Di creature, di umani ed altri eventi strani

di Striginae
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** The Witch & The Frog ***
Capitolo 2: *** The silence of the sea ***
Capitolo 3: *** Fotografia post mortem ***



Capitolo 1
*** The Witch & The Frog ***


Prompt: Francia/Fem!Inghilterra, commedia
Sinossi: Rose è una strega e, come tutte le streghe che si rispettino, ha bisogno di un famiglio. Ma cosa accadrebbe se il famiglio da lei invocato non fosse per nulla come lo aveva immaginato?


 
The Witch & The Frog


C’era una volta, tanto tempo fa, una streghetta che viveva nel bel mezzo di una foresta di campanule, sperduta da qualche parte in Inghilterra.

Una bella notte, quando la luna piena era già alta nel cielo e con i suoi pallidi raggi illuminava la terra sotto di sé, Rose -questo il nome della giovane strega- era uscita in gran segreto e, coperta da capo a piedi da un lungo mantello, si era recata su una collinetta appena fuori il suo bosco fiorito.

Una volta sul posto aveva acceso un grande fuoco e aveva aperto il suo segretissimo libro di incantesimi. Poi, con voce chiara e altisonante, aveva recitato una formula magica di antico e oscuro potere.


«Abracadabra, Hocus Pocus e Sim Sala Bim
Un demoniaco famiglio porta qui!
»


Un vento infernale la travolse, facendole cadere il cappuccio sulla schiena e rivelando così due lunghi codini biondi e due sfavillanti occhi verdi che, nella notte, rispecchiavano il riflesso rossastro delle fiamme ormai talmente alte da raggiungere la volta celeste.
La magia durò solo pochi istanti, ma a Rose bastarono per comprendere che il suo incantesimo era andato a buon fine.

Affaticata per lo sforzo compiuto si lasciò dunque cadere a terra, esibendo pur tuttavia un largo sorriso.

A questo punto, alla streghetta non restava altro che aspettare l’arrivo del famiglio, che sicuramente sarebbe spuntato da lì a poco.

La strega aspettò fino all’alba.
Nessun demone né nessun’altra creatura fantastica si era mostrata al suo cospetto e Rose non riusciva proprio a capirne il motivo, era certa che l’incantesimo le fosse riuscito!

Delusa oltre ogni aspettativa e borbottando come una teiera, Rose lasciò la collinetta e si diresse verso la sua piccola casetta nel bosco.

Rose aprì la porta di casa ancora con un gran muso lungo e non appena attraversò la soglia, proprio quando meno se l’aspettava, una voce sconosciuta la fece sobbalzare.

«Oh là là! Era ora che tornassi!»

Rose, in allarme, estrasse la bacchetta dalla manica, dirigendola in un punto a caso della stanza.


Strano...


Non scorgeva nessuno, dove poteva mai essersi nascosto l’intruso?

«Chi va la? Sappi che ho una bacchetta, so come maneggiarla e non ho paura di usarla!»
Minacciò Rose ma la voce rise... e di gusto anche!

«Chérie, sei tu che mi hai invocato, vuoi già liberarti di me?»

«Chi sei? Mostrati!»

«Quaggiù!»

Confusa, Rose abbassò lo sguardo sulle travi di legno del pavimento su cui, sorprendentemente, vi si trovava una ranocchia dal particolarissimo manto blu che, Rose ne era sicura, la stava fissando.

«Coucou!»
Salutò la rana.

«Tu parli!»
Esclamò la strega inorridita, facendo un passo indietro.

«Certo che parlo! Per chi mi hai preso, per un analfabeta?»

Rose, ancora incredula, si piegò sulle ginocchia per fronteggiare la raganella.

«Un momento... saresti tu il mio famiglio?»
Realizzò Rose, il cui tono ed espressione rendevano palese il suo disgusto e disappunto.

«Indovinato! Come sei perspicace.»

Rose fece finta di non comprendere l’ironia e con un dito pigiò il dorso della rana, con fare accusatorio.

«E perché non ti sei presentato sulla collina? Ti ho aspettato per tutta la notte!»

«Pensavo fosse più comodo aspettarti qui!»

Rose schioccò la lingua sul palato.
Era stata ore fuori al freddo della notte e aveva addirittura dubitato delle sue capacità magiche e tutto ciò perché quel rospaccio era amante delle comodità?
Inaudito!

«Invece, spiegami perché sei una rana! Durante l’incantesimo avevo chiaramente espresso la mia preferenza per un coniglio!»

A Rose, infatti, le rane non piacevano per nulla. Erano così... viscide.

«Perché, ma petite, non è la strega che sceglie il famiglio, ma il famiglio che sceglie la strega!»

Spiegò la rana che, con un agile molleggio, era saltata sul viso della strega, attaccandosi come una ventosa alle sue guance.
Rose lanciò un urlo e con entrambe le mani provò a staccare quel subdolo anfibio dalla sua faccia, ma inutilmente.
La strega non si diede per vinta e sollevò allora una mano per schiaffeggiare via la creatura ma, ancora una volta, la rana fu più veloce e saltellò via appena in tempo. Suo malgrado, quindi, la strega si colpì con una cinquina delle sue stesse dita, talmente forte che, piegata ancora in ginocchio com’era, Rose perse l’equilibrio e sbatté con malagrazia il sedere sul pavimento.

«Ne ho abbastanza di te!»
Strepitò la streghetta, furiosa, mettendosi di nuovo in piedi e afferrando con forza la rana che questa volta non aveva avuto il tempo di fuggire.

«Era il mio modo di salutarti!»
Esclamò il ranocchio, tentando di liberarsi.

«Ah sì? Addio allora!»
Ribatté la strega, lanciando via quel mostriciattolo dalla finestra.

Rose sbuffò, odiava le rane!


 
* * * 


Il resto della giornata trascorse senza ulteriori intoppi. Rose provò alcuni incantesimi, si procurò nuovi ingredienti e preparò qualche pozione... insomma, le classiche attività di una strega.

Non aveva più pensato al suo orribile famiglio-rospo, fino a quando non giunse la sera e con essa il freddo e l’oscurità.

Il vento tirava forte all’esterno e Rose si incupì.


Quello stupido rospo starà bene, è pur sempre un demone! Non rischia certo di finire preda di qualche serpente e comunque, io non posso farci niente!


Quel pensiero però, non la convinceva del tutto. Era pur sempre stata lei ad invocarlo perciò era in qualche modo una sua responsabilità.

Controvoglia, decise allora di aprire la finestra da cui lo aveva scaraventato via e, preso un bel respiro, lo chiamò a gran voce.
Magari la raganella non si era allontanata troppo e sarebbe riuscita a sentirla.

«Ehi, rospaccio! Riesci a sentirmi, sei là?»

«Oui chérie, ti sento forte e chiaro.»
Rispose la rana e Rose si voltò, appena in tempo per vedere il demone saltare sul tavolino rotondo al centro della stanza.
Rose lo guardò con tanto d’occhi.

«Da dove sei saltato fuori?!»

«Sono sempre stato qui. Suvvia, non penserai che sia una porta chiusa a fermarmi!»

Rose lo fulminò con lo sguardo, un po’ in imbarazzo. In verità aveva davvero creduto che bastasse una porta chiusa a liberarsi della rana.

«Ho dormito tutto il giorno sul tuo cuscino, è proprio comodo.»
Continuò la rana e Rose sbarrò gli occhi.

«Nessuno ti aveva dato il permesso di farlo!»

Per tutta risposta, la rana gracidò.
Rose sbuffò.

«Lasciamo perdere. Dimmi rospaccio, ce l’hai un nome?»

«No! Devi essere tu ad assegnarmene uno, è un compito fondamentale della strega che invoca il famiglio. Sai, mi piacerebbe qualcosa di maestoso, grandioso... regale magari, possibilmente francese e...»

Rose ci pensò su un istante.

«Froggie

«Come prego?»

«Froggie!»

Ripeté Rose ma la rana non ne sembrava affatto soddisfatto.

«Ma...»

«Niente ma! Per una rana è perfetto, non ho intenzione di impegnarmi più di così per un anfibio unticcio come te!»



 
* * *



Passarono le settimane e poi i mesi e la streghetta e il suo famiglio ebbero modo di conoscersi meglio l’un l’altra.


«Perché hai quello stupido accento francese?»
«Perché, sebbene io sia nato all’Inferno, ho vissuto la maggior parte della mia vita in Francia. Anche se adesso è da secoli che non ci vado.»
«Ah, capisco -aveva ghignato Rose- e io che pensavo che “Francia” e “Inferno” fossero sinonimi!»



Inoltre, con suo grande piacere, Rose aveva constatato che più stava vicino a Froggie più i suoi poteri magici aumentavano. E, come le aveva spiegato la rana, era una reazione più che normale: più la strega e il famiglio era affiatati, più il potere di Rose sarebbe diventato forte e stabile.

Infatti, nonostante la turbolenta partenza, Rose e il suo famiglio erano diventati in fretta amici.
Certo, la strega trovava disgustoso il modo in cui il ranocchio tirava fuori la lingua per acchiappare gli insetti e ovviamente le saltavano i nervi quando Froggie criticava il suo modo di abbigliarsi, definendola più simile ad una contadinotta che ad una strega. Era però altrettanto vero che la rana le teneva sempre molta compagnia e, tutto sommato, Rose lo trovava anche divertente. Addirittura Rose lo lasciava dormire sul suo stesso cuscino e facevano pure il bagno assieme.


