Regina di rose e di spine

di Gaia Bessie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Regina di rose ***
Capitolo 2: *** Fante di pietra ***
Capitolo 3: *** Sei di narcisi ***



Capitolo 1
*** Regina di rose ***


Queste note sono un poco un taglia e cuci dalle mie note di Wattpad e AO3 (GaiaBessie anche lì, nel caso qualcuno volesse seguirmi dove sono attiva): in tutta sincerità, se su quei lidi posso permettermi di dire che sono tornata, qua non so se ne ho la forza. Non ho mai nascosto che da tempo stavo avendo dei problemi con questa piattaforma, per vari motivi, e sinceramente non so quantificare quanto tempo ci metterò ad aggiornare regolarmente anche qua, specie perché ultimamente ho scoperto le RPF e pace, son migrata.
Però. Però recentemente è uscita la challenge "Cinque fette di torta alla melassa" e io, che non scrivevo mezza riga da parecchio tempo, un po' ne avevo bisogno: così, eccomi qui a riconoscere che non so bene dove andrò a parare, ma che questa storia (cinque capitoli in totale) sarà conclusa entro il 30 settembre e, di conseguenza, vorrei aggiornare una volta a settimana.
La challenge consisteva nello scegliere la strofa di una canzone, da cui le amministratrici del gruppo hanno estratto cinque parole, che fanno da cardine per i cinque capitoli di questa storia: nel primo capitolo, ho usato la parola "care" sia nel senso di prendersi cura di qualcuno, sia nel senso di avere a cuore qualcuno, ma questo spero sia chiaro nella lettura.
Non vi dirò fino all'ultimo che canzone ho usato, perché sarà citata a fine del quinto capitolo, ma sono curiosa di vedere se qualcuno indovina a partire dal tema della storia e magari dalle parole usate.
Avvertenze: canon divergence, Joffrey non è morto durante il suo matrimonio con Margaery, il Mastino invece non è mai fuggito da Approdo del re.
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Le domanda: ma non lo volevi anche tu, amare per essere amata, una ballata senza stonature, un cavaliere in armatura e tutte quelle cose lì?
Margaery sorride, ha una cicatrice frastagliata sul petto, lì dove dovrebbe trovarsi il cuore: certo che no, commenta piano, non sono mica sciocca – è cresciuta nella bambagia cotonosa di Altogiardino, ma mai nessuno è stato così folle o ingenuo da inculcarle che sia giusto e sensato, avere dei sogni. O, meglio, va bene sognare: potere, ricchezza e influenza (tutte le cose che puoi ottenere, ha sussurrato suo padre mentre le metteva la corona in testa, tutte cose che avrai).
E Sansa Stark, che è tutta un sogno spezzato e irrealizzabile, ma mai per questo meno prezioso, la guarda e tace.
Non sarò mai regina, confessa, forse nemmeno vorrei esserlo più: voglio tornare a casa, casa mia, avere una famiglia tutta mia, se mai qualcuno potrà volermi ancora, ricucire le ferite strappate nell’arazzo di mia madre e mio padre.
Margaery ride, scuote il capo – e pensi che ci vorrà ancora qualcuno, dopo tutto questo? – battendosi un colpetto sul petto: ha una cicatrice sul cuore e, controluce, pare una corona di spine.
 
Regina di rose e di spine


 
Parte prima: Regina di rose
 
[Care]
 
