Everything's changing, but... nothing will really change.

di _aivy_demi_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 01 zucchero ***
Capitolo 2: *** 02 febbre ***
Capitolo 3: *** 03 I can't explain and I won't even try ***
Capitolo 4: *** 04 bagliore ***
Capitolo 5: *** 05 hospital ***
Capitolo 6: *** 06 scheggia ***
Capitolo 7: *** 07 ***



Capitolo 1
*** 01 zucchero ***


 

 

Everything’s changing,
but…
nothing will really change
.

01.
zucchero

 

 

«È la solita mattinata qui a Springfield, il sole splende nel cielo, l’autunno colora le strade e i parchi di accesi toni arancio e ocra, per poi stendere un manto di calore sul… ma chi ha scritto queste stronzate? Licenziate immediatamente quel mentecatto, mi rifiuto di continuare a leggere il copione. No, no tizio qualunque, tu adesso te ne vai e mi lasci fare il mio lavoro, perché sono io qui a mandare avanti la barac-… ehi, rispetto, ti mando a gestire il meteo alle due di notte su Canale 6 se non la fai finita, ti declasso, ti… ti…! Ah, non vale neanche la pena discutere con voi. Qui è Springfield, la solita, noiosa cittadina dove non succede mai niente, niente di niente. Se volete qualcosa di cui parlare andate al Jet Market alla solita rapina del giovedì, dove anche il tentato furto è una routine dimenticabile. E da Kent Brockman è tutto. Io giuro che stavolta mi incazzo. Ma come? State ancora registrando? Chiudete, chiudete!»
Il noto conduttore televisivo sbatté violentemente la porta del furgone della emittente televisiva, facendolo cigolare sulle sospensioni di qualche anno di troppo; detestava quel rumore, accompagnava ogni sua uscita, ogni patetico giorno sulle strade di Springfield. I tempi dedicati al suo lavoro li stava contando sulle dita ogni volta di più, anno dopo anno, rendendosi conto di fare parte sempre e comunque della stessa, anonima fetta di mondo chiamata “nulla”. Addio ai grandi propositi di gioventù, all’idea di una gavetta di passaggio per poi approdare su canali importanti, più di quello a cui stava dando tutto. Insomma, troppe primavere dedicate a un avanzamento di carriera fermatosi alla scrivania del Canale 6. Il pugno non ammaccò la carrozzeria, anche se l’uomo avrebbe voluto volentieri distruggerla a mani nude, assieme alla frustrazione che gli aveva mangiato il fegato e l’equilibrio del sonno. Pensò spesso di cambiare lo slogan di chiusura delle sue interviste con “e dal niente, è tutto.” Suonava però troppo strano, e aveva rinunciato pure a quello. Nemmeno i copioni dei programmi se li scriveva più da solo, avvalendosi di una schiera di giovani talentuosi, a detta dell’agenzia interinale, che avrebbero fatto tutto per lui con la scusa di un apprendistato ben poco retribuito; sorrise amaramente nel constatare quanto quel sistema stesse facendo schifo sotto tutti i punti di vista, ma chi era lui per poter cambiare, e contribuire a far cambiare le cose?
Estrasse una sigaretta dall’immancabile pacchetto di Laramie, un gesto lento e abituale, una amicizia di lunga data.
Il fumo un compagno obbligato di scarica tensiva.
La soddisfazione di qualche minuto.
E al diavolo i polmoni.


«Oh, non immaginavo affatto di incontrarla qui, signor Brockman. Qual buon vento la porta dalle parti di Evergreen Terrace
Una voce poco familiare distrusse il piccolo momento di quiete del reporter, irritandolo ancor più del precedente fiasco della giornata lavorativa. I suoi benedetti dieci minuti erano sfumati nel nulla lasciando solo del catrame nel petto e un odore acre addosso. Sapeva di aver già visto quella donna, in più occasioni: ne era certo, non ricordava esattamente di chi si trattasse, in fondo di volti ne aveva incontrati così tanti che distinguerli e ricordarli tutti sarebbe stato impossibile. Eppure… quella capigliatura così particolare avrebbe dovuto archiviarla sicuramente: onde ricce blu, raccolte verso l’alto. Un blu innaturale, sicuramente frutto di una tinta selvaggia a coprire alcune sfumature grigie che si intravedevano ai lati delle tempie. Una gradevole cinquantenne certo, ma lo sguardo, quello pareva spento, stanco.
Smettila, Kent. Non psicanalizzare tutto e tutti, o farai la solita figura di merda.
Qualcosa in lei gli stava dicendo di darle un po’ di attenzione.
Un cenno forse, o una parola.
Attenzione, appunto.
«Buongiorno, signora.»
Perché no, forse una volta tanto sarebbe uscito da quella bolla di egoismo e autocommiserazione, e avrebbe fatto qualcosa per qualcun altro.


«Immagino non si ricordi di me, beh, certo che no. Come potrebbe? In fondo, conosce così tante persone che una come me passerebbe nell’anonimato.»
Un modo strano di esordire, quasi imbarazzante, quello di Marge Simpson: la sua capacità di non filtrare più molto bene le parole createsi nella sua testa le stava dando filo da torcere, accostata alla logorrea selettiva che non era in grado di controllare granché. Si massaggiò le braccia con dita intirizzite, quel pomeriggio l’aria era particolarmente fredda. Avrebbe voluto abbottonare la giacchetta coprendosi maggiormente, ma le pareva un gesto di scortesia nei confronti di un elemento importante, proprio lì, sul marciapiede di una anonima zona residenziale springfieldiana. Fece finta di nulla scostando lo sguardo: “non guardare mai nessuno negli occhi se non hai confidenza, Marjorie Jacqueline Bouvier. Ricorda i consigli di mamma.”
Kent si prese qualche secondo per osservarla: se avesse steso con le dita le rughe attorno agli occhi e alle labbra sottili, svestendola di un poco e ringiovanendola con un trucco leggero e perché no, una capigliatura diversa, l’avrebbe resa forse più attraente, ma si rese conto di aver concepito un’idea inadeguata e particolarmente stupida. Le sue iridi si fermarono un momento di troppo sul collo magro nascosto in parte dal colletto della camicia azzurra.
Smettila, sei patetico. Sì e no la conosci, cosa ti passa per la testa?
Giusto, quel pensiero insistente di conoscerla senza averla ancora riconosciuta premeva contro le tempie, spingendo per uscire.
«Senta, non è ch
«Mi scusi, potremm
I due si interruppero a vicenda e sorrisero nel farlo.
L’aria parve più leggera, di poco, sufficiente a mostrare a entrambi quanto la stessero facendo difficile.
Lasciala stare, Brockman. Sarà sposata, avrà qualche pargolo al seguito.
«Continui pure, signor Kent. Non volevo interromperla.» Il lieve rossore sul volto della donna tradiva una certa curiosità in quell’incontro inaspettato, fuori luogo e a tratti incredibile. Lei, una Marge qualunque, stava parlando con una persona che lavorava alla televisione. Senza danni, senza problemi, senza l’immancabile presenza del marito a dare spettacolo.
Un pessimo spettacolo.
Sospirò lei, rimangiandosi le poche parole che era riuscita a esprimere prima di fermare la voce. Avrebbe volentieri passato ancora qualche minuto in presenza dell’uomo, ne aveva di domande da esporre, altroché! Nelle mattine di solitudine guardava spesso la televisione, tra una pulizia convulsa e il pensiero dei ragazzi a scuola (non tanto il primo, ma la più piccola… una adolescente che non ne voleva sapere di sottostare alle regole), e fantasticava sul poter parlare con qualcuno dei personaggi che si intervallavano alla pubblicità snervante.
E così fu. Soltanto che in quel momento scomparve ogni singola traccia di spavalderia: averne uno di fronte era tutta un’altra cosa.
«Le andrebbe di andare a prendere un caffè?»
«Come, scusi?» Marge sorrise isterica: Kent Brockman la stava invitando sul serio a passare del tempo con lei? Incredula. E improvvisamente silenziosa. «Io? Una come me?» Coprì le labbra con le dita, mostrando inequivocabilmente – o forse come un muro di difesa – la vera all’anulare sinistro, un anello che negli ultimi anni aveva stretto la circonferenza sul dito sottile. Di più, sempre di più.
«Una come lei, esatto. Con chi ho l’onore?»
«Simpson, sono Marge Simpson.»


Marge si guardò attorno stupita: il locale era piccolo, confortevole, poco frequentato. Una viuzza laterale al centro, un angolo di quiete nella vita cittadina di ottobre. Le pareti bianche davano modo ai colori dell’arredo di spiccare. “È più bello di casa mia, qui…” pensò, innamorandosi delle rifiniture ricercate, dell’illuminazione, dello stile. Si sentì fuori luogo, un disagio insinuatosi nel petto e all’interno dei vasi sanguigni, divertendosi a disturbarla con un cinismo acuto e veritiero: “non potrai mai permetterti un posto simile, rassegnati.”
Lei, infatti, s’era rassegnata già da tempo.
Si strinse nella giacca, aggrappandosi alla consapevolezza di una vita sola, quella che aveva scelto di seguire più di venti anni prima. Si fece più piccola sulla comoda seduta, realizzando d’aver sbagliato ad accettare l’invito da chi di lei non conosceva assolutamente nulla. L’imbarazzo le si incollò ai nervi, portandola a tremare leggermente tenendo stretta la tazzina di caffè raffinato.
Buono.
Amaro, ma buono.
Davvero, non ne aveva mai assaggiato uno così.
«Lo beve senza zucchero, Marge?»
«N-no, no. Ora lo metto.» Allungò il braccio a raccogliere la bustina al centro del tavolino in stile, delicatamente laccato. Non beveva mai caffè amaro, ma la soggezione era tanta che anche un semplice gesto come quello le pesava. Ma ora, effettivamente, il caffè era ancor più di suo gusto.
«Spero di non averla sconvolta oggi, così, su due piedi. Potrebbe sembrare strano, ma sono convinta di conoscerla già.»
«Pure io», rispose rapida, recuperando con un ovvio «ma mi sembra normale, la guardo tutti i giorni al notiziario. Che stupida, mi scusi.» Ed eccola, a chiedere di nuovo scusa per una stupidaggine. Come sempre.
«Non si preoccupi. Perché dovrebbe scusarsi per una cosa simile? La prego, non si dia della stupida. Non lo è. Anzi.» Non avrebbe dovuto sbilanciarsi Kent, ma Marjorie era così palese nelle sue dimostrazioni, nelle reazioni, che le pareva una creatura gracile e spaventata. Di cosa poi? Non sapeva ancora, e forse sarebbe stato meglio non indagare nemmeno.
Parlarono di poco e di tutto, non solo del più e del meno: di come fosse cambiata Springfield, di quanto i vecchi amici erano in realtà ormai accasati, o divorziati – già più semplice – e di quanto una volta fosse tutto più facile. Alcuni eventi cittadini a cui avevano partecipato entrambi furono aneddoti atti ad alleggerire l’umore pesante del cuore della donna, oramai rilassata. Rise pure, dimenticandosi di sé e di una sensazione familiarmente nera nella gabbia toracica. Un orologio biologico dalle lancette dolorose la stava avvertendo di dover tornare a casa, ormai i ragazzi sarebbero arrivati a momenti, e con loro…
«Marge? Mi sente? Tutto bene?»
Suo marito sarebbe tornato a breve da lavoro, scaricando su di lei frustrazione, vomitandole addosso quanto si stesse sentendo inutile e sottopagato, sottostimato, sottovalutato. Oramai parlavano soltanto di problemi, dei suoi problemi.
I problemi di Homer Jay Simpson.
E addio Marge.
«Se è per qualcosa che ho detto…» Kent parve rabbuiarsi, credendosi l’artefice di quella nebbia che era scesa sugli occhi di lei. Si allungò per sfiorarla, tentando forse di riportarla al presente, una realtà da cui si era estraniata per qualche secondo.
Un cellulare suonò, insistente, strillante, alto. Spezzò tutto: dalla tranquillità di quel pomeriggio nuvoloso, alle chiacchiere che ormai avevano preso una piega leggera e un ritmo piacevole. Spezzò quei momenti di Marge, solo di Marge, solo per lei… li strappò gettandoli nel cestino della coscienza della donna, dove più volte aveva cercato di incastrarci tutti i brutti ricordi, le esperienze orribili, lo schifo che si era trascinata dietro per tutti quegli anni.
Kent la guardò, Marge ricambiò, affranta.
«Dimmi, papi.»
E lì Brockman ricordò, come avesse ricevuto un calcio alle costole tanto ben assestato da scaraventarlo sul pavimento: era lei, Simpson, la moglie del pazzo che aveva malauguratamente dato fuoco a un appartamentino in periferia. Simpson, il suo primo reportage sul posto, il primo lavoro da dipendente del Canale 6.
Marge Simpson, la donna che gridava terrorizzata, trattenuta dai volontari dei Vigili del Fuoco, mentre vedeva le fiamme divorarle tutto quello che aveva. Sogni, libri, progetti, un piccolo affitto dal lavoro alternato al primo anno di college.
Tutto in cenere.
E Kent si sentì schiacciare.
Era lei. Erano le sue lacrime quelle che aveva visto, le sue grida, i gemiti e le ginocchia sull’asfalto bagnato mentre la palazzina veniva messa in sicurezza dagli organi competenti.
Sapeva di averla già vista, ma non avrebbe mai pensato di ricordarla attraverso due occhi spaventati e una sola parola: “papi”.  