Tanto, si diceva Rose, è un rospo dunque non ho motivo di imbarazzarmi di fronte a lui.


Tutto andava a gonfie vele, fino a quando un bel giorno Rose tornò a casa dopo aver fatto compere al mercato giù in città.

«Froggie?»
Chiamò la streghetta, senza prendersi la briga di chiudere la porta.
Non ricevette risposta.

«Froggie dove ti sei cacciato, ho bisogno del tuo aiuto per preparare una pozione!»
Ancora una volta la domanda cadde nel vuoto.

Rose si accigliò e chiamò il famiglio per la terza volta, inutilmente. La strega si mordicchiò il labbro inferiore, stava cominciando a preoccuparsi sul serio.

Rose ispezionò allora ogni angolo della casetta: guardò nell’armadio, dietro la porta, sotto il letto e persino dentro il calderone ma nulla, la ranocchia era sparita.

Rose era disorientata, dov’era andato a finire Froggie?

D'un tratto, Rose si sentì persa.

«Fr-Froggie...»
Balbettò Rose, con gli occhi già lucidi.

Possibile che la rana l’avesse davvero abbandonata?
Stava andando tutto così bene, perché mai avrebbe dovuto fare una cosa simile?

«Rose, chérie, perché piangi?»

«Perché il mio famiglio se n’è andato! Non lo capisco, perché così, di punto in bianco? Che si sia stancato di me?»

«Non mi sono affatto stancato di te, ma petite! Che cosa vai a pensare?»


Un momento, questa voce...


Asciugandosi le lacrime, Rose raddrizzò il capo e si voltò.

«Sei tornato, Fr- AH!»

Rose urlò presa del tutto alla sprovvista da ciò che aveva appena visto e, con le guance in fiamme, si coprì gli occhi.

Davanti a lei, sulla soglia di casa, non vi era la familiare ranocchia blu bensì un uomo abbastanza alto, dai capelli biondi e lunghi fino alle spalle ed un paio di occhi blu estremamente familiari. Ciò che lo rendeva particolare, comunque, era la singolare caratteristica che lo sconosciuto fosse completamente nudo.

«Chi diavolo sei? Esci fuori da casa mia, depravato!»

«Rose, sono io!»

Rose fece cenno di diniego, che cosa andava blaterando quell'individuo? La streghetta aprì comunque gli occhi, allargando le dita per scrutarlo sospettosamente.

«Froggie?!»

L’uomo roteò gli occhi.

«Ugh, sì. Sai che odio quel nome, è così ridicolo e banale.»

Rose non riusciva a credere ai suoi stessi occhi. Cosa stava succedendo?


E com’è possibile che quello stupido rospo sia diventato un uomo così... attraente?


«Oh, ti ringrazio.»
Le sorrise il famiglio.

«Per cosa, esattamente?»

«Per trovarmi attraente, chiaro!»

Rose diventò paonazza.

«Cosa... come fai a saperlo?! E per l’amor del Cielo, mettiti qualcosa addosso!»

Lui fece spallucce.

«Non te l’ho detto? Essendo il tuo famiglio posso leggerti nel pensiero, a patto che il nostro legame sia abbastanza forte da permettercelo.»

Spiegò con semplicità il famiglio. Poi continuò.

«Be’ sai, oggi sono riuscito finalmente a trasformarmi! Ho cercato nel tuo armadio qualcosa da mettermi... purtroppo i tuoi vestiti non sono della mia taglia! Quindi, visto che mi andava di sgranchirmi le gambe, ho deciso di fare quattro passi qui intorno alla foresta... tanto non c’è mai nessuno da queste parti!»

Rose quasi non credeva a ciò che sentiva. Spostò quindi le mani dal viso e, ancora ad occhi chiusi, estrasse la bacchetta dalla manica e la puntò alla meno peggio sul famiglio. Recitò la formula e fece apparire dal nulla degli abiti su misura per lui.

«Oh, va già meglio! Stavo cominciando a sentire troppi spifferi... anche se questa accoppiata di colori che hai scelto è veramente oscena.»

Rose lo ignorò e guardinga, si azzardò finalmente a guardarlo.

«... perché sei umano adesso?»

«Questa è la mia vera forma, in realtà. Sai, muoversi dall’Inferno alla Terra è molto faticoso, quindi meno massa trasporto e meno consumo i miei poteri. Per farla semplice, è più facile trasportarsi in forma di animale piuttosto che d’umano. Una volta sulla Terra poi, ho dovuto riprendere le forze e non è stato così semplice, visto che legarsi ad una strega è un processo lungo e che richiede molte energie.»

Ormai però, il cervello di Rose era andato in tilt.

«Mi stai dicendo che... tutte le volte che abbiamo dormito assieme, mangiato assieme e fatto il bagno assieme... in realtà non lo stavo facendo con un demone-rana ma con un demone-uomo?»

«Esatto!»

Rose ormai era sul punto di scoppiare.

«Maledetto guardone! Approfittatore! Pervertito! Sei solamente un demone perverso, depravato e vizioso!»

Il famiglio si mise a ridere, si stava chiaramente divertendo mentre una rossissima Rose inveiva contro di lui.

«Siamo pari adesso! Io ho visto nuda te e tu hai visto nudo me, non è fantastico?»
Sghignazzò il demone che poi però, si fece pensieroso.

«Non capisco perché tu ti stupisca tanto comunque, queste cose le sanno tutte le streghe. Si può sapere perché mi hai invocato se di famigli non ne sapevi nulla?»

Rose guardò altrove, un po’ a disagio.
In verità, aveva deciso di invocare un famiglio perché le sue migliori amiche, Else e Miruna, gliene avevano a lungo parlato ed Else ne possedeva già uno. Miruna invece, essendo una vampira, non ne aveva bisogno ma poteva comunque trasformarsi in pipistrello. Dunque, un po’ per invidia, un po’ per sincera volontà di aumentare i suoi poteri grazie ad un demone, Rose aveva deciso di lanciarsi in quell’avventura ed invocare un famiglio, sebbene non si fosse documentata più di tanto.

La streghetta non gli rispose, tanto ormai sapeva che quel maledetto demone sapeva leggerle la mente. Quindi lo squadrò, preferendo cambiare argomento.

«Pensi di tornare presto ad essere una rana?»

Il famiglio ci pensò su un attimo.

«No! Essere un umano è più comodo, si vede tutto meglio da quassù.»

«Allora -rifletté Rose- sarà meglio cambiarti nome. Voglio dire, Froggie è carino ma mi sembrerebbe un po’ strano rivolgermi a te in quel modo adesso che sei... così

«Oh, finalmente ti sei decisa! Te lo avevo detto io che non era un nome adatto a me.»

Rose si corrucciò, sovrappensiero.

«Umh, lasciami pensare... rana, frog... sei pure francese... fr... fra... Francis! Che ne dici?»

Chiese Rose, inclinando il capo in attesa di una risposta.

Il famiglio annuì.

«Francis... sì, mi piace!»

Rose allargò un timido sorrisetto.

«Bene.»
Poi, però, l’espressione della streghetta mutò e Rose si ricordò di essere incredibilmente arrabbiata.

«Vedi solo di non farmi più scherzi del genere, quando esci mi devi avvertire! Mi sono presa un colpo quando ho visto che non c’eri più!»

Lo rimproverò Rose e inaspettatamente, Francis la attirò in un abbraccio.

«Non preoccuparti petite, non ti lascerò mai se è questo ciò che temi!»

E così, tra le risposte stizzite di Rose che cercava di liberarsi dalla presa e le risate di Francis che non aveva alcuna intenzione di lasciarla andare, vissero per sempre felici e contenti.



 
Fine


 
Note finali
Salve a tutti! Eccomi qui, con l'ennessima FrUK, questa volta Fem!UK/Francia. Giustamente, ormai ho scritto di loro quasi in qualsiasi versione xD 
Comunque, 
questa storia nasce grazie al giochino "Give me six characters to make fanfiction of" e la carissima MusicAddicted mi ha assegnato Francia/Fem!UK da scrivere come commedia. Spero di esserci riuscita, ovviamente è una cosetta da nulla, prendiamo questa storia per quello che è xD 
Un paio di note: Else e Miruna sono rispettivamente Fem!Norvegia e Fem!Romania, ho guardato nella Wikia e pare che non ci sia nessun nome ufficiale per loro, quindi ho un po' improvvisato. Else perché fem!Norvegia mi ricorda Elsa di Frozen e Miruna perché un tipo di vampiri originari della mitologia valacca si chiama Muroni, quindi insomma... ci sono andata per assonanza. Comunque non potevo rinunciare ad una piccola cirtazione al Magic Trio, dovevo! 
Quindi, concludo qui e ringrazio chiunque abbia letto questa storia e chiunque abbia letto anche queste note. E chiaramente ringrazio MusicAddicted per avermi assegnato questi personaggi, spero che questa storiella ti sia piaciuta <3 
Alla prossima! 