Un giorno, Sansa capisce che deve mettere via i propri sogni, non solo quelli colorati e saponosi di quand’era bambina, ma anche quelli meno arrotondati e quasi aspri di quand’è infine cresciuta: con la forza, storta, piegata, frustata dalla pioggia – ha così tante crepe che, quando si deve guardare allo specchio, si meraviglia di non esser carne piagata e purulenta, quasi come se una ferita infetta bastasse a spurgare l’angoscia che le spreme il cuore quando, ogni mattina, si rende conto che è esattamente quella la misura del tempo che passa. Che la paura, la consapevolezza che niente è senza fine e finita lo è anche lei a partire dalla morte di suo padre fino alle note sui margini del testo della sua ballata troppo tragica, è un saliscendi continuo: gradini piccoli, qualcuno troppo alto, altri ripidi, stretti, che nemmeno c’entra il suo piede di ragazzina. Ma sale, come la marea, senza che bastino preghiere per consentirle di scendere.
Ha avuto la possibilità di scegliere.
O, almeno, è quello che ha sempre creduto – che il futuro non fosse predeterminato ma, in una partita dove ogni giocatore vede la scacchiera (e lei no), ha finito per conformarsi alle scelte di chi giocava da più tempo di lei: Sansa ha ricamato la propria esistenza a punti precisi, prima di rendersi conto che il tessuto che stava ancorando alla propria pelle era tutto da rattoppare. E, adesso che è una mescolanza di seta, cotone, iuta e fil di ferro si chiede che senso abbia, poi, continuare a sognare.
Una vita fa, quand’era una ragazza vera e non un idolo di spine e acciaio, Sansa aveva sogni come capelli sulla testa: passava le ore a intrecciarli, a cambiarne la combinazione, sia mai che la chiave della loro realizzazione fosse immaginarli nella maniera più verosimile possibile. Cersei Lannister, in una delle rare volte in cui s’era piegata, luminosa come madreperla e sporca di sangue lungo la bocca tirata, a guardarla per scoprirla pesta e lacera come una bambola di pezza, gliel’aveva detto senza alcuna emozione tangibile.
I sogni sono la cosa più stupida del mondo, se sei donna, perché t’insegnano a sognare l’amore e, quando scopri che non esiste ed era un sogno tutto sbagliato, non riesci a comprendere che non è l’amore, ma il potere, quel che deve tenerti in piedi.
Le aveva toccato il viso, con curiosità, come se imprimendole le dita sulla mascella pensasse di poterla cambiare e ridipingerla in tocchi di rosso. La regina madre aveva scosso la testa, disgustata, vedendola masticare speranza tra le ombre che avevano iniziato a scurirle gli occhi.
Poi c’è stata solo ombra, questo sì, ma comunque si riusciva a scorgere sulla sua pelle i segni che i sogni vi avevano lasciato: Cersei Lannister, come chiunque altro, li poteva leggere con estrema chiarezza. Avevano il nome degli Stark e il loro destino infelice.
Anche adesso, quando la sera si tinge di scuro e Sansa si specchia alla luce di mille candele, si vede marchiata dal grande tradimento della sua stirpe: padre, madre, fratelli.
Eddard Stark, il Protettore del Nord – a lui chi l’ha protetto mai? – e sua moglie Catelyn, una Tully di Delta delle Acque, sparita in una scia di bolle: Cat, Cat, te lo hanno mai detto che le branchie non servono se ti tagliano in due la gola?
E Robb, il bel cavaliere cresciuto tutto d’un colpo, il Giovane Lupo (invecchiato mai), il fratello maggiore, la luce nello sguardo di sua madre: è ancora il re del Nord, ha dichiarato Joffrey Baratheon con un sorrisetto divertito, un re-lupo, un re abominio. I ricordi di Robb Stark ululano alla luna, alla sera, e hanno la cadenza delle Pioggie di Castamere, che vuol dire che non si riesce ad ascoltarlo senza tremare fino alle ossa.
Arya non avrebbe tremato – sparita, perduta, dimenticata: Cersei sostiene d’averla trovata e spedita a Grande Inverno, sposata al bastardo di Bolton, te la immagini, Sansa? È facile pensare che fosse indomabile, ma io credo, bambina, che Ramsay Snow la possa piegare più che bene.
Avranno consumato il matrimonio sulle ceneri di Brandon e Rickon, i bambini bruciati, i bambini perduti, i bambini dimenticati: loro, tutti loro, potevano essere e invece non saranno mai. Nemmeno lei.
Sansa è rimasta un pulcino incastrato nel proprio guscio, arruffato: le hanno sempre detto che aveva l’aspetto di una regina, nel sangue le scorreva più regalità di quella della regina stessa, ma a cosa serve esser specchio di un diadema se, quella corona, ti spezza il collo quando provi a indossarla?
I muri gridano al suo passaggio, che Sansa Stark si è pentita: gioca a nascondino con la propria ombra ma, come alza il collo per schermarsi dalla luce delle candele, si rende conto che non è cambiato niente e la sua sagoma sfumata ride ancora di lei, sui muri.
«Giochiamo?».
Margaery ha lo sguardo duro come pietra e altrettanto frastagliato – pensa che sia una carezza, quell’occhiata che le rivolge, ma quando si sfiora il cuore lo scopre sporco di sangue: giochiamo, ripete Sansa sulle labbra spaccate, giochiamo?
«Giochiamo».
Nemmeno si ricorda quand’ha rischiato di staccarsele dal viso, le labbra, il giorno in cui Joffrey le ha comunicato che non era degna di divenire regina. E tutto quel dolore, le vertebre del collo piegate sotto il peso di una corona fatta di sogni spezzati, a cosa è servito.
È una domanda che cerca di non porsi mai – pensa che la risposta che potrebbe darsi, giusta o ingiusta che sia, la ferirebbe più di ogni altra evidenza: Margaery Tyrell ha chinato il capo sotto la corona, sorridendo a denti stretti, Sansa Stark vaga come spettro di fuoco sullo stoppino filamentoso delle candele.
