Frammenti di stelle

di MissAdler
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** One day ***
Capitolo 2: *** La pace che uccide ***
Capitolo 3: *** In the end ***
Capitolo 4: *** In the sunset ***
Capitolo 5: *** Insieme ***



Capitolo 1
*** One day ***


Rating: giallo
Coppia: Obi-Wan x Anakin/Vader

#preepisodioII #teen!anakin #obiwanpov


Questa storia partecipa all'evento indetto dal gruppo Facebook “Prompts are the way”.
Questo prompt mi è stato dato da Tania Desideri e recitava: "Ha cominciato a guardare Anakin con occhi diversi il giorno in cui si è reso conto che era diventato più alto di lui. Ma il vero cataclisma emotivo lo ha avuto quando ha dovuto insegnargli a radersi."




 
ONE DAY
 


Forse era dipeso dalla voce più roca, più bassa e profonda. Forse dallo sguardo che si era fatto più intenso, tagliente e provocatorio. Obi-Wan non ne era certo, ma qualcosa doveva essere cambiato nel modo in cui lui e Anakin si ritrovavano ogni giorno uno di fronte all’altro.
Un disagio denso e persistente aleggiava costantemente sulle loro teste come una nebbia gelida e appiccicosa, e allora era un battibecco continuo, una cacofonia di Anakin, non lasciare la tua roba in giro! oppure Anakin, è tardi, alzati da quel letto! ma soprattutto Anakin, perché non fai mai quello che ti dico??
O forse non era Anakin a relazionarsi col suo Maestro in modo diverso, forse era Obi-Wan a non riuscire a posare gli occhi su di lui senza sentirsi in imbarazzo.


Il suo Padawan non era più un bambino, e non lo era già da un bel pezzo! Le sue ossa si erano allungate sotto fasci di muscoli acerbi, il viso aveva perso la rotonda morbidezza tipica dell’infanzia, la solita parlantina implacabile aveva lasciato spazio a lunghi silenzi carichi di tensione. Eppure certi atteggiamenti erano rimasti gli stessi, puerili e fastidiosi, come il fatto che continuasse a lasciare le sue tuniche sparse ovunque, a posporre la sveglia almeno cinque volte, o a scansare le verdure sul bordo del piatto con quella smorfia disgustata che a Kenobi dava sui nervi.


Obi-Wan non aveva mai considerato l’idea di doversi confrontare con un adolescente, soprattutto quando lui stesso non riusciva a sentirsi adulto fino in fondo.
A tredici anni Anakin era un terremoto tutto capricci e sudore, a quattordici gli ormoni gli schizzavano direttamente fuori dalle orecchie, e già a quel punto la stoica compostezza del Cavaliere aveva iniziato a vacillare.
Non aveva avuto bisogno di spiegargli niente, perché al Tempio i Padawan erano tutto fuorché disinformati. Obi-Wan era grato di questo, perché gli avevano fatto la cortesia di risparmiare a lui e Anakin una conversazione molto più che imbarazzante. Tuttavia non ricordava che ai suoi tempi funzionasse così… o forse era proprio lui – la sua versione adolescente! – a essere un bamboccio ingenuo e senza speranze, terrorizzato anche di incrociare lo sguardo chiaro e luminoso di Siri Tachi, temendo di poter perdere la verginità anche solo fissando le sue labbra.


Anche in questo Anakin era completamente diverso da lui, viveva la sua pubertà così come guidava una navicella biposto: correndo come un pazzo, assecondando l’istinto e cercando l’adrenalina, lamentandosi teatralmente e inveendo contro ogni rallentamento o segnale di divieto. Il tutto senza curarsi di Obi-Wan, che gli snocciolava mille raccomandazioni dal sedile accanto, terrorizzato e affascinato al tempo stesso.


 


“Maestro, puoi prestarmi un rasoio?”
“Un rasoio?”
“A te non servono più ma magari te n’è avanzato qualcuno.”


Obi-Wan gli si era avvicinato titubante, mentre Anakin si sfregava le guance e ciondolava pigramente spostando il peso da un piede all’altro.
Aveva da poco compiuto sedici anni, le sue spalle si erano allargate e le gambe avevano guadagnato almeno altri tre centimetri, abbastanza da farlo diventare più alto del suo Maestro.