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Capitolo 2
*** The silence of the sea ***


Prompt: La Sirenetta!AU con Francis tritone Marianne sirena che rinuncia alla propria voce per conquistare il principe Arthur la principessa Rose. E alla fine quando Francis Marianne recupera la voce, la prima cosa che Arthur Rose dice è: «Oh cazzo, sei FRANCESE.»
 

The silence of the sea


Rose aveva solo sette anni quando la vide per la prima volta.
Era una serata estiva, fuori tirava un venticello frizzante e Rose era appena scappata di casa e cercava di trattenere le lacrime dopo aver litigato per l’ennesima volta con sua sorella maggiore, Alba. Per festeggiare la fine dell’estate a casa sua, una villa fin troppo grande per i suoi gusti, era stata organizzata una festa ma Rose non aveva alcuna voglia di assolvere ai suoi doveri da principessa. Preferiva giocare con i suoi amici di fantasia e immaginare grandiose avventure piuttosto che fare la bella statuina ad un soporifero gran gala o quello che era.
A metà serata, però, la piccola Rose non era più riuscita a sfuggire dalla sorella e Alba aveva iniziato la sua solita ramanzina sulle sue maniere poco consone, scatenando il milionesimo scontro su quella questione. La piccola Rose era più che convinta di avere ragione e che neppure a sua sorella piacesse la vita da principessa ma che, essendo la più grande, si era dovuta sobbarcare di responsabilità, che le piacesse o meno. Ma era pur sempre l’ultimo giorno nella loro residenza estiva e Rose lo voleva passare a modo suo, non voleva che obbligassero anche lei a quella vita e… e non voleva neppure piangere ma era così arrabbiata! La bambina era quindi corsa via, inciampando nelle pieghe del suo raffinato vestitino, fino a quando non aveva raggiunto la spiaggia non molto lontano da casa. Con il fiatone, Rose fece vagare lo sguardo sulla baia. Non c’era nessuno lì quella sera, tra le bianche scogliere di Dover.

Saranno tutti quanti a quella sciocca festa.

Pensò Rose con stizza e abbandonò le scarpette sulla spiaggia sabbiosa. Si avvicinò all’acqua gelida, sollevandosi la gonnellina sopra le ginocchia per non bagnarla e, con gli occhi un po’ appannati da qualche lacrima ribelle, scrutò l’orizzonte all’imbrunire. Non si vedeva nulla oltre la spessa nebbiolina umida ma Rose sapeva bene che in serate più limpide era possibile scorgere i promontori francesi, distanti appena una trentina di chilometri, sull’altra parte del Canale della Manica. Rasserenata da quella vista, Rose si asciugò alla svelta gli occhi, non avrebbe dato a sua sorella la soddisfazione di averla fatta piangere. Continuò invece a fissare l’orizzonte, seguendo rapita le navi che al largo del Canale scivolavano veloci sull’acqua.
Poi, all’improvviso, qualcosa increspò la superficie del mare.
Incuriosita, Rose notò un rapido susseguirsi di bollicine e una strana ombra sotto l’acqua. Un po’ spaventata fece un passo indietro ma non distolse lo sguardo, nonostante il timore voleva capire cosa stesse accadendo. E tutto poteva aspettarsi la piccola principessa, tranne che una testolina dai fluttuanti capelli biondo cenere spuntasse dal mare.

«E tu chi sei?!»
Esclamò Rose, con voce involontariamente troppo acuta. La principessina stentava a credere a ciò che era appena successo. Vide due curiosi occhi blu che la stavano fissando con interesse e Rose si rese conto che quella sembrava proprio una bambina come lei, magari solo di poco più grande. Anche se… aveva qualcosa di strano, come ad esempio quelle particolarissime orecchie pinnate, di uno splendido indaco e decorate di perle, che Rose ammirava affascinata. Comunque, la sconosciuta non sembrava aver compreso le sue parole ma le rivolse comunque un sorrisetto, parlando in una lingua che a Rose risultò tanto incomprensibile quanto incantevole, quasi magica.

«Dovresti uscire dall’acqua o rischi di prenderti un malanno e... e non dire che poi non te lo avevo detto!»
Si riscosse Rose ancora rapita dal suono di quella voce. Incrociò le braccine al petto e sollevò il capo con fare capriccioso, facendo ondeggiare le sue lunghe codine bionde. La sconosciuta la studiò ancora qualche attimo e di sicuro trovò divertente la sua reazione poiché accennò una risata cristallina, che a Rose per qualche motivo ricordò il suono del mare calmo.

«Non c’è niente da ridere, io dico sul serio!»
Borbottò ancora Rose ma l’altra bambina non solo non le diede ascolto ma le fece anche una linguaccia dispettosa e, un po' per volerle fare un ulteriore dispetto e un po' per gioco, si allontanò maggiormente dalla riva e Rose notò subito quanto aggraziati fossero i suoi movimenti in acqua. L’inglese gonfiò le guanciotte, era un po’ invidiosa, lei non sapeva nuotare.

«Ehi, aspetta!»
La chiamò allora Rose, voleva parlare con lei ancora un po’. Senza pensarci mosse qualche passo in avanti, immergendosi quasi del tutto in acqua, per cercare di raggiungerla. Era curiosa, voleva sapere di più su quella bambina misteriosa. Fu solo quando l’acqua le arrivò al busto che dovette fermarsi. L’altra continuava a nuotare verso il largo, probabilmente divertita da quell’acchiapparella, ma Rose sapeva che le sarebbe bastato un altro passo e non avrebbe toccato più. Già sfiorava solo con le punte i ciottoli scivolosi e quando se ne accorse ebbe paura. Fece per tornare indietro ma, incautamente, la giovane principessa non aveva considerato i flutti marini che, invece che farla avvicinare, la stavano spingendo verso il largo, lasciandola in balia delle correnti.

«A-aiuto!»
Riuscì a urlare Rose agitando le braccia e ingurgitando acqua salata. A quel grido inaspettato l’altra bambina si voltò, con il viso distorto da una smorfia preoccupata. Andò sott’acqua e con una velocità impressionante fu accanto all’inglese che ancora stava sbattendo le braccia come una forsennata e, cingendole la vita da dietro, senza sforzo la ragazzina mise in salvo la principessa sulla riva. Rose però, l’aveva vista. Sotto la superficie delle acque brillava una splendida coda blu, che invece che di squame sembrava essere fatta di turchesi, lapislazzuli ed altre pietre preziose ma, Rose l’aveva potuta sentire quando era stata salvata, al tatto era morbida, quasi di velluto e non somigliava a nulla che conoscesse.

Quella bambina, infatti, non era come lei. Quella bambina era una sirena.
Ed era l’ultima cosa che Rose si poteva aspettare.

Quando uscì dall’acqua, ormai fradicia, saltellando Rose puntò un ditino verso la sirenetta. Era così emozionata che aveva pure dimenticato che era appena stata salvata da un annegamento.

«Sei una sirena, una sirena vera! Io sono Rose, Rose Kirkland! Mi dici come ti chiami?»

La sirenetta sembrò esitare ma Rose rimase in attesa, con un’espressione talmente felice che la sirena non ebbe cuore di deluderla. Infatti, la sirenetta sapeva bene di stare infrangendo un mucchio di regole, non era permesso alle sirene di avvicinarsi agli umani. Quegli strani bipedi erano infatti creature pericolose che non soltanto consideravano le sirene dei mostri crudeli, ma che addirittura davano loro la caccia per imprigionarle, venderle o rinchiuderle da qualche parte e chissà quali altri atrocità, le creature marine rabbrividivano al solo pensiero degli arpioni. La sirenetta, comunque, incuriosita da tutte quelle leggende, voleva vedere gli umani con i suoi occhi e per questo quella sera si era avventurata così tanto in superficie... l'ultima cosa che si aspettava era di incontrare una bambina in lacrime dall’aria per nulla cattiva.

La sirenetta osservò Rose di sottecchi ed infine parlò di nuovo, con la sua voce melodiosa.
«Marianne.»
 
Rose allargò un sorriso pieno di entusiasmo.

«A-aspettami qui Marianne! Voglio presentarti alle mie sorelle!»

Rose era in visibilio, chissà che faccia avrebbe fatto Alba, amante delle creature fantastiche tanto quanto lei,  quando le avrebbe presentato la sua amica sirena in carne ed ossa. E coda, soprattutto quella. Prima che Marianne potesse protestare, però, la piccola Rose era già sfrecciata verso casa. Quando tornò, tutta trafelata, con le vesti bagnate e con le sue sorelle al seguito, Rose non stava più nella pelle.

«È una sirena vera, ve lo giuro! Ed è proprio...»
Stava narrando l’inglese, tirando Alba da un braccio e poi indicando con sicurezza un punto con il dito, dove era certa di aveva lasciato Marianne.
«... proprio qui!»
Concluse con orgoglio ma il suo sorriso si ruppe in mille pezzi quando si accorse che Marianne era sparita.

Alba inarcò un sopracciglio, evidentemente non credendole.
«Ci hai provato. Sarà per la prossima volte, Rosie. Se hai finito di giocare, io ho un ricevimento da gestire.»

Rose, incredula, non sapeva cosa dire. Si sentì un po’ tradita, perché Marianne era scomparsa? O… o forse era stata lei a sbagliare qualcosa? L’avrebbe voluta almeno salutare.