Tutti hanno bisogno d’amore, ha bisbigliato il giorno in cui la nuova regina di Westeros le ha detto ch’era ora di abbandonare i castelli di schiuma saponata su cui ha costruito la propria infanzia per farsi sposare da chiunque avesse abbastanza coraggio e forza per portarla via di qui. Tutti hanno bisogno d’amore, anche io.
Ma, quando Margaery Tyrell ride, argentina, Sansa non ne è più così sicura: tutti hanno bisogno d’amore, ripete la regina di Joffrey, ma guarda un po’ che fine ti ha fatto fare, quell’amore. Che sei innamorata e non sai di chi, che sei un insieme di sentimenti slegati e non sai se hanno un’appartenenza, se sono fantasie o frammenti di ricordi.
Sansa vorrebbe avere qualche lacrima da piangere su quei pensieri ma, quando Margaery sorride, qualcosa le pizzica la gola come un colpo di tosse – lei non ride mai.
Il fratello della regina, denti tirati in un sorriso che ha perso lucentezza con il dipanarsi della prospettiva di vendicare Renly Baratheon, gliel’ha domandato: com’è che voi non ridete mai, mia signora.
Un tempo, Sansa avrebbe riso solo per fargli piacere, ma s’era limitato a guardarlo negli occhi come se tutto quello, tutto il passato che le si è inciso dentro più della nostalgia e della banale dimenticanza, non contasse più niente. E voi?
Loras Tyrell non aveva più detto niente e lei, in quel silenzio, aveva colto l’ennesimo rifiuto a una salvezza dorata, semplice e per questo altrettanto illusoria. Non aveva avuto la forza di pensare che fosse così semplice: raccattare i propri vestiti e dire andiamo via di qui, abbandonare Joffrey e Approdo del Re per diventare la regina del roseto Tyrell. La regina di rose, la carta più inutile del mazzo.
Margaery Tyrell non gioca d’azzardo, che una regina vera e non Cersei Lannister non s’abbasserebbe mai a barare col mazzo giocando con bari più esperti di lei, ma non disdegna giocherellare con le carte di Altogiardino – Sansa ha sempre avuto paura di chiedere se è vero, quel che bisbigliano le dame di corte: che le carte dei Tyrell predicono il futuro a chi sa leggerle.
Ma, quando Margaery mescola le carte, non le guarda mai come se fosse in grado di coglierne i sottintesi: si limita a smazzarle, distribuirne cinque e cominciare la partita – Sansa fa attenzione a non vincere mai: non le serve, vincere al gioco, quando fuori dalle carte dipinte dei Tyrell non le è rimasto niente.
Solamente la regina di rose, nel proprio abito vermiglio come una pugnalata al centro del petto, la guarda con calma eterea – la carta più debole del mazzo, nonostante il titolo nobiliare.
Margaery le ha detto perché: le rose sono bellissime, come tutti i fiori, ma una rosa non ferisce, una rosa non avvelena. Puoi sopravvivere all’attacco di una rosa, ma a tutto il resto?
Ma non ha aggiunto il resto.
Sansa, che ha perso l’onore più grande della propria vita e anche la condanna che le carezzava il capo senza alcuna compassione, porgendo alla giovane di Altogiardino la corona e il cuore del re: Joffrey Baratheon ha pensato fosse degradante renderla la dama di compagnia della nuova real consorte, lei che è figlia di nessuno, sorella di nessuno, moglie di nessuno.
Joffrey ha riso, nel comunicarglielo: e ringraziate che non ti ho dato al mio cane, Lady Stark, solamente per il gusto di privarvi di quel cognome che ancora ostinatamente portate – tempo, al tempo: pensate di essere regina e, invece, non contate più niente.
Sansa, quella volta, non aveva proferito verbo. Intimamente, sottovoce (non si fida nemmeno dei pensieri gridati), s’è detta che sarebbe stato meglio. Dolore per dolore, meglio moglie del cane del re che passare attraverso un cerchio di fuoco ogni giorno. Arsa come un tizzone arroventato, i capelli che paiono solamente l'ennesimo residuo di una fiammata, Sansa è annerita e consumata: spenta, forse, quando sorride, partita dopo partita, silenziosa.
Tra i carboni ardenti e i ciocchi di legno vetrificato, ha visto tutto e ricamato lungo le proprie supposizioni riguardo al resto: Margaery Tyrell, mentre scruta le proprie carte come se queste potessero parlarle, s’è sfinata. Come linea d’inchiostro, sbiadita, una parola cancellata, tagliata.
La regina di Joffrey non conosce umiliazione pubblica – privata: quando le altre dame cinguettano e bisbigliano su quanto bella dev’essere la vita da regina, lei stringe i denti e annuisce (guarda il muro, chissà cosa ci vede). Non un segno sul viso.
Qualche volta, dietro un abito un po’ scollato, l’impronta delle dita di suo marito, l’ennesimo marchio. Il giorno in cui fa caldo e la regina indossa un vestito a collo alto, Sansa scuote il capo e si trattiene dal dirle che, alla fine, doveva accadere: Joffrey ha messo un collare anche a lei.
Non è il dolore, né l’amor proprio spezzato: la giovane Stark lo sa, con certezza violenta, che Margaery pensava d’esser già salva. Che doveva esserci un piano, qualcosa che è fallito, un incontro di menti che non ha generato i frutti sperati. È da un po’ che non piove, perfino la regina di rose sarà lentamente avvizzita.
«Mia signora?» domanda Sansa, alzando un sopracciglio. «Se siete stanca, possiamo continuare la partita domani».
Margaery sorride, sembra che le si spacchi il viso come cristallo lanciato contro pietra acuminata ma, quando le risponde, la voce non trema – occhi cristallini, mai Sansa l’ha vista piangere: a volte si domanda, dandosi della sciocca, se la regina di Altogiardino ne sia in grado o l’abbia disimparato insieme all’abitudine a credere nei propri sogni.
«Vorrei che andassi via da qui, Sansa» sussurra, giocherellando con l’ultima carta che le rimane. «Vorrei che fossi in grado di farlo».
Lei s’alza, una bambola di pezza tirata con dei fili di ferro, sorride, non capisce: è pronta ad accennare una riverenza, quando la regina scuote il capo e le fa cenno di sedersi.
