SKAZKI OB ISTINNOM MORE di RLandH (/viewuser.php?uid=330024)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Premessa ***
Capitolo 2: *** Prologo (SHIOBAN, 16 DF) ***
Capitolo 3: *** Dominik I (28 DF) ***
Capitolo 4: *** Lu-Wan I (22 DF) ***
Capitolo 5: *** Matthias (40 anni dall DF) ***
Capitolo 6: *** Vasilissa I (40 DF) ***
Capitolo 7: *** Lu-Wan II (22 D.F.) ***
Capitolo 8: *** IOREN I (28 D.F.) ***
Capitolo 9: *** Vasilissa II (40 DR) ***
Capitolo 10: *** JORDAN I (28 D.F.) ***
Capitolo 11: *** ELEN (22 D.F.) ***
Capitolo 12: *** Vasilissa III (40 DR) ***
Capitolo 13: *** Maestra Ekaterina (22 DF) ***
Capitolo 14: *** JORDAN II (28 D.F.) ***
Capitolo 15: *** Drina I (28 dalla D.F.) ***
Capitolo 16: *** Mattias II (40 D.F.) ***
Capitolo 17: *** Malcom I (22 D.F.) ***
Capitolo 18: *** IOREN II (28 D.F.) ***
Capitolo 19: *** Alina I (40 D.F.) ***
Capitolo 20: *** Matthias III (40 D.F.) ***
Capitolo 21: *** Min-Han I (40 D.F.) ***
Capitolo 22: *** Vasilissa IV (40 df) ***
Capitolo 23: *** Dimitriji I (40 D.F.) ***
Capitolo 24: *** Alina II (40 D.F.) ***
Capitolo 25: *** Elen II (22 D.F.) ***
Capitolo 1 *** Premessa ***
Premessa
Prima
di pubblicare questa storia devo fare una lunga è fastidiosa
premessa.
La storia è una classica Future!Fic con i Figli ed un sacco
di OC; ma proprio
davvero, davvero, tanti personaggi originale.
Inoltre poiché sono una pazza psicopatica la storia si
alterna su tre linee
temporali diverse (cinque se si considera il prologo e
l’epilogo) che
potrebbero a loro volta subire una successiva bipartizione.
La prima linea è il 22 dalla Riunificazione di
Ravka/Dissoluzione della Faglia
ed è una storia d’avventura che probabilmente
tinte oscure e non sempre gentili
(con probabilmente una certa dose di TW), la seconda ambientata nel 28 RR, ha una trama un
po’ più intrigante
e politica (se io fossi in grado di scriverla) e l’ultima nel
40 RR è
praticamente un episodio di Bridgerton.
Tutti gli altri eventi non compresi in queste tre linee saranno
probabilmente narrati
in flashback a meno che non sia necessario avere un momento specifico.
Comunque, tutti i capitoli avranno una delimitazione temporale.
Ho scelto tre linee narrative perché volevo raccontare tre
diverse storie ed in
un certo senso sono tutte collegate, a modo loro. All’inizio
le storie saranno
equamente divise, ma ciò non toglie che andando avanti
potrei concentrarmi per
diverso periodo su una, rispetto le altre e così via.
Ovviamente, non posso
lasciare che una storia rimanga troppo indietro.
In base ai capitoli, cercherò di fornirvi una timeline e/o
liste di personaggi.
Ed un sacco di note per spiegarvi perché ho preso una
decisione o meno che non
fosse spiegata nel testo (Praticamente sono diventata Jay Kristoff). E
spero di
poter risolvere la “Questione Fjerdiana” che nei
libri ho trovato un po’ troppo
semplicistica.
Come dicevo un sacco di oc, però, insomma appariranno anche
i personaggi del
nostro cuore (Genya e Nina su tutti, però insomma anche Inej
e Zoya, Wylan ha
addirittura una scena, probabilmente la persona che si vedrà
di meno è Kaz
Brekker, perché chi sa scrivere Kaz? Io no, anche se
avrà un momento – che
qualcuno mi accuserà di essere assolutamente ooc). Riguardo
alle ship: tutte
le ship presentate nel finale di RoW sono rimaste canon, ma
non sempre il
loro rapporto è stato idilliaco (insomma la storia copre
quasi quarant’anni di
eventi), tipo Zoya e Nikolai. Chi ne è uscito indenne sono
stati i Kanej
(perché probabilmente si vedono complessivamente un mese in
un anno e camminano
troppo sulle uova per ferirsi, ma questo è del tutto
relativo).
Per i figli dei personaggi, ho cercato di trovare un buon compromesso
tra i loro
genitori, mischiato con la vita e gli avvenimenti che li hanno visti
coinvolti.
Oltre questo, i Reali hanno, come vuole le tradizioni, più
nomi di quanto sia
richiesto.
Per
il Design dei personaggi mi sono rifatta alle descrizioni librarie e
non
telefilmiche (Alina e Mal sono Ravkiani, Genya ha gli occhi scuri, Kaz
neri,
etc) con l’unica eccezione di Zoya a cui ho lasciato i suoi
splendidi occhi
blu-zaffiro ma ho dato l’incarnato più scuro,
nonostante nei libri venga detto
che è pallida (diciamo che nella mia testa il suo incarnato
è simile a quello
di Meghan Merkle, ha senso?).
Il
titolo: skazki ob istinnom more, è
russo, la cui traduzione
corrisponderebbe a: Fiabe del Mare Vero (Per
gentile concessione della
mia amica che studia russo) Tecnicamente Skazki che è la
parola (plurale) con
cui i russi si riferiscono a favole/fiabe, andrebbe tradotto
letteralmente come
“E’ detto”.
Detto
questo: la storia è un caos e fedele alla Bardugo il prologo
è abbastanza
slegato dalla vicenda e alla stessa maniera non lo è.
Cielo, che disagio.
Buona Lettura.
Ps-
Ho una DSA e nessuna beta. Moriamo come Drsukelle.
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Capitolo 2 *** Prologo (SHIOBAN, 16 DF) ***
SKAZKI
O ISTINNOYE MORE
SHIOBAN
(16
anni dalla Dissoluzione della Faglia)
Quando aveva
toccato con i piedi la
terra, Shioban si era chinata ed aveva rimesso il suo pranzo dritto sul
terreno, evitando di poco i suoi stivaletti di cuoio. Non era la sua
prima
volata in cielo, anzi ne aveva accumulate un po’ sulle
spalle, ma il suo stomaco
– e la sua testa – sembravano non abituarsi mai.
“Oh” aveva esclamato una donna alle sue spalle.
Shioban si era tirata su, era
stata la prima a scendere dall’imbarcazione. Aveva vomitato
due volte mentre
erano in viaggio, abbracciata alla balaustra ed aveva deciso, appena
atterrati,
di non voler mai più tenere un piede sulla nave, per almeno
il resto del
pomeriggio.
“Mi pare di comprendere che non gestisci bene i
viaggi” aveva commentato la
donna che l’aveva raggiunta, mettendole una mano cordiale su
una spalla. “Se
gli uomini fossero fatti per volare, avremmo le ali” aveva
borbottato Shioban.
“Sciocchezze, gli uomini fanno tantissime cose per cui non
sono costruiti”
aveva risposto l’altra, con un tono non curante. Con
l’unico fiammeggiante occhio
d’ambra aveva rivolto lo sguardo allo splendido veliero
volante da cui erano
appena scesi.
L’Alcione.
Nonostante il nome dell’uccello, ciò che
sventolava sulle vele dell’albero
maestro era lo stendardo della famiglia reale di Ravka Drago Incorano
della
Regina, a quattrozampe, con le fauci aperte, squartato nel primo e nel
quarto
quadrante, l’Aquila Bicefala del Re Consorte, leggermente
più contenuto, nel
terzo e in ultimo un sole raggiante, nel secondo quadrante
più piccolo
completava la triade.
Un tempo l’aquila era simbolo del regno, ma le cose erano
cambiate. A Shioban,
però, i draghi piacevano di più.
La nave era un bilandro di dimensioni modeste, con
un albero maestro a
vela quadrata e uno di mezzana a randa, ignorando le vele laterali
retrattili,
che permettevano il volo. L’Alcione poteva andare sia per
cielo sia per mare –
come l’uccello di cui portava il nome – ma
raramente veniva utilizzata per
quello scopo. In mare esistevano i pirati di ogni luogo, di ogni dove,
anche
sotto la superficie dopo la costruzione degli Squali, in cielo
… c’era gente,
ma decisamente meno.
Shioban si era
forzata di
rispondere, con fatica, con un sorriso di circostanza.
“Lasciami aggiustare il
tuo aspetto o spaventeremo i bambini” aveva detto la donna
attirando la sua
attenzione, in quel momento il luccicante occhio ambra era fisso su di
lei.
Shioban aveva
annuito, “Di solito
mi prendo un quarto d’ora di lunghi respiri, ma sono molto
curiosa” avev ammesso,
presentando il volto; aveva affrontato già abbastanza viaggi
in volo da sapere
che la sua pelle avesse raggiunto una tonalità
più vicina al verde che il
solito roseo pieno che sfoggiava di solito.
“Se riuscissi a far passare la nausea” aveva
proposto Shioban, “Chiedi al tuo
amico healer, come si chiama Vladimir?”
aveva considerato quella, mentre
apriva la sua borsa da viaggio, per permetterle di recuperare i
materiali con
cui lavorava per plasmare l’aspetto. Shioban trovava quel
talento
incredibilmente intrigante, in realtà trovava tutto quello
che aveva a che fare
i grisha, davvero interessante. “Vladyslaw,
ma noi lo chiamiamo
semplicemente Vlad” aveva risposto Shioban.
Aveva
sollevato lo sguardo per
permettere alla donna di giocare con le sue guance – una mano
al suo viso, ed
una stretta al petalo di una rosa rossa – accompagnata da un
leggero
pizzicorino, mentre lei aveva osservato gli altri scendere dal pontile.
Come
fosse stato evocato Vlad si era palesato davanti ai suoi occhi. Stava
scendendo
dal ponte dell’Alcione, con un passo lento e cadenzato, per
nulla turbato dal
turbolento viaggio. La kefta rossa scarlatta, che portava aperta sul
petto,
come fosse stata un cappotto, ondeggiava ai picchi del vento. In quella
maniera
Vlad sembrava quasi un nobile signore, con uno svolazzante mantello.
Quello che a Shioban piaceva in Vlad era il fatto che era sempre
elegante,
prima di essere qualsiasi altra cosa, anche un grisha,
d’altronde era un Effimov,
un’antica e illustre famiglia di Ravka ovest.
Aveva un viso olivigno e capelli neri, agitati e mossi – come
le onde
increspate del mare – lunghi fino alle spalle. Suo padre era
Pavel Effimov,
signore di Kyoska e ammiraglio di divisione della marina ravkiana
– per questo
che fosse in cielo o in terra, Vlad si trovava a casa su una barca
– e della
sua concubina suli heartrender. Era da lei che
aveva eredito i suoi
poteri e gli occhi attenti. Vlad l’aveva guardata e le aveva
fatto l’occhiolino,
amichevole come sempre. Non era il primo viaggio su un aliante che
facevano
assieme.
Erano ormai
due anni che lavoravano
fianco a fianco.
“Ti
piace questo tuo Vlad?” aveva
chiesto divertita la tailor, mentre si occupava di
sistemare la sua
pelle in un colore che somigliasse al chiarore di una rubiginosa.
“Molto
e non in quella maniera” aveva risposto senza indiscrezione,
dicendo il vero.
Sapeva che triunviro era una donna sfacciata, elegante, ma senza peli
sulla
lingua.
Era avvampata
dopo, però. Quando
Vlad aveva raggiunto il fondo della passerella e si era messo a
strillare con
quel suo tono sempre vigoroso, autoritario, verso gli altri.
Così, dalla
sommità, baciato dal sole stesso era apparso: Igor.
Nonostante il suo aspetto
splendente, il suo viso era contratto in un’espressione
seccata. Shioban aveva
dovuto distogliere lo sguardo, anche se Igor non l’aveva
degnata neanche di uno
sguardo, non aveva degnato nessuno dei presenti di
un’occhiata, preferendo
guardare con espressione contrita il panorama misero che quella landa
offriva.
“Lui, però, d’altro canto
…” era stato invece il commento della donna, con l’occhio
ambra di Ravka aveva studiato per bene il ragazzo in kefta
blu. Igor
sfoggiava la sua migliore espressione accigliata e sofferente,
“Parla poco, sta
sulle sue ed ha sempre la testa rivolta nei libri, così mi
è parso
sull’Alcione?” aveva indagato la donna.
Shioban aveva
sorriso appena, piena
di vergogna, “Sì, Igor è
così” aveva commentato. Non era bellissimo, aveva
un
naso dritto ed appuntito, tutto di lui era spigoloso, dal mento, alle
spalle,
perfino lo sguardo. La donna aveva sorriso, aveva labbra rosee
tormentate da tagli,
i segni del suo martirio, anche se non era una santa.
“Comprendo, comprendo”
aveva considerato, voleva esserci gioco, ma l’occhio si era
inumidito, “Anche
mio marito era così”. Non aveva idea se la
conversazione potesse proseguire o
meno, perché era accaduto altro.
“Shioban,
potresti approfittarne
per farti sistemare la tua gobba sul naso” aveva strillato,
qualcuno, invece,
osceno ed assolutamente indisciplinato. Shioban aveva deragliato lo
sguardo
verso chi aveva parlato: Gavrilo in tutto il suo selvaggio splendore!
Shioban
si era sporta per fargli la linguaccia, “Non ti muovere o
invece di piene
guance rosse, ti ritroverai una fronte bitorzoluta” era stata
bacchettata dalla
donna.
Gavrilo aveva saltato a pie pari il ponte, atterrando
sull’erba e per un
miracolo dei santi non si era ferito, “Guarda che non ti
riparerò un’altra
volta quella caviglia!” lo aveva ammonito Vlad, subito,
“Se ti fai male
zoppicherai da qui ad Os Alta” lo aveva avvertito.
Gavrilo aveva
riso scacciando la
voce di Vlad con un movimento della mano. Era un otkazat’sya,
ma la questione non
sembrava averlo mai turbato. La
prima
volta che Shioban lo aveva visto, aveva avuto di lui l’idea
fosse una persona
di ferro, forgiata dalle ascetiche regole monastiche richieste ai
seguaci dell’Apparat,
monaci-soldati, ma era bastato che sfuggisse di poco
all’occhio della
disciplina perché prendesse vizzi ed un’attitudine
più molleggiante. La
giacca d’ordinanza dei Soldat Sol, bianca
spessa con il sole oro-e-rosso sulla schiena era lasciata aperta, sulla
camicia
di lino grezzo ed i calzoni di pelle della divisa. Aveva occhi
allungati unico
ricordo del suo sangue Shu, ma con l’iride nero pece.
“Ai miei tempi i soldati
del sole erano diversi” aveva confidato la donna piena di
divertimento. “Gavi è
un modello tutto suo” aveva dichiarato Shioban.
Le piaceva Gavrilo, era decisamente una persona vivace con cui avere a
che fare,
era certa che se si fossero conosciuti nel campo
d’addestramento sarebbero
divenuti migliori amici fin dagli albori. La donna aveva sorriso con
confidenza, “Il tuo naso va bene anche così,
secondo me, se vuoi posso renderlo
perfetto, certo” aveva considerato quella.
Shioban si era
morsa un labbro, “Mi
piace il mio naso, sono diciannove anni che lo ho lì, mi
sembrerebbe strano
altrimenti. Potresti, però, sollevare l’arcata
sopraccigliare sinistra, ho una
leggera asimmetria nel volto” aveva considerato quella.
“Va benissimo” era
stata insospettabilmente accontentata Shioban. Una mano aveva raggiunta
l’altra
ed aveva spinto la ragazza ad inclinare il capo in diverse direzioni,
perché le
sopracciglia potessero essere studiate da ogni angolazione.
Nel mentre,
Shioban aveva osservato
gli ultimi due membri dell’Alcione scendere a terra. Le
sorelle Rurik, non
erano gemelle, ma si somigliavano come due fiocchi di neve. Come era
d’uopo
aspettarsi da due grisha erano alte, bellissime e potenti. Indossavano
con
orgoglio e nobilita d’animo le loro kefte blu pavone,
broccate di
grigio-argento. Nonostante la lunga fatica della traversata, ambedue
sembravano
intenzionate a mostrarsi irreprensibili. Bianche come il marmo
cesellato, con
zigomi alti, labbra piene, occhi plumbei e capelli biondo-fragola, che
scendevano in morbide onde. L’unica notabile differenza
andava ritrovata in
Anastasja, la minore, leggermente più bassa, che portava
stritolato intorno alla
gola una girocolla ricavata dalla lisca sottile del corpo di una
murena,
saldata in ferro grisha.
Shioban aveva saputo Asja stava cercando raggiungere la
capacità di tidemaker.
Era possibile d’altronde. Dal simile al simile,
la materia di cui tutto
era fatto ed altre frasi che Shioban aveva sentito ripetere infinite
volte.
Si chiedeva se quello fosse vero, dal simile al simile, dove doveva
collocarsi,
allora, lei?
“Ecco, fatto, ora hai delle splendide sopracciglia
simmetriche, per quanto
andrebbero rifatte da principio. Però non sembri
più uscita dritta dalla Faglia
e non terrorizzerai nessun bambino” aveva scherzato la donna
con le mani nel
suo viso. Ormai, quella frase non era che un modo di dire, come un
altro, ma
lasciava lei, sempre confusa, inorridita. Shioban, del Nonmare non
aveva nessun
ricordo, se non una fitta, nerissima, coltre di nero. Aveva tre anni
quando Novakirbisk,
la sua città, era stata fagocitata per intero, ma lei e la
sua famiglia – per
un fortuito caso del destino – non era stati in
città e, poi, sua madre non ne
aveva voluto sapere di tornare lì, di avvicinarsi ancora.
Shioban ci era
tornata, con suo
padre, quando aveva sei anni, non ricordava tutto benissimo, ricordava
di aver
camminato per l’arena arida, tra gli scheletri delle
VeleSabbia, della città e
delle speranze infrante.
E poi aveva avuto quindici anni, quando aveva compiuto il Cammino dei
Pellegrini ed aveva portato corone di fiori alle chiese del Sole e
acceso
candele al Senzastelle, lì, nell’Agroverde.
Dove un tempo era stata
la morte ed il deserto, ove, in quel momento, sorgeva la vita con una
potenza
virulenta.
E nonostante non ci fosse più nulla a testimoniare il
non-mare, di vivo e di
concreto, ma solo ricordi e racconti, la faglia somigliava ad un brutto
ricordo
doloroso che sanguinava in Ravka, che qualcosa di tangibile, che era
stato vero.
Però
di una cosa era certa Shioban,
per quanto dovesse somigliare ad uno straccio usato, scesa
dall’Alcione, era
certa che l’aspetto di chi avesse affrontato la Faglia
dovesse essere quello
della donna che le parlava.
Le avevano detto che un tempo Genya Saffin era stata, probabilmente, la
donna
più bella del mondo ed aveva pagato il coraggio e la
ribellione con la sua
bellezza. Per Shioban era un pensiero stupido, per lei Genya Saffin era
ancora
la donna più bella del mondo. I suoi capelli erano del rosso
più vivo che
avesse mai visto ed il suo occhio d’ambra era il
più intenso di tutta Ravka.
L’Occhio
d’Ambra del
triumvirato – dicevano.
Era stata l’agente segreto dell’Oscuro e amica di
Sankta Alina, seguace del
Korol Renzi e fedelissima della Sankta Koroleva, membro del triumvirato
grisha,
quando ancora i grisha erano diffidati. Aveva rovesciato una dinastia
che
governava da secoli. Re, nobili, generali, santi, tutti passavano ma
Genya
Saffin rimaneva.
Imperitura come la pietra. E le cicatrici erano il simbolo del suo
coraggio, di
chi si era opposto con fervore ad ogni tiranno che avesse incontrato.
“Grazie”
aveva detto alla fine Shioban.
Genya Saffin le aveva sorriso ancora prima di accompagnarsi a Vlad,
prendendolo
per un braccio, l’healer era stato
incredibilmente felice di
accompagnare la donna. Era una leggenda fra loro, inoltre, una volta il
giovane
grisha le aveva confidato che avrebbe tanto voluto avere Genya Saffin
come
maestra, ma era piuttosto negato come tailor,
nonostante tutta la buona
volontà.
Shioban aveva
fatto passare il
pollice sul suo sopracciglio sinistro, per sondare se si sentisse
diverso o
meno al patto, pareva tutto drammaticamente uguale. “Solo tu
potevi avere la
più talentuosa tailor del mondo e
l’hai usata per curare un difetto
neanche visibile” aveva considerato Gavrilo, mettendole una
mano sulla spalla,
“Mi piace la mia gobbetta al naso, ci sono
affezionata” aveva risposto lei,
sorridendo divertita.
Poi il sorriso divertito di Gavrilo si era raffreddato e la presa
intorno alle
sue spalle si era sciolta subito, quando aveva scorso Igor guardarli,
“La
posizione, Soldat Sol, noi siamo qui come vicari della Corona e
dell’Apparat”
li aveva rimproverati.
Gavrilo si era
irrigidito ed aveva
annuito, raggiungendo Vlad e Genya passo marziale. Il suo atteggiamento
duro
era rimasto impassibile anche davanti alle domande delle sorelle Ruskin.
“Di solito la gente tende a considerarci meglio quando siamo
meno formali”
aveva commentato Shioban. Igor non lo sapeva, ovviamente, usualmente li
accompagnava per noia, per girare, per vedere luogo nuovi, rifornire la
sua
collezione di libri, appuntarsi cose che avrebbero potuto interessarlo.
Ogni
tanto li rendeva invisibili davanti a qualche mezzo ad aria troppo
audace.
Però,
era ovvio, che le cose
dovessero essere diverse in quell’occasione.
Igor stesso aveva dato voce ai suoi pensieri, “Non
è strano?” aveva chiesto, aveva
il forte accento di Ravka ovest, come Shioban, ma era l’unica
cosa che avessero
mai avuto in comune; “Sono strane un sacco di cose, a quale
ti riferisci
esattamente?” aveva domandato con finta ingenuità,
lisciando con le mani la sua
kefta.
Non era come quella dei grisha, certo resisteva ai proiettili come le
loro –
così come la giacca da Sol Soldat di Gavrilo– ma
era di un azzurro acceso, come
un cielo di un dipinto di DeKappel, non era broccata ne aveva filature
particolare, un unico colore omogeneo che l’avvolgeva.
L’unico tratto
distintivo era dato dal drago oro sul fondo bianco, inquadrato su uno
scudo,
sulla schiena – come simbolo del suo servigio alla corona.
Shioban aveva
sistemato sul cuore due spille commemorative.
“Che
la Razrushhost sia
voluta venire qui, con noi?” aveva domandato Igor, ignorando
il suo gioco. “Non
mi chiedo mai le ragioni delle persone potenti. Conoscono sempre
più di quanto
ci diranno mai” aveva considerato con un sorriso di
circostanza Shioban. Ovviamente
Igor aveva ragione, era abbastanza inusuale che una persona come Genya
Saffin,
membro del triunvirato, amica e consigliera della Regina Drago, avesse
voglia
di accompagnare un gruppo spaurito come loro, in un viaggio in quella
landa
semi-sconosciuta di Ravka.
“Sei stupida allora. Conoscenza è
potere” aveva commentato Igor, secco,
aggrottando le sopracciglia. “Sì, è
strano. Evidentemente qui vicino deve
esserci qualcosa di interessante. D’altronde tu sei qui, nel
cortile, invece
che essere stesso in plancia a farti un bagno di sole mentre
leggi” aveva
commentato Shioban.
Ovviamente era stato strano, quando pronti alla partenza avevano
ricevuto una
comunicazione da Os Alta che gli aveva informati di un nuovo
passeggero.
Shioban si era aspettata un giovane soldato o … be,
chiunque, ma non la Grande
Genya Saffin in persona. Ma così era stato.
Igor era
trasalito a quel commento,
“Mi è stato detto di comportarmi adeguatamente al
mio rango” si era
giustificato, con le guance arrossate di indignazione, raggiungendo
anche lui
il resto di loro, seguito a ruota da Shioban. Prima della comunicazione
di
Genya, anche Igor aveva ricevuto un messaggio ed aveva dovuto
incontrare
l’Apparat in persona. Era strano il modo in cui agiva lui e
quelli come lui,
alcuni di loro erano praticamente grisha come gli altri, ma altri erano
quasi
Soldat Sol, fedeli e seguaci dell’Apparat Vladim che altro.
Forse era perché il
culto di Sankta Alina era il Culto di Ravka per eccellenza,
più di quello di
Sankt Ilya o della Regina Sankta Vivente. Per Shioban era strano, ma
forse, per
quanto mirabolanti fossero le gesta della Regina, il suo essere ancora
viva,
tangibile, umana non le regalava quell’assolutismo
ultraterreno che il martirio
e la parusia regalavano ad Alina Della Faglia.
Genya aveva
condotto la fila
dell’equipaggio, verso il loro luogo di incontro. Era un
edificio niente male, sembravano
i resti di un palazzo nobiliare, ma molto più pieno di vita
e colori. Al posto
di arzigogolati giardini, organizzati in corridoi di siepi e cespugli,
presentava grandi parchi alla maniera delle isole erranti.
Le pareti della villa erano di mille colori vivaci, stuccate nuove. E
quel
posto brulicava di vita e di gioia.
Due persone l’aspettavano all’ingresso di un
cancello aperto. Uno era un
giovane uomo, poteva avere qualche anno in più di Shioban,
era carino. Occhi
grandi, pieni di vita, un’espressione calorosa sul viso
formata da un sorriso
dolce.
Lei era
più breve di statura ma più
grande d’età, una donna intera e matura, aveva
capelli scuri, di un colore
intenso. I suoi occhi erano scuri ma scintillanti di vigore e fulgidi
d’amore.
Genya aveva sciolto la presa da Vlad e si era diretto verso la donna,
si erano
abbracciate come vecchie amiche, poi aveva guardato anche il ragazzo.
“Com’è
che diventi sempre più bello Misha?” aveva chiesto
Genya.
Il ragazzo era gradevole, con gli occhi limpidi e
l’espressione rilassata,
“Mangio un sacco di verdura” aveva risposto. Genya
aveva tirato un buffetto
delicato sulla spalla del giovane, prima di rivolgere lo sguardo
nuovamente
alla donna. “Ma cosa hai fatto ai tuoi capelli?”
aveva chiesto Genya con espressione
piuttosto accigliata, “Li ho tinti” aveva replicato
l’altra con espressione
quasi divertita. “Sì, grazie, questo lo vedo.
Quello che mi chiedo … non hai
trovato un modo?” aveva chiesto quella, sollevando con un
dito i capelli
dell’altra, “Ehi” si era difeso il
giovane uomo che era sulla porta, “Si, è
stato Misha ad aiutarmi” aveva spiegato Alina, “E
sì, non possiamo godere della
compagnia di una talentuosa sarta, quindi, ho ricorso ad una vecchia
tintura
per capelli” aveva ghignato l’altra, tirandole uno
buffetto sulla mano per
farle lasciare i capelli. Genya aveva sorriso, “Ricordami di
sistemarli prima
di andare via. Non si dica che un’amica di Genya Saffin sia
impresentabile”
aveva dichiarato.
“Non
si dica” le aveva fatto il
verso l’altra.
“Ora hai la tua
risposta” aveva detto Shioban,
guardando le due. Genya aveva preso il polso, delicatamente, della
donna e
l’aveva guidata verso di loro, seguita poi dal giovane uomo.
Poi la donna aveva
fatto le presentazioni dovute, senza sbagliare neanche un nome, come se
fossero
stati suoi vecchi amici e non avesse dimenticato il nome di Vlad
qualche
momento prima. La donna aveva sorriso educata e gentile, era stata
amichevole,
stringendo le loro mani. Aveva guardato con estrema
curiosità la kefta azzurra
di Shioban – entrata in vigore probabilmente dopo
l’ultimo censimento in quella
zona – ed ovviamente Igor. Come d’altronde, non si
poteva?
Igor indossava
il blu brillante
degli etherealki, ma l’abito era istoriato con motivi
oro-rosso. Tutti sapevano
cosa volesse dire.
I Sun
summoner.
La padrona di
casa si chiamava Marina,
gestiva lei l’orfanotrofio di quel piccolo villaggio, assieme
al suo compagno –
aveva portato i ragazzi più grandi (che avevano
già affrontato il censimento) a
caccia quella mattina presto, ma che sarebbe rincasato presto, come
aveva
tenuto a sottolineare – ed il giovane uomo di nome Misha. Nel
corso degli anni,
in quel mestiere Shioban era stata accolta in ogni sorta di maniera,
con
aspettativa, intolleranza, qualsiasi cosa tra quelle due oscillazioni
del
pendolo, ma mai con così tanta famigliarità.
Marina aveva fatto preparare per loro, dalle cucine, un buon banchetto,
non
così lauto e fasto, ma degno di rispettare
l’ospitalità ravkiana del sud.
Sul tavolo
aveva fatto mettere
oltre al kvas anche latte, miele e quant’altro. Ekaterina
Ruskin, si era scolata
da sola due boccali di latte speziato caldo, per recuperare la fatica
del
viaggio. “Per caso ha anche della jurda?” aveva
chiesto sfacciata. “Certo!”
aveva cinguettato Marina, mandando un giovane ragazzo a prenderlo.
“Potete
rimanere qui quanto tempo desideriate, sono contenta di dire che qui
Keramzin
abbiamo letti vuoti” aveva detto con orgoglio la donna,
guardando i suoi
bambini.
Shioban aveva
osservato la scena, i
bambini erano per lo più ravkiani, qualche Shu o mezzo-Shu.
Però non erano
tanti, non come quando lei era piccola e gli orfanotrofi erano
strapieni di
bambini figli della guerriglia di confini, della guerra civile, della
guerra
della jurda, della faglia. Shioban era felice che nonostante non
fossero pochi
i bambini erano un numero esiguo rispetto quanti avrebbero potuto
essere.
“Credo ci abbia invitato per tenersi più tempo, la
signora Saffin” aveva
sussurrato Gravilo nell’orecchio di Vlad. “Ed anche
se fosse, qui mi piace un
sacco” aveva ridacchiato Anastasja, mentre beveva latte e
miele.
Lei doveva riconoscerci una certa dolcezza, calore, aveva sempre avuto
l’impressione che quei posti fossero tetri e tristi.
Si era voltata
verso Igor, che come
sempre stava studiando l’ambiente al suo meglio, i suoi occhi
erano stati
incantati dall’enorme ritratto che dominava sulla lunga
tavolata da pranzo.
Sankta Zoia dva Urga,
con le due dita sollevate
in posizione orante e sulla chioma scura portava la sua corona drago.
Per
Shioban era davvero un ottimo ritratto, l’artista aveva
fermato l’espressione
orgogliosa della Regina Santa, riproducendo perfettamente la giusta
tonalità di
blu. Era diversa dalle altre rappresentazioni che aveva visto della
donna, per
prima cosa la mano che l’aveva dipinta non sembrava eccelsa,
così come la
rappresentazione non pareva di carattere adulatoria, ma tragicamente
reale in
qualche modo. L’imperfezione della mano era acquietata dalla
riproduzione
dell’espressività. Non
era solo il
preciso blu più degli occhi della Santa Vivente, ma anche la
severità e la
fierezza della posa, dello sguardo.
Chiunque
l’avesse dipinta aveva
guardato il viso della Regina con i propri occhi, per abbastanza tempo
da
catturare su tela la sua austerità. “Ti
piace!” aveva parlato una bambina,
attirando la sua attenzione, non era lontana da Shioban, “Lo
ha fatto la
mamma!” aveva dichiarato con orgoglio. Shioban aveva fatto
scattare lo sguardo
verso Marina la tenutaria che parlava con Genya e ridevano di una
battuta di
spirito di Ekaterina e di quello che aveva l’impressione
fosse un giovane
maestro. Forse Marina era stata amica anche della Regina Drago oltre
che del triumviro.
Si chiedeva, com’è che una persona che aveva avuto
amici tanto importanti fosse
finita lì, così defilata …
Poi aveva
riportato lo sguardo
sulla bambina.
Era,
ovviamente, la figlia di Marina,
non poteva essere altrimenti, anche se non si fosse dichiarata tale,
aveva la
stessa curva morbida del volto, il naso piccolo e delicato e gli occhi
grandi pieni
di calore. C’era qualcosa di qualcun altro, ovviamente, come
iridi turchesi,
quasi iridescenti, labbra piene e rosa. “Molto
bello” aveva considerato Shioban.
Era una bambina forse sui dieci anni, forse anche meno, magra ma in
salute, con
capelli scuri e lunghi che le scendevano come un mantello spesso sulla
schiena.
“Sì, un’ottima mano” aveva
considerato Igor, circostanziale, anche se non era
vero. Non nella maniera in cui lo pensava Shioban.
Il sun summoner era devoto all’Apparat
più di quanto lo fosse alla
Regina. Non conosceva, non aveva visto anzi, come Shioban lo sguardo
fierissimo
della Regina Zoya da così vicino da apprezzare quanto fedele
fosse quel quadro.
Un altro
bambino aveva parlato, era
più piccolo della ragazzina – sicuramento meno di
dieci anni – aveva gli occhi
allungati degli Shu, lo stesso colore del miele e capelli nerissimi
come una
macchia di pece, attirando la loro attenzione.
“Puoi… fare quello?” aveva
domandato pieno di aspettativa. Alla sua richiesta si erano appellati,
altri
fanciulli smaniosi.
“Bambini!”
li aveva richiamati
all’ordine Marina, notandoli vicinissimi a loro due.
“Queste persone sono qui
come emissari della corona non per intrattenerci” aveva
considerato materna, li
aveva richiamati ma senza un aspro rimprovero, prima di rivolgersi a
loro,
“Perdonateli: i bambini non hanno mai visto un sun
summoner da queste
parti” aveva spiegato lei, la sua voce si era incrinata.
“Pensavo che Sankta
Alina fosse di Keramzin” aveva considerato Gavrilo.
Un’espressione tesa si era
formata sul viso di Marina, “Circa” aveva
considerato, “Era dei Due Mulini, in
realtà, ogni anni portiamo i più grandi a fare un
pellegrinaggio alle rovina e
alle cascate di fuoco” aveva considerato Misha. “Ci
piacerebbe molto andare”
aveva vagliato Igor, ammiccando a Gavrilo. “Avete sentito il
sole” aveva
risposto l’altro. C’era stata un gentile sorriso
che aveva illuminato il
salottino, “Certamente, domani, se vorrete, prima di
ripartire” aveva concesso
Marina.
“Quindi
la kefta azzurra?” aveva
domandato Marina, “È la kefta di rappresentanza di
quello che potrebbe essere
definito i rimasugli del primo esercito” stava spiegando
Genya, alla donna,
“Anche se ormai non esiste più un primo o un
secondo” aveva detto didascalica il
triumviro. “Azzurro è sempre stato il colore di
Rafka” aveva valutato Marina.
Shioban aveva
ascoltato quel
discorso parzialmente, le piaceva indossare un kefta, li rendeva tutti
uguali,
sebbene in combattimento risultasse forse troppo impostata, anche i
grisha non
le indossavano più durante gli scontri, preferendo tenerle
come rappresentanza,
favorendo l’uniforme regolare dell’esercito con i
loro colori di appartenenza.
“Pensavo che, visto, le recenti teorie della materia, aveste
cominciato a
sperimentare nuovi colori?” aveva proposto.
“Qualche grisha ultimamente collauda.
Alcuni squaller e tidemaker si
trovano affini. Ogni tanto spunta
fuori una Kefta blu con istori argento-azzurri” aveva
cominciato, “Alkemi
e Durast lo sono sempre stati” aveva
considerato Marina. Genya aveva
annuito, con l’occhio giallo pieno di tormento –
Shioban sapeva che il suo
defunto marito era stato un fabrikator –
“Sì, ormai i nostri decori sono
totalmente opzionali. Anche noi sarti stiamo rivalutando, stavo
pensando di
passare dal rosso al porpora, per specificare meglio questo essere a
metà con i
materialki, ma starebbe malissimo con i miei capelli” aveva
considerato il
triunviro.
Shioban si era
allontanata con la
risata di Marina a riempirle le orecchie; aveva deciso di non
disturbarle, era
ovvio fosse un incontro tra due vecchie amiche ed aveva preferito
lasciare
così, sedute su morbidi divani nel loro privato.
Ekaterina e
Anastjasia invece
avevano deciso di accettare la proposta di Marina e concedersi un
meritato
riposo, dalla Palude Dorata, il viaggio era stato insospettabilmente
lungo,
anche con la jurda erano crollate, nonostante tutto il loro impegno
nell’apparire
impeccabile. D’altronde ambedue erano state istruite dal
triunviro Andrik, il sankto
asimmetrico. Vlad, compagnia che Shioban avrebbe apprezzato
tantissimo,
aveva deciso di farsi scortare per la tenuta da Misha e lei lo aveva
lasciato ai
suoi riti di seduzione. L’healer non
nascondeva mai il suo appetito. Era
un uomo vorace.
Aveva
perciò cercato Gavrilo e Igor.
Si aspettava di trovare il primo ad intrattenere l’orda di
bambini con qualche
racconto trucolento o uno eroico, o una pessima combo di entrambi,
mentre il
buon Sun summoner per fatti suoi, seduto
sull’erba a leggere qualcosa di
suo gradimento. Igor amava così tanto leggere che un giorno,
Shioban lo aveva
scoperto gustarsi anche le carte catastali di Sikursk; non aveva fine
la sua
fame di conoscenza né alcun discernimento, evidentemente.
Ogni informazione,
ogni nozione, andava ingurgitata.
Una volta lo aveva anche sentito desideroso di andare alle Rovine
dell’Arcolaio
per raccogliere tutto quello che doveva essere rimasto, di libri,
volumi e
pergamene.
Invece, si era
dovuta dichiarare sorpresa;
i due erano insieme. In una parte del Parco Errante, Marina aveva fatto
costruire un gazebo in legno bianco, abbastanza grande
perché una tavolata per
quindici persone potesse trovare riparo dal sole estivo di Ravka. Il
tavolo
però era stato messo da parte e tutti i bambini sedevano a
semicerchio.
Tutti i loro
occhi erano per Igor,
c’era anche qualche precettore della casa, un po’
in disparte, che si fingeva
disinteressato ma che continuava a guidare gli occhi verso Igor, come
una
falena attirata dalla fiamma. Il grisha stava intrattenendo i bambini
con sfere
luminose, mentre il Soldat Sol lo osservava posato ad un pilastro di
legno, con
gli occhi sognanti. Erano tutti devoti uomini alla corona di Ravka, ma
Gavrilo
aveva un giuramento sacro che lo legava ai miracolati di Ravka, il cui
potere
era sorto dopo il martirio di Sankta Alina.
I prescelti.
Se Shioban ci
pensava a lungo era
strano che non ci fossero sue icone, erano comunque vicini al luogo
della sua
nascita e dove era vissuta. Forse Marina e suo marito non erano poi
troppo
credenti. Il tributo a Sankta Zoya, era il tributo ad una amica,
realizzava.
I bambini
sembravano completamente
rapiti dalle movenze di Igor, aveva dita lunghe ed ogni suo movimento
sembrava
delicato. Le sfere crescevano e diminuivano di grandezza ed
intensità, così
come la posizione con una certa sequenzialità, non ne era
sicura ma aveva
l’impressione che Igor stesse suonando, senza note, senza
voce, ma solo con la
luce. Intensità, grandezza, ritmo. E nel farlo stava
sorridendo ed era così
carino quando lo faceva, peccato sorridesse poco o niente. Si era
avvicinata
con lentezza al gazebo di legno, mentre osservava i bambini chiedere
con
vivacità di dare alla luce le forme più svariate.
Non aveva
raggiunto il gazebo, però,
spaventata di rompere quell’equilibrio. Per un secondo, un
solo secondo, aveva
giurato che gli occhi intensi di Igor l’avessero raggiunta,
ma era stato un
secondo. Il rumore del cancello l’aveva distratta. Si era voltata osservando un
uomo, con una
carabina legata sulle spalle, aprire il cancello, dietro di lui
c’era un
ragazzetto sui sedici anni, che teneva una cestina ed un fucile a
spalla,
seguito da una coetanea, alta che teneva con un bastone i resti in un
cinghialotto legato a reggere l’altra estremità
c’era un ragazzo, altissimo. Il
chiudi-fila era una ragazzina che non poteva avere neanche quattordici
anni.
“Oh”,
aveva esclamato l’uomo,
guardandola. Aveva dei vibranti occhi azzurri, come il cielo riflesso
sull’acqua pulita, la stessa tonalità della figlia
di Marina, immaginava perciò
che fosse il marito di Marina. I quattro ragazzi alle sue spalle
avevano
drizzato la schiena, “Sei una grisha?” aveva
chiesto immediatamente la giovane
alta che teneva la prima parte della canna. “No, sono un
soldato” aveva
risposto calma, “Caporale Maggiore Shioban Veleski, di stanza
… ad Os Alta”
aveva detto con fervore. Era una menzogna, ma non aveva il permesso di
divulgare ai civili la posizione della sua base. “Io sono
Shevich Rosen, il
marito di Marina” aveva dichiarato l’uomo,
ammiccando a sua moglie che aveva
abbandonato il salottino, per unirsi in giardino, in compagnia di Genya
Saffin.
“Loro sono: Rebah, Stygor, Yue e Andrej, i miei
ragazzi” aveva detto.
“E vedo che avete preso un cervo per cena” aveva
commentato con estrema
allegrezza Marina, “Nonostante avessimo già una
dispensa piena” aveva aggiunto.
“Non
ero uscito con quell’intento”
aveva ammesso colmo di imbarazzo Shevich, “Però
sapevo sarebbero arrivati”
aveva aggiunto, ammiccando proprio a Shioban. “Comunque non
è stato facile!”
aveva dichiarato subito la ragazzina di quattordici anni, Shioban
immaginava
dovesse essere Yue, aveva occhi tondissimi, ma screziati di oro Shu,
“Sì, ma
sono stati tutti bravi, Andrej ha un vero futuro da
tracciatore” aveva detto
Shevich, le sue parole erano pesanti sulla lingua. Il ragazzo con il
cestino
era arrossito, aveva delle delicate efelidi sulle guance che lo
rendevano
adorabile “Il tracciatore è un mestiere
terribilmente sopravvalutato” aveva
replicato Marina. “Ci sfama solamente” si era
lamentata Rebah, “Adesso basta, andremo
in cucina a scuoiarlo, Genya vuoi farmi compagnia?” aveva
chiesto Martina, con
una certa imperiosità.
Genya, durante questo scambio, si era avvicinata ed aveva baciato sulle
guance,
piena di calore, di Schievich. Il triunviro aveva battuto gli occhi,
Shioban
non era abituata a vedere nessuno così autoritario con la rovina,
neanche la regina drago.
“Secondo
te vivo ancora a piccolo
palazzo perché adoro scuoiarmi la cena da sola?”
aveva domandato retorica la
grisha, ma lo sguardo scuro e pieno di devozione dell’altra
era bastato perché
cedesse, “Marina, se non abitassi in un posto così
dimenticato dai Santi, mi
trasferirei qui solo per come mi guardi” aveva sentito Genya
dire, mentre Rebah
e Stygor portavano via il cervo.
“Quindi
vi porterete via qualcuno?”
aveva chiesto subito affamata Yue, “Non sono ancora stati
testati” era stata la
pigra risposta di Shioban, prima di aggiungere, riconoscendo uno
sguardo pieno
d’apprensione, “Anche se risultassero grisha, il
servizio militare obbligatorio
è stato sospeso” l’aveva rassicurata.
Shevich aveva messo le mani sulle spalle della ragazzina, paterno,
“Ne abbiamo
già parlato” le aveva detto bonariamente,
“L’addestramento a grisha può salvare
un nostro fratello, dai pericoli e da se stesso” aveva
ripetuto come una
cantilena la ragazzina. Questo era inaspettato.
Ravka era
sempre stata la patria
dei grisha, il posto dove ognuno di loro si sentiva a casa. Avevano un
luogo,
il palazzo, un ruolo, il secondo esercito, ma il mondo era sempre stato
spaccato in due. Solo negli ultimi anni, dopo la Santa Regina Grisha,
la
percezione era cambiata, ma ancora di quei tempi la gente era sempre
poco
entusiasta di sapere che i loro figli lo erano. Shioban aveva sorriso
verso
Shevich, “Sì” aveva confermato.
“Ehi guarda!” aveva detto Andrej, attirando lo
sguardo della ragazza su Igor ed i suoi giochi,
“Andiamo!” aveva esclamato subito
la ragazzina rianimata dal desiderio, “Screanzati i
funghi!” aveva urlato
dietro il padre putativo, ritrovandosi poi la cestina tra le mani.
“Scusali, di
grisha se ne vedono anche a Keramzin ma di sun summoner
pochi” aveva
confidato.
“Credo
abbiano paura di girare così
vicino al confine di Shu-Han” aveva ammesso Shioban,
“Può esseri in vigore il Concordato,
ma certe abitudini sono due a morire” aveva considerato.
L’accordo era stato istituito, in vero, tra Makhi Kir-Taban e
Nicolai Lanstov,
ma nessuno dei due governava più, non con
quell’assolutismo prima. La regina
Makhi era stata retrocessa a co-reggente – e Shioban aveva
sentito alla Palude
che qualcuno commentava che il suo governo non era stato legittimo
– e Nikolai
si era rivelato un figlio spurio ed era passato da Re Legittimo a Re
Consorte.
Shevich
aveva guardato
quasi rapito i giochi di luce, e lei aveva visto nel suo sguardo un
ricordo.
D’altronde conosceva Genya, forse aveva servito nel primo
esercito, forse aveva
visto la Sankta Alina della Faglia ed i suoi giochi di luce
… forse Shioban
stava fraintendendo.
Mentre i
ragazzi più grandi ed
alcuni servi della casa si erano impegnati nella preparazione del cervo
e della
cena – anche Shevich sarebbe voluto andare ma sua moglie lo
aveva convinto a
rimare. Shioban aveva l’impressione che lui fosse
terribilmente preoccupato
dalla loro presenza (il suo atteggiamento appena Rebaj si era
allontanata si
era fatto molto meno sicuro) – mentre la signora della casa
si era occupato di
radunare i bambini, tutti i bambini, anche quelli non in età.
Erano
quindici, esclusi quattro più
grandi che si erano chiusi in cucina.
Avevano scelto
come luogo una delle
sale da pranzo della tenuta. Abbastanza grande perché non
fosse necessario
spostare il tavolo perché fossero comodi. Oltre i bambini e
loro, nella stanza
c’erano tutori incuriositi e servi. Sembravano tutti molto
ansiosi. Il più
grande tra i bambi lì presenti era un giovanotto di tredici
anni con
un’espressione contrita, che continuava a far saettare gli
occhi blu su tutti
loro.
Normalmente era Shioban che parlava con la folla, ma in quel momento
con loro
era presente la leggendaria Genya Saffin, così aveva chiesto
alla donna se
avesse voluto farlo lei. “Santi del cielo, no, parlare con i
bambini non è uno
dei miei molti talenti” aveva ammesso Genya, con un sorriso
quasi nervoso.
Non era quello
che aveva sentito
Shioban da Vlad, ma forse la donna non voleva solo imporsi.
Così Shioban si era ritrovata in piedi di fronte i bambini,
con Vlad alla sua
sinistra con espressione calma e rilassata e la signora Marina alla sua
destra.
“Salve,
giovane figli di Ravka,
come già sapete noi siamo qui per stabilire se tra voi ci
saranno dei grisha”
aveva cominciato a parlare, “Eseguirò io
l’esame, sono Shioban, membro
dell’esercito di sua maestà la regina e mi
assisterà in questa prova il
guaritore Vladimir” aveva parlato in maniera informale
Shioban, anche se Vlad
era un soldato quanto lei ed anche di un grado superiore. “La prova
sarà semplice, prenderò la vostra mano
e valuterò la vostra condizione” aveva stabilito.
Quello era;
solo un amplificatore. Umano.
Una rarità, dicevano.
Gli
amplificatori umani erano rari,
per lo più erano grisha, ma Shioban era un’abbandonata.
“A volte capita
che con qualcuno sia più difficile di altri, in quel caso
sarà necessario fare
un piccolo taglio, non preoccupatevi è sempre un caso raro
ed abbiamo il buon
Vlad per questo. Se qualcuno di voi, risulterà un grisha, ci
occuperemo di
prove più pratiche per stabilirne l’ordine di
indole. Per Materialki ed
Corporalki potremmo anche qui … e la specializzazione
probabilmente sarà
impossibile da determinare ora e qui, ma ci vorrà del tempo,
vedere le vostre inclinazioni.
Per gli etherealki sarebbe il caso di andare in giardino, questa
è una bella
casa e nessuno vorrebbe distruggerla” aveva dichiarato con un
sorriso calmo.I
bambini avevano ridacchiato a quella battuta.
Aveva deciso di saltare la parte in cui spiegava che gli ordini era una
visione
leggermente arcaica, che in quegli anni i grisha stavano cominciando a
sperimentare. Come la Regina Zoya che governava tre – le
più note – su cinque
delle discipline degli etherealki e qualcosa di materialki, oppure
Genya Saffin
che con le sue abilità di plasmare-le-forme era a
metà tra un corporalki ed un
materialki. O anche solo Anastasja.
Un ragazzino
aveva sollevato la
mano, poteva avere sui nove anni massimo, magro, con le guance secche e
grandi
occhi verdi, “Puoi parlare” aveva
concesso.“Se fossimo … ecco …
grisha?” aveva
chiesto.
“Quello che desiderate. Potete rimanere qui, unirvi alla
scuola del Piccolo
Palazzo, dove vi sarà insegnato ad usare il vostro potere,
se vorrete entrare
nell’esercito ad una certa età potrete, se vorrete
restare a studiare potrete
rimanere, se vorrete tornare qui o andare ovunque; esistono molti
luoghi oggi
dove si insegna ai grisha e no, il mondo vi appartiene. Magari qualcuno
di voi
è un etherealki ma scoprirà di avere una
propensione per i numeri ed il denaro
e vorrà studiare per bene” aveva ammesso, prima di
dare la parola a Vlad,
quella parte spettava a lui.
“Potete
anche rimanere qui. So che
esistono grisha tutori che insegnano, non so se ne abita qui uno vicino
e se la
signora Rosen ha intenzione di assumerne uno” aveva
cominciato a dire posato,
con quella sua eleganza innata. Shioban poteva vedere che una macchia
rosa
puntellata, svettava appena sotto il colletto della camicia, sulla
pelle caramello.
“Ma una cosa
è certa: dovrete allenarvi. La
piccola scienza ci nutre, un grisha che non manifesta i suoi poteri si
ammala.
E come le vostre braccia e le vostre gambe, avete bisogno di usarle,
sempre,
per muovervi” aveva spiegato gentile, “O si
atrofizzeranno. Così sono i poteri”.
I bambini la ascoltavano come se le sue parole fossero state di miele.
“Va
bene, bambini, cominciamo. Niente di tutto questo deve farvi
paura” aveva detto
Marina, battendo le mani, infondendo calma e gentilezza. Era luminosa,
Shioban
non sapeva neanche spiegare come.
“Pensate a Zaara, che anche se ha
giurato la scorsa primavera alla regina, continua a tornare a
trovarci” aveva
spiegato calma, poi aveva chiamato la prima persona.
Era stato il
ragazzino di tredici
anni silenzioso ma con gli occhi blu accesi. Shioban aveva toccato
delicatamente il suo polso e non aveva sentito niente.
“Peccato” aveva detto
lui. Shioban aveva cercato di sorridere, comprensiva, perché
conosceva quella
delusione, “Non necessariamente. Puoi diventare un bravo
medico senza essere un
healer, così come stoppare un cuore o dare fuoco a
qualcuno” lo aveva cercato
di consolare.
“Cambiare una faccia?” aveva chiesto il bambino,
“Con una scorta di cosmetici e
paraffina” aveva dichiarato Shioban, arruffandoli i capelli.
Il ragazzo non era
stato molto contento, ma era sembrato più sollevato a quegli
ultimi commenti.
Poi aveva chiamato anche gli altri. Alcuni bambini erano sembrati
turbati di
non esserlo ed altri anche contenti. Aveva avuto bisogno di tagliare
una
ragazzina, ma anche quel fremito di resistenza si era rivelato nulla
– paura di
essere qualcosa.
Aveva trovato
un grisha.
Un ragazzino,
con del sangue
fjerdiano, che a dodici anni era alto come uno di sedici. Aveva tenuto
il suo
polso per bene, poi aveva sorriso, “Puoi andare vicino a
Gavrilo. È quel Soldat
Sol, con l’espressione da pesce-lesso sulla
faccia?” aveva domandato retorica. Il
ragazzino aveva annuito, e così aveva fatto.
Shioban aveva sentito Marina trattenere il respiro, perché
aveva capito. Altri
due bambini e poi era rimasta solo la figlia dei due tenutari.
“Drina
su, tranquilla!” l’aveva
incalzata la madre con dolcezza ed amorevolezza, dando un colpetto
gentile alla
spalla della figlia. La ragazzina si era voltata verso i suoi compagni,
ma
Shioban aveva riconosciuto che il suo sguardo cercava quello di suo
padre. Shevich
era posato contro una parete con sguardo leggermente preoccupato. Aveva
cercato
di sorridere verso sua figlia incoraggiante, ma non c’era
abbastanza sicurezza
in lui.
Marina si era chinata sulla figlia e le aveva messo le mani a coppa sul
viso,
materna, “Moya Milaia
non hai nulla di cui preoccuparti” le aveva detto, dandole un
bacio dolce sulla
fronte. La ragazza aveva sfacciatamente rivolto lo sguardo al padre, in
cerca
di qualcosa. L’uomo si allontanato dal muro e si era
avvicinato alla bambina,
calmo. Aveva sussurrato qualcosa all’orecchio della figlia.
La madre che si era cucciata davanti a Drina, si era sollevata. Shioban
vedeva
solo il retro di una chioma scurissima, ma immaginava che
l’espressione sul suo
volto non dovesse essere serenissima.
Il padre aveva
condotto Drina
davanti a Shioban, lasciando Marina indietro.
Quando lei
aveva visto il viso
della donna, aveva potuto riconoscere un’espressione mista
sul viso, tristezza
e tradimento. “Io, noi, non crediamo sia
n…” aveva cominciato a dire Shevich,
“Sono una grisha. Lo so” aveva dichiarato la
bambina con convinzione,
sollevando il polso con sicurezza verso Shioban. Lei aveva annuito,
“A volte
capita che i bambini se ne accorgano da soli” aveva
commentato, prendendole
delicatamente il polso, “Un mio amico ha fatto esplodere le
tubature della sua
casa a soli sei anni” aveva aggiunto, ricordando quel
racconto. Voleva mettere
a suo agio la bambina. Drina, però, non sembrava nervosa,
aveva uno sguardo
avido, mentre rivolgeva l’attenzione alle dita di Shioban;
però con la mano
libera, teneva le dita del padre.
Shioban aveva
chiamato e, poi,
aveva sentito la risposta. Non ne aveva mai sentita una così
potente, brutale
quasi. “Wow” si era lasciata sfuggire senza
controllo, “Decisamente sì!” aveva
esclamato colpita Shioban.
Drina era arrossita, voltando il capo verso il padre e poi anche verso
la
madre, quasi colpevole. Marina
era in
viso chiara come la cera, si era avvicinata con un passo lento, quasi
timoroso,
“Si … si sa cosa?” aveva chiesto con un
principio di ansia. “Adesso vediamo,
per tutti e due. Sempre se Drina non sappia già cosa
è” aveva considerato.
Il ragazzino
di sangue Fjerdiano si
tirato su, preso in contropiede. Tutti gli occhi della stanza erano su
Drina.
La ragazzina aveva sollevato una mano, stendendo però solo
due dita, un gesto
incerto, aveva strizzato gli occhi e corrugato la fronte come se quello
che
stesse facendo le costasse fatica, per concertarsi … per un
po’ non era
successo nulla, ma poi un rumore aveva rotto il silenzio di respiri
strozzati
che aveva accolto il salone.
Un bottone d’osso della kefta verde di Shioban era caduto per
terra, aveva
strappato i fili che lo sostenevano.
“Materialki” aveva detto Marina, prima ancora di
lei, il suo tono era stato
quasi funereo. Probabilmente, addirittura una durast
già conclamata.
Shevich
si era voltato verso la
moglie, mentre riportava la bambina verso di lei. Shioban si era
chinata per
raccogliere il suo bottone.
Il ragazzino
mezzo-fjerdiano, Kos,
si era rivelato un inferno. Shioban era costata una buona
mezz’ora di chiamate,
gli aveva tenuto la mano mentre Ekaterina lo spingeva a richiamare alle
sue
mani tutti gli elementi. Vlad
aveva
fatto partire una scintilla ed il ragazzino aveva evocato il fuoco la
prima
volta. Era costato un albero.
“Ecco perché dovremmo portarci un
tidemaker!” aveva esclamato indignato Igor,
mentre Anastasja si impegnava ad usare l’acqua del pozzo per
spegnarlo, con
estrema fatica. Ekaterina invece aveva tirato via l’ossigeno
da quel punto
dell’aria per riuscire a spegnerlo. “Bene quel che
finisce bene!” aveva
dichiarato Yue, “È pronta la cena se qualcuno non
vuole dare fuoco a
qualcos’altro!” aveva esclamato la ragazzina iena
di vigore.
Il tavolo era
stato imbandito modo
che tutti gli abitanti del castello potessero di nuovo riunirsi per la
cena.
Alcuni ragazzini continuavano a tirare buffetti di congratulazioni
sulle spalle
di Kos che era rosso e pieno di gioia.
Shioban aveva sorriso, mentre prendeva posto al tavolo.
Gavrilo aveva
fatto per sedersi
accanto a lei ma era stata Genya ad accomodarsi, rubandoli
sfacciatamente il
posto, “Perché non ti siedi vicino a quella
maestrina lì, ti trova molto carino”
aveva dichiarato subito, facendo ridacchiare il Soldat Sol,
“Io ho fatto un
voto, mia signora, ma una bella vista non si nega a nessuno”
si era defilato
Gavi. Lei aveva ridacchiato, guardando Genya di sottecchi, non
l’aveva più
vista dopo la prova della piccola Drina, si era isolata a parlare con i
genitori della bambina. Forse nessuno di loro si aspettava che fosse
una
materialki, o una grisha in generale, forse erano pronti a vedere i
bambini che
crescevano andare via ma non il sangue del loro sangue. Eppure,
continuava a
pensare al sospiro di Marina quando aveva detto Materialki, come una
condanna.
“Posso
farti una domanda, Shioban?”
aveva chiesto Genya con un tono basso e misurato, “Non credo
potrei impedirle
di fare alcunché, moia razrushost”
aveva risposto Shioban, “La chiamata
di Drina, quanto era forte?” aveva chiesto, il suo tono era
terribilmente serio.
I suoi occhi avano raggiunto la ragazzina, sembrava pallida e nervosa,
mentre
il ragazzino con origini Shu, che cercava di tirarla su. Anche la
signora
Marina e suo marito continuavano a lanciare sguardi preoccupati alla
figlia,
forse timorosi che scegliesse di andare al Piccolo Palazzo.
“La chiamata non
tanto, la risposta, è stata sfolgorante!
Probabilmente la più potente
che io abbia mai sentito” aveva ammesso. Aveva cercato di
mettere a fuoco nella
sua memoria se c’era mai stata un’altra risposta
così secca, così focosa, ma
non le veniva in mente. Genya si era morsa un labbro, pregna di
preoccupazione.
Fu evidente a
Shioban, che le
mancasse qualche informazione.
Spero vi sia piaciuta Shioban perchè probabilmente non la
vedrete più :^
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Capitolo 3 *** Dominik I (28 DF) ***
CAPITOLO
PROVA
Bene,
nonostante il poco
successo, ho deciso di provarci lo stesso. Dopo una lunga analisi ho
deciso di
scegliere come linea di partenza quella del 28 RR/DD, per tre ragioni:
appaiono
dei personaggi citati nel prologo, il setting è Ketterdam
(inoltre, per quanto
caotica, mi piace il gruppo dei personaggi del 28) ed ha
l’inizio più soft da
gestire.
Allego
a questo link
l’immagine della famiglia reale di Ravka nel 38 RR: https://www.deviantart.com/rlandh/art/Ravka-s-Royal-Family-in-the-28-DF-943408459
(In
realtà ho disegno la
famiglia Reale di Ravka in tutte e tre le linee temporali; forse
disegnerò
altri personaggi)
E a questo lo stemma della Famiglia Reale: https://www.deviantart.com/rlandh/art/RAVKA-943408942
(Sì, mi diverto con poco).
DOMINIK
I
28
anni dopo la Dissoluzione della Faglia
La
verità era abbastanza semplice
da accettare. Lo aveva svegliato il senso di colpa e la voglia.
Più la
seconda che il primo.
La voglia di non tenere i
suoi pensieri
fastidiosi ed insidiosi come tarli nella sua testa e cavalli
imbizzarriti nei
suoi sogni, quando non riusciva a reprimerli con il garbo gentile con
cui i
suoi genitori lo avevano educato.
Sua madre nella via dell’indifferenza e supponenza e suo
padre con le sue maschere.
Dominik non era come i suoi genitori e non era come sua sorella
maggiore. La
tempestosa Liliyana era balzata nella sua mente; così
seriosa, elegante e
terribilmente diversa da Dominik.
Tutto quello
che lui voleva era
camminare per le vie dell’università, starsene in
biblioteca a ridacchiare con
i compagni, partecipare ai variopinti esperimenti di fisica del
professor
Blede. Anche lavorare al porto con Magnus, nei cantieri dei Dyk.
Giocare a birch
con Jordie
al Silver Six.
Ed ovviamente
baciare, toccare,
scopare …
‘Sei
un principe, non può andare
avanti oltre’ ma Dominik, non senza vergogna,
pensava di essere era già oltre,
ovunque fosse quell’oltre.
Labbra, pelle.
“Stai
avendo un sogno bagnato?”
aveva sentito una voce, ripescarlo dai suoi pensieri non proprio
pudici. Aveva
schiuso un occhio, anche se sapeva, esattamente di chi fosse la voce
che lo
aveva svegliato. Non aveva visto nessuno nel suo campo visivo, ma
quando si era
sfilato – di poco – dalle coperte e si era
puntellato sui gomiti, potendo
godere della visuale della stanza.
Una figura
vestita di nero era
sulla sedia imbottita, vicino alla sua scrivania da camera. Lo
schienale era
rivolto verso lo scrittoio e la seduta verso il letto.
L’altro era appollaiato
sopra come un corvo, gambe lunghissime, una dritta e l’altra
ad elle kerchiana
con la caviglia della gamba sinistra, appena sopra la rotula della
gamba
destra.
“Perchè sei vestito come un banchiere?”
aveva risposto Dominik scivolando fuori
dal letto, incurante di essere ancora nel suo pigiama da camera.
“Perché sono andato
in banca” aveva ricevuto come risposta. L’altro
indossava una blusa elegante di
un grigio scuro, sopra un gilè nero, con sottili decorazioni
grigio perla,
sopra quello sfoggiava un elegante giacca nera, con le maniche tirate,
assieme
a quelle della camicia, lasciando scoperto il polso buccia-di-mandorla.
I
pantaloni scuri erano abbinati, così come le scarpe
lucidissime.
“E cosa sei andato a fare in banca?” aveva chiesto
Dominik. “Ti interessa
davvero?” si era sentito rispondere.
Dominik aveva
sorriso stanco, “Come
sei entrato?” aveva chiesto poi Dominik, “Ti
interessa davvero?” aveva
replicato il suo ospite, con una punta di divertimento. “In
realtà no, ma devo
sapere se entrare nella stanza dello zapasnoy tsarevich
di Ravka sia facile come entrare in una taverna”
aveva replicato Dominik,
senza perdere la faccia – anche se non era bravo come suo
padre in quello.
Nikolai Lantsov era un maestro delle facce di bronzo. “Se
può rincuorarti, per
gli altri non lo sarebbe” aveva commentato il suo amico,
“Perché tu sei il
migliore” lo aveva stuzzicato Dominik,
“Sì … e perché
differentemente da gran
parte delle persone che avrebbero interesse a farlo, io sono passato
dalla
porta principale dell’ambasciata” aveva risposto
onesto, non aveva parlato nel
volgare kerchiano, ma in un buon ravkiano, non raffinato come quello
dei
nobili, ma del volgo, però un accento credibile e
soprattutto autentico. “Lo
dimentico sempre” lo aveva preso in giro Dominik.
Ricordava la prima volta che si era visti, sulla costa bianca ravkiana,
con le
città in festa, per l’onomastico della tsaritsa.
“Perché
sei qui? E, sì, questa
volta mi interessa davvero” aveva detto guardando il suo
amico, mentre
cominciava a sfilare i bottoni dall’asola, per togliersi la
camicia da notte.
Quando viveva a Ravka aveva l’abitudine di dormire nudo, ma
aveva smesso a
Ketterdam, un po’ perché
l’umidità della città era letale, anche
nelle calde
mura dell’ambasciata, un po’ perché il
palazzo a Piccola Ravka, non godeva
della stessa intimità del Corridoio Principesco. Ringraziava
i Sankti,
comunque, sarebbe stato imbarazzante essere nudo come un verme davanti
al suo
amico. “E non dire che perché sentivi la mia
mancanza, quello è ovvio” aveva
aggiunto Dominik, mentre il silenzio si susseguiva.
L’altro
aveva sorriso, in una
maniera un po’ storta e divertita, prima di alzarsi dalla
sedia, “Sentivo la
tua mancanza” lo aveva stuzzicato, senza vergogna. Dominik
aveva sollevato un
sopracciglio biondo, provocatorio, “Juliana voleva
assicurarsi che tu ti
svegliassi” aveva concesso alla fine, quasi infastidito di
dover dire la verità,
“E che fossi pronto e preparato per la colazione di
mezza-mattina”.
Dominik si era tolto anche la camicia, per indossare la blusa elegante,
ignorando apertamente quell’ultimo commento; quando una
cameriera aveva aperto
la porta. Minuta, pallida e con indosso una veste bianco-e-oro.
“Oh
perdonatemi, moy tsarevich! Io … il
conte Dubrovin … perdonatemi!” aveva
squittito, chiudendosi poi la porta alle spalle. “Cosa
è appena successo?”
aveva chiesto affilato il suo amico, “Credo che, Marija,
abbia appena pensato
fossimo amanti” aveva risposto, con una punta di
divertimento. L’altro non
aveva nascosto la smorfia, “Andiamo a fare colazione o il
conte Dubrovin
penserà davvero che ieri io mi sia dato alle più
sfrenate dissolutezze” aveva
considerato Dominik, “E così non era?”
aveva ricevuto come verso dal suo amico,
“Solo ad inizio serata, poi sono tornato
all’ambasciata dritto-dritto come un
bravo bambino” aveva risposto mordace.
Il Conte
Mikhail Dubrovin era
l’ambasciatore di Ravka a Kerch e – a parere del
medesimo, come li piaceva
sempre dire – l’uomo più sfortunato del
regno intero, perché oltre a dover
presentare la gola ai kerchiani, compagni piuttosto indigesti della
grande
Ravka, al conte Dubrovin era capitata l’incombenza di curarsi
di Dominik,
doveva assicurarsi che prendesse con serietà i suoi studi,
che non finisse
incantato dall’ammagliante sirena che era Ketterdam e che non
morisse.
Mikhail non
era stato amico dei
suoi genitori, né conoscente. Era cresciuto a Ravka Est,
vicino le montagne,
aveva imparato a fare i conti, prima ancora di marciare a cavallo, in
vero in
quell’ultima attività era ancora piuttosto
scadente, ma era svelto con i numeri
e con le chiacchiere e tanto era bastato perché
quell’incarico li cadesse sulla
testa come una benedizione e quando Dominik aveva deciso di voler
studiare a
Kerch, anziché nella Prima Università di Ravka,
al povero conte Dubrovin era
capitata anche quella maledizione.
L’uomo
era seduto al tavolo da
pranzo con espressione rotta, le dita strette intorno alla tazzina
maiolica,
colma di caffè fino all’orlo. Dominik lo aveva
trovato nella piccola sala da
pranzo privata, non quella adibita alle cene di rappresentanza o quella
degli
incontri formali. Era una stanza informale, per la crema della
società ravkiana
che abitava il palazzo. E tutto sotto l’egida del campo
squartato, con le i due
draghi, l’aquila ed il sole. Quella bandiera era appesa per
tutto l’edificio
dell’ambasceria e per tutto il quartiere di Piccola Ravka
sfovalazzano simboli
simili, a volte solo il drago incoronato di sua madre o
l’aquila bicefala di
suo padre. Una volta Dominik aveva visto ad una finestra il sigillo
personale
di sua sorella maggiore, aveva pensato forse di doverne avere anche uno
lui.
Dubrovin, come
capo in carica,
occupava il capo del tavolo quadrato, dagli orli smussati. La tavola
era
coperta da una lunga tovaglia bianca broccata d’oro, su cui
erano stato
imbandita una colazione degna di un principe, con dolciumi, frutta di
stagione
– e non – e succhi di ogni genere, un samovar per
il tè ed anche una caraffa di
vero caffè.
Gli altri
avventori erano i soliti
volti noti che da un paio d’anni a quella parte occupavano il
posto di membri
della Corte Oltre-Mare, o come piaceva dire al popolo, per urtare la
Principessa Liliyana, la corte del Principe. Dominik era decisamente
ingordo di
quello stupido nomignolo.
Accanto a
Dubrovin, alla sua
sinistra, c’era Varvara sua amante, dal viso lungo e
l’espressione sempre
divertita. Di fronte la donna, c’era Kostantyn, con la kefta
blu piuma di
pavone, lucente, con i rivoli rossi come fiamme, che seguivano i bordi.
All’Inferno non importava di nascondere ciò che
era e ciò che poteva fare; era
lo scudo giurato di Dominik, o meglio la sua balia. Non erano
particolarmente
vicini, onestamente Dominik non credeva di piacere molto al grisha, ma
l’uomo
era la sua solida ombra.
Poi, al
tavolo, c’era la
giovanissima Tatiana Dubrovin,
cugina di quarto
grado di Mikhail, che aveva gli stessi occhi porcini del cugino, i
capelli
biondi, riccioluti come un putto, ma un sorriso composto da denti
storti.
Tatiana non aveva ne madre ne pare, solo Mikhail.
C’era
uno dei Soldat Sol
dell’Apparat, Gavrilo, che avrebbe dovuto essere
l’ibrido tra un letale
guerriero ed un monaco ascetico, ma che a Dominik piaceva molto
perché non lo
era affatto, più che dedito ai vizi e offrire i suoi servigi
a Ghezen che a
Sanka Alina della Faglia. Ludoscevic che era un commerciante brillante
quanto
l’oro che portava alle orecchie forate, poi
l’ammiraglio Statislao, che era
venuto mesi fa per una questione urgente, ma non era più
andato via, catturato
dalla sirena Ketterdam.
E poi
… po c’era Drina, che era arrivata
qualche settimana fa. Sedeva un po’ in disparte, mentre
tagliava con forchetta
e coltello un acino d’uva. Dominik ricordava la ragazza,
donna sì corresse –
perché ora, con ventuno anni sulle spalle non era
più una ragazzina – quando
era bambina e come era bella e solare. E poi era cresciuta ed i suoi
occhi blu
erano diventati distese di inquietudine. Differentemente da Kos non
sembrava
così ansiosa di sfoggiare la sua kefta grisha.
Drina,
comunque, non poteva essere
lì per piacere – Dominik era a conoscenza del
fatto che fosse una nolnik
di suo padre, il corpo di soldati scelto del Re Consorte, composto da
inventori, costruttori ed ingegneri, di cui buona parte capacissima di
uccidere
a mani nude un uomo. E prima di essere uno degli zeri di Nikolai, Drina
era
stata un Opričnik di sua sorella. “Qual
buon vento” aveva detto spento
il conte Dubrovin, “Il principe ci ha onorato della sua
presenza” aveva
sferzato senza gioia.
“Sicuramente non il gruzeburya”
aveva risposto divertito Dominik; il
vento brutale, quello che più di tutti sua madre e sua
sorella sapevano domare
come vere streghe. Liliyana dva gruzeburya
suonava maledettamente bene.
“Abbiamo un ospite!” aveva invece esclamato la
piccola Tatiana, inghiottendo
qualsiasi commento frustrato del cugino”, Tatiana aveva con
gli occhi porcini
rivolti al suo amico, piena di curiosità. Tutti avevano
guardato interessati il
nuovo venuto, “Obbligato, Jordie Ghafa” aveva
risposto l’altro cortese, con la
mano sul petto e con un inchino appena accennato ma rispettoso,
così ben vestito
e signorile da apparire quasi una persona accettabile in un ravkiano.
“Immagino
il figlio del leggendario Capitano Ghafa, il terrore degli
schiavisti!” aveva
detto Varvara, con la voce colma di ammirazione ed esuberanza.
“Sì, mia
signora” aveva dichiarato con calma Jordie. Non aveva
nascosto il sorriso, non
aveva senso, Dominik lo sapeva, Jordie amava ed onorava sua madre.
Dopo
quell’ammissiono, era stato
necessario altro, perché fosse apparecchiato anche per il
nuovo venuto, non chè
Jordie avesse avuto bisogno di sfruttare il suo nome, come amico di
Dominik
avrebbe avuto tutti gli onori che spettavano. Ma il suo cognome
esercitava
fascino; i nobili erano animati da curiosità ed i popolani
da ammirazione. Inej
Ghafa era un eroina – ed era quasi strano che non
l’avessero consacrata a santka
vivente – degna di una storia epica. Una suli senza nulla,
venduta come
schiava, che dalla polvere, dal nulla, si era eretta a paladina dei
giusti, dei
poveri. E Jordie, dietro i modi fini, disinteressati e pieni di veleno,
aveva
lo stesso cuore traboccante di bontà.
Sankta Inej iz
nichyevo. Santa Inej
dal nulla, suonava
bene; poteva essere un’idea.
“Oh,
sì, ci siamo conosciuti da
bambini, in realtà, però sì, siamo
diventati compagni di studi
all’università”
stava raccontato Dominik con calma, intervallandosi con Jordie in quei
discorsi.
“Quindi sei di Ravka anche tu? Di dove? Io vengo da
Polezinya!” aveva detto
Tatiana, dieci anni e ribollente di energia. “In
realtà sono di qui, sono nato
a Ketterdam! Mia madre però è di Ravka,
sì, una Suli, non so in che città
precisamente e nata. I suli non restano mai nello stesso posto
allungo” aveva
risposto Jordie, delicato.
‘E così è mia madre’
aveva sentito Dominik, anche se il suo amico non lo
aveva detto ad alta-voce. .
“Sì, sì, una volta ho visto uno
spettacolo Suli a Os Kervo” aveva dichiarato
Dubrovin ricordando qualcosa del passato, con poco interesse,
“Sì e una donna
con una maschera da sciacallo ci ha predetto il futuro!”
aveva dichiarato
Varvara prendendo la mano del suo amante, “Ci disse che
saremmo stati il re e
la regina di un palazzo, circondati da acque nere, maleni
e spirti
malvagi. Direi che ci ha preso” aveva aggiunto. Una risata
soffusa si era
dipinta per il tavolo.
“Non
definirei kerch un luogo
infestato da spiriti malvagi, o un sant’uomo come me non
dovrebbe sentirti così
a suo aggio” aveva commentato Gavrillo, guadagnandosi
un’occhiata divertita da
Kostantyn, che aveva scosso il capo, facendo oscillare i capelli
biondissimi,
che tradivano il suo sangue settentrionale, da fjerdiano,
“Trovo questo posto
adorabile, anche il clima” aveva commentato Gavrilo. Avevano
riso tutti quanti
con un certo divertimento.
Il clima di Ketterdam era una delle punizioni peggiori che Dominik
avesse mai
affibbiato a sé stesso. Non si poteva definire la
città in nessun altro modo
che bagnata, l’aria sapeva di acqua
salmastra, l’odore era lo stesso
della palude, l’umidita era così intensa da
perforare il corpo fino alle ossa e
lasciarti stanco e spossato. Dominik era nato ed aveva vissuto, per lo
più, ad
Os Alta dove l’inverno, fuori dalle mura di casa, diventava
così freddo da
gelare il respiro nei polmoni, ma era comunque meglio
dell’umidità penetrante
di Kerch, del vento del mare sprezzate e potente. E poi
l’estate ad Os Alta, il
mondo si riempiva di fiori e colori. Eppure, Dominik condivideva i
sentimenti
di Gavrilo, a lui piaceva Kerch, davvero, per le sporche strade di
Ketterdam si
era sentito più libero di quanto avesse mai fatto per le vie
di Os Alta, nelle
grandi aule dell’università più di
quanto avesse fatto per i corridoi del
palazzo.
“Sei
un principe della corona non
devo dirti io come comportarti” era stata l’unica
ammonizione del conte Dubrovin
quel giorno. Dominik aveva annuito, senza pretese, con la testa spoglia
e
neanche l’ombra di una corona principesca a decorarla. Non
voleva abituarsi al
peso di qualcosa che non avrebbe mai indossato veramente, un mero
palliativo.
C’era stato un momento, un momento difficile, in cui sua
madre lo aveva
guardato con la morte negli occhi ed aveva pensato …
Non era
importante, Dominik poteva
essere un principe ma era solo il zapasnoy tsarevich,
il principe
di scorta.
“Vieni con me?” aveva chiesto a Jordie, il suo
amico si stava sistemando la
giacca che si era tolto per la colazione, “No, Juliana mi ha
mandato a fare il
piccione viaggiatore, non la balia” aveva risposto Jordie,
mentre con lo
sguardo seguiva il profilo snello di Drina, che sopra la veste iris,
aveva
sistemato una giacca viola, del colore delle kefte dei materialki. La
giovane
li aveva guardati, aveva sorriso, un piccolo accenno di cortesia.
“Sei qui per
lei” si era lasciato sfuggire Dominik quasi tradito da quella
rivelazione. Jordie
non si era scomposto, non era
arrossito, non si era ritratto né si era giustificato,
“Ci possiamo vedere
dopo. Al Caffè, così mi racconti” aveva
detto solamente Jordie, aggiustando un
pilucco inesistente della giacca, “Io vorrei dare
un’occhiata prima alla libreria
di questa reggia. Ho sentito parlare di una varietà di
volumi antichi così
ampia da fare invidia alla biblioteca del Gran Palazzo” aveva
dichiarato il suo
amico con tranquillità, “Sai che non è
vero, come sai che la biblioteca
dell’Università, a cui, hai accesso è
decisamente più fornita. E oserei dire
che anche quella di Juliana lo sia” aveva considerato Dominik.
“Solo
libri contabili e racconti
d’avventura e-o erotici. Già spulciata tutta, due
volte” aveva risposto Jordie
senza perdere neanche un briciolo della sua compostezza. “Non
ti facevo tipo da
letteratura erotica” aveva valutato Dominik, con un sorriso
svelto sulle
labbra. “Un ragazzo deve pur imparare in qualche modo e,
differentemente da te,
non avevo un’orda di fanciulle desiderose di spiegarmelo
bene” aveva
considerato Jordie senza perdere neanche un briciolo del suo tono
tranquillo.
“Non so perché ma ho i miei dubbi” aveva
risposto Dominik senza perdere il suo
zelo, versandosi una tazza di latte caldo. Jordie aveva arricciato le
labbra in
un mezzo-sorriso, “Certo, ho provato a chiedere a Juliana, ma
lei mi ha detto
che avrebbe preferito leccare un rospo” aveva aggiunto.
Dominik aveva riso a
quel commento, immaginando per bene la scena. Juliana, con i suoi
vestiti ben
confezionati, con quel suo sorriso svelto ed un po’ storto
che leccava il dorso
di un rospo.
La risata che
li aveva colti si era
esaurita in un silenzio placido, mentre Jordie si serviva del
tè nero, da
accompagnare con dei biscotti al burro e marmellata di fragole. Jordie
lo aveva
guardato con una certa curiosità, quando si era accorto che
Dominik aveva
toccato a malapena il suo latte e lo stava fissando in maniera quasi
morbosa.
Voleva porgli una domanda, non lo aveva volito fare
all’inizio, ma la voglia
era cresciuta durante quel primo pasto, assieme alla fase di leccornie.
Doveva
chiederlo, ma sapeva fosse stupido chiederlo,
perché non avrebbe mai
dovuto, perché aveva deciso di non farlo. Perché
gli era stato chiesto di
non farlo. Jordie lo aveva guardato, con quei suoi occhi
neri, “Sì, lo ho
incontrato ieri sera, in biblioteca” aveva detto solamente,
sistemandosi di
nuovo il cappello nero, era un Fedora lucido, al nastro nero aveva
aggiunto la
penna di un nibbio. Jordie era stato categorico nella sua risposta, non
aveva
permesso a Dominik altre illazioni, perché aveva ritenuto
più utile seguire
Drina in un’altra stanza, la ragazza aveva preso un passo
lento, ed aveva
indugiato ancora sulla porta, per assicurarsi di qualcosa, quando aveva
visto
Jordie incamminarsi, era scivolata via anche lei.
Ieri in
biblioteca.
Ovviamente,
questo confermava i
sospetti di Dominik, qualcuno lo stava evitando.
Con quei pensieri in testa, distratto, non aveva notato Kostantyn.
Aveva visto
l’Inferno osservare con
gli occhi glicine, ridotti a fessure, attento tutte le interazioni mute
che si
erano susseguite tra Jordie e Drina. “Tutto bene,
Kos?” aveva chiesto al grisha
suo custode, “Si, moy tsarevich. Posso
chiederle che genere di uomo è il
suo amico?” aveva chiesto freddamente l’Inferno,
senza perdersi in chiacchiere,
“Il genere di uomo che può essere amico del
principe di Ravka” aveva risposto
pruriginoso Dominik, ma aveva visto l’espressione del grisha
non mutare
affatto, prima di realizzare che quell’animosità
poteva avere una ragione più
che semplice. “Non volevo mancare di rispetto moy
tsarevich. Negli
ultimi tempi lo ho veduto spesso
gironzolare da queste parti, intorno a … io e Drina siamo
cresciuti insieme”
aveva spiegato cercando di mantenersi rispettoso. “Ho due
sorelle, comprendo,
certo la maggiore potrebbe spezzare qualsiasi spasimante troppo
irruente con
solo l’imposizione di una mano e ‘Lina è
solo una bimbetta” aveva risposto.
Ricordava in maniera nitida tutte le attenzioni che avevano sempre
circondato
sua sorella, non solo per la corona che un giorno avrebbe indossato o
perché
era bellissima, ma perché era vibrante e vivace e ricordava
con altrettanta
chiarezza tutti i modi, dai raffinati a brutali, con cui la principessa
ereditaria di Ravka aveva spento tutti i suoi corteggiatori. Tranne il
povero
Dimitrj che le sarebbe probabilmente stato fedele fino alla fine dei
tempi –
nessuno aveva ancora compreso se l’amore del nobil uomo fosse
per il trono di
Ravka o per la sua principessa. Dominik
si era sempre ritenuto un tipo romantico, ma le ultime settimane,
avevano teso
i suoi pensieri.
Kostantyn
aveva annuito, ignorando
i voli pindarici che si erano messi a galoppare nella testa di Dominik,
“Sì, moy
Tsarevich, posso confermare quanto detto sulla
principessa” aveva
considerato, lasciandosi sfuggire un sorriso gentile Kos. Kostantyn era
stato
educato al Piccolo Palazzo, con gli altri grisha e doveva aver avuto
modo di conoscere
sua sorella, non solo come l’erede di Ravka, ma come potente
e brillante guerriero.
Tirando ad indovinare Liliyana doveva avere suppergiù cinque
anni in meno
dell’Inferno. “Una volta ho visto la tsarevich
far volare un ragazzo
troppo fastidioso fin dentro il lago, da metri e metri di distanza.
Aveva solo
dodici anni” aveva aggiunto Kos. Un piccolo rossore era
apparso sulle sue
guance. Dominik aveva sorriso, pieno di divertimento, ma macchiato di
amarezza.
Aveva sentito
la mancanza di
Lilyana durante la sua infanzia, sua sorella maggiore aveva solo pochi
anni più
di lui e quando aveva compiuto otto anni, si era trasferita dal Gran
Palazzo al
Piccolo, dove sarebbe stata educata come Grisha. Ovviamente si erano
visti,
Dominik era andato a trovarla, sua sorella aveva girato spesso per i
corridoi
del Palazzo, nelle cene, ogni tanto aveva dormito nella sua vecchia
camera, nel
Corridoio Principesco, alla porta accanto quella di Dominik.
Però, quel
cambiamento, quell’allontanamento, aveva portato un
inguaribile frattura tra
loro. Invece, Alina, la sua sorellina era nata quando lui aveva dieci,
quasi
undici anni. Il frutto dell’Autunno!
Dominik e la piccola ‘Lina era
troppo distanti d’età, per essere davvero vicini.
In quei giorni, mentre lui si
godeva l’università a Kerch, il whisky sulla
lingua ed il sesso disordinato,
sua sorella di sei anni cominciava a frequentare la scuola e imparava a
scrivere in corsivo.
Aveva avuto dei compagni di gioco quando era giovane, Dominik lo
ricordava come
qualcosa di distante, aveva avuto qualcosa di simile agli amici. Figli
di
nobili, figli dei servi, qualche servo, ma quel senso di completezza,
di unità,
che vedeva in sua sorella maggiore, lo aveva trovato solo nelle strane
genti di
Ketterdam.
“Perché sospetto che questo ragazzo troppo
fastidioso fosse un grisha alto, biondo
e un po’ piromane?” aveva chiesto retorico, una
risata divertita aveva
attraversato l’espressione di Kostantyn.
“Spero
che non vorrai andare così,
mio principe. Puoi essere l’uomo più bello di
Ravka, ma ci si aspetta sempre
una certa classe!” aveva ridacchiato con un certo
divertimento Varvara,
attirando l’attenzione su di lei, prendendo senza vergogna
Dominik sotto il
braccio e Kos con l’altra. Una donna bruttina, dal viso lungo
cavallino, di un
pallore quasi malaticcio, che non le donava, con capelli neri come
l’onice, ma
comunque dotata di un fascino che per il Conte Dubrovin era
imprescindibile. D’altronde
una volta Dominik aveva studiato, come aneddoto, che la principessa
Olga Lantsov,
sorella di Re Aleksander III, era una donna di eccezionale bruttezza ma
che
aveva avuto una schiera di corteggiatori che percorreva tutta la
Faglia. Dominik
vedeva l’amore tra Varvara e Mikhail nei loro sguardi, da
loro modo di
guardarsi, che l’amore ardeva potente come la lumya
tra loro.
“Pensavo
di impressionare, la
signorina Nassau con il mio fascino” aveva considerato
Dominik, “Oh, tesoro!”
aveva risposto Varvara con un tono estremamente stucchevole,
“Quello è
scontato. Con un viso come il tuo, probabilmente quella giovincella
tornerà
pazza d’amore, ma tu qui sei Ravka, molto più di
Mih’ka. E Ravka non può andare
in giro con la camicia spiegazzata” aveva replicato Varvara,
con un sorriso
luminoso. Dominik era arrossito per l’imbarazzo.
Grande lavoro
per Domenik era stato
convincere Varvara del fatto che la sua presenza non fosse necessaria,
ma solo
dopo aver cambiato la camicia in una di velluto, abbastanza calda per
il clima
di Ketterdam, per quanto fossero illustri le personalità
presenti, era un
incontro di mezza mattina informale. Il colore del velluto era crema ed
aveva
dei decori azzurri che si arricciavano in volute floreali stilizzate.
Varvara aveva
desiderato di venire
a tutti costi, ma alla fine Dominik l’aveva fatta comunque
desistere. Avrebbe
già potuto godere dell’attento sguardo di Kos, che
esibiva con orgoglio la sua
kefta senza alcun timore e di almeno altri due soldati, al piccolo
corteo si
era aggiunto anche Gavrillo, ma avevano perso il monaco soldato lungo
la via
per la Geldstraat. “Povero, Gavi, da quando Igor lo ha
cacciato è diventato
ancora più vizioso” aveva dichiarato con un tono
di voce rammaricato Kos,
mentre osservava la schiena del soldat sol sparire
in un vicolo diretto
verso la Stave. Dominik non aveva la minima idea di chi fosse Igor,
cosa fosse
successo e come potesse essere un Gavrillo non vizioso, e se in altre
circostanze si sarebbe informato, come lo spingeva sempre suo padre, in
quell’occasione doveva dirsi meno propenso.
“Hai
visto la signorina Nassau?”
aveva chiesto Domenik mentre riconosceva l’aspetto delle
lunghe cancellate e
ville della Ketterdam da bene. Non erano impressionati come i palazzi
nobiliare
ravkiani ma erano splendidi. Giardini decorati, con siepe e fiori, con
queste
ville colorate, appariscenti, che facevano un contrasto vertiginoso con
le case
piccole, strette, curve e rotte del resto della città. Non
un filo di sporco e
di polvere vigeva sulla Geldstraat, rispetto al piccolo inferno che era
il
resto.
I fratelli Dyk l’aspettavano davanti la cancellata tinta
d’oro del più ricco
mercante di Ketterdam, forse anche di Kerch. Dominik li aveva
riconosciti da
lontano. “Sì, la ho vista
qualche settimana fa” aveva risposto Kos con
calma, “Non avrei potuto permettere questo incontro,
altrimenti” aveva spiegato
con calma. Giusto. Uno dei motivi per cui Dominiki aveva amato
l’università,
per la prima volta si era seduto al fianco di suoi coetanei senza che
fossero
stati fatti scrupolosi controlli. Estranei. Come un ragazzo normale.
Ilsebelle Dyk si era sbracciata per salutarli. Era una perfetta donna
kerchiana, infilata in un bustino stretto, nonostante l’abito
spezzato sotto il
seno prospero, una gonna liscia sui fianchi, di un avorio brillante,
l’orlo
superava la zona dei piedi, di non poche dita, spazzolando il pavimento
della
strada ed i capelli biondi ordinati in una crocchia ed un cappello a
falda
larga di un vibrante magenta, suo fratello anche tirato a lucido,
bellissimo,
non riusciva mai a sembrare perfettamente a suo agio. Dominik lo sapeva
come
Magnus si trovasse sempre più comodo sulla chiglia di una
nave e le dita
sporche di inchiostro, con qualche progetto davanti, come lui, come
Linnea e
come Nikolai. Una volta aveva espresso che finiti i suoi studi di
topografia,
avrebbe voluto imbarcarsi con Inej Ghafa – nonostante suo
padre possedesse una
compagnia mercantile con diversi battelli.
“Cugino amatissimo!” aveva detto Ilsebelle, che era
figlia della sorellastra di
suo padre, non era più un segreto che suo padre fosse un
bastardo, ma non era
neanche una cosa da sbandierarsi ai quattro venti, ma ad Islebelle non
importava. “Ilsebelle!” aveva risposto Dominik,
mentre osservava la donna
andare verso di lui. Ilse non aveva ereditato l’aspetto
regale degli Opjer,
sfoggiava una carnagione bianca ma con le guance rosse bruciate, i
capelli
biondo sporco e gli occhi liquidi, dall’espressione un
po’ sciocca – che non
rispecchiava la sua mente – eredità di Wotan Dyk
suo padre.
Quando erano
stati alla sua portata,
Ilsebelle lo aveva stretto in un abbraccio pieno di amore e famigliare
e
lasciandoli baci umidicci e macchie di rossetto sulle guance. Dominik
si era
concesso tutto quell’amore famigliare senza battere ciglio.
Non credeva che
Liliyana lo avesse mai salutato con così tanto calore,
neanche quando era
tornato a Ravka, alla fine del semestre, per la festa di Sankt Ilya.
Dopo aveva salutato anche
suo cugino, con una
stretta sicura di mano ed i due avevano salutato anche il grisha.
“Kos, è una
mia impressione o ogni volta diventi più alto”
aveva ridacchiato Ilse,
ammiccando alla taglia possente di quest’ultimo. Ad occhio
esterno, Kos
sembrava un vero e proprio orso del permafrost, chiaro di capelli,
occhi di
ghiaccio e con una croce di spalle così grande da poter
sostenere il mondo.
“Più uso il mio potere, più cresco sano
e forte” aveva risposto con onestà il
grisha, facendo ridere sua cugina.
Dopo qualche
convenevole, in cui
Ilsebelle aveva raccontato qualche succoso pettegolezzo delle
nobil-donne di
Kerch, avevano proceduto ad andare all’interno della casa
più ricca e bella di
Ketterdam. Erano stati accolti da un valletto, un ragazzo giovane che
li aveva
condotti all’interno della casa, passando per il giardino.
“La signora ha fatto
preparare la stanza del tè” aveva detto, facendoli
entrare nel corridoio di
ingresso della villa. “Ma il tempo è
così bello oggi, potevamo stare in
giardino” aveva considerato Ilse, “Puoi togliere
una ragazza da Fjerda ma non
Fjerda da una ragazza” aveva scherzato Magnus.
Dominik aveva
guardato invece i
corridoi della villa. I pavimenti erano marmi di Novyi Zem, bianchi con
sfumature aranciate. Le pareti erano decorate di quadri, pregni di
simbolismo,
o panorami.
C’era anche un via-vai di servi, molto più
chiassosi e vistosi di quelli che
erano presenti a Ravka. Immaginava fosse dovuto al fatto che non
importava
quanto potessero essere ricchi i kerchiani, erano ancora tutti uomini
alla
stessa maniera – nessun sangue nobiliare. A Ravka, in bianco
ed oro, i servi
erano istruiti a muoversi senza fare rumore, senza mai far pesare o
notare la
propria presenza, tranne quando richiesto. Nessun nobile sembrava mai
badare a
loro, tranne suo padre, che conosceva il nome ed il cognome di tutti.
“Siete
in ritardo e pensare che ho
anche mandato quel piccolo mostriciattolo a svegliarti” lo
aveva rimproverato Juliana,
appena, lo aveva visto, nonostante ci fosse un tono bonario nella sua
voce. La
padrona di casa stava scendendo giù da una scalinata di
marmo nero con clasti
verdi. Il suo passo era morbido e candensato.
“E tu come sempre non hai idea di cosa voglia dire avere un
po’ di classe”
aveva dichiarato Ilse, sporgendosi per schioccare due baci sulle guance
dell’amica, quando Juliana aveva raggiunto il pian terreno.
Se sua cugina indossava uno splendido completo da signora
dell’alta società,
Yuliana indossava i pantaloni cachi, con le bretelle sopra la camicia, più simile ad una
contadina che una
mercantessa, tranne che le cuciture erano ordinate, la stoffa dei
pantaloni era
lampasso pregiato e la camicia era di seta; i capelli oro sciolti ed
indisciplinati. “I corsetti sono strumenti di tortura, che
solo mia madre può
apprezzare” aveva risposto, prima di salutare anche Magnus
con un abbraccio,
veloce, e poi si era rivolta verso Dominik, facendo un inchino
fintamente
cerimonioso, “Sretan mi je sto te vidim”
aveva affermato Yuliana. “Anche
per me” aveva risposto Dominik. Juliana era kerchiana di
padre e di madre, ma
l’amante di sua madre era un suli, così come lo
erano i suoi mezzi-fratelli
spuri. Così Juliana aveva imparato quella lingua,
così come anche Dominik. Non
aveva molte occasioni per parlarla, così
apprezzava quelle piccole concessioni della giovane donna.
“Aldeer
sei dispensato, avrai sicuramente
cose da fare. Porta del tè a Marie, ha
deciso di non unirsi a noi” aveva
asserito Yuliana, prendendo per mano Dominik. “Certo mia
signora, VanEck” aveva
detto quello, prima di sparire lungo la scala. “Mi dispiace
che la signora
Marya non voglia unirsi a noi” aveva commentato Ilse,
sfacciata, dispiaceva
anche a Dominik se doveva essere sincero, la signora Hendrick era una
personalità molto particolare ed aveva sempre un gran numero
di storie ed aneddoti
divertenti da raccontare. “Tu fratello e il suo
compagno?” aveva chiesto,
invece, lui incuriosito; in altre occasioni Jesper sarebbe
già stato lì ad
accoglierli.
“Wylan è al consiglio dei mercanti. Jesper
è a fare qualcosa che non dovrebbe
fare, probabilmente” aveva scherzato Juliana con un tono
quasi infastidito.
“Avrei voluto che Wylan suonasse il flauto, avrebbe fatto
sicuramente colpo.
Temo, invece, che dovrete accontentarvi della mia capacità
con il violino,
sfortunatamente ho ereditato lo stesso talento musicale di mia
madre” aveva
dichiarato Juliana poi, voltandosi aveva aggiunto: “Kos devi
cantare con me,
qualche canzone sconcia non adatta alle orecchie del
principe” aveva
cinguettato. L’Inferno aveva sorriso, divertito e tutti
avevano ridacchiato,
anche i due soldati alle loro spalle. “Dove hai lasciato quel
mostriciattolo?”
aveva chiesto Juliana a Domink poi, riferendosi al buon Jordie, mentre
un servo
apriva una stanza tonda, con una tavolata riccamente imbandita; aveva
lo
stomaco ancora pieno della prima colazioni, che non era sicuro sarebbe
riuscito
ad ingurgitare altro. “In biblioteca” aveva
risposto annoiato Dominik, “A
quanto pare la Biblioteca dell’Ambasciata ha una certa
fama”. Il
principe doveva riconoscere che le
biblioteche, in taluni luoghi senza luce, fossero anfratti interessanti
in cui
sbaciucchiarsi. “Ghezen, in biblioteca. Mio padre riderebbe
tantissimo” aveva
dichiarato Juliana, “Ma lo comprendo; ritengo sia stato un
crimine contro
l’umanità intera lasciare sprecata una mente come
il padre di Jordie al Barile”
aveva ripiegato la giovane donna con un’onesta disarmante.
Juliana era più
vecchia di lui, quasi un decennio – onestamente Dominik non
aveva mai contato
gli anni precisi – ma parlava sempre come se fosse stata
vecchia mezzo-secolo.
“La
signora Nassau?” aveva chiesto
Mangus, attirando l’attenzione, nella stanza, a parte due
domestiche molto
divertite che si scambiavano pettegolezzi a mezza-bocca non
c’era nessuno. “Le
ho dato un orario diverso. Ha il vizio di
arrivare sempre in tempo, se non addirittura in anticipo e non volevo
che si
sentisse a disagio e nervosa” aveva replicato Juliana.
“Puntuale, quindi?”
aveva indagato Dominik, “Penso potrebbe essere qualcosa che
potrebbe
insegnarti, moy tsaverich” lo aveva
rimproverato con divertimento lei. “Juls,
io sono il principe, quindi vuol dire che sono
sempre in orario, sono
gli altri che arrivano sempre in anticipo” aveva risposto,
guadagnando
un’occhiata divertita dalla padrona di casa. “Hai
fatto preparare una colazione
degna di re” aveva considerato Ilse avvicinandosi al tavolo. Sul tavolo imbandito, oltre
piatti di
ceramica, con bordi d’oro era possibile vedere cesti di
frutta, ancora fresca,
mele, arance, delle fette di melone, pere, perfino delle banane (a
Kerch erano
scandalosamente costesa e a Ravka neanche arrivavano), oltre che
crostate di
frutta di ogni genere, poste su dei vassoi rialzati. C’era
anche un piatto
colmo di bon-bon spolverati di zucchero a velo, impilati e serrata dal
caramello filante. Sul tavolo c’erano anche dei formaggi e
delle marmellate,
oltre che succo d’arancia, latte e kvas. Dominik
aveva sorriso a quella
fragranza così famigliare.
“Di un Re no, ma di un principe sì”
aveva replicato Yuliana, prendendolo in
giro, facendo ondeggiare i capelli biondo dorato.
Non si erano
accomodati al tavolo,
aspettando l’ultima ospite; Dominik aveva invitato anche le
sue due guardie a
consumare la colazione del mezzo-giorno con loro, abbastanza sicura che
ne Juliana
ne alcuno dei suoi dipendenti avrebbe cercato di ucciderlo. Forse aveva
una
visione troppo rosea della vita.
“C’è anche un pianoforte lì,
nell’angolo” aveva considerato Magnus.
“Be, Dyk se
vorrai concederci di ascoltare le tue doti, tutto tuo” aveva
considerato la
proprietaria di casa con un gesto ampio della mano, invitando il cugino
di
Dominik a sedersi allo sgabellino. “Sai vero che so suonale
solo: ‘Oh Djel
benedici questi campi’, si?” aveva
chiesto retorico lui, “Dai, Dyk
benediciamo questi campi, allora” aveva scherzato Juliana.
Il fjerdiano
non era una lingua
bella, non aveva la stessa grazia del ravkiano, nè la
scioltezza del kerchiano,
o la musicalità del suli. Era una lingua dura, fredda, come
lo erano i suoi
parlanti. Magnus era un musicista mediocre ed un cantate ancora
peggiore, con
il suo fjerdiano stirato dall’erre kerchiane e le palatali
sonore. Conosceva
quella canzone, perché era stato il motivo ricorrente che
aveva ascoltato nelle
sessioni di studio al caffè, nell’ultimo anno.
Fischiettata decisamente meglio,
più a ritmo. Sì, realizzava Dominik, esistevano
certi fjerdiani che avevano
voci che erano poesie. Ed improvvisamente si era sentito male, quasi
stordito,
da avere il desiderio di fuggire via dalla casa imbellettata dei Van
Eck e … rifugiarsi
nella biblioteca della cittadella a studiare vecchi manuali. A
bevicchiare con
Jordie. E, santi …
“La
signorina Merissa Nassau è qui”
aveva detto un attendente, attirando la loro attenzione, fermando il
battito di
mani ritmiche che stavano accompagnando la sgangherata musica di Magnus.
Dominik si era voltato, vedendo il domestico farsi da parte ed
esponendo alla
loro vista una giovanissima donna. Pelle scura come il tek, cappelli
riccissimi
di un bruno, con delle sfumature rossastre – forse per una
tinta, o i residui
di una sartoria – e occhi nocciola, espressivi e buoni.
“Oh, Juls!” aveva
scherzato Merissa Nassau, “Sono così felice di
questo invito” aveva dichiarato,
facendo grandi falcate, aiutata dalle sue gambe lunghe, per raggiungere
la padrona
di casa.
Merissa era
infilata in un bustino,
con maniche gonfie sulle spalle e le maniche a buffo. La gonna lunga e
liscia
senza gonfiature improprie. L’orlo della stoffa amaranto,
troppo corto, così
che le caviglie nude tek e le scarpe morbide tempestate di pietruzze
fossero
esposte. “Oh, Merissa, ma come sei cresciuta” aveva
squittito Juliana con una
dolcezza quasi finta, schioccando baci sulle gote ibellettate.
“Miei gentili e
riveriti ospiti, lei è Merissa Nassau, la figlia
dell’illustrissima di Pleunie
Dresden, uh, be, nipote del più celebre Hoost Dresden, un
vecchio socio in
affari di mio padre. Il suo, invece, di Padre è Mikiusan
Nassau” aveva
cinguettato. Juliana non lo aveva detto ad alta voce, ma
l’uomo, il padre di
Merissa, era noto come il Signore della Jurda, perché
possedeva il più grande
appezzamento di terra di Noviy Zem, quasi tutta la jurda che arrivava a
Ravka, che
arrivava ovunque, era sua.
La padrona di
casa aveva poi preso
la mano di Merissa conducendoli lì e ricambiando il favore
presentandoli. “Meri,
dolcezza, loro sono invece i fratelli Dyk, la loro madre è
Linnea Opjer, sì quella
del ponte-a.trazione Il grosso orso bianco è Kostantyn,
è un grisha, eh già e
quel bellissimo ragazzo lì è Granduca di Udova e
principe di Ravka, Dominik Nazyalensky!”
Merissa lo
aveva fissato con
intensione e curiosità, ovviamente Domink sapeva di essere
il partito migliore,
aveva sorriso accattivante, perché sapeva che anche Merissa
sapeva di quanto lo
fosse lei.
La ragazza aveva raccolto la stoffa della gonna, di poco, ed aveva
fatto un
inchino, “Oh, è un piacere sua
maestà” aveva dichiarato gentile, con le labbra
piene dipinte di viola, “Obbligato, mia signora”
aveva ricambiato lui, “Ma non
sono un Re” aveva detto poi, avrebbe dovuto dirle che il suo
titolo era sua
altezza, ma Dominik aveva detto alla fine, “Potete
chiamarmi Dominik.”
‘Juliana
vuole presentarmi una
donna, la chiama la principessa della Jurda’
‘Sei
un principe, non potresti
avere niente di meno che una principessa’
Timeline
provvisoria:
- Nascita
di Igor, Vlad -5
- Nascita
di Shioban -3
- Ekaterina,
Anastasjia -1
- S&b
(R&R) 0
- SoC
2
- Nascita
di Juliana, Kos 3
- Fine
KoS/RoW 4
- Magnus
e (Rinnovo) del Concordato di ShuHan-Ravka5
- Nascita
di Drina 7
- Nascita
della Principessa Liliyana 8
- Nascita
di Jordie; 10
- Nascita
del Principe Dominik11
- Nascita
di Merissa Nassau 12
- Raccolta
dei bambini di Kerazin, 16
- Nascita
della principessa Alina 23
- Il
Principe Dominik conosce Merissa Nassau,
28
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Capitolo 4 *** Lu-Wan I (22 DF) ***
Buongiornissimo
Kaffè, hai tempi questi era il primo capitolo che avevo
scritto di questa storia. La trama del 22 DF è la
più ostica da scrivere lo
ammetto ed è, al “momento” quella
più slegata delle tre, così come dai
personaggi canonici del grishaverse.
Probabilmente è pieno di refusi, help.
Devo comunque dire dei TW (spezzano un
po’ il pathos): Disumanizzazione,
Esperimenti sulle persone, Angoscia.
LU-WAN
22
anni dopo la Dissoluzione della Faglia
Lu-Wan
aveva guardato il contorno dell’acqua
grigia, infrangersi contro il lato nella nave e rigettarsi in spuma
bianca. Un
moto perpetuo. Ogni onda si infrangeva contro lo scavo e si rovesciava
alle sue
spalle, in una perpetua lotta tra natura e uomo. Lu era aggrappato al
parapetto, sporto così che i capelli neri scivolassero sul
viso e sugli occhi,
catturati da quel sempiterno moto, incapace di … affrontare
il resto della
nave.
Una
tirata d’orecchi, letterale, l’aveva riportato
alla realtà. La prima cosa che aveva visto era stata la
camicia verde, con i
decori d’oro sulle maniche e sul colletto.
“Cos’hai?” aveva chiesto sua madre
senza grazia alcuna, con un tono ritto e severo come solo lei poteva
essere,
“Hai iniziato a soffrire di mal-di-mare?” aveva
chiesto leggermente irritata
lei.
“No,
no” si era difeso subito lui, alzando
anche le mani. L’espressione sul viso di sua madre era
rimasta leggermente
stranita. Lo aveva inchiodato con quei suoi occhi gialli come pietre
d’ambra,
stretti e lunghi, fasciati di kajal nero. Anche
nel mezzo del mare, lontano
da occhi giudicanti, Kokejin Kir-Wen non poteva rinunciare alla sua
letale
bellezza. Lu sapeva che lo faceva per due motivi: nutrire la sua
superbia ed
irretire i suoi nemici, come i vibranti colori di una pianta velenosa.
La sua pelle
era liscia come una porcellana, con tratti ancora così
infantili che ad un
occhio disattento la donna sarebbe apparsa come la sorella di Lu che
sua madre;
ed i suoi capelli lucidi e nerissimi come ematite. Lavoro di un tailor.
“Ti
prego, Kebben’a, non farmi pentire
di averti portato con me” aveva dichiarato sua madre, il suo
tono non era
particolarmente morbido, così come era impossibile
nascondere la severità
dietro le sue parole. Lu sapeva che sua madre era seria. “No,
mai” aveva
dichiarato lui con un singulto. Conosceva la durezza della donna che
l’aveva
messo al mondo, la dedizione che metteva nel suo studio, che dietro
tutta le
sue piccole manie, era una persona diligentissima. Per Lu sua madre era
sempre
stata oggetto di ogni invidia, aveva una mente eclettica, era brillante
ed
intelligente, se la bellezza era il suo veleno,
l’intelligenza era il suo
stiletto, dove suo padre non era nulla. Un giovane edonista, dedito ai
piaceri
e la mollezza. Mai un’accoppiata probabilmente più
strana si era vista in Shu
Han. Kokejiin aveva guardato poi Lu, con aspettativa, “Bene,
vai a controllare
come stanno i nostri soggetti” aveva dichiarato,
“Sempre se tu non voglia di
cercare i Sildroher tra le onde” aveva considerato. Lu era
arrossito
pesantemente sulle guance, per la vergogna, prima di chinare il capo e
fuggire
via dal ponte, per eseguire l’ordine di sua madre.
La
Ji-Han non era semplicemente una nave, era
un leviatano, una bestia enorme che con la sua
ombra poteva oscurare il
mare. Aveva tre alberi con vele quadre, ma anche un motore che andava a
combustibile, perché potesse sopravvivere ad ogni cosa. La nave in rutelio,
acciaio grisha e
quant’altro, una mostruosità enorme, che neanche
gli squali
ravkiani e kerchiani poteva predare. Una bestia
dell’ingegneria umana e
prodotto della Piccola Scienza. Parem, per lo più.
Era composta da più piani, da più vagoni,
abbastanza da non potersi perdere nei
meandri degli stretti corridoi. Lu aveva passato i primi mesi sulla
Ji-Han a
perdersi, sotto lo sguardo deluso di sua madre. Il Leviatano era la sua
casa,
il suo corpo ed il suo stesso figlio ne era un estraneo.
Però aveva imboccato
il lungo corridoio dei grisha.
Il
soffitto non era troppo alto, illuminato
da flebili luci blu, da ogni lato aveva porte serrate di ferro grisha,
bloccate
con una serratura inviolabile. Ogni porta aveva un oblo che permetteva
loro di
spiare la cella dove erano i soggetti. Aveva recuperato il suo taccuino
ed
aveva scritto quello che poteva osservare dalle finestre. Ogni porta
portava
scritta nel vecchio dialetto delle regioni sud – che nel loro
fiorente paese si
studiava poco e fuori ancora meno lo conoscevano – il grifo
corrispondente
all’ordine dei grisha ed accanto al simbolo del loro
elemento.
Ad
alcuni era stato tracciato il drago
intrecciato che divorava la sua coda, quelli che sua madre aveva deciso
fossero
soggetti speciale a cui voleva rivolgere maggiore attenzione e a tempo
debito. Le figure
nelle celle erano pallide, bianche e
mangiate, anche gli zemeni, i suli, i coloni del sud, completamente
privati
della luce del sole e delle force necessarie. Alcuni avevano raschiato
quando
l’avevano visto passare, piangendo tutti
all’unisono una sola parola: parem!
Parem! Lu aveva sorriso accondiscendente davanti
quella pateticità
bestiale.
C’erano
volute quattro porte a destra e
cinque a sinistra perché incontrasse il primo drago senza
coda, a fianco. Era
una etherealki squaller. Differentemente dagli
altri soggetti non aveva
ricevuto ancora nessuna dose della droga della jurda, nonostante fosse
arrivata
sulla Ji Han da almeno dodici giorni.
Era alta per la sua età; era giovanissima. Secondo Lu non
poteva avere più di
quattordici anni, l’avevano avuta da Evgraf il
Ravkiano, uno schiavista
con uno squalo personale, che anche il Wraith riusciva a trovare
(D’altronde, lo sapevano tutti che nessuna nave poteva
combattere contro uno
squalo, forse solo la Ji-Han). Sua madre aveva chiesto ad Evgraf il
Ravkiano
dei soggetti giovani, non ancora fossilizzati nei loro doni, ancora
malleabili.
Evgraf
era stato bravo, non si trovavano
bambini grisha, il Piccolo Palazzo e la Corte di Ghiaccio erano colpi
eccesivi
anche per lui – e dalle altre parti del mondo i bambini si
guardavano bene dal
dire di essere grisha. Sua madre si era fatta andare bene la ragazzina.
Lu
l’aveva guardata, chiedendosi come sarebbe
apparsa in condizioni normali, se la pelle olivigna spellata, scavata e
gli
occhi annebbiata dal gambo, come dovessero essere al massimo del suo
aspetto.
Un viso pieno e ridenti occhi castani, chiari come il miele denso. Lei
lo aveva
guardato tramite l’oblo. Quando l’avevano presa
dagli schiavisti i suoi capelli
erano stopposi, neri ed aggrovigliati, zuppi di sale ed acqua stagnata,
così
come l’abito che indossava – nessuna kefta
– le era marcito addosso. Dal sangue
secco sui lobi, Lu aveva intuito le avessero strappato gli orecchini.
Kokejin le aveva dato dei vestiti puliti, nuovi, una lunga toga bianca,
l’aveva
fatto lavare e purificare dalle condizioni dello Squalo e rasare i
capelli,
fino alla nuca, per evitare i pidocchi. Dopo due settimane, piccoli
ricci
ondulati stavano cominciato a riformarsi sulla calotta. Lei lo aveva
guardato
dal materasso imbottito che le avevano dato e si era tirata su, con
fatica.
Quando l’avevano presa le avevano fissato da metà
della parte alta del braccio,
fino al polso delle aste di acciaio grisha. Una cinta sul braccio ed
una sul
polso del medesimo materiale. Dal polso si dipanava una raggera di fili
di
ferro, attraversavano i palmi e raggiungevano le dita, limitandone la
mobilità.
Era una precauzione contro il suo potere. L’armamento le
limitava molti
movimenti (non poteva rotare il polso, piegare i gomiti ed agitare le
dita le
dava fastidi) così non poteva evocare. Alcuni grisha
sapevano farlo senza
muoversi, ma ci voleva esperienza e lei non l’aveva,
probabilmente sua madre le
voleva giovani anche per questo.
La
ragazza aveva ciondolato fino alla
finestra e Lu aveva allungato una mano per tirare giù la
levetta del
bocchettone, per l’interfono – ne esistevano
diverse, una per oblo, una per la
gattaiola del cibo – così che potessero passare.
Tutti i grisha cercavano di
parlare con lui, con o senza parem, qualcuno per la droga, qualcuno
solo per la
compagnia, qualcuno più ardito cercava di convincerlo a
lasciarlo andare, di
irretirlo. Lu sapeva anche perché, era giovane, non aveva
ancora compiuto
sedici anni ed aveva ereditato l’esilità di suo
padre ed il viso infantile di
sua madre. E lui cedeva sempre alle loro chiacchiere, aveva detto ai
dottori
che lo faceva per divertimento, era sempre bello vedere quando
disperati
potessero essere. Sua madre lo aveva rimproverato, “Non
c’è nessuna gloria
nella cattiveria, nessuna dignità nell’umiliare”
lo aveva rimproverato,
severa, con ancora le mani sozze di sangue, dopo una vivisezione. La
verità era
che Lu era curioso, era sempre stato curioso dei grisha, dei loro doni,
di come
gli utilizzavano, di come funzionasse la Piccola Scienza. E del
perché.
“Buongiorno
Elen, come va?” aveva chiesto
nella lingua formale di Shu Han, si era accorto che la giova grisha la
parlava,
molto bene, ma non doveva stupirsi, al Piccolo Palazzo anche il figlio
dell’ultimo contadino di ravka riceveva
l’educazione di un nobile. “Buongiorno,
signor Dottore, male. Ho vomito di nuovo, probabilmente sono
intollerante a
qualcosa” aveva replicato tranquilla Elen, la sua voce era
calma e misurata,
come se nulla potesse smuoverla. Lu era stato offeso, maledetto, in
ogni
lingua, ma una ragazzina non più grande di quattordici anni
teneva sempre un
tono misurato, come se fosse ad una lezione particolarmente difficile
anziché
in un buco in mezzo al mare, alla mercè di qualcuno
interessato a
vivisezionarlo. Neanche i primi giorni Elen aveva urlato, ma immaginava
che i
lividi che avesse ricevuto da Evgraf il Ravkiano dovessero aver
condizionato
molto il suo portamento.
“Mi
dispiace, vedrò se riesco a farti
preparare qualcosa di diverso” le aveva detto con un tono
calmo Lu, “Immagino
la gioia dei cuochi da dover preparare piatti specifici per i
prigionieri
difficili” aveva scherzato Elen. “In
realtà lo fanno anche, la dottoressa capo
ritiene che una buona e mirata dieta aiuti in moltissime
cose” aveva risposto
calmo. Non chiamava mai davanti ai soggetti sua madre con il titolo di
genitore
e lei faceva lo stesso. ‘Non vogliamo che pensino di
poter usare l’un
l’altro come leva, no?’ aveva risposto
sua madre quando lui aveva chiesto
perché. “Anche mia madre sarebbe
d’accordo. Non mancavano mai cavoletti alla
sua tavola” aveva dichiarato la grisha. Lu si era lasciato
sfuggire un sorriso,
“Mi sono sempre chiesto … ma non è
crudele portare via i bambini dalle proprie
case?” aveva domandato.“Direi che al momento la mia
idea di crudeltà è
piuttosto rinnovata” aveva replicato mordace Elen. Lu era
arrossito per la
vergogna
Elen
era la più tranquilla della nuova
partita, nelle ultime due settimane si era dimostrata molto
collaborativa,
immaginava per la capacità di leggere la situazione, ma ogni
tanto anche lei si
lasciava andare a puerilità, ma Lu non poteva biasimarla a
parti inverse, lui
starebbe forse urlando e scalciando, imprecando tutti i santi e dei.
“Si può
scegliere se andare o meno al Piccolo Palazzo, almeno da quando la
Regina Drago
siede sul torno di Ravka” aveva spiegato Elen, piena di
amore. Lu aveva avuto
in brivido nell’immaginare la signora di Ravka e la sua
enorme ombra che
copriva il continente, con artigli lucidi e fiato di fuoco. La Ji-Han
poteva
soccombere a poco, immaginava che un drago potesse far capitolare il
leviatano.
“I
miei genitori sono di Os Alto, quindi,
ammetto di non aver sentito una profonda mancanza di casa”
aveva raccontato con
voce insolitamente calma lei. Lu la poteva vedere dall’oblo
sorridere appena,
sottilmente. “Non sono mai stato ad Os Alta, ma dicono che
dopo la
ricostruzione della guerra sia la città più bella
del mondo” aveva considerato
Lu. Os Alta ed il Piccolo Palazzo erano state distrutte
dall’Oscuro e la sua
orda di mostri buio e poi era stata bombardata dall’aviazione
fjerdiana. Ma era
risorta dalle sue ceneri come una fenice, o meglio un drago.
“Lo è” aveva ammesso
Elen, “Credo che il Piccolo Palazzo sia in realtà
il posto più bello del mondo.
L’anno scorso abbiamo costruito una serra, capace di
os… immagino non conti
molto ora” la dolcezza delle parole di Elen, si sfumata
nell’amarezza. Lu aveva
visto quegli occhi scuri farsi carico di molta tristezza,
“Sospetto morirò qui
dentro” aveva considerato, forzando una battuta.
Lu
era rimasto in silenzio, consapevole della
gravità e della sincerità di quelle parole,
perché non poteva contraddirla in
alcuna maniera, “Mi mancano le serre, erano bellissime, anche
più dei giardini”
aveva commentato, “Però anche i Giardini erano
belli, c’era quello degli
aranci, il Giardino delle anime della Regina” aveva
raccontato, “Ogni pianta
era per un morto, ma poi sono spuntate anche quelle per i
viv”.
“Ti
piacerebbe della frutta?” aveva chiesto
alla fine Lu dopo averla fatta parlare per tempo, uno stupido pensiero
infantile
l’aveva colpito, gli piaceva ascoltare Elen parlare di terre
lontane. Quando
era salito sulla Ji-Han aveva pensato avrebbe visto
qualcos’altro, oltre i
confini della tenuta di suo padre, ma era passato dai limiti della
terra di suo
padre ai limiti della nave di sua madre. “Da”
aveva risposto in ravkiano
la ragazza. Lu aveva continuato il suo giro, realizzando a tre porte di
distanza
che non aveva scritto nulla su Elen.
Aveva
cercato di parlare con l’healer nella
stanza trentasette, aveva un drago annodato come Elen ed era venuto dal
suo
stesso lotto. Le sue dita erano bloccate da fascette, in modo da dover
tenere
sempre i palmi stesi. Differentemente da Elen, lui aveva parlato
solamente in
ravkiano e le sue parole erano solo sentenze religiose. Si chiamava
Anchel,
aveva del sangue zemeni, evidente dall’incarnato nero come la
lagna di quercia
bruciata. Ogni tanto nei suoi improperi revkiani buttava parole della
sua
lingua madre. Lu era carente in zemeni, ma immaginava che non dovessero
differire troppo dal discorso.
Ogni sua domanda otteneva come risposta una massima religiosa.
“Credo di
apprezzare il tuo bagaglio di conoscenze in materia, se dovessi
convertirmi al
culto dei santi, ricordami di venire da te” gli aveva detto
chiudendo
l’interfono Lu. Poi aveva sospirato, “E che i tuoi
santi ti diano conforto”
aveva pensato, grattando il segno del drago infinito, sua madre aveva
deciso di
cominciare a sperimentare le abilita curative di un healer
con la nuova
formula – e quanto tempo ci avrebbe messo a collassare il
corpo – e di quella
tipologia di grisha, non ancora assuefatti sulla Ji-Han ve ne erano
solo due. Poi
aveva proseguito il giro.
Non
accostumati dalla parem rimanevano solo
altri due ospiti. Uno ethearealki inferno che era
stato acquistato più
di un mese prima, lo avevano avuto dai pirati lungo la Via delle Ossa.
Lu non
si era disturbato a parlarci, il ragazzino parlava solo kaelish ed il
suo
vocabolario era composto da sole parolacce. Inoltre, Lu doveva
ammettere di
essere turbato dallo sconosciuto – in un mese non erano
riusciti a strappare il
suo nome – per il suo aspetto. Non lo avevano consegnato
intero. Mancava di un
dito della mano destra, due alla sinistra, qualche falange anche ai
piedi,
della pelle. Il padiglione di un orecchio ed ancora altri pezzi. Era
stato uno
dei dottori della nave a chiarire perché di quelle
mutilazioni, “Gli abitanti
delle Isole Erranti credono che il sangue ed il corpo dei grisha sia
miracoloso” aveva spiegato asettico. E i kaelish avevano
trattato il grisha come
una reliquia vivente, strappandone parti da vendere o conservare come
cimelio.
Lu era certo che parte del motivo per cui sua madre stava aspettando
nello
sperimentare con il giovane evocatore era da ricercare proprio nelle
sue
mutilazioni – voleva ricostruirle, Lu ne era certo.
L’ultima ancora cosciente di sé stessa era la
materialki.
Su
tutta la nave ne avevano solo due, erano
difficili da trovare. Tra tutti i talenti grisha erano i più
facili da
nascondere ed anche se non era più così inusuale
trovare un fabrikator
combattere, i materialki preferivano vivere nei laboratori. La ragazza
era una durast
e sua madre la teneva sul palmo di una mano.
“Quando
mi darete la parem?” aveva chiesto la
materialki, appena aveva sentito il suono dell’interfono.
Parlava nella lingua
shu, il suo accento ravkiano era molto più morbido di quello
di Elen, segno
della sua origine meridionale, forse confinante con Shu da qualche
parte.“Vuoi
la parem?” aveva chiesto confuso Lu. Di solito nessuno voleva
spontaneamente la
parem, tranne i grisha volontari e disperati di Shu Han. “No,
ma … l’altro
materialki non durerà ancora” aveva spiegato lei.
Lu
era rimasto per un secondo fossilizzato da
quel commento. Le stanze erano studiate perché non fossero
possibili contatti,
perché fossero insonorizzate completamente, eppure lei lo
aveva scoperto. Lu
non poteva negarlo, ormai Kvasir era arrivato agli sgoccioli. La sua
pelle non
era più il bianco calore del latte ma era diventata
cagliata, squamosa come
quella di un pesce e le vene blu evidenti come fiumi su una carta
geografica. I
capelli erano fili sottili di bianco, privi di ogni colore. Da una
persona
vera, era diventata una macchia informe senza colore. Sua madre non
voleva che
si affezionasse ai soggetti, non voleva che sapesse i loro nomi e le
loro
storie, ma Lu non poteva non farlo. Era vero, erano grisha, ma in
qualche modo
erano ancora viventi e non voleva dimenticarli, il loro sacrificio
avrebbe
aiutato Shu, ma anche tutti gli uomini che sarebbero arrivati dopo di
loro.
Così cercava di ricordare i loro nomi e quanto fosse
riuscito a scucire delle
loro storie. E Kvasir, l’altro materialki era alla fine della
sua. Lu si era
sporto un po’ per guardarla.
La
grisha materialki non aveva gli occhi
rivolti all’oblo, ma a sé stessa, anzi alle sue
mani. Dita viola e
nere, contorte come rami secchi.
Sua madre non l’aveva fatta legare, le aveva fatto rompere le
dita e risaldare
in maniera sbagliata le ossa, perché non fosse agevole nel
suo potere e le
faceva bere più gambo degli altri. Si vedeva anche nello
sguardo, era più
vitreo, le sue palpebre erano a mezza-asta. Sapeva che sua madre le
avrebbe
fatto risistemare le sue dita dopo la prima dose di parem, quando per
averne
un’altra sarebbe stata disposta ad eseguire ogni loro comando
e la fuga sarebbe
stata nulla più che un’idea sconsiderata. Non si
sopravviveva alla parem, quasi
mai.
Lu
aveva sentito delle storie, delle
leggende. Senza antidoto la morte era quasi certa e quando non lo era,
lui
aveva sentito di grisha che avrebbero voluto esserlo. “Quindi
la parem?” aveva
chiesto di nuovo lei, ad occhi chiusi, Lu avrebbe potuto quasi
scambiarla per
una shu. “Non lo so” aveva ammesso lui colpevole
poi, “Tua madre non te lo ha
detto?” aveva chiesto provocatoria quella. Lu aveva tirato su
veloce la leva,
chiudendo l’interfono, quasi scottato da quel commento. Aveva
scritto veloce,
sotto il numero della cella corrispondente, come la ragazza fosse
ancora impertinente,
nonostante il Gambo, e troppo attenta. Poi aveva
concluso il giro di
osservazioni, cercando di sistemare le informazioni dei dipendenti
con
più celerità possibile, perché sua
madre fosse soddisfatta.
“…
e la stanza settantotto era vuota” aveva
spiegato eclettico Lu-Wan a sua madre ed al dottor Xiao. La stanza era quella del
soggetto che
rispondeva al nome di Kvasir, il materialki sotto parem. “Lo
ha davanti, mio
signore” aveva considerato l’uomo. Era
più vecchio di sua madre, aveva anche
più esperienza, ma sembrava infintamente più
piccolo davanti il cipiglio severo
di Kokijin.
Lu
aveva abbassato lo sguardo, sul tavolo,
morto, c’era il giovane materialki che avevano utilizzato nei
lavori negli
ultimi tempi. “Sì, il nostro giovane soggetto
settantotto è morto” aveva
considerato Kokijin piatta, “Mentre io ed il dottor Xiao ci
occupiamo dell’autopsia,
vorrei che tu recuperassi tutti il materiale relativo alla parem.
Quando ha
cominciato a prenderla, quanta ne ha presa per volta, quanto gli
intervalli”
aveva ordinato sua madre, elencando attentamente tutto ciò
che voleva facesse.
Lui aveva annuito.
“Kvasir
è stato con noi per un po’” aveva
commentato
il dottor Xia, allungando una mano per toccare con il pollice la fronte
tonda
del ragazzo. La sua pelle era bianca, trasparente come la carta davanti
una
fiamma. Capelli bianchi, distrutti e sfibrati. Poteva avere
vent’anni o
cinquanta e Lu non lo avrebbe dedotto. “Sì, otto
mesi e venti-tre giorni, di
cui sei mesi e undici giorni consumando jurda parem” aveva
detto sua madre
ammirata. “Wow” si era lasciato sfuggire Lu,
“Sì, una buona formula, la
migliore finora e lui è stato il soggetto migliore, speriamo
di fare meglio.
Detesto lo spreco di risorse” aveva detto sua madre,
“Anche quando non sono
umane” aveva stabilito.
Lu aveva annuito e si era allontanato.
Nonostante
avesse lavorato al meglio delle
sue capacità, alternando caffè annacquato e
foglie di jurda da masticare, ci
aveva messo più di quanto avesse voluto a mettere a posto
tutta la
documentazione. Specie perché sulla Ji-Han si tendeva a
scrivere in un
linguaggio criptato. Non solo la grafia della vecchia regione del sud,
ma anche
le parole avevano un significato differente. Sua madre era ossessionata
che i
suoi progressi fossero rubati dai nemici di Shu. Lu non trovava le sue
preoccupazioni troppo eccessive, forse dal Patto di Os Kervo e del
Concordato
esisteva una pace.
Ma era una pace fallace, che non comprendeva i floridi zemeni, gli
agguerriti
kaelish, i ricchi kerchiani e i coloni che desideravano la loro
sovranità. E
bisognava considerare quanti gruppi non aderissero alla perfezione a
quel
governo.
Druskelle
recidivi, i seguaci della Seconda
Regina Shu ed anche i ravkiani separatisti.
Il mondo era una partita di ghenga.
L’equilibrio funzionava tanto quanto
erano abili i giocatori a spostare le tessere. E Lu concordava con sua
madre
quando la donna si lamentava dei comportamenti dannatamente
approssimativi
dell’umanità.
Sapeva che forse la storia non li avrebbe ricordati bene, i grisha
stavano
diventando sempre più obsoleti come armi, ma sempre
più considerati come
individui, ma lui sapeva che il loro lavoro lì sulla Ji-Han
era per il meglio.
Per il futuro. Aveva recuperato tutti i diari ed uno a posta, dedicato
a Kvasir
solamente aveva cominciato a trascrivere tutti gli appunti.
Avevano
cominciato con una dose minima. Tanto
ne bastava perché cominciasse la dipendenza. Dieci grammi la
prima volta. Due
giorni dopo, altri dieci.
In seguito sua madre aveva cominciato a dimezzare le dose ed aumentare
i
giorni.
Kvasir si era dimostrato incredibilmente confacente a questo sistema,
la
dipendenza non era scesa, ma i poteri si erano mantenuti acuti e le sue
capacità intellettive anche. Dopo una settimana intera senza
parem il corpo
aveva cominciato a dimostrare delle manchevolezze nella piccola scienza
ed onde
evitare che sviluppasse le capacità contrarie –
sua madre voleva fare uno
studio anche su quello, ma più avanti – procedeva
nell’introdurre di nuovo
parem. Ogni volta i poteri di Kvasir si era dimostrati pesantemente
più dotati.