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Capitolo 2
*** 02 febbre ***


 

 

Everything’s changing,
but…
nothing will really change
.

02.
febbre

 

 

«La-lasciami stare, mamma… ahn… non… non ho bisogno di aiuto, lo sai.»
Marge guardò sua figlia minore con aria contrariata: aveva solo dodici anni Margaret, certo che aveva ancora bisogno della mamma. Sicuro. Così come era sicuro vedere il sole nascere al mattino da est.
«No, no, signorinella. Ti sei presa un febbrone da cavallo, ora dammi quel termometro e bevi la tisana che ti ho portato.» La donna adagiò il vassoio con la tazza bollente sul comodino, raccattando fazzoletti usati e spostando il blocco note su su cui Maggie annotava, disegnava, schizzava: parole accostate a segni di carboncino si mescolavano sulla carta, mostrando un lato della ragazzina che la madre ancora non aveva ben inquadrato. Si chiedeva spesso da chi avessero preso le sue bambine, la maggiore una musicista jazz che portava fieramente avanti la sua passione, esibendosi in qualche locale di Springfield e limitrofi; la minore riusciva a estrarre di tutto dalle mine di quelle matite.
E lei? Beh, Marge aveva una certa predisposizione per le pulizie, lo skip delle pubblicità alternate ai video sul cellulare e una buonissima gestione delle faccende della casa.
Suo marito? Beh, sapeva…
Sapeva…
Era un uomo multitasking, questo bisognava concederglielo. Era capace di mangiare, ubriacarsi e fare danni nello stesso identico, preciso momento; litigare, ridere ed estraniarsi senza nemmeno accorgersene. Non che fosse un vanto, ma era sicura che questa sua capacità di sdoppiarsi sarebbe tornata utile un giorno. Se fosse rimasta con lui fino a quel momento, ovvio.
Wow. Non lo pensò e basta. Lo disse proprio.
«Cosa… cosa c’è, mamma?»
La donna si riscosse dalle riflessioni in cui si era chiusa, scuotendo la testa e scacciando i pensieri con un gesto distratto della mano. «Nulla, tesoro. Nulla. Adesso bevi questo, ci ho messo un po’ di miele dentro, sai?»
Anche se la voce aveva esternato un chiaro “non sono più una bambina”, Maggie bevve rifugiandosi in un calore dolce, avvolgente, famigliare: sua madre sapeva sempre come trattarla e da che lato prenderla, questo era certo.


«Mamma, sono tornata!» La voce squillante di Lisa riscaldò l’ingresso di casa, colorò le pareti invecchiate dal tempo, spezzò il silenzio. «Dove è papo?» Aveva una grande notizia per lui, era elettrizzata: sapeva un giorno sarebbe stata in grado di unire ciò che le piaceva al burbero genitore che pareva non avere nulla in comune coi propri figli. Era riuscita a ottenere due pass VIP per una serata speciale in uno dei locali in cui lavorava sporadicamente: nonostante sapesse dell’odio che Homer nutriva nei confronti del jazz, sapeva del suo amore per la musica rock e per i Rolling Stones. E quella serata era dedicata a entrambi, rendendo facile così una occasione di vicinanza. Stringeva così forte i biglietti da sentirli tremare tra le dita. Urlò un paio di volte il nome di lui cercandolo con lo sguardo in salotto, raggiungendo poi la cucina camminando a passo spedito.
«Papo
Niente. Non c’era traccia di lui.
Il volto di Lisa si illuminò mentre saliva le scale per raggiungere il primo piano, ricordandosi all’ultimo di saltare il terzultimo gradino che scricchiolava un po’ troppo. Guardò in direzione del bagno, poi si voltò verso le camere nella speranza di una sua presenza: in fondo l’orario di lavoro era finito da un pezzo, l’avrebbe trovato steso a letto a bersi una Duff e guardare la replica di qualche stupido talk show datato. Lo conosceva fin troppo bene, sì, sapeva sarebbe stato così.
A metà corridoio incrociò la madre. Ancora speranzosa sventolò il tesoro che le era costato quattro giorni di lavoro non retribuito per ottenerlo, attirando l’attenzione della donna: le occhiaie profonde che contornavano infelicemente il volto di Marge la bloccarono, ma si riscosse subito. Mamma aveva quei segni violacei ogni volta che qualcuno stava male in casa, se lo ricordava più che bene: da bambina registrava con attenzione elementi e caratteristiche dei suoi familiari, così da captare in anticipo qualcosa che non andava.
E infatti…
«Cosa c’è?»
«Tesoro, ben tornata. Scusami, ma proprio non ti avevo sentita arrivare… niente di che, tranquilla, Maggie ha la febbre alta e faccio fatica a fargliela scendere. La mia piccolina…»
Lisa sospirò rassegnata e le sorrise con il cuore in mano: «mamma, Maggie non è più tanto piccolina, puoi stare tranquilla. Ormai è capace di dirci cosa le succede e perché sta male. Adesso scendi con me e ci beviamo un caffettino, che dici?»
«So che non è piccola, ma sai che si rimane mamme per sempre, vero?»
Questa frase la ragazza la registrò nella sua banca dati cerebrale, ma non sarebbe riuscita a comprenderla se non anni dopo; anche se incuriosita preferì glissare sull’argomento, ricordando il motivo per cui stava correndo per tutta casa con grande foga.


«Ma come? È impegnato anche questo fine settimana?»
La parola “anche” uscì in modo esasperato dalla bocca di Lisa. Tutto l’entusiasmo che aveva incamerato nelle ultime due settimane, regalando le sue ore al locale e ottenendone in cambio una serata padre/figlia che attendeva da parecchio, scemò.
Anzi, crollò letteralmente sul pavimento.
Con un tonfo sordo.
«Sì, tesoro, mi spiace. Ha preferito, beh…» Marge avrebbe edulcorato la sua affermazione? «dicevo, ha avuto un impegno importante al lavoro, l’hanno avvertito proprio all’ultimo e non ha potuto dire di no. Scusami.» Sì, anche stavolta, dopo diciotto anni, aveva indorato la pillola per sua figlia, per restringere il campo della delusione.
Lisa non rispose.
Di silenzio ne aveva parecchio ancora da donare dopo tutte le volte che Homer Simpson aveva calpestato il suo entusiasmo e le sue ambizioni. Avrebbe stretto tra i denti l’orgoglio e l’amore che provava per lui, facendo finta di nulla e mandando giù, sempre più giù fino a camminare sulle sensazioni che stava provando. Proprio come le aveva insegnato la madre durante l’infanzia. Sorseggiò distrattamente il contenuto caldo della tazzina, non facendo caso al sapore da discount della miscela; ci si abituava, come ci si era abituati da tempo a non permettersi più le vacanze ogni anno, d’estate, oppure il nuovo modello di smartphone. Non erano cose di gran peso per lei, ma ricordava con nostalgia i viaggi fatti quando era bambina, le tante ferie sfruttate al massimo, aerei, treni, città, monumenti… cibo per la sua mente curiosa, esperienza per la sua voglia di imparare. Gli anni però le avevano insegnato che tutto costava sempre di più, tanto da dover a un certo punto regolare l’intero tenore di vita della famiglia in base all’unico stipendio che entrava. Naturalmente non aveva mai curiosato, o stressato la madre sul motivo per cui lei stesse costantemente a casa, senza produrre sostanzialmente nulla del reddito totale. Erano cose che non si dovevano chiedere. Giusto?
O forse, semplicemente, era arrivato il momento di indagare?
Indecisa sulle parole da scegliere per domandare una cosa così ovvia ma personale, notò come la mente della donna che se ne stava seduta di fronte a lei stesse vagando da qualche parte: il cucchiaino tintinnava sulla tazza di ceramica preferita di lei, una vecchia eredità della famiglia Bouvier. «Senti, mamma, posso chiederti una cosa?»
Marge non rispose, ricordando con nostalgia profumi particolari, il gradevole sapore sulle labbra, una conversazione iniziata nell’imbarazzo totale con un certo reporter, portandola poi a sentirsi al centro dell’attenzione, di un’attenzione qualsiasi. Da una persona qualsiasi, l’ultima da cui avrebbe mai immaginato di sentirsi anche solo minimamente considerata.
«Mamma?»
«Mhn
«Dicevo, posso chiederti una cosa?»
«Certo tesoro, sono qui, dimmi pure.» Aggiunse un altro cucchiaino dalla vecchia zuccheriera. No, il sapore del caffè non sarebbe migliorato. E questo era davvero un peccato.
«Perché hai sempre lavorato poco?»
Il tintinnio del metallo sulle piastrelle della cucina risuonò più del dovuto: la presa delle dita sulla posata aveva ceduto.
«Oh… scusami, cara…»
La donna si chinò a raccoglierla, rallentando la salita.
Da quando faceva così fatica a eseguire movimenti altrimenti naturali? Un piccolo, leggero dubbio si insinuò nel cervello analitico di Lisa: un campanello d’allarme?
E se lei non se ne fosse semplicemente mai accorta?
«Lascia stare mamma, non serve rispondere se non vuoi.»
Marge sospirò, una ciocca di capelli scuri ricadde sul viso, oscurandone la luce ormai pallida che lo contornava; ciò che era rimasto di quella luminosità fresca e piacevole di venti anni prima, era ben poco. Una vitalità giovane scappata pian piano, un passetto alla volta. Dalla fede al dito alle nascite non previste, persino la pelle pareva spenta.
«Tesoro, facciamo così: adesso lasciamo stare, dammi qualche giorno, recupero un paio di cose dal dottor Hibbert e poi ne riparliamo.»
«Sicura?» Lisa pareva sospettosa e non solo per l’improvvisa tranquillità con cui la donna si stesse esprimendo dopo essersi praticamente bloccata, ma anche per il coinvolgimento del loro medico di famiglia. Stava già selezionando alcune parole chiave da archiviare per una eventuale ricerca su Google quando un forte gemito biascicato dal piano di sopra interruppe qualsiasi interazione. Gli occhi di Marjorie si spalancarono, saltò dalla sedia come scottata e guardò per un attimo la figlia maggiore, intimandole di non seguirla. Non è necessario, le iridi avevano detto.
Non è necessario tu mi segua di sopra, sono una madre e so cosa fare in questi casi.
Non è necessario tu approfondisca, tu sei mia figlia, non devi preoccupartene.



«Mamma?»
La risposta non arrivò. La casa era gelidamente silenziosa, non certo per la temperatura ben poco mite di un autunno più freddo del solito. Un dolore lontano le morse le costole, schiacciandole contro lo sterno e i polmoni. Troppo silenzio.
Per una logorroica come sua madre, era davvero raro.
Si alzò e seguì i primi gradini.
«Mamma? Tutto a posto?»
Era arrivata a metà scala, la mano poggiata distrattamente su una delle tante fotografie appese sul muro: la cornice semplice, color legno scuro, inquadrava tutti e cinque, un adorabile – ipocrita – quadretto familiare.
«Li… Lisa…! Lisa, chiama l’ambulanza, Maggie ha le convuls

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Capitolo 3
*** 03 I can't explain and I won't even try ***


 

 

Everything’s changing,
but…
nothing will really change
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03.
“I can’t explain and I won’t even try”

 


Bartholomew Simpson non era certo famoso per la finezza d’espressione e la quiete di carattere, anzi: il suo essere stato lasciato allo sbando da bambino lo aveva portato a crescere a ritmi autonomi, con i propri tempi, una certa educazione – assorbita a pelle dagli sforzi della madre, ma archiviata in un angolo polveroso – e una impazienza innata.
La chiamata era arrivata circa un’ora prima, la voce di sua sorella minore Lisa pareva allarmata, anche se in qualche modo lei tentava sempre di mantenere un certo contegno.
Pure per le brutte notizie.

«Bart, mamma e Maggie sono in ospedale.»

Il ragazzo aveva mollato ciò che stava facendo, lasciando cadere l’attrezzo dalle mani. La ditta di demolizioni in cui lavorava  con cui stava facendo pratica nella vita con alta probabilità non avrebbe apprezzato. Si trattava di sua madre però, l’unica persona che l’aveva sostenuto fin da piccolo, nel dolore, nella rabbia, nella frustrazione. Sua madre era in Pronto Soccorso, la sua piccola sorellina pure… come avrebbe potuto restare impassibile? Il suo centro stava per esplodere, avrebbe dovuto essere con loro.
Tolse il caschetto di protezione lanciandolo sul pavimento dissestato del vecchio caseggiato di periferia, incurante delle parole scurrili cadutegli addosso da parte del supervisore, troppo impegnato a grattarsi il didietro con la mano guantata impolverata dai calcinacci. «Simpson, dove credi di andare? Stavolta sarà l’ultima, ti abbiamo già avvisato!»
Le ultime sillabe si persero nel nulla durante il tragitto rapido fino alla moto. Bart lanciò i guanti di protezione sull’asfalto, fregandosene altamente.
Sono in ospedale, Bart. Hanno bisogno di te.
Il motore spingeva, le ruote mangiavano i pochi chilometri che separavano il cantiere dallo Springfield General Hospital. Il casco era annebbiato dal fiatone corto che non lasciava spazio all’ossigeno.
Non ora, non ora.
Il panico saliva a mangiargli la trachea. Il ragazzo stava lottando con se stesso e una debolezza che si vergognava ad ammettere di avere; inspirò ed espirò.
Una.
Due.
Tre volte.
Dentro e fuori.
Dentro nel naso, fuori dalla bocca.
Altrimenti l’iperventilazione se lo sarebbe trascinato nell’annebbiamento della vista, e non sarebbe stato divertente essere un pericolo stradale in piena emergenza medica, su una due ruote sgangherata d’epoca e con la paura che stava rizzando i capelli biondi sulla nuca al guidatore.
Respirare.
Concentrarsi nel respiro era la soluzione.
Facile a dirsi, con le sue due Speranze chiuse in quattro mura bianche da far spavento e che puzzavano sempre di disinfettante.


