La Figlia del Mare e il Ladro di Fulmini

di Knight_7
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** How Far I'll Go - Auli'i Cravalho ***
Capitolo 2: *** Unstoppable - The Score ***
Capitolo 3: *** Something Just Like This - Coldplay ***
Capitolo 4: *** Into the Unknown - Panic! At The Disco ***
Capitolo 5: *** Be Okay - Oh Honey ***
Capitolo 6: *** Where No One Goes - Jónsi feat. John Powell ***
Capitolo 7: *** Brighton - Forest Fire ***
Capitolo 8: *** Control - Halsey ***
Capitolo 9: *** The Scientist - Coldplay ***
Capitolo 10: *** Dandelions - Ruth B. ***
Capitolo 11: *** Hey Brother - Avicii ***
Capitolo 12: *** You'll Be In My Heart - Phil Collins ***



Capitolo 1
*** How Far I'll Go - Auli'i Cravalho ***


Nella mia mente ho sempre paragonato il movimento del respiro a quello delle onde.
Forse perché il mare è il primo ricordo che ho, oltre a una delle pochissime immagini nitide che conservo dei miei primi anni di vita.  
L’oceano riempiva ogni mio pensiero all’epoca, perciò non mi sorprende che abbia finito per spazzare via tutto il resto nella mia memoria.
Ora che sono cresciuta è tutto diverso, certo…
Anche se ultimamente ho scoperto che l’immagine delle onde mi aiuta a inspirare ed espirare lentamente quando nel cuore della notte vengo svegliata dagli attacchi di panico.
Ma questo è successo dopo.
Molto dopo.

E forse per evitare che anche l’ultimo briciolo di sanità mentale che mi resta venga sommerso dalla marea, meglio ricordare tutto dall’inizio.

 

All’età di 7 anni, avevo intuito di non essere una figlia modello.
Mia madre dice sempre che ha compreso di che pasta fossi fatta nell’istante in cui mi sentì scalciare nella sua pancia. Gli ultimi mesi di gravidanza pare fosse stata a malapena in grado di camminare da quanto insistevo nella mia violenza, obbligandola a un dolore da cui non poteva difendersi.
Dopo, beh, non posso dire di averle dato tregua.
Come ho già detto, non conservo molti ricordi del periodo della mia prima infanzia, ma col tempo – molto, troppo in effetti – ho imparato a fidarmi di ciò che dice mia madre…. E vedo i suoi occhi gonfiarsi dalla frustrazione quando racconta di quanto fossi intrattabile e capricciosa da piccola.
Non dovete provare empatia nei miei confronti, non immaginatemi come la simpatica, piccola peste della porta accanto che sfoga la sua irrefrenabile voglia di vivere.
L’unica persona per cui provare simpatia è mia madre. Lei sì che se la merita.
E se sto provando a tenermi a galla in questa tempesta è anche perché glielo devo, dopo tutto…

Ma sto divagando ancora, perdonatemi.

 
Abbiamo vissuto nella piccola città balneare di Montauk, sulla punta di Long Island, fino ai miei otto anni.
Abitavamo in un minuscolo bungalow, mamma mi dava lezioni a casa (quando non era occupata dai suoi due lavori) e gli unici amici che avevo erano dotati di branchie.
Sembra l’esperienza triste e solitaria di una bambina che da grande si trasformerà in una killer seriale, ma in realtà fatico a ricordare periodi della mia vita in cui sono stata tanto felice.

Passavo la maggior parte del mio tempo immersa nell’acqua, mi spingevo al largo per ammirare l’immensità dell’oceano, giocare con gli squali toro o a farmi trascinare dalle correnti che formavano vortici simili a montagne russe.
Non ho idea di come facessi a non trovare strano quanto a lungo fossi in grado di nuotare… quanto a fondo riuscissi a spingermi… quanto l’acqua del mare fosse simile all’aria che respiravo…
Forse semplicemente la mia mente era troppo presa da cose come la schiusa delle uova di tartaruga, dall’inquinamento di plastica e altre schifezze nel mare e dalle numerose ferite che gli ami da pesca infliggevano ai poveri pesci, che venivano continuamente a chiedermi aiuto.
Sono sempre stata convinta che la singolare forza dei miei poteri sia derivata dallo stretto contatto che ho avuto con l’elemento che li nutriva.
E naturalmente questo attirò presto la loro attenzione.
 
Il tempo che non passavo in acqua, lo trascorrevo sulla terraferma a far disperare mia madre.
Scenate isteriche fatte di urla e piagnistei erano all’ordine del giorno, ma non riesco a ricordare per quali motivi scoppiassero… so solo che riuscivo sempre a trovare una scusa per rovinarle la giornata.
Quando tornava a casa dai suoi due sfiancanti lavori sottopagati, che ci assicuravano il minimo indispensabile, doveva cavarsela da sola nel gestire una bambina con diagnosi di iperattività e difficoltà di apprendimento.
Sola, perché i suoi genitori erano scomparsi quando lei era molto piccola, quanto a mio padre… beh, andiamo per gradi.
 
C’è anche da riconoscere che non me la stessi passando proprio bene.
Una strana inquietudine iniziava a pervadere ogni cosa… mi sembrava che le ombre si allungassero per arrivarmi sempre più vicino.
Non so dirvi cosa vedessi o sentissi, ricordo solo che spesso, quando vagavo per la spiaggia e mi spingevo troppo vicina alla strada, c’era sempre qualcosa pronto a spaventarmi.
Ricordo la sensazione di dolore ai polmoni e dei polpacci in fiamme, mentre correvo a perdifiato sulla sabbia in direzione del mare, e il rumore di passi in corsa alle mie spalle.
Dopo un paio di volte, capii che semplicemente tuffarsi in acqua significava salvezza, perché, qualunque cosa fosse, non aveva mai provato a inseguirmi lì.
E ricordo anche di una litigata tra me e mia madre ,per non aver rispettato il castigo che mi aveva inflitto, trasformarsi in una lotta per la sopravvivenza… lei che cercava di infilzare, con un forchettone da cucina, un indiavolato serpente cornuto a tre teste, spuntato dal rubinetto, mentre io brandivo il largo coperchio di una padella per farci da scudo.
Probabilmente fu da quella volta che iniziai a sviluppare più rispetto per mia madre.
 
Ci fu una volta, tuttavia, in cui neanche l’oceano bastò a salvarmi.
Fuggii come al solito in direzione dell’acqua, ignara che ciò che stava tendando di acciuffarmi era diverso da qualsiasi altro mostro avessi seminato.
Mi gettai tra le onde all’ultimo secondo, spingendomi verso il fondale per sicurezza, e respirando profondamente per il sollievo.
Fu in quel momento che venni afferrata per i capelli.
Resa folle dal panico, usai tutte le mie forze per invocare le forti correnti nelle vicinanze e scaricarle contro il mio aggressore, che perse la presa su di me.
Il muro di bollicine che avvolse la creature, impedendole la visuale, mi permise di fuggire lontano senza essere vista, nuotando a perdifiato.
Ma io una cosa di lui l’avevo vista bene: un gigantesco occhio giallo venato di sangue.
Ancora terrorizzata, mi spinsi sempre più lontano, gettandomi ossessivamente occhiate alle spalle per assicurarmi che nulla mi stesse inseguendo, finché non andai a sbattere contro una femmina di orca.
Disperata, mi aggrappai forte alla sua pinna e singhiozzai, pensando:
“Portami in un luogo sicuro”
 
Reggendomi alla sua pinna, mi feci trasportare dal gigantesco animale per un tempo lunghissimo.
Continuavamo a scendere verso il basso, giù negli abissi, dove ero sicura di non essere mai stata.
Tutto si fece buio, ma io avevo la piena percezione di ciò che mi circondava: un calamaro gigante a qualche metro di distanza, un’antica nave affondata poco sotto di me, enormi razze che si muovevano sul fondale marino.
Poi, ad un tratto, la luce fu abbagliante.
 
Ero una bambina di 7 anni che respirava sott’acqua, parlava con i pesci e scappava dai mostri.
Eppure ciò che vidi fu impressionante perfino per me.
Un immenso e splendido palazzo, proprio come quelli che avevo visto sui libri di storia che mamma mi forzava a leggere, dal quale entravano e uscivano creature di ogni forma, anche le più stravaganti.
Sirenette, tritoni, ciclopi, balene, cavallucci marini giganti…
Ma non riuscii ad ammirare ciò che avevo davanti per più di una manciata di secondi.
Percepii una presenza soprannaturale vicino a me… qualcosa che non aveva nulla a che fare con i mostri da cui fuggivo, neanche con l’ultimo terribile incontro.
Era… in tutto ciò avevo intorno.
Con il cuore in gola, mi diedi all’ennesima fuga della giornata.
 
Quella strana sensazione non mi abbandonò finché non misi piede sulla terraferma.
Fu l’unica volta che abbandonare il mare per toccare la sabbia mi diede un forte sollievo.
Quando misi la mano sulla maniglia della porta del bungalow, pensai di essere finalmente salva, ma decisi comunque di guardarmi alle spalle.
Il mio cuore perse un battito.
Spalancai la porta di casa, bagnata fradicia e con il fiatone, e me la richiusi subito alle spalle.
“Melody… è proprio necessario fare il bagno con i vestiti addosso?” mi rimproverò mia madre dai fornelli con voce esausta, guardando la chiazza d’acqua ai miei piedi che si allargava sempre di più.
“Un uomo è uscito dall’acqua” mormorai, tremando come una foglia.
Mia madre perse la presa su un bicchiere che stava lavando, mandandolo in frantumi sul pavimento.
Si precipitò alla finestra e vidi dipingersi sul suo volto un’espressione che mai avevo visto e che non seppi interpretare.
Ma non era paura.
“Resta qui, Melody. Non uscire per nessun motivo al mondo”
 
Solitamente, un divieto simile mi avrebbe spronata a disubbidire solo per il gusto di farlo, ma ero così stremata fisicamente ed emotivamente che, mentre lei si chiudeva la porta alle spalle, andai a stendermi sul piccolo divano del salotto.
Non ricordo se mi addormentai, ma passò molto tempo prima che trovai le forze per spingermi verso la finestra a sbirciare fuori.
Poco distante dalla battigia, mia madre era girata di spalle, i lunghi capelli scuri che ondeggiavano nel vento, mentre parlava con un uomo alto, dai capelli neri che gli sfioravano alle spalle, vestito con una camicia in stile hawaiano.
Pensai fosse molto bello e per qualche ragione mi suscitò l’immagine di un tramonto a picco sul mare.
Ma fui comunque attraversata da un brivido di paura quando mia madre si voltò verso la finestra da cui mi affacciavo per farmi cenno con la mano di avvicinarmi.
 
Camminai lentamente verso quell’improbabile duetto, i muscoli in tensione e pronti a scattare…
Anche se avevo l’impressione che non esisteva posto né sulla terra né nel mare in cui avrei potuto nascondermi da quello strano individuo.
“Mel, tesoro… non aver paura” mi incoraggiò mia madre, notando il mio atteggiamento guardigno.
“è tutto finito ora, nessuno vuol farti del male. Vedi, questo signore… è il tuo papà”
Mi immobilizzai, sconvolta.
Non avevo mai analizzato il pensiero di possedere un padre.
Certo, avevo già scoperto come funzionassero certe cose, ed era inevitabile che ne avessi uno, ma…
Semplicemente non avevo mai pensato a lui… né alla sua assenza.
 
Le mani di mia madre mi spinsero delicatamente per le spalle mentre mio padre si piegava sulle ginocchia.
Il suo viso, davanti al mio, si aprì in un sorriso talmente luminoso da oscurare tutta la luce che si rifletteva sulla sabbia.
“Ciao Melody. È un piacere conoscerti”
 
Fui diffidente per tutto il tempo che trascorse insieme a noi, quel pomeriggio.
Il fatto che mio padre fosse di una bellezza a malapena concepibile per la mente umana non lo scagionava dall’essere un perfetto sconosciuto.
Persi la mia consueta parlantina quella sera e mi limitai quasi del tutto a osservare quei due che chiacchieravano e ridevano come vecchi amici.
Li ascoltai rammentare vecchi momenti vissuti insieme e aggiornarsi sulle ultime novità: mia madre parlò dei suoi nuovi lavori e mio padre si lamentò della scarsa quantità di plancton nell’Oceano Pacifico del Nord.
Mangiai in fretta la mia cena (davanti a mio padre che non toccò cibo) e cercai di dileguarmi in camera senza destare l’attenzione.
“Melody”
Il sua voce risuonò dolcemente, ma riuscì a bloccarmi sul posto.
“Lo so, il mare è spesso irrequieto, ma ha bisogno di pace tanto quanto ne ha di tempesta”
Lo disse piantandomi addosso quei suoi occhi azzurro mare, di una tonalità più chiara rispetto ai miei, che mi fecero tremare le ginocchia.
 
Quella strana sensazione non mi abbandonò finchè non mi chiusi la porta della camera alle spalle.
Scivolai sul pavimento, con la schiena appoggiata alla porta, ancora frastornata da tutti gli inaspettati e spaventosi accadimenti della giornata.
Percepii solo qualche strascico della conversazione che ebbero i miei genitori.
 
“…Troppo forte. Se qualcuno l’avesse vista oggi, a palazzo…”
“… Non potete più stare qui…”
“… Sono sempre più frequenti…”
“… Se i miei fratelli scoprissero la sua esistenza…”
“… Non fanno che tormentarci…”
“… Se venisse con me, potrei spacciarla per una semplice sirenetta…”
“… Un modo per nasconderla…”
“… Al sicuro dai mostri…”
“…. Non chiedermelo mai più…”
 
Mi trascinai fino al letto, talmente esausta da sprofondare subito nel sonno e senza neanche la forza per avere un incubo.

 
Fu la notte in cui venne concepito mio fratello.
 


Bene, se siete arrivati fin qui nonostante la mia memoria sconclusionata, la confusione cronica e le mie scarse facoltà di oratrice, vi meritate un grazie.
Non sarà semplice ripercorrere tutta la mia esistenza e andando avanti potrà solo peggiorare.
Siete avvisati.

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Capitolo 2
*** Unstoppable - The Score ***


Mio fratello nacque nell’assolato pomeriggio del 18 agosto 1993 e mia madre mi obbligò a prenderlo in braccio pochi minuti dopo la sua nascita.
Era orrendo: la pelle scura e tirata per lo sforzo del parto e i pochi ciuffi di capelli neri sulla testa, lo facevano sembrare una versione neonata e non verde del Grinch.
Avvertivo in mia madre un palese senso di apprensione quando mi osservava interagire con Percy. Non le ho mai chiesto conferma, ma sono certa temesse che fossi malvagia anche con lui.
Ma lo amai subito.
Provavo per lui lo stesso senso di protezione che avevo per i cuccioli di tartaruga appena nati, quando li aiutavo a raggiungere il mare, riparandoli dall’attacco dei volatili.
Fino all’età di 14 anni, Percy fu l’unico individuo con cui seppi relazionarmi in modo umano.
 
Mia madre, di contro, iniziò a prendere decisioni che non potevo capire.
Prima tra tutte, il suo atteggiamento di caparbio silenzio davanti alle mie domande riguardanti papà, provocavano in me una furia esagerata.
Dov’era? Perché non potevamo chiamarlo? Era da lui che avevo preso le mie bizzarre capacità marine?
Era diventato per me un’ossessione.
 
Come se ciò non bastasse, la scelta di lasciare, pochi mesi dopo la nascita di mio fratello, il nostro piccolo, confortevole bungalow di Montauk per un pidocchioso, minuscolo, puzzolente appartamento nella caotica e disumana New York.
Abbandonare l’oceano e il rumore delle onde per l’asfalto e il baccano del traffico, fu a dir poco traumatico per me.
E, come se non bastasse, in quel tugurio, non ci andammo a vivere solo noi tre.
Christian Ferdon, il nuovo compagno di mia madre, ci onorò della sua presenza.
Un crudele, fallito giocatore d’azzardo che sperperava tutto i suoi stipendi vivendo sulle spalle di mia madre e trattava tutti noi come fossimo servitù.
 
Non capivo perché mia madre ci avesse costretto a quell’insensato trascolo e avesse aperto le porte al primo idiota di passaggio… perciò mi trasformai in un concentrato di pura cattiveria che sfogai su di lei per ben sette anni.
Oh, facevo certi pensieri…
Non vado fiera di niente, credetemi.
Scoprire ciò che ho scoperto dopo… Nei momenti peggiori mi domando se non mi sono meritata tutto quanto è successo…
 
Scusatemi, ho perso il filo…
 
Ah, si.
Trasferirci nell’Upper East Side sortì almeno un effetto positivo, in quanto gli attacchi dei mostri diminuirono notevolmente. Pensavo che forse, in tutto quel caos, facessero fatica a trovarmi.
 
Ma tutto il resto fu un incubo.
Fui sbattuta per la prima volta in vita mia in una scuola pubblica, completamente ignorante in fatto di regole disciplinari e dinamiche sociali tra coetanei.
Ero un animale selvatico agli occhi di tutti, e c’è da dire che mi comportavo anche come tale: non so quante volte mia mamma è stata costretta a mollare il lavoro a metà giornata per precipitarsi a scuola, convocata urgentemente dal preside perché avevo fatto a botte o mancato di rispetto a un insegnante.
 
Si susseguì una serie inevitabile di espulsioni e sospensioni continue, che mi costringevano a rimbalzare da una scuola all’altra, senza che la situazione migliorasse.
 
Gli unici momenti di serenità che ricordo riguardavano Percy. Vederlo crescere, arrivare ai sette anni, fu l’unica gioia che mi trattenne dal fuggire di casa.
Era così buffo e divertente, non mi stancai mai di giocare insieme a lui, nemmeno quando arrivai a compiere quattordici anni.
Nei giorni di sole, fingevo di accompagnarlo a scuola, quando invece salivamo sul primo treno per Coney Island, dove trascorrevamo la giornata a divertirci sulle giostre e a giocare sulla spiaggia.
Sapevo perfettamente che mi aveva preso a modello, e questo mi spingeva ad assumere un fare ancora più protettivo nei suoi confronti… Soprattutto quando notai che le ombre iniziarono ad allungarsi anche su di lui.
Scoprii molto presto che, oltre all’allegria, il mio fratellino era dotato anche di una sottile intelligenza; iniziò molto presto a notare l’assenza di una figura importante nella nostra famiglia.
Ma mia madre, come ho già detto, non si espresse mai a riguardo, e io non gli raccontai mai dell’unica volta in cui avevo visto nostro padre. Forse volevo che quel ricordo rimanesse solo mio.
 
 
Ad ogni modo… Dov’ero rimasta?
 
Giusto, loro.
 
Nel periodo che precedeva di poche settimane l’inizio delle vacanze estive, tendevo a saltare la scuola più spesso del solito, preferendo bighellonare qua e là per la Grande Mela, piuttosto che rinchiudermi per 6 ore tra mura che sapevo non avrei rivisto l’anno successivo.
E infatti quella mattina la trascorsi a Central Park, sdraiata su una panchina di una zona defilata, al riparo da occhi troppo indiscreti e dalla vigilanza, impegnata a sorvegliare i tratti più affollati.
Quando si fece mezzogiorno, spensi l’audiolibro che stavo ascoltando sul mio Mp3 e mi diressi verso l’uscita più vicina.
 
Sbucarono improvvisamente dalla siepe che si snodava al mio fianco, superandomi di corsa e rischiando di investirmi.
Li scorsi per una frazione di secondo, ma capii che erano quattro ragazzi di età diverse.
Una piccola figura dai capelli biondi veniva trascinata per mano da un ragazzo con una giacca di jeans, seguiti a ruota da un ragazzino che avanzava con un’andatura sbilenca, guidati da una sagoma vestita di nero e dai corti capelli neri.
 
Fu il ragazzino che chiudeva la fila a incontrare il mio sguardo e a voltarsi verso di me per continuare a sostenerlo, quasi arrivando a fermarsi.
 
“Grover, muoviti!” gli comandò con fare autoritario la capogruppo, accortasi del tentennamento del suo compagno.
 
L’attimo seguente erano scomparsi dalla mia vista.
Fu proprio in quell’istante che un brivido mi percorse la schiena e i peli sulle braccia si rizzarono…
Pericolo in avvicinamento.
 
Con la coda dell’occhio notai una scolaresca di liceali passare sul sentiero a un centinaio di metri da me.
Con il cuore in gola, mi precipitai verso di loro, infilandomi nel gruppo e ignorando le occhiatacce che mi rivolsero gli studenti.
Quando mi volsi indietro sentii lo stomaco contorcersi dalla paura.
 
Proprio nel punto in cui mi trovavo fino a pochi istanti prima, un gigantesco verme bianco sembrava intento a annusare l’aria, cosa molto bizzarra dato che non scorgevo neanche l’ombra di un naso, sopra quei suoi due denti affilati e lunghi come spade.
 
Mi ci volle qualche secondo per ricordare una conversazione che avevo avuto con le “Signore dell’Hudson”, ovvero quelle stravaganti entità femminili che incontravo sott’acqua e aiutavo a ripulire il fiume da tutta la schifezza.
Erano preoccupate dell’arrivo di un pericoloso mostro fluviale che era giunto nell’Hudson e minacciava di devastare fauna e flora del fiume e di tutti i suoi affluenti.
Il verme dell’Indo, l’avevano chiamato, o skōlex.
 
Certa che si sarebbe voltato nella mia direzione, costringendomi alla fuga, rimasi parecchio sbigottita vedendolo allontanarsi e in un attimo sparire.
 
“Professoressa!! Qui c’è una ragazzina che non fa parte della classe!”
 
Sentii quella vocina petulante vicina a me come se provenisse da chilometri di distanza, mentre cercavo di metabolizzare una consapevolezza che mi levò il fiato.
Il mostro non stava cercando me.
Ma quell’assurdo quartetto di ragazzini che il destino mi aveva fatto incrociare totalmente per caso.
E ciò poteva solo significare una cosa: chiunque fossero, da ovunque venissero, loro erano come me.
 
Destata dallo sconvolgimento che mi aveva pietrificata, mi lanciai all’inseguimento del verme, estraendo dalla tasca posteriore dei jeans la taglierina che portavo sempre con me.
 
Seguii la scia di bava che aveva lasciato il verme finché non sembro esaurirsi, conducendomi in un angolo remoto di Central Park, il genere di posto in cui non ci si inoltra se non si vuole incappare in spiacevoli incontri.
Mi guardai intorno, senza più tracce da seguire, sentendo l’angoscia crescermi in petto.
 
Poi sentii chiaramente delle urla provenienti dalla mia sinistra.
 
Decisa a non farmi prendere in contropiede, mi arrampicai sveltissima su per il tronco di un albero, arrivando fin sulla cima.
Approfittando della  vicinanza degli alberi, che creavano una fitta coltre di rami che si sovrapponevano l’un l’altro, balzai da una fronda all’altra, diretta verso la fonte delle urla.
 
Arrivai letteralmente sopra l’assurda scena che si stava svolgendo: il gigantesco verme, eretto come un cobra in fase d’attacco, avvolgeva con la sua coda la piccola figura biondina, urlante di paura e dolore, stringendo il suo corpicino in spirali soffocanti.
 
Probabilmente il mostro non era ancora riuscito a uccidere la piccola perché troppo impegnato a difendersi dai due ragazzi che lottavano come disperati, nel tentativo di liberarla.
La ragazza dark cercava di infilzare il verme con una lunga lancia che sembrava essere stata rubata da un museo di storia antica, mentre il biondino colpiva brutalmente ogni superficie del mostro che gli capitava a tiro con una mazza da baseball.
Ma neanche insieme sembravano avere speranze di battere il mostro, che sferragliava colpi di denti lunghi come spade a destra e a manca, sempre a un pelo dal colpirli.
 
“Grover!” urlò a squarciagola e con disperazione il biondino.
 
“Non la trovo!” rispose di rimando il ricciolino che mi aveva fissata poco prima, che notai a pochi metri di distanza dallo scontro, con la faccia a pochi centimetri dal terreno, quasi come se stesse annusando.
 
Ora che ci rifletto, trovo quantomeno curioso come in 14 anni di esistenza avevo faticato a provare un autentico sentimento di affetto per persone che non fossero mio fratello, per poi decidere di mettere a rischio la mia vita per quattro sconosciuti.
Con uno slancio sorprendentemente sicuro e il taglierino aperto nella mia mano, mi buttai di sotto.
 
La lama si conficcò nella testa viscida del mostro e la sentii affondare in tutta la sua lunghezza di una decina di centimetri.
Un grido atroce mi sfondò i timpani, ma rimasi aggrappata al manico del taglierino per istanti che mi parvero giorni, mentre il mostro si contorceva dal dolore e nel tentativo di scrollarsi di dosso me.
 