Dando le spalle alle candide scogliere, Rose si allontanò per seguire le sorelle. Si bloccò a metà strada, un pensiero improvviso l’aveva colpita. Tornò indietro, trotterellando risoluta verso il mare.

«Tornerò, te lo prometto Marianne!»

E proprio mentre andava via, riuscì a distinguere un canto soave che Rose riconobbe essere la voce di Marianne.

 

* * *


Erano passati dieci anni dal primo incontro Marianne. Rose era cresciuta, aveva messo da parte il suo spirito ribelle e si era impegnata a diventare la lady dalle maniere impeccabili che era destinata ad essere. Erano cambiate molte cose ma Rose non aveva mai smesso di pensare a Marianne, la sirena a cui doveva la vita. Quella sera di dieci anni prima Rose non ci aveva neppure fatto caso, ma era in debito con lei e il pensiero della sirena non si era mai allontanato dalla sua mente. Il suo unico desiderio durante quegli anni era stato quello di volerla ardentemente rivedere. Purtroppo, però, la sua educazione a Londra aveva richiesto molto tempo e molti sacrifici e a causa dei suoi regali impegni, non era più tornata nella sua casa di villeggiatura a Dover. Solo sotto sua insistenza, proprio in occasione del suo diciassettesimo compleanno, Rose era riuscita ad ottenere il permesso per ritornarvi. E quando fu lì, quella stessa sera, non perse tempo a disfare le valigie e corse fino in spiaggia nella speranza di vedere nuovamente la sirena, incurante dei pescatori che le lanciavano occhiatine un po’ perplesse e un po’ ironiche.

«Marianne!»
Urlò a gran voce, fissando la superficie del mare, nella speranza che da un momento all'altro la sirena emergesse. L’acqua rimase imperturbata.

«Marianne, ti ricordi di me? Sono io, Rose!»
Esclamò ancora a pieni polmoni, tenendosi con le mani la falda del cappellino per evitare che il vento lo facesse volare via. Anche questa volta non ottenne risultato.

«Scusa se ti ho lasciato attendere per così tanto tempo. Te ne sei andata anche tu?»
Mormorò sconfitta Rose, sedendosi in riva al mare e lo sguardo fisso all’orizzonte, incurante di bagnarsi il vestito o sporcarsi con la sabbia tiepida e dorata.

Rose, però, non poteva sapere che a dispetto della quieta apparenza del mare, qualcosa sott’acqua stesse accadendo. I pesci e le altre creature marine avevano sentito distintamente le urla dell'inglese che chiamava un nome così tanto familiare per loro. Proprio un granchietto attaccato ad uno scoglio si era tuffato in acqua e aveva nuotato a gran velocità fino a cercare la diretta interessata, la principessa del Canale, Marianne, per raccontarle dell’umana.

«Lei è qui?»
Aveva chiesto incredula la sirena che stava conversando con un simpatico delfino. Marianne fece un'elegante piroetta su stessa per la gioia, producendo tante bollicine intorno a sé. Ovviamente in quei dieci anni anche la sirena era cresciuta ma non aveva mai dimenticato l’incontro con l’inglese. Quella volta, quando la aveva vista correre in spiaggia in lacrime, Marianne aveva pensato di volerla in qualche modo consolare sebbene fosse severamente proibito alle sirene di avvicinarsi agli umani. Ma quella era una bambina come lei e non poteva certo essere una minaccia! Era stata però costretta a nascondersi quando Rose aveva portato le altre ragazzine con sé, di loro Marianne non sapeva di potersi fidare. Rose invece, l’aveva convinta fin da subito, al primo sguardo.

«Non mi sembra vero, ho atteso così tanto questo momento!»
Infatti, Marianne stentava a credere che Rose avesse mantenuto la sua promessa, anche se una parte di lei non aveva mai smesso di sperarlo.

Era tornata.
Era tornata per lei.

Anche Marianne infatti non aveva passato un giorno senza pensare a Rose, finendo per provare una sorta di romantico attaccamento a quel ricordo, il più caro che avesse. Non c’era una spiegazione logica, semplicemente quello con Rose era stato l’incontro più importante della sua vita e si sentiva in qualche modo legata a lei. Senza ulteriori indugi, con veloci pinnate Marianne risalì fino in superficie, facendo capolino soltanto con la testa e con lo sguardo cercò Rose che, con il suo vestitino azzurro, stava fissando silenziosamente il mare.

Marianne si nascose dietro uno scoglio, per poterla osservare meglio e con discrezione. Si intrecciò una lunga ciocca di capelli intorno al dito, ritrovandosi inconsciamente a sorridere. Oh, Rose era così bella. Marianne sentì qualcosa agitarsi nello stomaco ed ebbe l’impulso irrefrenabile di andare a parlarle e fu dura trattenersi. Ma come poteva fare? Era rischioso avvicinarsi a riva con così tanti pescatori in giro e comunque non poteva uscire fuori dall’acqua, non con una coda in bella vista, i marinai l’avrebbero catturata subito nelle loro diaboliche reti. Marianne si imbronciò. Se solo ci fosse stato un modo per avere delle gambe!

«Aspetta… forse potrei…»
Era un’idea stupida. E pericolosa.

Ma Marianne aveva già preso la sua decisione, per quanto folle potesse essere e nessuno avrebbe potuto fermarla.


 
* * *


Marianne agì la notte stessa in cui aveva visto Rose sulla spiaggia. Aveva pensato bene a cosa fare, trovando un’unica soluzione: scambiare la sua coda per un paio di gambe. Marianne trovava che gli arti inferiori degli umani fossero... particolari e le veniva un po’ difficile immaginarsi senza la sua coda, ma ogni cosa aveva un prezzo e lo avrebbe volentieri pagato per poter stare con Rose. Bastava solamente scoprire il modo per compiere quella magia e ciò, per fortuna, non sarebbe stato molto difficile.
Il bello di essere una sirena era poter esplorare i fondali in completa libertà e sul fondo del mare era possibile trovare un sacco di cose interessanti, come tesori dimenticati, cianfrusaglie di cui gli umani si disfacevano e ogni tanto lo scheletro di qualche sfortunato pirata. Cercando tra i vecchi cimeli, Marianne aveva trovato un libro che per forza doveva avere qualcosa di speciale: non era stato distrutto dall’acqua e l’intestazione riportava a chiare lettere che fosse appartenuto ad uno stregone. Tra quelle pagine, Marianne aveva trovato la formula che faceva per lei: come trasformare una sirena in un essere umano. Per compiere il rituale, però, la formula richiedeva uno scambio. Delle gambe per la sua voce. Questo la sirena non l’aveva previsto. Inoltre, a Marianne non era sfuggita la piccola clausola in basso nella pagina: aveva tre giorni per riuscire a fare innamorare l'umana di sé o si sarebbe trasformata in spuma di mare. Marianne roteò gli occhi, un classico. Per fortuna la sirena era abbastanza fiduciosa nelle sue doti da seduttrice, avrebbe corso il rischio.

Perciò quando Rose il giorno dopo ritornò in spiaggia, non riuscì a credere ai suoi occhi: Marianne era lì! Era immersa nell’acqua fino alle spalle e la stava salutando, con un affascinante sorriso sul viso.

«Marianne!»
Il primo impulso di Rose fu quello di correrle incontro ma quello che vide la bloccò.

Marianne, proprio come una Venere che emergeva dalle acque, si stava ravvivando i capelli e con ammaliante lentezza stava uscendo dal mare e... della sua meravigliosa coda di zaffiri non vi era traccia. Al suo posto vi erano due lunghe gambe, sinuose, e Rose pensò di aver visto male. La principessa era sicura che Marianne fosse una sirena, com’era possibile che avesse delle gambe? Marianne, nel frattempo, si era fermata di fronte a lei, godendosi l’espressione sorpresa dell’inglese. La sirena si era esercitata tutta la mattinata a camminare, a provare quell’uscita ad effetto e si sentiva ancora instabile, sebbene fosse brava a dissimulare ma l'espressione della principessa era impagabile. Rose sbatté le palpebre, facendo vagare gli occhi verdi su Marianne. Era rimasta talmente attonita che solo allora si rese conto di un dettaglio importante: senza un briciolo di vergogna Marianne era completamente nuda di fronte a lei e Rose, pudicamente principesca, avvampò fino alla punta dei capelli.

«Cosa significa tutto questo e… per l’amor del cielo, copriti!»
Marianne però continuava a guardarla estasiata e fu la stessa Rose, ancora scombussolata, a togliersi il mantello dalle spalle per avvolgerlo intorno a quelle di Marianne e a coprirla alla meno peggio.

«Io… ero sicura che fossi una sirena.»
Sussurrò Rose incredula ma Marianne, ovviamente, non rispose. Ciò non la fermò dal dare spiegazioni. Indicò il mare, poi le sue gambe, la sua gola e poi Rose. Prese poi entrambe le mani della principessa nelle proprie, rivolgendole un altro sorriso.
Rose la guardò interdetta.
Poi realizzò.

«Hai scambiato la tua coda e la tua voce solo per poter venire... da me
Marianne annuì, contenta che l’inglese avesse compresa così velocemente.