«Sposare qualcuno» soffia, spiegandosi. «Lasciare Approdo del Re. Forse non saresti felice, ma ora puoi dire di esserlo?».
«Lo sono» commenta Sansa, senza troppa convinzione. «Il re non mi permetterà di andar via, lo sapete anche voi».
«Mio fratello…».
«Vi ringrazio, mia regina» ha disimparato la confidenza, Margaery non le ha più domandato di chiamarla per nome. «Ma prenderò ciò che mi spetta, niente di più: se il re vorrà concedermi l’onore di un marito, sarà lui a sceglierlo per me».
«Non posso tenerti al sicuro, Sansa, non posso proprio» soffia la regina, piano. «Ho imparato a dare valore alle mie promesse, ma… come faccio a proteggerti da lui, chi ne sarebbe in grado?».
La giovane Stark sorride, ma solamente per finta – vorrebbe domandarle cosa potrebbe mai importarle, del suo futuro, della sua sicurezza, quando non riesce nemmeno a tenere insieme i suoi (futuro, sicurezza) e ride per mascherare le labbra spaccate a morsi.
Il dolore della regina è dignità cristallizzata, afona, ma è anche una speranza che le si è sedimentata in quegli occhi ormai opachi. C’era del colore, un tempo, in Margaery Tyrell: poi s’era immersa nella vasca dei propri sogni, infranti, e lentamente aveva perso del colore.
Pastello, il verde del suo stelo quando Renly ha perso l’unica partita cui valesse la pena giocare, sempre più chiaro, quasi bianco il giorno in cui l’hanno incoronata e cinta con il mantello dei Baratheon. E, adesso che è nevischio immacolato, si domanda se sarà sempre la regina in attesa o, un giorno, tornerà a dipingersi dei suoi colori.
Forse qualcuno potrebbe volerla salvare, vedendola così immacolata – ma la puoi calpestare, la neve, Sansa lo sa bene: la vedi così bianca e pensi che non si sporcherà mai, ma poi ci cammini e diventa sempre più grigia e triste, mezza sciolta, sfregiata dall’ombra di quei passi. E qualche volta qualcuno si ci stende e pensa di morirci, in qualche modo.
C’è l’inverno che si mangia i colori, lì fuori, e Margaery Tyrell è la prima vittima di una partita giocata male. Forse qualcuno potrebbe volerla salvare, per amore o per pietà (che un po’ sono la medesima cosa), ma nemmeno il cavaliere più valoroso potrebbe sopravvivere a una donna che s’è dimenticata di sé e non sa ritrovarsi.
«Non dovete proteggermi» sussurra Sansa, quietamente. «Prima o poi, arriveranno carte migliori, non credete anche voi?».
«Qualcuno dovrà farlo» risponde la regina, sottovoce. «E chi lo farà, se non sarò io?».
Conosce la risposta, le sfiora i denti ma non suona nell’aria – Sansa ha imparato che non tutte le ballate sono sonore e che, cantare, sa essere più doloroso della gola squarciata di sua madre, della testa lacerata di Robb e dei destini bruciati di Bran e Rickon: sa che potrebbe fuggire di lì, se fosse abbastanza coraggiosa, sa che lui non glielo negherebbe.
Sandor Clegane è tornato, quasi inosservato, a combattere per il suo re dicendole che, se fosse furba, gli permetterebbe di portarla via di lì. Sansa ha detto di no ma, quando si specchia e scopre d’esser diventata quel buio che le abbraccia le costole, a volte quel sì le si espande come una bolla d’aria nella cassa toracica.
Non se lo chiede mai, come potrebbe essere: nemmeno i suoi pensieri sono sicuri e, nei sogni, ormai non crede più. Nemmeno in quelli degli altri, nemmeno nella dolcezza acuminata del Mastino del re, quando la guarda e scuote il capo, debolmente e sembra dirle. Andiamo via di qui, ti va?
Un giorno, ha detto senza suoni, un giorno, forse.
«Si è fatto tardi» mormora Margaery, voltando l’ultima carta che le è rimasta in mano. «Buonanotte, Sansa, grazie per la bella partita, anche se temo di aver vinto».
«Come sempre, maestà».
La regina Tyrell sorride, stanca, accarezzando la figura dipinta che la guarda con occhi sbiaditi (come lei): regina di spine batte regina di rose, Sansa Stark, sai perché?
L’ultima figlia di Eddard e Catelyn si congeda e s’avvia verso la porta, in punta di piedi, macinando quella briciola di determinazione che ancora la tiene in piedi – lo sa, non andrà via nemmeno oggi: che la speranza è lì sotto la neve ma, se provasse a scavare, le mani le si congelerebbero e sarebbe la fine dei giochi.
Margaery Tyrell bara col mazzo in tutti i giochi che non contano nulla ma, poi, siede ai pieni del Trono di Spade e silenziosamente pigola pietà a Dei antichi e nuovi, senza che nessuno riesca a udirne i lamenti. Puoi anche essere la regina di spine, pensa Sansa, ma se non è una spina in grado di squarciare la gola al re, allora vale quanto il petalo di una rosa.
Qualche volta accarezza l’idea di dirlo alla regina, dimostrarle che le importa di lei – ma Margaery è sfiorita e dimenticata e, presto, ci sarà altra neve da calpestare e lei diventerà infine incolore: Sansa Stark può ancora fantasticare, una fuga e tutto ciò di bello che potrebbe ricavare, ricostruirsi, ritrovarsi e scoprire che forse quell’amore che aspettava da una vita lo merita ancora.
Poi si rende conto che non se ne andrà mai solamente perché avrebbe bisogno di trovare un luogo dove poterle dire che ancora le importa e, da sola, non ha idea di come fare a fuggire: gliel’ha detto, Sandor Clegane, in un ringhio ferito.
Da sola non puoi farlo, vieni via con me: sono tutti spacciati, uccelletto, non lo vedi? Si faranno a pezzi tra di loro, prima o poi.
C’è un’altra regina in attesa che Joffrey giura di voler uccidere e ha promesso di ricostruire Westeros su ideali migliori. Se solamente le promesse contassero qualcosa e non fossero cenere bruciata sulla neve, quando Sansa sospira e continua a dirsi che non andrà via da Approdo del Re.
Non puoi portarla con te, uccelletto.
Sono tutti spacciati – lei più di tutti.