Ad un certo punto, la coda, che finalmente doveva aver liberato la piccolina dai riccioli biondi, mi scaraventò via.
Volai per lunghissimi secondi, per poi schiantarmi con una forza tale da mandare in frantumi la malcapitata panchina di legno che attutì la mia caduta.
 
Il dolore fu inconcepibile.
Il mio cervello non riuscì neanche a elaborare completamente tutta la sofferenza che stava percependo e tutto intorno a me si fece offuscato.
Il male che si faceva più sentire era quello derivato dal polso sinistro, che era finito intrappolato tra il mio peso e le assi della panchina, rompendosi e piegandosi in un’orrenda posizione.
Il secondo dolore in classifica proveniva dalla bocca e si spiegò quanto sputai una chiazza di liquido rosso insieme a piccoli frammenti bianchi.
Il terzo posto andava ai tagli che mi ricoprivano quasi tutto il corpo e alle schegge che mi si erano infilate sotto pelle, gentile omaggio delle assi spezzate della panchina di legno.
 
Tra la vista annebbiata e i suoni ovattati, ebbi una vaga percezione di ciò che accadde in seguito, ma ricordo distintamente la voce del ragazzino riccio gridare trionfante “TROVATAA!” e, poco dopo, un animalesco urlo di sofferenza.
Mi contorsi, nel tentativo di tirarmi a sedere, con l’unico risultato di perdere i sensi.
 
Le loro voci mi giunsero a tratti.
“…Pazzi?! Chi ci dice che non è semplicemente una mortale in grado di vedere attraverso la foschia?!” domandò una voce femminile.
“Nessun mortale salterebbe sulla testa di un mostro per pugnalarlo con un taglierino, Thalia”
“Luke ha ragione. Ho avvertito la forza della sua aura non appena l’ho guardata negli occhi. Tienile la testa, Luke”
 
Avvertii la sensazione di un liquido caldo e dolce scivolarmi sulla lingua e poi giù nella gola.
Fu indubbiamente il sapore più incredibile e sublime che avessi mai provato.
D’un tratto, le fitte lancinanti che mi tormentavano la bocca si placarano e trovai la forza per sbattere le palpebre.
C’erano quattro sfocate sagome inginocchiate al mio fianco.
 
“Ehi. Non c’è niente da temere, il mostro è morto. Di noi puoi fidarti” mi rassicurò una voce maschile calda e rassicurante.
 
“è sufficiente” Immediatamente, il liquido mi fu sottratto. Cercai invano di oppormi, afferrando il polso di chi mi aveva aiutata a berlo.
 
“Che avevo detto?” domandò gongolante una voce maschile.
“Devo fasciarle il polso con bende imbevute di nettare se vogliamo che guarisca in fretta. Thalia, passami lo zaino”
“Prima voglio sapere chi è e perché ci stava seguendo. Dico a te, riesci a parlare?!” chiese – anzi più che altro ordinò – la voce femminile con tono diffidente.
 
“Mel…” mi bloccai a metà parola, stupita dallo strano suono della mia voce e da una sensazione di mancanza all’interno della bocca.
Tastai con l’indice l’arcata superiore dei miei denti, scoprendo con estrema amarezza di aver perso metà dell’incisivo destro.
 
“Mel?” domandò la voce che doveva appartenere al biondino, ma i miei occhi erano ancora troppo affaticati per esserne certi.
“Melody. Melody Jackson” risposi, provando immenso imbarazzo per il modo in cui parlavo.
 
“Melody, io mi chiamo Luke, lui è Grover. Mentre le ragazze sono Thalia e la piccola Annabeth”
Anche senza metterle a fuoco, riuscii a cogliere un non troppo velato sguardo di antipatia e sospetto provenire da quelle due figure.
 
“Cos’è successo a quel mostro?” biascicai.
 
“Oh, sai quel verme gigante ci ha colti di sorpresa” raccontò Luke “Ci ha fatto fare un bel volo, colpendoci con la sua coda, e ha fatto perdere a Thalia un oggettino parecchio fastidioso per i mostri. Mentre Grover lo cercava, Annabeth è stata agguantata e… non voglio pensare a cosa sarebbe successo se tu non avessi distratto il mostro… Non appena l’hai attaccato, ha mollato la presa su di lei. E subito dopo Grover è riuscito a ritrovare il bracciale di Thalia”
 
“Un bracciale?” chiesi, domandami quale aiuto potesse avergli dato un braccialettino contro un verme gigante dai denti a sciabola.
 
“è una storia lunga, ma dovremmo iniziare dal principio…” replicò Grover.
 
“I mostri quindi cercano di uccidere anche voi?” biascicai.
 
“Direi proprio di si. Non so quanto ti sia stato raccontato, ma fidati che ti stupirebbe sapere che questa è solo una delle molte cose che tutti noi abbiamo in comune” rispose Luke.
 
Fui colpita da quanto quella consapevolezza riscaldò il mio cuore.
 
“è meglio trovare un posto sicuro prima di iniziare lo spiegone”
“Grover! Li abbiamo alla calcagna da giorni, non possiamo permetterci altre deviazioni!” esclamò Thalia.
 
“Io sono un custode e ogni mezzosangue che incontro ha diritto alla mia protezione” rispose Grover con un tono sorprendentemente deciso.
 
“Casa mia non è distante”
 
Non avevo mai invitato nessuno a casa mia. Mai.
Ma con quei ragazzi percepivo un’affinità incredibile, anche nei confronti di quelle due ragazzine un po’ antipatiche, che non mai avevo sperimentato con nessuno.
Mai con mia madre. E neanche con mio fratello.
 
“Bene, facci strada Mel” disse Luke, alzandosi e porgendomi la mano “Avrai un migliaio di cose da chiederci”
 
“Ho passato tutta la vita a chiedere” replicai con amarezza.
Afferrai la sua mano, ma ci volle comunque anche l’aiuto di Grover per tirarmi in piedi.
 
“Allora il nostro incontro non può essersi trattato di un caso, non credi?”
 
Alzai gli occhi su di lui e per la prima volta lo vidi chiaramente.
 
Luke aveva un volto indiscutibilmente bello: con gli occhi celesti e limpidi, i lineamenti affilati e i corti capelli biondi, avrebbe potuto benissimo essere uno di quei ragazzini che assumevano come modelli per linee di abbigliamento under18.
 
Anche lui piantò i suoi occhi nei miei per qualche secondo di troppo.
 
“Allora?! Aspettiamo di essere divorati dalla prossima bestia infernale di passaggio?!” nella voce di Thalia colsi una nota di bruciante frustrazione, che non aveva nulla a che fare con la fretta.
 
Chissà cosa aveva pensato lui, guardandomi per la prima volta così da vicino.
Non gliel’ho mai chiesto.
Non che abbia importanza ormai.
Ma magari se lo avessimo saputo… Forse...

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Capitolo 3
*** Something Just Like This - Coldplay ***


Non resistei ad aspettare fino a casa e loro cedettero alla mia insistenza prima ancora di trovare l’uscita da Central Park.
 
“Okay, ma sei avvertita, scoprire la verità per quelli come voi significa vedersi spuntare sulla testa un gigantesco cartello con luci a led con scritto “Self service per mostri” mi avvertì Grover, prima di iniziare.
 
Una ventina di minuti dopo, spalancai la porta del mio appartamento, con gli occhi ancora sbarrati e la bocca aperta.
 
In meno di mezz’ora mi era stato raccontato di tutto: gli Dei dell’Olimpo, i mostri, il nettare e l’ambrosia, il bronzo celeste, la foschia, gli Inferi, il Campo Mezzosangue…
 
“Lo so, è traumatizzante” cercò di rassicurarmi Luke, varcando l’entrata “Ma ti ci abituerai fin troppo in fretta, credimi”
 
Quando tutti e quattro furono entrati, chiusi la porta a chiave. Mia madre sarebbe rimasta a lavoro fino alle 18, orario in cui sarebbe andata a prendere Percy a scuola, quanto a Christian… beh, ovunque cavolo fosse, non rincasava mai prima di cena.
 
Mi stupì vedere come i miei nuovi amici sembrassero quasi pietrificati alla vista del mio salotto.
 
“Lo so, non è un granché…” Provai a giustificarmi.
“Non è un granché, dici…” ribatté Thalia con tono sfacciato “è più di quanto tutti noi abbiamo mai avuto”
 
Strinsi le labbra, a disagio.
Durante il discorso che mi avevano fatto durante la strada, erano saltate fuori parti spinose delle loro storie, che sembravano di gran lunga più complicate di un difficile rapporto con la madre e un patrigno decerebrato.
Da quanto mi era parso di capire, e l’aspetto e l’odore dei loro vestiti ne era una lampante conferma, vivevano in strada da parecchio tempo…
 
Offrii loro pane con burro d’arachidi e del succo di frutta, prima di proporgli una doccia.
 
Ci misero un sacco a uscire, soprattutto Luke, che rischiò di prosciugare l’intera risorsa idrica dell’isola della città.
 
“Perdonami, avevo scordato la sensazione di una doccia calda” si scusò, sfoggiando un sorriso che illuminò ogni angolo d’ombra presente nell’appartamento, mentre usciva dal bagno con i capelli ancora bagnati.
 
Quando fu il turno della piccola Annabeth, provai a chiederle se avesse bisogno di una mano, dato che mi capitava spesso di aiutare il mio fratellino a lavarsi; non feci in tempo a finire la frase che mi ritrovai la porta del bagno a pochi centimetri dal viso.
 
“Non farci troppo caso, Annie è diffidente per natura” mi rincuorò Grover, seduto al tavolo della cucina, masticando sonoramente la lattina di Diet Coke bevuta da Thalia.
 
“Effettivamente, fidarsi degli sconosciuti non sembra un atteggiamento consono a una figlia della dea della saggezza” ammisi.
 
“Perciò hai detto che non hai la minima idea di chi possa essere tua padre” disse Thalia, piantandomi addosso quei suoi occhi indagatori, grigi come una tempesta in arrivo, che pensai avesse per forza ereditato dal Signore dell’Olimpo.
 
Era chiaro come il sole che Thalia sospettasse che non stessi dicendo tutta la verità.
Probabilmente suo padre le aveva anche fatto dono delle doti da leader: nonostante fosse più piccola di Luke – mio coetaneo, perciò anche più piccola di me – era chiaro che fosse lei a guidare il gruppo e a sentirsene responsabile.
 
Quanto a me… ovviamente fu indubbiamente semplice dedurre chi fosse mio padre, ma non ne feci parola, anzi negai addirittura di averlo mai incontrato.
Quando la faccenda dei Tre Pezzi Grossi era stata tirata in ballo, fui sul punto di confessare il mio retaggio, anche solo per sottrarre a Thalia l’esclusiva del titolo “unica figlia di un Pezzo Grosso in circolazione”.
Ma, fortunatamente, Grover aveva menzionato in tempo lo spiacevole infrangimento del patto stretto tra i Tre riguardo il non generare più figli con i mortali, proprio da parte dello stesso capo degli Dei.
Nessuno lo disse apertamente, ma da come Thalia si irrigidì, capii che se mai qualcuno avesse dovuto pagare le conseguenze di quella disonestà, non sarebbe stato Zeus…
 
Provai un sentimento di rabbia dovuto alla profonda ingiustizia riservata a Thalia, ma anche sollievo per essere riuscita a frenare la lingua un attimo prima di compromettere la mia sicurezza e quella di Percy.
Perché Percy era figlio di Poseidone, proprio come me. Se anche non avessi visto mio padre entrare in quel bungalow nove mesi prima della nascita di mio fratello, lo avrei comunque inteso dal modo in cui Percy osservava le onde del mare quando andavamo a Coney Island, da come non avesse timore di nuotare sempre più a largo e da come si sentisse a suo agio a nuotare anche con gli squali più grandi.
 
“Ne sappiamo qualcosa di padri assenti, non è vero Thalia?” chiese Luke, nel tentativo di smorzare la tensione.
Lei continuò a fissarmi guardinga per qualche istante, poi tornò a dedicare la sua completa attenzione alla salsa a sette strati di mia madre.
 
Vidi Luke farmi cenno con il capo di seguirlo in corridoio.
 
“Non prendertela per Thalia, d’accordo? Anni di vita da vagabondi ci hanno insegnato a essere cauti con chiunque…”
Sembrò avesse in mente di proseguire, ma qualcosa aveva attirato la sua attenzione e voltò lo sguardo verso la porta socchiusa della mia camera, da cui si intravedeva l’imponente caos che regnava sovrano.
 
Invitare un figlio del Dio dei ladri a dare un’occhiata alla mia camera fu l’ennesima, indiscutibile prova dell’innata connessione empatica che provavo verso gli unici individui da cui mi sentivo compresa che avessi mai conosciuto.
 
Luke ispezionò con gli occhi ogni centimetro della mia stanza, muovendosi come a rallentatore, per poi soffermare lo sguardo sul letto.
 
“Accomodati, se vuoi” proposi, sedendomi per terra con la schiena appoggiata all’armadio.
 
Colpito dall’invito, si adagiò con estrema lentezza sul bordo del letto, quasi avesse paura di precipitare.
 
“Wow… scusa, non mi siedo su un materasso da…” lasciò la frase a metà, sogghignando amaramente.
“Non è che…?” domandò con palese imbarazzo, indicando il cuscino.
 
Risi, pentendomene all’istante e sperando non l’avesse presa male.
“Scusami, certo che puoi”
 
Lui si lasciò andare, sprofondando nel materasso mentre emetteva un sonoro sospiro.
 
“Da quanto tempo sei fuggito da casa tua?” domandai, piegando le gambe sulla sedia e appoggiando il mento sulle ginocchia.
 
“Cinque anni… Prima vivevo nel Connecticut insieme a mia madre”
“Non andavi d’accordo con lei?”
“Io… diciamo di no” fissava il soffitto con sguardo perso “Quelli come noi hanno tutti storie simili, sai? Non sono uno che chiacchiera degli affari degli altri, ma ti assicuro che anche Thalia e Annabeth se la passavano male già da molto prima che i mostri iniziassero a tormentarle”
 
“Se c’è una cosa che mi ha insegnato New York è che nessuna persona sceglierebbe mai la vita in strada se ha anche solo un’alternativa… Per quanto mi riguarda, ho solo la brutta abitudine di comportarmi da stronza con mia madre” ammisi, sentendo lo stomaco stringersi; scoprire che il suo ostinato silenzio riguardo la mia natura era dovuto a quanto avesse a cuore la mia sicurezza, era stato un’autentica pugnalata nel petto.
Tutte quelle scenate, ogni parola crudele che le avevo rivolto si abbatterono su di me con il peso del cemento.
 
“Che tipo di problemi hai con lei?” mi chiese, voltando verso di me la testa appoggiata al cuscino.
 
“Oh, non siamo mai andate troppo d’accordo… Ho sempre saputo che mi nascondeva qualcosa a proposito di mio padre, ma non ha mai voluto confessarmi nulla… Anche se ora so perché…”
 
“Magari non conosce tutta la verità. Gli Dei possono assumere qualsiasi forma preferiscano… Magari ha intuito il contesto, ma non ha scoperto l’identità di tuo padre”
 
Sapevo che non era così.
Poseidone aveva amato mia madre, l’avevo visto nei suoi occhi mentre la osservava la sera che l’avevo conosciuto.
 
“Probabile…poi da quando ha deciso di far entrare nelle nostre vite quel viscido buono a nulla del suo compagno…” scossi la testa, disgustata.
 
“è stata una grande fortuna!” Esclamò Grover, passando davanti alla porta di camera, diretto al bagno per sfruttare il suo turno per la doccia “Non sentivo una puzza così fetida da quella volta in cui finii per sbaglio nella toilette dei giganti all’ultimo Consiglio invernale…Senza offesa”
 
“Di che stai parlando?” domandai, disorientata.
 
“Dell’insopportabile odore che emette il maschio adulto che abita questo appartamento… non mi sorprende che tu sia riuscita a sopravvivere tutto questo tempo. L’odore di questo zozzone ti si è impregnato addosso e deve aver deviato l’olfatto dei mostri lontano da te” sentenziò come se fosse una buona notizia, per poi sparire oltre la porta del bagno.
 
Il sangue mi si gelò nelle vene.
 
“Mel? Tutto bene?” domandò Luke con voce preoccupata, probabilmente vedendo il mio incarnato sbiancare di colpo.
 
“L’ha fatto apposta” mormorai con un filo di voce le parole che pesavano come macigni sul petto “Lo ha sopportato tutti questi anni… per proteggere me”
 
Maledissi me stessa e la mia cocciutaggine. Avevo visto ciò che volevo vedere solo per perorare la mia stupida tesi che mamma fosse ingiusta con me solo per il gusto di farlo, senza accorgermi quando fosse paradossale che una donna come lei potesse desiderare un energumeno come Christian.
Sette anni della sua vita sprecati a sopportare quell’essere che la umiliava, la trattava da schiava e le rubava i soldi, solo per proteggere me e Percy.
Quanta sofferenza doveva aver provato mia madre?
 
Cosa si era costretta a fare quando era rimasta da sola con lui?
 
Mi venne il voltastomaco.
 
“Ehi… Non fartene una colpa, okay? Non potevi saperlo…” sussurrò Luke, che si era alzato dal letto per sedersi sul pavimento al mio fianco.
 “So che è tremendo… Se Thalia si sacrificasse per salvarmi la vita, non credo lo potrei sopportare” 
 
Cercai di fermare i tremori che mi scuotevano il corpo, ma provai sollievo solo quando Luke appoggiò una mano sul mio ginocchio.
“Non possiamo vivere con i mortali. È pericoloso sia per loro che per noi, per questo Grover ci sta conducendo al Campo Mezzosangue”

“Tu cosa speri di trovare in questo posto?” domandai con la voce spezzata dal magone che mi soffocava.
 
Il suo viso era distante pochi centimetri dal mio e mi provocò la stessa sensazione di calore al petto di quando mi aveva aiutata ad alzarmi in piedi a Central Park, appena un’ora prima.
 
“Spero solo… in un po’ di pace”      
“Da cosa?”
 
Mi fissò a lungo senza dire una parola; la tristezza velò i suoi occhi celesti mentre la memoria rievocava chissà quali dolorosi ricordi.
Pensai fosse finalmente sul punto di aprire bocca quando udimmo scattare la serratura della porta d’ingresso.

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Capitolo 4
*** Into the Unknown - Panic! At The Disco ***


“Ehi, Ehi, Ehi… Che ci fanno tutti questi mocciosi in casa mia?” riconobbi la voce biascicante di un Christian che era andato oltre le tre birre.
 
“Sono amici miei” affermai, sbucando in salotto, seguita da Luke.
 
Thalia, che fulminava con lo sguardo il mio patrigno, si era alzata dal tavolo e teneva una mano appoggiata sulla spalla di Annabeth con fare protettivo, mentre Grover sputacchiava un pezzo di lattina che gli era andato di traverso.
 
“Amici?” sghignazzò Christian, tenendosi il pancione “Quali amici hai mai avuto tu?”
 
Sentii le guance infiammarsi e strinsi i pugni, mentre il mare che viveva dentro di me iniziò ad agitarsi in una burrasca.
 
“Fuori dai piedi, tutti quanti. Tu compresa” sputacchiò nella mia direzione.
 
“Sei tu che ora te ne vai, Christian. E non osare avvicinarti mai più a mia madre” caricai la mia voce di tutto l’odio di cui ero capace, ma purtroppo l’assenza di un dente distorceva ogni mia parola in modo ridicolo.
Christian esplose in una risata. E io gli fui addosso.
 
Non lo decisi in modo razionale, probabilmente se lo avessi fatto avrei pensato di non poter avere la meglio su un uomo di 90 kili, seppur brillo.
E invece, Christian si trovò in notevole difficoltà a liberarsi dal mio peso che lo schiacciava contro la porta e dal mio avambraccio premuto contro la sua gola.
 
“Stupida mocciosa, cosa credi…”
 
“Zitto, viscido verme e stammi a sentire. Esci da questa casa, non varcare mai più la soglia di questo condominio e scordati di mia madre. O giuro che ti ammazzo” Sibilai con disprezzo.
Ero estremamente convinta delle mie parole, tanto che per un attimo ebbi paura di me stessa.
 
Sobbalzai, senza mollare la presa su Christian, quando Luke si materializzò al mio fianco.
“Fossi in te le darei retta senza fare scherzi”
Solo allora mi resi conto che il mio amico stringeva saldamente il polso di Christian, la cui mano era infilata nella tasca.
Il volto di Christian sbiancò di colpo e si distorse in un’espressione di allarme.
Luke estrasse lentamente il coltellino svizzero, lo aprì e lo puntò sul pancione del mio patrigno.
 
“Avanti, fuori di qui”
Spalancai la porta dietro di lui, che non perse l’occasione di sottarsi alla mia stretta e al coltello puntato da Luke, e fuggì giù per le scale alla velocità della luce, rischiando di inciampare nella fretta.
 
Richiusi la porta, sentendo le onde calmare il loro moto per tornare a infrangersi placidamente sulla spiaggia.
“Grazie” mormorai a Luke, che fece un cenno con il capo.
 
Quando mi voltai, vidi Grover masticare lattine con la bocca aperta, quasi come se fosse al cinema ad assistere a uno spettacolo davvero avvincente.
Mi aspettai di trovare un’indispettita Thalia, invece notai nella sua espressione una strana scintilla che quasi ricordava l’ empatia.
 
“Mi spiace abbiate assistito”
 
“Con un alcolista non serve perdere tempo a discutere civilmente” affermò amaramente e ciò mi fece intendere che doveva conoscere molto bene l’argomento.
Scosse la testa, come per allontanare un pensiero triste.
 
“Ascolta, ti siamo grati per averci aiutati con quell’enorme verme e averci permesso di rifocillarci in casa tua. Ma se già in tre attiravamo troppi mostri, in questo momento siamo appariscenti quanto i botti di Capodanno a Manhattan. Dobbiamo muoverci alla svelta se vogliamo avere qualche chance di sopravvivere. Se vuoi unirti a noi, ci sta bene, ma devi decidere subito”
 
Sospirai di sollievo; in un certo senso sapevo che non avrei potuto seguirli se Thalia non me l’avesse concesso apertamente.
A poco più di un’ora di macchina c’era un posto pieno di persone con le quali avrei sentito la stessa connessione che avvertivo con quel gruppetto; persone che condividevano le mie stranezze e che avevano sperimentato la stessa inspiegabile solitudine che avevo provato per tutta la mia vita.
 
“Voglio venire con voi… Ma non posso fuggire di casa senza dire niente a mia madre… Dopo tutto quello che ha fatto per me… Lei non lo merita”
 
Seguirono attimi di penoso silenzio in cui Thalia scambiò lunghi sguardi con Grover e soprattutto con Luke.
“Riposeremo fino a domattina, per recuperare le forze, nel frattempo tu parlerai con tua madre. All’alba partiremo, non un minuto più tardi. Con te o senza te”
 
 
Per ogni appartamento, il nostro condominio metteva a disposizione una piccola cantina, delle dimensioni di un piccolo bagno, nel seminterrato.
Buttai per terra il vecchio materasso impolverato che avevamo confinato là sotto, lo coprii di cuscini, lenzuola e sacchetti di patatine, allestendo un accampamento di fortuna per i miei amici.
 

Passammo il pomeriggio a raccontarci le nostre storie e a chiacchierare sulle divinità più odiose e sui mostri più terrificanti.
Arrivammo addirittura a ridere in qualche occasione.
Mi ero già affezionata a ognuno di loro… Luke con la sua spavalderia e il suo senso dell’umorismo avrebbe risollevato il morale a chiunque, nonostante si intravedessero costantemente le nubi che gli incupivano il volto quando si distraeva in chissà quali ricordi.
Grover, l’impacciato giovane satiro sempre pronto a inciampare ovunque nelle sue scarpe da ginnastica, aveva un che di innegabilmente adorabile.
 
Perfino Thalia si era decisamente sciolta nei miei confronti, al contrario di Annabeth che mi guardava ancora di traverso… In realtà notai che entrambe si irrigidivano quando Luke mi dedicava la sua attenzione.
C’era da dire che lo stesso Luke guardava Thalia in modo particolare. Mi tornò in mente la frase che mi aveva confidato quando eravamo nella mia camera, riguardo al non poter sopportare che Thalia si sacrificasse per lui.
 
Tutto sommato, fu un pomeriggio divertente.
Quando si fece sera, salii ad aspettare il ritorno di mia madre.
Seduta al tavolo con le mani intrecciate sul piano, mentre cercavo di snodare la massa inestricabile di pensieri che mi affaticavano la mente, cercando di elaborare tutte le informazioni mi erano crollate addosso quel giorno.
 
