Pallido come la Luna

di Ariisu
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Lista capitoli:
Capitolo 1: ***


Capitolo 2: ***

Capitolo Due

***



Capitolo 1
***


Riconciliazione.

Per essere i primi di marzo faceva ancora molto freddo. Nonostante fossi avvolta da una sciarpa pesante e da un cappellino di lana scolorito, sentivo il vento gelido sferzare sul viso. Ero appoggiata alla balaustra del traghetto, osservando prima l'acqua che si increspava e spumeggiava al passare della navetta e dopo sulle alte costiere decorate dai pini. Se affilavi lo sguardo riuscivi a vedere gli ultimi rimasugli di neve cadere ormai sciolta dai rami, facendoli ballare dal peso liberato. Fin da bambina la neve mi era sempre piaciuta ma non riuscivo a sopportarne il freddo correlato. Preferivo di gran lunga le stagioni miti, dove bastava una felpa per stare bene. Eppure i colori aranciati dell'autunno riuscivano sempre ad incantarmi, come per magia.
Il traghetto urtò il fondale ciottolato distogliendomi dai ricordi e facendomi barcollare sul posto. Un signore accanto a me, dall'età avanzata e con lunghi baffi bianchi all'insù, quasi fosse un soldato dell'esercito inglese, spiegò a quello che diedi per essere suo nipote che eravamo giunti a destinazione durante la bassa marea. Non mi capacitavo di come un porto potesse permettersi un fondale così basso, per quanto piccolo e mediocre fosse. E quando stavo per chiederglielo, vista la sua esperienza in mare aperto dei discorsi precedenti, quest'ultimo mi sorpassò per scendere dal traghetto e recapitare i propri bagagli insieme a quelli del nipotino.
Imitai il resto dei passeggeri, per cui tornai con i piedi a terra dopo un'ora e quaranta di viaggio — includendo la sveglia impostata di mattino presto — prima di ritirare i miei bagagli composti da un trolley blu e un borsone da palestra. Più tardi avrei dovuto per certo fare i conti con i vestiti accuratamente compressi all'interno di essi. Probabilmente mi ero portata dietro più del necessario tra indumenti di vario tipo, scarpe a non finire e piccoli gioielli.
All'uscita del porto era situata, lungo tutto un lato circolare della piazzetta, una stazione di autobus. Alcuni portavano al centro della città, altri al lago e altri ancora verso le appendici di una montagna che si intravedeva anche dalle più basse delle posizioni. Io invece mi diressi verso l'unico autobus con destinazione finale l'entrata del bosco. L'unico problema sarebbe stato camminare da sola, con bagagli di un certo peso, per raggiungere casa mia. Sfortunatamente il pullman non la raggiungeva e avere una macchina tutta mia avrebbe agevolato assai la situazione.
Ritirai il biglietto d'andata da un tabacchino lì vicino e mi diressi verso il mezzo di trasporto per timbrarlo e prendere posto. Purtroppo non vi era molto spazio a disposizione e quindi fui costretta ad occupare anche il sedile accanto al mio sperando che non ci sarebbe stato il pienone durante il tragitto, cosa alquanto rara se non nella stagione delle castagne. E quando il motore si accese dopo aver fatto salire gli ultimi passeggeri rimasti nella piazzetta, rilassai l'intero corpo concedendomi di accasciarmi sul sedile rivestito di stoffa blu e gialla mentre mi godevo quel paesaggio fin troppo conosciuto. La tratta percorsa in autobus era leggermente diversa da quella che solitamente compivo con i miei genitori, infatti con la macchina non ci addentravamo nei primi meandri di boschetto di pini preferendo strade più aperte e illuminate. Tipica sicurezza stradale di mio padre per avere sotto controllo la figlia curiosa, la quale chiedeva di fermarsi ogni qualvolta intravedeva un leprotto saltellare da una parte all'altra del sottobosco. Oramai la fauna si era abituata alla presenza dell'uomo, eppure io continuavo a sperare che quest'ultima mostrasse poca confidenza.
