Jailbird

di Kim WinterNight
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1 ***
Capitolo 3: *** 2 ***
Capitolo 4: *** 3 ***
Capitolo 5: *** 4 ***
Capitolo 6: *** 5 ***
Capitolo 7: *** 6 ***
Capitolo 8: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


NOTE:
Quello che state per leggere non è assolutamente da considerarsi realistico.
Ho semplicemente avvertito la necessità di scrivere questa storia, una serie di flussi di pensieri interamente incentrati su Mike Patton.
Da quando ho saputo che ha dovuto annullare tutti i suoi concerti dalla seconda metà del 2021 fino a quelli programmati per la prossima estate per via di “problemi mentali” non meglio specificati, sono rimasta veramente colpita e ho cominciato seriamente a preoccuparmi.
Così sono arrivata a partorire questo racconto che cerca di descrivere e indagare su ciò che potrebbe ipoteticamente albergare dentro di lui, anche se non ho effettivamente nulla di concreto su cui basarmi e quindi ho soltanto messo in moto la mia fervida immaginazione; ho pensato che il tutto potesse avere a che fare con la pandemia, visto che tutto è cominciato dopo il suo inizio, ma ripeto, sono solo e soltante mie idee.
Se solo potessi sapere come sta e cosa gli sta succedendo, forse sarei più tranquilla anche io.
Ma non è così, Mike è riservato e non parla mai di se stesso. Si sa veramente poco di questa faccenda e la cosa non fa che ferirmi.
Così è nata questa storia, anche grazie all’aiuto dei testi di canzone che accompagneranno ogni scena e momento.
In ogni capitolo troverete momenti di diverse giornate e ci saranno menzioni e apparizioni di persone che fanno in qualche modo parte della vita di Mike.
Se non siete in vena di leggere qualcosa di angst e triste, beh, vi consiglio di skippare il mio lavoro.
Mi ha distrutto emotivamente scriverla, ma allo stesso tempo dovevo farlo.
Prendetela così com’è: una storia introspettiva e dolorosa, senza pretese né ambizioni.
Volevo solo scrivere per Mike – di Mike.
Perché mi manca e voglio soltanto che torni a fare ciò che ama, più forte ed energico di prima.
Spero che riesca a emergere nuovamente da qualsiasi inferno stia vivendo.
E io lo aspetterò ♥
 
 
 
 
 
 
Prologo
 
 
 
 
 
 
C’è qualcosa che mi distrae.
Una voce tra le voci, uno speaker alla radio, un mormorio in mezzo a una folla impossibile.
È sempre così alla stazione della metro, ma stavolta un fattore diverso mi attrae. Non me lo so spiegare, ma succede.
Quella voce parla di sette casi. Sette casi di qualcosa, in Cina. Mi concentro, ma è difficile sentire in mezzo a questo caos.
La gente mi viene addosso, mi parla in faccia, ride e corre di qua e di là.
Tra le mille voci e le tremila parole, colgo ancora qualcosa: virus.
Non so perché ci faccio caso.
È una giornata come un’altra, una radio qualsiasi trasmette un notiziario qualunque e io rimango in ascolto.
Non lo faccio mai, non quando ho fretta.
E oggi ne ho tanta: devo andare in studio a lavorare sui brani del nuovo album di Duane, è da un po’ che i Tomahawk non sfornano qualcosa.
Scrollo le spalle e accelero il passo, facendo lo slalom tra i corpi esagitati dei presenti.
Quando esco dalla stazione, mi sono già dimenticato cosa abbia attirato tanto la mia attenzione.

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Capitolo 2
*** 1 ***


1
 
 
 
 
 
 
House creaking
The hinges on the door
Thoughts creeping
 
 
Sono chiuso qui dentro e non riesco a uscire.
Sento il vento frustare la mia casa ed essere parte della mia frustrazione.
Le pareti cigolano, la porta cigola, i miei pensieri cigolano.
Mi sento in trappola e non so quando tutto questo sia cominciato.
È trascorso un tempo che non so definire, non ho mai prestato attenzione a certi dettagli.
Sono come un vegetale, un verme, striscio tra le lenzuola come i pensieri mi strisciano nella mente.
Mi rigiro senza tregua, non faccio letteralmente nient’altro da giorni.
Settimane.
Mesi?
Il tempo non mi appartiene, mi scivola soltanto via dalle dita.
Cosa facevo prima di essere inghiottito dalle mie stesse mura?
Cosa facevo prima che l’ansia prendesse il sopravvento e mi riducesse al silenzio?
Provo a ricordarlo, ma sono annebbiato, completamente annientato dal vuoto che mi circonda.
Gli oggetti sono soltanto ombre, le pareti entità sfocate, io stesso sono soltanto il fantasma di me stesso.
E i miei pensieri strisciano indistinti, intoccabili, deformi.
 
 
It's like when your mind
Has a mind of its own
Please take mine
Don't leave me alone
Capture me
 
 
Non comando io sulla mia mente.
Va da sola.
A volte è come non averla, capita sempre più spesso.
Quanto vorrei avere la forza per chiedere aiuto, per cercare qualcuno che sia disposto a stare con me, a non lasciarmi più solo…
Quanto vorrei capire cosa succede attorno a me.
Perché la mia casa scricchiola, ostile, e vuole buttarmi fuori.
Non capisce che io non posso uscirne? Non capisce che sono senza energie? Non capisce che sono vestito d’ansia, paralizzato?
Mike.
Mi chiamo Mike, questo lo so. È già qualcosa, forse.
Tutto attorno a me è vuoto, mi spezza, mi divora.
Cosa facevo prima di essere una nullità senza alcuna volontà?
Qual era il mio scopo nella vita?
Quanto tempo avevo per realizzare i miei obiettivi?
Sempre troppo poco.
E adesso tutto si dilata, non è rimasta la minima traccia di ambizione.
Solo ansia, ansia, ansia.
Da cui non riesco a separarmi, cazzo.
La sento che mi chiama, sussurra melliflua, me lo ricorda in ogni istante.
«Non ti lascerò andare. Sei una parte di me, non possiamo separarci.»
Sembra la melodia di una canzone lontana, di un ricordo sbiadito, di una vita che non mi appartiene da secoli.
Le mie labbra secche si muovono, nessun suono le abbandona.
Resta soltanto l’ansia e questa casa che scricchiola, ostile.
Vuole cacciarmi, ma so che non me ne andrò.
Mai più.
 
 
I can't let you go
'Cause you're a part of me
Not apart from me
[…]
I cannot separate from this anxiety
 
 
[Separation Anxiety, Faith No More]
 
 
 
 
§
 
 
 
 
Don't hate me, don't hate me
Don't hate me more than I hate myself
Don't let me destroy me
Don't hurt me more than I hurt myself
 
 
«Da quanto tempo sei qui dentro?»
La voce di Bill è tagliente, i suoi occhi fiammeggiano, il suo atteggiamento è ostile.
Non capisco perché sia venuto a casa mia.
Non capisco perché mi odi tanto.
In fondo non lo biasimo, anche io mi odio. Dannatamente.
Avevamo dei concerti e li abbiamo annullati per colpa mia.
Non me ne tiro fuori, è la verità, ma non so proprio cosa mi stia succedendo.
Al solo pensiero di mettere piede su un palcoscenico, il mio stomaco si rivolta e le mie corde vocali si spengono.
Non posso cantare, non ha senso fare dei concerti.
È un concetto semplice, però Bill non sembra dello stesso parere.
«Guardati! Stai mangiando?»
«Mangiando?» Lo fisso senza neanche vederlo, cercando di metabolizzare la sua domanda. Effettivamente non so cosa rispondergli.
Ogni giorno qualcuno spedisce a casa mia del cibo d’asporto con un biglietto allegato. Su ogni pezzetto di carta ci sono scritte frasi sempre diverse, estratti di vecchie interviste, dichiarazioni che ho fatto e che ricordo soltanto vagamente.
«Sì, Mike. Sai, voce del verbo mangiare, quella cosa che fai con la bocca: mastichi, mandi giù… capito?»
«Sei tu che mi mandi il cibo?» chiedo.
Bill mi rivolge un’occhiata stranita, poi si guarda attorno e mette a fuoco alcuni dei sacchetti pieni per metà o che non ho mai toccato.
A volte mangio, ma non ho sempre voglia.
Ci sono giorni in cui la gola mi brucia e mi sembra davvero difficile inghiottire perfino l’acqua.
«Non sono io a spedirti quella roba.» Il bassista scuote il capo e si avvicina al tavolo, spazzando via con un gesto stizzito i numerosi bigliettini che vi erano appoggiati. «Perché cazzo non reagisci?» sbraita.
Io mi sento attaccato e abbasso il capo. Non ho neanche voglia di rispondere, non ho la forza per litigare e alzare la voce; non riesco neanche a portare fuori un po’ d’ironia o sarcasmo, rimango semplicemente in silenzio e mi lascio investire dalla sua rabbia.
Vorrei pregarlo di non odiarmi, perché già da solo mi odio abbastanza.
Vorrei pregarlo di non lasciarmi qui da solo a distruggermi, a marcire tra queste quattro mura, ad autocommiserarmi.
Vorrei dirgli che ho bisogno di un abbraccio e di qualcuno che mi consoli e si prenda cura di me, ma questo non sono io e sono terrorizzato all’idea che Bill possa disprezzarmi ancora di più.
Non è un ragazzo senza cuore, il problema sono sempre e solo io.
Bill continua a gridare e io continuo a ignorarlo, incasso la testa tra le spalle e mi raggomitolo sulla poltrona.
Mi abbraccio da solo, sento le rotule conficcarmisi al centro del petto – dio, quanto sono magro e fragile, me ne accorgo solo ora.
Quanto mi piacerebbe che Bill si sedesse accanto a me e mi consolasse.
Non so neanche io per quale motivo, però vorrei essere compreso e ascoltato.
Eppure rimango muto, come spesso accade ormai.
Lui grida e mi scuote per le spalle, io vorrei soltanto che mi abbracciasse.
Mi sento patetico e mando giù l’ennesimo boccone amaro.
Semplicemente, aspetto che se ne vada e mi lasci solo.
 