«Dove cazzo è il Pronto Soccorso?»
Lisa rispose diligente, sapeva bene che far preoccupare il fratello più del dovuto sarebbe stata una mossa stupida. Già nel dedalo sotterraneo di corridoi la ricezione era quel che era, poi la presenza di decine di diversi padiglioni non migliorava. Bivio: destra dal primo al nono, sinistra dal dodicesimo al quindicesimo, direzione ospedale nuovo. E gli altri numeri? Naturalmente invece di accedere dall’esterno attraverso il traffico e il pagamento del ticket parcheggio, Bart aveva preferito posteggiare abusivamente sul marciapiede di una laterale secondaria, ingresso posteriore.
Gran bella idea, Bart.
Una cosa aveva capito: l’ospedale nuovo era dietro, e lui doveva andare al padiglione principale… indovinandone l’ubicazione nella mappa dimostrativa appesa al muro del bivio numero sei: il punto più lontano in assoluto. Neanche un formicaio pareva così intricato. Cacciò nella tasca posteriore dei blue jeans il cellulare facendo tintinnare la catenella del portafoglio, e ripartì di corsa. Scappare dai ragazzi più grandi da bambino era stato un gran allenamento, così come giocare a baseball solo per qualche misera stagione fino alla tarda adolescenza; si sentiva allenato. E per fortuna, così raggiunse il tanto agognato PS di cui aveva bisogno. Entrò dall’ingresso, sollevato e speranzoso.
Capienza massima tot imprecisato numero di persone.
Comunque, non abbastanza per la scena che gli si era presentata davanti. La sala d’aspetto era ricolma. Pregò di non dover incontrare nessuno di sua conoscenza, ci sperò anche perché non era nemmeno in vena di dover parlare con qualcuno, chiunque. Faccia anonima, faccia sconosciuta, indifferente, ragazza carina, ragazzo idiota, vecchio indefinito, e via così fino a che non inquadrò la figura famigliare di Lisa accanto alla porta che dava agli ambulatori.
Punto strategico, accanto alla macchinetta del caffè.
Bart inspirò, si sistemò alla bene e meglio i capelli scompigliati e si avvicinò. La sfiorò appena e la vide letteralmente balzare sul posto.
«Babi, mi hai fatto venire un infarto! Giuro che prima o poi mi farai collassare…!» il momento di pausa, un semplice gioco di sguardi e Lisa si lasciò andare, sfinita. Abbracciò il fratello e inspirò forte l’odore familiare di cemento, catrame, di strada. Era il suo Babi, il suo fratellone.
«Ehi, ciuccellona, mi stai soffouf! Dai, spostati, ci stanno guardando!» L’aveva detto troppo forte, ricevendo l’occhiataccia contrariata di un buon quarto di locale. Un’alzata di spalle e li aveva già liquidati con una linguaccia – non era mai cambiato poi così tanto.
«Allora?»
«Beh… allora… da dove comincio?»
«Da un tramezzino, direi. Il distributore è lì, sto svenendo dalla fame e ho pure saltato la pausa pranzo.» Bart si fiondò alla macchinetta e ci rovesciò una quantità indefinita di spiccioli prima di riuscire a mettere le mani sull’agognato sacchettino. Ingozzandosi come pochi, ebbe il tempo di finire prima ancora di far parlare Lisa.
«Sei proprio il solito, Babi. Comunque, Maggie è stata male.»
Le palpitazioni Bart le conosceva più che bene, ne aveva sofferto parecchio qualche anno prima, per poi godere di quella sgradevole compagnia solo un altro po’ e vederla scemare con l’allontanamento da casa. Da suo padre. Ora si erano ripresentate forti, dritte fino ai timpani, pompando contro le costole e minacciando di romperle per forare il petto, lasciandolo direttamente a morire stramazzato al suolo. Inalò, si sforzò cercando di ricordare le tecniche di rilassamento che una delle sue ex gli aveva insegnato in un periodo di grande ansia.
Peccato che pareva non funzionare.
E il battito era sempre forte, sempre chiaro, un muscolo lasciato andare all’impazzata senza un freno a mano a stabilire un blocco di sicurezza.
«Babi, calmati, sta bene. Giuro che sta bene adesso.»
«Allora posso entrare a vederla?» Aveva già mosso i primi passi verso la porta scorrevole bloccata, il lampeggiante rosso spento. Non voleva saperne di immaginare la sua sorellina intrappolata in una scomoda barella dentro al corridoio di un ospedale sovraffollato, non lei. Chiunque, ma non lei.
«No, non ancora, al momento è in osservazione e stanno registrando i parametri così da vedere se si tratta di un caso isolato o altro.»
Altro?
Brutta parola dentro a un Pronto Soccorso.
Come altro?
Era sempre stata bene, a parte il problema dal logopedista.
«Ah, ma non stare in ansia, sul serio, tranquillo.»
Lo sapeva Lisa, l’aveva sempre saputo che suo fratello non era in grado di gestire le emozioni forti, non lo era mai stato. Come sapeva che il conforto dato da una persona amica era una medicina efficace in quei casi; il tocco delle dita di lei sulla sua spalla parve tranquillizzarlo a sufficienza anche se lo vedeva contrarsi e rilassare la postura in modo ancora troppo rapido. «Le sono venute le convulsioni a casa. Pensano sia colpa del cambio di temperatura troppo veloce, non è raro anche se non è più una bambina. Certo, devono vedere se succede ancora, ma è alquanto improbabile.»
Bart sorrise sospirando, aveva voglia di piangere: Margaret, la sua pulce ribelle e strana – proprio come lui – ora era sotto controllo, e pareva stare meglio. Gli occhi pungevano, si strofinò la manica della felpa da lavoro lasciando una scia di polvere grigiastra sul volto.
«Allora è tutto a posto, mi sono preoccupato per niente… cazzarola, potevi dirmelo subito, no? Insomma, ho lasciato il lavoro su due piedi, ho rischiato tre incidenti e passato un paio di semafori rossi. Mi sono fatto chilometri di corsa in quella cosa che chiamano percorso interno coperto, e ora è tutto a posto…» l’ultima parola la sussurrò piano, voleva godere di quel suono: “a posto.” Un bel accostamento di sillabe, assolutamente.
Cuore meno veloce.
Dolori più lievi.
Orecchie vuote di pensiero.
Formicolii meno pesanti.
Si lasciò cadere improvvisamente sfinito su una delle sedioline in plastica senza neanche premurarsi di scostare la borsetta della sorella, e sbuffò sollevato. Una stanchezza strana gli aveva prosciugato ogni singola energia. Un respiro fresco dopo una alterazione che non era sicuro sarebbe riuscito a gestire ancora, in mezzo a tutta quella gente.
«Le aspettiamo e andiamo allora? Stasera ordino da Luigi, pizza per tutti. Mi hanno pagato l’altro giorno, si festeggia.»
«Aspetta, Babi. Aspetta.»
Il ragazzo alzò lo sguardo su di lei contrariato, non gli pareva affatto una cattiva idea ciò che aveva proposto, anzi.
«Dobbiamo aspettare mamma.»
«Vabbè, esce una, esce l’altra. Ci vorrà qualche minuto per la carta di dimissioni ma poi andiamo, e stavolta mamma non potrà lamentarsi se porterò Maggie in moto con me.»
Lisa parve fortemente a disagio.
«Beh?»
«Maggie sicuramente verrà con noi, ma mamma… non credo.»
Sigillato lo stomaco, chiusa la bocca.
Trachea stretta, polmoni fermi.
Cuore nel cervello, tutto troppo forte.
Tutto troppo doloroso.


«Tesori, che ci fate qui?»
Marge era tranquilla, così tranquilla da sembrare… finta?
Rilassata, sfiancata sul letto dell’ambulatorio numero 3. Un accesso alla flebo sulla mano sinistra, il misuratore di pressione e il saturimetro sull’altro braccio. Una coperta a coprire il classico lenzuolo a trame geometriche azzurre e bianche, tipico di ogni singolo plesso ospedaliero del Paese. Lei lì, i capelli disordinati e sciolti sul cuscino, il letto elettrico impostato su una comoda seduta; i tre figli avrebbero pensato al meglio, non fosse stato per i cerchi violacei attorno agli occhi e un sorriso stranamente sgargiante sul volto pallido e sfatto.
«Come che ci facciamo qui, mamma? Ho scaricato il lavoro quando ho saputo di Maggie, sono diventato un isterico quando Lisa mi ha detto di te. Si può sapere cosa ci combini?»
Marge pareva confusa, come se non ci fosse stato alcun bisogno di spiegare nulla. Era lì, Margaret stava bene, Bart non litigava con nessuno e Lisa era passata pure a trovarla: le sue tre meraviglie al suo capezzale e non se ne rendeva nemmeno conto, drogata di tranquillanti com’era. Più che parlare biascicava stanca, un anomalo rumore di risucchio proveniva dalle sue labbra, come se stesse insistentemente succhiando una caramellina dura. Lei non era mai stata sostenitrice delle caramelline dure.
La conversazione non fu poi così lunga: i parametri parevano nella norma, l’ossigenazione era perfetta, la temperatura anche, e i quattro erano lontani dal caos del reparto ancora affollatissimo. L’ansia pareva essere stata abbandonata al di fuori della stanza, i medici avevano infatti permesso ai ragazzi di entrare; solamente Lisa era impostata nella conversazione, era quella che aveva parlato meno e anzi stava psicanalizzando i due fratelli come era solita fare – come era solita fare sbagliando.
Effettivamente perché lei era l’unica che sapeva.
Era l’unica che aveva ricevuto le prime direttive dal medico del Pronto Soccorso per la gestione di un ricovero.
Marge promise si trattasse soltanto di una notte di controllo, e li abbracciò tutti, mostrandosi raggiante. Scrisse su Whatsapp una breve lista di cose che le sarebbero servite, dal caricabatterie a un cambio completo di vestiti, e perché no, un paio di pantofole. Ringraziò Bart per la sua presenza, assicurandogli che un gesto così bello – quello di lasciare il lavoro a metà per correre da lei in ospedale – non sarebbe stato dimenticato; gli sussurrò quanto lei gli volesse bene e quanto avesse apprezzato la sua presenza lì, sentendolo chiaramente sorridere sulla propria spalla. Maggie fu meno fisica e impulsiva, lontana più degli altri emotivamente: che ci poteva fare, era così, lo era sempre stata dal momento in cui aveva cominciato le elementari. Salutò con un mezzo sorriso dipinto sul volto e con un rapido cenno della mano, ricevendo in risposta uno sbuffo.
Si separarono al momento dell’ingresso di uno dei medici e dell’infermiere che aveva disposto la saletta a controllo e visita, il sorriso cordiale con cui avevano permesso ai ragazzi di entrare si era trasformato in una espressione dura – stanchezza, bisogno e lavoro, tanto lavoro, troppa gente. Marge scrisse rapida a Lisa di non accennare ancora nulla agli altri di ciò che era stato riferito in privata sede, inviando incurante degli errori grammaticali dati dal correttore automatico dell’app chiedendole una rapida, ultima conferma con gli occhi.
Una conferma strappata a fatica.


L’ultimo posto a destra della stanza di ricovero temporaneo permetteva a Marge uno scorcio sul corridoio ambulatoriale, notando con sfiancata e fumosa lentezza lo scambio dei pazienti che si rinnovava poco a poco. Le lamentele di chi stava al di là di quella porta schiusa arrivavano lontane ma costanti; lei era già stata visitata, trasferita per la notte e con in vena un farmaco o due per mantenerla tranquilla. I parametri continuavano sulla buona strada, venendo registrati costantemente così come quelli degli altri pazienti presenti lì accanto. Una semplice tendina verde a separarla dal resto, dai macchinari tutti uguali, dal rantolo di chi non riusciva a prendere sonno e chi, invece, come lei, stava riposando.
Un dormiveglia quieto.
E infine aveva ceduto, dopo tutti quegli anni a stringere i denti, serrare lo stomaco e inghiottire l’orgoglio.
Per paura di non riuscire a controllare ciò che accadeva ai suoi figli, aveva ceduto.
Non che fosse un episodio grave, Margaret in fondo era stata subito meglio già in ambulanza, però era stato l’ultimo di una serie di snervanti accadimenti che avevano portato la donna a non volerne sapere più di niente.
Per un attimo, eh.
Solo per uno.
Credette di poter mollare la presa e lasciarsi andare.
E la crisi era cominciata allertando gli stessi medici che avevano visitato sua figlia.
Sapeva non sarebbe uscita di lì il giorno dopo, come probabilmente non quello successivo. Lei e Lisa erano lì quando il medico spiegava di aver bisogno di qualche tempo in più analizzando la storia clinica e i dati ricevuti. Era già prevista una presa in carico da ulteriore reparto ma la donna aveva preferito non allarmare gli altri due figli che erano all’oscuro di ciò che le stava accadendo.
Ma Lisa no.
Lei aveva guardato, osservava, spiava, ecco.
Lisa spiava in casa, e aveva colto già qualche segno di forte malessere che da sporadico si era presentato più spesso, fino a diventare improvvisamente incontrollato. Così il messaggio ricevuto dalla madre durante il congedo da quella stanza aveva di botto illuminato quel posticino della mente dove lei aveva archiviato episodi, parole, sensazioni e teorie: “non posso spiegare, e non ci voglio nemmeno provare.”