Il suo corpo stava reagendo bene.
Poi negli ultimi due mesi, i giorni senza parem si erano ridotti
drasticamente,
inversamente alle dosi che erano aumentate.
Kvasir
aveva cominciato a manifestare la
mancanza dei poteri prima dopo tre giorni, poi erano diventati due
giorni, dopo
due settimane erano diventato un giorno e poi senza almeno cinquanta
grammi di
parem – che dati la prima volta, potevano provocare quasi la
morte – non era in
grado di manipolare neanche dopo un paio d’ore. Nei suoi
ultimi giorni Zurik
non era in grado neanche di alzarsi senza la parem, ma neanche di
pensare ad
altro se non alla droga.
Ogni
traccia di umanità era scomparsa da lui,
come il colore. Lu nel leggere le ultime analitiche considerazioni di
sua madre
e degli altri dottori, doveva dichiararsi nauseato. Però non
aveva vomitato –
quella volta. La prima volta che aveva visto un grisha distrutto,
disintegrato
nella sua umanità nella parem lo aveva fatto. Sua madre lo
aveva guardato con
quel suo cipiglio privo di gentilezza e comprensione. “Forse
ho fatto male.
Forse aveva ragione tuo padre” li aveva detto. Suo padre non
era un uomo
cattivo e non aveva per Lu crudeli ambizioni, anzi aveva grandi
speranze,
voleva facesse l’ambasciatore. Gli aveva fatto studiare le
lingue, la politica,
la mediazione, ma a lui non era mai interessato di quella piccola
partita di shenga
del mondo. Sapeva di poter avere un ruolo lì, ma solo in
virtù di un sangue che
non aveva chiesto, ma la scienza e la piccola scienza potevano essere
qualcosa
che avrebbe conquistato con la sua mente.
I
grisha lo avevano sempre appassionato, da
quella volta che aveva conosciuto la piccola Min, che aspettava sempre
in
cucina quando i suoi genitori lavoravano. Min aveva imparato a leggere
ascoltando la lezione di Lu e a Lu non aveva mai dato fastidio che
volesse
imparare, neanche a sua madre – come Min, neanche lei era
figlia di un sangue
nobile. E lei era intelligente e vivace, fino a ché un
giorno non aveva aiutato
Lu ad addormentarsi parlando dolcemente e rallentando il suo cuore. Era
stato
strano, si era reso conto lui e così lo aveva raccontato a
sua madre. Per la
prima volta, ricordava che Kokijin che usualmente lo ascoltava
disattenta, con
il naso infilato nei libri, rispondendo accondiscendente ai suoi
commenti, si
era voltata di scatto verso di lui. “Puoi ripetere,
tesoro?” aveva chiesto
quasi con dolcezza e gli occhi di melassa quasi scintillanti di morbosa
curiosità.
Min
era una grisha, una heartrender. Quella
era stata il primo incontro di Lu con quel potere, con la Piccola
Scienza, con
quella sconosciuta realtà ed era stato amore a prima vista.
Aveva
chiuso il taccuino dedicato interamente
a Kvasir ed aveva sistemato il materiale preso ordinatamente. Ogni caso
diviso
in ordine di numero del soggetto ed ordinati i fascicoli per data, per
scacciare il senso di inquietudine che il giovane corporalki morto li
aveva
lasciato. Quando aveva sollevato lo sguardo, dall’oblo dello
studio, notando
che ormai l’unica luce che illuminava la stanza era quella
fittizia. Il sole
era sceso. Aveva passato tutta l’intera giornata chiuso
dentro il piccolo
studio.
Aveva
lasciato la stanza con ancora nelle
ossa una sensazione di disgustoso, che aveva cercato di ricacciare per
sé
stesso ed aveva raggiunto sua madre per assicurarsi di darle tutti i
suoi
appunti trascritti. Kokijin era esattamente dove l’aveva
lasciata:
nell’obitorio. Kvasir non c’era più, il
tavolo dell’obitorio era completamente
vuoto, così come mancava l’altro dottore; in
compenso erano fioriti ogni dove
barattoli colmi di formalina, dove galleggiavano piccole parti che un
tempo
avevano composto la grandiosa macchina che Kvasir era stato; oltre che
fiale di
sangue coagulato.
Cercavano quello che rendeva i grisha così speciali, negli
organi interni, in
qualsiasi cosa, dal cuore all’appendice. Per Kvasir sua madre
aveva deciso di
conservare anche le dita, giacché, anche più dei
corporalki, i materialki
lavoravano a stretto contatto con le loro dita.
“Ecco,
a te, madre” le aveva detto calmo,
ignorando quei barattoli così evidenti. Sua madre lo aveva
guardato, seria,
aveva preso il taccuino ed aveva fatto scorrere le pagine velocemente,
osservando con gli occhi attenti tutte le pagine, poi li aveva concesso
un
sorriso morbido, così inusuale. “Sei stato bravo, Kebben’à”
le aveva
detto con dolcezza quasi materna. Lu era arrossito in maniera quasi
invadente,
davanti a quell’improvviso complimento. “Andiamo a
cena, non mangio da oggi e
mi sento piuttosto affamata” aveva commentato Kokijin con
dolcezza, allungando
una mano verso di lui e strusciando i palmi contro la sua spalla, in
una buffa
imitazione di una carezza, “E sei hai ereditato la mia
diligenza, anche tu,
scommetto” aveva detto. Lu aveva annuito, prima di avere
un’illuminazione.
“Certo! Devo fare una cosa prima!” aveva
dichiarato, sgusciando via dalla presa
di sua madre.
Aveva
abbandonato la donna a passi svelti per
infilarsi di forza nelle cucine.
Era entrato di fretta, osservando come gli inservienti fossero
già a lavoro. Lo
avevano salutato con posatezza che si adduceva al suo standard. Lu li
aveva
salutati di fretta, andando a cercare tra la frutta che avevano
imbarcato
qualche settimana prima al porto di Weddle, a Noviy Zem. La frutta non
durava
mai molto, così ne compravano poca, quasi per piacere, e
tendeva a finire entro
la prima, massimo seconda, settimana di viaggio. Le mele
però no, sua madre
aveva costruito una cremagliera che aveva fatto sistemare nella zona
più fresca
della nave, per la lunga conservazione.
Aveva recuperato un paio dall’aspetto più succose,
rosse e lucenti. Anche se di
quel genere ne erano rimaste poche, ma aveva deciso di sacrificarle
alla causa
e svelto come era arrivato, si era dato via. Era tornato al corridoio
delle
celle con velocitò, preferendo le scale lucide che
l’ascensore per non essere
visto ed osservato.
Aveva
raggiunto verace la porta di Elen,
aveva gettato subito uno sguardo all’oblo, non avevano ancora
servito la cena
ai soggetti. Di solito mangiavano dopo di loro, si era anche
dimenticato di far
presente le intossicazioni alimentari di cui aveva sofferto la grisha
ethearalki.
Aveva abbassato la leva per l’interfono e l’aveva
chiamata, quasi esitante.
Elen
era seduta al bordo del suo materasso,
aveva le ginocchia al petto, le braccia costrette nella posizione
rigida e la
testa posata sulla parete. L’espressione era pensierosa e gli
occhi castano
pieni di cattive nubi, come immaginava dovesse essere normale quando la
propria
esistenza era diventata una stanza. Elen si era ridestata quando aveva
sentito
la sua voce. “Salve dottore, sei tornato?” aveva
chiesto quasi con gentilezza,
si era tirata su, con un movimento poco fluido, posando i palmi stesi
sul muro
e puntando la schiena anche su esso, per darsi una spinta con le sole
gambe
sottili.
Ogni volta che ricominciava a parlare in shu, l’accetto
ravkiano raschiava
nella sua gola, come un graffio. Ravkiana pura, con un po’ di
Suli, per la
declinazione della pelle olivigna.
“Sì, io ti ho portato la frutta” le
aveva detto, incerto delle sue stesse
parole, sollevando la leva della gattaiola per poterle allungare almeno
una
delle mele. Avrebbe dovuto darle tutte? Non sentiva il bisogno di darle
agli
altri, magari poteva darlo al corporalki e alla materialki, presto
avrebbero
cominciato con la parem e dopo la parem il cibo non
aveva più lo stesso
sapore, perdeva ogni gusto e succosità, ogni cosa, anche la
più deliziosa
diventava cenere, esisteva solo la droga. Sarebbe stata la loro ultima
squisitezza. Elen aveva allungato una mano rigida ed aveva preso con
fatica la
mela, non potendo chiudere bene le dita, nè potendo torcere
il polso.
Lu
era rimasto a lungo sui suoi pensieri e
non si era accorto del suo gesto, così era stato strano,
quando le punta delle
loro dita si erano sfiorate. “Grazie, sei stato
gentile” aveva detto lasciando
comunque la meta sulla piccola sporgenza dopo la gattaiola,
“Ma non potendo
piegare il gomito, dovrai tagliarmela e imboccarmi o togliermi questo
arnese”
lo aveva avvertito lei, con una punta di divertimento. Lu aveva sentito
il
rosso dell’imbarazzo e della vergogna esplodere sul suo viso.
“Non ho il
permesso per toglierlo, ma forse posso tagliare la mela”
aveva detto, cercando
di riprenderla, ancora confuso dalla sua stupidità. Elen
aveva riso e Lu era
stato confuso da un suono così leggero, fresco, quasi dolce.
Aveva
guardato la ragazzina dall’oblo e si
era chiesto senza vergogna come avrebbe reagito non sapendo cosa fosse,
se
l’avesse incontrata per le vie di Bhez Ju. “Quanti
anni hai?” la domandata di
Elen lo aveva colto di sorpresa. “Come?” aveva
chiesto confuso, “Sembri molto
più giovane degli altri” aveva considerato
l’altra poi senza particolare
enfasi, “Oltre che essere l’unico che
risponde” aveva valutato Lu senza
vergogna, “In effetti parlare aiuta. I pirati non parlavano
molto e i dottori
ancora meno” aveva confessato lei. Lu aveva sorriso stanco, e
colmo di colpa
fino all’orlo a quelle parole, “Quindici”
le aveva detto. Elen aveva sorriso,
“Oh, be, io ne ho tredici” aveva confidato, anche
se Lu lo sapeva già, “Siamo
praticamente coetanei” aveva detto la ragazzina.
E Lu aveva l’impressione di sapere cosa sarebbe arrivato
dopo, quale frase lo
avrebbe raggiunto, ma Elen lo aveva stupito, “Riesci a
dormire bene la notte?”
aveva chiesto.
La domanda lo aveva così colto di sorpresa – era
sicuro che Elen avrebbe
premuto sulla loro vicinanza d’età sulla sua
giovinezza per convincerlo a
lasciarla andare – ed invece le aveva chiesto quello. A Lu
era scivolata la
mela che aveva tenuto nella mano, finendo per rotolare a terra ed
ammaccarsi.
“No, vero?” aveva chiesto Elen, c’era
quasi dolcezza nella sua voce. Lu si era
ripreso, “Sì, invece. So che quello che sto
facendo è giusto” aveva ripreso,
nervoso, lasciando la mela lì e dandole veloce le spalle,
portandosi via le
altre mele. “Non hai spento l’interfono!”
lo aveva rimproverato Elen, con
una sfumatura quasi di divertimento.
Lu
era stato intrattabile a cena, quella sera
ed anche dopo. Sua madre lo aveva guardato quasi con una
curiosità materna, non
scientifica. “Sei turbato, bekkan’a?”
aveva domandato quasi con
gentilezza. Le labbra piccole dipinte di rosso, stese in un sorriso.
Lui era
sempre turbato dal fatto che sua madre sembrava sempre di buon umore
dopo
un’autopsia. “Il soggetto tredici,
l’etherealki squoller” aveva
ammesso
lui, pensando ad Elen e quella mela abbandonata nel corridoio. Il
sorriso quasi
dolce di sua madre si era arrestato immediatamente, ritornando ad una
stretta
linea serrata, “Ti ho detto molte volte di non conversare con
i soggetti” lo
aveva rimproverato fredda, gli occhi d’oro giudicatori.
“Sto cercando di capire perché ci tieni
così tanto. Di etherealki se ne trovano
di continuo” aveva mentito Lu,
“L’età, tredici anni sono malleabili e
non
ancora limitati. La regina di Ravka evoca almeno tre elementi, vuol
dire che è
possibile. Corporalki e Materialki hanno una divisione interna quasi
fittizia,
assolutamente discrezionale, ma per gli evocatori la distinzione
è quasi netta.
Però è possibile e voglio sapere come, senza la
parem e senza il mezorast”
aveva dichiarato senza battere ciglia, con una voce dura e severa.
Lu
sapeva dove era la verità, capire come
funzionava la Piccola Scienza voleva dire capire come replicarla. Sua madre voleva rendere
ogni uomo al mondo un
grisha, o almeno ogni uomo di Shu-Han e voleva una parem
che non
distruggesse il corpo e che amplificasse il potere – senza la
dipendenza, come
nulla più di un eccitante. Lu aveva sorriso,
perché condivideva quel nobile
ideale e quando sarebbe stato così non ci sarebbe stato
più bisogno di loro.
Eppure, quei pensieri erano offuscati dalla raschiante voce ravkiana di
una
tredicenne.
Dormi
bene la notte?
La
Ji-Han era così grande che l’acqua non spingeva
per nulla il rollio della nave.
Così calma, che Lu-Wan a volte dimenticava di vivere su una
barca in un mare,
tanto era piatto il ponte, tranne nelle giornate di gran burrasca. Ma
quella
notte il mare era una tavola, la Ji-Han era ferma come fosse inchiodata
al
tempo e Lu non aveva scuse per non riuscire a dormire. Era rimasto
steso nella
sua brandina con le dita arricciate intorno alla coperta e gli occhi
rivolti al
soffitto nero. Sulla
sua scrivania
c’erano ancora le me che non aveva dato.
E
poi qualcosa aveva inclinato la nave, pesantemente come se
un’onda si fosse
gonfiata immediatamente ed avesse colpito su un fianco la nave. Lu era
quasi
stato sbalzato via dal suo lettuccio. Si era tirato su e aveva aperto
la porta,
ritrovandosi nel caos.
Sapeva di tempeste che sorgevano dal nulla, ma non credeva che potesse
capitare
una così violenta da scuotere anche il palazzo galleggiante
della Ji-Han.
Si
era tirato su a fatica, dal mondo improvvisamente inclinato e si era
messo a
correre in ogni direzione, mentre sentiva le campane
dell’allarme risuonare per
la nave. Aveva incontrato uno dei marinai e con rabbia, a malapena
notato,
quasi strattonato e buttato giù aveva chiesto cosa fosse
successo ma era stato ignorando
dal panico dilagante. Si era tirato su ed era corso verso
l’ufficio di sua
madre, certa che la donna non fosse stata nei suoi alloggi, mentre
saltava le
scale, quasi due a due, cercando di non rimettere sballottato dalle
vertigini.
Il
mondo non esisteva più come una linea dritta. Tutta la sua
realtà era stata
rovesciata.
“Mamma!
Mamma!” aveva urlato a perdifiato, infrangendo ogni regola di
comportamento che
la donna aveva voluto per loro. Lungo le scale aveva incontrato
dottori,
marinai e servitori, scendere e salire le scale, alcuni integri, altri
macchiati, feriti e tormentati. Il panico si dipanava come una macchia
d’olio
sulla stoffa. E poi tra il Sali-e-Scendi aveva riconosciuto la sua
genitrice. I
suoi capelli erano sconvolti, un taglio le attraversava una tempia e
rivoli di
sangue e sporco le scendevano sul viso bianco.
Lu
si era ritrovato stretto in un abbraccio pressante, sulla tromba delle
scale,
prima ancora di riuscire a formula la parola
‘madre’. “Kebben’a,
sesh’a”
aveva detto lei piena di amore e dolcezza, umana, come mai credeva di
averla
sentita. Kokjin si era allontanata da lui, con le mani a coppa sul
viso,
accarezzandoli una gota con un pollice, materna. “Che
succede?” aveva chiesto
lui alla fine, sua madre aveva emesso un suono con le labbra,
somigliava ad un
sospiro, ma non uno di quelli carichi di fastidio ed irritazione, ma di
consapevolezza e … fatica; poi con una calma quasi
innaturale, assolutamente
inadeguata alla sua espressione, al caos dirompente ed il mondo
capovolto, lei
aveva detto: “I soggetti… si sono liberati.”
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Capitolo 5 *** Matthias (40 anni dall DF) ***
Questo
non doveva essere
il primo capitolo del 40 (il primo capitolo doveva riguardare la corte
ravkiana, ma …) non vedevo l’ora di introdurre
questo pg.
Questo personaggio, questo pov e questa trama, in generale, mi servono
per
introdurre la «Questione Fjerdiana».
Cos’è la Questione Fjerdiana?
Il pastrocchio in cui la Bardugo ha lasciato Nina ed Hanne.
Pastrocchio, dico? Sì.
Al momento i due posano come Mila e Rasmus, solo che Rasums non
è u orfano
senza arte ne pare, ma ha una madre molto affezionata, un padre ancora
vivente
e un fratello minore, comunque citato.
Oltre ciò Mila era la dama di compagnia della sfortunata
“Hanne Brum” e ragazza
di umilissime origini (vedova di un pescivendolo, che faceva la guida
turistica) che è riuscita a raggiungere il cuore del
principe dopo il suicidio
della sua precedente signora e “quasi” promessa del
Principe Ereditario. E in
tutto questo sono due grisha, che possono anche voler spingere Fjerda
in una
direzione avanguardista, ma non credo potranno sventolarlo ai quattro
venti,
visto che fino a cinque minuti prima i Grisha erano cacciati.
Quindi sì la questione è problematica e forse non
la risolverò neanche bene ma
ci proverò giuro.
Detto
questo il capitolo non è stato betato.
Un bacio
RLandH
MATTHIAS
(40
anni dalla Dissoluzione della faglia)
Djerholm e Os Alta avevano una distanza tutt’altro che
ragionevole.
Impraticabile
a piedi, passando per le terre innevate, in quel periodo
dell’anno. Aveva
pensato avrebbero preso il mare, ma sua madre aveva deciso di voler
assolutamente arrivare alla Capitale e non doversi fermare ad Os Kervo
‘Ravka
Ovest non mi ha mai portato gioia’ aveva
giustificato pigra la sua risposta.
Avevano
preso una nave volante, non era un modello elegante e raffinato come
quelle
Ravkiane o Zemeni, anzi il contrario, era una bestia nera roborante,
che si volteggiava
nel cielo, in maniera goffa, tenuta su da un pallone, la cui forma era
sostenuta da due sedicenti grisha etherealki, perfettamente addestrati.
Era
però un motore vero a carbon fossile che rovesciando una
scia di fumo nero, che
dava la spinta ed un capace timoniere che guidava la direzione. Altri
squallor
manovravano i venti per addolcire il viaggio. La direzione era stata
tracciata
da un cartografo prima.
Il
Skära-vind, taglia-vento, fjerdiano
riusciva a superare in altezza le
navi volanti Ravkiane, raggiungendo temperature dove respirare era
difficile ed
il freddo era pungente.
Sulla sommità, scoperti, l’aria era tenuta da un
gruppo di grisha, che avevano
creato una bolla di aria respirabile. Un inferno si occupava di
riscaldare
l’ambiente, ma moderatamente.
Il fuoco di quel tipo di grisha era sempre pericoloso, più
d’attacco, sarebbe
stato meglio avere dei sun summoner, ma Fjerda non
ne aveva, gli unici
esistenti erano a Ravka, ai piedi dell’Apparat.
Però, quell’altezza così vertiginosa,
con quelle misure così accorte, rendeva
l’ambiente più sicuro, erano soli, dominavano il
cielo, con un quarto delle
abilità di manovra delle navi volanti e forse la
metà della potenza di fuoco.
Ma questo era superbo, i cieli di Ravka erano cieli pacifici.
Almeno di quei tempi, si diceva così.
“Era
lì” stava dicendo il vecchio nobile Karl, con voce
rude, mentre indicava alla
giovane Stiorra, sua nipote, qualcosa nel panorama visibili dagli oblo.
Erano
finestre di vetro lavorato dai grisha, un grande spessore, capace di
trattenere
freddo e fuoco, ma così lido da essere a malapena percepito
ad uno sguardo
distratto, “Un muro nero, che si alzava verso il cielo. Come
se Djel avesse
chiuso gli occhi proprio in quell’unico punto”
aveva detto volutamente tetro
Karl.
Stiorra aveva avuto un singulto, mentre con gli occhi chiari cercava in
quel
vasto panorama. Verde e più pianeggiante di quanto non fosse
Fjerda, così vivo
da stordire l’idea che quello fosse l’unico
tangibile ricordo del Nonmare.
La
piaga che aveva devastato Ravka, spezzandola, dentro nel profondo, di
cui, in
quei tempi, era rimasta solo l’ombra negli occhi di chi
l’aveva venduta. “Dei
miei amici ci sono entrati una volta. Chi ne è uscito non
era più intero, né
dentro né fuori” stava spiegato il vecchio Karl ad
un ammirata Storria.
Lui
si era voltato verso sua madre, invece, non aveva avuto bisogno di
porre ad
alta voce la domanda, “Una volta, l’ho vista quando
ero ragazzina” aveva detto,
ma sapeva di menzogna e Matthias non aveva chiesto altro.
A
sua madre piaceva tenere i suoi segreti e lui aveva cominciato a capire
perché.
Sua
madre aveva un aspetto impeccabile, se non si contava la macchia di
zucchero a
velo che le impolverava una guancia e che era caduta anche sulla parte
superiore del vestito acquamarina e sulla generosa scollatura.
“Ti sei
macchiata” le aveva commentato alla fine.
“Oh Santi! Senza tuo padre sono proprio perduta”
aveva riso con un leggerò
divertimento lei, senza reale preoccupazione nella voce,
“Sarebbe stato
imbarazzante incontrare Zoya sempre così elegante, con il
vestito macchiato di
zucchero”.
Matthias le aveva sorriso
indulgente,
nonostante fosse arrabbiato con lei. Sua madre aveva allungato una mano
per
scompigliarli i capelli. Entrambi avevano una tonalità di
biondo simile, chiarissimo,
fjerdiano, in comune avevano anche la carnagione bianca come la luna. Forse.
Suo padre aveva scelto di non venire, di rimanere a Fjerda,
sul trono,
assieme a Joran, suo consigliere personale. Dopo il tentativo di colpo
di stato
di Hartfag Grimjor, in combo ai cambiamenti per il mondo che suo padre
stava
costruendo, il trono di Fjerda si era fatto bollente e suo padre non
poteva
permettersi di lasciarlo.
“Non
hai messo la tua corona” aveva considerato sua madre,
Matthias aveva allungato
la mano per posarla sopra la sua testa, dove di solito indossava
l’anello di
ferro ed argento, su cui era incisa la testa di profila di un insenulf,
le
volute intrecciate ed il motto principesco, trovando, però,
solo i capelli
morbidi; il suo capo era nudo, differentemente da quella di sua madre.
La
regina esibiva con orgoglio la corona matrimoniale di Fjerda: un anello
di
ferro, argento, con dei topazi azzurri, in sintonia con gli occhi della
donna.
Dall’anello, si dipanavano delle aste, che si stringevano poi
punte affilate, che
ricordavano delle spade in miniatura. “Mi sembrava
irrispettoso” aveva
commentato Matthias, “Ho sentito che nessuno dei principi di
Ravka indossa la
corona” aveva dichiarato, neanche le principesse. Sua cugina
Isadora indossava
sempre diademi delicate, con piccoli diamanti luccicanti come stelle.
Sua
madre aveva mosso una mano come se avesse dovuto scacciare una mosca,
“Quello
fa parte del fascino di Zoya e delle strategie politiche di quella volpe
di suo marito” aveva ridotto alla cosa, con un sorriso
gentile sul viso,
nonostante le parole che aveva usato non c’era alcuna
cattiveria.
Il Korol Rezni, l’uomo che aveva perso la corona per il
sangue spurio e l’aveva
riconquistata in camera da letto, la Volpe Troppo Furba
di Ravka. Sua
madre lo ammirava moltissimo, meno di quanto facesse con la Regina
Drago, ma
provava per il Re Consorte di Ravka una genuina meraviglia.
Matthias aveva annuito, stanco.
Ovviamente
per i cuccioli del drago, non valevano le stesse
regole che doveva
giocare lui.
Zoya Nazialensky era divenuta Regina in virtù di una
volontà più grande: potere
e pietà, aveva sposato un conclamato bastardo ed istituito
una nuova linea
reale. Tutti i figli di Zoya sarebbero stati principi anche senza
bisogno di
indossare le loro corone, perché la loro madre era la Regina
e a Ravka non
importava se la loro regina fosse nata con sangue Suli, povera e da un
villaggio senza nome. Era una santa, un’eroina e un drago.
Il
lignaggio della casa Grimjor era sempre in discussione. Re Egmond era
un uomo
forte, un visionario, che aveva dimostrato il valore di uomo, ma che
aveva
rivoluzionato un mondo intero.
Forse, la gente diceva,
era stata a causa della malattia che da ragazzino aveva sentito sulla
pelle,
che lo aveva quasi ucciso – Matthias voleva ridere pieno di
disperazione, per
quelle parole – ma aveva comunque sposato una vedova di un
pescivendolo, che
era stata cameriera della sua precedente innamorata.
Si erano raccontate molte cose su Mila Jerdestand, le più
dolci dicevano che la
giovane donna aveva aiutato il principe a superare il dolore del lutto,
che gli
univa, della morte della sfortunata Hanne Brum, suicida dopo i gesti
avventati
di suo padre – lei che aveva già affrontato il
dolore della morte di un marito
e che aveva teneramente voluto bene alla signora. Le altre dicevano che
Hanne
Brum si fosse suicidata per le azioni di suo padre e perché
il principe che
amava si era fatto sedurre dalla sua cameriera. Si era detto della
buona regina
Mila che fosse un’avida sgualdrina che dal nulla avesse
raggiunto quanto mai
più era concepibile per una donna, a quei tempi. Che aveva
irretito e corrotto
la giovane Hanne quando era Sorella della Fonte, che si era insediata
nella sua
casa ed era stata l’amante di Jarl Brum, che avesse usato
l’influenza del suo
amante fino alla corte e che avesse poi sedotto senza vergogna il
giovane
principe ingenuo e sfiorito. Qualcuno, folli, osavano anche insinuare
che Egmond
Grimjor avesse ucciso con le sue stesse mani Hanne, per soddisfare
l’amore di
Mila.
Raccontavano
ancora tutti, quando con troppo coraggio ed audacia, Mila aveva preso
la mano
del principe e pregato per lui all’inizio del Cuore di Legno.
Sapeva dei sussurri
che ancora aleggiavano
nella corte, che Mila governava Fjerda, tenendo come scettro il membro
di suo
marito.
Matthias sapeva non potesse essere vero: sua madre era una donna
gioiosa,
intelligente, a volte anche spietata, ma non una cospiratrice brutale e
suo
padre non era un giovane imberbe, non era manipolabile, era duro come
il
ghiaccio della corte. Re Egmond aveva sempre raccontato che
l’amore per sua
moglie pescivendola era come quello di Re Justinien Grimjor che si era
innamorato della sua regina Diede, che aveva visto esibirsi
all’angolo della
piazza come un’attrice.
Era stato un matrimonio
scandaloso, ma aveva regalato a Fjerda la sua epoca d’oro e
tutti dicevano che
con i suoi genitori era accaduto di nuovo.
Sicuramente
così era stato per i grisha e gli emarginati, come il popolo.
Il
popolo amava Mila Jardeset, che in pochi anni era passata
dall’essere: La
Regina Pescivendola, la Regina Puttana, alla Buona Regina Mila.
Tutte le storie erano comunque sbagliate; Matthias, lo aveva scoperto e
la
verità era … Inqualificabile.
Matthias non riusciva a far fronte alla verità. Per questo,
quando sua madre
aveva chiesto di accompagnarla a Ravka per il secondo ventennale aveva
deciso
di accettare senza colpo-ferire. Solo quando aveva osservato
dall’igloo del
mostro volante, gli ettari di foresta nerissima, confine naturale tra
Fjerda e
Ravka, aveva realizzato che tutto il mondo, incluso sua madre,
avrebbero dato
per scontato che aveva deciso di prendere una moglie.
La
terribile Zoya daja Kerkenning aveva ancora una
figlia nubile, di
qualche anno meno di Matthias – diciassette se non sbagliava
– che lui aveva
conosciuto una volta da bambino, durante i concordati su alcune vie
commerciali
che riguardavano il meridione di Fjerda e il settentrione di Ravka.
Alina Zoyaenva Nazialensky, il Frutto
dell’Autunno, tret'ya
tsarevich.
La ricordava come una bambina dal viso olisse,
capelli castani come il legno d’acero, mossi come le onde del
mare ed occhi
azzurrissimi come le acque dell’Isenvee.
Ricordava anche una risata
gioiosa e la rivedeva pattinare sul ghiaccio di un lago senza remore,
seguita
dagli attenti occhi di una schiera di grisha vestiti in blu pavone, con
decori
argentati e verdi. Ricordava di non aver fatto una bella impressione
alla
giovane principessa.
“Vostra
altezza reale! Vostra maestà!” lo aveva chiamato
Stiorra immediatamente.
Matthias si era voltato, incrociando lo sguardo con la ragazza hedjut.
Infilata
sotto una mantella rosso vermiglio, con le mani posate
sull’oblò guardava con
interesse il mondo sotto di lei, al suo fianco c’era
l’istitutore di Mattias,
l’unico uomo che fosse mai riuscito a convincerlo a studiare
la geografia, era
anche un bravissimo poeta, anche se le sue poesie erano racconti su
amori
dolorosi, che finivano in sangue, dolore e lacrime.
Si
era avvicinata alla ragazza con curiosità, seguendo la
direzione dei suoi occhi
chiari. Davanti a lui si era aperto uno spettacolo magnifico, una landa
di
terra di dimensione vastissima, pareva un innaturale giardino del
paradiso.
Aranceti, limoneti, meli, ogni genere di albero da frutto, si estendeva
in una
lingua di terra che tagliava metà la terra, davanti e sotto
di loro.
Tra i giardini e gli alberi apparivano piccoli edifici dalle forme di
bolle,
che si univano in punte aguzze, alcuni avevano anche un minareto.
“Un tempo
questa era la Faglia, dopo l’ascesa di Senje Zoya al
trono di Ravka, la
terra arida è fiorita” aveva raccontato il suo
tutore, “Questo è capitato anche
alle zone che erano state mangiate dal vampiro” aveva detto
lo zio di Stiorra.
“Djel e i Santi dovevano proprio approvare
quell’incoronazione” aveva detto
lui, secco.
Il
popolo di Fjerda era stato felice di dover rimporre le armi, meno i
suoi
generali attempati, famelici di guerra e lontani dai campi di
battaglia, che
avevano giudicato aspramente la decisione
dell’all’ora principe di cedere ad un
trattato di pace, ma quando anche gli alberi di pesco erano cresciuti,
miracolosi, nella morte anche loro avevano dovuto ammettere che Djel ed
i suoi
figli dovevano essere soddisfatti.
Il
tributo del sangue era stato pagato.
“Un tempo c’era la vita, poi il nulla, poi la morte
ed ora un miracolo” aveva
esclamato Stiorra estasiata, incrociando le mani tra loro, colta
dall’estasi
vera. “Se posso permettermi mia signora, io non credo ai
miracoli, credo alle
gesta di cui sono capaci gli uomini, otkazat’sya
o grisha” aveva detto il
suo tutore lucido.
“Io
no” aveva rimarcato lei, senza perdere quello sguardo
sognante, “I grisha
manovrare le materie, io posso creare ottime creazioni con ago e filo,
ma quello,
non potrò mai, mai, fare qualcosa di questo
genere” aveva dichiarato onesta. Matthias
aveva continuato a guardare il giardino delle meraviglie. Lo chiamavano
l’Agroverde
e sapeva che tra i giardini da frutto e l’erba erano state
costruite anche
chiese dedicate a vari Sankti, Alina della Faglia ed il Senza Stelle,
il Cammino
dei Pellegrini lo chiamavano, a Matthias sarebbe piaciuto
farlo, forse
Stiorra avrebbe voluto accompagnarlo. “Questo è il
riassunto di Ravka! Non
importa quanto sia ferita e sanguinate, rinasce sempre
splendida” aveva detto
sua madre, con un sorriso pieno di nostalgia. L’avevano
ascoltata tutti,
“Madre, sembri un po’ troppo innamorata di questo
paese” aveva considerato
Matthias, “Sono assolutamente innamorata di questo paese: ha
un clima migliore,
un cibo migliore e, santi, una poesia migliore” aveva
replicato sua madre,
senza perdersi d’animo, aveva sorriso piena di malinconia.
“Potrei dissentire”
aveva detto il suo istitutore.
“Inoltre,
i ravkiani permettevano alle donne di cavalcare con le due staffe,
lavorare e
difendersi ben prima che cominciasse Fjerda” aveva insistito
Stiorra. “Ma tu cavalchi
con le gambe da un lato solo e l’unica arma che mai hai
impugnato è stato il
ferretto uncinato per l’uncinetto” aveva risposto
Matthias. Stiorra si era
voltata subito verso di lui, facendo oscillare i capelli riccioluti,
erano
stretti in due trecce, a sua volta fermati in girelle sui lati della
testa, ma
alcuni ciuffi particolarmente sfuggenti, cadevano come rami di salice.
“Oh! Ovviamente,
vostra altezza reale. Ma ho potuto scegliere. Adoro stare a bere
tè con le
signore, indossare bei vestiti e passare il tempo a cucinare le
iniziali sopra
i fazzoletti degli uomini importanti della mia famiglia. Spero di non
dover mai
prendere una pistola in mano e di non dover mai sparare un
colpo” aveva
chiarito Stiorra, “Ma sono grata ogni giorno di aver potuto
scegliere come
condurre la mia vita.”
Matthias
era avvampato per l’imbarazzo di quelle parole. Il suo
istitutore aveva scosso
il capo, mentre con una mano nascondeva un sorriso poco lusinghiero per
lui, il
conte Karl era avvampato, “Stiorra!”
l’aveva rimproverata, oltraggiato dal tono
che sua nipote aveva utilizzato con il principe.
La regina Mila aveva sorriso, soddisfatta, “Ah, ragazzina,
adoro la tua lingua”
aveva considerato, poi l’aveva guardata con gli occhi azzurri
intensi, “Quando
ero giovane io non desideravo altro che smettere di essere la pavida
ragazzina
fjerdiana con gli occhi velati che non aveva coraggio di dire e fare
nulla”
aveva risposto la regina, mettendo comunque una mano intorno alle
spalle di
Stiorra, “Ma sono d’accordo con te” le
aveva detto.
Stiorra
aveva sorriso piena di soddisfazione, con gli occhi luccicanti,
“Voi mi rende
onore, maestà” aveva detto. La giovane fjerdiana
era la Signora della Camera da
Letto della Regina Mila, un ruolo prestigioso per molte donne, di
solito veniva
dato a rispettabili donne sposate o enke, di
età vicina alla signora. Ma
Stiorra aveva vinto il titolo conquistando con una risata la regina.
Aveva
venti-due anni e non era ancora sposata, si era evitata le Fanciulle
della
Fonte o altro, specie perché non le mancava nulla come
ottima moglie Fjerdiana,
aveva anche ricevuto inviti di matrimonio, nonostante non avesse mai
debuttato
nel suo Cuore di Legno. Matthias aveva la sgradevole
sensazione che Stiorra
aspettasse lui.
Doveva
confessare di averci pensato, ma perché Stiorra era una
persona carina ed
andavano abbastanza d’accordo.
“Oh
certo, senza dimenticare quel piccolo dettaglio insignificanti in cui i
figli
di Djel venivamo bruciati sul rogo” aveva aggiunto Stiorra.
“Insignificante”
aveva ripetuto Mila. Insignificante aveva pensato
Matthias.
“Comunque,
spero di poter vedere il Giardino della Regina” aveva
attirato, poi,
l’attenzione su di lei la ragazza, “Forse non
sarà magico come i miracoli, ma dicono
che il Re lo abbia riprogettato a mano per lei e che sia una delle
opere
architettoniche più belle del nostro tempo” aveva
considerato.
“Dopo la corte di ghiaccio.”
“Ovviamente
dopo la corte di ghiaccio.”
Matthias
ed il suo istitutore avevano parlato all’unisono.
“Non
credo possa esserci qualcosa di bello al Gran Palazzo. Amo Ravka ma
quel luogo
è un’offesa ad ogni buon gusto, perfino con i
restauri post-guerra” aveva
commentato sua madre, “Ma il giardino di Zoya è
molto bello. Molto caotico
qualcosa che non si addice a lei.”
Non
erano atterrati ad Os Alta, non erano neanche atterrati vicino, sarebbe
stato
davvero preoccupate per i cittadini vedere un alio-nave fjerdiana
atterrare
alle porte della città.
Erano passati meno di quaranta anni dalla fine della guerra, dal primo
poco
plausibile concilio ad Os Kervo, al trattato post-Incoronazione,
all’Accordo
delle Tre Regine, un decennio. Certe guerre di
confine non si erano
fermate, erano diminuite, avevano cominciato a somigliare a guerriglie
ed
incuriosioni. Ravka e Fjerda, Os Alta e Djerholm potevano aver siglato
la pace,
ma esistevano genti, separati da un confine aleatorio che si erano
odiati per
secoli non erano disposti a lasciare andare il proprio odio. Ma avevano
avuto
il permesso di poter ammarare nel Reka, il fiume di Ravka, nei pressi
del Vy la
strada maestra che univa Os Alta a Kirbisk, un tempo necessaria per
raggiungere
Os Kervo.
Non dovevano più attraversare la Faglia, o il suo deserto,
Vy era stata
sostituita da NovaVy, una strada dritta che univa le due grandi
città
direttamente. Ma da quello che poteva vedere Matthias dal cielo, gli
abitanti
erano rimasti fedeli alle loro abitudini. Il Vy offriva molto. Uomini a
cavallo, in carrozza, carri, anche pellegrini a piedi.
Un
fiume umano che attraversava Ravka, per raggiungere la sua Capitale,
proprio
per il Secondo Ventennale.
“Il Reka non è troppo stretto per un ammarraggio
di questa portata?” aveva
chiesto preoccupata Stiorra. “Sarebbe stato sicuramente
preferibile un
atterraggio, ma lo Skära-vind non
è progettata così” aveva spiegato
subito Mila, “Ma andrà bene” aveva
aggiunto con sicurezza, guardando i due
giovani.
“Il Reka è abbastanza ampio da necessitare in
alcune zone il trasporto a
battello da una riva all’altra, quindi non è un
problema, inoltre non
atterreremo in corrispondenza della Vy, dove c’è
la strettoia ed il ponte, ma
più a sud, alla cataratta, dove l’acqua
è profonda” aveva chiarito il suo
insegnante.
“Sua maesta!” aveva chiamato uno dei gli uomini,
era un grisha etherealki,
indossava un’uniforme regolamentare dell’esercito
fjerdiano, di una tonalità di
blu notte, su cui era state aggiunte decorazioni argento, con i capelli
rasati
corti ed una barba appena accennata, più vecchio ed adulto
di Matthias,
“Abbiamo individuato il punto predisposto e stiamo procedendo
con le manovre di
riduzione di quota” aveva detto quello prontamente.
Sua
madre aveva sorriso, “Grazie,
Ibe” aveva
detto lei gentile, diplomatica aveva aggiunto,
“Darò a tutti l’ordine di
sedersi ai posti prefissati per non sbilanciare lo
Skära” aveva aggiunto, prima
di impartire l’ordine ad un soldato che si era prodigato
nello spargerlo a
tutto il velivolo.
Sua madre era andata verso una delle panche di legno, imbottita di
cuscini e
comodità, dove si era seduta al centro, Stiorra si era
accomodata alla sua
sinistra con un leggero nervoso sul viso e Matthias aveva raggiunto sua
madre
alla sua destra. “Legatevi bene con la fune” aveva
spiegato la donna con
imperiosità. Avevano seguito tutti e due l’ordine.
La
discesa era stata improvvisa. Matthias aveva sentito la pressione nelle
orecchie.
Stiorra si era lanciata in un urlo piuttosto spaventato,
“Djel, proteggi la mia
anima, Senje Adrik l’Assimetrico, Senje Demiyan
proteggeteci!” aveva esclamato,
stringendo le mani al petto, così tanto che le sue nocche
erano diventate
bianche. Sua madre si era voltata verso Matthias, con gli occhi blu
pieni di
aspettative. Non aveva avuto bisogno di parlare, aveva guardato le due
mani, si
era concentrato sulle sue dita e le aveva flettete e poi ripiegato, lo
aveva fatto
un paio di volti ed il terrore di Stiorra sembrava essersi ridotto.
“Va meglio,
tesoro?” aveva domandato Mila alla sua Dama della Camera da
Letto, “Sì, mia
signora. Fischiano solo un po’ le orecchie” aveva
commentato Stiorra molto più
rilassata. Mila si era voltata verso di lui, strizzando un occhio.
Matthias
aveva sorriso, tornando a guardare le sue mani, corporalki, l’ordine
dei
vivi e dei morti, se fosse stato a Ravka lo
avrebbero definito così,
avrebbero dato a lui una kefta rossa, aveva indossato una camicia di
quel
colore apposta; ma quale decorazione avrebbe accompagnato i bordi.
Il nero degli heartrender? Il grigio degli healer?
Probabilmente
non il blu dei tailor – aveva dimostrato
in più occasione di essere un
pessimo plasmaforme, ma non importava. Sapeva di
non essere come gli
altri corporalki.
I
suoi genitori avevano sempre detto, che il confine tra heartrender
ed healer
era assolutamente aleatorio, anche i tailor in
effetti, sebbene quelli
stessi si classificassero in una scienza a metà tra
corporalki e materialki. La
Regina Zoya infondo eccelleva in gran parte delle piccole scienze
grisha.
Matthias avrebbe voluto esercitarsi, molto, molto di più.
L’ultimo tratto di discesa della taglia-vento era stato
più ripido, uno dei due
etherealki aveva smesso di lavorare sul pallone, “Prepararsi
all’impatto” aveva
gridato lui, “Adda sta a te” le aveva detto.
Una soldatessa con l’uniforme blu con i decori verde-acqua,
si era avvicinata
al bordo della mano ed aveva sollevato le braccia come se avesse voluto
abbracciare il mondo. Doveva star lavorando con l’acqua del
Rava per assicurare
che l’ammarraggio fosse più piacevole possibile.
“Ah, quanto saremmo state avanti con le drusjie,
se non fossimo stati
così ciechi” aveva ammesso Karl Espen, con
espressione ammirata, davanti la
schiena dritta della donna.
“L’importante
è che poi siate migliorato, mio buon amico” aveva
detto la regina Mila con
calma.
Karl Espen, il nonno di Stiorra, era stato uno dei druskelle di Jarl
Brum, era
stato sul fronte di Ravka Est quando il Korol Renzi
e la Senje Dreki
avevano scatenato i loro spettrali miracoli.
L’ammaraggio
era stato delicato, era stato come un leggero tocco, prima che la nave
smettesse di ondeggiare. “Manovra completata, mia
signora” aveva dichiarato Ibe
con un tono professionale. Così Mila si era sciolta per
prima dalla corda che
la teneva saldamente seduta e si era alzata in piedi. C’era
gioia sul suo viso,
ma anche nervosismo.
Dei
soldati avevano fatto scendere il ponte della nave, affinché
si collegasse con
il pontile che si dipanava dall’ansa. Erano saltati fuori
subito per poter
assicurare il ponte al meglio.
Il primo a scendere era stato Karl, “Così se ci
fosse un aguato sarebbe solo
questa vecchia cariatide a morire” aveva detto
l’uomo, senza vergogna. Il viso
segnato dalle rughe, i capelli un tempo biondi e fluenti erano sottili
fili di
bianco e grigio, radi, lasciando la calotta della testa scoperta.
Nonostante il
tempo lo avesse fiaccato, incurvato, quando aveva sceso il levatoio era
stato
fiero.
Lo aveva seguito uno dei nobili maggiore, membro del consiglio reale,
accompagnato da una soldatessa. Stiorra era scesa tenendosi
all’istitutore, lui
e sua madre li avevano seguito, lasciandosi indietro altri soldati.
“Sono
contenta che tu abbia deciso di indossare questa giacca
rossa” aveva commentato
sua madre, Matthias aveva sorriso, riconoscendo l’accezione
di quella frase, ‘sono
quello che sono madre. Quello che tu mi hai reso’
aveva pensato, ma le
aveva solamente detto: “Sei bellissima mamma.”
Differentemente da suo padre, sua madre utilizzava la piccola scienza
in
quantità sempre inferiori rispetto quanto fosse auspicabile
per una grisha, per
essere sana, per essere forte, ma sempre abbastanza perché
il suo volto non
traducesse in maniera corretta la sua età. Matthias sapeva
che suo padre fosse
un grisha, uno estremamente talentuoso – nato healer
ma divenuto tailor
– ma sua madre era eccezionale. Unica
nel suo genere.
Sua
madre aveva sorriso, “Ovviamente! Mi sono fatta aggiustare un
po’ da tuo padre,
pare che Zoya non sia invecchiata di un giorno” aveva
scherzato Mila. “Sei
proprio contenta di rivederla” aveva valutato Matthias,
pensando che ogni volta
che il viso di sua madre si illuminava le volte che aveva incontrato la
regina
di Ravka, “Sì, molto” aveva ammesso sua
madre, “Zoya è sempre stata una persona
importante per me, avrei voluto vederla più spesso questi
anni” aveva dichiarato,
mentre mettevano piede sulla terra, dopo aver attraversato il pontile.
“Sue
magnificenze” aveva detto l’uomo che gli
aveva accolti, doveva essere sulla
sessantina, come Karl, aveva gli occhi liquidi e a pensiero di
Matthias,
mancava il mento, come se il viso ed il collo fossero un unico blocco.
Indossava una redingote datata di un pervinca accesso, tempestata di
piccole
gemme. “Vadik! Mi chiami addirittura Magnificenza!”
aveva detto la
regina con una punta di acredine nulla voca, “Lo sai, Fetla”
sua madre
si era rivolta a lui, utilizzando quel soprannome che gli aveva dato da
bambino:
Uccellino, non era molto principesco, ne molto
imperioso. “Quando
ho conosciuto il nobile Demidov, lui
mi aveva a malapena notata. Ero con tuo padre, sai” aveva
raccontato Mila con
confidenza divertita.
“Uno
dei miei molti errori di gioventù, maestà. Il
veleno dell’Apparat non
avvelenava solo il mio cuore, ma anche la mia vista” aveva
risposto
bonariamente l’uomo senza nessun turbamento, prima di passare
alle
presentazioni.
Il
signor Demidov era un nobile, appartenente alla famiglia Lastov, non
era venuto
da solo, alle sue spalle erano presenti diverse persone, alcuni con la
kefta
verde, che aveva confuso Matthias, altri con kefte più
tradizionali, con i
bordi decorati. Alcuni di loro si erano fatti avanti, una splendida
grisha di
massimo una ventina d’anni corporalki – Matthias
aveva avuto un tremore davanti
il colore sanguigno del vestito – dall’incarnato
olivastro, con capelli biondo
cenere, ricci, lunghi fino alle spalle, il suo aspetto era gradevole
.“Luogotenente Meesha Effimov”, un
altro era un uomo che non poteva avere più di
quarant’anni, con un’espressione
serena ed ammirata, particolarmente verso Mila, con occhi chiari e
capelli
neri, indossava una kefta verde basilico, a tinta unica, con alcune
medaglie
sul petto, “Maggiore Generale Aleksander
Hrapovitzki” aveva detto Demidov,
prima di presentare l’ultima persona, era una giovane donna,
forse di pochi
anni più grande di Matthias e Stiorra. Era una civile, come
si poteva
riconoscere dal vestito riccamente decorato, che le stringeva sul busto
e
cadeva morbido sui fianchi, con uno scollo generoso. Aveva gli occhi
porcini,
il viso rosa, agghindato con molto trucco e capelli biondi pieni di
ricci. “La
nobile Tatiana Dubrovin” aveva detto in ultimo Demidov.
Tatiana si era esibita in un inchino molto generoso, pieno di rispetto,
per
quanto i suoi occhi scuri non avevano mai lasciato un punto. Matthias
si era
aspettato fosse lui, o sua madre – tutti guardavano la buona
Mila – ma lei era
stata interessata al suo istitutore. “Sua maestà
la Regina Drago Zoya si
rammarica di non esser potuta vedere di persona, ma vi è
assicuro che è pregna
di gioia della vostra visita. Sua maestà ha fatto
predisporre dodici carrozze e
quaranta uomini per scortarvi” aveva dichiarato Dubrovin.
“Quarata uomini? Si
aspetta che veniamo attaccati?” aveva chiesto Karl,
“No, certo che no, Fjerda è
nostra amica. Solo che sono molti i pellegrini che si stanno riversando
alla
capitale per i festeggiamenti” aveva spiegati quello.
“Mi chiedo perché non si
siano fatti nell’Agroverde” aveva chiesto Storria,
il suo ravkiano non era
eccellente, ma era ancora comprensibile. “Li abbiamo
festeggiato il decimo e
venticinquesimo anniversario e, presumo, anche il
cinquantesimo” aveva
considerato annoiato Demidov, “Ma quelli nella capitale sono
festeggiamenti più
intriganti, potete scommetterci, inoltre, sono previste anche gite a
Lazlayon”
aveva detto molto più estasiato.
“Spero
in molto cibo. Adoro Fjerda: ottima musica, ottimi balli, ma cibo
mediocre”
aveva dichiarato la regina facendosi prendere sottobraccio dal nobile
ravkiano.
“Penso che tu abbia fatto colpo egregio” aveva
sentito Stiorra ghignare al
fianco dell’istitutore, che era ancora oggetto
dell’interesse della nobile
Tatiana, “Ma cosa vai dicendo, screanzata” si era
difeso debolmente l’uomo,
pieno di nervosismo. Matthias aveva osservato quella scena, senza il
giusto interesse,
attirato più dalla donna corporalki. “Sei
… lei è una healer”
aveva
detto, pieno di imbarazzo, affiancandola. “Sì, sua
altezza reale”
aveva risposto Meesha con
gentilezza, le maniche, così come il collo, della sua kefta
avevano decorazioni
con volute e fili intrecciati di grigio scuro. “A Fjerda i
grisha non indossano
le kefte, però abbiamo adottato i colori” aveva
dichiarato Matthias non del
tutto certo delle sue parole, non era mai stati un chiacchierone,
nonostante i
suoi genitori lo avessero spinto più volto a fare discorsi
in pubblico. Si era
sentito stupido l’attimo dopo aver parlato e si era sentito
così nudo con la
sua giacca rossa indosso.
“Be,
se mi è concesso; lo trovo comprensibile. Rivelo le kefte
molto scomode e poco
pratiche, sono un retaggio vecchio ormai di secoli, per rappresentanza
sono
molto belle, ma per i combattimenti meno” aveva risposto
Meesha, stupendolo. Matthias
le aveva sorriso, “Luogotenente
Effimov, giusto?” aveva ripetuto lui, per esserne sicuro,
“Sì, sua altezza
reale” aveva risposto lei con un tono rispettoso, inchinando
la testa e facendo
oscillare i capelli ricci, voleva chiedere altro ma non sapeva
esattamente
come. Si era accompagnato luogotenente Meesha Effimov in silenzio, era
più
bassa di lui di statura, ma aveva una fierezza quando camminava che
faceva
sentire Matthias piccolo. “Pensavo che gli healer non
avessero un ruolo predominante
nell’esercito” aveva buttato fuori, la ragazza
aveva spostato una ciocca di
capelli dietro un orecchio, con un movimento lesto, “Non sono
sicura di poter
dare informazioni sull’esercito ad un principe
straniero” aveva considerato, ma
non c’era nessuna accusa nella voce, aveva avuto comunque
l’effetto di
arrossare le guance bianche di Matthias. Demidov lo aveva salvato
quando aveva
annunciato ben felice il loro arrivo alle carrozze.
Splendide, alcune da due, altre da quattro posti, bianchi, con decori
azzurri,
sembravano quasi ricamate, ognuna di esse era tirata da una coppia di
splendidi
cavalli, alti, potenti, erano pezzati, ma non per questo meno belli.
“Oh,
spero ci siano dei waffle ad attendermi” aveva detto la
regina di fjerda,
Tatiana aveva riso, la sua voce era squillante e poco gradevole,
“In effetti
sì, sua maestà. Il Generale Saffin lo ha
raccomandato due volte” aveva confidato
svelta la nobile.
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Capitolo 6 *** Vasilissa I (40 DF) ***
Questo
capitolo è cronologicamente anteriore
al precedente, ma di poco – qualche giorno.
Non ho una beta. Help.
Vasilissa
(40 anni dopo la disgregazione della faglia)
Erano solo
all’ora di pranzo e Vasilissa si doveva dichiarare stanca;
non c’era da
stupirsi, il palazzo era in completo subbuglio in quei giorni. Non
esisteva
nessun cameriere, inserviente e domestico che non stesse vivendo giorni
di pure
fiamme.
Genya Safin aveva spiegato tutto il reggimento dei domestici del Gran
Palazzo –
ed anche del Piccolo – per la preparazione della festa.
L’Anniversario dei quaranta anni della Disgregazione della
faglia, della Fine
della Guerra Civile e, il più importante, la Riunificazione
di Ravka.
Vasilissa era entrata cheta e con un passo felpato come quello di un
gatto
nella camera, per raccogliere la biancheria sporca.
Non era entrata in una stanza, ma in veri e propri appartamenti. Un
salottino
da ricevimento, grande due volte la stanza di Vasilissa, era separato
da due
ampie porte in frassino bianco – lasciate spalancate
– verso un corridoio
stretto, accompagnato da candele, in quel momento spente.
C’erano tre porte, che
conducevano ad un bagno privato, uno studiolo e una stanza per la
notte,
abbellita da un armadio imponente ed un grande letto a baldacchino. I tre ambienti erano
collegati tra di loro da
fenditure nel muro, ma l’unico modo per accedervi era la
porta bianca. Quando
era chiusa, erano solo poche le persone autorizzate ad aprirle,
fisicamente
proprio; la serratura era stata opera di un fabrikator.
Vasilissa si sentiva sempre rapita dalla bellezza assoluta di quelle
stanze.
Sua madre aveva sempre lavorato al Gran Palazzo come cameriera ed anche
suo
padre, come valletto, lei era nata in quel luogo, certo non in quella
stanza,
decisamente molti metri più in basso, ma era nata
lì, nel Gran Palazzo, come
gli tsarevich. Aveva avuto persino un guaritore
grisha come ostetrico, ad
aiutare sua madre, già che aveva avuto la sgraziata idea di
rovesciarsi nella
stanza.
Così era cresciuta lì, tra quei lussi e ricchezze
che le sembrano assolutamente
inarrivabili. Aveva guardato con dolcezza un tavolino basso,
perfettamente
livellato di un castano pallido, come le ossa, di un ovale perfetto,
con le
gambe curve e i piedi da leone. Sopra era posata una tavola di marmo
giallo
crema, screziato d’arancione, come una gemma
d’ambra.
Affianco al tavolino, c’erano due divanetti ad angolo. Una
era un’ottomana,
l’altra era invece con schienali e braccioli. Sul divanetto,
con i cuscini
pacchiani su cui era cucito fiori d’uncinetto, aveva
osservato un indumento.
Inizialmente aveva pensato fosse una vestaglia da notte, ma era invece
una
blusa di velluto, per ampiezza doveva essere da uomo, ceruleo, con dei
fini
decori arancio, sul colletto e bottoni d’osso.
Così aveva notato dietro il
divano dei pantaloni eleganti, li aveva recuperati ed infilati tutti e
due
nella cesta.
“Buongiorno Lissa!” si era sentita chiamare.
Lei si era voltata leggermente turbata, gli unici due precetti che la
governante Elizaveta ed il maggiordomo Karl si erano sempre e solo
raccomandati
di essere quanto mai più silenziosa possibile. I servi nel
Gran Palazzo
dovevano essere tutti fantasmi, assolutamente invisibili, tranne quando
richiesto.
Aveva incontrato il viso d’ambra, incorniciato negli umidi
capelli corvini arricciati
di una donna.
“Moya Tsaritsa! Buongiorno! Non volevo
disturbarla” aveva detto chinando
il capo in un’ampia riverenza. Si sentiva piena di disagio,
per un secondo era
stata sul punto di dire che non si fosse aspettata la presenza della
regina lì,
nelle camere. Certo, secondo le consuetudini settimanali che aveva
imparato a
mena dito, da quando aveva cominciato a sgambettare per portare il
tè, sapeva
che di norma, in quei giorni, la regina avrebbe dovuto trovarsi ancora
nella
Sala delle Udienze ad ascoltare nobili e popolani, con le loro
rimostranze.
Inoltre, non c’erano guardie davanti la porta.
“Stai ancora sostituendo Marius’ka?”
aveva domandato la regina con
tranquillità. Sua madre aveva detto a Vasilissa che quel
comportamento,
conoscere il nome e le storie della servitù, era qualcosa
che la Regina aveva ereditato
da suo marito, cosa che a Vasilissa sembrava molto intelligente da
fare,
bisogna conoscere le persone che ti stavano sempre a torno.
“Sì, il parto la ha
destabilizzata un po’, moya tsarevica”
aveva ammesso, pensando alla
ragazza più grande che si era presa dei giorni di malattia
per il bambino. La
regina aveva avanzato un passo verso di lei, indossava una vestaglia da
notte
di un color cipria, con decorazioni a volute floreali color argento.
Era una donna più vecchia della madre di Vasilissa, di
qualche anno, ma di una
bellezza stregante, le età invisibile su un volto, che
pareva ancora
bellissimo, e giovane. Sapeva che certi Grisha invecchiavano con una
lentezza
inumana, si diceva che alcuni di essi smettessero di farlo,
addirittura, i più
potenti. Ed esisteva qualcuno di più potente della Regina
Drago?
“Non ti stancare troppo, moya milaya
potrebbe risultare persa senza di
te” le aveva detto con calma serafica la donna. Era sempre
difficile
interpretare la regina, il re era un uomo sempre gentile, gioviale, con
un
sorriso accattivante, mentre lei, potente e fulminante, pareva sempre
tesa. “Nazyalensky
lo sai che non provo vergogna, ma inizio a non avere più
l’età per stare nudo
senza far niente!” aveva sentito una voce chiamare dalle
spalle, da una delle
stanze – la camera da letto.
Vasilissa era arrossita fino alla punta dei capelli,
“Perché non raggiungi la
principessa, per assicurarti che arrivi in tempo a pranzo, pettinata
possibilmente?”
aveva chiesto con nervosismo la regina. “Tutto quello che
desiderate” aveva
risposto Vasilissa prima di congedarsi, portandosi via la camicia e i
pantaloni
del re. Tutto quello che aveva sentito, prima di chiudersi la porta
delle
stanze della koroleva alle spalle era stato un
ringhio degno di un
rigido, “Per tutti i Sankti,
Nikolai!” aveva sentito strepitare.
Aveva
portato gli indumenti a Cignez, che si occupava di tutto il bucato,
più
pregevole. “Dove è il resto?” aveva
domandato, osservando solo i vestiti del
re, “La regina stava ancora utilizzando la biancheria da
letto, quando sono
entrata” aveva commentato con voce colma di imbarazzo,
“Oh” si era lasciato
sfuggire Cignez, era un ragazzo-uomo, con le gote rosse come mele
mature e gli
occhi neri intriganti, dalla forma allungata come un ragazzo shu o del
meridione ravkiano. “Io credo fosse in dolce compagnia del
Re” aveva azzardato
Vasilissa.
Non aveva visto l’uomo, ma riconosceva la blusa come una di
quelle che
indossava di solito il sovrano, oltre, che ovviamente il suo nome.
Era strano, ma gradito.
C’era stato un certo allontanamento tra i due sovrani, almeno
all’interno delle
camere da letto, qualche anno prima il re consorte aveva fatto spostare
gran
parte delle sue cose dagli appartamenti della regina a quelli che
tecnicamente
erano i suoi. In
pubblico, nel
consiglio, nella vita pubblica e politica erano rimasti una coppia
affiatata e
coordinata. Pragmatici, anche.
Ravka non aveva saputo nulla, il mondo intero neanche.
In realtà nessuno aveva saputo, neanche nel palazzo si era
arrivata ad una
risposta.
La regina non aveva preso amanti, né il re aveva anche solo
mai guardato
un’altra donna. Si erano solo allontanati.
Cignez aveva battuto le palpebre, poi aveva sorriso, compiaciuto come
un gatto
su un cuscino, “Forse, forse, il quarantesimo anno della
Ravka unita, li ha
ricordato i loro legami passati” aveva proposto quello.
“Mio buon, Cignez. Io ho smesso di chiedermi cosa e
perché, molto tempo fa”
aveva risposto lei.
Quello aveva annuito, prima di guardare la blusa di velluto.
“Comune, piccola, Lissa hai preso solo i vestiti del
re?” aveva chiesto, “Si,
certo” aveva risposto Vasilissa come se fosse stato ovvio;
Cignez aveva ridacchiato.
“Allora speriamo che il Korol Renzi abbia
degli abiti di scorta negli
appartamenti di sua moglie o dovrà girare per il palazzo,
avvolto nelle tende
del baldacchino … di nuovo” aveva replicato
l’uomo.
Vasilissa era rimasta muta e colta dalla vergogna, sapeva che era
avvenuto una
volta, ma lei a quei tempi, passava le giornate in cucina rubando le
carote
sbucciate dal cuoco; “Non chiamarlo
così” era riuscita a dire alla fine, per
quanto il rimprovero, con gli anni, fosse diventato sterile.
Il re stesso non era sembrato più provato da
quell’orrido soprannome.
Pensava di doverlo raccontare alla principessa, probabilmente sarebbe
stata
contenta. Così con quel pensiero – e
l’ordine di aiutare la nobil donna a
prepararsi – Vasilissa si era diretta nel Corridoio
Principesco. Era chiamato
così, perché nel corso degli anni, le camere dei
principi di Ravka avevano
occupato quelle stanze, una volta trasferiti dal nido –
proprio di fianco gli appartamenti
della regina. Il Corridoio Principesco era in una guglia del palazzo;
un
corridoio raggiungibile solo da una porta nota, se non si conoscevano i
passaggi segreti
Ormai a vivere in quella lungo androne, con pavimenti cesellati,
ritratti di Sankti
ed eroi mitologici, c’era solo la Tret’ya
Tsarevich.
La maggiore, che aveva lasciato le camere quando aveva avuto otto anni,
quasi
non ci aveva abitato – a dir si voglia – per
occupare degli alloggi al Piccolo
Palazzo, non aveva mai fatto ritorno al Corridoio Principesco. Dormiva
ancora nel
regno dei Grisha, in vero. Vasilissa sapeva avesse
solo cambiato
alloggi, in uno dove potesse stare comodo anche il principe consorte,
anche se
sera un Otkazat'sya e i loro due figli.
Lei aveva sentito parlare le due principesse di spostare quando avesse
avuto
l’età adatta uno dei bambini lì, ma la
madre non aveva affatto interesse nel
separarsi da alcuno dei suoi figli.
Il principe invece,
il mezzano, tecnicamente,
in quei giorni era tornato ad abitare quegli alloggi, ma li aveva
lasciati in
precedenza, da giovane per girare il mondo.
Quando Vasilissa era passato davanti alla sua stanza, aveva trovato
invece dei
due soldati di consueto, la guardia adibita ad assicurarsi che nessuno
entrasse
per vili fini. Lui l’aveva salutata con diligenza, lei aveva
ricambiato,
scavalcandolo e continuando.
La terza principessa aveva la camera più lontana.
“Buongiorno
Malachi, buongiorno Lukyan” aveva salutato le due guardie di
palazzo, ritte
come pali davanti la porta della principessa. Malachi indossava
un’uniforme
nera da oprichnik, segno del suo elitarissimo,
riguardo all’altro uomo
vestiva un informe da soldato solo declinata in un bianco candito con
decorazioni viminee color oro. Lo stesso schema di colori del sarafan
di
Vasilissa.
“Buongiorno signorina” lo aveva salutato con garbo
Malachi facendosi da parte,
“Sho sol, Koja Lissa.
Oggi sei più bella delle tselai”
le
aveva detto sfacciato Lukyan.
Vasilissa era arrossita, prima di aprire la porta della terza tsarevich,
prima di scivolare dentro.
Lukyan era gradevole alla vista, alto, con occhi nocciola luccicanti e
capelli
scuri come il mogano. Presa da quel pensiero, non si era accorta delle
condizioni indecenti della camera.
Per poco non era inciampata nei volumi e nelle carte sparse per terra.
“Sho
Sol! Lissa” aveva dichiarato la principessa vivace.
“Moya Tsarevich!”
aveva esclamato Vasilissa non vedendola.
La ragazza era comparsa da sotto un mucchio di coperte.
“Eccomi, eccomi!” aveva
esclamato la ragazza. “Cosa è successo
qui?” aveva chiesto atterrita Vasilissa,
guardandosi intorno, “Ieri era tutto perfetto”
aveva guaito, ricordando la gran
dedizione che ci aveva messo.
Vasilissa era partita come cameriera, ma con il tempo era diventata la
cameriera personale della principessa. O così era da che le
avevano trovato a
giocare a campana in uno dei cortili interni; la nobile signora aveva
tre anni
in meno di lei, ma erano cresciute insieme. Ricordava sua madre
sconvolta
tirarla via, piena di vergogna, mentre bofonchiava scuse. Vasilissa,
come la
principessa, non comprendevano. “Non preoccuparti,
le ragazze stavano solo
giocando” aveva dichiarato il Re consorte con la
sua calma e dolcezza
irresistibile.
“Si, scusa, Lissa! Potrei essermi fatta prendere la mano,
ieri sera non avevo
sonno!” si era giustificata Vasilissa, “Poi
ovviamente mi sono addormentata per
terra e, sankti, che ore sono? Ho perso la colazione
e le udienze. Mamma
sarà infuriata” aveva dichiarato la principessa
come un fiume in piena.
“La regina non è arrabbiata” aveva
stabilito Vasilissa, spostando con un piede
quelle che aveva tutta l’impressione fossero la
raffigurazione di un vasto
bosco. “Dici?” aveva chiesto la principessa,
“No, era terribilmente rilassata”
aveva ammesso la cameriera. Colma di imbarazzo.
“Allora mia sorella sarà furiosa con me”
aveva considerato la principessa.
Quello era più probabile. “Ma
cosa è successo qui?” aveva chiesto
Vasilissa, chinandosi per raccogliere alcuni vecchi volumi. La
principessa
l’aveva guardata con gli occhi blu splendenti, soddisfatta di
quella domanda,
prima di cominciare a sciorinare come risposta: “Be, ieri
sera Juris insisteva
con questa fiaba che aveva sentito da suo padre, che mi aveva dato da
pensare;
quindi, ho iniziato a fare delle ricerche …”
Vasilissa aveva smesso di ascoltarla, preferendo concentrarsi
maggiormente nel
rimettere in ordine quel caos che era esploso nella camera, sembrava
che fosse
passata un’orda di volcra.
“… è così mi sono concessa
ad un’orgia selvaggia con il ministro Babin nella
Cappella principale sotto lo sguardo dell’Apparat!”
aveva terminato soddisfatta
la principessa, piombando sul letto.
I capelli neri sparsi in ogni direzione, con indosso ancora i vestiti
del
giorno prima, con la camicia di cotone ed i pantaloni spessi.
“Molto
interessante, principessa” aveva mentito Vasilissa senza
perdere un briciolo di
credibilità, “Aspetta: hai detto orgia
selvaggia?” aveva sputato fuori,
dimenticato tutta l’educazione e il modo formale a cui doveva
rivolgersi.
“Sì lo ho detto, sì mentivo. Le mie
avventure sentimentali iniziano e finisco
con tu-sai-chi durante l’ultima festa
del burro, dopo troppo kvas.
E solo che avevo l’impressione non mi stessi ascoltando
Lissa” aveva detto la
principessa con un po’ di imbarazzo.
Vasilissa e la principessa Alina avevano ecceduto con le scorte di kvas
rubato
e questo si era tradotto in un comportamento decisamente inappropriato.
La
principessa si era concessa qualche bacio molto audace con una grisha
del Piccolo
Palazzo ed anche lei, solo che non era stato né con un
aitante soldato, né con
qualche domestico, o popolano, ah no, un bel giovane nobile, da cui lei
era
stato consigliato di stare alla larga.
“La regina mi ha comandato di aiutarla a prepararsi per
pranzo” aveva
comunicato alla fine Vasilissa, “Una volta eri più
simpatica” le aveva detto
senza malizia o reale cattiveria la principessa, “Anche
tu” aveva risposto di
getto lei, “Volevo dire: mi dispiace, moya tsarevich”
aveva aggiunto,
senza volersi realmente correggere con una pesante riverenza.
La principessa le aveva lanciato un cuscino, senza grazia,
“Va bene, mi sistemerò
per il pranzo, ma non metterò quello stupido vestito
pervinca che Genya mi ha
fatto fare” aveva considerato con nervosismo la principessa.
“Per i sankti,
direi proprio di no, è orrendo” le aveva detto
Vasilissa, comprensiva. La
principessa aveva riso, piena di gioia. “Giuro una volta
aveva più buon gusto,
sai quella cosa che i grisha sono longevi e compagnia? Credo si
cristallizzino,
anche nella moda” aveva dichiarato Alina, spietata.
Avevano
ordinato i capelli della principessa, e non senza fatica, in una coda
cavallina, che la faceva apparire più alta e slanciata di
quanto non fosse. Non
aveva indossato l’orrido vestito viola, né alcun
altro tipo di vestito
abitudinario delle donne. Aveva indossato una redingote blu brillante a
doppio
petto, con i bottoni di madreperla e code a rondine; con maniche
plissettate
alle spalle, aderenti al braccio e svasata sulle mani. Pantacalze
bianche e
stivali di cuoio neri, lucidi, fino al ginocchio. Decisamente
più in linea ad
un giovane signorotto che una principessa.
Vasilissa aveva visto la giovane principessa avanzare marziale nelle
stanze,
senza aspettare di essere annunciata, fino alla camera privata del
pranzo, quello
dove la famiglia, e gli stretti, si riunivano.
La
cameriera aveva osservato mentre la principessa scivolava su una sedia,
accanto
a suo fratello, il principe, che si era sporto per darle un bacio
delicato
sulla nuca. La tavola contava non pochi avventori: la regina, suo
marito, i
loro tre figli, i due figli della maggiore – due piccoli ed
esuberati pesti –
mancava il principe consorte, c’era il generale Safin con i
capelli rossissimi,
proprio alla destra della regina.
Sedevano anche i due gemelli Baatar, con la moglie di uno
dei due che
sedeva in mezzo, una brillante grisha etherealki con tutte le carte per
essere
materialki. C’era il ministro dell’agricoltura, una
grisha materialki con i
capelli pieni di boccoli e l’ambasciatrice di Novy Zem.
“Quindi Nikolai c’è un particolare
motivo per un tuo così divertente
vestimento?” aveva chiesto Genya Safin sfacciata, mentre
sedeva alla destra
della regina, proprio di fronte al re.
Nikolai Lantsov, re consorte di Ravka, indossava una camiciola, con le
maniche
svasate con i fronzoli di un celeste tenue, in contrasto con dei
pantaloni
piuttosto vivaci, come se fossero stati indumenti pescati alla rinfusa.
“Questa
mattina mi sono svegliato creativo, Genya” aveva risposto lo tsarin
con
un sorriso accattivante. “No, sai quel tipo di camicia
è passata di moda” aveva
insistito la grisha, con espressione luccicante nell’unico
occhio sano, “Nulla di
quello che indosso passa mai di moda” aveva risposto
l’altro con un sorriso soddisfatto
da gatto sornione.
“Oh, Alina ben arrivata, sei in ritardo” aveva
dichiarato la principessa Liliyana
con un tono di voce duro, quando aveva visto la sorella minore.
Le due si somigliavano, avevano lo stesso incarnato color olivigna, i
capelli della
principessa ereditaria erano di un nero più profondo, come
onice lucido. La
morbidezza dell’infanzia che spiccava in Alina, nella futura
regina però si era
completamente assorbita. La Tsarevich Liliyana Nazyalensky
era una donna fatta e finita, fatta di
ferro grisha. Invece, degli abiti principeschi richiesti dal suo ruolo
indossava la kefta più finemente realizzata nella storia dei
vestimenti.
Blu marino, con le maniche così lunghe da strusciare per
terra, con decorazioni
argentee e azzurre di ben tre sfumature diverse, che si inerpicavano
dai bordi
delle maniche, fino ai gomiti, fiorivano dal colletto e si diramavano
sul
petto.
L’unica cosa che rompeva quel suo aspetto di bellezza
assoluta erano alcune
cicatrici sottili e bianche che correvano lungo i palmi, sulle giunture
delle
dita e che, Vasilissa non poteva vedere in quel momento, ma sapeva,
percorrevano l’avambraccio fino ai gomiti.
Una volta Vasilissa aveva sentito dire il Re che avrebbero Lilyana la Koroleva
Renzi.
“Scusami moya sestra” aveva
commentato Alina, colta di sorpresa, “Non
tormentarla troppo” si era inserito Dominik, il figlio
mezzano.
Quando Vasilissa era stata bambina, il principe era stato il ragazzino
più
bello di Ravka. Aveva nove anni, quando Dominik, sedicenne, aveva
abbandonato
le stanze del palazzo per dedicarsi a studi più fruttuosi,
ma da quel momento
era tornato in terra natia diverse volte. Ogni volta che lo aveva visto
tornare
le era parso sempre più attraente.
Somigliava a suo padre, condividevano il sorriso argentino, il naso, lo
sguardo
smaliziato, così come i riccioli biondi. Aveva
però gli stessi occhi blu
zaffiro della regina, come quelli di Alina.
“Anche tu, mi avete lasciato a fare le udienze completamente
da sola” si era
lamentata. “Be, un giorno sarai regina, sarà tutto
sulle tue spalle, dolce
sorelle!” aveva ghignato lui.
Liliyana l’aveva guardato con un certo biasimo,
“Inoltre, ho intrattenuto i
tuoi piccoli malachi!” aveva dichiarato
il principe, raccogliendo
proprio in quel momento il più piccolo dei due principi,
aveva poco più di un
anno. Il bambino più felice del mondo, con guanciotte grasse
e tonde e gli
occhi vispi e bellissimi, con un incredibile attitudine a scatenare
piccolo
tornado quando piangeva.
“Bambini, smettete di litigare” li aveva richiamati
con un’ammonizione quasi
divertita la regina. I suoi capelli erano asciutti, indossava un abito
elegante, ma sopra una kefta raffinata. Era strano guardarla, dietro la
bellezza regale e fulgida, appariva … umana, quando gli
occhi si riempivano
d’amore, per quei tre principi.
Vasilissa si era congedata con quella scena, con Juris,
l’altro piccolo
principe, che correva per sedersi sulle gambe di Alina, mentre la
principessa
Liliyana si lamentava con sua madre di qualcosa. Genya Safin aveva
pungolato
ancora sua maestà il re, per il suo abbigliamento
sconveniente.
Alina non le aveva chiesto di unirsi a loro, aveva smesso da un paio di
anni,
da quando ostinatamente Vasilissa aveva continuato a defilare le sue
offerte,
nonostante desiderasse.
Vasilissa
aveva continuato a fare i suoi doveri, come cercare di mettere in
ordine
definitivamente la stanza della principessa.
Anche senza le due guardi abituali, c’erano sempre qualcuno a
pattugliare i
corridoi, per questo viveva con quello strano senso di
tranquillità – nessuno attaccava
il palazzo da più di un trentennio – per questo si
era lasciata cogliere da un
urlo inaspettato, quando si era sentita prendere per il braccio.
Ritrovandosi infilata in una stanza delle scope e delle altre
rifornimenti.
“Yusuf!” aveva dichiarato quando aveva riconosciuto
l’aiuto cucina. Un ragazzo
giovane, dal naso piatto, gli occhi scuri, di origine suli.
“Santi, Lissa! Ho fatto un casino!” aveva
dichiarato lui.
“Be, ovviamente, o non mi avresti rapito” aveva
sputacchiato lei, quando lui
aveva tolto la mano. “Ho conosciuto una ragazza,
Ania’ka, davvero, fantastica,
bellissima, piena di luce” aveva raccontato. “Sono
contenta per te, Jusuf”
aveva ammesso Vasilissa decisamente confusa da quella confessione.
“Ecco,
Ania’ka è fidanzata con un altro uomo, con cui
dovrebbe sposarsi” aveva ammesso
alla fine, “Sì, lo so. Anatov che lavora nelle
stalle” aveva considerato lei,
se avesse pensato ad una Anya fidanzata avrebbe immaginato fosse quella.
“No, non è Anya Kamirazin!” aveva
dichiarato Yusuf confuso, “Peccato, Anya è
dolce e carina, ma Anatov effettivamente potrebbe ucciderti con un
rastrello”
aveva considerato Vasilissa.
Jusuf
aveva fatto schioccare le labbra, “Sarebbe meglio lo
stalliere. Comunque,
Anyaka la mia, non quella di Anatov, deve sposarsi tra due
settimane” aveva
spiegato.
“Cosa mi stai per chiedere, Yus’ka? Di aiutarti a
fuggire? Di parlare con i
genitori per interrompere il fidanzamento?” aveva chiesto
lei, con leggera
apprensione. “Ania’ka è
incinta” aveva esclamato Yusuf, lasciandola di stucco,
“Congratulazioni?” aveva ipotizzato Vasilissa,
“Bellissimo, sì, ho sempre
desiderato dei bambini, ma avevo sempre voluto sposarmi prima e non
rischiare
di essere accoltellato alla schiena o sfidato ad un duello mortale. Io
so
cucinare, chiedimi di avvelenare qualcuno, ma combattere?”
aveva esclamato
quello allarmato.
“Mi stai per chiedere di aiutarti ad organizzare un
matrimonio a sorpresa? Racimolare
una dote ed evitare un incidente?” aveva chiesto Vasilissa.
“Tutte assieme?” aveva proposto il suo amico,
“Io ho dei soldi da parte, ma so
cosa penseranno, sono uno sguattero suli, mentre lei è
… figlia di mercanti”
aveva buttato fuori.
“Non è Anya Karkoff, figlia del Signore della
Seta? Quella fidanzata con il
giovanissimo duca di Os Grevyakin”
aveva considerato lei, con un
moto di preoccupazione. Specie perché conosceva il
giovanissimo nobile!
L’espressione sul viso di Yusuf si era mostrata terribilmente
esplicativa.
“Sai
Lissa, non capisco tutti questi problemi! Genya sta organizzando tutto
questo
per il secondo ventennio, quando tra dieci anni dovrà
organizzare una cerimonia
ancora più imponente per il Giubileo della Riunificazione e
dopo qualche anno
ci sarà anche quello dell’incoronazione di mia
madre!” aveva dichiarato con un
tono di voce distrutto la principessa Alina, chiamata così
in onore della Sol
Koroleva.
Vasilissa aveva sciolto il nastro dai capelli di Alina, con un
movimento
gentile, lasciando cadere i capelli morbidi sulla schiena.
“Inoltre, sono
nervosa, credo che mia sorella voglia trovarmi un marito! Altrimenti
perché
invitare tutti giovani pretendenti da Fjerda alle Colonie del
Sud?” aveva
chiesto Alina con nervosismo.
“Non le piacerebbe sposarsi, Moya Tsarevich?”
aveva domandato Vasilissa,
pensando a Yusuf e le nozze che dovevano essere evitate
nell’immediato. “Con un
uomo che vorrà che io metta una gonna, impari a cucire e
sorridere a comando?”
aveva chiesto retorica la principessa, “Perdoni la mia
imprudenza, ma né la
Regina né la Principessa mi sembrano così
costrette” aveva considerato
Vasilissa.
Era difficile parlare con Alina a volte, erano cresciute insieme, quasi
coetanei e a quei tempi mentre si divertivano per il Gran Palazzo,
correvano
assieme, sembravano uguali, ma con il tempo, Vasilissa aveva dovuto
ricordare
il suo ruolo, anche nel modo di parlare.
Era difficile non scivolare con un tu, di tanto in
tanto.
Alina aveva sbuffato, “Ovviamente, ma loro sono la Regina e
la Principessa … e
sono grisha, grisha. Mia madre può
trasformarsi in un drago, mia sorella
può creare un tornado, mentre io sono
un’abbandonata” aveva dichiarato con voce
secca.
Vasilissa l’aveva guardata seriamente, certa di avere un
cipiglio sul viso;
incerta su come dover dosare la cattiveria che le era ribollita nelle
viscere.
Amava Alina, come la sorella che non aveva mai avuto e come
l’amica con cui
aveva condiviso ogni cosa. Amava Alina, ma a volte, aveva
l’impressione che il
loro mondo di facesse sempre più distante. Una frattura
inguaribile.
Era la principessa, sua madre era la Regina-Drago, sua sorella avrebbe
un
giorno governato, nessun uomo, neanche il più folle, neanche
se l’avesse
disprezzata – e Vasilissa trovava impossibile che qualcuno
potesse disprezzare
Alina, perché era buona e dolce –
l’avrebbe mai trattata con disonore, neanche
il più stupido.
“Moya Tsarevich, tu sei la principessa di
Ravka, nessun uomo ti dirà mai
come comportarti” le aveva detto con calma Vasilissa senza
rispettare l’etichetta,
decidendo che la sua rabbia non aveva ragioni. Se la principessa
Liliyana aveva
dovuto affrontare nolente la crudeltà del mondo ed il
principe Dominik avesse
cercato l’avventura – e la realtà
– la Regina aveva tenuto la sua figlia minore
lì, con lei, sempre alla vista del suo sguardo.
Alina le aveva
sorriso, attraverso lo
specchio: “Lissa sei sempre così gentile e
disponibile. Lo so, che hai tanto da
fare, ma, comunque, mi ascolti sempre quando mi lamento”
aveva dichiarato
Alina.
“Ci ho fatto il callo, principessa” aveva
dichiarato senza battere ciglia
Vasilissa, “Inoltre è generalmente più
facile che pensare a come sbarazzarmi
del corpo di una principessa lamentosa” aveva aggiunto, un
po’ più mordace.
Alina aveva riso in maniera frizzante e divertita, “Secondo
me Luchya ti
darebbe aiuto senza dubbio, sarebbe già fuori alla porta con
una pala alla
mano” aveva commentato la principessa, Vasilissa aveva
permesso che un sorriso
carico di imbarazzo si delineasse sul suo viso.
Una risata divertita aveva permeato le stanze, una risata onesta,
condivisa tra
due giovanissime donne, che per un momento, erano state amiche di
vecchia data,
anziché principessa e cameriera.
“Presto avremmo il palazzo invaso di gente, di nemici anche.
Dovremmo farci
nascere gli occhi dietro la nuca” aveva detto stanca Alina,
che si era nel
frattempo sfilata la Redingote. “La delegazione fjerdiana
sarà la prima ad
arrivare, me lo hanno detto oggi. Praticamente entro una
settimana” aveva
considerato con voce spenta, “Ovviamente perché la
mamma adora la Regina Mila,
che casualmente ha un figlio maritabile” aveva sputato fuori
Alina.
“Dicono che il principe di Fjerda sia molto bello”
aveva considerato Vasilissa,
ricordava che qualche mese prima era arrivato una miniatura che lo
raffigurava.
Nei ritratti i nobili tentavano di abbellirsi molto, cosa che andava
considerata, se pensava al giovane figlio del Duca Razin che nei
dipinti pareva
la meraviglia del mondo ma dal vivo era piuttosto scadente, ma anche a
parere
del principe Dominik, che era stato ospite recentemente alla Corte di
Ghiaccio,
l’erede di Fjerda rendeva giustizia ai suoi ritratti.
“Non vedo Matthias da quando avevo nove anni, era un
ragazzino assolutamente
goffo e terribilmente triste” aveva raccontato Alina,
“Ci hanno fatto ballare
insieme ma lui era incapace. Durante gli Accordi del Corridoio. Li ho
chiesto
di pattinare con me, sul ghiaccio, ma lui ha preferito rimanere nella
baia a
leggere un vecchio trattato. Se dovessi prendermi per forza un
fjerdiano,
sicuramente vorrei suo cugino Bjorn, certo ha quasi
trent’anni, ma è bello,
coraggioso ed ha ucciso un lupo come Sankt Grigori, peccato che
è diventato
sacerdote di Djel. Ricordo che un paio d’anni fa ha fatto
strizzare le gonne
anche a mia sorella e a mia sorella odia tutt” aveva
raccontato la principessa.
Vasilissa aveva sollevato lo sguardo, ricordando la questione del
prete, “Mi
serve un prete” aveva considerato a mezza-bocca.
“Una confessione di mezzo-pomeriggio? L’Apparat
credo sia in cappella” aveva
considerato Alina, “Potremmo andare!” si era
proposta, saltando su dalla sedia
su cui si era appollaiata.
“No, moya tsarinech. Lei ha lezione di
kerchiano e storia! Ed io non ho
bisogno di confessarmi” aveva vagliato Vasilissa con
gentilezza.
Era
entrata nella cappella principesca, non sotto lo sguardo dei tre santi:
Ilya,
Alina e Gregory. Le finestre erano vetrate colorate, che raffiguravano
i
miracoli dei santi, dai più variopinti colori. Una di queste
raffigurava la
Regina-Drago, alle cui spalle si innalzava la bestia alata. Le luci ed
i colori
creavano una mistura di suggestione e colore. Il pavimento era di
pietra
bianchissima, lucida, nelle pareti, con pavimenti cosmateschi.
Panche di legno affilate per la messa.
Guardava le tre lunette sentendo giudicata.
C’era un uomo ad accendere delle candele, non era ovviamente
l’Apparat, lui
esercitava nella grande basilica cittadina e in quella del palazzo solo
durante
determinate funzioni – matrimoni, funerali e saltuariamente
incoronazioni.
Vasilissa sapeva che c’era stato un tempo che
l’Apparat sobillasse
nell’orecchio dei reali, ma quello accadeva quando erano i
Lanstov al comando e
il prete era un’amorfa figura ambigua. L’uomo che
indossava quella carica era
stato un Soldat Sol, uno dei benedetti di Sankta
Alina Dva Stolba, un
sunsummoner, che aveva partecipato alla distruzione della Faglia e la
caduta
dell’Oscuro. L’Apparat Vladim
era un uomo profondamente religioso e
spirituale, fedele ai suoi santi ma anche ai suoi reali, ma del tutto
disinteressato alle questioni politiche – forse per questo
piaceva abbastanza,
ai ricchi, poveri, nobili e quant’altro.
L’uomo, comunque, non era Vladim, era più giovane,
di poco meno una ventina
d’anni – sapeva che anche lui era un evocatore,
sopra il saio, indossava la
kefta blu con i decori oro fulvo. Non che fosse facile comprenderlo, i sunsummoner
non erano più una rarità, anzi erano piuttosto
comuni, ma differentemente da
altri grisha, possedevano ancora un potere fuori dal comune, che si
rifletteva
nella loro estetica; invecchiavano lentamente.
Il grisha aveva un viso stanco, gli occhi cerchiati dalle occhiaie e
capelli
biondo oro, fragili. “Sho sol, mio
signore” aveva chiamato Vasilissa,
lui si era voltato. “Il sole sta tramontando,
signorina” le aveva detto l’uomo
con voce tetra e spenta. “Non volevo disturbarla prima della
cerimonia
crepuscolare, ma avrei bisogno di un favore, uno importantissimo,
padre” aveva
dichiarato.
Gli occhi chiari del religioso la stavano guardando, “Come ti
chiami?” le aveva
chiesto poi, “Vasilissa Pavlov, sono la
cameriera personale della Tret’ya
Tsarevich”
aveva spiegato con una voce calma; lui aveva annuito calmo.
“Io sono Igor, solo Igor” aveva commentato con voce
spenta, “È un piacere
conoscerla” aveva commentato lei, mentre l’uomo la
guidava a sedersi su una
delle panche. Lasciando in pace l’altare con le candele, ne
erano accese almeno
una ventina. “State cominciando a preparare i festeggiamenti
per il
disfacimento della Faglia” aveva considerato lei.
“Sì, l’Apparat vuole grandi
festeggiamenti. Tutti i sunsummoner sono convocati,
dall’Apparat stesso
alla piccola Saryana, l’ultima nata” aveva
riportato il prete; si era chiesta
come mai quasi o tutti i sunsummoner prendessero
la via religiosa. Forse
era nella loro educazione, sapeva fosse leggermente diversa
“Ho visto le spettacolo di luci del trentennale,
fenomenale” aveva ammesso
Vassilina.
“Credo lo sarà anche quello di
quest’anno, l’Apparat non ha intenzione di far
tramontare il sole per la Festa di Sanka Alina”
aveva spiegato Igor, “Lei
la ricorda la Faglia?” aveva chiesto alla fine lei, non era
andata lì per
parlare della faglia o dell’evoca luce, ma doveva ammettere
di trovare
affascinante tutta quella vicenda, in qualche modo, sapeva fosse una
pagina
nera della storia di Ravka, la distruzione della faglia aveva dato fine
alla
scissione, alla guerra civile, ma aveva anche dato inizio alla guerra
di
confine. Avevano bombardato Os Alta, quando i suoi genitori vivevano
lì,
vivevano anche al Palazzo quando erano entrate gli esseri
d’ombra.
Vassilina era ammirata, da come avessero fatto a sopravvivere i suoi
genitori,
lei aveva vissuto tutta la sua vita nella pace.
Igor aveva scosso il capo, “Sì, è
scomparsa quando avevo cinque anni. Vivevo a
Velijki a Ravka Ovest, era lontana da NovaKirbirsk, ma era comunque
vicina alla
linea della faglia. Si dice che DeKkappel la abbia dipinta da
lì. La ho vista
dissolversi davanti i miei occhi, mentre luccicavo come una
lanterna” aveva
raccontato l’uomo, con un tono quasi dolce.
Igor doveva avere almeno quarantacinque anni, eppure, dal suo viso non
lo
sembrava per nulla. “Ma non sei venuta qui a parlare della
Faglia?” aveva
chiesto Igor con calma, con un sorriso stanco sul viso, delle rughe
d’espressione si erano formate intorno alle labbra.
“No, ma sono sempre stata
interessata. Quaranta anni nell’orologio delle cose non sono
nulla, ma, sono
difficili anche da immaginare e … una volta sono stata sul
dorso della Regina
Drago” aveva confessato con un certo divertimento ed
elettricità, ricordando
quel giorno, con un brivido. Era stata Alina ad insistere. Vasilissa
non poteva
semplicemente crederci.
“Quindi?” aveva chiesto Igor, “Un mio
amico ha bisogno di celebrare delle
giuste nozze il prima possibile” aveva risposto lei.
L’uomo aveva sollevato un sopracciglio;
“Appartengono a due ceti sociali
differenti, lei rischia di sposare un uomo che non ama, solo per
rendere felice
i suoi …” aveva raccontato Vasilissa, piena di
nervosismo, “I soldi non sono un
problema” aveva aggiunto, realizzando forse che al giovane
monaco non doveva
interessare troppo delle quisquiglie romantiche dei servi.
Ovviamente i soldi sarebbero stati un problema, ma la cosa era
decisamente
secondaria. Lei aveva qualcosa da parte, Yusuf anche probabilmente, non
aveva
idea su Anya, ma sperava che la figlia di un mercante si fosse
salvaguardata un
po’, era certa che Cignaz avrebbe offerto qualcosa
– perché era buono ed un
inguaribile romantico – forse anche qualche altro servo
avrebbe aiutato a
pagare una tangente. Se questa storia fosse finita alle orecchie della
principessa Alina non avrebbe messo in dubbio che anche lei avrebbe
voluto
partecipare!
Igor l’aveva guardata, poi aveva sollevato una mano, facendo
ondeggiare due
dita, una piccola scintilla luminosa, come una bolla, s’era
alzata dalle sue
dita, fino ad ingrandirsi. La luce della candela era stata soffocata,
come se
fosse apparso un piccolo sole, aveva illuminato l’intera
cappella. Era come se improvvisamente
nelle stanze della cappella palaziale, fosse sorto il sole. Un caldo
gentile si
era diramato nell’aria, come la mattina presto
d’estate, non troppo afoso, non
troppo soffocante. “Cosa sono i soldi a chi ha il potere del
sole?” aveva
domandato il prete senza che il suo tono tradisse nulla, né
rabbia, ne fame, ne
fastidio. Atona verità.
“Mangiare” aveva risposto senza belligeranza
Vasilissa; perché si era resa
conto di essere a corto di qualsiasi altra risposta. Igor le aveva
sorriso, in
qualche maniera umana, ma l’allegrezza non aveva superato il
confine delle
labbra, gli occhi erano due pozzi di tristezza. Erano gli occhi di un
uomo che
aveva amato e sanguinato per questo, si chiese se lungo la strada per
il
sacerdozio avesse perso qualcuno o se un cuore martoriato lo avesse
guidato per
una vita religiosa. Per un momento Vasilissa fu tentata di chiedere, ma
non era
la sua storia, né da chiedere, né da forzare,
così era rimasta in silenzio. Il
globo lucente aveva sfarfallato, prima di spegnersi e rigettare la
cappella
nella sua luce sussurrata. “Non preoccuparti per il tuo amico
e te, accetto
volentieri di sposarvi” aveva commentato lui, “Ho
un discreto debole per le
storie d’amore osteggiate.” Vasilissa era arrossita
per l’imbarazzo a quel fraintendimento,
“Grazie, padre Igor, che i sankti la
benedicano, non sono io la donna,
ma riporterò la notizia” aveva detto, prima di
congedarsi con un piccolo
sorriso.
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Capitolo 7 *** Lu-Wan II (22 D.F.) ***
Siamo
tornati alla trama più ostica, quella del 22 DF –
avevo scritto questo capitolo
un po’ di tempo fa, ma diciamo che la visione della serie tv
mi ha spinto a riprendere
questa storia.
Tw.
Esperimenti sulle persone, consumo di droga, consumo di droga non
consensuale,
morte, prigionia e conversazione su omicidi
LU-WAN
(22
anni dopo la Dissoluzione della Faglia)
“Kebban’a,
io ti amo,
ti amo. Voglio che tu lo sappia, nulla di ciò che ho fatto e
mai farò, non mi
darà mai più orgoglio di quanto me ne dai tu”
aveva sussurrato sua madre,
baciando le sue palpebre.
L’aveva vista, tenersi la gola, come se una forza invisibile
le avesse stretto
il collo. Poi il mondo era esploso, bruciato.
E tutto, tutto si era fatto buio.
E freddo.
E senza contorni.
Così
questa è la morte?
Lo
aveva accompagnato,
come pensiero, nell’obblio. Sentiva, lontano, il ricordo
delle braccia di sua
madre, del suo singulto. L’obblio era freddo, distante, aveva
forzato gli
occhi, aperti, ma la luce si era fatta sempre più lontana.
Il mondo era
ovattato, blu, freddo.
Intorno a lui, colavano a picco pezzi della Ji-Han squarciata dalla
pancia come
una bestia. Ma cadeva in silenzio, bruciata, nelle acque.
Perché era in acqua. L’irrazionale paura vinse sul
resto e Lu apri la bocca per
urlare, anziché nuotare. L’aria era schizzata via
dal suo corpo e l’acqua
l’aveva investito. Insidiandosi in ogni foro.
Cercò di recuperare l’aria, ma lo sapeva. Lo
sapeva.
Sarebbe morto.
Lu-Wan
stava leggendo un manuale di filosofia. Trovava la filosofia stupida e
qualunquista. Sapeva fosse il linguaggio politico per eccellenza, anche
più
dell’economia, suo fedele compagno. Ma per comprendere la
filosofia che muoveva
il pensiero, gli uomini, le rivoluzioni; prima bisognava passare per
quella
classica, quella degli uomini e dei semi, dei carri nel cielo e nei dei
distanti. Lu-Wan soffriva ogni parola vergata sulla carta come una
pugnalata
nel petto. Non era uomo da chiacchiere, ma da numeri e dati. Un tocco
gentile
lo aveva ripreso. Si era voltato, incontrando gli occhi attenti di sua
madre.
“La via dei Cento Pensieri?” aveva domandato sua
madre, senza curiosità, “Si,
me lo ha dato il maestro Ib Yul-Tau” aveva risposto celere
lui, “Sì, sì, credo
abbia costretto tutti gli abitanti di questo castello a leggerlo. Non
voglio
disturbarti, a modo suo, quel libro mi ha dato molti spunti”
aveva considerato
la donna, posandosi con il fianco sul tavolo. Lu le aveva sorriso,
“A breve
ritornerò in mare, lontano dagli occhi della Reggente
Ehri” aveva
dichiarato sua madre, che aveva sempre parteggiato per il partito di
Mahki.
Lu aveva annuito, sua madre non restava mai troppo a lungo, le sue
ambizioni e
la sua diligenza aveva sempre bisogno di essere nutrita.
“Certo, madre” le aveva
detto, “Vorrei tu venissi con me” aveva detto la
donna, facendo picchiettare le
unghie sul tavolo di legno smaltato.
Le mani di sua madre erano calde, per quanto il mondo fosse ghiaccio
intorno a
lei, prima di sentire qualcosa di nuovo.
L’aria. Aveva sentito qualcosa, una
lingua, non era Shu Han, prima che
sentisse la sua bocca forzarsi, i suoi polmoni contrarsi ed aveva
vomitato
l’acqua, senza il suo controllo.
“Vivrà” aveva
stabilito una voce, la lingua era il ravkiano, così
volgare, “Purtroppo” aveva risposto una voce
più dura.
Aveva forzato gli occhi, l’intenso nero-blu
dell’acqua lo aveva avvolto, ma non
lo stava toccando. Lui era dentro una bolla, provò a
divincolarsi, trovando due
forti braccia a trattenerlo. Qualcuno, una voce famigliare, aveva
urlato in ravkiano
– Lu non aveva capito – e prima che potesse fare
altro era stramazzato,
nell’incoscienza.
“Vorrei
che tu leggessi questo” aveva detto suo padre. Gli occhi
dell’uomo erano
lucidi, screziati di rosso, con lacrime incastrate nelle ciglia. Lu non
aveva
mai visto suo padre piangere, lo aveva visto triste, distrutto, quasi
disposto
ad annegarsi nella grappa e nel vino, ma mai piangere.
Non avrebbe
pianto neanche in quell’occasione, ma sembrava volesse farlo.
Lu aveva raccolto il piccolo libro che gli era stato porto. ‘Ni
yu ye sesh’
aveva letto. Era piccolo e sottile, con una copertina in pelle.
“Grazie, padre”
aveva detto calmo. “Spero sempre che questa esperienza possa
guidarti a
prendere la strada della diplomazia” aveva ammesso tuo padre.
Sua madre aveva brontolato, “Sesh’a,
al mondo esistono fin troppi
chiacchieroni” lo aveva rimproverato lei, allungandosi per
baciarlo sulle
labbra. Sua madre era più alta di suo padre. Era snella,
splendida ed ancora
giovane in viso, rispetto suo padre, la cui età sembrava
pesare su di lui
mortalmente. “Ah, Sesh’a”
aveva risposto lui, “Il mondo avrà bisogno di
più chiacchieroni, presto, spero” aveva ammesso.
Sua madre aveva fatto oscillare il capo, “Padre, un mondo
senza studiosi è un
mondo morto” aveva detto lui, “Esatto bambino mio,
di tutti gli studiosi, anche
delle arti”.
Il
cuore aveva ricominciato
a battere, forte, e tutto in lui si era riacceso. Aveva schiuso gli
occhi,
sentendo per prima cosa il sole freddo sulla pelle, prima ancora di
percepire
la mano calda sul suo collo, non una presa, ma un tocco leggero. Aveva
visto le
particelle d’acqua che lo appesantivano sollevarsi da lui,
una ad una, mentre
formavano una coperta di liquido, che si era rinchiuso in una palla.
Aveva sentito la spiaggia ghiaiosa sotto la sua schiena ed il rumore
del mare.
“Riesci a separare l’acqua dal sale?” la
voce aveva parlato in uno shu quasi
perfetto, delle zone del nord, musicale. “Sì,
signora” aveva risposto una voce,
anche quella in shu, ma tutt’altro che pulita, una voce
maschile, greve che
conosceva.
Si era sollevato, incontrando il viso stanco di Hati, era uno degli
etherealki
su cui sua madre aveva condotto degli esperimenti, era sotto parem;
numero
dodici. “Bene, metti l’acqua qui dentro ed il sale
qui; invece” aveva sentito
ancora la voce, riconosceva fosse quella di donna, aveva fatto roteare
lo
sguardo ed aveva visto la materialki lì. Era completamente
asciutta, ma le
gambe bianche erano esposte, aveva strappato l’orlo della
gonna della vestaglia
per fabbricare un sacchetto per il sale, quello dell’acqua lo
aveva fatto con
dei legni bianchi, come ossi.
Lu aveva provato a sollevarsi ma nel momento in cui aveva provato, la
materialki lo aveva spinto di nuovo supino. “Non
provarci” aveva stabilito, “Oh
Anchel ti fermerà di nuovo il cuore” lo aveva
avvertito.
“Il babinik si è
svegliato?” aveva domandato una voce maschile, quella
volta in ravikiano. Era Anchel il corporalki, era strano sentire la sua
voce
pronunciare qualcosa di diverso da litanie religiose.
“Da” aveva detto la materialki,
“Su!” aveva impartito Anchel a Lu, in lingua
shu, andando contro i precedenti ordini della sua compagna. Era stata
una
fatica abbissale per Lu sollevarsi anche solo con la schiena, restando
seduto
sulla nuda terra. Anchel aveva passato qualcosa alla Materialki, Lu non
aveva
visto cosa fosse, la ragazza era presto sparita alle sue spalle. Aveva
provato
a spiarla girando il capo, ma il suo corpo doleva tutto, aveva risolto
l’arcano
quando aveva sentito qualcosa di freddo ai suoi polsi; erano manette. “Non ho trovato di
meglio” aveva ammesso Anchel,
con voce quasi spenta. “Va bene, è un otkazat’sya;
se tieni il suo cuore
calmo sarà rilassato e poco incline alla fuga”
aveva risposto lei.
Lu aveva teso i polsi più possibile, lontani tra loro,
realizzando di non avere
manovra. Le sue manette erano fatte d’ossa. “Buon
lavoro” aveva valutato Hati,
in shu con sguardo spento, guardando i suoi polsi, avendo finito di
dividere
acqua e sale.
“Non diverso da un amplificatore” aveva spiegato
sbrigativa la ragazzina,
tirandosi in piedi, le ginocchia nude erano marchiati dai segni della
ghiaia,
su cui si era accovacciata. Parlava la lingua del trono celeste.
“Grazie! Se non avessi squarciato la nave non saremmo
scappati” aveva aggiunto
la materialki con un tono gentile, mettendosi prima una mano sul cuore
e poi
prendendo quella di Hati.
Il ragazzo che era più vecchio di lei, più grosso
e più alto si era sciolto in
un sorriso gentile ed aveva ricambiato la stretta, mettendo la mano che
aveva
libera sul suo cuore.
“Grazie per avermi liberato ... e buon tempismo. Se avessi
aspettato solo un’ora,
non lo avrei fatto” aveva risposto sincero Hati, facendo
scorrere il pollice
sul dorso della mano della materialki in un gesto d’affetto.
“Parem, loro, dato te” non era stata una domandata
quella di Anchel, aveva
parlato in uno shu brutto e zoppicante. “Sì, da un
paio di mesi. Mi avevano
appena dato la dose giornaliera. Ero … soddisfatto”
aveva spiegato Hati.
Era strano, il suo viso era del colore della terra secca, aveva
riccioli neri,
che sfumavano quasi un castano rossiccio; gli occhi erano allungati, ma
non
come quelli degli shu e le sue iridi erano nerissime.
Lo avevano catturato a largo delle coste delle Colonie del Sud, mentre
pescava –
muovendo le acque stesse.
“Sei stato molto coraggioso. So che anche nel pieno
dell’ebbrezza la parem è
…” la materialki sembrava insicura delle sue
parole.
“Sapevo non ci sarebbe stata una prossima dose” le
aveva detto Hati, “Speravo
solo di essere morto per quanto anche il mio corpo l’avrebbe
realizzato” lo
aveva comunicato con una leggerezza d’animo che aveva
atterrito Lu e dal
singulto della corporalki anche lei.
“Come
vi siete liberati?”
aveva chiesto Lu, mentre Anchel lo aiutava – lo speronava
– a tirarsi su.
La grisha femmina lo aveva guardato, aveva un viso asciutto,
l’incarnato chiaro
ed occhi blu letali, il viso incorniciato da scuri capelli castani,
arricciati
dal sale e dall’area salmastra della costa. “Non
volevo prendere la parem e non
volevo che la prendesse Anchel” lo aveva detto piatta lei,
prima di sollevare
le dita, erano ancora nere e viola, ma dritte, “Le ossa sono
ossa, vive o
morte. Con il resto è stato più
difficile” aveva replicato.
Lu si era lasciato sfuggire un vero di pura sorpresa.
Sapeva di grisha capaci di sfidare la materia, senza parem o magia, e
dominare
gli altri elementi del proprio dominio. Etheralki che potevano evocare
fuoco ed
acqua, corporalki – be, loro erano quasi la medesima cosa
– che potevano
guarire ed uccidere, materialki che potevano lavorare materia solida e
liquida,
ma la materialki aveva lavorato come una corporalki.
“Si
è svegliato?” questa
volta la voce era arrivata, urlante, in ravkiano.
Lu aveva fatto scattare la testa come gli altri tre; Elen li stava
raggiungendo, a grandi falcate, il viso sembrava pienissimo, rispetto i
giorni
prima, non aveva più le costrizioni, doveva aver cominciato
ad utilizzare
nuovamente il suo potere.
La bolla d’aria!
Dietro di lei c’era l’impertinente inferno mutilato
e poi una ragazza pallida
come un fantasma, il soggetto quarantadue, una kerchiana, heartrender
sotto
parem; differentemente da Hati, lontana dalla sua prossima dose. Lei si
guardava intorno con nervosismo ancestrale, continuando a grattarsi una
spalla,
per scaramanzia.
L’inferno aveva rovesciato un paio di pesanti vestiti per
terra, ne aveva le
braccia piene, non era il solo anche Elen ne aveva.
“Sei sicura che non possiamo affogarlo?” aveva
chiesto Anchel in ravkiano, che
teneva una mano sulla sua spalla, “Net” aveva
risposto Elen, con sicurezza,
rivolgendoli uno sguardo carico di rancore.
Era strano essere guardato così da lei, aveva pensato Lu.
“Concordo, è un buon
prigioniero” aveva detto la materialki, sorridendo verso
l’altra – occhi blu
scintillanti di affetto. Venivano dallo stesso lotto, erano presso
chè
coetanee, Lu pensava stupidamente: dovevano essere state amiche prima,
militanti alla scuola del Piccolo Palazzo, forse erano in una
città costiera
per gioco.
Il kaelish aveva cominciato a distribuire quello che aveva racimolato:
vestiti
pesanti. Era ancora bella stagione, ma il clima era pungente e freddo,
dovevano
essere da qualche parte a nord.
“Siamo a Fjerda” aveva confermato Elen i suoi
pensieri, ma si era rivolta alla
materialki.
“Speriamo di non essere troppo a settentrione”
aveva considerato la sua amica,
morendosi l’unghia del pollice. “Non ne ho idea,
non conosco il paese e non ho
parlato con gli abitanti” aveva risposto Elen piena di
timori, guardandosi
intorno.
Fjerda Nord, vicino le terre degli hedjut, rimaneva in parte profana,
legata ai
propri modi e i propri dei. Se intorno a Djerholm, come una macchia
d’olio,
oltre Djel si veneravano i santi, e i grisha non erano più
druje ed
abominazioni. Nord non si vedeva tutta questa gioia.
Anchel lo aveva guardato, “Dove noi? Dove nave va?”
aveva chiesto ferace, con
gli occhi scuri scintillanti di rabbia. “Non so! Non ho mai
guardato le mappe!
So che siamo a Fjerda!” aveva mentito, sapeva in che
direzione stavano andando,
perché per quanto potente la Ji-Han doveva approdare.
“No credo” aveva
stabilito Anchel, stringendo le mani in un pugno, Lu aveva sentito il
suo petto
contrarsi, i suoi polmoni distendersi, come se non fosse stato
più capace di
respirare. Era crollato a terra, boccheggiando aria, ma non entrava,
poi il
corporalki lo aveva lasciato andare. “Dove?” aveva
chiesto di nuovo lui.
Lu aveva tenuto la bocca chiusa ed ancora una volta aveva sentito il
suo corpo
tradirlo.
“Dove?” aveva chiesto di nuovo Anchel.
“Utsel” aveva sputato fuori Lu, con
l’ultimo briciolo di aria, prima di poter
respirare ancora, annaspando nell’aria. “Avevamo un
accordo con il loro porto”
aveva pianto.
Elen aveva guardato la Materialki, lei si era morsa l’interno
della guancia,
pensierosa, “Nel terzo crostone, nel golfo infestato a
settentrione della
regione dell’Avenjfall, su a nord, ma non nelle terre dei
Hetqualcosa” aveva
spiegato in Ravkiano la materialki.
Il kaelish aveva ringhiato qualcosa, la loro lingua era piena di r
dure
e striscianti, non
conosceva bene le
loro parole, ma sospettava fosse un lamento nel non comprendere la loro
lingua.
O forse si stava chiedendo perché non Lu respirasse ancora.
“Dottore” lo aveva chiamato Elen, nel suo shu
imbastardito, “Che altra lingua
parli? Il ravkiano? Il kaelish? Il kerch?” aveva domandato
esigente.
“Il kerch” aveva risposto lui, mentendo.
La materialki aveva assestato un colpo sul fianco di Lu, con il
polpaccio della
sua gamba, facendolo gemere. “Mente, questo beznako,
almeno in parte. Sicuramente capisce il ravkiano” aveva
avvertita perentoria la
ragazza.
Lu si era voltato verso di lei, sprezzante.
“Capisci il kerch?” Elen lo aveva chiesto al
kaelish, quello aveva sputato per
terra, “Quanto basta” aveva risposto poi, non aveva
guardato la ragazza bionda
muta, ma aveva guardato Hati, “Sono delle Colonie del
Sud” aveva risposto lui,
“La nostra lingua ufficiale è una variante di
Kerch” aveva detto, recitando
bene le parole. “Ma presto non capirò
più una parola” aveva ammesso sconfitto
Hati.
Elen aveva guardato i suoi amici, “Lo sai, no”
aveva replicato Anchel,
grattandosi una guancia color rame scuro; “Odio quella
lingua” aveva ammesso
con un leggero fastidio la materialki.
Elen
aveva sorriso nervosa,
poi si era voltata verso il kaelish, “Dovremmo cercare di
arrivare djerholm,
non importa cosa abbiano fatto il Re e la buona Regina Mila per Fjerda,
certe
tradizioni non muoiono mai” aveva parlato in maniera
diplomatica.
“Perché dovremmo seguire te?” aveva
chiesto il kaelish.
“Perché senza di noi sareste ancora su quella
barca, perché la mia amica è una
brava cartografa, perché noi faremo
così” aveva risposto pragmatica Elen.
Aveva voltato lo sguardo verso Hati, “Non sono sicuro di
poter arrivare fino a
lì, che non morirò o impazzirò
prima” aveva spiegato quello calmo, osservando
la sua mano, dritta, nessun tremore, non ancora. “A Ravka,
David Kostyk aveva
sintetizzato un antidoto, non importa quanto raffinata si questa
parem,
anche le soluzioni di Ravka sono sempre più
sottili” aveva detto Elen con
certezza bruciante.
“Moriremo prima” aveva pianto la kerchiana,
“Io già non riesco a pensare ad
altro. Avrei avuto la mia dose domani, non potevate aspettare
domani?” aveva
pianto la corporalki.
“No” aveva risposto l’amica di Elen,
“Abbiamo aspettato anche troppo” aveva
detto velenosa, piena di rabbia.
Forse avevano aspettato, quanto tempo ci avesse impiegato a capire come
riparare le sue ossa, le sue dita, per tornare ad avere tutte le sue
sensazioni,
con l’anestetico al gambo, che la rallentava ed intontiva.
“Vorrei che veniste con noi” aveva ripreso Elen con
voce cheta, “Sulla nave
c’erano più di settanta grisha prigionieri e noi
siamo gli unici. Spero che
altrove siano approdati altri” aveva detto colma di tristezza.
“Va bene, aveva detto il Kaelish, ma posso
ucciderlo?” aveva domandato,
riferendosi a Lu, la cui schiena era diventata dritta, “No,
è un buon
prigioniero, una buona merce di scambio” aveva risposto Elen,
lanciandoli uno
sguardo al vetriolo, “Un buon … soggetto?”
aveva chiesto retorica,
guardandolo.
Lu aveva sentito la nausea salire nella sua gola, con la bile, e i
brividi
lungo la schiena. Ed anche un altro sentimento, a cui non voleva dare
nome.
“E se dovessimo essere inseguiti da un orso potremmo
lanciarglielo in pasto”
aveva scherzato la materialki.
Per un secondo erano rimasti tutti in silenzio, poi una risata si era
aperta
sulle loro labbra, perfino nella kerchana che stava in piedi a fatica.
Era una battuta, ovviamente, ma Lu sapeva, sapeva davvero,
che in una
situazione del genere lo avrebbero fatto, senza esitazione.
“Avremmo
bisogno di
fermarci, comunque, in qualche villaggio, prendere altri vestiti, del
cibo,
abbiamo l’acqua da bere, non tanta ed il sale per conservare
il cibo, sia
sotto-sale che con la salamoia” stava spiegando la materialki
didascalica. “Così
mi fai rimpiangere gli schiavisti” era stata la risposta di
Elen, con una
risata stanca, quasi nervosa. “Io quello l’avevo
già fatto!” aveva scherzato
Anchel.
Lu si era fatto rigido, come una stecca di legno, quando aveva sentito
quel
termine, schiavisti. Loro non lo erano, non lo
erano affatto, lavoravano
per un proposito futuro. Aveva sentito l’impulso di dirlo ad
alta voce, ma poi
la consapevolezza che il kaelish non desiderasse altro che avere una
scusa per
colpirlo ed ucciderlo, lo aveva fatto tacere.
La materialki aveva ripreso: “Inoltre, ci serviranno delle
scarpe migliori di
quelle che abbiamo, o almeno qualcosa con cui possa fabbricarle. Se
abbiamo
deciso di tagliare per obliquo non passeremo per molti villaggi e
dubito
fortemente troveremo vere strade.”
La sua voce era sicura, certa, non quella di una persona che era stat
rapita,
venduta e tenuta in prigionia per settimane e sopravvissuta ad un
nubifragio.
Gli altri, Lu riusciva a vederlo, erano ancora spossati, anche Elen che
si
impuntava di rimanere dritta e fiera, era curva e distrutta.
La
materialki guidava la
fila, a passo rallentato sì, dando il ritmo alla coda; si
era messa il braccio della
kerchiana intorno alle spalle, con una mano le sorreggeva il polso e
con il
braccio destro, libero, invece, abbracciava la vita sottile della
grisha corporalki.
La sosteneva, anzi la trascinava.
“Va bene” aveva affermato piccato il kaelish,
“Probabilmente gheobhaidh muid
go léir bás
di freddo o mangiati dai lupo di
cazzo”
aveva aggiunto rabbioso.
La sua lingua non era sciolta, era piena di imperfezioni,
eccentricità ed
accenti sbagliati, ogni parola più che pronunciata, sembrava
tirata via con
delle ganasce dalla sua bocca. Suoni sporchi ed orribili, anche in una
lingua inzaccherata
come quella di Ghezen.
Neanche Lu-Wan sembrava un poeta quando parlava la lingua del denaro,
ma
immaginava che l’educazione di un signorotto Shu-Han e quella
di un kaelish
venduto sulla Via-delle-Ossa non dovesse essere paragonabile. Gli altri
avevano
ignorato le lamentele dell’Inferno.
Avevano
marciato per
altro tempo, fortunati che non fossero finiti a Fjerda nel periodo
più freddo,
ma se le sue nozioni di geografia erano mai valse a qualcosa,
l’entroterra era
rialzato, era più freddo e probabilmente avrebbero trovato
della neve e la
materialki aveva ragione, avrebbero avuto bisogno di scarpe
più resistenti.
L’unico ad averle in cuoio era lui, ma sospettava non sarebbe
rimasto così a
lungo; Lu era magro, basso rispetto i suoi compagni, con piedi
insospettabilmente piccoli, probabilmente le sue scarpe non sarebbero
mai state
a nessuno degli uomini, ma immaginava che a una delle ragazze potessero
andare.
“Dovremmo
anche
approfittare delle capacità di Caitlyn per plasmarci, per
essere più fjerdiani.
Siamo un gruppo decisamente eterogeneo e variopinto; in compenso
possiamo
imputare i capelli corti al culto di Djel” aveva valutato la
materialki burrascosa.
Lu aveva schiuso le labbra, confuso da quel nome, prima di realizzare
che
stesse parlando della corporalki kerchiana, Non aveva mai saputo il suo
nome,
era stato uno dei soggetti restii a parlare ed alla fine non aveva
indagato oltre.
Però, loro si erano presentati, si erano parlati, forse
mentre lui era svenuto
sulla sabbia.
La materialki aveva ragione però, davano
nell’occhio; Elen aveva un incarnato
olivastro che poteva passare per una discendenza hedjut, ma le
mancavano i
denotati, Hati … era una combinazione di chi sa quali
stirpi, Anchel aveva la
pelle scura che tradiva una sangue zemeni, il kaelish sfoggiava troppe
mutilazioni per passare inosservato, la kerchiana era di un pallore
malaticcio
e lui era uno Shu, in manette d’osso. L’unica che
forse non avrebbe dato
nell’occhio era la materialki, che era chiara di carnagione,
ma era
inequivocabilmente ravkiana.
“Si, desideravo proprio rasarmi i capelli per sembrare
un’adepta di Djel” aveva
replicato Elen con una voce spenta, riducendo le labbra piene in una
linea
dritta, come un taglio.
“Mi … mi dispiace; io non sono una…
tailor” aveva commentato a faticata
Caitlyn, come se ogni parola pronunciata fosse un’agonia
bruciante, “So
ritoccare qualcosa, colori, pienezze … fermavo …
cuori” aveva aggiunto. La
kerchiana aveva quasi avuto una caduta, mentre tentava di parlare e
camminare
insieme, ma l’altra l’aveva sostenuta.
“Anchel ti può insegnare. Come sarto fa schifo, ma
ha imparato qualcosina da Genya
Saffin” aveva esplicitato la materialki, rassicurante.
Caitlyn aveva provato a
dire qualcosa, “Inoltre, è brutto quello che sto
per dire, ma dobbiamo
approfittare della parem nel tuo sangue. In questo stato noi grisha
siamo … al
di là di ogni comprensione” aveva considerato la
ravkiana, c’era quasi
ammirazione nella sua voce.
“Morirò” aveva risposto la kerchiana,
stanca.
“Posso raccontarti la storia di Nina Zenik?”
aveva domandato con più
gentilezza la ravkiana, “Chi?” aveva chiesto pavida
Caitlyn.
Lu aveva smesso di ascoltare.
Le due ragazze guidavano la fila, costringendo tutti ad
un’andatura più lenta,
come i lupi, dietro c’era Malcom, seguito da Hati ancora in
forze, ma che
presto avrebbe sperimentato gli effetti della lontananza.
C’era lui, che camminava con le mani dietro la schiena, Elen
a pochi passi,
pensierosa con le labbra ancora strette in un taglio, in ultimo
chiudeva la
fila Anchel.
“Pensi … pensi che siano morti tutti sulla
nave?” era stata la prima volta in
almeno un paio d’ore che aveva parlato. Aveva pensato a sua
madre, non riusciva
a ricordarsi, aveva memorie frammentate, pensava al loro incontro sulle
scale,
le sue parole, le sue carezze. Sua madre non era mai stata inclina alla
gentilezza, all’amore, ma continuava a ricordare quella
dolcezza.
Sua madre era morta? Sua madre sapeva che sarebbe morta? Era stata
gentile per
questo? Gli aveva concesso un ultimo atto d’amore.
Lo chiamava sempre Kebban’a,
però, mio caro, di solito lo usavano i kebban,
i gemelli, un’anima in due corpi … ‘Ma
esiste una relazione più stretta di
una madre con un figlio?’, forse era quello.
Elen lo aveva guardato con i suoi grandi occhi, “Spero di
no” aveva ammesso la
grisha, la sua voce era pregna di senso di colpa, tormento,
“C’erano centinaia
di persone sulla nave” aveva aggiunto la ragazza.
Lu era rimasto scosso, prima, quando aveva parlato con
l’Inferno e con Caitlyn
aveva parlato di grisha, si era riferita solo a loro, aveva pensato
solo a
loro. Ai suoi simili.
Ma quella volta si era riferita a tutti, ai dottori, i marinai, gli
inservienti. I suoi nemici.
Elen aveva ripreso a guardare la strada, dando a Lu la visione del suo
profilo;
tormentata, chiusa, imprigionata, Elen pareva ancora fiero.
“Stavi pensando a tua madre?” aveva chiesto Elen,
senza guardalo. Lu era
diventato rigido. “Lo ha ipotizzato” aveva
aggiunto, ammiccando alla sua amica
che guidava la fila.
Ebbe la netta impressione che se la materialki avesse detto ad Elen che
il
cielo era verde, l’altra ci avrebbe creduto. “Ha un
ottimo intuito ed è
un’osservatrice capacissima, spesso più di
me” aveva considerato la grisha etherealki,
ma sicuramente si sapeva destreggiare meno.
Lu si era morso il labro, “Non era mia madre, ma pensavo a
lei” aveva mentito –
almeno in parte.
La grisha aveva annuito, continuando a guardare la strada davanti a
lei, “Bene”
aveva considerato, poi si era voltato di nuovo, i suoi occhi non
avevano più
dolcezza, erano pozzi neri senza fondo, l’espressione tatuata
sul viso era
priva di dolcezza, di accondiscendenza, “Lei no”
aveva detto Elen, con
un tono quasi rassicurante, “Lei non è
sopravvissuta. Ce ne siamo accertate.”
Linea
temporale:
-
Nascita
di Igor, Vlad -5
-
Nascita
di Shioban -3
-
Ekaterina
e Anastasjia Rorik-1
-
S&b
0
-
SoC
2
-
Nascita
di Yuliana Van Eck 3
-
Fine
KoS/RoW 4
-
Nascita
di Lu-Wan, Magnus e Trattato
Fjerda-Ravka 5
-
Nascilta
di Hati 6
-
Nascita
di Drina, Anchel 7
-
Nascita
di Elen, Caitlyn, Malcom,
Ilsebelle 8
-
Nascita
di Jordie; Concordato dei Tre
Stati 10
-
Nascita
di Dominik 11
-
Nascita
di Merissa Nassau Kir-Taban 12
-
Raccolta
dei bambini di Kerazin, 16
-
Nascita
di Vassilissa e Mesha Effimovich 20
-
Nascita
di Matthias Grimjor 21
-
Distruzione
della Ji-Han 22
-
Nascita
della principessa Alina 23
-
Principe
Dominik incontra la
Principessa della Jurda 28
-
Nascita
del principe Juris Nazyalensky 35
-
Nascita
del Piccolo Nikolai Nazyalensky 39
-
Festa
dei 40 anni della
Riunificazione; Il Principe Matthias “cerca” moglie
40
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** IOREN I (28 D.F.) ***
Nuovo
narratore, vecchia linea temporale. Il prossimo aggiornamento non
arriverà così
presto.
Lascio qui il link della pagina di A3O su cui ho postato alcuni
disegni: https://archiveofourown.org/works/43797621/chapters/116046700
Ioren
I
28
anni dalla Dissoluzione della Faglia
Mio
carissimo principe amico Bjorn
Ho
interessanti notizie da comunicarti
Devo
dirti cose importanti
Ho
da dirti davvero
Sono
arrabbiato con te per la posizione in cui mi hai messo
Sono
arrabbiato con tuo zio Rasmos
Vorrei
che tu fossi qui, così non dovrei fare la spia e
sono sicuro che
apprezzeresti Kerch meglio di quanto faccia io
Mi
manchi
Sento
la tua mancanza
Ho
sempre pensato che non avrei mai sentito la mancanza che provo pensando
a te
rivolta a qualcun altro
Molte
nuove da Ketterdam
Ioren
si era arreso; aveva provato a scrivere quella
lettera infinite volte e continuava a cancellare ripetutamente le
iscrizioni,
infinite ed infinite volte.
Trovava quasi fastidioso scrivere quelle lettere, fisicamente.
Aveva accartocciato i fogli per l’ennesima volta, prima di
allungare una mano
per bersi un mezzo bicchierino di vino ai lamponi.
Una figura sottile si era avvicinato a lui, una ragazzina vestita da
uomo, con
i capelli lunghi fino alla schiena e l’incarnato scuro. “Sera, Ioren,
senza le guardie?” aveva
chiesto subito lei, facendo strisciare la sedia per accomodarsi accanto
a lui.
“’Sera, Bridgit. Guardie, per me?” aveva
domandato retorico.
“Be, tra me e te, non sono io figlia di un qualche conte e
ambasciatore” aveva
considerato Bridget, facendo oscillare i capelli castano sabbioso,
“Sono il
quinto figlio di un margravio minore e vivo solo
all’ambasciata” aveva
replicato Ioren, continuava a ripetere quella frase infinite ed
infinite volte,
ma la gente sembrava sempre diffidente nel crederci.
Ovviamente a Kerch esisteva un ambasciata e la sua corte, esisteva
anche una
rete di spie fenomenale, ma Ioren non era tra questi. Era solo un
ragazzo
particolarmente dotato nelle materie umanistiche che si era allontanato
dal
clima freddissimo di Fjerda, dall’educazione Avfalle e da
Bjorn.
Quell’ultima era colpa di suo fratello Styborn.
“A chi scrivevi?” aveva chiesto Bridgit, mentre lui
si occupava di nascondere
tutte le cartacce nella sua cartella. “Ad un mio amico, un
prete. Vuoi della
grappa ai lamponi?” aveva domandato.
“Qui al Barile? No, ci tengo a tornare a casa con tutto
quello che ho addosso”
aveva considerato quella, con una risata frizzante.
Ioren aveva sorriso alla fine, “Comprensibile”
aveva considerato.
Aveva conosciuto Bridget all’università, era una
giovane nelle campagne, con
una mente estremamente portata alla matematica, venuta a Ketterdam
– come Ioren
– per l’università.
La prima settimana l’avevano completamente derubata ed era
rimasta con solo il
suo appartamento provvisorio, pagato per due settimane grazie
all’anticipo.
Ketterdam divorava ed inghiottiva gli ingenui ed erano pochi quelli che
riuscivano a riemergere. I
Kerchiani
erano fatti così, ogni loro giorno si divideva tra Morte
e Successo.
Una parte di Ioren era assolutamente intrigato da questo, ma allo
stesso tempo,
ne era disgustato, d’altronde: lui era un fjerdiano, era
stato educato in un certo
modo … così aveva offerto il suo aiuto a Bridgit,
quando l’aveva vista piangere
in biblioteca.
Una
cameriera aveva portato loro due piatti di carne
di maiale speziato. Bridget aveva guardo la carne con espressione
critica, “Non
potevamo andare al Caffè?” aveva domandato lei
alla fine.
Il Caffè era un locale, nella zona universitaria, dove si
riversavano tutti gli
studenti. Era sempre ghermito di persone, di loro, ed era il luogo dove
loro si
riunivano sempre. La Compagnia.
“Non mi andava” aveva risposto frustrato Ioren. Era
sicuro che Jordie e Dominik
fossero lì, probabilmente in compagnia di Magnus, a brindare
su come il giovane
principe di Ravka avesse affascinato e sedotto la giovane ereditiera
zemeni.
Ed il pensiero lo disturbava ed arrabbiava. “Hai
un’espressione tristissima,
sembri una patata in un hutspot” aveva
commentato Bridgit. Ioren aveva
sorriso verso di lei, con una certa stanchezza, “Mi sento
anche così” aveva
ammesso, “Mi manca casa” aveva aggiunto.
La ragazza aveva inclinato il capo, facendo scintillare i ricci
sabbiosi,
“Davvero? Così improvvisamente?” aveva
domandato lei.
Ioren non aveva perso il suo sorriso, per quanto fosse consapevole che
la luce
della gioia non avrebbe raggiunto gli occhi, “Mi manca sempre
casa, ora
un po’ di più” aveva ammesso.
Non gli mancava casa, forse, non era né
una menzogna né la verità.
Sentiva la mancanza di sua madre ed i suoi involtini di verza, di suo
padre e
le sue maniere fredde, i suoi fratelli con tutti i loro difetti e,
Djel, a
Ioren mancava Bjorn e le loro battute stupide, durante il seminario.
Ioren aveva trovato così crudele quando Reidar –
il maggiore dei suoi fratelli –
li aveva allontanati ed aveva messo tra di loro il Mare Vero.
Fjerda poteva essere rifiorita sotto il suo Re, ma era ancora lontana
…
“Ti capisco, anche a me, manca tantissimo la mia casa! Specie
i campi, come era
è bello camminare, tra le spighe di grano al tramonto,
respirando aria pura”
aveva dichiarato con divertimento lei, “Questa
città fa schifo” aveva aggiunto.
Ioren le aveva dato ragione. “Vengo dall’Avefall, a
nord, terribilmente a nord.
Da casa mia, si vede l’aurora” le aveva detto.
Gli occhi verdi di Bridgit si erano illuminati, non doveva mai
averglielo
detto, ma sembrava davvero, davvero, colpita dalla sua confessione.
Prima che lui potesse riuscire a descrivere meglio, qualcosa aveva
attirato la
sua attenzione: Jordie.
Jordie con la sua andatura svelta ma silenziosa, come una lince,
vestito
interamente di nero. Alle sue spalle c’era una giovane donna.
Ioren aveva sollevato la mano per salutarlo; Bridgit si era voltato
verso i
nuovi venuti con incredibile interessa, “Oh, quella non
è decisamente il
principino” aveva scherzato lei, osservando la ragazza con
interesse.
Jordie aveva ricambiato il saluto, la donna aveva guardato verso di
loro e
Ioren aveva sentito un brivido lungo la schiena. La sconosciuta aveva
degli
occhi azzurri privi di espressione, quasi morti, poi la ragazza aveva
alzato la
mano per salutarli ed aveva sorriso, appena.
Il suo amico aveva sospirato e poi aveva marciato verso di loro,
guidandola.