«Questa è… questa è…. questa è in assoluto la cosa più stupida che tu potessi fare!»
Sbottò Rose. Perché mai una sirena aveva rinunciato a così tanto solo per parlare un po' con lei? Non aveva senso! E... e poteva rivelarsi estremamente pericoloso. Marianne però ridacchiò, lanciandole un’occhiatina maliziosa. Rose sospirò.

«Hai una casa in cui passare la notte?»
Marianne fece cenno di no con la testa. Non aveva avuto il tempo di pensare a quei futili dettagli.

«Lo immaginavo. Allora visto che questa è involontariamente colpa mia… starai da me, va bene?»
Marianne annuì di nuovo, stringendo Rose in un abbraccio per ringraziarla. E nonostante Rose continuasse a darle della sconsiderata per essersi presa un rischio così grande, si ritrovò comunque ad arrossire.

 

* * *
 
 
Nella villa della principessa, Marianne fu accolta calorosamente, essendo presentata come un’amicizia di lunga data di Rose.

Era tutto così strano sulla terraferma! Marianne trovava incredibilmente interessante il mondo degli umani. Era pieno di cose bizzarre che mai aveva visto in vita sua o che aveva sempre pensato appartenessero ad altri ambiti. Infatti, durante la cena era stata Rose a spiegarle a cosa servisse una forchetta che no, non serviva a farsi i capelli come la sirena aveva sempre pensato.

«Il mondo umano è così noioso, non vedo proprio cosa ci trovi di speciale.»
Affermò Rose in vestaglia, quando si ritirarono in camera, sciogliendosi i capelli. Erano state ore molto concitate e si era fatto più tardi del solito. Marianne era davanti allo specchio e si stava divertendo a mettersi in posa. Era più abituata a vedere il suo riflesso sulla superficie increspata dell’acqua che davanti a quella stramba cosa riflettente. Alle parole di Rose, si voltò quindi verso di lei, sollevando un sopracciglio sottile. Be’, non è che la vita sottacqua fosse molto movimentata, Marianne la trovava abbastanza monotona.

La sirena si strinse nelle spalle, avrebbe voluto dire così tante cose a Rose ma aveva sottovalutato la perdita della voce. Gesticolò, facendole un gesto con la mano per sminuire la questione. Rose la guardò, attenta.

«Dov’è che hai le branchie?»
La sirena si indicò il collo e Rose si ricordò mentalmente che era inutile cercarle, adesso Marianne era umana. Sospirò.
«Io comunque anche se le avessi non potrei mai vivere sottacqua perché non ho ancora imparato a nuotare.»
Confessò l’inglese, quasi seccata con se stessa. Marianne inclinò il capo, ricordando il loro primo incontro.

«Però anche se non so nuotare, mi sarebbe piaciuto essere una pirata! Come Anne Bonny o Mary Read! Invece devo fare la principessa.»
Rose si imbronciò ancora ma venne distratta da Marianne che stava indicando se stessa e poi la sua testa. Rose sembrò un po’ in difficoltà nel capire cosa stesse cercando di dirle la sirena, perciò Marianne con un dito mimò la sagoma di una corona a tre punte sulla sua testa.

«Sei una principessa anche tu?»
Marianne annuì, gonfiando il petto con orgoglio. Avrebbe anche voluto aggiungere che in quello stretto tratto di mare vi erano un sacco di tesori sommersi, lasciati proprio da alcuni filibustieri e forse anche da alcuni pirati e che le sarebbe piaciuto tanto farglieli vedere se ne avesse avuto l’occasione. Fece perciò cenno a Rose di voler disegnare qualcosa su un foglio e, una volta avuta carta e penna, Marianne fu soddisfatta nell’aver tracciato una mappa del tesoro, un po’ approssimativa, che conduceva sui fondali di Dover.

Lo sguardo di Rose si illuminò, come quando era una bambina.

«Da piccola adoravo le cacce al tesoro! Con le mie sorelle ci giocavamo spesso, a turno una di noi nascondeva qualcosa e le altre dovevano cercare. Però non avrei mai pensato di avere tra le mani una mappa del tesoro vera e...»

Marianne la bloccò, posandole un dito sulle labbra. Le rivolse un’occhiatina complice, non aveva ancora finito di tracciare la sua rotta. Ammutolita, Rose le porse di nuovo il foglio e la sirena lo voltò sul lato pulito. Sulla destra realizzò una figura stilizzata con due codini ed una chiave in mano, ovviamente Rose, poi tracciò un percorso tratteggiato che portava fino ad un’altra sagoma altrettanto stilizzata a sinistra, metà donna e metà pesce, con in evidenza un lucchetto a forma di cuore nel petto. Marianne stava ancora sorridendo, evidentemente soddisfatta della sua opera. Rose, invece, una volta decifrato il messaggio, venne colta ancora una volta dall’imbarazzo. Ah, era così ingiusto che a Marianne bastasse così poco per farla andare nel panico! Solitamente aveva più autocontrollo, quella sirena invece aveva un effetto quanto mai curioso su di lei.  

«Forse... forse è meglio parlare di queste cose domani!»
Esclamò un’impacciatissima Rose che non era affatto abituata a ricevere quel tipo di dichiarazioni. Marianne invece avrebbe solo voluto abbracciarla di nuovo, era così carina quell’umana.

Quando si augurarono finalmente la buonanotte, Rose diede un’ulteriore occhiata alla mappa che conduceva al cuore della sirena di cui, a sua detta, lei possedeva la chiave. Con un sorrisino felice e ancora un po’ imbarazzato, Rose sistemò il foglio al sicuro tra le pagine del suo diario.


 
* * *


I due giorni che seguirono furono molto movimentati. Rose aveva deciso di insegnare a Marianne a scrivere, così da facilitare la loro comunicazione e, quando terminavano le lezioni, le due principesse si erano divertite da matte a combinare piccoli subbugli in casa. Marianne inoltre era ancora emozionata per le sue nuove gambe e aveva insistito parecchio per imparare quei balli che gli umani amavano tanto fare e, per entrambe, era stato bello condividere quei momenti di vicinanza, accompagnate dal pianoforte in sala. E Rose se n’era accorta, stare con Marianne le faceva battere il cuore all’impazzata e si sentiva le farfalle nello stomaco... anche quando la sirena a sorpresa le sollevava la gonna per poter esaminare le sue gambe e confrontarle con le sue. E Rose doveva davvero cercare di ricorrere a tutta la sua pazienza da lady in quei casi e non lasciare che il panico avesse la meglio su di sé. Al contempo però, era davvero da tanto tempo che Rose non si sentiva così spensierata, l’arrivo di Marianne aveva davvero portato una ventata di aria fresca nella sua vita. E comunque, anche Marianne le aveva insegnato qualcosa, come raccogliere le conchiglie sulla spiaggia e creare delle collane che tutte le sirene possedevano. E quando Marianne ne aveva regalata una all’inglese, Rose l’aveva indossata e non se ne era separata più.

Perciò, quando al tramonto del terzo giorno vide Marianne stranamente più tranquilla, Rose si chiese se fosse successo qualcosa. Quando glielo chiese, Marianne semplicemente sospirò. Mancavano solo poche ore prima della mezzanotte, poi... scosse la testa, scacciando il pensiero. I giorni trascorsi in compagnia di Rose erano passati fin troppo velocemente e per Marianne erano stati tra i più belli della sua vita. Avrebbe solo voluto avere più tempo e non voleva ancora separarsi dall’inglese, aveva così tante cose da raccontarle e da scoprire.

Marianne sospirò di nuovo e con gentilezza prese per mano Rose, guidandola nei corridoi e poi verso l’esterno.

«Aspetta Marianne, dove stiamo andando?»
Rose però riconobbe subito la strada che le avrebbe portate alla spiaggia, dove tutto era iniziato. Senza lasciarle andare la mano, Marianne si avvicinò alla riva cosicché le onde le bagnassero le caviglie. Rose, al suo fianco, seguì il suo sguardo perdersi verso il mare.

«Perché siamo qui?»
Chiese Rose in un sussurro, temendo un po’ la risposta.

In fondo, pensava Rose mentre Marianne faceva qualche passo in avanti e lasciava la mano dell’inglese, lei appartiene all’oceano, non ho diritto di sperare che voglia rimanere con me sulla terraferma.

Marianne, silenziosa, sapeva di avere delle responsabilità. Sapeva di essere una principessa che stava per voltare le spalle al suo popolo per amore di un’umana. Era sicura che avrebbe sentito la nostalgia dei suoi amici pesci e delle acque scure del Canale, ma sentiva che il suo posto non era lì, ma accanto a Rose. Pensierosa si era mossa ancora, l’acqua adesso le arrivava un po’ sopra il ginocchio. Dietro di sé, sentì che Rose si avvicinava.

«Ti manca casa tua?»
Domandò ancora l’umana, mal celando una punta di preoccupazione nella voce e senza accorgersene, la riprese per mano quasi avesse paura che si immergesse e la lasciasse. Era un pensiero egoista, ma Rose non voleva che Marianne se ne andasse.

Marianne si voltò lentamente verso di lei, poggiandole una mano sulla guancia. Le ragazze si guardarono negli occhi, per interminabili istanti. Marianne abbassò lo sguardo sulle labbra di Rose lievemente dischiuse e dolcemente la baciò.

Poi, successe qualcosa di inaspettato.
Marianne si sentì travolta come da un’ondata di magia e anche Rose dovette percepirla perché la guardò stupita, quasi in attesa di spiegazioni.   