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Capitolo 2
*** Fante di pietra ***


Aggiorno lampo, questa storia avrà una fine e l'avrà in fretta, sappiatelo.
Spero vi piaccia,
Gaia

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Ha cercato d’insegnarle la prudenza, l’obbedienza, la perseveranza – tutte le virtù di un cane ma lei, che nasconde frammenti d’acciaio di Valyria dietro i denti di porcellana, ha detto di no: che c’è un modo di essere perseverante che Sandor sembra non conoscere, ed è l’amore.
Ma lui ci sputa sopra, a quel suo amore sprecato, lo calpesta e lo tira via come macchia appiccicosa sotto ai calzari. Ha cercato di insegnarle l’arte di accontentarsi, che forse Sansa Stark potrà ancora sognare l’amore, ma anche nei sogni devi venire a patti con il fatto che non tutto è raggiungibile, ottenibile, che. Che nasci lupa e muori cagna e, per quanto Sandor Clegane provi a fingere un cuore di cristallo, ha sempre pietra dura a cingergli le costole al posto delle vene e delle arterie.
 
Parte seconda: Fante di pietra

 
[Cold]
 
Sansa Stark sente sempre freddo – o, almeno, è quel che dice per mascherare i brividi che le scuotono le vertebre al passaggio del sovrano di Westeros: si avvolge nel mantello come se fosse abbastanza per assicurarle che, questa volta, non le si spaccherà la pelle sotto quell’inverno che inizia a gattonare verso il Sud.
Gioca con il mantello drappeggiato sulle spalle e le dita che tremano lungo i bordi di quelle spine disegnate sul dorso delle carte da gioco. La regina, che si rimpicciolisce e accartoccia come foglia secca giorno dopo giorno, vince – tutto quello che non ha saputo vincere in vita sua.
I Tyrell hanno scommesso due volte e due volte di troppo e, adesso che la giovane Margaery prega tutti gli Dei (antichi, nuovi, inventati) di regalarle una pace che duri più di qualche secondo, adesso scoprono che di tutti gli azzardi il secondo re Baratheon è stato il peggiore. La regina madre, capelli color oro che fanno a pugni con una tiara che non indosserà mai più, gongola silenziosamente sulla scia della crudeltà del suo primogenito: dice che non c’è pace, Cersei Lannister, dice che non c’è pace perché la coscienza sporca è sempre inquieta. Perfino la sua.
Pensa di poter mettere su l’armatura e combattere quelle battaglie che le sono state precluse dal suo essere donna, pensa che la perdita di Jaime le basti per giustificare quell’attentato continuo che fa alla propria vita (e a quella degli altri).
La regina di rose che, sulle mani ha cicatrici come spine disegnate, china il capo quando mormora le proprie preghiere, sapendo che non contano niente – né quelle per sé, né quelle per gli altri: Sansa Stark aspetta la propria mano fortunata anche quando gioca a carte con la propria ombra ma, il giorno in cui Joffrey Baratheon la chiama nuovamente al proprio cospetto, si rende conto che la fortuna funziona esattamente così. Ovvero non funzionando mai.
Con il re che la guarda, il sorriso che gli trafigge il viso come una cicatrice inutile, uno sfregio in un viso troppo affascinante per quell’uso improprio che ne sta facendo: sia quel che sia, pensa Sansa piegandosi all’ennesima riverenza, me lo merito per essermi fidata.
«Mia signora, alzati pure» commenta Joffrey, gioviale. «Ti domanderai perché ti ho ammessa alla mia presenza, nonostante il tradimento di tuo fratello».
Imperdonabile – non che abbia tradito: Sansa che è egoista e poco nobile, ma non perdonerà mai Robb per non aver vinto. Che prometti quello che puoi mantenere e, suo fratello, aveva promesso la testa del bastardo dei gemelli Lannister sulla picca ancora sporca del sangue degli Stark.
Ma Robb Stark non è vissuto abbastanza a lungo da conoscere il gusto della vittoria e la noia della pace, non ha potuto vedere i suoi figli nascere, crescere, qualcuno morire un po’ troppo giovane (come lui), qualcuno arrivare all’età adulta e via di nuovo. Robb Stark non è vissuto abbastanza per potere salvare quel che i Lannister hanno preservato, come una concessione, della sua famiglia.
E anche sé stesso.
«Ne sono onorata, maestà» sussurra, a capo chino – una colata di sangue. «Non merito di essere oggetto della vostra attenzione, ma rimango la vostra umile serva».
Un latrato, sommesso, quasi inudibile: Sandor Clegane soffoca un accenno di risata, il viso contratto lungo la cicatrice, nel sentire quelle parole – canti una bella canzone, le ha detto, ma non è vera: pensi che tutte quelle trine servano a qualcosa, uccelletto, pensi che ti salveranno la vita?
Lui, la vita, gliel’avrebbe salvata se solamente lei avesse avuto abbastanza coraggio per dirgli di sì. Anche se aveva dovuto domandarselo, se fosse questione di coraggio, se fosse questione di prendere e andare via perché non era così codarda da preferire rimanere in un inferno che non avrebbe dovuto comprenderla.
E si era risposto, perché a un certo punto aveva sentito l’esigenza pietrosa e gelida di una risposta, che se Sansa Stark non s’era avvolta in un mantello (il suo, macchiato di sangue) per fuggire da Approdo del Re, allora, era semplicemente perché non aveva voluto farlo e il difetto non era nel coraggio ma nella volontà. Sandor Clegane aveva ringhiato, latrato – convincerla, mai – ed era tornato sul campo di battaglia pensando che, forse, è meglio ardere vivi in guerra che sotto lo sguardo incerto di un uccellino di carta di riso.
Glielo vorrebbe chiedere, vedendola tremare nel vestito azzurro cielo, vorrebbe domandarle cos’è che ha cambiato, sopravvivere in una gabbia rivestita di spine e cocci di vetro. Crede, a ragione, che la giovane lupa non saprebbe cosa rispondergli (se non che avrebbe dovuto scegliere di andare via con lui).
«Vedi, mia signora, fatico perfino a chiamarti per nome» commenta Joffrey, tagliente, appollaiato sul trono paterno. «Ogni volta che devo rivolgermi a te diviene evidente quel che di sbagliato c’è in te: la tua famiglia».
Lei non risponde – vorrebbe urlare: che fa freddo, che gioca a carte su un roseto spinoso solamente per scoprire che la regina, che si professa sua migliore amica, bara con il mazzo pur giocando contro una giovane lady priva di fortuna e chissà che altro.
«Non vi offenderei mai» sussurra Sansa Stark, in un singhiozzo. «Nemmeno con il mio nome».