“Loro sono due miei compagni
d’università: Ioren, Bree” aveva detto
svogliatamente, “Lei è Drina, una vecchia
amica” aveva spiegato.
“Obbligata” aveva risposto
Drina, aveva un accento ravkiano pesante, che
si sentiva anche in quell’unica parola. Ioren come il bravo
fjerdiano che era
aveva preso la mano di lei e ne aveva baciato le nocche
rispettosamente, “Con
me non fai mai così” si era lamentata Bridgit, con
un tono giocoso nella voce.
“Puoi restare con loro, mentre io, sbrigo
un’incombenza” aveva detto Jordie,
sistemato il capello, con la piuma di corvo meglio sulla visiera. Drina
aveva
annuito, spostando una sedia e accomodandosi.
“Sei di Ravka, giusto?” aveva indagato subito
Bridgit.
Drina doveva avere qualche anno più di loro, un viso ovale,
pallido come la
neve, capelli scuri come il legno bruciato, da cui scendevano ciuffi
incerti
sulla fronte tonda ed occhi blu come le acque gelide del mare del nord.
Ioren
non era particolarmente patito delle bellezze femminili, tra la ragazza
e
Jordie – con la sua pelle di zucchero cotto e gli occhi neri
come quelli di un demjin
– sapeva esattamente chi avrebbe scelto per un giro in
gondola, ma Drina era
gradevole, anche se immaginava dovesse avere altre doti che un aspetto
grazioso
per attirare il suo amico.
“Da” aveva risposto Drina,
tranquilla. “Come hai conosciuto il nostro
Jordan?” aveva chiesto interessata Bridgit, non era mai stata
particolarmente
brava a farsi gli affari propri, curiosa come una gatta. “Sua
madre salva le
povere anime vendute come schiave e mio padre gestisce un orfanotrofio,
un
luogo dove spesso finiscono bambini che non hanno più
nessuno” aveva spiegato
candida la ragazza, passando il pollice sul bottone della manica della
camicetta bianca. “Ammiro moltissimo il capitano Ghafa, non
potevo crederci
quando ho scoperto che Jordie era il figlio” aveva detto
ammirata Bridgit.
“Siete compagni di studi?” aveva indagato Drina,
continuando a passare il
pollice sulla manica della camicia bianca,
“Sì-e-no” aveva risposto Ioren,
“Io frequento
alcuni corsi con un amico in comune, Magnus Dyk conosce?”
aveva risposto Bridgit,
“Sì – conosco meglio sua
madre” aveva
risposto Drina, “Sì, ecco … io
conoscevo Magnus e Magnus mi ha presentato
Jordie” aveva spiegato calmo. La ragazza aveva annuito,
voltano poi il capo
verso Ioren, con gli occhi blu quasi scintillanti di vita,
“Tu?” aveva chiesto,
“Ho conosciuto Bridgit la prima settimana” aveva
risposto, mentre la sua amica
si lanciava proprio nel racconto del loro incontro in biblioteca dopo
il suo
sfortunato ingresso a Ketterdam.
Ioren aveva deciso fosse meglio omettere che aveva conosciuto Dominik,
per
conto suo – sembrava strano, sporco, dirlo ad una ravkiana.
Jordie
era riapparso, indossava ancora la giacca scura
ed il cappello con la punta di corvo, che lo faceva assomigliare quasi
ad un
membro di una banda di criminali del Barile, che ad un rispettabile
studente
dell’università, figlio di un’eroina
popolare e figlioccio del più ricco
mercante di Ketterdam.
Non era venuto da solo, alle sue spalle, bella come una mattina di
autunno, il
Capitano Inej Ghafa lo seguiva.
Ioren non aveva sentito avesse approdato a Kerch, non che la donna
usasse
pubblicizzarlo, a Ravka, Novyi Zem ed alcuni porti di Fjerda, il suo
arrivo era
visto come una benedizione, non godeva della stessa
popolarità in altri porti,
però tornava sempre a Ketterdam.
Drina si era alzata dalla sedia per andare verso il Capitano Ghafa. Era
più
alta della donna Suli, anche se non di molto, con spalle, torace e
busto più
spesso.
Ma questo a Ioren piaceva, dava una strada idea che una creatura
dall’aspetto
così piccolo, dall’impressione di potersi libare
nell’aria come una farfalla,
come il Capitano Ghafa potesse incutere così tanto terrore
negli occhi e nei
cuori dei marci.
Jordie le somigliava, con l’incarnato di un tono appena
più tenue, il sorriso
dolce ed il cuore fiero.
Drina aveva chinato il capo davanti al Capitano Ghafa come se davanti
ai suoi
occhi ci fosse stata la regina drago
di
Ravka, in persona. La donna più adulta le aveva preso le
spalle facendola
ritornare dritta e l’aveva poi stretta con un abbraccio
deciso, ma informale.
Jordie era rimasto poco distante, passando il peso da un piede ad un
altro.
“Ghezen, stiamo assistendo ad una vera magia” aveva
ghignato Bridgit, “Jordie
Ghafa si è infatuato” aveva considerato lei.
Ioren aveva osservato la postura del suo amico, incerta, con una certa
perplessità. Aveva notato che giovani fanciulle fossero
rimaste interessate al
suo amico, durante l’anno che avevano spesso
nell’università. Jordie era bello,
era intelligente ed aveva un cognome evocativo, era perciò
naturale, ma il
ragazzo non aveva mai provato il minimo interesse per nulla e per
nessuno.
A Jordie interessava solo una cosa: smontare le cose.
Tanto quanto a Dominik piaceva montarle.
Perciò passavano tanto in tempo insieme. “Dobbiamo
fare squadra: due ragazzi
con sangue suli, a Kerch, con madri con cognomi importanti”
aveva detto
Dominik, un giorno, avvolgendo il braccio attorno alle spalle di Jordie.
Ioren con loro stava un po’ come le rape con la marmellata di
ciliege.
“Io devo tornare all’ambasciata, o rischiamo di
ritrovarci qualche druskelle a
spasso per Kerch ed un incidente diplomatico” aveva detto,
frugando nella borsa
dell’accademia per estrarre il sacchetto dove teneva le
monete, “Lo aveva detto”
aveva scherzato Bridgit senza perdere verse, lui aveva posato delle
Kruge sul
tavolo, “Offro io” le aveva detto, “Fatti
anche un giro alla ruota, questa sera
la trovo fortunata” le aveva detto.
Lei aveva ridacchiato, “Se dovessi vincere, non ti
restituirei neanche una
moneta” aveva chiarito la kerchiana.
Ioren
aveva lanciato un ultimo sguardo a Jordie, il
suo amico aveva ricambiato, con un gesto del capo, toccandosi almeno il
cappello. Il capitano Ghafa aveva imboccato la porta per il piano di
sopra, dove
il Re del Barile, Manisporche, governava il suo impero di scarti.
Non si parlava mai del padre di Jordie, non perché il suo
amico se ne
vergognasse, anzi assolutamente no, solo che era complicato spiegare ai
ricchi
ragazzini kerchiani e no, che se sua madre era un’eroina del
popolo, suo padre
era un uomo che lucrava su ciò che più esisteva
nel marcio del mondo.
‘Deve essere un brav uomo se La Spezza Catene lo
ama, no?’ aveva
proposto un giorno Bridgit. Ioren non riusciva a pensare neanche come
potessero
essersi incontrati … Manisporche le aveva fornito nomi di
schiavisti che
vedevano ai suoi rivali? Aveva sfruttato il dolore di una ragazza che
aveva
subito la schiavitù per i suoi fini? O si era innamorato poi
di quella lucida
rabbia, della Vendicativa signora degli Abissi?
O era ancora un trucco fine.ì? O c’era una storia
dietro che ai molti non
sarebbe mai stata raccontata. Forse Manisporche era
come il Buon Signore
Robin delle Isole Erranti, un uomo che aveva fatto del dolore e della
miseria
un’armatura per un cuore delicato, che di notte aiutava i
poveri e di giorni si
mostrava crudele.
Strani eroi, quelli Kaelish.
‘Io non lo conosco, ma persone che amo e di cui ho
piena fiducia lo
rispettano’ aveva detto un giorno Dominik, Ioren
aveva riso amaramente, ‘Juliana
o Wyliam VanEck? Mercanti kerchiani devoti al solo dio denaro? Lo sai
che Wylan
ha fatto sbattere il suo stesso padre in galera?’
aveva chiesto retorico
Ioren.
Non gli piacevano i fratelli Van Eck, perché si mostravano
lindi, eleganti ed
assolutamente onesti, ma erano marci. Avevano
ingannato, mentito e
tradito per essere dove erano, avevano stretto alleanze e pugnalato
alle
spalle. La parte peggiore era che se questo a Fjerda sarebbe stato
guardato con
disprezzo, per Kerch erano solo onori.
Dominik lo aveva guardato con intensità ed aveva detto una
cosa che Ioren,
ricordava con un sentimento ambiguo: ‘I miei genitori.’
Lo aveva trovato strano, ma aveva annuito, messo un braccio attorno
alle spalle
di Dominik ed avevano ripreso la loro camminata molleggiante per la
festa
notturna che aveva animato la piazza davanti la Chiesa di Barter dopo
uno
spettacolo scandaloso della Comedia Bruta.
Quando era tornato a casa, nelle stanze dell’ambasciata, al
sicuro dalla fame
di Kerch, ma sotto l’occhio attento di Fjerda aveva vergato
la confessione di
Dominik … e si era sentito una bestia per quello.
Aveva sorriso verso Bridgit e si era allontano dal tavolo, ma la sua
amica lo
aveva guardato appena, più interessata a come spendere i
soldi.
Tutto sommato a Ioren piaceva moltissimo La Stecca, così
come il Silver Six e
il Club dei Corvi, da frequentare, era il brivido del pericolo e della
lontananza, che rendeva la sua casa a Avefall così sicura.
Djel,
comunque, doveva averlo preso in antipatia per
le sue empietà, perché appena lasciata la bettola
aveva incontrato una delle
persone che più di tutti non voleva incontrare.
Non era da solo.
Prima aveva riconosciuto la bellezza selvatica di Ilsebelle Dyk, con
gli occhi
turchesi ed i capelli scuri che poco somigliava alla sua rispettabile
madre fjerdiana.
Ioren faticava terribilmente ad immaginarla alla Corte di Ghiaccio,
durante il
Cuore di Legno; le cose erano cambiate nell’ultimo ventennio
alla corte. Il re
era stato, abbastanza, rivoluzionario – per molti, il periodo
che aveva passato
nell’isolamento della sua malattia aveva dovuto offrire una
prospettiva diversa
da quella dei suoi predecessori – e la regina lo aveva
assistito in tutto, un vero
turbine di cambiamento, però certe cose erano restie a
cambiare.
Ilse non era da sola, pero, c’era lui …
Carnagione ambrata, occhi blu come lampi e riccioli biondo-sabbia,
alto,
elegante – anche negli abiti meno eleganti del creato
– ed assolutamente a suo
aggio. Era lì, soddisfatto, perfettamente a suo comodo nelle
strade
ketterdiane, sotto gli abiti mondani da uomo qualunque, lo aveva visto
con lo
stesso agio all’università, indossare i vestiti di
studente diligente, alle
feste delle confraternite scintillante, come ragazzo allegro e pieno di
facezie
per la testa, all’ambasciata fjerdiana come perfetto
diplomatico, lindo e pinto.
O il ragazzo dall’aspetto semplice, quando si addentravano
per le vie meno
felici di Ketterdam e fingevano di essere due giovani ricchi, sciocchi
e raggirabili.
“Meglio così, meglio così, nessuno ti
prende sul serio, se sembri sciocco” lo
aveva avvertito.
Dominik, Dominik con tutte le sue bellissime bautte.
Eppure c’era un ricordo della mente di Ioren, che non poteva,
non poteva essere
una maschera, ma era solo un ricordo
ed i ricordi avevano il
vizio di rimanere soffocati tra un’idea nostalgica ed una
memoria corruttibile.
Un giorno non avrebbe avuto più memorie o se le avesse avute
sarebbero state
guaste come l’acqua nera dello Stave.
Lo poteva vedere, chiaro come il sole, nella sua mente che sfoggiava il
suo
sorriso per incantare gli occhi della Principessa della Jurda.
E, siccome, quella non era la sua serata – e alla ruota il
suo numero si fermava
sempre sul colore che non sceglieva – aveva potuto vedere gli
occhi blu
elettrico, anche nella più fosca delle notti kerchiane, trovarlo.
Il sorriso sul viso di Dominik era ampio e sembrava autentico, anche se
gli
occhi erano macchiati di un sentimento meno sereno: il disagio.
Ioren ne era permeato interamente di quel sentimento.
“Oh,
ma non è un lupacchiotto scappato dalla sua
cuccia?” lo aveva preso in giro Ilse quando lo aveva veduto.
La donna non aveva
nessun amore per la patria di sua madre, nonostante le sue fortune e la
sua
ricchezza fossero da attribuire a Fjerda, anche più delle
ricchezze del suo
padre kerchiano. D’altronde il loro paese non era stato
gentile con loro.
“Lupo?” aveva chiesto retorico lui, “Al
massimo sarei un cagnolino da
passeggio, che piacciono tanto alle nobildonne” aveva
risposto Ioren. Ilse
aveva ridacchiato, “Ho detto quello che ho detto”
aveva considerato.
“Sol Sho Ioren” aveva detto
invece Dominik attirando la sua attenzione,
“Buonasera” aveva risposto lui rigido,
“Non sei venuto al Caffè oggi
pomeriggio”
aveva considerato il ravkiano. Ioren aveva scosso il capo,
“No, stavo ultimando
il saggio di letteratura” aveva dichiarato, anche se non era
vero, lo aveva
terminato alcuni giorni prima, “Dentro ci sono Jordie,
Bridgit e … una ravkiana
di nome Drina” aveva detto, per invitarli ad entrare.
Ilse aveva guardato Dominik con rinnovato interesse, curiosa di quella
informazione, “Abbiamo una nuova amica?” aveva
chiesto, “Una vecchia! Conosco
Drina da tutta la vita” aveva raccontato Domik. Altra
informazione utile “Anche
Jordie, a quanto pare” aveva dichiarato Ioren.
E Drina aveva detto di conoscere Linnea Opjer, cosa che Ilse Dyk non
sembrava
sapere.
“Sai, lo sospettavo? Non lo hanno detto esplicitamente, ma mi
pareva proprio
che quell’infamello fosse troppo
interessato a Drina” aveva scherzato Dominik.
“Anche Jordie Ghafa è umano” aveva
dichiarato Ioren, allora, con sarcasmo,
“Adesso scusate, devo andare, la strada per
l’ambasciata è lunga e spesso
accidentata” aveva raccontato, “Buonaserata,
signori miei” aveva detto, con
gentilezza.
“Vai Ilse, raggiungi gli altri, io devo parlare con
Ioren” aveva spiegato
Dominik. Brividi di freddo avevano attraversato la schiena del
fjerdiano, “Ti
accompagno per un tratto” aveva detto. Ioren sapeva cosa
avrebbe dovuto fare,
declinare, ma aveva annuito invece, “Per un tratto”
aveva ripetuto Ioren.
Avevano
percorso la strada in un silenzio pesante,
l’aria più tesa del ferro sotto sforzo. Ioren
voleva dire qualcosa, ma allo
stesso tempo non sapeva come articolare le parole.
Dominik non stava aiutando e questo era un male, perché di
solito era abituato
a riempire tutti gli spazi possibili con le sue parole; senza
però mai parlare
a vanvera.
“Questa sera sei particolarmente silenzioso, è
successo qualcosa?” aveva
chiesto alla fine il principe Ravkiano, con una genuina preoccupazione
nella
voce.
Ioren lo aveva guardato con la coda dell’occhio, “Hai
incantato la tua
principessa della Iurda?” aveva chiesto a
bruciapelo lui, prima di
maledirsi per averlo domandato.
“Ovviamente” era stata la risposta di Dominik,
senza neanche un ciglio battuto,
“Il mio essere principe le bastava e avanzava, anche senza la
promessa di una
corona, ma devo ammettere che la mia personalità la ha
conquistata. Domani la
rivedrò ai giardini comunali per una passeggiata”
aveva risposto lui, senza
nessuno sforzo.
“Buon per te, per lei” aveva detto stanco Ioren,
per il tuo paese e per le
casse affamate di Ravka, per la stupida lettera che dovrò
scrivere per
comunicarlo a Bjorn. Lui non era una spia, non era affatto per essere
una spia,
per prima cosa aveva una morale ed infiniti sensi di colpa. Quando suo
fratello
lo aveva spinto ad a provare l’Università di
Ketterdam, aveva avuto in incontro
con la Buona Regina Mila.
“Non vogliam che tu sia una spia,”
aveva detto la donna, con la stessa
gentilezza materna che aveva sua madre; era pallida come la luna, con
capelli
d’argento e gli zigomi alti, bella, sì, ma non in
quella maniera cristallina,
letale, era umana. “È
un sentiero solitario, impervio e disturbante,
che si nutre di sé. Ma sarai in terra straniera, devi
prenderne atto, ogni
informazione che raccoglierai sarà un bene per Fjerda ma
soprattutto per te”
lo aveva rassicurato la Buona Regina Mila. E Ioren guardando i suoi
occhi era
stato sicuro, che le sue parole non fossero menzogne, lo
aveva letto nei
suoi occhi.
Così, ogni informazione che aveva captato, dal
prezzo dello zucchero che
saliva, all’arrivo di qualche illustre straniero in
città – che passasse per i
canali ufficiali o lo si vedesse giocare a carte al Barile –
Ioren lo riportava
come informazioni futili, quasi casuali, nelle lettere al suo buon
amico Bjorn,
prete di Djel, di cui era stato compagno di scuola.
E quando durante le lezioni di Etica – una materia piuttosto
ironica ad essere
insegnata a Kerch – Ioren aveva visto entrare il Principe di
Ravka, aveva
saputo, prima ancora che arrivasse un biglietto, che avrebbe dovuto
scrivere
molto di lui.
Dalla Santificazione di Senje Zoya ed in seguito il Trattato di Os
Kervo, i
rapporti tra Fjerda e Ravka si erano decisamente aggiustate.
“Lei ha una bella risata” aveva dichiarato Dominik,
“So che è una cosa stupida,
però mi piace, è musicale, fragorosa, come di
qualcuno che non si vergogna
affatto di esprimere quello che prova” aveva aggiunto.
Ioren quella volta si era voltato direttamente verso di lui, con occhi
accusatori, “Per chi è questa critica, drekiprins?”
aveva chiesto mordace.
Dominik si era fatto rigido, come la lama di un coltello,
“Per me ovviamente”
aveva dichiarato alla fine, stanco. Ioren lo aveva guardato, sentiva
nel suo
corpo un tumulto infinito di sentimenti, senza riuscirne ad
indentificare uno,
su tutti; tristezza, rabbia, compassione e … amore.
“Mi stai evitando” aveva detto alla fine Dominik,
con un tono sincero e gli
occhi azzurri come zaffiri piantonati nei suoi.
Dominik era slanciato, ma era leggermente più basso di lui,
Ioren aveva
ereditato l’altezza tipicamente fjerdiana degli uomini della
sua famiglia, Birstorr,
ma non la stessa prestanza, risultando una figura sgraziata, troppo
lunga per
il suo corpo … Dominik, invece, era così
aggraziato, ben costruito e cesellato,
anche se era più basso di lui e per ragione dovesse guardare
Ioren da una
prospettiva minore, tra i due, lo sguardo che deteneva il controllo era
quello
del ravkiano.
“Mi sto comportando di conseguenza” aveva replicato
Ioren, sentendosi colpevole
come un ladro. Di conseguenza a cosa? Aveva pensato
e lo aveva letto
anche nello sguardo di Dominik.
“Sei qui a raccontarmi di come hai incantato la tua ricca
signora Zemeni, o di
come tua madre vorrebbe mandarti a Nuova Città
per conoscere la sorella
minore del Marshall” aveva dichiarato spento. “Oh,
ti prego non dimenticare
Lilyana che ha pensato che sarei un concubino perfetto per la futura
Regina
Dalai Kir-Taban” aveva replicato l’altro, la sua
voleva essere una battuta, ma
la sua voce era uscita tesa, strozzata.
Ioren aveva chiuso gli occhi con amarezza.
“Cosa vuoi che ti dica?” aveva chiesto poi Dominik
ad una sua mancata risposta,
“Sei tu che mi hai detto che dovevo pensare al mio dovere e
mettere la testa a
posto” aveva aggiunto a tradimento.
Ovviamente, Ioren lo aveva fatto, perché era un maestro nel
soffocare i suoi
patemi, i suoi dolori. Aveva guardato Dominik con gli occhi azzurri
quasi
lucidi. Ioren non poteva pensare fosse così abile nel
vendersi da non essere
sincero in quel momento, “Quando io non faccio altro che
pensare a come vorrei
baciarti” aveva sussurrato Dominik e siccome non aveva
pietà della povera anima
immortale di Ioren, aveva aggiunto: “E al nostro giorno
all’Isola di Endocth.”
Ognuna di quelle frasi erano state un coltello conficcato nel petto di
Ioren.
Anche-io erano le parole che bruciavano sulla sua
lingua, forte e
brucianti come tizzoni ardenti, desiderio secondo solo al volerlo
baciare,
stringersi, unircisi ancora.
Ma non poteva.
Non poteva perché Dominik era un principe e sebbene la sua
terra permettesse di
unirsi con le persone del medesimo genere,
Fjerda non ancora – per
quanto il proselitismo dei reali non fosse mancato – e
Dominik era un principe,
prima di uno studente, di un ragazzo o di un amante. I principi non
sposavano i
ragazzi conosciuti all’università, specie quelli
che erano i quinti figli di
una famiglia non particolarmente agiata e con un titolo nobiliare quasi
assente, di un altro stato. ‘Ma il re Egmond aveva
sposato una pescivendola
delle campagne!’ una voce insidiosa, fastidiosa,
lussuriosa aveva
riverberato nelle sue orecchie.
E soprattutto Dominik non meritava di sposare una spia, che aveva
venduto ogni
informazione, ogni confidenza al suo paese, perché quello
era il suo dovere.
“Sono stato ingiusto con te, hai ragione” aveva
ammesso alla fine Ioren, perché
era vero, lui aveva interrotto la loro relazione, ma aveva punito
Dominik per
aver soddisfatto quello che gli aveva chiesto. “E che la sola
idea di vederti
con qualcuno mi fa sentire prenda del Vampiro”
aveva ammesso.
Dominik aveva sorriso, amaro, con gli occhi azzurri ancora coperti da
un velo
di lacrime e poi si era sporto per baciarlo sulle labbra, del tutto
incurante
che fossero stati nel mezzo di una strada di Ketterdam.
Ioren aveva accolto quel bacio, prima riottoso, insofferente, del male
che
stava causando, poi aveva schiuso le labbra, divorato dalla fame e dal
bisogno.
Dall’egoismo.
Si
era innamorato di Dominik nella stessa maniera in
cui ci si immergeva in un lago. All’inizio era stato lento,
incerto, con il
freddo dell’acqua che pungeva la pelle, ma cominciava ad
intorpidirla e dopo
pochi passi, s’apriva l’abisso, profondo e pesante
e si scivolava giù, nel
freddo e nel nulla, leggero ed opprimente allo stesso tempo.
E nuotare era bello, anche si era difficile stare a galla e le correnti
non
erano sempre gentili.
A Dominik sarebbe piaciuto essere uno scrittore, ma non era certamente
un
poeta, li piaceva scrivere di quotidianità, della borsa che
scendeva, dello
scandalo delle infestazioni di Birgitta Schenck,
dei brogli del Consiglio
di Thomas Radmakker, degli affari sinistri di Quinto Porto –
di cui nessuno
aveva mai risposto – fino ai comportamenti impropri tenuti
dall’Assistente
Duval nell’università.
Aveva anche cominciato a lavorare come articolista, in incognito, per
il Krant,
il giornale dell’università di Ketterdam.
Però, quando pensava a Dominik, si riscopriva desideroso di
poter scrivere, di
poter esprimere, con il giusto linguaggio, le giuste metafore, i
sentimenti che
provava, senza però riuscirci.
Ricordava ancora la prima volta che lo aveva visto entrare
nell’aula della
professoressa Stirling, con quel suo passo audace, principesco, di che
nella
vita non aveva mai dovuto reclamare nulla che non possedesse
già.
Luminoso e vistoso, con un frac celeste, nuovo di zecca,
così Ravkiano, sopra
un panciotto arancione, una camicia bianca e pantaloni scuri. Come
aveva
attraversato la porta e risalita tutta la piccionaia di posti in cerca
del suo,
ogni sguardo era stato rapito, da quei suoi occhi blu zaffiro, i
capelli biondi
perfetti e quella stravaganza ostentata ed intrigante.
“Non so te, ma mi sono innamorata” aveva
canticchiato languida la sua vicina di
posto, una ragazza di cui lui non aveva alcun valido ricordo. Ioren era
rimasto
in silenzio, perché … perché era
bello, in maniera irrisoria, spavaldo in
maniera fastidiosa e scommetteva fosse audace in maniera stucchevole.
Dominik non si era seduto lontano da loro, ma neanche aveva dato segno
di
averli notati. “Secondo te e figlio di qualche mercante
importante?” aveva
chiesto, “No, è un ravkiano” aveva
risposto lui, senza battere ciglio, perché
aveva imparato nei mesi precedenti all’inizio dei corsi,
mentre si muoveva per
le vie sporche di Ketterdam aveva imparato
ad osservare.
I kaelish erano caotici, allegri, per lo più, gli zemeni
accomodanti, gentili
quasi, gli shu erano silenziosi, quasi invisibili, i kerchiani
– la maggioranza
– erano figure effimere, con tante promesse in bocca e
pugnali alla schiena, i
fjierdiani erano possenti, orgogliosi, rumorosi e i revkiani erano
eleganti,
spavaldi.
“Che sciocchi che siete” aveva detto qualcuno alle
loro spalle, Martijin Dresden,
il figlio di un ricco mercante kerchiano, parente ad un membro del
Consiglio,
“Quello è il Syndrakona”
aveva dichiarato senza vergogna, con gli occhi
avidi rivolti a Dominik.
Il figlio del Drago. Il principe di Ravka.
Con quei pensieri in testa si era voltato, per osservare il profilo
perfetto di
Dominik, inconsapevole, bellissimo ed addormentato al suo fianco.
Con la carnagione ambrata, piena e viva, in contrasto con il suo
pallore bianco
lunare. Si era chinato e gli aveva dato un bacio delicato sullo zigomo,
sottile, appena un contatto, perché non voleva svegliarlo.
Si era tirato su, con fatica, sentendo ancora un po’ di
dolore ed
indolenzimento, dal letto ed aveva cercato di recuperare i suoi vestiti
sparsi
per la stanza.
Avevano preso una camera al Silver Six, registrandosi con falsi nomi
– non che
fosse necessario, in fine dei conti, ben certi, che il mattino dopo
Manisporche
avrebbe letto il libro degli ospiti sapendo esattamente quale faccia
corrispondesse al nome, al di là delle menzogne.
Non avevano preso una delle stanze più in alto, eleganti e
belle, ma più vicine
alle sale da gioco, nei piani bassi.
Una piccola camera che conteneva una stanza, con un grande letto, un
baule per
sistemare pochi averi ed un bagno privato, così piccolo da
permettere una sola
persona di entrarci e stare comunque scomoda, sfornito di una doccia.
L’essenziale, il minimo, per quegli avventori che rimanevano
una notte,
desiderosi di tenere ogni kruga possibile per il gioco ai
casinò.
Aveva infilato veloce tutti i suoi vestiti, prima di recuperare la
giacca nuova
dal taglio kaelish, però aveva visto la sua tracola da
studio abbandonata e i
resti accartocciati delle sue lettere.
Aveva spiegato un foglio osservando quel marasma di cancellatura e
righe nere
che si aprivano davanti a lui.
Incerto.
“Fuggi, già?” aveva chiesto Dominik, con
la bocca impastata di soddisfazione,
non ancora del tutto consapevole.
I sentimenti che albergavano in Ioren erano spaccanti, da un lato
c’era la
consapevolezza di dover fuggire, tornare a casa ed incontrare
l’ambasciatore
Cotter – che non si curava di Ioren come un pulcino, ma a cui
lui doveva ancora
riferirsi – e l’altra che lo supplicava di tornare
nel letto e fare ancora, ed
ancora, l’amore con Dominik.
Ancora una volta, da pessimo fjerdiano quale era, Ioren si era lasciato
scivolare accanto Domik, sul materasso bitorzoluto della stanza. Il principe si era messo a
sedere, ancora
nudo e non turbato che tanta pelle fosse esposta, ancora lucida di
sudore e dei
segni voraci dei baci e delle unghie. “Vorrei vivere in un
letto con te per
tutta la vita” aveva ammesso Ioren, sporgendosi e baciandolo
sulle labbra
ancora.
“Non lo dire a me” aveva risposto Dominik, con una
risata piena di amore,
posando una mano gentile sulla sua guancia, “Credo che dentro
di te, sia il mio
posto preferito” aveva detto baciandolo, mentre
l’altra mano era premuta sul
suo pettorale, dove era il cuore. Ioren si sarebbe voluto togliere
anche la
camicia per sentirsi ancora pelle a pelle, aveva condotto le mani a
coppa sulle
guance dell’altro, “Sei orribilmente
sfacciato” aveva dichiarato divertito
Ioren.
“Non è colpa mia se a Fjerda siete freddi come
l’Inverno nel Permafrost” aveva
commentato Dominik tra una risata e l’altra. “Non
sai che Avefall, la gente prega
che Senje Zoya venga a riscaldare le pianure innevate, per dare
ristoro” aveva
raccontato Ioren.
“Fidati, l’ultima cosa che i fjerdiani dovrebbero
volere è vedere mia madre che
sputa fuoco” aveva considerato. Ioren non sapeva neanche come
immaginarlo un
drago in tutto il suo spaventoso splendore, immaginava una bestia
enrome,
composta di squame duro ed affilate come rasoi, nero, rosso, letale e
spaventoso. Immaginava quando la regina librava in volo, come una
nuvola nera
enorme, capace di oscurare il sole accompagnata di fulmini, saette e
tempeste.
… e Dominik era figlio di un drago.
“Ti sento distratto, ma non preoccuparti ho ancora un
autostima così ampia da
non prenderla sul personale, anche se sono qui, nudo, in un
letto” lo aveva
bonariamente rimproverato il principe.
“Stavo pensando a tua madre” aveva dichiarato
Ioren, “Be, amico, se volevi
rompere la tensione, questa era la frase giusta” aveva riso
Dominik.
“Ho visto i draghi solo nelle raffigurazioni, per me,
è fuori dalla capacità di
immaginazione, anche solo creare nella mia mente la figura di
… un drago” aveva
ammesso Ioren.
“Bene, allora, per le prossime vacanze, vieni a Ravka con me,
ti presenterò mia
madre e le chiederò anche se ci fa fare un giro sul suo
dorso” aveva detto
senza vergogna Dominik.
Ioren era rimasto impietrito a quelle parole. Andare a Ravka con lui,
essere
presentato da lui, ai leggendari ed eroici sovrano.
“Ci permetterebbe di farlo?” aveva scherzato Ioren,
nervoso e sudante,
“Assolutamente no! Ma mio padre si offrirebbe di portarci in
giro con il suo
bel mostro di tenebre” aveva riso Dominik.
Ioren aveva avuto un fulgido tremore alla menzione del Korol
Rezni, in
grado di tramutare se stesso in una creatura infernale o staccarla da
lui, un
doppione oscuro, di quelli che tutti gli uomini avevano, ma che lui
vedeva,
chiaro, tangibile e reale.
“So cosa stai pensando, ‘Per Djel, suo
padre ha un mostro d’ombra, sua madre
un drago e la capacità più eccezionale di Dominik
è essere bellissimo’”
aveva dichiarato il principe, con una risata nervosa,
“Però bellissimo in maniera assoluta,
più di chiunque altro al mondo” aveva
risposto Ioren, baciandolo ancora.
“Così bello da fermare una battaglia con la sola
presenza?” aveva indagato
divertito il principe.
Perché sua madre lo aveva fatto, era discesa su una
battaglia ed anche i
druskelle, i più feroci, i più inflessibili tra i
fjerdiani, avevano deposto le
armi e piegato le ginocchia.
“Così bello da fermare una guerra” aveva
confermato Ioren.
Era
tornato all’ambasciata direttamente il mattino
dopo, consapevole che la notte non sarebbe mai fatto rientrare. Lo
aveva fatto
alle prime luci dell’alba, quando il cielo perdeva quella
sfumatura di blu profondo
e si di addensava in un blu marino, macchiato da bande di rosso, rosa
ed
arancio, fino a che l’azzurro spariva divorato dai colori
caldi.
Con quella luce aranciata, anche i sanpietrini umidi di Ketterdam,
risorgevano
di tonalità cotte, le pareti si coloravano e la
città oscura, diveniva bella.
Era quasi bello, camminare durante l’alba, perché
se il tramonto offriva uno
spettacolo simile, ma pullulante di turisti, avventori e disperati,
l’alba era
per gli ultimi ritardatari e i primi del giorno. Il silenzio era
sovrano,
rovinato e turbato solo dalle navi che lasciavano i porti ed il buon
giorno dei
gabbiani.
Si era beato ancora, all’aria di quei colori e rumori e poi
era tornato dentro,
chiuso nella Fortezza.
Nel comodo della sua piccola stanza, la metà di quella del
Silver Six, ma
arredata con un armadio per i vestiti ed una scrivania dove studiare
alla luce
di una lampada la sera – al posto delle aule lettura
– ed un bagno personale
provvisto anche di una vasca-doccia, Dominik aveva soffocato la sua
coscienza.
Mio
caro amico Bjorn,
sento
la tua mancanza. Anche se sei un uomo di fede e l’unica
devozione che hanno in
questa città dimenticata da Djel e i suoi Figli è
per il Dio-Denaro, credo
riusciresti ad apprezzarla. In particolare, la mattina presto, quando
il mondo
tace ed i colori trasformano ogni cosa. Inoltre, credo che la tua
presenza
renderebbe più piacevole ogni cosa, probabilmente anche un
soggiorno
all’Anticamera dell’Inferno.
Spero che a Djerholm ogni cosa continui ad andare bene e che tu riserva
preghiere per sua altezza il re, la regina ed il piccolo principe.
Spero che il tuo studio al seminario continui buono, un po’
mi manca confesso,
una vita austera, ma una vita dignitosa per un fjerdiano.
Ho apprezzato molto la tua ultima lettera e le tue considerazioni sui
Tratti di
Senje Cnut. Spero che i libri che allegherò a questa lettera
saranno di tuo
gradimento – potrei aggiungerne uno che il buon Padre Ubbe
non approverebbe
affatto. Giusto, un altro motivo per cui ti vorrei a Ketterdam e sapere
quanto
apprezzeresti frequentare l’università; hai sempre
avuto una mente più
eclettica e brillante, per quanto apprezzi e rispetti i precetti di
Djel e dei
suoi figli, trovo ingiusto saperti confinati in essi. Inoltre, con il
tuo
carattere pieno di vita ti faresti molti più amici di quanti
me ne sia fatti
io, come ben sai, come ha sempre detto mio fratello, sono una creatura
tendente
alla solitudine. Sospetto che il nostro gruppo di amici si
allargherà ancora.
Jordan, ricordi? Si è invaghito di una bella ravkiana, una
sua vecchia amica,
la ha addirittura presentata ai suoi genitori. La ragazza mi ha detto
di essere
vecchia amica di Jordan, perché i loro genitori hanno
lavorato fianco a fianco,
ma pare che la ragazza da giovane si sia intrattenuta con compagnie
anche più
regali. Comunque, mi viene proprio un patema d’animo,
perché l’amore è proprio
nell’aria. Oltre Jordie, pare che Juliana abbia deciso di
organizzare un
incontro tra il mio compagno di bevute – sempre morigerate
– preferito
ed una sua amica, una certa nobildonna
zemeni, ricca, di orgine kerchiane. Che strana combo, no? Visto
l’eterna guerra
che esiste tra le due nazioni.
Comunque, pare che l’incontro sia stato un successo, penso
rimarrò solo a
breve, con la sola compagnia di Bridgit.
Per questo la tua presenza sarebbe un balsamo, perché, come
sai, ti tengo
sempre nel cuore.
Tuo
amico Ioren.
Amava
sinceramente Dominik.
Si era innamorato di Dominik nella stessa maniera con cui si
immergeva in un
lago, prima poco a poco, poi come un tuffo da sovrastarlo
interamente.
Ma quando pensava alla prima volta che era andato al lago, ricordava di
aver
avuto undici anni scari, che la primavera era ruggente
nell’acqua e le distese
di ghiaccio lasciavano spazio a specchi d’acqua purissima e,
soprattutto,
ricordava la mano di Bjorn prenderlo e condurlo tra le acque fresche,
con fiducia,
anche se erano a malapena conoscenti.
Amava Dominik, ma amava Fjerda, amava il modo in cui Re Egmond
stava ricostruendo il loro paese, la buona regina Mila ed amava il
ricordo di
Bjorn.
E sperava che un giorno Dominik non lo avrebbe odiato troppo.
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Capitolo 9 *** Vasilissa II (40 DR) ***
PRIMA DI
TUTTO: BUONA PASQUA
Ho deciso di pubblicare un capitolo con un certo anticipo e
probabilmente il
prossimo verrà tra eoni (anche perché sto
aspettando un incarico).
Scrivere i capitoli di Vasilissa mi diverte un sacco –
perché sostanzialmente non
le frega una cippa – ma è anche abbastanza
complicato perché dovrei distribuire
informazioni sulla coorte.
La vestizione della Tsarevich Alina
VASILISSA
(40 anni dalla Dissoluzione della Faglia)
“Stai
organizzando un matrimonio?” aveva chiesto con genuina
curiosità la terza
principessa, guardandola attraverso lo specchio.
“Sì, ho convinto la signora Bum a preparare
qualcosa per spezzare il primo
pasto” aveva risposto lei senza vergogna, mentre osservava
con crudo interesse
i dipinti tremendamente femminili appesi all’armadio.
“Posso ordinarglielo se
vuoi” si era intromessa Genya Safin guardandola.
Vasilissa era saltata, sapeva che prima di essere un triumviro la donna
era
stata una servitrice. Doveva essere stata eccezionale – lo
era ancora in
quel momento – perché Vasilissa non sarebbe mai
passata da cameriera personale
della principessa a pericolosissimo generale ed animale politico.
Non era abbastanza intelligente.
Aveva osservato il generale, la migliore Tailor di
tutti e due i
palazzi, posare le dita sulle labbra della principessa e
l’altra su una rosa di
un colore rosso-bruno, che aveva tinto del medesimo colore la bocca
della
principessa. Alina aveva sorriso.
Genya si
era presentata nella camera della principessa, fermando
l’opera di vestimento in
atto, da parte di Vassilissa, ed annunciando che sarebbe stata lei a
preparare
la principessa.
La signora Safin era venuta poiché Lissa ed Alina non erano
state molto
reattive, più che aiutare la principessa a prepararsi per il
grande incontro,
Lissa si era lasciata assorbire un paio di libelli erotici che la
principessa
aveva trovato.
Questa è su mia madre. Questo su mio padre.
Questo su mia sorella. Questo su mio fratello …
… e Sankti questo su mio fratello e
mia sorella!
Genya le aveva trovate così, “Mi
preoccupo io della principessa” aveva
stabilito, mentre Alina aveva cominciato a metter via tutte le cartacce.
Però, quando Vasilissa aveva deciso di andare via, Alina le
aveva chiesto di
rimanere e Genya non aveva fatto commenti in merito. “Quindi
chi si sposa?”
aveva domandato proprio la nobile Safin.
“Il mio amico Yusuf, fa lo stalliere. È un ragazzo
molto dolce” aveva spiegato
subito Vassilissa, “Un po’ impulsivo, ogni
tanto” aveva ammesso.
“Oh, giovani amori, pieni di fuoco e passione”
aveva considerato Genya.
“Che schifo” aveva replicato Alina, mentre la tailor
le allungava ed
ispessiva le ciglia, nerissime e lunghe, “Oh, prima o poi
capitolerai anche tu.
Lo ho fatto persino io, una volta” aveva scherzato, con
l’occhio d’oro colmo di
tristezza.
Tutti sapevano che Genya fosse rimasta vedova il giorno della sua
stessa
celebrazione di nozze. Vasilissa aveva sentito parlare del famoso David
Kostyk,
il più brillante materialki da Ilya Moronzova probabilmente, aveva creato uno degli
amplificatori di Sankta
Alina, ricreato la lumya e progettato una nave di
vetro, capace di
passare la faglia.
Aveva aiutato alla creazione degli izmars’ya.
Aveva progettato ogni sorta di armamento bellico, e tutti si
rammaricavano di
cosa avrebbe potuto creare in pace.
Ed era stato il marito di Genya Safin.
“La sposa ha un vestito?” aveva chiesto subito
Alina, “Credo che abbia
qualcosa” aveva considerato lei. Annia’ka non era
povera, ma immaginava non
potesse far confezionare l’abito da un sarto per
l’occasione, giacché doveva
essere tutto fatto di nascosto.
“Oh santi, Genya non è assurdo che una sposa
indossi un abito definibile come
qualcosa” aveva starnazzato Alina melodrammatica,
“Scommetto che stai per proporle
il tuo abito pervinca” aveva risposto il triumviro.
“Non si sposa bene con la mia pelle” si era
giustificata la principessa, “Si
sposa benissimo con la tua pelle” aveva risposto Genya.
“Ma è brutto, anche Vassilissa concorda”
l’aveva trascinata in mezzo la
principessa.
Lei era saltata dall’angolo in cui si era ritirata, non
sapendo bene come
muoversi, si era allontanata solo per chiedere un vassoio di biscotti,
ma non
era mai andato a prenderlo.
L’occhio oro di Ravka l’aveva guardata, non
c’era tensione nel suo viso, solo
melodrammatica delusione, “Davvero?” aveva chiesto.
“Il modello è un po’
…” aveva provato la cameriera, con le parole in
bocca come
tizzoni ardenti, come poteva dirlo senza sembrare scortese, sgarbata,
“Superato, Genya” aveva insistito Alina.
La dona aveva battuto le palpebre del suo occhio sano, “Oh,
Santi! Sapevoc he
questo giorno sarebbe arrivato” aveva ammesso,
allontanandosi, sedendosi sul
divanetto di rappresentanza.
“Genya Safin è diventata obsoleta”
aveva commentato con voce neutra. A
parere di Vasilissa tutto poteva esser detto della donna tranne che
fosse
inutile, era caparbia, intelligente ed un’ottima politicante.
Nonostante le
cicatrici che segnavano il suo corpo, che a priva vista lasciavano
storditi,
riusciva sempre ad intrattenere ed affascinare tutti.
Aveva superato i sessanta anni, i suoi poteri grisha la rendevano
dall’apparenza più giovane – non quanto
la regina Zoya – ma di poco, la
facevano apparire ancora matura, ma sempre piacente. Anche i suoi
vestiti,
retaggio di una moda passata erano comunque belli, pregiati e
confezionavo
l’idea di una donna che non aveva bisogno di un viso liscio
per apparire
eccezionale e mirabile.
“Oh, sei tutto tranne che obsoleta. Ravka sarebbe
già bruciata senza di te e
brucerebbe domani se tu decidessi di ritirarti a vita
privata” le aveva detto
subito Alina, piena di vigore.
Genya aveva sorriso, “Oh sankti,
zuccherino, lo so benissimo, ho ancora
una mente attenta e tanto da offrire a Zoya, ma la mia
impeccabilità per la
moda, per i costumi, santissimi, quella è passata”
aveva ammesso, come se la
cosa fosse stato un dramma.
“E la cosa ti rattrista davvero?” aveva domandato
Alina piena di perplessità.
“Certo, ho creato io lo stile, io la moda.
Ho modellato il gusto di
questa nazione da quando avevano quindici anni. Ho vestito, sante,
regine, ambasciatori.
Sembra stupido, ma curarmi di questo è sempre stato
… rilassante” aveva
confidato, “Diventa un po’ triste scoprire di
essere superati” aveva
commentato, con un po’ più di verve.
Poi si era sollevata, “Bene, Vassilissa prendi
l’abito pervinca ed un altro
vestito dall’armadio della principessa, uno più
… moderno” aveva dichiarato
senza perdersi d’animo.
“Dolcezza, vestiti come più ti aggrada”
le aveva detto.
Le due giovani donne avevano eseguito i comandi senza perdersi
d’animo, “Op,
op, seguitemi!” aveva ordinato la donna.
Genya non
le aveva condotte in nessun luogo del Gran Palazzo, ma invece avevano
preso il
cortile esterno del Piccolo. “Aspetta ne reggo uno”
aveva detto Aline,
togliendo a Vasilissa l’incomodo di dover portare i due
lunghi vestiti in modo
che non fossero pendenti.
Genya era alta ed aveva le gambe lunghe, era leggiadra quando
camminava, ma
aveva lunghe falcate, Alina, poco femminile le marciava al fianco, allo
stesso
ritmo. Solo Vasilissa più bassa, faceva fatica a starle
dietro; era
notevolmente più bassa di ambedue le donne e con un
portamento decisamente meno
imperioso.
Una variopinta corte di grisha in kefte di ogni colore – di
quei tempi non
erano più solo tre colori – che si erano spostati
immediatamente quando avevano
visto passare le tre donne, un corridoio.
Ogni occhio pregno di ammirazione e rispetto era apparso davanti a
loro,
chiaramente non per Vasilissa ma per il triumviro e per la principessa.
Aveva riconosciuto un principio di tensione ed imbarazzo balenare in
Alina, che
alzava una mano per salutare educatamente, diversamente da Genya che
camminava
a mento alto, dispensando saluti a destra e manca con
confidenzialità.
Il Piccolo Palazzo doveva essere il suo regno, era la più
longeva ad aver mai
ricoperto la carica di Triunviro: quaranta anni tondi, o
così sarebbe stato a
breve.
Forse per questo stava tenendo così tanto ad organizzare una
cerimonia così
perfetta. Era l’anniversario della riunificazione di Ravka,
della distruzione
della faglia ma anche la nascita del Triunvirato e del suo ruolo.
Avevano attraversato velocemente il palazzo, fino ai piani dei
laboratori dei
materialki. Vasilissa sapeva fossero solo una parte, ne esistevano
diversi in
giro per il ravka, sapeva ne esistesse uno segretissimo non lontano da
lì, dove
lavoravano umani e materialki.
“Oh, non ti aspettavamo Genya” erano stati accolti
da una voce.
Un giovane uomo vestito di viola, con ricami delicati grigi li aveva
salutati,
Grigori Nabisky il nuovo triunviro, rappresentante
dell’ordine dei materialki,
dopo che Sankta Leoni delle Acque si era ritirata dal ruolo –
Vasilissa aveva
saputo, dai servi del Piccolo Palazzo, che la donna si riteneva fin
troppo
donna d’azione che amministratrice e che il ruolo le era
sempre stato stretto.
Grigori era un giovane uomo, sulla trentina, il viso fresco,
dall’incarno
chiaro, con i capelli neri e gli occhi verdissimi come le foglie;
quando
sorrideva aveva piccole fossette che si formavano sulle gote che lo
facevano
apparire più giovane.
Con lui c’era lo Shu Nebhan, che nonostante fosse un
etherealki inferno,
passava molto tempo nei laboratori dei materialki o nelle feste
sfrenate della
palude d’oro. Vasilissa era eccitata per le feste previste
nei prossimi giorni,
alcune nella tenuta dei Kirigen.
Alina non aveva mai avuto il permesso di andare, prima di quel momento,
e così
era stato anche per Vasilissa. Sarebbe stato: eccitante.
“Oh, lo so, lo so. Ho bisogno di uno dei tuoi materialki, uno
bravo come stoffe
ed altre facezie, tesoro” aveva scherzato Genya con un
sorriso allegro,
guardando il giovane Triumviro, “Devi fare esplodere
qualcosa?” aveva chiesto
Nehban, aveva occhi d’oro come il prosecco frizzante, era
più vecchio del suo
collega, ma più giovane di Genya, come tutti i grisha la
loro età sembrava
sospesa nell’etere.
La donna
aveva fatto oscillare i riccioli rossi in un segno di diniego,
“Oh no, devo
sistemare due vestiti” aveva considerato facendo stendere ad
Alina e Vasilissa
i vestiti sul grande tavolo da lavoro. I due grisha si erano accorti
solo in
quel momento di loro, “Oh! Sua altezza, benvenuta in queste
umili stanze” aveva
detto subito Grigori.
Alina aveva sorriso colma di imbarazzo.
“Proprio non riesco a concepire sia la figlia di Zoya e
Nicolai” aveva detto
sfacciato lo shu, Alina non l’aveva presa a mano.
“Perdonami, ma non esistono sarti per questo?”
aveva chiesto Grigori, dopo
essere stato salutato come d’uopo dalla principessa,
guardando Genya.
“Non per questo vestito e non con il tempo stretto. Sai cosa
accadrà tra un
paio d’ore?” aveva domandato retorica Genya.
“La buona Regina Mila passerà le porte della
città!” la risposta era venuta
alle loro spalle.
Si erano voltati tutti e la principessa Lilyana era lì,
sulla soglia dei materialki.
Indossava una kefta di seta elegante di un blu intenso, aveva maniche
amplissime che quasi strisciavano per terra, la vita era fermata da una
cintura
composta di fili d’argento intrecciati come nastri viminei,
da cui fiorivano
foglie e fiori, troppo delicati per essere manifattura umana.
L’unico gioello e
punto di luce nel suo vestiario
Ai ghirigori d’argento squaller, si
aggiungevano arzigogoli azzurri, tidemakers,
che tracciavano i confini dei bordi del collo, delle maniche e
dell’orlo.
Alcune decorazioni fiorivano anche sulle spalle.
La kefta era stretta e scivolava fino ai piedi come un vestito.
I capelli erano una cascata di boccoli neri che scendevano delicati ai
fianchi
delle orecchie, fino alle spalle, aveva le labbra lucide di trucco e la
polvere
azzurra sulle palpebre. “Oh, principessa” aveva
detto subito Genya senza
perdere colore, Vasilissa si era chinata come d’ordinanza,
mentre i grisha
erano rimasti immobili davanti alla presenza, non particolarmente
turbati.
D’altronde, prima di essere la principessa erede di Ravka, la
principessa Lilyana
era una grisha del Piccolo Palazzo.
Attaccato alle sue gonne c’era il piccolo tsarevich
Juris
Secondo Vasilissa, il principino era un bambino adorabile, e lei
tendeva poco
ad avere quella considerazione, anche se era terribilmente curioso. Il
viso del
piccolo bambino si era illuminato quando aveva visto la zia, era
lasciato la
presa della kefta della madre per correre con vigore verso la ragazza.
Alina aveva abbracciato subito il nipote e lo aveva tirato su,
“Buongiorno bel
ragazzo” aveva detto immediatamente. Il bambino era arrossito
sulle guanciotte tonde.
“Stiamo sistemando il vestito di tua sorella” aveva
considerato Genya,
attirando nuovamente l’attenzione, “Stai per dire
che i materialki del Piccolo Palazzo
abbiano di meglio da fare” aveva commentato Alina, sua
sorella l’aveva guardata
con severità.
Vasilissa lo sapeva che le due donne si volevano bene, ma non era mai
stato
facile tra loro.
“Si e no; penso ci siano ottimi sarti al Gran Palazzo, ma un
lavoro del genere
può essere un buon esercizio” aveva considerato la
principessa erede,
“Seguitemi, se volete” aveva considerato la
principessa ereditaria.
Genya
sembrava colpita da quella svolta degli eventi ed aveva ordinato di
prendere il
vestito, tenendo tra le braccia il vivace nipote, Alina non si era
proposta di
aiutarla, così Vasilissa aveva raccolto ambedue i vestiti e
mosso a compassione
il triumviro ci aveva ragionato, forse incuriosito anche lui.
Avevano seguito la principessa lungo un corridoio, fino ad una stanza.
C’erano
otto bambini, il più piccolo non poteva avere più
di otto anni ed il più grande
non più di dodici, indossavano tutti le kefte ametista,
senza decori, una lunga
macchia monocolore.
Erano sistemati lungo una grossa tavola di legno dalla forma di ferro
di
cavallo, davanti a loro c’erano cianfrusaglie di ogni tipo.
Ingranaggi,
pozioni, rotelle e vari macchinari smontati.
Con loro c’era una donna matura, però, Vasilissa
la riconobbe prima ancora che
voltasse lo sguardo verso di loro.
Sankta Leoni delle Acque, con i capelli neri striati di grigio raccolti
in sottili
trecce, fermate con anelli d’oro.
Sapeva che la donna era rientrata in città per i
festeggiamenti, ma non pensava
stesse insegnando ai bambini.
I ragazzini erano saltati immediatamente quando avevano veduto chi era
entrato
si erano subito prodigati in una tentativo di saluti formali,
risultando più
che altro abbastanza caotici.
Vasilissa immaginava che tre principi e due triunviri dovessero essere
uno
spettacolo piuttosto insolito.
“Buongiorno Leoni” aveva detto Genya affabile,
“La principessa Lilyana ha una
proposta per i bambini presumo” aveva considerato.
“Sì, alla mia dolce sorella, serve aggiustare i
suoi vestiti molto velocemente.
A breve gli emissari di Fjerda saranno qui e non vorremo di certo
sfigurare”
aveva considerato la principessa.
Genya aveva fatto un cenno a Vasilissa che aveva steso sul tavolo
davanti ai
ragazzi. “Perché due?” aveva chiesto un
ragazzino.
“Questo pervinca deve diventare dello stesso modello di
questo blu …” aveva
cominciato Genya, “Magari con la vita un po’
più stretta?” lo aveva
specificatamente chiesto a Vasilissa, “Allungherei
l’orlo della gonna e
sistemerei le spalle, più bombate” aveva ammesso
piena di incertezza.
“Perfetto, quest’altro invece vorrei che diventasse
oro” aveva dichiarato
Genya, “Magari con qualche decoro, intrecci viminei crema e
…” aveva fatto una
pausa, guardando per la stanza, “Le perline, sul
busto” aveva detto Vasilissa
raccogliendo una ciotola piena di piccole perle di vetro non perfettamente tonde,
alcune lucide ed
altre opache.
“Qualcuno si sposa?” aveva chiesto una ragazzina
mentre raccoglieva da un
tavolo mentre raccoglieva una foglia d’oro crepata.
“Un’amica di Lissa” aveva detto Genya,
mentre prendeva le perle dalle sue mani.
“Visto le ottime mani in cui vi sto lasciando in mani
più che ottime verrò qui
a vedere il lavoro dopo” si era declissato Gregori.
“Stai tranquillo amico mio,
il tuo lavoro è pieno di impegni. Ho preso io in custodia i
cuccioli oggi”
aveva detto la vecchia triunviro con tranquillità,
osservando come i ragazzini
osservavano curiosi i vestiti.
La principessa Lilyiana aveva scosso il capo, “Io
andrò ad organizzare per bene
gli alloggi. La Buona Regina Mila ed il Principe saranno in arrivo in
un paio
d’ore, ma entro una settimana avremmo tutti i nobili del
mondo. Vogliamo che
questo palazzo non esploda” aveva ammesso Lilyana,
“La Regina Dalai ha già
mandato missive per far sapere che entro tre giorni sarà
alle porte della
città. Non ho capito se la sua fosse una minaccia”
aveva ammesso, raccogliendo suo
figlio dalle braccia della sorella, “Voglio stare con la
zia!” aveva replicato
subito il bambino. Alina aveva riso divertita, “Da quel che
ho sentito in giro,
è infervorata perché hai sposato l’uomo
che voleva come compagno” aveva
risposto la preferita.
Liliyana aveva preferito ignorare apertamente sua sorella, per
rispondere al
suo bambino: “La zia deve provare un sacco di vestiti e fare
attività noiose”, senza
battere ciglio, “Anche tu fai tante cose noiose”
aveva replicato il bambino
prontamente, “Infatti: ti porterò dal Nonno e
potrai nascondere tutte le sue
scarpe sinistre” aveva aggiunto la principessa, dando un
bacio sulla guancia
del figlioccio.
Vasilissa presa da quello scambio non aveva affatto notato
l’audace bambina che
aveva parlato prima, l’aveva notata solo quando il generale
Safin aveva
esclamato: “Oh, sei bravissima!” attirando la loro
attenzione.
L’abito blu della principessa Alina era diventato della
stessa tinta d’oro
della foglia, per mano della bambina, “Grazie”
aveva detto lei, lasciando
cadere il foglio. Vasilissa non aveva potuto fare a mano di trattenere
la sua
mano che era saltata fino alla stoffa, trovandola ancora ugualmente
morbida, di
velluto. “Per un secondo avevo pensato sarebbe stata
d’oro!” aveva esclamato
lei, sconvolta.
La ragazza aveva sorriso ed era arrossita a quel complimento. Era
giovane,
poteva avere non più di otto anni, con capelli scuri come le
ali di un corvo,
le medesime sopracciglia alte e nere. I suoi occhi erano di un castano
così
scuro da risultare quasi indistinguibile dalla pupilla.
L’incarnato era ambrato, probabilmente come le principesse
doveva avere qualche
goccia di sangue suli, ma per lo più sembrava Ravkiana,
tranne il naso
appuntito.
“Sì, non c’è da
stupirsi” aveva detto la principessa ereditaria,
“Spero vorrai
trattenerti al piccolo palazzo più di qualche
settimana” le aveva detto quasi
materna.
La bambina aveva sorriso, “Ci penserò, sua altezza
reale” aveva detto composta
la bambina, con estrema maturità.
Il principe Juris si era avvicinato alla bambina con una certa
curiosità, era più
bassino di lei e come tutti i bambini era ancora morbido e
tondeggiante, dove
lei sembrava quasi una signorina per la posa fiera ed imposta, lui
sembrava
figlio della sua età.
“Come ti chiami?” aveva chiesto sfacciato,
“Caitlyn, sua altezza” aveva risposto
misurata lei. “Non hai la faccia di Caitlyn!” aveva
ribattuto il bambino.
“Sankti, Juri!” aveva esclamato
la principessa Liliyana indignata dalla
sfacciataggine del principe, per quando il commento avesse fatto
sorridere la
principessa Alina, che aveva guadagnato un’occhiataccia dalla
sorella.
“Questa linguaccia mi ricorda qualcuno” aveva detto
Genya tirando una gomitata
gentile a Liliyana, che era arrossita come una mela matura –
qualcosa che Lissa
non aveva mai visto.
Prima che la principessa potesse rimproverare il figlio e lo obbligasse
a scusarsi,
Caitlyn aveva perso tutta la sua grazia signorile, “Be, tu
non hai la faccia da
principe” aveva dichiarato la bambina, “I principi
sono belli” aveva esclamato.
“Caitlyn scusati immediatamente con il principe”
aveva detto Leoni, voleva
apparire imperiosa ma non c’era riuscita.
Tutti i bambini sembravano congelati, anche Lissa si sentiva
così, che si era
voltata verso Alina che aveva un’espressione a
metà tra lo sconvolto ed il
divertito.
“Posso farti volare fino al soffitto” il principe
l’aveva minacciata, “Ed io
posso trasformare i tuoi vestiti in fango!” aveva risposto
Caitlyn.
La risata di Zoya aveva soffocato tutti i loro pensieri, “Sankti
proteggetemi
da questo” aveva detto il generale, ma Lissa era certa che
dietro tutto quel
melodramma ci fosse una certa gioia.
Il principe Juris si era nascosto dietro le gambe di sua madre.
Vasilissa
aveva nascosto il vestito da sposa modificato, impacchettandolo con
spago in
una stoffa.
“Avete decisamente esagerato con i nastri!” aveva
dichiarato Alina attirando la
sua attenzione, “Trattieni il respiro” aveva
replicato decisa Genya che stava
stringendo i laccetti del bustino della principessa.
“Preferisco decisamente
gli abiti da uomo” aveva replicata l’altra senza
colpo ferire.
“Non sono molto esperta, ma ho trovato la ragazzina
… Caitlyn molto capace”
aveva considerato a mezza-bocca non sapendo bene cosa dire,
“Lo è. Qualcuno
direbbe che fosse inevitabile, non conta molto però
…” aveva confermato Genya,
con lo sguardo distratto, “L’età non
dice molto. Sono stata una grisha
estremamente capace fin da bambina, più giovane di lei in
effetti, così come
Zoya. Eppure, conoscendoci si potrebbe dire siamo giunte a livelli
completamente diversi. Ci sono stati molti grisha promettenti da
bambini che
non sono riusciti a farcela e ci sono stati grisha tutt’altro
che capaci agli
inizi che si sono rivelati eccezionali, come Alina Starkov”
aveva considerato
la grisha, raggiungendo il fondo del corpetto.
“Quella bambina ha talento, sì, moltissimo, come
una bambina che disegna
vividissimi fiori, ma è lontana dall’essere una
brava pittrice, dovrà lavorare
moltissimo su di lei, sul suo potere, su tutto” aveva ammesso
Genya.
“La domanda” aveva detto Alina, cercando di tirare
il bustino per allargarlo un
po’, “Come fa Layla ha dominare due elementi, fare
la diplomatica, la madre e
la principessa” si era lamentata un po’,
“Ministro dell’Istruzione, anche”
aveva osato rispondere Vasilissa, guadagnandoci solo una smorfia dalla
sua
signora.
Genya aveva scosso il capo, facendo oscillare i capelli rossi,
“Pensa che tua
madre era anche più giovane di lei quando è
diventata un drago” aveva considerato.
Alina non aveva detto nulla, “Così come la Sankta
del Sole ha sconfitto
l’Oscuro, distrutto la Faglia e Messo fine alla Divisione con
un anno in meno
di me” aveva commentato, “Diciamo che le grandi
aspettative che i miei avevano
per me con questo nome, deve averli delusi, riesco a malapena ad essere
una
principessa” aveva ammesso.
“Lissa!” Genya l’aveva chiamata, mentre
lei finiva l’unico nodo, “Sì mia
signora?” aveva chiesto prontamente, “Lo senti
questo suono? È il tragico
violino che accompagna la storia di una principessa
sfortunata” aveva
replicato. Alina era arrossita di imbarazzo, “Ogni giorno io,
come i tuoi
genitori, siamo grati che tutto quello che tu debba preoccuparti e di
non fare
brutta figura con i funzionari” le aveva detto Genya
più gentile. Aveva
allungato una mano e le aveva accarezzato la guancia materna, Alina si
era
sciolta in un sorriso dolce.
“Alina di cui porti il nome, non ha avuto un glorioso
avvenire. Aveva sedici
anni quando aveva fatto tutte quelle cose e poi non ha avuto altro, non
ha
avuto la bellezza di poterti vedere la gloria, tua madre e te,
così bella e
fiera”
aveva aggiunto.
Vasilissa
aveva recuperato i cuscinetti da mettere sui fianchi per gonfiare la
gonna, che
Alina aveva preso con nervosismo.
In seguito le due donne si erano attivate per far indossare
l’abito pervinca
perfettamente modificato. Oltre allo scolo a barca generoso, che
metteva in
risalto le morbidezze del seno e le maniche a buffo, era stata snellita
la vita
ed alcune pietre luccicanti – Vasilissa era quasi certa non
fossero veri
gioielli ma creazioni grisha – erano state sistemati lungo
tutto l’orlo dello
scollo, ma anche sulla vita del bustino e cadevano a cascata sulla
gonna, il
luccichio rifletteva il pervinca-blu del vestito, ma anche ogni altro
colore
della stanza.
Gli occhi erano tinti di un rosa audace, come le labbra viola. I
capelli scuri
erano lucenti come pietra, raccolti in una crocchia ordinata.
Vasilissa era rimasta incantata nel guardarla, nel vederla,
così, Alina
sembrava in tutto e per tutto una splendida principessa. “Me…
Matthias
di Fjerda resterà senza fiato?” aveva chiesto
retorica Alina, guardandola, secondo
Vasilissa non era quella la domanda che aveva voluto porre.
“Credo che tutta Ravka lo farà” aveva
ammesso senza esitazione Lissa, senza
menzogna.
“Ho
parlato con Padre Igor, ha accettato di farvi sposare” aveva
dichiarato
Vasilissa, “Sankti grazie! Uomo buono e tu
mia santka personale.
Accenderò un certo per te” aveva detto subito
l’uomo, prendendole le mani e
baciandole. Quasi le aveva fatto perdere la presa sul pacchetto,
“Scusa scusa,
sai che sono imbranato” aveva detto Yusuf,
“Sì, è colpa di Stella-Bianca e la
zoccolata che ti ha tirato” aveva commentato lei secca,
“Non mi chiedi quanti
soldi vuole il prete per il matrimonio clandestino?” aveva
domandato retorica
lei.
Yusuf era divenuto bianco come la neve, “Che disgraziato. No!
Quanto vuole?”
aveva detto.
“Una fetta di torta e scegliere il nome del tuo
primogenito” aveva risposto
lei.
L’espressione sul viso di Yusuf si era fatta prima di
sconcerto e poi di gioia,
aveva preso Vasilissa per la vita e l’aveva fatta girare come
una trottola,
pieno di gioia e risate, cosa che lei aveva condiviso.
“Oh sanktissimi, spero non si chiami:
Ajiwulf o un altro nome così
brutto” aveva detto preso da una risata Yusuf, “Si
chiama Igor, perciò immagino
che non dovrebbe suonare così male: Igor
Kunzestov” aveva ripreso lei. “Suona
meglio di Yusuf Kunzestov, in effetti” aveva valutato lo
stalliere.
“Nel mentre, prendi anche questo, un dono della tsarevich
Alina. Fallo
provare ad Ania’ka, se non le si addice lo
modificheremo” aveva considerato
Vasilissa, “Cos’è?” aveva
chiesto confuso lui, guardando il pacchetto che lei
stava porgendo.
“L’abito da sposa, non vorrai che la ragazza abbia
un brutto vestito alle sue
nozze improvvisate. Probabilmente la sua famiglia la
ripudierà … e vedendolo
dopo potrete farci abbastanza monete” aveva considerato.
Il tessuto era velluto pregiato, le perle erano materiale-grisha e
forse non
era il più ricco dei vestiti, ma era abbastanza.
“Sankta Lissa dovrebbero
chiamarti!” aveva detto Yusuf, “Spero di no, si
contano sulle dita di una mano i Santi che non hanno vissuto il
martirio ed io
ci tengo” aveva risposto lei.
Sankta Zoya della Tempesta, regina, grisha, drago.
Sankto Adrik l’Asimmetrico, che aveva
salvato innumerevoli grisha dalla
prigionia di uno stato ed aveva offerto il suo braccio alla guerra
civile,
grisha.
Sankta Leoni delle Acque, grisha, salvatrice,
inventrice …
Sankta Inej delle Catene Spezzate,
l’ultima – e non riconosciuta – santa
vivente, l’unica, forse nella storia, Santa non grisha mai
esistita.
Non esistevano alteri a lei dedicati, non c’erano preti, non
c’erano santi e
nessuno vedeva le sue ossa. Ma ogni sera tutta Ravka ed anche oltre il
male
accedevano una candela per la Piratessa che aveva dedicato la vita a
combattere
gli schiavisti. Che quasi raggiunti i sessanta anni, senza
più un capello nero
sulla testa, ancora lo faceva.
Ogni tanto apparivano dipinti della Spettro della Vendetta.
“Bisogna solo decidere quando fare questa cerimonia. Sarebbe
il caso che fosse
prima di ritrovarci tutte le corti del Mare Vero in giro, o come
l’impressione
di quei tempi la cappella palaziale farà molto turni. Tutti,
anche se a modo
loro, credono nei Santi” aveva considerato Yusuf.
Vasilissa
aveva spalancato la tenda per poter osservare il cortile di ingresso
del Gran
Palazzo.
Riusciva a riconoscere la schiena dritta e rigida della Principessa
Erede Liliyana,
al fianco di suo marito, altrettanto rigido, vestito in stoffe di seta
lucida,
di un colore acceso, luccicante, quasi opposto al blu intenso di lei.
Liliyana teneva per mano il giovane Juris che continuava a ballare sui
tacchi –
forse ancora infastidito dalla lingua di Caitlyn – mentre il
marito reggeva il
giovane Nikolai, ormai vecchio di nove mesi.
Al fianco della donna c’era suo padre, il Re Consorte Nikolai
vestito con
l’azzurro di Ravka, dalla posizione in cui era, Lissa vedeva
la schiena,
nessuna aquila bicefala, ma un drago ad ali spiegate che oscurava un
sole
scintillante. Alina vestita di tutto punto, pervinca, era lì
di fianco, come
Juris anche lei sembrava nervosa, facendo oscillare il peso da un piede
all’altro. Genya Safin al suo fianco era una statua di
granito.
Poi Vasilissa riconosceva i soldati scelti da palazzo, i servi, li
conosceva
tutti e riusciva a riconoscerli tutti.
Lukya, l’Apparat in persona, il nobile Poldunist e la sua
moglie soldato, l’ammiraglio
Effimov ed altri. Tutti lì, perfettamente in fila, con le
armi pronte, ma
dall’atteggiamento disteso ad aspettare il sobakcha
di Fjerda.
Nel
cortile d’avanti uno spiazzo, occupato solo da una fontana
ornamentale.
Due donne, fatte di marmo e ferro, vestite con due kefte, con un
panneggio così
delicato da sembrare vero ed increspato dal vento: Sankta Alina
con le
braccia alzate, i grisha materialki avevano lavorato con un intricato
gioco di
specchi sulle dita e delle candele – che andavano accese ogni
tramonto ed ogni alba
– in modo che le sue mani luccicassero sempre.
Alina era in piedi, con la testa rivolta al cielo, mentre davanti a
lei,
inginocchiata c’era la Regina Zoya, con la corona di drago,
che le dava le
spalle, non era in una posa di supplica, anzi no, aveva la schiena
dritta e
guardava fisso l’ingresso del parco, le mani erano stese
orizzontalmente, con i
palmi rivolti al cielo, dalle mani sgorgavano zampilli
d’acqua che riempivano
la vasca ellittica, da cui spuntavano altri zampilli.
Lissa aveva visto, lontano quasi, le due guardie aprire i cancelli e
permettere
ai primi cavalieri entrare. Aveva riconosciuto subito, come la prima
stella del
mattino, il principe Dominik guidare la fila.
“Eccolo,
il nostro luccicante principe! Quasi ci si aspetterebbe che fosse un Sunsummoner!”
aveva sussurrato una voce nel suo orecchio, Vasilissa aveva avuto un
piccolo
spasmo di terrore, assorta a vedere le carrozze entrare nel parco, non
aveva
sentito nessuno avvicinarsi.
Si era stretta alla tenda, girando lo sguardo, per osservare chi
l’aveva
avvicinata.
“Mio signore, nobile Semyon” aveva detto colma di
imbarazzo, riconoscendo il
viso del giovane uomo; mai del tutto spensierato mai del tutto serio.
“Mio signore nobile Semyon?” aveva chiesto retorico
quello, “Dove è finito il Vit’ya
di qualche luna fa?” aveva chiesto retorico quello, con
quella voce così
inquietantemente bilanciata. Vasilissa era arrossita a quel commento,
“Mio
signore è finita la Festa del Burro” aveva
risposto irreprensibile.
Viktor Semyon, il nobile Viktor Semyon, aveva
sorriso a quel commento,
“Una vera maledizione, mi sono trovato così
bene” aveva ammesso lui, senza
perdere un briciolo di quel suo tono. Aveva allungato una mano ed aveva
sfiorato la guancia di Vasilissa, senza toccarla per davvero, ma lei
stessa
aveva chinato la guancia per permettere che la sua mano la toccasse.
“Anche io”
aveva ammesso melanconica, perché non era una menzogna, ma
solo un grossolano
errore.
“Questo però non smetterà di rendere me
meno una me e lei meno lei” aveva
detto, spostandosi e sfuggendo alla carrozza.
“Eppure, credici, che preferirei di gran lunga essere meno
me, in questo
momento” aveva confidato il nobile, con quella stessa
annacquata malinconia che
piaceva tanto sfoggiare ai giovani nobili, nel tentativo di apparire
tormentati
e con un cuore sanguinante.
Una recita che Vasilissa in realtà amava particolarmente,
frutto di troppi
romanzetti d’amore, supponeva. “Quale tragico
avvenire ti aspetta, mio
signore?” aveva chiesto, “A me spettano un sacco di
lenzuola da cambiare” aveva
aggiunto.
“Mia zia vuole che sposi la figlia di un ricco mercante, una
certo Karkav,
Karkiff” si era lamentato Vitya,
“Karkoff” aveva risposto Lissa per lui,
“Devi
sposare la figlia di Vladimir Karafoff, il Re della Seta”
aveva aggiunto. Il
nobile Viktor Smyon aveva spalancato gli occhi stupito, “Ti
sei tenuta
informata?” aveva indagato, quasi compiaciuto, “Noi
cameriere sappiamo tutto”
aveva risposto Lissa, “Inoltre, la signora Karkoff era
così felice che un
nobile sposasse la sua figliola che credo abbia appeso i manifesti da
qui ad Os
Petyor” aveva dichiarato.
Non era solo per quello ovviamente; non aveva mai, mai, pensato che
Viktor
Semyon l’avrebbe sposata, infondo, lei era solo una ragazzina
senza ne arte né
parte, ma poi era stato annunciato il suo matrimonio con la Principessa
della
Seta – che era ricca, ma senza una goccia di sangue nobile o
regale.
… E poi c’era la faccenda di Yusuf.
Viktor aveva riso stanco, “Volgare. Mia zia vuole questo
matrimonio” aveva
commentato, “Pensavo mi avesse tirato fuori dal mio bel feudo
per farmi
imparare la politica della corte, per farmi corteggiare il Frutto
dell’Autunno,
ma no, per accalappiarmi ad un matrimonio con una vendi
stoffe” aveva aggiunto.
Lissa aveva scosso il capo, davanti tutta quella barbosa
pantomima,
“Dicono che Anya Karkoff sia bella come una perla”
aveva replicato lei,
pensando alla ragazza, a quella specifica ragazza.
Non aveva idea di che aspetto avesse Anya Karkoff, sapeva che avesse
fatto
parte della schiera di giovai donne, ricche e nobili che erano state
presentate
alla principessa Alina per essere sue dame da compagnia.
Nessuna aveva resistito alla principessa.
“Dicono anche che è una campionessa nello sputo di
nocciolo di ciliegia, che
indugi in comportamenti lascivi con i servi e che balli sui tavoli alle
feste
di Kirigin” aveva risposto seccamente Viktor. C’era
da chiedersi come una
compagnia del genere non fosse rimasta nella vita della principessa
Alina,
sembrava la compagnia che quella avrebbe amato.
“Qualcosa in comune lo avrete” aveva risposto
leggermente risentita Vasilissa,
“O il suo essere nobile e uomo, cambia le cose?”
aveva domandato retorica.
L’uomo l’aveva guardata con
un’espressione mortificata, “No, certo, Lissa,
no”
aveva detto alla fine pieno di vergogna, “Temo solo che
sarò bloccato per
l’eternità con una donna che renderà la
mia vita un inferno vivente” aveva
ammesso.
Lissa lo aveva guardato con serietà, “Allora, mio
signore, non sposatevi” aveva
ricambiato.
Anche perché la sposa non aveva alcun interesse nel
presentarsi all’altare,
almeno a detta di Yusuf.
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Capitolo 10 *** JORDAN I (28 D.F.) ***
Ho
aggiornato prima del previsto, la cosa non si ripeterà,
perché A) Ho quasi raggiunto i capitoli già
scritti e sono andata a rilento
nella scrittura, B) Ultimamente non ho tempo neanche per dormire
…
Tre cose veloci:
1.
Il
28 DF è il periodo con più cambi di POV
(siamo letteralmente 3 diversi pg su 3; c’è un
perché, è questo capitolo da qualche
indizio in merito)
2.
Su
A3O ho fatto una sezione con solo disegni:
https://archiveofourown.org/works/46401199/chapters/116827018
(Ancora Nessun Jordan perchè non so disegnare gli uomini, ma
presto un
Matthias).
3.
Ho
scritto una OS Kaneji che sebbene sia
slegata da questa è in qualche modo correlata, essendo
ambientata nello stesso
universo, chiamata: JORDAN (Probabilmente in seguito ci saranno altre
Os in
questo universo, insomma, mi piacerebbe scrivere di Alina che deve
spiegare a
Genya perché sua figlia si chiama Drina).
Jordan
(28 anni dalla Dissoluzione della Faglia)
Jordan
aveva spostato la zuccheriera osservando la polvere oro-arancio davanti
i suoi
occhi. Aveva sfilato un guanto – non aveva davvero
necessità di metterli, lo
faceva più per estetica, Jesper diceva che era tipico dei
bambini imitare i
propri genitori – ed aveva inserito un dito nella
zuccheriera, per raccogliere
la polvere e godersene il sapore sulla lingua. Aveva sentito una
sensazione
frizzante sulla lingua per prima cosa, poi aveva sentito il sapore
dolce,
zuccherino, ma aveva anche percepito il retrogusto amarognolo che
giungeva in
ritardo sul palato. Il sapore era tutt’altro che era
sgradevole.
Non aveva permesso però alla sua gola, alla sua fame, di
vincere ed aveva
resistito da succhiarne altro dal dito.
“Ottima, vero?” aveva chiesto con eccessivo zelo
Juliana, davanti a lui, con le
labbra aperte in un sorriso da faina.
Juliana indossava una giacca da uomo, corta fino ai fianchi, con il
colletto
ripiegato e i risvolti sulle maniche, lo schema era kaelish, una stoffa
viola
prugna, attraversata da linee rosse e bianche, alternate, che creavano
quadrati
di diverse dimensioni. Sotto la giacca, si vedeva la camicia crema da
uomo, con
le maniche troppo lunghe, e i calzoni beige da uomo. Di solito, le
donne
kerchiane, erano sicuramente meno precise delle fjerdiane, tendevano a
abbigliarsi
sempre in una maniera responsabile, impeccabile e femminile, almeno
quelle da
quel lato del fiume, le donne per bene, ma non
Juliana.
Juliana Van Eck si vestiva come un uomo, in particolare come Jesper
Fahey, solo
con colori più sobri, anzi cupi. “Sì,
penso la migliore Jurda che ho leccato.
C’è da dire una cosa: perché vuoi darla
ai ravkiani?” aveva chiesto Jordan,
relativamente interessato.
Mai mostrare le proprie carte, specie quando
c’erano soldi sul tavolo.
“Perché i Ravkiani sono i consumatori
più accaniti di jurda, in fin dei conti”
aveva cominciato a raccontare Juliana, rimettendo il coperchio di
porcellana
sulla zuccherriera piena di Jurda, per concedersi poi un biscotto al
burro, per
metà glassato di cioccolata.
“Quindi, dai la jurda come dote a Ravka, per dare la tua
amica in moglie al
principe?” aveva domandato retorico Jordan,
“Sì” aveva ammesso Juliana, finendo
di spizzicare il biscottino. Jordan aveva preso la teiera dal tavolo ed
aveva
versato un po’ del tè caldo, nelle due tazzine del
servizio buono di Juliana.
Era stato invaso dal calore del liquido e dall’odore
pregnante, tè alla rosa,
non era kerchiano, veniva da Shu Han ne era certo; “Mi sfugge
il tuo piano”
aveva detto.
Juliana aveva preso la tazza di tè senza che lui la
porgesse, assertiva come
solo lei sapeva essere, “Tuo padre lo capirebbe”
l’aveva rimproverato
bonariamente lei. “Sì, probabilmente”
aveva ammesso Jordan, senza rancore.
Era difficile essere all’altezza dei suoi genitori
– ma lui poteva ammettere di
aver smesso di provarci. Era stata la sua cara madre a dirglielo,
spostando i
capelli dal viso e schioccando un bacio materno sulla sua fronte.
Era affrontabile, voleva trovare una soluzione per
sé stesso,
ovviamente, ma Juliana lo rendeva difficile.
Voleva molto bene alla Signorina Van Eck, erano cresciuti insieme, era
stata la
sorella che non aveva mai avuto, né voluto. Aveva vissuto,
per certi versi, più
a lungo nella casa della Geldstraat
dei Mercanti di dove avesse mai fatto altrove, era nato letteralmente
in quelle
stanze. Se pensava a quel dolce sentimento che era casa, pensava alla
chiassosa
e colorata casa dei Van Eck
Sapeva di avere una camera in quella villa, proprio accanto a quella di
Juliana
e dei fratellastri di lei; ma aveva notato nel tempo mutare la giovane
donna da
una ragazzina vivace, matura, fulgida ad una kerchiana in piena regola.
L’unica cosa che distingueva Juliana dagli altri mercanti
– avidi e macchinatori
– della sua risma era l’ammirazione, assolutamente
non recondita, per
Manisporche.
Il mondo provava repulsione per i signori del crimine, ma non Juliana.
“Hai
servito il tè e non mi hai chiamato, dolce
sorella” aveva commentato una voce
maschile, Jordan si era voltato verso l’uscio di ingresso
della sala di
rappresentanza. Dal corridoio era apparsa una figura, un uomo non molto
alto,
con un viso giovane e cereo, coperto di lentiggini e capelli rosso-oro,
modellati in ricci morbidi. Calmo all’apparenza ed esplosivo
sotto la carne.
Wylan VanEck, il
capo-famiglia,
fratellastro di Juliana e referente al Consiglio dei Mercanti.
“Ero venuta prima, ma da certi rumori che avevo sentito avevo
immaginato che tu
e Jes foste impegnati” aveva risposto Juliana con un sorriso
di bronzo sul viso.
Wylan aveva soghignato alla sfacciataggine di sua sorella.
Si somigliavano, avevano lo stesso apparente viso giovale e gli occhi
azzurri
dolci.
“Buongiorno Jordie, come stai?” aveva chiesto Wylan
direzionando lo sguardo verso
di lui, la solita gentilezza nella voce; ignorando il commento della
sorella
minore.
“Buongiorno! Sto molto bene, passavo di qui e volevo scoprire
quali piani stava
macchinando Juliana” aveva ammesso Jordan, Wylan non aveva
perso il suo sorriso
calmo, mentre si era avvicinato a loro.
“Sei sempre il benvenuto qui, Jordan, anche senza secondi
fini, lo sai vero”
aveva dichiarato Wylan, arruffandoli i capelli, quasi paterno, prima di
occupare una sedia, intorno al tavolo rotondo.
“Comunque, se vuoi risolvere i complotti della mia sorellina,
da solo, non
avrai indizi da me” aveva valutato Wylan versandosi anche lui
un abbondante
tazza di tè, “Resti per pranzo? Ho invitato anche
tua madre” aveva aggiunto con
molto zelo. “Mio padre no?” aveva domandato
divertito Jordan, “Questa casa è interdetta
a tuo padre, specialmente quando il sole è alto”
aveva risposto con una punta
di divertimento Wylan.
Se la presenza di suo padre era parecchio osteggiata in casa Van Eck,
differentemente era per
sua madre, sempre benvenuta. “Vorrei di molto cuore, ma ho un
appuntamento”
aveva ammesso con onestà Jordan.
Un sorriso cattivo era luccicato sul viso di Juliana, “Ma
guarda il nostro
audace Jordie, scommetto che è con la giovane donna ravkiana
con cui sei stato
visto ultimamente” aveva considerato sfacciata.
“Sì” aveva deciso di non mentire Jordie.
Wylan lo aveva guardato, interessato, aveva spostato la sedia per
accomodarsi
meglio. Suo padre non aveva fatto domande in merito a Drina, ‘è
la tua vita,
vivila come vuoi’ aveva detto sintetico, senza
troppa animosità, sua madre
era stata abbastanza contenta, aveva già incontrato Drina e
provava per la
ragazza un affetto autentico, per quanto, a mente di Jordie, fosse
malriposto.
Lui apprezzava moltissimo Drina, ma non era cieco!
“Ti va di parlarne?” aveva chiesto Wylan, paterno,
come solo lui sapeva essere,
“Posso essere molto meno imbarazzante di Jesper”
aveva aggiunto con un guizzo
di malizia.
Jordie aveva sorriso, “Sicuramente meno imbarazzante di
parlare con mio padre di
sesso sicuro” aveva rivelato. A Juliana era andato di
traverso il tè, mentre
Wylan aveva conservato una parvenza di dignità,
“Pensavo che avessi parlato di
questo con Jesper” aveva detto insicuro.
Ovviamente, con api, fiori ed altre splendide definizioni
che lo avevano
terrorizzato da ragazzino, “Sì, e mio padre ha
convenuto fosse più dannoso che
altro” aveva ammesso Jordan. “Oh, Ghezen sarei
proprio curiosa” aveva detto Juliana
recuperando il suo colorito e smettendo di tossicchiare, “Io
no, santi, niente
mi mette più terrore di Kaz che spiega a qualcuno come fare
sesso … spero non
ti abbia portato in un bordello o che so io” aveva
considerato Wylan.
“No, è stata una tranquillissima
conversazione” aveva risposto Jordie, il che
non era una bugia, ma neanche una verità. L’unica
persona che avesse mai spinto
suo padre a tentennare era stata sua madre, per il resto del mondo suo
padre
era un bastardo senza colore che non si sbilanciava mai –
tranne quella volta
con il re consorte di ravka, ma Jordie non sapeva cosa fosse successo,
tranne
che suo padre aveva imprecato, colto di sorpresa. Racconto che lui
aveva avuto
da Dominik, non da suo padre – e per quanto brutto che fosse,
da pensare, Jordan
non lo aveva mai scioccato, non lo aveva mai sciolto, mai sconvolto.
Kaz Brekker lo amava, doveva farlo, anche solo per tenerlo in giro
così a
lungo, ma … era complicato.
Così, quando suo padre aveva saputo della lezione
dell’affettività da parte di Jesper,
aveva convenuto fosse il caso di metterci una pezza. Jordan aveva
adorato quella
giornata, perché per la prima volta al posto del composto e
rigido Signore del
Barile davanti a lui si era palesato un uomo terribilmente umano.
“Non credo di avere abbastanza fantasia per
immaginarlo” aveva ammesso Wylna,
“Io sì!” aveva ribattuto invece Juliana,
“Ma se la prossima volta le serve un’assistente
pratica può chiamarmi” aveva cinguettato,
prendendosi una strigliata dal
fratellastro.
“Adesso devo andare, mi aspettano” si era congedato
Jordan, un tono un po’
troppo alto, leggermente imbarazzato da quella confessione spontanea.
“Oh, se
vuoi portare questa signorina a pranzo, saremmo ben felici di
conoscerla” aveva
considerato Wylan, “Ovviamente intende, interrogarla e
vivisezionarla per
stabilire se è degna del suo figlioccio” aveva
tradotto Juliana.
“Ovviamente” aveva concordato Wylan.
“Non mi permetterei mai di fare un giro in gondola con alcuna
compagnia, senza
la benedizione tua e di Jesper” aveva ammesso Jordie, senza
mentire.
Si era dunque alzato dalla sedia ed aveva recuperato il capello e la
giacca che
aveva fatto cadere rovinosamente su un divanetto, invece di affidarla
ai servi,
per metterla di nuovo.
“Juliana” aveva chiamato la sua amica, Jordan
sistemando il fedora nero, con la
piuma di corvo incastrata nella banda – troppo palese, troppo
poco suo – “I
ravkiani sono già i compratori di jurda maggiori,
perciò con il matrimonio del
principe e della signorina Nassau caleranno gli introiti di Novy Zemi e
le
spese di Ravka, ma è probabile che nessuno si
risentirà troppo, perché Novy
Zemi è la più grande alleata dei ravkiani dalla
Guerra con i Lupi.
Ravka
sarà grata a te per aver fatto
diminuire le loro più grandi spese e Novy Zem quale stato
giovane e senza una
regalità, entrerà ufficialmente come dignitario
nel panorama politico del Mare
Vero. Inoltre, avranno la più solida degli alleati, la
Vendetta su Ali Nere e
la malen'kiy drakon non solo non è ancora
sposata, ma sembra
anche poco interessata ad esserlo” aveva considerato Jordie.
Era divenuto
abbastanza noto che la principessa ereditaria Liliyana Nezialensky
avesse
rifiutato ogni buon pretendente del continente da Shu Han a Fjerda. Non
erano
arrivate ancora proposte da aldilà del mare, ma solo
perché la gente tendeva ad
essere intimidita dalla malen’kiy.
Jordan aveva vista poche volte nella sua vita la principessa, ma era
una
furente copia-carbone della Santa Zoya e tutti si aspettavano da lei lo
stesso
fervore, ma con un quarto della diplomazia – e a detta di suo
padre e di Wylan
la regina non era nota per la sua pazzia. Secondo sua madre, la
Principessa
però aveva preso anche qualcosa da suo padre: sapeva farsi
amare e sapeva
vendersi. Due definizioni che Jordan riusciva a far collidere insieme
con
estrema fatica.
Secondo Dominik sua sorella, alla fine, stremata, si sarebbe arresa al
suo
ruolo e avrebbe sposato un certo Dimitrij, dignitario, giovanissimo
conte e
probabile futuro ministro – che agognava la corona di Ravka
più di quanto lo
facesse la stessa principessa Lilyana.
Juliana si era fatta cogliere di sorpresa per un breve momento, le sue
labbra,
tinte di color mattone, si erano schiuse prima di ritrovare la sua
solita
compostezza, “Forse” aveva concesso.
“Questo ovviamente vuol dire che per recuperare gli introiti
che avevano da Ravka,
i commercianti di Novy Zem dovranno abbassare il costo della jurda per
le altre
nazioni, ergo, Brigitte Scheck perderà probabilmente il
monopolio qui, a
Kerch, così, come dovranno probabilmente alzare il prezzo
dei loro altri
prodotti. L’unico prodotto invariato sarà lo
zucchero, perché Kerch compra lo
zucchero solo dalle colonie e sono i Van Eck a gestire lo
zucchero” aveva
aggiunto.
Un settanta-trenta, ovviamente, una parte era di Kaz Brekker, ma non
era
qualcosa di pubblico dominio.
“Sì, cambia un po’ gli equilibri e si
rende oggetto di gratitudine da grandi
paesi del mondo”
aveva detto Wylan, “Ovviamente se riuscirà a
combinare il matrimonio” aveva
aggiunto.
“Lo farò, la dolce Merissa è
già in brodo di giuggiole all’idea di essere tsarina”
– Juliana aveva utilizzato senza colpo ferire il termine
regale, che sarebbe
dovuto appartenere malen’kiy ma
già vedeva sfoggiato dalla futura moglie
di Dominik – “ E riguardo al bel prins,
lui vuole solo fare contenta la
mamma e riportare a casa una bella moglie con una dote che faccia bene
al suo
paese” aveva aggiunto con spregiudicatezza.
“Vincono tutti, così, no?” le aveva
risposto sarcastico Jordan.
Wylan aveva guardato sua sorella, nel suo sguardo lui riusciva a
leggere
qualcosa, di molto specifico: accondiscendenza.
Come il padre di Jordie, anche Wylan lasciava Juliana giocare alle sue
macchinazioni, per fare esperienza, le ossa.
“Esatto” aveva risposto la donna, “Grazie
ancora per il tè” aveva risposto lui.
Ovviamente
il piano di Juliana per quanto aleatorio, avrebbe potuto funzionare, a
pensiero
di Jordie, ma alla sua buona sorella putativa mancavano alcune
informazioni
chiave: la fame d’amore di Dominik e il troppo amore della
regina Zoya.
La signora di Ravka avrebbe rinunciato anche al suo peso –
nella forma di drago
– in oro come dote se questo avesse reso infelice il suo
piccolo bambino. La
regina Nazyalensky riconosceva l’importanza delle alleanze,
ma lei stessa aveva
sposato un principe bastardo decaduto, che al governo era sempre stato
terribilmente competente, e sebbene molti pensassero lo avesse fatto
per pura
politica, Jordie pensava fosse per amore – perché
Kaz Brekker lo pensava.
E se suo padre che aveva
fatto del cinismo il suo stato naturale credeva a qualcosa di
così incerto come
l’amore, allora doveva essere vero. La Sakta
Vivente avrebbe concesso a
suo figlio qualsiasi matrimonio lui avesse desiderato, che fosse la
figlia più
ricca di Novy Zem, oppure l’ultima contadina di Ravka o
l’ambiguo Ioren
che aveva conosciuto all’università.
Con quei pensieri in testa aveva raggiunto il quartiere universitario
godendosi
qualche chiacchiera lungo la strada con qualche compagno di corso,
assistente o
addirittura professore.
“Signor Ghafa, sto ancora aspettando il suo saggio sulla
Sociologia
Positivista” aveva detto il professor Hekebert, con i baffi
macchiati di crema
e l’espressione pasciuta e felice.
“Sarà fatto” aveva risposto Kaz senza
esitazione, consapevole di quei compiti.
Trovava terribilmente noiose alcune delle lezioni che doveva
frequentare, ma
sembrava indispensabile per avere un’educazione a tutto
tondo. Jordie non
credeva di averne, suo padre era l’uomo più
intelligente di Ketterdam e non
aveva mai frequentato un solo giorno di scuola, con le eccezioni delle
elementari in qualche sperduto paese di campagna; ma Jordan sapeva di
quanto
fosse necessario sapersi presentare. Presentarsi.
Drina era
sul portico del bar degli universitari, seduta ad un tavolino con un
libro di
letteratura in mano, leggeva poche righe e poi gettava uno sguardo
verso la
marmaglia di studenti ed il canale del fiume lì vicino.
Incorniciata sotto il
pergolato in fiore di quel lato del Caffè, sembrava in pieno
una studentessa –
anzi forse un assistente. Con indosso la giacca pesante, aderente, ma
lascia
sbottonata, la camicia scura e la gonna dalla vita alta blu, che
scendeva come
una campana fino alle caviglie. Aveva raccolto i capelli scuri in una
crocchia
ordinata, tranne per i ciuffi della frangia, e tutto di lei sembrava
suggerire
un’idea: anonimato.
L’unico motivo per cui la gente pareva interessata alla sua
direzione, al suo
tavolino, era data dalla presenza di Dominik, elegante e ben vestito
come
sempre, che sfoggiava un sorriso salubre di soddisfazione.
Jordan ricordava ancora vividamente quando si erano conosciuti da
bambini. Sua
madre aveva riportato un gruppo di schiavi ravkiani, grisha o no ad Os
Kervo e
la regina in visita aveva voluto ringraziarla personalmente. Jordie
aveva saputo
che sua madre aveva già avuto modo di conoscere il Drago di
Ravka – come non
sarebbe stato possibile, sua madre che era tanto devota? – ma
quella volta era
capitato anche a lui.
Ricordava la regina Zoya come un immagine distante, ma non il bambino
che l’aveva
accompagnata, più o meno coetaneo di lui.
Dove Jordie aveva ancora i capelli impregnati di acqua salmastra, era
vestito
come un mozzo, l’altro era ordinato, pettinato e profumato.
D’altronde Dominik era il principe di Ravka e Jordie era il
bastardo del
Capitano Ghafa, ma come le loro madre a dispetto del loro titolo, della
loro origine
e del loro ruolo si rispettavano, così avevano fatto Dominik
e Jordie.
E poi si erano ricontratti in università. Ovviamente, Jordie
aveva saputo prima
del mondo intero, che quando era attraccata la Bol'shoy Siniy,
grande
blu, un piroscafo, quasi unico, innovativo nel suo genere, con due
canne
fumerie cilindriche al posto di alberi, con fumo nero come una cortina
– una
mano grisha ed una mente regale come si era detto, una delle nuove
creature di
Nikolai di Ravka – tra i veri dignitari, incluso il Re
Consorte in persona era
scivolato fuori anche il principe.
Solo che quando la bestia di fumo aveva ripreso il mare, alcuni
dignitari erano
rimasti e tra questi il bel principe dagli occhi zaffiro.
Jordie lo aveva rincontrato lungo la cittadella universitaria una
settimana
dopo, era stato Dominik a chiamarlo, a gran voce, da un lato
all’altro del
giardino di botanica. Lo aveva chiamato con lo stesso tono che si
rivolgeva ad
un vecchio e caro amico.
Non lontano dai due sedeva il grisha inferno che seguiva
pedissequamente sempre
il principe, solo che in quell’occasione aveva dismesso la
sua kefta blu, in
favore di qualcosa di più comune, anche se Jordie sapeva non
fosse affatto
preoccupato di girare per la città con indosso il suo abito
simbolo, ‘Che
provassero a prendermi, adoro la carne di maiale alla brace’
aveva risposto una
volta quando Jordie lo aveva interrogato.
Quando si
era avvicinato ai due, aveva sentito Drina parlare, aveva una voce
morbida come
il velluto, era qualcosa che aveva dovuto costruire negli ultimi
quattro anni.
La prima volta che si erano conosciuti, Jordie aveva solo quattordici
anni e
Drina sedici, eppure sembrava che il vissuto che gli aveva attraversati
fosse un
abisso profondo.
‘Ogni tanto le persone vivono esperienze, traumi, che li
invecchiano. Vedere
ogni giorno l’innocenza nei tuoi occhi è
una delle mie più grandi gioie’
aveva detto sua madre, quando Jordan, tredicenne senza arte
né parte aveva
chiesto perché Drina fosse così vuota.
In realtà, Jordan pensava che Drina avesse, anche,
in quel momento ancora
una certa vacuità. La conservava negli occhi blu che
sembravano sempre guardare
lontano e contemporaneamente non vedere niente, la piega in
giù delle labbra
quando pensava di non essere guardata, ma per tutto il tempo si
sforzava di
apparire piena. Aveva cambiato la sua voce, invece che rigida e
raschiante,
come quella di un animale, in quel momento era di velluto, come se
tutto
l’atteggiamento di Drina volesse esprimere mistero.
Aveva modificato anche l’aspetto, non erano semplici
modifiche date dall’età,
infondo Drina aveva smesso di essere una ragazza per apparire una donna
di
ventuno anni, ma era lavoro degno di una forgiata tailor, aveva
assottigliato
il naso, appena un po’ il mento sporgente, reso la pelle di
una tonalità più
rosea e viva, le ciglia più nere e lunghe. Sarebbero stati
cambiamenti
impercettibili, invisibili, se Jordie non avesse impresso ogni cosa di
Drina
quella volta che l’aveva conosciuta anni prima.
E da quel momento aveva fatto ogni cosa per vederla ancora, senza
sapere
perché. Era andato ad Os Alta, era andato a Keramzin, sua
madre si era
totalmente innamorata del Castello, dell’Orfanotrofio
– e, Jordie quasi osava
dire, della padrona di casa
– si era infilato nella
Palude D’Oro – suo padre quando lo aveva saputo si
era tolto il capello ed
aveva sorriso con fierezza, qualcosa a cui Jordan non era abituato
– l’aveva
incontrata altre volte; si erano anche scritti.
Era stato eccitante, quando il messo dei quartieri alti aveva fatto
sapere lui
che una lettera era giunta alla dimora dei Van Eck, per lui, da Os Alta.
A Drina non piaceva mai restare troppo a lungo in posto, ovviamente per
Jordie
questo era stato ancora meglio, infondo sua madre era una girovaga, la
sua
famiglia era Suli, per i Suli non esisteva mai un luogo che valesse la
pena di
essere vissuto troppo a lungo.
E poi qualche settimana prima, con il mare nero dritto come una tavola
tra i
mercantili di carico e scarico, a Quinto Porto Drina era scesa, la
kefta viola
rovesciata, perché si vedesse il nero imbottito e non il
colore, gli occhi blu
pieni di caos ed i capelli lunghi arricciati dalla salsedine.
‘La grisha che ti piace molto è arrivata
a Ravka’ aveva detto solamente
suo padre, con un tono incolore, come lui sapeva fare, ‘E
ho la netta
sensazione che la vedremo presto in giro.’
Ovviamente Kaz Brekker non aveva sbagliato.
“Vorresti
che andassi a Shu Han?” aveva domandato Dominik,
“Certo a breve ci sarà
l’incoronazione della nuovissima regina Taban: Dala? Dalai?
Dali? Sarà la prima
incoronazione dopo un decennio in cui parteciperanno tutti i dignitari,
incluso
tua madre e tua sorella” aveva raccontato Drina, “E
sarà la prima regina, a Shu
Han, ad essere incoronata in ventiquattro anni” aveva
aggiunto pratica.
“Buongiorno” li aveva interrotti senza grazia
Jordan.
Fino a quel momento, prima della scelta della giovanissima principessa
Dalai,
sedici anni compiuti da un mese, il trono era stato equamente diviso
dalle due
sorelle Maki ed Erhi, “E sì, Drina ha ragione,
finirà l’epoca della Reggenza”
aveva dichiarato lui.
Nonostante nessuna delle due potesse fregiarsi del titolo di regina
Taban,
spesso il loro popolo, o letteralmente chiunque, si era riferito a loro
come le
“due regine”.
L’epoca della Reggenza, l’Epoca delle due Regine,
non aveva più senso. Erhi era
stata sostenuta da Ravka, Makhi da Kerch – quasi per
infastidire Ravka – Novi
Zem e le Colonie avevano seguito i loro alleati per eccellenza e Fjerda
e le
Isole Erranti si erano tenuti alla larga del conflitto.
Nessuna delle due Regine aveva mai sottomessa l’altra, Shu
Han era resistita, quasi
ad un quarto di secolo, a quello che i letterati avevano chiamato
l’Invisibile
Guerra Sociale; il paese era stato diviso e logorato a metà
dai due partiti.
Erhi la buona e Makhi la saggia.
Kerch ne aveva mangiato un po’ con armi, cospirazione,
guadagnando i territori
del Corridoio di Terra ed anche la buona Ravka, aveva ristabilito,
senza troppo
eccedere – forse un po’
–definitivamente i suoi confini meridionali,
prendendosi anche qualcosa in più … ma
l’Anarchia Shu Han giungeva alla fine:
la Regina Dalai avrebbe ricucito il suo paese.
“Lo so, evento mistico, il trono Celeste tornerà
occupato, Dalai – Drina questo
è il nome – non
può prendere marito, ma
ha cugine e cugini a volontà. Inoltre, pare che mia sorella
stia valutando di
mandarmi come concubino, citando il caso di un tale Jiao Yul-Kaatar che
è
riuscito a scacciare tutto l’harem di sua moglie, la regina
Hua Kir-Taban e
diventare il suo unico amante e padre dei suoi figli” aveva
dichiarato annoiato
Dominik, sciorinando le sue conoscenze in storia internazionale e
comparata.
Secondo Jordan c’era boria nello sguardo del principe,
probabilmente come
preventivato da Juliana, Dominik stesso si vedeva già
camminare per la navata
della cappella palaziale con la giovane Merissa Nassau – e
probabilmente
sognava di farlo con Ioren.
“Certo, peccato che hanno avuto tutti figli maschi”
aveva replicato Drina, “Il
trono è andato a Siam Kir-Taban nipote di Hua, figlia del
fratello gemello, che
prese una schiera di trenta uomini come compagni – sebbene si
dica che dormisse
ogni notte con Toyla Yul-Taban ,suo cugino, figlio del famoso
Jiao” aveva
risposto a tono Dominik. “Vedi è
perfetto” aveva chiocciato Drina, “Non pensarci
neanche, signorinella” aveva ribattuto il suo amico.
“Buongiorno, Jordie sono felice di vederti” aveva
detto poi Drina, voltandosi
verso di lui, dopo aver scosso il capo, e sorridendo.
“Sì, Jordie, salvami dal mio futuro in un
harem” aveva commentato Dominik con
un tono immensamente melodrammatico, “Amante della donna
più importante di Shu,
con la possibilità di mangiare frutta vera, vestito di sete,
con le tasche traboccanti
d’oro, lontano da tua madre e tua sorella e dal loro potere
e, soprattutto,
circondato degli uomini più belli del mondo? Oh, che triste
destino ti aspetta
amico mio” lo aveva spietatamente preso in giro Jordie.
“Oh, santi, se la metti così, prendo un cavallo e
vado dritto sul Corridoio di Terra,
per gettarmi nudo sui cuscini di seta di Dalai, ora” aveva
dichiarato Dominik
senza perdere mordente.
“A parte gli scherzi, mio principe, dovresti andare. Shu Han
sarà nervoso, per
la riunificazione, per dover apparire splendidamente con tutti i
dignitari, tra
cui un drago e … la principessa non è una donna
molto diplomatica” aveva
commentato Drina, “Il fascino di cui godono gli uomini della
famiglia Nazyalensky
converrebbe” aveva aggiunto.
“Liliyana è assolutamente la regina della
diplomazia – la ho vista intrattenere
il Marshall di Isola Errante un’intera serata parlando
solamente dei lanci del
ceppo” aveva considerato Dominik, “E posso
assicurarti che ad inizio della
serata al Marshall interessava conversare con me di ceppi”.
Forse era vero, forse no, ma le chiacchiere che aveva raccolto Jordie
dipingevano la principessa della corona come una figura tragicamente
contraddittoria.
“Come potrai ben ricordare, ci sono cose e persone che
rendono tua sorella una
persona difficile” aveva insistito Drina, con i denti
stretti, “Inoltre, sarà
un momento eccezionale. L’ultima volta che tanti dignitari
sono stati presenti
ad una incoronazione, era tua madre la protagonista della
vicenda” aveva
considerato. “E tua madre è un drago”
Jordan aveva aiutato Drina.
Lei aveva ricambiato con un sorriso, che aveva quasi raggiunto gli
occhi.
“Ci penserò Drina, ma ora ti abbandono alla
compagnia di Jordie, ho un saggio
di letteratura che non si scriverà da solo” si era
declassato il principe.
Dominik lo aveva guardato, “Mi raccomando, Jordie, caro, non
farmi sfigurare”
gli aveva detto affabile, ammiccando a Drina. Lui aveva sollevato un
sopracciglio, “Salutami Ioren” aveva replicato
Jordan, desideroso di
infastidire il suo amico, ma anche pago che i due ragazzi avessero
fatto la
pace.
Dominik non aveva dato soddisfazione di impensierirsi.
Anche Kos l’Inferno si era congedato senza una particolare
parola e solo uno
sguardo al vetriolo verso di lui – Jordie sospettava fosse
infatuato di Drina.
“Alla malen’kiy
mancherà la diplomazia, ma a te manca la
sottigliezza”
aveva considerato Jordie. Drina lo aveva guardato con un certo biasimo,
“Non
chiamarla così” lo aveva rimproverato.
Un’espressione mortificata era balenata sul viso di Jordan,
Drina aveva
ripreso: “Sì, non lo ho mai negato, non pecco di
modestia, ho moltissimi pregi
e talenti, ma non so danzare in una sala da ballo né con le
parole” aveva
ammesso Drina senza scomporsi, “Mio padre era un soldato ed
è un cacciatore ed
io sono come lui, sono una donna che lavora con i fatti non con le
parole”
aveva ammesso. “Scommetto che invece sai ballare molto
bene” aveva considerato
lui, “Mezzo Piccolo Palazzo può confermarti che ho
la stessa grazia di una mucca
in tullè” aveva replicato mordace Drina, prima di
voltare lo sguardo con un
certo distacco al libro che stava leggendo.
Jordie lo aveva guardato: ‘Racconti di Eventi
realmente successi ma mai
avvenuti’.
“Lo ho letto. Interessante” aveva considerato
Jordie, “Quale ti piace di più?
Il principe che era un pirata? La Santa che non è mai morta?
Il finto concilio
delle maree che interrompe l’asta
dell’Avvelenatore? La Drusja che ha
mentito ad una nazione?” aveva chiesto Drina rinvigorita.
Racconti di Eventi realmente successi ma mai avvenuti
era una simpatica
raccolta di storie improbabili, ma non impossibili, di eventi
teorizzati ma mai
dimostrati in pieno, mai avvenuti, nonostante qualcuno spergiurasse di
essere
stato lì. Si diceva che il libro fosse stato scritto dal
Santo del Libro, lo
stesso che aveva vergato Istorye’Sakti,
nessuno ne aveva la prova, ma le
copie, come piccoli miracoli erano cominciati ad apparire un
po’ ovunque e poi
le tipografie avevano fatto il resto.
“Mi piace la Drusja, mi piace che il suo
dolore così forte, così
stordente non le hanno avvelenato il cuore e che sia riuscita ad amare
ancora e
salvare gente che non le avrebbe mai reso la stessa cortesia”
aveva ammesso
Jordie. “Hai un’anima romantica Jordan
Ghafa” aveva considerato Drina, quasi
emozionata. “Nonostante il mondo in cui viviamo, non ne ho
mai fatto un
segreto” aveva dichiarato lui.
Il sorriso di Drina era rimasto onesto sul viso chiaro.
“Ho bisogno del tuo aiuto” aveva detto alla fine
lei, “Per quello che hai chiesto
a mio padre?” aveva chiesto circospetto. Drina aveva scosso
il viso, in segno
di diniego, “No, no. Come ricorderai: amo molto viaggiare ma
non ho mai avuto
molto senso dell’orientamento, o meglio, ritrovò
sempre il vero nord, ma
sono meno fortunata con il nord in generale” aveva spiegato
Drina, “Devo
raggiungere un paese Nejegem o Nijegem non ricordo, so che si trova a
sud”
aveva confessato lei, “Un luogo di granchi, sale e poco
futuro”.
“Ti confido che non ne ho la più pallida idea, non
sono mai andato troppo a
sud, solo nella tenuta di campagna dei Van Eck dove vive la madre di
Juliana”
aveva ammesso, c’era stato un lungo momento di pausa. Aveva
pensato ad Alys,
che aveva gli occhi pieni, lo stesso naso all’insù
di sua figlia, che cantava
stonata come una campana con il suo amante suli e i suoi due figli
spuri misti.
Come Jordie.
“Ma sarei felice di aiutarti a trovare questo posto ed andare
se tu mi dicessi
perché” aveva considerato.
Drina non aveva perso il sorriso, “Giustamente per
metà sei figlio di ravka, ma
l’altro lato è tutto kerch. Dare-avere
è sempre la prima regola” aveva
risposto lei. “Oltre i santi, credo in Ghezen è
quello è il suo unico
comandamento” aveva confessato Jordan.
“Niente di troppo scabroso o pericoloso, voglio solo andare a
trovare una
vecchia amica” aveva concesso Drino. Nonostante avesse
cercato di nasconderlo,
un tono pregno di angoscia si era gonfiato nella sua voce.
“Elabora” aveva replicato Jordan.
L’altra non aveva perso il sorriso ma i suoi occhi si erano
fatti leggermente
cupi, “È una persona a cui tengo molto e che non
vedo da anni, abbiamo
condiviso qualcosa, brevemente, ma è stato
importante” aveva spiegato. A
Jordie, in tutta la sua meschinità, quella descrizione non
era piaciuta.
“Dopo questa visita, andrai anche tu ad Ahmrat Jen per
l’insediamento del Trono
del Cielo?” aveva chiesto Jordie, per rompere il silenzio
creato.
“Oh, sì, be, ero stata invitata,
sorprendentemente, ma credo proprio andrò
nella direzione opposta” aveva considerato Drina, il suo tono
era acuto e preoccupato.
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Capitolo 11 *** ELEN (22 D.F.) ***
Capitolo
più breve del solito, perché chiaramente i
capitoli del 22 sono i più “pesanti”
da scrivere ed ammetto di non sentirmi mai troppo a mio agio neanche
io. Nella
mia testa doveva essere tutto molto più turpe di quanto non
appare, ma, ehi, ho
scoperto di essere molto più “morbida”
di quanto credessi.
TW:
Utilizzo di droghe, utilizzo di droghe non consensuale, riferimenti ad
esperimenti su soggetti umani, riferimenti a schiavismo, rapimento,
de-responsabilizzazione
e riferimento alla morte.
Elen
(22 anni dalla
Dissoluzione della Faglia)
Caitlyn
si era accasciata per terra, non riusciva più a camminare.
Ogni sua frase, ogni suo pensiero, continuava a finire unicamente ad un
pensiero: Parem!
So che hai la parem!
Datemi
la parem!
Parem!
Ho
bisogno della Parem!
Cazzo!
Vi odio, loro avevano la parem!
Parem!
Parem!
Elen
le aveva accarezzato i capelli, quasi materna, imitando i gesti che sua
madre,
la maestra Ekaterina e di tanto in tanto Shioban facevano per calmarla
quando
aveva la febbre ed era scossa dai tremori.
“Falle bere un po’ d’acqua”
aveva sentito la sua amica, era arrivata, con una
coppa fatta di pietra e legna lavorata, per avere un beccuccio, con cui
bagnare
le labbra crepate di Caitlyn.
Nei giorni precedenti erano riusciti a malapena a farla mangiare. Elen
aveva
studiato che la parem prosciugava ogni emozione, ogni forza, ogni
pensiero,
lasciava quello che era un essere umano come null’altro che
un vuoto, un
niente, un nichelov’ che poteva essere
riempito e soddisfatto solo dalla
fame di parem.
Anche
Hati era riuscito a mangiare solo un paio di strisce di carne secca,
del daino
che erano riusciti a catturare con fatica.
Caitlyn
non aveva mangiato nulla, o quasi, e quel pochissimo che le era stato
infilato
di forza in gola era stato rivomitato dopo poco dopo. Il loro tentativo
di
rinforzarla non aveva fatto altro che fiaccarla.
Malcom aveva vomitato un po’ di improperi, nella sua lingua,
prima di
guardarle, con lo stesso sguardo furente di una bestia ferita,
“Per lei è
tardi” aveva detto, voleva essere duro, crudele, ma sembrava
solo disperato.
Elen
sapeva fosse così, se fossero stati a Ravka avrebbero avuto
un antidoto, e se
non l’avessero avuto per quella formula, Leoni lo avrebbe
trovato. Elen aveva
posato le mani sulle guance di Caitlyn, usando i venti per
raffreddarle, per
abbassare il calore bruciante del suo corpo.
Anchel
si era chinato accanto a loro, il suo bellissimo Anchel dal viso magro,
l’incarnato come lo zucchero-cotto, quasi livido, e sudato
che continuava a
premere e schiudere le dita per rallentare un cuore galoppante.
Caitlyn
non riusciva più neanche a muoversi, ogni suo respiro pareva
un’agonia.
Elen
sapeva che la parem poteva anche fare quello, ma non lo aveva mai
veduto; nessun
grisha, in nessuna parte del mondo, moriva più di parem.
Hati
si era avvicinato a loro, le aveva messo una mano sulla fronte di
Caitlyn, i
suoi occhi scuri erano vuoti.
Consapevole
di vedere il suo avvenire,
pensava Elen con melanconia.
“Sei
una materialki, giusto?” aveva chiesto Hati, anche se ne era
già consapevole,
guardando la ragazza con l’acqua.
Aveva
trascinato lei fino a quel momento Caitlyn ed aveva aiutato a
fabbricare i
vestiti con tutto quello che erano riusciti a rubare, dalle pelli
lasciate ad
essiccare e le tovaglie stese al sole.
“Sì, lo sono” aveva risposto quella,
“Ho ancora della parem in circolo, puoi …
puoi estrarne un po’ da dare a lei?” aveva chiesto
pieno di dolore ed
incertezza.
L’altra aveva schiuso le labbra, colta di sorpresa a quella
richiesta, “Io …
sì, io penso di potere” aveva confermato, posando
la ciotola colma d’acqua sulla
terra umida.
“No!”
aveva gridato Elen, invece, “Se lo facesse rischierebbe di
avvelenarsi anche
lei ed a quel punto sareste in tre ad avere una dipendenza”
aveva esclamato,
ricomponendo la sua figura composta – ‘ Sempre
composta, bambina. Sempre
composta’ una voce aveva echeggiato in lui
– ma dentro di lei spaventata
che quella folle della sua amica potesse davvero farlo.
“Inoltre, la parem che
ti prenderebbe non soddisferebbe Caitlyn e lascerebbe anche te in
agonia” aveva
aggiunto misurata.
La
verità era che non voleva rischiare di perdere la sua
migliore amica.
Non
poteva perderla! Ne lei, ne Anchel ovviamente!
La
materialki aveva sospirato, “Si può sopravvivere
alla parem, anche senza
antidoto, anche abbastanza a lungo senza antidoto.
Con una versione
molto meno raffinata di quella della Ji-Han, Sankta Leoni e Sankt Adrik
sono
riusciti a portare una nave di donne grisha drogate di parem fino ad Os
Kervo,
da Gafvalle” aveva spiegato Anchel.
Elen
lo aveva guardato, “Nina Zenik, no, lo dicevi anche
tu?” aveva aggiunto
retorico il corporalki, guardando la loro amica.
“Chi
è questa Nina Zenik?” aveva chiesto Malcom
avvicinandosi a loro. Si muoveva
circospetto come una bestia selvatica ferita, costretto
all’aiuto degli esseri
umani contro ogni suo principio. “Una grisha corporalki. Ha
preso una dose di
Parem, mentre era alla Corte di Ghiaccio ed è
sopravvissuta” aveva spiegato
chiara la sua amica, “Di ritorno a Ravka ha scritto un
resoconto sugli stati
della dipendenza e disintossicazione” aveva spiegato
cristallina Elen.
Anchel
aveva disteso le sue dita e le palpebre di Caitlyn erano tremolate
prima che
scendessero per chiudersi, così come il respiro si era fatto
più lento, ma
ampio. “La ho fatta addormentare, così
soffrirà di meno” aveva spiegato Anchel
gentile.
“Sembri
il maestro Mikhail, ora” aveva sospirato Elen,
“Speravo più in Vladislaw Effimov”
si era concesso un sorriso timido Anche. La scena che si era intessuta
tra loro
era durata poco, in quanto il suo amico aveva aggiunto:
“Però, Caitlyn ha
bisogno di un letto, uno vero, dove poter
riposare” aveva ammesso.
“Questa zona pullula di villaggini da dieci case massimo,
forse un letto lo
possiamo trovare” aveva commentato la sua amica, passando ad
Elen l’acqua, “Io
e Malcom andremo a cercare qualcosa” aveva stabilito lei,
alla fine. “Perché
decidi sempre tutto tu?” aveva chiesto il kaelish con
espressione turpe,
“Perché senza di me, saresti ancora in una
gabbia” aveva replicato lei, senza
battere ciglio. Sempre sicura e sempre forte, perché sentiva
bisogno sempre di
mostrarsi una roccia, anche se quello avrebbe dovuto essere il ruolo di
Elen,
che era invece sempre così patetica.
Elen aveva sorriso davanti a tutta quella spavalderia, anche se sapeva
fosse
solo scena, per lo più.
“Hati, puoi … puoi andare con loro?”
aveva chiesto, invece Elen, con più
gentilezza, verso il ragazzo delle colonie. Non lo conosceva bene, non
lo
conosceva abbastanza, ma avevano vissuto lo stesso dolore.
Lui aveva annuito.
Così
erano rimasti loro:
Caitlyn che dormiva, stesa sulla terra,
Anchel che si occupava di lei ed Elen che continuava a camminare avanti
ed
indietro piena di ansia, nervosismo e sufficienza.
Ed ovviamente il giovane sadico dottore Shu.
Elen
gli aveva lanciato uno sguardo, sperando di trovarlo ancora sofferente,
non
aveva più detto una parola da quando avevano parlato della
dottoressa.
Lei
non aveva voluto elaborare oltre la sua risposta. Non aveva mai, mai,
ucciso
nessuno prima della donna, o le vittime accidentali, che erano
scaturiti dalla
sua fuga, o tutti gli abitanti della nave, ma la dottoressa
… la dottoressa era
stata la prima persona che Elen aveva mai voluto uccidere e
… l’aveva fatto.
Le aveva strappato l’aria dai polmoni, l’aveva
vista morire così, annaspando per
l’aria.
Troppo
velocemente.
Troppo
dannatamente veloce.
E
solo ore, ore, dopo mentre Hati aiutava ad
asciugare l’acqua che la
impregnava aveva sentito il senso di colpa annegarla.
“Morirà?”
aveva chiesto alla fine al ragazzo Shu, attirando la sua attenzione.
Era seduto in disparte, con gli occhi d’oro, pieni di cattivi
pensieri, come un
cielo nebuloso, i polsi arrossati dalle ossa di narvalo.
“Credo
di sì” aveva risposto lui, dopo un momento di
silenzio, colto di sorpresa per
essere stato interrogato. “No! Voglio i dati alla mano, tutti
quei maledettissimi
appunti che hai preso” aveva dichiarato lei, ferace.
Il
ragazzo era soprassalito, non aspettandosi
quell’aggressività, ovviamente fino
a quel momento Elen si era mostrata sempre calma e gentile,
perché la cortesia
era un’armatura e perché sapeva di dover
guadagnare la fiducia dei suoi
carcerieri. Prima i pirati schiavisti, Elen aveva osservato Ekaterina
cercare
di riuscire a negoziare con loro, avevano cercato di utilizzare ogni
arma in
suo possesso per aiutarli, ma era tutto finito in polvere.
Quando
era arrivata la Pazmer Kosti
- così l’avevano
chiamata gli schiavisti, un nome, un presagio – per
prenderli, con quegli occhi
gialli come quelli di un falco, predatori, per sceglierli,
nessuna delle
parole della maestra Ekaterina avevano avuto successo.
“Questi li ho presi
proprio pensando a te” aveva dichiarato lo schiavista,
tirando Anchel per un
orecchio, orgoglioso come se offrisse il miglior fagiano ucciso durante
la
caccia.
Elen
ricordava ancora nella sua testa le suppliche di Ekaterina, alternava
richieste
di lasciarli o di prenderla, di prenderla con loro o solo lei.
Non
riusciva a smettere di pensare alle sue suppliche, ai suoi grigi occhi
grandi
come quelli di una cerbiatta e … santi, l’avrebbe
mai, mai, rivista? Cosa le
era successo? Cosa ne avevano fatto li schiavisti? Dove era finita?
Lo
shu si era morso un labbro, “Credo …
l’ultima dose la ha avuta otto giorni fa,
una misura di quindici grammi. Aveva cominciato il nuovo protocollo due
settimane fa, quindi, non avevamo ancora una chiara idea”
aveva ammesso con le
mani tremolanti, che continuavano a tamburellare tra loro.
“Sankti” aveva ringhiato Elen, colta dalla
frustrazione, “Le avremmo dato la parem
oggi, forse domani” aveva aggiunto, incerto, come se avesse
voluto rendersi
utile.
Anchel si era voltato verso di loro, gli occhi scuri quasi luccicanti,
carichi
di rabbia e dolore; “Lo sapete, voi, bestie infernali, che
esiste un accordo
per il trattamento dei Grisha nel vostro paese?” aveva
ringhiato.
“Sì”
aveva risposto il ragazzo senza battere ciglio, “Non eravamo
in terra Shu, non
agiamo sotto una bandiera Shu” aveva cercato di
giustificarsi, Elen aveva
dovuto combattere l’istinto di prenderlo a schiaffi.
“Inoltre” aveva osato parlare ancora lui,
“L’accordo era stato firmato da
Nikolai Lanstov e Makhi Kir-Taban, ambedue al potere
illegittimamente” aveva dichiarato,
con voce cupa.
Elen lo aveva guardato con odio, “L’accordo
è stato confermato dalla Regina
Leyti Kir-Taban, rinnovato dalla Reggenza e dalla
Regina Zoya Nazialesky
e … scommetto sarà riconfermato dalla futura
regina-Shu-che-verrà” aveva
ripetuto cercando di recuperare la sua diplomazia.
Poi lo aveva visto, lì su quel viso
contrito, l’unica espressione che
fino a quel momento Elen aveva voluto vedere: più del
dolore, più
della paura, addirittura più del
dispiacere, la vergogna.
Un dipinto intenso, la consapevolezza dello sbaglio, il senso di colpa,
la
vergogna verso se stessi. Aveva sorriso di quello, in una maniera
quasi, quasi,
soddisfatta, se non si fossero ritrovati nel pieno nord
dell’entroterra
fjerdiano, dopo aver passato settimane di prigionia dagli schiavisti e
poi sai
sadici scienziati Shu.
Sentiva
ancora dolore alle braccia, per quanto l’avevano costretta
alla sua innaturale
rigidezza, proibendole di usare il suo potere. Si era sentita
più di una sankta,
quando era stata finalmente libera, una dea.
“Provi
rimpianto?” aveva chiesto mordente. Dormi bene la
notte?
“Sì,
a dispetto di quel che potete credere, non avevamo alcun interesse nel
torturare
grisha. Non abbiamo creato Cuori-di-ferro, né assassinato
consiglieri” aveva
replicato calmo il giovane Shu. “Oh, certo, quale era la
nobile missione?”
aveva detto Elen, ironica, ma una parte di lei, sottile, anche curiosa.
“Ridurre gli effetti collaterali della parem. Rendere la
possibilità di usarla,
senza incontrare rischi, dalla dipendenza alle alterazioni
permanenti” aveva
ammesso, sembrava stanco.
“Torturandoci” aveva esclamato Anchel,
introducendosi nel discorso.
“Pochi per i molti. Liberi dai limiti
della forma” aveva commentato,
“Non è diverso dall’utilizzare un
amplificatore. Non diverso dal trasformarsi
in un drago” aveva dichiarato lo shu, “Quello era
uno dei nostri compiti” aveva
sottolineato.
Uno
dei.
Quali altri?
“La
parem non è come un amplificatore
– corrotto o naturale che sia – è come
il mezorast. È tentare di dominarla è
un’eresia. Utilizzarlo è una follia”
aveva dichiarato con un tono spento, incolore Elen, ricordando quel
discorso
fatto infinite ed infinite volte dalla Fenice e dagli altri insegnanti
al
Piccolo Palazzo.
“Il mezorast ha creato la faglia, la parem morte,
infinita” aveva aggiunto con
voce acre.
“Il mezorast ha creato la faglia e la ha anche
distrutta!” aveva replicato lo
Shu, “Esiste un detto, da noi, a Ji-Han nel profondo sud,
esistente da prima
che Shu Han stessa esistesse. Quando era il tempo dei Regni
Combattenti, Id
shid bol bidnii tailbarlaj chadakhgüi bükh medleg yum!
che è sempre stato il mio credo” aveva
affermato il ragazzo.
Elen
si era fatta rigida, riconosceva un po’ di shu in quelle
parole, ma non
abbastanza, “Non so cosa voglia dire” aveva
ammesso, consapevole che avesse
sentito alcuni scienziati parlare sulla nave. “Magia
è tutto il sapere che
non possiamo spiegare” aveva risposto lui,
“Li Ji-Han erano un popolo di
osservatori. Mentre nel mondo si raccontava che la pioggia fosse un
dono dei
sei guerrieri, a Ji-Han si studiava come e perché, nessun
uomo nel cielo” aveva
spiegato. “A Ravka chiamate la magia con lo stesso termine
antico con cui
intendete le abominazioni, ma chiamate la piccola scienza in maniera
diversa,
perché ne riconoscete una diversità, ma a Novyi
Zem, piccola scienza, miracolo
e magia hanno il medesimo nome. Sai perché?
Perché la magia è probabilmente una
scienza non ancora conosciuta. Lo hai detto tu la Parem è
come Magia, solo che
non lo è, è scienza. Allora forse anche la magia
è scienza. Dall’altronde fino
a quattrocento anni fa, la piccola scienza era magia, per le Isole
Erranti è
ancora così.
Ma
come dite sempre: non è magia è solo
manipolazione delle particelle. La
parem è stata creata da un uomo, può essere
modificata, aiutata, come le prime
abitazioni erano di fango e legna ed ora costruiamo ville di pietra
enormi con
lussureggianti giardini; forse anche il mezorast è nato da
mano umana, da Ilya
Morozova magari, o un altro di quei santi. Forse un modo per accedere
alla
materia in maniera più profonda” il ragazzo aveva
fatto un lungo respiro, dopo
aver vomitato tutte quelle informazioni.
“Come un tempo
guardavamo gli alberi bruciare,
colpiti dai fulmini, interrogandoci, ora sappiamo controllare il fuoco,
ricrearlo, con la piccola o la grande scienza se permetti.”
Elen lo aveva guardato, poi aveva sollevato le mani e molto lentamente
le aveva
unite in una serie di battiti ironici molto lenti, “Ottimo
comizio, davvero”
aveva dichiarato, “Ma le vostre ricerche sono state fatte
sulla pelle di povera
gente e Caitlyn sta male” aveva detto fredda, nascondendo
l’incertezza nella
voce.
Voleva
scalciare via quei pensieri dalla sua testa, ma era certa che
difficilmente
sarebbe riuscita a farlo; perché riusciva a trovare un senso
a quelle parole e
non voleva, non voleva dover giustificare nulla.
Aveva declinato il suo sguardo a Caitlyn, Anchel si era tolto la giacca
pesante
per avvolgerla attorno alle spalle della ragazza. “Pochi
contro molti”
aveva ripetuto l’uomo tentennante. Elen aveva sentito le
nocche sbiancare, per
tanto che aveva stretto i pugni.
“Perché
non la hai presa tu la parem?” aveva chiesto retorica Elen.
“Alcuni dottori lo
hanno fatto, hanno testato ogni nuova varietà che creiamo
nella speranza di
trovare una varietà che permetta di funzionare anche su uno
otkazat'sya, ma moriamo.
Solo quest’anno solo morte dodici persone” aveva
raccontato. “Sono sicura
fossero più i grisha” aveva replicato lei, fredda.
Il
ragazzo l’aveva guardata, negli occhi gialli, come quelli di
una tigre, aveva
ancora la vergogna incisa in lui, “Facevamo quello che
ritenevamo giusto, Yuyeh
Sesh così si dice, ma accetto il tuo odio ed il
tuo rancore, perché è un tuo
diritto” aveva detto quello.
Elen
era rimasta scottata da quella frase, “Ma non
chiederò scusa” aveva
detto lui, “Bene, perché la mia cultura non le
accetta” aveva replicato lei,
senza perdere mordente.
Le sopracciglia del ragazzo si erano incrinate, confuse da
quell’unica frase.
La
conversazione non aveva avuto seguito, specie perché i loro
compagni erano
tornati, “Non avete trovato nulla?” aveva chiesto
Anchel prima ancora di lei.
“Abbiamo
trovato un paese non molto grande” aveva ammesso Malcom,
“Pastori per lo più”
aveva detto, “L’ultimo guaritore che avevano se ne
è andato, non ho idea del
perché” aveva raccontato poi Hati, ma Elen poteva
chiaramente vedere sul viso
della sua amica ci fosse qualcosa di più. “Non
sembrano minacciosi, ma lei ha
insisito nel non farsi vedere” aveva spiegato il kaelish
“Cosa vuoi dirmi?” aveva domandato poi, la sua
amica l’aveva presa per mano e
l’aveva allontanata, con sguardo marziale.