Poco dopo, la porta d’entrata si spalancò e mio fratello entrò correndo e saltellando, reduce da un’insostenibile giornata trascorsa seduto su un banco, e subito dietro di lui mia madre, al contrario stanca e affaticata dalle ore di lavoro.
 
Dovetti mentire spudoratamente nel giustificare i lividi e il dente spezzato, incolpando una brutta caduta con lo skateboard.
 
Mi sforzai di apparire normale mentre preparammo la cena e ci sedemmo a mangiare, ma mia madre aveva fiutato un problema ancor prima di varcare la porta d’ingresso.
Nessuno dei due chiese di Christian.
 
Finito di cenare, mi sedetti sul tappeto del salotto insieme a mio fratello per giocare con le figurine dei Pokemon, con gli occhi velati di lacrime al pensiero che quella sarebbe stata la nostra ultima sera insieme.
 
Sentii lo sguardo indagatore di mia madre perforarmi la schiena per tutta la serata, finché a mio fratello non fu ordinato di andare a dormire.
Percy non era capriccioso e irritante come lo ero stata io da bambina; lui era buono e dolce, sempre tranquillo e ubbidiente…
Mi chiesi se forse non avessimo preso da genitori diversi.
 
“Tesoro, dimmi che è successo” disse mia madre, vedendomi ancora immobile sul tappeto “C’entra Christian? Se ti ha toccata io…!” esclamò angosciata.
 
“Non più di quanto lui abbia fatto con te”
“Che intendi dire?”
“Che mi hai nascosto tutto, mamma” risposi, alzandomi e girandomi a guardarla.
“Ogni cosa, il fatto che sono una mezzosangue, che mio padre è un Dio dell’Olimpo, che tutta la mitologia greca è reale, ma soprattutto mi hai nascosto che ti sei immolata a sopportare quel rifiuto umano per sette anni solo per proteggere me e Percy…”
 
Rimase a bocca aperta per alcuni secondi prima di chiedere:
“Come sai…?”
“Ho incontrato dei ragazzi uguali a me oggi. Li ho aiutati a scampare a un mostro che li aveva braccati, è così che mi sono fatta male”
 
“Melody… Mi dispiace che…”
“No! Non voglio sentirti dirlo! Hai permesso che io mi comportassi in modo orribile con te mentre cercavi di tenermi in vita. Non posso ascoltarti mentre ti scusi con me”
 
Abbassò lo sguardo tristemente.
“Non pensare che abbia fatto tutto nell’unico interesse di proteggerti. Se fossi stata più saggia e avessi agito meno egoisticamente, tu saresti al Campo Mezzosangue già da un bel pezzo… I mostri ti braccavano in continuazione, Christian era l’unica soluzione al problema… e se tornassi indietro pagherei di nuovo quel prezzo”
 
Mi si scaldò il cuore. Perciò fu ancora più difficile dire:
“Mamma, io andrò via con i miei amici”
 
Lei sollevò lo sguardo, colmo di lacrime e rassegnazione.
“Suppongo di aver ritardato questo momento finché ho potuto… Ma ti accompagnerò io a Long Island”
 
“No, tu devi rimanere a proteggere Percy. Senza me accanto, può essere che i mostri non percepiscano la sua natura, ma sarà ancora per poco… Ha bisogno di te ora. Quando sarà il momento anche lui potrà raggiungermi”
 
Mia madre trasalì e mi fissò con gli occhi sbarrati, senza trovare la forza di rispondermi.
 
“Nostro padre è Poseidone, non è vero?” domandai, sorprendendomi di quanto una frase talmente assurda mi suonasse addirittura realistica.
 
Lei annuì lentamente.
“La vostra nascita infrange doppiamente un patto sacro… è per questo che ti ho dovuta allontanare dall’oceano. Quando Poseidone è venuto a trovarmi, sette anni fa, mi ha consigliato di portarti via da Montauk perché i tuoi poteri crescevano di giorno in giorno a causa della vicinanza con l’acqua. I mostri ti trovavano in un baleno, nonostante fossi ancora una bambina, e presto anche i suoi fratelli ti avrebbero scoperta… Non hai idea di quanta rivalità ci sia tra di loro, sarebbero disposti a tutto pur di annientare le progenie dei fratelli”
 
“E già che c’eravate, dopo tutti questi brillanti avvertimenti, avete deciso di infrangere doppiamente il sacro giuramento ” risposi in tono sarcastico.
 
“Melody!”
 
“Scusami… Dovrò tenerlo nascosto quindi? La verità su mio padre”
 
“Si, a tutti i costi… Se si venisse a sapere, la tua vita e quella di Percy sarebbero in un terribile pericolo. E questo lo sa anche tuo padre, ragione per cui non dovrà mai riconoscere né te, né tuo fratello”
 
“Come facciamo a sapere che non lo farà? Mi ha vista una sola volta nella vita e non ha mai conosciuto Percy… Cosa ti fa pensare che voglia proteggerci?”
 
“Voi non lo conoscete, ma io si. Se non hai fiducia in lui, puoi almeno averla in me?” mi chiese con uno sguardo di ferma convinzione.
 
“Posso, si. Certo che posso”
 
L’espressione di mia madre si addolcì. Fu il primo vero momento di autentica fiducia e rispetto che condividemmo.
Aprii la bocca per scusarmi per tutto, ogni rispostaccia, ogni sbuffo, ogni sceneggiata…
Ma qualcuno prese a colpire furiosamente la porta.
 
“Melody, aspetta!” sibilò mia madre, ma io ero già corsa a spalancare l’uscio.
 
“Cambio di programma, partiamo ora e alla svelta!” esclamò Luke tentando di controllare il fiatone. “Grover li ha sentiti, stanno arrivando”
 
“Melody, lo zaino, presto!” gridò mia madre.
 
In meno di un minuto, avevo riposto due cambi di vestiti nel mio zaino di scuola, per poi pietrificarmi: non avevo idea di cos’altro avrei dovuto portare insieme a me.
“Svelta!” mi spronò mia madre, correndo in camera mia per infilarmi nello zaino una borraccia d’acqua e un contenitore di plastica che conteneva l’avanzo della pizza che avevamo mangiato per cena.
 
“Mamma…” mormorai con la voce distorta dalla paura e dalla tristezza, le lacrime che avevano già iniziato a colarmi sulle guance.
 
“Tesoro mio… Andrà tutto bene, solo… corri veloce e non voltarti”
Mi prese il volto tra le mani e per qualche istante appoggiò la sua fronte contro la mia.
 
Tutta la rabbia e il disprezzo che avevo manifestato nei suoi confronti per tutti quegli anni, per poi scoprire che lasciarla fu il dolore più grande che avessi mai provato.
 
“Mel!” urlò Luke dall’ingresso.
 
Mia madre mi prese per mano e mi trascinò alla porta.
 
“Melody…” una vocina impastata dal sonno risuonò alle mie spalle, spezzandomi definitivamente il cuore.
Mi voltai a guardare Percy nel suo pigiamino con gli squaletti, con il peluche di una tartaruga marina in mano, che mi guardava dalla porta della sua camera.
 
“Non essere triste, Percy, ci rivedremo presto… Ti voglio tanto…”
 
Un rumore fortissimo, simile a un tuono, rimbombò in lontananza, facendo tremare fin i vetri delle finestre.
 
“MEL, ADESSO!”
La mano di Luke afferrò saldamente il mio polso e fui trascinata prima nel corridoio del pianerottolo, poi giù per le scale.
 
L’immagine di mia madre, con i lacrimoni che le solcavano il viso e il corpo tremante per i singhiozzi, e la voce arrabbiata e ferita di Percy che mi chiamava per nome, popolarono i miei incubi per parecchio tempo.
 
 
Dei…
Scusate non credo di farcela.
Non così almeno, non riesco a raccontare ogni cosa in ordine cronologico, come se fosse un documentario strappalacrime sulla triste vite di una foca che alla fine viene sbranata da un orso polare.
Ho bisogno di saltare la prossima parte… La riprenderemo con calma più avanti, ma ora non mi è tollerabile rievocare tutto ciò che accadde dopo.
Un po’ perché mi fa ancora troppo male ricordare quella collina.
Un po’ perché i ricordi dei successivi cinque anni sono troppo belli.
E ultimamente ho scoperto che i bei ricordi sono di gran lunga più strazianti di quelli brutti.

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Capitolo 5
*** Be Okay - Oh Honey ***


Mi rendo conto di non poter saltare direttamente ai miei diciannove anni come se nulla fosse e sperare che possiate capirci qualcosa, perciò proverò a darvi un’essenziale infarinatura dei cinque anni che seguirono.
 
Sapete tutti che Thalia non arrivò insieme a noi al Campo Mezzosangue.
C’è un prima e un dopo nella mia vita, segnato dalla notte in cui risalii a rotta di collo quella Collina, la notte in cui un essere umano, più giovane di me oltretutto, morì davanti ai miei occhi.
Ma vi prego ora non fatemi parlare di questo…
 
Sappiate solo che se la morte di Thalia sconvolse me, non potete immaginare fino a che punto straziò lo spirito di Luke, Annabethe e Grover.
 
Le prime settimane al campo furono davvero dure.
Gli unici tre amici che avevo erano inavvicinabili a causa della profonda sofferenza che provavano, perciò io trascorsi i miei primi giorni al Campo Mezzosangue senza parlare con nessuno, domandandomi se avessi fatto la scelta giusta nell’abbandonare la mia famiglia.
 
Tutto andò meglio quando Luke iniziò a riprendersi…
Gli allenamenti iniziarono a diventare meno sfibranti grazie alla sua presenza, cominciammo a stringere qualche amicizia e a entusiasmarci per le sfide del venerdì sera (tornei con le bighe, cacciaalla bandiera, gare di canottaggio, sfide di pallavolo, corse clandestine con i pegasi ecc.).
Eravamo entrambi molto competitivi, ma facevamo sempre in modo di giocare nella stessa squadra, in modo da non essere mai sleali l’uno con l’altra (cioè, ehm… non che con gli altri ci fossimo mai comportati in modo sleale… diciamo solo una o due volte…).
 
Oltre all’agonismo, scoprimmo in fretta di condividere molti altri tratti della personalità, come un’insaziabile curiosità e un temperamento energico (considerato eccessivo persino per dei mezzosangue con disturbo di iperattività), che ci spingevano a ficcarci nei pasticci più assurdi e a ricevere le punizioni più memorabili… come quella volta a cena in cui evocammo per scommessa degli zombie direttamente dagli Inferi e passammo i tre giorni successivi a sgrassare dal pavimento della mensa maleodoranti secrezioni cadaveriche.
 
Rimanendo al Campo tutto l’anno e combinando almeno un disastro epico a settimana, iniziammo a farci un nome tra i nostri coetanei e a guadagnare il rispetto di tutti, compresi i figli di Ares e Atena, i quali però avrebbero ingerito volentieri 1 litro di nettare piuttosto che ammetterlo.
 
E a proposito dei figli di Atena, anche Annabeth si ambientò in fretta, acquisendo in pochissimo tempo la stima dei suoi fratelli più grandi; a soli dieci anni diventò capogruppo della casa di Atena, nonché la più giovane capogruppo di tutto il Campo, e farsi rispettare per lei non fu mai un problema.
Però con lei diciamo che le cose non si risolsero mai del tutto.
Certo, era sempre disponibile ad aiutarmi con i compiti di geometria (anche se forse lo faceva più per soddisfazione personale che per solidarietà nei miei confronti), ma il suo atteggiamento rimase sempre parecchio freddo e disinteressato.
Per non parlare di quando Luke era nei paraggi, momento in cui Annabeth si trasformava in una smorfiosa “so tutto io” e cercava in ogni modo di mettermi in cattiva luce davanti al nostro migliore amico.
Rimasi convinta per anni che questa gelosia fosse totalmente platonica, del tipo sorellina gelosa delle attenzioni del fratellone, ma col passare del tempo mi resi conto che sotto c’era chiaramente qualcosa di più.
 
Oltre a questo, sapevo che l’antipatia che Annabeth covava nei miei confronti era anche dovuta al fatto che imputasse a me la colpa per la morte di Thalia.
Era vero, da una parte; ero stata io a rallentarli il giorno che ci eravamo incontrati.
Diciamo che non ricambiai mai il malcelato disprezzo che Annabeth sfoggiava nei miei confronti, ma certamente i sensi di colpa che mi provocò il suo giudizio non contribuì a farmela amica.
 
D’altra parte, lo stesso Grover aveva sbagliato strada più volte prima di arrivare a New York, conducendo il gruppo prima della tana di un Ciclope e poi in pieno Central Park, dove ci eravamo imbattuti.
Fu lui, infatti, a dover subire l’ira del Consiglio dei Satiri per la morte di Thalia e non gli fu più assegnata un’impresa per ben cinque anni.
Io, Annabeth e Luke fummo più volte interrogati da Dioniso e Sileno sulla vicenda, ma nonostante i nostri sforzi di giustificare Grover, al nostro amico fu comunque ritirata la licenza da cercatore.
 
Quanto a me non posso dire di essermela cavata tanto male.
Nonostante lo sconforto di mia madre, decisi di non tornare mai a casa per il periodo invernale, fatta eccezione del Natale, occasione in cui potevo finalmente rivedere anche Percy.
Da figlia maleducata e capricciosa mi trasformai nella versione assente e ingrata, per farla breve.
Ma non c’era niente che adorassi di più che vivere al Campo Mezzosangue.
 
A diciassette anni diventai capogruppo della cabina di Ermes insieme a Luke.
La decisione di Chirone di assegnarci una nomina così autorevole sorprese più noi che chiunque altro, visto che venivano costantemente messi in punizione.
Ora so che questa mossa è semplicemente la conferma delle sue astute abilità da direttore; da un parte, affidarci un incarico del genere accrebbe il nostro senso di responsabilità, dall’altra, i compagni che ci ammiravano per la nostra condotta spregiudicata si misero a seguire senza obiettare le nostre direttive.
E fidatevi quando vi dico che gestire la cabina di Ermes dovrebbe considerarsi un’Impresa di per sé.
Un branco di scavezzacollo pronti a rifilarti le peggio bugie, rubarti la merenda dallo zaino o il reggiseno dalla valigia (maledetto Travis…) e escogitare gli scherzi più perfidi che un essere umano possa mettere in pratica.
Quanto amavo la mia famiglia.
 
Il problema della casa di Ermes era dovuto anche al sovraffollamento di indeterminati, ovviamente.
Me compresa.
La prima sera che trascorsi al Campo, dopo essere uscita dall’infermeria - dove la mia caviglia era stata curata e il mio incisivo ricostruito –, bruciai la mia intera cena a favore di Poseidone, scongiurandolo mentalmente:
 
“Ti prego, ti prego, ti prego… Non riconoscermi prima che Percy arrivi qui… Ti prego, ti prego…”
 
E devo dire che accolse la mia richiesta, mantenendo il segreto per cinque anni (forse più per non impelagarsi in un mare di guai per aver infranto DUE VOLTE un giuramento sacro stretto con i suoi fratelli, piuttosto che per amore dei suoi due figli, ma dettagli…).
Il fatto che rimasi indeterminata per così tanti anni era un mistero che tormentava Chirone; era davvero strano che il mio genitore divino non avesse ancora reclamato la paternità, vista la mia posizione di spicco all’interno della comunità.
Molti ragazzi presumevano fossi figlia di Apollo, data il mio talento nel curare i feriti e la passione del canto, o di Ares, vista la mia sfrenata competitività e la stramba amicizia che avevo instaurato con una certa figlia del dio della guerra.
 
Ma per tutti quanti rimase un mistero per tutti. A parte Luke.
Il che ci porterebbe a parlare dell’Impresa. Ma decisamente non ne sono in grado.
 
Lo so, sto saltando un Oceano Pacifico di cose…
 
L’amicizia con Clarisse, l’Impresa di Luke, le mie prime cotte, il dono di mio padre, la profezia, lo spettacolo teatrale…
 
 Nessun lettore si meriterebbe un trattamento simile, ma state tranquilli che ci saranno molte occasioni per riprendere questi argomenti, una volta che cominceranno gli incubi.
 
Proviamo, dai, nel peggiore dei casi avrete solo perso tempo.
E io il senno.

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Capitolo 6
*** Where No One Goes - Jónsi feat. John Powell ***


“Melody” mi salutò freddamente mia madre dall’altro capo del telefono.
 
“Ciao, mamma. Come stai?” domandai melliflua, cercando di rompere il ghiaccio.
 
“Stiamo bene. Domani Percy finirà gli esami”
 
“Grande…”
 
Normalmente facevamo in modo di sentirci per telefono almeno una volta al mese, ma dopo la litigata della sera precedente non potevo aspettare a richiamarla.
 
“Senti, ho ripensato alla discussione che abbiamo avuto… Ho esagerato, lo so. Mi dispiace” affermai con un filo di voce.
 
Nei precedenti quattro anni, le nostre litigate (inclusa quella della sera precedente) avevano sempre riguardato due cose: Percy e Gabe.
 
Dato che il mio fratellino aveva iniziato ad attirare l’attenzione dei mostri e pur di non permettergli di raggiungermi al Campo Mezzosangue, mamma aveva pensato di adottare nuovamente la tattica alla “sposo un idiota patentato, puzzolente e violento, pur di tenere al sicuro la mia prole”.
E guarda caso Gabe Ugugliano era di turno.
 
Avevo tentato in tutti i modi di convincerla a mandare Percy al Campo, visti ormai i suoi dodici anni, in modo da risparmiare a entrambi loro il supplizio che quell’uomo gli infliggeva, ma lei aveva sempre rifiutato.
 
Mi vergognai ripensando a tutte le volte in cui l’avevo minacciata che, un giorno o l’altro, sarei andata a prendere Percy all’uscita di scuola per portarlo al Campo.
 
“… Ma non si tratta di decidere se accadrà, ma quando. Il posto di tutti i mezzosangue è qui, Percy compreso” continuai, mantenendo un tono pacato.
 
“Per poi non rivederlo più, come è stato con te?”
 
Sospirai.
Come darle torto? In cinque anni ero tornata a casa cinque volte, sotto le feste natalizie, e mai per più di dieci giorni.
 
“Sono stata una stronza, okay? Una figlia ingrata e indegna, è questo che vuoi che dica?” replicai, arrabbiata più con me stessa che con lei.
 
Scossi la testa, maledicendo la mia scarsa pazienza.
“Ascolta, so di non essere stata affatto presente in questi anni… è solo che qui mi sono sentita a mio agio per la prima volta e mai avrei pensato che un giorno avrei avuto così tanti amici.
Ma Percy è diverso da me, lo sai bene.
Concedigli il diritto di scoprire tutta la verità e di non sentirsi un completo disastro. Sono sicura che a settembre deciderà di tornare a New York… Insieme a me” decretai, lapidaria, infine.
 
“Come dici?!”
 
“Tornerò a casa, mamma” affermai “Sempre che tu mi voglia…”
 
Uno sbigottito silenzio si protrasse per parecchi secondi.
 
“Oh, Melody… è casa nostra. Lo è sempre stata” la sua voce si ruppe in un singhiozzo.
 
Capite ora perché insisto con il darmi dell’ingrata?
Mi capita la più dolce e comprensiva madre del mondo e io non faccio che trattarla a pesci in faccia.
 
“Ma… è tutto a posto al Campo? Voglio dire, sono felicissima che vuoi tornare a casa ma… mi viene da chiedermi se… ”
 
“Tutto a posto, mamma. È solo che sono stata qui parecchio. E inoltre il prossimo anno vorrei dedicarmi totalmente allo studio per passare gli esami del liceo… Yale non si accontenta delle sufficienze, sai…”
 
“Capisco… nient’altro, vero?”
 
Sarà che mi sentivo in colpa nei suoi confronti, sarà che sentivo il desiderio di sfogare tutta la frustrazione che provavo, ma comunque non riuscii a mentirle.
 
Mamma colse al volo il mio silenzio e continuò:
 
“C’entra per caso un ragazzo?”
 
Alzai gli occhi al cielo; quella donna non mi vedeva mai, ci sentivamo al telefono quasi esclusivamente per discutere, eppure era in grado di indovinare i miei pensieri anche senza guardarmi negli occhi.
 
“è quel tuo ragazzo… Chard?”
 
“No, no… Chard è stato solo… Insomma, siamo stati insieme per poco” farfugliai, ripensando al figlio di Efesto con cui avevo avuto una storiella di poche settimane, risalente alla primavera passata.
 
“Allora… Luke?”
 
Mi morsi il labbro, sentendo le guance avvampare.
 
“Non… Non riesco a capire cosa sia successo” mormorai, passandomi il palmo della mano sulla fronte e le dita tra i capelli.
 
“Oh, cara… Siete così giovani, è normale che le cose si facciano confuse” disse con tono rassicurante.
“Ascolta, provo a farti una proposta: ho prenotato il nostro solito bungalow a Montauk per questo fine settimana. Una sorpresa per Percy, partiamo domani pomeriggio.
Perché non ci raggiungi? Svuoti un po’ la testa, ti schiarisci le idee…”
 
Feci rapidamente mente locale sulla faccenda; da quando Chirone si era assentato per tenere d’occhio un certo mezzosangue (ovvero, mio fratello Percy) che frequentava una scuola di New York, fino al suo rientro, io e Luke vestivamo il ruolo di vicedirettori del Campo.
 
Gli ultimi sei mesi erano stati parecchio impegnativi per noi, dovendo occuparci di moltissime cose, come effettuare gli ordini per le riserve di nettare e ambrosia, gestire i turni di allenamento, sedare le piccole ma sanguinose risse tra una cabina e l’altra…
Ovviamente, tutto questo senza poter contare sul benché minimo aiuto da parte del VERO direttore del Campo, il dio Dioniso.
 
Ma Chirone sarebbe rientrato proprio il giorno successivo, quindi non dovevo sentirmi in colpa per abbandonare Luke.
 
“Potrò portare Percy con me, finito il week end?”
 
Ci fu un lungo e triste sospiro dall’altra parte della linea.
“Percy verrà con te. D’accordo”
 
“Grazie, mamma. Ora devo correre, le arpie hanno avvertito il mio cellulare. Parto domattina, vi aspetterò a Montauk”
 
“Devo chiamare Chirone per l’autorizzazione?”
 
“Mamma, sono maggiorenne… Non ho bisogno di nessun permesso”
 
“Sono così felice, tesoro. A domani”
 
Chiusi velocemente la chiamata, udendo lo stridulo gracidare delle arpie farsi sempre più vicino.
 
La tecnologia attirava tutti i mostri, ma pur di tenermi in contatto con la mia famiglia avevo sempre tenuto nascosto un vecchio telefonino a conchiglia.
 
Mi lanciai di corsa verso l’uscita del bosco e scesi la collina, cercando di evitare le mie inseguitrici, ma alla fine fui comunque obbligata a pugnalarne una in pieno petto, facendola svanire in un lampo di luce dorata.
 
L’area delle capanne era buia e silenziosa, a parte per il sonoro russare proveniente soprattutto dalla cabina numero cinque e per lo sfrigolio dei grilli.
 
Solo la capanna undici aveva ancora la luce accesa in veranda, sulle cui scale era seduta una figura che fissava la il falò al centro della piazza.
 
Sentii il cuore accelerare, cosa che accadeva molto di frequente ormai quando mi avvicinavo a Luke.
 
I suoi occhi azzurri notarono che mi stavo avvicinando e si alzò prontamente in piedi.
 
“Non sono riuscito a distrarle a lungo”
 
“Tranquillo. Avevo praticamente finito” replicai salendo gli scalini “Domani raggiungerò mamma e Percy a Montauk, tornerò domenica”
 
“Sicura sia prudente?” il suo tono preoccupato mi fece tremare le ginocchia “Insomma, con tutto quello che sta succedendo”
 
“Non preoccuparti, è solo per due giorni. Poi tornerò insieme a Percy” annunciai, salendo gli ultimi scalini.
 
“Non pensi sia prematuro?” domandò, improvvisamente agitato, seguendomi sulla veranda.
 
Mi voltai verso di lui, cercando di tenere a freno il fastidio; era stato molto chiaro con me riguardo il nostro rapporto, perché ostentare tutta quella angoscia riguardo i miei affari familiari?
 
“Voglio dire, con questa storia della grande profezia su un figlio dei Tre pezzi grossi che compirà sedici anni… Sappiamo bene che non può riguardare altri che lui”
 
“Io so solo che per Percy è arrivato il momento di conoscere tutta la verità. Non ho idea di cosa succederà riguardo a questa grande profezia e a tutte le cose strambe che stanno accadendo sull’Olimpo, ma sono certa che quando mio fratello sarà qui molte cose diventeranno più chiare”
 
“E tu sei certa di essere pronta ad affrontarle?”
 
Strinsi i pugni, guardando quel viso che per anni ero stata in grado di leggere con una sola occhiata.
Ma da tempo, ormai, il suo sguardo mi era diventato insondabile.
 
