta per miracolo.
“Scusate.”
Ma non passò molto, prima che il Capitano fu costretto ad eseguire un’altra manovra di fortuna. Altri due blindati, infatti, stavano venendo loro incontro, perciò non poté fare altro, se non svoltare a destra e passare su una sfortunata aiuola imbiancata dalla neve.
Questa volta, Barnes gli finì addosso e un tonfo sordo provenne dal tetto, la cui lamiera venne inevitabilmente ammaccata.
 
“Propongo di continuare a piedi” asserì il Soldato con convinzione, mentre tornava al suo posto.
“Proposta accettata. Reggiti.”
Rogers frenò a secco e i freni emisero stridii simili a grida ingiuriose.
Anthea venne catapultata in avanti, ma i riflessi pronti l’aiutarono ad atterrare in piedi.
Uno dei blindati finì per tamponare l’Audi ormai mezza distrutta e gli airbag salvaguardarono le teste dei due super soldati, i quali, dopo un attimo di smarrimento, impugnarono le armi e saltarono fuori dal veicolo, correndo verso la ragazza.
 
“Ricordami di non salire mai più in macchina, quando al volante ci sei tu, Steve.”
“Esagerato.”
“No, ha ragione” si intromise Anthea, che era venuta loro incontro.
 
Insieme si diressero verso la palazzina color mattone, sopra la quale stava volando l’elicottero, che pareva un condor pronto a gettarsi sulle sue prede.
I tre blindati sopravvissuti al tamponamento tagliarono loro la strada, costringendoli a fermarsi. Ne scesero una quindicina di uomini che imbracciavano fucili d’assalto.
“Steve Rogers lo vogliono vivo” gridò uno dei soldati.
 
“Grazie per l’informazione. Anthea, copri Bucky.”
Il Capitano scattò in avanti, prendendo alla sprovvista sia i nemici sia i compagni di quella squadra improvvisata ma funzionante.
I soldati furono sopraffatti dalla forza e la velocità del ragazzo a stelle e strisce, che approfittò fino in fondo dell’immunità che aveva a disposizione.
Non potevano ferirlo mortalmente, ergo non potevano fermarlo.
 
“Se non lo uccidono loro, lo farò io” fu il tagliente commento di Anthea.
“Conta pure su di me” rincarò il Soldato, prima di buttarsi nella mischia, conscio di avere le spalle coperte.
 
 
                                                          *
 
 
“Che diavolo sta succedendo là fuori?”
 
Sam non attese che qualcuno gli rispondesse. Scivolò verso la finestra e cautamente sporse la testa fuori.
La sua attenzione venne inesorabilmente catturata dal groviglio di uomini che si muovevano caoticamente, a circa cinquanta metri dalla casa sicura, ora trasformatasi in una prigione senza alcuna via d’uscita.
Era difficile capire cosa stesse effettivamente accadendo, dato che pareva essere in corso una di quelle risse da bar, dove tutti sono trasportati da un’inspiegabile euforia di spaccare qualcosa o qualcuno e, alla fine dei conti, non ci si ricorda nemmeno quale sia stata la scintilla che ha accesso la miccia esplosa in un caos liberatorio. Naturalmente, quelli erano ricordi del fronte e Sam poteva affermare di aver preso parte a un paio di quelle risse, per scaricare le tensioni e zittire i demoni della guerra. Servivano soprattutto a quello le scazzottate tra soldati, in fondo.
Assottigliò gli occhi e colori inconfondibili si impressero nella sua pupilla, seguiti poi dalla figura familiare di quel compagno di viaggio che avrebbe seguito ovunque.
“Non ci crederete mai.”
 
Wilson sobbalzò, quando si ritrovò la dannatamente silenziosa Vedova Nera alle spalle.
Anche Natasha spinse lo sguardo in direzione della battaglia in corso e al pararescue non sfuggì la calda scintilla che le illuminò le iridi smeraldine. Ma la scintilla si estinse velocemente, perché la rossa intercettò una presenza che avrebbe preferito non fosse presente. E come se quella sorpresa non bastasse, c’era una terzo soggetto che mai si sarebbe aspettata di vedere.
 
“Qualcuno si decide a parlare?” sbottò Clint, seduto sul pavimento, con la schiena appoggiata ad una parete.
L’arciere era pallido. Sudore freddo gli imperlava la fronte e i denti battevano appena per il freddo. Molto probabilmente la ferita si era infettata e la febbre era stata un’inevitabile conseguenza.
Erano rinchiusi in quell’appartamento da dieci ore, ormai. Nessuno tra loro era riuscito a chiudere occhio, per il timore di un agguato improvviso. I nemici, però, si erano limitati ad attenderli fuori, consci dell’enorme rischio che avrebbero corso se avessero deciso di affrontarli direttamente.
Il piano delle task force era di sfiancarli. Senza riposo e senza viveri, nemmeno membri dei Vendicatori sarebbero stato in grado di sopravvivere a lungo. E il freddo non era di aiuto. Presto o tardi, sarebbero stati costretti ad uscire e ciò li avrebbe portati dritti nelle fauci del lupo.
 
“È Tony?” chiese Pepper, avvicinandosi alla finestra per sbirciare fuori.
“No. È Steve” riferì Natasha, ma nel suo tono c’era un velo di inquietudine e a Barton non sfuggì.
“Cosa c’è che non va, Nat? È ferito?”
 
“È con il Soldato d’Inverno.”
Era stato Sam ad annunciare quella notizia scottante e, nonostante la sua fiducia nei confronti del Soldato fosse scarsa - per non dire inesistente -, non poté non sorridere dinanzi all’ennesimo tiro mancino del destino.
Lui e Steve avevano girato mezzo mondo in cerca di James Barnes, senza mai riuscire a scorgerne nemmeno l’ombra. Ora, non sapeva esattamente cosa fosse accaduto, ma era certo che era stato James Barnes a trovare Steve, alla fine.
 
Con significa che è nostro alleato?”
La diffidenza nella voce dell’arciere era palpabile. Ma c’era Steve e Steve era una garanzia, perciò Barton avrebbe evitato di mettersi sulla difensiva prima del tempo.
 
“Così pare” convenne Sam.
Subito dopo, il pararescue strabuzzò gli occhi, incredulo.
“E quella chi diavolo è? Sembra essere dalla nostra.”
 
“La sua fidanzata” intervenne la Vedova, finalmente uscita dal gelido silenzio intessuto di dubbi e ricordi molesti.
 
Lei è qui?”
Adesso, Occhio di Falco aveva davvero rischiato di rimanerci secco.
‘Chi più ne ha più ne metta!’ ironizzò interiormente, chiedendosi se qualcosa - qualsiasi cosa - sarebbe riuscita a stupirlo ancora.
 
“La fidanzata di chi?”
 
“Ma come, Wilson? Rogers non te l’ha detto?”
 
E la smorfia divertita nata sul volto di Barton non aiutò certamente Sam a capire se lo stessero prendendo in giro o se, davvero, Capitan America avesse una fidanzata a sua totale insaputa - dannato Steve! Non l’avrebbe mica passata liscia.
 
“Dobbiamo approfittare del disordine e …”
A Natasha le parole morirono in bocca.
Non c’era più alcun dubbio.
Lo spettacolo raccapricciante a cui si ritrovò ad assistere era opera di Anthea, la ragazzina che quasi tre anni prima aveva salutato sul tetto della Tower e che aveva visto scoparire nella luce intensa del Bifrost, assieme a Thor e Loki.
 
“Che figata assurda! Ma dove l’ha trovata Steve una così?”
 
La domanda di Sam cadde nel silenzio.
Era una complicata storia lunga.
 
 
                                                          *
 
 
Avevano cambiato strategia.
Le armi da fuoco erano risultate inefficaci, dato che non potevano essere utilizzate su Capitan America e che nessun proiettile era riuscito a sfiorare, nemmeno di striscio, il Soldato d’Inverno o la sconosciuta dai poteri sovrannaturali.
I componenti delle task force avevano quindi optato per l’arma bianca. Il vero problema, però, non era rappresentato dalle lame di svariate forme e lunghezze, ma da alcuni bastoni neri, lunghi approssimativamente un metro e aventi come estremità due piccole corna argentee. Quelli erano taser perfettamente funzionali, se si voleva stordire l’avversario e, al tempo stesso, tenerlo a distanza di sicurezza.
 
Barnes si liberò del kalashnikov scarico e si maledì per aver lasciato il borsone con le armi nella macchina che Steve si era premurato di distruggere.
Era in momenti come quello che avere un braccio di metallo risultava parecchio utile.
I nemici parevano essersi moltiplicati. Uomini in nero arrivavano da tutte le direzioni, convergendo nel punto in cui si stava consumando la lotta.
 
“Dannazione!”
 
Il Soldato seguì la voce di Rogers e lo trovò pericolosamente incasinato. Alcuni soldati erano riusciti a disarmarlo dello scudo e due tra loro si erano impossessati delle sue braccia e tentavano di bloccargliele dietro la schiena. Un terzo era alle spalle del biondo e lo teneva stretto per la vita, impedendogli di ruotare il bacino.
“Tienilo! Tienilo!” sbraitava un altro uomo, mentre si avvicinava con in mano uno di quegli strani taser.
James cominciò a farsi strada in direzione dell’amico, anche se la netta inferiorità numerica non gli era d’aiuto.
La falla di quella missione azzardata - meglio definita come sfondamento alla cieca - non stava nell’essere solo tre contro più di una decina di squadre armate, ma nel non essere nelle condizioni di affrontare una situazione del genere. Nonostante le ore di sonno, Steve era visibilmente provato e le attuali condizioni fisiche non gli permettevano di combattere lucidamente. Bucky, invece, non dormiva da quando era arrivato a Washington e la stanchezza gli appesantiva i muscoli e gli annebbiava il cervello.
 
In quel caotico aggrovigliarsi di membra grondanti d’adrenalina, due parole sgusciarono via dalla cacofonia violenta della battaglia, riecheggiando come un’eco soffusa nelle orecchie dei combattenti.
“Adesso basta.”
Come risucchiati dalla forza di un magnete, i nemici furono strappati da terra e costretti a librarsi in aria, quasi fossero tanti aquiloni aventi fattezze umane.
L’oneiriana si compiacque del proprio operato. I suoi poteri psichici era cresciuti esponenzialmente da quando aveva lasciato la Terra, quasi tre anni prima. Gli anziani del suo popolo le avevano insegnato a controllare le più oscure abilità della mente e l’avevano aiutata ad affinarle.
La giovane sentiva il sangue scorrere nelle vene delle prede finite disgraziatamente sotto l’influsso del suo potere. Percepiva il palpitare dei loro cuori, l’aria attraversare le vie respiratorie e i muscoli tendersi intorno le ossa. Quegli uomini, ora, non erano altro che fragile creta nelle sue mani.
Un pensiero e avrebbe freddato i loro cuori. O spezzato le loro ossa. O impedito all’aria di raggiungere i polmoni.
 
Gli ennesimi rinforzi nemici si erano bloccati ad osservare quello spettacolo raccapricciante, rimanendo a debita distanza.
 
Era calato un surreale silenzio.
 
“Il tuo occhio. Sanguina.”
Steve, dopo aver recuperato lo scudo, si era avvicinato all’oneiriana e, istintivamente, aveva cercato i suoi occhi, per assicurarsi che fossero del colore giusto. Il blu c’era ancora, ma dall’occhio destro era scivolata fuori una lacrima di sangue, che le aveva rigato la candida guancia.
“Lo so. Non è niente” cercò di rassicurarlo lei, ma dovette essere poco convincente, perché Rogers storse appena il naso con disappunto.
 
 
“Steve!”
 
Il Capitano cercò la sorgente del richiamo improvviso. Avrebbe riconosciuto quella voce tra mille.
Sam era affacciato alla finestra della palazzina color mattone e stava sbracciando in direzione del biondo, alla stregua di un naufrago rimasto bloccato su un’isola deserta e che, dopo giorni di estenuante attesa, avvista una nave all’orizzonte.
“Sam!”
Rogers si esibì in un amichevole saluto militare, portando la mano destra alla fronte.
“Chi è con te?” chiese poi, mettendo le mani a coppa intorno la bocca.
“Natasha, Clint e Pepper! Tony è andato alla Tower! Clint è ferito!” fu l’immediata replica del pararescue.
“È grave?”
“No! Ma la ferita si è infettata!”
 
“Volete continuare a gridare ancora per molto, Romeo e Giulietta?” si intromise la Romanoff a quel punto, affacciandosi alla finestra al fianco di Sam.
“È uno spettacolo per i duri d’orecchio. E Giulietto, prego” replicò Wilson, sempre con voce abbastanza alta, da permettere al Capitano di sentire.
 
“Io non faccio la corte a uno che si chiama Giulietto!”
 
A Steve arrivò uno scappellotto in testa da parte di Barnes, che lo aveva raggiunto già da qualche minuto, senza però riuscire a smettere di lanciare sguardi fugaci agli uomini sospesi sopra le loro teste.
 
 
Il frastuono di propulsori costrinse tutti a rivolgere lo sguardo verso il cielo plumbeo.
Era un jet.
 
“Avete l’ordine di sgombrare il campo. Tre minuti all’attivazione del super soldato.”
 
Alle parole provenienti da qualche altoparlante del velivolo, ogni singolo soldato nemico rinfoderò la propria arma e prese a correre lontano dalla casa sicura.
 
“Vi state dimenticando di loro.”
Dopo quel pungente commento, Anthea scaraventò i soldati intrappolati dal suo potere contro i colleghi in fuga, creando maggiore scompiglio.
 
Tre minuti dopo, un figura si lanciò dal portellone posteriore del jet, atterrando perfettamente in piedi, a una decina di metri da Steve e Bucky, e formando vistose crepe sull’asfalto nel punto dell’impatto.
Rogers si tese talmente tanto, da attirare su di sé lo sguardo allarmato del Soldato.
 
“È il mostro di ieri” sibilò Anthea, mentre raggiungeva i due super soldati.
 
“È un grosso problema” commentò freddamente il Capitano, posandosi istintivamente una mano sull’addome ridotto ancora parecchio male.
 
I problemi però non erano finiti. Sembravano susseguirsi con uno spaventoso effetto domino.
Teschio Rosso avanzò sul portellone ancora abbassato del jet, stretto in un elegante e lungo soprabito in pelle nera.
 
“Mio caro Steve Rogers, ascoltami bene, perché questo è l’ultimo avviso che ti concedo. Se ti arrendi e vieni con me, darò ai tuoi amici la possibilità di avere salva la vita. Ma se ti rifiuti di seguirmi docilmente, allora sguinzaglierò il mio super soldato e sappi che ha l’ordine di sterminare la tua insulsa combriccola e di spezzare ogni singolo osso che hai in corpo prima di riportarti da me.”
Schmidt sorrise e la sua attenzione rimase fissa sul giovane Capitano, in un chiaro segno di sfida.
 
Rogers percepì un senso di nausea invadergli lo stomaco. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma le parole non vennero fuori, gli rimasero impigliate tra le corde vocali.
“Non pensarci nemmeno, Steve” lo ripresero all’unisono Bucky e Anthea, mentre Natasha gli gridava di non azzardarsi ad accettare quel subdolo compromesso.
“Sono così prevedibile?” ironizzò il biondo, guadagnandosi un’occhiataccia da parte dell’oneiriana.
“Maledettamente prevedibile.”
 
“Non ho tutto il giorno, ragazzo” lo avvisò allora Teschio Rosso, spazientito.
 
“Io …”
 
 
 
Un fischio in lontananza.
Un rumore sordo. Esplosione.
 
Il jet precipitò.
I propulsori erano stati distrutti.
 
“È qui la festa?”
 
L’arrivo di Iron Man fu seguito da quello del Quinjet, manovrato dal fidato JARVIS.
 
Rogers riacciuffò la freddezza necessaria a prendere in mano la situazione. Si accorse che il Quinjet stava eseguendo la manovra di atterraggio e chiamò con forza Stark, ottenendo la sua attenzione.
“Fai rimanere in aria il jet! Apri solo il portellone!”
“Agli ordini, Cap!”
Mentre il portellone si spalancava, il Capitano appurò che l’Ultra Soldato non si sarebbe mosso, non senza un ordine diretto di Teschio Rosso, ora intrappolato nel velivolo che Iron Man aveva abbattuto. Ma non voleva comunque correre il rischio di perdere l’unica occasione di fuggire da lì. Far scendere il jet a terra era pericoloso e avrebbe significato sprecare tempo prezioso.
Dovevano allontanarsi da quel mostro viola e da Schmidt, il prima possibile.
“Anthea, porta tutti quelli che si trovano lì dentro nel jet.”
Rogers indicò alla ragazza la finestra dove Sam e Natasha erano ancora affacciati e fece un cenno con il capo in direzione di questi ultimi, come se in qualche modo bastasse per intendersi, senza usare ulteriori parole.
“Va bene, Steve.”
 
L’oneiriana scattò verso il palazzo color mattone e, una volta arrivata ai suoi piedi, si rivolse direttamente alla Vedova Nera.
“Saltate giù. Anche tutti insieme.”
 
“Sta scherzando vero?”
Sam fissò la Romanoff con gli occhi sgranati, incredulo, ma lei negò con capo.
“Non posso usare le mie ali?”
“Non fare la femminuccia. Salta e basta” furono le incoraggianti parole della rossa, che intanto aveva raggiunto Clint per aiutarlo a rimettersi in piedi.
Sam - borbottando qualcosa riguardo il non essere una femminuccia - recuperò l’arco e la faretra di Barton, per poi caricarsi in spalla lo zaino contenente le sue amate ali meccaniche, mentre Pepper si occupava delle borse riempite la sera prima.
 
“Veniamo giù due alla volta” fu l’avviso che Natasha rivolse ad Anthea, prima di lanciarsi dalla finestra, stringendo a sé un Clint semicosciente.
Le due spie, sospinte dal potere dell’oneiriana, raggiunsero l’interno del jet senza difficoltà.
“Sembra divertente” commentò Sam, prima lanciarsi a sua volta, insieme a Pepper, la quale non mostrò alcun segno di paura o incertezza.
 
 
 
Mentre Anthea eseguiva egregiamente il suo compito, Tony atterrò al fianco di Rogers.
“Le domande sono rimandate a dopo, Stark” lo anticipò il biondo.
“E va bene, Capitan Scontroso.”
“Non la smetterai mai con questi stupidi nomignoli, eh?”
“Esatto” si limitò a rispondere Tony, ora troppo occupato a scannerizzare il Soldato d’Inverno, fermo a pochi passi da loro.
L’assassino. E il miglior amico di Steve.
Per fortuna, l’arrivo di Anthea sottrasse Stark da pensieri pericolosamente contorti.
 
Oh santa scienza! Ma quanto diamine sei cresciuta?”
“Anche per me è un piacere rivederti, Tony” fu il gentile saluto dell’oneiriana.
“Rogers, ma l’hai vista?”
Nonostante la voce metallica non rendesse propriamente le sfumature della voce, Steve percepì perfettamente la malizia insita in quella semplice domanda.
 
“Andiamo su.”
“Come vuoi, Capitan GlissoLeDomandeInsidiose America.”
Rogers sbuffò.
“Domande inopportune, Stark. E smettila con i nomignoli.”
“Giammai!”
 
Tony circondò con un braccio metallico la vita di Steve e schizzò verso l’alto, prendendo il ragazzo del tutto alla sprovvista, tanto che lasciò cadere il suo scudo.
 
“È peggio di quanto ricordassi” sussurrò Anthea tra sé e sé, prima di rivolgere a Bucky uno sguardo parecchio eloquente.
“Quando vuoi. Ormai ci ho fatto l’abitudine” asserì sicuro quello, mentre recuperava il cerchio in vibranio.
L’attimo dopo, la ragazza l’aveva spedito nel Quinjet e, senza esitazione, l’aveva raggiunto, spiccando con mostruosa facilità un salto di quasi dieci metri.
 
“Mettimi giù.”
“Stavo dando la precedenza alla ragazza. Rilassati, Rogers. E poi tu hai detto andiamo su.”
Stark si decise finalmente a raggiungere l’entrata del velivolo, ignorando l’occhiata di fuoco del biondo.
Peccato che l'Ultra Soldato lo costrinse a tornare bruscamente a terra.
Il mostro gli strappò letteralmente Steve dalle braccia, artigliando il ragazzo per una gamba.
 
“Tony!” chiamò il giovane super soldato, mentre veniva trascinato sul duro asfalto.
 
“Ti avevo avvertito, Capitano.”
La voce di Schmidt si levò irosa e fredda. Era riuscito a tirarsi fuori dal velivolo distrutto e il soprabito nero era bruciacchiato in più punti.
 
“Mi dispiace, ma noi adesso andiamo via e Steve viene con noi.”
Anthea, ridiscesa dal Quinjet, si scagliò contro l’Ultra Soldato e lo colpì in piena faccia con un pungo circondato da fiamme incandescenti. Il mostro mollò Rogers e si coprì il volto con le mani squamose, emettendo versi doloranti.
La giovane aiutò il biondo a tornare in piedi e lo spinse contro Iron Man.
“Tornate sopra.”
E Tony non se lo fece ripetere.
 
Anthea era già in procinto di seguirli, ma dovette bloccarsi.
 
“Non erano questi gli accordi, Heith.”
 
L’oneiriana si voltò, per incontrare lo sguardo infossato di Teschio Rosso.
“Come mi hai chiamata?”
“Con il tuo nome” replicò Schmidt.
“Hai sbagliato persona. Io non ti ho mai visto prima.”
 
L’Ultra Soldato, intanto, si era ripreso, ma Schmidt gli diede l’ordine di fermarsi.
Anthea offrì alla testa dell’Hydra un ultimo sguardo confuso. Poi raggiunse gli altri e Teschio Rosso non fece altro che osservarla sparire oltre il portellone del velivolo.
 
Il Quinjet partì veloce verso la linea dell’orizzonte.
 
 
 
“Dunque, è arrivato il momento di ricordarti chi sei, mia cara Heith.”
 
 
 
                                                 ***
 
 
 
“Devo costruire un jet più grande.”
 
Tony, privatosi dell’armatura, si guardò intorno, scorgendo solo sguardi parecchio avviliti e stanchi.
I membri dell’allargata comitiva erano tutti seduti sul pavimento, ognuno appoggiato con la schiena ad una porzione della parete metallica del velivolo.
Il Quinjet era in modalità invisibile. Nessun radar avrebbe potuto rilevarlo.
Ma non potevano di certo rimanere chiusi lì dentro per sempre.
 
“Che si fa, adesso?” si azzardò a chiedere l’inventore, sperando di non venire linciato, data l’atmosfera non molto distesa.
 
“So io dove andare” balbettò Clint e diede a Stark coordinate che li avrebbero portati al sicuro, lontano dal cuore della tempesta.
Nessuno fece domande riguardo la nuova destinazione.
 
“Perché ci hai messo tanto, Tony?”
All’interrogativo di Natasha, Stark si rabbuiò di colpo.
“Vi dirò tutto, ma non ora. Comunque, pare che la caduta del Triskelion abbia portato a galla la sporcizia, invece di seppellirla. O, almeno, è così che mi ha riferito l’ora libero senatore Stern e, per una volta, sono costretto a dargli ragione.”
 
“Oh, ma andiamo! Maledizione!” fu il disperato lamento di Steve.
 
“Tranquillo, Rogers. Non è colpa tua. Forse solo un pochino.”
 
 
 
 
 
 
Note
Ciao!
Come promesso, ecco il nuovo capitolo. Naturalmente, ci sarà un flashback che mostrerà cosa è accaduto a Tony, quando ha raggiunto la Tower.
Il senatore Stern era stato arrestato alla fine di “The Winter Soldier”, perché membro dell’Hydra, ma è ovvio che l’Hydra sia riuscita ad infiltrarsi nei piani alti, dato che i cattivi hanno piena libertà di azione.
Vi chiederete chi è Heith e cosa c’entra Anthea con Schmidt. E bene, sapremo tutto più in là. Dal prossimo capitolo inizieranno le spiegazioni, così cominceremo a mettere insieme i pezzi di questo puzzle complicato, come è giusto che sia.
Solo che, per il prossimo capitolo, ci sarà da aspettare. Forse riuscirò a pubblicarlo entro la fine Maggio. Mi dispiace immensamente di non poter fare nulla prima, ma la maturità chiama e sono costretta a dedicarmi alla preparazione per questo esame finale. Spero che capirete e che, nonostante ciò, continuerete a seguirmi.
Superato Giugno, mi farò perdonare, promesso.
 
Ora voglio ringraziarvi per il tempo che mi dedicate.
Grazie a:
Anny2001
DalamarF16
fredfredina
happyfun
Ragdoll_Cat
Ravinpanica
Siria_Ilias
TheMonstersAreHuman
Trafalgar Norah
winterlover97
Per aver inserito la storia nelle Preferite *.*
 
Grazie a:
Eclisse Lunare
Giulietta beccaccina
happyfun
Mary Grifondoro
mrslightwood
Ravinpanica
selenagomezlover99
shoppingismylife - la New Entry! Un abbraccio! J
 Siria_Ilias
StevenRogers
the little strange elf
winterlover97
_Abyss_
_Alesia_
Per aver inserito la storia tra le Seguite *.*
 
Grazie infinite a the little strange elf (Dovrai aspettare un po’, ma spero di trovarti ancora e ancora, nei prossimi capitoli ❤) e a Ravinpanica (Giuro che non vi abbandono! Finita la maturità, cercherò di dare il meglio per farmi perdonare l’attesa ❤) per le dolci recensioni. Spero che vi piaccia anche questo capitolo.
E Grazie a Ragdoll_Cat, per le consulenze logistiche e il sostegno ❤
 
Per ora è tutto!
Alla prossima e godetevi Civil War *.*
Un abbraccio grandissimo ❤
 
Ella

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Capitolo 12
*** Ricapitolazione ***


Ricapitolazione
 
Diverse ore prima.
New York.
 
“Ci hanno trovati. Hanno circondato il palazzo e Clint è ferito. Devi farti venire un’idea abbastanza buona per tirarci fuori da questo casino. Noi cercheremo di resistere.”
“Non tarderò.”

 
 
 
Mancava poco ormai alla Tower. Non aveva potuto viaggiare a massima velocità, perché il livello di energia dell’armatura era pericolosamente basso. L’uso dei pannelli retroriflettenti, inoltre, era parecchio dispendioso, ma rinunciare all’invisibilità avrebbe significato compromettere la missione.
Anche se, dopo la chiamata di Natasha, essere compromessi era già un dato di fatto.
Doveva rimanere calmo e ragionare, stilare una lista mentale delle cose da prendere e non farsi distrarre da pensieri poco felici.
Se il Consiglio o l’Hydra - o entrambi - avevano attaccato la casa sicura, c’erano poche spiegazioni plausibili.
O erano riusciti a scovarli, dopo giorni di ricerche, ed erano quindi venuti ad arrestarli.
O Ross non aveva creduto alla messinscena della Hawley e aveva agito di risposta.
O avevano sempre saputo dove la squadra - quel che ne rimaneva - si era nascosta ed era successo qualcosa che li aveva costretti ad agire in anticipo. Ma se li avevano tenuti d’occhio fin dall’inizio, di conseguenza i bastardi sapevano del fatto che Tony fosse diretto alla Tower per il recupero del frammento di energia del Tesseract.
 
La vista della Tower che si stagliava contro l’orizzonte lo strappò per un attimo dalle sue congetture.
Ormai era tardi per tornare indietro. Ed era tardi anche per pensare a un piano di fuga.
Piano? Da quando pensava ad elaborare piani d’azione? Avrebbe agito in pieno Stark style, ovvero ‘Io ho un piano: attacco.’
 
La Tower era circondata da transenne gialle, quasi come fosse la scena di un crimine. C’erano almeno dieci uomini all’entrata e altrettanti sulla piattaforma di atterraggio, dove era posizionato il Quinjet.
C’era anche un altro jet lì sopra. Brutto segno.
 
“JARVIS, quante persone all’interno?”

“Rilevo dodici presenze nel suo ufficio personale. Vuole che attivi il Protocollo Sentinella, signore?”
 
“No. Prima dello sfratto, è educato inviare un avvertimento.”
 
Tony atterrò in quel momento sulla piattaforma, alle spalle dei soldati in nero, i quali ovviamente non poterono vederlo.
L’armatura era ufficialmente in riserva di energia.
La porta a vetri che accedeva direttamente al suo personale ufficio era aperta e riuscì facilmente a riconoscere alcuni volti tra i nuovi abusivi inquilini.
Henry Benson era comodamente seduto su una delle poltrone in pelle dinanzi la scrivania, mentre dietro di essa, seduto sulla sua sedia girevole - come un maledetto usurpatore - c’era il caro vecchio Senatore Stern, con quella sua faccia da orticaria e l’aria baldanzosa.
In piedi, al fianco di Benson, era presente Brock Rumlow, l’accanito seguace dell’Hydra che Wilson aveva definito fuori di testa - quello che si era portato via Steve.
Oltre gli otto soldati armati sparsi per la stanza, tutti impettiti e sull’attenti, c’era anche una donna dai capelli scurissimi e gli occhi verdi. Aveva un’aria assente e continuava a stringersi nel suo lungo cappotto grigio, dando l’impressione di voler sparire.
 
“Non posso credere che ve lo siate lasciato scappare. Questo errore ci compromette tutti” sputò fuori Stern, con un certo fervore.
Era rabbia quella che gli incrinava la voce e le rughe profonde sulla sua fronte erano espressione di una radicata ansia.
 
Tony rimase immobile, appena oltre la porta a vetri. La parola errore era stata sufficiente ad attirare la sua attenzione. Quella poteva essere una buona occasione per capirci qualcosa, per ottenere informazioni utili a tirare fuori i Vendicatori dai guai.


“Non era prevista l’intromissione del Soldato d’Inverno. E sembra che ci siano state controversie con l’Esterno” fu la pacata replica di Benson, che stava palesemente cercando di nascondere l’irritazione dietro una facciata neutra.
Stern emise un verso frustrato e si passò una mano sul viso, asciugandosi la leggera patina di sudore che gli bagnava la pelle.
“Lo voglio morto, quel piccolo figlio di puttana.”
“Non spetta a lei decidere. Schmidt ha espressamente chiesto di tenerlo in vita. Sai fin troppo bene che necessitiamo dell’Arma Zero” asserì Benson, asciutto.
 
“Il ragazzo ha visto in faccia alcuni tra i più importanti capi militari dell’esercito americano, oltre che alcune personalità di spicco della CIA e dell’FBI. Li ha visti mentre si godevano lo spettacolo che Schmidt ha organizzato, per dare prova delle capacità della nuova arma. Steve Rogers va eliminato.”
Stern si era alzato dalla sedia e teneva lo sguardo fisso in quello del commissario del Consiglio. Non sembrava intenzionato a contrattare oltre. La sua era un’imposizione e Benson sapeva che Schmidt non l’avrebbe presa affatto bene, perché mai si sarebbe accontentato del corpo esamine di colui che riteneva a tutti gli effetti la sua nemesi.
 
“Ho contattato Ross ore fa. Adesso i suoi uomini stanno assediando il nascondiglio dei restanti Vendicatori e la notizia si diffonderà velocemente, dato che sono stati avvisati giornalisti e televisioni. Non appena Rogers saprà che i suoi amichetti sono in pericolo, li raggiungerà e saremo lieti di riaverlo con noi.”
Il lineare discorso di Henry fece scuotere il capo a Stern, che si rimise seduto, lisciando la giacca del completo scuro.
Era evidente che tra i due c’era una certa tensione derivante da un’insana corsa al potere. Entrambi miravano ad imporsi l’uno sull’altro, senza avere la minima idea di cosa significasse veramente la parola collaborazione. Era un continuo conflitto di interessi, un conflitto che si stava consumando all’interno della medesima organizzazione, un conflitto che ne danneggiava irrimediabilmente le fondamenta.
 
“Siamo riusciti a tenere Ross buono con la promessa di un esercito di super soldati e consegnandogli Bruce Banner. Controlliamo il Consiglio Mondiale della Sicurezza e abbiamo sedato ogni opposizione grazie allo scettro di Loki. Muoviamo a nostro piacimento intere sezioni dell’esercito e dei servizi segreti. Nemmeno con Pearce, che si trovava ai vertici dello SHIELD, l’Hydra aveva mai raggiunto tali posizioni di potere. Eppure non riusciamo a tenere sotto controllo un dannato ragazzino con lo scudo e la sua dannata combriccola di pazzi. Ancora non capisco perché non avete attaccato prima i Vendicatori rimasti.”
 
Tony storse parecchio il naso nell’ascoltare la brillante definizione che Stern aveva riservato ai Vendicatori. Al tempo stesso, però, era oltre ogni limite soddisfatto di sapere che Rogers fosse riuscito a sfuggire a quei bastardi.
Solo che il Capitano sarebbe tornato nelle loro mani, se si fosse precipitato a salvare il resto della squadra, e Stark poteva scommettere la sua stessa vita sul fatto che quell’Idiota imprudente non ci avrebbe pensato su nemmeno mezzo secondo, prima di precipitarsi a soccorrere i suoi compagni.
 
Steve aveva debolezze imprescindibili, per le quali diveniva maledettamente vulnerabile. Stark doveva già fargli una bella lavata di testa per aver distrutto la ricetrasmittente.
Frena! Ma non era Rogers quello che faceva le lavate di testa? Da quando le parti si erano invertite? Oh, le cose continuavano a degenerare.
 
“Non sapevamo dove i rimanenti Avengers si fossero nascosti. È stato un caso. A Washington ci sono parecchi dei nostri agenti sottocopertura e uno di loro li ha avvistati su un auto sgangherata e li ha seguiti fino alla palazzina dove si sono rifugiati. Li avremmo attaccati con i nuovi super soldati, così da assicurarci una vittoria veloce e sicura, ma il Soldato d’Inverno …”
 
“Vi ha fottuti” concluse schiettamente il Senatore, guadagnandosi un’occhiata affilata da parte di Benson.
 
Tony non seppe se esultare o imprecare.
I bastardi non sapevano della visita dei Vendicatori al Pentagono - non ancora almeno. Li avevano beccati sulla via del ritorno ed ecco come avevano trovato la casa sicura. E li avevano attaccati, perché Rogers era fuggito ed era quindi servito un espediente per riacciuffarlo.
Di mezzo c’era anche il Soldato d’Inverno. James Barnes. L’assassino. Il migliore amico di Steve. L’assassino. La cosa non lo entusiasmava affatto. Affatto.
E chi era Schmidt?
Quanto erano potenti questi nuovi super soldati? Erano già riusciti a renderli attivi?
 
Alla fine dei conti, da quello che era riuscito a dedurre, era l’Hydra ad avere il controllo. Era riuscita ad insidiarsi fin sopra i piani alti, usando lo scettro per sedare ogni forma di opposizione.
Come si era arrivati a questo punto?
 
“Cosa mi dite riguardo le controversie con l’Esterno?” chiese d’un tratto Stern.
 
“L’Esterno è …”
 
Nella sala calò un silenzio tombale.
Tony si ritrovò puntati addosso sguardi squisitamente increduli.
“Energia esaurita, signore. L’armatura è offline” fu l’atono annuncio di JARVIS, seguito dall’apertura della parte anteriore dell’armatura, da cui Stark venne fuori, con un sorriso tra il saccente e il cazzo-mi-hanno-beccato in viso.
 
“Cosa ci fai qui, Stark?”
Stern fece un segno con la mano ai soldati, che puntarono le loro armi contro l’intruso.
 
L’atmosfera si era fatta decisamente tesa.
 
“Fino a prova contraria, questa è casa mia. Piuttosto, già finita la permanenza in prigione, Senatore? Certo che la sporcizia in questo mondo è dura a morire.”
 
Stern si esibì in un sorriso grinzoso e lo sguardo divenne affilato quanto un coltello da macellaio.
“Sei sempre il solito, Stark. Ci tengo a farti sapere che la caduta del Triskelion ha portato a galla parecchia sporcizia, invece di seppellirla come Capitan America avrebbe voluto. Ma dimmi, ti piace la nuova vita da criminale? E come sta la dolce signorina Potts?”
 
Tony si rabbuiò di colpo e fece un passo verso il centro della stanza, ignorando le pistole che seguivano ogni suo movimento.
“Avete colpito le persone sbagliate e non ne uscirete indenni, sappiatelo. E Stern? Lascia la signorina Potts fuori da questa storia, o avrai il privilegio di finire all’inferno per mia mano.”
Niente ironia o sarcasmo flettevano, questa volta, la voce di Tony Stark. C’erano solo odio e rabbia.
 
“Non credo che tu sia nella posizione adatta per minacciare” si intromise Benson.
 
L’inventore incrociò le braccia al petto e piegò le labbra in un sorriso squisitamente canzonatorio.
“Signor Benson, che spiacere rivederla. Davvero interessanti le cazzate che ha detto in televisione. Non sa proprio accettare un no come risposta, eh? Ottimo lavoro, comunque. Ho sentito che Rogers ti è scappato.”
 
Tony notò Brock Rumlow tendersi e il suo sguardo accendersi di rabbia. L’uomo, però, rimase fermo al suo posto.
 
“Ci è scappato, è vero, ma è stato davvero appagante vederlo gridare, dibattersi e piangere. Lo abbiamo piegato e lo avremmo spezzato, se non fosse arrivato Barnes.”
Benson accompagnò quelle parole con un sorriso untuoso, pienamente cosciente dell’effetto che avrebbero sortito sull’inventore.
 
Tony contrasse la mandibola con violenza e la sua determinata fermezza vacillò pericolosamente.
No! Quel verme stava mentendo!
 
“Niente battutine geniali, Stark?” lo incalzò il commissario.
 
Protocollo Sentinella.”
 
A quelle due parole, che l’inventore pronunciò con estrema durezza, seguì un teso silenzio.
Poi, Benson e Stern scoppiarono a ridere, ma Tony rimase impassibile, in attesa.
 
Fu un attimo.
Sei armature - tre rosse e oro e tre argentee - abbatterono una delle pareti dell’ufficio e diedero inizio allo sfratto.
Il Senatore e il commissario si gettarono a terra, coprendosi la testa con le mani, mentre i soldati tentavano vanamente di resistere all’assalto improvviso e gli uomini all’esterno si precipitavano in loro soccorso.
Solo Rumlow si mostrò in grado di danneggiare seriamente le armature nello scontro diretto, rivelando di possedere una forza sovraumana.
 
Nel caos, Tony corse verso l’ascensore, seguito da una delle armature dalla cromatura rossa e oro.
Quando si infilò nella cabina, si accorse che la donna dai capelli scuri l’aveva seguito. Le porte scorrevoli si chiusero e si ritrovò faccia a faccia con lei.
L’armatura era al suo fianco, pronta ad intervenire in caso di emergenza.
“Sono abituato alle donne che mi corrono dietro, ma evito di dare confidenaza a quelle che fanno parte di organizzazioni sovversive, perciò scusami se sarò scortese con te.”
L’ascensore prese a scendere verso l’officina, posta ad uno dei piani più in basso.
La donna sospirò e si sistemò una cioccia di capelli dietro l’orecchio. Era palesemente nervosa e continuava a torcersi le mani, mentre una goccia di sudore le solcava la fronte. Se fosse svenuta di punto in bianco, Tony non ne sarebbe rimasto sorpreso.
 
“Devi portare a Steve un messaggio da parte mia.”
La voce le tremava appena e trasudava insicurezza. Stava lottando per tirare fuori le parole. Gli occhi verdi erano piantati sulle sue scarpe.
 
Stark inarcò un sopracciglio, perplesso.
“E tu saresti?”
 
Finalmente, la donna alzò gli occhi per guardare direttamente il suo interlocutore.
“Scusami, hai ragione. Sono Kristen Myers. Riferisci a Steve che la quantità di sangue che gli abbiamo sottratto è bastata per crearne cinquanta. Non sono ancora attivi, ma lo saranno presto. E Adam Lewis ha intenzione di dare vita a un’arma micidiale. La tiene al Pentagono. Cercherò di sabotarlo, ma non potrò rallentarlo per sempre.”
La mora aveva parlato velocemente, senza permettere a Tony di interromperla, e intanto aveva premuto il tasto di fermata dell’ascensore, che sospese la sua discesa al primo piano disponibile.
L’inventore la afferrò per un braccio, bloccando la sua fuga.
“Spiegati meglio.”
Kristen si sottrasse alla presa dell’uomo e scosse il capo. Era spaventata e l’ansia le aveva irrigidito i tratti del bel viso olivastro.
“Il Capitano capirà. Io devo andare. Se mi vedessero con te, avrei finito di vivere e non sono pronta per questo. Dì a Steve che mi dispiace e che aveva ragione.”
 
Quando l’ascensore riprese la sua discesa, Tony dovette fare uno sforzo assurdo per riacquistare lucidità.
 
‘Devo stabilizzare il frammento di energia per il trasporto e trovare il modo di rendere non rintracciabili le emissioni di raggi gamma’ si ripeté mentalmente più volte, pensando al contempo a soluzioni velocemente attuabili, che inesorabilmente avrebbero richiesto più tempo di quello che avrebbe voluto.
Sperò con tutto se stesso che gli altri tenessero duro fino al suo arrivo.
 
Riusciva ancora a sentire il caos proveniente dal suo ufficio. L’unico a preoccuparlo seriamente era Brock Rumlow e la sua forza non naturale, ma c’erano pur sempre cinque armature a tenerlo a bada.
 
 
“JARVIS, tieni pronto il Quinjet.”
 
 
 
                                                       ***
 
 
 
Presente.
Quinjet.
 
C’era una strana atmosfera.
Una densa apatia riempiva l’interno del velivolo e il silenzio era tanto assordante da farle rimpiangere gli usuali litigi tra i suoi compagni.
E poi c’era quella sottile ma tangibile tensione, una tensione elettrica, pericolosa ed impossibile da ignorare.
Natasha tentò vanamente di riportare la concentrazione su ciò che stava facendo, ovvero disinfettare la ferita che lacerava la carne della spalla destra di Clint. Era accovacciata sulle ginocchia, mentre l’arciere era seduto a terra, con la schiena appoggiata alla parete metallica del jet, in uno stato di semicoscienza. Gli passò una mano sulla fronte sudata, scostandogli ciuffi di capelli biondo cenere, e sul viso dell’uomo fiorì il riflesso di un sorriso.
La Vedova sospirò e, ancora una volta, tornò a sondare l’ambiente circostante. La tensione stava raggiungendo picchi preoccupanti.
 
Pepper era seduta al posto di copilota, completamente abbandonata nel sedile, con lo sguardo rivolto verso il cielo terso al dì là del vetro del jet. Era immersa in chissà quali pensieri e il pallore del suo volto metteva in risalto la spolverata di lentiggini che impreziosiva il naso e gli zigomi.
Tony era in piedi e, considerate le innumerevoli volte che aveva già percorso avanti e indietro l’intera lunghezza del jet - cosa che ancora non aveva smesso di fare -, il nervosismo aveva totalmente eclissato la stanchezza. Gli occhi ambrati dell’inventore, inoltre, continuavano a lanciare occhiate fuggevoli ma intense in direzione del Soldato d’Inverno. Stark guardava male Barnes praticamente da quando erano partiti e Sam non era stato da meno.
James era seduto sul pavimento, la schiena appoggiata alla parete e le mani impegnate a torturare la cinghia della cintura nera. L’espressione neutra ed indecifrabile non lasciava trasparire alcuna emozione, anche se il suo corpo teso, come pronto a scattare da un momento all’altro, era prova inequivocabile della sua irrequietezza.
Steve era in piedi al suo fianco, lo sguardo perso nel vuoto e le braccia incrociate al petto. La mascella tesa, la postura rigida e il respiro spezzato che tentava di regolarizzare, erano diretta conseguenza del dolore che gli incendiava l’addome. Una volta scemata l’adrenalina, il suo fisico aveva preso a rammentargli le pessime condizioni in cui versava. Il giovane super soldato poteva percepire gli occhi cobalto di Anthea studiarlo con cautela, quasi timidamente, e la cosa suscitava in lui emozioni contrastanti.
L’oneiriana era seduta vicino a James e continuava a far ruotare il braccialetto argenteo intorno al polso destro, anche lei visibilmente irrequieta.
 
E quella situazione si protraeva ormai da un tempo interminabile.
 
Natasha terminò di avvolgere la spalla di Clint con fasciature pulite, lo aiutò a rinfilare la maglia bianca macchiata di sangue e gli sistemò il cappotto di Tony trovato nel jet a mo’ di coperta, sperando che bastasse a placare i brividi di freddo che gli scuotevano il corpo. Posando di nuovo una mano sulla sua fronte, la rossa si accorse che la febbre stava salendo e la possibilità di un’infezione si fece spaventosamente concreta.
 
Fu in quel momento che la staticità in cui stavano affogando lentamente andò in frantumi.
Con un fluido movimento, Anthea fece forza sulle lunghe gambe e si spinse in piedi. Era facile immaginare che si fosse sottoposta ad allenamenti piuttosto intensi, dato che il suo corpo, seppur esile, mostrava un muscolatura accuratamente sviluppata.
Tony, che smise finalmente di camminare come un ossesso, non riuscì ad evitare di farle una veloce radiografia, che comunque non parve darle alcun fastidio.
L’oneiriana raggiunse Clint e Natasha e rivolse a quest’ultima una sguardo eloquente, prima di accennare un sorriso. La rossa sorrise di risposta, mentre la osservava accovacciarsi di fronte l’arciere.
“Sei sicura?” le chiese la Vedova, avendo compreso le sue intenzioni.
“Sì. Fammi dare un’occhiata.”
Alle parole di Anthea, Barton parve riscuotersi appena e trovò a stento la forza di parlare.
“Ehi, ragazza. Scusaci per la mancata festa di Bentornata.”
La giovane ridacchiò e scosse il capo. Scostò il cappotto e posò entrambe le mani sopra la fasciatura dell’arciere.
“Beh, mi sono presentata senza avvisare, dopotutto” celiò.

Clint, improvvisamente, percepì un intenso calore pervadergli tutto il corpo e strinse i denti quando arrivò un’ondata di dolore parecchio intenso. Si lasciò scappare un sonoro gemito sofferente e poi ogni sensazione svanì, lasciando posto a tenui formicolii e a un vago senso di spossatezza. Niente più dolore e niente più febbre.
“Come nuovo.”
L’affermazione di Anthea non poteva essere più vera. Tolte le bende, l’arciere si rese conto che della ferita non era rimasta traccia.
“Ti devo un favore.”
Lei gli sorrise e cercò al contempo di non esternare la momentanea debolezza dovuta al processo di guarigione. Tempo un’ora e sarebbe tornata in forze, senza alcun problema. Non riuscì ad evitare di lanciare un’occhiata in direzione del Capitano, la cui espressione imperscrutabile la fece quasi rabbrividire, ma decise di ignorarla. Si rialzò in piedi e scambiò con Natasha uno sguardo di intesa.

“Che ti hanno dato da mangiare su Asgard? Dannazione, sei quasi più alta di me adesso” se ne uscì Tony, di punto in bianco.
L’inventore si chiese sinceramente se quella che aveva di fronte fosse la stessa persona che li aveva salutati quasi tre anni prima, lo scricciolo che spariva tra le braccia di Steve o tra quelle di Thor, durante gli occasionali abbracci.
Era contento che lei fosse tornata, perché in fondo era divenuta parte della squadra - della famiglia - dopo gli eventi che avevano quasi portato alla fine del mondo.
Daskalos era ancora una ferita aperta per i Vendicatori, nonostante fosse trascorso un lungo lasso di tempo. Sfortunatamente, il genio non aveva neppure dimenticato gli attimi in cui lei aveva tentato di strappargli il cuore dal petto.
La parola pericolosa aveva cominciato a turbinargli inevitabilmente in testa, dal momento in cui aveva incontrato quegli occhi bui come la notte.
 
 “Non che ci voglia tanto a superarti. Potresti competere solo con i sette nani” si lasciò scappare Rogers, con finta indifferenza, strappando Tony dai suoi pensieri.
 
Ci fu una risatina generale. Lo stesso Bucky arricciò le labbra in un sorrisetto divertito.
 
“Fai lo spiritoso, Capitano?” sibilò Stark, avvicinandosi a lui con un’espressione che non diceva nulla di buono.
Gli occhi dei presenti saettarono sui due Vendicatori.
Tony fece ancora un altro passo, portandosi a un metro scarso dal super soldato. Gli infilò un dito nel costato senza pensarci due volte e a Steve mancò il respiro per la scarica di dolore che gli provocò quel gesto, date le condizioni delle sue costole.
 
“Sei impazzito?” berciò il biondo, perforando l’inventore con lo sguardo.
“Non si sa.”
“Ti avverto. Questa me la segno. Diamine, fa male!”
La voce del Capitano era salita di un’ottava e una nota isterica ne impreziosiva le sfumature doloranti.
“Oh, lo so che fa male. Anche un cieco si accorgerebbe che ti fa male. Perché non mi fai dare un’occhiata? La tua respirazione è forzata e ho del ghiaccio istantaneo. Che ne dici di lenire il dolore?”
 
Adesso Steve era confuso. Davvero confuso.
Tony non attese una sua risposta. Si diresse verso la parete opposta e aprì uno scomparto, facendo scivolare in avanti una specie di cassetto da cui tirò fuori un paio di sacchette di ghiaccio istantaneo.
“Avanti. Datti una mossa” insistette l’inventore e Steve roteò gli occhi, ma acconsentì.
 
“Io non ricordo che fossero sette, i nani.”
A volte, l’indiscrezione di Barton era fastidiosa quanto un appuntito sassolino che, entrato subdolamente nella scarpa, si conficca nella pianta del piede ad ogni passo.
 
“E adesso questo cosa c’entra?”sbottò Stark.
 
Clint ignorò volutamente l’inventore e iniziò a contare sulle dita.
“Dotto, Brontolo, Eolo, Pisolo, poi c’erano ...”
“Cucciolo, Gongolo” aiutò Sam, tra il divertito e il curioso.
“Bravo. Siamo a sei. Mammolo e Starkolo. Sono otto.”
“Hai dimenticato Clintolo, signor metro e un barattolo. E tu non ridere, Rogers. Ringrazia il siero, o avresti tolto il lavoro a quei poveri nani.”
 
Questa volta la risata generale salì di qualche livello.
Pareva che la tensione stesse cominciando a sciogliersi. Ma, molto probabilmente, era solo una breve parentesi di distensione dei nervi, una boccata d’ossigeno dopo un tempo indefinito di apnea.

“Vorrei sapere perché stiamo ancora parlando di nani” sbuffò Natasha, scuotendo il capo.
“Chiedilo al tuo fidanzato.”
“No, deve chiederlo a te, Starkolo.”
“Ah no, Clintolo. Se proprio devi scaricare la colpa su qualcuno, quello è Capitan MetroeNovanta. Ha tirato lui in ballo i nani.”
 
Mentre era in corso la battaglia delle nano battute, Steve aveva iniziato a disfarsi della parte superiore della divisa.
Natasha si tirò su e raggiunse il ragazzo. Nella sua felpa verde pareva davvero piccola e fragile. Il pallore del suo volto faceva risaltare le occhiaie scure che adombravano le iridi smeraldine.
“Ti do una mano” convenne la rossa, con calma.
Rogers sospirò appena e lasciò che Natasha lo aiutasse a sfilare via completamente il pezzo alto dell’uniforme.
“Niente commenti” fu la piatta raccomandazione del biondo.
 
Inizialmente nessuno proferì parola, ma l’espressione che si dipinse sul volto di ognuno valeva più di mille parole.
 
“Siediti qui.”
Fu Tony a rompere il silenzio, indicando al super soldato il lettino metallico di fortuna sul lato destro del jet.
Steve obbedì docilmente, mentre l’inventore colpiva uno dei sacchetti di plastica per consentire il raffreddamento immediato del contenuto. Poi lo passò al biondo, che se lo premette sull’addome, lasciandosi scappare un gemito.
 
“Ti hanno ridotto proprio male, amico” convenne Sam alla fine, impossibilitato a trattenersi ancora.

Il super soldato si irrigidì visibilmente e l’azzurro degli occhi assunse una tinta più scura, mentre flash confusi e scottanti gli affollavano il cervello. Avrebbe voluto ribattere che stava peggio dentro, ma non riuscì ad aprire bocca.
 
Stark, nell’ascoltare le parole di Wilson, si era fatto improvvisamente assorto.
“Ci è scappato, è vero, ma è stato davvero appagante vederlo gridare, dibattersi e piangere. Lo abbiamo piegato e lo avremmo spezzato, se non fosse arrivato Barnes.”
Le parole di Benson tornarono a rimbombargli in testa e percepì una stretta nauseante allo stomaco.
Non seppe spiegarsi il perché, ma il suo sguardo cercò quello di Anthea e un brivido gli percorse l’intera colonna vertebrale nello scorgere uno strano ed inquietante scintillio in quegli occhi bui.
 
“Il nuovo super soldato” esordì il Capitano, guadagnandosi l’attenzione di tutti.
“Ha una forza assurda. È impossibile tenergli testa.”
 
“Ti riferisci al mostro viola che era con Schmidt? Quello è il nuovo super soldato?” si intromise Clint.
“E come fa Schmidt ad essere vivo?” fu l’intervento di Stark, che dopo aver visto Teschio Rosso aveva capito a quale Schmidt si stessero riferendo Benson e Stern.
La situazione era più grave del previsto.
 
“C’è una base segreta sotto le macerie del Triskelion. Mi hanno portato lì e lì ho incontrato Teschio Rosso. Non ho assolutamente idea di come possa essere riuscito a tornare sulla Terra e mi chiedo da quanto tempo sia qui. Naturalmente ha intenzione di portare a termine ciò che aveva iniziato settant’anni fa, ma questa volta al posto delle bombe vuole usare un esercito di super soldati e sinceramente preferivo le prime.”
Le nocche della mano sinistra di Rogers sbiancarono, quando le dita si serrarono con violenza sul bordo del lettino, piegandone leggermente il metallo.
 
“Steve, abbiamo bisogno di sapere cos’è successo. Nei dettagli. E poi noi informeremo te del resto.”
Le parole di Natasha non erano imbevute di urgenza. Erano state pronunciate con voce ferma e calma.
La rossa andò a sistemarsi seduta al fianco del Capitano, che le sorrise fievolmente e si rilassò appena.
 
Erano rinchiusi nel Quinjet da più di un’ora, girando a vuoto per essere certi di non avere nemici alle calcagna.
Solo un muto accordo aveva evitato che si desse il via alla fase ‘Facciamo il resoconto’.
Erano tutti palesemente provati. La rabbia e la frustrazione danzavano tra loro, fiere di aver conquistato le loro menti e i loro cuori.
 
Steve fece un respiro profondo.
“Non interrompetemi, per favore” e guardò con fermezza prima Tony, poi Clint ed infine dedicò un’occhiata intensa all’oneiriana.
 
“Okay, ricominciamo. Sotto le macerie del Triskelion c’è una base dell’Hydra ed è lì che sono stato. Mi hanno tenuto in vita, perché il mio sangue è indispensabile per la produzione del nuovo siero. Teschio Rosso vuole un personale esercito di super soldati e, per realizzare questo progetto, si sta servendo dell’aiuto di una nostra vecchia conoscenza. Adam Lewis.”
Nonostante gli sforzi di mantenere la calma, a Steve tremava la voce per la rabbia. Teneva lo sguardo fisso sui suoi piedi, che dondolavano al di là del bordo del lettino.
“Hanno testato il nuovo super soldato su di me” gli sfuggì un risolino amaro “e credo proprio che Lewis abbia fatto un lavoro ineccepibile. ”
Rogers abbandonò il sacchetto di ghiaccio alla sua destra e portò le mani sulle ginocchia, lasciando scoperto l’addome contuso. Sembrava una mappa geografica piena di isole grandi più o meno come un pugno. E le condizioni della schiena non erano poi tanto migliori.
Il Capitano mostrò i segni dalla forma di lunghe dita che gli contornavano le braccia.
“Il mostro viola comandato da Schmidt. È lui che ho affrontato. Ha la capacità di divenatare incandescente e la mia velocità di rigenerazione cellulare è niente rispetto la sua. Ho visto l’osso spezzato del suo naso tronare a posto e le sue lesioni evaporare, tutto in pochi secondi, mentre il mio corpo non riesce a guarire le ferite che lui mi ha inferto. Ho provato a contrastarlo in qualunque modo, ma riusciva ad anticipare le mie mosse. La sua velocità è impressionante. Ho fatto breccia nelle sue difese solo tre o quattro volte. È una dannata macchina da guerra ed è stato il mio dannato sangue a darle vita.”
Le nocche di Steve erano di nuovo bianchissime.
“Ubbidisce solo a Schmidt. E non è finita qui. C’era anche Henry Benson il giorno in cui è stato testato il nuovo super soldato e, con lui, parecchi uomini dalle facce conosciute. Credo di averli visti al Triskelion quando ancora ci lavoravo. Comunque, Benson e Schmidt sono davvero in buoni rapporti.”
Adesso era il più crudo sarcasmo ad impregnare la sua voce.
 
“Il ragazzo ha visto in faccia alcuni tra i più importanti capi militari dell’esercito americano, oltre che alcune personalità di spicco della CIA e dell’FBI. Li ha visti mentre si godevano lo spettacolo che Schmidt ha organizzato, per dare prova delle capacità della nuova arma. Steve Rogers va eliminato” erano state le parole di Stern e, solo adesso, Tony riuscì a comprenderne il significato.
 
“Io credo che Lewis …”
Steve esitò. Cominciava a girargli la testa e non ne capiva il motivo.
“Cosa?” lo incalzò Anthea, con una freddezza scalfita solo da una instinguibile nota di pura preoccupazione.
Il biondo le rivolse uno sgurado spaesato, mentre la osseravava avvicinarsi finchè tra loro rimase meno di un passo di distanza.
“Cosa?” ripetè lei, bisognosa di una conferma ad un sospetto che aveva messo radici nella sua psiche da quando aveva visto gli occhi sanguigni di quel mostro viola.
“Credo che Lewis abbia in qualche modo usato cellule appartenute a Daskalos per creare questi super soldati.”
 
Rogers abbassò il capo, impossibilitato a sostenere lo sguardo cupo e tagliente dell’oneiriana.
 
“Per caso hai sentito nominare Extremis?” intervenne Tony.
L’incandescenza e la rigenerazione pressoché immediata avevano aperto una dolorosa finestra sul suo passato. Un passato recente, a dir la verità.
 
Rogers parve pensarci un momento, ma poi scosse il capo.
 
“L’ho sentito io.”
 
Ci fu un generale disorientamento nell’udire quella voce profonda e roca.
James si era appena alzato. I suoi occhi grigio azzurri si posarono sulla figura di Tony, ora teso come una corda di violino.
Sam e Clint si erano fatti più attenti e la stessa Natasha si era visibilmente irrigidita.
Il Soldato ignorò la fredda diffidenza che continuava ad essergli riservata - era giustificata, dopotutto - e si rifugiò nelle iridi chiare del suo migliore amico.
 
“Tenevo sotto controllo Henry Benson dalla prima volta in cui è venuto a farvi visita. E ho sentito alcuni discrosi tra lui e Schmidt” spiegò, asciutto.
 
“Posso chiederti dove eri andato a finire? Io e il Capitano ti abbiamo cercato dappertutto” sbottò Sam, incredulo. Era riuscito a scoprire che il Soldato era a New York qualche giorno prima del casino esploso - letteralmente - alla Tower, ma come sempre non ne aveva scorto nemmeno l’ombra.
“Lo so. Vi ho tenuti d’occhio” fu l’atona risposta di Barnes.
E Wilson evitò di approfondire la questione, perché la cosa era alquanto esilarante e deprimente al tempo stesso.
Il Soldato d’Inverno li aveva tenuto d’occhio. Ed ecco spiegato come era riuscito a tenersi sempre un passo - forse trenta passi - avanti a loro.
 
Passarono alcuni minuti di imbarazzante silenzio, prima che James riprendesse la parola.
“Controllando Benson, sono riuscito a raggiungere Steve e poi Anthea ci ha aiutati ad uscire fuori da quella base sotterranea. Ci siamo nascosti in una casa, finchè non hanno trasmesso in televisione la notizia rigurdo l’assedio del palazzo dove voi vi eravate nascosti e Steve ha deciso di raggiungervi.”
Il Soldato fece un altro passo in avanti, ma decise di evitare altri movimenti non appena si rese conto delle reazioni che essi suscitavano nelle persone che aveva intorno. Solo Steve e Anthea non erano minimamente turbati da lui.
 
“Okay, bene” si sforzò di dire Tony, ora indeciso se fosse peggio sapere che Extremis non era morto con Killian o dover abbozzare la presenza del Soldato d’Inverno.
“Chi è Kristen Myers, Rogers?”
Una sottile ruga di espressione solcò lo spazio tra le sopracciglia del Capitano.
“Lei lavora per Schmidt e Lewis. Collabora alla crezione dei nuovi super soldati. Perché ti interessa?”
Stark fece un mezzo sorriso e, finalmente, distolse l’attenzione da Barnes.
“Non so cosa tu le abbia detto o fatto, ma mi ha pregato di riferiti che le dispiace e che avevi ragione. Inoltre, mi ha infromato del fatto che con il sangue che ti hanno preso sono riusciti a crearne cinquanta e adesso capisco che si stava riferendo ai super soldati. Infine, ha affermato che cercherà di sabotare Lewis, che nasconde un’arma micidiale al Pentagono.”
 
“Quindi è Adam Lewis il nostro Victor Frankenstein. È lui che vuole ridare vita a un surrogato di Daskalos.”
“Esattamente, Clint” affermò l’inventore.
 
“Victor Frankenstein? Cinquanta? Un surrogato di Daskalos? E dove diavolo hai incontrato Kristen Myers?”
Steve era sul punto di gridare e dare di matto.
Kristen si era davvero pentita? Le dispiaceva?
 
“Non fare la donnetta isterica, Rogers” lo canzonò Stark.
 
Natasha incenerì Tony con lo sguardo e avrebbe detto qualcosa di poco gentile, se la voce rotta di Anthea non l’avesse preceduta.
“Un surrogato di Daskalos? Cosa significa?”
Il respiro sensibilmente accelerato, lo sguardo più vacuo, i muscoli terribilmente tesi e il rimbombare frenetico del cuore nella testa. L’oneiriana dovette far ricorso a tutta la sua forza di volontà per tenere i nervi saldi.
“Avrei dovuto uccidere Lewis” soggiunse poi, in un tagliente sussurro.
 
Barnes rimase sorpreso nel sentirla pronunciare le ultime parole. Era stata sincera, quando gli aveva detto di essere stata un’assassina pericolosa e instabile. Quell’atteggiamento freddo, la parola uccidere assaporata sulla lingua prima di scandirne il suono, lo scintillio quasi morboso delle iridi. Tutto questo ricordava a James le giovani donne che aveva contribuito a trasformare in assassine silenziose e letali. Gli occhi si spostarono istintivamente sulla Romanoff e lei dovette accorgersene, perché girò appena il capo per guardarlo in viso.
Fu un attimo e quel contatto visivo si dissolse.
 
“Comincio ad odiare questi silenzi. Mi sembra di essere in una camera mortuaria.”
“Sam” lo riprese Rogers, trattenendo un sorrisetto.
“È la verità.”
 
Ci fu una distensione generale.
 
Rogers scivolò giù dal lettino e si ritrovò di fronte l’oneiriana. Le girò intorno fino ad arrivare alle sue spalle, sulle quali poggiò le mani. La sentì rilassarsi sotto quel tocco.
“Andiamo avanti. Nat?”
La Vedova annuì. Raccontò a Steve del piano escogitato per infiltrarsi al Pentagono e della chiacchierata con Ross. Gli parlò di Bruce, dello scettro di Loki e del Tesseract, spigandogli come quest’ultimo era stato utilizzato dal nemico per accedere alla Tower. Continuò descrivendo il terribile faccia a faccia con quello che era il corpo artificialmente creato su immagine di Daskalos - ora sapevano che l’artefice era Lewis.
Poi fu la volta delle esigue informazioni riguardo Thor e l’ignoto Esterno. Infine, lo rese partecipe della fortuna di Tony, che aveva conservato un frammento del Cubo attraverso il quale sarebbe stato possibile entrare ed uscire dal Pentagono senza il pericolo di rimanervi chiusi dentro, ed era andato dunque alla Tower a recuperarlo - ecco perché non era presente al momento dell’assedio al palazzo.

Steve ascoltò in silenzio, senza mai interrompere la donna. Solo quando ebbe finito, si azzardò ad aprire bocca.
“Quindi ...”

“Fermo. Ora tocca a me” lo bloccò Tony.
L’inventore iniziò a snocciolare tutto ciò che aveva sentito uscire dalle bocche di Benson e Stern, tenendo però per sé il commento che quel viscido del commissario aveva sputato fuori riguardo il Capitano.
“Ecco come sapevano dove eravamo ed ecco perché ci hanno attaccati. Comunque sia, non ho ancora capito se ti vogliono morto o no, Rogers.”
 
I pezzi del complicato puzzle con cui avevano a che fare stavano lentamente andando al loro posto. C’era ancora parecchio da chiarire, ma almeno non stavano più brancolando nel buio totale.
 
Steve fece scivolare via le mani dalle spalle di Anthea, che gli sorrise appena voltando il capo.
Si spostò più verso il centro del velivolo, seguito dagli sguardi degli altri.
“È l’Hydra, dunque. È l’Hydra ad avere il controllo.”
 
“L’hai presa meglio di quanto mi aspettassi.”
Tony passò di fianco a Steve e gli mollò un’amichevole - stranamente delicata - pacca sulla schiena, per poi raggiungere la postazione di pilota.
 
“È che a lui piace sapere contro chi combatte.”
Natasha arricciò le labbra in un sorrisetto eloquente e Steve, incrociando il suo sguardo smeraldino, rise in risposta.
“Mi sono perso qualcosa?” si intromise Clint a quel punto, cercando di simulare un’espressione seriosa.
“Chiacchiere tra amici” si limitò a dire la Vedova, scoccando a Rogers un occhiolino.
 
“Ho appena impostato le coordinate per il posto indicatomi da Clint. È stato appurato che non ci segue nessuno, quindi credo sia ora di tornare a terra.”
Tony allungò un braccio, per stringere tra le dita una mano di Virginia, che per tutto il tempo aveva ascoltato in silenzio, assorbendo le informazioni e riordinandole nella sua mente. Fare chiarezza la aiutava ad essere meno spaventata. La ramata ricambiò la stretta di Tony e gli regalò un dolce sorriso, mentre si ripeteva che ogni cosa si sarebbe sistemata.
 
Intanto, Sam raggiunse il Capitano.
“Rumlow è vivo, allora.”
Lo disse mantenendo bassa la voce e Steve annuì.
“Sì. Ed è più forte di prima.”
Accortosi del turbamento dell’amico, Wilson decise di non chiedere altro e di aspettare un momento in cui sarebbero stati soli.
 
“Io non capisco alcune cose. Come è possibile che nessuno ad Asgard si sia accorto del furto del Tesseract? E poi, dite che Thor è tornato, ma se fosse davvero così, lo avrei saputo. Il suo potere non passa inosservato a noi oneiriani. Riusciamo a percepirlo quando arriva ad Asgard. Eppure, io non ho sentito nulla stavolta, ne sono certa.”
L’ultima constatazione proveniente da Anthea fu accolta da facce sbigottite e terribilmente confuse.
E Wilson se ne sarebbe uscito di nuovo con la battuta sulla camera mortuaria, se Natasha non lo avesse preceduto.
“Propongo di smettere di scervellarci per adesso.”
 
“Eh sì. Direi basta parlare di cose brutte.”
Sam emise un sospiro affranto e tornò a sedersi in un angolino del jet.
Steve lo raggiunse e si sistemò al suo fianco, rivolgendogli uno sguardo quasi apprensivo.
“Mi dispiace, Sam. È colpa mia se ti ritrovi in questo casino.”
Il pararescue scosse lievemente il capo.
“Steve, sono nei casini dal giorno in cui ho deciso di accogliere te e Natasha in casa mia. E ti sei scusato già quella volta. Ma non è colpa tua. Io e solamente io ho deciso di rimanere al tuo fianco, perché sento che è la cosa giusta da fare.”
Stavano mantenendo basso il tono di voce, anche se quel logorroico di Tony aveva monopolizzato l’attenzione, descrivendo le facce terrorizzate di Benson e Stern quando aveva attivato il Protocollo Sentinella.

“Certo ... avresti potuto dirmi di avere una fidanzata” decretò infine Wilson, fingendo di essere offeso.
Steve balbettò monosillabi sconnessi, finché l’altro non lo bloccò con un cenno della mano.
“Lasciamo perdere. Per ora.”
Entrambi guardarono in direzione di Anthea e quando si accorsero di avere i suoi occhi puntati addosso, abbassarono simultaneamente il capo, come due bambini colti in fallo.
Poi Sam sussultò nel momento in cui il Soldato d’Inverno si lasciò cadere seduto di fianco a Steve.
“Tranquillo, non cercherò di ucciderti.”
Il lieve sarcasmo di Bucky fece inarcare entrambe le sopracciglia del pararescue, mentre Rogers tratteneva a stento un sorrisetto.
“Ma come sei gentile. E poi ce l’ho con te per avermi distrutto la macchina e poi le ali, mica per i tuoi fallimentari tentativi di ucciderci. ”
Il sarcasmo di Wilson era invece parecchio tagliente e segnò la fine di quella sterile conservazione, che in qualche modo rappresentava sempre un inizio.
 
James avrebbe dovuto impegnarsi molto per guadagnare anche solo un briciolo di fiducia da quelle persone.
 
 
                                                          ***
 
 
“Raggiungeremo la destinazione tra meno di cinque minuti” annunciò Stark, abbandonandosi ad un lungo e sonoro sbadiglio.
Si alzò dal suo posto e, dopo aver regalato un sorriso alla sua fidanzata, si sgranchì le ossa, tendendo le braccia verso l’alto.
 
Anche gli altri, tutti stropicciati ed esausti, si rimisero in piedi e cominciarono a recuperare ognuno la propria roba.
 
“Ho finito le frecce” sbuffò Occhio di Falco, contemplando la faretra vuota che aveva tra le mani.
 
“Devo obiettare. JARVIS, apri gli scomparti delle meraviglie.”
All’ordine di Stark, pannelli della parete destra scivolarono verso l’alto, rivelando scomparti contenenti kit medici, faretre piene di frecce e un equipaggiamento ben assortito di armi da fuoco e da taglio.
“Non ringraziatemi. Ho imparato che è meglio prevenire che curare. Quando ho costruito il jet, l’ho anche attrezzato come si deve.”
Sul viso di Tony si fece spazio un sorriso infantilmente orgoglioso. Aveva concretizzato parecchie idee in previsione della riunione dei Vendicatori. Peccato che poi le cose fossero tragicamente degenerate.
 
“Questo è il paradiso degli arcieri.”
Barton, ora rinchiuso nel suo piccolo mondo di frecce multifunzione, seguitava ad ammirare tutte quelle belle faretre ricolme, come se si trattasse di un qualche raro tesoro.
Natasha e Barnes non erano molto da meno, dinanzi il variegato assortimento di armi.
 
“E ci sono anche dei cambi. Non ho avuto tempo di personalizzarli, ma ci sono un po’ tutte le misure. Almeno potremmo toglierci di dosso questi vestiti che odorano di sangue.”
In uno scomparto, infatti, c’erano pile di pantaloni cargo, maglie a maniche corte, felpe pesanti con zip e cappuccio e qualche giubbotto impermeabile, tutto prettamente nero.
 
“Ogni tanto credo di volerti bene, Stark.”
“Mi accontenterò di ogni tanto, Barton.”
 
 
Dallo scomparto più in alto proveniva un bagliore azzurro. In un piccolo cilindro trasparente, il frammento del Tesseract brillava di luce propria.
Il loro libero accesso al Pentagono.
 
                                                            *
 
Era quasi il tramonto.
Il Quinjet atterrò su una specie di landa coperta da un mantello di candida neve e punteggiata da una distesa di conifere. Era un luogo abbastanza isolato e dava l’impressione di trovarsi in una rassicurante bolla protettiva.
Circondata da una staccionata di legno, una casa bianca a due piani, dal tetto spiovente e le imposte verdi, si stagliava contro il cielo plumbeo.
 
“È una base segreta camuffata?” chiese Tony, perplesso, mentre veniva fuori dal jet con un braccio intorno le spalle di Pepper.
Il resto del gruppo seguiva a ruota l’inventore.

“Non proprio” si limitò a rispondere la Vedova, scoccando a Clint un’occhiata complice.
 
Sam si lasciò andare ad un fischio ammirato e poi tornò a squadrare Rogers e il Soldato d’Inverno, che camminavano poco più avanti. Si chiese se la vicinanza tra i due super soldati non fosse troppa, soprattutto ora che sarebbe bastato un alito di vento per spezzare il Capitano. Al pararescue, infatti, non era di certo sfuggita l’incertezza nel modo di muoversi del suo amico.
Aveva considerato da incubo la situazione che aveva vissuto quando lo SHIELD era stato compromesso, ma adesso si era cacciato in guai molto più grossi. Però non era sorpreso o spaventato, perché aveva messo in conto ogni singolo pericolo che aveva e avrebbe affrontato nell’esatto momento in cui aveva scelto di seguire Capitan America.
 
“Non è pericoloso.”

Wilson sussultò nel trovarsi di fianco la ragazza dai grandi occhi blu. Se da un lato gli metteva i brividi - soprattutto dopo aver assistito alla manifestazione dei suoi poteri -, dall’altra gli suscitava una curiosa ammirazione.
“Preferisco tenerlo d’occhio. E sono Sam, Sam Wilson.”
La giovane sorrise cordiale e allungò la mano destra, che il pararescue strinse prontamente.
“Anthea. È un piacere conoscerti, Sam.”
“Il piacere è mio. Come riesci a fare quelle cose? Telecinesi?”
Wilson gesticolò con le mani, forse a voler imitare oggetti fluttuanti.
“Diciamo che è qualcosa di più complicato.”
Anthea fece spallucce, mostrando l’intenzione di voler liquidare velocemente l’argomento riguardante i suoi poteri.
“Beh, sei forte” ammise Falcon, con genuina sincerità.
“Grazie.”

Quando Sam tornò a guardare dinanzi a sé, beccò Steve distogliere lo sguardo.
“Lui sembra voler tenere d’occhio te, invece” le riferì, mantenendo basso il tono di voce.
Anthea sorrise tristemente e posò lo sguardo sulla schiena del super soldato. Avrebbe voluto sostenerlo o parlargli senza che calasse un imbarazzante e teso silenzio tra loro. Avrebbe voluto solo stargli vicino.
‘Un passo alla volta’ si ripromise l’oneiriana.

“Tremendo litigio?”

Anthea spalancò gli occhi, sorpresa dalla perspicacia del pararescue. O forse era solo maledettamente incapace di mantenere un’espressione neutra quando si trattava di Steve Rogers, dato che le emozioni sembravano amplificarsi esponenzialmente in sua presenza.
“Colpa mia” si limitò a sussurrare la ragazza.
 
Intanto, erano giunti sulla veranda, circondata da una elegante staccionata bianca in legno.
Clint fu costretto a forzare la serratura del portone d’ingresso, perché “Scusa se ero troppo occupato a scappare e non ho pensato a prendere le chiavi, Tony” e, una volta aperta, entrò dentro.
A pochi passi dalla porta, una rampa di scale in legno scuro si inerpicava verso il piano superiore. Sulla sinistra si intravedeva quella che aveva tutta l’aria di essere una cucina. Clint, però, guidò il gruppo verso destra, accedendo ad un ampio salotto dalle pareti giallo ocra e provvisto di un arredamento essenziale, comprendente un divano ricoperto da una fodera blu, un televisore non molto moderno e qualche cassettone in legno chiaro.
 
“Appoggiate la roba dove volete” invitò l’arciere, occhieggiando alle armi, ai vestiti forniti da Tony e agli zaini che occupavano le mani dei presenti. Lui stesso abbandonò l’arco e la faretra - ora ricolma - sul primo cassettone disponibile.
 
“Dove siamo?”
Steve era divenuto l’inconsapevole portavoce della maggior parte della combriccola.
 
Clint e Natasha si rivolsero uno sguardo enigmatico e, infine, la rossa prese la parola.
“La settimana prima che Tony ci chiamasse non eravamo a Budapest. Sì, io e Clint ci siamo incontrati lì, ma poi siamo venuti qui, a Iowa. Questa è, in un certo senso, casa nostra da …”
“Un anno. Ci serviva un posto dove poterci distaccare da tutto. Un posto fuori dai radar dello SHIELD. Ho preso questa casa dopo la battaglia del Brooklyn Bridge e, inizialmente, l’ho fatto senza un preciso motivo. Ci abbiamo passato del tempo. Poi Natasha è tornata al Triskelion e io sono stato reclutato per una missione sottocopertura in giro per il mondo. Siamo tornati qui solo dopo esserci rincontrati in Russia e, passata una settimana, abbiamo accettato l’offerta di Tony.”
 
“Il vostro rifugio segreto” commentò Tony e piegò le labbra in un sorrisetto comprensivo.
Non se l’era presa, così come Steve, e nemmeno Thor e Bruce avrebbero avuto qualcosa da recriminare alle due spie.
 
“Più o meno sì. Diciamo … casa delle vacanze” precisò l’arciere.
 
“Okay, ascoltate. Ci sono due bagni, uno di sopra e uno qui. Che ne dite di darci una sistemata?”
 
Tutti annuirono all’unisono alle parole della Romanoff.
Le donne raggiunsero il piano superiore, mentre la componente maschile della combriccola stabiliva i turni per il bagno del pian terreno.
 
 
Ed intanto nuvole nere stavano ricoprendo il cielo, oscurando la tenue luce del tramonto.
 
 
                                                        ***
 
 
“Grazie.”
Anthea afferrò la tuta grigio scuro che Natasha le stava porgendo e la infilò, per poi chiudere la zip di una delle felpe omologate Stark.
 
“Interessante la tua … uniforme?”
La Vedova indicò il corpetto lucente abbandonato su una sedia della camera da letto, poi tornò a frugare nello zaino che, durante l’assedio al palazzo, aveva riempito di vestiti racimolati nell’appartamento, in previsione di una fuga senza meta.

Da dietro la porta chiusa del bagno proveniva il suono dello scrosciare dell’acqua, segno che Pepper era ancora sotto la doccia.
 
“Sì, è un’uniforme da combattimento. Gli oneiriani l’hanno fatta per me. Ne ho di diverse.”
 
Natasha trovò finalmente un paio di collant neri e un maglioncino rosso di pile abbastanza attillato.
Era pur sempre gennaio e l’impianto di riscaldamento della casa non era ancora funzionante. Il freddo, infatti, era quasi pungente.
“Sei riuscita a riunire il tuo popolo? Se devo essere sincera, non ero sicura che saresti tornata.”
 
Anthea fece un sorriso triste e spostò il peso da un piede all’altro. Lo sguardo indagatore della rossa era in grado di metterla in agitazione.
“È complicato. Ho viaggiato tanto, Natasha. Ho riunito gli oneiriani e adesso occupano un territorio del planetoide di Asgard. Vogliono che li guidi, che garantisca loro sicurezza e io non riesco ad abbandonarli del tutto, nonostante ...”
 
“Vorresti stare qui. E credo che sia inutile esplicare il perché.”
 
“Già.”
Un altro sorriso triste incurvò le labbra dell’oneiriana. Una parte di lei era inevitabilmente rivolta al suo popolo e il senso di colpa per aver momentaneamente lasciato vuoto il trono le rodeva lo stomaco.
Ma Steve ... non poteva abbandonare Steve adesso.
 
“Senti, Natasha ... Clint sa che aspetti?” chiese poi, a bruciapelo.

La rossa spalancò gli occhi e, per un attimo, le mancò il respiro. 
“Come ... come fai a ... ?”

“Quando un essere vivente entra in contatto con i miei poteri, io lo sento. Lo sento intimamente. Sento gli atri e i ventricoli contrarsi, il sangue che scorre nelle vene, l’aria che attraversa le vie respiratorie, i polmoni che si dilatano. E io ho sentito te, quando ti ho trasportata sul jet. Ho sentito l’altra vita che è dentro di te.”
 
Anthea osservò Natasha sbiancare e portare entrambe le mani sulla pancia.

Speravo di sbagliarmi ... non capisco come sia potuto accadere, come sia stato possibile dopo che io …”
La donna strinse tra i denti il labbro inferiore.
“Non dirlo a Clint. Non dirlo a nessuno. Non voglio essere un peso, soprattutto non ora. Promettimi che manterrai il segreto.”
 
Forse fu l’espressione trasudante disperazione, o il modo in cui la sua voce aveva tremolato, o il fatto che non se la sentiva di tradirla.
Fatto sta che Anthea decise di rispettare la richiesta di Natasha. Annuì e le sorrise, ma il sorriso non coinvolse gli occhi.
“Non parlerò. Ma dovresti dirlo a Clint. Lui deve sapere.”
“Lo farò. Sai che lo farò. Volevo farlo. Me ne sarei accertata e glielo avrei detto. Ma poi ci siamo ritrovati in questo casino e ...”
Natasha serrò le labbra in una linea dura e si passò una mano tra i capelli, riportando all’ordine ciuffi rossi.

“Non vuoi creargli distrazioni che potrebbero essergli fatali.”

“Sì” sussurrò appena la Vedova, con in viso una espressione decisa.
 
L’aria si era fatta improvvisamente soffocante. Entrambe si ritrovarono a vagare con lo sguardo tra le quattro pareti della stanza, incapaci di dire qualsiasi cosa.
 
“Vado a prendere una boccata d’aria” convenne Anthea alla fine e, mentre usciva dalla stanza, sentì la rossa sussurrare un ‘Grazie’.
Sorrise tristemente e si scansò dal viso una ciocca di capelli, ora non più raccolti in una treccia ma sciolti. Cominciò a scendere le scale e spinse lo sguardo in direzione del salotto.

Steve era seduto sul divano, il gomito destro puntellato sul bracciolo e la guancia premuta contro il pugno chiuso e rivolto verso l’alto. Gli occhi socchiusi erano segno inequivocabile di stanchezza.
Il resto del divano era occupato da Clint, disteso con la testa poggiata sull’altro bracciolo e le gambe piazzate sui quadricipiti del Capitano.
Tony stava cercando di convincere l’arciere a fargli spazio, mentre Sam camminava avanti e indietro per il salotto sfregandosi le mani, per rendere più sopportabile il freddo.
Erano tutti vestiti con gli abiti messi a disposizione da Stark. Davano quasi l’impressione di una squadra di calcetto al termine di una partita sfiancante.
 
Anthea notò l’assenza di James. Molto probabilmente era ancora in bagno.
Si era accorta della diffidenza che gli era riservata e le dispiaceva sinceramente. Le aveva detto di essere un assassino pericoloso e instabile, ma fino ad allora lo aveva visto lottare al fianco di Steve, pronto a tutto pur di proteggere quest’ultimo. Provava per lui una certa empatia da quando avevano parlato quella notte, dopo aver tirato il biondo fuori dai guai.
 
“Ehi” fu il saluto veloce della giovane, una volta giunta ai piedi della rampa di scale.
Non si fermò ad attendere una qualsiasi risposta. Imboccò il corridoio, raggiunse la porta e sgusciò fuori.
 
Steve la seguì con lo sguardo. Non sentì le successive parole che uscirono dalla bocca di Tony. Non sentì più nulla. Si immerse nei propri pensieri, ascoltando gli echi dei tumulti che si erano innescati nella sua interiorità.
Avrebbe dovuto raggiungerla? Parlare con lei?
Anthea aveva sbagliato e gli aveva fatto intimamente male. Ma tutti commettono errori e lei sembrava profondamente pentita per averlo lasciato senza degnarlo di uno sguardo, dopo che gli aveva detto espressamente di essere tornata per sempre.
Perché non riusciva a perdonarla?
‘Perché hai paura che se ne vada ancora e non vuoi soffrire di nuovo’
si intromise la sua coscienza. Ed era dannatamente vero.
Vederla andare via la prima volta, tre anni fa, era stata dura. La consapevolezza che sarebbe tornata, però, l’aveva aiutato a tenere a bada la nostalgia.
Rendersi conto che lei lo aveva abbandonato, dieci mesi prima, lo aveva distrutto. Riusciva ancora a percepire il senso di nausea e di vuoto che lo aveva colto nel momento in cui aveva realizzato che era andata via.
Eppure, non aveva mai smesso di aspettarla.
Si alzò dal divano con uno scatto, rischiando di mandare Barton a gambe all’aria, e seguì i passi della ragazza, senza nemmeno sapere cosa le avrebbe detto e senza curarsi degli sguardi confusi degli altri.

Una volta uscito, il freddo lo accolse con flebili carezze di vento, scompigliandogli i capelli e infilandosi subdolamente sotto la felpa nera.
La neve, colpita dai pallidi raggi della luna, pareva intramata di minuscoli diamanti. Gli stivali lasciarono impronte abbastanza profonde su quel manto compatto, mentre si allontanava di qualche passo dalla veranda.
L’ombra della casa si allungava dinanzi a lui e, al suo culmine, l’oscurità tratteggiava una figura rannicchiata.
Steve si voltò e spinse lo sguardo in alto, intercettando l’oggetto dei suoi pensieri. Una grande mano invisibile lo avvolse con delicatezza, sollevandolo da terra. Il giovane si lasciò trasportare fin sopra il tetto della casa, dove dovette fare attenzione a non scivolare a causa dello strato di neve che ricopriva le tegole.
Anthea era seduta lì, le gambe contro il petto e le braccia sulle ginocchia a creare un comodo appoggio per il mento. I lunghissimi capelli biondo caramello le ricadevano in morbide onde sulla schiena e davanti le spalle. Le lunghe ciglia scure vibravano leggermente e rendevano ancor più belli gli occhi inumani. La corona dorata intorno la pupilla si era dilatata ed aveva inghiottito quasi del tutto il buio delle iridi.
Steve soffermò lo sguardo sulla pelle bianca del suo viso, dove i raggi lunari disegnavano un disarmonico gioco di ombre. Quel luminoso candore poteva competere con la bellezza di una immacolata distesa di neve.
Anthea era una creatura tanto stupenda quanto misteriosa e Steve provò un sentimento così profondo e caldo nell’osservarla, da dimenticare per un attimo il gelo della notte.
Ventuno anni. Questa era l’età della giovanissima mezzosangue. Eppure, Rogers vedeva in lei una maturità che quasi sfigurava con la sua apparente innocenza. L’oneiriana era in grado di confondere i sensi e la percezione. Un attimo prima era una bambina fragile e innocente, quello dopo una donna risoluta e determinata e quello dopo ancora una creatura puramente istintiva e sensuale.
Era così destabilizzante. Ancora si chiedeva perché lei continuasse ad essere così presa da lui.
Steve si sedette al suo fianco, rimanendo in silenzio.
Lei non aveva mai smesso di guardare il cielo adombrato da nubi scure e punteggiato da rade stelle, quasi ne fosse stata ipnotizzata.
 
“Prenderai freddo.”

E Rogers rabbrividì, non per il freddo, ma nel ritrovarsi d’improvviso gli occhi dell’oneiriana puntati addosso. Inarcò un sopracciglio e le sorrise fievolmente.
“Mi consideri tanto fragile? Sai che-”
“Lo so. Il siero. Ma, Steve, non chiedermi di smetterla di preoccuparmi per te.”
Ecco. Questa era la prova schiacciante del fatto che lei fosse presa da lui. Maledettamente presa.
Calò di nuovo un fastidioso silenzio e il super soldato si decise a romperlo, prima che divenisse insopportabile.
“Come stai?”
Anthea gli rivolse uno sguardo decisamente scettico, prima di assumere un’espressione seria.
“Smettiamola di girarci intorno. Ascolta, dieci mesi fa ho commesso un errore madornale. Non avrei mai dovuto illuderti in quel modo e non immagini quanto mi detesti per quello che ho fatto. Non sarei mai dovuta tornare, sapendo che non sarei potuta rimanere. Non so cosa mi sia preso. È che mi mancavi. Mi mancavi così tanto. Ti ho mentito spudoratamente e poi sono andata via.”
Anthea si ritrovò senza fiato. Il cuore aveva preso a batterle dolorosamente e guardare Steve negli occhi era diventato impossibile.
“Se ne avessimo parlato, avrei capito. So che hai sulle spalle enormi responsabilità. Avrei capito. Perché non hai voluto spiegarmi?”
La tristezza nella voce di Rogers era palpabile.
“Perché mi sarebbe bastato guardarti negli occhi, per perdere anche l’ultima scintilla di volontà di tornare ad Asgard.”

Irreversibilmente presa da lui.

“E perché sei tornata?”
La ragazza sospirò profondamente e scosse piano il capo.
“Davvero non ci arrivi?”
“Come sapevi che ero nei guai?” la incalzò allora il biondo.
“Una sensazione.”
“È bastata quella per convincerti a tornare?”

Anthea annuì e le venne quasi da ridere, perché si rese davvero conto che era sgattaiolata via da Asgard solo per una vaga sensazione di inquietudine.
“È colpa tua, Idiota. Un giorno rischi di farti ammazzare e un giorno rischi di ammazzarti. Hai mai vagamente sentito parlare di un certo spirito di autoconservazione?”
Steve emise un verso frustrato e infilò una mano tra i capelli.
“Colpa mia? Ho già abbastanza sensi di colpa, non infierire.”
Questa volta, l’oneiriana rise sommessamente.
“Sei un campione quando si tratta di sensi colpa.”
 
Rimasero in silenzio per qualche attimo, poi Steve parlò di nuovo.

“Saresti tornata anche se ...”
“Se tu non ti fossi cacciato nei guai? Sì.”
“E quando?”

Anthea non rispose. Stette in silenzio per un tempo che parve lunghissimo, con lo sguardo perso nel vuoto. Poi tirò fuori a forza le parole, ignorando il battito accelerato del cuore.
“Non riuscirai mai a perdonarmi, vero?” sussurrò con voce piccola piccola.
“Credo di averlo già fatto” fu la semplice e sincera risposta del Capitano.
Il cuore di Anthea mancò un paio di battiti, o forse tre, anche se lei non lo diede a vedere.
“Non dovrò pregarti in ginocchio allora” celiò e Rogers le lanciò un’occhiata perplessa.
“Non ci credo. Non l’avresti fatto.”
“È difficile dire cosa non farei per te.”

Steve si morse l’interno della guancia, fino a farla sanguinare. Il sapore ferroso del sangue gli riempì la bocca.
Razionalità ed istinto avevano ingaggiato una battaglia nel suo animo fratturato.
Anthea era lì per lui. L’aveva lasciato, ma era tornata e non era ancora sparita.
Era lì. Per lui.
E non sembrava avere intenzione di andarsene troppo presto.
Senza rendersene conto, Steve le aveva avvolto le spalle con un braccio e l’aveva stretta a sé. Anthea gli poggiò la tempia destra contro il petto.

“Tony ha ragione. Sei cresciuta parecchio” convenne il biondo.
“E tu sei cambiato, Steve. Cosa ti è successo?” azzardò l’oneiriana e lo ascoltò trattenere il respiro per lunghi e tesi secondi.

“Parlane con me.”
Quelle parole sussurrate con cauta dolcezza furono un invito di fronte al quale Steve si trovò spiazzato.
Forse furono i suoi occhi caldi e rassicuranti, brillanti come un faro nelle tenebre. Forse fu la sua stretta gentile e, al tempo stesso, solida come un’ancora in un mare spaventosamente vasto e agitato. O forse fu semplicemente il fatto che fosse lei, lei di cui conosceva ogni curva del corpo e lembo di pelle.
Senza sapere realmente come, Steve si ritrovò a parlare con paradossale calma di tante cose che avrebbe voluto seppellire e dimenticare.
Le parlò della decisione di lavorare allo SHIELD, dell’addestramento sfiancate per diventare più forte, di Rumlow, di come aveva ingenuamente creduto di potersi fidare e di come ingenuamente si era fatto manipolare, permettendo ad altri di usarlo come proficua arma. Le parlò del modo in cui le cose erano precipitate, della finta morte di Fury, del tradimento da parte di coloro che aveva considerato compagni, della fuga assieme a Natasha e della profonda amicizia che era nata fra loro.
Le parlò di Sam, uno dei rari compagni a cui aveva donato la propria completa fiducia.
Le confessò di aver scoperto di essere morto inutilmente e le raccontò dell’Hydra, di Schmidt, di Pearce e del Soldato d’Inverno.
“Credevo fosse morto” fu il mantra che accompagnò i ricordi che vertevano intorno a Bucky e “Non l’ho salvato” l’amara conclusione, a cui il biondo si premurò di aggiungere di come fosse stato James a salvare lui, prima sul treno, poi dall’annegamento nelle fredde acque del Potomac ed infine da Schmidt.
Le disse del ritorno a New York e della riunione degli Avengers pilotata da Tony, o meglio, le riferì di come Tony, segretamente in combutta con Sam e Natasha, era riuscito a riportarlo alla Tower.
Poi, Steve si era fermato. La sensazione di aver appena finito una corsa a perdifiato di parecchie ore lo colpì nella mente e nel corpo. La spossatezza, accompagnata da un vago senso di leggerezza, lo avvolse in un piacevole abbraccio.

Anthea aveva assorbito ogni parola, sfumatura di voce, baluginio delle iridi azzurre e espressione facciale del giovane super soldato, assaporando emozioni fredde e devastanti, quasi come avesse intimamente condiviso con lui un dolore schiacciante.
“Avrei voluto esserci” fu l’unico pensiero coerente che ebbe la forza di formulare nei successivi minuti di placido silenzio. Ma non gli diede voce.

Un lampo abbagliante squarciò il cielo, illuminandolo. Seguì un boato che fece tremolare l’aria.
“Forse sarebbe meglio rientrare” suggerì la ragazza.
Steve aveva le guance e la punta del naso arrossati per il freddo. Gli occhi chiari erano leggermente umidi, come febbricitanti.
“E comunque hai perso peso.”
Anthea fece scivolare una mano sotto la felpa del super soldato e con le dita percorse i solchi armonici degli addominali, soffermandosi poi sulle costole più sporgenti del solito. Conosceva quel corpo e, nonostante fosse passato parecchio tempo, la sua memoria ne conservava ogni dettaglio.
Steve emise un debole sospiro, rabbrividendo per quel tocco delicato.
“Sono un po’ sotto tono. Gli ultimi giorni sono stati duri.”

“James mi ha detto cosa volevano farti. Renderti un burattino. Giocare con la tua mente.”
Le tremò pericolosamente la voce e un moto di rabbia le fece contorcere lo stomaco quando si accorse della scintilla di paura che aveva acceso le iridi chiare del super soldato.
Quasi senza accorgersene, Anthea scivolò nella mente del biondo, affondando nei suoi ricordi e vide. Vide con estrema e spaventosa chiarezza.

 
“Voglio toglierti tutto, anche te stesso.”
“Divertiti finché puoi, perché tra poco userai la lingua solo per dire ‘Come lei comanda, Sir’ e nient’altro.”
“Non potete farlo”
“Fa male, Steve?”
“Non farmi questo”
“Ragazzo mio, avresti dovuto pensare alle conseguenze delle tue azioni sconsiderate. Ormai è tardi per tornare indietro”
“Chissà come reagiranno i tuoi amici, quando ti manderò ad ucciderli”
“Affrontami Schmidt! Affrontami da uomo!”
“Bene. Mi avvisi quando lo ha spezzato, dottore.”



Anthea si alzò di scatto, interrompendo il contatto tra loro. Steve le rivolse uno sguardo interrogativo.
“Rientriamo” disse lei solamente, prima di dirigersi verso il bordo del tetto.
“Okay.”
Il biondo la raggiunse e saltò giù dal tetto senza alcuna esitazione e la ricaduta fu attenuata dalla neve. Anthea si lasciò cadere subito dopo, atterrando con estrema eleganza al suo fianco, e fece per muoversi in direzione della veranda, ma una decisa stretta attorno al braccio destro la costrinse a fermarsi.
Rogers la fece voltare e le prese il mento tra le dita, sollevandole appena il capo.
“Steve ...”
“Il tuo occhio destro sanguina. Di nuovo. E non dire che non è niente.”
Anthea si tirò indietro, sfuggendo al suo tocco.
“Effetti collaterali della crescita dei miei poteri. Alcune volte ho anche dei momenti di vuoto. Gli anziani del mio popolo dicono che devo solo avere pazienza, aspettare di raggiungere un solido equilibrio interiore.”
La giovane fece spallucce e cercò di piegare le labbra in un sorriso tranquillo.
“Va bene. Posso chiederti dov’è la tua spada?”
La perplessità si dipinse sul viso di Anthea, che esitò un momento prima di rispondere.
“L’ho lasciata ad Asgard. La custodiscono gli anziani per me. Perché ti interessa?”
Steve boccheggiò per dire qualcosa, prima di serrare le labbra in una linea dura.
“Steve? Va tutto bene?”
“Sei certa che sia lì?”
“Sì, ne sono certa. Qual è il problema?”
“Hai detto anche di essere certa di non aver sentito Thor arrivare.”

Rogers scorse uno strano baluginio attraversare le iridi dell’oneiriana.
Qualcosa non andava. Perché gli aveva mentito riguardo la spada? E perché ora sembrava così persa e confusa?
 
Una nuova lacrima rossa tracciò una macabra linea sul volto di Anthea. Questa volta era stato l’occhio sinistro a sanguinare.

“Io non capisco dove vuoi arrivare” sussurrò la ragazza tra i denti, assottigliando lo sguardo.
Steve percepì un brivido gelido risalire lungo la colonna vertebrale.
Un sorriso freddo fiorì sul viso della giovane, che piantò gli occhi, ora due abissi oscuri, in quelli chiari del super soldato, come sfidandolo.
“Tu non mi credi.”

Il biondo rimase immobile, teso come una corda di violino. La volubilità dell’umore di Anthea era spaventosa a volte.
Forse non era il momento giusto per approfondire la questione riguardante la spada, nonostante gli premesse sapere di più. Era sicuro di aver visto la spada nella base sotto il Triskelion. E Thor era tornato ad Asgard, senza alcuna ombra di dubbio.
Eppure, le parole di Anthea dicevano altro.
Inevitabilmente, il suo cervello cominciò a costruire ipotesi che mai avrebbe voluto considerare.

“Ne parliamo domani, okay?” le propose, asciutto.
 
La osservò incrociare le braccia sotto i seni ed abbassare il capo. In un istante, era tornata la ragazza insicura e confusa di anni prima.
“Okay, rientriamo.”
“Sicura di stare bene? I tuoi occhi ...”
“Te l’ho detto. Sto bene” affermò lei, risoluta, mostrando una sicurezza che stonava con lo stato in cui era piombata pochi secondi prima.
Definirla lunatica sarebbe stato decisamente riduttivo. Anthea sembrava possedere una personalità frantumata e Steve era certo che lei non ne fosse del tutto consapevole.

La tensione tra loro aveva cominciato a sciogliersi ed erano riusciti a ritrovare una certa sintonia. Questo almeno fino a una manciata di minuti prima, perché ora le cose parevano essere tornate al punto di partenza e Steve si sentì quasi in colpa per come la situazione era degenerata.
 
“Scusami.”
 
Anthea, che aveva iniziato a incamminarsi in direzione della veranda, si bloccò nel sentirlo pronunciare quell’unica parola. Scosse il capo e tornò da lui.
 
“No. Scusami tu.”
 
Un altro lampo squarciò il cielo e il rombare del tuono fu stavolta più forte. Raffiche di vento crearono piccoli turbinii di neve.
Ancora un lampo. Ancora un tuono.
 
Steve e Anthea si scambiarono un ultimo sguardo incerto e poi raggiunsero la veranda in silezio.
 
                                                            *
 
Quando tornarono dentro, rimasero abbastanza basiti nel ritrovare il centro del salotto ricoperto da lenzuola, cuscini e un paio di piumoni.
 
“Ehi, Rogers, dacci una mano” chiamò Stark.
“Lo farei volentieri se capissi cosa diamine state facendo.”
“C’è un solo letto di sopra, abbastanza grande per permettere a Nat, Pepper e Anthea di dormirci insieme. Noi ci arrangeremo sul pavimento e uno può stare sul divano, cioè io” spiegò Clint, mentre sistemava meglio un lenzuolo a terra. Gli arrivò un cuscino dietro la nuca.

“Volevi dire che dormo io sul divano” precisò Tony, schivando per un pelo il cuscino che l’arciere gli aveva rispedito.
 
“Non vi ammazzate” riprese Natasha, affacciata a metà della rampa di scale.
 
“Va bene, mamma” replicò Barton, mentre Tony si era trattenuto solo perché Pepper, al fianco della rossa, lo aveva guardato preventivamente male.
 
Quando anche Anthea ebbe raggiunto le due donne, i maschi del gruppo le osservarono sparire al piano di sopra.
 
“Okay. È più o meno tutto pronto.”
Clint lanciò un’occhiata perplessa ai letti di fortuna ricavati sul pavimento.
“Molto meno che più” si corresse poi.
 
“Perché li hai messi tutti appiccicati?”
Solo allora Tony parve notare quel particolare.
 
“Abbiamo poche coperte e due soli piumoni. Era impossibile fare un posto a testa. Accontentati. E poi credimi se ti dico che farà freddo, quindi non ti dispiacerà così tanto la vicinanza” spiegò Barton.
“No, non mi dispiacerà. Dormirò sul divano, infatti.”
“No, Stark. Ci dormo io.”

“Carta, forbice, sasso?” propose Sam.
 
Giocarono davvero. Tutti.
E Clint ne uscì vincitore.
L’arciere infilò una seconda felpa e si appropriò di una coperta, sistemandosi dunque sul divano e ignorando al contempo gli insulti di Stark.
 
“Tu stai fra me e il Soldato instabile” impose Tony, rivolto a Steve.
“Okay, okay. Non ti agitare.”
“Beh sai ... vorrei evitare di essere sgozzato nel sonno.”
“Stark.”
“Che c’è? Sono realista.”
 
Dopo qualche altra discussione sulle disposizioni e dopo che Sam vinse il posto laterale giocando a ‘Pari o Dispari’ con Tony, finalmente spensero le luci e si distesero a terra, infilandosi sotto i caldi piumoni.
Bucky era ad uno degli estremi di quell’ammucchiata di piumoni, lenzuola, cuscini e arti scomposti, poi c’erano Steve, Tony ed infine Sam.
 
“Siete ancora svegli?”
“Abbiamo spento la luce cinque minuti fa, Tony” sbuffò Barton, rigirandosi sul divano.
“Avete visto che lampi assurdi? Ce l’ha il parafulmini questa casa?”
 
Effettivamente, i lampi parevano piuttosto vicini e stavano illuminando a giorno il cielo.
 
“Dormi, Tony” lo pregò Sam, che era stanco morto e non voleva altro che farsi una lunga dormita.
 
L’inventore roteò gli occhi e si sistemò su un lato, rivolgendo il viso in direzione di Steve, che era disteso prono con la faccia affondata nel cuscino.
Dal biondo non era arrivata stranamente alcuna protesta. Sembrava essere crollato.
Allora Stark, per sincerarsi che fosse ancora vivo, allungò un braccio e avrebbe piazzato una pacca tra le scapole del super soldato, se Barnes non lo avesse bloccato, afferrandogli il polso con l’arto umano.
Stark scivolò subito via da quella presa, come scottato, e si ritrovò a fissare il volto del Soldato d’Inverno nel buio della stanza.
“Istinto” si giustificò quest’ultimo, in un bisbiglio incerto.
“Beh, spero che rimanga di protezione e che non si trasformi in istinto omicida.”
Anche se sussurrate, le parole di Tony risultarono fredde e alquanto accusatorie.
“Lo spero anch’io” fu la secca replica di James.
 
E da quel momento, ci fu solo il suono della tempesta che imperversava fuori dalle mura di quel nuovo e provvisorio rifugio.
 
 
 
                                                           ***
 
 
 
“È sicuro che funzioni, Sir?”
 
Teschio Rosso dedicò a Rumlow uno sguardo di sufficienza e poi tornò a rivolgere l’attenzione al cilindro di vetro contente la spada dall’elsa bianca.
 
“Credo di potermi fidare di lei. Dopotutto, se sono qui, è merito suo.”
 
Un attimo dopo, il rumore graffiante del vetro che si infrange riempì la stanza.
 
 
 
 
 
 
Note
Ciao!
Sono tornata e spero con tutto il cuore che voi ci siate ancora :)
Posso ora dire di essere ufficialmente matura, o meglio, lo sono dal 4 Luglio! È stato un po’ triste dire addio al liceo, ma ehi! C’est la vie ;)
 
Il capitolo è lunghetto, lo so, diciamo che può assomigliare ad un riepilogo degli ultimi eventi. È un capitolo di passaggio e dal prossimo ricominciamo con l’azione, promesso ;)
Se qualcosa non è chiara o se notate delle incongruenze, non dovete far altro che chiedere. Io sono qui :)
 
Voglio assolutamente ringraziare voi delle liste speciali <3
Anny2001
DalamarF16
fredfredina
happyfun
Ragdoll_Cat
Ravinpanica
Siria_Ilias
TheMonstersAreHuman
Trafalgar Norah
winterlover97
Eclisse Lunare
Giulietta beccaccina
Mary Grifondoro
mrslightwood
selenagomezlover99
shoppingismylife
StevenRogers
the little strange elf
_Abyss_
_Alesia_ 
 
E un caloroso saluto alle New Entry <3
ReAles
Anthea08
Dragonite
Fex89
genny87
Grazie davvero di aver deciso di seguirmi e scusate per il lungo periodo di assenza!
 
Ci tengo a ringraziare poi Ravinpanica - sono tornata finalmente e, come promesso, cercherò di farmi perdonare l’assenza! Un abbraccio fortissimo <3 -, the little strange elf - sappiamo cosa è successo a Tony! Dal prossimo ti assicuro che mi muoverò in direzione di Thor e Bruce e, piano paino, tutti i nodi verranno al pettine! Tantissimi baci <3 -, Siria_Ilias - come è andata la maturità? Mi auguro tutto bene! Ti mando un abbraccio forte e spero che sia riuscita a farti divertire <3


E infine non posso non ringraziare la mia Sister Ragdoll_Cat  <3
Hai visto? Sono finalmente riuscita a pubblicare! Grazie per i consigli e il supporto, davvero, non ho parole  *.*
Devo ancora rispondere alle tue recensioni, ma prometto che lo farò presto!
 
Beh, credo sia tutto!
Appuntamento a fine mese!
Un enorme abbraccio e tutti <3
 
La vostra resuscitata Ella

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Capitolo 13
*** Diverbi e Decisioni ***


Diverbi e Decisioni
 

“Perché stai facendo questo? Sono tuo amico.”
 
Buio. Eco di una voce conosciuta. Buio.
 
“Non lo hai compreso? Eppure dovrebbe essere chiaro. Vendetta.”
 
Buio. Ancora buio. Suono distinto di un’altra voce.
L’acustica è più limpida. Eppure, non la riconosce.
 
“Hai detto anche di essere certa di non aver sentito Thor arrivare.”
Questo è Steve.
Steve che non si fida, non le crede, è arrabbiato.
 
Qualcosa si muove … ma cosa?
No, non qualcosa. Il suo corpo si muove. Si muove veloce e colpisce.
Qualcuno grida. Chi?
E c’è un suono, ovattato, lontano, non riesce a districarlo dalla cacofonia di grida che ha sostituito il silenzio di quel buio denso.
 
Smettila! Smettila di gridare!
Perché gridi? Perché?
 
Una bruciore pungente. Il braccio destro sembra andare a fuoco. Fa male.
Il suono. Il suono è più vicino.
Il braccio fa male.
 
“Non erano questi gli accordi, Heith.”
“Come mi hai chiamata?”
“Con il tuo nome.”
“Hai sbagliato persona. Io non ti ho mai visto prima.”

 
Le grida si spengono. Qualcuno piange.
Il suono. Lo sente distintamente. È un tintinnio. Sono catene che tintinnano.
 
Perché piangi? Perché?
 
Perché ho paura.
 
Di cosa hai paura?
 
Le catene tintinnano. Le immagina serpeggiare nel buio. Le immagina avvolgere il suo corpo e stritolarlo.
È odore di sangue quello che impregna l’aria?
Le catene tintinnano.
Il braccio fa male. Brucia.
 
Di cosa hai paura?
 
Me. Ho paura di me stessa.
 
Le catene tintinnano. Il braccio fa male. C’è odore di sangue.
Qualcuno piange.
 
 
*
 
 
Fasci di luce squarciarono i rimasugli di oscurità e le sue iridi brillarono di un inconsueto miscuglio di colori, rivelando sfumature violette.

Il Sole stava sorgendo pigramente e il cielo plumbeo si intesseva di luce, rivelando a tratti squarci di azzurro.
La tempesta era passata, lasciandosi dietro qualche strato in più di neve e l’apparenza di una strana e precaria quiete.
 
Era piombata in un profondo stato di apatia.
Il cuore le martellava violentemente contro la gabbia toracica e credette di sentire le costole flettersi pericolosamente, quasi potessero spezzarsi.
Le gelide sferzate del vento la trascinarono bruscamente verso la realtà, da qualche parte in un bosco di conifere i cui rami creavano intricati reticolati di ombre sul manto di neve che ricopriva il terreno.
I sensi assopiti ricominciarono a captare gli stimoli provenienti dal mondo esterno.
I piedi nudi affondati nella neve avevano perso parte della sensibilità a causa del freddo. Come un automa, portò le dita a toccare la guancia sinistra e subito ritrasse la mano. Osservò con confusa circospezione il sangue che ora sporcava la punta delle candide dita.
E poi eccolo, l’apice della consapevolezza.
È la stessa sensazione che si prova quando il confine tra sogno e realtà diviene netto, quel momento in cui ci si sveglia, ci si accorge che l’accaduto delle ultime ore non è altro che una artificiale costruzione del cervello e si torna coscienti dell’effettività del reale.
 
Era sulla Terra. E quello era già il terzo giorno.
Ma perché era nel bel mezzo di un bosco? Perché non era sotto le coperte, al fianco di Natasha?

Momento di vuoto.
Così Anthea definiva analoghe esperienze divenute un’assidua costante nella sua vita da ... da quando non lo sapeva.
Piangere sangue la spaventava meno di quelle ellissi totali nella memoria.
Il buco mnemonico più profondo - ma non il primo - risaliva a dieci mesi addietro, quando si era ritrovata sulla Terra ed era tornata da Steve. Non ricordava di aver lasciato Asgard, non ricordava di aver mai deciso di raggiungere Steve, troppo occupata a risanare le spaccature interne al suo popolo appena riunito.
Eppure, l’aveva fatto.
 
Scosse il capo e con foga strofinò i palmi sulle guance, intenzionata a pulire via il sangue sgorgato dagli occhi.
 
“Il suo potere è instabile, mia Signora.”
“Insegnami, Damastis. Insegnami a stabilizzarlo.”
“Posso insegnarle a controllarlo, mia Signora, ma la stabilità è un’intima condizione interiore e il suo raggiungimento non segue una univoca strada. Deve trovare la sua e solo il tempo potrà aiutarla.”

 
Le parole di uno dei più anziani del suo popolo, colui che l’aveva iniziata all’arte del controllo delle forze irrazionali che si celavano nella mente, la accompagnavano da quasi due anni ormai, eppure non era ancora riuscita a scorgere la sua strada nemmeno lontanamente.
Continuava ad essere instabile. Si sentiva come un funambolo troppo inesperto rispetto la sfida che aveva deciso di affrontare.
Sarebbe bastato un alito di vento per spezzare il suo caduco equilibrio.
 
Mentre rimuginava sul caos che dominava la sua volubile interiorità, uno scintillio improvviso la costrinse a voltare il capo.
Alla sua destra, a meno di un passo di distanza, la lama della spada dall’elsa bianca rifletteva la luce pallida dell’alba.
 
“Sei certa che sia lì?”
 
La domanda di Steve risuonò con spaventosa forza nella sua testa.
Le mancò il fiato.
Costrinse il braccio destro a sollevarsi e a tendersi verso la spada conficcata nella neve. Le dita tremule circondarono l’elsa bianca e, seppur recalcitranti, la strinsero.
Un’indistinta molteplicità di flash accecò la sua vista fisica e un affastellarsi di immagini confuse le colmò il cervello, ma, per quanto si sforzasse, non riuscì a renderle nitide.
 
 
“Perché stai facendo questo? Sono tuo amico.”
 
 
Il contatto con l’arma scatenò una scarica di elettricità innaturale e un intenso bruciore si irradiò lungo il braccio destro della giovane, che istintivamente ritrasse la mano.
Con una lentezza quasi nauseante, abbassò la zip della felpa e fece scivolare a terra l’indumento. I bracciali argentei che le circondavano i polsi rifletterono i tenui raggi del Sole e brillarono della loro luce.
 
“Che mi succede?” furono le parole appena udibili che abbandonarono le sue labbra.
 
Un complesso intreccio di linee rossastre andava ramificandosi lungo l’intero arto, fino ad infilarsi sotto la manica della maglietta nera.
L’oneiriana si disfò anche della maglia, ignorando il freddo che le morsicò la pelle nuda, e seguì il percorso di quelle linee contorte che si diramavano lungo il petto, il ventre e, se avesse potuto osservare la schiena, le avrebbe viste allungarsi sul deltoide ed il dorsale destro.
Bruciavano in modo sopportabile, ma il dolore sembrava intensificarsi gradualmente.
Chiuse gli occhi e solo allora si accorse di aver trattenuto a lungo il respiro.
 
Con un gesto secco e deciso afferrò l’elsa della spada e una nuova scarica elettrica riverberò nel suo corpo.
E ancora una volta la sua mente fu presa d’assedio da frammentarie immagini e indistinti suoni.
Il bruciore al braccio si accese con rinnovato ardore, facendole serrare i denti, ma non allentò la presa sull’arma, bisognosa di sapere cosa il suo spirito e il suo corpo stessero cercando di riportare a galla.
Poi ci fu un istante di buio squarciato da un lampo impetuoso che illuminò i meandri più oscuri dell’inconscia memoria.
 
 
“Perché stai facendo questo? Sono tuo amico.”
 
“Non lo hai compreso? Eppure dovrebbe essere chiaro. Vendetta.”
 
“Non voglio combattere contro di te.”
 
“Combattere, non combattere … cadrai in ogni caso, Thor.”
 
 
E tutto si spense.
 
Anthea riaprì gli occhi, mentre tentava di regolarizzare il respiro affannato.
Estrasse dalla neve la spada, rivolgendone la punta verso il cielo. Osservò accuratamente la lama e scorse increspature percorrerne la superficie.
Un dolore bruciante le trapassò ancora il braccio destro e si diramò fin dove le strane linee rossastre le solcavano la pelle.
Era come se una strana energia avesse impregnato la sua spada e, nel momento del contatto, l’arma avesse fatto defluire quella stessa energia nel suo corpo. Ora si sentiva bruciare dall’interno.
Si prese la testa tra le mani e si piegò sulle ginocchia, serrando le palpebre con estrema violenza.
Lacrime scarlatte le stavano rigando le guance esangui.
Se nel recente passato gocce di sangue avevano abbandonato i suoi occhi, quelli erano stati eventi sporadici e legati agli allenamenti cui veniva sottoposta la sua psiche, il fulcro del suo potere.
Messo piede sulla Terra, la cosa era degenerata ed era frustrante non riuscire a controllarla.
Le visioni l’avevano sconvolta, nonostante avessero preservato una fatiscenza che non le aveva permesso di comprenderne fino in fondo il contenuto. L’unica certezza era rappresentata dalle emozioni. Qualunque cosa stesse lottando per riaffiorare nella coscienza la terrorizzava.
 
Il dolore sembrò alleviarsi e la giovane tornò in piedi, con la spada stretta nella mano destra. L’arma si era svuotata a quanto pareva, perché aveva smesso di riversare in lei energia dalla dubbia natura.
Diede un’ulteriore occhiata alle linee rossastre che serpeggiavano sulla pelle nuda del suo ventre. Poi afferrò la felpa abbandonata a terra e la indossò, chiudendo la zip fin sopra il collo.
Sospirò.
Sapeva che avrebbe dovuto affrontare Steve. La domanda che lui gli aveva posto sulla spada non era stata casuale e lei gli aveva mentito, ma non intenzionalmente.
Era certa di aver lasciato l’arma ad Asgard.
 
“Hai detto anche di essere certa di non aver sentito Thor arrivare.”
 
Un brivido agghiacciante le percorse per intero la colonna vertebrale, mentre riascoltava nella propria testa le parole incerte del super soldato.
Adesso faceva fatica a dire di cosa era certa, ma doveva mantenere la calma e placare il turbinio di emozioni che le aveva preso d’assedio il cuore. Era vitale capire come la spada fosse arrivata sulla Terra e con quale energia fosse stata riempita, energia che ora scottava come brace ardente dentro di lei.
 
Sospirò ancora, prima di iniziare a correre verso la casa sicura.
 
 
 
                                                          ***
 
 
 
Tony era stato a letto con un numero spaventosamente elevato di donne. Consumato l’amplesso, aspettava che queste si addormentassero per svignarsela, evitando qualsiasi tipo di scocciatura che sarebbe derivata da un congedo diretto e inevitabile.
Non aveva mai dormito con le sue amanti, non le aveva mai strette tra le braccia per poi sussurrare loro parole dolci.
Soddisfatto il piacere, odiava prolungare oltre il contatto fisico, così se la filava.
 
Le cose erano cambiate quando aveva deciso di legarsi a Pepper non solo fisicamente, ma anche e soprattutto sentimentalmente.
Tony non poteva fare a meno di tenere la sua Virginia tra le braccia e, diverse volte, lei aveva dovuto svegliarlo con un “Tony, mi stai soffocando” assonnato ma mai veramente infastidito.
 
La verità era che Tony Stark temeva da sempre il buio, in tutte le sue forme.
Forse era anche per questo che analizzava e studiava qualunque cosa il suo cervello ritenesse misterioso e oscuro. Spingersi oltre i limiti del raziocino era per lui consuetudine e un modo per fare luce ovunque il suo folle genio potesse arrivare.
Conoscere le cose fin nella loro molecolare struttura gli dava la facoltà di poterle manipolare a suo piacimento e un distinto senso di onnipotenza. Ma, se il mondo fisico non aveva segreti per lui e poteva essere razionalizzato da cristalline leggi matematiche, il mondo irrazionale dei sentimenti lo vedeva come un labirinto dove orientarsi era impossibile.
Il buio lo spaventata perché innescava nella sua mente razionale un processo di esplorazione di quella sfera sentimentale, che lo faceva sentire come un antico fisico che non riusciva a spiegarsi quale oscura forza permettesse alla Terra di girare intorno al Sole.
Era imprescindibile. Quello che non comprendeva, lo spaventava, anche se non l’avrebbe mai ammesso.
 
Virginia era la luce che illuminava i complessi sentimenti che abitavano il cuore di Tony, perché lei lo capiva, lo conosceva ed era in grado di gestirlo.
Con Virgina, la paura del buio si affievoliva, fino a divenire una vaga sensazione di disagio. Facendo uso di una smisurata pazienza, la ramata era riuscita a lenire anche la paura di quel buio che Tony aveva visto oltre il wormhole che aveva attraversato con una testata nucleare sulla schiena.
Nel silenzioso buio della notte, Pepper era la sua isola sicura. Si era chiesto più volte come fosse riuscito a sopravvivere senza di lei, senza la sua sicura presenza, e ancora non aveva trovato una risposta decente.
 
Così, per Tony Stark, era adesso un’abitudine imprescindibile scivolare verso la sua Pepper, avvolgerle la vita con le braccia e tirarla contro il suo petto.
Amava il suo profumo e quei suoi fianchi morbidi dalle curve delicate e … dov’erano le curve morbide e delicate? E perché la schiena della sua dolce metà non aderiva al suo petto come sempre?
 
Con gli occhi ancora appiccicati per il sonno, Tony poggiò la fronte sul corpo che continuava a stringere e ne saggiò la consistenza con le mani.
 
“Tesoro, forse stai esagerando con la palestra” biascicò e ottenne in risposta un mugolio sommesso.
 
“Interessante questo nuovo soprannome, Stark.”
Fu la saccente e divertita voce di Barton a rispedire Tony dritto verso la realtà e a fargli prendere consapevolezza del fatto che non era il corpo di una palestrata Pepper quello a cui era avviluppato.
La conseguente reazione - esponenzialmente esagerata - dell’inventore fu quella di spingere con entrambe le mani - e con sorprendente forza per uno appena sveglio - il malcapitato Steve Rogers fuori dal giaciglio di coperte che occupava il pavimento.
 
Il super soldato, stordito e strappato dal sonno profondo a cui si era abbandonato, scattò in piedi e i muscoli del corpo si tesero con uno spasimo, pronti ad una immediata reazione.
Ma ben presto, Steve si accorse che non c’era nessuno ad attentare alla sua vita.
Spostò lo sguardo da Tony, seduto scompostamente tra le lenzuola a terra e con un’espressione stranamente confusa in viso, a Clint, che si stava sbellicando come un dannato mentre si rotolava sul divano.
In tutto questo, un ignaro Sam si stava stropicciando gli occhi mentre mormorava uno strascicato “Buongiorno, commilitoni”, per poi aggiungere un più arzillo “Cosa mi sono perso?”.
 
Barton riacciuffò un po’ di contegno e abbandonò il divano, raggiungendo il giaciglio sfatto.
Oh Wilson, mi dispiace per te, ma ti sei perso Stark che ha chiamato Rogers tesoro, mentre lo abbracciava come un koala bisognoso di coccole.”
 
“Tu cosa?” sbottò Steve, lanciando al suo molestatore un’occhiata sbigottita.
“È stato un incidente” si giustificò quello.
 
Oh sì, è stato un incidente, tesoro.”
 
“Barton, smetti di dire Oh e tesoro in quel modo” berciò Stark, perforando l’arciere con uno sguardo di fuoco.
 
Oh tesoro, non ti infervorare. Fa male alla salu-”
 
Clint si ritrovò con il sedere per terra, dopo che Tony aveva tirato con forza il lenzuolo sgualcito su cui distrattamente l’arciere aveva messo i piedi.
 
“C’è già abbastanza gente che ha una voglia matta di ammazzarci, perciò evitiamo di ucciderci tra noi.”
 
“Parole sante, Capitano. Limitiamoci agli abbracci. Prendiamo esempio da Stark.”
 
“Stai attento, Barton. Una delle frecce che ti ho gentilmente regalato potrebbe esploderti in faccia.”
 
“Smettetela. Tutti e due.”
Steve, con ancora un evidente rossore a colorargli le guance, fulminò l’arciere e l’inventore con occhiatacce che promettevano dolori in caso di ulteriori battute poco felici.
 
“Certo che avete tutti un diavolo per capello la mattina e non solo metaforicamente.”
 
Tre paia di occhi luccicanti di non buoni propositi sostarono su Sam per un istante abbastanza lungo da fargli rimpiangere il tempismo che aveva avuto nello scoccare quell’audace frecciatina.
Più tempo passava con i Vendicatori, più si chiedeva come potessero sopravvivere sul campo di battaglia se non riuscivano a trovare un pacifico accordo nemmeno per le cose più semplici.
Li immaginò litigare su chi avrebbe dovuto salvare chi durante uno scontro e riuscì ad arrivare alla triste conclusione che vedeva il chi da salvare morire, mentre i suoi compagni se la giocavano a morra cinese.
Okay, forse aveva un tantino ingigantito le cose, ma comunque continuava a non spiegarsi come quella squadra così eterogenea potesse funzionare. Molto probabilmente l’avrebbe scoperto presto, dato sembrava prospettarsi un gigantesco scontro sanguinolento nel prossimo futuro.
Sam non aveva affatto dimenticato il cinquanta uscito dalla bocca di Stark, quando si era toccato l’argomento nuovi super soldati. C’era quindi una consistente inferiorità numerica a preoccuparlo, senza contare che già un solo mostro viola gli aveva fatto rivoltare lo stomaco, figuriamoci cinquanta!
 
L’attenzione dei tre Vendicatori, per la felicità di Sam, slittò sulla figura di Barnes, che veniva dalla cucina con un bicchiere d’acqua in mano.
Fu poi il Soldato a tirare un sospiro di sollievo, quando gli sguardi passarono da lui ad Anthea, sopraggiunta dalla porta d’ingresso con passo incerto.
 
“Abbiamo un problema” annunciò la ragazza, senza permettere a nessuno di aprire bocca.
“Uno solo?” fu il sarcastico commento di Stark, che ammutolì di colpo non appena notò che la ragazza era esageratamente pallida.
 
L’oneiriana venne avanti con la spada stretta nella mano destra e, impossibilitata a fare altrimenti, piantò gli occhi bui in quelli di Steve.
Il super soldato era talmente teso da sembrare sul punto di spezzarsi. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma la richiuse subito dopo, incapace di metabolizzare ciò che stava accadendo. Gli occhi chiari erano spalancati e le pupille fisse sul viso della ragazza. Non si accorse di Natasha e Virginia che scendevano le scale, forse svegliate dal rumore che avevano creato poco prima.
 
Per secondi infinitamente lunghi, tutto parve congelarsi e nessuno osò rompere il silenzio che era disceso nella sala.
Sam dimenticò perfino di respirare, mentre alternava lo sguardo dall’oneiriana al Capitano.
 
“Avevi ragione.”
Due parole. Secche ed incolori.
“Avevi ragione a dubitare di me. Sapevi che la spada non era ad Asgard fin dall’inizio, eppure ieri non mi hai accusata di mentire. Adesso, so che sembrerà assurdo, ma io non ti ho mentito. Ero certa di ciò che dicevo, credimi. Ora devo sapere dove hai visto questa spada, per favore.”
“Era nella base da cui mi hai tirato fuori” rispose flebilmente il Capitano e Sam tornò a respirare.
“Come …?” iniziò poi il biondo, ma l’oneiriana lo fermò preventivamente con un sincero e dispiaciuto “Non lo so” e poi, senza esitazioni, abbassò la zip della felpa per mostrare l’anomalia che le segnava la pelle.
“So solamente che chi c’è dietro mi vuole fuori dai giochi, perché ha caricato la spada con dell’energia che mi è entrata dentro e il mio corpo non riesce a estinguerla.”
 
“È mortale? C’è qualcosa che può aiutarti?” chiese Natasha, tra lo sbigottimento generale.
“Non ne ho idea. Forse gli anziani del mio popolo possono capire cosa mi succede, ma non voglio abbandonarvi ora” confessò Anthea, mentre tornava a nascondere le linee rossastre sotto il largo indumento.
 
“Potrebbe essere stato quello che ha riportato il Tesseract sulla Terra e che molto probabilmente impedisce a Thor di riunirsi a noi. Il famoso Esterno in contatto con Teschio Rosso. In poche parole c’è un dannato alieno che ci mette i bulloni tra i circuiti.”
Tony portò una mano al viso e lisciò il pizzetto che non curava in modo maniacale da quando era stato sfrattato da casa sua. Percepì sotto i polpastrelli l’imprecisione delle linee intorno al mento e la cosa gli diede parecchio fastidio.
 
“Dobbiamo dividerci.”
Rogers guardò i suoi compagni e lesse la perplessità nei loro volti stanchi.
Il tempo a loro disposizione era troppo poco e la priorità l’avevano Thor, Bruce e adesso anche Anthea. Se volevano avere delle possibilità di vincere questa ennesima battaglia, dovevano lottare tutti insieme, senza contare che mai il Capitano avrebbe lasciato indietro anche uno solo dei suoi compagni.
“Metà di noi andrà a cercare un rimedio per Anthea e a recuperare Thor e l’altra metà aiuterà Bruce.”
“Sai che aiutare Anthea e recuperare Thor implicano andare su Asgard, vero Rogers? Senza contare che nel momento in cui entreremo nel Pentagono ci saranno tutti addosso. Vuoi mandare tre di noi a morire?”
Tony si piazzò dinanzi al super soldato e incrociò le braccia al petto, non nascondendo il disappunto. Steve sorresse il suo sguardo senza mostrare l’incertezza che in realtà gli rodeva lo stomaco.
“È questione di tempistica, Stark. Abbiamo un modo per accedere al Pentagono, direttamente nel luogo dove è confinato Bruce, e abbiamo il passaggio che può condurci ad Asgard.”
Nel dire passaggio, il biondo scoccò un’occhiata ad Anthea, che annuì nonostante la sorpresa per quella svolta. Poi il Capitano continuò.
“Quando ne abbiamo avuto bisogno, Thor è venuto qui ad aiutarci e credo sia il momento di ricambiare il favore. Inoltre, potremmo avere l’opportunità di capire come il Tesseract e la spada siano arrivati qui. Se riusciamo a muoverci nei giusti tempi, ci ritroveremo insieme. Tutti insieme. Credo di avere un piano adeguato per-”
 
“Una volta oltre i confini della Terra, non ci sarà modo di rimanere in contatto. Se la metà della squadra che parte muore, l’altra metà non verrà mai a saperlo e la stessa cosa vale al contrario. Dannazione, Rogers, pensaci!”
Stark cominciava a perdere la calma e il fatto che l’espressione del super soldato rimanesse imperscrutabile gli dava sui nervi.
“C’è sempre il rischio di morire, Tony. Sempre. Ma vuoi sapere una cosa? Senza Thor e Bruce siamo spacciati, perché ci sono cinquanta super soldati all’avanguardia pressoché indistruttibili. Non uno, ma cinquanta. E in questo caso non è più rischio ma certezza di morire.”
 
Tony Stark odiava Steve Rogers in quei momenti.
Non si fermava.
Una volta che si ficcava in testa qualcosa e decideva di intraprendere una strada, Steve Rogers non si fermava e per questo Tony lo odiava.
Steve gli lasciava solo due scelte percorribili e l’una escludeva l’altra. O Tony decideva di fidarsi del Capitano ed era quindi con lui, o rimaneva della propria idea ed era contro di lui.
L’irremovibile e testardo Tony Stark aveva incontrato qualcuno che lo superava in irremovibilità e testardaggine.
E anche questa volta, Steve non si sarebbe fermato.
 
“Sono d’accordo con il Capitano.”
 
Quando Natasha annuì all’affermazione di Clint, Tony seppe che non ci sarebbe stato modo di dissuaderli. Non perse nemmeno tempo a chiedersi cosa ne pensassero Wilson e Barnes, perché era fin troppo scontato.
 
“Ti stai affidando alla fortuna, lo sai questo, Rogers?”
Tony tenne dentro di sé il ‘Fermati’ che avrebbe voluto urlargli in faccia.
Potevano trovare un altro modo per gestire quel casino, senza dividersi di nuovo. Avrebbero potuto cercare l’appoggio delle sezioni militari non corrotte, avrebbero potuto tentare di mettersi in contatto con Fury o far rinsavire Ross.
Stark temeva anche il buio dell’incertezza e la decisione di Rogers trasudava incertezza. Anni luce avrebbero separato le due metà della squadra e non ci sarebbe stato modo di prestare aiuto in caso di bisogno.
 
“Ti sbagli. Mi sto affidando a voi, Tony. Se tutti facciamo la nostra parte, non ci saranno distanze abbastanza lunghe da impedirci di tornare insieme. Ma ognuno di noi dovrà fidarsi degli altri e credere in loro. Quello che fa dei soldati un vero esercito è la fiducia. E so che non ci consideri soldati, ma il concetto rimane quello.”
 
Sam sorrise. Fidarsi dei propri compagni era indispensabile per non morire in guerra o anche per gettarsi dal quarantunesimo piano, certi di trovare una mano tesa pronta ad afferrarti.
 
“Eri così convincente anche quando facevi propaganda? Si spigherebbe l’arruolamento in massa dei soldati americani.”
Stark cercò di non pensare al fatto di essere capitolato ancora. La sicurezza di Rogers era contagiosa e sperò che fosse un bene. Ma rimaneva il fatto che il ragazzo riponesse troppo fiducia nelle persone e, nel mondo in cui vivevano, la cosa era parecchio svantaggiosa.
“No, facevo pena con i copioni già scritti. Vado meglio con i discorsi a braccio.”
“Confermo” se ne uscì Wilson, scambiando con Steve uno sguardo d’intesa.
 
“Come ci dividiamo?”
La domanda di Natasha riportò l’attenzione su ciò che era prioritario.
 
“Aspetta, Nat. Prima di scatenare un altro litigio, perché litigheremo, propongo di mangiare qualcosa. Non so voi, ma io muoio di fame e, per nostra fortuna, ci sono delle scorte.”
Barton si diresse in cucina senza aspettare una risposta e gli altri lo seguirono di buon grado.
Effettivamente, era da un po’ che non mettevano qualcosa sotto i denti e discutere a stomaco pieno sarebbe stato meno faticoso.
 
“Sì, l’ho visto il triste cibo in scatola che vuoi rifilarci” commentò l’inventore.
 
“Non lamentarti. È l’unico a lunga scadenza” gli fece presente l’arciere, roteando gli occhi.
 
 
                                                            *
 
 
Dopo aver mangiato dello schifoso - Tony aveva usato aggettivi ben peggiori - brodo di pollo di prima mattina, assieme a dolci ciliegie sciroppate - se l’amore rende ciechi, la fame addormenta le papille gustative -, la combriccola si riunì di nuovo in salotto per decidere come dividersi.
 
“Sono l’unico che può tenere sotto controllo il frammento del Tesseract, perciò io penso al Pentagono.”
 
“Egocentrico ma ragionevole. Quindi Stark rimane sulla Terra e-”
 
“Ed io con lui” concluse Natasha, interrompendo Clint.
“Ho le informazioni che servono per aprire il portale, ricordate? Mentre fingevo di essere la Hawley, Ross me lo ha spiegato abbastanza bene. Invece, Steve e Sam lavorano bene insieme e Barnes può essere il terzo della squadra che si occuperà di Thor.”
 
“No. Se io parto, Bucky rimane con voi e Clint viene con me.”
 
A Tony andò di traverso l’acqua che stava sorseggiando per ripulire la bocca dal sapore di brodo di pollo, mentre James rivolse a Steve uno sguardo tra il confuso e il ‘Stai delirando, idiota?’, molto simile a quello impresso sulle facce dei due assassini provetti.
La stessa Anthea ostentò perplessità, ma rimase in silenzio, conscia della ragionevolezza che il super soldato metteva in ogni mossa che proponeva.
 
“Mi sembra logico” fu il commento tranquillo di Sam.
“Per voi che rimarrete sulla Terra c’è il pericolo di uno scontro con quei mostri viola. Il Soldato d’Inverno ha più possibilità di non morire, senza offesa Occhio di Falco. È questione di equilibrare le forze a nostra disposizione e di rendere efficaci entrambe le squadre.”
“Esattamente. Se una squadra dovesse soccombere, allora avremmo perso” aggiunse Steve e sorrise in direzione di Wilson.
 
“Ti concederò anche questa, Rogers, ma solo perché la situazione è disperata e il tuo ragionamento è sensato. Prega che il tuo amico non faccia cazzate, perché non mi farò uccidere nel tentativo di farlo rinsavire. Io non sono te.”
La voce di Tony era fredda e tagliente e Barnes non rimase in silenzio dinanzi a tanta ostilità.
“Assicurati di colpire forte, Stark. Sono un osso duro.”
L’inventore piegò le labbra in un ghigno agghiacciante e i suoi occhi ambrati si piantarono per la prima volta in quello grigio azzurri di James.
“Oh, stai certo che lo farò, Sergente.”
 
“Stark …”
“Limitati a spiegare il piano, Rogers” lo zittì Tony, rivolgendogli un’occhiata parecchio gelida.
“Okay” fu la fievole risposta del Capitano.
 
Nel mezzo di un’atmosfera trasudante tensione e incertezza, i pezzi del piano che avrebbe dovuto riunire tutti i Vendicatori vennero assemblati uno dopo l’altro.
 
 
 
                                                         ***
 
 
 
“Quarantotto ore. Non un secondo di ritardo.”
 
Così Tony si congedò, prima di rientrare in casa, non senza aver lasciato un ultimo imperscrutabile sguardo al giovane super soldato con la sorprendente capacità di farlo ammattire.
 
“Gli passerà. In caso contrario, gliela farò passare personalmente. State attenti.”
Pepper sorrise fievolmente prima a Steve, abbracciò velocemente ma con trasporto Anthea e seguì i passi dell’inventore.
 
Era quasi mezzogiorno, ma l’onnipresente coltre di nuvole nel cielo impediva ai raggi solari di riscaldare la fredda aria invernale.
La tenue e bianca luce, che pareva quasi provenire dalla terra imbiancata di neve, disegnava deboli riflessi sul vibranio dello scudo assicurato sulla schiena di Rogers. L’uniforme spiegazzata e usurata in diversi punti evitava che il calore del corpo si disperdesse e le gote del ragazzo erano appena più rosate del solito.
 
“Come va?”
 
Anthea percepì gli occhi di Steve posarsi su di lei e le venne da sorridere.
Aveva indossato di nuovo le sue vesti da guerriera, ma non aveva rinunciato alla felpa nera omologata Stark. Il largo indumento copriva le linee rossastre sul braccio destro e parte delle gambe lasciate scoperte dall’attillata e corta divisa.
Era debilitata e il bruciore era tornato a invaderla. Occhieggiò la spada piantata nella neve alla sua destra e, ancora una volta, si chiese chi l’avesse portata sulla Terra.
Sospirò.
 
“Potrebbe andare peggio.”

“Troveremo un modo per aiutarti.”
 
Anthea annuì appena e guardò in direzione della casa. Non c’era nessuno nei paraggi.
Clint e Sam dovevano ancora essere impegnati con gli ultimi preparativi in vista dell’imminente partenza.
Decise di sfruttare quel momento, perché era certa che avrebbe dovuto attendere parecchio prima di poter riavere un’occasione simile. Erano solo lei e Steve, adesso. Niente occhi indiscreti o pericoli incombenti.
Pronta ad accettare qualsiasi conseguenza, l’oneiriana fece un paio di passi per porsi di fronte il super soldato. Si spinse sulle punte degli stivali neri, mentre la mano sinistra raggiungeva la nuca del giovane e lo costringeva a chinarsi in avanti.
Lo vide spalancare gli occhi azzurri quando le loro labbra si toccarono, rincontrandosi dopo quasi un anno.
E se per un attimo credette di sentirlo tirarsi indietro, nell’attimo contiguo fu estremamente felice di essersi sbagliata, perché Steve ricambiò, seppur con incertezza, quel bacio sfrontato e fortemente sentito.
Poi finì come era iniziato, ovvero troppo velocemente.
Si guardarono negli occhi, frastornati, e ripristinarono una certa distanza tra i loro corpi.
 
“Sai, Steve, io-”
 
“Datevi una mossa, signorine!”
Natasha uscì in veranda e lì si fermò ad attendere che Clint e Sam la raggiungessero, ma fu James a varcare il portone d’ingresso.
La mano di metallo che spuntava dalla felpa nera emise un debole baluginio. I capelli scuri gli sfioravano le spalle e qualche ciuffo dondolava sulla fronte. La leggera barba sfatta, insieme alle occhiaie, evidenziavano una stanchezza che prescindeva da quella fisica.
Il Soldato scese i scalini della veranda e camminò dritto verso Rogers, che si riprese a stento dalla confusione emotiva che Anthea aveva scatenato in lui e sperò di non essere arrossito troppo.
 
“Non fare nulla di stupido finché non torno” disse il biondo con un sorrisetto divertito a piegargli le labbra, quando James fu a un passo da lui.

Il luccichio che attraversò le iridi di Bucky venne seguito da un ghigno che mise in mostra i denti bianchi.
“Come potrei? La stupidità te la porti tutta con te.”
 
E se a occhio estraneo quello scambio di battute veniva recepito come un singolare modo di farsi raccomandazioni a vicenda - e non era stato che quello, settant’anni prima -, per i due super soldati assumeva un significato che svicolava dallo ‘Stai attento’, finendo per divenire una specie di ‘Sei ancora tu?’ ‘Sì, sono io.’, oppure un ‘Fino alla fine?’ ‘Sì, con te fino alla fine.’
 
“E tu tieni duro. Non ce la farei a gestire gli istinti suicidi di questo qua da solo.”
 
Anthea si ritrovò addosso lo sguardo di James e, per un secondo, si chiese se l’azzurro di quegli occhi fosse mai stato limpido e non occultato da un grigiore trapelante sofferenza dominata a stento.
 
“Beh, lo stesso vale per te. Quando torno voglio ritrovarti intero o chi lo regge questo qua?”
 
Questo qua vi sente.”
 
Si lasciarono andare a una lieve risata, mentre venivano raggiunti da Sam, Clint e Natasha.
Sia Wilson che Barton indossavano i vestiti omologati Stark e Falcon aveva attaccato le cinghie dello zaino contenente le ali sopra le felpa.
 
“Se foste persone normali vi raccomanderei di fare attenzione, ma siete degli idioti perciò è inutile. Solo ... siate puntuali.”
La Vedova non si dilungò nei saluti, perché quegli idioti sarebbero tornati presto. Quarantotto ore. Solo quarantotto ore. Poi si sarebbero riuniti. La squadra al completo.
Si fidava di loro e loro non l’avrebbero delusa.
Fece qualche passo indietro, imitata da James.
 
Era tempo.
 
“Una volta attraversato il Bifrost, ci troveremo sul territorio abitato dagli oneiriani. Dovete sapere che ponte di luce si dirama in tante vie i cui accessi sono sparsi ovunque. Ah, tranquilli, sarà veloce ed indolore. Pronti?”
 
La prima fermata sarebbe stata proprio la Città di Oneiro. Anthea aveva bisogno di aiuto e lì potevano trovarlo.
La giovane riprese possesso della spada e sollevò lo sguardo verso il cielo.
 
“Abbiamo scelta?” borbottò Wilson, prima di accostarsi leggermente a Steve.
“A quanto pare no” convenne Barton.
 
“Heimdall! Apri il Bifrost!”
 
E scomparvero nel fascio di luce che squarciò il cielo non appena la ragazza terminò di pronunciare l’iconico richiamo.
 
James e Natasha si soffermarono a contemplare l’intricato disegno racchiuso in un perfetto cerchio che ora marchiava una buona porzione del terreno, dove la neve si era completamente sciolta nell’immediato contatto con l’energia del ponte.
 
“E ora veniamo a noi.”
 
Il Soldato d’Inverno voltò il capo per incontrare gli occhi della Vedova Nera.
Non riuscì ad interpretare il commento atono che la donna gli aveva rivolto, perciò si limitò ad annuire.
 
 
 
                                                          ***
 
 
 
Planetoide di Asgard
Città di Oneiro

 
 
“Sto per dare di stomaco. ”
 
Forse era durato poco più di un battito di ciglia, ma si sentiva come uno che aveva passato ore su montagne russe esageratamente alte e piene zeppe di giri della morte. Aveva le vertigini e la vista richiedeva una messa a fuoco.
Percepì una mano posarsi sulla sua spalla e respirò profondamente un altro paio di volte prima di voltare il capo. La nebbiolina dinanzi gli occhi si dissipò, permettendogli di notare l’espressione preoccupata di Steve.
“Tu non ti senti uno schifo?” gli chiese, incredulo.
 
Rogers fece spallucce.
“Un po’ frastornato.”
 
“Solo un po’? Ah giusto, il Super Siero” fu il seguente lamento di Wilson, in lotta per sedare la rivolta scoppiata nel suo stomaco.
 
“Se può consolarti, Clint non sta meglio di te.”
Rogers indicò l’arciere, a cui Anthea stava dando appoggio mentre gli assicurava che quel brutto momento sarebbe passato presto.
Poi Steve spostò lo sguardo sull’orizzonte e cominciò a prendere coscienza di ciò che lo circondava.
 
Colline verdeggianti si estendevano a perdita d’occhio in tutte le direzioni.
C’erano alberi dai possenti tronchi nodosi con fronde lunghe e piangenti, le piccole foglie brillavano di colori tenui e delicati. Con le loro chiome bianche, celesti, rosee o verdi, tali alberi vivificavano le distese smeraldine.
Steve notò alla sua sinistra un fiume serpeggiare tra due colline e gettarsi in un lago dalle sponde frastagliate e le acque limpide. Se spingeva lo sguardo avanti a sé, poteva intravedere montagne rocciose e, se l’occhio non lo ingannava, doveva esserci una cascata di notevoli dimensioni che discendeva da quelle pareti rocciose.
Il cielo possedeva una trasparenza tale da apparire una vetrata oltre la quale erano visibili numerosi pianeti, o forse erano satelliti, tante lune che riflettevano la luce della stella più vicina - chissà se era lo stesso Sole che illuminava la Terra?

Quando il giovane Capitano rivolse l’attenzione ai suoi compagni, vide nei loro volti lo stesso stupore che aveva sensibilmente accelerato il battito del proprio cuore.
 
Le labbra di Anthea si piegarono in un dolce sorriso. Sollevò un braccio e puntò l’indice su un preciso punto, laddove era visibile un insieme di costruzioni non naturali eppure in perfetta armonia con il paesaggio.
“Dobbiamo camminare un po’” annunciò e prese a muoversi, subito seguita dai suoi tre compagni di viaggio, troppo impegnati a guardarsi intorno per dire qualsiasi cosa.

Durante il tragitto, la ragazza spiegò loro che gli oneiriani vivevano in una particolare simbiosi con la natura e per questo erano in grado di controllare i quattro elementi fondamentali.
“Ognuno di noi tende ad avere una particolare propensione per un singolo elemento” disse con fare sapiente.
“E tu?”
La voce di Steve tradì la sua sincera curiosità.
“Propendo per il fuoco” affermò Anthea, tutta orgogliosa.
“Siete tutti telecinetici?” chiese Sam, che aveva ormai smaltito gli effetti del viaggio.
La ragazza annuì.
“Sì. Ciò che cambia da individuo ad individuo è il grado di capacità, oltre che il livello di forza psichica.”
 
Nonostante stesse cercando di apparire tranquilla, a nessuno dei tre Vendicatori sfuggì la rigidità che dominava il corpo della giovane.
Anthea era tesa. Era tesa perché si sentiva bruciare dentro. Ed era tesa perché avrebbe dovuto spiegare ai membri del Consiglio - i più saggi del popolo, ossessionati dal rispetto delle leggi - il perché della sua non autorizzata scappatella sulla Terra.

“Statemi vicino. Non so quali reazioni scatenerà la vostra presenza” convenne, nel momento in cui misero piede su una strada di ciottoli bianchi e levigati che si allungava fino ad una struttura visibile in lontananza, una struttura che aveva tutta l’aria di essere un palazzo.
In realtà, Anthea sapeva che avrebbe dovuto chiedere l’approvazione del Consiglio prima di portare stranieri in città, ma sperava che capissero la gravità della situazione.
 
Case di pietra grigia, levigata in alcuni punti e frastagliata in altri, si susseguivano in file ordinate ai lati della strada. Dietro queste prime file di tozze abitazioni, c’erano case di solido legno scuro e altre sia di pietra sia di legno, tutte poste con maggiore casualità e meno simmetria. Alcuni edifici erano ancora in fase di costruzione.
La città si estendeva per svariati chilometri.
 
L’attenzione dei tre Vendicatori venne però del tutto assorbita dalle figure che piegavano rispettosamente il capo al passaggio di Anthea e che poi guardavano con ostentata sorpresa i terrestri.


Sam si sporse verso Steve e, con un filo di voce, gli chiese se Anthea fosse una qualche specie di dea lì.
“È la loro sovrana, Sam” lo mise al corrente il biondo, con voce altrettanto bassa, e Wilson rispose con un secco Oh.
“Non sembrano tanto scontenti di vedere noi” fu poi il sussurro di Clint.
 
Gli oneiriani avevano sembianze umane. La loro pelle era talmente bianca da brillare sensibilmente quando colpita dalla luce. I volti allungati ospitavano nasi piccoli e all’insù, ma il tratto più peculiare era rappresentato dagli occhi grandi.
A differenza delle iridi di Anthea, quelle degli oneiriani spiccavano per i colori chiari e limpidi.
Scuri erano invece i loro capelli, che assumevano tonalità dal nero pece al castano e creavano un contrasto netto con la carnagione chiarissima. I loro abiti erano costituiti da tessuti leggeri che calzavano come una seconda pelle.
Cinque bambini, seduti sull’erba al limitare del ciottolato, scattarono in piedi non appena intercettarono Anthea e le sorrisero con calore mentre agitavano le mani in segno di saluto. Subito dopo, i loro grandi occhi curiosi contemplarono quelli che erano a tutti gli effetti alieni provenienti da un altro pianeta.
Un leggero chiacchiericcio risuonava nell’aria scossa da una fresca brezza.
 
Nell’imbarazzo più totale, i tre Vendicatori si limitarono a seguire i passi di Anthea. La sensazione di essere sotto attenta analisi non era affatto piacevole.
Dopo un tempo che parve infinito, arrivarono alla fine della strada, dinanzi un palazzo di marmo nero venato di bianco. Niente muro di cinta o torri dove poter rinchiudere principesse. La struttura aveva una forma del tutto simile ad una moschea e l’unica grande cupola che si innalzava maestosa brillava di un grigio perlaceo.
Le ante della grande entrata, anch’esse grigie, erano spalancate e ne uscì un distinto oneiriano, il quale venne loro incontro. Indossava una lucente armatura argentea, non molto dissimile da quella di Thor se non si contava l’assenza del mantello. I capelli nerissimi erano tirati indietro e gli sfioravano le spalle.
Le iridi erano di un celeste glaciale e accese da una scintilla superba.
 
“È il comitato di accoglienza?”
“Sam” lo riprese immediatamente Rogers, tendendosi alla vista del guerriero.
 
“Sei audace, non c’è che dire” fu la prima cosa che disse quello, rivolto ad Anthea, e subito dopo squadrò i terrestri dietro di lei.
“Il Consiglio ti aspetta” aggiunse alla fine, riportando gli occhi sulla giovane.

Anthea annuì brevemente e si rivolse a Steve.
“Spiegherò come stanno le cose. Voi-”
 
“Rimarrò io con loro. Adesso va’.”
 
Seppure rimostrante, Anthea si vide costretta ad accettare la proposta dell’oneiriano e il Capitano le fece un leggero cenno del capo, come per dirle di non preoccuparsi e che l’avrebbero aspetta senza combinare casini.
La situazione era palesemente delicata.
 
Una volta che la ragazza sparì oltre il vano del palazzo, l’oneiriano in armatura dedicò la sua completa attenzione ai tre Vendicatori.
“Tra di voi c’è l’ambasciatore di Midgard?”
 
“Oh sì, io. Piacere, Clint Barton. Loro sono il mio scudiero, Steve Rogers, e il mio personale Falcon messaggero, Sam Wilson.”
Nonostante la vena sarcastica nella voce, l’oneiriano prese per vere le parole di Barton.
Steve strinse tra pollice ed indice il ponte del naso e Sam incenerì l’arciere con lo sguardo.
 
“Andras, capitano dei guerrieri posti alla difesa del regno. Sarei molto curioso di visitare il vostro pianeta, così finalmente capirei cosa spinga la nostra sovrana a rimanerne così legata.”
 
“Beh, passa quando vuoi. Siamo abituati a visite di alieni. Alcuni si affezionano talmente tanto al clima della Terra, da desiderare di conquistarla.”
 
Sul viso di Andras si disegnò un ghigno sottile.
“Voi umani siete tutti così fastidiosamente spiritosi?”
 
“Assolutamente no. L’umorismo è per pochi” rispose tranquillamente Clint.
 
Questa volta fu un’espressione seccata a contrarre i lineamenti dell’oneiriano.
“Venite. Attenderemo la regina in una delle sale del palazzo.”
 
Prima di seguire Andras, Steve scoccò un’occhiata eloquente a Clint, come per dirgli di limitare la sfacciataggine.
Il Capitano era certo di una sola cosa, ovvero non erano i benvenuti.
 
 
 
                                                          ***
 
 
 
Terra
Washington. Pentagono.

 
 
Lo specchio gli restituì il riflesso del suo viso. Lo contemplò a lungo, alzando appena il mento e ruotando il capo a destra e sinistra.
C’era voluto del tempo, ma la pelle gravemente danneggiata dalle fiamme era andata in contro ad un lento processo di guarigione.
Un anno prima, il siero ricavato dal sangue del Soldato d’Inverno aveva risaldato le ossa rotte, ripristinato l’udito danneggiato e guarito gli organi interni ridotti a poltiglia. Un corpo che sarebbe stato da buttare - da seppellire - era stato tramutato in una macchina da combattimento.
La formula di Zola mutava sensibilmente la massa muscolare, garantiva forza e riflessi sovraumani e una rigenerazione cellulare più veloce del normale. Senza il siero, le ustioni che gli deturpavano il viso ed il corpo sarebbero state una condanna a vita, un onnipresente ricordo della disfatta schiacciante - schiacciante in tutti i sensi - in cui era incappato a causa di Steve Rogers.
 
La sua incorruttibile lealtà nei confronti dell’Hydra e le ineccepibili capacità strategiche dimostrate durante gli anni trascorsi a fingere di lavorare per lo SHIELD, erano stati il movente che aveva spinto Schmidt a concedergli la chance di tornare sul campo di battaglia e vendicarsi.
Teschio Rosso aveva affermato di aver tenuto d’occhio la nuova Hydra guidata da Pearce dal novembre del 2013. Aveva ripetuto più volte di dovere il suo ritorno alla creatura con la quale aveva stretto una particolare alleanza.
Rumlow aveva intravisto una sola volta quella creatura. L’aveva vista consegnare a Schmidt una spada dall’elsa bianca, la stessa spada la cui insolita emissione di energia aveva permesso all’Hydra di attirare i Vendicatori sull’Empire.
 
Schmidt teneva per sé parecchi segreti, ma a Brock importava poco la conquista del mondo, poiché il suo unico obiettivo era la vendetta e nient’altro.
Da quel che aveva potuto constatare, c’era una certa concorrenza nel settore ‘Falla pagare a Steve Rogers’, perciò avrebbe dovuto giocare bene le sue carte per non lasciarsi sfuggire l’occasione di mettere le mani sul moccioso prima degli altri contendenti.
Benson, Lewis e Schmidt erano teoricamente suoi superiori, ma nel momento cruciale se ne sarebbe fregato di quel particolare.
 
Passò una mano sulla leggera barba sul mento e ghignò. Le pelle stava tornando quella di una volta, non era più l’ammasso informe che lo aveva costretto ad indossare una maschera.
 
Uno scatto di una serratura lo richiamò alla realtà.
 
“Hai finito di vomitare?”
 
“Questo è il bagno riservato alle donne, Brock. Sai, il disegno fuori alla porta, l’omino con il vestito. Ti dice niente?”
Mentre lo rimproverava con scarso entusiasmo, Kristen si diresse verso i lavandini, aprì l’acqua e sciacquò il viso pallido e sudato.
 
“Oggi il Pentagono è chiuso al pubblico. Non c’è pericolo che entri qualcuno.”
Rumlow si posizionò alle spalle della donna e i loro occhi si incontrarono attraverso lo specchio.
 
“Beh, stai invadendo la mia privacy, soldato.”
Kristen si asciugò la faccia con le maniche del camice bianco.
 
“Lewis chiede di te. Sono pronti a dare inizio alla fase tre” la avvisò l’uomo e la osservò perdere colore e stringere tra i denti il labbro inferiore.
 
Senza dire una sola parola, Kristen uscì fuori dai bagni e si immise nel reticolato di corridoi per raggiungere il bunker sotterraneo, dove Lewis stava progredendo nella realizzazione di un’arma micidiale, un corpo indistruttibile frutto di un mix micidiale di cellule e formule genetiche.
Stava cercando in tutti i modi di rallentarlo. Era arrivata anche a falsificare i dati di diverse analisi e questo l’aveva fatta sentire malissimo, perché se l’avessero scoperta … Dio, cosa le avrebbero fatto!
 
“Non hai una bella cera.”
 
La voce profonda di Rumlow la fece sussultare appena. Il soldato la raggiunse con ampie falcate, fino ad affiancarla.
Ecco, Brock Rumlow era un grosso problema per la Myers, perché lui sembrava leggerla fin troppo bene.
Kristen aveva la fottuta paura di potersi tradire in qualche modo. Fingere non era il suo forte.
Gli occhi penetranti e indecifrabili di Rumlow puntati addosso la facevano sentire a disagio.
 
“Lo so da me, Brock. Vammi a prendere un’aspirina.”
“Se me lo chiedessi con gentilezza, potrei quasi pensare di farlo.”
La donna lo fulminò con lo sguardo e il ghigno sul viso di Rumlow divenne più accattivante.
 
Presero l’ascensore e arrivarono al bunker in pochi attimi.
Quando le porte si spalancarono, Kristen prese un grosso respiro e raggiunse Lewis, chinato su una lettino di metallo ospitante un corpo mostruoso.
“Devo congratularmi con lei. È riuscito a trovare la soluzione per passare alla terza fase” disse con finta ammirazione.
Il dottore si voltò verso di lei e scosse il capo, per poi indicare un punto alla sua destra.
“Deve congratularsi con lui, mia cara.”
 
Nel momento in cui Kristen spinse lo sguardo nel punto indicatole da Lewis, il suo cuore mancò un battito.
Il genio che aveva permesso il passaggio alla terza fase le venne in contro e le porse la mano, sorridendo gentilmente.
 
“È un piacere fare la sua conoscenza, dottoressa Myers. Sono Bruce Banner.”
 
Cercando di tenere a freno il tremito della mano destra, Kristen strinse quella tesa di Banner e contemplò con rammarico la patina azzurra che gli occultava le iridi, segno che lo scettro di Loki lo aveva fatto suo schiavo.
 
 
 
 
 
 
Note
Ciao!
Lo so, avevo detto a fine mese e invece ho accumulato un ritardo di due giorni. Sono un caso disperato, credetemi.
Questo capitolo è stato un parto, davvero, e ancora non sono convinta del risultato. Spero di non essere scivolata nell’assurdo e di aver reso le cose abbastanza comprensibili. Ci sono ancora molti nodi da sciogliere, ma se avete qualcosa da chiedere, come sempre, io sono qui ;)
 
Ringrazio tutti voi che continuate a seguire questa contorta storia, ne siete il sostegno <3
Un saluto alla New Entry che ha messo la storia tra le ricordate, Black_cat_is_lucky! Ti mando un caloroso abbraccio <3
 
Voglio poi assolutamente ringraziare Eclisse Lunare - Fragolina dolcissima! Ho separato Nat e Clint, ma il segreto della nostra Vedova Nera non rimarrà nascosto ancora a lungo! Tanti baci e caramelle <3 -, the little strange elf - Ci avviciniamo a Thor e Bruce, visto? E anche alla verità! Ti mando un enorme abbraccio <3 -, _Abyss_ - Ci sciogliamo a vicenda, mia cara! Attenzione a Steve e Tony! Non è che arrivano a darsele anche qui? Ti ringrazio ancora per la tua gentilezza calorosa! Un abbraccione <3 -,  Siria_Ilias - Povero Tony! Dovrà collaborare con il Soldato d’Inverno e speriamo che non si ammazzino! Un grande a maturo abbraccio! <3 - e Ravinpanica - è sempre un piacere parlare con te! Ti aspetto! Un abbraccio e tanti baci <3.
 
Infine ringrazio la mia Sister Ragdoll_Cat, che ha avuto la santa pazienza di seguire il parto di questo capitolo *.*
Grazie! Grazie davvero! Ma come farei senza di te? <3
 
Allora vi aspetto al prossimo aggiornamento!
Un Super Abbraccio a tutti <3
 
La vostra Ella

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Capitolo 14
*** Heith ***


Heith
 
 
Terra
 
“Mi dici che cosa ti prende?”
 
Pepper incrociò le braccia al petto e tenne lo sguardo fisso sulla figura di Tony, seduto sul letto con le spalle curve e lo sguardo ancora tra il furente e l’infastidito.
L’inventore si portò una mano ai capelli e finalmente ricambiò l’occhiata accesa della compagna.
 
“Li ho riuniti io, Pep. Ho deciso io di riunirli.”

Ad ogni parola, la rabbia di Tony sembrò gradualmente scemare e fu sostituita da una vena di tristezza.
Virginia fece ricadere le braccia ai lati del corpo e raggiunse l’uomo. Si sedette al suo fianco e gli poggiò una mano al centro della schiena, come muto ma tangibile sostegno.
“Ti senti responsabile nei loro confronti, non è così?”
Il successivo silenzio di Stark fu più che eloquente.
Un sorriso tenero e comprensivo piegò le labbra della ramata, che fece risalire la mano su per la schiena dell’uomo fino ad infilare le dita nei suoi capelli scuri.
“Tony ...”
 
“Sono le uniche persone che tollero in questo mondo che tenta di fregarmi ogni qual volta chiudo gli occhi. Prima di loro, la prospettiva di lavorare in una squadra mi avrebbe fatto ridere. Tu mi ci avresti mai visto? No, certo che no.”
Stark si lasciò scappare una mezza risata tesa.
“E invece eccomi qua, nei guai fino al collo perché fare a meno di quegli idioti è un’opzione che escludo senza nemmeno valutarla. Sai cosa ho realizzato, Pep? Ho realizzato che, nei brutti momenti, conterò senza ombra di dubbio su me stesso, su di te o su di loro, e credo che il me stesso lo metterei alla fine della lista. Non è che mi fidi molto di me stesso ultimamente. Senza lo SHIELD, senza Fury, loro avevano bisogno di un punto fermo e io potevo offrirlo.”

La lieve ruga di espressione che increspò la fronte della Potts incentivò l’uomo a spiegarsi meglio.

“Ho soldi, strutture e sono un genio. Inoltre, la Tower era perfetta. Dopo il Mandarino, ho capito che ero stufo di stare solo e ho capito quanto sbagliato fosse il mio atteggiamento di tenere lontano chiunque cercasse di tendermi una mano. Tu e Rhodey per primi. Ma quello che cerco di dire è che non voglio più essere solo. I Vendicatori mi guardano le spalle e se un altro terrorista dovesse venire a bussare alla mia porta, riceverebbe un’accoglienza con i fiocchi e la casa non crollerebbe, tu saresti al sicuro e io non rischierei di morire.”
 
Pepper continuò a rimanere in silenzio, lasciando a Tony tutto il tempo necessario per tirare fuori pensieri ed emozioni rimasti segregati fin troppo nel suo animo contorto.
 
“E se mi sono arrabbiato tanto è perché gli ultimi giorni sono stati infernali. Non sapere dove gli altri fossero finiti, se stessero bene, se saremmo riusciti a sistemare le cose e non posso credere di star parlando così, mi sento una dannata mamma chioccia e quel ruolo di solito è di Rogers non il mio anche se adesso lui è diverso e non riesco a capire cosa diavolo gli passa per la testa e ci ha divisi e so che forse era l’unica soluzione ma potevamo pensare ad altro perdio e-”
 
“Tony, respira.”
 
Stark interruppe bruscamente quel fiume incontrollato di parole assemblate un po’ alla rinfusa.
Respirò un paio di volte, riempiendo i polmoni finché poteva prima di svuotarli.
“E mi dispiace di averti coinvolta. Guarda dove sei finita per colpa mia.”
 
“Pensi che sia così ingenua da non aver messo in conto cosa avrebbe comportato avere una relazione con te?” gli domandò dolcemente Virginia, prima di scuotere appena il capo.
“Certo, non posso dire di essere felice in questo momento, perché sarei un’ipocrita. Ma, Tony, ho scelto io di rimanere al tuo fianco e scelgo di rimanerci, qualsiasi cosa accada.”
 
Tony la strinse a sé, forte. Virginia Potts era ufficialmente la sua unica certezza.
Inspirò con forza l’odore di lei e rilassò ogni singolo muscolo, sentendosi di colpo spossato.
“Finita questa storia, ci prendiamo una vacanza, promesso” le sussurrò in un orecchio.
Pepper sorrise tra sé e sé.
“Ottima idea, signor Stark. Promettimi solo una cosa.”
Tony si scostò per riguadagnare il diretto contatto visivo con Pepper e sollevò un sopracciglio, come ad invitarla ad andare avanti.
 
“Si tratta di James Barnes …”
 
 
 
                                                                ***
 
 
 
“Наталья.”
 
Fu come essere trafitta da un pugnale in pieno petto. Il cuore sembrò fermarsi e ripartire con un singulto.
Il tono profondo dall’accento russo che aveva appena accarezzato con incertezza il suo nome aprì una finestra su un passato che aveva tentato di cancellare con tutte le forze, invano.
Non si voltò. Attese che i passi pesanti di James si arrestassero e solo allora si azzardò a lanciargli uno sguardo da sopra la spalla, incontrando quegli occhi grigio azzurri dal taglio duro.
Sorrise freddamente e scosse il capo, mentre una mano andava a riassestare alcune ciocche rosse finitele sulla fronte.
 
“Джеймс.”
 
Fu quasi istintivo. Un’abitudine meccanica e rimasta insabbiata fino ad allora.
Il nome le era scivolato con sorprendente facilità sulla lingua e Natasha ne riconobbe il sapore.
Erano ancora sulla veranda, fermi a una manciata di passi dalla porta. I loro corpi tesi all’inverosimile, gli sguardi fissi nel vuoto.
La Vedova fece mezzo giro su se stessa e fronteggiò il Soldato.
 
“Speravo fosse un illusorio miraggio della mia memoria, ma a quanto pare mi sbagliavo. Il KGB ha sempre avuto il vizio di manipolare le menti e la mia non è stata un’eccezione. È il metodo migliore per assicurarsi ...”
 
“L’obbedienza. Non è diverso dall’Hydra” concluse Barnes.
“Perciò ricordi” aggiunse poi, con cautela.
 
“Quando ti ho affrontato a Washington qualcosa è scattato. Combattere contro di te è stato come vivere un deja vù” confessò la rossa, ma il suo tono rimase freddo ed atono.
Fissò l’uomo di fronte a sé, l’uomo che l’aveva addestrata quando era ancora una ragazzina, l’uomo che le aveva conficcato un proiettile nello stomaco e poi uno nella spalla. Lo fissò senza lasciar trapelare una sola emozione, non perché volesse nasconderle, ma semplicemente perché non aveva idea di cosa stesse provando in quel momento.
 
“Steve lo sa?”
Anche James aveva conservato un’espressione imperscrutabile, eppure il tono della sua voce tradiva un’ansia velenosa.
 
“No. Né lui e né gli altri sanno che se la Vedova Nera esiste è anche merito tuo. Sai, avresti potuto evitarmi un’orrenda cicatrice se ti fossi ricordato di me ad Odessa.”
 
“L’ho fatto. Saresti morta altrimenti.”
 
Natasha si ritrovò senza parole e con la gola improvvisamente secca.
Il suo passato, quello prima di Clint e dello SHIELD, quello prima di diventare la Vedova Nera, era intessuto di ombre e sfocato da una nebbia fitta.
Quando aveva pensato di poter sotterrare definitivamente quel passato, il secondo incontro con il Soldato d’Inverno era stato come un raggio di luce che squarcia la nebbia e dissolve il buio. E adesso le faceva quasi paura la nitidezza con cui si rivedeva bambina, nella fredda tundra della Russia.
E James Barnes era parte di quei ricordi a lungo rinnegati. James Barnes era stato il maestro delle future assassine del KGB. James Barnes le aveva insegnato ad uccidere nei modi più sofisticati e le aveva insegnato ad agire come un fantasma, invisibile e silenziosa.
 
“Il senso di colpa smette di torturarti prima o poi?”
Finalmente, sul viso della Vedova si manifestò quella che James identificò come triste solidarietà.
Entrambi avevano condiviso una parte della loro vita e, in fondo, avevano un vissuto analogo. Qualcuno li aveva trasformati in assassini senza chiedere loro il permesso e li aveva costretti a commettere azioni di cui avrebbero sentito il peso delle conseguenze per sempre.
 
“Imparerai a conviverci con i sensi di colpa. A tutti è concessa la redenzione, la possibilità di riscatto. L’ho capito con il tempo e grazie ad alcune persone.”
 
James sembrò soppesare accuratamente quelle parole, ma la sua riflessione fu troncata sul nascere, quando la porta di ingresso si aprì con uno scatto e Stark fece capolino.
 
“James Barnes, avanzo un armistizio per garantire un adeguato svolgimento delle mansioni che richiede la nostra parte di lavoro. Le ostilità sono rimandate a data da destinarsi. Lo faccio solo perché costretto da cause esterne, sappilo.”
 
La faccia di bronzo dell’inventore fece scuotere il capo a Natasha, che ringraziò Virginia interiormente.
James, invece, si era limitato ad annuire, preso del tutto alla sprovvista.
 
“Ci mettiamo a lavoro? Non vogliamo mica essere da meno della squadra di Rogers, no?” chiese allora Tony, piegando la bocca in un ghigno quasi inquietante.
 
 
Questioni irrisolte sarebbero rimaste tali, almeno per quel momento.
 
 
 
                                                          ***
 
 
 
Asgard
 
 
“Su Midgard incombe una grave minaccia e, essendo per metà figlia di quel pianeta, ho il dovere di prestare il mio aiuto.”
 
Lei era nata e cresciuta sulla Terra.
Certamente non aveva ricordi felici di quel soggiorno durato diciotto anni, ma gli eventi che poi le avevano permesso di capire chi fosse e che avevano dato un senso alla sua esistenza erano stati sufficienti a farle cambiare il modo di guardare al suo passato.
Aveva deciso di catalogare come dolore necessario il percorso che l’aveva portata quasi tre anni prima a partire dalla Terra, con l’obiettivo di riunire gli oneiriani.
 
Dopo un incalcolabile numero di viaggi nell’infinito universo, durante i quali aveva visto anche l’inimmaginabile - si appuntò di raccontare agli Avengers del simpatico procione parlante e del suo amico albero che più di tre vocaboli non conosceva -, era riuscita nell’impresa di rimettere insieme il suo popolo e, grazie ad una generosa concessione di Odino, aveva potuto usufruire di un territorio inabitato di Asgard per piantare le fondamenta della nuova città di Oneiro.
Nel giro di due anni dalla sua partenza, era riuscita a portare a termine il compito che aveva ereditato da suo padre, Azael.
Ma, diversamente da quel che aveva sperato, la possibilità di tornare sulla Terra era sfumata in un battito di ciglia, lasciandole un sapore amaro in bocca e riaccendendo la nostalgia che, ormai, aveva piantato le radici nel suo cuore.
Tra gli oneiriani, infatti, erano emersi subito contrasti interni.
Una parte del popolo era sopravvissuta sugli altri pianeti mescolandosi con gli abitanti autoctoni e rinunciando in parte alle proprie tradizioni.
C’erano ibridi nati dall’unione di oneiriani con diverse razze e Anthea provava per loro una sincera empatia, perché anche lei era un ibrido, metà oneiriana e metà terrestre.
Alcuni oneiriani avevano addirittura rifiutato l’offerta di seguirla, perché ormai si erano costruiti una vita e si erano troppo affezionati al pianeta che li aveva ospitati; ciò era capitato soprattutto con le nuove generazioni, quelle che non avevano mai visto Oneiro prima che sparisse.
E ancora una volta, Anthea aveva sentito una forte empatia, perché anche lei era nata su un pianeta che non era Oneiro e lì aveva tutto ciò che riteneva importante - indispensabile - per la propria esistenza. Aveva rispettato le loro scelte, asserendo con sicurezza che, in caso di ripensamento, le porte sarebbero sempre rimaste aperte.
 
Era stata in un certo senso obbligata ad accettare la corona e, rivelando come e perché Azael avesse deciso di donare il suo seme alla razza umana, era riuscita a placare gli insidiosi diverbi nati tra puri e ibridi.
La situazione era ancora tesa e lei si era inevitabilmente trasformata nell’elemento di equilibrio.
Sapeva di avere dalla propria parte gli ibridi per il semplice fatto di esserlo ella stessa, e sapeva anche di essere rispettata dai puri perché figlia di Azael e detentrice di un potere che assicurava loro protezione.
Anthea era conscia di non possedere un vero e proprio potere decisionale, eppure era sempre riuscita a far valere la propria volontà e non era mancata occasione in cui aveva scelto di fare di testa propria. E non era passato molto tempo dall’ultima volta che se ne era fregata delle regole, dato che tre giorni prima era tornata sulla Terra senza rendere conto a nessuno.
 
Si domandò se fosse possibile instaurare rapporti di reciproco rispetto e fiducia, dato che ogni cosa degenerava sempre in una lotta - implicita o esplicita - volta a primeggiare gli uni sugli altri.
Quando era nata, Azael le aveva donato la propria coscienza e, grazie a quella, Anthea aveva accesso ai ricordi di suo padre, perciò anche se non aveva mai visto davvero Oneiro, le pareva di conoscerlo come se ci avesse vissuto lei stessa e conosceva anche la Summa Legge a cui gli oneiriani d’élite erano ancora fastidiosamente attaccati.
Gli oneiriani si distinguevano gli uni dagli altri per il potenziale che ognuno di loro possedeva. Erano state stabilite delle vere e proprie fasce di potere e, naturalmente, l’élite occupava la fascia più alta, la stessa a cui apparteneva Anthea.
C’era, però, una differenza sostanziale tra lei e gli oneiriani dell’élite.
Lei era un ibrido, l’umanità la impregnava profondamente e totalmente, perciò era costretta a sottostare alle decisioni e alle imposizioni del Consiglio, detentore del potere decisionale e composto da quattro oneiriani scelti tra i più anziani e aventi poteri psichici straordinari.
Il Consiglio odiava quando lei si prendeva certe libertà, come improvvisare scappatelle sulla Terra.
Anthea si chiese come avrebbe potuto far valere le proprie ragioni senza rivelare il vero perché del suo viaggio.
Il “Credevo che la persona a cui tengo con tutta me stessa fosse in pericolo e l’ho raggiunta” avrebbe sortito conseguenze spiacevoli.
Gli anziani avevano la tendenza ad eliminare ciò che ritenevano una distrazione per lei e forse era per questo che, fin dall’inizio, l’istinto l’aveva portata a tenere segreti i sentimenti che la legavano indissolubilmente a Steve Rogers.
 
Adesso era proprio dinanzi il temuto Consiglio.
Doveva mantenere una maschera di razionale freddezza, impacchettando le emozioni per evitare di mostrarle.
Fredda e risoluta.
Certo, sarebbe stato più semplice comportarsi da statua di ghiaccio se il suo corpo avesse smesso anche solo per un dannato secondo di bruciare per quella estranea energia che girava indisturbata dentro di lei, portando le linee rosse ad estendersi a macchia d’olio.
Quando Anthea si rese conto che quelle stesse linee erano giunte a segnarle la coscia destra, sgusciando fuori dalla stretta uniforme, fu troppo tardi.
 
Gli occhi dall’incredibile trasparenza dei quattro anziani - anziani solo per età, perché il loro aspetto poteva corrispondere a quello di un umano di mezzo secolo - saettarono sulla gamba incriminata e, quando Anthea tentò di dire qualcosa, la zip della felpa si aprì con uno scatto secco e l’indumento le venne fatto scivolare via dalle spalle.
Ci impiegò qualche attimo a capire che uno dei quattro aveva usato il potere psichico e percepì, suo malgrado, gocce di sudore freddo imperlare la fronte e scivolare lungo la schiena.
Il piano della risolutezza era ufficialmente andato a funghi.
 
“Abbandoni il tuo posto senza chiedere il permesso e torni senza degnarci di una spiegazione, tralasciando anche di confessare come il viaggio su Midgard ti abbia ridotta” esordì uno dei quattro, dai capelli del colore della pece e dallo sguardo severo.
“Dimentichi che ha condotto qui degli umani, Antares” precisò un altro, guardando male la giovane.
 
“Non devo rendere conto a voi di tutte le mie decisioni. E quegli umani sono compagni fidati a cui non negherei mai il mio aiuto.”
E con questo, Anthea aveva appena mandato a funghi la freddezza necessaria a occultare le emozioni.
Il Consiglio non la avrebbe mai presa sul serio e l’avrebbe accusata di non essere obiettiva, perché emotivamente coinvolta.
Non era stato piacevole scoprire che gli umani non erano ben visti nei restanti otto regni legati alla Terra attraverso Yggdrasill. Gli umani erano considerati come arretrati inetti che credevano che un qualche Dio onnipotente avesse creato il mondo su loro misura, poveri ingenui che ancora si domandavano se fossero soli nell’infinito universo.
Il Consiglio aveva più volte affermato - anche dinanzi al popolo - quanto la scelta di Azael di donare il proprio seme alla razza umana fosse stata dettata dalla situazione di grande disperazione ed urgenza.
Si sbagliavano nel modo più assoluto. Su tutto.
Gli umani potevano forse essere più arretrati, ma i loro sentimenti, la loro fede, la caparbietà dimostrata anche dinanzi i misteri del cosmo che piombavano catastroficamente sulla Terra e vi lasciavano il segno, tutto questo li rendeva speciali e più forti di quanto apparissero in realtà.
Certo, c’erano umani ed umani, non tutti erano degni di rispetto, ma in fondo ovunque vi erano il bene e il male.
Luce ed oscurità erano indissolubilmente legate e impegnate in una perenne lotta, anche nell’interiorità di ogni singolo individuo.
 
“Compagni fidati? Concedi la tua fiducia a chi ha permesso che ti accadesse questo?”
 
“Non è stata colpa loro. Ci sono problemi sulla Terra. Gravi problemi legati in qualche modo anche ad Asgard. Legati a me.”
Perché la spada le apparteneva e l’aveva ritrovata sulla Terra, quando non avrebbe dovuto essere lì. Lo spirito che vi era racchiuso, inoltre, sembrava essersi indebolito. Aima rimaneva silente, nonostante Anthea avesse tentato di mettersi in contatto con lei, così da scoprire cosa fosse accaduto alla spada.
Sollevò l’arma che ora stringeva nella mano destra e, lasciando la presa, la spinse con la mente verso i membri del Consiglio.
“Qualcuno ha caricato la mia spada con l’energia che adesso è nel mio corpo. Gli effetti sono evidenti. Vorrei che usaste la vostra conoscenza per capire da dove provenga questa energia e se c’è un modo per tirarla fuori da me.”
 
Antares allungò un braccio per afferrare la spada sospesa a mezz’aria e, dopo averla osservata con estrema attenzione, tornò a posare il suo sguardo trasparente ed imperscrutabile sulla ragazza.
“Questa è la seconda volta che sparisci senza degnarti di avvertirci” esordì, con una calma che ad Anthea fece venire i brividi.
“Se hai bisogno del nostro aiuto, lo avrai. Sei pur sempre la nostra regina …”
 
L’oneiriana sentì il Ma forte e chiaro, prima che questo fosse scandito da Antares.
 
Ma non dovrai negarci le informazioni che, se necessario, decideremo di avere da te o dai midgardiani. E se questa storia si rivelerà condurre verso esiti spiacevoli, ti tirerai indietro, senza discussioni.”
 
Anthea lasciò che quell’ultimatum le scivolasse addosso come acqua bollente.
Sospirò, alzò il capo e i suoi occhi scintillarono enigmatici, accendendo in modo sinistro l’espressione imperscrutabile del volto pallido.
“Va bene” acconsentì, con voce ferma ed asciutta.
 
Antares parve soddisfatto e annuì solennemente.
“Vorremmo parlare con uno degli umani” disse, con tono che non ammetteva replica alcuna.
 
“Va bene” si ritrovò a ripetere la giovane e, anche questa volta, non ci fu segno ad increspare il suo viso.
 
 
*
 
 
Li aveva condotti lungo immensi corridoi dagli altissimi soffitti, fino ad una spaziosa sala.
Marmo bianco e marmo rosa si fondevano sulle pareti e sul pavimento, conferendo un senso di luminosità. C’erano tre ampie finestre sul lato diametralmente opposto alla porta d’ingresso e, sotto di esse, delle panche di lucido e chiaro legno.
Numerose spade di svariata forma e lunghezza erano affisse ai muri e il resto della stanza era vuoto, così il suono cadenzato di passi creava un’eco leggera.
 
“La sala delle armi, dove noi guerrieri ci esercitiamo” spiegò Andras, facendo segno ai terrestri di accomodarsi sulle panche.
 
Sam e Clint accettarono l’invito, mentre Steve rimase in piedi, visibilmente teso, così come tesa era divenuta l’atmosfera in quel salone.
 
“Cosa vi porta qui, midgardiani?”
Andras si portò vicino ai tre umani e allacciò le mani dietro la schiena, in attesa di una risposta.
Clint fece per aprire bocca, ma Rogers lo precedette.
“Problemi. E non vorremmo averne altri.”
 
L’oneiriano storse il naso e dedicò al biondo un’occhiata di sufficienza.
“La sfrontatezza è un’altra caratteristica di voi umani. Credete ancora che tutto giri attorno al vostro pianeta?”
 
“Se non erro, si era stabilito che la Terra girasse attorno al Sole, quindi no.”
Sam non era riuscito a trattenersi e adesso sogghignava compiaciuto.
Barton sbuffò un accenno di risata e, senza rivolgersi a nessuno in particolare, diede voce a un pensiero che alleggiava nella sua testa da un po’.
“Speriamo che la ragazzina finisca in fretta e che trovi un rimedio per le mappe geografiche che ha addosso. Il tempo non è dalla nostra parte. Non lo è mai effettivamente.”
 
Sulla faccia di Andras l’iniziale fastidio venne sostituito da palese ostilità. E Barton ebbe il sospetto che forse non era stata una brillante idea apostrofare ragazzina quella che era a tutti gli effetti una sovrana.
 
“Sa che contiamo sul suo aiuto. Non ci deluderà” fu il tranquillo commento di Rogers e, ancora una volta, tutta l’attenzione di Andras si posò su di lui.
L’oneiriano si prese qualche attimo per squadrare da capo a piedi il giovane super soldato e sembrò analizzarlo con maniacale accuratezza.
“Come l’hai conosciuta?” chiese, dopo qualche attimo, incontrando gli occhi chiari del soggetto che in qualche modo stava stuzzicando la sua curiosità.
 
Steve si irrigidì sul posto, mentre Clint simulava un attacco di tosse per nascondere la parola ‘Menti’, un’accortezza che, visto l’atteggiamento non proprio amichevole dell’oneiriano, avrebbe prevenuto ulteriori casini.
 
Fortunatamente non ci fu il bisogno di iniziare un’arrampicata sugli specchi, perché Anthea varcò la soglia della stanza in quell’esatto momento.
 
“Cosa ti è successo?”
La voce incredula e preoccupata di Andras ruppe il silenzio.
L’oneiriano le andò incontro e la costrinse a fermarsi, posandole con fermezza le mani sulle spalle. Osservò le linee rossastre che le solcavano la pelle e con una mano le afferrò il mento, così da sollevarle il capo per poterla guardare direttamente negli occhi.
Erano estremamente vicini e Anthea desiderò sfuggirgli all’istante.
“Un incidente. Ora-”
“Sembra grave.”
Questa volta il tono di Andras era marchiato da velenose insinuazioni e il suo gettare un’occhiata ardente in direzione dei midgardiani fece tendere Anthea.
“Ho bisogno di parlare con loro. Sto bene.”
Nonostante non lo avesse convito - il pallore e il respiro accelerato non sostenevano lo sto bene -, la ragazza si sottrasse alle sue mani e tentò di allontanarsi, ma venne prontamente afferrata per un braccio.
“Andras ... ”
“Scusami per la fredda accoglienza di prima, ma il tuo vizio di andare via senza avvertire è discutibile.”
Anthea si sforzò di sorridere.
“Sono io a dovermi scusare” disse frettolosamente e divincolò il braccio, cercando di non mostrarsi terribilmente agitata.
Andras invece non fece nulla per nascondere il fastidio dovuto a quel modo di fare brusco, ma si arrese a guardarla andare verso gli umani.
 
“Vogliono parlare con uno di voi” annunciò.
“Sei tu il Capitano, Rogers. A te l’onore.”
Clint mise una mano sulla schiena di Steve e lo spinse avanti.
“Tu non eri l’ambasciatore?” fu il sarcastico commento di Sam e Barton fece spallucce.
“Mi sono appena dimesso.”
 
Anthea cercò gli occhi chiari del super soldato.
“Non hanno voluto sentire ragioni.”
Steve annuì appena, ma non prima di aver fulminato Barton con lo sguardo. Quel che andava fatto andava fatto e, soprattutto, non aveva molte possibilità di far valere le proprie ragioni in un luogo di cui non conosceva nemmeno le regole.
Quindi si limitò a seguire la ragazza.
 
 
 
Quando i due furono nel corridoio, Steve dovette dare voce ad un pensiero che aveva iniziato ad infastidirlo.
“Quindi è un’abitudine andare via senza avvertire” puntualizzò, con tono falsamente disinteressato.

I loro passi impattavano sul pavimento marmoreo, creando un’eco profonda.

“Cosa stai insinuando?”
Anthea si era istintivamente messa sulla difensiva e teneva lo sguardo fisso dinanzi a sé, nonostante sentisse addosso quello azzurro di Steve.
“Credi che stia insinuando qualcosa?” chiese allora il super soldato, come per tastare il terreno, anche se non c’era cautela nella sua voce.
“Perché non lo stai facendo?” fu l’ulteriore domanda della ragazza, quasi la loro si fosse trasformata in una sfida di sottili insinuazioni.

“Ho la sensazione che tu mi stia nascondendo qualcosa.”
La confessione asciutta di Steve provocò in Anthea un breve sussulto.
“Non sono obbligata a raccontarti tutto.”
Finalmente, lei si voltò a guardarlo e ingaggiarono una lotta di sguardi parecchio affilati, come se cercassero di leggersi l’anima a vicenda.
“No, non lo sei.”
Un sorriso amaro piegò la bocca del biondo, che chinò il capo per sfuggire agli occhi bui di lei.
“No, non lo sono” rincarò infine l’oneiriana, in un sussurro appena udibile.
 
Calò un silenzio interrotto solo dai loro passi e saturo di parole non dette che, accatastandosi le une sulle altre, innalzarono un muro tra i due giovani.
Erano in aperto conflitto, trascinati dalla corrente delle emozioni a cozzare tra loro.
Fu Steve a rompere il silenzio, incapace di starsene zitto e incapace di capire cosa stesse accadendo, cosa li avesse portati sull’orlo del precipizio senza che se ne accorgessero, in pochi e fugaci secondi.
“Mi spieghi cosa diavolo ti prende?”
 
Anthea emise un sospiro e si scostò freneticamente ciocche di capelli dalla fronte.
“Sei così freddo. Lo sei da quando ti ho tirato fuori da quella maledetta base, nonostante tu abbia affermato di avermi perdonata. Non sei la persona che ricordavo. Sto mettendo a rischio tutto per te e per i Vendicatori, lo capisci questo?”
“Non ti ho obbligata” fu la replica immediata del Capitano, nei cui occhi chiari si accese una scintilla di pentimento, ma questa si dissolse in un battito di ciglia, non lasciando alcun segno del proprio passaggio.

“No, non l’hai fatto.”
No, non l’aveva fatto. Anthea era tornata sulla Terra senza che il pensiero dei rischi l’avesse sfiorata.
In quell’istante si pentì amaramente. Si pentì amaramente di non esserci stata per tutto quel tempo, per averlo raggiunto solo quando era troppo tardi per evitargli dolori che lo avevano segnato nel profondo.

“I tuoi sbalzi d’umore mi confondono e vuoi sapere una cosa? Nemmeno tu sei la persona che ricordavo.”
Steve stava premendo su tasti dolenti, gli stessi che la giovane aveva tastato poco prima.
 
Erano cambiati entrambi ed era impossibile far finta di niente, ricominciare come se non fosse mai finita. Sarebbe stato da ipocriti e avrebbe comportato l’insabbiarsi di crepe che intessevano le fondamenta del loro legame, crepe che avrebbero finito per crescere ad ogni scossa subita dal loro rapporto. E, presto o tardi, tutto sarebbe crollato.
Steve e Anthea erano molle compresse all’inverosimile, pronte a scattare con violenza.

“Almeno il mio umore cambia! Il tuo è perennemente gelido!”
Non era del tutto vero, ma Anthea non era abbastanza lucida per ragionare con attenzione sulle parole che abbandonavano senza controllo la sua bocca.
Steve le parve perso dinanzi quell’accusa, ma lo vide riprendersi in fretta.
“Sei ingiusta. Tu sai-”

“Cosa ti è successo e cosa sta succedendo? Sì, lo so. Il tuo atteggiamento non ti aiuterà, Steve. Forse non te ne accorgi, ma stai affrontando da schifo queste nuove difficoltà.”

“E questo cosa significa?”

“Hai smesso di lottare.”

“Mi prendi in giro?”
Il tono di Steve si era fatto duro e la domanda era venuta fuori impreziosita da note di sarcasmo.
 
Anthea scosse il capo. Le iridi rilucevano di rabbia mista a tristezza. Allungò un braccio e puntellò l’indice destro nel punto in cui batteva il cuore del giovane per cui avrebbe rischiato tutto.
Qui. Hai smesso di lottare qui. E mi chiedo dove sia finito lo Steve che ti dice Va tutto bene e Possiamo farcela anche quando sembra che sia giunta la fine, quello che mi ha convinta di meritare amore e amicizia, quello che tira fuori il meglio da tutti. Abbiamo passato insieme poco tempo, ma il quanto è ininfluente dinanzi al come lo abbiamo vissuto. E quel come mi ha permesso di conoscerti davvero e tu non sei così.”
“Io ...”
“So che la situazione sulla Terra si è trasformata in una personale battaglia contro demoni del passato che credevi di aver seppellito, ma se non reagirai sul serio, lascerai a questi maledetti demoni la possibilità di portarti via tutto. La squadra ha bisogno di te, non della tua ombra.”
 
La mascella di Steve guizzò, contraendosi quasi con violenza. Con una mano le strinse il polso e allontanò il suo dito dal petto, mentre le pupille fissavano il vuoto oltre le spalle della giovane.
 
“Mi stai facendo male” sussurrò Anthea, ma non fece nulla per liberare il polso dalla presa ferrea del super soldato, che di colpo abbassò lievemente il capo per far intrecciare i loro sguardi.
“Steve ...”
“Io voglio solamente che-”
 
Uno brusco movimento d’aria, il suono stridulo e metallico di una spada che viene sguainata e lo scudo venne strappato dalle spalle di Rogers da una forza invisibile, per poi cadere a terra inerme.
La schiena del giovane Capitano cozzò contro una delle pareti del corridoio e un’affilata lama gli venne premuta pericolosamente sulla gola.
 
Il successivo rimbombo di passi fu seguito dal tendersi dell’arco di Occhio di Falco, al cui fianco si fermò Wilson.
 
“Quell’arma è inutile contro di me, arciere.”
Andras non distolse lo sguardo dal ragazzo che aveva osato toccare Anthea, recandole dolore.
Con una delle mani gli stava stringendo ciuffi di capelli dietro la nuca, costringendolo a sollevare il mento quel tanto che bastava ad avere una perfetta visuale del suo collo.
 
Quando la prima goccia di sangue sgorgò dalla gola del suo compagno, Clint scoccò la freccia senza esitare, ma quella si bloccò a un palmo dalla testa di Andras.
‘Maledetti poteri psichici’ fu l’imprecazione interiore di Barton, che si preparò al peggio.
 
“Ti avevo avvertito, arciere. Ades-”
 
Steve non rimase a guardare. Non ne era mai stato capace.
La contrazione rapida dei dorsali lo proiettò in avanti e le mani andarono a stringersi attorno gli avambracci di Andras per spingerli indietro ed evitare che la lama gli tagliasse di netto la gola.
L’oneiriano si ritrovò piegato in due, quando una ginocchiata gli si piantò nello stomaco, e preso dalla rabbia sollevò la spada con la chiara intenzione di affondarla nella carne dell’umano.
 
“Capitano!”
 
A Rogers bastò un fulmineo spostamento delle pupille alla sua sinistra per intercettare la traiettoria dello scudo che Sam aveva recuperato e lanciato con forza.
Uno schiocco secco e stridente riverberò nell’intreccio di corridoi e Steve strinse i denti, mentre contrastava la spinta violenta della spada sullo scudo stretto in pugno.
Prima che potessero anche solo pensare alla mossa successiva, furono violentemente separati da una forza tanto invisibile quanto tangibile, che li portò a sbattere contro le opposte pareti del corridoio.

Anthea si frappose fra loro e si voltò a guardare Andras.
“Sei impazzito?”
La voce le tremò sensibilmente e dalle mani strette a pugno colò del sangue, segno che si era conficcata le unghie nei palmi con esagerata violenza.
 
Andras le puntò il dito contro.
“Permetti ad un umano di urlarti contro e di toccarti in quel modo e chiedi a me se sono impazzito?” la accusò, occhieggiando all’ombra del livido attorno al polso che il midgardiano le aveva stretto.
“Ho il dovere di proteggerti da ciò che ritengo una minaccia per te.”
Anthea emise un ringhio di rabbia.
“So badare a me stessa. E loro non sono una minaccia!”
“Se sapessi badare a te stessa, non saresti ridotta in questo stato!”
“Non-”
 
“Il tuo coinvolgimento si sta rivelando maggiore di quanto ci hai lasciato intendere.”
Il caos aveva spinto Antares a lasciare la sala del Consiglio e la sua espressione fece tendere Anthea come una corda di violino.
Le cose si stavano mettendo male. La situazione le era sfuggita di mano con incredibile facilità.
 
“Credo che siamo nella merda” sussurrò flebilmente Wilson.
“Senza credo” lo corresse Barton.
 
“Gli umani ti hanno forse plagiata in qualche modo?” sbottò Andras, in un moto di pura rabbia.
Era evidente che non vedeva l’ora di dare una bella lezione a quei terrestri irrispettosi.
 
Rogers assottigliò lo sguardo e i muscoli del suo corpo si tesero all’inverosimile. Era stufo di dover ascoltare tutte quelle idiozie, stanco di avere il dito puntato contro anche quando non ce n’era motivo.
“Steve” lo supplicò Anthea, nel momento in cui lo vide camminare verso l’ultimo arrivato.
Ma Steve era stanco anche di attendere che un po’ buon senso entrasse nelle teste di quegli individui.
La sua vita era un susseguirsi infinito di ostacoli e non aveva ancora intravisto una piazzola dove potersi fermare per riprendere fiato.
Le parole di Anthea erano ancora vivide nella sua testa e lo avevano colpito nel profondo.
Era vero. Aveva smesso di lottare davvero senza rendersene conto.
Il ritorno di Schmidt era stato più traumatizzante di quanto avesse ammesso a se stesso e il modo in cui si era sentito durante la permanenza nelle mani del nemico lo faceva tremare interiormente. Nel momento in cui aveva incontrato gli occhi infossati di Teschio Rosso, qualcosa dentro di lui era scattato.
“Fa male, Steve?” erano le parole che non smettevano di risuonargli subdolamente in testa.
E sì, dannazione, faceva male. Cosa non lo aveva chiaro, ma la sensazione di essersi spezzato era talmente forte da riversarsi sul suo fisico.
Era stanco.
A testa alta, si piazzò di fronte ad Antares.
“Volevate parlare con noi? Allora parliamo. Non siamo qui per creare problemi, perciò ci scusiamo per i fraintendimenti che potrebbero essere nati.”
 
“Accetto le tue scuse, umano. Vediamo di chiarire questi fraintendimenti.”
Antares fece qualche passo, accorciando le distanze tra sé e il ragazzino audace.
 
Il battito del cuore di Anthea subì un’improvvisa accelerazione. Le tremavano le mani e sperava con tutta se stessa che i Vendicatori non facessero stupidaggini, perché gli oneiriani d’élite sapevano portare rancore sorprendentemente bene ed essere pericolosamente suscettibili, nonostante l’apparente freddezza che ostentavano.
 
“Da dove vogliamo cominciare, dunque?”
Clint affiancò il Capitano e sostenne lo sguardo di Antares, in attesa dell’inizio di un noioso dibattito.
 
“Prima vorrei capire una cosa.”
Gli occhi di Antares scintillarono, assumendo quelle sfumature dorate che mostravano l’insorgenza dei poteri psichici. Le pupille si mossero con uno scatto fulmineo, piantandosi su Anthea, ferma alle spalle degli umani.
Antares percepì il potere della giovane dilatarsi, impregnare l’aria e sussurrare una muta minaccia, come se lei avesse intuito i suoi piani.
Un sorriso enigmatico gli si dipinse in faccia, quando capì che quegli umani significavano più di quanto avesse immaginato per la ragazza.
 
“Non lo faresti” la sfidò il membro del Consiglio.
“Non lo dia per scontato” fu la risposta secca della ragazza. Era sì giovane ed inesperta, ma aveva la forza necessaria ad imporsi e ne avrebbe fatto uso se necessario, affrontando a viso aperto l’autorità indiscussa del consigliere.


Quello scambio di battute tra i due oneiriani portò Barton ad indietreggiare e, nel farlo, tirò Rogers per un braccio, per fargli capire che non era saggio rimanere troppo vicino a quell’individuo dall’aspetto austero e gli occhi spiritati.
Antares, in risposta, tese un braccio e artigliò la spalla destra del Capitano, impedendogli di allontanarsi.
“Potremmo cominciare dal principio. Cosa vi lega alla nostra sovrana?” chiese con falsa accondiscendenza, mentre studiava con meticolosità le emozioni che facevano capolino sul viso di Anthea.
Rogers rimase zitto, perché le insinuazioni sottese tra i due oneiriani sfuggivano alla sua comprensione. La mano di Antares sulla spalla sembrava pesare quanto un macigno e, in qualche modo, lo costringeva a rimanere lì dov’era.
Era circondato da alieni a cui sarebbe bastato un pensiero per spezzarlo come un rametto secco. Si domandò se esistesse una scappatoia alla soggiogazione provocata da quel potere.
Sentì Anthea avvicinarsi alle proprie spalle e la vide comparire al proprio fianco. Notò che la ragazza continuava a perdere colore e le linee rossastre sulla pelle si erano arrampicate fin sopra il suo collo, sfiorandole l’orecchio destro.
 
“Il principio non è importante. Abbiamo bisogno di-”
Anthea fu bruscamente interrotta da Antares, affatto disposto a cedere.
 
“Ho chiesto di parlare con uno degli umani e non intendo essere interrotto.”
Il consigliere dedicò una lunga e profonda occhiata alla mezzosangue. Aveva sempre sospettato che lei tenesse per sé informazioni che non voleva condividere in alcuna maniera.
Da quando Oneiro aveva ripreso vita, Anthea era stata sulla Terra già tre volte, nonostante avesse affermato che non vi erano oneiriani su quel pianeta. Eppure, Antares aveva saputo che, spesso, la giovane sovrana aveva raggiunto il guardiano del Bifrost per chiedergli di Midgard.
Antares sapeva bene che Anthea stava solo aspettando il momento giusto per passare la corona e lasciare Oneiro. Lei stessa l’aveva dichiarato, promettendo però che sarebbe rimasta fin quando vi sarebbero state difficoltà nella ricostruzione del regno. Niente l’aveva dissuasa da quella decisione e il consigliere era pronto a tutto pur di scoprire cosa ci fosse di tanto importante sulla Terra da spingerla ad abbandonare il trono, perché il potere di Anthea era prezioso, nessun altro oneiriano era mai stato tanto potente, nemmeno lo stesso Azael.
Antares non aveva intenzione di lasciarsi sfuggire la mezzosangue e la sua preziosa forza. Se avesse eliminato la cosa che la premeva a partire, lei sarebbe rimasta.
E adesso, adesso che aveva di fronte quegli umani, poteva dire con certezza che la cosa fosse un chi.
Prima di allora, Anthea non gli aveva mai mostrato tanta ostilità. Quando aveva toccato il ragazzino audace poi …
 
“Mentre voi fate sfoggio della vostra superiorità, quella cosa che è nel corpo della vostra sovrana si sta allargando a macchia d’olio. Da ciò che sono riuscito a capire, avete molto tempo da sprecare in inutili dissertazioni, ma noi no, noi non abbiamo tempo da sprecare. Perciò meno parole e più fatti, vostre altezzosità.”
E questa era la caparbietà priva di qualsiasi tipo di inibizione formato Sam Wilson.
 
Steve e Clint trattennero a stento un sorrisetto, mentre Antares si dimostrava basito e sorpreso. La sfacciataggine di quegli umani era alquanto fastidiosa.
 
“Questo affronto è imperdonabile” si intromise Andras, palesemente insofferente alla presenza dei midgardiani.
 
La tensione stava raggiungendo picchi talmente elevati da far presuppore una prossima scarica a valanga. Fortunatamente qualcosa, o meglio, qualcuno evitò che la situazione degenerasse ulteriormente.
 
 
“Placate gli animi. È uno spreco impiegare energie per battaglie che non sono fatte per essere combattute.”
 
Una luce di sollievo baluginò negli occhi di Anthea alla vista della lunga barba bianca che oscillava ritmicamente ad ogni passo avanzato dal suo possessore.
Il millenario Damastis parve congelare ciò che stava accadendo nel bel mezzo del corridoio con la sua sola presenza. Emanava un’aura quasi mistica, il viso era segnato da rughe non troppo profonde per il tempo che aveva vissuto e che sembrava essere lungi dallo scadere. Aveva assunto un’espressione di blando rimprovero e che in alcuni tratti sfociava in paterna apprensione.
 
Sia Andras sia Antares persero l’aria superba di cui si erano circondati e trattennero il fiato, diversamente dalla giovane oneiriana, la quale mostrò una rinnovata tranquillità.
 
“Vorrei occuparmi io della questione corrente, se non vi dispiace” furono le pacate parole di Damastis, ma tale pacatezza non corrispondeva alla possibilità di ricevere un rifiuto.
Di fatti, Antares non poté che muovere debolmente il capo per simulare un cenno d’assenso, mentre a stento tratteneva il fastidio per quell’inaspettata intromissione. L’oneiriano dalla lunga barba bianca si palesava solo in situazioni eccezionali e, data la saggezza che da tutti gli era riconosciuta, era impensabile opporsi alle sue decisioni.
 
“Seguitemi, prego.”
 
Steve, Sam e Clint si voltarono in contemporanea verso Anthea, che annuì sommessamente mentre si incamminava nella direzione presa da Damastis.
 
Per Antares, però, la questione non sarebbe di certo terminata lì. Lo stesso, sfortunatamente, valeva per Andras.
 
*
 
La sala del palazzo dove furono condotti era illuminata da decine di fievoli fiammelle di candele dalla cera rossa, le quali stavano sospese a mezz’aria ad altezze diverse, in uno schema dominato dalla casualità. Drappi di seta rossa ricoprivano le pareti e il pavimento pareva un rettangolo di petrolio solidificato, sulla cui superficie le fiammelle disegnavano tanti puntini dai bordi frastagliati.
La stanza era vuota.
Steve si accorse che l’impattare dei suoi passi contro il pavimento non creava alcun suono. Sam, invece, allungò un braccio e sfiorò una candela proprio dinanzi a lui, provocandone un leggero spostamento.
 
L’atmosfera era surreale, quasi ci si trovasse all’interno di una dimensione onirica.
 
“Sembra la versione realistica della dimora di un chiromante” fu il commento spontaneo di Clint.
Non vi fu eco della sua voce.
 
“Questa è la stanza della meditazione” spiegò Anthea, occhieggiando ai tre Vendicatori che camminavano proprio dietro di lei.
“In questo luogo è possibile raggiungere l’apice della concentrazione, perché si è totalmente isolati dall’esterno.”
 
Arrivarono al centro della sala e Steve alzò il capo, costatando che non riusciva a vedere il soffitto, nascosto da una cortina di fitto buio. Si chiese quanto tempo Anthea avesse trascorso lì dentro, con lo scopo di riuscire a gestire meglio il suo potere.
Quando l’aveva vista combattere sulla Terra, era rimasto sorpreso dalla sicurezza che lei aveva acquisito. Si muoveva con la leggerezza del vento e la fluidità dell’acqua, il suo viso non faceva trasparire alcuna emozione, anche se era evidente lo stato di profonda concentrazione che le era indispensabile per controllare i poteri che le scorrevano nelle vene.
Anthea era una macchina perfetta. Una macchina che aveva il potere di creare e distruggere e, molto probabilmente, lei non ne era consapevole fino in fondo. La sua unica e pericolosa falla era l’assurda facilità con cui le emozioni potevano plasmarla e soggiogarla. Steve faceva fatica a prevedere le reazioni che la giovane mezzosangue poteva avere dinanzi le più disparate situazioni. Era dannatamente difficile leggerla e capirla, soprattutto ora che era cresciuta e maturata tanto.
Si domandò se esistesse ancora qualcosa di reale fra loro e se il sentimento che li aveva uniti anni prima non si fosse ormai estinto.
Steve posò gli occhi sulla schiena di Anthea e percorse la linea del collo, delle spalle e dei fianchi, cercando di richiamare alla mente l’immagine della ragazzina che aveva visto la prima volta, coperta solo da un candido camice da ospedale. Gli sembrava che la parte umana della ragazza fosse sbiadita, lasciando alla parte inumana lo spazio per evolvere e crescere più nettamente.
 
Poi, come se avesse percepito il tocco di quello sguardo, Anthea si volse indietro per incrociare gli occhi del super soldato e, in quel fugace istante, il cuore di Steve ebbe un sussulto.
Si fissarono con enigmatica intensità finché non furono richiamati alla realtà.
 
“Disponetevi in cerchio per favore.”
 
Damastis attese che la sua indicazione fosse seguita e si ritrovò affiancato da Rogers e Anthea. Fece un cenno del capo a quest’ultima tendendo al contempo una mano.
La giovane sovrana gli consegnò la spada e l’anziano carezzò la lama con i pallidi polpastrelli, prima di lasciare che l’arma scivolasse dalla sua presa e si unisse alle candele in quella stasi contro la forza di gravità. In seguito, le sue iridi si tinsero di puro oro e si posarono sulla mezzosangue.
 
“Apri la mente, mia cara.”
 
Anthea esitò. Mai, prima di allora, aveva lasciato che qualcuno entrasse nella sua testa. L’ultimo che l’aveva fatto era stato Loki e quell’intrusione aveva rischiato di farle perdere il controllo.
Non era ancora pronta per abbassare le sue barriere interiori. Non aveva ancora raggiunto il giusto equilibrio. Però era Damastis a chiederlo e di lui Anthea si fidava ciecamente.
Quel simpatico vecchietto l’aveva aiutata e le aveva insegnato tanto. Se adesso riusciva ad usare il suo potere senza combinare disastri, era merito di Damastis e della sua infinita pazienza.
 
Così Anthea chiuse gli occhi ed aprì la mente.
 
Passarono infiniti istanti di silenzio, un silenzio irreale. Nessuno osò muoversi o respirare più profondamente di quanto servisse per buttare nei polmoni l’ossigeno strettamente necessario.
 
“Ho visto abbastanza. Vi chiedo di mantenere la calma, qualsiasi cosa verrà detta” esordì infine Damastis, mentre la ragazza riapriva gli occhi un po’ frastornata.
L’anziano aveva usato guanti di seta nella sua testa ed era stato attento a non urtare porte che non erano pronte per essere aperte.
 
Damastis prese fra le dita fredde una mano di Anthea.
“L’energia che impregnava la spada ed ora circola nel tuo corpo è antica quanto l’universo stesso ed essa si manifesta solo durante una particolare occasione. La Convergenza.”
 
“Quella avvenuta nel novembre di due anni fa?”
Clint non era riuscito a trattenersi. Aveva letto la documentazione sulla Convergenza riportata nei file dello SHIELD dopo i fatti di Greenwich. Se nel corpo di Anthea c’era davvero quell’energia capace di annullare le razionali leggi della fisica, allora si prospettavano guai ancor più devastanti.
 
Damastis non parve affatto infastidito dall’interruzione, anzi, piegò la bocca raggrinzita in un sorriso paterno e annuì piano.
“Giovane umano, sai quali sono i veri effetti dell’energia della Convergenza?”
 
Barton ci pensò su un attimo.
“Ehm … annullare le leggi della fisica e aprire portali che collegano vari mondi?”
 
Damastis sorrise ancora.
“Il potere della Convergenza è in grado di sgretolare le invisibili barriere spaziotemporali che separano universi, mondi, dimensioni. Essere ovunque nel medesimo istante senza esserne davvero coscienti. Entità separate divengono un’unica unità. Gli effetti della Convergenza hanno un tempo limitato, ma possono essere permanenti se in qualche modo si riesce ad imbrigliarne l’energia, un processo che richiede capacità estremamente particolari. Naturalmente ci sono degli effetti collaterali al manifestarsi di una tale energia. Le leggi che governano la natura subiscono una deformazione non trascurabile.”
 
Ad ogni parola pronunciata da Damastis, Steve sentì crescere nello stomaco un vuoto di inquietudine. Cosa poteva fare quell’energia ad un corpo? Quali deformazioni avrebbe potuto generare?
Entità separate divengono un’unica unità.
Il super soldato voltò il capo ed incontrò lo sguardo inespressivo di Anthea.
 
“C’è un modo per tirarla fuori da me?” chiese la giovane con voce tremante.
Entità separate divengono un’unica unità.
“Deve esserci un modo” sbottò infine, facendo tremolare le fiammelle delle candele.
 
Damastis rimase impassibile dinanzi quello scatto d’ira. Ancora una volta sorrise con fare paterno e posò delicatamente una mano sulla schiena della ragazza.
“Può estrarla solo chi è stato in grado di dominarla e rinchiuderla nella spada.”
L’anziano saggio sospirò profondamente, prima di continuare.
“Ho guardato dentro di te, mia cara. Sono andato parecchio in fondo, sfruttando la tua attuale debolezza e la fiducia che riponi nella mia persona. Tu hai imbrigliato l’energia della Convergenza e tu hai fatto sì che arrivasse nel tuo stesso corpo. Ma non puoi saperlo, perché il tuo Io è scisso in due entità separate. Credo che tu abbia compreso di cosa sto parlando, mia cara.”
 
Anthea si sentì mancare. I suoi occhi persero lucidità e divennero vacui.
“Non è possibile. Io la controllo, io sono riuscita a vincerla tre anni fa e …”
 
Entità separate divengono un’unica unità.
 
“Il giorno della Convergenza …”
L’oneiriana pronunciò quelle quattro parole in un sussurro appena udibile, mentre il cuore le batteva all’impazzata nel petto.
Dopo la battaglia del Brooklyn Bridge, Anthea aveva rinchiuso nei meandri della propria mente l’Altra, ovvero la sua parte più oscura, quella dominata dalla sete di sangue e di potere.
Era possibile che durante il giorno della Convergenza si fossero abbassate anche le barriere interiori, così che la sua parte più oscura fosse riuscita a riemergere e ad agire indisturbata, fuori da ogni controllo?
Come diavolo era potuto accadere?
 
“Perché nel tuo essere ci sono crepe più profonde di quel che immagini. È l’assenza di stabilità, mia cara. Non hai ancora trovato la tua stabilità, perciò non puoi avere il pieno controllo del tuo Io” asserì Damastis, che aveva letto i pensieri che le stavano vorticando in testa.
 
“Scusate, qualcuno potrebbe spiegarmi, perché davvero non capisco di cosa state parlando.”
Sam credeva gli sarebbe venuto un crampo al cervello nel tentativo di decifrare quei discorsi che per lui non avevano né capo né tantomeno coda. Con tutti quegli Io e Tu, gli veniva in mente solo il demenziale indovinello ‘Io sono Io, Tu sei Tu, chi è più scemo Io o Tu?’. Però, quasi certamente, quella cretinata con c’entrava nulla, no?
Afflitto, il pararescue guardò prima Steve, che però pareva essere lontano mille miglia dalla realtà, e poi Clint, trovando in quest’ultimo l’aiuto che sperava di ricevere.
“Sarebbe lunga da raccontare amico, quindi cercherò di essere breve. Anthea ha una specie di doppia personalità, per capirci, e noi Vendicatori abbiamo visto la sua parte cattiva tre anni fa, quando lei è entrata a far parte delle nostre vite. Per essere più preciso, la sua parte cattiva ci ha quasi ammazzato ma poi lei è tornata in sé e le cose sono finite bene. La Convergenza deve aver liberato la parte cattiva e la parte cattiva …”
 
“Ha fatto sì che l’energia della Convergenza finisse prima nella spada e poi nel corpo di Anthea, così che …” Rogers esitò e fissò le iridi azzurre in quelle buie della giovane oneiriana “… entità separate divengano un’unica unità.
 
“Questo significa che la parte cattiva si è costruita una via d’uscita, giusto? Si fonderà con la parte buona?”
Clint si era rivolto direttamente a Damastis, intenzionato a capirci di più.
 
“Non esattamente, giovane umano. È sì vero che l’entità malvagia ha trovato una via d’uscita, ma è più probabile che voglia prendere il controllo.”
 
“E come possiamo fermare quella …?”
 
Heith. È così che si chiama, giovane umano. Un’entità capace di manovrare gli eventi senza che nessuno si accorga del suo intervento, e che può far sorgere nella mente delle sue vittime i pensieri che vuole si pensino. Non esiste una strada certa per fermarla. Heith è la conseguenza di una deformazione della personalità dovuta all’errato controllo di un grande potere. Ecco perché noi oneiriani abbiamo a cuore l’addestramento dei più giovani.”
 
“Heith?”
Wilson cercava di stare al passo con la spiegazione, ma più quella andava avanti, più era impossibile trovarci un senso. Vi erano di mezzo concetti che sfuggivano alla comprensione umana.
Heith e Anthea erano la stessa persona, ma non lo erano e … che grandissimo casino!
‘Beh, è come soffrire di personalità multipla’ pensò infine il pararescue e fu soddisfatto di quella conclusione un po’ più umana.
 
“Perché sento questo dannato nome solo adesso? Perché non me ne hai mai parlato?”
Era evidente la disperazione che si stava facendo largo nella ragazza, che mai avrebbe creduto di dover di nuovo affrontare la Furia celata dentro di sé. E, invece, eccola punto e a capo, in balia delle emozioni e del potere che le scorreva nel sangue.
 
“Continuavo a sperare di sbagliarmi, mia cara. Ma oggi ho avuto la spiacevole conferma ai miei sospetti. Il nome di Heith risale a millenni fa, quando questa entità oscura si manifestò per la prima volta in una giovane oneiriana dai poteri immensi e una forte instabilità interiore. Da allora, ci impegnammo a far sì che un fatto simile non accadesse ancora” spiegò con calma Damastis, ma questa volta un leggero turbamento trasparì sul suo volto rugoso.
 
“E come avete fermato Heith la prima volta?”
Era stato Steve a porre la domanda, anche se temeva la risposta. In quel momento non riusciva a pensare ad altro che non fosse il pericolo che correva Anthea.
 
“Toglierle la vita fu l’unica soluzione. Fu colui che lei amava ad ucciderla, l’unico di fronte al quale lei abbassava tutte le sue barriere, rendendosi vulnerabile.”
 
A quella rivelazione seguì il dominio di un buio fitto e denso. Le candele si erano spente in un soffio, tutte insieme.
 
“Heith …”
 
La voce che pronunciò quel nome parve provenire dall’oltretomba.
L’istante successivo, le fiammelle ripresero vita, sprigionando un calore intenso e accecando i presenti, ad eccezione di colei che era la causa di quell’innaturale evento.
Entrambi gli occhi di Anthea stavano piangendo sangue. Le lacrime scarlatte le rigavano le guance e si schiantavano sul pavimento nero, senza emettere alcun suono.
Adesso la giovane poteva dare significato a quel pianto vermiglio.
Erano le crepe del suo Io a sanguinare.
E sì. Prima della Convergenza non le era mai accaduto. Dopo le rivelazioni di Damastis, poteva affermare che lacrime di sangue e momenti di vuoto non l’avevano mai afflitta prima della Convergenza.
Ogni volta che il sangue aveva solcato il suo viso, una nuova crepa si era generata. Ogni volta che aveva avuto un momento di vuoto, Heith aveva agito.
 
Copiose gocce rosse continuarono a sporcarle il viso pallido e sembravano non avere fine, come se il suo Io si stesse sgretolando irreversibilmente.
L’invisibile barriera che separava Anthea e Heith stava andando in frantumi sotto l’influsso inarrestabile dell’energia della Convergenza.
 
 
“Non erano questi gli accordi, Heith.”
“Come mi hai chiamata?”
“Con il tuo nome.”
“Hai sbagliato persona. Io non ti ho mai visto prima.”

 
 
Il ricordo di quell’assurdo scambio con Teschio Rosso la fece tremare come una foglia.
Aveva preso accordi con quell’uomo folle e pieno di odio nei confronti di Steve?
 
‘No, ditemi che non è vero, ditemi che questo è solo un dannato incubo … vi prego …’
 
Eppure non c’era altra spiegazione. L’esistenza di Heith dava senso a tutte le stranezze accadute negli ultimi anni.
Era stata Heith a tornare sulla Terra dieci mesi prima. Heith era tornata da Steve.
Ma perché?
Molto probabilmente sempre Heith aveva portato la spada sulla Terra per ragioni che Anthea stentava a figurarsi.
 
Sotto gli sguardi scioccati dei Vendicatori e quello apprensivo di Damastis, Anthea parlò, ponendo fine all’ennesimo scomodo ed estenuante silenzio.
“Quante volte sono tornata sulla Terra?”
“Tre, mia cara.”
La giovane serrò i denti, perché nella memoria non c’era traccia di una delle tre volte, dato che era convinta di aver raggiunto Midgard solo due volte.
“Hai visto cosa ha fatto in quelle occasioni?”
“Mi dispiace, mia cara. Ho visto solo ciò che Heith vuole che io veda. Nemmeno il mio potere può nulla contro di lei.”
“E, oltre la Convergenza, cosa ti ha lasciato vedere?”
Di fronte quella domanda, Damastis si voltò a guardare Steve, perso in pensieri pungenti e freddi.
“Ho visto tre volti. Il suo - l’anziano indicò Rogers - uno rassomigliante ad una maschera rossa e quello del principe di Asgard.”
 
 
“Perché stai facendo questo? Sono tuo amico.”
“Non lo hai compreso? Eppure dovrebbe essere chiaro. Vendetta.”
“Non voglio combattere contro di te.”
“Combattere, non combattere … cadrai in ogni caso, Thor.”
 
 
Anthea annuì lentamente e la vacuità del suo sguardo rasentò la trasparenza. Si sentì morire dolorosamente e lentamente.
“Ho bisogno di rimanere sola. Io … io devo capire cosa ho fatto quando Heith ha preso il controllo. La risposta è dentro di me, devo solo cercarla.”
Si mise le mani fra i capelli e diverse ciocche le ricaddero sul viso esangue. Le linee rosse sulla pelle sembrarono pulsare, mentre si inerpicavano fin sopra la guancia destra e verso la tempia. Quei segni innaturali erano un macabro conto alla rovescia, la cui fine sembrava essere spaventosamente vicina.
“Devo trovarla … Thor …”
La giovane tremò al solo pensiero di aver fatto del male al dio del tuono, uno dei suoi più cari amici.
 
“Non devi fidarti di ciò che vedi, mia cara. Lei ti lascia vedere solo ciò che vuole tu veda. Fa tutto parte del suo gioco. Lascia che …”
 
“No. Heith è una mia responsabilità. Non voglio che qualcuno rischi la vita standomi troppo vicino. Vuole giocare? Bene. Allora giocherò anch’io.”
La rabbia dell’oneiriana era tangibile. Le fiammelle si rafforzavano con spasimi improvvisi, sospinte da un potere che degenerava verso una profonda instabilità.
Anthea aveva perduto anche il caduco equilibrio che aveva conquistato faticosamente in quegli anni. Dentro di lei si stava scatenando un terremoto dagli effetti devastanti, effetti che le avrebbero portato via lucidità e il controllo sopra i suoi stessi poteri.
L’oneiriana si sentì di nuovo una bambina insicura ed inesperta. Un ringhio di frustrazione le graffiò la gola, mentre si chiedeva come avrebbe potuto evitare di crollare definitivamente.
‘Sei più forte di così! Reagisci!’ si impose, urlando interiormente, ma fu vano.
 
“Lasciatemi sola” ripeté, atona.
 
Damastis si arrese, consapevole che nulla avrebbe potuto contro la ferma decisione della giovane sovrana. Annuì piano ed abbassò il capo, in un muto segno di commiato.
Non aveva il potere di aiutarla, nonostante avrebbe tanto voluto farlo. Però, qualcun altro avrebbe potuto fare la differenza.
L’anziano, prima di abbandonare la stanza, cercò lo sguardo del ragazzo dai limpidi occhi azzurri e, trovandolo, piegò la bocca in un sorriso triste e che gridava una sola parola.
Aiutala.
Il giovane super soldato ricambiò flebilmente quel sorriso.
 
Clint rimase abbastanza interdetto nel vedere Damastis andare via. Non aveva ancora chiari alcuni dei discori nati e sviluppatisi in quegli ultimi minuti, ma di una cosa era convinto.
Anthea non doveva affrontare quella Heith da sola. Qualsiasi cosa fosse accaduta, ora non aveva importanza. Bisognava guardare avanti e pensare alla prossima mossa, perché il tempo stringeva e una parte della squadra attendeva il loro ritorno sulla Terra.
L’arciere fece per dare voce a quei pensieri, ma le parole gli rimasero bloccate in gola quando intercettò gli occhi di Steve.
Senza pensarci due volte, Barton prese la direzione dell’uscita e costrinse Sam a seguirlo con un unico e deciso gesto della mano.
 
La porta della stanza della meditazione si chiuse senza emettere alcun suono.
 
*
 
“Perché non li hai seguiti?”
La rabbia di poco prima era scomparsa. La voce di Anthea venne fuori tremolante ed incerta.
 
“Durante la mia vita ho affrontato battaglie che mai avrei creduto di poter vincere. Sai cosa mi ha permesso di vincere, Anthea?”
 
Steve si portò a un passo dalla ragazza, che gli stava dando le spalle e che non sembrava intenzionata ad affrontarlo faccia a faccia.
Il biondo però non demorse e andò avanti.
 
“Sono riuscito a vincere perché non ero solo, perché ho sempre potuto contare su persone straordinarie che mai mi avrebbero lasciato cadere e che comunque erano pronte a cadere con me.”
Sospirò piano e proseguì.
“Per quanto lo sforzo di guardaci le spalle possa essere grande, ci sarà sempre un punto cieco che gli occhi sono impossibilitati a raggiungere. È un qualcosa di costituzionale, un qualcosa che rivela il bisogno di avere qualcuno che si prenda cura di quel punto cieco, che lo protegga per noi.”
 
Le spalle di Anthea sussultarono impercettibilmente e, l’attimo dopo, i suoi occhi bui si immersero in quelli limpidi di Steve, trovandovi un solido sostegno che le permise di essere invasa da una nuova sensazione di sicurezza ed equilibrio.
L’oneiriana rimase attonita, incerta su cosa dire o fare. Aveva le guance impiastricciate di sangue, ma le lacrime avevano smesso di colare come cera fusa dai suoi occhi.
 
“Permettimi di aiutarti, come tu hai aiutato me.”
“Non ci sono sempre stata quando ne hai avuto bisogno, Steve.”
“Beh la cosa è reciproca.”
 
Anthea chinò il capo, interrompendo il contatto visivo. Ripensò alla cruda discussione che aveva avuto con lui nel corridoio e fu sorpresa da un distinto senso di nausea.
 
“Perché? Perché vuoi aiutarmi pur sapendo che probabilmente sono una delle cause di ciò che adesso sta accadendo sulla Terra? Potrei aver fatto del male a Thor e poi io … Teschio Rosso …”
 
Il super soldato le pose entrambe le mani sulle spalle e si sorprese a pensare ancora a quanto fosse cresciuta.
“Ascoltami bene. So che ti senti in colpa e che reputi le azioni di Heith come tua totale responsabilità. Ma, Anthea, sei tornata sulla Terra per tirarmi fuori dai guai mettendo a rischio ciò che hai costruito qui e, inoltre, non avresti esitato a combattere al mio fianco. Venire qui mi ha permesso di vedere più chiaramente e sappi che non ho intenzione di lasciarti cadere perché, in un modo o nell’altre, sei importante per me. E poi, sono certo che Thor è vivo. Tu non avresti permesso che gli accadesse qualcosa di irreversibile.”
 
La giovane non riuscì a trattenere il sorriso che piegò le sue labbra e, impulsivamente, circondò con le braccia il collo di Steve, stringendolo a sé con forza.
 
“La stabilità è un’intima condizione interiore e il suo raggiungimento non segue una univoca strada. Deve trovare la sua e solo il tempo potrà aiutarla.”
Le parole di Damastis le risuonarono nella testa proprio in quel momento. Aveva sempre pensato alla stabilità come a qualcosa di astratto, di raggiungibile tramite allenamenti sfiancanti e lunghe meditazioni. Solo adesso capiva quanto quel suo modo di pensare fosse sbagliato.
La sua strada per raggiungere la stabilità interiore era una ed una soltanto. Era Steve Rogers.
Quando le distanze tra loro si annullavano, Anthea si sentiva viva.
 
“Credi che sia possibile ricominciare da dove eravamo rimasti tre anni fa, prima che io partissi?” chiese flebilmente l’oneiriana, con la fronte premuta contro la spalla del super soldato.
“Sinceramente … non lo so. È difficile … io …”
“Va bene così, Steve. La mia era una proposta assurda. Scusami.”
 
Anthea si tirò indietro, sciogliendo l’abbraccio.
“Okay. È ora di mettersi a lavoro” affermò, convinta.
Si sedette sul freddo pavimento, con le gambe incrociate e le mani sulle ginocchia.
 
“Come posso aiutarti?”
Steve alzò un sopracciglio con fare perplesso e Anthea gli sorrise.
 
“Non andare via.”
“Non lo farò.”
“Questo mi basta.”
 
La giovane oneiriana chiuse gli occhi e scivolò in un profondo stato di concentrazione.
‘Preparati a giocare, Heith.’
 
 
 
                                                                                   ***
 
 
 
Terra
 
“Ci siamo! Ha funzionato! Anche se non c’erano dubbi, data la mia sconfinata genialità.”
 
Tony era chino sul computer che aveva preso dal fornitissimo jet. La sua espressione era simile a quella di un bambino che scopre una dispensa segreta di dolciumi.
Natasha fu subito dietro di lui, gli occhi puntati sullo schermo e l’espressione seria leggermente addolcita dalla buona notizia.
 
“Quindi?”
 
L’inventore indicò il puntino rosso che lampeggiava sullo schermo.
“Ho tracciato un algoritmo che incorpora i dati sulle innaturali emissioni di calore dell’Extremis e quelli sulle sue leggere ma persistenti radiazioni. Utilizzando poi l’aggancio con il mio personale satellite, sono riuscito a localizzarli.”
 
“Li stanno spostando” convenne la Vedova, accortasi del costante movimento del puntino rosso.
 
“Esatto. E vista la strada che stanno seguendo, credo non sia difficile immaginare dove li stiano portando.”
 
“Al Pentagono.”
 
“Ancora esatto, Romanoff.”
 
Tony si alzò dalla sedia e si stiracchiò la schiena. Occhieggiò all’ora segnata nell’angolo destro dello schermo del pc e sospirò stancamente.
Erano già passate quattordici ore da quando Steve, Clint, Sam e Anthea erano partiti e mancavano quindi trentaquattro ore allo scadere del tempo a loro disposizione.
 
“Questo va a nostro vantaggio. I cinquanta Ultra Soldati, il corpo artificiale di Daskalos, lo scettro, il Tesseract, Bruce … è tutto al Pentagono. Possiamo ancora farcela.”
 
Natasha annuì alle parole del compagno, ma non si espresse. Era troppo presto per farsi prendere dall’entusiasmo e comunque restava il problema di come diavolo abbattere cinquanta macchine omicide inscalfibili e immortali.
 
Lo sbattere della porta d’ingresso annunciò l’arrivo di James.
“Ho finito di smontare la moto nel capanno qui affianco come mi avevi detto” annunciò il Soldato, rivolto all’inventore, che rispose con un energico “Bene”.
 
“Sai che Clint ti ucciderà quando lo verrà a sapere?” domandò la rossa, fulminando il genio.
“Oh, andiamo Nat! Gli dirò che la sua moto è stata sacrificata per offrire all’umanità un futuro migliore. Capirà.”
Natasha sorrise con fare accattivante.
“Se lo dici tu, Stark. Mal che andrà, ti userà come bersaglio mobile per i suoi allenamenti.”
 
Tony stava per ribattere a dovere, ma fu interrotto da un secondo cozzare dei cardini della porta.
Pepper giunse trafelata in salotto e, senza esitazione, diede voce ad un’altra buona notizia.
“JARVIS ha terminato il suo compito al jet. Abbiamo la comunicazione sicura.”
 
“Perfetto. Andiamo a parlare con papà Fury” esordì Stark, ricambiando il sorriso della compagna.
“Non fa così schifo questo piano, in fin dei conti” si lasciò scappare poi, felice però di non averlo ammesso davanti a Rogers.
 
 
 
 
 
֍֍֍
 
 
 
 
 
Le catene tintinnano. C’è odore di sangue.
Qualcuno piange.
 
“Heith.”
 
“Ti aspettavo.”
 