 
Just scold me, console me, control me
Oh, I could use some help
But don't hate me, I'm sad enough
 
 
[Don’t Hate Me, Badflower]
 
 
 
 
§
 
 
 
 
Knock my chest, emptiness
Sound of death and loneliness
All these walls, crush my head
Sound of broken bones and death
 
 
La notte è scura, la luna lascia carezze sinistre su ogni cosa.
Non riesco a dormire, non trovo la pace neanche se chiudo gli occhi.
Tutto qui dentro sa di morte: il mio petto vuoto, la mia anima sbiadita, i mobili impolverati.
Sono solo e abbandonato a me stesso, nel pieno della notte non posso neanche gridare.
Vorrei farlo, ma ormai neanche la mia voce mi appartiene.
Pensare a quanto la usavo, in quella che sembra un’era geologica fa, mi ferisce.
Era la mia valvola di sfogo, lo strumento che mi permetteva di esprimermi, la strada che seguivo quando mi sentivo spaesato e smarrito.
Se solo riuscissi a sfruttarla, ora, potrei salvarmi da questa morte che mi scorre nelle vene e mi sgretola le ossa.
Invece è lì, ferma in gola, in attesa. In agguato.
Pronta a sgorgare in un grido liberatorio.
Eppure è immobile, dolorosa, graffiante.
Non avrei mai pensato che ci si potesse sentire tanto vuoti e abbandonati.
La mia vita è sempre stata frenetica e impetuosa, fin troppo piena – adesso sono io a essere pieno di dolore e vuoto allo stesso tempo.
Fisso il soffitto e lo trovo sempre uguale, come i giorni che si susseguono l’uno dopo l’altro da settimane.
Mesi?
Il tempo è relativo, non so più contarlo e non mi importa farlo.
Vorrei soltanto trovare qualcosa che mi motivi e mi spinga a considerare nuovamente i secondi, i minuti, le ore come fattori importanti.
Ma qui non c’è più niente.
Posso quasi vedere la mia immagine dall’esterno: una larva, un vegetale, un fantasma.
Sto scomparendo.
Sono sempre più sbiadito.
 

I'm disappearing now
My body’s falling down
And I'm alone, alone, alone
And I'm alone, alone, alone


 
Solo, piccolo, confuso.
Rannicchiato in posizione fetale, vorrei chiudere gli occhi e trovare la pace.
Scappare via da quest’agonia, ritrovarmi e parlare con me stesso.
Vorrei dirmi cose in cui non credo.
Vorrei darmi la forza che non sento di avere.
Vorrei prendermi a schiaffi per ridestarmi da quest’incubo.
E vorrei che qualcuno mi tendesse una mano e mi portasse via da queste mura ostili.
Tutto sembra scricchiolarmi intorno: le pareti, la porta, le finestre.
La luna disegna immagini sempre più inquietanti sulla mia pelle.
Potrei vivere, risvegliarmi, trovare qualcosa di buono in mezzo a tutto questo grigiore.
Eppure mi rifiuto, mi arrendo, mi spengo sempre più.
È così difficile respirare.
È così faticoso pensare.
È così arduo riposare.
Perché in fondo non sono stanco, non ho fatto niente nemmeno oggi – sono sfinito da me stesso.
Con gli occhi sbarrati e il respiro irregolare, aspetto soltanto che la notte passi.


 
I feel small and I'm confused
I could live but I refuse
 
 
[Alone, Melancholia]
 
 
 
 
§
 
 
 
 
Il fattorino arriva puntuale, come ogni giorno.
Consegna il pranzo al solito indirizzo.
In allegato un biglietto, scritto al computer e anonimo.
 
 
I think you create your own boundaries, and you work within them.
[Mike Patton]
 
 
 
 
 
 
NOTA:
In questo capitolo è comparso Billy Gould, storico bassista dei Faith No More.

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Capitolo 3
*** 2 ***


2
 
 
 
 
 
 
The water's clean
I see that it's full of dimes
For every wish, I wonder why
Why all I want
Is something beautiful
A place to rest
I never felt better now
 
 
La pioggia batte fuori dalla mia finestra e i miei occhi ne seguono il quieto scorrere.
Rigagnoli di acqua pulita, limpida, pura.
Come non sono io.
Io che mi sento sporco, inutile, frustrato.
Eppure non potrei stare meglio: le mie pupille rincorrono quei fiumi in miniatura fino alla pozzanghera più grande, proprio al centro del vialetto.
Nessuno potrebbe sporcarla.
Nessuno passa di qui da un po’.
Nessuno si preoccupa di cercare il mio sguardo spento oltre i vetri opachi della finestra.
Io stesso non mi ricerco più.
Il ticchettio delle gocce è rilassante, mi culla come l’abbraccio che desidero da tempo e che non avrò mai.
È l’unico istante in cui l’ansia scivola via dal mio petto e la pace se ne impossessa.
Tutto ciò che voglio è stare qui a osservare la pioggia, perché improvvisamente questo è il posto più bello del mondo, il momento perfetto.
 
 
Don't want your help
Don't need your help
Don't want your help
Don't need your help
 
 
Non ho bisogno di aiuto.
Non lo voglio, non me ne faccio niente.
In questo momento sento un intenso calore dentro il petto, sono tranquillo e in pace.
Continuo a fissare la pozzanghera al centro del vialetto e un sorriso crepa le mie labbra.
Fanno male, ma non potrei stare meglio.
È una pace effimera, durerà il tempo di questo acquazzone.
Ma ho imparato a prenderla tutta, accoglierla nel petto e conservarla gelosamente fino all’ultima stilla.
Finché il sole non tornerà a splendere e i demoni busseranno ancora una volta alla mia porta, facendola cigolare, ostile.
Le gocce, con il loro ostinato corso, trovano da sole la strada verso la pozzanghera.
Se qualcuno guardasse oltre i vetri della mia finestra, troverebbe il mio sguardo implorante.
Aiutami, ti prego.
Questo direbbero i miei occhi, perché questo è l’unico momento in cui mi sento in pace e pronto a lasciarmi leggere dentro.
Ma non c’è nessuno, nessuno passa di qui.
La pozzanghera è limpida, riflette il grigiore del cielo.
Nessun piede sporco di fango distruggerà questa perfezione.
 
 
You found a way to make me say, help me please
 
 
[Helpless, Faith No More]
 
 
 
 
§
 
 
 
 
Waiting for someone to save me
But everyone just runs away
Waiting for someone to change me
But no one ever comes
 
 
Mi sento triste e solo.
Vorrei soltanto che qualcuno venisse a trovarmi.
Non saprei cosa dirgli, in verità non ho niente da offrire a un eventuale ospite e questa casa è un disastro.
Però sento che i miei amici non baderebbero a certe stronzate.
A volte ripenso a Titti, vorrei vederla.
Ripenso alla mia vita con lei, al sole di Bologna e a quella gente che mi faceva sentire vivo.
Vivo come ora non mi sento più.
Mi accuccio sotto le coperte e aspetto.
È buffo: quando voglio essere lasciato solo, qualcuno bussa alla porta o suona il campanello. Perfino i vicini con cui non ho mai parlato ogni tanto vengono a disturbarmi, sempre quando non sono in vena.
Oggi invece vorrei incrociare uno sguardo amico, perché l’ansia mi sta mangiando e la solitudine è l’unica compagnia che posso permettermi.
Dovrei soltanto alzarmi, fare una doccia e, con dei vestiti puliti addosso, uscire di casa.
Da quanto tempo sono chiuso qui dentro?
Qualcuno mi spedisce del cibo ogni giorno, immancabile il biglietto allegato al sacchetto fragrante che spesso ignoro e mi fa rivoltare lo stomaco.
Non sto mangiando tanto, non mi va.
I foglietti invece li leggo in continuazione.
Ormai attendo il momento della consegna come fosse l’unico evento rilevante nella mia vita.
A volte lancio sguardi supplichevoli al fattorino, sperando che mi riveli l’identità di chi mi compra da mangiare. Ho provato a chiederglielo, ma non ha mai saputo rispondermi.
A mezzogiorno eccolo arrivare, un cartone in mano e un sorriso di circostanza stampato sul viso troppo giovane.
Chissà cosa pensa di me, chissà se gli faccio pena o lo disgusto.
Non potrei biasimarlo, mi sento così smarrito che avverto perfino la tentazione di aggrapparmi a lui e pregarlo di salvarmi.
Tutti se ne sono andati, ormai nessuno pensa più a me.
Li ho fatti scappare con i miei silenzi e la mia freddezza.
Li ho terrorizzati con la mia vuotezza.
Eppure qualcuno ancora si preoccupa: mi manda del cibo e mi ricorda qual era la mia vita, quali erano le mie idee e le mie passioni, trascrivendo le mie stesse parole su dei bigliettini.
Mi ricorda chi sono anche quando vorrei soltanto dimenticarlo.
Come oggi, che mi sento tanto triste e solo e vorrei soltanto che qualcuno mi tendesse una mano gentile.
Sono in trappola e non so come uscirne, mi guardo intorno e ci sono soltanto le solite mura ostili che vorrei distruggere.
Oggi desidero riprendere la mia libertà, o semplicemente che tutto questo finisca.
Mi guardo intorno e ogni cosa sembra fuori posto. L’ambiente è sempre più ostile, quasi mi sussurra di andarmene.
Poi l’ansia mi assale e sento di non potercela fare.
Appartengo a queste mura, a questo sole accecante che accresce le mie paure, al caos nella mia testa.
Mi basterebbe soltanto un po’ di pioggia per ritrovare la pace.
 