La prima fermata arrivò dopo circa dieci minuti di viaggio. Avevo la testa appoggiata al finestrino quando un leggero bussare ad esso la fece tremare sulla superficie di vetro. Scoprii trattarsi di un mio vecchio amico di scuola, Eijirō Kirishima. Era stato il primo a rivolgermi la parola quando avevo fatto il mio ingresso dalla porta principale dell'istituto. Avevo frequentato quella scuola per gli ultimi due anni e mezzo prima che i miei genitori trovassero un'altra casa nel vecchio quartiere in città. Nell'appartamento in cui vivevamo prima erano sorti dei problemi, per cui decisero che era meglio venire a rifugiarsi nella seconda casa nel mezzo del bosco prima di trovarne una nuova e accogliente. Tuttavia, avendo raggiunto la maggiore età da due anni, mi ero presa la briga di venire qui più spesso. Si trattava di un luogo abbastanza silenzioso e riservato dove la gente non faceva troppe domande, nondimeno esitavano ad aiutarti in qualsiasi momento.
«[T/N], da quanto tempo!» Esclamò lui con un sorriso più luminoso del sole.
Ogni anno che passava Eijirō era sempre in continuo cambiamento. Da quando lo avevo conosciuto ad adesso, la prima cosa che risaltava agli occhi era sicuramente la sua forma fisica. Da mingherlino che era, soprattutto dalle vecchie foto che mi fece vedere durante un'uscita, si era fatto più muscoloso e virile. Addirittura mi aveva mostrato con orgoglio il suo abbonamento annuale alla piccola palestra situata in una delle stradine secondarie che tutti utilizzavano per risparmiare tempo, perlopiù da adolescenti che non possedevano ancora un proprio mezzo per spostarsi in autonomia oltre alle biciclette.
«Ciao Kiri» ricambiai con affetto, affrettandomi a spostare la borsa che occupava quello che sarebbe dovuto essere il suo posto a sedere se solo non avesse deciso di sedersi dietro di me e far sbucare la testa tra i due sedili. Da quella prospettiva ricordava un bambino curioso, tuttavia gli accenni di barba scura in contrasto con i capelli tinti di rosso gli facevano perdere quella buffa somiglianza. Ero contenta di averlo incontrato, la sua energia positiva e solare riusciva a contagiarmi in un batter d'occhio.
«Come vanno le cose qui?» Chiesi, curiosa di sapere se ci fossero novità di cui parlare. Ad Eijirō si illuminarono gli occhi. Era il ragazzo che ne aveva sempre una nuova da dire, eppure quando si metteva in faccia quell'espressione non riuscivo mai a reprimere un risolino. Spostò lo sguardo con fare pensoso prima di parlare.
«Al solito: Bakugō continua a rimanere il solito scorbutico, ma suona davvero bene la batteria. Denki ancora non ha capito che serve un circuito chiuso per far girare la corrente, Sero lavora un po' qua e là e Mina ha aperto da poco una scuola di ballo. Dovresti andarci ogni tanto, ci si diverte da matti e sono sicuro che la prima lezione sarà gratis, ma solo per te.» Ridacchiò esponendo la famosa fila di denti bianchi e affilati. Ancora stentavo a credere di come la genetica avesse giocato con lui. Era una caratteristica così rara e particolare di cui usava nascondere e provare forte imbarazzo. Per fortuna con gli anni aveva imparato ad apprezzarla e a trarne un punto di forza, probabilmente i motti sugli squali virili avevano funzionato.