“Ho
rubato della jurda” aveva detto con voce bassa, frugando in
una tasca che si
era fabbricata nel cappotto rubato, estraendo un sacchetto,
“La Jurda costa
molto, specie qui nel nord, alla strettoia, lontano dalle vie
commerciali del
Mare Vero. La ho percepita appena sono arrivata al paese”
aveva considerato,
passandola a Elen, “Così mi sono detta: o hanno
trovato il modo di coltivare la
jurda, cosa che neanche nelle serre di Ravka sono mai riusciti
– e fidati ho
passato molto tempo in quelle serre – o hanno una fornitura
molto buona” aveva considerato
cupa.
“E se hanno una fornitura buona, hanno chi può
averla portata” aveva
risposto Elen, voltandosi verso lo shu.
Il
ragazzo le aveva guardate, le stava ascoltando –
probabilmente doveva farlo
sempre. Il ragazzo era ancora seduto sulla terra, ma si era sforzato di
tirarsi
su; era difficile trovare il baricentro con le mani legate dietro la
schiena.
Lui
le aveva guardate, poi aveva concentrato gli occhi ambra sulle loro
mani, “Sì”
aveva commentato, riferendosi alla jurda. Elen
si era morsa una labbra, “Forse non mente
quando diceva che la JiHan era senza bandiera” aveva
considerato, “Avevano
contatti con gli schiavisti, avevano della frutta zemeni, commerciavano
Jurda
qui” aveva considerato lei con voce bassa.
“Certo, una rete occultata che si estende per tutto il Mare
Vero” aveva
considerato la sua amica, “Provo rabbia, ovviamente, nel
pensare agli zemeni
così cari alleati dei Ravkiani che considerano i Grisha
Benedetti, lavorare con
questi macellai shu” aveva aggiunto con più rabbia.
Elen aveva pensato alle parole del ragazzo, che aveva pronunciato
prima.
“Immagino un’infelice combinazione di potere,
denaro ed illusione” aveva
ammesso.
Gli
scienziati della Ji-Han volevano creare una parem senza vizio, che non
distruggesse la mente, la vita, di un grisha. Capacità al di
là di ogni
immaginazione, senza dover dare nulla in cambio, impossibile da
pensare. Quasi
abominevole.
…
ma Elen non era così ingenua da pensare che quello che
muoveva i dottori della
Ji-Han fosse un intento più utopistico. Grisha dipendenti da
Jurda Parem erano
enormemente più convenienti che piccoli dei a spasso,
perciò, Elen riusciva a
pensare ad un’altra parte della missione di cui il ragazzo
non aveva parlato.
Il
dominio della piccola scienza.
Il
generale dominio; cosa che gli zemeni consapevoli della benedizione
avrebbero
compreso, non tutti, non a quelle condizioni, ma qualcuno sì.
“La
Ji-Han era progettata per restare il mare per mesi, ma aveva comunque
bisogno
di attraccare. Questa zona di Fjerda commercia uova di pesce,
baccalà e grasso
di balena, tutte cose utili” aveva spiegato il ragazzo.
“Torturiamo
i grisha, ma possiamo darli almeno il caviale” aveva
scherzato forzatamente la
sua amica, con una voce rauca, quasi divertita. Elen aveva sospiro,
“Per
favore, al massimo noi avremmo avuto le uova di lompo” le
aveva detto.
La
sua amica aveva riso, in una maniera divertita, non una vera risata, ma
una
prova, un accenno, ma sincera, la prima da quando le avevano catturate
in quel
viaggio a sud di Os Alta – era colpa sua, ovviamente, lei li
aveva convinti ad
allontanarsi, ad andare al mare, per divertirsi. Erano lontani dal
mare, erano
lontani dal pericolo, così aveva pensato nella sua
ingenuità. La maestra
Ekaterina li aveva scoperti, ma invece di fermarli lì aveva
accompagnati,
corrotta dagli occhi dolci di Elen, dalle suppliche della sua amica e
dalle
richieste di Anchel. Sempre debole al loro amore.
Ekaterina, Ekaterina.
Quale
folle rapirebbe quatto grisha nel cuore di Ravka non lontano dal
piccolo
palazzo e dalla sua regina drago?
Schiavisti
dannatamente folli e bravi.
Ekaterina
li aveva protetti, al massimo delle sue forze, era una squaller,
era una
squaller brava, Adrik l’Asimetrico l’aveva educata
…
La
sua amica aveva sospirato, “Questo sarà un
pensiero per un altro giorno, quando
saremo a djelorm o almeno a casa. Provo a dare la jurda a Caitlyn, nei
diari di
Nina Zelnik c’era diversi commenti su come la jurda avesse
aiutato ad
affrontare l’astinenza” aveva dichiarato, aveva
gettato un ultimo sguardo pieno
di rancore al ragazzo shu e si era allontanato.
Elen
lo aveva guardato, aveva guardato il tremolio delle sue labbra incerte,
voleva
dire qualcosa, ma aveva taciuto. Aveva deciso così, dopo
aver visto con la coda
dell’occhio, la sua amica portare della polvere di jurda
sulle gengive di Cait.
Ancora una volta era balenato negli occhi quel chiaro sentimento, la
vergogna,
per sé stessa, per le sue azioni. E soprattutto era anche
uno sguardo pieno di
ignoranza, di qualcuno
“Vuoi
dirmi che non hai mai dato della parem a nessuno, vero?”
aveva chiesto retorica
lei, “Non hai neanche visto nessuno morire da così
vicino?” aveva aggiunto,
carica di dolore.
Lo Shu lo aveva guardato, ancora, “Come ho detto: non
chiederò scusa” ma
la sua voce sembrava molto meno perentoria di quella di prima.
Elen
aveva sorrisa piena di rabbia, “Ne brinte,
quando dovremmo piangere la
sua morte ne riparleremo” aveva detto lapidaria.
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Capitolo 12 *** Vasilissa III (40 DR) ***
Se
questo capitolo avesse un titolo sarebbe: Vasilissa
ha gli ormoni a mille e/o Nikolai è SHADY AF
Sarò onesta, come capitolo mi ha leggermente
indisposto ed è stata una
sutura chirurgica perché avremmo dovuto avere Matthias II
nel 40 che slitta
avanti. Comunque, un sacco di Guest Star apparse nelle varie timeline.
VASILISSA III
(40 dalla Dissoluzione della Faglia)
Lissa era
stata svegliata dalla mano gentile di sua madre, “Lapuskha,
è ora, il
sole è già sorto” aveva canticchiato
lei con una gentilezza che quasi non le si
addiceva. Nadja Petrovich era tante cose: era buona, era volenterosa e
instancabile
– a suo dire – ma non era una persona gentile, ‘la
gentilezza è per chi se
la può permettere’ recitava.
Lissa si era tirata su, negli ultimi anni aveva diviso il guanciale
sempre più
spesso con Alina, finendo per dormire nella stanza principesca; spesso
era
capitato senza volerlo, assorte nelle chiacchiere, ma altre volte, non
era
stato un errore o una stanchezza, Lissa lo aveva fatto di proposito.
Era sempre
stato difficile – e Lissa sospettava non sarebbe mai
migliorato – stabilire dei
confini.
Erano serva e signora, anzi principessa, ma Lissa era l’unica
compagna che
Alina avesse mai avuto ininterrottamente ed a modo suo anche per lei
era stato
così.
Alina aveva avuto delle dame di compagnia, figlie di nobili signori
ravkiani,
ricchi mercanti e dignitari stranieri, ma nessuna di loro era durata
mai a
lungo, alcune volte per incompatibilità di carattere, altre
volte per ragioni
superiori di cui ne Alina ne Vasilissa avevano mai potuto indagare
troppo.
“Marja come si sente oggi?” aveva indagato, ancora
scossa sulle palpebre dalla
stanchezza, trovandosi accolta da una tazza di caffè
fumante, appena aveva
raggiunto il tavolo della sala comune.
I servi avevano alloggi nascosti, con piccole camere – Lissa
aveva dovuto
compiere sedici anni prima di smettere di dividere lo spazio con altre
tre
ragazze ed avere una piccola stanza tutta per lei – non
lontano dalle cucine.
Chiamavano l’anticamera della cucina la sala comune,
non sapeva perché.
Era uno dei pochi posti dove riuscissero a fermarsi senza doversi
prodigare di
essere invisibili, non che fosse complicato esserlo: per la cucina e
l’anticucina
passavano più persone che sulla Via dei Pellegrini.
“Ha chiesto se puoi sostituirla ancora” aveva
risposto qualcuno piena di
vergogna, “Nessun problema” aveva ammesso Lissa,
non era vero e non era neanche
giusto, ma dopo aver partorito il suo piccolo bambino, Marja non
sembrava stare
bene, la sua non sembrava solo una stanchezza fisica, non era strano
che le
puerpere occupassero tempo per riprendersi, ma sul viso di Marja si
formava una
strana tristezza di volta in volta. “Sì, tanto
ultimamente non devo dar seguito
alla principessa, credo che le stiano organizzando un
matrimonio” aveva
scherzato Vasilissa e quel pensiero le aveva ricordato che doveva
parlare con
Padre Igor e Yusuf di quello segreto.
E Viktor …
Le stanze
della Principessa Liliyana nel Corridoio Principesco non erano
presiedute dalle
solite due guardie da palazzo, che sfoggiavano le uniformi bianco ed
oro, ma da
due figuri vestiti in nero lucido gli opričnik che
rispondevano
direttamente alla futura regina. Lissa non gli conosceva,
poiché di solito essi
occupavano il loro tempo nel Piccolo Palazzo, le due servitù
non erano completamente
estranee l’una all’altra, ma non erano neanche un
unico corpo. Inoltre, i
guardiani della Principessa non erano servitori, non come lei.
Uno di loro aveva sorriso accomodante a Vasilissa quando
l’aveva vista, era
giovane, forse suo coetaneo, con le guance rubirosse e gli occhi buoni,
l’altro
era allampanato e magro come un fuso, con alcune cicatrici che
segnavano orribilmente
un viso austero. Occhi di brace.
“Oh, Malcom non sapevo che le cameriere al Gran Palazzo
fossero così belle”
aveva scherzato quello più giovane, mentre si faceva da
parte per permettere a
Lissa di passare con il suo vassoio, “Ricordami
perché non ti ho ancora
bruciato la faccia?” aveva risposto secco l’uomo
dal viso rovinato, che doveva
essere Malcom.
Ad uno sguardo più attento la sua kefta non era nera, ma era
blu, un blu
intenso, profondo e scuro, da sembrare quasi nero, decorato con lingue
rosse-brune,
che ricordavano volute di fuoco, un inferno.
“Perché ormai nessuno
sopporta più il tuo brutto carattere” aveva
replicato il più giovane con
allegrezza.
Vasilissa aveva approfittato delle ante aperte per sgusciare nelle
stanze della
Principessa Ereditaria.
La
principessa Liliyana Nazyalensky non era da sola, occupava il
soggiorno, su un
divano basso, assieme ad un’altra nobildonna.
Come ogni volta, la principessa vestiva nel caratteristico blu degli
etherealki, ma invece della kefta indossava un’ordinata
veste, stretta sul
petto, con le spalline gonfie, la gonna dritta che scendeva da una
cintura
fatta di perle, cinta sotto il seno florido, la sua compagna indossava
un abito
della stessa moda, ma di un più virulento color tangerine,
con soli ricamati
sull’orlo della gonna, che metteva in risalto la carnagione
zucchero cotto. Era
la moglie del Conte Poldunist di Ivets, la donna suli che era passata
da
soldato a nobile donna.
“Quando arriva quella screanzata?” aveva chiesto la
contessa – Lissa non
riusciva a ricordare il nome – “Al Bosco
di Sankt Feliks non danno permessi
speciali?” aveva indagato.
Ricordava che la principessa Alina le avesse detto fosse una ragazza
Suli, che
era stata portata al palazzo, con alcuni membri della sua famiglia, per
permettere ai giovani principi di socializzare con il loro retaggio,
che era
alla regina piuttosto estraneo. La ragazza aveva scoperto al palazzo le
sue
inclinazioni e da compagna di studi, era diventata prima amica, poi
soldato
della Principessa Erede, fino a … nobile signora e compagna
di tè.
“Buongiorno Lissa” aveva detto Liliyana ignorando
l’amica, mentre lei si
chinava per posare sul tavolino basso, dalla forma ogivale, composto di
marmo
rosato il vassoio d’argento che aveva ricevuto dalla cucina,
composto del tè da
immettere sul samovar e dei dolciumi. “Sol Sho,
moya tsarevic, sol
sho contessa Poldunist” aveva risposto Vasilissa
concedendosi in una
riverenza educata.
“Oh, no, non altri dolci, ultimamente sto lievitando,
così tanto che potremmo
usare me come pala per la partita di croquet
contro tua cugina” aveva considerato la donna suli.
“Per favore, Najima,
l’ultima cosa che voglio ricordami è
dell’arrivo di mia cugina Ilse e di Juliana”
aveva sbuffato la principessa, “Sono quasi più
felice di vedere quella babnik
di Dalai” aveva ammesso aspra. Di solito, quando Lissa
entrava in una stanza,
per i nobili non cambiava nulla, ma non per gli uomini della
Principessa Erede;
Liliyana teneva moltissimo ad assicurarsi che i suoi segreti restassero
tali,
ma se la giovane contessa aveva dato libero sfogo a quelle chiacchiere
con lei
presente era perché ritenevano che fossero alla portata
delle sue orecchie.
Nonostante i suoi buoni propositi, Najima aveva preso i dolcetti con
cioccolato
nell’impasto e marmellata di more come accompagnamento,
“Non capisco perché,
adoro Ilse, anche se si è rubata quel bel ragazzone di
Kos” aveva squittito.
“Disse la donna che ha rubato il mio
fidanzato” aveva replicato con una
punta di acidità Liliyana, “Per favore, avevi
già rifiutato Dimitrji così tante
volte quando ci siamo innamorati” aveva sbuffato divertita
Najima, “Inoltre,
non mi pareva che disdegnassi il tuo dolce principe consorte”
aveva aggiunto.
Vasilissa aveva sistemato la teiera sul samovar.
Un rossore inaspettato era sorto sul viso ieratico della principessa,
“Oh! Ma
certo, io amo mio marito, più del sol,
delle tselai e tutto quel disagio
lì” aveva risposto onesta,
“Ciò non toglie che Dimitrji aveva giurato che
mi avrebbe adorato più di ogni altra cosa al mondo e poi vi
siete innamorati”
aveva squittito.
“Aveva dodici anni” aveva difeso l’onore
del marito la contessa Poldunist.
Vasilissa si era affrettata ad allontanarsi dalla stanza, ma era stata
richiamata da Liliyana, “Puoi fermarti un attimo con
noi?” aveva chiesto.
Sembrava una domanda, ma non era una richiesta.
“Sì, sua altezza reale, come chiedete”
aveva detto lei, chinando il capo e
rimanendo in piedi, come una canna, alla presenza di un lago,
“Penso tu possa
anche sederti” aveva scherzato la contessa.
Vasilissa era avvampata di imbarazzo, mentre si guardava intorno per
cercare
una sedia o qualcosa, dovendo poi ripiegare su un divanetto, imbottito,
di un
sobrio verde pistacchio. “Una volta ero così anche
io, quando sono arrivata a
palazzo, balbettavo solamente” aveva scherzato la contessa
Najima, “Non aiutava
che Dominik fosse il bambino più bello del mondo”
aveva squittito divertita,
“Ogni volta che mi era vicino, diventavo rossa come un
peperone e dimenticavo
persino come si respirasse.”
“I sankti mi hanno maledetto il giorno
che hanno permesso che un viso
così bello, fiorisse su un cuore così
smaliziato” aveva sospirato la
principessa, “Non tutti possono essere bellissimi ed
intangibili come te”
l’aveva stuzzicata Najima, “Posso assicurarti di
essere tangibilissima, babnik!”
l’aveva rimproverata bonariamente la principessa.
Vasilissa era ammirata, la principessa Liliyana aveva molte facce e
molte
coperture, ma nel privato era sempre una donna distante, Lissa
l’aveva vista
così morbida con poche persone: i suoi bambini, le sue
strette confidenti e con
Gernya. In quel momento, con quell’atteggiamento, somigliava
terribilmente ad
Alina.
“Allora Vasilissa, ignora per cortesia le parole di Najima,
fior-fior di
corporalki la hanno controllata per cercare di capire che intoppo ci
fosse tra
la sua bocca e la sua testa, senza risposta” aveva replicato
Liliyana, con un
sorriso furbetto; Lissa si era lasciata sfuggire una risata,
inaspettata e
fuori controllo. “Volevo parlare di mia sorella”
aveva ripreso Liliyana, “E di
quel bel bocconcino del principe di
Fjerda” si era intromessa Najima che
non sembrava affatto turbata dalle parole della sua amica.
“No”, aveva risposto
Vasilissa, “Sì, no” aveva replicato
Liliyana, “Sei la più grande confidente di
mia sorella, non ti chiederei di tradire i suoi segreti, come Najima
non
tradirebbe mai i miei” aveva considerato. “Non
direi mai, mai, per un buon
prezzo lo farei” aveva scherzato la contessa, ma nonostante
il tono divertito
nella sua voce, Vasilissa non dubitava della considerazione della
principessa
ereditaria.
“Io non tradirei mai Al… La principessa
Alina” aveva ammesso Lissa,
“Neanche per Lei, moya tsarevic.”
“Sebbene io sia Ravka, sono anche felice
che mia sorella abbia tanta
dedizione” aveva detto onesta la principessa.
Vasilissa aveva sorriso. “Credi che mia sorella sia ben
disposta verso il
principe Fjerdiano?” aveva cominciato Liliyana, “Io
lo sarei, divorzierei da
mio marito, senza battere ciglio” aveva aggiunto Najima,
“O verso uno dei
pretendenti?” aveva chiesto.
Alla corte di Ravka si erano aggiunti alcuni rappresentati delle
Colonie e la
cerchia del Marshal Kaelish, mancavano all’appello gli Zemeni
– che sarebbero
arrivati nei prossimi giorni – gli
Shu,
il cui ingresso era previsto per il fine settimana e i kerchiani, la
cui data
di arrivo sarebbe stata unicamente qualche giorno prima del secondo
ventennale.
E con loro ci sarebbe stata la partita di croquet,
di cui discutevano le
due.
“La principessa Alina vorrebbe organizzare un incontro con il
principe
Matthias” aveva sputato fuori Vasilissa.
Era più un’idea che Genya aveva fatto cadere
diverse volte, che un pensiero
vero e proprio della principessa.
“Sanktissima, c’è sul serio la
possibilità che la nostra piccola ‘Lina diventi
la Regina di Fjerda” aveva sghignazzato Najima, “La
cosa divertente è che a
quel punto avrete pari grado” aveva valutato.
Liliyana aveva uno sguardo sagittabondo verso la sua amica,
“Io sarò regina
regnante, non consorte” aveva risposto lapidaria,
“Sfido a dire che la
buona Regina Mila non governi lei il palese” aveva risposto
Najima con un
sorriso storto e furbetto.
Il suono del tè che aveva raggiunto la bollitura aveva
interrotto quel discorso,
Vasilissa si era alzata per compiere il suo dovere, ma era stata
anticipata
dalla contessa, “Ci penso io, qui a Os Alta non avete idee di
come si facciano
gli infusi, neanche i materialki” aveva detto calma,
recuperando un porta gioie
di latta, che aveva fatto scattare, per mostrare con gioia foglie
tritate.
“Non ti crucciare Lissa, Najima ha sempre preparato il
tè per me” aveva ammesso
Lilyiana, “Neanche avere una bella tiara ed un titolo
nobiliare mi salva da
questo ingrato compito” aveva squittito la donna suli, mentre
spostava la
teiera dal samovar, per infondere poi nell’acqua le sue erbe.
“Mal, vuoi un po’ di tè e
biscottini?” aveva strillato.
“No, Najima sono in servizio, io” aveva replicato
offeso la voce da dietro la
porta. “Sono passati dodici anni e non mi ha ancora
perdonato” aveva ammesso
Najima, con un sospiro.
“Malcom ha un talento naturale per conservare il rancore,
sì” aveva ammesso Liliyana
stanca, probabilmente la situazione non doveva aver fatto molti
progressi in
dodici anni.
Dodici anni … dodici anni prima, Lissa aveva otto anni.
“Alexiei, tu caro?” aveva chiesto all’ora
la contessa Poldunist, “La ringrazio moya
grafinya” aveva risposto dall’altro lato
della porta con cortesia uno dei
guardiani.
“Devi sapere Lissa che prima di essere strizzata in questo
bel vestito di
velluto, addobbata con questi ori e guadagnare tutti questi chili, ero
una
fantastica soldatessa e opričnik . Ovviamente non
sapevo toccare un
insetto in mezzo agli occhi con una carabina, ma ho tirato certi pugni
che
hanno fatto fare le capriola anche a qualche grisha” aveva
detto didascalica
Najima, “Ne sono consapevole, moya grafinya”
aveva ammesso Lissa, lo
ricordava a stento; Najima prima di essere la contessa, vestita del
nero della
guardia speciale, ma sapeva che spesso si riferivano a lei come la moglie
soldato del Conte,
di tanto in tanto anche
Lissa la chiamava così.
“Bene, Mal che era mio amico non ha mai perdonato questo mio
affronto” aveva
spiegato, mentre portava la teiera sul tavolo, “Sai: aver
lasciato il servizio,
aver cambiato classe sociale” aveva considerato, leggermente
frustrata.
“Sono vecchie storie, ho detto a Malcom di inghiottire i suoi
malumori e
dissapori, se voleva continuare a stare dinanzi la mia porta”
aveva spento la
conversazione la principessa.
Vasilissa cominciava a sentire la scomodità di quella
posizione, “Inoltre,
credo che tutta questa storia non interessi a Vasilissa, probabilmente
ha tante
cose a cui pensare” aveva valutato la principessa.
Lissa si era morsa il labbro, mentre Najima le allungava una tazza di
tè caldo ed
odoroso, sapeva di rosa e bianco-spino; non sapeva cosa era richiesto
che
rispondesse. “Come il vestito che dovrà mettere
per andare a Lazlayon” aveva
considerato Najima, “Il cosa?”
si era lasciata sfuggire senza controllo,
assieme quasi alla tazzina bollente. “Alla festa di
inaugurazione dei Dieci
Giorni Sankti, farai da accompagnatrice ad Alina,
no?” aveva considerato la
principessa.
“Io penso di sì” aveva ammesso, era la
prima festa alla palude d’oro che Re
Nikolai avrebbe permesso alla sua figlia minore di frequentare, si
diceva fosse
un luogo di delizie e perdizioni, “Non è un
pensare, è un fatto noto” l’aveva
corretta la principessa, “E come dama di compagnia della
Principessa di Ravka,
non puoi andare con nulla che non sia degno della dama di
compagnia” aveva
replicato.
“Ma io non sono la dama di compagnia” si era
lasciata sfuggire stupidamente,
era la cameriera, la serva, la segretaria e nel privato delle loro
stanze
l’amica. Non la dama di compagnia, la guardarobiera o quel
ruolo che di solito
spettava a donne con un certo perché, che fosse titolo o
denari, come la vivace
Tatiana Dubriv, o Anya Karkoff o Svetlana Petriosky.
“Cambieremo questo” aveva
detto Liliyana con un sorriso quasi rassicurante.
Lissa si era sentita stordita quasi da quella notizia.
“Sicuramente dovremmo cominciare da un vestito, non
fraintendere l’oro sta
benissimo con la tua sfumatura di occhi miele e, sankti,
ti sta bene il
bianco cosa che non si sposa con nessuno che non abbia la carnagione
più chiara
di una mandorla” aveva soffiato Najima con un certo
divertimento, “Ma c’è
bisogno di qualcosa di molto – molto –
più vivace” aveva considerato. “Su
questo ti lascio alle sapienti mani di Najima, io da che ho nove anni
che
indosso kefte o vestiti che somigliano a kefte” aveva
risposto la principessa
Liliyana, “E tutto rigorosamente in blu”
l’aveva presa in giro Najima, “Una
gran fortuna che il blu-fulmine sia il mio colore” aveva
scherzato la
principessa.
Vasilissa era quasi agghiacciata da quanto fosse strano vedere la
principessa
così allegra e divertente, sembrava un contrasto
così forte con la figura
austera con cui lei ed Alina si erano sempre confrontate. Alexiei aveva
aperto
la porta, “Sua altezza il Principe Juris di Os Alta e sua
grazia il nobile
Andreji di Ivets” era riuscita a dire a malapena prima che
due ragazzini
entrassero come mulinelli nella stanza.
Il prince Juris nei suoi cinque anni di vivace furore ed il figlio di
Najima,
che aveva il doppio degli anni ed uno sguardo furbetto.
“Quello che volete fare è completamente
folle” si era lamentato Cignaz, mentre
sistemava la biancheria pulita in una cesta.
A Lissa piacevano i locali della lavanderia, odoravano sempre di
lavanda e
pulito, e le vettovaglie stese creavano un intricato labirinto di
stoffe. “Completamente
folle è entrare nella faglia con una nave fatta di vetro e
Lumiya, questo è un
matrimonio” aveva replicato Yusuf con una finta calma.
“No, tu vuoi sposare una signorina della seta, promessa sposa
ad un nobile. Va
bene che di questi tempi noi servi non vediamo più battuti
sulla schiena, ma
rimani ancora un nobile” aveva spiegato Cignaz,
“Digli qualcosa Lissa” era
stata interpellata lei.
“Ormai il dado è tratto. Abbiamo parlato con il
prete, concordato con le cuoche
per spezzare il pasto – non sarebbe un vero matrimonio senza
– e perfino
trovato un vestito” aveva scherzato Lissa, “E tutto
d’oro” aveva aggiunto.
“Certo, ma come intendete celebrare un matrimonio di
nascosto? Quando? E
soprattutto che farete poi, ho i miei dubbi che i Karkoff accetteranno
che la
loro principessina fugga con lo stalliere e non oso immaginare il conte
Semyon”
aveva ricordato Cignaz, “Non potrai nasconderti dietro le
spalle di Lissa, sono
piccole” aveva stabilito ammiccando a lei.
“Cignaz, solo perché sei più grande non
sei il nostro tutore” lo aveva
rimproverato Lissa, mentre metteva da parte le biancherei di cui aveva
bisogno.
“Va bene, avete ragione, sbagliate come volete.
D’altronde sono stato giovane,
ingenuo e stupido anche io, un tempo” aveva ammesso
melodrammatico.
Yusuf aveva roteato gli occhi esausto, mentre Vasilissa lo aveva
guardato con
una certa tristezza, ricordando che il buon Cignaz era stato innamorato
per
molto tempo di una persona, che aveva finito per sposare un altro.
Marja le
aveva detto non era stato poi così drammatico, per nessuno,
lo stesso Cignaz
aveva accettato che lui e la sua bella vivessero in mondi
più che diversi.
“Però. Il buon Cignaz ha ragione, quando dovrebbe
essere il matrimonio?” aveva
inquisito, “Sarebbe meglio prima di ritrovarci tutti i
più potenti signori del
mondo in giro per il Gran Palazzo, ma non la vedo così
semplice” aveva valutato
Lissa, “La cappella per il secondo ventennale è
sempre piena di gente” aveva
aggiunto, “Inoltre, Anya’ka è sempre
piena di gente attorno” aveva considerato
Yusuf.
“Credo dovrebbe essere durante la festa alla Palude. In quel
momento tutto i
nobili saranno lì, tutti, nel Gran Palazzo resteranno solo i
servitori, qualche
guardia ed i bambini, scommetto che se lo chiederemmo al prete che
avete
chiesto resterà anche lui” aveva proposto Cignaz,
“Anya sarà alla festa a Lazlayon”
aveva considerato Yusuf, “Come tutti i nobili, i ricchi e i
dignitari” aveva
precisato l’uomo con calma, “Ma le feste di
Kirigian e Deimov sono devastanti
sotto molti fronti, posso testimoniarlo” aveva spiegato
l’addetto della
lavanderia, “Ho dovuto tenere la testa di Kos, più
di una volta” aveva
raccontato.
“Kos … Kostantyn … l’Inferno
che faceva da guardia del corpo al Principe?”
aveva chiesto con interesse Lissa, quasi confusa, “Per me
è Kos, il ragazzino
insoddisfatto che viveva a Keramzin con me” aveva ridacchiato
Cignaz, “E che
ora si gode i soldi della sua bella moglie kerchiana”.
“Però, potrebbe avere senso” aveva
parlato Yusuf, “Non ho mai partecipato, ma
immagino che la festa possa effettivamente degenerare e scommetto che
nella
confusione che animerà la festa, forse Anya’ka
potrebbe riuscire a sgattaiolare
a suo padre e al suo fastidioso fidanzato” aveva considerato.
Vasilissa aveva avuto un tremore difficile da spiegare alla menzione di
Viktor,
“Certo, solo come dovrebbe fare?” aveva inquisito
Cignaz, riportando l’errore,
“La posso riportare io, andrò alla festa come dama
… una delle due potrebbe
fingere di sentirsi male e di essere riaccompagnata
dall’altra” aveva
considerato, “E sarà la scusa se saremmo
fermate” aveva considerato, “Ci serve
un cocchiere” aveva considerato poi. “Lo chiediamo
ad Anatov, sai l’Anatov
dell’Altra Anya” aveva proposto Yusuf,
“Se interrogato, potrà dire che ha
eseguito gli ordini di due signore” aveva considerato.
“Il piano è improbabilissimo” aveva
considerato Cignaz, “Ma è il meglio che
abbiamo” aveva concordato Vasilissa, “Io parlo con
il prete, Yusuf con la sua
bella e Anatov e tu con la cuoca – non esiste matrimonio
Ravkiano che non debba
concludersi con lo spezzarsi del cibo” aveva impartito.
“Oh, Lissa così assertiva mi piaci”
aveva miagolato Yusuf, “Hai già ingravidato
una donna, non essere avido, amico mio” aveva sospirato lei.
Prima di
raggiungere il misterioso cappellano, Lissa aveva dovuto svolgere le
sue opere
e quelle di Marj’ka che ancora faticava ad alzarsi dal letto
dopo il suo parto
– almeno il suo bambino stava crescendo grasso e sano, la
madre di Vasilissa
adorava strizzargli le guance.
Uno di questi compiti riguardava occuparsi degli appartamenti della
regina – e
del Re, visto che egli era tornato ad occupare le stanze di sua moglie
–
qualcosa che preferiva ad occupare il tempo nelle stanze della
principessa.
Adorava Alina, ma era terribilmente caotica, Lissa spendeva tantissimo
tempo
nel sistemare quelle stanze, per ritrovarle vittima di un terremoto il
giorno
successivo.
Le stanze della Regina Zoya erano sempre ordinatissime ed organizzate,
quasi da
immaginare che la regina sistemasse le sue camere da sola,
Marj’ka le aveva
detto che era così in realtà.
Forse era un retaggio del Piccolo Palazzo, sebbene esistesse una
servitù anche
lì, la regina Zoya aveva dovuto sviluppare qualche stranezza
– o forse
paranoia.
Non aveva molti contatti con la servitù del Piccolo Palazzo,
ma aveva sentito
che alcuni dei bambini che venivano portati lì dalle zone
più rurali o che
venivano dall’estero, erano ossessionati che qualcuno potesse
sottrarre loro
quel poco che avevano.
O forse era solo guidato dal fatto che la regina Zoya fosse la regina e
non
trovasse piacere nell’essere spiata, neanche dalla sua
servitù.
In virtù del fatto che le stanze di sua maestà
erano quasi sempre in ordine, se
non sconvolte dalle frenesie di qualche incontro romantico con il Re,
Lissa
aveva dovuto dichiararsi stupita da ciò che era capitato
davanti i suoi occhi.
Le stanze delle Regina erano vittime di una tormenta, non era il
disordine
della Principessa Alina, era un caos più primordiale e
violento, come una
colluttazione, come se qualcuno avesse lottato, come se una fiera
avesse
trovato il suo terreno di caccia in quella stanza.
Il tavolino ogivale in marmo era spacco in due, i due divani bassi
erano
squarciati nei cuscini, spezzati nel regno e rovesciati, la carta da
parati era
distrutta, il nero del carbone, aveva consumato una parte del
pavimento, del
muro e l’odore del bruciato impregnava l’aria.
La porta del bagno con la vasca, privato era scardinata,
così come l’interno
della stanza era rovinata. La porta bianca lucida che conduceva nelle
stanze
più private, dove erano lo studio, poi la camera da letto ed
un altro bagno più
piccolo, era stata scardinata e bruciata.
Lissa avrebbe urlato se non avesse sentito un rumore provenire dal
fondo del
corridoio della regina.
“Chi c’è là?” aveva
indagato con una voce sottile come quella di un gatto,
muovendosi in quella direzione, non sicura delle sue azioni ed anche
spaventata
a morte.
Quando aveva raggiunto la stanza da letto della regina, dove il letto a
Baldacchino
era spaccato nella parte superiore, aveva trovato, affianco ad un
materasso
rovesciato una figura avvolta in un bozzolo.
“Sua maestà?” aveva chiesto perplessa e
dalle lenzuola di seta bianca aveva
fatto capolinea la chioma nero corvino della regina, seguita dal suo
viso
macchiato dal pallore di una malanno.
“Sua maestà” aveva ripetuto Lissa, senza
controllo, lanciandosi verso la
regina, quest’ultima aveva cercato di tirarsi su, sotto le
stoffe
aggrovigliate, indossava una camicia da notte di velluto, lunga fino
alle
ginocchia. Le gambe della regina Zoya avevano traballato, erano nude e
macchiate da lividi viola e blu, così come le sue braccia
erano rovinate e
segnati da graffi, unghia nere spezzate.
“Devi stare zitto” aveva sussurrato Zoya,
appoggiandosi a lei, quando Vasilissa
era riuscita a riprenderla, per evitare che cadesse a terra,
“Solo Lissa, non è
pericolosa” aveva aggiunto.
“Sua maestà, cosa è
successo?” aveva chiesto preoccupata Lissa, mentre cercava
di condurre la regina in un posto dove potesse sedersi, raggiungendo
solamente
il materasso rovesciato per terra.
“Loro sono così rumorosi, Lissa” aveva
risposto la regina, con un tono quasi
doloroso, con gli occhi blu distanti, aveva parlato con lei, aveva
risposto, ma
non stava davvero conversando con lei.
Vasilissa non era neanche sicura di poter chiedere cosa fosse successo,
non era
neanche sicura del perché, sembrava che nelle stanze della
regina fosse passata
una bestia ed un pensiero sinistro aveva cominciato a serpeggiare lungo
la sua
schiena, fino alla sua nuca.
“Come posso aiutarla?” aveva chiesto alla fine,
gentile, pensando che tutto
sommato, quello era il suo lavoro: servire.
La regina Zoya si era voltata verso di lei, le labbra piene schiuse,
scossa da
un qualche tremito e gli occhi azzurri, come zaffiri – come
quelli di Alina –
rivolti verso una direzione quasi vaga. Era stranissimo, Lissa riusciva
a
comprendere che la regina la percepiva, ma non riusciva davvero a
comprendere
che fosse lì. Rispondeva lenta e distratta, “Io
… credo di aver bisogno di …
Alina” aveva ammesso la regina.
Lissa era scattata su come una molla, “Certo, vado subito a
chiamare la princ-”
aveva cominciato a dire, ma era stata afferrata dalla regina che
l’aveva di
nuovo tirato giù sul vecchio materasso, solo in quel
momento, Lissa aveva
notato ci fosse una serie di squarci simile alle zampate di un gatto
– un gatto
gigante, da unghi affilatissime. Una bestia ben più grande e
ben più
pericolosa.
“No, Vasilissa io ho bisogno di Alina, di Alina!”
aveva insistito la
regina.
La teneva per un braccio con una morsa così stretta quasi da
dolerle, la pelle della
regina Zoya era bollente, come se fosse stata fatta di fuoco vivo e
Vasilissa
sentiva sulla carne una morsa quasi ustionante.
“Sì, certo sua maestà, andrò
subito a chiamare la sua Alina” aveva provato, quasi
squittito.
“Sì, sì, Alina. Ho bisogno che Alina
torni qui” aveva ripetuto la regina, senza
lasciare la sua presa.
“Mi … dovete lasciare sua maestà o non
potrò” aveva provato all’ora Vasilissa
piena di incertezza, perché mai nessuna cameriera avrebbe
potuto dire alla
potente regina drago cosa era dovere o meno per lei fare.
Zoya era sembrata scossa dalle sue parole, ma aveva lasciato la presa
sul suo
braccio, “Scusami, Lissa, scusami, a volte …
è difficile avere a che fare con
il mio corpo” si era scusata, umilmente, come se fosse stata
l’ultima delle
cameriere.
“Non c’è nulla di cui doversi scusare,
sua maestà” aveva provato lei,
nascondendo il braccio dietro la schiena, avendo percepito appena, con
solo la
coda dell’occhio una macchia rossa sull’avambraccio.
“Oh, certo, c’è tanto di cui
scusarsi” aveva cominciato la regina, ma la loro
interazione era morta lì, quando una presenza si era
palesata alla porta.
“Zoya, moya tselai” la voce di
Re Nikolai, aveva invaso le camere con
apprensione crescente, prima che la sua figura apparisse davanti la
porta
scardinata. Non era più giovane, ma era ancora pregno di
tutto il suo fascino e
compostezza regale.
“Nikolai” aveva detto con una dolcezza quasi
stucchevole la regina Zoya quando
lo aveva veduto. Nikolai aveva compiuto dei passi verso di lei, Lissa
doveva
dichiararsi ammirata dalla sua capacità di auto-controllo,
si muoveva tra le
macerie come la stessa grazia di un acrobata e non sembrava turbato da
nulla.
“Nikolai … sono rumorosi”
aveva sussurrato Zoya. Nikolai aveva annuito,
avvicinando la moglie a ste per abbracciarla in maniera delicata e
protettiva,
baciandola poi con gentilezza su una tempia. Vasilissa aveva sentito il
re
sussurrare qualcosa in una lingua che non conosceva, doveva essere
ravkiano
antico o forse Suli, la principessa Alina aveva studiato ambedue le
lingue,
anche se queste non avevano mai particolarmente catturato il suo
interesse, né
si era rivelata particolarmente brava, così non aveva mai
costretto Lissa ad
esercitarsi con lei.
La conversazione tra la regina ed il re sembrava comunque molto intima
e
Vasilissa si era ritrovata improvvisamente angosciata dalla sua
presenza, forse
di troppo in quel momento. Di solito i nobili tendevano a non percepire
neanche
i servitori quando erano nella stanza, ma Re Nikolai non permetteva a
nessuno
di sfuggire al suo attento sguardo.
Quando Lissa aveva fatto un passo indietro per congedarsi, gli occhi
del re
l’avevano raggiunti. Erano scuri ed attenti, come quelli
della Principessa Liliyana.
Alina diceva sempre che per quanto sua sorella potesse apparire come
una copia
carbone della regina, aveva dentro tanto del loro padre.
“Lissa, per favore aspetta fuori” le aveva ordinato
cortese.
Vasilissa aveva fatto una riverenza cortese ed aveva lasciato la stanza.
Re Nikolai non era venuto da solo, poiché Vasilissa fuori
dalla porta aveva
trovato due baldanzosi soldati, nella kefta azzurro lucente
dell’uniforme di
Ravka. Erano soldati, non guardie di palazzo. Lissa non li conosceva;
uno era
giovane, con il viso carino e giovanile, l’altro era
più attempato ma ancora in
forma. Il più piccolo dei due le aveva sorriso in maniera
sfacciata, ma non
aveva fatto cenni di volersi presentare o altro. Lissa aveva comunque
sorriso verso
di loro, notando fossero molto più disciplinati delle
guardie che girovagavano
al palazzo, più vicini all’opričnik della
Principessa Ereditaria.
Poi erano
rimasti tutti e tre in un silenzio un po’ lugubre, che a
Vasilissa sembra colmo
di nervoso imbarazzo, ma il sentimento non sembrava condiviso. I due
soldati
apparivano piuttosto a loro aggio nel ruolo, nello stare fissi in
silenzio
davanti ad una porta.
Sembravano più guardie di Palazzo delle guardie di Palazzo.
L’unico accenno di
distrazione era dato dal giovane che di tanto in tanto faceva guizzare
lo
sguardo con la coda dell’occhio verso Vasilissa.
Cosa che la faceva sorridere con un po’ troppo nervosismo e
distogliere lo
sguardo, colma di prurigine. Non avrebbe dovuto mai giacere con Viktor,
aveva aggrovigliato
i suoi intestini.
Questi pensieri erano stati interrotti dalla salvifica apparizione del
re che
era emerso dalle sue stanze.
“Possiamo parlare Lissa?” aveva chiesto con un tono
cortese, ma nonostante suonasse
come una domanda, Lissa sapeva fosse un ordine. Re Nikolai era sempre
cortese e
gentile, ma era comunque un Re.
Non si
erano allontanati molto dalla stanza della regina, ma Re Nikolai
l’aveva
condotta in un piccolo salottino privato, Lissa aveva provato un senso
di
spaesamento quando si era resa conto che non conosceva quella stanza,
ne era
sicura di aver visto la porta quando l’avevano passata.
“Era una serratura
materialki?” aveva esclamato sconvolta, non riuscendosi a
controllare.
Vergognandosi terribilmente della sua imprudenza. Nikolai si era
voltato verso
di lei, con un sorriso gentile – aveva lo stesso modo di
sorridere di Alina,
sebbene, per qualche ragione, la principessa sembrava sempre raggiante
quando
rivolgeva quello sguardo. “Questo palazzo ha ancora
tantissimi segreti, Lissa.
Vivo qui da tutta la mia vita e mi riserve ancora sorprese”
aveva detto l’uomo,
invitandola a sedersi su un divanetto rosa cipria con bande turchesi.
Vasilissa
poteva comprenderlo.
Lissa si era seduta piena di imbarazzo, realizzando fosse la seconda
volta in
una giornata che finiva ad occupare lo spazio di fronte un reale, in un
luogo
per nulla consono.
“Immagino avrai molte domande, Lissa” aveva detto
accomodante il re, “No, sua
maestà, non è il mio compito farmi
domande” aveva risposto spenta lei,
abbassando lo sguardo.
“Oh, questo è un peccato Vasilissa, interrogarsi
sulla realtà è il modo più
sicuro per progredire” aveva spiegato calmo il re,
“Inoltre, il tuo modo
risiede in queste stanze – per quanto io mi auguri che tu
voglia un giorno esplorare
quello che c’è oltre la mura del Palazzo, il mondo
è spaventoso ma bellissimo –
è normale che tu sia curiosa di quello che
avviene” aveva spiegato con un calma
invidiabile il re.
Lissa non aveva potuto trattenere un piccolo sorriso che era sorto
sulle sue
labbra, davanti quella prospettiva: il mondo, sembrava qualcosa di
così
lontano.
Alina aveva spesso fantasticato di una realtà in cui si
sarebbe unita
nell’esercito e poi ne avrebbe approfittato per sfuggire
dalle mani di sua
madre ed anche se spesso parlava al plurale, Vasilissa non vedeva se
stessa in
quel futuro.
“Sarebbe bello, sua maestà” aveva
ammesso alla fine con estrema calma.
Il sorriso del re non si era spostato di un
centimetro, così come il suo sguardo.
E poi, Vasilissa aveva avuto un pesante brivido lungo la schiena ed un
terribile sospetto che aveva segnato la sua mente, quasi velenosa,
“Verrò
mandata via?” aveva chiesto, realizzando che non aveva senso
nasconderlo.
Evidentemente Vasilissa aveva visto qualcosa che non doveva vedere e
sua maestà
cominciava a parlare di vedere il mondo, non era così male,
fino ad un
centinaio d’anni prima, probabilmente avrebbero fatto sparire
Vasilissa dietro
un muro di mattoni.
La Tsarina e lo Tsar non
sembravano quel tipo di monarchi, ma
nessuno aveva più visto il precedente Apparat dopo il
Vertice di Os Kervo.
“Vuoi andare via?” aveva chiesto Nikolai,
perplesso, prima di essere colpito da
un’epifania, “Oh! Sankti no! Vasilissa, no! Stai
tranquilla” aveva esclamato
subito, realizzando forse i suoi pensieri, alzandosi dal divanetto
opposto al
suo, “Non era una minaccia o che so altro. Solo un flusso di
pensieri, sono una
chiacchierona … un brutto vizio che non ho mai
perso” aveva spiegato subito.
Lissa aveva annuito tutt’altro che rincuorata, “Non
vorrei che tu parlassi di
quello che hai visto, ma niente di più" aveva ripreso il Re,
“La corte
brulica di persone, di dignitari, Zemeni, Fjerdiani e Kaelish, presto
arriveranno anche gli Shu e poi i Kerchiani, oggi esiste la pace, ma
non tutti
sono così appassionati della pace” aveva spiegato
didascalico il re.
“Oh” si era lasciata sfuggire Vasilissa, che di
politica non capiva un granché.
“Qualcuno ha cercato di fare del male alla regina?”
aveva chiesto poi, audace.
“Qualcuno cerca sempre di fare del male a Zoya”
aveva risposto Nikolai, “Mia
moglie è una Sankta e come saprai spesso i sankti hanno
guadagnato odio e
martirio” aveva ammesso stanco.
“Ma la Regina è imbattibile” aveva detto
Lissa, vergognandosi l’attimo dopo la
sua audace. “Oh no, ti confesso Vasilissa che la regina
è immortale, forse sì
anche imbattibile, ma questo non vuol dire che non possa essere ferita,
purtroppo” aveva ammesso Nikolai, girovagando per la stanza,
leggermente
nervoso.
Non controllo bene il mio corpo, così
aveva detto la regina,
probabilmente quando aveva pronunciato quelle parole doveva essersi
ripresa da
una colluttazione, forse da una trasformazione. Lissa aveva un ricordo
un po’
sfocato della regina drago quando riprendeva la forma umana.
Un po’ traballante ed un po’ confusa, di come era
cambiata brutalmente la sua
percezione del mondo. “Non voglio che si pensi che Ravka, che
il palazzo non è
sicuro. Presto ci saranno tre regine, svariati principi e capi di stato
… e non
voglio far preoccupare i miei figli, se posso essere sincero Lissa,
più di mia
moglie o chiunque altro” aveva ammesso Nikolai.
Vasilissa aveva annuito, “Oh, sì, io capisco, moy
tsar” aveva detto,
“Terrò gli occhi aperti, per ogni
evenienza” aveva miagolato sottile, “E se
posso permettermi di parlare dei principi, sua maestà, la
tsarina chiedeva
della principessa Alina” aveva riportato.
Un guizzo era balenato negli occhi del re, “Certo,
penserò io a condurre ‘Lina
da sua madre, tu puoi continuare con i tuoi doveri Vasilissa, presumo
tu sia
molto impegnata” l’aveva congedata il re, con
quelle parole e con gli occhi
castani, leggermente distanti.
Aveva
raggiunto la cappella palaziale dopo ore – ore in cui aveva
dovuto svolgere i
suoi lavori, non senza aver avuto la mente affollata da quanto era
stato detto
dal re e dal comportamento della regina.
Provava un senso di nausea e vertigine nell’immaginare nemici
di Ravka, così
bravi da essere in grado di turbare anche la regina drago ed un
pensiero ancora
più preoccupante si era insediato nella sua mente, come un
tarlo fastidioso: se
qualcuno avesse provato a ferire Alina?
Lei non possedeva i doni di sua madre o di sua sorella … O i
piccoli principi?
Juris era un etherealki ma era ancora acerbo come un frutto.
Erano pensieri terribilmente angoscianti, di cui Vasilissa era certa
non si
sarebbe mai riuscita a liberarsi.
Camminava per i corridoi del palazzo guardando i piedi di ogni persona
con cui
aveva incrociato il cammino, estranei da terre straniere, visi poco
noti, fino
ai più conosciuti – la nobile Genya poteva
cambiare le fattezze di chiunque,
qualcun altro aveva la sua maestria?
Anche un sorriso amichevole da un volto familiare, non la
tranquillizzava più.
Era stato piacevole raggiungere la capella, perché lo aveva
fatto appena dopo
la messa dell’ultimo pomeriggio, mentre il cielo, oltre le
mura, si tingeva di
un rosso sangue.
Vasilissa aveva seguito la fiumana di gente che abbandonava la messa,
riconoscendo la regina più sicura e fulgente al braccio del
figlio maschio,
seguita da un’annoiata Alina incastrata tra Tatiana Dubrovin
con un sorriso
troppo soddisfatto e Anya Karkoff che nascondeva la figura non
più così snella,
sotto una mantella pesante che non si addiceva alla stagione.
Alina le aveva fatto un cenno della mano ed un sorriso allegro e
luminoso, che
Vasilissa aveva ricambiato con una riverenza profonda.
Aveva intravisto l’Apparat con quei suoi capelli biondi
– quasi bianchi, non
per natura, ma per diletto – vestito tutto d’oro
che conversava con un paio di
Fjerdiani. La regina Mila, la sua dama di compagnia
dall’incarnato di rame ed
un giovane nobile uomo.
Dietro di loro, come un condannato a morte, il principe Fjerdiano
– il giovane
più bello su cui Vasilissa avesse mai posato gli occhi
– strisciava i piedi
incastrato in una conversazione che non sembrava stimolarlo affatto tra
la
principessa ereditaria Liliyana e l’ambasciatrice di zemeni
Merissa Nassau.
Vasilissa scioccamente aveva distolto lo sguardo, quando gli occhi
azzurri del
principe, in cerca di evasione dalla sua conversazione
l’avevano quasi trovata.
Si era infilata nella cappella, quasi urtando il Marshal –
dalle spalle larghe
e la faccia puntinata di efelidi rosa sulla pella chiara – e
suo fratello, più
spesso e nerboruto, con somma vergogna.
La stanza
non era illuminata dalle suggestive luci delle candele o dal sole
filtrato dai
vetri di mille colori. Le cere erano spente e fumanti, come le imposte
tirate
per coprire le vetrate, l’unica fonte di luce nella stanza
era un fuoco fatuo
raggiante, come un piccolo sole, splendente e vibrante.
Erano le mani di padre Igor a sostenerlo.
Non indossava il saio grezzo bianco dell’ultima volta, ne
l’abito cerimoniale
d’oro con cui chiamava la messa, il suo corpo spigoloso era
rinchiuso in una
kefta blu accompagnata da decorazioni d’oro e rosso-arancio
che ricordavano
raggi ondulati dalle punte acuminati, di piccoli soli. Un grisha,
più che un
uomo di chiesa.
Guardando quella luce brutale, Vasilissa ebbe un brivido, simili a
quelli del
freddo.
“Sempre magnifico, devo dire” aveva cantato una
voce femminile, all’ora con
imbarazzo Vasilissa aveva notato che nella cappella non erano rimasti
solo lei
ed il prete, ma anche un’altra persona.
Vasilissa aveva seguito con lo sguardo il rumore, trovando una giovane
donna,
seduta su una panca. Prima aveva notato il rosso carminio dei
corporalki,
segnata da acuminati intrecci di nero corvino. Illuminata dal sole
artificiale
la sua pelle sembrava più arancia che olisse, come i capelli
nerissimi parevano
più chiari, ma il viso dalla forma di cuore ed il naso con
una leggera gobbetta
non potevano essere falsati dalla luce.
Meesha Effimov.
“Benvenuta Lissa” aveva detto padre Igor non
preoccupandosi di rispondere a
Meesha, con ancora le mani protese in un gesto d’orazione,
senza che il sole
sfarfallase di una sola vibrazione.
“Oh! Vasilissa!” aveva cantato Meesha voltandosi
verso di lei con gli occhi
scuri, si era alzata dalla panca. Alta, dalle spalle larghe e
dall’espressione
sempre così posata. Erano nate nello stesso anno, nella
stessa colorata
primavera, ma per Vasilissa tra loro doveva apparire il Mare Vero
intero, “Sono
felice di vederti!” aveva detto la grisha, il suo tono era
allegro e nascondeva
un accento dell’ovest mal celato. Meesha era nata ad Os Alta
al Piccolo Palazzo,
ma aveva genitori e nonni nelle terre vicino al mare, sia da madre sia
da
padre. Mezzo-secolo prima avrebbe avuto una vita assai diversa e le
loro strade
non si sarebbero mai incontrate.
“Oh, mia signora è tornata” aveva detto
accostumata Vasilissa che non ricordava
il grano militare di Meesha, “Il mare mi era venuto a noia.
Sia dannato il
giorno che ho ascoltato mio padre e non mi sono unita
all’aviazione” aveva
ammesso Meesha con un tono piuttosto divertito, “Ma sono
davvero contenta di
essere tornata, ancora di più di avere i piedi su qualcosa
che non oscilla al
primo vento di ponente” aveva scherzato lei, prima di
avvicinarsi e cogliere
Vasilissa in un abbraccio amichevole, a cui lei non si era sottratta.
Meesha era una grisha, era un rispettabile membro
dell’esercito – della marina!
– e suo padre era stato il figlio di un matrimonio
morganatico di un nobile.
Non erano e non sarebbero mai state sullo stesso piano, ma Meesha aveva
detto –
tanti anni prima – che non erano che umili servi della
Vendetta su Ali Nere.
‘Alina sarà così felice di
rivederla’ avrebbe dovuto dire Vasilissa perché
era
vero, ma si era limitata a dire solamente:
“Bentornata” con dolcezza.
La grisha
aveva sciolto l’abbraccio. “Cosa hai fatto al
braccio?” aveva chiesto subito
Meesha, osservando come sulla sua pelle capeggiasse
l’arrossatura della presa
della regina, “Io … credo di essermi cotta un
po’, ma non fa male, tranquilla”
aveva detto, cercando di tirare via il braccio dalla vista di Meesha.
La grisha
era stata scattante ed aveva fermato il suo polso con delicatezza.
“Ci penso io”
aveva detto languida, “È un’heartrender
non una healer” aveva
ricordato Vasilissa.
“La materia è la stessa”
l’aveva rassicurata la grisha, mentre scioglieva il
polso di Vasilissa, aveva poi posato tre dita della mano destra sulla
scottatura, mentre con la mano sinistra aveva fatto roteare
l’indice, come se
avesse voluto imitare un mulinello e Lissa aveva sentito un leggero
formicolio sulla
pelle. Quando Meesha aveva terminato il suo ruotare, aveva stretto
indice e
pollice come se avesse afferrato un filo sottile come quello di una
ragnatela
ed aveva tirato uno strattone – come se avesse voluto
stuccarlo – Lissa aveva
sentito un lieve bruciore, come la cera tiepida sulla pelle, per un
solo
momento.
Meesha aveva tolto le mani e la pelle di Lissa era tornata di un roseo
timido.
“Grazie” aveva detto onesta e strabiliante
– era sempre incredibile vedere e sentire
la piccola scienza.
“Come mai da queste parti?” aveva indagato
indiscreta, “Un bisogno spirituale,
presumo” aveva sospirato Padre Igor, “Meesha, credo
che tu abbia del lavoro da
fare ed io non sono più paziente” aveva aggiunto.
Meesha aveva fatto una smorfia, “Prima eri più
divertente, zio Igor” lo aveva
rimproverato, “No, non lo sono mai stato, eri solo una
bambina ottusa che non
ascoltava le mie parole” aveva aggiunto. Meesha aveva fatto
una smorfia, ma era
stata felice di dar loro le spalle.
“Sembrate molto unite” aveva considerato Igor,
mentre il suo piccolo sole
domestico perdeva grandezza e potenza, trasformandosi in un fuoco
fatuo. Poteva
sembrare strano che una grisha del Piccolo Palazzo ed una domestica del
Gran
Palazzo potessero avere qualcosa in comune, “Oh, siamo
sorelle di latte” aveva
ammesso.
Padre Igor aveva frammentato il suo solo lucente in piccole scintille
che avevano
accesso lo stoppino delle candele – Vasilissa aveva
spalancato gli occhi: era scienza
da Inferno? – e l’aveva guardata:
“Sorelle di Latte?” aveva chiesto. Vasilissa
si era persa nel guardare le fiamme tremolanti delle candele e non
aveva ascoltato
la domanda di primo acchito, così il prete aveva ripetuto.
“Sorelle o fratelli
di latte è l’espressione che si usa quando due
bambini si sono nutriti dello
stesso seno” aveva spiegato. “Lo so cosa vuol
dire” aveva replicato Igor con
quel suo tono terribilmente rigido Vasilissa si era morso un labbro,
“Uhm …
siamo nate a due mesi di distanza, circa. Mia madre aveva molto latte,
mentre
la madre di Meesha …” aveva cominciato a spiegare,
arrestando le sue parole, “È
morta, sì, lo so” l’aveva anticipata
Igor. Vasilissa aveva annuito, era così,
la madre di Meesha era morta dandole alla luce. “Ed io
mangiavo poco” aveva
scherzato Vasilissa, “Forse per questo io sono uscita
così secca e Meesha così
alta” aveva considerato, voleva alleggerire
l’atmosfera ma l’espressione cupa
di Igor non favoriva affatto la situazione. Vasilissa era stata
stupida, Meesha
conosceva l’uomo sin da quando era bambina, si era rivolto
all’uomo con il
gentile appellativo di zio ed aveva una famiglia paterna ben nota,
probabilmente sua madre doveva essere stata sorella di Igor o comunque
a lui
molto vicina.
“Sono qui per parlare del matrimonio” aveva ammesso
alla fine, “Non lo avrei
mai detto” l’aveva presa in giro Igor senza
vergogna. Vasilissa aveva ridacchiato
con un certo nervosismo, “Hai scelto la data?”
aveva indagato il prete, “Sì, no
… lo sposo la ha scelta e non è il mio
matrimonio” aveva ricordato,
probabilmente il sunsummoner si sarebbe convinto
della veridicità delle
parole di Vasilissa solo quando avrebbe visto Anya presentarsi vestita
da
sposa.
Aveva lasciato
la cappella dopo aver concordato con l’uomo
l’orario più propizio ed aver
professato con lui, alcune preghiere per raccomandare la buona riuscita
dei
loro piani a Sankta Maradi e che la loro vita fosse sempre illuminata
dallo
sguardo amorevole di Sankta Alina.
Vasilissa aveva avuto un tremore nel pensare alla Sankta del Sole,
guardando il
ritratto nell’abside della cappella che aveva sostituito
quello di Sankta Elizaveta
delle Rose. La Sankta Alina della capella era diversa dalla giovane
donna con
le mani oranti nella statua della fontana, era una donna fatta e
sicura, nel
suo sguardo c’era la decisione dell’età
adulta, gli occhi erano neri in contrasto
alla pelle fatta di tessere grigio-azzurre ed i capelli bianchi di
pietra
finissima e sembravano guardarti sempre, in qualsiasi punto della
capella
scegliessi. L’Alina del mosaico, aveva un gomito piegato e
sollevava due dita –
indice e medio, uniti – sotto il mento, indicando la propria
bocca.
Una strana iconografia.
Tutto era strano per Vasilissa della Sankta principale di Ravka,
perché era
stata viva fino a quarant’anni prima, meno di mezzo-secolo,
esistevano ancora
persone che la conoscevano e che potevano parlare di lei non come di
un’emanazione
del divino in terra, ma di come una ragazza. Sembrava stupido:
Vasilissa aveva
incontrato la Drakon Koroleva, la sakta Vivente,
aveva visto
Adrik L’Asimetrico e Leoni delle Acque, ma tutti e tre
sembravano così tremendamente
umani, rispetto le austere e fredde raffigurazioni della Salvatrice.
Era strano pensare che Sankta Alina, che era una ragazzina vera, con
sogni e
passioni – erano diverse le passioni che spettavano ad un
sankto. E quando era
morta era stata più giovane della principessa Alina,
nominata in suo onore.
Con ancora il cuore pesante per lo sguardo austero della sankta e la
mente
occupata dalla litania quasi malinconica di Padre Igor, Vasilissa non
aveva
guardato affatto dove avesse messo i piedi, prima di scontrarsi con un
ostacolo
di stoffa e carne.
“Sei stata dentro un sacco, Lissa, pensavo di diventare
vecchio” aveva detto Viktor
Semyon con un sorriso tremendamente fastidioso sul viso.
“Mio signore” aveva detto lei scansandosi, come se
fosse stata scottata.
“Cosa fate qui?” aveva chiesto con più
preoccupazione, guardandosi intorno allarmata,
chiedendosi da quanto tempo fosse stato lì, se avesse udito
la conversazione
tra lei e Igor, “Ti aspettavo, ti ho visto entrare qui da
sola ed ho pensato
che una volta finita la tua confessione, volessi … non so
… commettere nuovi
peccati?” aveva proposto Viktor senza vergogna.
Vasilissa si era lasciata sfuggire una smorfia, trovando profondamente
vergogna,
prima di sospirare: “Forse” aveva ammesso.
Anche solo per scoprire cosa aveva ascoltato.
Timeline fin’ora
-
Nascita
di Igor, Vlad -5
-
Nascita
di Shioban -3
-
S&b
0
-
SoC
2
-
Nascita
di Yuliana 3
-
Fine
KoS/RoW 4
-
Nascita
di Lu, Ilsebelle e Trattato Fjerda-Ravka 5
-
Nascilta
di Hati, Dimitri 6
-
Nascita
di Drina, Anchel, Najima 7
-
Nascita
di Elen, Caitlyn, Malcom 8
-
Nascita
di Jordie (+ un qualche trattato politico di una certa importanza) e Magnus 10
-
Nascita
di Dominik, Ioren, Bridget 11
-
Nascita
di Merissa Nassau12
-
Raccolta
dei bambini di Kerazin, 16
-
Nascita
di Vassilissa, Meesha 20
-
Nascita
di Matthias Grimjor
-
Rapimento
dei bambini 22
-
Nascita
della principessa Alina 23
-
Qualsiasi
dramallama stia accadendo,
incluso il matrimonio di Najima e Dimitriji 28
-
Nascita
di Andreji Poldunist 30
-
Nascita
di Juris 35
-
Nascita
del Piccolo Nikolai 39
-
Festa
dei 40 anni della Riunificazione di Ravka 40
|
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Capitolo 13 *** Maestra Ekaterina (22 DF) ***
SignorƏ
sono simpaticamente fuori sede a catalogare
materiali, lavoro difficile e piuttosto lungo (ma il luogo è
molto bello) e
probabilmente non avrò molto tempo per scrivere.
Questo capitolo è il più breve (help) ed
è stato scritto una vita fa – prima che
andasse in onda la serie, se devo essere onesta e la cosa mi ha fatto
giustamente
ridere.
Comunque buona lettura ed un grazie di cuore ad Amnesia_the_crazy_cat_lady.
MAESTRA
EKATERINA
(22 anni dalla Dissoluzione della Faglia)
Aveva
perso i bambini.
Sapeva, in maniera freddamente lucida che doveva essere più
spaventata per chi
aveva perso, ma l’unico pensiero che assediava la mente di
Ekaterina era che
aveva perso i bambini. I suoi bambini. I bambini che le avevano
affidato.
Una volta i Grisha vivevano dentro i confini del Piccolo Palazzo, non
conoscevano niente al di fuori.
Ekaterina aveva vissuto così, per un po’. Lei ed
Asja erano state portate alla
capitale un decennio dopo la distruzione della faglia, pochi anni,
davvero
pochi, dalla siglatura del concordato.
Due ragazzine ravkiane, nate e vissute lì,
sull’orlo del permafrost, con i
fjerdiani che somigliavano sempre a nemici, anche dopo la pace.
Asja aveva manifestato i poteri, ma sua madre aveva portato entrambe ad
essere
testate ed anche se nulla pareva di dire che Ekaterina potesse essere
magnifica
come sua sorella, si era rivelata una grisha anche lei.
E poi erano finite lì, chiuse nel piccolo palazzo per quasi
un decennio, prima
di essere affidate ai trasporti.
Ma non era più così, sua maestà Sankta
Zoya si era impegnata perché non fosse
più così.
Perché i grisha non vivessero più nella loro
gabbia dorata, estranei a quel che
capitava al resto di Ravka.
Così era normale, era accettato portare i ragazzini in gita,
specie quelli di
un età accettabile.
Os Kervo era grande, sì, ma era sicura.
Ma i ragazzini si erano voluti allontanare ed Ekaterina li aveva dovuti
seguire, perché non avrebbe mai potuto allontanarsi da loro
e ne mai avrebbe
avuto il coraggio di dire di no.
“Questo è il tuo martirio, amica mia”
aveva commentato Vlad, con eccezionale
divertimento, mentre faceva cullare la sua piccola bambina –
con gli occhi
stanchi, le occhiaie, ma pieno di eterno amore.
“Staranno bene” aveva replicato Ekaterina con un
sorriso gentile sulle labbra,
prima di darle le spalle, per assicurarsi di non perdere di vista i
ragazzi.
“Saresti un’ottima madre” le aveva detto
Vlad con assoluta tranquillità, “È una
proposta di matrimonio, Vladislaw?” aveva chiesto retorica
lei, mentre li
spiava.
Anchel era rimasto più indietro, ma con gli occhi non
perdeva di vista,
affatto, le due ragazze.
Nessuno di loro indossava la kefta, per precauzione, ma indossavano
tutti una
giacca giallo-arancio sgargiante perché non potesse perderli
di vista.
Ekaterina, invece, non aveva quelle remore ed indossava la kefta blu
pavone,
con i ghirigori argentei. “Oh, Katin’ka mi hai
scoperto. Meesha ha bisogno di
una madre e io una persona che mi aggiusti il colletto della
kefta” aveva
squittito con divertimento lui. Ekaterina era arrossita,
perché la kefta rosso
corporalki dell’uomo era dritta e perfetto, il colletto
spiegato e liscio. Vlad
era splendido e perfetto.
Per un secondo la melancolia l’aveva colta, perché
aveva ricordato con dolcezza
il giorno che si era sposato e come era felice …
“Fai
attenzione ai ragazzi. Mi
raccomando, porti con te il futuro di questo mondo”
l’aveva riportata alla
realtà Vlad, con tranquillità.
Ekaterina aveva sorriso verso di lui ed aveva sentito anche la colpa,
leggera,
sottile, pensando alla piccola Meesha, con la risata allegra e
fragorosa che
non avrebbe mai conosciuto sua madre.
Aveva allungato una mano ed aveva accarezzato la testa della piccola
bambina.
Vlad le aveva sorriso, pieno di gentilezza, “I bambini,
Katin’ka!” aveva
dichiarato.
“Certo” aveva risposto ancora lei.
Ed aveva
perso i bambini.
Non era riuscita a difenderli, lei una grisha, lei così
capace.
Non era come Asja, così brava da dominare due elementi, lei
… quando aveva
smesso di far volare le navi aveva cominciato ad insegnare ai bambini.
E li aveva persi.
I suoi bambini.
I suoi allievi.
E pensava al povero Anchel, che non aveva nessuno al mondo, solo i
Grisha.
Voleva piangere, ma non ne aveva più le forze.
L’avevano costretta a bere, più e più
volte, intrugli fatti con gambo di jurda
per costringerla ad uno stato di docilità obbligatoria.
Non gli aveva visti i rapitori, finché non era stato troppo
tardi.
Ci aveva provato a difendere i ragazzini ed altrettanto loro si erano
difesi,
erano stati educati per questo, erano stati bravi, ma non abbastanza.
Erano cresciuti nelle comode stanze del palazzo, graziate di non aver
mai
veduto la guerra – ed anche Ekaterina era stata
così.
“Che
ne
facciamo di lei?” aveva chiesto uno degli schiavisti, era
fjerdiano, aveva
l’accento della Fjerda meridionale, così simile a
quello del nord di ravka, del
confine, del permafrost.
Ekaterina era tsiberiana, cresciuta lì, dove per anni si era
consumato il
conflitto del confine, dove nemici ed amici erano la stessa cosa.
L’uomo era più giovane di Ekaterina, ma non
più un ragazzo, doveva essere nato
dopo l’unificazione di Ravka.
Aveva un viso pallido come la neve e delle forme affilate come un
coltello, lungo
ed un sorriso crudele. Si era chinato e le aveva sollevato il viso, di
forza,
“Secondo me qualche casa di piacere può
prenderla” aveva considerato, parlava
un ravkiano duro, rozzo.
“Si, immagino che abbia il suo fascino, ma le case di piacere
non vogliono
grisha, al massimo qualche giovane corporalki … ed in
generale i Kerchiani non
vogliono streghe addestrate” aveva risposto quello che doveva
essere il capo.
Era vecchio, con i baffi sale e pepe, la pelle cotta dal sole, di anni
di
marinatura e l’espressione cruda e cattiva, ravkiano, del
sud-est, dalla punta
dei capelli rasi a quella degli stivali rovinati.
“L’affare migliore era la Pazmer
Kosti, ma anche lei si è fatta parecchio
pretenziosa” aveva aggiunto.
Pazmer Kosti, la spaccaossa, doveva essere la
donna Shu che aveva preso
i suoi ragazzi senza colpo ferire, con quello sguardo così
freddo, predatorio.
Ekaterina lo aveva sentito in lei, più che in tutti gli
schiavisti sulla Tenʹakuly,
lo squalo ombra, quell’assoluta convinzione che nel guardare
lei, o gli altri
grisha – ma anche le altre persone – non vedessero
umani, ma solo carne.
“Che facciamo con lei, allora? A Shu, un paio li possiamo
vendere, ma questa?”
aveva chiesto il fjerdiano, “Conosco qualche compagno zemeni
che sarebbe
contento di avere una squaller nella sua compagnia, ma continuo a
pensare che
sia troppo … io punterei alle colonie, sono kerchiani ma
più disperati” aveva
considerato il Ravkiano, tirando i capelli di Ekaterina per valutarli.
Erano
sporchi, a ciocche e coperti di sale.
L’avevano quasi affogata per trascinarla nella nave sotto
l’acqua.
“Potremmo tenerla noi, con un po’ di parem, sono
sicura diventerebbe dolce-dolce”
aveva sussurrato il fjerdiano, prendendole le guance con una mano.
Aveva occhi cattivi.
Il Ravkiano aveva riso con un gusto divertito, “Come sei
schiocco, Jarl” lo
aveva rimproverato poi,
con una punta di
cattiveria, “Si vede che sei giovane, non riconosci lo
sguardo di un soldato,
dalle una goccia di parem e la userà per piegare
l’aria in falci di venti per
farci a pezzi e non le importerà di morire per
questo” aveva spiegato calmo,
“Ravka è sempre stata brava in questo.
“Anche Fjerda” si era intromesso
quello più giovane, per voler difendere
il suo popolo.
“Oh, no. Fjerda ha un popolo di guerrieri, sì,
abili, brutali …cresciuti così,
ma Ravka ha sempre avuto un popolo di disperati. Fjerda combatteva per
la
gloria, ma Ravka … anzi, noi combattevamo, lo facciamo
ancora, a dir si voglia,
per sopravvivere. Per i grisha poi è ancora
peggio” aveva detto. Il Fjerdiano
aveva aggrottato le sopracciglia pallide.
“Prima di Sankta Alina e di quel gran pezzo di figa della
regina Zoya, i grisha
sapevano di dover combattere per dimostrare il loro diritto
di vivere”
aveva spiegato.
Ed Ekaterina aveva riconosciuto una terribile verità in
quelle parole. Il
Fjerdiano sembrava confuso, da tutti quei discorsi, “I grisha
venivano
reclutati da bambini, credo succeda ancora. Bambini-soldato che vengono
cresciuti
con il dovere di dover dimostrare di essere degni di vivere. Fidati,
Jarl,
mostrale anche solo per sbaglio la gola e questa puttana ti
azzannerà come una
vampira” aveva detto l’uomo.
“Parli come un uomo che sa quello di cui parla”
aveva sussurrato Ekaterina,
stanca.
“Ma certo, dolcezza, prima di essere me, sono stato un
ragazzino disperato in
cerca di pane” le aveva detto, “Mi sono arruolato
da ragazzino a Polinzey,
quattordici anni, appena. Ho fatto l’addestramento con la
vostra bella Sankta
del Sole” aveva scherzato feroce, senza gioia, aveva voltato
lo sguardo verso
Jarl: “E mentre Fjerda educava ed ingrassava i suoi soldati
con promesse di
gloria e rituali su rituali, a Ravka eravamo così disperati
da mangiare anche i
sassi” aveva detto calmo e spento, ma sapeva di
ciò che stava parlando, del
tipo di delusione di cui era ammantato, questo non lo aveva salvato dal
suo
giudizio.
Ekaterina lo aveva guardato con l’odio, che le montava dentro
quando pensava ai
traditori, dello stato e della patria, dell’onore.
“Essere un druskelle era un onore, un tempo, e nonostante
tutte le corruzione a
cui la Puttana Pescivendola gli ha costretti, restano la fanteria
più letale
del continente, anche migliori delle Donne-di-Pietra di Shu
Han” aveva
replicato punto il fjerdiano, con sicurezza quasi assoluta.
“Come ti pare, con i vostri capelli lunghi, riti e lupetti
non sembravate così
letali. Facevano più paura i vostri corpi dritti e sani,
pieni di cibo” aveva
spiegato spento il ravkiano, “Avresti dovuto vederla, Alina
Starkov, prima che
illuminasse il fottuto non-mare come era. Più pallida di un malachi,
con
occhi così infossati da sembrare uno scheletro”
aveva risposto quasi con
divertimento, “Un giorno ha provato tre volte ad arrampicarsi
sulla fune ed è
caduta ogni volta, senza neanche essere vicina alla cima. Non sembrava
proprio
una dea, in quel giorni”
Ekaterina avrebbe voluto ringhiare, era un desiderio quasi animale.
“Io
la ho
sempre trova incredibile, invece” aveva detto una voce
femminile.
Ekaterina aveva drizzato le orecchie, c’erano donne, sulla
nave, che lavoravano
con e per i due schiavisti, nessuna di loro aveva mai osato parlare,
tranne una
nerboruta donna kaelish con spalle ampie e pelle tormentata da
cicatrici di
ogni genere, ma non aveva quella voce, così delicata, esente
da accenti di
qualsiasi tipo e soprattutto pregna di reverenza.
Era una piccola donna suli, con la pelle come lo zucchero di canna ed i
capelli
nerissimi come il carbone, stretti in una crocchia, indossava una
giacca nera
scura, che le arrivava fino alle ginocchia, calzoni e stivali da
marinaio.
“E tu …” aveva provato il Fjerdiano ma
la sua voce si era interrotta subito,
quando un pugnale preciso e svelto si era conficcato nella
profondità della sua
gola.
Jarl si era accasciato a terra, annaspando aria, mentre il sangue
zampillava,
sembrava quasi un pesce che si dimenava sulla terra, ma
quell’azione aveva
risvegliato tutta la stanza, colma di incatenati prigionieri che
avevano
cominciato a gridare per attirare l’attenzione.
“Immagino io abbia l’onore di conoscere Lo Spettro
dei Mari” aveva ghignato il
Ravkiano, muovendo una mano, “Prendi la pistola ed avrei il
piacere di
conoscere la mia Sankta Alina, che manca della
misericordia della Sol
Koroleva” aveva detto pratica, l’attimo prima che
la stiva fosse riempita di
uomini armati.
“Fantasma è decisamente un nome più che
meritato” aveva commentato lo
schiavista, Ekaterina doveva considerare il suo disinvoltura eccezionale,
perché non sembrava decisamente turbato.
E non mancavano le motivazioni per esserlo, il Capitano Ghafa, aveva
assaltato
un ismars’ya – un mezzo di per
se imprendibile, che viaggiava sotto il
livello del mare – nel completo silenzio, senza che nessuno
emettesse un
rumore.
Fantasma era sicuramente un nome adatto.
“Sarò
lieto di seguirti a Kerch” aveva risposto lo schiavista,
“No” aveva detto Inej,
la sua voce era dritta e letale come quella di una spada, poi
un’altra voce
aveva parlato, “Evgraf Ipatily sei ufficialmente in arresto
per i crimini di:
diserzione, sottrazione di armamenti militari, occupazione illecita di
una
struttura militare, rapimento, detenzione illegale e traffico di esseri
umani”
aveva detto qualcun altro.
Ekaterina aveva vibrato, quando aveva visto scendere dalle scale del
boccaporto
Vlad Effimo, con la
sua kefta rossa come il sangue, con le lambiccature grigio-nero.
“… Per conto di sua maestà la Regina
Zoya Jurisevna Nazialensky”
aveva detto.
“Vlad!” aveva detto Ekaterina con coraggio,
guardandolo. Lui aveva smesso di
guardare con odio lo schiavista per vederlo, i suoi occhi erano lucidi
e pieni
d’amore.
“Ravka, dolce Ravka” aveva ammesso Evgraf senza
battere ciglio, con le mani
ancora alzate, “Ora lavori per la puttana-drago? La
spezza-catene ha indossato
una bandiera?” le aveva chiesto.
“Taci” aveva risposto solamente Inej Ghafa, con una
voce aspra come l’acciaio,
“Tutti i prigionieri saranno liberati e scortati ovunque
desiderino” aveva dichiarato
con voce forte e portentosa, che poco si addiceva ad una donna di
statura così
esile e minuta.
Lo spettro si era voltato verso Vlad, “Puoi prendere tutti
gli schiavisti, ma i
prigionieri sceglieranno per se, anche i Ravkiani” aveva
detto. Il suo amico
aveva annuito, “Riceverai la taglia che la corona ha messo su
Ipatly” le aveva
ricordato.
“E l’ismars’ya?”
aveva domandato uno degli uomini di Inej, un ragazzo
alto, grosso e dal viso forse troppo giovane, guadagnando uno sguardo
leggermente accusatorio dalla sua capitana.
“So che di norma sventrate le navi, ma questo è un
ismars’ya sottratto alla
corona” aveva dichiarato con sicurezza Vlad.
“Magari, occupiamoci di queste povere anime, prima di
decidere a chi appartiene
cosa” aveva dichiarato Inej, brutale.
Vlad aveva annuito, le guance le si erano imporporate di rosso, per
l’imbarazzo, davanti quella sua venalità, aveva
fatto cenno a due uomini che si
erano prodigati a prendere per le braccia lo schiavista e lo avevano
trascinato
sopra al ponte.
Ogni uomo che non aveva un’arma alla mano, una marasma tra
pirati e kefte
variopinte, si erano riversate nella stiva per soccorrergli.
Vlad l’aveva raggiunta,
“Katin’ka” le aveva detto quasi dolce.
Le aveva messo una mano sulla guancia ed Ekaterina aveva sentito il
calore e la
carma rifiorire in lei, dopo tutto quel tempo sotto l’acqua.
“Mi servono le chiavi per queste manette, o un
materialki” aveva gridato
subito, “Come stai piccola?” le aveva chiesto dolce.
“Ho perso i bambini” aveva risposto Ekaterina
stanca.
Il viso di Vlad si era fatto cereo, mentre si sollevava, guardando la
stiva
piena di anime che venivano liberate.
Uno degli uomini di Inej Ghafa aveva sciolto le sue manette,
riscaldandole.
Ekaterina era crollata in avanti senza più i due ceppi a
sorreggerla, sarebbe
finita sul pavimento se lo stesso Spettro non l’avesse
afferrata per una
stanza.
Vlad l’aveva lasciata, senza neanche accorgersene.
“Va tutto bene?” aveva chiesto Inej, non era
chiesto se stesse ponendo quella
domanda ad Ekaterina o se lo stesse facendo a Vlad che si guardava
intorno,
disperato.
Poi Vlad era corso al piano di sopra frenetico, “Devo
seguirlo” aveva squittito
Ekaterina, sentendo le gambe molli, “Dovresti
riposarti” aveva detto Inej, “No,
no devo seguirlo. Dovevo badare ai bambini” aveva pianto e il
capitano aveva
compreso mettendola sottobraccio, era terribilmente più alta
di Inej, ma
sembrava così piccola e debole in confronto alla donna, che
l’aveva guidata
lungo il bocca-forte, fino alla plancia e poi più in alta,
sul ponte nudo.
Affianco a loro vorticavano pareti d’acqua alte metri, come
se fossero stati
prigionieri di un tornado. Dei grisha etherealki, alcuni con kefte blu
con
ghirigori azzurri ed argentei, altri vestiti, imbrigliavano le acque.
Più in alto, dove era la superficie, quasi lontanissime, due
navi sostavano ai
margini del mulinello da cui scendevano corde e scalette morbide.
“Riportate in superficie questa
mostruosità” aveva ringhiato Inej.
Lo
schiavista era al centro e Vlad lo aveva già colpito una
volta.
“Dove sono?” aveva gridato.
“Tre grisha marmocchi? Venduti da un pezzo”
continuava a rispondere l’altro,
“La hanno chiamata la Pazmer Kosti”
aveva sussurrato Ekaterina; ricordando
stralci di quei dialoghi, ma non ne era certa. Erano stati diversi
giorni,
forse settimane, prigionieri nella stiva, lei ed i bambini, quando
l’uomo
ravkiano aveva parlato.
‘Sta arrivando la Pazmer Kosti’
aveva detto, ma alla donna si era
rivolto sempre e solo con un sarcastico ‘Signora’.
“Chi è?” aveva gridato Vlad, con rabbia
e furore negli occhi di solito così
dolci.
Lo schiavista aveva sogghignato sarcastico, ma era stata Inej a
rispondere.
“Non lavora per nessun governo, a quanto pare”
aveva spiegato didascalica,
“Tutti gli schiavisti che conosco la hanno descritta come una
donna Shu, compra
schiavi un po’ da tutte le rotte del Mare Vero, la sua nave
viene considerata
un Palazzo sull’acqua, lo chiamano il Leviatano”
aveva rivelato.
“La ho cercata, ma sembra invisibile alla vista e ai sensori.
Direi manovalanza
materialki sotto parem, forse un retaggio di vecchi
esperimenti Shu”
aveva considerato Inej.
“Allora le Taban dovranno rispondere” aveva
ringhiato Vlad, mollando il bavero
dello schiavista.
“Buona fortuna, da quel che ho appreso io a Shu Han non piace
rispondere a
nulla di ciò che fanno” aveva detto cupa Inej.
“Mi dispiace, mi dispiace” aveva sussurrato ancora
Ekaterina, “È colpa mia, è
colpa mia” aveva pianto.
Ed era vero, lei aveva perso i bambini.
“Perché la chiamano la Spacca-Ossa?”
aveva chiesto Vlad ad Inej, “Si dice
faccia esperimenti sulle persone che compra e che raramente rimangano
integre,
ma nessuno lo sa per certo” aveva raccontato.
“Com’è che io non ne ho mai saputo
nulla?” aveva chiesto Vlad.
Inej Ghafa aveva mosso le spalle, “La Spacca-Ossa non
è una schiavista, compra
per i suoi esperimenti, ma è una contrabbandiera, ha
contatti in ogni porto
scontento, in ogni luogo inimmaginabile e colleziona segreti”
aveva dichiarato.
“Fanculo, stai dicendo che i governi fanno finta di non
notarla?” aveva
ringhiato un uomo, Ekaterina lo conosceva, si chiamava Sanjen,
indossava la
kefta azzurra degli abbandonati.
“Sto dicendo che certi uomini, senza scrupoli, si sono
adoperati per non
rendere nota la sua esistenza. Os Alta è lontana dal mare,
dalla costa” aveva
ammesso Inej, “Conosco la grande giustizia della Regina Zoya
e il grande cuore
della Regina Mila per esperienza diretta, così come la
giusta fama di Ehiri
l’Amata, non crederei mai che tre donne simili permettano
l’esistenza di
un’ingiustizia così abnorme se ne avessero
idea” aveva commentato, “Ma la
Spacca-Ossa è quasi una leggenda che una donna
vera” aveva raccontato.
“Ma è molto vera, perché ha preso i
bambini” aveva ringhiato Vlad.
L’espressione sul viso di Inej si era fatta granitica,
rispetto il suo amico,
lei doveva aver già sfiorato quel mostro.
Vlad aveva rivolto lo sguardo di fuoco allo schiavista, “Dove
cazzo è andata?”
aveva ringhiato, “Che vuoi che ne sappia?” aveva
riso l’altro.
“Zaara, dai l’ordine di portare su questo
affare” aveva dichiarato subito lui,
perentorio; ma anche con gentilezza ad una grisha. indossava la kefta
viola dei
materialki, con i decori grigi degli alkemi. I capelli biondo grano
raccolti in
una treccia spessa.
Ekaterina non pensava di conoscerla, forse era stata reclamata prima di
lei ed
era stata al Piccolo Palazzo quando lei lavorava ancora
sull’Airone.
Zaara aveva guardato il suo capitano in maniera intensa, come se si
fosse
aspettato altro, “Chiedi a Shevich
di preparare le
carte, dobbiamo
cominciare a tracciare una nuova rotta” aveva ammesso con
voce spenta e
collerica Vlad. Allora lei aveva annuito, anche se gli occhi si erano
macchiati
di una consapevolezza piena di dolore
Inej lo aveva guardato, “Prendete i viveri e noi prenderemo i
beni preziosi”
aveva dichiarato quella. Vlad l’aveva guardata,
“Avete più bocche da sfamare”
aveva considerato il grisha, “Sì, ma il porto di
Nieuwemarkt e quattrocento
miglia marine da qui” aveva considerato Inej.
“Porti una nave libera da schiavi alle Colonie?”
aveva considerato Vlad, con
una certa preoccupazione, “Il mare vero è uno, ma
i suoi porti, le sue rotte,
quelle sono infinite” aveva risposto Inej, “I
corsari, i pirati ed altri, sanno
dove attraccare, senza che l’occhio ufficiale li
noti” aveva ammesso calma.
Vlad aveva annuito, “Allora accetterò il cibo e
soddisferò la pancia dei tuoi
uomini con l’oro” aveva ammesso lui.
Una forte scossa li aveva distratti, gli squaller ed i tidemakers si
erano
adoperati per portare lo squalo sulla superficie.
Le gambe di Ekaterine, molli per la prigionia si erano fatti inutili,
era
caduta, quasi spezzata, quella volta non era stata Inej a recuperarla
ma era
stato Vlad.
“Mi dispiace” aveva sussurrato ancora Ekaterina
verso di lui, Vlad le aveva
toccato con più gentilezza la fronte, spostando una ciocca
di capelli.
“Farò portare i naufraghi sulla mia
nave” aveva spiegato Inej, “Ma chiedo il
permesso di salire sulla vostra con il cartografo” aveva
dichiarato il
capitano, “Forse posso indicarvi alcune rotte. Non ho mai
trovato la
Spacca-Ossa ma la ho cercata; forse Shevich avrà
più successo di me, Marina ha
sempre detto fosse un tracciatore abilissimo” aveva
considerato. Vlad aveva
annuito, “Dovrebbero chiamarvi Sankta” le aveva
detto, Inej aveva sorriso, “Io?
Non credo” aveva considerato Inej,
Asja le
aveva baciato le palpebre, le guance, e l’aveva stretta
quando l’aveva veduta.
“Ho temuto di averti persa” aveva sussurrato la sua
piccola sorella, “Ho perso
i bambini” aveva ammesso lei, colma di quel dolore senza fine.
Asja le aveva sfregato la mano sulla schiena, con dolcezza e
gentilezza, “Li
troveremo” aveva detto decisa, sicura, “Sono
intelligenti, capaci e
terribilmente più bravi di noi”
aveva considerato.
Questo non aiutava affatto Ekaterina, “Ma io li ho persi.
Erano lì e io non li
ho protettetti” aveva considerato.
Poi si era palesato Gavi, con il sorriso sul viso. “Ma tu non
…” ma non era
riuscita a formulare le sue parole, “L’Alcione non
lascia nessuno a terra”
aveva risposto il Soldat Sol, con l’uniforme bianca rovinata
dai giorni in
mare, carezzandole gentile il viso.
Ekaterina aveva annuito, con le lacrime agli occhi. Era più
di un lustro che
nessuno di loro serviva più sulla Nave Volante –
ne erano più stanziati alla
Palude D’Oro.
“Sì, è venuto perfino Igor”
aveva dichiarato Asja, “Ha deciso di interrogare
lui lo schiavista, per … cominciare la nuova
rotta” aveva ammesso sua sorella.
“Voglio parlarci” aveva detto Ekaterina
sollevandosi dalla brandina dove era
stata riposta, “No, dolcezza devi riposare” aveva
impartito sua sorella,
mettendole le mani a coppa sul viso. “No, Asja”
aveva detto Ekaterina con voce
spezzata, “Ho perso i ragazzi”
aveva detto, cercando di essere più
sicura di sé, “Se non parlerò con lui
adesso, non parlerò con lui mai più. Igor
lo farà a pezzi per avere le sue risposte” aveva
ammesso.
Solo alzarsi le aveva dato le vertigini, aveva sentito le gambe
così morbide da
pensare si sarebbero ripiegate su sé stesse,
“Prendi un po’ di jurda,
Katin’ka”
le aveva detto Gavi, recuperando un sacchetto da dentro la tasca
interna della
sua giacca, prima di aprirla.
La grisha aveva allungato un dito e l’aveva immerso nel
sacchetto, sentendo la
sostanza polverosa, sotto il polpastrello e l’aveva
strisciata sulle sue
gengive.
“No, lui arriverà a Ravka, lo processassero, avrai
tutto il tempo che vuoi”
aveva provato a parlare sua sorella, tenendola, spaventata che potesse
cadere.
No, non lo avrebbe avuto.
Aveva continuato a passare la lingua sulle gengive, ancora ed
ancora, alla
ricerca di quel fulmine di energia, che sentiva abitualmente, ma non
aveva
avuto successo.
Non sentiva nulla.
Ho perso la principessa …
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Capitolo 14 *** JORDAN II (28 D.F.) ***
Non
sapevo quando avrei aggiornato ed alla fine ho
deciso di aggiornare presto, poi davvero non so quando
aggiornerò, ero insicura
se qui ci stesse bene Jordan, se prima avessi dovuto pubblicare Ioran o
un
altro personaggio, ma alla fine ho deciso di andare con Jordan e la
simpatica
giornata a Nijejem.
Sarò onesta: non sono sicura di tutte le parti drammatiche
ma mi sono divertita
un sacco a scriverlo (e inventare usi e costumi random).
Detto questo: buona lettura e spero apprezziate,
Un ringraziamento speciale ad Amnesia_the_crazy_cat_lady
Ps-
Non so quando potrò aggiornare ancora, probabilmente
agosto
JORDAN II
(28 anni dalla
Dissoluzione della
Faglia)
Nijejem era
una cittadina
minuscola, nella frazione più a meridione-est di Kerch, si
affacciava davanti
ad acqua cheta e calma, e più lontano la spaziosa isola di
Masterich; non era
particolarmente famosa per la pesca, essendo questa attività
fagocitata dalle
altre città. La pesca non mancava a Kerch ed era spesso
controllata da alcuni
precisi conglomerati, a nord, almeno, che era generalmente
più ricco. Martjin
Dyke, in associazione con suo suocero Magnus Opjer, possedeva diversi
cantieri
navali e arsenali a Ketterdam ed altre grandi città della
costa, ma nessuna
faccia di volpe occupava gli hangar di Nijejem, in vero non esistevano
neanche
stabilimenti in quella città.
La spiaggia
era ghiaiosa, corta,
l’acqua cheta ristagnante, a causa di alcune correnti
sfavorevoli, date dal
canale secco, composto dalla grande isola continentale di Kerch e
Masterich.
Il porto era
ancora composto in una
banchiglia di legno a mezza-luna, su cui erano ormeggiati diversi
pescherecci,
alcuni dei quali piuttosto vecchi e mal ridotti. Nessuno di loro
però era attrezzato
alle lunghe traversate e la pesca da mare aperto.
L’attività
principale di Nijejem
era la pesca di granchi.
Anton Boer lo
aveva invitato ad
andare con lui, era il periodo delle moeche. Jordan sapeva cosa fossero
delle
moeche, non si trovano a Ketterdam, acque profonde e putride, diceva
suo padre,
che era uno dei pochi uomini da potersele permettere.
Jordan aveva
capito l’antifona:
doveva andare via.
Dopo che Drina
aveva confessato
all’arcigna proprietaria del locale che era venuto a rendere
gli onori alla sua
amica Cait – sua amica morta, Jordan non lo aveva visto
arrivare – le cose
erano diventate strane.
La signora era rimasta spiazzata, ma quando Drina si era presentata
meglio era
stato chiaro alla signora chi fosse esattamente.
Meno a Jordan.
Erano stati
alloggiati in due
stanze diverse; sì, Jordan doveva ammettere di aver
fantasticato sull’idea di
dividere una camera con Drina, sulla tensione e
sull’imbarazzo che avrebbe
intessuto ogni loro respiro, forse ingenuo e fin troppo libresco, ma
aveva
sottovalutato lo scarso turismo autunnale di Nijejem.
Le stanze non mancavano.
Il letto era
stato duro, nodoso,
con un cuscino sottile e fastidioso come una tavola di legno e Jordan
ne aveva
odiato ogni secondo. La mattina era stata un po’ meglio, si
era svegliato con
un odore dolciastro che aveva stuzzicato le narici e quando aveva
schiuso gli
occhi, aveva visto tremolante la faccia divertita di Drina.
La frangia invece di essere liscia, era leggermente arruffata come il
resto dei
capelli, leggermente scarmigliati, “Hai dimenticato la
spazzola?” aveva chiesto
di getto.
Sentendosi
anche piuttosto stupido,
“Sì, purtroppo sì” aveva
ammesso lei, con una risata quasi allegra.
“Però ti ho portato questa raccapricciante
brodaglia che qui chiamano tè con so
che altre orride spezie” aveva squittito lei, “Un
gentile omaggio dalla signora
della casa” aveva aggiunto.
“Uhm
… è il drie kruidenthee.
Il corrispettivo
analcolico dell’ipocrasso,
circa” aveva spiegato, tirandosi su, per
mettersi nella posizione seduta. Decise di non essere imbarazzato dal
fatto che
era con la camiciola notturna, con i capelli ancora intrecciati ed il
sonno
ancora pesante sulle palpebre. Del suo fiato, forse sì,
sperava di riuscire a
recuperare una caramella al gusto di menta.
“Animali
…” aveva scherzato lei,
“Non tutti possono godere dei piaceri del Piccolo
Palazzo” aveva ammesso Jordan,
con un sorriso secco, “Oh, certo; ti svelo un piccolo segreto
a proposito del
Piccolo Palazzo, abbiamo la frutta fresca ma anche la cucina povera.
Una
tradizione nata secoli fa di cui neanche la regina drago ha voluto
sbarazzarsi”
aveva ammesso con una punta di divertimento: “Tutte le
barbabietole che riesci
ad immaginare e le aringhe, sankti, sono il mio
piatto preferito eh,
come le fa mia madre sono sublimi, ma farci colazione tutte le mattine,
giammai” aveva scherzato.
“Vorrei
vederti con la kefta viola”
si era lasciato sfuggire, osservando la camicia cotone da uomo che
indossava,
“Vieni ad Os Alta … ti faccio fare anche un giro
nel Giardino della Regina”
aveva scherzato Drina.
Per un secondo erano rimasti in silenzio, poi, Jordan aveva raccolto la
bevanda,
aveva provato a berla ma l’aveva trovata bollente sulla
lingua. “Troppo calda
…” aveva ammesso pieno di imbarazzo,
“Fai fare a me” aveva detto Drina elusiva,
posando le dita sulla tazza. Jordan aveva potuto sentire dalla sua
pelle, la
ceramica diventare fredda, come se fosse stata tenuta sulla neve.
“Impressionante” aveva valutato Jordan,
“Una bazzecola, cambiare la temperatura
agli oggetti è davvero una cosa semplice, con i liquidi ho
avuto più
difficoltà, sebbene gli ordini siano per lo più
un costrutto, si può dire, sono
comunque ordinate dalla propria attitudine” aveva spiegato
Drina, rilassata.
“Quando sono arrivata al Piccolo Palazzo ero solo una durast,
ma Leoni mi ha
insegnato la scienza degli alkemi” aveva detto con un sorriso
divertito.
“Quindi
ora sei una materialki
completa?” aveva inquisito lui. “No, non sono per
nulla una buona fabrikator.
Se ti interessasse la verità, per me la divisione dovrebbe
essere tra
Fabrikator e no, invece che fra Alkemi e Durast” aveva
spiegato, muovendo la
mano, come volesse scacciare un insetto, “Inoltre ho ancora
qualche asso nella
manica per stupirti” aveva aggiunto elusiva.
Per Jordie era
interessante, non
aveva incontrato molti grisha nella sua vita, Jesper ovviamente, che
teneva i
suoi talenti limitati nelle calde mura domestiche, Therese che lavorava
alla
Digitale
e con le sue mani poteva
liberare il peso del cuore di chiunque e, ovviamente, i grisha
imbarcati sulla Spettro.
Il primo pensiero andava ad Ekaterina, con i capelli biondo fragola che
oscillavano al vento, le mani tese ed il vento potente che si chinava
al suo
volere.
“Quindi
non costruisci nulla?”
aveva chiesto Jordan, “Ora sì, ora sto imparando,
prima costruivo solo piani
strampalati ed oggetti minimalisti e … amplificatori, quello
sì” aveva ammesso
Drina. Jordan aveva bevuto il tè, leggermente più
tenue e godibile di prima. “E
sai anche sconfinare dal tuo ordine?” aveva chiesto lui, con
un certo
interesse, non si aspettava che lei rispondesse, immaginava che i
grisha
dovessero tenere cari i loro segreti.
“Sì”, aveva ammesso lei, quasi
orgogliosa, “Non mi vedrai gonfiare il vento, ma posso fare
qualche trucchetto
da corporalki. So far sparire i lividi che è una meraviglia
ed anche i brufoli,
con quelli faccio proprio un capolavoro” aveva scherzato con
allegrezza.
“Sfortunatamente
per me, ho passato
la pubertà da un pezzo” aveva riso lui,
“Oh, posso anche ridarti i foruncoli.
Se non mi credi, chiedi a Kos … ha molti racconti da
proporti” aveva replicato.
Jordan aveva sorriso, “Il tuo fratellone
protettivo” aveva considerato,
pensando al giovane Inferno di sangue Fjerdiano, sempre così
territoriale.
“Sì”
aveva confermato Drina, “Come
tutti i ragazzi a Palazzo, era innamorato della principessa”
aveva confessato
la sua amica. “Immagino che a tutti facesse gola la
corona” aveva considerato
Jordan. “Come sei venale, Jordan Ghafa. La principessa
è un’anima buona, ha
fuoco nelle vene, dinamica, eclettica e luminosa, potente
sì, anche bellissima
…” aveva ammesso piena di dolcezza ed ammirazione,
“A nessuno importava che
fosse la principessa al Piccolo Palazzo, non quando indossava la kefta
blu e
mangiava i cavoli bolliti con noi” aveva detto.
Jordan aveva
sentito un senso di
vertigine, “Sembri anche tu innamorata di lei”
aveva considerato, leggermente
geloso. Sapeva che Drina e la principessa Lilyiana erano – o
erano state –
amiche strette; aveva notato quanto feroce fosse stata feroce Drina nel
difendere la sorella di Dominik, quando Jordan aveva usato il
vezzeggiativo per
riferirsi a lei. “Oh, ma lo sono, Jordie. Non essere geloso,
lei è la mia pola
moje duše”
aveva spiegato Drina.
“La tua cosa? Che lingua
è?” aveva chiesto, non era Ravkiano,
somigliava, ma non abbastanza. “Diciamo che: Altra
metà della mela
funziona? Siamo amiche da quando avevo nove anni! La lingua invece
è l’Antico
Ravkiano, quello che si parlava nella Ravka meridionale, nei confini
del volo
dell’Uccello di fuoco.
Lezioni noiosissime, ma
può essere sfruttato per darsi un tono” aveva
scherzato lei. “Non ancora riesco
a credere che a Ravka pensiate che sia esistito un uccello di fuoco che
ha
stabilito i confini di un regno” aveva ridacchiato lui.
Drina gli aveva tirato un buffetto: “Prima cosa:
l’Uccello di fuoco esiste,
esiste oggi, lo so, i miei genitori lo hanno visto” aveva
confidato. “Forse
erano ubriachi di Kvas” aveva proposto Jordan, pensando ai
due strani proprietari
dell’Orfanotrofio.
Shevich gli
piaceva, era dinamico,
anche se spesso sembrava inutilmente collerico, con Marina aveva un
rapporto
più complicato, Jordan la ricordava spesso fissare gli
spiragli di luce.
Chiudeva le imposte delle cateratte delle finestre nei giorni di sole,
ma poi
sollevava le balze di legno per avere raggi di luce da osservare nelle
camere
buie. Jordan era cresciuto a Ketterdam, era cresciuto vedendo la gente
fare le
cose più strane, avere gli hobby più pittoreschi,
conosceva Jesper per Ghezen,
eppure anche lui trovava strana Marina Rosen. “Fidati quel
volatile esiste”,
aveva ribadito Drina. “Fidati l’unico uccello di
fuoco che esiste è il Falco
Piromane delle Colonie del sud” aveva risposto lui con
tranquillità, “I cosa?”
aveva chiesto interessata Drina, con gli occhi azzurri guizzanti di
curiosità,
“Sono alcuni tipi di uccelli rapaci che rubano tizzoni
ardenti agli uomini per
bruciare frazioni di foreste e mettere in fuga le loro prede”
aveva raccontato,
“Lo so, sembra una cosa surreale, ma, con mia madre gli
abbiamo visti una
volta, abbiamo fatto una pausa più lunga a
Nieuw-Thole” aveva ricordato.
“Sankti,
adorerei vederlo!” avevo
ammesso Drina, morbosamente curioso.
Oh, quella
fame di curiosità, che
scintillava nei suoi occhi, la rendeva ancora più adorabile.
C’era
stato un momento dolce di
silenzio tra loro. “Ti piace viaggiare, vero?”
aveva chiesto Jordan, anche se
era una domanda retorica, Drina era quasi più girovagava di
Inej Ghafa, lei
aveva annuito con vigore e Jordan aveva ricordato la prima stentata
descrizione
che la ragazza aveva dato di Cait. “Cosa è
successo alla tua amica?” aveva
chiesto poi, Jordan, rompendo forse l’equilibrio piacevole
che si era creato
tra loro.
Drina si era alzata dal letto, dove era stata seduta fino a quel
momento, quasi
frettolosa, “Avremmo un sacco di tempo durante il ritorno,
non roviniamo la
giornata” aveva proposto evasiva.
“Che ore sono?” aveva indagato Jordan, osservando
che le imposte delle serrande
erano aperte ma la luce del sole non era spuntata, il cielo era di un
blu
tenue, pronto alla prossima alba. “Non è ancora
sorto il sole, ma ci sono le
moeche da pescare, qualsiasi cosa siano” aveva ammesso lei,
“Sono granchi,
granchi senza il guscio perché stanno facendo la muta.
Fritti sono buonissimi”
aveva spiegato Jordan.
“Bene, sono contenta, perché ho detto alla signora
Willhelmine che avresti
accompagnato suo nipote Anton che lo accompagnerai” aveva
ammesso lui. “Stai
cercando di liberarti di me?” aveva chiesto retorico lui, non
aveva bisogno di
chiederlo davvero. “Non per le ragioni che credi tu; padre
Igor mi ha insegnato
che le Lamentazioni vanno fatte con cuore sanguinante” aveva
spiegato.
“Si son consunti per le lacrime i miei occhi, le mie
viscere sono sconvolte”
l’aveva anticipata
Jordan, “Le Lamentazioni di Pytor Lumajin, libro
quinto” aveva considerato
Drina, “Sei un uomo religioso, Jordan Ghafa?” aveva
chiesto.
Jordan aveva annuito, “Non sono uomo da frequentare le
funzioni ed ascoltare le
parole di un santone, ma mia madre ha molta fede ed io la condivido, in
parte.
Però credo anche nel dio di mio padre: Ghezen”
aveva ammesso. Un sorriso era
fiorito sulle labbra di Drina: “Sarei proprio curiosa di
andare a pregare nel
suo tempio, so che si fanno gli affari migliori.”
Anton, un
ragazzo di qualche anno
più vecchio di Jordan, era stato piuttosto felice di
sparire, quando quella
mattina aveva prestato dei vestiti più adatti a Jordan. Suo
fratello minore Pyp
era stato invece ossessivamente interessato all’arrivo di
Drina.
Erano entrambi
secchi come giunchi
di canna, con visi bianchi come la cera e capelli di un castano dorato,
lisci.
Pyp, il più piccolo, li portava corti sulla nuca, mentre
Anton lunghi fino alle
spalle ed intrecciati in una mezza-coda. Somigliavano abbastanza a
Cait, la
ragazzina nel dipinto – che poteva aver avuto
tredici-quattordici anni in
quella pittura – che aveva capelli più chiari ed
un viso più dolce.
“Di dove sei?” aveva chiesto Anton, mentre
abbandonavano l’Emporio di Cait, il
suo tono era generico ed il singolare, dava a Jordan l’idea
che non volesse
inserire in alcuna maniera Drina nella conversazione. Qualsiasi legame
ci fosse
tra lei e sua sorella, lo rendeva nervoso.
“Ketterdam” aveva risposto lui, non
aveva senso negarlo, aveva l’accento del nord di Kerch,
“Oh” aveva considerato
Anton, “E di dove sei veramente?” aveva inquisito
oltre.
Jordan ci era
abituato, aveva
l’aspetto di un suli, era abituato a quel tipo di invasiva
curiosità. ‘Oh,
parli molto bene il kerchiano’, ‘Oh,
non avrei detto fossi di Kerch’,
la gente spesso appariva più stupida della dizione di Jordie
da quella di
Dominik e Ioren. “Di Ketterdam, ma mio padre è di
Lijin” aveva risposto senza
farsi turbare troppo.
“Oh sì figo, noi siamo di qui, tutti di
qui” aveva detto cupo, mentre
raggiungevano la spiaggia, “Tranne Naresuan” aveva
spiegato Anton, “Chi?” aveva
chiesto, “Peschiamo insieme, questa è notte
è rimasto di guardia al molo, per
assicurarsi che nessuno tentasse di rubare dalle reti. Qui peschiamo
granchi,
il che non è un granché come forma di guadagna,
ma, ora, ci sono le moeche e …”
aveva cominciato a spiegare Anton, “E ci sono i predoni in
queste acque” aveva
valutato Jordan.
Anton lo aveva
guardato, sollevando
un sopracciglio biondo, “Tua nonna ha un santino per il
Capitano Ghafa” aveva
ammesso, “Sì, be, a nessuno importa dei ragazzi di
Nijejem né di Masterich”
aveva ripreso Anton.
‘E questo che è successo a tua sorella?’
aveva pensato di chiedere, ma
non aveva bisogno di farlo, per sapere che era così.
“Gli schiavisti
prendono i ragazzi, cosa vuoi
che siano per loro delle moeche” aveva considerato Anton,
“Quanto si vendono?”
aveva chiesto Jordie. Ricordava di averle mangiate sia a casa dai Van
Eck, sia
con suo padre. Cibo, che non apprezzava particolarmente sua madre. In
nave,
l’estate aveva mangiato i granchi, sì, pescati e
spaccati. “Anche sette krughe
al pezzo” aveva ammesso Anton. Jordan aveva sbattuto gli
occhi sorpreso, “Per
la cronaca, la tua amica ha spergiurato che non proverai a rubarne
neanche uno”
aveva aggiunto Anton.
“Ti fidi sempre degli estranei?” aveva chiesto
retorico Jordan, “Mi ha detto
che posso affogarti” aveva replicato secco. Probabilmente
l’amicizia tra Drina
e Cait doveva aver avuto il suo valore.
“Ti
sei addormentato in barca?”
aveva chiesta Anton, quando avevano raggiunto un natante a legno, con
una vela
alzabile, grande a sufficienza per contenere due o tre persone.
“Me l’aspettavo
più grande” aveva considerato Jordan, guardando le
barche ormeggiate, alcuni
posti erano già sgombri, ma quelli ancora occupati
sfoggiavano imbarcazioni più
grandi. “Sì, be, abbiamo molte meno reti di altri.
Siamo le persone più agiati
della città, se raccogliessimo più moeche di
altri, probabilmente ci
ritroveremmo l’Emporio bruciato” aveva ammesso.
Dalla nave, un
bozzolo di coperte
si era morso, permettendo ad un giovane uomo di emergere da loro. Erano
uno
shu, dai capelli neri scompigliati di sale marino in una treccia
sfatta, lunghi
come la moda del suo paese richiedeva. Indossava una camicia di cotone,
con
sopra un maglione di lana grezza, entrambi umidi. “Volevo
essere sicuro che non
si avvicinassero alle reti” aveva ammesso quello, sbattendo
gli occhi, ancora
lucidi di sonno. Il sole aveva fatto capolinea tra le acque placide blu.
“E
lui è?” aveva chiesto Naresuan,
doveva essere lui, ammiccando alla sua presenza. “Jordan
Rietveld” si era
presentato, pensando di utilizzare quello strano cognome di cui poteva
far
gioco, non sapeva da dove i suoi genitori lo avessero tirato fuori. A
Jordan
piaceva di più Ghafa, doveva ammettere.
“Naresuan” si era presentato, senza utilizzare
cognomi o altro. “Jordie ci
accompagnerà oggi” aveva detto Anton, salendo
sulla barca e protraendo una mano
per poterlo aiutare, Jordan aveva accettato l’offerta per non
essere scortese,
nonostante non avesse ne problemi con l’equilibrio,
né con le navi.
“Sei
Suli?” aveva indagato subito
il ragazzo di Shu, prima che Jordan potesse rispondere quello aveva
ripreso a
parlare: “Fantastico, è tantissimo tempo che non
parlo la lingua suli, possiamo
conversare?” aveva chiesto quasi ansioso.
Strano.
“Si” aveva concesso Jordan. “Ti prego non
dargli corda” aveva sussurrato Anton,
mentre cominciava a prendere i remi, due per lui, due per Naresuan.
“Le
posizioni delle reti si
stabiliscono tra tutti i pescatori con un tiro di dadi. Noi siamo stato
sfortunati quest’anno. La posizione non è
buona” aveva spiegato subito Anton.
“I
salami sono … elevati dai pali”
aveva detto in un suli disastroso Naresuan, “Cosa?”
aveva chiesto confuso
Jordan, Naresuan aveva guardato Anton speranzoso.
“Sta
cercando di spiegarti le reti,
vero?” aveva chiesto il giovane uomo spazientito,
“Parlava di salami” aveva
ammesso Jordie, cercando di non sembrare offensivo – certe
volte avrebbe voluto
essere indifferente come suo padre. A Kaz Brekker non importava di
essere
sfacciato, neanche ad Inej Ghafa, ma Jordan ricordava le lezioni di
buone
maniere che Wylan aveva preteso prendesse. “Le reti sono
disposte a serpentina,
come una barriera, issati su dei pali. Hanno la forma di salami,
sì” aveva
spiegato Anton, mentre sferzava con forza con i remi.
“Il mio suli è abbastanza patetico, lo
riconosco” aveva detto Naresuan, però il
suo kerchiano era ottimo, migliore anche di quello di Dominik.
“Non si
incontrano molti Shu che vogliono parlare suli” aveva ammesso
Jordan, non si
incontravano molte persone che volessero imparare quella lingua in
generale. La
più alta concentrazione di suli era a Ravka, dove era
conservato ancora
un’esistenza girovaga, poi una concentrazione abbastanza
nutrita si poteva
trovare a Kerch e alle colonie, gente in cerca di fortuna –
con uno stile più
sedentario, più lontano – e talvolta anche a Novyi
Zem. Ma a Shu-han? Non che
ne sapesse lui.
Naresuan era arrossito come un peperone rosso,
“È-per-una-ragazza” aveva
tossicchiato. “Guardalo un ragazzo grande e grosso che
diventa tutto molliccio
per una ragazza” lo aveva preso in giro Anton. “Oh,
lei ha lasciato dei sedani
davanti la sua porta?” aveva chiesto Jordan.
“Cosa?”
aveva domandato Naresuan
perplesso, “Una donna suli annuncia di essere aperta ad un
corteggiamento
ponendo dei gambi di sedano sull’uscio della sua abitazione,
che sia una
carovana, una tenda o una casa” aveva spiegato subito Jordan,
ricordando quando
Adem lo aveva raccontato; era stato perché, qualche mese
prima, Jordan aveva
accompagnato Juliana a trovare sua madre, nella bella villa campestre
dei Van
Eck, dove la giovane Soraya, la figlia più giovane di Alys,
aveva lasciato dei
gambi fuori di sedano fuori dalla sua stanza. ‘Che
tredicenne ardita,
proprio la mai
sorellina’ aveva
scherzato Juliana.
“Oh,
non lo sapevo” aveva detto
pieno di imbarazzo Naresuan, “Oh, amico,
l’etichetta del corteggiamento suli è
piuttosto rigida” aveva considerato Jordan, “Specie
quando è un giovane uomo
non suli” aveva aggiunto.
Jordan aveva sorriso ricordando una cosa che gli aveva detto sua madre,
‘Le
donne si legano una guaina vuota alla cintura, se trovano un uomo
interessato a
loro, egli si dovrà premunire di fornire un coltello per
riempirla’ aveva
ridacchiato, facendo oscillare Sankt Petyr nella sua mano.
Naresuan aveva
schiuso le labbra,
“Io, direi che forse è un po’ prematuro
per un corteggiamento ufficiale o un
matrimonio, ma credo che ti chiederò maggiori
informazioni” aveva stabilito.
“Dopo
che ci saremmo riportati a
casa le moeche, per venderle al mercato. Ora rema, Naresuan,
rema” aveva
strillato Anton.
“Quindi,
dopo che una giovane donna
posa dei gambi di sedano fuori dal suo uscio, si dimostra disponibile
ad
iniziare un corteggiamento?” aveva chiesto Naresuan, mentre
tiravano sulla
barca di Anton le reti, evitando di strapparle. Jordie si era
immaginato che
sarebbero state piene di granchi, ma le creature erano in netto
svantaggio. Le
reti avevano raccolto di tutto, oltre i granchi, pesci,
d’acqua basse, alghe di
vario genere e qualche rottame. “Allora devi considerare che
dipende tutto
dalla rigidità della famiglia della ragazza – o
be, del ragazzo – i miei nonni
non sono mai stati molto ferrei” aveva spiegato Jordan,
“Il fratello di mio
nonno ha sposato una donna ash’laki …
insomma una non-suli”
aveva detto calmo.
“Sì, da
quel momento si dichiara aperta al
corteggiamento, così cominciano le serenate, o letture di
poesie. Si fanno in
pubblico, con un vasto pubblico – mia madre dice che meno di
venti persone era
considerata quasi un’offesa – in realtà
la serenata, oggi, è considerata
desueta. Comunque, le serenate sono molte e differenti, comunque se la
ragazza
ha gradito la serenata, comincerà ad indossare una guaina
vuota. L’uomo dovrà
riempirla forgiando o anche solo donando un coltello” aveva
cominciato a
spiegare Jordan.
“Un coltello?” aveva domandato Anton, anche lui
perplesso, “Le donne suli
maneggiano coltelli, come le donne kerchiane i ventagli”
aveva replicato lui.
“Immagino
devi essere bravo per
lanciarli su una ruota e non uccidere nessuno, in effetti”
aveva aggiunto Vago
Anton. Jordie aveva trattenuto il ringhio, mentre Naresuan lo
rimproverava,
rischiando però di stracciare una rete, un granchietto,
grande mezzo-palmo, si
era agganciato con la chela ad una cinghia della rete. “Bene,
quindi, l’uomo
regala il coltello? È meglio se fatto a mano?”
aveva chiesto, “Più è pregiato:
lama fine, incisioni, elsa decorata, meglio è
ovviamente” aveva spiegato
Jordan.
“Come
era quello che tuo padre ha
dato a tua madre?” aveva chiesto Naresuan.
‘I
miei non si sono mai sposati’
avrebbe dovuto rispondere, ‘Mia madre non ha mai
messo sedani fuori la sua
porta, mio padre non ha mai cantato o recitato, niente e niente’
quella avrebbe
dovuto essere la risposta.
Ma Kaz Brekker aveva regalato ad Inej un coltello, “Coltello
corto, con lama
stretta, simmetrico ma con un solo filo. Bilanciato sul manico
anziché sulla
lama o equilibrio. Elsa nera e lama in bronzo-e-ferro” aveva
risposto alla
fine.
Sankt Petyr.
Nonostante la
devozione che sua
madre aveva messo nelle sue armi, nonostante l’affilatura
sempre mantenuta,
Sankt Petyr era diventato obsoleto, non veniva più
utilizzato, ma sua madre
continuava a portarlo fieramente al suo fianco.
“Regale
un coltello per eviscerare
il pesce” aveva proposto Anton, sporgendosi per rivolgersi al
suo amico. Jordan
cominciava a sospettare di detestare l’uomo, “A
modo suo sono utili” aveva
provato Jordan. Non ci credeva molto, Naresuan, poteva lavorare una
sgangherata
barchetta da pesca e raccoglieva granchi con Anton, ma non era un
pescatore.
Non lo era nello sguardo, non lo era nelle movenze e non lo era nelle
mani.
Forse era abbastanza tempo che faceva quel lavoro, abbastanza da
sembrare
fluido, sicuro nei gesti, ma le sue dita erano incerte, la sua pelle
era
morbida.
Ed era colto,
parlava il suli, ma
parlava il kerchiano, perfetto, senza accenti, con una dizione
elegante, i suoi
denti erano bianchi e dritti ed i suoi vestiti forse usurati e rovinati
dalle
intemperie erano buoni.
Naresuan non
era un pescatore.
“Quindi”
aveva ripreso il ragazzo
Shu, “Io le offro il coltello” aveva considerato,
il suo tono era strano,
leggermente rigido, “E se lei lo accetta, il rito
è concluso, siete fidanzati.
Da quel momento è previsto un periodo di tempo limitato che
va dalle tre alle
sei settimane, in cui le famiglie si organizzano per il matrimonio e i
fidanzati possono passare del tempo assieme, anche da soli.
L’ultima notte
prima delle nozze ufficiale, c’è
l’offerta delle mele” aveva spiegato Jordan.
“Una
ragazza deve cogliere delle
mele, sbucciarle, tagliarle marinarle con quante più spezie
riesca ad
immaginare” aveva raccontato, “Ed indovino: se lui
mangerà la mela, si possono
sposare” aveva provato Naresuan. “Più
che altro il matrimonio sarà benedetto e
basta solo un assaggio, anche perché diventano davvero cose
immonde” aveva
spiegato Jordan con calma, mentre scioglieva pratico i nodi di una
rete, per
permettere ai granchi di rovesciarsi in una cassa, ancora vivi e
brulicanti.
Cominciando
poi a dividere i pesci
ancora agitati da mettere altrove, “Questo sembra quasi
bello” aveva aggiunto Naresuan,
“L’anno scorso sono stato ad un matrimonio suli, ed
ho assistito l’offerta
delle mele, la ragazza le aveva marinate con curcuma, curry e olio al
peperoncino” aveva raccontato.
I suoi nonni avevano fatto amicizia con la comunità suli di
Ketterdam – non
senza rimproveri a sua madre che negli anni non lo aveva mai fatto
– e questo
aveva permesso a Jordan di vivere un po’ del suo popolo. Suo
nonno diceva che
le cose a Kerch erano diverse che a Ravka, immaginava che la
sedentarietà
influisse molto su un popolo. A Jordan non dispiaceva, ma a suo nonno
sì, non
che lo dicesse mai, Ravi Ghafa era un uomo tremendamente riservato,
rispetto la
spumeggiante Sarika.
“Come
siete inutilmente eccentrici”
aveva ammesso Anton, mentre divideva il ricavato della sua pesca in
diversi
barilotti che si era portato via, “Qui vai dal padre di lei o
chi ne fa le veci
e chiedi quanto ti darà per liberarsi di lei”
aveva detto con voce spenta.
“Come
lo fai sembrare romantico”
aveva scherzato forzatamente Jordan, “A Shu-Han come
funziona?” aveva chiesto.
Non aveva idea neanche come funzionasse a Ravka, avrebbe dovuto
chiederlo a
Dominik, ma Jordan sospettava che il suo amico avrebbe fornito tutte le
informazioni sbagliate, per proteggerlo da qualche sua paranoia.
Anche se immaginava che a Drina sarebbe andato bene anche un
appuntamento al
Caffè, o forse un’avventura, forse Jordan doveva
proporle quello. Forse stava
solo galoppando veloce con la fantasia, le aveva sfiorato la mano in
treno
solamente.
“Tecnicamente
anche da noi, ora,
c’è uno scambio in dote, ora, per lo
più si fa in denaro, ma in passato era di
tutto, ho sentito di una donna che ha offerto il suo peso in
bambù, ma la dote
viene offerta dalla famiglia che fa la proposta” aveva
spiegato Chang, “Se io
desidero sposare una certa fanciulla, mio padre stabilirà
una dote da offrire,
valutando la nostra disposizione economica e poi quella della
famiglia” aveva
spiegato calmo.
“Visto che vuoi sposare una suli, penso che il coltello basti
e avanzi” aveva
detto Anton crudele, sì, Jordan cominciava a spazientirsi.
‘La
calma è la virtù dei forti’
aveva sentito echeggiare la voce di suo nonno nella testa.
“Normalmente
la proposta viene
fatta da chi è membro della famiglia agiata, ma ho visto
certe persone
accumulare ogni spicciolo per tutta la vita, togliersi il pane dalla
bocca, per
poter offrire una dote ricca ad uno dei figli” aveva
raccontato calmo, con gli
occhi distanti, pensando probabilmente a qualcosa e qualcuno che non
era così.
I suoi
genitori forse.
“Mia
madre aveva questo specchio
portatile, era d’argento, sul cui retro era stato inciso
questo airone di
profilo, con una gamba testa sulla punta di una montagna, con un nimbo
circolare dietro la testa, da cui sorgevano bande … e aveva
questo manico
d’avorio, riccamente istoriato che … probabilmente
avrebbe sfamato tre famiglie
dei quartieri bassi per un anno” in quella descrizione
così ricca e vivida, Naresuan
aveva lasciato sfuggire tutta la sua natura altolocata. “Tuo
padre era quello
ricco, vero?” aveva chiesto Jordan, quasi senza riflettere,
suo padre lo
avrebbe rimproverato, aveva scoperto le sue carte.
“Sì”, non aveva mentito Naresuan,
“Ma non fraintendere, amico, mia madre avrebbe potuto
presentarsi con le mele
speziate e mio padre l’avrebbe sposata comunque”
aveva ammesso. “Da lei che hai
preso questa tua bella faccetta che fa torcere le gonne delle
giovinette di Nijejem?”
aveva indagato sfacciato Anton.
Naresuan era
arrossito sulle
guance.
“Presumo
che anche la tua
innamorata potrebbe apprezzare gli specchi, al posto dei coltelli, il
manico
potrebbe entrare nella guaina” aveva ipotizzato, pensando
all’oggetto, sembrava
ricco dalla sua descrizione, come ricco doveva essere Naresuan, forse
la donna
per cui spasimava non doveva esserlo.
Il ragazzo Shu
aveva ricambiato il
sorriso.
“Forse”
aveva abbozzato pieno di
vergogna, “Come è questa ragazza?” aveva
indagato Jordan, “Più lavoro meno
chiacchiere” Anton si era fatto sentire. Naresuan aveva
sorriso con gentilezza,
“Temeraria” aveva risposto poi. Quello aveva
stupito notevolmente Jordan, forse
era una cosa stupida, ma si era aspettato un giudizio estetico, ma era
stato
sciocco.
Se avessero
chiesto a lui di Drina
cosa avrebbe detto? Avrebbe parlato del mondo in cui sorrideva? Dei
suoi occhi
azzurrissimi o della sua curiosità intrigante.
Quando avevano
ripreso a remare
verso il porto, avevano tre salami, diviso i pesci – un
dentice, due storioni,
un nasello e tre cheppie – dai granchi – quasi
tutti senza guscio, dal numero
indicativo di cento-cento dieci esemplari – ed essersi
sbarazzati dalle alghe
in eccesso, avevano sulla loro barca l’approssimativa cifra
di ottocento
krughe, forse.
Ottocento
krughe in fauna marina, chiusa in
tre differenti barili di
legno.
Jordan si
chiedeva quanto di questo
sarebbe stato incassato effettivamente da Anton. Qualcosa sarebbe
dovuto andare
a Naresuan che aveva aiutato, altro sarebbe stato investito per la
manutenzione
della barca e probabilmente per le imposte sul numero di reti, sul
noleggio
della postazione di queste ultime e anche dell’attracco al
porto.
In biblioteca
aveva visto che Nijejem
era un paese che viveva di sale e di granchi.
Jordan aveva dato il cambio a Naresuan con i remi, trovando
l’attività
piuttosto faticosa, per il suo fisico da studente impenitente.
Era abbastanza
sicuro che suo
padre, con la sua gamba offesa, non avrebbe faticato quanto lui,
così, come sua
madre. Lo spettro aveva una fila di remi, per le emergenze, quando il
vento non
assisteva, il mare era in bonaccia e per qualche ragione i grisha non
potevano
adoperare la loro piccola scienza; sua madre, però, valutava
di aggiungere un
motore a vapore.
‘Non
ha senso rimanere attaccato
al passato. Le innovazioni corrono veloci!’ aveva
detto.
Il peso della barca era stato più pesante, rispetto
all’andata, la forza e la
prontezza di Jordan era decisamente meno notevole di quella di Naresuan
– cosa
che sembrava ridicolo, visto quanto smilzo sembrava il ragazzo Shu
– e il sole
picchiante del mezzogiorno, avevano reso molto più lungo il
rientro al porto,
di quanto era stato l’abbandono.
Quando Anton aveva lanciato il cavo di prua per legarlo alla bitta
sulla
banchina, Jordan era lurido di sudore.
“Questo è il motivo per cui dico che dovremmo
andare di notte, come gli altri”
aveva detto subito Naresuan, “Io non sono un pescatore,
Naresuan, io sono un
negoziante, non navigo di notte” aveva replicato Anton.
“Un po’ si vede” aveva
considerato Jordan, guardandolo, “Se ormeggi di prua devi
farlo a cavi incrociati
e ti serve una boa per la parte posteriore” aveva azzardato.
“Un
suli come te che ne sa? Non
girate in carovane?” aveva chiesto Anton, “Uno dei
miei più cari amici lavora
ai cantieri dei Dyk” aveva risposto, non era una menzogna.
Una parte di
lui voleva quasi
strofinare sul viso di Anton che un suli come lui, aveva potuto godere
di una
bella casa, di una vera istruzione e che frequentava
l’Università e che tra i
suoi amici poteva vantare i ricchi viziati figli di Kerch e nobili
oltre il
mare. Perfino il Principe di Ravka!
Ma era una
cosa così stupida, una
cosa di cui suo padre sarebbe stato disgustato e sua madre delusa.
Anton era
figlio di un gretto dolore, cresciuto in un mondo dimenticato dai
Sankti, che
aveva perso una sorella in qualche modo così orribile che
ancora echeggiava
nella memoria anche di Drina.
Strofinare sul
viso della sua vita
fortuna a Jordan sembrava meschino, anche se Anton era una persona
così
fastidiosa.
Avevano
ritirato la barca e
nonostante il suo atteggiamento inviso, Anton lo aveva ascoltato per
l’aggancio
alla banchina e poi con calma avevano scaricato le quattro casse.
“Oggi non mi
sembra sia andato male” aveva valutato Naresuan,
“Se ignoriamo il tuo
chiacchiericci ridicolo, no” aveva risposto Anton,
sbeffeggiando, l’altro lo
aveva guardato storto, “Io ho nel cuore la povera Klaske che
stravede per te”
aveva stabilito poi.
Anton non era riuscito a trattenere un’espressione disgustata
a quel commento,
“Giammai, che la mia anima vada a fare compagnia a quella di
Elyaas Vriess che
finire con Klaske Dente-Blu” aveva replicato offeso da quel
commento.
“Klaske
è una ragazza gentile,
stravede per te e la tua prozia
la ama” aveva difeso
l’onore di Klaske, Naresuan, “Brutta come un
rospo” aveva replicato Anton.
Jordan li
ascoltava passivamente,
ma anche divertito in un certo senso, “Lasciamo le donne
belle agli uomini
senza fantasia” aveva replicato Naresuan, “Certo,
immagino che la tua amata sia
della stessa delicata bellezza di uno scorfanaccio” lo aveva
punzecchiato
Anton.
Jordan non
aveva sentito la
risposta del ragazzo Shu, immerso nella frase che aveva appena sentito,
era una
citazione di Vestern Van Dijik, che aveva detto durante le giornate a
Ivets,
durante un’assemblea di intellettuali organizzata da
Dimitriji Polnudist –
Jordan era andato lì, con Wylan, Magnus e la di lui madre,
Linnea – almeno un
anno fa. Non era stato durante uno di quei discorsi, ma durante una
cena tenuta
dal Signore di quella zona, dove Pryr Rassun – filosofo
teorico della corte
dell’Illuminato Egmen Grijmor – leggermente
ubriaco, aveva fatto un commento volutamente
cattivo sull’aspetto su Fikele
Oamat –
una matematica zemeni brillante per l’opinione di Jordan
– e Vestern Van Dijik
era intervenuto così.
Fikele aveva
apprezzato
l’intenzione, meno l’intervento ed il commento.
Jordan aveva
memorizzato la frase
perché era avvenuto prima del suo terzo bicchiere di kvas
corretto, abbastanza
per aver raccolto informazioni. “Che vuol dire?”
aveva chiesto Magnus colto
dalla sua ingenuità, “Che solo gli uomini stupidi
e con la disponibilità
emotiva di una tazzina da te, hanno bisogno che una donna sia
bella” aveva
risposto pigra Linnea Opjer, con i suoi occhi azzurri brillanti ed i
capelli
dorati. Vedendola nessuno al mondo avrebbe potuto fraintendere che non
fosse
altro che la nobile sorella del re consorte di Ravka, del Korol
Rezni, del
Re Senza Corona.
“Una
bella frase, dove la hai
sentita?” aveva indagato, “Magari la ho inventate,
io?” aveva risposto
scherzoso Naresuan, finendo il suo baccagliare con Anton,
“Non lo sai che gli
Shu parlano solo per versi poetici” lo aveva preso in giro
Anton. “In realtà
non ricordo dove la ho sentita, penso sia un evoluzione di un vecchio
detto”
aveva scansato la questione Naresuan.
Jordan aveva
arricciato le labbra
pensando ai movimenti incerti del ragazzo, le sue mani delicati
arrossate dal
lavoro, la parlata eclettica ed ora quella frase. Naresuan non era
sicuramente
un pescatore Shu, finito a Kerch seguendo la lingua di terra
…
Si chiese se
anche lui avesse
partecipato alle Giornate di Ivets, due anni prima.
“Lei
comunque è bella come la prima
mattina di primavera, quando i fiori timidi lasciano sbocciare i loro
colori,
ma è molte altre cose oltre il suo aspetto, è
brillante e spietata come una
lama” aveva detto innamorato Naresuan. “Be, sembra
la descrizione tipica di
moltissime donne suli” aveva scherzato Jordan.
Come avrebbe parlato lui di Drina?
Che aveva
occhi così belli, ma così
tristi?
“Smettete
di parlare di fiche e
recuperiamo queste fottute casse” erano stati rimproverati.