I'm breaking down the walls that cage me
But nothing ever falls in place
Waiting for the end to take me
Blinded by the sun
 
 
[Darkness Settles In, Five Finger Death Punch]
 
 
 
 
§
 
 
 
 
Rain, rain, rain, take this hand of sorrow
Take away my darkest days
 
 
Quando la pioggia accarezza i vetri delle mie finestre, tutta l’ansia mi abbandona.
Ormai è un processo a cui sono abituato, un momento che attendo e mi conforta nel profondo.
Ecco perché quando Trevor viene a trovarmi, sono piuttosto calmo.
Rilassato.
Non riesco a distogliere gli occhi dalle gocce che scivolano giù dal cielo, è un movimento ipnotico ed estremamente capace di farmi sentire in pace.
«Ehi!» Il mio amico si piazza di fronte a me, impedendomi di continuare a godermi lo spettacolo che scroscia fuori dalla mia finestra.
Sbatto le palpebre e sento la rabbia montarmi dentro: perché vuole rubarmi l’unico istante di tranquillità che mi è rimasto? Non ne ha alcun diritto.
Sollevo il capo e sto per dire qualcosa, quando i suoi occhi scuri si scontrano con i miei. E, come al solito, ho come l’impressione che possa leggermi dentro.
Mi conosce fin troppo bene, ma stavolta non ho la minima idea di cosa possa trovare nel mio sguardo – io mi sento totalmente svuotato.
Rimane a scrutarmi in silenzio, poi una delle sue mani si posa cauta sulla mia spalla.
Scatto come una molla e mi ritraggo, sfidandolo con occhiate di fuoco. Non voglio che qualcuno mi tocchi, non voglio compassione, non voglio essere disturbato durante un giorno di pioggia.
Non potrei stare meglio, ho bisogno di godermelo, è così difficile da capire?
Eppure pensavo che Trevor mi conoscesse…
«Mike…» Il suo è un sibilo strozzato, accompagnato da due occhi che si fanno grandi e pieni di paura.
Perché mai dovrebbe essere spaventato? Ho un aspetto tanto orribile?
Non mi importa.
Voglio solo che la pioggia porti via i miei giorni più bui, da solo e senza interferenze.
«Vattene, va bene? Qui è tutto a posto, davvero. Non vedi quanto sono tranquillo?» Mi rivolgo a Trevor in tono piatto, non ho alcuna voglia di fare conversazione.
Oggi meno che mai.
«Volevo solo… sono preoccupato» ammette con estrema schiettezza, accovacciandosi di fronte a me.
Da quando è arrivato, non mi sono mosso dalla poltrona davanti alla finestra.
Ora che si è abbassato, ho nuovamente la visuale libera e posso godermi ancora una volta lo spettacolo della pioggia che inonda il vialetto, la strada, le auto…
Un altro tocco, stavolta sulla mano.
Trevor mi sfiora la sinistra, sa perfettamente che così posso accorgermi del contatto. Vuole attirare la mia attenzione.
Quel gesto è talmente lieve e caldo che non trovo la forza di ritrarmi.
Stacco lo sguardo dalle gocce che crollano dal cielo e lo riporto in quello scuro e preoccupato del mio ospite indesiderato.
Un sussulto mi scuote appena il petto e questo mi terrorizza.
«Che ne hai fatto di quella testa di cazzo del mio amico?» sussurra Trevor.
Sembra sempre più piccolo, ingobbito, schiacciato da chissà quale peso invisibile. Forse è colpa mia se sta così, ma io non so proprio come aiutarlo.
«Sono qui, non mi vedi?» rispondo con semplicità, scostando la mano sinistra dalla sua.
È a quel punto che lui si mette di nuovo in piedi. È a quel punto che evita categoricamente di guardarmi negli occhi. È a quel punto che scuote il capo e si avvia alla porta.
L’unica cosa che riesco a pensare, mentre lo osservo andar via, è che finalmente ho ottenuto ciò che volevo fin dall’esatto istante in cui Trevor ha suonato il campanello.
Non so neanche quanto tempo sia passato.
Torno a concentrarmi sulla pioggia e noto la figura del mio amico che attraversa il vialetto e si dirige verso la propria auto.
Poco prima di salire a bordo, si volta nuovamente nella mia direzione.
La pioggia accarezza anche lui, lo porta via come uno dei miei peggiori incubi.
Ha le guance bagnate.
 

Rain, rain, rain, take away my darkest days
Return me for I feel they’re here to stay
 
 
[Darkest Days, Black Label Society]
 
 
 
 
§
 
 
 
 
Il fattorino arriva puntuale, come ogni giorno.
Consegna il pranzo al solito indirizzo.
In allegato un biglietto, scritto al computer e anonimo.
 
 
There are so many ideas that I have in my mind, of projects that I would love to tackle, people I would love to work with, genres I would love to experiment with, and sounds that don't fit any of my previous projects that I need to find a home for.
[Mike Patton]
 
 
 
 
 
 
NOTE:
In questo capito compare Trevor Dunn, bassista e co-fondatore insieme a Mike dei Mr. Bungle e suo amico da quando erano bambini. I due sono cresciuti insieme a Eureka, cittadina nel Nord della California.
Viene inoltre menzionata Titti Zuccatosta, l’ex moglie bolognese di Mike; il cantante ha vissuto per un buon periodo a Bologna e ha imparato l’italiano, mai nascondendo il suo apprezzamento per la città emiliana e per l’accoglienza che ha sempre ricevuto.
Quando Trevor tocca la mano sinistra di Mike per attirare la sua attenzione, ho voluto fare un piccolo riferimento a un incidente che Mike ebbe all’inizio degli anni Novanta, durante una delle primissime date con i Faith No More; il cantante, infatti, si ferì con una bottiglia di vetro che rese la sua mano destra praticamente insensibile.

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Capitolo 4
*** 3 ***


3
 
 
 
 
 
 
You did one thing wrong
You woke up
It looked better before
More! More!
[…]
Look in the mirror…
 
 
Mi sono svegliato e ho avvertito subito una rabbia incredibile fluire dentro me.
Oggi è una di quelle giornate in cui non mi sopporto e non so come separarmi da questa sensazione, non so come allontanarmi da me stesso e dallo schifo che sono.
Ho sbagliato ad aprire gli occhi, so che sarà un’agonia.
Un supplizio.
Finché dormivo, tutto andava bene. O meglio, andava come al solito.
Poi ho aperto gli occhi, il sole li ha feriti e mi ha infastidito.
Allora la rabbia mi ha investito e mi sono strappato le coperto di dosso.
Tutto è ostile attorno a me – dentro di me.
Mi aggiro irrequieto per casa, vorrei soltanto distruggere quello che mi circonda.
Per un attimo intravedo la mia immagine riflessa nello specchio del bagno.
So che non devo guardare, però non riesco a evitarlo.
È un richiamo primordiale, mi disgusta ma mi attrae in maniera inesorabile.
Compio i pochi passi che mi separano dal vetro riflettente e la rabbia monta ancora di più dentro me.
Non so neanche perché sono incazzato, ma lo sono e tanto. Ce l’ho con me stesso perché non sopporto neanche di appartenermi.
Guardo la mia faccia di merda e vorrei prenderla a pugni.
I miei occhi sono pozzi di rabbia, profondi e senza fine. Sono talmente stretti e insopportabili.
La barba incolta mi disgusta, mi prude sulle guance e sul mento.
Il naso è inguardabile, le labbra secche e screpolate che vorrei mordere fino a farle sanguinare, gli zigomi spigolosi fanno male, mi bucano la pelle dal colorito insano e vomitevole.
Che razza di mostro mi sta fissando? Che razza di creatura stomachevole mi restituisce un ghigno furibondo?
È mattina, mi sono alzato da poco e già non mi sopporto.
Vorrei non esaminarmi, vorrei trovare il coraggio di uscire di qui e non dover più convivere soltanto con me stesso.
E con la luce del sole che mi abbaglia, la mia immagine riflessa è ancora più disgustosa.
Tutto è troppo brillante, ogni dettaglio troppo evidente.
Non voglio guardarmi e non voglio che qualcuno mi veda.
Credo che tornerò a letto, getterò la testa di cazzo che ho sotto le coperte e, come gli struzzi, mi nasconderò dalla vita che mi sta facendo sempre più schifo.
Che mi spaventa ogni giorno di più.
 

Don't look at me
I'm ugly in the morning!
 
 
[Ugly In The Morning, Faith No More]
 
 
 
 
§
 
 
 
 
There's something wrong with me
[…]
I've never been so melancholic
My rhetoric is stuck in falling tears
 