 
 
 
 
 
Note
Lo so, sono una persona orribile perché sono scomparsa e vengo fuori solo ora. Mi scuso tantissimo per il ritardo, ma ho avuto altro per la testa in quest’ultimo periodo.
Spero che ci siate ancora e che questo nuovo capitolo vi piaccia.
 
Un saluto e un abbraccio alla New Entry, _Ash, grazie di aver deciso di seguire la storia ♥
 
Grazie a the little strange elf - finalmente ce l’ho fatta, visto? Scusa per l’attesa infinita! Un abbraccio grandissimo ♥
 
E devo assolutamente ringraziare la mia Sister Ragdoll_Cat, per il sostegno inestimabile che mi doni ogni giorno e lo sprint che mi hai dato per continuare questa storia!
Ti Voglio Bene ♥♥♥
 
Beh, è tutto. Grazie a tutti coloro che leggeranno ♥
Alla prossima!
 
Ella

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Capitolo 15
*** Volontà ***


Note
 
Ogni tanto mi faccio viva, visto? Sono un caso perso, lo so.
Questa volta le note sono all’inizio, perché questo è un capitolo un po’ speciale e incentrato sul rapporto fra Steve e Anthea.
La mia ispirazione ha ricevuto l’input determinante da una persona che sostiene me e questa coppia con passione e con straordinaria costanza, la mia carissima e fantastica Sister Ragdoll_Cat, a cui voglio dedicare questo capitolo con tutto il cuore
 
Hai apprezzato questi due fin dall’inizio della primissima storia e ciò mi ha spinta a continuare a scrivere su di loro.
Inoltre i tuoi consigli e le tue parole riescono a davvero a smuovermi dall’interno. Adoro infinitamente l’idea che hai dell’amore e ti ringrazio per averla condivisa con me.
Spero di aver fatto un buon lavoro, ci tengo davvero
Ti mando un abbraccio fortissimo! Grazie per Tutto! Ti voglio Bene!
 
Grazie a tutti coloro che continuano a leggere questa storia e un grazie speciale a the little strange elf per le recensioni e il sostegno *.*
 
Alla prossima!
 
Buona Lettura!
 
 
 
 
 
 
Volontà
 
Il buio si estende in ogni direzione, denso e soffocante. Si chiede se la sua interiorità sia davvero così sterile ed oscura e se esista un modo per portare un po’ di sana luce lì dentro. Eppure, quell’oscurità la mette spaventosamente a proprio agio.
 
Un alone rosso si fa spazio nel buio fitto, proprio dinanzi a lei. La figura che vi è racchiusa stanzia in piedi, le spalle dritte e il capo chinato verso il basso.
 
Ci siamo pensa Anthea, perché sa chi ha di fronte. Ha udito la voce di quella creatura per anni, nonostante non l’abbia mai vista, e si domanda che aspetto abbia.
È ancora troppo lontana per mettere a fuoco il demone. Più si fa avanti, più si rende conto di non avere paura, affatto. Si chiede se l’abbia mai temuto davvero, il suo demone.
 
“Heith.”
 
“Ti aspettavo.”
 
La risposta del demone risuona nel buio. La voce profonda e femminile le provoca un brivido che le attraversa l’intera colonna vertebrale. Ma è un brivido di eccitazione.
Anthea fa ancora qualche passo, prima di fermarsi a un paio di metri da Heith. Gli occhi si spalancano in un muto grido di sorpresa e il respiro le si spezza in gola.
 
“Il mio aspetto ti sorprende tanto? Non dovrebbe.”
 
L’oneiriana fa sparire ogni emozione dal proprio volto, gli occhi si assottigliano e il taglio duro li rende ostili. Non è più una bambina, non può permettersi di apparire debole, non con tutte le responsabilità che si è caricata sulle spalle negli ultimi tre lunghissimi anni.
L’entità che ha di fronte non si muove, si limita a piegare le labbra in un sorriso enigmatico e ad attendere.
Anthea pensa che è come guardarsi allo specchio e intravedere una differente sfaccettatura di sé, una sfaccettatura che emana sicurezza e potere ed è apparentemente priva di qualsiasi debolezza.
Eppure c’è qualcosa che non la convince. La risposta ce l’ha proprio davanti gli occhi, però continua a non vederla. Damastis ha affermato che Heith è la conseguenza di un’errata gestione di un grande potere, una scissione di un Io instabile.
 
Io instabile.
 
Davanti il silenzio prolungato della giovane, Heith decide di prendere la parola.
“Non struggerti tanto. Quando saremo definitivamente una cosa sola, i tuoi dissidi interiori saranno solo un lontano ricordo. Tu sarai solo un lontano ricordo.”
 
Il demone piega la bocca in un ghigno, ma questo muore presto, perché Anthea si porta una mano alla fronte e scuote il capo, mentre una risata dalle tinte amare le fa tremare leggermente le spalle.
 
“La paura deve averti dato alla testa.”
 
L’oneiriana smette di ridere e punta l’indice destro contro l’entità avvolta nel rosso di un’aura fatiscente.
“Tutto questo tempo passato a crederti una specie di demonio rinchiuso nel mio corpo ... tutto questo tempo passato a temerti … mi sbagliavo e tu stai commettendo il mio stesso errore. Il potere della Convergenza non è la soluzione.”
 
Heith mostra per un attimo la propria confusione, confusione che si trasforma in ira.
Il demone si muove, veloce, le dita della sua mano si stringono intorno al collo di Anthea, che si tira indietro di riflesso, senza però tentare di sottrarsi alla morsa.
 
Un suono metallico si spande in quel buio assoluto. Sono catene che tintinnano.
 
“Non ... non hai ucciso Thor, vero?” balbetta Anthea, a corto di ossigeno.
 
Heith ringhia.
“Non fa differenza! Lui non potrà comunque aiutarvi. Ormai è tardi.”
 
“Per me fa differenza, invece. E sai perché?”
 
“Non mi interessa!” sbotta il demone, il quale ha improvvisamente perduto la maschera di porcellana che estingue ogni sprazzo di emozione dal suo volto.
 
“Perché c’è umanità in te, quell’umanità che tanto disprezzi.”
 
“Tu sei pazza. Io sono Odio. Io sono Potere. Non c’è alcuna fragile scintilla di umanità in me.”
 
Anthea non si lascia intimorire dalla rabbia che sta facendo brillare pericolosamente le iridi vermiglie di Heith.
“Allora perché piangi?” chiede, quasi innocentemente.
 
Heith ammutolisce e, come guidata dal mero istinto, si ritrova ad osservare l’immagine del proprio viso riflessa negli occhi della mezzosangue.
Quello che vede le lava via anche la sicurezza ostentata fino ad allora. Ci sono due strisce sulle sue guance, due strisce di sangue secco mischiato ad alcune gocce ancora fresche.
Il demone lascia andare Anthea e si tira indietro. Passa con stizza i dorsi delle mani sulle guance e il liquido denso le sporca maggiormente la faccia i cui lineamenti sono arricciato dalla rabbia.
‘È tutta colpa di quella debole creatura. Non sono io. Non. Sono. Io’ è il pensiero assordante che le squilla in testa.
 
“Tu sei-” comincia Anthea.
 
Heith grida infervorata e il buio tutt’intorno trema.
“Ti farò pentire di queste tue assurde insinuazioni. Spezzerò il tuo molle cuoricino e avrò la mia vedetta. Stavolta vincerò io e non c’è niente che tu possa fare. L’energia della Convergenza ha quasi completato il lavoro.”
 
 “Dov’è Thor?” chiede allora l’oneiriana, riportando l’attenzione sulle priorità.
 
“Vuoi davvero continuare ad aiutare i tuoi cari terrestri. Vuoi davvero stare così vicino al tuo prezioso umano, sapendo che presto non avrai più tu il controllo? Sapendo quanto io lo detesti per averti permesso di vincere contro di me tre anni fa?”
Heith sorride con malizia e lo sguardo diventa improvvisamente più oscuro ed intenso.
 
“Non gli farai del male” afferma Anthea, asciutta “io stessa ti impedirò di fargliene. Hai già causato sufficiente sofferenza.”
 
Il demone scoppia a ridere. Ride con fare isterico e si piega in avanti, portando entrambe le mani sul ventre nudo.
“Devo riconoscere che non sei più una mocciosa petulante e codarda. Ma io rimango la più forte, ricordalo.”
 
“Questo è tutto da vedere” replica Anthea, asciutta.
 
“Bene” esordisce Heith dopo un silenzio prolungato “va’ allora e goditi questi ultimi momenti di lucidità. Ormai non c’è più nulla che tu possa fare.”
 
Heith si avvicina di nuovo alla mezzosangue e le posa l’indice sulla fronte.
 
“A presto, Anthea.”
 
 
 
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Anthea non si era mossa dal momento in cui aveva chiuso gli occhi. Era perfino difficile scorgere l’infinitesimale movimento della gabbia toracica all’estendersi e al contrarsi dei polmoni.
Steve temeva quasi che avrebbe potuto farle perdere la concentrazione solo respirando.
 
“Il mio posto è al tuo fianco, Steve” gli aveva detto lei durante lo scontro con Daskalos, una vita fa. In quel silenzio innaturale, il biondo poté riascoltare quelle parole risuonare nella mente e un piccolo sorriso piegò i tratti del suo viso stanco.
Chissà se lei aveva ancora quella convinzione?
 
Il Capitano si riscosse quando avvertì una presenza al suo fianco.
 
“Quindi sei tu il famoso Steve Rogers?”
Gli occhi trasparenti di Damastis raggiunsero quelli cerulei del super soldato, che esternò una certa confusione.
 
“Lei non era andato via?” chiese il giovane, con cautela.
“Le persone vanno e vengono, figliolo. Sai, lei mi ha parlato molto di te.”
“Davvero?”
L’anziano annuì leggermente.
“A volte le persone vanno scosse, perché la loro parte migliore si deposita sul fondo. In questi ultimi tempi, lei era divenuta così apatica. Le è bastato trascorrere un misero lasso di tempo sulla Terra, nonostante la disastrosa situazione, affinché riacquistasse quella scintilla che le avevo visto brillare negli occhi la prima volta che l’ho incontrata e che si è spenta con il passare dei giorni.”
 
Steve non sapeva cosa dire. Quelle parole facevano un certo effetto.
 
“Non starò qui a parlarti della situazione complicata che Anthea ha dovuto affrontare dal momento in cui Nuova Oneiro è sorta. Però voglio che tu sappia che lei non è mai davvero appartenuta a questo mondo, il suo cuore non ha mai lasciato la Terra e credo tu sappia bene il perché.”
Damastis prese un respiro profondo prima di andare avanti.
“Non è mia intenzione importi nulla, ma ti chiedo umilmente di non abbandonarla adesso. Non è una persona cattiva, niente di lei lo è. È una persona alla quale sono accadute cose cattive.”
 
“Lo so” disse Steve, di getto.
Una strana stretta al cuore lo rese improvvisamente nervoso.
 
“Un’ultima cosa. Ricorda che non c’è niente di più potente della volontà, figliolo.”
 
“E questo cosa significa?”
 
“Tempo al tempo, figliolo. Tempo al tempo. Sii forte.”
Damastis sorrise con gentilezza e la sua figura si dematerializzò gradualmente fino a scomparire, lasciando il Capitano piuttosto esterrefatto.
 
“L’ho trovato!”
 
Anthea scattò in piedi, facendo sussultare Steve.
La giovane sorrise con fare stanco e tese una mano verso l’alto. La spada dall’elsa bianca raggiunse il suo palmo e la lama scintillò nel buio schiarito solo dagli aloni delle candele.
 
“È a Vakuum, la grande cascata che si getta nel vuoto.”
“Nel vuoto?”
Steve sollevò un sopracciglio, perplesso.
“Capirai quando la vedrai.”
“Sta bene?”
“Io non so dirlo con precisione. Heith mi ha mostrato la cascata e nient’altro.”
Anthea abbassò gli occhi, sfuggendo allo sguardo del super soldato, ma poco dopo risollevò il capo.
“È la nostra unica strada. Dobbiamo tentare.”
 
Rogers annuì piano e, senza pensarci su molto, posò una mano sulla spalla della ragazza.
“Sei sicura di farcela? Il potere della Convergenza ti-”
“Posso farcela. C’è ancora tempo.”
 
Il biondo non sembrava molto convinto. Anche un cieco si sarebbe accorto della debolezza della giovane e della fatica per imperniava ogni suo movimento.
Ma Anthea era testarda e non ci sarebbe stato modo di farle cambiare idea.
“Allora andiamo” disse solamente e l’oneiriana sorrise di nuovo, tanto che Steve si chiese cosa fosse accaduto durante l’incontro con Heith.
 
Forse Anthea stava solo cercando di nascondere la sua paura o, forse, il dolore dovuto al potere della Convergenza le stava togliendo anche la forza di sentirsi in ansia.
Rogers odiava non riuscire a capirla al volo. Lei era dannatamente complicata e non c’era verso di leggerla senza sbattere contro un muro di confusione, perché lei aveva la straordinaria capacità di confondere.
 
“Cosa ti faranno quelli del Consiglio, dopo ciò che è successo poco fa?” si azzardò a domandare mentre si incamminavano verso l’uscita.
 
“Niente di cui tu debba preoccuparti. Risolviamo un problema alla volta, okay?”
 
“Okay.”
 
Un problema alla volta.
 
 *
 
“Ma che figata assurda! Non si vede davvero il fondo! E scusa, continuerei a cadere all’infinito se dovessi finirci dentro?”
 
“Perché non ci provi, Wilson? E poi vieni a raccontarcelo” lo canzonò Clint, mentre si sporgeva con attenzione oltre il muretto di pietra grigia che affiancava Vakuum.
 
C’era solo un’immensa distesa di erba verde intorno a loro, attraversata dal largo letto di un fiume dagli alti argini rocciosi. L’acqua cristallina correva veloce fino a gettarsi nel vuoto, dando vita ad un’immensa cascata che cadeva in un baratro senza fondo. Vicino all’infinito precipizio, il rumore dell’acqua era quasi assordante e getti di schiuma bianca si formavano al suo infrangersi contro la roccia levigata delle sponde.
C’era anche un altro suono, più basso ma continuo, che proveniva dallo spaventoso baratro. Un suono che pareva quasi un lamento incessante.
 
“Sono le voci di coloro che vi sono caduti e che continueranno a cadere per l’eternità” spiegò Anthea, cinerea in volto, facendo sbiancare i tre Vendicatori.
Poi la sua espressione lugubre si illuminò di colpo e un sorriso felino le arricciò le labbra.
“O almeno è così che narra la leggenda. Vakuum è un mistero per tutti ancora. Evitiamo comunque di cadere.”
 
“E se Heith ci avesse spinto Thor giù per la cascata?”
La domanda di Sam, seppur così lecita, fece crollare per un attimo tutte le speranze di riavere il dio del tuono con loro.
Ma quell’attimo fu dissolto dallo stesso Falcon, che indicò un punto alle spalle dei suoi tre compagni.
“Dimenticate ciò che ho detto” asserì.
 
La figura del dio del tuono si era palesata dall’altra parte della cascata, tra il vapore generato dall’acqua.
 
 “Thor!”
Alla vista della figura dell’asgardiano, un’ondata di sollievo travolse Steve e lavò via la sua frustrazione.
“Thor!” chiamò ancora, ma il dio non diede segno di aver udito e Rogers si chiese se il fragore della cascata avesse inghiottito la propria voce. Fece per muoversi, intenzionato a raggiungere l’amico, ma una mano si chiuse attorno al suo polso, ferrea, e lo tirò indietro.
 
“C’è qualcosa di strano.”
Spinto dallo sguardo penetrante dell’arciere, il Capitano fu costretto a freddare l’entusiasmo.
Effettivamente c’era qualcosa di insolito nel modo di avanzare di Thor, nel suo porre meccanicamente un piede dinanzi all’altro, dando l’impressione di un lento vagare privo di meta. Come a conferma di quei pensieri, il dio del tuono si fermò per un istante, girò di centottanta gradi su se stesso e riprese a camminare nella direzione opposta, sparendo nel vapore.
 
“Ma che diavolo gli hai fatto?” chiese Barton, rivolto ad Anthea.
Si era immaginato di trovare Thor in fin di vita o incatenato da qualche parte o … qualsiasi cosa, ma quello? Quello era un fottuto scherzo.
Il dio sembrava stare bene.
 
D’un tratto, Thor si palesò di nuovo nel medesimo punto, ma stavolta sollevò il capo e piantò lo sguardo su di loro.
 
“Viene verso di noi” fu l’asciutto commento di Rogers, nell’osservare l’asgardiano raggiungere l’argine opposto della cascata rispetto al loro, con passo improvvisamente spedito e sicuro.
“Non so voi, ma io non credo sia una buona cosa” convenne Sam.
  
“Adesso corre verso di noi” rettificò Barton.
“Già” rimarcò Steve.
“Corre veloce. Molto veloce” sottolineò Sam.
“Non si ferma” fu la successiva constatazione dell’arciere, a cui Rogers rispose con un semplice “Non sembrerebbe, no.”
“E noi non ci stiamo muovendo” si sentì in dovere di fare presente Wilson.
 
“Beh cominciate a muovervi! Ora!” ordinò Anthea, che finalmente era riuscita a comprendere cosa non andasse nel dio.
Heith era stata davvero furba.
può far sorgere nella mente delle sue vittime i pensieri che vuole si pensino” aveva detto Damastis e il demone si era ben servito di questa sua capacità.
 
Clint, Sam e Steve furono quindi certi che Thor non stava correndo ad abbracciarli e si prepararono ad uno scontro che mai avrebbero creduto possibile.
Il dio del tuono era un compagno ed un amico e affrontarlo era per loro impensabile.
 
“Cosa gli ha fatto?” chiese Rogers, ma Anthea non ebbe tempo di rispondere.
 
“Come osate calpestare il terreno della sacra cascata. Vi punirò per questo. Io sono il guardiano di Vakuum” furono le parole gridate da Thor, un attimo prima che questo saltasse come niente fosse l’intero letto del fiume per raggiungere l’altra sponda.
Nell’atterrare, l’asgardiano abbatté Mjolnir contro il terreno e un’onda d’urto scaraventò i tre Vendicatori indietro di una decina di metri, mentre Anthea riuscì a rimanere in piedi nonostante fu forzata a piegarsi sulle ginocchia e ad affondare una mano nel terreno.
 
“Beh fai schifo come guardiano, dato che hai appena rovinato il prato!” gridò Clint, rimettendosi in piedi e imprecando per la botta presa al fondoschiena.
 
Dallo spacco apertosi nel terreno fuoriuscì un fiotto di magma scuro, il quale prese a modellarsi e a solidificarsi al tempo stesso, dando forma a una specie di umanoide di basalto impreziosito da crepe dalle quali sgorgavano rivoli di fluido incandescente.
La creatura senza volto rimase immobile al fianco dell’asgardiano, ergendosi in tutti i suoi tre metri.
 
“Ma perché le cose diventano sempre più complicate di quanto lo sono già?” borbottò tra sé e sé il pararescue, con gli occhi spalancati per l’incredulità.
 
“Ascoltate! Thor è sotto l’influsso di un raggiro mentale. Bisogna trovare il modo di farlo tornare in sé. Anche la creatura deve essere opera di Heith, una maggiore garanzia di sbarazzarsi di chiunque avesse trovato Thor” spiegò Anthea, che a quel punto cominciava a chiedersi se sarebbero usciti indenni dallo scontro. Lei era potente, ma le condizioni attuali le intorpidivano il corpo. Aveva anche lasciato la spada al palazzo perché si era accorta di fare fatica a sollevarla, data la lunghezza e la larghezza della lama.
 
“Come lo liberiamo dal condizionamento mentale?”
Clint incoccò la prima freccia ma non sollevò ancora l’arco, restio a scontrarsi con Thor.
“Non ho idea di come funzioni. Io non ho mai fatto una cosa simile” fu la sola risposta della ragazza, mortificata.

“Propongo una ricalibratura cognitiva. Contro la magia dello scettro di Loki ha funzionato.”
Steve si diede dei lievi colpetti con le nocche sulla testa, simulando cosa intendesse dire.
 
“Botta in testa bella forte dunque.”
E a Sam venne quasi da ridere, perché quanto forte bisognava colpire un dio per fargli realmente male? Spaccare il cemento sarebbe stato più semplice molto probabilmente.
“E per quel coso spuntato dalla terra?” chiese infine, dato che la creatura lo preoccupava anche più di Thor.

“Va distrutto. Cercate di stargli alla larga voi. Lasciatelo a me.”
“Non se ne parla, Anthea” cominciò Rogers, ma non riuscì a dire molto di più.
 
Con passi ampi e pesanti, la creatura si avvicinò ai quattro, fermandosi a poco meno di una decina di metri. Aprì la bocca in maniera innaturale e un fiotto di lava incandescente ne uscì fuori, veloce come un proiettile.
Anthea si portò istintivamente dinanzi ai tre Vendicatori e proiettò fuori una barriera di energia dai riflessi aranciati, proteggendoli dalla lava.
 
“Come vi ho detto prima, stategli alla larga!” berciò la ragazza e evidenti furono le incrinature nella voce dovute alla fatica.
 
La barriera si dissolse non appena il mostro smise di sputare fuori materiale fuso e Anthea contrasse i muscoli delle gambe e scattò in avanti, velocissima. Il suo pungo destro si infranse sulla faccia della creatura, che emise uno verso quasi animalesco.
 
“Sam!”
 
Il pararescue distolse a fatica lo sguardo dall’oneiriana. Ancora non era abituato alla vista di una così apparentemente fragile ed esile ragazza che sfoderava una tale forza. Vide Steve superare la creatura impegnata a proteggersi dai colpi della loro compagna e puntare dritto verso Thor.
Senza pensarci due volte, Falcon attivò le ali meccaniche che uscirono dallo zaino ultratecnologico stridendo appena, segno che avevano bisogno di un check up. Prese il volo e seguì il Capitano.
 
“Bene. Collaudiamo queste, così se non funzionano potrò prendermela con Stark.”
Barton tese la corda dell’arco. La freccia che aveva preparato solo qualche attimo prima era di un azzurro elettrico e, come Tony gli aveva spiegato, scaricava addosso al bersaglio parecchi Ampere di elettricità.
Sperava almeno di stordirlo.
 
Rogers poté percepire uno spostamento d’aria pericolosamente vicino il suo orecchio sinistro, prima di vedere una freccia infilarsi nella spalla di Thor ed emettere scintille.
 
L’asgardiano si lasciò scappare un grido di dolore e afferrò con stizza l’oggetto piantato nella carne, tirandolo fuori con un gesto secco. Quell’attacco inaspettato era riuscito a fargli perdere lucidità, perciò non si rese conto dell’arrivo dello scudo che il Capitano aveva lanciato non appena visti gli effetti della freccia.
Il cerchio in vibranio colpì Thor sulla fronte con tanta forza da fargli piegare la testa all’indietro.
 
“Che botta!”
Sam si fermò a mezz’aria.
 
Il dio del tuono aveva lasciato cadere il martello ed ora si teneva la fronte con entrambe le mani, sofferente.
 
“Ti prego, funziona” fu la muta preghiera del super soldato.
 
Thor alzò la testa dopo attimi che parvero infiniti.
Steve vide chiaramente gli occhi dell’amico accendersi della luce che vi aveva visto brillare più volte, ma quella luce scomparve l’attimo dopo lasciando posto ad una spaventosa vacuità.
 
“Non è bastato.”
Rogers strinse i denti, quando capì che Thor lo avrebbe attaccato senza riserve.
 
Era ironico. Nemmeno un paio di settimane prima, i due Vendicatori si erano affrontati in un allenamento nella palestra della Tower per scaricare le loro tensioni. Steve non poteva capacitarsi del fatto che, stavolta, avrebbe dovuto combattere Thor considerandolo un vero e proprio nemico.
Non aveva scelta.
 
Sfruttando l’agilità che aveva acquisito grazie ad estenuanti allenamenti, il super soldato schivò il pugno del dio e fece lo stesso con i successivi attacchi, che se andati a segno gli avrebbero molto probabilmente spezzato qualche osso.
 
Falcon si lanciò in picchiata e recuperò lo scudo. Poi, si diresse a tutta velocità verso l’asgardiano che gli dava le spalle, tenendo il cerchio ben saldo dinanzi a sé.
 
Questa volta, Thor intercettò con la coda dell’occhio l’assalto del suo avversario e si scansò all’ultimo secondo.
Sam, grazie alle sue straordinarie doti di pilota, riuscì ad evitare di travolgere Rogers al posto del dio, fermandosi a un palmo dalla sua faccia. I due si scambiarono uno sguardo sollevato e, l’attimo dopo, il sibilo di una freccia passò vicino le loro teste.
 
L’asgardiano si ritrovò ancora una volta con una freccia piantata nella stessa spalla e una nuova scarica di elettricità lo fece piegare dal dolore.
 
“Non ringraziatemi!” gridò Occhio di Falco.
 
Il Capitano prese lo scudo dalle mani di Wilson, che si fece tempestivamente da parte, e affiancò Thor.
Il cerchio in vibranio impattò con forza contro una tempia dell’asgardiano, costringendolo a cadere su un ginocchio, parecchio intontito.
 
“Thor” chiamò piano Steve e fece per tendergli una mano, ma Mjolnir, rimasto a terra fino ad allora, gli arrivò addosso. Il super soldato fece appena in tempo a frapporre lo scudo fra sé e il devastante martello.
 
Lo schianto tra le due armi, come prevedibile, causò un’onda d’urto parecchio potente, che coinvolse tutti i presenti, scaraventandoli nelle direzioni più disparate.
La stessa Anthea, impegnata a fronteggiare la creatura, fu spazzata a parecchi metri di distanza.
 
Clint si rialzò a fatica e cercò i suoi compagni, ma la sua visuale fu oscurata dall’imponente mostro di basalto, che gli si piazzò davanti e spalancò la bocca.
L’arciere sgranò gli occhi, rendendosi conto di essere spacciato. Eppure, nessun liquido incandescente finì per squagliarlo come cera.
 
Rogers si era gettato di peso contro il mostro, riuscendo a trascinarlo a terra con lui.
Il super soldato fu veloce a rimettersi in piedi e a ripristinare fra sé e la creatura una certa distanza di sicurezza.
“Non ringraziarmi” scandì a voce alta, affinché Clint potesse sentirlo.
Aveva il fiato corto e la stanchezza accumulata nei giorni precedenti cominciava ad essergli di intralcio.
 
Anthea lanciò uno sguardo in direzione di Steve e si apprestò a raggiungerlo, ma Thor scelse lei come nuovo bersaglio e un fulmine la colpì alle spalle, aprendole uno squarcio nel corpetto nero e bruciandole la carne.
Cadde sulle ginocchia, trattenendo a stendo un disperato grido di dolore. Si era distratta e questi erano i risultati.
Le linee che segnavano ormai ogni lembo di pelle si accesero di un rosso intenso e nuove lacrime di sangue sgorgarono dai suoi occhi bui. Percepì la presenza di Thor proprio dietro di lei e si voltò appena in tempo per vedere il martello impugnato dal dio calare sul suo viso come una ghigliottina.
La giovane sollevò un braccio e le iridi si tinsero d’oro. Il braccio di Thor si bloccò all’istante e il martello non la raggiunse per un soffio.
“Dannazione” sibilò tra i denti, respirando con sforzo eccessivo.
Una più intensa scintilla le attraversò gli occhi dorati e l’asgardiano fu spinto via da una straordinaria forza invisibile.
L’oneiriana si spinse in piedi con estrema fatica. Ricadde in ginocchio subito dopo. Le pareva che la schiena fosse in fiamme e le linee sulla pelle pulsavano dolorosamente.
 
Steve avrebbe voluto raggiungere la ragazza, ma la creatura di basalto era già pronta ad attaccare. Fu costretto a rannicchiarsi dietro lo scudo per proteggersi dai fiotti di lava che quella prese a sputargli contro.
 
“Non muoverti!” fu l’ordine che gli arrivò da Clint e gli venne spontaneo borbottare tra sé e sé un “Come se potessi” decisamente ironico.
 
Barton prese dalla faretra una delle sue frecce esplosive e scoccò. Il dardo si piantò nella fronte del mostro ed esplose, riducendolo in pezzi.
 
“Non ringraziarmi, Capitano!”
 
Il super soldato roteò gli occhi. Corse verso Anthea e, quando fu abbastanza vicino, poté dire con certezza di non averla mai vista ridotta in quello stato. Era pallidissima e le intricate linee erano arrivate addirittura sulle guance e sulla fronte imperlata di sudore. Inoltre, sulla schiena si estendeva una chiazza di pelle bruciata e sanguinante.
Le prese delicatamente un braccio e la tirò su, posandole poi una mano appena sotto la ferita causata dal fulmine, in modo da sorreggerla come meglio poteva.
 
“Thor … si sta già riprendendo” soffiò fuori la giovane, osservando il dio riacquistare la posizione eretta.
 
“Non riesco a colpirlo abbastanza forte … è mio amico” ammise Steve.
 
“Beh, è colpa mia se è in quello stato, quindi io dovrei riparare al danno.”
 
“Anthea …”
 
“Posso farcela.”
 
Sam atterrò davanti a loro proprio in quel momento.
“Non volevo disturbarvi ma … il mostro si ricompone.”
 
Anthea scivolò via da Steve e prese un bel respiro.
“È ora che sparisca.”
Le iridi dell’oneiriana si accesero nuovamente d’oro.
 
Rogers si accorse però che Thor era già ripartito alla carica e, lanciato uno sguardo di intesa a Sam, si mosse.
Si ritrovò per la seconda volta faccia a faccia con l’asgardiano e intraprese con lui una lotta impari ma necessaria a coprire le spalle di Anthea per un po’. Fortunatamente, Thor non sembrava essere nel pieno delle sue forze. Evitò di proteggersi dal martello usando lo scudo, preferendo schivare il colpo, e assestò al dio un calcio nel fianco seguito da una gomitata nello sterno.
Infine, approfittando dell’instabilità procuratagli, il super soldato si spinse in avanti e circondò il busto di Thor con entrambe le braccia. Riuscì a spingerlo a terra e a tenerlo bloccato, finché un colpo di reni non lo sbalzò via.
 
“Raggiungi Steve” disse Anthea a Sam.
“Sicura di non avere bisogno che ti guardi le spalle? Sei …”
La giovane scosse il capo e chiuse il discorso con un “Ce la faccio” piuttosto discutibile.
 
“Va’ Wilson!” rincarò Clint “ci penso io a coprirla.”
 
Anthea attese ancora un istante, il tempo che il mostro si fosse completamente ricomposto. Le iridi baluginarono ancora, con maggiore intensità. Dalla punta delle dita fin sopra le spalle, le sue braccia parvero assumere le fattezze di metallo incandescente.
 
“Sta andando a fuoco, letteralmente.
Clint non poteva credere ai propri occhi.
 
Con un movimento difficilmente percepibile dall’occhio umano, la giovane si portò dinanzi alla creatura di basalto e affondò entrambe le braccia nel suo petto con la stessa facilità con cui si affonda un coltello nel burro.
Fiamme innaturali avvolsero il mostro, mentre dal petto si spandeva a macchia d’olio la stessa la stessa luce incandescente che ricopriva le braccia dell’oneiriana. Furono sufficienti pochi secondi, affinché quel corpo di basalto evocato dal potere di Heith divenisse nient’altro che polvere.
Gli occhi di Anthea si spensero, tornando al blu cupo originale, e l’incandescenza sulle sue braccia si dissolse. Prese a respirare con affanno e imprecò mentalmente contro la crescente debolezza provocatale all’energia della Convergenza.
 
Non era ancora finita.
 
Thor stava riacquistando le forze e Steve cominciava ad essere in difficoltà. Gli unici due colpi ben centrati nell’addome già provato - perché i danni dovuti allo scontro con l’Ultra Soldato erano tutt’altro che svaniti -, gli avevano oscurato la vista.
Falcon afferrò al volo le cinghie che sorreggevano lo scudo sulla schiena e trascinò il Capitano lontano da un sempre più aggressivo asgardiano che, ringhiando, fece per scaraventarsi sui due.
 
Anthea si frappose fra loro e, dando fondo all’ultimo sprazzo di forza che aveva in corpo, usò il suo potere per bloccare Thor.
 
“Steve! Avanti!”
 
Il super soldato si morsicò l’interno della guancia. Quella era forse l’ultima possibilità di riavere indietro Thor. Doveva colpirlo davvero. Forte.
“Mi dispiace, amico.”
Con una torsione del busto ben calcolata, Rogers lanciò lo scudo usando realmente la sua forza e il disco si schiantò di taglio contro la fronte del dio.
 
Anthea percepì distintamente l’incantesimo che imprigionava la mente di Thor rompersi e annullò l’influsso del suo potere su di lui, lasciandolo cadere a terra privo di sensi.
“È fatta, l’ho sentito!” esultò, prima di accasciarsi al suolo a sua volta, stremata dal dolore e dalla fatica. Si distese sulla schiena e chiuse gli occhi, scivolando nell’abbraccio dell’incoscienza.
 
“Questo significa che possiamo tornare sulla Terra” convenne Barton e passò una mano tra i capelli con fare stanco.
 
“Ce la siamo cavata meno peggio del previsto.”
Sam tirò un bel sospiro di sollievo. Era un gran vantaggio avere dalla propria parte individui con capacità che di umano non avevano nulla.
Peccato che Anthea non fosse nei Vendicatori in pianta stabile. Beh, teoricamente nemmeno lui lo era, non ancora almeno.
 
Anche Steve si concesse un profondo sospiro di sollievo.
Thor era di nuovo con loro finalmente.
Il giovane si incamminò verso l’oneiriana, che in quel momento, priva di ogni difesa, gli parve terribilmente fragile e piccola. Il petto le si alzava ed abbassava velocemente e il rosso del sangue spiccava sulla sua pelle bianca come la neve. Le ferite non stavano guarendo, perché l’energia della Convergenza inibiva la capacità rigenerativa.
Il biondo si chinò per passarle un braccio sotto le gambe e l’altro sotto le spalle. La sollevò senza alcuna fatica e si ritrovò a pensare che era più pesante di come ricordava.
 
Anthea riaprì gli occhi a fatica e l’iniziale spaesamento fu sostituito, in un battito di ciglia, da una profonda felicità che le fece brillare le iridi buie. Fece scivolare un braccio dietro il collo del super soldato e appoggiò la testa sulla sua spalla, rilassandosi completamente contro di lui.
Le fu sufficiente quella vicinanza affinché il subbuglio interiore e il mero dolore fisico fossero eclissati. Pregò che il momento durasse per sempre, mentre godeva del calore che il corpo di Steve le trasmetteva. Le venne quasi da piangere nell’accorgersi di quanto quella vicinanza le fosse mancata e decise che non ci avrebbe più rinunciato.
 
Rogers, nel sentirla stringersi a lui, si lasciò scappare un sorriso lieve e sincero. Camminò con passo cadenzato fino a Clint, ora chino sul corpo di Thor e intento a controllare che fosse effettivamente vivo.
 
“Non mi sembra vero” confessò l’arciere, non appena si accorse della presenza del Capitano alle proprie spalle.
“Avevo seri dubbi sulla riuscita di questo salvataggio e ammetto di aver pensato al peggio più di una volta da quando siamo arrivati qui.”
 
“Non sei il solo” ammise Steve, sorridendo all’amico.
 
“Pessimisti” fu il lieve borbottio da parte dell’oneiriana.
 
“Parla quella con le crisi isteriche.”
 
“Che vuoi farci? Sono emotiva.”
 
“Spaventosamente emotiva. E con spaventosamente intendo meglio-darsela-a-gambe-prima-che-mi-uccida” si intromise Sam, che aveva raggiunto i suoi compagni dopo essersi assicurato che la creatura di basalto fosse rimasta polvere.
“E comunque sono contento che abbiate fatto pace. La tensione che c’era tra di voi era tremenda e con tremenda intendo …”
“Sam!”
Rogers sapeva di essere arrossito per due motivi. Il primo era che sentiva distintamente una sovrabbondanza di calore sulle gote. Il secondo motivo riguardava il ghigno insinuatorio che Clint Barton si era spiattellato in faccia.
 
Anthea, dal canto suo, si limitò a ridere sommessamente. Non era intenzionata a tornare sulle proprie gambe tanto presto.
Sfortunatamente, la risata le morì in gola non appena una voce conosciuta raggiunse le sue orecchie.
I tre Vendicatori imprecarono mentalmente quasi nello stesso istante.
 
 
“Che cosa è successo qui?”
Andras era lì, la spada in pungo e il portamento fiero.
 
“Credo che tu sia arrivato un po’ tardi. La festa è già finita.”
Barton cominciava ad essere stufo di ritrovarsi quel pallone gonfiato tra i piedi e non si faceva problemi ad esternarlo.
 
Andras sorrise in modo poco rassicurante.
“Perseverate con il vostro ridicolo sarcasmo, a quanto pare.”
Quel sorriso tagliente svanì di colpo non appena lo sguardo si fermò sulla giovane sovrana.
“Abbiamo faticato tanto a ricostruire il regno. Perché vuoi mandare tutto in fumo?”
 
Anthea strinse con forza il tessuto della divisa di Steve, alla base del suo collo.
Il biondo la mise giù con delicatezza, ma continuò ad offrirgli una spalla come supporto.
 
“Tutto questo non riguarda il regno, Andras. Riguarda me. Ti chiedo di restarne fuori, per favore.”
 
“Riguarda te? Sei la sovrana di questo regno. Ciò che riguarda te, riguarda indissolubilmente il regno.”
 
“Andras …”
 
“Sono il legittimo pretendente alla tua mano e futuro re di Oneiro. Ho il dovere di eliminare ciò che rappresenta una minaccia per te e per questo regno. Il Consiglio mi ha conferito la facoltà di ricorrere a qualsiasi metodo pur di riportarti sulla retta via. Non costringermi ad usare la forza. Smettila di comportarti da bambina capricciosa, rispedisci gli umani su Midgard e torna ad adempiere ai tuoi compiti. Tu appartieni a questo mondo, tienilo bene a mente.”
 
“Già che ci sei, potresti metterle una catena al collo, così da stare certo che non si allontani troppo. Mi chiedo se tu sia cosciente delle assurdità che dici, ma credo che la risposta sia no. Adesso ti dico io qualcosa che devi tenere bene a mente. Lei non appartiene a niente e nessuno se non a sé stessa, ti è chiaro il concetto?”
L’espressione di Rogers si era fatta truce e Anthea rabbrividì più volte nel sentirlo pronunciare quelle parole.
 
“Non puoi rivolgerti a me in questo modo, umano. Se non lo hai capito, io sono il futuro re di Oneiro. Come tale, vi ordino di tornare sul vostro mediocre pianeta e di chiudere ogni contatto con la nostra regina o dovrò costringervi a farlo e, credimi, non sarà piacevole.”
 
“Noi non obbediamo ai tuoi ordini, quindi risparmiaci l’elenco dei tuoi titoli nobiliari” fu l’intervento tempestivo di Barton.
 
“Come osate? Pagherete per la vostra insolenza.”
Andras era visibilmente furioso e pronto ad attaccarli.
 
“Non ti permetterò di fare loro del male.”
Anthea si portò dinanzi ai suoi compagni, pronta a proteggerli con tutta la forza che le rimaneva in corpo.
 
“Non puoi impedirmelo. Le mie azioni sono autorizzate dal Consiglio e tu adesso sei troppo debole per competere con la mia forza.”
 
Andras non attese oltre. I suoi occhi si tinsero d’oro e, in un battito di ciglia, si portò a un passo dalla giovane mezzosangue e le pressò un palmo sull’addome.
“Guarda come ti sei ridotta … sarà meglio spegnere le fiamme di questa tua assurda ribellione” le sibilò in un orecchio.
 
Le labbra di Anthea assunsero un colorito bluastro, mentre un intenso gelo le penetrava sotto la pelle. Non riuscì a reagire, era troppo debole per farlo. Il potere di Andras aveva su di lei effetti devastanti. Sei lei propendeva per il fuoco, Andras era ghiaccio.
Le mancò il respiro poco dopo che l’oneiriano l’ebbe toccata. Si sentì afferrare per un braccio e venne tirata indietro con uno strattone, tanto che si ritrovò a rotolare sul manto erboso, distante dal suo pretendente.
 
“Sta’ lontano da lei” berciò Steve, dopo aver staccato Anthea da quel pazzo.
“Ti sei appena scavato la fossa, umano.”
“Non ho paura di te.”
“Dovresti averne.”
 
Il Capitano cercò di far collidere lo scudo contro la faccia di Andras, ma il suo corpo fu bloccato da una forza invisibile.
“Dannati poteri psichici!”
 
“Non hai speranze, ragazzino.”
 
“Un’ultima cosa. Ricorda che non c’è niente di più potente della volontà, figliolo.”
Le parole di Damastis ritornarono alla mente del super soldato proprio in quel frangente.
 
La volontà. Era cresciuto aggrappandosi ad essa. Aveva lottato e si era rialzato contando sulla stessa volontà che, dal giorno del suo risveglio, lo aiutava ad andare avanti e avanti e ancora avanti.
Non sarebbe stato di certo quel tizio a fermarlo. Non poteva permettersi di essere fermato, non ora.
Strinse i denti e costrinse il proprio corpo a muoversi e lo scudo raggiunse il suo bersaglio, collidendo con la faccia dell’oneiriano.
Sfruttando l’incredulità e il momentaneo intontimento dell’avversario, Rogers lo colpì nello stomaco con una ginocchiata, poi gli piantò il gomito destro tra gli occhi e, senza lasciargli tregua, torse il bacino per eseguire un potente calcio rotante che gli piazzò sul collo.
 
Andras perse la spada e tossì un paio di volte, sputando sangue misto a saliva. Con la coda dell’occhio intercettò il ragazzino muoversi nella sua direzione e tentò di bloccarlo utilizzando il potere psichico ma, per qualche motivo, non ebbe alcun effetto.
Incrociò le braccia davanti alla faccia per parare il calcio del giovane umano. Non ricordava che i midgardiani avessero una forza così devastante e non ricordava neppure quand’era stata l’ultima volta che aveva affrontato una lotta corpo a corpo senza poter usufruire dei suoi poteri.
 
“Quelli li ha sentiti” commentò Sam, scioccato.
In tutte le occasioni che l’aveva visto combattere, il Capitano doveva essersi trattenuto. Colpi del genere avrebbero spezzato di netto le ossa a un semplice umano.
 
“Oh sì, Rogers fa sul serio.”
Clint sorrise compiaciuto. Adesso Andras non sembrava più tanto regale.
 
Difatti, l’oneiriano era finito con il sedere per terra, i suoi denti bianchi erano macchiati di sangue e una gota era tumefatta.
“Questa me la paghi!” gridò, in preda alla rabbia, prima di rialzarsi in piedi e gettarsi sul giovane Capitano.
Finirono entrambi a terra e rotolarono verso il muretto di pietra della cascata. Steve cominciò a sentire un’innaturale gelo penetrargli nelle ossa e capì che era opera di Andras nell’istante in cui incrociò il suo sguardo dorato. Se lo levò di dosso spingendolo via con entrambe le mani e lo vide allungare un braccio per richiamare la spada, la quale fu subito nel suo palmo.
Il super soldato occhieggiò allo scudo perduto durante la colluttazione, ma poi il suo sguardo cadde su Barton. Sorrise e non si mosse.
 
Andras, accecato dalla rabbia, non si accorse della freccia che gli si piantò nella schiena e che subito dopo emise una scarica di elettricità talmente intensa da farlo crollare in ginocchio.
“Schifoso insetto!”
Gli occhi dell’oneiriano si accesero d’oro e a Clint venne a mancare il suolo sotto ai piedi.
 
Sam spiccò il volo e afferrò la caviglia destra dell’arciere, ma fu trascinato con lui verso il vuoto in cui precipitava Vakuum.
 
“Fermati!”
Steve sentì il terrore invaderlo, anche se si accorse della tempestività di Barton nell’incoccare una delle sue frecce-cavo. Si precipitò verso il muretto, ma nel farlo diede le spalle al nemico.
Andras sorrise ferino e, muovendosi con impressionante velocità, arrivò ad afferrare il ragazzino per la collottola. Lo gettò a terra con brutalità e sollevò la spada, intenzionato a trapassarlo da parte a parte.
Eppure, nonostante fosse certo di averlo in pungo, il colpo non andò a segno, perché qualcosa lo travolse con violenza.
 
Rogers riaprì piano gli occhi che, istintivamente, aveva serrato nell’osservare la lama calare su di lui. La prima cosa che vide fu una mano tesa verso di lui e la riconobbe all’istante.
“Thor” balbettò, accettando l’aiuto dell’amico senza esitazione.
L’asgardiano sorrise fiero e circondò con un braccio le spalle del super soldato, sorreggendolo.
“Stai bene?”
“Sì. Grazie.”
Steve ricambiò il sorriso.
 
“Ehi! Potete tirarci su, voi due?”
La voce di Clint risuonò con fare isterico nell’aria.
L’arciere era appeso al suo arco, sospeso in quel baratro infinito, e poteva udire distintamente il suono rassomigliante a una macabra litania nonostante il fragore della cascata.
“Ehi Wilson! Sei ancora curioso di sapere cosa succede se si cade lì dentro?” chiese al pararescue, aggrappato alle sue caviglie.
“Nah, improvvisamente non me ne importa più nulla!”
 
I due si sentirono tirare su con uno strattone secco e sospirarono sollevati nel ritrovarsi con il sedere sulla solida terra.
“Ottimo tempismo, Thor” fu il saluto che Clint rivolse al dio del tuono.
“Oh, davvero ottimo, grazie. Ah, io sono Sam, Sam Wilson.”
“Piacere di fare la tua conoscenza, Sam. Steve mi ha parlato di te.”
“Il piacere è mio.”
 
“Cosa ci fa qui il figlio di Odino?”
Andras era già in piedi, sofferente e pieno di rancore.
 
“Andras. Adesso basta.”
 
L’oneiriano voltò il capo alla propria destra e incrociò lo sguardo con quello di Anthea. La ragazza tentava faticosamente di raggiungerlo. Aveva ancora le labbra bluastre e non aveva più nemmeno un briciolo di energia nel corpo.
 
“Se stai facendo questo per la stramaledetta corona, posso dartela anche subito. Sapevate che non sarei rimasta per sempre, ma avete continuato ad ignorare questa verità. Adesso è tempo che la prendiate come dato di fatto.”
“Sei seriamente impazzita? Ti è bastato trascorrere qualche misero giorno con degli umani per perdere completamente la ragione.”
Anthea sorrise stancamente.
“Sì, è stato sufficiente qualche misero giorno ... ma per riacquistare la ragione.”
“E, per la cronaca, il regno che vuoi tanto governare esiste grazie a questi umani che disprezzi, credimi. Ascolta, se nutri anche solo un briciolo di rispetto nei miei confronti, fermati. Nessuno tra noi è il nemico.”
“Che cosa …”
“Te lo sto chiedendo per favore. Una volta hai detto di fidarti di me, beh, continua a farlo, non lasciarti plagiare dal Consiglio.”
 
Andras esitò.
Non aveva mai visto Anthea sacrificarsi tanto per qualcosa. Rispettava la giovane mezzosangue, ma odiava il fatto che lei fosse legata agli umani a tal punto da voler abbandonare il regno che si era tanto impegnata a ricostruire.
Il Consiglio voleva controllarla. E lui? Anche lui voleva imporsi su di lei con la forza?
Di colpo si sentì così stupido per aver agito in quel modo e tutto perché era invidioso … invidioso che lei non lo guardasse con la stessa intensità con cui guardava il ragazzino con lo scudo.
Lesse una muta preghiera negli occhi bui di Anthea e gli fece il medesimo effetto di una secchiata d’acqua gelida.
La stava facendo soffrire. E dire che una volta aveva criticato il pungo di ferro che il Consiglio usava su di lei.
 
“Voglio la tua parola che tornerai dopo aver sistemato le cose su Midgard.”
Andras le rivolse uno sguardo intenso.
“La hai” fu la sincera risposa della giovane sovrana.
L’oneiriano fece un cenno d’assenso con il capo. Incrociò poi lo sguardo con quello di Steve e gli puntò contro un dito.
“Noi due abbiamo un conto in sospeso, ricordalo.”
 
Il super soldato sollevò un sopracciglio dinanzi l’occhiataccia che ricevette da Andras, ma non disse nulla.
 
“Al palazzo ci sono oneiriani con grandi capacità curative. Credo sia meglio vi facciate dare un’occhiata, soprattutto tu, Anthea” disse l’oneiriano.
“Il Consiglio …”
“Parlerò io con loro.”
 
“Ma quello non voleva ammazzarci?”
Sam era certo di essersi perso qualcosa.
“Ah, non chiederlo a me. Questi oneiriani sono troppo lunatici per i miei gusti” fu l’asciutto commento dell’arciere.
“Ehi Steve tu cosa ne …”
Sam ammutolì quando si accorse del colore cadaverico che aveva assunto il volto dell’amico. Le labbra erano dello stesso colore bluastro di quelle di Anthea.
Il super soldato si portò una mano all’addome, dove gli pareva di sentire centinaia di aghi tentare di penetrare sempre più a fondo. Un rivolo di sangue gli colò da un angolo della bocca.
I suoni si attutirono progressivamente fino a sparire. La vista divenne sfocata e poi fatta solo di ombre.
Quando sopraggiunse il buio, Steve riuscì a percepire le braccia di Thor sorreggerlo ed evitargli uno schianto poco piacevole.
 
 
*
 
 
Il grande specchio le restituì un’immagine che le fece storcere il naso.
Indossava morbidi pantaloni bianchi che le arrivavano appena sotto il ginocchio, punto in cui si stringevano grazie a un bordino azzurro elasticizzato. Azzurra era anche la fascia, larga un palmo e cucita all’estremità dell’indumento, che le circondava l’addome fino a poco sopra l’ombelico. La maglia grigio chiaro a maniche lunghe era accuratamente infilata nei pantaloni. Aveva raccolto i lunghissimi capelli color miele in una morbida treccia che le ricadeva davanti la spalla sinistra.
Le linee rossastre erano perfettamente visibili da oltre il bordino azzurro dei pantaloni fino sui piedi nudi, sul collo e sul viso. Se tirava un po’ su le maniche della maglia, poteva vederle risalire dall’estremità delle dita verso il gomito.
Nonostante le cure degli oneiriani più esperti e il bagno caldo rigenerativo, si sentiva ancora debole e dolorante. Si chiese quanto tempo le rimanesse prima che il potere della Convergenza terminasse il lavoro, permettendo a Heith di tornare finalmente alla luce.
 
Sospirò e diede le spalle allo specchio. Raggiunse il grande letto che riempiva buona parte della sua stanza illuminata dall’intensa luce del satellite e si mise seduta tra le lenzuola sfatte del lato destro, appoggiando il capo alla testata in legno.
Tese un braccio e posò delicatamente una mano sulla fronte del giovane super soldato, sentendola tiepida e non più gelida come un paio di ore prima.
“Non ti stanchi mai di provare a morire, eh?”
Il ragazzo dormiva profondamente, le lunghe ciglia bionde tremolavano ad ogni respiro.
Spostò il palmo sul suo petto, coperto dal candido lenzuolo e da un bendaggio accurato, e ascoltò il ritmo cadenzato del battito cardiaco.
“Che disastro.”
Anthea fece per ritrarre la mano, ma le dita del biondo si chiusero attorno al suo polso, facendola sussultare. Si ritrovò puntati addosso quegli occhi azzurri e limpidi che aveva imparato a leggere e ad amare già tre anni prima.
 
“Cosa è successo? Gli altri …”
“Stanno bene. Dormono nella stanza contigua a questa. Il potere di Andras ti ha messo fuori gioco per sei ore. È in grado di far scendere a picco la temperatura corporea e di dare forma a sottili aghi di ghiaccio nel punto in cui vieni toccato. Gli aghi possono crescere in lunghezza fino a perforare gli organi interni. I guaritori hanno avuto un bel da fare per evitare che ci lasciassi la pelle. Andras credeva che non avesse avuto effetti su di te, invece sono sopraggiunti in ritardo. Deve essere stato il siero.”
 
“Non ha toccato anche te?”
 
“Non con lo scopo di uccidermi.”
 
“Thor?”
 
“I guaritori hanno controllato le sue funzioni vitali. Sta meglio di tutti noi messi assieme. Ha vegliato su di te fino ad un paio di ore fa. Non si fida a lasciarvi soli, nonostante Andras stia tenendo buono il Consiglio.”
 
“E tu? Come stai?”
 
“Potrebbe andare peggio.”
 
Steve si mise faticosamente seduto e rabbrividì più volte.
“Fa freddo qui.”
“La tua temperatura corporea è ancora bassa. So che non ti piace il freddo …”
Nel dire quelle ultime parole, Anthea si fece più vicina, fino a far toccare le loro spalle.
“Tu vai a fuoco, invece” sussurrò il biondo, non intenzionato a sottrarsi a quella vicinanza e al calore che gli stava trasmettendo.
“Il fuoco è il mio elemento, ricordi?”
 
Si protrasse un lungo silenzio, finché Steve non decise di romperlo.
“Hai detto che ho smesso di lottare … mi spieghi come avrei fatto a sopravvivere fino ad ora, se non lottando?”
 
Un sorriso triste piegò le labbra della giovane.
“Esatto. Sopravvivere. Tu ti sei limitato a sopravvivere non a vivere, Steve. Quando inizierai a vivere, allora avrai iniziato a lottare davvero e fermarti sarà difficile. Adesso sei terribilmente vulnerabile.”
 
I loro occhi si incastrarono gli uni negli altri per infiniti attimi.
Poi Steve chinò il capo e passò una mano tra i capelli.
“Sai cosa si prova nello svegliarsi notte dopo notte, fradicio di sudore, con il cuore che ti rimbomba nel petto a causa della paura e dell’incertezza che ti accompagnano in ogni istante senza lasciarti mai? Ci sono stati dei momenti in cui ho davvero creduto di aver trovato finalmente la stabilità, di poter ricominciare a vivere. Gli Avengers, lo SHIELD, tu ... ma tutto continua a crollarmi addosso e fa male. Sopravvivere è l’unico modo per andare avanti.”
 
“Mi dispiace” riuscì solamente a dire l’oneiriana, sapendo bene che ogni altra parola sarebbe stata inutile e superflua.
“Dispiace anche a me. Non ce la siamo passati tanto bene noi due, eh?”
“No, ma chi lo sa? Forse insieme sarà diverso ... magari smetteremmo di continuare a sopravvivere per iniziare a vivere.”
Steve tornò a guardarla direttamente in viso e odiò quelle maledette linee rossastre che le solcavano la pelle.
“Sei davvero intenzionata a lasciare il tuo regno?”
“Non è il mio regno, Steve. È il regno di mio padre, il regno che lui ha voluto che ricostruissi. Da quando sono nata, non ho mai avuto in mano la mia vita. Adesso voglio scrivere io la mia storia, voglio scegliere io cosa fare.”
“Il tuo pretendente ci rimarrà male.”
“Non ha mai avuto speranze … lo sai.”
 
Steve si ritrovò a sorridere fin nel profondo.
“Sei diventata davvero coraggiosa.”
La ragazza sussultò appena quando il biondo le posò una mano sulla testa con fare affettuoso.
“Accidenti, allora c’è ancora un po’ dello Steve che ho conosciuto tre anni fa. Mi è mancato.”
Steve rise sommessamente.
“Una persona saggia mi ha detto che a volte le persone vanno scosse, perché la loro parte migliore si deposita sul fondo.”
 
Anthea annuì, trovando vere quelle parole. Poi, con un gesto fluido, appoggiò il dorso della mano sulla fronte di Steve.
“Sei già più caldo” constatò.
“Grazie a te” fu l’istintiva replica del giovane.
 
Stettero in silenzio, a godersi la reciproca vicinanza.
Il cielo stellato visibile oltre i vetri della grande finestra della stanza cominciava a schiarirsi, segno dell’arrivo di una nuova alba.
 
La ragazza voltò leggermente il capo per incontrare lo sguardo del giovane Capitano e, solo allora, si accorse che lui aveva ceduto alla stanchezza, ricadendo nell’abbraccio del sonno.
Gli fece scivolare con delicatezza la testa sul cuscino e, nel momento in cui cercò di allontanarsi, si rese conto che lui le teneva una mano attorno al polso, come se non volesse lasciarla andare.
 
Anthea percepì una singola lacrima rigarle la guancia sinistra.
“Non andrò più via. Te lo prometto e, stavolta, davvero.”
 
Si rannicchiò al suo fianco e desiderò rimanere lì per sempre.
 
 
 
                                                         ***
 
 
 
Terra
 
 
“Da quando sei diventata tanto sentimentale da stare ad osservare le stelle per ore?”
 
Tony raggiunse Natasha, appoggiata al parapetto della veranda.
 
“Manca poco al concludersi delle prime ventiquattro ore” disse semplicemente lei.
 
“Lo so.”
Stark allungò un braccio e posò la mano sulla schiena della rossa, che lo guardò stranita.
 
“Che c’è?”
 
“Da quando sei diventato tanto sentimentale da essere capace di simili gesti?”
 
L’inventore fece spallucce.
“Andiamo dentro. Devo aggiornarti su un paio di cosette.”
 
“Okay” Natasha si staccò dal parapetto e sospirò “Hai detto a Fury di Barnes?”
 
“Ehm, diciamo che ho preferito sorvolare.”
Stark le fece un occhiolino d’intesa.
 
“Sempre il solito.”

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Capitolo 16
*** Countdown ***


Countdown
 
 
 
Asgard
 
L’aria fredda del mattino ebbe su di lei lo stesso effetto di una delicata carezza e un sospiro di sollievo abbandonò le sue labbra secche.
Le dita stropicciarono violentemente il tessuto grigio della maglia all’altezza dello stomaco e i denti strinsero il labbro inferiore tanto da farlo sanguinare.
Fu costretta ad aggrapparsi con una mano al parapetto che delimitava la balconata e serrò gli occhi con forza. Il respiro accelerò in sincronia con il battito cardiaco e fu certa di sentire i vasi sanguigni pulsare sotto la pelle bianca come la neve.
Alcuni ciuffi, sfuggiti alla morbida treccia, le erano ricaduti sul viso esangue e si erano appiccicati alla fronte sudata.
 
“Dannazione” soffiò fuori a fatica.
 
Si lasciò scivolare a terra, in ginocchio, mentre cercava di riprendere il controllo del suo corpo che ardeva quasi come se la stessero bruciando viva.
Non seppe quanto tempo passò prima che quella crisi terminasse, lasciandola stremata e tremante.
“Puoi farcela” si disse, come blando autoconvincimento.
Si rimise in piedi e risistemò la maglia grigia all’interno dei morbidi pantaloni bianchi, rassestando la fascia azzurra poco sopra l’ombelico e sottolineando in tal modo l’esilità poco sana della vita.
Silenziosa, rientrò all’interno della camera e si chiuse le ante in vetro della grande finestra alle spalle. Fu quando sollevò lo sguardo, che si accorse di una figura appoggiata allo stipite dell’ingresso della stanza e non riuscì ad evitare di sussultare appena.
Alla luce chiara del Sole che traspariva dalla finestra, gli occhi di Andras erano tanto trasparenti da sembrare privi delle iridi. Le fece un cenno con il capo e lei rimase immobile per un po’, finché non fu in grado di venire fuori dallo stato di sorpresa dovuto a quella visita inattesa.
Andras non era mai entrato nelle sue stanze prima di allora, soprattutto non senza chiederle il permesso. Nonostante l’aria boriosa e intransigente, l’oneiriano le aveva sempre portato rispetto, un rispetto dovuto all’ammirazione nei confronti di quella che ai suoi occhi era una creatura tanto potente quanto unica nel suo genere.
Anthea lanciò uno sguardo al biondo che dormiva ancora tra le lenzuola sfatte e, quando riportò l’attenzione sull’oneiriano, si accorse che adesso era lui ad essere concentrato sull’inconsapevole terza presenza nella stanza fattasi improvvisamente troppo stretta e soffocante.
La giovane, senza pensarci due volte, avanzò verso Andras, dosando la forza con cui i suoi piedi nudi impattavano contro il pavimento in marmo, così da non emettere alcun rumore. Lo prese per un polso e lo trascinò per il breve corridoio che conduceva alla porta d’uscita della stanza.
Una volta fuori, chiusa la porta dietro di lei, esordì con un “Potresti anche bussare” un po’ piccato, ma sorprendentemente privo di rancore.
Andras piegò le labbra in un sorrisetto enigmatico.
“Ho interrotto qualcosa?”
Anthea sbuffò infastidita e lo fulminò con lo sguardo.
Era strano da parte di entrambi mostrare così tanto le emozioni, ma era anche un sollievo poter finalmente evitare di mantenere sul volto una maschera inespressiva e perennemente seriosa.
Per la prima volta la giovane sovrana fu in grado di leggere ciò che colui che era stato disegnato come suo pretendente stava provando. E, in quegli occhi trasparenti, lesse fastidio, lesse rabbia, lesse tristezza e lesse rassegnazione.
Le parole taglienti che erano pronte a scivolarle via dalla punta della lingua si dissolsero e Anthea rimase in silenzio, le pupille fisse sul viso dell’oneiriano.
 
“Avrei giurato che fossi pronta a lanciarmi contro parole indelicate.”
Andras sollevò un sopracciglio con fare interrogativo, in attesa di una conferma che non arrivò.
 
“Pensi sia possibile sistemare le cose?” chiese invece la giovane con tono incerto.
Anthea non seppe da dove le fosse venuta fuori quella domanda, ma adesso non poteva di certo tornare indietro. C’era qualcosa che costantemente si teneva aggrappata alla sua anima e probabilmente non l’avrebbe mai lasciata in pace, qualsiasi cosa lei avesse fatto per liberarsene sarebbe risultata vana.
Senso di colpa.
 
“Sono riuscito a strappare al Consiglio un via libera per te, ma dovrai stare attenta a mantenere la promessa di tornare. Damastis ci ha messo al corrente della tua situazione interiore e credo che questo abbia influito parecchio sulla decisione del Consiglio.”
 
Anthea sorrise mesta.
“Temono le conseguenze se per disgrazia dovessi perdere il controllo.”
 
“Alcuni racconti su tuo padre giustificano il fatto che loro ti temano.”
 
“Peccato che non abbiano mai capito che io non sono mio padre. Non avete fatto altro che paragonarmi a lui da quando ho accettato la corona.”
 
Andras rimase spiazzato da quell’ultima confessione e non osò replicare, perché lei aveva ragione. L’ombra di Azael gravava su Anthea come un macigno di notevoli dimensioni e la faceva sentire continuamente in difetto.
Fu lei a rompere il silenzio venutosi a creare e parlò con una calma glaciale.
“Desidererei avere la possibilità di incontrare mio padre.”
Il sorriso apparentemente nostalgico che le piegava le labbra scomparve e il blu profondo delle iridi si incupì tanto da apparire abissale.
“Così da poterlo prendere a calci e dirgli che come padre è stato un fallimento.”
 
Andras rabbrividì nell’ascoltare il tono tagliente della ragazza.
“Si è trovato dinanzi ad una situazione…” tentò di giustificare il precedente re senza successo.
Disperata? Non per questo aveva il diritto trasformare quella situazione disperata nel mio dannato destino. La mia esistenza è una condanna, Andras. Mi sembra di camminare in punta di piedi su un filo sottilissimo. Sono sempre in attesa del momento in cui finirò in pezzi, cadendo al primo passo falso che commetterò. E quando andrò in pezzi, non ho idea di cosa potrebbe accadere. E seppure non cadessi, finirei comunque per esplodere nel momento in cui sarò troppo stanca per tenere tutto sotto controllo.”
 
L’oneiriano fece per replicare, ma il suono cadenzato di passi mandò in frantumi la pressante atmosfera di tensione.
Entrambi si voltarono per capire chi li avesse interrotti e rimasero palesemente sorpresi nello scoprire che si trattava niente meno che del figlio di Odino.
Andras sospirò e passò una mano tra i capelli nerissimi, riportandoli indietro con maniacale precisione.
“Non so cosa stia succedendo su Midgard, non so niente riguardo il tuo passato su quel pianeta e non mi importa. So anche che non vuoi che mi immischi e non lo farò.”
Fece una pausa, perforando Anthea con uno sguardo mortalmente intenso.
Ma veda di tornare, altezza.”
La giovane annuì e ricambiò lo sguardo penetrante, decisa a mantenere la parola data.
Non avrebbe mai potuto abbandonare tutto quello che aveva costruito, non dopo averci lavorato duramente per quasi tre anni. Sperava vivamente che le sue ultime azioni non intaccassero l’equilibrio raggiunto dal popolo e che i problemi e i diverbi rimanessero racchiusi tra le mura del palazzo.
Guardò Andras andare via ed incrociare Thor. I due si scambiarono una veloce occhiata e un cenno di saluto con il capo.
L’asgardiano la raggiunse poco dopo. Sembrava essere in ottima forma, se non si contava la leggera linea rosea che gli solcava la fronte, unico segno rimasto del profondo taglio che il Capitano gli aveva provocato colpendolo con lo scudo, nel tentativo di farlo rinsavire.
 
“Thor, mi dispiace. Mi dispiace infinitamente” fu la prima cosa che le venne spontaneo dire, consapevole che comunque non sarebbe mai stato abbastanza.
“Non hai preso la mia vita come avevi preannunciato” replicò Thor, pacatamente.
Ed eccolo riaccendersi con spaventosa prepotenza, il senso di colpa.
 
“Mi farebbe stare meglio se dicessi di odiarmi o almeno di essere arrabbiato con me.”
 
“Se devo essere sincero, i miei sentimenti sono alquanto confusi adesso.”
Thor non le disse che affrontarla aveva fatto riaffiorare in lui i ricordi dello scontro con Loki sul ponte del Bifrost. E questo perché si era sentito tradito ancora una volta.
Decise che non era il momento di discutere di colpe e sentimenti. Erano i suoi compagni e la Terra ad avere la priorità assoluta.
“Clint mi ha informato della situazione su Midgard e su come intendete contrattaccare.”
“Bene” asserì la giovane con blanda convinzione, ma le stava passando altro per la testa e non sarebbe riuscita a liberarsene se non dandogli voce.
“Thor, devo sapere cosa è successo. Per favore” spiattellò fuori, tutto d’un fiato, dopo aver preso coraggio.
Il dio del tuono rimase inizialmente sconcertato. Sfiorò d’istinto il manico di Mjolnir fissato alla cintola con le dita.
“Ti ho incontrata sul ponte, non appena giunto su Asgard” cominciò, spostando lo sguardo prima fisso sul vuoto su di lei.
“Hai fatto sì che ti seguissi, affermando di sapere cosa fosse successo al Tesseract. Sono stato ingenuo. Avrei dovuto accorgermi che non eri tu. Dopotutto, se ci ripenso, era evidente.”
 
L’urgenza della situazione aveva contribuito a far abbassare la guardia a Thor di fronte una persona che godeva della sua fiducia.
Il dio aveva seguito Anthea senza chiedersi come facesse a sapere del suo arrivo in anticipo, senza domandarle come fosse a conoscenza della scomparsa del Tesseract e perché non avesse avvisato immediatamente gli asgardiani.
L’aveva seguita e basta.
Si era accorto troppo tardi di essere stato raggirato.
 
“Lei sa come confondere le sue vittime” fu la labile giustificazione che Anthea sentì il dovere di esporgli, ma ci credeva poco anche lei.
Thor, invece, non poteva che darle ragione, dato come erano andate le cose. Ma avrebbe potuto evitarlo, se solo fosse stato meno ingenuo.
Si erano scontrati. Si erano scontrati duramente, tanto che le loro stesse armi avevano riportato danni superficiali.
Niente, prima di quello scontro, era riuscito a scalfire l’Uru del Mjolnir. La spada dell’oneiriana, invece, era stata in grado di graffiare il martello e quei segni sarebbero rimasti sulla sua superficie argentea alla stregua di cicatrici.
Ma, allo stesso modo, anche la spada dall’elsa bianca avrebbe portato per sempre con sé il ricordo della lotta, poiché la potenza del Mjolnir ne aveva increspato la lama.
Se all’inizio Thor aveva cercato di farla rinsavire con le parole, tentando in ogni modo di non combatterla, alla fine era stato costretto a contrattaccare seriamente per evitare di soccombere. Però non era mai davvero riuscito a liberarsi dell’esitazione, un’esitazione che lo aveva portato alla sconfitta.
L’ultima cosa che ricordava era il sibilo della lama che sferzava l’aria e calava sopra di lui, con tutta l’intenzione di recidergli la vita.
Eppure era ancora vivo. L’oneiriana non l’aveva ucciso, nonostante gli avesse ripetuto più volte che il suo scopo era proprio quello di eliminarlo.
Se si fosse trovato dinanzi l’entità oscura che l’oneiriana stessa aveva proclamato di essere, presentandosi a lui con il nome di Heith, il dio del tuono non avrebbe esitato tanto nello scontro. Peccato che avesse continuato a vedere nelle sue movenze e nei suoi occhi la giovane che tre anni prima l’aveva seguito ad Asgard. La stessa giovane che diverse volte aveva incontrato nell’Osservatorio, avvolta nella medesima nostalgia che lo aveva condotto lì quasi ogni sera, da quando era tornato ad Asgard fino alla venuta degli Elfi Neri.
 
Se le prime volte in cui si erano incontrati all’Osservatorio, lei si era sforzata di intavolare una conversazione, spingendo Thor a fare lo stesso, con il passare del tempo avevano entrambi capito che le parole sarebbero state superflue e scomode in quei momenti e si erano quindi limitati a godere della reciproca compagnia, fatta di fugaci sguardi e silenzi condivisi.
Heimdall, che alla fine si era abituato alla loro presenza, aveva permesso loro di toccare Midgard con gli occhi e, al contempo, di alleviare la nostalgia che opprimeva entrambi.
Non erano mancate le volte in cui il silenzio stesso era divenuto tanto pesante da sentire l’urgenza di romperlo. Spesso era stata Anthea la prima a cedere, soprattutto se visibilmente assillata da un qualche grattacapo.
A Thor non aveva mai dato fastidio ascoltare gli sfoghi della giovane riguardo alla ricostruzione di Oneiro e al modo in cui stava cercando di appacificare le divergenze sorte tra gli oneiriani, così come Anthea gli aveva prestato la massima attenzione quando lui aveva sentito la necessità di parlarle dei disordini nei Nove Regni e dei suoi dubbi gravitanti attorno al titolo di re di Asgard.
 
“Non vuoi accettare la corona?” gli aveva domandato lei una volta, sorpresa.
“Comincio a pensare che non sia quella la mia strada.”
Dopo aver tirato fuori quel fardello, Thor aveva visto comprensione negli occhi della giovane.
“Siamo in due allora. Solo che io ne sono certa” aveva confessato lei.
 
L’ultima volta che si erano incontrati all’Osservatorio, lui stava partendo per Vanaheim, dove lo attendevano i suoi compagni, mentre lei si stava dirigendo ad Alfheim.
Ripensando a quell’incontro, Thor dovette ammettere che mai l’aveva vista tanto abbattuta, stanca e spenta come allora.
“Stai bene?” le aveva chiesto con fare quasi fraterno e lei aveva snudato un sorriso che però non aveva raggiunto gli occhi scuri, ma le aveva semplicemente arricciato le labbra.
“Solo stanca. A presto, Thor” lo aveva salutato.
Thor ricordava come il corpetto nero avesse in quell’occasione enfatizzato ancora di più la sua costituzionale esilità e si era ritrovato a chiedersi come quelle gracili braccia riuscissero a maneggiare una spada tanto grande. L’arma in questione, che la ragazza aveva sistemato in una fodera dietro la schiena, era alta quasi quanto lei e larga almeno un palmo, quindi doveva possedere una pesantezza non indifferente. Era evidente che non fosse stata costruita per lei, ma per qualcuno di ben più alto e robusto.
“A presto” era stata l’unica cosa che il principe di Asgard era riuscito a dirle, prima che lei sparisse nella luce accecante del Bifrost.
 
Non si erano rivisti presto, dato che l’attacco degli Elfi Oscuri aveva creato il caos nei Nove Regni. L’aveva rivista durante la Commemorazione per la morte della Regina Frigga, avvolta in una mantellina nera, i capelli raccolti in una coda scomposta e aloni scuri sotto gli occhi arrossati.
“Mi dispiace, Thor. Per qualunque cosa, sappi che io ci sono” gli aveva detto, con voce affranta, e lui l’aveva ringraziata.
Dopo la caduta degli Elfi Oscuri, Thor era tornato ad Asgard per annunciare la sua rinuncia alla corona. Prima di ripartire in direzione della Terra, era passato a trovare Anthea, divenuta sovrana da qualche mese, nonostante gli avesse detto tempo addietro che non avrebbe mai voluto intraprendere quella strada. La ragazza, invece, si era ritrovata ad impegnare anima e corpo nella ricostruzione e nella riorganizzazione di un regno che aveva miracolosamente ripreso vita nel giro di due anni.
Le aveva chiesto come stava, ma era riuscito a scucirgli solo un altro “Stanca” alquanto inconsistente.
“Quindi hai rinunciato alla corona e hai deciso di rimanere su Midgard... con Jane” aveva poi asserito l’oneiriana, mostrandosi felice per lui.
Thor si era limitato ad annuire, certo che lei la possibilità di scegliere non l’aveva avuta.
“Se lo vedi, ricordagli di stare fuori dai guai e che...”
Si era interrotta e aveva scosso il capo.
“Ci vediamo, Thor. Se avrai bisogno, io ci sarò.”
“La cosa è reciproca” le aveva risposto il dio del tuono.
Si erano scambiati un abbraccio, durante il quale l’asgardiano aveva avuto l’impressione di poterla rompere, se solo l’avesse stretta un poco più forte.
 
La successiva volta che Thor l’aveva vista, si erano ritrovati a lottare all’ultimo sangue.
E adesso erano di nuovo faccia a faccia, ognuno con le proprie colpe e con i propri rimpianti.
 
“Come sta il Capitano?”
 
Anthea abbassò il capo e portò la mano destra a stringere l’altro braccio.
“Sta bene, anche se gli servirebbero settimane per guarire completamente dalle ferite che il suo corpo ha ricevuto negli ultimi giorni. I nemici che stiamo andando ad affrontare hanno una forza impressionante.”
 
“Hai già avuto modo di testarne la forza?”
 
“Sì. Sarà dura.”
 
Thor cercò di mantenere un’espressione ferma, anche se aveva appena avuto una sicura conferma della pericolosità degli esseri generati dalla mente malata di un uomo che si divertiva a stravolgere ogni legge naturale.
“Hai preso tu il Tesseract dunque?”
 
“A questo punto, non ci sono più dubbi.”
 
“Ma perché portarlo sulla Terra?”
 
“Credo che Heith sia collegata a Teschio Rosso. Non so come e non so perché. Mi dispiace.”
 
“Non è continuando a scusarti che risolverai le cose, lo sai bene.”
 
“Hai ragione. Lo farò lottando. È l’unica cosa che so fare bene, in fondo.”
 
“Se tu dovessi…”
 
Anthea non lo lasciò finire.
“Lo so. Non esiterai a fermarmi questa volta.”
 
Thor annuì e, dopo averle posato per un attimo una mano sulla spalla, decise che era arrivato il momento di andare.
 
“Thor” lo chiamò lei, prima che si allontanasse troppo.
Il dio bloccò i propri passi e si voltò a guardarla, in attesa che parlasse.
“Farò in modo di riavere la tua fiducia. Ti dimostrerò di esserne degna.”
Un fugace sorriso comparve sul viso dell’asgardiano, che annuì appena per poi tornare a muoversi.
“Partiremo non appena Steve sarà in piedi” la sentì ricordargli e sollevò una mano in segno di consenso.
 
*
 
“Sei già in piedi?”
 
Steve sussultò visibilmente, prima di voltarsi per poterla guardare in viso.
“Non voglio perdere altro tempo” rispose asciutto, mentre finiva di indossare la parte superiore dell’uniforme targata Stark. Ma il suo sguardo perse immediatamente l’iniziale serietà.
“Sei ancora sicura di voler venire?” chiese, mancando di eclissare del tutto quella nota incerta che gli incrinò la voce.
 
“Quante altre volte hai intenzione di chiedermelo?” fu la semplice replica della ragazza, a cui scappò un lieve sorriso.
 
“Diciamo finché non potrai più tornare indietro.”
 
Steve le dedicò uno sguardo fermo e risoluto. Anthea gli si avvicinò con passo deciso, sollevò le braccia e gli sistemò il colletto dell’uniforme rimasto arrotolato.
“Tornare indietro? È irrimediabilmente escluso” proferì con una serietà che non ammetteva alcun tipo di incertezza o ripensamento.
“Ma l’energia della Convergenza ti-”
“Non importa” lo interruppe e portò le mani sulle sue spalle, fissando le iridi buie in quelle limpide di lui.
“Sei morto a causa mia una volta. Non permetterò che accada di nuovo e ti seguirò finché non ti saprò al sicuro, che tu lo voglia o meno.”
 
Rogers rimase in silenzio. Sollevò una mano e la poggiò delicatamente sulla testa dell’oneiriana, in un gesto che sapeva di puro e profondo affetto.
Le sorrise.
“Qualsiasi cosa accada, promettimi che smetterai di sentirti responsabile.”
 
Passarono alcuni attimi di silenzio, durante i quali Anthea sembrò cercare la parole giuste in un mare di pensieri in tempesta.
 
“È una richiesta complicata, ma se è per farti stare più tranquillo, lo prometto.”
 
 
 
֎
 
 
 
Terra
 
Natasha si lasciò scappare uno sbuffo. Cominciava a sentire una certa pressione premere sulle esili spalle e qualcosa di forse lontanamente definibile come una sorta di ansia le stava rendendo giusto un po’ difficile tenere sotto controllo il battito cardiaco.
Stavano rischiando tanto. Avvicinarsi tanto al nemico era un azzardo gigantesco, pur considerando la rapida via a doppio senso che avrebbe permesso loro di dare senso ad un piano, che altrimenti avrebbe potuto definirsi suicidio.
Bisognava ammettere, però, che quella si era presentata come l’unica scelta possibile e, inoltre, Tony aveva rischiato la pelle per rientrare in possesso del frammento di Tesseract recuperato dalla Tower, da cui era stato momentaneamente spodestato.
 
La Vedova percepì James Barnes muoversi poco dietro di lei e voltandosi incontrò il suo sguardo tanto concentrato quanto freddo, spaventosamente simile a quello della macchina assassina che aveva incontrato a Odessa anni prima.
Collaborare con il Soldato d’Inverno… ma in che casino si era infilata?
Non che prendere parte alla distruzione dello SHIELD, solo poco tempo prima, fosse stato un qualcosa di meno incasinato. Ora che ci pensava era da un po’ che si trovava costantemente immersa in grossi - e grossi era l’eufemismo del secolo - casini, impossibilitata a tirarsene fuori - non che volesse farlo.
In fondo, non è che avesse piani di vita così rosei. Aveva sempre pensato a sopravvivere e questo le era bastato, almeno fino ad allora.
Respirò profondamente un paio di volte, Natasha. Gli occhi smeraldini erano fissi sulla luce azzurrina proveniente dal marchingegno che Tony aveva costruito sacrificando la motocicletta di Barton. Di lì a poco si sarebbe aperto un portale che li avrebbe catapultati all’interno del Pentagono, esattamente nel bunker sotterraneo dove si sperava fosse rimasto il Tesseract.
Ci sarebbe stato un margine di errore incalcolabile oltre quel portale. Non avevano idea di chi o cosa avrebbero trovato dall’altra parte, ma era l’unico modo che avevano di riprendersi Bruce, sempre che Bruce si trovasse dove Natasha l’aveva visto l’ultima volta.
 
“Sarà come gettarsi nel buio. Siate pronti a tutto. La cosa importante è che nessuno a parte noi attraversi il portale nel momento in cui lo aprirò una seconda volta per tornare indietro.”
Tony si coprì il volto con il casco dell’armatura, che era riuscito a risistemare facendo definitivamente a pezzi la povera moto dell’arciere (un sacrificio necessario, lo aveva definito lui).
“Tra dieci secondi disattiverò i sistemi di sicurezza. Abbiamo massimo tre minuti prima che i nemici ci saltino alla gola come i cani bastardi che sono e questa è un’offesa per i cani bastardi” fu l’ulteriore avviso di Stark, che però si corresse subito dopo con un placido “In realtà potremmo trovarci già faccia a faccia con loro una volta passato il portale, ma confido nella fortuna.”
 
Il conto alla rovescia terminò in un attimo e Tony fece aprire il portale.
Nessuno sarebbe stato in grado di entrare o uscire dal bunker (che speravano fosse la destinazione) per almeno tre minuti, a meno di usare armi dall’alto potere distruttivo.
Sarebbe stata una toccata e fuga. Avrebbero preso Bruce e sarebbero tornato indietro, niente di più semplice a dirsi.
James, Tony e Natasha si scambiarono un ultimo sguardo, mentre Pepper li osservava dall’uscio della porta della casa sicura.
Attraversarono il portale, pronti a tutto, e ad accoglierli trovarono un paio di occhi spalancati dal terrore, appartenenti ad una donna dai capelli nerissimi e la pelle olivastra. Ma quel terrore scomparve presto, sostituito da un misto di ansia e sgomento.
 
“Voi” sussurrò la mora, mentre luci rosse lampeggiavano all’interno dell’anelato bunker ad attestare uno stato di allerta.
 
La Romanoff tese ogni muscolo del corpo, pronta ad agire, lo sguardo indecifrabile e fermo sull’inaspettata ed unica presenza.
James era rimasto immobile, un passo dinanzi a lei.
Era calata improvvisamente una tensione tanto consistente da risultare quasi soffocante.
 
“Non è qui.”
Fu Tony a dar voce alla scottante verità che nullificò la ragione della loro presenza lì.
 
Bruce non c’era.
Al suo posto c’erano cinquanta corpi dall’aspetto umano rinchiusi in vitrei gusci ovali e sparsi per l’intero bunker. All’appello mancava anche lo scettro di Loki.
Fuori la porta del bunker iniziavano a udirsi voci e rumori parecchio preoccupanti, segno che presto avrebbero avuto una poco gradita compagnia.
 
“Dobbiamo tonare indietro” sentenziò la Vedova.
 
“Aspettate” fu il flebile e tremante sussurro di Kristen Myers.
Era evidente che fosse fortemente combattuta e che la paura la stesse divorando dall’interno, ma sembrava anche decisa a non tirarsi indietro.
“Abbiamo meno di due minuti” le fece presente Stark, che aveva già avuto l’opportunità di fare la conoscenza della donna e sapeva che lei avrebbe potuto aiutarli se l’avesse voluto e, a quanto pareva, lo voleva.
Kristen posò per un istante gli occhi smeraldini sul Soldato d’Inverno e poi tornò a concentrarsi su ciò che riteneva importante dire in quel ristretto e prezioso lasso di tempo.
Sospirò.
“Posso aiutarvi.”
 
 
 
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Terra
Casa Sicura.
 
“Terra dolce Terra.”
 
Sam non nascose il sollievo che provò nell’esatto momento in cui i suoi piedi affondarono nella neve, a nemmeno cinquanta metri dalla casa segreta di Clint Barton.
 
“La casa è ancora in piedi. È un buon inizio.”
Clint cominciò a dirigersi verso l’abitazione, seguito a ruota dal resto del gruppo.
“E il Quinjet è qui.”
 
Thor si guardò intorno con aria assente, troppo occupato a riflettere su ciò che si era perso dal momento in cui aveva lasciato Midgard.
 
“Io non lo so. Ma quando l’Hydra si muove, non lo fa mai senza senso, fidatevi. Per favore Thor, aspetta.”
“Mi dispiace, Capitano. Sento il dovere di tornare. Ho preso la mia decisione e sono disposto a subirne le conseguenze.”
 
Avrebbe dovuto ascoltarlo e aspettare. Avrebbe dovuto riflettere e non farsi prendere dall’agitazione.
Tornare ad Asgard era stato un errore e a pagare le conseguenze di quella cieca decisione erano stati i suoi compagni, conseguenze che aveva affermato di poter accettare, mentre ora, a conti fatti, sarebbe tornato indietro nel tempo e sarebbe rimasto con loro senza esitare.
Barton gli aveva raccontato di come erano stati accusati e braccati alla stregua di criminali, di come erano stati costretti a dividersi, di come Steve era finito nelle mani del nemico e di come, dopo una rocambolesca fuga, erano riusciti a ritornare insieme. Tranne Bruce, ancora prigioniero del nemico.
Thor non si era accorto di aver stretto tanto i pugni da far sbiancare le nocche. La sua mandibola si era indurita e lo sguardo si era riempito di rabbia.
Se solo fosse rimasto. Se solo avesse ceduto dinanzi la richiesta di Steve.
 
“C’è qualcosa che non va, Thor?”
 
La mano del super soldato era ora ferma sulla spalla dell’asgardiano.
 
“Mi avevi detto di non andare. Di aspettare. Avrei dovuto...”
Rogers scosse il capo e cercò di sorridere nel modo più rassicurante possibile.
“Avrei agito allo stesso modo, te lo assicuro. Farei di tutto per le persone a me care. E poi non pensare in alcun modo che qualcuno di noi ti biasimi.”
 
Thor soffermò per un lungo attimo lo sguardo sul super soldato.
Era visibilmente provato. Gli aloni scuri sotto gli occhi gli davano un aspetto fatiscente, così come il pallore eccessivo.
In più, il dio aveva notato la permanenza di ferite superficiali che solitamente il siero avrebbe guarito velocemente. Quando gli oneiriani lo avevano stabilizzato, fermando gli effetti del potere di Andras, aveva potuto avere una panoramica dettagliata delle abrasioni e dei lividi cianotici che gli ricoprivano busto e schiena.
Lo stato del ragazzo era una conferma sicura della pericolosità dei nemici che stavano andando ad affrontare.
 
“Sistemeremo le cose.”
L’asgardiano sorrise a sua volta e ricambiò la stretta sulla spalla ricevuta dal Capitano, sicuro delle sue stesse parole.
 
Stavano per muoversi, intenzionati ad entrare nella casa sicura, ma i tre che già erano dentro li raggiunsero prima che potessero fare anche un solo altro passo.
 
“Non ci sono. Ma hanno lasciato questo.”
Clint porse a Rogers un biglietto di carta stropicciato.
“Sono coordinate” asserì convinto l’arciere.
“Significa che hanno trovato Fury. Non ci resta che raggiungerli.”
 
In quel luogo così lontano da problemi e pericoli, da pazzi assetati di potere e mostri invincibili, da uno scontro imminente ed inevitabile, sembrava che il tempo avesse subito un improvviso arresto.
La leggera brezza che cullava la vegetazione era l’unica testimonianza che le lancette dell’orologio continuassero nel loro meccanico ruotare, senza risparmiare nemmeno un singolo secondo. Quelli sarebbero stati gli ultimi brevi momenti di quiete, gli ultimi momenti in cui sarebbe stato possibile pensare a qualcosa che non fossero la loro sopravvivenza e quella dell’umanità.
Ognuno dei presenti prese per sé qualche attimo per assaporare quell’apparente tranquillità, per fare un po’ di ordine nella mente e nel cuore.
Dovevano abbandonare ogni incertezza, così da essere concentrati per ciò che li attendeva.
Dovevano sotterrare i loro personali conflitti e sperare che ci sarebbe stato un dopo per venirne a capo.
 
“Andiamo allora.”
Quelle due singole parole che Steve Rogers pronunciò risuonarono nella testa di tutti, con più intensità di quanto avrebbero dovuto.
 
Era tempo di andare.
 
 
 
֎
 
 
 
Terra
Helicarrier (da qualche parte nel cielo)
 
Steve uscì fuori dal Quinjet a passo deciso, forse un po’ troppo deciso, dato che non si accorse della persona che invece era intenzionata ad entrarci.
Il super soldato sentì sensibilmente la botta, mentre lo sfortunato che gli era andato a sbattere contro finì con il sedere per terra e non si trattenne dall’imprecare sonoramente.
 
“E io che ero venuto ad accogliervi” si lagnò Stark, mentre si massaggiava il naso dolorante.
“Adesso mi spiego perché mi è sembrato di sbattere contro un dannato muro!”
 
“Avreste dovuto rimanere nella casa sicura. Cosa è successo?”
Steve ignorò il fatto di aver appena investito Tony e venne al nocciolo della questione, prima che l’inventore potesse anche solo tentare di rialzarsi.
Stark, da parte sua, capì che non era il momento opportuno per testare ancora lo stato dei nervi del super soldato, perciò decise di perdonargli, per ora, l’oltraggio subito senza troppe cerimonie.
“Calmati, Rogie. Ci sono stati risvolti alquanto imprevisti.”
 
“Questa non è una buona notizia” si intromise Barton, raggiungendo il dinamico duo e pentendosene subito dopo, conscio di cosa significasse venir tirato dentro il campo elettrostatico che spesso e volentieri veniva a crearsi fra quei due testardi patentati.
Per sua fortuna, sia Iron Man che Capitan America non sembravano affatto dell’umore di intavolare un botta e risposta degno di questo nome e, oltretutto, non ce n’era nemmeno il tempo.
Sapevano tutti quali erano le priorità.
 
“Dannazione. Quelli dell’Hydra sono peggio dei roditori che infestano le case.”
Nessuno osò chiedere a Sam che diavolo c’entrassero i roditori e cosa gli avesse ispirato quell’associazione, che comunque non sfigurava poi più di tanto.
 
Fu Tony a riprendere in mano le redini del discorso, mentre continuava ad accertarsi che la linea del setto nasale non fosse stata deviata, perché va bene che bisognava prima pensare a come evitare un attacco colossale all’incolumità della vita sulla Terra, ma quella era la sua dannata faccia perfetta e doveva averne cura, per tutti gli dei di Asgard!
“Bruce non era al Pentagono. Quindi il nostro piano di soccorso è fallito miseramente… a differenza del vostro a quanto vedo.”
Tony fece un cenno di saluto in direzione di Thor, prima di continuare.
“Ricordi Kristen Myers, Rogers? È ufficialmente un nostro infiltrato e tutto grazie al tuo visino da angioletto ferito.”
Steve alzò gli occhi al cielo, nonostante quella notizia gli fece più effetto di quanto si aspettasse. Ogni tanto vedere del buono negli altri non era una pura e semplice illusione dovuta ad un ottimismo poco motivato ma ancora abbastanza integro in lui.
“Sa dove hanno portato Bruce?” chiese il super soldato, evitando di ribattere a tono sul discorso angioletto ferito (Tony Stark gli serviva intero, momentaneamente).
 
“Sfortunatamente ancora no. E teme che sospettino di lei.”
 
“Se sospettassero di lei sarebbe già morta. Semplicemente l’Hydra preferisce muovere le proprie pedine senza far trapelare più di ciò che è necessario.”
Steve conosceva bene l’Hydra ormai e sperò che la Myers si tenesse lontano da colui che al momento era al vertice di quella scellerata organizzazione.
 
“Però siamo comunque riusciti ad ottenere informazioni che non hanno vanificato il fatto di esserci spinti a tanto. Riguardano gli Ultra Soldati” continuò Stark, assumendo un’espressione più analitica, tipica dei momenti in cui c’era di mezzo un qualche marchingegno complesso da dover far passare dal mondo dell’astratto a quello del concreto.
Al solo sentir nominare gli esseri immondi che avrebbero dovuto essere una evoluzione di ciò che lui stesso era diventato dopo il siero, Steve sentì lo stomaco contrarsi. Non aveva la più pallida idea di come avrebbero potuto abbattere quei mostri. Magari non erano alla pari di Hulk, ma se lo avessero attaccato in gruppo non era certo su chi l’avrebbe spuntata alla fine.
“E inoltre, c’è un’altra cosa. Bruce non è più loro prigioniero. È loro alleato” concluse Tony e le gambe di Steve quasi cedettero di fronte al peso di quest’ultima rivelazione, perché probabilmente a non spuntarla sarebbero stati loro.
 
“Lo scettro?” chiese di punto in bianco Thor, facendosi avanti con passo pesante e viso contratto in una smorfia difficile da decifrare.
Che anche il dio del tuono stesse cominciando a dubitare delle possibilità che avevano di risistemare le cose? Sicuramente non era tranquillo e il baluginio sinistro che gli aveva acceso gli occhi azzurri aveva un qualcosa di intimorente.
 
“La Myers ci contatterà appena scoprirà qualcosa. A quel punto noi...”
 
“Vedo che il vizio di fare tutto di testa vostra permane con insistenza.”
 
Stark venne seccamente interrotto dal palesarsi dell’austera figura di Nick Fury.
“Non mi avevi parlato di un ampliamento della squadra, Stark” continuò tranquillo l’ex direttore dello SHIELD, come se non stesse entrando in un campo minato dovuto all’alta possibilità di crisi isteriche - ovviamente non nell’umana accezione - poco controllate da parte dei presenti.
Se ci fosse stata la possibilità di allestire lo spazio in cui si trovavano Vendicatori e nuovi acquisti con luci di Natale, queste avrebbero preso a scintillare senza dover essere collegate ad alcuna presa di corrente. Era già tanto che non ci fossero scariche a valanga dovute a elettroni imbottiti di energia che schizzano come palline di un flipper, rendendo l’aria elettrica e capace di produrre fulmini e saette.
 
“Per mancanza di personale, abbiamo assunto volontari.”
Tony, con il suo talento di non far sembrare le cose troppe serie, fece in modo di allentare un tantino la tensione instauratasi da un po’ e arrivata alle stelle con l’arrivo di Fury.
 
Steve si spiattellò una mano in faccia, mentre lo stesso Fury sospirò con rassegnazione.
“Venite. Abbiamo molto di cui parlare” fu il pacato invito dell’ex direttore, il cui occhio sano saettò in direzione delle note stonanti del gruppo.

Sottoposti a quello sguardo penetrante e guardingo, Anthea e James si irrigidirono ed esitarono a seguire gli altri.
Steve, a cui la cosa non era sfuggita, aspettò a muoversi anche lui, alternando lo sguardo tra Nick e i suoi due compagni.
Fu Fury a smorzare il peso della scomoda situazione.
“È passato parecchio dall’ultima volta che ci siamo visti, ragazza. Mentre non ne è passato molto dall’ultima volta che ho visto te.”
 
Sul viso dell’oneiriana nacque un sorrisetto di circostanza e, ora che ce lo aveva davanti dopo tre anni, il direttore dello SHIELD non sembrava più così terrificante.
 
“Sto perdendo colpi. Nell’ultimo incarico ho mancato tre obiettivi su tre” fu invece l’atona constatazione di James, la cui espressione rimase imperscrutabile.
 
Fury si esibì in uno dei suoi soliti sorrisi storti e, con un gesto della mano, esortò le note stonanti a seguirlo, incontrando al contempo gli occhi chiari del Capitano, cui rivolse un cenno del capo conciliatorio.
 
 
*
 
 
“Con i dati che ci ha fornito la Myers posso provare a sintetizzare un composto che annichilisca la capacità rigenerativa dei super soldati.”
 
“Puoi sul serio fare una cosa del genere?”
 
“Ovvio. Sai con chi stai parlando, no? Inoltre ho già avuto a che fare con l’Extremis e sono riuscito a farne scomparire gli effetti, o Pepper sarebbe ancora una fiaccola incandescente adesso. Certo, Lewis ha notevolmente potenziato l’Extremis, ma non ho dubbi di poter riuscire ad annichilire anche questo.”
 
“E quanto tempo ti serve? Hai detto che secondo la Myers abbiamo meno di un giorno prima che gli Ultra Soldati vengano attivati.”
 
La conversazione fra Natasha e Tony giunse ad uno stop che Clint ebbe il buon senso di piantare, prima che fossero mandati in barca piani un po’ scadenti dal punto di vista dell’arciere almeno.
“Fermi un momento. Se saremo costretti ad usare il composto, significherà che questi Ultra Soldati saranno già attivi. Perché non fermare Lewis prima che li porti alla vita? Cioè, ragazzi, stiamo davvero avvalorando l’ipotesi dello scontro diretto? Non è da pazzi?”
 
Calò un silenzio abbastanza inquietante, ma fu dissolto in un attimo dalla risolutezza della Vedova Nera, i cui pensieri stavano viaggiando sulla stessa lunghezza d’onda di quelli di Iron Man.
“La Myers ci ha spiegato che attivarli significa programmare il loro cervello in modo che rispondano solo a Teschio Rosso. Se impedissimo l’attivazione, rischieremmo che un’orda di mostri senza controllo invada Washington e dimezzi la popolazione in poche ore.”
 
“Ma quindi sono già vivi?” insistette Barton.
 
“Lo sono. Possiamo considerarli dormienti, ora come ora” fu l’immediata risposta della Romanoff.
 
“E sganciare una bomba prima che si sveglino sul luogo dove li hanno portati? O ucciderli prima che si sveglino?”
Adesso era Sam quello che iniziava a dubitare fortemente delle intenzioni di Tony e Natasha.
Perché permettere a quei mostri di svegliarsi? Perché non farli fuori prima?
 
“Basterebbe un piccolo errore e quegli esseri diverrebbero incontrollabili. Non è detto che una bomba possa ammazzarli data la loro capacità rigenerativa. Potrebbe semplicemente svegliargli e a quel punto saremmo nei guai. Ma se invece il loro cervello fosse tarato, basterebbe contenerli il tempo necessario per arrivare al singolo che li controlla. Fermato uno, fermati tutti.”
Stavolta Stark non lasciò spazio ad alcuna replica. La decisione era stata presa.
 
“Quindi aspetteremo che facciano loro la prima mossa” chiarì Steve, anche lui certo che quello fosse l’unico modo per ridurre i danni e soprattutto le vittime innocenti.
 
“Non abbiamo altra scelta. Siamo noi gli obiettivi di Teschio e compagnia. Finché sarà così, riusciremo ad evitare che ci vadano di mezzo i civili” confermò Stark, come se avesse letto ciò che passava nella testa del super soldato.
 
“Neutralizzare cinquanta mostri che hanno messo in seria difficoltà anche Steve non sarò affatto una passeggiata. E poi ricordiamo che ci sono anche Bruce e l’eventualità che Hulk combatta con le file nemiche.”
Clint non era minimamente convinto che quella strategia sarebbe andata a buon fine.
 
“Sappiamo come neutralizzare gli effetti dello scettro però. Basta una ricalibratura cognitiva e abbiamo l’uomo, o meglio, il dio giusto per questo lavoro” fu la rapida rassicurazione di Stark.
“E inoltre abbiamo un’altra arma pesante dalla nostra parte, dico bene ragazzina?”
 
Anthea, chiamata in causa, rivolse la sua attenzione ad un Tony che la stava guardando con una certa luce speranzosa negli occhi. Ad uno sguardo più attento, si rese conto che quel barlume di speranza si era acceso in tutti i presenti.
Stavano davvero facendo affidamento su di lei?
A quel pensiero, i dolori che le affliggevano il corpo e la confusione che imperversava nella sua testa si placarono improvvisamente. La giovane riacquistò lucidità e piegò la bocca in quello che era l’accenno di sorriso.
“Darò il massimo” disse solamente e lo promise a sé stessa.
Finché avrebbe avuto anche il più flebile barlume di energia in corpo, non si sarebbe di certo fermata.
Avrebbe protetto i suoi amici e gli avrebbe aiutati a rispristinare la pace sulla Terra.
 
“Bene. Allora consiglio a tutti di recuperare le forze per quanto sia possibile. Qui troverete tutto il necessario. Non ci resta che attendere.”
Era stato Fury a prendere parola questa volta e tutti acconsentirono. L’uomo era consapevole che l’unica soluzione percorribile in una tale disperata situazione era lasciare il campo agli Avengers.
 
Tony, Natasha e Clint si accordarono per andare ai laboratori. I due assassini provetti avrebbero aiutato l’inventore nella parte pratica del lavoro, in modo da guadagnare più tempo possibile.
Il resto del gruppo invece si preoccupò di preparare tutto ciò che occorreva per la battaglia, comprese diverse strategie per non farsi cogliere del tutto impreparati.
Fury ordinò ai suoi agenti di mettersi a totale disposizione degli Avengers, di portare loro cibo e bevande e di occuparsi delle loro ferite e di qualsiasi loro bisogno.
 
Il countdown era ufficialmente iniziato.
Coloro che avrebbero messo in gioco le proprie vite per fermare i folli piani di mostri privi di umanità soppressero definitivamente ogni intimo sentimento personale e si prepararono a fare ciò per cui erano stati uniti anni prima.
 
Avrebbero salvato la Terra ancora una volta.
 
 
 
 
 
 
Note
 
Non so bene quanto tempo sia passato dall’ultima volta che mi sono fatta viva e non ho avuto il coraggio di controllare.
Cosa dire? Ci tenevo e ci tengo a finire questo piccolo progettino iniziato una vita fa.
Per un lunghissimo periodo non sono stata in grado di trovare né il tempo né la giusta condizione mentale per dare vita ai capitoli conclusivi. Poi, inaspettatamente e tragicamente, mi sono ritrovata in una situazione che mi spinge a voler riempire il tempo in surplus a disposizione, per sentire meno l’ansia e per pensare meno ad un futuro ora più incerto che mai. E così eccomi qui, intenzionata a portare a termine qualcosa che ho lasciato in sospeso. Scrivere è un ottimo metodo per estraniarsi un po’ dalla realtà.
Voglio ringraziare tutti coloro che hanno inserito e tenuto questa storia nelle liste speciali, nonostante la mia assenza.
Ringrazio poi con tutto il cuore la mia carissima Ragdoll_Cat, che mi ha dato una bella spinta per la ripresa e la conclusione di questa storia ❤️
Pubblicherò gli ultimi capitoli nei finesettimana, o entro lunedì, ogni una, massimo due settimane.
Ancora non ci credo, ma sarò felice di vedere finalmente completa questa storia.
 
Un abbraccio a tutti voi, sperando in tempi più felici.

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Capitolo 17
*** Frontline ***


Frontline
 
 
 
Fu in prossimità delle prime luci dell’alba che il tempo a loro disposizione si esaurì come la fiammella di una candela ormai definitivamente consumata.
Se l’agitazione li assalì, nessuno di loro diede a vederlo. Alla chiamata di Stark, si mossero verso il laboratorio e lì si riunirono. Nei loro sguardi c’era una determinazione matura e una concentrazione glaciale.
 
“Kristen Myers si è messa in contatto con me. Ha utilizzato la ricetrasmittente che le ho lasciato durante il nostro ultimo incontro che, se funzionerà come deve e certamente lo farà perché sono stato io a costruirla, potrà essere utilizzata una seconda volta prima di ridursi in polvere, in modo da garantirle maggiore sicurezza.”
Tony incrociò le braccia al petto e sospirò, come se per un attimo l’avesse colto alla sprovvista una genuina esitazione.
“Quindi è arrivato il momento?” incalzò Rogers, ma c’era una nota di gentilezza nella sua voce, perché non gli era sfuggito il momento di difficoltà in cui Tony era inavvertitamente inciampato.
L’inventore si riscosse e riprese la parola, non mancando di incrociare lo sguardo del super soldato.
“Già. Bruce è tornato al Pentagono. Assieme a lui, Adam Lewis e Teschio Rosso. La Myers ha affermato che hanno terminato il lavoro sul corpo sintetico e che sono pronti per l’attivazione. Sarà questione di un’ora al massimo. Quando la Myers userà la ricetrasmittente per la seconda volta, allora significherà che l’attivazione è stata completata. Inoltre ha confermato che il Tesseract non è stato spostato dal bunker, dunque abbiamo ancora la nostra finestra d’accesso.”
 
“Bene, allora…”
 
Cazzo, c’era anche un corpo sintetico!?” sbottò Sam, tutto d’un fiato, interrompendo qualsiasi cosa Steve stesse dicendo.
Sam Wilson era un tipo che proprio non sapeva tenersi dentro pensieri troppo rumorosi, così finiva per tirarli fuori senza rifletterci troppo su.
Rimasero però un po’ tutti spiazzati, perché effettivamente il dettaglio non così dettaglio sul corpo sintetico era sfuggito leggermente dalle loro teste già sature di pensieri poco felici.
 
“A quello penserò io. Sarà sotto la mia responsabilità.”
Anthea non lasciò spazio ad eventuali contestazioni e, senza dover guardare, seppe che gli occhi di Steve erano su di lei adesso.
 
Natasha allora fece un paio di passi avanti e si pose al centro del gruppo, attirando su di sé l’attenzione generale.
“Ognuno di voi sa cosa fare. Abbiamo una ventina di fiale del composto che annullerà la rigenerazione degli Ultra Soldati, rendendoli almeno vulnerabili. Bisognerà arrivare a Teschio Rosso il prima possibile. Non è detto che il composto avrà l’effetto desiderato e i mostri creati da Lewis potrebbero avere difese non previste. Tenetevi pronti a tutto.”
La Vedova li guardò uno ad uno, quei compagni con cui avrebbe intrapreso l’ennesima battaglia. Una volta iniziato lo scontro, sarebbe stato impossibile determinare anche solo vagamente il corso degli eventi. Avrebbero vissuto un attimo alla volta, un respiro alla volta, un battito del cuore alla volta.
Il pensiero che in lei sarebbero potuti coesistere presto due battiti le accarezzò la mente per un attimo, prima che riprendesse la freddezza che adesso le era necessaria. Se lei e quelli che considerava ormai come la sua famiglia non fossero usciti vivi dall’inferno in cui si stavano per gettare, tutto il resto non avrebbe avuto alcuna importanza.
 
“Siete pronti, compagni?”
Thor sorrise e il suo fu un sorriso sorprendentemente rassicurante. Era deciso a proteggere tutti i presenti in quella stanza, qualsiasi fosse stato il costo.
 
Erano pronti? Dovevano esserlo.
 
“Non disperdiamoci. Cerchiamo di coprirci le spalle per quanto possibile” fu l’unica cosa che Rogers si sentì di dire in quel momento e Sam gli dedicò un’espressione semplicemente decifrabile dalla maggior parte dei presenti.
Steve Rogers non aveva mai fatto mancare ai compagni un discorso di incoraggiamento prima di una battaglia importante, quasi fosse un rituale in grado di far entrare in risonanza i loro spiriti e quindi in grado di renderli più forti. Adesso però mancava l’energia necessaria per far sì che quella risonanza avvenisse, perché lo spirito del giovane super soldato era stato incrinato ed era già un miracolo che non fosse finito in pezzi. Tuttavia, Sam - così come tutti gli altri - non ebbe il minimo dubbio sul fatto che Steve avrebbe fatto tutto ciò che era in suo potere per vincere quella battaglia.
Non ci furono altre parole, ma solo sguardi che palesavano la crescente tensione.
 
Anthea non si sentiva così da tempo. Aveva una strana sensazione nella pancia, il cuore batteva ad un ritmo incalzante e respirare sembrava più difficile del solito. Nonostante avesse affrontato innumerevoli battaglie in quegli ultimi anni, poche erano state le volte in cui aveva accusato tanto la pressione delle responsabilità che sentiva adesso gravare sulle spalle.
Nell’attesa, la giovane oneiriana fermò l’attenzione sulla sua immagine, riflessa nella porta a vetri che costituiva l’ingresso dei laboratori. Non aveva indossato l’uniforme da combattimento che gli oneiriani le avevano donato, ma aveva chiesto direttamente a Fury qualcosa di semplice e che fosse caldo. Nonostante cercasse di ignorarla, la sensazione di freddo le era entrata fin dentro le ossa e l’aveva fatto poco dopo che aveva smesso di sentirsi bruciare. Si era accontentata di una maglia nera a maniche lunghe non troppo attillata, fatta di un tessuto che emanava un piacevole calore a contatto con la pelle fredda; inoltre, indossava un paio di pantaloni neri dalla forma non troppo dissimile da quelli dell’uniforme di Steve e l’estremità inferiore l’aveva infilata in scarponcini del medesimo colore. Le linee rossastre che le solcavano la pelle erano risalite fin sopra il collo, segnandole la parte sinistra del viso. Non le erano sfuggiti gli sguardi non così rassicuranti in merito, ma il suo modo di fingere che stesse bene e che non avesse bisogno di aiuto, doveva essere stato sufficiente a chiudere la questione.
Il fatto poi che avesse evitato di confrontarsi con Steve, durante tutte le ore d’attesa, era stato solo un ulteriore escamotage per non farsi distrarre dalle certezze che cercava di tenersi stretta: avrebbe aiutato i suoi amici a debellare la minaccia che incombeva sulla Terra e non avrebbe permesso che qualcuno ci rimettesse la vita.
Era forte abbastanza per riuscirci. Aveva smesso da tempo di essere quella da salvare e non voleva più esserlo. Nella sua testa c’era silenzio e la cosa era tanto strana quanto piacevole. Avrebbe mantenuto il controllo, non era più una debole bambina.
 
“Ci siamo” asserì Tony, sottraendo Anthea dalla invisibile bolla in cui si era rinchiusa, per restare qualche istante sola con sé stessa.
 
Il portale generato dal frammento del Tesseract si aprì in un’esplosione di luce azzurra e tutti vi entrarono come un’unica entità, pronti a tutto.
 
 
 
֎
 
 
 
Il comitato d’accoglienza lasciò alquanto a desiderare. C’era così tanta merda ammassata assieme, che Stark ebbe timore di morire affogato in tutto quello schifo.
Gli Ultra Soldati sembravano morti viventi che, lentamente, uscivano dalle loro vitree tombe ultratecnologiche. I soldati dell’Hydra formavano un cordolo di protezione dinanzi i potenti corrotti e Tony individuò facilmente quel grassone bastardo di Henry Benson. Dinanzi i traditori, che non avevano evidentemente idea di quale grosso cataclisma stessero sostenendo, c’erano Adam Lewis, Kristen Myers, Brock Rumlow e Teschio Rosso ovviamente.
A completare il suddetto comitato d’accoglienza c’era Banner, fermo dinanzi una grossa scatola - che tanto scatola non era - cilindrica e costituita da un materiale opaco, il quale lasciava intravedere solo l’ombra di un possente corpo che di umano aveva ben poco. Ovviamente Bruce era l’unica cosa buona da salvare in quella stanza.
Forse erano arrivati prima che il corpo sintetico fosse attivato. Solitamente non erano tanto fortunati.
Tony elaborò tutti quei pensieri in pochissimi attimi, perché la reazione dei nemici non si fece di certo attendere. Stava per avere inizio una di quelle baraonde in cui risulta difficile distinguere dove inizia e dove finisce un singolo individuo.
Le porte del bunker iniziarono ad aprirsi e i potenti solo di nomina vi si accalcarono per poter assicurarsi una rapida ed indolore fuga, mentre i soldati dell’Hydra proteggevano loro il culo e a Tony quei soldati fecero quasi pena. Morire per persone come quelle non lo meritavano neppure loro.
 
Adam Lewis e Teschio Rosso non si mossero. Vennero circondati dagli Ultra Soldati finalmente svegli e vigili. Rumlow aveva spinto Kristen dietro di lui ed era pronto a scattare come una bestia furiosa.
“Uccideteli tutti. Nessuno escluso.”
Gli ordini di Teschio Rosso divennero legge e gli Ultra Soldati si mossero all’unisono.
 
Eccolo. Lo scontro.
 
I mostri violacei e dagli occhi simili a tizzoni ardenti avevano di umano solo la divisa nera con lo stemma rosso dell’Hydra all’altezza del cuore. Cinquanta esseri privi di razionalità, ma guidati dal solo desiderio di soddisfare le volontà di colui che li controllava tramite fili invisibili.
Allora i Vendicatori si mossero secondo uno schema ben preciso, non esitando nemmeno per un istante. Avevano un margine di errore alquanto striminzito e avrebbero fatto tutto il possibile per rispettarlo.
Clint, Natasha e Sam rimasero indietro rispetto gli altri. Loro tre non avrebbero partecipato allo scontro diretto con quei mostri, ma avrebbero puntato alla testa che vi era a capo, mentre gli altri avrebbero cercato di contenere gli Ultra Soldati per quanto più tempo possibile.
Thor fece da punta di sfondamento e, ruotando il martello, iniziò a caricarsi di energia statica. Ne accumulò talmente tanta da sentirsi quasi bruciare internamente, ma non era una brutta sensazione, tutt’altro. Quando pochi passi lo separavano dai nemici, bloccò la sua corsa e fece impattare il martello contro la superficie marmorea del pavimento. L’impatto causò un rilascio esorbitante di energia, che si trasformò in un’esplosione di scariche elettriche e fu accompagnata da un’onda d’urto che spazzò via chiunque si trovasse all’interno del bunker, compresi quei potenti corrotti che non erano ancora riusciti a scappare fuori.
Per essere più precisi, non tutti furono colpiti dall’ondata di potere scatenata dal dio del tuono. Infatti, come calcolato, Anthea aveva fatto in modo di scudare gli altri Vendicatori e se stessa, in modo che loro non venissero travolti da quel primo fulminante attacco.
Adesso cha avevano rotto le righe di quei fottuti mostri, mandandoli a schiantarsi contro le pareti del bunker, cominciò la seconda fase dell’attacco.
Teschio Rosso, che era stato spazzato via anche lui come fosse un granello di polvere, non aveva riportato ferite gravi solo grazie all’intervento repentino di alcuni Ultra Soldati, che avevano subito l’attacco al suo posto. Tuttavia, la testa dell’Hydra si ritrovò comunque completamente scoperta.
Sam non perse tempo e condusse in volo Natasha nel punto in cui Schmidt cercava faticosamente di rimettersi in piedi. Il pararescue si vide attaccare da entrambi i lati da due Ultra Soldati, ma non se ne preoccupò e continuò ad avanzare, certo che non lo avrebbero raggiunto. Difatti, i mostri non riuscirono nemmeno a sfiorarlo, perché intercettati da Capitan America e Iron Man, che fecero in modo di tenerli occupati. Il resto della squadra fece lo stesso, lasciando a Falcon via libera.
 
Tutto stava accadendo in pochissimi attimi. Gli Ultra Soldati stavano rigenerando le ferite per poter tornare attivi, dopo lo scossone che Thor aveva regalato loro. Quelli che avevano subito meno danni erano accorsi per proteggere Teschio Rosso, ma avevano trovato sulla loro strada gli Avengers.
Intanto, Clint aveva iniziato a rilasciare frecce intrise del composto creato da Tony, in modo da inibire la rigenerazione dei mostri che avevano riportato maggiori danni, così da renderli inutili corpi mutilati.
Natasha attivò i morsi della Vedova e Sam la lanciò verso Teschio Rosso, prima di venir abbattuto da un Ultra Soldato riuscito a superare le difese tirate su dagli altri Vendicatori.
Fortunatamente, Falcon si ritrovò presto lontano dalle grinfie del mostro, che Anthea si premurò di colpire con un pungo dritto in faccia e tanto violento da scaraventarlo un paio di metri indietro.
La Vedova Nera giunse al cospetto di Teschio Rosso, ancora stordito dall’attacco del dio del tuono, e si mosse per affondare nel suo collo i letali morsi che le equipaggiavano i polsi e sarebbe anche riuscita nel suo intento, se il suo corpo non fosse stato spinto via da una forza invisibile, lontano dall’obiettivo.
La donna finì a rotolare sul pavimento del bunker, finché non ritrovò l’orientamento necessario a saltare in piedi con agilità. Lo sguardo smeraldino si posò sul grosso buco che si trovava esattamente nel punto in cui era posizionata lei, prima di venire spazzata via.
 
Un ruggito bestiale risuonò nello stanzone e l’errore dilagò all’infuori dei margini.
 
La Vedova rimase immobile dinanzi un Hulk che la caricò con cieca rabbia. Si sentì come quella volta sull’Helicarrier, un’infinità di tempo addietro, quando aveva visto per la prima il gigante verde. Perse la sua usuale freddezza e non sentì il grido disperato di Barton che le diceva di correre via.
Poi la sua visione fu oscurata dall’esile figura della stessa ragazza che prima le aveva evitato di finire schiacciata dalla furia di Hulk. Fu allora che riacquistò abbastanza freddezza, da spostarsi quel tanto che le permise di non venire travolta dallo scontro frontale fra l’oneiriana e il gigante verde.
Steve, impegnato ad affrontare un Ultra Soldato, non riuscì ad evitare di distrarsi quando vide Hulk investire Anthea con una tale forza da rendere vano il tentativo della ragazza di resistergli. Quella distrazione gli costò un pugno dello stomaco e si sarebbe ritrovato con il collo spezzato, se Stark non fosse intervenuto a salvargli l’invidiabile sedere, gridandogli tramite la ricetrasmittente di evitare di abbassare la guardia come un principiante o l’avrebbe preso a schiaffi.
Nel soffitto del bunker si aprì una grossa falla, quando l’oneiriana vi impattò con la schiena, trascinata dalla potenza di un Hulk plagiato dal potere dello scettro di Loki e che le rimase addosso fino a che non furono oltre il tetto del Pentagono, all’aria aperta.
 
“Thor!” gridò Steve, mentre scansava agilmente un Ultra Soldato.
Qualcosa non andava. Li ricordava più forti e veloci quei fottuti mostri. Anche la rigenerazione a cui aveva assistito, quando ne aveva affrontato uno la prima volta, era stata molto più rapida.
Forse Lewis aveva sbagliato qualcosa e sperò vivamente che fosse così.
Puntò sull’agilità e la velocità per farsi largo fra i nemici, fino a trovarsi a pochi passi di distanza da Schmidt, che fu quasi sorpreso di vederlo così pericolosamente vicino.
“Portatemi fuori di qui” ordinò Teschio e, prima che Rogers potesse arrivare a lui, un Ultra Soldato lo afferrò di peso e utilizzò il buco aperto nel soffitto per condurre all’esterno la Testa dell’Hydra.
Tutti gli altri Ultra Soldati seguirono il loro capo e fuoriuscirono dal bunker, lasciandovi all’interno i Vendicatori e una decina di altri mostri violacei, la cui rigenerazione era stata annullata e i danni subiti li avevano resi incapaci di muoversi.
 
“Dannazione” fu il grido di uno Steve Rogers ancora incapace - come tutti i suoi compagni, del resto - di metabolizzare ciò che era appena accaduto.
Ci erano andato così vicini.
 
“Questo è solo l’inizio, Capitano. Appena svegli, i miei soldati potevano utilizzare a malapena la metà della loro forza offensiva e rigenerativa. I vostri trucchetti non funzioneranno più da ora in avanti. Ne avrete messo qualcuno fuori uso, ma non riuscirete a gestire tutti gli altri. Avete perso.”
Adam Lewis, seduto a terra e con la schiena appoggiata contro una parete, aveva la faccia ricoperta di sangue. Il primo attacco di Thor doveva averlo raggiunto senza lasciargli molto scampo, a quanto pareva.
Steve gli dedicò uno singolo sguardo, uno sguardo glaciale e intriso di un risentimento tale da fargli addirittura ribrezzo.
 
“Avrei dovuto uccidere Lewis.”
 
Le parole taglienti di Anthea fecero eco nella sua testa e per un attimo ebbe la fottuta voglia di concretizzarle, ma si bloccò prima che quel desiderio omicida lo travolgesse del tutto.
“Raggiungiamo quei mostri e fermiamoli” disse, conscio di avere gli sguardi dei suoi compagni addosso.
Lewis scoppiò a ridere, finendo per tossire sangue, ma ciò non lo fermò dallo sfidare Rogers ancora una volta, perché godeva nel vederlo vacillare.
“Verrò ad ammirare il tuo cadavere e quello dei tuoi preziosi compagni più tardi. Spero non vi riducano in un ammasso scomposto di carne ed ossa, perché saprei già come utilizzare alcuni dei vostri corpi.”
Rogers strinse i pugni con tanta violenza da far sbiancare le nocche e per un istante vide rosso. Non seppe quale forza gli impedì di macchiarsi le mani del sangue del fottuto bastardo, in quell’esatto momento. Forse fu il fatto che il dottore fosse comunque spacciato ormai.
 
“Stark. Wilson” chiamò il super soldato, distogliendo lo sguardo da quel vecchio pazzo.
 
“Tranquillo, Cap, ci pensiamo noi a darvi un passaggio.”
Tony non finì nemmeno la frase che aveva già afferrato Rogers per un braccio, in modo da trascinarlo fuori di lì, prima che il ragazzo perdesse la freddezza necessaria a portare avanti una battaglia che stava sfuggendo loro di mano.
Avevano messo in conto un’eventuale evoluzione dello scontro all’esterno, nonostante avrebbero voluto evitarlo. Effettivamente la facilità iniziale con cui erano riusciti a contenere gli Ultra Soldati aveva stupito tutti loro, ma adesso, grazie alle parole di Lewis, sapevano di aver perduto l’unica possibilità di poter competere quasi alla pari con loro, senza rischiare di venir fatti a pezzi al primo passo falso. Nemmeno il composto che aveva creato avrebbe avuto più effetto, da quanto detto dal dottore. Quello era un bel problema.
Era necessario arrivare a Teschio Rosso prima che fosse troppo tardi.
Iron Man prese con sé anche Natasha e volò oltre la crepa aperta nel soffitto, seguito da Falcon, che intanto aveva raccolto Barnes e Barton.
 
In un angolo del bunker, Kristen si stava riprendendo dalla botta presa. L’onda d’urto le aveva procurato un bel volo, ma per il resto era rimasta illesa.
“Qualcosa ci ha protetti dai fulmini” decretò Rumlow, che non aveva avuto occasione di gettarsi nella mischia, data la rapida successione degli eventi che lo aveva visto semplice spettatore.
L’uomo aiutò la Myers a rimettersi in piedi e le dedicò un lungo sguardo.
“Come fai a dirlo?” chiese lei, che qualche idea se l’era già fatta, data la segreta collaborazione che aveva stretto con gli Avengers.
“Li ho visti deviare, come se avessero incontrato una specie di muro invisibile.”
Rumlow scosse il capo, come se volesse scacciar via ogni tipo di pensiero. Si guardò intorno e poi tornò a posare gli occhi sulla donna.
“Ti conviene trovare un posto sicuro” le disse, serio.
“Tu cosa farai, Brock?”
“Quello che ci si aspetta da me. Inoltre ho alcuni conti in sospeso che ho intenzione di chiudere una volta per tutte.”
 
Kristen osservò Rumlow correre via, verso la porta d’uscita del bunker. Avrebbe voluto fermarlo, ma non ne aveva avuto il coraggio e si odiò per questo. Decise che, in qualche modo, avrebbe cercato di essere utile ai Vendicatori in quello scontro in cui stavano inesorabilmente perdendo terreno.
 
 
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Anthea si era resa conto dell’errore che aveva commesso, solo quando l’aria fredda le era entrata con forza nei polmoni, fornendole quell’ossigeno che le era venuto a mancare per un tempo che era sembrato infinito. Era stata praticamente spazzata via e non era riuscita nemmeno ad opporre un minimo di resistenza nello scontro con Hulk, che l’aveva travolta con una forza spaventosa.
Si rialzò faticosamente da terra, ignorando le acute proteste da parte del corpo, e individuò la struttura del Pentagono parecchio lontana da lei. Era finita in una zona verde, circondata da qualche fila di alberi. Il terreno era stato sfigurato dal solco che lei e il gigante verde avevano scavato durante quell’assurda colluttazione. Si morse l’interno della guancia, mentre la preoccupazione iniziava a stringerle lo stomaco.
Aveva evitato che Natasha finisse schiacciata da Hulk, ma aveva vanificato il piano di raggiungere e rendere inoffensivo Teschio Rosso il prima possibile. La rossa era giunta ad un soffio dalla testa dell’Hydra e lei l’aveva fermata, incapace di rischiare che potesse essere ferita - o peggio, uccisa - da una variabile verde a cui avevano dato troppo poco conto.
Hulk era proprio davanti ai suoi occhi adesso ed era pronto a gettarsi contro di lei di nuovo. La manica destra della sua maglia era stata strappata via durante la colluttazione e lungo il braccio si erano aperti tagli più o meno profondi che non stavano guarendo.
Avrebbe dovuto aspettarselo. Non era di certo al massimo della forma e le attuali condizioni non avrebbero fatto che peggiorare, quindi doveva combattere facendo maggiore attenzione e tenendo a mente che ogni ferita subita l’avrebbe resa più debole e meno efficiente. La battaglia era appena iniziata e non poteva permettersi di perdere di incisività troppo presto.
 
Hulk provò a travolgerla una seconda volta, ma facendo uso di un tempismo pressocché perfetto, Anthea riuscì a evitarlo, scavalcandolo con un agile salto. Si portò alle sue spalle e ciò le permise di affondare un calcio nella possente schiena del gigante. Fu in grado di spingerlo via e di farlo barcollare leggermente, segno che il colpo l’aveva sentito. Approfittò del momento favorevole per saltare di nuovo in alto, per poi ricadere in picchiata con l’intento di piazzare un pesante pungo sulla testa del gigante.
Una ricalibratura cognitiva rapida e non troppo dolorosa.
Doveva riportare Bruce Banner dalla loro parte, perché avevano bisogno di lui e lui aveva bisogno di riavere indietro la libertà che gli era stata sottratta.
Hulk reagì più velocemente di quanto si aspettasse - oppure lei era più lenta del solito - e la colpì in pieno con una mano, scacciandola via allo stesso modo di un moscerino fastidioso.
Anthea non riuscì ad evitare l’impatto con il terreno e ruzzolò fra l’erba coperta di rugiada, fino a che si fu ripresa abbastanza da costringersi a tornare in piedi. Non ne ebbe il tempo, però, perché il gigante era già lì e l’afferrò per una gamba, per poi lanciarla contro una fila di alberi. L’oneiriana spezzò diversi tronchi con il proprio corpo, prima che i ripetuti urti fermassero il volo che le era stato regalato. Si tirò su a fatica e riprese fiato.
Quella non era di certo la prima battaglia in cui veniva messe alle strette, eppure non riusciva a reagire. Aveva forse sottovalutato l’effetto dell’energia che le segnava l’intero corpo?
Strinse i denti. Non c’era tempo per pensare, perché Hulk stava già tornando all’attacco.
 
‘Dannazione.’
 
Le enormi dita di Hulk si bloccarono a pochi centimetri dal suo viso. Il mostro verde ruggì di rabbia, impossibilitato a muoversi, i muscoli tesi allo spasimo eppure immobilizzati.
Anthea percepì distintamente il calore del sangue sulle guance pallide, quando rivoli scarlatti scivolarono dagli occhi illuminati dal tenue colore dell’ambra.
 
‘Dannazione.’
 
Passarono solo pochi secondi, prima che Hulk riuscisse a muoversi e la ragazza si preparò ad essere stritolata, sperando che le ossa non cedessero troppo facilmente. Trattenne il respiro, ma un oggetto non identificato si piantò nello stomaco del gigante e lo trascinò abbastanza lontano da lei. Quello stesso oggetto tornò indietro e la superò, finendo nelle mani della presenza comparsa alle sue spalle.
Anthea si voltò e si trovò dinanzi la figura rassicurante di Thor. Tirò un lungo sospiro di sollievo.
 
“Dove è andata a finire la tua forza, giovane regina? So per certo che puoi fare di meglio.”
 
C’era una chiara implicazione nelle parole del dio del tuono. L’oneiriana sorrise mestamente.
“Mi stavo solo riscaldando” si giustificò, gettando in un angolino della mente le insicurezze e preparandosi a tirar fuori tutto ciò che aveva, costasse quel che costasse.
 
Hulk ruggì e puntò l’attenzione su Thor, che sarebbe morto se lo sguardo avesse potuto uccidere.
Anthea approfittò della distrazione del gigante per attaccarlo. Rapida, arrivò a un soffio da lui, e con un montante destro poderoso lo mandò quasi a sedere per terra. Quindi concluse l’assalto con un calcio volante sulla mandibola che lo fece barcollare pericolosamente.
Non era abbastanza per farlo tornare in sé.
 
“Adesso ti riconosco” le gridò Thor, mentre lanciava il martello dritto sulla fronte del mostro verde, ma nemmeno questo ebbe l’effetto sperato.
 
Anthea decise di tentare il tutto per tutto, sfruttando la breccia che erano riusciti ad aprire nelle difese di Hulk.
“Ti concedo pochi secondi! Non sbagliare, Thor!”
Le iridi della ragazza tornarono ad illuminarsi. Strinse i denti, cercando di ignorare la sensazione della testa sul punto di esplodere.
Thor non se lo fece ripetere due volte e caricò il martello di energia, poi lo abbatté con forza sulla testa di un Hulk momentaneamente immobilizzato dalla forza telecinetica dell’oneiriana.
La botta riecheggiò tutt’intorno e Hulk stramazzò a terra con un tonfo sordo.
 
Rimasero entrambi in attesa e si permisero di tirare un sospiro di sollievo solo quando la figura del gigante verde si ridusse gradualmente, fino a quella di un Banner stordito ma finalmente libero dalle catene mentali costruite dallo scettro.
Thor si liberò del mantello e lo tese al compagno, rimasto coperto solo dai rimasugli di pantaloni, che ora erano troppo slabbrati per stargli addosso, senza che fosse costretto a tenerli con le mani.
 
“Grazie” disse il dottore e, solo quando gli effetti della botta in testa cominciarono a scemare, il suo sguardo si fissò sulla ragazza che affiancava l’asgardiano.
“Tu? Cosa… come…” balbettò, incredulo, quasi avesse visto un fantasma.
 
Anthea piegò le labbra in un sorriso sincero e gli porse una mano, per aiutarlo a rimettersi in piedi. Bruce l’afferrò senza pensarci troppo su e si ritrovò a fissarla con una certa insistenza, come se stesse cercando nei tratti della giovane donna dinanzi a lui, la ragazzina che anni prima li aveva salutati con la promessa di tornare.
“Sono venuta a sapere che vi serviva una mano ed eccomi qui. Felice di rivederti.”
Banner sospirò e portò una mano fra i capelli scuri, stirandoli indietro. Era palesemente spaesato e stava cercando di ritrovare un certo equilibrio interiore.
“Mi dispiace per averti…”
“Non dirlo. E a proposito, stiamo cercando di neutralizzare chi ha causato tutto questo e ci servirebbe una grossa mano.”
Bruce spostò lo sguardo da Anthea a Thor e l’asgardiano annuì col capo, consapevole che non era il momento di dilungarsi in spiegazioni.
“Chi devo prendere a botte?” chiese allora Banner, che di tirarsi indietro non ne aveva proprio intenzione, anche perché non poteva di certo lasciarla passare liscia agli stronzi che l’avevano usato per i loro sporchi fini, pilotandolo alla stregua una marionetta.
 
“Ho visto scintille e disboscamenti nella zona verde. Ditemi che siete tutti sani e salvi e che avete recuperato con successo il nostro Banner, perché senza voi tre sarebbe come andare in guerra con mazzi di fiorellini al posto delle armi.”
 
La voce di Tony Stark era squillata con fin troppa enfasi nelle orecchie di Anthea e Thor. I due alieni in trasferta si scambiarono uno sguardo di intesa, con tanto di sorrisetto e sopracciglia arcuate verso l’alto. Uno dei loro compiti erano riusciti a portarlo a termine con successo, ora non restava che occuparsi dell’esercito di Ultra Soldati.
 
“Dicci cosa fare” fu la risposta che diede Anthea a Stark, attivando la ricetrasmittente nell’orecchio.
 
“Tornate verso il Pentagono e dirigetevi verso il grosso fiume più avanti. Velocemente” fu l’immediata replica di Iron Man, il cui tono tradì un certo sollievo.
 
“Pronto ad andare?” chiese la ragazza a un Bruce in attesa di indicazioni.
 
“Quando volete” rispose allora Banner, mentre il suo corpo già aveva iniziato a crescere.
 
 
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Una volta fuori dal bunker, Tony non aveva potuto non notare la scia di distruzione che si erano lasciati dietro la ragazzina e un Hulk del tutto fuori controllo. Era rimasto sospeso nel cielo rischiarato dalle prime luci dell’alba, con Natasha sulle spalle e una mano impegnata a tenere Steve per un braccio.
Pochi attimi dopo erano stati raggiunti da Wilson, Barnes e Barton e tutti assieme avevano assistito al dilagare degli Ultra Soldati al di fuori del Pentagono, mentre di Teschio Rosso era sparita ogni traccia.
Quei mostri violacei si erano lanciati in una corsa sfrenata in direzione del Potomac. Sembrava stessero raggiungendo una meta precisa e che, quindi, la testa dell’Hydra avesse cambiato i suoi piani.
 
“Si dirigono verso la città.”
“Devo darti ragione a malincuore, Rogers. Quel bastardo vuole portare lo scontro a Washington.”
Era allora che avevano assistito ad un improvviso abbattimento di alberi, poi c’erano state scintille ed infine un boato. Tony aveva aperto la comunicazione via ricetrasmittente, passando oltre il momento di sorpresa generale.
 
“Ho visto scintille e disboscamenti nella zona verde. Ditemi che siete tutti sani e salvi e che avete recuperato con successo il nostro Banner, perché senza voi tre sarebbe come andare in guerra con mazzi di fiorellini al posto delle armi.”
 
“Dicci cosa fare.”
La voce di Anthea risuonò nelle orecchie di tutti coloro legati dalla medesima linea di comunicazione, soffiando via almeno una piccola parte della tensione accumulata.
 
“Tornate verso il Pentagono e dirigetevi verso il grosso fiume più avanti. Velocemente.”
 
Stark chiuse la comunicazione e, con uno strattone tanto deciso quanto improvviso, lanciò Rogers in alto, per poi riafferrarlo per i fianchi con un unico braccio metallico, in modo che i loro volti fossero alla medesima altezza. Quel gesto fece venire a Sam un mezzo infarto e Barnes, che aveva sentito la presa su di lui farsi meno solida, gli lanciò un’occhiataccia.
 
“Potevi almeno avvisare, Stark.”
“Poco lamentare e tanto pianificare, Rogers. Da ciò che vedo, quelli vogliono entrare in città tutti insieme appassionatamente. Inoltre, abbiamo uomini dell’Hydra diretti nella stessa direzione a bordo di bei blindati e rilevo velivoli non autorizzati in movimento. Di Teschio Rosso nessuna traccia. E in tutto questo, le nostre armi pesanti hanno quasi rischiato di profanare il Cimitero nazionale di Arlington.”
Tramite il visore della sua armatura, Stark era stato in grado di determinare i movimenti del nemico, ormai lontano dal Pentagono e in prossimità del Potomac. Da lì avrebbero attraversato il fiume utilizzando i ponti e sarebbero entrati a Washington senza troppi problemi.
“Sono sicuro che Teschio Rosso non rimarrà nascosto. Lui questa guerra vuole vincerla, assistendo personalmente alla disfatta dei suoi nemici. Potrebbe essere su uno di quei blindati.”
“Che bastardo narcisista” si lasciò scappare Wilson.
 
Steve riaprì le comunicazioni radio e parlò senza esitazione.
“Thor, Banner, Anthea, ingaggiate battaglia con gli Ultra Soldati, fate in modo di tenerli occupati e di evitare che si disperdano troppo. Evitate di distruggere i ponti, se possibile.”
“Va bene” fu la risposta dell’oneiriana dall’altro capo e Rogers ebbe la sensazione di sentirla esitare.
“Bucky ed io ci uniremo a loro, mentre voi altri vi occuperete dei blindati e dei soldati dell’Hydra. Trovate Teschio Rosso e fermatelo. E Stark, contatta Fury, perché avremo bisogno di rinforzi e di protezione per i civili in città, in caso le cose degenerino maggiormente.”
 
“Bene. Mettiamoci a lavoro allora. Wilson facciamo a cambio, ti cedo la Romanoff in cambio del Soldato d’Inverno. Darò io un passaggio agli attempati qui. Tu inizia il lavoro, sarò da voi in un attimo.”
 
“Okay, Stark” acconsentì Wilson.
 
 
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“Non fatevi ammazzare e Rogers…”
Steve, che era già in procinto di correre verso il grosso dei loro problemi, esitò e concesse a Tony qualche attimo di attenzione.
“Resta concentrato e contattami se le cose si mettono male. Sarò la vostra via di fuga.”
Il biondo annuì, poi impugnò lo scudo e corse via, seguito da Barnes, mentre Stark riprese il volo, sperando che il messaggio fosse stato recepito dal compagno.
 
“Steve” chiamò Bucky, mentre si dirigevano verso il ponte che gli Ultra Soldati stavano percorrendo a grande velocità.
Il Capitano rallentò appena, lasciando che l’amico lo affiancasse, così da poterlo guardare in viso.
“Non azzardare mosse pericolose.”
 
“Cos’è, la giornata delle raccomandazioni a Steve Rogers questa?”
 
“Sì, se serve a porre dei paletti che ti separino dal dirupo in cui altrimenti ti getteresti.”
 
Roger fece per ribattere, ma qualcosa gli impedì di approfondire il discorso con James.
Thor, Anthea e un Hulk sorprendentemente quieto, erano poco più avanti, in attesa dell’imminente arrivo degli Ultra Soldati. La ragazza gli stava facendo segno con una mano e Steve notò che il braccio che stava sventolando con nonchalance era ridotto abbastanza male. La manica della maglia era stata strappata via e, avvicinandosi, notò i tagli nella pelle sporca di sangue rappreso.
Perché non guariva?
I mostri violacei erano ormai ad un tiro di schioppo.
 
“State in guardia. Sono molto più forti di prima e il composto non avrà più effetto per quanto ne sappiamo. Teniamoli occupati finché gli altri non avranno trovato Teschio Rosso.”
 
Fu così che iniziò la seconda fase della battaglia, la cui fine era ancora difficilmente visibile.
Fury organizzò i suoi in modo da poter fermare quanti più soldati dell’Hydra possibile. Inoltre, fece in modo di occuparsi anche dello spazio aereo, che aveva necessariamente bisogno di una ripulita.
Iron Man e Falcon fermavano i blindati in fuga e vi lanciavano contro i due assassini provetti, sperando che tra quegli uomini vestiti da nere uniformi e dal viso coperto da maschere simili a quelle antigas, si nascondesse Teschio Rosso, sempre che questo fosse effettivamente fra loro. Non poteva di certo essere andato lontano e comunque Rogers aveva la certezza che lui avrebbe voluto partecipare alla battaglia, guidando le truppe a spada tratta.
Gli Ultra Soldati sembravano ancora tarati sul comando di far fuori i Vendicatori anche se, una volta superato il ponte, li avevano spinti sempre più verso il cuore della città. L’alba stava giungendo al suo apice e la confusione aveva messo in allerta le persone. Le forze dell’ordine erano già visibili non troppo lontano da dove gli Avengers stavano affrontando i mostri violacei.
 
Rogers si stava difendendo dagli attacchi degli Ultra Soldati utilizzando lo scudo e riusciva anche ad assestare qualche colpo. Lo stile di combattimento basato sul cerchio in vibranio riusciva davvero ad essere micidiale, anche se in tal caso si riduceva ad un buon modo per non morire nell’immediato. Era difficile tenere d’occhio i compagni, perché una minima distrazione gli sarebbe costata cara. Ogni tanto, all’interno del campo visivo, vedeva scivolare qualche Ultra Soldato spinto via o intento ad attaccare. Erano troppi rispetto a loro e, se non avessero avuto quelle che Tony definiva armi pesanti, non ci sarebbe stata alcuna possibilità di riuscire a contenerli. Durante il primo attacco, erano riusciti a farne fuori una decina utilizzando il composto anti-rigenerativo, ma erano ancora troppi da gestire e il pericolo che arrivassero ai civili era molto alto.
Steve saltò sulle spalle di uno dei mostri e posizionò il bordo dello scudo sulla sua giugulare. Tirò con forza il cerchio in vibranio verso di lui e strattonò fino a far bruciare i muscoli delle braccia. La testa venne via dal collo, tranciata dal fine e indistruttibile vibranio, mentre il Capitano tornava con i piedi per terra, dopo aver eseguito a mezz’aria un’agile capriola all’indietro.
Rimase immobile, lo sguardo fisso sul corpo privato della testa. Non si muoveva e non sembrava avrebbe più avuto la capacità di muoversi.
Allora un modo c’era.
“Steve!” lo chiamò con forza Bucky, perché il biondo si era distratto abbastanza da permettere ad un Ultra Soldato di sorprenderlo alle spalle.
Rogers si ritrovò a rotolare sull’asfalto, con un acceso dolore sulla schiena, poi perse la cognizione dello spazio e dell’equilibrio, perché non riuscì ad evitare di essere sbattuto e sballottolato proprio come una pallina del flipper, con l’unica differenza che a lui tutto quello faceva un male cane. Una mano violacea si chiuse intorno alla sua caviglia, mentre un’altra la vide stringersi attorno ad un braccio. La spina dorsale venne messa a dura prova per lunghissimi attimi e l’immagine del corpo che si divideva in due gli occupò la mente con spaventosa nitidezza. Poi tutto finì e la colonna vertebrale rimase intatta. Si sentì tirare su e, in qualche modo a lui sconosciuto, dato lo stato confusionale, si ritrovò a stringere di nuovo le cinghie dello scudo in una mano. Riuscì infine a riprendersi abbastanza da mettere finalmente a fuoco la situazione.
Davanti a lui c’era Anthea, mentre al proprio fianco c’era Thor.
 
“La testa… staccategli la testa” sputò fuori, tutto d’un fiato, e il dio del tuono tornò all’attacco, ributtandosi nella mischia.
Steve non si rese subito conto che Thor l’aveva lasciato in buone mani. Se ne accorse solo quando la visione gli tornò improvvisamente chiara e il corpo recuperò autosufficienza e reattività, nonostante qualche spillo di dolore ancora presente.
 
“Sei con me, Steve?”
Anthea, dietro di lui, aveva una mano poggiata sulla schiena del super soldato.
Lei l’aveva appena guarito?
Se ne fosse uscito vivo, avrebbe fatto in modo di ficcarle in testa che toccarlo per quel fine era assolutamente off-limits.
“Sì, ci sono” si limitò a risponderle, ma un’occhiata tagliente riuscì comunque a lanciargliela, ricevendo indietro un sorriso tirato.
“Stacchiamo la testa a questi cosi” fu l’invito dell’oneiriana, che si pentiva di non aver portato con sé la spada dall’elsa bianca, spaventata dall’idea di intaccare maggiormente lo stato di salute in corso di degenerazione.
 
La ragazza si mise al lavoro. Era terribilmente difficile combattere in quella situazione. Più passava il tempo, più le sembrava di sentire le energie calare drasticamente. Le ferite che si stava procurando non guarivano e non riusciva a concentrarsi abbastanza per utilizzare quei poteri che l’avevano resa sempre più sicura e intraprendente sul campo di battaglia. Inoltre, mai come allora, odiava l’idea di non riuscire a tenere sott’occhio i suoi compagni. Se prima non avesse visto Thor farsi largo fra un ammasso di Ultra Soldati, non si sarebbe minimamente accorta della situazione di Steve. Lo stava momentaneamente odiando, perché era evidente faticasse a rimanere perfettamente concentrato sullo scontro. Voleva farsi ammazzare?
Anthea era certa che anche Thor se ne fosse accorto. Se non ci fossero stati il dio e Hulk, che stavano tenendo a bada un numero considerevole di Ultra Soldati, sarebbero stati abbastanza spacciati.
L’oneiriana saltò alla gola di uno di quei mostri e lo fece letteralmente, perché gli strinse le mani attorno al collo taurino e le rese incandescenti, utilizzando l’affinità al fuoco che era riuscita a trasformare in un’arma letale e multifunzionale negli ultimi anni. La pelle e i muscoli si sciolsero quasi fossero cera e le ossa cedettero, ma l’Ultra Soldato riuscì a colpirla prima di perdere la testa.
Anthea strinse i denti e si scostò dal corpo mutilato. Si portò una mano sul fianco sinistro, dove le unghie del mostro avevano aperto un buco nel tessuto della maglia prima e nella carne dopo.
Dannazione.
Schivò l’attacco di un Ultra Soldato, ma non sfuggì al pugno di un altro arrivatole alle spalle. La colpì dritta in faccia e la vista si oscurò. Sentì lo schianto della propria nuca sull’asfalto e perse i sensi per pochi istanti.
Blackout.
Ebbe la sensazione che qualcosa di bruciante all’interno del corpo la abbandonasse di colpo e infine sopraggiunse il silenzio.
 
 
 
֎
 
 
 
Cosa diavolo stava succedendo?
 
Stark si bloccò a mezz’aria, incredulo. Al posto dell’ammasso di Ultra Soldati che i suoi compagni stavano cercando di tenere a bada, c’era adesso un’isola di distruzione che si estendeva per un raggio di almeno mezzo chilometro. L’asfalto della strada era percorso da grosse crepe e gli edifici in quell’area avevano subito danni non indifferenti. Tutti coloro che si erano trovati nel raggio d’azione di quell’evento surreale erano stati spazzati via, senza alcuna discriminazione.
Iron Man attivò le comunicazioni a distanza, nella speranza di sentire almeno una voce.
 
“Ragazzi, battete un colpo se siete vivi. Vi prego.”
 
Ci furono attimi infiniti di silenzio, durante i quali Tony sentì il panico attanagliargli le viscere.
 
“Non sono ancora morto, uomo di metallo. Vedo Banner. È vivo anche lui.”
 
Due.
 
“Vivo. E credo di vedere Anthea.”
 
Quattro.
 
“Ci sono, Stark.”
 
Cinque. Anche Rogers era ancora fra i vivi.
 
La linea tornò muta.
 
 
Dannazione. Che gran casino.
 
 
 
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Rogers si tirò su con un po’ di fatica e si guardò intorno, leggermente spaesato. Non riusciva a spiegarsi cosa fosse successo. Pochi attimi prima stava combattendo e poi qualcosa l’aveva trascinato via, facendolo sentire come una fogliolina in balia di un uragano.
Aveva perso anche lo scudo. Ottimo.
Era finito più vicino al cuore della città ed era circondato da edifici che riportavano segni dell’avvenimento assurdo e a causa del quale ora si ritrovava da solo. C’erano persone lungo la strada, spaventate e disorientate, sicuramente corse fuori dagli edifici che erano stati scossi dall’onda d’urto. Tante indossavano ancora i pigiami e lo stavano guardando con un misto di terrore e speranza negli sguardi.
Non ebbe modo di dare forma ad altri pensieri, perché qualcosa di ferreo lo artigliò per un braccio e lo strattonò, costringendolo a fare un giro su sé stesso. Anche l’altro braccio finì fra grinfie ferree e decise a non permettergli di scappare.
Steve si ritrovò faccia a faccia con Brock Rumlow e il suo sadico sorriso storto.
 
“Ci rivediamo, Rogers. E stavolta salderemo i conti, che tu lo voglia o meno.”
 
“Non è proprio il momento, Rumlow.”
 
“Se vuoi liberarti di me, dovrai uccidermi. Altrimenti sarò io a uccidere te.”
 
Il Capitano non aveva molta scelta. Affrontare Rumlow era l’unica soluzione per impedirgli di ostacolarlo ancora. Doveva metterlo fuori combattimento nel minor tempo possibile.
“E va bene” acconsentì allora il biondo, affilando lo sguardo.
Brock ghignò, ma prima di lasciar andare il giovane, diede voce ad un’ultima imposizione.
“Niente intromissioni, Rogers. Voglio la tua parola. Inoltre, non useremo armi se non il nostro corpo.”
“Hai la mia parola” assicurò Rogers, che ancora una volta si sorprese di quanto il suo ex supervisore lo conoscesse. Brock sapeva che avrebbe mantenuto la parola data.
 
“Diamo inizio ai giochi allora.”
 
Rogers si ritrovò libero dalla presa esercitata dagli arti meccanici di Rumlow sulle braccia e, subito dopo, lo osservò liberarsi di quegli stessi arti. Proprio come aveva detto, niente armi se non i loro corpi.
Il ragazzo però non ebbe il tempo di sentirsi sollevato, perché fu subito costretto a difendersi dagli attacchi di un altro soldato potenziato e plagiato dall’Hydra.
Rumlow combatteva con una violenza e un’aggressività che Steve non ricordava. Era sempre stato freddo e calcolatore, avaro delle energie messe a disposizione dal corpo e maniacale perfezionista nei movimenti. Invece adesso era un concentrato di rabbia e forza bruta e mirava a fargli male, più che a metterlo fuori combattimento al fine di poterlo uccidere. Rogers, dal canto suo, non riusciva ad essere decisivo come avrebbe voluto, perché qualcosa continuava a frenarlo. Si scambiarono attacchi in rapida sequenza, ma nessuno dei due andò a segno.
In un frangente, lo sguardo di Steve fu calamitato dalla figura di un Ultra Soldato che si avvicinava pericolosamente ai civili in strada. Le pupille si spostarono abbastanza da lasciare un punto cieco nelle difese innalzate contro Rumlow, il cui pugno si abbatté con violenza sul fianco sinistro, minandogli l’equilibrio. Quello stesso equilibrio fu rotto da un calcio dritto su un ginocchio, la cui rotula emise uno stridio alquanto preoccupante. Steve cadde sulla schiena, ma fu abbastanza reattivo da eseguire una capriola all’indietro e tornare in piedi. Portò la mano destra all’orecchio per accendere la ricetrasmittente e ciò gli costò un pugno nello stomaco.
“Stark” chiamò fra i denti, mentre cercava di riacquistare equilibrio ed evitava un secondo pugno diretto in faccia.
Brock ringhiò di rabbia, tirò fuori una pistola dalla fondina stretta attorno la coscia e, prima che il biondo realizzasse ciò che stava accadendo, gli trapassò la spalla destra con un proiettile. Rogers serrò istintivamente gli occhi a causa del dolore e Rumlow ne approfittò per strappargli la ricetrasmittente dall’orecchio.
“Hai infranto le regole” lo accusò Rogers, mentre premeva la mano sulla ferita sanguinante.
Brock gli mostrò il piccolo comunicatore e sorrise in modo agghiacciante.
“Tu le hai infrante. Niente intromissioni, ricordi? O hai bisogno di aiuto perché sei troppo debole per affrontarmi da solo?”
La ricetrasmittente finì schiacciata tra le dita dell’ex agente dello SHIELD. Steve lanciò uno sguardo preoccupato in direzione dei civili e si morse l’interno della guancia.
“Era per loro l’aiuto” disse fra i denti e Rumlow scoppiò a ridere.
“Povero ingenuo. Vuoi aiutare loro? Bene. Aiuta prima te stesso.”
Crossbones rinfoderò la pistola e tornò all’attacco, ma Steve scartò di lato e scattò in direzione dell’Ultra Soldato in avvicinamento, senza voltarsi a guardare indietro.
 
Tese i muscoli fino allo spasimo, richiamando a sé tutta la concentrazione che aveva a disposizione.
Doveva allontanare quel mostro dai civili. Al resto avrebbe pensato dopo.
“Ehi!” gridò a gran voce, nella speranza di attirare l’attenzione dell’Ultra Soldato. La cosa sembrò funzionare, o forse fu solo l’ordine imposto da Teschio Rosso a spingerlo verso di lui.
Okay. La fase uno era andata a buon fine. Peccato che poi venne investito e trascinato dal mostro come una bambola di pezza, finendo per infrangere quella che era probabilmente una porta a vetri o una vetrina, perché sentì chiaramente schegge di vetro tagliuzzargli la pelle. Fu sbattuto contro un muro, ma fu anche abbastanza bravo da evitare il successivo attacco del mostro, che abbatté quello stesso muro con il corpo. Caddero macerie e calcinacci e una scossa investì l’intero edificio già traballante.
La figura del mostro riemerse dalle polveri ed era letteralmente incandescente. Si mosse rapidissimo e arrivò ad un soffio dal ragazzo, le dita incandescenti prossime al suo collo scoperto, che fortunatamente rimase illeso, perché l’Ultra Soldato venne spinto lontano dalla preda.
 
“Hai ancora un conto aperto con me, ragazzino.”
 
Brock Rumlow aveva rimesso su gli arti meccanici e li aveva utilizzati per spingere via il mostro, il quale però non fu molto turbato dall’intrusione, dato che tornò a puntare l’obiettivo immediatamente.
O almeno così credeva Steve, prima che l’abominio afferrasse Rumlow per un arto meccanico e lo scaraventasse fra gli abiti esposti di quello che il biondo riuscì a identificare come un negozio d’abbigliamento.
Steve si guardò intorno e, fra i detriti, trovò uno spuntone di ferro incastrato in un pezzo del muro andato distrutto. Se ne impadronì e, senza riflettere troppo, corse in direzione di Rumlow e del mostro. L’Ultra Soldato, sentendolo arrivare, si voltò verso di lui, mentre con una mano teneva Brock per un arto meccanico e a un palmo da terra.
Il super soldato non evitò la mano incandescente, che gli si chiuse con una forza inaudita attorno al collo, e fu allora che piantò lo spuntone di ferro nella gola del mostro. L’Ultra Soldato mollò la presa su entrambe le prede, per potersi liberare dell’oggetto estraneo, ma il biondo glielo rese impossibile, perché piazzò un calcio proprio sullo spuntone e lo fece conficcare più in profondità.
Rogers lo aveva notato quando aveva mozzato la testa all’altro Ultra Soldato. Quei mostri avevano un punto debole ed era proprio la gola, dove la pelle non era impenetrabile come nel resto del corpo.

Il giovane sentiva il proprio collo bruciare e non osava toccarsi, così da evitare di scoprire l’entità del danno. L’unica cosa che alleviava il dolore della nuova ferita - sarebbe rimasto il segno, ne era certo - era guardare il mostro agonizzare. In realtà nemmeno riusciva a vedere con assoluta chiarezza, a causa della visione un po’ sfocata.
Il click di un grilletto e la sensazione del freddo metallo su una tempia aiutarono Rogers a riprendersi.
 “Hai infranto di nuovo le regole, ragazzino. Credo che mi accontenterò di farti un buco in testa, così la finiamo una volta per tutte.”

“Bel ringraziamento per averti salvato il culo.”

“L’ho salvato prima io a te, se non ricordo male.”

“Potevi lasciarmi morire, dato che ci tieni tanto a vedermi morto.”

“Non ha senso se non sono io a farti fuori.”

Steve si lasciò scappare una risata amara.
“Sai Rumlow, non ho intenzione di morire qui e per mano tua.”

Rogers fu di una rapidità eccelsa, considerando le sue non perfette condizioni. Il proiettile gli aprì un taglio sulla tempia destra e lo sparo gli fece fischiare un orecchio. Afferrò l’arma ancora calda e la strappò dalle mani metalliche di Brock, gettandola lontano. Poi si aggrappò ad entrambi gli arti meccanici del suo ex supervisore e glieli strappò via.
Schivò gli attacchi successivi e ne piazzò una decina di fila, deciso a chiudere quella storia, prima che divenisse un intralcio in una battaglia già complicata. E Steve ci sarebbe riuscito, se un pezzo di cemento non gli fosse caduto dritto in testa, facendolo stramazzare al suolo.

Brock rimase immobile, gli oggi fissi sul corpo del ragazzo, ora del tutto inerme. Scoppiò a ridere, rise in maniera incontrollata per lunghi attimi. Poi si piegò sulle ginocchia e allungò un braccio, posando le dita sulla nuca del super soldato. Quando le ritrasse, si prese un momento per osservare il sangue che ora gli imbrattava la mano.
La sua attenzione fu presto richiamata da altri pezzi di soffitto che stavano venendo giù e dalle crepe poco rassicuranti che stavano prendendo forma sul pavimento.
“Questo deve essere il karma, ragazzino. Stavolta sarò io a lasciare che un edificio crolli sulla tua testa, che può anche essere dura, ma non lo sarà abbastanza stavolta, credimi.”
Brock tornò in piedi e, dopo un ultimo sguardo ad un Rogers privo di sensi, si mosse per allontanarsi da lì.
“Addio, moccioso petulante.”
 
 
 
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“Stark.”
 
Era l’unica e ultima parola che Steve aveva pronunciato, prima che la linea diventasse muta. Cercò di rintracciare l’ultima posizione del super soldato e riuscì a circoscrivere una zona non troppo ampia.
 
“Wilson, devo abbandonarvi per un po’! Lascio a te il controllo!”
 
“Ricevuto, signor Stark” fu la risposta sicura di Sam, alle prese con l’assalto dell’ennesimo blindato e relativo plotone di soldati dell’Hydra. Metterli fuori combattimento e togliere le maschere ad ognuno di loro era un lavoraccio e, contemporaneamente, una corsa contro il tempo.
 
Iron Man attivò i propulsori e volò verso l’area individuata da JARVIS, evitando di guardare troppo lo scenario che si dipanava sotto di lui, o non avrebbe mai potuto raggiungere la sua meta. Doveva avere fiducia nei compagni che stavano già lavorando in quella zona, dove i segni di distruzione aumentavano a vista d’occhio.
“Dove diavolo sei, Rogers” parlò fra sé e sé.
Gli aveva detto di contattarlo, se ne avesse avuto bisogno, e che sarebbe stato la sua via di fuga. Il ragazzo non l’avrebbe chiamato, se non ne avesse realmente sentito il bisogno.
Iron Man individuò un gruppo di persone in prossimità di un edificio pericolante e, poco lontano, intercettò la figura di Brock Rumlow.
Nella mente cominciarono a risuonare improperi di ogni genere. Osservò quelle persone sventolare le braccia nella sua direzione ed ebbe la certezza di ciò che aveva a grandi linee immaginato.
Si infilò nell’edificio e individuò, prima di tutto, il corpo di un Ultra Soldato nella cui gola era conficcato uno spuntone di ferro. Non molto lontano c’era Steve e lo scanner nel casco dell’armatura rilevò segni vitali provenienti da lui, cosa che lo sollevò in un primo momento.
Subito dopo l’attenzione fu richiamata da un paio di Ultra Soldati all’ingresso dell’edificio.
Scaricò loro addosso un paio di piccoli missili ad alta energia, che fuoriuscirono da dispositivi innestati nelle spalle dell’armatura. Riuscì ad allontanarli per lo meno, nonostante sapesse bene che non sarebbe stato sufficiente per ammazzarli. Ma da ciò che aveva visto, Rogers il modo di ammazzarli l’aveva trovato.
Ci fu un unico e decisivo effetto collaterale causato dall’esplosione dei missili, ovvero l’edificio collassò prima del previsto, non concedendogli il tempo di prendere il compagno e di uscire da lì.
“Cazzo.”
Tony si stese letteralmente sopra il corpo del super soldato e gli coprì la testa con le braccia, sperando che fosse sufficiente a proteggerlo.
 
 
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Dopo l’onda d’urto, Barnes ci aveva messo un po’ a riprendersi ed era riuscito a tornare lucido quando aveva sentito la voce di Stark nell’orecchio.
 
“Ragazzi, battete un colpo se siete vivi. Vi prego.”
 
“Vivo. E credo di vedere Anthea.”
Il credo divenne certezza, quando si avvicinò abbastanza da non avere dubbi fosse lei. Era stesa a terra e non sembrava reagire, così la raggiunse e si accovacciò al suo fianco. Notò una brutta ferita aperta sul fianco, ma ciò che lo fece rimanere con il fiato sospeso furono le linee, diventate nere, che le segnavano la pelle di un bianco poco sano. La fece mettere seduta, sostenendola con la mano sinistra poggiata sulla sua schiena, mentre la osservava ritornare dallo stato di incoscienza.
Non era messa bene. Affatto.
“Ehi, ragazzina. Riesci a muoverti?”
Anthea portò una mano alla testa e poi distanziò quella stessa mano dal viso, abbastanza da poter mettere a fuoco le linee nere disegnate sul palmo. Spostò lo sguardo sul viso sporco di polvere e sangue di James e si sforzò di non mostrare il panico che le attanagliava le viscere.
“Posso muovermi e non solo.”
 
Barnes la aiutò a rimettersi in piedi e non gli sembrò che potesse essere in grado di fare più di qualche passo senza essere sostenuta.
“Cosa ti sta succidendo?” le chiese, seriamente in pensiero.
Non la conosceva da molto e di lei sapeva poco, ma era quanto gli bastava per fidarsi. L’aveva vista rischiare molto per aiutarli e, soprattutto, l’aveva vista mettere tutto in discussione per Steve.
Si era sempre preoccupato per l’incolumità di quello che considerava un fratello, a causa del suo inesistente spirito di autoconservazione.
Sapere che c’era una come Anthea a tenerlo d’occhio, faceva sentire Barnes più tranquillo. Ma adesso sembrava lei ad avere dannatamente bisogno d’aiuto.
Il filo dei pensieri del Soldato d’Inverno fu interrotto dall’avvicinarsi di Ultra Soldati, che avevano tutta l’intenzione di portare a termine il lavoro che era stato loro assegnato.
 
“Mi hanno stancato questi cosi. Basta esitazioni. Ti affido le mie spalle, James.”
 
Lei sorrise e Bucky poté percepire i muscoli del corpo della ragazza tendersi in maniera inverosimile, tanto che credette che potesse spezzarsi fra le sue dita.
Lo credeva impossibile, ma l’oneiriana tornò a combattere come se nulla fosse.
 
James capì che l’autoconservazione non era affatto una prerogativa di Anthea.
 
 
 
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Non riusciva a muoversi. Il peso delle macerie era spaventosamente insormontabile. Erano intrappolati e non c’era via d’uscita, se non quella di sperare nell’aiuto dei compagni.
Udì distintamente un gemito provenire dal corpo sotto di sé e percepì Steve tendersi e contrarre i muscoli, come risposta all’immobilità forzata cui era costretto.
“Mantieni la calma.”
“Tony?”
“Siamo intrappolati sotto le macerie di un edificio. Sto riattivando le comunicazioni con gli altri. Ci tireranno fuori, tranquillo.”
“Non sento più le gambe.”
“Sono dove le hai lasciate. Attaccate al tuo bacino.”
“Davvero rassicurante” rispose Steve, il cui respiro si stava facendo sempre più frenetico.
“Così riempirai i polmoni di polveri” lo riprese Stark, con un tono che non gli venne fuori troppo perentorio.
“Non riesco a respirare” confessò il ragazzo e la nota tremante che gli impreziosì la voce mise Tony in allerta.
“Sì che ci riesci. È stato Rumlow a metterti k.o.?”
Il super soldato chiuse gli occhi e si sforzò di rilassare i muscoli, anche se avere l’impressione delle interiora che si spappolano e quella delle ossa che si polverizzano gli faceva venire voglia di dibattersi e gridare. La sensazione calda del sangue sulla nuca era in netto contrasto con il gelo che gli si era infilato sottopelle.
E ancora non riusciva a riacquistare sensibilità alle gambe. Avrebbe potuto giurare di averle perse.
“Non lo so. C’era delle persone in pericolo e… dannazione... bisogna fermare gli Ultra Soldati prima che ci vada di mezzo qualche civile.”
Ecco, Steve stava di nuovo iperventilando.
“Non sempre possiamo salvare tutti.”
“Lo so, ne sono consapevole. Ma fa male lo stesso.”
Si protrasse il silenzio per un tempo che a Tony parve infinito. JARVIS stava ancora cercando di ristabilire le comunicazioni e l’ossigeno là sotto cominciava a scarseggiare. L’armatura non aveva una riserva d’aria infinita e Steve aveva già parecchie difficoltà a respirare per il fatto di essere schiacciato sotto una montagna di cemento.
Erano stati fortunati, bisognava ammetterlo, perché i detriti non avevano riempito ogni singolo spazio a loro disposizione. Anche se non passava nemmeno un flebilissimo raggio di luce, Tony era certo ci fosse uno spazio vuoto davanti a loro, piccolo ma sufficiente a non far soffocare il compagno.
“Ehi, sei ancora con me?”
“Più o meno. Svegliami quando saremo fuori” fu la flebile risposta che ottenne dal super soldato.
“Non puoi lasciarmi da solo. Ho paura del buio e divento pazzo se mi molli ora.”
Da Steve provenne un suono soffocato che Tony interpretò come una risata.
“Guarda che non scherzavo, soldato senza paura.”
“Io ho paura.”
Stark prese la palla al balzo. Nonostante l’argomento avrebbe toccato punti delicati, era indispensabile tenere sveglio il ragazzo.
“E di cosa avresti paura? Sentiamo.”
“Di rimanere solo. Di fallire. Di perdervi per una decisione sbagliata. Di non essere...”
Abbastanza.”
“Mi leggi nel pensiero, Stark?”
Steve inspirò con un po’ troppa forza per riprendere fiato, ma finì per essere scosso da colpi di tosse, che gli fecero vibrare la gabbia toracica pressata tra la terra e Iron Man.
Stark, istintivamente, cercò di inarcare la schiena verso l’alto, per alleggerire la pressione sul corpo del ragazzo, ma i suoi sforzi furono vani. Attese che la tosse gli si calmasse e controllò di nuovo le comunicazioni.
Offline.
“Non dispongo di poteri paranormali. È che ti capisco. Steve? Ci sei?”
Il Capitano emise un appena udibile lamento.
“Adesso devi ascoltarmi, perché non ripeterò una seconda volta queste parole. Mi sbagliavo su di te. Niente di ciò che hai di speciale deriva da un’ampolla. Ti ha reso più forte, ma non ha cambiato quello che sei e che sei sempre stato. Forse ora capisco perché mio padre tenesse a te. Sei uno dei pochi che non mi dispiace avere intorno. Ispiri fiducia. Quindi scusa per averti dato dell’esperimento di laboratorio.”
Per Tony non era facile confessare cose del genere, ma la situazione disperata gli aveva dato una spinta e ora sentiva il cuore più leggero. La litigata sull’Helicarrier gli era rimasta impressa a fuoco nella memoria, perché erano volate parole davvero taglienti. Erano stati meschini, come lo stesso Thor aveva detto. Forse era tardi, ma voleva che Steve sapesse che si era pentito per ciò che gli aveva sputato in faccia quel lontano giorno. Era meglio tralasciare il fatto che ci fosse voluta una situazione tanto tragica per fargli vuotare il sacco.
“Non credi che uscirò da qui, vero?”
“Mi pare ovvio. Non posso rischiare che tu vada in giro a raccontare che sono capace di certe sdolcinatezze.”
La sincera ironia di quell’ultimo scambio, li aiutò a sentire meno la pressione delle macerie. Non erano mai stati così vicini, sia fisicamente sia mentalmente.
“Anche io mi sbagliavo. Sei un egocentrico altruista. Forse è vero che il filo spinato lo tagli, ma spesso lo fai per permettere agli altri di attraversarlo senza che rimangano feriti.”
E Tony sorrise. Sorrise e basta. Nemmeno Steve aveva dimenticato quella maledetta discussione.
Un pensiero densamente scuro fece improvvisamente capolino nella mente dell’inventore.
“Essere Iron Man mi toglie spesso il sonno. Ho voluto riunire gli Avengers, ma non l’ho fatto solo per il mondo, l’ho fatto anche per me, perché con voi mi sento...”
L’esitazione si mescolava all’incertezza, mentre Tony cercava di esprimere un concetto radicato nel suo animo, eppure apparentemente così estraneo. Perché Tony Stark era un genio sì, ma la realtà dei sentimenti era un mondo oscuro e inesplorato ai suoi occhi e gli incuteva timore, anche se il suo richiamo suadente lo ipnotizzava tanto da attirarlo nel suo caldo grembo. E non era forse la sinfonia regolare di un cuore quella che risuonava, non appena varcata la soglia di tale mondo? Ecco cosa lo spaventava. Il non riuscire a sentire più la voce della ragione, sovrastata dalla voce irrazionale dei sentimenti.
“Al sicuro?”
La voce impastata di Steve, tremante di sforzo, riacciuffò Tony e lo guidò di nuovo verso la realtà, una realtà ora fredda e buia.
“Al sicuro. Sì. La solitudine fa paura anche a me ed è strano, perché sono sempre stato solo. Mi piaceva stare solo.”
Il biondo si lasciò scappare uno sbuffo divertito.
“Io cerco di fare un discorso profondo e tu ridi? Ringrazia che non posso muovermi.”
Avrebbe voluto infilarci più finta serietà in quella specie di minaccia, ma l’eco di una risata trattenuta mandò a monte il suo piano.
“Non sono abituato a un Tony Stark così profondo. ”
La morsa del dolore affondò i denti nel costato del super soldato e un rantolo soffocato gli vibrò in gola.
“Dannazione! Ma perché queste cazzo di comunicazioni non ripartono.”
“Niente panico” fu il balbettio flebile di Rogers.
“Ma tu-”
“Posso farcela. E poi devo ancora prendere a calci parecchie persone.”
“Non sei stanco di combattere? Di subire torti e violenze? Quei bastardi sono ancora in vantaggio e arriveremo al game over andando avanti di questo passo. Comincio a perdere le speranze. Tutto continua ad andare a rotoli. Sembra che il destino si sia accanito contro di noi. Ci lascia vedere un bagliore di luce e poi ci getta in un buio peggiore.”
Il silenzio calò di nuovo su di loro, pensate e gelido.
“Steve, io-”
“Siamo noi a costruire la nostra storia. Non esistono destini o disegni divini in grado di fermarci, se non vogliamo essere fermati. A morire sarà colui che perderà ogni speranza. Continua a credere e non sarai mai sconfitto davvero. Cadrai, ma ti rialzerai ancora e ancora. Devi credere, Tony. In qualsiasi cosa tu ritenga degna essere il tuo appiglio, il tuo punto fermo.”
Implacabilmente determinato. Anche schiacciato sotto una montagna di cemento, con il respiro spezzato e le ossa in procinto di imprecare con sonori crack, Steve riusciva ad essere quell’appiglio, quel punto fermo, di cui aveva bisogno per credere che tutto sarebbe andato bene.
“E tu in cosa credi, Steve?”
Un nuovo sbuffo. Uno sbuffo stanco, ma segno di una vita che testardamente continuava ad ardere in quel corpo temprato.
“Nei miei compagni che, nonostante gli errori che ho commesso, non hanno smesso di credere in me.”
 
“Sì, credo in lui tanto da mettere in gioco la mia corona, che non vale nemmeno la metà di quanto valga lui.”
Tony ricordò le parole dell’oneiriana. Davvero tutto si fondava semplicemente sul credere l’uno nell’altro? Bastava quello a tener saldi mente e cuore?
 
“Anthea.”
“Cosa, Stark?”
“Lei forse può sentirti, così come quando è venuta a tirarti fuori dalla base dove eri stato rinchiuso. Ho bisogno che tu ti concentri su di lei, adesso.”
“Va bene, posso provare.”
Non che ci fossero alternative.
 
“Resistete. Arrivo” furono le parole che, dopo svariati tentativi, Rogers sentì risuonare nella testa.
 
“Viene a prenderci.”
 
“Devo almeno un favore a quella piccoletta. E tu continua a parlare. Giuro che te la faccio pagare cara se mi molli prima che lei arrivi, chiaro?”
 
Tony non ottenne risposta.
 
“Dannazione. Sbrigati, ragazzina, per favore.”
 
 
֎
 
 
Riprendere i sensi fu come essere artigliato per le spalle ed essere scosso con una violenza tale da far vibrare tutto dentro di lui, dagli organi, alle ossa, ai muscoli. Fu come se l’effetto dell’anestesia giungesse al termine prima del tempo, facendo sì che potesse tornare a sentire il dolore di un corpo che aveva da un po’ superato il limite di sopportazione.
Aprì gli occhi a fatica e trovò ad attenderlo iridi blu come gli abissi. Quello fu un maledetto Déjà Vu. Non proprio maledetto, in realtà. Aveva un non so che di nostalgico.
 
“Ehi” fu il sussurro della ragazza a cui quegli occhi appartenevano.
“Hai un aspetto orribile” le disse con un filo di voce, ma in realtà dovette evitare di mostrare lo sbigottimento dovuto alla vista del viso di Anthea, segnato da linee serpeggianti e nere come la pece. Qualsiasi cosa le stesse succedendo, non si trattava di niente di buono, ne era certo.
“Potrei dire lo stesso di te.”
La ragazza si scostò per permettergli di mettersi seduto. Steve si guardò intorno e individuò le figure di Stark e Barnes, a pochi passi da loro. Entrambi sembravano stare bene e questo non poteva che fargli piacere. Tony, che aveva rinunciato al casco dell’armatura per scrollarsi dalla pelle la sensazione di claustrofobia provata finché la ragazzina non aveva tirato lui e Steve fuori da un ammasso di macerie, sorrise in direzione del super soldato.
“Visto che ti sei ripreso, posso quasi perdonarti per avermi mollato là sotto.”
“Mi dispiace” si scusò Steve e Stark scosse il capo, facendogli un rapido occhiolino.
 
“Dove siamo?” chiese poi il biondo e fu Stark a rispondergli con un semplice “Nel primo vicolo decente e abbastanza nascosto che abbiamo trovato.”
 
Rogers si tirò su e si appoggiò ad una parete del suddetto vicolo. Gli formicolavano le gambe e respirare era faticoso, ma poteva ancora farcela, era stato in situazioni peggiori.
Basta con stupidi errori.
 
Prima che qualcuno dicesse qualsiasi altra cosa, dal cielo piombarono quasi contemporaneamente gli altri membri della squadra.
“Ah, giusto. Ho chiamato a raccolta tutti per una rapida e temporanea ritirata. Ci serve una riorganizzazione o verremo sopraffatti presto” spiegò Iron Man, usando una leggerezza che entrava in netto contrasto con l’espressione divenuta più cupa.
 
“Lungo la strada ho trovato questo, Capitano.”
Thor, che stava porgendo lo scudo in vibranio a Steve, non era messo troppo male, a parte diverse bruciature sulle braccia e un sopracciglio tagliato. Il super soldato lo ringraziò, scambiando con lui uno sguardo che non aveva bisogno di parole.
Hulk, una volta arrivato nel vicolo, era tornato Banner. Il dottore aveva riportato diverse ferite sparse su tutto il corpo ed era costretto a tenere i pantaloni slabbrati con le mani.
Sam aveva portato con sé Natasha e Clint. I tre meno provvisti di protezioni soprannaturali o ultratecnologiche, se l’erano cavata alla grande nella gestione dei soldati dell’Hydra, ma nonostante tutte non avevano trovato alcuna traccia di Teschio Rosso.
Con loro tre era arrivata una quarta persona, estranea alla squadra ma ormai nota.
Kristen Myers era parecchio sconvolta. La coda di cavallo che raccoglieva i capelli nerissimi era un disastro e le profonde occhiaie scure risaltavano anche sulla sua carnagione olivastra. La donna scandagliò le persone intorno a lei con uno sguardo che tradiva una certa speranza, speranza che quelle stesse persone riuscissero a risolvere l’immane casino in atto.
 
“L’abbiamo recuperata per strada. Sembrava che volesse tanto unirsi a noi, dato che c’è mancato poco che si facesse uccidere” spiegò Sam, senza nascondere la diffidenza che provava nei confronti della donna.
Kristen, con gli occhi di tutti puntati addosso, prese coraggio e vuotò il sacco.
“Io ho provato a fermarlo, ma Adam Lewis è riuscito ad attivare il corpo sintetico e sta venendo a cercarvi. Mi dispiace.”
La mora faticava a trattenere le lacrime e dovette appoggiarsi ad una parete, per evitare di cadere a causa della debolezza che l’aveva assalita.
 
“Ma quel vecchio bastardo non era mezzo morto?” sbottò Barton, che non ne poteva più di questi infiniti colpi di scena.
Già erano nella merda fino al collo, quindi non avevano bisogno di fottuti guai aggiuntivi.
 
“Ha utilizzato un siero creato da lui stesso per far divenire silente il dolore e rendere il corpo attivo per un periodo di tempo che gli è stato sufficiente a portare a termine il lavoro. Non è servito a nulla portargli via le altre fiale.”
La Myers portò una mano alla fronte e cercò di non scoppiare a piangere. Non era più in grado di sostenere tutta quella situazione. Avrebbe voluto sparire da lì in quello stesso istante.
“Mi dispiace” ripeté e stavolta i suoi occhi verdi si posarono sulla figura del super soldato, come in cerca di un appiglio.
“Quanto è forte questo corpo sintetico?” chiese allora Rogers, con una calma fuori luogo ma che aiutò Kristen a riprendersi un po’.
“Non lo so. Nessuno lo sa, se non Lewis.”
 
“In realtà io un’idea me la sono fatta” intervenne Banner, attirando su di sé tutta l’attenzione.
“Mentre lavoravo per lui sotto l’influsso dello scettro, Lewis mi ha fornito tutte le informazioni necessarie per portare a termine l’esperimento. Quel corpo è praticamente una macchina. Non c’è nulla di vivo in lui e nella sua testa abbiamo impiantato un sistema neuronale particolare, una A.I. influenzabile al pari di un cervello umano. Non è come i suoi compari derivati da umani a cui è stata annullata la coscienza. E poi contiene materia organica appartenente a Daskalos e anche quella che anni fa Lewis ha sottratto a te, Anthea. Il risultato è una grosso incognita per lo stesso Lewis.”
 
L’attenzione generale si spostò sull’oneiriana. Lei non si scompose, anzi, l’espressione che ora dipingeva il volto era glaciale e risoluta.
“Abbiamo davvero bisogno di sapere cosa sia quella cosa? Farla a pezzi sarà sufficiente.”
C’erano delle volte in cui sapeva essere agghiacciante.

“Sono d’accordo con lei” acconsentì James e Thor seguì con un “Mi unisco anche io a questa linea, compagni.”

Kristen si ritrovò ad osservare Anthea e si chiese chi fosse e che tipo di legame avesse con i Vendicatori. L’oneiriana dovette sentirsi osservata, perché la Myers incrociò il suo sguardo e rabbrividì.

“Cosa facciamo allora?” chiese Banner.
 
Calò il silenzio, mentre lo sguardo di ognuno era fisso su vuoti, che cercavano di riempire con speranze vanescenti e certezze solide quanto morbida frolla.
In quel momento tanto delicato, Sam si sentiva impotente, come quando era rimasto a guardare Riley schiantarsi al suolo. Con Riley era morta una parte di Sam Wilson e quella parte sembrava essere inverosimilmente resuscitata quando Steve Rogers aveva bussato alla sua porta, chiedendo il suo aiuto. La certezza che non avrebbe più messo piede su un campo di battaglia era crollata con Steve Rogers e il suo innegabile talento a cacciarsi in guai più grandi di lui. Ora non si trattava più dell’Afghanistan, ma dell’intero pianeta, e decise che l’impotenza poteva anche andare a farsi fottere, perché non sarebbe più rimasto a guardare. Sam prese fiato e aprì bocca, lasciando che le emozioni di quell’attimo si trasformassero in parole.
“Non credo che arriveremo a capo di qualcosa standocene fermi, in attesa di una qualche divina illuminazione. È un casino, ve lo concedo, ma cazzo! Non possono vincere i cattivi, chiunque essi siano. Non lasciate che vi facciano a pezzi. Hanno osato sfrattarvi da casa vostra. Hanno osato etichettarvi come criminali. Hanno osato usare alcuni di voi per i loro scopi. Adesso, se accollarvi la salvezza dell’umanità e tutta quella roba da eroi vi pesa troppo, lasciate stare. Ma almeno vendicate voi stessi, perdio.”
 
Ci furono attimi di smarrimento generale, poi fu Barton a sbloccare la situazione, riportando alla mente dei compagni ciò che avevano stabilito prima di tornare a lavorare come una squadra.
Sembravano passati anni da allora.
“Facciamo casino, o meglio, facciamo ricorso alla nostra Caratteristica Avengeriana Sviluppata Incessantemente Nonostante Obiezioni. Che ne dite?”
“Oh no, Barton, io direi Cronica Affezione Seriamente Imprescindibile Neurologicamente Ostruttiva.”
Bruce sorrise, sfidando l’arciere con un’occhiata divertita.
La successiva reazione provenne ovviamente da Stark, che non poteva non dire la sua.
“È Concordanza Al Suicidio Infame Nondimeno Oneroso, ragazzi. E non accetto obiezioni.”
“E invece è Cretinaggine Abnorme Sorprendentemente Insuperabile Non Ovviabile” concluse Natasha, che faticava a rimanere seria, nonostante l’assurda situazione.
 
“Rogers! È vero che la mia è migliore?”
Clint cercò di trovare un consenso che decretasse la sua indiscussa vittoria e, sorprendentemente, quel consenso lo trovò davvero.

“Questa volta devo dargli ragione. E non guardatemi così. Piuttosto, siate più ottimisti voi altri.”
Steve stava sorridendo e nelle iridi cerulee si era accesa una scintilla che Anthea non poté non notare.
“Torniamo sul campo e troviamo Teschio Rosso o costringiamolo a venire fuori, privandolo del suo esercito. Gli Ultra Soldati hanno un punto debole. Puntate alla gola o staccate loro la testa. Per quanto riguarda il corpo sintetico, facciamolo a pezzi.”
 
Bene, il morale non era più sotto i piedi. Adesso bisognava agire, prima che la nuova fiamma di determinazione si affievolisse. Avevano battuto in ritirata una volta, ma non ce ne sarebbe stata una seconda. Appena usciti da quel vicolo, sarebbe stato un “o la va o la spacca”, i cui risvolti però avrebbero determinato niente meno che il destino dell’umanità.
I Vendicatori cominciarono a muoversi e Stark si premurò di dare a Rogers una ricetrasmittente nuova, perché rimanere in contatto sarebbe stato essenziale.

“Precedetemi. Vi raggiungo in un attimo” disse infine il super soldato e i compagni annuirono senza fare domande.
 
Rogers si avvicinò a Kristen e lei lo guardò con una certa tristezza, scandagliando le vistose ferite che lui aveva riportato.
“Hai con te quelle fiale che inibiscono il dolore?” le chiese lui, diretto.
La donna rimase immobile di fronte lo sguardo intenso del super soldato e le ci vollero alcuni secondi prima di riuscire a rispondere.
“Sì...”
“Funzionerebbero su di me?”
“Credo di sì, ma hanno durata limitata e alla fine ti presentano il conto. Non dovresti... potresti stare molto male... e le tue emozioni verranno come congelate…” cercò di dissuaderlo la mora, ma si rese conto di non essere riuscita ad essere molto ferma e convincente.
“Mi basta che funzionino. Non preoccuparti, me la caverò.”
Il giovane sorrise e Kristen, a malincuore, prese dalla sua borsa le cinque fialette in questione, ma esitò prima di consegnargliele. Steve le prese, le infilò in una delle tasche dei pantaloni della divisa e quando risollevò lo sguardo quasi sussultò, perché solo allora si accorse della presenza di Anthea, che nel frattempo si era avvicinata.
“Quanto forte è quella roba? Funzionerebbe ad esempio su un corpo come quello degli Ultra Soldati?”
Adesso Steve stava guardando l’oneiriana con occhi spalancati e l’espressione di chi crede di aver capito male ciò che invece ha sentito più che bene.
Kristen, dal canto suo, rimase per un attimo incantata di fronte alla strana ragazza, piena di linee nere ritratte ovunque sulla pelle scoperta.
“Su di loro funzionerebbe se si utilizzassero dosi più elevate. Due o tre fiale forse concederebbero un paio di ore di immunità. Ma già assumendo una sola fiala, si rischierebbe parecchio.”
Anthea annuì e la ringraziò, per poi farsi da parte, in attesa che anche Steve si muovesse.
Il biondo ringraziò a sua volta Kristen e fece per andare via, ma lei lo afferrò per un polso, fermandolo.
“Mi dispiace per tutto quanto” disse, sinceramente affranta.
Steve scosse il capo.
“Sei stata coraggiosa. Mettiti al sicuro e lascia fare a noi adesso. Troveremo un modo per sistemare le cose.”
La donna lo lasciò andare e rimase ad osservarlo andare via assieme alla particolare ragazza, finché non furono entrambi fuori dal vicolo.
 
Poco fuori dal vicolo, Anthea fermò Steve, afferrandolo con poca delicatezza per un braccio.
“Steve.”
Il super soldato sospirò.
“Vuoi farlo davvero?”
“Certo. Non puoi rifiutare, perché sono disposta ad arrivare a costringerti a farmi dare quelle fiale, credimi.”
 
“Sai essere convincente, questo te lo concedo. Ma se…”
 
“Niente sé e niente ma, Rogers. Non stavolta. Devo aiutarvi e quello è l’unico modo. Non posso farcela in questo stato e non guarderò morire uno di voi perché sono troppo debole per fare qualcosa. Inoltre vi ho detto che sarei stata io ad occuparmi del corpo sintetico e lo farò, costi quel che costi.”
 
E Steve non riuscì a replicare, perché lo sguardo di Anthea gli aveva bloccato ogni protesta in gola e perché, nonostante gli costasse ammetterlo, non sarebbe stato in grado di farle cambiare idea.
 
Era questo che lei provava quando lui metteva a rischio la propria vita, senza se e senza ma?
Beh, faceva dannatamente male.
 
“La tua capacità di dare una seconda possibilità alle persone mi stupisce sempre” buttò fuori, di punto in bianco, la ragazza.
Quando avevano parlato sul tetto della casa sicura di Clint, Anthea era entrata nella mente di Steve e aveva visto cosa gli era accaduta durante il tempo in cui Teschio Rosso l’aveva tenuto prigioniero. E anche quella donna gli aveva fatto del male, eppure la cosa non gli aveva impedito di essere gentile con lei.
 
Steve le sorrise e rispose con un semplice ma profondo “Credo nelle persone.”
 

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Capitolo 18
*** Lost within ***


Lost within
 
 
Crawl out of the hole you’re in
Who you are is not who you’ve been
Now is the time to sink or swim
Will you fight the tide or get lost within?
 
 
Di Teschio Rosso non c’era traccia. Non c’era traccia sui blindati che Falcon, Iron Man, Vedova Nera e Occhio di Falco avevano letteralmente ribaltato e perquisito. Non c’era traccia sui jet che Fury e i suoi si erano impegnati ad abbattere.
La Testa dell’Hydra sembrava essere scomparsa nel nulla, nell’esatto momento in cui era uscita dal Pentagono. E dire che era su Schmidt che i Vendicatori avrebbero dovuto concentrare le forze.
Se adesso qualcuno avesse chiesto ad ogni membro della squadra cosa pensasse del prossimo futuro di quello scontro, avrebbe sorprendentemente ottenuto una risposta abbastanza unanime: non si sarebbero fermati, finché i loro corpi non avessero perduto totalmente la capacità di muoversi, questo era il solo prossimo futuro che potevano vedere dinanzi a loro. Il resto non contava.
La ricerca di Teschio Rosso arrivò al termine prima del previsto, perché fu il ricercato stesso a farsi trovare. O meglio, successe che il suo corpo venne fuori come dal nulla, mentre la battaglia si stava concentrando sempre più in un’unica zona, dove Ultra Soldati, soldati dell’Hydra, agenti dello SHIELD e la squadra allargata dei Vendicatori, formavano un ammasso di membra dimenanti fra polvere e sangue. C’era una confusione assurda e nelle orecchie di chiunque risuonavano grida, spari e colpi di qualunque tipo ed intensità. Come fosse possibile non impazzire, rimaneva un mistero.
Nonostante qualsiasi tipo di distrazione sarebbe potuta costare cara, ci furono comunque occhi che si alzarono verso il cielo rischiarato dalla luce soffusa dell’alba, nel momento in cui un corpo prese a precipitare da un punto non definito.
 
“Teschio Rosso” furono le due parole che Stark fece risuonare nell’orecchio di Rogers.
 
Capitan America si distrasse, ma stavolta con la consapevolezza di avere le spalle coperte dallo stesso Iron Man, che aveva già previsto cosa avrebbe comportato avvisarlo della presenza di Schmidt.
Il ragazzo sentì montare dentro di sé una rabbia che ebbe l’effetto di annichilire tutto il dolore e la fatica di quel momento. Non aveva ancora preso il siero della Myers, perché aveva deciso di conservalo per tempi peggiori. E sì, il suo era un pensiero pessimista, dato che credeva che le cose sarebbero andate a scatafascio ancora di più. Quel pensiero era nato proprio dalla prolungata assenza di Teschio Rosso. Sapeva che lui sarebbe arrivato e avrebbe portato con sé altri guai, nonostante i guai li stessero già sommergendo.
 
“Anthea! Spingimi laggiù! Ordine non discutibile!”
 
Steve aveva appena usato con lei la voce da Capitan America, quella vera. L’oneiriana si voltò indietro e lo vide fissare lo scudo sulla schiena e iniziare a correre a rotta di collo, in direzione del corpo in caduta libera. Lo odiò per un lungo istante, quell’Idiota patentato. Lui e le sue stupide idee folli. Strinse tra i denti il labbro inferiore e tentò di concentrarsi sufficientemente, prima di lasciare via libera al potere della sua mente, comportandosi come ci si comporta quando si deve stringere fra le mani un oggetto fragile e di valore.
“Sta’ attento” lo avvertì tramite la ricetrasmittente, esternando una certa preoccupazione.
 
Il biondo perse contatto con il terreno e convogliò tutta la concentrazione sull’obiettivo dinanzi a lui, preparandosi ad abbatterlo, come fosse un proiettile.
Steve voleva dannatamene vincere quella battaglia. Non avrebbe lottato fino all’estinguersi delle energie, per poi soccombere nel tentativo di fermare i piani di pazzi assetati di potere. Avrebbe vinto, spezzando le ossa a quei bastardi le cui mani grondavano di sangue innocente e che si erano presi gioco di lui. Doveva assolutamente mettere da parte ogni remora o indugio e tirar fuori il peggio di sé.
Arrivò sul corpo di Teschio Rosso ad una velocità impressionante e non gli servì spiegare ad Anthea cosa fare dopo l’impatto, perché lei li spinse verso il basso, di nuovo sul terreno, facendo attenzione che fosse la Testa dell’Hydra ad impattare sulla schiena.
Il Capitano si ritrovò sopra il nemico e, senza esitazione, lo colpì violentemente sulla mascella con una serie di pugni che avrebbero spappolato la faccia di una persona normale, mentre si limitarono a fratturare le ossa della prima versione venuta fuori dalla formula di Erskine. Poi il giovane saltò in piedi e sferrò due calci consecutivi, finalizzati a spaccare le rotule di quel corpo stranamente troppo immobile.
Steve si fermò. Aveva il fiato corto e il sudore gli colava a grosse gocce sul viso sporco. La realizzazione prese ad insinuarsi lentamente nella sua mente scossa, ma fu preceduta dalla schiacciante realtà dei fatti, perché dinanzi a lui piombò una figura imponente, alta all’incirca due metri e mezzo e dalla stazza non dissimile da quella di Hulk.
Le proporzioni di quel corpo erano decisamente perfette, nonostante la grandezza e l’altezza anomale. I muscoli dell’entità erano sviluppati, ma non eccessivamente, dando l’impressione di possedere un’elasticità sopraffina. La pelle violacea era liscia e luminosa, sembrava essere fatta di metallo. La testa era priva di capelli e il viso aveva lineamenti spigolosi e spaventosamente umani. I suoi occhi, rossi come il sangue vivo, possedevano un magnetismo innaturale. Gli ricordavano quelli di Anthea. Era coperto solo da un paio di cargo neri e da lunghi stivali del medesimo colore.
Un essere anatomicamente perfetto e potenziato. Quello doveva essere il capolavoro di Adam Lewis, non un semplice surrogato di Daskalos, non un semplice corpo sintetico.
 
“Ho deciso di affrontarti, mio caro ragazzo. E ti farò a pezzi con queste nuove mani.”

Steve trattenne i fiato. Quella che era uscita dalla bocca dell’essere era la voce di Teschio Rosso, ne era certo. Il biondo spostò gli occhi sul corpo contro cui si era scagliato, il corpo che avrebbe dovuto essere Teschio Rosso. Quel corpo era immobile, privo di vita.

“Ma come...”

Il super soldato non riuscì a finire la frase, perché la mano destra dalle dita affusolate dell’essere si strinse attorno la sua gola, già segnata dalla brutta ferita causatagli dall’Ultra Soldato affrontato in precedenza. L’aria smise immediatamente di entrargli nei polmoni e gli occhi rossi del diamante di Lewis si fissarono nei suoi, la cui limpidezza si fece più torbida.
 
“Addio, ragazzo.”

Le dita affusolate dell’entità, invece di serrarsi per strappare al super soldato la vita una volta per tutte, si aprirono con uno spasimo.
Steve tornò a respirare e portò entrambe le mani al collo in fiamme. Lo sguardo sfocato si piantò sull’asfalto, in attesa che la lucidità tornasse ad assisterlo.

“Questo giochetto non ti riuscirà una seconda volta” furono le successive parole di Teschio Rosso.

“Lo vedremo.”
Anthea era arrivata lì in un soffio. Lacrime di sangue le stavano segnando il volto pallido. Eppure non c’erano segni di sofferenza nell’espressione decisamente incazzata.
Steve capì che lei aveva preso le tre fiale del composto della Myers, quelle tre fiale che si era fatta consegnare da lui, senza se e senza ma.
L’oneiriana aveva deciso di dare il tutto per tutto e questo significava indubbiamente che lei riteneva la situazione abbastanza disperata. Una volta finito l’effetto del composto di immunità al dolore, probabilmente il suo corpo sarebbe crollato di schianto.
Era un rischio che lei era disposta a correre. Aveva la forza per fermare l’arma di Lewis, o almeno così sperava. C’era qualcosa in quell’essere che la spaventava. Gli occhi rossi, che ora la guardavano con intensità, erano capaci di farla rabbrividire ed era un brutto segno.

“Qui ci penso io, Steve. Non voglio che nessuno di voi si intrometta.”
 
“Anthea” provò lui, ma vanamente, perché lei lo spinse indietro con la telecinesi, come invito non ritrattabile a lasciarla sola.
“Possiamo farcela. Non arrenderti, Steve. Conto su di te. Va’ adesso.”
Anthea regalò al super soldato un ultimo sorriso e uno sguardo di una profondità quasi destabilizzante.
 
“Lui non va proprio da nessuna parte.”
Teschio Rosso, all’interno del corpo perfetto creato da Lewis, cercò di portare a termine ciò che Anthea gli aveva impedito di compiere qualche attimo prima.
L’oneiriana però fu rapida a frapporsi fra Schmidt e il super soldato. Quel mostro sarebbe dovuto passare sul suo cadavere, se voleva arrivare a Steve.
“Va’, Steve!” gli ordinò e lui, seppur restio, seguì la volontà della giovane guerriera.
 
Sul campo di battaglia la confusione crebbe esponenzialmente e la città prese ad essere scossa da forze difficilmente comprensibili.
Washington stava diventando sempre più il cuore dello scontro. Il panico alleggiava sulla città come un’ombra e la fievole luce rappresentata da forze dell’ordine e protezione civile non era abbastanza intensa per rappresentare un faro di speranza e di guida. Questo fu il motivo che costrinse Fury a impiegare una parte dei suoi per mettere in sicurezza quanti più civili possibili, prima che fosse tardi.
I Vendicatori erano concentrati a gestire gli Ultra Soldati, puntando letteralmente alla loro gola.
La stessa Natasha, coperta dagli sguardi attenti di Barton e Thor, stava osando avvicinarsi a quei mostri non appena vedeva aprirsi una finestra d’azione. Se l’avessero presa, non immaginava come avrebbero potuto ridurla, ma ciò non le avrebbe impedito di fare la sua parte.
Barnes stava utilizzando tutte le capacità in possesso del Soldato d’Inverno, in modo da aprire la strada alla Vedova Nera. , era con James che Natasha stava collaborando in modo più ravvicinato e insieme stavano funzionando sorprendentemente bene. Singolarmente non avrebbero potuto gestire un Ultra Soldato, ma in due non diventava più così impossibile. Il Soldato d’Inverno le creava i giusti diversivi e la Vedova Nera dava il colpo di grazia, utilizzando affilati coltelli per incidere e lacerare la gola dei mostri. Era poi Barnes a strappare loro la testa con l’aiuto del braccio di metallo.
Barton e Wilson erano quelli che tendevano più a supervisionare la situazione, non partecipando direttamente ad un corpo a corpo, ma facendo in modo che nessuno dei loro compagni si avvicinasse al punto di non ritorno. Il loro compito era di coprire la schiena ai compagni, depistando e distraendo con qualunque mezzo gli Ultra Soldati che rischiavano di coglierli di sorpresa. Il ruolo che avevano era più determinante di quanto si potesse immaginare, dato il numero di mostri ancora in vita. In loro era stata riposta una cieca fiducia, perché i membri della squadra direttamente coinvolti nello scontro avevano smesso da un po’ di guardarsi le spalle con assiduità, in modo da potersi concentrare sul nemico che invece avevano di fronte. Un errore da parte di Occhio di Falco o di Falcon avrebbe portato a gravi conseguenze, ma questo pensiero aiutava i due a mantenere un livello di concentrazione che di umano aveva ben poco.
Thor era parecchio incisivo nello scontro diretto. La sua forza era sufficiente a contrastare la potenza e la precisone che caratterizzavano lo stile di combattimento degli Ultra Soldati. Ciò gli dava una minima possibilità di andare in aiuto dei suoi compagni, in caso di bisogno. Poteva permettersi di reggere più colpi e danni rispetto un essere umano.
Banner era l’elemento che compensava l’inferiorità numerica dei Vendicatori nei confronti degli Ultra Soldati. Hulk ne poteva gestire più di uno contemporaneamente e, nonostante stesse riportando evidenti ferite, le sue prestazioni non calavano minimamente. Quella battaglia per Bruce era diventata personale dal momento in cui il nemico lo aveva usato contro i suoi stessi amici e, forse per la prima volta, le entità del dottore e del gigante verde erano in sinergia e le loro volontà erano tese dalla stessa linea di pensiero. Per la prima volta, Bruce Banner poteva combattere senza essere eclissato dalla personalità aggressiva e irrazionale dell’Altro e, nonostante gli risultasse ancora strano, sentiva più suo quel grosso corpo verde, così come sentiva più sua la voglia di combattere per difendere gli amici e distruggere i nemici.
Poi c’era Stark, la cui super tecnologica armatura gli consentiva di essere multifunzionale. Lui riusciva sia a supervisionare sia a combattere, nonostante dovesse prestare molta attenzione a non farsi schiacciare come una lattina dalle mani di quei mostri estremamente potenti. L’attacco a distanza era in quel momento il suo punto forte, perché anche se non riusciva ad ucciderli, poteva danneggiarli abbastanza da creare finestre d’azione per i compagni. Durante la rigenerazione, nonostante fosse un processo sorprendentemente rapido, gli Ultra Soldati tendevano ad essere un minimo più vulnerabili e Iron Man era ben contento di creare quel tipo di spiraglio, soprattutto quando c’era un Capitan America che difficilmente se li stava lasciando scappare quegli spiragli. Tony dovette ammettere che il super soldato sapeva essere spaventoso e, riflettendoci, non aveva mai visto questo lato di lui.
Lo Steve Rogers post-Triskelion era diverso dal ragazzo che aveva conosciuto quando Fury li aveva uniti la prima volta ed era diverso anche dal ragazzo con cui aveva condiviso gli anni successivi, fino alla prima separazione dei Vendicatori.
Lo Steve Rogers attuale combatteva con freddezza, precisione, dosata ma evidente violenza e sembrava quasi essere in grado di annullare le emozioni. Lo SHIELD - o l’Hydra, a seconda dei punti di vista - aveva fatto davvero un lavoro eccelso con lui, rendendolo un’arma che sulla Terra avrebbe avuto pochi rivali. James Barnes e Natasha Romanoff avevano ricevuto lo stesso trattamento e adesso cercavano testardamente di recuperare l’umanità perduta. Tony non credeva che Steve avesse perduto la sua di umanità, ma decisamente era capace di metterla in ombra in caso di bisogno e vederlo staccare la testa agli Ultra Soldati senza battere ciglio ne era una prova. Assomigliava decisamente alla Romanoff dei vecchi tempi in quei momenti, o al Soldato d’Inverno prima che James Barnes riemergesse dall’oscurità in cui era stato confinato a lungo. Rogers non aveva assunto un tale atteggiamento dinanzi ai suoi occhi fino ad allora. Quando lo scontro era iniziato, il ragazzo aveva rischiato di farsi ammazzare dalla scarsa concentrazione e dalla scarsa incisione. Lo aveva visto esitare e cercare invano di farsi forza, per affrontare quell’assurda situazione, nonostante fosse a pezzi.
Qualcosa doveva avergli dato la spinta giusta adesso.
Tony individuò quel qualcosa, o meglio, quel qualcuno capace di influenzare il super soldato più di quanto credesse.
Anthea era distante adesso, perché aveva fatto in modo di portare lo scontro con il corpo sintetico lontano da loro. L’aria vibrava ad ogni colpo che si scambiavano e, da ciò che Stark era riuscito a intravedere, per l’oneiriana non sembrava essere una battaglia semplice.
Tony era stato abituato a pensare a lei come ad un’entità invincibile, senza punti deboli, capace di fare qualsiasi cosa. Solo ora, capiva quanto questi pensieri fossero sbagliati. Anthea poteva essere ferita e poteva essere uccisa, perché nonostante il potere che possedeva, il suo animo era ancora troppo fragile per sopportarlo, tanto da essersi spezzato in due.
Steve aveva comunicato a tutti loro che l’oneiriana aveva chiesto, senza voler sentire ragioni, che non vi fossero intromissioni nello scontro con il nuovo Teschio Rosso. Tuttavia, erano pronti a sostenerla nel caso ce ne fosse stato bisogno.
Uniti potevano farcela. Uniti potevano vincere.
 
 
֎
 
 
And I know you’re feeling low
Feel like you’ve lost control
 
 
Il pensiero che non sarebbe riuscita a gestire quel mostro iniziò a farle capolino nella mente. Nonostante il composto della Myers impedisse al dolore di assalirla, continuava a persistere il problema della debolezza.
Cosa stava accadendo esattamente dentro di lei?
Credeva di esserci arrivata alla risposta, quando aveva visto Heith. Eppure, c’era ancora qualcosa che non riusciva a vedere chiaramente.
Secondo quanto detto da Damastis, Heith era una conseguenza di un grande potere legato ad una grande instabilità. E sempre secondo Damastis, Heith aveva agito alle sue spalle con l’unico obiettivo di prendere il controllo del corpo che condividevano.
Quella sarebbe stata una ragionevole spiegazione, se Anthea non l’avesse ritenuta sbagliata e in contrasto con ciò che invece sentiva fosse la verità.
L’oneiriana bloccò un pugno diretto al viso con entrambe le mani e spinse indietro il nemico, sollevando subito dopo le mani. Mossa azzardata e pericolosa, ma necessaria.
 
“Questa è una forma di resa, ragazza?”
Teschio Rosso si era fermato a sua volta e adesso guardava Anthea con tutta l’intensità che quegli occhi inumani gli permettevano.
 
“Voglio sapere cosa è successo fra noi e quando” buttò fuori l’oneiriana, tutto d’un fiato.
 
La Testa dell’Hydra scoppiò a ridere e rise a lungo.
“Mia cara, capisco la tua confusione. Non deve essere facile essere raggirati dall’interno e non riuscire più a fidarsi di se stessi. Dato che in parte devo a te il mio ritorno sulla Terra, ti concederò alcune risposte.”
 
Anthea rimase in silenzio e attese. Doveva sapere cosa era accaduto. Voleva saperlo.
 
“La Convergenza ci ha fatti incontrare. Era il novembre 2013 e lo ricordo perfettamente, dato che è stata la prima cosa di cui sono venuto a conoscenza, una volta arrivato sulla Terra.”
 
“Sei arrivato sulla Terra il giorno della Convergenza?”
 
“Esatto. E sei stata tu a portarmi qui, dopo aver caricato la spada di energia. Comuni obiettivi portano a stringere patti convenienti per entrambe le parti, mia cara. Poi sono rimasto nell’ombra, in attesa del momento giusto per riprendermi la mia Hydra. Morto Pearce, colui che era al comando allora, c’era bisogno di qualcuno che riportasse l’organizzazione alla vetta e chi poteva farlo meglio del suo originale creatore?”
 
L’oneiriana cercò di richiamare alla mente l’incontro con la Testa dell’Hydra, ma non c’era niente fra i suoi ricordi risalente a quel dannato evento. E poi…
“Hai parlato di comuni obiettivi e patti convenienti. Eppure io non riesco nemmeno ad immaginare per quale motivo avrei dovuto chiedere il tuo aiuto. Quel giorno, Heith avrebbe potuto assorbire l’energia della Convergenza. Perché portare te sulla Terra? Perché affidare a te la spada?”
 
“Ti serviva qualcuno che uccidesse Steve Rogers” le sbatté in faccia il capo dell’Hydra, ma non ottenne l’effetto desiderato, perché Anthea scosse il capo e piegò le labbra in un sorriso di scherno.
 
“Io non avevo minimamente il controllo su me stessa e la vendetta è lei a volerla consumare, quindi non ti avrebbe mai ceduto un tale onore. Heith non aveva bisogno di te.”
 
Anthea era riuscita a riunire tutti gli oneiriani già all’inizio del 2014 e tre mesi dopo, in aprile, era tornata da Steve, sulla Terra. In quell’ultima occasione doveva aver consegnato il Tesseract a Teschio Rosso.
Ma di nuovo, perché avrebbe dovuto farlo? Perché Heith avrebbe dovuto servirsi di un tale stratagemma?
Non aveva senso. Niente di tutto quello aveva senso. Lei conosceva la parte oscura che si portava dentro ed era un concentrato di istinti violenti, di odio e di rabbia.
 
Crea il caos, voglio vedere questo pianeta in ginocchio. La prossima volta che ci vedremo non saprò chi tu sia e non sarò dalla tua parte. Sarà allora che mi colpirai, perché sarò più vulnerabile a causa del terrestre. Queste sono state le tue esatte parole quando sei tornata sulla Terra per consegnarmi il Tesseract. E io ho mantenuto la parola data. La fortuna poi ha voluto che l’Hydra fosse in possesso di uno scettro dai poteri mistici e l’ho usato per controllare chi non voleva sottomettersi, Consiglio della Sicurezza, CIA, FBI, esercito. L’unica cosa che rimaneva da fare era togliere di mezzo i Vendicatori.”
 
“Avresti potuto uccidere Steve, ma non lo hai fatto.”
 
“Avevo bisogno di lui.”
 
“Ma Heith voleva che tu lo uccidessi. Lo hai detto tu stesso. Chi ti ha consegnato la mia spada?”
L’oneiriana cominciò a rivedere tutto ciò che le era accaduto dal momento in cui aveva lasciato la Terra. Ritrovare gli oneiriani era stato più semplice che riunirli come popolo. Eppure lei non si era mai arresa e non aveva dato cenni di cedimento, almeno fin quando non si era ritrovata la corona sulla testa ed erano cominciati i momenti di vuoto.
 
“Sei stata tu.”
Teschio Rosso la stava guardando negli occhi con fermezza.
 
“Io quella spada l’ho lasciata ad Asgard. Ho affrontato Thor con quella spada” asserì invece la ragazza, con estrema sicurezza.
E nonostante tutto il casino che aveva combinato sia sulla Terra sia su Nuova Oneiro, il Consiglio l’aveva lasciata partire. L’avevano lasciata andare in un momento tanto delicato, dopo anni in cui il permesso di lasciare il trono non l’aveva mai avuto.
Qualcosa non tornava. Qualcosa era dannatamente fuori posto.
 
Teschio Rosso parve spazientirsi di colpo e tornò ad attaccare, facendole capire che il tempo delle parole era ufficialmente terminato. Stavolta il mostro era determinato a farla fuori seriamente e le dimostrò che avrebbe potuto sopraffarla senza troppe difficoltà, superandola in forza e in velocità. La prese alla sprovvista, mandandole contro una vera e propria palla di fuoco generatasi dalle lunghe dita violacee e poi si immerse egli stesso in quell’esplosione di fiamme azzurre, forte della propria invulnerabilità. Arrivò a colpirla duramente e ripetutamente, fino a spedirla dritta contro un palazzo, la cui facciata le crollò addosso, seppellendola viva, mentre le fiamme si estinguevano.
 
“Non hai speranza contro di me. Hai perso, giovane sovrana. Ormai non servi più.”
 
La risposta di Anthea non si fece attendere. La terra tremò, tremò forte, i pezzi di cemento che le erano crollati addosso si sollevarono un poco alla volta e la ragazza riemerse dalla tomba di detriti. La maglia era stata completamente bruciata e strappata via ed era rimasta con addosso delle nere bende oneiriane che le avvolgevano i seni e che arrivavano poco sotto di essi. Anche i pantaloni erano stati danneggiati e adesso lasciavano scoperta la coscia destra, sulla quale si era aperto un lungo taglio, mentre la gamba sinistra era coperta solo fin sopra il ginocchio.
Il fuoco le aveva portato via anche i lunghi capelli color caramello, a partire dalla base del collo. Non era riuscita a schermare tutto il corpo e le zone lasciate scoperte erano rimaste alla mercé delle fiamme. Il viso e la testa erano state le prime cose che aveva cercato di proteggere. Stava perdendo tanto sangue e iniziava a sentire di nuovo il dolore, nonostante non fosse trascorsa nemmeno un’ora.
Gridò di rabbia, le linee nere si allargarono fino a coprirle quasi tutta la pelle. Anche la sclera dei suoi occhi si colorò di nero, mentre le iridi si accesero di luce e la ragione vacillò. Dagli occhi colava sangue che le solcava le guance e scivolava a terra e lungo il collo.
Teschio Rosso rimase immobile, incapace di capire cosa stesse accadendo alla ragazza. Poi si sentì trascinare verso di lei da una forza sorprendente e non riuscì ad opporsi, fino a che non fu una manciata di passi a separarli. Una forza crescente prese a stritolarlo e capì che l’oneiriana stava attingendo a tutto il potere che riusciva a racimolare per toglierlo di mezzo definitivamente.
 
“Pensi di poter vincere così? Illusa.”
 
Anthea perse la presa sul corpo creato da Lewis e, stavolta, una forza invisibile ma poderosa agì su di lei, come una gravità insopportabile. Sotto i suoi piedi il terreno si spaccò, fino ad inghiottirla.
L’attimo dopo averla seppellita, Teschio Rosso fu investito da una colonna di fuoco che si sprigionò da sotto i suoi piedi. L’oneiriana riemerse dalle fauci della terra e si scagliò sul nemico, infliggendogli un pugno infuocato in pieno addome e riuscendo a segnargli leggermente la lucida pelle violacea.
In risposta, Schmidt le artigliò un braccio con violenza e il suono delle ossa che si spezzano raggiunse le orecchie di entrambi.
“Fragile” la derise il mostro, mentre lei si tirava indietro e tratteneva a stento le grida di dolore, quello stesso dolore che era tornato ad accendersi e stava diventando sempre più insopportabile, tanto da attentare ai suoi sensi.
 
Fu allora che Thor intervenne, ingaggiando Teschio Rosso in una lotta basata sulla sola forza bruta.
Anthea riprese il controllo del proprio corpo e della propria mente. Sollevò il braccio destro, quello ancora sano, e chiuse gli occhi. Immaginò il cuore artificiale del corpo sintetico nella mente, quello stesso cuore che aveva sentito palpitare poco prima, quando aveva investito Teschio Rosso con il suo potere. Iniziò a chiudere lentamente la mano destra, come se fra le sue dita stesse stringendo lo stesso cuore. Riaprì gli occhi e vide che Schmidt era in ginocchio, di fronte ad un Thor che lo osservava dall’alto.
Ancora un po’ fu il pensiero della giovane oneiriana. E fu certa di essere sul punto di strappar via la vita al mostro, quando l’azione del potere cessò di colpò e lei smise di respirare.
Anthea guardò prima Thor, notando a malapena il terrore sul suo viso, poi abbassò lo sguardo e gli occhi si posarono sulla lama che le fuoriusciva direttamente dall’addome. Rimase immobile, incapace di contrarre anche un solo muscolo, incapace di reagire o anche solo di pensare. La lama le fu rimossa con forza dal corpo e un fiotto di sangue macchiò l’asfalto ai suoi piedi.
Poi la presenza ferma alle sue spalle si mosse, girandole attorno fino a posizionarsi proprio di fronte a lei, la cui luce negli occhi diveniva sempre più fioca.
Nonostante il sangue che le stava risalendo lungo la gola e quello che già poteva sentire in bocca, Anthea pronunciò il nome della persona che adesso la stava guardando con in faccia stampato un sorriso composto e gelido.
 
“Antares.”
 
Thor non poteva credere ai suoi occhi. Si era già odiato per aver atteso troppo prima di intervenire, lasciando a Teschio Rosso l’opportunità di ridurre Anthea ad uno straccio.
Ma questo. Questo era troppo.
Si sentiva totalmente impotente dinanzi la nuova ed inaspettata intromissione.
Come avrebbero fermato la nuova versione potenziata di Teschio Rosso? Come avrebbero fermato l’oneiriano traditore?
Come, senza di lei?
Il dio del tuono, del tutto istintivamente, cercò un solo sguardo in una momento tanto disperato. E quello sguardo lo trovò senza alcuna fatica, più vicino di quanto si sarebbe aspettato.
Il giovane super soldato doveva aver corso fino lì. Respirava con affanno, ma l’espressione stravolta non era di certo dovuta alla fatica. Era immobile anche lui, incapace di reagire.
 
Allora Anthea lasciò che l’oscurità l’accogliesse, i sensi l’abbandonarono e il corpo cedette.
Blackout. Poi ebbe la sensazione che qualcosa di bruciante all’interno del corpo la abbandonasse di colpo e infine sopraggiunse il silenzio.
L’onda d’urto che il corpo dell’oneiriana generò, quasi fosse un’ultima difesa al di là della ragione e dei sensi, investì chiunque si trovasse nel raggio di mezzo chilometro e con maggiore forza i più vicini. Amici e nemici furono dispersi e venne a crearsi un momento di stasi.
 
Il suono del silenzio, surreale e denso, dominò incontrastato per attimi che parvero infiniti.
 
Quello fu il momento in cui i Vendicatori sfiorarono la disfatta. Quello fu il momento in cui il meccanismo che avevano fatto girare per gestire lo scontro andò letteralmente in frantumi.
Tuttavia, alla comparsa di un nemico inatteso, seguì la comparsa di alleati inattesi, come se l’universo avesse sentito il bisogno di riequilibrare la bilancia della sorte.
Il Bifrost si abbatté sul campo di battaglia e quando la luce si dissolse, rivelò la presenza di una decina di figure in armature scintillanti.
 
“Hai tradito tutti noi, Antares” tuonò la voce di Andras, alla testa del gruppo.
 
 
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But the darkness that you know
It’s not your home and you’re not alone
 
 
Steve ricordava di aver sentito la terra tremare, dopo che fiamme azzurre erano entrate nel suo campo visivo. Ricordava di averla cercata con lo sguardo e di essere riuscito ad intercettarla, in lontananza.
Era stato uno shock vederla ridotta in uno stato in cui mai l’aveva vista prima e ricordava di aver gridato il nome di Thor, dopo aver attivato la ricetrasmittente, totalmente ignaro del fatto che Stark gli avesse coperto spalle e petto e che avesse continuato a farlo, per evitare che la lunga distrazione gli costasse cara.
Poi ricordava di aver corso in direzione dell’oneiriana e ricordava di essere arrivato troppo tardi.
Tutto ciò che era avvenuto dopo era stato offuscato dalle emozioni in totale subbuglio e dalla botta presa a causa dell’onda d’urto irradiatasi dal corpo di Anthea.
Si era rimesso in piedi per abitudine e non sapeva cosa sarebbe stato capace di fare, se non ci fosse stata una mano tesa a riportarlo alla dura realtà.
 
“Steve Rogers, permettici di combattere al vostro fianco.”
Gli occhi glaciali di Andras si fissarono nei suoi. C’era dolore nell’espressione tesa dell’oneiriano.
“Due dei miei soldati si occuperanno di Anthea. Sento ancora vita in lei. Ma ho bisogno della tua guida in una battaglia che mi è estranea, così che possa aiutare la nostra regina.”
 
Era giunto al limite di rottura. Eppure le parole di Andras furono sufficienti a tenere insieme i pezzi del suo animo. Si fece forza, tornò ad indossare una maschera di ferma determinazione e scacciò via il terrore insidiatosi nel petto.
“Punta ai mostri viola. Tutti gli esseri con la pelle viola devono essere distrutti. Puntate alla gola o strappate loro la testa.”
 
“… e le tue emozioni verranno come congelate.”
La voce di Kristen gli risuonò con forza nella testa. Steve tirò fuori dalla tasca dei pantaloni le due fialette rimanenti con il siero della Myers e buttò giù il loro contenuto senza esitare, davanti lo sguardo fermo di Andras.
 
“Aiutami ad ammazzare quello grosso” fu l’ultima cosa che il super soldato disse, mentre il dolore e le emozioni venivano lentamente resi silenti.
 
L’oneiriano annuì e a Rogers non rimase fare altro che avvisare i compagni circa i nuovi alleati.
 
 
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Stark si era mosso il più velocemente possibile e, nonostante l’onda d’urto gli avesse dato qualche problema, era riuscito a raggiungerla.
 
“JARVIS, analizza i parametri vitali.”
 
L’attesa, seppur breve, fu snervante. Tony non osava toccare il corpo della ragazza, spaventato dall’idea di poter peggiorare la situazione. Un avambraccio era spezzato e non tutte le visibili costole erano in una posizione naturale. C’era sangue ovunque e sulle guance si erano formate incrostazioni dense e scure, che andavano a confondersi con quelle strane linee nere che le ricoprivano la pelle divenuta cianotica.
Jarvis prese ad elencare una serie di informazioni, di cui Tony riuscì a metabolizzare solo poche parole, ovvero grave e ancora viva. Poi l’inventore fu distratto da una comunicazione da parte di Rogers e, nonostante la notizia di avere nuovi potenti alleati fosse assolutamente gradita, non riuscì a sentirsi sollevato.
Fu allora che giunsero fin da lui due entità che di umano avevano solo i tratti. Le pelli candide come la neve e gli occhi di un verde chiarissimo erano in netto contrasto con i capelli castano scuro. Dalla conformazione che emergeva dalle loro armature molto attillate, era evidente che davanti a lui ci fossero un maschio e una femmina.
“Lascia a noi il compito di aiutare la regina. Possiamo salvarla.”
 
Stark non poté che farsi da parte, ma non si mosse da lì, deciso a far sì che nessuno ostacolasse quel disperato tentativo di salvare ciò che era rimasto della loro compagna, a cui avrebbe volentieri insegnato cosa significasse autoconservazione e buon senso una volta risvegliatasi, perché si sarebbe risvegliata.
Tony prese un bel respiro, accese la ricetrasmittente e parlò con voce ferma e tentò di essere il più convincente possibile.
“Ehi Rogers, sono con Anthea. Si riprenderà, non preoccuparti. È in buone mani.”
E a quelle parole decise di aggrapparsi anche lui.
 
 
 
֎
 
 
 
And all you’ve wanted was just so much more
This world has taken ahold
Don’t let them get your soul
 
 
Fu il suono del tintinnio di catene a farla riemergere dall’incoscienza.
 
“È giunto il momento di liberarsi di quelle catene, non credi?”
 
Quella voce… così familiare e lontana da lei al tempo stesso.
 
“La Convergenza sarà la tua salvezza, al contrario di ciò che credeva colui che ti ha tradito. Se ne avessi avuto la possibilità, mi sarebbe piaciuto insegnarti ad erigere solide barriere mentali, in modo che nessuno potesse usare le tue debolezze per ferirti.”
 
Non stava succedendo davvero. Era forse morta?
Le mancava il coraggio di spostare lo sguardo dai propri piedi nudi, fermi su una pozza di oscurità.
Era completamente nuda, esposta, vulnerabile, coperta solo da un fitto velo di ombre.
 
“Lasciarti la mia coscienza non si è rivelata essere una buona idea. Ho preteso che tu riuscissi a gestire quello stesso fardello che mi ha distrutto.”
 
“Smettila” fu il rantolo sommesso che lei riuscì a tirar fuori a fatica.

“Permettimi di rimediare agli errori commessi, figlia mia.
 
 
“Desidererei avere la possibilità di incontrare mio padre. Così da poterlo prendere a calci e dirgli che come padre è stato un fallimento.”
 
 
Era tutto uno scherzo. Doveva essere tutto uno scherzo. Un macabro e sadico rigirare del coltello nella piaga. Non solo aveva perso miseramente contro Teschio Rosso e Adam Lewis, non solo aveva fallito nel proteggere i suoi amici e il suo popolo e lasciato che Antares si prendesse gioco di lei. Adesso la sua mente folle si divertiva anche a farle credere che la persona che più odiava, la causa di tutte le sue sofferenze, fosse proprio lì davanti a lei.
Doveva essere opera di Heith, quella creatura che, dopo averla incontrata, si era convinta essere solo una parte di se stessa, una parte che aveva rifiutato per via dell’oscurità che si portava dietro.
 
“Non c’è nessuna Heith. Tu sei la sola ed unica padrona di te stessa e sei troppo forte perché un’entità malvagia possa anche solamente pensare di coesistere con la tua anima” le rispose la voce, come se le avesse letto nella mente.
“Hai vinto i tuoi istinti vendicativi, aspiranti al potere e alla distruzione di tutto ciò che per te poteva essere una minaccia. Hai portato a termine il compito che ti ho affidato, anteponendolo alla tua felicità, e sei diventata forte per proteggere coloro che ami. Sei…”
 
“Basta” gridò forte la ragazza, sollevando finalmente lo sguardo.
E lo vide. Aveva i suoi stessi occhi, dalle iridi blu come gli abissi, e anche lo stesso caldo colore di capelli. Era avvolto da una mantella bianca e sul viso giovane era dipinto un sorriso gentile.
Non era così che lo aveva immaginato. Aveva sempre pensato ad un uomo serioso, dagli occhi vermigli e l’espressione un po’ folle.
“Cosa sei?”
 
Lui sorrise ancora.
“Tuo padre. O meglio, la sua anima o coscienza.”
 
“Tu non sei mio padre. Io non ho un padre.”
L’oneiriana era stordita dalla rabbia, faticava a respirare e l’immagine davanti a sé vacillò.
 
“Non rifiutarmi. Sparirei per sempre e non potrei...”
 
“Cosa potresti mai fare dopo così tanti anni? È tardi e io vorrei solo cancellarti.”
Anthea poteva distintamente sentire le lacrime pizzicarle gli angoli degli occhi. Avrebbe voluto urlare forte, smettere di stare tanto male, smettere di essere sé stessa e tutto ciò che comportava essere sé stessa. Era stufa di cadere a pezzi, stanca di non riuscire a controllare niente nella sua vita.
“Sono stanca. Io non posso più continuare.”
 
“C’è chi sta combattendo per te là fuori. Vuoi davvero arrenderti adesso?”
 
Anthea sollevò il capo verso l’entità, colpita duramente e implacabilmente dalle parole da essa pronunciate.
“Io…” iniziò, ma rimase a boccheggiare, incapace di fare ordine fra i pensieri impazziti.
 
“Non sono mai riuscito a comunicare con te, ma qualsiasi cosa me lo impedisse la Convergenza l’ha distrutta. E adesso sono finalmente davanti a te. Permettimi di aiutarti.”
 
“Se anche ti permettessi di aiutarmi, ciò non significherebbe che io abbia intenzione di perdonarti.”
Fu la disperazione a parlare per lei. Aveva bisogno di un appiglio, di uno spiraglio di luce.
Tutta quell’oscurità la stava soffocando e dilaniando dall’interno.
 
“Capisco.”
 
Si protrasse un lungo silenzio e fu Anthea a romperlo, spinta da un’urgenza pressante.
“Come potresti aiutarmi, allora?”
 
“Con la verità. Tu hai ereditato il mio potere, Anthea, un potere che ti permette di fare cose straordinarie, ma che non si può controllare pienamente. Il tuo vissuto ha reso quel potere ancora più instabile e quando lo hai rifiutato, ha cercato di prendere il sopravvento, con l’unico scopo di proteggerti dalle tue debolezze. Qualsiasi cosa ti rendesse vulnerabile, quel potere l’avrebbe rimossa per te. L’entità che chiamano Heith è esistita, ma quella storia parla di un’oneiriana impazzita durante la sua ricerca di un potere sempre più grande. Il potere che tu disprezzi, invece, ti appartiene e ti ha sempre protetta, Anthea.”
 
“Quel potere voleva uccidere i miei amici” contestò la ragazza.
 
“I legami ti rendono tanto vulnerabile quanto forte. Aprire il cuore a qualcuno, significa esporsi totalmente e questo è tanto meraviglioso quanto pericoloso. Per lui moriresti, vero?
 
Anthea vacillò, ma l’ombra di un sorriso le fiorì sulle labbra.
Sarebbe decisamente morta per lui.
 
“Affermi che non esiste nessuna Heith in me, ma Damastis…”
 
“Lui è stato solo un’altra vittima di Antares. Ci sono oneiriani che hanno sviluppato la capacità di entrati nella mente, per estrapolarne contenuti o per innestarne di nuovi. Senza che tu potessi accorgertene, Antares ti ha manipolata, in modo da utilizzare il tuo potere per ridare vita ad Oneiro. Poi ha aspettato il momento in cui saresti stata abbastanza debole per ucciderti. Non avrebbe mai potuto affrontarti nel pieno delle tue forze ed è per questo che ha utilizzato la Convergenza.”
 
Anthea faticava a metabolizzare tutte quelle informazioni in una volta, eppure iniziava a sentirsi sollevata. Perché questo significava che…
 
“Non hai portato tu Teschio Rosso sulla Terra. Non hai convogliato tu l’energia della Convergenza nella spada. Non hai preso tu il Tesseract. E, sia tu sia il tuo amico asgardiano, avete combattuto sotto l’influsso di Antares, che è riuscito anche nel tentativo di plagiare il dio. Ucciderlo avrebbe scatenato troppa confusione, non pensi? Antares ti ha fatto credere di aver compiuto azioni di cui invece si è occupato lui stesso.”
 
“Tutte le volte che ho avuto un momento di vuoto, c’era Antares dietro… ma ciò che ho visto nella stanza della meditazione… c’era Heith e lei…”
 
“Hai visto ciò che Antares voleva che tu vedessi. Voleva controllarti per raggiungere i suoi scopi e poi ucciderti, perché sapeva che non avrebbe potuto controllarti per sempre. Il tuo corpo e la tua mente stavano lentamente reagendo al suo influsso, il tuo potere ti stava proteggendo, creando barriere che ti avrebbero reso immune a simili giochetti mentali.”
 
“Le lacrime di sangue…”
 
“Sì. Sono la conseguenza della lotta interna che stavi vivendo, del rigetto dell’influsso di Antares.”
 
“Perché usare il potere della Convergenza? Perché condurmi sulla Terra?”
 
Azael fece qualche passo verso di lei, rischiarando l’oscurità intorno a loro.
“Il potere della Convergenza avrebbe dovuto spaccare il tuo animo, che Antares si era premurato di rendere più fragile. A quel punto saresti stata abbastanza debole e lui stesso avrebbe potuto ucciderti, o Teschio Rosso per lui. E l’alibi fornito dalla battaglia sulla Terra sarebbe stato perfetto, non ti sembra?”
 
La ragazza si ritrovò suo malgrado ad annuire. Poi un pensiero le attraversò la mente.
 
“Sì. La prima volta che sei realmente tornata sulla Terra, l’hai fatto di tua spontanea volontà, l’hai fatto per lui e non per fargli del male, ma perché ne avevi bisogno” confermò Azael e la sua espressione si fece ancora più morbida.
 
“Come fai a sapere tutte queste cose?”
 
“Lasciarti la mia coscienza doveva essere un modo per offrirti la mia guida, ma non sono mai riuscito a comunicare con te. Però sono sempre stato presente e guardare tutto il male che ti hanno inflitto, senza avere la possibilità di aiutarti, è stato l’orrore più grande che io abbia dovuto affrontare nella mia intera esistenza. Adesso che sono qui, permettimi solo di liberarti dalle catene che ti impediscono di uscire da questa oscurità.”
 
Le catene tintinnano. C’è odore di sangue. Qualcuno piange.
Anthea rivide in pochi istanti il contenuto dei sogni, delle visioni e delle sensazioni che l’avevano tormentata. Posò gli occhi prima sui polsi e dopo sulle caviglie, vedendo solo allora le catene che la imprigionavano nella pozza di oscurità.
Senza che potesse reagire in qualche modo, si ritrovò stretta fra le braccia di Azael e un calore inteso si irradiò in lei.
“Per me è arrivato il momento di lasciarti andare. Utilizzerò l’energia del legame che mi tiene unito a te per liberarti dalle catene di Antares e per espellere dal tuo corpo l’energia della Convergenza, così che le ferite che affliggono la tua anima possano finalmente guarire. Ma tu, Anthea, devi accettarti per quella che sei e devi accettare il potere che ti appartiene. Credo in te e so che sarai migliore di me.”
 
Anthea avrebbe voluto fargli tante domande, ma in qualche modo seppe che le risposte le avrebbe trovate guardando in sé stessa. Eppure, c’era ancora qualcosa che voleva chiedergli. Dopo tutti quegli anni passati a odiarlo, a chiedersi perché l’avesse messa al mondo e a domandarsi come gli oneiriani avessero potuto riporre tanta fiducia e tante aspettative in lui, la ragazza pretendeva una sola risposta sincera.
“Hai amato mia madre e me? O siamo state solo uno strumento per liberarti dei tuoi fardelli?”
 
L’oscurità iniziava a dissolversi, scacciata da una luce sempre più calda e accecante.
 
“Vi ho amate con tutta l’anima. Non riuscire a proteggervi è il vero fardello che mi accompagnerà per l’eternità. Proteggi le persone che ami con tutta te stessa, figlia mia. Sono loro che rendono inestimabile la vita.”
 