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Capitolo 4
*** 04 bagliore ***


 

 

Everything’s changing,
but…
nothing will really change
.

04.
bagliore

 


Che sera quieta, concluse Ned Flanders osservando la volta stellata di ottobre: il frescolino che aveva scompigliato i suoi baffi perfettamente curati riempì il volto di pelle d’oca, facendolo sorridere. Nostalgico si strinse sulle spalle la coperta di pile che sua moglie Maude amava, prima di passare a miglior vita e raggiungere il Signore a cui tanto loro si erano votati. Chiuse gli occhi preso da un improvviso sconforto, espirò e si chiese ancora una volta – una delle tante – come si stesse sentendo l’anima della sua adorata, lassù, in quel paradiso che aveva sempre immaginato caldo e speciale per lei, bianco e semplice, cordiale.
Un paradiso che pregava esistesse.
Immaginare la moglie in un luogo nullo, o peggio ancora svanita nel buio, annientata, polvere in una bara sottoterra... no, non era così che aveva imparato a sognare, vivere e reagire.
No.
Anche se…
Scosse la testa vergognandosi del ricordo di aver dubitato dell’esistenza stessa del suo Dio, una entità così benevola e sempre presente che si era presa ciò che lui amava di più. Sì, per un periodo lasciò da parte la Chiesa, le confessioni, l’aiuto alla comunità e la disponibilità verso un prossimo di cui non voleva prendersi carico. Soprattutto quando il prossimo portava il nome di Homer Simpson. Ned si era sempre convinto con tutto se stesso, nel cercare di rigettare la cattiveria che gli aveva divorato la mente per mesi, che la morte di sua moglie fosse stata un tragico incidente.
Effettivamente lo era stato.
Il problema era che ci accostava fin troppo spesso il termine evitabile, e sapeva in cuor suo, profondamente, (lì dove anche la religione in cui cercava e dava tanto appoggio difficilmente sarebbe arrivata), che la colpa era di quel uomo e del suo comportamento sfrontato, disastroso, a tratti innominabile. Certo, però… chi era lui per giudicare?
Nessuno, ovvio.
Soltanto che aveva visto, subìto, appreso così tanto in tutti quegli anni di vicinato che aveva persino identificato il capofamiglia dei suoi vicini come una prova ultima che il Signore gli aveva dato per poter migliorarsi, e comprendere quanto la vita potesse essere un dono prezioso. Sconvolto dallo stesso pensiero cattivo che aveva tinto di buio per qualche minuto le sue rasserenanti riflessioni serali, rientrò in stanza senza chiudere le tende della finestra, dimenticandosi come spesso accadeva di avere una panoramica diretta sul piano superiore della casa di fianco, e sulla camera padronale dei suoi vicini.
E la vide.
Con la coda dell’occhio vide Marge Simpson ingoiare qualcosa e sospirare chiaramente – Ned era metodico e un po’ impiccione, non ricordava ne assumesse a quell’ora, soprattutto così tardi. Se si fosse concentrato avrebbe potuto scorgere e sentire il respiro della donna fino a lì: sapeva di esasperazione, e non per dire, ma il volto di lei era abbastanza esplicativo. In fondo, lo era sempre stato.
Colto sul fatto, tentando di mascherare l’imbarazzo di essere stato beccato nel guardarla nel suo spazio personale, alzò una mano timidamente e dipinse il miglior sorriso che poteva regalarle, ricevendo in risposta un solo cenno: Marjorie Simpson, una delle persone più cordiali e benevole che conosceva, pareva l’ombra di se stessa.
E fu sconvolto nel notarlo.
Sconvolto genuinamente come lui solo poteva essere, anche perché se l’era presa a cuore dal momento in cui si era reso conto di che razza di matrimonio fosse quello di lei. Poteva definirsi giudicante, ecco, forse sì. Magari anche un filino tradizionalista, se non retrogrado, uno alla “vecchia maniera” ma non pensava di esagerare ritenendo perfettamente sbagliato per lei il marito che aveva scelto.
Marge meritava di più, lo aveva sempre meritato, eppure eccola lì ancora come sua vicina, in quella casa, i bambini ormai grandi ma la costanza di lui sempre lì.
Non voleva irrompere nella loro quotidianità con il pensiero di cercare di migliorare le cose, anche se avrebbe volentieri mosso il suo indice sotto al naso di Homer Simpson in segno di completo dissenso. Non sarebbe servito assolutamente a niente, l’aveva sentito gridare fin troppe volte per essere convinto di poter riuscire a parlare cordialmente con lui; spesso era stato a tanto così dal mollare la presa.
Era lo sguardo di Marge a tenerlo vicino, e nell’ultimo periodo, a preoccuparlo più del solito.


Il suono ormai poco familiare del campanello interruppe la quiete del 742 Evergreen Terrace. Marge posò lo straccio con cui stava spolverando il salone da pranzo e abbassò il volume della televisione che le stava tenendo compagnia, mentre il resto della famiglia era fuori nel vivere la propria quotidianità piena – e a tratti, per chi era fortunato, soddisfacente. Si chiese incuriosita di chi potesse trattarsi, stropicciandosi le gambe dei pantaloni di tuta che aveva deciso di indossare per pura comodità. A dir la verità oramai li indossava anche per uscire di casa e portare avanti le più svariate commissioni, dimenticando a volte persino di pettinarsi. Si avvicinò osservando dallo spioncino, sorpresa. Sorrise e tentò di sistemarsi i capelli pettinandoli con le dita.
Non riceveva una visita tanto piacevole da parecchio tempo.
«Buongiorno, Marge. Posso? Ho portato dei biscottini.» Ned Flanders sorrise nel porgerle un pacchettino trasparente tenuto assieme da uno spesso nastro dorato, una confezione regalo da pasticceria.
Gli occhi della donna si illuminarono: biscotti, e per di più fatti a mano, fragranti e golosi… come avrebbe potuto rifiutare? Le piccole gole zuccherate erano l’unico sfizio che si concedeva, già avendo litigato con lo specchio e la pelle che un po’ cadeva e un po’ faceva quello che voleva sul suo fisico non proprio giovanissimo. Invitò l’inatteso ospite a entrare e seguirla in cucina, era un’occasione perfetta per una tazza di tè e qualche dolcino colorato.
«Allora, Marge, eccoci qui. Caspiterina, quanto tempo sarà passato? Dovrei decisamente passare più spesso.» Ned esordì con una classica frase di rito, così come era abituato: gentilezza come prima cosa. «Come va?» Una domanda non casuale di cui avrebbe ascoltato con attenzione la risposta, come avrebbe fatto chiunque. Si presumeva, almeno.
«Beh, diciamo che non è un periodo facile, anzi.» Esitò lei, versando l’acqua bollente dal bollitore e servendo una tazza colma al vicino. «Dopo il ricovero le cose sono un po’ più… lente, ecco.»
Ned aspettò prima di riprendere, intuiva potesse esserci dell’altro, le pause tra una parola e la successiva erano state tante. Con la scusa di rimescolare il contenuto profumato della ceramica, attese.
Attese sì, ma non arrivò nulla di che. La donna addentava silenziosa, masticava altrettanto, e così tre o quattro volte, evitando in ogni modo di incrociare lo sguardo di lui.
«I ragazzi? Tutto bene?»
«Certo, certo, Ned. Bart lavora, vive in un piccolo appartamentino dall’altra parte della città. Lisa è andata a stare da Muntz, non so se ti ricordi di lui.»
Un cognome familiare, temuto. Certo che Flanders si ricordava di Nelson Muntz, aveva perseguitato una intera generazione di bambini a Springfield, i suoi figli compresi. Corrugò la fronte stupito: Lisa doveva essere cambiata davvero tanto nel corso del tempo per poter uscire con… con lui.
«Oh, ma non essere prevenuto, sai? È diventato davvero un bravo ragazzo, ci aiuta spesso in casa con piccoli lavoretti ed è sempre disponibile per qualsiasi cosa. È cresciuto bene.»
L’ospite stava per aggiungere “anche tuo figlio lo ritenevi un bravo bambino, questo non vuol dire che lo fosse davvero”, morse però le parole tra i molari evitando una uscita tanto spontanea quanto infelice. Il metro di giudizio in casa Simpson era il più strano con cui si era scontrato, decisamente.
«E la piccola?»
«Maggie? Si sa, i ragazzini cominciano a diventare indipendenti sempre più presto e credono di avere sempre ragione loro.» “Pure è impegnativa, ed è difficile parlare con lei, se non impossibile…” commento che si tenne per sé.
Più che una conversazione pareva un interrogatorio dove ognuno cercava di pilotare la direzione delle informazioni. Forse per questo l’aria tra una frase e l’altra era così rarefatta.
«Tu invece, Marge, come stai?»
Lei avrebbe dovuto immaginarlo. Ned ne aveva viste, sentite e vissute abbastanza della sua vita familiare, per non aspettarsi una domanda simile da lui. Se la questione fosse stata posta qualche mese prima avrebbe risposto con più tranquillità, e non cercando di litigare con il peso sulla nuca che cercava di schiacciarla a terra.
Conversare era pesante, le provocava uno sforzo non indifferente. Se non l’avesse fatto però, le persone avrebbero cominciato a farsi delle teorie. Springfield aveva la propria routine, così come ogni suo abitante: una città fatta di bigottismo e persone sempre uguali… guai a cambiare, a uscire dal personaggio che tutti conoscevano e registravano nei propri ricordi quotidiani.
«Io?» il cucchiaino tremava leggermente tra le dita, provocando un leggero suono curioso sugli anelli che Marge aveva dimenticato di levare prima di fare le pulizie. «Al solito, grazie.»
Bugiarda.
Il sospiro si era chiaramente levato, seguendo una scia di frustrazione in direzione del soffitto.

Ned si alzò e le si avvicinò, inginocchiandosi e guardandola dietro le lenti spesse degli immancabili occhiali. «Sai, anche io soffrivo parecchio per il lutto, altroché. I primi giorni, le prime settimane mi pareva di morire, e ho cominciato a stare meglio con i farmaci che il dottor Hibbert mi aveva prescritto…» attese un cenno, una reazione, anche solo una risposta, ma in assenza di essi continuò, «un po’ mi rincretinivano, ma, caspiterina, guardami adesso, ti sembro strano?»
«Oh, Ned, tu sei sempre stato strano, sai?» e rise. Una risata stanca ma sincera.
L’uomo seppe di aver centrato un piccolo grande punto. Non che avesse un’abilitazione per poterne capire qualcosa, non era certo uno psicologo e anzi, aveva avuto non poche difficoltà a comprendere i suoi figli nella crescita dopo la morte della prima moglie, e la separazione dalla seconda. Ma qui non ci voleva una qualche preparazione specifica per capire la profondità di un disagio.
Marge lo guardava come a richiedere un muto aiuto, fosse solo anche un orecchio da cui farsi ascoltare.
Il sorriso non era di circostanza.
A guardarsi non avvertivano quel grande disagio che solitamente avrebbero potuto percepire altri al loro posto, grazie alla vicinanza, alle tante confidenze e un rapporto di sana amicizia che veniva costantemente interrotto dalla presenza di Homer. Non che Marge avesse qualcosa da nascondere, anzi, ma l’odio che il marito provava per Flanders era tanto palese da rasentare il ridicolo. Fece rialzare l’amico, lo rassicurò con un sorriso cordiale e parlò con un certo equilibrio ritrovato.
«Mi da fastidio sapere di aver fallito con me stessa. Mi da fastidio dover prendere medicine tutti i giorni, e sperare di non stare male quando sono in pubblico. Ned… fa male quando manca l’aria, quando senti stringere il collo anche se non c’è nessuna mano a toccarlo. Fa male, Ned… come hai fatto tu?»
Le lacrime bagnavano gli zigomi sporgenti scendendo fino al mento e macchiando il cotone dei pantaloni.
«Che stupida, scusami. Quasi cinquant’anni e piango come una bambina, devo essere proprio patet-» Le labbra si scontrarono con un maglione, il profumo di ammorbidente di Marsiglia e di casa l’aveva invasa. L’abbraccio era stretto, tanto stretto da levarle il fiato ma non le dispiaceva quella sensazione. Anche se il petto tremava, lei ci stava bene lì perché, fondamentalmente, si sentiva capita, vicina a chi sapeva.