“Buonanotte, Luke” gli augurai con freddezza.
 
 
 
Sgattaiolai fuori dalla cabina alle prime luci dell’alba, attenta a non inciampare nei tanti sacchi pelo sparsi per terra.
 
Prima di uscire, però, non resistetti a sbirciare qualche istante oltre la lunga fila di teli che dividevano la parte maschile da quella femminile (un’idea che avevamo escogitato io e Luke per mantenere un minimo di privacy all’interno di una cabina che spesso era arrivata a ospitare una cinquantina di ragazzi).
 
Luke dormiva nel suo letto, senza maglietta, steso su un fianco e con i corti capelli biondi spettinati.
 
La fitta al petto mi costrinse a distogliere lo sguardo e a darmela a gambe il più in fretta possibile.
 
Arrivai alla spiaggia e raggiunsi il piccolo porto presso il quale erano attraccate numerose barche, tra cui una piccola vela da due posti; era stata la ricompensa che la casa undici aveva ricevuto per la vittoria della gara navale con le trireme greche, appena un paio di anni prima.
So cosa state pensando, ma giuro di non aver barato la competizione. A parte forse quell’onda anomala che aveva travolto la nave della casa sei…
 
Slegai la vela e la spinsi allargo della baia di Long Island, per poi tirare un sospiro di sollievo quando raggiunsi il mare aperto.
I deboli raggi del sole del mattino sfioravano la superficie dell’acqua creando splendidi effetti di luce, mentre il vento soffiava con leggerezza, increspando il mare in docili onde.
 
Un branco di delfini mi affiancò e si esibì allegramente in salti acrobatici attorno alla barca.
 
Sorrisi con tutti i muscoli del corpo: era confortante il pensiero che, anche nei momenti peggiori, ci sarebbe sempre stato un posto in cui potermi sentirmi in pace.
 
 
 
Arrivarono nel tardo pomeriggio.
 
Io e Percy ci corremmo incontro per stritolarci in un abbraccio lunghissimo.
Mi parve cresciuto di più in quegli ultimi sei mesi che in tutti gli anni precedenti, e più passava il tempo, più trovavo mi somigliasse; i capelli neri e perennemente scompigliati, la pelle inspiegabilmente abbronzata, nonostante il grigiore di New York, i bei lineamenti decisi e affilati.
Eravamo stati entrambi fortunati ad ereditare l’aspetto fisico dal nostro genitore divino.
 
L’unica particolarità che non condividevamo era il colore degli occhi: Percy li aveva verde mare, uguali a quelli di nostro padre, mentre i miei erano blu.
E non dico blu per intendere di un azzurro intenso. I miei occhi erano blu scuro.
Non erano sempre stati così bizzarri, a detta di mia madre, che spergiura di averli visti cambiare colorazione da azzurro chiaro verso i miei otto anni, proprio quanto ci trasferimmo da Montauk a New York.
A lei piaceva scherzare dicendo che probabilmente mi mancavano così tanto i profondi abissi e che pensavo così intensamente all’oceano, che i miei occhi avevano cambiato colore.
In realtà non so fino a che punto scherzasse.
 
Mamma non aveva ancora aperto la porta del bungalow che io e Percy avevamo già spinto in acqua la vela.
Pochi minuti dopo eravamo in mare aperto, dove le onde si erano fatte energiche e il vento sferzava con tutta la sua potenza, inzuppandoci da capo a piede.
 
Quando arrivammo nel punto in cui i cavalloni si innalzavano più in alto, afferrai la cima di controranda e mi sporsi con tutto il corpo oltre il bordo di sinistra.
 
“Percy, gira a babordo finché non raggiungiamo un’andatura di 45° rispetto al soffio del vento, poi molla il timone, afferra la cima di randa e buttati oltre il bordo come sto facendo io!” gridai, cercando di sormontare lo scrosciante rumore delle onde e le urla del vento.
 
“COSA?! Ma che vuoi che ne sappia io di queste cose?!” esclamò lui, allarmato e con gli occhi sgranati.
 
“Fidati di me, Percy. ADESSO!!”
 
Un bagliore gli illuminò gli occhi e il suo corpo si mosse istintivamente; in una manciata di secondi eseguì alla perfezione il mio ordine.
Con una sferzata micidiale, la vela scavalcò un’onda alta quasi tre metri e virò nella direzione del vento.
 
Io e mio fratello ci lanciammo in una serie di urla di trionfo, mentre la corrente ci spingeva sempre di più verso l’orizzonte.
 
 
 
“Non ho idea di come ci sia riuscito” continuava a ripetere Percy, ancora strabiliato, mentre spingevamo la vela sulla sabbia.
 
Sogghignai senza rispondere, contenta di vederlo così allegro.
Mamma aveva speso un patrimonio per pagargli una scuola privata diversa all’anno, sperando che forse sarebbe andata meglio rispetto alla mia esperienza con quella pubblica, ma io sapevo che nessun tipo di scuola mortale sarebbe mai stata adatta a un giovane mezzosangue.
Percy aveva sofferto durante l’anno e di certo non si prospettavano tempi sereni all’orizzonte, quindi volevo che si godesse appieno gli ultimi momenti di ingenuità che gli restavano.
 
Una familiare melodia da pianoforte risuonò nell’aria.
Estrassi dalla tasca dei pantaloni la conchiglia verde-blu che portavo sempre con me, un regalo di papà per i miei diciassette anni.
 
“Suona sempre a caso quel carillion?”
 
La domanda di mio fratello mi fece sorridere; come potevo spiegargli che quella piccola conchiglia suonava solo quando avvertiva dell’affetto?
 
Prima che potessi rispondergli, vidi il suo viso corrucciarsi, mentre guardava qualcosa alle mie spalle.
 
“Che vecchiette inquietanti… Per chi sarà quel costume, secondo te?” mi domandò divertito.
 
Nonostante i ventotto gradi, un brivido di freddo mi attraversò la schiena.
Quando mi voltai lentamente, vidi a cosa si stava riferendo mio fratello: un trio di vecchie decrepite, con abiti scoloriti e bandane che avvolgevano i capelli grigi, stavano sedute sul molo poco distante da noi, sferruzzando il più grande bikini che avessi mai visto.
 
“No…” sussurrai con la voce rotta.
Mi salì il panico e iniziai ad avanzare sempre più velocemente verso il trio di anziane, arrivando a correre a perdifiato.
 
“EHI!” urlai, disperata, senza la minima idea di cosa fare, ma senza ottenere la loro attenzione.
 
Le mie grida si fecero più intense quando la vecchia al centro sfoderò un paio di forbicione e si accinse a tagliare un filo azzurro.
 
“NO-NO-NO-NO!!”
 
Il suono della sforbiciata mi paralizzò, svuotandomi d’aria i polmoni.
Rimasi a guardare quei tre fossili riporre il tessuto nei loro cestini e gettarsi tra le onde come se nulla fosse.
 
Le tre Parche avevano tagliato un filo proprio davanti a me e mio fratello… ciò poteva significare solo che presto o tardi la morte ci avrebbe toccato da vicino.
 
Quella sera a cena non toccai cibo, né spiccicai troppe parole.
 
Dopo una partita a Monopoly, Mamma e Percy si sdraiarono nei loro letti, mentre io mi accomodai sul bordo della finestra, osservando guardinga l’oscurità della notte.
 
“Che fai?” mi chiese Percy, stranito.
 
“Non preoccuparti, Percy” gli risposi, stringendo a me lo zaino che conteneva due pugnali, un arco pieghevole e dardi avvelenati “Andrà tutto bene”
 
La promessa più sciocca dell’universo.


 

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Capitolo 7
*** Brighton - Forest Fire ***


Io e Percy arrancavamo a fatica su per la Collina, reggendo a stento Grover per le spalle, fradici di acqua e fango, feriti e completamente distrutti.
 
Il mio sistema nervoso era sul punto di crollare, ma mi imposi di non cedere finché non avessimo salito il primo scalino della Casa Grande.
 
Ricordo sagome sfocate che mi correvano incontro e voci che mi chiamavano, ma ero troppo stordita per riuscire a identificare chi mi stava levando dalle spalle il peso di Grover.
 
L’attimo seguente, la fatica e il dolore ebbero la meglio su mio fratello, che rovesciò la testa all’indietro e piombò per terra sulla schiena.
 
Cercai di sollevarlo, ma le mie braccia cedettero per lo sforzo e il corpo di Percy mi fu sottratto per essere trasportato all’interno della Casa Grande.
 
Da sola, potei finalmente lasciarmi andare.
 
Mi accasciai sugli scalini, fin quasi a toccare il legno con la fronte, e tutta la sofferenza che avevo cercato di arginare mi travolse con la forza di una diga sfondata.
 
Il filo azzurro tagliato dalle Tre Parche.
Azzurro come tutti i piatti che lei cucinava.
 
La mia mamma non c’era più.
 
Mi portai le mani al petto, avevo come la sensazione che stesse per squarciarsi.
 
“Chiama Castellan e La Rue, vai!” la voce di Chirone fu l’ultima cosa che sentii prima che le urla esplosero nella mia gola.
 
Non so se passarono istanti o minuti prima che due muscolose braccia mi avvolsero, so solo che ogni secondo fu insopportabile.
 
“Mel” la voce angosciata di Luke mi giunse vicinissima all’orecchio “Shhh… Mel”
Le sue mani mi afferrarono i polsi e mi impedirono di tirarmi i capelli.
 
“MELODY” riconobbi la voce tuonante di Clarisse “CHE LE è SUCCESSO?! CHE LE è SUCCESSO?!”
 
“M-Mia… Mi-mia…” boccheggiai, ma non riuscivo a inspirare sufficiente aria per poter parlare.
 
“è arrivata qui con Grover e… suo fratello” rispose Chirone, che doveva aver appena realizzato il legame di parentela che mi univa al ragazzino che aveva tenuto sotto controllo per mesi.
 
“Mel, guardami” Luke mi prese il viso tra le mani, avvicinando il suo.
“Tua madre?”
 
I miei gemiti si intensificarono.
 
“Oh, cara…” mormorò Chirone, mentre Clarisse e Luke mi stritolavano in un abbraccio “Lee, prendi le gocce di morfeo… Soffre troppo”
 
Poco dopo, un fazzoletto imbevuto di liquido mi fu premuto sulla bocca, inondandomi le narici del profumo di melissa e biancospino.
I miei muscoli si rilassarono all’istante e la mia testa prese a ciondolare in avanti.
 
Avvertii solamente il mio peso sollevarsi tra le braccia di Luke e la sua voce dirmi qualcosa, prima che l’oscurità mi avvolgesse.
 
 
 
Da quanto ne sapevo, l’essenza di Morfeo avrebbe dovuto provocare un sonno profondo e privo di sogni, ma ovviamente la mia sfiga superava qualsivoglia regola divina.
 
Sognai la morte di Thalia.
La corsa a perdifiato su per la Collina, Grover ferito alla testa dall’artiglio di un’arpia, il dolore lancinante della freccia avvelenata che mi aveva trapassato la caviglia…
 
Ma ciò che avevo sempre ricordato meglio era stato il pianto furioso di Annabeth e la disperazione di Luke e Grover nell’abbandonare la loro amica.
 
“NON FERMATEVI” ci intimò Thalia, alle nostre spalle.
 
Luke correva davanti a me, con Annabeth in braccio che gli tempestava il petto di pugni, mentre io venivo sorretta da Grover, zoppicando e gemendo dal dolore alla caviglia a ogni passo.
 
Mi voltai indietro proprio nel momento in cui un segugio infernale piombò sopra Thalia e l’erba intorno si tinse di rosso.
 
 
 
Mi svegliai di soprassalto.
 
Luke, Clarisse e Grover stavano parlando ai piedi del letto su cui ero distesa.
 
Feci per buttarmi giù dal materasso, ma un giramento di testa bloccò il movimento. Sarei caduta faccia a terra se Clarisse non mi avesse afferrata per le spalle.
 
“Mia mamma” la mia voce trasudava tutto il panico che provavo “Il suo corpo”
 
“Melody, non…” replicò Grover, singhiozzando.
 
“Il suo corpo non… non può stare là fuori”
 
Una serie di terribili immagini popolavano la mia mente: vermi, formiche, animali selvatici…
 
“Mel, l’abbiamo cercata per tutta la notte. Tua mamma non è là fuori” disse Luke con tono rattristato, appoggiando il palmo della mano sulla mia guancia.
 
“Ma…”
 
“Mi dispiace tantissimo, Melody… non hai idea di…” Tentò di parlare Grover, ma il magone gli strozzò la gola e si portò una mano sulla bocca.
 
“Vattene, se non sai contenerti, satiro!” lo aggredì Clarisse.
 
Come era possibile?
L’avevo vista…
Eravamo sulla Collina… Lei era rimasta indietro…
Proprio come Thalia.
 
“Percy?” domandai guardando Luke.
 
“è di sopra, sta bene, ha solo bisogno di riposo. Annabeth si sta occupando di lui”
 
Mitico.
Quella piccola Einstein ossessionata dalla grande profezia avrebbe scoperto il nostro segreto in un lampo.
 
“Passamelo” dissi a Luke, facendo un cenno verso il fazzoletto bianco ripiegato sul comodino.
 
“Lee ha detto di non…” obiettò Grover.
 
“Non lo verrà a sapere” decretò Clarisse, mentre Luke avvicinava il fazzoletto al mio viso.
 
Inspirai l’essenza a pieni polmoni, impaziente di scivolare di nuovo nell’inconscio.
 
 
 
Non mi svegliai fino alla tardo pomeriggio.
 
Andai a trovare Percy, beccando Annabeth che, mentre lo imboccava con il nettare, tentava di estorcere informazioni a proposito della grande profezia e del presunto furto avvenuto sull’Olimpo, argomenti di cui il mio ignaro fratello non poteva sapere assolutamente nulla.
Non fui molto cortese a scacciarla, ma l’unica cosa in grado di darmi conforto in quel momento era guardare mio fratello, sano e salvo, mentre riposava.
 
Rimasi al suo fianco tutta la notte, seduta sulla sedia accanto al letto, nonostante le insistenze di Chirone e Luke di provare a dormire.  
 
All’alba del mattino seguente, Grover mi aiutò a spostarlo sulla sdraio in veranda; avevo pensato che sarebbe stato meno deprimente per lui svegliarsi con il panorama delle colline, anziché nella buia e tetra stanza dell’infermeria.
 
“Rimango io con lui, se vuoi andare a riposare… Vengo a chiamarti non appena si sveglia”
 
“D’accordo” acconsentii “Vado a farmi una doccia”
 
Feci per andarmene, ma Grover mi richiamò:
“Melody… Non hai idea di quanto mi dispiaccia” ribadì, con le lacrime agli occhi.
 
Seduto sulla sedia, accanto alla sdraio di Percy, teneva in grembo la scatola di scarpe dentro la quale aveva riposto il corno del Minotauro che Percy aveva spezzato, come se fosse stato un tesoro da difendere a costo della vita.
 
“Non è stato un bel de-ja-vu, vero?” gli chiesi, pentendomi non appena vidi la sua espressione corrucciarsi dal pianto.
“Non è stata colpa tua, Grover. E mia madre non è ancora morta” affermai, credendo a ogni parola con ogni fibra del mio essere.
 
Il tragitto dalla Casa Grande alle docce mi sembrò infinito, in quanto venni fermata meno una decina di volte da persone che mi facevano le condoglianze.
 
Passai davanti all’arena, dove vidi Luke tenere la lezione di scherma e Clarisse quella di combattimento corpo a corpo, ma feci in modo di non farmi notare; non volevo che interrompessero gli allenamenti per venire ad accertarsi che stessi bene.
 
Feci giusto in tempo a finire la doccia che Grover venne a chiamarmi: mio fratello era sveglio.
 
Ero così impaziente di vederlo, parlargli e abbracciarlo… ma lui fu incredibilmente freddo.
 
Lo strinsi a me, senza dire una parola, e avvertii il suo corpo irrigidirsi.
 
“Siamo al sicuro qui” dissi, sciogliendo l’abbraccio “Ora parliamo con Chirone e il Signor D. Preparati, Percy, tra poco tutto avrà un senso”
 
 
 
“Bene, ora che abbiamo ragguagliato Percy su quasi tutto, direi che possiamo fargli fare un bel tour” concluse Chirone alla fine della lunga chiacchierata.
“Quanto a te, Melody, se te la senti, sta per iniziare la tua lezione di scherma del pomeriggio, ma, se preferisci riposare, Luke si è offerto di fare il doppio turno oggi”
 
Guardai mio fratello, che si contorceva le mani con lo sguardo perso nel vuoto, tentando di metabolizzare tutte le assurde informazioni che aveva appena ricevuto.
 
“Mi permetto di darti un consiglio, Melody” mi sussurrò Chirone, in modo che Percy non potesse sentire “So che in questo momento l’unica cosa che desideri è stargli vicino, ma credo che tuo fratello abbia bisogno di spazio e di tempo per trovare il suo posto. Farsi nuovi amici, ambientarsi, distrarsi… per quanto sia possibile”
 
I consigli di Chirone suonavano sempre così saggi e sensati che non ero mai riuscita a impedirmi di seguirli alla lettera.
 
Lasciai mio fratello nelle mani di Chirone e mi diressi all’arena.
Là trovai Luke in procinto di iniziare la lezione con i ragazzi delle cabine di Efesto e Apollo.
 
“L’ho portata a far riparare da Beckendorf, ora è come nuova” disse, porgendomi la mia arma prediletta, che la sera precedente aveva risentito dello scontro con il Minotauro.
 
Si trattava di una spada a doppia lama, con un manico centrale dotato di magnete che teneva unite le due estremità e che si poteva disattivare a piacimento, trasformandosi in due spade corte.
 
L’avevamo pensata io e Luke quando avevamo sedici anni, Annabeth l’aveva disegnata e Beckendorf l’aveva forgiata.
Tutto questo subito dopo rassegna cinematografica organizzata da Chirone, durante la quale i figli di Apollo avevano proiettato la saga di Star Wars.
 
Perciò ogni riferimento a Darth Maul è puramente casuale.
 
“Sicura di sentirtela?” mi domandò, avvicinandosi e passandomi la mia spada.
 
“Si. Ho bisogno di distrarmi un po’. E poi non voglio che rovini tutti i progressi dei miei alunni”
 
Sorrise, mi diede una leggera spallata e mi strinse la mano.
 
“Ci vediamo a cena, Jackson”
Disse, allontanandosi, ma le nostre mani non si separarono fino all’ultimo.
 
Mi girai verso la mia classe, che mi fissava già disposta in formazione, e diedi inizio alla lezione.
 
Dovetti ringraziare mentalmente Chirone per avermi indotta a lasciare che Percy continuasse l’orientamento da solo, perché l’allenamento mi aiutò davvero a svuotare la mente.
Capii che lo aveva fatto pensando tanto al bene di Percy quanto al mio.
 
Probabilmente svuotare la mente mi spinse a esagerare un po’, dato che quando decretai la fine della lezione, tre ore dopo, vidi la mia classe arrancare, sfinita e ansimante, verso le docce.
 
“Ehi, Melody” mi salutò Daphnee Sunders, dalla doccia a fianco alla mia “Mi è spiaciuto molto per tua madre”
 
Daphnee era una figlia di Afrodite di diciassette anni e l’unica tra i suoi fratelli interessata ad altre attività oltre a quella del trucco e del gossip. 
Era arrivata al campo l’estate precedente e non ci eravamo mai parlate granché, ma ultimamente una certa questione ci aveva avvicinate
 
“Grazie, Daphnee. Cerco di non pensarci”
 
“Credo sia la cosa migliore… Alloooora…”
 
Chiusi gli occhi, scoraggiata, già sapendo dove voleva andare a parare.
 
“Quella stretta di mano…”
 
“Non è come pensi, non è successo nulla. Né accadrà mai” la interruppi.
 
“Cosa?? Ma dopo lo spettacolo…”
 
“è stato chiaro con me, siamo grandi amici ed è una cosa stupenda. E adesso posso dire che ha pienamente ragione. Nemmeno io ero così sicura di ciò che provavo e se avessimo commesso un errore sarebbe stato un disastro. Non so come avrei fatto senza di lui, negli ultimi due giorni. Non voglio perdere il mio migliore amico ”
 
Daphnee mi osservò a lungo prima di rispondere:
“Come dici tu. L’importante è che siate felici della vostra scelta” qualcosa nel suo tono mi fece pensare che non fosse per niente convinta.
 
Quando uscii dalle docce, mi imbattei nei fratelli Stoll che tornavano dalla parete di arrampicata.
 
“Jackson, il tuo fratellino ha proprio la tua stessa stoffa, eh?” disse Travis, sogghignando.
 
“Che vuoi dire?”
 
“Non lo sai? Clarisse ha provato a dargli il benvenuto e lui si è difeso alla grande”
 
“Anche se con Annabeth non gli è andata molto bene” continuò Connor, ridacchiando “Deve averlo spremuto per bene, per non parlare della figura che gli ha fatto fare davanti a tutta la cabina 11”
 
Mi costrinsi ad aspettare che quelle due canaglie mi raccontassero per filo e per segno ogni cosa, prima di dirigermi a grandi falcate verso l’area delle cabine, ignorando il suono della conchiglia della cena.
 
“Mel… Tutto a posto?” Mi domandò Luke, quando lo incrociai lungo la strada.
 
“Si. Devo solo strappare qualche ciuffo biondo e castano chiaro, poi vengo a cena”
 
“Ehm, ragazzi andate avanti, io vi raggiungo” disse, rivolgendosi alla lunga colonna di ragazzi che stava guidando verso la mensa.
 
Individuai la cabina cinque avvicinarsi, poco più avanti, con Clarisse in testa.
 
“Che ti è saltato in mente?!” sbraitai, sbarrandole la strada.
 
“Che hai che non va?” domandò, infastidita e sorpresa.
 
“Che ho che non va?? Dimmelo tu! Mia madre è scomparsa, mio fratello è sconvolto e tu non hai perso tempo per fare la stronza!”
 
Furente, la spintonai indietro.
Un’ovazione si sollevò tra i fratelli di Clarisse, estasiati dalla possibilità di una rissa in avvicinamento, e con la coda dell’occhio vidi dei ragazzi fermarsi per assistere alla scena.
 
“Ti concedo la possibilità di girare i tacchi e toglierti di mezzo. Solo una. Solo perché sei tu” sputò Clarisse, con il viso che diventava paonazzo di rabbia.
 
“Ehi, ehi, ehi” Luke mi cinse da dietro, bloccandomi le braccia “Andiamo, ragazze, lasciamo perdere. Ognuno per la sua strada. Vale anche per voi, gente. Smammare!”
 
Cercai di divincolarmi alla presa di Luke, sbraitandogli contro, ma non mi liberai in tempo.
Clarisse mi volse un’occhiata fulminante prima di riprendere il tragitto verso la mensa, seguita dai suoi fratelli, profondamente delusi.
 
“Mel, è un momento difficile, lo so” cominciò Luke, facendomi girare verso di lui e tenendo le mani appoggiate sulle mie spalle.
Sospirai e distolsi lo sguardo dal suo viso, avvertendo una predica in avvicinamento.
 
“e so anche che la tua amica non vincerebbe mai un premio per la sensibilità, ma devi cercare di essere più oggettiva… Tuo fratello è un novellino e come tale verrà spesso messo alla prova. Non siamo al campo estivo delle Giovani Marmotte, qui si impara a sopravvivere.
C’è bisogno che ti ricordi cosa abbiamo fatto io e te, lo scorso anno, alle nuove reclute?”
 
Certo che no: spargemmo la voce tra le naiadi che avevamo visto i nuovi arrivati gettare immondizia per tutto il bosco.
Li avevano sorpresi sotto le docce e costretti a darsi alla fuga per tutto il campo in accappatoio, mitragliandoli con pigne e bacche avvelenate.
 
“Per non parlare di quello che hanno fatto a noi, cinque anni fa… Mi tremano ancora le gambe quando mi avvicino alle stalle dei pegasi” Continuò Luke.
 
Effettivamente, con noi ci erano andati giù pesante.
Legati per le caviglie alle selle di pegasi, avevamo sorvolato il Campo per quaranta minuti, a testa in giù, prima che si degnassero di farci scendere.
 
“Quest’anno era il turno di Clarisse e sappi che ha riservato lo stesso trattamento del bagno anche a tutti gli altri novellini, che sfortunatamente non hanno saputo difendersi bene come ha fatto tuo fratello.
Non sarebbe stato corretto fare favoritismi, lo sai.
Per non parlare del fatto che Percy ha assistito a tutta la tua sfuriata con Clarisse e credo sia parecchio imbarazzante per un dodicenne avere una sorella maggiore che aggredisce chiunque gli faccia un dispetto.
Non offenderti, ma non gli stai facendo fare proprio una bella figura tra i ragazzi…”
 
La tensione mi abbandonò improvvisamente e un moto di vergogna mi investì.
Serrai le palpebre, sospirando.
 