«Un vrai baiser d’amour...»[1]
Disse piano Marianne, sfiorandosi le labbra con la punta delle dita, non affatto sorpresa di aver ritrovato la voce. Sorrise. Aveva funzionato! Sollevò lo sguardo su Rose che la guardava boccheggiante e ad occhi sgranati. A Marianne ricordò un pesciolino buffo.

«Bloody hell, you’re french!»
Proruppe finalmente Rose facendo ridere di gusto Marianne. L'inglese era sconvolta ma qualcosa scattò nella sua mente, facendole collegare tutti i pezzi. Quella volta, dieci anni prima, quando Marianne le aveva parlato e lei non era riuscita a capirla... quella non era la lingua delle sirene, era solamente francese! Rose era senza parole, trovava più plausibile l’esistenza delle sirene che quella dei francesi.

Le sorprese però, non era ancora finite. Marianne infatti si sentiva strana rispetto a prima e... forse la magia doveva aver funzionato fin troppo bene perché Marianne riuscì a tornare nella sua vera forma di sirena per poi tramutarsi in umana, solamente volendolo.

«C'est incroyable, posso trasformarmi!»

Non riuscendo a trattenere l’entusiasmo, Marianne travolse Rose in un abbraccio e, perdendo l’equilibrio, entrambe si ritrovarono a mollo ma questo non scoraggiò Marianne che, tornando sirena, aveva iniziato a riempire le guance di Rose di teneri bacetti.

«Questo significa che resterai con me?»
Chiese Rose, inzuppata fradicia, ma ancora stretta alla sirena un po' come una piovra.

«Per sempre, ma crevette[2]
E anche se per Rose adesso si allargava tutto un nuovo scenario, su una cosa era sicura. Francese o meno, lei e Marianne avevano ottenuto il loro lieto fine.
 
 
Fine
 


 
[1]: "Il bacio del vero amore..." ™️ 
[2]:
letteralmente: "gamberetta". In italiano corrisponde a "nanerottola", ma in questo caso Marianne lo intende proprio nel senso letterale perché è una sirena e gamberetta mi sembra un nomignolo carino per una sirena da dare alla sua umana (?)

 
Note finali
OOOH, FINALMENTE SCRIVO QUESTA AU. Com'è che avevo detto a gennaio? "Dammi una settimana e sarà fatta"? Mentivo. Ma meglio tardi che mai, come dico sempre io (semi-cit.). Ma, procediamo con ordine.
Prima di tutto questa storia nasce grazie a Carmaux_95 che mi ha dato questo prompt. Grazie mille, spero che la storia ti sia piaciuta <3 
Come mai ho scritto di queste belle signorine? Be', perché io adoro le Nyotalia. E perché è da quando ho cancellato una shot proprio con Fem!Francia e Fem!Inghilterra che mi riprometto di scrivere di nuovo su di loro, quindi ho colto la palla al balzo ed eccoci qua. Poi, se vi chiedete chi è Alba, è il nome con cui ho chiamato Fem!Scozia perché Alba è il nome gaelico della Scozia. L'altra scelta era Nessie, come la creatura di Loch Ness, e sono ancora molto tentata di cambiare il nome all'ultimo. E sì, qua e la c'è qualche citazione alla Sirenetta della Disney, teoricamente questa era una La Sirenetta!AU ma poi ho fatto un po' di testa mia xD
A parte questo, non era previsto che creassi una raccolta ma, dato che ho qualche altro prompt da sviluppare (spoiler: so già quale sarà il prossimo) ed avevano tutti qualcosa di soprannaturale in comune, ho deciso di ordinarle sotto un unico titolo. Quindi, questa non sarà una raccolta che si aggiornerà spesso ma solo quando mi verrà promptato qualcosa.
Credo di aver detto tutto e queste note stanno diventando lunghe. 
Ringrazio ancora Carmaux <3 e grazie anche a chiunque altro abbia letto fin qui! 
E anche se siamo a fine giugno, happy pride month e ci vediamo alla prossima <3 

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Capitolo 3
*** Fotografia post mortem ***


Prompt: Day 7; valore chiave: memento mori 
Sinossi: Londra, età vittoriana. Francis è un fotografo che spesso ha a che fare con clienti molto particolari. Quando scatta un’ultima foto ad Arthur si verifica un inspiegabile incidente il cui risultato è l’inquietante fotografia... di un fantasma.
     


 
Fotografia post mortem
 
 
In data 31 ottobre 1888, Arthur Kirkland viene dichiarato morto.

Francis Bonnefoy è avvezzo a fotografare corpi senza vita, sono i suoi clienti più fedeli oltre che i soggetti ideali. I cadaveri non si muovono all’improvviso e non sbattono le palpebre, non si corre il rischio di rovinare uno scatto e ricominciare tutto da capo a causa di uno spasmo involontario. La morte è ovunque a Londra: nelle strade, nelle case, nelle fabbriche e non fa distinzioni. Francis lo sa bene, ha perso il conto dei piccoli clienti che ha immortalato. Accettare la morte, accoglierla, fotografarla, non significa però abituarsi ad essa.

All’alba del primo novembre, Francis non si trova nel suo confortevole studio fotografico a Kensington. È con incedere cadenzato che si dirige verso l’abitazione del defunto.

Arthur..., si ripete Francis in mente e non perché tema di dimenticare quel nome.

Nella valigetta in pelle nera che tiene nella mano sinistra vi è la pesante macchina fotografica, nella mano destra ha il treppiede. Fa freddo, ma non ci fa caso mentre passo dopo passo si addentra nel quartiere di Marylebone. Lo sguardo di Francis è fisso davanti a sé ma non sta realmente guardando dove sta andando. Non ha bisogno di controllare che quella sia la strada giusta, ha solcato innumerevoli volte quello stesso percorso quando Arthur era ancora in vita.

Il marciapiede vibra sotto ai suoi piedi, la metropolitana deve essere già entrata in funzione. Il primo impulso è quello di fare dietrofront, addentrarsi nelle viscere della città e saltare su un vagone qualsiasi che lo porti il più lontano possibile da lì. Si arresta come se non avesse più il coraggio di proseguire.

Arthur è morto.

Gli si accartoccia lo stomaco. Ha una brutta sensazione ma ipotizza debba essere dovuta al lutto. Ricomincia a camminare finché non raggiunge la sua destinazione. Di fronte a lui si staglia un palazzo di tre piani, stretto, in mattoni una volta marroni che ora a causa dei fumi si sono annerriti. Le tende sono chiuse oltre i vetri delle finestre, appannati a causa dell’umidità notturna.

Francis picchia il battente, immediatamente la porta si schiude per lasciarlo passare. Ancora una volta non ha bisogno che qualcuno gli mostri la strada fino alla camera di Arthur, Francis sa bene dove andare. Il pavimento scricchiola in maniera familiare sotto il suo peso mentre sale su per le scale anguste che lo portano fino al secondo piano. Raggiunge la camera da letto. Vi è già qualcuno. Oltre ad Arthur, steso immobile sul letto, è presente un ragazzo biondo al suo capezzale, sicuramente uno dei fratelli. Francis lancia uno sguardo fuori dalla finestra, scorge la strada e, anche se a respirare sono soltanto in due, la cameretta gli risulta soffocante. Porge le sue condoglianze poi, in silenzio, inizia a montare il piedistallo su cui posizionare la macchina fotografica.

Con la coda dell’occhio si accorge che Arthur è già stato abbigliato con un elegante completo nero che sembra essere fatto su misura per lui. Francis non ha il tempo per ragionarvi, bisogna ancora allestire il macabro set. Colloca una sedia vicino alla parete, nel punto in cui pensa la luce sia migliore, e chiede aiuto all’altro Kirkland per sistemare Arthur sulla sedia, di fronte all’obiettivo della sua fotocamera.

Ora è tutto pronto. Francis va dietro la fotocamera, si china, sbircia attraverso l’obiettivo. Da lì, attraverso una lente, Francis osserva finalmente Arthur. La malattia non ha lasciato traccia sul suo viso pallido, non vi è più sofferenza. La schiena è poggiata in modo naturale alla spalliera della sedia, le mani sono sulle gambe e gli occhi vacui sono aperti, per simulare una vitalità che non vi è più. Solo il capo, piegato lievemente all’indietro, è l’unica nota stonata in quella perfetta composizione.

Francis esita.

Vi è qualcosa di sinistro ed ironico in quella situazione. Non può fare a meno di ricordare tutte quelle volte che in vita ha preso in giro Arthur per il suo essere così poco fotogenico. Gli fa male il cuore nel pensare che quella che sta per scattare sarà la foto migliore che gli abbia mai fatto.

Infine, preme il pulsante. Parte il lampo del flash che si confonde con il fracasso di un botto inaspettato che fa sobbalzare tutti i pochi presenti nella stanza, tranne Arthur ovviamente, fatalmente inchiodato sulla seggiola di legno.

In pochi secondi la camera si riempie di fumo. Francis è il primo a reagire, spalanca la finestra in fretta e furia per far uscire il fumo e corre di nuovo alla sua postazione. Tossisce, la stanza è ancora piena di vapore e polvere, e non trattiene una mezza imprecazione quando prende in mano la fotocamera e si rende conto che qualcosa si è bruciato all’interno, destando in lui l’inquietante timore di aver perduto quell’importantissimo ultimo scatto.