A Obi-Wan faceva sempre uno stato effetto vederselo arrivare a brutto muso, dover alzare il mento per incontrare i suoi occhi.
Lo infastidiva. E non riusciva a capire il perché.


“Guarda” si era lagnato il Padawan indicandosi la mascella con fare polemico, “devo far sparire questa roba!”
“È… barba??”
A Obi-Wan si era rivoltato lo stomaco per lo shock.
Quando era successo? Quanti decenni erano passati?? Come aveva fatto a crescere così in fretta e dov’era finito quel moccioso biondino e logorroico che Qui-Gon gli aveva letteralmente lanciato addosso come la patata più bollente nella storia delle patate?
All’inizio aveva sperato più volte che quel ragazzino crescesse in fretta, che smettesse di essere così strettamente dipendente da lui, convinto che sarebbe stato più semplice un giorno, avere a che fare con un altro adulto.
Ma come succedeva spesso quando si trattava di Anakin, Obi-Wan non aveva capito proprio un bel niente.


“Non sei contento? Ormai sei un uomo fatto e finito” aveva ridacchiato dandogli una goliardica pacca sulla spalla, nascondendo il turbamento dietro un cameratismo così poco tipico di lui.
“Non è… barba!” Anakin aveva letteralmente sputato l’ultima parola. “Sono quattro peli che crescono a caso e che non hanno nessun senso! Mi fanno sembrare un toydariano!”
“Calmati, mio drammatico apprendista, vediamo cosa possiamo fare.”


Quando era riemerso dal bagno, Obi-Wan teneva in mano un rasoio usa e getta ancora incartato.
“Ecco” aveva esclamato lanciandolo al più giovane, “stai attento a quello che fai, soprattutto quando arrivi al pomo d'adamo.”
“Ma come??”
“Che c’è?”
“Io non ho idea di come si faccia! Non puoi pensarci tu?”
Certo che no! Avrebbe voluto protestare in rimando. Non metterò le mie mani su quella faccia, non ora che è così dannatamente… matura? Spigolosa? Attraente?
ATTRAENTE??
Adesso lo stomaco gli era arrivato direttamente tra le tonsille, arrotolato così tanto su se stesso che avrebbe potuto sputarlo.
O magari era solo nausea.
Aveva mangiato a pranzo?
“V- va bene ma sbrighiamoci, ho dei rapporti da consegnare al Maestro Windu entro stasera” aveva borbottato invece, ricacciando in gola il disagio.


Erano tornati in bagno, Anakin si era seduto sul bordo della vasca mentre Obi-Wan si spruzzava sul palmo una noce di spuma al pino – al muschio o qualsiasi fragranza boschiva e virile ci fosse in quella roba che ormai non usava più da almeno due anni.
“Adesso, per una volta nella vita, sta’ fermo!”


Le guance di Anakin erano calde e morbide sotto le dita incerte di Obi-Wan, con un lieve accenno di acne giovanile che era solo la coltellata finale. I polpastrelli scivolavano su ogni centimetro di pelle chiara, sugli zigomi appena spigolosi, sulla curva mascolina delle mascelle, sulla fossetta del mento. E a ogni centimetro il cuore di Obi-Wan pulsava una volta di troppo, come un singhiozzo intercostale che gli faceva vibrare tutta la cassa toracica.


Sei ridicolo, continuava a ripetersi, mordendosi l’interno delle guance. È solo un ragazzino e tu potresti essere suo padre! O più verosimilmente un fratello maggiore…
È tutto così inopportuno!


Anakin aveva chiuso gli occhi, rilassando la fronte corrucciata, abbassando le spalle e respirando più lentamente, mentre lui gli passava delicatamente la lama sulla pelle, eliminando strisce di schiuma mescolata a quella rada peluria biondastra.
Un paio di volte gli aveva spostato sulla spalla la treccia da Padawan, anche se in realtà non ce n’era alcun bisogno. Giusto per assicurarsi che non si sporcasse. O magari per distrarsi da quella vicinanza disdicevole, da quell’odore così familiare eppure così diverso, mischiato a fragranze di bosco e ormoni ancora in fermento.