“Sono la tutrice di Percy da meno di ventiquattr’ore e sono già un completo disastro” sentenziai.
 
“Ehi… Non essere così dura con te stessa” sussurrò Luke, prendendomi il viso tra le mani e avvicinandosi pericolosamente.
 
Avrei dovuto contenermi di più, visto che nelle settimane precedenti, dopo il discorso che mi aveva fatto in seguito allo spettacolo, avevo giurato a me stessa che avrei preso maggiori distanze da lui.
Ma non riuscii a trattenermi dal poggiare i palmi delle mie mani sul suo petto muscoloso.
 
Quella vicinanza, il calore del suo corpo e la sensazione dei nostri respiri così vicini, mi fece andare su di giri e arrivai a dimenticare qualsiasi altra cosa che non fosse Luke.
 
La conchiglia che tenevo nella tasca degli shorts avvertì le vibrazioni di dolcezza nell’aria e prese a emettere la sua solita melodia, causandomi non poco imbarazzo.
 
La fronte di Luke toccò la mia, anche se non saprei dire chi si si fosse avvicinato per primo.
 
“Devi solo avere un po’ di pazienza. Non saranno tempi semplici, ma con il tempo vedrai che tutto ne varrà la pena”
 
Non capii ciò che intendesse dire, ma ero troppo occupata a godermi l’esplosione di endorfine per chiedergli spiegazioni.
 
“E quando ti sentirai un pochino meglio e ne avrai voglia, potremo riprendere quel discorso che abbiamo interrotto la sera dello spettacolo… Ho paura che ci siamo un po’ fraintesi, sai”
La sua voce fu così suadente che avvertii le ginocchia farsi molli e il cuore battere così forte da farmi male.
 
Si scostò da me, sfoggiando un sorriso malizioso e spostandomi i capelli dietro le orecchie.
 
In quel momento, ci rendemmo conto del vasto pubblico che ci aveva accerchiato per assistere all’intera scena con fervente interesse.
 
Luke soffocò una risata mentre io alzai gli occhi al cielo, entrambi rossi come peperoni.
 
“Andiamo, Jackson. L’ultimo che arriva si siede in braccio a Travis”
 
Risi, con il cuore un po’ più leggero, per poi lanciarmi al suo inseguimento.
 
 
 
La gamba destra di Travis non passò una bella serata, schiacciata sotto il peso di Luke.
 
Ma, nonostante la mia vittoria, il sovraffollamento della cabina di Ermes costringeva comunque tutti quanti a stringersi il più possibile, perciò la mia posizione non fu di molto più comoda.
 
Seduta accanto a Percy, cercai di farmi raccontare come fosse andato il primo giorno al Campo, ma non sembrava in vena di chiacchierare più del necessario.
 
“Così tu e Luke state insieme” disse, a metà tra una domanda e un’affermazione.
 
La Cherry Coke azzurra mi andò di traverso.
“Cosa… Perché pensi questo?”
 
“Chris Rodriguez ha detto che siete praticamente una coppia. E la scenetta di poco fa non lo ha smentito”
 
Mi morsi il labbro, a disagio.
“Hai visto…”
 
“Tutto il Campo ha visto, Melody. Come ha visto la piazzata che hai fatto a Clarisse” sbottò lui.
 
“Percy, non sai quanto mi dispiace. Non avrei dovuto farlo, mi sono comportata da stupida. Per favore, possiamo non litigare?” lo supplicai.
 
“Non fa niente” replicò, sospirando “Sono abituato ad essere lo sfigato della scuola”
 
“Non dire così, i primi giorni non sono stati semplici per nessuno, ma ti assicuro che presto ti sentirai a casa”
 
Lui annuì, senza convinzione, fissando il suo piatto.
 
“A proposito di casa. Che ne sarà della nostra?” continuò lui.
 
“Ci penseremo insieme e troveremo una soluzione prima che l’estate finisca. Di certo non lasceremo l’appartamento di mamma nelle mani di quell’ebete”
 
Fui travolta da un’ondata di tristezza quando realizzai che io e lui non avevamo ancora parlato della mamma.
 
“Tu stai bene, Percy?” domandai infine, dopo un lungo silenzio, non sapendo che altro dire.
 
Lui annuì.
 
“Penso di si… Anche se ancora fatico a capire cosa sia successo”
 
“Staremo bene, fratellino. Te lo prometto”
 
Strinsi i pugni e chiusi gli occhi per qualche istante.
 
La mamma sarebbe tornata insieme a noi, avrebbe cresciuto Percy e ripreso gli studi all’Università, si sarebbe trovata un lavoro decente e magari anche innamorata di nuovo.
 
Avrei riportato indietro mia madre.
E stavolta l’avrei apprezzata ogni minuto di ogni giorno.
 
Lo giuro.
 
Lo giuro sullo Stige.
 

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Capitolo 8
*** Control - Halsey ***


“Bene. Ora, mia cara, sei pregata di raccontarci la verità. Tutta. E dall’inizio” mi ordinò Chirone.
 
Nel corso degli anni, lo avevo fatto arrabbiare più volte di quanto tenga ad ammettere, ma quella volta percepii una nota di palese delusione nella sua voce.
 
Ero seduta al tavolo da ping pon sul retro della Casa Grande, insieme a Chirone, il Signor D, Grover e i capigruppo di ogni casa: Luke, Clarisse, Annabeth, Beckendorf, Silena, Lee e la figlia di Demetra, Katie Gardner.
 
Usavamo il tavolo da ping pong solo per le riunioni veramente importanti, cose come le delibere per le imprese, l’organizzazione delle gite e delle feste di compleanno di Dioniso.
 
Quella volta, più che a una riunione, somigliava a un processo. E io ero l’imputata.
 
Si era appena conclusa la Caccia alla Bandiera, che, diversamente dal solito, avevo vissuto con estrema apatia e disinteresse.
Per decisione di Chirone, ormai da anni a me e a Luke non era più concesso di giocare nella stessa squadra per nessuna competizione, poiché si era reso conto che non era una coincidenza se ogni qualvolta che ci alleavamo, qualcosa finiva per esplodere.
 
Perciò, a costo di infrangere le regole, quella sera avevo giocato nella squadra rossa, tenendomi in disparte tutto il tempo per tenere d’occhio mio fratello.
Avevo dovuto fare violenza su me stessa pur di non intervenire a difesa di Percy e prendere la mia migliore amica a calci nel sedere, ma la mia pazienza aveva dato i suoi frutti; vedere mio fratello difendersi con tutte le sue forze e dare una lezione a quei bulli della casa 5 mi aveva riempita di orgoglio.
 
Purtroppo, poco più tardi, non intervenire non fu un’opzione.
Un segugio infernale era penetrato chissà come all’interno del Campo ed era andato dritti addosso a mio fratello, neanche fosse stato una braciola arrostita, ricordandomi spaventosamente l’immagine della morte di Thalia.
 
Il terrore mi aveva pervasa e l’acqua del fiume aveva risposto alla mia scarica di adrenalina.
Il torrente si era sollevato dal letto in una colonna d’acqua, per poi schiantarsi contro l’animale e sollevarlo dal corpo inerte di mio fratello.
 
Usando la forza dell’acqua, l’avevo sbattuto ripetutamente contro il terreno, finché non fu sufficientemente stordito da lasciare che le frecce di Chirone e dei figli di Apollo completassero il lavoro.
 
“Tranquillo, Percy, tranquillo” gli dissi, prendendolo tra le braccia e utilizzando l’acqua del fiume per guarire lo squarcio che gli apriva il ventre.
“Passa tutto, passa tutto” ripetevo ossessivamente, con le lacrime che mi solcavano le guance, più per calmare me stessa che lui.
 
Sono due mie particolarità, a proposito, quella di saper controllare anche le acque dolci e l’abilità di curare le ferite con l’acqua. Non si tratta di caratteristiche usuali per i figli di Poseidone.
In particolare le mie capacità curative erano più uniche che rare. Con Percy aveva funzionato a meraviglia perché il suo corpo rispondeva bene alle risorse benefiche dell’acqua, ma in generale avevo scoperto che funzionava abbastanza con tutti.
 
L’acqua rigenerava le cellule e questo accelerava la guarigione di praticamente qualsiasi ferita.
Di conseguenza, le mie portentose capacità mediche mi avevano procurato parecchie ore in infermeria e l’ipotesi di essere una figlia di Apollo.
 
Comunque sia… Come se le mie prestazioni acquatiche non avessero reso tutto abbastanza chiaro, due luminescenti tridenti erano apparsi sopra la mia testa e quella di Percy.
 
Ed eccomi qui: davanti alle dieci persone con cui avevo vissuto a stretto contatto per cinque lunghi anni, mentendo spudoratamente a proposito della mia identità, che mi guardavano come se fossi stata la peggiore delle criminali.
 
Mi costrinsi a sostenere lo sguardo di tutti quanti, Dionisio compreso, pur di non far trapelare quanto fossi intimorita.
 
Partii dall’inizio, come mi aveva chiesto Chirone; il mio evidente legame con l’oceano manifestatosi sin dai primi anni di vita, il primo incontro con Poseidone, la nascita di Percy, le mie preghiere a Poseidone affinché non mi riconoscesse, pur di proteggere mio fratello, e…
 
“è colpa mia se Luke ha fallito l’impresa!” lo esclamai con una foga esagerata, probabilmente, ma dovevo togliermi quel peso di dosso.
“Lui non sapeva nulla e… dovevo distrarre il drago mentre Luke rubava la mela, ma Ladone mi ha scagliata nel fiume e lui si è buttato per salvarmi, senza sapere che non potevo annegare… Poi, quando siamo usciti dall’acqua, Ladone ha sputato fuoco, ho cercato di farci da scudo con l’acqua ma il vapore era talmente bollente che mi ha ustionata la schiena… Poi ha sferrato una zampata, Luke mi ha scansato e il suo artiglio…”
 
Avevo parlato talmente velocemente e in modo così sconclusionato che sperai avessero colto almeno la metà delle cose che avevo detto.
 
Incontrai lo sguardo comprensivo di Luke, in cui però vidi anche una scintilla di tristezza; anche a distanza di due anni quel fallimento continuava a tormentarlo.
 
“Grazie per la tua sincerità, Melody” rispose Chirone, ma colsi una sfumatura di sarcastico nel suo tono “Questo complica parecchio le cose...” proseguì, passandosi una mano sulla fronte.
Decise poi di aggiornarci sulla spinosa questione che innervosiva gli Dei e delle forti tensioni tra Zeus e mio padre che potevano scoppiare da un momento all’altro in una sanguinosa guerra.
 
Non avevo mai visto Chirone tanto inquieto prima di quel momento.
 
“Percy merita un’impresa, Chirone” affermò Annabeth “È evidente. La Benevola, il Minotauro e ora il segugio infernale… Sono tutti convinti che sia lui il ladro, deve essergli concessa la possibilità di ristabilire il suo onore e quello di suo padre”
 
“E a te cosa importa dell’onore di nostro padre, Annabeth?” sbraitai “Se muori dalla voglia di batterti con i mostri, ce n’è una foresta a pochi chilometri da qui, ma tieni mio fratello fuori dai tuoi subdoli piani machiavellici”
 
“Melody, contegno” mi ammonì Chirone.
 
“Andrò io, sono la primogenita di Poseidone, sono più grande e più allenata di Percy”
 
“La profezia diceva che un giovane mezzosangue sarebbe arrivato al Campo per poi cambiare le sorti dell’Olimpo. Melody è arrivata qui cinque anni fa ed è già un’adulta” sentenziò Annabeth.
 
“Sta zitta, mocciosa!” proruppi con forza.
 
“MELODY” tuonò Chirone, facendo sussultare tutti, me compresa.
“Siamo tutti molto pazienti con te, ma stai esagerando. Comprendo la tua inquietudine, ma dovresti essere addestrata a tenere i nervi saldi e a mantenere il controllo. Se questa situazione è per te insostenibile, nessuno ti giudicherà, ma devo chiederti di lasciare la riunione. Adesso”
 
 
 
Non ricordo esattamente quale folle pensiero mi spinse a salire le scale della Casa Grande, una volta abbandonata la riunione.
Ero devastata, esausta e arrabbiata: una combinazione che per me sfociava sempre e solo in un disastro di proporzioni bibliche.
Arrabbiata con Annabeth e Chirone per la riunione e con gli Dei per le loro scaramucce che stavano incasinando la mia vita e quella di Percy.
Angosciata per la possibilità di vedere mio fratello partire per un’impresa, mettendo a rischio la propria vita, per risolvere l’ennesimo disastro divino che rischiava di mettere fine al genere umano.
 
Ma più di tutto, ero disperata per la scomparsa di mia madre.
La sua mancanza bruciava sempre più intensamente di secondo in secondo.
Dovevo sapere come riaverla.
 
Non ero mai salita lassù.
Io e Luke avevamo esplorato ogni angolo del Campo, ma ci eravamo tenuti sempre ben distanti dall’inquietante soffitta della Casa Grande, sapevamo che l’Oracolo non era un tipo da stuzzicare e che fargli la domanda sbagliata poteva avere conseguenze devastanti sulla psiche.
Al tempo non lo sapevo, ma Luke era terrorizzato dai poteri dell’Oracolo perché li aveva visti nella loro forma più terribile.
 
Ma dovevo sapere come riportare a casa mia madre.
 
La soffitta era gremita di oggetti di ogni tipo, ricordi di imprese eroiche e souvenir bizzarri.
Lì da qualche parte Luke aveva gettato l’artiglio di Ladone che aveva spezzato, impaziente di liberarsene e di dimenticare l’impresa.
 
Lei era accanto alla finestra. I raggi della luna illuminavano la sua pelle avvizzita, rendendola ancora più spettrale e spaventosa di quanto già non fosse di suo.
 
“Come posso riportare in vita mia madre?” domandai dopo lunghi attimi di silenzio.
 
Non si rispose, né si mosse.
 
“Sally Jackson non è morta, lo so! Ade l’ha rapita e io devo salvarla!” esclamai.
 
Nessuna risposta.
Il panico si impadronì di me.
 
“DIMMI COME POSSO RAGGIUNGERE MIA MADRE!” urlai a squarciagola.
 
“MELODY!”
 
Mi voltai di scatto; una voce disperata mi aveva chiamata da al di sotto della botola, e dei colpi iniziarono a tempestare il pavimento dal basso.
 
La voce della mia mamma.
 
“MAMMA!” gridai, gettandomi sulla botola.
 
“MAMMA MAMMA MAMMA!”
 
Spalancai la botola e mi gettai di sotto; il secondo piano della Casa Grande era sparito, al suo posto mi trovai nell’appartamento di Manhattan.
 
Ogni cosa era al suo posto, ma illuminata da una luce strana, fredda a tal punto da spegnere i colori.
 
Non vedendo mia madre da nessuna parte, mi voltai in direzione della porta, ma qualcosa mi afferrò per la gola e mi spinse contro il muro.
 
Era Christian, l’ex compagno di mia madre.
Ma non era affatto come lo ricordavo: la sua pelle era avvizzita come una mummia, molto simile a quella dell’oracolo, e i suoi occhi erano gialli e iniettati di sangue.
 
“Stammi a sentire, donna! Qui si fa come dico io e se la cosa non ti sta bene, mi costringi a darti qualche altra lezione di disciplina!” Lo disse con una voce spaventosamente innaturale, come se a parlare fossero stati in molti.
 
Cercai di mettere in atto una tecnica di difesa per liberarmi, ma il mio corpo non mi rispose.
Capii che non ero io che Christian stava strozzando.
Quello che stavo vivendo era un ricordo di mia madre.
E lei non aveva potuto difendersi.
 
In un attimo, Christian scomparse.
Crollai a terra, ansimante per la mancanza d’aria.
Quando la mia vista si fece più nitida, notai che il pavimento era ricoperto da una viscida sostanza scura.
 
Alzai lo sguardo lentamente per scoprire che tutti i mobili e gli oggetti dell’appartamento erano svaniti nel nulla.
C’era solo un piccolo pugnale conficcato nel pavimento al centro della stanza, il punto dal quale fuoriusciva un lago di sangue.
Riconobbi il pugnale che Luke aveva donato ad Annabeth.
 
Improvvisamente, una melodia familiare riecheggiò tra le pareti; era la mia conchiglia.
Ma, per la prima volta, quel suono mi sembrò lugubre e inquietante.
 
Proveniva da quella che avrebbe dovuto essere la mia camera da letto ma, quando vi entrai, la scoprii completamente vuota, ad eccezione di un enorme sarcofago d’oro.
Non avevo mai provato così tanta paura in tutta la mia vita.
 
Un attimo prima di riuscire a sfiorarne la superficie con le dita, un rumore assordante alle mie spalle mi fece voltare.
 
Un’onda d’acqua nera come la pece e alta due volte la mia altezza, mi travolse, scaraventandomi a terra e trascinandomi sempre più a fondo.
 
Provai a respirare e a controllare la corrente, ma l’acqua non rispose a nessuno dei miei comandi.
E mi parse fuoco incandescente quando entrò nella mia gola e scese nei polmoni.
 
Ad oggi, sono pressoché certa di essere l’unica erede di Poseidone a sapere veramente quanto sia atroce annegare.

 

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Capitolo 9
*** The Scientist - Coldplay ***


In un attimo, il buio si illuminò prendendo la forma dell’infermeria e il silenzio venne spezzato da un agitato vociare che mi stordì.
 
“Mel, ci sei? Riesci a sentirmi?”
Luke mi teneva per le spalle, scuotendomi leggermente, con gli occhi sbarrati e il viso contorto di preoccupazione a pochi centimetri dal mio.
 
Ancora troppo frastornata per rispondere, spostai lo sguardo intorno a me: ero seduta su un letto, Luke era accanto a me, Chirone inginocchiato sulle lunghe zampe al mio capezzale, Annabeth e Clarisse assistevano alla scena dai piedi del letto.
 
“Figliola, hai forse perso il senno?” la voce di Chirone suonò così addolorata che mi fece tenerezza.
 
Non so se lo chiese in senso metaforico, del tipo “Che diavolo ti è saltato in mente?”, o se fosse seriamente preoccupato che la mia salute mentale fosse stata compromessa dall’udienza con l’Oracolo.
 
Scossi la testa e mi massaggiai la fronte con una mano.
Era stato tutto un’illusione, questo era chiaro, ma perché il mio cervello non si era minimamente accorto dell’impossibilità di ciò che aveva visto e percepito?
Avevo creduto che tutto quanto stesse accadendo realmente…
Come poteva la mia mente essere così manipolabile?
 
Un brivido mi percorse la schiena quando mi domandai come facessi a essere davvero sicura che anche quella scena non fosse un’allucinazione.
 
“Saresti in grado di fare lo spelling del suo nome?” domandò Chirone, in evidente stato di nervosismo, indicando Luke.
 
Annuii:
“I-M-B-E-C-I-L-L-E”
 
Le spalle tese di entrambi si abbassarono con un gemito di sollievo.
 
“Non potevamo chiedere conferma migliore” affermò Luke, esibendo un sorriso stremato.
 
“Cara, si può sapere cosa ti è saltato in mente?” domandò Chirone; ormai non c’era più traccia della rabbia che mi aveva riservato poco prima, in quel momento era solo profondamente preoccupato. “Consultare l’Oracolo in modo sconsiderato… Urlavi così forte che ti abbiamo sentita dal cortile. Quando ti abbiamo trovata avevi gli occhi spalancati nel vuoto e non rispondevi a nessuno stimolo.
Devi ritenerti fortunata a essere ancora in grado di parlare”
 
“Cosa ti ha detto?” domandò Clarisse, stringendosi al petto le braccia quasi impercettibilmente tremolanti. Conoscevo abbastanza la mia amica da intuire che anche lei stava tentando di nascondere una certa apprensione.
 
“Non mi ha detto nulla” risposi con voce rauca “Mi ha mostrato…”
 
“Mostrato?!” esclamò Chirone, inspiegabilmente angosciato dalla mia rivelazione “Riusciresti a raccontarci cosa hai visto?”
 
“No. Decisamente non saprei descriverlo” replicai, incapace di rievocare quella spaventose serie di immagini prive di senso e di un qualsiasi apparente legame.
 
Ma c’era qualcos’altro che aggiungeva ulteriore angoscia a quella faccenda. Avevo come la sensazione di aver dimenticato qualcosa.
Un’altra visione, qualcosa che avevo visto ma che la mia mente si era rifiutata di elaborare o di imprimere nella memoria.
 
Qualcosa che…
 
“Direi che ne abbiamo avuto tutti a sufficienza per stasera… Vi voglio tutti nei vostri letti entro i prossimi sessanta secondi. A parte te, Melody, resterai qui fino a domattina. Non voglio storie da nessuno” sentenziò Chirone e la sua voce lasciò trasparire tutta l’esasperazione che stava provando.
 
Fu il primo a dileguarsi, seguito da Annabeth, che tentò di augurarmi impacciatamente la buonanotte e alla quale non risposi, ancora troppo infastidita dalla nostra discussione.
Luke mi diede un leggero pizzicotto sulla guancia e uscì, lasciandomi sola con Clarisse, che mi fissava dai piedi del letto senza proferir parola.
 
“Che vuoi ora?” sbottai in modo aggressivo.
 
“Pensavo alla gara di lancio del disco di settimana scorsa, quando quell’idiota di Michael Yew ha sbagliato traiettoria e ti ha centrata in pieno. Mi chiedo se non stiano iniziando a venir fuori i postumi da commozione cerebrale”
 
“Va’ all’inferno”
 
“Oh, no, io no. Tuo fratello invece ci andrà eccome”
 
“Ti credevo mia amica” sibilai con rabbia, stritolando i lembi delle lenzuola.
 
“Anch’io rivaluterei le mie amicizie, se fossi in te. Ma non dovresti iniziare da me, sai…”
Mi voltò le spalle e fece per uscire, ma non senza lanciandomi un’ultima frecciatina:
 
“Domanda al tuo fidanzatino di chi è stato l’ultimo, decisivo voto a favore della missione di Prissy”
 
 
 
Per cinque anni avevo vissuto insieme alla casa di Ermes: avevo dormito nella stessa capanna, mangiato allo stesso tavolo e seguito le medesime lezioni di quelle esasperanti teste calde sempre pronte a riempire il tuo bagnoschiuma di maionese e a infilarti petardi nello zaino.
Fidatevi, al mio posto li avreste amati tanto quanto li amavo io.
Con mia madre e Percy lontani per anni, erano stati loro la mia famiglia e i miei fratelli.
 
Inoltre il compito di ospitare i giovani indeterminati, era sì una grande scocciatura, ma aveva anche il grande vantaggio di fare conoscenze senza pregiudizi derivanti dall’identità del genitore divino; le faide tra le varie case, infatti, erano spesso causate dalle antiche dispute genitoriali che si riversano nei DNA dei figli (come Atena e Poseidone o Ares ed Efesto).
Era stato proprio questo fatto a consentire a me e a Luke di stringere amicizie un po’ con tutti e a ottenere fiducia e stima da parte dei ragazzi del Campo.
 
Realizzai tutto questo la sera del giorno in cui Percy partì per l’Impresa, mentre me ne stavo solitariamente seduta al tavolo di Poseidone, ingobbita sopra la mia cena, ben attenta a non incrociare nessuno sguardo.
 
Nessuno dei miei amici aveva preso troppo bene lo svelamento del mistero riguardante il mio genitore divino… E soprattutto che io ne fossi sempre stata consapevole e avessi taciuto a tutti per anni.
Con la coda dell’occhio vidi Chirone lanciarmi un lungo sguardo, poi abbassare la testa sulla cena, sospirando.
Provai una fitta di vergogna. Deludere adulti che confidavano nelle mie capacità non era una novità per me (basti pensare a mia madre e i pochi professori volenterosi e ottimisti che avevo incontrato), ma deludere Chirone… Beh, era un’altra storia.
 
“Spazio vitale, che sogno” esordì Luke, lasciandosi cadere dall’altro lato del tavolo.
 
Nell’istante in cui si sedette, allargando gambe e gomiti in un gemito di soddisfazione, il tavolo e le due panchine tremarono lievemente e gli occhi severi di Chirone ci si piantarono addosso.
 
“Non dovresti sederti qui” affermai con voce apatica.
 
“Stai scherzando? Penso seriamente di prenderci la residenza”
 
“Hai dato voto favorevole in Consiglio” lo accusai, serrando la maschella e cercando di trattenermi dall’imprecare.
 
Il suo ghigno sarcastico si spense.
“Clarisse, eh?”
 