Anthea lasciò andare le lacrime, rilassandosi fra le braccia dell’uomo.
“Lo farò.”
 
“Sei il mio orgoglio più grande. Non dubitare più di te stessa e combatti senza mai arrenderti.”
 
Le catene erano scomparse.
La luce dominava incontrastata e ad Anthea sembrò di vedere un volto dagli occhi cremisi sorriderle in lontananza.
La figura di Azael cominciò a svanire e lui la lasciò andare. Le stava sorridendo.
 
“Addio, figlia mia. Ti amerò sempre.”
 
E di lui non rimase niente, se non la sensazione del caldo abbraccio che le aveva regalato per liberarla dalla fredda oscurità.
 
“Addio, papà” sussurrò lei e sorrise, nonostante il viso fosse inondato di lacrime salate e trasparenti.
 
 
 
֎
 
 
 
The silence
You feel it cold as a winter storm

This world has taken ahold
Don’t let them get your soul
 
 
“Hai un bel coraggio a presentarti al mio cospetto, umano.”
 
“Quindi sei tu il responsabile di tutto questo. Ti sei servito di lei e io non posso proprio perdonartelo.”
 
“Pazienza. Vorrà dire che vivrò senza il tuo perdono. Con l’aiuto dei miei nuovi alleati, eliminerò prima te e poi gli oneiriani che hanno osato mettersi contro di me. Salirò sul trono che mi spetta e nessuno potrà più impedirmelo.”
 
Steve strinse con violenza i lacci dello scudo fra le dita e si scagliò contro Antares, ma prima di riuscire anche solo a raggiungerlo, si ritrovò costretto in ginocchio dai poteri psichici dell’oneiriano.
L’attimo successivo, il ragazzo non fu più in grado di respirare e capì che Antares si sarebbe accontento di soffocarlo.
 
“Sai. Non mi sarei mai aspettato che Azael mandasse sua figlia a riunire il popolo che lui stesso aveva disperso. Ma la cosa più sconcertante è stato scoprire che le aveva lasciato in eredità quel potere che ci ha già condannati una volta. Lei non è all’altezza di quel potere. Entrarle nella testa e controllarla è stato facile. Nessuno fra gli altri oneiriani voleva aprire gli occhi, così ho dovuto farmi carico io del fardello.”
Antares rise divertito, sicuro che nulla avrebbe più potuto fermarlo.
“Sai, sono riuscito a scoprire tutto sul passato della nostra giovane sovrana. Mentre dormiva, la sua vulnerabilità era tale da permettermi di scavare nei ricordi che custodiva gelosamente ed è così che ho appreso di te e di ciò che lei prova per te. E il destino ha voluto che sul pianeta in cui sono stato rifugiato per anni, prima che Anthea mi portasse su Asgard, arrivasse un giorno Teschio Rosso, un uomo che voleva vendetta contro la persona per cui Anthea avrebbe fatto qualsiasi cosa.”
 
Steve avrebbe voluto chiudere la bocca al bastardo oneiriano traditore. Ascoltare la cruda verità generava in lui un moto di dolore e disperazione. Se ripensava al momento in cui Anthea era tornata da lui, mesi prima, non poteva che darsi dello stupido per non essersi accorto subito di quanto la ragazza fosse distrutta.
 
“Alcune volte il destino sa essere sorprendente, non trovi giovane umano? Non appena ho scoperto di te, ho fatto in modo di stringere un patto con Teschio Rosso e di fare tutto ciò che era in mio potere per distruggere Anthea, prima che si trasformasse in un mostruoso cataclisma. Certo, alcune cose non sono andate proprio come previsto, ma posso accontentarmi del risultato. Trasferire l’anima di Teschio Rosso nel nuovo corpo mi ha richiesto più tempo di quello programmato, ma alla fine i miei sforzi sono stati ripagati.
Antares ghignò in modo poco rassicurante e accarezzò con lo sguardo la spada in suo possesso.
“Teschio Rosso desiderava recidere la tua vita personalmente, ma dovrà accontentarsi della tua testa. Farò in modo che tu possa raggiungerla all’inferno.”
 
L’idea di morire lì, in ginocchio di fronte al bastardo che aveva ferito Anthea nel corpo e nell’anima, accese in Steve una gelida e incontrollabile collera e, senza capire bene perché, gli tornarono alla mente le parole dell’anziano oneiriano.
 
“Ricorda che non c’è niente di più potente della volontà, figliolo.”
 
Rogers strinse i denti.
Voleva vincere quella battaglia.
Fece forza sulle gambe e sollevò un ginocchio da terra.
Voleva proteggere i suoi compagni.
Si sollevò in piedi e fissò lo sguardo tagliente in quello incredulo di Antares.
Voleva vendicare Anthea.
Tornò a respirare e mosse i primi passi in avanti, sempre più rapidi e decisi.
Antares impugnò la spada e si preparò ad accogliere il super soldato. La lama urtò contro lo scudo e l’impatto li separò di alcuni metri.
 
“Ti farò a pezzi, ragazzino insolente.”
 
“Per questo devi metterti in fila.”
 
Steve si fece avanti di nuovo. L’oneiriano tentò in tutti i modi di trafiggerlo, ma non era così veloce e lo stile di combattimento lasciava a desiderare. Forse quella era la conseguenza di aver fatto troppo affidamento sui poteri psichici.
Il super soldato schivò gli affondi di spada, fino a trovarsi nella posizione di poter piazzare un calcio nello stomaco del nemico e con quel calcio lo buttò giù.
Antares si ritrovò a terra e, nella caduta, aveva perso la presa sulla spada. Riprovò ad agire sul ragazzo con la telecinesi, ma sembrava che lui non ne risentisse.
 
“Lei era un pericolo per tutti. Era necessario che morisse. Chi l’avrebbe fermata se avesse perso il controllo?”
 
“Nessuno” rispose Rogers, mentre Antares si rimetteva in piedi e faceva qualche passo verso di lui.
 
“Esatto, nessuno avrebbe potuto…”
 
“Non c’è bisogno che nessuno la fermi, perché lei non deve essere fermata.”
 
Steve lo colpì dritto in faccia, con un rapido pungo. Lo fece ancora e ancora, finché Antares sembrò sul punto di stramazzare. L’oneiriano si aggrappò quasi con disperazione al braccio destro del super soldato e sulla faccia insanguinata comparve un macabro sorriso.
“Sei finito” sputò fuori e Steve percepì il braccio stretto fra le mani dell’oneiriano congelare.
La sensazione di gelo fu poco dopo sostituita da un dolore bruciante, che lo spinse a strattonare il braccio indietro, con una tale forza da far sì che venisse strappata via l’intera manica della divisa, che rimase nelle mani dell’oneiriano.
 
“Scusami, Tony” sussurrò il ragazzo.
Il suo braccio era stato bruciato dal freddo generato dalle dita di Antares. Sulla pelle, fino alla spalla ora nuda, si erano aperti molteplici e piccoli tagli. Però il braccio ancora lo sentiva e questo gli bastava. Il composto della Myers, inoltre, teneva a bada il dolore che altrimenti l’avrebbe fatto vacillare.
 
Antares utilizzò la telecinesi per richiamare la spada nella sua mano e per sollevare un polverone che sporcò la visuale di Rogers, rendendolo meno reattivo. L’oneiriano traditore riuscì allora ad arrivare terribilmente vicino all’affondare un colpo mortale. La punta della spada aprì un taglio orizzontale sull’uniforme del super soldato e arrivò a segnargli la pelle sotto il tessuto in fibra di carbonio, abbastanza da farlo sanguinare.
La stella argentata all’altezza del petto era stata tranciata in due e si era macchiata di rosso.
Steve ripartì all’attacco senza esitare e fece impattare la faccia di Antares contro lo scudo in vibranio. Gli afferrò il polso che teneva la spada e lo piegò tanto da romperglielo.
Il giovane entrò in possesso della spada che l’oneiriano aveva lasciato cadere e la impugnò con la mano destra, mentre nella sinistra stringeva saldamente lo scudo.
 
“Non farlo” lo supplicò allora l’oneiriano, indietreggiando.
 
“Tu non hai avuto pietà per lei. Perché io dovrei averne per te?”
 
“Io posso fermare Teschio Rosso.”
 
Steve esitò.
E quell’esitazione fu abbastanza perché la mano ancora sana di Antares arrivasse a stringersi attorno la sua gola, già ridotta male.
Fu solo per un attimo che il ragazzo riuscì a percepire il gelo irradiato dalle dita del traditore, perché l’attimo successivo quella morsa glaciale venne meno.
 
“Tu…”
L’oneiriano boccheggiò e abbassò lo sguardo dal viso di Steve alla lama che gli aveva trapassato l’addome.
 
Il super soldato ritrasse la spada e Antares cadde a terra, morto.
Steve gli dedicò un solo ultimo sguardo pieno d’odio e poi guardò la spada che teneva stretta nella mano.
Non si era sbagliato. Quella era la spada di Anthea, la spada dall’elsa bianca con cui era stato possibile persino ferire quel mostro assurdo di Daskalos.
 
Rogers prese un profondo respiro. Doveva raggiungere Thor.
 
 
“Stark, quando si sveglierà, dille che il traditore che voleva ucciderla non è più un problema per lei.”
 
 
֎
 
 
Iron bars are hell to break
Tell me now, do you know what’s at stake?
Your whole life in a blank stare haze
You walk around like the end of days
 
 
Thor era al limite.
L’essere utilizzava poteri simili a quelli di Anthea e aveva una potenza che faticava a contrastare. Nonostante l’aiuto di Andras, non erano riusciti a ferirlo seriamente.
 
“Ti prego, Steve, fa’ in fretta” pregò il dio del tuono, fra i denti.
 
Il super soldato era andato a procurarsi l’arma che aveva detto sarebbe stata in grado di ferire il mostro in cui si era trasformato Teschio Rosso. Gli aveva detto di tenere duro e di contenere in qualsiasi modo Schmidt.
Il dio del tuono aveva dato fondo a quasi tutta l’energia in suo possesso, soprattutto per resistere ai poteri psichici per cui non sembrava esserci difesa. Furono proprio quelle forze invisibili a impedirgli di muoversi, nell’esatto momento in cui la Testa dell’Hydra gli arrivò ad un palmo dal naso. Lo colpì in pieno stomaco, aprendo un buco nell’armatura argentea e ustionandogli la pelle con un pugno incandescente. Thor poté distintamente percepire le costole protestare e la vista si offuscò per un tempo abbastanza lungo, da rendergli difficile capire cosa successe negli attimi successivi. Ricordò solo di aver ricevuto un numero indefinito di botte e di essere stato sbatacchiato a destra e manca, finché la capacità di reagire era venuta completamente meno.
Si chiese se fosse stato in grado di rialzarsi stavolta. Quello scontro sembrava non avere fine e i nemici continuavano a tirare fuori assi dalla manica, come se fosse la cosa più ovvia e naturale possibile. Preferiva le battaglie basate sulla forza, Thor, e non quelle cervellotiche e che tendevano a sfuggire catastroficamente al controllo.
All’asgardiano quasi venne un colpo, quando venne tirato su con energia, ma il sollievo lo invase alla vista del profilo di Steve Rogers. Il super soldato lo aveva rimesso in piedi e gli teneva una mano dietro la schiena, come fermo sostegno.
 
“Resisti ancora un po’, Thor. Possiamo farcela.”
 
La sicurezza del ragazzo fece sorridere il dio. Riusciva sempre a dargli la conferma che riporre in lui la fiducia fosse la cosa più giusta da fare.
 
“Stavo facendo solo una pausa. Sono pronto.”
 
“Ne ero certo. E Thor, lungo la strada ho trovato questo.”
 
Thor afferrò Mjolnir dalle mani di Steve e sorrise. Quello stesso sorriso gli morì sulla bocca e, con sguardo scioccato, rimase ad osservare il ragazzo che avanzava dinanzi a lui con passo deciso.
Il dio si lasciò scappare una mezza risata, ma non disse nulla, limitandosi a seguirlo.
Steve gli aveva fatto il verso, restituendogli il favore per avergli riportato lo scudo nella riunione avvenuta nel vicolo. Il ragazzo non si era reso conto di cosa ciò implicasse. Non che Thor avesse mai avuto dubbi a riguardo. Magari avrebbero fatto una chiacchierata a riguardo, una volta vinta la battaglia.
Thor lo avrebbe seguito in capo al mondo, se Steve glielo avesse chiesto.
 
Il Capitano fissò lo scudo al braccio sinistro ed impugnò la spada dall’elsa bianca nella destra. Non aveva mai utilizzato una spada, ma si sarebbe inventato qualcosa. Vide Andras fare un volo di quelli che non si scordano facilmente, ma fortunatamente non ci rimase secco.
Schmidt stava giocando con loro. Si stava divertendo in quel nuovo ed invulnerabile corpo perfetto, perché era convinto che nulla l’avrebbe scalfito. Rogers sarebbe stato felice di sbattergli in faccia quanto si sbagliasse.
 
“Ecco il mio ragazzo.”
 
Schmidt fece in modo che sul volto del corpo sintetico si formasse un ghigno derisorio. Camminò verso il super soldato, ma rallentò il passo quando vide Thor alle spalle del giovane e la spada dall’elsa bianca nella mano di quest’ultimo.
 
“Come hai preso quella?” chiese la testa dell’Hydra.
 
Il super soldato non rispose e si preparò allo scontro.
Sarebbe bastato infilargli quella lama nel petto, giusto?
Nella realtà dei fatti, si rivelò essere un’impresa più ardua del previsto. Non riuscivano ad arrivare a
colpire il corpo sintetico, che d’altro canto scagliava contro di loro fiamme e li manovrava con dannati poteri telecinetici.

“Così non ce la faremo mai” fu l’attestazione di Andras, dopo svariati tentativi andati a vuoto.

“Non puoi fare nulla contro i poteri mentali di quel mostro?”

“Ci ho già provato, Steve Rogers, ma sono di un livello superiore.”

Andras odiava non sentirsi all’altezza, ma il potere del mostro si avvicinava terribilmente a quello
di Anthea. L’oneiriano non riusciva a congelare i sensi di colpa per essere stato coinvolto, a sua
insaputa, nel raggiro organizzato da Antares. Era stato il consigliere a spingere Anthea in un baratro
pieno di dubbi, ansia e tristezza. Da un faro luminoso che tutti loro avevano seguito con fiducia,
Antares l’aveva trasformata nell’ombra di se stessa.
Andras l’aveva colta tante volte con lo sguardo perso. L’aveva sorpresa sveglia durante la notte ad
esercitarsi sul controllo dei suoi poteri in modo quasi maniacale, ma da un certo punto in avanti c’erano
stati solo peggioramenti. E lui era rimasto a guardare, a guardarla affogare nelle lacrime versate in
silenzio e nella malinconia stretta attorno all’intero animo.
Antares le aveva tolto la volontà e la forza con cui lei si era presentata a loro all’inizio.
Una cosa però non era riuscito a fare il consigliere, ovvero intaccare la fiducia e la stima che il popolo oneiriano aveva maturato nel tempo, nei confronti di una giovane mezzosangue che aveva restituito loro una casa.
Andras si era reso conto del raggiro messo in atto ai danni di Anthea, solo dopo lo scontro che aveva
avuto con lei e il Capitano Rogers. Quello scontro gli aveva come aperto gli occhi e l’aveva portato a
dubitare del Consiglio e i dubbi l’avevano condotto a scoprire come Antares fosse riuscito a raggirare
tutti quanti, senza che nessuno nutrisse il minimo sospetto. O meglio, Anthea non si era mai troppo
fidata di lui ed era sempre stata fredda nei suoi confronti.
Se fosse uscito vivo da quello scontro, Andras si ripromise che avrebbe sistemato le cose.
Utilizzò il potere glaciale che lo contraddistingueva per attaccare il mostro, riuscendo a centrarlo con spine di ghiaccio, ma queste rimbalzarono sul corpo indistruttibile.
Venne spinto a terra e fiamme azzurre gli sfiorarono il viso. Steve, che l’aveva buttato a terra appena per impedire al fuoco di raggiungerlo, si rialzò in piedi e lo tirò su, mentre Thor copriva loro le spalle scaricando addosso a Schmidt una sequenza di fulmini.

Rogers si fece avanti ancora una volta, credendo nella breccia creata dal dio del tuono. Tentò di affondare la lama nel petto di Teschio Rosso, venendo però bloccato da catene invisibili e apparentemente indistruttibili. Steve rimase calmo e attese che Thor intervenisse e l’asgardiano non si fece attendere, arrivando a colpire il costato del mostro con il martello. Il super soldato sentì allentare la morsa psichica su di lui e affondò la spada nel petto di Schmidt.
Teschio Rosso gridò di dolore e di rabbia e si tirò indietro, trascinandosi appresso sia la spada sia il biondo che la impugnava. Le lunghe dita del corpo sintetico si strinsero attorno la lama e quella cedette, spezzandosi in due.

Steve non riuscì a crederci. Rimase a fissare per un attimo di troppo la metà della spada ancora nelle sue mani e Teschio Rosso estrasse dal petto l’altra metà, permettendo alla ferita di richiudersi all’istante.

“Mi dispiace aver mandato in frantumi le tue insulse speranze, ragazzo.”

Andras tentò di tirare indietro Steve con la telecinesi, ma Schmidt fu più rapido e lo afferrò per il braccio già messo male, mentre scagliava contro Thor una spirale di fiamme azzurre.
Rogers strinse i denti e piantò la lama spezzata nella spalla del mostro, che sfortunatamente non si scompose.
“Lasciami” fu il lamento del super soldato.
“Altrimenti?” lo sfidò Schmidt, rafforzando la presa sul suo braccio e strappandogli un grido disperato.

“Steve” lo chiamò Thor e tentò di aiutarlo, ma Teschio Rosso non glielo permise e bloccò lui e Andras a terra con i poteri psichici.

“Il terrore nei tuoi occhi è uno spettacolo magnifico, mio caro Steve.”
Schmidt chiuse le dita dell’altra mano attorno al collo del ragazzo.
Rogers colpì ripetutamente il mostro con lo scudo che teneva stretto nella mano sinistra, fino a sfinirsi. La morsa sulla gola si faceva sempre più stretta.

“Ti farò morire lentamente. Me la godrò fino in fondo la tua morte.”

“Non te lo permetterò.”

Thor, mosso da una forza di cui lui stesso si sorprese, riuscì a rompere le catene telecinetiche e si scaraventò sul mostro con una rabbia e una violenza tali da costringerlo a mollare la presa su Steve, che Andras fu in grado finalmente di allontanare dal mostro.
L’oneiriano però rimase praticamente incredulo nell’osservare il super soldato gettarsi di nuovo contro Schmidt, in aiuto dell’asgardiano. Che avesse rischiato di rimetterci il collo un secondo prima, non sembrava essere un problema per lui.
Rogers saltò sulle spalle del corpo sintetico e riprovò con la tattica utilizzata per gli Ultra Soldati, ovvero usare lo scudo per tranciargli la testa. Thor lanciò il martello e colpì il bordo dello scudo, facendo sì che si conficcasse nella gola del mostro.

Teschio Rosso, di risposta, fece lievitare la punta spezzata della spada, abbandonata a terra, e la mandò a conficcarsi nella spalla sinistra di Thor. In realtà aveva mirato al cuore, ma la ferita alla gola gli aveva sottratto concentrazione. Afferrò lo scudo e lo estrasse dalla giugulare. Si levò Rogers di dosso e lo sbatté sull’asfalto, per poi mettergli un piede sulla schiena, in modo da tenerlo giù.
 
“È divertente mandare in fumo i vostri miserabili tentativi di fermarmi.”

Schmidt sollevò il piede dalla schiena di Rogers, ma solo per potergli assestare un calcio nelle costole e spedirlo lontano da lui, come fosse un sassolino fastidioso sulla sua strada.
Il dio del tuono, ignorando il dolore, estrasse dalla spalla la lama spezzata e raggiunse Steve. Si accovacciò al suo fianco e gli pose una mano sulla spalla.
“Non mollarmi, Capitano.”
Il ragazzo riuscì a mettersi carponi e sputò sangue sull’asfalto grigio. Prese un paio di respiri profondi.
“Tranquillo, non ti libererai così facilmente di me” fu la promessa che Thor ricevette in risposta.
 
“Il tempo dei giochi è finito. Ho testato questo corpo abbastanza da aver preso la giusta confidenza.”
Schmidt non si era mai sentito tanto invincibile. Quel corpo poteva fare qualsiasi cosa e le vite di
coloro che lo affrontavano apparivano come bazzecole.

“Sono d’accordo con te. Basta giocare.”

In quel momento, Teschio Rosso non provò un turbamento concreto, eppure poté letteralmente sentir tirare un’aria diversa. La cosa che più lo mandò in bestia, fu vedere la speranza riaccendersi negli sguardi dei suoi nemici.

“Sta’ arrivando, Cap” risuonò la voce di Stark nell’orecchio destro del super soldato.

“È già qui.”
Steve non riuscì a trattenere un sorriso e, improvvisamente, sentì meno freddo. Si rialzò in piedi, sostenuto da Thor e ignorando le fitte alle costole. Era tanto incredulo quanto felice di vederla avanzare sicura sulle sue gambe, pronta a combattere al loro fianco.
Le linee nere che l’avevano segnata in modo indelebile erano scomparse e, assieme a loro, era scomparso anche il pallore insano del volto. Il corpo, ormai lasciato per la maggior parte scoperto a causa del primo scontro con Schmidt, sembrava essere guarito dalle ferite più gravi e al loro posto  erano rimasti segni rosei, prova evidente che la rigenerazione era tornata a funzionare. C’era ancora parecchio sangue ad imbrattarle la pelle. Sul viso erano rimasti appiccicati frammenti di sangue rappreso e c’era l’ombra di quello che era stato rimosso senza troppa accortezza.

“Non è male il tuo nuovo aspetto. Potrei farci un pensiero” fu il modo in cui Thor accolse l’oneiriana.

“Non staresti affatto male con un taglio più corto” fu la tranquilla constatazione di Anthea, prima che la
sua attenzione si spostasse su Steve.
“Per Antares… io…”

“La spada... l’ha spezzata. Mi dispiace” le confessò il ragazzo, non permettendole di dare voce ai pensieri riguardo l’oneiriano traditore.

“Non preoccuparti. L’importante è che non abbia spezzato te, Steve.”

Anthea non riuscì ad evitare di provare una stretta allo stomaco dinanzi lo stato del super soldato. Come lui riuscisse ancora a combattere era un mistero. Il collo e il braccio destro erano ridotti terribilmente male. E poi c’era l’esteso taglio sul petto… sarebbe bastata una manciata di centimetri in più per arrivare agli organi vitali.
La ragazza scosse il capo, scacciando via immagini spaventose dalla testa, e afferrò contemporaneamente un polso di Rogers e un polso di Thor.
“Vi guarderò le spalle. Vi proteggerò dai suoi poteri psichici e renderò vani i suoi tentativi di ferirvi. Voglio che voi lo attacchiate con tutto ciò che avete, senza esitare. Uccidete quel mostro.”

Nell’osservare Anthea, a Steve parve di avere davanti una persona non più a pezzi, ma dall’animo integro e stabile come mai era stato prima di allora. In realtà, era strano anche vederla senza più i lunghi capelli. Il viso così scoperto e consumato dalla stanchezza metteva in risalto i magnetici occhi, accesi da una nuova scintilla. Il fatto che poi fosse praticamente mezza nuda non era riuscito a farselo scivolare addosso così facilmente come avrebbe dovuto, data la situazione.

“Dovreste essere tornati abbastanza in forze adesso, anche se non ho potuto agire molto sulle vostre ferite. I colpi di Schmidt e quello di Antares gli ho sentiti parecchio” ammise la giovane, consapevole degli attuali limiti che il corpo debilitato le imponeva. Avrebbe comunque dato tutto ciò che poteva dare. Se solo fosse riuscita a liberarsi delle ultime esitazioni…

Andras li raggiunse, fermando Steve dall’aprire bocca e distraendo Anthea dai suoi pensieri.
“Sono felice di vedere che stai bene” furono le parole che l’oneiriano rivolse alla giovane e lei piego le labbra in un mezzo sorriso, rispondendo poi con un “Benvenuto sulla Terra”.

Mentre il numero di Ultra Soldati veniva ridotto drasticamente, grazie alla collaborazione fra tutti gli
altri membri della squadra e gli oneiriani, il quartetto formatosi più per caso che per decisioni pensate si
preparò allo scontro decisivo.
Thor e Steve si scambiarono uno sguardo il cui significato risultò chiaro ad entrambi: “Ti proteggerò il
fianco, tu non esitare.”


Teschio Rosso, irritato dal non avere più la completa attenzione dei suoi nemici, fu il primo a muoversi, intenzionato a porre fine ai giochi.
Andras fece formare grossi spuntoni di ghiaccio dalle goccioline d’acqua naturalmente presenti nell’atmosfera e le scagliò contro il corpo sintetico, creando un diversivo per i suoi alleati.
Thor caricò il martello di energia statica e si sollevò con un salto dal terreno, per poi ripiombare sul
nemico. Il dio del tuono percepì per un attimo una forza invisibile tentare di spingerlo via, ma quella sensazioni fu troncata sul nascere e riuscì ad affondare il colpo, stordendo la Testa dell’Hydra abbastanza da permettere a Steve di conficcargli lo scudo nella spalla destra, verticalmente, tramite un lancio in cui il ragazzo mise tutta la forza che aveva in corpo.
Lo scudo divenne incandescente e Schmidt gridò irato, lanciando uno sguardo pieno di odio in direzione dell’oneiriana.
Il super soldato si fece ancora avanti e non si fermò, nemmeno quando il nemico gli lanciò contro fiamme blu prodotte dalle dita. Non che credesse di esserne immune, anzi, sapeva che ci sarebbe rimasto secco se l’avessero colpito ed era per questo che avrebbe contato su di lei, di fronte a cose più grandi di lui. E Anthea non lo deluse, perché fece estinguere quelle fiamme scatenando le proprie ed aprendogli la strada. Rogers piazzò un calcio volante sul filo dello scudo incandescente ed ottenne un taglio netto del braccio del mostro.

Anthea tirò il Capitano e lo scudo verso di lei con la forza della mente, così da allontanarli dal corpo sintetico. La ragazza si premurò di far tornare il cerchio in vibranio normale, in modo da permettere a Steve di riprenderlo senza rimanere ustionato.
“Bella mossa, Idiota” si complimentò.
“Ho avuto il giusto supporto” replicò il super soldato.

Di fronte la scena di un Teschio Rosso mutilato, l’entusiasmo si fece largo in Thor, ma la bella sensazione durò poco. Fu quando nacque un nuovo braccio al posto di quello tranciato, che all’asgardiano venne un’idea.
Erano tutti abbastanza vicini, avrebbe funzionato.
Thor richiamò il Bifrost e l’intensa luce del ponte interdimensionale si abbatté su di loro per pochi
istanti, prima di svanire.
 
 
*
 
 
“Giuro che farò il culo a quei due biondi disturbati da manie di intraprendenza, quando saranno tornati” sbottò Tony, in comunicazione con il resto della squadra.
 
“Sarò felice di unirmi a te, Stark. Quindi liberiamoci di questi mostri, così avremo tutto il tempo per prendere a calci quei due, una volta che saranno tornati” fu la risposta di Natasha.
 
“Qualcosa mi dice che le maniere forti non funzioneranno. Non funzionano mai. Mi inventerò qualcosa di più spaventoso, non appena riporteranno qui il culo” intervenne Clint.
 
“Non saranno contenti dell’accoglienza al loro ritorno, proprio per niente” sottolineò allora Sam.
 
James, nonostante fosse di fronte ad uno degli Ultra Soldati, si lasciò scappare un sorriso che infranse la maschera di fredda e sterile concentrazione. La fiducia che c’era fra quelle persone straordinarie era qualcosa di inimitabile e indistruttibile.
Non alleggiava il minimo dubbio sul fatto che i loro compagni sarebbero tornati indietro e Barnes decise che ci avrebbe creduto anche lui.
 
 
 
֎
 
 
 
And I know you’re feeling low
Feel like you’ve lost control
But the darkness that you know
It’s not your home and you’re not alone
 
 
“Potevi almeno avvisare” si lamentò Rogers, alquanto disorientato, ma con la sensazione di aver già pronunciato parole simili.
“Non c’era tempo, mi dispiace” si scusò l’asgardiano, mentre sorreggeva l’amico.
 
Fu quando il senso di nausea si fece meno intenso, che Steve capì cosa fosse passato per la testa di Thor e, probabilmente - quasi sicuramente, senza quasi -, avrebbe agito allo stesso modo al suo posto.
 
“Vuoi gettarlo in Vakuum.”
 
L’asgardiano annuì.
“Se non possiamo distruggerlo, allora spingiamolo lì dentro e liberiamoci per sempre di lui.”
 
“Quando volete” si intromise Anthea, che non mostrava segni di aver risentito del cambio d’aria.
 
Teschio Rosso, dal canto suo, sembrava stesse per uscire di senno a causa della rabbia.
Il corpo sintetico si fece incandescente e una forza invisibile investì i suoi nemici, nel tentativo di spazzarli via. Il tentativo fallì e Schmidt rivolse un ennesimo sguardo colmo di disprezzo all’oneiriana.
La stava odiando. Era una fastidiosa e limitante interferenza. Un’interferenza da eliminare al più presto.
 
“Non potrò piegarti, ma stai certo che non permetterò che tu arrivi ai miei compagni. Arrenditi, non potrai vincere contro di noi” lo sfidò lei.
 
“Iniziamo a farlo sparire, allora.”
L’attenzione si spostò su Andras, che lasciò cadere nella cascata il braccio precedentemente tranciato dal corpo sintetico, giusto per essere sicuro di eliminare tutti i pezzi.
 
“Comincia a starmi simpatico” disse Rogers, senza pensare troppo alle implicazioni di quelle parole.
 
“Poveri pazzi. Avete solo cambiato il luogo dove verrete seppelliti.”
Teschio Rosso scoppiò in una risata isterica e da quel momento in avanti si comportò alla stregua di una bestia feroce e violenta, guidata dal solo obiettivo di dilaniare i suoi avversari.

Thor e Steve fecero da linea di sfondamento, mentre Andras e Anthea coprivano loro le spalle e aprivano la strada ad attacchi frontali, volti a spingere sempre più il corpo sintetico verso Vakuum.
Schmidt riuscì ad intercettare Thor e a colpirlo violentemente. Il dio rotolò pericolosamente verso la cascata e Anthea utilizzò i suoi poteri per impedire che vi cadesse dentro. La distrazione le costò un calcio dritto nelle costole e tanto potente da spazzarla abbastanza lontano e da toglierle il fiato. Andras fu tolto di mezzo dall’ora libero rilascio dei poteri psichici di Teschio Rosso.
 
Rogers si ritrovò così momentaneamente e totalmente scoperto, ma la Testa dell’Hydra puntò dritta ad una Anthea che faticava a rimettersi in piedi dopo il colpo subito.
“No! Fermati Schmidt!” gridò forte e, senza pensare troppo, lanciò lo scudo dritto sulla sua nuca. Quel gesto fu sufficiente ad attirare l’attenzione del mostro, che si voltò verso di lui con un’espressione che lo fece rabbrividire.
Il ragazzo fu abbastanza reattivo da evitare di venir dilaniato dalle dita incandescenti del nemico, avventatosi contro di lui con una furia cieca. Rotolò fra l’erba e saltò in piedi, scudo di nuovo alla mano. Si protesse dietro il cerchio in vibranio, mentre subiva un colpo dopo l’altro, senza avere la possibilità di replicare, finché non gli venne strappata dalle mani quella sola e fidata barriera.
E Rogers si rese conto di essere fottuto.

“Steve!”

Il giovane spostò appena lo sguardo per intercettare il martello che Thor gli aveva lanciato a grandissima velocità. Afferrò l’arma al volo e la fece abbattere contro la faccia nuova di Schmidt.
Impugnare quel martello adesso fu in qualche modo scombussolante. Steve sentiva scorrere in lui un’energia nuova. Lo fece roteare tenendolo per il laccio e, quando iniziò a fare scintille, lo rilasciò. Il martello colpì un Teschio Rosso già stordito in pieno, spingendolo verso la cascata.
Rogers riprese al volo il martello tornato indietro e recuperò lo scudo. Vide Thor venirgli in contro e scambiò con lui uno sguardo d’intesa. I due Avengers si coordinarono in un modo tale da far apparire i loro movimenti studiati e premeditati, quando invece si stavano limitando a seguire l’istinto. Persino i respiri erano in perfetta sincronia, mentre attaccavano il corpo sintetico e si passavano Mjolnir per sfruttare ogni spiraglio che riuscivano ad aprire nelle sue difese.
Quell’assalto serrato sembrò funzionare, finché una scarica di energia esplose dal mostro e li investì, spingendoli via. Poi una gravità pressante li ancorò a terra, rendendo loro difficile anche respirare.

Andras, che si era da poco ripreso, guardò la scena sbigottito e la paura si fece più intensa.
Cercò Anthea e la trovò non molto lontano da lui. Era immobile, con una mano premuta sul fianco destro sanguinante e ustionato e un’espressione sofferente.

“Anthea. Lui sta evolvendo. I suoi poteri mentali stanno crescendo attimo dopo attimo. Se va avanti così...”

“Lo so.”
L’oneiriana morse l’interno della guancia, fino a sentire il sapore ferroso di sangue nella bocca.

“Ma tu, Anthea, devi accettarti per quella che sei e devi accettare il potere che ti appartiene. Credo in te e so che sarai migliore di me.”

Andare oltre la soglia.
Su Asgard aveva iniziato ad allenare duramente il corpo e la mente. Non era stato difficile temprarlo, renderlo resistente, forte e in grado di sopportare il rilascio del potere che si portava dentro. Rafforzare il corpo l’aveva aiutata a controllare meglio la mente.
Poi aveva dovuto allenare la mente stessa. Aveva passato lunghe notti a meditare, ad esplorare le oscure vie dell’inconscio, guidata dagli insegnamenti di Damastis. Si era spinta in profondità, fino a raggiungere quella che aveva sempre considerato come la soglia da non oltrepassare.
Oltre la soglia, si estendeva quello che appariva ai suoi occhi come un lago. Un lago cremisi che brillava nell’oscurità.
Adesso quello stesso lago riusciva a visualizzarlo, nonostante la battaglia in corso.
Lo sentiva. Ne percepiva il calore e il suadente richiamo.
Immaginò di superare la soglia.
Il tempo parve fermarsi, così come tutto attorno a lei. Immerse i piedi nel lago e avanzò, passo dopo passo, finché il caldo e denso liquido cremisi non le arrivò al collo.
Anthea esitò un’ultima volta. Se non fosse stata capace di controllarsi, tutti gli sforzi fatti fino a quel decisivo momento sarebbero risultati vani.

“Non dubitare più di te stessa e combatti senza mai arrenderti.”

Anthea si immerse completamente.
Non le mancò il respiro. Non si sentì affogare.
Il tempo riprese a scorrere e in un battito di ciglia fu dinanzi a Teschio Rosso.

“Fermati.”

Il potere di Schmidt cessò. Steve e Thor furono di nuovo liberi di muoversi e respirare, nonostante la sensazione della sfiorata polverizzazione delle ossa ancora permanesse loro addosso.
Anthea voltò il capo e puntò lo sguardo su Steve, che già si stava sforzando a tornare in piedi.
“Vinciamo” disse solamente l’oneiriana.
Il super soldato trattenne il fiato alla vista delle iridi cremisi fisse su di lui.
Eppur non ne fu spaventato. In qualche modo seppe che per Schmidt non ci sarebbe stata più via di scampo.
 
Teschio Rosso non si fece di certo scappare il fatto che l’oneiriana avesse spostato l’attenzione altrove, mentre lui si trovava ad un solo passo da lei. Un errore che le sarebbe costato caro.
La mano del mostro si allungò rapida verso il collo della giovane, con l’intento di stringerlo fino a spezzarlo.
Schmidt non capì come, ma a spezzarsi in due furono le ossa del suo avambraccio, nel momento in cui le dita giunsero ad un soffio dalla ragazza. Allora lei tornò a guardarlo e piegò le labbra in un ghigno agghiacciante, mentre le iridi cremisi sembravano brillare di luce propria.
Teschio Rosso non riuscì a muovere un muscolo per un tempo sufficientemente lungo, da permettere a Rogers di colpirlo in faccia prima con Mjolnir, che tornò nelle mani di Thor, e poi con un preciso lancio dello scudo.
Schmidt vacillò a tal punto da perdere l’equilibrio e, senza esitare, Thor, Steve e Anthea gli furono addosso. L’oneiriana gli piazzò un calcio nello stomaco, spingendolo indietro e costringendolo a piegarsi in avanti per l’intenso dolore provocatogli.
Thor fece schiantare sul mento del mostro che, curvato e sofferente per il colpo inflitto dalla ragazza, non ebbe alcun modo per difendersi. Il colpo fu tanto forte da spingergli violentemente la testa indietro.
Steve, come se stesse osservando la scena a rallentatore, individuò una finestra allettante. Avanzò rapido e, con estrema naturalezza, richiamò Mjolnir, che Thor si vide scivolare dalle mani. Replicò l’azione dell’asgardiano, ma stavolta riuscì a far perdere il contatto sul terreno a Schmidt, spingendolo verso l’alto. Fu allora che il super soldato, con lo scudo fermo dinanzi a sé, fece impattare il Mjolnir sul vibranio, scatenando un’onda d’urto elettrica che spedì il mostro nel vuoto.
Era un trucco che funzionava sempre.
 
Teschio Rosso cadde in Vakuum.

Mjolnir scivolò dalla mano destra di Rogers e tornò in possesso di Thor.
“Rispetta certi limiti, Capitano. Non sono ancora pronto per un rapporto a tre così profondo.”

Steve faticò a rimanere serio.
Dov’erano Stark e Barton quando servivano?
E pensare che fossero sorprendentemente e irritabilmente sempre in prima linea, quando era lui a dire cose compromettenti.

“Thor” iniziò il super soldato, ma non riuscì a dire nient’altro.
Per qualche motivo a lui oscuro, venne trascinato al dì là del bordo oltre il quale la cascata si lanciava nel vuoto.
Thor gli afferrò un braccio appena in tempo, ma la forza che cercava di risucchiare il ragazzo finì per trascinare anche lui e l’asgardiano si ritrovò steso pancia a terra, incapace di fermare il rapido scivolamento del suo corpo oltre il bordo.
Rogers abbassò lo sguardo verso il basso e intercettò Schmidt che si teneva ostinatamente aggrappato a uno spuntone di roccia, nonostante l’acqua della cascata cercasse di trascinarlo via una volta per tutte.
“Ti porterò con me all’inferno, Steve Rogers!” gridò Teschio Rosso e la sua voce generò un’eco grottesca.
Steve fu preso da un moto di panico e smise di pensare razionalmente.
“Thor lascia la presa o ci trascinerà via entrambi.”
“Non ho intenzione di perdere un altro fratello. E poi lei non ci lascerà di certo cadere.”
Thor sorrise e l’attimo successivo furono entrambi trascinati con violenza indietro, sulla stabile terra e lontano dal pericolo di precipitare.


Questa volta fu l’oneiriana a spingersi sul bordo di Vakuum. Fissò lo sguardo cremisi su Schmidt e fu solo odio ciò che gli rivolse. Immaginò, per la seconda volta in quella battaglia, il cuore artificiale del corpo sintetico nella mente e poté quasi sentire i tessuti artificiali dell’organo strapparsi, mentre dalla bocca, dal naso, dalle orecchie e dagli occhi della sua vittima sgorgavano fiotti di sangue bluastro.
Osservò Teschio Rosso cadere, definitivamente, verso un vuoto freddo e oscuro. Fu lei stessa ad accompagnarlo in quella caduta, dilaniandolo dall’interno, in modo da impedirgli di aggrapparsi ancora ad una vita che si stava premurando di sminuzzare.

“Anthea!”

La giovane arrestò il processo mentale proiettato sul corpo sintetico e si voltò verso la persona che l’aveva chiamata con disperata urgenza.
Steve stava sanguinando dagli occhi e dalle orecchie, mentre Thor aveva portato il dorso di una mano a tamponare il naso.

Dannazione. Si era lasciata andare un po’ troppo. La pressione venutasi a generare su di loro cessò di colpo e le iridi dell’oneiriana tornarono blu come la notte.

Anthea fece per parlare, ma Steve la anticipò.
“Potevi almeno avvisare.”
Non c’era due senza tre. Cos’era questa storia di tirare fuori mosse azzardate senza un minimo di consultazione?
“Ci saremmo spostati più in là. Andras nemmeno l’ha sentito.”

Che poi Andras stesse asciugando un rivolo di sangue colato dal naso, mentre li raggiungeva con fatica, non sembrò un gran problema per Rogers, che non sembrava così turbato come Anthea si era immaginata nel sentirlo gridare il suo nome.

“Non sono molto pratica ancora. Scusatemi” disse la giovane, mortificata.
 
“Non devi scusarti” fu la ferma risposta del super soldato.

“L’importante è che sia finita, compagni.”
Thor avvolse le spalle di Steve e Anthea con le braccia muscolose e utilizzò quei muscoli per strizzarli quasi dolorosamente, mentre si lasciava andare ad una risata piena di sollievo.
“Il Team Thor conquista la vittoria!”
L’asgardiano sollevò le braccia vittorioso e andò a congratularsi anche con Andras, preso dall’entusiasmo del momento.


Steve si lasciò scappare una risata. Non gli sembrava ancora vero. Faticava a realizzare il fatto che fossero davvero riusciti a fermare Teschio Rosso. Insieme.
Si accorse di avere gli occhi di Anthea puntati addosso. Lei sembrava sinceramente sorpresa.
 
“Sai ancora come si ride, Capitano Rogers. Mi fa piacere.”
Anthea coprì la già esile distanza fra loro. Allungò un braccio verso di lui e fece scivolare la mano sulla sua nuca, infilando le dita nei corti capelli biondi. Lo tirò appena verso di lei, quel tanto che le bastava per far incontrare le loro labbra in un bacio prima delicato e poi più profondo, che il sapore di sangue non fu sufficiente a rendere meno buono.
Si divisero con una certa reticenza. Si scambiarono uno sguardo intenso e non servì aggiungere alcuna parola.
 
Non era ancora finita.
 
 
 
 
 
 
I’m calling out to you
Can you hear me?

They can’t break you down
Let you hit the ground
I promise you it won’t be long
You’re feeling overwhelmed here
Drowned by the pain and the fear
The sun will come with the dawn

 
All you’ve wanted was just so much more
This world has taken ahold
Don’t let them get your soul
 
The silence
You feel it cold as a winter storm

This world has taken ahold
Don’t let them get your soul

 
Get your soul…
 
 
 
 
 
 
 
 
Note
 
Siamo alle battute finali. Mi sono divertita a scrivere questo capitolo, devo ammetterlo.
La parole in inglese che hanno accompagnato le varie fasi appartengono ad una canzone che mi ha particolarmente colpita e che ho pensato fosse adatta all’atmosfera e all’evoluzione degli eventi. Il nome della canzone è “Lost within” (che non a caso è il titolo del capitolo) dei Fivefold.
Le parole della canzone sono anche un’eco di quello che sarà il capitolo successivo.
 
Ci tengo a ringraziare Ragdoll_Cat per il costante supporto ❤️
Visto? Per adesso ho ucciso solo i cattivi!
 
Un abbraccio e alla prossima
 
Ella

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Capitolo 19
*** Into Pieces ***


Into Pieces
 
 
 
Kristen era rimasta a guardare Steve Rogers andare via assieme alla misteriosa ragazza, finché non erano spariti fuori dal vicolo in cui i Vendicatori si erano riuniti per quella che le era sembrata una ritirata strategica.
Essere stata tanto vicina a quel gruppo di persone straordinarie le aveva fatto venire brividi in grado di scuoterla da capo a piedi. Guardarli farsi forza a vicenda, motivarsi per affrontare una battaglia che li avrebbe messi a dura prova, fino a poter risultare letale, aveva fatto nascere in lei un’ammirazione che mai aveva provato prima. Una volta che era rimasta sola, si era lasciata scivolare contro la parete ed era finita seduta per terra, incapace di muoversi.
Non aveva idea di quanto tempo fosse trascorso, ma non si era ancora mossa da lì. Era stanca di scappare e non trovava la spinta necessaria per andare alla ricerca di un posto dove mettersi al riparo. Non voleva morire, eppure sentiva di meritarlo.
 
“Sei stata coraggiosa. Mettiti al sicuro e lascia fare a noi adesso. Troveremo un modo per sistemare le cose.”
 
Le parole di Steve le avevano riscaldato il cuore. Se lui l’aveva perdonata, allora forse anche lei sarebbe stata capace di perdonarsi, un giorno. Ripensò distrattamente alla ragazza dagli occhi blu e allo sguardo che il giovane Capitano le aveva riservato durante il breve discorso sul composto capace di inibire il dolore. Aveva visto negli occhi chiari di lui emergere una preoccupazione e un’agitazione che non era riuscito ad eclissare, nonostante ci avesse provato. Quel tipo di preoccupazione non l’aveva vista su di lui, nemmeno durante il breve periodo in cui Schmidt l’aveva tenuto prigioniero.
Kristen ammise di essersi sentita alquanto turbata dalla strana ragazza, tanto che aveva sentito scattare alcuni campanelli d’allarme dentro di sé e, se non ci fosse stato il super soldato, l’istinto l’avrebbe spinta a fuggire il più lontano possibile. Le era sembrato che la ragazza sapesse. Lei era…
 
“Allora sei passata dalla loro parte.”
 
L’aria le rimase incastrata nei polmoni, quando una voce familiare la raggiunse.
Alla voce sopraggiunse la figura di Brock Rumlow e Kristen né si mosse né parlò, rimanendo immobile e in attesa, conscia che un tentativo di fuga sarebbe risultato alquanto inutile.
 
“L’Hydra punisce il tradimento con una morte lenta e dolorosa” infierì Rumlow, eppure non diede segno di voler mettere in pratica le parole che le aveva sputato in faccia con gelida durezza.
Le offrì una mano invece e la aiutò a rimettersi in piedi, guardandola fissa negli occhi lucidi e arrossati.
Di fronte a quell’atteggiamento privo di qualsiasi tipo di violenza, Kristen prese coraggio e parlò con una fermezza che credeva di non possedere, soprattutto non in quel momento.
 
“Non sei stanco di essere trattato come uno strumento? Dai anima e corpo per la causa di un’organizzazione che per te non ha interesse. Che tu muoia o viva, per Schmidt o per Lewis non fa differenza. Ti hanno messo in testa che la causa di tutti i tuoi mali sia Capitan America, mentre quella causa è l’Hydra stessa, te ne sei reso conto?”
 
La Myers si sarebbe aspettata di tutto, che Rumlow si arrabbiasse, che la uccidesse, che almeno cercasse di rispondere a tono alla verità che gli aveva sbattuto in faccia, ma lui scoppiò semplicemente a ridere e una profonda tristezza tinse quella risata.
“Non sono riuscito ad ucciderlo. Ci ho provato in tutti i modi. Avrei dovuto piantargli davvero una pallottola in testa e chiudere la questione.”
Brock scosse il capo e rise ancora, stavolta con fare quasi isterico. Gli sarebbe bastato premere il grilletto, ma aveva rimandato, aveva deciso di affrontarlo diversamente, perché l’idea di piantargli una pallottola in testa e finirla lì, su due piedi, gli aveva fatto in qualche modo ribrezzo.
“Ho fatto della vendetta la mia ragione di vita e adesso credo di non volerla nemmeno più quella dannata vendetta. Patetico.”
 
Durante il periodo passato assieme a Steve Rogers, Rumlow era arrivato a sentirsi coinvolto in qualcosa che lui stesso si era poi ritrovato a dover distruggere. Era stato strano essere considerato un punto di riferimento da qualcuno ed era stato altrettanto strano provare fiducia nei confronti di quello stesso qualcuno, durante le missioni più complicate e pericolose che aveva svolto per lo SHIELD.
Dopo tanto tempo, Brock non ricordava più nemmeno cosa lo avesse spinto fra le braccia dell’Hydra. Però ricordava gli anni con la Strike come fra i più soddisfacenti della sua travagliata esistenza.
 
“Vendicati di coloro che ti hanno usato e gettato via, allora. Teschio Rosso non ha più bisogno di nessuno di noi. Fa allontanare dallo scontro i tuoi uomini o faranno tutti un’orrenda fine.”
Kristen si azzardò a stringerli un braccio con una mano tremante. Provava dolore per quell’uomo plagiato a tal punto, da non rendersi conto di aver messo la propria vita nelle mani di persone che non avevano interessa a preservarla. Il talento nel combattimento, la forza e la straordinaria resistenza avevano spinto l’Hydra a volerlo tra le proprie fila. Brock Rumlow non era riuscito ad opporsi e aveva lasciato che gli facessero il lavaggio del cervello.
Lei era stata al fianco di Rumlow durante tutta la fase di guarigione, ne aveva monitorato i progressi e aveva trovato la soluzione per far sparire le brutte cicatrici sul suo volto, fino a restituirgli i fieri e decisi lineamenti, da cui traspariva un dolore che lei era riuscita ad intravedere, nonostante lui fosse eccelso nell’ecclissare le emozioni, almeno finché non si trovava davanti agli occhi Capitan America. La prima volta che la Myers aveva visto Rumlow perdere le staffe, era stato durante il trasporto di Rogers nella base sotto le macerie del Triskelion, quando aveva minacciato di tagliare la lingua del ragazzo e l’avrebbe fatto se lei non l’avesse fermato.
 
“Ti sei proprio lasciata influenzare da lui, Kristen” disse l’uomo, ma senza rabbia o disprezzo nella voce.
“Forse in fondo l’hai fatto anche tu, Brock.”
La dura espressione di Rumlow vacillò.
“Mettiti in salvo. Per te c’è ancora speranza.”
“Mi troveranno e mi uccideranno.”
“Non lo permetterò.”
 
Dopo quelle parole, Brock la guardò con un’intensità tale da rubarle qualche battito del cuore.
Kristen intensificò la presa sul suo braccio e piegò le labbra piene in un sorriso, prima di parlare ancora una volta, cercando di essere il più convincente possibile, nonostante sentisse le gambe molli.
 
“Allora vieni con me.”
 
 
 
֎
 
 
 
Quando erano tornati sulla Terra, Stark aveva monopolizzato la linea di comunicazione per dieci minuti buoni, tanto che Rogers era arrivato al punto di togliere la ricetrasmittente dall’orecchio, solo che la Romanoff lo aveva guardato malissimo e allora l’aveva rimessa al suo posto, come un bambino colto in fallo.
I Vendicatori avevano stretto i denti e avevano raccolto tutte le energie a loro disposizione per abbattere gli ultimi Ultra Soldati rimasti, ormai disorientati e non più così pericolosi ora che Teschio Rosso era morto. Molti uomini dell’Hydra, per qualche motivo a loro sconosciuto, avevano smesso di combattere e si erano arresi, rendendo il processo di ritorno all’ordine più semplice e veloce.

Nel giro di un’ora, la battaglia fu estinta.

La luce del mattino si era fatta più intesa, segno che il Sole, coperto da una leggera cortina di nubi, era ormai alto.
Thor propose di far sparire tutti i resti degli Ultra Soldati in Vakuum, in modo che non rimanesse traccia di quel folle esperimento. Allora Rogers cercò di organizzare un piano d’azione sia per raccogliere i pezzi dei mostri viola, sia per aiutare i civili che non erano riusciti ad allontanarsi abbastanza dalla battaglia.
In collaborazione con lo SHIELD, gli Avengers cercarono di riportare l’intera zona in sicurezza e di rimediare almeno ai danni più grossi. Ci sarebbero voluti tempo e pazienza, ma non avrebbero abbandonato il campo ignorando la devastazione causata dallo scontro.
 
“Ho bisogna di una doccia calda e una lunga dormita.”
Clint si mise a sedere su un cumulo di detriti e si prese qualche attimo per prendere qualche respiro profondo. La stanchezza cominciava a farsi sentire. Si ritrovò a chiedersi come fossero riusciti a uscirne vivi. Forse si erano sottovalutati.

“Ti stai prendendo una pausa?”

Natasha, che si era avvicinata alle spalle dell’arciere, prese posto al suo fianco e gli poggiò il capo sulla spalla, rilassando i muscoli doloranti. Clint le avvolse un braccio attorno i fianchi e la tirò a sé, più vicina. Le posò un bacio sul capo e sorrise.
“Comincio a convincermi che siamo in grado di superare tutto, se lo vogliamo.”
La donna rise e sollevò il capo per guardare il compagno dritto negli occhi.
“Mi fa piacere che tu la pensi in questo modo, tesoro.”
Barton baciò la rossa con trasporto e le circondò il viso con entrambe le mani.
“Ti amo, Nat.”

“Sono incinta.”

Clint smise di respirare. Rimase a fissare il volto sporco e sudato della compagna, incapace di dire o fare qualsiasi cosa, come se le connessioni neuronali gli fossero saltate tutte assieme, in un colpo solo.
Natasha non si mosse e stette in attesa, carezzando con la mente la sensazione di averlo detto finalmente ad alta voce. Prima che potesse realizzarlo, si ritrovò stretta in un abbraccio tanto intenso da toglierle il fiato per un lungo istante.
Clint la pressò forte contro il proprio petto e le sussurrò all’orecchio che l’amava e che non credeva di poter essere tanto felice come in quel momento. Le disse che tutto sarebbe andato per il meglio.
Poi una gelida realizzazione colpì l’arciere, alla stregua di un pugno nello stomaco.
“Tu sei scesa sul campo di battaglia anche se...”
“Non sarei mai stata capace di andare avanti, se qualcuno di voi fosse morto mentre io stavo a guardare. Io non so nemmeno cosa pensare di questo.”
La donna posò le mani sulla pancia, ancora incapace di realizzare che dentro di lei stesse davvero prendendo forma una vita.
“Mi ci vedi a badare ad un bambino?”
Clint la baciò, prima di affondare nel suo sguardo smeraldino e sorriderle.
“Hai badato ad almeno cinque soggetti altamente instabili, me compreso. Credo che sarai una mamma fantastica.”
Natasha rise e, spinta dall’entusiasmo del compagno, decise di crederci a quelle parole.

“Agli altri lo diremo non appena sarà tutto finito. Sempre per quella cosa dell’instabilità.”
Clint annuì, accettando la richiesta della compagna.
“E Clint?”
“Sì, Nat?”
“Ti amo anch’io.”
 
 
“Abbiamo bisogno di più mano d’opera qui, piccioncini.”

Stark mandò in frantumi la calda atmosfera creatasi fra Clint e Natasha, invitandoli gentilmente a muovere il culo, perché c’era parecchio lavoro da fare ancora.
Non erano lì per raccogliere le margheritine e dilatare i tempi, già tremendamente lunghi, di rispristino delle condizioni di sicurezza sarebbe stato alquanto deprimente. Tony era certo che sarebbe crollato a momenti e non sarebbe stato il solo, ne era certissimo. Continuò il giro di ricognizione e individuò i membri della squadra che si stavano ancora dando da fare, nonostante le energie fossero in evidente fase di esaurimento.
Gli fece un certo effetto osservare James Barnes spostare un mucchio di detriti che aveva bloccato l’uscita di un appartamento divenuto poco sicuro e al cui interno erano rimaste intrappolate alcune persone. Non lontano notò Anthea e Thor alle prese con alcuni dei corpi degli Ultra Soldati e si chiese come facesse la ragazza a non sentire la brezza invernale che le stava carezzando la pelle nuda.
Poi Sam gli tagliò la strada, facendogli prendere un mezzo colpo.
“Non sfidarmi, Wilson” gli comunicò tramite la ricetrasmittente e poi minacciò di manomettergli le ali.
 
“Non era mia intenzione, Stark” si sentì in dovere di precisare il pararescue, prima di cambiare linea di comunicazione, tagliando fuori l’inventore senza troppi complimenti.
“Aggiornamenti, Capitano?”
“Lato ovest, Sam.”
Falcon girò attorno ad un alto palazzo che aveva subito parecchi danni. Le scale interne erano per la maggior parte franate e l’ascensore era troppo pericolante per rappresentare una sicura via di fuga.
Giunse in prossimità di quella che una volta era la vetrata di uno dei piani più alti, ma il cui vetro era stato ridotto in frantumi. Alcune persone lo stavano aspettando lì e, vedendolo arrivare, una di loro tese le braccia verso di lui. Sam le trasportò a terra, una ad una.
“Cap?” chiamò alla fine, non vedendolo ancora nel punto in cui avrebbe dovuto prenderlo.
“Arrivo.”
Steve si affacciò dalla vetrata orfana di vetri. Una bambina dai capelli scuri, sporca di polvere e visibilmente scossa, aveva le dita strette attorno la sua mano sinistra. Inoltre, il super soldato teneva con il braccio libero un bimbo dagli occhi gonfi di lacrime e le cui piccole braccia erano strette attorno al suo collo.
“Li porto giù entrambi.”
Wilson prese con sé la bambina e fece per prendere anche il piccolo, ma quello si strinse con più determinazione a Rogers, nascondendo il visino contro l’incavo della spalla.
“Non so se essere offeso o commosso” celiò Sam, prima di volare verso il basso, per restituire la bambina ai genitori. Non dovette risalire, perché Iron Man lo precedette e ripotò lui stesso Steve e il bambino a terra.
“Passavo da queste parti” fu la semplice spiegazione di Stark, il cui tono fece capire a Wilson che la questione fra loro era tutt’altro che cestinata.

Steve, intanto, aveva convinto con gentilezza il bimbo ad allentare la stretta su di lui. Lo restituì alla madre, che lo ringrazio con voce tremante di pianto.
Anche l’ultimo palazzo pericolante era stato svuotato e lo SHIELD si stava occupando di allontanare le persone dalle zone poco sicure.
Il Capitano raggiunse Stark, Wilson e le loro facce da schiaffi.
“Ho finito il giro di ricognizione e dovremmo aver fatto tutto quello andava fatto. All’appello manca lo scettro di Loki. Nel bunker c’era solo il Tesseract. Abbiamo trovato anche il corpo di Adam Lewis, insieme ai resti degli Ultra Soldati eliminati lì dentro.”
Tony strinse una mano metallica sulla spalla del super soldato. La maschera dell’elmetto era sollevata e perciò Steve poté vedere la preoccupazione segnare i tratti del viso stanco del compagno.
“C’è un’altra cosa e non ti piacerà. In lontananza ho visto i furgoni dell’esercito. Penso che Ross stia venendo a prenderci. Siamo ancora dei fuori legge.”

“Perché i guai sembrano non finire mai?” si lamentò Sam, poco prima che l’arrivo improvviso di Thor dal cielo gli fece venire un serio colpo e ci mancò poco che lo insultasse, per il modo poco delicato di arrivare alle spalle di una persona appena uscita viva da una battaglia infernale.
Stark mimò con la bocca la parola karma e Wilson preferì non dargli corda, volendo evitare di essere ripreso da Steve, fra le cui sopracciglia aveva già iniziato a delinearsi quella nota ruga di insofferenza.

“Abbiamo finito di raccogliere tutti i corpi degli Ultra Soldati. Siamo pronti per portarli a Vakuum” annunciò l’asgardiano, con una certa soddisfazione.
 
“Bene. Dove sono gli altri?” chiese allora il super soldato.

“Ci aspettano dove abbiamo raggruppato tutta la spazzatura” fu la rapida risposta di Tony.

“Muoviamoci allora.”

Stark, Thor e Wilson non se lo fecero ripetere due volte.
Rogers sospirò e portò una mano sulla fronte, scuotendo il capo con evidente rassegnazione, mentre guardava i compagni prendere il volo senza di lui. E dalle loro facce, fu intuibile asserire che l’avevano fatto di proposito.
Come se lui potesse spostarsi di qualche chilometro in una manciata di secondi.
“Figli di...”

Stark ridiscese alle spalle del Capitano e gli mise entrambe le mani metalliche sulle spalle, con fare tutt’altro che rassicurante.
“Stavi dicendo?”

Rogers roteò gli occhi.
“Potresti darmi un passaggio?”

“Manca la parolina magica.”

“Dacci un taglio, Stark.”

“Come vuoi tu, Rogers.”
 
 
֎
 
 
“Ehi, ti senti bene? Sei spaventosamente pallido.”
Anthea corse in contro a Steve, guardandolo seriamente preoccupata, pronta ad offrirgli un appoggio.

“Io gli avevo detto di non guardare in basso” si intromise Stark, uscito dall’armatura, il cui controllo fu assunto da JARVIS.

“Come se fosse stato possibile capire quale fosse il basso e quale l’alto.”
Rogers guardò malissimo la causa della propria attuale nausea e si trattenne dall’agire in modo dolorosamente vendicativo, solo perché Tony Stark gli serviva ancora intero e cominciava a dubitare che quella condizione potesse venire a mancare in qualche modo.

“Arriverà il giorno in cui dovrai guardarti le spalle, Tony” lo avvisò Banner, rivestito da indumenti dello SHIELD e abbastanza tranquillo rispetto i suoi standard.

“Credi che già non lo faccia? E parlando di guardarsi le spalle, Ross e i suoi sono in avvicinamento. Non sarebbe meglio liberarsi di tutto questo schifo prima che finisca nelle mani sbagliate?”
 
“Non credo sia il caso farlo mentre ci guarda, se non vogliamo peggiorare le cose.”
Natasha attestò lo stato delle cose con ferma risoluzione. Avrebbero dovuto affrontare Ross e il Governo, che lo volessero o meno.
 
Una fila di Jeep verdi militare arrivò a pochi metri dai Vendicatori, come un corteo di cattivi presagi.
Dall’auto di testa scese Ross, che venne seguito da un manipolo di soldati armati, come se quello fosse abbastanza per metterli in allerta o anche solo impensierirli. In ogni caso, gli Avengers non avrebbero mai fatto uso della loro forza che imporsi o per sottrarsi alle conseguenze delle loro azioni. Natasha Romanoff e Steve Rogers l’avevano dimostrato tempo addietro, dopo il crollo del Triskelion. Non erano fuggiti, né si erano nascosti, accettando le conseguenze delle loro azioni.
 
“Siete in stato di arresto finché non verranno chiarite tutte le questioni che sono state sollevate negli ultimi giorni. E il Soldato d’Inverno deve essere confinato con la massima urgenza” fu il cordiale saluto da parte del generale, che però aveva tutt’altro che finito.
“Inoltre, bisognerebbe iniziare ad imporre qualche dogana per l’ingresso sulla Terra o obbligare che si richieda prima un nullaosta. Questa situazione non è accettabile.”
Ross scansionò il gruppo di oneiriani ed infine posò lo sguardo su Anthea.
“Mi ricordo dei danni che hai causato anni fa. Quali sono le motivazioni della tua presenza qui?”
 
“Sono stato io a chiederle di aiutarci.”
Lo sguardo indagatore e freddo del generale saettò su Rogers.
Ad Anthea quello sguardo non piacque nemmeno un po’ e comprese di non avere molto autocontrollo al momento, quindi sperò che l’uomo non osasse troppo, per il bene della sua stessa salute.
 
“Non crede di star tirando troppo la corda, Capitano? Vorrei farle notare che non le converrebbe compiere altri passi falsi da qui in avanti.”
 
E adesso Ross stava guardando James, che Steve spinse istintivamente dietro di lui. Di fronte alla possibilità di perdere di nuovo Bucky, il sangue gli ribolliva nelle vene e la lucidità tendeva a venire meno. Tuttavia, c’era in gioco troppo, quindi si impose di mantenere la calma e di provare ad essere ragionevole.
 
“Voglio sperare che non stiate pensando di dare ausilio a quell’assassino. Avete la minima idea di cosa...”
“L’Hydra gli abbia fatto?” concluse Rogers, guadagnandosi un’altra occhiata poco rassicurante da parte del generale.
Ross allora decise di cambiare strategia ed indicò il mucchio dei resti di Ultra Soldati.
“Quelle sono prove. Non posso permettervi di portarle via.”
 
“Non credo che lei sia nella condizione di avanzare pretese, generale. Qui non si tratta solo della Terra, giusto Thor?”
Tony offrì un buono spunto per risolvere la questione ‘Ultra Soldati’. L’asgardiano però non fu troppo recettivo e annuì con fare incerto, domandandosi cosa precisamente il miliardario gli stesse chiedendo.
 
“Quei corpi verranno trasportati su Asgard. Sono sotto la mia giurisdizione” intervenne Anthea, senza la minima esitazione.
“E per quale motivo sarebbero sotto la tua giurisdizione?”
Ross non avrebbe mollato la presa facilmente, questo era un dato di fatto. Avrebbero dovuto essere molto più convincenti.
“Contengono parte del mio DNA. Se lei non vuole che porti qui il mio esercito per punire l’affronto che ho subito da parte della razza umana, le conviene lasciarmi potare via quei corpi.”
 
Stark si appuntò di congratularsi con la ragazzina per l’invidiabile recitazione. Dinanzi quella minaccia poco velata, il generale perse parte della sua compostezza.
Anthea aveva parlato con una tale convinzione, da far vacillare anche la maschera di ferma serietà indossata da Rogers, che si era voltato a guardarla come per verificare che fosse stata proprio lei a dire certe cose.
 
“Capisco” concesse il generale, conscio di non poter far nulla su quel fronte, non senza rischiare una nuova invasione aliena a quanto pareva.
“Ma non posso assolutamente soprassedere circa i danni e relative complicanze che la tua presenza ha portato qui sulla Terra. Dovrete rispondere…”
 
“Si rende conto che è stato raggirato dall’Hydra e ora è lei che pretende di arrestare noi e non il contrario?”
Tony partì in quarta, incapace di trattenersi ancora, e se Rogers non lo avesse richiamato all’ordine con una decisa stretta sulla spalla, probabilmente avrebbe preso a calci il bastardo.

“Henry Benson...” cominciò il Ross, ma venne bruscamente interrotto, di nuovo.

“Lui era dalla parte di Teschio Rosso” attestò con fermezza Natasha, facendosi avanti, stanca di sentire tutte quelle assurdità. Era chiaro che il Governo temesse i Vendicatori e che quindi stesse cercando, in qualche modo, di sfruttare il fatto che fossero stati dichiarati fuori legge, così da limitarne la libertà.
“Il Capitano ha visto in faccia tutti coloro che sono giunti a patti con l’Hydra e Benson è fra quelli” continuò la rossa, sfidando la pazienza di Ross.

“Raccoglieremo le testimonianze di tutti voi. È la vostra parola contro la loro. Benson ci ha aiutato nella vostra cattura, dopo le azioni al di fuori dalle regole da voi commesse. Ci sono stati tanti casi di lavaggio del cervello e puntare il dito è meno semplice di quel che crediate.”
Ross spostò l’attenzione su Rogers, cercando nella sua espressione una crepa o un cavillo che gli permettesse di fare breccia nelle sue difese.
“Sottrarvi a questo, non sosterrà la vostra innocenza.”
 
“Noi siamo innocenti e lei lo sa bene. Che fa? Nasconde la testa sottoterra come un dannato struzzo?” rincarò Iron Man, abbastanza fuori di sé.

“Va bene.”

“Cosa?!” sbottò lo stesso Tony, incredulo, e gli balzò in mente la malsana idea di tirare uno scappellotto poco delicato al super soldato troppo accondiscendente.

“Non peggioriamo le cose. Chiariremo la situazione e non saremo costretti a guardarci le spalle come fossimo criminali fuggitivi.”
La calma di Rogers raffreddò i bollenti spiriti dei suoi compagni non molto d’accordo con quel compromesso. Thor era l’unico che non sembrava troppo turbato da quella resa, forse perché conosceva bene cosa significasse doversi prendere la responsabilità delle proprie azioni, che fossero giuste o meno. Ogni decisione presa, portava sempre ed irrimediabilmente a delle conseguenze, con le quali era necessario confrontarsi, perché fuggire non era un’alternativa, o almeno non lo era sicuramente per gli Avengers, il cui impatto sul pianeta era tutt’altro che trascurabile. Una decisione presa da loro poteva pesare sull’umanità e dovevano esserne ben consapevoli, o avrebbero causato danni irreparabili.
 
“Saggia decisione, Capitano” fu l’unico commento di Ross, soddisfatto di aver premuto i giusti tasti.
 
“Io vorrei ritrattare.”
Una familiare voce, seguita da una figura vestita di scuro, sopraggiunse improvvisa, ma non del tutto inaspettata. Natasha, forse come mai prima, fu contenta di vedere il direttore Fury esporsi in prima linea, deciso a smettere di nascondersi nell’idea che fosse morto.
 
“Lei non era deceduto, direttore Fury?”
Ross riuscì ad eclissare la sorpresa provata nel ritrovarsi davanti Nick Fury. Il generale non aveva intenzione di lasciare a piede libero i Vendicatori e Fury non aveva più né il potere né i requisiti per imporsi in qualche modo.
“Ho preferito far credere al mondo che lo fossi, data la vostra incompetenza nel gestire ciò che era rimasto dell’Hydra. Vi abbiamo aperto gli occhi e voi vi siete bendati, fornendo a quei pazzi scellerati una seconda possibilità per dominare incontrastati su questo pianeta.”
“A me sembra che lei si sia fatto vivo solo per proteggere la sua squadra di pericolose mine vaganti” fu la tagliente risposta di Ross, posto dinanzi l’accusa di incompetenza.
“Non lo nego. Tutti cerchiamo di proteggere le cose a cui teniamo. Non lascerò che lei li rinchiuda da qualche parte, non senza uno straccio di prova coerente e reale a loro carico.”

Tony stava per aprire bocca, ma Steve, che lo conosceva bene, gli lanciò un’occhiata che non lasciò spazio a fraintendimenti. Così Stark sospirò, roteando gli occhi al cielo e trattenendo a stento una battuta che sarebbe risultata inadeguata adesso. Però Fury l’aveva commosso, questo doveva ammetterlo almeno a sé stesso.

“Allora mettiamo sul tavolo le prove e individuiamo i colpevoli, così da poter assegnare le giuste punizioni. Non posso soprassedere ad un secondo attacco al Governo. I suoi ragazzi dovrebbero porsi dei limiti. Chi dà loro il diritto di decidere cosa vada distrutto e cosa vada salvato?”
 
Steve e Natasha si sentirono chiaramente chiamati in causa.
“Lo SHIELD, l’HYDRA... sparisce tutto” erano state parole parecchio decisive mesi prima ed erano state concretizzate in modo alquanto spettacolare.

“Se non fosse stato per loro, nessuno di noi oggi sarebbe qui, lo tenga bene a mente, generale. E non dovrebbe essere lei a parlare di colpe e punizioni, dato il suo coinvolgimento con l’Hydra.”
Fury era deciso a mantenere la posizione. Non avrebbe lasciato che il Governo mettesse le mani sui Vendicatori.
“Si sbaglia. Io stavo collaborando con il signor Benson e ho seguito le sue direttive, dopo che i Vendicatori hanno messo in allarme gli Stati Uniti a causa delle loro azioni avventate e non controllate.”
Ross non vacillava nemmeno dinanzi l’accusa di aver collaborato con l’Hydra. Non gli importava di dove avesse messo le mani in pasta Benson al momento, ma solo di porre fine al libero arbitrio degli Avengers.

L’arrivo di un’auto decretò la fine del braccio di ferro tra Fury e Ross.
Dalla vettura uscì Henry Benson in persona.
Steve sudò freddo, perché non si fece sfuggire l’irrigidirsi minaccioso di James, Tony e della stessa Anthea. Stark arrivò addirittura a stringere un polso al super soldato, come se avesse timore che sarebbe stato lui il primo a scagliarsi contro quell’uomo subdolo e manipolatore.

“Sono qui per arrivare ad un compromesso che possa momentaneamente gestire la situazione” iniziò Benson, avanzando verso di loro, e continuò senza attendere una risposta e fregandosene degli sguardi poco rassicuranti che gli vennero rivolti.
“Un equo processo che assegni colpe e punizioni.”

“Equo processo? E per cosa? Per poter sostenere le sue sporche menzogne?” si scaldò allora Fury.

“No, va bene. Noi ci renderemo disponibili e rintracciabili. Ma ci lascerete tornare alla Tower. Nessuno verrà trattenuto o peggio rinchiuso da qualche parte. Siamo pronti a sottoporci a giudizio, se è quello che serve perché la smettiate di provare in tutti i modi a tenerci al guinzaglio.”

Fury, Ross e i Vendicatori rimasero sorpresi dinanzi le parole decise di Rogers. Tony pensò che quell’accondiscendenza che gli stonasse parecchio addosso. Solo Henry Benson sembrò rimanere impassibile, se non si contava il guizzo delle labbra che si piegarono verso l’alto, in un mezzo sorriso.
 
“Voglio una garanzia.”

A Stark venne voglia di sputargli in un occhio a quel bastardo di Benson. In cuor suo sapeva già dove volesse arrivare e l’intuizione avuta non gli piaceva affatto. Quell’uomo subdolo, fin dall’inizio, non aveva puntato ad altro e nemmeno stavolta si sarebbe smentito, nonostante la sua colpevolezza.
Come aveva detto Ross, era la loro parola contro quella dell’uomo. O meglio, era la parola di Benson e del Consiglio Mondiale contro quella dei Vendicatori, il cui status agli occhi del Governo era tutt’altro che quello di innocenti che si erano prodigati a fermare un attacco alla Terra da parte di un folle assetato di potere. Ci volevano prove concrete per delineare chi dicesse il vero e chi invece no.

“Quale garanzia?” domandò l’inventore, costringendosi a rimanere calmo.

Benson sistemò la cravatta bordeaux con una clama quasi snervante. Poi puntò il dito su Rogers.
“Sarai tu la nostra garanzia. Altrimenti delle celle di detenzione sono già pronte per tutti voi, in attesa di chiarire la situazione.”
 
Bel coraggio a minacciarli, come se potesse davvero costringerli in qualche modo a seguire le sue volontà.
 
“Il ragazzo non va da nessuna parte.”
Fury si fece avanti e Benson quasi temette per la sua stessa vita, data l’espressione gelida che si ritrovò a dover sostenere.
“Ma non può proteggerlo per sempre, mio caro Fury. È solo questione di tempo e verremo a prenderlo, che lei lo voglia o meno.”
Le parole che Henry Benson pronunciò anni prima, Nick le sentì risuonare nella testa con un’intensità fastidiosamente alta.
Fu Steve stesso a fermare il direttore dello SHIELD con un gesto della mano e uno sguardo fermo.
“Io...”
“Non se ne parla, Rogers. Tu non ti muovi da qui e andrò io se necessario.”
Tony era praticamente sul piede di guerra. Non avrebbe dato a Benson un’altra occasione per mettere le mani sul Capitano, soprattutto non adesso. Sapeva che le intenzioni del subdolo bastardo erano tutt’altro che buone, senza contare che era Rogers quello che aveva visto in faccia i potenti traditori e questo lo rendeva un impiccio da eliminare il prima possibile.
“Ci è scappato, è vero, ma è stato davvero appagante vederlo gridare, dibattersi e piangere. Lo abbiamo piegato e lo avremmo spezzato, se non fosse arrivato Barnes.”

“Signor Stark, mi dispiace deluderla, ma non è la sua presenza ad essere richiesta in questa situazione.”

Rogers fece per dire qualcosa, ma una stretta decisa attorno al gomito lo fermò. Il giovane voltò il capo e incontrò gli occhi smeraldini di Natasha. Era evidente come lei la pensasse: non voleva lasciarlo andare, non da solo.
“Se vai tu, vengo anche io.”
Steve si sottrasse con gentilezza alla sua presa decisa e le pose le mani sulle esili spalle, guardandola con sincero affetto.
“Dovrai tenerli a bada, mentre sarò via. Dovete fidarvi di me” le disse, prima di lasciarla andare.
 
“Le mie condizioni non cambieranno. Preferiamo che sia il Capitano a seguirci, data la sua influenza sugli altri. Il Consiglio sarebbe molto più tranquillo e eviterà di adottare misure estreme.”
Benson era certo che il super soldato non avrebbe potuto rifiutare. Osò poi rivolgersi direttamente ad Anthea, cercando di sostenere lo sguardo tetro e ostile della giovane.
“Devo chiederti di far lasciare la Terra ai tuoi soldati e di rispondere alle responsabilità che ti competono circa quanto è successo qui.”
 
“No. Partirà anche lei. È mia la responsabilità del suo coinvolgimento.”
Rogers si impose senza esitare e Anthea rimase alquanto spiazzata.
“La seguirò, Benson, ma solo se rispetterà due condizioni.”
 
“Sentiamo.”
 
“Non toccherete James Barnes e lascerete ripartire Anthea assieme ai suoi soldati e ai resti dei potenziati.”
 
La tensione che si era venuta a creare era palpabile. Ora erano Rogers e Benson a tenere in mano i fili di quella trattativa ingiustificata, ma necessaria a non scatenare altri disordini.
 
“Concesso” fu la risposta di Henry, sicuro che avrebbe trovato il modo di coinvolgere l’oneiriana in un secondo momento. Adesso le priorità erano altre. Finché aveva il controllo sui piani alti, poteva permettersi di osare tanto.
 
Rogers prese un respiro un po’ più profondo e si voltò verso Anthea, cercando dentro di sé la giusta risolutezza.
“Lasciate la Terra, Anthea.”
“Steve...” cercò allora di parlare l’oneiriana, non nascondendo il disappunto.
“Va’.”
 
Quella sola sillaba fu in grado di farle contrarre dolorosamente il cuore. Lui aveva usato un tono quasi glaciale e l’oneiriana capì che quello era un ordine non discutibile. Era proprio bravo Steve a suscitarle pensieri poco gentili nei suoi confronti. Lo avrebbe volentieri scosso con un eccesso di violenza.
Perché voleva allontanarla proprio adesso?
Anthea non voleva nel modo più assoluto lasciarlo in un momento tanto delicato. Aveva un brutto presentimento, come uno spillo conficcato nello stomaco. Era ovvio che Benson avesse tutt’altro che buone intenzioni e, nonostante si fidasse di Steve e degli Avengers, proprio faticava a digerire la concessione che stavano facendo a quell’uomo viscido. Sì, era riuscito ad ottenere che i suoi compagni e James fossero lasciati in pace, ma non poteva permettersi di pagare quel prezzo, non nelle sue attuali condizioni.
Steve le mise una mano sulla spalla e la guardò dritta negli occhi, per un lungo istante.
“Fa’ quello che deve essere fatto.”
E il silenzio si protrasse ulteriormente, prima che la giovane sovrana rispondesse con un debole “Va bene”.
Anthea si unì agli oneiriani, sotto gli sguardi di tutti i presenti, e ricevette dai Vendicatori occhiate che le dicevano di non preoccuparsi, che tutto sarebbe andato bene e di fidarsi. Lei di loro si fidava e fu per questo che seguì le indicazioni di Steve. Forse stavolta lo stava odiando un po’ meno e iniziò quasi a sentirsi stupida per aver dubitato troppo di lui.
 
Ross, rimasto in disparte, fece fatica a credere a quello che vide. La ragazza, i suoi soldati e i corpi degli Ultra Soldati sparirono in una colonna di luce accecante in pochi istanti. Non fu tanto l’evento in sé a suscitargli un certo stupore, ma il fatto che quell’essere potente e pericoloso aveva abbassato la testa dinanzi a Rogers. Gli aveva ubbidito, rinunciando a qualsiasi protesta o compromesso.
Il generale iniziava a capire l’ossessione di Benson circa il voler controllare il super soldato, a qualunque costo. Prima gli Avengers, poi lo SHIELD ed infine un’entità proveniente da oltre i confini della Terra, pronta a gettarsi nel mezzo di una rischiosa battaglia pur di aiutarlo. E il fatto più eclatante era che il ragazzo nemmeno si rendeva conto di quanto potere avesse fra le mani.

“Cinque minuti e il nostro trasporto verrà a prenderci. Voi altri sarete scortati alla Tower dal generale Ross. Cercate di collaborare. Una mossa falsa e il nostro accordo salta.”

“Ha idea di chi lei abbia di fronte? Noi...”

“Collaboreremo” fu Banner a concludere la frase per Stark, anche se il miliardario aveva in mente ben altro.
Bruce diede una leggera pacca sulla schiena di Tony, come per ricordargli di mantenere la calma. Non era quella la giusta risoluzione delle cose, ma non avevano altra scelta al momento. Essere dichiarati fuori legge non era ciò che volevano, non quando c’era la possibilità di sistemare tutto.
Il Governo non stava chiedendo loro di mettersi al suo servizio, né di chiudere baracca e burattini. Era una questione più burocratica quella, ovvero bisognava presente le giuste carte, ben formulate, riguardanti il fatto che non fossero stati i Vendicatori a voler compiere stragi sulla Terra con un esercito di uomini potenziati e l’aiuto di extraterrestri.

Ross lanciò un’occhiata interdetta a Benson, ma non lo contraddisse. Quell’uomo era riuscito dove lui aveva fallito, doveva riconoscerlo.
Benson, dal canto suo, estrasse il telefono dalla tasca e si allontanò, tornando verso l’auto.
 
“Sarà questione di ore e ti tirerò fuori, ragazzo” promise Fury e anche lui si mosse in direzione di un veicolo non troppo distante da lì, con tutta l’intenzione di mettersi immediatamente a lavoro.
 
“Questa cosa non mi piace, Steve.”
Sam si avvicinò all’amico.
“Sai che non ho mai contestato una tua decisione e sai che credo in te. Ma questo… è decisamente imprudente.”
Steve strinse una spalla di Wilson con energia e piegò le labbra spaccate in un mezzo sorriso di rassicurazione.
“Si scopriranno. Se Benson facesse un solo passo falso e lo farà, potremmo liberarci di lui. Non mi succederà niente, vedrai.”
Sam non sembrava affatto convinto da quelle parole. Erano da poco passati attraverso l’inferno. Non era giusto permettere al nemico di prendersi Steve adesso, dopo tutto ciò che era successo.
“Non ti ringrazierò mai abbastanza, Sam. Dopo il crollo dello SHIELD sarei stato perso senza di te.”
“Offrimi una birra dopo aver sistemato tutta questa merda e mi avrai ringraziato abbastanza” convenne Wilson, colpito profondamente dall’ammissione del Capitano.
“Contaci.”
 
Barton era stato stranamente taciturno, ma era arrivato alla conclusione che non ci fosse altra alternativa. E poi, non c’era da preoccuparsi. Non si era lasciato scappare i movimenti che c’erano stati dalla partenza di Anthea. L’arciere scambiò uno sguardo con Banner e il dottore gli fece un cenno con il capo, confermandogli di aver visto anche lui.
Dovevano fidarsi di Rogers.
 
“Steve. Fa’ attenzione ed evita mosse stupide. Ti conosco abbastanza da sapere che nulla ti farà cambiare idea, ma vedi di rimanere vivo. Se non vuoi farlo per te stesso, fallo per me.”
Steve fu scosso fin nel profondo dalle parole di Bucky, che aveva attestato, in modo non troppo velato, di aver bisogno di lui. Il biondo sapeva di star sottoponendo i nervi dell’amico ad uno stress ingente, ma non vedeva altra soluzione. Doveva assicurarsi di sistemare le cose, senza concedere al nemico appigli per riemergere dalla recente disfatta.
James perse del tutto la freddezza propria del Soldato d’Inverno e, mosso da sentimenti in lui radicati e non più silenti, strinse Steve in un rapido ma intenso abbraccio fraterno, per poi lasciarlo andare con riluttanza.
“Tieni questo per me. Tornerò a prenderlo. Promesso.”
Rogers rimosse lo scudo dai supporti dietro la schiena e lo consegnò ad un Bucky alquanto esitante e sorpreso da quel gesto. Si scambiarono un ultimo intenso sguardo, senza aggiungere parole che sarebbero state solo di troppo.
Fu Tony a rompere la bolla che si era creata attorno a loro, bofonchiando qualcosa come “Adesso tocca a me, fai spazio Manchurian Candidate” e prendendo da parte Rogers, prima che Benson venisse a reclamarlo.
“Non sono molto d’accordo con questa decisione, sappilo Rogers. Ma sei tu il capo, quindi me la farò andare bene, per il momento.”
“Tony...”
“Niente parole di rassicurazione per me, sono grande per certe cose. Avvicinati.”
Stark sollevò un braccio e gli poggiò la mano sul lato destro del collo.
“Dietro al tuo orecchio ho appena fissato una ricetrasmittente adesiva. Toccala o pronuncia Stark per attivarla, in caso le cose si mettano male. Sono ancora una via di fuga per te.”
 
“Lo siamo tutti” aggiunse la voce profonda di Thor, che si avvicinò ai due compagni con un’espressione più tesa del solito.
 
Steve sorrise. Così come loro lo avrebbero protetto a qualsiasi costo, lui avrebbe fatto in modo che fossero al sicuro, anche se ciò richiedeva consegnarsi a Benson momentaneamente.

“Andrà bene. Voi non combinate disastri, mentre non ci sono.”
 
“Tranquillo. Tu pensa a riportare a casa il culetto tutto intero” celiò Stark.
 
Il Capitano annuì. Sarebbe andata bene, perché non era solo.
 
 

֎
 
 

Steve salì sul blindato con una certa esitazione. Odiava ufficialmente il retro dei furgoni e ammise che il senso di claustrofobia iniziava farsi sentire.
 “Accomodati pure, ragazzo” lo invitò Benson, che salì subito dopo di lui.
 Il Capitano si sedette sulla panca d’acciaio posta ai lati del cubicolo e ai suoi fianchi presero posto due soldati armati, chiaramente una protezione per il farabutto.
Ci fu silenzio per l’intera parte iniziale del viaggio.
Rogers si chiese dove lo stessero portando, ma probabilmente la meta non gli sarebbe piaciuta affatto. Chiuse gli occhi, cercando di rilassarsi. Si sentiva piuttosto indolenzito e, adesso che l’adrenalina aveva smesso di circolargli in gran quantità nelle vene, cominciava a risentire degli effetti della battaglia e di tutti gli strascichi che si era portato dietro, a partire dai giorni precedenti. Era stanco.
 
“Devo ammettere che hai superato le nostre aspettative, Rogers” disse Benson, di punto in bianco.
“Non hanno saputo renderti obbediente come avrebbero dovuto. Avevo detto loro di prendere provvedimenti, quando potevano ancora farlo.”
 
Steve rimase in silenzio, lo sguardo puntato sugli stivali logori. Non aveva nemmeno avuto il tempo di rattoppare le ferite. Il braccio destro sanguinava ogni volta che la pelle si tendeva troppo e il collo pareva essere in fiamme. Il composto della Myers doveva star ancora agendo, perché sentiva meno dolore di quello che si aspettava.
 
“Sei silenzioso. Non è da te.”
Benson era invece in vena di stupide chiacchiere, che Rogers avrebbe volentieri evitato di ascoltare, se non gli fossero servite.
“Cosa vuole, Benson?”
Il giovane sollevò il capo, per guardare l’uomo dritto in faccia. Doveva mantenere il sangue freddo.
“Sistemare le cose, limitando il pericolo di peggiorarle, Capitano.”
“Basta con le stronzate” intimò Rogers, affilando lo sguardo, esausto dei raggiri e dei sotterfugi messi in atto dal nemico.
“Non parlerei così sfrontatamente nelle tue condizioni. Da quello che posso vedere, sei parecchio debilitato e le tue ferite non mi sembrano roba da niente.”
Benson ammiccò. Sapeva di certo come rigirare il coltello nella piaga.
“Mi sta minacciando?”
Steve non ne era sorpreso, ma non si aspettava di vederlo osare tanto dopo meno di un’ora di viaggio. Era ovvio che ci fosse qualcosa che tenesse ancora l’Hydra in piedi, nonostante la sconfitta e la morte di Schmidt, altrimenti l’uomo non si sarebbe spinto così in là, non davanti a Ross e soprattutto non davanti i Vendicatori.
“Affatto. Ti sto consigliando di stare buono, per il quieto vivere di entrambi.”
Il Capitano resistette alla tentazione di spaccargli il grugno e di cavargli personalmente le parole di bocca. Non sarebbe stato nel suo stile, ma poco gli sarebbe importato.
“Cosa vuole, Benson? Parli chiaro.”
Era stufo di quella inutile messinscena. Non era certo lì per farsi raccontare favolette, ma per capire come distruggere ciò che rimaneva delle resistenze nemiche.
 
“Se proprio insisti.”
 
A Benson bastò un singolo gesto e Rogers si ritrovò i polsi ancorati alla parete del blindato, tramite gli stessi congegni elettromagnetici che l’Hydra aveva usato su di lui durante l’attacco nell’ascensore.
Una mano guantata di nero gli chiuse la bocca con estrema rudezza, mentre un’altra mano gli afferrava ciuffi di capelli sulla nuca per tenergli ferma la testa. Il soldato alla sua sinistra era stato dannatamente rapido, c’era da ammetterlo. Troppo rapido.
Benson fece un cenno al secondo soldato, che si spostò di fronte al ragazzo e iniziò a perquisirlo con poca delicatezza. Poi tirò fuori un aggeggio simile ad una piccola torcia e tramite quello rilevò la ricetrasmittente dietro l’orecchio.
 
“Penso possa essere attivata con il tocco, signor Benson, ma non escludo un’attivazione vocale.”
 
“C’era da aspettarselo. Per evitare spiacevoli inconvenienti, tienilo zitto” ordinò Henry e il soldato incaricato si premurò di rafforzare la presa sul ragazzo, strappandogli un gemito, che fu però soffocato dal palmo della mano premuta con forza contro la sua bocca.
 
Benson non aveva avuto tutto i torti. Steve si rese conto di essere incapace di reagire, troppo debole per rompere le restrizioni o per ribellarsi in qualche modo. E poi era certo che quei due soldati non fossero propriamente normali. Forse aveva ricevuto lo stesso trattamento di Rumlow.
 
“Veniamo a noi, ragazzo. Perdona il trattamento poco gentile, ma non voglio rischiare inutili intromissioni. Questa è l’ultima occasione che ho per sistemare ciò che tu e i tuoi amici avete mandato a puttane.”
Benson curvò la bocca in un ghigno sadico. Attese che il suo sottoposto rimuovesse la ricetrasmittente e la disattivasse, godendosi l’odio nello sguardo del super soldato. Se glielo avessero assegnato fin dal suo ritrovamento nei ghiacci, avrebbe sicuramente fatto in modo di mettere un freno alla sua impertinenza e alla sua propensione a non ubbidire agli ordini dei superiori.
 
“Ho terminato, signor Benson” avvisò in soldato, mentre distruggeva definitivamente la ricetrasmittente.
 
“Ottimo. Metti il ragazzino in sicurezza.”
 
I congegni magnetici sui polsi furono staccati dalla parete e uniti fra loro, dietro la schiena del giovane. Il soldato che aveva rimosso la ricetrasmittente tirò fuori da borsoni neri altre restrizioni simili, ma di grandezze differenti. Gli bloccò le caviglie e ne applicò due sotto le ginocchia e altri due sopra di esse. Non era un segreto che lo temessero abbastanza, da non sottovalutarlo nemmeno nell’attuale stato di debolezza.
 
“Concedigli la parola” ordinò Benson, una volta soddisfatto delle misure di sicurezza adottate.
Steve fu libero dalla stretta di dita estranee sulle guance, ma rimase ferrea quella sui capelli.
 
“Cosa vuole fare?” chiese, con affilata rabbia nella voce.
“Anche se Teschio Rosso è morto, non vuol dire che io affonderò con lui. Tu collaborerai con me.”
“Sta scherzando vero? Deve avere qualche serio deficit cerebrale se pensa che io collaborerò con lei in qualche modo.”
Al ragazzo venne quasi da ridere, ma non capì fino in fondo se fosse per disperazione o per l’assurdità di quell’assunzione priva di fondamenta.
 
“Ti sbagli. L’unico che subirà un deficit a livello cognitivo sarai tu, mio caro ragazzo. Finirò quello che Teschio Rosso aveva iniziato e stavolta non c’è modo che possa fallire.”
 
“Di cosa diavolo sta parlando?”
Steve cominciava a perdere la calma e l’espressione soddisfatta dell’uomo di fronte a sé non lo aiutava affatto a mantenere i nervi saldi.
 
“Ti sto riportando sotto il Triskelion” fu la sentenza di Benson, che godette nell’osservare il ragazzo sbiancare e vacillare dinanzi alla realizzazione di ciò che gli sarebbe accaduto.
 
“Lei non può farlo. Abbiamo un accordo e se mi succedesse qualcosa...”
 
“Nessuno ti salverà. Secondo te perché ho potuto agire con tale libertà, nonostante tutto? La risposta è semplice...”
 
“Lo scettro di Loki” concluse il Capitano, conscio che fosse l’unica cosa a mancare ancora all’appello.
 
“Sei perspicace. Controlliamo più persone di quelle che tu possa anche solo immaginare. Una volta sotto il mio controllo, tu testimonierai a favore della mia innocenza. Poi ovviamente mi aiuterai ad ottenere il controllo sui tuoi compagni. Si fidano così ciecamente di te.”
Benson si lasciò scappare una mezza risata.
 
“Sei un lurido viscido bastardo che non otterrà assolutamente niente.”
 
Steve, devi portare rispetto per chi è più anziano di te. E poi non sono ancora arrivato alla parte migliore. Mi aiuterai a costruire un nuovo esercito di potenziati e farai in modo che la ragazza aliena contribuisca.”
 
“Sei solo un povero pazzo. Tu non avrai niente da me. Sarò però felice di spaccarti la faccia non appena ne avrò l’occasione.”
 
“Quanta arroganza. I bravi soldati dovrebbero essere obbedienti e dovrebbero tacere. Tu sei un bravo soldato, Steve?”
“Vada a farsi fottere.”
“Risposta sbagliata.”
 
Benson si alzò in piedi e si avvicinò al super soldato. Gli strinse una mano grassoccia attorno al collo, sorridendo maliziosamente.
“È una brutta ferita questa.”
L’uomo affondò le dita nella pelle ustionata e tumefatta, macchiandosi i polpastrelli di sangue.
Steve contrasse la mascella e si impose di non emettere alcun suono, nonostante il dolore che quel gesto gli stava provocando. Non intendeva dargli alcuna soddisfazione. Doveva rimanere calmo o avrebbe mandato a monte tutto quanto.
“Lei mi fa pena” sussurrò fra i denti e piegò la bocca in un sorrisetto sarcastico.
Benson fu accecato dalla rabbia e gli tirò un pugno in pieno viso, ma si ritrovò a gridare di dolore l’istante subito successivo.
“Ti farò rimpiangere di essere venuto al mondo, Rogers” gli sputò in faccia, mentre teneva stretta al petto la mano che si stava gonfiando a vista d’occhio. Era stato quasi come colpire un dannato muro.
“Certo. Può iniziare prendendomi a pugni con la mano ancora sana, così sarò contento di avergliele spaccate entrambe.”
Steve accentuò il sorriso, perfettamente consapevole di star osando troppo, considerando la sua posizione tutt’altro che favorevole. A volte era più forte di lui e più di qualcuno avrebbe sicuramente avuto da ridire.
L’espressione di Benson si accartocciò, rughe profonde si disegnarono sulla fronte sudata e le narici si dilatarono. Lo scoppio di rabbia fu bloccato solo dall’arrestarsi del veicolo e dalla voce del conducente.
 
“Siamo all’auto, signor Benson.”
 
Henry parve riscuotersi, ma non spezzò il contatto visivo con Rogers.
“Ottimo. Ti sistemo io adesso, in modo che non dovrò né vederti né sentirti per il resto del viaggio.”
 
“Mi sta facendo un favore, perché questo significherà che non sarò costretto ad averla davanti agli occhi ed ad ascoltare le sue stronzate.”
 
Un’ombra scura attraverso i tratti dell’uomo, che però non si mosse. Nella sua mente malata stava immaginando tutto ciò che avrebbe potuto fare per spezzare il ragazzo che aveva di fronte. Voleva vederlo prostrarsi ai suoi piedi e chiedere pietà, mentre piangeva con un bambino. Voleva spazzare via la luce da quegli occhi chiari. Glieli avrebbe volentieri cavati quegli occhi.
 
“L’hai voluto tu, Rogers. Regalategli il trattamento che merita e poi fatelo sparire dalla mia vista.”
 
Steve si pentì un po’ di non essere stato più ragionevole e arrendevole. La sua audacia gli costò un pestaggio con i fiocchi da parte dei due soldati, che furono capaci di mandarlo sull’orlo dell’incoscienza. L’attuale debolezza lo fece sentire di nuovo quel gracile ragazzino con la straordinaria capacità di infilarsi in risse troppo più grandi di lui. Fu senza dubbio una strana sensazione.
Ma doveva mantenere la calma e lo fece. Si lasciò rigirare come un pedalino, per un tempo che gli parve non finire mai e durante il quale perse a tratti coscienza.
Quando tornò finalmente vigile, non senza una certa fatica, era ormai solo. Non c’era muscolo che non gli dolesse e il collo bruciava al limite della sopportazione. Gli effetti del composto antidolore si stavano inevitabilmente esaurendo. Era ancora bloccato da quei dannati congegni magnetici, disteso su un fianco, nell’oscurità di un bagagliaio non troppo spazioso. Dalle vibrazioni era facile capire che fossero in movimento.
Benson era stato di parola. Non l’avrebbe né visto né sentito, dato che gli aveva fatto chiudere la bocca con uno strappo di nastro isolante. Era stato previdente, quel bastardo vigliacco.
Steve avrebbe dovuto sentirsi umiliato, ferito nell’orgoglio, avrebbe dovuto essere almeno incazzato, invece rimase calmo. Chiuse gli occhi, respirando piano e profondamente dal naso. Rilassò i muscoli doloranti e lasciò che la spossatezza prendesse il sopravvento. Stava bene, niente di rotto.
Non aveva nulla da temere. Doveva resistere ancora un altro po’.
Il battito regolare del cuore che gli rimbombava nelle orecchie sembrò quasi cullarlo. Pensò ai suoi amici, a quanto gli avessero dimostrato negli ultimi giorni e a quanto fosse felice nell’averli accanto. Senza di loro, sarebbe morto da un pezzo, oppure sarebbe diventato un burattino al servizio dell’Hydra.
Senza di loro, sarebbe stato perso.
Pensò alle ultime parole di Bucky e si ripromise che gli sarebbe rimasto accanto e non avrebbe permesso a nessuno di separarli ancora. Doveva anche parlare con Tony, dirgli la verità, nonostante la verità avrebbe potuto incrinare qualcosa o molto più di qualcosa.
Il veicolo si fermò di colpo, strappandolo dai suoi pensieri.
Steve ascoltò il suono di passi e il vociferare sommesso. Sarebbe rimasto volentieri lì dentro, al posto di dover avere a che fare ancora con Benson.
Il bagagliaio fu aperto con un gesto secco. Una luce soffusa e il freddo invernale lo accolsero, insieme alle braccia fin troppo forti di un soldato, che se lo caricò in spalla come se pesasse praticamente niente. Però almeno non era viola.
Rogers doveva abituarsi all’idea di non essere più un’esclusiva, nonostante conservasse ancora una invidiabile unicità.
Non oppose resistenza. Era esausto e non avrebbe avuto senso a quel punto. Una volta all’interno della base, si rese conto di ricordare con spaventosa chiarezza quei corridoi asettici, da cui era fuggito solo pochi giorni prima, grazie a Bucky e ad Anthea. Dalla scomoda posizione, intercettò pezzi di vetro sparsi sul pavimento e riconobbe l’ingresso della maledetta stanza, da dove Bucky l’aveva tirato fuori prima che fosse tardi. E si ritrovò di nuovo seduto sulla maledetta sedia, ma stavolta non provò il cieco terrore che l’aveva colto la prima volta. C’erano adesso una decina di soldati dell’Hydra a fare da scorta a Henry Benson. Doveva temerlo parecchio, quel bastardo, dato che aveva fatto in modo di ridurre al minimo le possibilità di un tentativo di fuga.
 
Benson raggiunse il ragazzo. Tirò fuori dalla tasca il telefono e fece partire una chiamata. Poco dopo, la voce di Adam Lewis venne fuori dal cellulare.
Questa svolta provocò nel super soldato un moto di agitazione, perché Adam Lewis avrebbe dovuto essere morto. Forse ce ne sarebbero voluti ancora diversi di morti resuscitati, perché smettesse di rimanerci male.
“Devo dedurre che ci siamo. Allora, Rogers, come ci si sente ad aver perso?” chiese la voce divertita di Lewis.
Henry concesse di nuovo al ragazzo l’opportunità di parlare, anche se con estrema reticenza, liberandolo da nastro nero.
 
“Anche lei ha cambiato corpo, ho indovinato?” fu la diretta domanda del giovane Capitano, non appena fu libero di esprimersi.
 
“Sei sveglio. Mi dispiace non poter assistere, ma la mia presenza era richiesta altrove.”
 
Un soldato passò a Benson lo scettro di Loki, tirato fuori da un borsone nero. Steve si irrigidì.
 
“Stavolta non perderemo tempo. Inizieremo con lo scettro e, quando sarei sottomesso, vedremo di riprogrammarti a dovere” parlò ancora la voce di Lewis.
“Sai Rogers. Dopo la prima volta che mi hai fottuto, ho imparato che bisogna sempre avere un piano di emergenza. Proceda, signor Benson, e mi contatti una volta terminato il lavoro.”
“Lewis!”
Rogers riuscì a trattenere il dottore, prima che chiudesse la chiamata.
“Cosa vuoi, ragazzo? Le suppliche non ti salveranno.”
“Dove si sta nascondendo? Perché non viene fuori e si occupa lei stesso della faccenda? Ha paura di me?”
Sapeva di star osando parecchio, Steve, ma non aveva altra scelta. Doveva costringerlo a parlare, a scoprirsi.
“L’unico che dovrebbe avere paura sei tu, Rogers. Ma non preoccuparti, avrai il piacere di vedermi una volta che sarai diventato un soldato obbediente.”
 
La linea divenne muta, prima che il super soldato potesse ribattere in qualche modo. La cosa lo fece agitare abbastanza da renderlo irrequieto.
“Mi faccia parlare con Lewis.”
 
Benson rimase inizialmente interdetto, mentre riponeva in tasca il telefono, ma poi parve riscuotersi e la sua espressione si rabbuiò, esternando una collera a stento trattenuta. Coprì la distanza che lo separava dal Capitano, lasciando lo scettro ad uno dei soldati che gli facevano da scorta, così da poter usare la mano sana per afferralo con violenza per i capelli.
“Non osare darmi ordini, ragazzino.”
Steve non rispose, ma non diede alcun segno di essere terrorizzato da ciò che avevano intenzione di fargli, anzi, c’era l’ombra di un sorriso che gli arricciava leggermente le labbra spaccate.
“Cancellerò quell’espressione impertinente dalla tua faccia e ti costringerò a lucidarmi le scarpe con quella maledetta lingua che ti ritrovi. Poi vedremo se avrai ancora voglia di ridere.”
Benson serrò maggiormente la presa sui capelli del super soldato, con l’unica intenzione di strappargli anche un solo cenno di sofferenza. Ma quegli occhi azzurri non vacillavano e non tradivano alcuna emozione, al di fuori di una ferma determinazione. Henry non riusciva a sopportare quella vista, non poteva sopportare l’idea di sottometterlo tramite lo scettro, senza averlo prima punito come meritava e senza averlo visto soffrire consapevolmente almeno un’ultima volta. Un’idea allettante gli balzò in mente e lo fece sorridere come uno psicopatico nel pieno di assurde elucubrazioni. A Lewis avrebbe detto che si era trattato di un incidente, che il ragazzo aveva cercato di fuggire e non c’era stato modo di fermarlo, non senza usare metodi poco ortodossi.
“Un coltello. Ora” ordinò allora, guadagnandosi un’occhiata sorpresa da parte del Capitano.
Un dei soldati si mosse per soddisfare la richiesta del suo superiore e gli porse l’arma.
“Tienigli ferma la testa” fu il successivo ordine dell’uomo e Steve fu libero dalla presa sui capelli, solo il tempo necessario perché il soldato incaricato si posizionasse alle sue spalle e gli piazzasse le mani ai lati della testa, impedendogli ogni tipo di movimento.
 
“Cosa vuole fare?” fu la legittima domanda di Rogers, che aveva cominciato suo malgrado a sudare freddo.
Benson ghignò, avvicinandogli il coltello al viso, con fare tutt’altro che rassicurante.
“Voglio cavarti via un occhio” disse, come se si trattasse di nulla più che ordinaria amministrazione.
“Tu sei pazzo.”
“Prova a ripeterlo quando avrò finito.”
Con la punta della lama, l’uomo spostò verso il basso la palpebra inferiore dell’occhio destro di Rogers, che trattenne istintivamente il fiato. Poi spinse l’arma in avanti, intenzionato a concretizzare ciò che aveva preannunciato.
 
“È uno scherzo?”
Benson ci mise tutta la forza. Spinse fino a divenire paonazzo, ma il coltello aveva smesso di muoversi e non riusciva a far avanzare la sua stessa mano.
 
“Riguardo il piano d’emergenza, il dottor Lewis aveva ragione” fu il semplice commento di Steve, che intanto aveva ripreso a respirare.
 
Dinanzi la faccia incredula di Benson cominciò a prendere forma una figura sempre più nitida. Involucro dopo involucro, l’energia che l’aveva resa invisibile svanì, mostrandola agli occhi di tutti i presenti.
“Tu sei...”
Henry cercò di indietreggiare con una certa urgenza, ma si rese conto che il polso era incastrato nella presa ferrea della figura ormai nitida.
 
“Il piano d’emergenza.”
Avrebbe dovuto essere una battuta di scherno, ma il tono tagliente e glaciale di Anthea la rese più una condanna a morte.
 
Il polso di Benson fece un rumoroso crack e il coltello gli scivolò dalla mano, mentre gridava disperato. L’oneiriana lo lasciò andare e lo osservò allontanarsi e andare a nascondersi alle spalle dei suoi sottoposti, come il vigliacco che era.
 
“Togligli le mani di dosso. Adesso.”
L’attenzione di Anthea era ora rivolta al sodato che ancora teneva Rogers per la testa.
L’uomo, come un automa, le obbedì e un chiaro terrore si dipinse sul suo volto, un terrore suscitato da quell’istinto innato proprio di ogni essere vivente.
 
Le restrizioni che immobilizzavano Steve furono polverizzate e il ragazzo si spinse in piedi, ma rimase alle spalle dell’oneiriana, incerto su cosa fare.
“Posso uccidere, Benson?” gli chiese lei.
“Sai che quasi mi spaventi, quando dice certe cose in quel modo?”
“Mi sto trattenendo. Credimi.”
Anthea sollevò un braccio e Benson iniziò a pregarla di risparmiarlo. Lo scettro di Loki scivolò dalle dita del soldato a cui era stato affidato e finì nella mano tesa della ragazza.
“Questo lo prendo io.”
 
“Fermatela!” gracchiò allora Henry e i soldati presenti si mossero immediatamente.
 
Steve si mise istintivamente sulla difensiva, ma l’oneiriana spinse gli assalitori violentemente fuori dalla stanza, senza né toccarli né guardarli, ma rilasciando un flusso consistente e poco controllato di energia. Il rumore di ossa che venivano spezzate fu ben udibile e risultò alquanto macabro.
 
“Anthea” la chiamò il Capitano, con voce non troppo ferma.
 
Lei non lo ascoltò e si avvicinò a Benson, che rimase immobile dinanzi le iridi cremisi fisse su di lui.
“Com’era? I bravi soldati dovrebbero essere obbedienti e dovrebbero tacere. Dopo aver sentito questo, ho desiderato farti a pezzi. Ma poi sei andato anche oltre, quindi mi sono resa conto che farti a pezzi sarebbe stato troppo poco.”
La ragazza si fece ancora più vicina. Benson smise di respirare. Lei gli afferrò la mano gonfia e la strinse con controllata violenza fra le dita, evitando di polverizzargli le ossa ma facendolo gridare disperato, fino a portarlo sull’orlo di un pianto isterico.
“È una brutta ferita questa” lo schernì.
 
Steve rimase fermo a guardare la scena. Provò quasi un senso di soddisfazione, dinanzi a quella parte di personalità così vendicativa e cruenta, che Anthea aveva già mostrato diverse volte in battaglia. Per la prima volta, venne meno la necessità di fermarla con urgenza.
Benson cadde in ginocchio.
La giovane mollò la presa sulla mano ormai in frantumi e lo osservò piangere e strisciare, come se allontanarsi da lei fosse sufficiente. Quello era niente, rispetto a ciò che meritava.
“Ti strapperei volentieri entrambi gli occhi. Così non potresti più guardarlo in quel modo viscido.”
 
Fu solo quando Benson iniziò a boccheggiare, il viso divenne mortalmente paonazzo e del sangue iniziò a colargli dagli occhi, che Steve intervenne, afferrando un braccio dell’oneiriana con decisione. Intensificò la presa quel tanto che bastò a dissuaderla dai suoi scopi omicidi.
“Non rischiamo di passare dalla parte del torto. Abbiamo lo scettro e abbiamo ricavato parecchie informazioni.”
Il viscido traditore tornò a respirare e prese a tossire violentemente, mentre un rivolo di bava gli colava dalla bocca semiaperta.
 
La ragazza si liberò dalla stretta del super soldato e lo afferrò per il colletto usurato della divisa, forzandolo a piegarsi leggermente in avanti, in modo da ridurre le distanze fra i loro visi ad un soffio. Era visibilmente arrabbiata.
Tutu hai messo a dura prova i miei nervi. Per una dannata volta avresti potuto essere un po’ più arrendevole, invece di provocare persone che non vedevano l’ora di farti seriamente male. Dannazione, sapevi che ero lì, Steve.”
Era tanto arrabbiata quanto disperata. Il Capitano riuscì a percepire distintamente una dolorosa stretta allo stomaco, nonostante di botte ne avesse prese abbastanza da rendergli complicato individuare un punto che non dolesse.
“Mi dispiace” si scusò, abbassando lo sguardo, improvvisamente incapace di sostenere quello di lei.
“Guardami” lo esortò però la ragazza, con meno durezza di quella che invece avrebbe voluto esternare.
Il giovane obbedì e trovò ad attenderlo il profondo blu di occhi il cui taglio si era adesso ammorbidito.
“Io sono terrorizzata da cosa sarei capace di fare per te. Vorrei che tu evitassi di mettermi troppo alla prova, anche se non intenzionalmente.”
Quella di Anthea suonò quasi come una supplica. La voce le tremava a causa di rabbia, tensione e ansia. Se Steve prima non l’avesse fermata…
“Dannazione” soffiò la ragazza fra i denti, cercando di recuperare la calma.
 
Il super soldato ritornò con la mente indietro di qualche ora, quando le aveva ordinato di lasciare la Terra, mentre tramite il pensiero le aveva chiesto di rimanere segretamente al suo fianco. Anthea aveva allora utilizzato lo stesso trucco che aveva permesso a lui e Bucky di percorrere le strade di Georgetown, senza che nessuno potesse avvertire la loro presenza. Le aveva chiesto di seguirlo e di aspettare, di non intervenire finché lui non avesse scoperto le intenzioni di Benson e finché non fosse venuto fuori lo scettro di Loki. Rogers aveva intuito fin da subito che la probabilità che ce l’avesse quell’uomo fosse molto alta, data la sicurezza che aveva ostentato dinanzi a Fury, i Vendicatori e Ross.
Il piano era andato a buon fine, ma Steve aveva costretto Anthea a fare da silenzioso spettatore. Aveva cercato di rimanere calmo e di fingere che il dolore nemmeno lo sentisse, per evitare che lei si agitasse, ma non era stato troppo arrendevole, così aveva dato a Benson e ai suoi un motivo per usare le maniere forti e la violenza. Nonostante tutto, lei aveva rispettato la sua volontà di rimanerne fuori, di non intervenire, a meno che non avessero tentato di ucciderlo o di provocargli danni irrimediabili.
Steve posò delicatamente la fronte contro quella della ragazza.
“Scusami” le sussurrò, sinceramente pentito.
Anthea lasciò la presa sul suo colletto e posò la mano appena dietro il suo orecchio, stringendogli fra le dita ciuffi di capelli.
“Ti sto momentaneamente odiando.”
Il super soldato la abbracciò, prendendola quasi di sorpresa. Fece scivolare una mano al centro della sua schiena nuda e l’altra la posò sulla sua nuca, facendole poggiare il mento sulla spalla sinistra.
Anthea fece inavvertitamente scivolare a terra lo scettro e si aggrappò alle sue spalle, stropicciando il tessuto dell’uniforme sporca di terra e sangue.
 
“Sei riuscito a costruirti una bella botte di ferro intorno, Rogers. Fury, gli Avengers, poi il Soldato d’Inverno e infine lei.”
 
L’oneiriana tese ogni singolo muscolo con uno spasimo e annullò il contatto con Steve, voltandosi in direzione di un Henry Benson che faticosamente cercava di rimettersi in piedi.
Respirò profondamente un paio di volte, si chinò a raccogliere lo scettro e si fece da parte, raggiungendo l’uscita della stanza, dove rimase in attesa.
 
“Dov’è Adam Lewis?” fu la domanda che Rogers rivolse all’uomo, tornando in un istante freddo e risoluto.
 
Benson scoppiò a ridere, finendo per tossire nuovamente in modo convulso. Non era riuscito a rimettersi in piedi, dato che le mani danneggiate non gli offrivano più l’adeguata leva per sollevare la non indifferente mole del suo corpo sudato e tremante.
“So bene che la tua è una minaccia, Capitano. Sarei disposto a tutto per salvarmi la pelle, quindi credimi quando ti dico che non ne ho idea. Si sarebbe presentato lui stesso, una volta che avessi finito con te.”
 
“Allora lo chiami e le dica che con me ha finito.”
Rogers incrociò le braccia al petto e attese che Henry obbedisse.
 
“Tieni quel demonio lontano da me e lo farò.”
Benson occhieggiò alla figura di Anthea. La ragazza aveva indossato una maschera di indifferenza, o almeno stava facendo del suo meglio per non cedere ad impulsi che prevedevano fondamentalmente spargimenti di sangue.
 
“Chiami Lewis” ripeté il Capitano e quello bastò perché Henry tirasse fuori il telefono dalla tasca e inoltrasse la chiamata richiesta, mettendo al contempo il dispositivo in vivavoce.
 
“Signor Benson, ha già portato a termine il lavoro?” esordì la voce di Adam Lewis, con una udibile vena scettica.
“Stavolta il ragazzo ha opposto meno resistenza del previsto.”
“Certo, lo vedo. Mi passi Rogers.”
 
La mascella di Steve guizzò in un moto di stizza. Gli ci volle poco ad individuare la piccola telecamera attiva, posta in un angolo della stanza. Lewis non era affatto uno sprovveduto e glielo dimostrò di nuovo, quando fu in comunicazione diretta con lui, con il vivavoce spento e il telefono accostato all’orecchio destro.
“Mi devo complimentare con te, ragazzo. Sapevo che sarebbe stato un azzardo riportarti lì dentro, ma ho voluto tentare lo stesso. Non avevo nulla da perdere, ma se tu fossi stato meno furbo, avrei vinto. Beh, poco importa. Goditi questa tua momentanea vittoria. A presto, Steve, e salutala da parte mia.”
Passò qualche secondo di silenzio e poi la chiamata si chiuse, lasciando il super soldato con lo stomaco sottosopra. Prima che la linea tornasse muta, la sua mente aveva registrato il rumore di una macchina che veniva messa in moto e l’idea che Adam Lewis fosse più vicino di quel che volesse far credere fu sufficiente a smuoverlo.
Rogers si lanciò in una corsa sfrenata fuori dalla stanza e, ripercorrendo i corridoio a ritroso, arrivò all’uscita, costituita dalla botola che lo aveva condotto fuori da quella base già una volta. La fredda aria invernale che lo accolse all’esterno gli diede quasi sollievo, mentre avanzava fra i detriti del Triskelion e spostava lo sguardo in tutte le direzioni possibili, nella ferma convinzione di riuscire ad individuare Lewis, prima che scappasse.
Fu allora che il cellulare che ancora stringeva in mano prese a vibrare con insistenza, bloccando quella ricerca disperata. Il Capitano rispose alla chiamata e portò il telefono all’orecchio, rimanendo però in silenzio.
 
“Mi fa piacere che tu voglia vedermi così disperatamente, ma questo non accadrà. Non oggi. Quindi smettila di affaticarti inutilmente e offri al tuo corpo la possibilità di guarire. Ti voglio sano, quando ci incontreremo di nuovo.”
La voce di Lewis era intrisa di soddisfazione, come se avesse previsto una simile reazione da parte del super soldato.
Quelle furono le ultime parole che rivolse a Rogers, prima di tranciare definitivamente l’unica linea di comunicazione esistente fra loro.
Steve continuò a guardarsi intorno, con il respiro accelerato, mentre la sensazione di fallimento gli attanagliava il petto. Strinse i pugni fino a far sbiancare le nocche e fino a ridurre in pezzi il cellulare ormai inutile. Fece per muoversi ancora, più per inerzia che per volontà di non arrendersi al fatto di essersi fatto sfuggire Lewis. Aveva avuto la possibilità di fermarlo una volta per tutte nel bunker, ma non l’aveva fatto.
 
“Basta, Steve.”
La voce morbida e cauta di Anthea lo bloccò sul posto. Non si voltò a guardarla, nonostante lei fosse alle sua spalle, a un passo di distanza.
“Devo trovare Adam Lewis. Lui potrebbe...”
La ragazza lo afferrò per un polso, strattonandolo appena in modo da costringerlo a fronteggiarla, e lasciò cadere a terra lo scettro di Loki, così da poter utilizzare anche l’altra mano, nel caso il super soldato avesse rifiutato di starla a sentire.
“Non puoi continuare in queste condizioni. Troveremo Adam Lewis, ma tu adesso non andrai da nessuna parte.”
L’espressione dell’oneiriana si indurì di colpo e rafforzò la presa sul polso del super soldato, decisa a non lasciarlo andare, decisa a non permettergli di allontanarsi da lei di nuovo.
Steve tentennava. Aveva la faccia sporca di sangue rappreso, i capelli bagnati di sudore e gli occhi arrossati. Il giovane era distrutto e aveva superato la soglia di sopportazione da un pezzo.
“Fermati” lo pregò l’oneiriana, in un sussurro appena udibile, e allentò la presa su di lui, solo quando vide l’ombra di un sorriso triste e stanco piegargli leggermente le labbra spaccate.
“Hai vinto” fu la risposta che le diede.
 
Wow, fantastico. Mi hai appena sottratto dalla spiacevole incombenza di doverti spezzare qualche ossicino delle gambe.”
Forse fu il tono scherzoso con cui lo disse, o l’espressione che tentò inutilmente di mantenere seria, o forse fu il drastico calo di tensione. Fatto stava che Steve rise, con fare un po’ isterico, ma con una intensità sufficiente a riaccendere qualche scintilla di luce nelle iridi chiare.
“Sono stanco, Anthea” le confessò poi e la profonda incrinatura nella sua voce mise la giovane in allerta. Le fece male scorgere una radicata sofferenza nel suo sguardo, ora che la facciata di determinazione e sicurezza si era sgretolata del tutto.
“Raggiungiamo gli altri, vuoi?” gli propose, perfettamente consapevole di cosa lui avesse bisogno.
 
“Devo occuparmi di Benson… impedire che scappi anche lui.”
 
“Non scapperà, fidati. Ci ho già pensato” lo informò l’oneiriana e, sia lo sguardo sia il tono, non presagivano nulla di buono.
L’espressione interdetta di Steve, accompagnata dall’inarcarsi di entrambe le sopracciglia, la spinse a specificare che no, non lo aveva ammazzato, nonostante lo meritasse.
“Ricordami di evitare di farti arrabbiare troppo.”
Lui le dedicò una lunga occhiata, rabbrividendo quasi. Era evidente che lei aveva tutt’altro che riposto l’ascia di guerra nei confronti di Benson.
“Ma tu mi hai già fatto arrabbiare troppo. Però sai, forse potrei ammettere di avere un occhio di riguardo nei tuoi confronti. Deve essere a causa del visino da angioletto ferito.”
“No, ti prego. Sapevo che l’influenza di Stark e Barton non sarebbe stata positiva. Ti vieto categoricamente di far comunella con quei due.”
Steve trattenne a stento un sorriso, fallendo nel volversi mostrare contrariato.
“Prenderò in considerazione la questione.”
“Sono serio, Anthea.”
“Prenderò seriamente in considerazione la questione, Capitano Rogers.”
Anthea rise dinanzi lo sbuffo rassegnato che ottenne in risposta. Poi lo osservò spostare il peso da un piede all’altro, con fare sofferente.
Era chiaramente visibile il fatto che la fatica stesse prendendo sempre più il sopravvento su di lui. Aveva il fiato corto e stava sudando freddo. Era spaventosamente pallido. Il composto della Myers doveva aver terminato la sua azione e il dolore si stava riaccendendo in quella che sarebbe stata una lenta agonia, la stessa che Anthea aveva provato sulla sua pelle.
Con un gesto repentino, senza rifletterci troppo su, gli strinse il braccio sinistro con una mano, assicurandosi che la presa fosse abbastanza ferrea. Il super soldato le rivolse uno sguardo interrogativo e, quando capì cosa stesse succedendo, parte del dolore e della stanchezza che lo opprimevano sembrava essere evaporata. Fece per parlare, ma lei lo precedette.
“Preferisco condividere con te un po’ di dolore fisico, che vederti in queste condizioni. Accettalo è sarà meno doloroso per entrambi.”
L’oneiriana lo sfidò a contraddirla, ma Rogers le rispose con un esitante “Mi arrendo”, conscio che nulla le avrebbe fatto cambiare idea. Sapeva essere dannatamente testarda, quando voleva.
Lei lo lasciò andare solo quando fu soddisfatta del tenue colore che aveva ripreso il suo viso.
 
Poco dopo, una brusca folata di vento li colse alla sprovvista, costringendoli a sollevare il capo verso l’alto. Fury si affacciò dal jet in volo, a una decina di metri dalle loro teste e, con un’espressione che sembrava quasi quella di un padre orgoglioso, lì invitò a salire, affermando che avrebbe pensato lui a tutto il resto. Ovviamente, il direttore aveva dato tutt’altro che carta bianca a Benson.
 
“Raggiungiamo gli altri, allora” disse Rogers, cercando di convincersi fino in fondo del fatto che, adesso, quella fosse la cosa più giusta e sensata da fare.
 
“Ai suoi ordini, Capitano.”
 
“È confortante sapere che rispetti ancora qualche mia volontà.”
 
“Rispetto fin troppo le tue volontà, Idiota.”
 
Steve scosse il capo e sorrise. Era esausto ed era al limite, eppure seppe che quel limite non l’avrebbe superato, non quel giorno, perché lei non glielo avrebbe permesso.
Dopo tanto tempo, la sensazione di sentirsi al sicuro gli accarezzò la mente, scaldandogli il petto, nonostante la fredda aria invernale portata da un gennaio più rigido del solito.
 



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“Stark stava seriamente iniziando a preoccuparsi” li accolse Barton, non appena Steve e Anthea uscirono dall’ascensore, facendo il loro ingresso nella Sala Comune.
Erano arrivati non visti dal tetto, in modo da non dover dare per il momento spiegazioni a Ross, i cui soldati presidiavano l’ingresso della Tower. Ci avrebbe pensato Fury al resto e Rogers si fidava di lui.
 
“Ti stai scavando la fossa, Barton” minacciò Stark, il cui orgoglio era stato punzecchiato dall’arciere senza troppi complimenti.
 
“Sono scese lacrime al testosterone qui. Passare una notte insieme, stretti l’uno fra le braccia dell’altro, cambia inevitabilmente un rapporto” continuò invece Barton, imperterrito.
 
“Forse facevo meglio a farmi arrestare.”
Steve sorrise delle sue stesse parole e colse lo sguardo di James, appoggiato ad una parete della stanza. Si scambiarono un cenno del capo.
 
“Non male, Capitano. Per una volta hai agito in modo maturo e coscienzioso. Siamo fieri di te.”
Clint sembrava in vena di sproloqui.
 
“Quindi voi lo sapevate?”
 
Io lo sapevo. Non a caso mi chiamano Occhio di Falco. Serve ben altro che una luce accecante e piena di colori luminescenti per ingannarmi. Ho rassicurato gli altri dopo che Ross se n’è andato.”
 
“Guarda che non sei stato il solo ad accorgertene” rettificò Banner.
 
“E così calò il sipario su Occhio di Falco e la sua vista fintamente più evoluta” rincarò Tony, per vendicarsi dell’affronto precedentemente subito.
 
“In ogni caso, sei stato fortunato che almeno qualcuno fra noi se ne sia accorto. Qui stavano già lucidando pistole, fucili, coltelli, ali, armature e pure martelli. Sai quando dici di mantenere la calma durante un’evacuazione, di non correre, di camminare in file ordinate verso l’uscita di sicurezza, senza farsi prendere dal panico? Facciamo finta che la tua partenza sia stato l’allarme di evacuazione. Da lì è stato come vedere gente correre a destra e manca, farsi gli sgambetti a vicenda perché inconsapevole di dove stesse mettendo i piedi, cadere e venir calpestata, gettarsi tra le fiamme e ovviamente, se non si fosse capito, andare nel panico. Hai presente? Tipo scenario apocalittico riprodotto in una stanza.”
 
“Non credi di star esagerando, tesoro?”
Natasha fulminò il compagno con uno sguardo glaciale e Clint pensò bene di battere in ritirata.
 
“Comunque, quando Barton si è degnato di dirci come stavano le cose, ci siamo messi a discutere su cosa ordinare per cena” volle precisare Tony, per oscurare l’immagine di un se stesso in lacrime, cosa che ovviamente non era avvenuta. Certo, forse una lacrimuccia stizzosa gli era pure scappata, ma con tutta la polvere che aveva addosso era giustificabile.
 
“Grazie della fiducia” volle sottolineare Steve, che però era conscio che non sarebbe rimasto calmo nemmeno per sogno, a parti invertite.
 
“Una volta saputo che c’era un piano, non abbiamo avuto più alcun dubbio. Abbiamo creduto assolutamente in te, Anthea.”
Stark scoccò un’occhiata ironica in direzione del Capitano, non riuscendo ad impedire che un sorriso prendesse forma sulla sua faccia da schiaffi.
 
“Sai che c’è, Tony?”
 
“Lo so benissimo che c’è, Steve. Nell’attesa, Thor ci ha raccontato del vostro rapporto a tre consumatosi su Asgard.”
 
“Sì, ma non suonava così, quando l’ho raccontato io” si giustificò l’asgardiano, sconfortato dal fatto che una storia di coraggio e onore fosse stata trasformata in una barzelletta dai suoi malpensanti compagni.
“Tranquillo, Thor. Non è colpa tua.”
Steve e Thor si scambiarono uno sguardo conciliatorio, rassegnati al fatto che quella storia li avrebbe accompagnati per un bel po’.
“Quella di Stark è invidia, perché Steve è degno mentre lui non lo è” fece presente il dio del tuono.
“Sono solo stanco. Dammi il tempo di mangiare qualcosa e ci riprovo.”
“Hai provato a sollevare il martello?”
“Oh, sì che l’ha fatto, Capitano. Una scena esilarante.”
“Ma se ci hai provato anche tu, caro Barton, fallendo miseramente” rispose a tono Stark, in modo da non affondare da solo.
 
La tensione era stata fatta praticamente a pezzi e Steve approfittò del momento di leggerezza per posare a terra il borsone nero contenente lo scettro e per tornare per qualche attimo alle cose serie.
“Abbiamo recuperato lo scettro. Fury sta gestendo la situazione. E poi…”
 
“Adam Lewis è ancora vivo.”
Fu Anthea a parlare e a prendersi la responsabilità del rabbuiarsi repentino dell’atmosfera.
 
“Lo troveremo. Ma per oggi direi che possiamo fermarci” convenne Natasha e nessuno protestò, al contrario, ci fu una distensione generale.
 
“Allora, ragazza, entri a far parte della squadra?”
 
Anthea ci mise qualche secondo di troppo a capire che Tony l’aveva fatta a lei quella domanda.
La prospettiva di unirsi a loro accendeva in lei un entusiasmo, che però fu costretta a smorzare. Suo malgrado, scosse il capo.
“Ci sono prima delle cose che devo fare.”
 
“La porta è sempre aperta” ci tenne a sottolineare Stark.
 
E questo ad Anthea bastava, per credere che sarebbe andato tutto bene. Non aveva ancora rivolto lo sguardo in direzione di Steve. Non le serviva farlo, per capire che quella non fosse la notizia che si aspettava di sentire, ma sapeva che l’avrebbe accettata.
 
“Quando pensi di ripartire?”
 
“A dire la verità, sarei dovuta andare via con Andras. Quindi sono già in ritardo.”
 
“Verrò con te. Porteremo il Tesseract e lo scettro lontano dalla Terra, sperando di tenerla per un po’ fuori da guai seri.”
 
“Va bene, Thor.”
 
Anthea si preparò a salutare quei compagni inestimabili che le avevano insegnato il significato di amicizia, fiducia e speranza, già tempo prima.
Abbracciò Natasha e le sussurrò piano, in modo che nessuno potesse sentire, che la vita fosse il dono più bello che si potesse ricevere e donare e che non doveva esserne spaventata, ma orgogliosa. La rossa ricambiò l’abbraccio e le raccomandò di non sparire, perché l’avrebbero aspettata.
L’oneiriana conquistò anche un abbraccio sia da parte di Clint sia da parte di Tony, che si trattennero dal fare qualunque commento per alleggerire un’atmosfera che era giusto conservasse una certa intensità. Sam fu il successivo e le disse che, quando sarebbe tornata, sarebbe stato contento di conoscerla in circostanze meno tragiche.
Bruce ringraziò Anthea per averlo fatto tornare in sé e le disse che l’aspettava per avere l’occasione di sdebitarsi. La ragazza gli fece presente che non c’era bisogno né di ringraziarla né di sdebitarsi, perché sapeva che lui l’avrebbe aiutata in caso di bisogno, così come aveva fatto lei.
James, sotto gli sguardi straniti del resto del gruppo, lasciò che il suo corpo si impegnasse nel ricambiare l’abbraccio che Anthea gli diede con slancio, quasi prendendolo alla sprovvista. “Lo lascio a te” gli disse e lui le sorrise, annuendo.
Dopo ogni saluto, il gruppo aveva iniziato a sfaldarsi.
Anthea non ebbe bisogno di salutare Thor. L’asgardiano, invece, si limitò a un saluto veloce rivolto ai suoi compagni, perché sarebbe tornato sulla Terra l’indomani stesso.
 
“Vi accompagno sul tetto” propose Steve e Anthea annuì.
 
Una volta sul tetto della Tower, quel saluto non poté più essere rimandato.
“A presto, Steve” si congedò l’asgardiano, dopo aver stretto la spalla sinistra del compagno con una certa intensità.
Thor si fece da parte e lasciò il giusto spazio ai suoi due compagni di battaglia, limitandosi ad attendere con lo sguardo rivolto altrove.
 
“Quindi andrai via.”
Quel confronto lo avrebbero entrambi volentieri evitato.
Devo andare. Ma tornerò. Dobbiamo ancora trovare Lewis e voglio sistemare le cose fra noi. Ho solo bisogno di assicurarmi che quanto ho costruito negli ultimi anni non venga distrutto a causa di un viscido traditore.”
Steve, suo malgrado, annuì. Sapeva che lasciarla andare fosse la cosa giusta da fare, seppur la più difficile in quel momento. Il biondo si fece forza e dissipò la preoccupazione nello sguardo della compagna, stringendola in un abbraccio. Anthea fece scivolare una mano sulla nuca del super soldato e si distanziò quel tanto che le bastava per poggiare le labbra sulle sue.
Si scambiarono un bacio che fece tremare i cuori di entrambi e infine, senza dire più alcuna parola, si separarono.
 
 
 
 
֎
 
 
 
 
Vakuum
 
“Grazie per l’aiuto, Thor.”
 
“Non devi ringraziarmi. Impegnati solo a tornare presto su Midgard. Ti aspetteremo.”
 
Anthea annuì. Thor le scompigliò i corti capelli con un gesto affettuoso della mano.
 
“Hai di nuovo la mia fiducia, Anthea.”
 
“Farò in modo di riavere la tua fiducia. Ti dimostrerò di esserne degna” erano state le parole che lei gli aveva rivolto, prima che lasciassero Asgard.
 
L’oneiriana sorrise, sinceramente felice, e lo guardò volare via, finché non scomparve dalla sua vista.
 
“Ti aspettavo, Anthea.”
Nel suo campo visivo entrò la figura di Andras.
“Sono qui. Come promesso.”
Lui le porse i pezzi della spada dall’elsa bianca che aveva recuperato per lei, dopo la sconfitta di Teschio Rosso.
“Il popolo ti aspetta. L’influsso di Antares è morto con lui e gli oneiriani hanno bisogno di una guida, ora più che mai.”
 
“Capisco” disse solamente la giovane sovrana.
 
“Mi sbagliavo sul suo conto. Comprendo cosa ti abbia spinta a volerlo. Tornerai da lui?
 
Non ottenne risposta, Andras. Ottenne invece un sorriso di una malinconia schiacciante.
L’oneiriano decise di lasciar cadere la questione, comprendendo che non fosse il momento adatto per parlarne.
 
“Sei pronta?” le chiese, con gentilezza.
“Precedimi.”
“Va bene.”
“Andras” lo richiamò la ragazza e lui arrestò il passo, in attesa.
“Grazie” gli disse e lui le sorrise, annuendo piano con il capo, per poi lasciarla sola.
 
Anthea osservò i pezzi della spada che stringeva fra le mani. C’era un’ultima cosa che doveva fare, prima di raggiungere il suo popolo. Arrivò nel punto in cui la cascata si gettava nel vuoto, contemplando la distesa verde che la circondava. A parte il fragore dell’acqua, c’era una profonda pace in quel posto.
 
“Sei libera, Aima. Lui ti starà aspettando.”
 
L’anima dell’oneiriana amata da suo padre, dopo un tempo infinito trascorso legata alla spada dall’elsa bianca, trovò finalmente la pace, abbandonando per sempre il modo dei vivi. Anthea ebbe l’impressione di venir stretta in una caldo e confortante abbraccio, per quello che fu un lungo attimo.
Infine, i pezzi della spada divennero polvere e la giovane rimase ad osservare quel pulviscolo luminoso librarsi nell’aria ed essere trascinato via dal vento.
 
Fu un modo per dire addio alle catene del passato, che l’avevano tenuta prigioniera per troppo tempo.
Fu la promessa di guardare al presente.
 
E mai si era sentita così profondamente intera.

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Capitolo 20
*** Take a Breath and Trust ***


Take a Breath and Trust
 
 
 
I don’t trust easily.
So when I tell you I trust you,
don’t make me regret it.
 
 
 
Le dita si aggrapparono con forza al bordo del lettino su cui era seduto, fino a lasciare una visibile impronta sul lucido metallo.
Steve trattenne il respiro e cercò di pensare a qualcosa che lo distraesse dal tocco di dita estranee sulla pelle ustionata del collo. Cominciava ad avere la nausea e si chiese che figura ci avrebbe fatto se avesse deciso di svenire in quell’esatto momento, giusto per non sentire più nulla per almeno qualche minuto.
Da un tempo che gli sembrava infinito, era nell’infermeria della Tower, quella che Tony aveva fatto costruire quando aveva deciso che gli Avengers si sarebbero trasferiti lì. Era stata una precauzione non banale e, dando uno sguardo all’attrezzatura che riempiva la candida stanza, probabilmente si sarebbe potuta improvvisare anche un’operazione a cuore aperto.
 
“Come andiamo, dottor Mitchell?”
Parlando del diavolo, Stark fece il suo ingresso nell’ampia sala, con indosso una tuta grigia e una maglia a maniche lunghe nera. I capelli, dal ciuffo sbarazzino tirato indietro, erano tornati lucidi e morbidi a vedersi, prova evidente della lunga doccia che lo aveva visto impegnato.
 
Non molto dopo la partenza di Thor e Anthea, gli Avengers avevano concordato che era arrivato il momento di darsi una bella ripulita, perché il miscuglio poco sano di sangue, terra, sudore e chissà cos’altro, non emanava di certo un piacevole odore.
Quindi, avevano raggiunto gli appartamenti posizionati sui vari piani della Tower, quegli stessi appartamenti che Stark aveva assegnato loro tempo prima, posti al di sopra della Sala Comune.
L’inventore aveva preteso che fosse Steve il primo ad essere visitato da uno medico, giusto per avere la certezza che tutte le botte prese negli ultimi giorni non avessero causato danni più gravi di quelli visibili. A staccarlo da James c’era voluta qualche pressione e la rassicurazione che non sarebbe affogato sotto la doccia, perché Sam sarebbe stato lì a controllare (non proprio nella doccia, ovviamente), ma Stark sapeva essere convincente (o esasperante, a seconda dei punti di vista).
Rogers aveva quindi lasciato i due compagni nel proprio alloggio e aveva accontentato Stark, ben consapevole di non avere molta scelta e consapevole anche del fatto che una controllata generale non gli avrebbe fatto di certo male, dati tutti i colpi incassati in un breve lasso di tempo.
Probabilmente il super soldato si era superato e come il corpo non lo avesse mandato al diavolo rimaneva un oscuro mistero. Forse, certe volte, abusava un po’ troppo di quel corpo, sì sorprendentemente resistente, ma pur sempre vulnerabile.
 
“Non c’è male, signor Stark” salutò l’uomo brizzolato in camice bianco, rivolgendo per un attimo lo sguardo castano verso il miliardario, per poi riportarlo sul Capitano, più precisamente sul collo martoriato.
“È davvero una brutta ferita. Rimarrà un leggero segno, ma fortunatamente i tessuti non sono stati danneggiati irrimediabilmente. È stato fortunato, Capitano. La gola è un punto molto vulnerabile, l’ideale per uccidere qualcuno.”
Il dottor Mitchell rivolse a Rogers un sorriso cordiale e che forse, in qualche modo, voleva anche essere rassicurante, tuttavia l’espressione sapeva più di ‘Occhio che la prossima volta potresti non essere così fortunato’.
Che sul campo di battaglia non fosse troppo cauto, Steve lo sapeva benissimo, ma certe volte non aveva una così ampia manovra d’azione e finiva per arrangiarsi con ciò che aveva a disposizione.
Mitchell finì di avvolgergli la garza sterile attorno al collo e, dopo averla fissata, si scostò per osservare il lavoro appena eseguito con occhio critico.
“Non credo ci sia troppo da preoccuparsi. Monitorerò le ferite più gravi per un po’, ma sono certo che non ci sarà alcuna complicazione, considerando le sue capacità rigenerative.”
Il medico sorrise di nuovo, evidenziando le fossette sulle guance coperte da una barba rasa, ben curata e che gli conferiva un fascino non indifferente.
 
Tony, intanto, era rimasto in silenzio ad osservare Steve. Il ragazzo, con indosso solo un paio di boxer scuri, aveva fasciature sul collo, lungo tutto il braccio destro, fin sopra la spalla, e attorno al petto. C’era una ferita da arma da fuoco sul quadricipite destro, che ora il medico si stava apprestando a disinfettare, prima di coprirla con della garza sterile. Costato e schiena erano costellati di chiazze livide e livido erano anche uno zigomo, oltre che buona parte del naso. Il labbro inferiore era spaccato e c’era un fine taglio sulla tempia sinistra.
Questa volta l’avevano ridotto proprio male. Ci si erano messi d’impegno. Alcuni lividi, compreso quello sul naso, erano più freschi degli altri e Tony si chiese cosa fosse esattamente successo durante le ore che Rogers aveva passato in compagnia di Benson.
 
“Comincio a pensare che tu non sappia usare tanto bene quello scudo, Steve.”
 
“E io penso che ti sbagli. Chiedilo a tutti quelli che ho affrontato.”
C’era una luce soddisfatta negli occhi chiari del super soldato e il sorrisetto che mise su fu abbastanza istigante. Quel sorriso, però, morì subito dopo, non appena il dottore iniziò a tastargli con cura e relativa delicatezza il costato.
Steve tornò a torturare il bordo del lettino, distogliendo l’attenzione dall’amico.
 
“Penserò a qualcosa.”
 
“Come scusa?” chiese Rogers, a denti stretti, e sollevò lo sguardo per incontrare quello profondo di Stark, la cui espressione si era fatta improvvisamente più seria.
 
“Se vuoi continuare ad usare il tuo scudo come un frisbee, devo trovare qualcos’altro che ti protegga meglio.”
 
Steve rimase per un attimo spiazzato da quelle parole. Doveva ammettere che un Tony Stark così apprensivo faceva un certo effetto, anzi, metteva quasi i brividi.
“Non puoi mettermi un’armatura addosso, lo sai? Poca mobilità. E poi lo scudo mi protegge meglio di quanto tu creda, te lo assicuro.”
 
“Allora non oso immaginare come saresti ridotto adesso, se non avessi avuto lo scudo. Inoltre, giusto per essere chiaro, non ti affiderei mai un gioiellino come un’armatura, visto la fine che fanno le cose che gentilmente metto a tua disposizione.”
Stark cercò di metter su un’espressione offesa e ferita, ma la tentazione di ghignare non rese perfetta la sua recitazione.
Steve alzò gli occhi al cielo in modo abbastanza plateale.
“E va bene. Mi dispiace per la divisa, Tony. Avrei dovuto fare più attenzione, invece di farmela strappare e tagliuzzare da tutti quelli che hanno cercato di uccidermi.”
 
“Nonostante la mal camuffata ironia, prenderò in considerazione l’idea di accettare le tue scuse e di concederti un’altra possibilità, prima di mandarti in mutande sul campo di battaglia.”
L’inventore incrociò le braccia al petto e sorrise con fare poco rassicurante.
Steve rabbrividì al pensiero che quella minaccia potesse in qualche modo realizzarsi. Parlare con Tony, però, lo aveva distratto dal tocco doloroso del dottor Mitchell, che terminò soddisfatto gli ultimi controlli.
“Ci vediamo domani, Capitano Rogers” convenne l’uomo, ricevendo dal ragazzo un cenno affermativo del capo.
“E per quell’intervento di cui abbiamo parlato?” si intromise allora Stark.
Mitchell si rivelò essere molto acuto e divertito dall’idea di stare al gioco.
“Sto preparando il tutto, signor Stark.”
“Quale intervento?”
Steve mostrò la propria confusione e alternò lo sguardo fra i due uomini, mentre scendeva dal lettino e si apprestava a recuperare i suoi vestiti.
 
“Il dottor Mitchell ti aprirà il cranio per ficcarci dentro buon senso e autoconservazione.”
 
“Stark, devo ancora vestirmi, quindi hai qualche secondo di vantaggio.”
Il super soldato infilò una tuta nera, che si accostava attorno ai polpacci, definendone la curva. Poi, mise un maglia grigia ed infine una felpa dello stesso colore, dotata di cerniera e cappuccio.
“Quanto siamo permalosi” fu l’unico commento di Tony, che non si mosse da dove era, certo che Steve non lo avrebbe sfiorato nemmeno con un dito e ci vide giusto.
 
“Sono pronto a ricevere i prossimi, signor Stark” disse il dottore.
 
“Bene, glieli mando subito.”
Tony si incamminò verso l’uscita dell’infermeria e Steve lo affiancò, dopo aver ringraziato Mitchell.
“Pepper sta bene?” chiese il biondo, mentre entravano nell’ascensore, diretti verso la Sala Comune.
“Sì, sta bene. È in compagnia della Hill e ci raggiungerà presto. C’è stata qualche complicazione, dato che l’accordo con Benson e Ross è saltato.”
Non c’era rimprovero nella voce dell’inventore, tutt’altro. Tony aprì e chiuse la bocca un paio di volte, prima di parlare ancora, non senza una certa fatica.
“Mi dispiace per quello che è successo. Se non ci fossero stati Barnes e Anthea, ti avremmo… ti avrei perso” aggiunse, dopo qualche istante di silenzio.
“Tony…”
“Sono stato io a convincerti a tornare qui, per riunire la squadra. L’idea era quella di far stare meglio tutti, di lavorare insieme per non dover affrontare le difficoltà da soli. Ma non eravamo pronti per affrontare una situazione del genere.”
“Sarebbero venuti a prenderci lo stesso, Tony. Essere insieme ci ha permesso di vincere.”
L’espressione di Rogers si era ammorbidita e adesso sembrava essere meno scura. Tony si lasciò facilmente contagiare da quella tenue e calda positività.
Promettimi che non farai nulla di stupido e avventato, almeno per un po’. Sii paziente.”
Il Capitano non rispose subito. Tentennò, come se soppesasse quelle parole con particolare attenzione.
“Okay, posso farlo. Però, Tony, io vorrei parlarti di un cosa.”
“Steve” lo fermò subito Stark, sollevando una mano con fare quasi solenne “Dalla tua faccia capisco già che non è nulla di buono. Rimandiamo a domani, ti va?”
 
“Va bene.”
 
Le porte dell’ascensore si aprirono, mostrando l’interno della Sala Comune, che si era popolata ormai da un pezzo. C’erano tutti, compresi Bucky e Sam, che avevano addosso vestiti provenienti dal guardaroba di Rogers.
 
“Avanti il prossimo” invitò Tony e poi aggiunse di darsi una mossa, perché stava morendo di fame.
 
 
 
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Era stata una serata abbastanza strana. Non avevano festeggiato, né si erano calati del tutto in un’atmosfera serena e tranquilla. Alleggiava ancora una certa tensione nell’aria, dovuta all’incertezza che si estendeva dinanzi a loro, senza lasciare spazio ad appigli a cui potersi aggrappare per ritrovare una stabilità confortante.
Certo, erano quasi tutti insieme e questo li aiutava a mantenere i nervi saldi, mentre il Governo prendeva decisioni su cosa fare di loro.
Tony, seduto su uno dei due divani in pelle bianca, stava carezzando distrattamente i lunghi capelli di Pepper, la cui testa era appoggiata sulla sua spalla.
“Credo farò fatica a dormire, nonostante mi senta uno straccio che è stato malamente calpestato un indefinito numero di volte” confessò, rompendo il silenzio pressante.
 
“Io non resterò a farti compagnia, sappilo.”
Clint stava sbadigliando già da dieci minuti buoni. Condivideva una poltrona con Natasha, che era seduta sulla sue gambe ed era immersa nei pensieri, con lo sguardo che vagava distrattamente da una parte all’altra della stanza.
Su un’altra poltrona c’era Bruce, anche lui mentalmente lontano anni luce, perso nel suo personale mondo complicato.
 
“Io sono stanco morto. Non so nemmeno perché sono ancora sveglio.”
Sam era seduto su una sedia, con il petto appoggiato contro lo schienale e l’aria di chi sarebbe stramazzato molto volentieri con la faccia su un cuscino.
James non era molto lontano da Wilson e anche lui occupava una sedia, ma nel giusto verso. Non aveva spiccicato parola e si limitava a soffocare la tensione dietro una maschera di indifferenza.
 
Il Tin dell’ascensore richiamò l’attenzione dei presenti, i cui sguardi furono calamitati tutti nella medesima direzione.
Le porte scorrevoli si aprirono e la figura di Steve venne avanti con passo deciso, seppur affaticato, e mostrando un’espressione abbastanza indecifrabile in viso.
Il super soldato aveva indosso la divisa stealth blu dello SHIELD, ma lo scudo, abitualmente fissato sulle spalle, mancava all’appello.
Quando Tony, qualche ora prima, gliel’aveva vista addosso, si era spaventato e aveva iniziato ad immaginare scenari in grado di toglierli il sonno. Rogers aveva dovuto accorgersene, perché aveva incurvato la bocca in un sorriso rassicurante e gli aveva detto di avere bisogno dell’autorità emanata da Capitan America, giusto per sentirsi più a suo agio e meno lo Steve Rogers a pezzi che era al momento.
Tony si era fidato.
Il biondo raggiunse il centro della stanza, in modo da avere intorno tutti i suoi compagni. Respirò un paio di volte, prima di iniziare a parlare.
Passare quasi due ore sull’Helicarrier assieme a Fury, Ross, i membri del Consiglio della Sicurezza ed altri pezzi grossi, non era stato troppo piacevole, soprattutto perché aveva dovuto mantenere il sangue freddo e, in questo senso, la spossatezza l’aveva aiutato.
 
“Siamo arrivati ad una specie di accordo provvisorio. Per il momento gli Avengers saranno agli arresti domiciliari qui alla Tower. La sezione che fa capo ad Everett Ross avrà il compito di sorvegliarci.”
Steve spostò lo sguardo su James.
“Sarai sorvegliato più da vicino, Buck. Vogliono assicurarsi che tu non sia una minaccia, ora che l’Hydra non ti controlla. Discuteranno del tuo caso, ma dato che molti potenti si stanno appellando al fatto di aver ricevuto il lavaggio del cervello dall’Hydra per sostenere la loro innocenza, non si sono imposti troppo sulla mia volontà che tu rimanessi qui, assieme a me. Hanno detto...”
“Una mossa sbagliata e verranno a prendermi, immagino” terminò Barnes, senza troppi convenevoli.
“Già. Ma sono riuscito ad impormi sulla persona che sarà incaricata di fare rapporto su di te. Mi fido di lei e sono certo che le cose andranno bene.”
Bucky annuì solamente. Si fidava ciecamente del suo fratellino impulsivo e il fatto di poter rimanere al suo fianco gli bastava, non chiedeva nient’altro.
 
“Parliamo del caso Hydra. Fury è riuscito a convincere Ross che senza di noi sarebbe impossibile ottenere una vittoria definitiva, data anche l’alta probabilità di incontrare dei potenziati. Lo SHIELD ci preleverà due alla volta, non uno di più, ogni volta che localizzeranno o localizzeremo” Rogers lanciò un’occhiata a Stark “un nucleo dell’Hydra. Ross organizzerà un controllo a tappeto per capire chi sia ancora sotto l’influsso dello scettro di Loki. Consiglio, CIA, FBI, SHIELD, ovunque l’Hydra abbia messo le mani in pasta, per capirci. Ci sono parecchie posizioni vacanti ai piani alti attualmente, quindi credo che dovranno ristrutturare, dunque ci saranno meno addosso almeno per i primi tempi.”
Steve si lasciò scappare un leggero sbuffo dal naso. Era quasi mezzanotte e quel giorno di infinita lunghezza stava finalmente per giungere al termine.
“Questo è quanto.”
 
“Cosa ne pensi?” chiese Natasha, che aveva recuperato lucidità non appena aveva visto Rogers arrivare.
 
“È un compromesso temporaneo. Troveremo le prove necessarie per far rinchiudere chi davvero deve essere rinchiuso.”
Non ci furono troppe obiezione e complice di quella calma apparente fu la stanchezza generale.
 
“Direi che è ora di andare a dormire.”
Tony mise definitivamente il punto alla giornata e si alzò in piedi, offrendo una mano a Virginia.
“Sam, puoi usare l’ex alloggio di Clint.”
 
“Da quando è ex?” protesto l’arciere.
 
“Da quando hai smesso di usarlo, preferendo di gran lunga quello di Natasha. Renderemo le cose più definitive nei prossimi giorni. Non manca di certo spazio.”
 
Sam non fece domande, limitandosi ad annuire, e cercò lo sguardo di Steve, che gli fece cenno di seguirlo con un movimento della testa.
Alla fine, entrarono nell’ascensore tutti insieme. Senza Thor non stavano troppo stretti, nonostante la presenza dei due nuovi acquisti.
Uno dopo l’altro uscirono dalla cabina, o meglio, si trascinarono fuori. Il primo a congedarsi fu Sam, poi toccò a Natasha e Clint e, alla fermata successiva dell’ascensore, fu Bruce a salutare.
Rimasero solo Tony, Pepper Steve e James. Il piano di Stark era in cima alla Tower, mentre il Capitano era sotto di lui.
 
“So per certo che il compromesso di cui ci hai parlato non ti piaccia nemmeno un po’. Il tuo essere tanto collaborativo in qualcosa che non ritieni giusta mi ha sorpreso parecchio, devo ammetterlo.”
 
L’ascensore si fermò e le porte scorrevoli si aprirono sul piano del super soldato.
 
“Ho fatto una promessa, hai dimenticato?”
Steve sorrise in direzione di Tony, prima di salutare lui e Pepper. James, in quieto silenzio, lo seguì fuori dalla cabina illuminata da una calda luce aranciata.
Ciò che il biondo non vide, fu il sorriso orgoglioso che Stark si lasciò scappare.
 
 
 
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“Dormo io sul divano” si impose Rogers, mentre si apprestava a prendere dei cuscini e delle coperte dall’armadio, dopo aver sostituito la stealth con una tuta ed una maglia.
James lo fermò, stringendogli il braccio sinistro con la mano umana.
“Steve. Abbiamo dormito insieme in tende meno ampie di questo letto e spesso avevamo anche compagnia.”
“Ricordo. E ancora mi chiedo come riuscissimo a riposare.”
Nello sguardo del biondo si accese una luce malinconica.
“Perché tu riposavi? Avevo più acciacchi per quello, che non per aver assediato e distrutto una base dell’Hydra.”
Si scambiarono un sorriso divertito, mentre si lasciavano cadere seduti sul bordo del letto.
James fece attenzione a posizionarsi alla sinistra di Rogers. L’idea che potesse anche solo toccarlo per errore con il braccio di metallo lo nauseava.
 
“Stark ha detto che mi terrà d’occhio anche mentre dorme. Può farlo davvero?”
James ruppe il silenzio. La luce calda della lampada, posta sul comodino di fianco il letto, rischiarava l’oscurità della stanza.
“Può farlo” ammise Steve, lanciando all’amico uno sguardo indagatore.
Era successo di tutto negli ultimi giorni e non avevano avuto molto tempo per confrontarsi a tu per tu. Adesso erano soli. Solo Steve e Bucky.
“Bene. Allora posso stare tranquillo.”
Non servì altro a Steve, per capire cosa stesse passando per la mente dell’amico.
“Non ti fidi ancora di te stesso?”
“Come potrei?”
“Io mi fido di te, Buck.”
 
Ci fu un altro silenzio relativamente lungo, ma privo di reale tensione.
 
“Ti sei quasi fatto ammazzare da me su quell’Helicarrier. Avrei davvero potuto ucciderti.”
La voce di James si incrinò appena. Riusciva a ricordare nitidamente la lama del coltello che affondava nella carne di Steve e le pallottole che lo centravano. Riusciva ancora a vedere la sua faccia tumefatta, mentre lo colpiva ripetutamente, senza alcuna pietà. Poi lo vedeva cadere nelle fredde acque del Potomac e l’incubo ricorrente era quello di guardalo affogare lì, senza far nulla per sottrarlo alla morte.
 
“Non mi avresti ucciso.”
 
“Non lo sapevi, così come non sai cosa potrei fare adesso o in futuro. È per questo motivo che sono preoccupato. Non sono più quello di una volta.”
 
“Beh, nemmeno io lo sono.”
 
“Questo è vero.”
 
Steve era cambiato, non c’erano dubbi. E non solo perché si era adattato ad un tempo che non gli apparteneva. Era maturato, nonostante la vena impulsiva che non l’aveva ancora abbandonato.
Con gli Howling Commandos aveva mostrato una leadership invidiabile, nonostante la giovane età. Adesso, quella stessa leadership era cresciuta, si era fatta più solida e James ne aveva avuto prova sul campo di battaglia. Gli Avengers credevano in Steve, almeno quanto Steve credeva in loro. E Steve nei suoi compagni ci credeva in un modo che era profondo e totale.
Nonostante fosse nel tempo sbagliato, il ragazzo di Brooklyn sembrava nato per essere un Avenger e per difendere la Terra da minacce che andavo decisamente oltre ogni sana immaginazione. La scelta di Erskine, la sua ultima e decisiva scelta di donare a Steve Rogers il siero, aveva avuto risvolti assolutamente inaspettati. Da quello che doveva essere un super soldato che guidasse le truppe contro i Nazisti e contro l’Hydra, era nato invece un eroe sulle cui spalle gravava adesso il peso dell’intero pianeta. Fortunatamente, quel peso lo condivideva con altre persone straordinarie, persone che lo capivano, che gli rimanevano accanto nei momenti difficili, che gli coprivano le spalle e che riuscivano a farlo sorridere anche quanto tutto intorno a lui sembrava andare in pezzi.
Bucky sorrise, prima di riprendere a parlare, mentre un pensiero gli carezzava la mente.
“Ricordo che avevi gusti diversi per quanto riguarda le donne. Lei sto ancora cercando di definirla ma, in linea generale, posso dire che le persone testarde, prive di autoconservazione e che farebbero di tutto, anche farsi ammazzare, per proteggere coloro a cui tengono, tendono a piacermi parecchio.”
 
Steve ci mise qualche attimo a metabolizzare le parole di Bucky, quasi non si aspettasse che lei potesse essere chiamata in causa. Aveva cercato di pensarci il meno possibile e aveva dovuto ammettere almeno a sé stesso di esserci rimasto dannatamente male nel vederla andare via. Di nuovo.
Era stato un duro colpo, subito in un momento in cui era meno pronto a reggerlo. Dopo tutto ciò che aveva passato in quei giorni, avrebbe voluto averla accanto e la tentazione di comportarsi da egoista c’era stata. Il ragazzo era consapevole che gli sarebbe bastato confessarle che aveva bisogno di lei, per vederla vacillare e per convincerla a restare più a lungo. Era per questo motivo che non aveva detto nulla e si era limitato a vederla sparire nella luce del Bifrost. Doveva chiederle tante cose e voleva capire se fra loro potesse in qualche modo funzionare.
Aspettarla stava iniziando a fargli male. Quell’attesa si era trasformata in spilli nello stomaco e contrazioni poco sincrone del cuore. La possibilità di non rivederla, però, faceva più male della possibilità di dover aspettare un tempo indefinitamente lungo per riaverla al suo fianco.
Per quanto lei fosse particolare, problematica e un po’ folle, era stata comunque capace di provocargli emozioni che credeva di non poter più provare.
‘Torna, ti prego. Fa’ presto.’
 
“Penso che lei sia anche più impulsiva di me, a volte” disse il super soldato.
 
“Io speravo in qualcuno che ti inculcasse un po’ di buon senso. Però posso accettare anche qualcuno che ti protegga a qualsiasi costo, anche se sa essere un po’ spaventosa nel farlo.”
Bucky ammiccò, accennando un sorrisetto divertito.
Steve avrebbe voluto rispondergli ‘E nemmeno l’hai vista affrontare Benson. Una scena vietata ai minori’, ma si limitò invece ad esternare un pensiero nato proprio da quella spaventosa vicenda.
“Credo che finirò per farla impazzire. Da una parte so di poter osare di più, perché lei non permetterebbe che mi accada qualcosa. D’altra parte, so di metterla in difficoltà quando esagero con i miei modi poco ragionati e parecchio impulsivi.”
 
“Posso aiutarla io a gestire la cosa. Ricordo ancora come si fa.”
 
Fu una reazione poco controllabile l’inumidirsi degli occhi chiari di Steve. Le iridi sembrarono trasformarsi in uno specchio d’acqua increspato da una leggera brezza. Le emozioni cominciarono a bussare con forza alla porta del suo cuore, dopo essere riuscite a liberarsi dalle catene dovute alla composta razionalità, grazie alla quale il biondo aveva mantenuto insieme i pezzi del proprio animo fino ad allora.
 
“Steve?”
Bucky osservò, non senza una certa apprensione, l’amico coprirsi gli occhi con una mano e prendere qualche respiro profondo.
Gli avvolse istintivamente il braccio destro attorno le spalle e lo tirò a sé con gentilezza.
 
“Ohi, Stevie. Andrà bene.”
 
“Dovrei essere io a dirlo a te e invece... dannazione...”
Nonostante il nervosismo, il biondo non alzò il tono della voce, che venne fuori in un sussurro tremolante.
 
“Non devi fare niente. Hai già fatto abbastanza” provò a calmarlo James, sorprendendosi della calda gentilezza della sua stessa voce e del modo in cui stava cercando di consolarlo. Essere ancora capace di compiere gesti così umani e profondi gli infondeva speranza.
 
“Non è vero e lo sai. Mi hai sempre protetto e ho perso il conto delle volte in cui mi hai salvato. Se non fosse stato per te, non sarei qui. Io invece non ti ho salvato, Buck, e non sono nemmeno riuscito a trovarti.”
Era semplice e pura disperazione quella proveniente da Steve.
 
“È questo quello che pensi? Sei fuori strada. Ti addossi colpe che non hai. Settant’anni fa sei stato capace di venirmi a cercare da solo sul territorio nemico per salvarmi il culo, senza nemmeno avere la certezza che fossi ancora vivo. Solo un anno fa, invece, hai quasi lasciato che ti ammazzassi, pur di smettere di lottare contro di me. Poi sei venuto a cercarmi, lasciandoti tutto il resto alle spalle. E ti sto sbattendo in faccia i casi eclatanti, per farti rendere conto di quanto il tuo senso di colpa sia ingiustificato.”
James si lasciò scappare una risata leggera e amara.
“Fin da bambini, mi hai sempre tenuto sulla retta via. Proteggerti da qualche bulletto era il minimo che potessi fare per te. Tutte le volte che ho creduto di crollare, c’eri tu con la tua testardaggine e con i tuoi valori a rimettere insieme i pezzi. Combattere al tuo fianco e morire al tuo fianco... non ho mai avuto la ben che minima insicurezza. Tutto ciò che è successo, non è colpa tua. Se proprio vuoi incolpare qualcuno, incolpa l’Hydra. Io ho voluto seguirti e, se tornassi indietro, lo rifarei.”
 
Steve fece scivolare la mano dagli occhi per poter guardare direttamente in viso quello che per lui era a tutti gli effetti un fratello.
“Io… Mi sei mancato, Buck.”
Perché anche quando non aveva niente, Steve aveva Bucky.
 
“Mi sei mancato anche tu, stupido incosciente.”
 
Rogers si sentì, ancora una volta, il ragazzino gracile che era stato. Il braccio di James attorno le spalle lo fece sentire sicuro e protetto da tutto ciò che non poteva gestire, non da solo almeno.
Tutti gli eventi che erano accaduti, a partire da settant’anni prima, si erano concatenati in un modo contorto e, a tratti, assurdo. Tuttavia, quella catena di eventi li aveva tenuti insieme e loro vi si erano trascinati sopra fino a rincontrarsi.
Il destino li aveva voluti insieme, nonostante tutto.
 
“E comunque devi raccontarmi parecchie cose. Devo essere informato su tutte le cazzate che hai fatto o mi sentirei in difetto.”
 
“Non ho fatto cazzate.”
 
“A detta dei tuoi amici, ne hai fatte e non poche.”
 
“Forse qualcuna.”
 
Bucky riuscì a strappare al biondo una mezza risata. Steve sembrava non essere più sul punto di crollare e quella poteva essere considerata una vittoria.
“Adesso però credo sia opportuno dormire un po’. Che ne dici, Steve?”
 
“Dico che approvo in pieno.”
 
Una volta sistemate le teste sui cuscini, non ci misero molto ad addormentarsi, cullati da una profonda e sfibrante stanchezza.
 
 
 
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“Quando hai intenzione di informarli?”
 
Clint non smise di carezzare con dolcezza i capelli di Natasha, la cui testa era abbandonata sul suo petto. La rossa si era rannicchiata contro il fianco del compagno, godendo del piacevole calore che emanava e che le faceva sentire meno quel subdolo freddo nelle ossa, un gelo che non si decideva a lasciarla in pace.
 
“Non appena riacquisteremo un minimo di stabilità. Siamo da poco usciti vivi da un inferno, dopotutto.”
 
“Nat, sai che quello che ti sta succedendo è tutt’altro che negativo, vero? Per loro sarebbe una notizia fantastica, ne sono certo.”
 
“Ma non mi permetterebbero più di aiutarli.”
Natasha si spinse contro Clint con maggiore intensità e lui fece scivolare la mano dai capelli rossi alla vita sottile, in modo da poterla stringere a sé.
“Per quello ci sono già io. Nat, io ti amo e sai che ho sempre accettato il fatto che le nostre vite fossero attaccate ad un filo a causa del nostro lavoro. Con gli Avengers, forse il filo si è fatto ancora più sottile, data la portata delle minacce che ci ritroviamo ad affrontare. Ma adesso non riuscirei a vederti rischiare la vita. La sola idea che tu abbia combattuto oggi mi fa impazzire. Avrei potuto perdervi entrambi.”
 
“Come posso rimanere in disparte, quando c’è bisogno di tutto l’aiuto necessario? Se dovesse succedere qualcosa ad uno di voi, a te, non me lo perdonerei mai.”
 
Clint si tirò su, appoggiando la schiena alla testata del letto e trascinando con sé Natasha.
La luce soffusa e calda, proveniente dalla piccola lampada a spirale posta sul comodino, creava un gioco di ombre quasi ipnotizzante sul viso stanco della rossa. L’arciere affondò in quello sguardo inteso e la tentazione di baciarla con passione e di amarla con intensità in quell’esatto momento lo fece fremere fin nel profondo. E lei era perfettamente consapevole dell’effetto che aveva su di lui.
Ma c’era qualcosa di troppo importante in ballo e cedere alla tentazione non era contemplato, non ora.
 
“Nat, ti prego. Resta al sicuro, fallo per noi. Per lui.”
Clint poggiò con delicatezza il palmo della mano sul ventre della compagna, ma non distolse lo sguardo da lei nemmeno per un istante.
“Viviamola fino in fondo. Per quanto possibile, voglio con tutto me stesso la certezza del domani. E sono sicuro che i nostri compagni, nessuno escluso, quella certezza cercherebbero di dartela in tutti i modi. Non che prima non ti avrebbero protetta a qualunque costo, sia chiaro. Ma adesso è…”
 
“Diverso, perché non si tratta più solo di me” concluse la rossa, mentre un leggero sorriso le piegava le labbra piene.
Se avessero l’avessero ferita, avrebbero ferito anche l’indifesa vita che stava crescendo dentro di lei.
Natasha realizzò che una tale eventualità la spaventava e, ancora di più, la spaventata l’idea che quella piccola vita potesse spegnersi, lasciandola vuota.
Natasha si rese conto che desiderava poter vedere il visino della creaturina che lei e Clint avevano concepito più per errore che per volontà. Forse quello sarebbe stato l’unico errore di cui mai si sarebbe mai pentita, nonostante la paura di non essere all’altezza.
“Eviterò rischi inutili, ma scordati di potermi rinchiudere in una teca di vetro, tesoro. Darò una mano senza esagerare, finché non sarò impossibilitata da complicazioni fisiche più evidenti.”
 
“Questo posso accettarlo. Ma solo se decido io cosa significa esagerare. Inoltre, tieni in conto che ci sono Wilson e Barnes e che, comunque, non potremmo partecipare tutti insieme alle missioni, ma solo due per volta. Abbiamo personale a sufficienza.”
 
“Quindi non rimane che dirlo agli altri.”
 
A quelle parole, il sorriso di Clint si allargò tanto da rubare un battito al cuore della rossa, che sorrise di riflesso. Fu allora che lui la baciò con una passione capace da toglierle il fiato. Lei si sistemò a cavalcioni su di lui e gli infilò le mani fra i capelli, ricambiando il bacio con altrettanta intensità. Si staccarono solo per togliersi reciprocamente i vestiti e poi la rossa si ritrovò sotto il compagno, che tornò a baciarla mentre entrava dentro di lei senza esitazione, trovandola pronta ad accoglierlo.
 
Natasha si strinse a lui, circondandogli il collo con le braccia, e si accorse di non sentire più freddo.
“Ti amo” gli sussurrò suadente in un orecchio, facendolo fremere violentemente e incitandolo ad aumentare il ritmo delle spinte, sempre più profonde ed intense.
 
Nella penombra della stanza, mentre Clint la amava con ogni singola fibra del corpo e ogni singolo pezzo dell’anima, Natasha ebbe la certezza che tutto sarebbe andato bene finché lui fosse rimasto al suo fianco.
 
 
 
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C’era una luce bianca che infrangeva l’oscurità. Cercò vanamente di orientarsi e provò a muoversi, ma il corpo non sembrava voler rispondere. Lo sentiva a malapena, il corpo.
 
“Sei con noi, ragazzo?”
 
Mettere a fuoco gli costò uno sforzo non indifferente e, riuscito nell’impresa, il panico calò su di lui con la stessa violenza di una ghigliottina.
Vide prima Henry Benson e, dietro di lui, c’era Adam Lewis. Lo stavano osservando con espressioni compiaciute. Le loro bocche erano arricciate in sorrisi sadici e derisori.
L’istinto fu quello di allontanarsi all’istante, e solo dopo svariati tentativi andati a vuoto, si accorse di essere bloccato su una gelida sedia di metallo. Aprì la bocca per parlare, ma non riuscì ad emettere alcun suono e la cosa lo terrorizzò. Tentò di nuovo, ma fallire non face altro che accrescere il panico.
La sua voce era sparita.
 
“Non sforzarti inutilmente. Sai, sei quasi gradevole quando non parli. Tu non volevi tacere, così abbiamo dovuto prendere dei provvedimenti permanenti.”
Fu Benson a parlare. L’uomo venne più vicino e fece scorrere un dito lungo la sua gola, ridendo come un pazzo in preda all’ebrezza.
“Li abbiamo uccisi tutti. Grazie a te. Si fidavano così ciecamente di te.”
 
Il cuore stava battendo all’impazzata e la paura lo aveva immobilizzato.
Avrebbe voluto fuggire. Avrebbe voluto sparire.
 
Benson gli diede le spalle per qualche attimo, prima di tornare a guardalo. Tese una mano chiusa verso di lui e un sorriso viscido e vittorioso gli curvò la bocca.
Aprì le dita, mostrando un bulbo oculare tremolante, posto al centro del palmo. L’iride cerulea brillava nell’oscurità, mentre la pupilla si muoveva con scatti improvvisi, come terrorizzata.
 
“Ti avevo detto che te lo avrei strappato via.”
 
 
 
Steve aprì gli occhi, ritrovandosi nella propria stanza. Aveva le dita strette attorno le coperte, il cuore batteva ad un ritmo preoccupante e aveva il fiato corto. Cercò di regolarizzare il respiro e girò il capo, per accertarsi di non aver svegliato Bucky, che fortunatamente dormiva ancora, girato su un fianco e dandogli le spalle.
Era passato parecchio tempo dall’ultima volta che aveva avuto un incubo tanto intenso. Portò una mano alla gola, come per assicurarsi che fosse tutto a posto. La tentazione di verificare di poter parlare fu forte, ma non aveva intenzione di interrompere il sonno dell’amico, certo che gli capitasse raramente di dormire così profondamente.
Era stato solo un sogno, una rielaborazione macabra di ciò che era ancora nitido nella sua memoria.
Era al sicuro, adesso, lontano sia da Benson che da Lewis.
Non aveva nulla da temere. Era al sicuro.
E poi c’erano i suoi compagni, quindi non c’era da preoccuparsi. Era al sicuro.
 
“Goditi questa tua momentanea vittoria. A presto, Steve. Ti voglio sano, quando ci incontreremo di nuovo.”
 
Era al sicuro?
 
 
 
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“Dannazione.”
 
Anthea si disfò delle coperte con stizza e scese dal letto. Camminò per la stanza, cercando di smaltire la tensione e l’angoscia.
Era certa che quello che aveva visto non provenisse direttamente da lei, quindi era semplice intuire chi fosse il mittente della straziante visione che l’aveva colta nel pieno del sonno. Le aveva fatto venire i brividi e un certo senso di nausea.
Una volta che si fu calmata abbastanza, si lasciò cadere seduta sul bordo del letto, dato che le gambe le si erano fatte spaventosamente molli. Il sogno era stato tremendamente intenso e faticava a scacciare via le immagini dalla mente scossa.
Avrebbe voluto essere lì con lui.
Riusciva ad immaginarlo svegliarsi spaventato e spaesato, con il cuore in gola, la fronte imperlata di sudore e le iridi leggermente vacue. Se solo fosse stata al suo fianco, avrebbe potuto rassicurarlo, dirgli che non doveva preoccuparsi, perché era al sicuro. Lo avrebbe stretto a sé, gli avrebbe carezzato i capelli con dolcezza e avrebbe atteso che si fosse riaddormentato.
Voleva tornare da lui.
Non era passato nemmeno un giorno e già il desiderio si era fatto tanto intenso da risultare doloroso.
Essere assente in un momento tanto delicato, la faceva sentire profondamente amareggiata.
Lo amava, lo amava con ogni singola fibra di sé, e avrebbe distrutto la distanza che li separava in quell’esatto momento, se il senso del dovere non fosse stato tanto persistente.
Forse era arrivato il momento di prendere coraggio e di mettere le carte in tavola. Prima di partire, si era ripromessa che avrebbe gestito tutto nel modo giusto e con il giusto tempo, senza affrettare le cose. Ora sapeva, con estrema certezza, che non avrebbe potuto mantenere l’impegno preso, non a quelle condizioni. Sarebbe impazzita altrimenti.
Era stanca. Erano successe troppe cose tutte assieme. Tuttavia, nella tragedia, mai si era sentita tanto viva e tanto nel posto giusto, come lo era stata con gli Avengers.
Doveva parlare con Andras e con il Consiglio. Adesso che l’influsso di Antares era sparito, loro l’avrebbero ascoltata. In ogni caso, non era disposta ad accettare un “No” come risposta.
Era la sua vita e aveva già buttato via tanti anni. Voleva solo essere felice e stargli accanto.
Chiedeva troppo?
 
“Mi dispiace, Steve” sussurrò nel silenzio, come se lui potesse sentirla.
Ed eccolo presentarsi di nuovo, il devastante impulso di correre da lui in quel preciso istante.
Si prese la testa fra le mani, stringendo fra le dita ciuffi di capelli.
Respirò una, due, infinite volte.
 
Un leggero bussare alla porta la distolse dai pensieri e sollevò lo sguardo, quando la figura di Andras venne avanti.
L’oneiriano aveva addosso solo dei morbidi pantaloni bianchi, che gli cadevano perfettamente sui fianchi stretti. La luce fioca delle stelle, proveniente dalle vetrate della stanza, faceva apparire diafana la pelle dell’addome scolpito dal duro allenamento. Il viso era leggermente in ombra, ma poteva scorgerne i tratti tesi.
Anche lei aveva addosso dei morbidi pantaloni bianchi, dotati di una fascia blu che li tenevano fermi appena sotto l’ombelico. La parte superiore del corpo era coperta solo da fasciature candide poste attorno il seno.
Per gli oneiriani non era strano mostrarsi tanto scoperti, senza che ci fosse il minimo imbarazzo. I loro vestiti erano tradizionalmente essenziali e sottili, in modo da non costituire una barriera che limitasse le sensazioni e le percezioni provenienti da ciò che li circondava.
Eppure, in quel momento, la giovane si sentì più scoperta del dovuto.
 
“Perdona l’intrusione, ma le vibrazioni negative cominciavano ad essere destabilizzanti. Stai bene?”
 
Quella era una novità, tanto che Anthea impiegò qualche attimo di troppo per rispondere alla semplice domanda, mentre osservava l’oneiriano sedersi al suo fianco, abbastanza distante da non penetrare troppo all’interno del suo spazio personale.
“Mentirei se dicessi di stare bene e, a quanto pare, l’ho sbandierato ai quattro venti.”
 
“Le mie stanze non sono troppo lontano dalle tue. Non credo che qualcun altro al di fuori di me abbia percepito qualcosa.”
 
“Meglio così. Andras, io...”
 
“Aspetta.”
Non fu sgarbato, né si impose. Ad Anthea quella parve più una malcelata supplica, perciò lo assecondò, lasciando a lui la parola.
“Riesco ad intuire la questione a cui vuoi dar voce. Ma vorrei che prima mi ascoltassi. Antares e tutto ciò di negativo che aveva portato con sé non ci sono più. Hai la piena fiducia del popolo e il Consiglio ti ascolterà. Se tu rimanessi, le cose sarebbero diverse.”
Andras si fece più vicino, tanto da sfiorarle il braccio con il proprio. La stava guardando dritta negli occhi e le iridi solitamente trasparenti erano più torbide ed intense, tanto da riuscire a provocarle un brivido lungo la schiena.
 
“Se tu rimanessi, io sarei diverso.”
 
La mano destra dell’oneiriano si posò sulla guancia della giovane. Un gesto inaspettato, gentile.
Anthea non si mosse, forse perché presa alla sprovvista da un comportamento che lui mai le aveva mostrato prima. Si avvicinò ancora, finché i loro visi non furono ad un soffio di distanza.
 
“Andras.”
La ragazza gli posò il palmo della mano sul petto, con l’intenzione di spingerlo indietro con garbo. Non voleva litigare o scontrarsi in qualche modo con lui.
 
“Mi prenderei cura di te e farei in modo che tu non soffra ancora. Mi impegnerei a renderti felice.”
 
Anthea poteva percepire il cuore battere con più insistenza. Cominciava a sentirsi a disagio, nonostante quelle parole l’avessero colpita.
Fu quando Andras posò le labbra sulle sue, con tutta l’intenzione di rendere più profondo quell’intimo contatto, che la giovane reagì d’istinto e lo spinse indietro, ripristinando una certa distanza di sicurezza fra loro.
Non vide rabbia negli occhi di lui, ma solo un’amara consapevolezza.
 
“Io lo amo. Non potrei mai essere felice lontana da lui. Farei di tutto per essergli accanto in questo stesso momento. Mi dispiace, Andras. Sono certa che troverai la tua compagna di vita, quella per cui arriverai a commettere follie. Forse allora potrai capirmi.”
Anthea piegò le labbra in un lieve sorriso. Lo osservò passare le dita fra i capelli scuri e prendere un respiro profondo. Era visibilmente teso.
“Forse un po’ lo odio ancora, nonostante abbia conquistato il mio rispetto sul campo di battaglia.”
 
“Andras. Io ci sarò per voi, se avrete bisogno di me. Mi basterà percorrere il Bifrost. Thor sta vivendo sulla Terra, eppure non esita a tornare dagli asgardiani, in caso di bisogno.”
Cercò di essere convincente, di fargli capire che su di lei avrebbe potuto contare, ma che non sarebbe rimasta, per nessun motivo.
 
“Ma tu esiteresti, se dovessi scegliere fra lui e noi.”
Andras sollevò lo sguardo per poterla di nuovo guardare in viso e la vide vacillare, in cerca di una risposta che potesse essere sincera.
Esiterei. Non mi considero un’eroina pronta a mettere avanti il bene comune sempre. Lui lo è. Io finirei per mettere davanti lui, se intravedessi la minima possibilità di poterlo perdere. È proprio per questo che non sono adatta a governare.”
Ci fu un breve silenzio.
“Vorrei che tu prendessi il mio posto, Andras. Sono certa che saresti un ottimo sovrano e sapresti gestire le responsabilità di tale onere molto meglio della sottoscritta.”
 
Andras fu sinceramente sorpreso. Dovette metabolizzare la notizia, prima di riuscire a dire qualsiasi cosa. Non credeva che lei avrebbe scelto lui, data la presenza di personalità molto più anziane, sagge e dalla grande esperienza.
“Se accettassi, dovrai essere il mio garante nel periodo di transizione” volle ricordarle, mentre iniziava a prendere davvero in considerazione quella proposta tanto decisiva.
 
“E quanto durerebbe questo periodo di transizione?”
 
“Anthea.”
 
“Scusami. Giornata faticosa e nottata non positiva.”
Anthea rise sommessamente e con fare leggermente isterico.
 
“Possiamo gestirla fra noi, se è davvero quello che vuoi. Inoltre, sei ancora tu al comando, quindi sta a te la decisione definitiva.”
 
“È davvero quello che voglio, Andras.”
 
“E sia.”
 
 
 
 
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Il giorno dopo la battaglia
 
 
“Dove vai?”
 
James, ancora mezzo intontito dal sonno, osservò Steve infilare un paio di jeans scuri e stringere la cintura in cuoio nero per tenerli fermi sui fianchi stretti.
 
“Sul tetto. Fury viene a prendermi. Ha bisogno di un rapporto dettagliato di quanto è successo e che gli indichi coloro che ho visto al fianco di Teschio Rosso.”
 
Il moro inizialmente non disse nulla. Si limitò ad analizzare i movimenti e le espressioni del suo migliore amico, prima di rompere ancora il silenzio di quella placida mattina.
La sera prima avevano dimenticato di chiudere le tende e la luce fioca del Sole, coperto da una cortina di nubi vaporose, aveva creato una piacevole penombra nella stanza.
Stava nevicando.
 
“Potevi riposare di più, Steve. Non hai una bella faccia. Le fasciature sul tuo braccio sono sporche di sangue.”
 
Steve mise una felpa nera dotata di un collo abbastanza alto, da coprire quasi del tutto le bende attorno la gola. Poi guardò direttamente Bucky, cercando di sorridergli con fare rassicurante.
“Non avevo molto sonno e, credimi, mi sento meglio. E non preoccuparti per il braccio, più tardi andrò dal dottor Mitchell.”
Avrebbe potuto darla a bere solo ad uno sconosciuto poco attento. La sua capacità di mentire era irrisoria. Bastava guardarlo, per capire quanto fosse affaticato e quanto i danni riportati in battaglia gravassero ancora su di lui. James stesso si sentiva uno straccio e non c’era muscolo che non gli dolesse.
Stava per ribattere, ma Steve lo precedette.
 
“Oggi dovrò parlare con Tony” disse serio e si sedette ai piedi del letto, ponendo tutta l’attenzione su James.
“Buck...”
 
“Ricordo ognuno di loro.”
 
Quelle parole alleggiarono nell’aria, portando con loro un gelo devastante.
Steve riuscì perfettamente a percepire lo stomaco e il cuore contrarsi in sincronia. Eppure, non si lasciò sopraffare dalle emozioni e affondò gli occhi azzurri in quelli chiari e freddi dell’amico.
“Quello che hai fatto in tutti quegli anni non eri tu. Non avevi scelta.”
 
“Lo so, ma l’ho fatto.”
Una sentenza che non ammetteva alcuna replica.
 
E Steve non replicò. Le parole non sarebbero servite, perché Bucky aveva bisogno di tempo e di sostegno per tornare a credere in se stesso, nel se stesso che l’Hydra aveva tentato di estirpare, al fine di preservare il solo involucro, l’arma priva di umanità.
Ma Bucky non era sparito, era sopravvissuto al gelo e al buio. Nonostante ciò che si erano detti la notte prima, i sensi di colpa non avevano abbandonato Steve, anzi, gli si erano aggrappati addosso con le unghie e continuavano a graffiarlo.
 
Fu James a rompere il silenzio.
“Non dovresti prenderti tu la responsabilità di dirlo a Stark.”
 
“Devo farlo io invece e cercherò di gestire le conseguenze come potrò.”
Rogers fu abbastanza categorico. Toccava a lui parlare con Tony.
 
“Potresti trovarti in una posizione scomoda, Steve. Non voglio che tu sia costretto a scegliere.”
 
Il biondo sorrise appena e infranse il contatto visivo con James.
“Cerca di risposare. È molto presto. Ci vediamo dopo.”
 
Barnes rimase ad osservare la schiena di Steve allontanarsi e si chiese quando precisamente avesse iniziato a pensare a quella stessa schiena come ad uno scudo, una protezione sicura e più affidabile di qualsiasi altra cosa.
Si chiese, inoltre, se Steve avesse mai provato la stessa sensazione, quando era lui a proteggerlo. Probabilmente le cose si erano rovesciate senza che se ne accorgessero e, se Steve aveva acquisito anche solo metà del senso di protezione che James aveva sempre provato nei suoi confronti, allora sperò che Tony non lo costringesse a fare una scelta.
 
Perché io sarò con te fino alla fine.
 
 
 
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Quella mattina era rimasto a letto. Non si era mosso nemmeno quando il suo stomaco aveva iniziato a protestare. L’unica cosa a cui aveva dovuto rinunciare, suo malgrado, era stato il calore del corpo di Pepper. Aveva cercato di convincerla in tutti i modi a rimanere e sapeva essere convincente, quando si metteva d’impegno. Tuttavia, la signorina Potts non si era fatta abbindolare e si era messa in moto, ricordandogli che la società non si gestiva di certo da sola e che, dopo tutto ciò che era accaduto, era già un miracolo che fosse rimasta in piedi.
Forse, adesso, Tony si sentiva un po’ in colpa per non essere stato altrettanto produttivo e per aver continuato a poltrire fra le coperte.
 
“Signor Stark, il Capitano Rogers la sta cercando. Vorrebbe parlare con lei.”
La voce di JARVIS lo riscosse dal torpore.
 
“Comunica al Capitano che può raggiungermi direttamente in camera.”
 
Magari avrebbe dovuto almeno farsi trovare fuori dal letto, ma prima che potesse trasformare quel pensiero in un’azione concreta, un paio di colpi alla porta furono seguiti da un “Tony, posso?”.
Era stato veloce, Rogers.
Oppure, semplicemente, Tony ci aveva messo un tempo troppo lungo a capire se scendere o meno dal letto.
 
“Vieni, Cap.”
 
Steve aprì la porta ed entrò. La sua espressione piuttosto seria vacillò nel trovarsi davanti un Tony Stark che faticosamente si stava tirando fuori dalle coperte. Aveva addosso solo un paio di pantaloni scuri della tuta, i capelli erano un disastro, ma conservavano comunque un qualcosa di artistico.
Lo osservò indossare la maglia nera a maniche lunghe, la stessa che portava la sera prima, con movimenti degni di un bradipo.
“Sai che è quasi mezzogiorno?” gli fece presente.
 
“Chi sei? Mia madre?”
 
Steve scosse il capo, sbuffando appena.
Una volta infilata la maglia, Stark ricadde seduto sul letto e batté il palmo della mano accanto a sé, invitando il super soldato a sedersi.
“Sei venuto a parlarmi dell’incontro con Fury?”
Il biondo prese posto di fianco l’amico e fissò lo sguardo su un punto indefinito davanti a sé, visibilmente combattuto, tanto che Tony cominciò a chiedersi se fosse il caso di preoccuparsi.
“Steve?”
 
“Tony, c’è una cosa che devi sapere. Si tratta dei tuoi genitori.”
 
L’espressione di Stark cambiò in una frazione di secondo, facendosi più tesa e scura. Le spalle e la schiena divennero tese e la mascella si contrasse con uno spasimo.
Steve spostò lo sguardo su di lui, in cerca dei suoi occhi, e se li trovò già puntati addosso.
“L’Hydra riteneva tuo padre pericoloso e ha preso la sua vita, assieme a quella di tua madre, facendo in modo di farlo sembrare un incidente. L’assassinio dei tuoi genitori è stato affidato al Soldato d’Inverno.”
 
Calò il silenzio. Continuarono a mantenere il contatto visivo, non osando romperlo, come se facendolo avrebbero potuto accendere una miccia il cui avanzamento sarebbe stato difficile da arrestare.
 
“Tony…”
 
“Da quanto lo sapevi?”
 
Rogers boccheggiò per qualche secondo, poi abbassò gli occhi e si costrinse a rispondere.
“Da non molto dopo il crollo dello SHIELD. Io…”
 
“Da quasi un anno. Da quasi un anno sai la verità sui miei genitori, Rogers. Mi piacerebbe conoscere il motivo del tuo silenzio, ma credo di riuscire ad intuirlo.”
La voce di Tony si era fatta più fredda e tagliente. C’era rabbia nei tratti del suo volto.
“Adesso ti dirò io una cosa che tu ignori. Guardami.”
 
Steve obbedì, incastrando di nuovo lo sguardo affranto con quello gelido del compagno.
 
Rapporto 16 dicembre 1991. So bene come è andata. Dopo il crollo dello SHIELD, grazie alla fuga di informazioni, ho visto. Guardarlo uccidere mia madre... credo di non aver mai provato tanto odio. Ho eliminato quel file definitivamente, per evitare di poterci incappare di nuovo anche solo per errore.”
 
Una chiara e profonda incredulità si dipinse sul viso del super soldato, che si ritrovò a trattenere il respiro dinanzi quella scottante rivelazione.
Stark riprese fiato e parlò ancora.
 
“Lui non si stancava mai di parlare di te, di quanto tu fossi speciale. Era rammaricato per averti perso. Tu, Barnes, Peggy Carter e gli Howling Commandos avete significato tanto per lui. Mi chiedo cosa abbia pensato nel ritrovarsi davanti James Barnes, in veste di suo assassino.”
Tony sorrise con amarezza e nelle iridi si accese una luce pericolosa.
 
“Volevo bene ad Howard, così come gliene voleva Bucky. Non gli avrebbe mai fatto del male, tantomeno a sua moglie. Sapere di aver portato loro via la vita lo torturerà per sempre. Mi dispiace tanto, Tony. Ma, devi credermi, Bucky...”
 
Le dita della mano destra di Stark artigliarono con violenza il collo della felpa del biondo e lo strattonarono in avanti, così che fra i loro volti intercorresse solo un misero palmo di distanza.
Steve era ammutolito. Cominciò a sudare freddo. Il dolore e la rabbia negli occhi di Tony erano tanto intesi da farlo rabbrividire.
 
“Dal momento in cui sono venuto a conoscenza della verità, mi sono chiesto più volte se anche tu sapessi, mentre cercavi Barnes disperatamente. Mi sono chiesto se tu me lo avresti detto o se, al contrario, me l’avresti tenuto nascosto per proteggerlo.”
 
“Tony...”
 
Non parlare. Devi sapere che le persone in cui ripongo la mia fiducia hanno il potere di ferirmi più del cattivo di turno. Adesso, da una parte vorrei darti un pugno dritto su quei bei dentini. D’altra parte, però, non riesco a sentirmi tanto tradito e incazzato da voler ricorrere seriamente alla violenza fisica, perché nonostante tu di tempo ce ne abbia messo, sei comunque venuto qui a raccontarmi la verità. Non potevi sapere che ne fossi già a conoscenza, quindi eri pronto ad affrontare le conseguenze del mettermi a conoscenza di ciò che Barnes aveva fatto.”
 
Stark smise di parlare e prese qualche respiro profondo. La rabbia che lo aveva accecato stava diventando meno intensa, permettendogli di recuperare un po’ di lucidità.
 
“Mi dispiace averci messo tanto, Tony. Mi dispiace tanto. Non volevo dirtelo per risparmiarti, ma dopo tutto ciò che è accaduto, ho capito che stavo risparmiando me stesso. Dovevi sapere la verità.”
Steve stava mostrando una sincera e profonda disperazione. Non avrebbe mai voluto che Tony si sentisse tradito da lui, ma non aveva avuto il coraggio di affrontarlo prima, perché spaventato dall’idea di innescare una terribile reazione, che avrebbe potuto condurre a terribili conseguenze.
 
“Non voglio che tu sia costretto a scegliere.”
Le parole di Bucky gli rimbombarono nella testa con forza e pregò che una cosa simile non accadesse adesso, perché Steve non sapeva precisamente fin dove avrebbe potuto spingersi.
 
Tony ruppe il silenzio e, al contempo, allentò la presa sul super soldato.
“Averlo scoperto in un frangente in cui Barnes non era a portata di mano, mi ha concesso il tempo di metabolizzare. E poi avevo Pepper e lei è la migliore, quando si tratta di gestire le mie eventuali crisi isteriche. Ho letto i file sul lavaggio del cervello e su tutte le altre torture psicologiche e fisiche che l’Hydra gli ha inflitto. Mi sono convinto che anche lui fosse una vittima, nonostante non riesca ancora a perdonarlo del tutto.”
Fece una pausa, affondando maggiormente delle sguardo chiaro e disperato dinanzi a sé.
“Sai, è stato il fatto che tu fossi quasi morto per lui, che mi ha trattenuto dal compiere pazzie. Mi sono fidato di te. Tu, invece…”
 
Io mi fido di te, Tony, posso assicurartelo. Dannazione, credimi. È che non sapevo come affrontare le cose… non sapevo cosa fare. Ho sbagliato e mi dispiace, avrei dovuto dirtelo prima, ma non ce l’ho fatta. Non ho trovato il coraggio, fino ad oggi.”
 
“Così anche tu hai dei difetti, Steve Grant Rogers.”
Stark lasciò del tutto andare il ragazzo, ma mantenne lo sguardo su di lui. La rabbia sembrava essere evaporata dalle iridi nocciola, tornate ad essere più calde e lucide.
Il pentimento negli occhi cerulei di Steve lo aiutò a calmarsi, a riflettere, a prendere consapevolezza del fatto che l’individuo davanti a sé era umano e, come tutti gli umani, poteva commettere errori, soprattutto quando c’erano di mezzo sentimenti contrastanti. Cercò di calarsi per un attimo nei suoi panni, cercò di comprendere il dissidio interiore che doveva aver provato.
Tony si chiese se davvero avesse perso fiducia in lui, lui che gli aveva tenuta nascosta la verità tanto a lungo.
 
“Nessuno è perfetto, Tony. E io non lo sono di certo.”
 
“Mio padre la pensava diversamente.”
Un sorriso amaro e malinconico prese forma sul viso di Stark.
 
No, Tony non aveva perso fiducia in lui. Magari era ancora un pochino incazzato.
Inoltre, odiava portare rancore e forse questo era una dei motivi per cui aveva smesso, da un bel po’ ormai, di sentire l’esigenza di farla pagare al Soldato d’Inverno, consapevole che ciò non avrebbe riportato indietro i suoi genitori e nemmeno avrebbe reso loro giustizia.
James Barnes era una vittima dell’Hydra e gli Avengers l’Hydra l’avevano appena fatta a pezzi. Questa poteva considerarla giustizia e non sarebbe stata possibile, non senza il ragazzo che aveva di fronte.
 
“Forse perché non ha avuto occasione di conoscermi fino in fondo, diversamente da te.”
Steve sollevò un angolo della bocca, distendendo appena i nervi rimasti tesi per un tempo lunghissimo. La riacquistata calma dell’amico dissipò un po’ della disperazioni indiatasi sotto la pelle.
 
“Forse è così.”
Stark sospirò.
“Adesso sparisci. Ho bisogno dei miei spazi e tu e la tua faccia ferita non fate bene al mio umore.”
 
“Tony…”
 
Obbedisci, soldato. Avanti, levati di torno.”
 
Tony spinse Steve letteralmente fuori dalla stanza. Non fu troppo brusco e il biondo non oppose resistenza.
Una volta che Rogers fu andato, Stark si chiuse la porta alle spalle e scivolò contro di essa con la schiena, finendo seduto a terra.
Si sentiva scombussolato, amareggiato, triste e sollevato. Tuttavia, non c’era più rabbia nel suo cuore.
Non sapeva quanto ci avrebbe messo a digerire tutto quanto, ma quel confronto era stato in qualche contorto modo catartico.
Aveva pensato di affrontare Steve sulla questione riguardante il ‘Rapporto 16 dicembre 1991’, dal momento in cui Barnes si era unito al gruppo a causa di un’assurda concatenazioni di eventi. Ma poi, quegli stessi eventi, lo avevano completamente assorbito.
Oggi, Steve era venuto da lui per parlargli a cuore aperto, nonostante fosse ben consapevole delle possibili conseguenze. All’inizio si era davvero sentito tradito, Tony, ma poi qualcosa nel profondo lo aveva scosso, fermandolo prima di compiere gesti avventati.
Ammazzare Barnes era definitivamente esclusa come idea.
Anche prendere a pugni Steve, per il momento.
Si sentiva stranamente più leggero, nonostante gli pizzicassero gli occhi.
Quei sentimenti contrastanti e graffianti, che erano stati seppelliti dai problemi più incombenti degli ultimi giorni, erano tornati a galla tutti in una volta, richiamando l’astio, la rabbia e la vena vendicativa che l’avevano aggredito il giorno in cui aveva scoperto la verità, nella penombra della sua officina.
 
Se Steve era stato la miccia, allora aveva saputo essere anche la secchiata d’acqua fredda che l’aveva aiutato a dominare i riemersi ed oscuri sentimenti tramite la ragione.
 
“Giuro che James Barnes sarà l’ultimo super soldato scongelato che accetterò di avere in squadra. Troppo problematici per i miei nervi.”
 
 
 
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Sam era sceso nella Sala Comune in tarda mattinata, dopo aver dormito come un sasso per più di undici ore filate. Gli ultimi giorni erano stati assurdi e non aveva mai provato una tale pressione addosso, nemmeno quando aveva distrutto l’Hydra e lo SHIELD al fianco di Steve.
Tony gli aveva già detto di fare come se fosse a casa sua, perché ormai era parte della squadra.
Un Avenger. Era diventato un Avenger.
E menomale che il ritiro dal campo di battaglia avrebbe dovuto essere definito. Forse, avrebbe dovuto scegliere un altro posto per andare a correre e non lo stesso frequentato da Capitan A Sinistra America.
Eppure, tornando indietro, avrebbe ripercorso quegli stessi passi che l’avevano condotto fin lì.
Stava per gustarsi un caffè fumante, quando il rombare di un tuono in grado di far tremare le vetrate della Tower gli fece prendere uno spavento tale da fargli quasi sfuggire la tazza dalle mani.
 
Non molto dopo, Thor si presentò nella Sala Comune, tutto pimpante e in gran forma.
Richiamato dal fracasso, arrivò anche Steve, seguito da Barnes. Poi, come normale prosecuzione delle cose, si erano presentati Banner, Romanoff e Barton. La stanza si riempì così di un accesso chiacchiericcio.
Sam cominciò a dimenticare lo spavento preso e si immerse in quell’atmosfera propria di una famiglia tanto disfunzionale quanto solida.
Infine, arrivò anche Stark.
Ci furono due istanti precisi in cui a Sam, da osservatore esterno delle dinamiche del gruppo che contemplando divertito, parve sentir crescere una sottile tensione nell’aria. Il primo fu l’istante in cui gli sguardi di Steve e Tony si incontrano, mentre il secondo fu l’istante in cui l’inventore trovò gli occhi di James.
Tutto finì lì e la tensione si dissipò in un battito di ciglia.
 
Si iniziò a discutere su come poter rendere il periodo degli arresti domiciliari più leggero.
Stark parlò di ridefinire gli spazi dei piani alti della Tower e disse che avrebbe mandato Happy a prendere gli effetti personali di Sam.
Rogers comunicò loro che Fury gli aveva riferito che, nel pomeriggio, gli agenti scelti da Everett Ross ed Everett Ross stesso sarebbero venuti a far loro visita, per ridefinire le loro libertà ed imporre le regole che avrebbero dovuto rispettare fino a data da destinarsi.
Concordarono sul fatto di cercare di collaborare per evitare complicazioni e, a quel punto, le loro espressioni un po’ si rabbuiarono, perché non sarebbe stato affatto facile gestire le cose.
 
Natasha percepì distintamente il calo dell’umore generale. Lanciò uno sguardo in direzione di Clint e analizzò i tratti tesi del suo viso. Prese un bel respiro ed infranse il silenzio teso.
 
 
“Sono incinta.”

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Capitolo 21
*** Thin Balance ***


Thin Balance
 
What are you afraid of
When you close your eyes?
Drifting through the darkness
Paralyzed
What are you afraid of
That holds you down?
Screaming in the silence
Without a sound
What are you afraid of?
 
 
 
“Questa situazione continua a sembrarmi inquietante.”
 
Sam, seduto a tavola, osservò di sottecchi gli uomini della CIA che presidiavano l’ascensore. Se ne stavano lì, in piedi, a controllarli, finché altri due agenti non davano loro il cambio.
Insomma, non era il massimo far colazione e rilassarsi con due presenze estranee a sorvegliare la situazione, come se i Vendicatori avessero potuto causare qualche danno con pancakes e caffè. Magari il caffè bollente poteva non essere il massimo della sicurezza, ma nulla di troppo preoccupante, alla fine dei conti.
 
“I primi due giorni è stato inquietante, ma adesso ho iniziato a vederli come parte della tappezzeria. Ti garantisco che aiuta” fu la tranquilla risposta di Clint, alle prese con un piatto di uova strapazzate. L’arciere aveva un diavolo per capello e non si era sforzato molto per sistemarlo, a quanto pareva.
 
Le porte dell’ascensore si aprirono e Sam si sporse, inclinando appena la sedia all’indietro per avere una maggior visuale sull’arrivo di Thor e Steve.
I due biondi erano stati in missione con lo SHIELD tutta la notte, impegnati ad eliminare un nucleo dell’Hydra individuato a Washington, nei pressi del Pentagono. Come era stato loro imposto, solo due Avengers alla volta erano autorizzati a lasciare la Tower, al fine di fornire supporto alla lotta contro i rimasugli dell’organizzazione criminale latitante.
Né l’asgardiano né il super soldato sembravano aver riportato ferite evidenti, quindi non doveva essere stata una notte troppo impegnativa.
 
“Capitano Rogers.”
Uno degli agenti della CIA, più precisamente il moretto dagli occhi chiari che rispondeva al nome di Dan - almeno da ciò che Sam aveva potuto capire - porse a Steve un tablet. Quel ragazzo doveva avere meno di trent’anni e non sembrava troppo a suo agio nello svolgere il compito che gli era stato assegnato. Era teso come una corda di violino e non riuscì a nascondere una certa ammirazione nel guardare Capitan America sfilare l’elmetto della divisa stealth e venire verso di lui, per apporre una firma sul documento digitale che sarebbe stato allegato al rapporto della missione.
“La ringrazio” si lasciò scappare il moretto e ricevette uno sguardo interdetto dall’altro agente della CIA, più anziano e serioso.
“Dovere” rispose il Capitano, riconsegnando indietro il tablet, per poi seguire Thor all’interno della Sala Comune.
 
“Come è andata?” chiese allora Sam, anche se l’espressione corrucciata di Steve parlava da sola.
“Nessuna traccia di Adam Lewis.”
Infatti. Wilson ci avrebbe scommesso.
 
“Vado a fare una doccia” aggiunse poco dopo il super soldato, che lasciò una pacca amichevole sulla schiena di Thor, prima di prendere le scale interne per raggiungere gli appartamenti.
 
“Non si darà pace finché non l’avrà trovato” attestò Thor, con fare quasi solenne.
L’asgardiano, stretto nella sua armatura, aveva rinunciato al mantello rosso per cercare di adattarsi un po’ di più al modus operandi adottato dal Capitano durante la missione notturna, anche se essere discreto, silenzioso e poco visibile non gli riusciva affatto bene. Non aveva mai visto il suo amico agire in veste di agente dello SHIELD e doveva ammettere che era diverso dal combattere una battaglia incasinata e su larga scala.
 
“Lo troveremo.”
Barton ne era certo. Quel bastardo di Lewis non sarebbe rimasto a piede libero ancora per molto. Era solo questione di tempo e l’avrebbero trovato, dovevano solo essere pazienti e mantenere i nervi saldi.
 
Intanto, Steve era arrivato al proprio appartamento, ma si fermò poco prima di entrarci, come se avesse ricordato improvvisamente qualcosa. Si diresse di nuovo verso l’ascensore e scese al piano dove si trovava la palestra per gli allenamenti.
Le ante in vetroresina della porta d’ingresso si aprirono, scorrendo lateralmente al suo arrivo e, tenendosi al margine della grande sala, il super soldato raggiunse la donna dai lunghi capelli biondi ferma in un angolo. Vedendolo avvicinarsi, lei gli sorrise.
“Sharon” la salutò, una volta fermatosi al suo fianco.
“Ciao, Steve. Com’è andata?” domandò la donna, sfilando le mani dalla giacca in pelle nera e intrecciando lo sguardo con quello azzurro del Capitano.
“Nessuna complicazione” fu l’asciutta risposta di lui, ancora visibilmente teso, nonostante cercasse di apparire tranquillo.
Sharon capì che Rogers non era lì per parlare della missione appena portata a termine, così lasciò cadere il discordo e si limitò ad annuire.
Entrambi posarono l’attenzione sulle altre due presenze all’interno della palestra. Si stavano affrontando in un combattimento corpo a corpo sul tatami verde posto a ridosso della vetrata, da cui la luce penetrava all’interno della sala.
“Hanno uno stile molto simile. Sembra quasi siano stati addestrati dalla stessa persona” osservò Sharon, seguendo con sguardo critico i movimenti dei due sfidanti.
 
Natasha e James sembravano immersi in una danza perfettamente bilanciata, mentre combattevano con un certo trasporto, senza farsi distrarre da ciò che accadeva loro intorno. Era visibile il fatto che Barnes si stesse trattenendo, cercando di non abusare del braccio metallico, conscio della pericolosità di quell’arma che l’Hydra gli aveva impiantato senza chiedere. Non che non ritenesse Natasha all’altezza, tutt’altro, ma non aveva assolutamente intenzione di rischiare, in alcun modo.
 
“Possiede controllo e stabilità da quello che ho potuto osservare in questi quattro giorni. Non ho intravisto alcun istinto omicida, posso dirlo con una certa sicurezza. Credo che riuscirò a fargli ottenere il permesso di poter partecipare alle missioni come membro degli Avengers. Devi sono assicurarmi di essere convinto di volerne accettare la responsabilità. Dovrò seguirvi anche io in missione, per fare poi rapporto, ma non credo possa essere un problema.”
Sharon attese che il Capitano riflettesse su ciò che gli aveva detto, ma non la fece attendere molto, dimostrando di essere convinto di voler accettare quel compromesso.
 
“Non lo è. Mi fido di lui e abbiamo bisogno di tutto l’aiuto possibile. Inoltre, odia essere confinato qui dentro, sapendo che parte dell’Hydra è ancora lì fuori.”
Steve osservò James schivare un paio di colpi diretti al viso e tentare di bloccare l’avanzata della Vedova, i cui movimenti avevano sempre quel qualcosa di tremendamente ipnotizzante.
 
“Credo di potermi fidare anche io. James Barnes non è l’assassino che l’Hydra ha creato, ma una persona che ha tenuto prigioniera per troppo tempo. Avere te e gli Avengers accanto sarà di grande aiuto per lui.”
La Carter piegò le labbra in un lieve sorriso e spostò lo sguardo su Steve.
“Ti ringrazio per quanto stai facendo” le confessò lui, ancora con gli occhi fissi sul combattimento.
“Devo dire che è stata una sorpresa sapere da Everett Ross che avevi fatto il mio nome per Barnes” si sentì di fargli presente la donna, facendo vertere di nuovo l’attenzione del super soldato su di lei.
“Mi hai aiutato nelle ricerche di Bucky, quando Sam ed io abbiamo seguito una pista fino a Berlino, ma...”
“Ma abbiamo trovato solo un nucleo dell’Hydra impreparato a riceverti. Credo sia stata la prima volta che ho visto dei nemici arrendersi tanto in fretta” concluse Sharon per lui, scuotendo il capo al ricordo.
“In ogni caso, ti sei fidato nonostante all’inizio ti avessi mentito sul mio conto e nonostante ti abbia tenuto nascosto chi fossi in realtà.”
Stavolta fu Rogers a scuotere il capo.
“Ho capito le tue motivazioni. Ammetto però che mi ha fatto un certo effetto sapere che sei la nipote di Peggy.”
 
La discussione non si protrasse ulteriormente, perché James e Natasha li raggiunsero, mentre recuperavano fiato.
“Avete avuto problemi?” chiese la rossa, rivolta al Capitano, che scosse il capo in segno di diniego.
“Lewis?”
Steve scosse il capo una seconda volta, guadagnandosi uno sguardo consolatorio da parte dell’amica. Natasha era consapevole di quanto gli premesse trovare il dottore in breve tempo.
 
“Vuoi unirti a noi?” gli propose Bucky, con l’idea di costringerlo a crollare per la stanchezza, in modo da distrarlo da tutto il resto. Era pronto a fare un tentativo, quanto meno.
Steve sganciò lo scudo dai supporti sulla schiena e lo poggiò a terra, contro il muro, facendo capire al compagno che accettava volentieri l’offerta.
Era passata una settimana dalla fine della battaglia, ma gli echi della stessa erano ancora forti e chiari. Rogers, in particolare, sembrava non esserne mai uscito e, se fosse stato per lui, avrebbe partecipato a tutte le missioni senza porsi il problema di prendersi una pausa. Da questo punto di vista, James Barnes era stato una manna dal cielo, perché la sua capacità di saper trattare con il super soldato era straordinaria, tanto che a volte gli bastava uno sguardo per chiudere questioni che altrimenti avrebbero causato discussioni e tensioni controproducenti.
 
“Lascio a voi due fossili il campo. Io ho superato da un po’ il limite di esagerazione che mi è stato imposto.”
Era la terza volta che Natasha si allenava con James. Per motivi differenti, non erano stati coinvolti nell’azione sul campo, quindi si erano ritrovati a far fronte comune, per scaricare la tensione generata da quella situazione non così piacevole. Essere sorvegliati e impossibilitati a muoversi in piena libertà era alquanto snervante.
Certo, Clint si era ovviamente opposto all’inizio, ma quando Natasha si imponeva su qualcosa, era difficile riuscire a smuoverla. Poi Steve aveva fatto un po’ da garante e James si era mostrato abbastanza affidabile la prima volta che si erano allenati insieme, sotto lo sguardo attento dell’arciere. Come ultima spiaggia, Barton aveva anche provato a proporsi lui stesso per sessioni di allenamento intense, ma dover turnare con gli altri Avengers per occuparsi del caso Hydra gli impediva di essere in piena forma e Natasha preferiva di gran lunga che si riposasse o che la aiutasse a scaricare la tensione in altri modi.
 
“Okay, Nat. Ho visto Clint nella Sala Comune prima e penso si fosse appena svegliato” le comunicò Steve.
“Se la prende comoda la mattina” fu il divertito commento di lei.
“Sono gli strascichi di andare in missione con Tony, quindi posso capire che gli ci vogliano almeno due giorni per riprendersi” fu la giustificazione che il Capitano volle dare in favore di Occhio di Falco.
Natasha rise e diede una pacca sulla schiena di Steve, prima di salutare tutti i presenti e dileguarsi.
 
“Allora? Sei pronto a prenderle?”
James avvolse il braccio umano attorno le spalle dell’amico e mise su un sorrisetto provocatorio.
“Da quando abbiamo stabilito che sono io quello che le prende?”
Il Capitano mise la mani sui fianchi e cercò di assumere uno sguardo serio e minaccioso.
“Mi pare di aver vinto l’ultima volta” lo istigò Barnes, scuotendolo appena.
Ah, no. Ero in vantaggio. Poi ti ho lasciato vincere, Buck.”
 
Sharon si chiese se quello fosse un modo per esorcizzare i demoni del passato. Riderci sopra, fondamentalmente.
Nonostante fosse alla Tower da soli cinque giorni, era stato impossibile non accorgersi del forte legame fra i due super soldati. Aveva conosciuto Steve durante il periodo di istanza a Washington, quando Fury le aveva assegnato il compito di sorvegliarlo e di proteggerlo. Se non avesse saputo chi fosse in realtà, avrebbe detto che quel ragazzo non sarebbe stato capace di far male nemmeno ad una mosca. Era sempre stato gentile con lei ed era quasi riuscito a farla sentire in colpa, per il fatto che, in realtà, la figura dell’infermiera vicina di casa fosse tutta una farsa ben congegnata.
Poi, l’Hydra era uscita dall’ombra e Sharon non aveva avuto dubbi su chi dovesse seguire.
Doveva molto a Steve Rogers e si fidava di lui. Non aveva intenzione di deluderlo in alcun modo e lo avrebbe aiutato sia nella difesa di James Barnes sia nel tenere a bada Everett Ross.
 
“Ti dispiace se prendo altro tempo per fare capire a questo qui un paio di cose?”
Stavolta Barnes si era rivolto direttamente a Sharon e l’aveva strappata dal flusso di pensieri.
“Nessun problema. Il mio lavoro è tenerti d’occhio per un certo numero di ore e fare rapporto. Puoi fare più o meno ciò che vuoi” rispose la donna, accennando un sorriso gentile, che James ricambiò con una certa naturalezza.
 
“Allora, Capitan America, spero che tu non tenga troppo al tuo sedere, perché sto per prenderlo a calci.”
 
Rogers rise e parte della tensione sembrò scivolargli addosso. La ruga fra le sue sopracciglia si era fatta meno pronunciata.
 
 
 
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“Non sei ancora stanco?”
 
James si distrasse, rischiando che il pesante sacco da box lo colpisse dritto in faccia.
Non l’aveva sentita arrivare. Era sempre stata silenziosa ed aggraziata, fin da giovanissima. Le veniva naturale ed era stato facile trasformare quel talento in un’arma letale.
Posò lo sguardo su di lei, che si era fermata a qualche passo di distanza. Stava indossando un maglioncino verde che metteva in risalto i suoi occhi smeraldini. Le labbra piene erano piegate in un sorriso gentile e aveva incrociato le braccia sotto il seno.
Era sempre stata bella, Natasha, e la maturità non aveva fatto altro che far fiorire ulteriormente quella bellezza.
 
“Essere costretto a stare lontano dal campo di battaglia non aiuta a smaltire la tensione” spiegò lui, con tono abbastanza atono.
 
“E non aiuta a zittire i pensieri” aggiunse la rossa per lui, guardandolo con maggiore intensità, quasi cercasse di leggergli l’anima.
 
“Già.”
 
La luce che faceva brillare le iridi della Vedova gli era nuova. L’aveva intravista prima, durante i giorni assurdi trascorsi a combattere Teschio Rosso, ma adesso sembrava più intesa e calda.
 
“Sono passata dalla Sala Comune. Ho visto che hai sfinito Steve.”
 
“Era quella l’intenzione. Gli hai insegnato bene. Riconosco tratti distintivi del tuo stile nel suo modo di combattere. Adesso capisco come sia riuscito a tenermi a bada quando ci siamo scontrati la prima volta.”
James si perse per qualche attimo nei ricordi sfocati dello scontro avuto con Steve. Era stato un miracolo che non si fossero uccisi a vicenda.
 
“Gli ho insegnato ciò che tu hai insegnato a me tanto tempo fa.”
 
A quelle parole, il Soldato d’Inverno si irrigidì visibilmente e rivide la giovanissima allieva dai capelli rossi che aveva addestrato lui stesso, finendo per contribuire a trasformarla in un’arma letale. Ricordava quasi con chiarezza il contrasto fra il rosso di quei ciuffi ribelli e il viso candido come la neve. E poi ricordava quegli occhi verdi, freddi, spaventati e, al tempo stesso, agguerriti e smaniosi.
“Dovremmo dirlo loro?” le chiese, spostando il peso da un piede all’altro.
 
“Cosa cambierebbe? Fa parte del passato e io sono stanca di rimanerci impigliata. Abbiamo avuto la possibilità di guardare avanti e voglio farlo, lo voglio davvero. Dovresti provarci anche tu. Anche se sembrerà impossibile all’inizio, sono convinta che ci riuscirai.”
Natasha era seria a fece un passo verso di lui, accorciando la distanza che li separava.
“Scoprirti così cambiata mi fa ben sperare” le confessò allora Barnes, scocco nel profondo.
“Ciò che mi ha permesso di cambiare è ciò che circonda anche te adesso. Sono persone meravigliose e ognuna a suo modo è ferita e rotta. Ma quando siamo insieme, quelle ferite fanno meno male.”
Adesso la rossa gli stava stringendo il braccio umano con una mano e James si era rilassato.
“Tieni molto a tutti loro” fu ciò che il moro affermò, sorridendole leggermente.
“Sono la mia famiglia. Una famiglia abbastanza disfunzionale, bisogna ammetterlo, ma con loro mi sento al sicuro. Se mai fossi schiacciata ancora dal passato, loro allevierebbero il peso, mi aiuterebbero a sostenerlo.”
La donna fece scivolare la via la mano dal braccio di Barnes e gli regalò uno sguardo rassicurante.
 
“Le emozioni ti si addicono, Natalia. Sono contento che il KGB non sia riuscito a distruggerle in modo definitivo.”
 
“Sono stata salvata da un tizio che se ne andava in giro a combattere con arco e frecce, prima che fosse troppo tardi. È stato come ricevere uno schiaffo in faccia capace di riportare a galla l’umanità che avevano provato a strapparmi via.”
Natasha sorrise al ricordo. Gli occhi le si erano fatti improvvisamente più lucidi.
 
“Capisco di cosa parli, solo che io ho avuto a che fare con un tizio che se va in giro a combattere con uno scudo.”
 
Risero entrambi, sinceramente.
Rivangare il passato non era sempre la scelta giusta.
Ciò che era stato non poteva essere cambiato, ma ciò che sarebbe venuto poteva essere costruito.
Ed entrambi volevano costruire, ripartendo dalle fondamenta.
Il percorso che avevano seguito era stato tortuoso e doloroso, ma potevano ancora auspicare ad un lieto fine, o almeno a qualcosa che ci si avvicinasse.
 
“Come sta andando con Sharon?” volle informarsi la rossa.
 
“Steve si fida di lei. È discreta, attenta e ... gentile.”
James dovette ammettere che non si sentiva a disagio nell’avere Sharon intorno. Solitamente, lei arrivava la mattina e, dopo aver seguito un designato protocollo per la verifica del suo stato psicologico, cercava di essere discreta nel tenerlo sott’occhio come le era stato imposto. Lui passava la maggior parte del tempo in palestra o con Steve, aiutandolo a gestire a livello strategico e morale il caso Hydra.
Un paio di giorni prima, James le aveva chiesto di unirsi agli allenamenti, ma lei gli aveva detto che non le era permesso, aggiungendo che magari più avanti le cose sarebbero potute cambiare.
 
“Sarà più facile per te allora. Sai, ho provato a convincere Steve ad uscire con lei tempo fa.”
La Vedova mise su un sorrisetto malizioso e James rise, scuotendo il capo.
 
“Steve è off-limits da un po’ e posso affermarlo con una certa convinzione, considerando il riassunto incasinato che ha provato a farmi per aggiornarmi sugli eventi post scongelamento” le riferì Barnes, prima di aggiungere un “Credi che lei tornerà presto?”
 
La Romanoff sospirò e si mosse verso una fila di panche addossate alla parete adiacente alla porta a vetri. Prese il cellulare che aveva dimenticato lì in mattinata e James rimase ad osservarla in silenzio.
“Sì, credo di sì. Nel frattempo, penseremo noi a tenerlo d’occhio.”
Natasha gli fece l’occhiolino e poi lo lasciò solo, salutandolo con un lieve ondeggiare della mano destra.
 
James prese un bel respiro. Guardò il sacco da box e poi l’uscita della palestra. Sistemò la maglietta bianca attillata e si passò una mano fra i capelli, spostando indietro i lunghi ciuffi neri.
Per quel giorno poteva bastare sottoporsi a stress fisico e, ora che ci faceva caso, iniziava ad avere fame. Guardò la luce aranciata del tramonto che si infiltrava dalle vetrate e sperò di avere presto il permesso di poter aiutare gli Avengers nella battaglia contro l’Hydra.
 
 
 
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Tony fece il suo ingresso nella Sala Comune. Poteva dire di aver terminato con la ridefinizione degli spazi della Tower in tempo record.
Wilson aveva preso definitivamente possesso dell’appartamento di Barton, mentre quello di Rogers era stato ridisegnato in modo che potesse ospitare una seconda camera per Barnes.
Non era stato troppo complicato. Dopotutto, lui era Tony Stark.
Intercettò Banner, che occupava una poltrona color crema nell’area relax della sala e che stava smanettando sulla tastiera di un computer poggiato sulle gambe. Sembrava particolarmente preso da qualunque cosa stesse facendo e Stark si decise a parlare per avere la sua attenzione.
 
“Ehi, novità su quei...”
 
Bruce gli fece segno di abbassare la voce ed indicò il divano, di cui Tony poteva vedere lo schienale. Solo con uno sguardo più attento, l’inventore si accorse delle gambe fasciate da una tuta blu scuro che penzolavano da un bracciolo. Si fece più vicino e si ritrovò ad osservare uno Steve Rogers rimasto vittima di un devastante colpo di sonno.
Il ragazzo aveva una mano sul tablet abbandonato sull’addome, mentre l’altra era finita fuori dal divano e le dita sfioravano il parquet. Con il viso rilassato e l’aria innocente, Capitan America sembrava un ragazzino che aveva trascorso una notte brava e che adesso ne stava affrontando i postumi.
Tony lanciò un’occhiata ai due agenti della CIA e gli venne da pensare che non gli andava molto a genio il fatto che Steve si rendesse troppo vulnerabile in loro presenza. Non potevano avere la massima certezza che quei tizi fossero affidabili, visti i precedenti.
Bruce doveva pensarla allo stesso modo, considerato lo sguardo che gli stava rivolgendo.
“Stava controllando il rapporto dell’ultima missione” spiegò semplicemente il dottore.
 
“Devo aggiornare JARVIS su alcune questioni. Meglio essere prudenti.”
 
Stavano parlando a bassa voce, cercando di non far intendere troppo agli agenti che presidiavano, come d’abitudine, l’ascensore.
“Concordo” asserì Bruce, prima di cambiare discorso “I campioni che abbiamo raccolto evidenziano un mix davvero sorprendente di DNA differenti. Adam Lewis ha fatto un lavoro ineccepibile.”
“Dici che potrebbe produrre qualcosa di ancora peggiore?”
A Stark iniziava a stare stretta l’idea della mancata risoluzione totale della situazione legata agli Ultra Soldati e a mostri simili.
“Dipende dal materiale che ha ancora a disposizione e dal tempo in cui rimarrà a piede libero” fu la ferma costatazione del dottore.
 
Tony riportò lo sguardo su Steve. Allungò un mano fino a toccargli una spalla, però non ottenne alcuna reazione.
Quello che Stark ancora non sapeva era che la cosa di crollare addormentato fuori dal letto sarebbe diventata un po’ un’abitudine per il super soldato, o meglio, una reazione di autodifesa di un corpo che stava chiedendo disperatamente un periodo di recupero, nonostante la presenza del siero di Erskine che gli permettesse di sostenere sforzi al di fuori dell’umano.
 
“Tu come stai?” chiese l’inventore, lasciando stare per il momento l’idea di svegliare il biondo.
 
Bruce sembrò soppesare la domanda e un leggero sorriso gli piegò la bocca. Il maglioncino grigio che indossava era stropicciato qua e là e rifletteva un po’ lo stropicciamento interiore dell’uomo.
“Sto bene. Forse ancora un tantino scombussolato, ma nulla di preoccupante. Ora posso capire ciò che ha provato Clint. Il potere di quello scettro è devastante.”
 
“Mi chiedo se avremmo potuto usare a nostro favore quel potere in qualche modo. Al di là dei confini della Terra ci sono minacce fuori dalla nostra portata. Ci farebbe comodo qualche difesa in più.”
“Non lo so, Tony. Ciò che è certo è che ci sono cose che non possiamo controllare.”
“Odio non avere il controllo.”
 
Ci fu un breve silenzio, denso di paure, dubbi e pensieri che non vennero espressi.
 
“Parlando di forze al di fuori della nostra portata, ricorda che abbiamo Thor e Hulk. Inoltre, non dimentichiamo...”
“La ragazzina” concluse Stark, per poi mantenere la parola sottratta al dottore “Averla in squadra mi farebbe sentire più tranquillo per due motivi. La sua forza è una sicurezza e potrei preoccuparmi meno per questo qui.”
Tony indicò il super soldato, che era del tutto ignaro della pregnante conversazione che i due scienziati stavano avendo.
Bruce si lasciò scappare una risata sommessa.
“E io che credevo sarebbe stato impossibile veder nascere un rapporto decente fra voi due. Ero arrivato ad attendere il momento in cui ve le sareste date, considerata tutta la tensione che veniva a crearsi ogni volta che eravate nella stessa stanza.”
 
“Oh, ma c’è ancora tensione. Fingiamo soltanto di andare d’accordo. È per il bene della squadra.”
Stark non riuscì del tutto ad eclissare il sorrisetto divertito che gli increspò l’espressione.
 
“Certamente, Tony. In ogni caso, sono contento che la tensione presente negli ultimi giorni si sia alleggerita. Voi due non avete idea di quanto le vostre incomprensioni o i vostri conflitti influenzino la squadra. Noi altri riusciamo a percepire perfettamente quando c’è un problema fra voi e mentirei se ti dicessi che la cosa non desta una certa preoccupazione.”
Bruce era serio e sperò che Tony capisse cose stesse cercando di comunicargli. L’ultima cosa di cui i Vendicatori aveva bisogno adesso era una spaccatura interna, che li avrebbero senz’altro fatti crollare.
 
“Ci siamo presi un breve periodo di riflessione, ma credo che siamo okay adesso. Certo, non mi va ancora giù l’idea che il suo preferito sia Thor. È perché non sono biondo, ne sono convinto.”
 
Banner non riuscì a trattenersi e rise, lasciandosi andare. Stark e il suo essere Stark non avevano eguali. Anche Tony rise di riflesso e si sentì più leggero nel farlo.
 
“Potrei sapere cosa c’è di tanto divertente?”
Rogers, mezzo intontito, sbatté un paio di volte le palpebre per mettere a fuoco, ritrovandosi a fissare, proprio sopra di sé, l’espressione divertita di Tony, che aveva appoggiato i fianchi contro lo schienale del divano e si stava sporgendo in avanti.
L’inventore indicò la propria faccia con un dito.
“Potrei averti disegnato qualcosa in faccia mentre dormivi.”
“Dimmi che non l’hai fatto.”
“Non l’ho fatto. Magari la prossima volta. Terrò un pennarello in tasca per sicurezza.”
Stark ghignò, valutando seriamente la possibilità di mettere in pratica le sue parole.
 
“Ma che ore sono?”
Steve si tirò su, mettendosi a sedere, mentre passava una mano fra i cappelli biondi. Si rese conto che erano cresciuti e il ciuffo stava iniziando a calargli sulla fronte.
 
“Le sei del pomeriggio” rispose Bruce, che aveva portato le nocche della mano destra a contatto con la bocca, per nascondere il sorriso divertito dalla scena appena consumatasi dinanzi i suoi occhi.
 
“Stasera voglio giocare a Taboo. Accontentatemi.”
 
Tony si becco un’alzata di occhi al cielo da entrambi i suoi compagni.
 
“La situazione è già complicata così” attestò Bruce.
“Già. Sai che quel gioco vi rende troppo competitivi” rincarò Steve.
“Non tirarti fuori, Rogers. Sei tu quello che conta i granelli di sabbia nella clessidra!”
“Ma se è Clint quello!”
“Confermo, è Clint” ricalcò il dottore.
“Beh, non importa! Si gioca, punto e basta!” impose Tony, mentre già si muoveva per riunire la truppa.
 
Steve e Bruce sospirano all’unisono e si scambiarono uno sguardo d’intesa, prima di cedere a una mezza risata.
 
 
 
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Trascorsero tre settimane dalla conclusione della battaglia e si era ormai instaurata una routine che dava l’impressione dell’esistenza di uno stabile, seppur sottile, equilibrio.
Fury e gli Avengers collaboravano nelle ricerche di Adam Lewis e nel definitivo smantellamento dell’Hydra. Quando c’era da scendere sul campo di battaglia, lo SHIELD prelevava due Vendicatori dalla Tower sotto lo sguardo attento di Everett Ross.
I membri della squadra che lasciavano la Tower dovevano firmare qualche documento digitale, sia all’uscita che al rientro, ma nulla di troppo complicato. Ciò che rendeva difficili le cose era essere costretti ad agire in coppia. Avrebbero potuto ridurre tempo e fatica, se avessero concesso loro di lavorare almeno quattro alla volta.
Quelli a turnare erano Rogers, Stark, Thor, Barton, Sam e ultimamente anche Barnes. Sharon era riuscita ad ottenere l’autorizzazione per mandare James sul campo, con la clausola che lei fosse presente durante la missione e che fosse di Capitan America la responsabilità delle azioni del Soldato d’Inverno.
Stavano seguendo diverse piste e scovando nuclei dell’Hydra un po’ ovunque, ma di Adam Lewis ancora nessuna traccia e questo era fonte di un certo nervosismo.
 
Era già calata la sera, quando Rogers e Barnes rientrarono da una missione che li aveva tenuti impegnati per tutta la giornata. Sharon li aveva salutati all’ingresso della Tower, dirigendosi nell’appartamento che la CIA aveva messo a sua disposizione a New York.
 
“Penso io al rapporto. Tu va’ avanti.”
 
Steve uscì dall’ascensore, all’altezza della Sala Comune e, dopo avergli affidato lo scudo, lasciò che James tornasse al loro alloggio per darsi una ripulita e per riposare. Avevano faticato parecchio durante la missione, a causa della presenza di alcuni potenziati con forza pari a quella di Rumlow.
Il biondo non fu accolto da Dan come accadeva solitamente e, dirigendosi verso il centro della Sala, notò Tony che parlava con Everett e con un’altra persona, coperta dalla sagoma del miliardario stesso.
A Steve bastò sentire quella ben nota voce, per irrigidirsi in un istante e provare una stretta alla bocca dello stomaco.
 
“Capitano Rogers, la stavo aspettando.”
 
Tony si voltò verso di lui, spostandosi appena dalla posizione occupata, e Steve riuscì a vedere perfettamente la figura di Henry Benson stagliarsi un paio di passi indietro rispetto il compagno. L’uomo era stretto in un completo nero e sembrava aver perso qualche chilo dall’ultima volta che lo aveva visto. Le mani erano coperte da guanti di pelle nera e davano l’impressione di aver recuperato la minima funzionalità.
 