«Purtroppo non ho avuto modo di sentire recentemente tutti gli altri. Ogni tanto ci si becca per strada ma non ci si scambia più di qualche parola di circostanza. Peccato, sento molto la loro mancanza.» Quella frase mi fece intristire un po'. Ed Eijirō aveva ragione. Nonostante in classe era inevitabile che si formassero gruppi, era pur sempre piacevole scambiare quattro chiacchiere con i propri compagni. Mi piaceva come ognuno avesse rispetto per l'altro, cosa che in una classe numerosa era assai inusuale. Mi chiesi anche se non fosse stata colpa dei primi che avevano cominciato ad allontanarsi per seguire le rispettive strade, sfociando poi in una reazione a catena. Non ci pensai molto, le amicizie scolastiche non sono obbligate a rimanere tali per il resto della vita.
Raggiungemmo la seconda fermata. Il panorama consisteva in un palo sporco di fango conficcato nel terreno sterrato adornato con qualche pozza e ago di pino. Ripartimmo immediatamente, nessuno frequentava quelle zone, a parte qualche avventuriero troppo stanco o spaventato che preferiva fare affidamento ai pochi autobus di passaggio.
Rannicchiai un ginocchio contro il petto, lasciando l'altra gamba dondolare al ritmo della vettura. Kirishima sembrava perso nei suoi pensieri. Probabilmente stava cercando nei meandri della mente qualche ricordo da rievocare con la stessa complicità avuta da ragazzini. Era bravo a raccontare storie, aggiungeva quel pizzico di brio che molti si lasciavano sfuggire.
Ricordai di una volta in gita scolastica in un museo archeologico, organizzata in malo modo da un paio di miseri docenti, i quali avevano acconsentito ad un'uscita di classe sotto nostre continue lamentele. Per mia sfortuna vi erano pochissimi resti di dinosauri, sovrastati perlopiù da rinvenimenti storici tirati a lucido e da qualche mummia nascosta in un sarcofago in legno marcito a rubare la scena. Infatti in molti ci eravamo chiesti come mai un'uscita del genere fosse costata così poco. Non ci demmo peso. Gli unici interessati erano coloro che di storia ne sapevano sulla lunga, ovvero i classici secchioni e quei pochi che si erano aggiornati in materia tramite studio autodidattico. I bighelloni, invece, si divertivano a imitare le scene dipinte sui vasi di terracotta e a cercare delle formule di magia nera sul cellullare per risuscitare le mummie. Eijirō balzava tra i due gruppi, talvolta raggiungendo gli annoiati dacché strisciavano i piedi sul parquet per rimanere al passo con il resto della classe. Di certo le descrizioni prolisse e lamentose non aiutavano a rimanere svegli. Io mi ritrovavo a seguire disinvolta il monologo della guida, permettendomi di aggiungere delle piccole annotazioni di bordo pagina su reperti egizi, strappando di tanto in tanto occhiate compiaciute dai compagni. La cosa non mi dispiaceva affatto, anzi. Risollevare gli animi tediati con delle brevi interruzioni aiutava anche me a non guardare compulsivamente l'orologio per scoprire quanto mancava alla fine del giro.
Con la coda dell'occhio scorsi Eijirō, Denki e Mineta ridacchiare attorno ad una teca cubica, strabuzzando gli occhi per osservare meglio le figure. Già immaginavo cosa stessero ispezionando. Li raggiunsi, esasperata dall'ennesima scena di accoppiamento caratterizzata da genitali di notevoli dimensioni. L'unico con un minimo senso di pudore sembrava essere Kirishima, avvolto da un velo di rossore sugli zigomi. Mineta teneva gli occhi spalancati con le pupille più dilatate che avessi mai visto. Evitai di far scorrere lo sguardo più in basso per evitare certi inconvenevoli. Sospirai stancamente, nemmeno in quel contesto riuscivano a reprimere gli ormoni. Tuttavia, una frase del mio amico dai capelli rossi attirò la mia completa attenzione, lasciandomi col fiato sospeso.