«Credo che sia ora di trovarti un marito, lady Stark» quel nome pare un insulto, pronunciato dalle labbra di un re troppo biondo di doratura scrostata per il nome che porta. «Non sei di nessuna utilità, finché porti il nome di tuo fratello».
Così sia – è quello che lei dice, muovendo a malapena le labbra, così sia per quest’esistenza un poco sprecata a cui Sansa s’è condannata da sola il giorno in cui ancora faticava a rendersi conto che non è amore tutto quel che riscalda (e c’è l’inverno che corre lungo i pendii delle colline e ti sta raggiungendo, bambina, cala l’asso finché sei in tempo).
E Sandor Clegane, nel vederla voltare appena il collo nella sua direzione, magari senza nemmeno sapere che lui è lì a guardarla, si domanda se non possa prenderla come quella che non è. Una richiesta di aiuto, pari pari a quel mantello che non gli ha mai restituito.
«Mi sono consultato con il Consiglio, e con la mia regina» prosegue il re di Westeros, diverito. «La mia diletta Margaery aveva proposto suo fratello, ser Loras».
E magari sarai felice, bambina, che alla fine tutte le tue preghiere sono state ascoltate (o, almeno, buona parte): che forse te la daranno, una briciola della felicità che sognavi quand’eri bambina, o l’altrieri, che magari riuscirai per davvero a fuggire via di qui. Ma c’è un re crudele, che spine non ne ha ma lame più affilate a circondargli il corpo anche quando non siede sul trono, che ti guarda e non sembra disposto a concederti un desiderio luminoso come una lucciola agonizzante.
Sei spigolosa come una stella che è inciampata nella volta celeste e, adesso che ti guardo mentre preghi a labbra serrate, lo so: che ti sei graffiata da sola nel tentativo di affilarti gli artigli e, adesso che il gelo ti entra dentro da quegli squarci su pelle troppo sottile, a cosa serve sperare?
C’è un re che ti guarda e la corona non lo rende regale la metà di quel che dovrebbe essere, ma paura te ne fa lo stesso.
«Ne sarei onorata, maestà».
«Infatti, lo penso anche io» conviene Joffrey. «Ma che onore potrà avere, la figlia di un traditore e la sorella di un altro? No, mia signora, non ti permetterò di macchiare l’onore della famiglia della mia regina».
Si vede la sua speranza sgonfiarsi e frantumarsi come una sfera in vetro soffiato quando l’artigiano non è abbastanza esperto e, quando Sansa Stark abbassa lo sguardo sulle proprie mani tremanti per scoprire che i cocci sono ancora tutti lì, incastrati tra le dita e l’anima.
«Tuttavia» prosegue il re, sorridendole con finta dolcezza. «Per il rispetto che ti porto, ho deciso di concederti la libertà di scegliere».
Non si stupisce nel vederla spalancare gli occhi, voltarsi a cercare lo sguardo di Margaery Tyrell (stanca, stanca, stanca) o di sua grazia, la madre del re: ma la giovane regina sta fissando un punto indefinito davanti a sé, gli occhi quasi trasparenti, annebbiati dai giorni che ha trascorso come moglie di Joffrey Baratheon, e non dice niente.
E nemmeno dovrebbe stupirsi di scorgere un sorriso stiracchiato sul bel volto di Cersei Lannister, il capo eretto come se stesse ancora reggendo una corona, nel sentire quelle parole crepare l’aria come un sospiro: sua grazia, la madre del re, ma niente di più. Ha combattuto per tutta la propria vita con il suo dover essere madre, moglie, donna – ha fallito.
Jaime Lannister non si trova da nessuna parte, ostaggio, fuggitivo, un niente su una strada infinita: se ne sente la mancanza, quando alla sera Cersei si trova a fare il conto della sua situazione, di chi potrebbe salvarla dall’essere per sempre nulla di più che la madre del re.
Suo padre, il grande Tywin Lannister, ha scosso il capo con aria stanca e le ha detto: impara a essere donna, Cersei, non sei fatta per il comando.
Tyrion Lannister, un borbottio di sottofondo nella quieta corte di re Joffrey, trama nelle ombre, tesse, scuce, ricuce trame per salvare Westeros dal proprio stesso sovrano – e da lei.
«Di scegliere, maestà?» Sansa non comprende, cerca un indizio, un suggerimento negli sguardi vuoti di chi la circonda. Non trova niente.
«Discutendo con mio nonno, il Primo Cavaliere di sua maestà, abbiamo notato che la guardia reale si è fatta… affollata».
Sansa Stark ha un terremoto che le sta spaccando le ossa – Sandor Clegane, privato del mantello bianco da quel re che avrebbe voluto tradire, la vede incespicare sui propri piedi nel tentativo di non crollare sulle ginocchia davanti al trono di spade.
«Credo che nessuno dei miei cavalieri si sentirebbe eccessivamente offeso dal prenderti in moglie» continua il re, quieto. «Avevo proposto il mio nobile zio, Lord Tyrion, ma mi rendo conto che sarebbe degradante, per lui, abbassarsi a prendere in moglie una Stark».
Ridono tutti – lei no, lei lo guarda come se avesse in mano le redini della sua esistenza (e le ha) nel momento in cui finalmente alza lo sguardo e incontra il ghigno soddisfatto di Joffrey Baratheon.
«Quindi, alla fine, ho pensato che sarebbe coerente darti in moglie a qualcuno che sia come te» soffia il sovrano, assottigliando lo sguardo. «Le cagne ai cani, non trovi, mia signora?».
È in quel momento che Sansa Stark si volta, gli occhi azzurri congelati in un blocco di gelo traslucido, guardando dritto di fronte a sé – Sandor Clegane ricambia quello sguardo, quieto, ma anche lui ha sorpresa ghiacciata bloccata in gola.
E Joffrey Baratheon ghigna, serafico, nell’osservare lo sconcerto dell’ultima Stark rimasta in vita: non ride, non ne ha bisogno. Il silenzio che tiene legata Sansa Stark in un fiocco fatto di spine e petali di rosa è abbastanza per ferirla mortalmente.
«Scegli».
Quella sera, quando Sansa Stark dovrà camminare per le stanze della regina Tyrell tenendo il mantello stretto attorno al corpo per trattenere le ultime briciole di calore attorno a sé, si renderà conto che è una serie di ultime volte. E si siederà di fronte a Margaery, che nemmeno proverà a rivolgerle un sorriso che sia vero e non una scheggia di vetro in un ornamento di cristalli spezzati, tra i capelli, spine sul dorso delle mani a ricordarle che ha scommesso Altogiardino e adesso è tutto sterpaglia e fiamme inestinguibili.
Una partita molto veloce.
Regina di spine batte fante di pietra (ha perso la spada e pure l’onore, tra le rocce), Sansa Stark sospira e si domanda se abbia fatto la scelta giusta.