“Tieni, questo puoi mettertelo da solo.”
Obi-Wan gli aveva passato il dopobarba per poi allontanarsi con una specie giravolta a velocità luce.
Non aveva intenzione di restargli così vicino un secondo di più. Non quel giorno. E nemmeno quello dopo.
Non finché non si fosse abituato al fatto che il suo Padawan si era trasformato in un giovane uomo inaccettabilmente bello e che probabilmente lo sarebbe diventato anche di più col passare degli anni, ma che lui avrebbe dovuto starsene al suo posto e togliersi quelle sciocchezze dalla testa o sarebbe impazzito molto presto.
Il suo dovere era verso l’Ordine e il Consiglio dei Jedi, verso Qui-Gon e le sue ultime volontà, verso Anakin, che ancora dipendeva da lui e che rimaneva una sua totale responsabilità.
Poco importava che proprio Anakin fosse anche la sua più grande debolezza, che rischiasse di farlo uscire fuori di testa anche solo perché era più alto di lui.
Se Obi-Wan non avesse iniziato a tenere a bada il proprio cuore, in un modo o nell’altro, un giorno quel ragazzino sarebbe stato la sua rovina.



 
FINE

 
ANGOLINO DELL'AUTRICE

Hello there! Ringrazio Tania per il bellissimo prompt e mi scuso se alla fine ho tirato fuori 'sta mezza cavolata. Però mi sono svagata parecchio a scriverla e in questi giorni ne avevo bisogno. Mi ha fatto anche passare il blocco per Twin suns, quindi domani ricomincerò a lavorare su quella. 
Se vi va di lasciarmi qualche parola mi farete felice. Grazie comunque per essere qui e per continuare a incoraggiare i miei deliri! ♥
Non riesco a trovare il tempo di rispondere alle recensioni ma mi fanno tanto bene e sappiate che vi blesso tantissimo!

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Capitolo 2
*** La pace che uccide ***


Rating: giallo
Coppia: nessuna


Questa storia partecipa all'evento indetto dal gruppo Facebook “Prompts are the way”.
Questo prompt mi è stato dato da Frida Rush e recitava: “La guerra è qualcosa di naturale”.




 
LA PACE CHE UCCIDE




La guerra è qualcosa di naturale per Anakin Skywalker.
La vive, la respira, la indossa come una corazza robusta e finemente lavorata. Un mantello nero su spallacci di metallo lucente.


I Jedi sono guardiani della pace, non soldati. Ma Anakin è diverso. Lui è nato per la battaglia, per la cenere e le fiamme.
Il suo spirito tormentato trova equilibrio nella minaccia costante della morte, nella libertà di infliggerla senza pietà.
È il suo elemento, la dimensione in cui può essere se stesso. Un dio guerriero bellissimo e terribile, che miete vite come fossero spighe di grano e sorride mellifluo su un tappeto di cadaveri sparsi.


È la pace a non dargli tregua. La calma, l'inerzia, la serenità.
Perché è allora che la sua mente macina ansie e si accartoccia su se stessa, che il suo cuore scalpita pur senza sforzo e la paura lo assale come una febbre purulenta. Il terrore di perdere la testa, di perdere chi ama...


Forse il Codice ha ragione. Forse i Jedi non dovrebbero amare.
O magari la verità suprema è un'altra. Magari l'unica via per l'equilibrio è l'oscurità. Il sangue. La ferocia. La guerra eterna.




 
FINE


 
ANGOLINO DELL'AUTRICE

Così, de botto senza senso. Ho deciso di trasformare tutto ciò in una raccolta, presto aggiungerò anche altre cosette che ho buttato giù in fretta.
Spero che questa vi sia piaciuta. Lo so, è una cosa piccola, ma mi dispiaceva lasciarla lì.
A presto!

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Capitolo 3
*** In the end ***


Rating: giallo
Coppia: past Anakin x Padmé - Obi-Wan x Anakin/Vader

#postepisodioVI #fantasmidiforza #vaderpov



IN THE END

 
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Per vent'anni mi ero convinto che dopo la sua morte sarei stato libero, libero da Anakin Skywalker, dalle sue debolezze, dai suoi ricordi, dai suoi sentimenti superstiti. Ma nel momento in cui avevo letteralmente tagliato in due il mio antico Maestro, guardandolo dissolversi nell'aria davanti ai miei occhi, quella parte di me non svanì come mi era stato promesso dall'Imperatore. Prese invece a gridare e a dimenarsi, a pugnalarmi dall'interno, facendomi sanguinare ogni giorno, tentando invano di ricordarmi chi ero stato, chi avevo tradito, perché ero caduto.