Anton li aveva
condotti verso la
stazione, in uno spazio che nel buio della notte prima, non aveva
goduto per
bene. Un piccolo quartiere composto di stoffe e tendaggi si era aperto
davanti
a loro. Jordan non aveva mai visto le comunità erranti suli
di Ravka, con le
carovane, le tende e le carrozze di cui aveva fatto parte sua madre
nella sua
giovinezza. Nella testa di Jordan quei luoghi erano idee, ma in quel
momento,
davanti il quartiere di tappetti di Nijejem, piccolo e modesto, aveva
un’idea
quasi reale.
“Questo
è il mercato” aveva
spiegato Naresuan più amichevole, mentre imboccavano le
strade tra le
bancarelle.
Nonostante a primo acchito, Jordan avesse provato meraviglia, aveva
dovuto
riconsiderare di molto il suo stupore. Buona parte delle bancarelle
erano
chiuse, sbarrate con assi di legno, le poche aperte erano spoglie ed
avevano
commessi dai visi stanchi e logorati. I tappetti che riparavano dal
sole erano
vecchi ed usurati, ma avevano più fantasie Shuhannite che di
altre nazioni.
Doveva essere per il corridoio di terra.
“Questo
è la Chiesa di Nijejem”
aveva precisato Anton con un tono cupo, spiegando perfettamente che
luogo era a
Jordan, “Molto più pittoresca di quella di
Ketterdam, non c’è che dire” aveva
commentato lui, osservando i visi stanchi e rovinati degli avventori.
“Il
nostro piccolo Anton ci porta
qualcosa” aveva canticchiato una voce melliflua, femminile,
palesandosi davanti
a loro. Era una vecchia signora dal viso cotto dal sole, avrebbe potuto
avere
cinquanta anni come trenta di più, rughe severe solcavano la
pelle come
l’aratro faceva nel campo, gli occhi erano scuri e cattivi ed
i capelli grigi e
chiusi in una crocchia così severa che non solo un ciuffo
sfuggiva alla
prigione. “E non sto parlando del pesce” aveva
concluso la donna.
“Quella
è Anita Vriess, non
guardarla negli occhi, può rubarti
l’anima” aveva sussurrato Naresuan nel suo
orecchio, Jordan aveva proceduto nel fissare la vecchia signora proprio
in
quelli. Aveva lo stesso sguardo inflessibile di suo padre, proprio
un’occhiata
che poteva rubarti l’anima.
“Qualche
parentela con il già
citato Elyaas Vriess?” aveva sussurrato poi
nell’orecchio del ragazzo Shu,
ricordando il cognome che aveva sentito pronunciare ad Anton.
“Era suo figlio”
aveva risposto quello, “I Vriess hanno sempre posseduto la
malavita qui, da
quello che ho capito, prima il suocero di Anita, poi il marito e dopo
il
figlio, ma ora comanda lei” aveva spiegato.
Probabilmente
perché era rimasta solo
lei.
“Sì,
be, avevo bisogno di
raccogliere il pesce e i granchi, ne vuoi?” aveva chiesto
senza dolcezza Anton,
oscillando da un lato e mettendo il suo corpo – secco e magro
– tra lo sguardo
rapace della vecchia donna e Jordan. “Non ho affatto voglia
di togliere
manodopera alla tua vecchia zietta, eravamo amiche una volta”
aveva considerato
la vecchia Anita.
“Immagino
che vendere la nipote
alla Spaccaossa possa aver cambiato le
cose” aveva risposto secco Anton,
“Il pesce?” aveva insistito poi,
“Sì, prendo una cassa, ma voglio solo i
granchi” aveva considerato Anita.
La mente di Jordan era volta al ritratto della giovane Cait che era
apparso
all’Emporio, con il suo sorriso timido ed un po’
accennato e poi aveva prestato
più attenzioni a quello che aveva detto Anton.
La Spaccaossa, la Pazner Kosti, la donna che aveva
perseguitato per anni
gli incubi di sua madre, in possesso di una nave enorme e veloce che
non poteva
essere sconfitta e che in qualche maniera continuava a sfuggire
–
‘la
nascondono Jordan’
diceva sua madre.
E poi della
Mostruosità della Ji-Han
– così aveva scoperto si fosse chiamata la
città galleggiante della Spaccaossa
– erano rimasti solo pezzi in ammollo delle acque salate.
Qualcosa di ben
peggiore aveva intrecciato il suo percorso.
Sua madre gli
aveva riportato
qualcosa, i resti di uno scafo non più grandi di un
avambraccio, ‘Non erano
le spoglie che volevo. Li volevo tutti’ aveva
ammesso con un tono di voce
pieno di rammarico, ‘Almeno è finita’
aveva detto Jordan, che era
solamente un bambino e non capiva il punto.
L’importante è che l’incubo
di sua madre avesse avuto fine, ma non comprendeva ancora
perché negli occhi di
sua madre ci fosse tanto dolore.
“Adesso so che vuoi chiedermi di mia sorella” aveva
ringhiato Anton, “Non mi
permetterei” aveva risposto di getto Jordan, che pensava di
aver capito senza
bisogno di troppe spiegazioni.
Elyaas doveva essere stato responsabile della sparizione di Cait e sua
madre
aveva fatto processare l’uomo, non sapeva solo dove dovesse
incrociarsi Drina.
“Tua … tua zia ha il quadro di Inej
Ghafa” aveva considerato poi, più
rispettoso.
Anton gli
aveva dato le spalle e si
era ritirato in una zona più appartata con la vecchia Anita.
Jordan era rimasto
in piedi, sostenendo il peso del barile, accanto a Naresuan.
“Sua sorella Cait
aveva venduto il suo contratto ad Elyaas, pensava di finire in qualche
casa di
piacere a Ketterdam” aveva raccontato. Jordan aveva avuto un
brivido pensando
al dipinto della ragazzina, forse quattordicenne … suo padre
non l’avrebbe mai
presa al Digitale. “Non …” aveva fatto
una pausa. Non poteva andare
direttamente a Ketterdam? Voleva chiedere, mettersi all’asta
di Ghezen da sola?
Ma non lo aveva chiesto, perché il mondo era strano ed era
crudele.
La famiglia di Anton era la più ricca in quel momento, ma
non sempre doveva
essere stato così …
“Così immagino avrebbe potuto mandare i soldi a
casa” aveva sussurrato,
pensando che spesso era così che finiva,
“Già, ma Elyaas Vriess ha pensato
convenisse di più darla alla Panzer Kosti”
aveva ammesso Naresuan con
una voce terribilmente lugubre.
Jordan aveva
sospirato, pensando ad
una ragazza costretta a tutto quel dolore e Drina.
Aveva una qualche idea di quel che era successo alla ragazza, ed ora
temeva che
una qualche idea non fosse abbastanza. “Non dire ad Anton che
te lo ho detto.
Ad Anton non piace parlarne, perché ha accompagnato lui sua
sorella da Elyaas”
aveva ammesso Naresuan, “Tu eri lì?”
aveva chiesto Jordan, “No, no. Me lo hanno
raccontato la signora Wilhelmine e Pyp, sono venuto a vivere qui
dopo” aveva
ammesso.
Anton aveva
tenuto per sé due cheppie
ed aveva dato dei soldi che aveva guadagnato, non solo da Anita ma
anche da
altri commercianti, – quasi ottocento krughe – un
buon quarto a Naresuan e poi
dieci monete di carta anche lui. “Come mai?” aveva
chiesto Jordan, “Nessuna
buona azione resta impunita. Ghezen crede nello scambio. Lavoro per
soldi”
aveva soffiato Anton stanco.
“Non
ne ho bisogno” aveva ammesso
alla fine Jordan.
Anton aveva
sbuffato, “L’ho capito,
eh, che non sei un suli morto di fame e non vivi in
un caravan,
dividendo il letto con tre cugini, probabilmente sei perfino un
ragazzino
ricco” aveva soffiato Anton, “E scommetto che non
ti sei mai guadagnato
qualcosa con le tue sole mani” aveva considerato.
Per la prima
volta Jordan non aveva
voluto colpirlo sulla faccia, di tutte le supponenti affermazioni che
Anton
aveva fatto quel pomeriggio per tormentarlo, quella era
l’unica tristemente
vero.
Sì,
suo padre lo aveva spronato a
fare qualcosa per se stesso, come avergli affidato la
proprietà la loro proprietà
natia, ma Jordan era nato fortunato, quello lo doveva ammettere.
“Hai ragione”
aveva ammesso calmo, recuperando le monete dal sacchetto che Anton gli
aveva
allungato.
“Magari
spendili per comprare un
pugnale alla tua ragazza” aveva proposto Anton,
“Oh, no, lei è di Ravka, non ho
idea di cosa sia d’uopo regalare ad una ragazza di
Ravka” aveva ammesso Jordan,
ridacchiando.
Da un lato
poteva immaginarsi nel
comprare dei gioielli – ma vedeva lo sguardo di biasimo di
suo padre
nell’utilizzo di quel verbo –
però non vedeva affatto quel tipo di
chincaglierie addosso a Drina.
Indossava gli
orecchini sì, aveva
anche un bracciale, ma erano tutte piccolezze sobrie e poco evidenti.
Però sapeva che avrebbe apprezzato altro, un cane di latta,
un piccolo treno
giocattolo o altro, un automa forse, era dannatamente certo che Drina
avrebbe
apprezzato di più.
“L’idea
del pugnale non è male,
però direi più una pistola, le donne ravkiane
combattono come uomini” aveva
detto Naresuan con una bella risata, “E quando un uomo con il
pugnale incontra
un uomo con la pistola, l’uomo con il pugnale è un
uomo morto”.
“Resti
a cena con noi Naresuan? Mangiamo
le cheppie” aveva proposto Anton con un tono di voce
più sereno, “Oh, be, ti
ricordo che occupo una stanza all’Emporio, l’idea
di non dover succhiare le
croste di pane mi piace molto” aveva scherzato Naresuan.
“Spero che la tua
amica abbia finito di fare Le Lamentazioni” aveva considerato
Anton, con un
sospiro.
“Non
so, non ho idea di quanto
durino, i riti funebri suli sono diversi” aveva mormorato
Jordan, che non
conosceva bene quel lato della sua cultura, perché ancora
una volta, era stato
un ragazzo fortunato. Naresuan aveva aperto la bocca, ma prima di poter
parlare, era stato zittito da Anton, “Non provateci,
l’ultima cosa che voglio è
sentirvi parlare ancora di usanze strane. Il mondo
è bello perché avariato,
lo so, lo so” aveva ruggito Anton.
“È bello perché è vario”
lo aveva
corretto bonariamente Jordan, “Ho detto quello che
ho detto” aveva
risposto Anton.
La vecchia
prozia di Anton gli
aveva accolti arcigna da dietro il suo bancone, quasi sepolta tra le
cianfrusaglie.
“La tua amica sta ancora facendo Le Lamentazioni”
aveva stabilito la donna,
guardandola, prima ancora di ascoltare le notizie che Anton stava
riportando.
“Sempre squisita” aveva sentito Naresuan commentare
a mezza-bocca. Jordan aveva
trattenuto il sorriso storto ed aveva deciso di ascoltare le
indicazioni della
vecchia signora su per le scale.
L’Emporio
di Drina aveva più camere
di quanto non si potesse ipotizzare dall’esterno. Pyp
l’aveva condotto nella
stanza dove era la sua amica, “A Ravka fanno proprio strane
cose” aveva detto,
prima di lasciarlo sulla porta, ma con gli occhi ancora incollati
all’uscio e
non si era neanche allontanato troppo quando Jordan aveva aperto la
porta.
Drina era
sulle ginocchia sul
pavimento di legna, con i capelli scuri velati con un fazzolo viola
intenso.
Dei fiori secchi incorniciavano un dipinto di Caitlyn. Jordan era
abituato alle
Lamentazioni, ma mentre si avvicinava si era accorto che Drina non
stava
recitando le abituali litanie, ma qualcosa che Jordan non conosceva.
Era Ravkiano, qualcosa che nel suo orecchio suonava ancora estraneo,
sua madre
era nata Ravka e suo padre conosceva quella lingua, ma Jordan era
cresciuto a
Kerch, aveva imparato il suli come seconda lingua, il ravkiano era
qualcosa che
conosceva colloquialmente, ma non così veloce, ma non
così basso.
Drina si era voltata verso di lui, anche se Jordan non aveva fatto
rumore –
Jesper diceva sempre che aveva lo stesso passo felpato di Inej
– come se lo
avesse sentito.
Probabilmente
non aveva sentito con
le orecchie e non i suoi passi, ma qualcosa che aveva indosso, il
cappello, la
fibbia delle scarpe, i bottoni del panciotto.
“Come
è andata la pesca?” aveva
chiesto lei con un sorriso innocente, “Ho guadagnato dieci
krughe” aveva
risposto lui divertito, “Quelle non era lamentazioni
classiche” aveva
considerato lui, avvicinandosi, Drina era ancora in ginocchio.
“No,
erano canzonette” aveva
dichiarato Drina.
Jordan si era
inginocchiato al suo
fianco, “Io non ho idea se Cait fosse o meno religiosa, non
ne abbiamo mai
parlato, ma le piaceva cantare, le piacevano le mie canzonette e la
storia di
Nina Zenik” aveva spiegato calma. Jordan aveva aggrottato le
sopracciglia,
“Nina Zenik?” aveva chiesto chiedendosi come il vero
nome della Regina
di Fjerda riguardasse questa storia, “Era una grisha rapita
dai druskelle, che
si innamorò di una di loro, la prima grisha nota ad essere
sopravvissuta alla
parem e un’eroina per noi” aveva raccontato. Jordan
aveva annuito. Una grisha
rapita, sopravvissuta all’inferno-in-terra e che era
riuscita, anche se forse
Drina non conosceva la portata di quanto la sua vita fosse cambiata.
“Cait
aveva bisogno di speranza e canzonette” aveva ammesso Drina.
Jordan si era
morso un labbro
pensando a Drina e Cait vittima della tratta – come era stata
sua madre – che
si consolavano cantando canzonette. “Sentiti libera di non
rispondere” aveva
cominciato lui, “Ma tu e Drina vi siete conosciute su
… una nave schiavista?”
aveva chiesto con coraggio, anche se temeva di sapere già la
risposta.
Drina lo aveva guardato gli occhi blu velati di dolore e tristezza,
“No” aveva
risposto abbozzando un sorriso poco convinto, Jordan non sapeva come
prendere
quella risposta, “La Ji-Han non era una nave schiavista, era
… peggio” aveva
ammesso calma. Lacrime pesanti erano rotolate dagli occhi lungo le
guance
tonde.
Jordan aveva sentito l’aria strizzarsi nel suo petto a
quell’ammissione.
“Eri
sulla Ji-Han?” aveva chiesto
strozzato.
“Non
lo sapevi, davvero? Tua madre
non te lo ha detto?” aveva chiesto Drina, c’era una
certa perplessità nella
voce, “Mia madre non mi ha mai detto nulla, lo ho solo
dedotto da una
conversazione tra lei e tua madre l’ultima volta che la ho
accompagnata a
Keramzin, dopo le Giornate di Ivets” aveva raccontato. Era
andato lì dopo perché
sapeva di trovarci sua madre e sperava di vedere anche Drina,
congedandosi da
Linnea, Magnus e Dominik.
Non aveva
trovato Drina.
Lei aveva
sorriso, ancora stanca,
“Non è stato così male, sono stata
chiusa in una cella poco più grande di un
armadio, senza vedere la luce del sole, con le dita spezzate e drogata
tutto il
tempo, ma almeno non erano ammanettata a catene arrugginite, con
l’acqua alle
caviglie ed in balia degli schiavisti. Avevo cibo sano e vestiti
puliti” aveva
sospirato.
“Non
riesco ad immaginare una cosa
del genere” aveva ammesso Jordan, “Mia madre
… lei non ne parla mai o quasi”
aveva sussurrato. Eppure, tutta la sua vita era stata modellata su
quello.
“Con
me ne ha parlato, sai? Mio
padre voleva che ne parlassi con qualcuno che poteva capire, almeno un
po’”
aveva spiegato.
Jordan aveva
annuito, aveva
senso. Aveva anche senso sul perché Inej fosse
così protettiva nei
confronti di Drina.
“Non ho mai desiderato tanto uccidere qualcuno come
ora” aveva ringhiato Jordan
alla fine, sentendo crescere su di lui, una furia quasi cieca, che
vibrava nel
suo sangue, aveva ricordato i racconti che aveva sentito su suo padre.
Aveva
sempre provato orrore per quelle storie, ma pensava di cominciare a
capire.
“Non ne vale la pena, Jordan Ghafa, la Ji-Han riposa tra i
ghiacciai del
settentrione, i suoi uomini riposano tra i Sildroher
e lo schiavista che
ha preso me marcisce in una cella senza vedere il sole a Ravka da anni
e quello
che ha preso Cait è affogato tempo fa. Sono già
tutti i morti, non sprecare le
tue angustie per chi è stato già
punito” aveva detto con dolcezza Drina,
prendendo poi la sua mano.
Jordan
l’aveva stretta, con un
certo tremore. “Resti con me per l’ultima
canzone?” aveva chiesto lei.
La voce di
Drina non era bella e
soave come quella di un’allodola, ma era una bella voce, era
calda e profonda e
quando parlava il ravkiano il suo tono diventava dolce come il miele
con il
pane tostato.
Jordan non era certo di essere stato innamorato prima, ma ne era stato
sicuro
con la fine di quella canzone; ed era una cosa così
profondamente sciocca. “Tu
e Cait eravate molto legate” Jordan non sapeva se la sua
fosse una domanda o
un’affermazione, mentre Drina chiudeva la porta, Pyp si era
spostato al fondo
del corridoio, proprio sul principio delle scale.
“Non
lo so, è una cosa complicata
da … considerare. Poco tempo, ma intenso” aveva
raccontato lei, “Non so quale
fosse il suo colore preferito o che cosa volesse fare da
grande” aveva confessato.
“Verde
e voleva lavorare in una
serra per stare sempre al caldo” si era introdotto Pyp,
“La nonna mi ha mandato
a chiedere se volevate cenare con noi, ha fatto le cheppie fritte e i
fiori di
zucca” aveva comunicato. “Oh, certo”
aveva risposto Drina, prendendo di nuovo
la mano di Jordan, “Voglio gustarmi un po’ del duro
lavoro di Jordie” lo aveva
preso in giro con un certo divertimento e per un secondo anche
l’azzurro dei
suoi occhi era scintillato di gioia.
Pyp gli aveva
condotti di nuovo
nell’androne pieno di cianfrusaglie dove Jordan aveva
riconosciuto Naresuan che
aveva dismesso gli abiti da pesca e sopra la camicia pesante indossava
un
grembiule nero – quanto tempo era durata l’ultima
canzone? – che girava il
cartello per segnare la chiusura.
“La
stanza del pasto è la seconda
porta lì” aveva indicato il ragazzino, attirando
la sua attenzione, Jordan
neanche l’aveva notata dietro tutte quelle cianfrusaglie, suo
padre sarebbe
stato molto deluso dalla sua mancanza. “Anton e Naresuan
hanno già apparecchiato”
aveva comunicato, ammiccando anche al ragazzo Shu.
Naresuan si era voltato verso di loro per sorridere a lui e Drina,
Jordan aveva
ricambiato ed anche Drina, ma come il sorriso della ragazza cresceva
quello del
ragazzo shu diminuiva.
Per un solido
momento, Jordan ebbe
l’impressione di essere stato gabbato
dalla ragazza che gli piaceva.
“Bello
vederti” aveva detto Drina
allusiva guardando Naresuan.
L’impressione
divenne certezza.
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Capitolo 15 *** Drina I (28 dalla D.F.) ***
Mi sono resa conto di non aver postato il capitolo di
Drina a suo tempo su efp, tecnicamente andrebbe letto prima di quello
di Jordan, help.
Vi lascio il link di A3O dove è presente una illustrazione:
https://archiveofourown.org/works/43797621/chapters/119863912
DRINA
(28 anni dalla dissoluzione della Faglia)
Dominik non somigliava a sua sorella.
Drina avrebbe voluto che quel pensiero non fosse la prima cosa che
attraversasse la sua mente ogni volta che guardava il giovane principe,
ma era così.
Non era solo l’aspetto, dove la principessa era ferace, dura,
brillante, ma svelta come una frusta, di una bellezza eterea, quasi
divina a modo suo mortale, Dominik era terribilmente umano, con gli
occhi pieni d’amore, il sorriso steso un po’
tremolante e dietro tutto il fascino che ostentava guance tonde che
balzavano a rosso veloci come vele.
Dominik aveva qualcosa di dolce, come la piccola Alina, che sembrava
essere tutto suo, nessuna eredità dai suoi genitori.
L’Inflessibile regina Zoya e il carismatico Korol
Rezni.
Sua madre diceva che Dominik aveva ereditato la dolcezza di sua madre,
ma Drina ne dubitava parecchio – non credeva di poter trovare
un lato dolce nella Regina – ed anche se la sua
vita era stata giovane, aveva impastato il suo bel numero di esperienze
per dirsi capace di giudicare.
“Ho qualcosa in faccia?” aveva chiesto il principe
aggrottando le sopracciglia bionde.
“Solo la tua faccia” aveva replicato schietta lei.
“Una volta eri più gentile” aveva
dichiarato offeso il principe. “Una volta avevo il terrore
che i miei genitori scoprissero che non ero educata” aveva
risposto lei, forzando un sorriso.
Da bambina le veniva semplice sorridere, le veniva spontaneo, era una
ragazzina allegra, poi si era rotta.
Dominik aveva ridacchiato, a guardarlo in quel momento con la redingote
raffinata azzurro ravka ed i calzoni a quadri sottili bianchi sul
marrone, sembrava tutt’altro che un principe esotico, quando
… un ragazzo normale, solo ben lavato, di Ketterdam.
“Sei solo arrabbiata perché sto rovinando il tuo
appuntamento” l’aveva presa in giro, “Non
verrai con me, vero?” aveva risposto Drina, senza lasciar
percepire la verità.
Un po’ lo era.
Non voleva avere davvero un appuntamento con Jordan Ghafa, ma era anche
vero che trovava piacevole la compagnia del ragazzo. “Scusami
ma Jordie è il mio migliore amico, non sembra ma un cuore
tenero” aveva ammesso Dominik con un sorriso divertito.
Drina aveva inclinato il capo, “Lo sai vero che la storia
delle druse che mangiano i cuori per rimanere
giovani per sempre non è vero?” aveva chiesto
retorica, “Averlo saputo prima, mia sorella mi ha minacciato
per anni che lo avrebbe fatto” aveva risposto prontamente
Dominik.
Drina aveva riso, “In quel caso non mi sento di escludere che
potesse non essere una minaccia a vuoto” aveva detto. Il
principe aveva riso, “Sai che stai parlando della futura
Regina di Ravka?” aveva chiesto retorico ma con divertimento
Dominik.
Lei aveva delineato con le labbra un sorriso furbo, “Ho
firmato un documento dove mi è permesso commettere atto di Lesa
Maestà” aveva ammesso. Dominik aveva
sollevato un sopracciglio, “Avevo dieci anni, lo abbiamo
scritto e siglato su un tovagliolo in sala da pranzo io e tua sorella;
poi lo abbiamo consegnato a… la signorina Velenski”
aveva dichiarato, riportando quel curioso fatto con la stessa
serietà con cui esponeva i progressi a Nikolai.
Dominik aveva mantenuto un’espressione comicamente seria,
“Inoppugnabile” aveva aggiunto.
Drina aveva annuito, cullandosi in quel ricordo, ancora giovane,
ingenua.
Era passata più di una decade da quel giorno. Ricordava
ancora la serietà del viso della sua amica mentre vergava
sul tovagliolo di stoffa finemente ricavato quel testo.
‘Io Liliyana Zoyaevna Nazialesky, principessa
ereditaria di Ravka, Duchessa di Carieva, figlia del Drago do il
permesso a Ana Aleksandra Rosen di potermi prendere in giro in ogni
modo a lei compiacente” aveva scritto seriosa.
Drina non sapeva neanche cosa volesse dire compiacente,
ma lei era stata educata dai suoi genitori a Keramzin e non da una
schiera di istitutori al Gran Palazzo … in vero, ricordava
anche che la principessa avesse sbagliato a scrivere la parola.
Aveva anche ferma nella sua mente come un disegno, il viso confuso
della signorina Velensky quando le avevano affidato il tovagliolo.
Lo volevano dare alla maestra Ekaterina, ma avevano trovato solo la sua
buona amica, l’amplificatrice umana che era venuta a prendere
Drina dalla sua casa, l’unica amplificatrice non-grisha da
… Mal Oretsev.
Aveva sorriso ed aveva detto che ne avrebbe avuto cura.
A Drina era piaciuta molto la signorina Velenski, sorrideva a modo,
aveva gli occhi scintillanti di gioia e tanta aspettativa. Era morta a
ventitré anni, se Drina fosse sopravvissuta ancora un
po’, sarebbe stata più vecchia di quanto era mai
stata la signorina Velenski.
Era un pensiero strano, molto strano, ma differentemente dai suoi
genitori, non aveva mai dovuto confrontarsi con la morte, era nata
nella pace, lontana della guerra, prima della signorina Velenski. Era
stato il primo vero lutto della sua vita, la prima volta che aveva
provato quel senso di rottura, di vuoto. “Comunque, vedi Kos
qui?” aveva chiesto il principe, “No”
aveva risposto Drina, “Allora puoi stare tranquilla, non mi
è permesso neanche andare in bagno senza il vigile sguardo
del buon Kostantyn” aveva esplicitato.
Drina aveva sorriso, “Sei molto fortunato, se dovessi avere
qualcuno a guardarmi le spalle sarei felice fosse lui” aveva
ammesso lei. “Sì, lui mi ha detto che siete come
fratelli” aveva considerato.
Il sorriso di Drina si era congelato sulle sue labbra, per un solo
secondo, ripensando a quello che aveva appena sentito,
“Sì. Era uno degli orfani al Castello e siamo
stati portati insieme al Piccolo Palazzo” aveva ammesso poi.
Ricordava ancora il viso sorridente della signora Velenski quel giorno,
le lacrime di sua madre che le aveva detto che poteva rimanere se lo
desiderava – e Drina riconosceva la ferita sul suo petto
perché non era riuscita a parlare prima dei suoi poteri
– e che aveva tenuto la mano di Kos per tutto il viaggio
sull’Alcione.
E sopra ogni cosa, ricordava lo sguardo di suo padre.
“Per tutta la vita si è sentito in dovere di
dovermi proteggere – e spaventare tutti i ragazzini troppo
audaci con me” aveva raccontato, poi, con una punta di
divertimento. Dominik le aveva sorriso sornione, “Oh, deve
aver avuto il suo bel da fare” aveva squittito divertito,
“Ovviamente” aveva risposto
Drina con una risata onesta, “Anche se tre quarti dei
ragazzini che mi corteggiavano lo facevano solo per arrivare a tua
sorella” aveva dichiarato.
L’espressione di Dominik si era assopita per un secondo,
“Sempre trovata squisitamente intrigante la voglia di morire
di certi gentiluomini” aveva replicato, “Mia
sorella da ragazzina non era proprio una fanciulla gentile”
aveva ricordato.
“Ma non è vero, sapeva essere perfettamente
raffinate e fingere magistralmente, non le interessava. Non voleva per
nulla un fidanzatino” aveva ricordato Drina, mentre lei
smaniava di crescere anche in quel lato. “Inoltre, insomma,
ha sempre avuto Dimitrij” aveva scherzato Dominik,
“Non so se quel pazzo sia più innamorato di mia
sorella o della corona di mia madre” aveva ammesso,
“Alla fine prenderà Lilyiana per
sfinimento” aveva aggiunto.
“Immagino che la futura contessa di Ivets, possa non essere
così smaniosa di farsi mettere da parte” aveva
replicato lei, godendosi l’espressione sconvolta che si era
dipinta lentamente sul viso del principe quando lei aveva parlato.
“Cosa? Futura contessa?”
aveva esclamato.
“Dimitrij Poldunist si è sposato tre mesi fa ad Os
Kervo, mi sembra strano che tu non lo abbia saputo” aveva
ammesso Drina, aveva lasciato la città, per tornare a casa
tra le montagne, che gli sposi avevano appena tagliato la torta
– e freddamente si era congedata dalla principessa;
però pensava che la notizia avesse in qualche modo raggiunto
l’ambasceria. Però era sconvolto che la rete di
spie che il principe dovesse avere non avessero trasmesso quel
messaggio, forse il tempo a Kerch lo aveva distratto parecchio.
“Oh Sakto Juris il Coraggioso! Dimitrij
si è sposato? Ma lui … lui ha sempre detto che
non avrebbe mai avuto nessuno oltre Lilyiana!” aveva
replicato quasi offeso.
“Immagino che un nutrito numero di porte sul naso, possano
far desistere l’amore decantato a gran voce a dodici
anni” aveva risposto lei. Dominik sembrava ancora sconvolto,
“E mia sorella come la ha presa? So che ha sempre detto che
non voleva Dimitrij, ma ho sempre dato per scontato
…” si era fermato, incerto. “Che un
giorno avrebbe ceduto e l’avrebbe sposato? Io no, ma anche
tua sorella sembrava pensarlo. Non amava Dimitrij, se non come si ama
un amico, ma credo che sotto-sotto pensasse di poterlo usare come
salvagente” aveva dichiarato.
Era un’illazione forse troppo audace, che lei non avrebbe
dovuto fare, ma ricordava le lacrime che le avevano sconvolto gli occhi
e la frustrazione. “So che mia sorella è
innamorata di un uomo che non è Dimitrij, ne ha parlato con
mia madre, che le ha detto di pensarci bene, che non le avrebbe
impedito nulla, ma di chiedersi se era giusto per Ravka”
aveva considerato incerto Dominik, con un peso sulle sue stesse
costole, “Non dovresti dirmi queste cose” lo aveva
rimproverato bonariamente Drina. “Sei la migliore amica di
mia sorella” aveva risposto Dominik come se fosse ovvio.
Ero, sembrava in vero più corretto, ma
Drina si era beata nella sua illusione.
“Comunque, questo è il motivo per cui ti ho detto
quella cosa, l’altro giorno. Ci hai pensato?” aveva
chiesto Drina più perentoria, vogliosa di spostare un
pettegolezzo così ghiotto da orecchie indiscrete.
Il principe aveva preso per un secondo
un’espressione crucciata che aveva dissimulato presto in una
più scanzonata, per fingere di ricordare esattamente quello
di cui Drina stava pensando; un’ottima imitazione
dell’originale Nikolai, ma ancora necessaria di parecchie
affinature. Non che la ragazza le augurasse, amava
l’innocente onestà di Dominic, così
diverso da sua sorella.
Aveva amato la principessa, come una sorella, come un’amica,
a volte anche come qualcosa di più, come l’altra
metà del suo cuore, ma il tempo … il tempo era
arrivato per entrambe, ciò che aveva reso Drina triste
– di una tristezza a volte così soffocante da
riuscire ad annegarla, da teneral giorni stesa su un letto, incapace
anche solo di concepire la forza di aprire gli occhi, figurarsi il
levarsi – aveva reso la principessa dura, con un cuore come
la pietra.
La gente la paragonava alla Regina Zoya; sua madre stessa le aveva
detto che anche da giovane, complice di tutte le brutture che le erano
capitate, la regina aveva mostrato un atteggiamento ostico –
tal volta anche cattivo (e sua madre non lo diceva mai di nessuno)
– per nascondere le sue fragilità, ma Drina questo
la sapeva, così come era consapevole che ciò che
aveva avvolto la Regina era stato ferro, una corazza per proteggersi
dal suo dolore, ma la principessa … la principessa si era
avvolta nella pietra, dura.
“L’incoronazione di Dalai Kir-Taban?
Giusto?” aveva chiesto Dominic, nel farlo si era guardato con
circospezione, per non farsi udire. Erano nei pressi della stazione
centrale di Ketterdam, pieni di gente che andava e veniva.
Vecchi senza speranze e giovani con troppe.
“Giusto” aveva ripetuto Drina.
Non conosceva la principessa azzurra, sapeva che era Shu di madre, una
delle sorelle più giovani delle principessa Makhi e Ehri, e
Kaelish di padre; sarebbe stata la prima Regina di Shu-Han con sangue
misto, in modo che con la sua incoronazione non solo si riparasse
quella frattura inconciliabile che era sorta con la guerra sociale, ma
che fosse anche un annuncio chiaro al mondo che Shu Han era pronto a
riaprirsi al mondo a tornare a giocare.
Il che … aveva del potenziale.
L’ingegneria bellica di Fjerda era stata la migliore
– nel suo peggio e nel suo meglio – ed aveva
funzionato bene con l’ingegnosità di Ravka.
Nikolai Lantsov non sarebbe mai stato Nikolai il Costruttore; ma la
medicina Shu era ancora all’avanguardia. Non potevano esserci
Healer, sempre e continuamente e Drina sapeva cosa
si provava quando si aveva disperatamente bisogno di un guaritore.
“Deve andarci, Lilyiana può gestire tutto. Adora
da morire tutte le facezie di natura politica e diplomatica,
praticamente si addestra a parlare con i politicanti da una vita.
L’ultima volta che è stata qui ha incanto tutta la
Gilda dei Mercanti, e loro ci odiano” aveva risposto Dominic,
“Tua sorella odia Shu Han. In una maniera viscerale,
è una pentola a vapore pronta ad esplodere” aveva
risposto Drina.
Non voleva dire che la principessa avrebbe mandato a monte il
Concordato e qualsiasi nuovo avvallamento politico per interesse
personale, ma temeva concretamente questa possibilità,
“Ed in questo preciso momento della sua vita è
terribilmente umorale”.
La Regina Zoya da giovane era stata testarda e poco diplomatica alla
stessa maniera, ma aveva dovuto ingoiare il rospo per il suo ruolo
– sebbene per anni avesse lasciato le incombenze politiche di
quel genere e le moine al marito – ma la principessa non era
così.
La principessa era stata educata ad essere diplomatica, ma non in quel
caso. Non in quello stato.
Prima che il principe Dominic avesse potuto rispondere, erano stati
interrotti, nella cacofonia di suoni della stazione, una voce li aveva
chiamati.
Drina si era voltata riconoscendo il profilo alto ed allampanato di
Jordan Ghafa, per la prima volta vestito da qualcosa di diverso di un
becchino.
Indossava dei pantaloni grigi scuro di velcro, gonfi e lunghi fino al
ginocchio, delle scarpe marroni, senza lucentezza, sotto delle calze
bianche di cotone, una camicia spessa di una stoffa neutra, per
proteggersi dall’umidità kerchiana, con indosso
una giacca spezzata alla vita grigio tortora, anche i capelli non erano
pettinati ed ordinati all’indietro, ma ricadevano sul viso,
in una maniera spontanea. L’unica punta di colore era data
dalla cintura giallo paglierino e dal fazzoletto alla gola rosa cipria,
due accessori tipici della moda di Ketterdam.
Voleva sembrare un ragazzo tranquillo, di campagna, forse –
ed una creatura ben distinta da Kaz Brekker, di cui si sforzava di
imitare sempre lo stile, in una qualche disperato tentativo di
richiesta d’attenzione.
In realtà era una cosa che Drina poteva capire.
I suoi genitori l’amavano, non aveva dubbi, ma amavano tutti
i loro bambini, in egual misura, non c’era niente di speciale
in Drina figlia del loro stesso sangue, rispetto gli altri orfani.
Avevano tutti due genitori amorevoli e tutti
erano orfani, Drina inclusa.
Per questo le era piaciuto il piccolo palazzo, perché non si
era sentita affamata di affetto.
Jordan non era da solo, era seguito dal giovane fjerdiano che aveva
presentato a Drina qualche sera prima al Silver Six. Era giovane, con
il viso ossuto, leggermente adombrato da una macchia bionda sulle
guancie ed occhi di vetro. Nella luce del sole del mattino tutti i suoi
tratti erano terribilmente più chiari, aveva qualcosa di
famigliare, che Drina non era sicuro.
“Chi è?” aveva chiesto lei,
“Il nome lo so. Intendo chi è veramente”
aveva specificato. Dominic non gli aveva risposto subito, con gli occhi
blu zaffiro era rimasto fermo ad osservare i due, poi aveva recuperato
la sua maschera di perfezione, “Uhm … Ioren
è un compagno di università. Vive
all’Ambasciata Fjerdiana, suo fratello è il Margravio
di Wanderfall, dovrebbe essere un pezzettino di terra
piccolo-piccolo nell’Avfalle, lui è il quarto o il
quinto in linea di successione, non ho capito come si considera sua
sorella” aveva commentato con voce divertita il principe.
“Conte di Wanderfall? Il fratello minore di Styborn,
immagino. Non gli somiglia molto” aveva considerato poi.
Ioren era più magro, leggermente più basso e la
sua espressione sembrava terribilmente inquieta, anche in un ambiente
così neutrale come la stazione di Ketterdam. Del Margravio
di Wanderfall ricordava invece una presenza quasi angosciante, rapace.
“Dici?” aveva chiesto Dominic,
“Sì, ma è molto più
carino” aveva commentato con un certo divertimento, le gote
che si erano tinte come mele mature appese all’albero.
“Oh!” aveva esclamato divertita Drina,
“Ed io che pensavo avessi una cotta per quella principessa
della jurta” aveva aggiunto.
“Merissa è una persona molto piacevole, con una
lingua degna di una frustra e una capacità di dizione
ravkiana che mi fa apparire un povero analfabeta” aveva
replicato lui, con incertezza.
“Hai portato un amico” aveva considerato Drina
guardando il ragazzo alto con lui, cercando di soprappore alla sua
memoria quella di Styborn con quella del nuovo venuto, “Il
ragazzo dell’altra sera” aveva aggiunto,
mostrandoli che l’aveva riconosciuto.
“Drina, giusto?” aveva provato quello, Ioren,
sì, lei aveva annuito. “Drina mi stava giusto
dicendo che conosce tuo fratello” aveva raccontato Dominic
con scioltezza.
Sul viso del fjerdiano si era dipinta un’espressione
leggermente confusa ed anche un po’ preoccupata, Jordie aveva
chinato il capo non lasciando però trasparire nulla.
“Ah? Davvero? Quale?” aveva
chiesto Ioren con leggero nervosismo, “Ho tre
fratelli” aveva aggiunto poi, “Styborn, il
druskelle” aveva ammesso Drina senza vergogna. Una smorfia,
della durata di un battito di ciglia era apparsa sul viso di Ioren
– non dovevano avere un buon rapporto.
Onestamente Drina non aveva la minima idea se il ragazzo avrebbe
scritto a suo fratello di lei, forse non a Stybord direttamente, forse
a Sigtryggr, il margravio[1], immaginava che la sua presenza
fosse nota ormai a chi di dovere a Kerch, non si era neanche impegnata
troppo per non dare nell’occhio. Comunque, non sapeva niente
di questo Ioren, non se n’era preoccupata neanche fino a quel
momento, doveva ricordarsi di avvertire Kos.
“Spero che sia stato degno del nome che porta”
aveva detto Ioren pieno di disagio, cercando di gestire qualsiasi
sentimento il nome di suo fratello manifestasse in lui.
“Sì, circa. Mi ha caricato in spalla come un sacco
di patate e si è fatto prendere a schiaffi da mia zia. Il
che è notevole perché usualmente non è
così gentile” aveva scherzato Drina, ricordando
quella scena, con una punta di divertimento.
Jordie non era riuscito a mantenere la sua faccia ieratica, quasi
divertito, l’espressione di Dominic era stata molto
più esplicita. “Non sapevo avessi una
zia” aveva sputato fuori, senza vergogna.
“Diciamo che zia è una definizione
impropria” aveva raccontato con una punta di divertimento
Drina, alzando anche una mano come se avesse dovuto scacciare un
pensiero. “Quindi vogliamo partire per questa ridente
missione segreta?” aveva proposto immediatamente Dominic,
inghiottendo qualsiasi dubbio fosse fiorito dal commento di Drina.
Lei aveva annuito, “No” aveva detto Jordie,
infilando una mano nella tasca della sua giacca ed allungando due
foglie verso Dominic.
Un’espressione intrigata era fiorita sul viso del principe,
che aveva raccolto quell’offerta – curioso come un
gatto. “Oh” aveva esclamato Dominic quando era
riuscito a leggere i caratteri sul foglio, Drina si era sporta,
elaborando il suo kerchiano – era più fluente nel
parlato che nello scritto – prima di riuscire ad
interpretare. “Un’esposizione sulle ancore
Kaelishane?” aveva chiesto perplessa.
“La tua cara zia te ne aveva parlato, no? Farà
un’esposizione” aveva risposto pratico Jordan con
espressione calma e stoica, “Non era oggi, era tra dieci
giorni” aveva risposto Dominic con sicurezza.
Ioren aveva ridacchiato, ma aveva cercato di nascondere il gesto con
una mano, “Immagino che con tutte le scadenze universitarie
anche un principe possa confondersi” aveva cinguettato con
faccia di bronzo Jordie.
“Sankti, Jordan! Hai fatto anticipare un
evento di dieci giorni solo per uscire di nascosto con Drina”
aveva esclamato Dominic, ma nella sua voce c’era una palese
ammirazione.
“Mio buon prinsdreki, io sono solo un
ragazzino di ketterdam. Non ho mica questo potere” aveva
risposto divertito Jordan, “Inoltre, non è di
nascosto: lo sto facendo qui, davanti a te” aveva aggiunto.
“Drina se il buon Ghafa si è bruciato un favore di
notevole, solo per averti tutta per te, io lo terrei molto in
considerazione” aveva chiosato con divertimento Dominic,
arrendendosi.
“Lo faccio, grazie” aveva risposto con una punta di
divertimento Drina. Ioren aveva parlato, rivolgendosi al principe,
“Andiamo. Non vedo l’ora di sorbirmi te e Magnus
che parlate per ore di quale ancora sia la migliore” aveva
replicato il fjerdiano, “Ovviamente quella
Ravkiana” aveva esplicitato Drina.
Dominic aveva comunque raccolto l’invito dell’uomo,
decidendo di lasciare Jordie e la giovane per conto loro.
Drina li aveva osservati andare via, molleggiando, mentre
chiacchieravano, ogni tanto Dominic si era voltato per osservarla, ma
erano presto spariti tra le teste della stazione centrale.
“Oh, guarda, il buon Kos” aveva commentato Jordan,
riconoscendo l’Inferno, senza la sua kefta blu cobalto, coma
nascosto in un cappotto marrone fango. Non da lui, ma abbastanza per
passare inosservato al principe, con i capelli biondissimi, nascosti
sotto un cappello a falda larga. “Cosa ne pensi di quel
Fjerdiano?” aveva chiesto Drina, ammiccando a Ioren,
“Un sacco di cose e non tutte piacevoli – per
te” aveva risposto lui con calma, lanciandole uno sguardo
piuttosto divertito. Lei aveva aggrottato le sopracciglia scure,
“Pensavo fosse tuo amico” aveva considerato.
Jordan aveva annuito, “Sì, lo è.
Probabilmente è uno dei miei migliori amici, ma come ho
detto: io sono solo un ragazzo kerchiano, non sono il principe di
Ravka” aveva replicato.
“Mi toccherà scrivere al Re per questo”
aveva valutato Drina. Onestamente non era di alcun suo interessamento
con chi uscisse o meno Dominik, era un ragazzo fatto e finito, un
principe che aveva deciso di sua sponte di abbandonare le sicure stanze
del palazzo, per attraversare il Vero Mare e stanziarsi in una
città infernale come era Ketterdam, aveva tutto il diritto
di farlo. Ma era comunque il fratello della sua più cara
amica ed il figlio della Regina di Ravka e soprattutto di Nikolai.
“Non è cattivo. Posso rassicurarti di
questo” aveva considerato con voce onesta e calma Jordan,
“Immagino. Dominik può avere una vena drammatica,
ma non si accompagnerebbe a nessuno che non sia una brava persona. Da
questo punto di vista somiglia molto a suo padre” aveva detto
con estrema calma.
“Interessante” aveva considerato Jordan,
grattandosi sotto il mento; Drina era pronta a sentire il ragazzo
tirare fuori dal suo taschino il ricordo delle avventure in redingote
del re consorte di Ravka come corsaro, anche se era un segreto di stato
seppellito perfettamente, ma Jordy Ghafa l’aveva stupita.
“Quindi devo dedurre che la malen’kiy non
si accompagni con brave persone” aveva detto.
Due sensazioni diverse e ben distinte avevano animato la mente di
Drina, la prima era stata la sua leggerezza, così sciocca
per uno zero, per essersi lasciata sfuggire una cosa così
intima, come soldato, era dovere di Drina sempre e comunque difendere
il suo paese, mentre l’altra era solo feroce. “Non
chiamarla così” aveva detto solamente,
infastidita. Il Piccolo Spettro. “Lei è la naslednik
di Ravka. È una delle più potenti grisha del
paese ed il futuro” aveva detto protettiva, forse lei e la
principessa non condividevano più un guanciale quando
dormivano e non erano più il riflesso dell’altra,
ma era ancora sua amica.
Sarebbe stata per sempre sua amica per Drina, anche se la principessa
l’avesse chiusa per sempre fuori dalla sua vita.
“Mi dispiace. Ho parlato a sproposito, mio padre dice che ho
questo brutto vizio” aveva considerato con voce spento
Jordan, “Non lo avrei mai detto” aveva considerato
lei, ricordando come il ragazzo le fosse apparso sempre controllato,
perfettamente a suo agio, in ogni situazione. “Sono contento,
troverei insopportabile se non riuscissi più a stupire
nessuno” aveva considerato con un accenno di divertimento.
Drina aveva ridacchiato, “Sicuramente con
l’anticipo delle date del convegno, hai fatto un ottimo
lavoro. Non sono sicura di volerti chiedere cosa hai fatto”
aveva ammesso lei.
“Quasi nulla. Non ho davvero dovuto chiedere nulla a nessuno,
solo suggerire qualcosa a destra e sinistra” aveva ammesso
calmo. “Chi sa perché immagino che anche tuo padre
parli così” aveva considerato Drina, mentre
osservava il ragazzo tirare fuori da una tasca interna del cappotto
– una nuova – dei biglietti del treno, due.
“Certamente no, mio padre gode nel raccontare le sue
malefatte, una volta che ha avuto successo, così fa sentire
la gente stupida. Inoltre, non utilizza quasi mai un artificio due
volte, differentemente da me, ho pochi trucchi nella mia
manica” aveva replicato calmo Jordie, “Sicuramente
un sacco di tasche” aveva ridacchiato Drina. “Le
tasche sono i migliori amici dei ragazzi dei barili” aveva
stabilito, Jordan, mentre audacemente le infilava un braccio sotto il
gomito, per guidarla verso i suoi binari.
“Sai di non esse davvero un ragazzo del barile,
vero?” aveva chiesto retorica Drina, come lei
d’altronde non era una vera contadinotta di Keramzin. Jordan
aveva annuito, senza cattiveria, “Lo so. Sono nato alla
Geldstraat. Ho frequentato le scuole buone ed il mio padrino
è Wylan Van Eck” aveva sospirato, “Non
ho mai provato, neanche per un giorno, della mia vita la fame.
Ciò non toglie che una brutta reputazione aiuta sempre.
Inoltre, non serve essere un ragazzo del barile per essere
un ragazzo del barile. Ho fatto il mozzo sullo Spettro, sono
stato gettato nello Stave almeno una mezza dozzina di volte ed una
volta mi hanno anche rapito” aveva raccontato con un certo
divertimento.
“Volevano ricattare tua madre, tuo padre o il tuo
padrino?” aveva chiesto con un certo interesse Drina,
osservando i cartelli, per le destinazioni.
I treni erano enormi mostruosità fumanti di bellezza
notevole, chi sa se su quei marchingegni ci dovesse essere qualche
grisha. “Gran parte della gente che frequento non ha idea di
chi sia mio padre, e penso che se quegli uomini ne avessero avuto un
vago pensiero, dubito che avrebbero osato rapirmi” aveva
considerato Jordan calmo, “Comunque: Dominik! Era una
trappola per Dominik” aveva esclamato, fermandosi ad una
banchina.
“Ovviamente” aveva valutato Drina, “Un
principe, fuori di casa fa gola. La Tzarina può
essere anche la Drakon Koroleva, ma resta sempre
una madre” aveva considerato Drina.
L’espressione sul viso di Jordan si era fatta tesa come la
corda di una spada, un pensiero malevolo aveva mangiato la sua mente,
ma non lo aveva voluto esplicitare. “Se stai pensando che la
regina possa amare meno Dominik e Alina per qualche ragione astrusa
come il loro essere Otkazat'sya. Ti ficco uno
stivale in gola” aveva replicato subito Drina, mentre
osservava la banchina dove si erano fermati, “Mia madre
… anzi mio padre ha
un’opinione troppo alta della Drakon Koroleva
perché io potessi anche solo pensarlo” aveva
ammesso candido Jordan, senza una sola traccia di incertezza,
“Ritengo solo che sia stupido pensare di trattare la regina
di ravka come fosse una semplice madre – nulla da togliere ad
una madre, la mia farebbe il culo a chiunque – o come una
donna normale. Controlla tre elementi e diventa
un drago, la sua sola presenza può placare una
guerra” aveva detto con estrema calma Jordan. Drina aveva
annuito, “Pioverebbe fuoco su chiunque abbia mai osato
toccare i suoi cuccioli” aveva ammessa Drina, ricordando cose
che erano successe.
Certe storie non avevano mai passato la ristretta cerchia, ma erano
eventi comunque avvenuti, Drina era quasi sconvolta non fossero finite
scritte nel Libro delle Storie Mai Avvenute.
“E poi come è finita la questione del
rapimento?” aveva chiesto lei con un certo interesse,
“Oh semplice, mi sono liberato, ne ho messi fuori
combattimento due, poi ha fatto irruzioni Kos e quasi tutto
è andato in fiamme, letteralmente” aveva
ridacchiato Jordan. “Erano in cinque, quattro di loro sono
finiti nell’Anticamera dell’Inferno un
po’ bruciacchiati e malconci, uno e scappato” aveva
raccontato, “Dove è arrivato?” aveva
chiesto Drina, sicura che non avesse dovuta fare molta strada,
“Davanti al comune, gli mancavano sei dita, non chiedermi
perché sei” aveva risposto sollevando le spalle.
‘Oh, forse perché il Sei
è un riconducibile a tuo padre tanto quanto i corvi’
aveva pensato Drina, ma non lo aveva detto ad alta voce.
Forse Dominik poteva essere stato il bersaglio originale, ma i rapitori
avevano preso il figlio di Manisporche. Ai ladri si tagliavano le mani,
Kaz Brekker era stato più originale.
“La città che cercavi, comunque, si chiama
Nijejem. Per raggiungerla dovremo tagliare per dritto
l’intera isola e cambiare due treni. Ci impiegheremo circa
sette ore, se saremo precisi al dettaglio” aveva spiegato
Jordie con calma, “Il primo lo prendiamo qui, direzione
Istfeell.”
Lei aveva annuito, “Il mio passato di cartografa si sta
rivoltando nella tomba” aveva ridacchiato con estremo
divertimento, ricordando i tempi che aveva passato le dita sporche di
grafite per le mappe e la stadia sulle spalle per prendere le quote.
Non era mai stata capace di segnare delle line isogonie che fossero
venute bene. Sua madre era la cartografa e suo padre era
l’esploratore, lei aveva altre doti.
La piccola scienza.
“Eppure, sei venuta qui per delle carte” aveva
considerato Jordan, sollevando un sopracciglio, Drina aveva sorriso
accomodante verso di lui, “Non devi scoprire presto tutte le
tue carte, lo hai detto prima” lo aveva rimproverato con una
punta di divertimento. “Sei riuscita a convincere il Bastardo
del Barile a darti quello che volevi?” aveva chiesto poi,
Drina aveva scosso il capo, facendo oscillare i capelli scuri.
“Non ho niente da offrire che ne valga la pena”
aveva risposto onesta la ragazza, aveva chiesto al Capitano Inej Ghafa
di intercedere per lei, su quell’argomento. Il Re le aveva
detto che se esisteva un punto debole nel Bastardo del Barile quello
era la Spezza Catena.
“Prendi il cuore del suo unico bambino e poi lo usi come
merce di scambio?” aveva chiesto retorico Jordie con estrema
calma, “Pensi che basterebbe?” aveva scherzato
Drina, posando il polpastrello dell’indice
all’altezza dello sterno del ragazzo, appena sopra un bottone
di corozo. “Ghezen, direi proprio di no!” aveva
replicato subito Jordie, ma le sue gote erano diventate di un rosa
pallido, per quel tocco. Non troppo intimo ma abbastanza,
“Credo dovrai trovare qualcosa di egual valore per il
bastardo” aveva spiegato.
Ovviamente, il problema era trovare il giusto prezzo, Drina era
abbastanza sicura che al Bastardo del Barile quelle carte, retaggio di
un vecchio lavoro, non fossero nulla di più di cartastraccia
abbandonata in un ripostiglio, tenuta più per una
dimenticanza, che per altro, senza alcun valore, almeno fino a che non
era giunta lei, che era stata stupida.
Dopo aver trascinato il Capitano Ghafa nella faccenda, Drina aveva reso
decisamente chiaro quanto volesse quelle carte, per tutta la vita le
avevano detto che era sempre troppo diretta e non c’era
menzogna in quello, era stata stupida.
Kaz Brekker poteva avere un cuore – senza tirare fuori
morbidezza o altro – per Inej Ghafa, per suo figlio, forse
anche per qualcun altro, ma sicuramente avrebbe lucrato su tutto
ciò che poteva, non si diventava il Bastardo del Barile, il
Re senza Corona, senza osservare bene tutte le possibilità.
Si poteva concedere un favore ai reali di Ravka, per richiederlo in
seguito, ma Drina non portava il sigillo di Ravka con se. La macchina
roborante di fumo e fischi era arrivata sulla banchina, svegliando
Drina dai suoi pensieri. Era stato sublime! I treni non erano
così frequenti a Ravka, cominciavano a costruirle in quegli
anni, preferendo le eleganti velesabbia e areonavi. “Che
mostruosità” aveva esclamato ammirata Drina,
Jordie al suo fianco aveva annuito.
Il panorama sfrecciava veloce, dietro il finestrino, Drina aveva
sollevato la tenda per poter osservare lo scorrere, macchie indistinte
di azzurro e verde; quasi non sembrava Kerch, avrebbe potuto essere
qualsiasi luogo. Aveva osservato, con la coda dell’occhio,
Jordan che aveva tolto il cappello, per posarlo sulle gambe, e la stava
guardando.
“Che c’è?” aveva chiesto lei,
curiosa. “I tuoi occhi …” aveva risposto
il ragazzo, distogliendo lo sguardo, “I miei
occhi?” aveva domandato lei, di riflesso.
“Niente, scusa” aveva considerato lui con
un’espressione piuttosto strana sul viso, le gote leggermente
arrossate, “Indovino, i miei occhi sembravano vivi”
aveva scherzato con una certa insofferenza, perché era
sempre quello. La gente lo diceva sempre, se non lo avesse espresso, lo
avrebbe pensato comunque, che c’era qualcosa di storto in
lei, che i suoi occhi avevano perso quella dolce allegrezza che
l’aveva caratterizzata da bambina. Come se fosse possibile,
per lei, recuperare quell’innocenza.
“Mi dispiace, ho realizzato che mentre lo dicevo che fosse
una cosa ignorante” aveva replicato Jordan con espressione
calma, “Posso dirti che sono bellissimi,
però” aveva aggiunto.
Drina aveva ridacchiato, “E che sono blu come il mare del
nord?” aveva chiesto retorica lei, “Come il rame
arrugginito?” aveva proposto Jordie, “Tu hai
l’animo di un poeta, Jordan Ghafa” aveva squittito
Drina, allungando una mano sul tavolino lucido che gli divideva, aveva
ticchettato le dita sul legno, incerta su quello che volesse fare.
Raggiungere la mano di Jordie?
“Lo diceva anche il mio professore di letteratura, ma credo
non fosse onesto. Ho dovuto rifare l’esame due volte e sono
sicuro di aver passato l’esame dopo una generosa donazione di
Yuliana” aveva dichiarato in maniera scherzosa, aveva
allungato una mano ed aveva sfiorato le dita di Drina.
“Ti piace il treno? Sei una materialki, dovresti adorare
questo arnese” aveva considerato poi, cambiando brutalmente
discorso, senza mai muovere la mano per allontanarsi. “Lo
adoro” aveva confessato Drina con gentilezza, aveva spostato
la mano libera, che portava mollemente sulla coscia, per raggiungere
una parete, ricoperta da carta floreale, del treno e l’aveva
posata, mille emozioni, come una tempesta, l’avevano invasa.
Un sentimento brutale e bellissimo, “Sento ogni singolo
bullone, ingranaggio e vite” aveva ammesso con voce dolce,
quasi innamorata.
Perché era vero.
In un'altra occasione aveva potuto percepire una bestia simile, solo
che quella aveva ingegneria grisha – e ne aveva potuto
godersi così le sensazioni – ma questa era tutta
opera degli abbandonati.
Tutta opera della grande scienza.
“1056 unità ed io le posso sentire, tutte,
posso sentire ogni vibrazione che emettono, ogni passo che viene
pestato su di esso, ogni cosa. Mi sento piena ed incredibilmente
soddisfatta” aveva ammesso calma, innamorata quasi, spostando
il busto, fino a raggiungere con la guancia, con l’orecchio,
per posarlo sulla parete, sentendosi ancora più immersa.
“Questa bestia è pura gioia, vorrei poterla
smontare pezzo per pezzo e portarla alla Palude” aveva
dichiarato, con un sorriso ristorato sulle labbra. “Penso che
potremmo farci un pensiero. Non ho ancora il potere di smontare un
treno e farlo imbarcare per Ravka, ma magari un giorno avrò
quel potere” aveva raccontato con un certo divertimento,
facendo scivolare l’anulare della sua mano, sul mignolo di
Drina, un brivido diverso da quello che le dava il treno
l’aveva attraversata. “Vuoi diventare come tuo
padre o come Wylan Van Eck?” aveva chiesto interessata: un
signore della notte, con mani luride, o del pieno giorno, ben vestito,
“Jasper Fahey” aveva risposto lui stupendola.
Drina aveva aggrottato le sopracciglia, “Devo ammettere che
non credo di conoscerlo” aveva ammesso. Il nome era come un
campanello, ma non riusciva davvero a dargli un volto, cosa che la
rendeva infastidita, non possedeva l’arguzia di tante
persone, ma trovava frustrante essere colta così di
sprovvista. “Uhm … ci sono tante definizioni per
Jasper, una è sicuramente: un mantenuto, l’altra
è l’uomo che sconfitto la Parem” aveva
dichiarato con voce divertita. “David Kostyk e Nabha hanno
trovato l’antidoto” aveva difeso con il cuore la
sua Ravka. David era stato un triunviro ed il più capace
materialki dai tempi di Ilya Morozova – Drina avrebbe mentito
se non avesse detto che aspirava anche a lei a raggiungere quella fama
– ed era stato il marito di Genya Safin che dopo tutti quegli
anni ancora lo piangeva. Ed anche Nabha, che al di là della
sua piccola scienza si era dimostrato abile nella Grande. Drina avrebbe
difeso i loro onori e gli onori di Ravka. Jordie le aveva sorriso, in
maniera accondiscende, cosa che l’aveva vagamente irritata,
“Sì, nessuno privi Ravka della sua gloria, ma
Jasper Fahey, un ragazzo di campagna, ha spiegato l’uso
anabolizzante del gambo di jurda” aveva spiegato con calma.
Drina aveva sentito un conato di vomito, immediatamente, sollevarsi
immediatamente, la bile le era risalita lungo la gola e si era alzata
subito, svelta, “Scusa devo andare in bagno” aveva
detto immediatamente, manchevole in viso. Jordan aveva arricciato le
dita, “Certo, sì” aveva sospirato,
alzandosi, “Ti accompagno” aveva detto incerto.
Drina voleva rifiutare, ma non riusciva a trovare la forza di farlo,
così si era fatta scortare nei gabinetti del treno. Era
riuscita ad aprire un separé appena, prima di abbracciare un
vaso e vomitarci dentro. Jordan aveva fatto un basso in dietro, colto
alla sprovvista. Lei era rimasta muta, sentendo ancora il suo stomaco
in subbuglio ed il disgusto sulla sua lingua, “Soffri il mal
di movimento?” aveva chiesto Jordie con dolcezza,
“Io soffrivo di mal di mare, ma un paio di mesi
all’anno sullo Spettro mi hanno forzatamente curato. Il treno
può rovesciare uno stomaco” aveva spiegato subito
quello, posandole una mano sulla schiena.
No, non era quello, ma non poteva dire cosa fosse.
“Forse ho ascoltato troppo, ogni tanto succede”
aveva dichiarato lei, con voce pastosa, “Ho bisogno di
acqua” aveva detto poi.
Sentiva il sapore del gambo sulla lingua.
Avevano parlato di altro, avevano anche dormito.
C’era stato un cambio in una cittadella un po’
più ridente di Kerch, con una stazione a tre binari. Si
erano dovuti riparare sotto una banchina per nascondersi dalla pioggia.
“In questo paese il clima fa schifo e sono di Ravka, fa un
freddo da vampiro” aveva commentato Drina, guardando
l’acqua che fluiva nella canaletta e scendeva come una
cascata verso le rotaie. “Sono stato a Ravka un paio di
volte, ma mia madre non mi faceva mai allontanare troppo dalla nave,
solo una volta mi ha portato all’interno di un palazzo
principesco ad Os Kervo, ho conosciuto Dominik quella volta”
aveva raccontato, “E ovviamente quella volta
a Keramzin” aveva ricordato.
“Un posto piccolo, ma accogliente” aveva risposto
tetra lei, aveva preferito di gran lungo il suo tempo al Piccolo
Palazzo, ma prima di raggiungere Kerch, era tornata a casa per un
po’, per avere del conforto, per farsi viziare.
Sua madre era stata così felice della sua presenza, che per
giorni aveva fatto preparare tutti i suoi piatti preferiti, le aveva
spazzolato i capelli e si era stesa con lei sui divani ascoltandola
parlare e raccontandole storie. Drina ne aveva amato ogni momento,
sapeva di essersi rinchiusa nell’orfanotrofio per fuggire
dalla principessa e dai Nolnick, ma era stato
bello.
Meno, con suo padre.
Drina amava suo padre, a volte supponeva anche più di quanto
facesse con suo padre; era corsa da lui quando per la prima volta aveva
piegato innaturalmente un ramoscello spezzato che aveva raccolto dal
Parco Errante e ricordava lo sguardo che si era manifestato nei suoi
occhi, non era rabbia, non era disgusto, era dolore. Suo padre aveva
inghiottito il suo dolore e l’aveva poi stretta in un
abbraccio rassicurandola che sarebbe andato tutto bene, sapeva che lui
avrebbe voluto che mancasse la chiamata della Signorina Velensky, ma
lei non aveva potuto. “Inoltre, il Piccolo Palazzo
può avere la cucina più buona di tutto il
continente, ma posso rassicurarti che le aringhe sotto-sale di mia
madre sono leggendarie” aveva raccontato con una certa
dolcezza. “Niente è come la cucina di casa
propria. Quando torniamo a Kerch ti porto allo Zhenjia, è
vicino al Silver Six, a mangiare, mia nonna gestisce la
cucina” aveva spiegato subito.
“Tuo padre ha una madre?” aveva chiesto sconvolta,
“Ghezen, no. Mio padre è un bastardello strisciato
fuori dai vicoli bui del barile, Ketterdam è sua madre. La
mia baka[2] è la madre di mia
madre” aveva spiegato, “Dopo aver raggiunto Kerch,
hanno deciso di rimanere; mia madre è una girovaga ma trova
sempre la sua strada” aveva spiegato con calma,
“Sono informazioni fin troppo confidenziali,
Jordie” lo aveva rimproverato bonariamente lei.
Se sua nonna lavorava vicino al Silver Six era probabilmente in una
botta di ferro, protetta da niente di meno che Kaz Brekker, ma era
ancora la madre dello Spettro della Vendetta e la quasi-cognata del
Signore del Barile, una persona che poteva essere sfruttata ed usata.
“Comunque, verrei volentieri a pranzo dalla tua … baka”
aveva ammesso, ricordando la parola che aveva utilizzato, era suli, al
Piccolo Palazzo ne aveva sentito un po’ di quella lingua, la
stessa principessa aveva voluto impararla, per le sue origini, che per
tutta la vita la regina Zoya aveva rimpianto di non aver abbracciato in
pieno. Jordan le aveva sorriso, “La vera mission a quel punto
sarà tenere Dominic lontano da noi” aveva
considerato, “Credo sia molto protettivo nei tuoi
confronti.”
“Tranquilla, Dominik non apprezza la cucina speziata, ha la
lingua di un gattino” aveva risposto Jordan senza
battere ciglio, “Ti prego non dirlo più
così, metà della servitù
dell’ambasciata è convinta che voi dividiate il
guanciale la notte” aveva raccontato divertita, ricordando le
cameriere che ne avevano squittito un sacco, la mattina stessa in cui
il giovane principe si era presentato a colazione con il giovane
Jordan, prima del suo incontro a casa Van Eck con la Principessa della
Jurda.
Jordan aveva sollevato le sopracciglia scura, con gli occhi luccicanti,
“Potrebbe essere successo una volta o due” aveva
risposto serafico.
Drina aveva schiuso le labbra, “Non è
vero” aveva esclamato, “Non puoi saperlo”
aveva replicato subito Jordie, con un sorriso ironico sul viso.
Per Nijejem avevano preso un altro treno, c’era voluta
un’ora in più di quanto era stato preventivato da
Jordan, forse era stata colpa della pioggia. Il treno che avevano preso
era stato molto meno imponente del precedente e molto più
malandato, probabilmente utilizzato per le corse secondarie. Non aveva
carta da parati al suo interno, i tavolini erano dozzinali e la pelle
dei sedili era sbucciata, però avevano servito loro del
tè verde, era rimasta piacevolmente sorpresa quando aveva
tirato su un coperchio di ceramica da una zuccheriera e dentro aveva
trovato davvero la sostanza invece che della jurda. Drina ne era
contenta, trovava lo zucchero decisamente più piacevole, era
dolce, non era un eccitante, ma lo zucchero la tirava volentieri su.
“Ti va di parlarmi di questa amica che andrai a
trovare?” aveva chiesto Jordie, mentre sollevava il filtro di
ferro pieno di foglie ormai zuppe, per aver raggiunto il punto di
infusione che desiderava.
Drina aveva saputo che sarebbe arrivata quella domanda, era stupita che
non fosse arrivata tempo prima, all’inizio del viaggio.
Si morde un labbro, “Cosa vuoi sapere?” aveva
chiesto.
“Come è che sei amica di una kerchiana di un
paesino come Nijejem? Un paesino quasi dimenticato da Ghezen che
sopravvive con la pesca di granchi?” aveva chiesto retorico.
Drina doveva aspettarsi quella domanda, alla fine dei conti,
l’aveva aspettata dall’inizio di quel lungo
viaggiare. “Ah, quindi, così è la
cittadina? La mia amica aveva sempre detto fosse piccola”
aveva considerato.
“Piccola, morente e senza alcun futuro”
aveva detto lei.
Jordie non aveva distolto lo sguardo, non convinto della sua manovra,
“Diciamo che il tempo chiusa nelle pareti del Piccolo Palazzo
mi hanno reso gustosa al girovagare, come ricorderai” aveva
mentito, almeno in una piccola parte.
Aveva conosciuto Jordie, quando aveva pagato un passaggio sulla Nave di
sua madre, aveva scelto proprio lei, dalle vele quadrate, su cui
spiccava maestosa la catena spezzata dello Spettro, suo padre aveva
sempre parlato bene della donna.
Jordie era lì, sul ponte che puliva il legno con un mocio
come l’ultimo dei mozzi anziché il figlio del suo
capitano.
Inej Ghafa aveva conosciuto suo padre, Drina poteva immaginare quando,
prima ancora che cominciassero a lavorare insieme per
l’accoglienza dei bambini schiavi. Non aveva neanche avuto
bisogno che lei si presentasse quando l’aveva scorsa sulla
banchina, che aspettava davanti al ponte, aveva tirato giù
il cappuccio per mostrare il viso. “Sei la figlia
di Schevic, vero?” aveva chiesto la leggendaria
Capitana.
“E come me, anche lei era un po’ giramondo. Una
ragazzina di un paese senza futuro” aveva dichiarato,
“Vi siete conosciute a Ketterdam?” aveva chiesto
Jordan, Drina aveva annuito, perché era una storia
plausibile. “No, mi stai mentendo” aveva
considerato il giovane Ghafa, passandosi il polpastrello del pollice
sul mento appuntito. Drina aveva chiuso le dita sui braccioli, colta in
fallo, “Può darsi” aveva ammesso alla
fine.
Jordie aveva chinato il capo, poi aveva sorriso, non c’era
troppo calore, più mestizia, “Se non vuoi dirmi la
verità va bene” le aveva detto il ragazzo,
stupendola, prima di continuare: “Voglio solo sapere se
rischierai di farci sparare addosso.”
Drina aveva mosso il capo, in un segno di accettazione,
“Spero di gran lunga di no, non dovrebbe essere
così, ma con me non si può mai sapere. Una volta
sono uscita per comprare dei pandolci e mi hanno sparato con un
fucile” aveva spiegato, con una risata fresca, voleva essere
una battuta, ma era anche la verità.
“E sei sopravvissuta” aveva considerato Jordan,
ammirato, “I proiettili non sono riusciti a
toccarmi” aveva replicato lei, facendo muovere le dita della
mano destra come se stessero mimando un’onda,
l’attimo dopo un bottone di corozo del polsino della camicia
di Jordie finisse sul tavolino. “So che esistono alcuni
materialki particolarmente capaci in materia. Conosco un durast che
può controllare i proiettili” aveva raccontato,
“Notevole, devo riconoscere” aveva considerato
Drina, riflettendoci. I proiettili erano piccoli, erano veloci ed erano
sfuggenti, riuscire ad agganciarne uno richiedeva grandissima
concentrazione, “Io non sono così capace, diciamo
che fermarli prima che ti colpiscano è più
facile. La paura fa tutto, ma anche lì, bisogna essere
più che ecclettici” aveva ridacchiato lei,
“I pallini sono rapidi, riuscire a trovarli nel marasma di
cose che compongono il mondo non è facile. Concentrarmi sul
tuo bottone, che è lì, davanti a me, è
molto, molto, più facile” aveva spiegato Drina,
facendo ticchettare le unghie sul tavolino, il bottone si era tirato
su, rimanendo in equilibrio prima di cominciare a roteare, spinto da
lei stessa, prima di cadere di nuovo sul legno.
“Mi sarebbe piaciuto essere un materialki, sai? Mi piace
smontare le cose” aveva confessato lui. Drina aveva sorriso
divertita, ricordandolo quando da ragazzino lo aveva sempre visto
trafficare in plancia sulla nave di suo padre, “A che
età hai smontato la tua prima cassaforte?” aveva
chiesto Drina, “Nove anni” aveva risposto divertito
Jordie, “Mio padre aveva nascosto lì il mio
regalo” aveva raccontato con estremo divertimento,
“Se te lo stessi chiedendo era la proprietà di un
appezzamento di terrà nel sud di Kerch, a Venfall;
barbabietole da zucchero – vanno sempre” aveva
spiegato con una punta di divertimento, “Un regalo
piuttosto pittoresco” aveva considerato Drina, “A
mio padre è sempre piaciuto fare cose
imprevedibili” aveva rivelato piuttosto soddisfatto.
“Avete un buon rapporto?” aveva chiesto Drina,
pensando a suo padre, al suo amorevole padre abbandonato, con il fucile
sempre in spalla e lo sguardo rivolto all’orizzonte perso, di
un uomo che sempre, per qualche ragione considerava se stesso
incompleto. “Probabilmente migliore di molti altri”
aveva ammesso Jordan, dopo un lungo secondo di riflessione, Drina
sospettava pensasse a Wylan Van Eck che leggenda voleva avesse fatto
chiudere suo padre nella cella più lurida
dell’Anticamera dell’Inferno. “Non ha mai
voluto che avessi il suo cognome” aveva commentato Jordie, il
suo tono sembrava distratto: “Sono stato Jordan Van Eck,
Jordan Rietvald, Jordan Vattela-a-pesca, prima di essere Jordan Ghafa,
ma mio padre non ha voluto mai che prendessi il suo cognome”
aveva detto Jordan con una punta di tristezza.
“Credo volesse proteggerti, no?” aveva chiesto
retorica Drina, “Avrebbe senso, se non avessi il cognome di
mia madre. Ed una donna che ha mandato in rovina commerci e famigli per
tutto il Mare Vero, difficilmente ha meno nemici di mio
padre” aveva ricordato con una punta di acidità[3].
“Glielo hai chiesto?” aveva chiesto Drina con una
punta di innocenza, lei lo aveva chiesto a suo padre, capiva le ragioni
di sua madre, ma dell’uomo molto meno.
Quello aveva scosso il capo ed aveva detto che volevano un
‘nuovo inizio’ e Drina ne era parte. Le piaceva
essere Drina Rosen, più di quanto le era piaciuto essere
qualsiasi altra persona.
Drina Orezstev, Drina Starkov, Drina Moronzova.
‘Puoi farti chiamare come più di
aggrada, ma questo non cambierà mai cosa sei’
le era stato detto una volta.
Jordie aveva sollevato le spalle, “A Kaz Brekker piace
spiegare le cose solo quando ne può trarre un piacere o un
profitto” aveva ammesso il ragazzo, “Non
fraintendermi, Drina. Io non sono arrabbiato: io amo mio padre; solo
che non è facile avere a che fare con un uomo
così, un uomo che parla la violenza più della
gentilezza e che … a molta più
difficoltà di me nel farlo” aveva cercato di
spiegarle.
Lei aveva annuito, “Comprendo a pieno” aveva
ammesso alla fine: “Mia madre è la donna con
più empatia del mondo, mentre mio padre, be, spesso si
comporta come se nessuno lo capisse mai e che sulle sue spalle ci fosse
stato il peso del mondo” aveva raccontato; la cosa era
piuttosto ironica se ci pensava.
E non mi ha mai perdonato l’essere grisha,
ma non lo aveva detto.
Jordie le aveva sorriso, quasi rincuorato.
“A Ravka di mestiere interrogavi le persone, sei brava a
scucire informazioni” le aveva detto poi il ragazzo,
“No, per nulla. Lo fanno due miei amici, loro fidati sono
davvero, davvero bravi” aveva detto serafica,
“Quando ero un soldato scelto della principessa, mi limitavo
a proteggerla” aveva spiegato poi, ma non solo, era una
confidente ed un’amica.
Aveva sospirato, decidendo di non dire a Jordan che era una nolnik
per quanto fosse abbastanza sicura del fatto che il
kerchiano sapeva perfettamente tutto di lei ed il suo lavoro. Circa,
Drina non era ufficialmente in missione.
La stazione di Nijejem era composta da un capannone di dimensione
modestissime, dove erano sistemate panche su cui gli avventori potevano
aspettare, per il resto c’erano due binari e neanche una
pensilina. Un posto piuttosto suggestivo, ma odorava di acqua e sale,
un miasma per il naso di Drina.
“Come dicevo questo paese sopravvive di pesca di granchi ed
estrazione di sale dal mare” aveva ripreso a parlare Jordie,
mentre osservava il sole sparire verso l’entro-terra.
“So che l’estate ha un po’ più
di vita balneare, ma ora è autunno” aveva
considerato.
Si sentiva, a parlare di Drina, l’autunno di Ravka era freddo
in tsiberia, più temperato a Keramzin, ma lì, in
quel buco dimenticato da dio, anche l’autunno era bagnato.
“Forse ci conviene andare dalla tua amica ora, se
può ospitarci, o trovare una pensione, se ne esiste una in
questo posto dimenticato da Ghezen” aveva sospirato Jordan,
“Direi che Ghezen non dimentica mai nulla, qui”
aveva ghignato Drina, infilando una mano nella sua tracolla, per
cercare il vecchio quaderno degli appunti, dai fogli ormai gialli,
“Sei fortunato comunque, Jordie” lo aveva
richiamato, “Perché i due posti
coincidono” aveva rivelato, trovando l’appunto che
aveva sognato con inchiostro – un po’ sbavato
– all’angolo di una pagina.
“Mi piacciono i caratteri Ravkiani, hanno qualcosa di
intrigante” aveva rivelato Jordie, “Io trovo
pittoresco che da Kerch al Sol Calante, scriviate tutti con lo stesso
sistema, nonostante le diverse lingue” aveva scherzato Drina.
Shu-Han, Ravka e Fjerda appartenevano allo stesso continente, ma
avevano tre grafemi terribilmente diversi.
Avevano preso l’ultima fortunata corsa di una corriera a due
cavalli. Non c’era molta gente in autunno che arrivava
lì, perciò non c’erano poi molti
viaggi, che riunivano la stazione alla cittadina, la distanza era
breve, forse un’ora e qualcosa di camminata lungo il
sentiero, ma con il calar la sera per due estranei era meglio di no.
Nonostante lei e Jordan sapessero difendersi era meglio non attirare
troppo l’attenzione.
“L’Emporio di Cait
è un bel posto. L’unico posto che non è
una catapecchia qui” stava urlando il valletto da sopra il
due-cavalli; Drina aveva sentito un tremore nel sentire quel nome.
“Dovevate vedere come era bello questo posto quando ero
giovane, pieno di vita, potevamo far gola anche a Ketterdam”
si era pavoneggiato l’uomo. Era vecchio e canuto, con la
pelle calante e morbida come la pasta frolla, gli occhi liquidi e iridi
grandi come biglie. Drina aveva dei dubbi che potesse essere
così, Ketterdam era una bestia che esisteva da almeno due
secoli, che divorava qualsiasi cosa, ben prima che Nijejem fosse
qualsiasi altra cosa.
Il due-cavalli aveva fermato davanti L’Emporio di Cait e
Jordan aveva pagato, tre kruge, non aveva lasciato a Drina nessuna
possibilità. “Pagherai la stanza” si era
giustificato, con un sorriso bello storto e divertito sul viso, che era
piaciuta un sacco a Drina.
Poi erano entrati ne L’Emporio, accolti da una grande stanza
piena di cianfrusaglie, di ogni tipo, tra cui barattoli di sale ed
altro cibo sotto-sale, olio e aceto. C’era anche una scala, a
sinistra di un vecchio bancone. Il loro ingresso era stato accolto dal
suono di un campanello sulla porta. Una donna dall’aspetto
pasciuto, con i capelli grigi-lanosi, semi nascosti da un fazzolo, si
era ridestata.
“Nonna!” lo aveva chiamato un ragazzo, era giovane,
dell’età di Jordan e Dominik forse. Un ragazzino
dal viso bianco, quasi tendente al grigio, con occhiaie viola, dietro
occhi blu spento, aveva capelli biondi e sottili. E Drina aveva avuto
un mancamento nel guardarlo. Doveva essere il piccolo Pyp.
‘Ho conosciuto i suoi fratelli, il più
piccolo si chiama Pyp. Il maggiore Anton ha pianto tutto il tempo.’
“Noi … vogliamo una stanza” aveva
parlato alla fine Drina, recuperando il fiato, certa che il tono della
sua voce doveva essere pregno di patetismo, guadagnando
un’occhiata sospettosa dalla signora, una coppia, composta da
un ragazzo suli e una donna ravkiana, in un paesello morto fuori
stagione a Kerch.
“Quella è … il Capitano
Ghafa” aveva detto Jordan, mettendo un’espressione
di bronzo, davanti ad un disegno piuttosto ben fatto di sua madre, era
incorniciato ed appeso ad una parete, da cui erano state sgomberate
chincaglierie, una fiamma di lanterna sotto ad illuminarlo
perché si vedesse anche nel buio.
“L’unica Santa che si prega qui” aveva
risposto chiara l’anziana.
A nessuno importava dei pescatori di granchi di Nijejem, solo ad Inej
Ghafa.
Jordie aveva sorriso accomodante, ristorato da quel commento, mentre
Drina aveva avanzato a passi incerti, all’ora aveva visto sul
bancone il quadretto con il viso di una ragazzina.
Lo aveva preso, “Ei che fai!” aveva abbaiato la
donna, quasi rabbiosa, prova a sottrarlo dalle sue mani, ma Drina
veloce era scivolata via dalla presa, “Cait” aveva
detto solamente, con lo stesso tono impegnato di una promessa, di una
preghiera, “Sono qui per rendere i miei omaggi a
Cait.”
[1]
Sebbene, come detto, Fjerda è la Finlandia e non la
Scandinavia, ho scelto per i signori di Wanderfall nomi
“vichinghi” per nessun particolare motivo se non
che mi piacciono (e perché sono a nord). Tecnicamente anche
la dama di compagnia di Nina/Mila ha un nome danese: Stiorra.
[3]
Probabilmente un giorno Kaz gli spiegherà che gli aveva dato
davvero il suo cognome.
Notes:
Forse sono un po’ in giusta con Kaz, ma non lo
vedo un personaggio super tranquillo ad esprimere i suoi sentimenti,
per ulteriori approfondimenti c’è la mia ff JORDAN
che parla di questo (probabilmente ne uscirà in futuro fuori
una con Mal e Drina, probabilmente).
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Capitolo 16 *** Mattias II (40 D.F.) ***
Non ho
finito di scrivere il capitolo che mi ero ripromessa, comunque, visto
che ho
finito le mie non-vacanze e domani ricomincio a lavorare ho pensato di
aggiornare.
Detto questo: mi sono divertita a scrivere questo capitolo da un punto
di vista
di ambientazione, meno da un punto di vista di dialoghi e relazioni tra
personaggi.
Comunque, un po’ di informazioni random sulle questioni del
40.
MATTHIAS
(40 anni dalla
Distruzione della
Faglia)
“Sei
sicuro, amore mio?” aveva chiesto con dolcezza sua madre,
accomodata su un
bello sgabello, con un cuscino di velluto rosso. Aveva una mano una
spazzola
con l’impugnatura d’avorio con cui passava sui
bellissimi capelli
biondo-argento, lisci e sciolti fino alla vita.
Matthias era seduto sul bordo del suo letto, con espressione affranta,
gli
occhi sulla punta dei suoi stivali ben lucidati ed ogni tanto alzava
con
coraggio gli occhi alla terza persona nella stanza: Genya Safin.
La terribile rovina di Ravka. Alta, flessuosa,
ancora giovane nonostante
i cinquanta ed oltre d’età, con i capelli rossi
come fuoco vivo e la kefta
della medesima sfumatura, ben allacciata e con decori blu, il triunviro
e la
più dotata Taylor del mondo, probabilmente…
forse, dopo suo padre.
Era così impressionante e
gloriosa che a malapena Matthias aveva notato le cicatrici la prima
volta che
l’aveva vista, quando era sceso giù dalla carrozza
nell’ingresso trionfale del
Gran Palazzo. Dopo averla vista da vicino, era rimasta sconcertato da
quei
rovinosi segni, che avevano distrutto la pelle, scavato la carne, fino
alle
ossa e si era chiesto quanto potere, quanta resistenza fosse necessaria
ad una
persona per sopravvivere a quello ed essere ancora così
incredibilmente
gloriosi.
“Sì” aveva ammesso Matthias dopo un
lungo sospiro, avendo coraggio di guardare
sua madre, c’era una nota di tristezza sul viso di sua madre.
“A casa non potrò mai permettermi di
farlo” le aveva detto, “Puoi e saresti
anche molto più sicuro” aveva parlato sua madre,
alzandosi dalla seduta, “Senza
offesa Genya” aveva detto. “Mai potrei, Ni-Mila”
aveva risposto con
confidenza il triunviro, “Ho deciso” aveva
rinforzato Matthias, anche se fosse
stato per un solo momento, “Voglio vedere la mia faccia”.
Si era toccato uno zigomo.
Sua madre aveva annuito, mordendosi un labbro, ma facendosi da parte,
Genya
elegante e spigliata aveva superato a gran falcate la distanza che li
divideva
e si era accomodata con lui sul letto, posando non lontano la sua
cassetta-delle-meraviglie. Una scatola di legno, smaltato in nero, con
decori
rosso fiammante, che aveva aperto. Diversa da quella di suo padre,
semplice,
poco appariscente.
Così vicina, Matthias poteva vedere i segni del suo martirio
e la bellezza
feroce che si nascondeva dietro il suo tormento.
“Mi hai detto che hai trovato un tailor di fiducia,
vero?” aveva chiesto Genya,
rivolgendosi a sua madre. Quando erano solo non la chiamava mai con
epiteti
reali, così come non lo faceva mai con la Regina Zoya, la
sua stessa regina.
Sua madre aveva annuito. Matthias non brillava di intelligenza, ma era
abbastanza sveglio da aver capito che la verità che sua
madre aveva raccontato
era ancora intessuta di parecchie omissioni, aveva una storia con
Ravka, una
storia profonda, immaginava che Genya Safin per prima le avesse cucito
quel suo
bel viso da signora delle nevi, ma Matthias realizzava che sua madre le
teneva
dei segreti.
Nessun misterioso Tailor di fiducia, solo suo padre:
il re di Fjerda, un
grisha.
Genya
aveva messo le mani sulle sue guance, era la prima volta che una donna
che non
fosse della sua famiglia o Stiorra, era così in confidenza
con lui, era
avvampato di imbarazzo, ma Genya non si era fatta distrarre.
“Oh, Mila, vedo un
po’ più di cuciture di quanto dovrei”
aveva considerato la Sarta, mordendosi un
labbro.
Sua madre aveva ridacchiato, con voce fin troppo in falsetto,
“Lo sai Genya ho
geni forti” si era giustificata. La Sarta pensava che le
modificazioni che
Matthias avesse subito dovessero essere per sostituire quelle parti di
sua
madre che erano troppo vere.
Si era chiesto come dovesse essere veramente la sua genitrice: era
sempre
bionda? Sempre così aguzza? Con gli occhi così
azzurri da sembrare uno
specchio?
Ma in Matthias c’era di più. Ed aveva vissuto
così tanti anni sulla terra,
ignorando di aver indossato il viso di qualcun altro.
Un tocco sulla porta aveva fermato Genya.
“Sua altezza, la Tret'ya
tsarevich, Alina
Zoyaevna Nazialensky” aveva
enunciato l’uomo dall’altra parte della porta, era
fjerdiano, ma aveva
utilizzato la titolatura ravkiana.
La porta si era aperta ed impertinente e feroce il Frutto
dell’Autunno
era entrato nella stanza, con la redingote azzurro ravka ed i capelli
castani stretti
in una coda cavallina. Chiunque avesse detto che la Regina Drago fosse
la donna
più bella del mondo, non aveva mentito, e i suoi figli erano
le sue tre gemme.
Alina non possedeva la letale e magnifica presenza di sua madre, ma era
lucente
ugualmente.
Matthias non era riuscito a sovrapporre l’immagine di una
giovane ragazza, con
occhi blu vibrante e la fierezza nel portamento, con quello della
ragazzina
bisbetica che rideva di lui quando erano bambini sul lago ghiacciato.
“Oh,
Genya!” aveva detto Alina, vedendo la triunviro con le mani
sul suo viso, “Alina
dovresti imparare a chiedere appuntamento” l’aveva
rimproverata, “lo so che non
sei abituata, ma la regina Mila ed il principe Matthias sono tuoi
eguali” le
aveva specificato.
Lui non era affatto d’accordo, con
quell’affermazione, gli stessi pensieri che
aveva avuto sulla nave volante aveva ripreso controllo della sua mente
per
vederla.
“Perdonatemi!” aveva detto piena di imbarazzo
Alina, con le guance rosse come
mele, prima chinandosi rispettosa a Mila e poi anche a lui, che si era
tirato
subito in piedi ed aveva fatto anche lui un inchino piuttosto rigido.
“Era mio interesse invitare il principe ad un esercitazione
di
Tiro-al-piattello, sulle sponde del lago, dietro il Piccolo
Palazzo” aveva
detto rigida Alina, lanciando poi uno sguardo a Genya, in cerca di
sostegno. Le
labbra rosse del triunviro si erano aperte in un sorriso soddisfatto.
Matthias
si era chiesto quanta pressione avessero fatto sulla principessa per sedurlo,
sua madre non aveva detto nulla in questione, ma immaginava
fosse sottointeso,
sua madre adorava la regina di Ravka, suo padre, prima di partire, gli
aveva
messo le mani sulle spalle e non aveva detto niente su quello.
‘Con che diritto potrei chiederti qualcosa?’
aveva detto solamente alla
fine.
Alina era
un’ottima partita: era la principessa di Ravka, sua madre era
Senje Zoya, aveva
legami con i grisha ma non lo era – perciò anche
lo zoccolo duro
dell’aristocrazia conservativa l’avrebbe vista
meglio – e aveva sangue
fjerdiano, tramite suo padre aveva il sangue degli Opjer, che poteva
non essere
particolarmente nobile ma era ricco, ma anche il
sangue dei Grimjor, da
sua nonna Tatiana, la regina esiliata e parete della famiglia reale di
Fjerda.
Probabilmente Alina aveva più diritti di lui al
trono di Fjerda.
“Sarei onorato, moya tsarevich” aveva
detto Matthias, incerto con quella
titolatura, Alina aveva sorriso, “Perfetto andiamo”
aveva dichiarato, con più
innocenza ed infantilismo.
“Moya Tsarevich” aveva parlato sua madre,
avvicinandosi ad Alina, era più bassa
della giovane principessa, ma con la Corona di Ghiaccio, con le punte
dritte
come spade, alte, sembrava tremendamente più ingombrante.
“Mi è noto come Ravka
sia più … affrancata per
talune questioni, ma Fjerda ha delle regole di
comportamento” aveva cinguettato. Alina aveva avuto un
momento di panico,
visibile sul viso, prima di riprendersi, “Oh, giusto,
disdicevole per un
ragazzo ed una ragazza essere da soli, sì!” aveva
ricordato, prima di
allontanarsi veloce dalla stanza, non dando a sua madre il tempo di
proporre
Stiorra – che così avrebbe potuto essere il suo
fido sguardo. “Ragazzina
vivace” aveva valutato sua madre, ammiccando a Genya,
“Assolutamente. La figlia
di Nikolai” aveva giustificato la cosa la signora dei grisha,
“La figlia di
Zoya vorrai dire” aveva scherzato la regina di Fjerda
strizzando l’occhio alla
sua amica.
Sua madre si era rivolta, poi, verso di lui, “Matthias,
vorrei che tu
indossassi la corona principesca. Qui” aveva detto seria,
ricordando la
conversazione che avevano avuto in viaggio.
Alina non aveva indossato il copricapo regale, ma era il suo regno
quello in
cui erano, e lei non era la figlia di una pescivendola elevata al grado
di
Regina. Matthias aveva annuito, raccogliendo la corona dal pettinatoio
di sua
madre, lei stessa l’aveva tirata fuori quella mattina. Era un
anello di ferro,
come quella di sua madre ma senza le spade puntute, aveva
però dei ghirigori
runici che si intarsiavano nell’anello.
Wanden olstrum end kendesorum. Isen ne bejstrum; l'acqua
ascolta e
comprende. Il ghiaccio non perdona.
Al centro, la testa di profilo di un lupo dominava la corona.
Alina era
riapparsa nuovamente nella stanza, teneva per mano una giovane donna,
leggermente più matura di lei in volto, forse coetanea di
Matthias, ma ben più
minuta in stazza. “Oh, ‘Lissa! Dovevo
aspettarmelo!” aveva detto Genya senza
stupirsi. La tale Lissa era avvampata di imbarazzo, prima di offrirsi
in una
generosa riverenza a sua madre a Matthias; lui l’aveva
guardata, era una
ragazza carina, con un viso tondeggiante, con le guance rosa, gli occhi
nocciola, aveva capelli biondo ramato, raccolti in due trecce parallele
alla
testa, più fjerdiane che ravkiane.
Era carina.
Molto carina.
Era stato il primo atavico pensiero di Matthias. “Vasilissa
sarà la nostra
guardia, così che non ci siano rischi che io insedi il
giovane principe
ereditario di Fjerda” aveva scherzato Alina, guadagnandosi un
pizzicotto da
Genya Safin.
“Comportati bene” l’aveva rimproverata
con gentilezza, facendo arrossire di
imbarazzo la sua principessa.
Vasilissa li
aveva seguiti, restando diversi passi indietro, Matthias
l’aveva spiata un paio
di volte, notando che sfoggiava una camicia di cotone grezzo e con una
lunga
gonna dalla coda alta, di un bianco panna, con alcuni decori dorati. Ci
aveva
messo un po’ a notare che non era l’unica persona
ad indossare quel colore così
fulgente, “Lei è la tua cameriera?”
aveva chiesto alla fine ad Alina.
“Di nome sì, ma solo per poco tempo ancora, presto
Lissa sarà la mia Dama di
compagnia. Non che importi, siam cresciute insieme, non
c’erano molti bambini
della mia età a palazzo o, meglio, sì,
c’erano i bambini grisha a cui non
piacevo e i figli dei nobili che non piacevano a me” aveva
risposto senza
vergogna la principessa. Era strano, perché Matthias la
ricordava come una
bambina dalla risata fragorosa ed avventuriera ed onestamente non
capiva come
non potesse essere cercata da una schiera di bambini adorabili,
comprendeva
perché non piacesse a lui: troppo diretta, troppo schietta
ed avventurosa.
“Condivido” aveva ammesso Matthias, “Pare
che io abbia ereditato la stessa
attitudine della solitudine a mio padre
dell’infanzia.”
L’ennesima menzogna della sua vita. Suo padre non era mai
stata un’anima
indolente, ma il defunto – e poco compianto –
Rasmos Grimjor era costretto
spesso alla solitudine, nella sua infanzia, per la sua costituzione
debole,
Matthias non aveva la più pallida idea se ne fosse felice o
meno, non aveva mai
parlato con i suoi genitori del principe dopo la scoperta dei suoi
genitori,
mentre in precedenza, suo padre aveva mentito dicendo che quando aveva
cominciato a stare meglio, aveva cominciato ad apprezzare la vita
conviviale. A
Matthias non piaceva stare in mezzo alla gente, da prima della
scoperta, e poi
era stato solo peggio.
Negli ultimi tempi, Stiorra era stata la sua unica compagnia.
Alina aveva sorriso, ben gentile, “Il bellissimo principe di
Fjerda non è
sempre in compagnia di una schiera di fanciulle innamorate?”
aveva replicato
Alina.
“Quello sì, ma Stiorra – la dama della
Camera di mia madre – tiene tutti
lontano, con i suoi ferri da maglia” aveva scherzato lui, con
le gote
leggermente arrosate al pensiero di essere stato definito
così. Non aveva fatto
un commento di sorta.
“Adesso attraverseremo il parco ed andremo nel Piccolo
Palazzo, probabilmente
avrai gli occhi di tutti i grisha addosso” lo aveva avvertito
la principessa.
“Mi capita spesso” l’aveva rincuorata,
“Anche alla Corte di Ghiaccio, ora
abbiamo una sezione per i grisha. Proprio vicino ai
druskelle” aveva
raccontato. Camere ed ambienti che erano a lui preclusi, nonostante il
suo
sangue. Aveva sempre avuto il timore, il terrore, se qualcuno lo avesse
scoperto, ben prima di sapere tutto il resto.
Sua madre le aveva baciato le dita, quando aveva nove anni e gli aveva
detto
che era meglio così, per quanto ingiusto, che Fjerda si
stava schiudendo al
domani, ma non era ancora pronto ad un principe come lui.
A volte, di nascosto, cercava di raggiungere quel potere, quando lo
usava,
anche se poco, si sentiva meglio, non faceva niente di eccezionale,
niente di
troppo rischioso, per lo più ascoltava i battiti dei cuori,
rallentava le
palpitazioni di Stiorra quando si agitava.
In quel momento aveva chiuso, sentendo il cuore calmo di Alina battere
ed anche
quello di Lissa molto più agitato, preoccupata di qualcosa.
“Nemici mortali costretti a dividere i bagni, sembra
interessante” aveva
cinguettato la principessa, “Sì, una volta,
Maestro Gustav ha fatto esplodere
le fogne della sua ala solo per infastidire Dirkan. Giorno magistrale,
mio
padre è andato di persona a rimproverarli” aveva
raccontato, ricordando la
vergogna che si era manifestata sulle guance dei due grossi uomini,
ripresi
come ragazzini.
Alina lo
aveva condotta attraverso il parco, ma a metà della sua
camminata si era
fermata, “Mio buon-fratello” aveva detto chiamando
qualcuno, che veniva nella
direzione opposta alla sua.
Matthias ci aveva messo un secondo di troppo nel riconoscerlo, occhi
ambra, dal
taglio allungato e capelli neri come piume di corvo, portati corti,
come voleva
la moda ravkiana. Un uomo giovane, sulla trentina,
dall’aspetto gradevole; era
il principe consorte dell’Erede. Si era presentato, Matthias
lo ricordava,
quando era giunto al trionfale ingresso del Gran Palazzo, ma il nome
gli era
sfuggito, nella cacofonia di nomi sorti in quell’occasione.
Non era solo, era in compagnia di un altro uomo, anche lui shu,
più anziano,
con gli occhi stretti, i capelli neri, con una coda alta, lunghi,
attraversati
da fili di grigio e di bianco, il viso però era ancora
liscio senza alcuna
imperfezione, come della porcellana. Indossava una lunga cappa pesante,
come una
pelliccia grigia di zibellino, allacciata, da cui due fori sui lati
permettevano alle braccia di emergere e muoversi liberamente,
“Mio onesto
Reyem” aveva detto poi la principessa.
Reyem, l’uomo più maturo si era chinato in una
riverenza rispettosa, invece, il
principe aveva appena abbassato il capo, “Mia buona
sorella” aveva accompagnato,
aveva raccolto una mano di Alina e ne aveva baciato con delicatezza le
nocche.
“Dove hai lasciato i miei nipotini?” aveva chiesto
subitissimo Alina.
Matthias ricordava i bambini, Juris il maggiore, con i riccioli scuri e
gli
occhi d’oro, e Nikolai il Piccolo, che era grande come un
cuccioletto e stava
ancora nelle braccia di sua madre. Piccoli fiori del futuro, bambini un
po’
shu, un po’ suli, un po’ ravkiani ed un
po’ fjerdiani.
Se crescendo il Juris Liliyanaevna Nazialensky avesse fatto di una
zemeni la
sua regina, sarebbe stato ancora più amalgamato il mondo.
A riprova, che nonostante le chiacchiere di cui si faceva voce Kerch, Ravka
era il paese-mondo, d’altronde per secoli aveva
raccolto grisha di ogni
dove.
“Al nonno. Oggi, sono tutti di Nikolai” aveva
risposto pratico l’uomo, con un
sorriso rilassato, “La regina e tua sorella si stanno
organizzando per l’arrivo
di Dalai questa sera. Mia moglie diventa sempre nervosa quando deve
incontrarla.” aveva ammesso, “Della regina
Dalai” aveva corretto Alina
con un certo nervosismo.
“Nonostante le chiacchiere che si dicano, la regina Dalai non
aveva interesse
in me, non quanto il suo kebban ne avesse in tua sorella”
aveva replicato con
scioltezza l’uomo; Alina era arrossita colta in fallo, aveva
scosso il capo,
facendo muovere i capelli scurissimi. “Tu fai da guida al
principe di Fjerda”
il cognato di Alina aveva dato cenno di averlo veduto, chinando il
capo, in
rispetto, “Io ed il principe Matthias andiamo a sparare al
lago, ci aspetta
Tatiana” aveva spiegato subito lei.
Un campanello era suonato nella testa di Matthias, ricordando la donna
con i
boccoli biondi ed il naso da carlino che gli aveva accolti al fiume, i
suoi
occhi non avevano mai lasciato il suo istitutore. Inoltre, Stiorra
spergiurava
di averla vista gironzola intorno ai loro ambienti.
“Non creare incidenti diplomatici”
l’aveva invitata bonariamente il cognato,
“Temo sia più una raccomandazione da fare a
me” si era introdotto Matthias con
coraggio nel discorso, “Il principe Matthias sottovaluta la
mia vena
distruttrice” aveva ridacchiato Alina, “Per favore,
mia moglie è già irritata
ed è una donna che controlla gli elementi” aveva
scherzato il principe,
sollevando le braccia.
L’uomo più maturo, Reyem, aveva rivolto lo sguardo
verso di lui.
Aveva arricciato il naso, ma non aveva detto molto, ma aveva sorriso,
poco
rassicurante.
“Non conosci il nostro Reyem, giusto” aveva detto
subito Alina, notando la
direzione dei loro sguardi, “Principe Matthias Egmond
Grimjor, ho l’onore di presentarle Reyem
Yul-Kaat, Maggiordomo del Piccolo Palazzo” aveva detto con
allegrezza, l’uomo
aveva chinato il capo, onorato della loro conoscenza.
“Vi lasciamo andare alla vostra esercitazione. Io continuo
l’organizzazione gli
interventi per la Sala di Letture” aveva detto il principe
consorte.
Gli occhi di Alina si erano spalancanti, alle sue spalle Matthias aveva
sentito
un sospiro drammatico di Lissa. “Non devo eseguire un brano
con il balalaika,
vero?” aveva indagato subito la principessa, il suo buon
fratello si era morso
il labbro, “Non dopo che hai deciso di deliziarci con Canteremo
gloria a te
Senza Stelle, forse, però una poesia in
endecasillabi” aveva proposto
quello; Matthias aveva sentito la risatina soffocata di Lissa,
“Ci penserò!”
aveva cinguettato Alina sfacciata.
“Lo hai fatto davvero?” aveva chiesto Matthias
sconvolto, quando si era
allontanati dal principe e Reyem, dimenticando completamente
l’etichetta, “Il
principe ereditario di Fjerda non fa mai niente per infastidire la sua
regale
famiglia?” aveva chiesto Alina senza vergogna.
Matthias era arrossito come un peperone, realizzando di no, che era
sempre il
figlio perfetto e diligente di cui sua madre e suo padre potessero
essere
fieri, perché non poteva permettersi di essere meno di
Bjorn. “Una volta ho
rubato tutte le scarpe sinistre di Joran” aveva ricordato.
“Joran?” aveva
chiesto Alina, “Guardia giurata di mio padre, capo delle
guardie di palazzo, ma
più semplicemente la Genya di mio padre” aveva
detto. Ricordando il rigido
druskelle che cercava per le sue stanze gli stivali
d’ordinanza, finché non era
stato costretto a presentarsi nelle camere di Mila in pantofole. Alina
si era
voltato verso Vasilissa, “Perché non abbiamo mai
rubato tutte le scarpe
sinistre di Genya?” aveva chiesto sfacciata,
“Perché ci piacciono le nostre
facce” aveva risposto l’altra ragazza,
“Sua altezza” aveva aggiunto in fretta,
piena di vergogna quando aveva sentito gli occhi di Matthias addosso.
Il lago
era splendido, di un azzurro chiarissimo, dritto come uno specchio
– nonostante
Alina avesse precisato che fosse meno grande di quello alla Palude da
cui era
possibile far emergere uno squalo – e con la luce del sole
riflessa sembrava
quasi che dei sunsummoner stessero esercitando la
loro piccola scienza.
C’erano parecchi grisha in giro, interessati evidentemente a
loro, con kefte di
ogni colore.
Sapeva che le kefte erano il simbolo dei grisha, anche oltre i confini
di
Ravka. L’uniforme dei grisha fjerdiani erano diverse, ma i
colori erano gli
stessi.
Matthias indossava il rosso corporalki per quello, non che qualcuno ne
fosse
consapevole. “Ecco Tatiana!” aveva chiamato Alina
in direzione della donna
bionda, con il naso a carlino, che l’aspettava su una sponda
del lago, vicino
una macchina per il lancio dei piattini. Indossava dei cuscinetti sulle
orecchie e li aspettava con un’espressione tronfia, indossava
abiti da donna
nobile, a rimarcare il suo sangue.
“Principessa, principe” aveva detto con un tono di
miele la donna, chinando il
capo in una riverenza più generosa della scollatura del suo
vestito.
Tatiana aveva dato loro due diversi fucile, “Acciarino a
Testa d’Uccello
kerchiano. Interessantissimo” aveva valutato Matthias
soppesando l’arnese con
le sue mani. “Esperto di armi?” aveva chiesto Alina
incuriosita, “Come ogni
buon uomo di fjerda ovviamente” aveva risposto lui, con un
sorriso sciolto,
“Ritengo che la manifattura migliore sia quella zemeni,
seguita da quella
fjediana, ma questo non è male affatto” aveva
considerato. Era più leggero di
un acciarino normale, anche il materiale era leggermente diverso,
“Opera
grisha” aveva considerato.
Alina aveva annuito, “Sì, manifattura da
fabrikator. Mi hanno regalato questi
due fucili per il mio diciassettesimo compleanno, il capitano della
Rusalye”
aveva detto senza
vergogna. Matthias aveva schiuso le labbra con espressione sconvolta,
“Jordan”
aveva detto.
La principessa aveva sollevato un sopracciglio scuro, “Si.
Immagino lo conoscessi
anche tu, la Rusalye veleggia su tutti i mari” aveva
considerato.
Non era solo quello, il Capitano Ghafa, la madre di Jordan, era una
buona amica
di sua madre, veramente amica, in una maniera
intima, profonda e
complice, che Matthias aveva visto solamente con suo padre. Si tenevano
le dita
e ridevano, parlavano sempre di qualcosa che era andato e che mai
sarebbe più
tornato. Era evidente che anche suo padre non ne fosse del tutto
consapevole,
ma sembrava che la cosa non la tangesse molto, ‘Tua
madre ha avuto una vita
prima di me, una vita terribilmente interessante da ascoltare’
aveva detto
solamente.
Una volta sua madre le aveva raccontato di essersi vestita da cavalla
kaelish
per imbucarsi ad una festa della Corte di Ghiaccio ed Inej era con lei,
aveva
fatto roteare gli occhi a quel discorso; Matthias si era chiesto come
fosse
possibile, quando sua madre era così evidentemente
fjerdiana. Ovviamente in
quel frangente non era stato ancora a conoscenza della
verità. “No, è che
Jordan è proprio un mio amico! Quando avevo dodici anni mi
ha terrorizzato con
racconti di mostri di ogni genere sul Bosco di Sankt Feliks”
aveva riso.
Matthias pensava con triste melanconia all’ultima volta che
aveva veduto il suo
amico, erano passati diversi mesi, e per quanto tenesse al suo amico,
non
poteva ignorare che l’ultima volta che aveva parlato con
Jordan, questi aveva
mostrato un sempre più interesse alle idee antimonarchiche.
Non c’era da
stupirsene, il capitano della Rusayle era nato e vissuto a Ketterdam, una
repubblica a suo modo, figlio di una ragazza che era stata
schiava.
Alina sembrava intrigata. “Ci sei mai stato?” aveva
chiesto quasi vibrante la
principessa, “No, in realtà no … loro
ammettono a malapena i grisha che non
sono materialki, lasciamo perdere i non-grisha” aveva
confessato con timore,
anche se lui lo era, grisha, non aveva mai osato neanche chiederlo.
“E come ha
fatto Jordan Ghafa?” aveva chiesto intrigata, “Non
esiste serratura che possa
resistere alla Frusta di Mare” aveva scherzato,
perché era vero. “Una
volta si è introdotto nella prigione di Matvej
di Os Alta, che non sarà
la Corte di Ghiaccio ma ha la sua dignità. Non dirlo in giro
è un po’ un
segreto di stato” aveva sussurrato Alina nel suo orecchio.
Sembrava una cosa
tremendamente da Jordan, “Manterrò il tuo
segreto” aveva scherzato lui, scivolando
nella personale seconda persona.
“Tatiana, quando vuoi!” aveva esclamato la
principessa Alina, rivolgendosi
verso la ragazza, che aveva fatto sparare il primo colpo, Matthias per
la legge
della galanteria aveva lasciato alla ragazza il primo colpo, anche se
era lui
l’ospite.
Avevano sparato per almeno un paio di ore quel pomeriggio, con gente
che si era
affacciata circa ad osservarli. Avevano avuto venti piattini a testa,
Matthias
che aveva imparato a sparare a dodici anni, sotto la supervisione di
suo padre
e di Joran, aveva colpito diciassette piattini, la principessa di Ravka
ne aveva
presi quindici. “Penso tu abbia vinto, mio
principe” aveva ammesso con un
sorriso poco deciso sul vivo, piuttosto insofferente alla cosa, mentre
riassemblava le munizioni. “Sai cosa si dice dei Kerchiani,
no? Che imparano a
contare le kruge prima di parlare, così è a
Fjerda, ho imparato a sparare prima
di camminare” aveva riso lui con calma.
Alina aveva sbuffato, “Con le pistole me la cavo molto
meglio. Lilyiana può
sventrare una città con la sola imposizione delle mani e
Dominik ha un’arte
oratoria invidiabile, io sparo” aveva ridacchiato.
“Sei entrata nell’esercito?” aveva
chiesto Matthias, lui avrebbe voluto, si era
allenato con i druskelle per un po’, per la forma fisica,
anche se ne odiava
ogni momento, preferendo il caldo di casa e la lettura; nonostante
fosse
cresciuto alto e forte, Matthias non riusciva a sposarsi con
l’ideale di uomo
fjerdiano. Però sapeva che per anni la famiglia reale di
Ravka era stata
intrecciata con l’esercito. L’Erede era un membro
rispettabile dell’esercito,
un maggiore se non sbagliava – anche se non sapeva di quale
reggimento,
sospettava di uno grisha – ma se non ricordava male, neanche
l’arciduca aveva
mai militato.
“Volevo, terribilmente, ma mia madre non sopporta che io stia
lontano dai suoi
artigli” aveva risposto la principessa, voleva essere una
battuta ma non lo
sembrava in fin dei conti.
Forse, Alina cercava di sedurlo per poter andare via.
“Quando avevo quattordici anni, sono scappata fino al campo
di arruolamento più
vicino ed ho tentato, ma con la pace, l’esercito ha un regime
di arruolamento
più alto – se non sei grisha” aveva
spiegato Alina, ripassando il fucile a
Tatiana, “A diciotto anni ho intenzione di farlo, che venga
pure un drago a
riprendermi” aveva scherzato Alina.
“Se non ricordo male, tuo fratello non era più
giovane di te, quando è andato a
Kerch?” aveva chiesto Matthias, anche lui non poteva
allontanarsi troppo, da
bambino non capiva esattamente perché, d’adulto
immaginava fosse colpa della
sua faccia, che andava sempre rifinita, perché fosse in pari
con la sua
crescita. “Quindici anni di pura eccentricità, mio
cugino l’ambasciatore era
esasperato” aveva detto senza vergogna Tatiana, recuperando i
fucili. Questo
era stato inaspettato. Alina aveva ridacchiato: “Lo so,
Dominik può farsi mezzo
oceano, ubriacarsi quasi a morte e mia sorella può quasi
mandare a monte gli
Accordi di un continente, ma io non posso uscire dalla
proprietà del castello;
solo perché sono il Frutto dell’Autunno!”
aveva replicato lei.
Aveva
seguito Alina, senza chiedersi dove stessero andando, ma avevano
riattraversato
il Piccolo Palazzo. La principessa si era fermata solamente quando
avevano
attraversato un atrio, davanti una lunga scalinata a chioccia in marmo
lucido.
C’era un giovane uomo che stava leggendo un libro, sui
gradini. Non indossava
una kefta, ma una semplice camicia crema, con pantaloni scuri.
“Il Piccolo Palazzo è aperto a tutti?”
aveva chiesto Matthias, “Per lo più no.
Questo è il regno dei grisha ed il piccolo dominio di mia
sorella, ma essere la
tret’ya tsarevich ha i suoi
vantaggi” aveva cinguettato Alina,
voltandosi verso Lissa – era rimasta così in
silenzio che Matthias si era quasi
dimenticato fosse lì. La serva aveva ridacchiato,
probabilmente stavano
ricordando qualcosa.
L’uomo che leggeva aveva sollevato gli occhi verso di loro,
erano ardesia.
Poi, allora, Matthias aveva visto la ragazza che scendeva le scale. Una
kefta
rosso vermiglia, con decori grigio, era la stessa soldatessa che gli
aveva
accolti, si chiamava Mesha o Misha Effomic, con gli occhi caldi ed id i
capelli
arricciati, portava l’orecchino di osso ed argento grisha,
appeso al suo lobo.
Matthias poteva sentire vibrante il potere di un amplificatore.
“Sua altezza principessa Alina, sua altezza reale principe
Matthias Grimjor”
aveva detto la giovane posata, chinando il capo in una riverenza.
Matthias colto dall’impatto aveva fatto un inchino rigido, di
rimando la
principessa aveva boccheggiato appena, “Meesha, sei
tornata!” aveva squittito
poi, sbattendo gli occhi, c’era una frizzante allegria nella
voce della
principessa che si rifletteva nello scintillio degli occhi zaffiro. La
soldatessa aveva annuito, non prima di aver lanciato uno sguardo a
Lissa.
Alina non ci aveva badato ma Matthias sì, c’era
una vena di colpevolezza sul
viso dolce.
Forse Lissa lo aveva saputo prima.
“Sono rientrata per i festeggiamenti, sua altezza”
aveva detto con allegrezza,
avvicinandosi, “Sono, però, ancora di stanza
nell’ovest” aveva aggiunto con una
punta di incertezza e tristezza. Mattias aveva intravisto Lissa
pizzicare il
fianco della principessa.
Alina aveva sussultato ma non aveva perso la verve, “Mio
principe, puoi
scusarmi un momento, devo conversare con Mesh- il Luogotenente
Effimov” aveva
esclamato Alina, prendendo la mano della donna e trascinandola altrove,
lontana
dalle loro orecchie.
Dovevano conoscersi bene.
Matthias aveva guardato la giovane Vasilissa, interessato, notando che
la
giovane cameriera sembrava rigida e si stava mordendo un labbro, quasi
a
sangue, decisamente quella situazione doveva avere una situazione
più che
spinosa.
“Interessante, un principe abbandonato?” aveva
sentito una voce maschile,
suadente, si era voltato immediatamente riconoscendo che
l’uomo sulle scale si
era alzato verso di loro, era giovane, sembrava più giovane
di Matthias. Lissa
aveva sgranato gli occhi, “Io non credo sia …
regolare” aveva provato incerta.
“Io credo di poter sostenere una conversazione con
qualcuno” aveva spiegato
subito Matthias, immaginando che la ragazza dovesse agitarsi.
“Credo che il
problema di questa gentile fanciulla, sia che io non posso parlare con
te”
aveva detto l’uomo con un sorriso, “So, che
tecnicamente ci sono delle regole
di etichetta” aveva mormorato Matthias, durante le occasioni
di festa, gli
incontri ufficiosi, nessuno, con poche selezionate opinioni, poteva
parlare a
lui se prima non parlava lui. Era una cosa strana che lo faceva sempre
uscire
matto, tecnicamente neanche Stiorra poteva, o Bjorn, così si
assicurava sempre
di salutarli appena entrava in qualsiasi stanza.
In privato la dama di compagnia di sua madre non si faceva troppe
remore, ma in
pubblico cercava di essere una rispettabile donna fjerdiana e seguiva
tutta
l’etichetta. Una volta, un anno prima, avevano avuto un
banchetto per la
celebrazione dell’onomastico di un signore, dove Matthias era
stato soffocato
dalla verità, saputa poco tempo prima, ed aveva passato il
giorno intero gomito
a gomito con la giovane Stiorra.
La ragazza lo aveva guardato più volte frustrata, come se
avesse voluto dirgli
qualcosa ma non lo aveva fatto, e Matthias aveva visto la rabbia
cominciare a
salire negli occhi scuri, fino a che, giunti al dolce, il corpo di
Stiorra era
diventato troppo rumoroso per la sua scienza corporalki, da non poter
più
essere ignorato.
“Stiorra, devi dirmi qualcosa?”
le aveva chiesto, a bassa voce,
preoccupato. Prima la rabbia era divampata come l’incendio
alla chiesa dei
Sankti a nord di Avenfall e poi si era assopito, “Volevo
chiedervi se stavate
bene, vostra altezza reale” aveva detto alla fine,
rispettosa, “Sembravate
afflitto”.
Matthias era arrossito come un pomodoro quando aveva realizzato che
fino a che
lui non le avesse rivolto quella domanda, lei non aveva potuto parlare.
L’uomo
aveva riso, piano, aveva una risata meschina, gutturale, ma prima che
potesse
dire altro, un gruppo di risatine gli aveva distratti.
C’erano un gruppo di bambine grisha, con kefte rosse, blu e
viola, che si erano
avvicinate ridacchianti. “Oh, ha delle ammiratrici sua
altezza reale” aveva
detto l’uomo con una punta di divertimento. La più
grande non avrebbe potuto
avere più di dodici anni e la più piccola meno di
dieci. Una era spuntata tra
di loro come una faccia famigliare, aveva salutato con la mano e
Matthias aveva
replicato il gesto ingenuamente, notando che non era stato
l’unico anche l’uomo
aveva fatto la stessa cosa ed anche Lissa.
Matthias non aveva potuto più indugiare in quella
situazione, poiché la
principessa Alina era tornata, congedata dal Luogotenente. La grisha
era
rimasta ferma ad osservare la principessa allontanarsi.
“Purtroppo né io né
Lissa siam di casa qui, dovrai chiedere a mia sorella di farti da guida
qui”
aveva scherzato Alina, con estremamente forzata, “Ma posso
portarti nel luogo
più bello di tutta Ravka dopo
l’Agroverde” aveva detto la principessa genuina,
che
sembrava desiderosa di andare via da quel luogo. Matthias aveva
annuito,
osservando solo parzialmente l’uomo con la camicia, che con
l’arrivo della
principessa aveva deciso di occupare nuovamente la posizione sulle
scale.
La ragazzina con un aspetto famigliare era andate a parlare con lui.
Matthias aveva notato nuovamente che non indossasse kefte o altro, ma
aveva sui
pantaloni larghi, terminavano con foglie a tre punte rosso
d’acero, ricamate.
Un simbolo dell’Ordine di San Feliks!
Alina si era voltata verso Vasilissa, “Lo sai che Juris non
fa che parlare di
lei dopo il bisticcio che hanno avuto al laboratorio?” aveva
chiesto retorica.
Sembrava una cosa tenera.
Alina lo
aveva portato al Giardino, al famoso Giardino della Regina, che si
diceva fosse
stato progettato da suo marito, come dono di nozze. Un luogo che
Matthias aveva
sperato di vedere e non si era dichiarato per nulla deluso.
Il giardino pareva essere uscito da una fiaba. Un labirinto di piante,
fiori,
di ogni colore, di ogni tipo, che sopravvivevano alle intemperie, al
clima,
come se esistessero in una realtà sospesa nel tempo.
“Ogni pianta è il simbolo di un caro perso da mia
madre, almeno così era cominciata”
aveva considerato Alina, fermandosi a respirare dei fiori, Matthias non
sapeva
che fiori fossero, erano di una sfumatura violacea, puntinati di bianco
accesso, che ricordavano una rappresentazione di un cielo stellato e
l’aveva
invitato a fare lo stesso, l’odore era decisamente
più forte di qualsiasi fiore
avesse mai annusato, anche lì, doveva esserci scienza
grisha. “In seguito, ha
cominciato anche a piantare fiori per le nascite. Quelle sassigrafe
lì, tra le
rocce sono mio fratello” aveva scherzato, “Mia
madre aveva una pianta di qui
per tua madre, non chiedermi perché, ma pare che la abbia
spedita a Grisha per
il suo matrimonio.”
Matthias aveva annuito, “È felce, resiste anche
alle peggiori nevicate” aveva
riso lui, “Mio padre dice che è perfetta per
rappresentare mia madre:
indistruttibile.”
Alina aveva continuato per il sentiero erboso, “Ecco, quella
pianta di melo
sottile, sono io. C’è più di una
ragione per cui mi chiamano il Frutto
dell’Autunno e quel piccolo cespuglio di potentilla viola
lì è la nostra Lissa”
aveva detto, girandosi verso la serva.
Matthias aveva guardato il viso tondo coperto di rosso davanti da
quell’appunto,
però negli occhi castani della ragazza era brillata una
certa gioia davanti
quella concessione. Immaginava che dietro i loro ruoli sociali, Lissa
ed Alina
dovessero essere quasi amiche. “È una cosa molto
carina” aveva valutato
Matthias, rivolgendosi alla cameriera, lei non lo aveva guardato negli
occhi,
direttamente, aveva iridi scure come il guscio di una castagna,
“Lo devo alla
principessa” aveva miagolato. “Mia sorella ha
cominciato a piantare dei fiori
anche lei, così volevo qualcosa anche io” aveva
risposto con vigore la
principessa, con un sorriso allegro sulle labbra.
La principessa Alina aveva continuato la sua lunga camminata,
“Quel brutto
arbusto di Belledinotte sono per Sankta Alina, lei e mia madre hanno
militato
insieme durante la Guerra Civile. Una storia divertente: bisticciavano
parecchio per gli uomini.”
“Ah davvero?” aveva chiesto Matthias confuso,
“Sì, quando Genya si fa un o due
bicchierini di sherry racconta sempre un sacco di cose
divertenti” aveva risposto
Alina.
Matthias aveva aggrottato le sopracciglia, cercando di immaginare
l’altolocata
ed elegante regina-drago bisticciare come una ragazzina con la stoica e
ieratica figura delle litografie. Ricordava da qualche lezione del suo
istitutore che la Sankta della Faglia prima di sacrificarsi per
rischiarare la
sua patria era stata spesso vista con l’allora Principe.
Forse erano entrambe
state innamorate di Re Nikolai.
Con questi pensieri aveva perso un po’ del filo del discorso
della principessa.
Quella imperterrita aveva ripreso a spiegare le piante ed i nomi, che
Matthias
aveva seguito con una certa fatica, alcuni nomi gli erano noti, come
quello del
portentoso David Kostyk l’Inventore, che
era stato ucciso dai
bombardieri fjerdiani, quasi quarant’anni prima, altri le
erano completamente
estranei. “…mentre quelle splendide orchidea blu
che vedi lì è mia sorella Lilyiana,
le ha piantate mio padre il giorno stesso che è
nata” aveva detto con una punta
di acidità la principessa Alina, “Il giorno
più felice di Ravka. Mia madre a
letto e tutta Ravka in festa” aveva squittito, “Le
orchidee sono delicatissime
di solito, ma quelle sono praticamente resistenti a qualsiasi
cosa” aveva
aggiunto. “Deve essere bello avere dei fratelli”
aveva considerato Matthias,
non lo voleva dire ad alta voce, ma era stato fuori dal suo controllo,
lui non
aveva fratelli, aveva solo un cugino di quasi dieci anni più
grande di lui, con
cui avrebbe voluto avere un rapporto migliore, ma per tutta la vita la
gente lì
aveva sempre antagonizzati.
Prima della sua nascita, Bjorn era stato l’erede di Fjerda,
anche sopra al suo
stesso padre Hartfag; Matthias non si illudeva, non più
almeno, sul fatto
che suo cugino avesse ricevuto l’improvvisa
chiamata per servire Djel, proprio in concomitanza con i suoi primi
anni di
vita. Bjorn non era solo fjerdiano dalla punta dei capelli biondissimi
ai piedi
forti, era figlio di un principe, uno legittimo, e di una nobildonna,
non che
la gente, il popolo, sapesse la realtà, ma
Matthias sapeva la verità.
La principessa Alina si era morsa un labbro, aveva una bocca
piccola con
delle labbra rosa, “Sì è bello, ma,
ecco, solo Dominik ha dieci anni più di me”
aveva raccontato, “Se ne è andato che avevo sei
anni per l’università ed è
tornato, permanentemente che ne avevo quindici praticamente”
aveva raccontato.
Non aveva parlato della principessa ereditaria, ma Matthias si reputava
abbastanza intuitivo da immaginare perché: era una grisha,
doveva aver
frequentato il Piccolo Palazzo.
Oltre che avere quasi quindici anni in più di sua sorella,
Matthias conosceva
ragazze Fjerdiane dell’età della Principessa Lyana
che avevano figlie dell’età
della Principessa Alina.
“Capisco, ho un cugino, Bjorn, che ha seguito il seminario
come prete per tutta
la mia infanzia” aveva detto casualmente.
L’ultima volta che aveva visto Bjorn era stato dopo la morte
di suo zio,
Matthias non aveva detto nulla, perché non sapeva cosa fosse
il caso di dire o
meno. ‘Scusa credo che i miei genitori abbiano
organizzato la morte di tuo
padre, come probabilmente hanno fatto con quello del tuo vero zio
più di
trent’anni fa’ non suonava bene.
Aveva osservato suo padre posare le mani sulle spalle di Bjorn con
paterno
affetto e sua madre stringerlo come se fosse ancora un bambino e suo
cugino si
era fatto cullare da quella menzogna affamato di conforto.
Alina
aveva guidato per il percorso erboso fino ad uno spiazzale,
lì c’era un tavolo
di ferro perfettamente rifinito, dalla forma ovale con diverse sedie
attorno.
Un posto gradevole dove potersi rifugiare, calmo, lontano dalle
frenesie del
palazzo. C’erano diverse leccornie, che andavano da dolcetti
al burro, fino a
formaggio salato e prosciutti, sul tavolo, così come bricchi
di vetro piene di
succhi e quant’altro. C’era anche un samovar
– se Matthias ricordava il nome
correttamente – dalla forma a cratere, con una teiera posata
avanti.
Non erano soli nella radura, c’erano ben tre persone. Una era
Dominik, il drekiprins,
come lo chiamavano a Fjerda, l’arciduca di Uguvone, con gli
occhi blu
scintillanti. Era bello, i quadri che lo avevano dipinto, non rendevano
affatto
giustizia, nonostante Matthias avesse sentito – da quando si
erano allungate le
sue gambe – che fosse il ragazzo più bello del
mondo era difficile tenere
giustizia a qualcuno che era nato per davvero con quella faccia.
Però a
guastare l’aspetto innocente dato dai riccioli biondi,
Dominik possedeva un’espressione
quasi sinistra. Di solito aveva uno sorriso da
volpe, era famoso il sorriso
da volpe dell’arciduca –
un’eredità degli Opjer – ma in
quell’occasione sul
suo volto esisteva soltanto una nota di asperità.
Come sua sorella, i suoi splendidi riccioli biondi erano sprovvisti di
una
corona.
Improvvisamente Matthias aveva sentito il peso del suo anello di ferro
sulla
testa e la consapevolezza di sembrare assolutamente ridicolo.
Al suo fianco c’era una splendida donna, dalla pelle scura
come una mandorla ed
i ricci gonfi e neri, elegante e con gli occhi scintillanti di
divertimento.
“Oh!” aveva esclamato Alina, “Non ti
aspettavo qui, Dominik” aveva aggiunto,
rivolgendosi al fratello, “Io e Meri volevamo infastidire
mamma violando il suo
tempio di pace ma, lei ci ha sorpreso, andando a cavalcare con la Buona
Regina
Mila” aveva risposto suo fratello. “Non ho visto il
cielo oscurarsi” aveva
valutato Alina.
“E vedo che non è stata
l’unica” aveva canticchiato la giovane donna, che
doveva
essere Meri, con un forte accento zemeni, occhieggiandolo. Matthias si
era
sentito in fiamme davanti lo sguardo così sfacciato.
“Vi lasciamo spettegolare tra di voi in pace” aveva
considerato Alina, mettendosi
tra lui e Meri, come uno scudo; Lissa l’aveva imitata. Era
stato quasi tenero.
“Ma, no, no, potete rimanere” aveva detto Dominik,
“Dai a Vasilissa un po’ di
pace, probabilmente aveva di meglio da fare che reggere un candelabro
tutto il
giorno” aveva raccontato il principe, alzandosi in piedi,
“Come provare il
vestito per il suo debutto in società”. Matthias
si era sentito così pieno di
disagio davanti quell’affermazione. Lui e la principessa
Alina che sparavano ai
piattelli in riva al lago poteva essere considerato come un
corteggiamento?
“Lei mi onora, moy tsarevic”
aveva soffiato Lissa piena di imbarazzo
deviando lo sguardo del principe con una vergogna abissale.
“Ti conosco da quando eri bambina” aveva detto
accomodante Dominik, deviando
poi lo sguardo sulla sua sorellina, avevano lo stesso discreto naso
all’insù e
gli occhi grandi, del medesimo colore degli zaffiri.
“Inoltre, ho un certo
interesse per sua altezza reale il principe di Djerholm”
aveva detto Dominik,
voleva essere divertente ma c’era stata una morsa di
insofferenza nella sua
voce. “In quest’epoca di donne, è
interessante conoscere un altro principe”
aveva ridacchiato, ma non esisteva alcuna gioia.
“Come
è
andata la tua cavalcata?” aveva chiesto Matthias, togliendosi
la corona dalla
sua testa, per posarla sul letto di sua madre, sentiva la testa molto
più
leggera, come se fosse su una nuvola. Sua madre aveva cominciato a
sciogliere
le trecce con cui aveva stretto il crine, facendo ondeggiare i capelli
sulla
schiena, leggermente mossi per la costrizione. Il biondo slavato era un
po’ più
cupo, come se si fosse modificata un po’, forse lo aveva
fatto, forse aveva
cavalcato come Nina Zenik, il terrore dei Druskelle, anziché
Mila Jerdesten, la
buona regina consorte di Fjerda. “Volare è
un’esperienza magnifica” aveva
risosto sua madre, estasiata. “Pensavo fossi andata a
cavalcare” aveva guaito
Matthias, “Lo ero, ma non un cavallo. Dovrei chiedere a Zoya
di portarti una
volta” aveva risposto sua madre con estremo divertimento.
“No!” aveva risposto Matthias, immaginando di dover
cavalcare sulla schiena
della regina drago, quando era nella sua forma mostruosa da oscurare il
cielo,
“Non mi sembra adatto” aveva provato.
Sua madre aveva sorriso, “Come è andato, invece,
la tua giornata? Questa sera
ci sarà un ricevimento nella Sala delle Letture, per dare il
benvenuto alla
corte Shu, la regina Dalai è arrivata con molti
più cortigiani di noi; dopo
dodici anni di regno mi aspettavo un gioco meno da bambina”
aveva soffiato,
“Siamo passate a volo al loro fianco” aveva
considerato. Quella era una prova
di forza, Fjerda e Ravka come fronte unito.
I kaelish erano arrivati poco dopo di loro, gli zemeni erano previsti a
breve,
gli unici che non erano ancora arrivati – e che avrebbero
impiegato un po’ per
giungere – erano i kerchiani, ma qualche esponente delle
colonie del sud si era
già palesato. Se Matthias aveva capito qualcosa era che i
mercanti sarebbero
arrivati per ultimi, perché adoravano farsi attendere, il
principe non aveva
dubbi che il Re delle Cicatrici Nikolai avesse organizzato la festa di
inaugurazione dei Dieci Giorni di Ravka prima del
loro arrivo di
proposito.