“Le spalmerei la faccia sul pavimento delle stalle in questo momento, ma mi fido di lei. Sarà anche spietata e arrogante, ma è onesta. Trasparente. Al contrario di qualcun altro ”
 
“Mel, ascolta…”
 
“Risparmiamelo, ti supplico” mormorai, massaggiandomi la tempia “Cercare una giustificazione ai tuoi atteggiamenti da stronzo manipolatore mi costerebbe più energie di quante ne ho al momento”
 
Lo dissi con un tono che non traspirava né rabbia né rancore, solo una viscerale stanchezza.
 
Improvvisamente, le parole che Percy aveva urlato giusto qualche ora prima mi riaffiorarono alla memoria con la forza di una sberla.
 

“Come hai potuto tenermelo nascosto?! Tutti questi anni passati qui a pensare agli affari tuoi e a divertirti con gli amici, mentre io e la mamma a stento tiravamo avanti! Le spese, Gabe, la scuola... E io che quasi ti compativo, lontana da noi, in chissà quale bigotto collegio di suore…”
 
“Io volevo raccontarti ogni cosa, devi credermi! Ma la mamma…”
 
“La mamma non poteva sapere cosa provavo, quanto mi sentissi solo e stupido, TU SI!!
Non ti è mai importato niente né di lei né di me. Sei solo una stronza egoista!”
 

“Ho volato fino a Montauk con le scarpe di mio padre, la scorsa notte, per recuperare la vela. È giù al porto” disse Luke dopo un lungo silenzio.
 
Lo guardai, sbigottita.
 
“Scarta qualsiasi altro modo tu stia ponderando per raggiungere tuo fratello. L’acqua sarà sempre la scelta migliore per te. Fidati, di viaggi me ne intendo”
Disse con una smorfia, infastidito, come succedeva sempre quando realizzava quante cose avesse ereditato da suo padre.
 
“Cos-… Vorresti farmi circumnavigare il Sud America?”
 
“La geografia non è il tuo forte, eh?” mi canzonò “Lo stretto di Panama sarà più comodo. Ti ho lasciato i soldi per il pedaggio nella stiva della barca, ma non chiedermi come me li sono procurati. Sarei costretto a mentirti”
 
“Luke…”
 
“Meglio se inizi ad avviarti” suggerì, alzandosi “Il diversivo ti garantirà solo una manciata di minuti per raggiungere la spiaggia, ma dovrebbero bastarti”
 
“Dimmi perché” sibilai, furente e commossa insieme, tirandomi in piedi per poi oltrepassare il tavolo e avvicinarmi a lui.
 
“Dimmi perché ultimamente sembra che confondermi le idee sia diventato il tuo passatempo preferito?!”
Tremavo di rabbia e a stento tenevo freno le lacrime.
“Rischio di perdere tutta la mia famiglia e sono qui a scervellarmi per capire perché il mio migliore amico si comporta in modo così meschino con me… Mi illudi, mi conforti, poi mi pugnali alle spalle e alla fine escogiti un sistema per convincermi che era fin dall’inizio tutto un tuo piano per aiutarmi…
Che diamine succede, Luke? Tu non eri così. il ragazzo con cui sono cresciuta non era così…”
 
Avrei proseguito, ma una scintilla nei suoi occhi mi fermò: dolore. Puro, autentico dolore.
E in quell’emozione di tetra sofferenza, così poco conforme alla sua presenza solare e luminosa, finalmente mi sembrò di riconoscere, dopo tanto tempo, il mio amico.
Aprì la bocca per dire qualcosa – Dei, cosa darei per sapere cosa stava per dirmi -, ma all’improvviso un fragoroso scoppio fece tremare fin le colonne della mensa.
 
Ci voltammo tutti quanti verso la fonte del rumore, ovvero il tavolo di Apollo.
Una miscela rosa shocking altamente appiccicosa e impregnata di fiorellini colorati si era riversata sulla tavolata della cabina 7, cospargendo i figli di Apollo da capo a piede.
Quando tutti si destarono dallo stupore e i gridolini di sorpresa si spensero, una voce tuonante si alzò dal tavolo di Ares:
 
“AFRODITE SI È VENDICATA DELLA SCONFITTA CONTRO APOLLO NEL TORNEO DI PALLAVOLO!”
 
Clarisse era in piedi sulla panchina con le braccia spalancate, aizzando una rissa che non tardò ad arrivare.
Se solo qualcuno non fosse stato preso dalla smania di gettarsi nella mischia, probabilmente avrebbe notato come i polpastrelli della mano di Clarisse fossero troppo rosa.
 
Capii che non mi ero sbagliata sul conto della mia amica.
Mentre forse su quello di Luke avevo appena iniziato ad aprire gli occhi.
 
Quando si rigirò a guardarmi, io ero già lontana.

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Capitolo 10
*** Dandelions - Ruth B. ***


Devo riconoscere di aver avuto almeno una grande fortuna nella mia tragica vita da mezzosangue: non faccio sogni profetici.
Non capisco perché, dato che si tratta di un’abilità tendenzialmente comune tra i semidei, ma di certo non sono così sciocca da lamentarmene.
Francamente preferisco concedermi il beneficio del dubbio in merito a disgrazie.
 
Infatti, durante la prima notte di navigazione, mentre una coppia di orche spingeva la vela verso sud, sognai un ricordo risalente a sei mesi prima: la gita sull’Olimpo durante il Concilio Invernale.
 
Premettendo che allora nessuno era a conoscenza dell’identità di mio padre, ero stata esclusa a priori dalla gita, in quanto Chirone aveva decretato che solo i determinati avrebbero partecipato.
Come biasimarlo, dopotutto? Sarebbe stato alquanto imbarazzante portare un branco di disconosciuti ragazzini arrabbiati al cospetto dei loro incuranti genitori.
 
Ma, ovviamente, infransi le regole.
Avevo da poco ricevuto brutte notizie ed ero parecchio irrequieta. In più tutti i miei amici ci andavano e non avevo intenzione di rinunciare a un’esperienza simile.
 
Sgattaiolai fuori dal campo, seguii il gruppo fino alla più vicina stazione della ferrovia di Long Island e salii sul treno, tenendo una distanza sufficiente a non farmi notare.
 
“Hai rubato il travestimento a un molestatore?” chiese una voce alle mie spalle.
 
Sobbalzai sul sedile, rovesciando metà della mia tazza di caffè sulla rivista che tenevo davanti al viso.
 
Luke rise della mia reazione. Era in piedi accanto a me, anche se non riuscivo a capire da dove fosse saltato fuori, visto che avevo tenuto d’occhio il gruppo di ragazzi con le maglie arancioni per tutto il tempo e non avevo notato che si fosse alzato.
Ma era sempre stato un mago nello sparire e apparire, quando e dove meno uno se lo aspetta.
 
In ogni modo, ero troppo scioccata e al contempo infastidita per trovare qualcosa da rispondergli.
Non ci eravamo quasi più parlati dopo l’Impresa. Praticamente un anno prima.
 
Era colpa mia se avevamo fallito, questo non l’avevo mai negato; se fossi stata più sincera con Luke e gli avessi confidato tempo prima di conoscere l’identità di mio padre, saremmo stati sicuramente in grado di coordinarci meglio durante gli attacchi e di pianificare un piano migliore, e non saremmo tornati a casa a mani vuote, sfigurati da cicatrici e ustioni di secondo grado.
Ma così facendo, Luke non solo aveva dovuto sopportare l’umiliazione del fallimento della sua impresa, ma anche scoprire nel peggiore dei modi che la sua migliore amica non si fidava abbastanza di lui da rivelargli chi fosse realmente.
 
Tremendo, lo so. Ma avevo passato ogni singolo minuto di ogni giorno, nei successivi tre mesi, a scusarmi in ogni modo che conoscevo e a fare i salti mortali pur di ripristinare il nostro rapporto.
Ma Luke aveva reso palese che avesse perso interesse nella nostra amicizia, ignorando ogni mio tentativo.
E all’improvviso se ne usciva con una battuta e una risatina di scherno?
 
Vedendo che non davo corda alla sua confidenza, smise di ghignare e mi porse la felpa blu che teneva sulla spalla.
 
“Togliti capello, occhiali, sciarpa e cappotto. Il modo migliore per passare inosservati è muoversi con disinvolta semplicità”
 
Continuai a guardarlo in cagnesco e ostinato silenzio.
 
“Quando arriviamo a New York raggiungi il gruppo, tirati su il cappuccio e tieni la testa bassa. Al resto penso io”
 
Odiai dargli la soddisfazione di seguire i suoi consigli, ma finii per fare come aveva detto.
 
Scoprii poi che la tecnica di Luke consisteva nel nascondermi dietro di sé per tutto il tempo.
Un piano talmente banale da far pensare a un fallimento assicurato, ma le abilità di Luke erano sovrannaturali tanto quanto le mie.
Certo, io potevo controllare le correnti, respirare sott’acqua e comunicare con qualsivoglia animale marino, ma questo non mi aveva mai portato a sottovalutare le capacità del mio amico.
L’avevo visto più volte scassinare serrature di ogni genere, orientarsi perfettamente in posti sconosciuti, quasi avesse una bussola incorporata nel cervello, riuscire a rendersi invisibile anche in campo aperto.
Una volta era stato perfino capace di rubare l’apparecchio a Katie Gardner mentre dormiva. Non ho mai voluto sapere i dettagli.
 
Diventai invisibile anche io, riparata dalle sue larghe spalle; tutti quanti, compresi Chirone e il Sig. D, deviavano inspiegabilmente lo sguardo ogni volta che questo si avvicinava alla sagoma di Luke, come fosse un buco nero nel loro campo visivo.
 
Poco dopo, quando le porte dell’ascensore si spalancarono sul seicentesimo piano dell’Empire State Building, fui perfino incapace di emettere un gemito di sorpresa.
Potrei descrivervelo, davvero, ma non sarei mai in grado di rendere giustizia alla meraviglia che si stagliava davanti ai miei occhi.
Provate a pensare in modo superlativo a ogni cosa possibile: profumi, luci, melodie, immagini, poi moltiplicate il risultato per dieci e vi sarete avvicinati al concetto.
La stessa aria che respirai mi parse dolce come miele mentre mi scendeva nei polmoni e incomprensibilmente calda, data la stagione.
E le stelle, ragazzi… Fidatevi, non avete mai visto niente di simile.
La volta celeste pareva così vicina da poterla toccare facendo un salto.
 
Attraversammo il lungo viale con non poche difficoltà, dato che venivamo distratti a ogni passo dalla meraviglia che ci circondava, soffermandoci ad ammirare le splendide botteghe d’artigianato o attirati dalle deliziose leccornie vendute ai bordi della strada.
Chirone dovette riprenderci più volte, intimandoci di proseguire verso la maestosa sala del trono che si stagliava sulla vetta del monte.
 
Vederli, poi, tutti seduti sui loro giganteschi troni, fu uno spettacolo a cui non ero preparata.
Erano di una bellezza inconcepibile, tutti loro; perfino il rozzo aspetto di Efesto e quello micidiale di Ade ispiravano un fascino unico.
 
C’era anche mio padre.
Fu come se non fosse passato nemmeno un giorno dall’ultima volta che l’avevo visto, ovvero quasi una dieci anni prima.
Capii di non aver mai sentito la sua mancanza perché era sempre stato con me, anche se in forma diversa. Se nei suoi occhi si vedeva l’oceano, voleva dire che nell’oceano ci avevo sempre visto lui.
 
Ci squadrarono tutti da capo a piede, chi con ghigni di orgoglio, chi con smorfie di disapprovazione.
Certo era che nessuno di loro avrebbe mai vinto la medaglia di genitore dell’anno.
 
Noi ragazzi passammo l’intera durata del Consiglio seduti in un angolo e in rispettoso silenzio, ascoltando i lunghi e vivaci dibattiti che animavano la sala del trono. Solo i figli di Atena prendevano ossessivamente appunti sui loro taccuini.
Fummo stupiti – ma neanche tanto riflettendoci – dei punti all’ordine del giorno, che nulla avevano a che fare con questioni del tipo guerre, riscaldamento globale, povertà del Terzo Mondo, … 
Gli Dei discussero unicamente di argomenti che riguardavano loro stessi. Del tipo, quello ha sconfinato nel mio territorio, quell’altro mi ha risposto male, c’è da organizzare la festa di compleanno per i tremila anni di Dioniso…
Sembrava a tutti gli effetti una normalissima, estenuante rimpatriata di parenti.
Mi sorpresi a tenere i pugni serrati e la mascella contratta per il fastidio.
 
Il potere di Luke continuò a proteggermi per tutto il tempo, ostacolando lo sguardo di chiunque provasse a rivolgere nella nostra direzione.
Solo una volta mi sembrò che gli occhi blu di mio padre si soffermassero un attimo di troppo su di me.
 
Finito il Consiglio, Chirone ci accompagnò all’accampamento di tende allestito per noi ai piedi della sala del trono, ordinando di prendere posto nei sacchi a pelo e di rimanerci fino alla mattina.
Probabilmente nemmeno lui ripose troppe speranze in quell’ammonimento.
 
“CHE CAVOLO CI FAI QUI?!” mi urlò Clarisse nell’orecchio, saltandomi addosso.
 
“SHHHH!” sibilai, riparandomi dietro un’imponente colonna dorata.
“Vuoi che Chirone mi scopra?!”
 
Girai su me stessa, stupefatta. Come aveva fatto Clarisse a notarmi, nonostante la magia di Luke?
Molto semplice: Luke non si vedeva da nessuna parte.
Se ne era andato. Sparito nel nulla, senza neanche avere la decenza di avvertirmi, ma anzi usando su di me la stessa tecnica illusoria che aveva utilizzato su tutti i presenti per nascondermi.
Digrignai i denti, maledicendomi mentalmente per essermi quasi fatta addolcire da quella apparente premura nei miei confronti.
 
“Quello sarà già andato a dormire nelle stalle dei pegasi. Noi invece non possiamo proprio permetterci di dormire in un posto del genere”
Non avevo mai visto Clarisse così euforica.
“Ci stai, vero?!”
 
“VIA!” esclamai, per poi metterci a correre giù per il viale principale.
 
Poco dopo, ci raggiunsero anche i fratelli Stoll, Chris Rodriguez, Chard Ersen, figlio di Efesto, e Katie Gardner.
Chiesero a me e a Clarisse se avessimo visto Luke, dato che l’avevano cercato ovunque per invitarlo a unirsi a noi, senza scovarlo da nessuna parte.
 
“Ve lo dico io, sarà imboscato con Silena da qualche parte!” Ridacchiò Chris.
 
Ecco spiegato; quell’idiota mi aveva piantata in asso senza degnarmi di una parola, rischiando così che venissi scoperta da Chirone, solo per andare a infilarsi in qualche angolino a pomiciare con la sua nuova fiamma.
Soffocai la frustrazione e mi costrinsi a pensare solamente a godermi quel momento con i miei amici.
 
Dei, non mi ero mai divertita così tanto in tutta la mia vita.
 
Potemmo finalmente comportarci come dei normalissimi adolescenti, in giro di notte a ridere, scherzare e fare chiasso, proprio come era giusto che fosse.
Ci rimpinzammo di dolci dal sapore talmente squisito da non somigliare nemmeno lontanamente a niente che avessimo mai assaggiato, fumammo degli strani sigari che triplicarono la nostra euforia, suonammo i campanelli delle case per poi filarcela, ridendo a crepapelle.
 
Fu tutto molto divertente fino a che Connor, correndo, non inciampò su un ciottolo dissestato, finendo addosso al profilo di una giovane fanciulla in chitone bianco che si stava esibendo con uno strumento musicale. Sfortunatamente, accanto alla giovane, si esibivano altre otto bellissime ragazze, ognuna con uno strumento diverso, e tutte quante caddero a terra a per colpa dell’effetto domino innescato da Connor.
 
Consiglio: non interrompete mai uno spettacolo delle Muse, perché lo prendono parecchio sul personale.
 
Costretti a darcela a gambe, con nove dee alle calcagna che brandivano chitarre e liuti come mazze da baseball, ci lanciammo tra le intricate vie della città sacra.
Per forza di cose, dovemmo dividerci sempre di più, finché io non decisi di dare una chance di farcela a Chris e Clarisse, prendendo un bivio diverso dal loro e ritrovandomi sola, inseguita dalle più accanite Clio e Calliope.
 
Arrivai in una piccolissima e isolata terrazza che dava sullo strapiombo del cielo, adornata solamente da una fontana composta da una grande vasca circolare piena di alghe dorate e che si sviluppava in altezza, creando giochi d’acqua.
 
Un’idea mi sorse spontaneamente, ma dovetti scartarla e mi lanciai verso il vicolo dall’altro lato della piazzetta.
Ma una sagoma indefinita si materializzò al mio fianco, mi afferrò per un braccio e mi tappò la bocca con una mano.
Gridai per la sorpresa, convinta che le due muse fosse riuscita a raggiungermi.
 
“Zitta! Vieni presto, qua sotto!” sibilò la voce di Luke, trascinandomi verso la fontana e scavalcando il bordo della vasca.
 
Feci per oppormi, ma sentendo i passi veloci e le esclamazioni delle due muse avvicinarsi, capii di non averne più il tempo e mi lasciai sprofondare nell’acqua insieme a Luke.
 
L’altezza della vasca non superava i cinquanta centimetri e fummo costretti a sdraiarci per essere completamente sommersi.
Costrinsi l’acqua a fermare il moto causato dal nostro tuffo e di tornare placida, poi spinsi le alghe dorate che giacevano brillanti sul fondo a risalire in superficie, creando uno strato in grado di nasconderci.
 
I suoni giunsero ovattati per via dell’acqua, ma riconobbi dei passi fermarsi vicino alla fontana e delle voci sommesse dal tono adirato. Passò più di un minuto prima che sentissimo le due muse allontanarsi di nuovo, scoraggiate.
 
“PUAH!” boccheggiò Luke, quando riemergemmo.
 
“Si può sapere da dove accidenti sbuchi?” sbottai, uscendo dalla fontana.
 
“Sarebbe stato gentile da parte tua creare una bolla d’ossigeno o che so io” mi domandò di rimando, tra un colpo di tosse e l’altro “Come ringraziamento per averti salvato il fondoschiena perlomeno”
 
In effetti l’avevo sentito agitarsi per la mancanza d’aria mentre eravamo sott’acqua, ma avevo pensato fosse una punizione che ben gli si confaceva.
 
“Ringraziarti?! Hai idea in che guaio avresti potuto cacciarmi?!  Se quelle due svampite mi avessero scoperto non credi si sarebbero fatte due domande sulla mia capacità di respirare sott’acqua o di controllarne il movimento?”
 
Un bagliore di sorpresa attraversò gli occhi di Luke per un secondo.
Evidentemente, era davvero tanto pieno di sé da aver pensato che l’idea di nascondermi nell’acqua non mi avesse sfiorata.
 
Sospirai, frustrata.
“D’accordo, senti. Ti sono grata per gli aiuti che mi hai dato oggi. A quest’ora Chirone mi avrebbe già rispedita al Campo a zoccolate nelle chiappe se non fosse stato per te”
 
Gli porsi una mano e lo aiutai a tirarsi in piedi.
Quando fu uscito, posai il palmo della mano sul suo petto e feci evaporare l’acqua che gli inzuppava i vestiti, cosa che gli fece emettere un sospiro di piacere.
 
“Ora vado a cercare Clarisse e gli altri” affermai, facendo per allontanarmi.
 
“Non l’ho mai detto a nessuno, Mel. Mai.” Giurò con fermezza, cercando approvazione nel mio sguardo.
 
Annuii “Lo so. Ti credo”
 
“E allora perché sei così diffidente con me?”
 
“Diffidente?! Io?!” la rabbia tornò a solleticarmi il petto “Luke, tu non mi hai più parlato! È passato quasi un anno da quella stramaledetta impresa, un anno in cui hai faticato a rivolgermi la parola! E stamattina ti sei svegliato convinto di poterti comportare come se non fosse successo nulla?”
 
Aprì la bocca per parlare, ma ormai ero un fiume in piena.
 
“Sono stata una bugiarda, ti ho nascosto la verità per anni, è vero, ma non mi meritavo questo!!” soffocai le lacrime e il magone che mi strozzava.
 
“Mi ha ferito che tu non ti sia fidata di me” mormorò con un tono che manifestava un dolore sincero, ma ormai privo di risentimento.
 
“Avresti dovuto riempirmi il letto di ortiche o spingermi giù dal muro di arrampicata! Comportarti come se non esistessi più, dopo tutto quello che abbiamo passato insieme è stato… ingiusto” calcai la voce sull’ultima parola, serrando la mascella.
 
Mi fissò con i suoi occhi limpidi per lunghi e irritanti secondi, senza rispondere.
 
“Beh, nessuna giustificazione? Nessuna storiella da recitare degna di un Oscar?” lo sfidai.
 
“Non darò la colpa a nulla, al di fuori della mia idiozia e del mio stupido orgoglio. Riguarda me, ogni cosa. Il fatto che abbiamo fallito l’Impresa, che abbiamo litigato e tutto il resto. Ho fatto del male a entrambi. Avrei voluto riavvicinarmi a te tanto tempo fa, ma a un certo punto non sapevo più come farlo. Poi ho scoperto che questo potrebbe essere l’ultimo anno che passerai al Campo e ho capito di aver buttato nel cesso del tempo che avremmo potuto goderci ancora assieme…
Così stamattina ti ho visto sul treno e… non lo so, ho pensato di sfruttare l’occasione per chiederti di ricominciare da capo…”
 
Si era sforzato di guardarmi negli occhi tutto il tempo, ma dopo aver concluso, rivolse lo sguardo verso il basso, palesemente a disagio.
 
Incrociai le braccia al petto, ancora sulla difensiva.
Poi però sospirai e feci ricadere le braccia lungo i fianchi: quanto a orgoglio, non potevo certo permettermi di fargli una predica.
 
“Dai, andiamo a cercare gli altri. A quest’ora si staranno chiedendo che genere di sevizie ci stiano infliggendo le Muse”
 
Luke abbozzò un sorriso e mi seguì fuori dalla piazzetta.
 
Non potevo aspettarmi che il bello dovesse ancora arrivare.
Dopo una lunga ricerca, che diede modo a me e Luke di fare due chiacchiere e rompere il ghiaccio, trovammo i nostri amici in una grande piazza circondata da templi e colonnati marmorei, immersi in una gremita folla di ninfe e divinità che danzava.
 
Nessuno fu più stupito di me nel vedere Clarisse ballare.
E lo faceva anche con una certa grazia, seppure tutti intorno a lei si impegnavano a tenere una distanza di almeno un metro.
 
La musica sull’Olimpo è qualcosa di totalmente celestiale.
Entra dalle orecchie e finisce per irradiarsi in ogni centimetro del corpo, rilassandolo o agitandolo in base al ritmo.
 
Io e Luke raggiungemmo i nostri amici, che esibirono delle espressioni stupite nel vederci insieme dopo che ci eravamo ignorati per così tanto tempo. Solo il bel volto di Silena lasciò trasparire, oltre che allo stupore, anche una scintilla di stizza.
 
Ballammo per ore sotto il cielo stellato, senza avvertire la benché minima stanchezza.
Danzammo in gruppo al ritmo di melodie incalzanti, poi in solitaria, lasciando che ciascun corpo seguisse una propria coreografia, e in coppia, cullati da musiche dolci e romantiche.
 
A un certo punto, sulle note di una sinfonia che mi ricordava una canzone di Ed Sheeran, mi trovai a pomiciare con Chard Ersen, il figlio di Efesto di un anno più piccolo di me, senza avere idea del perché stesse succedendo.
 
Quando i primi raggi del mattino iniziarono a schiarire il cielo notturno, la musica finì e la folla si disperse, probabilmente diretta alle rispettive abitazioni.
 
Improvvisamente, il peso e la fatica di una notte passata a ballare e saltare si riversò su di noi.
 
“Non mi sento più le gambe!” strepitò Katie Gardner.
 
Non le sentivo neppure io; si erano trasformate in due blocchi rigidi e tremolanti, come succedeva dopo gli allenamenti più intensi.
 
Tutti presero la strada per l’accampamento, sbadigliando e trascinandosi a fatica.
 
“Andiamo?” mi spronò Clarisse, che, insieme a Chris, aiutava Silena a reggersi sulle gambe.
 
“Non ho sonno. Preferisco farmi ancora un giretto” ribattei, anche se mentii sul fatto di non essere stanca.
 
Vidi Chard rivolgermi uno sguardo speranzoso e aprì la bocca per dire qualcosa, ma fortunatamente Luke lo precedette:
 
“Ti faccio compagnia, nemmeno io ho voglia di andare a dormire”
 
Annuii, realizzando che era proprio ciò che segretamente speravo che dicesse.
 