Inutili sono le successive richieste di spiegazioni, Francis non è in grado di fornirle.
 

 
* * * 

 
A causa dell’incomprensibile incidente, Francis preferisce non trattenersi oltre nell’abitazione. È mosso dall’urgenza di scoprire cosa ne sarà della foto. Quasi si dimentica di salutare, concedendosi soltanto un breve istante per volgere lo sguardo verso Arthur ancora una volta, augurandogli un silenzioso arrivederci. L’ultimo omaggio glielo avrebbe porto al momento del funerale, già fissato per la giornata successiva. 

Il resto della mattinata e del pomeriggio lo passa in uno stato di agitazione angosciosa, chiuso nella camera oscura del suo studio nella disperata impresa di salvare il rullino e sviluppare la fotografia. Per qualche motivo la fotocamera sembra non volersi aprire, deve un po’ calcare la mano ma, alla fine, crede che riuscirà a recuperare l’immagine.
Nel frattempo, Francis ha preso un’importante decisione.

Non consegnerà la foto.

Dovrà mentire, ma non ha importanza. La vuole per sé, per conservare l’ultimo ricordo che può avere di lui, del suo amato Arthur. È un suo diritto anche se non lo può reclamare a voce alta, ma al quale non è risposto a rinunciare.

Con quella nuova risoluzione, Francis si prepara per dormire. È ancora presto, appena le sei, ma l’unica cosa che desidera è che quel giorno finisca quanto prima.

 
* * *

 
Francis sbarra gli occhi. È ancora notte fonda ma un rumore improvviso l’ha destato dal sonno. Proviene dal piano di sotto, dove si trova il suo studio fotografico.

Che si tratti di un ladro?
Un po’ allarmato si infila sbrigativamente la vestaglia e si affretta giù per le scale.

Arriva preoccupato nella sala principale dello studio. La luce del lume è accesa ma non vi è nessuno a parte lui e non sembra ci sia qualcosa fuori posto. Perlustra la stanza con lo sguardo e nota soltanto un piccolo dettaglio insolito. Sul tavolo scorge la foto di Arthur che aveva lasciato a sviluppare. Aggrotta le sopracciglia. È sicuro di non essere stato lui a metterla lì. Corre a controllare la porta ma è chiusa, esattamente come la aveva lasciata. Gli fischiano le orecchie, c’è qualcosa che non va. Si avvicina allora al tavolo e prende la foto in mano, intenzionato a rimetterla al suo posto. Abbassa lo sguardo su di essa e gli sfugge un urlo.

Non può essere.

Si blocca.

Trattiene il respiro.

Il terrore lo assale, la fotografia gli sfugge di mano mentre indietreggia e sbatte il fianco contro il massiccio tavolo di legno, facendo rovesciare qualche boccetta di inchiostro.

Sconcertato si porta le mani tra i capelli.

Nella fotografia vi è il corpo di Arthur, proprio come l’ha fotografato, ma accanto ad esso si staglia una figura diafana che levita a qualche centimetro da terra, con una mano appoggiata sulla spalla del cadavere.

Francis sente il cuore martellargli nella cassa toracica, gli pulsano le tempie e lui stesso stenta a credere al pensiero che sta prendendo forma nella sua mente.

Quello è Arthur. Quello spettro è Arthur.

Francis non ha il tempo di interrogarsi ulteriormente, né di mettere in dubbio ciò che ha visto perché ecco che accade qualcos’altro.
Una corrente d’aria gelida, spettrale, lo investe facendogli venire la pelle d’oca e spegnendo la luce del lumino. Qualcosa di invisibile si muove nella stanza, frusciano i fogli di giornale, i vetri delle cornici si crepano e vanno in frantumi, trema il pavimento e l’oscurità è così spessa che sembra avvolgerlo in una stretta inesorabile e soffocarlo lentamente fino a quando nel buio non si leva una figura opalescente che Francis riconosce all’istante.

«Arthur!»
Esala con un fremito, senza distogliere lo sguardo dal fantasma di Arthur, muto e immobile a pochi centimetri da lui.

«Sei davvero tu? Parlami, ti prego...»
Il cuore di Francis batte ancora all’impazzata ma la paura è svanita. È pur sempre Arthur, per quale motivo dovrebbe temere lui o il suo fantasma? Francis ha gli occhi gonfi, non nota neppure che lo studio è piano piano tornato alla normalità: anche se è ancora immerso nel buio le luci della strada riescono a passare attraverso il tessuto sottile delle tende.

«Sì.»
È la semplice risposta di Arthur. La sua voce è immutata ma allo stesso tempo sembra provenire da lontano. Lo spettro non tradisce nessuna emozione. Piano, Arthur tende una mano verso di lui. Francis prova ad afferrarla ma inutilmente, le sue dita passano attraverso la candida ombra di Arthur, il cui sguardo si offusca.

«Perché mi fai questo, Francis?»
È l'unica domanda che gli rivolge Arthur e Francis non capisce e non riesce a rispondere in tempo ché in un battito di ciglia, Arthur non c’è più.

 
 * * *
 

Il funerale si celebra il giorno dopo in una delle tante chiese gotiche londinesi. Oltre ai parenti più stretti e agli amici, anche Francis è presente. Ha le palpebre pesanti e due profonde occhiaie nere gli solcano il viso. Parla poco. La fotografia di Arthur è ben nascosta nel taschino della giacca, sulla sinistra, vicino al cuore.

È in silenzio che Francis accompagna il feretro all’esterno, non lo perde di vista un solo momento, fino a quando la bara non viene calata in una polverosa fossa nel terreno, scavata dal becchino che in un angolo aspetta di spalare nuovamente la terra e seppellire quella modesta cassa di legno.

Francis è l’ultimo ad andarsene. Prega per Arthur e anche per se stesso affinché Dio salvi le loro anime tormentate.

 
 * * *
 

Quella sera Francis, nonostante gli sforzi per rimanere sveglio, crolla a letto in pochi minuti. Il suo corpo è incomprensibilmente spossato ma la sua mente è vigile, agitata dall’incertezza. Rivedrà Arthur? Il suo fantasma tornerà a fargli visita? Risponderà alle sue domande?

Nella stanza da letto e al piano di sotto il silenzio regna sovrano.

La mente di Francis adesso è ottenebrata, sono passate ore ed ore e non sa quanto altro dovrà attendere. L’aria è pesante nella camera, immobile, asfissiante e ha quasi la sensazione di essere lui quello dentro ad una bara. In attesa che la Morte si ripresenti davanti a lui, Francis ripercorre i ricordi di tutti quegli anni a Londra trascorsi ad immortalare cadaveri. Ha sempre trattato con rispetto i suoi freddi modelli e le loro famiglie, cercando di render loro giustizia cosicché i loro cari trovassero conforto nelle sue fotografie.

Vi è qualcosa di lugubre e romantico nel fotografare un corpo senza vita. Gli uomini passano ma, indelebili, le sue fotografie sarebbero rimaste. Ed è così cara la memoria, così nostalgica, che si perde di vista il suo macabro risvolto: ricordati che devi morire.

Francis si gira su un fianco, a tentoni allunga una mano sul comodino su cui ha riposto con la massima cura la fotografia scattata ad Arthur. La afferra e la avvicina al viso, scrutandola nella penombra della stanza. La scena non è mutata: il corpo di Arthur è nella stessa posizione mentre il suo spirito osserva Francis con sguardo severo.

La morte è sempre stata la sua massima ispirazione, realizza allora Francis. Quella foto è la più bella che abbia mai fatto. C’è qualcosa di familiare e quasi intimo, attraverso l’obiettivo è il suo sguardo che si posa su Arthur e, a differenza di tutte le altre fotografie, vi è contenuto tutto il suo dolore.  

Continua a compiangerlo. Per Arthur, il momento è arrivato troppo presto ma Francis sa bene che presto o tardi sarà anche il suo turno. Si chiede soltanto se qualcuno gli scatterà una foto bella quanto quella.

In quel momento si accorge che l’aria nella stanza si è rarefatta.

Francis si sente più tranquillo, Arthur è finalmente arrivato.

Questa volta la sua apparizione non è stata spaventosa come quella della sera prima. L’inglese è immobile ai piedi del letto e Francis sorride amaramente, gli ricorda quando a parti invertite era lui che passava ore intere seduto sul bordo del letto di Arthur per tenergli compagnia durante la malattia. Lui gli diceva che si sarebbe ripreso e per un po’ Francis gli ha creduto. Che stupido.  

«Ti stavo aspettando, Arthur.»
Lo saluta, scendendo giù dal letto. Arthur non risponde, continua a fissarlo e Francis avanza verso di lui.

«Sei venuto qui in cerca di vendetta? O sei qui per consolarmi?»
Gli domanda malinconico mentre gli porta le mani sul viso senza toccarlo, perché non può. Vede Arthur imitare i suoi stessi movimenti e avvicinarsi a lui, quasi fino a poggiare la fronte alla sua.

«No.»
Risponde infine Arthur e vi è sofferenza nella sua voce.