“Volevo farle le mie scuse per quanto successo. Non ero in me e non era mia intenzione metterla in difficoltà.”
 
Mettere in difficoltà aveva detto?
Da quando mettere in difficoltà significava torturare psicologicamente e fisicamente una persona, fino a cercare di strapparle via un occhio per puro godimento personale? Il viscido bastardo manipolatore era riuscito anche ad entrare a far parte dei suoi ripetuti incubi.
“I bravi soldati dovrebbero essere obbedienti e dovrebbero tacere. Tu sei un bravo soldato, Steve?”
Al ricordo di quelle parole, Steve sentì rabbia e angoscia montare con violenza in lui e non seppe davvero cosa lo trattenne dal rispondere a tono o dal prendere direttamente a pugni l’uomo. Forse fu la presenza di Everett Ross, o forse fu la muta richiesta di Stark di stare calmo.
 
“Non biasimo né lei né la ragazza aliena per le ferite subite da parte vostra. Avete fatto il vostro dovere. Avrei voluto porgere le mie scuse anche alla giovane, ma ho saputo che non è più sulla Terra.”
 
Doveva ringraziare parecchi Santi, per l’assenza di Anthea. Steve era certo che lei non sarebbe stata affatto propensa a starsene ferma, mentre Benson sputava menzogne e cercava di fare credere loro di essere la vittima. Era addirittura arrivato a dire che non li biasimava.
‘Mantieni la calma, Steve. Respira. Lo hai promesso a Tony. È per il bene della squadra’ divenne velocemente un mantra a cui si aggrappò con le unghie e con i denti.
 
“Con ciò non voglio dire che io sia d’accordo con il modus operandi dei Vendicatori, visti i danni causati. Però riconosco il vostro valore e mi piacerebbe arrivare ad un accordo con voi, come nuovo leader del Consiglio Mondiale della Sicurezza.”
 
La mascella di Steve guizzò, contraendosi con uno spasimo violento, mentre Benson sorrideva con falsa gentilezza.
 
“Preferiamo confrontarci con Thunderbolt Ross, che a quanto pare diventerà presto Segretario di Stato. E poi adesso siamo impegnati a rimuovere il marcio che Teschio Rosso si è lasciato dietro e può stare certo che porteremo a termine il lavoro.”
L’intervento di Tony alleggerì la pressione su Steve, che lanciò al compagno uno sguardo tra il sorpreso e il riconoscente.
 
“Bene” fu l’unica cosa che disse Henry, senza lasciare che alcuna emozione gli increspasse il viso tondeggiante.
 
“La accompagno all’uscita” si offrì allora Everett, facendo strada verso l’ascensore.
 
Prima di seguire Ross, Benson si fermò dinanzi a Steve e, senza alcun preavviso, gli strinse le braccia appena sopra il gomito. Il super soldato rimase immobile e trattenne il fiato.
“La ringrazio ancora per avermi fatto tornare in me.”
 
“Ti farò rimpiangere di essere venuto al mondo, Rogers.”
 
Steve poté percepire il tocco delle dita guantate di Henry, quasi fossero contro la pelle, nonostante il resistente tessuto della stealth. L’uomo fece scivolare con calcolata lentezza le mani lungo le sue braccia, fino ad arrivare alle spalle, e il biondo fu preda di un gelo che si diradò dalla schiena e lo avvolse completamente. Benson strinse la presa e un sorriso falso quanto freddo gli si dipinse sulla faccia.
“Spero in una sua collaborazione, Capitano Rogers.”
 
“Cancellerò quell’espressione impertinente dalla tua faccia e ti costringerò a lucidarmi le scarpe con quella maledetta lingua che ti ritrovi. Poi vedremo se avrai ancora voglia di ridere.”
 
Henry sorrise più largamente e le zampe di gallina ai lati degli occhi piccoli e scuri si accentuarono. Lasciò andare il super soldato e fece per muoversi, ma prima parlò un’ultima volta. Fu un sussurro appena udibile, che solo Steve, a meno di un passo di distanza, riuscì a registrare.
“Questa uniforme mette in risalto i tuoi occhi.”
 
“Voglio cavarti via un occhio.”
 
Rogers attese che Benson se ne andasse, prima di tornare a respirare decentemente.
 
“Quell’uomo sembra possedere una profonda ossessione per te, Steve. Il modo in cui ti guarda mette i brividi. Cosa diavolo è successo quando ti ha portato via con lui?”
 
Il super soldato strinse con forza i pugni. Non poteva accettare che il bastardo non fosse stato rinchiuso e saperlo, non solo in libertà, ma anche a capo del Consiglio lo aveva sconvolto.
Gli venne la nausea. Come era potuto accadere? Cosa stava succedendo?
Si era lasciato trattare da lui come una bambola di pezza e per cosa? Per vederlo sbattergli in faccia il suo viscido sorriso e sentirlo sibilare minacce?
Steve si rese conto che non poteva continuare così. Sarebbe impazzito. Non riusciva a sentirsi al sicuro. Ormai si aspettava addirittura di ritrovarsi il nemico ai piedi del letto e quell’idea non fece che accentuare il senso di nausea.
E quando aveva iniziato a fare tanto freddo?
 
“Steve?”
La voce di Stark la percepì lontana, ma la nota preoccupata risultò evidente.
 
“Ho bisogno di riposare, Tony. Scusami.”
 
Stark rimase ad osservare Rogers andare via e si chiese quanto tempo ancora il ragazzo avrebbe resistito, prima di crollare. La cosa che più lo agitava era che non aveva idea di cosa avrebbe potuto fare per aiutarlo a sostenere la pressione dovuta a quell’assurda situazione. Sperò solo che Fury riuscisse a trovare presto le prove necessarie a stabilire chi fossero i veri colpevoli.
 
 
 
֍
 
 
 
Steve si mise a sedere con uno scatto, facendo scivolare le coperte dal petto scosso dal battito frenetico del cuore. Portò una mano alla fronte sudata e lanciò uno sguardo alla sveglia digitale sul comodino.
Erano le due di notte e ciò significava che avrebbe dovuto trovare un’occupazione per le prossime cinque ore almeno, nel caso non fosse riuscito a riprendere sonno.
Si alzò dal letto e uscì dalla stanza, dirigersi in bagno. Fece in modo di ridurre al massimo il suono dei piedi nudi che impattavano sul pavimento ad ogni passo, perché non voleva assolutamente svegliare James.
Avrebbe dovuto essere forte per lui, non essere una fonte di preoccupazione.
Sciacquò il viso con l’acqua fredda e, dopo essersi asciugato con della morbida spugna, osservò la sua immagine riflessa nello specchio posto sopra il lavello.
Entrambi gli occhi erano al loro posto. Erano solo leggermente più lucidi e arrossati del normale, ma nulla di preoccupante. Stava bene.
Sospirò con fare stanco e sistemò la maglia grigia a maniche lunghe, che si era leggermente sgualcita a causa del sonno affatto tranquillo. La tuta blu, accostata sui polpacci e attorno le caviglie, gli era scivolata sui fianchi stretti, fino a mostrare l’elastico dei boxer scuri. La tirò su e strinse il laccio con movimenti quasi impacciati.
Fece un paio di respiri profondi, mentre il pulsare delle tempie si faceva meno intenso e il battito del cuore rallentava gradualmente.
Odiava questa parte fragile di se stesso.
Stava cercando di mostrarsi forte, anche se all’interno cadeva a pezzi. Era incerto su quanto tempo avrebbe potuto continuare a fingere ancora. Il suo attuale stato non faceva presagire nulla di buono.
Non poteva negare il fatto che tutto ciò che era accaduto con Teschio Rosso, Adam Lewis e Henry Benson avesse lasciato il segno. Non si era mai sentito tanto vulnerabile come quando era finito nelle loro mani e, se non ci fossero stati i suoi compagni, avrebbe perso tutto.
Avevano cercato di spezzarlo e forse un po’ ci erano riusciti.
Steve rabbrividì. La sensazione di freddo causatagli da Benson non l’aveva abbandonato nemmeno dopo la doccia bollente, fatta prima di mettersi al letto. Decise di tornare verso la sua camera, intenzionato a costringersi a dormire un altro po’.
Una volta chiusa la porta alle proprie spalle, sollevò lo sguardo, rimasto fino ad allora rivolto al pavimento, e rimase pietrificato, con gli occhi cerulei spalancati e la bocca leggermente aperta.
 
“Potresti sognare qualcosa di meno macabro e spaventoso? Sai, avrei bisogno di dormire un po’ di più di una notte su tre, altrimenti diventerò isterica molto presto.”
 
Era lei. Ed era lì.
Gli stava sorridendo con dolcezza. La osservò posare i piedi infilati in scarponcini di morbida pelle nera sul lucido parquet e alzarsi dal letto, accompagnata dall’ondeggiare del vestito candido che le delineava frammentariamente le curve del corpo e che le lasciava scoperte le gambe.
 
“Ciao, Steve.”
 
Il biondo si riscosse e percorse la distanza che li separava, mentre lei apriva le braccia per accoglierlo in un abbraccio quasi struggente.
Anthea perse tutta la compostezza che aveva mostrato fino ad un istante prima e lo strinse a sé con forza, stropicciando con le dita il tessuto della sua maglia, all’altezza delle clavicole.
Lui, invece, se la premette contro quasi con disperazione, circondandole la schiena nuda con le braccia.
“Non ci ho messo troppo stavolta” gli sussurrò.
Rogers rafforzò la presa, quasi temesse di vederla sparire da un momento all’altro, quasi temesse che non fosse reale.
 
“Dimmi che non sei solo di passaggio” le chiese, con voce esitante e poco ferma.
 
“Non sono solo di passaggio.”
 
Solo allora il ragazzo si scostò da lei, per poterla guardare in viso. I capelli color miele, che le arrivavano leggermente più in basso rispetto la base del collo, erano stati sistemati in modo da rimediare al taglio frastagliato che avevano subito. Un morbido e corto ciuffo era sistemato all’indietro e le punte ricadevano verso sinistra, lasciandole il viso e la fronte scoperti.
Sarebbe stato difficile fare l’abitudine a quella nuova immagine di lei. Non che Steve avesse qualcosa da ridere, in realtà. Gli occhi blu sembravano più luminosi e i lineamenti della mandibola più decisi.
Le sottili spalline del vestito mettevano in mostra le spalle esili seppur forti. Senza pensarci, Steve si ritrovò a percorrerle con le dita la colonna vertebrale lasciata nuda dal leggero vestito e la sentì rabbrividire.
 
“Sarei dovuta tornare in mattinata, ma mi hai tirata giù dal letto ed eccomi qui” gli spiegò, mentre gli circondava il collo con le braccia.
“Mi sento meno in colpa di quanto dovrei” confessò allora il biondo e si lasciò scappare un sorrisetto. Non si accorse nemmeno che la tensione, provata fino a poco prima di trovarsela davanti, stesse lentamente scemando.
 
La ragazza si sporse in avanti e lo baciò. Fu un bacio dolce e delicato, che divenne in pochi istanti più intenso e profondo.
 
“Anthea” la chiamò lui, ad un soffio dalle sue labbra, una volta che si furono separati per riprendere fiato.
“Dobbiamo parlare.”
“Tutto quello che vuoi” gli rispose l’oneiriana, sorridendo con dolcezza, mentre percorreva la linea della sua mandibola con l’indice destro.
Steve fece scivolare una mano dietro la sua testa e si chinò a baciarla, stringendo fra le dita ciuffi dei suoi capelli. Approfondì il contatto con urgenza, mentre l’altra mano andava posarsi di nuovo sulla sua schiena nuda.
Si staccò da lei solo per iniziare a baciarle il collo e la sentì trattenere il respiro.
 
“Non vuoi più parlare?” fu la legittima e tremula domanda della ragazza.
In risposta non ottenne altro che un gemito roco, seguito da un secondo bacio a cui rispose senza esitare.
Gli sfilò la maglia e fu lei a riprendere a baciarlo subito dopo, mentre gli sfiorava con dita l’addome scolpito. Il calore del corpo di Steve la stava facendo impazzire. Sentire le sue mani stringerle i fianchi con forza ed attirarla contro di lui era qualcosa che le era mancato terribilmente.
“Steve” lo chiamò e si sorprese della voce roca che le venne fuori.
Le gambe sembravano adesso avere difficoltà a sorreggerla. Il super soldato avrebbe potuto fare di lei qualsiasi cosa e non sarebbe stata minimamente in grado di reagire. Lasciarsi toccare, stringere e baciare da lui le sembrava la cosa più naturale e giusta e perfetta e non ti azzardare a smettere, Steve. Riconobbe di essere particolarmente sensibile, tanto da fremere anche quando il respiro caldo di lui le lambiva il viso e il collo.
Dio, Steve” sussurrò e lo spinse indietro, puntellandogli le mani sul petto tonico.
 
Il materasso si infossò sotto il loro peso, quando lei lo fece distendere sul letto. Si sistemò sopra di lui, godendosi per qualche istante il suo sguardo liquido, prima di tornare a baciarlo.
Anthea si disfò con fluidità del proprio vestito e poi di quelli che il biondo aveva ancora addosso. Percepì ogni suo muscolo tendersi, quando lei fece in modo che si unissero in maniera profonda e carnale, senza esitare, incapace di trattenere ancora il desidero.
La giovane cominciò a muovere il bacino, spingendosi contro il compagno, e gli artigliò le spalle con possessività, mentre lui la stringeva per i fianchi. Prese a spingere con intensità crescente e lo osservò mordersi il labbro inferiore per trattenere gemiti rochi e poco discreti.
Il tempo parve arrestarsi.
Gli occhi lucidi, le pupille dilatate, i respiri accelerati e i gemiti sommessi gridavano un piacere difficile da descrivere.
Steve la circondò con le braccia, premendosela contro in petto e nascondendo il viso arrossato contro l’incavo del suo collo. Sentirlo stringerla, come se fosse questione di vita o di morte, e percepirlo fremere sotto e dentro di lei fu per un lusinghiero invito a muoversi con più insistenza. Ondate di piacere sempre più intenso sottrassero loro anche la capacità di pensare, finché non furono costretti a cedere all’apice di un amplesso tanto intenso quanto dolce.
 
Quando si fermarono, furono i loro respiri ansanti gli unici a rompere il silenzio della stanza.
Anthea crollò su Steve, che posò le mani sulla schiena di lei, mentre lo sguardo era fisso su un punto indefinito del soffitto.
 
“Non riuscirò più a prenderti sul serio, quando mi dirai che vuoi parlare, sappilo.”
 
Steve rise di fronte a quella constatazione e la strinse maggiormente contro il petto.
“Me ne farò una ragione” le rispose, divertito.
 
Anthea scivolò al suo fianco, permettendogli di tirarsi su e di appoggiare la schiena alla testata del letto. Lo imitò, trascinando con lei le coperte, e si sistemò abbastanza vicina da non rompere il contatto fra le loro spalle.
“Hai accorciato i capelli” disse e allungò una mano per passare le dita nel ciuffo sbarazzino di Steve, riportando le punte bionde rivolte verso l’alto.
“Cos’è, cameratismo?” lo prese bonariamente in giro.
“E non sono l’unico, ma questo lo vedrai. Passando alle cose serie... come vanno le cose dalle tue parti?”
 
“Mi fa quasi tenerezza il modo in cui stai cercando di chiedermi quali sono le mie prospettive future.”
 
Steve roteò gli occhi.
“Finirai per fare comunella con Clint e Tony, me lo sento.”
 
Anthea rise, ma poi il suo sguardo si fece più serio e si incastrò in quello chiaro del biondo.
“Con la morte di Antares, tutte le influenze da lui insidiate nelle menti altrui sono scomparse. Abbiamo dovuto ritrovare un equilibrio, ma è stato più facile di quanto pensassi. Vogliono solo pace e tranquillità, in fin dei conti. Andras sarà un ottimo sovrano.”
 
“Tu… Andras…” Steve ci provò ad articolarla una domanda, ma il cervello non volle collaborare.
 
“Ho lasciato a lui il comando. Non è ancora ufficiale, ma diciamo che la decisione è presa. Per loro ci sarò sempre, in caso di bisogno. Ma sono, come dire, indipendente adesso. Dovrò tornare ogni tanto per ultimare il passaggio della corona, ma niente di troppo complicato.”
 
“Sei certa della decisione presa?”
 
“Mai stata più sicura. Non è quello il mio posto, Steve. Ho dato loro tutto ciò che potevo offrire. Adesso ho bisogno di vivere la mia vita.”
 
Steve sorrise, annuendo appena con il capo. Non poteva nascondere, almeno non a se stesso, che la decisione che lei aveva preso lo rendesse fin troppo euforico.
“Sei cambiata. Non cadi più a pezzi e infondi un certo senso di sicurezza” le confessò poi, ricevendo da lei uno sguardo consapevole.
 
“Mi fa piacere sentirtelo dire. E poi ci sei già tu che cadi a pezzi per entrambi.”
 
“Io non cado...”
 
“Sei ancora nella fase di negazione? Andiamo, Steve, smettila di fingere. Almeno, non fingere con me. Sei umano, ti hanno ferito e hai bisogno di tempo per guarire. Non ci vedo nulla di male in questo, così come nel fatto che tu abbia paura che possano tornare a prenderti.”
 
“Non ho...”
 
“Steve.”
 
Rogers ammutolì, dinanzi l’occhiata intensa e penetrante che Anthea gli rivolse.
 
“In ogni caso, non ho intenzione di permettere loro di ferirti ancora, quindi puoi dormire tranquillo.”
Anthea cercò di stemperare la tensione e di fargli capire che era intenzionata ad aiutarlo e a sostenerlo, se lui glielo avesse permesso.
“Sono messo così male?” chiese il super soldato, più a se stesso che a lei.
 
“Mai detto questo. Vedila così. Metti in gioco la tua vita per proteggere i tuoi compagni e le persone che abitano la Terra. Io proteggerò te, in modo che tu possa continuare a proteggere gli altri. Semplice e lineare, no?”
 
“Voglio conoscere il segreto di tutta questa positività.”
 
“Il segreto dici? Me lo sono appena portato a letto. È un gran bel segreto.”
 
Steve arrossì, coprendosi gli occhi con una mano. Trattenne a stento una risata, giusto per non dargliela vinta. Quando tornò a guardarla in viso, l’imbarazzo era sparito.
“Voglio davvero sapere cosa è successo, Anthea. Tutto quanto. So ciò che ti ha fatto Antares. Lui si è divertito a spiegarmi tutti i suoi grandi piani mentre tentava di ammazzarmi. Ma quando sei tornata a combattere, ho sentito che qualcosa era cambiato.”
 
Anthea, presa in contropiede, cercò di riorganizzare le idee e i pensieri. Voleva spiegargli tutto, ma non sarebbe stato semplice.
“L’influsso di Antares e la Convergenza hanno spaccato tutto dentro di me e ho davvero creduto che da quelle crepe sarebbe venuto fuori un mostro.”
 
“Quello di cui ha parlato Damastis? Heith?” chiese il ragazzo.
 
“Già. Solo che Heith era solo un’altra creazione di Antares. Non c’è mai stata nessuna Heith, né un’altra entità all’infuori di me. Sono sempre stata io.”
 
La ruga sottile che si delineò fra le sopracciglia di Rogers la fece sorridere.
“È complicato” gli confessò.
 
“Ho tutto il giorno libero.”
 
Nell’osservarlo rivolgerle un sorriso capace di farle mancare un battito, Anthea ebbe l’impulso di smettere di parlare e di tornare a baciarlo in quello stesso istante, ma si trattenne seppur a stento.
 
“Sei a conoscenza del mio passato. Quando Adam Lewis è venuto a prendermi, ho iniziato a capire cosa fosse la vera paura. Per sopravvivere e per non impazzire del tutto, devi crearti delle difese e ti aggrappi ad ogni cosa possa essere una mera certezza, in modo da non affogare nella disperazione. Le difese che ho sviluppato io erano particolari, come puoi immaginare. Il potere che ho dentro ha cominciato ad agire fuori dal mio controllo, per eliminare qualsiasi cosa minacciasse la mia vita. Ho ucciso parecchie persone, senza nemmeno esserne consapevole, e non sarò mai in grado di espiare questa colpa.”
 
“Quelle persone volevano farti del male e l’hanno fatto a tanti altri innocenti. Quando sono arrivato alla base dove ti avevano rinchiusa, ho visto un obitorio pieno di cadaveri di persone innocenti usate per sperimentazione. Non devi espiare alcuna...”
 
“Steve. Io amo questa parte di te, davvero. Ma è difficile perdonarsi a volte.”
 
Il super soldato fece per dire qualcosa, ma si bloccò nel sentire risuonare nella propria testa parole simili a quelle appena scambiate con lei.
 
“Quello che hai fatto in tutti quegli anni non eri tu. Non avevi scelta.”
“Lo so, ma l’ho fatto.”
 
Lasciò che Anthea continuasse, rimanendo in silenzio.
 
“Non volevo accettare l’idea di essere capace di togliere la vita come nulla fosse. Quindi ho rifiutato il mio potere ed ho iniziato a considerarlo come un’entità separata ed estranea, un qualcosa che non mi apparteneva.”
L’oneiriana prese un respiro profondo.
“Poi mio padre mi ha aperto gli occhi. Sai, l’ho visto dopo che Antares mi ha quasi ammazzata.”
 
“Tuo padre? Azael?”
Steve non riuscì a nascondere la sorpresa.
 
“Il suo spirito. La convergenza ci ha permesso di incontrarci. Mi ha spiegato come stavano le cose. Volevo rifiutare il fatto che il potere mi appartenesse e che mi avesse sempre protetta da tutto ciò che poteva ferirmi, perché io volevo che lo facesse. Ma l’unico modo per accettare la parte di me che voleva spazzare via tutto e vendicarsi per ciò che mi era stato fatto, era credere che non fossi io a volerlo, ma un’altra entità confinata dentro di me. Ho finito per crederci davvero, per spaccarmi in due e per dissociare la mia anima.”
La giovane strinse le coperte fra le dita, ma non distolse lo sguardo da viso di Steve.
“Non volevo disperatamente accettare il fatto di voler dare indietro tutto il male ricevuto e di volerlo fare in un modo che definirei atroce. E poi, come potevo accettare l’idea di odiarti per avermi resa vulnerabile, dopo che hai deciso di proteggermi? Perché per te sarei morta e morirei. Tu eri una minaccia e, come tale, andavi eliminato. I legami, l’amicizia, l’amore possono renderti forte, ma anche dannatamente vulnerabile e io non volevo esserlo anni fa.”
 
Rogers non osava proferire parola. La lasciò sfogare, limitandosi ad ascoltarla liberarsi da tutti i demoni che si era portata dentro per troppo tempo.
 
“Non ho combattuto contro Daskalos per voi. L’ho fatto per me, per dimostrare che fossi la più forte e che non potevo essere ferita ancora. Volevo disperatamente non essere io quella persona, però lo ero. Dopo Daskalos, ho iniziato a sentirmi meglio con me stessa, ma continuavo a temere il potere che mio padre mi aveva lasciato e a credere che potesse sfuggire al mio controllo. Avevo paura della possibilità di poter fare ancora del male alle persone a cui tengo. Antares ha approfittato della mia debolezza e ha creato Heith nella mia testa. Eppure, c’era qualcosa dentro di me che mi diceva di non crederci.
Un’ultima breve pausa riportò il silenzio nella stanza per qualche attimo.
“Mio padre mi ha mostrato che sono io la sola padrona di me stessa e che il potere che mi porto dentro mi appartiene. Dovevo solo smetterla di rifiutarlo e, quando l’ho fatto, ho visto un volto dagli occhi cremisi ed è stato come guardarsi in uno specchio. Ho deciso di accettare ogni lato di me, anche quello più oscuro e vendicativo.”
 
“Ciò che è successo con Benson...” fece per chiederle allora il biondo, ma lei lo anticipò.
 
“Ero assolutamente io. Non avevo perso il controllo. Non sono buona, Steve. Non riesco a perdonare tutto. Benson ha osato fare del male alla persona che amo. L’avrei davvero ammazzato. So essere spietata se mi danno una motivazione per esserlo.”
L’oneiriana sospirò.
“Ora che sai tutto quanto, mi sento decisamente meglio.”
 
Steve fece scivolare un braccio dietro la schiena di Anthea e la strinse per i fianchi, invitandola a farsi più vicina. Si sporse verso di lei per baciarla e lei lo ricambiò con dolcezza, allacciando le braccia attorno il suo collo.
“Hai aiutato tutti noi, Anthea, ed eri disposta a morire per noi. Hai aiutato gli oneiriani a tornare insieme e a costruire una nuova casa, mettendo le responsabilità davanti la tua felicità. A volte puoi risultare spaventosa, te lo concedo, ma succede quando fanno del male alle persone che vuoi proteggere e in questo non c’è niente di spaventoso.”
 
“Tu vedi sempre il lato buono negli altri. Quando inizierai a vederlo anche in te stesso?”
 
Non le rispose e distolse lo sguardo da lei, come scottato da quella domanda.
Fu Anthea, stavolta, a baciarlo, spingendogli il capo verso di lei. Fu un bacio lento e profondo.
 
“Prometto che nessuno ti porterà via un occhio o ti metterà a tacere. Quindi smettila di fare quegli incubi assurdi, per favore.”
 
“Ci proverò.”
 
“È un inizio.”
 
Steve lasciò cadere la testa sul materasso, solleticando la guancia destra di Anthea con i capelli. Non si fece troppi problemi a pesare su di lei, mentre la stringeva per le spalle e la schiacciava sotto di sé.
La ragazza sorrise e riuscì a sfilare via il braccio destro, per poter carezzare la testa e il collo del biondo, con movimenti lenti e intrisi di dolcezza.
Averlo lì, pelle contro pelle, le sembrava quasi surreale. Le era mancato da morire e aveva atteso quel momento a lungo. Quasi le veniva da piangere, mentre lo ascoltava respirare sempre più profondamente. Percepì i suoi muscoli rilassarsi completamente contro di lei e sorrise.
Lo avrebbe protetto. A qualunque costo.
 
 
 
Quando nella stanza la luce del giorno si fece più intesa, Anthea arricciò il naso, infastidita, e si mosse appena tra le braccia che ancora la stringevano. Appoggiò la fronte sul largo petto a un soffio da lei e cinse Steve per i fianchi.
Il biondo non diede segno di aver sentito la ragazza muoversi e continuò a dormire profondamente. Sorrise intenerita.
Con delicatezza scivolò via dalle braccia del super soldato e si mise seduta fra le coperte del letto.
L’Idiota, disteso su un fianco, sembrava davvero rilassato. Era dannatamente bello con i capelli arruffati, la bocca schiusa e le lunghe ciglia bionde che tremolavano ad ogni respiro.
Quando era arrivata quella notte, non credeva di poterlo trovare tanto teso e distrutto. Doveva assolutamente capire come si era evoluta la situazione dal momento in cui era partita. Nonostante avessero vinto la battaglia, non sembrava ci fosse un’aria felice e tranquilla, tutt’altro.
Si mosse appena, mentre cercava con lo sguardo i suoi vestiti. Una mano del ragazzo si chiuse intorno al suo polso, facendola quasi sussultare.
“Vai da qualche parte?” le chiese Steve, con voce ancora impastata dal sonno e gli occhi semiaperti.
Il cuore di Anthea mancò un battito. Quella era una domanda legittima, dati i trascorsi.
La giovane scosse il capo e lo osservò tirarsi su con un movimento flemmatico. Si sporse verso di lui e, posandogli una mano sulla nuca, fece incontrare le loro labbra in un contatto prima delicato.
 
Un bussare affatto delicato, invece, fu seguito dall’apertura quasi violenta della porta della stanza.
Steve, forte dei suoi riflessi sovraumani, sollevò con una mano le lenzuola, in modo da coprire Anthea fino all’altezza delle clavicole, mentre con l’altra mano riuscì a coprirsi almeno fino all’ombelico.
C’era solo una persona che aveva la faccia tosta di entrare così spensieratamente nelle camere altrui, con un preavviso davvero irrisorio.
 
“Dannazione, Tony.”
 
Il miliardario ci mise mezzo istante a mutare la propria espressione da sorpresa a fastidiosamente maliziosa e divertita.
“Ieri sei sparito dopo la visita di Benson e stamattina non eri in giro come al solito, quindi mi sono preoccupato. Ma adesso mi è assolutamente chiaro cosa ti abbia trattenuto a letto, Rogers.”
Tony regalò un sorriso sornione al Capitano, beccandosi una di quelle occhiatacce minacciose che su di lui avevano poco effetto. Poi, però, la sua attenzione ricadde altrove.
“Ciao, straniera. Sappi che qui accettiamo solo gli affiliati. E devi spiegarmi come hai superato tutti i miei sistemi di sicurezza.”
 
“È sempre un piacere vederti, Tony. So essere molto discreta e invisibile quando serve.”
Anthea non sembrava essere troppo impensierita da quell’intrusione improvvisa, né tantomeno imbarazzata.
C’era comunque Rogers ad essere imbarazzato almeno per due.
“Possiamo continuare a parlare dopo, per favore?”
Stark finse di pensarci su, prendendosi un lungo momento per riflettere, prima di rompere il silenzio creatosi nell’attesa che decidesse di esprimersi.
“Va bene, Rogie, ti aspetto giù in Sala Comune. Credo che tu sappia già che dovremmo parlare con Ross, se lei avesse intenzione di rimanere. Hai intenzione di rimanere, vero?”
 
“Tony.”
 
“Chiedo perché il ragazzo lì è parecchio stressato e …”
 
“Stark.”
 
Tony sbuffò, roteando gli occhi al cielo.
“Okay, Rogers. Ricevuto. Dopo” concesse, prima di concludere con un insinuante “Ma non metteteci troppo” seguito dalla sua uscita di scena.
 
“Voglio sotterrarmi.”
Il super soldato si coprì il viso con una mano. Aveva la punta di entrambe le orecchie di un rosso vivo, quasi luminescente.
“Non fare il melodrammatico, Steve” lo riprese bonariamente Anthea, prima di diventare seria.
“Benson è stato qui?”
L’atmosfera di raffreddò in maniera repentina e Rogers si ritrovò a fissare lo sguardo gelido dell’oneiriana.
“È complicato. Stiamo cercando di sistemare le cose. Ti spiegherò tutto” cercò di smorzare la tensione il ragazzo, ma non ci riuscì più di tanto.
“Quindi è per Benson che eri in quelle condizioni disastrose stanotte, dico bene?”
Steve non le rispose, limitandosi ad abbassare lo sguardo e a prendere un respiro profondo. Allora, Anthea gli prese il viso fra le mani, facendosi più vicina, e lo costrinse a guardarla.
“Qualsiasi cosa abbia fatto o detto, non lasciare che ti tocchi. Su di te non ha e non avrà mai potere.”
Il biondo si ritrovò a sorridere dinanzi l’intensità delle iridi buie fisse su di lui. La baciò con trasporto e poi la strinse a sé con forza.
 
“Sei pronta ad affrontare Stark?”
 
“Prontissima.”
 
Dopo che si furono dati una sistemata, Anthea chiese a Steve dove poteva trovare il bagno e lui le spiegò come raggiungerlo.
La ragazza, con indosso il leggero vestito bianco che le lasciava praticamente scoperta l’intera schiena, fece per uscire dalla stanza, ma qualcosa la colpì dritta sulla nuca.
“Che diavolo, Steve!” lo riprese lei, mentre raccoglieva dal pavimento le cose con cui lui l’aveva appena colpita. Osservò la felpa nera e la tuta del medesimo colore che si ritrovò fra le mani e lanciò uno sguardo interrogativo in direzione del super soldato.
 
“Siamo sorvegliati da estranei e, insomma, non sei molto coperta” cercò di giustificarsi Rogers.
 
“Oh, capisco. Su Oneiro è normale usare tessuti leggeri e poco ingombranti, sai?”
 
“Ricordo.”
Il super soldato mise una maglia blu a maniche lunghe sopra un paio di jeans e passò una mano fra i capelli, rassettandoli.
 
“Dovrò riadattarmi alla vita sulla Terra.”
Anthea infilò i vestiti che le erano stati gentilmente lanciati. Le stavano abbastanza larghi, ma non finiva per sparirci dentro, dato che Steve la superava in altezza di non molto di più di dieci centimetri. Avrebbe pensato in seguito a recuperare le sue cose rimaste ad Asgard e a capire come muoversi sulla Terra. Una volta rimessi gli scarponcini, fu pronta a lasciare la stanza.
 
Un passo alla volta.
 
 
 
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Arrivati nella Sala Comune, trovarono Tony, Sam, Bruce e Thor.
Anthea lanciò un’occhiata curiosa alle due persone che, uscendo dall’ascensore, intercettò ai suoi lati. I due agenti della CIA, da parte loro, la guardarono senza riuscire a nascondere una certa agitazione, dato che la presenza della ragazza non era stata registrata da nessuna parte.
 
“Buongiorno, Capitano Rogers. Non so se è permesso...” iniziò Dan, sempre con fare gentile e pacato.
 
“Abbiamo già chiamato Ross, giusto Tony?”
 
“Giusto. È stata una visita...”
 
“Inattesa” concluse Steve.
 
“Se avete già chiamato Ross, credo non ci siano problemi” affermò l’agente più anziano e dai baffi folti e ben sistemati.
C’era da dire che, dopo la prima settimana, quasi tutti gli agenti della CIA che li sorvegliavano si erano ammorbiditi parecchio. Era abbastanza evidente che sostenessero i Vendicatori e che non avrebbero voluto essere lì a fare da carcerieri.
 
Anthea, intanto, aveva raggiunto il gruppo dei presenti e Thor, anche lui in jeans e maglietta, le era andato in contro. Si scambiarono un abbraccio e l’oneiriana, per un attimo, si sentì mancare il pavimento sotto i piedi.
“È un piacere riaverti fra noi.”
“Il piacere è mio. E, cavolo, Thor! Lo hai fatto davvero? Ti dona, lo ammetto, ma non credevo lo avresti fatto sul serio.”
L’asgardiano sospirò e incrociò le braccia sul petto scolpito.
“Ci siamo sfidati con dei giochi terrestri. Ho perso e ho dovuto pagare pegno.”
 
“Quindi anche tu hai perso?” chiese Anthea, rivolgendosi a Steve.
 
“Lui ha vinto o lo avresti ritrovato moro. Magari al prossimo giro” chiarì Stark, ghignando.
 
“Io ho perso, invece.”
 
L’oneiriana si voltò verso l’ascensore e intercettò la figura di James, che sembrava aver appena concluso un’intensa sessione di allenamento. La maglietta nera attillata metteva in risalto i muscoli ancora tesi.
Dietro di lui, c’era una donna dai capelli biondi, che le rivolse uno sguardo indagatore ma discreto.
 
“Lei è Sharon Carter. Supervisiona Bucky, per il momento. Sharon, lei è Anthea. Ci ha aiutato a vincere la battaglia contro Teschio Rosso.”
 
Dall’espressione di Steve, Anthea capì che la donna era una persona fidata e le bastò questo per rimanere tranquilla. Scambiò con lei un cenno del capo, in segno di saluto.
 
James non nascose una certa sorpresa nel vedere lì l’oneiriana, con in dosso i vestiti di Steve, segno evidente che non fosse appena arrivata. Una volta unitosi al gruppo nel mezzo della stanza, Anthea scambiò con lui un abbraccio.
“Mi piace il tuo nuovo look” gli disse, osservando i corti capelli neri.
“Non mi è andata troppo male” le confessò lui, senza però aggiungere il fatto che il nuovo taglio gli ricordasse spaventosamente la persona che era stata tanto tempo prima, prima che l’Hydra lo trasformasse nel Soldato d’Inverno.
 
“Tony aveva scommesso il pizzetto” le raccontò Steve, indicando l’inventore.
 
“Devo dire che l’ho rischiata, ma ne è valsa la pena.”
Stark, davanti ad una lucida lavagna bianca, finì di scrivere alcuni numeri con un pennarello nero.
 
“Cos’è?” domandò Anthea, curiosa, dopo aver salutato anche Sam e Bruce con calore.
 
“Una sfida. Si chiama The Best Duo. Visto che non possiamo andarcene in giro tutti insieme, stiamo lavorando a coppie. In base alla difficoltà, al tempo impiegato, ai danni riportati e causati e all’esito finale della missione, vengono assegnati dei punteggi da uno a dieci.”
 
“Chi vince?”
L’oneiriana si mostrò interessata e notò un angolo della bocca di Steve guizzare verso l’alto.
 
“Steve e Barnes” attestò Wilson, calcando il tono sul secondo soggetto della coppia citata.
“Metti due super soldati letali in una base dell’Hydra e avrai un lavoro veloce e pulito, qualche graffio nelle file amiche, minimi danni alle strutture e nessun nemico riesce a darsi alla fuga.”
 
“Non sono avanti di troppo. Il sottoscritto li supererà presto, anche se il compagno con cui li sto inseguendo rende tortuosa la strada della vittoria.”
Ecco, Tony aveva di nuovo monopolizzato l’attenzione, con tutta l’intenzione di sottolineare che i due super soldati potevano anche aver vinto qualche battaglia, ma non avrebbero vinto la guerra.
 
“Vuoi davvero dare la colpa a me? Non segui nemmeno la metà delle mie istruzioni” si difese Rogers, oltraggiato da quell’accusa infondata.
 
“Dettagli, Cap, dettagli. E poi non puoi dare per scontato di essere tu al comando. Sai che non sono molto avvezzo a farmi dire cosa devo fare” fu la pronta replica dell’inventore.
 
Il biondo pinzò il naso con le dita.
“Ho lasciato a te il comando nelle ultime missioni, Tony. E ho fatto quello che mi dicevi di fare, senza ribattere ogni due su tre.”
 
“Sempre dettagli.”
 
Rogers si trattenne a stento dal dare in escandescenza e fortunatamente Sam si mise in mezzo, prima che fosse troppo tardi. Erano giorni che quei due si punzecchiavano riguardo il loro lavoro di squadra.
“Prima di raggiungere loro, devi superare Cap e me” ricordò al miliardario.
 
“Io ancora non riesco a capire il vostro modo di giudicare” si intromise Thor a quel punto.
 
“Fai un sacco di casino, Point Break. E nella confusione i nemici tendono a dileguarsi e quindi poi bisogna ricorrerli, eccetera eccetera.”
Tony glielo stava rispiegando per l’ennesima volta.
In fondo, ognuno aveva i suoi punti forti. Thor era insostituibile nelle battaglie su larga scala, ma per le missioni che richiedevano più discrezione poteva risultare ingombrante.
 
“Se avessi partecipato, non ci sarebbe stata sfida, chiunque fosse stato il mio compagno.”
 
L’attenzione dei presenti fu calamitata dalla figura appena giunta di Natasha, affiancata da Clint.
L’esitazione di Anthea davanti quella semplice attestazione, diede la possibilità a Tony di intervenire.
“L’abbiamo promossa al lavoro d’ufficio, per non correre rischi inutili. E poi così Bruce ha compagnia, dato che anche Hulk è momentaneamente in pausa.”
 
“Nat ci ha detto che lo sapevi” le disse Steve, sorridendole.
 
Anthea si riscosse e raggiunse Natasha per poterla salutare con un abbraccio sentito, che la rossa ricambiò prontamente.
“Sono felice che tu l’abbia detto a tutti loro.”
 
“Diventerò zio Tony” gongolò il miliardario.
 
“Abbiamo già discusso di questo, Stark. Non ti allargare troppo” lo riprese Clint, fulminandolo con lo sguardo.
Anthea rise e salutò anche l’arciere, che si sentì in dovere di sottolineare che prima di Stark c’era anche lui nella classifica, accoppiato con Barnes.
 
“Posso partecipare? Cioè, in realtà vorrei aiutare sul campo, se è un cosa possibile.”
“Devi essere un’affiliata” intervenne prontamente Iron Man.
“Allora dovrò accettare la tua proposta, Tony, se è ancora valida.”
“Lo è, ma mi sembra opportuno metterti a conoscenza delle clausole che accetterai una volta dentro.”
 
“Tony” tentò di richiamarlo Steve, ma vanamente.
 
“È importante che lei sappia in cosa si sta cacciando.”
Tony le si piazzò di fronte e assunse uno sguardo che avrebbe dovuto essere serio.
 
“Sono tutta orecchie.”
Anche Anthea cercò di sembrare seria, ma con poco successo.
 
“Bene. Allora, sul campo di battaglia il capo è Rogers e dovrai starlo a sentire, volente o nolente.”
 
“Ma se tu non lo fai” protestò il Capitano.
 
“Quando si è in coppia non vale, caro il mio Rogers. Negli altri casi ti presto abbastanza attenzione, quindi non puoi lamentarti.”
 
“Per me nessun problema” intervenne l’oneiriana, che rivolse un sorrisetto al succitato capo.
 
“Fuori dal campo di battaglia è consentito prendere per i fondelli il capo, senza conseguenza alcuna. Questo ci tenevo a sottolinearlo” aggiunse Iron Man, che sembrava volersi scavare la fossa quel giorno.
Steve roteò gli occhi e sospirò molto profondamente.
 
“Sono io l’addetto al design delle uniformi da combattimento, perché faccio sembrare tutti più affascinanti. Solo Thor si è rifiutato, ma tu non puoi rifiutarti.”
“Ci sto” confermò la ragazza, sempre più divertita da tutto ciò che stava accadendo. Le erano mancati tutti quanti e le era mancata l’atmosfera che veniva a crearsi quando erano insieme.
 
“Ottimo. Passando oltre, devi sapere che, ora come ora, dobbiamo essere discreti, in modo da evitare che il Governo ci stia addosso più di quanto già faccia. Quindi niente distruzioni ed esplosioni spettacolari. Siamo momentaneamente costretti a chiedere il permesso per uscire dalla Tower. Lo SHIELD ci permette di andare in missione, ma non più di due alla volta, come accennato prima. Conoscerai presto Everett Ross, il nostro supervisore.”
Tony non nascose il fastidio che gli provocava sottolineare il fatto che i Vendicatori fossero confinati nella Tower e che non potessero agire liberamente.
 
“Per i viaggi fuori dai confini della Terra?” si informò allora Anthea, intercettando lo sguardo di Thor.
 
“Sono permessi, ma vanno registrati. Il Consiglio vuole essere a conoscenza della vostra assenza o presenza. Ringrazia Point Break, che stavolta non ha accettato un no come risposta” le spiegò Stark, indicando l’asgardiano dietro di lui.
“Quindi accetti la proposta di entrare a far parte della squadra?” concluse infine, sicuro che non avrebbe ottenuto un rifiuto, non stavolta.
 
Calò il silenzio, ma la breve attesa non creò alcuna tensione.
Anthea sorrise. Non era mai stata più sicura.
 
“Dove devo firmare?”
 
Steve le si avvicinò e le pose una mano sulla spalla, attirando i suoi occhi bui su di sé.
“Benvenuta negli Avengers.”
 
 
 
Quando un chiacchiericcio acceso riempì la Sala Comune, ponendo fine a quella specie di iniziazione improvvisata, Sam si ritrovò a pensare che lui non era mica stato avvisato dell’esistenza di quelle clausole!

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Capitolo 22
*** Die for You ***


Die for You
 
Even if the sky does fall
Even if they take it all
There’s no pain that I won’t go through
Even if I have to die for you
 
And when all the fires burn
When everything is overturning
There’s no thing that I won’t go through
Even if I have to die for you
 
 
 
 
Aprile 2015
 
 
Ogni tanto si chiedeva che tipo di vita avrebbe avuto se non fosse stato un genio, miliardario, playboy, filantropo e se non fosse stato Iron Man.
Probabilmente avrebbe dormito più ore, il suo cervello avrebbe fatto meno rumore, avrebbe evitato parecchie botte – perché avrebbe avuto di certo meno nemici – e non avrebbe dovuto avere a che fare con problematici disadattati, che adesso vivevano anche sotto il suo stesso tetto.
Dopo il Mandarino, la possibilità di mollare la carriera da eroe ce l’aveva avuta e lui cosa aveva fatto? Aveva riunito i suoi problematici disadattati per combattere insieme e, cavolo, ancora si domandava cosa effettivamente lo avesse condotto verso quella scelta, dati tutti i contro che essa implicava. Una mezza teoria ce l’aveva, in realtà, e questa prevedeva l’esistenza di una irrefrenabile attrazione fra problematici disadattati. Era qualcosa che non si poteva controllare, un istinto che agiva per vie traverse rispetto quella della ragione e che spesso portava a prendere decisioni tutt’altro che autoconservative.
Il più normale fra loro, probabilmente, era Sam Wilson, un veterano che, senza la minima garanzia, aveva rinunciato ad una vita tranquilla per seguire Capitan America – allora appena conosciuto – prima nella guerra contro l’Hydra, poi nella ricerca del Soldato d’Inverno ed infine in una battaglia dalle sfumature suicide contro Teschio Rosso. Oh, Tony dovette ricredersi, perché adesso che ci rifletteva o Sam era segretamente innamorato pazzo di Steve Rogers – non avrebbe potuto biasimarlo troppo – o era anche lui un problematico disadattato attratto da altri problematici disadattati e la seconda opzione era la più probabile.
In ogni caso, tale riflessione dalle sfumature esistenziali non era di certo calata dal nulla, ma discendeva direttamente dal brutto momento che stava passando. Un brutto, bruttissimo momento.
Avrebbe dovuto essere un lavoro facile e avrebbe dovuto portarlo a termine senza troppi problemi. Vane speranze gettate al vento.
Erano arrivati all’aeroporto di Seattle un’ora prima e non era stato troppo difficile penetrare nella base Hydra che vi era al di sotto e che era rimasta nascosta per chissà quanto tempo. Ogni volta che individuavano un nucleo dell’Hydra, trovavano anche informazioni sulla collocazione di altri nuclei nemici. Talvolta si trattava di piccoli gruppi e due Avengers erano più che sufficienti a smantellarli. Altre volte, però, si ritrovavano ad avere a che fare con vere e proprie strutture organizzate e demolirle non era sempre così semplice, soprattutto se al loro interno trovavano lasciti del lavoro di Adam Lewis, il bastardo con il fetish per gli anabolizzanti.
Questa volta Tony si era trovato davanti quattro individui potenziati da quello che aveva tutta l’aria di essere un miscuglio ben calibrato fra Extremis e un surrogato del serio del super soldato, probabilmente lo stesso che circolava nelle vene del Soldato d’Inverno, prodotto ben riuscito dell’Hydra.
Gli Avengers avrebbero continuato ad incontrare nemici del genere, finché Adam Lewis fosse rimasto a piede libero. Peccato che il caro dottore fosse un asso nel giocare a nascondino.
In ogni caso, l’attuale misfatto era che Stark aveva addosso l’armatura nuova e non ancora perfettamente pronta a sostenere uno scontro di quel livello. Aveva ben pensato di testarla durante quella che avrebbe dovuto essere una missione tranquilla, ma non aveva avuto molta fortuna e, se si concentrava abbastanza, poteva sentire la vocina di Rogers che gli diceva quanto fosse stato imprudente.
Ritornando al brutto, bruttissimo momento succitato, i potenziati lo stavano adesso tenendo a terra e cercavano di strappargli di dosso l’armatura, pezzo dopo pezzo. La velocità di rigenerazione della nanotecnologia ad essa applicata sarebbe stata presto insufficiente e successivamente sarebbero state le sue ossa ad essere smantellate.
Improvvisamente, il potenziato che stava per staccargli di prepotenza l’elmetto dalla testa – probabilmente con tutta la testa dentro - fu freddato da un proiettile che gli si conficcò nella nuca. Altri due potenziati vennero spinti lontano da lui e una mano di metallo si chiuse attorno al suo braccio destro e lo tirò in piedi di forza.
 
“Dobbiamo muoverci. Ne ho altri alle calcagna.”
 
Stark fu strattonato lontano dai potenziati che stavano già tornando all’attacco e registrò solo allora che Barnes gli aveva salvato il culo. Attivò i propulsori sotto i piedi e fu lui stavolta a trascinare il Soldato d’Inverno di forza, per i corridoi della base.
Davanti a loro, però, si presentarono altri potenziati e Tony dovette arrestare la corsa. Lui e Barnes si posizionarono schiena contro schiena e si preparano allo scontro.
 
“Abbiamo bisogno di rinforzi” fece presente James, mentre tendeva al massimo ogni singolo muscolo.
 
“Possiamo farcela” protestò Iron Man.
 
Furono attaccati da entrambi i fronti e Tony stava per tirare fuori armi più pesanti, quando alcuni strani congegni, simili a piccoli ragnetti meccanici, gli furono sparati addosso e una scarica elettrica di intensità preoccupante lo scosse dalla testa ai piedi. Crollò sulle ginocchia e si sforzò di riprendere a respirare, mentre l’armatura si dissolveva in diversi punti sul suo corpo, rendendolo maledettamente vulnerabile.
“Stark” si sentì chiamare dal Soldato d’Inverno, che stava adesso cercando di proteggerlo tenendo a distanza i nemici, nonostante fosse in netta minoranza.
Quei super soldati scongelati sapevano essere davvero degli ossi duri e, per un singolo istante, Tony si chiese cosa si provasse ad affrontarli. Sicuramente sapevano portare gli avversari sull’orlo di una crisi isterica, dato che pareva avessero la straordinaria capacità di rimettersi in piedi ogni santa volta che venivano buttati giù, a meno che non gli si spezzassero entrambe le gambe.
 
“A terra!”
 
Una voce risuonò fra le pareti del corridoio e James, riconoscendola, si abbassò al fianco di uno Stark ancora in ginocchio.
Grazie all’aiuto di un lanciarazzi, il loro aiuto esterno fu capace di creare un diversivo abbastanza efficace da permettere a Barnes di prendere di peso Iron Man e allontanarsi dal gruppo di potenziati.
“Da questa parte!”
Il giovane agente della CIA, Daniel Collins, li esortò a seguirlo.
James si caricò Tony sulle spalle e corse dietro il ragazzo, finché non raggiunsero una pesante porta metallica costituita da due ante scorrevoli aperta a metà. Al di là della porta c’era la sala controllo che avevano messo in sicurezza prima e l’idea di Dan fu quella di chiudersi lì dentro, assieme ad agenti dello SHIELD già all’interno e ad agenti dell’Hydra messi fuori gioco precedentemente.
Barnes, dopo aver steso Stark sul pavimento, chiuse le due ante con la forza. I potenziati si accalcarono all’esterno ed iniziarono colpire con violenza la spessa porta.
 
Intanto, l’armatura di Iron Man si dissolse e rimase il solo reattore luminoso sul petto di Tony che, mettendosi seduto e prendendo un profondo respiro, diede segno di non aver subito danni troppo gravi, almeno all’apparenza.
“Stai bene?” chiese Barnes, avvicinandosi a lui con sguardo impensierito. Il super soldato aveva un brutto taglio sulla tempia destra e il sangue gli era colato lungo l’intero lato del viso.
“Niente di rotto, ma l’armatura è danneggiata.”
Tony si rialzò in piedi a fatica, diede un paio di colpetti al reattore e poi spostò l’attenzione sull’orologio che portava al polso.
 
Gli agenti lì intorno guardavano preoccupati in direzione dell’unica barriera che li separava dai potenziati.
“Siamo chiusi dentro la base. Abbiamo controllato le uscite e sono tutte bloccate” spiegò Dan.
Il giovane sostituiva Sharon come supervisore di Barnes quel giorno e non era stato troppo fortunato, dato come si erano messe le cose. Stava ancora cercando di recuperare il fiato e non era stato affatto piacevole arrivare a portata di quei massicci uomini in nero, dagli sguardi freddi e taglienti come lame affilate. A prima vista potevano sembrare semplici soldati ben piazzati, ma bastava incontrare i loro occhi per capire che non fossero propriamente normali. Se lo avessero colpito a piena potenza, probabilmente lo avrebbero spezzato come un rametto secco e questo lo portava a chiedersi quanto forte fosse il Soldato d’Inverno, che era ancora in piedi dopo i colpi subiti e che era riuscito a stenderne più di uno.
 
“Okay, Barnes, te lo concedo. Abbiamo bisogno di rinforzi” cedette Stark, alla fine.
C’erano troppe vite in gioco per tentare mosse azzardate o estreme.
 
“Dici che li lasceranno venire?” fu la lecita domanda del Soldato d’Inverno, visto che gli Avengers non avevano tutta questa libertà di manovra. Era abbastanza scontato cosa significasse chiamare rinforzi per risolvere quella situazione.
 
“Ha importanza?”
Tony non ricevette risposta, perché quella era più una domanda retorica che una vera e propria domanda. Toccò l’orologio e poi il reattore sul petto, facendo in modo di riavere l’elmetto e la connessione con JARVIS. Attivò la comunicazione e rimase in attesa.
La risposta giunse quasi immediata e, prima di parlare, Stark sorrise mestamente.
 
“Ho bisogno di te.”
 
 
 
 
֍
 
 
 
 
Era tarda serata e si erano ritrovati nella Sala Comune a chiacchierare tranquillamente, in attesa del rientro di Stark e Barnes. Thor era l’unico ad essere momentaneamente assente, richiamato da doveri al di fuori della Terra. Fra aneddoti, battute e cocktail alla frutta senza alcuna traccia di alcool – perché Natasha aveva preteso cameratismo –, c’era stata un’interruzione dovuta allo squillare del cellulare del Capitano che, visto il nome di Tony sullo schermo, non aveva esitato a rispondere.
 
“Ho bisogno di te.”
 
Non era servito altro per indurre Rogers a scattare in piedi all’istante, sotto gli sguardi allarmati dei suoi compagni. Teso ed immobile, ascoltò la sfilza di informazioni che Tony gli riportò a macchinetta e senza perdersi troppo, cosa assai rara.
Una volta chiusa la telefonata, il biondo spiegò velocemente la situazione ai compagni, rimasti in silenzio fino ad allora.
 
“Cosa intendi fare?” fu la legittima domanda di Natasha, che si alzò dalla poltrona per fronteggiare meglio il super soldato. Sistemò la felpa, stirandola verso il basso, per coprire la curva tondeggiante e ormai parecchio evidente, ma non infranse nemmeno per un attimo il contatto visivo con lui, in attesa di avere una conferma a ciò che, in cuor suo, già sapeva bene. Steve avrebbe preso una sola strada e loro lo avrebbero seguito senza esitare, o almeno, lei lo avrebbe certamente sostenuto, perché dinanzi a una situazione simile non c’era alcuna scelta da fare.
 
“Abbiamo poco tempo. Ho bisogno di entrare lì dentro con la forza e ...”
 
“Sono d’accordo, Capitano.”
Banner aveva risposto nell’esatto momento in cui gli occhi di Steve si erano posati su di lui.
Era ovvio cosa gli stesse chiedendo il ragazzo e Bruce non aveva alcuna intenzione di tirarsi indietro.
 
“Sam, con me. Cinque minuti e partiamo” aggiunse infine Capitan America, ricevendo da Wilson un cenno d’assenso e lo sguardo di chi è pronto a tutto.
 
Prima che potesse muoversi, Rogers fu bloccato da una presa ferrea sul braccio destro, ma non si scompose, perché da lei se lo aspettava e per questo era già pronto ad affrontarla.
“Perché mi lasci fuori? Posso...” iniziò a protestare Anthea, la cui espressione era un misto fra confusione, disappunto e ansia. Dovevano affrontare una situazione difficile e lei voleva aiutare, non restarsene in disparte.
Nonostante la forte volontà, a Steve bastò un singolo ed intenso sguardo per ammutolirla.
“Non possiamo lasciare la Tower scoperta. L’hanno già attaccata una volta. Tu e Clint rimarrete qui” le disse con un tono che escludeva ogni tipo di replica, però il suo sguardo chiaro si era ammorbidito.
“Proteggila” le chiese e la giovane capì che non si stava riferendo alla Tower stavolta.
“Lo farò” promise e lo lasciò andare.
Clint le mise una mano sulla spalla, come segno di rassicurazione, e Anthea gli rivolse un cenno del capo per assicurargli che era tutto okay.
 
Rogers, Banner e Wilson si diressero verso l’ascensore.
“Mentre voi due recuperate l’attrezzatura, io preparo il Quinjet” attestò Bruce.
 
A pochi passi dall’ascensore, gli agenti della CIA sbarrarono loro la strada. Reazione prevedibile, nonostante sulle loro facce ci fosse più incertezza che altro.
“Non avete l’autorizzazione per lasciare la Tower. Dovete prima parlare con ...”
 
“Noi usciremo da qui adesso e con ogni mezzo. Ci sono delle vite in gioco.”
 
Il Capitano si fermò solo quando fu ad un passo dai due agenti. Banner attese poco dietro di lui e gli bastò guardare le espressioni di quegli uomini, per capire come sarebbe andata a finire.
Gli agenti si fecero da parte, senza fare resistenza, e il più anziano fra i due rivolse a Rogers uno sguardo fra il conciliatorio e il rassegnato.
“Cercheremo di coprirvi per quanto più sarà possibile. Buona fortuna, Capitano” disse e ricevette indietro un cenno del capo e un mezzo sorriso grato da parte del super soldato.
 
Sam e Steve dovettero recuperare la loro attrezzatura da battaglia e, con quella fra le braccia, raggiunsero il tetto della Tower, dove Bruce li attendeva nel Quinjet, già pronto a decollare.
Il dottore inserì le coordinate che Tony aveva inviato a Steve e, dopo aver attivato la modalità che rendeva il velivolo invisibile, condusse la fase di decollo.
Una volta in viaggio, Rogers e Wilson iniziarono a cambiarsi, liberandosi dei vestiti che portavano addosso e indossando le rispettive uniformi da battaglia.
Dopo pochi minuti, Steve si rese conto di non aver portato con sé l’elmetto blu della stealth, infilata in tempo record. Poco male, gli bastava avere con sé lo scudo e per il resto si sarebbe arrangiato.
 
“Bene. Vi dico cosa faremo una volta arrivati.”
 
 
 
 
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“Merda.”
 
A Tony il cuore balzò in gola. Se solo quei mostri là fuori avessero smesso di assestare senza tregua colpi alla porta, avrebbe sicuramente sudato meno, mentre tentava di riavviare completamente il sistema operativo dell’armatura con l’aiuto di JARVIS.
Sperò che Rogers arrivasse in tempo e anche che cercasse di contenere le conseguenze di quell’azione, che certamente sarebbe stata considerata illecita da Ross e dal Consiglio.
A livello di tattica, nonostante Tony facesse una grossa fatica ad ammetterlo, Rogers era pressoché intoccabile, tanto che delle volte aveva beccato pure Fury a pendere dalla sua bocca - e poi Fury lo aveva beccato a sghignazzare e si era dovuto ricomporre. Insomma, lasciar fare a Rogers era un’ottima soluzione, ma più la situazione era critica, più il ragazzo aveva la tendenza ad alzare l’asticella relativa a ciò che era capace di fare e, questa cosa, non sempre era del tutto positiva, a seconda dei punti di vista.
Se ci pensava bene, Tony non era così diverso in questo. Lui e Steve avrebbero potuto competere su chi fosse più audace a tirare su quell’asticella e faticava ad immaginare fin dove sarebbero stati capaci di spingersi.
 
La prima piccola fessura fra le ante scorrevoli della porta metallica generò un moto di agitazione generale.
 
“Barnes, una mano.”
Iron Man, ora parzialmente operativo, si posizionò ad un lato della porta e James si mise dal lato opposto. Con tutte le loro forze, cercarono di richiudere la fessura che si stava facendo sempre più grande, tanto che adesso erano perfettamente visibili i volti dei potenziati e le loro braccia cercavano di introdursi all’interno con prepotenza.
 
“Spingi, Manchurian Candidate.”
 
“Cosa credi stia facendo?”
 
“Allora impegnati di più.”
 
Resistettero qualche altro minuto, prima di essere sovrastati dalla forza dei potenziati, il cui numero fece senza ombra di dubbio la differenza.
 
“Mettevi al riparo!” gridò Tony, a pieni polmoni, in direzione degli agenti dello SHIELD.
 
Non potevano farcela. Era assolutamente assodato e Stark ne ebbe la riprova più e più volte, ovvero ogni volta che un colpo gli faceva vedere le lucciole. No, non potevano farcela. Erano almeno una decina quei bastardi, ma davano l’impressione di essere il doppio.
Quando sentì Barnes gridare di dolore, fu preso da un moto di panico, perché Steve non lo avrebbe mai perdonato se lo avesse lasciato morire.
 
“JARVIS voglio la massima potenza, anche se non supportata. Ora.”
 
Iron Man, nonostante l’armatura danneggiata, si fece largo tra i potenziati a colpi di fasci di energia, fino ad arrivare a Barnes, la cui faccia insanguinata la diceva lunga su come se la stesse passando. Tony lo spinse via, abbastanza lontano da permettergli di riprendere fiato. Allora notò che, ormai, anche gli agenti dello SHIELD erano stati coinvolti nello scontro. Inoltre, diversi soldati dell’Hydra si erano ripresi e non erano rimasti di certo con le mani in mano.
L’armatura iniziò di nuovo a dissolversi in diversi punti e Tony si accorse di non essere più troppo lucido. Però, in tutto quel macello, una nota positiva c’era. Aveva capito come avrebbe potuto migliorare l’utilizzo della nanotecnologia e l’avrebbe fatto, se fosse uscito da lì.
Cadde sulla schiena e mise le braccia davanti a sé, per proteggersi alla meglio. Ebbe l’impressione di sentire un boato, ma poteva benissimo esserselo immaginato, date le sue precarie condizioni mentali.
Poco dopo, tutto cessò di colpo. Niente più percosse gratuite e niente più stilettate di dolore. Si ritrovò in piedi e sostenuto da braccia solide. L’armatura si era ormai completamente dissolta ed era rimasto in jeans e maglietta.
Spostò l’attenzione sugli occhi azzurri che stavano sondando l’ambiente circostante. Per un singolo piccolissimo attimo, si sentì come un fan eccitato dinanzi al suo idolo ed esultò internamente.
“Sam, raduna tutti e non ingaggiare” lo sentì dire e poi si ritrovò il suo sguardo preoccupato addosso.
“Sappi che in questo momento ti adoro, Steven Grant Rogers” gli confessò, preso da un folle moto di entusiasmo di scampata morte. Se ne sarebbe pentito, ma ci avrebbe pesato più tardi.
“Devono averti colpito proprio forte” gli fece presente Rogers e, diavolo, se aveva ragione.
“Non immagini e... C’è il nostro amicone verde! Spaccali tutti!”
Hulk era il motivo per cui il Capitano poteva permettersi di stare lì senza preoccuparsi di doversi difendere, almeno per il momento.
Stark si stabilizzò sulle proprie gambe e Rogers lo lasciò andare.
“Va’ con Sam. Portate gli agenti fuori. Noi vi raggiungiamo non appena sistemate le cose qui.”
 
“Va bene, capo. Finiremo nei guai per questo, vero?”
 
“Ha importanza?”
 
Stark sorrise, scosse il capo e si mosse in direzione di Wilson, che sembrava una diligente e premurosa maestra che diceva ai suoi alunni – gli agenti dello SHIELD – di stare vicini e di seguirlo.
 
Separatosi da Stark, Rogers si immerse nello scontro che Hulk stava impeccabilmente portando avanti. Individuò Bucky in un angolo della sala e al suo fianco riconobbe il giovane Collins, che lo stava sorreggendo. James aveva una brutto taglio che gli percorreva la coscia destra e che gli impediva di rigettarsi nella mischia.
Alcuni potenziati smisero di ingaggiare direttamente Hulk e si mossero verso il gruppo guidato da Sam e altri si mossero invece verso il Soldato d’Inverno, obiettivi molto più facili da trattare in confronto al gigante verde.
Rogers richiamò Hulk e indirizzò la sua attenzione verso i nemici alle calcagna di Falcon e la reazione del compagno fu immediata. Lui, invece, corse verso Bucky e ingaggiò lo scontro con i due potenziati che ne stavano minacciando l’incolumità.
Il gigante verde abbatté i potenziati come fossero birilli, evitando che saltassero addosso al gruppo in corsa verso l’uscita. Era stato Hulk stesso a creare un bel buco nella base, per rimediare al fatto che le uscite ordinarie fossero state bloccate.
Il gruppo di nemici decise dunque di accanirsi sul gigante e, durante la lotta rocambolesca, tornarono nella sala lasciata solo poco prima.
 
Nella periferia del suo campo visivo, Rogers captò uno scintillio rossastro e subito dopo ci fu un’esplosione.
Hulk fu sbalzato di qualche metro, di nuovo al di fuori della sala comando, mentre lui, Bucky e Dan colpirono la parete sul lato opposto rispetto l’uscita.
Steve si riprese immediatamente e vide due potenziati dalla pelle incandescente che si avvicinavano. Dietro i due ce n’era un altro. Inoltre, si accorse che i restanti stavano circondando Hulk e cercavano di saltargli addosso, prima di lasciarsi esplodere.
Rogers si mosse, rapido, e raggiunse Collins. Tirò su il ragazzo ancora poco lucido per la botta presa e, trascinandoselo dietro, corse verso Bucky, che si stava rialzando dolorante dal pavimento. Lo aiutò senza indugi e gli affidò il moretto prima e lo scudo subito dopo.
Quando intuì cosa Steve avesse in mente, James allungò il braccio di metallo per afferrare una delle cinghie in cuoio dietro la sua schiena, ma le dita si strinsero attorno al vuoto e il biondo si allontanò da lui.
Il Capitano arrivò di fronte ad uno dei potenziati in avvicinamento, saltò e, una volta che la schiena fu in posizione parallela al pavimento, gli spiattellò le suole delle scarpe sul petto. Dopo averlo spinto via, cadde a terra ma, slanciando in avanti le gambe ed arcuando la schiena, tornò sulle gambe in un attimo e caricò a testa bassa la seconda bomba ad orologeria che si stava avvicinando. Buttò a terra il potenziato con una spallata degna di nota e infine tornò indietro, verso il terzo, che sentendolo arrivare spostò l’attenzione da James e Dan a lui e lo ingaggiò in uno scontro. La pelle del potenziato era ormai scintillante e Steve si impegnò a spingerlo indietro, abbastanza lontano da Barnes e Collins. Doveva assolutamente impedire che quegli ordigni ambulanti si trovassero troppo vicini a loro, nel momento in cui sarebbero saltati in aria.
Si diresse verso i compagni solo quando capì di non avere più tempo a disposizione. Gli altri due potenziati, che aveva spinto nella parte opposta della sala, si stavano trascinando verso di loro, ma erano lenti a causa della combustione che stava avvenendo all’interno dei loro corpi.
Rogers esitò nell’accorgersi della vicinanza del terzo nemico. Lo sguardo gli cadde sul monitor di un computer mezzo scassato che era a terra, ad un paio di passi da lui. Se ne impossessò e lo lanciò con forza contro il potenziato, riuscendo così a rallentarlo abbastanza da garantire che sarebbe esploso ad una distanza accettabile da Bucky e Dan.
 
“Steve!” lo richiamò a gran voce il suo migliore amico.
 
James sollevò lo scudo per proteggere se stesso e Dan, che spinse dietro di lui, ma rimase con il braccio metallico teso in avanti, rivolto in direzione del suo incauto fratello. Gli afferrò la mano e se lo trascinò addosso, dietro lo scudo.
Mentre si accovacciavano sulle ginocchia, per una maggiore copertura, Barnes avvolse istintivamente il braccio artificiale intorno le spalle di Steve, che invece posizionò le mani sul retro dello scudo, per conferirgli maggiore resistenza e stabilità contro l’imminente onda d’urto.
 
Quando i tre corpi si disintegrarono, assieme a quelli che erano su Hulk, l’esplosione fu talmente forte da far tremare l’intera base sotterranea.
Hulk ne uscì fuori praticamente quasi illeso e lo stesso si poté dire dei due super soldati e del giovane Collins dietro di loro.
 
Rogers portò una mano alla ricetrasmittente nell’orecchio sinistro e l’attivò.
“Sam, siete fuori?”
La risposta non si fece attendere.
“Affermativo, Cap. Cosa diavolo è successo là dentro?”
“Soliti fuochi d’artificio, ma stiamo bene. Arriviamo.”
 
A quel punto, il Capitano si alzò in piedi e si rivolse direttamente al gigante verde.
“Hulk, va’ fuori e controlla che nessuno ci sia sfuggito.”
L’ordine venne seguito praticamente all’istante.
 
“Ti capisce davvero?” chiese Barnes, mentre tornava anche lui in posizione eretta.
 
“Banner sta imparando a controllarlo sempre meglio e ...”
Rogers registrò un movimento in lontananza e scattò come una molla, correndo via senza esitare.
 
“Aspetta!” gli gridò James e fece per andargli dietro, ma lo squarcio sulla gamba glielo impedì e lo fece imprecare sonoramente. Lo scudo era ancora nelle sue mani e aveva intravisto anche lui la presenza in fondo al corridoio. Non era sicuro andare da soli, per nessuno di loro – Hulk escluso –, perché era evidente che tutto lì dentro fosse stato organizzato per farli fuori.
“Tu raggiungi l’uscita, ragazzo” disse allora, rivolto a Daniel.
“Ma…” provò a protestare il giovane, tuttavia quella protesta ebbe vita molto breve.
“Muoviti” fu l’ordine perentorio che ricevette e annuì come un automa, per poi eseguire.
 
Barnes strinse i denti e si mosse il più rapidamente possibile nella stessa direzione di Rogers.
 
 
Dopo averlo ricorso per buona parte dei corridoi della base, il Capitano trovò il soggetto in una piccola stanza dalle pareti metalliche, intento a frantumare il case di un computer fisso, posto su una lucida e nera scrivania. C’erano fogli stracciati sul pavimento e uno scaffale ribaltato, da sotto il quale si stava spandendo un liquido rosso scuro.
Il super soldato capì che l’uomo stava cercando di cancellare una probabile pista verso Lewis e intervenne, sperando che non fosse tardi. Gli saltò addosso e lo sbatté a terra e, nello schianto, il nemico sbatté la nuca calva sul pavimento. Gli assestò un pugno dritto sulla mascella e lo spedì così nel mondo dell’incoscienza.
Aveva il fiato corto, tuttavia l’udito fine gli permise di sentire un suono provenire dalla testa dell’uomo. Gli girò il capo e individuò la ricetrasmittente nel suo orecchio destro. Se ne impossessò e la portò nel proprio di orecchio destro.
 
“Siamo ancora in attesa di aggiornamenti, soldato.”
 
Quella voce era inconfondibile. Rogers trattenne il fiato.
 
“Soldato, rispondi.”
 
La distrazione del biondo fu tale da consentire al soldato di sbalzarlo indietro. Si rialzò abbastanza velocemente, ma l’uomo gli si appiccicò addosso, avvolgendolo in un abbraccio ferreo che gli bloccò le braccia lungo i fianchi. I loro volti finirono ad un palmo di distanza e Steve riuscì a percepire distintamente l’alito caldo dell’altro sul viso.
Il potenziato sorrise e la sua faccia iniziò a diventare incandescente, così come l’intero corpo stretto in una resistente divisa militare nera.
Il biondo fece forza sulle braccia, nel tentativo di liberarsi. In risposta, l’uomo lo sbatté contro una parete della stanza e serrò maggiormente la presa, arrivando ad incrociare le braccia dietro la schiena del ragazzo.
Steve poteva percepire distintamente il calore bruciante che proveniva dal corpo pressato contro il suo.
 
Alle spalle del potenziato sopraggiunse il Soldato d’Inverno, che lo colpì violentemente sulla nuca con il braccio di metallo, senza tuttavia ottenere il risultato sperato. Sembrava che l’uomo fosse diventato insensibile.
“Dannazione.”
James iniziò a provare un certo panico, mentre cercava in tutti i modi di staccare il potenziato da Steve. Se solo il biondo non fosse andato avanti senza di lui, adesso non si sarebbero ritrovati in quella situazione disperata.
Non poteva perderlo. Non così. Non davanti ai suoi occhi. Non adesso.
Utilizzò lo scudo in vibranio e si accanì sulla colonna vertebrale del potenziato, con tutta l’intenzione di spezzarla. Poi gli venne un dubbio che lo gelò sul posto.
 
“Cosa succede se lo ammazzo?” domandò con il fiato corto, rivolto a Steve.
 
“Non lo so! Allontanati!” gli gridò di rimando il compagno.
 
“Scordatelo!”
 
Un affilato coltello venne spinto nel fianco del potenziato e gli sguardi dei due super soldati si fissarono sulla figura di Collins, che aveva ben pensato di non seguire l’ordine ricevuto.
Non ci fu tempo per i rimproveri e, quando nemmeno il buco nel fianco riuscì a smuovere l’uomo, Rogers si costrinse a fare un ultimo grosso sforzo. Utilizzando le gambe come perno, fece in modo che lui e il potenziato eseguissero una rotazione abbastanza violenta, da spingere fuori dalla stanza sia Dan che Bucky, la cui gamba ferita cedette, facendolo cadere a terra di schianto.
Steve trascinò di forza l’uomo il più lontano possibile, rinunciando a sottrarsi alla stretta.
Il potenziato divenne luminescente e James gridò forte il nome del compagno, i cui occhi azzurri incontrarono i suoi per un istante, prima di serrarsi istintivamente in vista dell’esplosione.
 
Solo che non ci fu alcuna esplosione.
Il potenziato smise di brillare e la sua presa sul super soldato venne improvvisamente meno.
Steve lo osservò scivolare a terra, mentre tentava vanamente di aggrapparsi a lui, finché non finì steso ai suoi piedi, morto.
Il biondo non si mosse e mantenne lo sguardo fermo sul corpo inanimato dell’uomo.
 
“Perché diavolo sei andato avanti da solo, stupido incosciente?” sbottò James, rompendo il silenzio tombale che era venuto a crearsi. Si rialzò in piedi con fatica e Steve percorse la distanza che li separava per offrirgli un appoggio.
 
“Non ho avuto scelta” si giustificò il Capitano.
 
Barnes si irrigidì e dalla sua espressione svanì completamente il sollievo, che fu rimpiazzato da una rabbia a stento trattenuta.
“Ce l’avevi invece e il fatto che tu non te ne sia reso conto mi fa incazzare.”
 
“Ho fatto quello che andava fatto. Sono in grado di badare a me stesso. Non ho più bisogno della tua protezione.”
Doveva essere stato lo stress dovuto all’essere quasi morto, o all’aver quasi trascinato nella fossa con sé Bucky, che continuava a proteggerlo a costo di finire ammazzato, come sul treno settant’anni prima. Fatto stava che Steve si pentì di ciò che aveva detto nel momento stesso in cui lo disse.
 
“Buck, io …”
 
La reazione di James fu impulsiva e violenta. Le dita di metallo si chiusero sui ciuffi biondi della nuca del compagno e, quando lo strattonò, le fronti quasi finirono per collidere e a separare i loro volti rimase una distanza irrisoria. Quel gesto fece rimanere il biondo senza respiro.
Barnes si specchiò negli occhi chiari e spalancati dinanzi ai propri e cercò di controllare l’impulso di smettere di usare le buone ed iniziare con le cattive, al fine di far capire almeno un paio di cose allo stupido incosciente che possedeva l’eccezionale talento di finire nei guai.
 
“Se ciò che vuoi fare è trovare un bel modo per ammazzarti, allora sappi che non sarò tuo complice in questo. Mi sta bene combattere insieme. Mi sta bene morire insieme. Ma questo... non posso sopportarlo.”
Le iridi di Barnes erano gelide e Rogers ebbe l’impressione di rivedere in esse il Soldato d’Inverno che aveva affrontato un anno prima.
“Rischia ancora in modo così sconsiderato la tua vita, come se non valesse niente, e giuro che, se sopravvivi, ti farò rimpiangere di non essere morto.”
James lo lasciò andare e si allontanò da lui, dandogli le spalle.
 
Guardandolo zoppicare vistosamente, Steve tentò avvicinarsi per aiutarlo, ma lo sguardo tagliente che ricevette fu sufficiente a farlo desistere.
 
“Ti consiglio di starmi lontano per un po’.”
Quelle parole stroncarono ogni tipo di possibilità di approccio e Barnes si allontanò definitivamente.
 
Rogers era talmente fuori fase in quel momento, da non accorgersi che Dan gli stava tendendo lo scudo, almeno finché il giovane non lo richiamò con voce poco ferma.
“Ti ringrazio, Collins.”
Prese il cerchio in vibranio dalle mani del moro e lo fissò sulla schiena.
 
“Mi dispiace non essere stato in grado di aiutare. Sono contento che lei stia bene.”
 
Steve rimase alquanto spiazzato e vide nello sguardo cristallino di Daniel lo sconforto, la paura e il sollievo mescolati assieme.
“È stata colpa mia. E tu avresti dovuto essere fuori da qui.”
Quello non fu un vero e proprio rimprovero, ma più una constatazione.
 
“Mi dispiace. Volevo solo essere d’aiuto.”
 
Da quando Steve Rogers era arrivato nel ventunesimo secolo, Daniel Collins ne aveva fatto il proprio punto di riferimento. Il giovane agente era entrato nello SHIELD quattro anni addietro, all’età di ventuno anni, e aveva lavorato per l’organizzazione fino al crollo del Triskelion. Come era accaduto a Sharon, aveva trovato un posto alla CIA, ma non era la stessa cosa e puntava a tornare tra le file del nuovo SHIELD, non appena ne avesse avuto la possibilità.
Dan ricordava ancora l’eccitazione provata quando Capitan America si era unito allo SHIELD. Aveva avuto la possibilità di incrociarlo per i corridoi del Triskelion e, sporadicamente, lo aveva osservato con discrezione allenarsi nella palestra posta a disposizione degli agenti. Ovviamente, non aveva mai partecipato ad una missione assieme a lui, a causa della differenza di livello.
Poi c’era stato il casino con l’Hydra e Dan non aveva creduto nemmeno per un secondo che il Capitano potesse essere un traditore, quando Pearce lo aveva dichiarato tale. Allo stesso modo, si era rifiutato di credere alle accuse di Benson contro i Vendicatori.
Riportò alla mente il giorno del lancio degli Helicarrier legati al progetto Insight. Ricordava ogni parola pronunciata da Capitan America in quell’occasione e non aveva avuto dubbi su cosa fare e contro chi combattere.
Il compito di dover sorvegliare i Vendicatori era stata la prima vera occasione di conoscerlo più da vicino, di potergli rivolgere la parole e adesso era lì, dinanzi a lui, e riusciva a intravedere la sua parte più umana e vulnerabile, al di là del soldato inarrestabile. E non poteva che provare una maggiore ammirazione nei suoi confronti.
Dan voleva diventare più forte e combattere al fianco del super soldato. Non gli importava quanto difficile sarebbe stato. Avrebbe dato tutto sé stesso.
 
“Posso chiederti un favore?” gli chiese Rogers, interrompendo il flusso dei suoi pensieri.
 
“Tutto quello che vuole, Capitano Rogers.”
 
“Steve. Chiamami Steve. E dammi del tu.”
 
Lo sguardo di Dan si illuminò.
“Oh, la ringrazio...  cioè volevo dire grazie.”
 
Steve, suo malgrado, sorrise.
“Aiuteresti James Barnes al mio posto? Come avrai sentito, io non posso farlo.”
 
“Lasci… lascia fare a me. Può… puoi contare su di me.”
Collins sollevò il pollice e, contemporaneamente, si diede dello stupido per il modo traballante che stava usando per esprimere semplici concetti. Si sentì meno stupido, solo quando si accorse di aver strappato una fievole risatina al Capitano.
“Da dove vieni, ragazzo?” domandò il biondo, curioso.
“Brooklyn” disse con un certo orgoglio il moretto e, prima di correre in direzione di James, mise su un sorriso a trentadue denti.
 
Rimasto solo, Steve respirò profondamente un paio di volte.
 
“Non c’è di che, ragazzo.”
 
Sobbalzò nell’udire quella voce e si ricordò della ricetrasmittente nell’orecchio destro.
 
“Sarebbe stato un grosso spreco se quell’esplosione ti avesse ridotto in pezzi carbonizzati. Non avresti dovuto essere lì oggi.”
 
“Lewis ...”
 
La linea fu troncata e un fischio fastidioso costrinse Steve a cacciarsi dall’orecchio la ricetrasmittente.
Fu la prima volta che Adam Lewis non riuscì a fargli saltare i nervi, come si divertiva a fare ogni volta che avevano una interazione. Era troppo esausto perché la rabbia potesse prendere il sopravvento. Si sentiva svuotato e pensò che se Bucky gli avesse tirato un pugno – con il braccio di metallo – dritto in faccia, avrebbe sicuramente fatto meno male.
Stava davvero dando poca considerazione alla propria vita? Okay, a volte agiva d’istinto e poi utilizzava la ragione per uscire e risolvere qualsiasi situazione si ritrovava ad affrontare. I rischi inevitabili facevano parte del percorso che aveva scelto di seguire e mettere in gioco la vita era parte del gioco.
Allora dove sbagliava? Era pronto a morire ed era per questo che riusciva a lanciarsi nel mezzo di cose molto più grandi di lui, senza esitazione.
Smise di pensare e si mosse anche lui in direzione dell’uscita, consapevole che avrebbe dovuto affrontare una tempesta una volta fuori, perché gli Avengers avevano rotto le regole e avevano agito senza autorizzazione.
Sperò che venisse preso in considerazione il fatto che si era trattata di un’emergenza.
 
 
“Ehi Cap, aspettavamo solo te.”
 
Tony lo accolse con un mezzo sorriso. Era in piedi sulla rampa abbassata del Quinjet, al cui interno c’erano già tutti gli altri Avengers e il giovane Collins, a cui avrebbero dato un passaggio fino alla Tower.
Gli agenti dello SHIELD avevano invece i loro mezzi ed erano già in procinto di partire.
 
“Ho sentito Fury. È alla Tower e non ha parlato molto bene della compagnia.”
 
Rogers sospirò molto profondamente e lanciò un’occhiata furtiva alla figura di Bucky, steso sul letto metallico del jet e supervisionato da Banner, che si era coperto con una larga felpa grigia dotata di cerniera.
“Posso immaginare. Non perdiamo altro tempo allora.”
 
Steve fece per superare Tony, ma lui lo bloccò premendogli una mano sul petto.
“L’ho gestita male. Mi dispiace, Cap.”
Il biondo scosse il capo e diede una stratta amichevole alla spalla destra del compagno.
“Non preoccuparti. Gli Avengers dovrebbero avere libertà di manovra e odio il fatto che non sia così.”
 
“Tu mantieni la calma, okay? Quello che è successo oggi non cambierà nulla. È stata un’emergenza.”
 
“Sono calmissimo.”
 
“Bravo il mio ragazzo.”
 
 
 
 
֍
 
 
 
 
“Ma che squisito comitato di accoglienza.”
 
Tony sondò le presenze che riempivano la Sala Comune e prese un profondo respiro. C’erano Thunderbolt ed Everett Ross ovviamente. Nick Fury era affiancato da Maria Hill e c’era anche Sharon in un angolo della stanza. Clint, Natasha e Anthea erano vicini e le loro espressioni non erano affatto rassicuranti. In particolare, se lo sguardo avesse potuto uccidere, la ragazzina avrebbe spedito già da un pezzo Henry Benson all’altro mondo.
 
“Dov’è James Barnes?” chiese immediatamente Everett, notando l’assenza del Soldato d’Inverno.
 
“Sta ricevendo assistenza medica.”
Non ci fu una replica sull’attestazione di Stark, dato che il tono e l’espressione del miliardario suggerivano, poco gentilmente, di spostare l’attenzione altrove.
 
“Credo sappiate perché siamo qui” disse allora Thunderbolt Ross, mentre li invitava con un eloquente gesto della mano a farsi avanti.
 
Nonostante non fossero ancora riusciti a scovare Lewis, gli Avengers sembravano aver recuperato un piccolo margine di tranquillità nell’ultimo mese. In diverse missioni, erano riusciti a trovare file che contenevano dati su Teschio Rosso e sui suoi movimenti dal giorno in cui era riuscito a rimettere piede sulla Terra. Dagli stessi file erano venuti fuori diversi nomi, relativi a coloro che lo avevano appoggiato e, come diretta conseguenza, i piani alti avevano subito diversi riassestamenti.
Su Ross, divenuto da poco ufficialmente Segretario di Stato, c’era stata la conferma del fatto che, come da lui stesso dichiarato, non sapesse nulla dell’implicazione dell’Hydra nel progetto sui nuovi super soldati. Era sempre stato attratto dalla possibilità di ottenere un siero che potesse competere e superare quello che Erskine aveva portato con sé nella tomba ed Henry Benson, questa possibilità, gliela aveva offerta su un piatto d’argento. Ross aveva accettato senza accertarsi in cosa si stesse realmente cacciando, fidandosi di un uomo che, con gli anni, aveva acquisito sempre maggior potere all’interno delle agenzie governative e che, su carta, non era mai stato implicato in losche faccende. Aveva decisamente peccato di ingenuità e si era fatto raggirare, accecato dalla possibilità di avere un personale esercito di potenziati pronti a combattere per il Paese e a seguire i suoi ordini, ma non aveva mai avuto intenzione di aiutare o appoggiare l’Hydra.
Tuttavia, da quel che era emerso da un file riportante la lunga lista degli individui che l’Hydra aveva plagiato tramite lo Scettro di Loki, Henry Benson appariva come una vittima del caso, dunque Ross aveva deciso di prolungare la collaborazione con l’uomo, mantenendo però una certa diffidenza, giusto per non commettere lo stesso errore per due volte di fila.
Benson sapeva il fatto suo, quando si trattava di gestire situazioni complicate, sapeva essere scaltro e, in un modo o nell’altro, riusciva ad ottenere ciò che voleva. Per questo era spesso richiesto ai piani alti.
Da quando la battaglia contro Teschio Rosso si era conclusa, Ross si era impegnato a ripristinare quanto più possibile le normali condizioni di ordine e sicurezza e a mantenere un certo controllo sulla cosa maggiormente incontrollabile e pericolosa, ovvero la squadra che Nick Fury aveva creato anni prima e che adesso si ostinava a proteggere a spada tratta, come se i Vendicatori avessero bisogno di protezione.
Era Benson che gestiva la faccenda sul mantenere un controllo che altrimenti a Ross sarebbe sfuggito di mano. Ogni scusa, impacchetta in forma di una sfacciata clausola burocratica, era buona per mantenere lo stato di arresti domiciliari, tramite il quale era possibile monitorare costantemente gli Avengers. Certo, era stato necessario allentare la presa su alcuni punti, ma sia Benson che Ross erano stati disposti a pagare un piccolo prezzo, pur di continuare a controllarli.
Intanto, grazie alle competenze che gli erano riconosciute e grazie alla veridicità acquisita dalla sua testimonianza sull’essere stato sottoposto al lavaggio del cervello, Henry Benson era riuscito ad ottenere il controllo sul Consiglio Mondiale della Sicurezza.
Quando gli Avengers erano venuti a conoscenza di ciò, si era generata una tale tensione da far temere una brusca rottura degli equilibri. Poi la tensione era venuta meno, sostituita da un incremento delle azioni sul campo ai danni dell’Hydra.
Era evidente che i membri della squadra cercassero in ogni modo di evitare di rompere le regole e gli accordi presi con Ross e il Consiglio. Ed era stato così per mesi, perché non c’era mai stata una ragione sufficientemente buona a spingerli verso la scelta di spezzare le invisibili catene che impedivano loro di prendere decisioni e di muoversi, senza dover chiedere prima il permesso a coloro che si erano eletti come loro supervisori.
Poi, però, la ragione era arrivata, forte e chiara.
 
“Ross, quello che ...”
 
“Non sia così precipitoso, Rogers” lo fermò Benson, che sembrava avere tutta l’intenzione di essere una spina nel fianco.
Avevano in mano una eclatante motivazione che avrebbe giustificato l’uso del pugno di ferro contro i Vendicatori ed Henry non era disposto a lasciarsi scappare una tale succosa occasione.
 
“No, va bene. La ascolto, Capitano.”
Sorprendentemente, Ross decise di venire in contro agli Avengers. Sapeva bene che, se loro avessero deciso di prendere posizione contro di lui tutti insieme, non avrebbe avuto molte speranze di vincere. C’era da considerare anche che Nick Fury e lo SHIELD sarebbero stati dalla loro parte e che, probabilmente, non sarebbero stati i soli.
 
“Si è trattato di un’emergenza e c’erano delle vite in gioco. Non abbiamo avuto scelta.”
 
Ross si era aspettato un primo approccio del genere, perciò sapeva già come rispondere e sapeva anche che le sue parole non sarebbero state troppo apprezzate, ma nemmeno sarebbero state motivo di immediata rivolta.
“Sa, Capitano, è proprio questo che mi preoccupa. Quando voi lo credete opportuno, agite senza alcun controllo. Se io ci passassi sopra oggi, sono certo che il problema si ripresenterebbe non appena voi riterrete indispensabile un altro vostro intervento. Non prenderò decisioni adesso e sono disposto a valutare in modo più approfondito la questione, per darvi prova che non nutro completa sfiducia nei vostri confronti. In ogni caso, dovete tenere bene a mente che ogni singola vostra azione ha un grosso peso. Avete creato il panico a Seattle e danneggiato l’aeroporto.”
Lì guardò tutti, uno ad uno, poi tornò a posare l’attenzione su Rogers, come se si aspettasse una qualche tipo di replica. Non sbagliò.
 
“L’aeroporto era stato evacuato, altrimenti non avrei agito come ho agito. Non chiederemo il permesso, non quando ci sono in gioco delle vite. E non ho intenzione di chiedere scusa per quanto successo oggi.”
 
“Nessuno di noi ha intenzione di farlo” aggiunse Tony, con ferma convinzione, dando man forte al compagno.
 
“Bene. Lo terrò presente. Non mi sarei aspettato diversamente. Mi farò sentire presto.”
Ross si congedò e, senza ulteriori indugi, abbandonò la Sala Comune, lasciando che del resto si occupasse Everett.
 
Benson si mostrò alquanto infastidito dal fatto che Ross non si fosse imposto come avrebbe dovuto, facendo sfumare l’opportunità di prendere provvedimenti vantaggiosi. Per un attimo, perse la compostezza e assottigliò lo sguardo, fisso sulla sua ossessione dagli occhi azzurri. Gli passarono per la testa diversi modi che avrebbe potuto utilizzare per fargli abbassare la testa e ci pensava dal giorno in cui quel demonio gli aveva sottratto la possibilità di renderlo finalmente obbediente.
A quanto pareva, nemmeno mesi di limitazioni su ciò che poteva o non poteva fare erano serviti a renderlo più malleabile, ma Henry non ne era affatto stupito, anzi, sapeva bene che con lui avrebbero funzionato solo le maniere forti.
Fece per muoversi verso il super soldato, intenzionato a ricordargli in modo sottile di stare al suo posto, ma fu freddato da un sussurro gelido e tagliente.
 
“Non osare avvicinarti a lui.”
 
Henry non ebbe bisogno di voltarsi per capire chi fosse alle sue spalle. La voce di quel demonio se la ricordava estremamente bene, nonostante fossero passati mesi.
Fu in quel momento che ebbe un’idea. Poteva sfruttare la distrazione generale.
I Vendicatori e Fury stavano prestando attenzione ad Everett. Inoltre, fra agenti della CIA e alcuni dei suoi uomini, Benson aveva abbastanza copertura per poter giostrare il tutto, senza attirare troppo l’attenzione.
La ragazzina lo aveva tenuto sotto controllo dal momento in cui aveva messo piede lì dentro ed era evidente che non gradisse minimamente la sua presenza lì.
“Altrimenti?” la istigò dunque, fronteggiandola e, al tempo stesso, mantenendo un tono tranquillo e sottile.
Il confronto che aveva avuto con lei, mesi prima, gli aveva fatto capire che la ragazza tendeva a perdere la calma abbastanza facilmente, quando si toccavano i tasti giusti. Se l’avesse spinta a reagire, a compiere un’azione avventata, allora ci sarebbero stati risvolti interessati e Ross avrebbe smesso di comportarsi da cauto rammollito. La ragazzina aveva già uno sguardo che faceva venire i brividi. Doveva però tenere a mente di non tirare troppo la corda, perché alla vita ci teneva.
“Nessuna risposta tagliente o minaccia di morte?” le domandò, dato che era rimasta in silenzio. Doveva essersi esercitata sull’autocontrollo. Si era aspettato una reazione immediata.
“So cosa stai cercando di fare. Credi che sia tanto ingenua?”
Benson non si lasciò scoraggiare. Aveva appena iniziato a giocare con lei ed era certo che sarebbe riuscito a smuoverla.
“No, affatto. Ecco perché i tuoi avvertimenti non hanno alcun effetto. Sono solo parole di una ragazzina instabile.”
“Non sono instabile. Io ...”
“Oh, ho capito. Sei frustrata. Capitan America non sa scoparti a dovere?”
 
Benson ghignò nel vederla irrigidirsi e vacillare. Sapeva che tasti premere e come premerli e la cosa lo divertiva parecchio. Spingere le persone proprio dove voleva lui era un qualcosa che gli era sempre riuscita bene, se non si contavano rari casi.
‘Avanti, demonio, reagisci’ pensò con folle entusiasmo.
 
Quel momento di tensione si infranse in un singolo istante ed Henry si ritrovò a dover sostenere lo sguardo fermo di Capitan America, la cui mano destra era adesso poggiata sulla spalla sinistra della Reyes.
“Va tutto bene?” chiese il super soldato, sforzandosi di non mostrarsi teso e incazzato per il semplice fatto che Benson fosse dinanzi a lui, con in faccia l’espressione di chi è stato interrotto proprio sul più bello.
 
“Sì, è tutto okay.”
Anthea rilassò le spalle e distolse lo sguardo dall’uomo, spostandolo sul compagno al suo fianco.
 
Peccato che l’intenzione di arrendersi non avesse nemmeno sfiorato Benson, che decise di continuare a premere tasti delicati, senza alcuna remora. Era lui che aveva il coltello dalla parte del manico e non era disposto a trattenersi dall’affondare il colpo.
“Non appena sarà disponibile, vorrei discutere con lei in privato, Capitano.”
 
Ogni singolo muscolo dell’oneiriana ebbe prima uno spasimo e poi una contrazione a cui non seguì un rilascio.
“Se lo può anche scordare” sibilò freddamente e le dita di Rogers, ancora ferme sulla sua spalla, rafforzarono la presa, tanto che sarebbe stato possibile vedere la pelle sbiancare sotto i polpastrelli se lei non avesse indossato la maglietta.
 
“Se deve dirmi qualcosa, può farlo anche adesso. I miei compagni lo verrebbero a sapere in ogni caso.”
 
Buona replica, ma Henry si era già portato un paio di passi avanti.
“So che voi Avengers siete alquanto fuori strada. Potrei avere delle informazioni che sono disposto a condividere solo se mi concedi un incontro a tu per tu.”
La formalità era sfumata e non era accaduto per errore, ma per volontà.
Benson tirò fuori dalla tasca del completo nero un bigliettino e lo porse al Capitano.
“Qui c’è il mio contatto e l’indirizzo del mio ufficio a Washington.”
Steve esitò per un istante, prima di afferrare il biglietto con visibile reticenza.
“Da solo” sibilò allora l’uomo, fissando gli occhi piccoli e scuri in quelli chiari del super soldato. Sembrava lo stesse sfidando, ma stavolta Rogers non era certo che accettare quella sfida fosse la cosa giusta da fare.
 
“Rischia ancora in modo così sconsiderato la tua vita, come se non valesse niente, e giuro che, se sopravvivi, ti farò rimpiangere di non essere morto.”
 
Benson dovette accorgersi di non essere stato abbastanza convincente e decise di dare un’ultima spintarella al ragazzo, in modo da essere certo che non avrebbe potuto rifiutare.
“Ultimamente ho il caso di James Barnes fra le mani e la linea che lo separa dalla gogna è molto sottile. Non vorrei dover prendere una decisione spiacevole per...”
 
Fu improvviso ed inaspettato. Il chiacchiericcio nella stanza venne freddato in un singolo istante e ciò consentì a tutti di sentire perfettamente il suono del sedere di Benson che impattava sul pavimento, mentre un fiotto di sangue spruzzava dal suo naso. Gli uomini della CIA accorsero in aiuto dell’uomo.
Everett, invece, non sembrò molto stupito dall’accaduto. Da quando gli era stata affidata la sorveglianza dei Vendicatori, aveva avuto il fiato di Benson addosso e aveva avuto a che fare con i suoi metodi di persuasione, volti a indirizzarti sulla strada che lui aveva scelto per te. Everett aveva imparato che l’unico modo per toglierselo di torno era dargli l’impressione di seguire quella strada. In diverse occasione lo avrebbe volentieri mandato a farsi fottere, ma avrebbe rischiato di essere affossato, quindi aveva deciso di evitare.
Rogers, invece, lo aveva mandato a farsi fottere in modo alquanto plateale e a Everett venne da pensare che Benson se l’era cercata, considerando che il Capitano aveva collaborato senza dare troppi problemi e senza imporsi più del necessario per interi mesi.
Ross iniziò a credere che le accuse che Rogers aveva mosso contro Benson tempo prima fossero tutt’altro che dovute a fraintendimenti sulla condizione mentale dell’uomo, ma finché non avessero trovato prove sufficientemente incriminanti, non era possibile fare granché.
Cosa dovesse fare adesso, Everett non lo sapeva, o meglio, lo sapeva, ma non era molto convinto che sarebbe stata la cosa giusta da fare, senza contare che essere in mezzo agli Avengers e muoversi contro uno di loro non sarebbe stata una mossa troppo saggia.
 
Henry, una volta in piedi, scacciò via con rabbia gli agenti che lo stavano sostenendo. Fissò lo sguardo infuocato sul super soldato e gli puntò contro il dito.
“Ritieniti fottuto, Rogers” gli sputò addosso, mentre teneva il dorso della mano premuto contro il naso, da cui continuava a colare sangue.
 
“Se non lo avesse fatto lui, lo avrei fatto io stesso.”
 
L’attenzione di tutti i presenti si spostò repentinamente sulla persona che aveva parlato e che era rimasta in disparte fino ad allora, non troppo distante da dove si trovavano Benson e Rogers.
Banner, che aveva un diavolo per capello e un’espressione tanto scura da provocare seria ansia per ciò che sarebbe potuto accadere, venne avanti verso il centro della Sala.
 
“Invito gentilmente tutti coloro che sono qui per conto del Governo a sparire seduta stante, perché comincio a perdere la calma.”
Gli occhi di Bruce scintillarono di un verde intenso e ipnotizzante. Non stava lasciando molta scelta ai presenti e i suoi compagni non sembravano essere turbati dalla cosa.
 
“Accompagnate il signor Benson in ospedale” ordinò allora Everett ai suoi uomini e poi si rivolse direttamente ai Vendicatori.
“Voglio venirvi in contro, sulla base della vostra buona condotta degli ultimi mesi. Niente rigidi controlli fino a domani mattina, ma in cambio nessuno di voi abbandoni la Tower.”
Non attese risposta. Scambiò un rapido sguardo con Fury e poi si mosse verso l’ascensore, seguito a ruota da Benson, che sembrava aver perso la voglia di inveire e il pallore era segno che stesse sentendo parecchio dolore.
 
Sharon e Dan furono costretti a seguire Everett, ma la Carter, prima di andare, fece in modo di passare di fianco a Rogers.
“Come sta?” chiese in un sussurro appena udibile.
“Sta bene, non preoccuparti” fu la risposta del biondo, che le dedicò un mezzo sorriso teso.
“Se riesco a capire cosa hanno intenzione di fare, ti avviserò” gli disse con ferma convinzione.
“Grazie, ma sta’ attenta.”
 
Solo Fury e la Hill rimasero nella Sala, in cui l’atmosfera non si era ancora del tutto alleggerita.
“Beh, questa la definirei ordinaria amministrazione, dato che siete voi. Solo, evitate di fare troppo casino, almeno per le prossime ore.”
Fu così che Nick si congedò. Aveva previsto che, presto o tardi, gli equilibri sarebbero stati messi a dura prova e ancora si chiedeva come avessero resistito per così tanto tempo.
 
Una volta rimasti soli, gli Avengers rimasero in silenzio per qualche minuto, come per raccogliere idee e pensieri. Fu Banner a sbloccare quel momento.
“Sapete bene che non sono mai stato d’accordo con l’avere a che fare con il Governo. Sono mesi che Ross controlla le nostre vite e i nostri spostamenti. Secondo voi, perché non troviamo Adam Lewis?”
Fece una pausa e guardò in faccia tutti i suoi compagni.
“Perché lui sa cosa faremo e quando lo faremo. E lo sa perché ci sono ancora in circolazione persone che lo supportano, dato che noi non abbiamo potuto sistemarle a dovere. Sono stanco di sottostare a tali condizioni. Qualsiasi decisione Ross prenderà, non sarà buona. Tutta l’accondiscendenza mostrata stasera mi puzza e non poco.”
Cadde di nuovo il silenzio. Poi il dottore parlò ancora.
“Siamo tutti stanchi e stressati adesso e non è il caso di portare avanti questo discorso, ma tenete a mente che, prima o poi, saremmo costretti a prendere una decisione più drastica. E Steve?”
L’interpellato fissò gli occhi azzurri in quelli scuri del compagno e attese.
“Quello che è successo non cambierà niente, credimi. A Ross interessa ben altro e sa che cosa significherebbe tirare troppo la corda con noi, arrivati a questo punto. Barnes può ritenersi al sicuro e puoi farlo anche tu. Se decidessero, e sono certo che non oseranno, di venire a prendere uno di noi, sarò io stesso a sbarrare loro la strada.”
 
“Penso che tu sia appena riuscito a commuovermi.”
Se c’era una persona capace di smorzare la tensione, quella era Tony, che però era rimasto sinceramente colpito sia da come Bruce aveva reagito prima, sia da ciò che stava dicendo adesso.
“Difenderci è giusto. Ma eviterei di attaccare per il momento” volle solo sottolineare l’inventore.
 
“Niente da ridire su questo” confermò Banner.
 
Non ci fu altro da aggiungere. Bastò scambiarsi qualche sguardo, per capire come ognuno di loro la pensasse a riguardo e fu confortante rendersi conto di viaggiare sulla stessa lunghezza d’onda.
La Sala Comune si svuotò a poco a poco, finché non rimasero solo Tony, Steve e Anthea.
Prima di andare, Stark decise che era giusto fare almeno un appunto su quanto era accaduto poco prima, dato che l’intervento di Banner ne aveva completamente smorzato gli effetti.
“Buonanotte, Capitan Sono-Calmissimo America. Buonanotte, Anthea.”
 
“Buonanotte, Tony. E grazie per aver rigirato il coltello nella piaga, quando nessuno l’aveva fatto” fu la fin troppo pacata risposta di Steve, mentre la ragazza cercava di non ridere.
 
“Non c’è di che.”
Dopo aver rivolto al Capitano un sorrisetto divertito e comprensivo al tempo stesso, Tony sparì oltre le porte dell’ascensore. Quello del super soldato non era stato un gesto molto furbo, ma l’inventore non poteva biasimarlo, soprattutto perché avrebbe fatto lo stesso, quasi sicuramente.
 
 
“Vado a vedere come sta James. Vieni con me?” propose, ad un certo punto, Anthea.
Steve non rispose subito come lei si sarebbe aspettata. Eppure, quella non era una domanda difficile e la ragazza non capì il motivo di tutta quella esitazione. Lo osservò aprire e chiudere la bocca un paio di volte, prima che si decidesse a parlare.
 
“Io devo... sistemare una... faccenda... con Sam.”
Rogers non era affatto sicuro su cosa fosse giusto fare. Bucky era stato categorico sul fatto di non volerlo avere intorno.
 
“Nessuno ti ha mai detto che fai pena a mentire?”
 
“Sì, qualcuno l’ha fatto.”
Il biondo abbassò il capo e sospirò.
 
“Fammi indovinare. Non vuoi parlarne.”
 
Steve tornò a guardarla e notò una sfumatura di tristezza nella sua espressione rassegnata.
Oltre che un pessimo bugiardo, era anche pessimo nel condividere ciò che lo faceva stare male. Aveva sempre preferito tenere per sé i propri fardelli, per non farli ricadere sugli altri, tanto più se questi altri erano persone a cui teneva.
Tuttavia, tenendola fuori da ciò che lo impensieriva, finiva per ferirla e adesso se ne stata finalmente rendendo conto. Lei lo rispettava e, se le questioni in ballo erano serie, non si era mai azzardata a intrufolarsi nei suoi pensieri, nonostante avrebbe potuto farlo in ogni momento.
Steve sapeva di poter contare su Anthea, sapeva che lei era sempre pronta ad aiutarlo e a sostenerlo. Doveva solo lasciarsi andare un po’ di più con lei, soprattutto considerando quanto gli fosse stata vicina in quei mesi e quanto la sua presenza lo avesse aiutato a recuperare un certo equilibrio.
 
“Bucky ed io abbiamo discusso. Mi ha chiesto di stargli lontano per un po’.”
 
Anthea non riuscì a trattenere la sorpresa dinanzi all’aprirsi spontaneo di Steve. E tale sorpresa fu amplificata dal fatto di aver appena sentito che Bucky e Steve avevano litigato, cosa che non credeva fosse possibile. Si ricompose il più possibile, ma non riuscì a liberarsi della stretta allo stomaco che lui le aveva provocato decidendo di parlarle, senza che fosse lei a spingerlo a farlo.
“Cosa è successo?” gli chiese, mentre si avvicinava a lui. Gli si fermò di fronte, a un passo di distanza, e attese con pazienza.
Steve le raccontò cosa era accaduto e cercò di essere il più obiettivo possibile.
 
“Vuoi che sia spietatamente sincera o solo sincera?” domandò la ragazza, una volta che lui ebbe finito.
“La prima va bene.”
Steve le sorrise fievolmente.
 
“Coraggioso. Tornando seria, credo che il brutto momento che avete passato vi abbia spinto a dire cose che, in un certo senso, pensate, ma sono venute fuori nella maniera più sbagliata. Tu non vuoi che lui muoia per te, come è già successo, però lo vuoi al tuo fianco. Siete disposti a sacrificarvi l’uno per l’altro e questo è bellissimo ma anche spaventoso, perché potreste essere l’uno la causa del dolore dell’altro. Quando lo hai perso la prima volta, credendo fosse morto, cosa hai provato?”
Anthea lo osservò passare nervosamente una mano fra i capelli e le iridi più azzurre divennero più lucide.
 
“Ero distrutto.”
 
“Lui si sentirebbe allo stesso modo, Steve. Per questo ha reagito così. Vederti rischiare tanto anche quando potresti rischiare meno fa male, fa dannatamente male.”
Da quel momento in avanti, la ragazza non seppe più troppo bene se stesse parlando di James o di se stessa. Probabilmente di entrambi.
“Ti seguirebbe ovunque e lo sai, anche nelle situazioni più disperate e anche sapendo che entrambi rischiereste la vita. Non ti ostacolata, anzi, tutto il contrario. Ciò che ti chiede è solo di dare più peso alla tua vita. Se muori, porti con te una parte di lui e quel vuoto non potrà mai riempirlo nessun altro e tu sai che è così. Se fossi morto oggi e in quel modo…”
Anthea esitò, realizzando solo allora, fino in fondo, ciò che era accaduto e ciò che sarebbe potuto accadere.
“Lui non se lo sarebbe mai perdonato. Questo lo ha fatto scattare. Sei disposto a sacrificare te stesso e questo ti fa onore, ma non puoi pretendere che coloro che ti amano siano disposte ad accettare la cosa, perché preferirebbero morire che vederti morire e… scusami, sono uscita un po’ fuori dalle righe… cerca solo di pensare un di più alle conseguenze delle tue azione, anche se sei in buona fede, e scusati per la cavolata che gli hai propinato senza troppi complimenti, perché tu hai bisogno di lui o non ti saresti dannato tanto per riaverlo al tuo fianco, una volta scoperto che era ancora vivo.”
La giovane sorrise e poi, senza alcun preavviso, lo abbracciò, circondandogli i fianchi con le braccia. Il biondo ricambiò l’abbraccio e la ascoltò respirare a fondo un paio di volte.
Fu lei a sciogliere il contatto e lo guardò dritto negli occhi.
“So che questa per te è una battaglia personale. Ma lo hai detto tu più volte che è insieme che siamo imbattibili.”
 
Rogers si limitò ad annuire, perché non aveva nulla da dire. Lei aveva ragione.
“Dove vai?” le chiese, quando si accorse che era in procinto di allontanarsi.
 
“A vedere come sta James. Tu va’ a darti una sistemata. Forse è meglio lasciarlo tranquillo per il momento. Ha avuto una brutta giornata.”
 
“Credo che tu abbia ragione. Grazie.”
 
“Non devi ringraziarmi, ma apprezzerei se volessi parlare con me qualche altra volta, in caso tu abbia un problema. Va’ a riposare adesso. A domani.”
 
Steve la osservò andare via, ma poi il cervello registrò anche l’ultima parte di ciò che lei le aveva detto.
“Non ci vediamo dopo?”
 
La ragazza arrestò il passo e si voltò verso di lui.
“Preferisco lasciarvi i vostri spazi. Però prometto che accorrerò se inizierete a picchiarvi.”
 
“Oh, okay. Va bene.”
 
“Che c’è? Sentirai la mia mancanza?” lo prese bonariamente in giro.
 
“Sta’ attenta a non spaventare Sam, piuttosto. Non è abituato a presenze estranee durante la notte.”
 
Anthea rise e scosse il capo. Senza ulteriori indugi, lo salutò scuotendo una mano a mezz’aria e si diresse verso l’infermeria.
 
 
 
 
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Si era fatto una doccia e, accertatosi di non avere nulla di rotto tastando con fare random i vari lividi a portata di mano, aveva deciso di andare a controllare come se la stesse cavando il super soldato scongelato numero due.
Quella era una delle rare volte in cui era contento che Pepper fosse in trasferta per affari. Odiava farsi vedere ridotto ad uno straccio ambulante che era stato malamente calpestato e sfilacciato. Guardare la tristezza e l’ansia negli occhi di Pepper faceva più male che essere picchiato a sangue.
Quando Tony raggiunse l’infermeria, sulla fronte comparvero rughe sottili, dovute alla scena poco usuale che si ritrovò dinanzi gli occhi.
 
James era seduto sul lettino metallico e aveva addosso solo una maglia nera maniche lunghe, oltre che boxer scuri. I capelli corti erano parecchio incasinati e il ciuffo leggermente più lungo gli ricadeva sulla fronte sudata.
Il dottor Mitchell era lì a fianco, con le mani puntellate sui fianchi e la camicia bianca non perfettamente infilata nei pantaloni blu.
Stavano entrambi osservando con attenzione la capacità della Reyes di velocizzare la rigenerazione di tessuti danneggiati. La ragazza aveva una mano poggiata sul quadricipite destro di Barnes, solcato lateralmente da un profondo taglio slabbrato. La ferita sembrava stesse venendo ricucita da fili invisibili.
Tony decise di non interrompere né il momento né il silenzio.
Il taglio si trasformò abbastanza rapidamente in una linea rosa. A quel punto, Anthea si tirò indietro e prese un paio di respiri profondi.
 
“Sarebbe interessante studiare come funziona il processo. Se fosse possibile riprodurlo senza effetti collaterali...”
Mitchell offrì alla ragazza un appoggio, ma lei scosse il capo, affermando di stare bene.
 
“C’è chi già l’ha riprodotto. Extremis, il siero di Lewis” si intromise a quel punto Stark, rendendo nota la propria presenza.
“Non è esatto, signor Stark. Quelle soluzioni presuppongono una modifica del DNA, mentre qui si parla di una cura che agisce senza alterare niente” lo corresse il dottore, con tono tranquillo.
“Devo darti ragione. In ogni caso, ho capito che è meglio non giocare troppo con modificazioni genetiche, perché i risultati sono spesso poco gestibili.”
I due uomini scambiarono un mezzo sorriso, dandosi reciprocamente prova sia di un comune interesse inerente all’argomento, sia del fatto di condividere l’ultima affermazione del miliardario.
 
“Quindi sarei un caso fortunato?” chiese allora James, mentre saltava giù dal lettino per provare la stabilità della gamba, ora di nuovo perfettamente funzionante.
 
“Caso disperato, vorrai dire” lo corresse Anthea e sorrise, senza nemmeno provare a rimanere seria.
 
“Numero due” aggiunse prontamente Stark.
“A proposito, è strano non vederlo nei paraggi, considerando che voi due siete qui e che tu sei… eri ferito.”
 
Il silenzio che si protrasse lasciò Tony alquanto confuso, mentre il dottore ne approfittò per congedarsi, data l’ora tarda.
“Il mio lavoro qui è finito, anche se stavolta non ho dovuto fare molto.”
Mitchell fece l’occhiolino in direzione della Reyes e salutò i presenti con genuina cordialità. Il suo saluto venne ricambiato e James lo ringraziò, dato che era accorso lì per aiutarlo.
 
“Tu cosa ci fai qui, invece?” chiese poco dopo l’oneiriana, rivolta a Stark.
 
“Volevo essere certo che il Soldato Smemorato stesse bene, dato che non ce la siamo passata alla grande oggi.”
Tony stava ridimensionando la reale motivazione. Non era mai stato molto bravo a gestire i sentimenti, soprattutto se questi erano parecchio contrastanti.
“Gentile da parte tua, Stark.”
James, che intanto aveva rinfilato i pantaloni, piegò la bocca in un mezzo sorriso e per Tony quello fu un segnale positivo, perché probabilmente non sarebbe stato necessario spiegare che era lì per dirgli che sentiva di dovergli la vita, dato quanto successo quel giorno.
“Non ti ci abituare” disse invece, non rinunciando del tutto al sottile muro che c’era ancora fra di loro.
“Non lo farò. E adesso, scusatemi, ma ho bisogno di darmi una ripulita e di dormire.”
Barnes tese il braccio umano verso Anthea e le strinse una spalla, mentre le rivolgeva una sguardo grato. Prima che riuscisse a dirle qualsiasi cosa, lei scosse il capo e lo esortò ad andare, dato che la stanchezza gli si leggeva praticamente in faccia.
 
Grazie, Barnes.”
 
James si voltò in direzione di Tony e, per un attimo, credette di aver sentito male.
 
“Il sentimento è reciproco, Stark. Dico davvero.”
 
Si erano salvati a vicenda quel giorno e insieme erano riusciti a resistere fino all’arrivo dei rinforzi. Era stata la prima volta in cui avevano mostrato, in un certo senso, di tenere l’uno alla vita dell’altro e di fidarsi l’uno dell’altro.
La stessa Anthea capì di star assistendo a qualcosa di decisamente importante, data l’intensità di quel momento. Era come se i due, in quelle poche e semplici parole, avessero detto più di quanto si potesse anche solo immaginare.
 
Una volta che Barnes fu andato, Tony si concentrò sulla Reyes.
“Ho una cosa che devi provare.”
“Non è ora che anche tu vada a dormire?” cercò di protestare lei, dato che nemmeno il miliardario appariva in gran forma.
“Solo se prima vieni con me. Ci vorrà un attimo.”
“E va bene, mi arrendo.”
 
Quando Tony si metteva in testa qualcosa, era alquanto difficile dissuaderlo. In realtà, Anthea aveva notato che questa caratteristica sembrava essere alquanto diffusa fra i Vendicatori e lei stessa riconosceva di possederla.
Potevi essere dissuaso solamente da qualcuno che era più difficile di te da dissuadere. Ecco spiegato perché Steve era il capo. Le venne da sorridere al pensiero.
 
Si spostarono nell’officina di Stark, per lo più riempita da scheletri di armature e diverse attrezzature da battaglia, che Anthea riuscì ad associare ad ognuno degli Avengers.
 
“Ho finito la tua uniforme. Mi hai messo in difficoltà con quelle tue richieste poco comprensibili, ma credo di aver risolto. Sarai uno schianto, fidati.”
Tony le indicò un tavolo e Anthea lo raggiunse, per poi studiare con fare curioso ciò che vi era poggiato sopra.
“Avanti, provala” fu esortata e, a quel punto, tanto valeva accettare l’offerta.
Stark si lasciò cadere su una sedia girevole, che era nel mezzo della stanza e parecchio fuori posto, come la maggior parte delle cose lì dentro. Fece girare la sedia in modo da dare le spalle alla ragazza e le disse semplicemente di avvisarlo quando sarebbe stata pronta.
Lei non ci impiegò molto a disfarsi dei vestiti che aveva indosso e a sostituirli poi con ciò che Tony aveva progettato e realizzato per lei.
 
Il materiale di base era fibra di carbonio e il tessuto era resistente ed elastico. Non era sottile come quello degli oneiriani, ma la cosa non le dispiaceva affatto.
L’uniforme era costituita da diversi pezzi. Prima di tutto, c’era una specie di canotta attillata di un azzurro intenso, dotata di un colletto alto ma abbastanza largo da poterci infilare un paio di dita. Torcendo il busto e contraendo l’addome, poteva vedere come quel capo accompagnasse ogni muscolo, senza essere in nessun modo restrittivo. Le spalle erano lasciate scoperte, mentre altro tessuto di azzurro più chiaro le fasciava le braccia, fino poco sopra i gomiti.
Il gomito era la seconda articolazione, dopo la spalla, ad essere stata lasciata libera.
L’avambraccio era invece avvolto da una lega opaca e di un grigio scuro. Questi pezzi possedevano una certa pesantezza, ma non eccesiva. Lo stesso materiale le avvolgeva le gambe, a partire da sotto il ginocchio, e andava ad infilarsi in uno scarponcino blu scuro, dalla punta arrotondata e dalla suola spessa. Intorno ai fianchi, tramite una fibbia tonda e argentata, si agganciava una cintura grigia e fornita di tasche, sempre utili per ogni evenienza.
A concludere il tutto, c’erano pantaloni blu scuro che le fasciavano perfettamente il sedere, ma che non stringevano troppo né sulle cosce né sulle ginocchia, dove poi convergevano con la parte grigia e opaca. Erano provvisti di due tasche laterali e abbastanza capienti. Erano dannatamente comodi.
 
“Le parti opache possono raggiungere parecchi gradi e diventare incandescenti, senza subire alcun danno. Se convogli lì il calore otterrai armi pericolose, considerando il peso e la forza che sei in grado di imprimere nei movimenti.”
Mentre parlava, Tony l’aveva guardata con attenzione, fino a posare gli occhi sul suo viso, in attesa di sapere cosa ne pensasse.
“Non ti avevo detto di essere pronta” gli fece notare lei, più per punzecchiarlo che per altro.
“Ci stavi mettendo troppo” si giustificò Stark, tranquillamente.
 
Anthea sorrise e poi simulò un breve combattimento contro un nemico invisibile.
“Voglio assolutamente provarla sul campo. Sembra fantastica. Grazie, Tony.”
Le parti opache divennero gradualmente luminescenti e lei le guardò con entusiasmo, mentre le metteva alla prova.
 
“Non avvicinarti a nulla e non fare nulla in quelle condizioni” le ordinò Stark, con fare abbastanza perentorio. Ci teneva alla sua cara officina e si rilassò solo quando l’incandescenza venne gradualmente meno, fino a scomparire.
“Non sono ancora troppo in accordo sul lasciare libere le giunture delle braccia, ma non mi hai dato molto scelta, nonostante avrei dovuto decidere io e solo io.”
 
“Hai voluto feedback e ti ho accontentato. Però ho ceduto sulle ginocchia. E ora dovresti davvero andare a risposare, Tony.”
La ragazza gli dedicò uno sguardo apprensivo. Pensò che forse sarebbe stato meglio accompagnarlo in camera, giusto per essere certa che arrivasse fino al letto. Sembrava stesse avendo un calo repentino di tensione ed era abbastanza pallido da preoccuparla.
 
“Nemmeno tu hai una bella cera” replicò lui, sapendo bene che i processi di guarigione prosciugavano parte delle energie della giovane.
 
“Starò benissimo entro le prossime ore. Quella ferita lo rendeva vulnerabile e non sappiamo cosa aspettarci.”
 
“Non posso contraddirti.”
Tony fece per alzarsi dalla sedia, ma ci ricrollò sopra senza che potesse fare nulla per impedirlo. Stava risentendo degli effetti dello scontro, tutti in un volta, e non era affatto piacevole.
 
“Mi cambio e ti aiuto ad arrivare di sopra” si impose allora la Reyes, iniziando subito a sfilare via la divisa.
 
“Va bene. Ma non dirlo a Rogers. Potrebbe pensare male.”
Stark le diede le spalle e la sentì ridere.
 
“Non preoccuparti. Sarà il nostro piccolo segreto” lo prese in giro lei e rise ancora, perché Tony riusciva ad essere così Tony, anche quando era sul punto di stramazzare a terra.
 
 
 
 
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James guardò un’ultima volta la propria immagine riflessa nello specchio. Piccole gocce d’acqua scivolavano dai capelli ancora bagnati, finendo sull’asciugamano di spugna che aveva arrotolato sulle spalle. I ciuffi sulla fronte gli arrivavano ormai quasi davanti agli occhi, che erano sottolineati da occhiaie abbastanza scure. La barba rasa aveva bisogno di un’aggiustata, ma non era in vena.
Lo sguardo gli cadde sul confine frastagliato che separava la carne dal metallo e si chiese quando avrebbe smesso di provare un senso di nausea nel guardarlo. Alcune volte quella cicatrice bruciava in modo doloroso e non riusciva a capire se quel dolore fosse effettivamente fisico o se fosse tutto nella sua testa incasinata.
Stava meglio, non lo negava. Da quando era tornato assieme a Steve, la sofferenza, il senso di disorientamento, l’odio verso ciò che era diventato, erano diventati meno aggressivi e c’erano giornate in cui sentiva che poteva ancora raddrizzare la propria vita.
Aveva ottenuto una seconda possibilità, seppur in un tempo diverso. Eppure, se ci pensava, le cose non erano poi tanto diverse da settant’anni prima.
Era un soldato allora e lo era adesso. E c’era Steve e anche a Steve era stata concessa una seconda possibilità. Entrambi avevano sacrificato la vita, ma qualcosa o qualcuno aveva deciso che non era ancora arrivato per loro il momento di morire. Non sapeva se fosse un bene o un male, questo doveva ancora deciderlo. Sicuramente, quello stesso qualcosa o qualcuno vegliava su quell’incosciente del suo migliore amico, perché altrimenti era impossibile spiegarsi come fosse ancora in circolazione. Nemmeno l’infallibile Soldato d’Inverno era riuscito ad ammazzarlo, nonostante quell’idiota gli avesse dato l’opportunità di portare a termine la missione.
James scosse il capo, scacciando via le immagini che faticava a far sfumare dalla sua memoria, una volta per tutte.
 
“Sono la mia famiglia. Una famiglia abbastanza disfunzionale, bisogna ammetterlo, ma con loro mi sento al sicuro. Se mai fossi schiacciata ancora dal passato, loro allevierebbero il peso, mi aiuterebbero a sostenerlo.”
 
Le parole di Natasha gli risuonarono nella testa, mettendo a tacere gli altri pensieri.
Quel senso di sicurezza, James lo aveva sentito davvero, alla fine.
Dopo il crollo del Triskelion, l’abitudine di guardarsi le spalle, di essere pronto ad attaccare al minimo accenno di pericolo, di passare la notte con i sensi in allerta, lo avevano gettato sull’orlo della pazzia. Era andato avanti, si era aggrappato al volto e alla voce del ragazzo sul ponte, del ragazzo che aveva detto di essere suo amico, l’aveva cercato, ricordato, trovato ed era arrivato fino a lì dov’era adesso, riprendendo possesso di pezzi di se stesso, di James Barnes, di Bucky, un po’ alla volta.
Fra gli Avengers, sentiva di avere le spalle coperte, sentiva di poter abbandonare l’aria truce e guardinga, sentiva di poter essere più simile alla persona che era stata e sentiva che avere quella seconda possibilità non era poi così male.
Ciò che era accaduto con Tony Stark, durante quell’intensa giornata, aveva attenuato i morsi della colpa e sapere di avere la sua fiducia significava molto.
Tuttavia, era ancora dannatamente incazzato, nonostante avesse cercato in tutti i modi di distendere i nervi.
 
“Sono in grado di badare a me stesso. Non ho più bisogno della tua protezione.”
 
Quelle maledette parole gli avevano fatto parecchio male, doveva ammetterlo.
Aveva capito che Steve non voleva che lui mettesse in gioco la vita per salvarlo, perché lo aveva già visto morire una volta – anche se poi non era morto – e voleva fare in modo che non accadesse ancora, anche se ciò comportava dirgli che non aveva bisogno di lui.
Davvero un bel modo maturo di gestire la cosa, Rogers.
James prese un respiro profondo. Passò l’asciugamano sui capelli e poi lo abbandonò sul bordo del lavello. Si costrinse a muoversi per uscire dal bagno. Indossava solo i pantaloni della tuta e si chiese dove diavolo avesse lasciato la maglietta.
Quando aprì la porta, si ritrovò dinanzi gli occhi azzurri appartenenti alla causa della sua rabbia e fece una certa fatica a rimanere impassibile.
Rogers aveva un braccio sollevato, segno che stava per bussare alla porta, prima che venisse aperta. Sul suo viso era dipinta un’espressione che era un miscuglio di ansia, sorpresa e sollievo.
 
“Volevo solo accertarmi che fosse tutto okay. Eri chiuso qui dentro da parecchio” si giustificò in modo alquanto impacciato, per poi portare la mano sollevata dietro la nuca.
 
“Bene, adesso sai che sto bene, quindi lasciami solo. Mi sembrava di essere stato chiaro, quando ti ho detto di starmi lontano.”
James utilizzò un tono alquanto affilato. Era arrabbiato, lo era più di quanto avesse immaginato.
 
“Sei stato chiaro, ma …” tentò Steve.
 
“Sparisci, allora.”
 
Barnes si mosse per superare il compagno, ma fu afferrato per il braccio umano e riuscì perfettamente a percepire la forza impressa nei polpastrelli che cercavano di trattenerlo.
 
“Lasciami andare.”
 
“Buck, per favore, ascolta. Io non …”
 
James si sottrasse di forza alla stretta e spinse Steve contro il muro, di fianco la porta del bagno. Lo tenne fermo con la mano di metallo pressata contro il petto. Dinanzi lo sguardo gelido dell’amico, il biondo rimase immobile.
 
“Vuoi sapere una cosa? Neanch’io ho bisogno della tua protezione.”
‘Ma ho bisogno di te’ avrebbe voluto dire James, ma quelle parole gli rimasero intrappolate in gola.
Tirò indietro il braccio di metallo, lasciando andare Steve, e gli diede le spalle.
Senza voltarsi indietro, si incamminò versa la sua stanza, consapevole di avere lo sguardo del compagno addosso.
 
Non era la prima discussione che affrontavano. Ce n’erano state di litigate e non era mancata qualche scazzottata, che nemmeno le condizioni poco sane dello Steve prima del siero erano riuscite ad impedire.
Questa volta sembrava diversa dalle altre ed era evidente che entrambi ne fossero rimasti parecchio scottati. Forse avevano solo bisogno di schiarirsi le idee, di smettere di pensare a ciò che era accaduto quel giorno e di smaltire i postumi del caos emotivo che aveva colto entrambi impreparati.
 
 
Una volta che Bucky si fu chiuso la porta della camera alla spalle, Steve si lasciò scivolare seduto sul pavimento e inclinò la testa all’indietro, poggiando la nuca contro il muro.
 
“Ho bisogno di te” fu il lieve sussurro che si perse nel buio.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Note
Ciao 😊
Prima di tutto, ringrazio di cuore tutti coloro che leggono e seguono questa storia ❤️
Come avrete potuto vedere, negli ultimi capitoli ci sono stati diversi salti temporali, questo perché si va verso ciò che è scritto nel prologo. Tutti gli eventi che si stanno susseguendo avranno un peso nella parte finale e spero di riuscire a rendere le cose al meglio.
Adesso ho un piccolo annuncio da fare. Pubblicherò il prossimo capitolo non fra due settimane ma, se tutto va bene, entro la prima settimana di Agosto, causa impegni improrogabili. Ecco, ci tenevo ad avvisarvi.
Un abbraccio a tutti voi ❤️
 
Ella

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Capitolo 23
*** Step by step ***


Step by step
 
 
 
Quattro settimane dopo la Battaglia di Washington
Febbraio 2015
 
 
Dopo un’intera giornata passata a trattare con nemici che di arrendersi con le buone non ne avevano voluto sapere, tornare alla Tower fu abbastanza confortante, nonostante di Adam Lewis non avessero intravisto nemmeno uno straccio di traccia.
Era passata la mezzanotte da un pezzo e la Sala Comune si presentò a loro silenziosa e vuota, se non si contavano gli agenti della CIA.
 
“Bentornato, Capitano Rogers” lo accolse Dan, con quell’entusiasmo gioviale che non accennava a smorzarsi, nonostante stare a stretto contatto con gli Avengers fosse divenuta routine.
“Signor Stark” aggiunse subito dopo, dato che spesso aveva ricevuto frecciatine da Iron Man in persona sul fatto di avere preferenze poco giustificate.
 
“Non dovevi essere già a casa, Agente Collins?” chiese il super soldato e gli rivolse un sorriso amichevole.
Il ragazzo ricambiò il sorriso e scosse il capo.
“Questa settimana mi hanno assegnato i turni notturni” spiegò, ma non sembrava affatto dispiaciuto della cosa, anzi, c’era una ben visibile scintilla di vitalità nelle sue chiare iridi azzurre. Passò il solito tablet al Capitano, che vi appose la firma digitale, come verifica del suo rientro.
 
“A te il rapporto, capo” disse allora Rogers, rivolto ad Iron Man, mentre riconsegnava il tablet.
 
“Ma sei tu il capo” protestò immediatamente l’interpellato, rimasto stranamente in disparte fino a quel momento. Tony aveva ancora la parte bassa dell’armatura addosso e già si era proiettato con la mente nel letto, desideroso di farsi una lunga dormita.
 
“Non vale quando siamo in coppia, giusto? Tu hai voluto condurre, tu stendi il rapporto.”
Steve fece un cenno di saluto al giovane Dan e tornò nell’ascensore, lasciandosi un Tony boccheggiante alle spalle.
 
“Steve, aspetta! Parliamone!”
 
Sentir quasi supplicare Stark fu una gioia per le orecchie del super soldato, che si impegnò a mantenere un’espressione perfettamente neutra.
“Buonanotte, Tony” lo congedò e premette il pulsante che lo avrebbe portato al suo appartamento.
Tony, affatto contento del trattamento ricevuto, mise un piede metallico fra le porte, impedendone la completa chiusura.
“Capisco che preferisci stendere lei invece che un rapporto, ma non puoi mollarmi ora. Te lo proibisco” si impose e fulminò il biondo con lo sguardo.
Rogers puntellò le mani sui fianchi e parve pensarci su. Con uno scatto rapido, sollevò la gamba destra e spiattellò la suola della scarpa sul petto del compagno, spingendolo indietro quel tanto che bastò a far chiudere le porte dell’ascensore, senza usare troppa forza.
“Che tu sia dannato, Rogers” udì distintamente, tuttavia era assai lontano dal sentirsi in colpa.
 
Entrato nell’appartamento, lasciò lo scudo di fianco la porta di ingresso e filò in bagno per farsi una lunga doccia, cercando di non fare troppo rumore. Voleva evitare di svegliare Bucky, anche se era consapevole che non fosse un’impresa facile.
Uscì dalla doccia un quarto d’ora dopo, con un asciugamano attorno i fianchi stretti e i capelli arruffati e ancora umidi. Si sentiva abbastanza spossato e cominciava ad accusare la stanchezza.
Arrivato in camera, lo sguardo fu calamitato dalla presenza che occupava parte del letto. Era stesa su un fianco, con un braccio sotto il cuscino e l’altro sopra di esso, e sembrava dormire profondamente, tanto da non averlo sentito entrare.
Non si era ancora abituato ad averla intorno, né tantomeno ad avere compagnia durante la notte.
Erano passati sette giorni da quando lei era tornata.
 
Dopo che Rogers, Stark e la Romanoff avevano parlato con Thunderbolt Ross, l’oneiriana aveva ottenuto il permesso di rimanere alla Tower e di partecipare all’azione sul campo ai danni dell’Hydra. Dopotutto, lei era divenuta ufficialmente un Avenger e, a quanto pareva, Ross non aveva alcuna intenzione di mettersela contro, se non strettamente necessario.
Era abbastanza evidente che ci fossero dei riguardi da parte del Governo nei confronti sia di Thor sia di Anthea e quei riguardi possedevano il solo fine di mantenere rapporti pacifici con entità potenti e non del tutto conosciute, presenti al di fuori dei confini della Terra. Lasciare loro la libertà di spostarsi attraverso il Bifrost, seppur con opportuno monitoraggio, era stata una concessione che Ross era stato invitato a fare dall’asgardiano stesso.
Thor, una volta rientrato sulla Terra il giorno successivo alla battaglia e venuto a conoscenza delle condizioni imposte agli Avengers, aveva voluto mettere subito in chiaro la questione. Su Midgard avrebbe seguito le direttive concordate, ma impedirgli di tornare ad Asgard era categoricamente escluso e Ross, dinanzi ad un Thor così convincente, non aveva potuto far altro che cedere ed acconsentire, anche se non di buon grado.
Anthea aveva ottenuto il permesso di unirsi agli arresti domiciliari il giorno del suo arrivo sulla Terra e, lo stesso giorno, era tornata su Asgard per prendere le cose che le appartenevano e che adesso riempivano la stanza che Stark le aveva fatto preparare.
Sam aveva preso bene la novità di avere una coinquilina, anche se la notte lei dormiva raramente nel proprio letto, preferendo quello di Rogers, che non aveva nulla da ridere a riguardo - semmai erano i suoi simpatici compagni ad avere da dire.
Sì, era decisamente non così semplice abituarsi alle nuove dinamiche, nonostante la situazione relativa all’Hydra e ad Adam Lewis li tenesse impegnati sia fisicamente sia mentalmente.
 
Sempre cercando di fare poco rumore, Steve indossò un paio di boxer e una tuta. Poi si infilò sotto le coperte e fece aderire il petto contro la schiena della ragazza, finendo per stringerla delicatamente da dietro. Mossa non molto intelligente se l’intenzione era quella di evitare di svegliarla e difatti lei si riscosse al contatto.
“Stai bene?” gli chiese, ancora mezza addormentata.
Glielo chiedeva ogni volta, al rientro da una missione. Una domanda che non pretendeva grandi risposte, ma solo una che fosse sincera.
“Sto bene” affermò il biondo, mentre si rilassava contro di lei.
 
Steve non stava mentendo. Stava bene. Niente umore nero o ansia, né tantomeno paure troppo soffocanti. La sicurezza che Anthea aveva mostrato, fin dal giorno in cui era tornata, era stata in grado di scacciare via la tensione che quasi lo aveva schiacciato. Non aveva neppure avuto ulteriori incubi e l’idea di trovarsi un nemico ai piedi del letto era gradualmente evaporata.
Anthea gli aveva assicurato che lo avrebbe protetto, per consentirgli di continuare a proteggere gli altri, e Steve aveva accettato questa specie di compromesso. Si era reso conto presto che la cosa non lo faceva sentire debole, ma più sicuro e meno torturato da pensieri capaci di sottrargli il sonno. Quel miglioramento dovevano averlo notato anche i suoi compagni, perché avevano smesso di guardarlo con cipiglio preoccupato e come se potesse dare di matto da un momento all’altro.
 
Anthea si mosse fra le sue braccia, girandosi verso di lui. Le luci di New York creavano nella stanza una tenue penombra e la giovane ebbe così la possibilità di scrutarlo in viso, con una certa attenzione, come per verificare la validità della risposta che lui le aveva dato. Fece scivolare una mano dietro la nuca bionda e si stirò in avanti, per posare un bacio delicato sulla sua bocca.
Era visibilmente stanca. In una sola settimana, l’oneiriana aveva partecipato a parecchie missioni, affermando di essere molto più riposata di loro, che invece sembravano avere un disperato bisogno di una lunga vacanza. Effettivamente non aveva avuto tutti i torti.
Lei aveva sfruttato l’occasione anche per prendere confidenza con l’azione sul campo e con i modi di agire propri di ognuno di loro. Era stata in coppia prima con Clint, poi con Tony, con Steve, successivamente con Sam ed infine con Bucky. Solo con Thor non aveva fatto ancora squadra, perché Stark aveva consigliato di non mandare in giro due testate nucleari assieme, per evitare che succedesse qualche disastro.
Sempre Tony aveva provato a chiedere ad Anthea con chi si fosse trovata meglio, giusto per infuocare maggiormente la sfida in corso, ma lei si era rifiutata di rispondere, lasciandolo a bocca asciutta.
 
“Come è andato il giorno di riposo?” chiese Rogers e le sorrise, mentre lei giocherellava distrattamente con ciuffi dei suoi capelli.
“Ho fatto allenamento con James e poi si è unito anche Thor. È stato divertente.”
L’oneiriana posò la fronte sul petto nudo del compagno e si lasciò cullare dal regolare battito del cuore che riusciva a percepire nel silenzio della notte.
Non avevano ancora toccato l’argomento riguardante la non così convenzionale relazione che c’era fra loro, né sentivano il bisogno di farlo. Anthea era sempre stata molto cristallina su quelli che erano i sentimenti provati nei confronti del super soldato e non aveva mai dato segno dell’insorgenza di dubbi a riguardo, anzi, non faceva che dare prova di quanto lui fosse importante per lei.
Steve, dal canto suo, era consapevole di non essere proprio facile da trattare ultimamente, ma lei sembrava non farci troppo caso e cercava semplicemente di sostenerlo, senza essere troppo invadente, se non si contava l’invadenza notturna.
 
“Anthea” la chiamò piano, ma non ottenne risposta, né alcun tipo di reazione.
 
La giovane si era riaddormentata, senza nemmeno provare a resistere al richiamo suadente del sonno.
Steve non poteva di certo biasimarla, considerando che l’aveva strappata da uno stato di profondo riposo. Allora, anche lui chiuse gli occhi e si abbandonò alla stanchezza, mentre la stringeva appena contro di sé.
 
 
 
 
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Sei settimane dopo la Battaglia di Washington
Italia, Valle d’Aosta
 
 
“Sam, status?”
 
“Impegnato.”
 
Bene, avrebbe dovuto arrangiarsi da solo. Lasciare fuggire anche un solo nemico era fuori discussione. Valutò approssimativamente lo spazio fra lui e il terreno, sporgendosi dalla balaustra metallica. Era quasi certo che non si sarebbe rotto nulla, considerando che l’altezza era più o meno pari a quella da cui si era lanciato, quando era stato aggredito nell’ascensore del Triskelion. Inoltre, adesso indossava l’elmetto e se avesse saltato anche abbastanza in avanti, sarebbe caduto sulla neve, evitando i tratti della stradina asfaltata che risaliva serpeggiando lungo l’altura. Strinse con decisione i lacci dello scudo, prese la rincorsa e saltò.
O almeno ci provò a saltare, perché una presa ferrea si chiuse sull’incrocio metallico dietro la sua schiena, laddove convergevano le cinghie in cuoio dei supporti dello scudo. Fu strattonato indietro senza troppa fatica e si ritrovò con il sedere per terra, abbastanza distante dal punto di salto. Tese i muscoli per scattare in piedi e contrattaccare, ma si bloccò non appena mise a fuoco la situazione.
 
“Non muoverti da qui. Penso io ai fuggitivi” fu l’ordine che ricevette ed era abbastanza scioccato in quel momento per poter in qualche modo replicare a dovere.
Anthea fece il salto che gli aveva impedito di compiere un attimo prima e sparì dalla sua vista.
 
Dopo un po’, la voce di Sam gli risuonò all’interno dell’orecchio, colorita da una certa enfasi.
“Il nemico è stato intercettato! Puoi rimanere dove sei, Cap!”
 
Non che avesse altra scelta a quanto pareva, fu il pensiero del super soldato, mentre si rialzava da terra. Poteva consolarsi con il fatto che più della metà dei suoi compagni seguiva le direttive e non eccelleva nei colpi di testa. I colpi di testa, a dire la verità, erano più da lui, ma questo era un dettaglio poco rilevante al momento.
Sam e Anthea lo raggiunsero non molto dopo e, prima che uno dei due dicesse qualcosa, il Capitano si rivolse direttamente alla ragazza, forse spinto dal cipiglio poco rassicurante che le scorse in viso.
 
“Non è come pensi.”
 
“Davvero, Steve?”
Anthea incrociò le braccia sotto il seno, coperto dal sottile ma resistente tessuto nero di un’attillata maglia nera a maniche lunghe. Quella maglia, assieme ai pantaloni cargo grigi, con cintura annessa, e assieme agli scarponcini scuri, erano indumenti che lo SHIELD aveva messo a disposizione della ragazza.
Fury, a dirla tutta, aveva accolto l’oneiriana di buon grado, dato che erano a corto di risorse umane e considerata la possibilità di incontrare avversari difficili da trattare. Per quella missione in particolare, agli Avengers era stato concesso di partecipare in tre, dato la base individuata era più grande delle altre.
Durante le due settimane di permanenza della giovane sulla Terra, Steve aveva fatto coppia con lei già diverse volte. Si erano trovati bene a lavorare insieme e la ragazza aveva dimostrato di saper seguire le istruzioni con effetto immediato, anche se in qualche occasione dava loro un’interpretazione personale. Adesso, lei avrebbe dovuto essere all’interno della fortezza che si innalzava sull’altura nel mezzo del bosco innevato, e non all’esterno. Il Capitano sulla possibilità che Anthea avesse portato a termine la sua parte di lavoro prima del previsto, ma avrebbe almeno potuto avvisare ed evitare di fargli prendere un mezzo colpo, dato che venir buttato giù senza troppa fatica era segno della presenza di avversari molto più pericolosi dei semplici soldati dell’Hydra.
 
“C’era Sam” rispose il super soldato con convinzione, dopo un lasso di tempo piuttosto lungo, e sostenne lo sguardo penetrante della compagna.
 
“C’ero io?”
Sam rivolse uno sguardo interrogativo all’amico e cercò di cogliere nella sua espressione cosa cavolo dovesse dire o fare.
“Ero... decisamente... pronto?” a fare qualcosa di cui non sapevo niente, avrebbe voluto aggiungere, ma si trattenne perché a Steve voleva bene.
 
“Complimenti. Sapete recitare in modo eccelso. Nessuno e, ripeto, nessuno sarebbe in grado di capire che state mentendo.”
Anthea scosse il capo con rassegnazione, ma non era troppo divertita, anzi, la ruga fra le sopracciglia si era fatta più marcata ed intimidatoria.
 
“Stiamo mentendo?” chiese allora Sam, rivolto al Capitano, che si schiaffò una mano sulla faccia con fare abbastanza disperato.
“Avevo tutto sotto controllo” volle specificare il biondo e riagganciò lo scudo sulla schiena, mentre gettava un’occhiata al salto nel vuoto che aveva pensato di affrontare poco prima.
 
“Sei un caso disperato” gli comunicò invece la ragazza, rivelando una nota di rassegnazione nella voce. Non riusciva ancora a digerire il fatto che Steve ci tenesse tanto a mettere alla prova l’osso del collo, anche quando avrebbe potuto essere più cauto.
“Certe volte mi chiedo come riescano a mandarti in giro da solo con così tanta tranquillità.”
 
“Colpa mia. Ero il babysitter di turno e mi sono distratto” intervenne a quel punto Falcon, che aveva finalmente più o meno chiaro il quadro generale. Ormai non si sorprendeva più di tanto nel venire a conoscenza delle azioni fuori dagli schemi di sicurezza intraprese da Capitan America. Lo aveva visto fare molto di peggio che tentare un salto per cui una persona normale avrebbe fatto la stessa fine di un insetto spiaccicato sul parabrezza.
“Sam” lo riprese il Capitano, che gli stava implicitamente chiedendo di stare dalla sua parte.
“Mi dispiace, amico. Ma Capitan America che perde la sua autorità è una cosa che non capita tutti i giorni. O almeno, non quando non c’è Tony nei paraggi.”
 
“Sottovalutate il mio giudizio di valutazione. Sono abbastanza consapevole di cosa posso o non posso fare.”
Il super soldato incrociò le braccia al petto e fulminò entrambi i suoi malfidati colleghi con gli occhi.
“Steve, tu saresti pronto a lanciarti da solo contro un esercito di mostri se fosse necessario. E lo faresti senza esitare.”
Anthea si era fatta seria e, al tempo stesso, c’era una profonda consapevolezza nel suo sguardo, ora più morbido.
“Altroché se lo farebbe” confermò Wilson, che si ritrovò ad ammettere che lui lo avrebbe pure seguito. Ciò che aveva detto Anthea, però, non poteva effettivamente realizzarsi, e non perché Steve non ne sarebbe stato capace, ma perché non sarebbe mai stato solo, Sam ne era convinto.
 
“In ogni caso, dovete venire dentro. Credo di aver trovato un passaggio segreto.”
Anthea indicò l’ingresso del Forte e pose fine alla questione.
Di conseguenza, Rogers riacquistò in un attimo la concentrazione necessaria a portare a termine il lavoro.
“Andiamo allora.”
 
Risalirono verso il Forte e si introdussero all’interno. Anthea li guidò attraverso i corridoi di pietra grezza poco illuminati e silenziosi. C’erano diversi uomini dell’Hydra privi di sensi sparsi qua e là, segno del precedente passaggio della ragazza. Lo SHIELD sarebbe arrivato a momenti per ripulire tutto e prendere in custodia i soldati dell’Hydra.
Scesero una rampa di scale stretta fra grigie mura rocciose, fino ad arrivare in una stanza umida e piena di armi, ammassate in casse di legno e malamente coperte da pesanti teli di plastica.
Anthea arrivò fino ad una parete metallica spoglia e che stonava rispetto quelle di pietra grezza che l’affiancavano. La parete era stata ammaccata e lì a terra giaceva un uomo incosciente.
 
“Un lancio fortunato” fu il commento di Steve.
“Vedete il meccanismo d’apertura?” chiese invece Sam e ci rimase quasi male quando la ragazza buttò giù la parete, senza pensarci troppo.
“Dopo di voi” li invitò infine ad entrare.
 
Si ritrovarono così all’interno di uno stanzone illuminato da nude lampadine pendenti dal soffitto. Ciò che trovarono li fece gelare sul posto.
C’erano almeno cinque tavoli operatori con sopra corpi privi di vita, storpiati da suture realizzate con precisione maniacale. Gli scaffali metallici erano stati completamente svuotati e i due computer presenti erano stati distrutti. Addossati alle pareti c’erano altri quattro corpi morti e alcuni di essi erano stati mutilati. Nel centro troneggiava una macchina per effettuare il lavaggio del cervello, molto simile a quella presente nella base dell’Hydra sotto le macerie del Triskelion.
 
“Quel bastardo sapeva che saremmo arrivati.”
Sam era sconvolto e incazzato, ma ebbe i brividi nel notare le espressioni di Steve e Anthea. Che per loro due fosse una questione personale era più che evidente.
 
La giovane si riscosse e spostò l’attenzione sul super soldato.
“Usciamo da qui. Non c’è più niente che possiamo fare. Lo SHIELD penserà al resto.”
Rogers non si mosse.
“Steve, andiamo” insistette lei e lo afferrò per un polso, cercando di smantellare la palpabile tensione che era venuta a crearsi fin troppo velocemente.
 
Fu allora che Sam si piazzò davanti al Capitano e gli strinse la spalle con le mani, calamitando su di sé il suo sguardo chiaro e freddo.
Il pararescue si mostrò tranquillo e deciso. Non era la prima volta che vedeva l’amico in quelle condizioni. Era stato mesi e mesi in viaggio con lui, alla ricerca di Barnes, e momenti di forte tensione, che quasi avevano rasentato la perdita del controllo, c’erano stati, eccome se c’erano stati.
“Questo vuol dire che siamo sulla strada giusta, Steve. Ci stiamo avvicinando e presto lo metteremo con le spalle al muro, perché non avrà più dove nascondersi.”
“Non sappiamo nemmeno che faccia abbia” protestò il ragazzo e strinse con violenza i pugni.
“Ma sappiamo che è intenzionato a portare avanti la vita da dottor Frankenstein, quindi gli servono attrezzature che difficilmente passano inosservate. Lo troveremo. Gli Avengers e lo SHIELD stanno lavorando strenuamente solo per questo e credo fermamente che non ci sia la possibilità di fallire.”
Sam mantenne il contatto visivo con Steve, finché non percepì i muscoli delle spalle rilassarsi sotto le proprie dita.
“Certo, siamo un pochino rallentati da Ross e dal Consiglio di Sicurezza, ma se questo è il prezzo da pagare per rimanere insieme, Barnes compreso, allora va bene così.”
Steve, suo malgrado, si ritrovò ad annuire con fare stanco e rivolse all’amico un mezzo sorriso.
“Grazie, Sam. Io …”
 
“Capitano Rogers.”
 
L’attenzione dei tre Avenger fu attirata dall’ingresso di un manipolo di uomini dello SHIELD, guidati dalla Hill.
 
“Fury vi vuole. Lì fuori abbiamo scovato un uomo che potrebbe fornirci indicazioni utili. Di ciò che rimane qui ce ne occupiamo noi.”
 
“Va bene. Fate attenzione” le disse Rogers, mentre si muoveva in direzione dell’uscita.
 
“Non preoccuparti. Ti contatterò se troviamo qualcosa” gli assicurò la Hill.
 
Sam e Anthea seguirono il super soldato, dopo aver salutato la Maria. L’oneiriana sollevò poi il pollice verso l’alto, in direzione di Wilson, ricevendo in cambio un occhiolino.
 
Dopo aver ricevuto un passaggio da parte di un jet messo a loro disposizione, i tre Avengers giunsero all’interno dell’Helicarrier e, più precisamente, nella sala comando, dove Fury li stava aspettando.
Vicino al direttore c’erano due agenti che tenevano in custodia un uomo dai capelli scuri, facente parte dei soldati dell’Hydra messi fuori gioco durante la missione. La parte superiore della divisa scura dello scagnozzo era stata aperta e al di sotto di essa era visibile un camice bianco.
 
“Abbiamo impedito che si suicidasse, ma non siamo ancora riusciti a farlo parlare” spiegò Fury, visibilmente incazzato e con la pazienza ormai quasi esaurita.
 
L’uomo sollevò il capo e puntò gli occhi castani in quelli chiari di Capitan America. Piegò un angolo della bocca verso l’alto e parlò con tono quasi divertito e pungente, dando prova evidente della scarsa sanità mentale in suo possesso.
“Il dottor Lewis ti manda i suoi saluti, Steve. Verrà a prenderti presto.”
 
Rogers scattò e afferrò l’uomo per il bavero del camice con entrambe le mani, sollevandolo da terra di qualche centimetro.
“Te lo chiederò una sola volta. Dov’è Adam Lewis?”
L’uomo scoppiò a ridere e non si fermò nemmeno quando il super soldato lo scosse con una certa violenza.
“Le tue minacce non mi toccano.”
In risposta, la mascella del biondo si contrasse e lo sguardo si fece tagliente e glaciale. Una voce, seguita da un tocco deciso sulla spalla destra, lo sottrasse ai fumi della rabbia, dandogli indietro un po’ di lucidità.
“Lascia provare me” si propose Anthea, che si era avvicinata senza che lui se ne accorgesse.
Rogers mise giù l’uomo, che tornò nelle mani degli agenti dello SHIELD.
“Vorrei un po’ di privacy direttore Fury, se per lei non è un disturbo” aggiunse la ragazza, con estrema calma.
Nick guardò il Capitano e, ricevuto un segno d’assenso, si adoperò a soddisfare la richiesta.
 
Non molto dopo, Sam, Steve e Fury si ritrovarono ad attendere fuori da una stanza. Al silenzio dei primi minuti si sostituirono grida terrorizzate, che sfociarono presto in suppliche.
“Lo sta ammazzando?” chiese Sam, mentre immaginava il corpo dell’uomo che veniva fatto a pezzi.
“Sta’ tranquillo. Credo che non lo stia nemmeno toccando” fu la ferma risposta di Rogers.
 
Non dovettero attendere più di quindici minuti, prima che la porta venisse aperta. La ragazza allora si affacciò per invitarli ad entrare e la sua espressione delusa fece sospirare debolmente il biondo.
Nick fu il primo a farsi avanti, seguito dal Capitano e da un Sam Wilson non troppo tranquillo, nonostante la rassicurazione ricevuta.
Nella familiare stanza dalle pareti metalliche c’era un grande e rotondo tavolo nero lucido, intorno al quale stanziavano sedie girevoli dalle sedute imbottite. Il super soldato osservò Anthea lasciarsi cadere su una delle sedie e fu abbastanza lucido il ricordo che seguì quel semplice ma significativo scenario. Fu come riavvolgere il nastro di una videocassetta e rivedere la ragazzina gracile, spaventata e confusa che tre anni prima gli Avengers avevano salvato dai Demoni della Notte. Gli Avengers allora erano solo agli inizi e Fury, nonostante credesse in loro, era ancora restio a conferire alla squadra la piena e totale fiducia. A pensarci bene, in tre anni ne erano successe di cose. Ogni membro della squadra aveva affrontato un cammino tortuoso e aveva dovuto attraversare grossi cambiamenti per arrivare dove era adesso. Nonostante tutto, la stima e la fiducia fra loro non aveva fatto che crescere e maturare, fino a renderli capaci di affrontare anche catastrofi che potevano apparire insormontabili.
Rogers stesso si rese conto dei progressi da lui fatti da tre anni a questa parte. Adattarsi al nuovo secolo, guadagnarsi la stima e la fiducia di persone non avvezze a concederle, diventare più forte e arrivare alla consapevolezza di possedere ancora un ruolo, nonostante fosse fuori dal proprio tempo. Forse, l’unica costante era relativa al fatto di star combattendo l’Hydra, sopravvissuta anch’essa negli anni.
Il Capitano posò l’attenzione sull’uomo che era stato sottoposto ad interrogatorio. Era abbandonato su una delle sedie, aveva lo sguardo assente puntato sulla superficie del tavolo, il volto era pallido e sudato, ma non riportava alcuna ferita o segno di tortura fisica.
 
Anthea prese la parola, senza ulteriori indugi.
“Non sa dove si trova Lewis. Stanno portando avanti le sperimentazioni, ma le informazioni in suo possesso sono irrisorie. Lewis è molto prudente e propenso a non condividere più del necessario. Lo so, è abbastanza deludente. Questo tizio è solo una pedina di poco conto.”
Non ci fu nulla da aggiungere e la questione venne archiviata. Non avevano ancora nulla su Lewis, mentre il dottore sembrava essere sempre un passo dinanzi a loro.
 
Non molto dopo, Steve, Sam e Anthea stavano per salire su un jet che li avrebbe riaccompagnati alla Tower, quando Fury richiamò l’oneiriana.
“Questo è per te, ragazza.”
Le consegnò un fascicolo contenuto in una busta ocra.
“Cos’è?” chiese lei, abbastanza interdetta.
“Documenti per, diciamo, essere riconosciuta sulla Terra, e informazioni su tua madre.”
 
Anthea strinse la presa sui file cartacei e annuì, non mostrando alcuna emozione in particolare.
Fury allora li congedò, raccomandando loro di fare attenzione.
 
 
*
 
 
Steve bussò alla porta un paio di volte e rimase in attesa, finché una debole voce non lo invitò ad entrare. La trovò seduta sul letto, con indosso una tuta e la maglia nera che gli aveva portato via il giorno precedente. Aveva ancora i capelli umidi e lo sguardo era fisso sui fogli sparsi sulle coperte.
Si sedette sul bordo del letto, al suo fianco, e la osservò divorare con gli occhi le informazioni che mai si sarebbe aspettata di poter ottenere. La lasciò fare, senza rompere il silenzio, finché non fu lei stessa a parlare.
 
“Era un medico. Viveva a Boston e sarebbe stata trasferita a Washington, se non fosse scomparsa prematuramente. Aveva trentaquattro anni quando è morta.”
 
Lei non lo stava ancora guardando. Lo sguardo era perso in pensieri capaci di rendere più vacue le iridi blu. Dalla sua espressione non traspariva nulla, quasi stesse avendo a che fare con qualcosa di poco conto, ma Steve sapeva che quella facciata avrebbe finito per sgretolarsi.
 
“Non risulta sposata, ma è riportato un congedo per maternità.”
 
La ragazza prese una foto che era stata allegata al fascicolo e, dopo averla guardata con cura, gliela porse, incrociando finalmente lo sguardo con lui.
Nella foto era ritratta una donna dai lunghi capelli castano scuro e dagli occhi chiari e limpidi. Il naso leggermente all’insù e il sorriso dolce erano sorprendentemente familiari, Steve dovette ammetterlo e, senza pensarci, spostò gli occhi su Anthea e poi di nuovo sulla foto.
 
“È morta poche ore dopo il parto. E la mia presenza è scomparsa con lei. Sicuramente opera di mio padre, che praticamente è come se non fosse mai esistito, dato che su di lui non c’è alcuna informazione. Credo sia da lui.”
Anthea fece una breve pausa e si prese quegli attimi per riflettere.
“Chissà se è riuscita a tenermi fra le braccia anche solo per qualche attimo...” si chiese infine, con voce poco ferma.
 
Ed eccole lì, le prime crepe sulla maschera composta che la giovane si era ostinata a mantenere.
Steve le circondò le spalle con un braccio e l’attirò a sé con gentilezza, ma rimase in silenzio, perché le parole sarebbero state di troppo.
Anthea portò una mano a coprire il viso e respirò profondamente. Era tutto così scombussolante per lei. Nella sua vita stavano avvenendo grandi cambiamenti e d’improvviso si sentì persa. La presenza del biondo al suo fianco, però, fu sufficiente a far sparire la sensazione di disorientamento e si riappropriò della lucidità necessaria a mettere fine a quell’attimo di debolezza e di immersione in un passato incasinato.
“Una vita per una vita” si lasciò scappare, in un sussurro appena udibile.
 
“Questo non è vero” intervenne allora Rogers e la fece sussultare per l’enfasi con cui era scattato.
 
L’oneiriana scoppiò a ridere e quella reazione provocò il repentino sollevamento del sopracciglio destro del super soldato.
“Sai, non so se sentirmi offeso. Ero serio.”
“Perdonami Steve, ma ti sto amando parecchio in questo esatto momento.”
Era solita uscirsene con frasi del genere, ma riusciva ancora a farlo rimanere abbastanza spiazzato.
 
“Quindi da oggi sono Anthea Reyes” disse poi la ragazza, mentre prendeva fra le mani i documenti che attestavano la sua esistenza sulla Terra. Sembrava essersi del tutto ripresa dal brutto momento di poco prima.
“Qui risulta che Evelyn ha un fratello più piccolo. Liam Reyes. Ha cinquant’anni e una famiglia. Sua madre è ancora in vita, mentre suo padre è deceduto qualche anno fa.”
“Vorresti incontrarli?” gli venne naturale chiedere, di fronte l’espressione leggermente accigliata della giovane.
“Oh, certamente. Andrò da loro e dirò ciao, sono la figlia di Evelyn creduta morta e dopo ventidue anni credo che sia arrivato il momento di fare la vostra conoscenza.”
Era palese l’ironia insita in quelle parole e Rogers scosse il capo, senza provare a replicare in qualche modo. Anthea aveva bisogno di tempo per metabolizzare tutto e per superare quel subbuglio interiore che cercava di non dare troppo a vedere.
 
Dopo un momento di silenzio, la ragazza prese tutti i fogli sparsi sul letto e li rimise nella cartella color ocra, che abbandonò sul letto senza troppe cerimonie.
Steve fece per dire qualcosa, ma un energico bussare alla porta fu seguito dall’ingresso di Wilson.
 
“Sì, Sam, mangiamo volentieri qualcosa.”
 
“Tu sì che mi conosci, amico” replicò il pararescue.
 
“Mi sono persa qualcosa?”
 
“Solo due disperati che vengono a bussare alla porta di casa mia, perché tutti quelli che conoscono li vogliono morti.”
 
 
 
 
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Marzo 2015
 
 
“Senti, Steve...”
 
L’interpellato le rivolse l’attenzione, sollevando lo sguardo dal tablet e, più precisamente, dai dati raccolti da Tony su altri possibili insediamenti dell’Hydra.
 
“Stavo pensando che mi piace il modo in cui ti muovi e mi chiedevo se potessi, insomma, insegnarmi qualcosa.”
 
“Di cosa stiamo esattamente parlando?”
 
Anthea, di fronte l’espressione abbastanza confusa del super soldato, non riuscì proprio a trattenersi e scoppiò a ridere.
“Del tuo stile di combattimento. Cosa credevi?”
 
“Non credevo nulla” fu la rapida e secca risposta del biondo, che evitò di guardarla direttamente negli occhi.
 
Il sorriso di Anthea si allargò, assumendo sfumature maliziose e provocanti e sulla faccia di Steve si disegnò la realizzazione relativa a ciò che stava accadendo in quell’esatto momento.
 
“Non ti azzardare a ...”
 
“Entrare nella tua testa? Troppo tardi.”
 
“Questa me la paghi.”
 
Il super soldato scattò in piedi, ma lei fu più veloce e si tirò indietro prima che lui potesse afferrarla. Anthea sgusciò fuori dalla stanza, gridandogli un “Ti aspetto in palestra, Capitano dai pensieri poco casti!”
Lui la inseguì subito dopo e, mentre correva verso l’ascensore, incrociò Bucky con dei fogli per le mani.
“Allenamento pomeridiano. Ti unisci?” cercò di smorzare l’imbarazzo, ma il sorrisetto di James non aiutò affatto, anzi.
“Volentieri, Capitano dai pensieri…”
“Buck!” lo interruppe e poi lo guardò malissimo, con una mezza intenzione di minacciarlo, in modo da assicurarsi che quella faccenda non uscisse da lì, o sarebbe stato tragico.
“Comunque ci sto. Passo il rapporto della missione di ieri a Barton e vi raggiungo.”
Rogers annuì e, dopo aver subito un ultimo sguardo divertito e ammiccante da parte dell’amico, decise di prendere le scale, in modo da avere abbastanza tempo per ricomporsi.
 
Quando arrivò in palestra, trovò Anthea sul tatami verde, intenta a stirare i muscoli delle spalle e della schiena. Aveva indosso una maglia nera a maniche lunghe e dei pantaloncini scuri aderenti, che aveva tenuto sotto la tuta lunga, prova che aveva avuto quell’idea già dalla mattina. I capelli, ora lunghi fino alla punta delle spalle, erano raccolti in una coda alta e diversi ciuffi più corti degli altri le ricadevano sulla fronte.
 
“Pensavo ti fossi perso. Quando vuoi, cominciamo.”
 
‘È in vena di provocazioni’ fu il pensiero del super soldato e stava per rispondere a tono, quando James si presentò in palestra, salutandoli con un’espressione non del tutto neutrale in viso.
 
Fecero per organizzare l’allenamento, ma furono interrotti praticamente subito.
 
“Cap, ho bisogno di te, quindi a me l’attenzione.”
Tony fece il suo ingresso in palestra, sgargiante e pieno di buoni propositi, o almeno buoni lo erano sicuramente per lui.
 
“Cosa vuoi, Tony?” chiese per forza di cose il Capitano.
 
“Devo chiederti un favore e non puoi dirmi di no, quindi molla qualunque cosa tu stia facendo, perché ho della roba che devo assolutamente provare e sei un buon soggetto per la sperimentazione. Avevo pensato a Thor, ma forse è troppo presto e ...”
 
“Va’ al punto.”
 
“Frigido. Vuoi che vada al punto? Benissimo. Sei disposto a colpirmi?”
 
E nonostante l’assurda stranezza di quella domanda, Steve si ritrovò a piegare le labbra in un sorrisetto di sfida.
“Sono molto disposto. Sarà un piacere aiutarti.”
 
“Non so se essere commosso da questa tua voglia di prestarmi aiuto o offeso per il sottinteso relativo al fatto che non ti dispiace attentare alla mia salute. Poco male, sarò entrambe le cose contemporaneamente.”
 
Anthea cercò di intromettersi fra i due e di dire qualcosa, ma finì per rimanere ad osservare Rogers raggiungere Stark al centro della palestra.
Steve l’aveva appena liquidata?
“Posso allenarmi io con te, se vuoi” la richiamò James e le strinse una spalla con la mano umana.
“Sai che te la sta facendo pagare per qualsiasi cosa tu abbia fatto prima, vero?” aggiunse poi il moro, con voce più bassa.
L’oneiriana intercettò uno sguardo del Capitano e la scintilla che vi intravide la fece infiammare, tuttavia si impegnò a rimanere indifferente. Steve voleva la guerra? Ottimo, l’avrebbe avuta.
 
Stark toccò l’orologio dal lucido cinturino argentato che portava al polso. Dal quadrante iniziò ad espandersi una lega metallica rossa e gialla che, in pochi secondi, gli ricoprì il corpo fino al collo, lasciando solo la testa scoperta. La nuova armatura era più slanciata e sembrava anche meno pesante, due ottime qualità per sostenere combattimenti ravvicinati, dove flessibilità e velocità erano fattori determinanti.
“Impressionato?” chiese Iron Man e l’istante dopo l’elmetto prese forma e gli coprì il viso dall’espressione palesemente eccitata.
“Abbastanza, lo ammetto. Cos’è?”
“Nanotecnologia, Cap. Niente magie oscure, puoi stare tranquillo.”
Steve scosse il capo e puntellò le mani sui fianchi.
“Posso iniziare a prenderti a calci adesso?”
“Quando vuoi, Brioso Attempato.”

Ci provarono ad ignorarli, all’inizio, ma sia Bucky sia Anthea finirono per rivolgere la loro attenzione ad Iron Man e Capitan America, i quali stavano decisamente facendo scintille. In realtà, quei due facevano sempre scintille quando erano assieme, in un modo o nell’altro.
Da notare era che Steve aveva addosso solo la parte inferiore della stealth, con annessi stivali, ma non c’era niente a proteggergli il busto, se non una fine maglietta grigia. Non aveva neppure lo scudo e Tony non ci stava andando troppo piano.
Tuttavia, Rogers era in vantaggio per il momento. I suoi colpi si susseguivano precisi e veloci, senza lasciare lo spazio per il contrattacco dell’avversario.

“JARVIS, analizza il suo schema di combattimento ed elabora una controffensiva” furono le parole che Stark rivolse alla sua stessa armatura.
Il problema di Steve era non avere un perfettamente saldo centro di equilibrio. Un’arma a doppio taglio che lo rendeva più scattante ed imprevedibile, ma faceva delle sue gambe un punto particolarmente precario. Quindi Tony doveva puntare alle gambe ed esultò quando l’armatura imprigionò entrambi i polsi del super soldato nelle mani metalliche e passò al contrattacco, mirando nel punto debole individuato.
Rogers fu costretto a chiudersi in difesa, mentre cercava di recuperare il baricentro messo a durissima prova.
“Mi sto annoiando!” lo provocò Stark.
Il Capitano non rispose alla provocazione, troppo occupato a proteggersi dai colpi, alcuni dei quali smontarono la sua difesa e andarono a segno.

“Ora cambia tattica. Sta’ a guardare” disse James ad Anthea.
La ragazza sapeva che il biondo fosse davvero un portento nel corpo a corpo, tanto che lei stessa aveva difficoltà a contrastarlo senza l’uso dei suoi poteri. Osservò Steve - il traditore che l’aveva abbandonata - incassare un pugno in pieno costato e rispondere subito dopo con una combinazione di ganci e montanti che spiazzò Iron Man e lo costrinse ad indietreggiare.
Il super soldato sapeva dove colpire e l’armatura scricchiolò sotto la sua forza. Stark attivò i propulsori e schizzò in aria, così da sottrarsi all’assalto.

“Scappi, Stark?”
Sul viso del Capitano prese forma un sorrisetto sfrontato.

“Affatto. Mi piace osservare le cose dall’alto” fu la replica poco credibile e affannata di Tony.


“Avanti, Tony, impegnati! Così gli fai il solletico” gridò Anthea, di punto in bianco, e quell’Idiota del suo ragazzo perse la concentrazione quel tanto che bastò a Tony per centrarlo con un raggio di energia e mandarlo faccia a terra.

“Beccato” gongolò Stark, ma poi si rese conto che l’oneiriana stava venendo verso di loro e gli venne da pensare che forse quell’ultimo colpo avrebbe anche potuto evitarlo. Forse. Però la ragazzina aveva fatto il tifo per lui, giusto?

Rogers si rialzò, tenendosi l’addome con una mano, e intercettò Anthea appena in tempo per capire che il suo obiettivo non era Tony. E difatti fu costretto a parare con gli avambracci un colpo diretto in faccia, ma non poté fare nulla per quello che gli arrivò dritto allo stomaco. E fece male.

“Avanti, traditore. Vediamo di fare sul serio” chiosò la ragazza, decisa a prendersi la rivincita, dopo che l’Idiota l’aveva liquidata su due piedi, senza pensarci due volte.

Iron Man, avvantaggiato dalla distrazione generale, prese Steve alle spalle e lo bloccò, avvolgendolo con le braccia metalliche.
“Coalizione?” propose, rivolto alla ragazza.
“Così è scorretto” fu l’immediata protesta di Rogers.
Anthea fece spallucce e sorrise in un modo tale da far venire i brividi a entrambi i Vendicatori. Tony pensò che sarebbe stata perfetta per interpretare la parte della psicopatica in un film.

“Ci sto, Tony. E in quanto a te, ti lascio scegliere. Quale occhio vuoi nero, traditore?”

Steve sbiancò, consapevole di averla fatta arrabbiare sul serio. Forse aveva un tantino esagerato a liquidarla come aveva fatto.
“Sei nei guai, Cap” infierì Tony, non accennando ad allentare la presa su di lui.
La minaccia della ragazza, però, non si concretizzò, perché James decise di partecipare ai giochi. Il braccio di metallo sfiorò il viso di Anthea, spostatasi all’ultimo momento.
“Due contro due?” suggerì il Soldato d’Inverno, lanciando a Steve uno sguardo d’intesa, mentre Tony cominciava a sudare freddo, date le premesse di quello scontro.
Ma come ci erano arrivati poi?
Non si seppe bene come, ma si ritrovarono a darsele di santa ragione, in un aggrovigliarsi di braccia e gambe. E non era che ci fossero proprio degli schieramenti, dato che a un certo punto Rogers dovette difendersi anche da Bucky. Senza parlare di Stark e la sua tattica alla cieca, anche se il biondo rimaneva il suo bersaglio privilegiato - e la cosa sarebbe stata reciproca, se Steve non fosse stato tanto concentrato a proteggersi dalla sua ragazza, che lo stava affrontando sul serio, senza troppe remore.
Non passarono nemmeno dieci minuti, prima che il casino che stavano facendo raggiunse gli abitanti dei piani alti della Tower.
 
“Questa è una delle cose più esilaranti a cui abbia mai assistito” confessò Clint, una volta arrivato nella palestra e Sam non poté che essere d’accordo con l’arciere.
“Vado a prendere arco e frecce.”
“Tu non vai da nessuna parte, o mi butto nella mischia anche io. A te la scelta” minacciò Natasha, che non voleva che suo figlio perdesse il padre ancor prima di nascere.
E Barton si arrese immediatamente, perché non sia mai che Natasha mettesse piede su un campo di battaglia, non con quella curva tondeggiante che aveva da un po’ preso il posto del ventre piatto.
Banner non ci pensò nemmeno a unirsi, ma rimase volentieri a guardare i suoi amici prendersi a pugni senza un reale motivo, notando però come evitassero di procurarsi danni troppo seri.
Ovviamente, nessuno tentò di trattenere Thor, che si gettò nella mischia come un bimbo felice, con gli occhi luccicanti, fin troppo entusiasmo, ma fortunatamente senza il martello.
Pepper giunse qualche minuto dopo, preoccupata dalle lievi scosse che l’avevano distolta dal lavoro d’ufficio. La preoccupazione sparì una volta venuta a conoscenza della causa di tutto.
A quel punto, Barton aprì le scommesse su chi ne sarebbe uscito peggio e chi meglio e Wilson gli diede corda immediatamente.
 
“Per meglio, sono indeciso fra Thor e Anthea. Quei due sono ossi duri. Per peggio, forse Tony, lo vedo in difficoltà. Però la ragazza sembra avercela con Steve, quindi potrebbe essere Steve” ragionò Falcon, che aveva deciso di restarne fuori per autoconservazione.
“Però anche Barnes potrebbe uscirne peggio” rifletté Clint.
“Non direi da come si muove. Steve rischia di più, ne ha troppi addosso” rettificò Natasha, prima di aggiungere “Però Thor è su Tony, adesso.”
 
“Thor, piano!” fu difatti il grido di Stark, che aveva già cominciato a pensare ad un piano di ricostruzione della palestra prima e della sua armatura dopo. L’asgardiano gli stava smantellando l’armatura nuova, seppure non ancora pronta ad essere utilizzata sul campo di battaglia.
 
Nel frattempo, James e Anthea erano entrambi su Rogers, che stava rimpiangendo il non aver portato con sé lo scudo. Cercò in tutti i modi di gestire la situazione, ma poi scattò verso Thor e gli saltò addosso, buttandolo a terra, dando così la possibilità a Tony di scagliarsi contro Barnes e la Reyes - dopo che Fury aveva iniziato a chiamarla così per questioni di formalità, la cosa si era diffusa alla Tower ed era stata giustificata come un escamotage per farle fare l’abitudine.
Il piano di Steve non andò a buon fine, perché Stark si gettò su di lui invece, mentre Thor mostrava di avere tutta l’intenzione di ripagargli il colpo subito.
Forse passò un’ora buona, prima che la lotta sfrenata giungesse ai risvolti finali. Gli spettatori, dopo essersi divertiti a discapito dei compagni implicati in quel casino, avevano annunciato il loro ritiro.
Tony fu il primo ad abbandonare e fu un miracolo che la sua armatura fosse ancora abbastanza funzionante, anche se aveva cominciato a dare i numeri, lasciandogli chiazze scoperte qua e là sul corpo.
Invece, Rogers si ritrovò schiacciato sul pavimento, con Anthea sulla schiena. La ragazza gli teneva entrambe le braccia ben ancorate poco sotto le scapole con una sola mano - e un aiutino psichico -, mentre l’altra mano era ferma tra i suoi capelli, impegnata a premergli lo zigomo sinistro a terra.
“Dichiari la tua sconfitta, traditore?”
“Tu sei entrata nella mia testa senza permesso” tentò di giustificarsi il biondo, come ultima possibilità per ammorbidirla.
Barnes se ne tirò fuori e lanciò a Stark uno sguardo divertito, venendo sorprendentemente ricambiato. Non volevano perdersi la scena, che si fece ancora più interessante nel momento in cui il Capitano decise saggiamente di non continuare ad opporre resistenza.
 
“Andate avanti voi. Noi due dobbiamo risolvere un paio di questioni. Ci vediamo a cena.”
Anthea avrebbe voluto sembrare più minacciosa, ma un sorriso le increspò le labbra, perché tutto quello la divertiva parecchio.
 
“Buona fortuna, Rogers” fu il saluto di commiato da parte di Stark, mentre James si limitò a rivolgere alla ragazza uno sguardo che diceva chiaramente ‘non fargli troppo male’.
 
“Se mi lasciate solo, avrete la mia morte sulla coscienza” gridò Rogers ai due, ma fu bellamente ignorato.
“Thor, almeno tu” tentò, come ultima spiaggia.
“Mi dispiace, Steve, ma è bene che tu risponda delle tue azioni.”
E cercò di sembrare serio, Thor, ma fallì miseramente.
 
Suo malgrado, Anthea rise, anche se non allentò la presa sul super soldato.
“Mi stai facendo male” protestò lui, che cominciava a percepire fastidiosi formicolii lungo le braccia costrette dietro la schiena, senza contare le stilettate provenienti dallo zigomo sinistro pressato a terra. Lei era ben consapevole di averlo colpito proprio lì durante l’azzuffata e gli sarebbe uscito un bel livido.
“Vuoi ancora farmela pagare, tesoro?” domandò la ragazza e il modo in cui pronunciò tesoro gli provocò un brivido lungo l’intera colonna vertebrale.
“No, mi arrendo” bisbigliò lui, pentito di averla liquidata con fin troppa tranquillità prima. Sapeva essere vendicativa, a volte.
“E io che volevo solo qualche insegnamento sul corpo a corpo. Posso ancora averlo, vero?” gli chiese.
“Sì, ma solo se mi lasci andare. Non è che stia proprio comodo.”
Anthea sbuffò con finto fastidio e mollò la presa, scostandosi da sopra di lui. Steve si mise seduto e passò una mano dietro il collo indolenzito, mentre lei si accovacciava davanti a lui, in modo da portare i loro occhi alla medesima altezza. Gli prese il mento fra le dita, studiando la chiazza violacea già visibile sotto l’occhio sinistro, e poi lo lasciò andare.
“Tu e Bucky eravate d’accordo. Mi avete colpito nello stesso punto” le fece presente il biondo.
“Accusa infondata. È stato un caso fortuito. E poi, al massimo, è lui che ha la mano pesante.”
“E di metallo” aggiunse lui, corrugando appena la fronte quando la compagna gli premette un dito sullo zigomo tumefatto.
“Non infierire” la riprese e le scostò il braccio, per poi fulminarla con lo sguardo.
Anthea rise e si spinse in piedi. Steve la imitò poco dopo.
 
“Perché vuoi così tanto degli insegnamenti da me?”
 
“Come ti ho detto, mi piace il tuo stile e penso che possa rendermi più forte e preparata in caso non potessi usare i miei poteri. E parlando di combattimenti...”
La giovane esitò.
“Non è che ti andrebbe di accompagnarmi fra un paio di giorni ad Asgard?”
Rogers rimase abbastanza interdetto e questo portò la ragazza a spiegarsi meglio.
“Dovrò affrontare Andras in un combattimento. Fa parte del rito di passaggio. È un modo per dimostrare al popolo che il nuovo re ha la forza necessaria per proteggerli. Lui si sarà allenato molto in questi mesi. Dopo il combattimento, gli passerò ufficialmente la corona. In meno di dodici ore sarà tutto finito. So che qui c’è ancora un casino a causa l’Hydra e che forse non ti lasceranno partire ma... insomma, diciamo che potrei aver bisogno di supporto morale?
“È una domanda o un’affermazione?”
L’espressione di Steve si era fatta più morbida.
“Un’affermazione?
Lui sollevò un sopracciglio e Anthea sospirò.
“Un’affermazione.”
 
“Se glielo chiederai tu, non credo che Ross avrà molto da ridere.”
Il biondo le avvolse un braccio attorno le spalle e le regalò un sorriso.
“Per un solo giorno, gli altri se la caveranno benissimo anche senza di me. Inoltre, non mi dispiace prendermi una pausa da Tony.”
 
Anthea sapeva che Steve stava semplicemente smorzando la tensione che lei aveva ostentato. L’avrebbe seguita per sostenerla in un momento importante e le era bastato ammettere di volerlo accanto.
 
“Muoviamoci. Gli altri saranno preoccupati per te” lo prese in giro, dopo qualche attimo di silenzio.
 
“Hai assolutamente ragione.”
 
 
 
 
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Asgard
Città di Oneiro
 
Gli sembrò essere passata un’eternità dalla prima volta in cui era arrivato lì, assieme a Clint e Sam. Quella volta le cose non erano filate troppo lisce e l’accoglienza non era stata delle migliori, anzi, se l’erano vista abbastanza brutta. La tranquillità di Anthea gli faceva ben sperare che la situazione adesso fosse diversa, anche se in fin dei conti era lì per lei e per nient’altro, quindi avrebbe anche potuto sopportare le occhiate poco gentili che gli sarebbero state rivolte.
Il punto di arrivo era stato lo stesso della volta precedente, lontano dal cuore della città, circondato da quella distesa di particolari alberi nodosi e dalle chiome caratterizzate da colori tenui.
 
“Dobbiamo camminare un po’, giusto?” le chiese, ricordando il tragitto che li aveva portati alla città.
Lei annuì e gli rivolse uno sguardo indagatorio.
“Non devi essere nervoso. Capitan America può ritenersi il benvenuto adesso.”
“Capitan America dici? È per questo che hai voluto che indossassi l’uniforme?”
Tony aveva gentilmente rimesso a nuovo l’uniforme che Steve aveva ridotto ad una straccio bruciacchiato durante la battaglia contro Teschio Rosso. Ovviamente, l’inventore aveva specificato che quella divisa era ormai obsoleta e che stava lavorando su qualcos’altro.
“L’uniforme è per rendere le cose un po’ più ufficiali. Tu fidati di me e non preoccuparti.”
“Non sono preoccupato. Sono solo anni luce lontano da casa e non ho portato lo scudo e nemmeno l’elmetto.”
Anthea rise e gli spiattellò una mano sul centro della schiena con una certa enfasi.
“Tranquillo. Hai la testa dura.”
 
Quando imboccarono la strada costituita da ciottoli bianchi e levigati, ebbero l’impressione che la città fosse praticamente deserta e, addentrandosi, quell’impressione divenne un dato di fatto.
“Saranno già tutti riuniti nel luogo dove si terrà la cerimonia” spiegò l’oneiriana, mentre procedevano verso il palazzo.
Una volta all’interno della grande struttura, sede del Consiglio, del sovrano e di coloro incaricati di guidare l’esercito, non dovettero fare molti altri passi, prima di venir accolti.
 
“Vi ho sentito arrivare. È un piacere rivederti, Anthea. Ed è un piacere rivedere anche te, Steve.”
Damastis strinse l’oneiriana in un abbraccio e fece lo stesso con il super soldato, che fu colto alla sprovvista da quel gesto sentito.
 
“C’è ancora un po’ di tempo, prima che tutto abbia inizio. Potete attendere all’interno del palazzo. Verrò ad avvisarvi quando sarà il momento.”
Anthea annuì.
“Grazie, Damastis. Come vanno le cose qui?”
“Stiamo bene, mia cara. Sia il popolo sia il Consiglio ci hanno messo un po’ di tempo a digerire il grande e ormai imminente cambiamento. Tuttavia, in questi mesi Andras è riuscito a dare prova di essere degno di fiducia.”
 
“Come sta lui?”
 
“Sto bene, grazie per il tuo sincero interessamento” rispose una voce alle spalle dell’oneiriana, che si voltò nonostante sapesse benissimo chi avesse parlato.
“Sai, con te faccio sempre fatica a capire qual è linea che separa la serietà dal sarcasmo.”
“Ero serio, nonostante tu possa aver creduto il contrario” fu l’istantanea replica che ricevette indietro.
Anthea poté così sincerarsi del fatto che Andras stesse effettivamente benissimo. Era in ottima forma e non sembrava affatto teso, anzi, emanava un’aura di sicurezza. Era pronto e lei non poteva che esserne contenta.
Una cosa che però la stupì abbastanza, fu vedere Andras andare a stringere la mano al Capitano, che ricambiò il gesto senza indugi. Prima di rompere il contatto, i due si scambiarono anche un cenno del capo. Quelle erano certamente le conseguenze di aver condiviso il campo di battaglia, sul quale si finiva per affidarsi gli uni agli altri.
Il futuro re strinse poi la mano anche a lei, conservando una formalità impeccabile, nonostante il loro legame fosse diventato più stretto dopo la notte in cui Anthea gli aveva confessato di volergli passare il comando. Il saluto formale, però, fu accompagnato da uno sguardo intenso e da un sorriso che trasudava una certa emozione, cosa che poco si addiceva ad Andras, ma che non stonava poi troppo in quel momento.
 
“Vi lascio, figlioli. Ho delle cose da sistemare prima che tutto inizi” si intromise Damastis e li salutò senza indugiare oltre.
 
“Allora è quasi giunto il momento” disse Anthea, rivolta ad Andras.
Probabilmente era più tesa lei di quanto lo fosse lui e faticava a spiegarsi come diavolo potesse essere possibile.
“Ripensamenti?” le chiese l’oneiriano, più per correttezza che per altro, dato che la risposta era già ben nota ad entrambi.
“No, nessuno. Andrò fino in fondo.”
Su quel punto, la giovane non aveva decisamente alcun dubbio e mai ne aveva avuti. Andras si lasciò scappare una mezza risata.
“Sai, speravo di averti instillato almeno un sottile dubbio con quel bacio, ma a quanto pare mi sbagliavo.”
Lui sorrise mestamente, mentre le spalle di Anthea si irrigidivano con uno spasimo incontrollato.
Era sempre stato un tipo orgoglioso, Andras, e lei sapeva che quella era la sua piccola rivincita per essere stato respinto tempo prima. Un colpo basso e forse un pochino lo stava odiando adesso.
 
“È il momento che raggiunga la stanza della meditazione. A più tardi, Anthea. Steve Rogers.”
 
La ragazza lo osservò andare via, senza nemmeno riuscire a replicare.
“Che ne dici se raggiungiamo le mie stanze?” propose allora e rivolse un mezzo sguardo al super soldato, incontrando a malapena i suoi occhi. E fece effettivamente per muoversi, ma lui la afferrò per un braccio, bloccandola sul posto.
Nei brevissimi secondi successivi, Anthea pensò a tutti i possibili modi per giustificare il fatto di aver tenuto nascosto quel non così importante incidente. Poi il cervello le andò praticamente in tilt e, nel momento in cui si voltò per guardarlo dritto in faccia, pensò bene di prendergli, con uno slancio improvviso, il volto fra le mani e di baciarlo. Finì per spostare le dita fra i suoi capelli e lo invitò a chinarsi più in avanti, per poter assaporare meglio con la punta della lingua l’interno della sua bocca. Si divise da lui con uno schiocco secco e okay, lo ammetteva, era un tantino andata nel panico.
Le punte delle orecchie del biondo sembravano andare a fuoco, ma la sua espressione era ben lontana dall’essere imbarazzata.
 
“E questo per cos’era?” le chiese, a mezza voce.
 
“Era solo per ricordarti che ti amo tantissimo. Pronto ad andare adesso?”
Lo prese per un polso e lo esortò a muoversi, sfruttando il fatto che lui non stesse opponendo alcuna resistenza.
Passarono un paio di minuti di quieto silenzio, mentre percorrevano i lunghi corridoi.
 
“Hai baciato anche lui così?”
 
L’oneiriana quasi si strozzò con la sua stessa saliva e si rivolse al biondo con una espressione quasi indignata.
“No, certo che no! È lui che ha baciato me! Quindi no, assolutamente no e perché diavolo stai ridendo adesso?”
 
“Non ti ho visto così agitata nemmeno durante la battaglia contro Teschio Rosso.”
 
Okay, adesso stava odiando anche Capitan America e il suo stupido sorriso divertito.
“Perdonami se ho temuto che la cosa potesse ferirti. Ma visto che invece ti diverte tanto, posso dirti che Andras sa il fatto suo, quando si tratta di baciare” gli spiattellò in faccia, piccata, nonostante non lo pensasse sul serio, o almeno, non è che avesse avuto la possibilità di verificarlo fino in fondo.
 
“Questo mi ferisce.”
 
“Te la sei cercata, Idio-”
 
Stavolta fu Anthea a ritrovarsi privata dell’ossigeno, mentre Steve le infilava la lingua in bocca senza troppa gentilezza. Quella reazione era assolutamente inaspettata, tuttavia lei non aveva di che lamentarsi, tutt’altro.
“Potrei averne un altro così? Devo avere a disposizione più dati per fare un confronto imparziale.”
La giovane cercò di nuovo la bocca del biondo, ma lui le diede un colpetto sulla fronte con l’indice destro e si raddrizzò.
“Scordatelo.”
“Glaciale. Adesso sono io ad essere offesa.”
Lo punzecchiò su un fianco e in cambio lui le pinzò il naso fra pollice e indice.
“Si ricomponga, altezza” le sussurrò ad un soffio dal viso, guardandola dritta negli occhi. Poi mollò la presa e si allontanò di nuovo, tornado a muoversi ed esortandola a fare lo stesso.
“Ti odio.”
“Non avevi detto di amarmi tantissimo?” la istigò ancora, senza però né fermarsi né voltarsi a guardarla.
 
“Ritiro tutto.”
 
Steve si bloccò sul posto e lei gli andò a sbattere contro la schiena.
Anthea si massaggiò il naso dolente, per poi sollevare lo sguardo ed incontrare così quello del biondo, che adesso la stava guardando con il sopracciglio destro parecchio arcuato.
“Smettila di guardarmi così. Non funzionerà...”
E ci provò davvero a non cedere, ma il cervello l’aveva abbandonata da un po’ ormai.
“Dannazione. Mi dispiace e ritiro l’affermazione di ritirare tutto, okay?” sbottò alla fine, tutto d’un fiato.
E lui scoppiò a ridere, ricevendo per questo ulteriore affronto un’occhiataccia infervorata.
 
“Ti amo anche io, ragazza sconclusionata.”
 
L’espressione contrariata della giovane andò in frantumi in un secondo. Okay, il cervello era abbastanza fuori fase, ma era certa di aver sentito quello che aveva sentito.
Quanto tempo era passato dall’ultima volta in cui lui le aveva detto quelle due semplici parole?
Tre anni? Forse di più?
Non che lei ci avesse fatto caso o ci avesse dato troppo peso. Tuttavia, adesso che le aveva dette, qualcosa le si era smosso dentro con una certa intensità. Portarlo lì, lontano dai problemi e dai casini sulla Terra, si stava rivelando una scelta decisamente azzeccata.
 
“Devo affrontare un combattimento fra poco. Smettila di distrarmi” lo rimproverò, ma il successivo sorriso a trentadue denti, con tanto di illuminarsi delle iridi, non ebbe bisogno di essere affiancato da parole che esprimessero la sua eccitazione.
 
“Agli ordini” rispose lui, ricambiando il sorriso.
 
“Quindi sono io il capo qui?”
 
“Ancora per poco a quanto sembra.”
 
“Giusto.”
 
Una volta raggiunta la camera, passarono il tempo a loro disposizione semplicemente parlando. Steve le chiese diverse cose su Oneiro e i viaggi fatti per ritrovare il popolo disperso e Anthea fu contenta di raccontargli delle avventure nello spazio.
Gli raccontò, in particolare, lo scontro che aveva avuto con un tizio che si faceva chiamare il Gran Maestro, che aveva come hobby quello di far prigioniere creature provenienti da ogni parte dell’universo e di costringerle a combattere per intrattenimento. E la cosa assurda era che c’era un altro tizio, su un altro pianeta, che assomigliava parecchio al Gran Maestro, ed era il cosiddetto Collezionista. Quest’ultimo aveva tentato di farla diventare parte della collezione di oggetti ed esseri rari, in cambio della liberazione di alcuni oneiriani che teneva con sé come fossero cimeli. Ovviamente, lei non aveva acconsentito e, dopo aver fatto un po’ di casino, aveva portato via gli oneiriani da lì.
 
“Adesso che ci penso, dal Collezionista ho percepito un potere simile a quello emanato dal Tesseract e dallo Scettro di Loki. Forse sono armi forgiate dalla stessa persona.”
 
La giovane ci rifletté un attimo sopra, ma poi lasciò stare e, presa dai ricordi, rivelò al super soldato che girare per la Galassia era tutt’altro che sicuro, perché si potevano incontrare navi spaziali piene zeppe di criminali e mercenari. Fra i più temuti c’erano i Ravagers, che fortunatamente era riuscita sempre ad evitare.
Gli raccontò di quando era arrivata su un pianeta in cui imperversava una battaglia violenta e di aver incontrato lì una donna molto potente, che le aveva detto di provenire dalla Terra.
“Anche lei ha il titolo di Capitano” ricordò, ma il nome della guerriera le sfuggiva, dato che non avevano di certo avuto una tranquilla conversazione e si erano limitate a non intralciarsi, mentre combattevano per fini diversi.
Steve le chiese come fosse possibile spostarsi velocemente da un pianeta all’altro e Anthea gli disse che c’erano come dei punti di salto che potevano spararti da una parte all’altra della Galassia, con l’unico effetto collaterale di rovesciarti lo stomaco. Gli spiegò che i primi oneiriani che aveva trovato si erano rifugiati nei Nove Regni e loro l’avevano aiutata a muoversi agevolmente nello spazio, grazie alle loro conoscenze.
 
“La Galassia è davvero immensa e a volte spaventosa. Ho sentito parlare di un certo Thanos. Pare che sia molto temuto e che compia stragi che dimezzano la popolazione del pianeta che attacca.”
 
A quelle parole, Steve provò una stretta allo stomaco.
“Dici che c’è la possibilità che arrivi sulla Terra?”
 
“Non saprei. Ero molto lontana dalla Terra e anche da Asgard, quando ho sentito queste cose. Sembra che uno dei suoi sottoposti sia stato fermato da un gruppo di persone che si fanno chiamare i Guardiani della Galassia. Quindi credo che ci sia già chi lo sta combattendo.”
 
“Noi Avengers abbiamo già fermato un’invasione aliena tre anni fa. Guidati da Loki, questi Chitauri sono arrivati sulla Terra grazie al Tesseract.”
 
“Hai detto Chitauri?”
 
Un sommesso bussare alla porta interruppe il loro dialogo. Damastis entrò nella stanza e sorrise con fare gentile, come faceva ogni volta.
“È arrivato il momento, mia cara. Preparati. Io accompagnerò il nostro ospite d’eccezione all’arena.”
 
Anthea annuì e rivolse a Steve un ultimo sguardo, prima di lasciarlo andare con l’anziano.
Damastis condusse il Capitano al di fuori del palazzo e poi verso la foresta che costeggiava la città. Gli alberi erano alti, dai grossi rami nodosi e dalle foglie di un verde brillante. La leggera brezza che ne scuoteva le fronde creava il delicato suono di un sussurro.
 
“Non l’ho mai vista così viva come lo è adesso e non posso che esserne felice. Stai facendo tanto per lei e ti ringrazio per questo.”
Steve scosse il capo.
“È il contrario, mi creda.”
“Sono davvero costernato per quanto successo con Antares. Avrei dovuto capirlo, ma io stesso sono caduto vittima del suo imbroglio.”
“L’importante è essere riusciti a risolvere le cose” convenne il giovane, convinto.
 
La foresta si diradò, fino ad essere sostituita da un vasto spazio pianeggiante circondato da rocce che si innalzavano dal terreno, formando grandinate sopra le quali gli oneiriani si erano raccolti, in attesa.
Steve si sentì parecchi sguardi addosso, mentre avanzava al fianco di Damastis verso le gradinate. Gli unici occhi che il biondo incrociò furono quelli chiarissimi di Andras, fermo al centro dello spiazzo dal manto erboso.
Il futuro re indossava solo dei pantaloni bianchi. Era a piedi nudi e i capelli nerissimi erano raccolti in una corta coda di cavallo. La mascella dura e il portamento fiero gli davano un’aria temibile. L’addome, le braccia e il petto scolpiti dai duri allenamenti erano solcati da gocce di sudore, segno che si era riscaldato a dovere. Solo quando spostò l’attenzione da Andras, Steve si accorse dei cenni del capo che gli oneiriani gli stavano rivolgendo. Seguì Damastis verso una postazione in alto, in una frazione delle gradinate rocciose.
 
“Tutti loro sanno chi sei. Ti conoscono come colui che ha ucciso Antares e che ha quindi fatto cessare il suo influsso. Anthea ha voluto condividere con loro gli accadimenti” spiegò l’anziano.
 
Il biondo si strinse con la mano sinistra il braccio destro, pensando che riportava ancora i segni, seppur leggeri, di quello scontro. Quindi era questo il motivo per cui Anthea gli aveva detto che era ormai il benvenuto lì.
Un’acclamazione sentita lo strappò dai pensieri e ne intercettò subito la fonte.
Anthea stava avanzando verso Andras. Anche lei aveva indosso solo dei pantaloni, ma neri e stretti attorno le caviglie. Fasciature del medesimo colore le coprivano il seno e arrivavano fino allo sterno. I suoi capelli erano intrecciati a partire dall’attaccatura della fronte e l’estremità della treccia sfiorava la base del collo. Non ruppe il contatto visivo con Andras nemmeno un istante, come segno di rispetto, e si fermò solo quando fu ad un paio di passi di distanza da lui.
 
“Affrontami senza riserve, Andras” lo invitò la giovane e lui annuì, mettendo su un’espressione di sfida.
 
Era giunto ormai il tramonto della luce diurna e il cielo si era colorato di un intenso arancione.
La tensione dovuta all’attesa si infranse, non appena i due oneiriani si mossero l’una verso l’altro, collidendo. Si scambiarono scoccate e parate rapide e decise e il combattimento si fece subito serrato. I due contendenti sembravano essere in perfetto equilibrio e la loro concentrazione era decisamente sopra le righe.
Rogers osservò i movimenti di Anthea e il modo in cui i suoi muscoli affusolati si tendevano al massimo, prima di essere rilasciati solo per un brevissimo istante. Non aveva mai avuto modo di guardarla con attenzione mentre affrontava uno scontro. Si muoveva con confidenza, senza temere la possibilità di dover incassare dei colpi, e sapeva disfare le difese dell’avversario un po’ alla volta, fino ad aprirsi una breccia.
Lei aveva detto di voler imparare da lui e, doveva ammetterlo, si sarebbe divertito ad affinare quello stile, anche se poi la cosa avrebbe potuto ritorcerglisi contro.
 
Anthea affondò un pugno nell’addome di Andras, che reagì spingendola indietro con un’ondata di poteri psichici, ma lei rimase in piedi e un mezzo sorriso le piegò le labbra.
Intorno alla ragazza iniziarono a prendere forma spuntoni di ghiaccio e, una volta divenuti abbastanza grandi, le si scagliarono contro. Non le rimase altra scelta che generare attorno a sé una barriera di fiamme, che presero la forma di una bolla oltre la quale il ghiaccio non riuscì a penetrare. Si generò un fitto vapore, tanto che gli spettatori non riuscirono più a vedere gli sfidanti.
Dal fumo ne uscì prima Anthea. Un rivolo di sangue era colato dalla spalla, dove era conficcato un ago di ghiaccio, che lei rimosse con un gesto secco. Il terreno si spaccò sotto i suoi piedi e lei affondò fino all’altezza del ginocchio e poi la terra si richiuse, bloccandola sul posto.
Andras stava mostrando tutte le abilità in suo possesso. Era forte nel corpo a corpo, possedeva un’ottima padronanza dei poteri psichici e usava gli elementi intorno a sé con facilità.
L’oneiriano uscì dal fumo e le arrivò di fronte, rapido e deciso. La ragazza poté solo parare il colpo con le braccia incrociate dinanzi al viso, mentre faceva forza sulle gambe per liberarsi dalla morsa di roccia.
Andras, però, non si limitò a provare ad affondare un colpo. Le afferrò entrambi i polsi e, dai punti di contatto, la pelle di Anthea iniziò ad assumere un colorito bluastro. Quella era l’arma più devastante in possesso del futuro sovrano e rendeva il combattimento ravvicinato con lui pericoloso e poco consigliato.
Quando l’intero avambraccio assunse un colore cianotico, la giovane lasciò il via libera al suo potere, generando un’onda d’urto che fece sbalzare via di diversi metri Andras e i cui echi raggiunsero le gradinate di roccia.
 
Si levò qualche grido di sorpresa e Steve, di riflesso, pose una mano dietro la schiena di Damastis, avendo notato il suo leggero barcollare.
“Non ho più l’età per certe cose” ammise l’anziano, rivolgendogli un sorriso grato.
Un paio di piccoli oneiriani lì accanto si erano fatti prendere dall’emozione e parlavano di come anche loro sarebbero diventati forti. I loro grandi occhi chiari erano illuminati da genuina ammirazione ed erano in trepidazione.
 
Anthea aveva momentaneamente perso sensibilità dalla punta delle dita fino al gomito e utilizzò l’affinità al fuoco per riscaldare gradualmente la pelle cianotica, mentre osservava Andras rimettersi in piedi e tornare verso di lei a grandi falcate. Le stava rivolgendo un ghigno soddisfatto, segno che apprezzava il fatto di averla spinta a ricorrere al suo potere per contrattaccare.
Si scontrarono di nuovo, combattendo sia in modo ravvicinato sia a distanza, tramite le loro capacità psichiche, dando vita ad uno spettacolare combattimento, attraverso il quale il popolo ebbe la prova della forza di colui che li avrebbe guidati in futuro.
Quando calò la penombra, gli anziani del Consiglio decretarono la fine del combattimento.
 
Andras e Anthea si ritrovarono al centro dello spiazzo e si strinsero la mano.
“Sei forte, Andras, e puoi diventarlo ancora di più, ne sono certa. Sarai in grado di proteggerli” gli disse sinceramente la ragazza.
L’oneiriano le sorrise, grato del fatto che lei credesse in lui e che lo ritenesse degno di prendere il comando.
 
La penombra si fece più fitta ed era rischiarata solo dalla luce lontana della miriade di stelle che punteggiavano il cielo.
Rogers notò che gli oneiriani sulle gradinate stavano generando piccole fiammelle nei palmi uniti delle loro mani. Li osservò far lievitare quelle stesse fiammelle danzanti, che andarono a formare un ampio cerchio luminoso attorno l’arena.
Faceva un certo effetto, il super soldato dovette ammetterlo.
Le fiammelle creavano sui due oneiriani al centro dell’arena un gioco intricato di luci e ombre.
 
Andras porse le mani ad Anthea, con i palmi rivolti verso l’alto. La giovane vi poggiò le proprie mani e si strinsero a vicenda i polsi, costruendo un solido contatto.
 
“Un ciclo si chiude, affinché se ne possa aprire uno nuovo” furono le prime parole che pronunciò la giovane e che fecero eco nel silenzio, interrotto solo dalla leggera brezza che faceva frusciare le folte chiome degli alberi.
Al centro della schiena nuda della ragazza prese gradualmente forma un anello di luce. Sembrava quasi che la sua pelle fosse divenuta improvvisamente incandescente.
 
“Nelle tue mani trasferisco il potere di governare e il dovere di proteggere.”
 
L’anello sulla schiena iniziò a sfaldarsi, formando piccole gocce di luce che, scivolando verso il basso, convergevano sulla linea definita dalla colonna vertebrale.
Contemporaneamente, Andras si era fatto più teso e l’apice di uno stesso anello luminoso cominciò a prendere forma sulla sua schiena.
 
“Qui, dinanzi agli occhi di tutti, prometti assoluta lealtà e assoluta dedizione.”
 
“Prometto assoluta lealtà e assoluta dedizione.”
L’anello luminoso sulla schiena di Andras era ormai quasi completo, mentre quello di Anthea era quasi del tutto scomparso.
 
“Tieni fece alla promessa e da coloro che governerai e proteggerai, riceverai pari ed assoluta lealtà e pari ed assoluta dedizione.”
Anthea, suo malgrado, sorrise. Avrebbe dovuto rimanere seria, ma ammise che una certa emozione iniziava a scuoterla nel profondo.
L’anello su di lui era completo, mentre su di lei non era rimasta nemmeno una piccola scintilla di luce.
Era fatta.
La giovane sciolse il contatto con Andras e si rivolse direttamente agli oneiriani.
“Accogliete il nuovo sovrano e accompagnatelo durante il suo percorso. Siate la sua forza e abbiate fiducia, così come ne ho io.”
 
Gli oneiriani acclamarono il nuovo sovrano con sincero entusiasmo.
 
“Va’ adesso, ti aspettano.”
Andras, in uno slancio di pura emozione, strinse Anthea in un lungo e sentito abbraccio.
“Non ti deluderò” le sussurrò in un orecchio, prima di lasciarla andare.
“Ne sono certa, altezza.”
 
Dopo tre anni, Anthea aveva portato a termine il compito tramandatole da suo padre.
Distratta da quella nuova sensazione di leggerezza, non si accorse subito dei due oneiriani che le si erano avvicinati. Erano i combattenti che l’avevano affiancata durante molti viaggi in giro per la Galassia e con cui si era spesso allenata, per poter diventare più forte. Erano perfino venuti sulla Terra con Andras e l’avevano aiutata a riprendersi, dopo che Antares le aveva infilato la spada nello stomaco.
Hera e Loukas erano una coppia dall’affiatamento invidiabile e il loro legame era fra i più solidi che avesse mai percepito. Avevano entrambi i capelli castano scuro. Gli occhi di lei erano celesti, mentre quelli di lui di un verde chiarissimo. Mentre lui stava indossando un’armatura argenta, lei era coperta da un lungo vestito violetto, che metteva in risalto le curve del suo corpo allenato ma sinuoso.
Hera l’abbraccio con slancio.
“Mi mancherai, Annie. Verrai a trovarci?”
Anthea ricambiò l’abbraccio con la stessa intensità.
“Non sparirò, promesso. Vi affido Andras. Vi conoscete da tanti anni, quindi nessuno meglio di voi potrà aiutarlo a gestire tutta questa nuova situazione.”
“Non preoccuparti, ci penseremo noi a tenerlo d’occhio” la rassicurò Loukas, stringendola a sua volta in un abbraccio.
“E a fargli passare la delusione di essere stato respinto” aggiunse Hera e le fece l’occhiolino.
 
Anthea sorrise e spostò lo sguardo verso le gradinate. Fece cenno ai due oneiriani di seguirla e raggiunse la causa della suddetta delusione.
“Vuoi presentarcelo ufficialmente?”
Hera sembrava su di giri e Anthea annuì, ridendo sommessamente.
 
Nell’avanzare fra la folla, incrociarono Damastis.
“Lo lascio a te. Il Consiglio richiede la mia presenza.”
“Grazie Damastis. Per tutto quanto.”
“È stato un piacere, mia cara ragazza.”
 
Lasciato andare l’anziano, i tre oneiriani arrivarono finalmente alla meta designata e Anthea prese il compito di fare le presentazioni.
 
“Steve, loro sono Hera e Loukas. Hera, Loukas, lui è Steve Rogers.”
 
Rogers scoccò prima una veloce occhiata in direzione di Anthea e poi si concentrò sulle persone che aveva di fronte. Sorrise con fare amichevole e, guardandoli più attentamente, si rese conto che quelle non erano facce del tutto nuove.
“Siete venuti sulla Terra con Andras, giusto?”
 
“Esatto. Devo ammettere che la tua squadra è davvero una forza. Sembra confusionaria, ma invece segue degli schemi ben studiati, dico bene?”
Hera era sempre stata curiosa e non si fece scrupoli a chiedere qualsiasi cosa le passasse per la testa.
 
“Schemi studiati, dici? Qualcosa di simile, sì” fu la vaga risposta del super soldato, che si ritrovò a pensare a quanto gli Avengers fossero bravi ad improvvisare nelle situazioni più disperate.
 
“E a proposito, Annie ci ha raccontato un po’ della situazione sulla Terra. Come stanno andando le cose?” chiese ancora l’oneiriana dagli occhi verdi, mostrando sincero interesse.
 
“Diciamo che potrebbero andare peggio. È un periodo...”
Steve esitò.
“Complicato. Ma risolveremo le cose presto” concluse Anthea per lui e gli strinse un braccio, guadagnandosi la sua attenzione.
 
Hera scambiò uno sguardo con Loukas, per condividere con lui il pensiero riguardo la chimica fra la loro amica e l’umano coraggioso e dagli occhi mozzafiato. Loukas arricciò il naso nel sentire risuonare nella testa quell’ultima parte di pensiero espresso dalla sua metà e lei gli fece l’occhiolino.
 
“Dove vanno tutti?” chiese Steve a quel punto, notando che gli oneiriani si stavano spostando in massa, scendendo dalla gradinate.
 
“Verso il palazzo. Ci saranno festeggiamenti per l’intera notte. Voi due rimarrete?”
Fu Loukas a parlare stavolta.
 
“Rimarremo il tempo necessario per i saluti e poi torneremo sulla Terra. Diciamo che abbiamo una specie di coprifuoco da rispettare e devo riportarlo indietro per evitargli guai” spiegò Anthea, senza entrare nei dettagli. A Rogers era stato concesso il permesso di lasciare la Tower per venire su Asgard, tuttavia Ross aveva preteso il rientro del super soldato entro la fine della giornata.
 
Un oneiriano dall’armatura lucente si avvicinò al Capitano e, prendendolo quasi alla sprovvista, gli strinse la mano in un gesto di stima. Poi fece lo stesso con Anthea, ma con fare molto più amichevole.
“Sono felice che tu abbia trovato la tua strada” le disse semplicemente e la giovane lo ringraziò.
Kyros fu imitato da altri oneiriani in divisa che passarono di lì, per poi seguire il flusso diretto verso la città.
 
“Lo hai reso famoso, raccontando ciò che ha fatto” constatò Hera, rivolta ad Anthea.
 
In quel momento, una giovane oneiriana dai lunghissimi capelli neri e avvolta da un leggero vestito bianco, volle anche lei stringere la mano al super soldato, nonostante fosse visibilmente impacciata. Sue coetanee fecero lo stesso poco dopo e Steve constatò di non essere troppo a suo agio di fronte tutte quelle attenzioni.
 
“Mi ruba addirittura la scena” scherzò la giovane ex sovrana, anche se sapeva bene che il saluto definitivo da parte degli oneiriani lo avrebbe ricevuto una volta tornata in città, dove tutti si stavano radunando.
“Ti ruberebbe la scena anche se non avesse fermato Antares, credimi” volle farle presente Hera, ma glielo disse in un sussurro che solo la giovane mezzosangue poté udire.
Anthea, suo malgrado, rise.
 
Le fiammelle iniziarono a spegnersi una dopo l’altra e l’arena tornò nel buio.
Nella foresta era possibile scorgere tante piccole fiamme e, da sopra le gradinate, parevano piccole lucciole infuocate.
Il super soldato si guardò intorno. Ora che la folla si era diradata, la visuale sul paesaggio che lo circondava era completamente libera. Se spingeva lo sguardo lontano, poteva scorgere un lunghissimo ponte luminescente che pareva essere sospeso nel vuoto. Non troppo lontano era visibile una struttura che aveva la forma simile ad una punta di freccia, circondata da un alone di luce che fendeva il buio della notte. Se si concentrava abbastanza, poteva sentire lo scrosciare impetuoso di Vakuum, la cui collocazione non era troppo distante da lì.
Il giovane ripensò al fatto di essere anni luce lontano dalla Terra, su un altro pianeta. Ci era arrivato attraverso un ponte interdimensionale che aveva già percorso ben cinque volte. Aveva quasi iniziato a farci l’abitudine. Aver incontrato Loki e Thor, aver visto mostri venire fuori da un varco aperto nel cielo e averli combattuti, tutto questo era stato parecchio scombussolante e tante certezze erano crollate già allora. Praticamente si era svegliato dopo settant’anni e, senza nemmeno essere riuscito a prendere consapevolezza dei cambiamenti a cui era andata in contro l’umanità, gli era stata sbattuta in faccia l’evidenza dell’esistenza della vita al di fuori dei confini della Terra. E se Steve sapeva bene che la Terra era di per sé era incasinata - perché lo era - con i suoi conflitti interni, non riusciva nemmeno ad immaginare quanto potesse essere incasinata un’intera Galassia e ciò che gli aveva raccontato Anthea non faceva che supportare quell’idea.
La cosa che più lo spaventava - sì, lo spaventava - era sapere dell’esistenza di strade capaci di collegare mondi fra loro lontanissimi. Il Bifrost, il Tesseract e questi punti di salto rappresentavano un ingresso gratuito, rapido e impossibile da sbarrare, nell’atmosfera della Terra. Si chiese se gli Avengers sarebbero stati in grado di proteggere l’umanità da minacce di cui non erano nemmeno lontanamente a conoscenza. L’unica cosa certa era che avrebbero lottato con tutte le loro forza e l’avrebbero fatto insieme, perché insieme potevano vincere, mentre divisi avrebbero perso già prima di iniziare a combattere.
E se avessero perso, avrebbero fatto anche quello insieme.
 
Un tocco leggero sulla spalla lo riscosse dai pensieri, riproiettando la mente al presente.
“Tutto okay?”
Anthea lo stava guardando con una certa preoccupazione. Steve si accorse che Hera e Loukas non c’erano più e con loro erano andati via anche tutti gli altri oneiriani.
“Scusami, il panorama mi ha distratto.”
‘Certo, il panorama’ fu il pensiero della ragazza, che però decise di accontentarsi della risposta ricevuta.
“Vogliamo muoverci anche noi verso la città? Il tempo a nostra disposizione è quasi esaurito.”
 
“Ti seguo, Annie.”
 
 
 
Prima di unirsi alla festa, tornarono al palazzo. Anthea fece un veloce bagno ed indossò il leggero vestito nero, dalle sottili spalline e l’ampio spacco sulla schiena, con cui era arrivata su Asgard. Era di fattura oneiriana e quindi tendeva ad accostarsi al corpo, in modo tale da apparire come una seconda pelle.
 
“È simbolico vero? Il nero e il bianco. Anche durante il combattimento. E prima ho intravisto Andras vestito di bianco.”
 
“Sì, è simbolico. Fine ed inizio. In ogni caso, sono pronta. Andiamo?”
 
“Okay. Comunque, i vestiti qui non lasciano molto all’immaginazione” disse con fare abbastanza disinteressato il super soldato, come se si fosse limitato a fare un’osservazione poco utile.
“All’inizio non mi sentivo molto a mio agio, ma poi diventa abitudine. Praticamente qui puoi andare in giro mezzo nudo senza scandalizzare nessuno.”
Anthea sollevò un angolo della bocca e gli rivolse un’occhiata piena di sottintesi.
“Assolutamente no” fu la categorica risposta che lei ricevette.
“Non ti agitare, soldato. Ti stavo solo invitando a provare le abitudini locali.”
Steve roteo gli occhi, ma gli scappò comunque uno sbuffo divertito.
 
Le due ore precedenti alla partenza, Anthea le passò a salutare coloro con cui aveva trascorso gli ultimi tre anni della sua vita. Non ci furono addii, ma più che altro auguri per il prossimo futuro.
Quel giorno segnava una svolta decisiva e definitiva, un importante punto di non ritorno.
Per un lasso di tempo, immersi nel festoso affollamento, fra gruppi danzanti, brindisi pieni di entusiasmo e ripetute acclamazioni, Steve e Anthea si persero di vista e fu allora che il super soldato si imbatté in Andras e nel suo petto lasciato scoperto da quella che aveva le fattezze di una camicia priva di bottoni o chiusure di qualche genere. Non appena il nuovo sovrano lo vide, gli venne in contro e, nel tragitto che li divideva, si procurò un paio di piccoli bicchieri in vetro contenenti un liquido rossastro.
“Brinda con me, Steve Rogers.”
L’oneiriano gli porse uno dei bicchieri e il biondo ritenne che non fosse il caso di rifiutare l’offerta. Il liquido rossastro fu abbastanza forte da dargli una cospicua sensazione di bruciore nel petto, ma fece in modo di non darlo a vedere, dato che Andras lo stava guardando con un certo interesse.
Il nuovo sovrano fece un cenno ad un oneiriano poco distante e con in mano una brocca piena del liquido rossastro. Poco dopo, Steve si ritrovò con il bicchiere riempito di nuovo fino all’orlo e Andras svuotò quel secondo giro senza indugio, invitandolo così a fare lo stesso. Rogers lo fece senza pensarci troppo su.
 
“Voglio che tu sappia che ti rispetto. Ma feriscila o lascia che la feriscano e te la vedrai con me.”
 
Andras era stato deciso e conciso, non c’era che dire.
Rogers si limitò ad annuire, anche perché la sensazione di avere la testa stranamente più leggera gli impediva di pensare ad una risposta che fosse abbastanza significativa.
L’oneiriano fece riempire per la terza volta i loro bicchieri, ma stavolta il super soldato se lo vide sfilare via dalle mani e spostò lo sguardo su colei che adesso stava bevendo tutto d’un fiato il liquido che gli era stato offerto.
 
“Mi dispiace rovinarti il divertimento, Andras, ma il tempo a nostra disposizione è scaduto e preferisco che lui torni indietro sulle proprie gambe.”
 
Andras rise, colto in fallo, e si difese affermando che era certo che il ragazzo avrebbe retto anche il terzo giro senza troppi problemi. Poi, strinse loro la mano con una certa enfasi e si prodigò anche in quello che parve un abbraccio sentito.
“Sarete i benvenuti, se mai vi capitasse di voler passare da queste parti.”
 
 
 
Usciti fuori dalla città, Steve e Anthea si diressero verso il punto in cui erano arrivati quel giorno.
 
“Cosa diavolo c’era lì dentro?” chiese ad un certo punto il super soldato, che si rese conto di non avere proprio un fermo equilibrio. Quella sensazione non la provava da una vita, dato che gli alcolici sulla Terra non gli facevano nemmeno il solletico.
 
“Roba parecchio forte. Una volta ho bevuto quattro bicchieri di fila e ti assicuro che ancora mi chiedo come sono arrivata nella mia stanza quella sera.”
 
“Quel bastardo.”
Steve fu certo che Andras si era aspettato di vederlo crollare, se non al primo, al secondo giro.
Sperò vivamente di non incrociare Tony una volta tornato alla Tower, perché era decisamente brillo e il suo carissimo compagno ci avrebbe ricamato sopra come una vecchietta in preda ad uno slancio creativo.
 
 
 
 
֍
 
 
 
 
Terra
Avengers Tower
 
“Non avresti dovuto metterti in mezzo.”
 
Sharon finì di fissare il bendaggio intorno al bicipite destro di James, in piedi di fronte a lei e più silenzioso del solito.
La luce bianca dell’infermeria della Tower metteva in risalto il pallore del super soldato. Aveva perso parecchio sangue a causa dei due colpi di pistola che gli avevano perforato prima la spalla e poi il bicipite di carne e ossa. Quei proiettili avrebbero colpito lei, se Barnes non le avesse fatto da scudo. La fortuna poi era stata avere Thor con loro, quindi erano riusciti a cavarsela, nonostante tutto.
 
“Posso reggere qualche proiettile.”
 
“Non è una buona scusa.”
 
“Ti avrebbero uccisa.”
 
Lo sguardo di James si era fatto più intenso e le iridi chiare erano adesso limpide, tanto che Sharon poteva scorgere il proprio riflesso in esse.
 
“So bene che non hai bisogno di protezione, ma lavorare in squadra significa anche coprirsi le spalle a vicenda. Questo l’ho imparato una vita fa e l’ho ricordato qualche mese addietro.”
 
James afferrò la maglia abbandonata su una sedia. Aveva indosso solo la parte inferiore della divisa nera. I muscoli dell’addome e della schiena erano ancora tesi, quasi dovessero scattare da un momento all’altro.
 
“Con una vita fa ti riferisci al tuo tempo?”
 
“Come credi ci sia arrivato Capitan America fino qui? Non appena l’ho perso di vista, si è gettato nell’oceano con un aereo pieno di bombe.”
 
Sharon, suo malgrado, rise. Passando tanto tempo con lui, a causa delle circostanze, aveva imparato a conoscere quella parte di James Barnes avvezza alla vena umoristica e dotata di uno charme non indifferente. Solitamente, quella parte veniva fuori quando c’era Steve, ma con il tempo si era aperto anche con lei e gli altri Avengers.
Sempre un po’ meno Soldato d’Inverno e sempre un po’ più James Barnes, questo stava accadendo gradualmente.
 
“Questa era buona, Sergente Barnes. Dato che mi hai salvato la vita, posso almeno offrirti la cena?” si offrì allora la donna, mentre lo osservava rimettere la maglietta addosso con movimenti leggermente sofferenti.
James sembrò perso di fronte quella semplice domanda.
“Non ti metterai nei guai con Everett Ross? Sai, per imparzialità e cose del genere nei miei confronti.”
 
“Sono fuori dall’orario lavorativo. E poi credo di non essere mai stata imparziale.”
 
“Per Steve?”
 
“All’inizio per lui. E forse proprio questa mancata imparzialità mi ha permesso di vedere chi sei veramente.”
 
Sharon fece sì che i loro sguardi si intrecciassero e James non si sottrasse.
La donna era sempre stata gentile con lui e non gli aveva mai fatto pesare la condizione di essere sorvegliato, nemmeno per un singolo giorno. Ormai erano passati un paio di mesi e averla nei paraggi era diventata un’abitudine che non gli dispiaceva troppo. Inoltre, aiutava gli Avengers a gestire la situazione degli arresti domiciliari e lo stesso Steve contava parecchio su di lei.
Nei momenti di calma, James le aveva parlato dei ricordi che stava gradualmente recuperando. Lo aveva fatto spontaneamente e, dando loro voce, era stato anche più semplice per lui accertarsi della loro veridicità. Semplici storie di una vita ormai lontana un secolo.
Sharon l’aveva ascoltato e delle volte gli aveva anche parlato di lei e del suo percorso all’interno dello SHIELD, dove puntava di ritornare una volta terminato il contratto con la CIA.
 
“Vada per la cena allora.”
 
“Ottimo. Dammi un’ora e tornerò con la cena. Intanto tu mettiti comodo.”
 
 
 
 
Quella sera, più tardi e dopo una sostanziosa cena, Sharon salutò James e si accinse a tornare a casa. Mentre scendeva con l’ascensore, arrivata all’altezza della Sala Comune, udì distintamente una risata parecchio alta e dalle sfumature derisorie. Fu quasi certa che appartenesse a Tony Stark.
Si chiese cosa avesse provocato quello scoppio di ilarità, poi scosse il capo - era abituata alle stramberie dei Vendicatori, ormai - e tornò con il pensiero al sorriso di James Barnes.

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Capitolo 24
*** Give and Take ***


Give and Take
 
 
 
Era stata una lunga, lunghissima notte. Durante le prime ore aveva camminato per la stanza senza sosta, avanti e indietro, sforzandosi di mettere ordine nei pensieri e nelle emozioni in totale subbuglio. Poi si era seduto sul bordo del letto, aveva tenuto la testa fra le mani e si era concentrato sul martellio cadenzato proveniente dalle tempie. Infine, si era semplicemente lasciato cadere all’indietro, sul materasso, e aveva fissato il soffitto. Per tutto il tempo, il silenzio aveva fatto in modo che l’eco delle parole di Bucky risuonasse con dolorosa nitidezza nella sua testa, senza concedergli un istante di tregua. Ogni volta che aveva chiuso gli occhi, aveva rivisto la rabbia nello sguardo tagliente che il suo migliore amico – suo fratello – gli aveva rivolto. Una strana sensazione di nausea aveva continuato ad accompagnarlo, anche dopo che la luce del mattino aveva bussato con poca gentilezza alla finestra.
Per lui non era una novità passare notti in bianco – ci aveva fatto il callo ormai –, quindi non ne avrebbe risentito poi molto, solo che stavolta la motivazione dell’insonnia era decisamente devastante e non riusciva a gestirla, nonostante si fosse sforzato, per ore e ore, di recuperare la calma.
Si tirò su e scese dal letto, assolutamente insicuro su cosa sarebbe stato giusto fare. Sospirò profondamente e mise le mani sui fianchi. Quando le dita della mano destra andarono a stringersi sul corrispondente fianco, gli sfuggì un gemito sommesso e si ritrovò a contemplare la macchia rossa sul tessuto bianco. Sollevò il bordo della maglietta e individuò un sottile taglio ricoperto di sangue incrostato e da cui stava scivolando qualche goccia vermiglia. La sera prima doveva essere stato troppo distratto per accorgersi di quella ferita, riportata sicuramente dallo scontro con i potenziati e che comunque era poco preoccupante per lui. Probabilmente, dopo che il siero l’aveva parzialmente risanata nelle ore successive alla missione di Seattle, il brevissimo scontro con Bucky l’aveva fatta riaprire.
Sfilò la maglia con un gesto fluido e si diresse verso la porta, intenzionato a raggiungere il bagno per darsi una ripulita. Non appena fu fuori dalla stanza, gli occhi cerulei si fermarono sulla schiena di James, coperta da un’attillata maglia nera.
Steve smise di muoversi e rimase in silenzio, mentre il cuore gli martellava nel petto con insistenza e lo stomaco sembrava volersi accartocciarsi su se stesso. Nemmeno affrontare un pericoloso nemico gli faceva un effetto del genere. Si sentiva vulnerabile di fronte a Bucky, perché lui avrebbe potuto ferirlo come nessun altro e senza nemmeno sfiorarlo. Viste come erano andate le cose la sera prima, aveva il timore che un gesto sbagliato o una parola fuori posto avrebbero potuto inspessire il muro che era venuto a crearsi fra loro. Non poter raggiungere il suo migliore amico faceva dannatamente male.
James si voltò e i loro sguardi si incontrano, o meglio, si scontrarono.
 
“Rogers.”
 
Steve accusò il colpo e prese atto del gelo che James stava utilizzando per tenerlo a distanza. Aprì e chiuse la bocca un paio di volte, ma non venne fuori alcuna parola.
Nessuno dei due osò rompere il contatto visivo per quello che parve un tempo lunghissimo, finché l’intrusione di una terza presenza mandò in frantumi il momento carico di elettricità statica.
 
Tony Stark percepì distintamente un brivido risalire lungo l’intera colonna vertebrale e gli venne parecchio difficile ignorare la tensione fra i due super soldati. Si chiese se li avrebbe visti saltare l’uno alla gola dell’altro da lì a poco e poi lo sguardo gli cadde sul taglio che segnava il fianco destro del Capitano.
Quindi, Tony guardò prima Steve e poi James ed infine di nuovo Steve.
 
“Cosa ho esattamente interrotto?”
 
Diversamente da quanto si sarebbe aspettato Stark, fu Barnes a mettere fine a quell’impasse dalle connotazioni poco rassicuranti.
 
“Non hai interrotto niente, Stark.”
 
Forse non aveva interrotto effettivamente niente, ma doveva essere accaduto qualcosa di grosso, perché tutto quello era surreale. Cosa gli era sfuggito? Cosa diamine stava succedendo?
Tony osservò James lasciare l’appartamento senza esitazione e, una volta sparito dalla sua vista, tornò a concentrarsi sul super soldato numero uno, la cui attenzione era invece rimasta ancorata al super soldato numero due, nonostante quest’ultimo fosse già bello che andato. Si prese qualche secondo per decidere se fosse il caso di farsi gli affari propri oppure no e, alla fine, decise che non era il momento adatto per mandare Rogers fuori fase più di quanto già non fosse, soprattutto perché il biondo avrebbe dovuto occuparsi di altri grattacapi di entità non definibile ma sicuramente tutt’altro che piacevoli.
 
“Senti, Cap, non è mia intenzione rigirare il dito nella piaga stavolta, qualsiasi sia la piaga, però sono costretto a dirti che c’è Ross che ti aspetta. Vuole parlare con te per quanto accaduto ieri e, nonostante ci abbia provato, non mi ha concesso anticipazioni.”
 
Steve parve riscuotersi e passò una mano fra i capelli con fare decisamente nervoso. Guardò Tony e lesse nei suoi occhi scuri una stanchezza che poco gli si addiceva.
Non andava bene. Se avessero continuato così, avrebbero finito per crollare. Nonostante fossero riusciti a gestire in modo decente la situazione per tre lunghi mesi e nonostante fossero riusciti a trovare una specie di equilibrio, gli Avengers stavano venendo prosciugati lentamente di ogni energia fisica e mentale. Bastava guardare le profonde occhiaie di Tony, contare le ore che Sam passava a dormire nei giorni in cui non veniva coinvolto nelle missioni, prendere nota di tutte le volte che Clint faceva conficcare le freccette sul bordo del centro rosso del bersaglio montato nella Sala Comune e poi, il giorno prima, Bruce era arrivato al punto di minacciare non troppo velatamente le persone che erano la causa di quello stato di disagio e tensione generale.
 
“Metto qualcosa addosso e lo raggiungo” convenne il super soldato e, con sua stessa sorpresa, riuscì ad utilizzare un tono fermo e deciso.
“Ti aspetta nei parcheggi sotterranei. Non è voluto salire e non lo biasimo troppo, dopo ieri. Sai, ieri…”
“Non avevi detto di non voler rigirare il coltello nella piaga?”
“Hai ragione. Mea culpa, ma è più forte di me quando si tratta di te” fu la tranquilla risposta dell’inventore, che aveva messo su una perfetta faccia di bronzo e Rogers scosse il capo con rassegnazione, anche se in realtà era confortante constatare che Stark aveva ancora la forza di punzecchiarlo senza ritegno.
 
Tony seguì Steve nella stanza di quest’ultimo e si sedette sul letto, senza troppi complimenti. Lo guardò indossare un paio di pantaloni scuri e prendere un maglia azzurra a maniche lunghe, dotata di un colletto blu e una fila di quattro bottoncini.
“Qualsiasi cosa ti dica Ross, non cercare lo scontro, perché sarebbe un vero disastro e perché...”
“Renderei vani gli ultimi tre mesi” concluse il super soldato, mentre andava a piazzarsi di fronte al compagno.
“Non ho intenzione di perdere di nuovo la calma, quindi non preoccuparti.”
Tony sorrise e tornò in piedi. Si avvicinò a Steve e gli strizzò con intensità la spalla destra con la mano sinistra. Era ovvio che il biondo avrebbe volentieri evitato di vedere Ross, o meglio, avrebbe evitato qualsiasi tipo di situazione che prevedesse una buona dose di stress e un probabile esaurimento nervoso.
“Mi fido di te, Steve, lo sai. Ma ti conosco anche dannatamente bene e quindi mi preoccupo di conseguenza.”
“Farò il bravo. Everett ha già ristabilito i controlli?”
Il Capitano si diresse verso l’ascensore, seguito a ruota da Iron Man.
“Non si è visto ancora nessuno. Comunque, hai intenzione di utilizzare l’arma della seduzione con Ross. Sbattergli in faccia tutta quella roba potrebbe funzionare e lo faresti per un bene più grande.”
“Mi dispiace deluderti, ma sto passando in infermeria per mettere qualcosa su questo graffio così eviterò di macchiare la maglia che ho intenzione di indossare.”
“Peccato. Senti, a proposito di quel taglio…”
 
“Una svista di ieri sera. Non lo avevo notato.”
Rogers lo attestò con estrema fermezza, perché aveva intuito cosa era passato per la testa dell’amico, considerando la scena a cui quest’ultimo aveva assistito quando era arrivato nell’appartamento. In ogni caso, Tony parve soddisfatto della risposta ottenuta.
 