Il russare di Homer riempiva la camera: un’abitudine che Marge non era mai riuscita a superare, costringendosi spesso a dormire con i tappi alle orecchie. Anche lei sapeva d’aver russato molto spesso… questo però era diverso. Il tipico ragliare profondo di chi aveva bevuto e si era presentato a casa dopo lavoro, a un orario ormai scomodo persino per la cena. Si era chiesta da dove fosse nato questo bisogno di suo marito di bere, bere e ancora bere fin troppo, rovinandosi il fegato, il fiato, il rapporto con i propri figli e pure il matrimonio. Perché sì, perché Marge esasperata aveva minacciato di lasciarlo se non avesse smesso.
Lui aveva promesso, poi.
Ci avrebbe provato, le disse un giorno con le lacrime agli occhi e la densità di uno sguardo serio e combattivo. Sì, ci avrebbe provato per lei, per loro.
E Marge ci aveva creduto ancora, di nuovo, attendendo il momento in cui lui avrebbe mantenuto quella promessa. Forse il giorno non era ancora arrivato, pensò lei: magari non era ancora il giusto contesto, il giusto benessere fisico…
Ora però era stanca, non doveva lottare più solo per crescere tre figli nel modo migliore possibile con la quasi totale incuria del marito nel farlo; oppure combattere con lui per abitudini sbagliate e dannose. Ora, per la prima volta stava lottando principalmente per se stessa e il proprio benessere – che chi ci aveva mai pensato prima? Lei no di certo. Si alzò sfiancata dai ripetuti tentativi di addormentarsi, avvolgendo la schiena con la vestaglia di ciniglia rosa; scavò all’interno del primo cassetto del comò alla ricerca delle gocce che le avevano prescritto i medici per riuscire a dormire in modo equilibrato. Anche quella notte ne avrebbe avuto bisogno, si disse sconsolata contando la giusta dose in un bicchiere. Mandò giù e il sapore sgradevole grattò un attimo nell’esofago prima di sciogliersi e lasciare una traccia debole. Tanto sapeva che non avrebbero fatto effetto subito, quindi ne approfittò per raggiungere la finestra, scostare le tende e prendersi un po’ di fresco sul volto.
Brivido.
Quasi fredda quella notte.
Un bagliore lieve però attirò la sua attenzione dalla finestra di fronte: proveniva dalla camera di Ned Flanders. Incuriosita assottigliò lo sguardo per capire di cosa si trattasse e notò la fiamma di un lumino poggiata sul davanzale interno. Si disse che non avrebbe dovuto farsi divorare così dalla curiosità, in fondo si trattava sempre e comunque di uno spazio privato che non le apparteneva neppure.
Guardò.
Vide le mani giunte di un uomo disperato, intento a pregare piangendo, nominando più volte un solo nome tra i singhiozzi.
Maude.
Marge non si accorse di stare piangendo a sua volta.

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Capitolo 5
*** 05 hospital ***


 

 

Everything’s changing,
but…
nothing will really change
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05.
hospital

 


«Muntz, sei di turno anche oggi?» Il tono incuriosito del dottor Riviera attirò l’attenzione del portantino: il ragazzo stava recuperando le lenzuola dalla pulizia di uno dei tanti reparti degenze presenti in quell’ala dello Springfield General Hospital. Nelson sorrise cordiale mentre gettava i tessuti nella cesta adibita del bucato, congedando lo strano medico con una frase di circostanza che lo fece ridere non poco. Aveva sempre pensato che Nick Riviera fosse soltanto un pazzo, uno squinternato riuscito a entrare in ospedale con qualche raccomandazione – una oliata qui, una mazzetta lì – ma aveva avuto modo di cambiare idea poco tempo prima, quando quello stesso uomo assurdo si dimostrò all’altezza di parlare con un certo tipo di malati.
Lì dove i medici convenzionali fallivano, lui arrivava.
Proprio perché particolare, anticonformista, confondente, scavalcava il suo ruolo mettendosi alla pari dei pazienti più difficili. Questo aveva imparato nel vederlo interagire con sua madre in uno degli ennesimi ricoveri. Aveva scelto quindi di proporsi per un lavoro all’interno del plesso ospedaliero così da poterle stare accanto, considerando ciò che la struttura aveva fatto per lui, per lei, per loro insomma.
Il carrello cigolava procedendo nel corridoio di servizio, ma Nelson si era abituato a quel rumore che gli teneva compagnia tanto spesso: quel benedetto pavimento verde sapone accostato al giallo pennarello delle pareti era orribile, ma gli permetteva di portare a casa qualche soldo per un posto letto e cibo decente a ogni pasto. Infilò gli auricolari alle orecchie impostando la playlist preferita, e lì riprese il turno di lavoro.


«Lisa, che sorpresa! Che ci fai qui?» Nelson sorrise all’amica mentre inspirava l’ultima boccata di fumo dalla sigaretta, prontamente gettata sul posacenere esterno a una uscita laterale del sottopassaggio nel seminterrato. «Come hai fatto a trovarmi qui?»
Lei lo guardò sorridendo, ciondolando la testa prima a destra e poi a sinistra. «Sono le due e un quarto di una giornata lavorativa, riguardo al fumare sei preciso come un orologio svizzero, lo sai. Questa uscita poi è la più vicina alla degenza di Psichiatria, quindi, andando per esclusione…»
«Ok, ok, tante parole, troppe parole. Mi hai trovato, e hai vinto una cosa.» La prese per il polso e se la portò vicino, abbracciandola con forza e sfregandole la testa col palmo. «Ecco il tuo premio: contatto fisico a badilate!»
Lisa sorrise aggrappandosi alla giacchetta della divisa. Le piaceva davvero il contatto umano, ne aveva bisogno come l’aria. La faceva stare bene, soprattutto se partiva da una delle uniche persone di cui si fidava ciecamente.
«Non cambierai mai, eh?»
«Certo che no, e se io cambiassi, tu che faresti poi? Perché non provi a chiedere un abbraccio a Milhouse, eh?» Sghignazzò sapendo di averla colpita sul vivo: l’argomento Van Houten era ancora un tabù per lei, dopo che lui aveva tentato  spesso di rintracciarla infastidendola, perché… di base… lei non c’era stata. Scosse le spalle cercando di smaltire la pelle d’oca che stava correndo su tutto il corpo.
«Ti va di andare a bere un caffè qui vicino?»
«No, oggi no, Lisa, ma grazie lo stesso. Oggi vado a trovare mamma.»
Lo sguardo Simpson si intenerì: quanto aveva fatto Nelson, e quanto stava facendo per la sua famiglia… lo stimava molto, e un po’ in fondo in fondo sapeva di avere ancora una cotta mostruosa per lui, ce l’aveva dalle elementari e non aveva mai ammesso di esserci rimasta male nel non aver continuato a frequentarlo. Erano piccoli, era stato tutto troppo assurdo per essere qualificato in qualcosa di serio che fosse valso la pena coltivare. Ora che convivevano per condividere tempo e spese era più difficile, ma si era imposta di non superare certi limiti proprio perché lui era in difficoltà e stava vivendo un altro periodo difficile della sua vita.
Cazzo.
Non era proprio un discorso da affrontare con se stessa in presenza del diretto interessato…
Mise le mani a schermo del proprio petto allontanandosi di poco, riprendendo possesso del proprio spazio e di aria nuova. Lo guardava e lo apprezzava con gli stessi occhi di quando aveva soltanto otto o nove anni, ora un po’ più grande, ora quando tutto sarebbe stato più complicato; se si fosse mossa con enfasi e avesse rovinato tutto, che ne sarebbe stato di loro, della loro amicizia? Dell’aiuto reciproco, della compagnia, della comprensione? Tante di quelle domande, di parole che stavano lavorando a velocità impressionante nel cervello, e Lisa non si accorse della faccia da ebete che aveva dipinta addosso.
«Ohi? Ci sei?» Nelson sventolò la mano davanti al suo volto dall’espressione buffa che aveva scatenato una risata spontanea e contagiosa.
Stupida, smettila di guardarlo così.
«Dai, adesso devo andare. Ci vediamo stasera allora.»
Nelson già stava correndo nel dedalo interno di corridoi mentre ancora Lisa lo stava salutando con la mano, imbambolata. Raccolse i lembi della gonna scura che indossava, chiedendosi se avesse dovuto farsi carina per quella sera: non era niente di che, era già da qualche mese che condividevano lo stesso piccolo bilocale eppure, per qualche motivo che al momento ancora le stava sfuggendo, sistemarsi in modo più curato per un ragazzo non era mai stato una priorità, non per lei, ma ci avrebbe provato. Che male c’era a cercare nell’armadio qualcosa di più adatto di un golfino arancione?


«Nelson, Nelson Nelson. Sei innamorato, lo vedo.» La signora Muntz quel giorno pareva particolarmente di buon umore: rivedere suo figlio a cadenza regolare era una medicina – non l’unica che le serviva purtroppo, ma aiutava molto – e in quel giorno libero da colloqui lunghi e snervanti, era ciò di cui aveva maggiormente bisogno. I capelli ingrigiti raccolti alla bene e meglio le ricadevano disordinati sul collo, mescolandosi con il blu della camicia da notte che stava indossando in un contrasto gradevole. Nelson si era seduto sul suo letto, pettinandole la chioma e riordinandola in una treccia goffa, dandole una certa importanza con un sorriso concentrato e la lingua che sporgeva dal labbro inferiore, proprio come nei cartoni animati che tanto amava guardare da bambino.
«Ma, mamma, cosa stai dicendo?!» Lasciò cadere l’elastico dalle dita, andando a sbattere con la testa contro l’anta del mobiletto personale lasciata aperta con sbadataggine. Imprecò massaggiandosi la parte colpita, spostandosi di fronte alla madre, «non dire stupidaggini, sto solo vivendo con lei fino a che la situazione non si sistemerà per tutti…»
«Oh, non dire così, tesoro. Una madre queste cose le capisce.» Gli sorrise con il calore sulle labbra e nel petto, abbracciandolo senza preavviso.
«Mamma, possono vederci!»
«E chi? Gli infermieri? Sono troppo impegnati a giocare a carte durante il giorno per poter farci caso, o sempre attaccati a quei cellulari. Ti sto solo abbracciando, quando eri piccolo non ti piaceva. Invece adesso mi pare che tu sia più coccolone, vero?»
Puzzavi di alcool e di altri odori strani, mamma, certo che non mi piaceva… adesso odori… odori di vestiti puliti.
Nelson si staccò con imbarazzo dopo aver goduto ancora qualche secondo di quel contatto stretto. Era più coccolone? Sì. Si sentiva un rammollito? Certo.
Andava bene lo stesso? Ovvio.
«Ma come stai qui? Ti trattano bene?»
«Certo Nelson, tre pasti caldi al giorno, due merende, lenzuola e pulizie, vestiti, un lusso. Qui c’è tutto quello…» la voce si ruppe. Avrebbe voluto aggiungere “tutto quello che non potevo darti quando eri piccolo” ma il magone dato dal troppo dolore per quel ricordo la scosse: letteralmente uno schiaffo sul volto non più giovane. «Sto bene qui, sì. E tu? Con la biondina?»
Un paio di versi inarticolati uscì dalla bocca del ragazzo, contorcendosi sulle stesse gambe. Pareva di pongo.
«Visto? Sei innamorato, che ti ho detto? Ahhhh, se avessi venti anni di meno mi innamorerei volentieri anche io, di nuovo. Da quando papà è morto non sono riuscita pi-» La donna si bloccò, amareggiata, scottata dalle stesse parole che aveva pronunciato. Se n’era resa conto soltanto nel momento in cui gli occhi di suo figlio luccicarono un po’ troppo. Non concluse la frase, si sporse verso di lui e l’abbracciò ancora una volta, più forte, tremando lievemente. Si scusò ancora, di nuovo si diede dell’idiota pensando di aver ferito per l’ennesima volta la sensibilità di chi aveva sopportato fin troppo peso su delle spalle tanto piccole: la cura stava dando i suoi frutti ma, umanamente, aveva ancora così tanto da imparare nel conversare con il prossimo… questo, però, le pastiglie non potevano insegnarlo.


«Pizza? Pizza!»
L’entusiasmo di Nelson si avvertì nel completo di quei pochi metri quadri di superficie calpestabile che lui amava definire “casa”. Un appartamentino in periferia, un piccolo affitto d’un corridoio stretto, un salotto con cucinino e un divano letto, una camera e un bagno. Non era tanto, ma era suo, e questo bastava nel farlo sentire tanto fiero di se stesso. Da quando sua madre era ricoverata aveva cercato di eliminare ogni traccia di un fantasma sgradevole – non lei, ma ciò che la stava divorando – pulendo, gettando oggetti, immondizia, vestiti, tutto.
Aveva eliminato tanto, e poco era rimasto, ma ciò che c’era bastava: si teneva impegnato nel pulire, spolverare e riordinare, ma da quando Lisa era entrata nel suo quotidiano era tutto diverso. Era cominciato come un semplice aiuto domestico fondamentale (non era stato tanto difficile buttare tutto, ma riuscire a trovare il coraggio di farlo e di cancellare definitivamente ogni traccia fisica di un presente ormai impossibile) per poi trasformarsi nella bizzarra proposta che le aveva fatto un giorno.

«Senti, ti va di venire da me? Potremmo smezzare l’affitto e le spese, è davvero poco. Io non guadagno moltissimo e neanche tu, così potremmo riuscire a campare un po’. Che dici, proviamo?»