«Potrebbe sembrare una scena di voi sapete cosa, ma se fate un passo verso destra, riuscite a vedere un toro in piena carica. È un monumento risalente al sesto secolo avanti Cristo. È stato realizzato in terracotta e dipinto con una miscela di carbone. Gli artisti del tempo hanno voluto realizzare una scena dinamica, che scaturisse l'impressione del movimento pur avendo davanti agli occhi figure statiche. È molto raro da queste parti, si dice che sia stato l'unico ad essere stato rinvenuto qui, nella nostra città, a poche miglia dal confine.»
«Non ti facevo un critico d'arte!»
Kirishima alzò le spalle, sorridendo.
«Durante gli allenamenti in casa mi capita spesso di ascoltare documentari sull'arte, a mia madre piacciono così tanto che alza sempre il volume di troppo. Se vuoi, posso dirti di più.»
Annuii meravigliata, impaziente di scoprire quali altri misteri celava quell'antica creazione.
Trovavo Eijirō Kirishima un ragazzo pieno di fascino. L'amico buono e gentile che riesce ad ammaliarti con il suo carisma. Non ho mai avuto chiaro in mente quali fossero i reali sentimenti provati nei suoi confronti. Si poteva definire come una calamita, che tuttavia deve attrarti dal polo giusto per funzionare.
Seguimmo la guida fino al termine del percorso ed io riuscii a strappare qualche altra informazione da Eijirō. Poi, dopo i vari saluti, ricordai che i più influenti della classe erano persino riusciti a far tardare l'orario di rientro per permettere di riprenderci da quella che era stata una processione più che una visita al piccolo museo della città, sempre se così si poteva definire.
Mi piaceva rivivere i ricordi adolescenziali con qualcuno, seppur con una nota di nostalgia. I bei tempi erano finiti e bisognava mettersi la testa sulle spalle per guadagnarsi il futuro.
Presi una boccata d'aria più lunga delle altre e spostai lo sguardo verso il finestrino, osservando distrattamente la natura che, man mano si faceva prospera, si faceva anche buia. Le fronde alte e rigogliose dei pini lasciavano trapassare la giusta quantità di luce per non sentirsi ancora in pericolo.
Avevamo superato altre due fermate e ce ne rimaneva una, ovvero la mia. Raggruppai i bagagli sul sedile vuoto accanto a me e iniziai a mettermi in posizione per scendere. Ormai non mancava molto. Eijirō mi imitò, affrettandosi a prendere sotto mano la valigia e la borsa perché, a detta sua, un gentiluomo non fa mai faticare le belle signorine. Lo lasciai fare. Un po' per il fatto che stavo iniziando a sentire la stanchezza del viaggio e un po' per non offendere la sua virilità. Pigiai il tasto per prenotare la fermata e poco dopo ci ritrovammo con i piedi su una stradina fanghigliosa. Di recente aveva piovuto ed Eijirō confermò i miei pensieri raccontando di come la notte precedente fosse caduto qualche fiocchetto di neve. Nell'aria aleggiava un forte odore di terra ed acqua mischiato al profumo dei pini che ci circondavano. Mi era mancato quell'aroma, talmente tanto che non smettevo di inalarlo con profondi respiri.
Feci cenno ad Eijirō di seguirmi camminando poco più avanti a lui, non riuscivo nemmeno a ricordare quand'era stata l'ultima volta che era venuto a farmi visita. Estrassi in anticipo le chiavi dalla tasca del cappotto color castagna, ansiosa e stanca di raggiungere la meta finale del mio viaggio.
La vacanza stava per iniziare e non volevo perdere nemmeno un secondo.