Come tutti coloro che avevo amato, Obi-Wan non c'era più, l'avevo ucciso io stesso per estirpare l'ultimo germoglio di luce dalla mia anima, per lasciarvi solo cenere e terra bruciata, per essere un tutt'uno con l'oscurità.
Eppure continuavo a sentirlo, come una presenza effimera e impalpabile, un fastidioso tremolio nella Forza, una voce che forse era solo un'eco della mia coscienza agonizzante.
Sentivo i suoi passi accanto a me, lo vedevo nel buio dello Spazio, nel riflesso che i vetri della nave mi restituivano quando osservavo il nulla cosmico a braccia conserte, nei volti degli ufficiali che soffocavo per capriccio, per noia, per far tacere quella parte di me che forse era anche una parte di lui.

Solo una volta recuperai di nascosto il suo mantello dal fondo di uno scomparto in cui l'avevo gettato senza cura, appallottolandolo intorno alla sua spada dopo averlo calpestato con sprezzo.
Forse avrei dovuto liberami anche di quelle reliquie, bruciare il mantello, gettare la spada nel compattatore dei rifiuti.
L'ennesima debolezza di Anakin, l'ennesima sciocchezza che Vader non avrebbe mai commesso.
Mi sfilai la maschera solo per un momento, il tempo necessario a portarmi quella stoffa logora contro il naso, ad affondarci la faccia e trattenere a stento un gemito disgustato.
Se avessi avuto ancora uno stomaco funzionante mi si sarebbe rivoltato tra le costole, contraendosi come una tenia e facendomi vomitare.
Vent'anni.
Vent'anni e ancora lo stesso odore.
Quel groviglio di tessuto non sapeva di bruciato, di vecchio o di stantio. Profumava di qualcosa che mi aveva fatto così bene e così male da risultarmi intollerabile, di qualcuno che avevo amato di un amore così crudele e contorto da confonderlo con l'odio.
Il mio amore per Padmé era puro, candido e perfetto. Come tutti gli amori che si nutrono dell'idea stessa dell'amore, che si crogiolano su un manto erboso nel tepore primaverile, anziché scavare nella terra e nel fango per poi affondare le dita tra i vermi.
Eppure è questo che fanno le radici.
È questo che io e lui ci eravamo fatti, senza nemmeno rendercene conto.
E dopo la sua morte eravamo ancora così radicati l'uno nell'altro che sarei stato capace di uccidere me stesso, se avessi avuto la certezza di poter uccidere anche lui.

"Allora mio padre è morto davvero."

Luke stava nel mezzo.
Aveva qualcosa di me e qualcosa di lui.
Aveva molto di lui, forse anche troppo.
Come un'impronta invisibile, un'improbabile somiglianza che andava al di là della genetica e che non riuscivo a ignorare.
Forse era il destino degli Skywalker, essere plasmati da Obi-Wan Kenobi, ascoltare l'eco della sua voce nella testa, sentirlo sotto la pelle, nella carne, nelle ossa, sopportare la sua presenza giudicante fino alla morte.

"Allora il mio amico è morto davvero."

Le stesse identiche parole, tanti anni prima.
Ironico.
Ascoltai Luke e rividi lui, quella resa inevitabile che io stesso avevo provocato ma che poi non riuscivo a tollerare.
Anakin era morto, quel nome non aveva più alcun significato, erano state parole mie. Ma Anakin era sempre lì a supplicare aiuto, a dimenarsi e raschiare con le unghie le pareti della mia cassa toracica.
Obi-Wan non avrebbe dovuto arrendersi con me, non avrebbe dovuto credermi tanto facilmente. Ora non potevo tollerare che anche mio figlio si convincesse di quella bugia, che rinunciasse a salvarmi, seppellendo la speranza mentre Anakin ancora mi respirava dentro.
E infatti non lo fece. Perché grazie al cielo lui non era me, così come non era Obi-Wan.
Lui era la parte migliore di noi.

Non avevo paura di morire. Era giusto. Era facile. Più facile che convivere con tutto quello che avevo fatto, con quello che ero diventato negli ultimi vent'anni.
Chiusi gli occhi e mi abbandonai tra le braccia salde di mio figlio, smettendo semplicemente di provare a respirare.

Sapevo che lui sarebbe venuto a prendermi.
Sapevo che mi avrebbe aspettato.

"Anakin" lo sentii chiamare, col suo solito, inconfondibile accento dolciastro.