Kerch aveva parteggiato per Fjerda durante il conflitto Ravkafjerdiano
e di
rimando Ravka aveva sostenuto Zemeni nella guerra commerciale contro
Kerch.
Sua madre stava smaniando per avere gli ambasciatori di quel posto
dimenticato
da Djel, scommetteva per la presenza dei Van Eck, Matthias aveva un
piacevole
ricordo di loro quando aveva cenato nella loro casa alla Gerlstrat,
quando
erano stati in viaggio a Ketterdam, un posto decisamente più
allegro
dell’ambasciata. Wylan con il sorriso calmo e gli occhi
limpidi, Jesper Fahey
che era scoppiettante come un fuoco, un po’assistente, un
po’ amante scandaloso
e po’ marito di Wylan ed in ultimo Juliana Van Eck, con i
capelli d’oro ed il
sorriso da lupo, il suo marito ancora più intrigante e loro
belle bambine:
Alysanne e Colmine. “Credo ci siano contrasti tra lei e la
principessa Lilyiana”
aveva considerato Matthias, “Contrasti non è di
sicuro il termine giusto,
comunque, non deviare la mia domanda, come è andata
oggi?” aveva chiesto sua
madre.
“La
mia
giornata è andata bene, la principessa è stata
molto carina, meno il principe.
Credo che volesse sapere qualcosa da me, mi ha fatto un sacco di
domande sulla
mia istruzione. Forse voleva solo vedere se fossi intellettualmente
dotato,
valutare se fossi all’altezza della sua sorellina”
aveva raccontato Matthias
sedendosi sul letto. La principessa Alina aveva cercato di rimproverare
in ogni
modo le domande incalzanti del principe, ma Matthias si era ritrovato
più volte
strozzato in gola.
Per anni aveva sentito parlare del fascino e della lingua argentina del
drekiprins,
ma Matthias non aveva visto né fascino né
sofismo, ma puro fuoco indagatore;
era rimasto scottato da quel martellante interrogatorio,
“Probabilmente sì”
aveva detto sua madre, ma c’era una certa incertezza nella
sua voce,
“Ovviamente Alina è una gemma preziosa, ma tu sei
il principe ereditario di
Fjerda e sei all’altezza di qualsiasi donna
sposerai” aveva stabilito sua madre
con calma, leccandosi poi il pollice ed usandolo per aggiustare un
sopracciglio
di Matthias.
“Sappiamo entrambi, mamma, che le cose sono più
complicate” aveva sussurrato
lui. Le domande del principe lo avevano fatto sentire nudo, anche con
la
corona, come se dietro i suoi occhi blu il principe avesse saputo la
precisa
verità. “Indagherò, Zoya ha un debole
per me, sono sempre stata la sua
preferita” aveva ridacchiato leziosa sua madre, sedendosi
accanto a lui sul
letto e intrecciando le loro dita assieme. “Mio padre
potrebbe non essere così
felice di questa vostra confidenza” aveva scherzato Matthias.
“Della principessa Alina cosa ne pensi, invece?”
aveva chiesto poi sua madre,
senza nascondere l’interessamento che era sorto in lei,
davanti quella
prospettiva, “Una giovane carina” aveva detto
incerto, “Chiacchiera molto”
aveva aggiunto. C’era stato un momento, prima del tiro al
piattello, in cui
aveva sentito un momento simpatico tra loro, ma
non era sicuro che Alina
catturasse il suo interesse. “Mi ha raccontato anche che
Jordan una volta si è
introdotto nella prigione di stato” aveva valutato, non aveva
voluto indagare
oltre, ma se avesse avuto l’occasione di parlare con il
capitano della Rusalys
avrebbe indagato meglio. “Degno figlio di suo padre, il
nostro Jordie. Sapevo
di questa storia, comunque, me la ha raccontato Inej, comunque
è molto positivo
che tu abbia trovato sintonia con la principessa” aveva
considerato sua madre,
con un sorriso troppo sbarazzino.
“Così,
effettivamente, qualcuno parlerà
alla corte” aveva detto per lei Matthias, “Tesoro
mio, puoi avere qualsiasi
sposa tu voglia. Alina è una splendida ragazza, e solo i
senje sanno quanto
comodo farebbe una sposa ravkiana; ma puoi sposare chiunque tu voglia,
sarebbe
ipocrita per me e tuo padre negartelo. Se vuoi Stiorra,
perché ti senti a tuo
aggio con lei va bene. Se vuoi Kraka Iseult con il suo sorriso
affascinante, va
bene uguale. Sarai un re ed è giusto che tu voglia una
regina di cui poterti
fidare. E Djel anche se tu volessi un bel giovanotto, renderei giuste
le nozze
omosessuali alla faccia di tutti quei vecchi caproni a
Djerholm” aveva detto
sua madre, accarezzandoli il viso con gentilezza, “Nessun re
dovrebbe governare
da solo, se tuo padre e Zoya hanno reso grandi i loro paesi era
perché avevano
me e Nikolai, solide spalle a cui potersi appoggiare.”
Lui le aveva sorriso, spostando il viso e baciando il palmo della mano
di sua
madre, “Probabilmente la principessa penserà che
mi faccio ritoccare il viso”
aveva dichiarato con estrema calma, ricordando che quella mattina Alina
era
entrata con Genya che teneva le mani sul suo viso. Matthias sapeva di
essere
bello, era una cosa che avevano sempre detto tutti, il bel principe di
Fjerda,
ma era stato giovane – e non stupido – quando aveva
capito che erano le mani di
suo padre a farlo così.
Quando aveva dieci anni aveva pensato che fosse dovuto al fatto che la
bellezza
ed un buon aspetto rassicuravano, non immaginava affatto che fosse solo
un di
più per nascondere una macchia nera e putrida.
Sua madre aveva ridacchiato, “In effetti sei troppo
bello” aveva detto
sua madre, tirandoli una guancia, come faceva quando era bambino,
“Anche se ti
sono sparite le guanciotte, con quelle eri irresistibile ...”
La vera domanda era se fosse o meno così, se davvero quel
naso fosse il suo
naso, quel mento il suo mento e quegli occhi i suoi occhi. Matthias
ricordava
da tutta la vita le mani di suo padre sul suo volto, le dita sotto gli
occhi, sul
naso, perfino i capelli. Quanto somigliava veramente al
ragazzo che
vedeva ogni giorno nel suo riflesso?
Voglio vedere il viso che avrei dovuto avere, il nome che mi
sarebbe
spettato e la vita che non vivrò mai, aveva
pensato.
“Voglio vedere la mia faccia, mor, la mia
vera faccia” aveva comunicato
alla fine Matthias.
“Capisco, fetla.”
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Capitolo 17 *** Malcom I (22 D.F.) ***
E come
sempre non ho idea di quando tornerò …
Avrei potuto chiedere a LarcheeX una canzone russa, ma:
https://www.youtube.com/watch?v=aOtqox2uB3Y
TW: Schiavismo,
prigionia, sperimentazione
umana, uso non consensuale di droghe, deumanizzazione, razzismo,
menzione di
morte e torture (tipo bruciare vivo qualcuno) e morte.
Un capitolo allegro sì.
MALCOM
Malcom non
conosceva Caitlyn.
Non sapeva niente di lei, neanche la più banale delle
nozioni.
La prima volta che l’aveva vista era stato due mesi e mezzo
prima.
Malcom era stato costretto a cedere ad un sonno indotto, da una polvere
che lo
avevano costretto a respirare di forza. Si era sentito prima stordito,
con la
testa che girava più di una vita, prima di sentire le gambe
farsi molli come il
budello e cadere per terra come un sasso, con la mente che si arenava
in
pensieri scomposti … e il buio.
Quando aveva riaperto gli occhi, era stato steso supino, con le mani ed
i piedi
arpionati ad una piattaforma di metallo.
Eccolo! Il giorno che mi vivisezioneranno!
Aveva pensato, quando per tutta la vita – per tutta
la sua dannata – vita
avevano cercato di farlo a pezzi.
Suo padre, suo fratello, suo zio, i suoi vicini.
Un piccolo pezzo di Malcom per avere la sua fortuna. Quale fortuna si
chiedeva
Malcom, mentre vedeva pezzi di sé scomparire. Si sarebbe
arreso prima se non
avesse avuto una piccola fiammella nel suo cuore, un sogno nella mente:
Ravka o
Novyi Zem. Peccato che ogni giorno che trascorreva si era fatto sempre
più
lontane.
E … poi erano arrivati quei folli.
Malcom pensava che la sua vita dovesse essere una presa in giro da
parte dei
Santi. Quando aveva deciso di abbandonare finalmente le Isole Erranti
alle
spalle e cercare di raggiungere Ravka, lungo la Rotta delle
Ossa; un
nome un presagio. Era un giorno d’estate e sotto il sole
luminoso che rendeva
le acque blu argentee, Malcom aveva ingenuamente pensato che quella
sarebbe
stata una buona giornata.
E del tutto ignorante di essersi imbarcato con gli schiavisti stessi.
Esisteva una persona più stupida di Malcom al mondo? Lui lo
dubitava.
E dopo gli
schiavisti, che avevano valutato quanto poco avrebbero potuto fare con
lui – ‘Rimane
un inferno?’, ‘Lo hai visto? Quale kerchiano lo
vorrà?’, ‘Allora o alle
coltivazioni a Sud o alla Spaccaossa?’ –
lo avevano venduto alla puttana
Shu dallo sguardo cattivo.
Che dalla prima volta a quella volta – inchiodata al tavolo
– lo aveva guardato
così: predatoria, cattiva e, a attenta. Mal aveva cercato di
muovere le dita,
aveva cercato il fuoco, ma senza pietra focaia, senza cerino o un
fiammifero
non era niente, era assolutamente inutile.
La donna lo aveva studiato, bramosa, prima di voltarsi verso il
fantasma.
Caitlyn era lì, indossava una tunica chiara, fino al
ginocchio, come quella che
sfoggiava lui. I capelli biondi corti poche dita sulla testa tonda e lo
sguardo
acquoso e distante.
“Vorrei che tu provassi con il suo naso” aveva
detto la dottoressa Shu. Catilyn
aveva fatto pochi passi verso di lui, “Se riuscirai a far
ricrescere la punta,
avrai una dose, se non lo farai, non ne avrai per venti
giorni” le aveva detto
ferma la donna, mentre la osservava.
Il viso di Caitlyn si era fatto pallido e bianco, pieno di terrore a
quella
possibilità, con le mani tremolante, come scossa dal vento
del nord, aveva
portato la mano sul suo viso, lo aveva sfiorato con i polpastrelli.
Malcom aveva sentito la pelle andare a fuoco, come se cento spilli si
fossero
conficcati sulla sua faccia, aveva urlato, come se qualcosa lo avesse
mangiato
vivo.
“Non … non posso far ricrescere la … carne”
era quasi soffocata Caitlyn.
“Puoi” aveva asserito la dottoressa Shu senza
battere ciglio, “Esisti anche
per questo” le aveva detto serafica.
Caitlyn ci aveva provato, con più intensità,
finché le sue membra erano state
colpite da tremori di ogni tipo ed il viso di Malcom era caduto in
un’agonia
senza fine.
“Basta! Basta!” aveva pianto nella sua lingua,
incapace di trattenersi, mentre
lacrime amarissime scivolavano sul suo viso.
Malcom non aveva mai saputo quale sensazione fosse il fuoco sulla
pelle, ma
doveva essere quello, il dolore era così atroce e virulento
che tutto quello
che desiderava era che finisse, non il dolore, la sua vita stessa.
Poi, improvvisamente, Caitlyn si era tirata via, come ustionata, con
così tanta
fretta da aver perso l’equilibrio ed essere caduta con un
urlo agghiacciante ed
il dolore sul viso di Malcom era diventato più gestibile,
come se mille
formiche camminassero sulla sua pelle. Fastidioso ma non più
aghi infuocati.
“Vedi” aveva detto la dottoressa Shu fredda come le
prime nevi dell’inverno,
“Adesso ha di nuovo una punta sul suo bel nasino”
aveva aggiunto.
“Soggetto cinquantanove sei stata brava” le aveva
detto, accarezzandole la
testa, come se fosse stato un cane, “Avrai la tua dose di
Jurda Parem questa
sera” aveva aggiunto, poi aveva rivolto lo sguardo a lui, “Soggetto
settantadue” aveva detto
guardandolo, “Tu presto sarai di nuovo tutto intero”
aveva considerato,
prima di puntare un dito sul dorso della sua mano, “Penso che
prima sarà il
caso di farti amputare un altro dito, riattaccare un dito è
una cosa semplice
per una grisha sotto parem, ma cinquantanove ha bisogno di
pratica” aveva
dichiarato spenta, “Se non riusciamo a far ricrescere la
carne delle tue dita
avrai bisogno di alcune nuove” aveva considerato la
dottoressa, “Tranquillo, ho
molte dita da darti … di carne e di acciaio” aveva
aggiunto.
Malcom aveva sentito il bisogno di vomitare.
Quella era
stata la prima volta che aveva visto Caitlyn, la seconda volta era
stata quella
sera stessa quando la ragazza gli aveva portato un bicchiere di acqua e
zucchero, prima che lo riportassero nella sua cella, per assicurarsi
che il
lavoro della corporalki non fosse solo un’ottima sartoria che
poteva essere
lavata velocemente. Aveva provato a parlarle in kaelish, non aveva
potuto
incontrare nessun altro prigioniero da quanto era salito sul mostro
marino, la
ragazza era arrossita sulla pelle pallida, per quanto fosse possibile,
visto
quanto fosse fiacca e distrutta.
“No parlo” aveva detto in kerchiano, per quanto
Malcom capisse quella lingua;
“Liberami” aveva detto Malcom con disperazione.
Lei si era morsa le labbra torturate da ferite e screpolature,
“Non so come”
aveva ammesso, piena di vergogna, “Ho provato … a
comandarli, ma … ma la … parem”
si era giustificata.
Malcom l’aveva odiata, aveva odiato lei, la sua dipendenza e
la potenza di
poteri che l’avrebbero resa una dea – aveva
ricreato la sua carne dove non
esisteva nulla – eppure si comportava come una schiava.
Ma in quel
momento non la odiava affatto; nonostante non la conoscesse bene era
disturbato
per lei.
Caitlyn sarebbe morta, nonostante tutte le premure dei tre ragazzi
ravkiani.
La riscaldavano, nutrivano e si curavano di lei, le raccontavano di
Nina Zenik
che era sopravvissuta alla parem, alla dipendenza e
alla
disintossicazione.
Ma Caitlyn non sarebbe sopravvissuta ugualmente, ogni giorno era sempre
più
pallida, stanca ed incapace. Riusciva a sospirare, a chiedere solo la
parem,
unico pensiero, non camminava se non tenuta sulle spalle di Hati e di
Anchel.
Anche Malcom avrebbe voluto portarla, ma era magro, stanco ed
arrabbiato.
Voleva dare fuoco allo shu, voleva vederlo bruciare come una fiaccola,
voleva
che Cait lo vedesse e raggiungesse i Santi con la consapevolezza che la
sua
morte non fosse rimasta impunita.
La materialki ravkiana lo aveva tenuto buono però, ripetendo
che fosse un
giusto ostaggio, per Anchel era meglio tenerlo in vita per mangiarlo se
non
avessero trovato cibo.
Questo non cambiava che Caitlyn sarebbe morta.
Elen le teneva, in maniera gentile, mentre chiedeva al suo amico Anchel
di
gestire il suo corpo con calma, per riuscire a gestire il battito della
ragazza
ed cercare di limitare il dolore.
La materialki aveva fabbricato una pomata da metterle sulle gengive con
la
jurda che avevano rubato, forse era un alkemi.
“Santi, schiavisti del cazzo, non esisteranno mai troppe Inej
Ghafa al mondo”
aveva detto la materialki, tirando un calcio ad un legno abbandonato
per terra.
Malcom lo sapeva bene. Lo avevano chiuso in una gabbia come un topo,
fatto a
pezzi e ricomposto come una bambola qualsiasi.
Cait aveva tossicchiato, “Non … rapita”
aveva sussurrato lei alla fine,
cercando di stringere la mano di Elen, per darsi conforto.
“Ti prego, no” aveva
sussurrato la ragazza suli con espressione piena di dolore, come se
sapesse già
ciò che stesse per avvenire, “Venduta?”
aveva chiesto Anchel, che le teneva una
mano sullo sterno, delicato. Cait aveva annuito, gli occhi grigi, senza
colore,
macchiati di lucide lacrime.
Malcom
aveva avuto una vertigine a quel pensiero. Venduta. Venduta.
Cait si era voluta sistemare in piedi, “Parem?”
aveva provato a chiedere, Hati
aveva guardato nuovamente Drina, aspettando quasi che le potesse
strappare quel
poco di parem che aveva in corpo, ma cominciava ad avere
un’espressione
languida, bisognosa, presto sarebbe stato male come lei.
Malcom era così arrabbiato che avrebbe voluto dar fuoco al
mondo.
E avrebbe cominciato da quello stupido mangia-riso, si era lanciato
verso di
lui, ma un movimento di Anchel lo aveva fermato, un dolore sordo al
ginocchio, “Non
ha senso, smettila” lo aveva rimproverato la materialki,
avvicinandosi e
mettendo una mano sulla spalla, infilandosi poi una mano nella bisaccia
che si
era fabbricata, “Mangia della carne secca” le aveva
detto.
“Non ho fame e non voglio la tua stupida carne”
aveva ringhiato Malcom, quando
il ginocchio aveva smesso di dolore, aveva tirato anche uno spintone a
Drina,
che aveva perso l’equilibrio candendo per terra ed urtando il
coccige sul
terreno duro. “Non ti accartoccio le ossa come una girella
solo perché sei
sconvolto” aveva detto lei, tirandosi indietro, per
raggiungere gli altri.
Malcom si era alzato frustrato, aveva colpito qualcos’altro,
tutto quello che
aveva trovato, lanciando sguardi di morte al ragazzo Shu, che se ne
stava in
disparte rispetto loro, con le braccia ancora legate dietro la schiena,
con le
manette d’osso.
“Tesoro,
riesce a mangiare qualcosa?” aveva sentito Elen chiedere
dolcemente, si era
voltato ed aveva spiato il fatto che Cait era seduta, con la schiena
curvata,
sostenuta unicamente da Hati, che le accarezzava i capelli come se
fosse stato
un cagnolino.
“No, io … voglio solo la parem” aveva
pianto, anche se non aveva più lacrime.
Hati aveva rivolto lo sguardo verso Deina, quasi supplichevole,
“Prendi altra
pasta, ti prego” aveva detto quest’ultima,
recuperando il suo piccolo
contenitore di jurda amalgamata.
Cait era riuscita ad aprire la bocca, poco, scoprendo i denti,
solamente
l’altra era riuscita a passarle la crema sulle gengive. La
healer si era
passata la lingua sulle gengive, con movimenti lenti e stanchi, gli
occhi erano
lucidissimi, ma tenuti aperti fino a mezza-palpebra.
“Voglio la parem … e voglio andare a
casa” aveva sussurrato Cait, con voce
spezzata, facendo ondulare la testa; Elen si era morsa un labbro ed
aveva
passato – salvifica – il polpastrello del pollice
sulla mano della ragazza
kerchiana per placarla, darle conforto, materna.
“Perché vuoi tornare in quel posto di merda, per
dio!” aveva ringhiato con
rabbia feroce Malcom, pensando che era stata venduta, non rapita da una
spiaggia, non presa di forza. Era stata venduta, qualcuno aveva deciso
di
sbarazzarsi di lei.
“Malcom smettila!” aveva strillato Elen, verso di
lui, raspante, vorace e
arrabbiata, “Siamo tutti disperati, non aiuti” lo
aveva rimproverato.
“La farebbe stare bene se uccidessi quel mostro” le
aveva detto.
“No” aveva pianto Cait, “Solo la
parem” le aveva detto, dopo si era forzata di
sorridere, “E sugo di granchio.”
Era sceso un silenzio denso, prima che una risata fiorisse sulle labbra
di
Hati, “Sul serio?” aveva chiesto quello divertito,
quasi. Cait aveva emesso un
verso, sembrava una risata, ma era troppo squittente e disperata per
esserlo
davvero, come se fosse stato l’ultimo lamento di un animale
ferito. “Vengo da Nijejem,
abbiamo solo sale e granchi” aveva ammesso.
C’era un po’ di dolcezza nella sua voce, nel fondo,
tra il dolore e la
disperazione. “Io vengo da Krokin-jin. Viene chiamata la
Città di Stoffa,
perché è composta per lo più da
baracche e case di fortuna” aveva provato Hati,
accarezzando ancora i capelli di Cait, con la dolcezza di un fratello
maggiore.
“Io sono nato a NovyRest, è una città
industriale, c’è l’acciaieria
più grande
di Novy Zem, ma io ero un grisha e volevo essere addestrato”
aveva ammesso
Anchel, complice, rivolgendo lo sguardo verso Elen, fraterno.
La ragazza aveva sorriso, senza lasciare la mano di Cait, “Io
sono nata ad Os
Alto” aveva detto piena di incertezza, “Non ho
davvero niente di cui
lamentarmi” aveva detto, piena di vergogna Elen.
“Io vengo da Keramzin, un posto piccolo come una lenticchia.
A sud di Ravka,
vicino a Dva Stolbe, sai, da dove viene Sankta Alina” aveva
parlato la
materialki, cercando di essere divertente, ma il suo tono era rigido
come
quello di una lastra di ghiaccia. Loro tre e le loro infanzie dolci,
nei
palazzi di Ravka con pandolci e latte di yak, o qualsiasi altra
sciocchezza la
ricchezza aveva da offrire loro. Malcom l’aveva guardata,
“Io vengo dalle
Scogliere Nere,
non è un posto piccolo, non è un posto morto, ma
è sicuramente un luogo
orribile dove vivere” aveva cominciato a raccontare lui,
“Con strade di
ciottoli, case di mattoni crudi ed un vento che ti schiaffeggia in
faccia. La
prima volta che ho dato fuoco a qualcosa, mio padre ha cominciato a
vendere
pezzi di me, sulla via delle spezie” aveva detto, arrabbiato,
bruciato.
Pensando al dolore.
‘Non preoccuparti bambino, solo un po’ di
dolore. Solo un po’ e poi stare
meglio’ ed era andata avanti così per
tempo immemore, così tanto che alla
fine, esausto aveva pensato di prendere il mare e si era infilato dagli
schiavisti. “Io sono di Chang’han, nella regione
dello Ji-Han” Malcom aveva
quasi perso la frase del ragazzo Shu, alla deriva nei suoi ricordi. Gli
occhi
gialli rivolti a loro, aveva sentito la rabbia montargli, il volere di
dare
fuoco al ragazzo ancora di più, perché lui non
c’entrava nulla, sarebbe dovuto
morire ma Elen lo aveva voluto salvare.
“Ci hanno preso sulla spiaggia, gli schiavisti. Ad Os Kervo,
ho convinto Anchel
e Drina a scappare dalla gita” aveva ammesso Elen con voce
rotta, guardando i
suoi amici. “Non è colpa tua, lo sai, vero. Ti
avremmo seguito in qualsiasi
caso” aveva detto Anchel, con un sorriso dolce sulle labbra.
Malcom poteva vederli, tre ragazzini allegri, pieni di vita, cresciuti
tra i
lussi e le gioie, che impattavano contro la crudeltà della
vita. Malcom li
guardava, Elen era magra ed emaciata, con i capelli arricciati, corti
sulla
nuca, chi sa come doveva essere vestita con una kefta
di qualche
materiale sofisticato ed i capelli lunghi, bella in salute e piena di
vita, doveva
essere uno spettacolo. “Leoni ha sempre detto che
nessuno poteva farmi mai
fare nulla che non volessi” aveva affermato Drina, stanca,
passandosi una mano
sulla calotta quasi rasata della testa, aveva ancora le punta delle
dita nere
dalle troppe fratture.
Cait aveva annuito, “Io … mi sono …
venduta” aveva detto dopo un lungo sospiro,
“Una grisha … healer … sapevo
… valore” aveva provato a dire, ma sembrava che
ogni parola le tagliasse la lingua e la gola.
Un paesino di granchi e sale senza futuro.
“Non sforzarti, cara” le aveva detto Elen materna,
“No” aveva risposto Cait con
una sicurezza così forte, che mal si sposava con un viso
esangue, “Voglio!”
aveva aggiunto, stringendo le nocche, ma la presa non era ferrea, mai
abbastanza.
L’avevano
guardata tutti quanti, “Orfana” aveva ripreso Cait,
“Con zia Jin, prozia
Jin e fratelli, Anton e Pyp. Pyp ha sette anni” aveva pianto
la ragazza di
Kerch.
Forse pensava al bambino che sapeva non avrebbe mai più
rivisto. “A Nijejem …
nessun futuro. Ho-o chiesto a … Anton di venire con me. Ci
sono … sempre … loro
a Nijejem, non rapiscono bimbi, ma li comprano. So di essere
… carina. E non
potevo, n-non pot-evo … arrivare a Ketter-dam”
aveva fatto una pausa, ogni
parola sembrava causarle dolore, ma non voleva smettere di parlare,
“Grisha e
carina … ho fatto dare ad-d Anton cento … krughe.
Sono tantissime, cento
krughe. Pensavo … sarei finita in qualche casa di piacere,
con … u-un
contratto, anche se … altissimo” aveva sospirato.
“Avrei potuto ancora
mandare soldi a casa” aveva sospirato, con lacrime
brucianti che tagliavano
le guance maniche.
Non era andata così, non era finita una schifosa casa di
piacere, ma lì, nel
bel mezzo del nulla, al freddo, dopo essere stata torturata per
esperimenti.
“Lo-lo ho fatto … a me” aveva pianto
Cait.
Lo-ho-fatto-a-me.
“No, vaffanculo!” aveva strillato Malcom,
“La fame e la disperazione lo hanno
fatto, quella puttana sadica Shu lo ha fatto” aveva gridato,
senza controllo.
Anche lui aveva preso la Via delle Ossa, certo di poter morire, di
poter essere
preso dagli schiavisti, con l’unica idea di una
possibilità, di un giorno.
Drina
aveva ripreso la marcia, tenendo Cait per una spalla, mentre Anchel la
sosteneva per l’altra, ma la loro camminata non era durata
molto, la ragazza
aveva supplicato, quasi miagolato di fermarsi ancora, con il freddo
della notte
era stata costretta.
Avevano trovato riposo sotto un albero, Malcom aveva impiegato
più tempo di
quanto avesse voluto per accendere un piccolo fuoco controllato; senza
pietra
focaia o altro di utile, era completamente inutile.
Ma visi stanchi e smussati di tutti lo avevano spinto a continuare, a
lavorare,
fino a che non aveva sentito anche la sua pelle strapparsi.
Drina lo aveva aiutato: ‘So che lo fai di getto, che
lo hai sempre fatto di
getto, ma esistono altri modi’
aveva detto la ragazza prendendoli le
mani.
Dita storte e fredde, come la neve, ‘So che con la
pietra focaia è più
facile o con una fiamma naturale, ma ricordati che è solo
questione di materia.
Gli inferni sono i più sensibili e non hanno bisogno di
altro, devi richiamare
a te tutte quelle piccole parti che ti permettono di accendere alla
scintilla.
Devi concentrarle e sentirle, dall’aria, dalla terra, dalla
pietra, se non
riesci ad estrarle ti aiuterò io” aveva
ammesso lei calma e misurata.
Stava prendendo da sé stesso, non era piccola scienza, era
la maledizione.
L’acqua
non era difficile da procurare, con la neve, ma la carne secca che
avevano
preso non sarebbe durata ancora e con la rigidità della
notte anche i loro
vestiti avevano cominciato a farsi più leggeri.
“Ci servono delle pellicce”
aveva detto Elen, mentre continuava a far passare una mano sulle
braccia, lungo
le maniche di cotone, “Potremmo provare ad affrontare un
orso, siamo grisha”
aveva detto Anchel, avvolgendo le braccia attorno a Cait, per
riscaldarla, era
bianca come un lenzuolo, come la polvere e la morte, con le guance
incavate e
gli occhi liquidi ma senza più lacrime.
Ma se Elen non avesse tirato via l’aria direttamente dal
corpo di quella donna,
Malcom avrebbe voluto bruciare quella puttana personalmente, aveva dato
fuoco a
quell’ammasso di ferro, usando tutto il loro gas, tutto il
fuoco nei camini per
il motore a vapore, ma saperlo spezzato e distrutto nel fondo del mare
vero non
era abbastanza. Malcom voleva che tutto il mondo bruciasse.
“Puoi
… cantare
una… canzone?” la voce di Cait era sottile, come
del vetro raschiato, gli occhi
blu obnubilati, non riusciva neanche più a sollevare le
palpebre, ma la
stanchezza e la disperazione avevano vinto anche sulla fame di parem.
“Mi piac-ce” aveva sussurrato ancora, quasi
disperata.
Elen si era seduta al fianco di Cait, le aveva preso una mano con
ambedue le
sue, aveva soffiato, probabilmente area scottante, anche Malcom avrebbe
dovuto
presentarsi, prenderle la mano e darle il calore di cui aveva bisogno,
avrebbe
anche dovuto cantare ma aveva una voce aspra e fastidiosa come una
campana
stonata. Drina si era avvicinata a lei, mettendolo le mani sulle
guance, “Ho
una voce … non … c’è una canzone
stupida” nel farlo aveva guardato
Anchel.
“Stu-pida, be-ne” aveva concesso Cait.
Nella
steppa sconfinata,
A
quaranta sottozero,
Se ne
infischiano del gelo
I
soldati dello Tsar.
Aveva
cominciato a cantare Drina con una voce dolce, non molto intonata, ma a
modo
suo delicata, mentre con gli occhi raggiungeva i suoi amici. Anchel si
era
unito subito dopo, con una certa perentoria, più dura e
severa di Drina. Malcom
non capiva le parole, era Ravkiano,
qualcosa riusciva ad apparire nella sua mente, aveva sentito la lingua
del sol
levante diverse volte, non abbastanza da conoscerla ovviamente, ma era
in grado
di recepire alcune parole.
Dal tono sembrava proprio una canzonetta stupida.
“Col
colbacco e gli stivali,
Camminando
tutti in fila,
Con la
neve a mezza gamba,
Vanno
verso il fiume”
Avevano
cantato entrambi, Cait aveva quasi riso. Hati si era aggiunto, non
cantava, ma
seguiva il ritorno con un fischiettare, piuttosto armonico, gli occhi
del
ragazzo erano pieni di dolore, poiché vedeva con orrore il
futuro.
Ma il
nobile Demidov
Sbuffa,
sbuffa, e dopo un po'
Gli si
affonda lo stivale
Nella
neve e resta lì.
Ma il
nobile Demidov
Del ravkiano
che cos'ha?
Ha il
colbacco e gli stivali,
Ma non
possono bastar.
La la
la la, la la la la
La la
la la, la la la...
La la
la la, la la la la
La la
la la, la la la...
Elen aveva
ceduto e si era unita alla canzone, ma i suoi occhi, erano cupi, vuoti
e
lacrime amare le bagnavano le guance, ma aveva cantato quella stupida
canzonetta.
Malcom si era avvicinato, non conosceva le parole ma aveva seguito Hati
ed
aveva imitato il ritornello, veloce, senza fischi, con solo la voce.
I
ravkiani lunghi e fieri,
Con
i baffi volti in su,
Nella
neve vanno alteri,
Ma
Demidov
non c'è
più.
È
rimasto senza fiato,
Sulla
pancia accovacciato,
Che
ravkiano sfortunato
Questo
povero Demidov.
Ma
Demidov
Non
si arrende e dopo un po'
Scivolando
sulla pancia
Fila
verso il fiume.
Hei
Demidov,
Così
proprio non si può,
Non
cammina in questo modo
Un
soldato dello Tsar.
La
la la la, la la la la
La
la la la, la la la...
La
la la la, la la la la
La
la la la, la la la...
Cait aveva
provato a cantare, ma la sua voce era così vuota e sorda,
come se le fosse
mancata l’aria dai polmoni, non conosceva le parole ma ci
aveva provato ugualmente,
con dolcezza, era una bella canzone, una stupidissima canzonetta, che
Malcom
immaginava vedere i piccoli bambini profumati e puliti del Piccolo
Palazzo, che
canticchiavano allegri, probabilmente privi delle raccapriccianti paure
con cui
Malcom e Cait avevano dovuto imparare a convivere.
Bambini felici che cantavano canzoni felici.
I ravkiani
sono stanchi,
Non si
vede il fiume,
Con i
baffi congelati
Più
non
vogliono marciar.
E Malcom
vedeva la stanchezza albergare sul viso di Cait, ma aveva comunque
sorriso,
come se fosse stata rincuorata, come se fosse stata quasi felice.
Ma cantavano tutti, tutti. Per un momento, un solo momento Cait non
stava
morendo, Hati non avrebbe sofferto malevolmente i dolori
dell’assuefazione che
lo avrebbero ridotto alla follia. Loro non soffriranno il male, il
dolore, la
fame ed il freddo che li aspetta.
Non erano ragazzini catturati, svenduti e torturati.
E che sarebbero morti, tutti.
L’unico che non aveva cantato era stato il pazzo Shu, che era
rimasto in disparte,
con i polsi legati sulla schiena, con lo sguardo insofferente, aveva
detto che
non avrebbe chiesto scusa, eppure c’era quasi vergogna sul
suo viso.
Non era abbastanza, Malcom desiderava bruciarlo, sciogliere la sua
faccia, far
esplodere i suoi occhi e carbonizzare le sue ossa, il desiderio
ribolliva in
lui come fuoco, ma non aveva fatto altro che guardarlo,
perché la canzone
stupida e stucchevole di Drina riempiva l’aria.
Nella
steppa sconfinata
A
quaranta sottozero
Sono
fermi in mezzo al gelo
I soldati
dello Tsar.
Ma Demidov
Così
tondo che farà?
Rotolando
nella neve
Fino al
fiume arriverà.
Ma Demidov
Così
tondo che farà?
Rotolando
nella neve
Fino al
fiume arriverà.
Un sorriso
era sorto sulle labbra di Drina sull’ultimo là
allegro, era come se avesse
dimenticato per un momento in che situazione fossero infilati. Malcom
aveva
decifrato il testo: un gruppo di uomini adulti grandi e grossi che
rimaneva
bloccato nella fredda tundra e il più improbabile di loro
ritrovava la strada
di casa. Cattivo gusto.
“Chi è Demidov?” aveva chiesto Cait, era
una domanda strana, una domanda
stupida.
“Un pretendente al trono di Ravka, con più amore
per il kvas che per la
politica” aveva risposto Elen, Cait aveva sorriso,
“E … sta … bene?” aveva
chiesto, con gli occhi blu schiusi verso il mondo.
Malcom voleva urlare per quelle domande così stupide.
“Sì, sì, sta bene” aveva
detto Drina con dolcezza, parlava il kerchiano come
una persona con il fango nella bocca, ma dove non aiutava
l’accento, aiutava la
grammatica.
“Nina Zenik … invece?” aveva chiesto poi
Cait, Malcom ricordava che Drina lo
aveva raccontato i primi giorni, della grisha sopravvissuta alla jurda.
Era
stata Elen a parlare, “Ha trovato un brav’uomo,
fjerdiano, si è sposata e credo
sia felice” aveva raccontato, “L’altro
anno ha avuto un bambino”.
Forse era una menzogna, forse no.
A Malcom sembrava una menzogna.
Ma sembrava anche bello.
Quando era
sorta l’alba, con raggi rosati avevano passato le fronde
degli alberi, Cait
non c’era più.
Malcom aveva avuto la nausea, aveva vomitato ed Anchel lo aveva
aiutato,
prendendo il controllo del suo corpo per riuscire a gestire meglio la
sua
nausea e la sua insofferenza, ma Malcom aveva trovato quella sensazione
formicolante, invasiva, come era stata la mano di Cait sul suo viso.
Aveva
tirato una gomitata ad Anchel per allontanarlo e si era toccato la
punta del
naso.
Era rimasto, con la morte della giovane Cait il suo naso era rimasto,
comunque,
la sua carne era ricresciuta, dove non esisteva nulla, dove era stato
tagliato
da suo cugino, per essere venduto come reliquia, in quel momento era di
nuovo
completo.
Qualcosa di lei era sopravvissuto a lei stessa.
Aveva arrancato verso la ragazzina, verso il suo corpo, un
viso bianco,
pallido e morto, con un sorriso quasi timido sulle labbra e le palpebre
serrate, più addormentata, ma finalmente in pace.
“Go
ndéana na naoimh go léir tú a
chosaint, ná déan dearmad ar d'anam
bás a fháil”
aveva sussurrato nel suo
orecchio, prendendole le mani, ancora morbide, ancora calde.
Nessuno gli aveva detto niente, erano rimasti lì, immobili,
accerchiati come
statue di sale davanti ad una salma.
Elen si era chinata davanti a lui, con un’espressione triste,
facendo scivolare
il pollice sulla guancia tonda di Cait, “Hai qualche santo
per lei?” aveva
domandato. Elen si era morsa un labbro, ma era stato Anchel a farsi
avanti,
raccogliendo con le mani a coppa le guance di Cait,
“Raccomando la sua anima a
Sankta Marghareta dei bambini persi” aveva sussurrato con
gentilezza il
corporalki, Malcom trovava adeguato, Cait sembrava assolutamente una
bambina
persa, “Era una santa kerchiana” aveva aggiunto
Elen.
Allora, se mi senti, Sankta Marghareta prenditi cura della sua
anima, aveva
pensato lui, con le lacrime bruciati sulle guance, o
verrò a dare fuoco al
tuo culo, Sankta o meno.
Non la conosceva, non la conosceva neanche.
Ma avrebbe vissuto per lei, fintanto che fosse
stato vivo, anche una
parte di Cait lo sarebbe stata.
“Dovremmo … dovremmo bruciarla” aveva
sussurrato Elen, allungando una mano
gentile per disgregare i nodi nei capelli biondi e fragili, in qualche
modo
materna, aveva rivolto lo sguardo verso Malcom, lui aveva annuito,
nervoso.
Avrebbe preso da se quello che serviva se l’aria non avesse
collaborato. “Sì …
è così che si fa a Kerch” aveva
considerato Hati, la sua voce era stanca.
Non era ancora riuscito ad evocare le scintille, ma avrebbe potuto
farlo
meglio. Avrebbe potuto essere più capace. Perché
doveva trovare un modo, lo
avrebbe fatto per Cait, per quel suo naso e per quella suo disperato
saluto,
perché si era venduta ed era morta lì, nel bel
mezzo delle lande fjerdane.
“No” aveva sentito una voce, aveva voltato lo
sguardo, rapace, verso il
dannatissimo Shu, che non aveva il coraggio di guardarlo, “A
Kerch, bruciano i
corpi sulle chiatte, nessuno può essere seppellito nei
confini della città.
Solo i ricchi a Ketterdam, che possedevano un loculo
all’isola del Velo Nero, o
appena fuori le mura delle città” aveva
raccontato; “Ma a Kerch, i poveri
vengono buttati su una chiatta e scaricati in un
inceneritore.”
“Cosa c’entra?” aveva abbaiato Malcom.
Cosa voleva?
“Sta dicendo di seppellirla, come accadrebbe ai ricchi
mercanti” aveva
considerato Elen, con ancora le mani intrecciate tra i capelli biondi
senza
colore.
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Capitolo 18 *** IOREN II (28 D.F.) ***
So che
sono tornata relativamente presto ma ho due annunci importanti da fare
uno
sopra ed uno sotto. L’annuncio sopra potete anche non
leggerlo, ma spiega perché
sparirò, a livello personale, quello di sotto fa lo stesso
ma a livello
narrativo.
Bene:
Ho finito le mie finte ferie e sto ricominciando a lavorare, quindi, il
mio
tempo si sta drasticamente riducendo, inoltre, vorrei provare a
“cambiare”
lavoro, circa. E potrei avere ancora meno tempo. Perciò,
ecco, non ho avuto
modo di mettermi davanti con i consueti capitoli che ho di solito e non
ho
molto tempo per scrivere, perciò si, ecco, ci vediamo tra un
bel po’.
Un grazie
di cuore ad Amnesia_the_crazy_cat!
IOREN
(28 anni dalla
Dissoluzione della
Faglia)
Ioren aveva
guardato
con fame e preoccupazione la lettera che aveva
ricevuto quella mattina.
L’ambasciatore
gliela
aveva consegnata già aperta, tutto
ciò che passava per l’Ambasciata
passava sotto il suo sguardo, non importava che il sigillo fosse quello
dei
Grimjer, erano così le regole.
La cera lacca blu – e non rossa, significava non appartenente
direttamente al
Re o alla Regina, i quali prediligevano il colore del sangue
– era stata
spezzata, ma Ioren, strizzando gli occhi, riusciva ancora a distinguere
il
sigillo che c’era sopra: la testa di un isenulf con la bocca
chiusa, affiancata
all’albero di Djel … era una missiva del
principe Bjorn.
Il principe
aveva
creato un sigillo personale, l’albero di Djel di suo zio Re
Egmond e l’isenulf
del principino. Bjorn puntava sempre a scottare, anche se era meschino
nel
farlo. Aveva reclamato per se, assieme, i due simboli del re e del suo
erede e
Ioren ricordava si fosse giustificato appellando alla sua devozione per
Djel e il
rispetto per i nobili lupi di Fjerda.
Ioren sentiva
le
vertigini per quella lettera, che aveva nascosto dentro i suoi appunti,
tra le
pagine del suo taccuino sulle lezioni di etica filosofica.
Non era
riuscito a
rimanere all’ambasciata, così aveva preferito
sfogare le sue insoddisfazioni al
Caffè, nel quartiere universitario, dove usualmente sentiva
la tranquillità
pervaderlo, ma non era il giorno giusto. Nonostante la lettera fosse al
sicuro,
bruciava incandescente sul suo petto.
Aveva girato
il suo
caffè lungo con il cucchino, con espressione affranta,
ponderando di chiedere
che fosse corretto con qualcosa, mentre osservava con la coda
dell’occhio il
bancone. Magnus Dyk era lì, alto e biondo come voleva
Fjerda, scambiare
chiacchiere dolci con una cameriera che rideva ad ogni sua parola con
eccessivo
divertimento. Avrebbero dovuto essere amici, ovviamente, era il cugino
di
Dominik, era il fratello di Ilsebelle Lingua Lunga e passava molto
tempo con
Jordie, ma non era così. Bridget aveva una vistosa
infatuazione per lui, al
punto da divenire rossa come una mela ogni volta che lo vedeva
passeggiare per
i corridoi della cittadella. In realtà se Ioren era
diventato amico di Jordan e
Dominik, lo doveva principalmente all’infatuazione di Bridget
per Magnus, visto
che la giovane l’aveva costretto a socializzare con loro,
animata dal suo
fervore. Ioren ricordava quel giorno con una certa dolcezza.
Però,
lui e Magnus non
riuscivano a ritmare allo stesso modo, si salutavano cortesemente
quando si
incontravano e quando i loro amici si riunivano i due riuscivano ad
avere anche
piacevoli e fredde conversazioni, se si escludeva quella volte alla
terza notte
Roennigsdjel al quartiere Fjerdiano. Era stato interessante vedere un
Magnus
nostalgico di una terra che a malapena conosceva, era un ragazzo di
Kerch, come
Jordan, ma si sentiva così legato ad una patria da cui la
sua famiglia era
stata esiliata. In qualche modo si era sentito vicino a lui.
Però Ioren
sapeva, con tranquillità, che Magnus, se lo avesse visto, lo
avrebbe solamente
salutato e poi avrebbe occupato un altro posto, per bere il suo
caffè – macchiato
con la crema– in pace ed in solitaria.
Questo
scenario però aveva
non aveva tenuto conto dell’espansiva presenza di Dominik,
che era entrato nel
locale, con una scampanellata allegra della porta, vestiva come un
mercante,
con tanto di cappello dalla forma di fedora, di un nero lucido che lo
faceva
apparire distinto, l’illusione era rotta solamente da una
redingote rosso
sangue, su cui erano ricamati lunghi draghi a motivi a spirale sui
polsini e
sul bavero.
Ioren non lo vedeva
dalla notte prima,
dopo la lunga conferenza sulle Ancore Kaelishane, nel quartiere del
Mercato,
dopo essere stati incastrati da Jordie – che di rimando si
era concesso un
viaggio appassionato con Drina.
Dominik era stato di malumore per la trappola del giovane Ghafa e Ioren
anche
più nervoso. Non ne capiva niente di navi, di barche, di
ancore; era stato
straziante passare la giornata incastrato tra Magnus e Dominik
infervorati da
quel discorso, quasi appassionati.
L’unica
punta di
interesse della giornata era stata nel manifestarsi della giovane
Juliana Van
Eck con una camicia giallo paglierino e le bretelle rosse che la
tagliavano,
così vistosa e ruggente. Ioren aveva avuto il terrore che
sarebbe venuta
assieme alla bellissima Merissa Nassau, la principessa della Jurda,
perché non
avrebbe potuto sopportare di vedere Dominik guardarsi languido con una
ragazzina tutta ricci e sorrisini.
Juliana però era in compagnia della letale Ilsebelle, ben
vestita come una
signora per bene, che avevano salutato i giovani, prima di prendere
posto in
tutt’altro lato della sala. Erano una strana combo loro due,
Juliana era minuta
con i ricci capelli biondi, con indosso sempre le braghe larghe, le
giacche a
quadri con le tinte improbabili come viola e verde, mentre Ilsebelle
alta ed
affusolata, con i lisci cappelli nera, era sempre elegante, con le
gonne a
sbuffo e le scollature a barca. Uno strano duo.
“Chi
è il rosso con
loro?” aveva chiesto Magnus all’orecchio di
Dominik, ammiccando nella direzione
di sua sorella e dell’altra ragazza, anche Ioren aveva
seguito la linea dello
sguardo.
Ilsebelle
faceva
oscillare un ventaglio con delicatezza verso il viso, interessata
davvero agli
interventi degli oratori, ma Juliana con i capelli oro-ardente,
sussurrava
qualcosa nell’orecchio di un giovane uomo alto e con il crine
rosso e una bella
faccia lentigginosa da kaelish. “Non so, dovrò
cominciare a parlare … anche con
lei” aveva considerato Dominik.
“Non
puoi essere geloso
di tutte le donne della sua vita” aveva ammesso con calma,
quasi con freddezza
Ioren, “Non sono geloso” aveva risposto Dominik
netto, “Juliana può cavarsela
con chiunque, temo più il suo sventurato compagno.”
“E
con Drina?” aveva
chiesto Ioren, pensando all’espressione tradita che aveva
avuto il suo amico,
quando l’aveva vista sparire nella banchina della stazione
con Jordan,
“Fraintendi. Mi preoccupo per Jordan” aveva detto,
“Drina è la migliore amica
di mia sorella, sono fatte della stessa pasta” lasciando
quella frase aleggiante,
“Freddi mostri con artigli affilati?” aveva
proposto Magnus, come una battuta. Dominik
lo aveva ignorato: “E Jordie piange fingere di essere
l’uomo di ghiaccio, ma ha
un cuore grande e privo di autoconservazione”.
Dominik si era
rivolto
verso di lui, quando lo aveva visto seduto al tavolo. “Ieri
sera sei fuggito
velocemente” aveva considerato il principe, raggiungendolo,
dopo la conferenza
si erano fermati nel quartieri del Barile, un po’ per
giocare, per parsimonia e
per bere in pace, dopo due cicchetti di rum, Ioren aveva abbandonato la
festa
per rincasare all’ambasciata. Con l’immagine di
Dominik che ondeggiava
divertito vicino al tavolo del Birch assieme alla sua bella principessa
della
Jurda – che gli aveva raggiunti al locale.
Una principessa per un principe. Una principessa donna, con la vita di
vespa,
la pelle di tek, il viso bello e capelli lucidi e pieni¸
vestita di fronzoli e
colori, che avevano fatto sentire Ioren così pallido ed
insulso.
“Ero stanco e dovevo studiare. Non so te, prins dreki, ma io
ho una laurea da
prendere” aveva commentato.
“Come potrei dimenticarlo? Sei l’unica persona che
va nella Biblioteca della
facoltà di filosofia a studiare” aveva replicato
Dominik, spostando una sedia
ed accomodandosi accanto a lui. Ioren non aveva potuto evitare di
trattenere un
sorriso, pensando a quel particolare luogo e al nome che, nel corso
degli anni,
si era procurato. “Sicuramente ci provo” aveva
commentato, ricordando che
l’ultima volta che aveva occupato un posto in quelle aule
studio, era finito
schiacciato contro la sezione di saggistica ad esplorare la bocca di
Dominik
con la sua lingua e altro.
Dominik aveva
sorriso,
un sorriso bello, con le guance ambrate piene di rosso e di vita e gli
occhi
languidi, perché forse aveva ricordato la medesima memoria.
“Hai avuto notizie
da Jordie?” aveva chiesto, per cambiare argomento, svelto.
Dominik era stato risvegliato bruscamente da quella notizia,
“No. A quanto pare
Drina ha detto a Kos che il posto dove dovevano andare è
tipo nel nulla, non
credo abbiano trovato un telegrafo” aveva ammesso,
“Non penso che lo abbiano
cercato” aveva aggiunto più cupo.
“Ho
l’impressione che
quella ragazza non divorerà il cuore di Jordie”
aveva cercato di rassicurarlo
Ioren, non capiva personalmente le preoccupazioni di Dominik.
Concordava nel
dire che il loro amico fosse più fumo che arrosto con il suo
atteggiamento
algido, ma non era del tutto sprovveduto. “Inoltre, da che ho
conosciuto Jordan,
questa è la prima volta che lo vedo colpito da
qualcuno” aveva considerato.
Jordie era rimasto stoico ed immutabile anche davanti il fascino
naturale e
magnetico di Dominik, che aveva completamente annichilito Ioren.
“Sono
preoccupato lo stesso, forse a Jordie farà bene …
lasciarsi andare un po’, ma
Drina, ecco, è Drina …” aveva provato
il principe lasciando sfumare la frase
per un momento, “A Ravka aveva un mezzo fidanzato, anzi forse
più di uno … non
lo so, vorrei dirti che i grisha del Piccolo Palazzo sono un mondo a
se, ma in
realtà mia sorella e la sua compagnia sono proprio una
realtà diversa, una
molto esclusiva” aveva ammesso leggermente turbato.
“Dominik è normale, i
fratelli maggiori adorano non avere i fratellini minori girare attorno
a loro e
i loro amici, posso assicurartelo o tre fratelli maggiori ed una
sorella” aveva
ricordato Ioren, pensando alla sua aligida famiglia.
Dominik aveva
annuito, con
lo sguardo peso e poi senza vergogna aveva allungato la mano per rubare
l’avanzo
del suo caffè nero.
“Ti
piacerebbe venire a
pranzare con me?” aveva chiesto il principe cambiando
bruscamente argomento ed ignorando
il suo sguardo indignato per quel furto ingiustificato. Ioren sapeva di
dover
dire di no, sarebbe stato quanto mai meglio, per lui, per il principe.
“Basta
che non sia a Piccola Ravka, un uomo può sopportare una
certa dose di Bosch
nella sua vita” aveva ceduto, perché non poteva
nulla contro gli occhi di
Dominik, “Oh, Ioren, così mi spezzi il cuore e lo
spezzi anche alla signora
Pavlina” aveva detto melodrammatico,
“Però hai ragione, molto meglio le uova di
pesce ed il baccalà” lo aveva presto spietatamente
in giro.
“Dominik, l’amore che provo per te è
nullo rispetto quello per il baccalà
fritto” aveva risposto di getto Ioren, giocoso, prima di
realizzare la portata
delle parole che aveva usato.
Anche Dominik
aveva
impiegato un momento di troppo nel realizzare le sue parole, la sua
risata
fresca si era ammorbidita a metà ed un’espressione
ambigua era sorta sul viso,
prima che gli occhi azzurri si riempissero di contentezza, le labbra
curvate in
un sorriso e le gote rosse sul viso. Felice.
Ioren era
stato certo
che le sue gote fossero più rosse di un paio di melette
mature.
Magnus si era
avvicinato a loro, tenendo tra le mani una tazza di cioccolata calda
fumante – stranamente
non il solito caffè macchiato, “Come va,
ragazzi?” aveva chiesto con un certo
divertimento, “Va piuttosto male” aveva replicato
Ioren, “Hai letto il Krant?”
aveva domandato retorico, “Oh, sì. Certo, uno
schifo” aveva ammesso con una
voce piuttosto annoiata, “Ammetto che potrei aver un
po’ trascurato i miei
doveri universitarie di questi tempi. Cosa è
successo?” aveva invece chiesto
Dominik con un certo interesse, prima che la conversazione scivolasse
in temi
comuni, temi più affrontabili.
“Stiamo
andando al Silver Six?” aveva chiesto perplesso Ioren,
riconoscendo
con una certa famigliarità le vie aguzze della
città. Aveva ricordato con un
certo tepore il tempo che avevano speso in una delle stanze inferiori
neanche
qualche notte prima.
“Sì
e no, il silver six è vicino a un ristorante di cucina suli.
Hai mai
provato la cucina suli?” aveva chiesto Dominik con un certo
divertimento. “No!”
aveva ammesso Ioren, “Non ci sono Suli a Fjerda”
aveva detto, probabilmente
c’erano, ma non così tanto. Dominik aveva sorriso,
a volte Ioren dimenticava
fosse mezzo-suli o un quarto-suli, immaginava non fosse così
importante. “A
Ravka un
po’ di più.
La prima volta che ho mangiato un piatto lo ha preparato Najima
è un oprichnik
di mia sorella, non chiedermi perché” aveva
raccontato con innocenza Dominik,
“Fa ridere una soldatessa che prende possesso della cucina di
palazzo per cucinare”
aveva scherzato, “Ma anche mia madre lo ha voluto provare, in
realtà è più suli
di nome che di fatto, lo parla anche piuttosto male”
aveva raccontato Dominik
a ruota libera.
“Dovresti
provare la
cucina Hedjut. Penso la ameresti” aveva ammesso Ioren con
assoluta calma.
“Probabilmente sì, è molto speziata?
Non amo particolarmente la cucina
speziata” aveva considerato Dominik, “Jordan dice
che la cucina suli è
speziata” aveva considerato Ioren. Era stata una delle prime
cose che Jordan
aveva detto a Ioren, quando avevano pranzato assieme la prima volta ed
il suo
amico aveva presentato il suo pranzo, ‘Vuoi provarlo? Sappi
che è come mangiare
carbone ardente’.
“Sì,
ma nel posto dove
andremo esiste una variante dedicata a me, più sobria.
Vantaggi di essere un
principe” aveva cinguettato. Quella sciocca ammissione era
crollata su Ioren
come una valanga.
Dietro il
Silver Six,
c’era un locale di cucina Suli, il nome era scritto sia in
alfabeto kerchiano
sia in quello ravkiano, entrambi riportavano la stessa parola, anche se
a lui
risultava sconosciuta: Zhenji.
“Cosa
vuol dire?” aveva
chiesto Ioren, sotto l’insegna dipinta a mano, accanto alla
scritta, piccola,
non molto lontano, si vedeva un corvo con un calice nella zampa, il
segno che
il locale era sotto una banda e non una qualsiasi. Da un lato lanciava
un
messaggio chiaro come il sole: non fare il furbo, contemporaneamente lo
rendeva
un bersaglio per chi voleva abbattere il re; ma
Ioren poteva ammette che
forse il Silver Six con l’argento lucente e le sue perle
potesse far
decisamente più gola e se preso d’assalto
probabilmente avrebbe scaturito più
furore. “Figlia” aveva risposto Dominik,
“Pensavo si dicesse Meja” aveva
considerato Ioren, non aveva studiato benissimo quella lingua, non
l’aveva
studiata per nulla in vero, aveva solo ascoltato i dialoghi tra Jordan
e la
pericolosa Juliana Van Eck. “Regola fondamentale del Suli:
è una lingua
frammentaria, diverse comunità, diverse sfumature ed
accezioni. Anche se questo
non è il caso: Meja è figlia mia,
come i genitori si rivolgono alle
proprie figlie, di tanto in tanto anche alle nipoti, mentre Zhenji
è figlia più
in generale, come dire che Lilyiana è la zhenji della
Regina, a volte i Suli lo
usano per i bambini orfani, i figli della
comunità. Però è anche un
modo
con cui ci si riferisce ad una ragazza giovane, come quando, qui, ti
chiamano:
ragazzo o ragazza” aveva spiegato con voce didascalica e
professionale Dominik,
“A Ravka lo abbiamo solo per le donne: Milaya!
Dolce ragazza, mia madre
ci chiama così sempre mia sorella e le sue amiche.”
“Penso
che sia una cosa
molto carina” aveva considerato Ioren, “Ho sempre
apprezzato questo senso di
comunità dei suli” aveva ammesso,
nonché ne sapesse molto, la prima persona che
aveva incontrato che aveva il sangue dei viandanti era stata Jordie e
sembrava
in tutto e per tutto un mercante della ricca Ketterdam. Ed aveva
deliberatamente ignorato l’aggiunta su Ravka, i costumi dei
suoi vicini lo confondevano
più di quelli kerchiani.
“Mia madre chiama così tutte le bambine, mia
sorella e compagnia a parte,
ovviamente, al Piccolo Palazzo e Zhenj tutti i bambini” aveva
replicato con un
tono gentile, mentre passavano la porta facendo suonare il campanello
che
annunciava la loro venuta.
Il locale era
piccolo,
ma sembrava caloroso ed accogliente, fatto con un pavimento di legno e
pareti
di mattone, nell’aria senza si poteva sentire un odore
speziato e forte.
Una donna era
venuta ad
accoglierli, era una suli con la pelle marrone come lo zucchero cotto,
co
capelli grigi, con fili bianco argento, lunghi, raccolti in una treccia
bassa.
Era minuta di statura, con fianchi larghi e mani dure. Indossava un
vestito con
le maniche a sbuffo, con il bustino sulla vita. L’abito era
allacciato fino al
collo ed era di un colore verde bottiglia. Non era molto suli ed aveva
un
taglio del passato. La donna però aveva
un’espressione dolce sul viso. E quando
sorrideva somigliava, in maniera quasi invadente, a Jordan.
“Oh!
Benve-Principe
Dominik che onore averla qui” aveva esclamato con un tono
pieno di gioia, “Un
piacere vederti Sarika” aveva risposto con la stessa
cortesia, prima di
presentare anche Ioren con un sonoro, “Il mio amico non ha
mai mangiato la
cucina Suli” aveva esplicitato, “Mi pare ovvio,
è così magro” aveva risposto
prontamente la donna, ordinando ad un ragazzino di guidarli verso un
tavolo per
due. Era ancora presto, per gli standard di Ketterdam, e il ristorante
era
ancora vuoto.
Ovviamente
Kos,
l’inferno era comparso alla porta abbastanza velocemente,
“Mangi anche tu qui,
caro?” aveva chiesto subito la donna, probabilmente abituata
a vedere l’Inferno
seguire pedissequamente il principe. “Se potessi avere un
po’ del tuo pane
fritto, non mi lamenterei, mia signora” aveva ammesso quasi
con divertimento il
grisha.
Ioren
apprezzava
sicuramente Kos come guardia del corpo, perché nonostante la
sua stazza –
probabilmente era grosso quanto Stygorn, il suo secondo fratello, alto,
grosso
e drsukelle – riusciva a rendersi praticamente invisibile. Un
ottimo guardiano.
Ioren aveva saputo che mentre la giovane erede, la Maleni
aveva un
gruppo scelto di soldati al Principe di Scorta era stato dato solo Kos,
ma era
incredibilmente bravo nel suo lavoro. Era silenzioso e discreto, di
tanto in
tanto Ioren si dimenticava che fosse lì per la maggior parte
del tempo. “Immagino
lei sia la nonna di Jordan, quella che gli preparava tutti quei pranzi
super
gustosi” aveva considerato Ioren, mentre prendeva posto,
“Sì! Sarika! È una
forza della natura, suo marito è il cuoco ed è
eccezionale” aveva soffiato il
principe piuttosto divertito.
“Bene,
di questo piatto
sono innamorato” aveva squittito Ioren, riferendosi alla
pasta fritta ripiena
di verdure saltate e pollo, davvero certo delle sue parole.
C’erano diverse
spezie, non riusciva neanche ad identificarle, la sua lingua era in
un’estasi
di sapori. “Quelli sono i Momos” aveva spiegato
Dominik, lui aveva preso una
ciotola piena di riso, cipolla ed altre spezie; “I suli sono
girovaghi, lo sai,
ma questo piatto è tipico delle zone meridionali, a confine
con Shu-Han – è un
piatto mezzo-shu” aveva spiegato subito Dominik. Il suo
sorriso pieno di vista
si era un momento cristallizzato.
Ioren aveva
tagliato un
altro pezzo del suo momos, “Stai pensando a quello che ti ha
detto Drina?”
aveva domandato, non avrebbe dovuto, non avrebbe dovuto assolutamente
chiederlo, dopo che Dominik nell’assoluta innocenza ed ignaro
gli aveva detto
di come la ravkiana avesse più volte insistito nella sua
partecipazione
all’insediamento del Trono Celeste, Ioren non avrebbe dovuto
fare più domande.
“Sì, non ho molta voglia di andare a Shu-Han.
Hanno un clima troppo caldo”
aveva dismesso la questione Dominik.
Ioren aveva riso, “Mi piacerebbe andarci” aveva
confessato lui, poi senza
vergogna, “Mi piacerebbe anche andare a Cofton una volta,
alle Isole Erranti,
pure nelle Colonnie. Djel, mi piacerebbe andare anche a
Ravka” aveva ammesso,
viaggiare e viaggiare fino a dimenticare la partenza.
“Sankti,
mi chiedo
proprio come tu possa arrivare a Ravka” aveva scherzato.
Il locale
aveva
cominciato a riempirsi, era piccolo, ma riusciva a fare una ventina di
coperti,
che aveva reso il locale decisamente più vivido e meno
silenzioso. Per lo più,
notava Ioren, erano Suli stessi, vestiti con abiti da lavoro, forse in
pausa
pranzo dai lavori, in cerca di casa, qualche Ravkiano, vestito da
turista e
forse un kerchiano, più intenzionato a leggere il giornale
che a mangiare il
proprio pane fritto.
Ioren provava un vigoroso senso di pace nel non capire tre quarti di
quello che
udiva, lo aveva riportato ai primi tempi in cui era venuto a vivere a
Ketterdam, aveva studiato kerch, per venire
all’università, sapeva decisamente
meglio il ravkiano, ma era difficile tenere dietro i discorsi che
sentiva
ronzare nelle sue orecchie.
Sarika aveva offerto loro anche del tè alle rose,
più Ravkiano che suli, fatta
alla loro maniera: un infuso densissimo che veniva aggiunto ad acqua
calda, per
diluirlo.
Una tazza anche per il
silenzioso Kos.
Ioren pensava fosse tutto molto bello: il cibo era gustoso, il te era
buono, il
locale caloroso e, Djel, Dominik poteva sostituire la luce del sole con
il suo
sorriso. Ioren aveva, quasi, sentito
l’impulso si spingersi in avanti e
baciarlo sulle labbra, chiedendosi se anche le sue labbra sapessero di
tè alle
rose … e poi la tranquillità di quel giorno era
stato rotto.
Un uomo della
Standtwatch
era entrato, vestito e ripulito con un’espressione acre, che
non aveva
minimamente mascherato, anche quando la padrona Suli si era avvicinata
per
dargli il benvenuto. Non era da solo ma in compagnia di un gruppo di
soldati,
tra di loro c’era anche un soldato con la kefta azzurro di
rappresentanza del
primo esercito di Ravka. “Dobbiamo controllare i clienti
ravkiani” aveva
spiegato subito l’uomo della guardia.
Sarika aveva incrociato le braccia, ma Ioren poteva osservare che ci
fosse
un’espressione pregna di preoccupazione sul suo viso, non si
scherzava con la
polizia, neanche con un corvo appollaiato sulla spalla, non si poteva
mai
sapere chi riempiva le tasche dell’uomo.
Kos si era
sollevato,
“Che succede?” aveva chiesto, affiancandosi a
Sarika, con la sua stazza, poi si
era rivolto al ravkiano, capelli scuri e viso pallido, così
anonimo da
scomparire, aveva posto delle domande in Ravkiano, mostrando qualcosa
che aveva
recuperato dalla manica interna ed amplia della sua kefta,
probabilmente il
sigillo reale a testimoniare i suoi diretti superiori.
L’uomo
dall’uniforme
azzurra aveva un momento di manchevolezza, ma dopo essersi ripreso
detto
qualcosa, con un tono basso, confidenziale e lontano dalle loro
orecchie, prima
di passare un foglio a Kos.
Kos lo aveva guardato la sua espressione era rimasta ieratica,
però si era
voltato verso di loro, aveva fatto un cenno e l’uomo aveva
sussultato quando
gli aveva scorti, poi si era chinato rispettoso.
La Standtwatch aveva controllato tutti gli avventori ravkiani, anche i
suli che
spergiuravano di non esserlo, uno dei soldati aveva tastato le guance
delle
donne, forse in cerca di sartoria. Avevano evitato Dominik. Poi era
andati via,
rudi, davanti lo sguardo indignato di Sarika. “Queste cose
sono indecenti”
aveva detto brusca la donna, “Ho tutta l’intenzione
di parlarne con il mio mjho”
aveva esclamato con un tono aspro, mentre si preoccupava di dare ai
suoi
clienti dei dolcetti fritti per l’imbarazzo. Quelle parole,
ed orecchie consapevoli,
avrebbero messo Kerch sull’attenti, perché Ioran
scommetteva che Inej Ghafa non
avesse nessun fratello misterioso.
“Mi chiedo chi stessero cercando” aveva considerato
l’unico uomo Kerchiano del
locale, mettendo via il quotidiano, “Il giornale non ha detto
di nessuna
rapina, attentato o altro” aveva ammesso.
Dominik stava guardando Kos però.
“Andiamo”
aveva
stabilito guardando Ioren, prima di lasciare una manciata di kruge,
più di
quanto venisse il prezzo del loro pasto a Sarika. La donna gli aveva
guardati, “Fate
attenzione” li aveva congedati lei preoccupata.
Kos li aveva
anticipati
fuori, “Quanto è grave?” aveva chiesto
Dominik, guardando la sua guardia, “Non
so, dipende” aveva risposto l’inferno, prima di
mordersi un labbro, “Possiamo
andare al … Club dei Corvi, moy tsarevich?” aveva
chiesto.
Kos non poteva
lasciare
Dominik e proseguire i suoi affari, per tal ragione, Ioren stabiliva la
cosa lo
preoccupasse molto. “Sì, ho casualmente dietro il
medaglione di mia nonna
Tatiana da giocarmi” aveva scherzato forzatamente Dominik,
prendendo la mano di
Ioren.
L’Inferno
non aveva
particolarmente apprezzato la battuta, “Uhm … ti
va di spiegare, comunque? Così
per i principi ignoranti?” aveva chiesto retorico,
“Penso che questa notte
saremmo dovuti rincasare all’ambasciata” aveva
spiegato con estrema calma.
“Va
bene, continuiamo
con il mistero, rende la vita piena di brio” aveva
ridacchiato Dominik, anche
se la sua vena di battute sembrava molto meno piena.
Nonostante
fosse primo
pomeriggio, il locale nei pressi di Quinto Porto era brulicanti di
turisti, disperati
e grassi piccioni. “Kos?” aveva chiesto Dominik
quando aveva visto la sua
guardia del corpo guardarsi con espressione piena di preoccupazione per
la
tavola.
“Oh,
ma guarda chi è!”
una voce sguainata e ravkiana aveva catturato la loro attenzione, Ioren
non
aveva idea di chi fosse, ma aveva potuto riconoscere un uomo dai
riccioli
serpentine ed uniforme crema, non era sicura di sapere che ordine
fosse.
“Gavrillo!” aveva detto solamente Dominik, che
doveva conoscere l’uomo
abbastanza bene, dandoli una pacca sulle spalle, “Kos ti
permette di prendere
le vie della perdizione, male-male” aveva scherzato con
estremo divertimento
l’uomo, mettendo un braccio attorno alle spalle del principe,
come se fosse
stato il suo migliore amico. Aveva le guance rosate ed
un’espressione piena di
divertimento. “Gavi, la maes-Ekaterina è
qui?” aveva domandato Kos.
“Ekaterina? Ekaterina Rurik? Molto attraente e molto
pazza?” aveva chiesto
retorico, “Sì, alta una pertica, con capelli
lunghi ed il senso-di-colpa fatta
persona” aveva risposto Kos con un tono perentorio.
“Come sempre quando è a
Ketterdam, la puoi trovare al bancone che affoga le sue disperazioni in
whisky
al miele” aveva risposto annoiato l’uomo, prima di
strizzare gli occhi, “Che
sta succedendo Kostantyn?” aveva chiesto poi.
Kos aveva sorriso scavalcandolo per raggiungere la donna al bancone,
Dominik e
Ioren lo avevano seguiti assolutamente incerti e terribilmente
incuriositi.
L’Inferno
aveva
raggiunto una donna, in pantaloni di pelle rigida ed una camicia bianca
di
cotone, capelli biondo fragola ondeggiati che scendevano lunghi sulla
schiena
ed un bel viso arrosato, aveva una lama legata alla coscia con una
cintura e
non sembrava turbata dalla cosa.
Aveva un
bicchierino di
wisky tra le dita bianche. Se Ioren avesse dovuto tirare ad indovinare,
senza
sapere il nome o la sua compagnia, avrebbe scommesso fosse una
ravkiana, aveva
il viso tondo e la pelle rosa bruciata dal sole. Kos le aveva messo una
mano
sulla spalla, lei aveva sollevato lo sguardo, con occhi blu-turchese si
erano
illuminati appena lo aveva conosciuto, tirandosi in piedi per
abbracciarlo.
Ekaterina era alta, e magra, ma sfigurava davanti l’Inferno.
“Kos che sta
succedendo?” aveva chiesto Dominik, con poca pazienza sul
viso. Era strano per
Ioren vederlo preoccupato, vederlo agitato, il principe di Ravka era
sempre
così calmo e preparato.
“Si … è …” Kos era
sembrato titubante nel pronunciare le sue parole, come se ci
fosse del fuoco anche sulle sue labbra oltre che sulle sue dita.
Dominik aveva
aggrottato le sopracciglia bionde, ma Ioren aveva capito, “Io
penso … non
possano dirtelo” aveva mormorato nell’orecchio del
suo amico, “E’ya
Tsarevich dva Ravka” aveva detto perentorio
Dominik, una combinazione di
parole così precisa che Ioren non aveva mai sentito quella
parole in un anno,
io sono il principe di Ravka.
O meglio, le
aveva
sentite, ma non utilizzate con quel tono così perentorio.
Io sono il
principe di
Ravka, realtà ineluttabile, che perforava il cuore di Ioren
come una lama, che
metteva tra loro una distanza inarrestabile.
“Sembri proprio sua maestà” aveva detto
Ekaterina con un tono divertito, quasi
ignorante delle parole che erano state pronunciate, con le gote ancora
rosse
dal wisky con il miele. Kos aveva sospirato, quasi stanco,
“Moy Tsarevich, temo
che dirlo potrebbe essere tradimento… per me”
aveva confessato, “Ma in cuor mio
io … devo agire per le vie che ritengo giuste, come professa
sempre il nostro
Gavrillo” aveva confessato mettendo una mano sul cuore.
“Sankti,
cosa stai
combinando Kostantyn?” aveva chiesto Ekaterina, tutto il
rossore dell’alchool
sembrava essersi asciugato dalle sue guance. “Allora rimangio
ciò che ho detto:
Na tsarevich dva ravka” aveva asserito,
come se quella realtà si potesse
davvero cancellare con una negazione, “Sono il ragazzo
sciocco che studia
Filosofia e lettere”
aveva sputato fuori.
Kos aveva
annuito,
negli occhi blu c’era della gratitudine. E Ioren si era
sentito male, aveva
sentito la bile risalire in gola, non voleva essere partecipe di
quello, non
voleva assistere, se così fosse stato all’ora, si
sarebbe sentito in obbligo di
scriverlo a Bjorn.
“Riguarda
Drina” aveva
detto Kos ed anche Ioren aveva sentito le spalle drizzarsi, pensando
alla bella
Ravkiana che aveva catturato il loro Jordie nella sua tela. Ekaterina
era
diventata esangue, “Cosa … cosa è
successo a Drina?” c’era terrore nella sua
voce.
“Kostantyn
Benznako!”
una voce li aveva chiamati, più e più volte,
distraendoli nuovamente, Ioren
ricordava di aver sentito una volta da Dominik che quella parola voleva
dire: causa
persa, era il modo offensivo con cui ci si riferiva agli
orfani.
Kostantyn si
era fatto
rigido come una spada, mentre osservava tra le teste che dominavano il
club un
uomo avvicinarsi. Ioren era rimasto turbato dalla sua vista, “Che
i Sankti
ti abbiano in gloria buon Kostantyn” aveva detto
l’uomo avvolgendo le mani
intorno alle guance di Kostantyn come se fosse stato il suo
più vecchio amico,
“Ero lì a cincischiare quando ho
riconosciuto il mio buon fratello di
scienza”. Un altro etherealki o, forse, un altro
Inferno.
Ioren, però, conosceva quella morsa, non c’era
gentilezza o familiarità, ma una
muta pretesa, così come non c’era
gioiosità nello sguardo di Kos. “Mal”
aveva detto cupo Kos, forzando un sorriso che poco si prestava alle sue
labbra.
Parlava
ravkiano ma il
suo accento trascinava un’altra origine, forse kerchiana,
forse kaelish.
L’uomo
aveva i capelli
rosso-castani, con qualche onda morbida, una pelle bianca come il
latte, quasi
bluastra, cosparsa di lentiggini, non mancavano efelidi fastidiose a
chiazzarle. Vestiva in nero, di cuoio e di pelle, una figura alta e
longilinea.
Quello che stregava e spaventava Ioren era che il viso, le mani, anche
le
orecchie non erano esenti da cicatrici brutali. In alcune parti,
mancava anche
qualcosa. Sembrava essere passato sotto le mani di un macellaio.
Ekaterina
aveva
aggrottato le sopracciglia. “Il prode Malcom Gwyndip, qui a
Kerch” aveva
attirato l’attenzione Dominik, che doveva conoscere anche
l’uomo, quello si era
allontanando subito da Kos per cercare la voce, “Oh! Sua
altezza moy
tsarevich” aveva detto con un tono di finta
cortesia, esibendosi in una
riverenza fin troppo esagerata, quasi parodistica. “Mal
…” lo aveva chiamato
ancora Kos, “Dovevo immaginare che Kos non avrebbe mai
abbandonato il tuo
fianco, siete qui per divertirvi, Moy Tsarevich?” aveva
chiesto con finta
cortesia Malcom.
“Ci
hai scoperto Mal”
aveva detto Dominik, calcando molto sul nomignolo dell’uomo,
“Vengo a spendere
i soldi del tesoro di Ravka nelle tavole da gioco” aveva
risposto con un
sorriso pieno di illusioni. “Immagino non sia niente di
sconveniente, ho piena
fiducia nelle abilità di controllo del nostro buon
Kos” aveva considerato.
Ioren non conosceva le dinamiche tra loro ma scommetteva che qualsiasi
cosa
stesse avvenendo doveva avere strati su strati di conflitto.
“E tu, Mal, ti
stai godendo del meritato riposo?” aveva domandato Kos,
inghiottendo un rospo.
Ioren aveva voltato lo sguardo verso Ekaterina, il rosso
dell’alcool sul suo
viso si era fatto meno evidente e stava cominciando a realizzare quello
che
stava succedendo. “Primo: sai che non mi riposo mai, secondo:
sai esattamente
perché sono qui” aveva risposto Mal con un sorriso
sornione sul viso. “No, non
lo sappiamo, non torno all’ambasciata ormai da tre giorni,
credo” aveva
borbottato Dominik, “In effetti sono anche un po’
offeso che il Conte non abbia
spedito nessuno a cercarmi” si era intromesso il principe.
Il sorriso di Mal era rimasto intonso, ma gli occhi si erano fatti
pieni di
acredine, non provava stima per Dominik, nessuna, in alcuna maniera, era
evidente. “Bene, sua altezza, sono qui per conto di
sua altezza reale la
tsarevich” aveva enunciato l’uomo. “Oh,
Sankti, Liliyana ti ha incaricato di
prendermi per spedirmi a fare il concubino della futura regina
Dalai?” aveva
scherzato Dominik. La strana risposta del principe aveva per un secondo
confuso
il soldato, “No” aveva detto con le sopracciglia
rame arricciate, “Sono qui per
arrestare Dr… Ana Aleksandra Rosen” aveva sputato
fuori.
“Drina?”
si era
lasciato sfuggire Dominik, sconvolto davanti quella prospettiva,
“Drina è in
arresto?” aveva chiesto, Ioren aveva guardato Kos, la sua
espressione era cinerea.
Aveva capito, il guardiano Inferno del principe aveva voluto avvertire
la sua
amica, in qualche maniera.
“No,
cosa, perché?” era
stata la prima cosa che aveva detto Ekaterina da quando era arrivato
Mal, che
improvvisamente sembrava aver registrato la presenza della donna e di
Ioren. “Conosce
la signorina Rosen mi sembra evidente” aveva considerato Mal,
“Sì!” aveva detto
Ekaterina, “Era con noi quando ci hanno valutati”
si era intromesso Kos,
“Insegnavo al Piccolo Palazzo …” aveva
ammesso la donna, con un tono colmo di
dolore nella voce.
“Che
ha combinato
Drina?” aveva domandato Dominik, riacquistando
l’attenzione su sé stesso, “Anzi
no, cosa quella pazza di mia sorella pensa abbia
fatto?” aveva
domandato. Una furia cieca rossa che era balzata negli occhi scuri, ma
non
aveva fatto nulla, non avrebbe potuto fargli nulla, perché
Dominik era il
principe. “Presumo che abbia tirato troppo la
corda, la signorina Rosen
ten-” le parole di Malcom era state interrotte da Kos,
“Drina! Smettila
di chiamarla signorina Rosen, siete amici da anni” lo aveva
rimproverato. Le
gote rosse del ragazzo Kaelish avevano trovato un’improvvisa
nuova colorazione,
aveva boccheggiato un secondo, come un pesce, ma poi aveva ripreso quel
sorriso
irto, “Questo non cambia che la tsarevich la ha segnata come persona
di
interesse e che debba essere scorata con urugenza a
Ravka” aveva detto
secco, “Ma pare che… Drina
abbia lasciato l’ambasciata ed ho pensato che
il suo buon Kostantyn sapesse dove fosse” aveva detto.
“Mi dispiace, non posso aiutarti” aveva commentato
Kos, Malcom non era sembrato
convinto, “Anche il tuo amico Cignaz diceva così,
eppure ora sono qui” aveva
aggiunto. Un’espressione angosciante si era palesata sul viso
di Kos, “Chei hai
fatto a Cignaz?” aveva chiesto con brutale urgenza, ma Malcom
non lo aveva
degnato di risposta, specie quando il principe aveva parlato.
“Non
mente, Drina se ne
è andata tre giorni fa, anche Ioren, qui, può
confermarlo, l’abbiamo accompagnata
alla stazione dei treni. Forse voleva farsi il giro della costa o delle
città
dell’entro terra, che ne so” aveva borbottato
Dominik, introducendosi nel
discorso.
Mal non era
sembrato
felice, ma Ioren si rendeva conto che non avrebbe potuto contraddire il
principe, quello che dicevano i reali era di norma legge.
“Nessuna idea? Che
sfortunata” aveva detto Mal, “Se doveste scoprire
qualcosa non esitate a dirlo
a me o anche alla pittoresca guardia cittadina di questo
luogo” aveva buttato
fuori l’uomo, “Non mancheremo Mal” aveva
detto il principe. “Anche perché non
consegnare la posizione della signorina Rosen vorrebbe dire agire
direttamente
contro gli interessi di Ravka” aveva aggiunto malevolo
l’uomo, “Non mancheremo
mai. Adesso, perdonaci ma la splendida signora qui presente si
è offerta di
soffiare sui miei dati” aveva detto Dominik, ammiccando ad
Ekaterina.
“Pensavo
lei stesse
frequentando una donna zemeni” aveva considerato Malcom, non
senza indugio sul
viso di Ekaterina, era difficile stabilire quanti anni avesse, ma era
sicuramente più vecchia di loro, però era ancora
piacevole. Aveva un viso
dolce, anche animato dalla preoccupazione. “Ed io pensavo che
una guardia di
palazzo non potesse inquisire con chi si accompagna o non si accompagna
il
principe di Ravka” aveva risposto secco Dominik.
L’umiliazione
era
avvampata sulle guance di Malcom, “Non mi permetterei mai, moy
tsarevich.”
“Quindi
Malcom?” aveva
chiesto Ioren, “È uno psicopatico, credo sia anche
normale, mia sorella mi ha
detto che ha avuto una vita di merda. I suoi genitori lo hanno usato
come una
reliquia umana, poi ha tentato la grande fuga sulla via delle ossa per
essere
preso dagli schiavisti e venduto alla Panzer Konsti
dove chi sa che
esperimenti mostruosi gli han fatto … Ma fidati
l’ultima volta che sono stato a
Ravka alla festa di Sankt Ilya, lui e Drina erano in ottimi
rapporti” aveva
esclamato Dominik, sembrava frustrato e nervoso.
Si erano allontanati da Ekaterina e Kos, preferendo dare alla sua
guarda del
corpo un momento personale. Il Club del Corvo era un posto meno
elegante del
Silver Six, odorava di bettola e bassi fondi, ma era diventato
caratteristico
di Ketterdam, quasi turistico, dava alla gente quel
brivido di poter
ritornare a casa e dire di essere stati nella parte cattiva di Kerch.
E non aveva
delle
stanze private da poter affittare, perciò era stato
difficile trovare un luogo
dove rifugiarsi, ma Dominik non mancava di questo talento.
Ed aveva
trovato un
sottoscala.
E a Ioren non
dispiaceva stare con lui, in uno spazio così angusto, se
avesse potuto
scegliere avrebbe preferito averlo sempre così.
“Una
volta ha cercato
di bruciarmi via la faccia, non lo posso dimostrare ma è
così. È, tipo, il cane
da guardia di mia sorella” aveva spiegato.
“Perché tua sorella vorrebbe che ti
venisse bruciata la faccia?” aveva chiesto retorico Dominik,
“Non direttamente
lei, credo che mi voglia anche bene, i suoi
sostenitori d’altronde”
aveva ammesso il principe con un tono basso. Ioren non era riuscito a
trattenere l’arricciamento della sua fronte, la sua
confusione, “Cosa intendi?”
aveva chiesto retorico Ioren.
“Niente
tribolazioni
alla Corte di Ghiaccio?” aveva chiesto retorico Dominik,
anche un po’ sdegnato,
“Non ne ho idea” aveva mentito Ioren,
“Sono il quinto figlio di un conte
minore” aveva aggiunto.
Però
aveva seguito il
seminario con Bjorn Rasmos, che prima di essere un devoto servo di Djel
era un
principe ed anche con il saio indosso era il secondo in linea di
successioni al
trono di Fjerda dopo il principe Matthias, figlio del Re in carica. Il
padre di
Bjorn era stato estromesso, dopo aver tentato di usurpare il trono di
Re Egemond.
E differentemente dal giovanissimo Matthias, la madre di Bjorn non era
un’ambigua figura. Improvvisamente la lettera nella sua
tracolla aveva ripreso
a prendere fuoco, pesante come un macigno.
Dominik aveva sbuffato, “Be, a Ravka le cose sono complicate.
Tutti amano mia
madre: perchè è un drago, un drago probabilmente
immortale. La hanno avvelenata
due volte e non è morta” aveva spiegato il
principe, “Si ho sentito che i
grisha potenti sono praticamente immortali” aveva ammesso
Ioren. Dominik aveva
annuito, “A casa facciamo finta di non pensare a questo. Sai
deprime molto mio
padre ed anche mia madre” aveva fatto una pausa,
“Comunque, molta gente lo
ignora e guarda il momento in cui mia madre deporrà la
corona, per pensare al
suo successore” aveva ripreso a parlare, “Diciamo
che, ecco, io ho più
sostenitori di mia sorella da questo punto di vita, non che mi importi,
fare il
principe di scorta è il sogno, ancora più sogno
sarebbe essere il Frutto
dell’Autunno” aveva ammesso.
Questo, aveva
pensato
Ioren, era dannatamente interessante e si sentiva così in
colpa all’idea di dover
riportare tutte queste informazioni,
“Perché?” aveva chiesto, “Oh,
perché? Non
è evidente? Sono meraviglioso, bellissimo e pieno di
fascino” aveva replicato
come una battuta Dominik. E a detta di Ioren nessuna di quelle era una
menzogna, mentre alla principessa di Ravka la gente si appellava come
la meleni,
lo spettro. “Stupido” lo aveva
rimproverato bonariamente Ioren.
“Vorrei
dirti che è per
il mio carisma o perché Lilyiana è una viziosa,
ma non è vero. Lei è brava,
buona e quando si impegna è anche una politicante brava
quanto mio padre” aveva
raccontato Dominik, prima di fare una pausa, accompagnata da un
sospiro, “È
perché sono un otkazat’sya, sono maschio e sono
bianco, circa, abbastanza
bianco” aveva buttato fuori.
Ioren aveva
schiuso le
labbra, “Non ha senso, insomma … tua
madre” aveva dichiarato il Fjerdiano,
“Intendi con il fatto che è grisha, donna e
suli?” aveva chiesto retorico il
principe Dominik, lui aveva annuito con calma, confuso, “Mia
madre è un
drago, Ioren. È un drago immortale, quando passa
in volo su Os Alta, può
oscurare il Gran Palazzo, che è sempre un gran merito; chi
potrebbe contestare
la Regina Drago? La Sankta Vivente?” aveva chiesto, ma non
aveva dato a Ioren
il tempo di rispondere, “Ma Liliyana è una
semplice, per modo di dire si
intende, grisha etherealki. Sicuramente è intelligente come
persona, brillante
come politica e capace come grisha, posso dirti che è una
delle poche in grado
di mutare in un animale in una forma completa – anzi lo sa
fare anche solo a
pezzi – ma non è la regina drago.”
Ioren era
rimasto muto
a quello sfogo, davvero, “Sei qui per questo?”
aveva chiesto Ioren, “Anche, tra
le cose. Per primo volevo prendere il volo dal Gran Palazzo”
aveva ammesso.
Lui aveva
annuito alla
fine, cercando di metabolizzare tutte quelle informazioni,
“Pensi che la
faccenda di Drina riguardi questo? Forse ha scelto di parteggiare per
te?”
aveva domandato retorico.
Dominik aveva riso, “Sankti no! Drina si mangerebbe le sue
mani prima di fare
una cosa del genere. Lei e Liliyana sono sorelle di giuramento, sono pola
duše,
o qualche cazzata simile” aveva ammesso calmo. Ioren trovava
quella situazione
davvero caotica, incredibilmente caotica, “È per
Shu-Han” aveva dichiarato
Dominik.
Oh.
Oh.
L’Ascesa al Trono Celeste.
“Drina
vuole far
saltare i negoziati di pace con Shu-Han?” aveva chiesto Ioren
preoccupato,
l’espressione di Dominik si era fatta granitica,
“No! Come ti viene in mente,
no!” aveva risposto repentino, “Lei vuole che io
vada a Shu-Han, affinché
smetta di gozzovigliare qui a Ketterdam e faccia il mio dovere per
Ravka e,
forse, mia sorella potrebbe aver interpretare le cose a modo
suo” aveva
ammesso, calmo, quasi serafico. “Quindi avevo ragione, non
del tutto, forse
Drina non ha cambiato partito ma la principessa pensa che lo abbia
fatto” aveva
detto Ioren, “E le ha mandato contro il suo cane da caccia
sputa fuoco? Può darsi
… Sai tutti danno per scontato che lei sia la figlia di mia
madre ed io di mio
padre, ma sankti, Lilyiana sa essere molto più fredda e
logica di me, spesso e
volentieri” aveva fatto una lunga pausa, “Ma
sfortunatamente lei ha anche
ereditato il carattere iroso di nonna
Tatiana” aveva considerato il
principe.
Ioren aveva
cercato di
sdrammatizzare la situazione: “Di buono
c’è che abbiamo più carte di loro da
giocarci” aveva considerato, “Quali?”
aveva chiesto Dominik che non sembrava
per nulla coinvolto nel gioco, “Che al momento Drina
è con il figlio dell’Eroina
del Mare Vero” aveva detto.
Non si
sarebbero mai
azzardati a far sfigurare il figlio di Inej Ghafa … e di Kaz
Brekker.
NOTA FINALE: Bene signori
e signore, abbiamo
concluso la prima parte di questa storia, abbiamo presentato i
personaggi e
presentato l’inizio delle loro vicende ed è dunque
un bel momento per dirvi che
i prossimi capitoli saranno dedicati unicamente ad una linea sola
temporale
(salvo dovessi cambiare idea) per una saga specifica, che chiaramente
poi sarà
lasciata indietro in favore delle altre due (o per un po’
tratterò una linea
per volta).
Comunque, non ho intenzioni di diversi quale linea temporale
sarà, così vi
lascio sulle spine.
Abbiamo
lasciato il 22
con la morte di Cait e questi giovani sventurati nel bel mezzo del
nulla; il 28
con Drina che sta effettivamente pianificando qualcosa e Llilyiana
pure, senza
dimenticare l’ascesa al trono di Dalai (SOON) e il 40 con
l’inizio dei
festeggiamenti del secondo ventennale, con Matthias che prende atto
della verità
e Lissa che organizza un matrimonio segreto.
Mi sembra che
siano tre
cliffangher carini per la trama.
|
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Capitolo 19 *** Alina I (40 D.F.) ***
Indovinate
chi non ha ancora cambiato lavoro? IO SI’. E chi sta
piangendo perché è
indietro nella stesura del lavoro? SEMPRE IO.
Però ho deciso di aggiornare. Come sempre il prossimo
aggiornamento è difficile
da stabilire, sicuramente più di venti giorni.
Nuova parte: nuovo narratore.
Un
bacio
RLandH
ALINA
(40
anni dalla Dissoluzione della Faglia)
I
capelli caramello di Alina si erano alzati in un turbinio di vento, non
così
forte da darle fastidio, anzi in un modo quasi gentile
e delicato. “Oh
ma che bravo!” aveva detto, battendo le mani davanti al suo
piccolo nipote.
Juris
le aveva sorriso tutto denti. Quando aveva pronunciato quelle parole
Alina
aveva realizzato di averle pronunciate senza rancore o invidia, era
stato
diverso da quando vedeva sua madre o Lilyiana, usare la Piccola
Scienza. In
quelle occasioni sempre un pensiero orribile
fioriva nella sua testa: ‘Perché
io, no?’, ma non provava quelle emozioni,
né nulla di simile, quando vedeva
il suo nipotino manifestare il suo vento.
Voleva
bene a Juris, ricordava ancora la prima volta che Liliyana le aveva
concesso di
prenderlo in braccio. Ricordava di aver provato un terrore folle che
potesse
cadere e la mano amichevole sulla sua spalla, ‘Stai andando
bene’ aveva aggiunto
confidente.
“Sto
diventando bravo” aveva detto il bambino con un tono di voce
pieno di gioia,
con una pronuncia perfetta, senza sbavature, come un piccolo uomo in
miniatura
che un bambino. “Ieri la Regina Dalai ha detto che ho
recitato perfettamente la
Danza dei Petali Rosa” aveva comunicato
con allegrezza, “Oh sei stato
molto incisivo, sei l’unico oratore per cui non ho
dormito” aveva ammesso
Alina, mentre passava le dita tra i capelli per cercare di risistemarli
dopo la
folata del suo piccolo nipote.
La
serata nella Sala delle Letture per accogliere i
reali di Shu-Han era
stata uno degli eventi più noiosi a cui Alina avesse
partecipato; fino a
qualche anno prima sarebbe riuscita a sfuggire a quegli incarichi, ma
dà che
aveva compiuto quattordici anni sua madre l’aveva costretta a
presenziare ad
ogni evento della corte. Tranne le dimostrazioni e le feste alla Palude
d’Oro,
quelle le erano rimaste precluse, fino a quel momento. Suo padre, suo
cognato
ed il conte Kirigin avevano organizzato una festa e a lei, per la prima
volta,
era stato accordato di poter partecipare. Era felice, dannatamente
felice.
Questo
non toglieva che si era quasi addormentata sulla sedia durante la
serata di
poesie, suo nipote uno dei primi oratori aveva goduto della sua
attenzione, gli
altri erano stati un caotico scambio di parole, fino
all’intellettuale
Fjerdiano che aveva recitato questo componimento così
deprimente che Alina
aveva quasi pianto. Merissa Nassau lo aveva fatto senza vergogna, come
se fosse
stata personalmente lei l’oggetto di quello struggimento,
forse lo era;
Alina quasi si pentiva di non aver indagato oltre. Sua sorella, di
rimando, si
era adirata parecchio, per qualche ragione – non che a
Lilyiana servisse una
ragione per essere adirata.
Forse
era un vecchio amante, Alina non sapeva niente in questione, sua
sorella era
sempre stata riservata in materia, ben attenta a non permettere a
nessun
pettegolezzo di sfuggire alle porte della sua camera, tranne il Conte
di Ivets,
che era il soggetto preferito dei libelli erotici che riguardavano sua
sorella,
dopo Dominik. Alina vibrava ancora per quel
maldicenza così sfacciata e
disgustosa.
“Certo,
è stato così bravo che per poco quella sfacciata
di Dalai lo prometteva in
sposa alla sua orrida bambina” aveva
sentito la voce di sua sorella, che
era seduta lì vicino, mentre faceva tremolare le ginocchia
su cui c’era il
Piccolo Nikolai. Era strano vederla così morbida e gentile.
La maternità aveva
rovesciato Lilyana da capo a piedi, suo padre diceva che era capitato
anche
alla loro madre.
“Chabi è carina” aveva squittito Juris,
“Molto più bella di Caitlyn!” aveva
aggiunto.
Per
non trovare simpatia per la ragazzina materialki, suo nipote
l’aveva ben
segnata a ferro e fuoco nella sua mente, aveva considerato Alina.
“Indubbiamente,
probabilmente le Taban buttano
dalla finestra le principesse brutte” aveva replicato sua
sorella secca,
decidendo di sorvolare sul commento sulla piccola Caitlyn,
“Ma la bellezza non
è tutto, Juris’kho. Un serpente può
partorire solo un serpente” aveva ammesso.
“Tecnicamente secondo le leggende un serpente può
partorire un basilisco
o una coccatrice” aveva detto Alina.
“Vorrei dire che la vita vera è un’altra
cosa, ma nostra madre è mezza-rettile
ed ha partorito noi” aveva risposto Liliyana, accompagnando
con la frase un
movimento del polso che doveva fingere il mondo. “Mi stai
dicendo che Dominik
non aveva la coda quando è nato?” aveva chiesto
Alina con una punta di
divertimento, “Oh, no, lui aveva le zampe di pollo, tu avevi
la coda” aveva
risposto Lilyiana pungente.
Alina
sapeva di non essere sempre piaciuta a sua
sorella, all’inizio, era
nata, anzi era stata concepita, in un momento incredibilmente strano
della
vita di Lilyiana ma negli ultimi anni si erano avvicinate, almeno da
quando sua
sorella si era decisa a volere che lei avesse un ruolo più
politico. Forse si
era accorta che probabilmente Alina un giorno avrebbe dovuto sposare un
pari
che si sarebbe aspettato una principessa e non quel pasticcio che era
lei.
Nonostante
tutte le buone premesse di sua sorella, Alina le disattendeva spesso;
almeno
era riuscita a liberarsi dello sguardo vigile di sua madre.
La
Regina Zoya era stata un’avventuriera, aveva permesso ai suoi
figli di esserlo,
ma non alla sua piccola figliola, al suo prezioso Frutto
dell’Autunno.
“E Caitlyn è un serpente?” aveva chiesto
Juris, con una discreta faccia di
bronzo, “Più una pica-pica”
aveva considerato Liliyana, che doveva aver
perso tempo a parlare con la bambina. “Dominik mi ha detto
che le piche-piche
sono le guide per il villaggio stregato di Zikevo, ai confini del
mondo, lo
stesso luogo da cui viene la nonna-Regina”
aveva considerato il
bambino.
Oh,
Dominik!
Un’espressione
strana era balenata sul viso di sua sorella, che lei aveva poi
rigettato dietro
una maschera di tranquillità controllata.
“Può
darsi, ma scommetto che l’Uccello di Fuoco sarebbe
altrettanto capace” aveva
riso Lilyana.
“Come è stato l’appuntamento di ieri con
il principe Matthias? Con l’arrivo di
Dalai non sono riuscita a chiederti nulla” aveva inquisito
sua sorella, quando
Juris si era stufato di pretendere la loro attenzione ed aveva
preferito
stendersi sul pavimento a disegnare con dei pastelli a cera. Un
po’ sui fogli,
un po’ sul marmo travertino. Alina aveva potuto spiare che il
suo piccolo
nipotino si era dedicato alla rappresentazione di un volatine
– forse una
pica-pica?
Alina
era avvampata quando aveva realizzato la domanda di Liliyana,
“Oh, be. Credo
sia il ragazzo più noioso di
sempre” aveva raccontato, anche se non era
del tutto vero, “Inoltre, Dominik lo ha traumatizzato e credo
si plasmi
il viso per essere così carino,
perciò, presumo sia piuttosto bruttino”
aveva buttato fuori e si era dimenticato di lui per inseguire Meesha,
al
Piccolo Palazzo. Oh, la sua bella Meesha.
“Ho appena detto che la
bellezza non conta molto” aveva replicato sua sorella,
sterile.
“Sì, infatti, non dimentichiamo il non
trascurabile dettaglio che sarà il
futuro Re di Fjerda, complotti di cugini permettendo” aveva
ricordato Alina con
assoluta calma, aggiustandosi sulla sedia. Indossava un abito, di
quelli
tagliati sotto il seno, di un colore indaco, che la faceva sentire a
disagio.
Sua madre era perfetta nella kefta, nella seta ed anche nel sarafan,
così come
Lilyiana sembrava naturalmente fatta per indossare il lusso e il
velluto,
Alina, invece, non aveva nulla della loro sicurezza e in un bel vestito
si
sentiva sempre intrappolata.
“Comunque,
visto che sarà il re di Fjerda, quando abbiamo tirato al
piattello lo ho
lasciato vincere” aveva ammesso, guardando di sottecchi sua
sorella. Stessi
occhi caldi di loro padre, caldi, ma attenti.
Matthias Grimjor non era un cattivo tiratore, anzi uno dei migliori,
Alina non
si era dovuta sforzare più di troppo per sbagliare, solo un
tiro, praticamente.
“Oh!” aveva detto sua sorella, “Parleremo
dopo di Dominik, prima: ricordati
che non devi mai sminuirti per nessuno” le aveva
intimato assertiva Liliyana.
“Perché sono la principessa di Ravka?”
aveva chiesto retorica la più giovane.
“Sì, perché sei la principessa di
Ravka, la figlia della Regina Drago, mia
sorella … e soprattutto Alina Zoyaenva Nazyalensky, una
ragazza testarda”
le aveva risposto più materna. “Poi zia Alina tu
potresti sparare tra le
antenne di un ape se volessi” aveva detto Juris, unendosi a
sua madre nelle sue
lodi. Alina aveva sorriso, con il cuore riscaldato.
“Allora,
cosa ha combinato Dominik?” aveva inquisito Liliyana,
sospirando leggermente
frustrata. “Sai, nulla di diverso dalle sue solite maniere,
Dominik non è in
grado di nascondere la sua incompatibilità con Fjerda. Sai
come papà odia
Kerch, tu Shu Han, lui Fjerda e mamma tutti, penso che dovrei trovare
un posto
da odiare anche io. Le Isole Erranti come ti sembrano?” aveva
chiesto Alina
quasi divertita, “Il Marshal mi sembra un uomo gentile, ma a
odiare Novyi Zem
non mi ci vedo proprio”.
Certo da un paio d’anni a questa parte suo fratello aveva
reso piuttosto palese
la sua intolleranza per il loro antico nemico, nonostante fossero anni
che
erano in pace con Fjerda, che parte del loro sangue fosse Fjerdiano, ma
l’interrogatorio che suo fratello aveva riservato al noioso
principe Matthias
era stato tremendamente sfacciato. “Juris e il Piccolo
Nicolai potrebbero
prendere Novyi Zem e le Colonie” aveva cinguettato
continuando quel gioco
stupido, ma la sua dolcezza si era esaurita nel momento in cui aveva
incontrato
gli occhi gialli, come uno specchio di prosecco, di suo nipote.
Juris aveva le palpebre spalancate e continuava a far saettare lo
sguardo dalla
zia alla madre, “Eej?”
aveva domandato il
piccolo Juris a sua madre, mentre Liliyana faceva scorrere le dita tra
i
capelli scuri del suo figlioletto ancora in fasce. Suo nipote aveva
usato la
parola Shu per madre, o almeno di una regione del regno. “Tua
zia fraintende le
mie emozioni, moy sesh” aveva detto
chiara Lilyana, miscelando shu e
ravkiano, “Come potrei mai odiare il luogo che mi ha dato dei
figli così dolci?”
aveva chiesto baciando la fronte del piccolo Nikolai e sollevando un
braccio
per accogliere Juris nel suo abbraccio. Il bambino si era subito
fiondato
nell’offerta di sua madre.
Alina
si era morsa le labbra, piena di vergogna.
Indipendentemente
da qualsiasi sentimento sua sorella potesse nutrire per il regno oltre
le
montagne o per la sua altezzosa regina, aveva, comunque, sposato un
uomo Shu ed
aveva avuto da lui figli con occhi allungati, “Sì,
Juris … tua zia parla senza
riflettere” aveva accordato Alina. Sua sorella le aveva
lanciato uno sguardo
piuttosto infastidito, cosa che aveva fatto arrossire di imbarazzo lei.
Aveva
stretto le dita fino a far diventare bianche le nocche.
“Fate
una riunione di famiglia senza di me? Dovrei sentirmi
offeso!” aveva esclamato
Dominik sputando fuori dalla stanza dei bambini – quella del
Gran Palazzo –
vestito con la stessa camicia di seta, con il collo a sbuffo e i
bottoni
d’avorio della sera prima. “Eravamo sorprese di non
trovarti qui, prima di noi”
aveva risposto Alina. Juris si era staccato da lei per correre da
Dominik, che
lo aveva preso a volo ed issato su. Aveva delle occhiaie violacee sotto
gli
occhi, così come i suoi capelli biondi erano ancora un
intreccio di nodi. Erano
di un bel dorato sfumato, come il grano tostato. Alina ricordava che,
quando
era più giovane suo fratello aveva preso
l’abitudine di schiarirli, forse per
somigliare più a Nikolai, ma ormai aveva smesso.
“Le mie guardie ti hanno
lasciato passare?” aveva inquisito invece Lilyiana con un
fare quasi divertito,
“Lo sai il buon Mal
non può resistere al
mio fascino” aveva sghignazzato, accomodandosi sul divano
basso, con i cuscini
acqua-marina, proprio accanto alla loro sorella maggiore, tenendo il
nipotino
tra le braccia, “La parte peggiore è che potresti
avere ragione” aveva
scherzato Alina forzatamente, con un sorriso mesto, consapevole che i
protettori di sua sorella non avessero sempre molta stima in suo
fratello.
Particolarmente Malcom.
Così
erano difronte a lei, Dominik e Lilyana seduti vicini, con Juris ed il
Piccolo
Nikolai tra le braccia.
“Vogliamo parlare del perché hai deciso di
compromettere la fragile relazione
con Fjerda?” aveva domandato Lilyana poi, mentre osservava
Dominik strapazzare
Juris, con un divertimento.
“Volevo essere sicuro che la mia sorellina fosse sistemata
con un uomo degno”
aveva replicato Dominik, accomodandosi accanto a Liliyana e
costringendola a
farsi da parte, “Non sei d’accordo
Juris?” aveva chiesto voi. “Posso sposare io
la zia” aveva risposto il bambino con assoluta certezza.
Alina aveva
ridacchiato, “Accetterei volentieri” aveva risposto
poi con un sorriso
innocente.
“Il principe di Fjerda potrebbe essere un ottimo partito,
è un principe, sarà
un re e sua madre è praticamente l’altra
metà della mela di nostra madre” aveva
detto Lilyana, “Allora è un’alleanza
inutile” aveva dichiarato Alina, che lo
pensava per davvero, “La buona regina Mila non
vivrà per sempre” aveva
replicato Lilyana, differentemente dalla loro madre … Le
alleanze andavano murate.
“Il ragazzo è più noioso della terra,
ho seguito lezioni di filosofia morale
più interessanti” aveva replicato suo fratello,
“Cosa è la filosofia morale?”
aveva chiesto ingenuamente Juris, “Il corrispettivo dei
broccoli quando studi”
aveva risposto subito Dominik, facendo ridere il nipote.
“Pensate che la mamma
mi permetterà di unirmi all’esercito?”
aveva chiesto Alina.
“Non
se sposi il principe di Fjerda” le aveva risposto Dominik,
mentre Liliyana era
stata di meno parole, “No” Aveva detto.
Alina
aveva sbuffato, “Questo è colpa vostra”
aveva detto con voce acida.
Vero”
le aveva concesso Dominik, “Scusami se mi è
successa una cosa orribile” aveva
replicato Liliyana, chiudendo le mani sulle orecchie di Juris.
Alina
aveva osservato il viso di sua sorella tingersi di
un’espressione pregna di
sofferenza.
Non parlavano mai di quello con Lilyana, a meno che non fosse lei a
tirare
fuori l’argomento.
“Be, questo silenzio è diventato orribilmente
noioso; sono venuto qui solo per
assicurarmi che Alina sia vestita magnificamente questa sera”
aveva scherzato
forzatamente Dominik, “Per quello puoi essere tranquillo. Ho
un vestito nuovo …
e non pervinca” aveva scherzato la ragazza.
“Posso venire anche io?” aveva chiesto Juris,
seduto sulle ginocchia di suo
zio, “Lo portiamo alla palude?” aveva chiesto
Dominik, “No, quando sarai più
grande” aveva detto gentile Lilyana, tutta la sua
compostezza, ferocia e
rigidezza si scioglievano davanti al suo bambino dalle guance rubiconde.
Alina poteva osservare come non solo l’espressione di sua
sorella fosse dolce,
ma anche quella di suo fratello non era da meno. Terribilmente
addolcito
davanti a quella allegra famigliola.
Alina sapeva che c’era stato un tempo in cui suo fratello era
stato innamorato
ed uno in cui era stato fidanzato con Merissa,
l’ambasciatrice di Novyi Zem, ma
erano passati quasi dieci anni da quel momento. Quando era nato il
Piccolo
Nikolai, Dominik aveva annunciato che non aveva alcun desiderio di
prendere
moglie o sposarsi, Ravka aveva già i suoi piccoli eredi.
Però
Alina vedeva quella fame nei suoi occhi.
“Ti
sei almeno pettinato i capelli?” aveva chiesto Liliyana
allungando una mano,
per tirare un ciuffetto di capelli del fratello, “I pettini
di sua maestà Dalai
hanno denti troppo sottili” aveva risposto divertito suo
fratello, “Sai i
capelli Shu sono molto diversi” aveva scherzato, arruffato i
capelli scuri del
nipotino.
“Oh sankti!” aveva risposto Alina, davanti quella
ammissione così sfacciata,
“Tu come …” aveva cominciato Lilyiana.
“Stai dicendo che il mio fascino non
potrebbe fare breccia nel cuore della gelida Signora del Cielo
Azzurro?” aveva
chiesto retorico, “In nessun modo” aveva dichiarato
la loro sorella maggiore.
“Come? Sono forse dieci anni o anche più che
cerchi di convincermi a …
stenderla sulla schiena” aveva risposto pratico Dominik,
senza perdere il suo
sorriso affabile, ricorrendo ad un eufemismo per proteggere le orecchie
di
Juris.
Lilyiana
aveva sollevato un sopracciglio scuro: “Questo era prima;
ora conosco
Dalai, conosco i gusti di Dalai.” Anche
Alina gli aveva notati, la bella
giovane regina di Shu Han si era presentata alla corte con una zia
– non la
precedente reggente Erhi rimasta a fare la castellana –
alcune delle sue
terribile guerriere protettrici, la figlia maggiore – e la
minore di due anni
appena rimasta in capitale con la principessa Erhi – il
fratello gemello Huidi,
consigliere dalla lingua lunga e velenosa, e due sue concubini. Ambedue
erano
alti, pallidi, con capelli neri e lisci come seta ed inequivocabilmente
shu. Forse voleva essere certa di lavare via il suo sangue misto
– Alina aveva
distintamente sentito la madre del conte di Semyon dirlo la sera prima,
con una
rude cattiveria, ‘Peccato che la nostra tsarevich
non fosse dello stesso parere’
aveva risposto suo figlio Viktor. Se Alina mal tollerava qualcuno era
sicuramente Viktor Semyon, provava una pena infinita per la povera Anya
Karkoff.
“Non
tutti vogliono trombarsi il tuo maritino … chiaramente non
parlo di me,
avrei un paio di idee che rovinerebbero la tua vita sessuale per
sempre” aveva
dichiarato Dominik, chiudendo le orecchie del nipote alla parola
volgare, Juris
non aveva apprezzato molto e si era divincolato veloce, “Sono
un bambino
grande!” si era subito lamentato.
Forse,
non tutti agognavano di dormire con il principe consorte, ma alla
regina Dalai
non dispiaceva affatto l’uomo, lo aveva notato anche Alina
– e a detta di Tatiana,
Alina era ottusa in materia, doveva anche concordare, la sua avventura
di baci
con Meesha durante la Festa del Burro rasentava il miracolo.
Proprio tra Sankt Ilya delle Catene e Sankt Gerasim
l’Incompreso stava lei la Sankta
Principessa dei Baci Miracolati. “Ho gli artigli,
Dominik, non costringere
a mostrarteli” aveva replicato Lilyiana senza perdere il
sorriso. Non era
una metafora.
“Hai
ragione, comunque. Non ho il fascino per la Regina Celeste, cosa che
ancora
oggi fa sanguinare il mio ego” aveva ripreso a parlare
Dominik, risvegliando
Alina dai suoi vagabondaggi mentali, “Ero con una delle sue donne
di ferro,
sai quelle super letali armate con spade affilate; per la precisione:
Min-Han Kir-Zu,
una novellina, un tipino … estroverso”
aveva cominciato a raccontare
Dominik, misurando le sue parole in presenza del piccolo Juris.
Lilyiana
si era morsa un labbro, “È quella con alcune dita
in acciaio grisha?” aveva
chiesto. Alina non aveva neanche notato che ne esistesse una
così.
Ricordava
le Tavghard come un gruppo indistinto di esseri che si muovevano al
fianco
della loro regina, con i visi bianchi come la polvere e le labbra tinte
di
rosse. Un unico organismo diviso in più corpi. Alina si era
anche guardate le
dita trovandole nodose e magra e pensando se riuscisse a ricordare chi
tra le
donne avesse le dita scintillanti di acciaio; non riusciva davvero a
ricordarne
una specifica. Era turbata però dall’ingegneria
grisha, dalla capacità di
impiantare quel materiale nel corpo delle persone, qualcosa che neanche
la
scienza di Ravka era mai riuscita a fare, e ricordava con un certo stordimento
il corpo modificato di Reyem e dei suoi simili.
“Sì,
che occhio sorella. Comunque, la dolce Min, dopo avermi fatto vedere
davvero il
regno celeste, mi ha velatamente fatto comprendere che il principe
Huidi
Yul-Taban
sarebbe interessato a
corteggiare Meri” aveva considerato. “Penso sia
ammirevole come tu voglia
trovare un fidanzato alla tua fidanzata” aveva sputato fuori
Alina, senza
accorgersene.
Merissa
Nassau non era la promessa sposa di suo fratello,
ma erano rimasti buoni
amici, la giovane era stata accolta a palazzo come ambasciatrice da
Novyi Zem e
spesso Alina aveva visto i due in compagnia legittima, ridere e
scherzare.
Aveva spesso chiesto a Lissa, secondo lei, perché non si
fossero maritati.
Merissa era ricca e importante, anche se non aveva sangue nobile
– d’altronde
neanche la loro madre ne aveva – ed era una persona capace di
far sorridere
Dominik.
“Questo è una notizia interessante, per diverse
ragioni” aveva considerato
Lilyana, “Una Tavgharad non lascerebbe sfuggirsi
un’informazione così
succulenta sul fratello-gemello della regina, senza l’ordine
diretto della sua
regina, neanche per la tua bellezza” aveva sussurrato,
tastando con delicatezza
il naso tondo del suo piccolo bambino. “Non dubitare della
mia straordinaria
bellezza” aveva replicato Dominik, “Noi Nazialensky
siamo bellissimi per
natura” aveva aggiunto, strizzando una guancia a Juris in
cerca di complicità.
Lilyiana
lo aveva deliberatamente ignorato, proseguendo con vigore:
“Sogna, piccolo Dominik
… le ipotesi sono due: o Dalai ci sta chiedendo delle
facilitazioni o Dalai
vuole farci pensare che le interessa Novyi Zem.”
“Si
stanno sposando gli equilibri evidentemente, cara
sorella …” aveva
considerato Dominik, il tuo tono era carico di una
allusività pericolosa.
Le
labbra di Lilyiana si erano fatte per un secco strette come se avesse
inghiottito un limone, “Vedo” aveva considerato
nervosa, poi aveva fatto
silenzio ed aveva osservato con discreta cupezza Dominik. Alina vedeva
gli
occhi dei suoi fratelli fissarsi, come se nessuno nella stanza oltre
loro fosse
presente. Stavano parlando, senza pronunciare neanche una parola,
mentre Alina
si sentiva tagliata fuori da quella conversazione muta. Non era mai
stata
particolarmente brillante, in quel lato non così splendente somigliava
a sua
madre, Alina lo sapeva. La grande e potente Zoya era
risoluta, era potente
e brillante, a suo modo, ma non possedeva quella sottigliezza letale di
suo
marito Nikolai. Dominik e Liliyana erano i figli di Nikolai Lantsov.
Suo
nipote Juris si guardava intorno, osservando madre e zia, prima di
voltarsi
verso Alina, con gli occhi champagne piene di confusione – perfetto!
La
sua consapevolezza di quanto stava succedendo era la stessa di suo
nipote di
cinque anni. “Perché tutto quello che sento
è: ci serve Fjerda?” aveva
domandato retorica, poi, Alina, più per inserirsi nella
conversazione che altro.
“Noi siamo Ravka, dolce sorella, a noi
non serve niente, neanche
Fjerda” aveva replicato sua sorella, con un sorriso nervoso
ed uno strano
accento su quel pronome.
Noi.
Il sorriso di sua sorella era rimasto lì, fermo, mentre
quello di Dominik era
molto meno cristallizzato, ma terribilmente più pesante,
quasi soddisfatto. “A
proposito di Fjerda, il principino mi è sembrato anonimo,
aspetto a parte”
aveva soffiato suo fratello, come un gatto sornione, “Spara
bene, però” aveva
provato Alina, “Guardati dagli uomini tranquilli, sorellina,
è l’acqua cheta
che rovina i ponti” aveva aggiunto.
“Cheta
che vuol dire?” aveva chiesto Juris con innocenza.
“Cosa
è stato lo scambio di sguardi così sinistro tra
te e Lilyiana?” aveva inquisito
Alina, mentre abbandonavano le camere di Lilyana che aveva un
appuntamento con
il suo buon-padre, arrivato con la delegazione shu-hannita. Ogni volta
che sua
sorella doveva incontrare il padre di suo marito rimaneva sempre
piuttosto
nervosa, come se non fosse la principessa della corona di Ravka, la
figlia del
drago e alle domande di Alina, rispondeva spesso con un evasivo
‘Dalai era
invaghita di suo figlio’.
Forse Alina non era la più fine degli strateghi ma
immaginava che la mano della
futura regina regnante di Ravka, ufficiale, fosse meglio che starsene
sulle
lenzuola nehulite della regina di Shu-Han con altri due uomini. Erano
pochi gli
uomini dell’harem che riuscivano a raggiungere un grado
elevato, di solito
spettava solo al padre dell’erede designato – e
solo dopo che la principessa in
questione fosse ascesa al seggio reale.
“Quale
sinistro scambio di sguardi?” aveva domandato con finta
innocenza Dominik, “Non
trattarmi da scema” aveva replicato lei, “Oh, be,
anche alle sorelle capita di
essere indisposte quando dici che vorresti dormire con il loro
marito” aveva
scherzato Dominik.
“Non
riesco a capire neanche se sei serio o meno” aveva ammesso
Alina, “Più serio
che mai, il nostro buon-fratello è decisamente un bella
creatura” l’aveva
beffata. “Non sono stupida affatto, è tutta la mia
dannata vita che vi vedo
fare questa danza strana” aveva replicata Alina.
“Danza
strana?” aveva indagato Dominik, le sopracciglia
bionde crucciate ed un’espressione
di genuina confusione. “Come se voleste mettervi una lama
alla gola o non
sapeste come dirvi che vi volete bene” aveva ammesso,
“Sorella, così la fai
sembrare una qualche fantasia incestuosa” aveva replicato
Dominik.
“Primo:
non lo intendevo assolutamente così, secondo: mezzo-regno lo
pensa, ho
letto libelli raccapriccianti” aveva ammesso Alina.
“Oh,
è tu hai perso il periodo in cui scrivevano storielle sconce
su nostra madre,
nostro padre e Genya” era diventato evasivo lui.
“Smettila” aveva dichiarato
Alina indispettita. “Non preoccupati, Alina, io e Lilyiana
siamo sempre stati
così” aveva considerato Dominik. “Certo,
perché lei si è trasferita al Piccolo
Palazzo quando avevi sette anni, ma indovina un po’, io ne
avevo cinque quando
me te ne sei andato” aveva replicato pratica lei,
“Per non parlare del mio
rapporto con Lilyiana è tutte le complicazioni che ne sono
derivate” aveva
aggiunto circostanziale, “Ma voi non vi comportate
così con me” aveva aggiunto.
Suo
fratello l’aveva guardata con un principio di stupore, prima
che il viso si
addolcisse appena, con un sorriso delicato,
“Perché sei la nostra sobachka
e ti amiamo” aveva squittito.
“Sai
come si chiama questa, Dominik? Accondiscendenza”
aveva spiegato Alina
con un tono di voce duro, riconoscendo la dolcezza fin troppo melensa
nel tono
di suo fratello maggiore. “Oh ‘Lina, non mi
permetterei mai di trattarti così”
aveva risposto svelto Dominik, con quel suo sorriso incantatore.
“Ti odio”
aveva replicato Alina, arricciando le labbra, con più
melodramma nella voce di
quando volesse, prima di abbandonare il fratello in mezzo al corridoio
–
accompagnata dalle risate non molto gentili di Dominik. Doveva
raggiungere
Vasilissa e doveva parlare con la sua amica.
Era
strano per Alina dover cercare Vasilissa, di solito era sempre Lissa a
gironzolare nei suoi intorni, ma sapeva che mentre lei doveva occuparsi
delle
lezioni di dizione, etichetta e geografia – Sankti, Alina non
aveva idea del
perché sua madre volesse che sapesse così tante
nozioni su quella materia – la
sua amica aveva un lavoro da svolgere e di
quei giorni sostituiva la povera Maria, allettata dopo un parto
difficile, e
stava organizzando le nozze del suo amico Yusuf, con qualcuno con cui
non
avrebbe dovuto sposarsi. Per Alina era così strano pensare
al fatto che Lissa
era una sua amica e la sua cameriera; da bambina, oltre Lissa
ovviamente, che
sembrava non disturbare mai sua madre come compagnia, aveva avuto una
sfilata
di dame da compagnia che neanche Lilyiana aveva potuto vantare.
Ovviamente, la
principessa della corona era un grisha e la sua corte l’aveva
trovata nel Piccolo
Palazzo. Ad Alina era toccata l’incombenza di avere un corteo
più politico.
Il problema di Alina era che nessuna delle sue compagne era mai durata
troppo a
lungo, tranne Lissa. Alina riconosceva che alcune delle sue dame si
fossero
allontanate dalla sua personalità irruenta – anche
a quell’età, Alina non era
molto principesca – ma altre, non sapeva neanche come fossero
scomparse. Si
rendeva conto, in quel momento, da adulta, o quasi, che dovevano essere
esistiti giochi politici che non vedeva. Ogni dama che
l’aveva accompagnata era
stata frutto di un’attenta analisi politica, che era sorta e
scomparsa con un cambio
di alleanze.
Passavano
tutte,
comunque, tranne Lissa.
Aveva
imboccato il corridoio per l’ala regale, un piano sotto il
corridoio
principesco, trovando la porta delle stanze di sua madre, sorvegliata
da una
guardia, che aveva desistito dal farla entrare.
“Non è qui” aveva risposto secco
l’uomo, riferendosi a Lissa, ma si era rivolto
a lui con un tono piuttosto perentorio, come se avesse parlato ad una
ragazzina
sciocca e non il frutto dell’autunno, la Principessa.
“Lissa non salta mai il suo dovere” aveva
replicato, lanciandosi contro la
porta ma l’uomo l’aveva bloccata, facendole
lanciare uno strillo.
“Volchik!”
una voce aveva rimproverato l’uomo, Alina aveva sollevato lo
sguardo osservando
il viso adirato di suo padre, sbucare dalla stanza di sua madre.
“Sua maestà mi
perdoni, io non …” aveva detto quello,
“Non avevi riconosciuto la principessa, mia
figlia?” lo aveva interrogato con un tono severo
suo padre, “Mi perdoni”
aveva miagolato Volchik, lasciandola finalmente.
Alina
si era allontanata dal soldato per raggiungere suo padre, che
l’aveva accolta
subito in un abbraccio rassicurante, accarezzandole anche gentilmente i
capelli. “Che succede, moya lapushka?”
aveva chiesto con dolcezza suo
padre.
Oh,
c’erano tante risposte a quella domanda. “Cercavo
Lissa …” aveva balbettato,
mentre suo padre l’allontanava leggermente dalla porta della
camera della
regina. Volchik si era rimesso sull’attenti. “Oh,
sì, certo, la giovane
Vasilissa, non è qui … Con l’arrivo
della corte Shu-Hannita ieri e con quella
Errante questa mattina ho-abbiamo convenuto fosse il
caso di
ridistribuire i domestici” aveva detto evasivo suo padre.
“Aspetta, quindi,
nessun simposio speciale per il Marshal?” aveva chiesto Alina.
“Avremo la festa di questa sera, con la presenza di tutte le
corti del Mare
Vero” aveva considerato suo padre, rassicurante,
“Meno i kerchiani” aveva
valutato Alina, “Tecnicamente ci sono degli esponenti dalle
Colonie del Sud,
che sono ancora alle dipendenze di Kerch quindi non potranno accusarci
di non
averli aspettati …” aveva considerato suo padre
con un tono giocoso, “In realtà
mi dispiacerà di non godere della compagnia di Jesper Fahey
è un animale da
festa, ma è un biglietto unico con la Testa del Concilio dei
Mercanti di Kerch.”
Alina
si era morsa il labbro, “Problemi con il sovrapprezzo
dello zucchero?”
aveva chiesto Alina, “Oh, la mia laphuskha molto
attenta” lo aveva lodata suo
padre, Alina aveva roteato gli occhi, “Come ho detto anche a
tua madre: useremo
il miele” aveva scherzato.
“Moy
Tsar” si era avvicinato un servitore, Petyr se non
sbagliata, vestito di
bianco, con ricami d’oro, era l’attendente di suo
padre, “Il duca di Keramzin è
qui” aveva detto l’uomo rispetto. “Gloria
ai Sankti, una buona notizia” aveva
sussultato suo padre.
“Perché
è successo qualcosa?” aveva bisbigliato Alina,
“Aspetta qui, moya lapushka”
aveva considerato Nikolai, lasciandola alla mercè di Petyr,
sparendo dietro la
porta della camera di sua madre. Era contenta che i suoi genitori si
fossero
riuniti, almeno.
Alina
aveva riconosciuto un certo vociare, da un lato era suo padre,
dall’altro era
Genya. Alina riusciva a percepire volessero urlarsi l’uno
addosso all’altro, ma
erano volenterosi di voler tenere i loro toni cupi e bassi.
Bene,
dopo le conversazioni mute dei suoi fratelli, aveva proprio bisogno di
quella
stranezza. Si era voltata verso Petyr in cerca di risposte,
“È arrivata anche
la duchessa?” aveva chiesto, “No sua altezza, la
duchessa è rimasta a Keramzin,
mi è stato detto” aveva ammesso l’uomo
pratico.
Ad
Alina dispiaceva, provava genuino affetto per la duchessa, nonostante
il titolo
nobiliare che aveva ricevuto, era una donna così diversa
dalle grandi signore
del palazzo, indossava il sarafan come una
popolana, aveva capelli
candidi come la neve, con coroncine di fiori che intrecciava a mano e
sorrideva
sempre a tutti.
Il
bisticcio nella stanza si era interrotto con l’uscita di
Genya dalla camera,
vestita di scarlatto corporalki, ma senza kefta, con la mantua
monocolore, pizzo nero sul collo ed una longa lunga con la coda. La
benda di
seta, di un nero fulgido, su cui spiccava il sole di Sankta Alina.
“Allora!”
aveva esordito il triunviro, “Alina oggi è un
giorno molto speciale, sarai la
rappresentanza di tua madre con i nobili” aveva considerato
Genya prendendola
sottobraccio, “Genya, cosa succede?” aveva chiesto.
“Tua madre è indisposta, la regina Dalai la ha
sfidata ad una gara di bevute,
tua madre è un drago per tantissime cose, ma non regge bene
né il vino né il
kvas” aveva replicato Genya, mentre un molto perplesso Petyr
faceva loro
strada, “Nikolai ha deciso di rimanere con lei, sai,
questioni da coniugi, per
quanto io ritenga che una guaritrice del mio livello sia più
utile, ma cosa
vuoi che sia” aveva blaterato Genya, “Oggi, farai
un po’ di pratica cortese …
Un giorno potresti dover fare questo lavoro più
spesso” aveva dichiarato.
“Pensavo
che a Fjerda le donne non dovessero fare molto” aveva
considerato Alina, “Non
mi pare che la buona regina Mila sia d’accordo”
aveva risposto di getto Genya,
prima di sollevare un sopracciglio rosso fuoco, “Oh
… ma guarda come è
ambiziosa la mia bambina che già si vede regina della
neve” l’aveva presa in
giro.
Petyr
aveva condotto Genya ed Alina in una stanza riservata, per accoglienze
più
riservate e modeste, non che esistesse nel Gran Palazzo qualcosa di
veramente
modesto.
La
guarda alla porta le aveva annunciate a gran voce, “Sua
altezza Alina Zoyaenva
Nazialensky, tsarevich della Grande e Potente Ravka, contessa di
Polvost e sua
eccellenza Genya Safin, triumviro dei grisha, soverenyi
dell’esercito
reale e Signora del Piccolo Palazzo” aveva decantato.
Nella
stanza soggiornava l’Ammiraglio Vladislaw Effimov, signore di
Kyoska e padre di
Meesha. Con la kefta rossa colporalki, con i decori arricciati del suo
stato di
healer ed appuntato sul petto i suoi gradi da
marinaio. Somigliava in
maniera quasi inquietante a sua figlia, stessa carnagione olisse, con
ricci
serpentini del colore del mogano scuro e gli occhi grandi come piattini
da te,
del colore delle castagne tostate, ma ciò che ad Alina
spiccava sempre alla
vista erano le loro differenze, Vladislaw aveva un naso, distinto, dove
Meesha
poteva sfoggiare un gobbetta, all’attaccatura degli occhi,
che le dava un
aspetto più peculiare, aveva un visetto dolce, dalla forma
di all’insù di cuore
e i polsi stretti e delicati. L’ammiraglio era stato il primo
ad inchinarsi,
seguito dagli altri due uomini nella stanza – che con molto
imbarazzo Alina
aveva notato poi.
Il
più giovane era un uomo fatto e finito, con capelli castani,
leggermente
allungati, che si piegavano in ondine morbide, indossava una giacca
elegante di
velluto bianco sporco. L’altro uomo era più
vecchio, doveva avere un’età simile
a suo padre, la pelle rosata dal sole, che rovinava altrimenti un
aspetto
dignitario, ma non per questo lo imbruttiva. Anche alla sua
età il Duca di Keramzin
era un uomo piacente, con un viso elegante, occhi blu splendenti,
accompagnati
da un viso segnato dalle rughe, ma non rovinato, con capelli
sale-e-pepe tenuti
corti come un soldato, alto e imponente, che non conosceva la curva
della
vecchiaia, con indosso una giacca di seta con una trama nehluita, con
motivi
che ricordavano piccoli soli da raggi ondulati con punte aguzze, con
fili
d’argento come decorazione.
Altolocato, ma non
così altolocato, come al Duca di Keramzin piaceva
apparire dopo aver
ereditato il ducato dal suo vecchio parente. Non era nato di sangue
nobile, era
una notizia ormai vecchia e superato, le sue maniere erano troppo
rigide e
guerresche per essere quelle di un ragazzino lascivo
dell’alta corte. Qualcuno
diceva che fosse sì, davvero parente del vecchio Kerasmov,
il precedente duca,
ma il suo sangue fosse annacquato con la gente comune, qualcuno aveva
ipotizzato fosse il figlio spurio dell’uomo e qualcuno che
fosse uno degli
orfani che era cresciuto nel vecchio palazzo prima che
l’Oscuro lo radesse al
suolo.
D’altronde
Schievich Rosen aveva ricostruito il nuovo palazzo, aveva aiutato i
bambini,
aveva aiutato gli abitanti locali e quando il vecchio Kersmov era morto
a lui
aveva lasciato le sue terre e pure il suo titolo – non
avrebbe potuto, ma sua
madre Zoya ne era stata felice.
Alina
ricordava bene la cerimonia di investitura, aveva tredici anni, sua
madre
l’aveva portata a Keramzin – aveva insistito per
avere la compagnia di Lissa,
che aveva cominciato a lavorare al palazzo con sua madre, dopo che
l’anno prima
a Fjerda non era potuta venire ed Alina aveva reso il viaggio
fastidioso per
tutti, per primo il principe Matthias – assieme a sua sorella
Lilyiana. Il
primo momento, in tutta la sua vita, in cui sua madre l’aveva
obbligata a
passare del tempo con sua sorella maggiore.