Iniziammo a girare alla cieca, seguendo i viali acciottolati che si allontanavano dal centro.
Riprendemmo a chiacchierare, sforzandoci di ricordare di quali argomenti eravamo soliti discutere un tempo, quando eravamo amici.
 
“Com’è stato… rivederlo?” mi chiese lui a un certo punto.
 
Non ci fu bisogno di chiedergli a chi si riferisse.
 
“E per te?” domandai di rimando.
 
Ci guardammo per qualche secondo negli occhi, poi entrambi distogliemmo lo sguardo in silenzio; conversazione finita.
 
Inaspettatamente, ci trovammo di nuovo nella piccola piazza con la fontana in cui ci eravamo nascosti e la terrazza che si stagliava sul sole che albeggiava.
 
I giochi di colore dell’alba si riflettevano sulla superficie del marmo bianco e facevano risplendere le misteriose alghe dorate che avevano preso a vorticare in circolo nella vasca.
 
“E così hai deciso di far felice il piccolo Chard” ridacchiò Luke mentre ci appoggiavamo al parapetto della terrazza.
 
“Oh, quello…”
 
“È innamorato di te dalla volta in cui hai usato la carrozzina di Chirone per falciare le zampe di quella dracena che si era infiltrata nel campo”
 
“Ho sempre detto che varrebbe la pena brevettarla come arma bianca”
 
Luke sogghignò.
 
“E invece che mi dici di te e Silena? È vero che state insieme?”
 
“No, non direi. Per ora è solo una cosa così” rispose, scrollando le spalle.
 
Annuii. Nè io nè Luke eravamo molto avvezzi alle storie durature.
Nel corso degli anni ci era capitato di stringere qualche relazione un po’ più impegnativa, in mezzo ai frequenti divertimenti casuali, ma, forse complice la nostra giovane età, non erano mai sfociate in qualcosa di veramente stabile.
 
Una strana malinconia si impossessò improvvisamente di me.
Non so se fu il dislivello emozionale dovuto all’estinguersi della smisurata euforia suscitata dalla magia della musica e dalle danze, o se desideravo semplicemente poter finalmente tornare a sfogarmi con il mio amico.
 
“Non andrò ad Harvard” le parole mi uscirono sorprendentemente fluide dalla bocca, come se la cosa non stessi riconoscendo che il sogno della mia vita si era infranto.
 
Sentii lo sguardo di Luke su di me e proseguii:
“La mamma ha parlato con il liceo che dovrei iniziare a frequentare il prossimo autunno per completare il quarto anno. La scorsa settimana sono andata a Manhattan per un colloquio di orientamento e… beh, diciamo che non si sono dimostrati così fiduciosi nei miei confronti”
Rievocare le espressioni sogghignanti e i toni divertiti dei tutor quando avevo confessato che il corso di laurea in biologia marina di Harvard fosse il mio sogno, mi fece male al punto che dovetti prendere una pausa.
 
“È solo perché non ti conoscono” rispose lui “Avranno pensato che tutti questi anni di istruzione privata non ti abbiano preparata a dovere, ma non hanno la benché minima idea di quanto siano spietati i figli di Atena come professori”
 
“Ho aggredito un’insegnante”
Ammetterlo questa volta fu più difficile. Strinsi i pugni sul bordo del parapetto e fissai il sole che nasceva all’orizzonte in un tripudio di luci e colori, pensando di non meritarmi quello spettacolo.
“In terza media, poco prima che ci incontrassimo. Mi avevano assegnato questa professoressa di sostegno appena laureata. Giovane, gentile. Un giorno, io e una compagna stavamo litigando e lei ha tentato di convincermi a tornare seduta al banco. Mi ha preso il gomito pianissimo, quasi in una carezza. L’ho spinta contro la lavagna talmente forte che è caduta a terra”
 
Sentii gli occhi inumidirsi al ricordo di quel tonfo sordo e del silenzio agghiacciante che ne seguì.
 
“Non esattamente il genere di cose che si possa smacchiare facilmente da un curriculum… E nemmeno di quelle che a un’università piaccia leggere” continuai, soffocando una risata amara.
 
Quando ebbi il coraggio di alzare lo sguardo, trovai gli occhi di Luke che mi fissavano.
Non avevo mai dimenticato quanto mi facessero sentire a casa.
 
“Mel, i mortali non potranno mai capire. Lascia che ridino e giudichino, come solo chi ha una vita insulsa può fare. Pensa solo a dare il meglio che puoi e a prendere il diploma. Qualsiasi università a cui farai domanda ti spalancherà le porte, credimi”
 
“Ho paura di non saper essere persuasiva quanto te”
 
“Tu meriti tutto quello che desideri. E io ti aiuterò ad ottenerlo”
 
 
Caspita… ecco cosa intendeva…

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Capitolo 11
*** Hey Brother - Avicii ***


Fui bruscamente svegliata da uno schizzo d’acqua che mi colpì in pieno viso.
 
Mi sollevai di scatto, rischiando di picchiare la fronte contro il timone, sotto il quale avevo improvvisato un letto, e dalla poppa della vela mi sorpresi a intravedere la terraferma all’orizzonte.
 
La giovane orca di 6 metri che aveva spinto la barca mentre dormivo agitò nuovamente il testone per schizzarmi una seconda volta.
 
“Sono sveglia, sono sveglia!” esclamai, scostando la pila di coperte e tirandomi in piedi.
 
“Grazie amica mia. Da qui proseguo da me”
 
Mi sporsi per poggiarle una mano sul muso scivoloso e lei emise un verso di contentezza.
Lentamente, aprì l’immensa bocca, mostrando una luminosa perla luminescente al centro della lingua.
 
“E questa cos’è?” domandai, prendendola e rigirandola tra le dita.
 
Non avevo idea di cosa fosse ma certo non aveva l’aria di una qualunque perla che si potesse trovare racchiusa in un’ostrica sul fondale oceanico.
Mi infilai la piccola sfera nella tasca dei jeans.
 
“Auguro una lunga vita e pesce a volontà a te e al tuo pod”
 
Una strana vibrazione sembrò smuovere la superficie dell’acqua e il verso dell’orca si fece tanto stridulo da sembrare una risata.
 
“E se non dovessi farcela… Chiedi a mio padre di farmi tornare come una di voi” dissi ironicamente, emettendo un sospiro.
 
L’enorme animale si allontanò muovendo le pinne in quello che mi sembrò un gesto di saluto e si esibì in uno spettacolare salto prima di scomparire nelle profondità dell’oceano.
 
Scrutai per alcuni secondi la spiaggia di Santa Monica che si faceva via via più vicina, rischiarata dalla tenue luce del cielo che preannunciava l’alba.
Dopo aver controllato le funi della vela e aver indirizzato le correnti verso la riva, iniziai a preparare lo zaino per lo sbarco.
 
Sotto coperta, Luke aveva riposto, insieme alla mia spada, un grosso zaino da viaggio, dove avevo trovato alcune bottigliette d’acqua, qualche provvista, i soldi che avevo usato per pagare il pedaggio del Canale di Suez e una mappa del Nord America, sulla quale era stato tracciato con un pennarello rosso il percorso da Long Island alla spiaggia di Santa Monica, segnata da una grossa X.
 
Quando l’anno precedente eravamo passati dalla California per raggiungere San Francisco, diretti al Giardino delle Esperidi per portare a termine la nostra Impresa, entrambi avevamo intuito che l’entrata per gli Inferi fosse nei pressi di Hollywood,.
Lì i mostri erano aumentati a dismisura, l’aria si era fatta pensate e puzzava di carne putrefatta. La terra tremava di continuo, anche se quasi impercettibilmente, come attraversata da profondi boati che scuotevano il sottosuolo.
Non avevamo avuto dubbi: si trovava là sotto.
Sperai che Percy, Annebeth e Grover fossero riusciti a scoprire qualcosa di più sull’effettivo ingresso.
 
Mentre infilavo l’occorrente nello zaino, mi stupii di ritrovarmi tra le mani un pezzo di carta stropicciato. Avevo aperto lo zaino tutti i giorni durante la mia navigazione di quasi una settimana, e non capivo come fossi riuscita a non accorgermi di quel bigliettino.
 
La carta era spiegazzata e i bordi irregolari, segno che era stato strappato con foga.
 
“FAI VELOCE”
 
Le due semplicissime parole erano riportate a caratteri cubitali, come per trasmettere un tono urgente e perentorio. La penna era stata calcata con forza sulla carta, fin quasi a bucarla, e la mano che l’aveva impugnata aveva tremato parecchio mentre scriveva.
 
Scossi la testa per allontanare gli interrogativi che suscitarono in me quelle parole prive di contesto.
Cercare di interpretare gli indovinelli di Luke era come tentare di decifrare geroglifici e io ci avevo già esaurito fin troppe energie.
 
 
 
Erano già lì ad aspettarmi quando attraccai al molo di Santa Monica.
 
Senza dire una parola, ignorando l’espressione turbata di Grover e quella seccata di Annabeth, saltai giù dalla barca per lanciarmi tra le braccia di Percy.
 
“Come accidenti…” lasciò cadere la frase, stringendomi fino a farmi mancare il fiato.
 
“Scendo con te. Per la mamma. E non uscirò senza di lei” affermai, sciogliendo l’abbraccio e prendendogli il viso tra le mani.
 
Erano passata appena una settimana dall’ultima volta che ci eravamo visti, eppure mi sembrò che fosse cresciuto più in quel lasso di tempo piuttosto che negli 11 anni che avevamo passato a vederci solamente a Natale.
Aveva cicatrici e lividi sul volto e sul collo, l’espressione provata e stanca, ma i suoi occhi erano vigili e attenti, pronti a intercettare eventuali pericoli all’orizzonte.
Ripensai all’Impresa di Luke e a tutti guai in cui ci eravamo cacciati mentre attraversavamo il Paese e, a giudicare dalle facce di quei tre, intuii che a loro non doveva essere andata tanto meglio.
 
“Non saresti dovuta venire” sentenziò acidamente Annabeth “L’Impresa è di Percy e lui ha scelto me e Grover come compagni. Ora siamo in quattro e tu meglio di chiunque dovresti sapere quanta sfortuna portino i numeri pari”
 
Incassai la frecciatina; al tempo Annabeth aveva supplicato Luke di sceglierla come seconda compagna per l’Impresa, ma lui era stato irremovibile, a causa della sua giovanissima età.
Ma il fatto che non avesse proposto a nessun’altro di partecipare all’Impresa, aveva ulteriormente infastidito Annabeth; aveva provato che Luke non voleva altri compagni all’infuori di me.
 
“Non sono qui né per recuperare artefatti divini né per sventare guerre. Mi interessa solo tirare mia madre fuori dagli Inferi, al resto pensateci pure voi” dichiarai con fermezza, sfidando con gli occhi Annabeth a controbattere.
Lei esalò un sospiro di frustrazione.
“Peccato che idiozia e cocciutaggine siano fattori genetici”
Si voltò di scatto, afferrò Grover per la manica della maglietta e lo trascinanò via dal molo.
 
“Per la maggior parte del tempo è una vera rompiscatole, te ne do’ atto” disse Percy, mentre li seguivamo a distanza “Ma non è così tremenda come pensavo. Anzi, è in gamba, ha salvato le chiappe a me e Grover più di una volta da quando abbiamo lasciato il campo. E sa essere anche abbastanza spiritosa quando vuole e…”
 
“Oh, ti prego, Percy… non lo potrei sopportare” lo interruppi con tono sofferente.
 
“Che intendi dire?!”
 
“Nulla” replicai con un sorriso, alzando gli occhi al cielo “ Lascia perdere”
 
Ci facemmo strada tra gli affollati e caotici dislivelli di Los Angeles, arrampicandoci sulle salite più ripide, diretti verso il centro città, e mantenendo sempre una certa distanza da Annabeth e Grover, che sembravano discutere animatamente a una decina di metri davanti a noi.
 
“Melody, io ti… mi spiace per ciò che ti ho detto al…” cercò di dire Percy, con palese imbarazzo.
 
“Non preoccuparti, davvero. Non avevi tutti i torti. Sono stata una sorella pessima per te, per non parlare delle mie prestazioni in quanto figlia… Quando saremo a casa con la mamma metteremo a posto ogni cosa. Te lo prometto”
 
Annuì con lo sguardo fisso a terra. Quando si trattava di sentimenti, mio fratello non era la persona più sciolta del mondo.
 
“Piuttosto raccontami… com’è andata?” domandai, appoggiandogli una mano sulla spalla.
 
“è stato… terrificante” rispose, dopo aver pensato qualche istante a quale parole fosse più indicata.
“Non abbiamo praticamente avuto un attimo di pace. Ad ogni angolo spuntavano continuamente…
Ma non tornerei indietro. Preferisco combattere i mostri piuttosto che venire espulso, bocciato e trattato come un deficiente”
 
Sorrisi, sperando di sembrare incoraggiante.
 
“La penso come te… Sono contenta che possiamo finalmente essere noi stessi”
 
Percy alzò finalmente lo sguardo su di me, con uno scintillio caldo e rassicurante negli occhi,  e abbozzò un sorriso.
La conchiglia che tenevo in tasca tremò delicatamente e prese a cantare la sua melodia.
 
 
 
Okay, ora… Cerchiamo di proseguire velocemente.
 
So che morite dalla curiosità di sapere cosa ci sia dopo la morte, ma non ho intenzione di raccontarvi ogni dettaglio della nostra discesa.
Se proprio ci tenete a farvi un’idea più precisa di come siano gli Inferi, leggete la controparte che ha scritto mio fratello (ne troverete almeno una copia in qualsiasi libreria del pianeta Terra), lui si che è un bravo narratore.
 
Ma non chiedetemi di rievocare quelle immagini. Le vedo già abbastanza spesso nei miei incubi.
Fidatevi, non è bello sapere cosa mi aspetta là sotto…
 
 
 
Avevamo da poco superato Cerbero - l’infernale cagnolone a tre teste che forse necessitava solamente di qualche attenzione in più - e in lontananza riuscivamo a intravedere il terrificante palazzo del dio della morte, che spiccava in mezzo all’infinita massa di anime straziate dal dolore.
 
Grover camminava – o meglio, arrancava a stento, come tutti - al mio fianco, respirando a fatica.
La stessa aria, infatti, sembrava scottasse come fuoco e bruciava a ogni respiro.
Pensai, inoltre, che per un satiro, spirito dei boschi e della natura, fosse addirittura più faticoso starsene là sotto che per chiunque altro.
 
“Mel…” mi chiamò con un filo di voce.
 
“Stai male?” domandai con preoccupazione, prendendogli il gomito sotto al mio.
 
“N-no… cioè si, ma posso resistere” ammise, appoggiandosi leggermente alla mia spalla.
“Secondo te… lei è qua sotto?”
 
Mi irrigidii, capendo immediatamente a chi si stava riferendo: Thalia.
 
“Non lo so, Grover… Non saprei cosa comporta la metamorfosi, ma sono sicura che se è finita qui, deve essere in un bel posto”
 
Lui annuì, per nulla confortato e i suoi occhi si inumidirono.
 
Mi sforzai per farmi venire in mente qualcosa di più rincuorante, ma improvvisamente Grover cadde a terra.
 
“Oh, Grover…” Esclamai con compassione, pensando che fosse inciampato per la tristezza e la troppa fatica.
 
Ma non ebbi il tempo di chinarmi per aiutarlo a rimettersi in piedi che venne trascinato via urlando da una specie di forza invisibile.
 
“GROVER” Urlai, gettandomi all’inseguimento.
 
“MAIA! MAIAAAA!” gridava lui, comandando alle scarpe volanti che indossava di fermarsi, ma queste non ubbidirono.
 
Corsi a perdifiato giù per la collina, seguita a ruota da Percy e Annabeth, che urlavano il nome del nostro amico.
 
Sono sempre stata una brava velocista, perché essendo cresciuta tra i figli di Ermes, il dio della velocità, ho avuto occasione di allenarmi nella corsa fin da piccola.
Ma quelle minuscole alucce indemoniate stavano ormai trascinando Grover all’interno di una grotta che finiva in uno strapiombo.
 
Quando capii che era la mia ultima occasione, saltai in avanti con tutto il corpo, spiaccicandomi rovinosamente a terra, ma riuscendo ad afferrare le dita di Grover.
 
Fummo trascinati insieme per qualche metro, prima che riuscissi ad afferrare una piccola roccia acuminata che spiccava dal terreno.
 
Urlai per lo sforzo e per il dolore, conscia che non avrei retto lungo, e pregando che Annabeth e Percy riuscissero ad arrivare prima che perdessi la presa sull’appiglio o su Grover.
 
Ma proprio nell’istante in cui ci raggiunsero, la terribile forza che ci tirava verso il baratro scomparve.
 
Guardai esterrefatta Grover, che gemette di sollievo.
 
“Che siano benedetti tutti gli zoccoli di questo mondo”
 
Agitando gli zoccoli, infatti, era riuscito a sfilarsi le scarpe, che nel frattempo si erano buttate nel baratro che si apriva a un metro da noi.
 
Mentre ci alzavamo in piedi, aiutati da Annabeth e Percy, una folata di vento rischiò di risucchiarci nell’abisso.
 
L’oscurità si fece quasi tangibile e mi entrò fin nelle ossa.
Un suono stridulo risuonò tra le pareti della caverna in un eco continuo… una risata.
 
Venni attraversata da terrore antico quanto la morte.
 Ma la cosa peggiore fu che, per un folle istante, una voce dentro la mia testa cercò di convincermi che saltare nell’oscurità fosse una buona idea.
 
“Fuori, ora!” ordinò Annabeth alle mie spalle.
 
“Andiamo, svelta!” esclamò Percy direttamente nel mio orecchio, afferrandomi per le spalle e trascinandomi fuori dalla grotta.
 
Riuscii a formulare un solo pensiero mentre scappavamo a rotta di collo fuori dalla caverna:
in realtà non avevo idea di come lo sapessi, ma ero convinta che quella risata fosse per me.
 
 
 
Bene, arriviamo ad Ade.
 
L’avevo già visto sull’Olimpo, appena sei mesi prima, durante il Concilio Invernale, ma non mi aveva fatto chissà quale impressione.
Mi era parso parecchio a disagio, addirittura imbarazzato, circondato dai suoi parenti, probabilmente perché era l’unico giorno dell’anno in cui aveva occasione di vederli.
 
Ma nel suo regno, dentro il suo palazzo e sul suo trono di ossa… beh, faceva tutt’altro effetto.
 
Successivamente, scoprii che tutti e quattro avevamo subito la stessa influenza da parte del Dio della morte: Ade era potere puro.
 
Era lui ad avere il comando. Dovevo offrirgli me stessa e la mia anima. Doveva essere il mio padrone…
 
Okay, basta, ho messo il rating arancione a questa storia.
 
Le cose non andarono proprio come previsto.
A dirla tutta trovai il piano di quei tre un po’ fallace, visto che contavano di convincere il Signore dei morti a restituire all’odiato fratello minore l’arma più potente dell’universo, appellandosi semplicemente a quanto brutta e ingiusta fosse la guerra.
 
Non avrei mai più permesso ad Annabeth di fare anche solo un commento costruttivo sui miei piani.
 
Guarda caso, Ade non fu dell’idea.
 
Accusò me e mio fratello di essere complici di Poseidone e, in particolare, incolpò me del furto della folgore. Si era sparsa la voce che, durante la gita del solstizio d’inverno, mi fossi infiltrata di nascosto sull’Olimpo per rubare il fulmine di Zeus
 
Rimasi pressoché in silenzio per tutto il tempo, realizzando lentamente che avevamo preso un granchio su tutto. Non era Ade il ladro di fulmini. Anzi, anche lui era stato derubato della sua arma più potente, l’elmo dell’oscurità.
 
Ad un certo punto, il dio alzò la mano e una sfera di luce apparve ai piedi del suo trono.
Emanava talmente tanto calore che era difficile guardarla in modo diretto, ma al suo interno riuscii a scorgere una figura rannicchiata su se stessa.
La mia mamma.
 
Mi gettai in avanti con le braccia tese, incurante dell’insensatezza del mio gesto, ma quando il calore infernale mi bruciò i polpastrelli, mi bloccai, emettendo un gemito.
 
Ade rise della mia disperazione ma non bastò a soddisfarlo.
Chiese a Percy di scegliere chi abbandonare negli Inferi al posto di nostra madre.
 
Guardai mia mamma, avvolta nel fuoco, poi Ade, che sogghignava entusiasta e infine quell’improbabile trio che discuteva animatamente su chi sarebbe stato lasciato indietro, ognuno di loro pronto a offrire la propria vita in nome dell’Impresa.
 
Capii che non avevamo altra scelta.
 
“Rimarrò io” dichiarai, avvicinandomi agli scalini ai piedi del trono di ossa “Lascia andare loro e  trattieni me come ostaggio nel tuo regno, in modo da assicurarti la giustizia o la vendetta. Se Percy sta dicendo il vero, se non è lui il ladro, affronterà il vero responsabile e ti riporterà il tuo elmo, in modo da scambiarlo con me e mia madre. Se invece dice il falso, se lui è il ladro e Poseidone è un traditore, avrai modo di vendicarti su Percy uccidendo nostra madre e su Poseidone uccidendo me”
 
Ignorai le accese proteste che esplosero alle mie spalle, fissando solamente il terribile volto di Ade deformarsi in un sorriso malvagio.
 
“Accetto la tua anima, Melody Jackson”
Nell’istante in cui pronunciò quelle parole, mi ritrovai in ginocchio davanti a lui.
 
Ero incatenata per i polsi al pavimento da una breve serie di anelli roventi e neri come la pece.
Guardai la pelle dei miei polsi arrossarsi per il calore e capii che non c’era forza, né in cielo, né in terra, né in mare, in grado di spezzare quelle catene.
Con estrema difficoltà, sfilai dalla tasca la piccola perla scintillante che mi aveva donato l’orca poche ore prima.
 
“MELODY” la voce disperata di mio fratello continuava a chiamarmi per nome.
 
Mi voltai lentamente verso di lui, affranta dal dolore, e con un filo di voce mormorai:
 
“Te l’ho detto… Non esco da qui senza la mamma”
 
Parlare mi costò l’ultima fatica che riuscii a compiere.
 
La perla si ruppe nella stretta della mia mano; un lampo di luce verde avvolse ogni cosa e il profumo della brezza marina mi inondò le narici.
 
 
 
Quando riaprii gli occhi ero a Montauk.
Sulla spiaggia dove ero cresciuta, affacciata sullo sconfinato oceano Atlantico.
 
In un attimo fui rigenerata dall’aria salmastra che scese nei miei polmoni, dal calore della sabbia in cui sprofondavano i miei piedi nudi e dal rasserenante rumore delle onde che si infrangevano sulla spiaggia.
 
Il terribile viaggio negli inferi mi aveva quasi fatto dimenticare la dolce sensazione dell’oceano.
 
Mi resi conto di non essere sola sulla spiaggia.
Una giovane donna dai lunghi capelli scuri giocava sulla battigia, saltellando qui e là e ridendo da sola per gli schizzi d’acqua che la bagnavano fino alle cosce.
Indossava un lungo vestito bianco che le evidenziava il ventre, visibilmente gonfio e rotondo.
 
Un uomo dai capelli scuri, vestito con una camicia in stile hawaiano e bermuda color cachi, la osservava, incantato, seduto sulla riva.
 
Mi avvicinai lentamente, incerta e timorosa di interrompere una scena talmente tenera.
Ma anche quando arrivai accanto all’uomo, lui non sollevò minimamente lo sguardo su di me. Intuii che, per qualche strana ragione, non poteva vedermi.
 
Io, al contrario, fui folgorata dalla sua vista: era mio padre, Poseidone.
 
Ciò significava che quella donna…
 
“Il mare è meraviglioso oggi!” esclamò con gioia mia madre, sedendosi accanto a Poseidone.
 
“Non c’è di che” rispose lui, ridacchiando.
 
Mia madre si accarezzò dolcemente il pancione con fare protettivo.
Era più giovane, senza dubbio, ma constatai che avrebbe conservato quel sorriso gioioso e l’amorevole scintillio che le illuminava gli occhi anche a distanza di vent’anni.
 
“Adorerà vivere qui. Sarà la bambina più felice del mondo”
 La tenera certezza con cui lo affermò, mi scaldò il cuore.
 
L’espressione di Poseidone si incupì. Distolse lo sguardo dalla pancia di mia madre per rivolgerlo verso la linea dell’orizzonte.
 