E anche se tutto quello che volevo dirgli era "mi dispiace", non riuscii a pronunciare nient'altro che il suo nome.




 
FINE


 
ANGOLINO DELL'AUTRICE

Hello there! Ho scritto questa cosa di getto ispirandomi a questa fan art, non volevo neanche pubblicarla, ma ho pensato che valesse la pena darle una sistemata veloce e buttarla qui senza pensarci troppo. Se vi va di dirmi cosa ne pensate ne sarei davvero felice, non sono abituata al pov di Anakin/Vader, ma spero di averlo reso credibile. 
Ovviamente sto andando avanti con la long, non la abbandono di certo.
Grazie per essere arrivat3 alla fine e a presto!
Aislinn

 

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Capitolo 4
*** In the sunset ***


Rating: arancione (per i tw, non per il sesso)
Coppia: ObiKin/amore creduto a senso unico

 


IN THE SUNSET 




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Non sono capace di ucciderti.
Ci ho già provato. Due volte.
O magari ho solo finto di provarci, quando la verità era che stavo provando a riportarti da me, a risvegliare i tuoi ricordi, a restituirti l’immagine di chi eri stato, di chi eravamo stati, di chi potevamo ancora essere.
Anche dopo Mapuzo, dopo le fiamme, su quella luna sterile dove l’oscurità era tanto densa da soffocarmi.


Per vent’anni ho continuato a chiedermi come, perché, in quale momento preciso, quale dei miei mille sbagli fosse stato decisivo, unito alle tue paure, alle tue fragilità, al tuo bisogno di punti fermi… cosa avrei potuto fare per impedirlo.
Se ci penso troppo mi sembra di impazzire.
Il tuo sorriso, i tuoi occhi, quel terribile modo di scherzare, di prendermi in giro, di fare i capricci come un ragazzino. Quella vibrazione così marcata, primitiva e avvolgente che irradiavi nella Forza e che mi lambiva corpo e anima, che mi entrava dentro fino a scorrermi nel sangue, sincronizzando ogni parte di me, ogni singola molecola, al tuo stesso ritmo, fino a farci diventare una cosa sola.
Come si è rotto? Come hai potuto strapparti quel filo dal petto senza dissanguarti? Perché io continuo a sanguinare anche ora. Ho sanguinato in ogni istante della mia esistenza, per diciannove anni, fino a prosciugare ogni singolo filamento di carne, ogni muscolo, ogni vena, arteria o capillare sottopelle, portandomi dietro questo cuore atrofico e immobile come una pietra al collo.


Forse in realtà sono già morto. Ho smesso di esistere quel giorno su Mustafar, bruciando insieme a te, odiandomi con la tua stessa disperata follia.


Dove sei andato ora? Quanto profondamente hai seppellito il mio amico? Quanto profondamente hai seppellito me, al punto di non ricordarti nemmeno più chi eravamo, quanto eravamo invincibili uno accanto all’altro, splendenti di luce accecante e Forza vivente?
Quanto profondamente arriverebbero le mie parole se ti dicessi quanto ti ho amato, quanto ti amo ancora, dopo tutto questo tempo, dopo tutto questo dolore, dopo tutto quello che ci siamo fatti, nonostante ciò che sei diventato e nonostante ciò che hai fatto?


Tu potresti amarmi nonostante ciò che io ho fatto a te?
Mi hai mai amato, quando eri ancora tu? Quando eri giovane, ribelle e adorabilmente sciocco, bello come un tramonto estivo su Coruscant, incorniciato dalle colonne bianche del Tempio e stagliato oltre il parapetto di granito in tutta la sua dorata magnificenza.
Mi hai amato almeno una volta, una soltanto, in qualche effimero istante in cui lei, coi suoi nastri di velluto e il ticchettio delle scarpette di seta, era troppo lontana, troppo inconsistente e troppo inadeguata tra gli spari, le grida e il puzzo di sangue in cui tu e io annegavamo ogni singolo giorno?
Mi hai amato quando mi hai salvato la vita per la prima volta? Io sì, ti ho amato un po’ di più a ogni salvataggio. E non potrò mai dirti che avevi ragione tu, che non sono state solo nove volte, ma dieci. Che su Cato Neimoidia non ce l’avrei fatta senza di te e che è proprio da quel momento che ho iniziato a considerarti un mio pari, un fratello, un compagno. Un uomo.
Forse sono io lo sciocco a perdermi in fantasticherie così puerili e inopportune. O forse sono il mostro, che ancora fatica a lasciarti in pace, a lasciare in pace lei, quando dovrebbe solo riposare in pace nel profumo dei gelsomini sotto il cielo stellato di Naboo.
Non sono altro che uno stupido, patetico vecchio, perdonami caro amico. Perdonami amica mia. Perdonatemi entrambi.