Liliyana aveva bisogno di tranquillità, visto che il piccolo
Juris aveva
ufficialmente compiuto un anno. Alina si era divertita a Keramzin. I
duchi
avevano una casa piena di colore e vita, un grande parco e perfino un
lago, si
era rallegrata tantissimo, aveva giocato con i bambini da pari e pari,
ed anche
se per poco lei e Lissa erano tornate compagne, senza che i loro ruoli
pesassero sulle spalle …e ricordava ancora quando la
duchessa, fresca di
investitura, aveva schiaffeggiato suo padre, il Re.
Da quel che aveva capito: non era stata la prima volta!
Ed
un'altra cosa che Alina sapeva di Schievich Rosen era che fosse stato
un tempo
l’amante di sua madre – e lo aveva scoperto
origliando una conversazione troppo
sfacciata tra sua sorella e le sue amiche.
Le sembrava sempre strano, perché non aveva mai visto sua
madre accompagnarsi
con nessuno che non fosse suo padre. Il Duca era sicuramente un uomo
bellissimo, che anche nella sua vecchia otkazat’sya non
mitigata dai poteri
grisha si conservava splendidamente, ma suo padre era il sole.
Genya aveva sciolto la presa dal braccio di Alina per andare
ad accogliere
i due ospiti, ‘Mischa’ e
‘Schievich’ li aveva chiamati con
famigliarità,
baciandoli sulle guance, con Alina i due erano stati molto meno
confidenti,
l’uomo più anziano le aveva concesso un altro
inchino rispettoso, mentre il più
giovane le aveva baciato le nocche nude, facendola arrossire.
Genya
aveva passato una mano sulla spalla di Schievich amichevole,
“Cos’è quel
braccialetto?” aveva chiesto ammiccando al polso sinistro del
duca, prendendolo
anche. “Sul serio?” aveva domandato con una certa
perplessità, “La moda è la
mia prima scienza” aveva risposto.
Schievich aveva fatto oscillare il suo braccio dove Alina aveva potuto
osservare un bracciale di ferro lucidissimo, quasi brillanti, sottile
come un
filo di piombo, “Sì, non adatto ad un duca;
tecnicamente è osmio, lo
indosso come regalo, mia moglie ne ha uno gemello” aveva
spiegato Schievich
pratico.
“Bene, ora
che la hai nominata mi pare
di notare che tua moglie non sia qui?” aveva chiesto.
“Al-Marina ha ritenuto
d’uopo rimanere al castello a supervisionare le cose,
ultimamente abbiamo avuto
qualche ragazzino turbolento” aveva detto a disagio il duca.
“Sai, vero, che
non sei credibile? Non sei mai stato bravo a mentire,
Schievich” aveva sibilato
Genya, “Dobbiamo farci una bella passeggiata, sì,
i giardini sono splendidi in
questo periodo” aveva aggiunto a voce più alta,
“La principessa ha preparato un
brillante discorso sulla architettura riformista” aveva
ammesso.
“Mia signora, io avrei alcuni affari con il signor
Mikhail” aveva considerato,
allusivo, l’ammiraglio Effimov, “Oh, sì,
sì, credo di ricordare” gli
aveva concesso Genya con un tono elusivo, mentre prendeva sottobraccio
Schievich
al suo lato sinistro e Alina nel suo destro.
“Lo
sai che tecnicamente lui era in lizza per essere il tuo
padrino?” aveva chiesto
Genya, guardando Alina, ammiccando a Schievich. “Troppo di
basso lignaggio in
quel momento” aveva risposto di rimando il duca, mentre Genya
li conduceva
fuori dalla stanza.
Alina
era stata oliata dall’Apparat Vladim, nella Cattedrale Bianca
– non aveva
davvero idea perché i suoi genitori avessero scelto un luogo
così angusto –
davanti agli occhi di metà della sua famiglia, di alcuni
nobili e di Kalem
Kerko, il capo-in-carica di Novyi Zem, come suo padrino.
Lilyana aveva goduto della benedizione dell’allora, ancora,
principe Rasmos
Grimjor – prima che ascendesse al trono come Egemond I del
suo nome – di
Fjerda, come un passo avanti per mettere pace a quel conflitto che
ancora
esisteva nei confini. Se fosse esistita una regina o una potenziale
regina, Dominik avrebbe avuto la regina di Shu come madrina –
come per la
piccola Chabi Kir-Taban, erede di Dalai, aveva avuto Lilyana come
madrina – ed
era spettato a Genya ricoprire quel ruolo. Cosa che Alina
invidiava molto.
“…questo
è la scuola Tsybeiana, prende molte ispirazione
dall’arte Fjerdiana, possiamo
riconoscerlo dall’utilizzo di una decorazione astratta
composta da linee
continue, orientate in motivi ad intreccio, si differenzia
però da quella, per
l’utilizzo, quasi, spasmodico dei colori, tipico delle
maestranze ravkiane…”
stava ripetendo Alina, con tranquillità, aveva sempre
trovato una passione difficile
da spiegare per l’arte. Non qualcosa che voleva conoscere
visceralmente o amava
in maniera totalitaria, ma era un piacevole passatempo, per quanto poco
coltivato.
Schievich
e Genya la stavano guardando con un bizzarro disinteresse.
“Molto bella” aveva
ammesso il duca per nulla colpito, “Dalle mie parti si
preferisce la maestranza
di Shu Han, un sacco di volatili, particolarmente gli aironi”
aveva
replicato, evidentemente poco avvezzo alle arti.
Alina non sapeva cos’altro dire, mentre ancora stava
indicando la decorazione
fin troppo elaborata di una parete con dei decori finissimi ed
elegantissimi.
“Anche gli aironi sono belli” aveva provato Alina,
“Sono il simbolo della
famiglia del mio buon-fratello, il principe consorte” aveva
ricordato. “Sì,
bellissimi, non come questo obbrobrio che il Conte Poldunist di Ivets
ci ha
rifilato per la nascita del Piccolo Nikolai” aveva detto
Genya. “Secondo me Dimitrij
ha avuto buon gusto” aveva considerato sterile Alina.
“Ci?
Sei consapevole di non essere un membro della famiglia reale,
si?” Schievich
aveva preso in giro Genya, “Ti prego non fraintendere
l’amore che provo per tua
moglie, con quello che provo per te. Per me sei ancora il soldato di
cui
gettavo le lettere d’amore” aveva replicato
piccata, ma il suo occhio aveva
ancora gioco.
Alina
aveva inclinato il capo, scossa da quella informazione: Genya aveva
avuto un
altro uomo prima del marito di cui ancora portava il lutto?
E
come uomo aveva avuto l’amante di sua madre? O forse, il duca
era stato prima
invaghito di Genya, che all’ora era una cortigiana, e poi di
sua madre quando
era soldatessa?
Alina
agognava di sapere quei pettegolezzi, come il fuoco nelle notti
d’inverno nel
permafrost.
“Tutti
Sankti, non mi sei mancata affatto” aveva
detto il Duca, con un sorriso
quasi dolce sulle sue labbra. “Sì, anche tu mi sei
mancato molto,
particolarmente la tua adorabile mogliettina che ci aspettavamo di
vedere per
la desta del secondo ventennale” aveva inquisito Genya.
“Non si era detto che
mia moglie non dovesse frequentare assiduamente il palazzo”
aveva risposto il
duca, leggermente rosso in viso. Genya aveva aggrottato un sopracciglio
rosso,
“Sono passati quarant’anni. Penso che possa tornare
a frequentare assiduamente
il palazzo” aveva detto burbera. Schievich si era morso un
labbro, “Genya io …
ho davvero cercato di convincere Ali-Marina
a venire, al posto di
Mischa, ma si è imputata di voler rimanere al castello, per
supervisionare i
bambini” aveva risposto.
“Oh, per il cuore di Sankt Feliks, dimmi che non è
ancora arrabbiata con
Nikolai” aveva considerato Genya, quasi indignata, leggendo,
evidentemente
nelle parole del Duca la verità. Alina era oltremodo confusa.
Schievich si era morso un labbro, “Dimmi che non
è così” aveva ripetuto
Genya.
“No”,
aveva provato l’uomo con scarso successo, “Mi
rifiuto di credere che Alina
sia ancora arrabbiata con Nikolai!” aveva sibilato Genya, con
i denti stretti.
Alina
pensava di aver avuto le trabecole, perché era certa di aver
udito il suo nome
tra i denti di Genya. “Marina è una donna con
sentimenti tumultuosi” aveva
provato il duca.
“No, Marina…”
– e pronunciato così il nome da Genya, sembrava
impietoso
– “…è buona e cara, capace di
un cuore così grande da perdonare perfino il Darkling
e piangerlo amaramente” aveva ricordato; “Quello
con sentimenti tumultuosi…”
e nel dirlo Genya aveva sollevato le braccia – sciogliendosi
dalla presa – per
fare le virgolette alla parola, “… sei tu, mio
caro!”
Alina avrebbe potuto essere lì o a Ketterdam, che per i due
non sarebbe
cambiato nulla. “Dimmi che non stai fagocitando la rabbia di
tua moglie per una
tua qualche meschinità” aveva
abbozzato Genya, “No, come ti viene in
mente … io non … potrei mai” aveva
detto lui, cotto di imbarazzo.
Lei di rimando iniziava a rendersi conto che le cose che le sfuggivano
potevano
essere molto di più, doveva assolutamente parlare con Lissa.
Per un secondo
piuttosto vivido aveva pensato che il duca di Keramzin fosse risentito
verso
suo padre per aver sposato la sua amante. Alina sapeva che non tutti i
matrimoni nascevano per amore, particolarmente quelli dei nobili, dei
reali.
Sua madre aveva il potere ma aveva avuto bisogno di una buona mano per
la
politica, per gli appoggi, per i nobili. Nikolai era stato il politico
tra di
loro, anche in quei giorni, dopo più di trent’anni
di governo era il politico
tra i due.
Forse
Schievich Rosen era stato l’uomo che avrebbe sposato se fosse
rimasta Zoya
Nazialensky la terribile signora del triunvirato e non la Tsarina.
Forse …
“Mal
ho davvero bisogno che scriva a tua moglie per dirle di venire, Zoya ha
bisogno
di lei, io ho bisogno di lei” aveva
sussurrato Genya, ma non così bassa
perché Alina non potesse sentirlo. “Non
lascerà mai i bambini alla sola
presenza degli istitutori” aveva valutato Schievich,
“Oh, per i sankti, Mal, tua
cugina potrà fare una guardia fatta decisamente
meglio” aveva replicato
piccata Genya.
Mal?
Decisa ad indagare meglio, Alina aveva aperto la bocca, ma la sua voce
era
stata inghiottita da quella di un’altra donna.
“Oh
moya tsarevich!” aveva sentito Tatiana
Dubriv chiamarla, ondeggiando una
mano ed i riccioli biondi da nubile, e con quegli occhi vispi, mentre
costringeva al suo fianco un uomo fjerdiano piuttosto a disagio.
“Oh moya
sorveigein” si era rivolta poi a Genya quando
l’aveva notata ed aveva
occhieggiato anche il duca.
“Non credo di avere l’onore, ma sicuramente un uomo
di grande levatura” aveva
ammesso estasiata e procace.
Tatiana
aveva sei anni più di Alina e tutta la sfacciataggine che
poteva aver ereditato
dai suoi anni di formazione a Ketterdam e una spasmodica passione per
Alina. Era
stata una sua compagna per il tè e le aveva insegnato a
suonare il balalaika –
con scarsi risultati – e le raccontava sempre vicende
piccanti, senza vergogna,
del suo periodo alla Corte d’Oltre Mare.
I capelli erano un biondo
frizzante, tenuti sempre in ricci perfetti, indossava abiti colorati
con scolli
eccessivi, gonne pompose, con fronzoli, che aveva rubato dalla moda
kerchiana.
Tatiana
non era esattamente sua amica, ma si avvicinava al concetto ed era
anche così
diretta da sembrare una spada, nel bene e nel male.
“Il
nobile Schievich Rosen, dodicesimo
duca
di Keramzin” si era presentato senza indugio
l’uomo, “Oh, il salvatore di
bambini” aveva considerato. “Lei è
Tatiana Dubrovin, cugina dell’ambasciatore a
Kerch” aveva spiegato Genya.
Tatiana
aveva sbattuto le ciglia nei suoi occhi porcini piena di interesse,
forse
curiosa perché il Duca degli Orfani fosse a braccetto con la
Rovina.
Alina
aveva scavalcato la generosa scollatura a barca della sua amica, ed era
stato
davvero difficile, perché oltre la scollatura, Tatiana
offriva un seno davvero
florido, per guardare il suo accompagnatore. Era fjerdiano,
sì, era certa di
quello, poiché lo ricordava assieme alla delegazione di
Fjerda e se non fosse
stato per quello, non ne avrebbe avuto comunque dubbio.
L’uomo era attraente,
bianco come la carta soffiata, con i capelli biondo-argento come il
nevischio,
la giacca era grigio-perla ed invece di cedere nello stile direttorio
ravkiano,
era molto più elaborata, con le maniche gonfie sulle spalle
e strette sulle
braccia. La lunghezza della giacca superava le ginocchia, ma era aperta
sulle
gambe, fasciate di nero. Pantaloni, giacca e stivali erano tutti
finemente
decorati con motivi intrecciati fittissimi.
Era il fjerdiano che la
notte prima aveva fatto singhiozzare mezza Sala delle Letture, con la
sua voce
era carica di passione e dolore. Probabilmente il suo poema e la sua
interpretazione dovevano aver fatto breccia nel cuore caldo di Tatiana.
“Da
qualche parte ho anche una pro-pro-pro-zia che era anche una
principessa
Lantsov” aveva detto con una punta di eccitazione la Tatiana.
Il
fjerdiano aveva cercato di non presentarsi, nascondendosi dietro la
personalità
ingombrante di Tatiana.
“Ed il tuo amico?” aveva chiesto Genya, rivolgendo
l’occhio ambra verso lo
sconosciuto, riconoscendo chiara la manovra evasiva. La grisha aveva le
labbra
piene e dipinte di rosso distese in un sorriso accomodante, che non
raggiungeva
l’occhio sano, rimasto indagatore.
Il fjerdiano sembrava un cappone a cui dovessero tirare il collo,
nervoso come
un orologio … Meesha gli aveva detto, una volta, che il
nervosismo era rumoroso
come una campana, per i corporalki.
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Capitolo 20 *** Matthias III (40 D.F.) ***
Eccoci.
Avete presente l’ultima stagione di How I Met Your Mother?
Che tutta la serie
copriva solo ‘tre giorni’, la situazione
è questa.
Non odiatemi!
Buona Lettura RLandH
PS-
Ho riletto questo
capitolo un po’ di volte ma probabilmente è pieno
di errori …
Matthias
(40
anni dopo il Dissoluzione della Faglia)
“Stiorra,
io sono un grisha” aveva sbottato Matthias, raschiando un
coraggio che non
sapeva neanche di non sapere.
“Oh
…Questo è tanto da elaborare” aveva
esclamato Stiorra, con una voce
tremendamente in falsetto, sedendosi sul divanetto basso, con una mano
sul
petto esacerbando la pantomima. Il suo viso era fin troppo teatrale per
essere
preso sul serio.
“Stiorra”
l’aveva rimproverata lui, ponendo i pugni sui fianchi, in una
posa forse troppo
pomposa. La giovane donna, allora, lo aveva guardato con gli occhi
languidi,
“Va bene, scusatemi vostra altezza reale” aveva
ripreso più composta,
mettendosi dritta con la schiena, “Non so fingere reazioni
appropriate… è il
motivo per cui mio nonno ha ritardato il più possibile il
mio ingresso alla
corte, e non ho ancora avuto il mio cuore-di-legno, dice che sono
più
trasparente dell’acqua” aveva soffiato la giovane
donna.
Matthias
le aveva sorriso, togliendo i pugni dai fianchi per sedersi al suo
fianco.
“Quindi … lo sapevi già?”
aveva chiesto titubante. Stiorra era sicuramente una
ragazza sveglia, ma Matthias aveva paura di essere stato imprudente.
Una
imprudenza era pericolosa, specie se avesse aperto la
possibilità ad una
valanga contendente tutte le sue verità. Avrebbe reso nuda
la sua macchia nera.
La vita di Matthias sembrava un gruppo di bambole cave, quando pensavi
di aver
raggiunto la più piccola, ecco una fessura per
un’altra bugia.
Però aveva deciso di voler dire la verità
– una parte della verità,
almeno – a Stiorra, perché era l’unica
amica che avesse mai avuto. Forse era
stato ispirato dal sincronismo della principessa Alina e della bella
Vasilissa,
o forse perché, dopo aver visto il suo vero volto, aveva
sentito un altro pezzo
di se prendere fuoco e la macchia espandersi e scurirsi come un vortice
nero ed
aveva cercato un appiglio per non finirci impantanato, un appiglio che
non
fosse la sua madre bugiarda, almeno. Matthias
provava una rabbia così
sorda nel suo petto.
“Be,
le politiche piuttosto … perentorie contro i grisha sono
cambiate dopo il
matrimonio dei vostri genitori, inoltre, vostro padre, il re, da
giovane si
diceva fosse piuttosto cagionevole, ha subito un progressivo e
miracoloso
miglioramento dopo aver incontrato la regina Mila al Cuore di Legno.
Inoltre,
ogni volta che sono nervosa, tesa o mi sento rigida, in vostra
presenza, vostra
altezza, il mio cuore di calma sempre” aveva spiegato pratica
Stiorra, “Dunque
o siete il balsamo della mia anima o siete un corporalki”
aveva aggiunto
accondiscendente. “Non ti infastidisce?” aveva
chiesto Matthias, quasi timoroso.
“Vostra altezza reale, mia madre è del Knust, a
nessuno di quella zona
importava di questo … non come ai Fjerdiani” aveva
cominciato Stiorra,
“Inoltre, voi siete il principe e io una dama della
camera” aveva sospirato.
Matthias
si era sporto senza vergogna per stringerla in un fraterno abbraccio,
bisognoso. “Uhm” aveva sentito il singulto di
Stiorra, prima che le braccia
sottili ricambiassero la stretta.
Di solito era vergognoso ed indecoroso che un uomo ed una donna
condividessero
l’intimità di una camera da soli, figurarsi in un
comportamento così
sconveniente, ma da quando erano giunti a Ravka, sua madre si era fatta
molto
meno cauta con la rigida etichetta della corte Fjerdiana. Matthias non
poteva
ancora girare per i giardini con la sola compagnia della principessa
Alina, ma
poteva almeno dividere un salottino con Stiorra.
“Potrei
essere il balsamo della tua anima” aveva cercato di
sdrammatizzare Matthias,
anche se non era mai stato molto bravo, Stiorra aveva ridacchiato
quando si era
staccata dalla loro stretta, “Ovviamente … e se
volesse potrebbe anche farmi
sparire come polvere sotto un tappetto” aveva aggiunto.
“Primo a Djelhorm non esiste polvere sotto i tappeti, la
cugina Sonza li fa
sbattere tre volte al giorno … secondo, Stiorra la tua
personalità è
ingombrante” aveva aggiunto, “Non esiste modo che
io possa farti sparire” aveva
aggiunto.
“Immagino
che il mio bisticcio con Ava Kelvar si sia fatto notare
sì” aveva considerato
Stiorra, “Ma sai pensavo più qualcosa come un
tragico incidente, qualcosa come:
tragica caduta da cavallo e testa aperta come un melone …
che ovviamente non si
vedrà, dalla mia bara di vetro, dove sarò vestita
con quell’abito rosso che
ricorda le fiamme che mi ha regalato tua madre, e tra i capelli: i
gioielli
della corona – poi potrete riaverli quando sarò
tumulato – una cerimonia in cui
tutti piangeranno poi, diranno cose carine e Ioren leggerà
un elogio che farà
vergognare tutti lì per la loro mediocrità
… e fiorì di lillà come se
piovesse”
aveva considerato.
“Ho
paura di chiedertelo Stiorra, ma da quanto tempo hai organizzato il tuo
funerale?” aveva indagato perplesso Matthias,
“Vostra altezza, per chi mi avete
preso? Sono la dama da camera della Regina di Fjerda, organizzazione
è il mio
secondo nome. Ho progettato il mio cuore di legno, il matrimonio, i
battesimi
dei tre figli che avrò, a proposito due maschi e una
femmina, la loro festa dei
quindici anni, il cuore di legno della femmina, ed il matrimonio di due
di
loro, al secondo maschio temo toccherà la carriera
ecclesiastica e, ovviamente,
il mio funerale” aveva replicato.
“Grandioso,
quando sposerò Alina potrai organizzare anche le mie nozze,
perché Djel sa quanta
poca voglia ho di farlo” aveva scherzato forzatamente
Matthias, prima di
rendersi conto di non aver usato il Se. Non
credeva di avere comunque
molta scelta, certo a Dalai non mancavano cugine – ed anche
una figlia di sette
anni – e tutte le grandi famiglie per il mare vero avevano
compagne, due o tre
dignitarie Zemeni, la sorellastra del Marashal, le due figlie del
Presidente,
da Kerch non mancavano le proposte … sua madre aveva giusto
commentato qualche
mese prima che anche la nipote di Wylan Van Eck stava crescendo,
perfino Ravka
stessa aveva ben altre candidate notevoli da presentarli, Matthias non
poteva
certo negare di aver avuto un brivido durante la serata delle poesie
quando
l’Ammiraglio Effimov aveva casualmente reso noto che sua
figlia Meesha fosse
ancora senza cavaliere … ma Alina sembrava
l’unica, per stato e per eleganza.
Era
un pensiero strano.
Per
un momento il sorriso bello di Stiorra si era un po’
sghembato, “Ho già
ovviamente organizzato nella mia testa anche il vostro matrimonio, con
tutto
quello che la tradizione prevede” aveva scherzato poi
Stiorra, tornata su a
molla. “Forse, dovrai riorganizzarlo, bisognerà
fare una crasi con la
tradizione ravkiana, so che di solito non si fa, ma la mia probabile
futura
suocera è un drago” aveva
aggiunto. E non era figurativo.
Stiorra
aveva riso fresca, “Sono molto onorata che vostra
maestà si fidi così tanto di
me per organizzare le vostre nozze per il suo segreto” aveva
ammesso poi la
dama di sua moglie.
Matthias le aveva sorriso gentile, non sapendo come esprimere il suo
senso di
colpa: voleva disperatamente qualcuno a cui dire qualcosa di onesto,
anche se
piccolo, anche se tanti altri erano i segreti.
“In effetti, ci sarebbe qualcos’altro di cui
volerti mettere al corrente” aveva
aggiunto, mentre cominciava a dar voce a quell’idea
malsana che era
sorta la notte stessa dopo essersi guardato allo specchio la prima
volta. “Questo
mi spaventa un po’” aveva ammesso Stiorra,
“In effetti, potrebbe” aveva ammesso
Matthias, “Sarò onorata di aiutarvi, vostra
altezza, anche se ho paura” aveva
ammesso Stiorra, il principe non aveva potuto dire altro
perché un tocco sulla
porta li aveva distratti.
Una delle
guardie da palazzo lo aveva avvertito di una visita e dal fatto che non
avesse
chiesto a Matthias il permesso doveva significare che non poteva
rifiutarsi. Matthias
aveva concesso la porta ed aveva osservato il giovane druskelle che era
stato
messo di guardia alla sua porta – con le guance imporporate
di disagio quando
aveva scorto lui e Stiorra fin troppo vicini –
“Vostra altezza reale, la
principessa di Ravka ha richiesto la vostra presenza per una
passeggiata” aveva
sospirato. Alina doveva aver imparato l’etichetta.
“Accetto, ovviamente” aveva
risposto chiaro come il sole Matthias.
Il
giovane druskelle lo aveva guardato con espressione leggermente
incerta, “Ora,
vostra altezza, la principessa …sta aspettando qui
fuori” aveva aggiunto la
guardia piena di incertezze. “Oh!” aveva esclamato
Stiorra, “Sì, subito,
subito” aveva accettato lui, alzandosi e staccandosi di
fretta da Stiorra, “Vestito
così?” aveva indagato la sua amica, trattenendolo
dal fiondarsi fuori dalla porta.
Matthias aveva guardato quello che indossava, dei calzoni semplici
grigi e una
blusa bianca, un abbigliamento piuttosto domestico,
che non si sposava
bene con l’idea del principe perfetto di Fjerda, ma aveva
titubato a vestirsi
fino alla sera, quando avrebbero dovuto partecipare alla serata al
lago,
patrocinata dal Conte Kirigen che avrebbe aperto i Dieci Giorni di
Festa per il
secondo ventennale. “Uhm … puoi dire alla
principessa che il principe sarà
fuori in un momento!” aveva esclamato Stiorra, pizzicandoli
la camicia
all’altezza della spalla.
“La
giacca rossa!” Matthia aveva detto recuperando
lucidità, ammiccando a Stiorra,
mentre recuperava gli stivali lucidi di cuoio, da cui scendevano le
mostrine. Stiorra
gli aveva lanciato l’indumento senza preoccuparsi di
spiegazzarlo. La giacca
era di un rosso vermiglio, con delle figure floreali stilizzati di
colore
grigio scuro, due file di bottoni d’oro ed avorio per il
doppio petto e le
spalline rigide, con i pennacchi. Non era il suo solito abbigliamento,
ma
somigliava di più alla moda ravkiana.
Mentre infilava i bottoni nell’asola di fretta, Stiorra aveva
recuperato la sua
corona, “Per amore di Djel, metti la camicia nei
pantaloni!” lo aveva
rimproverato perentoria, Matthias aveva riso imbarazzato, mentre lei
appianava
i capelli aggrovigliati con le dita, prima di sistemare
l’anello di ferro sulla
sommità del capo. Ogni volta che indossava la corona, la
sentiva sul capo
pesante come un macigno.
“Come
sto?” aveva chiesto Matthias, guardando la sua amica,
“Sei sempre l’uomo
più bello del mondo” aveva considerato Stiorra,
con un sorriso leggermente
accondiscendente.
Matthias
sperava che Alina non fosse turbata dal suo aspetto non esattamente
impeccabile, d’altronde, la stessa principessa preferiva
indossare stivali da
cavallerizza e la finanziera da uomo. “Vostra altezza non
facciamo aspettare la
principessa. Creare l’attesa è compito di noi
donne” aveva ridacchiato Stiorra,
aggiustando la spilla con la forma dell’albero di Djel sul
suo petto.
Quando aveva aperto la porta il druskelle di guardia lo aveva
annunciato nella
stessa maniera piuttosto ingombrante dei Ravkiani, solo che i titoli di
Matthias sembravano esigui a confronto, lui era solo
il principe di Djelhorm.
“Buongiorno
Alina!” aveva esordito con allegrezza, dal giorno del tiro al
piattello
Matthias non poteva dire che si fossero avvicinati emotivamente, ma
avevano
preso la decisione piuttosto strana di non appellarsi con tutte le loro
formalità – come quando erano ragazzini ed erano
stati portati a pattinare sul
ghiaccio. “Oh! Buongiorno a lei, sua altezza reale, ma temo
abbiate sbagliato
sorella” aveva chiocciato una voce, quasi divertita.
Non
era la selvaggia Alina che lo aspettava fuori dalla sua porta, ma era
la
spettrale ed austera principessa ereditaria di Ravka: Liliyana.
“Oh!
Sua altezza, io pensavo che lei …” aveva
balbettato, “Fossi mia sorella,
comprensibile. Lei è al momento bloccata in
un’esposizione artistica a sorpresa,
se vuole posso condurla da mia sorella, ma prima avrei piacere nel
passare del
tempo con lei” aveva spiegato con un tono calmo e misurato.
Matthias non doveva dichiararsi poi molto stupito: immaginava che dopo
l’interrogatorio serrato del principe Dominik, avrebbe dovuto
aspettarsi anche
quello dell’erede.
“Io
ne sarei molto compiaciuto” aveva rivelato, gettando uno
sguardo a Stiorra alle
sue spalle, che aveva spalancato gli occhi davanti la principessa.
“So che
l’etichetta Fjerdiana non prevede che un uomo ed una donna
passino del tempo da
soli senza un accompagnatore” aveva aggiunto la principessa,
inclinando lo
sguardo verso Stiorra, riconoscendo la fraudolenza della loro
vicinanza, non
era un bene per Matthias, “Malcom, la mia guardia
può accompagnarci a qualche
passo di distanza, se desidera anche questo giovane druskelle, Niemi
giusto? O
la nobile Virtanen” aveva aggiunto calma. “Oh! Sa i
nostri nomi!” aveva sentito
bisbigliare Stiorra al suo orecchio – Matthias immaginava che
Lililyana dovesse
conoscere il nome di tutti i presenti nel palazzo,
“Sì, vostra altezza” aveva
risposto il druskelle.
Un
approccio completamente diverso da quello della giovane Alina.
“Io ho piena
fiducia nella sua guardia” aveva bisbigliato Matthias,
inclinando il capo per
guardare oltre Liliyana per vedere la sua guardia alle spalle, un
ragazzo
kaelish dall’espressione fiera ed il viso rovinato da
cicatrici che lo
deturpavano. L’immagine lo lasciò per un secondo
stravolto, quella era la corte
della regina Zoya, dove viveva la fantastica Genya Saffin, plasmaforme
più
dotata del creato, che avrebbe potuto cancellare quelle cicatrici.
“Però
apprezzerei anche la presenza di Stiorra, può seguirci
qualche passo indietro,
come di consuetudine” aveva considerato Matthias,
“Voi siete una donna sposata
e non vi è rischio che io …” aveva
interrotto la sua frase realizzando
l’impaccio di ciò che avrebbe dovuto voi.
“Sì, temo che non ci sia molto da
proteggere, la mia virtù è andata persa anni fa,
era un Fjerdiano, ma non è una
storia particolarmente interessante né bella”
aveva detto sfacciata la
principessa, allungando il gomito verso di lui. Non sapeva se fosse
stato per
la tensione tra le parti o per il gelo che si poteva respirare.
Matthias
aveva passato più di una notte nelle lande del permafrost,
nell’ultimo anno,
come rito di iniziazione per diventare uomo, con i giovani druskelle,
Joran e alcuni
giovani grisha, ma non aveva mai sentito così freddo.
La
formazione era composta da lui e Liliyana a braccetto, seguiti a pochi
passi da
una Stiorra incuriosita e la guardia spaventosa.
La
principessa era silenziosa, anche nei suoi passi, non stupiva pensarci,
era un
etherealki squaller, una signora dei venti e così sembravano
i suoi passi.
Indossava sempre il blu, in ogni occasione pubblica o meno che Matthias
l’avesse vista e somigliava molto sia a sua madre sia a sua
sorella. Aveva un
viso più chiaro della Regina Drago e capelli più
folti e neri di quelli di
Alina. Aveva la bellezza elegante delle donne della sua famiglia, ma
mancava
della lucentezza allegra della sorella minore né di quello
splendore quasi
divino che era irradiato dalla loro madre. Era sicuramente una
bellezza,
fredda, come le notti di inverno coperte di neve. Alta e snella, con la
pelle
chiara come lo zucchero di canna, folti capelli scuri corti fino alle
clavicole
– qualcosa che Matthias aveva notato unicamente nelle donne
Ravkiane e
sospettava fosse una moda dovuta ai gusti della principessa –
con zigomi alti
ed eleganti, occhi nocciola e ciglia lunghe e nere.
“Perdoni
la mia improvvisata, ma mi sembrava d’uopo che noi eredi di
grandi dinastie del
continente parlassimo un po’, noi siamo il futuro, avrei
invitato anche la
figlia di Dalai, ma la principessa Chabi ha solo sette anni”
aveva scherzato la
principessa e la sua voce aveva preso una sfumatura più
gentile, che aveva
fatto sorridere Matthias, “Inoltre, voglio rassicurarla che
le animosità di mio
fratello sono solo sue” aveva considerato lei.
“Mi
è parso solo un fratello molto protettivo” aveva
ammesso Matthias, “Lo è, come
io sono una sorella molto protettiva” aveva specificato
Liliyana, “Ma sono
anche la principessa di Ravka e lei è il principe di
Fjerda” aveva ricordato. Matthias
aveva annuito, “Non credo che avremmo lo stesso rapporto dei
nostri genitori,
ci sono anni di rapporti intessuti, di storie inesplicabili
… ma potremmo
essere buoni conoscenti” aveva
considerato con gentilezza Liliyana.
Lui
si era morso un labbro, “Potremmo anche essere buoni
amici” aveva
ponderato, voleva dire famiglia ma era sembrato fin troppo esagerato,
suo padre
gli aveva dato il benestare di fare ciò che voleva e da
quando aveva visto il
suo viso si era rifiutato di parlare con sua madre, che era
però sempre
sembrata molto positiva ad un matrimonio con Alina. “Provo
molta simpatica per
vostra sorella” aveva ammesso poi, imponendosi di non volgere
lo sguardo verso
Stiorra. Non voleva che la principessa di Ravka si facesse
un’idea bislacca,
specie dopo averli trovati in una stanza da soli. “Sono molto
felice di sentire
questa notizia, mia sorella è un’anima estrosa,
l’ammiro molto da questo punto
di vista” aveva confessato la principessa, con un sorriso
mesto. Qualcosa aveva
turbato Matthias, nel sentire quelle parole. La Principessa Liliyana
gli era
parsa molto malinconica in quel momento, ma non riusciva a ricordare
una sola
persona nel corso degli anni, che l’avesse descritta con quei
termini.
Della
principessa erede di Ravka si era detto qualsiasi cosa: che fosse una
fornace
esplosiva, la degna figlia di un drago; che fosse anche spietata; una
bestia
politica e, djel, carismatica come suo padre …ma in quel
momento, a Matthias,
era sembrata umanissima.
Per
un momento Matthias si chiese se fosse più simile a lei, se
potesse divenire
più vicino a Liliyana, che sua sorella. “Mia
sorella è un’appassionata d’arte
anche se non lo sa, pensa che sia un argomento insulso e che non
dovrebbe
impegnarla, ma in realtà sa molte cose ed è
incredibilmente colta da questo
punto di vista” aveva confessato Liliyana.
“Perché pensa sia un argomento
insulso?” aveva chiesto Matthias, confuso da quella
confidenza. La principessa
aveva sorriso mesta: “Mio padre è un ingegnere ed
un inventore, prima di essere
un re, un soldato o un marinaio, non disprezza la cultura ma il suo
cuore
riposa altrove, riguardo a mia madre, non è mai stata dedita
alle arti umane.
Io e Dominik le abbiamo imparate a modo nostro. Io dalla madre di una
mia
amica, Dominik – be, lasciamo perdere – ma Alina,
le ha imparate da Genya, ma
nessuno dei miei genitori si è mai molto speso per
permetterle di coltivare
queste passioni” aveva considerato.
“Il
che è un male … il mio istitutore dice che
l’arte in tutte le sue forme è una
delle cose che ci rende umani” aveva considerato. Una risata
mal-travestita da
uno sbuffo, come se Matthias avesse detto qualcosa di incredibilmente
divertente, prima di ricomporsi. “Fjerda è una
corte che mi ha sempre
affascinato per questo. Quando pensiamo a … voi Fjerdiani,
pensiamo alle armi,
alla tecnologia e pensiamo al futuro e quando pensiamo agli Shu,
pensiamo
all’arte, la bellezza ed il passato” aveva
confidato, “Ma lo ho sempre trovato
molto riduttivo” aveva aggiunto spenta.
‘Noi
quando pensiamo a Ravka pensiamo al potere e al
presente’ avrebbe voluto
rispondere Matthias.
“Quattrocento anni di divisione hanno reso il mio paese
arretrato nelle
scienze, nella tecnologia e anche nelle arti. Anche
nell’umano” aveva considerato
la principessa.
“Sembra
che vi siate messi ampiamenti in pari” aveva detto
circostanziale Matthias, non
sapendo come doverlo dire, “Stiamo correndo sì
… certamente per rendere il Gran
Palazzo degno della Corte di Ghiaccio e del Palazzo Celeste,
però abbiamo
ancora molta strada da fare” aveva aggiunto la principessa.
Matthias l’aveva guardata, “Puoi ammettere che il
Gran Palazzo sia brutto, è
una delle cose più note al mondo. Fosse per me, lo avrei
buttato giù e rimesso
su almeno quindici anni fa, ma va preservata l’Istanza
storica a detta di
qualcuno” aveva scherzato. “Genya Safin?”
aveva chiesto retorico lui, “Potrebbe
sembrare difficile da credere, ma contro Genya avrei potuto vincere la
discussione. No, mio padre” aveva raccontato lei. Non sapeva
perché, ma la cosa
aveva sconvolto Matthias: aveva dato per scontato che il Re Consorte
pendesse
dalle labbra delle sue due figlie, particolarmente della maggiore.
“Posso riconoscere che il palazzo sia bruttino,
sì. Spero con queste parole di
non dare inizio ad un incidente diplomatico” aveva ammesso il
principe, poi,
non sapendo cosa dire. Il Gran Palazzo era un pezzo
d’architettura di rara
bruttezza, “No, a meno che non ci siano piani per radere al
suolo questo posto,
allora sì” aveva replicato la principessa,
“Potremmo negoziare come sarebbe d’uopo
raderlo al suolo. Possibilmente evitando la città.”
Matthias
aveva visto un piccolo sorriso delinearsi sul viso della principessa
ereditaria, era un sorriso timido ma sembrava bello e profondamente
sincero,
che aveva fatto sciogliere anche lui
Liliyana doveva avere sulla trentina d’anni, Matthias non era
proprio sicuro,
ma sembrava più giovane grazie al suo sangue grisha, quasi
una sua coetanea.
“Siete
mai stati alla Corte di Ghiaccio, quindi?” aveva chiesto,
mentre osservava il
panorama attorno a loro. Lilyana lo aveva condotto in uno dei cortili
interni
del palazzo, ricordava di esserci passato per le messe, erano nella
direzione
della capella palaziale, l’unica parte che Matthias aveva
trovato
oggettivamente bella del Gran Palazzo di Ravka. Matthias ricordava
delle visite
della principessa Lilyana a Fjerda, in una di quelle ricordava di aver
pattinato con Alina sul ghiaccio, mentre a suo cugino Bjorn era dato il
compito
di intrattenere l’erede, ma ricordava anche fossero tutte
state fuori dalla
capitale – era buffo, non sapeva perché. Forse
c’era un accordo tra suo padre e
la regina Zoya, di incontrarsi sempre sul confino? Però non
ricordava di una
visita della principessa ereditaria alla capitale.
“Sì,
molti molti anni fa” aveva risposto Liliyana, i suoi occhi
stani si erano fatti
distanti, “Lei aveva un anno” aveva risposto.
Matthias
aveva spalancato gli occhi alla notizia, “Oh!”
aveva ammesso. “Sì, era il
bambino più bello che avessi mai visto, con le guance
paffutissime” aveva
spiegato, “Non ero mai stata molto amante dei piccoli umani
prima – sfido ad
esserlo con Dominik come fratello – ma ho pensato: oh,
sankti, se somigliano a
lui potrei avere anche io” aveva detto con estrema calma.
Matthias era
arrossito a quel pensiero, “Mi hanno permesso di prenderla in
braccio, di
solito non è d’uopo permettere a un dignitario
straniero di farlo, ma avevano
già deciso che mia madre sarebbe stata la sua
madrina” aveva spiegato calma.
Anche
quella era una cosa che confondeva, pensare che la terribile regina
drago fosse
la sua madrina, che la figlio prediletta di Djel avesse unto la sua
fronte
mentre lo teneva tra le braccia. L’aveva sempre chiamata
Vostra Mestà, ma
avrebbe dovuto chiamarla: Madrina? Per un secondo si era perso in quel
pensiero.
“Il druskelle-guardia di tuo padre mi ha guardato tutto il
tempo come se avesse
paura volessi lanciarti giù dalla finestra” aveva
scherzato. Dominik aveva
sentito un dolore acuto sullo sterno, come un pugno da togliere il
fiato,
“Joran … Joran è protettivo”
aveva ammesso. Liliyana aveva sorriso, “Sì, Malcom
si comporta nella stessa maniera quando qualcuno che non è
me o il padre tiene
in braccio il piccolo Nikolai e con Juris non ne parliamo”
aveva scherzato,
volgendo lo sguardo verso la sua guardia, che li seguiva a passo
marziale. ‘No’
avrebbe voluto dirle, ‘non è la stessa
cosa.’
Joran
… Joran … quando aveva scoperto la
verità – la parziale verità –
prima di
partire aveva chiesto ai suoi genitori se la loro guardia giurata
sapesse
qualcosa del loro inganno. ‘Non avremmo potuto riuscire in
niente senza Joran,
fetla’ aveva detto suo padre.’
Tutte
le vetrate della cappella erano state lasciate aperte, rispetto i
suggestivi
orari della messa, in modo che la luce fluisse preponderante dalle
vetrate
colorate, creando giochi di luci intriganti che ricordavano a Matthias
la
visione di un caleidoscopio.
La
chiesa era stranamente animata ed un gruppo di persone stava affiggendo
delle
decorazioni e sistemando sedie, al posto delle panche, e candele.
“È prevista
una celebrazione speciale, qui?” aveva chiesto Matthias,
pensava che tutte le
feste ed anche le celebrazioni si sarebbero rivolte alla palude
d’oro, “Una
specie. Ma è un segreto” aveva scherzato Liliyana,
“Mentre quasi tutti i nobili
saranno ai bagordi alla Palude d’Oro, il personale ha le sue
festività da
onorare” aveva spiegato pacato. Matthias aveva pensato
stupidamente, che a
Fjerda nessuno avrebbe pensato di occupare la cappella palaziale,
“In questo
caso una molto segreta, ma non succede niente qui dentro senza che io
non ne abbia
un vago sospetto.”
“Moya
Tsarevich!” aveva chiamato una voce femminile,
Matthias aveva riconosciuto subito la voce alta del Luogotenente
Effimov, “Oh,
la piccola Meesha” aveva replicato la principessa,
“O dovrei dire la Furiosa
Signora del Mare” aveva scherzato, “Devo
alla Frusta di Mare qualche
pinta per quel soprannome” aveva scherzato, facendo una
generosa riverenza ed
appellando anche lui. Matthias era trasalito alla menzione del
soprannome di Jordan.
I
capelli di Meesha, corti fino alle scapole – come quelli
della Principessa Liliyana
– erano di un riccio vorticoso, tra gli occhi portava un
gioiello bindi
di un rosso furioso, così come l’abito elegante
che Matthias non aveva mai
visto indosso a nessuna donna, con una lunga stola come gonna, che
saliva sul
busto ripiegata su una spalla e il ventre scoperto, che mostrava una
pancia
olisse piatta. “Vestita già per la
festa?” aveva indagato la principessa, “Oh,
sankti no” aveva spiegato subito la donna, “Non
parteciperò alla festa come la
nipote di mio nonno, ma come luogotenente, in alta uniforme. Ma oggi
iniziano
le Dieci Giornate e quando il sole sarà zenitale ho
intenzione di partecipare
all’Adorazione” aveva spiegato calma,
“Ero qui per convincere Padre Igor a
celebrarla” aveva aggiunto, ammiccando all’uomo di
chiesa.
Un
figuro vestito in blu etherealki con decorazioni d’oro come
raggi del sole
lungo le pieghe. Doveva essere un Sun Summoner, come
l’Apparat di Ravka, uno
dei pochi tipi di grisha che non esistevano a Fjerda, né in
nessun altro luogo.
Non erano mancati i tentativi di sua madre di invitarne alla corte.
“Moya
Tsarevich, moy prins” aveva detto l’uomo con un
inchino gentile ma contenuto,
“Se cercavate l’Apparat, il venerabile Vladim
è già al palazzo di Kirigin”
aveva spiegato pragmatico, “Sì. Mio marito
è andato con lui” aveva risposto Liliyana,
“Sono qui per mostrare al principe Matthias lo splendido
mosaico sotto l’arco”
aveva spiegato pratica. Meesha non era sembrata particolarmente turbata
e lesta
s’era fatta da parte. Una cosa che sicuramente Matthias
ammirava della corte
Ravkiana era che l’etichetta pareva molto più
libera, non doveva stupirsi
d’altronde, prima di essere Re consorte o addirittura Re
Regnante, Nikolai
Lanstov era stato un soldato e un marinaio, così come la sua
terribile moglie
era stata la figlia di due illustri sconosciuti. Era normale che la
corte fosse
così semplice, visto che uomini senza
passato aveva raggiunto la vetta
del mondo.
“Potremmo
anche partecipare all’Adorazione, è qualcosa che
sono sicura a Fjerda non
abbiate” aveva spiegato, “Anche solo
perché si fa per inizio della Celebrazione
della Riunificazione”. In effetti, non esisteva una tale
festa a Ravka.
Matthias
si era seduto sulla panca, lanciando uno sguardo a Stiorra, ma lei
sembrava più
interessata ad osservare il Sun Summoner, con una certa
morbosità. “Una volta
l’arco centrale aveva Sankt’Ilya, ma è
stato spostato per favorire il ritratto
di Sankta Alina, lo hanno messo al posto di quello di Sankta Elizaveta.
Una
sankta che mia madre non ama particolarmente lungi da me sapere
perché” aveva
spiegato.
“La senja preferita della mia è la
vostra” aveva ammesso Matthias non sapeva
perché, mentre osservava il viso di Senja Alina della Faglia
nella lunetta nel
centro dell’arco trionfale dell’abside.
Aveva visto molte Senja Alina, tutte diverse e tutte uguali, tutte
avevano i
capelli della neve, il vestito blu ornato di sole ed il nimbo
d’oro. Quello che
cambiavano erano i visi, la riccanza. Aveva visto Aline simboliche,
staccate
dalla realtà, altre realistiche, alcune sfacciate con il
finto viso di sua
madre. Alcune abbigliate come regine ed altre come senje semplici senza
monili
o altro. Ma tutte bellissime. Quella Alina, invece, aveva un viso
semplice. Un
naso piccolo ma ben armonico in un viso leggermente piatto, labbra
pronunciate
a cuore ed occhi grandi e castani, con una punta aguzza
all’estremità, come era
tipica dei Ravkiani delle zone meridionali. Un viso grazioso, ma ben
lontano
dal ricco viso di una Senja, però era famigliare.
“Io
… credo di conoscere la modella” aveva ammesso con
un parziale nervosismo,
“Davvero?” aveva chiesto stupita la principessa.
“La signora Ana Aleksandra R-”
aveva cominciato lui, “Temo quella sia
l’artista” aveva detto placido il prete,
“Sì” aveva concordato Liliyana,
“Questo mosaico lo ha fatto Drina, la
materialki più capace capitata al Piccolo Palazzo negli
ultimi trenta anni. Il
viso è di sua madre, Marina Rosen” aveva spiegato.
“Pensavo non avesse gli
occhi blu, perché l’iconografia di Senja Alina ha
sempre gli occhi scuri” aveva
considerato, pensando all’ineffabile occhi azzurro di Ana
Aleksandra.
Il
sorriso sul viso della principessa si era congelato, mentre tagliente
guardava
poi l’uomo che aveva parlato a sproposito. Meesha si era
avvicinata al prete,
per poterlo allontanare.
“Perché
siamo qui? Veramente qui? Mosaici a parte, si intende. Vostra altezza
reale”
aveva chiesto Matthias quando era rimasti da soli. “Questa
è una chiesa, questo
luogo è protetto da una sacra legge” aveva
considerato lei, enfatica. “Niente
di ciò che diremo uscirà di qui,
sì” aveva realizzato Matthias.
Liliyana
aveva annuito ed il principe di Fjerda aveva realizzato anche
un’altra cosa, la
principessa di Ravka lo stava trattando come suo pari, qualcuno stava
riconoscendo a Matthias il suo ruolo. Degli intrighi, degli affari,
degli
accordi, era sempre stata sua madre e per estensione suo padre a farne
da
padrone. Nessuno aveva mai preso sul serio Matthias, anche durante
l’ultimo
incontro con il principe Dominik, Liliyana aveva detto il vero: non era
stato
trattato come un membro fondamentale della corte, ma come un
ragazzetto. A
malapena aveva parlato con i dignitari zemeni e kaelish e
l’unico scambio d’opinioni
con la regina Shu era virato verso argomenti sterili e future
fidanzate. In
quel momento la principessa Liliyana non stava conversando con
Matthias, ma con
il principe di Fjerda … in cerca di un alleato? Di tastare
le sue idee, forse?
“Non
so se vorrà mai sposare mia sorella, se così
fosse, dovrà prepararsi a molte
descrizioni di opere d’arte e letture scabrose, sua altezza
reale” aveva scherzato
Lilyana , “E pistole” aveva soppesato lui,
“Vostra sorella ha una mira
mirabile” aveva ricordato. “Questo sicuramente
è qualcosa che i miei genitori
hanno incoraggiato” aveva considerato Liliyana, riprendendo
il vecchio discorso.
‘Ma non le avevano permesso di entrare
nell’esercito’ aveva pensato Matthias,
ma non aveva detto nulla.
“Io spero lei vorrà sposare Alina, ogni sorella
spera il meglio per la propria
… specie se ci sarà concesso essere amici,
principe Matthias” aveva spiegato Liliyana,
“Come le nostre madri prima di noi.”
Lui si era irrigidito, “Siamo le ultime vestigie di un mondo
che sta finendo,
di un antico regime, io, lei e la piccola
principessa Chabi … al di là
del Mare Vero non esistono più re e principi”
aveva ammesso. Matthias lo sapeva
il Marshal di Kaelish era formalmente una carica ereditaria, ma era una
figura sempre
più simbolica che altro, al suo fianco vi era un gruppo di
persone che
equamente prendeva le decisioni. Novy Zem dopo la fine del loro periodo
tumultuoso avevano un signore che eleggevano dal popolo, le Colonnie
del Sud
erano qualcosa di ancora incerto ed embrionale, ma dipendevano dal seno
della
Ricca Kerch che aveva avuto l’ultimo signore più
di trecento anni prima ed
anche lui non era comunque chiamato Re.
“E
nessuno di noi è mai stato più in pericolo”
aveva considerato Matthias
lugubre.
Forse
Liliyana non sapeva dell’estensione dei misfatti dei suoi
genitori, ma non era
un segreto che la corona di Fjerda avesse avuto le sue tribolazioni,
quando
Rasmos Grijmor era salito al trono, con una politica così
pacifista, ed una
moglie incerta e l’ostacolo dato dal suo stesso fratello
minore. Fjerda era
unita, ma il cambiamento portato dai suoi genitori aveva attecchito
bene su una
parte della popolazione e meno bene su un'altra.
Shu-Han
aveva goduto di dodici anni di pace posticcia, che non potevano
mascherare e
sopperire ai venticinque precedenti, dove il regno era stato spaccato
in due da
una guerra sociale. La Regina Dalai era sembrata il compromesso tra le
due
reggenti, una giovane nipote, equamente vicina ed equamente lontana da
entrambe, con sangue misto aperto al mondo fuori il Palazzo Celeste, ma
il
paese era rimasto spezzato per un quarto di secolo, nelle loro
ideologie.
Ravka
era invece un disastro, mezzo-secolo di unificazione, non sopperivano a
due
mondi completamente diversi come Ravka est e Ravka ovest, inoltre,
ciò che
teneva in equilibrio il paese era l’amore, quasi adorazione,
dato alla Regina
Drago. Eppure, Matthias ricordava di aver sentito il suo istutore
commentare
che per qualcuno, il trono occupato dalla regina fosse usurpato e che
la dinastia
fosse quella che veniva chiamata militare – a Fjerda era
accaduto due secoli
prima, il passaggio dalla dinastia Levenko a quella dei Grimjor, aveva goduto
di vent’anni di Reggenza Armata – e
quello preoccupava probabilmente di più
la principessa Liliyana.
Se
quei pensieri di solito non lo avrebbero neanche sfiorato, non era
stato più
così da quando sua madre e suo padre avevano raccontato a
Matthias della grossa
e putrida macchia nera. Aveva sollevato la mano per toccare
l’anello di ferro
che era la sua corona trovandolo pesante e rovente sul capo.
Una
menzogna. Un usurpatore.
“Inoltre,
c’è anche l’altra cosa” aveva
ripreso a parlare la principessa, Matthias aveva
sollevato un sopracciglio biondo, “Le nostre madri sono
amiche come due sorelle
ed io non pronuncerò le parole che dovrei pronunciare e tu
non offenderai la
mia intelligenza negandole” aveva spiegato pratica. Sapeva,
realizzava,
qualcosa della vita famigliare di Matthias, ma non tutto sperava, forse
avrebbe
dovuto parlarne con sua madre. Liliyana aveva spostato la mano e senza
vergogna
aveva pizzicato il bordo della giacca rossa di Matthias.
Ah.
Era questo a cui la principessa stava alludendo. “Questo altro
terrore
neanche Dalai può comprenderlo” aveva considerato
la principessa.
“No”
aveva ammesso vergognoso Matthias. “Come lo avete
capito?” aveva chiesto con
una leggera preoccupazione, chiedendosi se fosse stato fin troppo
sciocco, che
la principessa avesse orecchie posate al muro, mentre Matthias rivelava
con i
suoi segreti alla dolce Stiorra. Liliyana aveva sorriso con
complicità, “Mi
crederebbe se io dicessi: dal simile al simile?” aveva
chiesto retorica,
“Probabilmente sì” aveva ammesso
Matthias, anche se era possibile che la
giovane donna stesse mentendo. Un sorriso amichevole era sorto sul viso
della
principessa, “Esistono persone in questo palazzo che possono
rilevare i grisha”
aveva considerato. Matthias aveva annuito, “Come gli
amplificatori umani” aveva
considerato il principe, ricordando alcune persone con quel talento,
guardandosi il polso, chiedendosi chi delle mille mani che aveva
stretto
potesse averlo sconvolto, “Non solo loro … e non
tutti hanno bisogno di
toccarti. Fai attenzione, anche Shu Han li ha” aveva spiegato
calma, quasi
materna.
“Ci
si abitua mai alla sensazione di essere predati?”
aveva chiesto
Matthias, grattandosi il retro del collo, con un certo nervosismo.
La
principessa non aveva risposto direttamente, preferendo dire:
“Questo purtroppo
è qualcosa che anche i miei fratelli non sanno e mai
sapranno. Loro pensano che
trent’anni di regno di mia madre abbiano assolto i grisha dal
terribile crimine
della loro esistenza, per la gente. Sono otkazat’sya, non si
sono mai dovuti
guardare indietro, non dovranno mai farlo. Non per questo
almeno” aveva
confidato e nel farlo aveva fatto roteare il suo polso in due
circonferenze.
Era un manierismo che Matthias aveva visto fare ad alcune persone, o
almeno
cose molto simili, anche sua madre ne aveva diversi. Ebbe la sgradevole
sensazione che la principessa invece sapesse che dietro le mura dorate
della
capitale il mondo non era ancora così gentile con quelli
come loro.
Sua madre avrebbe detto che la principessa gli aveva appena esposto la
gola, ma
suo padre avrebbe detto che era la mano che aveva esposto, per essere
presa. “E
non mi fraintenda io ho il cuore felice nel sapere che nessuno mai
cercherà di
catturarli, legarli, braccarli. Per anni entrambi mi hanno invidiato,
perché
vedevano la gloria del vento ma non il prezzo che ho dovuto pagare, il
fatto
che io non lo abbia chiesto, che io ho dovuto pagare lo scotto per
essere chi
sono” aveva confidato.
“Neanche io” aveva ammesso Matthias, “E
da ragazzino sono spesso stato male
perché … perché non potevo esprimermi
e non sapevo come farlo” aveva detto.
All’inizio
quando Matthias aveva scoperto del suo potere aveva avuto paura, una
paura così
strisciante da non aver avuto il coraggio di dirla a nessuno, neanche i
suoi
genitori. Poi lo aveva detto a Joran, quando lo aveva trovato in
lacrime che
continuava a cullare il corpo morto del suo piccolo coniglio
– ‘Io forse ho
fatto qualcosa. Io forse sono un mostro’ aveva pianto.
L’uomo era stato
comprensivo, era stato famigliare ed un porto sicuro e lo aveva spinto
a
confessarsi ai suoi genitori, che lo avrebbero compreso.
Sua madre suo padre erano stati così disponibili,
così magici.
Mentre
suo padre gli insegnava come usare il potere e gli raccontava di come
sua madre
lo aveva insegnato a lui. Matthias si era sentito meglio, per un
po’ aveva
pensato che il malore di cui aveva sofferto suo padre
nell’infanzia spazzato
via dalla salvifica presenza della Buona Regina Mila, dovesse essere
imputato
all’afflizione che avvolgeva i grisha che non esercitavano.
Matthias non era stato un bambino malaticcio, anzi a detta di tutti
aveva avuto
polmoni forti per piangere e gambe tese per correre, ma si era sentito
quasi
sfrigolante quando aveva cominciato ad esercitarsi. In segreto.
La
prima delle sue tante menzogne.
Aveva
guardato il bel profilo di Liliyiana e si era chiesto quanti segreti
custodisse
lei. “Penso mi piacerebbe più sposare voi che
vostra sorella” si era lasciato
sfuggire. “Oh, sua maestà. Si fidi di me: no. Mio
marito dice che sono la
regina delle bisbetiche” aveva scherzato la principessa.
“Sarei onorato di sposare la principessa Alina e di essere
vostro amico, come
le nostre madri” aveva confidato. Liliyana aveva annuito,
“Verbalmente la
proposta dovrebbe essere fatta da tua madre a mia madre, ma vorrei che
prima tu
lo chiedessi a ‘Lina” aveva raccontato con
gentilezza.
“Adesso facciamo qualcosa che a Fjerda non si fa.
L’Adorazione” aveva
scherzato, indicando il sacerdote che stava richiamando tutti, per
condurli fuori
dalla cappella palaziale.
Matthias aveva seguito il corteo al fianco della principessa della
corona,
seguito a ruota di Stiorra che si stava intrattenendo in una
conversazione
vivace con il luogotenente Effimov.
Il prete aveva condotto il suo seguito lungo il corridoio, fino poi ad
un
delicato chiostro rettangolare interno al palazzo, dove quattro bracci
di archi
ogivali sorrette da colone semplici, con capitelli tondi ed eleganti
sorreggevano
i portici. Il centro scoperto al cielo chiaro era composto di un manto
erboso
delicato, sul cui centro, Matthias si sarebbe aspettato un pozzo a
dominare la
scena, era occupato dalla raffigurazione morbida e delicata di tre
ancelle
danzanti.
Erano
tre giovani donne dal viso liscio senza denotati, come se
all’ultimo l’autore
avesse deciso che preferiva la scultura incompleta. Erano realizzate in
pietra
bianca luccicante ed indossavano kefte bianche con ghirigori incisi.
Tutte e
tre avevano una mano sollevata verso il cielo e le punte delle loro
dita si
incontravano, mentre l’altra sollevavano un frammento della
vestizione, che
scopriva così le caviglie nude, con i piedi in assetto di
danza.
Le
uniche differenze delle dame, erano le altezze e i fisici, una era di
statura
media, con la vita stretta e fianchi tondi, lunghi capelli sciolti in
onde
morbide, così ben fatti da sembrare morbidi,
anziché marmo lucido. Una era alta
ed imperiosa, con riccioli serpentini, che scendevano scossi dal vento.
La
terza era di una magrezza poco gentile con lisci capelli, che sembrano
scorre
come il latte.
Anche senza i visi, Matthias era certo che le tre statue fosse: la
regina Zoya,
la nobile Genya e Sankta Alina.
“Come funziona?” aveva chiesto curioso.
“È
un momento di raccoglimento che si fa sempre
nell’Anniversario della
Dissoluzione della Faglia. Prima di mangiare, di solito. Non ci sono
sempre
dieci giorni di festa, ma ci sono dieci giorni di
festività” aveva scherzato
con estrema calma, “Soprattutto è uno dei momenti,
dopo la festa del Burro, in
cui servi, nobili e popolani si tengono per mano al di là
del loro sangue”
aveva spiegato.
Il prete aveva occupato una posizione e diverse persone si erano
accodate in
cerchio al suo fianco, tra cui Meesha, anche la principessa lo aveva
imitato,
seguito da Matthias e Stiorra che si era affiancata.
Malcom sembrava piuttosto scontento di fare la cosa, ma lo aveva fatto,
almeno
fino a che non era giunto un altro soldato, indossava anche lui
l’uniforme come
quella di Malcom, leggermente diversa da quella dei soldati di palazzo,
non era
da solo, era in compagnia di una guardia vestita con abiti
più tradizionali.
“Quelli sono problemi” aveva sospirato la
principessa, ma prima che Malcom con
il viso livido si avvicinasse, era stato un giovane uomo dal sorriso
più che
soddisfatto ad avvicinarsi. Aveva un viso pallido, con capelli scuri,
le
orecchie leggermente grandi, ma che riuscivano a stare bene sul viso.
La pelle
d’avorio era macchiata da alcuni evidenti, uno sulla guancia,
uno sulla fronte
ed uno sulle labbra piene.
“Oh, sankti, Dimitrji” aveva sospirato Liliyana,
“Porto le stesse notizie della
tua guardia ma con qualcosa in più” aveva
scherzato, “Moya Tsarevich” aveva
aggiunto, prima di occhieggiarlo. “Oh, moy prins!”
aveva aggiunto, chinandosi
rispettoso verso di lui, con ancora il sorriso storto.
Matthias lo ricordava come uno degli uomini che aveva incontrato il
giorno che
era giunto a palazzo, che l’aspettava nel cortile di ingresso.
“Dimitrji
Pulnudist, conte di Ivets, un piacere rivederla” aveva
sospirato con un tono di
voce piatto, sperando di aver ricordato bene il nome. Ivets non era una
regione
particolarmente vasta, ma era ricca di metano e questo lo rendeva uno
degli
uomini più importanti di Ravka ed abbastanza ricco da
raccogliere le
informazioni di interesse della principessa prima della
principessa.
Liliyana
si era allontana con discrezione per parlare con il Conte.
“Si
ricorda se è sposato?” aveva chiesto Stiorra al
suo fianco, “Sì, ha una moglie”
aveva ricordato lui, ma non credeva di ricordare il suo nome. Una
signora suli
sempre vestita di raso e seta. “Peccato” aveva
sospirato la sua amica.
Il
viso della principessa aveva assunto un’espressione seccata,
aveva fatto
roteare poi gli occhi scuri e brusca si era allontanata. “Mi
perdoni, sua
altezza reale, ma sono costretta a lasciarvi, posso offrirle la
compagnia della
rispettabile luogotenente Effimov” aveva detto pragmatica,
afferrando Meesha
quasi a sorpresa. “Spero vada tutto bene” aveva
miagolato Matthias, imponendosi
di non guardare Meesha, con troppa aspettativa. “Bene-male
è tutto relativo,
specie quando si hanno amici come i miei. Un consiglio spassionato:
siate più
accorti di me” aveva sospirato, stanca.
Meesha aveva ridacchiato, “Lontano dalle canaglie”.
Liliyana
si era congedata con quella strana raccomandazione e la fretta addosso,
seguita
da un Malcom che sembrava avesse inghiottito un limone ed un divertito
conte di
Ivets.
“Chi sa cosa è successo” aveva chiesto
perplessa Stiorra. Meesha li aveva
guardati con il classico sorriso di chi-la-sapeva-lunga, “O
qualcosa di molto
divertente che ci verrà raccontato sta sera con un bicchiere
di brandy o
qualcosa di ancora più divertente che temo non scopriremo
mai” aveva aggiunto
con una certa leziosità. Davanti quel sorriso svelto,
Matthias aveva trovato il
suo coraggio: “Ci sono molte cose che non dovrebbero
scoprirsi mai che un
principe ha la facoltà di scoprire.” Il vero
ammirato di Stiorra non avrebbe
potuto essere più sfacciato.
“Raccogliamoci
in cerchio!” aveva chiamato il prete, con la voce spigolosa
quanto il suo viso.
“I principi fanno delle ottime spie. Genya lo dice
sempre” aveva sogghignato
Meesha. “È stata una tua insegnate?”
aveva indagato. Si era accorta troppo
tardi di averle dato del tu. Tecnicamente era di un rango nobiliare
più alto,
ma sembrava comunque strano …
Meesha
aveva scosso il capo riccio, mentre si raccoglievano in cerchio,
“La signora
Genya insegna a tutti i bambini grisha, tutti. Poi prende per un
po’ a carico i
corporalki, ma non per molto. Rimane un triunviro con molto da fare,
così ci
dividono” aveva spiegato pratica, “Io
ahimè, sono una terribile tailor, molto
più portata per l’heartreander. Ho comunque avuto
una maestra rimirabile” si
era presentata, “Tamar Kir-Baatar.”
“Una
degli Uomini del Re” aveva ricordato lui. Sua madre aveva
nominato i gemelli
Baatar, ne aveva tessuto le lodi come combattenti letali, sia come
grisha sia
con i pungi crudi e la passione per Toyla Kir-Baatar di recitare poesie
religiose, ma non sapeva molto altro.
“Mi
ha insegnato come fermare mezzo-corpo umano di proposito” si
era vantava
Meesha.
Matthias aveva visto e sentito molte donne presentarsi bene a lui, da
che aveva
compiuto quattordici anni e le sue gambe si erano fatto lunghe e le sue
spalle
larghe, e dietro tutti quei vezzi aveva sentito i loro cuori che si
presentassero loro o fosse ad opera di un parente. Piccoli tamburi
impazziti,
di solito, ma il battito di Meesha era calmo e misurato come una
melodia
ritmica.
Meesha
Effimov non era minimamente interessata a lui.
Era
la prima ragazza in tutta la sua vita che non fosse affascinata o
intrigata in
qualche maniera. Dove non arrivava il suo viso, di solito arrivava il
suo
titolo e di tanto in tanto pure la sua personalità
… o qualcos’altro.
Anche Liliyana Nazialensky che non era stata interessata a lui per
nessun’altra
cosa che un’alleanza in qualche maniera non si era potuta
mantenere perfetta
come un metronomo, ma Meesha Effimov sì. Matthias era
intrigato da questo.
“Sono legittimamente ammirato” aveva ammesso.
“Nel
primo giorno del martirio di Sankta Alina della Faglia, nostra signora
del sole
nascente, noi uomini mortali ci riuniamo sotto il suo vigile sguardo,
nel sole
luminoso. Ci presentiamo a lei nudi nell’animo ed uguali nel
capo, tenendoci
tutti per mano” aveva soffiato con voce imperiosa il prete,
tenendo prima le
mani verso il cielo, poi verso i suoi fianchi e che tutti avevano
imitato.
Matthias si era ritrovato ad avere le dita intrecciate con Stiorra e
con
Meesha, solo all’ora aveva notato che il gruppo di persone
che si erano riuniti
intorno alle tre statue era composto dal più disparato
gruppo sociale. C’erano
nobili ben vestiti, come Meesha che indossava gioielli ed abiti
raffinati suli,
lui che era un principe, ma anche giovani e vecchi che abitavano le
stanze del
palazzo come servitù o d’ufficio.
“Nudi?”
aveva chiesto Matthias, “Metaforicamente”
aveva spiegato Meesha.
Si erano presi per mano, con capo chino avevano ondeggiato due passi a
sinistra
ed uno a destra, mentre il prete ripeteva invocazione in antico
Ravkiano.
Matthias
lo conosceva poco e quel poco era scritto, parlato per lui era un
mistero di
cui aveva riconosciuto sole poche parole: Proteggi. Amore. Sole.
Ed
ovviamente Sakta Alina.
Avevano
girato tre volte in senso antiorario e due in orario, intervallando le
invettive dell’uomo con una parola, che Matthias non aveva
capito né nel
significato ne nella pronuncia, finendo per riprodurla probabilmente
impunemente. Poi si erano arrestati. Padre Igor si era fatto avanti,
aveva slacciato
i primi bottoni della kefta blu e poi il resto, facendola scivolare
sulle
spalle ampie.
“Avevi detto metaforicamente!” aveva guaito
Matthias, “Ci si spoglia solo dei
simboli, non dei vestiti e li recuperi dopo” aveva mormorato
la giovane donna,
sciogliendo la mano da lui ed avvicinandosi all’uomo, aveva
tolto il fermaglio
che le pendeva sulla fronte e la manta rossa istoriata, si era toccata
l’orecchino d’osso ma non lo aveva tolto
– Matthias sospettava fosse un
amplificatore.
Aveva posato i suoi averi ai piedi della statua di Sankta Alina
così come Padre
Igor. Altri avevano eseguito, nobili avevano tolto le giacche pregiate,
i gioielli
ed anche i camerieri e i domestici si erano privati delle
più svariate cose,
dalle scarpe, i grembiuli, i fermagli.
Tutto
si era accumulato ai piedi di Sankta Alina, ma anche della Regina Zoya
e di
Genya.
Stiorra si era fatta avanti e con coraggio si era sfilata le scarpe blu
pavone
– che stonavano con il suo vestimento hedjust – su
cui erano ricamate perle
bianchissime e tonde, con un tacco a rocchetto ai piedi di Genya, poi
era
tornata al suo fianco scalza.
Matthias
aveva fatto i passi incerti, sentendo le gambe d’argilla,
pensando di sfilare
la giacca che aveva messo alla rinfusa o qualche altro principesco
monile che
aveva addosso … e poi aveva sfilato il principesco
monile.
La
sua corona di ferro temperato era finita accanto alle scarpe di
Stiorra. “Direi
che questo è essere proprio nudi” aveva sussurrato
Meesha complice quando lui
aveva ripreso il suo posto, “Mi sento nudo” aveva
ammesso lui, anche se non era
vero. Davanti il viso senza volto della Sankta del Sole,
Matthias
aveva desiderato davvero essere nudo dei suoi simboli: la sua
faccia.
Poi
erano rimasti in un macchinoso silenzio per un tempo che Matthias aveva
percepito eterno. Non sapeva bene come avrebbe dovuto sentirsi, non era
mai
stato un uomo molto spirituale, né religioso. Era stato
educato alla catechesi
di Djel, Bjorn era stato un maestro molto prolifero, e poi dei Figli di
Djel,
perché la religione era importante nel suo regno, aveva
imparato l’animismo
dell’albero e Joran lo aveva istruito al culto dei Sankti, ma
non era mai stato
un vero credente. Percepiva la tensione e la solennità
attorno a lui, nelle
palpebre serrate, nei respiri profondi e nel silenzio rumoroso dei suoi
vicini,
tutti concentrati nell’adorazione del sole, ma lui si sentiva
un estraneo, un
guardone nell’intimità.
Perfino
Stiorra sembrava essersi amalgamata bene.
Poteva
sentire che tutti i cuori del cerchio si erano accodati alla stessa
frequenza e
battevano all’unisono come un unico tamburo e lui
… lui era un tono stonato.
“Va
tutto bene, sua altezza reale” aveva sussurrato Meesha nel
suo orecchio, come
se avesse potuto leggere nella sua mente. Matthias era avvampato,
avrebbe voluto
chiedere come, ma poi aveva ricordato il sangue heartrender della
ragazza,
doveva essere stato rumoroso nel corpo. “Non sono un uomo
molto spirituale”
aveva bisbigliato pieno di vergogna, “Neanche io”
aveva ammesso Meesha con un
tono basso come un sussurro di vento, “Mi piace solo
ascoltare i corpi delle
persone in raccolta” aveva confidato.
Per
un bruciante momento Matthias aveva pensato che Meesha sapesse, come
Liliyana,
“Vorrei poterlo condividere meglio, ma è difficile
da spiegare se non lo si può
sentire” aveva aggiunto lei.
Matthias si era obbligato a non sospirare per rassicurazione,
“Io … vorrei
potere” aveva mentito, tenendo il suo sangue caldo, come suo
padre gli aveva
insegnato. Però sapeva quanto fosse bello.
Il
prete aveva ammonito Meesha di fare silenzio come se fosse stata una
bambina,
ma non si era permesso di rimproverare lui.
“Adesso”
aveva rotto il silenzio Padre Igor, parlando nuovamente nel ravkiano
moderno,
“Ognuno di noi, avrà la sua
misericordia” aveva espresso e l’attimo dopo aveva
rotto di nuovo i ranghi ed aveva recuperato la sua kefta, senza
indossarla. “O
sankta Sol Koroleva che sei morta per noi, mi auguro di non perdere mai
i raggi
del sole dai miei occhi, che gentile ed onesto guidi il mio
cammino” aveva
mormorato, aveva alzato le mani, “Guidaci oggi, come ci hai
guidato ieri e come
ci guiderai domani, verso l’avvenire” aveva
aggiunto, “E proteggici dalle
malizie del Senza Stelle e delle avversità della vita
così che un giorno, come
era ieri, potremo riunirci con chi abbiamo amato ed ora illumina
l’avvenire, nel
tuo caldo abbraccio” aveva mormorato.
Scintille
si erano illuminate dalle sue dita e poi piccoli soli luccicanti si
erano
alzati dalle sue mani disperso tra loro, caldi come lampadine, di un
giallo
chiaro, difficile da guardare ma rischiarante.
L’evocazione della luce, sarebbe rimasta per Matthias una
meraviglia. Le sfere
avevano pulsato ad intensità diverse e secondo un ritmo
preciso … era una
canzone silenziosa.
“Shioban Velenski” aveva mormorato il prete,
allontanandosi dal centro, mentre
i soli continuavano a pulsare.
Un uomo si era fatto avanti ed aveva detto un altro nome.
E
così un altro ed un altro.
“Che
nomi sono?” aveva chiesto Matthias temendo il suo momento,
Meesha lo aveva
guardato, sotto la luce dei piccoli soli la sua pelle non era
più olisse,
sembrava terra argillosa, vivace e bellissima. Meesha aveva le labbra
chiuse in
una linea dritta, distratta, “Uhm … chi abbiamo
perso e raccomandiamo non si
perda mai nella luce, ora che affrontano
l’eternità” aveva spiegato
didascalica, prima di allontanarsi, “Con cui speriamo di
ricongiungerci alla
luce”.
Aveva
raccolto il suo scialle ed il suo gioiello, “Shioban Effimov”
aveva
scandito poi, guardando il prete. La mano era andata
all’orecchino d’osso.
“Pensi …?” aveva provato Matthias,
rivolgendosi a Stiorra, ma la sua amica
aveva già raggiunto la statua di Genya e sollevando le gonne
ed esponendo le
caviglie velate aveva indossato di nuovo le scarpe,
“Samila” aveva mormorato.
Era
il nome di sua madre, defunta quando Stiorra era solo una bambina.
Alla fine, Matthias era rimasto l’unico uomo del cerchio a
non essersi fatto
avanti e la sua corona era rimasto l’unico oggetto a adornare
il palco delle
tre Sankte. Pieno di imbarazzo e con la vergogna di un ladro si era
fatto
avanti raccogliendo l’anello di ferro. Era imbarazzato dal
fatto che la sua
vita fosse stata fino a quel momento così protetta da non
avere morti di cui
raccomandare l’anima.
Poteva lamentarsi dell’orribile macchia nera che si estendeva
sulla sua
schiena, che filtrava nella sua pelle e marciva le sue ossa e i suoi
organi, ma
non aveva mai sanguinato di dolore.
“Hartfang Grimjor” aveva piagnucolato,
perché il suo finto zio era l’unico uomo
che avrebbe potuto piangere. I genitori di Mila Zenik non esistevano,
quelli
della buona regina Mila erano invenzioni morte, i genitori di Hanne
Brum
vivevano al confine ed erano nomi e foto ingrigite e la famiglia di
Rasmos
Grimjer era composta da fantasmi, tutti, convenientemente,
già scivolati via
quando Matthias aveva emesso il primo vagito. Suo zio Hartfang era
stato
l’unico che avesse conosciuto … non lo aveva amato
e la sua tristezza era stata
guidata dal sanguinare e dolore di Bjorn che da vero rammarico.
Poi era tornato al suo posto.
“E
che per un anno ancora il sole splenda ogni giorno su di noi e che
Sankta Alina
possa vincere ancora contro il Senza Stelle, nella loro lotta
eterna” aveva mormorato
padre Igor.
E
poi i soli si erano illuminati tutti insieme, caldi, brillanti e quasi
ipnotici.
“Ed
ora mangiamo!” aveva gridato qualcuno con ilarità,
“Prima il brandy!”
“Stiorra
sembrava molto colpita dall’adorazione del sole”
aveva sussurrato sua madre.
Era accomodata sullo sgabello di fronte il pettinatoio. I capelli
biondi lisci
erano acconciati in una elegante crocchia alta, dove neanche un filo
scivolava
via alla severità. Nelle ciocche erano state intrecciate
perle bianche e gemme
blu, che accompagnavano ferri dalla forma di fiocchi di neve.
Dalle orecchie pendevano vetri dalla medesima forma, che luccicavano
dal blu al
verde, quando la luce la rifrangevano. Bellissima e vestita di bianco
come una
regina delle nevi, con le spalle nude chiare, a favore delle
temperature più
miti di Ravka.
“Sì,
è stato suggestivo” aveva borbottato Matthias,
mentre indossava la giacca
blu-grigio – non era il suo colore e stonava con la sua pelle.
Matthias
indossava sempre il rosso cremisi. Il rosso corporalki. Si sentiva
ancora più
estraneo con quell’abito addosso.
Era
ancora nudo dalla vita in giù, incerto.
“Sei
ancora arrabbiato con me?” aveva chiesto sua madre,
arricciando le labbra.
“Rabbia
non esprime il mio sentimento, madre” aveva ammesso. La
rabbia aveva senso, la
rabbia era plausibile, quello che sentiva Matthias era un sentimento
molto più
intimo e devastante, era un vortice nero che succhiava via ogni cosa
possibile.
“Sapevo che non eri pronto alla tua faccia” aveva
mormorato sua madre, “Ero
pronto a vedere la faccia del figlio di Nina Zenik”
l’aveva aggredita.
Ma non era Nina Zenik che aveva visto – la dolce sconosciuta
che suo padre
aveva disfatto davanti ai suoi occhi, nelle sicure stanze della Corte
di
Ghiaccio. Una donna morbida dove la regina Mila era stata ruvida.
“Ma non è Nina Zenik che ho visto”
aveva ringhiato. Si era aspettato di
vedere un estraneo sul viso, un eco del volto che sua madre aveva
indossato una
volta, di un uomo giovane, dai capelli scuri e le fossette forse
…
Quando
aveva sentito la storia di sua madre e di suo padre non aveva
riflettuto bene
su tutte le implicazioni …
“Fetla”
aveva provato sua madre. “Quanti segreti ancora non mi hai
detto, madre?” aveva
replicato lui.
Sua madre si era morso un labbro, “Vorrei dirti che sai
tutto” aveva ammesso,
“Ma … quasi tutto quello che non sai ancora, non
è importante” aveva sussurrato,
alzandosi.
L’abito che indossava era stretto sotto il seno e scendeva
morbido sulla vita
ampia e lungo le gambe, fino ad arricciarsi ben oltre i piedi, creando
uno
strascico degno di una sposa … di una regina.
“Non
è importante?” aveva chiesto. “Riguarda
la mia vita, prima …” aveva sussurrato
sua madre, cercando di apparire comprensiva. “La tua vita
prima, la vita di
papa prima, la vita di Rasmus …” aveva ringhiato
lui. “E la mia vita?” aveva
chiesto arrabbiato.
“Ascoltatami,
tu sei Matthias Grimjor della Casa del Lupo, sei l’erede
della corona della
Grande Fjerda ed un giorno siederai sul trono di ghiaccio”
aveva stabilito
sicura ed irruenta sua madre.
“Io sono una putrida macchia nera” aveva risposto
Matthias, “Ho rubato il
diritto di Bjorn. Di Zio Hartfang” aveva stabilito.
“Hartfang era un uomo vile
e crudele” aveva detto sua madre, “E non era
più legittimo di altri” aveva
stabilito con voce sicura, “Di che parli?” aveva
chiesto.
“Rasmos Grimjor era una creaturina malata, venuta al mondo
grazie ad una
guaritrice grisha … e suo fratello, invece, era un bel
fjerdiano baldanzoso?”
aveva chiesto retorica.
“Era … un bastardo?” aveva chiesto lui, come
me? Aveva pensato.
“Sì.
Era strano. Inizialmente pensavo che la regina avesse avuto una
relazione per
avere un figlio sano, ma tutte le sue attenzioni erano unicamente per
Rasmos …
succede, ma era strano. A malapena guardava il figlio” aveva
considerato Mila,
“Così abbiamo scoperto che Hartfang era
tecnicamente un cugino che è stato
adottato, quando si era cominciato a pensare che Rasmos fosse troppo
debole per
portare avanti la linea di sangue … ed in realtà
era figlio illegittimo di
quella vecchia cariatide di Dietrich Grimjor, tuo …
nonno” aveva spiegato.
“Comunque,
più legittimo di me” aveva
provato Matthias. “Cosa lo renderebbe
legittimo al trono? Il fatto di essere nato dalle gonadi di un re?
Pensi che
una linea di sangue, neanche particolarmente buona, sia
l’unica caratteristica
necessaria a fare un buon re?” aveva chiesto retorica,
“Io e tuo padre abbiamo
fatto di Fjerda un’utopia e non avevano
una goccia di quel
sangue. Rasmos era un ragazzino crudele che sfogava la sua rabbia su
chi non
poteva rispondere. Ravka è stata spezzata per quattrocento
anni sotto i re
Lanstov ed ora risorge sotto la sua regina venuta dal nulla”
aveva rimarcato.
“A proposito di regina venuta dal nulla, voglio sposare Alina
Nazialensky”
aveva commentato. Sua madre aveva assunto un’espressione
leggermente turbato,
“Oh, be, è una ragazza deliziosa” aveva
considerato, “Sono contenta che ti
piaccia. Però vorrei che valutassi attentamente le
cose” aveva aggiunto sua
madre. “Cose come Alysanne Rollins? Quanti anni ha ora?
Dieci-unidici?” aveva domandato
retorico lui, “Dodici” lo aveva corretto la regina,
“Non mi dispiacerebbe in
effetti, tra lei e la principessa Alina sono molto dissociata, anche
Stiorra
sarebbe apprezzata … però, ecco, il Marshal ha
una sorella e tre nipoti nubili,
per non parlare delle Taban – hanno più donne da
sposare loro che tutta Fjerda”
aveva ammesso lei.
Matthias
aveva sospirato, “Alina mi piace molto”
aveva insistito – anche se era
una menzogna … differentemente da suo padre, sua madre non
poteva riconoscere
le sue bugie solamente ascoltando il suo cuore, ma
era comunque
tremendamente brava. Sapeva riconoscere ogni sfumatura del suo viso
– Matthias si
chiedeva se sarebbe stata altrettanto capace anche con il suo vero
volto –
quindi avrebbe dovuto essere convincente. Non era abituato a mentire.
Non
voleva sposare Alina, non più di quanto volesse sposare
chiunque altro, ma
voleva l’amicizia di Liliyana e le spalle
coperte dalle scaglie di un
drago. “Per convenienza sua nonna è anche una
Grimjor” aveva aggiunto sua
madre, facendole l’occhiolino, “Ha anche un
nonno-nemico-numero-uno” aveva
risposto stringato Matthias, riferendosi al famoso Magnus Opjer.
“Dovremmo parlarne con tuo padre, ovviamente, la proposta
deve essere fatta da
lui a Zoya” aveva spiegato calma sua madre, allontanandosi da
lui, “Ora metti
le culottes … Sempre se non vuoi conquistare la corte di
Ravka con le sue
cosce” aveva ridacchiato lei. “Posso vestire in
rosso?” aveva provato lui, “No.
Apprezzo che tu voglia onorare tu-sai-cosa e adoro il rosso, djel
quanto mi
manca, ma ogni tanto bisogna indossare anche qualcosa …
fuori dalla zona di
conforto” aveva soffiato sua madre. Matthias aveva fatto una
smorfia poco
convinta, “Il grigio-blu non mi dona, se posso
dirlo” aveva ammesso lui,
ammiccando alla giacca. “Hai ragione, saresti perfetto in un
bellissimo abito
bianco-ghiaccio, ma a Ravka i servi indossano il bianco”
aveva spiegato
didascalica e poco felice sua madre.
“Inoltre, qualsiasi vestito indosserai, sarai comunque il
giovane più bello
della cena” aveva soffiato sua madre, spostando una delle
ciocche bionde dietro
l’orecchio di Matthias con estrema gentilezza.
Matthias era ancora arrabbiato con lei, anzi era furioso, un sentimento
così
vibrante che scuoteva la sua anima e permetteva alla macchia nera di
espandersi
ogni minuti di un piccolo pezzo, che prendeva il suo cuore e corrodeva
ogni
cosa – ma era sempre la sua mamma.
“Ho
… ho detto a Stiorra il tu-sai-cosa”
aveva confessato.
“Oh.”
Il
nonno di Stiorra, il vecchio Karl, gli aveva presi da parte per
parlare. Lui,
Stiorra, sua madre ed l’istitutore.
Nonostante la vecchiaia avesse ingrigito la pelle, raggrinzito la
carne, curvato
la schiena possente ed ingrigito i lunghi capelli, che si erano fatti
radi
sulla cima, e la barba, che si era fatta crespa e striata di bianco,
conservava
ancora l’eleganza e la possenza dei Druskelle. Gli occhi blu,
da vero
Fjerdiano, rimanevano due ruggenti schegge di sicurezza e fortezza
tipica dei
lupi. A Matthias non piacevano tutti i druskelle, ma sicuramente
apprezzava il
nonno di Stiorra.
“In
questi giorni ho potuto conversare con Senje Adrik ed altri legati
delle corti
per stabili le norme dell’etichetta per queste
serate” aveva cominciato a
spiegare l’uomo.
“Ravka
tende ad essere molto più libertina di noi” aveva
squittito sua madre, quasi
elettrizzata alla notizia. Se Matthias non avesse visto qualche ora
prima la
mansuetudine della sua rabbia, avrebbe creduto alla sua farsa,
“E gli Shu-Han
hanno regole ancora più intimidatorie” aveva
considerato l’istitutore.
“Sì. Siamo arrivati al compromesso che nessuno che
abbia un grado più basso del
vostro titolo o del corrispettivo possa invitarvi a danzare”
aveva ripreso il
vecchio Karl, “A Ravka uomini possono invitare donne e
viceversa, ma mi è stato
assicurato che nessuno dello stesso genere inviterà i
fjerdiani, ma se voleste
non vi sarebbe opposizione. Nessun uomo Shu-Han inviterà una
donna a ballare,
di qualsiasi etnia ella sia – ciò non toglie che
accetteranno l’invito di
tutti” aveva cominciato a spiegare quello, “Vostra
maestà, è convenuto che voi
possiate essere invitata a ballare solo dai nobili reali vostri pari e
il
presidente della Repubblica di Novyi Zem … che ci porta ad
un problema tutto
loro. I Coloni e Novyi Zem non possiedono titoli e tutti i loro legati
e
ambasciatori sono cittadini comuni, si è concesso di dare
loro un’eccezione e
cercherò di suggerirvi io se qualcuno è o non
è al vostro livello – giuridico,
si intende, nessuno è al livello delle vostre
grazie” aveva aggiunto
diplomatico, ammiccando anche a Matthias.
“Grazie
per il tuo duro lavoro” aveva ammesso sua madre, con un
sorriso che prometteva
già di infrangere tutte le etichette precisate.
Anche
gli altri avventori, oltre Matthias, sembravano poco coinvolti nel
discorso e
solo lui aveva cercato di prestare attenzioni alle strane regole che
l’uomo
aveva ricordato.
Si china solo il capo davanti alla regina Zoya, si inclina anche la
schiena
davanti a Dalai, una riverenza davanti al Marshal ed una vigorosa
stretta di
mano al Presidente.
“Adesso
andiamo, stanno chiamando le carrozze per andare al lago” lo
aveva interrotto
energica sua madre, mentre li conduceva fuori dal loro piccolo spazio,
per
affacciarsi al piazzale principale, davanti l’ingresso del
Gran Palazzo, dove
la fontana con le due Senje spiccava.
Sicuramente i reali di Ravka avevano reso noto quanto il culto di Senja
Alina
fosse importante per loro, sempre accostata alla Regina Drago. Si
chiese se sua
madre l’avesse conosciuta la Signora del Sole.
L’adunanza stava venendo chiamato da un giovane uomo vestito
di bianco e
broccato d’oro, un servitore, che era affiancato allo
splendido signore della
regina: Nikolai Lanstov, vestito di tutto punto con la redingote viola
prugna,
lunga fino alle ginocchia, le culottes bianche e gli stivali neri e
lucidi, con
i pennacchi d’oro. I capelli biondo-grigio, accuratamente
pettinati da un lato.
Il re consorte di Ravka era tra Genya, con i riccioli rossi e la kefta
sangue
raffinata e un uomo suo coetaneo vestito di velluto, di un viola-blu,
aveva
occhi chiari – famigliari – agghindanti in uno
sguardo truce. “Chi è
quell’uomo?” aveva indagato Stiorra,
“Schievich Rosen, il duca di Keramzin”
aveva chiosato il suo istitutore, “Oh! Il padre di Ana
Alexandra” aveva
considerato sua madre, ammiccando alla grisha materialki che aveva
occupato del
tempo alla loro corte.
Buffo, proprio quella mattina, la principessa
Liliyana aveva parlato di
lei. “Si somigliano, sì” aveva valutato
Matthias, pensando al quadro della
madre di Ana Alexandra. La ragazza doveva assomigliare più
alla sua genitrice,
ma aveva inequivocabilmente qualcosa del padre. Gli stessi occhi freddi.
L’uomo vestito di bianco – Petyr – aveva
cominciato a spiegare come si sarebbe
svolto il viaggio, soldati, carrozze e quant’altro.
Stiorra
li aveva tirato una gomitata gentile, “Vostra altezza reale,
ho già sistemato quella
cosa sulla carrozza che ci hanno assegnato” aveva
sussurrato. Per un
secondo Matthias era stato colto del tutto in fallo, non avendo idea
cosa la
sua amica si stesse riferendo. Stiorra doveva averlo percepito,
“Parlo di
quello che è successo prima che arrivasse la principessa di
Ravka” aveva
provato. Matthias aveva realizzato, “Grazie, Stiorra
… ma come sapevi quale
sarebbe stata?” aveva chiesto. “Come ho detto: sono
una dama della camera,
organizzazione è il mio secondo nome” aveva
scherzato senza vergogna l’altra, “Inoltre,
i cocchieri di Ravka sono molto … amichevoli,
così si può dire”
aveva ammesso lei con un
sorriso fin troppo tronfio. “Potrei anche preoccuparmi se
qualcuno volesse
ucciderci” aveva considerato Matthias, “Vi
proteggerò io, farò scudo con il mio
corpo e soffocherò l’avventore con tutti i
lillà che ho cucito addosso al
vestito” aveva riso la sua amica.
Matthias
non lo trovava molto divertente.
“Apprezzo
l’audacia dei vestiti della Regina Dalai” aveva
sentito sua madre, mentre
raggiungevano la carrozza che i soldati fjerdiani avevano
già allestito.
Matthias non aveva fatto in tempo a vederla, se non una lunga coda di
stoffa
verde-lime sparire su una carrozza quadratica.
“Io volevo vedere i tre gioielli della corona di
Ravka” aveva sospirato
Stiorra, mentre si sistemava sul cuscino imbottito alla sua sinistra.
Sua
madre e Karl di fronte e loro tre stretti in due cuscini.
“Questo è l’inizio
dei Dieci Giorni di Ravka … sono sicura che Zoya abbia in
mente un ingresso
trionfale” aveva considerato con divertimento sua madre,
passandosi le mani
guantate sul mento, “Come per i quarant’anni di tuo
padre che ho liberato cento
colombe dai balconi” aveva valutato sua madre, “Non
molti ospiti furono
particolarmente felici” aveva considerato il suo istitutore.
Anche lui era
stato costretto ad un vestito più sfarzoso e pregiato,
rispetto il direttorio
che sembrava prediligere usualmente – scuola che Matthias
preferiva e seguiva
pedissequamente. Sua madre aveva ridacchiato, prima di parlare:
“Ci tengo
particolarmente che questa serata vada bene. Che queste feste vadano
bene”
aveva considerato, senza aggiungere altro.
Matthias
però leggeva tra le righe; primo: avrebbe dovuto lasciare
un’impronta piacevole
ai coniugi reali se sperava di rubare il Frutto dell’Autunno
dal loro giardino;
secondo: per una volta non era sua madre ad indossare in pubblico il
vessillo
di Fjerda e manifestare il re, ma lui. Era Matthias
l’ambasciatore di suo
padre, avrebbero guardato lui per valutarlo e marcarlo. Una
piccola prova
generale del suo futuro pubblico.
La
ruota della carrozza aveva preso un sasso che aveva fatto scuotere
tutto l’abitacolo,
proprio sull’inizio di conversazione di Stiorra che era stato
inghiottito in un
guaito, “Cosa hai detto, bambina?” aveva chiesto
suo nonno con gentilezza, “Che
quindi non posso invitare il Principe di Ravka a danzare con
me?” aveva chiesto
lei, carezzandoli il gomito con gentilezza. “Per
l’amore di Djel, assolutamente
no. Tu non puoi invitare nessuno a ballare, proprio” aveva
replicato l’uomo con
voce secca ed aspra, “Perché vuoi invitare il
principe di Ravka?” aveva chiesto
Matthias con curiosità, “Però ho gli
occhi” aveva risposto la ragazza ovvia. “Dobbiamo
rifare tutto il discorso da capo?” aveva chiesto il druskelle.
“Come
funziona con il principe Consorte di Ravka?” aveva chiesto
l’istruttore, le
prime parole che aveva pronunciato in tutta la serata, era sembrato
così turbato
in quei giorni, “Come?” aveva chiesto Karl
abbastanza perplesso, “Ovviamente tu
non puoi invitarlo … Non hai il suo stesso grado nobiliare,
inoltre sarebbe
sconveniente per un Fjerdiano, per un uomo fjerdiano invitare un altro
maschio
a ballare. La tua famiglia non sarebbe contenta di questo”
aveva valutato. Il
suo interlocutore lo aveva ignorato a pie pari, “No,
intendevo. Con lui si applica
la regola degli uomini shu-han o Ravkiani?” aveva chiesto.
“Argomentazione
interessante in effetti” aveva considerato Karl,
“Non mi sono informata a
dovere … avrei dovuto, Djel, avrei dovuto” aveva
considerato l’uomo con un
briciolo di panico. “Per favore mio buon Karl, apprezzo il
tuo duro lavoro e la
tua precisione” aveva ripreso a parlare sua madre,
“Ma è una festa, cercheremo
di essere quanto più accomodanti” aveva concesso
sua madre. “Ballermo con
chiunque ci inviti a ballare, che sia del rango appropriato, uomo o
donna che
sia” aveva considerato sua madre perentoria, “Alla
fine ieri è andata così bene
nella Sala delle Letture” aveva considerato, guardando il suo
istitutore, “Non
hai lasciato un occhio asciutto.” Quello aveva sorriso rosso
di imbarazzo, “Dovremmo
anche tendere le orecchie” aveva considerato dopo aver
recuperato una
carnagione meno peperone, “Lazlayon apparterà
anche al conte Kirigin, ma è la
casa dei giochi del Re Consorte” aveva considerato il suo
istitutore. “E del Principe
Consorte” aveva aggiunto Karl. “Oh, sì,
una parte di me spera che potremmo
vedere una qualche spaventosa invenzione che ricordi a tutti come Ravka
sia
diventata una geniale potenza” aveva detto lui calmo. Sua
madre aveva
sospirato, “Una serata tranquilla, divertente e probabilmente
piena di
bollicine, ma per cortesia non provocate un incidente
diplomatico” aveva
considerato sua madre, “Lazlayon ha corridoi di terra, che
rivelano segreti, ma
solo tentare di sbirciarne uno potrebbe creare disgrazie che non siamo
pronti ad
affrontare” aveva mormorato sua madre. Il suo tono era stato
dolce e misurato,
ma Matthias leggeva l’atmosfera che sua madre aveva
rilasciato nella carrozza.
Il silenzio si era sedimentato per un momento nell’abitacolo,
ma poi le chiacchiere
erano riconosciute a ruota con più vigore, ma leggerezza.
‘Il vestito di Dalai
sembra splendido. Nikolai era stupendo. Il Conte Rosen è
impressionante,
perfino più bello del re’ ed altro.
Lazlayon
non era troppo distante dal Gran Palazzo e della città di Os
Alta – sua madre
una volta le aveva detto che c’erano corridoi sotterranei che
univano le due
proprietà, perciò il viaggio era durato meno di
quanto si era aspettato.
Quando
la carrozza si era arrestata, un giovane uomo dell’esercito
Fjerdiano aveva
aperto l’importa ed aiutato a scavalcare sua madre
l’uscita ed anche Stiorra, aveva
offerto anche una mano al vecchio Karl, ma testardo come un mulo
l’uomo l’aveva
ignorato.
Baldi
e giovane, Matthias e l’altro giovane erano scesi da soli,
incontrando il messo
che la corte ravkiana aveva mandato per il loro ingresso. A loro era
spettata il
luogotenente Effimov, con i ricci raccolti in una crocchia alta, con la
kefta
rossa, con le spalline dritte con le frange, e un disegno intricato di
linee
grigio-nero. Indossava però ancora il gioiello
d’argento sulla fronte – come quella
mattina – e il suo orecchino d’osso.
“Sua
maestà siete una luce” aveva detto Meesha,
rispettosa, facendo una riverenza
alla regina, sua madre aveva sogghignato come una ragazzina. Matthias
si era
lasciato dominare invece dal panorama che si apriva davanti lui. Il
sole non
era ancora del tutto tramontato, sebbene non fosse rimasta quasi
traccia di
sole nel cielo, la luna a metà era già sorta, ma
il cielo era tinto di un viola
intenso, che si rifletteva sulle acque cristalline, di un lago
così vasto da
sembrare quasi il mare. Uno spettacolo assolutamente suggestivo.
Sentieri luminosi realizzati con candele e fiaccole si aprivano davanti
loro,
conducendo ad intriganti giardini che creavano un labirinto verde di
fiori e
foglie – ‘Succedono parecchie trasgressioni
lì, sotto le stelle’ avevano
raccontato una volta a Matthias, nella gelida sicurezza della Corte di
Ghiaccio.
Il
principe Consorte dominava la scena con un suo completo a tre pezzi,
con un
frac nero-opaco con decori in filo d’argento e due code
lunghe a pinguino, con il
taglio dritto direttorio, sopra un gilet avorio e culottes polvere e
stivali
lucidi sotto a ginocchio, più ravkiano che shu-hannita, come
il capello corto.
Aveva accolto lui la folla arrivante, baciando sulle guance suo cognato
che era
venuto da lui, con decenza. Il Principe era tra il Conte Kirigin ed il
Pretendente, due omuncoli ben vestiti dai visi divertiti che sparivano
nella magnificenza
del futuro re. “Non vedo la Regina” aveva notato
Stiorra, “Guarda Genya” aveva
detto sua madre, ammiccando alla signora del Piccolo Palazzo.
Genya era rimasta con il duca di Keramzin, ma entrambi non guardavano
gli
avventori, le fiaccole, il lago o altro, guardavano il cielo viola, non
incuriositi, non estasiati ma precisi.
“Non
… è possibile” aveva mormorato
Matthias, sentendo brividi cavalcanti sulla
schiena, percependo quale dovesse essere l’idea.
“Credici, sì” aveva mormorato sua
madre, posandole una mano sulla spalla e mentre il cielo da viola
torceva in un
blu pavone e piccole scintillanti stelle apparivano come diademi nel
cielo, un
roborante tuono aveva scosso il cielo.
Ma non era un tuono. Era un ruggito.
Una
macchia nera, ampia ed enorme, aveva scurito il cielo, fino ad
abbassarsi,
sfiorare la superficie dell’acqua, aprendola in due chiare
onde e accucciandosi
poi sull’ansa del lago, davanti ai loro occhi.
Un drago, una bestia splendente, enorme e spaventosa.
La
bestia era enorme, aveva quattro possenti zampe con un’unghia
nere d’onice. Il
drago aveva ali grandi di pelle, con nodose escoriazioni, corna scure
sulla
nuca, così come dentelli che crescevano dal campo e
seguivano tutto il corpo
fino alla coda acuminata. Era rivestito di scaglie nere cons sfumature
viola
che sembravano ametiste pure. Aveva occhi vibranti blu come i fulmini.
Sulla sommità del suo dorso erano tre figure vestute di
vigoroso azzurro ravka:
i figli del drago.
Non indossavano abiti contemporanei, ma tutti e tre indossavano
indumenti
tradizionali. Le due donne indossavano sarafan
pregiati azzurri, con
decori oro, con pietre e denari cuciti, in elaborati decori, che
creavano una
composizione di colore e luci splendide. Entrambe sui capelli
indossavano i
loro cappelli tradizionali – i kokošnik,
se non sbagliava – quello di
Alina era di una forma semicircolare d’oro, con fili bianchi,
su cui era riprodotto
un sole bianco dai raggi aranciati. Quello di Liliyana aveva una forma
cilindrica,
sempre d’oro, con diademi blu, che ricordava di
più una corona, da cui scendeva
un velo opalescente zucchero-cotto. Alina indossava anche una splendida
corona
d’oro dalla forma di drago. Così preso dalle due
donne aveva a malapena notato
Dominik – ma un commento audace di Stiorra lo aveva
richiamato.
Tutto
l’oro che aveva sul capo erano i suoi capelli, più
chiari e scintillati. Dominik
indossava un cappotto azzurro dalle spalle gonfie con le maniche
morbide, che
si stringevano sugli avambracci, con decori argentei. La giacca aveva
l’allacciatura
a doppio petto, ma i bottoni erano collegati tra loro da clavi ocra,
cinque sul
busto. Alla vita aveva una cintura dai pennacchi morbidi, dai colori
chiari. Sotto
il cappotto azzurro, spuntavano stivali in pelle marrone lucidissimi.
Liliyana
aveva attirato nuovamente il centro dell’attenzione,
sollevando le braccia,
verso il cielo, spiegando le dita, spalancando i palmi, da cui erano
sfrigolati
fulmini azzurri. Lampi spaventosi si erano alzati dalle sue mani come
fulmini
pirotecnici.
“Gli
etherealki possono farlo?” aveva sospirato sconvolta Stiorra,
“A quanto pare,
lei può” aveva detto ammirata sua madre. I tre
figli del drago erano scesi dal
dorso della bestia e quella era mutata in scricchioli ed ossa spezzate,
che si
era ridotta in una figura umana. La regina di Ravka aveva un vestito
fatto di
scaglie d’ametista viola scure, stretto sul busto con uno
scollo a barca, che
scendeva lungo i fianchi, come una cascata di seta nera. Nei capelli
scuri,
sciolti, arricciati in boccoli, spiccava una corona d’oro
nero dalla forma di
un drago ad ali spiegate.
Magnifica e spaventosa.
Matthias
aveva sentito un leggero bisbiglio, in lingua Shu, da cui aveva
distinto solo
il termine Ravka, si era distratto dalla visione
terribile della signora
di Ravka, per deviare lo sguardo verso la corte del regno meridionale.
La
regina Dalai aveva bisbigliato qualcosa al suo fratello gemello, ma
quando
Matthias l’aveva guardata, lei aveva già arrestato
le sue chiacchiere, mentre
con gli occhi di miele avevano già trovato lui.
Il
pesante trucco bianco nascondeva bene le fattezze, ma non il sorriso
complice
che aveva dato a Matthias.
“Che i festeggiamenti per i Dieci Giorni del secondo
ventennale per la Riunificazione
della Grande e Potente Ravka, degli Onori alla Sankta Alina dva Stolba
e del disfacimento
della piaga della Faglia possano cominciare …”
aveva esordito la voce ponderosa
della regina, “… e che sia con il
Brandy.”
|
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Capitolo 21 *** Min-Han I (40 D.F.) ***
Avete
presente quando ho detto che volevo cambiare lavoro?
Non dovevo farlo.
Il capitolo non è stato riletto molte volte e probabilmente
conterrà un sacco
di strafalcioni!
Godetevi questo delirio …
NUOVO NARRATORE, NUOVA CORSA.
Anche se …
TW
(in un capitolo del
40??): riferimenti al sesso, ad amputazioni, a disumanizzazione
– in un certo
senso, modifiche corporee, modifiche corporee non consensuali e
protesi.
Anche isterectomia.
Tecnicamente anche del razzismo e del classismo.
Sì, questo capitolo è stato
‘divertente’.
MIN-HAN
(40 anni dalla
dissoluzione della
Faglia)
‘No,
ti prego, mamma, non lasciare che lo facciano. Mamma ti prego, mamma
sarò
buona. Mamma sarò brava. Ti prego … mamma
… ti prego … ti prego … Non
lasciateglielo fare, ti prego, mamma!’
Sua madre
aveva
permesso lo facessero comunque. Non era stata colpa sua, non davvero,
la
poverina non aveva avuto scelta, ma la piccola Min non lo aveva capito
per
molti anni, ma perché, quando era bambina non aveva capito
molte cose.
Prima
fra tutte: cosa era. O meglio: cosa non
era.
Aveva
guardato la sua mano sinistra come il mero riflesso meccanico che era.
Una
pelle bianca e diafana, rovinata dal lucido grigio
dell’acciaio grisha. Come
manierismo che non poteva controllare aveva arricciato le tre dita.
Funzionava
ancora tutto, nonostante la mutilazione, era ancora connessa al divino,
nonostante non avesse tre connettori.
La nonna diceva che la via della mano sinistra era
la più complicata …
che era la mano del cuore. E che le dita rappresentavano gli affetti.
Sembravano elucubrazioni troppo complicate per Min. Troppe per una cosa.
Funzionava ancora tutto, nonostante la mutilazione, era ancora connessa
al
divino, nonostante non avesse tre connettori. Non poteva più
percepire il
calore, il dolore, la consistenza, ma poteva ancora usare la scienza e
la
sostituzione permetteva una presa ferrea. Una perdita ragionevole
– era stata
definita – Min era d’accordo, ma non aveva alcuna
importanza, né cosa pensasse
Min o se avesse bisogno di un’opinione.
Così era: mero strumento.
“Ti
sembrerei morboso se ti dicessi che sono comunque la parte che mi
stuzzica di
più, Min-Han?” aveva ridacchiato il principe. Min
lo aveva guardato: il prince
era uomo di inconfutabile bellezza, con la pelle d’ambra, i
riccioli biondi e
gli occhi blu – ‘come due zaffiri’ aveva
detto Mayu. Se Min fosse stata una
persona sarebbe stata sicura che una bellezza così oggettiva
l’avrebbe fatta
vibrare senza indugio. Il principe era stato un ragazzino carino,
dodici anni
prima, lo aveva detto anche la regina Dalai che non era appassionata di
uomini
di quella risma, ma quello che Min aveva visto era un uomo fatto e
finito, con
un discreto fascino magnetico. Min
è consapevole
perché Mayu e Borte hanno chiesto a lei – con
discrezione – di avvicinarsi al
principe, un’altra di loro, anche della mia intransigente
delle Tavgharad
avrebbe potuto vacillare davanti un sorriso così
accattivante.
Nessuno comunque aveva veramente ordinato a Min di cadere tra le
lenzuola del
principe, era stato più un vago accenno, ma essa
lo aveva colto. Nessuno
avrebbe mai potuto chiedere ad una Tavgharad di umiliarsi come una
prostituta,
infondo. Min lo aveva fatto comunque; essere svelti a cogliere le
situazioni,
era un buon modo per non fallire.
Comunque, anche se non le spettava, Min aveva pensato, almeno, che
c’era
sacrifici peggiori della patria che permettere ad un uomo che sapeva
cosa fare
di starle tra le gambe.
“Mi sento un po’ offesa”
aveva mormorato sforzando di aggiungere quella
vena umana che la regina Dalai le aveva ordinato di sforzarsi ad avere.
Min non
ne vedeva il motivo, ma non era richiesto a Min che avesse voce in
capitolo. “Ma
poi penso di non essere troppo stupita dal figlio di Nikolai
Lantsov” aveva
aggiunto forzando un divertimento che doveva sposarsi bene con il loro
gioco.
Il principe aveva guardato tra le sue cosce, per un secondo, ma poi i
suoi
occhi erano rimasti più interessati alle sue dita
d’argento.
Min aveva sentito per molto tempo la fama di conoscenza del Re Consorte.
“Vuoi chiedermi come le ho perse vero? Vogliono sempre tutti
chiedermelo” aveva
considerato Min, che non era una menzogna. Spesso in pubblico indossava
i
guanti per nascondere quel dettaglio, ma era stato ordinato di non
farlo.
Probabilmente, acuta come era la regina Dalai, doveva sapere che la sua
stranezza avrebbe attirato lo sguardo di un uomo avido di sapere come
il
principe.
“Non particolarmente, non sono privo di tatto, nonostante
quel che si possa
dire di me. Ho imparato presto perché non è il
caso di chiedere perché la gente
ha certe cicatrici, lo hai detto tu, sono il figlio di Nikolai
Lantsov” aveva
risposto il principe, mentre faceva scivolare una mano tra le cosce di
Min.
Il Korol Rezni, il re delle cicatrici, che
indossava sempre guanti
bianchi per nascondere le sue dita di demone e le sue vene nere,
così si
diceva. Chiamavano, di tanto in tanto, anche la principessa
così: la koroleva
Rezni, ma la sua pelle era sempre esposta e gli arabeschi bianchi
cicatriziali
in bella vita.
Min sapeva che storia ci fosse dietro le cicatrici del Re: un mostro
oscuro che
aveva cercato di prendere il potere, ma non quelle della principessa.
Aveva
schiuso le gambe maggiormente, per permettere alle dita del principe di
raggiungere la sua intimità.
“Inoltre, il taglio delle dita è di solito una
punizione che viene riservata
agli arcieri, ma in quel caso mancherebbe l’indice al posto
del mignolo, o ai
ladri, ma perché in quel caso solo tre su cinque?”
aveva valutato l’uomo con
una risata roca.
Min non aveva potuto evitare uno squittio, quando il principe aveva
sfiorato la
sua entrata. Era brava a distaccarsi, aveva avuto trentaquattro anni
per
esercitarsi, ma l’intimità rendeva sempre le cose
difficili. Pasticciate. Erano
i momenti in cui Min perdeva la sua lucidità, anche sul suo
potere. “Non devi
rispondere, in realtà, mi interessa più come
l’acciaio grisha si è intessuto
con il tessuto connettivo. E una cosa che a Ravka non siamo mai
riusciti a
mischiare – per lo più solo rutelio a
sostegno delle ossa” aveva
commentato l’uomo, quasi incantato. Min aveva chiuso gli
occhi, due distinte
emozioni – male! – erano bruciate in lei,
l’eccitazione, per i movimenti
concentrici del principe, ed il ricordo rovente del dolore sui nervi.
“Non chiedere a me, non ne ho idea, posso dirti solo che
saldarle ha fatto più
male di perderle” aveva ammesso, con una sincerità
che non le apparteneva.
La recisione delle sue dita della mano sinistra era stata breve: non
aveva
quasi fatto male, il dolore era arrivato dopo bruciante e
insopportabile, ma
non era stato nulla rispetto all’affissione delle protesi:
un’agonia infinita,
bruciate ma che non si leniva mai. Un eterno tormento, che di tanto in
tanto
dopo oltre vent’anni si faceva ancora udire.
“L’ingegneria shu da questo punto di vista
è fenomenale” aveva mormorato
Dominik quasi ipnotizzato. Min aveva ricordato di una bambina che
piangeva distrutta,
tenendosi le mani, le lacrime sulle guance ed una donna che baciava la
sua
fronte dicendole che le dispiaceva. E quanti altri c’erano
stati.
Anche la regina Dalai una volta aveva detto che la medicina shu-han era
eccezionale e la principessa Ehri le aveva ricordato che era solo valso
dolore
e cadaveri.
“E solamente valso dolore e sperimentazione umana per
decenni” aveva detto Min,
ipotizzando fosse un gioco appropriato. “Sono notizie
confidenziali, che non
dovresti riportare così a cuore leggero”
l’aveva rimproverato bonariamente
l’uomo. Min aveva disteso le labbra in un sorriso:
“Ho visto passeggiare Reyem
Yul-Kat proprio ieri per i giardini.”
L’uomo era nascosto da un mantello pesante, da copriva il suo
mostruoso corpo e
lasciava scoperto solo il viso; non aveva avuto bisogno che nessuno lo
presentasse perché Min lo riconoscesse; somigliava a Mayu,
ma il suo volto
sembrava più rilassato e spensierato, privo della rude
angoscia che albergava
nella sua gemella.
Dominik aveva riso, sporgendosi per baciarla sulle labbra, mentre
lasciava
scivolare le dita dentro di lei, più intrusivo, facendola
vibrare.
“Ti hanno mai detto che sei un demone tentatore?”
aveva sussurrato Min,
ricordando le chiacchiere sporche della regina Dalai con il suo
concubino Zhao.
“Oh, qui a Ravka ne abbiamo uno molto speciale; il suo nome
è è: Zloy Dukh”
aveva detto allusivo, mentre premeva ancora le dita dentro di lei,
raggiungendo
quel punto che faceva sentire Min quasi una
persona. “Il suo vero
aspetto è quello di un grosso uccello con la testa di cane,
ma che può assumere
qualsiasi aspetto, ma tutti bellissimi”
aveva spiegato lui
didascalico.
“E cosa fa questo Zloy
Dukh, oltre a cambiare forma?”
aveva chiesto Min, mentre guidava le sue mani attorno al collo ed il
viso del
principe per stringerlo verso di se. La presa della mano sinistra era
decisa ma
fredda.
Il medio, l’anulare e il mignolo erano puro ferro che non
potevano permetterle
di percepire nulla – solo gelido metallo.
Le dita raffiguravano ai propri affetti: il pollice per i genitori,
l’indice
per i fratelli, il
medio se stessi,
l’anulare il proprio compagno ed il mignolo i propri figli.
Le avevano lasciato solo il pollice e l’indice – ed
il resto era venuto da se.
Aveva senso: la regina Dalai era sua madre e la Tavgharad le sue
sorelle, gli
altri affetti non contavano – la punizione non era nata
così, ma si era
incasellata dove era giusto.
Dominik aveva avuto ragione a modo suo, era stata una ladra e le sue
dita le
avevano ricordato il suo posto.
Mero strumento, infondo: nessun amore, nessun bambino e neanche se
stessa.
Però le restava sempre quello, quel calore osceno,
quella vibrante
emozione che poteva percepire con ogni cosa, che gli dei celesti le
avevano
donato.
Prenderemo tutto Min, ma ti lasceremo qualcosa che ai molti
è ignoto.
Il battito così forte del principe, il sangue, la sua pelle.
Dominik poteva pensare di sentirla, ma Min lo sentiva in tutta la sua
magnificenza di corpo vivo.
“Zloy Dukh si nutre di sesso. Il suo potere è nei
fianchi e una sola notte con
lui può trasformare la più acuta delle menti in
poltiglia” aveva raccontato il
principe, “Quindi, ora, mi mostrerai come questo è
possibile?” lo aveva
invitato lei, sentendo quel cosa – quella cosa sbagliata
– nel centro del suo
stomaco, nel suo petto. “Ne ho proprio
l’intenzione!” le aveva promesso il
principe, mentre continuava a giocare con lei e si chinava per
divorarle le
labbra.
Min aveva sentito di nuovo quella sensazione … quella
terribile sensazione che
la faceva sentire umana, ma Min non era umana, era una cosa, uno
strumento e
gli strumenti non provavano calore disarmante.
Aveva
lasciato le stanze del principe prima che il sole sorgesse, il cielo
era di un
tetro blu notte, con le stelle oscurate da nuvole rade.
Era passata dal balcone, approfittando del favore del buio, per
raggiungere
un’altra camera, anziché imboccare il corridoio.
Non si vergognava di
incontrare le guardie, l’avevano vista rientrare con il
principe dopo la cena,
allegri e divertiti, perciò, immaginava che nessuno si
sarebbe stupito di
vederla uscire da lì. Min scommetteva che la famiglia reale
di Ravka fosse
stata già informata della loro piccola avventura.
Però, preferiva di gran lunga
passare per l’esterno, era stata drenata da quello scambio.
Una parte della
cosa che era stata appagata, come lo Zloy Dukh appagata dal sesso, che
aveva
sfamato il suo potere, l’altra parte della cosa che era, era
rimasta drenata
dallo sforzo che era stato necessario per sembrare umana
– e per
ricordarsi di non esserlo.
Con il buio della notte aveva passato il balcone, arrampicandosi poi
sulla
balaustra, fino a raggiungere il balcone successivo, per rotolarsi,
lì.
Differentemente dal balcone del principe Nikolai, che era pieno di
fiori di
iris, che nascondevano l’odore del narghilè, a cui
il principe ricorreva –
visto gli oggetti che erano sparsi per l’appartamento del
principe – questo era
vuoto, semi sterile. Era il balcone degli appartamenti della
principessa
ereditaria, in quello che era noto come il Corridoio Principesco ed era
risaputo, anche a Min, che la donna e la sua famiglia alloggiassero nel
piccolo
regno dei grisha.
Min si era sollevata dalla posizione cucciata e si era avvicinata
all’imposta
della porta-finestra, che aveva trovato aperta.
“Sankti, così silenziosa da sembrare uno spettro.
Inej Ghafa ti ha dato
ripetizioni?” aveva chiesto in un sussurro una voce divertita.
La stanza era stata illuminata da una lampada di vetro a cilindro e
lumya
luminosa. La figura era un’ombra nera, acciambellata su una
sedia con cuscini
rossi e piedi di leone. “No…” aveva
risposto Min senza indugio, guardandolo.
Min riconosceva un proprio simile, un’altra cosa quando lo
vedeva.
“Sono stata invitata” aveva bisbigliato, facendo
due passi verso di lui, con i
palmi sollevati per mostrarsi disarmata. “Lo so”
aveva concesso l’uomo
alzandosi dalla sedia. Indossava una lunga kefta scura, che tramite la
luce
della lampa-a-lumia prendeva sfumature blu-violacee, con ghirigori
aranciati.
Pelle gialla, devastata da un reticolo di cicatrice infami.
“Malcom Gwyndip,
presumo” aveva detto, “Ti prego dimmi che
hanno un incartamento su di me a Shu Han” aveva considerato
l’uomo con una
punta quasi acre di divertimento, “Sì”
aveva ammesso Min. “Posso chiederti cosa
c’è scritto?” aveva chiesto lui,
avvicinandosi, erano ad un palmo di distanza,
“Si può comodamente riassumere in pazzo
furioso” aveva ammesso lei ed era vero.
“Sono contento che siate entrati così in
confidenza da fare salotto, ma si dà
il caso che il piccolo Nik abbia le coliche e questo lo rende molto
poco
propenso a dormire” una voce gli aveva sgridati, per quanto
il tono fosse
calmo, accompagnato dall’apertura del secondo spazio delle
camere.
Min non sapeva la precisa locazione, ma immaginava dovessero esserci
ambienti
per il giorno ed ambienti per la notte.
Lei si era voltata, mentre Malcom si era sporto per osservare il nuovo
venuto:
il principe consorte di Ravka.
“Moy prins”
aveva detto la guardia
ravkiana, “Ye Guìzú”
aveva recitato lei,
chinando il capo rispettosa.
“Quindi c’è un motivo per cui un
pugno-di-pietra ci viene a trovare nel cuore
della notte?” aveva chiesto Malcom, riprendendo posto sul
divano, accavallando
le gambe con un audacia e una sfacciataggine che altrove – da
dove veniva Min –
gli sarebbe costato un paio di scudisciate. Nel guadare il viso
martoriato, Min
valutò che forse le sferzate non erano bastate.
“Primo abbassa la voce, finalmente Nik dorme, mia moglie
dorme e, che uno sheyao
mi divori il cuore, Juris
dorme, dopo tutti i dolcetti che ha mangiato” aveva sbuffato
il principe,
“Secondo: Min è una vecchia amica di famiglia ed
è normale che venga a trovarmi”
aveva detto cristallino, con un sorriso così freddo da
sembrare l’inverno
stesso.
“Una guardia giurata della Regina Celeste è una
tua vecchia amica?” aveva
commentato Malcom colpito, “Min, desideri un tè?
Qui a Ravka lo fanno in
maniera imbevibile, ti avverto” il principe aveva ignorato
apertamente il
commento del guardiano.
Min era quasi stregata dal comportamento di Malcom Gwyndip che non
doveva aver
mai compreso la dura realtà di non essere umano.
“No, grazie, ye Guìzú” aveva
risposto pratica lei. “Meglio, è una brodaglia
annacquata ed imbevibile” aveva
considerato.
“Non ignorarmi” l’aveva rimproverato
Malcom, facendo drizzare la schiena a Min,
pensando come quella audacia fosse … innaturale. Borte non
aveva torto quando
aveva riassunto tutte le informazioni che aveva udito
sull’uomo con: pazzo
furioso. Il principe aveva sbuffato, “Devi sapere, Mal, che
la guerra sociale
di Shu-Han ha spezzato un paese, ha spezzato famiglie ed ha reso
l’inattaccabile
e irreprensibile corpo di guardia per eccellenza di Shu Han leggermente
meno
irreprensibile. Per venticinque anni il corpo stesso, come il paese
è stato
diviso in lealtà per due principesse” aveva detto
pratico.
“Sei davvero riuscito ad infiltrare un tuo agente nelle
Tavaghard” aveva detto
stupito, “Vorrei prendermene il merito ma è stato
mio padre” aveva ammesso il
principe, “Ben prima che io venissi qui.
L’incoronazione di Dalai ha aperto
molte opportunità a facce nuove, quando la reginetta celeste
ha cominciato a
slegarsi dagli agenti delle sue ziee” aveva raccontato senza
vergogna.
Min era rimasta in silenzio – ignorando ogni voce, ogni
pensiero intrusivo che
poteva galoppare nella sua testa.
Malcom aveva lo sguardo rivolto verso di lei, “E tu non senti
nessun conflitto
di interesse nel servire due padroni?” aveva chiesto Malcom,
“Non è richiesto
che io senta nulla” aveva risposto lei pragmatica.
Era vero, non sentiva alcun tipo di conflitto.
Eseguiva gli ordini della regina Dalai e di Borte, i consigli di Mayu
come era
d’uopo per una Tavgharad, ma rispondeva al suo signore
– il padre del principe
consorte – che Min sapeva fosse devoto a Shu-Han. Qualsiasi
conflitto sentisse
in quel momento o avrebbe dovuto sentire in quel
momento, apparteneva a
una persona e Min non lo era.
“Sankti,
perché ho l’impressione che tu
stia messa peggio di me di testa?” aveva ghignato Malcom. Il
principe aveva
emesso un singulto, “Temo tu abbia ragione, Mal”
aveva concesso il principe con
un tono di voce lugubre – quasi colpevole, sprofondando a
sedere su un canapè
dai cuscini color vinaccia con un ricamo bianco, “Dunque, mia
cara Min-Han”
aveva parlato con un tono quasi dolce, in Shu,cosa che aveva
indispettito
Malcom che aveva aggrottato le sopracciglia castane, “Come
stava il mio
buon-fratello?” aveva chiesto il principe consorte.
Borte e
Mayu aspettavano Min nel giardino della regina, davanti un arbusto di
Kentia,
che non avrebbe mai potuto resistere ai climi poco gentili di Ravka
nord,
eppure viveva.
“Sono qui” si era presentata con una voce incolore.
Borte aveva volto lo
sguardo verso di lei, era più giovane di qualche anno,
sebbene le fosse
superiore, nonostante fosse nota al mondo come Borte Kir-Yuan aveva
sangue
Taban sia di madre sia di padre e spesso la regina Dalai la chiamava
‘Cara
cugina’. Era una donna minuta, con gli occhi neri, allungati
dal kajal, ed
accentuati dalla pelle di rame cotta dal sole, i capelli scuri, che
portava
sempre raccolti in una treccia intransigente. Aveva spalle ampie e
muscoli
tesi, preferiva indossare il cuoio che rasi e sete, ma questo non la
rendeva
meno attraente agli occhi degli uomini. Mayu era più vecchia
di loro, quasi una
madre, l’ultima della vecchia guardia, veniva definita, era
la provava vivente
che la principessa Ehri non aveva ancora rinunciato al suo ruolo,
nonostante
Min avesse sentito spesso le altre riferirsi a lei come le vestigia di
un
nemico sconfitto che la regina esibiva.
A Min la principessa Ehri non sembrava particolarmente sconfitta, non
più della
principessa Makhi prima che la febbre fredda la portasse via
– ma nessuno aveva
mai chiesto il suo parere.
Mayu portava il viso tinto di bianco ed i capelli scuri, striati di
grigio,
raccolti in due trecce fermate come ciambelle ai lati sulla testa. Gli
occhi
d’oro velati di tristezza.
“Hai fatto il tuo lavoro?” l’aveva
interrogata Borte, “Si, ho recapitato il
messaggio per il giovane principe” aveva replicato incolore
Min, l’altra aveva
annuito. Era stata mandata a posta per sussurrare quel messaggio alle
orecchie
del principe, una parte di lei era quasi tentata di interrogata sul
gioco
politico che ci fosse dietro, ma non la riguardava affatto.
“Bene, ben fatto”
aveva considerato l’altra, con un tono quasi gentile,
“Comunque, Min, sei una
fortunata bastarda … sarebbe stupendo se tutti i lavori di
spionaggio
prevedessero rotolarsi nelle lenzuola con un principe
attraente” aveva
scherzato, facendole l’occhiolino, cercando una
complicità, una sorellanza, con
Min, “Sono stata fortunata” aveva confermato,
scoprendo di non aver mentito, “È
bravo come dicono” aveva aggiunto con audacia –
più umana, più umana. Una
risata roca si era rotta dalle labbra di Borte.
“Lui è Isaak” aveva detto proprio Mayu,
senza guardarla e senza volarsi verso
di lei, riferendosi alla kentia dalle sottili foglie verdi,
“Oh” aveva detto
Min, incerta quale emozione avrebbe dovuto formulare. “Quello
che la mia cara
sorella intende dire” aveva parlato Borte, con la sua voce
acre, come il ferro,
dovuta al fumo della pipa, “Che tutte le piante nel giardino
della regina ha un
nome di persona, un morto, un vivo, non so” aveva scherzato
Borte.
Mayu aveva ignorato il tono rude: “Lui è Isaak,
è stato chiamato così in onore
di Isaak Andreyev, era un graduato del primo esercito di Ravka e
alfiere di
Palazzo.
Fedelissimo al suo,
all’ora, Re Nikolai. Come noi sarebbe morto per lui e
così è stato” aveva
spiegato calma, “Aveva solo venticinque anni quando
è stato ucciso da una spia
straniera, con il tradimento negli occhi” aveva sussurrato
con voce leggermente
lugubre. “Lo conoscevi?” aveva chiesto Min,
intuendo dall’aria che fosse il
caso di porre quella domanda.
“A volte penso di sì, a volte penso di no. Sono
passati trentacinque anni da
quel giorno” aveva dichiarato, “Lo ho ucciso
io” aveva ammesso poi, quasi piena
di vergogna “E poi ho fallito nel suicidarmi.”
“Tragico” aveva considerato Borte cinica,
“Credo che quella della nostra
sorella maggiore sia una lunga analessi che possa essere riassunta con:
non
innamorarti dell’uomo che ti scopi, se è un
dignitario straniero” aveva
riassunto crudele.
Mayu l’aveva guardata con stizza, sembrava, quasi, una
bambina in quel momento,
Min era rimasta ieratica: “Non
succederà” aveva risposto lapidaria. “Io
lo so,
ma Mayu è una mamma, lo sai”
aveva considerato leggermente divertita,
“Il mio unico consiglio è non rimanere incinta;
una Tavgharad non può avere
figli, quindi a meno che tu non pensassi di vivere qui in esilio con il
bastardo del principe, non rimanere incinta … inoltre,
sbarazzarsi di una
gravidanza è una gran seccatura” l’aveva
avvertita.
“Non può succedere” aveva ammesso Min,
“Mamma Mayu quante volte la hai sentita
come frase?” aveva chiesto Borte con un tono stridulo da
bambina che mal si
sposava con il suo aspetto rude, “Fin troppe” aveva
risposto l’altra, “Ho fatto
prendere un po’ di erba del tuono alle più
giovani, non ho ritenuto necessario
costringere una donna adulta come te, ma non farmi pentire della
fiducia che ti
ho accordata” le aveva avvertita.
Min le aveva guardate, “Come ho detto: non può
succedere. Anatomicamente non
può succedere” aveva rettificato Min, con la
stessa calma con cui avrebbe
parlato del tempo. Era una cosa che aveva accettato, assieme al mignolo
che le
avevano amputato.
Per Min quello era il momento in cui era davvero diventata sterile,
quell’amputazione lì, l’isterectomia le
era sembrata più una conseguenza
naturale, quasi. Borte l’aveva guardata con i suoi occhi neri
pieni di
preoccupazione, mentre Mayu aveva schiuso le labbra quasi, deducendo
quel che
voleva. Min non aveva spiegato oltre e loro non avevano chiesto. Per
Min non
era un problema spiegare, era qualcosa che le era successo e che non
avrebbe
mai potuto essere altra cosa, ma avrebbe portato più domande
ed anche se per
lei non avevano valore, era suo dovere tenere il suo signore in buona
luce,
d’altronde lui non aveva colpe – se poteva
considerarsi una colpa.
“Andiamo dalla regina, conoscendo mia cugina,
starà strippando sulla cucina
indigesta di questo posto di merda ed il clima” aveva
ordinato Borte.
Il resto
della giornata era stato piuttosto tranquillo. Min era stata comandata
affinché
facesse guardia alla principessa Chabi.
Era una bambina di sette anni dal viso dolce e le guance paffute,
somigliava
più a suo padre – il giovane Ling-Pan Yul-Dao, il
secondo favorito della
regina, che era rimasto ad Amarat Ja
–
che a sua madre, con i capelli neri, lunghi e fluenti, che le piaceva
portare
sciolti quando era nell’intimità delle sue stanze.
Chabi era intelligente e diligente, leggeva poesie troppo adulte per la
sua età
e le piaceva giocare con gli abachi e le costruzioni.
Quel pomeriggio, la principessa si era dilettata nella costruzioni di
torri,
con tetti a spioventi, con regoli ed altra chincaglieria, aiutata nel
suo
broncio, da Min, dalla giovane cameriera Noona e da Kublai, uno dei
concubini
della regina, padre della principessa Tomris – anche lei
rimasta in patria.
Per il suo padrone, la scelta della regina Dalai era stata accorta ma
anche
contorta, una figlia lasciata al padre della rivale come equo scambio e
muta
minaccia. Min si era accorta però che il giovane Ling-Pan
fosse un uomo allegro
e fin troppo disinteressato al futuro, più interessato a
comportarsi come un
vizioso gatto che un arrampicatore. Di rimando Kublai era molto
più ambizioso,
ma di natali ben meno nobili e mancava dei giusti appoggi per perorare
la sua
causa e quella della piccola Tomris Kir-Taban. Entrambi però
erano succubi di
Zhao Yul-Chu, il vero signore del Palazzo Proibito, dove risiedevano i
concubini della regina e la prole pubescente – luogo distinto
ma collegato al
palazzo Celeste – e primo favorito della regina.