“Io mi fermo qui. Non ho ancora detto nulla agli altri, quindi sarà il caso che lo faccia, giusto perché inizino a prepararsi psicologicamente alla prossima trovata del Segretario.”
 
Dopo aver picchiettato con le nocche sul petto del super soldato e avergli detto che era un vero peccato non sfruttare la mercanzia per le giuste cause, Tony scese dall’ascensore, all’altezza della Sala Comune.
 
 
 
 
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Steve si ritrovò presto circondato dalle mura in cemento del parcheggio sotterraneo e individuò immediatamente Ross, fermo dinanzi un’auto nera dai vetri oscurati. L’uomo era stretto in un completo blu scuro. All’apparenza, aveva un’aria tranquilla e gli rivolse addirittura un sorriso cordiale.
 
“Capitano” salutò il Segretario, una volta che Rogers arrivò a pochi passi da lui, e aprì la portiera posteriore dell’auto, come chiaro invito ad entrare.
“Facciamo un giro.”
 
Rogers rimase abbastanza interdetto, ma non aveva troppa scelta, dunque salì sul veicolo senza protestare e Ross si sistemò sul sedile posteriore, al suo fianco.
L’auto lasciò il parcheggio e si immise nel traffico di New York, senza puntare ad una precisa meta.
Il super soldato attese che fosse il Segretario a prendere la parola e, nel frattempo, lanciò qualche occhiata al di fuori del finestrino e cercò di spingere in un angolino della mente la questione rimasta in sospeso con Bucky.
 
“Allora, Rogers, vorrei che mi ascoltassi attentamente e che mi lasciassi arrivare fino in fondo. Sono qui di mia iniziativa e sempre di mia iniziativa voglio provare ad accordarmi con te, per evitare che la situazioni degeneri ulteriormente.”
Ross utilizzò volontariamente un approccio informale. Attese di avere a sé la completa attenzione del Capitano e, una volta ottenuta, prese la parola in modo definitivo. Il tono della sua voce rimase fermo, calmo e non ci fu segno di agitazione o alterazione durante l’intera conversazione. Neppure sul volto comparve il minimo segno di emozione, ad eccezione di un’affabilità che poco gli si addiceva.
“I piani alti hanno deciso di tagliare fuori i Vendicatori dal caso Hydra e di gestirlo personalmente, chiedendo l’appoggio dello SHIELD. Puoi immaginare che la cosa sia partita da Henry Benson, anche se la sua iniziale proposta è stata parecchio più drastica. Il vostro comportamento negli ultimi tre mesi ha evitato il peggio, ma quanto accaduto ieri ha suscitato un certo allarmismo, come potrai immaginare senza troppe difficoltà.”
Il Segretario fece una pausa e fu soddisfatto nell’appurare che Rogers aveva deciso di rispettare la condizione di lasciarlo parlare senza interrompere. Era evidente la tensione che gli aveva irrigidito le spalle e una leggera ruga aveva preso forma tra le sopracciglia, eppure il Capitano non si azzardò ad aprire bocca.
“Ho una proposta da farti e sono certo che sia la soluzione migliore. Da quando si è concluso lo scontro con Schmidt, voi Avengers avete continuato a occuparvi dell’Hydra per tutto questo tempo, senza concedervi una pausa, sottostando contemporaneamente agli arresti domiciliari e ai controlli continui che abbiamo istituito per limitare la vostra libertà. È evidente che siete tutti stanchi della situazione e io potrei mettere fine a tutto questo, restituirvi la condizione di persone libere.”
 
A Steve sfuggì un mezza risata e la cosa non parve sorprendere Ross più di tanto.
“Qual è il prezzo?” chiese il ragazzo, che non riusciva davvero ad immaginare cosa l’uomo potesse volere in cambio per una concessione di quella portata.
 
L’auto stava adesso sfrecciando sul Ponte di Manhattan. L’East River era increspato da un vento intenso e freddo e la cortina di nubi grigie aveva reso l’acqua più scura.
Ross guardò Rogers dritto in faccia e fece in modo di utilizzare un’espressione spaventosamente seria.
 
“Lavora per me.”
 
Prima che il super soldato potesse aprire bocca, il Segretario lo anticipò per evitare di ricevere un secco rifiuto.
“Se accettassi, attraverso il mio consenso e la mia autorizzazione, potrai continuare la ricerca di Adam Lewis e potrai coinvolgere gli altri Avengers, senza che questi siano vincolati a me a loro volta. Dovrai solo dimostrare di essere degno della mia fiducia. Inoltre, sospenderò lo stato di arresto con effetto immediato.”
Quella proposta era stata costruita appositamente per non poter essere rifiutata, tuttavia Ross non aveva ancora concluso e decise di assestare il colpo finale, sicuro di ciò che stava facendo e consapevole della reazione che avrebbe ottenuto.
“Avete alle spalle tre mesi di reclusione forzata e hai la possibilità di mettere fine a tutto questo. Potrete uscire dalla Tower, riavere indietro una parvenza di normalità nelle vostre vite. Sono certo che siete esausti e non doversi più occupare direttamente dell’Hydra darà ai tuoi compagni un po’ di tregua, non credi?”
Steve non rispose e ciò diede al Segretario la possibilità di parlare ancora, con l’unica intenzione di spingerlo nella direzione voluta.
“Non devi darmi una risposta adesso. Voglio concederti due giorni.”
 
“Cosa comporterebbe lavorare per te?” chiese allora il Capitano e sul volto di Ross comparve l’ombra di un sorriso.
 
“Non sarà molto diverso dal lavoro che svolgevi per lo SHIELD. Ti assegnerò una squadra e ti trasferirai a Washington. Parallelamente, potrai occuparti del caso Hydra e dovrai renderne conto a me soltanto. Ovviamente, vorrò inizialmente accertarmi che tu sia disposto ad eseguire i miei ordini, ma ti garantisco che non sto architettando nulla che possa ritorcersi contro di te o i tuoi compagni. Ti sto venendo incontro, Rogers.”
 
L’auto si fermò e solo allora Steve si rese conto che erano tornati nei pressi della Tower.
Ross gli dedicò una lunga occhiata penetrante e si trattenne dall’esternare compiacimento, perché non aver ricevuto un no categorico come risposta era assolutamente un inizio promettente. Ce lo aveva in pugno, ne era certo, perché Steve Rogers avrebbe fatto qualunque cosa per il bene dei suoi compagni. Doveva solo sperare che quegli stessi compagni non mandassero a monte tutto quanto. Tirò fuori dal taschino della giacca un biglietto e lo porse al super soldato.
 
“Questo è il mio numero personale. Mi farò comunque vivo fra due giorni. Sono certo che prenderai la decisione giusta.”
 
Steve annuì solamente, cercando di non palesare il turbamento. Senza ulteriori indugi, scese dall’auto e, muovendosi per inerzia, raggiunse la Sala Comune. Adesso doveva cercare di fare ordine fra i pensieri e riflettere con calma. Aveva due giorni e in due giorni, che lo volesse o meno, avrebbe dovuto dare a Ross una risposta.
 
“Fai colazione con me?”
 
La voce di Natasha riscosse Steve, il cui sguardo si fissò sulla figura di lei.
La rossa aveva in una mano una caraffa di succo di frutta e con l’altra mano teneva in equilibrio un vassoio contenente muffins al cacao e diverse ciambelle dalla glassa colorata. Indossava una comoda tuta verde militare e una larga maglia bianca, il cui morbido tessuto seguiva la curva tonda della pancia. I lunghi capelli rossi erano raccolti in una treccia che le ricadeva sulla spalla destra e il viso non era più smunto già da un paio di mesi.
Il biondo la raggiunse e la aiutò con la caraffa e il vassoio, che furono sistemati sul tavolo già apparecchiato con qualche bicchiere di vetro, alcuni tovaglioli e diverse posate.
Natasha prese posto su una delle sedie e invitò il compagno a sedersi su quella di fronte.
 
“Stavi aspettando Clint?” le chiese, mentre la osservava versare il succo di frutta in due bicchieri.
 
Lei annuì.
“È andato assieme a Tony e Bruce sull’Helicarrier, da Fury. Pare che bisognerà riaccordarsi con Everett Ross dopo quanto accaduto ieri.”
Natasha si lasciò scappare un sorriso che mise a nudo una sottile ma evidente tristezza.
“Tony ha detto che eri impegnato con Ross. Cosa ti ha detto? Adotteranno misure più restrittive?” chiese, mentre punzecchiava un muffin al cacao con la forchetta.
 
In quel momento, il biondo poté distintamente percepire un vuoto aprirsi nello stomaco. Quando Natasha aveva dato loro la notizia della gravidanza, nessuno era stato in grado di trattenere l’emozione e lei si era quasi commossa dinanzi all’esternazione di tanta felicità da parte dei suoi compagni – la sua famiglia. E i suoi compagni avevano fatto di tutto per tenerla lontana dal campo di battaglia, per tenerla al sicuro, e per farle pesare il meno possibile lo stato di arresto.
Solo che, da un certo momento in avanti, gli Avengers erano stati talmente assorbiti dai problemi con l’Hydra, con Adam Lewis e con il Governo, che non erano riusciti a starle accanto come avrebbero dovuto. La persona che le stava più accanto era Bruce, che non aveva preso parte all’azione sul campo, se non in rare occasioni.
Natasha era stata vicina a tutti loro e li aveva sostenuti in ogni modo. Per sé stessa non aveva fatto poi molto, se non si contavano le visite periodiche dal dottor Mitchell, per assicurarsi che la gravidanza procedesse nel migliore dei modi.
Se Steve si fosse fermato a guardarla dritta negli occhi, con attenzione, almeno una volta negli ultimi due mesi, si sarebbe accorto molto prima di quanto Natasha avesse bisogno di avere vicino la sua famiglia e Clint prima di tutti. Lei era forte, indipendente e perfettamente in grado di badare a sé stessa, ma la gravidanza era una cosa del tutto differente. Natasha aveva rinunciato ad avere Clint al suo fianco in momenti in cui avrebbe voluto che lui fosse presente e, inoltre, alla Tower mancava del tutto la tranquillità necessaria.
 
Steve si accorse di aver fatto protendere il silenzio un po’ troppo, perché fu la Romanoff a riempire quello stesso silenzio.
“Sai, fra un paio di settimane il dottor Mitchell mi dirà il sesso del bambino.”
La rossa infilò in bocca un generoso pezzo di muffin ed emise un verso di apprezzamento. Smise di guardare il super soldato direttamente il viso e si concentrò su quel concentrato di dolcezza dal morbido cuore al cioccolato.
“Dovresti provarlo, è davvero ottimo.”
 
Steve sorrise e si sporse in avanti sul tavolo, finché non arrivò a pinzare fra pollice e indice il naso di Natasha, i cui occhi verdi si fissarono in quelli azzurri dinanzi a lei. La rossa aveva smesso di masticare e aveva le guance ancora piene del pezzo di muffin, che aveva iniziato a mangiare con una certa voracità.
 
“Non ci saranno misure più restrittive. Non ci sarà più alcuna misura. E sarà meglio che ti prepari perché, che sia maschio o femmina, dovrai affrontare l’entusiasmo di parecchie persone che non sanno propriamente come modulare le emozioni.”
Rogers lasciò andare il naso dell’amica e solo allora lei mandò giù il boccone rimastole in bocca.
 
“Non lo stai dicendo solo per rassicurarmi o perché magari hai in mente un assalto al Governo, giusto?”
 
“Nessuna delle due cose e sai che sono sempre onesto.”
 
“Colpo basso, Rogers. Colpo basso. Sono costretta a crederti in questo modo.”
 
Risero e Natasha spinse in direzione del compagno il vassoio. Mangiarono insieme, concordando sulla bontà sia dei muffins sia delle ciambelle.
 
“Allora, cosa ti ha detto Ross?” domandò la rossa, che voleva sapere come sarebbe stato possibile attuare l’eliminazione di ogni misura di controllo, soprattutto dopo quanto accaduto il giorno prima.
“Vi dirò tutto una volta definiti i dettagli. Sembra che quanto fatto in questi tre mesi ci abbia portato qualche vantaggio.”
La Romanoff annuì e decise che fosse giusto chiudere lì la questione. Non dubitava di Steve e non avrebbe iniziato a farlo quel giorno.
“Devo vedermi con il dottor Mitchell fra non molto. Perché non porti un paio di queste ad Anthea? Non l’ho ancora vista gironzolare da queste parti e di solito a quest’ora è in piedi da un pezzo.”
 
“Sei preoccupata per lei?”
 
“Nonostante cerchi di non darlo a vedere, neanche per lei è facile tutto questo. Da quando è sulla Terra, non ha fatto altro che combattere ed è stata costretta a sottostare agli arresti, solo perché si è unita a noi. Non è il massimo per adattarsi alla vita sulla Terra, non credi?”
 
Steve rimase in silenzio, preso in contropiede da quanto Natasha gli aveva appena fatto notare. Era stato parecchio disattento e se ne stava realmente rendendo conto solo adesso. Si era concentrato sulle ricerche di Adam Lewis, pensando che trovarlo sarebbe stato l’unico modo per risolvere i loro problemi. Invece, così facendo, aveva perso di vista tante cose importanti e si chiese se lo scontro che aveva avuto con Bucky fosse stato causato, in parte, dal suo atteggiamento distaccato.
Ora aveva la possibilità di sistemare parecchie cose ed era intenzionato a non commettere altri errori dovuti alla scarsa disattenzione rivolta alle questioni che gli erano più vicine.
 
“Grazie, Nat. Se dovesse servirti qualsiasi cosa ...”
 
“Ci conto, Steve. Ti avrei chiesto di accompagnarmi da Mitchell, ma non credo che Clint la prenderebbe troppo bene.”
Natasha gli fece l’occhiolino e bevve l’ultimo sorso di succo di frutta, per poi alzarsi e girare attorno al tavolo, in modo da porsi al fianco del compagno ancora seduto. Gli aggiustò il retro del colletto della maglia e poi strinse le dita affusolate sulle spalle larghe. Steve voltò il capo per poterla guardare in viso e notò quel familiare luccichio nelle iridi smeraldine, segno che la Vedova Nera stava per dirgli qualcosa con soppesata gentilezza mescolata ad intimidatoria fermezza.
“Sai che ti voglio bene, Steve. Però potrei arrabbiarmi con te, se la farai stare male a causa della tua testa dura.”
La rossa posò un bacio leggero sulla guancia del super soldato e poi sollevò un angolo della bocca, arricciando le labbra piene in quel suo modo particolare ed enigmatico.
“Messaggio ricevuto” fu la risposta del biondo, che le dedicò un sorriso sincero e, poco dopo, la guardò andare via.
 
Rogers si appoggiò allo schienale della sedia e abbandonò il capo all’indietro. C’era silenzio, adesso che Natasha non c’era più, e il rumore dei suoi stessi pensieri era quasi assordante. Fissò lo sguardo su un punto indefinito del soffitto, tuttavia vide scorrere dinanzi agli occhi tutto ciò che era accaduto nell’ultimo periodo e questo non fece altro che fargli acquistare maggiore sicurezza su quale fosse la decisione migliore da prendere. Tirò fuori dalla tasca dei pantaloni il biglietto che gli aveva lasciato Ross e se lo rigirò distrattamente fra le dita.
 
Aveva forse altra scelta?
 
 
 
 
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“Sono contenta che tu sia in piedi e, a quanto vedo, anche parecchio in forma.”
 
James sollevò lo sguardo dalle fasciature strette attorno le nocche e di cui si stava velocemente liberando. Abbandonata ai suoi piedi, c’era la maglia nera fradicia di sudore, indossata durante l’intero sfogo violento contro sacchi non abbastanza rinforzati per resistere al braccio di metallo.
“Si torna alla solita routine?” domandò e i tratti del viso si ammorbidirono abbastanza da farlo apparire meno Soldato d’Inverno incazzato e più James Barnes tormentato.
 
“Non sono in servizio. Noi della CIA non abbiamo ancora ricevuto direttive precise. Volevo solo accertarmi che tu stessi bene.”
Sharon sfilò le mani dalle tasche dei jeans e James le venne in contro, fino a fermarsi ad un paio di passi da lei.
“Ho ricevuto un trattamento speciale e non mi è rimasto addosso nemmeno un graffio.”
Barnes dedicò un pensiero ad Anthea e alla sua testardaggine, quando si trattava di aiutare un amico.
“Sono contenta” fu l’unica cosa che la donna riuscì a dire. Non gli rivelò di essere stata terribilmente preoccupata per lui, nonostante Steve l’avesse rassicurata la sera prima.
 
“Come sta Collins?”
 
“Sta bene, grazie a te e a Steve. Mi ha detto che senza di voi, adesso sarebbe ridotto ad un mucchietto di carne bruciata.”
La Carter sorrise mestamente, nel ricordare quanto Daniel fosse stato straordinariamente logorroico dal momento esatto in cui erano rimasti soli, dopo che erano stati costretti a lasciare la Tower per non incorrere nell’ira di Hulk. Lei gli aveva offerto un passaggio in macchina fino al palazzo in cui alloggiavano quasi tutti gli agenti della CIA coinvolti nella sorveglianza degli Avengers.
Il ragazzo, sotto l’effetto dell’adrenalina non del tutto sfumata e di una genuina eccitazione, le aveva raccontato cosa era accaduto a Seattle e non aveva omesso nemmeno ciò che era successo fra Rogers e Barnes. Solo che poi si era accorto di aver parlato troppo, si era pentito, si era dato dell’idiota e le aveva supplicato di mantenere il silenzio sullo scontro che c’era stato fra i due super soldati. Sharon gli aveva promesso che avrebbe mantenuto il segreto e aveva tutta l’intenzione di mantenere la parola data, nonostante avrebbe voluto poter aiutare James in qualche modo. Era evidente che fosse turbato e totalmente incapace di eclissare quanto fosse ferito dentro – c’era da considerare che lui era fra i migliori, quando si trattava di eludere le emozioni, quindi la situazione doveva essere critica.
Il Soldato d’Inverno era stato concepito per essere una macchina assassina perfetta, infallibile e priva di umanità. E lo sarebbe stato, se non fosse esistita una falla che aveva vanificato tutti gli sforzi fatti dall’Hydra per ottenere un’arma capace di cambiare il corso della storia. Quella falla, in grado di penetrare le spesse difese del Soldato d’Inverno, era Steve Rogers. Il Soldato d’Inverno non aveva mai fallito nel portare a termine una missione, soprattutto non quando la possibilità di farlo gli veniva offerta su un piatto d’argento.
Steve e James erano l’uno il punto debole dell’altro, tanto quanto erano l’uno la forza dell’altro.
 
“Quel ragazzino si è rifiutato di mettersi al sicuro. Eppure, sono certo di essere stato parecchio convincente.”
Barnes incrociò le braccia sul petto nudo e scosse il capo.
“Ha detto che hai cercato di intimorirlo” gli fece presente la Carter.
“Se non vuoi ritrovarti ad avere intorno un compagno di squadra con manie autodistruttive, ti consiglio di metterlo in riga prima che sia tardi.”
Sharon non riuscì a trattenersi e rise, perché l’espressione di James la diceva lunga ed era buffo vederlo alzare gli occhi al cielo e, al tempo stesso, sospirare profondamente.
“Pensavo che avessi un debole per quelli come lui e che preferissi aiutarli, non cambiarli.”
 
“Non voglio cambiarli. Vorrei solo…”
 
“È parte di lui. Non sceglierà mai sé stesso, nemmeno se sarai tu a chiederglielo e sai che per te farebbe qualunque cosa. Qualunque.”
 
“Non stiamo più parlando di Collins, giusto?”
 
La Carter scosse il capo.
James non le chiese come sapeva, perché non era troppo difficile immaginarlo e perché si rese conto che parlarne con lei, anche se non così esplicitamente, alleggeriva il greve peso che sentiva nel petto. Ciò che lei gli aveva detto era qualcosa di cui era perfettamente consapevole sin da quando aveva iniziato ad avere a che fare con l’allora piccolo e gracile Steve Rogers. Forse era stato troppo duro con lui.
“Ho fatto quello che andava fatto. Sono in grado di badare a me stesso. Non ho più bisogno della tua protezione.”
No. Non era stato affatto troppo duro. Era ancora incazzato. E scottava, dannazione.
 
Barnes passò la mano destra fra i capelli, tirandoli indietro con un gesto seccato e stanco.
Sharon, vedendolo vacillare, non fu in grado di resistere all’istinto di abbracciarlo. Non fece caso alla sensazione del sudore di lui che le inumidì la maglia, non fece caso all’iniziale rigidezza del corpo che strinse a lei con uno slancio di cui non si credeva capace, almeno fino ad un attimo prima. James ci mise un po’, ma alla fine si rilassò e circondò la vita della donna con le braccia. Lei sollevò appena il capo, per poterlo guardare in viso e dritto negli occhi limpidi e dalle sfumature grigie – quelle iridi ricordavano un mare in tempesta.
Fu allora che Barnes si sporse in avanti e la baciò. La Carter ricambiò senza la minima esitazione, mentre gli circondava il collo con le braccia.
A tentoni, il super soldato spinse la bionda verso l’ascensore, mentre continuavano ad assaporarsi e a stuzzicarsi con crescente audacia. Entrati nella cabina, James si premurò di premere il pulsante relativo al proprio appartamento e poi sollevò Sharon per le cosce. Lei gli strinse le gambe attorno i fianchi e si aggrappò alle sue spalle.
Quando le porte dell’ascensore si riaprirono, i due si divisero e il moro fece tornare la Carter con i piedi per terra. Percorsero il breve corridoio iniziale, assicurandosi di essere soli. Una volta raggiunta la camera di James e chiusa la porta dietro di loro, ripresero da dove avevano interrotto.
 
Nessuno dei due tentò, nemmeno per un secondo, di razionalizzare ciò che stava accadendo.
Tre mesi prima, erano stati costretti ad interagire fra loro a causa delle circostanze. Si erano ritrovati a passare parecchie ore a stretto contatto, avevano finito per partecipare insieme alle missioni e, con il tempo, erano passati dal discutere di lavoro al parlare di cose più personali. Senza rendersene troppo conto, avevano imparato a conoscersi e a capirsi. Non l’avevano dato troppo a vedere e, fra tutti, solo Natasha si era fatta scappare qualche sottile commento a riguardo.
 
Sharon sapeva che aveva appena oltrepassato il limite consentito e che se Everett fosse venuto a conoscenza di tutto quello, per lei sarebbero stati guai molti seri, serissimi. Non che fosse mai stata imparziale. All’inizio non lo era stata per Steve, ma poi le cose avevano preso una piega diversa e, in qualche modo assai contorto e difficile da spiegare, ora lei era distesa sul letto di James Barnes, completamente nuda.
Il tocco delle fredde dita di metallo la facevano rabbrividire, mentre quelle di carne ed ossa quasi scottavano a contatto con la pelle. Quelle sensazioni contrastati la stavano facendo impazzire, ma mai quanto le scosse elettriche che le percorrevano l’intera colonna vertebrale ad ogni spinta di James, il cui sguardo intenso e penetrante le faceva sentire tanto vulnerabile quanto desiderata.
 
Ci sarebbero state delle conseguenze. Eccome se ci sarebbero state.
Eppure, tramite un tacito accordo, entrambi decisero di fregarsene delle conseguenze, almeno temporaneamente.
 
 
 
 
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“Ehi, Cap.”
 
Sam era ancora mezzo addormentato e una parte del bordo della maglia rossa che indossava era rimasta erroneamente infilata nei jeans. Erano quasi le undici di mattina ed era evidente che gli sarebbe servita una bella tazza di caffè.
Dopo una missione impegnativa, Wilson era solito dormire parecchie ore per poter recuperare appieno le energie.
 
“Ciao Sam. Sai se Anthea è sveglia?”
Sam gli rivolse uno sguardo interdetto e anche abbastanza confuso.
“Lei è qui?”
“Dovrebbe esserlo” fu l’esitante risposta di Rogers, che iniziava effettivamente a preoccuparsi e a chiedersi se magari non fosse accaduto qualcosa la sera prima.
 
Steve salutò Sam, che si trascinò nell’ascensore, mentre lui ne usciva per raggiungere la stanza dell’oneiriana. Bussò un paio di volte, ma non ottenne risposta. Allora si decise ad aprire la porta e si immerse nella penombra della camera. La finestra era quasi del tutto oscurata e la luce riusciva a sgusciare all’interno solo tramite una fessura lasciata nella parte più bassa.
Anthea era lì, sulle lenzuola stropicciate, distesa su un fianco e gli dava le spalle. La giovane aveva addosso solo delle mutandine celesti e un top dello stesso colore. I capelli erano sparsi disordinatamente sul cuscino e Steve notò un filo bianco che partiva dall’orecchio coperto da qualche ciuffo e che spariva al di là del suo corpo.
Se respirava piano, il biondo poteva percepire un suono sottile rompere il silenzio. Si avvicinò finché non fu in grado di vedere il cellulare che lei teneva debolmente in una mano. La luce fioca dello schermo le illuminava il viso dai tratti rilassati e le lunghe ciglia tremolavano appena.
Sullo stesso schermo lesse ‘The show must go on’ e pensò che ci fosse sicuramente lo zampino di Sam. Da quando Anthea aveva imparato che ascoltare musica era un ottimo modo per alleggerire la tensione e per zittire pensieri poco piacevoli, Wilson ne aveva approfittato per consigliarle diverse playlist.
Steve posò il piatto con le dolci offerte di Nat sul comodino e tornò ad osservare la ragazza.
All’apparenza, Anthea sembrava stare bene e il super soldato dovette ammettere che non gli era affatto indifferente quella vista così scoperta. Le appoggiò una mano sulla spalla e si sorprese nel constatare quanto fosse calda la pelle.
La ragazza si riscosse e si voltò verso di lui, ruotando appena i fianchi. Tolse gli auricolari dalle orecchie e si sforzò di sorridere, mentre si tirava su a sedere.
 
“Stavo per raggiungervi” disse, con poca convinzione, e la mossa successiva fu quella di alzarsi dal letto, quasi si fosse resa conto di essere in ritardo per un qualche appuntamento.
 
Rogers le impedì di andare alla ricerca dei vestiti, piazzandosi proprio davanti a lei, e le prese il volto fra le mani, in modo da costringerla a guardarlo dritto negli occhi, dato che stava palesemente cercando di evitare il suo sguardo.
“Scotti terribilmente.”
 
“Effetti collaterali più fastidiosi del previsto, ma niente di preoccupante. Starò… sto bene.”
 
Adesso che Natasha gli aveva aperto gli occhi, Steve riusciva ad interpretare con maggiore facilità i comportamenti ben pesati e non troppo spontanei di Anthea.
Tutto si riduceva al fatto che lei avesse camminato in punta di piedi fino ad allora, per non far pesare su di lui qualsiasi tipo di problema la riguardasse. Gli era rimasta accanto, ma si era fatta da parte quando aveva ritenuto opportuno lasciargli più spazio, a prescindere di cosa avesse davvero bisogno lei.
Quando era tornata sulla Terra per rimanerci, si era mostrata decisa, forte e perfettamente equilibrata e Rogers aveva trovato un decisivo sostegno in quella nuova versione di lei.
Anthea aveva fatto in modo di essere considerata, in tutto e per tutto, l’elemento della squadra che aveva il compito di proteggere gli altri e che non aveva bisogno di alcuna protezione. E aveva fatto un lavoro eccelso a riguardo. Era diventata brava a gestire le emozioni e poche volte si era fatta sfuggire espressioni o atteggiamenti che avrebbero potuto impensierirlo più del necessario.
 
“Io sono terrorizzata da cosa sarei capace di fare per te. Vorrei che tu evitassi di mettermi troppo alla prova, anche se non intenzionalmente.”
 
Okay, c’erano buone probabilità che lei arrivasse a odiarlo. L’aveva praticamente costretta, non intenzionalmente, a modellare se stessa in modo che potesse essergli di aiuto ma non d’intralcio.
Non le avrebbe più permesso di eclissarsi per lui.
Inoltre, fino ad allora, non aveva preso in considerazione la possibilità che lei potesse averne abbastanza delle dinamiche in cui si era trovata immischiata. Non seppe bene il perché, ma gli parve di sentire nella testa la voce poco gentile di Andras.
Adesso però aveva la possibilità di sistemare le cose, di restituire ai suoi compagni la libertà e la tranquillità che erano mancate tanto a lungo.
 
“È per questo che hai voluto dormire qui stanotte?” le chiese, per spingerla a scoprirsi una volta per tutte, e Anthea morsicò d’istinto l’interno della guancia.
“Volevo lasciare te e James da soli e, a proposito, come...”
“Stai cambiando discorso” la fermò subito e fece scivolare la mani sulle sue spalle nude.
 
“Steve, andiamo, io...”
 
La ragazza cominciava ad esternare un certo nervosismo e si sottrasse di nuovo al suo sguardo.
Se lo voleva, Steve aveva tutte le carte in regola per demolire la dura scorza dietro cui l’oneiriana si premurava di tenere nascosta la parte meno forte e decisa di sé. Per questo, lei tentò di filarsela, scivolandogli di fianco, tuttavia venne prontamente afferrata per un braccio.
Senza darle il tempo di capire cosa avesse in mente, il biondo la sollevò da terra e se la caricò in spalla. La sentì trattenere il respiro per un istante.
 
“Ti concedo tre secondi per mettermi giù volontariamente o ti costringerò a farlo.”
Si era messa sulla difensiva, utilizzando l’atteggiamento da dura. Era uno stratagemma che funzionava, ma non con lui.
“Mi stai seriamente minacciando?”
Il biondo usò un tono tranquillo e Anthea era certa che stava sorridendo in quel momento.
 
“Ti detesto, Idiota.”
 
Steve rise e decise comunque di non tirare troppo la corda, quindi la mise giù, poggiandola sul letto con uno slancio improvviso. Prima che lei gli rivolgesse parole poco gentili – cosa intuibile dall’espressione contrariata con tanto di naso arricciato –, le porse il piatto che aveva messo sul comodino.
 
Anthea sospirò, ma poi piegò le labbra in un sorriso leggero, incapace di fingersi offesa.
Era ancora parecchio intontita dalla mancanza di sonno e aveva una cerchio alla testa non indifferente. Gli era sembrato di andare a fuoco per tutta la notte ed era riuscita a prendere sonno solo nelle ultime ore. Sentiva ancora caldo e si sarebbe volentieri in una vasca piena di cubetti di ghiaccio. Osservò il biondo adoperarsi per far entrare la luce nella stanza e togliere le scarpe, in modo che potesse sedersi sul letto, al suo fianco.
“Questi sono davvero fantastici” convenne, dopo aver addentato un muffin.
 
“Mi dispiace per averti tagliata fuori.”
 
L’oneiriana tentò di non dare a vedere quanto quelle parole l’avessero colpita. Steve era stato parecchio distante nell’ultimo periodo. Cioè, era stato fisicamente presente, ma mentalmente lontano anni luce.
 
“Non sono stato molto presente e ho intenzione di rimediare, in qualche modo. E a proposito, ho bisogno di parlarti di una cosa importante. Non l’ho ancora detto agli altri. Non credo ti piacerà.”
 
Rogers le raccontò dell’incontro con Ross e le parlò dell’accordo che il Segretario gli aveva proposto.
Anthea avrebbe voluto dirgli che no, non le piaceva, che non era sicuro accettare quel compromesso, che anche gli altri sarebbero stati contrari e che avrebbero sicuramento trovato un altro modo per sistemare la situazione. Eppure, non diede voce a niente di quello che le passò per la testa. Sospirò profondamente e lo guardò con fermezza, dritto negli occhi.
 
“Non me ne hai parlato per sapere cosa ne penso. Hai già preso una decisone.”
 
Il sorriso desolato che tese la bocca del super soldato fu per lei solo un’ulteriore certezza.
 
“Sarà più difficile per te rimediare” lo prese in giro ma, nel profondo, un po’ lo pensava davvero.
 
 
“Capitano Rogers, miss Reyes, il signor Stark richiede con urgenza la vostra presenza nella Sala Comune.”
 
La voce metallica di JARVIS infranse il silenzio venuto a crearsi fra loro e li costrinse ad uscire dalla stasi in cui erano scivolati.
 
 
C’era forse altra scelta?
 
 
 
 
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Silenzio e stasi erano state le reazioni iniziali dei suoi compagni. Silenzio e stasi si stavano prolungando più di quanto si sarebbe aspettato e la superficie liscia e scura del tavolo era diventata improvvisamente parecchio interessante. Si mosse appena sulla sedia e incrociò le braccia al petto, in attesa di qualsiasi cosa avrebbe dovuto affrontare, ora che le carte era state messe in tavola – metaforicamente, nonostante fossero di fatto seduti attorno a un tavolo.
Una stretta decisa sulle spalle lo riscosse e si irrigidì nel momento in cui Tony fece gravare parte del suo peso su di lui.
 
“Troveremo un’altra strada per uscirne. Siamo arrivati fin qua e non cederemo adesso.”
“Tony” cercò di richiamarlo, perché il modo in cui riprese fiato era segno che aveva tutt’altro che finito. Stark però lo ignorò e la stretta sulle spalle si intensificò.
“Se Ross pensa di potersi approfittare della situazione, allora rimarrà parecchio deluso. È ovvio che vuole dividerci ed è ovvio che non sarà la sua ultima richiesta.”
“Tony.”
“Non venirmi a dire che hai preso in considerazione la cosa, Steve.”
 
Di nuovo quel silenzio. Un silenzio teso e pesante. Avrebbe tanto voluto che ci fosse il solito chiasso, l’accavallarsi instabile di parole, frecciatine e opinioni discordanti.
 
“Non ha preso in considerazione la cosa. Ha già deciso di accettare.”
 
Steve sollevò il capo e incrociò lo sguardo di James, in piedi e appoggiato con le spalle al muro. Fece di quello sguardo un appiglio e fu lui stavolta a rompere il silenzio.
“Ho già lavorato per il Governo e Washington non è così male. Inoltre, Bruce ha ragione. Finché saremo tenuti sotto controllo, sarà impossibile arrivare a Lewis. Se io accettassi, voi riotterrete la vostra libertà e riusciremo a chiudere questa storia. In seguito, troverò il modo di uscirne. Per me non cambierà poi molto rispetto la situazione attuale.”
 
“Adesso non lavori per Ross, Rogers. Non sai cosa potrebbe chiederti di fare o non fare. La sua offerta può sembrare vantaggiosa e questo basta per non accettarla.”
La presa di Tony sulle spalle di Steve si era fatta quasi spasmodica. Era sul punto di perdere la pazienza e lontano dal volersi rassegnare. Il biondo sapeva che doveva affrontarlo con maggiore decisione e si alzò dalla sedia, sottraendosi alla stretta.
 
Una volta faccia a faccia, Stark sembrò realizzare che, qualsiasi cosa avesse detto o fatto, non sarebbe servita a far cambiare idea a Rogers.
 
“Portami con te a Washington.”
 
L’attenzione generale ricadde sulla persona che aveva smorzato il nuovo momento di tensione e Sam quasi si sentì intimidito, però non abbastanza da voler ritirare ciò che aveva detto.
Steve sorrise in direzione dell’amico e, nonostante lo avrebbe senz’altro voluto al proprio fianco, non voleva coinvolgerlo in quel patto privo di concrete garanzie.
 
“Sam, non…”
 
“Imponi delle condizioni. Ross non le rifiuterà, o almeno, le prenderà in considerazione.”
Natasha era seduta a capotavola e Clint era dietro di lei, con le mani poggiate sullo schienale della sedia. La rossa stava cercando di celare quanto detestasse l’intera dannata situazione. Steve era stato onesto, perché sarebbe scomparsa ogni misura restrittiva senza fare ricorso ad azioni estreme. Tuttavia, il Governo non era intenzionato a mollare del tutto la presa e questo la faceva arrabbiare parecchio, quindi avrebbe fatto almeno in modo di portare quanta più acqua possibile al loro mulino. Se Ross credeva di potersi portare via il Capitano come e quando voleva, allora si sbagliava di grosso, perché lei non aveva intenzione di lasciarglielo fare.
“Ascoltami, Steve. È evidente che le condizioni dell’accordo sono state definite in modo che fosse esclusa la possibilità di un rifiuto da parte tua. Quindi, se avanzerai delle richieste appropriate, lui farà in modo di venirti in contro.”
 
“Tu sei davvero d’accordo con questa cosa, Natasha?” si intromise allora Stark, che non voleva ancora del tutto rassegnarsi. Per lui quella era una sconfitta, soprattutto dopo aver sopportato i controlli imposti da Ross e Benson per interi mesi.
 
“Io…” Natasha esitò “Sto solo cercando di trarre un qualche vantaggio dalla situazione, Tony.”
 
“Avevamo concordato di rimanere uniti” protestò l’inventore.
 
“La situazione attuale ci sta portando all’esasperazione e abbiamo la possibilità di uscirne. Questa cosa non ci dividerà” fu la ferma risposta di Rogers, il cui tono di voce si era fatto più fermo.
 
“Puoi assicurarcelo?”
 
“Ve lo assicuro, Tony.”
 
Stark scosse il capo e rise in modo non troppo rassicurante. Stava per ribattere ancora, quando Everett Ross fece il suo ingresso nella Sala Comune. Con lui c’erano sei agenti della CIA, fra cui la Carter e Collins.
Per un breve attimo, gli occhi di James incontrarono quelli di Sharon, rimasta in fondo al gruppo al fianco di Daniel.
 
“Ben ritrovati. Siamo qui per garantire ai piani alti che non vi immischierete nelle faccende che riguardano l’Hydra, da ora fino a nuovo ordine. Verranno montate delle telecamere di sorveglianza agli ingressi dei vostri appartamenti, qui e nella palestra. Dobbiamo essere certi che non pianificate un’altra uscita non autorizzata.”
Everett si sarebbe aspettato qualche commento poco delicato o un minimo segno di protesta. Invece, i Vendicatori si limitarono a scambiarsi sguardi parecchio intensi, senza dire una sola parola.
 
“Andiamo a bere qualcosa su da me?”
Tony si guadagnò l’approvazione dei compagni, che lo seguirono verso l’ascensore.
“Niente di personale, Ross, ma non siamo in vena di compagnia e vorremmo stare da soli, almeno finché non farai partire il reality show sulle nostre vite.”
 
Everett, perso in contropiede, si limitò ad annuire e lasciò che i Vendicatori gli sfilassero di fianco, senza opporsi in qualche modo. Evitò persino di rispondere a tono a Stark.
 
 
 
Non c’era altra scelta.
 
 
 
 
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Bucky era seduto su una delle panche appoggiate alle pareti della palestra. Era impegnato a fasciare le mani con maniacale precisione e, dai movimenti lenti e vistosi del torace, era facile capire che stava respirando profondamente.
Rivide in lui ciò che era stato negli anni successivi allo scongelamento e questo non fece che far aumentare la sensazione di vuoto nel petto. L’idea di dover lasciare New York senza riuscire a riparare la spaccatura fra loro lo stava torturando.
Nelle precedenti ore, gli Avengers avevano cercato di individuare le condizioni da sottoporre a Ross, per fare in modo di avere qualche garanzia in più.
Rogers aveva davvero apprezzato il fatto che i suoi compagni – Tony – avessero smesso di provare a dissuaderlo dopo la prima ora. Avrebbe chiamato Ross quella sera stessa, in modo da evitare che Everett, sotto ordine del Consiglio Mondiale della Sicurezza – Henry Benson –, portasse avanti quell’assurda intenzione di monitorare le loro vite ancor più strettamente di quanto non avesse già fatto negli ultimi mesi.
James gli concesse l’attenzione, solo quando gli si piazzò di fronte, a poco più di un passo di distanza.
 
“Ehi” iniziò, sperando di non venire brutalmente respinto nell’immediato.
 
Barnes si alzò in piedi e, dopo avergli dedicato un’occhiata parecchio penetrante, gli passò di fianco e raggiunse il centro della sala.
Rogers lo seguì e giunse nuovamente di fronte a lui. Tentò di iniziare una conversazione per la seconda, tuttavia fu costretto a parare un pugno diretto in faccia. Bloccare il braccio di metallo era sempre parecchio arduo, soprattutto quando Bucky decideva di fare sul serio.
Senza alcuna esitazione, James fece susseguire una serie di dritti e rovesci, alternando l’uso del braccio umano con quello di metallo. Era diventato più veloce e più forte rispetto l’ultima volta che si erano scontrati senza trattenersi e, visto il tempo che passava ad allenarsi, era assolutamente plausibile che il Soldato d’Inverno fosse salito di livello.
Bucky voleva spingere Steve a contrattaccare, a combattere come se dinanzi a lui ci fosse un nemico intenzionato a fargli male, e Steve glielo concesse, perché avrebbe fatto qualsiasi cosa per risanare la frattura che lui stesso aveva generato comportandosi da stronzo.
Certo, il Capitano non aveva i vestiti adatti per affrontare uno scontro di quel calibro, ma l’abbigliamento non era mai stato un ostacolo per lui – e di roba assurda ne aveva indossata. Imprigionò il polso destro del Soldato nella mano sinistra e protesse la parte destra del volto dal pugno metallico utilizzando l’avambraccio. Allora gli piazzò un calcio in pieno addome e lo scaraventò all’indietro. Aprì così uno spiraglio e ruotò i fianchi con forza e rapidità, mentre sollevava la gamba destra. L’intento era quello di colpirlo dritto su una guancia con il dorso della scarpa, ma la sua caviglia finì intrappolata fra le dita di metallo e James gli sottrasse l’ultimo appoggio rimasto – la gamba ancora libera – con un calcio piazzato sul ginocchio.
Rogers si ritrovò con la schiena a terra e rotolò di lato per non essere calpestato. Arcuò la schiena e saltò in piedi.
James non volle concedergli tregua, ma non si aspettava di riuscire a colpirlo dritto nello stomaco con tanta facilità. Incassare il colpo permise a Steve di avvolgere il Soldato con entrambe le braccia e di ricambiare il favore tramite una serie di ginocchiate dritte nello stomaco. Quei colpi Barnes li sentì, eccome se li sentì. Per uscire dalla situazione di svantaggio, il moro gli assestò una testata dritta sul naso e il Capitano mollò la presa, finendo per ricevere un secondo colpo nello stesso identico punto, ma stavolta da parte delle nocche metalliche.
Il ghigno che si allargò sul viso del Soldato d’Inverno fu una chiara provocazione e un invito a fare di meglio.
Rogers caricò a testa bassa, afferrò Barnes per le cosce e riuscì a sollevarlo quel tanto che bastò per sbatterlo con la schiena sul pavimento. Il Soldato allora allacciò le gambe attorno al collo del biondo e riuscì così a bloccarlo in una morsa ferrea.
 
“Mi dispiace… per ciò che… ho detto… non lo pensavo…” si sforzò di dire Rogers, mentre tentava di sottrarsi alla morsa.
“Non sei nella posizione per parlare” lo riprese Barnes, provocando così una risposta decisamente violenta da parte del compagno.
Difatti, le posizioni si invertirono in un’azione piuttosto rocambolesca e Steve riuscì a bloccare James sotto di sé, senza lasciargli scampo. Avevano entrambi il fiato corto.
“Ho detto che mi dispiace. Io… ti ho perso già una volta e… ti ho perso perché hai cercato di proteggermi.”
La presa del Capitano si fece meno salda e questo permise al Soldato di rompere la stasi, perché fu in grado di spingere via l’avversario e di tornare in piedi.
James approfittò poi della prolungata distrazione di Steve – rimessosi anche lui in piedi – per piazzargli pugni precisi sul costato indifeso.
Rogers incassò quei colpi con palese sofferenza e si ritrovò presto con le spalle al muro. Le dita di metallo andarono a stringersi attorno al suo collo, tuttavia non gli venne sottratta la possibilità di respirare.
 
“Detesto i tuoi dannati istinti autodistruttivi e detesto il fatto che rinunceresti alla tua vita senza pensarci due volte se lo ritenessi necessario. Non posso e non voglio cambiare quello che sei ma tu, Steve, non puoi impedirmi di proteggerti.”
 
James colpì Steve con una ginocchiata dritta nell’addome. Non ottenere alcune reazione, gli impedì di assestare un secondo colpo. Il biondo aveva smesso di combattere – come quella volta sull’Helicarrier – e sembrava che le parole appena ascoltate lo avessero scombussolato molto di più delle botte prese.
 
“Ti ho sempre protetto e continuerò a farlo, fino alla fine. Non mi importa quanto forte tu sia diventato.”
Fu allora che Bucky ritrasse il braccio di metallo, liberando il compagno.
 
“A quanto pare non abbastanza forte da metterti con le spalle al muro.”
Steve piegò le labbra in un mezzo sorriso teso e rilassò le spalle.
Lo sguardo di James non era più terribilmente freddo e distaccato, anche se era ancora visibile una vivida scintilla di rabbia.
 
“Tu non vuoi mettermi con le spalle al muro, a meno che non sia costretto da serie motivazioni imprescindibili.”
 
“Io…”
 
“Ogni volta che venivi rifiutato da un centro di arruolamento, non riuscivo ad evitare di provare un certo senso di sollievo. Era più forte di me. Potevo proteggerti da bulli o da bastardi malintenzionati con cui attaccavi briga senza esitazione. Ma il campo di battaglia non era nemmeno lontanamente paragonabile ai vicoli di Brooklyn e io non avrei potuto proteggerti.”
 
Steve rimase in silenzio. Non disse niente nemmeno quando Bucky si lasciò sfuggire una breve e risata, esternando una tensione non indifferente.
 
“Poi sei venuto a recuperarmi. Quando ho capito che eri tu, non sapevo se essere disperato o felice di vederti. Perché nonostante lo straordinario cambiamento, per me sei rimasto il piccoletto di Brooklyn tanto scemo e sempre a caccia di risse. Solo che adesso non lo sei più.”
 
“Buck…”
 
James gli afferrò la spalla con la mano destra e la strinse con decisione.
 
“Sei cambiato. Sei maturato. Avere la possibilità di vedere chi sei diventato in mia assenza…”
Bucky esitò, ma non distolse lo sguardo dalle iridi azzurre e liquide del compagno.
“Sono fiero di te, Stevie, nonostante il tuo spirito di conservazione faccia più schifo di quanto ricordassi.”
 
Fu istintivo da parte di Steve muoversi per poter stringere Bucky in un abbraccio tremendamente sentito.
Tuttavia, il moro poggiò con decisione il palmo della mano umana sul petto del compagno e lo spinse indietro, di nuovo con la spalle contro il muro.
 
“Sono ancora arrabbiato con te.”
 
Steve, suo malgrado, sorrise.
“Allora lasciami solo dire che ti vorrò sempre al mio fianco e che avrò sempre bisogno di te. Non hai idea dei grossi casini che ho combinato dal momento in cui mi hai lasciato solo.”
 
“Ti sbagli. Ho idea, dato che la volta in cui ti ho lasciato solo per un po’ più di tempo del solito, ti sei arruolato.”
 
Risero.
Niente era stato in grado di dividerli. Gli eventi ci avevano provato a tenerli lontani e ci erano riusciti per settant’anni, ma alla fine si erano ritrovati e si erano salvati a vicenda, come avevano sempre fatto e come avrebbero continuato a fare, fino alla fine.
 
 
 
 
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Quando il Triskelion era crollato e con esso sia l’Hydra sia lo SHIELD, Daniel aveva provato sentimenti contrastanti, non tanto riguardanti la necessità di un’azione tanto drastica, ma per quello che sarebbe stato il suo futuro da quel momento in avanti.
Non si era mai considerato un tipo brillante e dalle capacità eccelse. Eppure, in qualche modo, era stato notato dallo SHIELD.
Ancora oggi si chiedeva cosa avesse effettivamente spinto lo SHIELD a reclutarlo. Okay, aveva ottime qualità atletiche, sapeva lavorare sodo senza lamentarsi e non si tirava mai indietro di fronte ad una situazione difficile.
Prima dello SHIELD, si era infilato parecchie volte in situazioni difficili, a causa della grossa insofferenza verso bulli, sbruffoni e malintenzionati che credevano di avere il diritto di giocare con le vite delle persone. Ne aveva prese e date parecchie. Una volta si era rotto persino il naso e il setto era rimasto leggermente deviato verso destra.
Non era mai stato capace di starsene in disparte. La superiorità numerica o fisica degli avversari non l’avevano mai spaventato. La sensazione di essere riuscito a difendere qualcuno gli bastava per ignorare ogni conseguenza delle sue azioni – a volte decisamente avventate.
Entrare a far parte dello SHIELD era stata la grande svolta della sua vita e la convinzione che quella fosse la strada giusta non l’aveva mai abbandonato, almeno fino al crollo del Triskelion. Quel giorno aveva perso parecchie certezze, soprattutto perché l’idea di aver aiutato l’Hydra in qualche modo lo aveva logorato a lungo.
Aveva accettato di lavorare della CIA più per inerzia che per desiderio. Non se l’era passata troppo male, anche se fidarsi del prossimo era diventato alquanto difficile.
Sharon lo aveva aiutato parecchio e si era trovato bene a lavorare con lei. Il capo, Everett Ross, era un uomo che rispettava, nonostante potesse apparire duro, maniaco del controllo e antipatico a tratti. Everett aveva saldi valori, rispettava i superiori, evitava contrasti con i piani alti e sapeva prendersi cura dei suoi sottoposti.
Da quando era alla CIA, però, Dan si era reso conto di aver perduto la determinazione che lo aveva sempre contraddistinto. Inoltre, aveva preso parecchio male il fatto di dover fare da carceriere ai Vendicatori. Tuttavia, dal momento in cui aveva messo piede alla Tower, aveva smesso di provare il pensante senso di apatia che l’aveva accompagnato come un’ombra. Aveva ripreso ad allenarsi nei momenti liberi e, ora che sapeva dell’esistenza del nuovo SHIELD, aveva tutta l’intenzione di tornare a farne parte una volta concluso il contratto con la CIA. O almeno, quello era stato il suo piano, finché la sera prima non aveva ricevuto una chiamata da Ross in persona.
 
Adesso, Dan era seduto sul letto della sua camera a New York, quella messa a sua disposizione dalla CIA per poter svolgere il compito che gli era stato assegnato.
Non aveva chiuso occhio per tutta la notte, a causa dell’eccitazione, e stava ancora cercando di metabolizzare la notizia ricevuta, ma continuava a fallire abbastanza miseramente. Difatti, iniziò a ridere come un perfetto idiota e ci mancò poco che prendesse a saltellare sul letto.
Poco dopo aver ricevuto la notizia, si era dovuto pizzicare le guance un numero sorprendentemente elevato di volte e aveva finito per indolenzirle. Poco male, perché così aveva almeno avuto la certezza che non stava sognando.
 
Non si era mai considerato un tipo brillante e dalle capacità eccelse.
Era un disastro in tante cose e le sue capacità di relazionarsi si incartavano spesso in balbettii sconnessi o in momenti logorroici. Nonostante tutto, doveva essere bravo nel lavoro che aveva scelto di fare, altrimenti non si spiegava perché Capitan America aveva scelto lui.
Gli era infatti stato comunicato che, sotto richiesta di Capitan America, faceva adesso parte della squadra che avrebbe affiancato il Capitano stesso durante il periodo in cui quest’ultimo avrebbe lavorato per Ross.
Daniel avrebbe lavorato al fianco di Steve Rogers.
La cosa lo stava facendo uscire fuori di testa e già iniziava a sentire l’ansia da prestazione. Avrebbe fatto in modo di non deludere Steve e di non fargli rimpiangere di averlo scelto. Si sarebbe guadagnato il suo rispetto e la sua fiducia, eccome se lo avrebbe fatto. Era pronto a tutto.
 
Mentre si perdeva fra brodi di giuggiole ed elucubrazioni mentali un po’ troppo esagitate, non fu abbastanza attento da sentire un deciso bussare alla porta e nemmeno notò la persona che, senza attendere il permesso, entrò nella stanza.
 
“Metti via quel sorrisetto da ebete e prepara i bagagli, Dan. Dobbiamo partire fra qualche ora. Tutta questa sovraeccitazione potrebbe mandarti in tilt il cervello, sempre che non l’abbia già fatto.”
 
Daniel si riscosse e quasi gli venne un colpo nel ritrovarsi Sharon a pochi passi. Cercò mettere su un’espressione che fosse seria e concentrata. Non gli riuscì molto bene.
“Io... Sì... No... Cioè...”           
 
“Prendi un bel respiro, Collins” lo riprese allora la collega, trattenendo a stento una risata.
 
Il ragazzo obbedì e solo allora riacquistò un certo equilibrio mentale.
“Ci sarai anche tu? E come farai con James Barnes? E i controlli alla Tower?”
 
“Ci sarò anche io. Per il resto, ti spiegherò tutto mentre raggiungeremo la Tower. Quindi muoviti a preparare le tue cose.”
La Carter si lasciò sfuggire un sorrisetto divertito. Sapeva quanto fosse importante quel momento per Daniel, ma doveva essere certa che lui rimanesse concentrato. Riponeva grande fiducia nelle abilità del ragazzo, perché sul campo tirava fuori capacità invidiabili, sia di gestione della situazione sia di combattimento. E poi era riuscito ad attirare l’attenzione di Steve e questo era un gran dire.
 
“Okay, sarò una scheggia!”
 
“Certo, Scheggia. Ci vediamo fra un po’, allora.”
 
 
 
 
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“Queste dove le metto? Borsone o valigia?”
 
“Valigia.”
 
Anthea sistemò le maglie, precedentemente piegate ed impilate, in un angolo della valigia, la quale si stava lentamente riempiendo, mentre armadi e cassetti si svuotavano.
Osservò Steve sistemare la divisa stealth nel borsone, assieme ai guanti e alla cintura. Era dalla sera prima che non riusciva a sciogliere un fastidioso nodo formatosi nella gola e lo stava odiando con tutta se stessa quel maledetto nodo. Le riusciva difficile anche parlare, dannazione.
Raccolse dal pavimento l’elmetto e si avvicinò a lui per porgerglielo.
 
“Grazie” le disse il biondo, che si limitò a toglierlo dalle sue mani e a poggiarlo sul letto, senza staccarle gli occhi di dosso.
 
“Senti, Anthea...”
 
“No, non farlo. È tutto okay. Starai via un mese, non stai mica scomparendo per sempre. E poi ti raggiungeremo presto e comunque dovremmo occuparci dell’Hydra quindi riusciremo a vederci di tanto in tanto, basta che tu stia attento… e poi possiamo sentirci quindi non c’è nessun problema e qui ci sono tutti gli altri… andrà bene e devo assolutamente smetterla di blaterale come una pazza.”
 
Steve rise e si chinò a baciarla, mentre l’afferrava per i fianchi per attrarla a sé. Anthea gli circondò il collo con le braccia e lo tirò a sua volta contro di lei.
 
“Questo mi fa stare peggio, ma continua pure” gli disse, ad un soffio dal viso. Il nodo in gola pareva essere divenuto più stretto e iniziò a percepire un certo senso di nausea.
 
“Andrà bene e ...” iniziò il super soldato, ma venne prontamente interrotto.
 
“Direi che ho già parlato abbastanza per entrambi, quindi sta’ zitto e torna a fare ciò che stavi facendo.”
 
Steve non se lo fece ripetere e riprese a baciarla con trasporto. Riusciva a capire il turbamento che l’aveva resa più emotiva del solito, perché era lo stesso che stava provando lui, solo che si era ripromesso di esternare tranquillità e sicurezza, in modo da renderle le cose meno complicate. Solo il giorno prima le aveva detto che voleva rimediare, supportarla come lei aveva supportato lui, invece stava andando via.
Quando le aveva parlato della proposta di Ross, Anthea aveva assunto un’espressione di semplice e pura rassegnazione. Non si era opposta, in nessun modo. Durante il confronto avuto con gli altri Vendicatori, non aveva spiccicato parola e si era limitata ad ascoltare.
Quella notte avevano entrambi faticato a prendere sonno e avevano rinunciato a parlare di qualsiasi cosa praticamente da subito. Anthea aveva preferito fargli capire quanto fosse frustata e quanto le sarebbe mancato in altri modi. Steve sperava che anche lei fosse riuscita a capire quanto gli era costato prendere quella decisione.
La distanza che li avrebbe separati sarebbe stata niente, rispetto quella che li aveva tenuti lontani per quasi tre anni. Era necessario, almeno all’inizio, fare in modo che Ross non avesse nulla da ridire o da recriminare, quindi dovevano assicurarsi di seguire le regole concordate.
Quando la sera prima aveva chiamato Ross, Steve non si era aspettato tanta calma e accondiscendenza da parte dell’uomo.
Gli aveva comunicato di voler scegliere lui alcune delle persone che lo avrebbero affiancato e di cui si sarebbe quindi potuto fidare. Una volta fatti i nomi delle suddette persone, Ross aveva acconsentito.
Ovviamente, Steve ne aveva prima parlato con Sharon e, una volta venuta a conoscenza della situazione, lei aveva accettato senza esitare e gli aveva garantito che Collins sarebbe stato assolutamente d’accordo.
Per quanto riguardava il caso Hydra, qualunque azione sarebbe dovuta passare sotto l’approvazione di Ross e su quel punto Rogers non aveva potuto insistere troppo. Allora aveva chiesto di poter avere a Washington alcuni dei suoi compagni. Il Segretario aveva immediatamente affermato che avrebbe preso in considerazione la cosa, solo dopo aver valutato il suo rendimento nel primo mese di servizio. Praticamente, Ross non voleva altri Vendicatori fra i piedi durante il primo mese, a meno di un’approvazione di un intervento richiesto dal Capitano e che necessitasse della loro presenza.
Il mese di prova – così lo aveva chiamato Tony – sarebbe servito a Ross per verificare che Rogers fosse effettivamente disposto ad eseguire i suoi ordini. Se Rogers avesse fatto il bravo soldato, allora Ross gli avrebbe concesso di più.
Steve aveva evitato di pensarci troppo su, perché quell’idea del dare e avere non lo faceva sentire molto in pace con se stesso. Aveva poi chiesto al Segretario se sarebbe stato possibile incontrarsi con gli altri Vendicatori e lui gli aveva riposto che sì, sarebbe stato possibile, a patto che rimanesse a Washington e che non fosse di intralcio al lavoro.
 
“Devi stare al suo gioco. Comportati come quando eri nello SHIELD, prima che iniziassi a dubitare” aveva detto Natasha.
Poteva farlo, giusto? Doveva. Non sarebbe stato vincolato a Ross a vita e, per i suoi compagni, si sarebbe sforzato di essere più collaborativo. Sarebbe potuta andare molto peggio e contava sul fatto che, magari, Ross avrebbe iniziato a dargli più ascolto e ad essere più collaborativo a sua volta – a detta di Bruce, doveva tenere le aspettative a riguardo parecchio basse.
 
“Sam ha detto che mi farà visitare New York, dato che non saremo più agli arresti domiciliari.”
 
Anthea lo distolse dal corposo flusso di pensieri e quella novità gli fece sollevare un sopracciglio.
“Ha detto così?”
 
“E ha detto che convincerà anche James.”
 
Nonostante stesse cercando di simulare un’espressione offesa, perché lui non avrebbe potuto unirsi, Rogers sperava che Sam riuscisse davvero nell’impresa di far vedere a quei due qualcosa di diverso dalle basi dell’Hydra. Sapere che i suoi compagni sarebbero stati liberi di muoversi a loro piacimento e sapere che avrebbero potuto prendersi una pausa da tutta la complicata situazione iniziata tre mesi prima, lo rendeva più sicuro circa la decisione presa.
 
“Se tu dovessi scoprire che quella di Ross è solo una farsa per riuscire dove Lewis e Benson hanno fallito, non esitare a metterti in contatto con me in qualsiasi modo.”
Agli occhi di Anthea, Ross non era troppo diverso da Benson. Lei proprio non riusciva a fidarsi e poteva dimenticarsi sonni tranquilli per un po’.
Sapeva di essere iperprotettiva in alcune occasioni, ma aveva tutte le ragioni per esserlo, considerando gli ultimi eventi che avevano coinvolto Steve.
Era più forte di lei. Non era in grado di tenere a bada l’istinto di porsi fra lui e chiunque volesse fargli del male.
“Sembra che non riusciamo a stare nello stesso posto per troppo tempo” aggiunse alla fine l’oneiriana e, con un gesto impacciato, sistemò dietro l’orecchio una ciocca di capelli, tornati ad essere abbastanza lunghi da coprirle interamente le scapole.
 
“Ma stiamo migliorando” affermò sicuro Steve e le strappò un sorriso.
 
Finirono di sistemare tutto il necessario. Rogers indossò gli stessi vestiti – lavati dopo lo scontro con Bucky – del giorno prima, mentre Anthea si limitò a infilare un paio di scarpe da ginnastica, dato che aveva già addosso una tuta nera non troppo attillata e una maglietta grigia appartenente al Capitano – c’era persino scritto Rogers sul bordo della manica destra. Quando lei aveva fatto per toglierla, in modo da poterla sistemare in valigia con le altre, lui le aveva detto di tenerla.
 
Uscirono dalla stanza e trovarono James ad attenderli, anche lui comodamente in tuta come l’oneiriana e con il ciuffo moro che gli ricadeva disordinatamente sulla fronte.
 
“Niente allenamento alle prime luci del mattino?” domandò Steve, mentre posava a terra il borsone e lasciava il manico della valigia.
 
“Passo. Ieri ho dato abbastanza.”
James indicò il naso leggermente livido del biondo e sorrise in maniera abbastanza compiaciuta.
 
“In realtà si allenerà con me più tardi. Devo ancora finire di perfezionare lo stile di combattimento, visto che tu hai lasciato il lavoro a metà” fece presente Anthea e si finse profondamente oltraggiata dalla mancanza di Steve, tanto che lui le rivolse uno sguardo dispiaciuto.
 
“Quindi diventerai metà Capitan America e metà Soldato d’Inverno? Sarai il Capitano d’Inverno. Potrebbe essere il tuo alias.”
 
“Non ho bisogno di un alias, Sam, ne abbiamo già parlato.”
Anthea incrociò le braccia sotto il seno e accolse Wilson con un sorrisetto divertito.
 
“Cosa ci fai tu in piedi a quest’ora?”
 
“Colpa vostra, Steve. State facendo troppo rumore.”
 
“Lo penso anch’io. C’è gente che vorrebbe riposare al piano di sopra.”
In qualche modo, anche Tony spuntò dal breve corridoio di ingresso dell’appartamento che Rogers e Barnes condividevano, arrivando nel piccolo soggiorno riempito da un divano e qualche mobile di contorno.
 
“Anche ai piani di sotto, in realtà.”
Le parole di Clint seguirono quelle di Tony. Con l’arciere c’erano Natasha e Bruce.
 
“Questo posto si è fatto parecchio affollato.”
Anthea era contenta di vederli riuniti lì – l’assenza di Thor si faceva sentire in quel momento – nonostante la sera prima Steve aveva fatto intendere che non erano necessari saluti, considerato che sarebbe stato solo a quattro ore di auto e, passato il primo mese, sarebbe stato possibile vedersi al di fuori del lavoro. Non c’era affatto bisogno di farne una specie di dramma.
Di fatto, non ci furono saluti. Si limitarono a parlare di quanto fosse presto e del fatto che Rogers avrebbe almeno dovuto far trovare loro una colazione decente, dato che era lui la causa che li aveva tirati giù dal letto. Discussero su chi avrebbe preso il comando e Stark fu piuttosto convincente sul perché avrebbe dovuto essere lui – la minaccia di sfratto sortì gli effetti desiderati.
Passata una mezz’ora, senza che ci fossero troppi convenevoli o momenti di tensione, gli Avengers lasciarono l’appartamento uno dopo l’altro.
 
A parte James e Anthea, fu Tony quello che si trattenne ancora un po’.
“Tienimi aggiornato” disse, mentre si premurava di guardare Rogers dritto negli occhi.
“Lo farò. Lascio il resto a te, Tony.”
Dopo essersi scambiati un ultimo sguardo, tramite cui riuscirono perfettamente a comunicare senza bisogno di scomodare ulteriori parole, Tony seguì i passi dei compagni che si erano ritirati prima di lui.
 
 
James e Anthea accompagnarono Steve fino al parcheggio sotterraneo, dove trovarono Sharon e Daniel in attesa.
Erano appena le sette del mattino e c’era una calma quasi surreale.
 
“Gli uomini di Ross sono già qui?” chiese il Capitano, dopo aver saluto i due agenti.
 
Sharon scosse il capo.
“Non ancora. Potrei sfruttare l’occasione per la firma di fine rapporto con James? Ho con me i documenti e dovrei avere una penna nell’auto.”
La donna indicò l’Audi A1 grigia messa a disposizione degli agenti della CIA. Era in un angolo del parcheggio abbastanza distante da dove si trovavano.
“Nessun problema” risposero all’unisono i due super soldati e la Carter rispose con un “Ottimo” arricchito da un sottile ma percepibile entusiasmo.
 
Una volta che James e Sharon si furono allontanati, fu Daniel a rompere il silenzio, non senza una certa agitazione.
“Capitano Roge... Steve, volevo ringraziarti per questa opportunità. Darò il massimo.”
Il giovane si trattenne dall’abbracciare Rogers, perché aveva la quasi certezza che non fosse molto professionale, e si limitò ad una energica stretta di mano.
Steve sorrise e ricambiò la stretta, mentre Anthea tratteneva a sento una risata, perché la faccia di Daniel Collins, decorata da un paio di profonde occhiaie da insonnia e illuminata da un sorriso a trentadue denti, era qualcosa di buffissimo.
L’oneiriana si prese un momento per studiare il ragazzo. Doveva avere solo qualche anno più di lei e i tratti del viso non erano ancora quelli propri di un uomo maturo. Aveva occhi azzurri, limpidi e dal taglio morbido, impreziositi adesso da un luccichio di puro entusiasmo. I capelli scuri erano stati sistemati con scarsa attenzione e il corto ciuffo sbarazzino puntava ostinatamente verso l’alto. Era leggermente più alto di lei e aveva un fisico slanciato, coperto ora da cargo neri e da una felpa rossa che gli calzava leggermente grande.
Il ragazzo le trasmetteva sensazioni positive.
Doveva averlo osservato con un po’ troppa insistenza, perché Dan spostò lo sguardo su di lei e le rivolse un sorriso impacciato.
 
“Non assecondarlo troppo o si monterà la testa. Quando esagererà, e lo farà, ricordagli che è un idiota avventato” disse allora lei, con tranquillità, e fece a Daniel un occhiolino di complicità, provocando il colorirsi repentino delle sue guance.
 
“Reyes” si sentì in dovere di richiamarla Rogers e il suo tentativo di ostentare una certa autorità gli riuscì piuttosto bene.
Peccato che Anthea rise e Dan, un po’ per la tensione che si sciolse e un po’ per il fatto che la risata di lei risultò contagiosa, si lasciò sfuggire una mezza risatina, che soffocò non appena incontrò lo sguardo di Steve.
“Anche quelle occhiatacce... non farti intimorire troppo. Però se la ruga fra le sue sopracciglia si fa profonda, come in questo momento, meglio battere in ritirata.”
L’oneiriana lasciò un’amichevole pacca sulla schiena del super soldato, come chiaro segno di tregua.
 
La prima volta che Daniel aveva visto Anthea era stata quando lei era sbucata dall’ascensore insieme a Steve, con indosso vestiti un po’ troppo grandi per la sua corporatura. Aveva incrociato lo sguardo con lei per un brevissimo attimo, eppure era rimasto impressionato dalla profondità delle sue iridi magnetiche. Dopo quel giorno, l’aveva vista parecchie volte negli ultimi due mesi, a causa della sorveglianza svolta alla Tower, e lei era sempre stata cordiale con lui.
Era indubbio che fra la Reyes e il Capitano ci fosse un rapporto particolare, ma non li aveva mai beccati – non che andasse in giro per la Tower a fare lo stalker, ovviamente – mentre scambiavano effusioni di qualunque genere. Però, qualche commento poco discreto di Tony Stark l’aveva sentito. Inoltre, c’era il fatto che lei indossasse di tanto in tanto – e anche in quello stesso momento – indumenti che Dan era certo di aver visto addosso a Steve. E poi esistevano altre prove abbastanza evidenti, come il loro modo di interagire, le occhiate che scambiavano e i contatti apparentemente casuali.
La Reyes aveva sempre conservato un’aura di mistero ai suoi occhi. Dai fascicoli aveva appreso che non era del tutto umana e diverse volte si era interrogato sulle sue reali abilità, dato che non l’aveva mai vista in azione. Di certo, il suo fisico sembrava essere stato progettato e costruito in modo da conferirgli una forza ed una elasticità invidiabili e forse quell’ultimo pensiero era leggermente inficiato dal fatto che lui fosse pur sempre un venticinquenne con ormoni funzionanti - e lei era attraente e magari poteva anche evitare di pensarlo in momenti poco opportuni.
Forse ci sarebbe stata occasione per lavorare con la Reyes un giorno, considerando che lei lavorava con Steve, cosa che da oggi avrebbe fatto anche lui.
 
 
Nel frattempo, chiusi in macchina, James e Sharon avevano sistemato le carte che avrebbero riportato tutte le informazioni raccolte dalla donna durante il periodo di supervisione.
 
“Quindi da adesso non abbiamo più alcuna relazione professionale” constatò Barnes, mentre restituiva la penna alla Carter.
“Esattamente.”
Lei prese la penna e la mise via, senza fare troppa attenzione a dove l’abbandonava.
“Bene.”
James baciò Sharon senza il minimo preavviso e lei ricambiò non appena registrò ciò che stava effettivamente accadendo. Si divisero dopo un lungo istante.
“Ci sentiamo allora” disse lei, con il fiato ancora corto e gli occhi liquidi.
James annuì e scambiò con Sharon un ultimo bacio. Poi si ricomposero ed uscirono dall’auto.
Furono sollevati nel vedere che gli altri stavano ancora parlando fra loro e non esternarono alcun segno di sospetto.
“Tienilo d’occhio per me” le sussurrò il moro, prima che fossero notati.
“Contaci” rispose la donna, mantenendo lo sguardo dinanzi a sé.
 
 
La macchina mandata da Ross giunse pochi minuti dopo. Era ora di andare.
 
“State lontano dai guai e non fate niente di stupido.”
“Dici a noi?” chiesero quasi nel medesimo istante Bucky e Anthea. Le occhiate che rivolsero a Steve furono piuttosto eloquenti.
“Non vedo altre persone nei paraggi.”
“Divertente” celiò la ragazza e, prima che Rogers potesse allontanarsi, si avvicinò a lui e lo baciò con un certo trasporto, fregandosene del fatto che non fossero soli.
 
Il sorrisetto di Bucky fu impagabile.
 
 
 
 
֍
 
 
 
 
Il passaggio che sfrecciava fuori dal finestrino non era nuovo per nessuno di loro. La macchina era parecchio spaziosa e in tre si stava abbastanza comodi sui sedili posteriori. Dan si era ritrovato in mezzo fra Steve e Sharon.
I sedili anteriori erano occupati da una donna – al volante – e un uomo, mandati da Ross per scortarli fino a Washington.
 
Viaggiavano da una mezz’ora, quando il cellulare di Collins iniziò a riprodurre la voce di Bon Jovi che intonava It’s my life.
Dan si affrettò a rispondere, cercando di celare l’imbarazzo dietro un atteggiamento che fosse professionale, peccato che l’interlocutore non glielo permise più di tanto.
 
“Sì, sto bene. So di non essermi fatto sentire molto, ma ho avuto tanto da fare.”
Dan rimase in silenzio per qualche attimo, in ascolto.
“No, non posso passare a trovarti questo fine settimana. Mi trasferiscono in una filiale a Washington.”
Un altro lungo silenzio.
“Non ho fatto alcun... danno” l’ultima parola, Collins la disse a voce molto bassa.
“Il lavoro a Manhattan è semplicemente finito” aggiunse, piccato.
Non molto dopo, il moro sbuffò e pinzò il proprio naso fra pollice e indice.
“No, non ho ancora una ragazza e la mia vita sentimentale non è un disastro. Sono solo troppo occupato.”
 
Steve sorrise dietro le nocche della mano su cui aveva poggiato il mento, mentre il gomito era ben piazzato sul bordo del finestrino.
 
“Prometto che verrò a trovarti presto e sì, ti chiamerò più spesso.”
Dan rimase in ascolto qualche altro istante, prima di parlare ancora.
“Non preoccuparti troppo per me e ti voglio bene anch’io, mamma” ammise, con tono più morbido, per poi salutare e chiudere la telefonata.

“Le dici sempre che ti farai sentire più spesso, ma non lo fai mai” disse a quel punto Sharon e si godette appieno l’imbarazzo che colorò di rosso le guance del moro.

“La chiamo almeno una volta a settimana e poi non è così facile inventarsi balle su una vita che non esiste. Sono costretto a raccontarle del mio lavoro da consulente aziendale e a trovare giustificazioni sulla mia non rintracciabilità prolungata quando affrontiamo lunghe missioni sotto copertura. E io sono pessimo a mentire” si giustificò Dan.
 
“Deve essere dura non poter parlare del lavoro che fai con la tua famiglia” convenne a quel punto Rogers.
 
“A volte lo è… ma non ho intenzione di mollare. Questa è la mia strada.”
 
La determinazione di Collins era palpabile e Steve fu ancora più certo di aver fatto la cosa giusta nel voler portare il ragazzo con sé.
 
“Posso chiederti una cosa?”
Daniel si rivolse direttamente al Capitano e assunse un cipiglio serioso.
 
Steve annuì.
 
“È vero che durante la missione della Lemurian Star ti sei lanciato dal Quinjet in volo senza il paracadute?”

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Capitolo 25
*** Compromise and Reassurance ***


Compromise and Reassurance
 
 
 
Maggio 2015
Vladivostok, Russia

 
 
Amava la sensazione dell’adrenalina che induceva il cuore a pompare il sangue con maggiore forza e rapidità. Non sentiva la stanchezza, percepiva a malapena il dolore e riusciva ad acquisire una sicurezza e una determinazione tali da permettergli di superare, ogni volta, quelli che aveva creduto essere limiti.
L’adrenalina aumentava l’attenzione, diminuiva i tempi di reazione, affinava i sensi e tacitava la paura di vedersi passare ad un centimetro dalla giugulare la lama affilata di un coltello.
Disarmò l’uomo che aveva tentato di sgozzarlo e lo stese nel giro di una manciata di secondi, per poi riservare lo stesso trattamento al tizio che provò ad aggredirlo alle spalle.
Okay, c’era quasi.
Registrò un movimento alla sua destra e si gettò a terra, in modo da evitare una pallottola. Mentre scivolava sul pavimento, estrasse dalla tasca laterale dei cargo grigi un coltello e lo lanciò senza esitazione, facendolo conficcare nella mano armata dell’uomo, che finì disarmato. Tornò in piedi e buttò giù l’avversario con un calcio volante dritto sul lato destro del volto.
Continuò la corsa e raggiunse una stanza poco illuminata, dove avrebbe trovato ciò per cui era giunto fin lì. Quando era stato deciso il piano d’azione, quella stanza era stata definita sala di controllo ma, ad una prima occhiata, era più simile ad uno scantinato poco illuminato e tecnologicamente attrezzato con lo stretto necessario per rimanere collegati al mondo esterno e per controllare che il mondo esterno non sconfinasse all’interno.
 
“Cavolo, non finiscono più.”
 
Contò altri quattro uomini all’interno della stanza. Non ci impiegò molto a disarmarli e a stenderli. Lo stile di combattimento che stava gradualmente acquisendo possedeva un’efficacia straordinaria. Se fosse riuscito a padroneggiarlo fino in fondo, sarebbe senz’altro salito di livello.
Si avvicinò ad un tavolo in legno massello, che era posto in un angolo della stanza riempita da scaffali e scatoloni pieni di armi e provviste. Dal soffitto pendevano svariate lampadine che emanavano una luce soffusa. Sul tavolo, oltre il computer fisso, c’erano rimasugli della cena che lui stesso aveva interrotto.
Una volta messo mano al computer, disabilitò tutti gli allarmi e disattivò le telecamere.
Era fatta.
Nel giro di una decina di minuti, a partire da quel momento, avrebbero portato a termine il lavoro.
“Scantinato… cioè sala di controllo in sicurezza” comunicò tramite la ricetrasmittente infilata nell’orecchio destro.
Adesso doveva solo caricare sulla pendrive tutti i dati salvati sul computer, mentre gli altri si occupavano del resto. Nulla di difficile.
Inserì la pendrive nel case del computer e iniziò la usuale procedura di trasferimento e recupero dati.
Trascorso solo qualche minuto, la voce di Rogers risuonò nel suo orecchio e gli parve incrinata da una sottile agitazione.
 
“Dan, allontanati da lì. Raggiungi l’esterno e non ingaggiare.”
 
All’ordine perentorio del Capitano seguirono rumori di passi in corrispondenza dell’ingresso della stanza. Intercettò un uomo che si avvicinava a passo svelto e con l’aria per niente amichevole. Aveva la barba scura e i capelli rasati. Era grosso, tanto che a confronto Steve sarebbe parso poco preoccupante.
Controllò a che punto era arrivato il trasferimento dei dati e imprecò fra i denti quando constatò che non era nemmeno a metà. Serviva più tempo.
 
“I dati sono quasi pronti, Cap. Un solo nemico in vista. Posso farcela.”
 
La risposta di Rogers non si fece attendere.
“Raggiungi l’esterno, Collins. Ora. E non...”
 
Saltò la comunicazione e la linea divenne muta.
 
Avrebbe raggiunto l’esterno, certamente. Ma solo dopo aver recuperato i dati.
Poteva farcela.
L’uomo arrivò a pochi passi dal tavolo e Dan si preparò a guadagnare tempo in ogni modo possibile. Ingaggiò il nuovo nemico e dopo i primi colpi che riuscì ad affondare, si rese conto di non essere stato in grado di fargli troppo male. In realtà, se doveva essere sincero con se stesso, non era riuscito a strappargli nemmeno una mezza espressione sofferente.
Brutto segno.
Il nemico gli assestò un pugno dritto sull’addome e Daniel si piegò in avanti, tossendo convulsamente. Fu quasi certo di aver sentito le costole gridare, ma non era il momento per stare ad ascoltare le lamentele del suo corpo. Si costrinse a muoversi per evitare di essere colpito ancora.
Quell’energumeno aveva una forza bestiale e una mezza idea sul perché Steve gli avesse detto di non ingaggiare iniziò a farsela. Tuttavia, non aveva intenzione di scappare ed era deciso ad uscire da lì con la pendrive e con i dati in essa.
Mise in atto una tattica basata sulla difensiva, tenendosi a una certa distanza dall’avversario e cercando di schivare gli attacchi. Quando vedeva una spiraglio, allora contrattaccava, anche se il nemico non sembrava avvertire troppo i colpi che metteva a segno.
Tentò di sfoderare un coltello da taglio, ma venne spinto contro la parete della stanza e l’impatto lo lasciò senza respiro. Si gettò a terra, verso sinistra, schivando un poderoso pugno, e il coltello scivolò via, in un angolo scuro della stanza. Vide le nocche dell’uomo conficcate nel muro e fu sollevato che lì non ci fosse finita la sua faccia.
Saltò in piedi e corse verso il computer. Il caricamento dei dati era stato ultimato, quindi sfilò via la pendrive e la mise al sicuro nella tasca. L’attimo dopo si sentì afferrare per il retro del colletto del giubbotto antiproiettile e perse il contatto con il pavimento. Fu praticamente lanciato contro il muro e, una volta tornato a terra, si chiese perché non avesse dato retta a Steve.
Era ancora a carponi, quando la punta di uno stivale nero si conficcò nello stomaco e lo fece rotolare verso il centro dello scantinato. Adesso aveva la vista offuscata, ma era ancora intero, più o meno.
Poteva farcela.
 
“È tutto qui quello che sai fare?” sibilò fra i denti, mentre si rimetteva di nuovo in piedi.
 
Non era spaventato e non aveva intenzione di scappare. Niente era perfetto e indistruttibile ed era pronto a dimostrarlo.
“Studia, attendi e spezza” gli aveva detto Steve, perché uno scontro non lo si vinceva solo con la forza. Era possibile buttare giù un avversario più forte se si usava la testa.
Aveva studiato abbastanza, quindi era arrivato il momento di passare alla seconda fase.
Pugni alti e gomiti stretti per proteggere il viso e il costato – non poteva permettersi di subire altri colpi di quel calibro –, testa svuotata da ogni pensiero diverso da quello di abbattere il nemico.
 
“Respira, Dan. Imponi il tuo ritmo e buttami giù.”
 
Sorrise nel riportare alla mente le parole di Rogers. Durante i loro allenamenti, non era ancora mai riuscito a buttarlo giù, per quanto testardamente ci avesse provato, ma aveva imparato ad imporre il ritmo. E se era riuscito a farlo con Steve, poteva farlo anche con quel tizio che non valeva nemmeno la metà del Capitano.
Schivò ogni attacco con estrema agilità, senza contrattaccare e senza scoprirsi. Doveva superare i suoi attuali limiti, doveva essere più veloce e più forte. Era in quei momenti che percepiva uno strano calore permeare ogni muscolo del corpo ed era una bella sensazione.
 
Per seguire i movimenti di Dan, l’uomo iniziò a lasciare inavvertitamente delle aperture.
 
Hai atteso abbastanza, Daniel. Stendilo adesso, puoi farcela.
 
Calciò dritto sulla punta del ginocchio destro dell’avversario, tre volte consecutivamente. L’energumeno perse la stabilità e fu allora che lo afferrò per un braccio e, riuscendo nell’impresa di sollevarlo di peso, lo sbatté a terra con una mossa fluida e rapida. Gli schiantò la suola della scarpa sulla faccia più di una volta, finché non fu certo di averlo reso incosciente.
 
“Te l’ho fatta, bastardo.”
 
Dan prese un bel respiro e corse in direzione delle scale cigolanti che lo avrebbero condotto fuori dallo scantinato. Dovette però bloccarsi ai piedi della rampa, perché stava venendo giù un altro uomo grosso, costituzionalmente molto simile a quello che aveva steso prima ... e che adesso era alle sue spalle con la faccia insanguinata e l’espressione parecchio incazzata.
Dannazione. Forse doveva iniziare a definirsi quasi spacciato.
Quasi, quindi poteva ancora uscirne e poteva farlo assieme alla pendrive. Sì, ne sarebbe uscito. Era pronto. Prontissimo e ...
 
Grazie al cielo, Steve! Quanto terribilmente adorava Steve e il suo tempismo? Davvero tantissimo in quel momento.
 
Il Capitano si scontrò contro l’uomo sulle scale e Dan poté difendersi dal nemico che aveva già steso una volta.
Il moro doveva aver perso un po’ dell’iniziale concentrazione – non sentiva più il calore dentro di sé –, perché perse rapidamente terreno. Fu costretto ad incassare, finché non fu tirato indietro da una stretta sulla spalla e la schiena di Rogers gli si piazzò davanti. Ammirò il super soldato stendere l’avversario con un pugno, una scudata e un calcio che si susseguirono veloci e precisi.
Poco dopo, gli occhi azzurri di Steve gli furono addosso e gli fecero deglutire rumorosamente il grumo di sangue che si era formato in gola.
 
La ruga fra le sopracciglia. Cavolo, era nei guai.
 
Dan tirò fuori la pendrive e gliela porse.
“Ho trasferito tutti i dati.”
Rogers la prese e la infilò in una delle tasche della cintura, senza però staccare gli occhi da lui.
“Ti avevo detto di raggiungere l’esterno e di non ingaggiare.”
Era arrabbiato. Lo era decisamente e Collins iniziò a sudare freddo.
“Potrei aver pesato di potercela fare” fu il fievole pigolio del moro, che abbassò lo sguardo con fare colpevole.
“Dan …”
“Lo so, lo so, questa non è una giustificazione e non so nemmeno perché continuo ad usarla ogni volta.”
 
Erano ventuno giorni che Ross utilizzava interrottamente Capitan America – e la squadra che gli era stata affiancata – per risolvere spinose questioni rimaste latitanti fino ad allora e, in particolare, da quando il Triskelion era crollato. Il Segretario li aveva sguinzagliati contro organizzazioni criminali e gruppi terroristici, sia in America sia al di fuori. Avevano avuto a che fare con traffici illegali di armi aliene – i resti dei Chitauri erano ancora in giro –, armi chimiche, biologiche e belliche. Avevano sventato attentati e avevano assaltato luoghi in cui nessun altro avrebbe mai messo piede.
Non avevano avuto un giorno di tregua, considerando anche i viaggi per spostarsi da una parte all’altra del mondo. Ross aveva detto che quello sarebbe stato l’ultimo compito e poi avrebbe concesso loro una pausa.
Era per quell’ultimo compito che adesso si trovavano a Vladivostok, in Russia, all’interno della casa sicura di un magnate russo che si era arricchito vendendo armi aliene al di fuori dell’America. Lo avevano inseguito per tre giorni.
Ciò che non si erano aspettati era di affrontare potenziati simili a quelli che Steve aveva incontrato combattendo contro l’Hydra negli ultimi mesi, prima di accettare di lavorare per Ross.
Solo che stavolta non si trattava dell’Hydra.
 
Steve sospirò profondamente e riposizionò lo scudo dietro le spalle.
“Stai bene? Non hai un bell’aspetto.”
 
Effettivamente, Dan si rese conto che gli faceva male la faccia e lo zigomo destro pulsava con insistenza. Nemmeno l’addome gli sembrava troppo a posto, dato che piegarsi e respirare sembrava più difficoltoso del solito. Ma poteva andare avanti.
 
“Sto bene, Cap.”
 
Steve annuì – affatto convinto delle condizioni di Daniel – e gli fece cenno di andare avanti e prendere le scale per uscire fuori dallo scantinato.
Dan si mosse senza esitare e, risalite le scale, arrivarono nell’ampia sala da pranzo. Sul pavimento, fra gli uomini che aveva steso prima, individuò due potenziati che erano stati ridotti parecchio male. Sollevò lo sguardo dal pavimento e osservò una seconda scalinata che portava alle stanze da letto. C’erano uomini che erano stati messi k.o. e che adesso tappezzavano le scale e quella non era stata opera sua, dato che il piano di sopra non era compreso nella zona che gli era stata affidata.
I suoi passi e quelli di Rogers facevano eco nella sala. Il Capitano stava camminando dietro di lui ed era quasi sconcertante quanto la sua presenza lo facesse sentire tranquillo.
 
Quando raggiunsero l’esterno, Dan rabbrividì per il freddo pungente che gli venne sbattuto addosso da un vento che portava con sé l’odore del mare.
C’era già un jet ad attenderli, non molto distante dall’ingresso della casa sicura. All’interno del velivolo trovarono Sharon e altri due membri della squadra che Ross aveva assegnato a Rogers.
John Bennet e Janet Stewart erano entrambi soldati che avevano ricevuto un addestramento speciale ed erano parte di una task force che Ross aveva creato e gestito a partire dalla caduta dello SHIELD, con lo scopo di occuparsi lui stesso di minacce che avrebbero approfittato della situazione per muoversi con maggiore facilità.
Bennet era un uomo di quarantuno anni dall’aspetto austero. Gli occhi scuri e dal taglio affilato erano sovrastati da sopracciglia folte. Aveva la mandibola dai tratti duri e la cosa dava l’impressione che fosse perennemente di cattivo umore. Il pizzetto faceva concorrenza a quello di Stark per la cura con cui era mantenuto e i folti capelli castani erano tirati all’indietro da una buona dose di gel. Era fisicamente ben piazzato, persino più grosso di Rogers, oltre che poco più alto. Aveva una resistenza invidiabile ed era un asso sia nel corpo a corpo sia con le armi da fuoco.
Janet Stewart aveva invece trentacinque anni e Dan ancora si chiedeva se il biondo scintillante dei lunghi capelli lisci fosse naturale oppure no – optava più per la seconda. La forma degli occhi castani era leggermente allungata, aveva labbra piene e un naso appuntito. Era molto agile e sapeva utilizzare in modo eccelso qualsiasi arma bianca esistente. Usando un coltello da taglio, poteva colpire bersagli parecchio distanti con una precisione incredibile.
 
I nuovi colleghi di Rogers stavano ora facendo in modo che il magnate russo finalmente catturato non tentasse di filarsela.
 
“Capitano, quale onore. Non avrei mai immaginato che potessi diventare il cagnolino di Ross. Sai, li avevo pagati parecchio quei super soldati, ma non mi aspettavo che il Generale avesse un’arma di tale portata dalla sua.”
Il magnate russo, vestito con un completo dai riflessi viola, aveva i capelli completamente bianchi, ma il volto non era segnato da rughe troppo evidenti. Sedeva su una delle postazioni del velivolo e non sembrava turbato dal fatto che fosse stato catturato.
Rogers decise di non rispondere alla provocazione e fece in modo di far vertere il discorso su ciò che era davvero importante.
“Chi ti ha venduto i super soldati?”
Il magnate sorrise e accavallò le gambe con un movimento fluido ed elegante.
“Cosa ci guadagno se ti rivelo questa informazione?”
“È Adam Lewis?” insistette il biondo.
“Oh, capisco. Non hai intenzione di contrattare. In questo caso, vorrei parlare con il tuo superiore.”
 
Daniel rabbrividì di nuovo, ma stavolta non per il freddo. Fu notare la mandibola di Steve serrarsi con forza e lo sguardo affilarsi a fargli venire la pelle d’oca. Avevano l’ordine di prendere in custodia il magnate e di consegnarlo a Ross, quindi teoricamente non potevano toccarlo o minacciarlo.
 
“A quanto pare è una questione personale. È perché hai perduto l’esclusiva?” parlò ancora l’uomo e allargò il sorriso.
 
“Lascia stare, Steve. Ora finiamo il lavoro.”
Sharon fece sciogliere la tensione e il super soldato rilassò le spalle.
 
“Hai ragione. Bennet, Stewart, mettete in sicurezza l’interno della casa” ordinò allora Rogers.
 
I due interpellati si mossero senza esitare e, non appena furono fuori dal jet e abbastanza distanti, il click di una pistola ruppe il silenzio e il magnate si irrigidì.
“Ha provato a fuggire ed è stato necessario renderlo inabile di camminare.”
Il tono risoluto della Carter risultò decisamente convincente. La donna aveva già avuto a che fare con questo tipo di uomini e sapeva che avrebbero fatto di tutto per evitare la morte e per sottrarsi al dolore.
 
“Quindi è così che funziona. Interessante.”
 
Sharon puntò la pistola sul ginocchio destro dell’uomo e sembrò davvero essere sul punto di sparare, tanto che Dan trattenne il fiato. Steve, invece, rimase perfettamente inespressivo e attese.
 
“Aspetta! Non c’è bisogno di spargere sangue! Sì, è Adam Lewis che mi ha venduto quei super soldati e li ha definiti esperimenti mediocri. Alcuni miei contatti in America mi hanno parlato di lui. All’inizio ero scettico, ma i suoi prodotti sono decisamente funzionali. Tu non eri previsto, Capitano, ma è ovvio che Ross non ha avuto altra scelta se non quella di assoldarti, così da poter rispondere al fuoco con il fuoco.”
 
“Che aspetto ha Lewis?” fu la successiva e secca domanda di Steve.
 
Il russo sembrò pensarci su e poi, senza apparente motivo, sbuffò una mezza risata. Però si ricompose velocemente, non appena notò che sia Rogers sia la Carter lo stavano fulminando con lo sguardo.
“Portava una mascherina bianca che gli copriva metà del viso e un paio di occhiali da sole, quindi è difficile dirlo. Sembra un uomo giovane, anche se non si direbbe da come parla. Fisicamente non siete troppo dissimili. Forse lui è più alto. Le sue mani erano parecchio pallide.”
 
“Sei in grado di contattarlo? Hai idea di dove potrebbe nascondersi?”
 
“Quell’uomo è furbo, Capitano. Sa come muoversi senza lasciare traccia, ma credo voglia gestire gli affari in prima persona, dato che è venuto da me personalmente.”
 
Steve scambiò un cenno del capo con Sharon e, dopo aver rivolto un ultimo sguardo penetrante in direzione del magnate, uscì dal velivolo.
Senza sapere bene perché, Dan seguì il super soldato. Semplicemente si era mosso di riflesso, guidato dall’istinto.
 
Vladivostok era situata nell’estremo oriente russo ed era capoluogo del Territorio del Litorale.
Per la felicità di Daniel – odiava il jet lag –, lì si trovavano ben quattordici ore avanti rispetto a Washington. Era notte e, nonostante il motivo che li aveva condotti in quella fredda città, c’era da ammettere che faceva un certo effetto la vista del cielo punteggiato di stelle che si specchiava nell’immenso oceano Pacifico, increspato dal vento gelido. La casa sicura del magnate russo era vicina ad un’alta scogliera e, se ne seguiva il profilo, Dan poteva scorgere in lontananza la luce rassicurante di un faro che avrebbe guidato le navi nell’oscurità.
Si fermò al fianco di Steve, ad un paio di passi da un precipizio che la notte faceva apparire senza fondo.
 
“Adesso sappiamo che ha un aspetto giovane e che si espone quando deve fare affari. E anche che è palliduccio. Sono ottime informazioni.”
 
“Se stai cercando di consolarmi, non sta funzionando. Ma grazie comunque.”
Lo sguardo di Steve rimase rivolto alle acque scure che, infrangendosi sulla scogliera, generavano un intenso fragore.
 
“Non hai intenzione di buttarti, vero?” domandò allora Collins, rivelando una certa apprensione.
 
Il biondo stavolta spostò l’attenzione sul compagno più giovane e sollevò un sopracciglio, scettico.
“Come diavolo ti è venuto in mente?”
“Hai un’espressione strana.”
“Oh, certo. È l’espressione contrariata che mi piace usare quando qualcuno ignora le mie istruzioni.”
“Ottimo! Sono sollevato… in parte. A mia discolpa, la linea era disturbata e non ho capito …”
“Stai peggiorando la tua situazione, Collins.”
Rogers suo malgrado sorrise e Daniel provò una certa soddisfazione nell’essere riuscito in quell’impresa.
Negli ultimi ventuno giorni, il Capitano non aveva potuto occuparsi dell’Hydra e né tantomeno di Lewis, perché Ross aveva fatto in modo che a malapena avesse il tempo di dormire – a tal proposito, Dan aveva un disperato bisogno di dormire. In ogni caso, la situazione non aveva di certo giovato ai nervi già provati del super soldato e, adesso che la presenza di Adam Lewis si era fatta di nuovo parecchio ingombrante, era difficile immaginare fino a che punto avrebbe potuto spingersi Rogers per porre fine, una volta per tutte, alle losche macchinazioni del dottore.
Dan sapeva che gli altri Avengers non erano rimasti a guardare e, attraverso via traverse, avevano trovato il modo di muoversi senza destare troppo l’attenzione del Governo. Aveva beccato diverse volte Steve mentre parlava al telefono con uno dei suoi compagni e, in particolare, con Tony Stark.
 
Comunque! Ho steso il tipo grosso seguendo le tue dritte” disse Collins, esternando un certo orgoglio.
“Quando mi insegnerai altro? Sono pronto ad apprendere qualsiasi cosa, so essere una spugna a rapidissimo assorbimento, credimi.”
“Ne riparleremo quando imparerai a non gettarti a capofitto in situazioni che potrebbero ucciderti.”
Il biondo incrociò le braccia al petto e assunse un cipiglio abbastanza severo. Peccato che Daniel non ne fu assolutamente intimorito, anzi.
“Ma tu ti getti sempre a capofitto in situazioni che potrebbero ucciderti.”
“Non è la stessa cosa.”
“A me pare proprio di sì.”
 
Quel botta e risposta venne interrotto dall’arrivo di due jet. Erano stati mandati per trasportare tutti i criminali che il super soldato e la sua squadra avevano steso durante l’incursione nella casa sicura.
 
Un uomo in divisa militare si avvicinò a passo svelto verso di loro.
“Capitano, il Segretario desidera parlare con lei.”
Consegnò a Rogers un cellulare e poi si allontanò di una decina di metri, per garantire una certa privacy alla conversazione.
 
“Hai fatto un buon lavoro, Rogers. Potete tornare a Washington. Mi occuperò io del resto. Lascia i dati recuperati al mio uomo.”
 
“Sapeva del traffico di super soldati? È per questo che ha voluto che lavorassi per lei?” chiese di slancio il biondo, spinto dall’eco della conversazione avuta con il magnate russo.
 
“È riduttivo, Rogers.”
 
Quella era tutt’altro che una risposta chiara.
“Ho bisogno dei miei compagni. Non posso gestire l’Hydra e Lewis se mi tiene così occupato. Aveva detto che…”
 
“Ti avevo chiesto un mese. Ti sei comportato bene finora, ma preferirei che continuassimo così. Inoltre, vista l’implicazione di Lewis nei miei affari, sarà più facile per noi collaborare.”
 
“Ross ...”
 
“Non essere impaziente, Rogers. Mi farò risentire presto. Buon rientro.”
 
Chiusa la chiamata, il Capitano consegnò cellulare e pendrive all’uomo in divisa militare. Sospirò e rivolse di nuovo lo sguardo verso l’oceano. , era proprio un bello spettacolo e dava un certo senso di pace.
 
“Ancora sicuro di non volerti buttare di sotto? Sappi che tenterei di fermarti e quindi mi trascineresti a fondo con te.”
 
Steve sbuffò una risata e piazzò una pacca poco delicata sulla schiena di Daniel, mentre gli diceva che aveva appena deciso che non ci sarebbe più andato tanto piano con lui durante gli allenamenti.
Il moro cercò di simulare preoccupazione, ma in realtà la cosa lo eccitava parecchio.
 
Era tempo di tornare a Washington.
 
 
 
 
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Washington DC
 
 
Steve strinse la spalla di Daniel, seduto al suo fianco, e lo scosse leggermente.
 
“Sveglia, Dan. Ci siamo.”
 
Il moro era crollato sul sedile posteriore dell’auto e fu un trauma essere strappato dalla pace dei sensi in cui era scivolato. Aprì faticosamente gli occhi e si trascinò fuori dall’auto, mentre tratteneva a stento uno sbadiglio. Passò una mano fra i capelli, ma non fece che scompigliarli maggiormente di quanto già non fossero.
“Odio il maledettissimo jet lag” si lamentò, mentre seguiva i passi di Steve.
 
“Non dormiamo da poco più di quarantotto ore, quindi nulla di così tragico. Smettila di fare la mammoletta, Collins.”
Janet Stewart gli passò di fianco e gli scoccò un’occhiata scettica.
 
Dan non aveva la forza di ribattere e si limitò ad osservala raggiungere Steve, stretta negli usuali e attillati pantaloni in pelle nera che le mettevano in risalto le lunghe gambe. Provava una certa antipatia per lei, dato che gli aveva fatto capire che non lo riteneva all’altezza per quel lavoro. E poi lo prendeva in giro perché era più basso di lei – andava fiero del suo metro e settantasette.
“Eccola che ricomincia” borbottò a voce bassa il moro.
Janet era partita all’attacco, per l’ennesima volta. Era caparbia e non accettava un no come risposta – probabilmente non aveva mai ricevuto un no come risposta, ma c’era sempre una prima volta, una prima volta che ultimamente si ripeteva.
La donna aveva ora affiancato Rogers e gli aveva poggiato la mano sinistra nel mezzo della schiena, lì dove iniziava la curva lombare.
“Potremmo andare a bere qualcosa più tardi. Per festeggiare. Che ne dici?” la sentì chiedere con fare ammiccante. Stavolta non si era spinta troppo in là.
 
“Passo, ma voi andate pure senza di me.”
Steve rivolse alla bionda un sorriso gentile e varcò assieme a lei il portone che Bennet aveva aperto poco prima.
 
Ross li aveva sistemati in un appartamento con cinque camere e due bagni al primo piano e una grande sala con tanto di cucina e area relax al piano terra. Rogers aveva detto a Collins che non erano lontani dal quartiere dove aveva vissuto quando aveva lavorato per lo SHIELD.
Negli ultimi ventuno giorni, si contavano quasi sul palmo di una mano le volte che avevano sostato per più di mezza giornata in quell’appartamento.
 
“Andiamo, Steve. Ti farebbe bene rilassarti un po’.”
Janet si piazzò davanti al super soldato e fermò le mani sulle sue braccia.
“L’alcool non ha quell’effetto su di me” spiegò tranquillamente il biondo.
“Beh, ci sono altri modi per alleggerire la tensione. Potrei...”
 
“Io non sono affatto una mammoletta! È il jet lag! È il maledettissimo jet lag! Prima è notte, poi subito dopo è mattina e non so più nemmeno che giorno sia oggi!”
Lo sbraitare di Daniel, rivolto a Janet, mise la parola fine all’ennesima strana situazione venutasi a creare.
Il moro si chiese se il Capitano avesse effettivamente inteso cosa la Stewart volesse da lui o se, più semplicemente, fosse incapace di respingere senza troppo garbo – sarebbe stato giustificato in quel caso – il gentil sesso. Beh, poco male, gli avrebbe coperto lui le spalle, dato che sapeva anche il motivo per cui Rogers non avrebbe mai preso in considerazione le proposte della collega.
Il citato motivo, a quanto pareva, il super soldato cercava di tenerlo separato dal lavoro e non intendeva usarlo per tenere lontana Janet – anche se lei probabilmente non si sarebbe fatta scrupoli ugualmente.
 
“Dacci un taglio, Collins. E già che ci sei, perché non ti dilegui? Ti consiglio di andare a sistemare la faccia, perché hai un aspetto orribile, più del solito.”
Janet aveva le mani sui fianchi e stava guardando Dan parecchio male. Odiava essere interrotta quando – a parer solo suo – era vicina a raggiungere l’obiettivo.
 
“Perché non pensi alla tua di faccia, eh finta bionda?” fu la replica inacidita del moro.
 
“Voi due dovreste smetterla di discutere tanto spesso.”
Sharon era stata alle prese con il suo cellulare fino a quel momento, ferma sulla soglia, finché i tutt’altro che nuovi battibecchi fra i colleghi non aveva iniziato a scuoterle i nervi già abbastanza tesi. Come quei due avessero la forza di discutere, proprio non riusciva a capirlo.
“Stabiliamo i turni per la doccia?” propose e lanciò a Rogers uno sguardo che gridava ‘ti prego, fa’ qualcosa perché non ne posso più’.
 
“Sto andando. Voi fate pure come vi pare.”
Bennet era già a metà della rampa di scale che portava al piano superiore. Diventava parecchio burbero quando era stanco, ma non lo era così tanto solitamente. Era un tipo a cui piaceva starsene sulle sue e, al di fuori del lavoro, non era molto avvezzo alla comunicazione.
 
Ad ogni modo, evitando lunghe e faticose discussioni, si raggiunse un accordo sui turni per utilizzare i due bagni disponibili. Il piano di sopra era costituito da un lungo corridoio in parquet e i bagni erano agli estremi opposti, mentre le camere si alternavano sui due lati. Dan e Steve avevano camere frontali, vicine ad uno dei bagni, poi nel mezzo c’era la camera di Sharon – sullo stesso lato di quella del biondo – ed infine c’erano le due stanze frontali di Bennet e della Stewart.
Daniel uscì dal bagno con indosso solo dei pantaloni della tuta verdi militare e un asciugamano sulle spalle. Raggiunse la camera del Capitano e, prima di entrare, bussò un paio di volte.
 
“Doccia libera, Cap.”
 
Il super soldato era impegnato a sfilare la parte superiore della stealth, ma si bloccò quando inquadrò Collins e, in particolare, le chiazze violacee che gli ricoprivano il costato.
 
“Lo so, devo migliorare la difesa dei fianchi. Mi sono scoperto un pochino. Ma niente di rotto.”
 
“Un pochino, dici? Aspettami qui.”
 
Steve uscì dalla stanza e Dan, rimasto solo, si guardò un po’ intorno. Ogni camera era provvista di un letto ad una piazza e mezzo, un armadio sulla parete opposta e un comodino vicino la testata del letto. Inoltre, c’era una finestra che si affacciava su un lato del tranquillo quartiere. L’intero pavimento dell’appartamento era costituito da chiaro parquet.
Il giovane notò che la valigia del Capitano era abbandonata in un angolo della stanza, vicino l’armadio, e non era ancora stata del tutto disfatta. Era un segno evidente che considerava quella sistemazione di passaggio, temporanea.
Si lasciò cadere seduto sul letto e prese un profondo respiro. Si chiese se anche per lui l’attuale sistemazione fosse temporanea e si chiese se, prima o poi, sarebbe stato in grado di assegnare la definizione di casa ad un qualsiasi posto in grado di suscitargli la sensazione di stabilità.
Immerso in quei pensieri, quasi rischiò di essere colpito in piena faccia dall’oggetto che Rogers gli lanciò, per poi annunciargli che andava a fare la doccia.
Daniel si rigirò fra le mani il pacchetto di ghiaccio istantaneo e sorrise. Si stese sul letto e poggiò il ghiaccio sul costato, rabbrividendo al contatto. Senza accorgersene, finì prima in uno stato di dormiveglia e poi scivolò in uno stato sempre più profondo del sonno.
Fu la vibrazione insistente di un cellulare a farlo riemergere dall’incoscienza, ma permase comunque in uno stato di disorientamento. Allungò il braccio verso il comodino e afferrò l’oggetto di disturbo. Rispose senza nemmeno controllare chi lo stesse contattando – avrebbe dovuto controllare anche un’altra serie di dettagli, in realtà.
 
Mamma, ti richiamo più tardi. Sono tornato da poco e ho davvero davvero bisogno di dormire.”
 
“Non sei Steve, giusto?”
 
Daniel rimase in silenzio, incapace di far funzionare propriamente il cervello fuso. Aveva già detto che odiava il jet lag?
“E tu non sei mia madre.”
Guardò meglio il cellulare che aveva in mano e si rese conto che non era il suo. Sullo schermo era riportata la chiamata attiva.
Annie.
Oh, diamine.
 
“Reyes.”
 
“Collins.”
 
La voce della ragazza dall’altra parte della linea suonò decisamente divertita e fu lei a toglierlo dall’imbarazzo. Non sembrava turbata dal fatto che fosse stato lui a rispondere.
 
“Come va da quelle parti?”
 
“Se escludiamo il jet lag, ce la stiamo cavando bene. Ieri… oggi… insomma… ultimamente ho steso un potenziato bello grosso però ho ricevuto lo sguardo contrariato e… Steve non è come pensi è stato un incidente e non volevo.”
Daniel scattò seduto e rimase con il cellulare attaccato all’orecchio e la bocca semiaperta, mentre Rogers, in piedi davanti a lui, era decisamente perplesso.
 
“Dan? Ci sei ancora?”
 
Collins si riscosse.
“Sì, ci sono. E c’è anche Steve adesso, quindi ti lascio a lui e… è stato un piacere sentirti.”
Lasciò il cellulare nelle mani del biondo e fece per andarsene, ma venne richiamato e si girò appena in tempo per afferrare al volo il pacchetto di ghiaccio che gli era stato lanciato – di nuovo.
“A dopo, Dan” lo salutò il Capitano, mentre portava il telefono all’orecchio.
Daniel sorrise e chiuse la porta alle proprie spalle.
 
 
“Ehi. Ho chiamato appena letto il messaggio del tuo rientro. È un po’ che non ci sentiamo.”
 
Più o meno una settimana, era questo il tempo passato dall’ultima volta che si erano sentiti.
Durante i primi dieci giorni di servizio, Rogers era riuscito a mantenere i contatti con tutti i suoi compagni e si erano aggiornati quotidianamente. Poi i contatti erano andati degradandosi e negli ultimi sette giorni mettersi in contatto con gli altri era stato praticamente impossibile, con l’unica eccezione di Tony, che di tanto in tanto si era infiltrato nella linea di comunicazione condivisa con la squadra che guidava attualmente.
 
“Già… è stata una lunga settimana. Però sembra che Ross ci concederà una tregua. Come vanno le cose alla Tower?”
 
“Lì è tutto okay. So che Thor è tornato e ha raggiunto Jane dopo aver appreso le ultime novità.”
 
“Tony me l’ha detto e… aspetta. Hai detto ? Tu dove sei?”
 
Un silenzio relativamente lungo intercorse fra la domanda e la risposta. Steve la sentì sospirare e cominciò a preoccuparsi.
 
“Ci sono stati dei cambiamenti nell’ultima settimana. Sono sull’Helicarrier e sto lavorando per Fury. Insieme a James. E prima che tu dica qualcosa, sappi che era l’unico modo per tornare ad agire sul campo senza troppe restrizioni. Gli Avengers non sono autorizzati ad occuparsi dell’Hydra, ma lo SHIELD non è più legato al Governo, quindi era la cosa giusta da fare. Voglio aiutare e ho le capacità per farlo. Steve, io…”
 
“Va bene. Rispetto la vostra decisione. E probabilmente è meglio così. Tu come stai?”
 
La sentì sospirare di nuovo. Ma stavolta di sollievo.
 
“Sto bene. Gli agenti dello SHIELD non sono male. Si fidano di me…”
Ci fu una breve pausa.
“E James è fantastico, probabilmente è più bravo di te.”
Una seconda pausa.
“Senza probabilmente.”
 
“Dì ciao a Bucky da parte mia.”
 
“Steve ti dice ciao.”
 
Rogers sorrise e sentì chiaramente James rispondere con un ‘Ciao, Stevie’.
 
“Dan dice che avete incontrato potenziati. Si stanno diffondendo a macchia d’olio. Ne abbiamo affrontati diversi anche noi. Credo che Lewis stia sperimentando direttamente sui soldati dell’Hydra. Sta lavorando per raggiungere un obiettivo specifico e sta preparando il terreno da mesi, ne sono certa. Conosco Adam. Tieni alta la guardia e…”
 
Rogers udì una voce profonda interrompere Anthea.
“È ora di andare, Rey. Ti copro io le spalle oggi. Barnes, sei con la seconda squadra.”
La voce della ragazza diede una risposta di conferma e poi si rivolse di nuovo a lui.
 
“Steve…”
 
“Devi andare, lo so.”
 
“Già. Il lavoro chiama. Saluta Dan. E cerca di riposare.”
Era tangibile l’esitazione nella voce della giovane. Chiudere quella chiamata apriva le porte alla possibilità di non riuscire più sentirsi fino a data da destinarsi.
 
“Sta’ attenta. E tieni un occhio su Bucky per me.”
 
“Contaci.”
 
 
 
 
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23 maggio 2015
Los Angeles

 
 
“È saltata la luce. Ditemi che non è successo lo stesso alla linea.”
 
“Te la fai sotto, mammoletta?”
 
“Collins, Stewart, rimanete concentrati. Sharon, posizione?”
 
“Ala Ovest, Cap, ma non vedo ancora la sala di controllo.”
 
“Sono anche io nell’Ala Ovest.”
 
“Tu non dovevi essere a Nord, Collins? Perché sei nella mia stessa area?”
 
“Non era di Bennet quell’area?”
 
“La mia è l’Ala Est.”
 
“Copro io l’Ala Nord. Collins rimani dove sei e aiuta Sharon con la sala di controllo. Stewart e Bennet continuate a scandagliare l’ala sud e l’ala est.”
 
“Penso di vederti, Sharon.”
 
“Credo che ti sbagli, Daniel. Anche se riesco a vedere a malapena ad un palmo dal naso, sono certa di essere sola.”
 
 
“Fa’ attenzione, Dan. Niente imprudenze.”
 
Rogers camminava a passo svelto, anche se la visibilità avrebbe richiesto una maggiore prudenza nell’avanzare. Quella base era un aggrovigliarsi caotico di lunghi corridoi e c’erano poche stanze alle quali accedere. Non erano certi di cosa stessero esattamente cercando, ma c’erano stati parecchi movimenti sospetti che li avevano portati in una zona industriale abbandonata di Los Angeles.
 
“Decisamente nemico, non Sharon.”
 
Il super soldato rallentò la corsa ed ebbe la tentazione di tornare indietro. Non avevano idea di che tipo di nemico stavano per affrontare e dividersi, adesso, cominciava ad apparire una tattica azzardata. E azzardato era stato anche non portare lo scudo per dare meno nell’occhio durante la ricognizione all’esterno. Avevano abbandonato gli abiti civili fuori da lì ed erano arrivati fino ad un’area che si estendeva sotto la fatiscente zona industriale.
Non ebbe tempo di pensare ancora, perché con la coda dell’occhio registrò un movimento alla sua destra e si mosse per evitare l’attacco. Ne arrivarono immediatamente un secondo e terzo in rapidissima sequenza e stavolta dovette incassarli. Il dolore che si accese sul costato fu la prova che si trattava di un potenziato, un potenziato parecchio potente. Poteva scorgerne la sagoma e non era grosso come gli ultimi che aveva affrontato. Però era veloce, dannatamente veloce, e Steve fu costretto a chiudersi inizialmente in difesa, però riuscì presto a prendere il ritmo e contrattaccò senza riserve.
Lo scontro si fece serrato e Rogers si rese conto di non poter sbagliare un singolo movimento, perché altrimenti sarebbe stato sopraffatto. Afferrò il potenziato per le spalle e gli piazzò una ginocchiata nello stomaco, poi lo spinse faccia al muro e gli bloccò le braccia dietro la schiena con una mano. Il nemico tirò fuori ancora più forza di quella che si sarebbe aspettato e fu in grado di fare abbastanza passi indietro da costringerlo con la schiena contro la parete opposta.
Il biondo tentò di mantenere la presa sui polsi, ma resistette solo per qualche altro secondo, poi un paio di gomitate misero a dura prova le costole.
Allora Steve fece passare il braccio destro intorno al collo del potenziato e gli posizionò l’altro braccio dietro la nuca. Usando bicipiti e avambracci, fece pressione sulla gola e gli chiuse le vie respiratorie.
Il potenziato provò a ribellarsi ma la sua forza, data la mancanza di ossigeno, iniziò a venire meno.
Rogers pensò di avere la vittoria in pugno, almeno finché non gli venne a mancare il pavimento sotto i piedi. Si ritrovò a rotolare lungo il corridoio e sperò che gli altri se la stessero passando meglio di lui.
 
 
No, Daniel non se la stava affatto passando meglio. Se non fosse arrivata Sharon in suo soccorso, probabilmente adesso sarebbe stato messo molto peggio. Ne aveva prese parecchie – ma ne aveva anche date e non poche – e, a sua discolpa, quella maledetta sagoma nera aveva una forza assurda. Alcune volte gli era sembrato che a colpirlo fosse stato un treno in corsa. Si trattava decisamente di un potenziato.
“Dan, in piedi!” gridò Sharon, a pieni polmoni.
Vedeva muoversi la sagoma della donna a un paio di passi di distanza. Tentò di tirarsi su e, una volta che ci fu riuscito, iniziò a dubitare del proprio stato mentale.
La Carter aveva smesso di combattere ed era molto vicina al nemico, quasi appiccicata. Le loro sagome erano a malapena identificabili separatamente.
 
“Steve, qui la situazione si mette male... Oh cavolo! Non ci credo!
 
 
Rogers le sentì a malapena le parole di Daniel, perché troppo impegnato a levarsi di dosso l’avversario, che cercava di bloccarlo definitivamente a terra. Tuttavia, la sagoma sopra di lui commise l’errore di scoprirsi troppo e Rogers udì un gemito di dolore nel momento in cui la colpì sul lato destro del viso a piena forza. Spinse via il nemico e saltò in piedi con uno slancio.
Adesso era in vantaggio. Era certo di aver piazzato un pugno che avrebbe richiesto un tempo di recupero non indifferente. Si preparò a sfruttare il vantaggio, quando uno scintillio nell’oscurità attirò la sua attenzione.
Non fu possibile prevederlo, né capirne le dinamiche. La certezza fu che si sentì risucchiare verso l’alto e la schiena urtò contro il soffitto. Il successivo schianto sul pavimento non fu meno delicato.
Infine, come se non bastasse, i suoi muscoli si irrigidirono, respirare divenne difficile e la vista cominciò ad offuscarsi.
La situazione iniziava a farsi troppo complicata.
 
“Ti farò rimpiangere il pugno in faccia, bastardo.”
 
Se non avesse già avuto qualche difficoltà a respirare, probabilmente avrebbe smesso di farlo. Non oppose ulteriore resistenza e pronunciò un sofferente “Ferma”.
La forza opprimente su di lui evaporò e il biondo osservò la sagoma del suo avversario avvicinarsi con una certa esitazione.
 
“Non può essere… Steve?”
 
Una luce calda rischiarò il buio. Rogers fissò per qualche attimo la piccola fiammella danzante che adesso crepitava sopra le loro teste. Poi rivolse tutta l’attenzione alla persona contro la quale si era battuto molto violentemente. Fece per dire qualcosa, ma la voce squillante di Dan risuonò nel suo orecchio.
 
“Cap, mi ricevi? Il nemico non è un nemico, è ...”
 
“Lo so. Me ne sono accorto.”
 
Era un mese – più di un mese – che il lavoro li teneva lontani e a malapena erano riusciti a sentirsi. Se fossero riusciti a sentirsi, non sarebbero di certo finiti in quell’assurda situazione.
 
“Che ci fai qui?” fu la legittima domanda che Anthea gli rivolse.
Era abbastanza stravolta. Diversi ciuffi erano sfuggiti alla coda di cavallo con cui aveva raccolto i capelli. Portava una divisa nera dello SHIELD.
 
“Che ci fai tu qui?”
 
“Che ci fate voi qui?”
 
Anthea e Steve sussultarono e rivolsero lo sguardo in un punto alle spalle del biondo. La robusta figura di Iron Man stava avanzando verso di loro e, grazie al visore notturno integrato nel casco dell’armatura, non aveva avuto difficoltà a riconoscerli.
 
Però! Che atmosfera romantica. Mancherebbe la candela, ma avete un lume singolare. Certo, questo non mi sembra proprio il luogo adatto per, insomma, fare…”
 
“Mi rammarica interrompere il tuo così significativo discorso, Tony, ma potreste dirmi chi altro di noi è qui? Suppongo ci sia Bucky.”
 
“Affermativo” confermò la ragazza.
 
“C’è anche Sam. E Thor. E Natasha…”
 
“Nat? Tony, ma che…”
 
“Sta’ buono. Stavo dicendo, prima che mi interrompessi, che Natasha sta ancora aspettando di sapere se scommetti su fiocco blu o su fiocco rosa.”
 
Le luci dell’intera base si accesero una dopo l’altra e il buio si dissolse. Anthea, Steve e Tony dovettero rimandare ogni tipo di discorso, perché le loro separate linee di comunicazione furono invase dai rispettivi compagni di squadra.
Tony si vantò del fatto che fosse stato Sam – della squadra Stark – a trovare la sala di controllo e a riattivare il sistema di alimentazione della base – che poteva considerarsi abbandonata a questo punto.
 
“O siamo stati tutti degli idioti incapaci, o qualcuno ha fatto in modo di attarci qui. Anche la seconda implicherebbe che siamo degli idioti, perché in quel caso ci saremmo fatti raggirare.”
Il ragionamento di Stark non faceva una piega.
“Magari adesso esploderà tutto, così avremmo la conferma che si tratta di una stupidissima trappola, un cliché molto utilizzato nei…”
Iron Man fu zittito da un improvviso boato che fece tremare la base. Ce ne fu subito un altro e stavolta più vicino.
 
“Portiamo tutti fuori.”
Rogers fece per muoversi, ma esitò quando Anthea diede voce alle sue intenzioni.
 
“Voi andate. Io cercherò di contenere le esplosioni e i crolli. Ci vediamo fuori.”
 
“Sta’ attenta” le disse Iron Man e lei sollevò un pollice sorridendo mestamente.
Stark allora avvolse un braccio attorno i fianchi di Rogers e attivò i propulsori, trascinando con sé il biondo e lasciando indietro l’oneiriana.
 
Fu una corsa contro il tempo.
Avere Tony, Thor e Anthea sul posto fu decisivo. Mentre l’asgardiano e Iron Man aprivano vie di fuga ovunque fosse necessario e portavano fuori tutti, l’oneiriana impediva all’intera struttura di collassare e cercava di contenere le esplosioni che individuava.
 
“Siamo tutti fuori, ragazza. Esci da lì.”
 
Anthea fu davvero grata di udire quelle parole, perché era arrivata al limite. Le tempie pulsavano dolorosamente e il gran polverone scuro che si era innalzato gli stava mandando a fuoco i polmoni e gli stava facendo lacrimare gli occhi.
Adesso doveva solo rilasciare tutto ciò che stava contenendo, con l’accortezza di non finire sepolta viva. Percepì una strana sensazione di disorientamento e senza accorgersene ebbe un drastico calo della concentrazione.
Doveva muoversi.
 
 
 
 
La struttura sotterranea crollò. A parte il rumore e le leggere scosse che interessarono la zona disabitata, non ci furono gravi ripercussioni su abitazioni e civili.
 
Rogers fu pervaso da un profondo senso di sollievo non appena intercettò Anthea venire verso di loro. Le gambe si mossero di istinto e le andò in contro.
 
Rey!”
 
Rey? Steve lo aveva già sentito e anche la voce gli era vagamente familiare.
 
Un uomo con la divisa dello SHIELD raggiunse di corsa la ragazza e la bloccò, mettendole le mani sulle spalle. Come tutti, era parecchio scosso. I riccioli castani, il volto dai lineamenti decisi e la barba rasa erano sporchi di polvere.
“Stai bene? Non sapevamo… cos’è successo alla tua faccia?”
“Sto bene, David.”
David le prese il mento fra le dita e le fece ruotare leggermente il viso per poter esaminare più attentamente la chiazza violacea che si estendeva sullo zigomo destro fino a circondarle l’occhio.
“È solo un livido. Davvero, non preoccuparti.”
Anthea gli afferrò il polso e scostò gentilmente le dita dell’uomo dal proprio viso.
“Deve essere stata proprio una bella botta. Non è facile scalfirti.”
 
“Già, non è facile.”
 
Le labbra della Reyes si piegarono in un sorrisetto divertito, mentre i suoi occhi andavano a specchiarsi in quelli chiari appartenenti alla causa del casino che adesso era la sua faccia.
 
“Capitano” salutò con garbo l’agente dello SHIELD e tese in avanti la mano, che Rogers strinse senza esitazione.
“David Grey. Sono a capo di questa operazione. Sai cosa è successo là sotto?”
 
“Non ancora.”
 
Un braccio muscoloso avvolse le spalle di Steve con uno slancio fin troppo energico.
“Ti trovo bene, compagno.”
“Ti trovo bene anch’io, Thor.”
I due biondi si scambiarono uno sguardo che non ebbe bisogno di essere accompagnato da parole.
 
L’asgardiano si era trovato in trasferta quando il Capitano aveva lasciato New York, quindi aveva dovuto digerire il cambiamento e non aveva nemmeno potuto dire la sua a riguardo.
“Ciao, Point Break. Ci sei mancato. Come sta l’universo? Ah, a proposito, Ross si è portato via Steve e quindi niente più arresti domiciliari” era stata la rapida spiegazione che Tony gli aveva fornito e, nonostante avesse tentato di chiedere delucidazione a riguardo, l’inventore non aveva voluto più parlarne – dire che fosse contrariato era un eufemismo.
Era stata Natasha a chiarire i dubbi su cosa fosse effettivamente successo. Come se non bastasse, anche Anthea aveva lasciato la Tower e aveva deciso di diventare un agente dello SHIELD – se fosse una cosa temporanea o meno, l’asgardiano non lo sapeva. E Barnes aveva seguito l’oneiriana.
Quindi Thor cosa aveva fatto? Aveva deciso di raggiungere Jane, per trascorrere del tempo con lei, dato che non ne aveva avuto occasione per più di un motivo. Rivedere Jane – che tra l’altro era rimasta parecchio colpita dal nuovo taglio corto – gli aveva fatto dimenticare per un po’ tutti i casini presenti sia sulla Terra che al di fuori.
Infine, Tony aveva iniziato a chiamarlo di tanto in tanto per avere supporto durante operazioni – Ross ne era all’oscuro, così come il Governo – che richiedevano armi pesanti, data la presenza di soggetti dalla forza sovraumana. Stark gli aveva spiegato che Lewis stava facendo proliferare super soldati del calibro di Capitan America e del Soldato d’Inverno. Non erano pericolosi come gli Ultra Soldati che – fortunatamente – il dottore non aveva più il materiale per replicare.
Dunque, la situazione attuale era ancora tutt’altro che risolta. Non riuscivano a vederne la fine. L’avversario era estremamente intelligente, furbo e sapeva prendersi gioco di loro con una facilità disarmante. Ciò che era appena accaduto lì ne era una prova schiacciante.
 
Wilson e Barnes si unirono ai due biondi e volarono pacche sulla schiena e strizzate di spalle. Semplici gesti per comunicare qualcosa di più profondo.
 
“Ho già preparato le valige amico. Aspetto solo una tua chiamata.”
Sam non stava affatto scherzando. Era davvero pronto a partire.
 
“Sai che ho la precedenza, vero Wilson? Per anzianità.”
 
“Fammi il favore, Barnes.”
 
“Sono contento di sentire che volete abbandonarmi tutti. Comunque, sento il dovere di sottolineare che la nostra comunicazione ultimamente è stata talmente perfetta da permetterci di organizzare una decisamente prevista riunione. E qualcuno ci ha rimesso la faccia. Letteralmente.”
Tony, ora privo di armatura, sollevò entrambe le sopracciglia mentre ammirava – divertito ma non troppo – il viso dell’oneiriana.
 
“Barnes mi ha quasi rotto la mandibola. Nessun rancore, collega. Adoro frullati e frappè, quindi me la sarei cavata.”
Dan, che non era stato notato nonostante fosse anche lui nel gruppo, stava ora mostrando il lividume esteso sulla parte destra della mandibola. Poi si guardò intorno, fino a fermare lo sguardo sulla Reyes e realizzò chi fosse in realtà la persona chiamata in causa da Stark.
 
“Mi sono trattenuto, altrimenti sarebbe rotta. Qualcun altro invece ci ha dato dentro.”
Barnes diede di gomito a Rogers.
“Non ho avuto la possibilità di trattenermi. Mi avrebbe sopraffatto” fu la decisa replica del biondo.
 
“Io ti ho sopraffatto, Capitano. Mi sono fermata perché hai detto ferma.”
Anthea sfidò Steve con uno sguardo dalle sfumature provocatorie e un sorrisetto orgoglioso.
 
“Dannazione, mi sono perso tutta la scena. Sarei dovuto arrivare prima. Pazienza.”
Tony sospirò molto profondamente.
“Ho un posto qui vicino. Offro a tutti i presenti da bere e parliamo di questo casino, che ne dite?”
 
“Si può fare. Avverto Fury” convenne Grey.
 
“Penso io a Ross” fu invece la risposta di Sharon, che scambiò con Steve un cenno del capo.
La Carter sapeva cosa dire e cosa non dire, considerando il fatto che Tony, Thor e Sam non avrebbero dovuto trovarsi lì.
 
 
 
 
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C’era abbastanza affollamento sul Quinjet con cui Tony stava trasportando tutti verso la sua villa a Malibù, ricostruita dopo l’attacco del Mandarino.
Ai tre della squadra Stark – comprendente Thor e Sam, oltre che Tony stesso – si erano difatti aggiunti Steve e i suoi quattro compagni di squadra e infine c’erano David, Anthea, James e altri tre agenti dello SHIELD.
Ross era stato accondiscendente con la Carter e aveva lasciato a Rogers carta bianca fino all’indomani. Considerando che era già il tramonto, non gli era stata concessa una libertà troppo estesa, ma era meglio di niente.
 
“Inizio l’atterraggio. Tenetevi da qualche parte.”
 
Stark condusse il velivolo nell’area di atterraggio che affiancava l’edificio.
Da bravo padrone di casa, fece poi da guida verso l’ingresso della villa che si affacciava sul mare e che dava quasi l’impressione di essere in bilico all’apice dell’alta scogliera.
 
“Benvenuti nella mia umile dimora.”
 
Oh. Mio. Dio. Questo posto è fantastico.”
Daniel rimase affascinato dall’aspetto futuristico di quella che decisamente non era una umile dimora. Prima di mettere piede nell’atrio, aveva cercato di cacciarsi di dosso quanta più polvere e cenere possibile e aveva notato altri del gruppo fare la stessa cosa.
 
“Mettetevi pure comodi e non badate alle vostre discutibili condizioni igieniche. C’è chi si occupa della pulizia della casa ogni giorno. Io metto qualcosa nei bicchieri e vi chiamo quando sono pronti.”
Il miliardario, alla testa del gruppo, superò l’area dove costosi divani erano stati posizionati in prossimità di enormi vetrate e si diresse verso una zona rialzata che occupava una generosa porzione della stanza. Salì i tre gradini semicircolari e girò attorno al suo personale bancone, così da arrivare alla disposizione ordinata di alcolici su vitree mensole a muro.
Alleggerire la tensione sarebbe stato un ottimo punto di partenza.
 
“Tony.”
 
“Steve.”
 
Dopo aver armeggiato per qualche attimo, Stark fece scivolare un bicchiere riempito di bourbon sul bancone in legno scuro, in modo che arrivasse in corrispondenza del punto del bancone dove Rogers si era fermato.
Il biondo prese il bicchiere in una mano e osservò distrattamente il liquido all’interno oscillare.
“Sai che non mi fa alcun effetto, vero?”
“Ciò non toglie che sarebbe carino se bevessi con me. In ogni caso, ti trovo bene nonostante Ross stia abusando di te.”
Tony buttò giù un sorso del bourbon con cui, nel frattempo, aveva riempito un secondo bicchiere. Sorrise quando Steve lo imitò.
“Bravo ragazzo. Ascolta, siamo oltre il mese. Mi dici cosa succede?”
Lo osservò prendere un altro generoso sorso e sospirare. Si chiese se il biondo sperasse in una piccola spintarella da parte dell’alcool.
“Credo che Ross stia prendendo tempo. Dovrei impormi.”
“Mi sorprende che tu non l’abbia già fatto, darling.”
Rogers roteò gli occhi e si chiese cosa avesse fatto di male per meritare quel trattamento. Da quando aveva iniziato a lavorare per Ross, aveva utilizzato parecchio le piattaforme di messaggistica per comunicare con i suoi compagni – almeno quando non era spedito in missione chissà dove. Tony aveva allora avuto la fantastica idea di iniziare a flirtare con lui e ad oggi era difficile trovare un messaggio che non terminasse con darling o con raggio di sole.
“Sono stato parecchio impegnato.”
“Sbagliato, Steve. Tu non vuoi coinvolgerli.”
“Per loro sarebbe più sicuro rimanere allo SHIELD. E con te.”
“Sbagliato di nuovo. Non c’è alcuna sicurezza, da nessuna parte. Finché non bruceremo l’alveare, schiacciare le vespe sarà tutta fatica sprecata. Dobbiamo bruciare l’alveare finché è l’unico esistente.”
Tony era diventato improvvisamente serio e aveva messo da parte il bicchiere.
“Lewis non condividerà le sue conoscenze. È più il tipo da monopolio” replicò il super soldato.
“Ma sta diffondendo il prodotto e sono certo non lo sta facendo ad un prezzo stracciato, quindi gli acquirenti più furbi tenteranno di replicarlo. E sai qual è la materia prima in tal caso?”
“Le persone.”
Steve aveva risposto senza alcuna esitazione e Tony annuì.
“Lewis si prende gioco di noi e sono certo che ciò che è accaduto oggi è opera sua. Dobbiamo essere sullo stesso fronte per fermarlo, in un modo o nell’altro.”
“Lo eravamo prima che io partissi, Tony.”
“Eravamo anche sorvegliati. Adesso non lo siamo e Ross, nonostante i difetti, non è di certo intenzionato a vedere proliferare potenziati ovunque. Finché avrà te dalla sua, sarà meno preoccupato, ma sa bene che Lewis va fermato prima che la situazione diventi ingestibile. Quindi imponiti. La nostra priorità è Lewis.”
“Lo so.”
“Abbiamo accetto assurdi compromessi per trovare quel bastardo. Tu stai addirittura lavorando per Ross. Tu, Rogers. Porta Anthea, Barnes e Sam a Washington e fa sì che Ross ti lasci cercare Lewis dove io ti dirò di cercare. Thor e Banner entreranno in campo non appena sarà il momento. E rispondi ai miei messaggi.”
 
Steve sbuffò una leggera risata. Negli ultimi quattro mesi, dal momento in cui si era riunito agli Avengers, erano cambiate tante – fin troppe – cose. Tuttavia, erano stati i compromessi fatti con Ross e il Governo a destabilizzarlo più di quel che si aspettava. Era andato contro le sue convinzioni. Era andato contro se stesso. Aveva annegato l’orgoglio, aveva annegato la sensazione di disagio e zittito la coscienza. Sentiva che era sbagliato, che non avrebbe dovuto recitare il ruolo del soldato ammaestrato, ma avrebbe fatto di tutto per le persone a cui teneva e poca importanza aveva quanta parte di sé avrebbe dovuto seppellire. Tuttavia, non c’era possibilità di risolvere la situazione senza coinvolgere le stesse persone che voleva tenere al sicuro.
 
“Hai del ghiaccio?”
 
“Ti va di bere qualcosa di più freddo?”
 
“In realtà non è per quello.”
 
Tony ghignò.
“Non penso basterà a farti perdonare.”
 
“Non penso siano affari tuoi.”
 
 
 
 
Rogers tornò indietro, verso la parte della grande sala dove si trovavano i divani. Dall’ampia vetrata era possibile ammirare il mare placido e scuro.
C’era un accesso chiacchiericcio proveniente dai diversi gruppi sparsi qua e là.
James, Sam, Sharon e Janet sembrano immersi in una conversazione che probabilmente, dalle loro espressioni poco rilassate, riguardava il lavoro. John si era accomodato sul divano e se ne stava sulle sue, con la testa rovesciata leggermente all’indietro. Non distanti da lui, ma in piedi, c’erano gli altri tre agenti dello SHIELD e avevano espressioni piuttosto spaesate, oltre che stanche.
Dan era assieme a Thor, Anthea e David. L’asgardiano li stava intrattenendo con qualche aneddoto interessante, dato che aveva conquistato la loro attenzione.
Rogers si avvicinò a quest’ultimo gruppo e Collins rivolse a lui lo sguardo, sorridendogli.
Il moro, quasi fosse un automatismo, sollevò una mano per afferrare il trasparente sacchetto di ghiaccio tritato che il Capitano gli lanciò.
 
“Sembra che questa cosa accada spesso” attestò l’oneiriana e cercò segni di conferma nelle espressioni di Dan e Steve, segni che trovò piuttosto facilmente.
 
“Qualche volta.”
Dan poggiò il ghiaccio sulla mandibola e il sollievo per l’attenuarsi del dolore lo fece sospirare.
 
“Più di qualche volta” lo corresse Steve e tese un secondo sacchetto ad Anthea.
 
“Credo che serva più a te che a me” fu la risposta della ragazza, che tuttavia afferrò il ghiaccio. Non mancò di indirizzargli un sorrisetto provocatorio – il secondo così esplicito della giornata.
 
“Sono certo che ti sbagli” ribatté lui, con ferma convinzione.
 
L’oneiriana decise di dargliela vinta – per il momento – e trovò sollievo nel gelo a contatto con la pelle tumefatta. Solitamente sarebbe guarita in poco tempo, ma la spossatezza che aveva addosso doveva aver fatto entrare il suo organismo in uno stato di risparmio energetico.
 
“È quasi strano vederti ammaccata. Combattere contro Capitan America è arduo persino per te, Rey.”
Grey circondò le spalle della Reyes con un braccio e fu un gesto parecchio amichevole e disinvolto.
 
Collins guardò di sottecchi Rogers e, se non lo avesse conosciuto bene durante l’ultimo intenso periodo, non avrebbe preso in considerazione la sottile ruga fra le sue sopracciglia. Steve era contrariato, Dan ne era certissimo, ma in modo diverso rispetto quando lo era con lui per non aver seguito gli ordini ricevuti.
 
“È un osso duro” disse la ragazza, che non aveva mai staccato gli occhi da quelli del super soldato.
 
“E se la cava anche come insegnante. Il ragazzino qui non è affatto male.”
James comparve alle spalle del Capitano, assieme a Sharon e Sam.
 
“So fare di meglio, te lo posso giurare. Il buio mi ha spiazzato. Concedimi la rivincita.”
Il tono supplichevole di Dan non fu di supporto a quello che avrebbe dovuto essere un atteggiamento da duro.
 
“Lo sai che stai sfidando il Soldato d’Inverno, vero Scheggia?” rincarò Sharon.
 
“Diventa più forte e ti concederò la rivincita.”
 
“Affare fatto, Soldato d’Inverno.”
Collins si rivolse in direzione di Rogers con in viso un’espressione che ben esprimeva cosa gli stava silenziosamente chiedendo e gli bastò ricevere un mezzo sorriso per essere pienamente soddisfatto della risposta.
 
Stark interruppe il chiacchierare dell’eterogeneo gruppo, annunciando che adesso era il momento di bere e che avrebbero fatto bene a goderselo, perché poi avrebbero parlato di lavoro e non sarebbe stato affatto divertente.
 
Quasi tutti si mossero per raggiungere il miliardario. Quasi.
 
“Non vieni?” chiese David ad Anthea, che era rimasta ferma quando lui aveva cercato di avanzare, ancora con il braccio attorno le sue spalle.
“L’alcool ha un sapore che proprio non mi piace. E poi ho bisogno di sedermi qualche minuto.”
“Vuoi che ti faccia compagnia?”
Anthea stava per rispondergli di andare, ma fu preceduta.
 
“Rimango io con lei. Dovremmo parlare, quindi tu va’ pure.”
 
Forse Rogers parlò con un po’ troppa freddezza, perché Grey rimase palesemente interdetto e gli dedicò una fugace occhiata di sfida.
“Va bene. Se hai bisogno, sono di là, Rey. Capitano.”
David sfilò di fianco a Steve e le loro spalle quasi si sfiorano.
 
Il super soldato si voltò per accertarsi che l’agente avesse effettivamente abbandonato il campo e nel farlo intercettò le espressioni divertite di Sam e James. Quei due idioti sembravano aver atteso quel momento e li fulminò con un’occhiataccia che ebbe poco effetto.
La sensazione che stava provando era fastidiosamente simile – e stavolta come amplificata – a quella provata quando Howard aveva proposto a Peggy una fondue.
 
“Ehi.”
La voce di Anthea lo richiamò al presente. Lei aveva momentaneamente abbandonato l’idea di lasciarsi cadere sul divano più vicino.
“So perché sei arrabbiato.”
“Non lo sono.”
“Lo sei invece. Avrei dovuto capire che eri tu oggi. Mi dispiace.”
Steve quello proprio non se lo aspettava.
“Ho commesso il tuo stesso errore.”
“Per me è diverso, lo sai e ... forse sono solo stanca e a riprova di ciò la mia faccia è ancora in pessime condizioni.”
“Mi sei sembrata in ottima forma invece.”
Anthea, suo malgrado, rise.
“Anche tu, Capitano. Non ci hai mai messo tanta forza durante i nostri incontri di allenamento.”
“Tiro fuori il meglio quando sono sotto pressione.”
 
La giovane stese le labbra in un sorriso. Nonostante avesse combattuto al fianco di Steve tante volte, ancora si stupiva di quanto forte e pericoloso lui potesse essere.
Sembrava essere in uno stato di progressione continua, di cui non era facile scorgere i limiti.
Quando lo aveva visto combattere dopo i quasi tre anni di assenza, a stento l’aveva riconosciuto.
Era da un po’ che Anthea si era imposta di non affidarsi troppo ai suoi poteri e quindi combatteva contro gli avversari senza farne uso, a meno che non fosse costretta.
Nello scontro che aveva avuto con Steve solo poche ore prima, aveva dato il massimo per riuscire a vincere con le sole forze fisiche, accompagnate da tattiche precise e mirate a sopraffare l’avversario. Eppure, si era sentita talmente minacciata che, senza riflettere troppo, aveva ricorso ai suoi poteri. Senza di essi, non avrebbe saputo dire chi fra loro l’avrebbe spuntata.
Sicuramente, il pugno sul volto l’aveva del tutto spiazzata e le aveva fatto vedere tante sfarzose stelline nel buio. La rabbia per essere stata colpita in quel modo l’aveva spinta a desiderare di schiacciare il nemico con una forza contro cui lui non sarebbe stato in grado di reagire. E magari gli avrebbe anche rotto il naso alla fine, per far quadrare i conti.
Solo che poi il nemico le aveva detto di fermarsi e sentire la sua voce le aveva provocato i brividi, perché tutto si sarebbe aspettata, ma non quello, non lui.
Era circa un mese che la voglia di vederlo le faceva passare la fame e la faceva oscillare fra stati di apatia e momenti di “okay, sto bene, ce la faccio”. Adesso lui era lì, ma non erano soli e tecnicamente stavano lavorando. Non avevano ancora deciso di come gestire la relazione in presenza di estranei al loro gruppo di compagni. Attualmente erano più propensi a rendere la cosa il meno visibile possibile, soprattutto dopo l’ultima controversia avuta con Benson.
Durante il lavoro, Steve era Capitan America anche per lei. Solo con gli Avengers era diverso, perché del tutto differenti erano i legami che li univano. Gli Avengers erano la famiglia.
 
La giovane fece per dire qualcosa, ma fu interrotta prima che potesse anche solo aprire bocca.
 
“Cap, stiamo iniziando la riunione seria adesso.”
Dan rivolse ad entrambi uno sguardo desolato.
 
“Arriviamo” fu la breve risposta di Steve.
 
Il lavoro chiamava e, per ora, aveva la precedenza sul resto.
 
Durante la discussione su ciò che era avvenuto quel giorno, gli Avengers concordavano sul fatto che non era stato uno stratagemma per ucciderli, perché altrimenti coloro che vi erano dietro non si sarebbero limitati a qualche sfarzosa esplosione. Forse non era stata prevista la presenza di alcuni di loro, ma tale opzione suonava decisamente improbabile, altrimenti avrebbero avuto a che fare con degli sprovveduti e non era quello il caso.
James avanzò l’ipotesi che potesse essere stato un diversivo per distrarli e per allontanarli dalla reale pista da seguire. David volle spezzare una lancia a loro favore, affermando che magari la pista seguita non era del tutto sbagliata, forse erano arrivati troppo vicini a trovare qualcosa di importante.
La probabilità che si trattasse di Hydra era alta, ma non c’era l’assoluta certezza.
Alla fine dei conti, non giunsero ad una soluzione definitiva, ma condivisero le informazioni che li avevano portati ad incontrarsi tutto nel medesimo luogo. O almeno, lo fecero Grey e Rogers, perché Stark dovette sostenere la storia di essere stato chiamato dal Capitano quando quest’ultimo si era accorto della pericolosità della situazione. La storia era forzata, ma la presenza di Stewart e Bennet implicava che Ross sarebbe venuto a sapere cosa era accaduto, nonostante la Carter, durante la telefonata con il Segretario, avesse omesso la parte in cui avevano incontrato ben tre Vendicatori sul campo ed intenti ad occuparsi di affari collegati all’Hydra, senza alcuna autorizzazione.
Inoltre, ciò che gli Avengers evitarono di fare fu parlare in dettaglio di Adam Lewis. C’erano diverse orecchie estranee ed era ancora difficile capire di chi potessero ciecamente fidarsi.
La tela del ragno era estesa e finirci dentro sarebbe stato estremamente deleterio.
 
 
“Un jet dello SHIELD è qui. Attende il permesso per atterrare. Per noi è tempo di tornare indietro” annunciò Grey ad un certo punto e non poté fare a meno di notare l’occhiata che la Reyes rivolse in direzione di Rogers.
 
“Permesso accordato” concesse Tony.
 
Il rumore del velivolo fu udibile all’esterno e gli agenti dello SHIELD iniziarono a muoversi verso l’uscita della villa. Di fronte l’esitazione di Anthea, David non seguì il gruppo.
“Pronta?” le chiese.
“Io… dovrei…”
“Dovremmo finire di discutere di alcune cose. Tony ci riporterà indietro una volta finito” intervenne Steve, togliendola dalla situazione di dover inventare una scusa decente per evitare di dover seguire Gray.
“Fury vuole che rientriamo, Capitano.”
“Parlerò io con Fury. Potresti dare un passaggio ai miei uomini?” osò Rogers e gli non dispiacque fare uso dell’autorità posseduta da Capitan America.
Grey puntellò le mani sui fianchi e mise su un sorrisetto non troppo gentile rivolto al super soldato.
“Va bene, Rogers, come vuoi.”
“Bene. Ti ringrazio” fu la rapida risposta del biondo, ma David ancora non si mosse.
“Posso parlarti un minuto?” chiese invece, rivolgendo l’attenzione all’oneiriana, che annuì.
 
David e Anthea si allontanarono di qualche metro, isolandosi dal resto del gruppo.
“È tutto okay, Rey? È per lo scontro che hai avuto con lui oggi? Vuole farti un richiamo? Posso parlagli io.”
David le posò una mano sulla spalla. Alcuni riccioli ribelli gli erano finiti davanti gli occhi ambrati.
Cosa?! No! Steve... Il Capitano non vuole farmi un richiamo. È tutto okay.”
“Beh, avrebbe bisogno di rilassarsi allora, perché non sembra tutto okay. Sei in soggezione da quando ha iniziato a girarti intorno.”
Lei in soggezione per Steve? Soggezione era decisamente la parola sbagliata per descrivere come si sentiva nell’avere Steve intorno dopo più di un mese di lontananza. Inoltre, adesso stava provando un certo fastidio per ciò che David aveva detto.
“Rilassarsi non è così semplice quando si hanno grosse responsabilità sulle spalle” affermò con una certa freddezza e Grey ritrasse la mano dalla sua spalla, come scottato.
“Scusami. Non era mia intenzione essere così brusca” o forse lo era, solo che David era sempre stato gentile con lei. “Sono solo stanca.”
“Lo siamo tutti. Non preoccuparti. A domani, Rey.”
 
Nel frattempo, la mano destra di Bucky era andata a stringere la spalla sinistra di Steve.
“Andrò con Gray. Almeno uno di noi due deve esserci durante il rapporto a Fury. Meglio tenere le cose sotto controllo.”
Il biondo capì che l’altro soggetto della frase era Anthea. Fece per replicare, ma James lo batté sul tempo.
“E poi non è sicuro che ci siano troppi Avengers nello stesso posto. Sai bene che c’è chi potrebbe trasformarlo in un complotto contro il Governo.”
Il chi di tale affermazione era invece Henry Benson, Steve non ebbe dubbi considerando il precedente.
“Hai ragione” affermò dunque il Capitano e poi, di punto in bianco, cambiò discorso “Da quel che ho potuto vedere, non ve la passate troppo male allo SHIELD.”
Rogers occhieggiò in direzione di Anthea e corrugò leggermente la fronte, cosa che Barnes non riuscì proprio a non notare.
“Beh, cosa ti aspettavi? Non passa di certo inosservata.”
Il biondo esternò una certa confusione, ma Bucky attese che ci arrivasse da solo al nocciolo della questione.
“Sono contento che si trovi bene e che le persone che ha attorno si fidino di lei.”
Dire di essere contento con in faccia un’espressione poco rassicurante non rendeva le parole di Steve troppo convincenti.
“Alcune non si limitano a fidarsi” rincarò allora James.
“Grazie per avermelo fatto notare. Non ci avevo proprio fatto caso” fu la sarcastica risposta di Rogers, che rivolse all’amico un’espressione decisamente poco cordiale.
E Bucky ghignò vittorioso, mentre Sam – rimasto appositamente non visto dietro di loro – tratteneva a stento una risata e iniziava a pensare che avrebbe anche potuto del tutto perdonare a Barnes la distruzione della sua auto, considerando che già lo aveva perdonato per aver tentato di ammazzarlo.
“In ogni caso, smettila di chiederle di tenermi d’occhio. Piuttosto, muoviti a farci trasferire a Washington, capito idiota?”
“Ho capito, idiota.”
 
Bucky salutò prima Steve e poi gli altri Avengers e si diresse anche lui all’esterno, per raggiungere il jet che l’avrebbe condotto sull’Helicarrier.
Anche Sam decise di sfruttare il passaggio.
“Vado anche io con loro. Meglio disperdere le acque. Parla con Ross, amico, o giuro che lo faccio io. Adesso dovresti essere anche più incentivato” disse a Rogers e si dileguò prima che il biondo potesse mandarlo al diavolo.
 
Una volta partito il jet, rimasero nella villa solo Tony, Thor, Steve e Anthea.
 
“Aggiornamenti importanti?” chiese allora Stark.
 
“Ross è pulito per quanto riguarda Hydra e Lewis. Inoltre, vuole Benson lontano dai suoi affari” fu la risposta di Rogers.
 
“Non ci sono traditori vicino a Fury e nemmeno nelle squadre che si occupano dell’Hydra. James ed io possiamo dirlo con sicurezza. Lo SHIELD è pulito” disse invece Anthea.
 
“Questo significa che i nostri movimenti dovrebbero essere adesso meno noti a Lewis. Con Benson messo da parte e i vostri attuali datori di lavoro puliti, abbiamo più chance di vincere la partita. Point Break, qualche buona notizia?”
 
“Mi dispiace, ma Heimdall non riesce a vederlo. Sembra che abbia trovato il modo di nascondersi al suo sguardo.”
 
“Questo non va bene. Può implicare solo cose negative.”
Anthea aveva espresso ad alta voce un pensiero condiviso e difatti non ci furono repliche volte a contraddirla.
 
“Quindi, Rogers, te lo dico per l’ennesima volta. Parla con Ross e fai ciò che ti ho detto. E tenete a mente che nostri spostamenti dovranno essere il più possibile vaghi per tutti tranne che per noi. Comunichiamo, perché cose come quella di oggi non si ripetano… anche se è stato divertente.”
Stark fece oscillare le sopracciglia e ghignò.
 
“Ci tieni ad unirti al club di quelli con la faccia livida, Tony?”
 
“Calma, ragazza. Lo sai che ti adoro e che adoro la mia faccia.”
 
Thor e Steve risero, mentre Tony si era premurato di tenere le mani alte, giusto per stare più tranquillo.
Non c’era altro da dire. Da quel momento in avanti iniziava una nuova fase d’azione e, se tutto fosse filato liscio, sarebbe stata anche l’ultima.
 
L’asgardiano, dopo aver salutato i suoi compagni, si mosse per raggiungere Jane. Prima di volare via attaccato al manico di Mjolnir, ricordò che aveva imparato ad utilizzare il cellulare e che al primo segnale li avrebbe raggiunti.
 
“Ho promesso a Pepper che avremmo cenato insieme, quindi è tempo di muoversi.”
 
“Perché tu e Pepper non vi spostate qui? È molto bello.”
 
“Per ora non è sicuro, Annie. La Tower è attualmente più protetta. Ci penserò una volta preso Lewis.”
 
“Capisco.”
Anthea percepì una profonda tristezza assalirla. Lewis stava condizionando le loro vite da mesi e lei si sentiva responsabile, perché avrebbe dovuto ucciderlo quando ne aveva avuto l’opportunità – e ne aveva avuta più di una.
Adam Lewis era una piaga dilagante e bisognava fermarlo, a qualunque costo. Gli avevano già concesso un lungo periodo di incubazione e i primi sintomi avevano iniziato a manifestarsi. Adesso erano in grado di gestirli, ma era necessario estirpare il male alla radice.
 
 
 
Il viaggio verso Washington fu più silenzioso del previsto ed anche relativamente breve.
 
“Okay, ci siamo. Sono sopra il tuo appartamento, Steve. Nessun problema a saltare giù, giusto?”
 
“Nessun problema” confermò Anthea.
 
“Non era la risposta che mi aspettavo. Scendi anche tu qui, ragazza?”
 
“Scende anche lei, Tony.”
Stavolta era stato Rogers a rispondere.
 
Stark si limitò a sogghignare. Poi gli venne in mente una cosa di vitale importanza.
“Un’ultima cosa prima di andare. Maschio o femmina? Avanti, Steve, manchi solo tu.”
 
“Femmina” fu la risposta che seguì a un breve momento di riflessione.
 
“Tu, Clint e Sam siete in minoranza” ci tenne a sottolineare Tony, prima di sollevare una mano in segno di saluto.
 
 
 
 
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La giovane frantumò la distanza fra loro in un soffio, ma fu il super soldato a chinarsi in avanti per poterla baciare, mentre le circondava la schiena con le braccia.
Lei fece scivolare una mano dietro il suo collo e l’altra la infilò fra i capelli biondi, intrappolando corti ciuffi fra le dita affusolate. Strattonò quegli stessi ciuffi per costringerlo a rovesciare appena la testa all’indietro ed avere così libero accesso al suo collo, che baciò e morsicò con fin troppa foga.
 
Lei in soggezione con Steve intorno? Certamente.
 
Si liberarono del resto dei vestiti, cercando di fare meno rumore possibile.
Steve la sollevò da terra e spostò una mano sulla curva del suo sedere, mentre con il braccio libero le circondò i fianchi per stringerla meglio a sé.
La giovane si ritrovò premuta contro il materasso, con la mano sinistra del super soldato sulla coscia e la sua bocca intenta a baciarle il profilo del viso. Poi lui si fermò un momento e la osservò con occhi tanto liquidi da far brillare le iridi limpide nella penombra.
 
“Mi dispiace per questo.”
 
Il biondo le sfiorò con il pollice lo zigomo tumefatto. Anthea, in risposta, allacciò le gambe attorno i suoi fianchi e fece scivolare una mano in un punto ben preciso della scapola sinistra, mentre l’altra mano raggiungeva il dorsale destro.
 
“Steve …” sussurrò pianissimo e, senza preavviso, affondò le dita nella pelle del super soldato, tendendosi al contempo in avanti per chiudergli la bocca con un bacio e bloccare così sul nascere il gemito di sorpresa mista a dolore che altrimenti gli sarebbe sfuggito.
“Avevo detto che il ghiaccio serviva più a te” gli disse infine, dopo essersi separata da lui.
 
“Ritiro le mie scuse” le rispose il Capitano, con voce tremendamente roca, e le fece venire la pelle d’oca.
 
Anthea si tirò su, aggrappandosi alle spalle del super soldato, e tornò a baciarlo lentamente e profondamente. Era intenzionata a godersi ogni secondo di quel momento e, inoltre, era decisamente soddisfacente sentire la frustrazione di Steve crescere gradualmente. Se avesse continuato così, la mattina avrebbe ritrovato le impronte delle dita di lui sparse sulla pelle.
Ne sarebbe valsa la pena.
Quando Steve entrò in lei, dovette mordersi il labbro inferiore per non lasciarsi scappare gemiti indiscreti. Lui si fece più vicino, finché le labbra non le sfiorarono l’orecchio destro.
 
“Mi sei mancata” fu il leggero sussurro con cui la fece rabbrividire fin nel profondo.
 
“Così c’è rischio che mi emozioni, soldato.”
 
Il biondo prese a baciarle la curva della spalla, a partire dall’incavo del collo. Diverso tempo dopo, affondò i denti in quella stessa spalla, nel momento in cui l’amplesso raggiunse l’apice e la giovane inarcò la schiena, sforzandosi di non emettere alcun suono. Alla fine, lui crollò su di lei senza troppa attenzione.
 
“Quando torniamo a vivere sotto lo stesso tetto? Nel frattempo, potrei anche stare nascosta nell’armadio.”
 
Steve puntellò i gomiti ai lati della ragazza e fissò le iridi limpide in quelle blu che lo stavano fissando con intensità.
 
“Credevo ti trovassi bene con la tua nuova squadra, Rey.”
 
Anthea dovette far ricorso a tutto l’autocontrollo che aveva a disposizione, per riuscire a rimanere seria dinanzi la chiara implicazione nascosta dietro quelle parole. Ma la parte più difficile fu trattenersi dal sorridere divertita dinanzi alle sfumature di irritazione nell’espressione del super soldato e dinanzi all’arco più pronunciato assunto dal suo sopracciglio destro.
 
“Sì, mi trovo bene e il mio nuovo capo è forte. Però mi manca il vecchio capo e sto aspettando che mi chieda di unirsi a lui, perché è con lui che voglio stare.”
 
Riuscì decisamente a farlo sorridere e, dopo avergli infilato le dita fra i capelli, lo tirò verso di sé per poterlo baciare ancora una volta. Voleva approfittarne, dato che non era certa di poterlo rivedere presto.
 
“Devi avere un altro po’ di pazienza.”
 
“Nessun problema, Steve. Vale la pena aspettare.”
 
“Non potrei essere più d’accordo.”
 
Anthea baciò Steve di nuovo e lo spinse prima di lato e poi sulla schiena. Si spostò sopra di lui e continuò a baciarlo sulle labbra, lungo il collo e seguendo la linea verticale che dal centro del petto andava a solcare l’addome scolpito. La giovane capì che non sarebbe riuscita a fermarsi e lui non diede segno di volere che lo facesse.
 
“Se non sei stanco...”
 
“Non lo sono.”
 
“Ottimo.”
 
 
 
 
Il mattino seguente, Anthea fu svegliata da un insistente bussare alla porta della camera che non riconobbe affatto e si sentì spaesata, finché i ricordi della notte appena trascorsa non fecero capolino e riuscirono a riscuoterla dal torpore.
Percepiva il respiro caldo di Steve sulla nuca e il calore del suo petto contro la schiena.
 
“Steve! Ross ci vuole vedere! Dice che non riesce a contattarti!”
 
Una voce squillante fece smuovere appena il super soldato, che sospirò profondamente fra i capelli di Anthea, facendola rabbrividire.
La porta si aprì e Collins si affacciò. Il ragazzo fece per dire qualcosa, ma si bloccò nell’esatto momento in cui incontrò gli occhi spalancati della Reyes, che d’istinto si strinse maggiormente nel lenzuolo.
L’oneiriana portò l’indice destro alle labbra, in un chiaro invito a mantenere segreto quell’incontro non previsto. Dan annuì e le dedicò uno sguardo di scuse prima di sparire.
In tutto ciò, Rogers non si era accorto praticamente di nulla.
Per lei era invece arrivata l’ora di filarsela. Scivolò via dalle braccia del super soldato e tentò di recuperare i suoi indumenti nel minor tempo possibile. Una volta vestita, posò lo sguardo sul biondo ancora addormentato e le pesò parecchio doverlo scuotere per svegliarlo. Avuta la sua attenzione, gli ripeté le stesse parole gridate da Daniel.
Steve si mise seduto e, prima che riuscisse a fare o dire qualsiasi cosa, Anthea lo baciò con trasporto e poi sgattaiolò fuori dalla finestra con agilità.
 
Quando fu fuori dall’appartamento, la giovane tirò su il cappuccio della felpa blu che aveva rubato al compagno, così da nascondervi sotto buona parte della divisa sgualcita dello SHIELD.
Il cielo era coperto da una cortina di nubi grigie e tirava una piacevole brezza fredda. Non essendo ancora perfettamente sveglia, notò con un certo ritardo la persona che saltò dalla finestra attigua a quella della camera di Steve.
Nemmeno la suddetta persona doveva essere abbastanza sveglia, perché non fece subito caso alla presenza dell’oneiriana.
 
“James.”
 
Barnes smise di sistemare il cappello sulla testa e si bloccò sul posto. Voltò il capo in direzione della voce che l’aveva appena chiamato.
 
“Anthea.”
 
Dopo un lungo attimo di imbarazzante silenzio, fu la ragazza a sbloccare la situazione.
 
“Meglio parlare dopo.”
 
“Assolutamente d’accordo.”
 
 
 
 
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Era tornata a New York, alla Tower, assieme a James. Era andata dritta nel suo appartamento e si era praticamente buttata sotto la doccia.
Adesso l’acqua stava scorrendo sulla pelle che Steve aveva segnato in più modi quella notte.
Si sentiva strana.
Forse stava solo ricadendo in un momento di apatia. Forse era solo stanca.
Trascinatasi fuori dalla doccia, si mise un asciugamano addosso e arrivò fino alla sua stanza. Indossò un paio di slip e poi rindossò la felpa sottratta a Steve.
Come un automa, si sedette sul letto, con le gambe incrociate. I capelli stavano gocciolando sulle coperte, ma lo notò a malapena.
Un senso di spossatezza le incurvava le spalle. Il livido sul viso pulsava debolmente. Nella testa c’era il vuoto e c’era il vuoto anche nello stomaco.
 
Si sentiva strana.
 
Percepì vagamente dita forti affondare nelle spalle e poi un suono ovattato.
Una voce. Una voce che la chiamava.
Si sforzò di tornare lucida, di mettere a fuoco ciò che le stava accadendo intorno.
C’era James davanti a lei e la stava scuotendo con insistenza.
La bolla di silenzio che si era venuta a creare intorno a lei esplose e il rumore di oggetti che cadevano a terra fu la prima cosa che udì distintamente. Poi udì la voce di James.
 
“Stai bene? Cosa è successo?”
 
“Io... non lo so...”
 
Stava respirando con un certo affanno e stava sudando freddo.
Le braccia di James la strinsero in un abbraccio che le tolse per un attimo il respiro. La sensazione di calore rilassò i muscoli tesi e si sentì meglio, si sentì meno persa e meno spossata.
Dopo qualche attimo, il super soldato allentò la presa su di lei e si tirò indietro, tenendo le mani sulle sue braccia.
 
“Mi hai fatto prendere un colpo. Sembravi in una specie di catalessi e gli oggetti nella stanza stavano fluttuando. Scena perfetta per un film dell’orrore.”
 
“Sono solo tremendamente stanca. Deve essere stato lo sforzo di ieri. Può capitare.”
 
“Sei sicura? Sono costretto a fidarmi della tua parola, perché è difficile stabilire cosa sia normale e cosa non lo sia con te.”
 
“Sono sicura. È tutto okay.”
 
“Sai che puoi parlare con me, giusto?”
 
La ragazza annuì.
“Tu non mi avevi detto di Sharon però.”
 
Barnes, preso in contropiede, sorrise mestamente e le diede un leggero buffetto sulla fronte, usando la mano destra.
“Stai cambiando argomento. Sei brava.”
 
“Senti chi parla.”
 
“Ti sei divertita stanotte?”
 
Anthea tirò in basso il lembo della felpa per coprire i segni di dita sulle cosce e stirò le labbra in un ghigno dalle sfumature maliziose.
“Credo tanto quanto te.”
 
Si scambiarono una lunga occhiata piena di sottintesi.
 
“Fury vuole vederci. Te la senti?”
 
“Adesso sei tu che cambi argomento, Barnes.”
 
“Ho appena smesso di essere preoccupato. Basta sogghignare e muovi il sedere, Reyes.”
 
 
 
 
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“Farai tu il rapporto a Ross, giusto?”
 
Stewart si voltò in direzione del Capitano e gli dedicò una lunga occhiata, dopo la quale si decise a dargli una risposta.
“Giusto. Provo ad indovinare. Vuoi chiedermi di omettere il fatto che i tuoi amici Vendicatori erano presenti, dico bene?”
 
Rogers annuì.
 
“Potrei farlo, ma dovrai accontentarti della storia che sei stato tu a chiamarli perché era un’emergenza. Nonostante i vostri sforzi, è abbastanza evidente che i Vendicatori erano lì per l’Hydra senza che fossero stati prima autorizzati da Ross o chiamati a te.”
 
“Non è una situazione semplice. Siamo costretti ad agire in un certo modo. Se Ross venisse a sapere…”
 
“Se venisse a saperlo, tu saresti nei guai e accorcerebbe di nuovo il guinzaglio.”
 
Steve mantenne il contatto visivo con la donna.
“Già. Quindi…”
 
“Il mio superiore è Ross. Non posso aiutarti, tesoro.”
Janet si avvicinò al Capitano e gli posò una mano sul braccio. Gli sorrise con fare mellifluo.
“Ma potresti provare a farmi cambiare idea, se la cosa ti sta tanto a cuore. Mentire al Segretario di Stato è un grosso rischio e ho bisogno della giusta motivazione.”
 
“Ci sono in gioco tante vite. Dovrebbe essere una motivazione più che sufficiente.”
Il biondo stava cercando di mantenere la calma. Il misfatto del giorno prima gli avrebbe probabilmente impedito di avanzare richieste a Ross, cosa che i suoi compagni pretendevano che facesse – erano stati molto espliciti a riguardo, a partire da Tony, passando per Bucky e Sam, fino ad arrivare ad Anthea.
 
“Mi dispiace deluderti, ma non tutti sono come te. Sforzati di più, tesoro.”
 
“Non è un gioco, Stewart. Stiamo parlando di …”
 
“Non sto giocando. Sono più seria di quanto tu creda. Non rischierò la mia carriera senza avere un tornaconto. Io faccio un favore a te e tu mi dai qualcosa in cambio.”
Gli occhi della donna furono attraversati da una scintilla. Era davvero seria, non stava affatto scherzando.
“Vieni a letto con me e io ometterò l’azione dei tuoi compagni dal rapporto. Mi sembra uno scambio equo.”
 
Rogers rimase decisamente spiazzato. Quando aveva bussato alla porta della Stewart, non si era di certo immaginato che le cose potessero assumere una piega simile.
Janet, sfruttando il momento di confusione del super soldato, gli circondò il collo con le braccia e sollevò un angolo della bocca.
 
“Non essere tanto turbato. Ti piacerà. E lo farai per un bene più grande” lo stuzzicò senza riguardo.
Si fece più vicina, in modo che le loro labbra quasi arrivassero a sfiorarsi.
“Avanti, tesoro.”
 
 
 
 
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“Compromessi. È così che funziona il mondo, Rogers. Tu stesso sei qui per via di un compromesso.”
 
Ross era seduto dietro una scrivania. Erano in un ufficio del Pentagono e, una volta ascoltato il rapporto da Janet Stewart, aveva chiesto al Capitano di rimanere, lasciando invece andare via il resto della squadra. Ora, Rogers era in piedi dall’altra parte della scrivania e aveva le braccia incrociate al petto, appena sotto la stella argentata della stealth.
 
“Ti confesso che non credevo mantenessi una così buona condotta, nonostante riconosco di essere stato esigente con te.”
 
L’ex generale ripensò a quanto la faccenda del siero del super soldato avesse condizionato la sua carriera prima e la sua vita di conseguenza. Aveva perduto tutto scommettendo in un esperimento che aveva prodotto solo bestie incontrollabili.
Ross aveva sempre desiderato avere il controllo e aveva cercato a lungo il potere necessario per conseguirlo.
Bruce Banner era stato il suo fallimento. Steve Rogers sarebbe stato la sua rivalsa.
Non aveva voluto Rogers per contrastare i potenziati che Adam Lewis stava generando. O meglio, quello era uno dei motivi di peso minore, che riguardavano i vantaggi di avere a disposizione un’eccellente stratega dalla forza fuori dal comune e dall’indiscutibile integrità morale.
Controllare Steve Rogers significava poter controllare gli Avengers e quindi significava entrare in possesso di un potere che andava al di là di ogni sua più rosea aspettativa. Avrebbe avuto Hulk – dopo tanto tempo – e Thor e la Reyes. E poi c’era Stark, tramite cui avrebbe potuto contribuire in modo straordinario all’avanzamento dello stato tecnologico militare.
Ross doveva avere pazienza. Forzare la mano non lo avrebbe condotto verso risvolti positivi.
Rassicurazioni e compromessi. Due fondamentali elementi per giungere all’obiettivo preposto. Ogni tipo di relazione umana si basava su tali elementi, nessuna esclusa.
 
“Però, Rogers, non posso fidarmi completamente di te, se finisci per rompere le regole non appena ti concedo maggiore libertà.”
 
“Non è come…”
 
Il Segretario sollevò una mano per bloccarlo sin dall’inizio.
 
“I tuoi compagni, gli Avengers, non hanno restrizioni se non quella relativa all’Hydra. Non mi sono intromesso quando Barnes e la Reyes hanno deciso di lavorare per Fury. Una mossa intelligente per aggirare le regole, così come è stato furbo non usare lo stesso trucco con tutti gli altri, per evitare che a quel punto il Consiglio o io stesso intervenissimo. Quello che è accaduto ieri …”
 
“Siamo stati tutti manovrati e non ho intenzione di permettere che questo si ripeta. Ho bisogno dei miei compagni qui per gestire la situazione. Le ho dimostrato che so seguire i suoi ordini.”
 
Il Capitano aveva lo sguardo fisso in quello di Ross e tutta l’intenzione di far valere le sue motivazioni. Al Segretario bastò tale reazione per decidere come fosse opportuno procedere.
 
“Barnes. Wilson. Reyes. Puoi dire loro di unirsi a te alla fine di questo mese. Saranno la tua squadra per le azioni contro l’Hydra e Lewis. Ammetto che ti sei comportato bene e ti sei dimostrato estremamente collaborativo, quindi voglio venirti in contro. In fondo perseguiamo lo stesso obiettivo, ovvero fare in modo che criminali scellerati non minino alla stabilità del Paese e del mondo.”
Eccola, la rassicurazione. Ross fece una pausa e gli piacque intravedere la sorpresa nei tratti ora più rilassati del volto di Rogers. Nonostante fosse riuscito a vincolare il super soldato a sé, il Segretario sapeva che osteggiarlo troppo avrebbe solo condotto a risultati decisamente negativi. Quindi aveva deciso di passare sopra a ciò che era accaduto il giorno prima. Non era il momento adatto per fare uso del pugno di ferro.
“Ogni azione che vorrai intraprendere dovrà passare da me. Vi muoverete solo dopo che io vi avrò autorizzato a farlo. Sto mettendo a rischio la mia credibilità, la mia integrità, la mia stessa persona, dunque devo avere la situazione sotto controllo. Sono stato chiaro Rogers?”
Questo, invece, era il compromesso. Scendere a patti rendeva durevoli le relazioni umane, perché entrambe le parti ottenevano ciò che volevano con la clausola di rispettare vicendevolmente la volontà della controparte.
 
Il Capitano annuì, senza aggiungere una sola parola.
A Ross bastò quel cenno e, dopo aver sospirato con fare riflessivo, si sporse in avanti sulla scrivania e si preparò a concludere la conversazione.
 
“Sta’ attento, Rogers. Non farmene pentire.”
Un avvertimento che serviva a richiamare alla mente chi fosse al comando.
 
Il super soldato non rispose e si limitò ad annuire una seconda volta, accrescendo la soddisfazione del Segretario.
 
 
 
 
 
 
Uscito dall’ufficio di Ross, Steve percepì distintamente la sensazione di disagio che lo accompagnava da diverso tempo ormai. La soffocò, in modo che non intaccasse l’attuale e precaria stabilità emotiva.
Era davvero quella la strada da seguire? Stava facendo la cosa giusta?
Per un attimo gli tornò alla mente il disegno della scimmia intenta a percorrere una sottile fune in sella ad un monociclo e con in mano un ombrello che, al primo accenno di vento, non avrebbe fatto altro che peggiorare la sua situazione già estremamente precaria. Ricordò i clown che la osservavano dal basso, in attesa di vederla cadere per poter ridere più sfacciatamente di lei.
Poi scosse il capo e l’immagine evaporò. Tuttavia, permase un tangibile e sconfortante senso di umiliazione.
 
Stava facendo la cosa giusta?

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Capitolo 26
*** Doubtful path ***


Doubtful path
 
 
 
13 giugno 2015
New York, 05:03 AM

 
 
“Continuo ad essere combattuto. Non ho un bel ricordo della volta in cui siamo stati sulla stessa auto.”
 
Il sospiro spazientito di James Barnes fu molto eloquente e valse più delle mille parole che avrebbe potuto spendere per descrivere quanto Sam Wilson fosse bravo a punzecchiarlo. D’altro canto, James sapeva che l’approccio che Sam usava con lui era un modo per rimanere sulla difensiva e al tempo stesso cercare punti di incontro fra di loro.
Non avevano scelta se non quella di collaborare, dato che si sarebbero ritrovati a lavorare a stretto contatto. Avevano già avuto diverse occasioni per testare la loro abilità nel fare squadra e se l’erano cavata bene. Tuttavia, non sarebbe stata una cattiva idea dare fondamenta più solide al loro rapporto. Per il momento, l’unica cosa che li univa davvero era Steve e il fatto che l’avrebbero seguito in capo al mondo. Un buon punto da cui partire, considerando che avrebbero raggiunto il suddetto super soldato a Washington e lì avrebbero vissuto sotto lo stesso tetto fino a data da destinarsi. Negli ultimi mesi non avevano avuto molte possibilità di dialogare e si erano a malapena visti. Infatti, mentre Sam era rimasto con Tony alla Tower, Bucky era andato allo SHIELD con Anthea.
Barnes era riuscito ad integrarsi decentemente allo SHIELD, nonostante l’ombra del Soldato d’Inverno alleggiasse ancora su di lui come uno spettro. La sensazione dell’unico occhio di Fury piantato nella schiena alla stregua di una lama affilata lo aveva accompagnato ovunque, mettendogli addosso una certa pressione.
Se era riuscito a mantenere i nervi saldi da quando il suo migliore amico era partito per Washington, doveva ringraziare l’appoggio costante di Anthea. La ragazza non era un esempio di stabilità emotiva, questo lo aveva capito fin da subito, ma la sua ferrea volontà di migliorare e di adattarsi a qualsiasi situazione le capitasse davanti lo spingeva a darsi da fare per stare al passo.
La capacità di adattamento di Anthea era stata invidiabile negli ultimi mesi. Si era chiesto se per lei quello fosse un modo di tenere dietro una solida facciata di sicurezza le emozioni che altrimenti l’avrebbero destabilizzata. Non aveva ancora trovato una risposta, dato che la giovane sapeva essere criptica in maniera quasi disturbante. In ogni caso, lavorare insieme a lei, fianco a fianco, giorno dopo giorno, lo aveva aiutato a rafforzare il labile equilibrio interiore. Era come se lo sciame caotico dei pensieri che gli riempivano la testa si fosse lentamente assopito, trasformandosi in un ronzio di sottofondo. C’erano buone probabilità che quello fosse un progresso e adesso doveva sforzarsi di far progredire il progresso.
 
“Ti ricordo che la volta di cui parli ero sul tettuccio dell’auto e volevo uccidervi.”
 
Sam sistemò un borsone nel portabagagli e poi spostò l’attenzione su James. Assunse un’espressione pensierosa e nascose l’ombra di un sorriso dietro la mano che portò al mento con fare riflessivo.
“Vero. Ma voglio la ragazza sul sedile anteriore. Preferisco che tu stia lontano dal volante” decretò e stavolta mostrò apertamente il sorrisetto ironico.
 
Barnes scosse il capo, sconfitto. Qualcosa gli diceva che sarebbe stato un lungo viaggio.
 
“A proposito” ricominciò Sam “dov’è finita Anthea? Ero certo che sarebbe stata pronta almeno un’ora prima di noi e che avrebbe iniziato a fare pressione perché ci dessimo una mossa.”
 
Bucky non poteva che essere d’accordo. Anthea aveva contato i giorni da quando Steve aveva detto loro che il trasferimento era stato ufficialmente approvato. Era in frangenti come quello che la ragazza disfaceva la solida facciata di sicurezza, sfilava via la maschera da guerriera – anche spietata all’occorrenza – e si mostrava come la ventenne assetata di vita, conoscenza e calore. L’aveva beccata diverse volte con lo sguardo perso e le labbra piegate in un sorriso decisamente idiota per i suoi standard. Questo succedeva sempre dopo che aveva visto o anche solo parlato al telefono con Steve. Era divertente guardarla mentre si sforzava di mantenere un atteggiamento professionale in presenza del compagno.
E sì, Bucky si era reso conto di avere il vizio di osservare chi lo circondava e riusciva a cogliere ciò che agli altri sfuggiva. Un gentile lasciato del Soldato d’Inverno, che aveva sempre usato quella capacità per carpire i punti deboli degli avversari e ucciderli.
 
“È al telefono. Mi ha detto di andare avanti” rispose Barnes, mentre indicava con il pollice destro alle proprie spalle.
 
“Con chi parla alle cinque di mattina? Steve?”
 
“Steve non è ancora raggiungibile. È il suo ex capo. Credo sia per lavoro.”
 
“Credi?”
 
James fece spallucce dinanzi lo sguardo confuso di Sam e caricò un secondo borsone nel portabagagli.
I parcheggi sotterranei della Tower erano alquanto lugubri a quell’ora e c’era un silenzio tombale, interrotto solo dalle loro voci che rimbombavano fra le mura cementate. Sam e Bucky riuscirono a sentire perfettamente l’eco di passi svelti avvicinarsi ed entrambi rivolsero l’attenzione nel punto in cui comparve la figura di Anthea.
La ragazza aveva uno zaino sulle spalle e i manici di un borsone stretti nella mano destra. Doveva essersi cambiata, perché stava indossando una delle uniformi nere dello SHIELD al posto dei normali vestiti che James le aveva visto addosso non molto prima.
 
“Devo finire un lavoro, quindi andate avanti senza di me. A questo punto ne approfitterò per recuperare da Fury i dati di cui Steve e Tony avevano bisogno.”
L’oneiriana caricò i suoi bagagli sui sedili posteriori e chiuse lo sportello. Sembrava tranquilla nonostante l’inaspettato cambio di programma.
“Cercate di arrivare sani e salvi a destinazione voi due.”
 
“Non ti prometto niente” fu la decisa risposta di Sam, che sollevò le mani come a voler dire ‘non è colpa mia, hai visto con chi ho a che fare?’.
 
“Stessa cosa vale per me. Tu non combinare casini” furono invece le parole di James.
Il moro sollevò un angolo della bocca in modo quasi impercettibile e le rivolse al contempo uno sguardo penetrante.
 
“Prometto che mi impegnerò a non esagerare troppo.”
 
“Che inizio promettente” ironizzò allora il pararescue e si guadagnò un paio di occhiate divertite.
 
“Cosa mai potrebbe andare storto?”
Anthea sorrise con fare rassicurante e sistemò una ciocca dei lunghi capelli dietro l’orecchio destro.
 
“Questo può andare storto” dovette contraddirla Wilson, nel momento esatto in cui Barnes prese posto sul sedile del passeggero anteriore e il moro, in risposta, sfoggiò un ghigno tutt’altro che rassicurante.
 
“Perché non vi sforzate di risolvere le divergenze durante il viaggio? Vi ricordo che dovremmo vivere sotto lo stesso tetto.”
 
Sam e James scambiarono un’occhiata eloquente e sospirarono quasi in perfetta sincronia. Sarebbe stato un lunghissimo viaggio.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Erano in strada da una ventina di minuti e fu Sam che decise di rompere il silenzio.
 
“Credi che dovremmo preoccuparci per lei?”
 
Il pararescue pensò che quello potesse essere un argomento neutrale per iniziare un discorso a tu per tu con Barnes. Era una situazione strana e non riusciva ancora a sentirsi completamente a suo agio.
Da un po’ di tempo, Sam si sentiva inesorabilmente trascinato dalla corrente degli eventi. Faticava a fidarsi sia dello SHIELD sia del Governo, ecco perché aveva deciso di rimanere assieme a Stark e di aiutarlo con le questioni sottobanco. Adesso le cose stavano per cambiare o, da un altro punto di vista, stava tornando dove tutto era iniziato, anche se sarebbe stato diverso.
Quando si erano ritrovati tutti a Los Angeles, Sam aveva avuto la certezza che il loro metodo di gestire quel casino era deragliato dai binari giusti. Forse quei binari non li avevano mai beccati e probabilmente si erano impantanati da un po’ in una fanghiglia che tentava di inghiottirli. Era preoccupato per ciò che sarebbe potuto accadere da lì in avanti. Ed era preoccupato per Steve.
Aveva visto Steve affrontare un disastro dopo l’altro ed uscirne sempre più ammaccato. Purtroppo, smettere di combattere non era un’opzione contemplata al momento, per nessuno di loro. Si chiese per quanto ancora sarebbe stati in grado di reggere quel ritmo incalzante e irregolare.
 
“Ucciderebbe piuttosto che perdersi l’occasione di venire a Washington. Non combinerà casini” affermò James, mentre seguiva distrattamente con lo sguardo il profilo di New York che presto si sarebbero lasciati alle spalle.
 
“Su questo concordiamo. Allora… cosa pensi ci aspetti una volta arrivati?”
Sam premette con più decisone sull’acceleratore e superò un paio di auto. Per quanto lo riguardava, stava tenendo basse le aspettative.
 
“Niente di buono.”
 
“Adesso sono due le cose su cui siamo d’accordo.”
 
“Stai cercando di trovare dei punti di incontro con me?”
 
“Abbiamo un po’ di tempo da riempire e, come ci è stato fatto notare, vivremo sotto lo stesso tetto. Due buoni motivi per trovare punti di incontro” fu la semplice e tranquilla spiegazione di Wilson.
 
James sorrise e distolse lo sguardo dal finestrino per rivolgerlo direttamente al suo compagno di viaggio.
“Cosa ti ha spinto a ributtarti nella mischia dopo che ti eri congedato?”
 
Wow, iniziamo con roba forte.”
Sam era stato preso in contropiede. Si sarebbe aspettato più un ‘Da dove vengono le ali da uccello?’ o qualcosa di simile.
 
“Non sei costretto a rispondere.”
 
Barnes doveva aver colto la sua esitazione, però non era dovuta al fatto di non voler rispondere. Più che altro, non era certo di avercela una risposta.
“Se devo essere sincero, non ne sono sicuro. Non avevo intenzione di tornare a combattere.”
Sam fece una pausa e la sua espressione assunse maggiore serietà.
“Stavo cercando di aiutare altri veterani a tornare nel mondo reale perché so quanto possa essere dura e credo che nessuno debba affrontare quel processo da solo.”
Dedicò a Bucky un’occhiata eloquente e poi tornò con lo sguardo sulla strada.
“Ho provato perfino a coinvolgere Steve. Era parecchio confuso allora e non ti nascondo che mi sarebbe piaciuto potergli dare una mano.”
 
“Lo hai fatto” attestò Bucky.
 
“Non in quel senso” replicò il pararescue e si lasciò scappare un sorriso ironico al ricordo.
“Alla fine è stato Steve che ha tirato me dentro il mondo che mi ero lasciato alle spalle. Quando lui e Natasha si sono presentati a casa mia, non ho avuto dubbi su cosa fosse giusto fare a discapito di tutti i rischi. E poi quei due sono stati disposti a violare una struttura super sicura per poter recuperare le mie ali.”
Eccome se l’avevano fatto e senza battere ciglio.
“L’ho seguito senza farmi troppe domande e continuo a farlo perché è ciò che voglio.”
 
Prima di Steve, un’altra persona che aveva riposto in lui una fiducia incondizionata era stata Riley.
Forse era stata la volontà di dimostrare a se stesso di essere degno di quella fiducia a spingerlo a rientrare in campo. Oppure la spiegazione poteva essere più semplice. Forse non aveva mai voluto smettere di combattere, solo che voleva farlo per ideali in cui credeva davvero.
 
Bucky sembrò leggergli nel pensiero, perché disse qualcosa che gli fece accantonare quei forse insidiosi.
 
“Credo che non valga la pena cercare di dare spiegazioni a tutte le scelte che facciamo. Spesso scegliamo e basta. La cosa più difficile è convivere con quelle scelte.”
 
“Da dove viene questa esternazione di saggezza?”
 
“Ho tipo cento anni. Mi si addice la parte di vecchio saggio.”
 
Sam rise e diede a Bucky una pacca sulla spalla. Non sarebbe stato poi così male quel viaggio.
 
Una certezza Sam ce l’aveva. Se fosse tornato indietro nel tempo, al giorno in cui Captain America aveva bussato alla sua porta, avrebbe fatto le medesime scelte senza alcuna esitazione, pur sapendo cosa avrebbe dovuto affrontare dopo.
 
“Bucky. Quando tutto questo sarà finito, dovresti prenderti una pausa per capire cosa vuoi e…”
 
“Chi sono. Adesso sono tre le cose su cui concordiamo.”
James lasciò trascorrere un breve momento di silenzio.
“Però sappi che non ho intenzione di partecipare ad alcun tipo di seduta” aggiunse infine, categorico.
 
Ecco una cosa su cui non concordavano per niente.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Washington DC, 10:13 AM
 
 
Collins stava sistemando l’attrezzatura che si era portato dietro nell’ultima missione, dalla quale erano rientrati circa mezz’ora prima. Qualche arma faceva sempre comodo e lui era abbastanza bravo a maneggiarle, che si trattasse di lame o di armi da fuoco. Si riteneva un tutto fare ed era sempre pronto ad apprendere qualcosa di nuovo. Inoltre, aveva dimostrato di sapersi adattare alle situazioni più disparate e questo gli aveva permesso di arrivare dove era adesso.
Durante il periodo in cui aveva lavorato per lo SHIELD, aveva svolto missioni variegate ma mai di vero e proprio rilievo professionale. Negli ultimi mesi aveva raggiunto tutto un altro livello e riusciva ad affrontare circostanze difficili senza significativa esitazione. Si era accorto di riuscire a mantenere la giusta lucidità e la necessaria freddezza quando era sotto pressione e anche quando rischiava di morire. Ovviamente gli capitava ancora di incappare in valutazioni sbagliate e di improvvisare azioni azzardate, ma si stava sforzando di ridurre entrambe le circostanze. Una delle cose più complicate, secondo il suo personale parere, era prendere decisioni e trovare soluzioni in un tempo più breve di quello che lui solitamente impiegava a scegliere fra dolce e salato la mattina per colazione. L’idea di poter ferire qualcuno – che non fosse il nemico – nel prendere determinate decisioni lo spaventava. Invece ferire se stesso era una conseguenza più che ragionevole in caso avesse commesso un errore e non lo spaventava.
Daniel si piegò sulle ginocchia per riporre un paio di caricatori svuotati delle pallottole in un borsone scuro e fu attratto dai riflessi opachi del noto cerchio in vibranio, che giaceva sul pavimento alla sua destra. Senza quasi rendersene conto, si ritrovò con lo scudo fra le mani e spinse sulle gambe per tornare in piedi.
Lo scudo era più pesante di quel che sembrava. Lo fece roteare lungo il diametro e ascoltò il particolare suono che emise nel fendere l’aria. Ne osservò la parte posteriore, quella dove c’erano le cinghie e notò che su queste iniziavano a vedersi segni di logoramento.
 
“Hai il permesso di toccarlo?”
 
Dan sussultò e lo scudo rischiò di scivolargli dalle mani. Si voltò in direzione della voce che gli aveva appena fatto venire un mezzo infarto e incontrò gli occhi limpidi di James Barnes, che aveva l’espressione di chi ha appena ottenuto l’effetto sperato.
 
“Barnes…”
 
“Bucky” lo corresse l’ospite inatteso e Collins non ebbe il tempo di dire qualcosa che avesse una certa coerenza, perché alle spalle di James arrivarono Steve e Sam, che erano nel mezzo di una tranquilla conversazione fra amici che non si vedono da parecchio.
 
Dal giorno in cui Rogers era tornato dall’incontro con Ross per discutere della disastrosa missione a Los Angeles, Dan aveva la sensazione che qualcosa fosse cambiato. Tuttavia, gli era difficile identificare quel qualcosa, dato che il Capitano sapeva bene come innalzare una perfetta facciata dietro la quale nascondere ogni tipo di emozione personale che avrebbe potuto renderlo emotivamente vulnerabile. Sperò che l’arrivo dei suoi compagni lo aiutasse in qualche modo, qualsiasi modo.
Perso nelle sue elucubrazioni mentali, Collins dimenticò di avere ancora lo scudo fra le mani. Se ne rese conto solo quando Bucky si avvicinò e fece tintinnare le nocche di metallo contro la superficie in vibranio, come per testarne la solidità.
 
“Gli stai insegnando ad usarlo?” chiese Barnes con tono sorpreso, rivolgendosi a Rogers.
 
“No… io stavo solo mettendo in ordine.”
Era stato Dan a rispondere e subito dopo ripose lo scudo nell’esatto posto in cui l’aveva trovato.
 
Steve fece per dire qualcosa, ma fu interrotto dall’arrivo di Janet, che si schiarì la gola in modo da palesare la propria presenza.
“Janet Stewart. Lieta di avervi qui.”
La donna strinse la mano prima a Sam e poi a James e non si preoccupò di nascondere il fatto che li stava studiando con un certo interesse.
 
“Finalmente ce l’avete fatta.”
 
L’attenzione si spostò sulla rampa delle scale che conduceva alle stanze. Sharon aveva indosso i pantaloni neri e gli stivali con cui era andata in missione e portava ancora il giubbotto antiproiettile mezzo aperto.
Lo sguardo caldo della donna passò in rassegna i presenti e si fermò un po’ più a lungo e con discrezione su James, che da sotto l’ombra del cappello ricambiò l’occhiata penetrante che ricevette da lei.
“Sbaglio o ne manca una?” chiese mentre raggiungeva il gruppo.
Sharon era stata messa al corrente di quell’arrivo e Steve le aveva chiesto diversi pareri per capire come gestire le cose da lì in avanti. Essere presa tanto in considerazione da Rogers la rendeva in un certo qual modo orgogliosa. Mai avrebbe detto che sarebbe finita a lavorare fianco a fianco con la stessa persona che aveva tanto segnato la vita di sua nonna.
 
“Ci raggiungerà più tardi. Aveva un lavoro da finire.”
Fu Sam a parlare e scambiò un rapido sguardo con Steve, che si limitò ad annuire. Anthea si era premurata di avvertirlo con un messaggio, quindi quella notizia non era stata una novità per lui.
 
“A questo punto devo avvisare Ross del vostro arrivo e del ritardo del terzo componente.”
Janet posò delicatamente la mano sulla spalla destra del Capitano. Ormai quell’invadenza dello spazio personale si era trasformata in un’abitudine, tanto che il super soldato aveva smesso di farci caso.
“C’è qualcos’altro che vuoi il Segretario sappia?”
“No. Va bene così” le comunicò Rogers e la donna fece un leggero segno di assenso con il capo, per poi rompere il contatto. Salutò i presenti con un “Ci si vede in giro” e risalì la rampa di scale senza voltarsi indietro.
 
Mentre Sam rifletteva su ciò che aveva appena visto, Bucky avvolse il braccio destro attorno al collo di Steve e lo tirò a sé come tante volte aveva fatto in passato.
“Il nostro alloggio è ad un paio di isolati da qui” esordì il moro e strinse maggiormente la presa, strappando un sorriso al compagno.
“Abbiamo deciso di passare a controllare che qui fosse tutto in ordine” aggiunse alla fine, assumendo un’espressione più seria.
 
“A parte non aver fatto molti progressi, è tutto okay.”
Steve non era mai stato bravo a sottrarsi allo sguardo indagatore di Bucky e non ne fu capace nemmeno questa volta. Lo aiutò Sam in maniera totalmente inconsapevole.
 
“Basta fare comunella voi due. Noi abbiamo un sacco di punti da mettere in chiaro prima di iniziare a darci da fare.”
Wilson puntò il dito contro Barnes, che sospirò e lasciò andare Rogers.
 
“Punti da mettere in chiaro?” fu la lecita domanda del Capitano.
 
“Vivremo nello stesso appartamento” affermò semplicemente il pararescue, convinto che quella fosse una spiegazione più che sufficiente.
 
“C’è qualcosa che dovrei sapere?”
Steve sondò i suoi compagni con occhio critico ed entrambi scossero il capo, ritenendo che fosse meglio risolvere le eventuali divergenze in privato.
 
Fu Sam a mettere fine ad ogni indugio.
“Bene, allora noi andiamo a sistemarci. Dalle vostre facce direi che dovete farlo anche voi. Missione notturna?”
 
“Missione notturna” confermò Dan, che era perfettamente consapevole di avere una pessima faccia con tanto di occhiaie scure. Era stanco e avrebbe volentieri dormito per tutta la giornata impegni permettendo.
 
“Tu ed io non avevamo una sfida aperta?”
 
Collins ci mise più del dovuto a capire che Barnes si stava rivolgendo proprio a lui. Aprì e chiuse la bocca almeno un paio di volte prima di riuscire a pronunciare parole di senso compiuto. Okay, doveva andare a dormire e possibilmente subito.
 
“Ci sono quasi. Più o meno. Tu tieniti pronto.”
Dan istintivamente cercò gli occhi di Steve, che fece un cenno d’assenso con il capo. La cosa non passò inosservata.
 
Barnes sorrise divertito.
“Quando vuoi.”
 
 
 
 
 
 
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Località in territorio americano
 
 
Era buio, ma non abbastanza da impedirle di distinguere i contorni di ciò che la circondava. Percepiva il respiro sommesso di Grey alle sue spalle. I loro passi creavano un’eco leggera in quel deposito riempito di vecchi container arrugginiti. Si concentrò sul suono di piccole gocce che si schiantavano sul cemento umido. Il tendone sopra le loro teste era costellato di fori, da cui penetravano deboli fasci di fioca luce sfuggiti alla cortina di nubi grigie.
Si fermò di colpo e Grey la imitò.
 
“Che succede?” sussurrò l’agente.
 
“Arriva qualcuno.”
 
L’entrata in lamiera fu aperta con una certa violenza e la penombra invase lo stanzone. Poi, con un rumore rimbombante, la porta a scorrimento venne richiusa e l’oscurità venne tagliata dalla luce artificiale prodotta da torce elettriche.
Si nascosero dietro un container e attesero. Anthea tese ogni singolo muscolo, pronta a scattare se la situazione l’avesse richiesto. Rimanere concentrata era importante, però aveva scoperto da un po’ che non era poi così brava a compartimentare i suoi pensieri, soprattutto quando ce n’erano di più insidiosi a disturbarla.
Si sporse leggermente in avanti e vide un gruppetto di persone che si dirigevano a passo svelto verso un container rossastro. Il container venne aperto e il gruppo vi entrò. Le bastò un breve spiraglio di buona visibilità per accorgersi della seconda entrata sul fondo del container. Quel secondo accesso dava su una scalinata che conduceva verso il basso.
 
“Doppio fondo?” le chiese Grey con un filo di voce.
 
“Doppio fondo” confermò lei.
 
Aspettò che il gruppo sparisse oltre l’ingresso segreto e poi si mosse, decisa a scoprire cosa stessero nascondendo. La ferrea presa di Grey sul polso non le permise di andare lontana.
“Non sappiamo cosa nascondono lì sotto.”
 
“Infatti sto andando a scoprirlo” replicò lei.
 
“So di cosa sei capace ma il nemico è imprevedibile e non voglio rischiare. Farò arrivare una squadra di supporto e ...”
 
“E ci scopriranno. C’è una buona probabilità che non sappiano ancora che siamo qui e ho tutta l’intenzione di approfittarne.”
 
Grey sospirò con palese rassegnazione.
“Hai visto cosa serve per entrare? Impronte, codici o ...”
 
“Tranquillo, ho i miei metodi.”
 
Anthea sentì Grey sospirare una seconda volta. Non gli aveva lasciato molta scelta. Era convinta che aspettare una squadra di supporto avrebbe solo complicato le cose. Non percepiva strane energie pericolose nei dintorni, quindi era in grado di gestire la situazione. Avrebbe bussato poco gentilmente alla porta e, qualsiasi cosa avesse trovato dall’altra parte, l’avrebbe affrontata. Riflettendoci, se qualcuno di sua conoscenza avesse pensato di agire in quel modo, lei avrebbe sicuramente dedicato parole poco delicate a quel qualcuno. Le venne da ridere, ma si trattenne.
 
“La tua espressione non mi piace affatto” volle farle sapere Grey, che adesso l’aveva affiancata.
 
“Stavo solo pensando a quanto alcune cose mi mandino fuori di testa.”
 
“È difficile starti dietro.”
 
“Lo so. Nemmeno io ci riesco a volte. Sto andando.”
 
Entrare non fu complicato. Le bastò spiegazzare qualche lamiera e mettere fuori gioco gli uomini che l’accolsero all’inizio della rampa di scale in ferro battuto. Ovviamente non fu silenziosa e ciò mise in allarme chiunque fosse alla fine di quella rampa scricchiolante. Agì il più velocemente possibile.
Evitò di percorrere i gradini e si gettò direttamente nella tromba della scalinata. Fu un bel volo, ma nulla che le sue ossa non potessero reggere. Si prese solo un attimo per osservare le espressioni stupite dei nemici di cui doveva ancora capire l’affiliazione, poi si diede da fare.
Quando Grey arrivò in fondo alla scalinata, Anthea stese l’ultimo soldato con un calcio dritto sulla mascella.
 
“Potevi lasciarmene almeno uno.”
David le dedicò un sorrisetto compiaciuto, mentre scavalcava i corpi dei nemici privi di conoscenza che tappezzavano il pavimento.
 
“Oggi vado di fretta. La prossima volta” promise l’oneiriana.
 
“Non credo ci sarà una prossima volta. Da domani non lavorerai più con me, ma con Captain America.”
 
Nonostante quelle parole attestassero un dato di fatto, il tono con cui erano state pronunciate suonò tutt’altro che neutrale.
Avendo lavorato al suo fianco, Anthea sapeva che Grey era un agente ligio al dovere, che seguiva con zelo gli ordini dei suoi superiori e che non avrebbe mai improvvisato un’azione avventata infrangendo ogni regola infrangibile pur di salvare delle vite. Da questo punto di vista, David Grey era l’esatto opposto di Steve Rogers.
 
“Posso chiederti cosa hai contro Captain America?”
 
“Crede di potersi porre al di sopra di qualsiasi regola senza curarsi delle conseguenze delle sue azioni.”
 
Anthea storse il naso e si limitò a pronunciare un semplice “Capisco”, senza alcuna intonazione particolare nella voce.
Stavano percorrendo un lungo corridoio illuminato solo da rade lampadine che pendevano dal soffitto percorso da crepe lungo l’intonaco grigiastro. C’era un’umidità quasi soffocante là sotto.
 
“Tu che ne pensi?”
 
Cosa ne pensava lei? Era troppo di parte per esprimere un giudizio totalmente obiettivo. Però le parole di Grey non avrebbe mai potuto condividerle.
 
“Penso che ti sia fatto un’idea sbagliata. Dovresti dargli una possibilità.”
 
“Lo farò se avrò una buona ragione.”
 
Avanzarono ancora ed arrivò alle loro orecchie un suono che presto riuscirono a identificare. Erano lamenti, singhiozzi e mozziconi di parole che formavano preghiere dolenti.
Senza rendersene conto, Anthea aumentò il passo fino a romperlo in una corsa che lasciò indietro Grey.
Le pareti del corridoio furono sostituite da sbarre di acciaio, dietro le quali erano rinchiuse persone spaventate e disperate. Il cuore prese a batterle violentemente nel petto, mentre immagini che credeva di aver seppellito nei meandri più oscuri della sua memoria risalivano a galla con prepotenza.
 
“Ti prego, aiutaci.”
 
Una giovane ragazza dai capelli biondi e gli occhi chiari si avvicinò alle sbarre e le strinse forte fra le dita. Il terrore era palese sul viso pallido e segnato da lacrime che si erano seccate sulle guance.
Anthea aprì la bocca per dire qualcosa, ma non venne fuori alcun suono. Un tremore violento le risalì la schiena fino a raggiungere la nuca.
 
“Attenta!”
 
La voce di Grey la fece riscuotere e il suono di due spari consecutivi le perforò i timpani.
 
“Cazzo! Stai bene?”
 
La giovane abbassò lo sguardo e infilò le dita nel buco che si era aperto sul fianco. Come un automa, tirò fuori il proiettile che si era conficcato nella carne abbastanza superficialmente da non toccare organi vitali.
David aveva freddato l’assalitore impedendogli di sparare una seconda volta.
 
“Sto bene. Non lo avevo visto.”
Anthea lasciò cadere a terra il proiettile e si costrinse a recuperare la freddezza necessaria. Stava bene.
 
“Chiamo una squadra. Dobbiamo portare al sicuro queste persone e capire cosa stesse accadendo qui sotto.”
 
L’oneiriana si limitò ad annuire. Lei sapeva già cosa stava accadendo e sapeva bene chi ci fosse dietro tutto quello. Non poteva sbagliarsi.
Rivolse di nuovo l’attenzione a quelle persone innocenti. Le iridi brillarono nella penombra e le celle si aprirono con suoni secchi. Udì distrattamente Grey dare delle direttive a quei poveri sfortunati.
Stava di nuovo perdendo la cognizione della realtà e cadendo in un vortice insidioso di pensieri, quando un tocco incerto sul braccio la strappò ad uno stato di crescente apatia.
“Grazie.”
Era la ragazza di poco prima e le stava sorridendo, nonostante la paura le fosse ancora appiccicata addosso.
 
“Sai dirmi cosa è successo?” le domandò.
 
“Mi hanno portato qui e c’erano già delle persone… poi ne hanno portate altre… poi sono venuti a prendere alcuni di noi… non so altro…”
La voce della ragazza era tremula e i suoi occhi erano pieni di lacrime a stento trattenute. Era sconvolta e aveva tutte le ragioni per esserlo.
 
“Andrà tutto bene.”
Anthea cercò di sembrare convincente, tuttavia era consapevole di non credere alle proprie parole.
La ragazza sorrise timidamente e la ringraziò un’altra volta, prima di muoversi insieme agli altri verso l’uscita da quell’incubo.
 
David le si avvicinò e le pose una mano sulla spalla.
“Sicura di stare bene? Se hai bisogno…”
 
“Sto bene. Sono sicura” affermò Anthea con decisione e gli mostrò la solita espressione determinata.
Stava bene.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Helicarrier, SHIELD
 
 
“Qui c’è tutto. Manda a Rogers i miei saluti e cerchiamo di mantenere i contatti più saldi.”
 
Anthea prese dalle mani di Fury una pendrive.
“Riferirò il messaggio. Grazie per tutto quanto.”
 
“Non è stato male averti a bordo. Voglio che tu sappia che potrai contare su di me se ne avessi bisogno.”
 
L’oneiriana sollevò un angolo della bocca e annuì.
Fury non si era mai sbilanciato tanto da quando aveva iniziato a lavorare per lo SHIELD. Quasi le venne da ridere pensando a come le cose fossero cambiate negli ultimi anni. Doveva aver fatto parecchi progressi per essere arrivata al punto in cui anche Nick Fury si fidava di lei.
 
“Lo terrò presente.”
 
“Bene. Fate attenzione.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Il Sole stava tramontando e il cielo infuocato era specchiato nel largo letto del fiume. C’era una leggera brezza che le scompigliava i capelli sciolti e che le carezzava il viso. Era piacevole.
Nel percorso che aveva fatto per arrivare lì, diverse persone le avevano rivolto occhiate perplesse, scettiche e anche preoccupate. Doveva essere per i bottoni della camicia scura infilati nei passanti sbagliati, o per il fatto che la camicia era infilata solo per metà in un paio di cargo neri stropicciati, oppure poteva essere per le cinghie allentate e tintinnanti degli stivali.
Non aveva avuto occasione – nemmeno ci aveva pensato in realtà – di sistemarsi e aveva dimenticato di portare il cambio. Si annotò mentalmente che non era appropriato camminare per strada in quello stato sospetto. A sua discolpa, non si era posta il problema perché solitamente non se ne andava in giro fra la gente dopo una missione.
Grey l’aveva accompagnata con un jet dello SHIELD fino a Washington e lei era semplicemente saltata giù. Era stato l’agente a prestarle la camicia, dato che la maglia era finita bucata da un proiettile e si era imbrattata di sangue. Lui aveva insistito e le aveva anche detto che poteva tenerla.
 
“Ti prego. Aiutaci.”
 
Trattenne il fiato per un lungo attimo. Il volto accartocciato dal terrore della giovane che aveva salvato era ancora lì, appiccicato sulla retina. Non aveva dubbi che fosse opera di Lewis. Aveva già assistito a quel modus operandi, aveva visto tante volte quelle espressioni di terrore tramutarsi in maschere prive di vita, incollate su corpi che non erano stati in grado di sopportare il trattamento a cui erano stati sottoposti.
Strinse i pugni e arrivò a conficcarsi le unghie nei palmi delle mani, mentre torturava l’interno della guancia con i denti. Pensieri scuri iniziarono ad affollarsi nella sua mente, ma prima di sprofondare nella parte di sé meno ragionevole e più istintiva, il cellulare prese a vibrare insistentemente nella tasca dei pantaloni. Lo estrasse e percorse con gli occhi le lettere sullo schermo.
Smise di morsicare l’interno della guancia, le labbra si stesero in un fievole sorriso e iniziò a percepire un piacevole calore nella pancia. Negli ultimi mesi le era successo spesso di sentirsi così, precisamente in ogni occasione in cui lui la chiamava o le scriveva, e non riusciva a farci l’abitudine. Finalmente lo avrebbe rivisto e la sensazione si era fatta tanto forte da farle temere per l’integrità degli organi interni.
Forse era la vita sulla Terra ad averla resa più umana, o forse si sentiva solo più libera di lasciare andare le emozioni ora che nessuno le imponeva come doversi comportare. La Terra era incasinata, questo era un dato di fatto, ma le piaceva la vita lì e adattarsi era stato meno complicato del previsto.
Okay, magari non aveva ancora avuto occasione di provare la vita normale, però non era certa che una vita normale avrebbe fatto per lei. In fondo, era nata per combattere, giusto? Altrimenti a cosa le sarebbero servite tutte quelle capacità?
 
Esitò un ultimo istante prima di accettare la chiamata. Aveva pensato di sopprimere le emozioni negative e di raggiungerlo solo dopo esserci riuscita, ma i suoi tentativi di recuperare l’equilibrio erano miseramente falliti.
Non poteva più rimandare. Accettò la chiamata e portò il telefono all’orecchio.
“Ehi straniero.”
Ci mise impegno nel tirare fuori un tono che fosse abbastanza scherzoso e che non rivelasse il suo reale stato d’animo.
 
“Che succede?”
 
L’impegno non era stato sufficiente e il tentativo di sviare era stato fallimentare in tutto e per tutto. Tuttavia, la voce apprensiva dall’altra parte della linea riuscì a distenderle i nervi. Portò una mano alla fronte e prese un bel respiro profondo.
 
“Ho bisogno di… un passaggio. Credo di essermi persa. Questa città è davvero grande.”
 
“Sei a Washington? Da quando? Perché non mi hai avvertito?”
 
Sorrise. Ecco di nuovo quella forte sensazione di calore nella pancia.
“Stavo dando un’occhiata in giro per avere un’idea di dove starò per i prossimi… giorni… mesi… o anni… è difficile dirlo. Poi ho perso la strada e… avrei bisogno che tu mi aiutassi a ritrovarla.”
 
“Dimmi dove sei.”
 
Sollevò lo sguardo e lo posò sulle macerie che poteva vedere in lontananza.
“Non ti piacerà.”
 
 
 
Una volta chiusa la chiamata, gli inviò la posizione in modo che potesse raggiungerla.
Tornato il silenzio, il calore nella pancia andò affievolendosi fino a sparire. Sapeva che avrebbe dovuto reagire invece di rimanere ferma a farsi logorare da tutte quelle dannatissime sensazioni scomode.
Osservò il letto del fiume scintillare sotto la calda luce aranciata e ne fece increspare la superficie, creando un piccolo arco vicino l’argine. Mosse l’indice destro, descrivendo cerchi concentrici nell’aria, e l’arco si trasformò in una colonnina che si avvolse in una spirale. La strappò dall’enorme flusso d’acqua del Potomac, che intanto proseguiva indifferente nella sua corsa attraverso Washington. La spirale si accartocciò su se stessa, fino a prendere la forma di una sfera perfetta all’interno della quale i raggi di luce venivano diffratti. Fece esplodere la sfera in tante sue copie in miniatura, che si dispersero disordinatamente nell’aria come granelli di polvere. Le riunì assieme per creare uno stilizzato e minuto omino volteggiante.
La forma d’acqua la salutò con la mano destra priva di dita definite e un riflesso colorato le diede l’impressione che le stesse sorridendo. La fece muovere nella propria direzione e mosse un passo in avanti. Tese un braccio verso quella strampalata sagoma in miniatura, che mimò il medesimo movimento.
 
“Devo ammettere che fa una certa impressione.”
 
Il cuore cambiò ritmo di colpo. L’omino d’acqua vibrò ed esplose in una miriade di goccioline che le bagnarono il viso.
Anthea si voltò indietro e incontrò i ben noti occhi azzurri, adombrati dalla visiera di un cappello. Scoppiò a ridere senza nemmeno capirne bene il motivo e quella reazione fece nascere una sottile ruga fra i suddetti occhi azzurri.
 
“Lo hai spaventato” fu la prima e insensata cosa che gli disse di getto.
Sempre di getto annullò del tutto la distanza e fece scivolare le braccia attorno al collo del suo compagno.
Lo strinse a sé, mentre lui la stringeva a sua volta circondandole i fianchi. Gli organi interni potevano anche trasformarsi in poltiglia per quanto la riguardava, perché non si sarebbe spostata da lì.
Fu Steve che si tirò indietro e le mostrò una certa preoccupazione. Non lo biasimava, dato che lo aveva fatto arrivare fin lì senza dargli una spiegazione degna di questo nome. Nonostante ciò, lui era lì.
 
“Sarebbe un bel panorama se non fosse per ciò che è rimasto del Triskelion” fu il cauto approccio che Steve decise di utilizzare.
Era un modo per tastare il terreno e per concederle tempo prima di chiederle spiegazioni.
 
C’erano delle persone non troppo distanti da loro. Le macerie del Triskelion erano diventate un’attrazione per i curiosi incauti e non era raro vederne gironzolare diversi lì attorno, anche in prossimità dell’unico ponte ancora integro. Però pochi osavano oltrepassare quel ponte per raggiungere il cuore dell’ex quartier generale dello SHIELD.
Anthea era arrivata vicino l’argine del Potomac e, se la memoria non la ingannava, era in prossimità del punto in cui erano atterrati durante la fuga dalla base sotterranea di Teschio Rosso.
 
“Già. Non è così male.”
Quelle poche parole pronunciate con calma attestarono che lei era pronta a parlare di ciò che la stava turbando.
 
“Cos’è successo?” le chiese allora Steve, incapace di trattenersi ancora e guardandola dritta negli occhi.
 
Anthea non si sottrasse a quello sguardo penetrante, ma si aggrappò ad esso.
“Lewis ha ufficialmente rimesso in piedi l’attività che portava avanti prima dell’Hydra e prima che tu gli rovinassi i piani tre anni fa.”
Le iridi della giovane si fecero improvvisamente più torbide e il suo corpo si irrigidì, come attraversato da una dolorosa scarica elettrica.
“Sembrava si stesse limitando ad usare agenti dell’Hydra, invece adesso sta giocando con persone innocenti. Ho già assistito a tutto questo e so come va a finire.”
 
“Sono consapevole che è passato già troppo tempo. Però posso assicurarti che non mi fermerò finché non lo avrò trovato.”
Steve era diventato serissimo in un battito di ciglio. Credeva fermamente in ciò che aveva detto e lei sapeva che avrebbe fatto qualsiasi cosa per mantenere la parola.
 
“Quell’uomo ama giocare a fare dio e ama annichilire chi lo ostacola. Manipolare le persone è ciò che sa fare meglio.”
Lei conosceva Adam Lewis. Lo conosceva fin troppo bene ed era per questo che la bolla di inquietudine formatasi nel petto non avrebbe fatto altro che espandersi fino a darle la sensazione di soffocare. Avrebbe dovuto estirparlo dall’esistenza quando ne aveva avuto l’occasione.
“Tu e gli altri Avengers siete la causa del suo fallimento. Troverà il modo di regolare i conti se non l’ha già trovato.”
 
“Ma lui è solo. Noi non lo siamo.”
 
Anthea si lasciò scappare una risata un po’ folle e che proprio non riuscì a ingoiare.
“È questo il punto. Lui non ha niente da perdere, noi sì. Noi abbiamo molto da perdere… io ho troppo da perdere… è un vantaggio per lui.”
La consapevolezza di star facendo cento, mille passi indietro si palesò nella mente poco lucida. Si fidava dei suoi compagni, avrebbe messo la sua vita nelle loro mani senza battere ciglio, eppure c’erano occasioni in cui arrivava a pensare che muoversi da sola fosse l’unica soluzione possibile.
Steve fece per dirle qualcosa, ma lei lo precedette.
 
“Se tu fossi forte abbastanza da affrontare il nemico, sceglieresti di combatterlo da solo oppure insieme ai tuoi compagni?”
 
Sapevano bene entrambi quali implicazioni nascondesse quella ipotetica domanda. Lo spettro dell’incertezza prese ad alleggiare su di loro e, se avesse avuto una faccia, avrebbe piegato la bocca in un sorriso ironico.
 
“Non farlo.”
 
“Rispondi alla domanda.”
 
Rogers sospirò dinanzi l’intenso sguardo con cui lei lo stava osservando, in attesa.
 
“Insieme” fu la risposta che le diede e fu quella che lei si sarebbe aspettata da lui.
 
Eppure, per la prima volta, Anthea ebbe dubbi sulla sincerità di Steve.
Prese un lungo e profondo respiro e gli sorrise.
“Va bene. Insieme.”
Lo prese per mano e iniziarono a muoversi, allontanandosi dalla sponda del Potomac.
La giovane si convinse di avere solo bisogno di un po’ di tempo per ritrovare l’equilibrio e per adattarsi alla nuova situazione. Era brava ad adattarsi.
 
“Sei venuto a piedi?” gli domandò per tornare a nuotare in acque più sicure.
 
“Sam mi ha prestato la sua auto. Ha detto che se non ti dai una mossa, ti lasceranno la stanza piccola.”
 
“Poco male. Non la userò più di tanto alla fine dei conti.”
 
Steve le lanciò un’occhiata indagatoria da sotto la visiera del cappello.
 
“Hai capito bene” rimarcò lei e sollevò entrambe le sopracciglia con fare provocante, ma poi aggiunse un professionale “Ci sarà tanto lavoro da fare, quindi non credo passeremo molto tempo in casa.”
 
“Sì giusto… c’è davvero tanto lavoro…”
 
Lei si trattenne dal ridere. Avrebbe dovuto smettere di smorzare la tensione in quel modo, ma le reazioni di Steve erano impagabili.
Arrivarono alla macchina e Anthea prese posto davanti, mentre lui si metteva alla guida. Non molto dopo erano in strada e le macerie del Triskelion si allontanavano alle loro spalle.
 
“Puoi dirmi cosa ti sta passando per la testa?” chiese di punto in bianco Rogers, sentendosi osservato in maniera insistente e per niente discreta.
 
Di risposta, Anthea allungò un braccio e arrivò a sfilargli il cappello, che sistemò sulla propria testa, prima di tendersi nuovamente verso di lui. Infilò la punta delle dita fra i capelli biondi, all’altezza della nuca.
“Sono cresciuti dall’ultima volta che ti ho visto.”
L’ultima volta risaliva al mezzo disastro di Los Angeles. La giovane fece scivolare la mano fino alla base del collo e sorrise.
 
“Distrarre chi guida non è una buona idea” la riprese bonariamente lui, quando qualche brivido prese a correre giù per la colonna vertebrale.
 
“Sei a disagio” lo prese in giro dopo aver notato il leggero rossore che gli aveva colorato le orecchie.
 
“Non sono a disagio” replicò subito lui, con tono poco controllato.
 
“Sei adorabile.”
Anthea ritirò il braccio e, prima che lui potesse contestarla, riprese la parola.
“Credo che questa sia una delle cose più normali che abbiamo mai fatto. Tu ed io… da soli… quanto tempo abbiamo prima che vengano a cercarti?”
 
“Qualche ora credo.”
 
L’oneiriana rimase abbastanza sconvolta.
“Aspetta. Verrebbero davvero a cercarti?”
 
“Più o meno. Ross apprezza poco quando prendo l’iniziativa.”
Steve aveva cercato di buttarla su toni ironici, ma lo stringersi spasmodico delle dita attorno al volante la diceva lunga su come la pensasse a riguardo.
 
“Non credevo avresti resistito tanto a lungo.”
 
“Ho scelta?”
 
“Tornerai ad averla.”
Anthea osservò le nocche delle mani di Steve riacquistare colore.
“Sono contenta di essere qui” ammise poi con tono più leggero.
 
“Così potrai tenermi d’occhio?” scherzò il super soldato, propenso anche lui ad alleggerire la tensione.
 
Ah no, basta accettare le richieste di tenere d’occhio le persone. Troppe responsabilità. E poi James ha detto che siamo grandi per queste cose e che è lui che al massimo dovrebbe tenere d’occhio te, non il contrario.”
 
“Avrei da ridere su questo punto.”
 
“Io invece credo di essere dalla sua parte. Mi ha raccontato parecchie cose che sostengono la sua causa.”
 
“Ah sì? E cosa ti avrebbe raccontato?”
 
“Mi dispiace, ma rimane fra me e lui. Non è furbo far indispettire il nuovo capo per cui entrambi lavoreremo.”
 
Steve scosse la testa, però si ritrovò a sorridere, pervaso da un estraneo ma piacevole senso di leggerezza.
“Comincio quasi a sentirmi tagliato fuori.”
 
“Sei tu che hai deciso di andare via, quindi non prendertela con chi ha dovuto trovare un altro appoggio che non fossi tu.”
 
“A quanto pare ve la siete cavata benissimo.”
 
“All’inizio abbiamo dovuto improvvisare ma poi abbiamo fatto scintille.”
 
Adesso Steve stava ridendo. Aveva tentato di fare la parte dell’offeso, ma il tentativo aveva avuto vita molto breve. Anthea sapeva essere dannatamente ironica. Quell’approccio era anche un modo per dire che era tutto okay e che potevano riprendere da dove avevano lasciato senza porsi troppi problemi.
 
“Allora… vuoi andare da qualche parte in particolare?”
 
La giovane ci pensò su, poi prese un lungo respiro e finì per indossare un sorriso conciliante.
“Torniamo agli appartamenti. Evitiamo guai inutili.”
 
“Sei sicura?”
 
“Lo sono e sappi che ho intenzione di raggiungerti dopo aver controllato che quei due non si siano ammazzati, quindi lascia la finestra aperta.”
 
“Niente da ridire in proposito.”
 
“Ottimo.”
 
L’oneiriana dovette trattenersi dal distrarlo ancora, nonostante la voglia matta di baciarlo in quello stesso momento. Avrebbe dovuto farlo prima di salire in macchina, dannazione. Questo era ciò che accadeva quando lasciava prendere il sopravvento alle emozioni negative. Un’occasione sfumata.
 
 
“Ascolta…” iniziò Steve.
 
“Ti ascolto.”
 
“Di chi è la camicia che porti?”
 
“È una storia relativamente lunga” sviò Anthea e sventolò la mano come a voler sottolineare che non era una cosa importante.
 
“Abbiamo tempo” replicò Rogers.
 
“Hai appena rallentato?”
 
“Guido in maniera prudente” si giustificò lui e si finse anche serio.
 
La giovane non riuscì ad evitare di ridere e quel piacevole calore nella pancia tornò a farsi sentire con più forza.
“Davvero furbo, Steve. Perché non accosti già che ci sei?”
 
Rogers la prese come una sfida. Individuò una serie di parcheggi sul lato della strada e mise la freccia per accostare. Si fermò fra due auto e spense addirittura il motore. Solo allora si voltò verso la compagna, pronto a sfoggiare un’espressione vittoriosa con tanto di sorriso compiaciuto. Quel sorriso ebbe vita ridicolmente breve, perché si infranse sulle labbra della compagna, che lo liberò dall’impedimento della cintura con la mano non impegnata a stringergli i capelli sulla nuca.
Steve si ritrovò con la maniglia dello sportello premuta contro la parte bassa della schiena, un ginocchio di Anthea fra le gambe, una delle sue mani sotto la maglia e l’altra avvinghiata alla base del collo. Di riflesso l’aveva afferrata per i fianchi e stava adesso cercando di non farsi sopraffare totalmente dall’impetuosità della giovane.
Lei si tirò indietro per riprendere fiato e per permettere a lui di fare lo stesso.
 
“È da quando siamo partiti che volevo farlo, quindi grazie per esserti fermato.”
 
Rogers si rese conto che aveva fatto il suo gioco. Lei lo aveva sfidato ad accostare per arrivare proprio lì dove si trovava ora.
 
“Sei furbo, Steve” iniziò la ragazza e fece una breve pausa per baciarlo di nuovo.
“Ma io lo sono di più, ammettilo.”
Anthea tornò al suo posto e mostrò orgogliosamente il sorriso trionfante.
 
“Non finisce qui” la avvertì il super soldato, mentre tentava di ricomporsi e di sistemare al meglio la maglia spiegazzata.
 
“Lo spero” celiò lei e dovette davvero mettercela tutta per non scoppiare a ridere e conservare una certa serietà intrisa di malizia.
 
Anthea desiderò non dover scendere dall’auto, così che quel momento di illusoria normalità potesse durare il più a lungo possibile.
 
“Ti ho già detto che sei adorabile?”
 
“Tu sei impossibile.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Avremmo voluto lasciarti la stanza più piccola, ma sono praticamente identiche” esordì Sam non appena lei ebbe messo piede in quella che sarebbe stata la sua nuova sistemazione.
 
Per qualche strano motivo, Anthea immaginò Sam e James che, metro alla mano, misuravano le stanze e rimanevo delusi di non trovarci la benché minima differenza. Non sarebbe poi stato uno scenario tanto male, considerando che avrebbe significato che quei due si sarebbero ritrovati a fare qualcosa insieme di loro stessa iniziativa.
Sam era un tipo alla mano e, apparentemente, non sembrava avere problemi a concedere fiducia alle persone che gli erano accanto. L’oneiriana però aveva dovuto ricredersi, perché in realtà Sam Wilson era più criptico, riflessivo e attento di quanto desse a vedere. Rimaneva comunque facile fidarsi e perfino aprirsi con lui.
 
“Che pensiero gentile. Steve mi aveva avvertita e a proposito, ti ringrazia per l’auto che ora è sana e salva parcheggiata qui sotto.”
 
“E lui che fine ha fatto invece?”
 
“Ross voleva vederlo.”
 
Sam arricciò il naso e serrò la mascella dando un chiaro segno di disapprovazione, però non si pronunciò in merito.
L’oneiriana decise che fosse meglio svicolare per il momento.
 
“Vedo che non avete sistemato granché nonostante abbiate avuto tutto il giorno.”
 
“Abbiamo portato i bagagli, i tuoi compresi, fin qui. Sono due piani di scale” ribatté subito il pararescue, mentre ispezionava l’angolo cucina.
 
Anthea rise di fronte l’espressione sarcastica dell’amico e poi si guardò intorno con curiosità.
Erano all’interno di un loft – gentile concessione del Segretario di Stato – abbastanza spazioso, dal pavimento in parquet e dalle ampie finestre. Più o meno al centro c’erano un divano rosso ad angolo e un tavolino scuro abbastanza basso da poterci poggiare sopra i piedi. Di fronte al divano c’era un televisore a schermo piatto, che era poggiato su un mobile dotato di un paio di cassetti. Alle spalle del divano c’era l’angolo cucina, dotato di un’isola circondata da sgabelli e con tutto l’indispensabile. Superato l’angolo cucina, un ampio corridoio terminava con la porta del bagno, da cui proveniva il suono del getto d’acqua della doccia, ora occupata da Bucky.
Sullo stesso corridoio si affacciavano due camere, l’una di fronte all’altra. La porta della terza stanza era invece diametralmente opposta all’angolo cucina e, visto che i suoi bagagli erano proprio lì davanti, Anthea intuì che sarebbe stata la sua.
 
“Ti abbiamo lasciato maggiore privacy. Non sembra male qui.”
 
“È carino, ma se devo essere sincera comincio a odiare gli spostamenti. Hai mai provato la sensazione di non sapere dove ti trovi esattamente al risveglio?”
Aveva già detto che era maledettamente facile aprirsi con Sam? Perché lo era.
 
“Diciamo che per parecchio tempo ho avuto più la sensazione che qualcuno avrebbe potuto uccidermi nel sonno. Però sì, ho provato anche lo spaesamento e non è confortante.”
 
“È stato a causa del servizio militare?” domandò allora la giovane, che intanto era arrivata nell’angolo cucina e aveva appoggiato i gomiti sull’isola.
 
“Nonostante sia trascorso tanto tempo, i ricordi sono ancora vividi e anche le emozioni che li accompagnano” le rivelò Sam e il suo sguardo sembrò perdersi in una dimensione lontana nello spazio e nel tempo.
 
Anthea lo osservò in silenzio per qualche istante, cercando di immaginare quali emozioni gli avessero irrigidito la schiena e le larghe spalle.
“Ti capita mai che queste emozioni diventino tanto forti da rischiare di prendere il sopravvento?”
 
Sam smise di esplorare l’interno dei cassetti e degli sportelli della cucina e le dedicò completa attenzione. Incrociò le braccia al petto e la sua espressione si fece morbida e rassicurante.
“Mi capitava spesso anni fa. Poi ho iniziato a condividere i miei poco rassicuranti pensieri con altre persone ed è stato liberatorio, come se oltre i pensieri avessi condiviso anche il peso che mi portavo dentro. Se ne avessi bisogno, sai dove trovarmi.”
Il pararescue indicò la direzione che portava alla propria stanza e le sorrise.
 
“Grazie, Sam.”
 
“Condividere però non aiuta tutti.”
La voce di James si intromise nella conversazione senza troppi convenevoli. Il moro li raggiunse con un asciugamano sulla spalla destra e con indosso solo un paio di pantaloncini neri.
 
“Tu sei troppo prevenuto. Potresti provare” replicò Wilson e si guadagnò un’occhiata scettica da parte di Barnes.
 
“Effettivamente provare non costerebbe nulla” convenne Anthea.
“Se non dovesse funzionare, al massimo potremmo mettere su un film e dimenticare tutto.”
Strappò loro una risata e ne fu felicemente soddisfatta. Era pronta ad adattarsi alla nuova situazione e ce l’avrebbe messa tutta per far funzionare le cose.
 
“Per ora direi di iniziare a darci da fare. Abbiamo diverse cose da sistemare” propose Sam.
 
Anthea e Bucky concordarono con un cenno del capo e il pararescue tirò su le maniche della camicia.
 
“Dov’è finito Steve?” chiese Barnes a quel punto.
 
“Ross” risposero quasi in perfetta sincronia i suoi nuovi coinquilini.
 
E calò quello strano silenzio fatto di parole non dette, giudizi pungenti trattenuti e mimica facciale poco rassicurante contenuta.
 
“Idee per la cena?”
Anthea ruppe il silenzio insidioso e l’atmosfera iniziò a distendersi lentamente.
 
 
 
 
 
 
֍
 
 
 
 
 
 
New York, Stark Tower
22:54

 
 
“A quanto pare siamo punto e a capo. Solo tu ed io.”
 
Tony distolse lo sguardo dall’immensa vetrata che si affacciava su New York e si girò per incontrare quello di Bruce. Sorrise in quel modo tutto suo, un misto di sarcasmo misto ad inquietudine.
“Forse la Tower non va bene come base operativa. O forse non riusciamo a rimanere uniti nello stesso posto troppo a lungo a meno che non sia presente anche qualcosa che minacci seriamente l’incolumità della Terra.”
 
Bruce sfilò le mani dalle tasche dei pantaloni ed intrecciò e sciolse le dita più volte mentre si avvicinava di qualche passo all’amico.
“Ormai dovrebbe essere chiaro che siamo un gruppo problematico. E non siamo bravi a prevenire.”
 
“Siamo gli Avengers. Noi non preveniamo. Noi vendichiamo.”
 
Un’ombra calò sul volto di Tony, che incrociò le braccia al petto e si rivolse nuovamente alla vetrata.
Gli occhi nocciola si sollevarono verso il cielo buio e il familiare senso di vuoto gli fece venire le vertigini.
La mano di Bruce si strinse attorno alla sua spalla in un gesto di silenzioso appoggio.
 
“Sicuro di stare bene, Tony?”
 
“Sto bene. Potrei essere vagamente stanco, questo non lo nego.”
 
“Dovresti dormire e dico dormire sul serio.”
 
“È il caso che io lo faccia, anche perché fra poco Pepper mi darà per disperso.”
 
Pepper stava dimostrando una pazienza infinita e si stava silenziosamente prendendo cura di lui, mentre mandava avanti la società, controllava gli investimenti e partecipava a tutte le riunioni importanti.
Tony le aveva lasciato carta bianca, perché si fidava cecamente di lei e, inoltre, Virginia Potts era la migliore.
Una volta sistemata la situazione, l’avrebbe portata a fare una lunga vacanza lontano da tutto ciò che richiedeva un’armatura.
Tutti loro avrebbero avuto bisogno di una lunga vacanza.
 