 

 

 

Nota Autrice

Ehilà!
E così finisce il primo capitolo.
Mi duole dirlo ma per la comparsa di Todoroki ci vorrà ancora un pochino, quindi per il momento godiamoci della cordialità del nostro Kirishima.
Dunque, siamo arrivate a destinazione con piedi striscianti e schiene ricurve, ma ci sarà molto lavoro da fare prima di permettersi un po' di relax.
Detto questo, vi saluto e ci vediamo al prossimo capitolo!
Buona lettura :)

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Capitolo 2
***

Capitolo Due

***


Scarpe in pista.

Come previsto, la casa era un tutt'uno con la polvere. Seppur rimasta per mesi con tutte le serrande chiuse, quella maledetta polverina riusciva ad infiltrarsi ovunque.
Accolsi Eijirō all'interno dell'abitazione allungando la mano a lato della porta per cercare il vecchio interruttore a scatto della luce, la quale si accese traballante, illuminando di un giallo soffuso la stanza. Avrebbe resistito qualche giorno, dopodiché sarei salita su una sedia per sostituire la lampadina.
Dalle imposte accostate trafilava una pallida lama nebulosa, la quale oltrepassava di netto la tenda polverosa come un coltello. Per il resto, tutto era rimasto come io e i miei genitori lo avevamo lasciato. Mobili e televisore coperti da lunghi e pesanti lenzuoli ormai troppo datati da avere il coraggio di usarli per un'ultima volta. Il frigo riempito con qualche peluches e cibo dalla lunga data di scadenza. Nel freezer, invece, giaceva dimenticata una confezione di ghiaccioli alla menta, limone e arancia. Ad essere onesti, quasi tutta l'abitazione era stata ricoperta da teli di colori e dimensioni ognuno differente dall'altro. Soltanto il bagno e la cucina erano rimasti scoperti.
Tutto sommato non era male, almeno per me, pensai io. Una piccola casetta circondata da pini e piccola selvaggina. Il paradiso terrestre per gli amanti della natura e della solitudine. Certo, ci sarebbe voluto non più di qualche giorno per rimetterla in sesto, ma con un po' di musica e buona volontà il grosso del lavoro si sarebbe svolto il primo giorno. O perlomeno la mattina seguente. Al momento le mie prestanze fisiche equivalevano a quelle di un bradipo abbracciato al suo ramo preferito mentre si rigira tra i denti un pezzo di corteccia per noia. Fino al termine della giornata avrei semplicemente svolto il minimo indispensabile prima di crogiolare sotto le lenzuola – di cui dovevo ancora tirare fuori dall'armadio e rivestire il materasso di quella che un tempo era la mia cameretta, trasformata negli anni in una stanza adolescenziale ricoperta di poster e mai più mutata fino al mio imminente arrivo. –
Cominciai con il togliere i teli in salotto, passando poi a quelli nelle due camere da letto. Eijirō si era preso nuovamente la briga di aiutarmi, per cui gli dissi che per il momento bastava appallottolare i lenzuoli e buttarli sul pavimento. Più tardi li avrei messi in lavatrice insieme alle tende, ammesso che avrei avuto le forze di toglierle.
Io ed Eijirō lavorammo in perfetta armonia, tant'è che ci ritrovammo con un ammasso di teli nel piccolo salotto dai muri verdi e una nube di polvere che non voleva saperne di uscire dalle finestre aperte. Avevo persino alzato le zanzariere sperando vivamente che tutta la flora volante del bosco non entrasse in casa. A quel punto mi sarei sigillata la porta di casa alle spalle e sarei scappata nel mediocre hotel poco lontano dall'ingresso della città. Non che fosse tanto meglio di una casa pensionistica; ma almeno il nome, Hotel Ranch, camuffava alla perfezione quel drastico rinnovo che propinavano ogni primo dell'anno come unico buon proposito da non so quanto tempo.
Tutto di questo posto mi era mancato, a cominciare dai profumi e i colori. L'aroma inconfondibile di pino, l'aria frizzantina dopo una magnifica giornata di pioggia e quella lievissima fragranza di legno intagliato e appena muschiato. Il profumo invitante delle caldarroste e del forno a legna della panetteria. Il verde scuro degli alberi, l'erba imperlata dalla rugiada e il continuo susseguirsi delle stagioni. Ero emozionata come non mai. Tornare nella piccola casa vacanze mi faceva brulicare di vitalità.