 
Non appena lui entra in casa mia, non riesco a trattenere le lacrime.
Non so cosa mi prenda, ma improvvisamente le mie emozioni sono impetuose e incontrollabili.
C’è qualcosa che non va in me, in realtà non esiste qualcosa che sia come dovrebbe nella mia testa.
Non sono mai stato tanto triste come in questo momento.
Roddy è una delle persone più allegre e positive che io conosca, ed eccolo di fronte a me, pronto a farsi carico della mia merda.
Ne ha passate tante e non si merita tutto questo.
Vorrei tanto cacciarlo, mandarlo via, respingerlo per impedirgli di incupirsi a causa mia, ma l’unica cosa che riesco a fare è piangere.
Tutto quello che provo è racchiuso nelle gocce che mi bruciano sulla pelle e che non provo neanche ad asciugare.
Mi lascio cadere sulla poltrona e, con il capo chino, piango in silenzio.
I singhiozzi non sono frequenti, non mi scuotono, non fanno troppo male. il mio è uno sfogo calmo, un momento di cui forse avevo bisogno, o che non mi servirà.
Roddy recupera una sedia e la piazza accanto a me, vi si lascia cadere e mi osserva senza dire una parola.
Quanto vorrei mandarlo via.
Quanto vorrei che rimanesse.
Mi sento in colpa, questo è il mio schifo e io devo sguazzarci finché non riuscirò a uscirne.
Però lui è qui, è venuto a trovarmi ed è evidentemente in pensiero per me.
È strano.
Roddy non parla. Non mi infastidisce come vorrei, non mi investe con i suoi sproloqui, non cerca di estorcermi una verità che non sono disposto a condividere neanche con me stesso.
Non mi urla contro, non cerca di toccarmi.
Mi rimane semplicemente accanto – come non aveva mai fatto.
Forse ascolta le mie lacrime, i miei sospiri, le mie emozioni impetuose.
Vorrei che facesse tutte quelle cose che in genere mi irritano.
Vorrei sentire la sua voce e alzare gli occhi al cielo per l’esasperazione.
Invece lui no, se ne sta qui come una mummia.
Lo guardo attraverso le lacrime: non siamo poi così diversi.
Sono sicuro di avere un aspetto decisamente terribile, forse quei suoi occhi blu non vedono altro che un fantasma di cui avere compassione.
Tiro su col naso e mi limito a fissarlo, senza nascondere come mi sento e quanto faccio schifo.
Il suo sguardo non mi abbandona per un solo istante, mi studia e mi analizza – forse mi sta scavando dentro alla ricerca di qualcosa di buono a cui appigliarsi, ma non lo troverà.
La mia casa, con lui, non sembra più tanto ostile.
Vorrei dirglielo, ma ancora una volta la voce mi muore in gola – mi succede spesso, troppo spesso, come potrei andare in tour in queste condizioni?
Spero lo capisca dai miei occhi, ma temo che non sarà così.
Roddy sospira e si mette in piedi. «Ti preparo qualcosa da mangiare» dice, è la prima frase che pronuncia.
Poi lo noto: un sacchetto della spesa appoggiato sul tavolo della cucina, deve averlo portato con sé.
Prima di riuscire a parlare, devo schiarirmi la gola un paio di volte. «Non serve, qualcuno mi consegna il pranzo ogni giorno» bofonchio.
Ma lui si guarda attorno e si gratta il mento, scuotendo il capo. «Cucinerò qualcosa, poi darò una sistemata qui. Questo posto è un tugurio.»
«Beh… non è poi così male» commento.
Lui si volta nella mia direzione e non riesco a decifrare l’occhiata che mi rivolge, poi torna a darmi le spalle e si mette all’opera.
Sta facendo ciò che volevo chiedergli: ha trovato un pretesto per stare qui con me e infastidirmi.
In fondo questa non sembra essere una giornata totalmente inutile e malinconica.
Prima che lui arrivasse lo era, adesso lo è un po’ meno.
 

Please come with me
Follow me
Cover me
Bother me


 
[Medicine, Melancholia]
 
 
 
 
§


 
 
 
And I'm a shadow of a ghost


 
Mi guardo allo specchio e non mi riconosco.
Oggi ho avuto il coraggio di esaminare il mio volto sciupato, di incrociare il mio sguardo spento, di osservare come i miei capelli sono sfibrati e fragili.
Rispecchiano ciò che sento nel petto.
Vuoto.
È così che devono sentirsi i fantasmi: per attraversare le pareti e oltrepassare gli universi in cui non sono mai ben accetti, devono essere necessariamente vuoti dentro.
I ricordi della vita che avevo mi feriscono in ogni istante, eppure non riesco a credere che quello fossi proprio io: l’uomo energico, creativo, folle, instancabile.
L’uomo che viveva di musica e che affermava di non avere tempo per riposare, perché nella sua mente c’era troppa roba e doveva lasciarla fluire nell’unico modo che conosceva.
Quello non sono più io.
Mi guardo e non mi riconosco.
Dov’è finita la voglia di sperimentare e di riempire ogni istante di nuove idee?
Dov’è finito quel tipo curioso e affamato di scoprire sempre di più?
Dov’è finito colui che desiderava collaborare con artisti particolari e imparare da ogni singola esperienza?
Non lo ritrovo in quel riflesso sbiadito.
Sono l’ombra del mio stesso fantasma, è come se qualcuno si fosse impossessato di me e mi avesse rubato ogni stimolo.
Eppure dovrei saperlo: è tutta opera mia, non posso incolpare nessuno.
Do le spalle ai miei stessi occhi, ma non smetto di sentirmi osservato.
L’ansia ricomincia a crescere.
 
 
It's feeling as if somebody has taken host
 
 
[Particles, Nothing But Thieves]
 
 
 
 
§
 
 
 
 
Il fattorino arriva puntuale, come ogni giorno.
Consegna il pranzo al solito indirizzo.
In allegato un biglietto, scritto al computer e anonimo.

 
 
I learned what I could do with my voice on stages and because of the people that I was around. It wasn't me sitting in a room by myself. I didn't know what I was doing. I was figuring it out on the fly.
[Mike Patton]
 
 
 
 
 
 
NOTA:
In questo capitolo compare Roddy Bottum, storico tastierista dei Faith No More.

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Capitolo 5
*** 4 ***


4
 
 
 
 
 
 
I'm not sad, I feel nothing
I'm silent I'm done talking
Don't come here please don't touch me


 
Oggi non sono triste, non mi sento ansioso, non avverto la solta calma che solo la pioggia sa darmi.
Non piove, ma io sono soltanto vuoto.
Nessuna emozione.
Fa strano aggirarsi tra queste mura e non sentirsi opprimere.
Fa strano non avvertire lo scricchiolio sinistro delle pareti e delle imposte.
Fa strano non essere un intruso in casa mia, ma allo stesso tempo non essere neanche accolto.
Il petto non sussulta, la gola non è stretta in una morsa, le braccia non sono percorse da brividi.
Eppure non ho voglia di parlare, di uscire, di vivere.
È tutto totalmente piatto.
Mi guardo attorno e tutto appare grigio, anche gli oggetti illuminati dal sole.
I raggi accecanti si abbattono sulla mia collezione di DVD, si soffermano sui libri impolverati, baciano quei dischi che nessuno ascolta più da chissà quanto tempo.
Mi ricordano che forse prima di questo vuoto c’era qualcos’altro.
Mi ricordano emozioni che non riconosco e non provo.
Fanno luce su un passato che non mi appartiene.
Forse tra quella musica c’è anche la mia.
La mia musica.
Un pensiero fugace che si sgretola subito. Non mi trasmette niente, soltanto vuoto e desolazione al centro del petto.
 

This loving heart no longer beats
These caring lungs no longer breathe
And it's amazing how good it feel
I feel nothing at all, I feel nothing at all
 
 
Mi siedo sulla poltrona di fronte alla finestra e ho come l’impressione che il mio corpo sia immobile, incapace di qualsiasi reazione.
Porto la mano sinistra all’altezza del cuore e non sento assolutamente niente.
Consciamente so che sta battendo, altrimenti non sarei vivo, ma è come se non lo stesse facendo.
È stupido e insensato, ma è così.
Piattezza assoluta.
Non è male questo limbo.
I ricordi scorrono liberi nella mia mente e non fanno male.
Riesco a pensare al mio passato, improvvisamente non ho più paura di vedermelo scorrere sotto gli occhi.
Non è né bello né spregevole.
È soltanto un dato di fatto.
Le cose sono andate così, fine.
Ho dedicato tutta la mia vita alla musica, ho sperimentato sulla mia voce e ho sfruttato ogni stilla di anima e di fiato per dar voce a ciò che avevo dentro.
Ho sempre avuto bisogno di far fruttare le idee più martellanti, mentre altre sono rimaste nel limbo e non prenderanno mai forma.
Ho lavorato duramente su me stesso, con chiunque, ho condiviso studi di registrazione con un sacco di persone e calcato palchi importanti con un sacco di altre persone.
Ho girato il mondo e ho fatto una marea di cose – molte sbagliate, anche se adesso non mi sembrano tali, non mi sembrano niente.
Nei miei ricordi, provavo un sacco di emozioni.
Mi rivedo felice, eccitato, intrigato, curioso. Ora queste sono solo parole.
Il mio cuore sembra non battere e i polmoni paiono non permettermi di respirare.
E ancora una volta, il mio passato sembra appartenere a qualcun altro.
Molte persone sono venute a trovarmi e a invadere i miei spazi.
Volevano aiutarmi, non volevano vedermi affondare – a me non importa, io ora non sento niente.
Assolutamente niente.
È come se improvvisamente non fosse soltanto la mia mano destra a essere insensibile.
Curioso.
Mi guardo le mani e le trovo uguali, forse per la prima volta da quando ho avuto l’incidente.
Ripensare a quell’evento mi dovrebbe disturbare, invece anche questo ricordo mi sfila di fronte senza sfiorarmi minimamente.
Appoggio i palmi sulle guance e non provo niente.
Un lieve calore, ma è talmente lontano che forse è soltanto frutto della mia immaginazione.
O forse è soltanto la conferma di quello che sono diventato: un insensibile corpo vuoto.
Mi alzo e mi dirigo lentamente in camera da letto.
Proverò a dormire anche se non ho sonno, forse quando mi risveglierò tutto questo sarà passato.
O forse no.
 