Eppure ho bisogno di credere che una parte di te in qualche modo mi amasse, che mi volesse come ti volevo io, con tutti i sensi di colpa, le frustrazioni e i tormenti deglutiti a stento. Ho bisogno di credere che anche tu sentissi quel calore e quella vibrazione ogni volta che ci sfioravamo, che i nostri occhi si incontravano e il tuo sorriso si specchiava nel mio.
Ne ho bisogno ora che sono davanti a te e fingo di provare a ucciderti per la terza volta. Ne ho bisogno perché so che non riuscirò a riportarti da me. Che non potrò mai.
E se non sono capace di ucciderti e nemmeno posso riaverti, tutto ciò che mi resta da fare è arrendermi e lasciarti vincere, lasciarti prendere ciò che brami così ferocemente, che forse in parte ti devo, come uno scotto da pagare per la mia incapacità.


Uccidimi Anakin, mio caro, bellissimo amico, ché tanto di questa vita non so nemmeno più che farmene. Non resterò arrabbiato, non sono mai riuscito a restare arrabbiato con te. Alzerò gli occhi al cielo, sbufferò e ti perdonerò anche stavolta.
Lasciami solo stringere l’elsa della mia spada. Lasciami solo un ultimo istante per respirare, chiudere gli occhi e immaginarti com’eri: il tuo sorriso, i tuoi occhi, l’oro del tramonto oltre il parapetto…






 


ANGOLINO DELL'AUTRICE

Così, de botto, senza pietà per nessuno. Volevo qualcosa di angst, qualcosa che facesse il paio con IN THE END, ma dal pov di Obi-Wan, ed ecco a voi questo concentrato di dolore e rimpianti con contorno di sfrangimento di balle servito su un vassoio di malinconia e non detti. Il tutto accompagnato da un calice di lacrime invecchiate 19 anni. Spero che abbiate gradito nonostante tutto. So che non l'avevate chiesto e so che probabilmente ne avreste fatto a meno, ma stavolta questo passa il menù. Perdonatemi. 
Come sempre i commenti sono più che apprezzati, ma intanto vi ringrazio per aver letto anche questo ennesimo sclero.
Baciotti
Aislinn

 

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Capitolo 5
*** Insieme ***


Rating: giallo
Coppia: Obi-Wan x Anakin/Vader

#postepisodioVI #fantasmidiforza #obiwanpov


Questa storia partecipa all'evento indetto dal gruppo Facebook “Prompts are the way”.
Questo prompt mi è stato dato da Kami Rossi e recitava: "Luke è nostro figlio." "Da quando?"




 
INSIEME
 


Luke ci aveva guardati come se già si aspettasse di trovarci lì, impalpabili sagome azzurrine, fantasmi evanescenti con un sorriso fiero stampato sulle facce.
Eravamo in pace. Questo gli avevamo fatto credere, perché quel povero ragazzo aveva già sofferto abbastanza e non meritava altre angosce che non lo riguardavano.

Non ci eravamo detti più nulla, Anakin e io, dopo che l'avevo guidato nel diventare un tutt'uno con la Forza, dopo che ci eravamo perdonati a vicenda e io l'avevo visto tornare l'uomo che ricordavo, tutto capelli ondulati e sorrisi sghembi.
Mi ero limitato a percepire la sua presenza rassicurante in quella dimensione sconfinata e invisibile che ora abitavamo, diventandone parte integrante, aggrappandomi silenziosamente al nostro legame di nuovo integro, con la consapevolezza che anche lui stava facendo altrettanto.

Continuavo a chiedermi se quel filo si fosse davvero spezzato nel momento in cui l’avevo chiamato Darth per la prima volta, o se avevamo semplicemente smesso di cercarci. Lui per emanciparsi da uno sciocco che avrebbe solo dovuto proteggerlo e che invece l'aveva gettato in pasto ai Roggwart senza mai sforzarsi di comprenderlo davvero, io per non morire di dolore e senso di colpa in mezzo alla sabbia rovente, per provare a redimermi in quei pochi anni che ancora mi rimanevano da vivere come un vecchio, pazzo eremita di nome Ben.