E puff, in un modo tanto facile quanto sorprendente Lisa era diventata la sua coinquilina.
«Sì, stasera pizza, ti spiace?» la voce familiare aveva risposto dalla sala, ma Nelson rimase spiazzato nel vedere come il tavolino era stato portato al centro, apparecchiato con una cura maniacale… pareva un ristorante. E lei.
Era bellissima.
Lisa era qualcosa che non riusciva nemmeno esprimere a parole.
Non era solo per l’abito che aveva scelto per l’occasione – da quando lei si vestiva così elegante per stare in casa? – ma anche tutto il resto: gli occhi truccati, il profumo differente… era un sorriso imbarazzato quello?
«Lisa, ma che succede?»
Nelson avrebbe potuto dirle qualsiasi cosa, esordire con ogni singola parola e invece era caduto in una banalissima domanda idiota.
«In che senso? Una non si può sistemare un po’ per mangiare una pizza? Non sono mica tutti golfini arancioni e collanine di perle bianche, sai?» Pareva piccata la ragazza, certo: con tutta la cura che ci aveva messo per sistemare ogni cosa, ripulire, riordinare, rendere più accogliente quel piccolo locale, e non solo… il guardaroba era svuotato sul pavimento, il bagno un disastro (aveva rovesciato lo smalto sul lavandino, la cipria le era caduta a terra aprendosi e diffondendo sulle piastrelle una profumata polverina bianca, sottile, che le era finita sotto ai piedi facendola starnutire) e per la mancanza di tempo aveva chiuso le porte facendo finta di nulla. Però, insomma, sentire esordire così il coinquilino quasi le diede fastidio. D’accordo, stava pur sempre parlando di Nelson ma un complimento in più non le sarebbe dispiaciuto affatto.
«S-sì, immagino sia normale. Anzi, scusami, se avessi saputo mi sarei cambiato pure io. Cosa si festeggia?»
Nulla, non c’era niente da festeggiare, lei voleva solo essere carina per lui.
Come quando aveva otto anni e si metteva le scarpe nuove per andare a trovarlo.
Come quando anni dopo aveva scelto di aiutarlo nella situazione difficile che stava vivendo, indossando la migliore faccia che aveva per poterlo confortare e rassicurare.
Non c’era nulla da festeggiare, era vero, ma le sarebbe piaciuto creare qualcosa che avrebbe potuto meritare attenzione. Ed era lì per dirglielo.
«Dai, mangiamo che si fredda.»
Ma non lo disse.
Lisa sorrise amaramente abbassando lo sguardo sul piatto: si rese conto di non aver nulla di interessante se non il suo sax, il suo amore per i libri e lo studio. Nulla più.
Cosa avrebbe potuto dargli? Niente.
O almeno, niente di che.
«Sai, ti ricordi di Terry?»
Lei drizzò le antenne. Certo che se la ricordava, avevano frequentato le stesse scuole. Non l’aveva mai presa in simpatia, aveva molto più in comune con la sorella gemella; con lei sì, era stato facile instaurare un bel rapporto. Con Terry però, proprio no.
«Chi, la bisbetica che non ti lasciava stare un attimo? Quella che rompeva continuamente le scatole, che ti perseguitava alle medie e che poi ti ha rotto le palle fino a qualche anno fa?»
Nelson rise sputando parte del contenuto della bocca.
«Esatto, proprio lei! Vedo che te la ricordi bene, una descrizione perfetta!» La pausa fu troppo breve. «Beh, ha detto che viene tra poco.»
Fu la volta di Lisa di sputare, e per sua sfortuna aveva appena portato alle labbra il bicchiere colmo di vino. Non una gran produzione, ma era ciò che aveva trovato nello stipetto degli alcolici e riteneva fosse sufficientemente chic da non sfigurare. Anche se si trattava solo di pizza.
«Ma scusa, non è la tua ex? Non avevate già chiuso?»
La smorfia inorridita bastò a risponderle: «Ex? Scherziamo? Non ci sono mai stato assieme. Non so cosa ti abbia raccontato Bart, ma sei completamente fuori strada.»
Rilassamento. Rassicurazione. Non ci è stato assieme. Bene.
«Ci sono solo andato a letto.»
L’impazienza del bussare alla porta scaraventò bellamente la serata nella pattumiera.

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Capitolo 6
*** 06 scheggia ***


 

 

Everything’s changing,
but…
nothing will really change
.

06.
scheggia

 


Il naso gocciolava vistosamente: una mattina gelida quella, senza preavviso. L’autunno se n’era andato via con una velocità spaventosa, si ritrovò a pensare Homer Simpson, affossato con il mento all’interno del giaccone verde: aveva lasciato a casa la solita cuffia con cui si riparava dal vento, e le orecchie ne stavano risentendo.
«Stupido freddo.»
Starnutì sbattendo la fronte contro la macchinetta del caffè.
«Stupido aggeggio…»
Prese a calci la macchinetta dimenticando di aver selezionato la bevanda preferita due minuti prima. Immancabilmente essa si rovesciò, ustionandogli la mano in un buffo quanto inutile tentativo di afferrare il bicchierino prima dell’irrecuperabile.
«Stupido pavimento.»
Così tanto per cui lamentarsi, così poco tempo per farlo: il settore 7G aveva bisogno di lui, non poteva certo continuare a imprecare contro il karma che pareva volesse fargli pagare ogni singolo minuto trascorso lì dentro negli ultimi venti e fischia anni. Selezionò nuovamente la cioccolata calda con panna extra zucchero, sperando di non dover ripulire.
«Stupida centrale.»
E buttò distrattamente nel cestino lì accanto tovaglioli, bicchierino e voglia di lavorare, così come tutte le mattine da quando il suo ruolo era stato congelato in un angolo marginale dell’azienda.


«Simpson e Leonard, attesi in direzione.»
L’altoparlante risuonò nel corridoio grigio, rimbalzando da una parete all’altra: la voce gracchiante dello strumento strideva in modo incomprensibile con il tono molto più morbido che Homer ricordava. Da quando Carlton Carlson aveva scalato l’ascesa al successo, ottenendo ciò per cui tanto aveva dato nello studio e nel lavoro, era inarrivabile. Per lui e per il migliore amico, Lenford Leonard, era stato un brutto colpo: due decenni di chiacchiere, divertimento, distacco dal dovere, leggerezza, chiusi poi al di là di una porta d’ufficio ai piani superiori. E non senza conseguenze per i rapporti costruiti in quel lungo lasso di tempo.
I due diretti interessati interruppero ciò che stavano facendo, lasciando cadere stancamente sul ripiano il fascicolo di controllo, e si guardarono sconsolati: essere entrambi interpellati significava soltanto una cosa. Guai.
Guai di cui non avevano assolutamente bisogno, soprattutto in un momento di tale difficoltà economica come quello in cui erano tutti caduti nell’ultimo periodo.
Homer cercò di risollevare il morale di Lenny in qualsiasi modo, facendo un po’ il buffone – cosa in cui non riusciva più poi così tanto bene – e un po’ attaccandolo con una raffica di parole, richieste, affermazioni nel solo tentativo di confonderlo. Il viaggio in ascensore non era mai stato così caotico e controproducente nello stesso momento.
Homer gli diede un buffetto sulla spalla incoraggiando il fidato amico, ed entrarono. Lo sguardo grave di Carlson non ammetteva alcuna replica: dalla sua figura impettita, tanto lontana dai ricordi nitidi che i due amici avevano di lui, arrivò il chiaro messaggio.
Il colloquio fu breve, qualche minuto di uno scambio di parole unilaterale dove veniva mostrata l’attuale situazione dell’azienda, della produzione, dell’export e così via: i grafici illustrati a muro parlavano chiaro, qualcuno sarebbe dovuto restare a casa per un lasso di tempo medio breve, giusto il tempo di veder risollevare mercato e quotazioni.
Giusto il tempo di rovinare la vita lavorativa di due – e molte più – persone.


Quella sera Homer si presentò a casa con un sorriso sghembo, cerchi scuri a contornare gli occhi stanchi: richiamò l’attenzione di Marge con un cenno, facendo entrare Lenny prima di lui.
Marge comprese stesse accadendo qualcosa di grave nel momento stesso in cui i due si fecero trovare sobri, rincasando presto il venerdì. Deglutì aspettandosi qualsiasi notizia. Tremò quando il marito le chiese di preparare del caffè per tre, premurandosi che nessuno dei figli fosse presente in quel preciso istante. Si sedette con calma, il petto si muoveva rapido a causa del respiro che stava accelerando il ritmo: cercò di tranquillizzarsi da sola come le stavano insegnando altre donne stressate come lei, in uno dei gruppi di auto aiuto in cui s’era iscritta nell’ultimo periodo. Non aveva toccato il caffè, rischiando di far aumentare le palpitazioni agitandosi maggiormente. Doveva sapere, ma dall’altra parte era terrorizzata all’idea di cosa le avrebbero detto.
Homer stava in silenzio, il capo chino a osservare la decorazione semplice del telo cerato steso sulla tavola. La tazzina vuota aveva tutta la sua attenzione e non aveva ancora avuto il coraggio aprirsi a sua moglie, non dopo gli ultimi avvenimenti legati alla sua salute e al suo equilibrio psicologico. Lei lo stava pregando con gli occhi, stava pregando di sentirsi dire che fosse tutto a posto, che non era accaduto assolutamente niente… ma sapeva, lui era abitudinario, non avrebbe saltato un venerdì sera con Lenford neppure per una influenza.
Quest’ultimo prese parola, stropicciando il lembo della giacca che ancora non aveva tolto nonostante il calore presente nella stanza. Giochicchiava con l’imbottitura sgualcendo il tessuto marrone, e sapeva di stare per rovinare l’equilibrio già precario di quella coppia, di quella casa. La cosa però non andava taciuta, non poteva.
«Marge, perdonami se mi sono unito a Homer, ma lui ha tanto insistito, e io gliene sono grato. Oggi non avrei voluto tornare a casa, non da lui.» Ammettere di non volersi presentare alla porta del suo compagno la diceva lunga, un rapporto logoro da anni, una separazione sotto lo stesso tetto non avrebbero retto di fronte alla notizia ricevuta il giorno stesso. Il modo con cui Carl era riuscito a separare lavoro e privato era incredibilmente glaciale, tanto da gelare la loro relazione non molto tempo dopo la promozione alla centrale nucleare. Da lì all’essere il diretto esecutore dell’ordine di riduzione del personale, mandando a casa il suo stesso convivente… non aveva saputo direzionare il proprio pensiero. «Vedi, io e tuo marito, come altri in centrale, resteremo a casa per un po’.»


Faceva freddo quella sera. Le ultime settimane dell’anno erano sempre un terno al lotto per il clima di Springfield, ma quella sera la città era stata fortunata: un cielo limpido, chiaro, una luna gradevole nonostante la temperatura rasentasse lo zero. I puntini incastonati nella volta bluastra sopra i tetti brillavano di più. O forse erano soltanto le lacrime di Marge a farle così splendenti. La donna aveva lasciato un Homer avvilito in camera, in compagnia delle sue amate serie TV, sperando potessero aiutarlo a smaltire lo stress iniziale di una notizia tanto orribile: certo, non sarebbe rimasto a casa da un giorno all’altro, e senza alcun introito. Avrebbe potuto comunque continuare a incassare i soldi sufficienti per continuare la vita in tre, ce l’avrebbero fatta lo stesso anche se con qualche difficoltà in più. Ciò che lei non riusciva a tollerare era il sentirsi completamente soggiogata da ciò che sarebbe accaduto, era impreparata. Non era la prima volta in cui c’erano stati dei disguidi lavorativi, stavolta però si sentiva inadatta a gestirli e sentirseli addosso. Si strinse addosso la maglia in ciniglia, accarezzandosi debolmente gli avambracci. La luce della cucina era spenta, i piedi nudi camminavano incessantemente sulle piastrelle fredde, senza darci il dovuto peso. Sentiva d’aver bisogno di un calmante, ma aveva preso già le sue medicine quel giorno. Avrebbe dovuto resistere, tranquillizzarsi fino a prendere sonno e dimenticarsi per qualche ora di ciò che era accaduto. Il gelo che avvertiva nel petto non era causato dalla finestra schiusa, dalla notte di dicembre o dal pavimento su cui stava continuando a muoversi senza calze a proteggerla.
Era una scheggia, acuminata e sottile, che le era finita sottopelle. Spingeva in profondità, entrandole dalle vene verso il centro del suo corpo, poco più su, all’altezza del cuore. Si era insinuata qualche tempo prima, silenziosa, anonima ma ora correva, tentava di attraversare la barriera che le proteggeva emozioni e ricordi.
Stava cedendo.
Si sedette sulla sua sedia preferita, poggiando i gomiti sul tavolo; si accasciò su di esso, i capelli sciolti spettinati a ricoprire parte della superficie. La guancia pallida strusciò in modo fastidioso sulla tovaglia, ma poco le importava, anche perché il piano era reso scivoloso dalle lacrime che le stavano bagnando la pelle del viso. Avrebbe dovuto trovare una soluzione, e anche presto. Come l’avrebbe detto a Maggie? Cosa le avrebbe raccontato? Che suo padre sarebbe stato a casa di nuovo, senza sapere quando avrebbe ricominciato a lavorare alla centrale?
Non pareva così male, non lo sarebbe stato per la piccola di sicuro… ma per lei?
Cosa avrebbe significato ritrovarsi Homer in giro per casa tutto il giorno a bighellonare, a bere birra stravaccato sul divano del salotto, indossando canotte sgualcite dal far nulla e un accappatoio consumato dagli anni? Avrebbe significato litigare continuamente, rimbeccarsi per ogni cosa, ritrovarsi un peso addosso non indifferente, un ingombro notevole nella sua quotidianità che aveva beatamente costruito attorno al concetto di quieta solitudine casalinga. Davvero si era ridotta a considerare il marito un elemento nel suo disequilibrio? Era questo il problema che l’aveva portata a dover cedere ai consigli dei medici e a quelli dello psichiatra che continuava ad aggiustarle la terapia farmacologica?
E intanto la scheggia spingeva e spingeva. Se avesse bucato il velo protettivo, lei sarebbe esplosa definitivamente.
La donna cercò a tentoni il cellulare in tasca, era indecisa se contattare le sorelle o meno: chiamarle per potersi sfogare e spiegare la situazione avrebbe creato il solito trambusto in famiglia Bouvier, e sapeva l’avrebbero raggiunta entro l’indomani autoinvitandosi a casa sua. Avrebbero fumato, si sarebbero lamentate delle scelte di vita della sorellina troppo ottusa per capire come avrebbe dovuto ragionare una donna adulta e capace… capace di liberarsi di una zavorra come un matrimonio inconcludente. Avrebbero insultato suo marito, il suo modo di fare, il suo non saper concludere niente e non saper reagire alle difficoltà.
Lo avrebbero fatto sicuramente.
Marge desistette. Lasciò lo smartphone sul tavolo, sollevò stancamente la schiena e si ripromise di mettersi da parte ancora una volta per poter sostenere e dividere il peso di un altro fallimento economico familiare. Le medicine sarebbero bastate a gestire il suo esaurimento? Non ne era certa, ma avrebbe dovuto aver fede e dare credito ai medici che aveva sempre allontanato.