Everybody can watch me fall
But I'm afraid I don't care at all
It's kinda scary how good it feel
To feel nothing at all, no nothing, nothing
 
 
[Feel Nothing, Blind Channel]
 
 
 
 
§
 
 
 
 
Time is running
Another day is coming
At night I stay in bed without sleeping
The shadow's ghost
Infect my worst nightmares
And now I see them in my daydreams too
 
 
Seduto sulla poltrona, guardo l’alba di un nuovo giorno – l’ennesimo.
Ho dormito poco, poi un incubo mi ha risvegliato e non ha più smesso di tormentarmi.
Mi sono visto in prigione, ammanettato come un criminale, mentre le lacrime mi sgorgavano copiose dagli occhi e si abbattevano sulle guance scavate.
Mi sono sentito umiliato e impotente, proprio come mi sento ora.
E quando Puffy viene a trovarmi, è così che mi vede: un carcerato impotente, uno di quelli che finiscono in galera pur essendo innocenti.
Non mi sento del tutto innocente, non faccio che uccidermi giorno dopo giorno.
Il mio amico mi sorride, si comporta nella maniera più normale possibile. Lui è fatto così: schietto ma discreto, è forse una delle persone meno invadenti che conosca.
Non ricordavo che i suoi dread fossero così tanto lunghi e striati di grigio. È invecchiato, chissà se lo sono anche io.
«Amico, allora?» mi chiede, sedendosi al tavolo della cucina ingombro di bigliettini. «Questi cosa sono?» aggiunge poi, sollevando uno dei foglietti che ormai da tempo accompagnano le consegne a domicilio dei miei pasti quotidiani.
«Qualcuno me li manda con il pranzo. Uno ogni giorno, con su scritta una frase: estratti da mie interviste, dichiarazioni che ho fatto, stronzate che devo aver detto sul palco…»
Oggi ho insolitamente voglia di parlare, anche se mi sento invaso dalla presenza del mio amico e la gola non smette di bruciare.
«Cazzo.» Puffy lascia ricadere il biglietto e si volta a guardarmi. Sembra imbarazzato, come se non volesse infastidirmi o dire qualcosa di inappropriato. «Sai, Violet sta diventando brava a disegnare. Sarà un’artista, me lo sento.»
Lo fisso, in attesa. Non so cosa si aspetti da me, non sono in vena di chiacchierare della quotidianità, anche perché non saprei proprio cosa raccontargli.
Io non faccio niente.
«Mi ha dato questo per te.» Puffy estrae un foglio arrotolato dalla tasca interna della giacca e, scostando di lato alcuni bigliettini, lo appiattisce sul tavolo. «Dice che colorarlo potrebbe rilassarti.»
Rimango immobile.
Colorare non mi è mai piaciuto, non credo di avere dei pastelli in casa, gli ultimi che ricordo risalgono ai tempi della scuola e penso di averli distrutti o persi.
Poi annuisco e distolgo lo sguardo, portandolo oltre il vetro opaco della finestra. il sole è forte, mi ferisce gli occhi e fa riemergere le ombre della terribile nottata che ho trascorso.
Improvvisamente posso quasi sentire il freddo del metallo che imprigiona i miei polsi, le lacrime roventi sulle guance scavate, il pavimento duro sotto di me.
Non sono più seduto sulla poltrona, ma rinchiuso in una cella a fissare uno scorcio di mondo attraverso sbarre spesse e lucenti.
Invalicabili.
Puffy non è più Puffy, ma una guardia che mi tiene d’occhio e mi giudica con occhi fiammeggianti e pieni d’odio.
Mi volto di scatto e sibilo: «Lasciami in pace».
Ho paura e mi sento impotente.
Non voglio che qualcuno mi veda così.
Fa troppo male.
È troppo doloroso.
La guardia carceraria dice qualcosa, ma io non ascolto quelle parole per paura di rimanerne ferito.
Continuo soltanto a sovrastarle con le mie preghiere: «Vattene, lasciami in pace, voglio restare solo, non guardarmi…»
Lui alla fine si arrende, si alza e fa come gli dico.
Il mio respiro è sempre più pesante, affannoso, irregolare.
Riesco a calmarlo soltanto quando mi accorgo di essere finalmente solo.
Allora torno in me.
Le sbarre sono sparite, le manette non ci sono più, anche Puffy si è volatilizzato.
Mi restano soltanto le lacrime, roventi e più vive che mai, a tracciare sentieri accidentati sui miei tratti spigolosi.
Cosa ho fatto?
Quel sogno continua a tormentarmi.
Mi alzo a fatica e mi avvicino al tavolo della cucina: forse il mio amico non è neanche stato qui e me lo sono immaginato.
Poi l’occhio mi cade su un foglio: rappresenta un intricato mandala, è il viso di un uomo che un po’ mi assomiglia, circondato da una scritta.
Tornerò più forte di prima.
Un doloroso sorriso, raro e prezioso, mi increspa le labbra: Violet.
Ricordo improvvisamente le parole di Puffy, la sua presenza, quello che ci siamo detti.
Mi sento in colpa, ma non posso farci niente.
Non so più come comportarmi, non ho neanche le forze per correre fuori di qui e scoprire se il mio amico è ancora nei paraggi.
Gli occhi mi si appannano di nuovo e, con un gesto automatico, raccolgo il foglio e lo stringo al petto.
La mia vita è fatta soltanto di notti e giorni tutti uguali.
Ma oggi qualcosa è successo.
Qualcosa di diverso.
 
 
I am sick, my mind is full of darkness
And I can't heal until I defeat my fears
Oh, this life
Just a circle of nights and days
 
 
[Black Hole, Melancholia]
 
 
 
 
§
 
 
 
 
Such a lonely day and it's mine
The most loneliest day of my life
Such a lonely day, should be banned
It's a day that I can't stand
 
 
Oggi è davvero dura.
Fa troppo caldo tra queste mura, ma ho paura perfino di aprire le finestre.
Non voglio che qualcuno mi veda, non voglio che qualcuno si accorga di quanto sto affogando in questo nulla che mi avvolge.
E quando le lacrime mi sorprendono, bollenti anch’esse, non mi resta che andare in bagno.
Senza togliermi i vestiti, mi siedo dentro la vasca e apro il rubinetto.
Semplicemente aspetto.
L’acqua gelida mi investe, piove dall’alto e mi inzuppa, confonde le mie lacrime con le sue.
Quando mi sento così tanto solo, mi illudo che sia uno di quei giorni in cui il sole è sepolto dietro nubi plumbee; immagino che le gocce che fuoriescono dal soffione siano le stesse che tengo d’occhio durante i temporali che tanto mi tranquillizzano e che possano spazzare via il dolore.
Ma non funziona.
In un primo istante pare andare meglio, poi però mi guardo attorno e comprendo qual è la cruda realtà: sono solo e patetico, seduto dentro la vasca con l’acqua fredda aperta e scrosciante.
Allora mi sento ancora peggio, abbandonato, completamente impotente.
Nessuno è disposto a salvare chi non vuole esserlo.
Nessuno spenderà ancora inutilmente le sue energie per me.
Il getto gelido continua a frustarmi il viso e il corpo, ma non mi importa.
Se potessi, annegherei qui e ora.
Ho retto per un po’, ho cercato di non cedere allo sconforto più totale, ma alla fine ho capito che questa è una delle giornate peggiori di sempre.
Mi sento solo per davvero, in una maniera talmente carica di consapevolezza da farmi quasi spavento.
Dovrei esserci abituato, ma stavolta credo di aver toccato il fondo.
Se sopravvivrò a quest’ennesima scarica di dolore, dovrò essere grato.
Non so a chi e perché, ma dovrò ringraziare qualche entità per avermi trascinato fuori da questa spirale.
Mi guardo intorno e mi sento veramente come se non appartenessi a questo ambiente – a questo mondo.
Devo fare qualcosa.
È un pensiero fulmineo ed evanescente, eppure è capace di attirare la mia completa attenzione e di trasformarsi ben presto nel fulcro della mia intera esistenza.
Devo reagire.
Riprendermi.
Smettere di sentirmi solo.
Questa solitudine è soltanto mia, fuori da queste mura non esiste.
Mi basterebbe affacciarmi alla finestra per scorgere il mondo e i suoi colori, le persone e le loro interazioni, la vita e i suoi profumi.
Lo farò.
Prima o poi ci riuscirò.
Non ancora.
Ho bisogno di un altro po’ di pioggia.
Sollevo il viso e chiudo gli occhi, mentre un sorriso increspa le mie labbra secche.
Posso quasi sentire il rombo dei tuoni in lontananza, il profumo di terra bagnata capace di penetrare perfino attraverso le finestre chiuse, la carezza di quelle gocce che disegnano percorsi naturali ovunque si posino.
Solo un altro po’ di pioggia, ecco di cosa ho bisogno per sopravvivere a questo giorno.
Il giorno in cui la solitudine mi sta uccidendo.
 
 
Such a lonely day and it's mine
It's a day that I'm glad I survived
 
 
[Lonely Day, System Of A Down]
 
 
 
 
§
 
 
 
 
Il fattorino arriva puntuale, come ogni giorno.
Consegna il pranzo al solito indirizzo.
In allegato un biglietto, scritto al computer e anonimo.
 
 
The studio is my main compositional tool. And I used to be horrible in the studio. I didn't know any kind of technical stuff. But when you have something in your head, you've gotta figure out a way of executing it.
[Mike Patton]
 
 
 
 
 
 
NOTE:
In questo capitolo compare Mike “Puffy” Bordin, storico batterista dei Faith No More. Una delle sue figlie si chiama davvero Violet, ma il fatto che ami disegnare è una mia personale licenza poetica.

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Capitolo 6
*** 5 ***


5
 
 
 
 
 
 
Wake in a sweat again
Another day's been laid to waste, in my disgrace
Stuck in my head again
Feels like I'll never leave this place, there's no escape
I'm my own worst enemy
 
 
Mi sveglio a notte fonda, è tutto buio intorno a me.
Ho fatto un incubo, ma non riesco a ricordare cosa stesse succedendo.
So solo che sono terrorizzato e immerso in un bagno di sudore.
Nel silenzio della notte, il mio respiro accelerato è l’unico suono che avverto – fastidioso, pesante, insopportabile.
Allungo una mano sul materasso e lo sento freddo, vuoto, desolato.
Come il mio cuore.
Pensieri terribili mi assalgono, si avviluppano alla mia gola e stringono come mani invisibili.
Il respiro è sempre più irregolare.
Un altro giorno sprecato.
Sono inutile.
Faccio schifo.
Non ce la faccio, ho bisogno di aiuto.
È come se fossi in carcere, come se fossi sempre stato intrappolato tra queste mura e non sapessi trovare la strada per uscirne.
Eppure la porta è sempre lì e le chiavi per aprirla so perfettamente dove trovarle.
Sono il mio peggior nemico e continuo a farmi del male.
Ancora e ancora.
Il respiro accelera, il ritmo è impossibile, lo sento perforarmi il cervello.
Mi ritrovo con il telefono in mano, mi scivola dalle dita sudate e cade sul materasso fradicio del mio stesso terrore.
Lo afferro di nuovo e compongo un numero che so a memoria.
Perdo il conto degli squilli, la mente che vaga senza meta e il fugace pensiero che forse ho sbagliato a digitare – le dita non fanno che tremare.
Poi una voce.
Quella voce.
«Mike?»
Apprensiva, gentile, preoccupata.
«Titti…»
Un sospiro lieve, uno di quelli che significano ho capito, ora ci penso io.
«Coraggio, respira» dice soltanto.
 