“Percepisco già il suo spirito. Sarà una vera figlia del mare, questo posso garantirtelo. Ma il mare non conosce limiti, né confini. Le sue emozioni saranno il suo punto di forza come di debolezza.
Sarà in grado di amare con l’intensità di un maremoto e il suo odio sarà profondo quanto gli abissi. Del resto, il destino degli eroi è sempre duro e pericoloso”
 
Esalò un sospiro amaro e tornò a guardare il pancione di mia madre, per poi accarezzarlo delicatamente.
 
“E ho paura che il destino di questa piccolina lo sarà ancora di più”
 
Mia madre, per nulla spaventata dalle oscure parole di Poseidone, gli rivolse un sorriso caloroso e appoggiò il palmo della mano sul dorso della sua, che ancora accarezzava il pancione.
 
“Sarà Melody a decidere il suo destino”

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Capitolo 12
*** You'll Be In My Heart - Phil Collins ***


La salita fu atroce.
 
Fu come precipitare in caduta libera, però verso l’alto.
Non ho idea di come il mio corpo sia riuscito a non sfracellarsi sotto il peso della velocità micidiale con cui venni rispedita sulla Terra dal mondo dei morti.
Certamente sarei morta d’infarto per il terrore, se non mi fossi ritrovata a stringere un paio di braccia per tutta l’interminabile durata dell’ascesa nell’oscurità.
 
E poi, all’improvviso, esplose una luce talmente accecante da ferirmi gli occhi anche con le palpebre serrate.
Ansimai con affanno, aggrappandomi a quel paio di braccia che non avevo smesso di stringere e iniziai a sbattere le palpebre, nel tentativo di abituarmi alla luce.
 
“Melody”
 
Sussultai al suono della sua voce e mi forzai a spalancare gli occhi in un doloroso impeto.
 
Mia madre era finalmente lì, davanti a me. Stringevo ancora le sue braccia e lei stringeva le mie, come avevamo fatto per tutto il tempo di quella salita infernale.
 
“Ma-mamma” balbettai, incredula, poco prima di scoppiare in lacrime.
 
Le gettai le braccia al collo e affondai il viso tra i suoi capelli, mentre lei mi strinse forte, accarezzandomi la schiena e sussurrandomi parole di conforto che faticai a capire a causa del volume dei miei gemiti.
 
“M-mamma m-mi dis-dispiac…” i singhiozzi mi strozzavano la gola, impedendomi di completare la frase.
 
“Shhhh, Melody, shhh” mormorava dolcemente lei, con le labbra premute sul mio orecchio.
“Siamo a casa, tutte e due… Siamo a casa”
 
Si allontanò per prendermi il volto tra le mani e appoggiare la sua fronte alla mia; il suo viso, esausto e zuppo di lacrime, mi sembrò la cosa più bella del mondo.
 
“è tutto finito, siamo insieme ora”
 
Restammo in quella posizione per non so quanti minuti, aspettando di tranquillizzarci.
A un certo punto riuscii a prestare attenzione all’ambiente che ci circondava: eravamo nella cucina del nostro appartamento nell’Upper East Side e, a giudicare dalla calda luce che entrava dalle finestre, doveva essere mattino presto.
 
“Cosa è successo? Come siamo tornate qui?” domandò lei, guardandosi attorno spaesata.
 
“Percy” affermai, sorridendo “Ce l’ha fatta… Deve aver trovato il ladro, la folgore e l’elmo… E ci ha salvate”
 
“Dove sarà adesso?” chiese con evidente preoccupazione.
 
“Sarà qui presto, me lo sento” risi, piena di orgoglio per il mio fratellino, che aveva appena salvato il mondo.
“Stai bene mamma? Ricordi cosa è successo?” le domandai, chiedendomi quanto la permanenza nell’Ade avesse influito su di lei.
 
“Io... si, penso di ricordare più o meno tutto” replicò lei, corrugando la fronte nello sforzo di elaborare i ricordi “Siamo scappati da Montauk per raggiungere il Campo ma… il Minotauro ci ha raggiunti e poi…”
Scosse la testa, senza riuscire a proseguire. Capii che rievocare il dopo fosse troppo per lei.
 
“Quanto arriverà Percy ti racconteremo ogni co…”
 
“CHE DIAMINE CI FATE VIVE NELLA MIA CUCINA?!”
 
Per alcuni istanti rimanemmo paralizzate per la sorpresa, poi mia mamma spostò lentamente il capo per guardare un punto alle mie spalle.
 
Sbuffai, senza avere dubbi su a chi appartenesse quella voce sgradevole.
 
Mi voltai e vidi uno sbalordito Gabe in piedi in mezzo al salotto, che ci guardava con bocca e occhi spalancati e l’immancabile lattina di birra in mano.
 
Mi domandai se io e mamma fossimo state troppo felici per accorgerci del suo ingresso nella stanza o se effettivamente Gabe fosse stato lì per tutto il tempo, troppo sconcertato dalla nostra inspiegabile apparizione per emettere un suono.
 
“T-tu… Oh, miseriaccia… I soldi dell’assicurazione sulla vita…” bofonchiò, genuinamente afflitto “Dovrò restituirli tutti… Tu dovresti essere morta!!” Esclamò con foga, massaggiandosi la testa.
 
Poi i suoi minuscoli occhi si spostarono su di me e la sua espressione affranta si fece ostile.
 
“E lei lo sarà presto, se non la cacci immediatamente da casa mia!” sbraitò, sputacchiando in ogni dove.
 
“Qualcuno deve essere cacciato, Gabe, hai proprio ragione” replicai in tono minaccioso, dirigendomi in salotto a grandi falcate.
 
“NON STO SCHERZANDO, SALLY!” esclamò Gabe, sussultando di paura, mentre mi avvicinavo pericolosamente “La voglio fuori di qui prima che arrivino i miei amici!”
 
“Tesoro” la mano di mia madre mi strinse un gomito con delicatezza, ma saldamente “Ti prego, non c’è bisogno di…”
 
“Tieni questa strega psicopatica lontano da me! Non voglio mai più rivedere le facce dei tuoi piccoli sgorbi. Sono stato fin troppo buono a crescere quel disgraziato buono a nulla per anni, e guarda come sono stato ripagato!”
 
“Di’ un’altra parola sua mio fratello e per uscire da questa casa userai la finestra!”
 
“Melody, andiamo in camera… adesso”
Scoprii in mia madre una forza che ignoravo quando mi trascinò fuori dal salotto, mentre io e Gabe ci urlavamo addosso insulti a vicenda.
 
Quando chiuse a chiave la porta della mia camera e si voltò verso di me con il viso stravolto, mi aspettai una ramanzina, così mi misi sulla difensiva:
 
“Basta, mamma, non ho più intenzione di ignorare tutto questo! Quel viscido bastardo deve fare le valigie in giornata, non ci sono più scuse che reggano ormai. Vedrai quando arriverà Percy…”
 
“Né tu, né Percy vi immischierete in questa faccenda” replicò lei con gelida fermezza “Sono io che ho scelto di sposarlo, io che l’ho fatto entrare nelle nostre vite… è responsabilità mia ed è giusto che mi occupi io di lui”
 
“Ma…” tentai di ribattere, tremando di rabbia: morivo dalla voglia di sbattere quell’energumeno fuori dalle nostre vite.
 
“Non voglio parlare di Gabe, Melody!” proruppe lei, sollevando le braccia “Sono stata prigioniera del Dio dei morti per giorni, ho avuto incubi terribili per tutto il tempo… Ho visto te e Percy…” la sua voce si ruppe e i suoi occhi si velarono “Ti prego… Ho solo bisogno di mia figlia in questo momento”
 
Si nascose il volto tra le dita ed emise un singhiozzo, facendomi sciogliere il cuore.
Capii che era arrivato il momento di mantenere la promessa che mi era fatta quando mi ero promessa di riportarla a casa: quella di amarla e rispettarla in ogni momento.
 
La canzoncina che emise la mia conchiglia mi parse più dolce del solito.
 
“Sono qui, mamma”
 
 
 
Dopo esserci sedute sul letto di Percy e aver versato qualche fiume di lacrime, aggiornai mia madre su tutto ciò che si era persa.
 
“E se Percy fosse ancora nei guai? Se Zeus avesse…” balbettò lei, alla fine del racconto.
 
“Sta bene, ne sono certa” La interruppi “Ha sconfitto il ladro, trovato la folgore e l’ha riportata sull’Olimpo. Se così non fosse, nessuna di noi due si troverebbe qui sana e salva… Dall’Empire State Building a qui saranno una decina di isolati. Massimo un’ora e sarà alla porta”
 
Lo affermai con tutta la convinzione di cui ero capace. Semplicemente doveva essere così. La mia mente non tollerava altre opzioni.
 
“Il mio bambino…” disse lei con dolcezza, tirando su con il naso.
 
“È il moccioso più coraggioso e sfrontato che si sia visto negli ultimi secoli” replicai, sorridendo con orgoglio, guardano lo skateboard scassato che giaceva nell’angolo della camera e le cartine delle caramelle che mamma aveva portato a casa dal lavoro sparse sulla scrivania.  
 
“A proposito di persone coraggiose e sfrontate” continuò lei, cercando il mio sguardo e poggiando il palmo sul mio ginocchio “Non avresti dovuto consegnarti ad Ade. È stato incosciente e insensato… La tortura peggiore è stata quella di infliggerti ciò che ha inflitto a me” disse, rabbrividendo al ricordo degli incubi.
 
Pensai a quanto avesse ragione; era stato un gesto insensato, completamente inutile anche. Ade aveva già un ostaggio e alla nostra causa non giovava di certo fornirgliene un altro. La verità era che mi ero consegnata ad Ade semplicemente perché non tolleravo il pensiero di abbandonarla per l’ennesima volta.
 
“Su questo posso rincuorarti…”
 
E le raccontai della perla che mi aveva portato l’orca, un evidente dono di Poseidone, di come stringerla tra le mani mi fosse sembrata una buona idea nel momento in cui Ade mi aveva incatenata, e soprattutto della bellissima visione che mi aveva regalato.
 
Mia madre arrossì “Ho sempre saputo che teneva a te, sai… e che  avrebbe aiutato te e Pery quando più ne avreste avuto bisogno”
 
“Non sei mai stata arrabbiata con lui?” Era una domanda che mi era sempre ronzata in testa, ma non avevo mai trovato il modo di chiederglielo “Si, insomma… Per averti abbandonata per ben due volte?”
 
Volse lo sguardo verso il cielo grigio di Manhattan che si stagliava oltre la finestra, scrutando chissà quali ricordi.
 
“Ho sempre saputo chi era, i suoi doveri e la sua natura. Non ho sognato nemmeno per un istante che saremmo rimasti insieme”
 
Mi sorprese quanto mi ferirono quelle parole.
 
“Ma gli sarò per sempre grata per avermi dato voi due”
 
“Lui non ti ha dato un bel niente, mamma. Io e Percy siamo qui solo per merito tuo”
 
Sorrise, passandomi una mano tra i capelli.
 
“Non hai mai voluto parlare di lui” disse, pensierosa.
 
“Solo perché non c’è molto da dire…” mi interruppi e sospirai, imponendomi di essere sincera “… O forse perché parlare di lui è come parlare delle parti di me che meno mi piacciono…”
 
Aspettai, nella speranza che replicasse qualcosa, ma rimase in silenzio. Voleva che continuassi.
 
“Io so che non sono…” la mia voce si ruppe, ma mi obbligai a ignorare quanto patetica suonasse la mia voce spezzata dal magone e proseguii:
“So di non essere docile, so che a volte mi comporto male e parlo senza riflettere… Con te più che con tutti… è una cosa che mi ha sempre fatto stare male, ma che non sono mai riuscita a controllare.
Ma ti giuro che ci lavoro… Io ci sto lavorando e ci lavorerò fino a che non…”
 
Feci una pausa per riprendere fiato e asciugarmi le guance bagnate.
 
“Tesoro” Mi prense il volto tra le mani e appoggiò la sua fronte alla mia, aspettando che mi calmassi.
“Tu sei la donna più coraggiosa, audace e determinata che io conosca. Non hai idea di quanto mi renda fiera il tuo carattere così forte” calcò la voce sull’ultima parola e serrò la presa sul mio volto.
 
“Poseidone aveva ragione quando mi ha descritto il tuo temperamento, quella volta sulla spiaggia. E sono certa che questo lo ha reso orgoglioso tanto quanto me.
Ma aveva ragione anche sul fatto che la tua è sia una virtù che una debolezza… La tua forza ti ha tenuta in vita fino ad adesso, ma rischia anche di farti perdere ciò che hai di più caro”
 
Allontanò il viso dal mio e prese le mie mani tra le sue.
 
“Sai, a volte è solo questione di prendere un respiro profondo… Valutare la situazione e capire dove è meglio incanalare le proprie emozioni…”
 
Respirare, valutare, incanalare.
Detta così sembrava un gioco da ragazzi.
 
“Magari quando a settembre tornerai a casa potremo… non so, parlarne con qualcuno…. Qualcuno che si occupa di questo genere di cose…” avanzò la proposta con insicurezza, visibilmente preoccupata di come l’avrei presa.
 
Soffocai una risata.
“Dici che a Manhattan ci sarà qualche psicoterapeuta specializzato in rapporti familiari complicati per chi ha vissuto esperienze di pre-morte?”
 
Ridacchiammo con gli occhi pieni di lacrime.
“E non ci sarà bisogno di aspettare settembre” proseguii “è da un secolo che non passo l’estate a New York”
 
Gli occhi di mia madre si illuminarono quando realizzò cosa volevo dirle.
 
“Oh, Melody… Staremo benissimo, vedrai. Ho un po’ di ferie da parte, potremo stare un po’ insieme, fare qualche gita, vedere la tua nuova scuola, tornare a Montauk per qualche giorno… Magari potremo iniziare a fare qualche guida…Ti piacerebbe prendere la patente?”
 
Le strinsi forte le dita della mano.
 
“A una sola condizione: io e te, mamma. E basta.”
 
Neanche a farlo apposta, si sentì la porta di ingresso spalancarsi e un intenso vociare si riversò nel salotto: era arrivato il club del gioco d’azzardo.
 
L’espressione di mamma si incupì: l’entusiasmo le aveva fatto dimenticare il puzzolente problema di 100 kili seduto in salotto a giocare a poker con i suoi amici cafoni.
 
“Si. Hai ragione, è arrivato il momento. Ma promettimi che non ti intrometterai. Io lascio che tu e tuo fratello combattiate le vostre battaglie senza lamentarmi. Questa è la mia”
 
La fissai a lungo, mordendomi il labbro, contrariata.
Infine sospirai, accettando la sua decisione.
 
“Posso almeno sbattere fuori l’allegra combriccola di disoccupati fannulloni che si giocano lo stipendio delle mogli a poker?”
 
Fu il suo turno di sospirare e arrendersi.
 
“Concesso” replicò con un mezzo sorriso “Ma cerca di non distruggermi casa”
 
Mi alzai, dirigendomi verso la porta.
 
“Melody” mi chiamò proprio quando appoggiai la mano sulla maniglia, facendomi voltare a guardarla.
“Ti voglio bene. E te ne vogliono tanto anche Percy, tuo padre, Chirone, Luke, Clarisse…Tutti noi ti conosciamo e facciamo in modo di amare anche quelle cose di te che tu odi tanto”
 
Un’ondata di sollievo mi avvolse in un caldo abbraccio e per la prima volta i miei difetti non mi parsero una motivazione valida per odiarmi così tanto.
 
“Anche io ti voglio bene, mamma. Grazie”
 
Cacciai indietro le lacrime e respirai profondamente a occhi chiusi, mentre la melodia della mia conchiglia cominciava a riecheggiare per la stanza.
Ma si interruppe pochi istanti dopo, quando spalancai la porta con forza e urlai:
 
“OKAY, GENTE, IL CLUB DEL POKER PER ASPIRANTI SENZATETTO CHIUDE PER SEMPRE! FUORI DAI PIEDI!!”
 
 
 
Quando Percy spalancò la porta dell’appartamento si trovò davanti a una scena alquanto bizzarra:
sul pavimento del salotto giacevano carte e gettoni da poker, lattine di birra versata e un tavolo rovesciato (colpa mia, mi era servito da incentivo per persuadere gli amici di Gabe a darsela a gambe).
 
Intanto, Gabe e mamma discutevano animatamente al centro della sala, mentre io me ne stavo in un angolo, appoggiata alla parete e in silenzio, cercando di trattenermi dal scagliare un altro mobile contro la figura di Gabe.
 
Ma non appena mio fratello fece la sua entrata, sia io che mamma ci dimenticammo di tutto e corremmo ad abbracciarlo.
 
“Percy! Oh, grazie al Cielo… Oh, il mio bambino” singhiozzava la mamma, piangendo di gioia.
 
“Sapevo che ce l’avresti fatta” gli dissi, mentre veniva stritolato dalle braccia di nostra madre “Hai salvato tutti quanti… Noi, il Campo, l’Olimpo…”
 
“Mi importa solo che voi siate a casa” rispose lui, sciogliendo l’abbraccio con mamma e prendendoci le mani “Ho avuto paura di avervi perso entrambe”
 
“Hai il coraggio di presentarti qui, teppistello” gracidò Gabe, avvicinandosi con fare intimidatorio “Prendimi il telefono, Sally, chiamo la polizia!”
 
“Gabe, no!” esclamò mamma, protendendosi verso di lui.
 
Rividi qualcosa di Ade nello sguardo perfido di Gabe, quando alzò minacciosamente una mano su mia madre, facendola sussultare.
 
Il mio cervello andò in black out e dimenticò tutto il bel discorsone fatto con mamma appena una mezz’oretta prima.
 
Mi lanciai in avanti, scansai mia madre e afferrai il polso della mano alzata di Gabe, poi, prima ancora che lui si rendesse conto di cosa stava accadendo, lo feci girare su se stesso e  piegare a novanta sullo schienale del divano, torcendogli il braccio sulla schiena.
Lui gemette in un misto di rabbia e spavento.
 
“Meglio se questo braccio non lo alzi per un po’ ” sibilai con odio al suo orecchio, iniziando a poggiare gradualmente il mio peso sul braccio piegato.
 
Quando sentii l’osso del gomito tremare per lo sforzo, i suoi gemiti si trasformarono in uno strillo di dolore, ma sapevo che non mi sarei fermata.
 
“MELODY”
 
La voce severa di mamma distolse la mia concentrazione.
Alzai lo sguardo su di lei; stringeva i pugni e mi fissava con espressione carica di rimprovero.
 
Ripensai a cosa mi aveva detto poco prima, riguardo al fatto che Gabe fosse una sua battaglia.
Quel verme l’aveva schiavizzata, umiliata, addirittura picchiata e solo gli Dei sapevano cos’altro…
Capii che vendicarsi di lui era una questione di… dignità. E io le stavo togliendo quel diritto.
 
Tutavia, ricambiai il suo sguardo con determinata ostinatezza. Per quanto comprendessi il suo pensiero, non c’era modo di sopprimere l’odio che stavo provando e di fermarmi.
Non esisteva.
 
Ma poi passò un secondo… Due, tre, quattro.
 
Respirare, valutare, incanalare.
 
Serrai la mascella e abbassai lo sguardo su Gabe, che strepitava e si dimenava inutilmente sotto la mia presa.
 
Esalai un respiro a pieni polmoni e serrai gli occhi, prima di fare un passo indietro.
 
Mollata la presa, Gabe si raddrizzò e prese a massaggiarsi il braccio, trapassandomi con lo sguardo da parte a parte. Ma, ovviamente, non accennò a volersi vendicare; aveva appena avuto la prova che contro di me non ci sarebbe stata storia.
 
Balbettò qualcosa di poco chiaro a proposito della polizia e qualche parolaccia che preferisco non riportare, prima di defilarsi velocemente in camera da letto.
 
Voltandomi, vidi che Percy aveva un’espressione sorpresa ma priva di biasimo; probabilmente non gli sarebbe dispiaciuto vedermi completare la performance.
Mi aspettai che sul viso di mamma persistesse lo sguardo di rimprovero che mi aveva rifilato prima, ma con sorpresa vidi un sorriso stanco illuminarle il volto.
 
“Sei stata brava, Melody. Sono fiera di te”
 
Scombussolata, cercai di ricambiare il sorriso. Ancora non potevo credere di esserci riuscita realmente.
E ancora di meno riuscivo a credere che stessi provando una sensazione di sollievo per non aver spezzato un osso a Gabe Ugugliano.
 
Improvvisamente, con un sonoro “PUF” e un breve lampo di luce, un pacco malconcio si materializzò sul divano.
 
“Ehm…” Esordì Percy, davanti alle facce sbigottite di me e mamma “Forse ho la soluzione al nostro problema”
 
 
 
Mentre lasciavamo che mamma prendesse la sua decisione, io e Percy scavalcammo la finestra della camera da letto per uscire sulle scale antincendio.
Da piccoli era il nostro posto preferito: la sera ci sedevamo spesso sugli scalini ad osservare i passanti, il traffico e i lampioni che iniziavano a illuminarsi.
“Secondo te la userà?” domandò lui, quando ci fummo accomodati fianco a fianco.
 
“Mi auguro di si… Divorziare in modo civile dagli ubriaconi violenti non è un’impresa semplice”
 
Riuscivamo a distinguere un vociare acceso proveniente dall’interno dell’appartamento, segno che mamma stava finalmente affrontando Gabe da sola.
Mi costava un certo sforzo starmene lì seduta ad ammirare la strada, tentando di ignorare ciò che stava accadendo in casa, perciò cercai di concentrarmi su Percy.
 
“Com’era l’Olimpo?” domandai, torcendomi le mani dal nervosismo.
 
Percy sospirò “Non saprei descriverlo con nessuna parola che conosco…”
 
“Hai visto nostro padre?”
 
Il suo sguardo si perse nel vuoto.
 
“Si, c’era anche lui. Abbiamo scambiato due parole ma niente di che… Credo che nessuno dei due si sia fatto un’idea precisa sull’altro”
 
“Gli hai fatto un gran favore ripristinando il suo onore. Sono sicura che lui abbia capito bene che tipo di eroe sei”


Lui annuì, senza commentare, e capii che non aveva voglia di continuare con l’argomento.
 
“Anche tu sei stata davvero grande. Scendere con noi negli Inferi, salvare Grover, sacrificarti per lasciarci uscire… Perfino Annabeth ha dovuto riconoscere quanto sei stata coraggiosa”
 
“Ammetterlo deve esserle costato un’ulcera”
 
Lui ridacchiò, prima di tornare serio.
 
“Annabeth non è la sola a doverti delle scuse… Non avrei dovuto parlarti in quel modo, la sera prima di partire per l’Impresa. So che stare qui con noi e Gabe non era facile per te”
 
“Anche io ti devo delle scuse, per averti lasciato qui. Sono stata tremenda sia con te che con la mamma, ma devi credermi, d’ora in poi mi impegnerò affinché sia diverso”
 
Lui annuì, sorridendomi con tenerezza.
 
“Chissà se riusciremo a passare tranquillamente il resto dell’estate al Campo”
 
“Se c’è una cosa che ho imparato dopo averci vissuto per cinque anni, è che al Campo il concetto di tranquillità è decisamente relativo” sogghignai, per poi incupirmi “Ma avrai modo di constatarlo da solo. È ora che io passi un po’ di tempo a Manhattan”
 
Percy mi rivolse un’espressione sbalordita.
“Che significa? Non torni con me al Campo?”
 
Scossi la testa “Dopo l’esperienza negli Inferi e Gabe, voglio stare vicino alla mamma. In più ho bisogno di riabituarmi un po’ alla città prima di iniziare la scuola a settembre. E poi… Credo di aver passato troppo tempo al Campo. È ora di cambiare aria”
 
Sembrò che Percy stentasse a credere alle mie parole, ma capii che la mia decisione non lo turbava minimamente.
 
“Goditi ogni minuto” gli consigliai con un sorriso, dandogli una leggera spallata “Sarà il periodo migliore della tua vita”
 
“Vorrei partire già nel pomeriggio” confessò, quasi con vergogna.
 
“Parti quando vuoi, Percy, non preoccuparti, penserò io alla mamma. Ho passato degli anni decisamente spensierati, rispetto ai tuoi, ora è arrivato il tuo turno”
 
“Ho paura che saremo sempre divisi, io e te, in un modo o nell’altro” ammise lui, con amara ironia.
 
“Io e te non lo saremo mai” affermai, prendendogli la mano.
 
Mentre ci scambiavamo un sorriso, la dolce canzoncina proveniente della mia conchiglia sfidò il caotico baccano del traffico di Manhattan.
 
“Devo dire qualcosa a Luke da parte tua?” domandò Percy per spezzare quel momento di tenerezza che iniziava a farsi troppo per lui.
 
Qualcosa nel petto mi si strinse dolorosamente.
“Digli solo che lo ringrazio”
 
Improvvisamente, ci accorgemmo che all’interno dell’appartamento le voci si erano spente.

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