“A domani, Tony. Va’ a dormire.”
 
“Grazie, Bruce. Potremmo fare una delle nostre sedute uno di questi giorni.”
 
Bruce sorrise e scosse il capo.
“Non sono quel tipo di dottore.”
Lasciò una pacca sulla spalla di Tony e poi sparì nel ventre illuminato dell’ascensore.
 
 
 
 
 
 
֍
 
 
 
 
 
 
14 giugno 2015
Washington DC, 02:00 AM

 
 
Non dormiva molto ultimamente, quindi aveva imparato ad apprezzare ogni sfumatura che la luce pallida della luna aveva da offrire. Inoltre, il silenzio della notte rendeva possibile percepire i suoni che la caoticità del giorno inghiottiva.
Da qualche ora, però, il rumore della pioggia aveva scalzato quel silenzio. Non le dispiaceva, anzi ne era grata, perché l’infrangersi dell’acqua contro qualsiasi superficie incontrasse la distoglieva dal gran frastuono che imperversava nella sua testa.
Voltò il capo verso la finestra e seguì con lo sguardo piccole gocce d’acqua che scivolavano sul vetro, scivolavano inesorabilmente senza riuscire ad opporsi alla gravità.
Le iridi scintillarono nel buio e spinse le gocce di nuovo verso l’alto, facendole risalire lungo la superficie vitrea. Si concentrò un po’ di più e fece intrecciare e dividere i loro percorsi più e più volte, disegnando invisibili linee che si aggrovigliavano senza alcuna coerenza.
 
 
“Oh porca miseria! Sono talmente ubriaco che vedo la pioggia andare al contrario!” sentì gridare qualcuno all’esterno, sulla strada.
 
 
Cavolo. Aveva perso il controllo ed era ancora decisamente lontana dal riuscire a prendere sonno.
Decise di smettere di giocare con la pioggia e spostò l’attenzione sul peso che le gravava piacevolmente sul petto.
Percorse la spalla destra di Steve con le dita, percependo il calore della pelle nuda sui polpastrelli.
Quando aveva lasciato il nuovo e provvisorio appartamento, aveva dovuto subire un attacco combinato da parte di James e Sam, che con le loro centrate frecciatine avevano fatto concorrenza a Clint. La cosa positiva era che adesso aveva la certezza che Sam e Bucky fossero perfettamente in grado di collaborare e di fare fronte unito.
 
Sorrise.
 
Le era mancato passare la notte con Steve. Amava poterlo osservare in quegli intimi momenti di vulnerabilità e le piaceva crogiolarsi nell’idea che fosse l’unica a poterne godere.
Steve era stanco. Anche un cieco se ne sarebbe accorto. Anthea non avrebbe saputo dire chi fra lui e Tony stesse tirando più la corda.
 
Ricordava che una notte era rientrata alla Tower e, passando per la Sala Comune, aveva sentito Tony parlare animatamente al telefono. Era rimasta in ascolto perché aveva sentito il nome di Lewis venire pronunciato dall’inventore. Non molto dopo aveva capito chi ci fosse dall’altra parte della linea, perché Tony ne aveva fatto esplicitamente il nome.
 
“È difficile continuare così, Steve. Ma non sarò io a gettare la spugna per primo.”
 
Lei era rimasta seduta su un gradino della scalinata che portava agli appartamenti degli Avengers. Era rimasta ad ascoltare la voce di Tony riempire il silenzio per un tempo indefinito, incapace di muoversi.
 
“Va’ a riposare. Qui continuo io. Non voglio che ti addormenti sul posto di lavoro, magari mentre qualcuno sta cercando di ammazzarti” aveva sentito dire da Stark ad un certo punto.
Da quel momento Tony era rimasto nella Sala Comune, circondato da innumerevoli dati fluttuanti fino alle prime luci dell’alba. Poi si era addormentato sul divano.
Lei allora era andata a recuperare una coperta e l’aveva sistemata sul compagno sfinito.
 
Perché quella volta fosse rimasta in disparte, alienata nel mondo turbolento dei suoi pensieri, non era riuscita ancora a spiegarselo.
Certamente il caos che in alcuni momenti imperversava nella sua testa non era d’aiuto.
Il caos era tanto capace di bloccarla quanto di spingerla ad intraprendere azioni prive di mezze misure.
 
In quello stesso momento, poteva sentire il peso di pensieri striscianti e sibilanti sotto la facciata di calma apparente che si era imposta di mantenere solida.
Inspirò ed espirò profondamente. L’ampio movimento della gabbia toracica ebbe una leggera ripercussione sul suo compagno addormentato, che si riscosse e si sistemò meglio sul fianco, facendo scivolare la testa dal petto di lei al cuscino. Le strinse un braccio e appoggiò la fronte contro la sua spalla nuda.
Anthea abbassò le palpebre e focalizzò tutta l’attenzione su quel momento di pace così raro e prezioso.
 
Sarebbero riusciti a sistemare la situazione. Era a Washington proprio per far sì che ciò accadesse.
Dovevano solo resistere un altro po’ e rimanere lucidi.
 
Doveva rimanere lucida.
 
 
 
 
 
 
“Se tu fossi forte abbastanza da affrontare il nemico, sceglieresti di combatterlo da solo oppure insieme ai tuoi compagni?”
 
“Non farlo.”
 
“Rispondi alla domanda.”
 
“Insieme.”
 
 
 
 
 
 
Angolo note
 
Dedico con il cuore questo capitolo ad una persona speciale nel suo giorno speciale ❤️
Tantissimi auguri, carissima Ragdoll_Cat ❤️
Ti auguro davvero il meglio. Un sentito e immenso abbraccio ❤️
 
 
 
Ella

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Capitolo 27
*** Hum ***


Hum
 
 
 
20 giugno 2015
Quinjet, 05:00 AM

 
 
“Ero convinta che stavolta avremmo trovato qualcosa che potesse esserci utile. Anche una sola dannata cosa… qualsiasi cosa.”
 
La voce le venne fuori tinta da una chiara nota di esasperazione. Seguì uno sbuffo dal naso ed un contrarsi spasmodico della mandibola. Controllò che lo scudo in vibranio fosse stabile sul profilo curvo, valutandone il peso sulla punta delle dita.
Era seduta a terra, in un angolino sul retro del Quinjet, estranea al via vai dei suoi compagni. Fece ruotare lo scudo attorno al diametro, fra le gambe divaricate e leggermente piegate, osservando i colori mescolarsi all’aumentare della velocità di rotazione.
Stava terminando gli escamotage per schivare pensieri negativi. Era ufficialmente diventata insofferente ai viaggi di ritorno, soprattutto se lunghi – a volte davvero troppo lunghi – e resi frustranti dai postumi dell’ennesimo fallimentare tentativo di riacciuffare il controllo della situazione.
Detestava quell’atmosfera così tesa e soffocante e detestava non poter far nulla per distendere gli animi.
 
Perché le cose sulla Terra dovevano essere così difficili?
 
Riunire gli oneiriani le sembrava adesso un’impresa meno complicata di quella che prevedeva scovare ed eliminare Adam Lewis. Rivoltare il pianeta da cima a fondo era sfortunatamente una strada non percorribile, non se si voleva evitare di scatenare il panico globale.
 
“Ti consiglio di tenere basse le aspettative la prossima volta” fu ciò che decretò quasi solennemente Barnes, non molto distante da lei e intento a riporre l’attrezzatura nello spazio su cui era inciso il nome della Romanoff.
 
Le mancava Natasha, ma era contenta di saperla lontana dall’occhio del ciclone, dove passi falsi erano poco consigliati se non si voleva essere spazzati via.
 
“Dovremmo fare in modo che non ci siano prossime volte.”
Anthea bloccò lo scudo incastrandolo fra le gambe. L’azzurro della divisa che aveva indosso si rifletteva sulla stella argentata, sporcata da una sottile patina di terra e polvere. Ci strofinò sopra l’avambraccio finché il metallo non tornò lucido e provò soddisfazione nel portare a termine quel semplice compito.
“Perché non riusciamo a fare progressi?” chiese con la consapevolezza che nessuno avrebbe potuto darle una risposta. Era più un modo per sputare fuori una piccola parte della frustrazione che presto l’avrebbe resa poco riflessiva e parecchio impulsiva.
 
“Se lo sapessimo saremmo già a buon punto” fece notare Sam, che aveva raggiunto il retro del jet proprio in quel momento.
I segni della stanchezza avevano raggiunto anche lui alla fine. Si chiese se non fosse troppo rischioso farlo volare quando non era al massimo della forma, tenendo conto l’altissimo livello di attenzione e di prontezza che richiedeva sfrecciare ad elevata velocità e ad una distanza considerevole da terra. Anthea cercava di tenere un occhio su di lui se erano entrambi all’esterno, cosa che non capitava così di rado. E poi, se poteva scegliere, lei preferiva il campo aperto agli ambienti chiusi e angusti. Odiava le basi sotterranee piene di corridoi bui e stretti, le odiava a livello viscerale.
 
“Allora sotterrerò le mie aspettative non appena saremo rientrati” convenne risoluta.
 
L’oneiriana spostò di nuovo l’attenzione sul tessuto azzurro dell’uniforme, quella che Tony aveva fatto per lei. Aderiva all’addome talmente bene da non formare nemmeno una grinza. C’era quasi il pericolo di dimenticare di averla addosso.
Il flusso poco coerente di pensieri si fermò su Tony e su quanto aveva fatto e stava tuttora facendo per tutti loro. La Tower era il luogo dove si era sentita più a casa e al sicuro. Lasciarsela alle spalle era stato un passo difficile ma necessario. Eppure, nonostante tutte le mosse tattiche e gli scomodi compromessi, erano finiti in un labirinto e, per quanto si sforzassero, non riuscivano ad uscirne. Dopo ogni svolta si trovavano davanti l’invalicabile parete di un vicolo cieco. Allora provavano un’altra strada, una ennesima svolta, tuttavia il risultato non voleva saperne di cambiare. C’era anche la seria possibilità che stessero sbattendo sempre contro la stessa parete.
 
Era dannatamente frustrante. Avrebbe tanto voluto demolire quella parete. O l’intero labirinto.
 
La tensione era sempre lì, avvinghiata alle loro spalle, dispettosa e paziente nell’attendere di vederli crollare. Restava da chiedersi chi sarebbe stato la miccia, chi l’innesco e chi la carica esplosiva. Chi o cosa per essere precisi.
Sarebbe bastato un passo falso proveniente da uno qualsiasi dei fronti affinché l’apparente equilibrio finisse per spezzarsi come un ramoscello secco calpestato per sbaglio. Alcuni erano in attesa di quel singolo passo falso, indifferentemente da chi l’avrebbe compiuto. Per altri invece l’impasse si era rivelata comoda.
La consapevolezza che ogni azione compiuta avrebbe potuto avere conseguenze su larga scala pesava come un macigno di piombo attaccato al collo.
Un lungo sospiro – l’ennesimo – abbandonò le labbra senza portare con sé parte dell’inquietudine accucciata nel petto. Si alzò in piedi e fece qualche passo per sgranchire le gambe.
Era stata una lunga notte anche se non molto movimentata, dato che alla fine avevano avuto a che fare con un gruppo di persone normali sospettate di aver avuto rapporti con Lewis relativamente alla fornitura di materiale chirurgico. Dei rapporti c’erano effettivamente stati, ma talmente effimeri da risultare inutili. Stavano quindi rientrando a Washington a mani vuote e ormai non mancava molto all’arrivo. Nessuno di loro aveva provato a prendere sonno. Se si escludeva la significativa turbolenza incontrata, era scomodo riuscire a dormire con i nervi a fior di pelle e la sensazione di star andando alla deriva.
Una delle note positive – forse l’unica – di essere sballottolati più o meno da una parte all’altra del pianeta per rincorrere chiunque potesse avere una connessione – anche labile – con Adam Lewis, era non avere il tempo di concentrarsi sulle interiorità a soqquadro. I momenti di stasi erano subdoli come i pensieri che li abitavano. Tenersi impegnati. Era questo il segreto per conservare la concentrazione necessaria a procedere lungo quel percorso tortuoso e di cui non riuscivano ancora a vedere la fine.
 
A proposito di tenersi impegnati…
 
Con un preavviso fatto solo da un breve cenno del capo e un’alzata di sopracciglia, Anthea lanciò lo scudo in direzione di Barnes e storse il naso alla vista della traiettoria imprecisa che gli aveva impresso.
Nonostante il lancio penoso, James afferrò al volo lo scudo con la mano destra e lo rispedì al mittente con la scioltezza di chi sa come maneggiarlo.
Bucky le aveva raccontato come settant’anni prima avesse assistito e partecipato alla nascita dello stile di combattimento di Captain America, che di usare armi convenzionali proprio non ne aveva voluto sapere anche se di tentativi – fallimentari – ne aveva fatti. Le aveva confessato quanto rovinosi fossero stati i primi e molteplici tentativi di rendere uno scudo più di un semplice scudo e “Quante volte abbiamo dovuto recuperare quel dannato coso e ne ha raggiunti di posti scomodi” aveva ricordato con una luce calda negli occhi e un tono così profondo da farle stringere il cuore. In occasioni simili, vedeva in James qualcuno di cui conosceva meno di quanto avrebbe voluto.
Sotto lo sguardo divertito di Bucky, Anthea si rigirò lo scudo fra le mani e fece diversi passi indietro per mettere più spazio fra sé e il super soldato. Posizionò le dita della mano destra sul bordo dello scudo e caricò il braccio senza staccare gli occhi dal suo obiettivo. Nell’esatto momento in cui fece per portare il braccio in avanti con uno slancio morbido ma deciso, lo scudo non seguì il movimento, o meglio, non si mosse nemmeno di mezzo centimetro, mentre le dita scivolarono in solitaria perdendo l’appiglio poco saldo.
L’oneiriana si ritrovò ad osservare la mano ora vuota davanti a sé. Dopo qualche istante di presa di coscienza, si voltò indossando la sua migliore espressione innocente, però sapeva che sarebbe stata una causa persa in partenza. Già le tremolava l’angolo destro della bocca che avrebbe di gran lunga preferito stendersi in un sorrisetto tutt’altro che innocente.
 
“Non lo avrei lanciato davvero” asserì facendo uso di una sicurezza piuttosto convincente.
 
Steve, con lo scudo ancora sollevato a mezz’aria, inarcò il sopracciglio sinistro con un’eloquenza disarmante e Anthea fu in grado di sostenere quel penetrante sguardo azzurro per quasi tre secondi prima di capitolare.
Okay. Lo avrei lanciato. Soddisfatto?”
 
“Molto” fu la sincera risposta di Rogers e sorrise compiaciuto mentre adagiava lo scudo contro la parete del velivolo, lontano da lei, come se avesse potuto provocare chissà quale danno.
Magari, in fondo, lui ce le aveva le sue buone ragioni e Anthea non protestò, concedendogli quella piccola vittoria. C’era un altro tipo di vittoria che era seriamente intenzionata a non concedergli.
 
“Cosa voleva Ross?” domandò allora Bucky, battendola sul tempo, e incrociò le braccia al petto.
 
Ed eccoli di nuovo al punto nevralgico.
Dal tono di voce di James, l’oneiriana capì che non era l’unica decisa a vincere. Era sempre confortante sapere di avere un supporto quando si trattava di convincere Steve a fare qualcosa che non voleva fare.
 
“Mi ha assegnato un lavoro. La squadra mi aspetta al rientro.”
L’atonia della voce di Steve cozzò in maniera evidente con il taglio duro dello sguardo.
 
“Aspetta. Quindi ripartirai subito di nuovo?”
Anthea invece non si sforzò di nascondere la contrarietà e l’insofferenza che provava nei confronti del Segretario di Stato.
 
Da quando era arrivata a Washington aveva avuto modo di capire quale fosse la reale situazione imposta da un accordo sancito in circostanze difficili. Non era come lavorare per lo SHIELD. Lì non si era sentita un’arma sfruttata da chi coordinava le missioni. Con Ross le cose erano completamente diverse e, se fosse stata lei quella ad essere costretta ad eseguire gli ordini, probabilmente sarebbe finita male dopo il primo mese… o settimana. Forse giorno.
Capiva perché Steve facesse in modo di non coinvolgerli negli affari del Segretario. Tuttavia, capire non implicava condividere la scelta.
 
“Non è un lavoro complicato” cercò di rassicurarla Rogers e si mosse in direzione della zona di comando, optando per la strategia che prevedeva di evitare lo sguardo penetrante della compagna. Tendeva a non affrontarla direttamente quando si toccavano determinati argomenti.
Furbo. Molto furbo.
Però Anthea non aveva intenzione di mollare la presa – non avrebbe vinto lui stavolta – e lo seguì, accorciando la distanza che li separava. Non poteva di certo sfuggirle a chilometri di distanza da terra.
 
“Posso andare io al tuo posto. Sono diventata brava con le strategie di squadra” gli propose.
 
Si udirono colpi di tosse in sottofondo.
 
“Così non sostieni la mia causa, Sam.”
 
La giovane aumentò il passo e riuscì finalmente a posizionarsi di fronte a Steve prima che lui raggiungesse il posto di guida. Strinse le mani all’altezza dei suoi gomiti e lui fu costretto a fermarsi.
“Se il problema è Ross, gli parlerò io. So essere molto persuasiva.”
 
“Ne so qualcosa” dichiarò Rogers e la ragazza scorse nei lineamenti del suo viso la tensione di chi sa a cosa sta andando incontro e non ha le giuste forze per affrontare quel qualcosa. Doveva solo spingerlo ad arrendersi in modo definitivo, smontare le sue ultime difese. Con gentilezza.
 
“Non abbiamo altri impegni oggi. Possiamo accompagnarti.”
Era stato Sam a parlare e, per la gioia di Anthea, stava sostenendo la causa. Non che avesse avuto davvero dei dubbi a riguardo.
 
Quell’argomento saltava fuori già da diversi giorni e se all’inizio era rimasto confinato dietro una trincea fatta di espressioni contrariate e frecciatine pungenti, adesso non era più possibile far fine di niente.
 
“Saremmo tutti più tranquilli.”
Le dita di Anthea si insinuarono sotto le cinghie in cuoio che circondavano le spalle del super soldato e si avvinghiarono attorno ad esse. Non avrebbe mollato la presa. Letteralmente. Lo avrebbe sfidato a smuoverla da lì e glielo avrebbe anche fortemente sconsigliato.
 
Rogers cercò allora di dire la sua, tuttavia il braccio destro di Barnes gli circondò il collo e lo scosse in un modo che ad occhi esterni sarebbe potuto apparire amichevole. Ma non lo era.
“Allora, dov’è che andiamo?”
 
Steve era incastrato e non solo in senso metaforico. ‘Solo per questa volta’ si ripromise. Poteva permettersi di cedere una volta. Aveva ceduto per cose peggiori. Aveva ceduto dinanzi alle richieste di Ross per cominciare e, per farlo, aveva seppellito il senso di disagio sotto un numero esorbitante di non ho altra scelta e non sarà per sempre. Eppure, aveva l’impressione di star perdendo gradualmente la forza di opporsi, giorno dopo giorno, succhiata via con parsimonia dal Segretario in persona.
Alla fine dei conti, si era ritrovato di nuovo a seguire ordini, a servire, e iniziava a chiedersi se non fosse quella la strada designata per lui. Era un soldato dopotutto.
 
“I bravi soldati dovrebbero essere obbedienti e dovrebbero…”
 
Steve zittì bruscamente i pensieri e tornò a concentrarsi sull’attuale impasse. Erano poche le volte in cui si sentiva minacciato dai suoi adorabili compagni e quando accadeva era quasi spaventoso.
“Avete vinto” concesse con la consapevolezza che gli sarebbe toccato rendere conto a Ross, cosa in cui era diventato davvero bravo.
La mano destra di Bucky si strinse con uno spasimo sulla sua spalla e i polpastrelli affondarono fino a creare solchi sulla pelle coperta dal tessuto della maglia. Poi la pressione sparì di colpo e i loro sguardi si incrociarono per un attimo abbastanza lungo da permettere ai due di leggersi a vicenda.
 
“Allora è deciso.”
Anthea mollò la presa sulle cinghie in cuoio e puntellò le mani sui fianchi, raddrizzando la schiena.
Avevano vinto.
“Adesso” si guardò intorno con una mano poggiata sulla nuca “qualcuno ha visto in giro…”
 
“Sotto il sedile” le risposero in coro i tre Avengers e forse era arrivato il tempo per lei di smettere di spargere ovunque i pezzi dell’uniforme e dell’attrezzatura.
Sotto il sedile indicato dai suoi compagni trovò effettivamente i copri avambracci in metallo e la cintura.
 
“E…”
 
Steve le porse la ricetrasmittente e lei sorrise.
 
“State diventando bravi.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Chicago, 11:23
 
 
Avrebbe dovuto essere un lavoro semplice, veloce e per niente impegnativo.
L’attenzione di Ross si era concentrata su movimenti sospetti in una sede governativa a Chicago, stanziata in uno di quegli alti grattacieli che si affacciavano sul lago Michigan.
Una volta dentro, prima avrebbero dovuto trovare i soggetti indicati dal Segretario intenti ad avere rapporti con mercenari ricercati, poi decretare la fine di ogni loro azione illegale e, come ultimo passo, evitare di far scappare chiunque fosse coinvolto.
Come già detto, un lavoro semplice, veloce e per niente impegnativo, tanto che all’inizio né Anthea né Sam si erano uniti all’azione sul campo e avevano aspettato nel Quinjet, pronti ad unirsi agli altri in caso di eventuale bisogno. Barnes aveva preso il posto di Bennet e Bennet non aveva avuto niente da ridire, anzi, era parso felice di non dover faticare – anche se dall’espressione poco comunicativa era difficile averne la certezza.
Solo che le rosee aspettative erano state accartocciate come un inutile pezzo di carta ed erano state gettate nello straripante cestino delle aspettative deluse. D’altra parte, anche i rosei propositi dei soggetti incriminati erano stati rovinati – spazzati via – dalla presenza non prevista di ben quattro Avengers.
Sam e Anthea alla fine erano scesi in campo e Bennet si era unito a Collins, alla Stewart e alla Carter per mettere in sicurezza la zona il più velocemente possibile. La sicurezza dei civili aveva sempre la priorità, qualsiasi fosse stata la situazione da affrontare.
 
“Anthea! Ventunesimo piano!”
 
L’urgenza nella voce di Steve non era mai d’aiuto quando si trattava di rispettare le priorità.
 
“Dammi la posizione, collega” fu l’immediata richiesta di Sam e Anthea fece rapidamente mente locale. La linea di comunicazione condivisa faceva sempre comodo in quelle situazioni incasinate. In realtà, erano sempre situazioni incasinate.
 
“Ala ovest del tredicesimo piano.”
 
“Cinque secondi e salta giù. Ti do un passaggio.”
 
Mentre contava mentalmente i cinque secondi, fece qualche passo indietro e poi scattò in avanti senza esitazione. Il vetro andò in frantumi quando vi impattò contro tenendo le braccia incrociate davanti al volto. Tese in avanti la mano destra che Falcon afferrò prima di schizzare verso l’alto. Era divertente quel rapido modo di spostarsi e iniziava a prenderci gusto.
 
“Non è così difficile azzeccare il piano giusto anche se i numeri non sono scritti fuori.”
 
“Cosa dici, Sam?”
 
“Lascia stare, storia lunga. Ci siamo!”
 
Anthea frantumò il secondo vetro nel giro di pochi secondi e si ritrovò all’interno del ventunesimo piano. Le bastò un’occhiata veloce per capire perché Steve l’aveva voluta lì. Prese un profondo respiro e si concentrò sui potenziati la cui pelle incandescente emanava un calore quasi asfissiante. Ne contò quattro.
L’ultima cosa che si sarebbero aspettati di trovare lì era un gruppo di potenziati al servizio dei traditori che Ross aveva chiesto loro di rendere inoffensivi. Questo era l’ennesimo chiaro segno di quanto fossero fuori strada.
Rilasciò una controllata quantità di energia e li trascinò fuori dalla vetrata che lei stessa aveva distrutto poco prima, in modo che esplodessero all’esterno. Fu come assistere ad un macabro spettacolo pirotecnico, abbastanza distante da non mettere a repentaglio la vita di nessuno.
Si voltò in cerca dello sguardo di Steve, ma un fischio acuto le pugnalò le orecchie e la vista si fece sfocata. All’inizio pensò che la causa fosse l’esplosione avvenuta non molto lontano da lì, però il sopraggiungere della sensazione di spossatezza la fece ricredere. Stava accadendo di nuovo e nel momento più sbagliato.
 
“Ragazzi che diavolo sta succedendo?”
 
La voce di Sam risuonò intrisa di preoccupazione nelle loro orecchie e Anthea non capì subito di cosa stesse parlando, almeno non finché non iniziò a provare una certa fatica nel rimanere in piedi.
Il pavimento si stava inclinando e si ritrovò a scivolare verso il vano privo di vetro da cui aveva fatto volare via i nemici. Una stretta decisa si chiuse attorno al braccio destro e lo scivolamento fu bruscamente interrotto. Sollevò lo sguardo e incontrò quello di Steve, che Bucky stava tenendo saldamente per un polso. La mano metallica del Soldato d’Inverno si era scavata un appiglio nel pavimento inclinato.
 
“Grazie Buck” sentì gridare Steve e di rimando arrivò un “Ringraziami quando torneremo con i piedi a terra”.
 
L’oneiriana riuscì a concentrarsi abbastanza da deviare oggetti e mobilio che stavano scivolando verso di loro, mentre tentava di capire come muoversi per uscire da quella scomoda posizione.
 
“Sto arrivando!”
 
Falcon schivò appena in tempo una scrivania e poi un grosso scaffale in legno massello. Stava risalendo il grattacielo dopo che l’esplosione l’aveva spinto verso il basso e durante il tragitto si ritrovò a schivare anche sedie, libri, piante grasse in eleganti vasi di ceramica, schegge di vetro e persino pezzi di cemento che sperò vivamente non appartenessero a pareti portanti o il ventunesimo piano sarebbe presto collassato.
Ebbe la netta impressione che il grattacielo si stesse deformando, ma non poté appurarlo perché costretto ad evitare un oggetto dal profilo familiare che quasi gli tranciò di netto l’ala sinistra.
 
Quello non era mica lo scudo di Steve?
 
“Oh porca miseria!”
 
Afferrò al volo Steve Rogers prima e James Barnes dopo. Il peso eccessivo lo trascinò verso il basso e fu costretto a gettarsi all’interno di un piano a caso del grattacielo.
I tre rotolarono sul pavimento e si dispersero in una sala che aveva tutta l’aria di essere un’area ristoro con tanto di tavolini rotondi, sedie di plastica e distributori automatici.
 
“Cosa è successo?” sbottò Sam a quel punto, mentre aiutava Steve a rimettersi in piedi.
 
“Non ne ho idea” ammise il super soldato e portò una mano all’orecchio.
“Anthea, mi ricevi? Stai bene?”
Quando erano caduti, Rogers aveva spinto la compagna contro uno dei finestroni e l’aveva vista rompere il vetro e finire all’interno di uno dei piani sopra di loro.
 
“Niente di rotto. Dove siete?”
 
“A che piano siamo?” chiese Barnes a Wilson.
 
“Non ho avuto il tempo di contare” fu l’ironica riposta di Falcon, ancora incapace di metabolizzare ciò che era appena caduto. Magari non era così semplice contare i piani in certe situazioni, come ad esempio il crollo repentino di un grattacielo smembrato dal collasso di ben tre Helicarrier.
 
“Nemici in vista” annunciò il Capitano “Qualcuno ha visto il mio scudo?”
 
“Non io! Sto arrivando!”
Anthea saltò giù dall’ennesima vetrata distrutta e rientrò al volo in quella in cui intercettò i suoi compagni. C’erano altri due potenziati pronti ad attaccare. Mentre li trascinava verso di sé con una presa telecinetica, il fischio nelle orecchie tornò a stordirla e mettere a fuoco divenne impegnativo. Nonostante tutto rimase concertata anche quando credette che le sarebbe scoppiata la testa. Doveva solo spingerli fuori.
Il primo potenziato le passò di fianco e volò fuori dalla vetrata senza complicazioni. Il secondo però riuscì ad artigliarla e a trascinarla con lui. Piccolo errore di valutazione. Tutta colpa di una messa a fuoco non ottimale.
Il suo braccio destro finì per la seconda volta nella presa ferrea di Steve e, dannazione a lui, aveva dei riflessi davvero impressionanti. Questo però non fu sufficiente a bloccare l’inerzia che portò entrambi oltre la linea sicura. La sensazione di vuoto le aggredì lo stomaco non appena persero contatto con il pavimento.
 
“Potreste gentilmente smetterla di cadere?”
 
Sam si gettò di sotto senza esitazione e vide che Steve era riuscito a staccare il potenziato da Anthea. L’esplosione del potenziato però impedì a Falcon di raggiungerli in tempo e inesorabilmente venne spinto via dall’onda d’urto.
Allora l’oneiriana proiettò Steve verso il palazzo, piegando la direzione dell’onda pressoria. Riuscì a vederlo impattare violentemente contro una vetrata e raggiungere l’interno di uno dei piani più bassi.
 
In quei momenti di caos era necessaria una fredda concentrazione. Quando si perdeva il controllo di una battaglia, la concentrazione permetteva di non soccombere al deragliamento dal piano stabilito.
Anthea questo lo sapeva bene, ma le fu difficile recuperare la concentrazione necessaria perché quel dannato fischio alle orecchie non voleva saperne di tacere. Tossì convulsamente e gattonò sull’asfalto su cui aveva finito per schiantarsi. Si era sollevato un gran polverone e si aggrappò alla prima cosa solida che trovò a portata di mano. Solo dopo essersi rimessa in piedi si accorse di avere le dita strette attorno gli avambracci di un potenziato, lo stesso che aveva buttato di sotto non molto tempo prima e che era evidentemente sopravvissuto alla caduta.
 
“Dannazione” sussurrò fra i denti.
 
La colpì in pieno stomaco e con un successivo manrovescio le fece torcere il collo. Anthea riuscì a percepire in modo pressoché perfetto lo scindersi dei due lembi di pelle lungo lo zigomo destro. Un calcio rotante sul costato la spinse a terra, diversi metri più in là. Il potenziato non le concesse una tregua e lei tentò ancora di mettere in moto cervello e corpo per poter reagire a dovere.
C’era un’interferenza che non le permetteva di recuperare la stabilità. Per un attimo lo sguardo si posò sulla folla tanto imprudente da essere rimasta a guardare trepidante, appena dietro il perimetro della zona che era stata isolata.
Non ebbe molto tempo prima che la punta dello stivale del nemico le si piantasse nel fianco sinistro. Tentò vanamente e in modo ridicolmente traballante di assumere una posizione di difesa. Era del tutto fuori fase.
Era già preparata ad incassare ancora, quando il familiare suono dello scudo in vibranio che assorbiva un urto le fece sollevare il capo incassato nelle spalle per evitare altri colpi in faccia.
 
“Steve…”
 
Rimase con le parole intrappolate in bocca non appena riconobbe la longilinea silhouette di Collins, che teneva lo scudo in vibranio sollevato dinanzi al viso dai lineamenti contratti.
 
“Stai bene?” le chiese il ragazzo mentre tentava faticosamente di respingere il potenziato.
 
“Non preoccuparti per me! Sta’ attento!”
 
Daniel fu costretto ad indietreggiare di un passo nel momento in cui il nemico fece vibrare lo scudo con un pugno poderoso. L’attimo dopo si spinse in avanti senza pensarci due volte, abbandonando del tutto l’assetto difensivo.
Anthea li osservò lottare violentemente e scambiare colpi precisi e rapidi. Rimase sorpresa dalla velocità e dalla forza di Dan, tanto da non sentire l’esigenza di correre ad aiutarlo. Era diverso da Steve, ma riconobbe inconfutabili tratti in comune e movenze che aveva visto già tante volte. Maneggiava lo scudo con una certa disinvoltura e lo stava utilizzando per difendersi da colpi spaccaossa.
Nella nuvola di polvere, Collins costrinse il nemico ad indietreggiare e gli affondò un paio di pugni nello stomaco. Poi il ragazzo lanciò lo scudo e mancò l’obiettivo di parecchio.
L’oneiriana allora fece per muoversi, ma si bloccò quando lo scudo tornò indietro e saggiò la resistenza del cranio del potenziato. Il nemico collassò sull’asfalto a faccia avanti.
Daniel non aveva commesso alcun errore e adesso aveva lo sguardo fisso davanti a sé, puntato su Steve.
 
Anthea sorrise. Stavano recuperando il controllo.
 
Ci fu un rumore sommesso, simile ad un’eco distante, e alcune grida si sollevarono dalla folla di osservatori.
Rogers scattò in avanti e coprì con un paio di ampie falcate la distanza che lo separava da Collins, recuperando al contempo lo scudo da terra. Sollevò il cerchio in vibranio sopra le loro teste e irrigidì le spalle.
Il pezzo di parete in caduta libera giunse sullo scudo sfaldato in polvere e pietruzze poco pericolose. Il super soldato dedicò alla compagna un breve cenno del capo accompagnato da un mezzo sorriso, mentre Dan stava ancora cercando di capire cosa fosse appena accaduto.
L’oneiriana ricambiò il sorriso, ma questo si spense non appena la colpì l’esigenza di rivolgere gli occhi alla folla imprudente, come se fosse stata attirata da un muto richiamo. L’interferenza c’era ancora, nelle orecchie e nella testa, sotto la pelle e fin dentro le ossa, anche se era più sommessa. Smise di respingerla, la accolse, e fu allora che lo intravide, uno scintillo proveniente da uno sguardo penetrante. La messa a fuoco venne meno e le persone si tramutarono in macchie dai bordi sfumati. Si accese in lei un frastornante campanello d’allarme che la bloccò a pochi passi dalla folla. La vista si stava facendo sempre più annebbiata e la figura fumosa dell’individuo sospetto evaporò fino a sparire. Fra i suoni ovattati riconobbe voci più insistenti.
Una luce abbagliante le graffiò gli occhi e ne arrivarono altre, un flash dopo l’altro. A stento identificò l’obbiettivo di una telecamera, puntato contro di lei alla stregua di un’arma carica e pronta a fare fuoco.
Il battito cardiaco subì una brusca accelerazione, spintonato dallo stringersi spasmodico dello stomaco. Il sommesso vociferare si fece improvvisamente più intenso e fastidioso, simile ad un ronzio insistente.
 
Respira.
 
Un altro flash di luce aggredì la vista già compromessa e strinse i denti. Si chiese quando le persone lì intorno fossero diventate così numerose e così vicine… pressanti. L’aria si era fatta improvvisamente più densa. Gli sguardi estranei si erano tramutati in spilli abbastanza appuntiti da farle desiderare di sparire in quello stesso momento. O di far sparire gli sguardi.
 
Respira.
 
Una vita prima, quando un numeroso gruppo di umani l’aveva assediata tanto da vicino, non era finita bene.
Non era finita bene per loro.
I muscoli si erano già irrigiditi e l’istinto di sopravvivenza che coglie una preda messa all’angolo aveva iniziato a battere contro i nervi tesi.
 
Respira.
 
Una pressione si materializzò sul braccio destro. La pelle si incurvò sotto l’insistenza delle dita premute contro di essa, dita che riconobbe in un istante, perché erano le stesse che avevano cercato strenuamente di evitarle uno schianto a terra da un’altezza vertiginosa. Il velo di nebbia si diradò e i sensi tornarono ad ancorarsi alla realtà.
 
 
 
 
 
 
 
 
Janet Stewart aveva accettato di buon grado l’arrivo dei compagni di Rogers, almeno finché non era comparsa lei, la ragazzina il cui nome era stato e continuava ad essere sulla bocca di Ross e di coloro che avrebbero dovuto occuparsi della sicurezza del Paese.
Non era di certo la prima volta che la Terra apriva le porte – nella maggior parte delle occasioni le porte erano state forzate, ma questo era un altro discorso – ad individui provenienti da altri pianeti. Se prima queste visite tendevano ad essere sotterrate in modo che la popolazione continuasse ad esserne all’oscuro, dall’arrivo di Thor quel modus operandi aveva perso di efficacia, finché l’invasione dei Chitauri non l’aveva sradicato irrimediabilmente.
Adesso la possibilità che sul pianeta camminassero specie diverse da quella terrestre era divenuta certezza. Janet non aveva avuto troppi problemi ad accettare quella realtà, perché in fondo ci aveva sempre creduto. Accettare la dubbia provenienza della Reyes non aveva comportato alcuno sforzo. Eppure, non riusciva proprio a mandare giù la sua presenza.
La Reyes era così fastidiosamente sicura di sé, sfrontata e presuntuosa da darle i nervi. Durante le missioni in cui finiva a dover collaborare con lei, non mancava quasi mai di sputar fuori seccanti “Ci penso io” oppure “Lasciate fare a me” o gli arroganti “Me ne occupo io, vi farò guadagnare tempo” che Janet le avrebbe volentieri ricacciato in gola. Con le capacità di cui era dotata, tutti sarebbero stati in grado di esporsi senza alcuna preoccupazione. Senza quei suoi poteri mistici era certa che la ragazza non sarebbe andata molto lontana e tanto meno sarebbe stata disposta a correre i rischi che per un umano standard comprendevano morire di una morte atroce.
Come se non bastasse, il più delle volte Rogers la lasciava fare e le dava carta bianca. Probabilmente era riuscita a fargli una specie di lavaggio del cervello usando il bel faccino e i trucchi degni di una strega.
 
L’insofferenza verso di lei era maturata anche a causa di uno sporadico evento per il quale Janet non aveva ancora trovato una spiegazione razionale e in quella ragazzina non c’era niente di razionale.
Una mattina era scesa nella zona comune dell’appartamento e l’aveva trovata seduta sul divano, con addosso una maglia e una tuta sgualcite, un tablet sistemato in grembo e una pila di scartoffie al suo fianco. La Reyes aveva sollevato il capo, le aveva rivolto un sorriso cordiale ed era tornata ad immergersi nelle sue cose.
Janet aveva deciso di ignorare la sua inaspettata presenza e, raggiunta l’isola della cucina, si era imbattuta in Rogers, o meglio, nelle ampie spalle messe in evidenza dalla maglia attillata. Gli aveva poggiato la mano sinistra sulla parte bassa della schiena, si era goduta il leggero sussulto di chi è preso alla sprovvista e lo aveva salutato con un divertito “Già in piedi, tesoro?”
“Stewart” aveva ricambiato lui, con quel formalismo adottato dal giorno in cui aveva tentato di corromperlo per omettere informazioni al Segretario di Stato.
Normale routine. Quando però si era appropriata di una delle tazze, la ceramica si era improvvisamente riempita di crepe e il liquido scuro le era finito sulle dita e sul palmo della mano, scottandola. In quello stesso momento aveva notato il sopracciglio sinistro di Steve avere uno spasimo e il suo sguardo spostarsi altrove per un attimo, prima di tornare su di lei. Il biondo aveva aperto il rubinetto del lavandino e l’aveva inviata a mettere la mano sotto la fredda acqua corrente.
“Non guardarmi così” aveva vagamente sentito dire dalla Reyes fra le imprecazioni che non riuscì a trattenere.
Il giorno seguente aveva trovato quella maledetta tazza insieme alle altre, perfettamente integra.
 
Janet Stewart non sopportava la Reyes, perciò quando l’aveva vista precipitare a terra ed essere presa a calci da un potenziato, aveva interiormente goduto. Magari la ragazzina avrebbe capito cosa significasse provare dolore umano e avrebbe cestinato quella sua fastidiosa spavalderia.
 
Peccato che poi Collins si era intromesso proprio sul più bello.
 
Janet Stewart non sopportava la Reyes e non si fidava di lei. Queste stridenti emozioni diventarono più concrete nel momento in cui, pezzo dopo pezzo, il palazzo già compromesso iniziò sbriciolarsi mentre si inclinava come un fuscello aggredito da un tifone. Ogni individuo che avesse un minimo di buon senso prese a correre il più lontano possibile, per evitare di finire schiacciato sotto tonnellate di cemento.
E la Reyes era lì, con lo sguardo perso e inconsapevole di ciò che stava accadendo alle sue spalle, come se non fosse lei la causa dello scempio in cui si sarebbe tramutata la giornata.
Le dita di Janet si avvolsero lungo l’elsa bianca di uno dei suoi pugnali più affilati, fissato contro la coscia fasciata dai pantaloni in pelle.
C’era un solo modo per risolvere la situazione ed era porre un freno alla causa di tutto. Da quella distanza sarebbe stato un giochetto per lei centrare il bersaglio. E l’avrebbe centrato se Rogers non si fosse messo proprio lungo la traiettoria designata.
 
 
 
 
 
 
 
 
“Non sono io. Non posso essere io.”
 
Non aveva più quei problemi di controllo. Non poteva avere ancora quei dannati problemi, giusto? Era maturata, dannazione. Credeva di aver superato la fase in cui doveva preoccuparsi di controllare in modo maniacale il suo potere.
Eppure, il pavimento si era inclinato, i suoi sensi avevano subito una battuta d’arresto e pezzi del palazzo già compromesso si stavano dividendo dalla struttura principale, come risucchiati da un buco nero invisibile. Ogni volta che riusciva a costruirsi intorno, mattoncino su mattoncino, una parvenza di sicurezza, succedeva qualcosa che buttava giù tutto quanto in pochi decisivi istanti. Ostentare sicurezza l’aveva aiutata in molte occasioni a gestire emozioni e burst di energia non programmati con un certo anticipo. Adesso stava incasinando di nuovo le cose.
 
“Niente panico. Troviamo la causa prima che la situazione degeneri. Sam e Bucky stanno già pensando ai civili.”
 
Il cuore mancò un battito. Non fu la risolutezza di Steve di fronte ad una situazione assurda a sorprenderla, ma fu la sua assoluta convinzione che la causa non fosse lei. Smise di piangersi addosso e si girò in modo che potesse fronteggiare il grattacielo. Era pronta a rimediare, a mostrarsi di nuovo sicura e non bisognosa di aiuto.
Dedicò a Steve un cenno del capo accompagnato da uno sguardo intenso “Okay ascolta…” iniziò con tono quasi autorevole.
 
“Porca miseria, ragazzi! Che cavolo sta succedendo?”
Collins era arrivato alle loro spalle, sulla faccia aveva appiccicata un’espressione stralunata, ma sembrava più sorpreso che spaventato.
 
“Questa è davvero una bella domanda e non sai quanto…”
 
“Anthea, concentrati. Cosa devo fare?”
Rogers richiamò l’attenzione della campagna e attese che lei gli desse indicazioni. Non era una eventualità che si presentava troppo spesso. Anthea evitò di sottolinearlo – magari l’avrebbe fatto dopo aver rimesso a posto quel casino – e andò dritta al punto.
“Io rimetto insieme i pezzi qui. Tu cerca un tizio con lo sguardo penetrante e che non sta scappando a gambe levate.”
Le sopracciglia di Steve si sollevarono in maniera repentina “Come faccio a…”
Anthea allungò un braccio e posò la mano sul lato del viso del super soldato. Bastò un battito di ciglia e Steve la vide, la figura sfocata nascosta nella folla, la stessa folla che adesso era stata dispersa dall’ondata di panico.
 
“Deve essere ancora vicino per fare questo” l’oneiriana sventolò la mano in direzione del palazzo “Spingilo ad allontanarsi o distrailo ma non avvicinarti troppo, intesi?” era un ordine e fu accompagnato da un’occhiata penetrante “Ti raggiungo non appena ho finito qui” gli promise.
 
Rogers annuì soltanto e si rivolse a Collins con un “Guardale le spalle”. Poi corse via, nella stessa direzione in cui stavano scappando tutti.
 
“Va’ con lui” fu la rettifica che Anthea si azzardò a fare, approfittando di quel momento di indiscutibile autorità. Daniel però esitò, combattuto.
“Sta’ tranquillo, ce la faccio” gli assicurò lei e la ebbe vinta, perché il moretto seguì i passi di Steve.
 
Rimasta sola, Anthea si concentrò sul palazzo in fase di disintegrazione.
“Bene, rimettiamo insieme i pezzi.”
L’aveva già fatto su piccola scala. Bicchieri rotti per errore, vetrate che le impedivano il passaggio, la prigione sull’Helicarrier, una tazza in ceramica. Doveva solo pensare più in grande. Molto più in grande.
 
 
 
 
 
 
 
 
Steve lo aveva avvistato dopo un paio di minuti di corsa sfrenata fra gente in fuga, veicoli incastrati in ingorghi creati dalla poca lucidità e qualche camionetta rossa dalle sirene squillanti.
Era la stessa figura che aveva visto Anthea e non stava scappando, era ferma mentre il caos e il panico si scatenavano tutt’intorno. Colse una scintilla nello sguardo oscurato dall’ombra del cappuccio di una grigia felpa consunta e si fermò prima di raggiungerlo. La figura era esile, le spalle erano incurvate in avanti e trasmetteva sofferenza.
Si vide strappare dalla mano lo scudo, che viaggiò in linea retta fino a bloccarsi ad un soffio dall’individuo. Rimase sospeso a mezz’aria per qualche secondo e poi cadde a terra, tintinnando. Non appena lo scudo smise di oscillare contro l’asfalto, Rogers percepì attorno al corpo la fatiscente stretta esercitata da lunghissime dita invisibili.
 
Conosceva quella sensazione e sapeva che opporsi non l’avrebbe salvato.
 
Fu prepotentemente risucchiato verso lo sconosciuto, ancora immobile, gli occhi fissi su di lui simili a tizzoni ardenti. Quando le distanze si ridussero ad una manciata di passi, i fili invisibili che lo stringevano furono come tranciati.
L’individuo ritirò di scatto entrambe le mani al petto, come se si fosse scottato. Indietreggiò e si guardò intorno.
 
“Non avvicinarti troppo, intesi?”
 
Rogers tentò di accorciare le distanze e in risposta si vide arrivare addosso un’auto. Non sarebbe riuscito a schivarla e si preparò all’impatto. L’attimo dopo stava rotolando a terra e, quando finalmente l’attrito l’ebbe vinta sull’inerzia, si ritrovò faccia a faccia con Collins, che gli stava praticamente addosso.
 
“Mi ha detto di seguirti” si giustificò immediatamente il giovane, mentre si tirava su e aiutava il Capitano a fare lo stesso.
 
“Dove…”
Lo sconosciuto era scomparso e qualcosa gli diceva che non sarebbe tornato. Steve provò sollievo.
Alle loro spalle, pezzi di cemento venivano assemblati al corpo principale del grattacielo, tornato ad assumere una posizione verticale.
“Torniamo indietro” propose il biondo, dopo aver setacciato con gli occhi la zona per un’ultima volta.
 
“Okay. Questo è tuo.”
Collins gli stava porgendo lo scudo. Il ragazzo aveva il viso sporco di polvere e le gocce di sudore avevano lasciato delle strisce sbavate sulla fronte e lungo le guance. Il mignolo e l’anulare della mano sinistra, strette attorno il bordo dello scudo, avevano assunto una poco rassicurante colorazione violacea.
 
Rogers si riappropriò dello scudo e lo sistemò dietro le spalle. Poi afferrò l’avambraccio di Dan prima che questo riuscisse a tirarlo indietro.
“Potrebbero essere rotte. Nel Quinjet abbiamo…”
 
“Non è niente. Il nemico aveva la pelle leggermente dura.”
Collins fece spallucce e sfilò gentilmente il braccio dalla presa del super soldato
 
Steve decise di non insistere.
“Grazie per…”
 
“Non ringraziarmi. È il minimo che potessi fare” lo fermò subito il moro.
 
 
 
Daniel sapeva di non essersela cavata male nello scontro con quel potenziato, ma era anche consapevole di avere ancora tanta strada da fare per poter diventare più incisivo ed indipendente. Mentre seguiva Steve, la bocca si piegò in un mezzo sorriso e chiuse le mani in pugni talmente stretti da far sbiancare le nocche, ignorando le stilettate di dolore provenienti dalle dita malconce.
Magari, un giorno, sarebbero state le sue le spalle da seguire.
 
 
 
 
 
 
 
 
Si erano riuniti nei pressi del grattacielo. C’era una strana calma. Diverse camionette dei pompieri e auto della polizia avevano circondato la zona. C’erano anche un paio di ambulanze e sul retro di una di queste, un medico stava ricucendo con cura il sopracciglio di una donna dalle ginocchia sbucciate.
Sam stava facendo gli ultimi giri di ricognizione. Bucky invece si stava godendo la sensazione di essere tornato con i piedi su un terreno solido e stabile. Era alle spalle di Sharon, impegnata in una conversazione piuttosto accesa con un uomo patinato in mimetica.
 
Anthea era con il naso all’insù e con occhio critico stava sondando le pareti esterne del grattacielo. Sembrava che i pezzi fossero tornati tutti al posto giusto, come un puzzle dai numerosissimi tasselli.
“Che te ne pare?” chiese e non si sforzò di nascondere la nota esausta nella voce.
 
“È come nuovo.”
Steve era lì di fianco, le loro braccia si sfioravano e la tentazione di appoggiarsi l’uno all’altra era forte.
 
“Ti avevo detto di non avvicinarti troppo.”
 
“Come…”
 
“Credi davvero che ti avrei lasciato andare da solo senza una protezione decente? Non era come gli altri nemici” gli confessò.
 
“L’ho notato.”
 
“Interferiva con il mio equilibrio” Anthea non staccò gli occhi dall’edificio.
 
“Mi preoccupano le cose che possono interferire con il tuo equilibrio” Steve lo disse con una parvenza di ironia.
 
“Già. Preoccupano parecchio anche me” sospirò lei stancamente “Mi ha ricordato la missione a Los Angeles… è successo qualcosa di simile.”
 
“Stessa interferenza?”
 
La giovane annuì.
 
“Quindi c’è qualcuno che segue i tuoi spostamenti e fa in modo di…”
 
“Fottermi il cervello sì” finì lei, dritta al punto.
 
“Non lo avrei detto così ma siamo d’accordo. Pensi che…”
 
“È molto probabile. Lui è l’unico qui che sa come funziono nonostante sia cambiata dall’ultima volta che ha avuto la possibilità di … sai … analizzarmi…”
 
Le dita di Steve scricchiolarono stringendosi in pugni ferrei e la mascella guizzò visibilmente.
“Una ragione in più per stanarlo.”
 
“E ne avevamo già parecchie” puntualizzò l’oneiriana prima di cambiare discorso “Allora Capitano, accompagnarti è stata un’idea geniale, non trovi?”
 
Steve scosse il capo e l’ombra di un sorriso comparve sul viso stanco. “Forse lo è stata” concesse.
 
La compagna non cercò nemmeno per un attimo di trattenere il sorriso pieno di denti che le illuminò l’espressione. “Dillo. Me lo devi. Ho rimesso in piedi un dannato palazzo” gli fece presente mentre gli punzecchiava il fianco con un gomito.
 
Il biondo sospirò molto profondamente e capitolò.
“Accompagnarmi è stata un’idea geniale” recitò evitando di imprimere nelle parole troppa ironia.
 
“Questa giornata non fa più così schifo.”
 
“Tu stai bene?”
 
“Alla grande” rispose lei, sicura.
 
“Le tue ferite non guariscono come al solito. Anche a LA è successa la stessa cosa.”
 
Con grande sorpresa da parte dell’oneiriana, la mano sinistra di Steve si adagiò sul suo viso e il pollice percorse delicatamente lo zigomo, poco sotto il taglio ancora visibile.
 
“Già...” Anthea si chiese distrattamente quando avesse iniziato a fare così caldo. Lo zigomo stava bruciando più di prima e anche l’altro stava andando a fuoco adesso.
 
“Capitano.”
 
Sussultarono all’unisono e Rogers si raddrizzò, rompendo il contatto fra loro. La Stewart si fermò ad un passo di distanza, braccia incrociate sotto il seno e testa leggermente inclinata. Era visibilmente frustrata e lo sguardo pungente si soffermò per qualche istante su Anthea prima di tornare su Steve.
“Dobbiamo andare. Ross vuole vederti.”
 
“Non abbiamo finito qui” cercò di imporsi il biondo.
 
“Se ne occuperanno gli altri. È il caso di non farlo aspettare” obiettò la donna.
 
L’uomo patinato che prima stava parlando con Sharon ora stazionava vicino al jet con cui era arrivato ed era palesemente in attesa.
 
“Cosa diavolo vuole Ross?”
 
L’attenzione di Janet saettò su Anthea.
“Davvero non riesci ad immaginarlo? Per cominciare tu non dovresti nemmeno essere qui.”
 
“Sono proprio dove dovrei essere invece e se Ross ha qualcosa da ridire...”
 
“Anthea” la richiamò cautamente Steve e la giovane quasi si morse la lingua.
 
“Esatto. Sta’ al tuo posto.”
 
Le iridi di Anthea si scurirono in un battito di ciglia e le spalle si irrigidirono. Era sul piede di guerra e mosse un passo in avanti per accorciare la distanza da Janet. Steve allora si frappose fra le due e strinse le mani sulle spalle dell’oneiriana, bloccandola sul posto.
 
“Pensa tu al resto qui. Ci vediamo più tardi” l’ultima frase fece in modo che potesse sentirla solo lei.
 
“Come vuoi” le venne fuori sprezzante e scrollò le spalle per sottrarsi al suo tocco.
 
Steve aprì e chiuse la bocca un paio di volte, senza riuscire a pronunciare una sola parola. Non distolsero però lo sguardo l’una dall’altro, come se fossero in attesa di qualcosa difficile da definire.
Anthea la sentiva. Era tornata quella fastidiosa tensione, il fantasma di pensieri inespressi ed emozioni soffocate a stento. Starsene in disparte, subire senza poter rispondere, dover rimanere a guardare inermi. Odiava in modo viscerale quella situazione. Dovevano provarci gusto a giocherellare con l’apparente potere acquisito grazie ad un accordo a senso unico. Si sentivano ebbri di un controllo che non avevano e che non avrebbero mai avuto. Sarebbe stata felice di mostrare loro quanto insignificanti fossero e … tagliò bruscamente la linea di pensieri pericolosi.
Era appena uscita da uno scontro e ne aveva prese parecchie, a livello psichico e fisico. Il fiato di Adam Lewis le inumidiva il retro del collo e le invisibili impronte delle sue mani callose bruciavano sulla pelle. Avrebbe dovuto impedire quel subdolo riavvolgersi del tempo e concentrarsi. Non era più una instabile ragazzina emotiva. Eppure adesso era così arrabbiata.
 
“Avanti, muoviti. Non vorrai farli aspettare ancora.”
L’ironia era un’arma a doppio taglio, seducente e distruttiva, e Anthea era consapevole di cosa aveva appena fatto. Se ne pentì.
 
“Mi dispiace” sussurrò lui e si riscosse, allontanandosi da lei con velata riluttanza.
 
L’oneiriana lo osservò raggiungere Janet e con lei si diresse verso il signor medagliette al petto e verso il jet che li avrebbe riportati a Washington.
La Stewart voltò il capo per qualche attimo, lanciandole un ultimo sguardo pungente, mentre poggiava la mano destra sulla schiena del super soldato per invitarlo – spingerlo – a salire sul velivolo. La giovane morsicò l’interno della guancia e il sottile strato di carne si lacerò fra i denti.
 
“Ancora Ross?”
James intanto era arrivato alle sue spalle senza che Anthea se ne accorgesse.
 
“Ross” confermò lei e ingoiò l’amaro sapore del sangue che le aveva riempito la bocca.
 
“Tutto okay?”
La mano destra di Bucky si adagiò sulla spalla. Era la terza volta in troppo poco tempo che qualcuno le chiedeva come stava. Non era un buon segno.
 
“Ho fatto un casino.”
Forse faceva ancora in tempo a rimettere a posto le cose e a dimostrare la maturità che ci si aspettava da lei.
 
“Non prenderti responsabilità che non hai.”
 
“Stavolta le ho. Le ho eccome.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Washington DC
Pentagono, 16:17

 
 
Sentì i passi rapidi e impetuosi prima ancora di vederla svoltare l’angolo. La luce al neon fece scintillare le protezioni metalliche attorno gli avambracci e mise in risalto il pallore del viso, sul quale spiccava il taglio fresco lungo lo zigomo destro. Erano sfuggiti parecchi ciuffi dalla coda stretta sulla nuca e alcuni adombravano le profonde iridi buie.
Janet scostò le spalle dalla parete su cui si era appoggiata e si preparò a fronteggiarla, perché era palese che non fosse arrivata fin lì per una visita di cortesia. Non doveva aver avuto troppi problemi a bypassare la sicurezza, però adesso non l’avrebbe data vinta.
 
“Lasciami passare per favore.”
 
Il tono intimidatorio strideva con le parole di cortesia. Janet rimase impassibile e si piazzò perfettamente davanti la porta dietro cui si stava consumando una discussione probabilmente parecchio accesa.
 
“Non hai il permesso di stare qui.”
 
“Credi mi importi arrivata a questo punto? Lasciami passare.”
 
Un brivido le risalì la colonna vertebrale. Quella ragazzina sapeva come apparire spaventosa. C’era una scintilla pericolosa negli occhi penetranti e Janet ebbe l’impressione di cogliere riflessi rossastri.
“Peggiorerai la situazione” le disse e riuscì ad ottenere l’effetto sperato. La Reyes perse parte della sua pressante sicurezza. Ma fu solo per qualche fuggevole attimo.
 
“Spostati” la giovane mosse un paio di passi in avanti “Nulla di personale. Più o meno.”
 
Janet non riuscì ad opporsi. I muscoli si contrassero contro la sua volontà e il corpo si spostò. La Reyes le sfilò di fianco senza guardarla.
“Sarai la sua rovina” lo sputò fuori con sdegno e rabbia. La sensazione di essere completamente alla mercé di qualcuno era terrificante ed umiliante.
 
“Lo sono già” rispose la Reyes con fermezza, senza lasciar trasparire alcuna emozione. “Mi dispiace” aggiunse alla fine, ma Janet non riuscì a capire se fosse solo pietosa cortesia o una scusa sincera.
 
 
 
 
 
 
Anthea aprì la porta senza preoccuparsi di bussare e la richiuse alle proprie spalle senza neppure toccarla. Conquistò all’istante la completa attenzione dei tre presenti all’interno della spaziosa stanza e si avvicinò decisa, l’espressione in viso era una perfetta maschera di porcellana priva di incrinature.
Ross sedeva comodamente su una girevole sedia in pelle, dietro una grande scrivania in mogano. Di fronte a lui sedeva l’uomo con le medagliette al petto e dall’aria non più così boriosa come quando era venuto a puntare il dito contro di loro, subito dopo uno scontro che li aveva messi a dura prova.
Steve invece era in piedi e la stava guardando con una espressione che era a metà fra l’incredulità e la rassegnazione.
 
“Che ci fa lei qui?” attaccò subito l’uomo patinato. Poteva sentirlo, Anthea, l’odore della paura.
 
Sorprendente, fu Ross a prendere la parola, calmo e sicuro. Doveva sentirsi in una botte di ferro.
“Finalmente ho l’occasione di parlare con te” esordì, mentre si alzava e aggirava la scrivania. Arrivò al fianco di Steve e scambiò con lui un lungo sguardo prima di tornare a concentrarsi sulla visita inattesa.
 
“Ross…” provò ad intervenire Rogers, ma il Segretario gli poggiò una mano sulla spalla e fece pressione, rivolgendogli un secondo sguardo colmo di sottintesi, che a quanto pare erano ben noti ad entrambi.
Anthea sapeva bene che Ross l’aveva puntata dal giorno in cui era tornata alla Tower e Steve si era impegnato a tenerla lontana da lui, in modo da non dargli la possibilità di tentarla con proposte che sarebbero potute apparire buoni compromessi.
 
“Torna seduto, ragazzo. Non abbiamo finito” ordinò il Segretario “Perché non ti accomodi anche tu?” invitò poi Anthea.
 
La giovane incrociò le braccia al petto e fece ancora un paio di passi in avanti. Rogers nel frattempo non si era mosso, nonostante la pressione sulla spalla stesse aumentando gradualmente, un chiaro invito ad eseguire l’istruzione che gli era stata data.
 
“Sto bene così. Sono qui per prendermi la responsabilità di ciò che è successo oggi.”
Solo allora, per la prima volta dal momento in cui aveva messo piede lì dentro, Anthea incrociò lo sguardo del compagno e una invisibile crepa comparve sulla maschera di porcellana. Ancora due passi in avanti.
“Sono stata io a voler partecipare alla missione e ammetto di non avergli lasciato scelta.”
Era adulta e doveva comportarsi come tale. Le azioni che sceglieva di compiere avevano un peso e non avrebbe permesso che fossero altri a sostenerlo al suo posto. E soprattutto non avrebbe lasciato a Steve il fardello.
“Inoltre...” continuò, sostenendo lo sguardo di Ross.
 
“Sono stato io a chiederle aiuto, non...”
 
“Ste... Capitano. Apprezzo che tu voglia farti carico di quanto accaduto, ma sono stata io a sbagliare.”
 
Steve perse parte della compostezza e pinzò il ponte del naso con le dita. Si scrollò di dosso la mano opprimente di Ross, che scelse di chiudere un occhio su quel comportamento poco collaborativo. “Non...” provò a dire, ma fu nuovamente interrotto.
 
“Il grattacielo è stata opera mia. Se non avessi sbagliato, la squadra avrebbe gestito la missione senza incidenti” lei prese un respiro profondo e guardò Steve “Ho incasinato io la situazione e non voglio che ci vadano di mezzo i miei compagni.”
 
Ross superò Rogers e si fermò davanti alla ragazza. Non sembrava temerla nemmeno un po’.
“Bene. A quanto pare la questione è chiarita. Alla fine dei conti, nessuno si è fatto male, la struttura è ancora in piedi e abbiamo preso i nostri obiettivi. La considero una vittoria.”
Sembrava sincero e disposto a venire loro in contro. Era difficile non pensare che sotto ci fosse altro, che quell’apparente gentilezza non fosse disinteressata.
 
“Allora possiamo andare adesso? Abbiamo tutti bisogno di riposare.”
Anthea aveva cambiato tono. Non era più sentito e aveva una nota intimidatoria.
 
“Spero di poter contare ancora sul tuo aiuto in futuro” fu la velata proposta del Segretario.
 
L’oneiriana annuì e accettò la mano tesa dell’uomo. Era consapevole di aver appena oltrepassato una linea sicura, di essersi esposta più di quanto avrebbe dovuto.
 
Soddisfatto, Ross tornò sui suoi passi e lasciò una stretta energica sulla spalla sinistra del super soldato. “Andate pure. Qui abbiamo finito” decretò godendo della sensazione di avere il controllo.
 
Anthea restò ferma, aspettando che fosse Steve a raggiungerla. Non fuggì dal suo sguardo e nemmeno riuscì a decifrarlo. “Usciamo da qui” le sussurrò quando fu abbastanza vicino.
L’inclinazione e le esili vibrazioni della voce con cui il biondo aveva pronunciato quelle tre semplici parole espressero pura e semplice estenuazione.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Washington DC
20:08

 
 
Era tornato agli appartamenti da un’ora ormai, ma era lontano dal sentirsi sollevato. Era preoccupato. Fottutamente preoccupato. Quando Ross si dimostrava troppo indulgente, Steve aveva la certezza che dietro ci fosse altro. Nulla di buono ovviamente.
Aveva eseguito ogni manovra possibile per tenerla lontana dagli affari governativi. L’ultima cosa che voleva era che la sua compagna diventasse un’arma al servizio di Ross e di quelli come lui. Troppi l’avevano già resa un mezzo per raggiungere un fine, privandola del controllo sulla sua stessa vita. Una battaglia dopo l’altra era riuscita a riprendersi pezzi di se stessa e a recuperare una parvenza di controllo. Non era più aggrovigliata tra fili manovrati da qualcun altro. Steve non avrebbe contributo a spingerla nelle mani di un altro manipolatore. Al tempo stesso però sapeva di non poterla fermare nel momento in cui lei prendeva una decisione. Poteva solo chiederle di fermarsi, ma era lei a scegliere. Doveva essere lei a scegliere.
 
Però a volte lei era così testarda da farlo impazzire.
 
Non avevano ancora parlato apertamente di ciò che era successo. Non ne avevano avuto la possibilità.
Il leggero bussare alla porta lo distolse dai pensieri e credette che lei lo avesse anticipato, raggiungendolo.
 
“Avanti.”
 
Tony Stark si introdusse nella stanza e si chiuse la porta alle spalle con un movimento fluido e deciso.
“Sono di rapido passaggio e ho bisogno di parlare con te, darling.”
Sfilò dal viso gli occhiali scuri, dietro i quali teneva nascosta la stanchezza che faceva apparire gli occhi infossati, dettaglio che non incideva positivamente sul suo fascino sfacciato.
Il reattore brillava sul torace e sembrava essere integrato nella maglia scura. Il tessuto gli aderiva addosso quasi come una seconda pelle e gli arrivava una spanna sotto i pantaloni neri della tuta. Niente camicie, giacche o altri capi eleganti. Però la barba ed il pizzetto erano impeccabili, segno che non aveva perso del tutto il controllo dei fabbisogni basilari.
 
“Che succede?”
Steve fece scivolare dal collo l’asciugamano e lo appoggiò sul letto. Lanciò all’amico uno sguardo preoccupato, soffermandosi sul viso tirato.
 
“Succede che potrei avere una specie di pista.”
 
Era l’ultima cosa che il super soldato si sarebbe aspettato di sentire, considerando che non erano stati molto fortunati negli ultimi tempi. Aveva pensato più ad un incontro per riorganizzare le forze o per rafforzare la scadente comunicazione. Osservò l’amico lasciarsi cadere seduto sul letto e passare una mano fra i capelli scuri, più lunghi di quanto ricordasse.
 
“Vuoi che chiami gli altri?” gli chiese, mentre si avvicinava di un paio di passi con istintiva cautela.
 
“Non voglio creare inutili agitazioni o aspettative. Potrebbe essere un altro buco nell’acqua.”
L’inventore fissò gli occhi nocciola in quelli azzurri del biondo e stirò le labbra in un mezzo sorriso stanco.
“Se dovesse rivelarsi l’ennesima falsa pista, saremmo solo in due a rimanerci male.”
 
“Non devi sentirti responsabile, Tony. Stai facendo anche troppo per far funzionare le cose.”
 
“Disse la pentola al bollitore.”
 
Senza nemmeno rendersene conto, avevano finito per addossarsi le responsabilità di tutto ciò che era andato storto negli ultimi mesi, che fosse una falsa pista, un lavoro gestito male o i danni che Adam Lewis era già riuscito a provocare.
 
“Ho bisogno del tuo aiuto per controllare alcuni posti. Verrò a prenderti e ti riporterò senza che Ross si accorga di niente e ti garantisco…”
 
“Va bene.”
 
I tratti del viso di Stark si distesero in una espressione sorpresa. Sembrava quasi deluso per certi versi.
“È stato più facile del previsto. Da dove arriva tutta questa accondiscendenza?”
 
“A quanto pare ne ho parecchia negli ultimi tempi.”
 
Il tono ironico fu per Tony impossibile da ignorare.
“E dimmi, che termine ha? Vorrei saperlo in anticipo per evitarmi brutte sorprese.”
 
Se vedo una situazione che va in rovina, non posso ignorala.”
 
“No, non puoi.”
 
Ci fu un lungo silenzio durante il quale i due si limitarono a guardarsi negli occhi, come se in qualche modo cercassero di leggere oltre la facciata che entrambi si sforzavano di mantenere ben salda.
 
Fu Tony a rompere il silenzio.
“Ovviamente poi ne parleremo con gli altri senza fomentare troppo le speranze. Se dovesse risultare una buona pista, li coinvolgeremo del tutto, come sempre.”
 
“Andare in due potrebbe essere rischioso.”
 
“Lo è. Tuttavia, aumentando il numero di persone che si muovono, la probabilità di essere beccati sale esponenzialmente. E poi noi siamo il duo migliore. Abbiamo stracciato tutti alla fine.”
 
“Non è quello che ricordo io.”
 
“Colpa dell’età. Dovresti provare con i cruciverba. Dicono che siano un toccasana per allenare la memoria.”
 
Steve scosse il capo e sorrise divertito dinanzi l’espressione provocante di Tony.
 
“Senti, Steve, la comunicazione è ancora scarsa.”
 
Thor non era sempre reperibile, ma non potevano fargliene una colpa. C’erano casini anche al di fuori della Terra e lui era uno di quelli chiamati a risolverli. Ma loro erano lì, sullo stesso pianeta, quindi non avevano scuse considerando i potenti mezzi di comunicazione di cui disponevano.
 
“Ci sto provando, Tony, io …”
 
“Non sto puntando il dito. Sto solo esponendo i fatti e voglio trovare una soluzione che vada bene ad entrambi.”
 
“Da quando sei così conciliante?”
 
“Sono sempre conciliante.”
 
Stark si alzò dal letto e, fatti due passi in avanti, arrivò ad allacciare le dita della mano destra sul retro del collo di Rogers. Scosse il super soldato in maniera giocosa, le loro fronti arrivarono a sfiorarsi e poi il contatto evaporò, dando l’impressione che non ci fosse mai stato. Erano stati trascinati in una bolla di sentimenti e pensieri condivisi nel silenzio.
 
“A proposito, cosa è successo a Chicago?” domandò Stark, mentre rinforcava gli occhiali.
 
“Stiamo ancora cercando di capirlo.”
 
“Tienimi aggiornato.”
 
“Lo farò.”
 
“Direi che è ora che io vada. Ti chiamo e mi aspetto che tu risponda.”
Stark lasciò una decisa pacca sulla schiena del compagno.
 
“Sta’ attento” sentì il bisogno di ricordagli Steve.
 
“Spero che tu lo stessi ricordando a te stesso” gli rimandò indietro Tony, prima di chiudersi la porta alle spalle.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
21 giugno 2015
Washington DC, 00:11

 
 
Era con le spalle al muro, la schiena pressata quasi dolorosamente contro la parete ruvida e fredda. Si era ritrovata presto a corto d’aria e il cuore stava battendo all’impazzata contro le costole.
“Dannazione” soffiò fuori, dopo essere riuscita a recuperare un po’ di fiato. Aveva di nuovo la vista sfocata, liquida, e stava andando a fuoco.
“Oh dannazione...” le sfuggì ancora e strinse con uno spasimo incontrollato le dita attorno agli stessi capelli che le stavano solleticando il viso. L’altra mano era aggrappata al retro del collo del bastardo che stava attentando alla sua sanità mentale. Le cosce erano indolenzite dove le lunghe dita premevano con forza per tenerla sospesa contro la parete, ad almeno un metro dal pavimento. La bocca del suddetto bastardo stava torturando ogni lembo di pelle del collo esposto. Fu costretta a mordersi il labbro inferiore quando i suoi denti affondarono nel trapezio contratto. Non voleva concedergli una ulteriore soddisfazione, considerando che era già alla sua completa mercé.
“Questa me la paghi” esalò, ma fallì nell’intento di mostrarsi minacciosa. L’istante dopo fu costretta ad inarcare la schiena per accogliere l’ennesima spinta che la fece tremare dall’interno, in modo viscerale, sottraendole ossigeno e quel che rimaneva del già precario equilibrio mentale.
 
Sarebbe impazzita presto. Molto presto.
 
Inaspettatamente le diede tregua e raddrizzò le spalle larghe per poterla guardare in viso. E lei affogò nelle iridi azzurre, accese da una scintilla che le fece stringere lo stomaco. Era così fottutamente persa in quel momento, incapace anche solo di formulare un pensiero coerente. Non ricordava neppure come ci fosse finita lì, incastrata fra il muro e il corpo bollente di uno Steve Rogers particolarmente fuori controllo. Ammetteva di averci fantasticato sopra qualche volta, ma questo superava ogni sua aspettativa. Era già così dannatamente vicina all’apice del piacere e lui lo sapeva, lo sapeva bene, perché aveva rallentato ed era quasi frustrante. Lo stava facendo a posta, il bastardo, e glielo avrebbe detto in faccia in quello stesso momento se lui non l’avesse preceduta, chiudendole la bocca con la sua. Tentò di imporsi su di lui almeno in quel gioco di lingue e denti che si scontravano fra loro. Lo sentì sorridere a denti stretti contro le proprie labbra e, dannazione, era irrimediabilmente in suo potere.
Le permise di riprendere fiato mentre si divertiva a stuzzicarle il lobo dell’orecchio sinistro e il fiato caldo sul retro del collo la fece rabbrividire fino all’altezza delle natiche. “Ti prego” si lasciò scappare e lui sorrise di nuovo, ma stavolta lo fece guardandola direttamente negli occhi. Sostenne il suo sguardo torbido con quei miseri rimasugli di testardaggine che ancora possedeva. I respiri accelerarono in sincronia con le spinte sempre più profonde. Ancor prima di rendersene conto, il corpo la tradì e cedette a quella meravigliosa tortura, svuotandosi completamente.
Si affidò a lui, tremante ed esausta, e lo sentì rafforzare la presa per evitare di farla scivolare anche di un solo centimetro. Poggiò la fronte sudata contro l’incavo della sua spalla e strinse i denti in risposta agli spasimi sconnessi del basso ventre, ancora sollecitato e come pronto a riaccendersi ancora. Si strinse attorno a lui, con tutta la forza che le era rimasta. Lo ascoltò trattenere il fiato e lasciarsi andare dentro di lei. Rimasero immobili, stremati e ansimanti.
 
“Non mettermi a terra adesso o dovrai raccogliermi con il cucchiaino.”
 
Le gambe avevano perso sensibilità e non l’avrebbero riacquistata presto. Gli allacciò le braccia attorno al collo per tenere il punto. Steve fece un passo indietro, staccando Anthea dalla parete. La schiena della giovane finì pressata contro il morbido materasso, sulle lenzuola fresche. Il biondo raccolse dal pavimento i boxer e la parte inferiore della tuta blu. Indossò gli indumenti sotto lo sguardo attento della compagna, che nel frattempo si era coperta alla buona.
 
“Quella è mia” le fece notare Steve, indicando la maglia che lei aveva infilato e sotto la quale era ancora completamente nuda.
“E non la riavrai indietro presto quindi dovrai restare qui.”
Anthea sollevò un sopracciglio con fare lascivo e lo invitò a raggiungerla, cosa che lui fece senza protestare.
 
Si stesero l’una di fianco all’altro e rimasero a fissare il soffitto. Il tempo parve fermarsi.
 
“Ce l’hai ancora con me?” tastò lei il terreno per prima.
 
Ora che la lucidità era tornata a fare ordine, come fossero arrivati a quel punto lo ricordavano bene entrambi. Anthea aveva deciso di voler andare a discutere con Steve di tutta l’incasinata faccenda che li aveva coinvolti quel giorno. Non si erano detti molto una volta lasciato l’ufficio di Ross e sicuramente la presenza della Stewart non aveva aiutato ad intavolare una conversazione. Così erano semplicemente tornati nei rispettivi appartamenti.
Anthea aveva fatto una doccia, si era infilata un paio di pantaloncini ed una canotta e poi era rimasta seduta sul bordo del letto, in attesa di un qualche segno mistico che quello fosse il momento giusto per raggiungerlo. Quando si era decisa a muovere il sedere, la porta della sua stanza si era aperta e se lo era ritrovato davanti.
“Cavolo! Dovresti avvertire prima di...” gli aveva detto di getto, presa alla sprovvista. Il cuore martellante nel petto l’aveva stordita per qualche istante e lo stomaco si era raggomitolato su sé stesso. Affrontare un qualsiasi tipo di nemico l’avrebbe resa meno nervosa.
“Irrompere senza preavviso quando ti era stato chiesto di non farlo?” era stata la prima frecciatina tagliente e poi era stato un susseguirsi di “Non avresti dovuto metterti in mezzo”, “Non sei tu a dover appiccicare le pezze per mie mancanze” e poi erano volate parole come responsabilità, pericolose azioni impulsive, Ross è uno stronzo approfittatore, è per questo che ti voglio lontano da lui, quel raggiratore non mi spaventa, non dovevi intrometterti, mi intrometto eccome invece e non ho intenzione di scusarmi.
Poi Steve aveva detto “Mi farai diventare pazzo” e Anthea ricordava poco di quello che era successo da quel momento in avanti. Si era semplicemente ritrovata con le spalle al muro.
 
“Non ce l’ho con te e mi dispiace per...”
 
“No, è a me che dispiace, okay? So di essere una specie di mina vagante e questo non è sempre d’aiuto.”
Anthea si sistemò su un fianco, il gomito sinistro puntellato sul materasso e la guancia poggiata sul palmo aperto della mano. Adesso poteva osservarlo nella penombra e leggerne le espressioni. Poteva veder vibrare le ciglia bionde e studiare il baluginio nelle iridi limpide.
 
“Avevi detto che non ti saresti scusata.”
Steve voltò il capo per incontrare il suo sguardo e lei sorrise mestamente.
 
“Non provocarmi, Rogers. Sei già in una posizione sfavorevole.”
 
“Perché sarei in una posizione sfavorevole?”
 
Felina e rapida, Anthea si sistemò sul bacino del compagno. Gli afferrò i polsi e li bloccò contro il materasso, sopra la sua testa bionda. Steve non si scompose, i muscoli non furono attraversati da alcuna tensione. La giovane amava la sensazione di avere fra le mani la sua completa fiducia.
 
“Perché mi hai piantata in asso e sei andato via con un’altra donna.”
 
“Di che stai parlando?”
 
Anthea si chinò in avanti senza mollare la presa su di lui, che continuò a non opporre resistenza.
“Lo sai bene, tesoro” gli sussurrò in un orecchio, calcando con particolare attenzione sull’appellativo finale. Il respiro gli solleticò il collo e lo fece rabbrividire.
 
“Ne abbiamo già parlato” protestò Steve.
 
Ne avevano parlato sì, stipando tutto in una manciata di parole stiracchiate. Questo non significava però che Anthea avesse mandato giù il fatto che Janet Stewart provava a portarsi a letto il suo compagno da mesi.
Gli posò una delicata scia di baci lungo il profilo della mandibola e seguitò raggiungendo il collo. Affondò i denti poco sopra la clavicola sinistra, facendolo sussultare e gemere fra i denti serrati.
“Ti avevo detto che l’avresti pagata” e avrebbe voluto continuare su quella linea, ma si arrese ad una emozione più forte, scoppiatale improvvisamente nel petto.
Alleggerì la presa sui polsi del compagno, solo per poter intrecciare le dita con le sue. Lo baciò dolcemente e profondamente più di una volta. Si arrese a quell’impeto di tenerezza e fu come prendere una boccata di ossigeno dopo una lunga apnea. Adagiò su di lui fino all’ultimo grammo del corpo, mentre gli circondava il collo con le braccia. Poggiò la fronte contro le lenzuola, proprio di fianco alla nuca bionda del compagno che, dopo qualche attimo di confusione per l’inaspettato e improvviso cambio di rotta, ricambiò l’abbraccio stringendola contro di sé.
 
“Pensi che potrebbe essere come me?”
 
Era una domanda vaga, soprattutto quando in meno di ventiquattro ore erano stati coinvolti in un susseguirsi di eventi caotici e non del tutto spiegabili. Tuttavia, Steve si sorprese di sapere esattamente a cosa lei si stesse riferendo.
 
“Sarebbe una cosa possibile?” le chiese, mentre stropicciava con le dita il tessuto della maglia di cui lei si era appropriata.
 
“Non lo so. Ma quella sensazione…” Anthea non andò avanti. Non voleva conferire concretezza ad un pensiero che la spaventava.
 
La questione era rimasta sepolta fino ad allora, lontana da chiunque non avesse visto. Lontana anche – e soprattutto – da Ross. A parte loro due, solo Daniel sapeva cosa era davvero accaduto e non erano servite raccomandazioni, parole o cenni silenziosi, affinché il ragazzo tenesse per sé ciò che aveva visto.
 
“Non voleva che mi accorgessi della sua presenza ma ha commesso un errore” sussurrò lei e si sollevò sui gomiti, per poter riallacciare il contatto visivo con Steve “Ora che so della sua esistenza non potrà più agire nell’ombra.”
Ora conosceva la natura dell’interferenza, riusciva ancora a sentirla vibrare. Non gli avrebbe lasciato scampo la prossima volta.
 
“Però ti preoccupa più di quanto tu voglia ammettere.”
 
“È che sono scombussolata e magari dormirci sopra aiuterà. Anche tu dovresti dormire.”
 
“Stai sviando.”
 
“Sono solo stanca e ti ricordo che è anche colpa tua. Mi hai sfinita” sorrise mestamente e rotolò per sistemarsi al suo fianco. Gli diede le spalle solo per raggiungere un lembo delle lenzuola stropicciate e arrotolate.
Le braccia di Steve le circondarono la vita e Anthea si ritrovò con la schiena premuta contro l’ormai familiare petto largo e solido. Rimase immobile, assaporando quell’intimità così naturale, rara e normale.
 
Anthea amava la notte. La notte si era trasformata nella custode dei momenti più intimi, intesi e profondi, strappati ad una vita che continuava a travolgerli e a trascinarli lontani da appigli sicuri e stabili. Amava quelle notti così normali e paradossalmente surreali, durante le quali il tempo sembrava scorrere più lentamente.
E forse, era anche per questo che l’insonnia era diventata sua abituale visitatrice, così da permetterle di aggrapparsi a quei momenti che altrimenti sarebbero fuggiti via, senza che lei potesse viverli appieno.
Anche quella notte sarebbe rimasta scolpita nella sua memoria e avrebbe combattuto la stanchezza pur di rimanere sveglia ancora un poco, anche solo qualche altro minuto.
Mentre ascoltava il ritmo del cuore di Steve srotolarsi nel silenzio, i suoi pensieri scivolarono verso ricordi così lontani da sembrarle quasi estranei.
 
“Ti renderò perfetta, bambina mia.”
 
La notte era la custode dei momenti più intimi, intesi e profondi. Tuttavia, possedeva una doppia faccia. L’altra faccia apparteneva ad un mostro che non voleva essere dimenticato e mai lo sarebbe stato.
Diresse il flusso di pensieri verso l’interferenza, verso le sensazioni che l’avevano accompagnata e, se si concentrava abbastanza, poteva ancora percepirle. Erano così familiari. Penso a Adam Lewis. Pensò ad Antares.
 
“Sei ancora sveglio?” sussurrò incerta, rompendo il silenzio.
 
“Sì, ci sono” le soffiò lui fra i capelli.
 
“Ho bisogno di parlarti di una cosa.”
 
Steve si sollevò su un gomito e Anthea roteò su se stessa, per potersi sistemare sulla schiena.
Non era certa sul come iniziare la conversazione, ma sapeva di volerla rendere la più breve possibile. Forse era il momento sbagliato e avrebbe dovuto lasciarlo riposare senza ficcargli tarli in testa. Scelse di essere egoista.
 
“Devo iniziare a preoccuparmi?”
 
Il silenzio doveva essersi prolungato più di quanto si fosse resa conto e Steve si era addirittura messo seduto e la stava guardando dall’alto, in attesa.
 
“No scusami. È complicato e non vorrei che tu...”
 
“Non indorare la pillola per me.”
 
Sapeva leggerla meglio di quanto lei pensasse.
 
Nell’esatto momento in cui Anthea iniziò a parlare, smise di pensare ad ogni tipo di conseguenza e, un po’ alla volta, si adoperò a sciogliere nodi che aveva lasciato aggrovigliarsi con altri nodi.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Note
 
Chi non muore si rivede, giusto? A distanza di anni, trovo ancora piacevole poter evadere dalla realtà rifugiandomi in un mondo di idee e parole. Quindi, ho colto l’occasione. Un saluto speciale a chiunque stia leggendo e un grazie sincero a coloro che ancora seguono questo piccolo lavoro che vedrà una fine (detesto lasciare le cose incompiute).
Godetevi le stelle cadenti e, anche se oggi non riuscirete a vederne alcuna, non smettete mai di cercarle. Presto o tardi, la vostra stella arriverà e sarà valsa la pena attenderla ❤️
 
 
Ella

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Capitolo 28
*** Perfect Soldier ***


Perfect Soldier
 
 
 
24 giugno 2015
Washington DC, 09:33

 
 
“Ti stai scomponendo e se ti scomponi…”
 
L’impatto del corpo di Daniel contro il pavimento creò un frastuono echeggiante che rimbalzò fra le pareti della stanza spoglia.
 
“Hai perso.”
 
Era sorprendente il numero di volte in cui aveva visto questa scena ripetersi. A parte le sottili variazioni che la precedevano, il finale era sempre lo stesso.
Daniel si allenava da ore e aveva avuto più di dieci incontri ravvicinati con il pavimento. Tuttavia, mettere ripetutamente a dura prova le ossa non lo aveva scoraggiato neanche di striscio. Aveva caparbietà da vendere e nessuna intenzione di gettare la spugna. Stava adesso riprendendo fiato, seduto a terra, con gli avambracci poggiati sulle ginocchia leggermente piegate. La maglia bianca era fradicia di sudore, così come lo era il viso arrossato dallo sforzo. L’espressione non lasciava trasparire stanchezza, ma solida concentrazione. Stava sicuramente ripercorrendo con la mente gli errori commessi e riconsiderando la fallimentare strategia adottata.
Steve era in piedi davanti a lui, le mani puntellate sui fianchi e l’ombra di un sorriso a distendergli i lineamenti del volto. Di riflesso sorrise anche lei. Sharon aveva finito per apprezzare parecchio la compagnia di quei due. Rendevano la stanchezza e la tensione più sopportabili e il lavoro sembrava meno sfiancante al loro fianco.
La Carter ricordava il giorno in cui lo SHIELD aveva deciso di reclutare Daniel Adley Collins. Il ragazzo si era arruolato nell’esercito poco dopo aver terminato il liceo e aveva dimostrato fin da subito capacità fisiche sopra la media, obbedienza nei confronti dei superiori e, soprattutto, disposizione al sacrificio. Tutte caratteristiche che lo SHIELD voleva vedere nei propri agenti. Così Collins era arrivato al Triskelion, dove nel giro di qualche anno lo avrebbero trasformato in un soldato perfetto, come tutti coloro che erano stati selezionati. Il piano però era saltato a causa dell’Hydra e la strada che era stata scritta per il ragazzo aveva subito una brusca deviazione.
 
Forse era stato meglio così.
 
Quella mattina, Sharon aveva incontrato Steve e Daniel intenti a lasciare l’appartamento e si era unita a loro. Cercava di non perdere occasione di farsi le ossa contro un super soldato, considerata l’attuale diffusione di potenziati. Una volta ottenuta la sua buona dose di lotta, si era ritirata a sedere su una panca in legno, sul fondo della spaziosa sala, e aveva lasciato i muscoli dolenti distendersi.
Erano in una palestra poco lontana dall’appartamento e che il proprietario teneva aperta perché Captain America glielo aveva gentilmente chiesto. L’uomo in questione – Pit – aveva rifiutato ogni sorta di pagamento, affermando che oltre ad essere un onore, era anche redditizio averlo lì, dato che tante persone erano attirate dall’idea che quella palestra fosse frequentata da Captain America in persona – passare inosservato per Steve non era così semplice nonostante lui ci provasse. D’altro canto, Pit faceva di tutto affinché il super soldato non venisse disturbato. Aveva riservato loro una sala ancora inutilizzata e che aveva intenzione di attrezzare una volta che gli affari fossero decollati.
 
“Ci fermiamo?” chiese Rogers, più per prassi che per altro, perché sapeva bene quale sarebbe stata la risposta.
 
No per favore, ce la faccio. Lasciami provare ancora” lo pregò Collins.
 
Steve sorrise divertito e gli tese una mano per aiutarlo a tornare in piedi, assicurandosi al contempo che Dan fosse effettivamente in grado di sostenere l’ennesimo round. Il biondo voleva evitare di fargli male seriamente, anche se quella preoccupazione stava lentamente scemando di fronte la crescita esponenziale delle capacità del ragazzo.
 
“Non buttarti a capofitto nel primo spiraglio che vedi perché spesso è un inganno” gli fece notare Rogers.
 
“Me ne sono reso conto” ammise Collins e tornò all’attacco senza ulteriori esitazioni.
 
Sharon si chiese quanto sarebbe durato Daniel stavolta. La sua attenzione però fu totalmente calamitata dalla persona che si sedette al suo fianco. Non l’aveva sentito arrivare.
 
“Non ci vanno piano quei due” convenne il nuovo arrivato dopo una breve occhiata rivolta allo scontro in atto.
 
“Quando sei rientrato?” chiese lei, sorpresa di vederlo lì.
 
“Qualche ora fa. Steve mi ha lasciato un messaggio per dirmi che lo avrei trovato qui.”
 
“Come è andata?”
 
“Stiamo seguendo le indicazioni di Stark. Sam e Anthea sono ancora con lui.”
 
James fece spallucce e Sharon capì che non aveva la forza di parlare di quanto fossero lontani dal risolvere la situazione. Lasciò cadere l’argomento, ma al contempo gli poggiò una mano sul ginocchio in un muto gesto di sostegno.
 
“Voi invece come ve la siete cavata?” fu la successiva domanda di Barnes, che le riservò un’espressione intensa e accesa da una fievole luce di speranza, come se si aspettasse risvolti positivi dalla risposta.
 
“Ce la siamo cavata ma niente di interessante. Siamo tornati in mattinata e qualcuno aveva bisogno di scaricare la tensione.”
Sharon indicò i suoi compagni, tuttavia evitò di specificare che quella tensione stava perseguitando anche lei, altrimenti non sarebbe di certo finita lì dopo un’intensa nottata di lavoro e un paio di ore di sonno.
“Quindi glielo hai detto” convenne di punto in bianco la donna e rivolse a James un mezzo sorriso, accompagnato da una leggera collisione fra le loro spalle.
 
“Non ne è rimasto così sorpreso. Non riesco a nascondergli molto.”
 
“La cosa è reciproca da quanto ho potuto vedere” ci tenne a puntualizzare la Carter.
Era spesso destabilizzante osservare le interazioni fra Rogers e Barnes. A quei due bastava uno sguardo per intendersi alla perfezione e per anticipare uno le mosse dell’altro.
Qualche giorno prima, James le aveva confessato di aver parlato con Steve della loro specie di relazione e lei aveva accettato di buon grado quella scelta perché, considerati i precedenti, mentire a Rogers – in qualsiasi modo possibile – la rendeva nervosa. Si era chiesta solo se ciò che c’era stato fra Steve e Peggy avrebbe potuto avere un peso in qualsiasi cosa ci fosse al momento fra lei e Bucky. Non avevano ancora parlato di cosa effettivamente ci fosse fra loro. A dirla tutta, non avevano nemmeno avuto occasione di parlarne. Era ovvio che la loro non avrebbe mai potuto essere una relazione normale. Inoltre, attualmente era alquanto complicato portare avanti qualsiasi tipo di rapporto, anche se già avviato e rodato. Di tanto in tanto passavano la notte insieme ed era lei a raggiungerlo, dato che i coinquilini di James sapevano. Le era capitato di incrociare la Reyes di andata o di ritorno dai loro appartamenti e, in diverse occasioni, si erano fermate a parlare come due conoscenti incontratesi per caso durante una passeggiata. Lontana dal campo di battaglia, Anthea appariva diversa, tremendamente umana e normale. Conoscerla meglio era stata un’esperienza interessante.
Alla fine dei conti, Sharon aveva una sola certezza al momento. Era nel posto giusto, al fianco delle persone giuste e lottare aveva finalmente riacquistato un senso dalla distruzione del Triskelion.
 
“Niente male il ragazzo. Ci ha preso la mano.”
 
Il flusso dei pensieri della Carter fu spezzato dalla voce divertita di Barnes, ora concentrato sullo scontro fattosi più intenso e serrato. Che Collins ci avesse preso la mano era un dato di fatto ormai. Sembrava che il suo corpo si fosse adattato gradualmente alla forza, alla velocità e alla resistenza dei super soldati e Rogers continuava ad alzare l’asticella, ponendosi sempre meno freni.
C’era stata solo un’occasione in cui Steve aveva forzato la mano, affinché Collins potesse rendersi conto di quanto un potenziato fosse pericoloso. Non era stato un bello spettacolo a cui assistere, ma era stato necessario. Collins non si era comunque arreso, né si era fatto spaventare. Però aveva compreso appieno il divario che lo separava da forze che stavano al di sopra di quelle umane.
Sharon imitò Bucky, concentrandosi sui suoi colleghi. C’era qualcosa di diverso nei movimenti di Daniel. Erano più fluidi e sicuri, nonostante l’affaticamento che a quest’ora avrebbe dovuto accusare. Sembrava essere in uno stato di grazia. Era completamente annegato in una profonda concentrazione.
 
Successe tutto in un attimo.
 
Un passo anticipato, una espirazione fuori tempo e l’urto che ne seguì fu differente dagli altri. Respiri affannati riempirono il silenzio e la tensione si sciolse. Occhi azzurri si stavano ora specchiando in iridi altrettanto chiare e limpide. La mano destra di Collins stringeva la gola di Rogers sotto di lui, mentre la sinistra gli teneva il polso destro ben ancorato al pavimento, sopra la testa. Il ginocchio destro del ragazzo premeva sull’incavo del gomito sinistro del super soldato, mentre l’altro ginocchio glielo aveva piantato nel costato.
Daniel ce la mise tutta per mantenere un’espressione seria, ma non riuscì ad impedire alla bocca di piegarsi in un sorrisetto vittorioso, del tutto legittimato dall’impresa appena compiuta. Perché quella, a suo parere, era un’impresa notevole. Steve Rogers era schiena a terra. Steve Rogers era sotto di lui, schiena a terra, sotto di lui, a terra sotto di lui.
 
“Dan” lo richiamò Steve, ripescandolo dal brodo di giuggiole in cui si era tuffato.
 
“Oh sì scusami.”
 
Collins sollevò il ginocchio ancora piantato nell’addome del super soldato e mollò la presa sia sul suo collo sia sul polso. Rimessosi in piedi, porse a Rogers una mano e lui la afferrò, accettando l’aiuto per rialzarsi dal pavimento. Quando poi le dita del biondo si strinsero sulla sua spalla, Daniel allargò il sorriso sfuggito al suo controllo a causa dell’ammutinamento simultaneo dei muscoli facciali.
 
“Stai perdendo colpi, Rogers.”
 
James sopraggiunse alle spalle di Daniel e fronteggiò Steve.
 
“Tu sei il prossimo, Bucky. Avevamo un accordo” si intromise allora Collins.
 
“Resta con i piedi per terra, ragazzo. Ti avverto che io sarò meno clemente.”
 
Tenere Daniel con i piedi per terra era necessario o la sua avventatezza lo avrebbe fatto ammazzare. Di pari passo con l’abilità cresceva la sicurezza e la sicurezza era spesso accompagnata dal calo della prudenza. Poi c’erano i casi disperati che il significato di prudenza lo aveva sempre ignorato, indipendentemente dalle abilità possedute. Collins poteva ancora essere salvato.
 
“Dovrai rifarlo almeno altre due volte per dimostrare che non è stato solo un colpo di fortuna.”
Stavolta era stata Sharon a parlare.
 
“Ci sto. Posso cominciare anche subito” fu la risposta di Collins, trascinato dall’adrenalina che gli scorreva in grandi quantità nelle vene. I suoi neuroni stavano molto probabilmente ancora facendo la ola.
 
Steve, suo malgrado, non poté evitare di sorridere. Incrociò lo sguardo di Bucky, che aveva l’espressione da ‘se hai bisogno di una pausa fammi un cenno.’
 
“Per te è okay se continuiamo?” chiese Dan al diretto interessato e il biondo acconsentì per sua somma gioia. Peccato però che furono interrotti ancor prima di prendere posizione.
 
La Stewart giunse a passo di carica nella sala e si rivolse direttamente a Rogers.
“Ross vuole parlare con te” riferì e dal tono perentorio si capiva che rifiutare non era contemplato.
 
Steve non poté fare altro che annuire in direzione della donna.
“Troveremo un altro momento” promise a Dan, che gli rispose con un breve – e afflitto – cenno del capo.
 
Una volta che Rogers ebbe lasciato la stanza assieme alla Stewart, Barnes sospirò molto profondamente e passò una mano fra i capelli scuri.
“Cosa vorrà questa volta?”
 
“Non ne ho idea” fu la sincera risposta di Sharon.
 
“Ross sta tirando un po’ troppo la corda” asserì James.
 
“Prima o poi la corda si spezzerà.”
Daniel aveva parlato con una calma e una serietà spiazzanti e l’eco di quelle parole riempì il silenzio che calò nella sala.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Pentagono
 
 
La riunione con il Consiglio Mondiale di Sicurezza era durata più del previsto. Tuttavia, i membri erano più tranquilli da quando Capitan America era sotto controllo e così sembravano essere anche gli Avengers.
Ross arrivò dinanzi al suo ufficio e sorrise compiaciuto. Un altro lavoro era stato portato a termine in tempi record, senza che lui dovesse coordinare alcunché. Aveva sempre desiderato un’arma che gli permettesse di gestire ogni tipo di situazione. Hulk era un’arma devastante e poco gestibile, un po’ come una testata nucleare. Rogers, al contrario, era gestibile e indiscutibilmente efficace, proprio come lo era stato il Soldato d’Inverno per l’Hydra. Ovviamente, avrebbe evitato di esprimere quell’ultimo pensiero ad alta voce.
 
“Vieni.”
 
Ross entrò nell’ufficio e Rogers, in attesa al fianco della Stewart, lo seguì all’interno.
“Accomodati pure” gli indicò un divanetto sul lato dell’ampia stanza, ma il ragazzo rimase in piedi come la maggior parte delle volte.
Ross lo raggiunse subito dopo aver posato dei documenti sulla scrivania e si fermò di fronte a lui, invadendone lo spazio personale senza alcun timore.
 
“Volevo parlarti del permesso che mi hai chiesto per New York.”
 
L’occhiata guardinga che ricevette indietro fu la reazione che si aspettava. Ross doveva riconoscere di essere stato parecchio pressante negli ultimi tempi ed era giusto – conveniente – concedere al ragazzo un respiro di tanto in tanto. Però doveva essere alle sue condizioni.
 
“Cosa vuole precisamente Stark da te?” gli chiese. Lo stava mettendo alla prova.
 
C’era una cosa di cui era necessario tenere conto quando si aveva a che fare con gli Avengers, ovvero l’altra faccia della medaglia rappresentata da Tony Stark. Si poteva dire che l’equilibrio della squadra ce lo avevano in mano lui e Rogers, due personalità agli antipodi ma in qualche modo complementari. Far deteriorare il loro rapporto avrebbe con buona probabilità portato alla disgregazione di quel gruppo male assemblato – seppur dannatamente potente ed efficace – e Ross ci aveva fatto un pensiero.
Peccato che Stark si stesse mostrando parecchio protettivo nei confronti del super soldato e non stava nemmeno facendo grandi sforzi per nasconderlo. No, Stark glielo stava sbattendo tranquillamente in faccia. Ross sapeva che il miliardario lo stava tenendo sotto controllo.
 
“Non sono tenuto a dirle ogni cosa.”
 
Quell’impertinenza non era ancora riuscito ad estirparla. Tuttavia, Ross aveva imparato a gestirla.
 
“No, non lo sei, questo è vero. Nemmeno io d’altronde sono tenuto a fare tante cose.”
 
Rogers si irrigidì ma sostenne lo sguardo del Segretario di Stato, non intenzionato a cedere.
“Se non si decide a lasciarci un minimo di spazio la situazione peggiorerà.”
 
“No.”
Una sola sillaba. Due sole lettere appiccicate insieme a formare una cacofonia stridente.
“Se tornerete ad agire a briglia sciolta ci sarebbero delle ripercussioni e io ho il dovere di evitare che tali ripercussioni si presentino.”
 
“Le ripercussioni ci saranno se non ci permetterà di fare qualcosa prima che sia tardi” ribatté il super soldato.
 
Uno scontro era prevedibile. Rogers era ancora distante dal fottutissimo rispetto che avrebbe dovuto mostrargli. Però Ross sapeva essere paziente e, pezzo dopo pezzo, avrebbe smontato quel fastidioso temperamento combattivo che il super soldato gli mostrava sempre meno spesso.
 
“Abbiamo un accordo, Rogers” gli fece presente. Ricordarglielo era necessario perché, a quanto pareva, il biondo tendeva a dimenticare che non era lui a fare le regole adesso.
 
“Questo lo so” fu la replica seccata di Rogers.
 
“Allora facciamo in modo che continui a funzionare.”
Ross fece una lunga pausa, sfidando il super soldato con lo sguardo ed era ovvio che lui fosse combattuto. In altre circostanze, Rogers lo avrebbe mandato a farsi fottere senza esitazioni e avrebbe smesso di chiedere permessi di cui non aveva bisogno. Però adesso stava in silenzio, a dimostrazione che era di fatto sotto controllo. Ross decise di andargli in contro, così da mostrargli la migliore facciata conciliante. Forzare troppo la mano con lui non aveva portato a buoni risultati in passato.
“Hai il mio permesso per New York. Tuttavia, se si presentasse un’emergenza dovrai rientrare, o potrei sempre rivolgermi alla Reyes. Si è mostrata disponibile l’ultima volta.”
Se lo sguardo avesse potuto uccidere, Ross sarebbe morto. Quella era l’esatta reazione che, in questo specifico caso, voleva ottenere dal super soldato. Una ulteriore conferma di averlo ancora in pugno.
 
“Sono io quello che lavora per lei, Ross. Se sarà necessario, tornerò in qualsiasi momento” Rogers accorciò improvvisamente le distanze “La lasci fuori dalle sue macchinazioni.”
 
Ross stavolta si sentì seriamente minacciato. Il silenzio dovette dilungarsi parecchio, perché il Rogers fece per andare via, ma il Segretario lo afferrò per il gomito destro e lo costrinse a fermarsi.
“Niente stronzate. Ci siamo capiti?” fu l’ultimo avvertimento e un modo per avere l’ultima parola.
 
Rogers annuì e solo allora Ross lo lasciò andare.
 
 
 
Una volta fuori dall’ufficio, Steve trovò Janet ad attenderlo. Era sempre lei ad accompagnarlo agli incontri con il Segretario e perciò aveva assistito a parecchie discussioni accese.
 
“Potresti rendere questi incontri molto più rapidi e meno sfiancanti, se solo ti sforzassi di essere più accomodante” gli fece notare la donna, che doveva aver sentito stralci della conversazione.
 
“Non è così semplice” tagliò corto il super soldato.
 
“Però stai imparando. Hai fatto progressi significativi.”
 
Rogers ruppe il contatto visivo con la Stewart e si avviò lungo il corridoio. Al momento, voleva solo allontanarsi da lì il più velocemente possibile.
 
“Potrebbe essere meno orribile di quanto pensi” insistette la donna mentre lo seguiva.
 
“Ti sbagli” controbatté il biondo, poco propenso a snocciolare tutte le ragioni per cui non aveva intenzione di diventare un burattino di Ross e del Governo.
 
Janet arricciò le labbra in un ghigno sottile, divertita dalla riluttanza del suo amabile collega.
“Cederai, Rogers. Cedono tutti alla fine.”
 
“Tu lo hai fatto?”
 
“Non è stato necessario. Non sono mai stata una pericolosa mina vagante.”
 
Steve si fermò per un momento e Janet fu certa che stesse per risponderle a tono. Invece, lui lasciò cadere la conversazione nel silenzio e riprese a muoversi.
 
 
 
 
 

 


 
 
 
 
 
27 giugno 2015
New York, Stark Tower, 21:03

 
 
“Che ne pensi di una pausa? E prima che tu risponda ti avverto che sono sull’orlo dell’esasperazione.”
 
Tony fece sparire gli schermi olografici che fino a poco prima tappezzavano gli spazi vuoti della sua adorata officina. Abbandonò la testa all’indietro e lo schienale della sedia girevole cigolò. Il tessuto umidiccio della maglietta nera era appiccicato alla pelle e stava iniziando a odiare il suo stesso odore.
 
Da quanto tempo erano chiusi lì dentro? Dieci, undici ore… giorni?
 
“Rogers, sto parlando con te.”
 
Il suo compagno di reclusione non era messo meglio di lui. Portava ancora l’intera divisa stealth ed era un miracolo si fosse almeno tolto lo scudo dalle spalle. In piedi e con le braccia incrociate al petto, il biondo stava fissando quasi ossessivamente la sua parte di ologrammi e nemmeno lo aveva sentito.
 
“Steve.”
 
Il Capitano aveva chiesto a Ross un congedo di qualche giorno. Il tempo a loro disposizione era poco e stavano cercando di arrangiarsi come potevano. Dopo aver trascorso un numero indefinito di ore in giro con James, Sam e Anthea – ovviamente Ross era all’oscuro del fatto che Rogers non fosse rimasto a New York come concordato –, avevano deciso di spostarsi alla Tower per sfruttare al meglio il tempo rimanente.
Gli altri Avengers erano rientrati quella stessa mattina a Washington, giusto per evitare di creare evidenti assembramenti indesiderati. L’ultima cosa che volevano era mettere in allarme il Consiglio e il Governo.
 
“Cap. Capitano. Captain America.”
 
Continuare a cuocere il cervello a fuoco lento, considerando anche che fosse già ben lessato, non avrebbe risolto i loro problemi. Erano ad un punto morto – e morto era un eufemismo. Aveva iniziato a diffondersi un nervosismo generale ed era un male, perché quel nervosismo avrebbe potuto portare a passi falsi non consigliabili. Steve era fra i candidati più promettenti a compiere quel passo storto e Tony – doveva ammetterlo – lo avrebbe seguito a ruota. A proposito di Steve…
 
Darling.”
 
Tony allungò un braccio verso il tavolo pieno zeppo di cianfrusaglie, afferrò il capiente bicchiere in carta che fino a poco prima conteneva caffè e, dopo averlo accartocciato, lo lanciò dritto sulla testa del soggetto che continuava ad ignorarlo con fastidiosa insistenza.
Rogers voltò il capo con uno scatto e gli rivolse uno di quegli sguardi fra l’esasperato e il rassegnato, come se poi fosse lui la vittima fra i due. È noto che essere ignorati ferisce più di uno stupido bicchiere di carta appallottolato. E per tutti gli dèi asgardiani – Thor più degli altri – stava decisamente delirando.
 
“Facciamo una pausa?” domandò prima di perdere di nuovo l’attenzione di Steve. La seconda cosa più a portata di mano era una chiave inglese e, se si fosse sforzato, avrebbe potuto al massimo arrivare a togliersi una scarpa.
 
“Rimangono poche ore e poi dovrò rientrare” obiettò il biondo.
 
Risposta così prevedibile che Tony avrebbe potuto fare l’inizio della conversazione da solo. Quindi tagliò corto, schivando tutta la parte dove gli faceva notare che erano ore che non incappavano in progressi nemmeno per sbaglio e che, se avessero continuato, probabilmente avrebbero iniziato a dare i numeri e non quelli di coordinate utili.
 
“Devo farti vedere una cosa.”
 
L’evidente arcuarsi del sopracciglio destro fu un buon segno e probabilmente la chiave inglese sarebbe rimasta lì dov’era e pure la scarpa.
Due cose aveva imparato, Tony. La prima era che quando voleva che Steve facesse per lui qualcosa di non prioritario, non doveva perdersi in chiacchere – troppo intelligenti per essere apprezzate – e doveva andare dritto al punto, affondare il colpo senza troppi fronzoli.
 
“Di che si tratta?”
 
La seconda era prenderlo in contropiede per distoglierlo più agevolmente da ciò che lo stava monopolizzando.
 
“Spogliati.”
 
Steve rimase a fissarlo con la bocca semiaperta e l’espressione di chi è convinto – spera – di aver sentito male.
 
“Come scusa?”
 
Divertirsi a suo discapito era un effetto collaterale apprezzato seppur poco carino – per Steve – ma era andato già fin troppo in contro al biondo, no? Aveva appena rinunciato a stordirlo di chiacchiere e giri di parole per confonderlo ed estenuarlo in un colpo solo. Mostrarsi troppo gentile avrebbe suscitato sospetti.
 
“Devo veramente mostrarti come? Sarebbe strano ma se proprio devo…”
 
Steve puntellò le mani sui fianchi e alzò platealmente gli occhi al cielo, mentre Tony si tirava su dalla sedia per poterlo raggiungere, accompagnato da una serietà mimata alla perfezione.
 
“Avanti, via la parte superiore dell’uniforme. La maglia puoi tenerla. Non ti chiederò nient’altro” per ora.
 
Scacco matto.
Al biondo non rimase che accontentare il compagno e Tony tirò fuori dalla tasca della tuta un sottile e opaco dischetto grigio. Se lo rigirò fra le dita un paio di volte, contemplandone i riflessi e apprezzandone il design compatto e leggero. Era un diavolo di genio.
 
“Ti avevo detto che avrei pensato a qualcosa ma sto ancora sperimentando, perciò non è niente di definitivo.”
 
Stark posizionò il dischetto in corrispondenza dello sterno del super soldato, sul tessuto della maglia aderente, e quello si attaccò alla stregua di una ventosa, per poi illuminarsi di un tenue luce azzurra. L’inventore diede un paio di colpetti al disco, che iniziò ad allargarsi come una macchia di petrolio sul petto del biondo, fino a ricoprirlo del tutto, assieme all’addome, alle braccia e alla schiena. Anche il collo venne coperto fino al pomo d’Adamo.
 
“Offre una protezione notevole e non è ingombrante come un’armatura.”
Tony si era appropriato di un taglierino e, prima che Steve potesse capire le sue intenzioni, glielo affondò nell’addome. Solo che la lama non affondò, ma finì per spezzarsi.
 
“La nanotecnologia è programmata per reagire agli urti e ai tentativi di penetrazione. In caso il nemico riesca ad aprire una fessura, questa ha la capacità di autoripararsi. Ovviamente è antiproiettile ed è resistente sia alle basse sia alle alte temperature.”
 
“Tony...”
 
“Vorrei evitare che qualcuno di voi muoia nel breve termine. Mi lasceresti nei casini.”
L’inventore lo disse con lo stesso tono che si usa per constatare una cosa ovvia. Il caldo sguardo nocciola aveva perduto ogni sfumatura ironica e sembrava più profondo e magnetico del solito. Steve faticò a sostenerlo quello sguardo, perché metteva a nudo parte della vulnerabilità che Tony celava dietro la corazza di sarcasmo e sicurezza.
 
“La testiamo?” fu la legittima domanda di Stark e l’impasse si sciolse, spingendoli a ricacciare indietro le pressanti emozioni. “Sarà rapido e indolore” aggiunse alla fine, per risultare più convincente.
 
“Sono certo che non sarà né rapido né indolore, ma credo di dovertelo” concesse il super soldato.
 
“Credi bene.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Si era fatto parecchio tardi e Tony non l’aveva ancora raggiunta in camera. Conoscendolo, Pepper ritenne opportuno andare a controllare che stesse bene e che non stesse esagerando come suo solito.
 
“JARVIS, puoi dirmi dov’è Tony?”
 
“Il signor Stark si trova nella Sala Comune, Miss Potts.”
 
Si strinse nella vestaglia color lavanda e si mosse per raggiungere la destinazione che le era stata indicata. Era abbastanza preparata a ciò che avrebbe potuto trovare, ma stavolta ne rimase alquanto sorpresa.
La Sala Comune era costellata di schermi olografici sospesi a mezz’aria e la penombra si era tinta di un tenue azzurro. C’erano file video, immagini, dati di difficile interpretazione, un elenco di luoghi contrassegnati con una croce e anche una lista di nomi.
Tony stava dormendo sul divano, disteso su un fianco, il viso rivolto verso lo schienale. Su una delle poltrone lì di fianco c’era invece Steve, il cui viso era illuminato dal lieve bagliore degli ologrammi e l’azzurro delle iridi brillava di riflesso. Era seduto sul bracciolo della poltrona, forse uno stratagemma per evitare di fare la stessa fine del compagno. Erano entrambi in tuta e, considerando i capelli umidi, un asciugamano abbandonato sul pavimento e il profumo di bagnoschiuma, avevano fatto una doccia da non troppo tempo.
Pepper sapeva che avevano passato giorni intensi e che Rogers sarebbe dovuto tornare a Washington l’indomani. Tony stava mettendo anima e corpo per riuscire a sciogliere tutti i nodi che erano venuti al pettine mesi prima, quando si erano trovati invischiati in una battaglia contro Teschio Rosso e il suo esercito di mostri. Sapeva anche di Adam Lewis e del pericolo che costituiva per tutti loro.
Tony aveva faticato ad accettare la decisione che Steve aveva preso e che lo aveva portato a lasciare la Tower. Aveva dovuto farsi andare bene le condizioni senza poter fare nulla a riguardo. Con il tempo, Pepper era giunta ad una conclusione a cui forse nemmeno i diretti interessati erano ancora arrivati. Quando la situazione diventava difficile, Tony aveva bisogno di Steve, così come Steve aveva bisogno di Tony. Le personalità agli antipodi di quei due si completavano vicendevolmente, creando un equilibrio solido e che trasmetteva sicurezza a chi stava loro vicino. Faticava ad immaginare le conseguenze di un loro conflitto. Con la rivelazione del segreto dietro la morte di Howard e Maria, Pepper aveva davvero temuto di vederli cadere in pezzi.
Tony aveva già avuto esperienze devastanti con tradimenti da parte di persone a lui vicine e nelle quali aveva riposto fiducia. Le conseguenze del tradimento di Obadiah Stane le portava ancora addosso e non se ne sarebbe mai liberato.
Steve, nonostante l’inizio difficile e traballante, si era trasformato in qualcuno su cui Tony si sarebbe appoggiato in caso di bisogno. Sapere che gli aveva mentito e su cosa gli aveva mentito era stato un duro colpo. Dinanzi ad un Tony Stark ferito, Pepper era stata costretta a prendere posizione. Forse Tony avrebbe anche potuto avere le sue buone ragioni per tagliare i ponti con Steve, ma se ne sarebbe pentito. Il rancore, la rabbia e la frustrazione sarebbero spariti per lasciare posto al rimorso di non aver affrontato la questione diversamente. Così Pepper aveva provato ad indirizzarlo verso la strada che aveva ritenuto migliore per lui.
 
“Cerca di metterti nei suoi panni, Tony. Ha cercato di proteggere Barnes. Tu avresti fatto lo stesso per Rhodes” gli aveva detto ad un certo punto, sperando di scuoterlo.
 
Con il senno di poi, era certa di aver fatto la cosa giusta, considerando quanto il legame fra i due si fosse fortificato negli ultimi mesi. Quei due a volte iniziavano a scambiarsi messaggi quasi come una coppietta bella che fatta. E poi a Tony piaceva passare il tempo con Steve e il sentimento era reciproco, nonostante fossero lontani – molto lontani – dall’ammetterlo.
Peccato che al momento il poco tempo che stavano trascorrendo insieme era speso per tenere a bada le conseguenze delle azioni di Adam Lewis, trasformatosi in un fantasma inavvicinabile.
Pepper continuò ad avanzare con calma, entrando nel campo visivo di Rogers in maniera graduale e lui spostò lo sguardo su di lei. Le sorrise con gentilezza, macchiata da una inconsapevole timidezza che quasi gli stonava addosso.
Non aveva mai avuto occasione di rimanere a tu per tu con lui, anche se erano stati sotto il tetto della Tower per diverso tempo. Aveva imparato a conoscerlo attraverso Tony.
 
“Gli avevo consigliato di andare a letto.”
Il tono basso e caldo di Steve si sostituì al silenzio e Pepper sorrise a quelle parole.
 
“Non gli piace che gli si dica cosa fare” rispose lei, in un sussurro, dopo essersi avvicinata abbastanza affinché il super soldato potesse sentirla senza sforzo.
 
“Ne so qualcosa.”
 
Scambiarono uno di quegli sguardi che dicono tutto senza bisogno di essere accompagnati da parola alcuna. Poi, Steve abbassò il capo e passò una mano fra i capelli ancora leggermente umidi. Sembrava teso.
 
“Deduco che non avete ottenuto i risultati sperati” convenne lei.
 
“Si sta rivelando più complicato del previsto.”
Il biondo sembrava sinceramente desolato e, per un momento, Pepper credette che si sarebbe scusato con lei.
“Per oggi abbiamo finito. Prima che vada, posso fare qualcosa per aiutare?” si offrì invece, indicando Tony.
 
Scosse il capo, Virginia, e poi puntò gli occhi chiari in quelli di Steve, mentre si avvicinava di un altro paio di passi. Non riuscì a fermarsi, non poté evitare che le successive parole lasciassero la sua bocca.
“Solo” esitò per un frangente “non tradire ancora la sua fiducia.”
 
Virginia Potts amava Tony Stark più di quanto avrebbe mai potuto esprimere. Aveva scelto e sceglieva ogni giorno di rimanere al suo fianco. L’istinto di sostenerlo e proteggerlo aveva messo radici e chiunque gli avesse fatto del male avrebbe dovuto vedersela con lei. Chiunque.
Osservò Rogers abbassare lo sguardo e risollevarlo su di lei dopo diversi attimi di silenzio.
 
“Non lo farò” le promise.
 
Pepper mosse il capo in un chiaro segno conciliante.
“Quando partirete di nuovo?” volle sapere e si strinse con maggiore decisione nella vestaglia.
 
“Non lo sappiamo con certezza. Stiamo seguendo una pista poco definita” spiegò il super soldato con un certo rammarico.
 
Di nuovo, Virginia lasciò che le emozioni prendessero il sopravvento e la voce ne fu implacabile espressione. L’indomani se ne sarebbe di certo pentita.
 
“Fa’ in modo che ritorni a casa. Per favore.”
 
A chi altri avrebbe potuto avanzare una richiesta del genere se non alla persona che affiancava Tony in ogni scontro?
Era estremamente arduo guardare l’uomo che amava uscire dalla porta senza avere la certezza di vederlo tornare e con il tempo non diventava più facile, anzi, era sempre più difficile e doloroso. Aveva abbandonato l’idea di appellarsi a entità intangibili. Steve era lì, era umanamente tangibile ed era una delle poche garanzie di vedere Tony tornare.
Era egoistico da parte sua, fortemente egoistico, Pepper lo sapeva bene. Eppure non era riuscita a rinunciare alla possibilità di potersi aggrappare alla rassicurazione, seppur labile, che tutto sarebbe andato bene, che Tony sarebbe tornato da lei ogni volta.
 
Steve le diede quella rassicurazione senza esitare.
 
“Hai la mia parola.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
‘Qui tutto okay. Tu sei di ritorno?’
 
Il messaggio era arrivato qualche minuto prima della partenza.
Steve rispose con un semplice ‘Sono in strada. Non aspettarmi alzata’. Spostò poi lo sguardo dal cellulare al finestrino e osservò le luci della città di New York ormai lontane. Era stanco di essere in continuo movimento e lo era da troppo tempo. Sapeva però che fermarsi non era fra le opzioni che aveva a disposizione al momento. Il telefono vibrò e rispose senza nemmeno controllare chi fosse.
 
“Non è educato andare via senza salutare.”
 
“Torna a dormire, Tony.”
 
“E tu avresti potuto rimanere alla Tower e domani mattina ti avrei dato un passaggio io. È tardi e sono più di quattro ore di viaggio.”
 
“Ti ringrazio ma c’era già un’auto che mi aspettava.”
 
“Gentile da parte di Ross. Già che c’è potrebbe...”
 
“Stark, per favore.”
 
“Va bene, va bene. Non esprimerò il mio pensiero a riguardo.”
 
“Sei davvero premuroso.”
 
“Sento puzza di sarcasmo.”
 
Steve si lasciò scappare uno sbuffo divertito, ma tornò subito serio.
“Grazie Tony.”
 
“Mi stai ringraziando per cosa esattamente?”
 
“Torna a dormire.”
 
“Evasivo come sempre. Manda un messaggio quando arrivi.”
 
“Buonanotte, Tony.”
 
Una volta chiusa la chiamata, il cellulare vibrò di nuovo. Un messaggio.
 
‘Non starò alzata, stai tranquillo. Ti aspetto distesa sul tuo letto.’
 
Steve scosse il capo e sorrise. Avere qualcuno da cui tornare. Alla fine dei conti, un punto fermo ce lo aveva.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Località sconosciuta
 
 
“Signor Lewis, abbiamo un problema.”
 
Odiava essere disturbato mentre lavorava.
Poteva vedere il riflesso di uno dei suoi anonimi sottoposti nel vetro dalle sfumature ambrate, dietro il quale erano custodite le nuove armi su cui era riuscito a mettere le mani.
 
“Qual è il problema?”
 
“La Mayers ci è sfuggita di nuovo. Sembra scomparsa dai radar.”
 
Lewis storse il naso ed emise un verso di frustrazione.
 
“Contatta Benson.”
 
“Sarà fatto. C’è un’altra cosa, signore. Stark sta danneggiando le nostre basi d’appoggio e sembra avvicinarsi.”
 
“Non c’è pericolo.”
 
“Ne è sicuro, signore?”
 
Lewis stavolta sorrise.
“Lo sono.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
30 giugno 2015
Casa Sicura, 16:24

 
 
C’era una fresca brezza quel pomeriggio e godersela sulla veranda era stata un’ottima idea. Era appoggiata al parapetto, lo sguardo vagante lungo la verde distesa di alberi che si estendeva dinanzi a lei. Le uniche cose che stonavano lì nel mezzo erano le armature che Stark aveva programmato per proteggere lei e Clint da qualsiasi attacco nemico.
Lasciare la Tower era stata una decisione sofferta. Aveva avuto la sensazione di abbandonare i suoi compagni in una situazione complicata. Tuttavia, erano stati proprio quei compagni a spingere lei e Clint ad allontanarsi dai punti nevralgici. Tony si era assicurato che nessuno potesse arrivare a loro, non senza attraversare la barriera costituita dalle armature. Al minimo accenno di allarme, era certa si sarebbero precipitati tutti lì.
 
Quel pensiero le stringeva il cuore.
 
Ormai era più di un mese che vivevano stabilmente in quella bolla protetta. All’inizio avevano dovuto sistemare un bel po’ di cose, ma adesso si sentiva a casa. Non aveva mai pensato concretamente all’idea di abbandonare tutto e cambiare vita, smettere di combattere, smettere di essere la Vedova Nera. Ora stava assaggiando quell’opzione e aveva un sapore diverso, che non riusciva a ricondurre a niente che avesse mai provato prima. Però era piacevole se non si considerava lo stato d’allarme.
Abbassò lo sguardo e spostò l’attenzione sul tessuto candido della camicia, il quale seguiva il profilo curvo del pancione ormai impossibile da nascondere. Posò i palmi delle mani vicino l’ombelico, lì dove aveva l’impressione di essere più vicina alla vita che cresceva dentro di lei. La sentiva muoversi ed agitarsi di tanto in tanto, come impaziente di venire al mondo.
Natasha era invece meno impaziente, perché conosceva quel mondo, ne conosceva le ombre più oscure e spaventose. Non aveva idea di come avrebbe potuto proteggerlo da tutto quanto e, più il momento si avvicinava, più la sicurezza la abbandonava.
 
Dita più grandi e ruvide si intrecciarono alle sue e resero più saldo il contatto con il ventre. Un respiro caldo le solleticò il collo e il mento di Clint trovò appoggio sulla sua spalla destra.
 
“Dici che potrei far sistemare il prato ad una delle armature?”
 
“Tony potrebbe prendersela.”
 
“Non se a chiedere fossi tu” le suggerì lui.
 
Natasha arricciò le labbra piene in un sorriso e si abbandonò contro il petto del compagno, con la cieca certezza che lui l’avrebbe sostenuta. Quando la sicurezza la abbandonava, Clint era lì e gliene donava di nuova.
Mai, anni prima, avrebbe creduto che fosse possibile riporre completa fiducia in una persona. Ora poteva affidarsi a più di una persona e non era nemmeno certa di meritare quel privilegio.
Di tanto in tanto sentiva gli altri e, la maggior parte delle volte, si trattava di brevi conversazioni per assicurarsi vicendevolmente che fosse tutto okay. Stavano combattendo anche per lei.
 
“Va tutto bene?”
 
La calda voce di Clint la distolse dai pensieri.
 
“Sì, non preoccuparti. È solo che sia Tony sia Steve sono in silenzio stampa ultimamente e non è mai una cosa positiva.”
 
“Scommetto che risolveranno la situazione prima che arrivi il momento. Sono fastidiosamente testardi” cercò di rassicurarla il compagno.
 
“Questo lo so. Ti ricordo che li ho frequentati separatamente e mi hanno infilato entrambi in situazioni assurde a causa della loro testardaggine.”
E situazioni assurde era un eufemismo.
 
“Ora che mi ci fai pensare” Clint fece una pausa ad effetto “credo che non ti lascerò più da sola con nessuno dei due.”
 
Natasha rise.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
30 giugno 2015
Washington DC, 22:54

 
 
“Ti serve una mano?”
 
Il sussulto delle spalle fu seguito da un gemito sommesso e quella reazione le fece sollevare un angolo della bocca in modo affettuoso.
 
“Quante volte ti ho detto di non farlo?” fu la lecita e prevedibile protesta, con tanto di premura a sottolineare il non che, a quanto pareva, non era ancora stato recepito come tale.
 
“Dici entrare di soppiatto dalla finestra? Non saprei.”
 
Tante. Le aveva chiesto di non farlo tantissime volte da quando era arrivata a Washington. Però il sorriso leggero che gli ammorbidiva i tratti del viso sembrava più un invito a non smettere e così lei non aveva smesso.
Anthea scese dal davanzale della finestra su cui era seduta, lasciandosi alle spalle le ombre della notte. Venne accolta dal fievole bagliore di un abatjour e dall’espressione conciliante di Steve.
 
“Allora” fu lui a rompere il silenzio “quella mano?”
 
La giovane sorrise apertamente e lo raggiunse. Si posizionò dietro di lui e allentò le cinghie in cuoio che gli circondavano le spalle tese e percorrevano la schiena incrociandosi fra le scapole. Steve le aveva strette più del solito. Di nuovo. Erano ben visibili i solchi che marcavano il cuoio.
“Cosa hai combinato?” gli chiese, mentre lo invitava a girarsi per poterlo guardare direttamente in viso.
Con delicatezza gli fece scivolare le cinghie lungo le braccia, senza però distogliere lo sguardo dal suo.
 
“Una caduta dalle scale.”
Il biondo scosse il capo, come a voler dare poco peso a ciò che aveva detto.
 
“Puoi ripetere? Credo di aver capito male.”
Anthea lo aiutò a liberarsi della parte superiore dell’uniforme. Lo fece con calma, prendendosi tutto il tempo per evitare che Steve sforzasse la spalla sinistra.
 
“Hai capito bene invece.”
 
“Questa voglio sentirla.”
La giovane gli sfilò l’aderente – non più così aderente – maglia grigia dalla parte inferiore dell’uniforme e sfruttò l’occasione per infilare – in modo apparentemente casuale – le dita fra il bordo dei pantaloni e la pelle calda del compagno.
Tre dita. Una in più dell’ultima volta.
 
“Non è così interessante” provò a dissuaderla Steve.
 
“Avanti” insistette lei.
 
Il super soldato le confessò che la caduta dalle scale c’era stata davvero, ma solo dopo un placcaggio con i fiocchi da parte di un potenziato che l’aveva preso alle spalle. La complicazione era nata sfondando la ringhiera metallica e percorrendo tre piani in una caduta libera spezzata qua e là da urti contro la stessa ringhiera metallica, finché il pavimento non li aveva accolti con tutta la sua cementata durezza. Non era stata un’esperienza piacevole e, a parte i lividi già in fase di guarigione, la spalla lussata – uscita parecchio fuori asse – era stata la conseguenza più fastidiosa e invalidante.
 
“Avresti dovuto farti controllare al rientro” lo riprese Anthea, mentre soffocava con forza il tumulto di preoccupazione che stava costringendo il suo stomaco a fare i salti mortali. Non c’era modo di schivare quelle emozioni e di abituarsi non se ne parlava nemmeno.
 
“Sto bene. Ho solo bisogno di riposare” cercò di convincerla Steve.
 
Anthea gli dedicò un sorriso morbido e lo spinse indietro con una mano premuta sull’addome, finché lui non si ritrovò seduto sul bordo del letto. Il biondo la lasciò fare e non si mosse quando lei prese a percorrergli la clavicola sinistra con la punta delle dita.
 
“È ancora fuori asse” affermò la ragazza.
 
“Sicura? L’avevo fatta rientrare...” nei due secondi successivi prima che il potenziato gli saltasse di nuovo addosso come una feroce bestia affamata, episodio che per il momento avrebbe tenuto per sé.
 
“Non è a posto. Fidati.”
Glielo disse guardandolo dritto in faccia e mostrandogli l’espressione di chi la sa lunga. Con il palmo destro risalì lungo il suo bicipite e con la mano libera gli afferrò il polso sinistro.
“Ti fa male?” gli chiese, mentre seguitava ad applicare una certa pressione lungo il braccio, arrivando fin sopra il trapezio. La muscolatura era ancora tonica e forte, ma meno piena. Decisamente meno piena.
 
“È solo indolenzita. Cosa fai?”
Steve si stava inconsciamente rilassando contro il tocco deciso della compagna.
 
“Faccio distendere i muscoli. Hai già cenato?”
 
“Non ancora.”
 
“Giusto per curiosità. L’ultima volta che hai fatto un pasto vero?”
Nonostante adesso fossero nella stessa città, il tempo che passavano insieme si riduceva a quello speso per portare a termine le missioni collegate a Lewis e ai rari momenti – il più delle volte notturni – in cui erano entrambi in pausa. Quindi, Anthea non aveva molto chiara la routine che Steve seguiva per la maggior parte del tempo, se di routine si poteva parlare.
L’oneiriana percorse ancora il bicipite dal basso verso l’alto e fissò il palmo contro l’articolazione, incastrando il pollice nella rientranza appena sotto la clavicola.
 
“È difficile dirlo con i continui cambiamenti di fuso orario, però credo…”
 
Il rumoroso crack che tolse a Steve la forza di parlare insieme a quella di respirare arrivò senza alcun segnale di preavviso. Il biondo serrò le palpebre e strinse i denti, soffrendo in dignitoso silenzio. Percepì a malapena la mano della compagna carezzargli i capelli.
 
“Scusami” sussurrò Anthea “contavo sull’effetto sorpresa. Vado a prendere del ghiaccio.”
 
La mano destra del super soldato si chiuse attorno al braccio dell’oneiriana. Quel gesto la colse del tutto alla sprovvista. “Resta qui. Sto bene” le assicurò.
Anthea spostò la mano dai suoi capelli biondi al collo, percependo sui polpastrelli una patina di sudore freddo. Lo ascoltò prendere profondi respiri ed ebbe l’impressione che ci fosse un tremito quasi impercettibile in ognuna delle espirazioni. Okay, si sentiva ufficialmente in colpa.
L’improvvisa vibrazione di un cellulare mandò in frantumi quel momento di stasi. Steve voltò il capo verso il comodino posto di fianco il letto e Anthea si irrigidì.
 
“Ci penso io.”
La giovane recuperò il telefono e diede un’occhiata al nome che figurava sullo schermo illuminato. Morsicò l’interno della guancia e per un attimo – un attimo pericolosamente lungo – sentì l’impulso di serrare le dita e frantumare quell’ammasso di circuiti.
 
“Anthea” la chiamò Steve, preoccupato dal silenzio prolungato, e allora lei dovette muoversi. Gli consegnò il cellulare ancora vibrante e lo osservò corrugare la fronte.
 
La conversazione durò un paio di minuti. Steve passò da seduto a in piedi dopo i primi trenta secondi. Percorse la lunghezza della stanza almeno tre volte nei successivi trenta e rimase immobile con una mano fra i capelli per il rimanente tempo. Non parlò molto. Si limitò per lo più ad ascoltare, finché le parole “Mi farò trovare pronto” non misero fine alla conversazione.
 
“Che cosa vuole ancora da te?”
Anthea lo aveva raggiunto e gli aveva afferrato il polso sinistro per attirare la sua attenzione.
 
“Si tratta di un’emergenza. Devo andare” le spiegò Steve, senza scendere nei dettagli.
 
L’oneiriana gli strinse il polso con più convinzione, poco intenzionata a lasciarlo andare.
“Hai provato a spiegare a Ross che non sei una macchina?”
 
“Non credo cambierebbe qualcosa” rispose lui con voce alquanto tesa. Le lasciò una leggera carezza sulla testa e sembrò quasi un gesto di scuse.
 
Anthea però non mollò la presa. Fino ad allora era stata al gioco. Aveva rispettato le regole e non aveva pensato nemmeno per un istante di agire seguendo i sentimenti perché, se avesse seguito i sentimenti, avrebbe quasi sicuramente scatenato il caos e lei con il caos ci andava a braccetto. Più volte era arrivata spaventosamente vicina a superare il limite di sopportazione. O meglio, lo aveva superato da un pezzo, ma Steve aveva l’innata capacità di spostare in avanti quel limite, anche nelle situazioni più critiche. Se lei era una bomba pronta ad esplodere, lui era il meccanismo di disinnesco. Tuttavia, quel meccanismo cominciava a funzionare meno e Anthea sentiva il bisogno di agire secondo ciò che riteneva fosse giusto. Scendere a compromessi non era sempre sbagliato, lo aveva capito, ma farlo non doveva compromettere chi si era e quello in cui si credeva.
 
“Finora ho pensato che ne valesse la pena ma così non otterremo nulla. Ross è stato scaltro e ha saputo giocare bene le sue carte però ne abbiamo di buone anche noi e dobbiamo solo deciderci a usarle.”
 
“Adesso non è il momento” Steve sospirò con fare nervoso “Anthea. Per favore” la pregò, privo delle forze necessarie per fronteggiarla.
 
“Invece è il momento. Non puoi andare avanti così” lo corresse lei, mentre l’agitazione prendeva possesso dello stomaco. Odiava scontrarsi così con lui, ma non riusciva a vedere una valida alternativa al momento.
 
“Vuoi che mi opponga a Ross e che metta in pericolo tutti voi? Non lo farò.”
Rogers le dedicò un’occhiata penetrante – una di quelle in grado di farla rabbrividire – e tentò di scivolare via dalla sua presa, tuttavia Anthea non glielo permise.
 
“Capisco le tue ragioni. Davvero. Ma intanto Ross ti sta usando come se fossi un oggetto e questo deve finire.”
Riusciva ancora a mantenere il tono basso, nonostante la frustrazione le stesse facendo ribollire il sangue.
 
“Credi che non me ne sia accorto?”
Steve tentò nuovamente di liberare il polso e, come conseguenza, la stretta si fece più insistente, quasi dolorosa.
 
“Allora dovresti anche esserti reso conto che così siamo vulnerabili e che Lewis si sta prendendo gioco di noi. Stiamo sbagliando” Anthea lo strattonò poco gentilmente nel momento in cui lui distolse lo sguardo. “Guardami dannazione. Sto cercando di...”
 
“Lasciami andare” la fermò lui e quello suonò come un ordine, non più come una richiesta.
 
Di risposta, Anthea rafforzò la presa sul suo polso, stavolta quasi sfidandolo. Stava faticando a mantenere le emozioni sotto controllo e non sapeva fin dove si sarebbe spinta arrivata a quel punto. Era arrabbiata e spaventata al tempo stesso. Era arrabbiata con Ross e il suo subdolo abuso di potere. E aveva paura per Steve, perché le condizioni a cui era sottoposto lo stavano consumando.
 
“Devi lasciarmi andare” ripeté lui con fermezza.
 
Ora la stava guardando e non era affatto piacevole avere quegli occhi di ghiaccio addosso. Le loro volontà stavano cozzando e stridendo in maniera eclatante. E lei non sapeva più cosa fare per fermarlo.
 
“Ross ha ottenuto quello che voleva. Un soldato perfetto.”
 
Non appena l’ultima parola scivolò sulla lingua e abbandonò le labbra, Anthea seppe di aver toccato – pugnalato – un nervo scoperto, perché riuscì a mandare in frantumi la maschera di risolutezza del compagno. La brusca contrazione della mascella fu seguita dal violento serrarsi dei denti e dal secco spezzarsi del respiro.
Il maledetto cellulare prese a vibrare di nuovo, infrangendo il momento di soffocante tensione.
Anthea mollò la presa sul polso che aveva stretto fra le dita fino al allora. Lo lasciò andare. Steve rispose alla chiamata e lei lo guardò scambiare qualche rapida parola con quello era certa fosse Ross. Fece scivolare gli occhi dal collo rigido alle spalle tese. Non era così che sarebbe dovuta andare.
Chiusa la chiamata, il super soldato afferrò lo scudo addossato al muro e lo agganciò sulla schiena.
 
“Steve, aspetta” lo richiamò, scossa da un’ondata di agitazione “Voglio solo che tutto questo finisca perché sta consumando tutti noi” gli disse, sforzandosi di mantenere ferma la voce.
 
Il biondo si lasciò scappare una sottile risata dalle sfumature tese e passò una mano fra i capelli stirandoli indietro. La frustrazione era trapelata dal velo placido delle iridi azzurre. Di fronte quella reazione, Anthea percepì ogni muscolo tendersi con uno spasimo. Lo osservò pinzare le tempie con la mano destra, poi lasciar cadere le braccia lungo i fianchi e infine sollevare gli occhi verso il soffitto.
“Lo so. Lo so bene” ammise con un filo di voce, tornando finalmente a guardarla, e l’espressione passò da seria ad esausta nel giro di una frazione di secondo.
 
Anche se credeva fermamente che andasse cambiata rotta, Anthea non poteva – e non voleva – imporsi sfruttando le incrinature della persona che amava, o non sarebbe stata diversa da Ross. Però stavolta non sarebbe rimasta ferma a guardare, non avrebbe più permesso agli eventi di travolgerla. E poi, da giorni, aveva un’orribile sensazione appiccicata addosso. Se non avesse fatto qualcosa ora, aveva la certezza che se ne sarebbe pentita.
“Facciamolo. Sono pronta ormai” asserì quindi con fermezza, prendendo il compagno totalmente in contropiede.
Sapevano entrambi che sarebbe stata solo questione di tempo dal momento in cui, quella notte dopo gli eventi di Chicago, avevano iniziato a parlarne e poi avevano continuato a parlarne, finché le cose non avevano assunto vera e propria concretezza.
“Ross e il Governo saranno concentrati sull’emergenza e avrò campo libero. Aggiorneremo gli altri una volta rientrati. Funzionerà.”
 
Il biondo schiuse appena le labbra per dire qualcosa, ma alla fine rimase in silenzio. Nessuno dei due si sarebbe fermato. Erano terribilmente simili in questo.
 
“Tregua?” gli chiese allora lei, mentre faceva qualche passo per accorciare la distanza che li separava.
 
“Tregua” accordò lui. La freddezza si era sciolta e la frustrazione sparita. Però c’era l’incertezza. Spaventosa e logorante incertezza.
“Se qualcosa dovesse andare storto, come farò a… ”
 
Anthea gli afferrò il polso sinistro, stavolta con delicatezza. Un sorriso di scuse le incurvò le labbra. Lo tirò a sé, la mano libera si infilò fra i capelli biondi, le dita calcarono sulla nuca e le loro fronti si toccarono.
“Qualsiasi cosa accada, qualsiasi cosa ti diranno, non smettere di credere in me. La realtà potrebbe incasinarsi da ora in avanti” gli disse, tingendo di rassicurante convinzione ogni singola parola pronunciata e lo spinse indietro con gentilezza, rompendo il contatto.
 
“Sta’ attenta.”
 
Dietro quella raccomandazione c’erano sottintesi che lei comprese perfettamente, senza alcuno sforzo.
 
“Anche tu.”
 
Erano rimasti in attesa del momento giusto. Tuttavia, nessun momento sarebbe mai stato veramente giusto. Si trattava di fare il primo passo in una direzione diversa, rischiosa, e probabilmente era l’unica alternativa rimasta. Il timore di crollare sotto la pressione incalzate li aveva portati a scontrarsi, ma la lucidità era tornata prima che fosse tardi, prima che finissero per trascinarsi a fondo a vicenda.
 
“Anthea” la richiamò Steve un’ultima volta prima di lasciare la stanza. “Non sono un soldato perfetto. Non è quello che voglio essere.”
 
“Lo so. Non lo pensavo davvero” volle assicurargli e, se avesse potuto, le avrebbe ingoiate quelle maledette parole che il tumulto di rabbia e frustrazione aveva spinto fuori dalla bocca, prima ancora che lei fosse in grado di prenderne coscienza.
 
Lo guardò uscire dalla stanza. Il piano di passare del tempo con lui in un frangente di apparente calma era fallito miseramente. E miseramente era fallito anche il tentativo di evitare che Steve finisse sul campo di battaglia quella notte.
Adesso era sola con sé stessa e con i suoi scomodi sentimenti. Credeva di aver fatto pace con il passato, invece il passato continuava a perseguitarla e Anthea sapeva che mai avrebbe potuto liberarsene davvero. L’avrebbe accompagnata fino alla fine dei suoi giorni. Però non avrebbe permesso al passato di portarle via il presente e il futuro.
Si avvicinò alla finestra, pronta ad andare, nonostante il cuore avesse preso a martellarle nel petto con un po’ troppo entusiasmo. Doveva rimanere calma e concentrata, altrimenti non sarebbe stata in grado di gestire ciò che l’aspettava una volta uscita dalla stanza. Troppo impegnata a mettere ordine nell’interiorità a soqquadro, avvertì il rumore dei passi solo quando questi giunsero alle sue spalle. Si girò bruscamente e, prima che potesse registrarlo, si ritrovò intrappolata in una stretta che le tolse il fiato e soffocò le emozioni più impetuose e graffianti.
 
Il meccanismo di disinnesco funzionava ancora dopotutto.
 
Anthea circondò il collo di Steve con le braccia, sollevandosi sulle punte dei piedi, e lo strinse a sé senza fare domande. Le si formò un nodo in gola nel percepire le dita del compagno stropicciarle il fine tessuto della maglia e premere con forza sulla schiena.
 
“Ci sono ancora tante cose che voglio fare perciò non ho nessuna intenzione di mandare tutto in fumo” gli assicurò e, dannazione, le tremava la voce. “Adesso vai o non riuscirò a lasciarti andare una seconda volta.”
 
“Tornerò il prima possibile” le promise Steve e si tirò indietro per poterla guardare in viso. Le iridi cerulee erano così limpide da aver assunto le sembianze di incustoditi varchi attraverso l’anima.
 
“Scommetto che ti batterò sul tempo” lo sfidò la giovane e riuscì a rubargli un accenno di sorriso, uno di quelli sinceri.
 
“Non ci giurerei se fossi in te.”
 
Stavolta fu lei a sorridere.
Era calma adesso. Il battito cardiaco era tornato regolare, un susseguirsi costante di contrazioni e dilatazioni che non le causavano più affanno. Ed era bastato così poco. Un contatto sentito, caldo e confortante.
 
Era tornato indietro. Anche se per poco. Steve si era fermato ed era tornato indietro. Per lei.
 
 
 
 
 
 
 
You know you need a fix when you fall down
You know you need to find a way
To get you through another day
Let me be the one to numb you out
Let me be the one to hold you
Never gonna let you get away
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Note
 
Un grazie e un augurio speciale a te, Ragdoll_Cat ❤️
È trascorso già un interno ennesimo anno ed è anche merito tuo se questo piccolo progetto prosegue, nonostante le ripetute interruzioni e le pagine rimaste bianche a lungo. Spero di riuscire a strappare ancora emozioni.
 
Un intenso e sincero abbraccio ❤️
 
 
Ella

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Capitolo 29
*** Monsters ***


Monsters
 
 
 
1° luglio 2015
Washington DC, 00:01

 
 
 
 
Don’t get angry, don’t discourage
Take a shot of liquid courage
‘Cause my monsters are real, and they’re trained how to kill
And there’s no coming back and they just laugh at how I feel
And these monsters can fly, and they’ll never say die
And there’s no going back, if I get trapped, I’ll never heal
Yeah, my monsters are real
 
 
 
 
Il familiare odore che preannunciava l’arrivo della pioggia impregnava l’aria. Il cielo era scuro, coperto da una fitta cortina di nubi grigie e gonfie. C’era vento e il lontano rimbombare dei tuoni si confondeva con il rombo dei motori degli aerei che lasciavano l’aeroporto di Washington.
Era di nuovo lì, costretto a risolvere un altro casino per conto del Segretario di Stato. Sperava di adempiere a quel dovere nel minor tempo possibile, perché lei era sola in un territorio inesplorato e disseminato di mine. Un passo falso e le conseguenze avrebbero potuto essere disastrose.
 
“Facciamolo. Sono pronta ormai.”
 
“Voglio esserci.”
Quelle due semplici parole gli erano rimaste intrappolate in gola. L’aveva lasciata andare, così come lei aveva lasciato andare lui. Scostò appena la manica dell’uniforme – si rese conto di aver dimenticato i guanti – e osservò distrattamente il livore sempre più evidente che circondava il polso sinistro. Riusciva a riconoscere il profilo delle dita che avevano lasciato il segno. Percepiva ancora la ferrea stretta sulla pelle e, assieme ad essa, la muta preghiera di fermarsi.
Quando Anthea lo aveva affrontato, si era messo sulla difensiva per timore di vedere crollare tutte le facciate che teneva in piedi a stento e di cui aveva bisogno. Ripensò a Peggy e al momento in cui l’aveva spinto ad abbandonare il ruolo di scimmia danzante, convinta che lui potesse essere molto più di quello. Non sarebbe stata fiera di lui se lo avesse visto adesso.
 
“Ross ha ottenuto quello che voleva. Un soldato perfetto.”
 
Dita fasciate da freddo tessuto in pelle si posarono sul retro del collo e lo avvolsero. La durezza del metallo fu percepibile al di sotto del materiale sintetico.
“Dovresti stare in guardia. Da quando permetti ai nemici di prenderti alle spalle così facilmente?”
La voce di Bucky e il respiro che la accompagnò gli solleticarono l’orecchio destro.
 
“Tu non sei un nemico” lo corresse Steve e il tocco sul retro del collo si ammorbidì fino a sparire.
 
Bucky era in assetto da battaglia e dava l’impressione di essere appena uscito da una centrifuga, una di quelle fatte alla massima velocità raggiungibile.
 
“Non dovresti essere con Tony?” indagò Steve. Ammetteva di essersi perso alcuni passaggi della tabella di marcia rivisitata una settimana prima, o forse due settimane prima. I jet lag, il fuso orario e le veglie con una durata superiore alle ventiquattro ore non aiutavano a mantenere una cognizione del tempo che rasentasse la decenza.
 
“Cambio di programma. C’è la Hill a dare una mano al mio posto e tu sei a corto di personale” James passò una mano fra i capelli scuri e prese un profondo respiro “Non credevo avrei più accusato la stanchezza come una persona normale.”
 
Quella confessione provocò a Steve una stretta allo stomaco.
“Mi dispiace averti coinvolto in tutto questo invece di aiutarti a…”
 
“È una mia scelta e tutto questo in qualche modo mi aiuta. Non sono ancora pronto per il congedo.”
Nonostante la vena ironica, nelle iridi di Bucky era nato un riflesso più limpido, una finestra sulla parte più vulnerabile di un’anima devastata ma che preservava la forza di lottare.
“Se le cose dovessero andare male potrei insegnarti a vivere come un fantasma. Sono bravo a nascondermi da chi vuole controllarmi.”
 
“O da chi vuole aiutarti” precisò il biondo senza particolari inclinazioni nella voce e fece cozzare leggermente le loro spalle.
 
“Non me l’hai ancora perdonata?”
 
“Non c’è mai stato niente da perdonare.”
 
Bucky sospirò e lo sguardo ammorbidito si incastrò con estrema naturalezza in quello di Steve.
“Sarei dovuto morire in quella caduta e l’ho desiderato a lungo” ammise “Poi l’Hydra ha commesso l’errore di piazzarti sul mio cammino” un mezzo sorriso impastato di tenue ironia “Quante possibilità c’erano?”
 
Steve scosse il capo.
“C’erano davvero delle possibilità?”
 
La domanda rimase sospesa nel silenzio e sembrò creare un’eco che si estinse lentamente. Poi, l’arrivo di alcune auto distrusse il momento di intima vulnerabilità, costringendoli a recuperare concentrazione e freddezza.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Washington DC, 00:03
 
 
Benson arrivò nell’ormai abituale suite d’albergo. Si chiuse la porta alle spalle e abbassò le luci, in modo da creare un’atmosfera più intima e rilassante. Allentò la cravatta e si incamminò in direzione della stanza da letto. Aveva bevuto qualche bicchiere di bourbon al bar del piano terra ed era decisamente alticcio. Poco importava, dato che l’ultima cosa che avrebbe dovuto usare fra pochi istanti era il cervello. Sfilò la giacca scura e la abbandonò sul pavimento, per poi arrotolare le maniche della camicia bianca fin sopra i gomiti.
Nonostante l’annebbiamento, si accorse subito che la siluette seduta sul bordo del letto era sbagliata, era sbagliata senza alcuna ombra di dubbio. Tuttavia, gli ci volle qualche secondo di troppo per realizzare chi avesse di fronte. Alla realizzazione seguì la nausea, causata un po’ dall’alcool e un po’ dalla paura che gli rattrappì lo stomaco.
 
“Tu” sputò fuori di getto.
 
“Anch’io sono felice di vederti.” Tagliente sarcasmo.
 
“Cosa hai fatto a…”
 
“All’affascinante biondino che ti aspettava? L’ho mandato a casa. Gli ho detto che saresti stato occupato con me stanotte.”
 
Henry decise di fare buon viso a cattivo gioco, supportato dall’alcool in circolo. D’altro canto, non avrebbe potuto opporsi in alcun modo. Era già un miracolo che fosse ancora vivo, considerato che si trovava al cospetto di un mostro.
“E come vorresti intrattenermi? Ti ascolto” concesse, come se avesse potuto fare altrimenti.
 
“Ho diverse idee in mente. Quale di queste deciderò di mettere in pratica dipende solo da te” fu la risposta che ricevette, accompagnata da un lieve inclinarsi della testa.
 
“Vedo che sei aperta al dialogo stavolta. Solitamente distruggi ciò che ti minaccia senza troppi giri di parole” la stuzzicò e benedì l’alcol che stemperava la paura che altrimenti gli avrebbe reso difficile stare in piedi.
 
La giovane scosse il capo e Henry riconobbe – perché lo aveva già visto e anche da molto vicino – lo scintillio agghiacciante che rischiarò le iridi buie. Ci fu qualcosa di ipnotizzante – pietrificante – nel fine sorriso che lei gli dedicò.
“Ti sbagli. Non distruggo ciò che minaccia me. Non più” lasciò che fosse il silenzio a custodire le implicazioni di quelle parole e passò oltre senza esitazioni “Parlando di minacce. Adam Lewis. Dimmi come arrivare a lui e sparirò senza rovinarti la serata.”
 
“È già rovinata, mia cara. Hai mandato a monte il mio appuntamento ed è difficile trovare partner con quegli standard.”
In qualche modo, Henry aveva capito di poter osare, di poterla tenere sulle spine. Il fatto che lei non avesse ancora attinto a qualche tortura fisica o psicologica era la prova che non fosse libera di agire a suo piacimento. La ragazza era diventata una residente della Terra e, come tale, doveva sottostare a determinate regole se auspicava ad una futura vita tranquilla. Inoltre, un passo falso non avrebbe trascinato a fondo solo lei.
 
“Potrei rovinarla più di quanto non abbia già fatto. Credimi.”
 
“Ti credo” lui aveva già sperimentato la furia di quel demonio sulla propria pelle “però se dovesse succedermi qualcosa gli causeresti grossi problemi, lo sai questo? E anche se io decidessi di collaborare, cosa ti fa credere che manterrò il silenzio sulla tua visita? Questo è un passo falso” le fece notare “vanificherai tutti gli sforzi del tuo adorabile compagno.”
 
Sorprendentemente, il demonio dalle innocue fattezze sbuffò divertito e si alzò dal letto con un movimento fluido e deciso, facendo oscillare la lunga treccia sulla schiena. Mosse qualche passo ed accorciò la distanza che li sperava. Era stranamente calma e controllata.
“Non dirai niente. Non vuoi farlo” gli assicurò con una convinzione sfacciata e le iridi furono attraversate da un baluginio differente “Tu vuoi liberarti di Lewis e prendere il controllo. Lo desideri dalla dipartita di Teschio Rosso. Ammettilo.”
 
Benson rimase in silenzio, a corto di parole. Si domandò quanti bicchieri di bourbon avesse effettivamente buttato giù, perché l’annebbiamento non faceva che aumentare. Di solito reggeva bene l’alcol.
 
“Liberati di Lewis. Tu vuoi farlo. Mettiti in contatto con lui e comunicagli che sono qui” insistette ancora la ragazza. La voce era ferma, lo sguardo neutro – assente a tratti – ed era stranamente calma e controllata.
 
Maledetto bourbon.
Benson non riuscì a comprendere appieno cosa successe nei minuti successivi. Si mosse in maniera quasi meccanica ed ebbe la spaventosa impressione che spirito e corpo stessero tentando di scindersi. Voleva il controllo, voleva liberarsi di Adam Lewis. Lo voleva, giusto? Non fu in grado di rispondersi nemmeno quando finì di inviare un messaggio a Lewis in persona. Non aveva idea di dove il dottore si stesse nascondendo, ma poteva contattarlo. Voleva il controllo. Non era arrivato fin lì attraversando l’inferno per ricevere ordini.
 
“È disposto ad incontrarti, ma dovrai andare sola. Vi tiene sotto controllo e saprebbe se deciderai di trasgredire quest’unica regola. A quel punto l’incontro salterebbe e non avrai un’altra chance” annunciò Benson pochi minuti dopo aver inviato il messaggio. Lewis non si era fatto aspettare. Quell’uomo aveva occhi e orecchie ovunque.
 
La ragazza arricciò le labbra in un sorriso appena percettibile.
“Dimmi dove posso trovarlo.”
 
“Lo eliminerai?” domandò allora Henry. Voleva il controllo.
 
“È quello che vuoi anche tu” sentenziò lei con una sicurezza disarmante.
 
“Voglio il controllo.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Riesco a sentirti pensare.”
 
La mano destra di Bucky era stretta attorno la sua spalla sinistra e lo sguardo limpido lo stava scrutando con circospezione. Erano in piedi, davanti al portellone posteriore del jet. Mancava poco all’arrivo.
 
“Cosa ti turba?”
 
“Non so cosa aspettarmi” mentì l’interpellato.
 
“Non è mai stato un problema per te” gli fece notare James “Inventane una migliore.”
 
Steve era stato convincente. L’unica pecca era stata quella di non aver tenuto conto di chi avesse davanti, ovvero la sola persona che avrebbe saputo capirlo anche da un cenno sfuggente di un sopracciglio. Una sfida persa in partenza.
“Okay, va bene. Ricordi quella mezza idea…”
 
“Non dirmi che lo sta facendo ora.”
James mantenne a stento il tono della voce sotto controllo. Però le dita finirono per affondare con più forza nella spalla del compagno.
 
“Sai che non riesco a dissuaderla quando si mette in testa qualcosa” si giustificò Rogers “e la spalla mi servirebbe ed è già messa male perciò…”
 
Bucky mollò la presa e scosse il capo. “È frustrante quando le persone a cui tieni si infilano in situazioni pericolose anche se le hai pregate di non farlo, vero?” c’era una nota di ironia nella domanda di Bucky.
 
A Steve dovette sfuggire la suddetta nota, perché rispose con un rassegnato “Non ne hai idea”.
 
“Spero per te di aver sentito male” fu la sottile minaccia che ricevette indietro.
 
Rogers non ebbe l’opportunità di porre rimedio perché la voce di Collins, resa più acuta da qualche ottava di troppo, richiamò la loro attenzione.
“Che cosa assurda!” aveva esclamato il ragazzo, ammaliato dall’immensa struttura di metallo e cemento che spuntava dalle acque agitate dell’oceano.
 
Erano giunti a destinazione.
 
Erano in pochi. A parte Steve, James e Dan, c’era una Janet stranamente silenziosa e l’abitualmente silenzioso Bennet. Sharon mancava all’appello stavolta, perché aveva chiesto dei giorni di congedo – lo aveva fatto per aiutare Tony con le nuove piste.
Tutte le comunicazioni con il Raft erano state interrotte tre ore addietro e non c’era stato modo di ripristinarle. Tuttavia, poco prima che i collegamenti saltassero, era stata inviata una richiesta di supporto, ma priva di dettagli su cosa stesse accadendo. Quindi, non avevano assolutamente idea di ciò che li attendeva.
Lo scenario iniziale non prometteva niente di buono. La piattaforma di atterraggio era ricoperta da uno strato d’acqua e il portellone di ingresso posto nel centro era aperto solo a metà, o meglio, una delle due pesanti ante metalliche era stata strappata via e giaceva sotto lo strato d’acqua.
 
“Non posso atterrare, Capitano” lo avvisò Bennet, impegnato alla guida del jet.
 
Le violente raffiche di vento, la pioggia battente e le pessime condizioni dell’unica zona di atterraggio disponibile stavano già complicando la situazione. Steve sospirò e lanciò un’occhiata a Bucky, che annuì di rimando.
 
“Avvicinati il più possibile alla piattaforma” ordinò il Capitano e Bennet eseguì.
 
“Sappi che continueremo il nostro discorso una volta terminato il lavoro qui” fece presente Bucky, intenzionato a chiudere la faccenda il prima possibile.
 
“Suona come una minaccia.”
Rogers agganciò lo scudo dietro le spalle e, con il lato esterno del pugno sinistro, colpì il pulsante rosso per abbassare la rampa posteriore del velivolo.
 
“Sei tornato ad essere perspicace” replicò Barnes e gli dedicò un sorriso poco rassicurante.
 
“Come scendiamo? Non è abbastanza basso per saltare e non è abbastanza alto per il paracadute e pure se fosse abbastanza alto il vento ci spazzerebbe via” si intromise Collins.
Il ragazzo aveva una mano fra i capelli che il vento si stava divertendo a sbattergli davanti gli occhi arrossati dalla stanchezza. Erano stati catapultati di notte nel mezzo dell’Oceano Atlantico, poco dopo essere rientrati a Washington. Era giustificabile non essere al massimo della forma.
 
“Saremo solo Barnes e io a scendere. Voi tenete sotto controllo lo spazio aereo. Se gli intrusi sono ancora dentro, avranno bisogno di un velivolo per lasciare questo posto” puntualizzò il Capitano “Avvisatemi al minimo movimento.”
 
“Ma…”
 
“Collins, le condizioni non sono negoziabili. Rimanete sul jet” Steve rivolse un’occhiata penetrante in direzione del ragazzo, un’occhiata di quelle che diceva esplicitamente “Niente colpi di testa” e sperò che il messaggio fosse stato recepito.
 
Daniel, suo malgrado, si morsicò la lingua e annuì. Era palese che non fosse affatto contento delle condizioni imposte. Però si fidava del giudizio di Steve e le avrebbe rispettate. A meno della comparsa di forze maggiori.
 
“Bene. Pronto a saltare?” stavolta Rogers si era rivolto a Barnes.
 
“Quando vuoi.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Canada, Vancouver
 
 
Era tutto così strano. Era difficile definire le emozioni che avevano preso a vorticarle dentro. Adam Lewis sapeva come turbarla, sapeva come pungerle i nervi e come far sanguinare vecchie ferite. Quell’uomo conosceva ogni lembo del suo corpo, i punti di forza e le debolezze. Oh, quanto si era divertito a scovarle le debolezze.
Adam Lewis era un uomo privo di scrupoli, privo di senso etico e morale. Se abbassava le palpebre, poteva ancora vedere chiaramente la sua espressione fredda e distaccata durante i test – torture – a cui l’aveva sottoposta. Nemmeno le disperate grida di una bambina terrorizzata lo avevano smosso. Al contrario, lo avevano spinto ad osare di più.
Sentì riemergere con violenza gli insidiosi e suadenti istinti brutali. Il desiderio di sangue. La parte più oscura di lei scalpitava, bramando l’opportunità di rivelarsi. Bramando vendetta.
Si fermò di colpo e sollevò il capo, ammirando i fili della pallida luce lunare che riuscivano ad infiltrarsi fra le chiome delle immense conifere. Le protezioni metalliche sulle braccia brillavano nella penombra, avvolte dall’incandescenza generata dalle brucianti sensazioni.
 
“Tu devi essere la Voce, suppongo.”
 
Sorrise. Il primo incontro con Steve era avvenuto proprio in quella foresta e sembrava essere trascorsa un’eternità. Da cavia inerme e privata di ogni umana dignità, si era trasformata in una versione di sé che mai avrebbe sognato di poter diventare. Era ancora lontana anni luce dalla versione che avrebbe voluto essere, però aveva smesso di ripudiarsi. Un miglioramento notevole.
Riprese a muoversi. Il passo si trasformò in una corsa sempre più rapida. Più si avvicinava al punto di incontro, più riusciva a percepire le numerose presenze nascoste nell’ombra. La stavano aspettando e sperava vivamente che ci fosse anche Lewis, perché era lì per lui, per chiudere i conti.
L’ingresso della base era esattamente dove lo aveva lasciato quando ne era uscita per non doverci rientrare mai. Quanto sapeva essere beffardo il destino a volte? Di certo, essere costretta a rimettere piede nella vecchia prigione non l’avrebbe fermata. Lo doveva a se stessa, lo doveva a Steve e lo doveva a tutti i suoi compagni.
 
 
“Se fossi forte abbastanza da affrontare il nemico, sceglieresti di combatterlo da solo oppure insieme ai tuoi compagni?”
 
 
La base dismessa la accolse nel proprio grembo buio e polveroso. Riconobbe l’odore di morte che ne aveva impregnato le mura. Sollevò la mano destra in modo brusco e il fuoco consumò le ombre che la circondavano in pochi istanti. Lacrime fiammeggianti si librarono in aria e la seguirono come uno sciame di lucciole. Percepì una presenza incombente, in grado di saturare quel posto dimenticato da Dio. Le andò in contro e giunse in un luogo che conosceva bene. La cara e vecchia sala delle torture.
Sparsi a terra c’erano ancora i vetri della teca dove Lewis l’aveva guardata annegare innumerevoli volte, solo per capire fino a che punto il potere che custodiva sarebbe riuscito a strapparla dalla morte, morte che invece lei aveva desiderato affinché la sofferenza terminasse una volta per tutte. Ritrovò gli scomodi e freddi tavoli di metallo, un paio dei quali erano ribaltai, e strumenti chirurgici erano disseminati sul pavimento. Scavalcò lunghe catene, simili a carcasse di serpenti. Lo ricordava il peso delle catene. Se si concentrava abbastanza, poteva ancora sentirle sfregare contro la pelle.
 
“Volevi rievocare i vecchi tempi?” chiese, rompendo il silenzio tombale. Sollevò lo sguardo dalle catene e lo posò sulla presenza ferma dall’altra parte della grande sala.
 
“Sono un tipo nostalgico” parlò la voce di Adam Lewis in un corpo che non gli apparteneva.
La figura era alta e slanciata. Ad una prima occhiata la pelle le apparve violacea ma, guardando meglio, si rese conto che era solo una maglia aderente e dal tessuto fine. La maglia era infilata in pantaloni grigi, stretti attorno i fianchi da una cintura in pelle nera. Era calvo e pallido, ma quel pallore non trasudava malessere.
“Qui è dove tutto è iniziato ad andare storto” aggiunse l’uomo – se così poteva ancora essere definito – dopo una breve pausa e si avvicinò quel tanto che bastava per essere illuminato da alcune lacrime fiammeggianti. Di riflesso, le iridi brillarono alla stregua di raffinate ametiste. Evidenti cicatrici gli segnavano il volto e il collo.
 
Anthea ebbe l’impressione di aver già incrociato occhi simili. Scacciò il pensiero. Doveva rimanere concentrata.
“Dipende dai punti di vista. Ma non sono venuta per rivangare il passato. Sono qui per assicurare a quelli che amo un futuro senza di te.”
 
“Niente scrupoli per chi ti ha cresciuta? A proposito, sei cresciuta tanto, bambina.”
 
Era sempre stato un tipo da viscide moine. Ci sapeva fare con le parole. Era un fottuto manipolatore dopotutto. Era riuscito a frantumarla dall’interno fin troppe volte in passato, senza aver bisogno di poteri soprannaturali.
 
“Non grazie a te.”
 
“Mi rammarica sapere che non sei in grado di capire quanto dovresti essermi grata invece.”
 
Anthea scoppiò a ridere e rise in modo poco controllato finché non si fu sfogata a sufficienza, finché l’improvvisa e fastidiosa tensione non l’ebbe abbandonata. Fottuto manipolatore.
“Grata? Dovrei esserti grata? Per cosa esattamente?” la voce era fredda, calma ed esprimeva puro odio.
 
“Ho testato i tuoi limiti e ti ho spinta a superarli fin da bambina. Ti ho reso potente. Persino la morte impallidisce dinanzi a te” snocciolò il manipolatore, rimasto impassibile. “Devo correggermi. Impallidiva” precisò alla fine.
 
“Il fatto che tu creda davvero in ciò che dici ti rende solamente un mostro degenerato.”
 
Adam scosse il capo e sorrise. Era sicuro di sé e non era un buon segno. Possibile che non la temesse affatto?
“Mia cara bambina, ti mostrerò l’errore che hai commesso. Hai scelto di stare dalla parte sbagliata.”
 
“Rimarrai molto deluso” ribatté l’oneiriana. Affilò lo sguardo e le iridi affogarono nell’ambra.
Il corpo di Adam venne sollevato e rimase sospeso ad un paio di metri dal suolo, intrappolato da una forza pressante.
 
“Sei sempre stata impaziente, bambina” la rimproverò il fottuto mostro e l’odio per lui non fece che nutrirsi di altro odio.
 
Anthea percepì il suo potere venire come risucchiato e un dolore lancinante alla testa le annebbiò la vista. Perse la presa su Adam, che tornò libero e con i piedi per terra.
Eccola, l’interferenza. La stava aspettando dal momento in cui ne aveva percepito l’incombente presenza.
Passi cadenzati risuonarono nella stanza e un’esile figura si avvicinò a Lewis. Era giovanissima, coperta da un morbido e largo vestito bianco che le arrivava poco sotto le ginocchia. I capelli cortissimi – tagliuzzati in modo rozzo ed irregolare – erano tanto chiari da apparire bianchi. Sul viso smunto e pallido non c’era traccia di alcuna emozione. Le braccia ossute erano abbandonate lungo i fianchi, come se pesassero troppo. Era a piedi nudi, le cui dita arricciate tradivano una forte tensione.
 
Un angelo innocente trascinato all’inferno. Era così piccola.
 
“Antares ci teneva parecchio a farti fuori, così tanto che ha acconsentito alla richiesta di portarmi due individui fra la sua gente. Ho riservato loro lo stesso trattamento che ho riservato a te, ma meno diluito nel tempo, considerando che di tempo ne ho avuto poco.”
Lewis fece una pausa teatrale, guastandosi la nuova tensione che stava prendendo possesso di Anthea. Lui sapeva bene che farle perdere calma e controllo avrebbe aperto delle falle nelle sue difese.
“Il soggetto maschio è deceduto e l’ho usato come materia prima per costruire questo corpo. La sua capacità rigenerativa era spiccata, simile alla tua, ma era troppo debole. Lei invece si è dimostrata un’ottima candidata e, diversamente da te, è di sangue puro. Nessuna fragilità umana.”
 
Anthea dovette impiegare tutta la volontà in suo possesso per mantenere salda la concentrazione. Le barriere mentali erano lontane dall’essere solide. C’erano falle e le fondamenta non erano delle migliori. Prima Antares e poi lei, la nuova candidata di Lewis. Entrambi avevano avuto successo nel disintegrare le sue barriere e nel rompere gli equilibri. Era un dato di fatto ormai. Costruire barriere era una cosa che proprio non le riusciva bene e le sfuggiva il motivo.
La rivelazione di Lewis l’aveva scioccata e di colpo ricordò dove aveva visto gli occhi che il mostro manipolatore stava indossando. Come poteva non essersi accorta della scomparsa di due oneiriani? Come quella scomparsa era passata inosservata? Antares era davvero riuscito ad estirpare l’esistenza di due individui? Quel viscido traditore era morto, ma le conseguenze delle sue azioni erano ancora vive e vegete.
 
“Ora capirai quanto io abbia fatto per te in passato. Subirai sulla tua stessa pelle ciò che io ti ho donato e che tu hai buttato via” asserì con glaciale fermezza Adam Lewis.
 
Anthea fu risucchiata da occhi neri come la pece, immersi nel letto bianco della sclera. L’espressione della giovane vittima era un’inanimata maschera di porcellana, eppure l’intero corpo gridava disperazione e dolore.
 
“Lei ti ha già vista. A Los Angeles. E poi a Chicago. La mia Eta. Silenziosa, priva di voce propria, ma in grado di cambiare il suono di ciò che la circonda.”
 
Ed ecco le conferme.
Dopo Chicago, Anthea aveva fatto tesoro di ogni singola sensazione provata, analizzandone anche le sfumature più sottili. Aveva riportato alla mente il malessere che l’aveva investita durante i fatti accaduti a Los Angeles, dove Lewis aveva testato il potere psichico della sua cavia per la prima volta. Quel potere era maledettamente denso e distruttivo, tanto quanto la disperazione, la sofferenza e la paura che lo impregnavano.
Prima di arrivare lì dov’era, Anthea si era fatta un’idea di ciò che avrebbe dovuto affrontare una volta arrivata a Lewis. Suo malgrado, la realtà dei fatti si era dimostrata peggiore – molto peggiore – di quello che aveva immaginato. E aveva immaginato scenari terribili dal giorno in cui si era trasferita a Washington, quando aveva salvato quelle persone che Lewis avrebbe sicuramente usato per i suoi folli esperimenti.
 
“Sei parecchio lontana dai tuoi compagni, non credi?” le fece notare Adam, con la chiara intenzione di farle perdere la calma.
 
Fu dura per Anthea mantenere una facciata di freddo distacco.
“Ti assicuro che non hanno bisogno di me per prendere a calci le tue pedine” gli rispose con tono pungente, sopprimendo l’ansia che le solleticava lo stomaco.
 
“Ma tu avrai bisogno di loro” ribatté il viscido manipolatore e le sorrise.
 
La vittima – l’ennesima vittima – che Adam Lewis aveva plagiato e plasmato era potente. Il suo carnefice e carceriere si chinò in avanti per sussurrarle qualcosa nell’orecchio e, nel momento stesso in cui lui si tirò indietro, l’aria intorno a loro tremò. Le lacrime fiammeggianti si spensero in un soffio e l’oscurità li avvolse.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
C’era silenzio, interrotto solo dall’impatto degli stivali contro la superficie di un significativo strato d’acqua. Luci rosse lampeggiavano ad una cadenza costante, squarciando il buio che aveva inghiottito l’interno della struttura. Le spalle di Steve erano due passi avanti e Bucky era pronto a coprirlo, arma già alla mano e dito indice che sfiorava il grilletto. Erano solo loro due come lo erano stati innumerevoli volte, fin da bambini.
Avevano attraversato l’hangar, in cui era presente un solo elicottero distrutto. Non c’era traccia di mezzi nemici e tantomeno dei nemici.
 
“Dove sono finiti tutti?” fu la legittima osservazione di Rogers, una volta raggiunta la sala di controllo.
Gli schermi che avrebbero dovuto trasmettere le immagini delle telecamere sparse nella prigione erano spenti. C’erano parecchie lucine colorate che lampeggiavano sui pannelli di comando e davano vita ad una specie di spettacolo stroboscopico.
 
“Chi è stato rinchiuso in questo posto?” fu invece la lecita domanda di Bucky.
 
“So che Ross ha portato qui la maggior parte dei potenziati catturati vivi.”
 
“E cosa ha intenzione di farci?”
 
“Ricavare informazioni” rispose Steve e non si sforzò di eclissare la vena ironica insita nell’affermazione.
 
“Certo. Ricavare informazioni da automi incapaci di intendere e di volere mi sembra un’ottima strategia” ci tenne ad evidenziare Bucky.
 
“Ho detto la stessa cosa e Ross mi invitato a farmi i fatti miei se volevo evitare di fare compagnia agli automi” raccontò Steve con una tranquillità spiazzante.
Nel frattempo erano arrivati davanti l’ascensore che conduceva ai piani inferiori, costituiti per la maggior parte da piattaforme circolari, le quali ospitavano celle lungo il loro perimetro.
 
“Ottima argomentazione quella del Segretario.”
Barnes osservò il compagno premere più volte il tasto che avrebbe dovuto azionare l’ascensore e che invece non fece funzionare praticamente niente.
“Apertura manuale?” suggerì allora e non ci misero molto a forzare l’apertura delle ante metalliche. Peccato che della cabina non ci fosse traccia. Forse era rimasta ai piani più bassi. Parte dell’acqua sul pavimento scivolò nel vano e diede vita ad una piccola cascata.
 
“Usiamo i cavi.”
Steve fu il primo ad aggrapparsi ai cavi metallici che correvano verso il basso e si tuffavano nell’oscurità. Sembrava di star scendendo all’interno di un pozzo di cui non si vedeva il fondo. Calandosi cautamente, raggiunsero il livello inferiore, il primo fra quelli che ospitavano le prigioni. Nella scomoda posizione senza appoggi, fu più complicato forzare le porte, ma riuscirono a cavarsela.
L’acqua al primo livello arrivava poco sopra le caviglie. Anche lì l’illuminazione principale era saltata ed era stata sostituita da fastidiose luci rosse intermittenti. Le celle, disposte a formare una perfetta circonferenza attorno a loro, erano aperte. Tuttavia, i potenziati non erano fuggiti, né avevano avuto la possibilità di farlo, perché erano stati freddati da colpi da arma da fuoco diritti in testa.
 
“Brutto segno” commentò Barnes.
 
“Scendiamo ancora” decise allora Rogers.
 
Il secondo livello offrì il medesimo spettacolo, solo che l’acqua lambiva loro le ginocchia. Scesero ancora.
Il terzo livello era differente. Le porte infatti si aprirono su un corridoio spoglio.
 
“Inizia a diventare scomodo” asserì Bucky, mentre richiudeva le porte metalliche per evitare che la sempre maggiore quantità d’acqua li trascinasse indietro nella tromba dell’ascensore.
 
Erano bagnati fino all’altezza del sedere e avanzarono non senza difficoltà. Svoltarono a destra dopo aver percorso una cinquantina di metri, Steve bloccò il passo e abbassò lo scudo. James rimase alle sue spalle, ma riuscì comunque a vedere cosa avesse causato la battuta d’arresto.
Diversi cadaveri – almeno una decina – erano disseminati lungo il corridoio che si allungava davanti a loro. Galleggiavano sul pelo dell’acqua e il sangue che aveva abbandonato i loro corpi brillava sotto le palpitanti luci rosse. Gole recise, arti dislocati o spezzati, volti cinerei e occhi di vetro. Ecco dov’erano finiti coloro che avrebbero dovuto occuparsi della sicurezza della struttura. Un massacro.
Un debole mormorio spezzò il silenzio tombale. Un uomo stava usando la parete per rimanere in piedi e, lentamente, si stava trascinando verso di loro. Rogers agganciò lo scudo sulla schiena e lo raggiunse. L’uomo si aggrappò alle sue spalle, stringendole debolmente. “Aiutami” gemette, i denti rossi di sangue e il viso tumefatto. Un pugnale era conficcato nell’addome e la lama era scomparsa nella carne.
“Tieni duro, ti porteremo fuori da qui” gli promise il Capitano e si addossò il peso di quel corpo ferito.
 
James non lo vide arrivare. Avrebbe dovuto, ma non lo fece. L’uomo che Steve stava cercando di aiutare spirò nell’istante in cui un secondo pugnale si piantò nel retro del collo, recidendo pelle, muscoli, legamenti, vertebre e nervi. Il biondo registrò a malapena l’evento e si ritrovò schiacciato dal peso del compagno, contro una delle pareti del corridoio. La punta dell’orecchio stava sanguinando, graffiata dalla lama affilata di un secondo pugnale.
Eccolo, il fine suono dell’acqua che veniva smossa dal lento e vigoroso avanzare di una figura che stava emergendo dall’oscurità, scansando le vittime mietute senza pietà alcuna. La figura si fermò preservando una certa distanza da loro. Nonostante la visibilità intermittente, Bucky riconobbe i tratti di un volto che credeva non avrebbe più rivisto. Trattenne il respiro e la bocca dello stomaco si strinse con uno spasimo doloroso. Un gelo fatiscente penetrò sotto la pelle, fin dentro le ossa, e le ombre del passato si accalcarono alle sue spalle, pronte a saltargli al collo.
 
“È passato tanto tempo, Soldat.”
 
Era passato tanto tempo, ma non sufficiente per dimenticare. Non sarebbe mai stato sufficiente.
 
“Markov.”
 
I ricordi erano tutti lì, più vividi di quanto avrebbe voluto. James spinse Steve dietro di lui – un gesto puramente istintivo – e puntò in avanti il fucile.
 
“Abbiamo un conto in sospeso. A causa tua sono finito sotto ghiaccio.”
 
Il tono profondo e vibrante non era cambiato. Era proprio lui, uno fra i pochi che erano stati in grado di scalfire la corazza di indifferenza del Soldato d’Inverno. Bucky indossò la maschera di distaccata freddezza e si costrinse a rientrare in uno stato di solida concentrazione.
L’uomo avanzò ancora, uscendo dal cono d’ombra. Il ghigno tagliente che piegò le labbra fini divenne degno accompagnatore del luccichio intimidatorio che accese gli occhi scuri. Erano passati decenni dall’ultima volta che i loro cammini si erano incrociati. L’ultima volta che l’aveva visto era stata in una base segreta dell’Hydra, in Siberia. Josef Markov, la testa dello squadrone della morte dell’Hydra, fra i più pericolosi – forse il più pericoloso – assassini esistenti sulla faccia della Terra e questo prima che il siero del super soldato iniziasse a scorrere nelle sue vene. Il siero non solo l’aveva reso più forte, ma anche più spietato, alimentando il suo smodato desiderio di dominare.
Markov sciolse le braccia incrociate contro l’ampio petto. I muscoli delle spalle e delle braccia si tesero sotto il tessuto nero della maglia, che gli stava addosso come una seconda pelle. L’ibernazione lo aveva mantenuto in perfetta forma e non un singolo anno aveva affetto le fattezze del viso, ricoperto da una barba rasa. I capelli neri e corti avevano conservato il taglio marziale.
 
“Come avete fatto a…” iniziò Barnes.
 
“Ci hanno trovati e adesso abbiamo un debito da estinguere” Markov arricciò le labbra in un ghigno affilato “Non era previsto che ci incontrassimo qui. Ho avuto fortuna.”
Lo sguardo penetrante lasciò andare quello di James e finì per rivolgersi ad uno Steve confuso seppur pronto a scattare. Dopo un lungo attimo, l’attenzione dell’assassino tornò su Barnes. Mosse un ennesimo passo in avanti e le dita di metallo del Soldato d’Inverno si serrarono in un pugno scricchiolando. Un avvertimento.
 
Bucky sapeva di non dover mostrare esitazione, né alcun segno del subbuglio interiore che lo stava divorando. Solo che adesso non era più la spietata macchina priva di sentimenti in cui l’Hydra aveva tentato di trasformarlo per decenni.
“Chi diavolo è questo tizio?” gli domandò Steve e fu udibile l’esile nota di preoccupazione nella sua voce.
 
Il suddetto tizio ghignò e avanzò ancora. “Mi offende che non ti abbia parlato di me, Captain America” disse accentuando l’accento russo.
 
In uno sprazzo di recuperata lucidità, Barnes fece pressione sul grilletto. Partì uno sparo e il fucile finì in acqua, mentre del sangue prese a scivolargli lungo il braccio destro. Un secondo sparo esplose l’istante successivo e venne assorbito dal vibranio
 
“Stai bene?”
Steve adesso era davanti a lui, lo scudo sollevato e l’espressione tesa.
 
“Solo un graffio” lo rassicurò Bucky “Steve non sono l’unico Soldato d’Inverno” ammise di getto.
 
“No, non lo sei” confermò una voce femminile.
 
Con una pistola stretta nella mano, una seconda figura comparve alle spalle di Markov e lo affiancò.
Darya Smirnova era la sola donna che era stata selezionata per il progetto Soldato d’Inverno e l’unica che si era lasciata sfuggire segni di esitazione poco prima della somministrazione del siero. Poi, ogni esitazione si era estinta. Nella sua espressione era assente qualsiasi tipo di empatia e la bionda coda stretta sulla nuca metteva in risalto i lineamenti induriti. Le iridi castane erano fredde e distaccate. Era alta e i vestiti neri che aveva indosso – identici a quelli di Markov – mettevano in risalto i muscoli del fisico slanciato.
 
“Ne mancano ancora tre all’appello” fu lo stridente pensiero di Bucky.
 
Il buio li inghiottì per alcuni lunghissimi attimi. Quando le lampade artificiali tornarono a funzionare, inondando la struttura di una soffusa luce rossa, la situazione era già precipitata.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Lewis si stava godendo lo spettacolo. Non era scappato e nemmeno ci aveva provato. Era rimasto fermo con in viso un’espressione compiaciuta.
 
Quello schifoso mostro manipolatore.
 
Anthea morsicò l’interno della guancia. Eta era in grado di contrastarla, agendo alla stregua di un’interferenza distruttiva, e lei cominciava ad accusare gli effetti di quello scontro di logoramento. Il processo rigenerativo aveva già subito un brusco rallentamento e non aveva più un ferreo controllo sulle proprie energie.
Stavano portando avanti un gioco di resistenza psichica, puntando a distruggere l’una le barriere interne dell’altra. L’aria era diventata elettrica e le vecchie pareti della base avevano iniziato a sgretolarsi sotto la pressione di forze sempre più intense e violente.
Ogni qualvolta Anthea si avvicinava troppo a Lewis, Eta la respingeva indietro bruscamente, rilasciando un potere che il dottore aveva alimentato con metodi che conosceva alla perfezione.
Continuare così non avrebbe portato a niente. O meglio, Anthea si sarebbe fatta ammazzare. Qualcosa la frenava e questo la rendeva vulnerabile.
Non poteva – non voleva – abbattere la piccola oneiriana come aveva fatto con tutti i nemici incontrati durante il suo cammino. Non poteva – non voleva – fare del male ad una vittima innocente. Poteva ancora salvarla, poteva ancora riportarla a casa e non poteva – non voleva – rischiare di frantumare la sua già compromessa stabilità. In quello sguardo apatico e oscuro rivedeva se stessa. Sapeva cosa si provava. Riusciva perfino a udire le urla strazianti dell’oneiriana dietro il velo di silenzio imposto. Quanto dolore.
Dopo il contatto a Chicago, le era rimasto appiccicato sulla pelle un assaggio di quel dolore e aveva sperato di sbagliarsi, aveva sperato di dover affrontare semplicemente un altro mostro e non una vittima la cui anima era stata seviziata.
Anthea doveva – voleva – strapparla dalle grinfie del dolore. D’altra parte, Adam Lewis non doveva uscire da lì intoccato. Doveva arrivare a lui.
 
“Non volevi uccidermi? Avanti, cosa stai aspettando?” la provocò Lewis, come se le avesse letto nel pensiero.
Ma lui non poteva farlo, Anthea ne era certa. Il manipolatore non sapeva come utilizzare l’essenza oneiriana rimasta intrappolata nelle fibre del corpo artificiale. La rigenerazione invece era qualcosa di automatico, simile ad una basilare funzione vitale, e avrebbe riparato i danni subiti senza bisogno di alcun controllo.
 
Anthea non reagì alla provocazione. Era lì e sì, aveva la possibilità di cambiare tutto. Poteva gestire la situazione. Ne aveva gestite tante di situazioni difficili fino ad allora. Se avesse vinto lì, avrebbe messo un punto ai lunghi mesi di tensione, alla follia di un uomo tramutatosi ormai in un mostro e ai dissidi del passato. Però Lewis lo aveva previsto. Sapeva che lei non sarebbe stata capace di combattere la nuova cavia, non senza esitazioni. Fottuto manipolatore.
Quella bambina era una sua responsabilità, perché Lewis era una sua responsabilità e perché Antares era stato una sua responsabilità.
 
Anthea mise una certa distanza fra sé e la piccola cavia.
“Avevi previsto tutto questo, dico bene?”
 
“So quali tarli infilarti nella testa per spingerti a fare quello che voglio” fu la risposta che ottenne da Lewis.
 
“Credi davvero che lei possa vincere contro di me?”
 
“Vincerà prima che tu possa rendertene conto” attestò il mostro manipolatore e sorrise.
 
Stavolta Anthea reagì. Convertì la propria energia in lingue di fuoco palpitanti e la temperatura si innalzò pericolosamente. I tratti del viso di Lewis si fecero tesi e fu lei a sorridere invece. Quanto le sarebbe piaciuto vederlo sciogliersi come una statua di cera.
Il fuoco circondò anche Eta, la quale tentò di dissiparlo con il suo potere. Tuttavia, le fiamme divorarono fameliche il potere avverso e, invece di estinguersi, si rafforzarono.
Forse Lewis sapeva quali tarli infilarle in testa, sapeva prevedere le sue reazioni e sapeva ancora farla sanguinare – fuori e dentro – ma nemmeno lontanamente era consapevole di cosa lei fosse in grado di fare ora e lo avrebbe scoperto a sue spese. Il fuoco spiraleggiò, formando una prigione incandescente.
 
“Fermati ti prego.”
 
Le fiamme si dissolsero in un battito di ciglia e le ombre tornarono a regnare sovrane. Anthea si ritrovò con il fiato corto e il cuore che martellava violentemente nel petto. La voce di cui conosceva ogni nota, anche la più flebile, le stava ancora risuonando nella testa. Un tocco sulla spalla la fece voltare di scatto.
 
“Non dovresti essere qui. Perché sei qui?” balbettò incredula.
 
“Ero preoccupato per te.”
 
“Ma come…”
 
Steve le prese il volto fra le mani e le sorrise, placando la tempesta di emozioni, disinnescandola. Le sue dita scivolarono sul collo. Erano più fredde di quel che ricordava.
 
“Steve io…”
 
Le dita si chiusero attorno alla gola e l’aria cessò di arrivare ai polmoni. Anthea perse il controllo sul proprio corpo e gli arti smisero di rispondere rimanendo immobili.
Gli occhi limpidi della persona che amava la stavano guardando boccheggiare e lei non riusciva a muovere un singolo muscolo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Burt Schneider era un colosso la cui forza si era dimostrata eccezionale ancor prima che gli venisse iniettato il siero del super soldato. Tale forza amplificata dal siero era adesso impressa nelle cinque dita della mano destra stretta attorno alla gola di Steve e teneva quest’ultimo ad almeno tre palmi dal pavimento. A parte la stazza significativa, c’erano la corta cresta mora, la lunga barba scura e i folti baffi dalle punte arricciate in su, che gli conferivano un aspetto ancora più minaccioso.
Nel frattempo, la Smirnova stava percorrendo con lo sguardo la colonna vertebrale del Capitano e visualizzava quei punti critici che lei conosceva alla perfezione.
Bucky sapeva che erano in guai seri. Non erano pronti ad affrontare uno scontro di quella portata. Dovevano mettersi in contatto con Stark o fare in modo che Anthea li raggiungesse. Erano già in svantaggio numerico e ne mancavano altri due all’appello. Doveva inventarsi qualcosa, qualsiasi cosa permettesse loro di uscire da lì.
 
Doveva portare Steve fuori da quel fottuto casino.
 
Un gancio in pieno viso spezzò la linea dei pensieri e Bucky fu costretto a distogliere del tutto l’attenzione dal suo migliore amico.
 
“Occhi su di me, Soldat.”
 
Markov gli scaricò addosso una rapida sequenza di colpi che finì con due pugni dritti in faccia. James si ritrovò a boccheggiare quando le nocche del nemico si conficcarono nel costato. Poi un calcio in pieno petto lo spedì contro la parete, che si incrinò nell’impatto. Non fece nemmeno in tempo a riprendere fiato che l’assassino gli fu addosso. Lo vide caricare il pugno destro e si preparò a sentire l’osso della mandibola cedere. Fu però la mandibola di Markov a rischiare una rottura.
Nonostante la vista annebbiata, Bucky riconobbe il noto profilo della schiena di Steve e tornò a respirare. Una vita prima, le parti sarebbero state invertite, ma non provava nostalgia per questo. Gettò un’occhiata agli altri due super soldati. Burt aveva il naso che sanguinava e il sangue gli aveva sporcato la barba scura, mentre Darya aveva una mano permuta sullo stomaco.
 
Avevano sottovalutato Steve. Grosso errore.
 
Rogers caricò un secondo pugno, ma la Smirnova si frappose prontamente fra lui e Markov. Le braccia della donna circondarono il collo del biondo e con il ginocchio destro gli colpì ripetutamente l’addome, mettendo a dura prova le costole. Riuscì poi a spezzargli l’equilibrio colpendolo sullo stinco e approfittando della minore mobilità dovuta all’acqua in cui erano immerse le loro gambe. Rogers si oppose alla caduta utilizzando la parete davanti a lui come supporto. Darya gli rimase appiccicata addosso, gli afferrò i capelli sulla nuca con una mano e fece collidere ripetutamente la fronte contro la stessa parete.
Steve soffocò un gemito di dolore fra i denti serrati, mentre un rivolo di sangue scivolava fra gli occhi e si biforcava in corrispondenza del setto nasale.
 
“Non romperlo così presto, Smirnova” fu il sarcastico commento di Schneider.
 
Burt scostò Darya con una spallata e afferrò Steve da dietro, bloccandogli le braccia lungo i fianchi. La donna ne approfittò per assestare un paio di pugni sul viso del Capitano, la cui testa ricadde in avanti e non si risollevò.
 
“Avanti, Steve!” gridò Bucky, a pieni polmoni, mentre tentava di non essere sopraffatto da Josef e al contempo di scartarlo – se solo il bastardo si fosse distratto anche solo per un singolo istante. Markov gli sbarrava la strada ed era intenzionato a finire ciò che aveva cominciato prima che Rogers si mettesse in mezzo.
 
Steve strinse i denti e, con un secco colpo di reni, fece collidere la nuca contro il naso già insanguinato del colosso che lo teneva fermo. Lo sentì grugnire e la presa si allentò abbastanza da consentirgli di romperla. Eseguì poi una mezza rotazione che gli permise di piazzargli una gomita dritta sulla mascella. Bart fu costretto a ripristinare una distanza di sicurezza dal Capitano, tuttavia gli dedicò un ghigno eccitato.
 
“Incapace” berciò Darya.
 
La donna afferrò uno dei cadaveri che galleggiava nelle vicinanze e lo lanciò addosso al Capitano, prendendolo alla sprovvista.
Rogers cadde all’indietro, la schiena impattò contro la superficie dell’acqua e affondò fino a toccare il pavimento. Scansò il corpo privo di vita per poter riemergere, ma la suola di uno stivale premuta contro il petto lo tenne schiacciato a terra. Steve riusciva a vedere la sagoma di Bart che lo sovrastava, sfumata dall’acqua che lo separava dall’ossigeno di cui cominciava ad essere a corto. La seconda suola del colosso gli bloccò il polso sinistro.
Il Capitano voltò il capo alla sua destra e si ritrovò a fissare gli occhi bianchi dell’uomo che solo poco prima lo aveva implorato di aiutarlo. Una scarica di adrenalina riattivò i processi cognitivi annebbiati ed estrasse dal collo del cadavere il pugnale che gli aveva strappato via la vita. Piantò la lama sopra il ginocchio di Schneider.
 
Quando riemerse, Steve credette che i polmoni sarebbero scoppiati.
 
“Sta’ zitto!”
 
Il grido agghiacciante di James costrinse Steve a recuperare lucidità in fretta. Markov era addosso al suo migliore amico, lo teneva premuto contro la parete, il braccio di metallo sollevato sopra la testa e imprigionato nella presa della mano sinistra. Bucky sembrava come paralizzato.
Rogers si precipitò in suo soccorso. Appena due passi dopo, un sottile filo metallico venne stretto attorno alla sua gola e Darya era dietro di lui. Schneider invece gli ostruì la visuale su Bucky e, sfoggiando un ghigno affilato, gli mostrò il pugnale che si era sfilato dal ginocchio. Gli conficcò quella stessa lama nella coscia destra e la lasciò lì.
Steve non fu nemmeno in grado di gridare, troppo impegnato a soffocare. Cercò di afferrare il dannato filo usando addirittura le unghie, ma finì solo per scorticare la pelle già lesa. La coscienza iniziò ad abbandonarlo inesorabilmente. L’ultimo sprazzo di lucidità si spense assieme alla forza di opporsi.
 
 
 
“Portatelo di sopra. Qui finisco io” ordinò Markov, intensificando la pressione sul pomo d’Adamo di Barnes, assediato da fantasmi del passato che stavano lentamente prendendo il sopravvento.
 
Bucky si odiò in modo viscerale. Si odiò per essere rimasto a guardare, incapace di reagire. E adesso Steve era alla completa mercé di assassini senza scrupoli. Nel momento in cui Bart si caricò sulla spalla destra il suo migliore amico, Bucky fu sul punto di supplicare, ma i sussurri nelle orecchie divennero grida e poi stridii graffianti.
Sovvenne la nebbia. Fitta, gelida, soffocante e spaventosa.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Adam sorrise compiaciuto. Percorse con lo sguardo il corpo della sua bambina. Lunghe catene ancora solide la stavano stritolando lentamente. Le avvolgevano le gambe, l’addome, le braccia e la gola. Di fronte a lei, immobile ad un singolo passo di distanza, c’era Eta.
La gracile cavia non aveva una forza fisica significativa. D’altro canto, aveva un potere psichico notevole e capacità molto simili a quelle di Antares. La suggestione era un’arma potente e avrebbe vinto grazie ad essa.
 
Adam avrebbe riavuto la sua bambina. Viva o morta.
 
Lewis colse le labbra di Anthea muoversi e si avvicinò incuriosito. La sentì sussurrare parole apparentemente sconnesse, almeno fin quando lei non trovò la forza di comporre un’intera frase, nonostante la voce tremante e la pressione sulla trachea.
 
“Lui non mi farebbe mai del male.”
 
Adam si specchiò negli occhi bui dell’oneiriana e solo allora realizzò che lei lo stava guardando. Anthea era fuori dall’illusione creata per distruggerla.
“Spezzala” ordinò d’impulso ad Eta e indietreggiò con una tale urgenza da rischiare di incespicare nei suoi stessi passi.
 
Le catene divennero incandescenti e Anthea si lasciò sfuggire un grido di dolore e di frustrazione. Le fiamme tornarono ad ardere e dissolsero le ombre. Le catene si spezzarono, incapaci di contenerla.
 
“Eccoti un assaggio dell’inferno in cui finirai.”
 
Le iridi della sua bambina si tinsero di rosso e Lewis lesse in esse una furia incontenibile in opposizione ad un calma incrollabile. Sembrava che anime diverse – in contrasto – stessero collidendo.
 
“Da solo sei niente, Lewis. I tuoi nemici non ti temono e tu lo sai, ecco perché ti nascondi. Ti nascondi perfino dietro le spalle di una bambina. Allora dimmi, vuoi davvero nasconderti per sempre?”
 
Adam fu sopraffatto da un senso di vuoto e di impotenza. Il fuoco era più vicino e aveva assunto le fattezze di artigli pronti a dilaniarlo.
 
“So che vuoi uscire allo scoperto ed essere tu stesso la falce che miete i tuoi nemici” affermò infine Anthea e Lewis, incapace di ribattere, la osservò accorciare la distanza che li separava.
 
Eta si mise in mezzo e tentò di resistere al potere che alimentava le fiamme. Tuttavia, finì per portare le mani alla testa e urla strazianti le graffiarono la gola. Cadde sulle ginocchia ossute e si piegò su se stessa. La spina dorsale era visibile sotto il leggero tessuto del candido vestito.
 
“Mi dispiace” sussurrò Anthea “mi dispiace tanto.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Io scendo.”
 
“Vuoi mettere fine alla tua patetica vita?”
 
La Stewart fulminò Collins con lo sguardo e poi tornò a rigirarsi il pugnale dall’elsa bianca fra le mani. Era seduta in modo scomposto su uno dei sedili posteriori ed era palesemente frustrata e stanca.
 
“Potrebbero avere bisogno di aiuto” protestò Dan, che aveva percorso la lunghezza del jet almeno una ventina di volte, andando avanti e indietro.
 
“Sono due fottuti super soldati. Non hanno bisogno di te” replicò la donna, seccata.
 
Daniel ignorò il commento poco gentile e recuperò il suo personale ed ingombrante zaino pieno di tasche e cerniere. Promemoria per la prossima volta – se ci sarebbe stata una prossima volta – doveva organizzare con criterio la sua attrezzatura e non gettarla totalmente a caso nello zaino. Riempì le diverse tasche dei cargo scuri con tutto ciò che ritenne utile e poi tirò fuori un rampino.
 
“Datemi una mano a scendere. Il vento si è abbassato. Posso farcela.”
 
“Il Capitano ha detto di rimanere qui. Dovresti sturarti le orecchie.”
Janet non diede segno di volersi muovere e questo non fece che conferire maggiore peso alle parole appena pronunciate.
 
Collins si rifiutò di cedere.
“Bennet, ti prego. È passato troppo tempo. A quest’ora lui ci avrebbe comunicato qualcosa, qualsiasi cosa. Fammi scendere.”
 
Bennet, stabilmente fermo al posto di comando, si sporse indietro. L’espressione neutra non lasciava trasparire alcuna emozione.
“Vedi di non farti ammazzare” fu l’unica cosa che disse prima di tornare a concentrarsi sulla guida, in modo da avvicinarsi quanto più possibile alla piattaforma.
 
“Stai davvero dando ascolto al ragazzino?”
La Stewart smise di giocare con il pugnale. Si raddrizzò sul sedile e la tensione le irrigidì i lineamenti.
 
“Collins ha ragione.”
Bennet era un uomo di poche parole. Dava l’impressione di essere sempre sulle sue, invece era attento a tutto ciò che gli accadeva intorno. Si adattava velocemente al modus operandi dei colleghi e memorizzava le scelte che essi prendevano quando erano posti dinanzi a determinate situazioni. Quelle scelte dicevano molto di una persona e delle sue priorità. Le priorità di Steve Rogers erano gli innocenti e i compagni che lo affiancavano. Non avrebbe mai sacrificato la vita di nessuno di loro, nemmeno se ciò avesse comportato il fallimento della missione. Però avrebbe sacrificato se stesso e per questo era sempre in prima linea.
Durante l’intera carriera, Bennet ne aveva conosciuti pochissimi di tale raro stampo e doveva ad uno di loro il privilegio di essere ancora vivo. Se c’era anche solo una possibilità che Steve Rogers avesse bisogno di una mano, non sarebbe stato lui a negargliela. Collins era sveglio e capace. Se anche il ragazzo avesse tardato a dare loro notizie una volta sceso là sotto, lo avrebbe raggiunto subito dopo aver chiamato i rinforzi.
 
“Grazie, ti devo un favore.”
Daniel era già di fronte al portellone posteriore, rampino alla mano.
 
“Fate come volete, ma sappiate che non voglio responsabilità” volle sottolineare Janet e mantenne la posizione, non muovendo un dito nemmeno quando Daniel si ritrovò penzoloni a qualche metro di troppo da terra, attaccato alla corda del rampino fissato alla buona.
 
Collins non si fece scoraggiare dall’altezza che lo separava dalla piattaforma, né dal vento poco favorevole e tantomeno dalla pioggia che lo stava infradiciando dalla testa ai piedi. Non appena fu abbastanza sicuro che non sarebbe caduto nell’oceano, si lanciò. Non perse tempo ad esultare per il salto ben riuscito ed entrò nella struttura senza esitazioni.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Era seduto sul bordo del letto da ore. Un bottiglia di vino giaceva distesa al suo fianco, svuotata. Alcune gocce del liquido vermiglio avevano macchiato le lenzuola bianche e sembravano schizzi di sangue. Avrebbe davvero potuto esserci il suo sangue sparso su quelle lenzuola se il demonio che vestiva i panni di una giovane e delicata ragazza avesse deciso di finire ciò che aveva cominciato mesi prima. Era certo che ci fosse Rogers dietro la visita inaspettata.
Quel figlio di puttana proprio non voleva saperne di gettare la spugna. Gli era capitato di sognarlo, bloccato sulla sedia della macchina per la riprogrammazione. Nei suoi sogni tutto andava secondo i piani, nessuna interruzione durante la procedura, nessuna strega nei paraggi. All’inizio il biondo opponeva resistenza al trattamento, ma alla fine si arrendeva e si mostrava pronto a soddisfare ogni sua richiesta. Il risveglio era fastidioso in quelle circostanze.
Steve Rogers si era trasformato in una ossessione da quando era venuto a conoscenza del suo ritrovamento. Prima di allora, Captain America era stato solo un idolo adolescenziale, tutto ciò che un debole ragazzo grassoccio, disadattato e bistrattato avrebbe voluto essere.
 
Ma dato che mai avrebbe potuto essere lui, si sarebbe accontentato di averlo.
 
Con la dipartita di Adam Lewis, Henry avrebbe avuto finalmente il controllo. Non avrebbe più dovuto rendere conto a nessuno. Voleva il controllo. Voleva Steve Rogers. Voleva il controllo.
Nessuno avrebbe più osato prendersi gioco di lui, nessuno gli avrebbe più messo i piedi in testa. Avrebbe avuto la sua rivincita su tutti coloro che avevano riso di lui e del suo piano di voler diventare qualcuno di importante, qualcuno capace di condizionare le sorti dell’umanità.
 
Un bussare insistente lo distolse dai pensieri e da ricordi lontani che l’alcol riusciva ancora a far riemergere. Arrivò alla porta con passo malfermo.
 
“Chi è?” chiese.
 
“Il vino che ha richiesto, signore.”
 
Tempismo perfetto.
Benson aprì la porta e ci mise un po’ a registrare la presenza che si ritrovò di fronte. Una presenza nota, ai piedi della quale c’erano le sue guardie del corpo decedute.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Non era stato difficile raggiungere la sala di controllo. Non c’era anima viva. Arrivò all’ascensore le cui porte erano state palesemente forzate e capì che Rogers e Barnes dovevano essere scesi ai livelli inferiori. Si stava preparando a quella sorta di discesa lungo i cavi d’acciaio, quando voci distinte risalirono dalla tromba cava.
 
“Sei lento” attestò una fredda voce femminile.
 
“Lo saresti anche tu se dovessi trascinarti dietro un peso morto” ribatté a tono un voce profonda, appartenente ad un uomo che istintivamente immaginò bello grosso.
 
Dan tornò sui suoi passi, fino all’ingresso della sala di controllo e si nascose nel corridoio esterno. Rimanendo con le spalle pressate contro la parete, si affacciò quel tanto che bastava per avere una visuale sulla tromba dell’ascensore.
Due individui uscirono dal vano. Un uomo decisamente grosso e una donna dall’aria intimidatoria. Ma non furono loro a preoccuparlo. Daniel smise di respirare alla vista di uno Steve inerme, adagiato sulla spalla dell’uomo. La testa bionda penzolava contro schiena del colosso e dalle punte dei capelli gocciolava acqua mista a sangue.
 
Doveva mantenere la calma. Doveva mantenere la calma. Doveva mantenere la calma.
 
Dan serrò la mascella quando Steve venne messo giù con poca grazia. Fu la donna a sistemarlo seduto, con la schiena appoggiata alla parete, appena di fianco al vano dell’ascensore. La osservò accovacciarsi di fronte a lui e premergli le dita sulla carotide.
 
“È vivo?” domandò il grosso uomo dalla folta barba e Daniel, suo malgrado, lo ringraziò per averlo chiesto.
 
“So quello che faccio. Non commetto errori” fu però la criptica risposta della donna.
 
Il ronzio dei cavi metallici dell’ascensore richiamò la loro attenzione. Qualcosa stava venendo su.
 
“Era ora” commentò il colosso.
 
La cabina salì fino alla sala di controllo e da essa vennero fuori altri due uomini. Uno di loro aveva tratti asiatici e il capo calvo. L’altro, dalla pelle d’ebano, era più alto e robusto.
 
“Mi sono perso il divertimento” affermò il tizio dalla pelle scura, scoccando un’occhiata in direzione di Rogers.
 
“Sii più rapido la prossima volta, Abell” ribatté la donna.
 
“Glaciale come sempre, Darya. Tu e Bart non eravate con Josef?”
 
“Lui è con Barnes. Ci raggiungerà presto. Siamo comunque bloccati qui finché non torneranno a recuperarci.”
 
“Avrebbero potuto aspettare che finissimo quei bastardi. Senza di noi non sarebbero riusciti nemmeno ad entrare qui dentro” si lamentò l’uomo dal capo calvo.
 
“Portare al sicuro l’obiettivo aveva la priorità. Sai come funziona, Jian.”
La donna, Darya, fece forza sulla gambe e tornò in piedi.
 
Daniel non aveva carpito molte informazioni utili dalla breve conversazione. Al di là dei loro nomi, ora sapeva che erano venuti lì per recuperare qualcuno – l’obiettivo – e a fare altro di cui non aveva idea. Adesso stavano aspettando il passaggio che li avrebbe riportati da ovunque venissero. E aveva la netta sensazione che avrebbero portato Steve con loro, altrimenti non si sarebbero scomodati a trascinarselo dietro. Non poteva proprio permettere a quei tizi di portarlo via.
Okay, doveva pensare. Era necessario un piano o anche solo parte di esso. Si sarebbe accontento addirittura di una mezza idea e quella lo solleticò una manciata di secondi dopo essersi spremuto – spappolato – le meningi. Bene. Ora aveva un disperato bisogno di un diversivo e gli frullò in mente una soluzione che avrebbe potuto essere tanto stupida quanto efficace. Dall’ascensore lo separavano sì e no una cinquantina di passi. Era abbastanza vicino e lui era abbastanza veloce. Frugò nelle tasche dei cargo e trovò il suo diversivo.
Mentre il flusso di pensieri prendeva la tangenziale – ti prego fa che funzioni funzionerà deve funzionare oddio farò un casino andrà malissimo invece ce la fai Collins – uscì allo scoperto attirando l’attenzione dei nemici, la mano destra che stringeva una sfera metallica sollevata in bella vista.
 
“Denotazione in quattro, tre, …” avvisò una voce metallica, proveniente dalla sfera stessa.
 
Dan riuscì a scorgere lo sgomento tendere i tratti dei nemici e ghignò mentre lanciava la sfera nella loro direzione. Trattenne il respiro ed espirò solo quando li vide disperdersi all’intento della sala di controllo, nel tentativo di allontanarsi prima che la denotazione li travolgesse. E ovviamente – okay, non era così ovvio, ma ci aveva sperato davvero tanto – non si presero la briga di spostare Rogers.
La fine del conto alla rovescia fu seguito da una miriade di scintille e da una gran quantità di fumo bianco. Collins sapeva che effetto faceva, aveva subito lo stesso raggiro durante l’addestramento allo SHIELD e il supervisore aveva riso parecchio di fronte al panico che si era venuto a creare fra le reclute – come se fosse divertente convincere dei poveri agenti inconsapevoli che sarebbero finiti in pezzi nel giro di pochi secondi.
Daniel arrivò a Steve ancor prima che i quattro individui realizzassero di essere stati raggirati. Lo afferrò per la cinghia sulla spalla destra e lo trascinò all’interno dell’ascensore. Spinse a caso tutti i pulsanti e le porte iniziarono a chiudersi. Incontrò lo sguardo affilato – incazzato – di Bart, l’omone che probabilmente avrebbe potuto spezzarlo come un fuscello e che fortunatamente non riuscì a raggiungere la cabina, non prima che le porte si chiudessero e che questa iniziasse a scendere.
 
“Okay. Okay. Okay” ripeté Dan come un ossesso e schiacciò altrettanto ossessivamente il pulsante per bloccare l’ascensore.
 
Okay. La strategia aveva funzionato. Ora era di nuovo senza un piano. Non sapeva come andare avanti.
Osservò il corpo di Steve, steso sulla schiena e che non dava segni di vita. Dan rimase immobile, spaventato dalla peggiore prospettiva che aveva preso d’assedio il cervello. Si diede dell’idiota e costrinse le gambe a spiantarsi, così da poter raggiungere il compagno. Utilizzò ancora come appiglio le cinghie di supporto per lo scudo – dove era finito lo scudo? – in modo da sistemarlo seduto contro una delle pareti della cabina.
Si accovacciò sulle ginocchia e appoggiò le dita tremanti – dannazione smettila di fare la mammoletta Collins – sulla carotide del super soldato. Quasi gli venne da piangere nel momento in cui percepì il sangue palpitante sotto i polpastrelli.
“Oddio grazie” sussurrò e scostò alcuni ciuffi biondi dalla fronte del compagno, notando lo spacco che percorreva la pelle sottile. Le escoriazioni e i lividi sul viso lo preoccupavano meno del taglio sanguinante che gli circondava il collo livido. Inoltre, c’era il pugnale infilato nella gamba destra e Dan decise di tirarlo fuori prima che il Capitano recuperasse coscienza. Perché Steve si sarebbe ripreso. Lo estrasse con uno strappo secco e non ottenne alcuna reazione, nemmeno la più flebile. Premette sulla ferita per rallentare la fuoriuscita di sangue, ma capì che non sarebbe stato sufficiente, così strappò senza troppi complimenti una delle lunghe maniche della maglia nera che aveva indosso e la legò attorno la ferita. Da Steve ancora nessun segno di ripresa e Dan iniziò a preoccuparsi seriamente.
La preoccupazione si trasformò in ansia quando un rumore sordo risuonò sopra le loro teste. Un primo colpo vibrante ammaccò la parte superiore della cabina.
 
“Cap, devi riprenderti.”
 
Daniel lo scosse leggermente tenendolo per le spalle, ma non ottenne i risultati sperati. I colpi sempre più violenti rimbombavano all’interno dell’ascensore. Scosse Steve una seconda volta, con maggiore insistenza.
 
“Steve, andiamo.”
 
Sobbalzò quando il pannello di metallo cedette e si aprì una fessura. Adesso aveva la certezza di avere a che fare con potenziati parecchio forti. Un paio di mani si infilarono attraverso la fessura e ne forzarono un lembo, in modo da aprire un varco.
Dan tornò a rivolgere l’attenzione a Steve. Gli prese il volto fra le mani, in un gesto che trasudava una buona dose di disperazione.
 
“Ho bisogno di te, Steve. Ti scongiuro svegliati. Per favore.”
 
Il tonfo di un peso ingente che atterrava alle sue spalle fu seguito da altri tre successivi.
 
“Non avresti dovuto prenderti gioco di noi” asserì la voce profonda di Bart.
 
Daniel fece scivolare via le mani dal viso di Steve e si alzò in piedi. Ruotò su sé stesso e si ritrovò a fronteggiare i quattro individui dalla forza sovraumana. Ne erano bastati due per sopraffare Rogers.
Si preparò a lottare, incurante del fatto che molto probabilmente lo avrebbero ridotto ad un ammasso informe di ossa e carne.
 
“Ti avevo detto di rimanere sul jet.”
 
Mai, prima di allora, essere rimproverato gli aveva provocato una scarica di felicità e sollievo.
 
“Adesso si ragiona” convenne l’uomo dalla pelle d’ebano, Abell, il cui sguardo stava brillando di pura eccitazione.
 
Dan spostò lo sguardo su Steve, che lo aveva affiancato. Nonostante le ferite e nonostante si fosse appena ripreso, il Capitano non mostrava segni di incertezza o di sofferenza.
“Stavi tardando e tu non sei mai in ritardo” si giustificò il moro per il fatto di essere dove non avrebbe dovuto essere.
 
“Non ti è bastata la lezione?”
Era stata Darya a parlare e scansò Bart per porsi in testa al gruppo.
 
“Dovrai impegnarti di più. Mi è stato detto che ho la testa dura” la schernì Rogers.
 
A Collins quasi andò di traverso la saliva. Magari sarebbe stato meglio non istigare quei pericolosi tizi più del necessario. Suo malgrado, Steve non era dello stesso avviso.
 
“Prima di cominciare, qualcuno vuole scendere?”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Le interferenze erano subdole. Nell’esatto momento in cui venivano percepite, era già tardi per poterne uscire illesi. Distruggevano gli equilibri, frantumavano le barriere psichiche e rendevano instabili i flussi di energia. Bastava scegliere le frequenze giuste per destabilizzare un oneiriano, anche se era difficile trovarle quelle frequenze.
 
Ma Lewis conosceva i suoi punti deboli. Sapeva come destabilizzarla.
 
Onde elettromagnetiche stavano facendo vibrare l’aria stantia all’interno della base e Anthea aveva perso l’equilibrio e con esso il controllo.
Le fiamme serpeggiarono nei corridoi, consumarono l’ossigeno e finirono per inghiottire la base, inarrestabili e fuori controllo.
Eta, fonte della distruttiva interferenza, aveva eretto una solida barriera di energia per proteggere Lewis, che sembrava sorpreso dai risvolti provocati. Probabilmente il manipolatore si era aspettato di vederla crollare e non scatenare una deflagrazione su larga scala. Povero illuso.
Anthea rimase calma. Non si oppose all’interferenza. Si lasciò travolgere e portare alla deriva, mentre cercava l’unico saldo appiglio che le avrebbe dato l’occasione di porre rimedio ad una parte del male causato da Lewis. Fu come sincronizzarsi su un’altra frequenza, una frequenza a cui nessun altro a parte lei aveva accesso. L’interferenza di Eta si trasformò in un sibilo lontano, appena percettibile.
Intanto, tutto attorno a lei stava bruciando. Eppure, quasi non percepiva il soffocante calore. Al contrario, fu colta alla sprovvista da un’ondata di gelo e dalla sensazione di bagnato sulla pelle.
 
 
“Qualunque cosa tu stia facendo, ti prego fa presto.”
 
 
Concentrò le energie in direzione della barriera che proteggeva Lewis. Eta cercò di reagire. La pece insidiatasi nelle iridi era colata sulle guance pallide ed erano emerse le sottostanti sfumature violette.
 
Le loro energie entrarono in risonanza.
 
L’esplosione che ne seguì portò al collasso dell’intera base e aprì uno squarcio sopra le loro teste, trapassando cemento armato, travi di acciaio e strati di terra.
Un’ondata di fiamme azzurre fuori controllo risalì in superficie e divorò tutto quello che trovò lungo il cammino.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Steve non sono l’unico Soldato d’Inverno.”
 
Ce n’erano altri cinque e quattro di loro si stavano alternando per sfaldare le sue difese. Non conoscevano il gioco di squadra, Steve lo aveva intuito durante lo scontro precedente e adesso ne aveva la conferma. Erano ebbri di un potere che stavano ancora sperimentando e testando, in modo da esplorarne le potenzialità e i limiti – conosceva la sensazione.
Daniel gli stava dando manforte senza azzardare attacchi troppo diretti, optando per una tattica difensiva. Steve non mancava di tenere un occhio su di lui, anche se questo comportava incassare qualche colpo che avrebbe potuto evitare. La spalla sinistra era di nuovo dislocata – poteva ancora usarla però – e immaginò Anthea spiattellarsi una mano sulla faccia – l’avevo appena sistemata, Steve!
L’adrenalina stava toccando picchi talmente elevati da assopire le terminazioni nervose del dolore e spingere le fibre muscolari oltre i già anormali limiti di funzionamento. Era profondamente concentrato e i riflessi rasentavano la predizione.
I suoi avversari dovevano essersene accorti, perché avevano messo via le espressioni divertite, consci che non conveniva giocare troppo con lui.
 
Steve inchiodò Darya alla parete con la mano sinistra stretta attorno alla sua gola e piantò il gomito destro sulla faccia di Abell, che aveva tentato un approccio alle spalle. Scagliò poi la donna contro Bart, spingendo entrambi sulla parte opposta della cabina. Infine, si accertò che Daniel stesse riuscendo a tenere impegnato Jian. Il secondo successivo parò con entrambe le braccia un calcio del super soldato d’ebano e gli afferrò la caviglia prima che riuscisse ad abbassarla. Lo fece ricongiungere con gli altri due super soldati, usandolo alla stregua di un giavellotto.
 
“Mi state intralciando” si alterò Darya, mentre si toglieva di dosso Abell e si rialzava facendo perno su un ginocchio di Bart, il quale era con il sedere per terra proprio dietro di lei.
 
Rogers afferrò Collins per la collottola e lo tirò a sé, impedendo a Jian di affondare il pugno nel costato del ragazzo. Allo stesso tempo, torse il busto e centrò la mandibola dell’uomo con il collo del piede, mandandolo giù, in ginocchio e stordito.
 
“Grazie” farfugliò Dan, tra un respiro affannato e l’altro.
 
Steve sollevò Daniel verso l’alto e lo fece poco prima che Bart invadesse il suo spazio personale. Un calcio fra le scapole da parte di Abell accelerò le dinamiche spingendolo verso il colosso, che lo agguantò al volo per la gola e lo privò del contatto con il pavimento solo per poterlo sbattere schiena a terra.
Schneider si piazzò sul bacino di Rogers e gli strinse i fianchi fra le ginocchia. La reazione del biondo fu troncata sul nascere da Abell e Darya che gli bloccarono le braccia sopra la testa, mentre Jian lo afferrò per le caviglie, privandolo del movimento delle gambe.
 
L’ascensore si riempì di corti respiri affannati e nessuno osò muoversi per i successivi secondi.
 
Bart ghignò vittorioso e avvolse le grandi mani attorno al collo di Steve, posizionando entrambi i pollici in corrispondenza della trachea.
“Mi hai fatto divertire parecchio, biondino. È quasi un peccato che debba già finire.”
 
“Cosa vi ha promesso Adam Lewis?” li prese in contropiede Rogers e Schneider si bloccò prima di iniziare a stringere.
 
“Non sono affari che ti riguardano” fu Abell a rispondere.
 
Steve doveva guadagnare un po’ di tempo e respirare gli faceva ancora comodo. Così tentò un approccio diverso. “Non rispetterà mai il patto. È un bugiardo manipolatore. Fermatevi adesso e…”
 
“Stai parlando troppo” Schneider cominciò ad applicare pressione sulla gola di Rogers, in maniera graduale “E non c’è niente che tu possa offrici”.
 
Ad un cupo fragore seguì il brusco inclinarsi della cabina dell’ascensore. Scivolarono e rotolarono sul lato che pendeva verso il basso. Il diversivo permise a Steve di togliersi di dosso i soldati d’inverno.
Daniel si calò di nuovo giù nella cabina, appeso ad un cavo attaccato alla cintura. Con entrambe le mani afferrò Steve per il braccio sinistro, un attimo prima che l’ascensore precipitasse.
 
“Miseriaccia, non funziona.”
Collins aveva cercato di azionare il meccanismo di riavvolgimento del cavo, ma sembrava inceppato.
Rogers si dondolò per potersi aggrappare ad uno dei cavi metallici che correvano lungo la tromba e, a quel punto, Dan lasciò andare il suo braccio e lo imitò. Udirono distintamente voci e movimento provenire da parecchi metri più in basso, segno inequivocabile che i super soldati stavano già risalendo. Allora anche loro iniziarono la risalita.
 
Steve si concesse un istante di debolezza. Non aveva idea di dove fosse Bucky e sperava che stesse bene.
C’era di mezzo Lewis, questo lo aveva appurato. Perché avesse deciso di prendere di mira il Raft rimaneva un’incognita.
I suoi attuali problemi – grossi problemi e dove diavolo era finito il suo scudo? – furono improvvisamente offuscati. La sensazione che dita d’acciaio roventi gli stessero stritolando il polso sinistro lo colse del tutto alla sprovvista. A malapena fu in grado di tenersi al cavo. Senza alcun tipo di preavviso, un fischio acuto gli trapanò i timpani e immagini sfocate si sostituirono alla realtà.
“Qualunque cosa tu stia facendo, ti prego fa presto” fu l’unico pensiero che ebbe la lucidità di formulare e non si oppose, nemmeno per un istante, perché altrimenti l’avrebbe tagliata fuori.
Dopo un tempo che parve infinito, tutti gli stimoli estranei si spensero e con essi sparì anche il calore rovente arrampicatosi lungo il braccio. Si sentì svuotato. Esausto.
 
Anthea aveva incontrato l’interferenza.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
È buio ed è un buio denso, tanto che è difficile perfino muoversi. Le sembra di essere sott’acqua e la pressione è schiacciante. Ma non si lascerà schiacciare. Ha imparato a resistere a quella pressione distruttiva.
L’oscurità si riempie di sussurri incomprensibili, parole che si intrecciano e si mescolano, perdendo di significato. È una cacofonia assordante e non riesce a comprenderla, non riesce a darle un ordine.
La percepisce. Lei è lì, da qualche parte, immersa nell’oscurità fremente. Vuole raggiungerla. Vuole salvarla.
La cacofonia si spegne e si tramuta in un mormorio quasi impercettibile. Stavolta riesce a distinguere e a riordinare le sillabe dolenti che riemergono dal silenzio imposto.
 
“Aiutami.”
 
La voce è flebile e tremula.
Qualcosa tintinna. Riconosce il suono. Lo ha ascoltato per anni, senza comprenderlo, il tintinnio delle pesanti catene che ha trascinato con sé per troppo tempo, prima di riuscire a liberarsene. Ogni tanto, le capita ancora di sentirlo.
 
“Ti prego. Fa male.”
 
È più vicina. Spinge lo sguardo attraverso l’oscurità. Intorno tutto trema, scosso da forze incomprensibili.
La vede. È così piccola, così fragile, così innocente. E ha paura. È terrorizzata. Le catene che la imprigionano sono troppo pesanti affinché possa sostenerle. La spezzeranno.
Tende una mano verso la piccola innocente, ma l’oscurità la avvolge e la risucchia nel proprio ventre.
Cerca di contrastarla quell’oscurità, di penetrarla. Non è in grado di dissiparla come suo padre ha fatto per lei, perché lei non è luce. Sono gli altri, coloro che la amano, a donarle la luce e lei può solo risplendere di riflesso.
Non riesce a contrastare quell’oscurità. Non riesce a penetrarla. Non è in grado di dissiparla. Tuttavia può accoglierla e farla sua. Così lascia che sia l’oscurità a penetrare in lei e smette di contrastarla.
Improvvisamente sta affogando. Dita lunghe sono avvolte attorno alle caviglie e la trascinano a fondo. Mani bollenti si aggrappano alle membra, ustionano la pelle, distruggono le terminazioni nervose, eppure il dolore non cessa. Il dolore cresce e si autorigenera, miete ogni altra sensazione e monopolizza l’anima, stringendola in un abbraccio indissolubile. L’anima vibra, trema, si contorce sotto il peso del dolore, ma non cade a pezzi.
 
È in grado di sopportarlo il dolore. Lo accoglie, come fosse un vecchio amico.
 
Riesce di nuovo a vederla, l’anima innocente che può ancora lasciarsi l’oscurità alle spalle e camminare su un luminoso sentiero. La piccola può ancora essere luce.
 
“Sono qui. Non avere paura.”
 
La raggiunge e la stringe a sé, in un abbraccio intenso e rassicurante. Non la lascerà andare. La salverà.
La convinzione che il cuore stia per implodere si trasforma in una scarica elettrica che coinvolge l’intricata rete di sinapsi palpitanti. Fa male. Il dolore si insinua nelle viscere e gli anelli roventi di una catena le circondano il collo e sembrano volersi fondere con la pelle, penetrando il sottile strato di carne. La catena attorno al collo stringe, ma non le importa. La bambina innocente non può sopportare il peso delle catene, perciò se ne farà carico lei.
 
“Fa male” pigola la piccola anima straziata.
 
“Lascia che sia io a prendere quel male. Abbassa le tue difese e permettimi di entrare.”
 
La lascia entrare. Il corpo brucia e il calore si converte in adrenalina che corre in arterie e vene. I polmoni si contorcono e le membra tremano. Fa male. Può sopportarlo.

 
 
 
 
 
 
Sollevò le palpebre e un così elementare movimento la prosciugò degli ultimi residui di energia. Rimase immobile, gli occhi rivolti al cielo buio, velato da un grigia cortina di fumo, oltre la quale riusciva a scorgere le stelle che palpitavano nell’oscurità.
 
Forse si era spinta oltre.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Ti serve un minuto?”
 
Collins lo stava guardando con espressione parecchio preoccupata. Avevano raggiunto il terzo livello e nel farlo erano riusciti a mettere una certa distanza fra loro e i soldati d’inverno, guadagnando del tempo per riorganizzarsi. Anche se era strano che non li avessero già raggiunti. Si erano forse persi?
Il livello dell’acqua si era abbassato, perché parte di essa era scivolata all’interno della tromba dell’ascensore. Adesso erano immersi fin poco sopra le caviglie. Avevano superato il corridoio disseminato di cadaveri e stavano continuando ad avanzare senza una meta precisa.
 
“Non sono stanco.”
 
Lo era invece. Anche la resistenza di un super soldato aveva dei limiti e gli attuali avversari la stavano mettendo a dura prova. Inoltre, la sua amabile compagna non avrebbe potuto scegliere momento peggiore per tentare una connessione con lui. Le immagini che aveva visto erano apparse troppo sfocate per capire cosa stesse accadendo. Qualcosa – una scomoda sensazione – gli diceva che lei si era spinta oltre i limiti stabiliti e, suo malgrado, non ne era sorpreso. Sperò solo che lei se la stessa cavando meglio di lui.
 
“Cosa facciamo? Non riesco a mettermi in contatto con Bennet” lo informò Collins.
 
“Sto pensando.”
 
“Lungi da me farti pressione, ma dovresti pensare più in fretta.”
 
Il sibilo dell’aria che veniva tagliata raggiunse l’udito fine di Rogers, i cui riflessi gli permisero di afferrare al volo il suo stesso scudo in vibranio. Diresse lo sguardo verso il fondo del corridoio semibuio che stavano percorrendo. Un’ondata di sollievo portò via parte dell’opprimente tensione e Steve sorrise.
 
Bucky era lì.
 
Lo raggiunse. Lo scudo stretto fra le dita della mano sinistra era percorso da piccole gocce d’acqua. La lampada led sopra le loro teste si era fulminata. Erano all’interno di un cono d’ombra.
 
“Stai bene?” fu la prima cosa di cui volle accertarsi Rogers e cercò gli occhi del compagno.
 
Bucky però abbassò il capo e lo prese per le spalle, si aggrappò ad esse con quella che parve disperazione. Steve ignorò la stretta al cuore e fece per parlare, in modo da poterlo rassicurare e dirgli che sarebbe andato tutto bene, che lo avrebbe portato fuori da lì.
Le parole non vennero mai fuori. Il palmo di metallo finì premuto contro il suo viso e gli mozzò il respiro. L’impeto del violento gesto portò la nuca bionda a cozzare contro una parete del corridoio. I loro sguardi si incontrarono e Steve fu pugnalato dalle iridi gelide e inespressive del Soldato d’Inverno. Quegli occhi furono sufficienti a paralizzarlo.
 
Nonostante lo sgomento, Daniel cercò di fermare Barnes, ma la riluttanza lo rese vulnerabile al manrovescio dritto sulla mandibola che lo stordì tanto da spedirlo in un limbo fra coscienza e incoscienza.
Guidato dal solo istinto di sopravvivenza, Rogers infilò lo scudo nella giuntura del gomito di metallo e la morsa sul viso si aprì con uno scatto secco, consentendogli di riprendere a respirare.
Il Capitano scivolò via dalla parete e Il Soldato d’Inverno seguì il movimento, fronteggiandolo, pronto ad attaccare di nuovo.
 
Steve indietreggiò.
 
Il cuore martellava prepotentemente nel petto, mentre il ricordo dello scontro sull’Helicarrier riemergeva con spaventosa nitidezza. Non costringermi a farlo.
“Bucky fermati” lo implorò e cercò un qualsiasi segno che il suo compagno ci fosse ancora, sotto lo strato di nebbia.
James non parve nemmeno sentirlo e i lineamenti del viso non fecero che indurirsi, tesi da uno stato di distaccata concentrazione.
Steve indietreggiò ancora. Lasciò scivolare lo scudo dalla mano e quello affondò nell’acqua torbida. Un altro passo indietro e le spalle cozzarono contro un petto ampio e solido.
 
“Avevo aspettative più alte su di te” asserì la voce di Markov.
 
Il braccio destro dell’assassino gli circondò il collo e Steve lo artigliò con entrambe le mani, nel tentativo di scollarselo di dosso. Josef allora gli premette il palmo sinistro contro la nuca, bloccandogli la testa.
Di colpo, ogni singolo muscolo perse la tensione adrenalinica che lo aveva spinto a lottare fino a quel momento. La sensazione che stava provando lo riportò indietro nel tempo – una vita indietro – ad uno di quei tanti giorni in cui rimanere immobile era l’unica cosa che riuscisse a fare, privo di forze e sopraffatto da dolori dovuti ad un fisico troppo debole e cagionevole. Ricordava la rabbia e la tristezza. Ricordava il richiamo suadente della resa, ricordava la vocina che gli sussurrava di smettere di combattere, smettere di provarci, smettere di rialzarsi. Finché Bucky non arrivava a rimettere insieme i pezzi.
 