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Capitolo 3
*** Sei di narcisi ***


E lei che quando gioca non conta le carte, non fa attenzione ai punteggi – che a volte puoi essere astuta quanto vuoi, piccola Tyrell, ma niente conta più della forza: Margaery l’ha sperimentato sulla propria pelle il giorno in cui il mantello dei Baratheon l’è piombato sulle spalle, sfiorandole il collo come spada affilatissima.
Nonostante tutto, la testa è ancora lì, i pensieri anche. Lei ha imparato a girare con una regina di spine nascosta nella manica del vestito così che, anche quando la carta più inutile del mazzo, vince comunque: il re è finito tra le braci, quando Margaery cala sul tavolo la regina di spine.
Nascosto nella manica, su quei polsi gelidi e segnati dal gancio di un braccialetto mezzo rotto, il sei di narcisi.

 
Parte terza: Sei di narcisi
 
[Daffodils]

 
Sei orgogliosa, maestà, anche quando di orgoglio non dovresti averne – non che tu possa possedere niente, mia regina: Sandor Clegane non mente mai. Dice che la verità fa schifo quanto una prostituta anziana o del vino scadente ma, il giorno in cui sua maestà la regina lo convoca al proprio cospetto e a quello della propria corte, il Mastino non si tira indietro.
Le dice che non si opporrà alla volontà del re, che sarebbe sciocco o folle e lui non è niente di tutto ciò, magari qualcosa di meno che i cani volontà non ne hanno nemmeno un surrogato e nemmeno la presunzione di crearsela dalla polvere, ma quando Margaery Tyrell spalanca gli occhi slavati, angosciata, lui non ride. Non digrigna i denti, non ringhia, ma semplicemente mormora.
Pensi di essere l’unica a conoscere le regole di questo gioco, maestà?
La regina sospira, non ribatte: ha un abito così chiaro che lei stessa, seduta vicino a una finestra sottile come seta, sembra un sottile fascio di luce. L’ha fissata per così tanto tempo, la prima luce del mattino che si riverberava nelle stanze, negli angoli bui, che scandiva il momento in cui avrebbe potuto distaccarsi dal dolore sordo e pulsante della notte precedente che, alla fine, lei stessa ha abbandonato le spine per farsi fascio di luce.
«Andatevene» sibila la regina, senza guardarlo. «Così sia, se avete intenzione di obbedire come un cane: avevate l’occasione di tirarvi indietro».
«E lasciare la vostra dama alle guardie reali?» Sandor Clegane latra quelle parole, le tossisce ai piedi della regina. «Siete una stratega meno abile di come vi dipingono».
Margaery non lo dice – che pianificare, calcolare, tramare non serve a niente: ha provato ad averla vinta, ma Joffrey Baratheon le respira su quel suo cuore scoperchiato di graffi ogni notte quindi, alla fine, qualcuno che faccia sterpaglia della regina di spine esiste. Non ha chiesto d’esser salvata, di essere portata via, nascosta – perduta.
Passa le mattinate a intrecciare corone di rose smussate, papaveri, passiflore e narcisi. Il pomeriggio legge, gioca a carte, conta il tempo che passa e si scioglie in ombra tra le nuvole.
Poi, quando si fa sera, quando il vino non basta ad anestetizzarle i pensieri (non più del solito), si alza in piedi, nelle proprie stanze, e chiede d’essere aiutata a svestirsi. Qualche volta, insieme alla camicia da notte candida le cade sui capelli un petalo vecchio di ore e il pensiero, inesatto ma persistente, che forse stasera dormirà sogni meno opachi e martellanti del solito. Meno reali, quindi.
Non funziona mai e lo sa lei, lo sa l’ancella che le scioglie i capelli sulle spalle, lo sa Sansa Stark mentre mette a posto il mazzo con le carte di Altogiardino: non ha la forza di dirglielo, che hanno giocato e ormai tutto è perduto, ma si sforza di sorriderle anche quando Margaery non lo fa mai.
«Toccherà anche a te» le dice, casualmente. «Presto. Sapere che fa freddo anche in una stanza riscaldata, te lo immagini mai?».
Che ieri raccoglievamo narcisi e li intrecciavamo senza sapere che sono i fiori dei defunti, degli avidi e degli ubriachi: si dice che un uomo, in uno dei giorni in cui i draghi avevano cominciato a danzare, abbia perduto il senno bevendone il nettare – spremuto in una coppa di vino a basso prezzo, quel narciso germogliato tra le pietre di Approdo del Re lo condusse alla follia: quando soffia il vento, poco prima di una tempesta, si riesce a sentirlo. C’è qualcuno che maledice gli Dei, antichi nuovi e inventati, e si domanda perché la terra tremi anche se tiene gli occhi serrati: tu lo senti mai?
Sansa non le dice mai, pur urlandolo tra quei suoi pensieri bagnati di nevischio, che forse esser per sempre annebbiata dal vino o dalla follia sarebbe preferibile. Che non lo immagina mai, il contatto doloroso di pelle contro pelle, pelle che le mani del Mastino tireranno via come fossero l’ennesima maschera che hanno provato a dipingerle addosso.
Non lo immagina perché sente a ogni respiro il proprio viso staccarsi via, come riflesso incrinato in uno specchio e, quando finalmente si sfiora le gote come se temesse di non sentirle più sotto la punta delle dita, Sansa Stark si rende conto che la partita è finita e lei ha perso ancora. Il sei di narcisi, giallo come l’abito di Cersei Lannister il giorno in cui le comunica che farebbe meglio a vestirsi da moglie di un soldato e non da Lady decaduta, le brilla in mano come fuoco incandescente.
«Sia fatta la volontà di sua maestà» risponde, a ogni domanda. «Sono la sua più umile serva e sarò felice di eseguire il suo comando».
Così dice – sulle labbra, incastrate tra i denti come semi d’uva amarissimi, maledizioni: di tutti i peccati che segnano Joffrey Baratheon, il peggiore pare sia la fortuna e l’immortalità. E per quanto sia odiato e maledetto, si salva sempre (e tutti gli altri mai).
Margaery non lo dice ad alta voce ma, nel momento in cui Sansa Stark si rende conto che la partita è terminata e lei ha perso di nuovo, le sfiora il braccio con il dorso della mano: le dice che un mantello non conta come protezione, soprattutto se è quello dell’uomo che ti promette una vita sopportabile, amore, una famiglia. Se lo facesse, l’ultima sopravvissuta dei lupi di Grande Inverno le risponderebbe che non è così.
Che Sandor Clegane non mente mai – e, infatti, non le ha promesso assolutamente niente.
 