 
I don't know what to take
Thought I was focused but I'm scared, I'm not prepared
I hyperventilate
Looking for help somehow, somewhere and no one cares
 
 
«Non so cosa fare, non so…» biascico.
Lei però rimane tranquilla, posso quasi immaginare la calma rassicurante dipinta sul suo viso. «Respira, coraggio. Ce la fai.»
«No…»
«Sì, Mike. Ce la fai.»
«Io…»
«Ho sempre ragione, è inutile discutere con me. Respira, puoi riuscirci.»
Mi concentro, ma sono talmente spaventato che vorrei soltanto che lei fosse qui. Un suo sguardo mi darebbe conforto, un suo abbraccio mi farebbe sentire capito.
Il sudore continua a colarmi sulla fronte, mentre dolorosi singhiozzi mi scuotono il petto e profondi brividi mi increspano la pelle.
«Su, Mike, sono qui. Ascoltami, sei forte: respira, andiamo.» La voce di Titti è come una lieve carezza, posso quasi avvertirla sul viso, delicata come le sue dita esili.
Chiudo gli occhi ed espiro bruscamente, cominciando gradualmente a calmarmi. Non smetto di piangere, anzi, il mio diventa uno sfogo liberatorio, un fiume in piena di parole che investono la mia ex moglie.
«Ho bisogno di aiuto, mi sento così solo e triste, faccio schifo… ho sprecato la mia vita, ho sprecato tutto. Aiutami, ti prego, aiutami…»
Lei non smette mai di prestare attenzione, di rispondermi e rassicurarmi. «Va tutto bene, sfogati. Sono qui per questo.»
«Voglio solo… uscire da questo schifo, ma… non ne posso più, non riesco a lottare, a…»
Deglutisco a fatica, mi sento quasi soffocare.
Una nuova ondata di panico mi assale.
«Mike, ci sei, respira. Tranquillo, continua a parlare» attira nuovamente la mia attenzione Titti, impedendomi di sprofondare in un’altra crisi.
«Che cazzo c’è che non va in me?» chiedo disperato, riprendendo a piangere.
«Niente, stai tranquillo. Calmo, Mike. Io sono qui.»
Il respiro rallenta pian piano mentre la sua voce continua ad accarezzarmi attraverso il cellulare.
Probabilmente si trova in Italia, eppure la sento così vicina…
Allento la presa sull’oggetto e mi accorgo che lo stavo stringendo con furia – le dita sono indolenzite e sudate.
Mi rannicchio in posizione fetale e immagino di non essere più solo.
Sogno che Titti mi prenda tra le braccia e mi tiri i capelli in quel modo dolce e giocoso che è sempre stato solo suo.
E mentre le sue parole mi cullano, scivolo nuovamente in un piccolo e prezioso anfratto di pace.
 
 
Put me out of my fucking misery!
 
I've given up, I'm sick of feeling
Is there nothing you can say?
Take this all away, I'm suffocating
Tell me what the fuck is wrong with me
 
 
[Given Up, Linkin Park]
 
 
 
 
§
 
 
 
 
 
Life, it seems, will fade away
Drifting further every day
Getting lost within myself
Nothing matters, no one else
I have lost the will to live
Simply nothing more to give
There is nothing more for me
Need the end to set me free
 
 
Questo letto sembra una tomba.
Scomodo, buio, ostile.
Ogni tanto Roddy viene a trovarmi e mi aiuta a rimettere in ordine.
Cambia le lenzuola, fa la lavatrice, spolvera.
E io non faccio altro che guardarlo con disinteresse, affondato nella mia poltrona.
Lascio che invada i miei spazi e si prenda cura di me anche se non lo merito.
Tutto scorre lento, piatto, incolore.
Perfino la pioggia ha smesso di darmi sollievo.
Stanotte ticchetta ostinata fuori dalla mia prigione, eppure mi sento sempre più agitato e ansioso.
Non potrà aiutarmi per sempre, non può essere il mio appiglio, è un evento troppo raro, effimero e incalcolabile.
Mi rigiro per l’ennesima volta, sentendomi sfinito e annientato.
Le gocce che si abbattono sui vetri mi sembrano nemiche, incapaci di ascoltarmi e comprendermi.
Chiudo gli occhi e cerco di concentrarmi su me stesso, anche perché non ho nessun altro a cui pensare.
A volte mi sento così solo…
Un trillo improvviso mi fa sobbalzare, il cuore accelera bruscamente e il respiro mi si mozza in gola.
Poi lo riconosco: lo squillo del mio cellulare.
Non ho idea di che ore siano, ma sono quasi certo che sia notte fonda, ha fatto buio da tempo – almeno credo.
Mi metto faticosamente a sedere e recupero l’apparecchio dal comodino.
Fisso lo schermo senza riuscire a mettere a fuoco il nome del mittente – dovrei cercare gli occhiali, chissà che fine hanno fatto.
Con un sospiro rispondo: «Sì?»
«Patton!» La voce allegra e amichevole di Trey mi perfora i timpani.
Sbatto le palpebre: saranno almeno due anni che non ci sentiamo.
No, due anni forse no. Abbiamo suonato insieme, non dev’essere passato più di un anno…
Improvvisamente i ricordi di quel pietoso concerto mi trafiggono il petto e la gola mi si chiude, impedendomi di rispondergli.
Sto andando alla deriva, sono completamente immobile, paralizzato dal dolore.
E Trey, incurante e inconsapevole, continua a sproloquiare: «Volevo passare per parlarti di un paio di idee che ho in mente! Potremmo scrivere nuova merda con i Bungle, sono sicuro che a Trev non dispiacerà. Che ne pensi? Sicuramente tu hai già tremila progetti per la testa, ma troverai il modo per occuparti anche di questo».
Mi parla come se ci fossimo incontrati ieri.
Non mi ha neanche chiesto come sto.
Tra me e Trey ha sempre funzionato così, ma in questo momento per me risulta estremamente complicato stare appresso alle nostre care e vecchie abitudini.
In un altro momento non mi sarei scomposto e lo avrei invitato a lavorare subito in studio a casa mia, ma ormai in quel posto non ci metto piede da un bel po’ e non credo di sapere più come si faccia.
«Solo che non so quando potrò raggiungerti, sto lavorando ad altre cose. Tu comunque un minuto per me lo trovi, lo so» prosegue Trey, come se non si fosse neanche accorto che sono in silenzio praticamente da quando ho risposto al telefono.
Intanto le immagini del concerto mi scorrono di fronte agli occhi, vivide, patetiche, dolorose.
Biascico qualcosa, forse un di circostanza, ma la mia mente è lontana anni luce.
Mi rivedo su quel palco insieme a Trey, Trev, Lombardo e Scotty.
Noi cinque immersi nel silenzio più totale.
I nostri occhi che si incrociano spaesati, mentre qualche tecnico finisce di sistemare la nostra attrezzatura.
Abbiamo fatto il soundcheck e siamo pronti per suonare.
Per intrattenere il vuoto che ci accoglie.
Provo ancora una volta la sensazione di smarrimento che mi assale quando realizzo che non potrò suonare per intrattenere un pubblico.
 
 
Things not what they used to be
Missing one inside of me
Deathly lost, this can't be real
Cannot stand this hell I feel
Emptiness is filling me
To the point of agony
Growing darkness taking dawn
I was me, but now he's gone
 
 
Trey mi riporta alla realtà. «Capito?»
«Certo…»
«E quindi, ecco che Lombardo mi fa: sei stronzo, non c’è storia. cazzo, aveva ragione!»
Annuisco, ma la mia mente torna rapidamente al concerto peggiore della mia vita.
L’evento che mi ha spezzato il cuore e mi ha fatto sentire inutile.
Era il 31 ottobre 2020, la pandemia era nel pieno e i concerti si tenevano online.
Senza pubblico.
Ricordo la sensazione di fare il pazzo e sentirmi vuoto.
Ricordo la mia voce rimbombare fastidiosa in un luogo desolato.
Ricordo di aver desiderato in ogni singolo istante che tutto finisse al più presto.
Ricordo di aver proseguito quasi per inerzia, dando comunque il meglio di me perché sapevo che qualcuno mi stava ascoltando – c’era un pubblico virtuale da qualche parte, sparso per il mondo.
E ricordo di esserne uscito mentalmente distrutto.
Trey scoppia a ridere mentre continua a raccontare qualcosa che continuo a non ascoltare.
Riesco a riemergere dai ricordi, ma il dolore non mi abbandona. È come se all’improvviso una ferita si fosse riaperta al centro del mio petto, pungente e sanguinante senza alcuna pietà.
«Allora ti richiamo quando sarò in zona, tieniti pronto» conclude infine il mio vecchio amico.
«Sì» replico in automatico.
«Ah, a proposito… tutto bene?»
Mi viene da ridere.
Anche se Trey è uno stronzo e appare spesso insensibile, avevo proprio bisogno di questa risata amara.
In fondo mi ha dato una mano.
Guardo fuori dalla finestra: la pioggia si fa sempre più intensa mentre un tuono squarcia il silenzio.
«Certo, tutto bene» affermo.
Eppure la voce mi trema.
Lui non mi chiede spiegazioni.
Io non gliene do.
Ci salutiamo e io torno a essere solo.
Nessuno può aiutarmi, soltanto io posso aiutare me stesso.
 