«Sono qui per chiederti di permettermi di riposare.»
Francis fa un passo indietro, non capisce cosa intenda dire. Lo spirito di Arthur lo osserva afflitto prima di riprendere.

«Avrei tanto voluto che ci fosse stato concesso più tempo.»
Le sue parole suonano come un lamento, pregne di rimpianto e nostalgia.
«Ti ho amato in vita, anche se forse non l’ho dimostrato al meglio. Non è cambiato nulla da allora, ma tu Francis...»
Arthur prende un sospiro tremolante e lascia scorrere una mano fino all’altezza del cuore pulsante del suo amante. Incontra il suo sguardo per rivolgergli la sua ultima supplica.
«… devi lasciarmi andare. Fa male. Libera la mia anima, concedimi di trovare la pace.»

Francis avrebbe tanto altro da chiedergli ma ancora una volta il fantasma di Arthur svanisce, abbandonandolo in un abisso di disperazione. Si porta le mani sul petto, lì dove Arthur l’ha sfiorato, lasciando che calde lacrime gli scorrano giù dal viso.
Le parole di Arthur si avvicendano nella sua mente in maniera scombinata.

Fa male. Fa male. Fa male.

Con un movimento brusco, Francis si fionda giù per le scale, verso il piano di sotto.

Libera la mia anima.

A piedi nudi sul pavimento quasi scivola, ma riesce a riprendere l’equilibrio e come un ossesso si dirige verso il retro, per recuperare la sua fotocamera ormai inutilizzabile.

Concedimi di trovare la pace.

Torna in sala, fissando l’obiettivo bruciato della macchina fotografica.

I deboli raggi di un nuovo giorno gli illuminano il viso.

Francis sa cosa fare.

 
* * *

 
Nel cuore della notte un'ombra furtiva si muove tra le strade deserte di Londra.
Francis è guardingo, è in ansia al pensiero di ciò che sta per fare. Si guarda attorno mentre oltrepassa il cancello in ferro battuto che si affaccia sul cortile della chiesa, la stessa in cui è stato sepolto Arthur. Del guardiano non vi è traccia, Francis suppone che si possa trovare al pub nella strada di fronte alla chiesa, gli schiamazzi possono essere uditi fin da lì. Dubita che ritornerà a vegliare su quelle tombe.

Meglio così, considera Francis mentre muove qualche passo nel cortile, cercando a tentoni di farsi strada nel buio. Ha bisogno di una pala ed è abbastanza speranzoso nel riuscire a trovarla lì. Infatti, quasi vi inciampa mentre prova a raggiungere la tomba di Arthur.
Trovare la lapide non è difficile, Francis vi è stato di recente e ricorda la strada abbastanza bene. Si accerta comunque di essere nel luogo giusto, leggendo l’epitaffio illuminato dalla luce riflessa della luna.

 
Sacred to the memory of
Arthur Kirkland
May his soul rest in peace
April, 23rd 1865 - October, 31st 1888
 

La prima vangata è semplice. Il terreno è stato smosso da poco, è soffice, non fatica a rovesciare le zolle. Il lavoro però diventa più difficile man mano che prosegue, i muscoli delle braccia bruciano ma non si può fermare. Non ancora.

Scava.

Una parte di lui vorrebbe abbandonare la pala lì e tornarsene di corsa a casa.

Scava!

Ormai però è troppo tardi per fermarsi.

SCAVA!

Che Dio abbi pietà di loro.

Con un contraccolpo la lama della pala sbatte infine contro una superficie legnosa. Quasi come un indemoniato, Francis dà fondo alle ultime energie, fino a quando il coperchio della bara non è del tutto visibile.

Solo a questo punto si concede di riprendere fiato.
Si fruga in tasca, tira fuori l’orologio da taschino. Sono da poco passate le tre e mezza.
Deglutisce e ripone l’oggetto in tasca, afferra nuovamente la vanga.

Tentenna.

Poi si fa coraggio e facendo leva con la pala scoperchia la cassa, il tonfo rimbomba nel cimitero deserto come uno sparo nella notte.
Il corpo di Arthur è lì. Gli occhi sono chiusi, l’espressione è rilassata. Sembra quasi che stia dormendo. Francis sente gli occhi iniziare a pizzicargli, vedere Arthur in quella bara dismessa è miserevole.

Si strofina la manica della giacca sugli occhi arrossati, e si impone di continuare, di andare fino in fondo. Dalla valigetta che ha portato con se estrae la sua macchina fotografica, quella rotta, con la quale ha fotografato Arthur per l’ultima volta.

Se la rigira per le mani, la osserva. Ripensa a quel misterioso incidente che ha bruciato l’obiettivo quando ha fotografato Arthur. Forse era passato troppo poco tempo, forse Arthur gli ha lasciato involontariamente una parte di sé. O forse è stato Francis a non permettergli di sfuggirgli, intrappolando la sua anima con uno scatto egoista e disperato... non era preparato a dirgli addio.

Francis deve porre rimedio al suo errore, qualsiasi esso sia stato, anche se è stato solo per amore.

Si fa il segno della croce, si inginocchia e posiziona la fotocamera nella cassa. Francis non si muove, rimane in attesa e non sa neppure lui di cosa. Non accade nulla. I suoi occhi restano fissi sul corpo senza vita di Arthur. Lentamente distende una mano verso di lui, per carezzargli il volto per un'ultima volta.
«Perdonami amore mio.»

Un po' barcollante si rimette in piedi. Ha molto lavoro da fare, non ha ancora neanche richiuso la bara e deve sbrigarsi a rimettere tutto a posto prima dell’alba o saranno guai grossi per lui. Nel frattempo, si è alzata una sottile nebbiolina nel cimitero e la temperatura si è improvvisamente abbassata. Nel buio, quella fine foschia sembra scintillare e Francis la osserva rapito muoversi in maniera quasi... innaturale.

C’è qualcosa di strano, sembra quasi che essa si stia avvicinando a lui, che si stia raccogliendo ai suoi piedi.
Francis rimane immobile mentre si rende conto che davanti ai suoi occhi increduli dalla nebbia sta lentamente emergendo lo spettro di Arthur. Per la prima volta, il fantasma gli sorride.

«Ci vediamo dall'altro lato. Farewell, my dear.»
Pronuncia infine Arthur, prima di sfiorargli le labbra con le proprie ed è come ricevere un bacio dalla Morte stessa. Il fantasma gli passa attraverso, Francis fa in tempo a girarsi per vedere lo spirito riunirsi al corpo. Poi, una forza troppo potente per essere contrastata lo attira verso la cassa in cui giace Arthur.

In fondo, Francis non si vuole neppure opporre. Il suo corpo cade in avanti e si adagia su quello di Arthur, è come se qualcuno lo avesse sorretto e guidato in quella dolce caduta.

Francis non ha paura. Si sente in un piacevole stato di beatitudine.

Abbraccia Arthur.

Si sente in pace.

Poi, con un ultimo scricchiolino, il coperchio della bara si richiude.

 
* * *

 
A Kensington, in un vuoto studio fotografico, si trova un'immagine racchiusa in una cornice dorata.
Essa non ritrae più una figura solitaria ma due giovani uomini. Uno è su una sedia, l’altro gli è seduto sulle gambe, le loro dita sono intrecciate, si guardano teneramente.

Uniti oltre la morte per il resto dell’eternità.
 
Fine
 
 
Note finali
Buon Halloween! 
🖤 
Vi consiglio di accomodarvi, queste note sono lunghe.
Due paroline su questa shot. Sguazzo proprio nella mia comfort zone. OTP, Londra, epoca vittoriana, elementi sovrannaturali, Halloween, un filino di angst... tutte cose che amo tantissimo e di cui non mi stancherei mai di parlare. Inizialmente questa shot non era nei piani (infatti nella shot precedente dicevo di saper già quale altro prompt sviluppare ma non si trattava di questo!) infatti, è nata leggendo i bellissimi prompts della #Halloweek del forum Siate Curiosi Sempre. Per riuscire a scrivere questa shot non nascondo di aver dovuto fare i salti mortali, questo per me è un periodo pieno zeppo di impegni (che mi tengono lontana anche dall’aggiornare le altre long, sigh) ma per la mia festività preferita ho dato fondo a tutte le energie ed eccomi qua! 
Per una volta sono contenta di come mi è uscita, sento di aver fatto un buon lavoro e non è una cosa che accade spesso.
Comunque, questa shot è proprio diversa dalle due precedenti, sia nello stile che nelle tematiche direi. Ho voluto provare a scrivere qualcosa di un po’ più “gotico”, per così dire. Le fotografie post mortem erano una cosa parecchio diffusa nell’Inghilterra vittoriana, non erano considerate nemmeno una cosa strana e con il prompt “memento mori” vanno a braccetto. Se invece la posa descritta nelle ultimisse righe vi suona familiare, è perché mi sono ispirata (leggasi: l’ho descritta tale e quale) a questa foto qua. È parecchio famosa, sono sicura che la conosciate!
Comunque la butto lì, considerate la conclusione di questa storia un lieto fine?
Per farmelo sapere, dovete lasciare una recensione ;)
Scherzo! Ma se vi va, a me non dispiacerebbe affatto sapere cosa ne pensiate 
🥹
Vi ringrazio per aver letto fin quaggiù, 
al prossimo prompt, un abbraccio 
❤️ 

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