La sera calò in fretta e una leggera brezza faceva danzare i rami degli alberi sopra il tetto. Mi sentii in dovere di offrire la cena ad Eijirō, infondo aveva sacrificato la sua giornata per aiutarmi e il minimo che potessi fare era almeno offrirgli il pasto. Scesi da camera mia, quasi inciampando su un gradino, e per poco non ritrovai un muro di muscoli a sbattermi sul viso. Si era fatto incredibilmente robusto e questo dettaglio si appuntò in un angolino della mia mente con un bel puntello rosso molto affilato. Evitai di proposito il contatto visivo e, come se niente fosse, mi diressi all'ingresso nascondendo alla bell'è meglio il mio viso mentre calzavo le scarpe. Infilai di fretta e furia il cappotto – incastrandomi in ciascuna manica – maledicendo il mio essere così goffa e maldestra. Soltanto una volta mi era capitato di arrossire e balbettare davanti ad Eijirō e da quell'episodio mi finsi malata per non andare a scuola per ben tre giorni. Dopodiché tutto ripartì alla normalità. Non ne parlammo mai, anzi. Più di una volta si era presentata l'occasione ma la scansavamo mettendoci a ridere su come Denki si fosse tinto la saetta nera sui suoi bei capelli biondi più storta dell'ultima volta.
Lo invitai a fare lo stesso con un fil di voce. Improvvisamente sentii di poter vincere una maratona ad occhi bendati. Spensi le luci, chiusi le finestre e la serratura scattò con un sonoro clunk.
«Quella tavola calda accanto al negozio di CD è ancora aperta?» Chiesi, osservando con blando interesse le punte infangate delle mie povere scarpe. Le fissavo, passo dopo passo, senza realmente guardarle. La testa immersa in un altro universo. Probabilmente sarebbe stato meglio ringraziarlo e dedicare la serata esclusivamente per me, raccontandogli una bugia bianca e promettendo che ci saremmo sicuramente rivisti a breve con gli altri. Ma ad Eijirō non riuscivo a mentire. Così bello e spensierato, che quasi faceva male a guardarlo per il timore di vedere un'espressione che non fosse felicità sul suo volto incorniciato di rosso.
Chissà se questi strani sentimenti provati nei suoi confronti fossero dovuti dalla felicità di rivederlo o nascessero da un qualcosa di più profondo e mai scavato.
Spensi il cervello.
Eijirō e amore non potevano stare in una sola frase.
«[T/N] mi stai ascoltando?»
«Cosa?»
«Il fango ti ha ipnotizzato?» Ed ecco un'altra delle sue risate cristalline.
Finsi di essere sorpresa e abbozzai un sorriso. Sentivo il cuore picchiare sulla gabbia toracica.
«Dipende da quanti di quei catorci a diesel sono passati di qui.» Strizzai gli occhi e saltellai poco più avanti di lui, le mani che sprofondavano nelle tasche del cappotto. Mi costrinsi a dei respiri lunghi e profondi, permettendo al freddo di ghiacciarmi il cervello senza ribellarmi. Avevo vent'anni, non quindici. Le storielle da liceo erano finite da un pezzo.
«Dicevo,» susseguì una breve pausa «che un sandwich bar ha preso il posto di Ducks&Friends. Ancora non l'ho provato, ti andrebbe?»
«Ducks&Friends e un sandwich bar? Quante cose mi sono persa? E che fine ha fatto HotDog ColdCat?» Non che potessi aspettarmi molto dalla fantasia di gente di paese, tuttavia certe volte faticavo a credere che dietro quegli strambi nomi non ci fosse altro che mero marketing. Perlomeno fruttavano loro soldi per i primi anni. Dopodiché la novità scemava così come l'interesse degli abitanti. Soltanto un nome aveva regnato a lungo in questo lato di periferia, talmente tanto che al volgere dei suoi tempi venne addirittura organizzato un corteo in memoria dei due anziani che lo gestivano. Fu una bella batosta anche per me.
«A dire la verità non in pochi hanno fatto a gara per accaparrarsi quell'immobile. Che tristezza, i due nonnini avevano davvero un cuore d'oro, per questo i loro piatti erano i più buoni di tutto il mondo!» Eijirō sospirò talmente forte da finire col strozzarsi. Poi riprese come se avesse fiato da vendere.
«Ricordo come se fosse ieri quella deliziosa minestra al tartufo.» I suoi occhi brillarono dall'emozione. Apprezzavo tanto questa sua sensibilità, lo sentivo vicino. «Il sapore leggero ma deciso, il profumo delicato e quella bellissima sensazione di calore ad ogni boccone. Quanto vorrei riavvolgere il tempo per assaggiarla un'ultima volta.» I suoi occhi si spensero e rimanemmo in silenzio. Poche volte avevo avuto l'occasione di andarci. Da quel che avevo sentito dire valevano molto dei piatti semplici ma notevolmente elaborati, non il genere di cose che farebbero gola ad un adolescente amante di merendine per colazione, pranzo e cena. L'empatia nei confronti del mio amico crebbe a dismisura. Mi riavvicinai a lui, permettendomi di sfiorare la sua spalla con la mia. Sapevo quanto ci teneva ad onorare i due anziani, aveva migrato su di loro l'ideale di nonni che non aveva fatto in tempo a conoscere.