***
 
Smette di far caldo – nessuno lo dice ad alta voce (che non c’è più speranza né d’autunno né di primavera, ma è inverno quel che mastica i fiori di Altogiardino e ghiaccia il Mare Stretto): che il re ha una corona innevata ma, quando brinda al proprio regno, a sé stesso e al figlio che ha piantato in grembo alla regina come pugnale nel petto, non trema mai. Sciocco è chi non sa tremare, dice il Primo Cavaliere di sua maestà, sciocca sua grazia, la regina madre, sciocco il re, sciocca la regina quando si guarda attorno con quei suoi occhi slavati e tutto tace. Ma sciocco, più di tutti, il cane che morde la mano di chi lo nutre: Sandor Clegane s’inchina e giura fedeltà ma, nel momento in cui dovrebbe rifiutare una prigionia dolce a Sansa Stark, sostiene d’esser più duro di una lama d’acciaio e altrettanto affilata.
Joffrey non la vede – quella brace che respira scintille sotto la pelle, al pari dei capelli di Sansa Stark il giorno in cui dice così sia senza note, mentre il mantello dei Clegane le copre le scapole, le tira i capelli come fiamma assonnata. Non brucia più ma, le mani del Mastino sulle spalle, sono condanna pesante quasi quanto il riso del sovrano quando brinda alla propria salute (solo la sua: e sempre sia lodato).
Quel giorno, la corte è condita di risate, come miele nel vino poco annacquato servito agli sposi: Joffrey Baratheon brinda alla fine degli Stark, mentre sua moglie si fa aria con un ventaglio e, sul dito, un rubino brilla circondato da minuscole perline di fiume. Qualcosa che urla, al pari del figlio che regge in ventre, Lannister.
«Alla vostra, Mastino» Joffrey si volta, facendo cenno alla moglie di porgergli il calice. «Spero che la vostra nuova consorte sia un dono gradito per i vostri servigi passati, presenti e, soprattutto, futuri».
«Alla vostra» cinguetta Margaery Tyrell, prendendo tra le dita lo stelo dorato del calice. «Spero che il matrimonio vi sia lieve, Lady Clegane».
La sposa sorride – abito ceruleo, un grigio smorto come la pelliccia di un lupo, le maniche così lunghe che le coprono quasi le dita delle mani: e dicono che sarebbe strega, se avesse il marchio del sesto dito sulla mano, ma quando Sansa Stark si guarda in giro non urlano le vedove e non piangono i neonati e il re è in piedi a brindare e non crolla per terra come fosse pioggia di cenere.
Che il matrimonio ti sia lieve, ha detto la regina prima di bagnarsi le labbra di vino (già rosse), lì dove la vita non lo è stata mai – il re ride, cogliendo la battuta, svuota il calice tempestato di gemme. Poi non ride più.
«Maestà!».
C’è una corona di grida che circonda il sovrano – sua grazia, la madre del re, si strappa l’orlo della veste, calpestandolo con il piede, per correre verso quel figlio tanto amato, temuto, che le crolla addosso come se volesse rientrare nel ventre che l’ha generato.
«Fate qualcosa!» abbaia Cersei Lannister, guardandosi attorno, incontrando lo sguardo costernato di suo padre. «Non respira, aiutate il vostro re!».
Solamente il Primo Cavaliere muove un passo, circospetto, mentre il primogenito di Robert Baratheon si scava la gola a unghiate, il viso reso violaceo dall’ostruzione della gola (sua madre piange).
«Che nessuno lasci la sala» comanda, calmo, il vecchio leone. «Bloccate la porta. Voglio ai piedi della regina la testa di colui che ha osato attentare alla vita di sua maestà».
Ma le urla non si quietano, sebbene interrotte dal pianto silenzioso della regina madre – l’altra regina, la spinosa ragazza di Altogiardino, si è alzata in piedi, mortalmente pallida.
Il vestito verde chiaro è tinto di rosso che le scola tra le gambe e, sebbene Sansa sia pronta a negarlo, Margaery Tyrell sorride con aria trionfante.
 
***
 
«Non dire una parola» il Mastino latra, sottovoce, stringendole un braccio con quelle mani che se volessero potrebbero frantumare l'acciaio. «Mi hai capito? Qualunque cosa accada, non dire una parola».
Lei annuisce ma, mentre la gente si agita e il Gran Maestro annusa sospettoso la coppa del re, con le dita riesce a tirarsi via dalla gola un gemito: Margaery Tyrell ha perso il gusto di giocare, ha detto sottovoce Cersei Lannister mentre alla regina (vedova) veniva concesso il lusso non dovuto di andar via scortata dalle sue dame, ma questa volta non è riuscita a barare con il mazzo.
Ha lanciato un sei di narcisi sul tavolo, gialli come quelli che ha appuntato lei stessa tra i capelli di Sansa Stark, ha guardato suo marito cadere. Pensava che avrebbe perso ed, effettivamente, re di spine batte la regina, l’accoltella al ventre e nasce così l’ennesimo principe che non sarà mai – una macchiolina di sangue sulla sottana, non avrà mai nemmeno un nome: non sarà principe di spine, di rose, di pietra e sicuramente mai di narcisi.
Mi dispiace, vostra grazia, non c’è niente che io possa fare – lo sguardo di Cersei Lannister potrebbe spaccare le rocce, quando comincia a guardi attorno alla ricerca dell’assassino di suo figlio e non sa nemmeno che volto potrebbe avere.
«Lady Clegane» sibila, atona, senza nemmeno guardarsi intorno. Ha il vestito macchiato degli ultimi respiri di suo figlio. «Raggiungete la regina, assicuratevi che stia bene e comunicatele che, quando si sarà ripresa, dovrà fornire la sua versione dei fatti».
La mano del Mastino si allenta attorno al suo braccio ma, anche quando non la sfiora più, Sansa ha la sensazione netta e distinta che lui non l’abbia mai lasciata andare.
Non si guarda indietro ma teme che, a ogni suo passo, ne segua uno dell’uomo che ha giurato di proteggerla ancor prima del matrimonio – Sandor Clegane non dice una parola ma, quando la vede asciugarsi le lacrime con l’orlo della manica dell’abito nuziale, scuote il capo.
Ha perso l’ennesima partita senza aver cominciato a giocare: le regole sono molto semplici – il sei di narcisi perde sempre.

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