 
No one but me can save myself, but it's too late
 
 
[One, Metallica]
 
 
 
 
§
 
 
 
 
I'm feeling like I'm lost — like I'll never be found
 
 
Ho allontanato tutti da me, con il mio atteggiamento e con il mio dolore inspiegabile.
Non viene quasi mai nessuno a trovarmi, forse hanno capito – interpretato – che non voglio il loro aiuto.
Che voglio sentirmi perso – non voglio più essere trovato.
Non ho bisogno di nascondermi sotto il letto come un bambino spaventato, i miei demoni riuscirebbero a scovarmi in ogni caso.
Sono intelligenti, perspicaci, subdoli.
Sono io a permetterglielo, forse.
È che non ho più forze, non ho più voglia, non ho più senso in questo universo.
Mi sto facendo del male, ne sono consapevole; la solitudine che mi sono autoinflitto – da cui non riesco a emergere – mi sta distruggendo.
Ci sono momenti in cui la disperazione mi coglie impreparato e le lacrime sgorgano da sole, diverse da quelle dettate dal panico o dall’ansia.
Sono lacrime amare.
Fanno bruciare i miei occhi, li inzuppano e li sporcano, e non riescono a ripulirmi l’anima né la coscienza.
Mi faccio del male quando mi guardo allo specchio, quando fingo di non essere in casa ogni volta che qualcuno bussa alla mia porta, quando mi rifiuto di mangiare il cibo che puntualmente mi viene recapitato verso mezzogiorno.
Le mie giornate non sono altro che questo: intervalli di vuoto tra una consegna e l’altra.
Non ricordo quando è stata l’ultima volta che Bill ha minacciato di buttare giù la porta e mi ha riempito di insulti, né in quale occasione Roddy si è occupato di sistemare il mio appartamento e cambiare le lenzuola.
Non ho memoria di Trevor e i suoi occhi tristi, né di Puffy e dei suoi discorsi su argomenti quotidiani che non ho mai ascoltato; Titti non mi ha più chiamato – forse l’ha fatto e io non le ho risposto, così si è arresa – e Trey non mi ha raggiunto come aveva promesso.
Sono stato io a respingerli, non posso far loro una colpa.
Mi ferisco e ferisco gli altri con il mio inspiegabile dolore.
Non mi perdoneranno mai.
Non vorranno più ascoltarmi.
In fondo, non saprò mai cosa dire, come scusarmi, dove ricercare un briciolo di coraggio per riemergere dalla disperazione che sento serrarmi la gola.
Se solo riuscissi a cantare, a sfruttare la mia voce per sfogarmi ed esprimermi.
Non ho mai scritto dei testi sensati, non sono mai stato un cantautore né un poeta; però mi sono sempre espresso a modo mio, ho sempre dato forma alle idee.
Adesso non so più come si fa.
Se solo la gola non mi bruciasse quando provo a sfruttarla, forse allora le persone che amo mi capirebbero.
Capirebbero anche i miei suoni articolati e le parole accostate le une alle altre senza alcun criterio.
Ma no, continuerò a ferirli – a ferirmi.
 
 
I'm hurting everybody, I'm hurting myself
I'm desperate
 
 
[What Do You Do?, Papa Roach]
 
 
 
 
§
 
 
 
 
Il fattorino arriva puntuale, come ogni giorno.
Consegna il pranzo al solito indirizzo.
In allegato un biglietto, scritto al computer e anonimo.
 
 
To me, the stage is like the free zone. That's what makes it exhilarating. For whatever reason, there's this weird little square where it's kind of a romper room for adults.
[Mike Patton]
 
 
 
 
 
 
NOTE:
In questo capitolo compaiono l’ex moglie italiana di Mike e Trey Spruence, co-fondatore e chitarrista dei Mr. Bungle insieme a Mike e Trevor, anche lui cresciuto con i due a Eureka. Inoltre, Trey ha registrato l’album King for a Day… Fool for a Lifetime con I Faith No More.
Il concerto a cui ho fatto riferimento è avvenuto realmente, in streaming, il 31 ottobre 2020; lo show è poi uscito come album live nel 2021. La formazione attuale dei Mr. Bungle comprende, oltre Mike, Trey e Trevor, anche Scott Ian (chitarrista degli Anthrax) e Dave Lombardo (famoso per essere stato lo storico batterista degli Slayer).

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Capitolo 7
*** 6 ***


6
 
 
 
 
 
 
I look, I sign
I need someone
Inside to help me out
With what I'm trying
I'm crying, I'm prying
In a pile of shit
I'm dying
I'm dying
I'm dying!
 
 
Irrequieto, giro per la casa e non la sopporto.
Mi fa schifo.
Voglio uscire.
Da solo non ce la farò mai.
Non sono pronto, sto morendo dentro e non so come aiutarmi.
Ho respinto tutti, ma in questo momento non voglio nient’altro che una mano.
Qualcuno che mi tenda le sue dita gentili e mi offra un sorriso rassicurante.
Mi fermo di fronte al tavolo della cucina e spazzo via i bigliettini che da settimane – mesi? – accompagnano il cibo che uno sconosciuto si preoccupa di farmi recapitare.
Sfioro il cellulare con dita tremanti e lo fisso: mi basterebbe sbloccarlo e chiamare qualcuno.
Chiunque.
Mi basterebbe sentire una voce che non sia la mia.
Mi basterebbe sentire una voce, perché non ricordo più quale suono abbia la mia.
La gola mi brucia, ma c’è qualcosa che arde ancora più forte, ed è il bisogno spasmodico che sto provando.
Mi siedo su una sedia e continuo a scrutare lo schermo nero, gli occhi che mi si appannano e i palmi delle mani che prendono a sudare copiosamente.
Devo solo sbloccarlo.
Solo. Sbloccarlo.
Afferro l’apparecchio tra le mani e compio quel gesto doloroso e difficile; uno strano calore si irradia nel mio petto, come se improvvisamente mi sentissi quasi soddisfatto di me stesso.
Ho soltanto sbloccato un cellulare.
Nella vita ho fatto miliardi di cose e non ne sono mai andato particolarmente fiero, e oggi invece mi compiaccio di qualcosa che tutti fanno ogni giorno decine e decine di volte.
Sospiro e scuoto appena il capo, avvertendo un senso di vertigine e che mi destabilizza per alcuni istanti.
Fisso lo schermo, le icone, lo sfondo anonimo.
Apro la rubrica e le dita mi tremano più forte.
Non mi domando a chi potrei telefonare, lascio che sia l’istinto a guidarmi – anche perché non so neanche cosa dirò né se riuscirò a parlare.
Provo a schiarirmi la gola, ma fa male.
Potrei bere dell’acqua per idratarla, andrebbe meglio, ma adesso non ho le forze di alzarmi.
Ho paura che se lasciassi andare il cellulare, non troverei mai più il coraggio di sbloccarlo per chiedere aiuto.
Temo che questo sia il mio ultimo treno e sono terrorizzato.
Scorro con ben poco interesse la lista dei contatti, finché i miei polpastrelli sudati non ne selezionano uno.
Non ho neanche letto di chi si tratta.
Chiudo gli occhi e, con il cuore in gola, porto il cellulare all’orecchio.
Squilla.
Comincio a contare: uno, due, tre.
Ben presto perdo la cognizione del tempo.
Squilla a vuoto.
Poi un click mi fa sobbalzare.
«Dunnatov vi invita a lasciare un messaggio, purché sia intelligente. Altrimenti riattaccate.»
Scosto l’apparecchio e lo appoggio nuovamente sul tavolo, gli occhi sgranati e il respiro corto.
Fisso lo schermo e mi accorgo che effettivamente ho telefonato a Trevor.
E lui non ha risposto.
Un moto di disperazione mi coglie e le mani tremano ancora più forte, mentre il cuore sprofonda nel petto e la gola brucia più di prima.
Ho soltanto bisogno di qualcuno.
Ma evidentemente è troppo tardi.
 
 
I need somebody! (somebody!)
Somebody! (somebody!)
Someone!
I need somebody! (somebody!)
Somebody! (somebody!)
Someone!
Someone!
 
 
[Somebody Someone, Korn]
 
 
 
 
§
 
 
 
 

'Cause life's been comin' in (So slow)
I'm startin' to fade (You know)
Need somethin' tangible (To hold)
Before I slip away
 