Camminammo in silenzio, ricordavo alla perfezione il tragitto da casa mia alla piazza. L'unica cosa a preoccuparmi era l'avanzare del buio sulle nostre teste. Eppure con Eijirō accanto ogni timore spariva. Probabilmente nel mio ideale lo vedevo come un cavaliere, coraggioso e tenace da spaventare persino un leone. Ma troppo buono per sfiorare una mosca. Sentivo di impazzire.
«Eijirō, posso farti una domanda?» Parlai senza pensare. Aspettai però una sua risposta, che arrivò con un notevole ritardo.
«No, niente. Lascia stare.» Il silenzio ci avvolse di nuovo. Non sapevo esattamente cosa dire. Cercavo un modo per distrarlo ma la mia mente non suggeriva nulla. Per cui mi lasciai cullare dal vento. Le fronde alpine frusciavano sopra di noi come una ninna nanna. Soave e pacata, il genere di melodia che ti fa perdere all'istante la cognizione del tempo.
Sbucammo al terzo palo che determinava la fermata dell'autobus. Un tempo giallo, adesso aveva acquistato lo stesso colore del mio cappotto. Lo superammo, sempre nel nostro silenzio tomba. Mancavano altre due fermate di autobus per raggiungere la piazza, il che, secondo un mio veloce calcolo, sarebbero serviti più del doppio dei minuti usufruiti dal pullman per arrivarci. Sbuffai tra me e me, rimuginando su quanto fosse stata una buona idea.
Una leggera pioggerellina ci investì all'improvviso. Molto leggera ma pungente. Accelerai il passo, sperando che il mio amico facesse lo stesso. Avevo dimenticato l'ombrello dentro la valigia e non mi azzardai nemmeno ad inchiodare per fare retro marcia e correre sotto la veranda di casa. Una corsa sotto agli alberi non avrebbe di certo fatto male, sempre sperando che la lieve precipitazione non si trasformasse in un temporale con tanto di tifone. A quel punto ero pronta a farmi tirare sotto da un tronco.
Correvamo con le mani sopra la testa, Kirishima si era leggermente ingobbito e ciò non poté che procurarmi una risata.
Dopo una decina di minuti, finalmente, eravamo arrivati alla piazza. Io senza fiato, annaspante e con le mani sulle ginocchia, Eijirō più in forma che mai. Salimmo su un autobus in partenza e dopo tre fermate ci ritrovammo di fronte a quella che diedi essere una tavola fredda. Da quel che riuscivo a vedere attraverso la vetrata, offrivano una buona varietà di panini, sandwich, piadine e qualche dolce.
«Scusa» disse all'improvviso, «mi era venuta voglia di un panino con lo speck.»
Lo guardai interdetta, indecisa se mostrargli risentimento o ridergli in faccia per come se ne era uscito. Scossi la testa, oltrepassandolo con una lieve spinta per entrare al riparo. Nel frattempo la pioggia si era fatta più intensa.
«Fermi lì!» Una seconda voce mi raggiunse, calda e tuonante. Mi voltai di scatto, già pronta a tornare sotto la pioggia battente per non allagare il locale. In effetti avevo il cappotto che sgorgava acqua dalle estremità. Eijirō mi coprì gli occhi, spingendomi con il corpo per farmi entrare. Rimasi in silenzio con la bocca spalancata. Probabilmente assomigliavo ad un pesce, mancavano solo le squame a rivestirmi. Tuttavia non potei lamentarmi, soprattutto per le visioni di Kirishima a petto nudo che mi affiorarono in mente.
Facemmo qualche passo, poi d'un tratto Eijirō si arrestò. E per inerzia, anche io.
«Pronta, [T/N]?» Sussurrò lui al mio orecchio. Un brivido mi corse lungo la schiena. Speravo non si fosse accorto della pelle d'oca che era affiorata sul collo.
Cosa dovevo aspettarmi, stripper palestrati in divisa da poliziotto o pompiere? Repressi il sorriso da ebete che mi stava increspando le labbra.
Forse avrei dovuto pensare più razionalmente. Però non sarebbe stato affatto male.
Magari un evento di drag queen. In più di un'occasione il benzinaio mi aveva dato quell'impressione. Ero già pronta a lanciare le banconote. Peccato che avessi solo la carta di credito con me.
Sconsolata dal mio pessimo inventario intellettuale, annuii lievemente.
Stavo iniziando a tendermi e un piccolissimo nodo allo stomaco aveva preso a stringersi dall'emozione.
«Al mio tre.» Soffiò lui contro la mia guancia.

 

 

 

Nota Autrice

Ebbene sì, un po' di suspense per sfogare i gridolini da dodicenne al concerto di Justin Bieber.
Anche qui, mi ripeto, per Todoroki c'è da pazientare un altro po', ma prometto che non ve ne pentirete ;)

Ci vediamo al capitolo 3, buona lettura!

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