«Marge… Marge? Disturbo?» Lenny si affacciò alla cucina, abbandonato il divano e la coperta in pile che gli erano stati gentilmente offerti dai coniugi Simpson. Nonostante l’ospitalità sempre presente e deliziosa, non era riuscito a prendere sonno quella sera. Non poteva biasimarsi, aveva spento il cellulare dopo il terzo tentativo di contattare l’ex compagno: si sentiva un vigliacco a esser scappato dal loro appartamento ma non sarebbe riuscito ad affrontare Carl in un momento simile. Homer aveva così tanto insistito nel volerlo ospitare a casa sua che non aveva potuto rifiutare – sempre meglio di un motel, si disse sorridendo amaramente. Amaro come il sorriso forzato che aveva trovato dipinto sul volto di Marge quel pomeriggio, una macchia in una casa dove aveva trascorso parecchio tempo: ringraziava così spesso di avere una coppia di amici così generosa con lui che credette in più occasioni di essere snervante a ripeterlo. Ed eccolo lì, ancora una volta a tendere silenziosamente e passivamente una mano in direzione di qualcuno differente da colui che avrebbe dovuto aiutarlo.
Il primo che aveva invece voltatogli le spalle, non lasciandogli altra scelta che uscire dall’ufficio amministrativo della centrale nucleare di Springfield con il capo chino e la rabbia a divorargli le viscere.
Lenny sbuffò rassegnato, si avvicinò alla donna e cercò di svegliarla per permetterle di andare a letto, ottenendo soltanto uno o due mugolii contrariati. Non insistette, recuperò dal divano la seconda coperta che gli era stata offerta e gliela srotolò sulla schiena.
Pareva curvata dal peso degli anni.
Perché loro non avevano più venti anni, non erano i ragazzini spensierati che sorridevano al futuro immaginando grandi cose e percorrendo la strada dei propri sogni. Quanto era patetico, Lenny, a osservare Marge e rivedere in lei gli sbagli di tutti. Glielo aveva detto pure, in fondo, di non sposarsi.
Di continuare a studiare, trovarsi un buon lavoro o qualsiasi altra cosa avrebbe desiderato fare.
Di essere felice, insomma.
Ma chi era davvero felice, tra loro?

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Capitolo 7
*** 07 ***


 

 

Everything’s changing,
but…
nothing will really change
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07.
Drunk enough to say I love you?

 


«Papà? Papà!»
La voce squillante di Margaret rimbombò lungo il corridoio del primo piano di casa, attirando l’attenzione di Homer: quest’ultimo non aveva dormito così bene e non avrebbe potuto nascondere niente a sua figlia, nemmeno le borse sotto agli occhi o il segno del cuscino stropicciato sul volto. D’altronde lei da buona osservatrice notava tutto e non mancava di esprimersi a riguardo. Solo con lui, però, e non era mai riuscito a darsi una risposta.
«Dimmi, cuore.»
La ragazzina gli balzò al petto, stringendolo forte. «Buongiorno!» Pareva particolarmente vivace quel pomeriggio, e il padre tentava di reggere il ritmo del suo umore per non incupirlo con la propria autocommiserazione.
«Come è andata a scuola oggi?»
«Una palla…» la piccola si discostò e parlò dondolando con i talloni sul parquet. «però mi sto impegnando, lo giuro!»
«Lo so, tesoro, lo so.» L’espressione di immenso affetto aveva donato un po’ più di colore al volto coperto dalla barba ispida «So che fai sempre del tuo meglio. E questo basta.»
Lei gli sorrise di nuovo, scappando in camera sua attaccandosi allo smartphone, cuffie alle orecchie, di nuovo separata dal mondo.
Homer rimase ritto su quello stesso corridoio consumato dai passi di tutti i familiari: suo padre, i suoi figli, sua moglie… a parte Maggie, sentiva gli altri così lontani da non avvertirne nemmeno più il calore, l’amore. Aveva dato se stesso fino all’ultima punta di energia per fare un buon lavoro come padre, almeno con lei. Aveva sbagliato con Bart, non riuscendo a gestire la rabbia che l’ipereccitabilità del ragazzo gli provocava… aveva mancato il bersaglio con Lisa, non sentendosi mai alla sua altezza e provando anzi vergogna nei confronti di una persona tanto dotata. E arrogante.
No.
Si massaggiò le tempie cercando di eliminare l’intrusione della sua voce interiore, quella che tentava di dare una spiegazione pratica a tutti i suoi fallimenti. Non doveva darle ascolto, non di nuovo. Non doveva giustificarsi per essere stato un pessimo genitore. Era così e basta, e ne portava già abbastanza le conseguenze addosso, dopo l’allontanamento spontaneo dei primi due figli. I suoi “come vorrei” avevano una valenza pari a zero, dopo tutto quel tempo.
Peccato che gli ronzavano attorno portandolo spesso a distrarsi, a isolarsi, ad accusarsi.
“Come vorrei averli ancora qui.”
Avresti dovuto tenerteli stretti.
“D’accordo, ma ho fatto quello che potevo…”
Mettendo le mani addosso a tuo figlio o dimenticandoti dei progetti di tua figlia?
“L’alcool non aiutava…”
Ahhh, vuoi dirmi che eri sempre ubriaco? Non ti pare facile nascondersi dietro a una scusa patetica come la birra?
Sì: l’ennesimo esame di coscienza durato un minuto e mezzo aveva portato alla solita conclusione: “sono nato una merda, sono cresciuto di merda, sono un padre di merda. Morirò solo, come si merita una merda.”


«Guarda, Marge, ti giuro: come cucini tu non cucina nessuno. Devi assolutamente insegnarmi, così almeno potrò sdebitarmi con voi.» Lenny si rabbuiò un attimo prima di riprendere il consueto buon umore: gli pesava parecchio essersi accasato dai Simpson per quel difficile periodo di transizione, anche se cercava di rendersi utile in ogni modo.
«Oh, Lenny, non ti preoccupare. Se vuoi posso farti spiare il ricettario della famiglia Bouvier, tranne le pagine dedicate agli opossum. Quelli me li tengo e me li porterò nella tomba.» Era sollevata Marge, sollevata di poter scambiare qualche parola con qualcuno.
Chiunque, sostanzialmente.
Che il collega del marito fosse un po’ logorroico era perfetto per lei, l’aiutava a distrarsi da quei meccanismi intrusivi in cui si era incastrata negli ultimi mesi: il pensare convulsamente a trovare soluzioni per problemi troppo grandi per lei era deleterio.
«Dai, non ti preoccupare, quelli li salto volentieri! Lavo i piatti, già che ci sono. Lo vuoi un caffè?»
La risposta arrivò da due voci diverse.
Marge si bloccò e fece un semplice cenno del capo a confermare il suo sì, mentre l’entusiasmo se n’era tanto veloce quanto era sfociato. La risposta di Homer l’aveva colta di sorpresa.
Disabituata ad averlo a casa a quell’ora.
Gli si avvicinò, lo salutò con un cenno e un abbraccio stanco e si portò al centro della cucina, fingendo di avere qualcosa di importante da fare che non fosse passare del tempo utile con il marito.
Il borbottio della macchinetta del caffè riempì la stanza, tanto era vuota di suoni la cucina. E alla coppia questo faceva male, ma chi era troppo impegnato a cercare nuove soluzioni non era pronto per affrontare chi invece tentava invano di disfarsi dei vecchi, inutili metodi di riappacificazione targati Simpson. Per quanto quei due stessero soffrendo… per quanto fossero fisicamente vicini, non erano mai stati tanto distanti, muti, incapaci di sentirsi.
Il mondo congelato riprese calore con l’arrivo di Margaret, presa d’assalto dalla madre senza possibilità di obiezione. «Maggie, ti va di venire con me al centro commerciale? Hanno aperto un nuovo negozio. Pensavo sarebbe stato carin
«Ti fermo già, mamma. Volevo andare con papà in centro.»
Marge strinse le dita dietro la schiena, non voleva mostrare di esserci rimasta male per un rifiuto tanto netto. «E cosa dovresti fare in centro che non possa fare io con te?»
«Ovvio, stare con papà.»
La naturalezza con cui la ragazzina le aveva risposto non l’aveva presa in contropiede, aveva cresciuto già due figli nel pieno periodo adolescenziale. Quello che trovò incredibile era che Margaret preferisse la compagnia del padre alla sua.
Per quale motivo poi? Cos’aveva lui di speciale, in fondo?
Era stata lei a crescerli, nutrirli, istruirli, sgridarli e riempirli d’amore. Lei a prendersi tutte le responsabilità, a stargli accanto quando erano malati, a portarli all’ospedale, dal dentista o al parco. Lei e solo lei, mentre Homer era impegnato al lavoro, alternandolo al bar di quartiere.
Un pensiero tanto tossico che non avrebbe aiutato affatto a riavvicinare marito e moglie.


«Papà, tu pensi che la mamma mi odi?»
Il gelato al pistacchio andò di traverso. Homer tossì, preso alla sprovvista da una domanda così diretta quanto assurda.
«Ma no, pulcina. Cosa ti salta in mente? Tua madre non potrebbe mai odiarti. Scherziamo? Lei ti ama tanto, Maggie.»
“E vorrei poterti amare io almeno un decimo di quello che fa lei…”
«Ma no, sul serio. Sai perché lo penso?»
Quanto era diventata pesantemente scomoda la panchina di fronte alla gelateria.
«No, tesoro. Dimmi perché lo pensi.» Avrebbe anche preferito non saperlo, forse, ma vista l’instabilità della moglie che rendeva tutto molto più complesso da gestire, perfino il dialogo… ogni informazione sarebbe stata preziosa.
Margaret poggiò la coppetta di carta vuota, giocherellando con il cucchiaino colorato. Avrebbe detto quello che pensava veramente? Si sarebbe tolta un peso finalmente, e forse il padre avrebbe potuto aiutarla nella situazione attuale in casa. «Lo so che mi odia. Non sono un maschio come Bart, non sono un disastro, quindi non sente di dovermi dare tutto l’affetto che mi verrebbe negato dagli altri. Non sono perfetta come Lisa, non do soddisfazioni, non sono brava in niente. Sono solo nella media, papo. Niente di speciale. Lei ama il meglio e il peggio, io sono solo una stupida via di mezzo…» Stava piangendo. E non le interessava minimamente di mascherarlo. Era un pensiero particolarmente semplice il suo, frutto di anni di crescita in un nucleo caotico e mal mescolato. «Tu sei più semplice, sbagli spesso, dici parolacce, dormi fino a tardi e russi… russi tanto da svegliarmi, pensa!»
Homer stava cercando di capire quale fosse il punto di arrivo della conversazione: era impossibile lei gli volesse così bene. Era uno scherzo della vita, un ripudiato in una società dove contava far parlare di sé più che essere ed esistere.
«E poi mangi in modo disordinato, ridi quando non devi, hai la testa tra le nuvole e sogni cose che non puoi avere…»
La guardò, il gelato ormai sciolto colava tra le dita doloranti a causa di anni di lavoro tra i reparti e le attività più impensate.
«Sei imperfetto, anzi, qualche volta fai anche schifo.»
Homer sentì pungere gli occhi, incapace di guardarla. Faceva schifo, ecco.
L’unica e ultima speranza di provare un briciolo di soddisfazione nell’aver fatto qualcosa di buono se ne stava andando.
«Però facciamo un po’ schifo tutti, e tu almeno non fai finta vada tutto bene. Tu sei la persona più sincera che conosca, e sei l’unico che riesco a capire e che mi capisce. Per questo ti voglio bene, papo. Perché io e te siamo tanto vicini.»
Homer quel giorno pianse, anche lui fregandosene della gente che passava e lo guardava. Si sentiva amato e apprezzato non per ciò che aveva fatto, ma per quello che era. Sua moglie aveva smesso di farglielo sapere, di farglielo capire. Aveva perso la speranza di valere qualcosa in più di un semplice niente però aveva la certezza di aver fatto almeno una cosa buona nella vita: farsi apprezzare dalla figlia in modo genuino, naturale, anche se strano.
Apprezzato.