“Cosa gli hai fatto?” chiese Steve fra i denti.
 
Markov soffiò una risata fra i suoi capelli.
“Gli ho ricordato cosa è e qual è il suo posto. Diversamente da noi altri, è sempre stato malleabile, un perfetto burattino. Avanti, Soldat.”
 
“Bucky ti prego torna in te” lo scongiurò ancora Steve a mezza voce. Ma Bucky lo fissava senza vederlo.
 
Il Soldato d’Inverno venne avanti e gli piantò le nocche di metallo nel costato. Rogers ebbe a malapena la possibilità di gemere, perché Markov serrò maggiormente la stretta su di lui. La vista si oscurò totalmente quando il pugno sinistro di Bucky si abbatté violento sul lato del viso. Ne arrivò un secondo e poi un terzo. Steve non tentò nemmeno di proteggersi. Le braccia erano abbandonate lungo i fianchi.
 
“Non fermarti, Soldat” fu il secco ordine di Markov.
 
“Fino alla fine” sussurrò Steve, come se lo stesse ricordando a se stesso e non alla persona davanti a lui.
 
E Bucky esitò. Nello sguardo si accese una scintilla dai toni più caldi. Tale singola e debole scintilla aprì uno squarcio nel velo di nebbia che gli aveva ingrigito le iridi.
 
“Brama. Arrugginito. Diciassette.”
 
La scintilla si affievolì.
 
“Alba. Fornace. Nove. Benigno.”
Markov stava pronunciando parole che per Rogers erano sconnesse ed insensate, eppure per James si tramutarono in scariche elettriche sparate dritte al cervello.
 
“Ritorno. Uno. Vagone merci” pronunciò ancora il super soldato.
 
Sul viso di Bucky tornò distaccata concentrazione e perfino la più sottile inclinazione emotiva gli fu strappata via. Sfumò ogni esitazione.
Il Soldato d’Inverno serrò il pugno di metallo e le nocche seviziarono la debole barriera offerta dalla pelle e fecero vibrare le ossa.
 
“Non era così che avevo immaginato di affrontarti.”
 
La voce tremava a causa del dolore e le gambe erano malferme. Collins cercò di mostrarsi impavido, ma la verità si trovava all’estremo opposto. La parte destra del volto era ricoperta di sangue che veniva giù dalla tempia e dall’attaccatura dei capelli scuri. Perfino la sclera dell’occhio era diventata rossa ed erano visibili i sottili capillari rotti. Non era stata una grande trovata gettarsi sulla traiettoria del braccio di metallo senza innalzare alcuna difesa. A sua discolpa, poteva affermare di non aver avuto alternative valide. Era già al limite delle proprie forze e non aveva idea di come fosse riuscito a sopravvivere fino a quel momento. Il semplice fatto di essersi rimesso in piedi e aver corso fin lì era stato un’impresa colossale. In realtà, un’altra cosa era riuscito a metterla in pratica e, arrivato a quel punto, doveva solo fare un ultimo sforzo. Essere sottovalutati poteva risultare un grosso vantaggio a volte.
Mezzo giro su se stesso lo portò faccia a faccia con Steve e incontrò il suo sguardo vacuo. Daniel si aggrappò alle braccia di Markov con entrambe le mani, un attimo prima che le dita fredde di Barnes lo afferrassero per il retro del collo e lo tirassero via.
L’acqua non attutì molto l’impatto con il pavimento e si risollevò tossendo, mentre continuava a contare alla rovescia. Non si mosse quando James venne nella sua direzione e nemmeno quando Steve lo pregò di allontanarsi.
 
Zero.
 
Barnes si irrigidì, sopraffatto da una scarica elettrica ad alta intensità che si diramò a partire dal fianco sinistro, dove Collins aveva fissato un piccolo dispositivo circolare che ora lampeggiava di una luce gialla. Poco dopo, lo stesso led si accese sul braccio destro di Markov e anche lui fu colto da violente convulsioni, che finirono in parte per coinvolgere anche Rogers.
 
Sotto gli occhi di Dan, i tre super soldati si accasciarono a terra, schiavi di dolorosi spasmi muscolari.
 
“Scusami, Steve.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Il risveglio fu traumatico. Riprese coscienza nel pieno del processo rigenerativo che stava ricostruendo interi strati di pelle carbonizzati dalle fiamme. Non appena i muscoli terminarono di autorigenerarsi e tornarono a supportare le ossa, si alzò in piedi. Era fottutamente doloroso e non era abituato al dolore. Però lo conosceva bene il dolore, lo aveva visto prendere possesso di un numero considerevole di corpi.
Essere in grado di sopportare il dolore e non temerlo poteva rendere un individuo pericoloso, potente, persino inarrestabile. Per questo aveva fatto in modo che Anthea imparasse ad accogliere il dolore e a trasformarlo in forza.
Più grande era il dolore, più grande era la forza che la sua bambina sprigionava e la prova ce l’aveva dinanzi agli occhi, si estendeva per centinaia di metri. Anthea aveva incenerito qualsiasi cosa – vivente e non vivente – si trovasse nel raggio di almeno mezzo chilometro, compresi tutti i soldati che erano rimasti appostati fuori dalla base.
Adam si mosse fra le ceneri. Brandelli di vestiti si erano fusi con la pelle ancora ustionata. La trovò, stesa sulla schiena, ricoperta di cenere e sangue, gli occhi sbarrati rivolti al cielo e il respiro accelerato. Ora che la foresta intorno alla base era stata spazzata via, la pallida luce della luna che penetrava la cortina di fumo poteva rischiarare il buio della notte. Il tenue chiarore rendeva visibili le fibre muscolari scoperte delle braccia e dell’addome della ragazza e Lewis attese di vedere il processo rigenerativo attivarsi e riparare i danni. Ma non accadde.
 
“Perché?” c’era rabbia nella voce dell’uomo ed incredulità.
 
Anthea distese le dita della mano destra, che aveva testardamente tenuto strette in un pugno tremante. Sul palmo giaceva un candido pezzo di stoffa, sporco di terra e sangue. Lewis lo riconobbe.
 
“Cosa hai fatto?”
 
L’oneiriana si sforzò di sorridere. Gli angoli della bocca furono scossi da tremiti quasi impercettibili. Una lacrima scivolò dall’occhio destro e le segnò la guancia imbrattata di sangue e cenere.
Lewis rimase immobile, la sua ombra le oscurava parte del viso. Non poteva finire così, i piani non erano quelli. Non doveva andare così.
 
“Cosa hai fatto?” domandò una seconda volta.
 
“Cenere alla cenere” fu la flebile e sola risposta che ottenne da lei.
 
L’aria venne scossa da una corrente calda. Il vento erose il corpo di Anthea e, quando Adam cercò di afferrarlo, si ritrovò ad affondare le mani nella cenere.
Colto da un moto di panico, si guardò intorno con frenesia. Non c’era traccia di Eta.
 
“Signore! Dobbiamo andare!”
 
Lewis si era accorto a malapena dell’arrivo dei suoi uomini, quelli rimasti vicini ai mezzi di traposto e abbastanza lontani da non essere inceneriti.
Il rumore di un elicottero in avvicinamento li fece agitare maggiormente e Adam si lasciò trascinare via da lì.
 
Aveva appena perduto le sue insostituibili armi.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La gelida pioggia lo aiutò a tornare vigile. Dalle punte dei capelli scivolavano rivoli di acqua, alcuni dei quali erano insozzati da sfumature rossastre.
 
“No, ti prego.”
 
Il battito cardiaco subì una brusca accelerazione e Daniel provò vero e proprio sconforto. Tutta la fatica fatta per arrivare sulla sommità della prigione, con il solo obiettivo di chiedere supporto ai loro compagni, si era appena rivelata vana. Il loro jet giaceva sulla piattaforma di atterraggio, mezzo distrutto. Un secondo jet era invece in volo e sembrava pronto a partire.
Rogers fece scivolare Barnes giù dalle proprie spalle e lo stese a terra con attenzione. “Rimani con lui” disse e Collins annuì, per poi guardarlo correre in direzione del jet precipitato, incurante della pioggia battente, del forte vento, della presenza del velivolo nemico e dello stato in cui era ridotto.
Il Capitano sollevò e piegò pezzi del jet ricorrendo ad ogni brandello di forza ancora in suo possesso. Non si fermò finché non riuscì a raggiungere Bennet e la Stewart.
 
“Tu. Me la pagherai.”
 
Daniel si voltò indietro e, di nuovo, il cuore prese a scalpitare con un’insistenza quasi dolorosa.
Markov era lì ed era visibilmente incazzato. Si era ripreso troppo velocemente, nonostante gli avesse lasciato addosso altri due di quei dispositivi ad alto voltaggio. Un uomo normale sarebbe morto almeno un paio di volte – se fosse stato possibile morire più di una volta.
Daniel si frappose fra l’assassino e il corpo privo di sensi di Bucky, anche se al momento non si sentiva molto sicuro nel dare le spalle al Soldato d’Inverno. Il Capitano, d’altro canto, stava ancora tirando fuori i loro compagni dal velivolo. Doveva guadagnare tempo.
 
‘Respira. Concentrati. Non farti sopraffare dalla paura’ si ripeté Dan, poco prima che Markov lo attaccasse.
 
Mantenere la calma era arduo quando faticava perfino a capire da dove arrivassero gli attacchi, distruttivi e precisi. Markov sapeva dove colpire per rompere gli equilibri, spezzare il fiato e mandare in tilt il sistema nervoso. Dan ci provò con tutte le forze che aveva in corpo a resistergli. Fece uso di ogni tattica appresa e perfezionata. I colpi inferti non ebbero alcun effetto, mentre ogni colpo subito gli fece vibrare pericolosamente le ossa e, ancor prima che fosse in grado di rendersene conto, si ritrovò in ginocchio boccheggiante, le braccia strette attorno allo stomaco. Era stremato e sull’orlo della disperazione.
 
L’attenzione di Markov deviò.
 
“Perché non vieni a rivalutare le tue aspettative?” lo invitò Rogers, che li aveva raggiunti appena in tempo.
 
Markov non se lo fece ripetere una seconda volta e iniziarono a darsele di santa ragione, grondanti di acqua. Lottando, si spinsero vicendevolmente verso il bordo della piattaforma. Un lampo improvviso illuminò a giorno il cielo e il rombo del tuono fece vibrare l’aria. I due super soldati a malapena lo notarono, troppo concentrati nel cercare di farsi a pezzi.
Lo scontro era equilibrato e rimase tale fino al momento in cui Rogers premette in modo brusco le mani sulle tempie e serrò le palpebre. Markov non si preoccupò di chiedersi cosa stesse accadendo al suo avversario e sfruttò l’occasione per spingerlo carponi.
 
“Ti dispiace se ci fermiamo qui? Io sono a corto di tempo e tu sei finito.”
 
Il jet nemico scese di quota. La rampa era abbassata e Darya era in piedi su di essa, in attesa.
Josef agguantò Steve per i capelli, lo tirò in piedi senza sforzo e lo trascinò a ridosso del bordo della piattaforma. Un noto scatto metallico raggiunse l’udito fine dell’assassino che, rapido, spostò la presa sul collo del biondo e lo costrinse ad indietreggiare finché non fu sospeso nel vuoto, sopra l’oceano infuriato.
 
“Uccidimi e lui verrà con me.”
 
“Giuro che troverò il modo di farti a pezzi” fu la promessa che ricevette dal Soldato d’Inverno.
 
“Parole grosse per uno che non è in grado di opporsi ad un insulso lavaggio del cervello” gli ricordò Markov, la voce impastata di tagliente ironia. “Getta l’arma” ordinò.
 
Barnes lasciò cadere la pistola che aveva stretta nella mano destra. Fissò le iridi tornate limpide sul viso contratto di Steve e scorse sollievo dietro il velo di sofferenza. D’istinto, tentò di avvicinarsi.
 
“Non lo farei se fossi in te” lo avvisò l’assassino e le sue dita scavarono solchi più profondi sulla gola già martoriata che tenevano saldamente.
 
“Lascialo andare” berciò James, colto da un moto di rabbia e panico mischiati insieme.
 
“Attento a quello che chiedi.”
Markov girò il capo per poter guardare Barnes e sbattergli in faccia un ghigno sarcastico.
 
Una distrazione.
 
Rogers slanciò le gambe in avanti e si aggrappò con forza al braccio che lo teneva sospeso. Il movimento lo riportò sulla piattaforma, più precisamente sopra Markov, caduto sulla schiena.
L’assassino reagì istantaneamente, cercando di tornare in piedi, e l’impeto con cui lo fece fu deleterio per entrambi i super soldati, perché finirono per oltrepassare il bordo della piattaforma. Si aggrapparono l’uno all’altro, perché nessuno dei due aveva intenzione di finire a fondo da solo.
 
Bucky si era mosso il più velocemente possibile, ma non era riuscito a raggiungere Steve in tempo. Allora, senza alcuna esitazione, lo seguì.
 
 
 
 
Dan vide Rogers e Markov cadere nel vuoto. E vide Barnes lanciarsi dalla piattaforma.
Non fu in grado di fare niente. Il corpo, rannicchiato in posizione fetale, si rifiutava di muoversi. Era inerme sotto la pioggia scrosciante, torturato da una dolorosa morsa allo stomaco.
 
Una ordinaria missione di soccorso si era appena trasformata in una disastrosa disfatta.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Note
 
Un grazie sentito a tutti coloro che sono giunti fin qui ❤️
Il frammento iniziale è estratto dalla canzone “Monsters” degli Shinedown.
 
Un abbraccio,
 
 
Ella

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Capitolo 30
*** Calm down ***


Calm down
 
 
 
Trust me
There’s no need to fear
Everyone’s here
Waiting for you to finally be one of us
Calm down
You may be full of fear
But you’ll be safe here
When you finally trust me
Finally believe in me
I will let you down
I’ll let you down I’ll
When you finally trust me
Finally believe in me
 
 
 
Uno
Due
Tre
Quattro
Cinque
 
 
Un freddo pungente, fatto di spilli affilati piantati nella carne, era penetrato fino a raggiungere le ossa. La sensazione era spaventosamente familiare.
 
 
Tredici
Quattordici
Quindici
Sedici
Diciassette
 
 
I polmoni erano paralizzati e, per quanto si sforzasse, non riusciva a respirare. Una pressione cadenzata piegava lo sterno e le costole.
 
 
Ventisei
Ventisette
Ventotto
Ventinove
Trenta
 
 
Aria calda venne soffiata fra le gelide labbra, attraversò la trachea e raggiunse i polmoni, che furono costretti a dilatarsi per accoglierla.
“Andiamo respira” fu la graffiante esortazione seguita da un adirato “Cazzo se muori adesso giuro che ti faccio a pezzi”.
 
 
Uno
Due
 
 
Il corpo reagì con uno spasimo violento, superò il torpore e il sangue riprese a scorrere con più forza nei vasi, sospinto dal ritmo sempre più incalzante del cuore. L’istinto di sopravvivenza prevalse e si aggrappò alla vita con le unghie e con i denti.
 
 
Ventisei
Ventisette
 
 
Tossì. Forte. Le terminazioni nervose tornarono in funzione, i recettori si riaccesero quasi all’unisono e seguirono in coro stilettate di dolore lungo ogni fibra muscolare. Mani estranee lo ruotarono sul fianco sinistro e altre lo afferrarono per le braccia. L’acqua abbandonò i polmoni fino a svuotarli.
 
 
E tornò a respirare.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
I polmoni erano in fiamme e il gelo gli si era appiccicato addosso. I muscoli irrigiditi dolevano tanto da indurlo a rimanere fermo. Fu di nuovo in grado di mettere a fuoco, nonostante le macchie scure che ancora offuscavano la vista. Riconobbe il viso sopra di lui e gli fece un certo effetto vederlo così preoccupato, privo di vena ironica.
 
“Stark…”
 
“Dovevate chiamare. Dovevate chiamare dannazione.”
 
Tony era all’interno dell’armatura, accovacciato al suo fianco, ma non indossava l’elmo. Lo aiutò a mettersi seduto con più premura di quella che si sarebbe aspettato da lui.
 
“Cosa è successo?”
 
“Speravo fossi tu a spiegarmelo e… aspetta” l’elmetto rosso e oro prese forma e tornò a protezione del capo, nascondendo l’espressione di Tony. “Ross sta arrivando” riferì la voce resa metallica “Dobbiamo…”
 
“Dov’è?”
Uno sprazzo di lucidità riportò a galla le immagini degli ultimi eventi. L’agitazione prese possesso delle deboli membra e le fece tremare dall’interno. Si guardò intorno, allarmato.
Aveva smesso di piovere. C’era ancora il loro jet – distrutto – sulla piattaforma. Riconobbe il Quinjet e poco lontano intercettò una figura immobile, in piedi, con lo sguardo fisso su un punto indefinito dell’orizzonte. Collins. La metà destra del suo viso era ricoperta di sangue rappreso, perfino l’occhio era iniettato di  sangue. Sembrava devastato e non solo fisicamente.
“Dov’è?” ripeté senza preoccuparsi di sopprimere il tremito nella voce. Non poter guardare Stark in faccia lo rendeva nervoso, perché non aveva modo di leggerlo ed era costretto ad aspettare che si decidesse a parlare. Quando Stark era a corto di parole non era mai un buon segno.
 
“Ho perso il segnale del suo localizzatore” la nota metallica che macchiava la voce eclissò le emozioni.
 
“Di quale localizzatore stai parlando?”
 
“L’ho messo nelle vostre uniformi e lo utilizzo per localizzarvi solo in caso di emergenza” confessò Iron Man “e il suo sembra essere uscito dall’oceano per poi volatilizzarsi.”
 
Era confuso e la mente annebbiata non gli era d’aiuto. Decise di sorvolare sulla questione localizzatori, anche perché quei localizzatori erano il motivo per cui non era annegato nell’oceano.
“Dobbiamo trovarlo” si alzò in piedi e sarebbe ricaduto a terra con uno schianto secco se Stark non lo avesse sostenuto prontamente “Dobbiamo muoverci adesso” ti prego.
 
“Non sei nelle condizioni di…”
 
“È mia la colpa” berciò, scostandosi bruscamente dal solido appoggio offertogli dall’armatura.
 
“L’autocommiserazione non aiuterà nessuno. Spiegami cosa è successo” si impose Stark “e fallo in fretta, perché Ross sta arrivando e con lui qui diventerà tutto più complicato.”
 
Afferrò ciuffi fradici appiccicati sulla fronte in un gesto di pura frustrazione. “Dannazione… io…”
 
Le solide dita di Iron Man lo afferrarono per le spalle e strinsero. “Sta’ calmo” lo pregò e gli sfuggì addirittura un per favore flebile eppure perfettamente udibile. La maschera metallica si dissolse, rivelando la rabbia e la preoccupazione che avevano reso torbide le iridi nocciola dell’uomo sfinito che gli stava di fronte.
 
“Spiegami. Dall’inizio.”
 
Si arrese alla risolutezza di Stark e soffocò l’urgenza di muoversi, di iniziare a cercarlo.
 
“Esistono altri soldati d’inverno e Adam Lewis li ha trovati.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Giù le mani. È mio.”
 
Anche quando ogni contatto si dissolse, continuò a rimanere immobile, steso su un fianco. L’uomo che si era appena pronunciato era accovacciato di fianco a lui, poteva vederne il ginocchio destro poggiato a terra. Venne rigirato sulla schiena e, non appena si rese conto di chi avesse davanti, nella mente si accalcarono, subdoli, ricordi ancora vividi, tremendamente vividi. Non riuscì a ricacciarli indietro, non fu in grado di rattoppare i buchi in tempo, e le scomode emozioni dilagarono all’esterno, spingendolo ad aggrapparsi a ogni brandello di forza in suo possesso. Tuttavia, il corpo non rispose come avrebbe dovuto. Il polso destro finì intrappolato in una presa ferrea e il sinistro lo seguì a ruota.
 
“Sta’ calmo” fu l’avvertimento intessuto di glaciale fermezza che ricevette. Avvertimento numero uno.
 
“Lasciami.”
Tentò di reagire ricorrendo ad una testata, ma Brock Rumlow si tirò indietro con tempismo perfetto e gli dedicò un sorrisetto compiaciuto.
 
“Bel tentativo. Non riprovarci.” Avvertimento numero due.
 
All’interno del suo campo visivo entrarono ulteriori individui ostili e colse le dolorosamente note scintille dei teaser. Un verso di pura frustrazione gli fece vibrare le corde vocali, mentre si sforzava di far funzionare le attualmente reticenti fibre muscolari.
 
“State indietro. Ci penso io.”
 
“Ma capo…” provò a protestare uno dei suddetti individui ostili.
 
“Non osate toccarlo. Ho detto che ci penso io” ribadì Rumlow, perentorio, e stavolta nessuno si azzardò a contraddirlo. “E tu calmati dannazione” berciò poi rivolto a Rogers. Avvertimento numero tre.
 
Steve non smise di opporsi perché glielo aveva caldamente consigliato il suo ex collega, ma perché era sfinito. Però sostenne lo sguardo irriverente che Rumlow gli stava sbattendo in faccia e, in modo del tutto inaspettato, la presa sui polsi si allentò fino a lasciarlo andare.
 
“Fa’ il bravo.” Avvertimento numero quattro. “Mi devi un grosso favore, ragazzo” Brock lo tirò su a sedere afferrandolo per il colletto dell’uniforme fradicia. “Ti ho appena salvato il culo” ci tenne a sottolineare, mentre lo analizzava con occhio critico. “La tua faccia è un vero casino” sogghignò divertito – molto divertito.
 
Steve ignorò il commento indelicato e si guardò intorno. Erano all’interno di un jet e diversi individui poco raccomandabili lo stavano tenendo d’occhio. Erano visibilmente tesi e nervosi, pronti a saltargli addosso se lo avessero ritenuto necessario. Il solo pensiero di dover ricominciare a combattere gli dava la nausea al momento. Perfino rimanere seduto costituiva una sofferenza non indifferente. Ogni respiro era seguito da grida silenti del costato, che di accompagnare l’usuale movimento oscillatorio non ne voleva sapere. Il braccio di metallo di Bucky era micidiale… Bucky.
Ricordava la caduta, l’acqua gelida e la corrente incontrastabile dell’oceano. Qualcuno aveva cercato di afferrarlo. Poi il buio. Ciò che era accaduto prima della caduta lo colpì invece duramente, fu un invisibile schiaffo in faccia, uno di quelli che riesce a far bruciare l’anima ancor più della guancia lesa.
 
“Riportami indietro.”
 
“Rogers…” Avvertimento numero quattro e mezzo.
 
“Riportami indietro adesso” ripeté Steve e spinse via Brock. O meglio, ci provò a spingerlo via, perché a malapena fu capace di sollevare le braccia.
 
Di risposta, seccato dalla mancanza di collaborazione, Rumlow gli piazzò un manrovescio sul lato destro del viso – viso già abbastanza martoriato – e lo agguantò per i capelli. Il super soldato aveva gli occhi liquidi e arrossati, lo zigomo destro violaceo e gonfio, il labbro inferiore spaccato e si era appena riaperto il taglio sulla fronte. L’aspetto devastato era il riflesso perfetto della sua interiorità.
“Sta’ calmo e ascoltami” Brock gli piantò addosso uno sguardo tagliente ma la presa sui capelli si ammorbidì “I tuoi compagni sono fuori pericolo” lasciò andare i ciuffi biondi e spostò la mano callosa sul retro del collo, un invito a non fare cazzate. Ultimo avvertimento.
 
Il Capitano non si sottrasse al tocco dell’ex collega e gli consegnò temporaneamente la tanto bramata sensazione di controllo.
“Come so che non stai mentendo?”
 
“Hai la mia parola.”
 
Nonostante la posizione sfavorevole – ed era un eufemismo considerando l’attuale incapacità di difendersi – Rogers si lasciò scappare una mezza risata e ignorò la pressione più insistente del ruvido pollice sul collo, in prossimità della vistosa ferita lasciata dal tentato strangolamento.
“La tua parola? È davvero così che vuoi convincermi?”
 
Rumlow non perse il ghigno affilato. “Valeva la pena tentare. Sai, vorrei evitare di ricorrere a maniere meno gentili” minacciò con invidiabile sicurezza.
 
“Allora ti conviene riportarmi…”
 
“Insieme potremmo scovare Lewis e dalla tua faccia deduco che la cosa ti interessi.”
 
Era ovvio che, nonostante la disponibilità mostrata, Rumlow non avrebbe accettato un no come risposta, anche se aveva palesemente dovuto sforzarsi per pronunciare la parola insieme senza mostrarsi nauseato.
 
“Se scopro che stai cercando di raggirarmi giuro che te ne farò pentire amaramente.”
 
“Potevi almeno tornare sulle tue gambe prima di iniziare a minacciare. Saresti stato più credibile.”
Fu un’azione improvvisa. Brock si tirò su e trascinò con sé il biondo. Lo tenne per il colletto dell’uniforme e lo guardò dritto negli occhi. “Riprova adesso” lo esortò con malizioso sarcasmo. Tuttavia, nonostante la provocazione, Rumlow fece scivolare il braccio destro attorno ai fianchi di Rogers e lo aiutò a rimanere stabile sulle gambe malferme.
 
Steve non scansò il tacito sostegno, anche perché crollare a terra sarebbe stato ancor meno dignitoso.
“Loro sono davvero fuori pericolo?”
 
Rumlow divenne serio, parecchio serio. “Sappiamo che Stark è arrivato al Raft e che ha recuperato il tuo amico. Abbiamo intercettato le comunicazioni e sei tu l’unico a risultare disperso” fece una pausa ben calcolata prima di sganciargli addosso un secco “Allora sei con me?” che suonava più come un ‘basta tergiversare e dammi ciò che voglio’.
 
C’erano tante, troppe motivazioni per rifiutare l’offerta e saltare giù da quel jet nel minor tempo possibile. Ma, seppur in minoranza, esistevano ragioni che demolivano tutte le altre e per una di queste avrebbe fatto qualsiasi cosa. Durante lo scontro con Markov, per alcuni istanti, alla realtà si erano sostituite immagini di fiamme ardenti e aveva visto una bambina nel mezzo di quell’inferno, poi aveva udito una voce supplicare aiuto, infine ogni stimolo estraneo si era dissolto ed era rimasta solamente una emicrania di tutto rispetto. Doveva essere accaduto qualcosa di grosso e Lewis era coinvolto. Anthea non avrebbe mai tentato una connessione così intensa se non l’avesse ritenuto davvero necessario. E se l’aveva ritenuto necessario, significava che la sua stabilità e il suo equilibrio interiore erano stati prossimi a spezzarsi.
 
“Quale sarebbe il tuo piano?”
 
“Non essere impaziente. E per chiarezza, sono io al comando, in onore dei vecchi tempi.”
 
Rogers non protestò. Rumlow parve soddisfatto e – continuando a sorreggerlo – lo guidò verso i sedili del velivolo. Gli altri individui poco raccomandabili – molto probabilmente affiliati dell’Hydra – si scansarono per lasciarli passare.
Sotto i loro sguardi taglienti, Steve sentì l’esigenza di tornare a camminare a testa alta, per mostrarsi forte e pericoloso. Invece era costretto ad appoggiarsi ad un nemico. Aveva perso il conto di quante volte Brock Rumlow avesse tentato di ucciderlo.
“Come posso avere la certezza che non mi tradirai di nuovo?” la rimostranza era legittima.
 
“Non puoi averla. Ma se può farti stare più tranquillo vedila in questo modo. Avrei potuto fare di te qualsiasi cosa mi fosse passata per la testa. Qualsiasi.”
 
“È una buona argomentazione.”
 
“È un’ottima argomentazione, Rogers. E anche l’unica che avrai, quindi fammi il favore di tenerla bene a mente.”
 
“Non basterà” fu l’affilata replica del Capitano.
 
Rumlow decise di approfittare dei riflessi annebbiati di Rogers. Bloccò il passo, piazzandosi proprio di fronte a lui, e gli afferrò il polso sinistro usando la mano sinistra. Proseguì con uno strattone deciso, posizionando al contempo il palmo libero sull’articolazione della spalla sinistra del super soldato in vena di sfidarlo quando a malapena si reggeva in piedi. La spalla emise un rumore agghiacciante e Rogers serrò le labbra per costringersi a rimanere in rigoroso silenzio. Rumlow mollò la presa e lo spinse indietro, facendolo cadere seduto su uno dei sedili liberi.
“Spalla dislocata” spiegò infine – come se niente fosse – l’ex agente dello SHIELD, mentre si appoggiava ai braccioli del sedile e si sporgeva in avanti “e ho appena avuto un’altra occasione per farti fuori” fece notare al biondo, sussurrandogli quella scomoda verità ad un soffio dal viso.
 
“Comincio già a pentirmi di non essermi lanciato fuori da qui” fu il flebile commento di Steve.
 
“È troppo tardi per tornare indietro.”
 
“Me lo avresti mai permesso?”
 
Rumlow si stampò in faccia l’ennesimo ghigno saccente. Non rispose e passò oltre.
“Ci sono degli abiti civili per te, però prima rattoppiamo le ferite. Morto saresti inutile ma lo sei anche in queste condizioni pietose.”
 
Solo allora Steve registrò che Brock stava indossando un paio di jeans e un’attillata maglietta nera. Non era in assetto da battaglia. Portava perfino un cappello nero che imbruniva le iridi già scure.
 
“Mi rammarica non essere all’altezza delle tue aspettative.”
 
Rumlow spostò la mano destra dal bracciolo del sedile alla spalla sinistra del super soldato ed esercitò una leggera pressione con tutte e cinque le dita. “Troverai il modo per farti perdonare. Adesso basta parlare e via l’uniforme.”
 
 
Come riuscirono a non saltarsi alla gola in quell’esatto momento sarebbe rimasto un mistero.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
1° luglio 2015
Raft, 05:15

 

“Dove si trova?”
 
L’ira del Segretario di Stato si scontrò con la facciata di distacco del Soldato d’Inverno e l’espressione tesa – dalla rabbia – di Falcon.
La piattaforma di atterraggio del Raft era gremita di soldati in mimetica che si muovevano dentro e fuori la struttura, in cerca di qualsiasi indizio permettesse di capire come una delle prigioni più inespugnabili fosse stata violata con tanta facilità. Sui video di sorveglianza non c’era niente e l’assenza di sopravvissuti aveva finito per seppellire la verità. Da poco era arrivata sul posto una squadra medica, che si stava occupando degli sfortunati che avevano perso la vita. Fin troppe famiglie avrebbero dovuto affrontare l’inferno.
Bennet era stato trasportato d’urgenza nel primo ospedale raggiungibile. La Stewart aveva invece rifiutato di ricevere il primo soccorso e, diligente e silenziosa, stava aiutando a ripristinare l’integrità delle misure di sicurezza della prigione.
 
“Tu sai dov’è, vero? Parla” stavolta Ross puntò direttamente Barnes.
Il Segretario era incazzato, eccome se lo era. Non ricevere le risposte volute alimentava la possibilità che prendesse decisioni drastiche. Tuttavia, tale possibilità non destava alcuna preoccupazione nelle persone che gli erano di fronte.
 
“Non abbiamo nient’altro da dirle.”
Sam si piazzò davanti a Bucky e fronteggiò Ross, pronto ad affrontare quest’ultimo senza esitazione. Era stanco di dover sottostare ad una autorità per cui aveva perduto il rispetto ed era pronto a farsi carico delle conseguenze che sarebbero scaturite andando contro quella stessa autorità.
 
L’impasse venne sciolta dall’arrivo di una persona rimasta stranamente in disparte.
 
“Togliti di mezzo, Ross.”
 
“Attento, Stark.”
 
Tony stava avanzando con una lentezza quasi frustrante. Emanava una calma ed una risolutezza che poco gli si addicevano, eppure la credibilità era incontestabile. La mano destra era stretta sul bordo dello scudo in vibranio, che oscillava e batteva sulla gamba ad ogni passo. Tony raggiunse il fianco di Sam e lì si fermò, con gli occhi fissi in quelli del Segretario. Non vi era neppure l’ombra di un accenno del solito sorrisetto sarcastico sulla bocca e una luce pericolosa – fredda – gli stava facendo brillare le iridi ambrate. Era fuori dall’armatura, la quale era ferma davanti al Quinjet, in attesa di un qualsiasi segnale da parte del suo creatore.
 
“C’è un accordo…” cominciò Ross e fu interrotto subito.
 
“È saltato. Questa stronzata è giunta al termine, fattene una ragione.” Il tono di Stark non era salito, ma ciò non rese le sue parole meno forti.
 
“Non percorrerei questa strada se fossi in te” minacciò apertamente il Segretario.
 
“Ma tu non sei in me e adesso, senza il tuo permesso, vado a risolvere il casino che hai contribuito a creare.”
 
Tony tornò a muoversi e superò Ross, passandogli accanto senza degnarlo di un solo altro sguardo. Perché anche Tony Stark era incazzato e non aveva intenzione di sprecare tempo prezioso in discussioni che non avrebbero portato a niente, se non ad un suo probabile esaurimento nervoso.
 
“Stark” lo richiamò il Segretario. Una specie di ultimo avvertimento.
 
“Prova a fermarmi” fu la secca risposta di Tony, che né si fermò né si voltò indietro.
 
Ross non fece niente. Scosse il capo, frustrato, e decise di battere temporaneamente in ritirata. Era almeno un’ora che cercava di ottenere risposte illuminanti su quanto accaduto. Le uniche informazioni ricavate riportavano scialbe mezze verità. Tuttavia, quando Stark gli aveva chiesto il possibile motivo di quell’attacco e se mancasse all’appello qualche prigioniero degno di nota, anche Ross aveva fatto ricorso a mezze verità. “Abbiamo rinchiuso qui i potenziati catturati. Li hanno uccisi tutti” si era limitato a dire.
Era ovvio che Stark non gli avesse creduto ma neppure aveva fatto domande, lasciando intendere che sarebbe stato lui stesso a trovare le risposte di cui aveva bisogno.
 
Ross fu costretto ad accettare di aver perduto il controllo.
 
 
 



 







 
Località non definita
 
 
Rogers si riscosse quando, con poca gentilezza, gli venne calcato un cappello sulla testa. La pressione di dita sul collo fu il campanello d’allarme che gli fece recuperare lucidità in fretta. Spinse via la mano entrata nel proprio spazio personale e quel semplice movimento gli costò stilettate di dolore ovunque.
 
“Non agitarti. Controllavo che fossi ancora vivo. Ci siamo quasi” lo avvisò Rumlow, alla guida dell’auto ormai da tre ore buone.
 
Steve notò che si erano inoltrati in un centro abitato, ma non fu in grado di capire dove fossero di preciso. Non era stato molto attento dal momento in cui erano saliti in macchina, solo loro due. Aveva finito per arrendersi alla stanchezza e aveva abbassato le difese, nonostante Rumlow fosse proprio lì accanto a lui. Per l’intero viaggio aveva oscillato fra lo stato di coscienza e quello di incoscienza. Il siero stava ancora lavorando strenuamente per arginare le conseguenze dovute alle ferite subite e per ripristinare le corrette funzioni vitali. Aveva l’assurda sensazione di sentirlo ribollire nelle vene. Gli avevano ricucito il profondo taglio sulla coscia, quello che Schneider gli aveva inferto per ricambiare il favore. Delle bende gli circondavano il collo indolenzito e sfregiato dal laccio metallico della Smirnova. Infine, una garza adesiva copriva lo spacco sulla fronte. Respirare iniziava a fare meno male e l’emicrania si era placata. Il fine tessuto della maglia nera aveva restituito un po’ di calore alla pelle nuda a contatto con esso, mentre i pantaloni verde militare erano freddi al tatto ma si stringevano attorno ai polpacci e alle caviglie abbastanza da evitare l’insinuarsi di fastidiosi spifferi d’aria. Aveva freddo. Ed era strano considerando che fossero in pieno periodo estivo.
Il silenzio si era protratto indisturbato fino ad allora. Rumlow si era limitato a guidare e ogni tanto gli aveva scoccato un’occhiata indagatoria, giusto per accertarsi che respirasse ancora.
Sul cruscotto c’era una bottiglia di plastica quasi vuota, la poca acqua al suo interno oscillava con costanza e un fascio di tiepida luce generava riflessi colorati che si mescolavano e rimescolavano continuamente. Le palpebre si fecero di nuovo pesanti e adagiò la tempia contro il vetro del finestrino. Aveva freddo e brividi persistenti percorrevano e ripercorrevano la schiena senza dargli tregua.
Cercò di concentrarsi sulle persone che passeggiavano lungo i marciapiedi e di immaginare cosa si provasse a vivere in quella normalità dalle sfumature rassicuranti, seppur invasa anch’essa da numerosi problemi e ostacoli da superare.
 
“Steve” lo chiamò Brock, spezzando la linea incerta dei suoi pensieri.
 
Sentirlo pronunciare il suo nome gli fece uno strano effetto. Non tanto per il nome in sé, quanto per l’anomala sfumatura di apprensione che sicuramente si era immaginato. Con la certezza di essere messo peggio di quel che aveva creduto, Steve staccò la tempia dal finestrino e si raddrizzò sul sedile. “Siamo arrivati?” la voce venne fuori rauca ed affaticata.
 
“Sei ancora cosciente. Ottimo” le dita di Rumlow picchiettarono sul volante un paio di volte “Ti hanno conciato per le feste. Provo una certa invidia.”
 
Apprensione. Certo.
Rogers lasciò cadere la testa all’indietro, mentre passava in rassegna – per l’ennesima volta – tutte le buone ragioni per cui doveva sopportare qualsiasi cosa fosse accaduta da quel momento in avanti.
“Non proveresti invidia se vedessi come ne sono usciti gli altri” controbatté, non intenzionato a dargliela vinta, anche se i suddetti altri se l’erano cavata meglio di lui alla fine dei conti.
 
“Quei super soldati sono stati un esperimento riuscito bene ma si sono rivelati ingestibili, proprio come te. Credevo che fossero stati eliminati.”
 
Steve strinse i pugni di entrambe le mani e la mascella guizzò. “Se sono ingestibili come dici, allora perché obbediscono a Lewis?”
 
“Quell’uomo è un manipolatore eccelso” fu la secca risposta dell’ex membro della STRIKE.
 
“Come funziona il controllo mentale che l’Hydra esercitava sul Soldato d’Inverno?” domandò di getto il Capitano.
 
Rumlow staccò gli occhi dalla strada per piantarli sul super soldato. Lo studiò per alcuni secondi e poi, con tutta calma, riportò lo sguardo sulla strada. Ghignò soddisfatto. “Barnes ha cercato di ammazzarti di nuovo?”
 
“Rispondi solo alla domanda, Rumlow.”
 
“Lo ha fatto” asserì Brock sicuro e compiaciuto “Comunque non so esattamente come funziona il tuo amico. Era Pearce a gestirlo.”
 
Steve tornò a rivolgere l’attenzione al di fuori del finestrino.
 
“Dimmi una cosa, Rogers. Quanto tempo ancora impiegherai per recuperare?”
 
“Sto bene.”
 
La risposta sbrigativa del super soldato fu seguita da una schicchera che Rumlow gli piazzò sulla tempia sinistra usando pollice ed indice della mano destra.
 
“Ma che…”
 
“Non lo hai visto arrivare” lo precedette Brock e Rogers, suo malgrado, non ebbe la forza di replicare. Perciò, il silenzio tornò a regnare sovrano.

L’auto scese all’interno di un parcheggio sotterraneo, appartenente a quello che aveva tutta l’aria di essere un grande centro commerciale. C’era un via vai non indifferente di persone.
Rumlow piazzò il veicolo in uno dei posti liberi e spense il motore. Non diede però segno di voler scendere. Si prese un intero minuto di riflessione, rimanendo immobile a fissare un punto indefinito dinanzi a sé. Per un istante, Steve ebbe il timore che Brock ci stesse ripensando e che lo avrebbe fatto fuori proprio lì. Per fortuna, l’uomo ruppe il silenzio fattosi scomodo.
 
“Chiedere la tua collaborazione non è stata una decisione unanime. Inoltre eravamo a corto di uomini e ho dovuto ripiegare su alleati che non stravedono per te.”
 
“Devo guardami le spalle. Messaggio ricevuto.”
Rogers non si sarebbe di certo aspettato un caloroso comitato di accoglienza.
 
“Molti hanno già lavorato con te e sono bravi a fingere che tu gli piaccia. Preferiscono averti come alleato al momento ma non abbassare la guardia” fu l’avviso spassionato che il Capitano ricevette.
 
“Perché tanto disturbo per far fuori un vostro alleato?”
 
“Ci ha traditi. Chi credi che siano quelli che sta usando per fabbricare i suoi potenziati privati della volontà?” la vena sul collo di Brock si era pericolosamente ingrossata “Non ho alcuna intenzione di diventare una delle sue marionette.”
 
“Non è più entusiasmante quando sei tu quello che rischia il lavaggio del cervello, dico bene?” Rogers sollevò il sopracciglio destro e scoccò al suo ex collega un’occhiata penetrante.
 
Di risposta, Rumlow gli rivolse un sorriso affilato. “Muovi il culo e cerca di parlare solo quando sarò io a chiederti di farlo” gli consigliò caldamente e scese dall’auto. Prima di chiudere lo sportello, si chinò per sporgersi all’interno dell’abitacolo un’ultima volta. “Tieni a mente che nemmeno io stravedo per te” ci tenne a precisare.
 
Dopo aver preso un profondo respiro e aver sistemato la visiera del cappello, anche Steve scese dall’auto. “Dove siamo esattamente?” chiese, mentre raggiungevano un ascensore – dove sperò di non dover combattere.
Si rese conto che il tempo atteso in macchina era servito anche a concedere loro una finestra in cui le persone attualmente nel parcheggio si contavano con una sola mano ed erano tutte abbastanza distanti. Non avrebbe dovuto stupirsi, dato che si trattava di Rumlow.
 
“Ancora negli Stati Uniti. Tieni giù la testa e stammi dietro.”
 
“Molto esaustivo” fu il pensiero a cui Steve evitò di dar voce e prese la saggia decisione di non insistere, limitandosi ad osservare Brock premere una combinazione di pulsanti sul tastierino all’interno dell’ascensore.
 
Scesero verso il basso, nonostante teoricamente non esistessero piani inferiori. Quando le porte dell’ascensore si aprirono di nuovo, Rumlow ne uscì a passo deciso, indossando un’espressione tanto autoritaria quanto intimidatoria. Con un rapido segno della mano gli comunicò di seguirlo. Si ritrovarono all’interno di un ampio locale ospitante un numero considerevole di individui, che volsero quasi all’unisono gli sguardi verso di loro.
Steve li vide fare dei cenni con la testa rivolti a Rumlow e cercò di ignorare le occhiate poco rassicuranti che invece bersagliarono lui. La sua presenza lì non era affatto gradita e non si sforzarono a nasconderlo.
C’erano diversi computer portatili poggiati su tavoli metallici, disposti disordinatamente nello stanzone. Cavi di prolunghe serpeggiavano sul pavimento. Su qualche tavolo libero c’erano resti di pasti consumati al volo e il Capitano notò anche delle carte da poker e una coppia di dati. Borsoni, coperte e sacchi a pelo erano ammassati vicino le pareti, in compagnia di armi, stivali, giubbotti antiproiettile e casse d’acqua.
Era evidente che non si trovavano in una base operativa adeguatamente attrezzata. Quello doveva essere più una specie nascondiglio sicuro di cui Lewis non era a conoscenza – non ancora. Diametralmente opposta all’ascensore c’era una porta dalle ante di vetro che dava su un corridoio poco illuminato.
Rumlow arrestò il passo in prossimità di uno dei tavoli, fra due uomini che sedevano su sgabelli scricchiolanti posti davanti lo schermo di un PC, il quale riportava una mappa satellitare costellata di numerosi puntini di diversi colori, alcuni lampeggianti e in movimento.
 
“Novità?” domandò Brock, mentre fissava la mappa con attenzione.
 
“Stanno rientrando” rispose uno dei due, un tipo dal baffo arricciato e il capo rasato.
 
“Steve Rogers. Ne è passato di tempo.”
 
Rogers voltò il capo in direzione della porta a vetri e Rumlow fece lo stesso. Kristen Myers stava venendo verso di loro con in viso un sorriso a mezza bocca e un vivace scintillio negli occhi verdi. Una camicetta bianca senza maniche era infilata con precisione in un paio di jeans chiari e aderenti che facevano risaltare le curve degne di nota. I capelli nerissimi erano raccolti in un’alta coda di cavallo. La donna dedicò al super soldato una lunga occhiata che tradì apprensione.
 
“Myers” ricambiò Steve, incerto sul come porsi nei suoi confronti “Sei rimasta con l’Hydra alla fine?” non fu capace di nascondere del tutto la delusione.
 
Kristen si riscosse e distolse lo sguardo dal livore sparso sul viso pallido del biondo.
“Non è andata così” si sentì in dovere di giustificarsi lei “Sono sulla lista nera di Adam Lewis anche io” l’espressione rivelò ansia e incertezza “Tu non hai una bella cera invece” e stavolta gli occhi della donna si posarono su Brock, piazzatosi nel frattempo alle spalle di Rogers.
 
“Non è come sembra e non importunarlo troppo, Myers.”
 
“Giusto. Quello è compito tuo” fu la frecciatina che Kristen rilanciò indietro e l’interessato la guardò male.
 
L’attenzione generale si spostò di nuovo verso l’ascensore.
 
“Consideratevi morti! Tutti voi, schifosi figli di puttana!”
Henry Benson fece il suo ingresso nella sala, accompagnato da due uomini che lo tenevano per le braccia.
 
“Sembra parecchio arrabbiato” constatò la Myers e c’era palese soddisfazione in ogni parola.
 
Nel momento in cui Henry si fece più vicino e vide Rogers al fianco di Rumlow, la rabbia cedette il passo all’incredulità.
Tu. Tu non dovresti essere qui.”
L’uomo fu trascinato via a forza, oltre la porta a vetri, e le sue numerose ingiurie si allontanarono con lui.
 
Steve sentì l’agitazione montare. Se Benson era lì…
“Quando lo avete preso?” si era rivolto direttamente a Rumlow.
 
“Non importa. Importa che abbiamo tolto a Lewis il suo contatto al Governo e che lo useremo per ricavare informazioni.”
 
Rogers fece per insistere, ma la discussione non andò oltre perché dall’ascensore arrivò un altro gruppo formato da quattro persone, alla cui testa era presente un noto individuo. Il suddetto individuo ci mise mezzo secondo a ricambiare lo sguardo che il Capitano gli rivolse da lontano.
 
“Non credo che servano presentazioni.” Rumlow non si sbagliava.
 
“Rogers” esordì il noto individuo quando fu abbastanza vicino e si fermò ad un paio di passi di distanza da Brock che, dal canto suo, mantenne salda una facciata imperscrutabile.
 
“Batroc.”
Rogers fronteggiò il vecchio nemico e la tensione si fece palpabile.
 
“Di questo non ero stato messo al corrente. Ti avrei chiesto un compenso maggiore altrimenti, Rumlow” fu l’immediata contestazione del mercenario.
 
“Vuoi liberarti di Lewis quanto noi perciò risparmiami la predica.” Brock non era in vena di intavolare discussioni.
 
“Lewis si è fatto parecchi nemici.” La riflessione del Capitano non passò inosservata.
 
“È complicato fare affari in un mercato dove girano quelli come te, Rogers. Era già diventato più complicato quando ti sei unito allo SHIELD.”
Batroc fece un ulteriore passo in avanti. Dedicò al super soldato un ghigno saccente accompagnato da un’occhiata tagliente. Rogers ricambiò l’occhiata con una altrettanto pungente.
 
Fu allora che Brock si frappose fra loro, per scongiurare la possibilità che passassero ai pugni.
“Niente cazzate o giuro che faccio fuori entrambi. Batroc, va’ a prepararti.”
 
Nonostante l’esitazione, il mercenario obbedì e si tolse di mezzo. La tensione fu restia a sciogliersi, almeno finché l’attenzione non fu deviata altrove.
 
“Capo, questo devi vederlo” si intromise l’uomo dai baffi arricciati, indicando lo schermo del computer.
 
Rumlow si avvicinò e Rogers fece lo stesso. Altri individui si accalcarono lì vicino per capire di cosa si trattasse. Era un servizio in diretta, più precisamente delle riprese fatte da un elicottero. Furono sufficienti le prime immagini a provocare la pelle d’oca a chiunque stesse guardando.
 
Pochi minuti dopo, Brock si azzardò a rompere l’atmosfera di sgomento generale.
 
“Cazzo. Questo deve essere un fottuto…”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“…scherzo. Non può essere vero.”
 
Sam non riusciva a credere ai propri occhi. Se c’era la possibilità che quello fosse uno degli esperimenti riusciti di Adam Lewis, allora potevano considerarsi nei guai, guai seri. Tuttavia, anche un membro della loro squadra attualmente presente sulla Terra avrebbe potuto provocare un disastro di tali proporzioni. Se questo fosse stato il caso, allora sorgevano altre due importanti domande. Cosa – o chi – l’avesse spinta a tanto e…
“Bucky, non avevi detto che Anthea era andata a parlare con Benson? A quest’ora non dovrebbe essere tornata?”
 
“Potrebbe essersi spinta oltre” suggerì Bruce e sistemò gli occhiali sul naso, sospirando stancamente.
 
“Provo a mettermi in contatto con lei.” Sam aveva già il cellulare alla mano.
 
“È inutile. Ci ho già provato io e il localizzatore d’emergenza non dà segni di vita” li informò Tony, seduto sul bracciolo del divano. Gli occhiali da sole inforcati sulla testa avevano spostato indietro i capelli, rendendo più visibili i tratti tirati del viso. Vicino ai suoi piedi giaceva lo scudo in vibrano.
 
“Anche lei ha un localizzatore d’emergenza?” Bucky si rivolse a Tony, che annuì senza aggiungere altro.
 
“Abbiamo dei localizzatori d’emergenza?” fu la legittima domanda di Bruce.
 
“A quanto pare sì.”
Barnes incrociò le braccia al petto e cedette all’esigenza di muoversi. Aveva ancora addosso la sensazione di gelo e la mancanza di progressi lo stava logorando. Camminò per la Sala Comune, avanti e indietro, mentre il televisore continuava a trasmettere le immagini di devastazione provenienti da Vancouver.
 
Due Avengers dispersi – se vivi o morti non era dato saperlo – e nessuna idea di dove cominciare a cercare. In realtà un punto di partenza per almeno uno dei due esisteva.
 
“Vado lì. Devo capire cosa è successo.”
L’incontestabile fermezza di Stark non fece sorgere contestazioni. Mentre si muoveva verso la terrazza, l’armatura iniziò a prendere forma sul suo corpo.
Il silenzio che accompagnò la partenza di Iron Man fu il segno che non esistevano migliori strade da seguire al momento.
 
 
 
Mentre sfrecciava nel cielo, Tony vide comparire davanti agli occhi l’immagine del viso di Natasha. La rossa lo stava chiamando e non ne era sorpreso. Per un attimo ponderò l’idea di lasciarla all’oscuro, ma capì subito che non sarebbe stata la cosa giusta da fare e che lei non gliel’avrebbe perdonata. Accettò la chiamata e la voce poco ferma della donna risuonò cristallina all’interno dell’elmetto.
 
“Cosa diavolo sta succedendo, Tony? E non azzardarti ad indorare la pillola.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Il battito cardiaco gli stava rimbombando nelle orecchie, accelerato dalle immagini di devastazione che scorrevano sullo schermo. C’era stato in quel posto, anni prima. Le fiamme avevano divorato ogni cosa e poi si erano dissolte senza alcun intervento esterno. Un evento innaturale.
Cercare di mantenere la calma stava diventando un’impresa sempre più ardua. Percepiva fin troppi sguardi addosso e aveva l’impressione che fossero in attesa di vederlo cadere preda di un esaurimento nervoso. Probabilmente l’aver stritolato fra le dita il bordo del tavolo metallico su cui si era appoggiato non era passato inosservato. Cosa avrebbe dovuto fare adesso? Non poteva tornare indietro e non era più certo che andare avanti nella direzione imboccata fosse la soluzione. Aveva bisogno di sapere cosa era accaduto. Aveva bisogno di sapere se
 
 
“Quella strega è spaventosa.”
 
 
Rumlow fulminò con lo sguardo l’uomo dai baffi arricciati, che realizzò di aver parlato troppo.
 
Seguì un silenzio denso e soffocante.
 
Rogers lasciò andare il tavolo e si raddrizzò con una lentezza quasi frustrante. I dorsali tesi divennero visibili sotto il tessuto della maglia. Staccò gli occhi dalle immagini del disastro di Vancouver e si volse per fronteggiare direttamente Rumlow.
“Cosa sai? Parla” pretese e i tratti del viso si tramutarono in una maschera di fredda intimidazione.
 
“Non adesso” cercò di imporsi Rumlow, intenzionato a riacquistare il controllo della situazione.
 
“Parla” ripeté Rogers, incurante dell’avvicinarsi cauto di individui armati presenti nella sala.
 
“Rogers...”
 
“Non te lo chiederò di nuovo, Rumlow.”
Non aveva l’uniforme da Capitan America e non aveva lo scudo. Era disarmato. L’aspetto malconcio e sciupato non gli rendeva giustizia e avrebbe dovuto renderlo meno temibile. Eppure, in quel momento, Steve Rogers era terrificante. Il solo timbro vocale era stato in grado di provocare brividi in coloro che si erano azzardati ad accorciare troppo le distanze.
 
Rumlow lanciò occhiate penetranti in direzione dei suoi colleghi. “Manteniamo la calma. Non c’è bisogno di spargere sangue” disse, prima di tornare a dedicare la completa attenzione al super soldato. Cedette.
“Stavamo tenendo sotto controllo Benson da un po’ e ieri sera la vostra strega...”
 
“Non chiamarla così” lo interruppe Rogers e l’assottigliarsi dello sguardo fu un avvertimento impossibile da ignorare.
 
Rumlow sollevò entrambe le mani, mostrando i palmi. “La vostra collega si è presentata da lui e in qualche modo che davvero non comprendo ha ottenuto un incontro con Lewis.”
 
“L’avete seguita?” la voce di Rogers aveva perduto parte della durezza.
 
Brock scosse il capo. “Contavamo sul fatto che lei riuscisse a fare a pezzi quel fottuto bastardo. Se ci fossimo intromessi, avremmo rischiato mandare a monte l’incontro.”
 
“Sai come è andata allora?”
 
“Sappiamo solo che Lewis è vivo. Ha provato a mettersi in contattato con Benson un paio di ore fa.”
 
La mascella di Rogers guizzò con uno scatto secco. Iniziava a mancargli il fiato e gli era salita la nausea. Doveva aggrapparsi a qualsiasi cosa gli permettesse di mantenere la calma e la concentrazione che gli erano necessarie per gestire la nuova situazione. Qualsiasi cosa…
 
“Qualsiasi cosa accada, qualsiasi cosa ti diranno, non smettere di credere in me. La realtà potrebbe incasinarsi da ora in avanti.”
 
Doveva crederle.
 
“Ci sono ancora tante cose che voglio fare perciò non ho nessuna intenzione di mandare tutto in fumo.”
 
Doveva fidarsi di lei.
 
Il Capitano regolarizzò il respiro e l’ombra di un rassegnato sorriso gli ammorbidì i tratti del viso pallido.
“Mi hai detto che possiamo arrivare a Lewis. Cosa stiamo aspettando ancora?”
 
Rumlow si rilassò a sua volta nel vederlo recuperare fredda calma. “Tu sai cosa potrebbe essere accaduto laggiù?”
 
“Vorrei saperlo, credimi. Che mi dici di Benson?”
 
“Ho intenzione di farci una chiacchierata più tardi, ma adesso dobbiamo andare.”
 
“Dove?” Rogers esternò una certa sorpresa, preso in contropiede.
 
“Raggiungi l’ascensore e aspettami lì” ordinò Rumlow e il super soldato stavolta eseguì senza protestare.
“Nessuno parli con Benson, me ne occuperò io. E tenente d’occhio gli spostamenti degli Avengers” furono invece le direttive che diede ai colleghi.
 
“Aspetta, Brock” lo richiamò Kristen “Dovresti permettergli di recuperare ancora un po’. Non mi sembra in grado di…”
 
“Non abbiamo tempo. Ce la farà.” Rumlow troncò qualsiasi altra protesta sul nascere. Dedicò un’ultima occhiata penetrante alla Mayers e raggiunse Rogers.
 
 
 
La tappa successiva fu il parcheggio sotterraneo, dove Batroc stava aspettando il loro arrivo appoggiato ad un’auto, con le braccia incrociate al petto. Il mercenario si posizionò alla guida dell’auto e Rumlow prese posto al suo fianco, mentre Rogers si sistemò sui sedili posteriori, dietro il sedile del guidatore.
Il Capitano osservò distrattamente i segni attorno al polso sinistro, ancora evidenti – parevano marchiati a fuoco. Decise di spingere ogni emozione scomoda e ogni pensiero sibilante in un angolo angusto del cervello. Erano sempre stati consapevoli che per risolvere il problema Lewis in maniera definitiva, avrebbero dovuto superare di parecchie spanne i limiti di sicurezza e di buonsenso.
Steve sollevò gli occhi e incontrò quelli di Brock riflessi nello specchietto retrovisore. Capiva la reticenza del suo ex supervisore a convincersi del tutto che lui non si sarebbe lanciato in azioni che avrebbero mandato a monte i piani, considerate le esperienze pregresse. L’equilibrio che stava facendo funzionare quel rapporto era sottile e non aveva fondamenta. L’obiettivo comune di voler fermare Lewis era l’unica e sola ragione che rendeva possibile la reciproca sopportazione.
 
“Questa è tua.”
Brock gli passò una valigetta di metallo nero. Rogers la poggiò sulle gambe e la aprì.
“Pearce aveva un piano per te. Perché credi non ti abbia fatto fuori prima? E di occasioni ne abbiamo avute. Comunque alla fine non sei risultato idoneo. Su quell’ascensore ti abbiamo dato l’ultima chance, ma ti sei dimostrato alquanto reticente.”
 
“Lo sono anche adesso” il super soldato faticò a staccare gli occhi dal contenuto della valigetta. Si era aperto un fastidioso vuoto nello stomaco.
 
“È fatta su misura per te. Ti tornerà utile e servirà a rendere tutto più convincente. Dovrai fare esattamente quello che ti dirò di fare.”
 
“Fin dove vuoi spingerti?”
Steve chiuse la valigetta e la fece scivolare sul sedile al suo fianco. Fin dove volesse spingersi Rumlow era solo parte del problema. L’altra parte, arrivati a quel punto, riguardava fin dove sarebbe stato in grado di spingersi lui.
 
“Fin dove sarà necessario. Se ti è d’aiuto, pensa che il tuo amico non ha avuto la possibilità di dire la sua.”
 
“Attento, Rumlow” lo avvertì Rogers, il tono fattosi improvvisamente glaciale.
 
“Non vorrei essere nei tuoi panni quando questa assurda collaborazione giungerà alla fine, Rumlow” si intromise Batroc.
 
Oh non preoccuparti. Gli ho fatto di peggio e sono ancora vivo.”
 
Al mercenario sfuggì uno sbuffo divertito e Rumlow ghignò in modo decisamente insolente.
Steve annegò i bollenti spiriti nella rassegnazione e fece collidere la tempia contro il finestrino. Brock doveva ringraziare il fatto che era abbastanza disperato da non permettere all’orgoglio di spingerlo a regolare i conti nell’immediato. Pensò a Bucky. Il suo migliore amico aveva attraversato l’inferno senza possibilità di scelta, soffocato dai tentacoli gelidi dell’Hydra e anelando ad una libertà inarrivabile. Se Bucky era riuscito a sopravvivere a quell’inferno per decenni, lui avrebbe potuto abbassare la testa e lasciare che lo controllassero temporaneamente. Aveva scelto lui quella strada, non era stato costretto da una pistola puntata alla testa – più o meno – o da un lavaggio del cervello in grado di annichilire la volontà.
 
Rumlow si voltò indietro, sporgendosi attraverso lo spazio fra i due sedili anteriori.
“Lewis ha diversi grossi finanziatori. Oggi alcuni di loro si incontreranno per accordarsi sui diritti di possesso della merce che lui può fornirgli e noi andremo a rovinare i programmi.”
 
“Così non metteremo Lewis sulla difensiva?”
 
“Quell’uomo è sempre sulla difensiva, Rogers. Ma se gli tagliamo gli appoggi, lo costringeremo ad esporsi. E se si espone, avremo la nostra possibilità di farlo fuori.”
 
“Sono mesi che miniamo le sue basi e non si è mai esposto” obiettò Steve.
 
“Avete minato le basi sbagliate” controbatté Rumlow.
 
“Cosa ti fa credere che tu non stia commettendo il nostro stesso errore?”
 
“Perché Lewis ha utilizzato le risorse dell’Hydra finché non è riuscito ad accaparrarsi nuovi finanziatori. Usando le risorse dell’Hydra, mi ha fornito un modo per capire cosa stesse facendo e come si stesse muovendo. Inoltre, era troppo concentrato su di te per prestare attenzione anche a me.”
 
“Perché non lo hai scovato in tutti questi mesi?”
 
“All’inizio non era un mio problema. Mi sono limitato a tenerlo d’occhio. Poi lui è venuto a scovare noi e la cosa mi ha fatto incazzare.” Rumlow puntò l’indice destro contro il super soldato. “Tu e i tuoi compagni siete controllati e qui non si tratta di assaltare una base con la forza. Lewis sparirebbe prima che tu abbia la possibilità di arrivare sul posto. Dovrà essere lui ad invitarci o a venire da noi e a quel punto pianterò un proiettile nel suo fottuto cervello.”
 
“Quindi dobbiamo dargli delle buone ragioni per esporsi” riassunse il Capitano e si ritrovò d’accordo con il ragionamento del temporaneo alleato.
 
“Questo è uno dei motivi per cui sei qui.”
 
Un pensiero attraversò il groviglio nebuloso che aveva assediato la testa del super soldato. Rumlow poteva non avere intenzione di riportalo indietro vivo. Tuttavia, se c’era anche la più esile possibilità di mettere fine a tutto quanto, Rogers aveva il dovere di afferrarla, qualunque fosse stato il prezzo da pagare.
 
“Rogers.”
 
Steve rivolse di nuovo la sua attenzione a Brock.
 
“Hai appena terminato il numero di domande a tua disposizione.”
 
“Non mi avevi dato un numero.”
 
“L’ho fatto ora.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Canada, Vancouver
 
 
Non poteva sbagliarsi. Erano proprio loro. Le protezioni opache che avrebbero dovuto proteggerla e aiutarla negli scontri. Spuntavano dalla cenere, l’unica cosa rimasta nel raggio di centinaia di metri. Nel mezzo dell’area devastata si era aperta una voragine e Tony si trovava al suo interno, circondato dai resti di una vecchia base dismessa. Perfino parte del cemento armato era stato polverizzato.
Le correnti d’aria sollevavano la cenere, la guidavano lungo traiettorie ascendenti e spiraleggianti e poi questa ricadeva a terra come neve ingrigita. L’atterraggio di War Machine a pochi metri di distanza ne sollevò altra, la quale vorticò in un moto turbolento.
C’era ancora fumo, fantasmi grigi che si aggiravano in quel posto su cui aleggiava il nero velo della morte. Sarebbe stato impossibile respirare, perché le polveri sottili presenti nell’aria avrebbero fatto collassare i polmoni.
 
“Deduco che non fosse parte del piano” esordì Rhodey.
 
“A quanto pare non lo era, o almeno nessuno di noi ne era a conoscenza” puntualizzò Stark.
I due idioti attualmente mancanti avevano avuto la faccia tosta di architettare qualcosa all’insaputa di tutti loro. Tuttavia, Tony aveva la certezza che niente di quello che era accaduto nelle ultime ore fosse stato previsto. La situazione era ufficialmente sfuggita loro di mano, o meglio, era esplosa incenerendo il precario equilibrio. La miccia della carica esplosiva era stata innescata alla fine.
 
“Cosa pensi sia successo?” gli domandò Rhodey e la nota esitante pervase la voce metallica.
 
Iron Man piantò il ginocchio destro a terra e si chinò in avanti “Non lo so, ma mi rifiuto di credere che questo sia tutto ciò che rimane di lei” raccolse un pugno di cenere e la osservò scivolare via dal palmo di metallo.
 
“Sarebbe un’informazione riservata, ma devi sapere che Benson è scomparso.”
 
“Spero sia un buon segno” Stark tornò in piedi “Riporterò tutti alla Tower. Compresi Clint e Natasha. Considerata la situazione, meglio non correre altri rischi.”
 
“Ti avviserò per tempo se Ross deciderà di spedirvi contro l’esercito, ma sembra che al momento lo abbia mobilitato per le ricerche. In ogni caso, cautela, Tony.”
 
“Grazie, Rhodey. Fa’ attenzione anche tu.”
 
Quando Rhodes superò la cortina di fumo e polveri, sparendovi oltre, Tony si guardò intorno un’ultima volta e poi prese quota. Non appena uscito dalla voragine, qualcosa lo costrinse a fermarsi a mezz’aria. Osservò il deserto di cenere con maggiore attenzione, ricorrendo a tutta la risoluzione concessa dal visore dell’armatura. Fu come assemblare alcuni pezzi di un puzzle rovinato e sbiadito. Non tutto era perfettamente chiaro, però lo era abbastanza per grattare via una parte del mistero che avvolgeva gli ultimi eventi.
 
“Cos’hai combinato folle ragazza incosciente?” chiese ad alta voce, come se sperasse di ricevere una risposta.
 
La risposta non arrivò e Iron Man si lasciò alle spalle quella grigia devastazione.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Ti dona.”
 
Rumlow ghignò compiaciuto, ma Steve non gli diede la soddisfazione di mostrarsi irritato e si limitò ad agganciare la cintura nera attorno ai fianchi stretti.
La fattura e il modello non si distaccavano molto dalla stealth suite che lo SHIELD aveva prodotto appositamente per lui. Questa uniforme però era di un denso nero pece, inframmezzato da strisce rosse simili a graffi sottili che ricalcavano i muscoli intercostali. Al centro del petto era stata preservata l’iconica stella, ma il rosso aveva sostituito l’argento. Sulla spalla destra era stato impresso lo stemma vermiglio dell’Hydra, di ridotte dimensioni ma non così ridotte da non essere visibile. I guanti grigio scuro lasciavano scoperte le dita ed erano rinforzati sulle nocche. Nere erano le cinghie in cuoio opaco che si avvolgevano attorno le spalle e il torace. Le stringhe degli stivali, anch’essi neri, erano invece di un rosso più scuro.
 
“Qual è il piano?” gli occhi del super soldato erano adesso puntati su uno degli schermi all’interno del jet. Stavano proiettando immagini della planimetria di una lussuosa villa.
 
“C’è una buona probabilità che i finanziatori siano accompagnati da potenziati, ma non sappiamo molto altro. Sarà un salto nel buio.” Brock indicò la sala principale, dove si stava tenendo l’incontro. “Dobbiamo arrivare qui ed evitare che chiamino rinforzi mentre prendiamo il controllo.”
 
“Spianerò la strada. Una volta avuta la loro attenzione, potrete passare dall’ingresso principale.”
 
Rumlow non riuscì a sopprimere il noto brivido di eccitazione. L’avevano fatto innumerevoli volte prima che l’Hydra riemergesse dall’ombra.
“Ricorda quello che abbiamo concordato. E occhio ai proiettili. Sei senza scudo” volle comunque sottolineare e ricevette indietro un cenno di assenso.
 
“Se scendessimo di più, saremmo troppo visibili” avvisò uno dei soldati dell’Hydra.
 
“Non ce n’è bisogno. Sto andando.” Rogers si avvicinò al portellone in fase di apertura.
 
“Aspetta” lo richiamò Brock “un’ultima cosa.”
Lo raggiunse con un paio di ampie falcate e, senza chiedergli il permesso, posizionò sul suo viso una mezza maschera, identica a quella utilizzata dal Soldato d’Inverno.
“Soffoca inutili sentimenti e lasciati usare.”
Gli sollevò meglio il colletto della nuova uniforme, in modo da coprire le bende attorno la gola. Rimosse infine la garza adesiva dalla fronte e passò il pollice sul taglio divenuto una sottile linea rossa. “Quel fottuto siero fa miracoli.”
 
Dopo qualche istante di teso silenzio, Rogers riprese a muoversi e Rumlow lo seguì con lo sguardo. La maschera rendeva difficile decifrare la sua espressione, ma negli occhi c’era quella scintilla pericolosa che Brock conosceva bene – fin troppo bene.
 
“Ci vediamo giù, Cap.”
 
Rogers si lanciò dal jet come se lo facesse ogni giorno appena sveglio al mattino. Il lucernario si frantumò sotto il suo stesso peso in caduta libera e cercò di ammortizzare il colpo sulle ginocchia eseguendo una capriola che lo portò a pochi passi da un lungo tavolo, occupato da diverse persone. Riuscì appena a scorgerne le espressioni colme di sgomento, poi fu costretto a muoversi il più velocemente possibile. Spostandosi, fece attenzione a porsi in linea con quelli che dovevano essere i finanziatori, in modo da evitare che gli sparassero da tutte le direzioni. Difatti, poco dopo i nemici presero a convergere verso di lui per non rischiare di uccidere i loro datori di lavoro.
Steve rimase concentrato e nemmeno l’adrenalina riuscì ad intaccare il battito regolare del cuore. Disarmò e rese inoffensivo chiunque gli si parasse davanti. Sentì a malapena i proiettili aprire sottili squarci nel tessuto nero dell’uniforme e nella pelle sottostante. Fra i nemici che tentarono di fermarlo, riconobbe l’ormai nota forza di potenziati, ma il biondo non fece una piega.
Lo scorrere del tempo si deformò fino a divenire confuso, non interpretabile, tanto che non avrebbe saputo dire quanti minuti o ore passarono prima che un click di un grilletto risuonasse in prossimità dell’orecchio destro. Seguì uno sparo. Steve si girò verso l’ingresso della grande sala dal design moderno. Brock gli dedicò un cenno del capo e mimò con le labbra un “non c’è di che”.
Rumlow e i suoi presero in custodia i finanziatori, mentre i mercenari guidati da Batroc si accertavano che nessun nemico potesse rialzarsi, freddandoli con un proiettile alla testa senza troppi complimenti. Non fu un bello spettacolo e l’esigenza di intervenire fu soffocata dal “Muoviti e ti unirai a loro” sibilato da Brock nell’auricolare.
Ora Steve lo riconosceva ed era proprio ciò che si aspettava da lui. Rimase immobile dov’era, ad osservarlo gestire la situazione. Brock costrinse i cinque finanziatori – gli unici lasciati in vita assieme ai loro dipendenti – a prendere di nuovo posto attorno al tavolo. Erano due donne e tre uomini.
Steve fissò lo sguardo sul grigio pavimento lucido e qualcosa dentro di lui iniziò a muoversi, a mordere, a contorcersi e scalciare.
 
“Sono certo che voi tutti sappiate cosa voglio. Tuttavia, per evitare malintesi, ve lo dirò chiaramente. Voglio sapere dove si nasconde Adam Lewis.”
 
Rumlow si stava muovendo all’interno della stanza, girava attorno al tavolo alla stregua di un paziente predatore. La muscolatura delle spalle e della schiena era rilassata sotto il fine tessuto della maglia nera. La mandibola spigolosa, coperta da uno strato di barba rasa, rendeva la sua espressione temibile senza che dovesse sforzarsi troppo.
 
“Soldato.”
 
La sua voce graffiante frantumò il silenzio maledettamente scomodo e costrinse Rogers a sollevare lo sguardo.
 
“Raggiungimi.”
 
Rumlow sudò freddo per una frazione di secondo, ma Rogers non lo deluse. Fu perfetto. Dannatamente perfetto. Nessuna esitazione, nessun sussulto, nessuna scintilla sovversiva nelle placide iridi azzurre. Fece ciò che gli era stato ordinato di fare con la stessa scioltezza che mostrava in combattimento.
 
“Avete appena avuto la prova di quanto siano scadenti i prodotti di Lewis. Non credo che abbiate fatto un buon affare.”
 
“E tu con chi hai fatto affari?” osò chiedere uno dei finanziatori, indicando Rogers.
 
“Non lo riconosce? Solitamente se ne va in giro con uno scudo.”
 
“Quello è Captain America?” si intromise una delle due donne, fasciata da un tailleur color panna.
 
“In persona” confermò Rumlow.
 
“Come...”
 
“Ho le giuste risorse” Brock poggiò il palmo della mano destra al centro della schiena di Rogers “Lewis non ha idea di come si possa stabilizzare il siero. Si sta aggrappando a formule esistenti ed è lontano dal risultato ottenuto mesi fa. Io invece ho la materia prima e la mente giusta per raggiungere grandi risultati.”
Percepì i dorsali di Steve tendersi sotto i polpastrelli, ma non se ne preoccupò.
 
“La tua mente è Kristen Myers?” domandò uno degli uomini.
 
“C’è un motivo per cui Lewis la sta cercando o non ne siete al corrente?” li istigò Brock.
 
“Sappiamo che la donna in questione gli ha sottratto informazioni utili a migliorare il siero” fu la risposta che ottenne.
 
“È così che vi ha detto? Furbo da parte sua.”
 
“Ci stai proponendo di passare dalla tua parte?” chiese allora la stessa donna che aveva parlato prima “L’Hydra non ha avuto molto successo negli ultimi anni” aggiunse infine.
 
“Ho eliminato la causa dei fallimenti. Prima che lui arrivasse, l’Hydra controllava il corso degli eventi.” Rumlow fece un cenno del capo in direzione di Rogers.
 
“Questo è vero. Ma sei consapevole che avrai gli Avengers alle calcagna?”
 
“Lewis ha già gli Avengers alle calcagna.”
 
La donna indicò Rogers. “Ma questo è diverso. Hai almeno la certezza che la sua obbedienza sia totale?”
 
Bastò un cenno del capo da parte di Rumlow e uno scoppio rimbombò nella sala. La donna cadde stesa sul pavimento, morta. Schizzi di sangue avevano decorato il candido tessuto del tailleur. Batroc rinfoderò l’arma ancora calda.
 
“Oggi sono a corto di pazienza. Allora, quali erano i piani per questo incontro?” la freddezza di Brock fu una minaccia convincente.
 
“Discutere di soldi. Non sappiamo dov’è Lewis. È sempre lui a venire da noi, mai il contrario. Ed è sempre lui a contattarci.”
 
In quell’esatto momento, il telefono dell’uomo che si era fatto carico di rispondere prese a vibrare contro la superficie del tavolo. Rumlow rimase impassibile, nonostante avesse la certezza di aver fatto centro con tutti quei discorsi costruiti ad hoc. Non aveva intenzione di infilarsi in quegli affari, ma Lewis doveva pensare che lo volesse. E a quanto pareva, aveva funzionato.
“Rispondi al telefono” ordinò e l’uomo non se lo fece ripetere, terrorizzato dalla possibilità di fare la fine della donna che fino a poco prima era seduta al suo fianco. “È per te” disse subito dopo e tese il cellulare a Rumlow.
 
“Pensavo ti fossi ritirato, Rumlow.”
 
Adam Lewis aveva abboccato e adesso avevano la prova che il bastardo era vivo e vegeto.
 
“Non volevo chiudere la mia carriera con una sconfitta.”
 
“Ammetto che sono alquanto stupito. Però sai che non puoi vincere contro di me. Hai delle cose che voglio e sono disposto a contrattare invece che ucciderti.”
 
“Contrattiamo allora.”
 
“Myers. Rogers. E che non tocchi i miei finanziatori. Dammi queste tre cose e avrai un posto di comando nella mia nascente società.”
 
Rumlow rise e spostò lo sguardo in modo da poter incontrare quello di Rogers, ancora fermo al suo fianco. Sapeva che il biondo riusciva a sentire con quel suo udito da super soldato e la tensione crescente che proveniva da lui ne era la dimostrazione. Negli occhi azzurri c’era un bagliore intimidatorio che aveva incrinato la maschera da soldato obbediente. Fortunatamente fu l’unico a notarlo.
 
“Il fatto che tu abbia la certezza di poter imporre le regole mi fa capire che non hai idea delle risorse che ho a disposizione.”
Brock fece scivolare la mano dalla schiena di Steve alla propria cintura. Estrasse la pistola e, senza la minima esitazione, piantò un proiettile nella testa del proprietario del cellulare. Stavolta l’azione violenta suscitò grida di terrore, anche da parte delle altre possibili prossime vittime. Un ragazzo la cui camicia era chiazzata di sudore si mise le mani fra i capelli e si accovacciò sulle ginocchia. Allora una donna dai capelli ingrigiti dal tempo si chinò per poterlo stringere in un abbraccio consolatorio, seppure anch’essa fosse spaventata.
 
“Credo che tu già lo sappia, ma ho Benson. Ti faceva comodo un contatto in alto, dico bene? Mi dispiace comunicarti che dovrai trovarne un altro.”
 
“Ti stai scavando la fossa con le tue stesse mani, Rumlow. Hai visto cosa è accaduto a Vancouver?”
 
Intimidazione davvero niente male ma inefficace, data la fitta nebbia che avvolgeva i fatti accaduti in territorio canadese. L’ex agente dello SHIELD infatti non vi diede alcun peso e proseguì dritto per la sua strada.
“Non prenderti meriti che non hai, Lewis.”
 
“Tu cosa ne sai?”
 
“Se vuoi ottenere qualcosa da me, dovrai scoprire le tue carte. Non faccio affari con chi si nasconde” Brock pronunciò una serie di cifre, scandendole lentamente. “Contattami a questo numero se avrai il coraggio di metterci la faccia” chiuse la telefonata e distrusse il telefono.
 
“Bene. Il lavoro qui è finito. Possiamo andare.”
Rumlow fece a Rogers segno di seguirlo e uscirono dalla grande sala, preceduti da altri quattro soldati dell’Hydra. Batroc e i suoi mercenari non si unirono a loro.
 
Dopo qualche attimo, il rumore assordante di spari si mischiò a quello atroce di grida di terrore. Steve bloccò il passo e si girò indietro. L’istinto di intervenire per fermare quel massacro lo aggredì violentemente. Le dita di Rumlow si chiusero sul suo gomito e lo strattonarono con decisione.
 
“Per loro è tardi. Muoviti o saranno morti invano.”
 
Steve esitò. Non poteva accettare quel modus operandi. Trovare Lewis aveva la massima priorità, ma era giusto spingersi fino a quel punto? Non si trattava più di combattere altri soldati armati e pronti ad ammazzarti a loro volta. Le persone in quella sala non erano di certo innocenti – stavano facendo affari con Lewis dopotutto – però erano disarmate, incapaci di potersi difendere.
Brock approfittò del momento di indecisione del super soldato per farsi più vicino, abbastanza da potergli sussurrare nell’orecchio.
“Il prezzo della libertà è alto. Lo è sempre stato. Ed è un prezzo che io sono disposto a pagare. Sei stato tu a dirlo.”
 
Rumlow attese, paziente e sicuro. Rogers si mosse.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Acqua gelida era sparata contro la nuca, scivolava sulle tempie, lungo il collo e gli infradiciava i capelli. Si scostò dal getto e rivoli d’acqua seguirono i solchi fra le scapole e quello fra i pettorali, rotolarono lungo la colonna vertebrale e carezzarono i muscoli contratti dell’addome scolpito.
Chiuse il rubinetto del lavandino e passò entrambe le mani fra i capelli, spostando indietro il ciuffo. Aveva la nausea e le tempie pulsavano con una costanza opprimente. Sollevò gli occhi sullo specchio di fronte a lui ed eccolo di nuovo lì, il riflesso di un uomo spezzato e ancora succube del passato. Aveva creduto di aver riottenuto il controllo della propria vita. Povero illuso.
Erano bastate delle dannatissime parole per far riemergere l’assassino che l’Hydra aveva plasmato. Era stato ingenuo da parte sua pensare di aver seppellito quella parte di sé, parte che aveva posseduto l’egemonia per più di mezzo secolo.
 
“Buck fermati.”
 
Serrò le palpebre. Poteva ancora vederla, l’espressione sofferente che aveva teso i tratti del viso di Steve. Poteva ancora sentire le sue ossa vibrare ad ogni colpo inferto.
 
“Bucky ti prego torna in te.”
 
Premette le mani sulle orecchie, un inutile gesto disperato che non avrebbe soffocato l’eco di ciò che aveva fatto.
 
“Bucky.”
 
Una voce reale, vicina, spezzò il filo di dolorosi pensieri e lo fece voltare in direzione della porta del bagno. Non si era preoccupato di chiuderla, dato che il suo appartamento alla Tower era deserto. James tentò di ricomporsi dinanzi la faccia preoccupata di Sam Wilson.
“Ci sono novità?” chiese, come se non fosse stato sul punto di andare in pezzi fino ad un secondo prima.
 
“Non sono qui per questo. Sono qui per te” fu la schietta risposta di Sam e risultò quasi smielata, tanto che strappò a Bucky un fievole sorriso.
 
“Mi riprenderò” gli assicurò il moro, mentre gli passava accanto per uscire dal bagno e raggiungere il salotto immerso nella penombra.
 
Sam lo seguì. Non avrebbe mollato la presa.
“Non ho dubbi a riguardo, ma sappi che nel frattempo puoi contare su di me, per qualsiasi cosa tu abbia bisogno.”
 
Bucky non ebbe la forza di voltarsi per guardare Sam direttamente negli occhi. “Mi dispiace” sussurrò con voce poco ferma “Avevi ragione a non volerti fidare di me.”
 
“Quella fase è passata da parecchio. Mi fido di te e sono pronto a prendere a calci nel culo quei super soldati al tuo fianco.”
 
Stavolta James si girò, mostrandosi in tutta la sua vulnerabilità di fronte ad una persona che non era Steve.
“Sam…io…” mormorò, ma le parole proprio non volevano venire fuori.
 
“Smettila di gocciolare sul pavimento, asciuga i capelli e mettiti una dannata maglietta. Ti aspetto nella Sala Comune. Ci stiamo riorganizzando.”
 
Preso in contropiede dal tono autorevole di Sam, Bucky riuscì solo ad annuire.
 
“E Bucky?” lo richiamò Wilson un’ultima volta prima di lasciare l’appartamento “Andremo davvero a prendere a calci nel culo quei super soldati e ci riprenderemo Steve.”
 
Bucky trovò un saldo appiglio nella sicurezza mostrata da Sam e decise che non era ancora il momento di andare in pezzi.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Rumlow si stava muovendo all’interno del jet per assicurarsi che tutto fosse in ordine. Si spinse in fondo al velivolo e trovò Rogers seduto in un angolo, con il capo poggiato sulle braccia incrociate e sistemate sulle ginocchia piegate. A terra, vicino la scarpa destra, giaceva la valigetta contenente l’uniforme dell’Hydra e sopra di essa era poggiata la mezza maschera nera. Erano tornati tutti negli abiti civili.
Per un attimo credette che il biondo avesse abbassato la guardia, ma non appena si fece più vicino non gli sfuggì l’irrigidirsi delle sue spalle. L’istante dopo si ritrovò addosso i suoi occhi azzurri e si accovacciò sulle ginocchia, in modo che i loro sguardi potessero trovarsi alla medesima altezza.
 
“Te la sei cavata bene. Saresti perfetto come braccio armato dell’Hydra e c’è un posto vacante se vorrai...”
 
“Sai che la mia pazienza ha un limite?”
 
Il tono sprezzante del super soldato non fu sufficiente a convincere Brock a levarsi di mezzo.
 
“Era necessario, Steve.”
 
“Non lo era. E risparmiami la recita dell’amico, ci hai perso la mano.”
Steve pressò con maggiore convinzione la schiena contro la parete alle sue spalle e i muscoli del collo divennero visibili, irrigiditi dalla tensione persistente.
 
Rumlow scosse il capo e dedicò al suo adorato biondino poco arrendevole uno sguardo parecchio penetrante, ma rimase rilassato e con la guarda bassa. Aveva sperato che salvargli il culo e offrirgli la possibilità di arrivare a Lewis potessero essere ragioni sufficienti ad ammorbidirlo, a renderlo più propenso a seguirlo senza protestare. Aveva peccato di ottimismo. Tese un braccio, i polpastrelli sfiorarono appena la spalla sinistra del ragazzo prima che il polso finisse intrappolato fra le sue dita. Steve serrò la presa e le ossa scricchiolarono. Fu un breve avvertimento che non ebbe reali conseguenze, se non quella di inspessire il muro fra loro.
 
“Avevo scommesso che avresti mandato tutto a puttane a causa del tuo buonismo.”
Batroc si presentò alle spalle di Rumlow, sfoggiando un ghigno provocatorio e strafottente.
Georges Batroc sarebbe stato una fottuta spina nel fianco, Brock ci avrebbe scommesso la sua stessa fottuta vita. Sfortunatamente, aveva bisogno di lui.
 
Steve tornò in piedi, scostò Rumlow senza dargli la possibilità di mettersi in mezzo e fronteggiò Batroc a viso aperto.
“Sarebbe potuta finire peggio per te su quella nave, quindi ringrazia il mio buonismo.”
 
“Ma non lo hai fatto e hai mandato tutto a puttane anche allora.”
 
Steve strinse i pugni. Avrebbe potuto uccidere Batroc e i suoi mercenari sulla Lemurian Star. Avrebbe potuto uccidere Rumlow e i membri della STRIKE nell’ascensore. Avrebbe potuto uccidere Benson in più di una occasione. Avrebbe potuto uccidere Adam Lewis. Avrebbe potuto uccidere Arnim Zola nel ’45.
Ma non l’aveva fatto. Se lo avesse fatto, quanto dolore e quanta sofferenza avrebbe potuto evitare?
 
“Non struggerti. Mi occuperò io di ciò che tu non riesci a fare.”
Batroc fece per lasciare un pacca sulla spalla di Rogers, che reagì spingendo via il braccio che aveva invaso il suo spazio personale.
 
Per un momento, Rumlow credette che quei due si sarebbero saltati alla gola e questo sarebbe stato un problema non indifferente. Però il super soldato si tirò indietro e diede le spalle al mercenario.
 
“Avresti dovuto portare il Soldato d’Inverno, Rumlow. Ci avrebbe fatto comodo un assassino.”
 
Il fiotto di sangue che fuoriuscì dal naso di Batroc e il suo sedere che finì a terra crearono parecchio scompiglio all’interno del velivolo. I mercenari presenti furono i primi a reagire, armi alla mano e puntate contro Rogers. Le sicure furono rimosse creando un’eco metallica. Gli affiliati dell’Hydra reagirono di conseguenza e la tensione toccò picchi preoccupanti. Anche un respiro più rumoroso del necessario avrebbe potuto fare scoppiare la situazione già fuori controllo.
Batroc si rialzò, tenendo premuto un palmo sul naso ancora sanguinante. Non sembrava arrabbiato. La scintilla negli occhi chiari, fissi in quelli altrettanto chiari di Rogers, trasudava eccitazione. Si lanciò contro il super soldato senza esitazione e lo spinse contro una delle pareti del jet. Il Capitano ribaltò all’istante le posizioni, costringendo il mercenario spalle al muro.
Rumlow, dopo un lungo sospiro e una plateale alzata di occhi al cielo, circondò la vita di Rogers con le braccia e tentò di tirarlo via da Batroc, i cui colleghi mercenari erano noti per avere il grilletto facile.
 
“Giù le armi. Che nessuno si intrometta” berciò Brock, non senza un certo affanno. Tuttavia, fu costretto a ritrattare dopo essersi reso conto che non sarebbe riuscito a smuovere Rogers nemmeno di un maledettissimo passo.
“Non state lì impalati! Datemi una mano!”
 
 
Erano ufficialmente sulla strada che li avrebbe portati ad ammazzarsi a vicenda, togliendo a Adam Lewis l’incombenza di doverci pensare lui.
 
 
 
 
 
 







La tempia destra, coperta da un candido bendaggio, ancora pizzicava e l’occhio destro non aveva ripreso a funzionare come avrebbe dovuto. Era uscito dall’ospedale da qualche ora ed era tornato all’appartamento di Washington. Se fosse stato per lui sarebbe uscito molto prima, ma a quanto pareva non si poteva essere dimessi troppo presto con una emorragia interna – seppure lieve –, un non così grave trauma cranico e un paio di costole incrinate. A detta dei medici, avrebbe dovuto sottoporsi ad un adeguato periodo di riposo ed evitare ogni tipo di sforzo fisico. Come se avesse tempo per riposare.
Salite le scale che portavano alle stanze, si ritrovò a fissare la porta semiaperta della stanza di Steve, come se si aspettasse di vederlo uscire da lì da un momento all’altro.
Ma Steve non c’era, perché non era riuscito ad aiutarlo, non era stato in grado di fermare i nemici, nessuno di loro. La sensazione di impotenza gli era rimasta appiccicata addosso.
 
“Collins.”
 
Sull’uscio del bagno c’era Janet Stewart, avvolta in una grigia vestaglia stropicciata. I capelli raccolti in una coda scomposta mettevano in risalto i punti lungo lo zigomo destro e quelli che tagliavano in diagonale il sopracciglio sullo stesso lato. Non l’aveva mai vista così… trasandata?
 
“Come stai?” le chiese “Bennet?”
 
La donna abbassò lo sguardo sui piedi nudi e tentennò prima di dargli delle risposte.
“Bennet è ancora in ospedale. Se l’è vista brutta, ma ce la farà. Io sto bene” esitò “se ne siamo usciti vivi dobbiamo ringraziare anche te. Scendere è stata la mossa giusta.”
 
“Sono solo stato fortunato” affermò Daniel e istintivamente strinse i pugni, affondando le unghie nei palmi “e comunque non sono riuscito a fare niente.”
 
“Hai fatto tutto ciò che ti era possibile fare” gli rivolse un sorriso sincero, niente sarcasmo o intenti derisori “Ci sono novità sul Capitano Rogers?” incrociò le braccia sotto il seno e tornò a guardarsi i piedi.
In quell’ultimo gesto Daniel ci vide disagio e insicurezza, due aggettivi che non le avrebbe mai accostato prima di allora.
 
“Nessuna.”
 
Janet strinse fra i denti il labbro inferiore. “Non ho detto niente a Ross… di Barnes” confessò quasi con fatica.
 
“Come fai a sapere…”
 
“L’ho sentito parlare con Stark e me lo hai appena confermato.”
 
Dan, suo malgrado, si lasciò sfuggire un sorrisetto rassegnato.
 
“Inoltre” continuò invece lei “Ross ha mentito. Io so cosa quei super soldati hanno portato via dal Raft e gli Avengers dovrebbero essere avvisati il prima possibile.”
 
“Conta pure su di me.”
 
Daniel avrebbe fatto qualsiasi cosa per aiutare. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per porre rimedio alla sconfitta subita.
 
 



 
 
 




 
 
2 luglio 2015
20:44

 
 
Stavano tornando alla base utilizzando diverse auto e diverse strade, coordinandosi per non rientrare tutti nello stesso momento ma a scaglioni. Dovevano evitare di lasciare tracce percorribili e di dare troppo nell’occhio. L’affollato centro commerciale che era stato costruito sulla vecchia base aiutava ad eclissare i loro spostamenti e, inoltre, dava loro la possibilità di avere a disposizione essenziali risorse come cibo e acqua. Una sistemazione fortunata alla fine dei conti e hackerare il sistema di telecamere non era stato complicato. Le uniche pecche erano dover dormire sui pavimenti – o su tavoli sgombri – e la mancanza di privacy nelle docce condivise dell’unica stanza riservata ai servizi igienici che avevano a disposizione. Era stanco di vivere rintanato a quelle scomode condizioni ed era stanco di doversi guardare costantemente le spalle.
 
Adam Lewis andava eliminato.
 
Stava calando il buio. Il tempo sembrava passare più velocemente di quanto riuscisse ad averne consapevolezza. Sollevò lo sguardo sullo specchietto retrovisore, da cui poteva vedere l’addome del suo temporaneo partner oscillare lentamente.
Rumlow aveva dovuto ricorrere ad una manovra di emergenza per sedare le tensioni e le aveva letteralmente sedate. Avrebbe dovuto ringraziare Kristen, ma dirle che aveva tenuto per sé alcune delle sue magiche pozioni create appositamente per trattare potenziati non sarebbe stata una mossa intelligente. A sua discolpa, non aveva avuto scelta. Avrebbe volentieri evitato di gettare nel cesso il beneficio del dubbio che il ragazzo gli aveva concesso. Era necessario che si fidasse abbastanza da volgergli le spalle senza rimanere in allerta, altrimenti tanto valeva chiuderla lì, prima di finire tutti ammazzati.
Dopo che quel traditore di Lewis aveva iniziato a dare loro la caccia, Brock aveva preso in mano le redini della situazione e, senza nemmeno volerlo, si era ritrovato a fare da guida ai membri dell’Hydra ancora latitanti o rimasti nell’ombra fino ad allora. Tuttavia, non era interessato a diventare un leader. In passato, l’Hydra gli aveva dato uno scopo, dei valori per cui combattere e morire, perfino un posto in quel mondo pieno di merda. Adesso voleva estinguere il debito e andare per la sua strada.
 
Odiava essere in debito.

A conti fatti, l’Hydra aveva commesso l’errore di aspettare troppo. Una prima avvisaglia l’avevano avuta con la comparsa di Iron Man. Poi Thor era arrivato sulla Terra e Nick Fury aveva iniziato ad elaborare un’idea che ai tempi era parsa irrealizzabileutopica – e non aveva preoccupato Pearce. L’Hydra quindi non era corsa ai ripari e nemmeno il ritrovamento di Captain America aveva smosso le acque a sufficienza. Errore madornale.
Era stata l’invasione aliena a sconvolgere ogni cosa e il realizzarsi del progetto di Fury aveva fatto venire la strizza a Pearce. Ma poi gli Avengers si erano divisi, Thor era sparito dai radar e Stark era arrivato al punto di distruggere tutte le sue armature. Così l’Hydra aveva smesso di preoccuparsi, aveva accolto Steve Rogers a braccia aperte e aveva davvero creduto di aver avvolto intorno al super soldato abbastanza tentacoli da poterlo soffocare quando e se fosse stato necessario.
 
Quanto si erano sbagliati.

Dopo era tornato Schmidt, ma erano tornati anche gli Avengers, più uniti e più numerosi. E ancora una volta l’Hydra aveva sbagliato il tempismo.
Il bastardo privo di coscienza sui sedili posteriori aveva vinto tre battaglie su tre contro l’Hydra. In quell’esatto momento, Rumlow aveva fra le mani la possibilità di vincere la guerra contro di lui, a nome dell’Hydra stessa. Aveva la possibilità di sdebitarsi. Eppure non era nemmeno tentato. Aveva già deciso mesi prima che avrebbe smesso di provare a ucciderlo, perché non era lui la vera causa delle emozioni scomode che lo stavano corrodendo dall’interno. Rogers era stato un buon pretesto per conservare la motivazione e per continuare a combattere. In fondo, combattere era l’unica cosa che sapeva fare bene.
Gli ideali in cui aveva creduto ciecamente si erano sgretolati assieme all’Hydra. Dopo la morte di Pearce e dopo il dolore che aveva dovuto affrontare per rimanere in vita, si era sentito perso. Era stata Kristen Myers a rimetterlo in piedi, iniettandogli il siero, ed era stata sempre lei a ridargli l’aspetto che aveva prima di finire seppellito sotto il Triskelion. Una specie di seconda occasione.

A proposito di essere seppellito.
 
Lanciò un’altra occhiata allo specchietto retrovisore e accostò l’auto. Avevano ancora una mezz’ora di tempo da attendere prima di poter rientrare alla base. Spense il motore e si rilassò contro il sedile. Stava cominciando ad accusare la stanchezza ed era un male considerando che, se le cose fossero andate secondo quanto pianificato, avrebbero dovuto affrontare ancora parecchi casini sfiancanti. La vibrazione del cellulare infilato nella tasca dei pantaloni lo riscosse. Rispose.
 
“State bene?”
 
“Ti stai preoccupando per il sottoscritto o per il biondino? Mi piacerebbe saperlo prima di darti una risposta.”
 
“Non ti darò alcuna soddisfazione né delusione. Batroc è tornato e credevo foste insieme a lui.”
 
Non poteva vederla, ma era certo che lei stesse sorridendo in modo provocante e malizioso.
 
“Abbiamo avuto qualche problema” le confessò.
 
“Ho un debito e tu mi hai dato la tua parola” era diventata più seria adesso.
 
“Mi sto impegnando a mantenerla. Sta bene.”
 
Ci fu silenzio per alcuni secondi.
 
“Fai attenzione. Dopo oggi Lewis vorrà come minimo la tua testa.”
 
“Vuol dire che adesso ho ben tre cose che lui vuole. Te, Rogers e la mia testa.”
 
“Non fare cazzate” gli rammentò Kristen.
 
“A più tardi, Myers.”
 
Ripose il telefono nella tasca e sospirò. Doveva rimanere concentrato sull’obiettivo e non pensare a niente altro. Non erano permessi errori, né tantomeno esitazioni o sentimentalismo. Si trattava di agire con precisione o di morire atrocemente. Avrebbe volentieri evitato la seconda opzione.
Un gemito sommesso attirò la sua attenzione. Si sporse indietro e riuscì ad avere una buona visuale del volto di Rogers. Si stava riprendendo a quanto pareva.
Doveva ammettere che si era divertito ai tempi assieme al super soldato, tanto che ad un certo punto Rollins gli aveva chiesto se fosse esistita la minima possibilità che si stesse affezionando al ragazzo. Quella possibilità non c’era mai stata – ne era quasi totalmente convinto – ma vederlo crescere professionalmente non gli era dispiaciuto, considerando che in parte fosse suo il merito. Non era però mai riuscito a convincerlo a testare le armi da fuoco o l’arte della tortura fisica e mentale. Potenziale sprecato.
Lo osservò tirarsi su a sedere, il ponte del naso stretto fra pollice e indice della mano destra. Ci avrebbe messo un po’ a riprendersi del tutto e forse questo era un bene, perché Rogers si era reso perfettamente conto di ciò che era accaduto sul jet.
 
“Spero che tu ti sia calmato.”
 
“Altrimenti mi rimetterai a dormire?”
 
Pungente sarcasmo. Stava bene lo stronzetto impertinente.
 
“Non mi hai lasciato molta scelta. Ma permettimi di farti notare che sei perfettamente illeso e non sei legato ad un tavolo.”
 
Riuscì a strappargli un sorriso a mezza bocca, seppur tagliente e molto lontano dall’essere amichevole. Rumlow si sorprese quando Rogers scavalcò per poter occupare il posto anteriore del passeggero.
 
“Hai detto a Lewis che non ha idea delle risorse che possiedi. Non hai risorse, dico bene? Rispondi alla domanda.”
 
Rumlow glielo doveva. Soprattutto dopo avergli piantato nel collo una siringa piena di droga. Forse aveva ancora una chance di recuperare quel beneficio del dubbio che gli serviva.
 
“Quasi tutte le risorse dell’Hydra sono state prosciugate da Lewis e hai visto dove ci stiamo rifugiando. Quindi, siamo ufficialmente a corto di risorse e di soldati.”
 
“Non ho problemi con l’inferiorità numerica.”
 
“Lo so. Lo so bene. Ma devi rimanere concentrato. Se esiterai, ci scaverai la fossa. Guardami in faccia e dimmi che sei ancora con me.”
 
Rumlow attese pazientemente che il super soldato alzasse gli occhi su di lui. Prima che ciò accadesse, lo osservò abbassare lo sguardo, stringere le dita attorno le ginocchia e far guizzare la mascella.
 
“Qual è la prossima mossa?” volle sapere Rogers arrivati a quel punto.
 
“Faremo incazzare Lewis ancora di più. Gli abbiamo tolto i fondi e l’intermediario al Governo. Non ci resta che spaventare i suoi fornitori.”
Brock sorrise in quel mondo sadicamente perverso che Steve conosceva ormai alla perfezione.
“Faremo terra bruciata di tutti i suoi fottuti appoggi.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Località sconosciuta
 
 
La rabbia gli stava facendo ribollire il sangue nelle vene. Aveva perduto la sua arma più potente. La piccola oneiriana prodigio era stata tramutata in cenere. Anthea aveva mandato in fumo i suoi piani con un inaspettato gesto autodistruttivo.
Eta era stata fondamentale nel processo di annientamento della volontà e nel controllo delle armi che ancora ne possedevano una di volontà. I soldati d’inverno si erano rivelati un’arma a doppio taglio, ma aveva ancora bisogno che sapessero pensare autonomamente affinché potessero sfruttare appieno le loro potenzialità. Il Raft era stato un successo incompleto. Avrebbero potuto mettere le mani su Rogers, invece era stato quel bastardo di Rumlow a metterci le mani sopra.
Non aveva previsto che Crossbones potesse mettersi in mezzo. Aveva sia la Mayers sia Rogers. Come se non bastasse, aveva minato irrimediabilmente le fondamenta che gli avevano permesso di lavorare indisturbato nell’ombra per mesi.
Tuttavia, Lewis poteva ancora ribaltare la situazione. Aveva abbastanza risorse e armi per mettere in ginocchio l’insignificante gruppo sovversivo dell’Hydra.
 
Li avrebbe schiacciati come le fastidiose formiche che erano.
 
Adam non aveva mai partecipato ad uno scontro in prima persona, non si era mai sporcato le mani sul campo di battaglia. Era sempre rimasto dietro le quinte e da lì aveva mosso i fili. Ora però desiderava ardentemente poter guardare in faccia i suoi nemici mentre andavano in contro alla loro disfatta, mentre morivano inermi. Desiderava ardentemente scendere sul campo di battaglia e il nuovo corpo lo avrebbe reso possibile. Qualcosa era cambiato dopo lo scontro con Anthea. Qualcosa si era risvegliato. Lo sentiva bruciare dentro e pervadere ogni singola cellula.
 
Era così inebriante e totalizzante.
 
Si sarebbe concesso un altro po’ di tempo per comprendere l’entità di quel cambiamento e, intanto, avrebbe atteso la prossima mossa di Rumlow.
 
Poi sarebbe andato a prenderli.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Note
 
Il frammento iniziale è estratto dalla canzone “Let You Down” dei Three Days Grace.
Un sentito abbraccio❤️
 
 
Ella

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Capitolo 31
*** Dark Mist ***


Dark Mist
 
 
 
Don’t wait for the dust to settle
Don’t wait till it’s not enough
Don’t wait for the world to let go of the both of us
Don’t wait for the dust to settle
Don’t wait till you’ve had enough
Don’t wait for the world to let go or to give you up
 
 
 
 
L’erba solletica la pelle scoperta delle braccia e delle gambe. È umida ed è piacevole in contrasto al caldo afoso di luglio. Qualche rametto più spesso punge la schiena, ma non è abbastanza fastidioso da spingerlo a cambiare posizione. Il cielo terso è punteggiato da una miriade di stelle palpitanti. È rimasto incantato ad ammirarle fino a perdere la cognizione del tempo.
 
“Buck.”
 
Al richiamo di quella voce sottile, Bucky si tira su seduto e rivolge lo sguardo al piccoletto che si sta sedendo proprio lì, al suo fianco. È avvolto in una coperta che si stringe addosso come se fosse questione di vita o di morte – e in realtà per lui lo è, più o meno.
Ogni volta che il suddetto piccoletto fa un movimento un po’ brusco, Bucky teme di udire il rumore dello spezzarsi di qualche ossicino. Non riesce a non preoccuparsi – è più forte di lui – e non capisce perché il piccoletto in questione non si preoccupi allo stesso modo.
Steve – il piccoletto – si appoggia a lui, in modo da essere spalla contro spalla. Solleva il capo e lo guarda dritto in faccia. C’è un solo anno di differenza, ma le dimensioni dei loro corpi ancora in fase di sviluppo non dicono la stessa cosa. Bucky è ora abbastanza maturo da capire come stanno le cose. Inoltre, una volta ha sentito Sarah che diceva a sua madre che il fatto che Steve è vivo, sia di per sé un miracolo. Bucky però è certo che Steve starà meglio e, a testimonianza di ciò, adesso il suo migliore amico non è più costretto a starsene dietro il vetro della finestra, a fare da spettatore alla vita che si srotola all’esterno della sua abitazione.
Adesso Steve ha iniziato a viverla quella vita, un po’ alla volta, e non sembra esserne spaventato. Non è mai stato spaventato, non per sé stesso. A Steve non importa del bruciore ai polmoni o del dolore ai muscoli. Vuole fare le stesse cose che fanno gli altri bambini ed è abbastanza testardo da riuscirci, anche se a modo suo. La sola cosa che al momento gli pone un freno è Sarah, perché Steve non vuole che si preoccupi troppo, non vuole che lei sia triste a causa sua.
Bucky si riscuote, ricambia lo sguardo dell’amico e sorride. Le lunghe ciglia di Steve incorniciano i grandi occhi, le cui iridi azzurre brillano sempre di una luce piena di vita e forza. O almeno, è quello che Bucky ci vede e si è chiesto cosa ci veda Steve invece.
Quando si guardano o si scambiano sguardi silenziosi, Bucky legge ammirazione negli occhi di Steve, vede la forza di quel legame che li tiene uniti, ma ci vede dentro anche tristezza. Perché Steve sa. Sa che non sarà in grado di stare al passo con Bucky e che, presto o tardi, verrà lasciato indietro. Bucky però vede in Steve un combattente che ha già affrontato tante sfide difficili, sin dalla nascita, sin dal primo faticoso e doloroso respiro.
 
“Hai già espresso il tuo desiderio di compleanno?”
 
Bucky osserva Steve arricciare il naso e il bagliore nei suoi occhi sembra diventare più intenso. Lo osserva annuire e aprire la bocca, ma la voce viene coperta dai primi fuochi d’artificio che illuminano il cielo buio.
 
Però Bucky ha sentito.
 
Steve ha già il naso all’insù e allora Bucky lo imita. Sorridono, mentre imprimono nelle loro menti quel momento, ignari che si sarebbero ritrovati a guardare insieme il medesimo spettacolo nei successivi anni, ancora e ancora.
 



 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Barnes, da questa parte.”
 
Bucky scavalcò un altro paio di corpi e si apprestò a raggiungere Stark, che era alle prese con il portellone di un container. Una volta aperto, si trovarono dinanzi le facce sconvolte appartenenti ad individui armati di scopettoni, spazzoloni e secchi!?
 
“Ti prego non ucciderci! Siamo rimasti fermi e zitti come ci hai chiesto!” gridò nel panico un ragazzotto robusto con gli occhiali che prendevano da un lato. Aveva le braccia sollevate in segno di resa e una spugna umidiccia stretta in una mano. Le ascelle pezzate stagliate sulla maglia arancione erano messe ben in mostra e facevano concorrenza alla macchia di sudore che si allargava in corrispondenza del girocollo.
Alle sue spalle fece capolino un ragazzo molto alto, dai capelli rossicci e dal pallido viso punteggiato di lentiggini ramate. Al suo fianco, invece, sostava una giovane donna abbracciata al bastone di uno scopettone. Lo sguardo profondo di quest’ultima era imbrunito da alcuni ciuffi ribelli della folta chioma riccia, che le incorniciava il viso dal colorito d’ebano.
A completare il quadretto di coloro che erano più visibili c’era un anziano signore dai capelli bianchi, seduto su un secchio rovesciato. Non si era nemmeno scomodato ad alzarsi e indossava spessi occhiali squadrati che facevano presupporre che non ci vedesse poi così bene. Sul fondo del container si potevano contare almeno altre sei persone. Tutti indossavano la stessa salopette grigiastra con annessa una targhetta che riportava il nome.
 
“È Iron Man! Siamo salvi!” annunciò a gran voce la ragazza riccia, Jenna, e abbandonò lo scopettone per poter sollevare le braccia in alto, in un gesto di esultanza.
 
“Cosa è successo qui?” chiese loro Tony, mentre l’elmetto si dissolveva rendendo visibile l’espressione confusa.
 
“Il delirio, signor Stark! Sono apparsi questi tizi dal nulla! Hanno preso d’assalto i capannoni e poi hanno iniziato ad ammazzare tutti, però anche gli altri avevano delle armi, un sacco di armi, e hanno risposto all’attacco e c’era questo tale che non ha idea…” il ragazzo con gli occhiali storti, Barry, fu costretto a riprendere fiato e il rosso, Francis, ne approfittò per prendere la parola al suo posto.
“Aveva questa maschera che gli copriva la parte inferiore del viso e uno sguardo di quelli che ti fanno tremare le gambe e credevamo ci avrebbe uccisi tutti quanti. Invece ci ha spinto qui dentro e ci ha ordinato di non muoverci e noi non ci siamo mossi.”
 
Tony e Bucky scambiarono un’occhiata densa di pensieri a cui non osarono dare voce.
 
“Voi chi siete esattamente?” fu allora la lecita domanda di Stark.
 
“Una squadra della ditta di pulizie Mops&Bucket, una piccola azienda della zona” spiegò tranquillamente l’anziano signore, Moshe, ancora seduto sul secchio e affatto agitato.
 
Non avrebbero potuto aiutarli a ricavare informazioni di spessore. Era ovvio che quei poveracci si fossero trovati invischiati in una situazione al di fuori della loro comprensione ed era un miracolo che fossero sopravvissuti alla carneficina. No, si corresse Bucky, non era un miracolo. Erano stati aiutati da un tale che nel mezzo di un sanguinoso scontro si era preso la briga di mettere al sicuro civili la cui unica colpa era stata quella di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato.
 
“Lui ne aveva una uguale sul petto” Jenna indicò la stella rossa sulla spalla di metallo di Barnes.
 
Bucky cercò di nuovo gli occhi di Tony e ci trovò la stessa preoccupazione, mischiata ad una dose di speranza. Erano quasi certi di sapere chi fosse il talevivo – anche se non sapevano in che casino si fosse infilato e, soprattutto, perché non aveva cercato di mettersi in contatto con loro. Anche se quei civili erano sani e salvi, il mucchio di cadaveri al di fuori del container non lasciava molto spazio a buone prospettive.
 
Però era lui, doveva essere lui. Bucky voleva che fosse lui, non gli importava del resto.
 
 
 
Dove diavolo sei finito, Steve?
 
 
 
 
 
 






 
 
Non se ne rese conto subito. La tensione che da giorni aveva insidiato ogni muscolo e nervo era scemata, lasciando il posto ad un senso di radicata spossatezza. Se non ci fosse stata la parete alle sue spalle, si sarebbe accasciato a terra senza poter fare nulla per evitarlo. Gli stivali penzolavano oltre il bordo del tavolo metallico e le gambe erano attraversate da un formicolio non più così fastidioso.
L’aveva immaginata più snervante quell’attesa. Invece, si era presto rassegnato all’idea di dover rimanere in una bolla di incertezza per un numero indefinito di ore. Si erano appena lasciati alle spalle una lunga nottata e avevano ufficialmente fatto tutto il possibile per costringere Lewis ad esporsi. Se non l’avesse fatto dopo questo, i loro sforzi sarebbero risultati tristemente vani e lui non avrebbe saputo che altro fare.
Per ingannare il tempo ed evitare di abbassare troppo la guardia, si era calato nei panni di un osservatore discreto. Nonostante fossero appena le dieci del mattino, diversi dei suoi temporanei colleghi stavano stemperando la tensione con l’aiuto dell’alcol già da diverse ore. Gli agenti dell’Hydra e i mercenari di Batroc erano per la maggior parte riuniti nella grande sala, disposti in gruppi eterogenei. Ad occhio e croce, dovevano essere una ventina all’interno della base, di cui cinque erano mercenari. Alcuni stavano ricevendo cure mediche, altri erano storditi dagli antidolorifici mischiati in maniera poco cauta con l’alcol. Aveva visto qualcuno andare in cerca di un posto più isolato dove potersi appartare per dormire. C’era stato un discreto via vai per il corridoio oltre la porta a vetri, per usufruire delle docce e dei servizi igienici. Anche lui ci era stato, una rapida toccata e fuga per limitare le possibilità di essere ammazzato sotto il getto d’acqua fredda. Si sentiva più sicuro quando poteva avere il solo muro alle spalle e i vestiti addosso ovviamente.
A proposito di vestiti, parecchi uomini stavano gironzolando a petto nudo e uno di loro aveva espresso il comune pensiero su quanto facesse fottutamente caldo lì dentro e che sembrava di essere in una stramaledetta fornace. Steve aveva rinunciato a rimettere la parte alta dell’uniforme nera, limitandosi alla sola maglietta. Faceva caldo e la tentazione di uscire a prendere una boccata d’aria era una lusinga parecchio attraente. Tuttavia, Rumlow non ne sarebbe stato felice.
Seppur in minoranza, nella comitiva erano presenti anche delle donne – ne aveva contate sei, se si escludeva la Myers – e la maggior parte preferiva starsene in disparte, a recuperare le energie. Solo due fra loro si erano aggregate alle bevute per distendere i nervi.
Incrociò gli occhi allungati di un uomo in procinto di portare alle labbra una bottiglia di pura vodka. Una sutura imprecisa gli percorreva la clavicola destra, lasciata esposta dalla canotta scura. Prese un sorso del liquido trasparente e gli dedicò un rapido ma conciliante cenno del capo. Il Capitano aveva evitato che gli recidessero la gola e, con buona probabilità, adesso c’era una persona in meno che lo avrebbe pugnalato alle spalle se si fosse voltato.
Steve abbassò le palpebre per un momento, sfuggendo alla fredda e fastidiosa luce al neon. Un leggero chiacchiericcio faceva da sottofondo. Lavorare con il nemico non era facile per nessuna delle parti implicate e, nonostante la tensione iniziale fosse stata sostituita da una forzata – obbligata – accettazione, lui non avrebbe di certo seguito l’esempio del tizio che dormiva allegramente steso su uno dei tavoli sgombri. Non voleva tentare troppo la fortuna e per questo non era riuscito a dormire molto, se non qualche sporadica ora e solo in presenza di Rumlow, che sembrava davvero intenzionato a tenerlo vivo.
Brock era con Benson in quel momento e si chiese quale strumento di tortura fisica o psicologica stesse usando per ottenere le informazioni che voleva. In fin dei conti, qualsiasi tipo di informazione avrebbe fatto loro comodo. Il suo ex collega aveva dimostrato di sapere come si era mosso Lewis negli ultimi mesi ed era questo che li aveva portati ad avvicinarsi al bastardo. Forse avrebbe avuto una possibilità stavolta. Una reale possibilità. Ed era solo per quella possibilità che si stava sforzando di non pensare a tutto il resto.
Risollevò le palpebre e si accorse di avere gli occhi di Batroc puntati addosso. Iniziava ad abituarsi al suo sorrisetto strafottente. Il mercenario si mosse nella sua direzione e, senza chiedergli il permesso, saltò seduto sul tavolo. Le loro spalle cozzarono e lo spazio a dividerli divenne irrisorio. Le iridi chiare di Batroc erano state rese più liquide dall’alcol e sembrava su di giri. Gli tese un bicchiere mezzo pieno di qualcosa che aveva un odore forte. Steve scosse il capo per rifiutare l’offerta e lanciò un’occhiata guardinga ad un altro paio di mercenari in avvicinamento.
 
“Ti ricordi di me?” gli chiese uno di loro e mostrò una brutta cicatrice sul dorso della mano.
 
“Dovrei?”
Il super soldato non aveva la forza di discutere con soggetti dalla testa calda e per di più brilli. Si era impegnato a mantenere un profilo basso e ad evitare provocazioni di ogni tipo – e non perché Rumlow lo avevo minacciato di morte.
 
“Lemurian Star. Pugnale conficcato nella mano prima che potessi dare l’allarme” gli ricordò l’uomo.
 
“Almeno tu non sei stato spinto fuori bordo” si intromise l’altro mercenario, mentre passava la mano sulla testa rasata e si avvicinava ulteriormente – troppo.
 
L’odore di alcol accompagnava ogni loro parola e respiro. Era una situazione scomoda e Steve si chiese se fosse il caso spostarsi da lì seduta stante.
 
“Ragazzi, per favore. Non siamo qui per rivangare il passato. Adesso siamo soci.”

Inaspettatamente, Batroc fece scivolare un braccio dietro le spalle di Rogers e gli circondò il collo in modo quasi amichevole. Il primo istinto di Steve fu quello di spingerlo via in modo poco gentile, ma preferì non essere l’innesco di una rissa. Una parvenza di equilibrio l’avevano trovata, ma era sottile e poteva andare in pezzi alla minima mossa falsa. Batroc sembrava un tipo che amava segnare su un’agenda i nomi di quelli a cui voleva farla pagare, soprattutto se gli avevano mandato a monte un affare redditizio. Tuttavia, dopo lo scontro che avevano avuto sul jet – il mercenario aveva ancora il naso livido –, si era dimostrato collaborativo e pareva aver messo da parte le loro divergenze.
 
“Allora Rogers, quante possibilità abbiamo di morire al momento?” domandò Georges, subito dopo aver preso un altro sorso dal bicchiere ormai quasi del tutto svuotato. “Sono certo che quel bastardo di Rumlow non mi paga abbastanza” aggiunse infine, con una nota pungente nella voce.
 
“Non sei costretto a restare” gli fece notare Rogers e tentò di scostarsi da lui, ma finì solo per incoraggiarlo a serrare maggiormente la presa.
 
“No, non lo sono. Però adesso sarò certamente sulla lista nera di quel dannato vecchio e preferisco farlo fuori invece di aspettare che mi spedisca contro i suoi mostri.”
 
“Ragionevole” fu la secca risposta di Rogers e Batroc fece sfoggio del suo distintivo sorriso affilato.
 
Ognuno di loro aveva obiettivi differenti, ma questi richiedevano un’unica soluzione, motivo per cui non si stavano ammazzando a vicenda. Rogers però era sicuro che ognuno avrebbe pensato ai propri interessi nel momento cruciale.
Fino ad allora aveva sempre combattuto assieme a compagni per cui nutriva fiducia e rispetto, con la consapevolezza di avere le spalle coperte e di potersi spingere oltre i limiti di sicurezza. Era come saltare in un burrone sapendo – con assoluta certezza – che ti avrebbero afferrato prima dello schianto sul fondo roccioso e frastagliato. Ora, se avesse deciso di saltare, con buona probabilità – con assoluta certezza – si sarebbe sfracellato a terra.
 
“Dovremmo chiedere più soldi in ogni caso. Chi altri accetterebbe di affrontare dei potenziati?” protestò il tizio con la cicatrice sulla mano.
 
Steve conosceva diverse persone che avrebbero accettato e non per soldi.
 
Il chiacchiericcio si estinse di colpo e questo portò il Capitano a sollevare lo sguardo in direzione della porta a vetri. Rumlow era appena entrato nella sala e l’espressione dura non lasciava spazio ad interpretazioni.
“Rogers” lo chiamò e gli fece segno di raggiungerlo con un gesto della mano. Almeno stavolta non aveva schioccato le dita – una gentile concessione da parte sua.
 
Batroc ritirò il braccio invadente e il super soldato saltò giù dal tavolo. Steve notò l’occhiata tagliente che Brock lanciò in direzione del mercenario e si voltò un istante indietro, per controllare che non stesse accadendo nulla di compromettente. Batroc però era lì dove l’aveva lasciato, perciò non si fece ulteriori domande e seguì Rumlow fino all’angusta stanza dove era rinchiuso Benson.
 
La tensione tornò a graffiargli i muscoli diventati insofferenti.
 
“Rilassati. È pronto a parlare” gli assicurò l’ex collega.
 
Rumlow aprì una pesante porta in metallo, che cigolò rumorosamente, ed entrò seguito da Rogers, intento a ricostruire lo stato di concentrazione che gli era necessario.
Henry era in piedi, con le mani guantate giunte dietro la schiena e la camicia sgualcita fuori dai pantaloni scuri. Era ridotto meno peggio di quel che Steve aveva immaginato, conoscendo Brock.
 
“Il mio soldato preferito. Come ci si sente a stare dal lato del carceriere?” Benson si era rivolto a Rogers. Non era arrabbiato, tantomeno nervoso. Forse la rassegnazione doveva aver preso il sopravvento su ogni altra emozione. Oppure credeva di essere ancora intoccabile.
 
“Evitiamo i convenevoli, Benson. Lui è qui. Parla adesso” si intromise Rumlow, sempre più impaziente.
 
L’attenzione di Henry fu tutta per Steve. “Lei mi aveva assicurato che lo avrebbe eliminato. Dovevo avere io il controllo.”
 
“Spiegati” intimò Rogers, ma mancò della dovuta freddezza. Lo stomaco era già sottosopra, perché sapeva chi era la Lei chiamata in causa.
 
“La tua compagna” il disprezzo sgorgò fuori a fiotti “Doveva eliminare Lewis. Erano i patti. Però Lewis era certo che la sua arma più potente non avrebbe fallito e non si sbagliava. La bastarda si è fatta ammazzare.”
 
“Aspetta. La strega è morta?” la delicatezza non era certamente fra le qualità di Rumlow.
 
“Non posso averne la certezza dato che sono qui” Benson si lasciò scappare una risata sentita “Ma pensateci. Se a vincere fosse stata lei non saremmo in questa situazione e tu probabilmente saresti già morto e sepolto, Rumlow” rise di nuovo, di gusto. Poi si zittì di colpo, i tratti del volto sudato si tesero e gli occhi scuri si sgranarono. “Se a vincere fosse stata lei, io avrei il controllo. Quella fottuta strega…”
 
Benson si ritrovò ad un palmo da terra, pressato contro una delle pareti della grigia stanza di detenzione. Le mani di Rogers erano strette attorno il colletto della camicia. Rumlow non osò proferire parola e fece addirittura un passo indietro.
 
“Dimmi come stanno davvero le cose” il super soldato stava cedendo alle lusinghe della rabbia.
 
“Ho detto quello che sapevo, ragazzo” Henry non era spaventato, sembrava essere sotto l’effetto di una droga inebriante “Volevo il controllo” le dita guantate circondarono i polsi del biondo, ma non fecero alcuna pressione affinché lui mollasse la presa. “Passa dalla mia parte. Posso offrirti molto di più di quanto abbiano fatto Ross, Rumlow, persino gli Avengers.”
 
Rogers lasciò andare Benson di colpo e quest’ultimo finì seduto a terra. “Dove e quando c’è stato l’incontro con Lewis?” gli chiese, decidendo volontariamente di ignorare l’offerta appena ricevuta.
 
Henry si tirò su a fatica, senza però abbandonare l’espressione ebbra.
“La stessa notte dell’attacco al Raft. In una base dismessa in Canada.”
 
Era una conferma.
 
“Qual è l’arma più potente di Lewis di cui hai parlato prima?” intervenne Rumlow.
 
“Un altro mostro sotto le mentite spoglie di un’innocente bambina.”
 
La maschera di freddezza indossata da Steve andò in frantumi. La bambina circondata dalle fiamme che aveva visto durante lo scontro con Markov.
“Pensi che potrebbe essere come me?” fece eco la voce incerta di Anthea.
Forse lei ci aveva visto giusto alla fine e questo non era rassicurante. Non riusciva nemmeno ad immaginare cosa avrebbe potuto fare Lewis una volta ottenuto il totale controllo di qualcuno con capacità simili a quelle di Anthea.
 
E se Anthea lo avesse perso davvero quello scontro? Se lei…
 
Kristen entrò nella stanza come un tornado, senza chiedere il permesso, e l’attenzione virò su di lei.
“Rumlow, Lewis ci ha contattati e vuole parlare con te” aveva il fiato corto e la faccia di chi aveva appena visto un fantasma e aveva corso per sfuggirgli.
 
Brock cercò lo sguardo di Steve, che ricambiò l’occhiata penetrante. In quella parte della base non c’era un segnale stabile e per questo Rumlow doveva tornare nella sala principale.
 
Quella era la svolta che avevano atteso.
 
Rumlow si apprestò ad uscire dalla stanza. Fu allora che Benson sfruttò il fatto di essere stato messo in secondo piano. Sfilò il guanto destro e dal dorso dell’esoscheletro metallico che gli circondava la mano spuntò una lama corta ma affilata. Balzò in avanti e puntò Brock con la chiara intenzione di ucciderlo.
Steve captò il movimento in ritardo con la coda dell’occhio, però fu abbastanza reattivo da spingere via Rumlow. Così facendo, si ritrovò faccia a faccia con Benson, che gli era arrivato addosso e che ora gli stava rivolgendo un sorriso pieno di soddisfazione e dalle sfumature folli. Sembrava che stesse perdendo completamente il senno.
 
“Unisciti a me.”
 
La mano sinistra di Henry premette con più forza contro la parte bassa della schiena di Steve, le dita sostenute da un secondo esoscheletro si avvinghiarono al tessuto della maglia. Spinse, Henry, premette quelle dita con più decisione, quasi volesse affondargliele nella carne.
 
“Non te ne farò pentire” sibilò l’uomo e lo tenne stretto a sé.

Il rumore di uno sparo risuonò nella stanza ed ebbe l’effetto di un grido agghiacciante. Benson cadde con un buco nella tempia destra, mentre Rumlow abbassava la pistola da cui era partito il colpo.
Steve spostò lo sguardo vacuo dal corpo senza vita di Henry alla lama rimasta piantata nella parte sinistra dell’addome. La estrasse con uno strappo secco e strinse i denti nel farlo. Il tessuto della maglia nera si impregnò di sangue e lui si lasciò scappare un “Dannazione” accompagnato da un sottile tremore nella voce. Gli ci volle parecchio impegno per rimanere in piedi.
Brock fece per avvicinarsi, ma Steve sollevò la mano destra per bloccarlo, mentre premeva l’altra sulla ferita.
 
“Parla con Lewis. Potrebbe essere la nostra sola possibilità.”
Rogers colse uno sprazzo di esitazione nello sguardo scuro di Rumlow e, nonostante la sorpresa, fece in modo di spazzarlo via.
“Che c’è? Non dirmi che sei preoccupato per me” ci mise tutto il sarcasmo di cui era capace.
 
“Fottiti, Rogers. Spero tu possa affogare nel tuo stesso sangue” ringhiò Rumlow e uscì dalla stanza come una furia, senza voltarsi indietro.
 
“Lascia che ti aiuti” la Myers, rimasta agghiacciata da tutto ciò che era appena accaduto, offrì a Steve un appoggio che non fu rifiutato.
 
Uscirono anche loro dalla stanza, lasciandosi alle spalle il corpo privo di vita di Henry Benson.
 




 

 
 
 
 
 
 

“Signore, la prego…”
 
Le parole rimasero incastrate nella gola dell’inetto che era venuto a dirgli che anche i loro ultimi fornitori si erano tirati indietro. Niente più cavie su cui poter sperimentare.
Strinse con maggiore decisione le lunghe dita attorno al fragile collo dell’inetto e osservò con estremo piacere i suoi occhi rovesciarsi, mentre le labbra si coloravano di un blu sempre più scuro. Percepire sulla pelle lo spegnersi della vita ebbe lo stesso effetto di un orgasmo con i fiocchi. Al tempo stesso, non ne fu però completamente appagato. Ne voleva di più.
Lasciò cadere a terra il cadavere che avrebbe usato per i suoi esperimenti e spostò l’attenzione su Markov. Riconobbe la paura nascosta fra le rughe dell’espressione tesa. Non lo biasimava. Essere in presenza di una entità superiore faceva questo effetto, Lewis lo aveva imparato a sue spese.
Compiuto il lavoro che si stavano apprestando a cominciare, anche i suoi nuovi cinque super soldati avrebbero perduto la capacità di fare di testa loro. Se aveva rimandato il ricondizionamento era solo perché aveva bisogno di loro al momento e non era sicuro sul tempo che avrebbe dovuto impiegare per la buona riuscita del processo. Quegli assassini erano restii a piegare il capo. Con la distruzione della sua arma più potente, Adam aveva rischiato di perdere il controllo fondato sulla paura che aveva instaurato. Tuttavia, lo scontro di energie che lo aveva investito aveva risvegliato qualcosa nel nuovo corpo.
Forse perdere la sua arma più letale e la possibilità di riavere Anthea indietro non aveva portato solo conseguenze negative. Forse era stato un sacrificio necessario che gli avrebbe permesso di trascendere completamente la condizione umana per poter diventare un dio. Era ciò che aveva sempre desiderato e questo gli avrebbe permesso di placare la fame che lo stava rendendo sempre più impaziente. Doveva essere una conseguenza dell’imminente evoluzione.
 
“Preparati e dì agli altri di fare lo stesso. È arrivato il momento di contrattaccare.”
 
Markov annuì e si ritirò senza dire una sola parola.
 
 
Era con la paura che si esercitava il controllo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Le tremavano le mani. Non era un medico, anche se conosceva le pratiche del primo soccorso. Aveva imparato a suturare ferite di diverse estensioni e forme. Si era esercitata parecchio su Rumlow negli ultimi mesi, eppure non aveva ancora acquistato la giusta freddezza per poter ricucire qualcuno con distacco.
Era ironico se considerava l’assenza di sentimenti con cui aveva trattato le cavie durante il periodo di lavoro al fianco di Lewis. Quell’uomo era stato capace di portarla a fare cose riprovevoli, senza che lei provasse il minimo senso di colpa. Da quando era tornata in sé, aveva fatto di tutto per alleggerire il sopraggiunto senso di colpa che ogni giorno la portava a chiedersi se meritasse davvero la seconda possibilità che le era stata concessa. Fece un profondo respiro e si fermò un istante, con l’ago stretto fra le dita tremolanti.
 
“Mi dispiace, sto rendendo tutto questo più complicato.”
 
“Stai andando bene” la rassicurò Rogers, seduto sul tavolo della piccola stanza che Kristen utilizzava come alloggio personale. C’erano anche una brandina sgangherata e tre borsoni in vista da cui fuoriuscivano abiti, materiale medico, barrette proteiche e blocchi note dagli angoli ingialliti e stropicciati.
 
“Menti ma grazie” la donna riprese il lavoro, tentando di portarlo a termine il più rapidamente possibile.
 
Steve tratteneva il respiro a tratti ed era evidente, dato che il suo addome smetteva di muoversi ogni volta che lei gli bucava la pelle per riunire assieme i lembi della ferita – una brutta ferita. Terminata la sutura, appiccicò una garza sul taglio e passò le dita sui bordi un paio di volte, affinché aderisse perfettamente. Fece un passo indietro per uscire dallo spazio personale del super soldato, che abbassò la maglia rimasta arrotolata a metà torace.
 
“Sarebbe potuta andare peggio” decretò Kristen, con poca convinzione.
 
Di risposta, Steve lasciò cadere la testa all’indietro, poggiando la nuca contro la parete alle sue spalle. “Potresti ricreare il siero?” le chiese a bruciapelo.
 
Le ci volle qualche secondo per processare la domanda. “Sarei in grado di produrne una versione stabile, ma se potessi sradicherei questa conoscenza dal mio cervello. A dire la verità, Rumlow ed io eravamo usciti dal giro” un fievole sorriso fece tendere le labbra piene solo per un fugace istante “Poi Lewis è venuto a cercarmi.”
 
“Avevate lasciato l’Hydra?” Steve scese dal tavolino con un movimento poco fluido.
 
“L’Hydra è al collasso. Non c’è più un capo e l’ultima sconfitta subita è stata devastante. Brock mi ha aiutata a sparire dai radar e poi è rimasto. Se non ci fosse stato lui, sarei già nelle mani di Lewis o morta. Ci siamo spostati da una base dell’Hydra all’altra, ma Lewis ne conosce la collocazione e quindi alla fine abbiamo ripiegato su questa vecchia sede. Le persone di là sono quelle che ci hanno seguiti tra una fuga e l’altra e Batroc è stato l’unico abbastanza pazzo da accettare volontariamente il lavoro.” La Myers si perse nei ricordi dell’ultimo periodo e poi scosse il capo, come se avesse voluto scacciarli. “Posso farti una domanda personale?”
 
Steve annuì senza rifletterci, forse preso dal momento confidenziale che era venuto a crearsi.
 
“Anthea Reyes” Kristen focalizzò nella mente l’immagine della ragazza e del suo sguardo magnetico “Durante lo scontro con Teschio Rosso, in quel vicolo. Lei sapeva cosa ti avevo fatto assieme a Lewis?”
 
“Lo sapeva.”
 
“C’è stato un momento in cui ho avuto la certezza che mi avrebbe uccisa in quello stesso vicolo e io ho creduto di meritarlo.”
 
“Non lo avrebbe fatto” si sentì in dovere di chiarire il Capitano.
 
“Ti credo” gli assicurò lei e sorrise a mezza bocca “Quella sensazione però mi è rimasta appiccicata addosso ed è uno dei motivi che mi ha spinta a voler porre rimedio ai miei torti con tutto l’impegno possibile. Non tenterò mai più di ricreare il siero, però vorrei usare le mie conoscenze per aiutare. Credi che potrebbe essere ancora possibile?”
 
Steve non ebbe la possibilità di risponderle, perché Rumlow aprì la porta della stanza con eccessiva rudezza, rischiando di scardinarla, cosa che fece sussultare Kristen in maniera eclatante.
 
“Brock aspetta” tentò di richiamarlo lei, allarmata. Ormai lo conosceva abbastanza da poter prevedere cosa avrebbe fatto solo guardandolo in faccia. E attualmente era in preda a uno di quei suoi pericolosi attacchi di rabbia cieca.
 
Tuttavia, l’attacco psicotico di Rumlow subì un’improvvisa battuta d’arresto e l’uomo tornò ad essere freddo e distaccato. “Lewis vuole un incontro per trattare e afferma che ci sarà” prese a parlare come se nulla fosse, con una invidiabile nonchalance “Domani. Ci invierà ora e luogo entro la fine della giornata e a quel punto potremo organizzarci” aveva gli occhi fissi in quelli di Steve, che non nascose lo sconcerto provocato dalla notizia.
“E c’è un’altra cosa” le mani ruvide di Rumlow si strinsero attorno il girocollo della maglia di Rogers e lo spinsero indietro, contro la prima parete disponibile. Pezzi di intonaco grigiastro vennero giù a causa dell’impatto violento.
 
Kristen si aggrappò ad un braccio di Brock e tentò di tirarlo via con scarsi risultati. “Ti prego fermarti” lo implorò, ma lui non parve nemmeno notare la sua presenza. Era accecato dalla rabbia.
 
“Ascoltami bene” sibilò l’ex agente dello SHIELD, direttamente ad un soffio dal viso del Capitano “Non ho bisogno della tua protezione. Non voglio la tua protezione.”
 
“Rumlow…”
 
Brock pressò il braccio destro sulla gola del super soldato, impedendogli di emettere anche un solo fiato, mentre con l’altra mano continuava a spingerlo contro il muro, come se cercasse di farcelo affondare dentro.
“Se mi comporto civilmente è solo perché mi servi e ho dato la mia parola alla Myers” l’uomo scoccò un’occhiata tagliente in direzione di Kristen e poi tornò a concentrarsi su Rogers “Se mi trovassi nella situazione di dover scegliere fra la mia e la tua vita, considerarti morto. Annuisci se ti è chiaro il concetto.”
 
Steve sostenne lo sguardo di Brock per un lungo attimo e alla fine annuì. Allora, l’ex agente dello SHIELD allentò la presa e il braccio premuto sul collo si spostò finché non furono solo le dita a premere sulla cervicale, mentre il pollice sfregava il pomo d’Adamo. La sensazione di controllo placò la rabbia viscerale. Di riflesso, la Myers lasciò andare Rumlow e fece un paio di passi indietro, sperando che fosse finita.
 
“Sei quasi gradevole quando obbedisci.”
 
Stavolta Rogers reagì, regalando una testata al suo ex collega. Questo innescò una lotta furiosa che passò dalla stanza al corridoio.
Kristen pensò di intervenire in qualche modo, ma sapeva che se si fosse avvicinata troppo ci avrebbe rimesso le ossa. La sua attenzione fu catturata dall’arrivo di un gruppo di soldati attirati dal trambusto. Batroc era in prima linea e l’eccitazione che gli lesse in faccia non presagiva nulla di buono.
 
“Fate qualcosa prima che si ammazzino” gridò comunque la Stewart, terrorizzata dall’idea di essere costretta ad assistere alla seconda morte violenta della giornata.
 
“Con piacere” Batroc sfregò le mani e si fece avanti, seguito da altri impavidi coraggiosi.
 
Kristen si coprì gli occhi con una mano e imprecò fra i denti. In quel momento avrebbe tanto voluto essere forte abbastanza da porre fine a quel casino e prendere a schiaffi – senza rimetterci le ossa delle mani – quella testa calda di Rumlow, che proprio non ci riusciva ad evitare provocazioni in una situazione già tesa all’esasperazione. Questa non gliel’avrebbe di certo fatta passare liscia.
 
 





 
 
 
 
 
 
 
Autunno 2007
 
 
Le nuvole alla fine si erano disperse e il tepore del sole stava asciugando la terra, tappezzata di foglie ramate cadute da alte querce nodose. Era il primo giorno di bel tempo dopo una settimana di pioggia e vento. I colori autunnali erano vividi e gli ferivano gli occhi dolenti. Erano così vividi in contrasto con la grigia pietra.
L’ennesima pacca sulle spalle fu accompagnata da parole vuote e alle quali non prestò attenzione. Allentò la cravatta con fare brusco, ma respirare continuò ad essere faticoso. La testa gli stava scoppiando e la nausea faceva contrarre dolorosamente lo stomaco vuoto.
Dita affusolate si aggrapparono al gomito destro e stropicciarono il tessuto della giaccia nera.
 
“Sei pronto ad andare?”
 
La voce tremante che pose quella semplice domanda gli provocò una stretta decisa al cuore. La nausea lo aggredì con prepotenza e temette che sarebbe crollato a terra. Ma rimase in piedi. Doveva rimanere in piedi, perché altrimenti a chi altri avrebbe potuto aggrapparsi sua madre? Doveva essere forte per lei.
No, non era pronto ad andare. Forse non lo sarebbe mai stato. Fissò lo sguardo sulla fredda e silente pietra che emergeva dalla terra umida.
 
Andrew Adley Collins.
Marito e padre amorevole. Uomo e soldato esemplare. Il suo sacrificio non sarà dimenticato.
 
Sorrise. Amorevole ed esemplare. Lo era. Lo era stato. Sacrificarsi per salvare vite innocenti e per rendere il mondo un posto meno sporco era un buon modo per andarsene.
Non era arrabbiato con lui. Forse solo un po’, perché sua madre stava soffrendo e avrebbe sofferto a lungo e non avrebbe potuto fare niente per alleviare quel dolore totalizzante e bruciate, se non starle vicino.
 
“Sono pronto. Torniamo a casa.”
 
Rivolse a sua madre un sorriso morbido. Gli occhi bruni della donna che lo aveva cresciuto con amore erano arrossati e gonfi, il naso era screpolato e diversi ricci mori erano sfuggiti alla crocchia appuntata sulla nuca. Era una bellissima donna, sua madre, forte e piena di ottimismo. Tuttavia, in quel momento, le ricordava un fiore appassito che aveva perduto la volontà di opporsi alle tempeste. Sembrava essere invecchiata di dieci anni in un battito di ciglia, le rughe sul volto erano più profonde e la schiena più incurvata, come se un invisibile peso la stesse schiacciando.
 
“Giurami che non seguirai le sue orme. Giuramelo, Daniel.”
 
 
 
Dinanzi la tomba di suo padre, le fece una promessa che non avrebbe mantenuto.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Presente
New York, Stark Tower

 
 
Scattò sull’attenti non appena le porte dell’ascensore si aprirono. Aveva atteso nella Sala Comune per quasi due ore e finalmente aveva la sua chance.
 
“Signor Stark” esordì, mentre si preparava a fronteggiare Iron Man, mettendo da parte ogni tipo di incertezza o esitazione.
 
“Daniel Collins, giusto? Cosa ti porta qui?”
Stark era visibilmente esausto, eppure aveva accettato di incontrarlo.
 
“Giusto. Sono qui perché voglio aiutare. Mi lasci aiutare. Farò qualsiasi cosa.”
 
Dan si ritrovò a sostenere lo sguardo penetrante di Tony Stark. Ne sentì il peso, ma non cedette, rimase ben piantato con i piedi a terra e le spalle dritte, ostentando una sicurezza che in realtà non aveva.
 
“I sensi di colpa non sono una buona ragione per…”
 
“Non lo faccio solo per i sensi di colpa, glielo posso assicurare.”
 
L’espressione di Stark perse un po’ della durezza iniziale. “Sei ancora in tempo per uscirne, ragazzo.”
 
“Ma io non voglio uscirne. Mi lasci aiutare, la prego.”
 
Tony puntellò le mani sui fianchi e sospirò molto profondamente. Ancor prima che parlasse, Dan seppe di aver vinto.
 
“E va bene, un altro paio di mani ci farebbero comodo, ma se la situazione dovesse complicarsi, non voglio averti fra i piedi, intesi?”
 
“Intesi. La ringrazio, signor Stark.”
 
“Tony e dammi del tu.”
 
Dan annuì. “Ho delle informazioni importanti per voi. Riguardano il Raft.”
 
“Non credi che avresti dovuto iniziare da qui?” non c’era rancore, solo un velo di ironia.
 
“Cavolo. Mi scusi… cioè scusa…” forse si era fatto prendere troppo dall’entusiasmo.
 
 
 
 
 
 






 
 
“Questa è la seconda volta, Rogers. La seconda fottuta volta.”
 
Batroc stava tamponando il naso con una garza. Era seduto su un tavolo e aveva la testa riversata all’indietro per rallentare il sanguinamento.
 
“Non avresti dovuto metterti in mezzo” controbatté il diretto interessato, che invece era con le spalle appoggiate ad una parete e le braccia incrociate al petto. La parte destra del viso aveva assunto un colorito violaceo, soprattutto intorno all’occhio lucido e arrossato.
 
“Ringrazia che si sia messo in mezzo o ti avrei fatto a pezzi.”
Rumlow era dalla parte opposta dell’ampia sala, seduto su una sedia dotata di rotelle difettose e scricchiolanti. La maglia era sollevata per metà e contro l’addome livido teneva premuto un sacchetto di ghiaccio istantaneo.
 
“Continua a raccontartela” fu la seccata risposta di Rogers.
 
“Non muovere il culo da lì, Rumlow” lo precedette Kristen, in piedi al centro della sala. Aveva l’aria sfinita.
 
Rumlow non si mosse, non perché avesse paura della Myers, ma perché uno dei suoi stessi uomini gli stava puntando addosso un’arma carica di tranquillante, lo stesso che lui aveva utilizzato su Rogers nel jet e che, a quanto pareva, anche lei aveva conservato per le emergenze. Era uno stramaledetto ammutinamento, però non riusciva ad essere seriamente incazzato con lei. Quella donna riusciva sempre a sorprenderlo. Aveva preso in mano il controllo della situazione e aveva ristabilito l’ordine, contando sul fatto che nessuno dei presenti voleva rischiare di mandare a puttane tutto il lavoro che li aveva portati fin lì.
 
“Myers, andiamo. Giuro che non prenderò a calci lo stronzo irritante laggiù. Saranno più di due ore che siamo fermi qui.”
 
“Non ne è trascorsa nemmeno una” lo corresse Kristen e sospirò profondamente “Va bene, puoi muoverti. Ma basta stronzate.”
 
Brock lasciò cadere a terra la sacca del ghiaccio, sollevò le mani in segno di resa e nel frattempo fece forza sulle gambe per tornare finalmente in piedi.
“Cominciamo a prepararci in attesa che Lewis ci contatti di nuovo. Sistemate armi e attrezzature. Tenete sotto controllo qualsiasi movimento delle nostre controparti” gli Avengers, Ross e lo SHIELD, Brock evitò di esplicitare “e che nessuno si azzardi a lasciare questa base.”
 
Si creò movimento fin da subito, segno inequivocabile che Rumlow aveva recuperato il comando. Per essere più precisi, la Myers glielo aveva restituito sbloccando l’impasse atta a ristabilire la calma indispensabile per non morire prima del tempo.
Da quel momento, Brock e Steve mantennero le distanze e comunicarono solo se strettamente necessario. La tensione fra i due continuò a rimanere palpabile anche nelle ore successive.
 
“Rumlow” chiamò una donna ad un certo punto, quando la situazione sembrava ormai procedere senza nuovi scossoni in vista. “Vieni a vedere” era seduta davanti lo schermo di un computer ed era visibilmente allarmata.
 
Brock la raggiunse a passo di marcia e si piazzò alle sue spalle, in modo da avere una buona visuale sullo schermo.
“Che succede?”
 
“Abbiamo un problema.”
 
E fu solo il primo di tanti.
 
I collegamenti con l’esterno, dapprima solamente disturbati, si estinsero come la fiammella di una candela sottoposta ad un soffio deciso di alito caldo. E se già questo fu sufficiente a creare un certo scompiglio, il seguito fu anche peggio. Le luci al neon iniziarono a lampeggiare impazzite, calamitando gli sguardi dei presenti verso l’alto. L’interesse per l’illuminazione si esaurì, divorato dal ronzio dei cavi dell’ascensore in movimento, un sibilo metallico nel silenzio attonito. L’agitazione si diffuse alla stregua di una malattia contagiosa e divenne più pressante non appena le luci si spensero in modo definitivo. Adesso erano ufficialmente al buio.
 
“Non ci sono illuminazioni d’emergenza in questo buco dimenticato da Dio?” la voce di Batroc si levò alta, sovrastando il brusio.
 
“Ti sei risposto da solo” gli fece notare Rumlow, ostentando sarcasmo.
 
Un fascio di luce fendette l’oscurità e l’attenzione generale si rivolse in direzione della sorgente. “Ho trovato una torcia” balbettò l’uomo che era stato appena fucilato dalle decine di sguardi e si apprestò a cercarne altre, per poterle distribuire.
 
“Capo, l’ascensore si è bloccato” avvisò una voce femminile, appartenente alla donna più vicina alla cabina.
 
“Rumlow! C’è un’altra uscita?” Rogers cercò di individuare Rumlow e mise da parte l’astio che li aveva spinti ad azzuffarsi.
 
“Dall’altra parte della base. A che cosa stai pensando?” Brock si stava armando e, come lui, altri stavano facendo lo stesso più per emulazione che per piena coscienza di ciò che stava accadendo.
 
“Non ci sarà nessun incontro domani” gli rispose il super soldato.
 
L’ascensore stava tornando giù e scese con una lentezza snervante. Il fievole bagliore proveniente dall’interno della cabina si allargò a macchia d’olio sul pavimento all’aprirsi delle porte e figure scure si stagliarono in quello specchio illuminato. Forse erano una decina o di più. Gli intrusi gettarono a terra quelle che avevano le stesse fattezze di bombolette di spuma, da cui però prese a fuoriuscire fumo bianco. Fumo denso, soffocante e che irritava gli occhi.
 
“Cazzo ci hanno fottuti” decretò Batroc, quando si accesero scintille elettriche alle estremità dei lunghi teaser impugnati da alcuni dei nemici.
 
Gli sguardi degli intrusi erano spenti, apatici, come se non stessero provando alcuna emozione. Non c’era dubbio che fossero i potenzianti di Lewis, totalmente privati della volontà di scelta, resi più forti di semplici umani e insensibili al dolore. Steve ne aveva affrontati parecchi negli ultimi mesi, ma mai così tanti insieme.
 
Kristen allungò una mano per poter stringere il polso sinistro del Capitano e sentire così una parvenza di quella protezione che le era necessaria per non crollare. Era spaventata, terrorizzata. “Cosa facciamo adesso?” gli chiese sperando che lui fosse in grado di farli uscire da lì vivi.
 
“Cercherò di guadagnare tempo. Voi raggiungete l’altra uscita.”
 
I temporanei alleati esitarono, in attesa di un contrordine perché, in fin dei conti, non era a Steve Rogers che rispondevano. Tuttavia, né Rumlow né tantomeno Batroc si opposero alla presa di posizione del super soldato. Allora iniziarono a muoversi tutti, agenti dell’Hydra e mercenari, mentre si lanciavano occhiate poco convinte alle spalle, per assicurarsi che davvero avessero le spalle coperte e che, per una volta, non sarebbero stati usati come le pedine sacrificabili che erano stati chiamati ad interpretare.
 
“Myers” Rumlow arrivò a Kristen, la afferrò per un braccio e la strattonò verso di sé, dividendola da Rogers. “Non fermarti per nessuna ragione, chiaro?”
Dopo una breve esitazione, lei annuì e si unì al gruppo che avrebbe raggiunto la seconda uscita. Il fumo si stava spargendo e respirare stava diventando più faticoso, perciò non c’era tempo da perdere.
 
“Va’ anche tu, Rumlow.”
 
“Non osare darmi ordini, Rogers.”
 
“Basta bisticciare come ragazzine isteriche e facciamo il culo a un po’ di gente.”
Batroc si mise letteralmente in mezzo alle due ragazzine isteriche. Con un braccio si stava coprendo naso e bocca, in modo da inalare quanto meno fumo possibile. Se era preoccupato, non lo dava a vedere per niente.
 
“Dovevo chiedere più soldi.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
21 giugno 2015
Un paio di settimane prima, Washington DC

 
 
“Ricordi cosa era capace di fare Antares?”
 
“Una specie di lavaggio del cervello?”
 
Anthea si tirò su a sedere e il sottile fruscio delle lenzuola accompagnò il movimento flemmatico.
“Gli oneiriani la chiamano suggestione. Antares riusciva a suggestionare un individuo a tal punto da convincerlo di qualsiasi cosa lui volesse” fissò lo sguardo in quello di Steve “Era in grado di distorcere la realtà percepita come fosse creta nelle sue mani” concluse e le sfuggì una strana nota di eccitazione che fece sollevare al biondo entrambe le sopracciglia.
 
“Perché me lo stai dicendo?”
 
L’oneiriana abbassò il capo e prese a stropicciare le lenzuola fra le mani. “Alterare la realtà percepita, la sfera emotiva e persino distorcere i pensieri… è spaventoso e averlo provato sulla mia pelle mi ha spinta a cercare un modo per difendermi. Quando sono tornata ad Asgard dopo la battaglia contro Teschio Rosso, ho cominciato a pensarci e a ripensarci” fece una breve pausa, il tempo di un sospiro “alla fine ho iniziato a provarci e…”
 
“Aspetta” la fermò Steve “cosa hai iniziato a provare esattamente?”
 
Lei finalmente risollevò il capo per tornare a guardare il compagno. “Ho capito come utilizzare il potere di Antares a modo mio.”
 
Steve rimase in silenzio, senza però distogliere gli occhi dal viso di Anthea, che si sentì in dovere di spiegarsi.
 
“All’inizio volevo solo capire come difendermi, ma queste sono capacità tanto potenti quanto ammalianti e, a dirla tutta, so che possono ritorcersi contro lo stesso utilizzatore, fino a fargli perdere il contatto con la realtà.”
 
“E cosa succederebbe se tu perdessi il contatto con la realtà? Niente di buono immagino.”
 
“Non dovremo mai scoprirlo se tu mi aiuterai. Ho bisogno di te per rimanere ancorata alla realtà. Sarai la mia ancora” Anthea scivolò più vicina al compagno, finché le loro braccia non furono a contatto. Inclinò il capo e lo appoggiò contro la sua spalla. “È l’unico modo per affrontare l’interferenza e arrivare a Lewis senza che lui possa rendersene conto in tempo per fuggire. E se esiste davvero la minima possibilità che l’interferenza sia simile a me, fermarla ha la priorità.”
 
Steve la attirò a sé con gentilezza, stringendola per un fianco. Poggiò la fronte contro la sua tempia sinistra e Anthea gli circondò il retro del collo con le dita, in modo da rendere più solido il contatto.
 
“Cosa devo fare?” le domandò senza esitazioni.
 
“Devo rafforzare il legame fra noi. Non l’ho mai riparato dopo…” la giovane morsicò l’interno della guancia “insomma, adesso è instabile e incasinato. Dovrei riportarlo ad una condizione simile a quella di quando…” esitò di nuovo.
 
“Mi hai fatto arrivare a te la prima volta” concluse Steve per lei e si tirò indietro, rompendo il contatto.
 
Anthea notò lo spasimo della mascella che si irradiò alle spalle nude. Le bastò quel nonnulla per mettere in dubbio tutto ciò che aveva pensato potesse essere la soluzione.
 
“Spiegami, avanti. È necessaria qualche strana cerimonia?”
 
Le venne da ridere e rise, rise perché Steve si fidava troppo di lei, forse più di quanto lei meritasse. “Steve Grant Rogers, pensi veramente che io sia tipo da cerimonie?”
 
Steve, suo malgrado, si lasciò scappare uno sbuffo divertito. “Scusami, non volevo offenderti.”
 
“Scuse accettate. Allora è deciso, ti incasinerò la testa senza tante cerimonie” gli prese il viso fra le mani “Ma non stanotte, perché devi dormire e io non sono pronta.”
Lo spinse disteso e si piazzò sopra di lui, con le braccia allacciate attorno al suo collo. Sentì le sue braccia circondarle la schiena e si rilassò.
 
“Steve” Anthea lo chiamò in un morbido sussurro “Potrai tirarti indietro quando vorrai, intesi?”
 
Le dita di Steve scivolarono lungo la schiena della giovane, percorrendola in tutta la sua lunghezza, vertebra dopo vertebra.
 
“Intesi.”
 
 
 
 
 
 






 

Era terrorizzata. In quegli ultimi mesi si era abituata alla costante presenza di Brock, alla protezione che le aveva dato senza chiedere nulla in cambio. Non averlo accanto adesso la destabilizzava.
I soldati dell’Hydra l’avevano scorata verso l’uscita secondaria per metterla in salvo. Rumlow era stato chiaro con coloro che avevano deciso – volontariamente – di seguirlo in quella follia. Lei aveva la priorità, perché era una risorsa non sostituibile ed era fra gli interessi principali di Adam Lewis. Stavano cercando di mantenere la parola data, ma le cose si erano fatte alquanto complicate quando i nemici avevano iniziato a braccarli entrando dall’unica altra via d’uscita rimasta. Erano stati costretti a fare retromarcia, ma a quel punto sarebbero tornati dritti all’ascensore. Avevano guadagnato un po’ di tempo sbarrando alcune pesanti porte che separavano zone diverse del corridoio, ma i potenziati non ci avrebbero messo molto a buttarle giù. Inoltre, con l’interruzione delle comunicazioni, era diventato impossibile avvisare Rumlow che il piano di filarsela usando l’uscita secondaria era ufficialmente fallito.
Kristen sentì un aumento repentino della confusione alle sue spalle ed ebbe la forza di guardare indietro, nonostante il panico la spingesse a correre il più velocemente possibile senza curarsi di ciò che la circondava. Un paio di potenziati erano riusciti a raggiungerli prima che una delle ultime porte venisse chiusa. L’azione difensiva che provarono a mettere in piedi non fece altro che generare maggiore confusione.
Kristen cadde sul pavimento, battendo le ginocchia, e la torcia le sfuggì di mano. Cercò di rialzarsi, arrancando a tentoni in cerca di un appiglio. Tuttavia, la paura aveva reso i movimenti lenti e goffi e aveva l’impressione di sguazzare nella melma. Furono voci note, abbastanza alte da sovrastare la confusione, a scacciare via una buona parte del terrore che stava provando.
 
“Questo non va bene!” Steve.
 
“Non va per niente bene!” Batroc.
 
“Rogers, fammi il favore di occuparti di quei bastardi!” Brock.
 
Kristen fu sollevata da terra con una buona dose di rudezza, una rudezza che aveva imparato a conoscere e che non la spaventava più. Le venne da piangere quando si aggrappò al collo di Rumlow con la mano destra, mentre la sinistra si chiudeva sulla maglietta all’altezza del petto. Quella era l’ennesima prova che mai sarebbe stata in grado di diventare una combattente e di affrontare la morte a viso aperto. Preferiva largamente starsene in un laboratorio a giocare con cellule innocue.
“Sono arrivati anche dall’altra uscita” si sforzò di spiegare, nonostante avesse il fiato corto e il cuore a mille.
 
“Cosa facciamo adesso?” era stato Batroc a chiedere e stonava quasi l’urgenza nella sua voce. Stava aiutando alcuni colleghi di Rumlow a chiudere manualmente le porte che avrebbero bloccato la parte del corridoio da cui presto sarebbero sopraggiunti i potenziati usciti dall’ascensore e dove Rogers aveva spinto i due nemici che avevano creato confusione.
Finirono compressi in un pezzo di corridoio, chiusi fra due pesanti porte metalliche che presero a vibrare sotto i colpi dei potenziati.
 
“I condotti di areazione” propose Rogers e indicò la grata sopra le loro teste – parecchio sopra le loro teste.
 
Il super soldato non attese di avere il consenso. Si fece spazio fra i corpi sudati per posizionarsi sotto la grata, si diede lo slancio e si aggrappò ad essa con entrambe le mani, rimanendo sospeso sotto gli sguardi attenti di tutti i presenti. La strattonò fino strapparla via, cosa che lo fece tornare con i piedi sul pavimento. Saltò una seconda volta e raggiunse il vano per infilarsi nel condotto di areazione. Poi si sporse dallo stesso vano e tese la mano verso il basso.
 
“Andiamo. Uno alla volta.”
 
Batroc non si fece pregare. Fece segno di sgombrare la via, prese la rincorsa e saltò per afferrare la mano tesa del super soldato, che lo tirò su senza fatica.
“Avanti il prossimo” incitò poi il mercenario, mentre si sistemava seduto subito dietro Rogers, con le spalle appoggiate alla parete dell’ampio condotto ormai dismesso da tempo. Il condotto era abbastanza largo da poter ospitare un paio di persone sedute l’una a fianco all’altra e sembrava resistente.
Uno dopo l’altro, i componenti della mal assemblata comitiva furono portati all’interno del condotto dal Capitano e lo precedettero andando avanti, verso l’uscita – o almeno speravano di trovare un’uscita.
Nel frattempo, Rumlow aveva fatto sedere Kristen sulle proprie spalle. La donna tese le braccia verso Steve, che dovette sporgersi di più per poterla afferrare saldamente. Batroc, che non si era ancora unito alla processione lungo il condotto, aiutò – in modo del tutto inaspettato – il biondo tenendolo per la cintura dei cargo scuri usando una sola mano. Rogers riuscì a tirare su la Myers e poi tese un’ultima volta la mano.
 
“Nemmeno morto. Spostati.”
Rumlow balzò con l’eleganza di un felino e si portò all’interno del condotto – senza l’aiuto di Rogers. Dopotutto, anche nel suo sangue scorreva il siero del super soldato, una variante funzionale di quello che scorreva nelle vene di Barnes.
 
Fu un’impresa trovare l’uscita, così come fu un’impresa muoversi in quei condotti polverosi, soprattutto quando furono costretti a percorrere alcuni tratti in verticale, per poter salire verso l’alto. A un certo punto, l’avanzamento subì una battuta d’arresto.
“Fate largo” Rumlow raggiunse la testa del gruppo con l’aiuto di qualche gomitata e diverse imprecazioni. Sia Rogers che Batroc approfittarono dello stretto varco creato dal temporaneo collega per raggiungere anche loro la testa.
 
I condotti li avevano portati al parcheggio sotterraneo, che a quanto pareva doveva essere stato chiuso al pubblico, segno che il piano di Lewis era quello di confinare l’assalto quanto più possibile ed evitare in questo modo di attirare attenzioni indesiderate. Nel parcheggio c’erano diversi furgoni e altri nemici.
 
“Bella fregatura. Qual è la prossima mossa?” dalla posizione a gattoni, Batroc torse il collo di lato per poter guardare Rogers, subito dietro di lui.
 
“Ci serve un diversivo” anche Rumlow fissò gli occhi su Rogers “È te che vogliono, Steve” gli ricordò e si prese anche il lusso di ghignare.
 
Steve sospirò. “Va bene. Voi raggiungete le auto.” Passò fra i due opportunisti e raggiunse la grata, che scardinò con un singolo calcio ben piazzato nel centro.
Il super soldato si lanciò all’interno del parcheggio. L’atterraggio creò un’eco sottile e l’attenzione dei nemici fu tutta per lui.
 
“Diamoci da fare.”
 
 
 
 
 
 






 

Quattro giorni prima
 
 
Mentre camminava a passo svelto lungo il corridoio, fu colto di sorpresa da ricordi che teneva confinati da tempo e scelse di lasciare loro il via libera, perché in quel momento non aveva la forza per respingerli.
Fin dalla tenera età, i suoi genitori gli avevano raccontato storie su un pianeta luminoso, perfuso di densa energia vitale e di magia. Gli abitanti erano eredi di curatori con l’innata capacità di coltivare e preservare la vita. All’inizio, il pianeta aveva tenuto aperte le frontiere, per accogliere chiunque avesse avuto bisogno di aiuto, chiunque fosse stato afflitto da un male che le cure esistenti non erano in grado di debellare. Tuttavia, la pace non era destinata a perdurare – non lo è mai. I curatori avevano dovuto indossare le vesti di guerrieri e le loro capacità erano mutate lentamente ma inesorabilmente. Il potere di curare si era trasformato in potere di distruggere e quello stesso potere aveva fatto spostare su di loro i riflettori.
Avevano subito deportazioni ed erano stati usati come armi in guerre a loro estranee. Il pianeta era stato oscurato dal dolore e dalla morte e quell’oscurità era penetrata nei suoi abitanti. E dalle ombre più oscure e temibili era nato colui che aveva riportato la luce, un bambino che aveva tratto forza dal dolore e potere dall’oscurità. Figlio di curatori che avevano scelto di morire pur di rispettare la vita perfino di coloro che a loro l’avevano strappata via, il bambino nato nell’era più buia aveva preso la direzione opposta percorsa dai suoi genitori. Lui era diventato paura, dolore e morte, un flagello inarrestabile, temuto. Aveva preso l’oscurità, l’aveva fatta sua e l’aveva rivoltata contro i nemici, finché sul pianeta non era tornata a risplendere la luce.
Azael era il nome del figlio dell’oscurità, il nome del re che aveva riportato la luce e chiuso le frontiere di un pianeta con ancora la forza di guarire se stesso e di prosperare. Ed era guarito, Oneiro, era tornato a splendere e aveva continuato a farlo per lungo tempo.
 
Ma la pace non è mai destinata a durare.
 
Oneiro, il luminoso pianeta che rasentava l’idea di sogno, era diventato cenere inghiottita dall’immensità dell’universo. Gli abitanti erano stati dispersi nello stesso universo e avevano vissuto aggrappandosi alla promessa di tornare a casa, un giorno. La promessa era stato Azael in persona a farla e per questo avevano continuato a crederci, tramandando il messaggio di generazione in generazione. La convinzione di poter tornare a casa, tuttavia, si era trasformata prima in fievole speranza e poi in una leggenda.
Da bambino ci aveva fantasticato, aveva cercato di immaginare la calda luce di Oneiro, in opposizione alla fredda penombra del posto in cui invece era cresciuto. Dopo aver seppellito i suoi genitori e fin troppi fra la sua gente, aveva smesso di credere nell’arrivo di un fantomatico re salvatore e aveva dedicato anima e corpo a proteggere il gruppo di oneiriani condannati a sopravvivere su un pianeta freddo, ostile e spesso frequentato da pirati in cerca di ricchezza e schiavi.
 
Ricordava perfettamente il giorno in cui tutto era cambiato. Ciò che era accaduto era marchiato a fuoco nella memoria.
 
Ricordava la luce e il calore che avevano squarciato con prepotenza il grigiore. Ricordava il muro di fiamme che si era innalzato davanti a lui creando una barriera che aveva arrestato l’avanzare di pirati sanguinari verso il villaggio.
E poi lei si era mostrata a loro, tendendo la mano per mantenere la promessa. Ricordava ancora le sue parole.
“Il mio nome...” aveva esordito poco convinta, prima di tossire convulsamente fino a piegarsi in avanti per lo sforzo. Ciuffi di capelli ribelli le erano finiti dinanzi il viso annerito dalla cenere e le erano venute le lacrime agli occhi. Aveva borbottato qualcosa contro il fumo che le sue stesse fiamme ardenti avevano generato e, ripensandoci adesso, era stata una scenetta tanto assurda quanto divertente. “Il mio nome” aveva ricominciato la straniera dopo aver ripreso un po’ di fiato “è Anthea e sono qui per onorare la promessa fatta dal sovrano Azael.” La voce rauca non aveva reso giustizia ad una dichiarazione così ambiziosa.
Nessun maestoso re salvatore. Solo una ragazzina incerta che sembrava non avere la minima idea di cosa stesse facendo. Era stata lei a riesumare speranze sepolte e aveva lasciato loro la possibilità di scegliere. Era stata così convincente e rassicurante nonostante tutto.
“Il vostro pianeta d’origine non esiste più, ma posso portarvi al sicuro. Non siete costretti a seguirmi ma, se vorrete farlo, potrete sempre tornare indietro.”
L’oneiriano che aveva vissuto nella storia e che aveva continuato a tramandarla con fede incrollabile era stato il primo ad andarle incontro e ad afferrare la mano che lei aveva teso. Mai aveva visto sorridere in quel modo l’anziano Damastis, gli occhi illuminati da una commozione sentita e profonda.
 
Si erano fidati di lei e lei non li aveva delusi.
 
Anthea lo aveva salvato da un freddo destino, gli aveva dato la possibilità di essere lui stesso protettore della luce che gli oneiriani erano in grado di emanare anche se il loro pianeta non esisteva più.
Tuttavia, come lo era stato per suo padre, l’oscurità sembrava attratta da lei. Oppure, forse era lei ad essere attratta dall’oscurità.
L’aveva vista perdere il controllo così tante volte, l’aveva vista esplodere di rabbia, abbandonarsi ad una disperazione folle e, in quelle occasioni, il suo potere buio e freddo lo aveva spaventato. E poi c’erano il fuoco e il calore, parte di un potere più luminoso, tanto protettivo quanto distruttivo.
Andras non vedeva più una minaccia in Anthea. Le doveva tanto, troppo – forse tutto ciò che aveva. Adesso il sangue della sua salvatrice gli stava sporcando la tunica bianca. Anthea continuava a danzare con la Morte, in cerca di una redenzione che rasentava la punizione per peccati che non riusciva a perdonarsi e forse non sarebbe mai stata in grado di farlo.
Andras aveva sperato che la vita sulla Terra potesse assopire le tendenze autodistruttive e la ricerca ossessiva di redenzione. A quanto pareva, le speranze erano state vane.
Non era la prima volta che la vedeva coperta di sangue. Non era la prima volta che la vedeva così distrutta. Avevano combattuto fianco a fianco durante la missione di riunire gli oneiriani e raramente lei si era risparmiata. Ora però l’apprensione e la preoccupazione lo stavano logorando come mai gli era accaduto prima. Teneva molto a lei.
 
“Voglio i migliori curatori” ordinò al gruppo di soldati che lo seguiva “Subito”.
 
Osservò il viso cinereo di Anthea. La tempia destra era adagiata contro il suo petto, mentre il braccio sinistro penzolava ad ogni passo. I resti dei vestiti parevano essersi fusi con la pelle coperta di sangue e polvere e il corpo non era poi così diverso dai tanti cadaveri che aveva visto. Percepiva a malapena la pulsazione del cuore.
Pregò che lei non gli morisse fra le braccia, perché altrimenti avrebbe dovuto ammazzare Steve Rogers.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Cazzo!” imprecò Rumlow, mentre stringeva le dita attorno al volante come se fosse impegnato a strangolare qualcuno per cui nutriva un sentimento di profondo odio.
 
Dopo tutta la fatica fatta per uscire dalla maledetta base con la maledetta auto, non erano riusciti nemmeno ad andare oltre il maledetto parcheggio esterno del maledetto centro commerciale, perché era gremito di insulse persone ammassate. Gli stramaledetti colori della bandiera americana spiccavano ovunque si dirigesse lo sguardo.
 
“Fottuto quattro luglio” continuò ad esprimere la sua rabbia Rumlow, rabbia alimentata anche da espressioni felici, risate, palloncini e stucchevole zucchero filato. “Cazzo!” ripeté di nuovo.
 
Abbandonare i veicoli e cercare un altro tipo di via di fuga era l’azione che quasi tutti i componenti della comitiva avevano intrapreso non appena realizzata la situazione. Rumlow non era fra questi.
 
“Continuare ad imprecare non farà sparire di colpo tutto quanto, lo sai questo?” Steve stava controllando in maniera quasi ossessiva gli specchietti retrovisori, certo che presto i nemici li avrebbero raggiunti se avessero continuato a starsene lì fermi.
 
Prima che Brock avesse la possibilità di ribattere a tono – o di strangolare effettivamente qualcuno –, Batroc si sporse fra i due sedili anteriori, assumendo il ruolo di divisorio.
“Non abbiamo altra scelta che sfruttare la situazione e confonderci tra la folla. Ci assicuriamo di seminare i bastardi e troviamo un modo per raggiungere il jet.”
 
Si scambiarono sguardi esasperati e, in parte, incerti. Al di là dell’abbigliamento inadatto ai festeggiamenti in corso, c’erano il sangue, i segni di pestaggio e qualche arma più visibile. E poi c’erano Capitan America e la sua faccia ben nota al mondo.
Uno scoppio improvviso fece vibrare violentemente i loro timpani e i muscoli si irrigidirono, pronti a scattare.
 
“Calma ragazzi, sono solo i fuochi d’artificio” li rassicurò Kristen un attimo prima che un secondo scoppio rimbombasse nella notte, colorandola di un rosso vivo.
 
Decine di teste erano adesso sollevate verso l’alto, le espressioni piene di meraviglia. Il fragore, le luci quasi accecanti, i gridolini di sorpresa. Era tutto così perfetto adesso e Rumlow non avrebbe potuto chiedere di meglio.
“Ora ci siamo. Muoviamoci” decretò convinto e non vi furono opposizioni.
 
Abbandonarono l’auto senza altre esitazioni. Rimanere fermi lì non avrebbe comunque portato a risvolti positivi. Si immersero nella folla che aveva invaso il parcheggio esterno del centro commerciale, al cui interno venivano portati avanti i festeggiamenti fra stand di cibo e di gadget.
Dovevano solo far perdere le loro tracce ed evitare di allarmare un’intera città con il pericolo di un attacco terroristico. Semplice.
 
“Sta’ al passo, Myers” Rumlow afferrò la donna per il gomito e la tirò a sé, in modo da averla più vicina ed evitare di perderla di vista in quel mucchio di membra in trepidazione e accaldate. Era il fottuto quattro luglio e faceva maledettamente caldo.
Brock riusciva ancora a vedere la schiena di Batroc dinanzi a lui. Si girò indietro per appurare che ci fosse anche Rogers e non rimase deluso. Quando tornò a guardare avanti, fu costretto ad una brusca battuta di arresto per evitare di andare a sbattere contro la schiena del mercenario.
“Perché diavolo ti sei fermato?” ringhiò, ma non ebbe bisogno di una risposta, perché lui stesso scorse due individui sospetti che si stavano muovendo fra la gente, proprio dinanzi a loro.
 
“Ne vedo altri” avvertì Rogers, prima di concentrarsi sulla Myers “Lewis non deve arrivare a te.”
 
“Non lo farà” Rumlow annuì in direzione del super soldato, che ricambiò il cenno del capo.
Steve allora superò prima Brock e poi Batroc. Dovevano guadagnare tempo e disperdere l’attenzione del nemico. Si divisero, prendendo direzioni completamente diverse, ma Brock rimase con Kristen.
 
Intanto, lo spettacolo pirotecnico stava procedendo indisturbato, allietando gli spettatori del tutto ignari di accadimenti che avrebbero potuto stravolgere le loro vite in pochi istanti.
 
Rogers sfruttò ogni spazio esistente per poter avanzare il più velocemente possibile. Portò per un attimo la mano sul fianco dolorante e le dita si macchiarono di sangue. I punti dovevano essere saltati, ma non aveva tempo per rattoppare in qualche modo quel casino. Sperò che Rumlow riuscisse a mettere al sicuro la Myers, senza la quale Lewis non avrebbe potuto portare avanti le sue folli sperimentazioni.
Aveva l’impressione che fosse già trascorsa una eternità dall’incontro con Benson – l’ultimo incontro, non ce ne sarebbero stati altri. Lewis era di nuovo riuscito ad averla vinta e, mentre loro erano costretti a scappare, il manipolatore stava pregustando il sapore della vittoria lontano dallo scontro a fuoco.
Uno degli inseguitori ce lo aveva davanti proprio adesso, distante una decina di metri. A separarli c’erano una manciata di persone e una famiglia. Il padre teneva il figlio più piccolo sulle spalle, mentre la madre stringeva la mano di una bambina che indossava una leggera gonnellina a stelle e strisce. Steve arrestò il passo e perse la determinazione che lo stava trascinando avanti. L’idea di aver commesso un grave errore rasentò la certezza. Stava sbagliando.
 
Dita fredde si posarono sul retro del collo e lo avvolsero.
“Da quando permetti ai nemici di prenderti alle spalle così facilmente?” fece eco la voce di Bucky nella sua testa.
 
Non lo aveva sentito arrivare. La confusione dei festeggiamenti e il sangue che continuava a perdere non erano di supporto all’attenzione. Oppure stava davvero perdendo colpi. Pensò a una reazione per potersi sbarazzare del nemico senza creare scalpore, ma fu battuto sul tempo.
 
“Sarebbe un peccato dare inizio ad un massacro, non credi?” gli sussurrò nell’orecchio una voce nota, eppure credette di essersi sbagliato. Non poteva essere vero. “Godiamoci lo spettacolo senza creare disagio, vuoi?”
 
Steve girò appena il capo alla sua sinistra e trovò ad attenderlo un volto che non aveva mai visto prima, adombrato dalla visiera di un cappello a strisce rosse, bianche e blu. Rimase fermo, lo sguardo tornato a rivolgersi in direzione delle persone davanti a lui. Non c’erano le condizioni per iniziare uno scontro, avrebbero finito per coinvolgere tutte quelle persone innocenti. Le fredde dita si strinsero con maggiore insistenza sul retro del collo, ma senza fargli male.
 
“È un piacere rivederti, ragazzo.”
 
Steve si impose di rimanere lucido e concentrato. Adam Lewis era lì, si era esposto per un motivo che ancora non comprendeva, ma era lì e gli stava soffiando le parole direttamente nell’orecchio, affinché potesse sentirlo.
 
“Quest’ultima trovata non l’avevo prevista. Tu e Rumlow? La disperazione ha un potere da non sottovalutare.” Lewis si fece più vicino, pressante. Gli era addosso, poteva percepirne il fiato fra i capelli. “Lei era talmente disperata da ridursi in polvere. Non avrebbe dovuto finire in quel modo. Avevo altri piani per lei.”
 
Aveva soppresso quel pensiero fino ad allora, aggrappandosi alla fievole vocina che gli ripeteva che lei stava bene, che come sempre era riuscita a venirne fuori, perché lei aveva l’innata capacità di uscire fuori da situazioni catastrofiche. Polvere…
 
 
“Qualsiasi cosa accada, qualsiasi cosa ti diranno, non smettere di credere in me. La realtà potrebbe incasinarsi da ora in avanti.”
 
 
“Era troppo testarda. Ha preferito finire in pezzi pur di non piegarsi” Adam sembrava dispiaciuto e stizzito al tempo stesso. La pressione sul retro del collo aumentò appena.
 
“È testarda” ebbe la tentazione di correggerlo Steve, ma non ne fu in grado. Era come se gli fossero state risucchiate via le forze. Pressò il palmo della mano sul fianco sinistro e percepì il calore del sangue che gli scivolò fra le dita.
 
 
“Ci sono ancora tante cose che voglio fare perciò non ho nessuna intenzione di mandare tutto in fumo.”
 
 
Polvere. E se fosse stata lei ad andare in fumo?
 
“Stai sudando freddo, ragazzo” le dita di Lewis si mossero sulla pelle umida del collo. “Sai, c’è una cosa che non riuscirò mai a perdonarti. Io l’ho forgiata e ho impiegato anni per far sì che si avvicinasse alla perfezione. Ma sei stato tu a usarla. Allora dimmi, come ti sei sentito a possedere un’arma così potente?”
 
Steve continuò a rimanere in silenzio, impegnato a contrastare quei pensieri e quei sentimenti che non avrebbero fatto altro che affossarlo. C’era troppo in ballo e troppe vite erano in gioco.
 
“Se solo tu avessi compreso prima cosa avevi fra le mani” il tono della voce si era inasprito “Che spreco. E pensare che lei avrebbe fatto qualsiasi cosa tu le avessi chiesto senza battere ciglio.”
 
Il cielo buio si illuminò di un giallo brillante e Steve pensò alle iridi di Anthea inondate dall’ambra quando la sua energia faceva vibrare l’aria. Polvere.
“Sei fuori strada. Non la conosci affatto” affermò con una calma di cui si sorprese lui stesso. Adam Lewis era lontano anni luce dalla verità.
 
“Invece io la conoscevo. Si era attaccata a te solo perché credeva di avere un debito nei tuoi confronti, un debito che non avrebbe mai potuto estinguere. Perché tornare sulla Terra altrimenti, quando avrebbe potuto governare un popolo di esseri tanto potenti?”
 
I fuochi d’artificio si susseguirono più rapidi, i colori finirono per sovrapporsi e le fontane brillanti per intrecciarsi. L’odore di polvere da sparo aveva ormai impregnato l’aria.
Il gridolino entusiastico del bimbo seduto sulle spalle del proprio padre seguì ad una nuova ed intensa esplosione di luce. La sorellina dalla gonna a stelle e strisce voltò il capo verso quel suono gioioso e nel farlo incrociò lo sguardo di Steve. Gli rivolse un sorriso genuino, che il super soldato ricambiò d’istinto, dimenticando per un attimo le dita di Lewis strette sul retro del collo e la sua presenza fisica incombente. Poi l’espressione della bambina mutò e la dolcezza imbevuta di candida innocenza si trasformò in scottante paura. Steve voltò il capo e il profilo di Rumlow entrò nel suo campo visivo.
 
“Rumlow, aspetta!”
 
Il grido della bimba precedette lo scoppio violento dello sparo. Un fischio stordente fu seguito da un boato che fece tremare l’aria. Ma stavolta la notte non fu colorata. Divenne più buia e lo spirito festoso fu inghiottito da una spettrale foschia.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Anni prima
 
 
“Continua ad evolvere. Ogni volta che la spingiamo al limite, sviluppa nuovi meccanismi di difesa.”
 
Era una spessa lastra di vetro temprato a separarlo da lei. Una effimera barriera contro qualcosa che andava oltre l’umana comprensione. Quel qualcosa avrebbe potuto scalfire il vetro, disintegrarlo, scioglierlo perfino. Tuttavia, Adam era certo che il vetro sarebbe rimasto integro. Per ora.
Anche le bestie più feroci potevano essere domate con il giusto metodo ed esisteva solo un metodo che lui riteneva efficace. La paura, una paura totalizzante e paralizzante, in grado di incatenare la bestia e di abbatterne lo spirito. La bestia con cui aveva a che fare non era arrendevole, trovava nuovi modi per spezzare le catene o, se non riusciva a spezzarle, tirava fuori la forza di sopportarne il peso. Era testarda.
 
“Forse sarebbe meglio non istigarla ancora. Non riusciremo a contenerla se…”
 
“È la sua evoluzione ciò che mi interessa. È la chiave per arrivare a qualcosa di grande. La renderò perfetta.”
 
All’inizio si era trattato di telecinesi. Oggetti che levitavano, che si spostavano o che venivano scaraventati con violenza. Poi la manipolazione si era estesa agli esseri viventi ed era come se lei riuscisse a vederne gli organi vitali e ad agire su di essi. L’avevano sedata, avevano fatto in modo di assopire i suoi sensi abbastanza da impedirle di agire sull’ambiente e sulle persone che la circondavano. La dose dei sedativi che le iniettavano nel sangue era in costante aumento affinché continuassero a fare effetto.
Allora, la bestiolina aveva iniziato ad agire su se stessa. Per evitare di essere toccata e ferita, lei andava a fuoco. La temperatura del suo corpo si innalzava tanto da distruggere gli strati di pelle, uno ad uno, il sangue bolliva, i liquidi evaporavano e starle vicino diventava impossibile. In quelle occasioni, il processo di rigenerazione cellulare accelerava in modo prodigioso, impedendole di finire carbonizzata. Si distruggeva e si ricomponeva, solo per poi distruggersi di nuovo. Avevano dovuto dotarsi di attrezzature e protezioni che potessero resistere ad elevate temperature e avevano risposto al fuoco con il ghiaccio. Era per questo che riusciva a vedere ogni singolo respiro condensato della bestiolina, il cui sguardo annebbiato dai farmaci ce lo aveva puntato addosso proprio in quel momento.
La bambina teneva le ginocchia al petto, era seduta con le spalle appoggiate contro la fredda parete metallica. Le labbra erano bluastre e gli arti che spuntavano dalla candida vestaglia stavano gradualmente tendendo alla medesima colorazione, segno che le funzioni vitali erano in discesa.
 
“Cos’è?”
 
Era stato l’uomo che era al suo fianco a parlare, un nuovo acquisto ancora incapace di vedere la grande occasione che avevano fra le mani.
 
“Di cosa stai parlando?”
 
L’uomo sollevò il braccio destro e distese l’indice in avanti. Indicò un punto vuoto, vicino alla piccola figura rannicchiata sul pavimento. Era paura quella che gli aveva irrigidito i tratti del viso e che aveva reso il respiro più corto. Lo osservò indietreggiare, un passo alla volta.
Adam si concentrò sul punto che gli era stato indicato e, lentamente, iniziò a venderle anche lui, forme indefinite, sempre più scure.
 
La bambina si era alzata in piedi.
 
Una crepa si delineò sul vetro e si diramò in altre crepe sottili, come le radici di un albero capovolto. Lei stava evolvendo ancora, oltre ogni razionale comprensione.
 
“Cosa stai facendo?” si azzardò a chiederle, forte del potere che esercitava su di lei. Lei lo temeva.
 
La bestiolina mosse un passo in avanti e poi un altro e un altro ancora, fermandosi solo quando fu ad un soffio dal vetro. Arricciò le labbra in una smorfia difficile da interpretare e non gli concesse alcuna risposta.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Giorni prima
Washington DC

 
 
“Entra.”
 
Quando aprì la porta, si ritrovò catapultato all’interno di un angolo di caos, la cui causa era proprio dinanzi a lui, a pochi passi di distanza, e lo stava osservando con il sopracciglio destro inarcato.
 
“Rimarrai lì ancora per molto o ti deciderai ad entrare?”
 
“Anche io sono contento di vederti. E sì, sto bene, grazie per avermelo chiesto.”
 
Anthea lanciò su una sedia una maglia che aveva appena raccolto dal pavimento e sistemò la spallina della canotta verde infilata in un paio di pantaloncini grigi, il cui laccio slegato pendeva dimenticato lungo le cosce. Puntellò le mani sui fianchi e gli rivolse un sorrisetto di sfida.
 
“Ti muovi oppure devo venire a prenderti?”
 
“Non saprei dove mettere i piedi dato il casino che…”
 
Fu trascinato all’interno della stanza senza preavviso e la porta gli si chiuse alle spalle in modo brusco. Arrivò dritto da lei, che nel frattempo non si era mossa e aveva continuato a sorridere compiaciuta. La giovane gli circondò i fianchi con le braccia e lo guardò dritto negli occhi.
 
“Non giudicare il mio ordine leggermente incasinato, soldato. Sono stata impegnata.”
 
Steve sollevò entrambe le mani in segno di resa. “Okay, hai vinto. Scusami.”
 
“Sei perdonato. Quanto tempo hai stavolta?” l’oneiriana lo lasciò andare e si diresse verso il letto per sistemare il lenzuolo. Poi si sedette facendo cigolare il materasso.
 
“Un’ora circa.”
 
“Ecco spiegata l’uniforme. Ce lo faremo bastare.”
 
Anthea lo invitò a prendere posto al suo fianco e Steve sfilò gli stivali. Si sistemarono l’uno di fronte all’altra, con le gambe incrociate e le ginocchia a lieve contatto. La giovane rovesciò il capo all’indietro, i lunghi capelli si riversarono sulla schiena e poggiò i palmi delle mani poco dietro il sedere. Chiuse gli occhi e fece un profondo respiro, cercando di rilassarsi.
 
“Sei pronto?”
 
“Per un’altra emicrania?” ironizzò il biondo, dopo aver chiuso gli occhi a sua volta.
 
“No… forse… non farmi pressioni e rilassati.”
 
Era Anthea quella più tesa fra i due, ogni volta – e sembrava più tesa del solito. Steve attese l’arrivo della scossa, la scarica di elettricità che attraversava ogni fibra del corpo, il segnale che la connessione aveva iniziato a mettere radici sempre più profonde. E allora la sentiva, provava emozioni che non gli appartenevano e vedeva cose che non aveva mai visto prima in flash confusi e inafferrabili. Tuttavia, stavolta, la scossa non arrivò. Tutto rimase silente. Non sentiva particolari stimoli, né riusciva a sentire lei.
Da quando ne avevano parlato, la notte successiva agli eventi di Chicago, avevano iniziato a sperimentare nei frangenti di tempo disponibili. Sostenere la connessione stabile che Anthea stava ricostruendo era più difficile di quanto Steve avesse immaginato. Aveva dimenticato cosa significasse avere a che fare con l’emicrania, la nausea, i blackout e il conflitto con emozioni che non gli appartenevano – queste cose non gli erano mancate affatto. Anche se stavolta ne era consapevole e si era preparato, avere a che fare con quel tipo di energie psichiche si era rivelato comunque sfiancante e destabilizzante. Era un vero casino, tanto che era arrivato a chiedersi come lei riuscisse a conviverci.
Il fatto di non sentire niente al momento era strano. Sollevò le palpebre e ad attenderlo trovò una strana luce, un riflesso che gli graffiò gli occhi e che sembrava deformare gli oggetti che lo circondavano.
 
C’era come una nebbia appena percettibile.
 
Batté le palpebre un paio di volte, con insistenza, nel tentativo di scacciare la foschia che annebbiava la vista. Rivolse di nuovo l’attenzione ad Anthea e fece per chiederle cosa fosse andato storto. Nonostante ne avesse viste davvero tante di cose assurde, l’asticella continuava ad alzarsi. La metà sinistra del viso della sua compagna era nera come il carbone e percorsa da sottili crepe. D’impulso le afferrò un braccio.
 
“Anthea” il panico gli incrinò la voce e lo fece scattare in avanti, verso di lei.
 
Ombre sbiadite si palesarono alle spalle della giovane e la nebbia sembrò infittirsi gradualmente. Steve afferrò il viso di Anthea fra le mani e si rese conto che non c’era più alcun segno che ne rovinava i tratti. Lei stava bene e lo stava guardando con un’espressione desolata. Era svanito tutto.
 
“Cosa è successo?” le chiese e la lasciò andare un poco alla volta.
 
“Scusami” sussurrò la ragazza, mentre scioglieva le gambe per potersi sistemare sulle ginocchia, attorno alle quali il materasso si infossò.
 
“È tutto okay?”
 
“Io… sto bene” arricciò le labbra in una smorfia difficile da interpretare e le distese subito dopo “Lo sai che non sono brava con questo tipo di cose” sventolò una mano con fare noncurante “Ma lo diventerò per fare terra bruciata attorno quel fottuto manipolatore.” La simulata leggerezza fu sovvertita da tagliente risolutezza e le iridi di Anthea si imbrunirono, alla stregua di un cielo che preannunciava tempesta, una tempesta devastante.
 
Steve le posò una mano sulla spalla e la tempesta si placò. “Cosa ho visto prima?”
 
“È complicato…” esitò, incerta su cosa dire “Non succedeva da anni… molti anni…” era svanito ogni segno di tempesta nello sguardo dell’oneiriana, ora perso in luoghi scuri ed inaccessibili.
 
Lui non le fece pressione. Attese, paziente. Aveva imparato a riconoscere quei confini ancora invalicabili che doveva essere lei e lei soltanto ad aprire.
 
“Lewis e i suoi tirapiedi la chiamavano foschia. Non ne ho mai compreso l’origine e non ne ho mai avuto il controllo.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Presente
 
 
Era rimasto privo di coscienza per un tempo che faticava a definire. Era frastornato e aveva la vaga sensazione che gli fosse passato sopra un treno. La nota positiva? Era ancora intero e non aveva nessun nemico alla gola. L’ultima cosa che ricordava con chiarezza era Rumlow che premeva il grilletto con l’intenzione di ridurre il cervello di Lewis ad una massa spappolata e sanguinolenta. Poi il vuoto.
Strofinò il dorso della mano contro gli occhi e batté le palpebre ripetutamente, finché non capì che non era la sua vista ad essere annebbiata. La nebbia ce l’aveva intorno. O meglio, ci era nel mezzo. La visibilità non andava oltre i cinque o al massimo i sei metri, ovunque si volgesse lo sguardo. Non riusciva a vedere neppure il cielo. L’ultima volta che aveva guardato era notte, eppure l’anomala nebbia era permeata da una luce fredda, quasi fastidiosa. E faceva freddo, tanto che ogni respiro veniva fuori in nuvolette di aria condensata. Mosse qualche passo e l’impatto delle suole contro l’asfalto si srotolò nel silenzio in palpitii attenuati. Non riusciva ad orientarsi, perciò si fermò e rimase in ascolto. Aveva ormai una certa familiarità con le cose totalmente irrazionali e forse era per questo che riusciva a conservare la freddezza necessaria per affrontarle senza dare di matto. Tuttavia, quando cominciò a intravedere figure scure stagliarsi nella nebbia, gli sfuggì parecchia di quella freddezza.
Gli esseri dai tratti indefiniti – vaporosi – non si muovevano. Sembrava che vibrassero come scossi da stimoli invisibili e a cui non erano in grado di rispondere.
Un soffio gelido gli carezzò il collo e si voltò di scatto. Si trovò di fronte uno di quegli esseri dalle fattezze umane, ombre dotate di spessore. D’istinto si allontanò facendo concitati passi indietro e finì per sbattere la schiena contro qualcosa di solido – qualcuno – che si aggrappò a lui, trascinandolo con sé nella caduta causata dall’impatto imprevisto. Si schiantarono a terra e l’attimo dopo erano già con le mani l’uno alla gola dell’altro, per mero istinto di sopravvivenza.
 
Fanculo, sei tu, fottuto bastardo!”
 
Steve dovette ammetterlo almeno a se stesso. Provò sollievo nel ritrovarsi Rumlow addosso, nonostante l’appellativo poco carino che gli aveva rivolto. Si tirarono su a vicenda con una goffaggine da manuale e non commentarono lo scontro appena avuto. C’erano questioni che avevano maggiore priorità, come capire cosa stesse succedendo e in che inferno fossero stati risucchiati.
 
“Hai sparato a Lewis, giusto?”
 
“L’ho fatto, eccome se l’ho fatto. Il problema è che non ricordo di aver visto il sangue schizzare via dal suo cervello perché qualcosa mi ha spinto via e credo mi abbia messo fuori gioco per un bel po’ e che cazzo sono queste maledette ombre? Mi fanno venire i brividi… e perché fa così dannatamente freddo?”
 
Rumlow era fuori di sé, nervoso e privo della solita risolutezza. Sbraitò ancora contro le entità indefinite che almeno non vogliono sgozzarci subito e contro la maledettissima foschia.
Fu allora che Steve venne investito da un’ondata di lucidità e ricordò di aver già visto quelle ombre vaporose. La voce di Anthea gli riempì la testa subito dopo.
 
“Era come se le emozioni finissero per prendere forma fuori da me. Ed erano così intense da far perdere consistenza a spazio e tempo, come in un sogno. Se devo essere sincera, non ricordo molto…”
 
Ma Anthea non poteva essere lì. Non riusciva a sentirla, non ci riusciva da quando Rumlow lo aveva tirato fuori dall’oceano. Non poteva essere opera sua. E se fosse stata opera dell’interferenza? E se Anthea avesse davvero perso lo scontro come aveva detto Benson?
No, era fuori discussione. Lei stava bene – doveva stare bene – e sarebbe arrivata per tirarlo fuori dai guai prima che fosse tardi, come sempre. Gli ingressi ad effetto erano il suo forte dopotutto.
Steve fece un unico – ultimo – tentativo e si concentrò. Non la sentì nemmeno questa volta, però percepì qualcosa di diverso, qualcosa che assomigliava ad una connessione. E improvvisamente la foschia si diradò, offrendogli una visione più chiara.
Il silenzio fu interrotto da una moltitudine di urla sconnesse e la nebbia tornò ad infittirsi. Le priorità virarono nella direzione in cui avrebbero dovuto dirigersi fin dall’inizio.
 
“Dobbiamo portare tutti al sicuro.”
 
“Scordatelo, Rogers. E anche se volessi farlo, sarebbe impossibile in queste condizioni. Troviamo Lewis e finiamo il lavoro.”
 
“Forse so come muovermi. Se vuoi il mio aiuto, dovrai aiutare prima me.”
 
Rumlow fece un verso seccato, gutturale, e allora si rivolse di nuovo a Steve. “E va bene. Cosa vuoi che faccia?” doveva essere decisamente disperato per accontentarsi di un forse.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Rumlow aveva previsto un piano d’emergenza. Un piano di fuga che Kristen aveva odiato in modo viscerale, nonostante la consapevolezza che quello stesso piano avrebbe potuto salvarle la vita. Aveva dovuto studiare la piantina dell’impianto fognario e aveva dovuto passarci dentro diverse ore per prenderci confidenza.
Alla fine si era rassegnata e adesso ringraziava l’irremovibilità di Rumlow, perché era riuscita a muoversi attraverso le fognature senza difficoltà e ne era uscita una volta certa di essersi allontanata abbastanza. Poco dopo essere risalita in superficie qualcosa doveva essere andato storto, perché aveva perso coscienza per un tempo che non riusciva a definire. Si era ripresa da pochi minuti, ma era ancora parecchio frastornata.
Eppure, il muro di fitta nebbia che si innalzava di fronte a lei non era un’allucinazione, ne era certa. Non riusciva a vederci attraverso. Si fece più vicina e quando provò a immergersi nella nebbia, una barriera invisibile la rispedì indietro, con il sedere a terra.
 
Cosa avrebbe dovuto fare adesso?
 
Una mano spuntò dalla nebbia e si appoggiò contro la barriera. Altre mani fecero la stessa cosa e poco dopo Kristen vide i volti terrorizzati di persone che cercavano di venire fuori dall’incubo in cui erano stati risucchiati.
Il piano di passare inosservati era ufficialmente andato in fumo e presto sarebbe scoppiato il finimondo. Forse però qualcosa poteva ancora farla, considerato che possedeva informazioni preziose.
 
Gli Avengers. Doveva raggiungerli non appena loro fossero arrivati lì. Perché sarebbero arrivati.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Diverse ore prima
 
 
La cupola di fumo.
 
Questo era stato il nome definito in via ufficiosa per riferirsi all’anomalia che era apparsa nella tranquilla cittadina di Bloomington, in Minnesota. Lo spettacolo pirotecnico era finito con il botto, ma non uno di quelli colorati. Era stato un botto grigio che aveva annichilito ogni festeggiamento e ogni barlume di gioia.
Dal punto di vista logistico, poteva essere una svolta vantaggiosa che segnava la fine delle infruttuose ricerche sia di nemici reticenti a mostrarsi sia di alleati poco collaborativi.
Il problema era che tutti sarebbero stati calamitati lì e l’evento si sarebbe tramutato in una corsa all’oro senza che ci fosse del vero oro. C’era troppo in ballo e Ross non aveva intenzione di lasciare campo libero alle altre fastidiose parti contendenti.
 
“Signore, siamo pronti. Riceverà aggiornamenti costanti non appena…”
 
“Non servirà. Mi unirò a voi.”
 
Stare dietro una scrivania non aveva mai fatto parte della sua indole e, sicuramente, non sarebbe rimasto seduto quando gli equilibri mondiali stavano per essere sconvolti ancora una volta e sotto il suo stesso naso.
Inoltre, qualcosa gli diceva che il suo insubordinato super soldato fosse coinvolto e spettava a lui occuparsene.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Abbiamo un grosso problema… l’ennesimo grosso problema.”
 
“Che cos’è?”
 
“Non ne ho la più pallida idea, ma scommetto che loro sono lì. Devono essere lì.”
 
“Allora diamoci una mossa, perché non saremo gli unici interessati” Tony serrò i pugni “E io vorrei tanto essere il primo a dire un paio di paroline ad una persona in particolare.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Presente
 
 
“Da questa parte, muoversi.”
 
Rumlow era già stufo marcio di fare da balia a un branco di civili lamentosi. Okay, ammetteva che nemmeno lui era a suo agio in quella fottuta nebbia abitata da ombre inconsistenti e anche da nemici fastidiosamente reali. L’unica nota positiva era che, come loro non potevano vedere arrivare i nemici, nemmeno i nemici potevano vedere arrivare loro. Quindi, in tal senso, erano alla pari. Peccato che i nemici non dovessero portarsi dietro zavorre a causa del tenero cuoricino di uno di loro. A proposito, doveva rettificare. Quel bastardo di Rogers sembrava capace di riuscire a vedere attraverso la nebbia e – per quanto gli costasse ammetterlo – era merito suo se raccattare alleati e civili non fosse un’impresa impossibile, anche se non era di certo una passeggiata.
Con alcuni gruppi di persone era stato più semplice, perché avevano seguito le indicazioni senza fare domande, troppo terrorizzati per farne o abbastanza furbi da capire che non fossero nella posizione di poterne fare. Altri gruppi erano invece stati ostici da trattare, a causa di singoli elementi presi dal panico o da manie di eroismo nei confronti dei loro cari ancora dispersi. Se avesse potuto prendere decisioni, Rumlow avrebbe eliminato il problema alla radice, ma al momento era costretto a seguire le direttive di Rogers per evitare di finire ammazzato.
Sfortunatamente, oltre la nebbia e i potenziati di Lewis, era sorto un ulteriore problema, un ulteriore grosso problema.
All’inizio il piano era stato quello di allontanarsi da lì il più velocemente possibile, ma avevano scoperto di essere all’interno di un campo di forza. Rogers aveva esplorato più direzioni – aveva macinato chilometri su chilometri in tempi sorprendentemente ridotti – ma il campo di forza sembrava circondarli. Così avevano dovuto optare per una strategia alternativa. Le fogne.
Stavano portando tutti nelle fogne per sgombrare il campo di battaglia, perché presto lo sarebbe diventato un campo di battaglia. Avevano già incontrato potenziati più simili a mostri che ad umani, segno inequivocabile che Lewis si era portato dietro tutto il suo fottuto circo.
Era convinto che quella nebbia non fosse parte del piano di Lewis. Cercare di ucciderlo doveva essere stato l’innesco di un potere non umano e magari poteva esserci lo zampino della strega. In ogni caso, di Lewis al momento non c’era traccia e il fronte nemico sembrava disorganizzato e quindi meno pericoloso di quanto avrebbe potuto essere.
 
“Una alla volta. Veloci.”
 
Aver effettuato missioni di salvataggio e recupero di ostaggi in passato facilitava il compito che adesso era obbligato a svolgere.
 
“La mia bambina è ancora là fuori…”
 
Ma le seccature non avevano fine. Quei civili avrebbero dovuto limitarsi a ringraziare e ad eseguire gli ordini.
 
“Ci stai rallentando. Scendi.”
 
“Ti prego…”
 
“La troverò.”
 
L’uomo – la seccatura – annuì grato in direzione della persona che si era appena pronunciata e finalmente si decise a scendere giù nel tombino.
Rumlow sospirò e il capo ricadde in avanti in un moto di puro sfinimento. Rivolse un’occhiataccia in direzione di Rogers e questa fu ignorata. Il biondino stava facendo uso del titolo di Capitan America per rendere i civili più collaborativi – in realtà Rogers aveva detto qualcosa sulla fiducia ma aveva smesso di ascoltarlo quasi subito. I più collaborativi erano stati i bambini e gli anziani, a parte la vecchia che aveva continuato a domandare ‘Quando potrò tornare a casa? La mia gatta non può rimanere sola per troppo tempo’ e la voglia di spingerla nel tombino era stata davvero forte, quasi irrefrenabile.
Afferrò Rogers per un polso prima che si allontanasse e lo strattonò a sé, strappandogli un sottile gemito sofferente – eppure non aveva tirato così forte. Non gli chiese cosa avesse – non si sarebbe abbassato a tanto – e andò dritto al punto.
 
“Hai davvero intenzione di recuperare tutti? Non sappiamo nemmeno quanti ce ne siano ancora. Direi che abbiamo fatto a sufficienza, non credi?”
 
“No, non credo” Steve si sottrasse alla presa con un movimento secco del braccio “Siamo fermi qui da troppo tempo. Dobbiamo muoverci prima che ci individuino.”
 
Stare a lungo fermi in un punto era pericoloso. La probabilità di essere intercettati dai nemici si avvicinava alla certezza, anche in presenza della nebbia.
Batroc era ancora assente. Forse si era fatto ammazzare, oppure aveva trovato un buon nascondiglio il bastardo. Parecchi colleghi dell’Hydra sarebbero stati impegnati a fare da guida ai civili, giù nelle fogne – fin dove la barriera di energia bloccava il passaggio – e perciò erano sempre più a corto di soldati. Sperava che almeno la Mayers fosse fuori da quell’inferno.
 
“Sei certo che questa non sia opera della tua…” Rumlow ingoiò l’appellativo strega prima che fosse tardi “collega Avengers?”
 
Il pesante cerchio metallico fu riposizionato su uno degli ingressi all’impianto fognario ed emise un’eco tintinnante.
Rogers scosse il capo, un chiaro segno di diniego alla domanda rimasta sospesa. Poi si guardò intorno e la mascella contratta ebbe un sussulto. “Dobbiamo muoverci. Si avvicinano.”
 
Rumlow, suo malgrado, annuì e si mosse.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Il mondo era più incasinato di quanto ricordasse e il siero del super soldato era stato surclassato da forze superiori, intangibili ma reali. Era finito sotto ghiaccio per essersi rifiutato di dimostrarsi un cagnolino obbediente e adesso, uscito dall’ibernazione, si era ritrovato nella posizione di dover obbedire per evitare di finire schiacciato da forze che andavano oltre ogni umana comprensione.
La bambina demoniaca di Adam Lewis gli aveva instillato paura dal momento stesso in cui i loro sguardi si erano incrociati la prima volta ed era il motivo per cui aveva deciso di non opporre resistenza. E così avevano fatto anche gli altri soldati d’inverno.
Lewis aveva promesso che, una volta raggiunto l’obiettivo, avrebbe dato loro la possibilità di scegliere cosa fare della propria vita, senza più interferire in alcun modo. Avevano dovuto credergli sulla parola.
Quella notte avrebbe dovuto essere l’ultima al servizio di Adam Lewis, ma qualcosa era andato storto e adesso erano rifugiati all’interno di un centro commerciale agghindato con festoni e bandiere, in compagnia di due potenziati, il tizio che avevano fatto evadere dal Raft e di Lewis. Quest’ultimo era ancora in uno stato a metà fra coscienza e incoscienza e, se non fosse stato per loro, ora sarebbe alla completa mercé dei nemici.
Avrebbe potuto essere l’occasione di far fuori Lewis e andarsene da lì, se non fosse stato per la nebbia infestata da ombre scure.
 
“Li voglio morti.”
 
Adam si mise seduto con uno scatto secco. Gli occhi brillarono nella penombra come due tizzoni ardenti e le vene che percorrevano il cranio calvo pulsarono sotto la fine pelle pallida. Aveva il fiato corto e i lunghi arti erano scossi da lievi spasmi sconnessi.
Markov rimase immobile, schiacciato da un senso di oppressione crescente. Ebbe l’impressione che qualcosa di estraneo si stesse lentamente annidando dentro di lui.
 
“Voglio che scorra sangue.”
 
Adam tentò di rimettersi in piedi. Fallì e fu costretto ad accettare l’aiuto dei suoi potenziati. La nebbia intorno a loro vibrò e poi fu la terra a vibrare.
Allora Markov provò qualcosa di simile alla paura, che vide riflessa nei volti dei suoi compagni. Qualsiasi cosa stesse accadendo, era al di fuori della loro portata.
 
“Che l’esecuzione abbia inizio.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Aveva lasciato Rumlow in prossimità di un altro ingresso all’impianto fognario ed era tornato indietro alla ricerca di civili che forse aveva intravisto durante la ricerca precedente. Doveva mettere al sicuro tutti e solo dopo avrebbe potuto occuparsi di Lewis.
Il secondo passo sarebbe stato quello di far crollare la maledetta barriera. Non c’era stato modo di capire cosa stesse accadendo all’esterno e, in fondo, sperava che loro fossero già lì fuori. Il palmo della mano finì contro la ferita al fianco sinistro, ormai quasi del tutto riaperta, e premette. Stava diventando un automatismo, anche se non impediva al sangue di continuare a fluire fuori, seppur lentamente. Serrò i denti e tornò a concentrarsi, conscio di non potersi permettere passi falsi. Ogni volta che la lucidità veniva meno, la foschia si infittiva e non riusciva più a vedervi attraverso.
Per qualche motivo – che proprio non riusciva a spigarsi – percepiva una connessione indefinibile e, se si sforzava, era in grado di mantenerla stabile – come Anthea gli aveva insegnato – e questo gli permetteva di diradare la foschia che lo circondava e di recuperare la percezione di spazio e tempo. Solo che la foschia sembrava diventare più forte ed intensa, minuto dopo minuto, passo dopo passo. Avanzò ancora, finché non la vide.
 
Una sagoma minuta, diversa dalle ombre scure.
 
Era una bambina, una bambina dai grandi occhi bui e i capelli color miele, coperta da un vestito candido e a piedi nudi. D’impulso, corse da lei e si fermò solo dopo averla raggiunta.
Era lei. Ed era così piccola.
Lo guardava senza mostrare alcuna emozione, le braccia ossute abbandonate lungo i fianchi e il capo leggermente inclinato. Le si accovacciò di fronte, poggiando il ginocchio destro a terra. Lei non si mosse, ma l’espressione si ammorbidì prima e finì per accartocciarsi poi. Sembrava sul punto di piangere.
 
“Loro mi faranno male. Mi fanno sempre male.”
 
La voce era un sussurro appena udibile. Gli indicò le ombre che si stavano ammassando intorno a loro, ma Steve le notò a malapena, troppo concentrato su di lei. Sapeva che non era reale, che quella non poteva essere Anthea. Tuttavia, le emozioni che la visione gli stava scatenando erano reali e travolgenti.
 
“Voglio che spariscano.”
 
La circondò con le braccia e la strinse a sé. Riuscì a sentire le sue piccole dita aggrapparsi alle spalle e la disperazione con cui lo fecero gli tolse il fiato. La strinse con più forza.
 
“Andrà tutto bene.”
 
Lo spirito tangibile della bambina gli prese il viso fra le piccole mani, mentre il soldato la teneva per i fianchi, le dita aggrappate al candido e sottile tessuto. Lei chinò il capo in avanti e le loro fronti entrarono in contatto, un contatto che si sciolse poco dopo attimi, quando lei si voltò indietro e gli indicò un punto indefinito nella nebbia, oltre il macabro corteo di ombre scure.
 
“Cosa vuoi che faccia?”
 
Lei non rispose. Continuò a tenere il braccio sollevato e l’indice protratto in avanti. Arricciò le labbra in una smorfia difficile da interpretare.
 
La terra tremò.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Fu come ricevere una scossa. L’elettricità si diramò lungo le fibre nervose e le risvegliò dal torpore. Le sinapsi tornarono in funzione, ripristinando i collegamenti interrotti. Gli stimoli, interni ed esterni, la investirono tutti assieme, fu un’ondata implacabile di sensazioni. Ma una sensazione si erse più forte fra le altre. Stava andando a fuoco. Dentro e fuori. Bruciava. Bruciava terribilmente.
 
Cenere alla cenere.
 
Uno spasimo più intenso degli altri la costrinse a sollevare le palpebre e tutto le apparve distorto, un miscuglio di colori e luci senza forma.
 
Non riusciva a respirare.
 
Si spinse seduta con uno sforzo esagerato e riemerse, sfaldando lo strato di acqua fredda con la testa e le spalle. Inspirò forte, tanto da sottoporre le costole ad una tensione che le fece tremare.
Dita delicate le strinsero le braccia e un viso dalla pelle diafana le si parò davanti. Luminosi occhi dorati si specchiarono nei suoi e labbra sottili si piegarono in un sorriso rassicurante. I lunghi capelli castani della donna erano raccolti in una treccia che le ricadeva sulla spalla destra. Il contatto con lei le instillò nell’animo la calma necessaria a ripristinare il regolare battito cardiaco e sedò l’intenso bruciore.
 
“Respira piano. Sei al sicuro.”
 
Afferrò la mano che le era stata tesa e utilizzò quel saldo appiglio per ritornare sulle gambe malferme. L’acqua scivolò sulla pelle bollente, copiosi rivoli abbandonarono le punte dei capelli, si riversarono lungo la schiena e percorsero la curva tonda dei glutei. Il gocciolio divenne più debole mentre se ne stava in piedi, immobile. Distolse lo sguardo dal riflesso sfocato di se sessa stagliato nell’acqua e si guardò intorno. Non impiegò molto a capire dove si trovasse. La stanza delle vasche di rigenerazione. Era su Asgard, nella città di Oneiro.
Il battito cardiaco subì una nuova e brusca accelerazione, mentre ricordava cosa l’aveva portata lì.
 
“È importante che tu rimanga calma” la voce morbida dell’oneiriana che ancora le teneva la mano la aiutò di nuovo a recuperare la calma.
 
Sciolse il contatto e respirò. Respirò piano e profondamente, mentre riversava appena il capo all’indietro. Dall’alto soffitto pendevano intrecci simili a rametti nodosi, impreziositi da germogli che emanavano una soffusa luce azzurra, la quale schiariva gentilmente la penombra. La tensione che aveva irrigidito i muscoli si sciolse un po’ alla volta, finché a malapena fu in grado di rimanere in piedi. Fu abbastanza testarda da non cadere e mosse passi incerti verso il bordo della vasca intagliata nel pavimento. Sollevò il piede destro per uscirne fuori e i muscoli del quadricipite si contrassero per permettere al piede sinistro di uscire dall’acqua, che le percorse i polpacci e le esili caviglie.
Il lucido pavimento verde scuro si illuminò sotto la pressione dei piedi nudi e Anthea osservò gli aloni smeraldini pulsare ad ogni passo in avanti che ebbe la forza di fare. Poi si fermò, incurvò le spalle e lasciò cadere il capo in avanti, percependo la pesantezza dei capelli bagnati. Abbassò le palpebre e le braccia rimasero inermi lungo i fianchi. La sensazione di bruciare tornò a farsi più intesa e un sottile vapore abbandonò il corpo nudo.
Le venne da pensare ad un vaso, un vaso rotto i cui pezzi erano stati rimessi insieme e che adesso, intessuto di crepe, non era ancora pronto ad essere riempito di nuovo. Le crepe erano troppo fresche. E bruciavano.
Un candido telo le venne appoggiato sulle spalle. Sollevò le palpebre e solo allora registrò la presenza di altre due curatrici e due curatori. Le bastò una rapida occhiata per capire che non si aspettavano che lei tornasse a camminare sulle proprie gambe.
 
“Ho il presentimento che tu non ci tenga molto alla tua vita.”
 
Quella voce.
 
“Andras.”
 
“Anthea” ricambiò il sovrano, avvicinandosi di qualche passo. La tunica bianca gli donava e creava un netto contrasto con i capelli scuri.
 
I sensi rallentati non le permisero di registrare l’assalto al proprio spazio personale, non prima che un paio di braccia arrivassero a stringerla con premura. Non si oppose all’abbraccio e appoggiò il mento sulla spalla di Hera, mentre ricambiava lo sguardo sollevato di Loukas. Entrambi gli oneiriani avevano superato il sovrano senza troppi complimenti e quest’ultimo li aveva lasciati fare.
 
Hera si tirò indietro, mettendo fine al contatto. Le aggiustò il telo sulle spalle e le prese il volto fra le mani. “Credevamo che stavolta non ce l’avresti fatta” le sussurrò con voce tremante.
 
Fu solo a quel punto che Andras si intromise. “Hai quasi fuso il tuo sistema nervoso. Controllo degli elementi, rigenerazione spinta al limite, suggestione e manipolazione della realtà percepita. Ho dimenticato qualcosa?”
 
“Le interferenze. Le interferenze sono subdole. Ma avevo tutto sotto controllo” era una mezza verità, perché c’era stato un momento, durante lo scontro, in cui aveva davvero temuto di finire polverizzata, però non era accaduto. “Aspetta… tu come fai a saperlo?”
 
Andras incrociò le braccia al petto e scosse il capo. Era rassegnato e sembrava anche arrabbiato.
“Quando sei arrivata non riuscivi nemmeno a parlare, perciò me lo hai mostrato” il sovrano picchiettò la tempia con l’indice. “Hai dimenticato che ci sono limiti nell’utilizzo contemporaneo di capacità diverse? Hai rischiato danni cerebrali irreversibili” era decisamente arrabbiato “Devi ringraziare Eivor. Senza di lei saresti ancora in stato vegetativo.”
 
Anthea spostò l’attenzione sull’oneiriana dalle iridi luminose che le era rimasta silenziosamente accanto. La sottile veste color orchidea che le fasciava il corpo, mettendone in evidenza le curve dolci, era bagnata fino all’altezza dei seni.
“Mi ricordo di te. I tuoi poteri curativi sono straordinari” i più potenti che Anthea conosceva “Ti ringrazio per avermi aiutata.”
 
Eivor le dedicò un sorriso morbido e le posò una mano sulla schiena, un tocco delicato e di sostegno. Un tocco che, di nuovo, alleviò il bruciore che le stava divorando la pelle.
“È stato un onore, ma evita di farlo ancora perché i miei poteri potrebbero non bastare più” lo disse con tono pacato e fermo.
 
Anthea annuì e poi si rivolse di nuovo ad Andras. “Devo ringraziare anche te.”
 
“Ti avevo detto che saresti sempre stata la benvenuta se fossi passata da queste parti, anche se non mi aspettavo di vederti arrivare in un bagno di sangue e in compagnia di un’oneiriana con un potere tale da rischiare di farti a pezzi.”
 
La bambina innocente. Eta.
 
“Lei sta bene?”
 
Andras si irrigidì. “Damastis è con lei. Le fratture del suo animo sono profonde, ma noi l’aiuteremo a guarire, non importa quanto tempo ci vorrà” uno scintillio gli attraversò le iridi glaciali “Chi le ha inferto un tale male dovrà pagarla cara.”
 
Anthea sorrise, scossa da un moto di orgoglio. Andras era maturato ancora dall’ultima volta che si erano incontrati. Sapeva di aver fatto la scelta più giusta nel passargli il comando e lui continuava a dargliene conferma.
“Ti do la mia parola che sarò io stessa ad assicurarmi che paghi. Per tutto quanto” gli assicurò.
 
“Da quando utilizzi il potere della suggestione?” l’oneiriano era diventato più cupo.
 
“Da quando Antares mi ha fottuto il cervello e mi ha quasi distrutta” anche Anthea era diventata più fredda.
 
“Se non ne hai il pieno controllo, rischi di perderti nelle tue stesse suggestioni e non saprai più distinguerle dalla realtà.”
 
“Non succederà.”
 
Andras scosse di nuovo il capo ed evitò di continuare sulla via del non avresti dovuto fare questo e quello.
“Non ho mai capito se sei solo fastidiosamente sicura di te stessa o se questo tuo modo di fare è una grossa montatura per nascondere insicurezza.”
 
Anthea piegò le labbra in un mesto sorriso che non raggiunse gli occhi. “Preferisco non scoprire le mie carte. Da quante ore sono qui?”
 
“Cinque giorni.”
 
“Cinque giorni? Sono qui da cinque giorni?” era panico quello nella sua voce e non si sforzò nemmeno di nasconderlo “No. No. No. Dannazione, no.”
 
Cinque giorni. Cinque dannatissimi giorni.
 
“Devo tornare sulla Terra. Dove sono i miei vestiti?”
 
“Non erano recuperabili” le disse Eivor “Ma tu…”
 
“Dannazione” Tony ci sarebbe rimasto male. “Allora qualsiasi cosa andrà bene. Devo…”
 
“Anthea” la richiamò Andras e si fece più vicino. “C’è qualcosa che devi sapere.”
L’espressione che il sovrano le rivolse mentre poggiava le mani sulle sue spalle le fece accapponare la pelle.
 
“Parla, avanti. Qualsiasi cosa sia, la affronterò.”
 
Andras fece un cenno del capo a Eivor. La curatrice allora si allontanò da loro di qualche passo e l’oro che le illuminava le iridi si spense, lasciando il posto a un viola vellutato.
Anthea non comprese immediatamente cosa significasse, finché l’intensità del bruciore non subì una brusca impennata, togliendole il fiato e strappandole un grido agghiacciante. La giovane si accasciò sulle ginocchia e Hera si mosse per raggiungerla, ma il sovrano la fermò con un gesto imperativo della mano.
 
“Ti prego… fallo smettere…” supplicò Anthea, in ginocchio, le braccia avvolte attorno l’addome.
 
Le iridi di Eivor furono inondate dall’oro e il bruciante dolore tornò ad essere sopportabile. Anthea realizzò che fino a quel momento era stata la curatrice a tenere insieme i pezzi. Tornò in piedi con lentezza straziante e fronteggiò Andras, la cui espressione esprimeva evidente apprensione.
 
“Mi dispiace. Ma era l’unico modo perché tu capissi quali sono le tue reali condizioni. E c’è un’altra cosa.”
Andras fece di nuovo quella faccia allarmante e Anthea si preparò al peggio.
 
 
Forse, in fin dei conti, si era spinta oltre. E forse aveva perso il controllo.
 
 
 
 
 
 
 
 


 
 
Angolo Note
 
Buon inizio 2023 a tutti voi, anche se in ritardo ❤️
Un rapido avviso. Il prologo ha subito una modifica nella parte finale e questa è riportata nel capitolo (il breve pezzo tutto in corsivo). Il frammento iniziale, invece, è tratto da Careful what you wish for dei Bad Omens.
Ringrazio coloro che sono giunti fin qui ❤️
 
Un sentito abbraccio,
 
Ella

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Capitolo 32
*** One level ***


One level
 
 
 
When I close my eyes, it’s there waiting for me
Finds me every time, will I never be free?
There’s a monster I caged deep behind my eyes
I can never escape, I’ve been running for miles
When the morning comes, I know it will still be there
My never ending nightmare
 
 
 
 
Più in avanti nel tempo
 
 
“Credevo di essere stato chiaro.”
 
“Lo sei stato, ma...”
 
“Hai disobbedito e fatto di testa tua. Di nuovo.”
 
Sono ai lati opposti del tavolo, entrambi in piedi, impegnati a sostenere l’uno lo sguardo dell’altro e nessuno dei due vuole cedere. La tensione è palpabile e continua a crescere.
 
“Ho fatto quello che avresti fatto anche tu” glielo sbatte in faccia senza troppi complimenti, eppure interrompe il contatto visivo per qualche istante, prima di risollevare il capo in modo da poterlo fronteggiare con maggiore sicurezza – una labile sicurezza.
 
“Daniel...”
 
“Lo so. Lo so” ricalca quelle due parole con ferma convinzione “Io non sono te” gli punta il dito contro, sporgendosi in avanti sul tavolo. Poi, di colpo, si tira indietro e gli dà le spalle, pronto ad andare via, perché potrebbe dire cose di cui finirebbe per pentirsi. Peccato che non riesce ad andare lontano. C’è lei appoggiata allo stipite della porta e occlude l’unica via di fuga. Affrontarli entrambi in una sola volta è una sfida persa in partenza.
 
“Questa storia deve finire o mi farete impazzire molto presto” non è arrabbiata, ma rassegnata e stanca di assistere a quei siparietti sempre più frequenti “E sapete bene entrambi che non è conveniente farmi perdere la pazienza” sorride in quel modo spaventoso che riesce a far venire i brividi persino ai più temerari. “Risolvete” ordina – perché è un ordine – e indica il tavolo.
Poi lo sguardo si sposta su Steve e si ammorbidisce impercettibilmente. ‘Per favore’ mima con le labbra.
 
I due richiamati all’ordine decidono saggiamente di non opporsi e si siedono, l’uno di fronte all’altro. È passato un po’ dall’ultima volta che sono stati in grado di avere una conversazione civile, una che non finisca con porte sbattute o toni troppo alti.
 
“Daniel” riprova allora il biondo, con più garbo, anche se la tensione è riflessa nella linea dura della mandibola.
 
“Steve” il tono la dice lunga su come la stia prendendo, ma ha ancora l’adrenalina a mille e i nervi a fior di pelle. Perciò, mantenere la calma gli risulta alquanto complicato.
 
Steve solleva gli occhi al cielo e quando li riabbassa stringe il ponte del naso fra pollice e indice. Sta per perdere quei brandelli di pazienza che aveva appena racimolato. “Potresti almeno provare a…”
 
“Io ci provo. Tu invece non lo fai” Daniel si rialza in piedi e la sedia stride mentre struscia con violenza sul pavimento.
 
“Ti sbagli, io...” Steve è rimasto seduto.
 
Il più giovane scuote il capo. “Tu non ti fidi di me.”
 
“Non è così…” il super soldato ha lo sguardo fisso sulla superficie del tavolo e i gomiti sono appoggiati sulla stessa. Sembra stanco, vulnerabile in un modo che non gli si addice, e forse è la volta buona per vincere contro di lui.
 
Quindi, Daniel attacca. Aggira il tavolo e gli si piazza di fianco, attirando su di sé i familiari occhi azzurri. “Non potrai controllarmi per sempre, fattene una ragione” colpisce ingoiando il senso di colpa.
 
Steve scuote il capo e si alza, costringendo il più giovane ad indietreggiare di qualche passo. “Hai ragione. Non posso” gli dà ragione. Gli dà ragione e poi gli sfila di fianco per dirigersi verso la porta.
 
È una vittoria? Ha davvero vinto?
 
Anthea blocca la strada al compagno. “Steve, per favore.”
 
Lui le poggia una mano sulla spalla e gli basta uno sguardo per farla desistere. Così lei lo lascia passare e, dopo qualche attimo di silenzio, l’oneiriana si rivolge a Daniel. “Andiamo” gli dice solamente.
 
No, non è arrabbiata neppure stavolta. È stranamente calma e… comprensiva.
 
“Dove?” è confuso, non se lo aspettava. Era già pronto ad una seconda ramanzina con i fiocchi.
 
“Seguimi e basta” taglia corto lei e va avanti, precedendolo.
 
Arrivato a quel punto, non ha molta scelta. Mentirebbe se dicesse che non è agitato. Tuttavia, la segue.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Presente
 
 
“Al mio tre.”
 
“Tre e via o tre e basta?”
 
“Facciamo tre e basta. Uno. Due. Tre.”
 
I fasci di energia si incontrarono a ridosso della barriera, che fino a quel momento si era mostrata impenetrabile.
 
“Aumenta la potenza.”
 
“È già al massimo.”
 
Tony serrò i denti. Le ossa vibravano, sollecitate dalle impetuose energie prodotte dalla sua stessa tecnologia. Resistette per qualche altro secondo prima di cedere e, con lui, anche Rhodey fu costretto ad arrendersi.
 
“Dannazione, non l’abbiamo nemmeno scalfita.”
Iron Man tornò con i piedi per terra e l’elmetto dell’armatura si dissolse. Ne emerse un’espressione affaticata, quasi affranta, inumidita da una visibile patina di sudore.
 
“Ross sta arrivando” informò War Machine, che stava tenendo sotto controllo i movimenti dell’esercito da quando erano arrivati sul posto.
 
Nonostante Avengers, Governo e SHIELD fossero ai ferri corti da mesi, ritrovarsi sul medesimo terreno e a pochi minuti di distanza, nessuno aveva ancora mostrato la volontà di iniziare uno scontro per imporsi sugli altri e prendere il controllo della situazione. Ed era proprio la situazione la ragione per cui non si erano saltati alla gola – metaforicamente parlando. Erano tutti impotenti di fronte a forza incomprensibili e che minacciavano un numero troppo alto di vite innocenti.
 
“Ottimo. Avevamo pochi problemi in effetti.” Tony passò una mano fra i capelli spettinati e sospirò. Non aveva tempo per gestire anche Ross al momento. Dovevano entrare lì dentro, dovevano trovare un modo per aprire un passaggio attraverso quella maledetta barriera e si sarebbe accontentato anche di un misero spiraglio. Non riuscivano a vedere niente oltre il muro di nebbia, se non qualche sporadico ed indecifrabile movimento. Gli altri Avengers erano ancora impegnati a far allontanare le persone rimaste accalcate vicino la barriera, separate dai loro cari e restie a spostarsi. E perché Thor era irraggiungibile proprio nei momenti in cui fulmini e saette avrebbero fatto loro comodo?
 
“Tony, abbiamo visite” lo richiamò Clint e Stark individuò l’arciere poco lontano, affiancato da una donna dall’aria stravolta e che aveva già visto.
 
“Myers, ricordo bene?” non era una cosa positiva la presenza della donna lì. Affatto positiva. Per quanto ne sapevano, lei era ancora legata all’Hydra e a quel pazzo mentalmente instabile omicida di Brock Rumlow.
 
La Myers annuì, mentre si avvicinava decisa, ogni remora lasciata alle spalle. “Posso esservi d’aiuto. Vengo da lì dentro” indicò la cupola di fumo “O meglio, ne sono uscita prima che comparisse la barriera.”
 
“Quindi tu sai cosa sta succedendo” la incalzò Barton, che era scattato come una molla compressa sino allo sfinimento dinanzi la possibilità di avere finalmente qualche utile informazione.
 
“Cosa esattamente stia succedendo va al di là della mia capacità di comprensione. Ma Adam Lewis è lì dentro e si è portato dietro i suoi spaventosi seguaci. Anche Rumlow, uomini dell’Hydra, alcuni mercenari e Rogers sono dentro.”
 
Tony avanzò con fare greve, un pesante passo dopo l’altro, e si posizionò di fronte alla Myers, che non fece niente per sfuggire allo sguardo tagliente che lui gli stava rivolgendo. “Voi…” la voce di Stark era glaciale.
 
“Abbiamo collaborato” lo precedette Kristen “Pensavamo di riuscire ad arrivare e Lewis. Un fronte comune per un obiettivo comune” serrò le mani in pungi stretti e le unghie si conficcarono nella carne “E in parte ha funzionato. Solo che poi…”
 
“La situazione vi è sfuggita di mano” concluse Barton per lei, come se stesse constatando l’ovvio.
 
E quell’ovvio era una gigantesco campo di forza che isolava una zona che si estendeva per diversi chilometri.
 
La donna si lasciò sfuggire un mezzo sorriso esausto. “Probabilmente non l’abbiamo mai avuta in mano.”
 
“Immagino che tu non sappia come passare dall’altra parte” asserì Tony con una certa sicurezza e la Myers scosse il capo, desolata.
 
“Allora tira fuori qualsiasi informazione che potrebbe esserci utile. E con qualsiasi intendo tutto.”
 
“Sono qui per questo.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
C’erano zone in cui la foschia era più fitta e il freddo più pungente. Lo spettro della versione rimpicciolita di Anthea era a pochi passi di distanza, dinanzi a lui, e si girò indietro per rivolgergli uno sguardo che presagiva tempesta. Di nuovo, lei protese il braccio in avanti per indicargli la strada. Dove quella strada l’avrebbe condotto non lo sapeva ancora, tuttavia era consapevole di essere in balia degli eventi e non aveva alternative migliori da seguire. E lo spettro sembrava così reale, così disperatamente in cerca di qualcuno che potesse aiutarla. Non poteva ignorarla, non ci riusciva.
Era talmente concentrato sulla minuta figura eterea che sussultò al contatto improvviso di dita estranee, le quali si aggrapparono alla spalla destra con urgenza. Se i sensi non fossero stati rallentati dalla spossatezza, avrebbe finito per quasi spaccare il naso a Batroc per la terza volta. Steve si appuntò che forse era il caso di prestare maggiore attenzione alle brecce spalancate che consentivano un fin troppo facile accesso al proprio spazio personale. Farsi ammazzare adesso non sarebbe stata una mossa intelligente.
 
“Finalmente ti ho trovato” c’era sollievo nella voce affannata del mercenario “Che cazzo sta succedendo? Che avete combinato? Non era così che sarebbero dovute andare le cose.”
 
Batroc gli si era piazzato davanti e adesso entrambe le mani erano serrate sul girocollo della maglia nera e lo costringevano ad incurvare la schiena. Rogers non oppose resistenza significativa e gli concesse quel breve sfogo dovuto alla tensione accumulata. Su una cosa il mercenario aveva ragione. Non era così che sarebbero dovute andare le cose.
 
“Rumlow ha sparato a Lewis” era la spiegazione più breve e concisa che Rogers poteva dargli.
 
“Lewis è morto?” domanda lecita.
 
“No… non credo” non avevano prove effettive che fosse sopravvissuto, ma Steve aveva la sgradevole certezza che Lewis fosse tutt’altro che morto. Molto probabilmente era la causa di tutto.
 