Ma per me Anakin c'era sempre stato, nei sogni tormentati, nelle allucinazioni che mi coglievano all'improvviso mentre attraversavo il deserto in groppa al mio eopie, negli occhi chiari di suo figlio, che spiavo da lontano come un povero disperato malato di nostalgia.
Anakin era rimasto per più di vent’anni nei miei pensieri, nel mio dolore costante, sotto la mia pelle.
Sempre. In ogni istante.


Una sera lo vidi materializzarsi di fronte a me, il suo bagliore azzurro contro il precoce buio invernale.

“Perché tu sei ancora così vecchio?” mi aveva chiesto come se stessimo parlando da ore.
“Questo è l’aspetto che ricordo meglio di me stesso. Ed ciò che la Forza ci mostra.”
“Eppure io conservo un'immagine molto diversa di te.”

Anche nelle vesti di un fantasma Anakin era bello. Chiaro e luminoso come il riflesso del cielo in un lago.

“Luke sta bene, questa mattina sono andato da lui. Si è preso la briga di addestrare una specie di Yoda in miniatura su Tython.”
Mentre ridacchiava mi era sembrato di cogliere una scintilla di orgoglio nei suoi occhi, nonostante il tono strafottente.

Quanto tempo era passato? Da quanti anni eravamo morti? Nell’essere un tutt’uno con la Forza il tempo si dilatava e smetteva di esistere, così come lo spazio, le distanze, la logica del movimento.
In effetti non sapevo nemmeno dove mi trovavo in quel momento, come ci ero arrivato, come aveva fatto lui a raggiungermi.
Era come sognare un sogno ininterrotto. Essere nulla ed essere tutto.

“Devi essere fiero di lui” avevo detto sforzandomi di non fissarlo troppo. Cosa alquanto difficile, visto che continuava a sembrarmi l’essere più meraviglioso mai esistito, visto che mi era mancato come l’aria e che tutto ciò che volevo era riempirmi gli occhi con la sua immagine bluastra e impalpabile.

“Lo sono. E tu dovresti esserlo più di me.”

“Io?”
“Luke è anche tuo figlio” aveva detto venendomi vicino. E per un istante la mia sagoma trasparente aveva sfarfallato come un ologramma a bassa risoluzione.
“E da quando?”
“Da quando è nato.”

Anakin aveva sorriso e la notte si era illuminata. Io mi ero illuminato.

“Non capisco…”
“Il Maestro Yoda mi ha raccontato che sei stato tu il primo a tenerlo tra le braccia. E che poi ci sei sempre stato, che te ne sei preso cura per tutta la vita.”
“È stato il minimo che potessi fare.”

Luke e Leia erano tutto ciò che di te mi era rimasto, avrei voluto dire. Ma non lo feci.

“Sarebbe stato bello addestrarlo insieme” aveva concluso lui, facendo scorrere lo sguardo sulle sagome delle colline in lontananza.

Gli Skywalker e i loro sorrisi…
Mi avevano perseguitato per tutta la vita e continuavano a farlo anche nella morte.
Era un piacevole contrappasso in realtà. Ma non gliel’avrei mai detto. Non subito almeno.

“Possiamo ancora farlo. Addestrarlo insieme.”
“Pensi che ci sia ancora qualcosa che deve imparare?”
“No” avevo mormorato ridacchiando a mia volta, con i pollici infilati nella cintura. “Ma possiamo esserci comunque. Per lui.”
“Andiamo allora!”

Anakin aveva allungato la mano verso di me e per un istante ero stato tentato di afferrarla. Ma poi avevo capito che stava solo indicando un punto imprecisato nel cielo trapuntato di stelle, forse il luogo dove si trovava suo figlio.
Nostro figlio.
Avevo sorriso. Avevamo sorriso entrambi, l’uno negli occhi dell’altro, e un ciuffo di capelli lisci e impercettibilmente ramati mi era ricaduto morbido sulla fronte, riportandomi indietro su una linea del tempo che ormai non esisteva più, che si era deformata in una curva, che si era chiusa in un cerchio, in un disegno infinito senza inizio e senza fine.

“Andiamo.”




 
FINE



 

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