«Vi sembra questa l’ora di tornare a casa?»
Marge era furiosa: si era fatto buio da un pezzo, la cena ormai si era freddata e non aveva nessuna intenzione di scaldarla nuovamente. Aveva avuto modo di scambiare quattro chiacchiere con Lenny cercando di smussare gli spigoli del proprio umore pomeridiano, riuscendoci dopo un tè caldo e del sano gossip Springfieldiano, ottenendo soltanto maggiore carica nell’arrabbiatura successiva. Il loro coinquilino se ne stava in disparte, voleva sparire: era la prima volta in cui assistiva a una sfuriata della donna, dopo chissà quanti anni. Era spaventosa. Aveva ben poco della ragazzina che aveva conosciuto da bambino e di cui si era invaghito, prima di scoprire di avere ben altri interessi. Non aveva più nulla della leggerezza di carattere, della spensieratezza, del sorriso spontaneo e contagioso. La Marge Bouvier che credeva di conoscere era sparita da troppo tempo. E di questo si dispiaceva davvero, perché le aveva sempre voluto un gran bene; la loro amicizia si era rinsaldata ulteriormente nel tempo ma nessuno dei due pareva più recare traccia del passato più semplice. Troppe cose, tanti traumi, poche soddisfazioni.
Forse questa era la cosa che accomunava maggiormente Lenny e Marge: una incessante ricerca insopportabile dell’approvazione del prossimo, chiunque egli fosse. Un prossimo che aveva portato a tanta delusione.
«Dove siete stati?»
«Mamma, sei stressante. Siamo solo usciti. Poi abbiamo mangiato il gelato,  camminato, parlato. Insomma, abbiamo fatto quello che fanno le persone normali.»
La donna era contrariata, cercava invano di mantenere un decoro che aveva imparato a cucirsi addosso ma sapere di essere stata soppiantata dalla figura di Homer nel pomeriggio che aveva organizzato per lei e la figlia… non lo tollerava in alcun modo.
«Dovevamo andare noi due fuori.»
«Perché? Non si può uscire con papà adesso? Lo sapevo, sapevo che eri gelosa di lui! Ah ma tu sei la mamma perfetta, tu sei la mamma che ha salvato il teppista, o che ha cresciuto il genio della scuola elementare di Springfield. Tu sei quella che ha sempre una parola buona per tutti, tu sei quella che fa la cosa giusta in ogni momento. Sei solo un’ipocrita, e no, non provare a interrompermi adesso. Devi smetterla di far pesare agli altri che il mondo non sia come quello che vuoi tu. Sul serio, hai rotto le scatole. Dai la colpa a papà per come sei, ma perché non ti guardi e non ti chiedi se è colpa tua?»
L’aveva colpita davvero.
La mano aperta sulla guancia della figlia pizzicava terribilmente, anzi, bruciava. Non era tanto la pelle però ad aver preso fuoco. L’ira che aveva spinto Marge a schiaffeggiarla stava consumando ogni buon proposito per la giornata. Non se n’era nemmeno accorta e aveva cominciato a tremare, spaventata dalla stessa reazione che non riusciva a spiegare. La ragazzina le sussurrò qualcosa di parecchio offensivo, si voltò verso il padre e affondò il volto ricoperto di lacrime sul corpo panciuto e rassicurante. Homer non si espose subito, abbracciò la figlia che singhiozzava silenziosa, le carezzò la testa confortandola al massimo delle proprie esigue capacità e catturò sguardo e attenzione della moglie, sicuro di essere sentito chiaramente:
«Non osare farle una cosa del genere.»
«Ma stai scherzando?! Mettevi le mani addosso a tuo figlio e adesso mi tratti come se mi fossi abbassata al tuo livello?!» Marge era in panico, la voce usciva stridula e la cattiveria acuta. «Non fare il santerellino dopo tutto lo schifo che hai fatto ai tuoi figli!»
Lenny cambiò stanza, era troppo: li aveva visti e sentiti litigare, ma mai aveva partecipato da spettatore così coinvolto. Stava avvertendo il peso delle grida, le accuse lanciate e rimbalzate da uno all’altra, tornando indietro con il doppio della cattiveria, erano al limite del ridicolo. Pensò a quanto potesse star soffrendo Margaret in quel momento, ancora stretta al padre, avvinghiatagli come stesse tentando di non affondare.
Quanto ancora sarebbe durato quel matrimonio?


«Capisci, Lenny? Non l’avevo mai vista perdere la… la pazienza così…»
La taverna di Moe era vuota a quell’ora della notte, ormai tarda persino per gli standard dello stesso titolare che stancamente stava cercando di scacciare un terribile mal di testa con l’ennesima birra. Pessima scelta, ma almeno poteva godere della compagnia – non certo qualificata in quel momento – dei pochi amici che ancora gli erano accanto. Homer lisciava il bordo del boccale, guardando amaramente sparire la frizzantezza della Duff che gli era stata servita venti minuti prima; nonostante volesse bere fino a perdere la cognizione di tempo, spazio e delle cose, non ce la faceva.
Aveva promesso a Marge di smettere con l’alcool, o almeno tentare di limitarsi e non abusarne… dannazione a lui, ci stava riuscendo e pure nel momento peggiore, cioè quando effettivamente l’alcool avrebbe potuto essere la soluzione ai suoi problemi. Non poteva dire lo stesso di Lenford, steso sul bancone di legno, aggrappato con le poche forze levate dal sonno alla bottiglia di vetro, l’ennesima, che aveva richiesto quella sera.
«Ho… Homer, senti… come, come fai?» Trascinava le sillabe, voleva farsi capire, doveva. «Homer, Homer come… come fai? Sai, io se, spetta, aspetta so… so cosa de-devo dire.» Bevve ancora un sorso, uno di quelli che sapevano di acqua e di lacrime, l’agro della birra che aveva ordinato non lo percepiva nemmeno più. «Come fai a… a amarla così?»
Moe si girò verso di lui, urlandogli addosso, sputando aggressività: non poteva dire sul serio, non poteva stare parlando di Marge, della donna di cui si era innamorato e che ancora portava stretta nel petto, nella speranza di ricevere da lei una parola gentile, uno sguardo interessato. No, non era ammissibile una simile affermazione. Lo schernì apertamente, prima di tornare alla sua solitudine di un metro quadro e al suo silenzio perplesso e scontroso.
«Moe, non… non puoi capire. Ahahah, sembra di stare, credimi, sembra di… di stare in un inferno lì dentro.»
Homer osservò perplesso l’amico che ormai stava parlando a ruota libera. C’era qualcosa di sbagliato in ciò che stava dicendo: d’accordo, la situazione non era delle migliori, ma dal suo punto di vista ne aveva passate ben di peggiori.
Almeno era ciò di cui era convinto.
E stava sbagliando.
Lenny rise di nuovo. «Marge parla male tutto il tempo di… di te, Homer. Mio caro sei, sei veramente fregato. Si… si è… pffff! Si è pentita di averti, aspetta, come si dice cazzo…» si grattò il mento, bevve un altro abbondante sorso e poi scoppiò a ridere. «si è pentita di averti sposato. Ma tanto, tanto, sì tanto tempo fa.»
Si
è
pentita.

Homer l’afferrò per il colletto, lo sbatté contro al bancone e rovesciò i boccali a terra, i cocci a riempire il pavimento appiccicoso. Moe tastò nel retro del mobile alla ricerca della fidata arma illegale che deteneva nel caso le cose si mettessero male. «Homer, non costringermi a sparare un colpo d’avvertimento. Non vorrai avere qui la polizia a quest’ora. È completamente ubriaco, lascialo stare.» Non l’avrebbe fatto di sicuro, ma spaventare i suoi clienti era il modo migliore per evitare di dover poi agire davvero. «È solo ubriaco. Non è messo meglio di te, starà parlando la sua rassegnazione.»
Lenny non fece resistenza, anzi, sfidò l’amico apertamente a fare qualunque cosa desiderasse in quel momento. «Vuoi colpirmi? Dai, dai Homer. Fallo. Non… non sei capace di fare di… didi più di così, vero? Per questo si è ammalata, per questo odia… la sua vita con te. Ti odia, PAPI.»
Lo schernì con il nome con cui la moglie lo chiamava ancora quando andava tutto bene. Era tanto che non lo sentiva pronunciare.
Il pugno arrivò ben assestato, dritto sullo zigomo. Non certo forte, ma abbastanza significativo da mettere un bel punto alla situazione. «Ti voglio fuori da casa mia. Due giorni, e te ne andrai.»


Lenford aveva lasciato il locale barcollando, rideva di lui, di Homer, della situazione in cui si era andato a cacciare. Le strade deserte di quello specifico quartiere di Springfield non erano di compagnia, e non sapeva nemmeno dove sarebbe andato a finire. Era arrivato da Moe accompagnato da Homer, aveva parlato troppo, e adesso sarebbe dovuto tornare a casa Simpson per poi raccattare le sue cose e andarsene. Che male aveva fatto a esporre la verità? Non che Marge avesse usato esattamente le stesse parole, ma ciò che lui aveva sentito, colto e interiorizzato equivaleva a ciò che aveva esposto all’amico.
In fondo, dire la verità non era il modo migliore di aggiustare le cose?
O romperle definitivamente, ecco.
Almeno si sarebbero mosse in una direzione precisa, piuttosto che rimanere in equilibrio su un filo pieno di nodi e rattoppi, sfilacciato, consumato.
Alzò gli occhi al cielo, le stelle erano così belle, parevano dei fiori di cotone quanto erano sfocate. Gli occhi di Lenny le notavano ovattate e lontane, forse per l’alcool, forse per gli occhi lucidi. Non coglieva molto delle conseguenze che avrebbe scatenato, non ne era capace in quel dato momento, ma sapeva niente sarebbe stato come prima.
Aveva rotto la fiducia decennale con Homer, aveva sputtanato la sua situazione con terzi e l’aveva fatto ridendo.
«Bel risultato, Lenny. Bravo, bravo, bravo.» E continuava a ridere, ridere e piangere. «Bravo e stupido.»


La chiave nella toppa era entrata fluida, al primo colpo. Un record, considerato l’orario. Homer nello standard era sempre tornato ubriaco a quell’ora, ma non era questa l’attuale situazione: il poco alcool ingerito di malumore pareva dissolto dopo le parole acide dette da Lenford, tanto acide da provocargli un moto di rabbia che non aveva mai espresso così fortemente contro di lui. Così Marge non lo sopportava più, eh…
Beh, non che ci fosse voluto un genio, ne aveva combinate tante, troppe, davvero troppe per riuscire a rinsaldare qualcosa di sgretolato come l’emotività della moglie. Entrato in casa si adagiò in salotto, al buio, affondando pesantemente sul divano. Accovacciato come quando non era capace di affrontare il peso del mondo su di sé.
Aveva perso la fiducia di due di tre figli, ma sempre aveva contato sull’instancabile Marjorie Bouvier; sull’ingrigita, stanca e instabile Marge. Le aveva tolto anni di vita con le sue cazzate, i suoi errori, le sue leggerezze. E nient’altro glieli avrebbe potuti restituire in nessun modo. L’aveva prosciugata, ma questo l’aveva già capito durante il lungo colloquio con il Dott. Hibbert dopo le dimissioni della moglie dal ricovero. Aveva sbagliato tanto, non aveva dato abbastanza e sicuramente avrebbe potuto fare di meglio, ma sempre aveva agito pensando di fare del bene per lei.
Ora sapeva non aver fatto ciò che poteva, doveva o voleva.
E comunque, non era stato sufficiente.
Era riuscito a farsi odiare dall’unica persona che l’aveva sostenuto, amato e accettato. Il suo universo stava cadendo, e l’ultimo pezzo a sostegno del proprio equilibrio aveva ceduto un paio di ore prima.
Nel dormiveglia, avvolto dal silenzio plumbeo della casa, ricordò un volto sorridente, capelli blu vivace, tanta speranza ancora cucita addosso, anche se alla bene e meglio. Lui e Marge erano giovani ma avevano ancora tanta voglia di crescere assieme, di migliorarsi, di dare tutto…

 

«Sei abbastanza ubriaco da dirmi che mi ami?»
«Sì, Marge, sì! Sono abbast… abbastanza ubriaco!»
Ridevano, non avevano nulla se non un appartamentino da pochi spiccioli, un arredo spoglio, gli oggetti portati via in fretta dal tetto famigliare per cominciare una nuova vita assieme.
«Sì cosa?» Erano euforici, inesperti della vita, ma una cosa la sapevano…
«Sì, ti amo!»
Marge abbracciò Homer, Homer abbracciò Marge. E così era cominciata.
 

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