“Fanculo, me ne tiro fuori. Dimmi come uscire da questo film dell’orrore” quella di Batroc avrebbe dovuto essere una minaccia, ma assunse la forma di una malcelata richiesta di aiuto – suonò simile ad una supplica.
 
Era strano vedere il mercenario privato del solito sangue freddo. Se la situazione non fosse stata tanto disperata, Steve avrebbe rigirato il dito nella piaga con un certo entusiasmo. Invece, si districò dalla presa di Batroc e tornò a rivolgersi in direzione della bambina eterea, ancora ferma dove l’aveva lasciata qualche attimo prima, in attesa che lui la raggiungesse.
 
“Cosa c’è?” gli chiese il mercenario e lo afferrò per un braccio, come se avesse timore che scappasse di colpo lasciandolo lì.
 
Steve allora distolse lo sguardo e riprese possesso del proprio braccio. “Hai incrociato civili?”
 
“Forse… non che si riesca a vedere molto. Ho cercato di raggiungere i parcheggi sotterranei, ma è impossibile orientarsi.” Il nervosismo di Batroc era palpabile e, a quanto pareva, sloggiare da quel posto era la sua priorità assoluta.
 
“Stiamo portando tutti nelle fognature. La barriera non…”
 
“Barriera? Quale barriera?”
 
Rogers sospirò e pensò al modo più rapido per spiegare all’ancora temporaneo alleato la situazione, di cui tuttavia non aveva piena comprensione neppure lui. La verità era che stavano navigando in un mare in tempesta all’interno di una barchetta che colava a picco.
Il super saldato fu liberato dall’onere di dare spiegazioni, perché fu qualcun altro ad intercedere per lui. O meglio, altri. Fra i fumi della foschia si palesarono presenze reali, concrete, non facevano parte delle tremolanti ombre intangibili che fino a quel momento si erano dimostrate innocue – seppur spaventose.
Steve li osservò avanzare e passare di fianco lo spettro della bambina. Non parvero accorgersi di lei e ne ebbe la certezza quando uno di loro la attraversò, facendola sfumare e sparire. Erano ancora distanti e la foschia rendeva impossibile metterne a fuoco i tratti, però il Capitano era certo che non fossero dalla loro parte.
 
Batroc fece un paio di passi indietro. “Nemici?”
 
“Dobbiamo muoverci” era una risposta più che esplicativa.
 
“Fai strada e non azzardarti a lasciarmi indietro.” Di nuovo, minacciare riuscì male al mercenario.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ore fermi davanti ad una dannata cupola di fumo. Non aveva funzionato niente, nessuna arma o energia in loro possesso – fra quelle che non avrebbero causato distruzione di massa. Senza contare che la presenza di Ross sul campo aveva creato maggiore nervosismo.
In quel momento, il Segretario stava raggiungendo gli Avengers, che si trovavano dall’altra parte della cupola. Nemmeno i tanto acclamati eroi avevano avuto successo nel riuscire a scavare un buco nel campo di forza. Come se non bastasse, Nick Fury e il suo SHIELD si erano uniti alla festa, rendendo tutto più complicato e poco gestibile.
Il primo che avrebbe avuto successo nel passare attraverso la barriera, avrebbe ottenuto un grosso vantaggio nella caccia a qualsiasi cosa avesse provocato la nuova – ennesima – emergenza. A suo parere, c’erano state fin troppe emergenze negli ultimi anni.
Il brusio di sottofondo, accompagnato da sequele di ordini impartiti con toni più alti, cessò di colpo. La Stewart imitò i suoi colleghi in mimetica e rivolse l’attenzione alla cupola. In una zona circoscritta, la nebbia si era diradata a seguito di un muto lampo luminoso che l’aveva attraversata e scossa.
 
La riconobbe subito. Non ebbe alcun dubbio.
 
Anthea Reyes era arrivata, avvolta da una leggera mantellina nera. Janet non era sorpresa di vederla. Se c’era qualcuno in grado di porre fine all’anomalia, quella era la Reyes e, nonostante non voleva avere niente a che fare con lei, stavolta era quasi sollevata di vederla e forse non avrebbe storto il naso nel sentirle dire “Ci penso io”. Era stanca di dover affrontare mostri ed eventi sovrannaturali e, se l’assurda ragazzina poteva mettere un punto a tutto, sarebbe passata sopra il fatto – non trascurabile – che la ritenesse una minaccia.
Janet sentì addirittura qualcuno affermare “Possiamo anche tornare a casa adesso” e dovette ammettere – solo a se stessa – di trovarsi d’accordo. La giovane non umana si voltò verso di loro, che la stavano osservando in trepidante attesa.
 
Non accadde nulla. Nessuna esplosione di energia. Niente ostentazione di poteri fuori misura.
 
La Reyes le rivolse un cenno del capo, o almeno così le parve. Poi, la nebbia la inghiottì.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Ce li abbiamo alle calcagna.”
 
Aveva l’impressione di star correndo da ore, eppure non era ancora riuscito a scaldarsi. I muscoli erano irrigiditi e i movimenti rallentati, fattore rilevante quando era costretto a bruschi cambi di direzione per stare dietro a quel bastardo di Rogers, che sembrava avanzare a caso nella maledetta nebbia in cui avrebbero potuto celarsi mostri di ogni tipo. Senza contare le fottute ombre che spuntavano fuori a tradimento, facendolo sussultare ogni volta.
Il suddetto bastardo frenò di colpo, senza avere la decenza di avvisare, e così andò a sbattergli contro. Avrebbe finito per romperselo il naso, ma sarebbe stata cosa di poco conto se fosse riuscito a venire fuori vivo da quel manicomio.
 
“Dannazione, Rogers. Avvisa prima.”
 
Batroc detestava il fatto di avere bisogno del bastardo per sopravvivere. Poi però li vide anche lui e il respiro gli rimase incastrato in gola. Avevano di fronte un gruppo di individui dai tratti deformi e dal colorito cadaverico. I loro corpi erano sproporzionati e sembravano usciti da un film dell’orrore partorito da una mente poco sana. Solo uno di loro era normale all’apparenza. Era di statura media, i capelli biondo scuro erano tirati all’indietro con cura e indossava una mimetica militare. Fu proprio quest’ultimo a rompere il silenzio.
 
“Finalmente ci conosciamo, Capitano. L’arma che tanti hanno provato a replicare.”
 
“Chi è questo tizio?” si intromise Batroc.
 
“Non lo so” fu la sincera risposta del super soldato.
 
“Bruce Banner non ti ha parlato di me? Il nome Emil Blonsky non ti dice niente?”
 
Il silenzio di Rogers fu una risposta più che eloquente.
 
“Allora forse ti ha parlato di Abominio.”
 
Lo sconosciuto si mostrò deluso quando il super soldato continuò a rimanere in silenzio.
“Non importa” tagliò corto “Spero che Banner si unisca alla festa. Nel frattempo, vediamo quanto vali tu di fronte al potere di un dio.”
 
Sul viso di Rogers si dipinse un limpido sbigottimento quando il corpo di Blonsky iniziò a deformarsi e a crescere. Batroc indietreggiò, ma senza allontanarsi troppo dal biondo.
 
“Da capitano a capitano, voglio darti un consiglio” la voce di Blonsky era adesso più profonda e graffiante “Cerca almeno di guadagnarti una sconfitta onorevole.”
 
Batroc non riusciva a credere ai propri occhi. “Oh porca…”
 
“Corri.”
 
Quella semplice parola uscita dalla bocca di Rogers aveva un suono strano, stonante. Tuttavia, Batroc non se lo fece ripetere due volte.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Mentre avanzava nella foschia, le memorie si accalcarono e sgomitarono per tornare in superficie. Anthea si oppose, respingendole in profondità, e superò un’ombra scura passandovi attraverso. Le aveva riconosciute fin da subito, perché quelle oscure energie condensate in qualche modo le appartenevano, erano legate a lei.
Durante lo scontro con Eta, si era generato un denso intreccio di energie che aveva portato alla formazione di nodi. I nodi però non si erano formati con Eta, ma con Lewis, con le cellule oneiriane di cui lui si era appropriato. Infatti, l’energia che impregnava l’aria vibrava con le frequenze del suo stesso potere e lei sperava che quel potere non fosse stato risucchiato da Lewis.
Le cellule oneiriane avevano la capacità di mutare e di adattarsi alle sollecitazioni, ai traumi, e forse l’esplosione di energia avvenuta alla vecchia base in Canada aveva sollecitato le cellule oneiriane rubate da Adam e forse queste avevano finito per assorbire quella stessa energia. L’unica cosa certa era che Anthea sentiva una forte connessione con le energie che la circondavano ed erano quelle stesse energie a guidarla adesso. E forse iniziava a temere cosa avrebbe dovuto affrontare di lì a poco.
 
L’oneiriana arrestò il passo e qualcosa di indecifrabile la scosse dall’interno. Di nuovo, represse ogni scomoda emozione.
“A quanto pare non ti ho sepolta a dovere. Errore mio” disse, mentre osservava il fantasma della versione rimpicciolita di se stessa.
 
Le ombre scure si accalcarono intorno a lei. Erano agitate e fremevano, gorgogliando lamenti sconnessi.
 
“Se solo tu fossi stata più forte, ci avresti risparmiato parecchi problemi” la accusò e accorciò la distanza di qualche passo “Strano che tu non abbia ancora trovato un buco scuro dove nasconderti e piangerti addosso.”
 
Anthea sapeva che quel riflesso del passato non era davvero la bambina che era stata. Doveva essere colpa della foschia e del modo in cui questa riusciva ad alterare la percezione della realtà. Perché non era reale, eppure la rabbia e lo sdegno che le faceva provare lo erano. La foschia amplificava le emozioni negative, alterava la percezione, distorceva tempo e spazio. Da dove o cosa provenisse non era ancora riuscita a capirlo.
Con l’aiuto degli oneiriani e di Damastis, Anthea aveva acquisito consapevolezza delle proprie capacità e l’intervento di Azael l’aveva portata sulla strada dell’accettazione, che l’aveva spinta a voler esplorare possibilità e limiti. Non aveva niente di più di ciò che un oneiriano avrebbe potuto sviluppare. Telecinesi, controllo degli elementi, rigenerazione e quella che veniva definita suggestione, non erano incantesimi esoterici, ma derivavano dalla manipolazione di energie preesistenti. La forza e il modo con cui un oneiriano esercitava tale manipolazione variavano da individuo a individuo ed esistevano naturali predisposizioni a determinate capacità invece che ad altre.
Anthea aveva maggiore affinità con la telecinesi, il controllo del fuoco e la rigenerazione. La manipolazione di altri esseri viventi non era altro che la cooperazione fra telecinesi e una rigenerazione atta a demolire le funzioni vitali. Quindi, tutto ciò che lei riusciva a fare rientrava nelle ordinarie capacità di un oneiriano. Magari sì, poteva definirsi superiore alla media per quanto riguardava la forza con cui manipolava le energie, ma nulla di più. Persino la foschia poteva essere vista come una suggestione attuata su una più larga scala e che portava ad una specie di isteria collettiva. Dopotutto, se ci rifletteva, Antares aveva influenzato tutti ad Oneiro con il suo potere di suggestione, riuscendo persino a far passare inosservata la scomparsa di due giovane oneiriani.
 
“Sai che questa non è tutta la verità. Per quanto tempo continuerai a raccontarti bugie?” fece eco una esile vocina nella sua testa.
 
Perché c’erano alcune cose che lei aveva fatto e che non avevano precedenti. Inoltre, nessun altro oneiriano era riuscito a riprodurle, nonostante ci avessero provato. La foschia era fra queste. E anche il fatto che non riuscisse a guarire altri essere viventi senza intaccare le proprie funzioni vitali era fuori dall’ordinario, considerato che Damastis le aveva raccontato che gli oneiriani erano stati guaritori in origine.
 
Ma voleva davvero avere delle risposte? Voleva davvero sapere? Voleva davvero ascoltare quei sussurri che di tanto in tanto le riempivano la testa?
 
Lo spettro della piccola se stessa si avvicinò e le ombre si strinsero a formare un cerchio quasi perfetto. Erano sempre più vicine e pressanti. I gorgoglii sconnessi si trasformano in lamenti rumorosi.
 
“Vedi?” Anthea si rivolse ancora una volta alla piccola se stessa “Adesso sono io quella costretta a convivere con tutto questo. Ma non mi nasconderò, non sono più una vigliacca.”
 
Le ombre intangibili si deformarono e si contorsero, producendo stridii graffianti, simili a grida acute. La foschia si ingrigì e divenne più simile a fumo scuro. La bambina eterea non si era mossa, né la sua espressione da bambolina di porcellana era stata scalfita. Anthea si chinò sulle ginocchia, in modo che i loro sguardi fossero alla medesima altezza. Riconobbe l’anello ambrato che circondava la pupilla e che, a sua volta, era circondato dal blu profondo dell’iride.
 
“Sarebbe meglio per entrambe che tu sparissi per sempre insieme ai tuoi maledetti demoni” le sussurrò ad un soffio dal viso e, come reazione, vide nascere venature rossastre che incrinarono gli abissi scuri che la fissavano silenti. Anthea piegò le labbra in un sorriso affilato e scosse il capo. Fece forza sulle gambe, pronta a rialzarsi, quando la mano dello spettro le sfiorò la guancia.
 
“Andrà tutto bene” proferì la bambina eterea e, con la mano libera, le indicò la strada da seguire.
 
La giovane oneiriana allora tornò in piedi, rompendo il contatto con lo spettro e arricciò le labbra in una smorfia difficile da interpretare.
 
“Sai che non è così.”
 
Il riflesso inconsistente di ciò che era stata sfumò. Anthea rimase a fissare il vuoto, finché la sua attenzione non fu catturata da movimenti nella nebbia.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Era snervante. La strada era bloccata – blindata – e continuava ad esserlo, qualsiasi cosa facessero.
Erano almeno dieci minuti filati che Daniel guardava ossessivamente la barriera, speranzoso di beccare anche un solo minuscolo glitch sulla superficie increspata. Ma niente, non c’era stato alcun tipo di cambiamento. Steve era proprio dall’altra parte di quel dannato muro fumoso. Steve era vivo, o almeno lo era l’ultima volta che Kristen Myers lo aveva visto.
 
Dovevano entrare lì dentro ad ogni costo.
 
Era stata sgombrata la zona, ma tanti avevano rifiutato di muoversi, perché i loro cari erano ancora intrappolati all’interno della cupola. Elicotteri, ambulanze, camionette dei pompieri, auto, trasporti militari, jet, andavano e venivano, creando parecchia confusione. Le strade che affluivano alla zona dell’anomalia erano state chiuse e nessuno poteva entrare o uscire senza passare dai blocchi messi su dalle forze dell’ordine e dall’esercito. Anche lo SHIELD era arrivato sul posto e, in parte, si stava occupando di ripristinare l’ordine, per quanto fosse possibile. Era mattino inoltrato ormai e la barriera era in piedi da quasi dodici ore.
 
“Collins.”
 
La voce di Stark lo fece riscuotere e si mosse immediatamente per raggiungerlo. Gli corse in contro.
 
“Unisciti alle squadre dello SHIELD che scenderanno nelle fogne.”
 
Giusto. La questione delle fogne. Kristen Myers aveva detto loro che quella era la via di fuga che Brock Rumlow aveva previsto in caso di emergenza. C’erano più ingressi e quindi più uscite da controllare.
Daniel annuì e non esitò ad eseguire il compito che gli era stato affidato. La mano metallica di Iron Man si chiuse attorno al suo gomito e lo costrinse a fermarsi.
 
“Ricordi il nostro accordo?” Stark aveva rimosso l’elmetto affinché potesse guardarlo direttamente negli occhi.
 
Dan lo ricordava. Era il motivo per cui aveva avuto il permesso di essere lì, nonostante non si fosse ancora del tutto ripreso dall’ultimo scontro o, meglio, disfatta.
 
“Se la situazione si complica, mi tolgo dai piedi.”
 
Però, in effetti, non avevano definito il grado di complicazione per cui avrebbe dovuto battere in ritirata. Una scappatoia non da poco.
 
“Bravo ragazzo.”
 
Collins fece un segno d’assenso con il capo. Gli faceva un certo effetto dover lavorare di nuovo al fianco di agenti dello SHIELD. Quando li raggiunse, si fece avanti un uomo che gli era già noto. Dan gli tese la mano e lui la afferrò, chiudendola in una stretta decisa.
 
“Daniel Collins. Mi unirò a voi per esplorare le fogne.” Non suonava così bene, ma erano quelli i fatti.
 
“David Grey. Mi ricordo di te. Ci siamo già visti a LA.”
 
“Oh sì, giusto. Sei tu al comando?”
 
David annuì. “Ci muoviamo fra due minuti, tieniti pronto.”
 
Era pronto. Pronto a tutto.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Rogers percepiva le vibrazioni del terreno ad ogni passo avanzato da Abominio. Batroc era al suo fianco ed entrambi si trovavano seduti a terra, con la schiena appoggiata contro la ruota di uno di quei furgoncini da street food. Il super soldato ricordava la zona, ne aveva memorizzato i punti di riferimento. Erano nel grande parcheggio che si estendeva sul retro del centro commerciale e file orizzontali di veicoli lo avevano riempito. Uno degli ingressi alle fogne era a meno di dieci passi in avanti, ma anche Abominio era vicino, troppo vicino. Non avevano la forza di affrontarlo e morire prima di arrivare a Lewis non era una prospettiva allettante. Le vibrazioni del suolo si fecero più intense e trattennero il fiato quasi in sincronia.
 
“Andiamo, ragazzo, vieni fuori. Non deludermi così.”
 
Ad un rumoroso schianto ne seguirono altri. Il frastuono di vetri che andavano in frantumi e gli stridii acuti di lamiere che si accartocciavano riempirono il silenzio. Abominio stava facendo a pezzi le auto nel parcheggio e una di queste, accartocciata alla stregua di un foglio di carta, si schiantò vicino al furgone dietro il quale si nascondevano. La nebbia li aveva aiutati a coprire le tracce, ma riuscire ad andare lontano era un’altra storia.
Uno dei cadaverici potenziati deformi si avvicinò al loro provvisorio nascondiglio. Steve fece segno a Georges di muoversi e il mercenario scivolò sotto il veicolo, stendendosi prono. Il super soldato lo imitò subito dopo, affiancandolo. Osservarono i grossi stivali neri del potenziato muoversi ad un tiro di schioppo da loro e si sforzarono di rimanere perfettamente immobili, mentre sudore freddo imperlava loro la schiena. Il nemico passò oltre. Allora il Capitano indicò al mercenario la direzione verso cui avrebbero dovuto muoversi e Batroc decise di andare avanti, strisciando fuori dal nascondiglio ed ignorando il “Aspetta, non ora” che Rogers gli sussurrò a denti stretti.
Tuttavia, Batroc riuscì a raggiungere il tombino e spostò il disco in metallo che lo chiudeva, tutto senza fare troppo rumore. Stava per infilarsi all’interno delle fognature, quando il potenziato che era passato di lì poco prima comparve alle sue spalle. Il nemico lo afferrò da dietro e lo schiacciò schiena a terra, per poi stringergli le mani attorno alla gola.
Rogers imprecò in silenzio e, suo malgrado, rotolò fuori dal riparo offerto dal furgoncino. Scattò in direzione dell’alleato e gli levò di dosso il potenziato, evitando che lo strangolasse.
 
Steve rimise in piedi Batroc. “Vai” gli disse e lo spinse verso il tombino “Uscita ovest. Trova Rumlow” aggiunse alla fine.
 
Batroc esitò. Fu un fugace attimo, ma esitò. Poi scese giù nel tombino che il super soldato fu attento a richiudere sopra di lui.
Solo allora, Steve rivolse l’attenzione al potenziato, che si stava rimettendo in piedi e lo puntava come un predatore fa con la propria preda. Non aveva idea di quanto potesse comprendere, ma non poteva rischiare di attirare il nemico dove si stavano rifugiando i civili. Quindi, l’unica possibilità era liberarsi del potenziato nel modo più rapido e silenzioso possibile. Lo sorprese il pensiero che quella di fronte a lui era stata una persona, con emozioni e con una propria volontà. Lewis aveva tolto loro tutto e Steve si chiese se fosse in qualche modo reversibile, se potessero essere ancora salvati. In quel momento però fu costretto a fare una scelta, così si preparò a combattere.
Il potenziato deforme era forte, veloce e meccanico. Il lavaggio del cervello doveva aver sottratto loro l’estro che li aveva caratterizzati e la capacità di rompere gli schemi. Perciò, con poche e calibrate mosse, il biondo riuscì a bloccare il nemico a terra e gli strinse il collo finché non smise di muoversi, riservandogli il destino che sarebbe toccato a Batroc se non fosse intervenuto a salvargli il sedere.
Steve riprese fiato, sotto lo sguardo di vetro sul volto deforme. Lo sforzo appena compiuto gli aveva sottratto più energie del previsto. Ogni singolo movimento contribuiva a prosciugare le ultime riserve di energia che gli permettano di tirare avanti.
Captò movimenti nei dintorni e si spinse in piedi. Doveva spostarsi da lì e tornare a cercare i civili ancora dispersi. Tuttavia, nonostante l’urgenza, il corpo continuava a rispondere agli stimoli con una lentezza snervante.
 
Non riusciva proprio a recuperare.
 
Quel tipo di stanchezza non l’aveva provata nemmeno settant’anni prima, durante la missione che avrebbe dovuto estirpare l’Hydra per sempre – non era andata come previsto, niente era andato come previsto.
Stava testando i limiti del suo stesso corpo come forse mai aveva fatto prima. Di una cosa aveva al momento la certezza più assoluta. Non poteva farcela da solo ed era proprio per questo che era necessario abbattere la barriera.
 
Era sicuro che i suoi compagni erano già lì fuori, in attesa che lui creasse per loro un accesso.
 
Non fu abbastanza veloce per evitare lo sportello dilaniato che gli arrivò addosso con una violenza mostruosa.
Il super soldato si ritrovò a terra, qualche metro in avanti, steso sul fianco destro. Premette la mano sul lato della testa, schiacciando i capelli bagnati di sangue caldo. Il fischio nelle orecchie e la vista sfocata erano problemi di poco conto rispetto l’aumento delle vibrazioni che correvano sull’asfalto.
 
No. Da solo non poteva farcela.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Due anni prima
Asgard

 
 
C’era una piacevole brezza e la luce era ancora abbastanza pallida da non graffiarle gli occhi sensibili. Si appoggiò al parapetto in candida e liscia pietra e ammirò lo spettacolo che la natura stava offrendo senza chiedere niente in cambio. Una distesa di un verde brillante si dispiegava a perdita d’occhio e un limpido fiume la attraversava, diramandosi in esili ruscelli che sparivano all’interno di foreste rigogliose. Riusciva persino a vedere le zone rocciose più distanti, che si innalzavano in montagne austere, creando zone d’ombra.
L’assenza di confini visibili le toglieva il fiato. Per troppo tempo era stata confinata in spazi angusti, sotterranei, dove la luce del sole non poteva arrivare. Era trascorso quasi un intero anno da quando aveva lasciato la Terra e quasi un anno da quando era stata liberata. Il pallore poco sano della pelle si era colorato di un rosa tenue e i capelli erano diventati più luminosi. Si sentiva forte, nonostante i viaggi interspaziali non fossero una passeggiata e prosciugassero buona parte delle energie.
Si sporse per avere una visuale migliore sul villaggio che stava lentamente prendendo forma ai piedi dell’alto palazzo dove lei risiedeva da qualche mese. Era grazie alle abilità degli oneiriani che possedevano forte sintonia con la terra e con i preziosi minerali che essa custodiva nel proprio grembo, se la costruzione della loro nuova casa procedeva rapidamente. Lei era più brava a distruggerle le cose, quindi aveva preferito farsi da parte e investire tutti i suoi sforzi nella ricerca degli oneiriani.
Pose l’attenzione sulle perle di rugiada che inumidivano la pietra liscia. Si concentrò e le piccole perle si mossero vibrando. Finirono per scontrarsi le une contro le altre e si agglomerarono in un unico corpo. L’ammasso acquoso assunse le sembianze di un gracile e tremolante omino stilizzato. Cercò di farlo muovere, ma era ancora lontana da un controllo tanto fine. Tuttavia la sua instabile creazione non esplose. Divenne una statuina di ghiaccio.
 
“Andras” lo salutò, senza nemmeno avere la necessità di voltarsi per sincerarsi che fosse effettivamente lui “Che succede?”
 
“L’inserimento dei nuovi oneiriani è stato portato a termine” le comunicò lui.
 
“Ottimo.”
 
Anthea poteva vederli da lì sopra, i nuovi arrivati. Erano soprattutto famiglie che erano riuscite a sopravvivere in un territorio ostile. Un gruppetto di piccoli oneiriani scorrazzava lungo la strada principale, mentre i loro genitori li controllavano da lontano.
Un’oneiriana dai lunghissimi capelli bruni teneva fra le braccia un neonato. L’orlo del candido vestito oscillava, mentre lei lo cullava con estrema dolcezza. Il padre la osservava rapito poco distante. Lui faceva parte dei guerrieri che avevano protetto il nuovo gruppo di oneiriani e aveva dimostrato una forza di tutto rispetto. I capelli biondi mossi dalla brezza gli oscillavano davanti gli occhi chiari e le spalle larghe emanavano un rassicurante senso di protezione.
 
La sorprese una strana sensazione allo stomaco.
 
La giovane oneiriana distolse lo sguardo quando Andras la affiancò con garbo, appoggiandosi al parapetto e lasciando fra loro una distanza che si riduceva a poco più di un palmo.
 
“Quando intendi ripartire?” le chiese.
 
“Presto.” Voleva portare a termine la missione per poi ricominciare con una vita diversa.
 
“Stai bene?”
 
Stavolta Anthea lo guardò e sollevò un angolo della bocca dinanzi la sua espressione quasi preoccupata.
“Sto bene” gli assicurò “Sono solo stanca” ed era legittimo considerato che erano tornati ad Asgard da appena una manciata di ore.
 
“Se hai bisogno, i curatori...”
 
“Sto bene, dico davvero.”
 
“Ricorda che loro non subiscono ritorsioni guarendo altri esseri viventi.”
 
“Lo so, lo so. Ma credo di non…”
 
Un grido agghiacciante squarciò la calma placida.
 
Nonostante fosse lontana, Anthea riuscì a vedere il rosso vermiglio del sangue e di riflesso ne sentì l’odore, che conosceva alla perfezione. Percepì sulla propria pelle la paura, la disperazione e la morte.
Ancor prima che Andras riuscisse a pronunciare anche una sola sillaba, Anthea aveva già superato il parapetto con un agile salto e, alle sue spalle, l’esile omino congelato esplose andando in pezzi.
 
I colori vividi si ingrigirono e l’aria divenne fredda.
 
La giovane oneiriana ignorò il gelo che le pungeva la pelle e qualcosa dentro di lei si mosse in modo violento. Era una sensazione che non provava da anni e che aveva finito per dimenticare, finché quel grido stridente, quella richiesta d’aiuto impregnata di disperazione, non l’aveva raggiunta. E l’aveva scossa con la stessa violenza di un terremoto disastroso.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Presente
 
 
Cinque giorni. Cinque dannatissimi giorni.
 
Aveva fermato l’interferenza, suggestionato Lewis a tal punto da farlo scendere sul campo di battaglia a mostrare la sua – non più sua – faccia. Però avrebbe dovuto esserci lei ad attenderlo, era lei che avrebbe dovuto porre fine a tutto il male che quel maledetto mostro continuava a disseminare. Invece perseverava nel commettere errori, nel fare passi falsi e nel prendere decisioni sbagliate.
Era ancora impegnata a recuperare il fiato e il corpo si stava ribellando con stilettate di dolore che le facevano digrignare i denti. La cosa ironica era che non aveva neppure preso parte ad uno scontro. Ne aveva evitato uno parecchio rischioso e le aveva fatto un certo effetto battere in ritirata, considerato che era più il tipo che si gettava a capofitto in una battaglia, senza pensare troppo a strategia e risvolti.
Anche da seduta, i muscoli delle gambe continuavano a farle un male cane e ringraziava il sostegno della parete alle sue spalle, seppur umida e fredda. Faceva maledettamente freddo a causa di quella maledetta foschia, di cui non aveva il minimo controllo. Ci aveva provato a dissolverla, ma non era riuscita a collegarsi al flusso di energia. Era stato come cercare di afferrare una nuvola di vapore.
Lì sotto, le uniche sporadiche sorgenti di luce erano rappresentate da lampade incastrate sul soffitto del tunnel. Si era fermata in prossimità di una di esse, in modo da non essere al buio. Aveva visto un paio di grossi topi correre sul lato opposto del tunnel e non osava chiedersi cosa avrebbe potuto nuotare nel canale di acqua torbida che scorreva nel centro, a pochi passi da lei. L’odore era quasi nauseante, ma meno pungente della puzza di decomposizione e morte.
Continuò a premere con decisione il palmo della mano destra sulla ferita e morse l’interno della guancia nel percepire ancora gocce di sangue caldo scivolarle fra le dita. Ridusse lo spazio fra le gambe semi piegate, stringendo fra di esse il corpo che gravava contro il proprio, e posò la mano libera sulla spalla sinistra della quale conosceva il profilo alla perfezione. Rimettere a posto quella spalla era stata l’ultima cosa che aveva fatto prima di separarsi da lui, lui che ora sedeva fra le sue gambe, in modo tale che la testa bionda le poggiasse contro il petto.
Anthea scostò la mano sinistra sporca di sangue e controllò il taglio sul lato della suddetta testa bionda. I capelli intorno alla ferita si erano tinti di rosso e parte del sangue gli era colato lungo il collo e sul padiglione dell’orecchio. L’unica cosa positiva era che la ferita aveva smesso di sanguinare copiosamente. Lo sentiva respirare a fatica, la gabbia toracica si alzava e abbassava in modo irregolare e rapido, nonostante fossero fermi già da diversi minuti. Era cosciente, lo era rimasto per tutto il tempo e l’aveva guidata fino a lì.
La giovane non sapeva cosa dire, aveva un groppo incastrato in gola che le impediva di articolare le parole. Aveva provato ad aprire bocca un paio di volte, ma non era venuto fuori alcun suono. Imprecò mentalmente contro se stessa per l’ennesima volta nel giro di pochi minuti, ma stavolta non riuscì a terminare la lista degli insulti, perché lui la tolse dall’impaccio, rompendo il silenzio per primo.
 
“Sei viva.”
Dietro quelle due uniche parole si celava un mondo di implicazioni.
 
Lui non poteva vederla, ma Anthea curvò comunque le labbra in un mezzo sorriso. Il battito del cuore aveva subito un’accelerazione improvvisa.
“Avevi dubbi?” cercò di ironizzare, per far sciogliere il fastidioso nodo alla gola. La voce era venuta fuori rauca, incerta.
 
Steve le strinse il ginocchio sinistro con la mano, strizzandolo appena fra le dita. “No… forse giusto un po’ ad un certo punto” fu la sincera ammissione e non poteva di certo essere biasimato.
 
“Scusami” la voce stavolta le tremò “Sono in ritardo.”
 
Lui le strinse con più forza il ginocchio. “Sei arrivata in tempo.”
 
In tempo per evitare che i mostri di Lewis lo facessero a pezzi. Anthea era riuscita a trascinare il suo compagno giù nelle fogne prima che fosse tardi. Solo che ora non avrebbe potuto tenerlo fuori dai giochi, perché aveva bisogno del suo aiuto e lui era molto lontano dallo stare bene. Aveva tentato di mostrarsi non così ammaccato e pronto a ricominciare, ma la farsa aveva avuto vita breve e Steve Rogers aveva dovuto momentaneamente cedere allo sfinimento. Non era di certo la prima volta che lo vedeva spingersi al limite, tuttavia questa volta era diversa.
 
“Ho perso il controllo” gli confessò di punto in bianco, liberandosi della maschera di sicurezza ormai intessuta di crepe – come lei del resto. “Ho finito per incasinare le cose ed erano già un casino. Avevi ragione tu. Non avrei dovuto…”
 
“No. Qualsiasi cosa tu abbia fatto, ci ha dato un’occasione per fermare Lewis. E devo ringraziarti anche per lei, la stavo cercando.”
Steve indicò un punto alla sua destra, dove giaceva una bimbetta dalla gonnellina a stelle e strisce strappata in più punti. Le ginocchia sbucciate spuntavano da una mantella scura, che la copriva alla stregua di un lenzuolo. Era priva di sensi, stremata dalla paura e dal freddo.
 
“L’ho incrociata per caso. È stata fortunata” spiegò l’oneiriana “Era così spaventata…”
 
Steve fece per muoversi e in risposta Anthea gli circondò il petto con le braccia, stringendolo a sé. “Aspetta, ti prego. Riprendi fiato ancora un altro po’.”
 
“Ce la faccio. Ho solo qualche acciacco qua e là, ma niente di serio” cercò di rassicurala lui, eppure decise di aspettare come lei gli aveva chiesto.
 
“Giusto. Sei ufficialmente più vecchio di un anno adesso…” la voce quasi si spezzò sulle ultime parole e sperò che Steve non l’avesse notato.
 
“Gentile da parte tua definirmi più vecchio.” Il sarcasmo era un buon segno. Decisamente un buon segno.
 
“Tranquillo, non lo dai a vedere. I lividi e il sangue coprono le rughe.” Anthea ebbe la tentazione di mordersi la lingua. Aveva la tendenza a sputare ironia fuori luogo quando le emozioni negative le punzecchiavano lo stomaco. Stava per scusarsi, quando Steve si lasciò andare ad una fievole ma sincera risata. E, suo malgrado, rise anche lei. Non era sicura di poter catalogare anche questo come un buon segno.
 
Anthea tornò seria di colpo “Mi dispiace, Steve” ingoiò il nuovo e fastidioso groppo alla gola “Non sarebbe dovuta andare così.”
 
“Stai bene e sei qui. Il resto non conta” le assicurò il compagno “Adesso posso sapere cosa è successo?”
 
Anthea annuì. Gli doveva almeno una spiegazione decente.
“Ho incontrato l’interferenza. Lei è come me. È stato Antares a consegnarla a Lewis e sempre Antares gli ha fornito il nuovo corpo. Tutto sotto il mio naso” l’amarezza le incrinò la voce.
 
“Non è colpa tua.”
 
“Opinabile, ma quello che è fatto è fatto, giusto?” non era possibile cambiare il passato.
 
“Giusto” Steve non insistette e finì per concordare con lei almeno sul fatto che non potevano cambiare ciò che era già accaduto. “Il corpo di Lewis quindi…”
 
“Sì, un altro oneiriano” un’altra vittima “Ho cercato di fare ciò che credevo giusto ma la situazione mi è sfuggita di mano. L’interfe… la bambina si è dimostrata davvero forte” Anthea si fermò per un istante “Aveva bisogno di aiuto ed era mio dovere… volevo salvarla.”
 
Fu allora che Steve si staccò da lei, drizzando la schiena, e stavolta non trovò resistenza. Anthea lo osservò tornare in piedi, soffermando lo sguardo sulla schiena contratta sotto la maglietta nera. Le porse la mano e la giovane la afferrò, lasciando che fosse lui a riportarla in piedi. Non le sfuggì lo sforzo che gli costò quel compito così semplice.
 
“Deve essere stato un inferno per te” Steve non le aveva ancora lasciato la mano. “Come è andata?”
 
“È una storia abbastanza complicata” cercò di sviare lei, perché non era il momento e non era ancora riuscita a rimettere insieme tutti i pezzi dell’accaduto.
 
“Abbiamo tempo. C’è da camminare parecchio” insistette il biondo.
 
“Dove andiamo?”
 
Steve piegò le labbra in un mezzo sorriso stanco. “Anche questa è una storia complicata, ma ti basti sapere che abbiamo degli alleati.”
 
“E gli altri?” gli chiese l’oneiriana a quel punto. Era entrata direttamente all’interno della barriera, senza preoccuparsi di capire cosa stesse accadendo al di fuori.
 
“Non lo so con certezza… speravo potessi dirmelo tu. Ma scommetto che sono fuori dalla barriera ed è per questo che dobbiamo distruggerla” Steve fece una breve pausa “Tu come sei entrata? Sul serio, cosa è successo?”
 
Si mossero. Il Capitano recuperò la bambina e quando la tirò su, la piccola cominciò a riprendere coscienza e gli allacciò d’istinto le braccia attorno al collo.
L’oneiriana attese che il compagno facesse strada lungo il tunnel e lo affiancò, mentre collezionava le idee per spigare in modo coerente cosa l’avesse tenuta lontana dalla Terra per cinque lunghi giorni. Gli raccontò a grandi linee ciò che era accaduto dal momento in cui aveva lasciato gli appartamenti di Washington, l’incontro con Benson e la suggestione che aveva usato per spingerlo a contattare Lewis.
 
“Benson è morto” la informò Steve con tono piatto e non aggiunse altro.
 
Così Anthea proseguì con i fatti avvenuti nella base in Canada e con lo scontro con l’interferenza, Eta.
“Ha un potere psichico straordinario e capacità simili a quelle di Antares. Mi ha messa a dura prova e sono stata costretta a ricorrere al nostro legame per evitare di affondare.”
 
“Ti ho sentita. Quindi la bambina che ho visto…”
 
“È lei.”
 
“Se ne stai parlando al presente, suppongo sia viva.”
 
“Lo è” confermò Anthea “Adesso è al sicuro ad Asgard, vicino a chi può aiutarla” sorrise tristemente “Sono stata lì anche io…” in una specie di coma da cui sono uscita per miracolo “…e mi hanno aiutata a rimettermi in sesto” a rimettere insieme i pezzi.
 
“Ho visto cosa è successo in Canada. Lo hanno trasmesso.”
 
“Già… abbiamo distrutto la base e fatto un bel buco nel terreno.”
 
“E anche polverizzato una zona che si estende per circa un chilometro.”
 
Anthea rallentò il passo e abbassò il capo.
 
“Tutto okay?” le chiese subito Steve, preoccupato.
 
“Sì, io… secondo Andras deve essere successo qualcosa che ha fatto intrecciare le nostre energie e le cellule oneiriane del nuovo corpo di Lewis devono aver reagito.”
 
“E tu sei d’accordo con Andras?”
 
“Hai detto il suo nome senza storcere il naso. È un grande passo avanti.”
 
“Lui riesce a dire il mio senza sembrare nauseato?” ribatté il Capitano, punto sul vivo.
 
“Adesso sembra solo infastidito. Un po’ come quando un moscerino ti ronza intorno. Prima sembrava che il moscerino gli finisse dritto in gola.”
 
“Sono quasi commosso.”
 
“Fai uno sforzo. Non è così male, potrebbe perfino piacerti. Avete solo iniziato con il piede sbagliato.”
 
“Ci tieni.” Non era una domanda.
 
“A suo modo mi è stato accanto in momenti difficili e ha dimostrato che posso contare su di lui.”
 
“Mi sforzerò.” Steve era sincero.
 
Anthea fece scorrere lo sguardo sul corpicino della bambina che il compagno teneva in braccio. Le dita stringevano il tessuto della maglia nera del super soldato, all’altezza della parte anteriore delle spalle tonde. La piccola era tornata vigile e manteneva strenuamente lo sguardo sul profilo rassicurante del Capitano. Poteva capirla.
 
“C’è una cosa che devi sapere. I miei poteri hanno smesso di funzionare e… non sembri sorpreso.”
 
“Non ti ho mai vista fuggire da uno scontro e non hai ancora messo sotto sopra questo posto. All’inizio ho pensato che tutto questo fosse opera tua. Credo di averti vista…” Steve scosse il capo “non proprio tu, ma…”
 
“La me di tanti anni fa” lo anticipò.
 
“È un ricordo di Lewis? Come funziona?”
 
“Non lo so. Non lo so più.”
 
Anthea arrestò il passo. Si strinse nella candida maglia a maniche lunghe che la fasciava fino all’altezza dei fianchi e metteva in risalto l’ossatura del bacino, circondato dalla fascia aderente dei panatoli verde scuro, i quali scendevano morbidamente lungo le gambe, fino a stringersi attorno le caviglie sottili lasciate in parte scoperte. Rimase a fissare per qualche attimo i piedi, infilati in stivaletti grigiastri piatti e dall’orlo cadente. Faceva un certo effetto vestire panni oneiriani dopo mesi di permanenza terrestre. Stranamente, avevano qualcosa di confortevole.
Risollevò gli occhi e li fissò in quelli di Steve, che si era fermato a sua volta.
 
“Quando ero agli inizi della missione per riunire gli oneiriani, uno di loro mi disse che dentro di me c’era caos e che avrei dovuto lasciarli andare.”
 
“Cosa significa?”
 
“Non ne ho la più pallida idea” morsicò l’interno della guancia “È morto prima che riuscissi a chiederglielo.”
 
“Mi dispiace” Steve cercò gli occhi della compagna senza trovarli.
 
“Ogni volta che arrivo a credere di capire come funziono, succede qualcosa che demolisce ogni mia certezza. Ma sono sicura di non aver perduto il contatto con la realtà usando la suggestione e di aver ottenuto quello che volevo. Sapevo ciò che stavo facendo. Però mentre cercavo di liberare Eta, ho sentito qualcosa venire fuori da me.”
 
“E pensi che quel qualcosa si sia attaccata a Lewis?”
 
“Una cosa del genere, sì. Andras invece pensa che io sia andata oltre e che abbia danneggiato le mie connessioni neurali e quindi ora non posso usare i miei poteri finché non saranno risanate e questo richiede tempo. Ma così non sono d’aiuto e…”
 
“Mi hai appena salvato. Senza a di te sarei morto” le ricordò Steve.
 
“Stai indorando la pillola” Anthea lo urtò con una spallata leggera. “E poi prima che arrivassi, i potenziati hanno avuto tutto il tempo per fare quel bel lavoro con il tuo viso” commentò alla fine, mentre lo guardava con più attenzione.
 
“Non sono stati loro.”
 
“Ci sono altri nemici?” era confusa. Non era la risposta che si aspettava.
 
“Non proprio… sono sceso a compromessi… di nuovo” Steve scosse il capo ed evitò di guardarla per qualche attimo.
 
“Non biasimarti. Abbiamo dovuto fare delle scelte difficili in una situazione difficile.”
 
Ripresero a camminare. Sul fondo del canale che stavano percorrendo riconobbero un numeroso gruppo di persone in lontananza. C’erano quasi ormai.
 
“Anthea” la richiamò Steve “Lewis non ha il tuo potere, vero?”
 
L’oneiriana esitò.
“No, non credo… ma in qualche modo adesso sono legata a lui e se arrivassi abbastanza vicino, potrei annullare il suo influsso, dissolvere la foschia e far crollare la barriera. E c’è una buona probabilità che sciogliendo i nodi, io possa sbloccare il mio potere” era una teoria azzardata, derivante per maggior parte da sensazioni che stava provando da quando aveva messo piede lì, ma Anthea voleva crederci. Non aveva altra scelta.
 
“Ma se Andras avesse ragione, tu non recupereresti i tuoi poteri arrivando a Lewis e se lui al contrario avesse acquisito capacità simili alle tue, tu…”
 
“Non abbiamo alternative, Steve.” E questa era la più seccante ed incontestabile verità.
 
“Ma…”
 
“La mia bambina!”
 
Furono interrotti da un uomo che corse loro incontro rischiando quasi di inciampare nei propri passi malfermi. Il ricongiungimento fra padre e figlia fece sentire Anthea a disagio e distolse lo sguardo dalla commovente scena. Rimase ferma alle spalle di Steve, fuori dalla portata visiva di chiunque.
C’erano davvero troppe persone che riempivano un lungo tratto del condotto fognario, sostando su entrambi i lati del flusso di acqua torbida. La barriera di energia impediva loro di avanzare. Non c’era foschia, tuttavia il freddo era pungente e spingeva gli sfortunati malcapitati a rimanere vicini fra loro.
Si volse indietro e contemplò l’oscurità che si erano lasciati alle spalle. Una serie di sussulti accompagnati da versi sorpresi richiamò però la sua attenzione. Un uomo arrivò ad un passo da Steve e, senza troppi complimenti, lo afferrò per il collo della maglia, per poi spingerlo con poca grazia contro una delle pareti umide, strappandogli un gemito sofferente.
 
“Basta raccattare civili. Abbiamo fatto abbastanza. Adesso dobbiamo superare la fottuta barriera prima che ci trovino.”
 
“Ti conviene lasciarlo andare o tu sicuramente non la supererai.”
 
Si ritrovò gli occhi dell’uomo addosso e Anthea lo riconobbe. Non aveva mai avuto l’occasione di fare una chiacchierata con lui, a tu per tu.
Dovette riconoscerla anche lui, perché mollò la presa su Steve e gli aggiustò perfino il collo della maglia.
 
“Benson si sbagliava. Non sei morta.”
 
“Nemmeno tu. Non ancora.”
 
Brock Rumlow sollevò entrambe le mani in segno di resa. “Siamo dalla stessa parte, Rogers può confermare. E giusto perché tu lo tenga a mente, sarebbe morto lui se non fosse stato per me.”
                                   
Anthea cercò conferma direttamente da Steve, che annuì per farle capire che andava tutto bene. Quindi erano questi gli alleati. L’Hydra. Ma che diavolo era successo? Era stata via solo cinque maledettissimi giorni.
 
“Sei la strega” un tipo dall’accento strano e gli occhi chiari le aveva puntato il dito contro. Aveva il naso parecchio livido.
Notò Steve tendersi e dovette notarlo anche il suddetto tipo, perché abbassò il dito e sembrò volersi rimangiare l’appellativo usato.
 
“Preferisco Anthea, ma comunque strega è meglio di mostro” rispose la giovane per smorzare la tensione. Dopotutto, era solo l’ennesima etichetta.
 
“Georges Batroc” si presentò l’uomo, rimanendo però a debita distanza.
 
“Questo cambia tutto. Lewis ha i minuti contati e non morirò nelle fottute fogne.”
Rumlow non riuscì ad eclissare del tutto il sollievo che scaturì dalla realizzazione a cui aveva appena dato voce.
Anche Batroc fu contagiato da tale sollievo e, come lui, tutti quelli che sapevano di cosa Anthea Reyes, la strega, era in grado di fare.
 
“Mi dispiace smontare il tuo entusiasmo, ma non posso usare i miei poteri al momento.”
 
La delusione fu solo un breve intermezzo che tese i tratti del volto di Rumlow e, in un battito di ciglia, venne sostituita da un perfetto sorriso da squalo. Quell’uomo era proprio fuori di testa.
“Sei vulnerabile” le disse e serrò le dita sulla spalla sinistra di Rogers, lo fece solo per metterla alla prova “Quindi è vero che tutto questo non è opera tua.”
 
“Non lo è” la situazione non le piaceva affatto. Forse non avrebbe dovuto ammettere di essere priva del potere per cui era temuta. Era vulnerabile, Rumlow aveva ragione, ma la cosa che più temeva era che non sarebbe stata in grado di proteggere le persone che amava.
Tuttavia, Steve non sembrava preoccupato dall’approccio minaccioso di Rumlow e questo aiutò Anthea a mantenere il sangue freddo. Non voleva mostrarsi spaventata.
 
“Puoi almeno farci attraversare la barriera?” fu Batroc a chiedere.
 
Anthea scosse il capo. “Per demolire la barriera devo arrivare a Lewis e devo farlo prima che la situazione peggiori.”
 
“Può andare peggio di così?” la incalzò Brock e il silenzio di Anthea fu più che eloquente.
 
“Hai idea di dove possa essere adesso?” stavolta era stato Steve a chiedere.
 
Rumlow dedicò tutta l’attenzione al super soldato e ne studiò l’espressione. Le dita ruvide premettero con più forza sulla spalla del biondo, fino a formare dei solchi sulla pelle. Poi l’ex agente dello SHIELD scoppiò a ridere e una vena isterica rese la risata più tagliente.
“Volete tornare lassù? Siete pazzi. Vi faranno a pezzi.”
 
“Non abbiamo alternative” gli fece notare il super soldato.
 
“Finirete ammazzati, Rogers” ribatté Rumlow.
 
“Se non saremo noi ad andare da Lewis, verrà lui da noi. È solo questione di tempo.” Anthea richiamò su di sé l’attenzione e avanzò fino a fermarsi ad un passo da Rumlow. Lo guardò dritto negli occhi. “Avevo capito che non volessi morire nelle fottute fogne.”
 
“Non voglio nemmeno essere una vittima sacrificale. Ho già interpretato a lungo quel ruolo.” Rumlow ruppe il contatto con Rogers e puntò il dito contro l’oneiriana. “Quindi, ragazzina, trovati qualcun altro che abbia voglia di essere fatto a pezzi lì fuori.”
 
“Verrai comunque fatto a pezzi qui sotto” obiettò Anthea, sostenendo lo sguardo dell’uomo.
 
“State dicendo che se rimaniamo qui finiremo per morire?” intervenne un civile e la semplice domanda non fece altro che creare agitazione, intessuta di “Vi prego, fate qualcosa”, “Non voglio morire”, “Non potete lasciare che ci uccidano tutti”, “Salvate almeno i bambini” e altre suppliche che chiedevano un altruistico sacrificio.
 
“Silenzio” ruggì Rumlow “Il prossimo che fiata, giuro che lo ammazzo con le mie stesse mani” minacciò, ottenendo il silenzio richiesto nel giro di pochi secondi.
 
Anthea, in fondo, capiva. Non erano molti gli individui disposti a sacrificare la propria vita per salvare quella di altri, soprattutto se si trattava di sconosciuti. Si era detta che voleva fermare Lewis per evitare che lui continuasse a fare del male, ma questo era vero solo in parte. Voleva fermare Lewis perché si era convinta che fosse una sua responsabilità e il senso di colpa per ogni vittima mietuta non faceva altro che crescere e torturarla. Inoltre, voleva fermare Lewis perché il bastardo manipolatore aveva intenzione di fare del male alle persone che amava.
Anthea non si considerava un’eroina ed era per questo che non riusciva a giudicare Rumlow da quel punto di vista. Aveva cercato di convincerlo facendo leva sul fatto che lui stesso sarebbe stato ridotto in pezzi se non avesse agito, ma non aveva sortito l’effetto sperato.
 
“Nessuno sarà costretto a tornare lì sopra per affrontare Lewis” fu Steve a rompere il silenzio teso “Ma da solo ho poche possibilità di farcela e non c’è altro modo per uscire da qui. E vorrei davvero che ci fosse un altro modo.”
Il super soldato fece una pausa e incrociò lo sguardo di Brock, che stranamente era rimasto in silenzio e non sembrava sul punto di saltargli alla gola.
“Hai ragione, Rumlow. La probabilità di finire ammazzati è alta. Sarebbe da ipocrita affermare il contrario e non è mia intenzione sacrificare nessuno. Sono già morti in troppi a causa delle azioni di Lewis.”
 
Il prezzo della libertà è alto. Lo è sempre stato. Dico bene?” Brock incrociò le braccia al petto.
 
Ed è un prezzo che io sono disposto a pagare. E se sarò il solo, allora così sia” concluse Steve e stirò la bocca in un mezzo sorriso di intesa, nonostante Rumlow non avesse nascosto il sarcasmo nel ripetere quelle famose parole.
 
Ma scommetto che non lo sarò.
 
“Hai almeno un piano per affrontare i potenziati? Senza contare quel mostro enorme” intervenne Batroc, totalmente ignaro del significato di ciò che i suoi due temporanei alleati avevano detto. Sembrava rassegnato e al tempo stesso pronto ad affrontare qualsiasi cosa gli avrebbe permesso di uscire da lì.
 
Rumlow precedette Rogers, prendendo quest’ultimo in contropiede. “Non li affrontiamo. Evitiamo lo scontro diretto finché è possibile evitarlo.”
 
“Potremmo attirare parte dei nemici lontano da voi.” Un uomo dell’Hydra si era fatto avanti.
Anthea notò una brutta cicatrice che gli spuntava dal collo della maglia e che probabilmente andava a solcare la clavicola. Doveva aver rischiato un taglio netto sulla giugulare.
 
“Dividendoci in più gruppi potremmo riuscire a disperderli e a guadagnare tempo utile” stavolta era stata una donna a prendere la parola. Gli occhi allungati avevano un taglio deciso, seppur ammorbidito dai segni della stanchezza.
 
Adesso Anthea era confusa. Stavano offrendo loro aiuto? Cosa era cambiato così di colpo?
 
“Si potrebbe fare, ma non dovrete ingaggiare e dovrete evitare in tutti i modi di attirarli qui sotto” Steve si mosse e superò Rumlow “E chiunque di voi sia ferito o senta di essere al limite, rimarrà qui con i civili. Niente rischi inutili.”
 
“Tu sai dov’è Lewis, giusto?” domandò Batroc ad una Anthea ancora parecchio confusa.
 
“Non precisamente, ma la sorgente dell’energia è all’interno del grosso edificio che…”
 
“Il centro commerciale. Ci sono degli ingressi fognari lì vicino. Possiamo usare quelli” Rumlow si era rivolto a Rogers, che assunse quell’aria riflessiva in grado di spingere chi gli stava intorno a rimanere in silenzio, in attesa.
 
“Se ce la giochiamo bene, possiamo arrivare dentro il centro commerciale senza troppe difficoltà. Ma è difficile prevedere cosa troveremo una volta entrati.”
Rogers spostò lo sguardo da Rumlow ad Anthea e lei si sforzò di mostrargli un mezzo sorriso, accompagnato da un cenno del capo.
 
“Vorrà dire che improvviseremo. È il tuo forte, no?” Brock lasciò una pacca decisa sulla schiena di Steve e passò oltre. “Diamoci una mossa prima che mi si congeli il culo” concluse poco elegantemente.
 
Suo malgrado, Anthea si trovò d’accordo con Rumlow. Faceva freddo e avrebbe fatto sempre più freddo.
La giovane portò il palmo della mano destra sull’addome e mentre la sensazione di andare in pezzi iniziava a riemergere dall’assopimento, si armò della migliore falsa espressione del proprio repertorio e raccolse a piene mani una sicurezza talmente effimera da sembrare inesistente. Ma era tutto ciò che aveva e doveva farselo bastare.
E li ignorò, quei sussurri ancora lontani che sibilavano parole che non voleva comprendere.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Due anni prima
Asgard

 
 
“È fuori controllo e questo la rende pericolosa.”
 
“Il seme non è caduto lontano dall’albero.”
 
“Deve essere fermata.”
 
“Lei ci ha aiutati, Antares, e può proteggerci. Dobbiamo solo guidarla affinché possa diventare ciò di cui questo popolo ha bisogno.”
 
“Ma lei non vuole essere guidata. È una mina vagante.”
 
“È giovane e nessuno le ha mai insegnato.”
 
“Porterà distruzione, proprio come suo padre.”
 
Stanco di sentire litigare gli anziani del Consiglio, Andras abbandonò la grande e sontuosa sala, inoltrandosi nei corridoi del palazzo. Raggiunse la sala della meditazione, dove il soggetto della discussione si era rifugiato, lontano da qualsiasi stimolo che avrebbe potuto ledere il labile equilibrio di cui disponeva. Davanti alle porte ancora serrate trovò Damastis, in silenziosa attesa.
 
“Non ha ancora recuperato il controllo?”
 
L’anziano scosse il capo “Ha bisogno di tempo” le iridi brillavano d’oro, segno che stava ancora impedendo a forze pericolose di oltrepassare le porte chiuse.
 
Lei aveva perso il controllo. Dei mutaforma si erano infiltrati fra gli oneiriani recuperati su un pianeta ostile e avevano tentato di impadronirsi del villaggio in crescita. Se ne erano accorti troppo tardi, la situazione era degenerata troppo in fretta e la reazione della giovane oneiriana era stata estrema, tanto che lui era rimasto a guardare incredulo, incapace di intervenire. I mutaforma erano stati fatti a pezzi con una violenza che lo aveva quasi spaventato. Fiamme innaturali ne avevano divorato i pezzi e non si erano fermate. Se Damastis non fosse intervenuto in tempo, il villaggio sarebbe stato ridotto ad un cumulo di cenere. Non ricordava di aver mai assistito ad un fenomeno del genere e persino Damastis aveva faticato a reagire con la prontezza che lo contraddistingueva, nonostante l’età.
Di colpo, le iridi di Damastis smisero di brillare e le porte della sala di meditazione si aprirono lentamente, mostrando il profilo della fatiscente figura dell’oneiriana. Andras rabbrividì, pizzicato da un gelido soffio sulla pelle. Cercò lo sguardo della giovane e le iridi ingrigite gli sfuggirono. La squadrò con più attenzione. La maglia aderente, costituita da piccole squame nere, la cui forma ricordava lacrime rovesciate, metteva in risalto le ossa del costato e del bacino. Sembrava essere stata prosciugata dal suo stesso potere. Non aveva mai visto un oneiriano subire tante ripercussioni a causa dell’utilizzo del proprio potere. Forse la parte umana aveva intaccato la capacità di armonizzare il fisico con il potere e il potere di Anthea era strano, fuori dalle righe.
 
“Che cos’era quello?” Andras non fu in grado di trattenersi, perché davvero non riusciva a capire – non riusciva a capirla. E ciò che non si comprende, spesso è temuto, per questo gli anziani del Consiglio stavano già correndo ai ripari.
 
“Loro sono…” fu poco più di un sussurro quello che venne fuori dalle labbra screpolate della giovane.
 
“Sotto le migliori cure” si intromise Damastis, mentre si avvicinava a lei senza timore.
 
“Voglio vederli. Se posso aiutare…”
 
“Lascia che siano i curatori ad occuparsene” cercò di convincerla l’anziano. Una battaglia persa in partenza.
 
“Portami da loro” lei fu categorica.
 
Così Damastis le fece strada e Andras decise di unirsi a loro senza un perché preciso. Sapeva solo di essere preoccupato, ma non sapeva ancora per cosa – o per chi.
Quando raggiunsero la grande sala vuota che era stata adibita ad una specie di infermeria, la situazione che si presentò loro non aiutò a far calare la tensione. La madre dai capelli bruni teneva in braccio il suo neonato singhiozzante e il cui viso era arrossato e rigato di lacrime. Era stravolta e sussurrava preghiere dolenti. Il suo amato compagno, il guerriero biondo che l’aveva protetta dai mutaforma, giaceva disteso a terra, circondato da quattro curatori esperti, i più potenti di cui disponevano. Uno squarcio profondo gli aveva aperto il petto e si intravedevano le ossa della gabbia toracica. Era cosciente e i suoi lamenti di dolore erano strazianti.
Uno dei curatori, un’oneiriana dall’innegabile bellezza, sembrava aver preso in mano le redini della situazione e il suo potere – così caldo e denso – stava ricostruendo tessuti, riparando organi e strappando alla morte un’anima che ancora non era pronta a lasciare il mondo dei vivi e che stava lottando per rimanerci.
Poco lontano dal guerriero ferito, giaceva disteso un oneiriano più anziano, che stava coprendo con la mano il buco che gli trapassava il petto ossuto. Nessuno gli stava prestando aiuto e Anthea corse da lui. La giovane si inginocchiò al suo fianco e Andras si chiese se fosse una buona idea lasciarla fare.
 
“Aiuta lui” sussurrò l’anziano “Io sono alla fine del viaggio.”
 
“No, nessuno morirà oggi” Anthea posò entrambe le mani su quella dell’anziano e Andras riuscì a percepire il suo potere vibrare con discontinuità. Era completamente diverso dal potere emanato dalla potente curatrice.
 
“C’è così tanto caos dentro di te, giovane guerriera” l’anziano riprese fiato con estrema fatica “Devi lasciarli andare o ti consumeranno.”
 
“Io sto bene e starai bene anche tu” insistette Anthea e intensificò il flusso di energia che la abbandonava, in modo da pervadere l’anziano.
 
“Non puoi ricominciare, né cambiare ciò che è stato. Puoi solo andare avanti” le sussurrò l’oneiriano con un filo di voce tremula. “Prenditi cura di loro” furono le ultime parole che pronunciò, prima di lasciarsi andare.
 
“No… no…” Anthea sembrava disperata e diventava sempre più pallida e debole. Fini rivoli di sangue le stavano colando dagli occhi, dal naso e dalle orecchie.
 
“Anthea, fermati. Lui…”
 
“Posso farcela.”
 
L’anziano aveva chiuso gli occhi e non c’era sofferenza nella sua espressione. Era in pace.
Andras poggiò la mano sulla spalla della giovane. “È andato. Fermati” le chiese ancora, con più convinzione.
 
“Posso farcela” ripeté lei, alla stregua di un automa.
 
Allora Andras la afferrò per un braccio e la tirò su con forza, evitando di pensare alla violenta reazione che lei avrebbe potuto avere – e che per sua fortuna non ebbe. La giovane non reagì, né oppose alcun tipo di resistenza.
Le prese il viso fra le mani e si ritrovò a fissare le iridi ingrigite. “Devi lasciarlo andare” le disse.
 
“Così sarà solo un altro dei tanti…”
 
Andras aggrottò la fronte. Stava per chiederle spiegazioni, ma la giovane sfuggì alla sua presa e indietreggiò per ripristinare le distanze. La loro attenzione fu poi richiamata altrove.
 
“Non vi fermate, ci siamo quasi” la guaritrice stava facendo ricorso a tutto il suo potere ed era straordinario il modo in cui riusciva a rigenerare ciò che era stato distrutto. La ferita del giovane padre era stata ridotta ormai ad un taglio superficiale e lui aveva ripreso colore. Ce l’avrebbe fatta.
 
Andras voltò il capo per cercare lo sguardo di Anthea. Solo che lei non c’era più.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Presente
 
 
Mantenere il passo. Doveva mantenere il passo. Era così freddo e buio lì sotto, così claustrofobico. Una parte di lei non vedeva l’ora di tornare in superficie, nonostante la consapevolezza di ciò che li aspettava.
Steve era davanti a lei, camminava a passo spedito e non aveva idea di come riuscisse ad orientarsi in quei cunicoli che erano praticamente tutti uguali. Anthea bloccò il passo e si voltò indietro, richiamata da un sussurro stridente e incomprensibile. O forse era tutto nella sua testa.
 
“Qualcosa non va?”
 
Rumlow, subito dietro di lei, la affiancò. Anche Rogers e Batroc si fermarono. L’oneiriana scosse il capo, lo sguardo fermo su un punto indefinito nel buio. Riprese a muoversi per rompere l’impasse che lei stessa aveva creato e le dita di Steve le circondarono il braccio destro, senza però fermarla. Per lui fu un tentativo di richiamare la sua attenzione e comunicarle vicinanza.
 
“Non manca molto” il super soldato mantenne la voce ferma, ma Anthea vide chiaramente la preoccupazione tendergli i tratti del viso.
 
Non poteva tirarlo fuori da lì, non senza prima mettere a repentaglio la sua vita, di nuovo. Se solo fosse riuscita a sbloccare il suo potere, avrebbe spazzato via Lewis senza nemmeno concedergli il tempo di rendersene conto.
Non poteva proteggere il suo compagno e lui sarebbe stato costretto a proteggere lei. Questo pensiero le rendeva difficile respirare.
 
“Ci siamo” riferì il Capitano.
 
Maniglie metalliche erano incastrate nella parete del tunnel a formare una rozza scala che portava ad una delle uscite fognarie.
Steve si arrampicò fino in cima e sfruttò l’udito fine per accertarsi – con buona probabilità – che fuori non ci fossero nemici ad attenderli. Si voltò indietro e Anthea vide Rumlow fare un cenno di assenso con il capo per poi avvicinarsi anche lui alla scala. L’uomo salì alcuni gradini, finché non riuscì ad afferrare Rogers per la cintura dei cargo, mentre con l’altra mano si teneva saldamente alla scala. In questo modo, il Capitano fu in grado di utilizzare entrambe le mani per forzare il tombino e spostarlo con cautela, senza farlo strisciare rumorosamente sull’asfalto. Rumlow mollò la presa e Rogers si spinse all’esterno.
 
“Via libera” riferì poco dopo il super soldato.
 
Anche Rumlow e Batroc raggiunsero l’esterno. Anthea li seguì a ruota e trovò la mano tesa di Steve ad attenderla, così la afferrò per permettergli di tirarla su.
 
“Adesso aspettiamo” decretò Batroc, acquattato vicino al tombino, pronto a rinfilarsi dentro al minimo accenno di seria minaccia.
 
Avevano raggiunto il retro del centro commerciale ed erano nuovamente immersi nella foschia più densa. Suoni, movimenti, sensi, persino i loro respiri, tutto era ovattato, come se fossero sott’acqua, schiacciati da una pressione soffocante. Il freddo persistente graffiava la pelle e pizzicava il naso.
Anthea si costrinse a ripristinare la concentrazione. Ora sentiva la connessione, quel subdolo nodo che si era formato cinque giorni prima.
 
Lewis non era lontano.
 
Rimasero in attesa, finché gli allarmi squillanti di molteplici auto ruppero il silenzio. La nebbia si tinse di rosso, quando segnalatori di posizione si innalzarono verso l’alto, accompagnati da scie luminose.
 
“Adesso o mai più. Muoviamoci.” L’esortazione di Rumlow spinse gli altri a muoversi.
 
 
Il centro commerciale era un grande edificio moderno e luminoso, con pareti in vetro che riflettevano la luce del sole. L’ingresso principale era un atrio spazioso e accogliente, con pavimenti in marmo e piante verdi in vaso. Era costituito da tre piani. Al piano terra c’era una grande area food court, con una vasta scelta di ristoranti e fast food di ogni tipo. C’era un’ampia varietà di cucine, come l’asiatica, l’amata cucina italiana, la tipica americana, quella messicana e non solo. I clienti potevano prendere posto ai tavoli sistemati all’interno e appena fuori dai locali, oppure potevano prendere il cibo da asporto e gustarlo mentre camminavano tra i negozi. Al primo piano c’erano principalmente negozi di abbigliamento, accessori e profumerie, oltre che alcuni negozi dedicati all’arredamento. Qui si potevano trovare le ultime tendenze della moda, da marchi di lusso a brand più accessibili, adatti ad ogni tipo di budget. Infine, al secondo piano c’era una vasta area dedicata ai servizi e si potevano trovare banche, uffici postali, agenzie di viaggio e persino servizi medici. C’era anche una grande sala giochi che accoglieva i bambini, mentre i genitori svolgevano le loro commissioni. Inoltre, nel centro commerciale c’erano anche librerie e negozi di elettronica, di articoli sportivi e di giocattoli. Ogni negozio aveva un’illuminazione calda e accogliente, con scaffali ben organizzati e vetrine colorate, che attiravano gli sguardi dei passanti e invitavano ad entrare.
Il centro commerciale era molto frequentato, specialmente nei weekend, quando famiglie e gruppi di amici lo riempivano di vita e allegria. Era un posto perfetto per fare shopping, mangiare e trascorrere del tempo in compagnia. Tuttavia, una tale descrizione era molto lontana dalla realtà attuale, una realtà grigia e fredda, spaventosa. Era l’ultimo posto che una famiglia avrebbe frequentato, dato che aveva assunto le fattezze di un rudere abbandonato e abitato da mostri.
Raggiungere l’ingresso del centro commerciale non fu difficile e non incontrarono ostacoli. All’interno, la foschia era più rada, ma la penombra intaccava comunque la visibilità e dovettero far ricorso alle torce.
 
“E adesso?” Rumlow arrestò il passo.
 
Anthea puntò l’indice destro verso l’alto “Saliamo.”
 
A causa del blackout totale che c’era stato nell’area sotto la cupola, la scala mobile non era in funzione. Allora, la risalirono in silenzio, attenti a captare qualsiasi rumore o movimento. Una volta in cima, Anthea ebbe la sensazione che i polmoni si fossero inspessiti e respirare divenne più complicato di quanto già non lo fosse. Le faceva male il petto – bruciava – e ce la mise tutta per mantenere il controllo del suo stesso corpo.
Le intangibili ombre scure iniziarono a materializzarsi, una dopo l’altra. Erano squarci nella nebbia, macchie nere che tremolavano come vecchi fotogrammi sul vaporoso manto.
 
“Dobbiamo preoccuparci?” Batroc si accostò al gruppo in modo del tutto istintivo.
 
“Di quelli sì” Steve aveva rivolto l’attenzione a figure dai contorni definiti, comparse in prossimità dell’ingresso del piano terra. Quelli erano nemici reali e pericolosi. Potenziati pronti a farli a pezzi.
 
“Cazzo” esalò Batroc “Giusto in caso… qual è la nostra strategia d’uscita?”
 
“Avevamo a malapena una strategia di ingresso” Steve lanciò al mercenario un’occhiata desolata.
 
“Moriremo tutti.”
 
“Da quando sei così pessimista, Batroc?” Rumlow si affacciò dal parapetto del primo piano “Non sono molti. Forse quattro o cinque al massimo.”
 
Batroc si lasciò scappare una mezza risata tesa. “Non sono pessimista, solo realista” indicò il parapetto circolare del secondo piano. “Ce ne sono altri che scendono.”
 
I potenziati in questione avevano volti grigi e apatici, che li facevano assomigliare a cadaveri ben conservati. Erano diversi da quelli che finivano per esplodere e molto diversi da quelli che conservavano tratti più umani. Non erano affatto una bella visione e la sola emozione conservata era l’esigenza di soddisfare i desideri di colui che li aveva creati – o distrutti, a seconda del punto di vista.
 
“Possiamo aggirarli?” Rumlow si guardò intorno, in cerca di una strada alternativa allo scontro frontale.
 
“Via le torce. Facciamo perdere le nostre tracce” Rogers memorizzò la posizione dei nemici e poi afferrò il polso sinistro di Anthea. “Stammi vicino” le disse e riprese fiato, nonostante fosse fermo, non avesse corso né tantomeno lottato.
 
“Quindi ci nascondiamo?” Batroc era sorpreso, anche se la proposta non gli dispiaceva. Nonostante il temperamento mostrato per la maggior parte del tempo, l’idea di gettarsi in una lotta contro mostri dalla forza sovraumana e con lo svantaggio di essere in minoranza numerica non lo faceva impazzire di gioia.
 
“Se hai un’idea migliore…” lo incalzò Steve.
 
“No” il mercenario spense la torcia e Brock lo imitò.
 
Si mossero tutti insieme, rimanendo abbastanza vicini da potersi sfiorare. Potevano sentire i passi dei nemici che si avvicinavano, ma stavolta per vincere non avrebbero dovuto lottare. Avrebbero solo dovuto essere maledettamente bravi a giocare a nascondino.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Che diavolo è? Lo avete visto?”
 
“Eccone un altro!”
 
All’interno della cupola stava accadendo qualcosa. In diversi punti, la foschia si era tinta di un rosso luminoso. Il fenomeno andò avanti per qualche minuto, prima di cessare. Poi, tutto tornò silente e grigio.
 
“Dici che è un buon segno?”
 
“Non ne ho idea, Wilson. Però forse riusciremo a scoprirlo” fu la risposta di Stark, che aveva trafficato con Jarvis dal momento in cui aveva capito che penetrare la barriera poteva essere considerata – per ora – una sfida persa.
 
“Che intendi dire?” Barnes si era quasi illuminato e aveva rubato a Sam le parole di bocca.
 
“Se va come dico io” c’era una certa sicurezza nella premessa che Tony aveva fatto “Riuscirò a ripristinare l’energia all’interno della cupola e quindi anche le comunicazioni, così…”
 
“Sapremo finalmente cosa sta accadendo” concluse Sam.
 
“E spero vorrete condividerlo con me.”
 
In quel momento, Tony indossava l’elmetto. Tuttavia, non fu affatto difficile immaginare l’ampia rotazione degli occhi che precedette il fintamente cordiale “Segretario, aspettavamo proprio lei” che gli propinò senza troppi complimenti.
 
“È lì dentro che si nasconde Rogers? Tutto questo è opera della Reyes?” attaccò Ross, ignorando le vibrazioni poco rassicurati provenienti dagli Avengers nei paraggi.
 
Certo. Sicuramente hanno eretto questa cosa per non dare nell’occhio e nascondersi da lei” Stark non gli dedicò nemmeno mezzo sguardo mentre gli sputava addosso sarcasmo pungente. “Non ci intralci, Ross” e il sarcasmo fu surclassato da una serietà minacciosa.
 
“Non vi intralcerò se collaborerete e mi terrete aggiornato. Questa emergenza è sotto la mia giurisdizione e non siete autorizzati a…”
 
“Non ci intralci, Ross” ripeté Stark per la seconda e ultima volta, prima di spiccare il volo.
 
E Ross non poté fare altro che ingoiare il rospo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Si stavano muovendo fra alti scaffali pieni zeppi di prodotti d’arredo. Si erano allontanati parecchio dalle scale mobili. Rumlow era in testa al gruppo e avanzava con cautela. I nemici non erano lontani, potevano ancora sentirne i movimenti provenienti da più direzioni.
Brock provò ad avanzare ancora, ma una stretta decisa sul braccio lo bloccò suo posto. Storse il naso, senza però dire o fare niente che li avrebbe compromessi tutti. Attese che le dita di Rogers lo lasciassero andare e questo accadde poco dopo che uno dei potenziati transitò davanti al negozio in cui si erano rifugiati. Allora procedettero, un passo alla volta, controllando persino il respiro.
Anthea teneva fra le dita un pezzo di tessuto della maglia di Steve, che camminava davanti a lei. Le vibrazioni che scuotevano l’aria erano più forti, stordenti, tanto da darle la sensazione che tutto attorno a lei girasse. Aveva bisogno di un punto fermo che le permettesse di rimanere lucida e vigile. Un tocco fortuito sulla schiena la fece tendere, ricordandole la presenza di Batroc proprio dietro di lei. La situazione in cui erano finiti faceva talmente schifo che persino il problema della fiducia era stato messo da parte. Avrebbero potuto ritrovarsi un pugnale infilato fra le scapole in qualunque momento, eppure non se ne preoccupavano.
 
Aveva un grande potere la disperazione.
 
Uscirono dal negozio e il salone del secondo piano apparve loro come un’area di guerra priva di difese, nella quale erano maggiormente scoperti.
Dopo quello che parve un tempo infinito, Brock si infilò all’interno di un altro negozio e l’odore di cioccolato gli solleticò le narici. Scivolarono dietro il bancone e si sedettero a terra, con le spalle appoggiate ad esso. Rimasero in silenzio, immobili, attenti a captare il minimo segno di pericolo. Rumlow diede di gomito a Rogers, due colpi netti, e da seduto si spinse carponi. Steve fece lo stesso e allora anche Anthea e Batroc li imitarono. Il super soldato allungò un braccio e toccò la spalla di Brock, che attivò un piccolo dispositivo stretto nella mano destra. L’istante dopo, un suono simile ad un allarme antincendio ruppe il silenzio spettrale e seguirono movimenti concitati, passi rapidi che impattavano sul pavimento piastrellato.
 
“Cinque secondi” avvisò Rogers.
 
Il tempo che in modo approssimato avrebbero impiegato la maggior parte dei potenziati a raggiungere il punto in cui avevano piazzato quella specie di allarme, un diversivo semplice ma efficace. E il punto scelto era il più lontano possibile dalle scale mobili che li avrebbero condotti al piano superiore.
Cinque secondi e scattarono. Corsero senza preoccuparsi di nascondere la loro presenza, sperando che l’espediente avesse portato tutti i nemici lontano da loro e che il buio e la foschia continuassero a rendere più difficile la possibilità di essere individuati. Solo che furono bombardati da flash luminosi che li accecarono per qualche istante, tanto che finirono per rallentare il passo.
 
“Stiamo scherzando? Proprio adesso doveva finire il blackout?” sbottò Rumlow.
 
Il centro commerciale si era letteralmente illuminato a giorno e perfino la fontana al centro del piano terra aveva iniziato a zampillare acqua con entusiasmo.
 
“Continuate a correre, ci siamo quasi” li esortò Rogers.
 
Erano vicini, pochi metri li separavano dalla scala mobile tornata in funzione e che esplose prima che potessero salirvi, finendo in mille pezzi giù al piano terra, sotto le loro espressioni sbigottite.
 
“Secondo round, Captain America?”
 
Una scarica elettrica risalì l’intera colonna spinale di Steve. Alla loro destra si stava avvicinando un gruppo di soli cinque individui umani.
 
“Sono loro quelli che ti hanno fatto il culo?” fu Rumlow a chiedere.
 
“Non mi hanno fatto il culo” dissentì Rogers, con una nota alquanto risentita nella voce.
 
Alle loro spalle si stavano intanto avvicinando i potenziati. Si erano accorti del sotterfugio con cui erano riusciti ad allontanarli, solo che a quel punto loro avrebbero già dovuto essere al piano di sopra.
 
“Non ce la faremo, Rogers.” Lo sconforto era un altro sentimento che su Rumlow stonava parecchio e Steve, suo malgrado, non fu in grado di replicare.
 
“Un piano. Manca solo un piano” Anthea attirò su di sé l’attenzione “Se dissolviamo la barriera, apriremo la strada ai rinforzi. Solo un piano.”
 
Se quello era il capolinea, almeno avrebbero fatto in modo di vendere cara la pelle.
 
“Solo un piano” ripeté Steve e osservò la distanza che li separava dal parapetto del secondo piano.
Afferrò Anthea per un braccio e la tirò a sé nel momento in cui i nemici presero ad avvicinarsi a passo di carica. “Seguimi. Ti spingo sopra.”
 
“Cosa… come? Aspetta!”
 
Anthea si ritrovò a seguire Steve in una corsa che si allontanava dalle scale mobili ormai distrutte. Un’esplosione alle loro spalle la fece voltare indietro per un attimo e vide il gruppo di mostri sprofondare in un buco aperto nel pavimento, giù al piano terra. Rumlow teneva ancora in mano la chiave della bomba a mano e aveva appena fatto guadagnare loro tempo.
Steve lasciò indietro Anthea di diversi metri, solo per potersi fermare di colpo e voltarsi verso di lei. Le fece un cenno del capo e, a quel punto, l’oneiriana capì. Lui voleva spingerla – spingerla letteralmente – oltre il parapetto del secondo piano.
La giovane si concentrò sulle mani che il compagno aveva posizionato a coppa dinanzi a lui e dove lei avrebbe dovuto mettere il piede d’appoggio per il salto – sarebbe stato un bel salto. Il campo visivo periferico registrò l’ingresso rapido di una presenza proveniente dalla sua destra e questo la fece esitare.
 
“Attento!” l’avvertimento arrivò tardi.
 
Fu un placcaggio violento quello che Markov riuscì ad eseguire su Rogers. I loro corpi si schiantarono sul pavimento e vi scivolarono per diversi metri, mentre tentavano di prendere il sopravvento l’uno sull’altro.
Anthea fece per raggiungerli, ma il suo l’intervento fu bloccato da Schneider. La giovane provò a scartarlo e il colosso si dimostrò più veloce del previsto. Con un calcio frontale contro il petto, la spedì all’interno di un negozio pieno di abiti bianchi, facendola passare direttamente dalla vetrinetta, la quale finì in mille pezzi. Anthea si rialzò in piedi ed estrasse qualche scheggia di vetro dai palmi delle mani e dalle braccia. Chiazze vermiglie si stavano allargando sul tessuto candido della maglia. Una scarica elettrica le percorse la spina dorsale e le pizzicò la base della nuca. Il colosso stava arrivando e il ghigno affilato che le stava rivolgendo non sembrava affatto un buon presagio e in quel momento lei faticava persino a pensare.
 
“Devono essere disperati se hanno chiesto aiuto persino ad una ragazzina così gracilina.”
 
Il commento poco lusinghiero la fece scattare. Odiava sentirsi debole e fragile.
La giovane si abbassò per evitare il gancio sinistro dell’uomo e si lanciò letteralmente contro di lui, con l’intenzione di spingerlo a terra. Solo che Schneider non si spostò di un centimetro e, in un battito di ciglia, Anthea finì aggrovigliata fra stoffe candide e veli semitrasparenti. Il soldato non le concesse pause ed era già pronto ad infierire di nuovo su di lei. D’istinto, l’oneiriana sollevò il braccio, mentre richiamava la concentrazione.
 
“Cos’è? Mi stai chiedendo una pausa, ragazzina?”
 
Anthea abbassò il braccio e sospirò in modo dolente. “Ritieniti fortunato. Non è un buon momento per me.”
 
“No, di certo non è un buon momento per te” rincarò Schneider e si sporse verso di lei.
 
L’oneiriana fece un paio di passi indietro e finì per scontrarsi con un manichino vestito di tutto punto e che pensò di usare come arma improvvisata. Glielo lanciò contro, come escamotage per distrarlo abbastanza da potergli scivolare fra le gambe, tornare in piedi e correre fuori dal negozio. Tuttavia, la strada le fu sbarrata per la seconda volta da un’alta donna bionda, il cui sguardo tagliente la trapassò alla stregua di una lama.
 
La situazione non faceva che complicarsi.
 
La Smirnova fece roteare un pugnale nella mano destra. Allora, Anthea gettò un’occhiata alle proprie spalle e registrò la presenza di Schneider già fin troppo vicino. Sudore freddo le imperlò la schiena e il battito del cuore subì una brusca impennata. Odiava davvero sentirsi così debole e spacciata. Era come tornare rinchiusa in una stretta gabbia dalle sbarre spesse, incatenata al pavimento duro e freddo.
Improvvisi colpi di arma da fuoco costrinsero i due super soldati ad abbandonare la posizione di attacco e a rifugiarsi all’interno del negozio. L’oneiriana invece non si era mossa.
 
“Trova il modo di salire lassù, strega” le gridò Rumlow, impegnato a tenere a bada Abell, non senza una evidente difficoltà.
 
Brock si era beccato una ginocchiata nello stomaco per aiutarla e perciò Anthea sorvolò sull’appellativo che le aveva affibbiato. Poco distante, Batroc era alle prese con Jian e anche il mercenario era in seria difficoltà. Erano tutti troppo stanchi per affrontare uno scontro che sarebbe stato duro pur avendo a disposizione piena forza.
L’oneiriana cercò Steve e lo trovò coinvolto in un violento scontro con Markov e no, non stava andando bene nemmeno su quel fronte. Forse c’era un ascensore funzionante ora che il blackout era terminato. Si guardò intorno e individuò quella che avrebbe potuto essere la porta per accedere alla cabina. Valeva la pena tentare. Se fosse riuscita ad arrivare a Lewis e a recuperare i suoi poteri, allora…
 
“Dove scappi, ragazzina?”
 
Un altro manichino vestito di bianco stava volando verso di lei a gran velocità, come una lancia. Fu ancora una volta l’istinto a prevalere e Anthea sollevò una mano per bloccarlo, ma quello gli arrivò comunque addosso e la spinse con il sedere per terra.
 
“Dannazione, devo smetterla” la giovane si tolse di dosso il manichino, scalciando via il pesante tessuto della lunga e ampia gonna che componeva il vestito sontuoso.
 
“Aspetta, ti do una mano” si offrì Schneider e le afferrò il polso destro per tirarla su e sfilarla dal groviglio di stoffa.
 
Anthea tentò di colpirlo con la mano libera, ma anche questa finì intrappolata nella presa ferrea del colosso. Allora saltò, richiamando le ginocchia al petto, e piazzò le suole delle scarpe suo petto del nemico, che sembrò non accusare il colpo e di risposta le strinse con maggiore forza i polsi. Le sfuggì un grido addolorato quando l’osso del polso destro scricchiolò in modo preoccupante e si preparò a sentirlo spezzarsi come un ramoscello secco, ma Schneider mollò di colpo la presa. Non fu un gesto di pietà, lo fece solo per poterle afferrare la gola. La sollevò da terra e le tolse il respiro, premendo con più forza le ruvide dita ai lati della trachea.
 
Debole.
 
Quando l’aria tornò a riempirle i polmoni con violenza, Anthea era sul punto di perdere conoscenza. Riuscì a vedere Steve avventarsi su Schneider e piazzargli in faccia due diretti rapidissimi, seguiti da un gancio sulla mascella che fece barcollare il colosso. Con un calcio girato, il biondo lo atterrò, costringendolo sulle ginocchia.
Di risposta, Schneider sfilò dalla tasca un pugnale e glielo lanciò contro, ma Steve lo intercettò e lo rispedì al mittente con una rapidità ed una precisione eccelsa. La lama si conficcò nell’occhio destro e scavò in profondità, fratturando persino le ossa. Il soldato d’inverno collassò a terra con un tonfo secco e fu scosso da violente convulsioni, prima che ogni segno di vita si estinguesse.
Steve distolse lo sguardo e raggiunse Anthea, che aveva assistito alla scena senza essere in grado di muovere anche un solo muscolo. Lui aveva il viso imbrattato dal sangue che colava da una ferita riapertasi sulla tempia e la maglia si era sfilata dai cargo. C’era parecchio sangue anche in corrispondenza del fianco sinistro. Da dove avesse tirato fuori tutta quella forza era un mistero.
 
“Dietro di te” Anthea lo strattonò verso di sé.
 
Il calcio di Markov mancò di un soffio la nuca di Steve. Tuttavia, il soldato d’inverno riuscì comunque ad afferrare il biondo da dietro, finendo per bloccargli entrambe le braccia lungo i fianchi.
 
“Vai” le ordinò Rogers “Ora” aggiunse a denti stretti, mentre si dimenava per scrollarsi di dosso Markov.
 
Anthea si mosse sulle gambe molli e poco responsive. Un piano. Solo un piano e avrebbero ricevuto aiuto. E se lei avesse recuperato i poteri…
Cercò di non guardare indietro. Doveva reprimere le emozioni, cosa che le risultò alquanto impossibile quando intercettò la Smirnova estrarre il pugnale dall’occhio del corpo senza vita di Schneider e dirigersi verso Markov e il suo compagno. L’oneiriana si fermò e guardò indietro.
 
“Occhio per occhio” annunciò Darya, che nel frattempo aveva raggiunto Steve, ancora bloccato da Josef. Afferrò i capelli biondi del Capitano e lo costrinse a sollevare il mento con uno strattone secco.
 
Secco fu anche l’impatto del manichino in bianco contro la testa della Smirnova. Anthea spinse via la donna, approfittando del momentaneo stordimento. Lei però reagì troppo rapidamente e il coltello trovò carne in cui affondare. L’oneiriana fissò la punta della lama che fuoriusciva dal retro della spalla destra di Steve, in piedi davanti a lei. Con un calcio frontale, il Capitano spinse indietro Darya e sfilò il coltello dalla spalla.
Markov sopraggiunse alle spalle della donna e dallo spacco aperto sulla fronte stava uscendo parecchio sangue. Era parecchio incazzato.
 
“Arrivano!”
 
Batroc annunciò l’arrivo dei mostruosi potenziati. Erano risaliti dal piano terra e si sarebbero presto avventati su di loro alla stregua di bestie feroci. Un piano. Solo un piano. Eppure sembrava irraggiungibile.
 
“Steve” la voce dell’oneiriana tremava e il cuore martellava con una prepotenza tale da stordirla.
 
“Andrà tutto bene. Possiamo farcela.”
 
Sai che non è così. Sai che non è così. Sai che non è così.
 
E Anthea la vide. La se stessa di una vita prima, dall’altra parte del salone. Aveva ricordato com’era sentirsi persa e indifesa. Completamente persa ed indifesa. E la disperazione scottante che ne derivava riusciva ad annientarla. Aveva odiato e odiava la debole e passata versione di se stessa, tuttavia adesso iniziava a comprenderla, a sentirsi più vicina a lei.
 
“Devi andare. E non voltarti indietro stavolta. Ti copro le spalle.”
 
Steve la guardò un’ultima volta. Le sorrise e lei riconobbe nelle iridi azzurre quella scintilla in grado di farla bruciare dall’interno. Diversamente dalla se stessa del passato, non era sola e per questo non sarebbe scappata in cerca di un angolo scuro dove potersi nascondere.
 
Un piano. Un solo piano.
 
Anthea corse. Corse, ignorando la cacofonia della battaglia che si stava lasciando alle spalle, ignorando la possibilità che il nemico potesse raggiungerla, perché avrebbe significato che il suo compagno non ce l’aveva fatta. La cabina dell’ascensore era a pochi metri di distanza ormai e ci tenne attaccato lo sguardo finché non ci fu di fronte. Premette il pulsante ripetutamente e poi, non ricevendo alcun segno, forzò le porte a scorrere con tutta la forza che aveva in corpo. Della cabina non c’era traccia. Saltò all’interno della tromba e si aggrappò ad uno dei cavi d’acciaio. Fu tentata di guardare indietro, ma si costrinse ancora una volta a non farlo. Iniziò a tirarsi su, le braccia tremanti, il respiro corto e la sensazione che il cuore sarebbe esploso.
 
 
Un piano. Solo un altro piano.
 
 
Il rumore assordante di uno scoppio improvviso precedette il crollo del primo piano.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Erano al confine e ciò che c’era dall’altra parte non era bello. No, era un casino, ma Daniel era convinto che quella fosse solo la punta dell’iceberg.
 
“Vi prego, tirateci fuori da qui” era stata la preghiera della donna che per prima li aveva visti arrivare. Pallida come un cencio, si era addossata contro la barriera e altri l’avevano imitata.
 
I civili erano esausti, avevano freddo e gli abiti estivi non aiutavano a trattenere il calore. Le labbra bluastre la dicevano lunga sulla loro condizione. Gli adulti si erano riuniti in gruppi e stavano cercando di tenere al caldo i bambini tremanti.
 
“Qualcuno è in grado di dirci cosa sta succedendo?” chiese Grey.
 
L’assenza della foschia lì sotto permetteva di vedere al di là della barriera e anche i suoni riuscivano ad attraversarla.
Venne avanti un uomo che sfoggiava una vistosa cicatrice in prossimità della carotide. “SHIELD, dico bene?”
 
La scritta sulle uniformi scure era un biglietto da visita. In ogni caso, Grey annuì. “Fuori dalla barriera ci sono l’esercito e gli Avengers. Possiamo aiutarvi se ci dite cosa sta succedendo” spiegò, con calma, in modo da non creare agitazioni e dispute deleterie.
Perché avevano di fronte soldati dell’Hydra, il cui simbolo era impresso sulla spalla destra delle loro uniformi. E ce n’erano fin troppi di soldati dell’Hydra assieme a civili innocenti.
 
“Si stanno occupando della barriera. Noi abbiamo già fatto la nostra parte” fu la vaga risposta che ottenne dall’uomo.
 
“Chi se ne sta occupando?” insistette Gray. Avevano bisogno di informazioni.
 
“Steve Rogers. Ha convinto il nostro capo e Batroc a seguirlo.”
 
Steve era ancora vivo. Daniel si trattene a stento dall’esultare.
 
“Chi è il vostro capo?” continuò David, concentrato e apparentemente calmo.
 
“Brock Rumlow. Non ci ho capito molto, ma devono portare la strega da Lewis per far crollare la barriera” ammise l’uomo e il fatto che stava collaborando senza fare storie era quasi surreale. Dovevano essere disperati, era l’unica spiegazione plausibile.
 
“La strega?”
 
“La spaventosa ragazzina che sta con gli Avengers.”
 
“La Reyes è dentro” disse Grey, più a se stesso che a chi lo circondava.
 
C’era anche Anthea. Dan iniziò a recuperare la speranza che tutto sarebbe andato bene alla fine. Peccato che quella speranza fu calpestata nell’immediato, quando rumori poco rassicuranti rimbombarono all’interno del tunnel. Qualcuno si stava avvicinando e l’agitazione crebbe velocemente fra i civili.
Fu allora che Daniel assistette a qualcosa di incredibile. I soldati dell’Hydra imbracciarono le armi e si portarono davanti ai civili.
 
“Sapete cosa fare” l’uomo che aveva parlato con loro iniziò ad avanzare lungo il condotto e altri lo seguirono.
 
Stavano davvero cercando di proteggere i civili?
 
Dan era incredulo, eppure sembrava proprio che le cose stessero andando così. Si chiese cosa cavolo doveva essere successo negli ultimi cinque giorni, perché adesso la cupola di fumo appariva meno assurda. Si appoggiò ad essa con entrambe le mani e aguzzò la vista, nella speranza di vedere che tipo di pericolo fosse in avvicinamento. Perse l’appoggio e sarebbe caduto faccia a terra se non avesse avuto buoni riflessi. Si raddrizzò e si accorse di avere addosso un elevato numero di sguardi increduli.
 
“Collins” lo chiamò Grey.
 
Dan eseguì un mezzo giro e rivolse l’attenzione all’agente dello SHIELD. David lo stava fissando con una espressione sbigottita dall’altra parte della barriera.
 
“Come hai fatto?”
 
“Io non ho fatto niente, lo giuro.”
 
I civili si accalcarono a ridosso della barriera nella speranza di poterla oltrepassare, ma quella era tornata ad essere impenetrabile. Dan si trovò schiacciato fra persone spaventate ed esauste. Faceva freddo e si faceva più fatica a respirare all’interno della cupola.
 
“Si avvicinano” avvisò uno dei soldati dell’Hydra.
 
Daniel avanzò a tentoni, facendosi largo fra i civili, fino a raggiungere la prima linea di difesa formata dai soldati dell’Hydra.
 
“Se li aspettiamo qui, sarà peggio. Andiamo loro incontro e cerchiamo di portarli lontano da qui.” Dan non attese una risposta e procedette in avanti.
 
“Collins, torna indietro!” cercò di richiamarlo Grey.
 
“Avvisa gli Avengers!” gli gridò di risposta Daniel. “Io starò bene.”
 
 
 
 
“Ricordi il nostro accordo?”
 
“Se la situazione si complica, mi tolgo dai piedi.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Steve riuscì a vedere Anthea arrivare all’ascensore e sperò di poterla raggiungere il prima possibile. Solo che il prima possibile non sarebbe stato presto. Doveva evitare che i nemici potessero intralciare la sua compagna, mentre lei sarebbe stata impegnata ad affrontare Lewis. Era necessario guadagnare altro tempo e creare altri diversivi.
 
E un diversivo era già pronto per essere attuato.
 
Durante la partita a nascondino, Rumlow aveva deciso di piazzare in giro per il primo piano una serie di cariche esplosive ad elevato impatto. L’idea iniziale era stata quella di fare crollare il piano una volta raggiunto il secondo. Le cose però non erano andate esattamente come previsto. C’erano davvero poche cose andate come previsto nell’ultimo lungo periodo.
 
“Rumlow!” lo chiamò a pieni polmoni, mentre schivava il diretto destro di Markov, e ottenne la sua attenzione.
 
Rumlow batté in ritirata, dirigendosi verso Batroc. C’erano dei punti che teoricamente non sarebbero venuti giù e, mentre i suoi temporanei alleati li avrebbero raggiunti, Steve avrebbe fatto in modo di attrarre quanti più nemici dove invece il collasso ci sarebbe stato.
 
Niente pedine sacrificabili. Aveva dato la sua parola.
 
Gli esplosovi si attivarono in perfetta sincronia. Il pavimento del primo piano si sgretolò sotto i suoi piedi e, nonostante tutto, Rogers sorrise a denti stretti davanti l’espressione sorpresa di Markov. Era già la seconda volta che lo trascinava a fondo con sé.
Steve non riuscì ad attutire l’impatto della rovinosa caduta, ma fu in grado di rimettersi in piedi velocemente e di evitare di finire schiacciato dai blocchi di cemento che stavano venendo giù. Nella polvere, riconobbe la nota figura di Rumlow, che si stava trascinando a gattoni. Poco vicino c’era un potenziato finito sotto le macerie. Qualcosa doveva essere andato storto. Il Capitano accelerò e spinse su entrambe le gambe per gettarsi sul suo ex supervisore, in modo da scansarlo dalla traiettoria di un grosso pezzo di pavimento seguito da un paio di scaffali. Rotolarono per qualche metro, mentre gli arti si aggrovigliavano fra loro e i capelli venivano imbiancati dalla calce.
 
“Spostati” ringhiò Rumlow, che si ritrovò con Rogers addosso, che gli respirava a pochi centimetri dalla faccia.
 
Il super soldato si spostò senza dire una parola ed entrambi si rialzarono goffamente nel modo più rapido concesso dai loro corpi ammaccati. Si diressero verso l’esterno del centro commerciale, nella speranza che il crollo avesse ridotto il numero di nemici che avrebbero dovuto tenere a bada. Tuttavia, rimpiansero presto quegli stessi nemici, perché ciò che trovarono ad attenderli era di gran lunga peggiore.
 
“Finalmente ti ho trovato.”
 
“Vattene da qui” ordinò Steve a Brock, mentre fissava l’immensa figura di Abominio, senza neppure sforzarsi di nascondere la preoccupazione.
 
“E tu cosa farai?”
 
Non c’era una effettiva possibilità di scelta. Steve non poteva permettere ai nemici di raggiungere Lewis e Anthea. Finché non avrebbe potuto raggiungerla, avrebbe almeno cercato di evitare che altri potessero arrivare a lei per fermarla.
 
“Mi guadagnerò una sconfitta onorevole” fu la sola risposta che Rogers diede a Rumlow.
 
“Così mi piaci, ragazzo” Abominio mostrò i denti affilati.
 
Il Capitano allora agì in fretta, confidando nell’effetto sorpresa. Sfilò dalla cintura di Rumlow un pugnale e si scagliò contro il gigante. Fu abbastanza rapido da evitare un manrovescio che lo avrebbe spazzato via e riuscì a saltargli sulle spalle. Si aggrappò alle strana cresta del mostro e, con un movimento che gli costò parecchio sforzo, gli infilò la lama nell’orecchio destro, strappandogli un ruggito addolorato.
Subito dopo, provò l’ebrezza di un volo che si concluse con l’impatto contro il parabrezza di una delle auto posteggiate nel parcheggio esterno del centro commerciale.
Il super soldato non fu in grado di rialzarsi subito e attese almeno di riacquistare la capacità di respirare. Il terreno vibrava, segno che le conseguenze dell’atto appena compiuto stavano arrivando e si sarebbero abbattute su di lui con immane violenza. Vide uno dei potenziali avvicinarsi ma non riuscì a raggiungerlo, perché Abominio lo prese per la testa e gliela fracassò come fosse una noce, accecato dalla rabbia. Una fine raccapricciante e c’era una elevata probabilità che fosse lui il prossimo. Steve scivolò giù dal parabrezza e tornò con i piedi per terra. Le gambe però cedettero e si accasciò sulle ginocchia.
 
Sarebbe stato doloroso farsi spappolare il cranio.
 
Una sfera metallica rotolò sotto i piedi di Abomino ed esplose, prendendolo alla sprovvista. Rogers riconobbe la figura sfocata di Rumlow saltare sulle spalle del mostro e prenderlo a gomitate direttamente sulla testa. Allora, il biondo reagì in modo automatico. Tirò su il disco metallico che chiudeva un tombino ed eseguì il movimento che ogni fibra del corpo conosceva alla perfezione. Il disco si schiantò sul ginocchio destro di Abominio e tornò indietro con una traiettoria imprecisa – non poteva di certo aspettarsi le stesse performance del suo scudo in vibranio. Steve riuscì comunque a recuperarlo e stavolta mirò al ginocchio sinistro. Ripeté più volte l’attacco da più angolazioni, mentre Rumlow cercava di non essere disarcionato.
Il ginocchio sinistro di Abominio fu il primo a cedere e il destro lo seguì a ruota. Il mostro si tolse Brock di dosso e lo utilizzò come proiettile umano contro Steve, che ne fu travolto ed entrambi finirono contro uno stand di caramelle e dolciumi portatori di carie.
 
“Cazzo” imprecò Rumlow, mentre si rialzava usando il ginocchio destro di Rogers come appoggio. “Nuova strategia?”
 
L’assenza di risposta fece voltare Brock indietro, nonostante il pericolo rappresentato da Abominio incombesse su di loro. Il Captano era ancora a terra.
 
“In piedi” Brock afferrò il braccio destro del biondo e lo tirò su. Steve aveva il fiato corto e faticava a stare sulle proprie gambe. “Datti una mossa, Steve. O finiremo male.”
 
“Attacchiamo da… entrambi i lati… mira alle gambe” gli disse il biondo, fra un respiro e l’altro.
 
“Ricevuto” Rumlow si rese conto di avere ancora le dita strette attorno al braccio del super soldato e mollò la presa, tornando a concentrarsi sullo scontro.
 
Ci provarono. Ci provarono con tutte le forze che ancora avevano in corpo. In lontananza, i mostruosi potenziati si stavano trascinando fuori dalle macerie e sarebbero tornati presto a caccia. La loro unica via di salvezza era che la barriera venisse smantellata. Persino Rumlow aveva iniziato a sperare di veder arrivare gli Avengers con uno dei loro ingressi ad effetto.
 
Al momento, l’unico obiettivo era sopravvivere mentre intrattenevano il circo degli orrori di Lewis.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Le mani le facevano male. Gocce di sangue scivolavano dal palmo al polso, finché non finivano per imbrattare la manica della maglia.
 
Andrà tutto bene.
 
Continuò a tirarsi su, lungo il cavo metallico, un po’ alla volta, sempre più in alto. Un solo piano, giusto?
 
Andrà tutto bene.
 
Una volta fuori dalla tromba dell’ascensore, non perse tempo e si fece guidare dalle vibrazioni che scuotevano l’aria. Lewis era vicino, poteva sentirlo. Faceva tremendamente freddo e c’era troppo silenzio. La foschia si diradava al suo passaggio e le ombre nascoste in essa sbiadivano.
 
Andrà tutto bene.
 
Adam era in piedi, immobile nel centro del salone. Le dava le spalle e Anthea poteva vedere i capillari sul cranio pulsare. Sembrava non essersi accorto di lei. Allora, avanzò ancora e qualcosa iniziò ad agitarsi nello stomaco. Doveva far crollare la maledetta barriera. Non era il momento di essere debole. Resta concentrata. Era ormai vicina, c’era solo una manciata di passi a separarli.
 
“Lewis.”
 
Lui si voltò di scatto e le iridi scarlatte le trapassarono l’anima. Trattenne il respiro e avanzò ancora, di un solo altro passo.
 
“Tu non puoi essere qui. Tu…” era confuso e sorpreso.
 
“Sono sopravvissuta. E…” Anthea morsicò l’interno della guancia e assaporò il sangue che fuoriuscì dalla sottile carne “Avevi ragione. Sono diventata debole e non voglio esserlo più.” Mosse un altro passo verso di lui, i cui occhi infuocati non la abbandonavano neppure per un istante. “Voglio che tu mi renda forte di nuovo.”
 
“Guardare la morte in faccia deve averti scossa, bambina.”
 
“Ho sbagliato. Non avrei mai dovuto scappare da te.” Ancora un passo e Anthea si ritrovò a fronteggiare il corpo slanciato e imponente del suo ex aguzzino.
 
Lewis sollevò un braccio e poggiò la mano dalle lunghe dita sulla guancia della giovane. “Sei sempre stata una bambina difficile. Così combattiva e testarda.”
 
“Io… io non ero in grado di comprendere. Tutto quel dolore…” Anthea abbassò lo sguardo.
 
“Non si raggiunge la perfezione senza sofferenza, bambina mia. Il dolore è potere.”
Le dita di Lewis scivolarono sotto il mento dell’oneiriana e la costrinsero a sollevare il capo, in modo che i loro occhi tornassero a specchiarsi gli uni negli altri.
 
Se la memoria fosse un intricato labirinto di corridoi con porte che si susseguono passo dopo passo, si potrebbero immaginare le porte come chiuse per la maggior parte del tempo, finché uno stimolo esterno non le apre, consentendo di accedere al ricordo conservato al suo interno. C’erano corridoi che Anthea aveva smesso di attraversare da tempo, che si rifiutava di attraversare, nonostante alcune volte si sentisse risucchiata da essi. E c’erano porte che aveva sigillato, in modo che, pur attraversando il corridoio, non sarebbe riuscita ad aprirle. Tuttavia, se si avvicinava abbastanza poteva udire lo stridio di unghie che ne grattavano la superficie. C’erano più di semplici ricordi dietro quelle porte. Lì, in piedi di fronte a Lewis, tutte le porte si spalancarono con una violenza tale da rischiare di essere scardinate e ciò che da tempo vi era richiuso venne fuori. Anthea provò le sensazioni di annegare e bruciare e finire in pezzi tutte in una sola volta.
Davanti a lei c’era Adam Lewis, il suo zelante torturatore, e aveva fottutamente paura di lui. L’aveva violentata nel corpo e nella mente. L’aveva manipolata, sfruttando ogni debolezza scovata. Era questa la verità. Aveva paura di lui, una paura che forse non aveva provato nei confronti di nessun altro. E di colpo, tornò ad essere la bambina incapace di lottare, la mocciosa che aveva preferito rifugiarsi nelle bugie che lui le aveva raccontato per anni, in modo da poterla manovrare a suo piacimento.
Per ironia della sorte, adesso lei stava cercando di manipolarlo a sua volta, mostrandosi per quella che non era e pronunciando parole in cui non credeva. Eppure, qualcosa non andava. Doveva agire ora e riprendersi ciò che le apparteneva. Così Anthea tentò di richiamare a sé il potere che Lewis aveva assorbito. Riusciva a percepirlo ed era intenso, soffocante, le apparteneva.
 
“Sono felice che tu sia qui, bambina. Io ti ho creata ed è giusto che sia io a distruggerti” le dita di Lewis si strinsero attorno la gola della giovane e strinsero. “Non ti lascerò intaccare la mia evoluzione.”
 
Adam se ne era accorto. Aveva consapevolezza del potere che gli scorreva dentro. Ed era un male.
Anthea perse il contatto con il pavimento, nel momento in cui Lewis la sollevò senza alcuno sforzo e lei si aggrappò al braccio che la teneva sospesa. Boccheggiò in cerca d’aria, ma la pressione sulla carotide era troppo forte. Anthea aveva contribuito a creare un mostro e questo sarebbe stato il suo errore più grande, forse l’ultimo che avrebbe potuto commettere.
 
“Ne è valsa la pena?” le domandò Lewis a bruciapelo “Soffrire per individui che non potranno mai capirti, che ti guarderanno sempre con diffidenza per paura. Ne è valsa la pena?”
Non voleva davvero una risposta. Quella di Lewis era una domanda retorica e la risposta era una e una soltanto. No.
“Dove sono adesso i tuoi compagni? Dov’è il tuo amato soldato?” la incalzò ancora con domande a cui lei non avrebbe risposto, così lo fece lui al suo posto. “Ti hanno usata e poi abbandonata una volta che sei diventata debole e inutile.”
 
Andrà tutto bene. Sai che non è così. Andrà tutto bene. Sai che non è così. Sai che non è così. Non è così.
 
La giovane lasciò la presa sul polso di Lewis ed entrambe le braccia finirono abbandonate lungo i fianchi, prive di forza. Non riusciva a distogliere lo sguardo dalle iridi vermiglie del mostro. Anche lei aveva terrorizzato tanto le sue vittime?
Di colpo, Adam mollò la presa e Anthea crollò sul pavimento. Non sarebbe stata in grado di rialzarsi, eppure si ritrovò in piedi, sostenuta da fili invisibili che la trasformarono in una marionetta.
 
“Che effetto fa essere dall’altra parte, bambina?”
 
I muscoli si contrassero contro la sua volontà e Anthea si lasciò sfuggire un gemito tremolante. “Basta” lo pregò suo malgrado, perché anche lei aveva un limite per il dolore che poteva sopportare. Era umana.
 
Basta. Fa’ che finisca. Ti prego. Basta. Dissolvi tutto. Voglio che tutto svanisca. Perché non finisce?
 
Anthea la vide alle spalle di Lewis. La se stessa del passato, la se stessa che aveva permesso a Lewis di fare del male a tante, troppe persone. Era alla se stessa del passato che apparteneva la voce della preghiera che aveva iniziato a fare eco nella sua testa. Ma Anthea non era più quella bambina, era più forte e non aveva più paura. Non poteva più avere paura, giusto?
 
“Ormai dovresti sapere che le suppliche non funzionano con me” le ricordò Adam e tese in avanti una mano.
 
I fili si trasformarono in catene invisibili. Tornò a sentirne il tintinnio nelle orecchie e il peso che le impediva di muoversi. In pochi attimi, era tornata al punto di partenza.
Il braccio sinistro si torse con uno scatto secco e le ossa cedettero. Le mancò il fiato, tanto che il grido di dolore le rimase incastrato in gola. Le ossa del braccio destro vibrarono e Anthea cercò lo sguardo del fantasma della piccola se stessa, i cui tratti del viso erano tesi in una smorfia difficile da interpretare. Solo allora l’oneiriana notò una figura ai piedi del fantasma. Un uomo era riversato a terra, steso sul fianco destro, in una pozza di sangue colato da uno squarcio aperto nello stomaco. Il braccio sinistro era steso in avanti e le dita rigide sfioravano la pallida guancia di un bimbo, il cui viso era imbrattato di sangue rappreso e negli occhi spalancati era rimasta impressa la più pura e viscerale paura. C’erano vite spezzate disseminate per l’intero piano.
La foschia si infittì di colpo. Le ombre scure che la abitavano assunsero consistenza e divennero sempre più numerose. Iniziarono ad emettere gorgoglii indefiniti e poi sempre più stridenti.
 
“Smettila con questo teatrino, bambina. I tuoi giochetti mentali non hanno più effetto su di me.”
 
Il braccio destro di Anthea scricchiolò ancora e le ombre gridarono all’unisono, scuotendo l’aria. L’influsso di Adam si spezzò di netto e la giovane riacquistò possesso del proprio corpo malconcio. Le figure fumose nella nebbia assunsero tratti definiti.
 
 
 
“Devi lasciarli andare.”
 
“Così sarà solo uno dei tanti…”
 
“Mentre cercavo di liberare Eta, ho sentito qualcosa venire fuori da me.”
 
 
 
“Cosa è questo?” c’era allarme nella voce di Lewis e l’istinto lo portò ad indietreggiare di qualche passo.
 
Anthea arricciò le labbra in una smorfia difficile da interpretare. Si lasciò cadere in ginocchio e la mano destra premette contro l’addome, mentre il braccio sinistro penzolava rotto contro il fianco. Scoppiò a ridere e lacrime salate scivolarono dagli occhi, rigandole le guance pallide.
 
“Mi arrendo” sussurrò la giovane oneiriana e le ombre ammutolirono di colpo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Note
 
Ringrazio tutti coloro che sono arrivati alla fine di questo ennesimo capitolo scritto in tempi biblici 😊
Ormai si va verso la fine e spero davvero di riuscire a unire tutti i puntini nel modo giusto. I versi in inglese a inizio capitolo sono tratti dal testo della canzone “My never ending nightmare” dei Citizen Soldier.
 
Un sentito abbraccio❤️
 
Ella

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Capitolo 33
*** Losing Control ***


Losing Control
 
 
 
 
 
The true soldier fights
Not because he hates what is in front of him
But because he loves what is behind him.
 
G.K. Chesterton
 
 
 
 
 
Era in ginocchio, prosciugato di ogni singola stilla di energia. Il corpo stava cedendo, le fibre muscolari non rispondevano agli stimoli con prontezza e, fra un picco di adrenalina e il successivo, dolori lancinanti lo aggredivano alla stregua di un branco di bestie feroci che affondavano i denti affilati nella carne. Gli sfuggì un rauco lamento, poi un altro – più lungo e greve – e si piegò in avanti, circondando l’addome in fiamme con le braccia. La fronte madida di sudore si appoggiò sull’asfalto e la mandibola si contrasse con un guizzo quando serrò i denti e le palpebre. Avrebbe mentito se avesse detto di non essere sul punto di piangere, anche se avrebbe faticato a identificarne l’effettiva causa scatenante. Forse era il dolore, o forse la frustrazione, oppure – più concretamente – i pesanti passi di Abominio che si avvicinava con ponderata calma, nella consapevolezza di aver vinto.
Aveva già tentato di costringersi a tornare in piedi. Ci aveva provato. Ci aveva provato davvero. Tuttavia, la forza di gravità l’aveva tenuto ancorato a terra. Aveva bisogno di riprendere fiato. Aveva bisogno di una pausa. Raddrizzò la schiena in maniera decisamente patetica, sollevando la fronte dalla strada. La mano di Abominio si poggiò sulla sua testa e il peso lo portò a credere che le vertebre del collo si sarebbero accartocciate le une sulle altre come il mantice di una fisarmonica – con la sottile differenza che il suono emesso dalle vertebre sarebbe stato raccapricciante.
 
“Una sconfitta dignitosa, Capitano. È stato divertente.”
 
Eppure, non c’era niente di dignitoso nel doversi prostrare dinanzi ad un nemico, con la certezza che quella sconfitta avrebbe finito per portare a fondo molteplici vite oltre la propria.
Rumlow era a pochi passi di distanza, seduto a terra, con la schiena che poggiava contro i resti di un’auto mezza distrutta e il capo riversato mollemente in avanti. Erano arrivati al capolinea e Steve non riusciva proprio ad accettarlo, non riusciva a concepire l’idea di fermarsi proprio adesso, non dopo tutto ciò che aveva fatto, non dopo tutti i compromessi accettati. E non quando lei stava combattendo poco lontana, senza alcuna difesa che potesse proteggerla dal mostro in cui Adam Lewis si era trasformato – fisicamente parlando, perché un mostro lo era sempre stato, ancora prima di assumerne le sembianze.
C’erano anche tutti gli innocenti che avevano coinvolto in quell’infernoNo, non poteva proprio fermarsi adesso. Anche se la forza continuava a scivolargli addosso, inafferrabile, e anche se la frustrazione gli graffiava lo stomaco, era suo dovere trovare un modo per andare avanti ancora un altro po’, almeno finché non si fosse aperto uno spiraglio per vincere la battaglia – dovevano vincerla ad ogni costo.
Probabilmente il destino dovette provare pena per lui, perché fece soffiare una lieve brezza in suo favore. Un rumore poco identificabile attirò l’attenzione di Abominio, che puntò gli occhi su un punto indefinito in lontananza. Anche Steve sollevò gli occhi e intravide qualcosa muoversi nella nebbia. Le ombre stavano avanzando in massa, tutte nella medesima direzione. Non sembrava affatto un segnale positivo, ma fu sufficiente a distrarre Abominio.
Il super soldato prese un respiro profondo, ignorando le grida del costato, e strinse i denti con una forza tale da indolenzire la mandibola contratta. Doveva muoversi. Doveva muoversi adesso. Dopotutto, non era ancora morto. Sfruttò la provvidenziale distrazione di Abominio e si sottrasse alla presa gettandosi in avanti. Eseguì una capriola che lo riportò in piedi e si infilò nel mezzo della massa di ombre vibranti. Stavolta, Steve ebbe l’impressione di avvertire il tocco di alcune di esse, come se fossero vere e proprie presenze fisiche, ma non ebbe tempo per elaborare tale cambiamento. Raggiunse Brock e se lo caricò sulla spalla destra. Un gemito roco gli diede conferma che l’ancora temporaneo alleato era vivo. A quel punto, contando sull’ennesimo picco di adrenalina, Steve tentò di mettere quanto più spazio possibile fra loro e il nemico. Aveva perso la cognizione del tempo e dello spazio, perciò corse e basta. Tuttavia, presto si rese conto che anche la foschia si stava muovendo nella stessa direzione delle ombre e di colpo la luce tenue del mattino gli ferì gli occhi.
Steve si fermò e si girò indietro. Osservò incredulo la foschia che veniva risucchiata verso il centro commerciale e la luce tiepida che prendeva gradualmente il posto del gelido grigiore.
 
Anthea. Doveva essere opera sua.
 
Sul campo di battaglia stava venendo ripristinata la visibilità, evento che permise a Steve di avere una visione più chiara della situazione ingestibile. I mostruosi potenziati erano più numerosi di quanto avesse immaginato, i soldati d’inverno non erano lontani e il problema più grosso – insormontabile – restava Abominio. Però i nemici erano adesso concentrati sullo strano fenomeno in divenire e sembravano tentati di raggiungere il centro commerciale, attorno al quale si stava concentrando la gelida foschia. Forse avevano l’ordine di tornare da Lewis in caso lui si fosse trovato in pericolo. In tal caso, questo movimento avrebbe potuto essere positivo, anche se non cambiava lo scomodo fatto che Anthea era lì ed era sola.
Un’auto spuntò fuori dalla nebbia in fase di ritirata. Gli si piantò davanti sgommando, rischiando quasi di investirlo, e Batroc si affacciò dal finestrino abbassato.
 
“Andiamo. Muovi il culo e sali.”
 
Rogers obbedì senza replicare, dato che al momento gli era difficile persino formulare pensieri che fossero coerenti e forse era panico quello che gli stava pizzicando lo stomaco. Abbandonò Rumlow sui sedili posteriori e prese posto davanti. Tornare da Anthea senza i rinforzi sarebbe stato un suicidio, ma lei era sola e forse senza le giuste difese per contrastare un attacco così massiccio. Batroc intanto aveva premuto il piede sull’acceleratore e stava puntando nella direzione opposta rispetto quella che lì avrebbe ricondotti nell’occhio del ciclone.
 
“La tua compagna forse ce l’ha fatta” convenne il mercenario.
 
“Finalmente una fottuta buona notizia” si intromise Rumlow, con voce rauca, mentre si metteva seduto al centro dei sedili posteriori.
 
“Sei ancora vivo allora” gli rispose Rogers e si voltò indietro, sporgendosi oltre lo schienale del sedile.
 
“Lo sono…” Rumlow si fermò, decidendo di non aggiungere altro. Rivolse a Rogers un’occhiata diversa da quelle assassine, o taglienti, o sarcastiche, di cui si serviva praticamente sempre. “Qual è il piano?” chiese e spostò lo sguardo sul mercenario.
 
“Non guardare me” Batroc sterzò bruscamente per evitare un’auto abbandonata “So solo che arrivato a questo punto non mi va proprio di crepare ed ero stanco di correre. Non so voi, ma inizio a sentirmi fiacco.”
 
“Devo tornare indietro” asserì Steve e si beccò un paio di occhiatacce fulminanti.
 
“Faresti prima a gettarti sotto l’auto in corsa. Sarebbe un suicidio meno doloroso” gli assicurò Batroc.
 
“Concordo” Rumlow si sporse fra i due sedili anteriori. “E poi la ragazza avrà recuperato i suoi poteri dato che la nebbia si è ritirata. Le saresti solo d’intralcio mentre fa a pezzi Lewis e tutti i suoi tirapiedi.”
 
“Ferma l’auto” ordinò il Capitano, facendo intendere di non aver prestato molta attenzione alle parole di Brock. O meglio, non la pensava allo stesso modo e non aveva intenzione di scommettere sulla vita di Anthea.
 
“Ascolta, Rogers…” fu l’approccio cauto a cui Rumlow cercò di ricorrere, con l’intenzione di far ragionare il super soldato.
 
“Fermati, Batroc. Ora.” Peccato che Steve non ne volle sapere.
 
Suo malgrado e senza capire nemmeno bene il perché, Batroc eseguì e fermò l’auto, mentre osservava il viso pallido di Rogers dallo specchietto retrovisore.
Steve aprì lo sportello e scese. I primi passi furono incerti, faticosi, eppure continuò a muoversi nella stessa direzione cui puntavano le ombre scure. Una stretta decisa attorno al braccio gli impedì di procedere e il successivo strattone lo fece ruotare su se stesso, finché non si ritrovò a fissare l’espressione dura ed esausta di Rumlow, che aveva il fiatone solo per aver percorso ad una velocità sostenuta pochi insignificanti metri.
 
“Fermati un attimo.”
 
“Non c’è tempo” Steve cercò di scrollarsi di dosso la presa di Brock, ma quest’ultimo resistette.
“Cosa vuoi adesso da me, Rumlow?” l’estenuazione era palpabile nella voce del biondo e negli occhi arrossati si era riaccesa una fioca scintilla dal chiaro sentore di minaccia, mescolato alla muta preghiera di farsi da parte senza troppe storie.
 
Le dita ruvide di Rumlow smisero di affondare nella carne e la stretta si trasformò in un contatto labile. L’uomo aprì la bocca e la richiuse, esitò sotto lo sguardo impaziente del super soldato. Infine, scosse il capo e gli occhi scuri fuggirono da quelli azzurri dinanzi a lui.
“La nostra collaborazione finisce qui” sentenziò e, solo dopo qualche attimo, si decise a guardare in faccia il dannato ragazzino che gli aveva rovinato i piani tutte le santissime volte che si erano incrociati.
 
Steve non esternò sorpresa, né tanto meno delusione. Annuì e fece un paio di passi indietro, spezzando il labile contatto rimasto con Brock. Dopotutto, erano affari dettati dal mero interesse e si estinguevano con esso. L’interesse che li aveva tenuti insieme era stato rivolto ad uccidere Adam Lewis, ma adesso si trattava di sopravvivere e, da questo punto di vista, le loro strade divergevano inesorabilmente. Nonostante ogni garanzia fosse appena stata stroncata dalla sentenza di chiusura di Rumlow, Rogers si arrischiò comunque a dargli le spalle, per rivolgersi al fatiscente centro commerciale.
 
“Ci vediamo all’inferno, ragazzo. Buona morte.”
 
Steve sollevò una mano e la mosse in segno di saluto, senza neppure voltarsi. Non era il momento di pensare ai risvolti. Non era il momento di soppesare rischi e benefici delle decisioni, né tanto meno di contemplare scenari futuri. C’era solo il presente, il qui ed ora. Era come viaggiare su una barca con una falla irreparabile, in mare aperto. Sai che affonderai, sai che il mare ti inghiottirà senza lasciarti scampo, eppure fai di tutto per rimanere a galla il più a lungo possibile. Rimanere a galla era l’unica cosa che contava. Finché rimaneva vivo, aveva ancora la possibilità di fare qualcosa.
 
 
“Apri, cazzo! Sposta quel fottuto coso!”
 
“Ci sto provando!”
 
 
Il super soldato bloccò il passo e tese le orecchie. Nonostante lo scenario apocalittico che si sciorinava dinanzi a lui, c’era silenzio, un silenzio quasi surreale, interrotto a tratti da ronzii che avevano le sembianze di sussurri distanti, o di echi che rimbalzavano sulle pareti della barriera.
 
 
“È bloccato! Non si muove!”
 
 
Rogers si girò indietro e cercò lo sguardo di Rumlow, che nel frattempo non si era mosso. Brock gli restituì un’occhiata di conferma che non ebbe bisogno di essere accompagnata da parole. Aveva sentito anche lui. Entrambi si mossero verso l’ingresso alle fogne poco distante, da cui provenivano grida dalle sfumature più diverse, insulti, proteste poco eleganti rivolte a santi più o meno famosi e colpi contro il pesante cerchio metallico che sigillava l’accesso.
Batroc, che era rimasto in attesa dal momento in cui Brock aveva abbandonato l’auto, spense il motore e rimase a guardare.
Rogers e Rumlow si piazzarono sui lati opposti dell’ingresso fognario, incastrarono le dita in modo da avere un appiglio decente con il cerchio metallico e tirarono, facendo leva sia sulle gambe sia sulle braccia. Il tappo venne su con uno schiocco secco e lo gettarono di lato, mentre dal buco scuro spuntava la testa di uno degli uomini di Rumlow – per essere più precisi, era l’uomo che sfoggiava la cicatrice lungo la clavicola. Dietro di lui erano visibili altre teste e movimenti concitati animavano l’oscurità sul fondo del canale.
 
“Sono entrati! Stanno arrivando!” gridò l’uomo, nel momento stesso in cui Rumlow lo tirò fuori dalle fogne.
 
Chi sta arrivando?” gli domandò Brock, confuso.
 
“I mostri di Lewis! Siamo riusciti a guadagnare tempo per scortare i civili, ma quei bastardi non mollano la presa!” spiegò l’uomo, indicando in basso.
 
I civili che avevano radunato con estrema fatica era tutti lì ed esitavano a tornare in superficie, nonostante non fossero più al sicuro lì sotto.
Steve si sentì totalmente perso. In un modo o nell’altro, aveva sempre reagito di fronte ad una situazione – anche dinanzi le situazioni più disperate –, aveva sempre preso una decisione sul cosa fare. Tuttavia, ora sentiva solo un vuoto, un dilagante vuoto che si allargava nel petto. Spinse lo sguardo verso il centro commerciale e poi lo spostò di nuovo sull’ingresso fognario. Incrociò lo sguardo terrorizzato di diversi civili – i civili prima di tutto, giusto? – e il vuoto non fece che crescere, scatenando un diffuso senso di nausea – i civili prima di tutto, giusto?
E così Rogers si ritrovò a riportare in superfice i civili, uno dopo l’altro, tendendo la mano e ritraendola una volta assicurata la presa sulle mani tremanti di persone che avevano bisogno di lui. Rumlow, piazzatosi sul lato opposto del tombino, aiutò il biondo senza lamentarsi durante l’intero, lento e faticoso processo di soccorso. Batroc invece era sceso dall’auto e si era avvicinato a loro, ma si stava limitando ad osservare, assorto, forse ancora impegnato a ponderare la possibilità di filarsela e pensare unicamente alla propria sopravvivenza. Il mercenario però continuò a non muoversi, segno che per qualche motivo aveva deciso di restare e di mettere da parte l’egoistico istinto di voltare loro le spalle in un momento cruciale.
Bambini, anziani, donne e uomini, civili, soldati e mercenari, furono riportati in superficie, senza fare alcuna distinzione. Tanti si commossero nel percepire il tenue calore del sole sulla pelle fredda e mai come in quel momento apprezzarono la luce del giorno, che aveva preso il posto della grigia penombra.
 
“C’è ancora qualcuno là sotto?” Steve non si rivolse a nessuno in particolare e la risposta risalì direttamente dalla fognatura.
 
“Sono vicini!” gridò una donna dell’Hydra, mentre si inerpicava su per i gradini metallici che l’avrebbero portata fuori dal condotto. Trovò ad attenderla la mano del super soldato, che la issò cercando di nascondere la stanchezza dietro una espressione neutra.
 
Altri quattro soldati seguirono la donna e, dopo essersi occupato di loro aiutato da Rumlow, Rogers si sporse ancora una volta verso il vano circolare.
Il biondo si ritrovò ad afferrare una mano sbucata di colpo dal buio, seguita da una concitato “Tirami su”, più rassomigliante ad una preghiera dai toni disperati. Il super soldato rischiò di far scivolare via la presa quando la faccia impolverata e sudata di Daniel Collins sbucò dall’oscurità del condotto fognario.
 
Il “Sei vivo!” con cui Dan lo salutò fu una specie di gridolino di sorpresa e gli occhi chiari del ragazzo divennero istantaneamente più liquidi. Riuscire a commuoversi anche in un momento simile era un talento.
 
“Tu… cosa…” Steve trovò difficoltà a districare il groviglio di pensieri che gli riempì la testa e tradurlo in parole gli risultò un’impresa impossibile.
 
“Posso spiegare” gli venne allora incontro il giovane soldato, mentre si lasciava tirare su.
 
Daniel era quasi fuori dalla fogna, la punta dello stivale sinistro era intenta a superare il bordo del vano circolare, quando lunghe dita grigiastre gli avvolsero la caviglia e lo strattonarono verso il basso con una forza disumana.
Rogers non allentò la presa sulla mano di Collins, ma la violenta azione gli sottrasse l’equilibrio, trascinandolo a terra, con i fianchi del bacino premuti contro il bordo asfaltato dell’accesso alle fognature. La stilettata di dolore che gli attraversò la spalla sinistra gli oscurò la vista per qualche istante. Venne trascinato in avanti e il bacino superò il bordo. La rovinosa caduta a picco giù per il condotto fu impedita dalla stretta decisa che si serrò attorno alle caviglie del biondo. Steve allora gettò un’occhiata alle proprie spalle e intercettò Brock subito dietro di lui.
 
“L’esplosivo è attivo! Dobbiamo allontanarci!” avvertì la donna dell’Hydra che il Capitano aveva ripescato dalle fogne solo poco prima.
 
“Quale fottuto esplosivo?!” ringhiò Rumlow, fra i denti, mentre si sforzava di rimanere in piedi e di opporsi alla forza che cercava di trascinarlo nelle condotto fognario.
 
“Tutto quello che era rimasto!” era stato l’uomo dalla clavicola sfregiata a parlare stavolta.
 
“Cazzo!” fu l’accesa risposta di Brock, ma non fu chiaro se fosse rivolta al fatto che presto parte del condotto fognario sarebbe saltato in aria, o se fosse stata causata dalla caduta repentina che lo portò disteso prono sulla strada.
 
Il cedimento di Rumlow fece finire Rogers a testa in giù nel condotto, trattenuto per le caviglie dal suo non più socio e stirato per il braccio sinistro dalla presa di Collins, il quale stava scalciando con tutte le sue forze nel tentativo di liberarsi dalla stretta dolorosa di uno dei potenziati grigiastri di Lewis. Come se ciò non bastasse, altri potenziati si stavano avvicinando a gran velocità, come un branco di zombie affamati, ed era udibile il ticchettio degli ordigni piazzati affinché il tratto di fogna divenisse la tomba di quegli stessi esseri mostruosi.
L’intervento di Batroc fu propizio e impedì a Rumlow di essere risucchiato anche lui nel tombino. L’uomo dalla clavicola sfregiata si unì all’azione, circondando i fianchi del mercenario con entrambe le braccia e impedendogli di cadere faccia avanti. Ci riuscì perché qualcun altro lo aveva afferrato a sua volta nel medesimo modo e altri si unirono all’improvvisata e decisamente disperata catena di salvataggio. Solo che le cose non migliorarono. Affatto.
Steve ebbe la forza di tirare più vicino a sé Dan e offrì il proprio braccio destro al mostro per liberare una delle gambe del ragazzo, che di risposta si aggrappò al braccio sinistro del super soldato con entrambe le mani. Nel frattempo, altri quattro potenziati erano giunti fino a loro e fecero qualcosa che li prese in contropiede.
 
“Ci imitano.” Rogers era incredulo.
 
I potenziati avevano formato a loro volta una catena e, nel momento in cui iniziarono a tirare, anche Rumlow si ritrovò testa sotto, mentre Batroc venne risucchiato per metà all’interno del condotto verticale. Diverse persone dietro il mercenario persero l’equilibrio e caddero in avanti o sulle ginocchia, ma nessuno mollò la presa. Anzi, altri si fecero avanti per supportare gli anelli della catena umana, persino civili in preda a picchi di adrenalina miscelata a quella parte di coscienza che spinge a mettere in gioco la sopravvivenza personale in favore della sopravvivenza di altri.
E forse, alla fine dei conti, la sottospecie di cameratismo che si era venuto a creare nei giorni addietro non era stato solo una mera illusione. Gli stessi nemici che avrebbero fatto di tutto per affondarti, ora stavano facendo di tutto per tenerti a galla, rischiando addirittura di affondare tutti assieme. La vita – bella stronza – sapeva essere fottutamente ironica. Almeno nella morte c’era certezza. Tuttavia, nella vita c’era un largo margine di manovra per rispondere alle giocate che lei ti piazzava di fronte – da morti non si poteva fare più niente.
 
“Abbiamo poco tempo prima che salti in aria tutto” fu l’annuncio che sovrastò la confusione.
 
Steve allungò il braccio sinistro in direzione della cinta di Daniel e riuscì ad afferrare il pugnale che spuntava da una delle tasche. Lo piantò nella mostruosa mano che teneva stretta l’altra gamba del ragazzo e non appena la presa cedette, il super soldato liberò Dan e lo lanciò verso l’alto usando un singolo braccio. A causa di tale sforzo, la spalla sinistra di Rogers emise un rumore raccapricciante, ma Collins riuscì ad arrivare fino a Batroc, il quale lasciò andare una caviglia di Rumlow per poter afferrare al volo il ragazzo. Quest’ultima mossa azzardata – parecchio azzardata – ruppe il già labile equilibrio e anche Batroc finì a penzoloni. Daniel però fu abbastanza rapido da afferrare la stessa caviglia di Rumlow che il mercenario aveva dovuto mollare.
 
“Togliti di dosso quel fottuto mostro, Rogers! Non c’è più tempo!” gridò Brock, ormai allo stremo “E voi tirateci su, dannazione!”
 
“Come se fosse semplice! Perché non ci provi tu?” ribatté Batroc, in preda alla frustrazione, alla stanchezza e al panico.
 
“Perché sono qui a dondolare a testa in giù, pezzo di idiota!” replicò allora Rumlow.
 
“Sono nella tua stessa fottuta situazione, ma sono io a tenere su il tuo fottuto culo quindi attento a quello che dici!” lo avvisò il mercenario.
 
“Prova a mollarmi e giuro che ti ammazzo!”
 
“Prima o dopo che quei mostri ti avranno fatto la festa e le cariche esplosive ridotto ad un cumulo di carne carbonizzata?”
 
“Fottiti!”
 
“Fottiti tu!”
 
“Potete piantarla e dare una mano qui?”
 
“Fottiti, Rogers!” risposero in coro i due richiamati all’ordine.
 
Nessuno lasciò la presa. Nemmeno quando le prime esplosioni in fondo al tunnel fecero tremare il terreno.
 
“Tirateci su, danna… cosa cazzo fai, ragazzino?” Rumlow scostò appena il capo per evitare che gli stivali di Collins gli arrivassero dritti in faccia. Il ragazzino si era aggrappato a lui ed era sceso più in basso, usandolo come corda, e gli sfilò senza troppi complimenti la pistola dalla fondina attorno alla coscia.
 
“Steve! A sinistra!” avvisò Dan e il  Capitano si scostò nella direzione indicata.
 
Lo sparo partì e la pallottola si piantò nella fronte del mostro con una precisione ammirevole, considerando le condizioni assolutamente sfavorevoli.
 
“Tirate ora!” fu l’ordine di Brock e fu eseguito senza esitazione.
 
Steve si ritrovò a osservare l’esplosione infuocata che percorreva il tunnel ad altissima velocità. Le fiamme ruggivano feroci, divorando l’oscurità, e il calore che le precedeva divenne sempre più intenso e soffocante.
 
“Non ancora” fu il fievole sussurro che scivolò fra le labbra secche del super soldato. Non era ancora arrivato il momento per morire.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Anni prima
 
 
Le grida sono strazianti e non cessano. Non cessano da ore e il dolore ne irradia ogni singola e percettibile nota. Ognuna di quelle note fa eco nella sua testa, è una coltellata allo stomaco seguita da una fitta nel petto. E non può fare niente affinché cessino, anche se vorrebbe, lo vorrebbe davvero.
Anthea dovrebbe essere sollevata che le grida non siano le sue – giusto? –, dovrebbe essere grata che non sia lei a soffrire adesso, che il suo carnefice sia impegnato a torturare un’altra sfortunata anima.
La sente vibrare quell’anima, la sente fratturarsi e morire, un pezzo alla volta. E lei non può fare niente, perché è immobilizzata sulla gelida superficie di un lettino metallico. Strattona i polsi stretti in morse ferree e quelli finiscono per sanguinare. Non ha paura di tranciare di netto le vene, ci ha già provato, ma il processo di guarigione agisce sempre troppo in fretta e lei non riesce ad interromperlo – non riesce a morire.
 
“Ti prego.”
 
Le preghiere non funzioneranno. Anthea lo sa, lo sa bene. Nessuno verrà a salvarli e, in ogni caso, la sfortunata anima non può più essere salvata, perché ormai si è rotta in modo irreparabile. Eppure, lei è così vicina, potrebbe raggiungere la povera anima, forse lei potrebbe persino aggiustarla. Invece, si sente impotente e la ascolta gridare, la ascolta morire.
Anthea si sforza di ruotare la tesa e l’anello che le stringe il collo le taglia la pelle, disegnando due sottili linee parallele che percorrono la gola. Spinge lo sguardo alla sua destra, finché non ha l’impressione che gli occhi stiano per schizzarle fuori dalle orbite. Ma gli occhi non schizzano fuori e, dopo pochi secondi, vorrebbe che lo facessero, perché lo sguardo finisce incastrato con quello dell’anima morente. E fa male.
La disperazione più pura e fredda che opacizza gli occhi scuri della vittima le si appiccica addosso, si insinua sotto la pelle e permea l’anima. Non riesce a distogliere lo sguardo, mentre la sofferenza della vittima la stordisce. Anthea prega – le preghiere non funzionano, ricordi? – che tutto finisca, prega che tutto diventi buio. Desidera morire e quel desiderio è forte e lo diventa sempre di più, ogni giorno – ora, minuto, secondo – che passa. Basta, fa che tutto finisca. Basta.
 
‘Non voglio morire’.
 
Tre singole parole ammutoliscono la voce soave del desiderio di morte. Anthea sa che quelle parole non le appartengono, non riconosce neppure la voce che le ha pronunciate. Vede una scintilla accendersi nelle iridi scure della vittima, che la fissa con una intensità tale da soffocarla. Trascorre qualche attimo, prima che riesca a capire che le labbra secche e spaccate della stessa vittima – l’ennesima cavia di Adam Lewis – si stanno muovendo e un sottile e tremulo filo di voce sta scivolando fra di esse.
 
“Non. Voglio. Morire”.
 
Eppure, sarebbe la soluzione più semplice. Perché non si lascia andare, nonostante tutto il dolore che sta provando? Perché si attacca così testardamente alla vita? Perché non si arrende?
 
“Non voglio morire” ripete la vittima, come se il solo volerlo possa in qualche modo strapparla dalle grinfie della morte, che ormai la tiene stretta e le soffia addosso alito freddo che spegne lentamente il calore del corpo.
 
“Non voglio morire.”
 
Quella ingenua volontà assume la forma di un mantra e diventa poi un disco rotto. Anthea inizia a trovarlo fastidioso e le monta dentro una rabbia bruciante. “Smettila” vorrebbe gridare all’anonima vittima. “Smettila di resistere, è inutile” vorrebbe dirle.
I loro sguardi sono ancora incollati l’uno all’altro, attratti da uno strano magnetismo, ed è come se riescano a comunicare emozioni senza che ci sia bisogno di parole che le esprimano. Di colpo la cantilena cambia, il disco si sblocca e riprende a girare, ma solo per piantarsi una seconda volta – forse l’ultima.
 
“Aiutami.”
 
È una richiesta, acqua fredda che spegne il fuoco della rabbia e della frustrazione, lasciandosi dietro solo fumo denso e grigio. Anthea ha sperato così tante volte che qualcuno potesse rispondere alla sua richiesta di aiuto, ci ha sperato in modo così viscerale da finire dilaniata dalla straziante delusione che ne è derivata, quando ha finito per schiantarsi contro un muro di silenzio, un silenzio freddo e spaventoso.
Sente un click che fa eco da qualche parte nel suo animo e, senza riflettere, si ritrova ad accogliere la richiesta di aiuto, affinché non rimanga inudita, inghiottita dal terrificante silenzio. Se Anthea ignorasse quella richiesta adesso, come potrebbe sperare che la sua venga udita un giorno? Come potrebbe meritare aiuto, se lei stessa si rifiutasse di prestarlo?
 
“Aiutami.”
 
Le luci al neon della sterile stanza bianca lampeggiano e il branco di carnefici si ferma. Il buio inghiotte la stanza e movimenti concitati la riempiono, accompagnati da parole effimere. Nonostante l’oscurità, Anthea riesce a vedere chiaramente la sfortunata anima che giace immobile, a pochi passi di distanza. La tocca senza toccarla davvero e la riscalda. Sono pochi fuggevoli attimi, poi la luce torna e tutto è come prima.
 
 
“Grazie…”
 
 
“È deceduto” annuncia qualcuno. “Un altro fallimento.”
 
Anthea osserva il lieve sorriso che ammorbidisce i tratti del volto esamine dell’ennesima vittima mietuta da Adam Lewis – l’ennesimo fallimento. Le palpebre sono abbassate e sembra che dorma – sembra in pace. Distoglie lo sguardo e chiude gli occhi anche lei, pensando che forse può aggrapparsi alla vita un giorno in più e lottare, in attesa che qualcuno, alla fine, risponda alla sua richiesta di aiuto. Così sotterra il desiderio di morte da qualche parte, nella profondità della sua anima.
Solleva le palpebre ed è allora che la vede. Un’ombra sbiadita che si staglia contro il soffitto e sembra viva, anche se non in quella dimensione. Poi scompare, senza lasciare traccia. Anthea si rende conto di aver trattenuto il respiro e quando separa le labbra, rimane colpita nell’osservare il fiato condensato che scivola fuori.
 
Fa freddo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Presente
 
 
“Ti detesto” Brock ebbe bisogno di una pausa per riprendere fiato “Oh quanto ti detesto, Rogers.”
 
Fumo scuro fuoriusciva dall’accesso alle fognature, formando un’alta colonna che spiraleggiava verso la sommità della barriera. Rumlow e Rogers erano ancora sdraiati a terra, sopra le crepe che l’esplosione aveva intessuto lungo la strada asfaltata. Il Capitano aveva diverse bruciature lungo le braccia e la maglia era stata mangiucchiata dalle fiamme in diversi punti, lasciando scoperta la pelle arrossata. Brock non se l’era cavata meglio e stava esprimendo il suo disappunto da quando aveva smesso di penzolare a testa in giù.
Rogers si mise seduto e, dopo aver lanciato un’occhiata al suo non più alleato, spostò lo sguardo sulle lunghe e deformi dita grigiastre che gli stringevano il braccio destro. Sospirò.
 
“Lascia che ti aiuti.”
 
Daniel si inginocchiò al fianco del super soldato e studiò per qualche istante l’arto amputato che era stato strappato via dal potenziato, poco prima che la deflagrazione li raggiungesse.
 
“Hai detto che potevi spiegare” gli ricordò Steve “Spigati, sono tutto orecchi.”
 
Nonostante le parole assomigliassero all’esordio di una ramanzina, il tono del biondo era molto lontano dall’esprimere rabbia o anche solo disappunto. Dan forzò il mignolo dell’arto amputato a sollevarsi e il dito venne su senza troppe complicazioni, così passò all’anulare.
 
“Sono tutti qui fuori. Avengers, SHIELD, esercito. Ma nessuno ha avuto la meglio sulla barriera.”
 
Finalmente l’anulare si staccò dal braccio di Steve e Daniel si dedicò subito al dito medio, evitando di sollevare lo sguardo ed incontrare quello del Capitano.
 
“Un gruppo dello SHIELD, me compreso, è sceso nelle fogne sotto indicazione di Kristen Mayers e…”
 
“La Mayers è fuori?” intervenne Rumlow, rimessosi anche lui seduto.
 
Dan annuì. “Al momento è con gli Avengers. Sta bene.”
 
“E tu come sei entrato? Chi diavolo sei tu?” lo incalzò Brock, con l’intento di distogliere l’attenzione dalla rassicurazione che aveva appena ricevuto dal ragazzo.
 
“Daniel Collins, ex agente dello SHIELD che per un po’ ti ha ammirato, ex leader della STRIKE. Comunque, la barriera ha ceduto. È stato un attimo, ma ha ceduto e io ero nel posto giusto al momento giusto” spiegò Collins e le ultime parole gli uscirono fuori distorte dallo sforzo che gli servì per staccare definitivamente l’anulare dal braccio di Steve.
 
“Avrei detto nel posto sbagliato al momento sbagliato” lo corresse Batroc, che era in piedi di fronte a loro, con le braccia incrociate al petto. I pantaloni erano strappati all’altezza delle ginocchia scorticate, le quali stavano ancora sanguinando.
 
“È stato lui a guidare la fuga. È riuscito a guadagnare tempo contro quei mostri.” Era stata una donna dell’Hydra a prendere la parola. “Ci ha fatto comodo averlo all’interno” aggiunse alla fine e scambiò con Collins un cenno del capo.
 
Dan era riuscito a tirare via anche l’indice dell’arto amputato e stirò il pollice grigio con tanta forza da spezzarlo. Steve si lasciò sfuggire un gemito sommesso e coprì con la mano sinistra i segni violacei che il potenziato gli aveva tatuato addosso.
 
“Sai se qualcun altro è riuscito a passare?” chiese il Capitano e si accese un barlume di speranza nelle iridi cerulee, che finalmente Dan ebbe la forza di guardare.
 
“Quando sono passato di qua, le comunicazioni si sono interrotte e poi ho perso la ricetrasmittente nelle fogne. Mi dispiace.”
 
Collins tornò in piedi e sia Rogers che Rumlow lo imitarono, non senza mostrare fatica in ogni singolo movimento.
Da quanto tempo stavano combattendo? Da quanto tempo non dormivano? Da quanto non mangiavano o anche solo bevevano?
La polvere, la sporcizia e il sangue coprivano i segni di corpi fortemente provati. I muscoli dovevano essere in uno stato di profonda sofferenza arrivati a quel punto. Persino i civili, i quali non avevano preso parte agli scontri in modo diretto, avevano le labbra secche e spaccate a causa della disidratazione. Qualche bambino si era lamentato per i crampi allo stomaco vuoto. Con il ritrarsi della foschia, almeno adesso faceva meno freddo, ma il gelo aveva già lasciato il segno sulla maggior parte delle persone coinvolte, spaccando la pelle e indebolendo l’organismo. I civili non sarebbero stati in grado di tirare avanti ancora per molto e tanti erano già al limite. Lo stesso valeva per soldati e mercenari – anche loro erano umani. Nemmeno i due super soldati del gruppo erano esenti da tale condizione.
 
“I civili vanno scortati verso la barriera.” Rogers si calò nuovamente nella parte del soldato instancabile che doveva emanare sicurezza. “Se si indebolisce di nuovo, avranno la possibilità di attraversarla e saranno più vicini a chi saprà proteggerli” il biondo si concentrò su Dan “Riusciresti a guidarli verso gli Avengers o lo SHIELD?”
 
“Io… io credo di sì… devo solo orientarmi per capire in che posizione mi trovo adesso e…” balbettò il ragazzo, colto da un’ondata di insicurezza.
 
“Oh mio Dio… ma che…” Batroc si fece portavoce dello sgomento generale che fece passare in secondo piano tutto il resto e Steve seguì lo sguardo del mercenario.
 
La foschia ritiratasi attorno al centro commerciale era diventata scura e densa, pulsava come se fosse viva. I potenziati la stavano raggiungendo in massa e il loro numero superava la trentina.
 
“Da dove sono usciti fuori tutti quelli?” fu la lecita domanda di Rumlow, che non riusciva a spiegarsi come Lewis fosse stato in grado di portare con sé tanti potenziati di quel genere senza dare nell’occhio. Qualcosa non tornava.
 
Steve si avvicinò a Daniel e gli posò entrambe le mani sulle spalle. “Guidali tu. Mi fido di te e so per certo che ce la farai” gli disse e gli rivolse un breve sorriso sincero, prima di tirarsi indietro e concentrarsi sul centro commerciale.
 
“Steve” lo richiamò Dan e ottenne la sua attenzione. Il ragazzo non fece domande, né protestò in qualche modo. Ridusse la distanza che li separava e strinse il biondo in un abbraccio, circondandogli il collo con le braccia e aggrappandosi al retro della sua maglia. “Farò tutto il necessario” promise “Non perderò di nuovo.”
 
Steve ricambiò l’abbraccio. “Sta’ attento” sussurrò con tono morbido – ed era preoccupato – mentre rompeva il contatto sentito.
 
Nessuno aveva osato rovinare quel momento, nonostante l’urgenza della situazione. Erano rimasti tutti in silenzio e i civili si erano stretti ai loro cari. Non erano trascorsi che pochi minuti da quando erano usciti dalle fogne, eppure il tempo continuava a scorrere con regole tutte sue all’interno della barriera – tempo e spazio sono distorti, aveva detto Anthea.
 
“Vai adesso” fu l’esortazione che Rogers rivolse a Collins.
 
“Ti aspetto dall’altra parte” gli rispose il ragazzo, mentre indicava la barriera e muoveva qualche passo all’indietro. Un ultimo sguardo e gli diede le spalle, in modo da poter raggiungere i civili.
 
“I tuoi amici aiuteranno anche noi altri?” il noi altri era facilmente traducibile con nemici e Batroc lasciò a Rogers il compito di intendere.
 
“Aiuteranno ognuno di voi, in maniera indiscriminata” assicurò il Capitano. “Ma fate qualsiasi cosa che possa mettere in pericolo queste persone e ve ne pentirete” ci tenne a precisare.
 
Batroc scosse il capo. “Nessuno farà niente del genere, hai la mia parola.”
 
Era la parola di un mercenario, un uomo senza bandiera, guidato solamente dalla migliore prospettiva di guadagno. Eppure, Steve non ebbe alcun dubbio sulla sincerità di tale parola e non si chiese nemmeno il perché del cambio di rotta. Dopotutto, Batroc sarebbe potuto rimanere su quell’auto e usarla per allontanarsi da lì, in modo da garantirsi una maggiore probabilità di sopravvivenza. Oppure, alla fine dei conti, ottenere l’aiuto degli Avengers gli era parsa la soluzione migliore. Qualunque fosse la motivazione, aveva comunque scelto di restare e tendere una mano.
 
“Muoversi! Non abbiamo tempo da perdere” incitò Batroc e, assieme ai suoi mercenari e alcuni soldati dell’Hydra, si posizionò in coda al gruppo, mentre Daniel li guidava dalla testa.
 
Rogers allora rivolse tutta la sua attenzione sul punto in cui stanziava l’ormai spettrale centro commerciale e costrinse le gambe a muoversi con rapidità crescente, fino a rompere il passo in una corsa poco fluida. Tuttavia, non andò lontano. La strada gli fu sbarrata e fu costretto a fermarsi.
 
“Sali” gli ordinò Rumlow, in sella ad una moto nera un po’ ammaccata ma funzionante. “Non abbiamo tutto il giorno” rimarcò l’uomo, dinanzi la mancanza di reazione da parte del super soldato.
 
“Avevi detto che…”
 
“Sali” ripeté Brock “Prima che cambi idea.”
 
Di nuovo, Steve non chiese “Perché?”. Salì sulla moto e lasciò che Brock li guidasse nell’occhio del ciclone. Fu sufficiente qualche scarso minuto per giungere in prossimità del muro di foschia che circondava il centro commerciale.
 
“Ci hanno notato” attestò Rumlow, riferendosi ai nemici, che avanzavano rapidi nella loro stessa direzione.
 
“Ma non sembrano voler intervenire” fece notare Steve “Lewis li sta richiamando. Ha bisogno di loro.”
Era l’unica spiegazione logica. Adam stava richiedendo un intervento di massa, perché probabilmente non se la stava passando bene. Forse Anthea era riuscita a sopraffarlo e Lewis aveva bisogno del suo esercito per contrastarla. E se le cose stavano davvero così, Steve doveva arrivare prima degli altri, a qualunque costo.
 
“Non rallentare, Rumlow.”
 
Brock non rallentò, anzi diede gas e superò diversi potenziati in corsa. Nel momento in cui attraversarono il muro di nebbia, il freddo pungente si sostituì al tenue calore del sole. Udirono risuonare grida graffianti e, proprio dinanzi ai loro occhi, una processione di ombre scure avanzava in modo scomposto verso una sola direzione.
 
“Non può essere reale” si lasciò sfuggire Brock.
 
“Non rallentare” gli ricordò Steve e, senza pensarci, calcò le dita della mano destra sulla spalla del suo ex collega, alla quale si stava tendendo per evitare di perdere l’equilibrio. Fu una muta richiesta di ‘non tirarti indietro proprio adesso’.
 
“Se usciremo da qui, mi dovrai un grosso favore, Rogers. Un grosso favore.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Mi arrendo.
 
 
Il battito cardiaco era regolare, un tamburo dal tono grave e persistente.
 
Tum. Tum.
 
Ogni singolo battito le faceva tremare le ossa, persino quelle spazzate del braccio sinistro, che ciondolava inerme contro il suo fianco.
 
Tum. Tum.
 
Una sera, fra le mura dell’appartamento di Washington, Sam le aveva parlato delle cinque fasi che accompagnano un trauma. Anthea non ricordava come l’argomento fosse venuto fuori, ma ricordava la voce calma e calda di Sam, i suoi sguardi intensi e rassicuranti, la sua vicinanza. Non era mai stata propensa ad ascoltare certi argomenti, aveva sempre trovato il modo di evitarli, però Sam aveva fatto o detto qualcosa che l’aveva convinta a restare – ad ascoltare. Quel qualcosa le sfuggiva, ma non era importante.
Negazione. La negazione è la prima fase. Convincersi che no, non è accaduto davvero – non è mai accaduto,  non a me, non sono io. La rabbia è la seconda fase, una rabbia atta a risvegliare la consapevolezza di ciò che è stato, ma che potrebbe diventare pericolosamente distruttiva e autodistruttiva. La fase successiva è la contrattazione, la ricerca di un compromesso che permetta di sopravvivere e di mediare con il trauma e i suoi effetti devastanti. La depressione è la quarta fase, un buco oscuro nel quale si potrebbe rimanere intrappolati, ma necessaria per poter arrivare ad una consapevolezza più profonda seppur schifosamente dolorosa. L’ultima fase è quella dell’accettazione – lontana anni luce dall’essere la fine di ogni sofferenza – che rappresenta una equilibrata convivenza con lo stesso trauma che si vorrebbe estirpare fino all’ultima minuscola e secca radice, ma è impossibile farlo.
Sam le aveva detto che l’elaborazione di un trauma passava da queste cinque fasi, necessarie per poter andare avanti – tornare a vivereconsapevoli. Non era possibile cancellare ciò che era stato, così come non era possibile stabilire ciò che sarebbe stato. Si aveva il controllo solo su ciò che era, in quell’esatto momento. Anthea lo sapeva, lo sapeva bene, anche se continuava a far finta di dimenticarlo. Si era ritrovata spesso a riflettere sulle parole di Sam e aveva finito per realizzare che lei quelle cinque fasi le attraversava ciclicamente, quasi ogni giorno e, se doveva dirla tutta, le era capitato di attraversarle anche in un lasso di tempo più ristretto. Lei sapeva come stavano le cose, era entrata in possesso delle risposte tempo addietro e poi aveva preso quelle risposte e le aveva sotterrate così bene da impedire a se stessa di ritrovarle. Certe volte, non sapere rendeva le cose meno complicate ed ignorare appariva la soluzione meno dolorosa. Tuttavia, si finiva per rimanere bloccati in uno stato scomodo, fatto di ronzii di sottofondo che si trasformavano in voci graffianti se c’era troppo silenzio. E poi c’era quel cappio attorno al collo, che non era abbastanza stretto da soffocarti, ma lo era abbastanza per renderti più difficile respirare e il cuore tendeva a battere con più frenesia del necessario. Si finiva per ristagnare in un perenne stato di allerta, i nervi sempre tesi e la testa piena di rumori e stimoli che si confondevano con quelli reali.
 
Come poteva essere definita vita questa? Quanto tempo le restava prima di crollare, schiacciata da ciò che si portava dentro?
 
Anche se aveva seppellito le risposte che le erano necessarie tanto tempo prima, Anthea non aveva bisogno di dissotterrarle per riappropriarsene. Non le aveva mai dimenticate davvero.
La frenesia di scovare Lewis era stata l’emozione predominante negli ultimi lunghissimi mesi. Tuttavia, esisteva una parte di lei che avrebbe fatto di tutto per evitare di ritrovarsi faccia a faccia con il bastardo manipolatore ancora una volta. Adesso che ce lo aveva davanti, il mostro, Anthea stava vivendo uno dei suoi peggiori incubi e svegliarsi non l’avrebbe tirata fuori, perché era già sveglia, forse come non lo era mai stata prima.
 
“Ho sempre odiato i tuoi capricci.”
 
Tum. Tum.
 
La giovane sollevò il capo e raddrizzò appena le spalle. Le ginocchia inchiodate sul pavimento le facevano male e non osò muoverle. Lewis la guardava dall’alto con quei suoi occhi rossi, rossi come il sangue che spargeva senza alcun rimorso.
Intorno a loro, le ombre erano disposte in cerchio, immobili. I volti avevano assunto tratti definiti, tratti umani appartenenti a persone che non erano più in vita. Anthea li ricordava tutti. Dal petto dell’oneiriana, in corrispondenza del cuore, avevano preso forma filamenti luminosi che affondavano nel petto di ogni singola ombra. Un groviglio di fili intangibili aveva invaso lo spazio che li circondava e solo lei poteva vederli e sentire il loro peso.
Adam invece continuava a trapassare Anthea con lo sguardo, sorridendo ad ogni espressione di dolore che la giovane mostrava.
 
“Le mie punizioni non sono mai state sufficienti per educarti a dovere. Ma adesso non sei più tu a dettare le regole, bambina” il sorriso di Adam si allargò e i denti scintillarono nella penombra “Adesso sei tu ad avere paura di me.”
 
“Io ho sempre avuto paura di te” fu la verità a cui Anthea non diede voce. “Non importa che tu mi tema o meno. Però, se fossi in te, avrei paura di loro” disse invece la giovane e dedicò l’attenzione alle ombre ancora ferme.
 
“Te l’ho già detto. I tuoi trucchi non hanno più effetto su di me.”
 
La giovane scosse il capo. “Nessun trucco. Basta trucchi.” Solamente realtà. Realtà nuda e cruda. “Non ti ricordi di loro? Di nessuno di loro?”
 
Gli occhi di Anthea si fermarono su Lewis e sostennero il peso delle iridi insanguinate. Doveva distruggere il mostro che lei stessa aveva contribuito ad alimentare e, per riuscirci, avrebbe dovuto toccare il fondo e recuperare ciò che era rimasto sedimentato fino ad allora. Doveva smettere di insabbiare le sue emozioni, doveva smettere di fingere di poter andare avanti, dimenticando.
Adam si mostrò infastidito e si chinò verso di lei, mentre allungava un braccio. Le afferrò ciocche di capelli dietro la nuca e la costrinse a tornare in piedi con uno strattone secco, rubandole un gemito sofferente che lei tentò invano di smorzare fra i denti serrati. Anthea non reagì, pur possedendo ancora un braccio funzionante. Le gambe la sostenevano a malapena e i fili argentati sembravano volerle strappare il cuore dal petto.
 
Tum. Tum.
 
“Fai sparire tutto, bambina. Ora.” Era un ordine ed una minaccia. L’aveva in pugno dopotutto.
 
Uno dei fili scintillò di una luce rossastra. Anthea lo seguì con lo sguardo, fin dove andava a perdersi fra le ombre strette in cerchio, che lentamente si spostarono per aprire un varco.
 
“Mi hai portato via mio figlio.”
 
La voce parve provenire direttamente dall’oltretomba, ma l’ombra che aveva pronunciato quelle parole era lì, che avanzava attraverso il varco apertosi per permetterle di passare. Il volto era quello dell’uomo il cui corpo giaceva sul pavimento, accanto al corpicino freddo del figlio. Anthea poteva sentire sulla sua stessa pelle la rabbia, il profondo dolore e la tristezza di quell’anima grigia. Percepiva tali emozioni come se le appartenessero e questo perché le aveva fatte sue.
 
“Hai ucciso il mio bambino.”
 
La Morte non è un evento costituito da pochi attimi, ma è un processo che va oltre l’immobilità degli organi vitali, oltre l’interruzione di ogni comunicazione chimica ed elettrica. Ogni forma di vita custodisce in sé una forma di energia che vibra seguendo una composizione di frequenze tutta sua, diversa dalle altre, unica e che si evolve nel tempo. Ogni essere vivente è una melodia, che si compone di toni alti e di toni bassi, di note acute e note gravi. La melodia può suscitare gioia in alcuni momenti, tristezza in altri, può dare forza e può prosciugarla. Delle melodie sono familiari per alcuni, sconosciute per altri, affini per coloro che risuonano in modo simile. Melodie diverse possono ritrovarsi sulla stessa lunghezza d’onda, o non incontrarsi mai come rette parallele. Alcune melodie possono annullarsi a vicenda in una interferenza distruttiva, mentre altre si rafforzano in una interferenza costruttiva e rare volte esplodono in una risonanza dai risvolti imprevedibili.
Quando sopraggiunge la morte, l’energia che aveva animato il corpo sino a tale momento lo abbandona lentamente. Quella stessa energia è tutto ciò che siamo, tutto ciò che rendeva il corpo noi, e continua a suonare la propria melodia irripetibile. Quali siano il successivo viaggio e la meta della forma incorpora vibrante resta un mistero. C’è chi pensa che raggiunga un’altra dimensione, chi afferma che rimane in attesa di rinascere in una nuova forma corporea, chi pensa che si riunisca alle energie universali e chi, invece, spera che rimanga a vegliare sulle persone che ha amato, in attesa di riunirsi a loro. Nessuno conosce la verità.
Tuttavia, nel momento in cui tale energia inizia a lasciare il corpo, portandosi via persino il calore, non è completamente inafferrabile. Durante la transizione, esiste una forma che rappresenta una via di mezzo – un limbo – fra corpo e pura energia ed è su quella forma che alcune specie riescono ad agire. Gli oneiriani facevano parte di tali specie, anche se non tutti loro erano in grado di manipolare – o anche solo percepire – la forma di energia in transizione.
Era tale capacità che Aima aveva usato per salvare Steve durante la battaglia del Brooklyn Bridge. Con tale potere, Daskalos aveva dato vita al suo esercito di anime oscure. Lo stesso potere aveva permesso ad Azael di legare Aima alla spada e, in seguito, il re caduto aveva fatto sì che potesse rimanere confinato nel limbo, legato all’energia vibrante di sua figlia. E sempre il medesimo potere aveva legato ad Anthea le energie di coloro che lei aveva tentato di salvare da Lewis.
Anthea non lo aveva fatto in modo consapevole, ma era stata guidata dalle sensazioni scatenate nell’avvertire l’energia in transizione e dal desiderio di voler prestare loro aiuto. Aveva creduto che, non lasciandole andare, avrebbe permesso loro di continuare a vivere, in modo da poterle portare assieme a lei fuori dall’incubo in cui Adam le aveva trascinate. Però aveva finito per bloccarle nel limbo per tutto quel tempo, nella forma di ombre vibranti, le quali l’avevano seguita ovunque.
 
 
“C’è così tanto caos dentro di te, giovane guerriera. Devi lasciarli andare o ti consumeranno.”
 
Le parole dell’anziano morente avevano assunto significato solo molto tempo dopo e adesso Anthea capiva ciò che aveva voluto dirle. Solo che l’anziano si era sbagliato su una cosa. Non era riuscito a vedere fino in fondo, mentre lei l’aveva fatto – alla fine.
 
 
“Non ti ricordi nemmeno di lui? Non è trascorso molto da quando hai preso la sua vita” sussurrò la giovane ad un soffio dal viso di Lewis, che la teneva ancora stretta per i capelli.
 
L’ombra del padre straziato dal dolore giunse alle spalle di Anthea e solo allora Adam gli concesse attenzione, senza però mostrare alcuna preoccupazione. Dal suo punto di vista, erano forme incorporee, incapaci di poterlo raggiungere, e quindi perché avrebbe dovuto temerle?
 
“Si è creato un nodo fra noi, Adam” il manipolatore tornò a guardare Anthea “Ed è per questo che parte di loro erano qui prima del mio arrivo. Le hai trascinate con te.”
 
“Di cosa stai parlando, bambina?” Lewis la strattonò di nuovo con forza e fu un miracolo che il cuoio capelluto non le venne strappato via dal cranio. L’uomo – il mostro – stava perdendo la calma.
 
“Ora che sono qui, le ho riunite tutte e alla fine dei conti il nodo ha un lato positivo e sai quel è?” Anthea non attese una risposta “Posso usarlo affinché loro possano raggiungerti.”
 
Una stretta bruciante gli circondò il polso e lo sguardo di Lewis saettò sull’ombra del padre. Il bastardo manipolatore dovette scendere dal piedistallo costruito sulla presunzione di onnipotenza e si tirò indietro, per sottrarsi alla presa dell’ombra.
Anthea tornò libera e nascose dietro un sorriso tagliente il dolore che le attanagliò il petto. Riuscì a rimanere in piedi, nonostante tutto.
 
 
Tum. Tum.
 
 
“Paga il prezzo delle tue azioni, Adam” proferì la giovane oneiriana, mentre la mano destra premeva contro il petto in fiamme.
 
Le ombre ruppero la stasi e vibrarono con intensità crescente. Grida di rabbia e di dolore inondarono la stanza e diedero vita ad un’eco assordante. Si avvicinarono tutte assieme, ammassandosi le une sulle altre, le braccia tese in avanti per poter raggiungere colui che aveva rubato loro la vita.
Anthea non si mosse e lasciò che le ombre la inghiottissero nel groviglio di membra vibranti. Udì Lewis gridare e sorrise, mentre percepiva la foschia ritirarsi verso di loro e portare con sé tutte le ombre che la abitavano. Non sapeva cosa sarebbe successo da lì in avanti, stava percorrendo sentieri ancora sconosciuti, ma non era la prima volta per lei. Eppure, non si era mai sentita tanto sola come in quel momento.
 
 
Tum. Tum.
 
Tum. Tum.
 
Tum. Tum.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Stava assistendo agli eventi in corso allo stesso modo in cui si assiste ad una scena di un film, ovvero con la consapevolezza di non poter intervenire. Era costretto a fare da semplice e inutile spettatore e Tony odiava in modo viscerale rimanere fermo a guardare.
Quando la nebbia si era ritirata, aveva immediatamente chiesto a JARVIS di individuare qualsiasi forma di movimento all’interno della barriera e non aveva dovuto attendere molto prima di ottenere un feedback positivo, con tanto di immagini in tempo reale. Vederlo gli aveva fatto uno strano effetto, un sollievo misto ad ansia e rabbia e sei vivo, bastardo figlio di buona donna!
Sì, Rogers era vivo e stava tirando su persone da un ingresso fognario. Vicino a lui – troppo vicino – c’era niente meno che quel bastardo assassino di Brock Rumlow, intento ad aiutare – stava davvero aiutando di sua spontanea volontà? Ma che…?! – cosa alquanto disturbante da guardare e persino da credere e non dargli le spalle in quel modo, Cap!
Allora giunse – prevedibile – l’incipit di una emicrania pulsante e l’incipit si trasformò in una emicrania vera e propria nell’esatto momento in cui vide Steve sparire nel condotto fognario, trascinato in modo violento ed inaspettato. Ma che diavolo stava succedendo?
 
“Cazzo!” gridò senza tenere in considerazione di avere la linea aperta con gli altri Avengers, che aveva dimenticato di aggiornare negli ultimi minuti.
 
“Che succede? Hai visto qualcosa?” arrivò immediata la domanda di Barton e fu accompagnata da crepitii in sottofondo, segno che anche gli altri erano stati in procinto di chiedere, ma Clint li aveva battuti tutti sul tempo.
 
“Li ho individuati” comunicò Tony, mentre vedeva crescere il panico all’interno del gruppo oltre barriera. La cosa più assurda era che Rumlow si era mosso per aiutare Rogers e anche altri nemici lo avevano seguito. Persino alcuni civili stavano prendendo parte all’azione di soccorso.
 
“Dove? Cosa succede? Dannazione, Stark! Ti decidi a parlare?!”
 
L’ordine perentorio di Barnes costrinse Tony a prestare attenzione ai suoi esagitati compagni. Stark li trovò in attesa, con gli sguardi rivolti verso l’alto, nel punto dove era rimasto sospeso immobile per interi minuti, senza dire una sola parola. Cercò di spiegare loro cosa aveva visto, tornado nel frattempo a concentrarsi su ciò che stava accadendo dall’altra parte della barriera.
 
“Cosa succede adesso?” chiese Sam.
 
Tony non fu in grado di rispondere subito. Aveva appena visto Rumlow, Rogers e Collins – Collins?! Ma come diavolo ci era arrivato fino a lì? Era uno scherzo?! – venire trascinati fuori dall’ingresso fognario, seguiti da una colonna di fuoco e fumo scuro.
E adesso? Il gruppo di civili e nemici sembrava si stesse muovendo nella loro direzione ed era Collins a guidarli. Invece, Rogers stava procedendo nella direzione opposta e…
 
“Stark! Cosa diavolo sta succedendo?” lo richiamò Barton, stanco di rimanere in attesa di risposte.
 
“Niente di buono” proferì Tony e decise che era tempo di smettere di fare da mero spettatore. “Troviamo il modo di abbattere questa fottuta barriera.”
 
“Le abbiamo già tentate tutte” gli ricordò Barton, con una certa amarezza.
 
“Direi che non è un buon motivo per gettare la spugna” ribatté Tony e, per quanto gli riguardava, non esisteva motivo che fosse anche solo lontanamente valido per arrendersi, non quando, al di là di quella maledetta barriera, un compagno – un amico – stava mettendo in gioco tutto, pur di fermare la lunga serie di atrocità commesse da mostri privi di senno.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Il sigillo finirà per rompersi. La perderò.”
 
“Teniamoci pronti per quando la barriera vacillerà.”
 
“Tu sapevi che sarebbe successo?”
 
Andras annuì dinanzi l’espressione incredula di Eivor.
 
“Allora non avresti dovuto permetterle di andare” la curatrice era arrabbiata e non capiva come il nuovo sovrano avesse potuto lasciare che Anthea corresse un rischio simile, sapendo già cosa sarebbe accaduto.
 
“Non sarei stato in grado di fermarla, non senza ricorrere alle maniere forti almeno” ammise Andras, che era rimasto calmo e all’apparenza distaccato dagli eventi in continua evoluzione.
 
“Si spinge sempre oltre i propri limiti, senza pensare alle conseguenze. È fatta così.” Hera stava sorridendo ma c’era tristezza nella curva delle morbide labbra rosee.
 
Loukas poggiò una mano sulla spalla della compagna. “Ce la farà. Ce la fa sempre. E noi la aiuteremo a venirne fuori. Siamo qui per questo.”
 
Eivor non era mai stata in prima linea. Non era una combattente, non ne aveva mai avuto l’indole. Il suo potere era di tutto rispetto, però si era evoluto verso una direzione precisa, quella dell’arte della guarigione. Era in grado di usare la telecinesi e aveva un buon controllo delle energie elementali, ma niente di così eccezionale. Uccidere per lei era fuori discussione. L’idea di tranciare una vita le causava male fisico, eppure sapeva che combattere talvolta era inevitabile, per potersi difendere, per sopravvivere e per fermare mostri che altrimenti avrebbero portato morte e distruzione. I guerrieri sceglievano di addossare sulle proprie spalle il peso di ogni vita che fallivano nel proteggere e di ogni vita che spezzavano. Avere in mano la vita di altri esseri viventi e deciderne le sorti era una responsabilità che pochi comprendevano davvero fino in fondo.
Eivor non era mai stata in prima linea. Aveva preso parte ad alcune battaglie, ma rimanendo nelle retrovie per poter soccorrere i feriti. Stavolta, tuttavia, la situazione critica aveva richiesto la sua presenza in prima linea, al fianco del nuovo sovrano e in aiuto del precedente. Andras emanava un senso di sicurezza che la faceva sentire protetta e forse era uno dei motivi per cui non aveva esitato a seguirlo, quando lui glielo aveva chiesto – non ordinato. Se però doveva essere sincera, il vero motivo per cui era lì era uno solo e aveva un nome. Anthea. Le doveva molto – tutti loro le dovevano molto – e aiutarla adesso che era in difficoltà era il minimo che potesse fare per lei. Eivor riteneva che Anthea comprendesse la responsabilità di avere fra le mani una vita e che se la portasse dietro alla stregua di un pesante fardello. Questo le aveva fatto apprezzare profondamente la giovane mezzosangue.
Quando Anthea, pochi giorni prima, era giunta ad Asgard in quella condizione disastrosa, Eivor aveva fatto ricorso a tutte le sue capacità per evitare che la giovane si disgregasse e aveva dovuto creare un sigillo capace di ingabbiare il suo potere che, andato completamente fuori fase, avrebbe finito per distruggerla altrimenti. Solo che qualsiasi cosa stesse accadendo all’interno della barriera stava intaccando il sigillo e, se il sigillo si fosse spezzato, niente avrebbe potuto trattenne il potere fuori fase. Non era la prima volta che Eivor vedeva Anthea perdere il controllo, ma stavolta la giovane si era spinta troppo oltre e ci sarebbe voluto tempo per aggiustare le cose, sempre se si fossero aggiustate. Sfortunatamente, di tempo non ne avevano avuto e il sigillo era una toppa provvisoria che stava già perdendo efficacia.
 
“La foschia si sta ritirando” annunciò Andras ed Eivor guardò in basso.
 
Erano sulla sommità della barriera, lontani dagli umani che l’avevano accerchiata e che invano avevano tentato di abbatterla. La foschia si stava radunando attorno una grossa struttura, che sembrava essere l’epicentro di tutto il caos. Non molto lontano da esso, fu possibile intercettare alcuni umani che stavano aiutando altri umani ad uscire da un buco scavato nella terra.
 
“È lui.” Andras indicò un punto oltre la barriera, con più precisione la testa bionda del noto umano al quale Anthea era legata.
 
“Non sono insieme… pensate che non si siano incontrati?” fu la lecita domanda di Hera.
 
Fino ad allora non avevano avuto la certezza della presenza di Steve Rogers all’interno, ma ci avevano sperato, perché lui avrebbe fatto qualunque cosa per aiutare Anthea. A quanto pareva, Steve Rogers era lì, ma non era con la giovane oneiriana, la quale doveva star passando un brutto momento considerando la rottura prossima del sigillo che la teneva insieme.
Eivor percepì agitazione e tremiti di rabbia provenire da Andras e notò le nocche dei pugni stretti sbiancare di colpo. Era certa che stesse per dire qualcosa, invece il sovrano rimase con la bocca mezza aperta e la rabbia gli scivolò di dosso.
La curatrice tornò a concentrarsi sul gruppo di umani e anche lei rimase interdetta nel vederli creare una sorta di catena che si prolungava fin dentro il buco nella terra. E Steve Rogers era sparito dalla loro vista. Dovettero attendere alcuni minuti prima di vederlo riemergere dal buco, seguito da una colonna di fuoco e fumo scuro e preceduto da un giovane ragazzo e da un uomo dai capelli scuri. Proprio quest’ultimo, poco dopo, si separò dal numeroso gruppo di umani assieme a Rogers ed entrambi si mossero in direzione della foschia.
 
“La sta raggiungendo.” Loukas lo disse senza alcuna ombra di incertezza.
 
Eivor voltò il capo verso Andras e catturò il sorriso appena accennato che gli aveva disteso i lineamenti del volto. Era palese che provasse ancora sentimenti contrastanti per il guerriero umano e, attualmente, era costretto ad accettare che fosse lui l’unico a poter aiutare Anthea.
 
“Teniamoci pronti per quando la barriera vacillerà” ripeté il sovrano, ma stavolta lo disse come se avesse la certezza che sarebbe accaduto di lì a poco.
 
Osservarono Steve Rogers sparire oltre il muro di foschia, ormai addensatasi in una zona ristretta, e attesero in silenzio di vederlo riemergere.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Adam Lewis era preda della paura e Anthea sperò che quella paura fosse anche solo lontanamente simile al terrore che aveva inflitto alle sue innumerevoli vittime. Se avesse avuto i suoi poteri, farlo a pezzi non sarebbe comunque stato abbastanza. Adam doveva soffrire come avevano sofferto tutti gli innocenti su cui aveva messo le sue sporche mani. Adam doveva capire cosa fosse la disperazione, doveva sentirsi impotente, un pupazzo in balia di un dolore fisico e psicologico da cui non vi era via di fuga.
Per Adam Lewis la morte sarebbe stata un privilegio che non meritava. Doveva pagare, pagare a caro prezzo. Così come un giorno sarebbe toccato a lei pagare.
Anthea poteva vedere il manipolatore contorcersi nel tentativo di liberarsi dalla ferrea presa di tutte le ombre che erano riuscite ad afferrarlo. Il contatto con le anime gli spaccava la pelle e la faceva sanguinare. La loro rabbia, la loro sofferenza e la loro disperazione si erano tramutate in spilli appuntiti in grado di perforare persino le ossa. Lo avrebbero soffocato, schiacciato e spezzato nel corpo e nella mente. Lo avrebbero annichilito e Anthea lo avrebbe guardato accadere, esente da ogni forma di compassione.
 
Tum. Tum.
 
La giovane premette con più forza la mano destra contro il petto e serrò le palpebre, mentre le ginocchia si schiantavano contro il duro pavimento. Il battito del suo cuore non era aumentato, né aveva rallentato. Il muscolo cardiaco continuava a contrarsi con regolarità. Eppure, ogni contrazione diventava sempre più dolorosa e le toglieva il fiato.
I fili argentati che le uscivano dal petto erano tesi sino allo spasimo e presto avrebbero iniziato a spezzarsi, liberando le anime dal limbo e permettendo loro di trovare – forse – la pace che in vita era stata loro sottratta – li avrebbe lasciati andare.
 
Una volta che l’ultima filo avesse ceduto, tutto sarebbe precipitato.
 
Un familiare tintinnio le fece sollevare le palpebre e catene invisibili la trascinarono con violenza in avanti, verso le braccia tese di Adam, che cercava di contrastare le ombre per potersi protendere verso di lei. Anthea tentò di trovare invano un appiglio. Le ombre crearono un muro dinanzi a lei e le catene si dissolsero. Molteplici fili argentei si spezzarono tutti in una volta e la giovane ebbe l’impressione che il cuore avesse iniziato a sanguinare.
Le grida di Lewis si fecero più disperate e arrabbiate, mentre le ombre continuavano ad ammassarsi su di lui, stritolandolo in un freddo abbraccio mortale. Altri fili si spezzarono e le ombre liberate iniziarono a perdere gradualmente consistenza.
L’oneiriana si rialzò in piedi a fatica e fece un primo passo indietro. Il braccio sinistro di Lewis si creò un varco nel muro di ombre e la raggiunse prima che riuscisse a fare un secondo passo. Le lunghe dita penetrarono nel braccio rotto come le punte di un forcone, strappandole un grido di dolore che proprio non riuscì a soffocare. La vista divenne sfocata, offuscata dalla lacrime che ripresero a rigarle le guance pallide e che, cadendo a terra, andavano a mischiarsi con il sangue che stava colando dal braccio. Lewis affondò maggiormente le dita nella carne e la tirò verso di sé, all’interno dell’ammasso di ombre.
 
“Sono io il più forte adesso” le urlò contro Adam, mentre anche la sua faccia riemergeva dal muro di ombre, le quali cominciavano a perdere la presa su di lui.
 
Era davvero diventato tanto potente?
 
Altri fili si spezzarono e Anthea serrò di nuovo le palpebre, incapace di sostenere il peso delle iridi infuocate del suo carnefice. Tuttavia, l’urlo che Adam cacciò pochi attimi dopo la spinse a riaprire gli occhi.
La giovane assistette al netto spezzarsi del braccio, le cui dita erano ancora infilzate nella sua carne. La pelle dell’arto di Lewis fu la prima a strapparsi, seguita dai legamenti e dalle fibre muscolari. L’osso in prossimità del gomito venne tranciato di netto, alla stregua di un cioccio di legno tagliato dalla lama affilata di un’ascia. Successe tutto in un attimo e le ombre ne approfittarono per risucchiare fra le loro membra oscure un Adam violentemente mutilato.
Anthea rimase immobile, con gli occhi spalancati e fissi sul mezzo braccio che giaceva a terra, diviso di netto dal resto dell’arto. Sollevò lentamente lo sguardo dalle dita affilate che fino a poco prima erano piantate nel bicipite sinistro e dalle quali gocciolava ancora sangue fresco. Nonostante sentisse le gambe sul punto di cedere, si mosse comunque e, con il solo braccio ancora funzionante, circondò il collo di Steve. Affondò il viso nell’incavo del suo collo, dimentica del caos che la circondava. Si aggrappò a lui con tutta la forza che le cinque dita della mano sana conservavano e non si preoccupò del cedimento repentino delle gambe, perché c’era lui a sostenerla ora. E Steve la strinse a sé con una disperazione che quasi intaccò la regolarità imperturbabile con cui il cuore di Anthea continuava a battere.
 
“Non voglio combattere sola” sussurrò lei con voce tremante e si odiò per quell’ammissione di debolezza.
 
 
 
“Se tu fossi forte abbastanza da affrontare il nemico, sceglieresti di combatterlo da solo oppure insieme ai tuoi compagni?”
 
“Insieme.”
 
 
 
Adesso Anthea capiva davvero cosa significasse Insieme. Non era importante la forza che si possedeva. Non era importante il potere di cui si disponeva. Non c’entrava niente il coraggio o il voler dimostrare a sé stessi di potercela fare senza dover ricorrere all’aiuto di nessuno. E non c’entrava neppure il voler tenere lontano dal pericolo le persone che si amavano. Quel tipo di Insieme andava oltre tutto questo. Era esso stesso la forza, il potere, il coraggio e la resilienza, ma portati ad un livello a cui da soli sarebbe stato impossibile accedere.
 
“Non dovrai più farlo” le promise il compagno e si tirò indietro per poterla guardare negli occhi.
 
Steve era un vero casino. C’era sangue ovunque, rappreso e fresco, mischiato a sudore, polvere e Dio solo sapeva cos’altro. La maglia si era sfilata dai pantaloni, era strappata e bruciacchiata. C’era un’ampia chiazza di sangue fresco sul fianco sinistro. In alcuni punti, la pelle era ustionata e spiccava l’impronta violacea di lunga dita attorno al braccio destro. Ed era pallido. Il fumo delle esplosioni – assieme al sangue – gli aveva scurito i capelli. Nonostante tutto, era lì, era vivo e lei aveva disperatamente ed egoisticamente bisogno di lui.
 
“Tu. Bastardo ragazzino insolente. Hai appena firmato la tua dolorosa condanna a morte definitiva” ringhiò la voce cavernosa di Adam, proveniente dall’ammasso di ombre che lo aveva inglobato. “Non ho più bisogno di nessuno di voi. Sono io il più forte.”
 
Gli ennesimi fili argentei furono recisi con uno strappo secco. Anthea premette la fronte contro il petto di Steve e soffocò gemiti sofferenti fra i denti.
 
“Anthea” il super soldato la chiamò allarmato. Lewis avrebbe potuto farlo a pezzi in pochi attimi se le ombre avessero ceduto, ma lui non sembrava preoccuparsene. Era concentrato su di lei, solamente su di lei.
 
“Via… via da qui… dobbiamo allontanarci” balbettò la giovane. Si era resa conto di aver sottovalutato il potere acquisito da Lewis. Forse, le ombre non sarebbero riuscite a fermarlo come lei aveva sperato.
 
“Ti porto via.”
Steve strappò la manica destra della maglia con un gesto secco e legò il pezzo di tessuto sugli squarci che le dita di Lewis avevano lasciato sul braccio della compagna, nel tentativo di rallentare la fuoriuscita del sangue.
“Andrà tutto bene. Resisti” le disse e la fece salire sulla propria schiena, sorreggendole le gambe con le mani. Lei gli circondò il collo con il braccio destro e si strinse a lui. Allora, il super soldato non esitò a muoversi per mettere quanta più distanza possibile fra loro e Lewis.
 
“Non uscirete vivi da qui” minacciò Adam, impegnato a districarsi dalla rete sempre meno fitta delle ombre.
 
Né Anthea né Steve guardarono indietro.
 
“Questa è la seconda volta” la voce dell’oneiriana era debole, ridotta ad un filo tremulo che il super soldato captò solo grazie all’udito fine.
 
“Di cosa parli?” le chiese lui, mentre raggiungeva la tromba dell’ascensore da cui era salito solo pochi minuti prima.
 
“È la seconda volta che… mi strappi dalle mani di Lewis.”
 
In un battito di ciglia, i ricordi della prima fuga dalla base in Canada riacquistarono spaventosa nitidezza.
 
“E sarà l’ultima” le assicurò Steve “Tieniti forte” le disse poi e, non appena lei gli ebbe allacciato le gambe attorno ai fianchi con maggiore forza, il super soldato poté usare le mani per aggrapparsi ai cavi dell’ascensore e iniziare la discesa.
 
Le grida graffianti e furiose di Lewis li seguirono fino al pianoterra, che trovarono disseminato di macerie e di nemici.
 
“Questo non va bene.” Steve si irrigidì.
 
Erano in trappola e da soli non avevano possibilità di uscirne vivi. Era questa la verità e Anthea si sentì morire, perché Lewis avrebbe vinto. Tuttavia, il suo compagno non era dello stesso avviso e la sorprese risalendo di nuovo i cavi, fino in cima, senza mai rallentare.
 
“Cosa vuoi fare? Steve…”
 
“Fidati di me.”
 
Il super soldato attraversò di corsa lo stanzone del secondo piano, ignorando la presenza di Lewis e delle ombre che ancora lo bloccavano. Aumentò il passo e puntò una precisa direzione. Anthea comprese.
 
“Aspetta! Non farlo ti prego! Steve!”
 
Il vetro di uno dei finestroni, i quali avevano il compito di rendere luminoso il centro commerciale, si frantumò nel momento in cui il corpo di Steve vi impattò contro, con le braccia incrociate di fronte al volto. Il biondo fece leva sul braccio di Anthea che gli circondava il collo, in modo da trascinarla davanti a sé. La strinse in un abbraccio protettivo, mentre rivolgeva la propria schiena verso il suolo.
L’oneiriana rimase immobile, incapace di reagire, totalmente spiazzata dall’azione improvvisa – ed improvvisata – del compagno. Attese l’impatto e, quando arrivò, non rappresentò il capolinea. Infatti, qualcosa rallentò la caduta e l’incontro con l’asfalto non fu orribilmente distruttivo. Sentì Steve emettere un solo gemito e la botta gli svuotò i polmoni, facendolo rimanere senza fiato per qualche istante.
Anthea fece forza sul braccio sano per scostarsi da lui e sistemarsi sulle ginocchia, al suo fianco. Prima che lei potesse parlare, Steve – ancora sdraiato a terra – indicò in alto e la giovane sollevò il capo, trovandosi a fissare lo squarcio apertosi sul tendone bianco sopra le loro teste. Erano circondati da magliette, bandiere, girandole, cappelli e tanta altra roba tutta rigorosamente a stelle e strisce. Erano finiti sul retro del centro commerciale, all’interno di uno stand di gadget.
 
“Ero certo che avresti usato il piano B.”
 
Anthea sussultò e si voltò di scatto, azione che le scatenò un dolore tale da offuscarle la vista.
 
“Non ti agitare, ragazzina. Faccio ancora parte degli alleati.”
 
Brock si avvicinò a loro e, senza troppi complimenti, afferrò il super soldato per un braccio e lo rimise in piedi. Lasciò poi che fosse Steve ad aiutare l’oneiriana a rialzarsi e il biondo la sostenne mettendole un braccio attorno la vita.
 
“Qual era il piano A?” volle sapere la giovane, che nel frattempo stava cercando di riprendere possesso delle proprie facoltà fisiche e mentali. Gli intangibili fili che la legavano alle anime continuavano a spezzarsi e, ogni qual volta accadeva, la sensazione di finire in pezzi diventava sempre più forte e concreta.
 
“Il piano A…”
 
“Rumlow, non è necessario…” tentò di fermarlo Steve, senza successo.
 
“Eri tu, strega, in caso fossi riuscita a recuperare i tuoi poteri, cosa che, a quanto pare, non è accaduta. Dov’è Lewis?”
 
“Al momento è… bloccato” provò a spiegare Steve e Brock parve accontentarsi, considerando che non aveva energie mentali per capire le assurdità ultraterrene che stavano avvenendo lì.
“Adam ha il tuo potere?” domandò il biondo subito dopo, rivolgendosi alla compagna.
 
“Anthea. Lewis non ha il tuo potere, vero?” era ciò che Steve le aveva chiesto quando ancora erano nelle fogne. E stavolta la risposta fu diversa.
 
“Sì. Una parte.”
 
Dall’espressione del super soldato, Anthea capì che avrebbe voluto farle altre domande, ad esempio ‘Come è potuto accadere? È reversibile? Cosa ti succederà? Che cosa sono quelle ombre scure? Come facciamo a fermalo? Cosa posso fare?’ Ma non c’era tempo e fu Rumlow a sottolineare tale vitale aspetto, non senza una certa urgenza.
 
“Togliamo le tende prima che Lewis si sblocchi e prima che il suo circo di mostri ci sia addosso di nuovo. Fuori dal muro di nebbia ho individuato un mezzo che sostituirà quello con cui siamo arrivati.”
 
“Che fine ha fatto l’altro mezzo?” si azzardò a chiedere Anthea.
 
“Una brutta fine” si limitò a rispondere Brock e scoccò un’occhiata accusatoria in direzione di Steve, che fece spallucce.
 
Prima di muoversi, il biondo le rivolse uno sguardo che Anthea interpretò senza fatica.
“Ce la faccio” gli assicurò lei, ma al tempo stesso gli prese la mano e rimase aggrappata ad essa, anche quando iniziarono a correre in direzione del mezzo di fortuna trovato da Rumlow.
 
No, era una bugia, Anthea era al limite e non avrebbe retto a lungo. Tuttavia, anche Steve era visibilmente al limite – era un miracolo che fosse ancora in grado di muoversi – e non voleva essere una zavorra per lui, almeno non finché le gambe non avessero smesso di funzionare del tutto.
Attraversarono il muro di foschia che circondava il centro commerciale e, nel momento in cui la luce le ferì gli occhi e il tenue calore del sole le carezzò la pelle gelida, Anthea riacquistò un barlume di speranza. Forse potevano farcela. Forse le ombre sarebbero riuscite a distruggere Lewis e a quel punto la barriera sarebbe crollata, permettendo agli Avengers di arrivare in loro soccorso.
 
“Ci siamo.”
 
La giovane vide Rumlow fermarsi al fianco di un’auto rossa e salire a bordo. Steve aprì uno degli sportelli posteriori e si infilò all’interno, trascinandola con sé. Brock non impiegò che pochi secondi a far partire il motore e partì a tavoletta, mentre lanciava occhiate tese allo specchietto retrovisore. Anche Steve si girò indietro, scrutando il muro di nebbia che si allontanava.
 
“Dove andiamo?” fu l’oneiriana a chiedere e, con sua grande sorpresa, la domanda spiazzò il suo compagno, prova del fatto che non aveva pianificato una strategia di fuga precisa.
 
“Verso la barriera. Se i vostri amici riescono a passare come il ragazzino, preferisco essere molto vicino a loro” confessò Brock, senza troppi giri di parole. Era comprensibile.
 
Tuttavia, Rogers ebbe da ridere. “Non possiamo avvicinarci ai civili o porteremo da loro anche tutti i nemici.”
 
“Sono disposto a correre il rischio.”
 
“Non possiamo farlo” il tono di Rogers subì una breve impennata per poi tornare più basso, stanco. “Rumlow, per favore.”
 
Brock sollevò gli occhi e incrociò lo sguardo di Steve nello specchietto retrovisore. Le dita dell’ex leader della STRIKE si serrarono con maggiore forza attorno al volante e impressero solchi profondi nel cuoio.
 
Anthea la vide arrivare, la resa di quello che era stato – e probabilmente era ancora – un nemico. Si chiese se anche per individui come Rumlow esistesse la possibilità di redenzione. Si chiese se fosse possibile cambiare a tal punto da rinnegare chi si era stati per poter diventare qualcun altro.
Riuscivano già ad intravedere un numeroso gruppo di persone in lontananza. I civili. Fu allora che Rumlow emise un ringhio vibrante e sterzò per tornare indietro.
Non fu una sterzata brusca, tuttavia l’oneiriana percepì la gravità cambiare direzione e il suo sedere perse contatto con il sedile. Non capì cosa accadde e, dopo alcuni lunghissimi secondi in cui fu scaraventata da una parete all’altra del veicolo, si ritrovò schiacciata contro il parabrezza. Ci mise un po’ a realizzare che le ruote dell’auto stavano adesso puntando il cielo e che il pezzo del parabrezza su cui era atterrata era il solo rimasto integro. Cosa diavolo li aveva colpiti?
 
“No. No. No.”
 
La giovane si trascinò fuori dall’ammasso di lamiera accartocciata in cui si era trasformato il loro mezzo di fortuna. Passò attraverso il grosso buco nel parabrezza, ignorando i pezzi di vetro che le graffiarono la pelle, e si portò dietro il braccio rotto alla stregua di una inutile appendice.
Steve era a terra, steso su un fianco, qualche metro più avanti. Poco lontano giaceva invece Brock, prono e immobile sull’asfalto macchiato di sangue.
Prima che Anthea riuscisse a raggiungerlo, il biondo iniziò a tirarsi su lentamente e lei lo aiutò a tornare in piedi. Rimase al suo fianco, sostenendolo, fin quando non arrivarono a Rumlow. A quel punto, l’oneiriana rimase a guardare, mentre il compagno rigirava Brock sulla schiena e si inginocchiava sulla strada deserta.
 
“Non c’è battito.” Steve si chinò in avanti, posizionò le mani sul petto di Brock, una sull’altra, e iniziò con il massaggio cardiaco.
Nell’eseguire quell’azione meccanica e ripetitiva, l’espressione del super soldato si fece tesa, sofferente, a tratti smarrita. “Andiamo, figlio di puttana. È davvero così che vuoi morire?” ci mise più forza, rischiando quasi di spezzare le costole.
 
Anthea poteva vederla, l’energia vitale di Rumlow abbandonare il corpo, un po’ alla volta. Eppure, non disse nulla. Rimase in silenzio dinanzi il disperato tentativo di Steve di riportarlo indietro – e pensare che Brock Rumlow aveva tentato di ammazzarlo così tante volte.
 
“Uno in meno.”
 
Sollevarono lo sguardo, ma Steve non interruppe il massaggio cardiaco, continuò imperterrito sotto lo sguardo assassino di un mostro colossale, che ora si stagliava in prossimità del veicolo distrutto. Ecco cosa li aveva colpiti.
Il mostro era già troppo vicino, affinché potessero sfuggirgli senza lottare. Per rincarare la dose, un’auto grigia giunse a tutta velocità e frenò bruscamente, lasciando lunghe strisciate nere sull’asfalto. Dal veicolo scesero i quattro soldati d’inverno ancora in vita.
L’oneiriana percepì distintamente l’influsso manipolativo di Adam Lewis che aleggiava su ognuno dei nemici. Non erano pienamente in loro, anche se non ne avevano la consapevolezza. Si sarebbero tramutati in burattini, burattini privi di volontà ignari di averla perduta.
 
“Abbiamo ricevuto un contrordine. A quanto pare, avete fatto incazzare parecchio Lewis” annunciò Markov “La vostra corsa finisce qui.”
 
In lontananza, si potevano scorgere le sagome dei mostruosi potenziati che invece – per loro fortuna – si stavano allontanando per raggiungere Lewis e prestargli aiuto, segno che le ombre stavano ancora resistendo. Intorno al centro commerciale, la foschia si era tinta di un rosso scarlatto.
Grida spaventate raggiunsero le loro orecchie e, solo allora, si resero conto di non essere riusciti ad allontanarsi abbastanza dai civili – non ne avevano avuto il tempo.
 
“Steve” Anthea inorridì nel sentire tremare la propria voce in modo così indignitoso. “Dobbiamo muoverci. Rumlow è andato…”
 
Ma Steve non desistette.
 
“Non sprecare energie per un morto che presto raggiungerai.” Abominio accorciò la distanza che lo separava da loro.
 
Anthea si mosse di riflesso e si frappose fra il compagno e il mostro. Non poteva essere un muro invalicabile. Non poteva neppure usare entrambe le braccia. Ma quel mostro avrebbero dovuto passare sopra il suo cadavere prima di arrivare a Steve.
 
“Finirai schiacciata, moscerino” la avvisò Abominio.
 
Fu come un leggero mormorio, un sussurro che si confonde con il sibilo del vento. L’oneiriana captò il cuore di Brock Rumlow ricominciare a battere. Pochi attimi dopo, una decisa stretta sulla spalla la tirò indietro e la schiena di Steve le coprì parte della visuale sul mostro colossale.
 
“Per lui sarebbe stato meglio se fosse rimasto morto” proferì la Smirnova, indicando Rumlow.
 
“Non ha tutti i torti” balbettò il diretto interessato, che si mise seduto in modo goffo. Era cadaverico ma vivo. Con evidente sforzo si alzò in piedi e sfregò il dorso della mano destra contro l’angolo della bocca, ripulendolo da un rivolo di sangue.
 
“Allontanatevi” ordinò Rogers e, sotto lo sguardo allarmato di Anthea, avanzò verso i nemici, la schiena tesa, le spalle dritte, la testa alta e l’espressione fredda. Avrebbe combattuto pur sapendo di non avere possibilità di vincere da solo e nelle condizioni in cui versava. Avrebbe dato la sua vita senza esitare.
 
“Non puoi farcela e noi non andremmo lontano” Rumlow lo disse senza nascondere una certa rassegnazione. Pur volendo, non avrebbe potuto sostenere un combattimento di tale portata – non avrebbe potuto sostenere alcun tipo di combattimento.
 
Anthea dedicò una fugace occhiata a Brock, prima di tornare a concentrarsi sul suo resiliente compagno. No. Steve non poteva farcela e lo sapeva benissimo anche lui. Tuttavia, non indietreggiava.
E lei? Cosa stava facendo? Stava permettendo al dolore e alla paura di controllarla e avrebbe portato tutti a fondo con lei, solo perché era incapace di reagire. Per troppo tempo aveva avuto paura, tanto che era diventata parte di lei senza che se ne rendesse conto. La spavalderia che spesso aveva mostrato era sempre stata una patetica copertura, la quale aveva finito per crollare come un castello di carte. Aveva smesso di combattere la paura, aveva lasciato che vincesse.
La persona che amava era lì, proprio dinanzi a lei, ed era certa che anche lui aveva paura in quel momento, però non lasciava che la maledetta paura lo intralciasse.
 
‘Smettila di comportarti da codarda. Non puoi davvero rimanere ferma a guardalo morire.’
 
Anthea spezzò tutti i fili argentei rimasti che la legavano alle ombre. Le lasciò andare tutte, lasciò che le loro energie uscissero dal limbo per seguire il naturale corso della morte. Chiuse gli occhi e le sentì vibrare un’ultima volta, ognuna di loro. Un vuoto le si aprì nel petto e, quando risollevò le palpebre, fissò lo sguardo sulla schiena di Steve e premette la mano destra all’altezza del proprio cuore.
 
Tum. Tum.
 
Eccolo. Poteva sentirlo tornare a galla, risalire il pozzo scuro in cui era stato relegato per anni e che le anime legate a lei avevano tenuto sigillato fino ad allora.
 
Tum. Tum.
 
Tornare indietro non sarebbe stato possibile. Anthea aveva appena oltrepassato il punto di non ritorno.
 
Tum. Tum.
 
 
 
“Ci sono ancora tante cose che voglio fare perciò non ho nessuna intenzione di mandare tutto in fumo.”
 
 
 
“Andate. Guadagnerò tempo” la voce di Steve riportò Anthea alla fredda e terrificante realtà.
 
“Non ti lascio solo” protestò l’oneiriana.
 
“Non preoccuparti, ragazzina. Nessuno andrà da nessuna parte” Markov si fece avanti, seguito dagli altri soldati d’inverno.
 
Anthea si trovò d’accordo. Non sarebbe andata proprio da nessuna parte, per quanto la cosa potesse apparire poco saggia. L’influsso di Lewis era appiccicato addosso ai loro nemici, li aveva permeati arrivando abbastanza in profondità da renderli schiavi. Il grigiore degli arti ne era una prova evidente. Quell’influsso permetteva a Lewis di avere il controllo, ma avrebbe permesso a lei di raggiungerli per mezzo dell’unica difesa che ancora possedeva.
Avrebbe chiesto alle ombre un ultimo favore, nonostante non avesse alcun diritto di farlo e nonostante ci fosse la possibilità che loro decidessero di non concederglielo.
 
“Ci siamo. Capolinea” fu Rumlow a pronunciare tale verdetto e non si prese nemmeno la briga di muoversi, consapevole che non avrebbe fatto alcuna differenza. Tuttavia, sussultò vistosamente nell’esatto momento in cui Abominio si fece avanti, segno che nel profondo non voleva che finisse così, senza neppure avere la possibilità di combattere e morire in modo dignitoso.
 
“Ti arrendi di già, Rumlow?”
 
“Mi prendi in giro, strega?”
 
Strega. Ancora quell’appellativo poco lusinghiero che Rumlow perseverava nel voler utilizzare con fin troppa leggerezza. Anthea però ci sarebbe passata sopra di nuovo. Magari se lo sarebbe giusto segnato per una occasione futura, perché aveva tutta l’intenzione di uscire da lì.
 
“No, affatto.”
 
“Allora devi aver sbattuto forte la testa per non renderti conto che siamo finiti.”
 
“Perché siete ancora qui?” si intromise Steve.
 
“Te l’ho già detto. Non ti lascio solo.” E a sostegno dell’affermazione, l’oneiriana affiancò il suo compagno.
 
“Io me ne sarei già andato se avessi avuto la forza di correre. Sfortunatamente, sono appena quasi morto” fece invece notare Brock.
 
“Basta parlare. Facciamola finita una volta per tutte.”
 
A quanto pareva, la brutta copia di Hulk stava perdendo la pazienza e non avrebbe più indugiato. Avrebbe sbarrato loro ogni scappatoia e li avrebbe annientati per soddisfare il volere di Lewis, la cui presenza era palpabile persino adesso. Fu quella stessa presenza ad innescare la reazione nella quale Anthea aveva risposto le sue stropicciate speranze.
Giunse la foschia e con essa arrivarono le ombre, le quali si aggrapparono ad Abominio e fermarono la sua avanzata, sfruttando la scia di potere che lo legava a Lewis. Le ombre non furono in grado di toccare i soldati d’inverno, perché l’influsso che Adam aveva usato per soggiogarli era troppo debole, non sufficiente ad aprire un passaggio. Tuttavia, i soldati non potevano sapere cosa erano in grado di fare le ombre e istintivamente si tennero a distanza da esse.
 
“È opera tua?” gli occhi chiari di Steve erano diventati più limpidi, perdendo ogni segno di freddezza. Era bastato così poco per donargli un po’ di speranza e Anthea dimenticò per qualche istante il vuoto che si allargava, inesorabile, nel petto.
 
“Ho chiesto un favore” si limitò a rispondergli l’oneiriana. “Ma non posso fare niente per loro” aggiunse, indicando con un cenno del capo i super soldati.
 
“Hai fatto abbastanza. Ora lascia fare a me e mettiti al sicuro.”
 
Steve non le diede il tempo di ribattere, perché si mosse rapido per sfruttare al massimo l’opportunità che Anthea era riuscita a creare.
La giovane fece per andargli dietro, ma un paio di braccia le circondarono la vita e la sollevarono da terra, impedendole di avanzare. Al contrario, fu trascinata indietro, sempre più distante dal suo compagno. Colpì con la mano sana le braccia che la tenevano stretta, ma invano.
 
“Lasciami” gridò in preda alla frustrazione.
 
“Calma, strega. Gli saresti solo d’intralcio” non c’era alcuna vena di sarcasmo nel tono che Rumlow aveva appena usato per sbatterle in faccia la dura verità.
 
“E quindi vuoi scappare? È questo che vuoi fare?” lei non voleva rassegnarsi, non ci riusciva. “Lui ti ha salvato la vita e tu…”
 
“Non gli ho chiesto io di salvarmi.” Rumlow se la caricò di forza su una spalla e continuò a mettere quanta più distanza possibile fra loro e i nemici.
 
La Smirnova e Jian corsero loro dietro, decisi a non lasciarseli scappare. Lo sportello dilaniato dell’auto distrutta investì la donna, gettandola a terra. Jian si girò indietro e si ritrovò ad un passo da Rogers, che gli infilò una ginocchiata nello stomaco talmente forte da fargli sputare sangue. Mezza rotazione fu sufficiente al Capitano per caricare un calcio dritto al volto di Markov, che era stato sul punto di aggredirlo alle spalle. Il biondo seguitò con un calcio frontale che spinse Josef contro Abell, fermando così anche l’avanzata di quest’ultimo.
 
“Gran bel lavoro, Rogers” si lasciò sfuggire Rumlow, con una chiara nota di soddisfazione, e procedette con il piano di lasciare al super soldato l’onere di occuparsi dei nemici.
 
“Ti prego, Rumlow. Non possiamo lasciarlo” lo supplicò Anthea. “Se si concentreranno solo su di lui…”
 
“Batroc e i miei uomini sono vicini. Se arriviamo a loro, possiamo chiedere supporto.”
 
Brock voleva aiutare Steve. Voleva davvero aiutarlo, non stava fuggendo per salvarsi la pelle. Al contrario di quanto stesse facendo lei, Brock stava pensando in modo lucido e razionale.
 
“Okay, va bene, ma mettimi giù. Posso camminare sulle mie gambe.”
 
Rumlow esitò ma, essendo parecchio malconcio, finì per cedere alla richiesta dell’oneiriana e la riportò con i piedi per terra.
Anthea rivolse a Steve un ultimo sguardo. Il suo compagno stava lottando con i quattro soldati d’inverno, nonostante avesse oltrepassato i suoi limiti da un pezzo. Inoltre, la giovane non sapeva per quanto tempo le ombre sarebbero state in grado di trattenere Abomino. E poi c’era Lewis…
 
“Devo abbattere la barriera.”
 
“Puoi farlo davvero, strega?”
 
“Troverò il modo. È pur sempre fatta del mio maledetto potere.” Il suo maledettissimo potere.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Due anni prima
Asgard

 
 
“Dei mutaforma non è rimasta che cenere.”
 
Andras osservò la polvere che si sollevava ad ogni suo passo, mentre avanzava su un terreno diventato arido e nero come la pece.
 
“Non ho mai visto niente del genere.”
 
Damastis sembrava sinceramente turbato ed era un chiaro segno della gravità della situazione.
 
“Nemmeno suo padre poteva farlo?” gli chiese Andras. Dopotutto, Azael era colui che aveva avuto accesso a capacità che erano andate oltre l’ordinario.
 
“No. O almeno, non che io sappia. Ogni traccia di vita è stata annichilita. Non credo che questo terreno potrà essere risanato.”
 
“All’apparenza sembravano fiamme, ma non potevano essere semplici fiamme, giusto? Non era manipolazione di energia elementale.”
 
“No, non lo era figliolo. Credo che la giovane sia stata profondamente segnata da ciò che ha vissuto e che il suo potere abbia finito per assumere forme a noi incomprensibili.”
 
“Cosa dovremmo fare?”
 
Damastis scosse il capo, ma non disse niente. L’anziano posò lo sguardo sulla cenere nera che ricopriva il terreno. Aveva un’espressione greve e preoccupata, incrinata dall’incertezza. Nemmeno lui sapeva come affrontare una situazione tanto delicata.
 
“Gli anziani del Consiglio vogliono delle risposte e le sono già addosso” gli ricordò Andras.
 
“La temono. Così come temevano suo padre Azael.”
 
“E tu la temi, Damastis?”
 
“No, non la temo. Per lei provo rispetto, affetto persino. Ma più di tutto, una profonda tristezza.”
L’espressione di Damastis si ammorbidì e si dipinse di quella tenerezza che solo un volto segnato dal tempo è capace di esprimere.
 
“Lei ti ha detto qualcosa su… quello che è successo?” domandò il guerriero oneiriano, sperando che Anthea si fosse aperta almeno con l’anziano.
 
“Non una parola. Credo che nemmeno lei abbia coscienza della natura del proprio potere.”
 
“E tu puoi aiutarla?”
 
“Posso guidarla mettendo a sua disposizione ogni mia conoscenza. Ma solo lei ha la facoltà di decidere chi vuole essere e cosa fare di ciò che ha dentro.”
 
“Potrebbe trasformare tutto in cenere. Sei davvero certo che concederle il beneficio del dubbio sia la cosa giusta da fare?”
 
“Lei merita il nostro beneficio del dubbio, non credi?”
 
Andras non rispose alla domanda. Soppesò ogni parola pronunciata da Damastis e i pensieri fluirono verso il tempo passato al fianco della giovane oneiriana.
 
“Le fiamme di Anthea sono potenti e questo è un buon punto per far passare la strada principale, che finirà per coprire tutto.” Andras sollevò un angolo della bocca e scambiò uno sguardo di intesa con l’anziano Damastis.
 
Andras le avrebbe concesso il beneficio del dubbio. Dopotutto, Anthea li aveva protetti senza chiedere niente in cambio. Tuttavia, se ci fosse stata la concreta possibilità che la giovane riducesse in cenere ogni cosa, allora l’avrebbe fermata con qualsiasi mezzo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Presente
 
 
Era l’ultima frontiera, l’ultima linea di difesa e lo sarebbe rimasto finché la barriera non fosse crollata.
Mai come in quel momento, aveva sentito la mancanza degli sproloqui di Tony che monopolizzavano le comunicazioni, delle frecciatine di Barton che allentavano la tensione, della rassicurante ombra alata di Sam che si stagliava e correva sul terreno e persino delle manie distruttive di Hulk e Thor. Quanto avrebbe voluto sorbirsi una di quelle lavate di capo che solo Bucky era in grado di rifilargli. La realtà però era che loro non c’erano, non ancora. Aveva l’impressione – con molta probabilità dettata dalla stanchezza che gli annebbiava la mente – di percepire la loro smania di volerlo raggiungere e riusciva ad immaginare con irrisoria facilità tutti i loro sforzi atti a demolire l’unico ostacolo che li separava, nonostante fossero così vicini. Loro non si sarebbero arresi e nemmeno lui lo avrebbe fatto. Ormai era poco saggio pensare alle scelte che li avevano condotti lì. C’erano poche cose davvero importanti adesso. Salvare quante più vite possibili e fermare Adam Lewis in modo definitivo, affinché l’incubo da lui alimentato e cresciuto a dismisura sfumasse per sempre.
E forse Anthea sarebbe stata finalmente libera di vivere la sua vita. Forse avrebbe potuto regalarle un po’ di quella serenità che lei, senza neppure accorgersene, gli aveva donato da quando si era stabilita sulla Terra. Steve non le aveva mai detto che era solo merito suo se la notte – o in quelle poche ore di sonno concesse – era stato in grado di tornare a dormire, senza che gli incubi venissero a fargli visita. Lei emanava una luce ed un calore di cui non era consapevole. Però Steve sapeva – lo sentiva – che c’era qualcosa dentro di lei, qualcosa che cercava di affievolire quella luce e di soffocare quel calore.
Anthea si sforzava di essere forte, voleva convincersi di aver superato un passato intessuto di dolore, solitudine e paura, ma come avrebbe potuto? Quel passato la stava ancora perseguitando, eppure lei si era concentrata solamente sul come poter aiutare loro – e lui – a rimettere insieme i pezzi. Anthea aveva curato le ferite di altri con ogni mezzo a sua disposizione e, invece, si era accontentata di rattoppare le proprie ferite con qualche cerotto stropicciato, incurante del fatto che continuassero a sanguinare.
Quindi, sì. La battaglia che Steve stava combattendo era anche personale e non perché Lewis aveva cercato di fargli il lavaggio del cervello. Era personale perché Adam Lewis era il mostro che aveva torturato la fragile bambina che aveva visto vagare nella foschia, sola e terrorizzata, nella disperata ricerca di qualcuno che le tendesse una mano e la rassicurasse. Steve aveva cercato di non pensarci, aveva cercato di concentrarsi sulla battaglia. Tuttavia, continuare a sfiorare la morte aveva fatto riemergere emozioni scottanti, le quali stavano sciogliendo la maschera di gelida concentrazione che si era cucito addosso con l’intento di mantenere una parvenza di controllo.
Se ne fosse uscito vivo… no, se ne fossero usciti vivi, Steve avrebbe riempito le mancanze che avevano pesato sulle spalle delle persone che gli erano rimaste accanto nonostante tutto. Tuttavia, la situazione non era delle migliori attualmente.
 
“Sei duro a morire, biondino” gli concesse la Smirnova, mentre lo approcciava di nuovo.
 
Steve sollevò un angolo della bocca e questa si piegò in un sorriso affilato. Ai suoi piedi giaceva Jian, con i denti rossi di sangue e un braccio che aveva assunto una posizione innaturale.
No, non era duro a morire. Steve si stava disperatamente, irrimediabilmente, testardamente aggrappando a tutto ciò che gli era rimasto, alle ultime forze che muovevano il corpo, ai brandelli di resistenza che il siero ancora gli concedeva.
 
“La disperazione ha un potere da non sottovalutare” riecheggiarono le parole di Lewis.
 
Markov si stava avvicinando alle sue spalle, mentre Abell stava arrivando da destra. Darya invece era faccia a faccia con lui e lo stava studiando, in cerca di falle che le avrebbero permesso di affondare il colpo.
Steve inspirò dal naso ed espirò lentamente, facendo scivolare fuori l’aria fra le labbra schiuse. Quando i tre soldati d’inverno lo attaccarono in modo quasi simultaneo, non si mosse subito. Attese. Attese che fossero abbastanza vicini e solo allora caricò il peso del corpo sul piede destro. Si spinse verso sinistra, continuando però a dare le spalle a Markov e mantenendo la guardia alta, a proteggere il viso e i punti sensibili della mandibola. Piegò le ginocchia, quel tanto che bastò per avere una posizione più stabile, e fece partire il calcio sinistro, compiendo tre quarti di una rotazione completa sulla punta dello stivale destro. La tibia si scontrò con l’avambraccio di Markov, che riuscì a proteggere la faccia in extremis, ma fu comunque spinto via dalla forza impressa nel calcio.
Rogers utilizzò lo slancio per compiere l’ultimo quarto di rotazione e il gomito destro si schiantò sullo zigomo della Smirnova, un attimo prima che lei riuscisse ad arrivare a lui. Il colpo la stordì e la fece spostare sulla traiettoria di Abell, il quale fu costretto a scansarla e si ritrovò così sulla traiettoria di un calcio frontale del Capitano.
Steve percepì lo sterno di Abell flettersi sotto la suola dello stivale e si preparò a scattare in avanti per neutralizzarlo. Tuttavia, un calcio piazzato sulla ferita aperta del fianco sinistro – l’ultimo ricordo che gli aveva lasciato Benson prima che Rumlow lo ammazzasse – lo fece pigiare in avanti ed annaspare come un pesciolino fuori dall’acqua. Markov era stato dannatamente rapido e Rogers non l’aveva visto arrivare.
Josef si fece avanti ancora una volta e Steve tentò di ripristinare la distanza di sicurezza per riprendere fiato, ma non fu abbastanza veloce da evitare che le dita del nemico gli si allacciassero dietro il collo. Il Capitano si aggrappò agli incavi dei gomiti del soldato d’inverno, intenzionato a staccarselo di dosso. Markov ghignò e gli rifilò una ginocchiata dritta sulla ferita al fianco – di nuovo. Ripeté l’azione una seconda e una terza volta. Steve vide nero e Josef ne approfittò per caricarselo su una spalla, solo per poterlo sbattere con violenza sopra il cofano di un’auto. La lamiera grigia si stropicciò alla stregua di carta pesta e una ragnatela di crepe si disegnò sul parabrezza, nel punto di impatto con la nuca del Capitano.
Incastrato fra l’auto e il corpo massiccio di Markov, Rogers bloccò entrambi i pugni con cui il soldato d’inverno cercò di spaccargli la faccia senza troppi complimenti. Le dita dei due super soldati si intrecciarono ed entrambi fecero forza sulle braccia. Mentre il Capitano tentava di spingere via il nemico, quest’ultimo faceva di tutto per tenerlo giù, contro la lamiera sempre più infossata e scricchiolante.
 
“Sono io il più forte” gli soffiò in faccia Markov e si sospinse in avanti per piantare il ginocchio destro nel fianco leso del Capitano, i cui denti si serrarono con violenza, in risposta al dolore che gli provocò.
 
Nonostante la vista annebbiata, Steve vide la Smirnova e Jackson avvicinarsi alle spalle di Markov e si scontrò duramente con l’inesorabile realtà che neppure la disperazione – per quanto grande fosse e lo era, lo era davvero – avrebbe potuto concedergli il potere necessario a prevalere. Era solo un uomo, dopotutto.
 
“No, di lui mi occupo io. Voi fate fuori gli altri due. Non saranno andati lontano in quelle condizioni” ordinò Josef, senza distogliere lo sguardo dal viso contratto del biondo.
 
Adrenalina, disperazione, persino il panico, niente fu abbastanza affinché Rogers fosse in grado di sopraffare Markov in quel momento.
Steve stava crollando e con lui sarebbe crollata l’ultima linea di difesa. Josef torreggiava su di lui, ciuffi di capelli neri gli erano ricaduti sulla fronte e gli adombravano lo sguardo duro, penetrante e dal luccichio sadico. Più il Capitano affondava e più le sue braccia tremavano nello sforzo di resistergli, più il soldato d’inverno snudava i denti in un sorriso vittorioso da perfetto psicopatico. Steve avrebbe tanto voluto avere la forza di cancellargli dalla faccia quel dannato sorriso. No, non fu in grado di cancellarlo. Tuttavia, il sorriso sparì assieme a Markov stesso e il Capitano si ritrovò a fissare il cielo sopra di lui, libero dell’ingente peso che lo aveva tenuto bloccato.
 
“Ancora tu, maledetto moccioso.”
 
Steve rotolò giù dal cofano dell’auto e poi si appoggiò ad esso per tornare in piedi. Proprio davanti ai suoi occhi, trovò la schiena ritta e tesa di Daniel, che adesso si frapponeva fra lui e Markov.
 
“Non ti è bastata la lezione dell’ultima volta?” lo derise il soldato d’inverno. “Porti ancora i segni addosso.”
 
Daniel non si scompose, né parve minimamente toccato dalle parole del nemico che, durante il loro primo scontro, lo aveva quasi ammazzato. Il moretto aveva ancora un occhio iniettato di sangue e lividi sparsi sul viso – oltre che ematomi su tutto il corpo, coperti dai vestiti.
Steve stentò a riconoscere il ragazzo con cui aveva condiviso gli ultimi mesi e che aveva dimostrato di essere degno di fiducia e rispetto. Non c’entravano niente i lividi, ma si trattava dell’aria che emanava, della postura, dell’espressione che conferiva maturità al viso giovane. Daniel Collins era maturato, era cresciuto sia a livello fisico che mentale. Era un diamante grezzo che custodiva in sé la potenzialità di brillare come pochi e sapeva mostrare alle persone che gli erano vicino le sfumature di colore che si potevano nascondere in un singolo raggio di luce, anche il più pallido e sottile. Steve aveva visto il potenziale celato dietro la figura di un ragazzo all’apparenza normale, su cui nessuno avrebbe scommesso un soldo.
Eppure, adesso, quello stesso ragazzo normale era in piedi di fronte a lui, pronto ad affrontare nemici fuori dalla sua portata e pronto a rischiare la sua stessa vita pur salvarne altre. Ed era la sferzata di speranza di cui Steve aveva bisogno.
 
“Devi fermare loro. Ci penso io qui.”
La voce di Dan era ferma, decisa, ma le iridi cerulee erano calde e rassicuranti, segno che la sua anima non era stata ancora corrotta da tutto lo schifo in cui erano affondati fino al collo.
“Avanti, Cap. Muoviti” fu la successiva esortazione di Collins, accompagnata da uno sguardo penetrante e che chiedeva fiducia.
 
“Grazie” fu l’unica cosa che Steve riuscì a dire, mentre si muoveva nella stessa direzione dei due soldati d’inverno che erano partiti all’inseguimento di Brock e Anthea.
 
“Tu non andrai da nessuna parte.” Markov si mosse a sua volta, intenzionato a finire ciò che aveva iniziato con Rogers.
 
Tuttavia, Dan mantenne la propria posizione, sbarrandogli la strada.
 
“Se vuoi lui, prima dovrai vedertela con me.”
 
“Ti farò a pezzi, moscerino.”
 
“Accomodati.”
 
Steve si girò indietro un’ultima volta e vide Daniel prepararsi a ricevere l’offensiva di Markov. Il ragazzo fissava il nemico a testa alta, senza mostrare alcun segno di paura o esitazione. Era nello Stato di Grazia che ogni combattente anelava, uno stato di pura e infrangibile concentrazione, dove sensi, percezioni, istinto e automatismi acquisiti raggiungevano la loro massima espressione.
Steve sperò con tutto se stesso che fosse sufficiente affinché Dan potesse rallentare per un po’ Markov. Il ragazzo doveva tenere duro solo per un po’, il tempo che gli era necessario per mettere fuori gioco gli altri due soldati d’inverno. Poi, Steve sarebbe tornato da lui.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Il muscolo della gamba destra si lacerò nel momento in cui la lama affilata del pugnale si conficcò nella carne e lei andò giù senza riuscire ad opporre resistenza. Non ebbe neppure il tempo di gridare, ma riuscì a frapporre le mani fra la faccia e il duro asfalto.
 
 
Fa male… voglio…
 
Tum. Tum.
 
 
“Dannazione! Ci hanno raggiunti!” Rumlow la afferrò per un braccio e la tirò su di forza, fra una imprecazione e l’altra. “Ma che…” l’uomo rimase senza parole, l’espressione congelata in una maschera di incredulità e paura. D’istinto, si ritrasse e ruppe il contatto, allontanandosi da lei.
 
Anthea all’inizio fu confusa dalla reazione e rimase immobile, con il peso del corpo a gravare sulla gamba sana, mentre il sangue scivolava dal retro della coscia, nel punto in cui era conficcato il pugnale. Poi, la giovane voltò il capo alla sua destra e osservò il proprio riflesso sul finestrino di un’auto.
 
 
Tum. Tum.
 
 
“Avevo mirato più in alto.”
 
La Smirnova richiamò l’attenzione di Anthea, che continuò a darle le spalle, incurante del pericolo.
 
“La lascio a te. Io penso a lui” asserì la voce di Abell e l’oneiriana registrò a malapena la presenza dell’uomo, il quale le passò di fianco per arrivare a Rumlow.
 
“La paura ti ha immobilizzata?”
Le parole della Smirnova parvero provenire da una dimensione lontana.
 
Paura? No. Era puro terrore quello che le aveva congelato le membra. E non era la donna dagli occhi di ghiaccio la fonte di tale graffiante e annichilente sentimento.
 
Anthea percepiva la presenza di Darya sempre più vicina, pressante, eppure lo sguardo non voleva saperne di staccarsi dal riflesso distorto che la fissava dal finestrino dell’auto. Suo malgrado, sapeva che sarebbe stata solo questione di tempo, una volta tagliati tutti i legami con le anime. Tuttavia, saperlo non era servito a prepararla per ciò che sarebbe accaduto.
 
 
Tum. Tum.
 
 
“Sta’ lontano da lei.”
 
Steve.
 
Anthea si riscosse dallo stato di apatia e fronteggiò Darya, il cui sguardo glaciale era adesso rivolto a Steve.
Il super soldato le rivolse una rapida occhiata, forse per sincerarsi che stesse bene, e all’oneiriana non sfuggì il singulto della mascella, né l’irrigidirsi delle spalle. “Non guardarmi così, va tutto bene” avrebbe voluto dirgli Anthea, ma sarebbe stata una sporca menzogna.
 
“Che scherzo è questo? Cosa…”
 
Anche la Smirnova aveva spostato l’attenzione sull’oneiriana  e, allo stesso modo di Rumlow, si ritrasse, allontanandosi. Allora Anthea sorrise mesta, mentre Steve approfittava di quella distrazione per mettere fuori gioco la donna dagli occhi si ghiaccio.
La Smirnova crollò a terra, priva di coscienza, e l’attimo dopo Steve era in ginocchio di fronte alla sua compagna, intento a sfilarle il pugnale dal retro della coscia con delicata fermezza.
Anthea fu comunque aggredita da un dolore lancinante, l’acre odore del sangue le riempì il naso con prepotenza e tutto divenne grigio e freddo.
 
 
Tum. Tum.
 
Fa male… voglio che tutto finisca…
 
 
“Anthea, guardami. Andrà tutto bene.”
 
Una sferzata di azzurro infranse il denso grigiore e portò con sé un familiare calore. Le mani di Steve erano ai lati del suo viso – lui non si ritraeva, lui non fuggiva – e le stava parlando.
 
“Mi avevi detto che ci sono ancora tante cose che vuoi fare e che non volevi mandare tutto in fumo. Perciò non arrenderti adesso, ti prego.”
 
“Fa male.”
 
“Lo so, ma ti prometto che non farà male per sempre.”
 
“Fa così male… io…”
 
“Puoi farcela. Sono qui e ti aiuterò a…”
 
 
Il fischio acuto nelle orecchie, simile a grida agghiaccianti, sopraggiunse all’impatto della testa contro l’asfalto. Non si mosse, rimase immobile, sul fianco destro, con il braccio sinistro adagiato dinanzi a lei in una posizione innaturale. La chiazza di sangue che si allargava sotto la tempia era calda, densa e dall’odore pungente. Gli occhi rimasero aperti, sbarrati quasi, e gridavano per lei, in silenzio.
Riusciva a vedere Steve, alcuni metri più avanti, la schiena pressata a terra dal piede mostruoso di Abominio, che gli stava schiacciando l’addome mentre ringhiava mostrando i denti. Il biondo cercava di spostare la gamba del mostro, spingendo con le braccia e facendo leva sulle gambe piegate. Tuttavia, i suoi sforzi non sortirono alcun effetto.
Nonostante il fischio costante nelle orecchie, Anthea riusciva a sentirle lo stesso, le grida strazianti del suo compagno, le sentiva vibrare sin dentro le ossa. E non poteva fare niente affinché cessassero, anche se lo avrebbe voluto, lo avrebbe voluto davvero.
 
 
“Fa male, vero? Non sarebbe meglio che tutto finisca? Perché non ti arrendi?”
 
 
Nonostante quelle domande fossero solo un eco nella testa, Anthea ebbe l’impressione che Steve le avesse udite, perché lui voltò il capo nella sua direzione, l’espressione contratta dal dolore e dalla disperazione, e scosse il capo in modo quasi impercettibile.
Improvvisamente, giunsero fino a loro vibrazioni violente del terreno e, con esse, una smisurata e familiare figura entrò nel campo visivo dell’oneiriana. Hulk stava avanzando verso Abominio, ogni passo faceva vibrare la terra. Aveva i muscoli gonfi, la mandibola tesa, i denti scoperti, lo sguardo tagliente e le vene del collo pulsavano. Tutto gridava una rabbia incontenibile. In battito di ciglia, Hulk trascinò via Abominio con la stessa violenza del risucchio che segue una gigantesca onda anomala.
 
 
Andrà tutto bene.
 
 
Anthea si tirò su, sulle ginocchia. Il sangue continuava a colarle dalla tempia e metà del viso ne era imbrattata. Con la mano destra, il cui palmo finì nella pozza vermiglia sulla strada, si diede la spinta per tornare in piedi.
Un passo alla volta finì per raggiungere Steve, ancora disteso a terra. Si lasciò cadere in ginocchio al suo fianco e gli prese una mano, per poterla stringere al petto. Curvò la schiena e le loro fronti entrarono in contatto. Steve aveva il respiro accelerato e non riusciva ad articolare neppure una singola sillaba.
 
“Andrà tutto bene” gli sussurrò dolcemente. “Andrà tutto bene.”
 
Le loro fronti si separano e Anthea fece per tornare in piedi, ma Steve non le lasciò andare la mano, la strinse fra le sue dita con la poca forza a disposizione e una muta preghiera rese liquide le iridi cerulee. Allora la giovane lo vide di nuovo, il suo stesso riflesso che si stagliava in quelle iridi così limpide e vide in esso l’ombra della morte. La metà sinistra del volto era nera come il carbone, percorsa da sottili crepe incandescenti, e quel cancro visibile si stava allargando, le mangiava la pelle e la spaccava senza farla sanguinare.
 
A volte, per distruggere un mostro era necessario un altro mostro.
 
“Andrà tutto bene” ripeté lei e sfilò la mano dalla presa poco salda del compagno.
Fece un primo passo incerto per allontanarsi da lui e, prima che potesse muovere un secondo e più deciso passo, le dita fredde di Steve le circondarono la caviglia e si aggrapparono ad essa.
 
“A…aspe…aspetta” fu il sussurro spezzato che il suo compagno trovò la forza di tirare fuori e lo sforzo fu tale da sottrargli il respiro.
 
Anthea portò a compimento il secondo passo, vincendo senza alcuna fatica la debole resistenza impressa nelle dita che tentavano disperatamente di trattenerla.
E senza più alcuna esitazione, la giovane oneiriana si trascinò verso il muro vermiglio di foschia. Un gruppo di ombre sbiadite la raggiunse e i loro corpi fumosi la circondarono, la sostennero e la spinsero in avanti, allo stesso modo di un vento provvidenziale che gonfia le vele di una barca, permettendole di uscire dalla bonaccia.
 
 
 
 
Tum. Tum.
 
Tum. Tum.
 
Tum. Tum.
 
 
 
Fa male. Voglio che tutto finisca.
 
 
 
 
 
 
I feel a change in the atmosphere
I never thought I’d end up back here
Divided, alone, afraid
In a breath my chains reappear
And I build it all up just to watch it fall down
And I’m digging all up what I’ve buried underground
I’m losing, I’m losing control
I’m losing control
I’m losing control
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Note
 
Sono tornata e, come sempre, ringrazio tutti coloro che sono arrivati alla fine di questo nuovo capitolo e un grazie speciale ai coraggiosi che continuano a seguirmi! Spero di essere riuscita ad intrattenervi almeno un po’ 😊
I versi finali in inglese sono tratti dal testo della canzone “Losing Control” dei Red.
Spero di non sparire troppo a lungo! Siamo alle battute finali! 😉
 
Un caloroso abbraccio ❤️
 
Ella

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