 
Sento bussare alla porta.
Riemergo dal torpore in cui ero avvolto e fisso l’uscio chiuso: ultimamente non ho più fatto entrare nessuno, mi sono semplicemente rifiutato e ho finto di non esistere – in effetti non ho dovuto impegnarmi poi tanto per lasciarmi scomparire.
Ho la tentazione di stare immobile e aspettare che chiunque sia se ne vada.
Il fattorino che mi consegna il cibo è già passato, non c’è motivo perché qualcun altro sia qui.
Poi sento bussare nuovamente.
Qualcosa scatta in me: mi tiro lentamente in piedi e strascico i piedi fino all’ingresso; appoggio la mano sinistra sulla maniglia, la destra premuta sul petto per contenere il battito impazzito del cuore.
Sospiro e compio un gesto banale, ma che mi costa un’immensa fatica.
Faccio un passo indietro e sbircio oltre la soglia, sentendo gli occhi feriti dalla potente luce del sole.
Riconosco subito la figura di Trevor che si staglia contro quello che sembra un tramonto.
Indossa una t-shirt nera, un paio di jeans e i suoi capelli sono appena smossi dal vento.
Quel vento che non accarezza la mia pelle da troppo tempo.
«Alla fine sei venuto» rantolo, la gola che brucia esattamente come le lacrime che rotolano sulle mie guance.
Allungo la mano sinistra in un gesto automatico, come se improvvisamente non potessi più fare a meno di lui – come se lo attendessi da tutta la vita.
Il mio amico compie alcuni passi verso di me e oltrepassa la soglia, sfiorando le mie dita con le proprie.
È una sensazione talmente forte – tangibile – da scuotermi fin nel profondo.
Di botto ho voglia di lasciarmi frustare i capelli dal vento, di avvertire il calore del sole sulla pelle, di respirare aria pulita.
Di essere abbracciato.
Di toccare qualcuno.
Di scherzare.
Di ridere.
Di vivere.
Poi mi ricordo che non ne sono più in grado e mi sottraggo ai polpastrelli di Trevor, vestendomi nuovamente di ghiaccio.
Mi tiro indietro perché non so fare diversamente.
Eppure lui pare determinato e segue i miei movimenti finché le sue mani non sono sulle mie spalle – forti, calde, rassicuranti.
I suoi occhi sono lo specchio dei miei, com’è sempre stato. Mi ci sono sempre immerso senza paura, sapendo che lui poteva leggermi dentro e lasciandoglielo fare.
Mi conosce più di chiunque altro.
Trevor mi passa un braccio dietro la schiena e mi si accosta, stringendomi in un abbraccio talmente delicato da risultare quasi inconsistente.
Eppure talmente carico di emozioni da sopraffarmi.
Le lacrime fuoriescono senza controllo, mentre il mio capo si abbandona contro la sua spalla e le mie dita si aggrappano alla stoffa morbida della t-shirt che indossa.
Forse avevo bisogno di questo da sempre, ma ho preferito chiudermi in me stesso e autocommiserarmi.
Per giorni, settimane, mesi.
Ho perso il conto del tempo che ho trascorso senza vivere.
«Ti ho portato qualcosa» dice Trevor, scostandosi appena.
I suoi occhi caldi sono di nuovo nei miei.
Lo scruto mentre infila una mano in tasca e ne estrae un oggetto, sorridendo appena. «Puffy mi ha detto che ti servivano» prosegue, porgendomi una scatola di pastelli colorati.
Li osservo confuso, poi improvvisamente ricollego tutto: mi torna in mente il disegno che Violet ha fatto per me e mi sento un idiota perché non so neanche dove sia andato a finire.
Non ho mai pensato di colorarlo, detesto farlo.
Ma adesso Trevor mi sta invitando a prendere i pastelli e a usarli.
Leggo nelle sue iridi un significato più profondo, un senso nascosto in quel gesto semplice e apparentemente banale.
Vuole che io faccia qualcosa.
Qualsiasi cosa.
Anche se si tratta di un’attività che non mi piace.
Accetto la scatola di pastelli e mi guardo attorno spaesato, rendendomi conto che tutto ciò che sto vivendo è lento, tremendamente sfocato ed evanescente.
E io non riesco più a sopportarlo.
«Cerchi qualcosa?»
«Un mandala da colorare» replico – più parlo, più la mia gola brucia.
Mi fa sentire vivo.
Trevor mi sorride ancora e annuisce, cominciando a gironzolare per casa per darmi una mano.
 

'Cause life's been comin' in (So slow)
And I don't wanna wait (No more)
Need somethin' physical (To hold)
Before I slip away
 
 
Non riusciamo a trovare il disegno di Violet, mi sento sconfortato e ho come l’impressione di star scivolando via ancora una volta.
Poi la sento, calda e rassicurante, la mano di Trevor ancora una volta sulla mia spalla.
Incrocio i suoi occhi e li trovo familiari – quanto mi erano mancati.
«Lo troveremo. Non me ne andrò di qui finché quel fottuto foglio non salterà fuori» afferma.
E io gli credo.
Gli credo perché di lui mi sono sempre fidato e perché so che può aiutarmi a riprendere in mano la mia vita.
Ho bisogno di quei contatti che mi sta regalando per non lasciarmi nuovamente andare alla disperazione.
La mia intera vita è sempre stata travolgente, piena, vibrante. Tutto ha sempre corso in fretta, tutto mi ha sopraffatto e mi ha riempito fino a far esplodere la creatività che faticavo a contenere.
Per un attimo ci penso: chissà che impressione faccio a Trevor, lui che mi conosce più di chiunque altro, che mi ha visto crescere ed essere sempre attivo e immerso nella musica.
Mi pare che tutto vada al rallentatore e d’improvviso sono spaventato.
Quello che ho creato è sempre stato schizofrenico, esagitato, dinamico – veloce.
E adesso, cosa mi resta?
Mi resta guardare Trevor muoversi al rallentatore: si ferma nei pressi della credenza, abbassa lo sguardo, si china e raccoglie un oggetto.
Si raddrizza e si volta verso di me.
È tutto così lento…
Mi porge ciò che ha in mano. «L’ho trovato» dice.
Finalmente capisco: il disegno di Violet, ecco dov’era finito.
Questa casa è un casino e mi sta sempre più stretta.
Lo afferro e lo porto sul tavolo, accanto ai pastelli che vi ho abbandonato poco fa.
Lo scruto e lo trovo veramente bello, nonostante il soggetto mi somigli terribilmente e la cosa mi metta particolarmente a disagio.
Trevor mi raggiunge e mi posa una mano sul braccio, stringendolo appena. «Vado, d’accordo? Se hai bisogno, chiamami.»
Vorrei chiedergli dove deve andare, cos’ha da fare di tanto importante, perché mi sta già abbandonando.
Ma tutto quello che riesco a dire è: «Chi mi manda il pranzo tutti i giorni?»
Il mio amico mi scruta con espressione accigliata. «Perché dovrei saperlo?»
Pronuncia quelle parole in un modo che mi fa capire tutto: sta mentendo, lui sa la verità e probabilmente non vuole dirmela.
«Magari sei proprio tu a farlo» insinuo.
«Non sono io» afferma – stavolta gli credo, non ha esitato per un solo istante.
«Però sai chi è l’artefice» replico.
Trevor scuote il capo e mi lascia andare, affondando le mani in tasca mentre si avvia alla porta. «Non porti troppe domande» conclude, per poi rivolgermi un ultimo cenno con il capo e lasciare casa mia.
Sono di nuovo da solo e stavolta è davvero dura da accettare; ho provato nuovamente qualcosa di reale, mi sono reso conto di aver bisogno d’aiuto e di non poterne più di questa non vita.
Eppure sono di nuovo qui, con me stesso, al rallentatore.
Mi siedo al tavolo della cucina e mi prendo la testa tra le mani.
Poi i miei occhi si posano ancora sul disegno di Violet, quel mandala che è una vera e propria opera d’arte.
Puffy ha ragione: sua figlia farà strada.
Con gesti automatici apro la scatola dei pastelli e li faccio rotolare tutti sul tavolo.
Ne scelgo uno a caso e lo osservo, notando che ho inconsapevolmente optato per il giallo.
Brillante come quel sole che da tempo considero come un nemico.
Lo stringo tra le dita della mano sinistra e accosto la punta al foglio.
Il cuore sussulta appena.
Il mio sguardo viene catturato dalla frase con cui Violet ha impreziosito il disegno, anch’essa da colorare.
Tornerò più forte di prima.
Sono pronto a crederci davvero?
Non lo so, in questo momento non voglio pensarci e ho soltanto bisogno di scrollarmi di dosso ogni riflessione.
Con la mente un po’ più leggera e una flebile speranza nell’anima, mi chino leggermente in avanti e comincio a colorare.
 
 
I like to go fast
Not slow
Need to get high
Not low, low, low
 
 
[Life’s Coming In Slow, Nothing But Thieves]
 
 
 
 
§
 
 
 
 
Il fattorino arriva puntuale, come ogni giorno.
Consegna il pranzo al solito indirizzo.
In allegato un biglietto, scritto al computer e anonimo.

 
 
I think you create your own freedom.
[Mike Patton]
 
 
 
 
 
 
NOTE:
Dunnatov è il nick che Trevor utilizza sia su Twitter che su Instagram.
Questo non sarà l’ultimo capitolo della storia, ci sarà un epilogo ma arriverà soltanto quando saprò qualcosa di Mike, quando lui tornerà a splendere come io mi auguro con tutta l’anima.
E forse, chi lo sa?, scopriremo anche chi gli ha mandato del cibo durante questo periodo buio…

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Capitolo 8
*** Epilogo ***


Epilogo
 
 
 
 
 
 
Chiudo la porta alle mie spalle e appoggio l’ultima valigia accanto alle altre.
Il sole splende ma non fa più paura.
Mi guardo attorno e sorrido appena: il mio giardino è bellissimo, mi ci sono dedicato senza sosta per mesi e ne vado fiero.
Spero di non trovarlo completamente distrutto al mio ritorno a casa.
Per un attimo ho un flashback.
 
La pioggia batte incessante sul vialetto, rigagnoli convergono in un’unica grande pozzanghera, il giardino è devastato e dal vetro opaco della finestra si intravede una sagoma pallida e impaurita.
Vicino alla porta d’ingresso soltanto buste stracolme di spazzatura – scatole di cibo d’asporto piene per metà, bottiglie di alcolici completamente vuote.
 
Torno in me: tutto è pulito, ordinato, normale.
Osservo le valigie, ancora, mentre il cuore sobbalza appena.
Sto per ripartire.
Nuovo tour, nuova vita, nuovo me.
Il mio passato ancora una volta sembra non appartenermi.
Ma adesso sono pronto a lasciarlo andare.
 
 
 
 
 
 
NOTE:
Avevo deciso di pubblicare questo epilogo solo se e quando Mike fosse tornato a fare musica, e così è stato.
È vero, ci sono state delle novità su di lui, ha rilasciato una lunga intervista – totalmente inaspettata ed emotivamente sconvolgente – in cui ha semplicemente aperto il suo cuore, si è raccontato e ha rivelato che a bloccarlo è stata una grave forma di Agorafobia.
Potete leggere la sua bellissima dichiarazione qui:
Mike Patton Talks Mental Health, Faith No More, Dead Cross’ New Album – Rolling Stone
Ma queste rivelazioni non erano abbastanza, così ho atteso fino a oggi perché ieri finalmente Mike è tornato su un palco e lo ha fatto a Santiago del Cile al fianco dei suoi amici di una vita, Trevor e Trey, con la band che diede un po’ inizio a tutta la sua carriera, i Mr. Bungle.
Ho guardato video e foto e sì, sembra stare bene. Non avrebbe intrapreso un viaggio fino all’America Latina e non avrebbe fatto un concerto se non se la fosse sentita.
E questo è solo l’inizio di un piccolo tour sudamericano che spero, live dopo live, lo faccia stare sempre meglio.
Ora non sei più un uccello in gabbia, ora puoi tornare a volare più libero e forte di prima.
Con il cuore, il pensiero e l’anima sarò sempre con te, Mike ♥

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