L’ultimo Re degli Han era
stato Zhejiang Yul-Yue ma era stato re solo degli Shu, durante il
periodo dei
Regni Combattenti, prima che la Regina Taban scendesse dalle sue
montagne del
settentrione, con i suoi shu, ma Zhao ci somigliava, nessun uomo aveva
mai
avuto tanto potere sulla corte, nessun ministro, Zhao superava in
importanza
anche il principe kebban della regina. Nessun uomo aveva avuto
così tanto
potere su una regina, forse secondo solo a Jiao Yul-Kaatar, solo che
differentemente da quest’ultimo Zhao non aveva dato alla sua
regina neanche un figlio
maschio.
“Siete molto brava, principessa” aveva considerato
Noona, quando la principessa
Chabi aveva arrestato la sua vena creativa, dopo aver invaso un largo
tappetto
ravkiano con la sua piccola città immaginaria.
“Quando sarai regina potrai
ricostruire la capitale a tuo piacere” aveva detto con uno
sforzo inumano di
decenza Kublai. “Voglio costruire un castello nel
cielo” aveva stabilito la
bambina senza alcuna vergogna, “Potrebbe essere un
po’ difficile” aveva
considerato Kublai, “No, avrà cento streghe al mio
seguito che lo terrano
sospeso” aveva stabilito con la stessa sicurezza che solo i
bambini potevano
avere. Kublai aveva roteato gli occhi poco avvezzo ai bambini, anche
con la sua
stessa figlia di tanto in tanto. “Forse ne serviranno
più di cento” aveva considerato
Noona, “Allora mille, millemilamilioni tutte quelle che
servono” aveva
stabilito ferrea la bambina, “E Juris mi
aiuterà” aveva dichiarato.
“Dubito che al principe ereditario di Ravka vada di costruire
castelli nel
cielo” aveva scherzato forzatamente Kublai. Min aveva avuto
una cattiveria a
ruggire sulel labbra, ma non aveva osato parlare, perché non
le competeva.
“Considerando chi è suo nonno non sarei sorpreso
che lo farebbe solo per il
gusto di poter dimostrare di poterlo fare” aveva stabilito la
voce secca di
Zhao, sporgendosi alla porta.
Kublai e Zhao si somigliavano, non abbastanza simili per passare come
fratelli,
ma cugini, forse. Stessi visi lunghi, affilati, con zigomi alti e
capelli neri
come inchiostro. Kublai portava il capello corto, alla maniera mondana
del
continente, e preferiva indossare abiti semplici e poco elaborati, che
rappresentavano il suo brutale pragmatismo, ma con stoffe pregiate che
volevano
ostentare la sua appartenenza ad un buon ceto. Kublai era di famiglia
agiata,
figlio di mercanti, ma non nobile. Zhao, invece, portava i capelli
lunghi,
quasi quanto una donna, raccolti in una mezza coda, alto e slanciato
indossava
sempre sete lucide, di colori mai troppo vistosi ma che donava lui un
aspetto
distinto, che permetteva che fosse riconosciuto come il degno secondo
figlio
di un ministro – e che forse ne avrebbe ereditato il
mestiere. Anche Ling-Pan
somigliava come aspetto a loro, più effemminato e grazioso
di Kublai e più
esteta e morbido di Zhao, terzo figlio di una famiglia nobiliare,
indossava
solo puro lino, bisso e sottovello
di
cervo rosso, con tinture così stravaganti da sembrare un
corvo colorato.
Ma per quanto tutti e tre
fossero uomini di ineluttabile bellezza, non eguagliavano per carisma,
classe e
posatezza il principe consorte di Ravka, l’uomo che la regina
Dalai avrebbe
sposato se non fosse ascesa al trono celeste.
Chabi si
era tirata subito per raggiungere l’uomo che
l’aveva issata su sulle sue
braccia come se fosse stata carne della sua carne. “Come
è stata la giornata?”
aveva chiesto Kublai, offeso per essere stato lasciato con la bambina,
“Per te,
rozza creatura, sarebbe stata noiosa, ma per un amante delle arti,
molto bella,
la principessa Alina ci ha allietato tutto il pomeriggio con
spiegazioni
sull’arte figurativa tsibeyana e quella direttoria ravkiana,
con le influenze
eccentriche morbide shu. Ho scoperto cose della mia cultura che non
immaginavo”
aveva ammesso con un fulgido divertimento. “Min sei
congedata; Dalai ti aspetta
nelle sue stanze, vuole che questa sera indossiate l’abito
tradizionale del
Pugno di Pietra” aveva rivelato l’uomo.
Min si era allontanata con una riverenza asciutta, prima di dirigersi
nell’ala
delle sue sorelle. Con l’abito tradizionale si faceva
riferimento al vestimento
che le guerriere Tavgharad avevano indossato per la prima volta durante
la Cerimonia
del Te dei Fogli di Pesco, quando avevano dichiarato la fine
dell’occupazione
del Khem Aba e si erano unificati sotto un unico vessillo, quello di
Taban, tre
dei cinque regni combattenti: Shu, Wei e il Wu.
Era stata la prima volta
che si era parlato in maniera esplicita di pace e da quel momento,
durante le
cerimonio pubbliche ed importanti le Tavgharad avevano indossato quei
vestiti,
come forma di lustro e rispetto.
Avevano
impomiciato
il viso con trucco bianco, per rendere il viso pallido e levigato come
una
statua con la cipria, avendo coperto anche labbra e sopracciglia
– era un
retaggio delle vecchie tradizioni delle montagne – ed avevano
passato le
sopracciglia di rosso vivo, come sangue, e dello stesso colore un
punto, grande
come la circonferenza di un dito sano sotto gli occhi, ed i denti tinti
di
nero, che spiccavano nel viso pallido quando si sorrideva.
I capelli nella sommità della testa e nella parte alta delle
tempie venivano
tirarti e raccolti in una crocchia dalla forma leggermente triangolare,
mentre
quelli posteriori e rimanenti delle tempie venivano lasciati sciolti e
liberi.
Avevano indossato il qipao
a due
colori bianco-rosso, con l’allacciatura trasversale, senza
maniche, lungo fino
alle cosce, da cui spuntava una vestaglia grigio chiaro, lunga fino
sopra le
ginocchia, che anticipava pantaloni larghi con orlo stretto, gonfi,
nero opaco.
Con calze bianche e scarpe dalla punta tonda senza tacco marroni.
Anche la regina si era vestita come loro, di solito prediligeva abiti
sfarzosi,
con ninnoli di ogni genere, acconciature elaborate e copricapi
virtuosi, che
aveva ereditato dalla sua discendenza we-han a cui apparteneva suo
nonno,
concubito della precedente regina delle Taban. La regina Dalai,
però, aveva
deciso di indossare, al posto del rosso e bianco, il verde limone
acerbo ed il
giallo paglierino, mentre il blu aveva decorato le sopracciglia e le
guance.
Non sarebbe spiccata tra di loro né per bellezza, che quel
trucco nascondeva, né
per unicità, nonostante i colori sgargianti, ma per quei
capelli così poco shu,
biondo ramato che doveva essere sempre allisciato, che tradiva evidente
quel
sangue kaelish di suo padre, più dell’altezza,
degli occhi tondi e chiari.
“Facciamo questa atrocità …
così potremmo andare tutti a dormire” aveva emesso
la regina con un tono di voce già stanco, mentre sistemava
uno spillone nella
crocchia, “Qualcuno ha visto il mio gemello?” aveva
chiesto poi voltandosi in
giro a destra e manca, “Probabilmente sarà ancora
chiuso in biblioteca” aveva
scherzato Borte, “Tutti i santi … Ji-oh puoi
…” aveva cominciato la regina,
prima di osservare la più giovane di loro, una diciasettenne
vivace, che non
aveva ancora capito il suo impegno come Tavgharad che si stava ancora
dipingendo un sopracciglio. Dalai aveva fatto roteare gli occhi chiari
e
tondeggianti, “Min …” le aveva detto.
Il
principe Huion era effettivamente dove la cugina Borte lo aveva
indicato, nella
biblioteca del Gran palazzo.
Min lo aveva trovato con il naso schiacciato in un vecchio manoscritto
polveroso. “Figlio del cielo” lo aveva appellato
con la riverenza che era
d’uopo ad un titolato. Huion teneva agli orpelli molto
più della sua gemella,
forse perché la regina Dalai indossava la corona e sedeva
sul trono celeste,
mentre suo fratello poteva solo fregiarsi della luce riflessa della
donna. Il
sole e la luna di Shu-Han erano stati appellati più volte
dal popolo, ma aveva
notato che quel nomignolo non aveva valicato le montagne rocciose.
Aveva senso,
il sole a Ravka era interpretato dalla loro santa martire per
eccellenza, che
sembrava essere cara così tanto alla regina da aver
sistemato una sua
litografia in ogni corridoio del Gran Palazzo.
“Ah, salve Sura” l’aveva salutata
distrattamente il principe, Min non aveva
corretto il suo nome, abituata. Il principe non ricordava mai
correttamente i
loro nomi e le appellava sempre nella maniera sbagliata, confondendole
fra
loro. A volte la confusione aveva senso, la giovane Ji-oh spesso era
scambiata
per la poco più matura Zhouli, e le due avevano lo stesso
fisico asciutto, le
curve snelle ed il naso all’insù – raro
per il sangue Shu – ma altre volte lo
scambio era pura incuria. Dove Min era secca e bassa, Sura era stata
voluttuosa, con occhi da cerva e labbra grandi. Non si somigliavano
né per
aspetto né per attitudine. Inoltre, Sura non era
più con loro dà … un
po’.
L’altra donna era stata una Tavgharad che aveva servito
ossequiosamente la
regina per otto anni, prima che un male fagocitante la mangiasse
dall’interno,
Min aveva prestato le sue scarse competenze con la piccola scienza per
aiutarla, ma non aveva avuto molta fortuna …
d’altronde, era un dono del cielo,
ma non un miracolo. Sura onorevole come una Tavgharad era morta alle
sue
condizioni. Min non era dedita ai sentimentalismi, sarebbe stato
inutile, ma un
po’ Sura le mancava, una sensazione simile al suo arto
fantasma. “La regina
richiama la sua presenza per la festa dei Dieci Giorni” aveva
riportato
pragmatica, “Ho più voglia di spararmi ad un
ginocchio e poi correre per il
sentiero dei rovi, che partecipare a questa cena” aveva
ammesso il principe, “I
Ravkiani pensano che avvolgere tutto nella verza renderà il
loro cibo
accettabile e la vodka la loro compagnia piacevole” aveva
ammesso, alzandosi
dalla sedia e chiudendo il vecchio libro che stava leggendo.
Min aveva imparato il Ravkiano, come si aspettava da una Tavgharad, ma
non era
così tanto svelta sulla lettura, “Perfino il loro
tè fa schifo, sono animali”
aveva ammesso frustrato, avvicinandosi a lei, “Tutta la
serata sarà una brutta
partita a mahjong, in cui noi, Sura, saremo mere pendine e oggetto di
ludibrio”
aveva sospirato, “Inoltre, quella va… mia sorella
ha deciso che debba
ammogliarmi, dopo aver evitato a tutti i costi quella gogna”
aveva replicato
con un tono offeso e irritante.
I kebba’n, come avevano insegnato a Min, erano una sola anima
in due corpi, Huion
e Dalai dovevano appartenere ad uno spirito piuttosto confuso,
poiché mai due
creature, che dividevano lo stesso sangue, erano apparse più
diverse. “E per di
più, Daley” – Min si
era irrigidita a quella storpiatura che Huion
utilizzava per chiamare la regina – “vuole farmi
sposare una contadina della
jurda” si era lamentato. Merissa Nassau più che
una contadina della Jurda era
l’erede di venticinque ettari di Yam e cinquantadue di Jurda,
senza essere
affigliata ad un consorzio.
Aveva ascoltato lo sproloquiare del principe con pigro disinteresse,
mentre lo
riconduceva negli aloggi che erano stati dati alla loro corte,
osservando con
più attenzione le vivaci scene che si stavano manifestando
intorno a loro.
Mentre i nobili si preparavano per i bagordi i solo servitori
sembravano divisi
tra sistemare ogni cosa per i loro signori, quanto occuparsi di altro.
Parecchi bisbigli, risatine e nervosismo. Si chiese
cos’avessero in mente.
“Mi volesse combinare un matrimonio con Alina, devo dire che
è decisamente
infantile e puzza ancora di latte, ma almeno è una
principessa” aveva
sproloquiato l’uomo.
Aveva detto quella frase, proprio in concomitanza
dell’ingresso negli alloggi
che avevano dato a loro, aveva parlato in Shu-Han ma qualcosa doveva
aver
comunque attirato alcune delle guardie che gli erano state gentilmente
offerte
e che la regina Dalay aveva accettato con un sorriso un po’
troppo aperto, probabilmente
erano addestrati a capire lo Shu.
“Non solo scompari per tutto il giorno, ma ti comporti anche
da mentecatto” era
stato rimproverato dalla regina, “E tu potrai indossare tutte
le maschere che
vuoi o le chincaglierie, ma non sarai mai raffinata ne
educata” aveva replicato
il fratello stizzito.
Uno spirito guerresco – specie con se stesso –
doveva essersi diviso tra i
gemelli.
“Lo sai, Éimhìn:
a me la corona e la
responsabilità e a te il buongusto” lo aveva
rimproverato quella., “Qualcosa
doveva pur rimanermi” aveva replicato offeso, “I
tuoi leziosi signorini, Daley?”
aveva indagato poi il principe, guardandosi intorno. Le Tavgharad
venute con la
regina erano tutte sistemate perfettamente, ma né di Zhao ne
di Kublai c’era
alcuna traccia, “Sta sera faremo a meno di loro. Sarai
l’unico uomo della mia
vita, caro fratello” aveva soffiato, allungando un gomito,
sotto il qipao
la sua vestaglia non era grigio chiaro come la loro, ma era fatta in
trama
nelhuita di color crema, che alternava il dritto con decori di uccelli
dal
piumaggio ampio: corvi colorati, fenici e quant’altro,
“Come è stato sempre
d’altronde” aveva quasi
cinguettato.
Huion aveva preso il gomito con fare altezzoso, con
un’espressione leggermente
tronfio sul viso – ben felice di essere la scintilla.
“Puoi lisciarmi come vuoi, sorella, ma non ho intenzione di
sposare la tua
fattrice Zemeni” aveva stabilito, “Se potessi
sposarmi, la sposerei io … chi
non vorrebbe divenire una personalità ingombrante sul Mare
Vero, d’altronde. A
parte te, fratello” aveva stabilito con voce rude la regina.
“Potresti essere
la prima regina Taban a farlo, cugina, d’altronde non ci sono
rischi che
preferiresti eredi di lei” aveva detto Borte con quel suo
tono insofferente.
“Non hai messo nessun gioiello?” aveva indagato
lui, cambiando tema
improvvisamente, “Quando hanno scelto di raggiungere i loro
uomini durante la
battaglia delle Primavera di Zhou, avevano già da tempo
venduto gli ori ai rafkiani
per i loro ferri e fuso il bronzo per dare armi a chi era partito. Non
avevano
monili” aveva insistito e per questo nell’abito
tradizione non si indossavano,
tranne la regina che aveva due spilloni per fermare il cignone.
Le terribili donne delle montagne guidate dalla Regina Taban non erano
che
armate di sassi e speranza, così veniva insegnato ai
bambini. ‘Disperazione’
aveva sentito una voce acuta nella sua mente, una voce che non sentiva
ormai da
diciotto anni dal vivo, ma che sempre ruggiva nella sua mente,
“La disperazione
è un’arma potente.”
Erano
stati accolti dal Re Consorte all’esterno che aveva fatto
prediligere per loro
delle carrozze per essere guidati fino alla Festa in un posto che a Min
veniva
difficile da pronunciare, ma che veniva chiamato dal personale, con
affetto: La
palude d’Oro.
Nella carrozza che era stata loro predisposta erano saliti solamente la
regina,
il principe e due Tavgharad: Borte e la giovane Ji-Oh.
L’ultima era stata
scelta con l’equo metodo della pagliuzza più corta.
Min era salita in groppa ad una cavalla ravkiana, dal manto pelle di
daino ed
il crine scuro come una quercia bruciata, dall’andatura ferma
e dal carattere
leggermente irritato, che faticava difficilmente a farsi domare.
“Problemi con la tua amica?” l’aveva
interrogata Mayu, “È una combattente”
aveva risposto Min, ritenendo che quel genere di risposte
soddisfacessero
sempre le sue sorelle, prima di passare con delicatezza la mano intera
sul
collo dell’animale, toccando la pelle e calmando il bollore
del sangue, per
avere poi una creatura quieta e mansueta.
Mayu le aveva sorriso quasi complice,
“Non sorprenderti le cavalle
Ravkiane sono rudi e dure come le loro donne” aveva
replicato, “Nulla che noi Tavgharad
possiamo invidiare” aveva stabilito con voce piatta. Mayu
aveva alzato le
spalle, “Su questo hai ragione” aveva risposto
l’altra con scioltezza.
Era stata distratta dal corteo fjerdiano che aveva fatto il suo
ingresso, con
la sua regina delle nevi, con i capelli biondi quasi bianchi, la pelle
chiara
come la cera e l’abito azzurro ghiaccio così
chiaro da sembrare bianco alla
luce tenue del tramonto.
L’unica punta di colore era l’alta corona di ferro
con le spade aguzze. Alle
sue spalle, curvo e timoroso il principe ereditario la seguiva.
Era quasi interessante vedere il contrasto tra il giovane principe di
Fjerda e
i tre principi di Ravka, loro sempre così fulgidi e
splendenti come petardi. Il
principe di Fjerda, Matthias Grimjer, nonostante fosse alto e ben
fatto,
camminava sempre ricurvo su sé stesso, come se fosse stato
un armadillo. La
sera prima quando sua madre lo aveva costretto a recitare una qualche
poesia
fjerdiana sui campi illuminati dal sole, Min aveva davvero pensato di
vederlo
richiudersi in se stesso come una bestiola corazzata.
“Merissa Nassau sta guardando in questa direzione”
aveva commentato con voce
quasi divertita Mayu, costringendola a cambiare punto di osservazione.
Merissa Nassau in un viola ostentatissimo, sepolta sotto balde di pizzo
in
tombolo e pieghe morbide e gonfie, ben lontane dalle linee dritti e
pulite del
Continente, i ricci castrati sotto un turbante di seta dai colori
variopinti,
quasi scompariva accanto alla colorata delegazione di Novy Zem.
“Ha ricevuto il
messaggio” aveva considerato Min, chiedendosi che gioco di
potere ci fosse
dietro. Min non si era mai dovuto occupare di pensare, quindi non aveva
alcuna
idea di come tali nozze potessero giovare Dalai. Forse era una scusa
come un’altra
per liberarsi della metà scomoda e petulante del suo spirito.
Una volta
domata l’andatura della cavalla era stata sobria e ben
contenuta e non aveva
dato a Min nessuna fatica, ma bastava che allontanasse poco la mano
dalla pelle
calda e morbida dell’animale perché sentisse il
fuoco nel suo sangue ardere
selvaggio. Min provava – anche se non avrebbe dovuto
– compatimento per quella
bestia, così attacca alla sua natura più libera
da non sapere quanto dolore
avrebbe patito per essere ammaestrata – “almeno non
perderai le dita” aveva
pensato.
Ad accoglierli c’era stato il principe consorte e i due
proprietari della
tenuta, ma Min aveva a malapena potuto guardarli per aiutare Dalai a
smontare
dalla carrozza, frapponendosi tra lei ed un troppo zelante valletto
ravkiano,
dopo che Borte era scesa per prima, con una mano sospettosamente vicina
alla
cintura dove aveva nascosto uno dei suoi pugnali probabilmente.
“Per gli
spiriti, Min, non indosso neanche le zeppe o i tacchi” aveva
detto la regina,
rifiutando la sua mano e smontando dal fiacre con un movimento felpato,
“Però aiuta,
mio fratello” le aveva impartito e Min aveva seguito
l’ordine.
Il ruggito di una bestia feroce aveva interrotto ogni loro pensiero,
inghiottito dalla trionfale visione della terribile: una bestia feroce,
una
creatura oscura, ingombrante e temibile, con zanne affilate, corna
ricurve, ali
nere come la notte, che nella luce blu della prima sera appariva come
una
macchia di scintillante nero e viola così opprimente da
togliere il fiato.
Sul suo dorso spinato tre creature umane quasi sparivano tra le spire:
i tre
principi.
La principessa Liliyana aveva sollevato le mani al cielo ed aveva
evocato
fulmini di un azzurro così intenso, che per un secondo Min
si era aspettata di
udire il tuono e una tormenta abbattersi su di loro. Poi erano
scivolati via,
con la stessa scaltrezza di gatti e la bestia draconica, aveva
cominciato a
corrompersi, rompersi e contorcersi, come sotto le mani audaci e
violente di un
corporalki – perché così era
– e dalla bestia era apparsa una donna vestita di
squame nere e viola ed una corona fatti di ossa e spine: la regina.
“Per i folletti, Ravka ha proprio deciso di mettere la verga
sul tavolo” aveva
sentito bisbigliare e ridere la regina Dalai, con uno scintillio quasi
bramoso
negli occhi. “Come sei volgare, Daley!”
l’aveva rimproverata il gemello.
“Oh anche il piccolo fiocco di neve di Fjerda deve averlo
notato” aveva
bisbigliato Dalai, ammiccando al principe Matthias che ora non
guardava, ne
ascoltava il discorso della regina Zoya, preferendo guardare loro. La
regina
Dalai aveva sorriso piena di boria e sollevato una mano in segno di
saluto,
troppo sprezzante e poco rispettosa. Il principe era arrossito come
colto in un
reato ed aveva ricambiato il saluto con una riverenza abbozzata e poco
chiara.
“Pensavo non ti appassionassero i biondi e slavati,
cugina” aveva mormorato
Borte quasi divertita, “Se per questo non mi interessano
neanche i bambini”
aveva risposto pigra la regina, “Ma Fjerda è
Fjerda” aveva detto elusiva, “Ma
perché in questo posto bevono solo?” si era
lamentato il principe prima che una
fila di camerieri in bianco e oro si affacciassero con bicchierini di
cristallo
carichi di Brandy, quando era stato annunciato dalla regina.
“Potremmo
lamentarci del fatto che non bevono bene, ma l’alcool
potrebbe essere l’unica
cosa buona di questo paese del cazzo” aveva ridacchiato
Dalai, “Io stavo
pensando … che dopo i dieci giorni Ravkiani potremmo provare
a fare il cammino
dei Pellegrini” aveva valutato Borte,
“Sì, certo, abbandoniamo il paese alla
zia Ehri e al resto dei ministri … cosa andrà mai
storto” si era lamentato il
principe. “Tranquilla Borte so che è prevista una
gita all’Agroverde per il
quinto e sesto giorno della festa. Al tempio Principale di Sankta Alina
e del
Senza Stelle” aveva spiegato pratica Dalai, mandando
giù il suo bicchierino
d’un fiato.
Min aveva rifiutato la bevanda come Mayu, mentre Borte
l’aveva mandata giù con
meno scioltezza della cugina, “Direi che questa cosa
è … forte” aveva stabilito
la Tavgharad, “Dovreste provare il wisky kaelish, vi
manderebbe a gambe
all’aria” aveva ammesso la regina.
Non
lontano dall’ansa del lago, su cui erano state disposte
candele di ogni genere
– alcune sulla terra fangose ed altre a pelo
dell’acqua – per creare punti di
luci e giochi, erano state sistemate due immense tavolate che si
affrontavano
opposte, con sedie da un solo lato, così che tutti si
potessero sedere
guardandosi in viso.
I due tavoli parallele tra loro erano però perpendicolare ad
un tavolo più
piccolo e modesto, per quanto abbellito da una splendida composizione
floreale,
su cui erano sistemati, da un lato solo, cinque imponenti sedie, che
quasi
potevano passare per troni.
“Uh … uh … alla delegazione delle
Colonie non è stato concesso la seduta reale”
aveva considerato Ji-Oh, “Non mi sorprende. Al momento sono ancora
le colonie,
riconoscere un rappresentato ufficiale vorrebbe dire pisciare
in testa a
Kerch” aveva considerato Mayu, “Siete
così volgari voi due” aveva detto il
principe ancora schifato riferendosi alla cugina e alla regina che
sorrideva
mesta, “Io mi chiedo se a Wylan Van Eck avrebbero dato una
sedia” aveva
soffiato, prima di prendere la strada verso il suo posto, seguita da
Mayu, che
per la serata sarebbe stata alle sue spalle. A Min era toccata la
posizione
dietro al principe, mentre le altre Tavaghard erano state assegnate ad
altre
posizione di controllo dei reali e dei ministri a cui era stata aperta
la
serata, come i valorosi druskelle fjerdiani, i colorati signori di Novy
Zem, i
dallak kaelish e i soldati ravkiani.
Min aveva osservata la regina Dalai, ben soddisfatta, come una gatta
sorniona
sul suo trono alla destra della regina di Ravka, il centro della
tavolata,
affiancata dall’altro lato dal Marshal Kaelish, un uomo tutto
d’un pezzo con
una barba folta raccolta in una piccola treccia e fluenti capelli
– ben lontana
dal Presidente di Novy Zem al lato opposto della barricata al fianco
della
regina Mila, vicaria del marito – che sembrava ben felice
della posizione. Da
che Dalai era ascesa al trono e Min aveva cominciato a servirla, aveva
potuto
osservare come la regina avesse fatto ogni cosa che era in suo potere
per
reprimere il sangue kaelish di suo padre alla corte, portando spesso i
capelli
rame tinti di scuro, dismettendo il cognome che aveva ereditato da suo
padre,
preferendo il gentilizio del loro popolo e adoperando maggiormente il
nome shu
che aveva ricevuto alla nascita, rispetto quello Kaelish –
con cui solo il
principe era autorizzato a chiamarla – ma Min sapeva che
Dalai non disprezzava
affatto se stessa.
Nell’intimità delle sue stanze, indossava la
stoffa ruvida di tartan, parlava
la lingua di suo padre – che sempre le era stato
più caro rispetto la sua
venerabile madre – ed era dedita alle letture e i piaceri di
quel popolo che le
era estraneo, così lontano dall’altro capo del
Mare Vero.
“Non ci credo che debba stare così lontano dal
tavolo dei reali, è un
ingiustizia” si era lamentato il principe senza vergogna,
“Comprendo il tuo
tormento, giovane principe. Ma la scelta di Ravka è stata
oculata, ponendo i
regnanti tutti allo stesso livello” aveva detto pratico il
ministro
dell’agricoltura, sorridendo accomodante –
somigliava molto a suo figlio, il
principe consorte di Ravka – con quel suo tono sempre
così posato ed elegante,
che sapeva sempre mettere a suo agio tutti. “Anche Nikolai e
mio figlio siedono
su questi tavoli. Anche il principe Matthias” aveva detto,
ammiccando proprio
ai tre imputati.
Min aveva seguito ogni indicazione, chiedendosi se ci fosse un
significato
nascosto che doveva cogliere. “Invece …”
aveva cominciato circospetto il
principe, “Chi è la donna vicino a tua
nuora?” aveva chiesto il principe. Min
si era aspettata quasi di vedere la principessa Alina occupare il posto
accanto
a sua sorella, ma quella era gomito a gomito con il principe di Fjerda
– una
scelta che Ravka doveva aver fatto con un certo interesse personale
– per
trovare la principessa Liliyana in tutto il suo azzurro splendore tra
due
donne. Una era una signora dall’incarnato olivastro, i
capelli neri, che
indossava più gioielli di quanto mai Min avesse visto su
qualcuno: sul collo,
sulle braccia, le dita, le orecchie, un decoro tra i capelli che
scendeva sulla
fronte tonda, vestita di rosso e pizzo nero di tombolo, che fasciava un
corpo
ben nutrito e soddisfatto. L’abito che indossava non era
ravkiano, ma Min non
sapeva esattamente di che origine fosse.
L’altra era alta, con lunghi capelli castani, pettinati in
modo, che una grande
parte di essi fosse sistemata a coprire una porzione del viso, e
indossava una
lunga veste viola con foglie a tre punte rosse a decorare le maniche
amplissime,
che ricordava il taglio di vestito della moda oyirad – che
Ravka sud e Shu-Han
nord condividevano in parte. L’unico gioiello che indossava
era una lunga
collana di perle del Paar, color avorio dalle
sfumature rosa antiche,
arrotolata in almeno tre file. A Min aveva ricordato la collana delle
Cento
Perle, che apparteneva al corredo reale e che la prima regina Taban
aveva
ricevuto, sul letto di morte, dalla principessa pavone Tz'e-Hsi,
concubina dell’ultimo
Imperatore Blu dello Ji. Un tesoro che riportava la resa definitiva e
l’unione
dello Shu-Han come un solo regno, un solo popolo, un solo cuore.
“Quale? Una
è la contessa di Ivets e l’altra è
la futura duchessa di Keramzin” aveva spiegato subito il
ministro pratico, “Non
importa. Entrambe sono fuori dalla tua portata” aveva detto
secco, forse troppo
audace, “Fuori dalla portata del principe di Shu-Han?
L’altra metà del cuore
della regina celeste?” aveva indagato quasi offeso,
“Sono entrambe sposate e
con prole a seguito” aveva chiarito il ministro.
“Meglio, no? Non vorranno
l’incomodo di un altro moccioso e io non dovrei preoccuparmi
di lasciare una
rendita a qualche infante” aveva soffiato, “Sono
sposate” aveva ripetuto il
ministro, “Spiriti, la gente diventa vedova per la tale e per
la quale, guarda
mia madre, un giorno era sposata e un giorno mio padre è
caduto dalle scale. E
lei si è ritrovata vedova in terra straniera. E Guardate
anche te, Sunan, un
giorno avevi una moglie e un giorno non più” aveva
detto senza tatto.
Min aveva sentito uno stretto al petto a quella menzione, ma non aveva
potuto
lasciare che i suoi sentimenti la domassero – che le
ricordassero le sgradevoli
sensazioni di non essere un oggetto per interno. SI era concentrata su
qualsiasi altra cosa, sui commensali, sulle moltitudini di teste e
chiacchiericci, sulla musica bassa e delicata di una piccola orchestra
ben
allestita. Su Malcom che, come un mastino, vigilava sulla sua
principessa e le
due nobil donne attento, sul principe Dominik che gettava qualche
sorriso qua e
la mieloso per rassicurare tutti, ma che cadeva sempre più
spesso in gelidi
sguardi, verso qualcosa nel loro tavolo. Che tutti o quasi camerieri ed
inservienti non fossero quelli che aveva incontrato al Gran Palazzo, ma
fossero
tutti o quasi sconosciuti. Probabilmente personale addestrato
appositamente per
questi eventi, che conosceva la palude e sapeva come non farsi
corrompere.
La cena, composta di
più portate di quanto uno
stomaco potesse sopportare – ed anche Min aveva avuto
l’onore di poter mangiare
qualcosa che i camerieri avevano portato loro a posta – era
stata interrotta al
sesto piatto dalla regina di Ravka in persona. Si era alzata in piedi,
con
ancora indosso l’abito di squame color ametista ed il sorriso
da belva, “Scusate
se interrompo questa cena deliziosa, che il conte Kirigin si
è così prodigato
per presentarci, ma ho bisogno dell’attenzione delle vostre
eccellenze!” aveva
annunciato la regina con voce profonda e sicura, “Oggi,
festeggiamo l’inizio
delle Dieci Giornate e ricordiamo il momento in cui Sankta Alina
– che non era
solo una sankta, era una persona vera ed era mia amica – si
è sacrificata per
noi, per ricucire letteralmente la ferita oscura che dilaniava questo
paese. Se
oggi Ravka prospera e merito suo, se oggi siamo qui a festeggiare
questo, è
merito suo, di una ragazza nata dai mulini, senza cognome, senza
famiglia,
senza nulla, che dal nulla è sorta e ci ha
salvati” aveva detto portentosa ed
ogni calice ravkiano si era alazato.
“Sol Sho Sol Koroleva!” avevano cantato.
“Sol Sho Sol Koroleva!” aveva gridato la regina
Zoya.
“Anche io come sapete sono venuta dal nulla, un paesino senza
nome, che
l’ampliamento della città di Zurstk ha
completamente mangiato. Oggi non esiste
il luogo in cui sono nata, la mia casa certo, la mia casa è
Ravka, è Os Alto e
quel piccolo Palazzo ed anche quello grande, quando dimentico quanto
sia
brutto. La mia casa è mio marito, i miei figli, il mio
popolo” aveva aggiunto.
“Sol Sho Draki Koroleva!” qualcuno aveva urlato e
poi qualcun altro.
“Così oggi festeggiamo la fine di un’era
terribile e l’inizio della pace, la
mia grande nazione, ricordiamo Alina che era una sankta ma anche una
persona”
aveva parlato di cuore e con dolcezza la regina Zoya, “E ne
approfitto per
festeggiare anche un'altra giovane donna che ho visto nascere e
sbocciare come
il fiore più prezioso” aveva fatto una pausa.
Min si era aspettata chiamasse una delle sue belle figlie, ma la regina
l’aveva
stupita, “Lissa, tesoro, alzati” aveva invitato la
regina, dal fondo di una
delle tavolate, quella affrontata alla loro, una giovane donna si era
alzata.
Indossava un abito tutto d’oro che le stava un po’
troppo morbido sul petto e
sul ventre, come se le misure non fossero esatta, ma raffinato e
pregiato. La
ragazza però giovane come una puledra, aveva il viso rosso
d’imbarazzo, “Oggi
festeggiamo anche Vasilissa Pavlov, baronetta di Taraskaya”
aveva annunciato.
La principessa Alina senza pudore si era alzata per fischiare.
“Dove è la Taraskaya?” aveva chiesto
Huion, stranamente incuriosito. Il
ministro aveva sbuffato, “È un piccolo lago ad est
di Skurks, tra le montagne Sikurzoi”
aveva spiegato pratico Sunan, “Negli ultimi anni è
stato un territorio più
volte shu-hannita che ravkiano. Probabilmente c’è
un podere, ma sospetto che il
titolo della nobile Vasilissa Pavlov sia solo titolare, forse la
sarà data una
rendita, ma credo tu possa auspicare a qualcosa di più
sostanzioso” aveva
considerato. “Come la fattrice di Novy Zem?” aveva
risposto con discreta
irritazione, “Non ho intenzione di sposare alcuna donna che
non abbia un titolo
… non tutti possono essere come te, Sunan” aveva
replicato.
Min aveva sentito un mancamento nel suo fiato ed aveva visto il
ministro
stringere con troppa forza la forchetta, fino a rendere bianche le
nocche nel
ricordo della sua moglie defunta. Non aveva detto nulla al principe,
perché
anche se il ministro Sunan era abbastanza schietto con il principe
Huion, non
si sarebbe mai esposto in quel momento a dire la verità nuda
e cruda, “Mia
moglie era una donna speciale, a prescindere dai suoi natali”
aveva stabilito
cheto alla fine, “Un po’ come la Regina
Zoya” aveva concluso con tono di ferro
e rude.
Vasilissa era ancora in piedi a raccogliere gli applausi, aveva provato
a
boccheggiare qualche parola, ma alla fine aveva miagolato solo un
sentito
grazie. Gli occhi erano umidi di lacrime e le labbra tremavano per la
gioia. La
principessa Alina si era alzata a sua volta, ma con lo sguardo aveva
cercato la
giovane Vasilissa, prima di voltarsi verso la regina madre.
“Per questa
occasione, moya tsarina, considerando la mia lunga amicizia con
Vasilisssa, io
e Tatiana avremmo preparato un pezzo con il balalaika” aveva
annunciato,
ammiccando ad un’altra ragazza della tavolata – ma
Min non poteva vederla
chiaramente perché era seduta dal loro lato.
La regina Zoya doveva esserne rimasta colpita perché per un
secondo, non così
lungo, ma abbastanza, solo i rumori dei violini si erano sentiti,
“Ne sono …compiaciuta,
figlia” le aveva concesso poi con un sorriso timido ma non
circostanziale, “Tra
un paio di portare, per prendere fiato. Forse accompagnato da qualche
passo.
Una serata troppo bella per non ballare” aveva aggiunto e la
sala aveva alzato
ancora i calici, almeno i ravkiani, seguiti a ruota dai zemeni, i
kaelish e più
titubanti di fjerdiani.
“Sol Sho Dreki Koroleva! Sol Sho tret'ya
tsarevich” avevano cantato.
La
principessa Alina non era una suonatrice di Balalaika particolarmente
brava, ma
la sua accompagnatrice – di cui Min non aveva afferrato il
nome – era molto più
capace. Avevano suonato una melodia piuttosto vivace, che aveva
costretto
diversi membri della corte ravkiana a scendere in un largo cerchio
realizzato
con fiaccolo e candele a ballare.
Poi era stata la volta che le altre corti di seguire
l’esempio. Min aveva
osservato la regina Dalai, ballare con il principe Nikolai, con il
cognato di
quest’ultimo, con un vecchio anziano della corte druskelle,
con il presidente
Zemeni, con due kaelish di cui non aveva afferrato il nome, con la
principessa Liliyana
ed anche il principe Matthias – per il ragazzo era stato il
terzo ballo della
serata, il primo era stato con sua madre, poi con la principessa Alina
quando
aveva smesso di suonare.
Il prince Huion aveva danzato con una giovane ragazzina della corte
fjerdiana,
con la sorellastra del marshal, con il figlio
dell’ambasciatore delle colonie,
con ambedue le amiche della principessa Liliyana, con il marito di una
di esse
anche – ma non con l’ambasciatrice zemeni di Ravka,
Merissa Nassau che aveva
ballato quasi tutta la sera con lo stesso uomo, un fjerdiano. Min
sapeva fosse
un istitutore della corte di Fjerda, Min lo aveva conosciuto per la
prima volta
dodici anni prima, quando ancora era uno studente e prima che divenisse
precettore
del principe. La notte prima durante la festa alla Sala delle Poesie
aveva dato
spettacolo con un brano così struggente da aver turbato
anche l’emotività dei
due signore di Shu Han.
Per un momento anche Min si era sentita umana.
Poi si era persa nel giro di stoffe danzati, rotanti e negli strani
balli così
movimentati della corte ravkiana. Il ministro Sunan, nella confusione
delle
danze, si muoveva sinuoso ed elegante, aveva ballato con la regina
Mila, che
non sembrava condividere la sua grazia e con la dura Tamar Kir-Baatar
ed anche
la moglie di lei.
L’unica che si era astenuta da gran parte dalle danze era
stata Genya Safin,
che aveva ballato una volta con un bell’uomo ravkiano che Min
non conosceva e
una volta con il Marshall e poi aveva cortesemente rifiutato ogni
ballo. Il
principe Dominik aveva ballato con la festeggiata Vasilissa, con una
delle
amiche di sua sorella, con le due regine della festa e con altrettanti
uomini,
sempre elegante e posato. Aveva anche ballato con il principe Huion che
si era
sentito piuttosto impacciato da quella sfacciataggine, visto che il
principe
Dominik lo aveva costretto a seguire le riverenze nella posizione della
donna.
I balli erano durati ancora a lungo e poi si era tornati a mangiare e a
ballare
… fino a che le candele si erano consumate e
l’Apparat aveva accesso il giorno
nella notte e Min era rimasta esposta in solitaria al freddo della
notte
ravkiana.
“Borte
e
la sua maestà la signora del cielo ti aspettano nei pressi
della cantina!” le
aveva detto Zho-li avvicinandosi, con un’espressione
piuttosto annoiata sul
viso, lasciandole qualcosa in mano, che Min aveva preso senza battere
ciglio.
Era un terzo di vlancka, una moneta che non
esisteva, da un lato c’era
il valore monetario e dall’altro c’era una pica.
“Cos’è?” aveva domandata
confusa, Zho-li aveva sollevato le spalle, “Me lo ha dato il
mostro di Ravka,
credo sia il loro wen ye” aveva proposto. “Mostro
è molto vago” aveva
considerato Min, osservando la moneta, “Quello con il viso
tutto rovinato, che
non sorride neanche se lo accarezzi con una piuma” aveva
specificato.
Malcom.
Lo aveva cercato con lo sguardo.
E lo aveva trovato rigido, da un lato, che la stava guardando
– non sapeva
perché ma aveva sentito un disagio strano nel suo petto.
“Allora vado …” aveva
detto cupa. “Borte e la regina si sono già
allontanate con la principessa Liliyana
ed un’altra dama …” aveva considerato
Zho-li, “Io approfitterò di questa sorprendente
libertà per fare conoscenze …” aveva
aggiunto allusiva.
Min aveva ripensato alle parole di Mayu quella mattina:
“Prendi l’erba del
tuono” le aveva detto. Zho-li aveva ridacchiato,
“Mamma Mayu mi ha fatto già la
discorso” le aveva detto facendole l’occhiolino.
Si era incamminata verso Malcom.
“Una Tavgharad può ballare?” aveva
chiesto sfacciato Malcom Gwenip, quando lo
aveva raggiunti. Era vestito di un blu scuro che alla luce soffusa
delle
candele sembrava nero, così come il fuoco delle sue vesti,
sembrava sangue.
Il suo aspetto non fingeva neanche di essere tranquillo, ma il suo viso
rovinato, come il suo corpo era teso come quello di una lama. Qualcuna
può, ma
non questa” aveva rettificato, ammiccando a Zho-li e Mikkai
che stavano
danzando tra loro, sciocche, con solo la musica resiliente di un
violino.
“Un peccato, scommetto saresti una ballerina
aggraziatissima” l’aveva provocata
il soldato, “So, come essere leggiadra
sì” aveva scherzato forzatamente Min,
“Tu?” aveva chiesto invece. “Nessun
assoluto senso del ritmo, mi manca un
mignolo del piede e questo mi ha reso le mie mosse un po’
goffe” aveva riposto
Malcom senza vergogna. “Sono cose che non si dovrebbero dire
ad un soldato
straniero” aveva dichiarato lei, “Speravo che Shu
Han fosse già ben informata
su tutte le mie amputazioni” aveva detto con uno sguardo
critico, mentre con
gli occhi cercava qualcosa sulla pista da bello. Min ebbe la sensazione
di
sapere cosa fosse. “Provi rabbia?” aveva chiesto,
“Nel vedere i dignitari
kaelish ballare felici, ben accolti e pasciuti qui a Ravka, mentre si
prendono
pezzi di voi nel loro paese?” aveva indagato –
aveva esagerato.
Non avrebbe dovuto fare quella domanda, ne era stata certa. Era stata
una
imprudenza, era stata una cosa stupida, era stata una cosa tragicamente
umana.
Il soldato ravkiano l’aveva guardata con un odio quasi folle,
con gli occhi che
erano scintillati come fiamme e se Min non avesse saputo prima della
sua natura
Inferno ne sarebbe stata certa in quel momento. Lo aveva sentito
nell’aria
stessa, l’odore del gas, della fuligine, ma poi era scemato,
“E tu Shu-Han?”
aveva chiesto, “Le tue dita sono molto, molto,
belle” aveva detto lapidario.
Il simile chiama il simile.
Min-Han Kir-Zu non aveva mai sentito prima qualcosa di
così simile a se
stessa.
“Non posso ballare ma vorrei farlo” aveva ammesso
con un tono di malinconico,
che non si addiceva a lei, a una cosa, a se stessa. Malcom aveva quasi
sorriso,
se così poteva chiamarsi. “Andiamo,
c’è un bicchiere di vino che ci aspetta”
l’aveva invitata lui.
“Perché questo incontro segreto?” aveva
chiesto lei, “Come? Tu stessa hai
mandato il messaggio e giusto che tu ascolti la risposta”
aveva detto Malcom,
incrociando le mani al petto.
Aveva evitato di parlare del loro incontro nelle stanze della
principessa di
quella prima mattina, in maniera esplicita, almeno, probabilmente
perché
potevano esserci orecchie indiscrete. “Il messaggio
è stato molto più piacevole
da dare” aveva considerato Min con un tono quasi divertito
– e con suo sommo
orrore realizzava fosse spontanea – “Ho decisamente
molta meno esperienza del
principe in materia” aveva giocato con lei Malcom, mentre
attraversavano un
giardino composto di siepi ben tagliate, che alla luce del giorno o
della lumya
dovevano comporre figure intriganti, verso quello che doveva apparire
come una
foresteria risistemata come una piccola magione.
“Non ho mai sentito di un uomo che non pensasse di essere il
migliore, in
materia” aveva scherzato sfacciatamente – quasi
senza controllo – “Be, mia
signora Min-Han non esiste nessun uomo come me” aveva
sospirato, sorridendo
verso di lei, sfacciato e cattivo.
Dalle spie di Shu Han, su Malcom Gynip si sapevano poche, ma chiare,
cose: era
di origine Kaelish, era devoto e fedele alla sua principessa, era un
inferno ed
era completamente pazzo. Aveva creato così tanti disagi a
Ketterdam, una volta,
che a detta di Borte era riuscito a fare qualcosa che non accadeva da
molto
tempo: mettere d’accordo il Bastardo del Barile –
il Re senza Corona di
Ketterdam – ed il capo del Consiglio dei Mercanti –
il re con l’imperio
– sul fatto che non fosse più autorizzato a
tornare.
Avevano
raggiunto una guardia, con una kefta d’oro con decori bianco
acido, su cui
erano ricamati alcuni soli, “Nox Shol, Alexiei” lo
aveva salutato Malcom, con
un sorriso tutto denti, da belva, “Nox shol, pazzo figlio di
puttana” aveva
ricambiato il tale Alexiei, “So che puoi passare ma conosci
la regola” aveva
aggiunto. Malcom aveva rovesciato il palmo verso di lei, come se
volesse
presentarla, “Questo pungo-di-pietra qui … lo
farà per me” aveva stabilito.
Min aveva fatto vedere la moneta con la pica-pica ed il valore
numerico. “Oh …
Prego. Sai la strada, Mal” aveva detto Alexiei, facendosi da
parte e
permettendo a loro di accedere alla casa.
“Questo piccolo anfratto non è la casa del Conte,
che vive qui vicino, ma è la
piccola alcova d’amore sua e del con Vadik Demidov, non
assieme o forse sì … ma
è anche sopra la cantina speciale di Kirigin, quella di solo
Castello Magenta”
aveva cominciato Malcom, “Vorrei spiegarti l’aroma,
l’odore e la particolarità
dell’uva, ma non ne capisco un cazzo” aveva
sbottato onesto, “So che dopo un
bicchiere, però, il mondo sembra quasi piacevole”
aveva ammesso.
Min aveva cercato di memorizzare quanti più dettagli
possibili dell’interno
della casa: sembrava piccola ed accogliente, ma Malcom non le aveva
dato tempo,
trascinandola verso un piccolo corridoio stretto.
“Perché
la moneta?” aveva chiesto Min, “La
gazza è uno spirito guida per un paese di mostri”
aveva risposto lui, come se
fosse stato inoppugnabile, “No, perché la hai data
a me?” aveva chiesto, “Perché
alla tua signora sono state date due e una è stata destinata
a te” aveva risposto
secco lui, come se fosse stato ovvio, arrestandosi poi davanti ad una
porta. “Non
potevi tenerla, tu, intendo questo” aveva specificato, avendo
trovato quel
teatrino tedioso. A Min non erano richieste opinioni ma ogni tanto
trovava faticoso
non pensare. “Non guardare me, donna di pietra, sono come te,
un mero esecutore”
aveva risposto Mal.
Una mera cosa.
Poi aveva aperto la porta …
Era stata accolta da una scala a chiocciola in legno, con il manico
decorato da
fiori intagliati, aveva seguito i gradini, seguita da Malcom con
un’andatura
pesante. Dopo due giravolte era stata accolta da una piccola stanza
accogliente, arredata con divani con un solo manico, con pareti piene
di
strutture di legno, a cui erano appoggiate, per orizzontali, un
mezzo-centinaio
di bottiglie di vino rosso. Il castello Magenta.
Borte e la
regina Dalai erano già lì, i visi bianchi erano
leggermente colati, per il
sudore e un po’ della pelle si riusciva ad intravedere, anche
il nero dei denti
era colato sulle labbra e i capelli si erano leggermente arruffati,
alla regina
mancava anche uno spillone, ma sembrava aver guadagnato una colonna di
perle
bianche da più giri sul collo magro.
Borte era dritta come una spada, mentre la regina era sistemata su un
divano
dai cuscini morbidi, ben soddisfatta.
Non erano sole nella stanza, con loro c’erano altre tre
persone.
La principessa Liliyana che aveva tolto il suo sarafan e indossava una
lunga
veste blu pavone, con le maniche lunghe strette e lo scollo a barca
squadrato.
C’era qualcosa di più rilassato in lei, con i
capelli sciolti senza
quell’assurdo copricapo ed il velo.
La principessa Liliyana, Borte e la regina Dalai avevano bicchieri di
vino tra
le mani. C’era anche l’amica di Liliyana, ma non
aveva più indosso la collana
di perle, che doveva regalato alla regina.
“Odio questi tacchi del cazzo” si era lamentata la
principessa Liliyana
scalciando le scarpe che indossava, “Una regina non
può non indossare i tacchi,
come una principessa” le aveva dato manforte Dalai,
accavallando le gambe ed
esponendo le zeppe in legno, “Le donne delle Montagne non le
indossavano” aveva
considerato, “Eppure io non posso mai scendere sotto il metro
e settanta” aveva
ammesso.
“Che sta succedendo?” aveva domandato con una certa
ingenuità e confusione Min,
“Penso sia arrivato il tuo terzo uomo, Dalai, o, be, terza
donna” aveva
considerato Liliyana rivolgendosi alla regina con una certa confidenza.
Min sapeva non fossero legate da alcuna amicizia, ma solo brutale
affarismo –
quella situazione sembrava tesa. “Certo lei è
Min-Han, serve come mio pugno-di-pietra
da quando sono ascesa al trono. È intelligente, veloce ed
assolutamente fidata”
aveva conferito la principessa, “E sorprendente brava a
capire quando qualcuno
mente, meglio di me e di Borte, almeno” aveva stabilito.
Malcom aveva sorriso con una punta di cattiveria a
quell’ultimo commento. “Benvenuta
Min-Han puoi prendere un bicchiere di vino se lo desideri. Non serve
neanche
che io te lo dica Malcom” aveva detto la principessa
Liliyana, “No, non lo
desidera” aveva scelto per lei la regina Dalai, sorseggiando
un po’ del vino. Liliyana
l’aveva imitata.
Tre-e-tre notava Min.
“Vorrei, sua altezza ma l’ultima volta che ho
bevuto il Castello ho cercato
attivamente di far bollire la palude” aveva soffiato onesto
Malcom. “Uno
spettacolo divertente” aveva scherzato l’amica
della principessa, “Hai dato via
la tua collana, vedo?” aveva chiesto Malcom sfacciato, aveva
perso il tono
rispettoso con cui si era rivolto alla principessa per prendere
qualcosa di
molto meno formale, “Un dono di benvenuto” aveva
risposto cupa l’altra,
spostando con una mano qualche ciuffo di capelli – di quelli
che coprivano il
viso – per metterli dietro l’orecchio. Per un
secondo, nel movimento, Min aveva
spiato un occhio bianco e lattiginoso … e morto.
Min aveva acutizzato i suoi sensi e l’aveva percepita
chiarissima: il misto di
carne necrotica e la viva pulsante.
“Non litigate bambini, stiamo facendo una pessima figura
davanti sua maestà la
regina Dalai” gli aveva richiamati all’ordine
Liliyana.
“Non preoccuparti per me, so bene che a porte chiuse
… spesso le cose non siano
così nette” aveva scherzato la regina,
“So che fama hanno le donne Shu della
famiglia Taban, sua altezza, ma io mi sono sempre fregiata di essere
più onesta
di mia zia makhi e più diretta di mia zia Ehri”
aveva stabilito. “Io di rimando
mi sono sempre promessa di essere meno pragmatica di mia madre e meno
ingannevole di mio padre” aveva detto brutalmente onesta
Liliyana, posano il
bicchiere vuoto su un tavolino basso negli intorni. “Avrei
– posso darti del
tu? – voluto portarti in ambienti più riservati,
ma … i corridoi sotterranei,
sono stati … sono inaccessibili” aveva aggiunto la
principessa.
“Un peccato” aveva considerato Dalai,
“Ammetto che avrei voluto dare uno
sguardo alla vostra ingegneria bellica” aveva ammesso senza
vergogna, “Qualche
prototipo sono sicura mio padre lo tirerà fuori presto. Sta
aspettando Kerch
per farsi bello.”
Dalai aveva riso, “Comprensibile” aveva emesso,
“Per me anche questo posto va
bene, non ho grandi segreti da tenermi cucita sulle labbra.
Io” aveva soffiato.
“Intendi che io sì?” aveva chiesto
Liliyana accavallando le gambe, tutta la
grazia e la gloria si erano assopite come un fuoco spento, lasciando
solo
scintille di serietà e irritazione.
Dalai le aveva sorriso schietta: “In realtà
parlavo di mia zia Makhi, quella
gran stronza è morta da più di un lustro; eppure,
continuo ad ingollare le sue polpette
avvelenate.”
La principessa Liliyana aveva emesso un verso simile ad una risata,
nascosta da
uno sbuffo, “Oh! Sanktissimo Grigori” aveva detto
esageratamente
melodrammatica, “Nessuna regina Taban è mai stata
punita dalle sue colpe da
quando La prima Tempesta che Rimane
ha bruciato tutto quello
che c’era tra Koza a Bhen Zu” aveva replicato
schietta.
Quando si parlava dell’unificazione della regina Taban, dopo
il periodo dello
Stato Combattenti, si parlava sempre della Prima
Tempesta come di una
salvatrice e un’eroina, si parlava della Primavera e loro
indossavano ancora i suoi
colori, ma non tutte le azioni compiute erano state onorevoli. La
guerra lo era
raramente.
E Shu Han era stata unita dal sangue che aveva innaffiato i campi.
Dalai aveva sbuffato, “Sì, lo so cosa pensi
… hai anche ragione. Nessuna regina
Taban è stata punita per le sue colpe, ma per quelle di
un’altra?” aveva
chiesto?” aveva domandato retorica.
“Cosa sta succedendo, Dalai?” aveva chiesto
Liliyana, abbandonando tutti i
formalismi, “Non parlerò per enigmi, ne ci
girerò in tondo. Non mi
dispiacerebbe avere alleata Novy Zem, ma la situazione è
più complicata” aveva
ammesso.
Liliyana aveva tirato via tutta la sua allegrezza: “Ti
ascolto” aveva
stabilito.
“Ci siamo bruciate a causa delle azioni di chi è
venuto prima di noi” aveva
ammesso Dalai, guardando Borte in cerca di sostegno. “Dopo la
deposizione di
zia Makhi, quella buon anima della mia bisnonna si è
guardata bene di far
sparire tutti gli scienziati e dottori che avessero preso parte al
programma
Khervurg” aveva confessato cupa, “Quelli che non
erano già scappati a Ravka – a
proposito mi piacerebbe parlare con Beregin Tuoninem – si
intende … ovviamente
Makhi è stata brava a nascondere molte tracce e qualcuno
è sfuggito allo
sguardo attento della bisnonna e … retrocessa a reggente la
zia Makhi non aveva
più il potere assoluto ma aveva ancora potere”
aveva spiegato.
“vaffanculo” la voce di Malcom aveva interrotto
Dalai, lei lo aveva guardata
quasi scandalizzata, ma aveva presto capito che l’improprio
del guerriero
inferno non era verso di lei, ma verso qualcos’altro.
“Malcom” l’aveva
rimproverato la principessa Liliyana. “Sappiamo tutti dove
sta per naufragare
il discorso vero” aveva esposto rabbioso. E anche Min lo
sapeva, probabilmente
meglio di loro … o non era così.
L’amica della principessa aveva sospirato, prima di versarsi
un copioso
bicchiere di vino di un rosso così denso da sembrare sangue
marcio, la sua
deglutizione era stata densa e rumorosa, poi quando aveva finito, con
il fiato
che sapeva di vino ed il cuore che batteva come un tamburo roborante,
Min non
aveva mai sentito nessuno così rumoroso pur rimanendo calmo,
lei aveva parlato:
“Sì, Mal ha ragione. È un lungo
discorso ma finisce con due parole: Pazner
Kosti.”
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Capitolo 22 *** Vasilissa IV (40 df) ***
NOTA:
Questo capitolo
è un po’ caotico, mi dispiace. Non dovevo postarlo
ora, ma ho deciso di farlo
ora o non lo avrei fatto per molto tempo. Per i prossimi ci
vorrà più tempo: il
lavoro mi sta uccidendo, ho provato a licenziarmi ma non ho avuto
fortuna (devo
essere eccezionale se non mi vogliono perdere lol – o sono
solo disperati).
Il prossimo capitolo non so quando uscirà
perché non ho ancora
cominciato a scriverlo ed è un pov difficile, inoltre, il
lavoro programma di
uccidermi (no sul serio sto progettando quando sarebbe d’uopo
avere un
esaurimento nervoso) però il capitolo subito dopo
è l’ultimo del quaranta.
Perciò meno due capitoli al cambio di linea temporale.
Vasilissa
(40 anni dalla dissoluzione della faglia)
Vasilissa
aveva fatto l’ennesimo calcio richiesto dalla danza, tenendo
le gonne pesanti
sollevate con le mani. Genya Safin la stava guardando con un certo
biasimo
materno, che aveva fatto scoppiare Lissa in una risata incontrollata.
Aveva
bevuto decisamente troppo brandy, wisky e vino frizzante e …
mischiare non era
decisamente nel suo genere … ne era stata una scelta oculata.
Si era allontanata dal suo ballerino, un talentuoso e molto passionale
zemeni,
con la pelle scura e gli occhi intriganti di un castano così
dolce da sembrare
cioccolato, e si era allontanata dallo spiazzale con una seconda
giravolta ed
aveva quasi urtato una fiaccola.
“ Questo non è l’abito che la contessa
Ivets ti ha fatto fare appositamente
questa sera” l’aveva rimproverata bonariamente
Genya Safin, con la benda di
raso rosso, su cui scintillava il sole d’oro, vestita di
vinaccia, con la pelle
chiara in mostra a non nascondere né le tracce del tempo
– più che pietoso,
quasi graziante – e le cicatrici della sua battaglia.
“Era bellissimo quel
vestito, il più bello” aveva ammesso Vasilissa
piena di vergogna e troppo
alticcia per essere onesta. Avrebbe dovuto bere meno. La signora Najima
Polnudist ci aveva tenuto moltissimo ad aiutare Lissa ad avere un abito
che
fosse degno, d’altronde lei stessa capiva le sue emozioni,
era passata da
figlia di braccianti stagionali a soldatessa a moglie di un conte.
“Ed ho intenzione di metterlo ma …”
aveva aggiunto, pizzicando la stoffa d’oro
del suo abito, ricavato dagli abiti della principessa Liliana, che era
stato
prima modificato dalle abili mani della grisha prodigio Catelyn e poi
da
qualcun altro che aveva provveduto ad allungarlo perché
calzasse ad Anya, “La
sposa non poteva metterlo” aveva sussurrato,
perché Genya sapeva sempre tutto e
se non ne era a conoscenza, aveva l’abilità di
capirlo.
Genya le aveva sorriso con accondiscendenza … anzi no, con
comprensione.
“Sanktissimi, questo spiega perché quella povera
anima indossava una palandrana
così immonda” aveva ammesso poi la donna con una
punta di cattiveria. Vasilissa
aveva riso solo di più. “Quando è il
momento in cui dovrete fuggire?” aveva
sussurrato Genya, “Quando Anya mi farà cenno di
farlo” aveva ammesso, cercando
con lo sguardo la giovane Karkoff.
La figlia del signore della seta non era lontana da loro. Indossava un
abito di
tutto rispetto per finitura, ma che sopra ogni cosa era grande, pesante
e
composto di balze e fiocchi, orrido che la faceva apparire come una
gigantesca
torta meringata e non valorizzava molto il suo aspetto –
almeno in base allo
sguardo fastidioso che Viktor Semyon le aveva lanciato per tutta la
sera – ma
nascondeva la curva morbida del ventre.
Anya la stava guardando ma era ancora dritta accanto a suo padre che
discuteva
animatamente con Viktor.
Lissa aveva ballato anche con lui quella sera.
Aveva ballato anche con il principe Dominik – per fortuna
ancora sobria – con
la regina Zoya, e per quanto guidata con fermezza Lissa aveva pensato ancora
al loro strano incontro nelle camere della regina, con il
Marshal e con
uomini e donne che fino a quel momento non l’avevano neanche
notata, mentre
sprimacciava i loro cuscini. E aveva ballato con Viktor, che le aveva
messo una
mano troppo audace sul fondo della schiena e stretto molto il fianco,
“Anche
con questo titolo non potrei comunque sposarti” le aveva
sussurrato e Lissa si
era sentita stordita da quella confessione, inaspettata e non richiesta.
Si era allontanata da Viktor come scottata, continuando a vivere nella
sua
memoria la prima volta che lo aveva baciato sulle labbra e
l’aveva presa.
E si era sentita quasi male.
Ma poi aveva ballato con il bell’uomo zemeni di cui non aveva
afferrato il nome,
ma che l’aveva fatta ridere. E da un ballo erano diventati
tre.
Alina si
era avvicinata a loro, i capelli castano biondo erano sciolti ed aveva
perso il
copricapo vistoso in stoffa d’oro con i draghi da qualche
parte, anche le
scarpe, perché sollevate le gonne, si intravedevano le calze
bianche. “Sei
stata bravissima!” le aveva detto Lissa, quando la
principessa le aveva gettato
le braccia al collo, “Per favore, ho sbagliato più
accordi io che tutta i
musicisti di Ravka negli ultimi cinquant’anni. Tatiana
è stata bravissima a
nascondere tutto. Andiamo a ballare” aveva ruggito,
trascinandola nuovamente
nello spazio erboso.
“Siamo alla Palude, siamo oltre l’ora delle
streghe, stiamo bevendo e tu sei
una signora e io sono una signora” aveva riso Alina, dandole
un bacio sonoro
sulla guancia, umido e pieno d’affetto. Vasilissa aveva
nascosto il viso
nell’incavo del collo della sua amica ed aveva riso piena di
luce. “Sei un po’
ubriaca” aveva ridacchiato, “Sono la principessa di
Ravka, come mi ha detto Lilyiana:
posso fare il cazzo che mi pare” aveva sbottato con
allegrezza. “La principessa
ha detto questo?” aveva chiesto sconvolta, “Non con
queste parole, ma il tono
era quello” aveva risposto Alina ridendo, “Ed ora
balliamo!” aveva ridacchiato
piena di gioia, intrecciando le dita l’una
all’altra e portandola al centro a
ballare, investendo senza vergogna chiunque nel mezzo.
“Siete allegre!” aveva constato Dominik che era
comparso al loro fianco, mentre
teneva delicatamente una giovane donna kaelish, dal seno prospero e
l’espressione intensa. “Siamo giovani!”
aveva riso Alina, “Tu forse anche un
po’ troppo” aveva ridacchiato Dominik,
scompigliando i capelli della sorella.
Alina ne era stata compiaciuta, ma di fretta si era allontanata dal
fratello,
costringendo anche Lissa ad una piroetta un po’ scoordinata,
“Sei solo
invidioso perché sei vecchio!” aveva gridato.
“Ho
fatto
una cosa che non dovevo fare” le aveva detto Alina,
sussurrando al suo
orecchio. “Dove è la novità, moy
tsarevich?” l’aveva presa in giro Vasilissa,
mentre roteavano ancora, “Questa è stata proprio
stupida anche per i miei
limiti, se qualcuno la scoprisse scommetterei che finalmente avrei un
libello
tutto mio” aveva ghignato.
“Addirittura?” l’aveva presa
spietatamente in giro Vasilissa, “Ebbene sì
… ad
oggi posso dire che ho ufficialmente baciato due persone …
due persone diverse”
aveva esclamato.
“Non era Meesha?” aveva indagato Vasilissa
guardandosi intorno a destra e
manca, cercando la soldatessa, trovandola poco lontano che discuteva di
qualcosa con un giovane uomo kaelish – conoscendola
probabilmente stava
parlando di pistole. “Non era Meesha, no, ma non baciava bene
quanto lei,
ovviamente” aveva detto Alina.
“Ho paura di chiedere chi” aveva ammesso Vasilissa,
dandosi aria con una mano e
chiedendosi perché non avesse portato un ventaglio,
“Oh, non ci crederai mai”
aveva riso l’altra. “Spero non sia tuo fratello o
tuo cognato” aveva ammesso
Vasilissa, “Sankti! No, ma come ti viene in mente?”
aveva strepitato, “Che so,
leggi sempre i libelli sugli incesti!” si era difesa
l’altra, “Sì, ma su
Dominik e Liliyiana perché fanno ridere un sacco”
aveva ammesso lei senza
vergogna.
Poi Anya Karkoff era apparsa nel suo campo visivo tutta trafelata.
“Uhm … Vasilissa … io mi sento poco
bene” aveva annunciato, “Certo, la tua
faccia è più verde dell’erba”
aveva risposto sfacciata la principessa.
Anya – che forse era un po’ verde – aveva
assunto una sfumatura paonazza piena
di imbarazzo, “Sì, credo di aver esagerato con gli
assaggi di vodka” aveva
borbottato, “Lissa torneresti con me in Città? I
miei genitori si stanno così
tanto divertente e dilungando, particolarmente mia madre con la
contessa
Semyon” aveva ammesso Anya, con un tono secco e poco pratico,
guardandosi
intorno con perplessità. “E lo chiedi a Lissa? Da
quanto tempo vi conoscete,
voi?” aveva chiesto perplessa Alina, schiudendo le labbra.
“Da un po’, moy
tsarevich” aveva considerato con gentilezza Vasilissa,
posando una mano sulla
spalla della principessa, “Posso lasciarla?” aveva
chiesto, cercando di
recuperare lucidità e usare il lei, “Forse sono un
po’ frastornata anche io”
aveva detto e non mentiva del tutto. Il nervosismo per le nozze segrete
aveva
presto lasciato spazio alla gioia frastornate e la consapevolezza che
non era
più Vasilissa Pavlov ma era la Baronetta Vasilissa Pavlov
– ed anche se non
sapeva quanto sarebbe cambiata la sua vita, sapeva che era cambiata. E
tutto il
brandy del mondo non avrebbe mai annebbiato quella sensazione.
“Noiosa”
l’aveva rimproverata Alina,
biascicante ed un po’ ubriaca, “Prima di andare
però dobbiamo trovare mio
padre!” aveva esclamato, prendendola per mano. Vasilissa
aveva sentito appena
il sospiro frustrato di Anya che le aveva inseguite, tenendosi
l’abito-meringa.
Il re
Nikolai stava mangiando uno shashlik
in piedi, come un contadino, senza preoccuparsi di macchiare la bella
livrea
azzurra – come tutti i membri della famiglia reale, tranne la
regina, aveva
optato per quel colore – mentre teneva banco ad una corte
molto interessata.
Erano tutti ad una rispettosa distanza, con l’eccezione di un
uomo che doveva
essere suo coevo, che esibiva una splendida veste lunga di colore
oro-rosso con
trama nehulita che rappresentava soli ruggenti sul bordo inferiore,
sulle
maniche amplissime e lungo una linea verticale del corpo, fermata da
una cinta
di cuoio e pelo, indossava il copricapo quadrato e peloso
all’interno, sui
capelli scuri – eredità Oyirad
Sikurzoi.
Vasilissa lo conosceva
poco, sapeva chi era: il duca di Keramzin e come notava dalla mano
sulla
schiena del re consorte, le chiacchiere del loro duraturo legame non
dovevano
essere esagerate.
“Padre!!” aveva strillato Alina.
“O sankti!” aveva esclamato il re, vedendo sua
figlia avvicinarsi scalmanata,
con i capelli scinti e tutta disordinata, “Padre, Schievich,
signor Boris,
altri gentili ospiti” aveva detto sfacciata. “Oh,
sankto Gregory, moy tsar
credo che la principessa sia leggermente …
alticcia” aveva strillato una donna,
anche lei con le guance rosse e rubiconde, probabilmente fin troppo
allegra
anche lei. “Non voglio disturbare le vostre chiacchiere
… ma Lissa … volevo
dire Madonna Vasilissa Pavlov, prima baronetta di Tsaraskaya, vuole
ritirarsi”
aveva annunciato Alina, ignorando a pie pari quella conversazione.
“Di già?” aveva chiesto un uomo,
guardandola con una certa audacia. “Davvero,
Lissa?” aveva chiesto il re Nikolai gentile, “La
notte è ancora giovane” le
aveva detto.
“Sono molto frastornata, moy tsar … è
stato qualcosa di importante” aveva
dichiarato Vasilissa, abbassando lo sguardo rispettosa, chiedendosi
perché
Alina l’avesse portata lì. “Comprendo i
tuoi sentimenti” aveva parlato il duca
di Keramzin con un tono quasi dolce, “Anche io sono nato
sconosciuto” le aveva
confidato amichevole.
Aveva un sorriso accattivante ed anche con la vecchiaia addosso
– non mitigata
dal potere grisha – sembrava ancora bello e piacente.
“Mi dispiace perderai i giochi pirotecnici, ma alla fine
questa è solo uno di
dieci giorni” aveva concesso il re Nikolai, prima di
sbottonarsi i bottoni
della livrea, per recuperare qualcosa da una tasca interna, aveva
frugato un
attimo prima di tirare fuori una chiave d’oro.
“Baronetta Pavlov” le aveva
detto pomposo, allungandola verso di lei, Lissa aveva allungato la mano
quasi
tremante, raccogliendo la chiave nella mano. Era fredda ed era di
ferro,
sentendo il peso, ma era stata rivestita con foglia d’oro.
“Questa è la chiave della tua nuova stanza, ai
piani superiori, in quanto
membro del dvorjanstvo
ti è dovuta” le aveva
detto cerimonioso, “Domani, dopo molto tè
all’origano ed acciuge-e-cetrioli,
che ci permetterà di tornare lucidi, sarai istruita
correttamente sulla tua
rendita e tuo nuovo ruolo” aveva aggiunto con gentilezza ed
educazione il re,
posandole una mano sulla spalla paterne.
Rendita? Aveva pensato Lissa, ma aveva detto: “Nuovo
ruolo?”.
Re Nikolai aveva sorriso e le aveva risposto: “Per essere
dama di Alina, dovrai
essere insignita del titolo di Damigella di Corte ed entrare
nell’ordine di
Sankta Vasilka” aveva spiegato.
Vasilissa aveva sentito le vertigini, mentre stringeva la chiave di
ferro d’oro
al petto, “C-certo” aveva balbettato.
“Non
ti
preoccupare …” le aveva detto Anya, mentre si
avvicinavano alle carrozze, “Per
il titolo di Damigella non so come dovrai fare, roba da nobili, io non
ho un
titolo, ne mi interessa averlo” aveva considerato toccandosi
la pancia, “Ma sia
Tatiana Dubriv che Najima Poldunist lo hanno ottenuto. Però
per l’Ordine e per
averlo servono opere caritatevoli o filantropiche oppure per esimi
meriti
artistici o altro” aveva spiegato calma. “Lo hai
ottenuto?” aveva chiesto
Vasilissa, affiancandola, mentre con lo sguardo cercava il loro mezzo.
Doveva avere l’Ordine o non sarebbe mai stata selezionata per
essere una
compagna di giochi della principessa. “Mia madre lei lo
aveva; cantante
d’opera, opere caritatevole a iosa … sperava lo
ottenessi anche io, ma sono
sempre stata poco interessata” aveva ammesso Anya.
Lei aveva annuito, chiedendosi quale opera artistiche avrebbe potuto
esporre o
sapere, era abbastanza certa che Alina si sarebbe offerta di aiutarla.
“Ecco! Anatov!” aveva esclamato Vasilissa,
riconoscendo l’uomo in questione.
“Chi?” aveva domandato, “Anatov Musabaev
… lavora nelle stalle del palazzo ed
ha una fidanzata che si chiama anche Anya” aveva raccontato,
ricordando il
primo ilare scambio di persone con Yusuf. “Oh, sì,
lei la conosco … ha i
capelli biondi, vero? Molto dolce e molto carina” aveva detto
piena di
incertezza Anya, giocando con una punta dei capelli scuri.
Anya Karkoff non era bellissima, aveva un viso piuttosto anonimo, che
spiccava
più per i pochi, ma evidenti, nei sul volto bianco e per il
fisico asciutto e
tonico – quando non era coperto da strati di tulle.
“Va tutto bene?” aveva
chiesto Vasilissa con preoccupazione, l’altra aveva fatto una
smorfia, “Uhm …
sono incinta e sto per sposarmi di nascosto, dopo questo
sarò rinnegata dalla
mia famiglia per sempre e probabilmente il mio pazzo fidanzato che mi
odia ma
che non sopporta essere privato delle cose – anche quelle che
non vuole –
spenderà ogni secondo della sua vita per tormentarci.
Perché non dovrebbe
andare tutto bene?” aveva chiesto retorica.
Vasilissa si era lanciata su di lei e l’aveva abbracciata.
Non erano amiche,
non si erano mai parlate, quasi, fino a quella sera e mai da
pari-a-pari.
Vasilissa era stata una domestica e Anya una ricca borghese la cui
famiglia
aspirava alla nobilità – che avevano regalato a
lei.
Ma Anya non si era spostata affatto, al contrario, si era stretta a
lei, come
una bambina in cerca di conforto.
“Avete finito?” aveva sentito una voce maschile
chiamarle. Anatav era un uomo
alto e spesso, con le spalle larghe, le braccia forte, i capelli folti
e neri e
la barba sul viso che lo facevano apparire più vecchio,
rozzo e stanco di
quanto non fosse nella realtà.
Dove vi eravate perse?” aveva esclamato Anatov vedendole,
“Il nostro cocchio è
quello” aveva stabilito, pragmatico, indicando una delle
carrozze, alle cui briglie
c’era un destriero dell’Obol, con il manto
cioccolato, sul corpo nervoso e
muscolo, tranne la macchia a stessa sulla fronte, e la chioma bionda.
“Non è
mica facile scappare da una festa del genere” si era
lamentata Vasilissa,
mentre guidava Anya, che le aveva improvvisamente preso la mano.
“Sai, adesso, potresti pretendere il rispetto”
aveva bisbigliato Anya, “Da
Anatov? Un ragazzo con cui ho fatto a palle di neve da quando avevo
nove anni?
Fatto il cammino dei Pellegrini nell’Agroverde? E bevuto in
ogni festa del
burro da quando abbiamo potuto sgraffignare il kvass?” aveva
chiesto retorica
Vasilissa, non voleva essere ne aggressiva ne cattiva e sperava che la
dolcezza
dell’alcool, inquinasse ancora la sua voce, pastosa,
“Forse ora avrò un titolo
nuovo di conio, ma loro sono i miei amici.”
“Sankti” aveva sospirato Anya, “Mi rendo
conto che non so niente di te, di
Yusuf e dei vostri amici” aveva ammesso cheta e cupa,
“Abbiamo vissuto il
nostro amore clandestino come Duli e Baya” aveva ammesso.
Lissa aveva
sospirato, “Se non te la senti possiamo pensare ad altro
… ora, su due piedi ed
alticcia non ho soluzioni, che non siano davvero troppo creative, ma
forse
domani dopo un piatto di acciughe e cetrioli davvero potremmo
averla” aveva
considerato, “Perché io adoro Yusuf! Sul serio,
probabilmente è il terzo nome
nella lista degli uomini con cui mi unirei in giuste nozze ma se non
sei pronta
alla vita che Yusuf può darti – e lo so che anche
al massimo delle sue capacità
probabilmente non potrà darti sete e bisso, nonostante
vorrà – e a rinunciare
alla tua famiglia e i soldi dei Semyon, devi deciderlo ora”
aveva parlato rude
e cattiva, cosa che non le stava bene e la faceva sentire male.
Immaginava il dolore di Yusuf nel non vedere la sua bella
Ania’ka non
presentarsi alla cappella.
“Pensi che mi freghi un cazzo delle sete e del bisso? Io mi
vestirei di liuta
nel permafrost, io amo Yusuf ed amo il bambino che avremo”
aveva ammesso Anya,
“Quando sto con lui mi sento viva e mi piace la persona che
sono quando sono
con lui … e sia mia madre che mio padre mi hanno insegnato
che nessuno dovrebbe
aspettare di essere riempita di seta, se non vuole sudare per
averla” aveva seccato.
“Va bene, andiamo” aveva ammesso Vasilissa cercando
di sorridere accomodante.
Anatov aveva fatto roteare gli occhi, mentre si avvicinava al cocchio.
Era saltato al posto del valletto, senza preoccuparsi di aprire
l’imposta per
le due dame, “Screanzato!” l’aveva
rimproverata bonaria Vasilissa, poi aveva
aperto lo scure ed aveva aiutato la giovane donna gravida a salire
sulla
piccola carrozza.
Aveva messo il primo piede sul gradino, quando un grido
l’aveva chiamata. Non
lei, Vasilissa Pavlov nel loro specifico, ma il loro gruppo.
Erano un duo fjerdiano – almeno uno dei due.
“Aspettate, aspettate!” aveva chiamato una donna,
urlando in un ravkiano
bruttino. “Che succede?” aveva chiesto Vasilissa,
“Tornate in città, vero?
Vorremo venire anche noi” aveva dichiarato la ragazza. Aveva
l’incarnato
ambrato, i riccioli scuri, gli occhi grandi, troppo grandi ed un naso
piccino,
non credeva di riconoscerla dalla festa, ma era stata così
frastornata dalla
vodka, dal matrimonio, dalla nomina e quant’altro. La donna
indossava un abito
liscio direttorio, imboccato male, come di qualcuno che si era vestito
di
fretta – o rivestito – un po’ trafelata
nel respiro. Il ragazzo accanto a lei
non era messo meglio, indossava un informe rosso bruno, come quella che
aveva
visto ai druskelle giunti con la Buona Regina Mila, con i capelli
così bionda
da sembrare bianchi e gli occhi blu. Era carino, niente di eccezionale,
tra
tutti i giovani baldanzosi ravkiani doveva essere passato completamente
inosservato.
Respirava nervoso
anche lui.
“Be salite, andiamo!” aveva sbuffato Anatov.
“Spero davvero non siate due ladri che cercano di infiltrarsi
a Palazzo” aveva
ammesso Vasilissa, salendo e permettendo ai due di seguirla,
realizzando il
pericolo.
“Djel noo” aveva scherzato la ragazza, con le
guance arrossate, per la corsa,
per l’imbarazzo o per il brandy, “Ci accontentiamo
anche solo di andare in
città” aveva scherzato il ragazzo guardandola,
aveva un sorriso delicato e le
fossette, “Approfittiamo che … i nobili si
scatenino per darci ai bagordi … o
qualcosa di simile” aveva ammesso lui poi. La sua voce era
bassa e calda, il
suo accento era solo vagamente roccioso, ma era buono.
“Non è tipo diserzione?” aveva chiesto
Anya – che faccia tosta. La ragazza
aveva riso, “Djel … io non sono
nell’esercito, sono una donna libera!” aveva
fischiato, portandosi anche le dita alla bocca per eseguire il verso,
“Credo
sia diserzione solo se mi scoprono” aveva scherzato lui,
guardando la sua
amante complice. Lei aveva riso e poi aveva mormorato qualcosa in
Fjerdiano –
Lissa non l’aveva studiata come lingua, come per il ravkiano
antico e la lingua
dei suli, la principessa Alina non aveva usato Lissa per esercitarsi,
masticava
un po’ di Kerchiano. Però, Lissa non aveva bisogno
di sapere la lingua per
capire quello che aveva detto la donna, suonava
molto ‘In che guai ci cacceremo, eh?’ o qualcosa di
simile.
“Be, noi stiamo andando a un matrimonio” aveva
squittito.
“Vasilissa!” aveva strepitato Anya con rimprovero.
“Un’altra festa?” aveva
chiesto la ragazza, “Scappate da una pomposa cena per
un’altra?” aveva chiesto
quasi sconvolta. Lissa aveva riso, Anya aveva sbuffato,
“Fjerdiani” aveva
ammesso un po’ rude, “Un matrimonio ravkiano
… questo matrimonio Ravkiano è
decisamente meglio. Inoltre, è il mio” aveva
ceduto.
“Skoll! Skoll!” aveva gridato la donna, doveva
essere un augurio.
“Be, sì, skoll a me!” aveva riso
voltandosi verso Vasilissa prima di urlare ad
Anatov, “Fermo! Devo vomitare!” aveva esclamato la
ragazza. “Troppo Brandy?”
aveva scherzato la giovane sconosciuta.
“Troppo di tutto” aveva risposto Vasilissa, mentre
la carrozza arrestava la sua
corsa e lei apriva l’imposta della finestra per vomitare
direttamente fuori.
“Un buon modo per cominciare un matrimonio” aveva
parlato il ragazzo, aveva una
voce bella, le fossette e delle piccole lentiggini sulle guance. “Come diceva
Ivan il Dorato, è d’uopo bere
prima, dopo e durante i matrimoni”
aveva provato lei.
“Diceva questo?” aveva chiesto il ragazzo.
“Il miglior Re che Ravka abbia avuto fino a sua
maestà la regina Zoya, però
aveva il vizio della bottiglia” aveva raccontato pratica.
Quasi tutto quello che sapeva di storia era
un’eredità del suo tempo con Alina,
dai fatti più didascalici agli aneddoti più
bizzarri, era stata ben istruita
per essere una cameriera, ma per essere una titolata?
“Comunque penso sia normale un po’ di nervosismo
pre-nuziale. Mio cugino il
giorno prima delle sue nozze aveva ponderato di fuggire a cavallo. Lo
abbiamo
ripreso nelle stalle … ed ora sono dieci anni che
è sposato, cinque bambini ed
un matrimonio molto felice” aveva raccontato lei.
“Tutti sankti, come ha affrontato la moglie cinque
gravidanze” aveva
boccheggiato Anya sistemandosi meglio le balze ricamate del vestito
rosa,
mentre si sistemava di nuovo composta sul seggio. “Anatov,
riparti!” aveva
strillato Vasilissa, “In realtà erano tre
gravidanze, ha avuto due parti
gemellari … una cosa assai fortunata” aveva
considerato.
Il viso di Anya non sembrava tradurre lo stesso pensiero.
“Lei è la donna che è stata nominata
baronetta, vero?” aveva chiesto il ragazzo
guardandola, Vasilissa aveva sentito un leggero rossore sulle guance,
“Sì”
aveva ammesso, “Di un posto che non so neanche
dov’è” aveva ammesso. “Nel
meridione, sotto la catena montuosa” aveva spiegato lui,
“è un lago … dove si
allevano le ostriche d’acqua dolce, per le perle”
aveva spiegato lui pratico.
“Hanno un oriente molto bello, ma valgono meno di quelle
salate, vero?” aveva
chiesto retorica la sua campagna.
“Sì” aveva ammesso Anya,
“Quelle della taraskaya sono comunque molto pregiate,
perché se ne producono poche” si era inserita nel
discorso.
“Oh, sono diventata la signora delle perle” aveva
riso, toccandosi il collo
nudo ed immaginando come avrebbe dovuto essere possedere una fila di
tonde
perle bianchissime. “Le perle più belle sono
quelle di Paar” aveva rivelato
Anya, “Sono splendide, piccole di color avorio sfumate di
rosa. Una sola vale
più di questa carrozza” aveva raccontato,
“La regina di Shu Han ha una colla
con mille di quelle perle. Pensavo l’avrebbe indossata questa
sera.”
“No, mi hanno spiegato che questa sera lei e le sua guerriere
erano vestite
come le donne Shu delle Montagne, durante le celebrazioni della
Mezza-Unificazione” aveva spiegato chiara la ragazza.
Vasilissa lo aveva
trovato solo molto strano, si era abituata a vedere alcuni nobili
mediorientali
– che spergiuravano di vantare discendenza oyirad e altri che
lo erano – che
indossavano i vestimenti colorati, così diversi da quelli
che le donne di Shu
avevano esibito. Immaginava che, ripresa dallo stato ebro, Alina domani
avrebbe
frugato ogni suo dubbio.
“E perché mai mezza, questa è la festa
della Riunificazione” aveva scherzato,
sentendosi stupida il momento successivo,
“Concordo” le aveva detto il ragazzo
sorridendo, però deviando lo sguardo, anche lui leggermente
arrossato sulle
gote lentigginose.
La
carrozza si era arrestata – dopo un altro bisogno di rigetto
di Anya – fino a
che non erano entrati nel parco secondario del Palazzo, fino alle
stalle. “Di
solito, ci fanno scendere prima” aveva considerato la
ragazza, spiando il
panorama. “Sì, sai, nozze segrete” aveva
scherzato Anya assolutamente incolore,
mentre lo sportello si apriva e lei era stata la prima a scivolare
fuori, presa
al volo da Anatov.
L’uomo aveva aperto l’altra imposta ed era sceso,
allungando una mano verso di
loro. “La stai porgendo a me o a lei?” lo aveva
spietatamente preso in giro la
sua amante, “Ah, chi la vuole?” aveva risposto lui
imbarazzato e Vasilissa
aveva preso quella mano e si era fatta aiutare per toccare il pavimento
coperto
di paglia.
“Eccovi, finalmente!” aveva squittito una voce,
apparendo al loro fianco, era
l’altra Anya, vestita con un sarafan porpora con disegni
d’oro. Aveva i capelli
raccolti in una treccia stretta in una crocchia.
“Ohh, il tuo vestito ha molti pizzi!” aveva
esclamato poi, osservando Anya.
“Sì, aiutate a togliermi questa cosa
immonda” aveva pianto la ragazza.
Cignaz aveva fatto la sua comparsa, “Sei in
ritardo!” aveva rimproverato
Vasilissa come se fosse stata colpa sua, “Non potevo fuggire
a caso” si era
lamentata mentre cominciava ad armeggiare con l’abito
d’oro per farlo scivolare
via e rivelare che sotto aveva indossato il vestito argento-viola che
Genya
aveva fatto commissionare per lei, dal taglio liscio e pulito, che
metteva in
mostra tutte le piccole pieghe del suo corpo.
“Oh!” aveva esclamato il giovane Fjerdiano, quando
si era accorto che Anya
invece non indossava null’altro sotto se non una vestaglia
intima di raso, con
le spalle sottili, lunga fino alle cosce. Che lasciava scoperte la
pelle nuda
delle braccia e delle gambe – che dovevano davvero turbato il
giovane Fjerdiano
– e esponendo il ventre leggermente fiorente.
Lissa le aveva lanciato l’abito in foglia d’oro,
“Non ci ho rovesciato nulla
sopra” le aveva detto, “Un miracolo, dopo quel
borsch assassino” aveva risposto
Anya, mentre si impegnava ad infilare l’abito da sopra.
“Qui ho le corone di fiori” aveva detto Cignez,
“Rose e calle per la sposa e
peonie e che-cazzo-ne-so- per voi” aveva detto, dando una
coroncina a Vasilissa
e una alla Piccola Anya. “Ne hai una anche per me?”
aveva chiesto la donna
fjerdiana.
“Saresti?” aveva chiesto Cignez confuso,
“Samila!” aveva risposto schietta
l’altra, “Be, sì Samila, quella povera
anima di Natasha ha passato ogni momento
che non lavava pavimenti ad intrecciare fiori, quindi
sì” aveva risposto
dandola una piccola coroncina.
“Dove gli avete trovati questi due?” aveva indagato
l’uomo, assottigliando lo
sguardo, “Cosa vuoi che ti dica?” aveva chiesto
retorica, “Sì sono infilati
nella carrozza e abbiamo decisi di portarli con noi” aveva
risposto.
Anya si era infilata l’abito d’oro che le avevano
fatto fare. Le lasciava le
spalle scoperte, con le maniche leggermente bombate nella parte alta e
lisce, strette
e dritti fino ai polsi. Lo scollo era a barca e prominente, fermato
sotto il
seno da una fila di perle, da cui poi scendeva un abito liscio e lungo,
tutto
d’oro, decorato con ricambi floreali in oro bianco. Il
vestito non accentuava,
ne nascondeva la morbidezza del seno, ma si stendeva bene su di lei,
restituendo l’immagine di una splendida donna piena di vita.
Su di lei,
l’effetto era completamente opposto a quello che aveva fatto
su Vasilissa.
“Bellissima” si era rivelata la Piccola Anya e
Samila era stata concorde.
“Dove lo hai trovato?” aveva chiesto Cignaz
colpito, “Viene dall’armadio di sua
altezza la principessa Alina e poi ci ha messo mano una ragazzina
grisha
materialki, Caitlyn se non sbaglio” aveva considerato.
Cignaz aveva sospirato: “Buon sangue non mente”
aveva scherzato anche se Lissa
non era sicura di sapere a cosa stesse facendo riferimento.
“Qualcuno può acconciarmi i capelli?”
aveva chiesto.
Prima che la Piccola Anya e Vasilissa si porgessero, Samila si era
già lanciata
per intrecciarle i capelli alla maniera delle donne Fjerdiane, con due
trecce
spesse che si erano poi intrecciate in due file sulle teste, dando un
aspetto
ordinato e semplice. “Ecco la tua corona” aveva
dichiarato Cignez mettendola
sul capo.
“Adesso andiamo, prima che padre Igor si
spazientisca” si era imposto Anatov,
ottenendo una gomitata piuttosto perentoria dalla sua fidanzata, che
era
piccola e secca, ma ben audace.
Anya Karkoff era bellissima, ma il panico era visibile nei suoi occhi
scuri,
“Yusuf?” aveva chiesto poi, “Dove pensi
che sia, sta già in cappella” aveva
risposto Anatov, passandosi una mano sul braccio dove era stato
colpito.
“Qualcuno dovrà accompagnarmi fino
all’altare” aveva piagnucolato Anya, “Mio
padre non potrà” aveva detto melanconica.
“Oh, ci penso io” le aveva detto Vasilissa,
prendendola sottobraccio,
“Ricordati quello che mi hai detto” le aveva detto
con gentilezza, cercando di
apparire quanto più rassicurante.
Avevano
lasciato le scuderie in gruppo, fino a raggiungere la cappella
palaziale,
evitando i corridoi principale. “Djel, che
divertente” aveva sentito Samila
ghignare verso il suo amico-amante, “E tu che eri
contraria” aveva risposto
lui, “Penso ancora sia una mezza follia” aveva
replicato l’altra.
Quando lei e Anya avevano passato l’ingresso della cappella,
seguiti dal loro
codazzo improvvisato, erano stati accolti da un coro scarno di fiati e
dalla
luce di tre piccole sfere, che gettavano le vetrate colorate e le
pareti musive
in tinte così sinistre, da risultare quasi
intriganti.
Vasilissa si era persa nei dettagli di luci ed ombre quasi perdendo di
vista
gli avventori della celebrazione – c’erano ambedue
i genitori di Lissa, Marija
e gli altri servi, anche qualche sconosciuto – rapita da
quell’atmosfera.
“Guardalo, come è bello” aveva
sussurrato Anya al suo fianco, Lissa aveva
voltato lo sguardo e, di fianco ad Igor, vestito di un blu profondo,
decorato
in oro, appariva un giovane Yusuf come mai Lissa lo aveva visto. Era
fiero e
bellissimo, con i capelli scuri tirati all’indietro con la
brillantina, la
giacca a due code, sopra la redingote, i calzoni bianchi infilati negli
stivali
lucidi e gli occhi più luminosi ed il sorriso più
affascinante del mondo.
“Conosco Yusuf da quando eravamo abbastanza grandi per
gattonare e, i sankti lo
sanno, non lo ho mai visto così splendido” le
aveva confermato.
“Ogni paura, ogni angoscia che avevo fino ad ora, muore qui,
su quel sorriso”
aveva ammesso Anya e Lissa aveva sentito chiaramente la differenza, non
era più
un appiglio, un sostentamento, ma un mero cimelio. Era lì
perché serviva un
accompagnatore, ma non per accompagnare.
Avevano fatto le ultime falcate della piccola cappella accompagnati dai
fiati e
dagli applausi.
Perfino lo ieratico padre Igor stava sorridendo – o una
smorfia che vi
somigliava.
“Sei bellissima” aveva sussurrato Yusuf quando
Lissa aveva preso posto al suo
fianco, dopo essersi sciolto dalla presa di Vasilissa, “Tu di
più” aveva
risposto lei.
Lissa si era allontanata ma Anya l’aveva richiamata indietro
per essere da
testimone, affrontata a Boris, un ragazzo delle cucine dal sorriso
svelto che
conoscevano da anni.
“Lissa se vuoi un cavaliere di questo rango … per
l’ultima volta” le aveva
sussurrato lui. “Bo, oggi, domani e il giorno dopo
ancora” aveva risposto lei,
strizzando un occhio.
Padre Igor l’aveva guardata e lei aveva ricambiato uno
sguardo con un sorriso
furbetto. L’uomo aveva sospirato sconfitto – si era
dovuto arrendere che
Vasilissa non era evidentemente la sposa.
“Oggi siamo qui riuniti per unire questo uomo e questa donna
nella più sacra
delle unioni” aveva parlato padre Igor, mettendo a tacere il
brusio delle
chiacchiere e i fiati stonati e quando le sue parole avevano lasciato
che i
piccoli soli brillassero ancora di più, quasi fosse sorto il
sole nella stanza.
“Mangeremo
ancora, dopo tutte quelle portate?” aveva chiesto
l’uomo fjerdiano, “Loro non
hanno mangiato ed un matrimonio senza cibo porta male” aveva
risposto
Vasilissa, “Inoltre, lo ho detto: bere prima, dopo e
durante” le aveva terminato.
Dopo la funzione che era stata corta e coincisa – padre Igor
aveva fatto
pronunciare loro praticamente solo i fantomatici sì, fatto
un reprimendo molto
breve ed asettico, fatto scambiare un bacio e messo due firme, saltando
eventuali interferenze, promesse e parabole d’amore
– si erano spostati tutti
nel cortile interno della basilichetta, davanti la statua delle Tre
Donne Senza
Volto.
Cignaz aveva fatto imbandire un banchetto pieno di cibarie e bevande,
erano
leccornie molto meno preziose e pregiate di quelle della palude
d’oro, sia per
finezza di cibo, che bontà che numero, dopo tutta
quell’opulenza – di cui Lissa
aveva potuto saggiare – sembrava molto povero, ma lei sapeva quanto
fosse in realtà.
“Io voglio sapere perché questa ossessione per
acciughe, aringhe e alici” aveva
scherzato il Fjerdiano, “Perché sono
buone?” aveva riso Vasilissa, mentre si
riempiva un bel bicchiere di Kvass, “Latte
d’asina?” aveva chiesto. Il ragazzo
aveva sorriso, “Non lo ho mai bevuto, quindi,
perché no?” aveva chiesto
retorico. “Fa molto bene, ha molti nutrienti e sembra creare
meno problemi.
Inoltre, aiuta con le rughe … pensa che: Anastaja Smirnova
la moglie
morganatica di Yevgeni I, usava viaggiare con un corteo di asine
ovunque
andasse, perché potesse avere latte fresco in cui fare il
bagno”
aveva raccontato di
getto, gettando giù un po’ di kvas nella gola,
rispetto al brady e la vodka,
era più morbida, dolce e quasi refrigerante. “Sai
un sacco di buffi fatti
storici” aveva considerato il fjerdiano, mentre saggiava con
le labbra piene il
latte d’asina, “La principessa Alina ama molto la
storia, l’arte e la cultura,
io ho appreso per … conseguenza” aveva scherzato
Vasilissa, “Ma solo le cose
stupide” aveva ammesso.
“Gli aneddoti danno molto colore alle conversazioni, a me
mancano sempre quando
ne avrei bisogno” aveva raccontato il ragazzo.
“Posso darle tutti gli aneddoti
che vuole” aveva scherzato con estremo divertimento, mentre
si costringeva a
non cedere davanti una pastarella.
“Va bene, dimmi qualsiasi cosa …” aveva
dichiarato l’uomo, guardandola con
divertimento. Vasilissa si era morsa un labbro, pensandoci,
“Dammi un secondo
…” aveva considerato, “Lo ho!”
aveva ammesso. “Bene, quando Stanislao Petrovich
divenne l’Apparat Iob II la sua elezione fu molto osteggiata
dal suo principale
rivale, quel che sarebbe divenuto successivamente l’Apparat
Ivan IV, egli,
ancora sacerdote, si nascondeva nell’intercapedini del muro
della Cappella
Bianca e sussurrava la note, nelle orecchie di Iob II di essere un ape
mandata
da Sankta Elizaveta per raccontargli che ciò che lo
attendeva non era una vita
di sfarzi, ma che era destinato alla grandezza dei Sankti”
aveva detto alla fine,
“Qualcosa come trecento-dieci anni fa.”
Il ragazzo aveva schiuso le labbra, insozzate di latte,
“Oh” aveva ammesso, “E
ci è riuscito?” aveva chiesto. “Direi di
sì, visto che l’Apparat Iob ha smesso
le vesti sacre, ha indossato il saio ed ha deciso di vivere in un eremo
nelle
montagne del nord e Gregory Tolostoij è diventato Ivan
IV” aveva risposto lei.
“Affascinante” aveva riconosciuto il ragazzo,
“Ora che ci penso, quale è il
nome dell’attuale Apparat?” aveva chiesto.
“Oh, tecnicamente lui è Vladim XI e
il suo vero nome è davvero Vladim, Vladim Ozwal”
aveva spiegato Lissa, “Non lo
ha cambiato perché, a suo dire – lo so da prima
fonte, diciamo – aveva già un
nome molto religioso e quello era il nome con cui aveva giurato a
Sankta Alina
e quello è il nome con cui morirà e
sarà noto” aveva risposto.
Era rimasta per un momento in silenzio, continuava a sembrarle ancora
assurdo
immaginare che Apparat Vladim, un uomo vero fatto di carne e sangue,
aveva
conosciuto dal vero una sankta. Tecnicamente anche Vasilissa lo aveva
fatto,
aveva incontrato Adrik l’Asimetrico e Leoni delle Acque, e
soprattutto
conosceva una Sankta kto zhivet,
una santa vivente, che era anche un drago, ma Alina Starkov
sembrava
leggendaria, anche più di Zoya … una donna capace
di far sorgere il sole nel
buio oscuro, una creatura che aveva ridefinito i confini e la vita di
Ravka. “Mi
chiedo come dovesse essere lei … Sankta Alina”
aveva parlato il ragazzo,
recuperando un po’ di insalata di cetrioli, “Una
parte di me vuole risponderti:
bellissima, ovviamente, ma l’altra: potente” aveva
ammesso.
“Chissà chi l’avrebbe spuntata tra
Sankta Alina e Senje Zoya” aveva sospirato
l’uomo, grattandosi dietro l’orecchio.
“La tsarina, ovviamente” aveva risposto Vasilissa,
per lei non c’era dubbio.
Alina Starkov sembrava un’idea e la regina Zoya una creatura
molto, molto, più
consistente.
Lui aveva ridacchiato, “Ovviamente” aveva ammesso.
Poi era sceso un silenzio
semi-placido, “Uhm … ti andrebbe di ballare? Mi
sembrano passi decisamente
diversi da quelli dell’altra festa e io non so ballare, ma
vorrei provarci”
aveva ammesso leggermente nervoso lui.
Vasilissa aveva battuto gli occhi, “Io?” aveva
chiesto, il ragazzo si era
guardato intorno spaesato, non c’erano altre persone,
“Uhm … Dimenticalo” aveva
scongiurato. “No, no, balliamo, mi piacerebbe …
solo che è un ballo molto più
frenetico di quel che sembra” aveva tentato di giustificarsi,
“Inoltre la tua
dama potrebbe risentirsi?” aveva provato. “La mia
dama?” aveva chiesto quello stupito,
“Samila” aveva ammiccato lei, “Quella che
sta facendo saltelli e tirando
ginocchiate al vento, mentre gira, a braccetto con un perfetto
sconosciuto?”
aveva proposto lui, ammiccando alla ragazza.
Samila con i ricciolini sciolti stava ballando e cantando con Mikhail
che
lavorava in cucina, con la madre di Vasilissa. “Immagino che
no, non se ne
risentirà” aveva considerato.
“Per la cronaca, Samila … non è la mia
dama. Lo era per la festa, sì, ma non lo
è in generale” aveva cercato di spiegare
goffamente. “Ah,
pensavo che i fjerdiani non potessero
neanche guardarla una donna, non di famiglia troppo a lungo
…” aveva scherzato
lei, “Potrei dirti che sono inutili stereotipi, ma
è tragicamente vero, Samila
è di famiglia, comunque” aveva aggiunto,
“E mia madre è Ravkiana” aveva
rivelato.
Lissa aveva riso, “Inaspettato” aveva considerato,
“Niente smuove i sentimenti
come una guerra di confine” aveva scherzato lui, ma era rosso
in viso per tutta
quell’audacia.
Vasilissa
lo aveva guidato verso il centro del chiostro, dove alcune persone
avevano
smesso di saltellare e sgambettare per raccogliersi in cerchio davanti
le Tre
Donne. Aveva cercato con gli occhi i suoi genitori ma se li conosceva
bene, si
erano già ritirati, il suo vecchio padre era un
po’ misantropo e non apprezzava
molto le feste e sua madre preferiva coricarsi presto, per essere
attiva al
meglio nel mattino.
“Stiamo per praticare lo Yokhor” aveva spiegato
Vasilissa, rivolgendosi al
Fjerdiano e prendendo per mano; nonostante il suo sangue ravikiano, la
sua
origine fjerdiana aveva tradito la sua sicurezza, con un rossore
adorabile
sulle guance.
“Ci si tiene tutti per mano, in cerchio. È
possibile muoversi solo a sinistra e
destra, come il sole. Sì, è una danza dedicata al
sole, ti direi come tutto in
questi giorni, ma in effetti esiste da prima di Sankt Alina.
Probabilmente era
una richiesta al sole di salvarli dalla Faglia. E poi non puoi neanche
fare un
passo indietro, perché solo i malakhi lo fanno”
aveva cominciato a
spiegare pragmatica.
“Va bene” aveva considerato lui, ma c’era
confusione sul suo viso, “Non ci si
tiene sempre per mano, adesso vedrai perché” aveva
spiegato Vasilissa, “Uno di
noi canterà, probabilmente Cignaz ha una bella voce e noi
dovremmo ballare,
fare il cavallo con le gambe e con le mani gli uccelli” aveva
spiegato
divertita, “E come si farebbe?” aveva chiesto lui
con la preoccupazione dipinta
in viso. “Citerò le sagge parole di Tatiana
Dubrinov: je mot met de stroom
megan”
aveva ripetuto, era kerchiano ma non era sicura di aver imitato bene
l’accento
che usava sempre quella. Lo masticava un po’ ma non era una
lingua argentina. “Je
mut met de stroom mehan”
aveva considerato il fjerdiano, il
suo accento era rimasto quello delle ruvide terre del nord, ma la
pronuncia
sembrava somigliare di più a quella di Tatiana.
“Segui il flusso” aveva
spiegato Vasilissa, “Segui il flusso” aveva
ripetuto lui. Quasi estasiato.
“Sono
un
ballerino davvero mediocre” aveva riso il ragazzo,
collassando sul pavimento di
marmo del chiostro, con le guance arrossate dalla fatica e i capelli
biondo
paglierino sconvolti e arruffati. “Mediocre? Ti stai
sopravvalutando, ragazzo,
sei pessimo” aveva riso Cignaz, scivolando al suo fianco.
Aveva tolto la giacca
bianca con i finimenti d’oro, rimanendo in camicia, con le
ascelle pezzate dal
sudore. “Ei!” si era difeso il ragazzo senza
vergogne. Vasilissa aveva
allungato verso entrambi due bicchieri colmi di ippocrasso.
“Non so se posso
ancora bere” aveva scherzato lui, “Penso ci sia
più miele che vino” aveva
scherzato lei.
Il ragazzo si era sporto per prendere il bicchiere, con un sorriso un
po’
malandrino e le guance leggermente arrossate, “Sono confuso
da questo paese.
Sembra che bere sia la soluzione a tutti i problemi” aveva
ridacchiato, “Oh,
no, ragazzo, non sembra … lo è” aveva
riso Cignaz, assaporando il suo vino alle
erbe. “Mi chiedo come facciate a non bere a Fjerda, con il
clima che avete”
aveva ammesso invece lei, che voleva sedersi al suo fianco,
“Io avrei sempre le
palle gelate.” Il ragazzo fatto una smorfia, prima di
prendere un sorso, “Non
so spiegarlo, è un freddo diverso” aveva detto,
“Ti punge il fiato e ti brucia
i polmoni, ma è anche rinvigorente?” aveva chiesto.
“Decisamente troppo poco ubriaco” aveva
sottolineato Cignaz, facendo ridere
Vasilissa.
“Decisamente” aveva concesso
l’interpellato, portandosi il bicchiere ancora
alla bocca. “Vuoi un non-aneddoto carino?” aveva
chiesto lui, revocando quella
conversazione ormai sepolta da ore, “Certo” aveva
risposto lei. “Quando ci si
sposa a Fjerda, la sposa non può toccare il pavimento dal
‘Vi dichiaro marito e
moglie’ fino al primo ballo”
aveva scherzato. “Non lo
sapevo, no” aveva considerato Vasilissa, “Il povero
sposo se la deve portare in
braccio?” aveva chiesto Cignaz divertito,
“Sì … e Gustav Kempt, quinto conte di
Utla, trecento ottantotto anni fa, si è fatto il matrimonio
tenendo la sua
sposa come un sacco di patate. Probabilmente non è stato il
primo, né l’ultimo,
ma alla Corte di Ghiaccio, c’è un quadro grande
come una parete di quella
scena. Inspiegabilmente la regina Henrikke lo trovava
sublime.”
Lei aveva riso, “E se la sposa pesa più dello
sposo?” aveva chiesto intrigata,
“Metà delle donne Fjerdiane sono cavalle, quindi,
succede abbastanza spesso …
in quel caso, be, ho sentito di un carretto speciale” aveva
detto senza
vergogna ne grazia. “Che popolo di babik” aveva
esclamato Cignaz.
“Però è sempre bello dai”
aveva provato Lissa, “Ovviamente, adoro i matrimoni.
Stavo per sposarmi anche io, due volte … anche se una avevo
tredici anni, non
credo conti” aveva cominciato a raccontare, il Fjerdiano era
sembrato
interessato, “Sì, con la stessa ragazza per
giunta. Ma, ahimè, io ora bevo qui
in un chiostro di una chiesa triste e solo e lei ha sposato un altro
uomo”
aveva ridacchiato, nonostante il tono melodrammatico, non sembrava poi
troppo
amareggiato, “E la parte divertente? Non è quello
per cui mi ha lasciato!”
“Ah no?” aveva chiesto il ragazzo, “La
prima volta eravamo troppo giovani e la
seconda troppo cambiati” aveva detto nostalgico e melanconico
Cignaz.
Lissa non era intervenuta, poiché aveva sentito qualcuno
prenderle una mano, si
era voltata per incontrare lo sguardo di Yusuf, “Ecco lo
sposo!” aveva riso.
L’altro si era sbilanciato e l’aveva abbracciata
stretto e viscerale, “Grazie
di tutto, Vasil’ka” aveva sussurrato lui nel suo
orecchio, “Lo sai che nessuno
mi chiama più così” aveva ridacchiato
lei, ricordando quel vecchio soprannome
infantile. “Io ti chiamo come voglio, amica mia, specie sta
sera” aveva
aggiunto sciogliendo la presa. C’era melanconia nella sua
voce, “Ma che cosa
hai questa sera? È festa!” lo aveva preso in giro.
“Lo so, è il mio matrimonio”
aveva concordato, “Però Anya’ka non
potrà rimanere qui a subire l’ira dei suoi
genitori e la vendetta dei Semyon. Ho un cugino a sud che mi ha offerto
un
lavoro. Onestamente non so cosa possa fare un tuttofare da palazzo e la
figlia
di un mercante che non sa mercanteggiare, non so che potremmo combinare
ma …
sarà un’avventura” aveva ammesso.
“Lei è incinta” aveva considerato
Vasilissa, tirandole un buffetto sulla
spalla, “Sì e non può restare
qui” aveva considerato lui.
Vasilissa aveva sentito le labbra e la bocca secca, “Sankti,
Yusuf … tu stai
andando via” aveva soffiato, sconvolta, portando poi una mano
alla bocca. “Sì,
amica mia. Non sarà per sempre, ma forse molto a lungo.
Però non è un addio,
che lo sappiano tutti i Sankti, Baronetta Vasil’ka”
aveva detto,
abbracciandola ancora. E Lissa aveva ricambiato la stretta cercando di
fossilizzare ogni dettaglio, quale era l’odore del suo amico,
la forma del suo
corpo, la consistenza dei capelli brillantati, che graffiavano la sua
guancia.
Aveva chiuso le labbra e sentito quel tremore incontrollato, che sapeva
precedere un pianto folle, ma si era ordinata di non cedere,
perché era un
giorno di festa.
Yusuf si era sciolto, “Per me nessuno strampalato addio? Sono
il primo uomo ad
averti fatto bere una birra” aveva detto Cignaz,
sollevandosi, per essere
accolto da un abbraccio amichevole e fraterno.
Lissa stava per scivolare per terra, ma il Fjerdiano si era alzato per
prenderla, “Facciamo due passi?” aveva chiesto con
gentilezza.
Lissa lo
aveva portato nel Giardino della Regina perché, quando i
nobili erano altrove,
era un posto piuttosto tranquillo; la servitù e le guardie
fuori servizio ci
andavano di rado, ma per Lissa era bellissimo e comprendeva
perché la
principessa ci avesse portato il principe di Fjerda per una gita.
“Vuoi parlarne?” aveva chiesto il ragazzo.
“Yusuf è … non lo so! Siamo cresciuti
assieme, due fiori nello stesso vaso”
aveva detto, “E oggi si è sposato, sarà
padre e domani non sarà più qui. Non
mangeremo più di nascosto i dolci rubati da Mikahil e mia
madre, non lo sentirò
più intonare Il Povero Deimiov, mentre
spazza i pavimenti e non
passeremo più il tempo nascosti in lavanderia per evitare le
incombenze” aveva
raccolto ogni pensiero, ma altri mille erano fioriti. La principessa
Alina era
la sua migliore amica, ma Yusuf era stata una parte importante di tutta
la sua
vita.
“Vorrei dirti che so cosa provi, ma non è
così” aveva ammesso onesto il
ragazzo, “Però pensa positivo: non è
morto, potrai rivederlo, lo vedrai con uno
o due bambini e probabilmente ricorderete con gioia quando facevate i
lavativi
bevendo un tè e vi racconterete altre mille storie
nuove” aveva provato lui.
“Come quella in cui ho fatto una passeggiata al chiaro di
Luna nel Giardino
della Regina con un audace giovane Fjerdiano, conosciuto ad una
festa?” aveva
proposto lei.
“Sicuramente è una storia che io
racconterò” aveva ammesso lui, “Anche tu
hai
conosciuto un audace giovane Fjerdiano?” aveva preso in giro
Lissa. Lui era
rimasto di sale per un secondo, prima di scoppiare a ridere nella
maniera più
bella e genuina che Lissa avesse mai sentito. “Mi hai
scoperto, sì. Era assai
più bello e affascinante di me” aveva ridacchiato
lui, “Ma scommetto non aveva
queste fossette” aveva detto lei pigiando un dito sulla
guancia di lui, proprio
dove si formavano le adorabili fossette quando sorrideva.
“Non aveva neanche
degli occhi luminosi come i tuoi” aveva detto quello, pieno
di imbarazzo.
“Ho gli occhi marroni” aveva ammesso lei, quasi
divertita, “Eppure sono
luminosi” aveva insistito lui, “Posso essere
onesto: sono stato educato alla
poesia, ma apparate i salmi di Djel faccio abbastanza pena”
aveva riso, “Bene,
perché io non sono una poetessa e ne la capisco”
aveva soffiato.
Il ragazzo era più alto di lei e Lissa sapeva sarebbe stato
d’uopo sollevarsi
sulle punte, ma aveva spostato la mano dalla guancia per posizionarla
dietro la
nuca e tirarlo giù, perché le loro labbra si
trovassero alla sua altezza. E lui
l’aveva seguita.
Ed era stato bello.
Anche se era stato incerto, veloce, innocente … e non aveva
fame, né brutalità.
Erano due esistenze che collidevano in un solo punto in un solo bacio.
“Troppo audace?” aveva chiesto, allontanandosi poi,
“Sei la seconda persona che
bacio nella mia vita e la prima mi ha riso in faccia” aveva
ammesso imbarazzato
lui, “Anche tu” aveva ammesso Vasilissa,
“E lui era uno stronzo” aveva buttato
fuori senza vergogna, ne remore, pensando a Viktor Semyon e alla faccia
che
avrebbe avuto l’indomani quando avrebbe saputo di non avere
più fidanzata ne
amante.
Il Fjerdiano si era chinato di nuovo per baciarla ancora, con
più energia e
passione, non fame animale, ma delicato e rispettoso, era stata Lissa
ad
aggiungere la voracità che improvvisamente sentiva
cavalcarli nello stomaco. Il
ragazzo le aveva messo una mano sulla vita, una era scivolata sulla
schiena,
poi era tornata indietro, poi avevano allontanato i suoi fianchi, poi
sfiorato
ancora. “Cosa fai?” aveva chiesto lei, sciogliendo
la loro unione, “A Fjerda
non baci nessuno che non sia tua moglie e solo dopo
il ‘Sì lo voglio’”
aveva ammesso pieno di imbarazzo lui.
“A Ravka sì, ti spiego bene io … sei,
comunque, sulla buona strada” aveva
soffiato lei, sorridendo, facendolo ridere. “Ho appena
realizzato che non so il
tuo nome” aveva ammesso poi.
Lui era diventato rosso di imbarazzo, come un peperone, “Oh
… che cosa strana.
Mi-mi chiamo … Joran” aveva detto.
“Joran … Joran … suona bene. Molto
melodico” aveva concesso lei. “Mai quanto
Vasilissa …” aveva detto lui, perfino nel suo rude
accento del settentrione, il
nome di Lissa sembrava una poesia.
Joran e Vasilissa … suonava decisamente meglio
del troppo allitterativo
Viktor e Vasilissa.
“Vu-vuoi farmi vedere il tuo fiore preferito?”
aveva chiesto poi Joran,
allontanandosi. Vasilissa aveva ridacchiato, quasi divertita,
“Di notte?” aveva
chiesto, “Non credo si veda molto.”
Joran aveva fatto una smorfia, “Non so perché
immaginavo che il Giardino della
Regina non tenesse conto del giorno e della notte” aveva
ammesso. “Questo è il
Palazzo di una Sankta, ma non è la corte dei Miracoli
… ma forse c’è qualcosa”
aveva considerato lei.
“Questa
è
una Regina della Notte” aveva dichiarato Vasilissa indicando
il fiore con i
petali bianchi davanti a lei, aveva un odore forte e intenso, quasi
stordente,
“Sembra un nome da postribolo” aveva ammesso Joran
con divertimento, “Un po’
sì” aveva ammesso Vasilissa, ispirando bene.
“Non chiedermi che tipo di fiore
è, né chi rappresenta – non so se lo
sai: ogni fiore rappresenta qualcuno, di
vivo o di morto” aveva spiegato, non pensava fosse un
segreto. “Neanche io so
niente di fiori, ma questi hanno davvero un buon odore. Potrei
ubriacarmici”
aveva ammesso, “Perché non lo sei
già?” aveva chiesto. “Te lo ho detto ho
sangue ravkiano” aveva scherzato lui, strappando un fiore
dalla pianta, “Non ho
appena commesso furto alla corona, vero?” aveva chiesto poi.
“Sì, esatto; praticamente è come se
avessi rubato lo smeraldo dei Lanstov”
aveva replicato Vasilissa, ma Joran non si era fermato ed aveva
infilato il
fiore dietro il suo orecchio. “Sei un bravo seduttore,
Joran” aveva ammesso lei
poi.
“Sì, Joran è un bravo
seduttore” aveva ripetuto lui, sembrava così
strano come
lo avesse pronunciato.
Vasilissa aveva intercettato la sua mano ed aveva stretto le dita di
lui, aveva
un palmo morbido, senza calli, lui aveva ricambiato la stretta ed aveva
portato
le dita alla bocca per un bacio delicato. “Non riesco a
pensare alla ragazza
che ti ha riso in faccia” aveva ammesso lei, “Come
ti ho detto: sangue Ravkiano
sì, ma sono un Fjerdiano a parte mia madre e Samila non ho
parlato con molte
donne, figuriamoci amoreggiarci” aveva ammesso pieno di
imbarazzo.
Vasilissa era deliziata da quello, dal rossore così ingenuo
sulle sue guance
che cozzava con quei suoi modi così raffinati.
“Immagino tu non abbia neanche
fatto l’amore al chiaro di luna, sull’erba
bagnata” aveva considerato lei.
Joran era diventato così rosso da sembrare pronto per la
spremitura, “Non ho
neanche fatto l’amore, in generale” aveva detto
lui. “So che voi fjerdiani
pensate che noi Ravkiani siamo un po’ libertine, lo siamo, ma
non sono
particolarmente esperta neanche io” aveva ammesso Vasilissa
con leggero
imbarazzo, “Praticamente solo due volte e con la stessa
persona … e una delle
volte non è stata neanche particolarmente bella”
aveva ammesso, dandosi della
stupida.
Joran le teneva ancora una mano, “Potremmo stenderci
sull’erba e guardare le
stelle” aveva proposto Joran, “E raccontarci cose
strane, come: quale è la tua
figura retorica preferita” aveva proposto lui. “Hai
una figura retorica
preferita?” aveva chiesto Vasilissa alzando un soprannome.
“Non so perché ma il
mio ist-insegnante mi aveva convinto che tutti ne avessero
una” aveva
ridacchiato lui.
“Va bene, quale è la tua figura retorica
preferita?” lo aveva provocato lei.
“La sineddoche …una parte per il tutto”
aveva detto lui, “Voglio stringere la
tua carne, per dire che voglio stringere te” aveva ammesso
lui. “Suona proprio
male, dovresti dedicarti ai salmi” lo aveva spietatamente
preso in giro lei.
“Ho detto di non essere un poeta” si era difeso
Joran, con una risata bella,
“Tocca a te” le aveva detto-Vasilissa ci aveva
pensato un lungo momento, non
aveva mai dovuto pensare a qualcosa di così specifico,
“Non so i nomi, quella
dei contrari … sai: dolce ardore?” aveva proposto.
Erano scivolati nell’erba e lissa aveva sentito la stoffa
bagnarsi d’umidità.
“Mi sento chiamato in causa” aveva ridacchiato lui,
allungando una mano per
accarezzarle il viso. “Forse un po’”
l’aveva preso in gira lei, “Va bene, ora
tocca a te una confessione strana” aveva bisbigliato lui, con
una mezza risata.
Vasilissa aveva sospirato piena e felice, “Un cibo del tuo
paese che ti farebbe
guadagnare l’esilio se ammettessi di odiarlo” aveva
proposto poi, “Per esempio:
odio gli zefir, quando li mangio ho l’impressione di
masticare un’ostrica. Odio
anche le ostriche, per la cronaca” aveva ammesso.
“Visto che ora sei la baronetta delle ostriche, penso che
questo potrebbe
essere un problema” aveva ridacchiato Joran, “Puoi
mangiarle tu per me” aveva
buttato fuori. “Lo farei volentieri” aveva ammesso
lui, “Per me il Kalakukko,
dentro c’è di tutto e alla fine non ti godi
niente” aveva risposto lui, mentre
distoglieva lo sguardo da lei per rivolgerlo alla volta celeste.
“Mi piace il cielo qui, ma dovresti vedere come è
bella l’aurora da Knust”
aveva ammesso calmo, chiudendo le mani sul suo petto. “Il
colore del cielo
diventa splendido e … sembra davvero che che si apra una
strada nel firmamento,
la manifestazione vivente dei rami dell’albero di Djel a nudo
occhio … e puoi
sentire questi sussurri, che sembrano davvero i senje che ti
parlano” aveva
confessato.
Sembrava meraviglioso.
“Io
… la cosa più bella che ho visto è
stato l’alba dall’Arcolaio –
l’anno scorso sono stata lì con la principessa
Alina. Mi ha tolto il fiato, più la salita sui cento
gradini, ma anche la
vista” aveva ammesso. “Pensavo che
l’Arcolaio fosse stato distrutto durante la
guerra civile” aveva considerato lui, “Lo
è stato sì” aveva ammesso lei,
“Ma le
rovine sono notevoli da guardare tanto quanto l’opera
originale, credo” aveva
ammesso Vasilissa, “O così aveva detto
Alina” aveva ammesso.
Erano andate lei, due guardie, il principe Dominik, la principessa
Alina,
Sankta Leoni e Meesha Effimov. “Tu e la principessa Alina
siete molto legate,
vero? Non prenderla male, ma come …?” aveva
provato lui. Vasilissa aveva
sorriso, “Hai mai sentito parlare della figura del ragazzo
delle frustrate?”
aveva indagato lei. “Sì, lo avevano nel Dresden.
Un ragazzino che si prendeva
le scudisciate al posto dell’erede che non poteva essere educato
da
nessuno che non fosse il re”
aveva risposto lui
celere.
“Sì. L’ultimo ragazzino delle frustrate
è stato Vodyak Torts, il figlio di un
allevatore di maiali che è poi finito come maggiordomo di
corte qualcosa come
duecento anni fa? Questo fino a Dominik Vertov
… che era il compagno di
studi e ragazzo delle frustate del Re Nikolai” aveva ammesso.
Tecnicamente
anche la principessa Lilyiana aveva avuto la sua ragazza delle
frustrate, la
contessa Najima, ma era stata portata lì perché
la principessa imparasse la
cultura suli, inoltre la principessa Lilyiana aveva i grisha del
Piccolo
Palazzo che erano di nobile e di umile nascita, ravkiani e stranieri.
“Il Re doveva averlo proprio caro se ci
ha chiamato il suo unico figlio
maschio” aveva considerato Joran, “Doveva, credo,
perché ha sempre spinto
perché io e la principessa fossimo legate. Comunque, nessuno
mi ha mai
frustrato o picchiato al posto di lei, però di punizioni
insieme ne abbiamo
scontante tante, quelle sì” aveva raccontato.
Alina era troppo irruenta per delle vere amiche, faceva sempre di testa
sua e
non si tirava indietro davanti a nulla. Arguta e brillante. E spesso le
sue
compagne di giochi erano state figlie, sorelle e cugini di importanti
uomini e
donne politiche che si erano alternate come si alternavano le potenze
nella
corte. Solo Lissa rimaneva, all’inizio perché non
aveva potuto dire di no –
quale figlia di una cuoca avrebbe potuto dirlo al Frutto
dell’Autunno? – e poi
perché non aveva più voluto.
“Ci siamo sempre arrangiate bene, assieme” aveva
ammesso, perché non aveva
davvero una risposta a quella domanda.
Come era successo? Non importava, era successo. “Il
… principe Matthias è una
creatura così solitaria” aveva ammesso lugubre,
“Non ha molti amici?” aveva
chiesto stupita Vasilissa, “Mi sembra un uomo così
a modo” aveva pensato.
Sempre gentile, sempre cortese e mai troppo ingombrante. Vasilissa
aveva
conosciuto uomini di grado molto più basso di lui
atteggiarsi a gran signori e
lui che avrebbe ereditato un regno così ingombrante sembrava
sempre così
posato.
Alina aveva detto lo avesse visto farsi aggiustare il viso dalla
sartoria,
aveva senso, il principe Matthias sembrava sempre così bello
e posato, come un
gioiello. “Ha solo la nobile Stiorra, per il resto
è un uomo freddo dal cuore
freddo” aveva sputato fuori, sentenzioso.
“Non è molto corretto parlare così del
tuo principe” lo aveva rimproverato
Vasilissa, aveva cercato il gioco nella sua voce ma non c’era
riuscita, stimava
troppo la principessa Alina, per pensare che qualcuno potesse
rivolgersi a lei
con lo stesso sprezzo che Joran aveva per il suo principe.
“Morirei per lui e
per la corona di Fjerda, questo non vuol dire che debba
piacermi” si era difeso
Joran, incolore.
“Immagino tu abbia ragione” aveva ammesso
Vasilissa, sentendo leggero disagio,
adorava Alina, e provava grande rispetto per la principessa Lilyiana e
il
principe Dominik.
“Mi piacerebbe andare nell’Agroverde, anche quello
deve essere un lugo ameno da
vedere” aveva considerato lui, cambiando argomento,
“Lo è. Sul serio” aveva
ammesso quello.
“Tu e la principessa avete fatto anche quello?”
aveva indagato lui, “No. Sono
andata con Yusuf e Anatov. Avevamo quindici anni. La principessa non mi
ha
rivolto la parola per le successive due settimane” aveva
ridacchiato. Alina non
aveva avuto il permesso, ci aveva provato su quello non pioveva, ma
Toyla
l’aveva recuperata non lontana da Os Alta.
“Potresti farmi da guida …” aveva
proposto Joran.
Vasilissa aveva sospirato, “Interessante, passi da un bacio
delicato ad una
proposta di pellegrinaggio assieme … non si può
dire che i Fjerdiani non siano
intraprendenti” aveva ammesso. “Mettici davanti la
religione e posso
assicurarti che nulla ci fermerà mai” aveva riso
Joran.
Lissa aveva sospirato e poi riso allegra, “Lo sai, no? Questo
giardino è
bellissimo, questo cielo e stupende e non so se è il kvas o
la vodka a parlare
ma tu sei la cosa più bella che c’è
qui” aveva ammesso subito. Lissa era
arrossita appena, “Primo: non sono una cosa; secondo:
è sicuramente la vodka e
terzo: non hai visto te, chiaramente” aveva detto. Lissa
aveva allungato una
mano ed aveva messo la mano sullo zigomo alto del ragazzo, prima di
porgersi
per un bacio lungo, calmo e delicato con l’uomo.
“Ti piaccio, davvero?” aveva chiesto, sembrava
così fragile, così confuso.
“Perché non dovresti?” aveva miagolato
lei, “Sei sicuramente bellissimo, se
vuoi parlare della profondità della tua anima, forse quello
dovrebbe essere
rimandato al sorgere del sole e la sobrietà” aveva
soffiato Vasilissa, prima di
sporgersi e baciarlo ancora.
C’era qualcosa di dolce e delicato in lui, che cozzava con le
esperienze
nefaste di Vasilissa. C’era quell’ardore della
fame, ma anche riverenza e
timore.
E non sapeva perché, quel controllo, quella sensazione la
infiammava più di
ogni altro.
“Se fossimo a Fjerda, adesso dovremmo ritrovare quel prete e
sposarci” aveva
ridacchiato Joran, tra un bacio e l’altro, prima di prenderla
per i fianchi,
delicato, senza irruenza e issandola sul suo bacino.
“Che ne è stato dello stare stesi a guardare le
stelle?” aveva chiesto
sfacciata Vasilissa, che si era lasciata guidare dal movimento con un
movimento
lesto e feroce, “Non sei mai stata un uomo
fjerdiano” aveva ridacchiato lui,
sporgendosi in avanti per coglierla in un bacio, “E poi
ripeto: sei più bella
delle stelle” aveva aggiunto.
Vasilissa aveva assaggiato ancora quelle labbra, le aveva sentite
schiudersi ed
era andata oltre, in una stretta vorace e affamata, famelica e ferace.
Per la
prima volta, anche l’ardore contenuto del giovane Joran si
era svegliato. Si
era tirato sulla schiena, tenendo ancora Vasilissa sul suo grembo,
mentre
stringeva una mano sul fianco ed una vagava rude sulla schiena. Lei lo
aveva
arpionato al collo con le unghie e l’altra sulla guancia, nel
tentativo di
tenerlo stretto a lei.
Poi Vasilissa attenta, senza smettere di baciarlo, aveva fatto
scivolare la
mano dalla guancia, fino a scendere sulla spalla, sul petto, le dita
sulla
giacca rossa, pigiando, perché potesse sentire la pelle,
prima di raggiungere
il bottone più alto e farlo passare all’asola.
Aveva sentito il pomo dell’uomo muoversi, forse dal
nervosismo, ma aveva
stretto con vigore il suo fianco. “Non so se con tutto quello
che ho bevuto …
posso farcela” aveva ammesso imbarazzato lui, con fatica, le
gote lentigginose
rosse, quando Lissa si era allontanata dalle sue labbra –
rosse e lucide – per
far scivolare un altro bottone dall’asola. “Non
dobbiamo fare niente” l’aveva
rassicurata lei.
“Non hai idea di quanto io …” aveva
replicato incerto, baciandola ancora, aveva
fatto scivolare la mano dalla schiena di Vasilissa, fino al fianco e
quella che
era rimasta lì, era scesa fino alla coscia.
Lei aveva sbottonato tutti i bottoni ed aveva aiutato a sfilare la
giacca
rossa, lasciando scoperto con la camicia crema, che si tendeva
svergognata, su
un fisico asciutto.
Joran aveva infilato una mano sotto la gonna di Lissa, toccando le sue
calze,
sulle gambe, per risalire fino alle cosce. Le mani di Joran erano calde
e
roventi ed avevano fatto sentire Lissa piena di vita; però
le sue dita
tremavano, così come il suo respiro corto.
“Penso dovresti dirmi ora cosa devo fare?” aveva
ammesso lui, pieno di
vergogna.
Lissa aveva riso, “Prima di tutto respira” aveva
detto.
“Oh,
sankti, si sono addormentati qui all’aria aperta!”
Lissa aveva sentito quella voce come un eco lontano, appannata dal
sonno e dal
calore del corpo di Joran, quando era collassata, stremata dalla
stanchezza e
la vertigine, suo petto.
“Addormentati non è il termine che
userei” aveva replicato una voce, era più
pesante e grezza e tradiva un accento che non conosceva bene.
“Non possiamo
lasciarli qui, questa notte non scenderà la neve certo, ma
è fredda e i loro
vestimenti sono leggeri” aveva soffiato. “E
sui loro freschi pensieri”
aveva risposto l’altro
sarcastico, “Come scusa?” aveva chiesto la prima
voce, “Lascia perdere. Non
hanno vestimenti leggeri, li han persi quasi tutti
…”
Una mano l’aveva scossa delicatamente sulla spalla,
“Tesoro … Vasilissa, vero?”
aveva chiesto gentile la prima voce. La voce non le era del tutto
sconosciuta,
ma neanche nota.
Vasilissa aveva schiuso le ciglia, ancora cotta dal sonno, riconoscendo
a
stento un’ombra. E fili d’argento.
“Sankta Alina?” aveva bisbigliato, riconoscendo il
candore del crine, “Oh,
sankti!” aveva risposto la voce, “Ragazzo sveglia
anche tu” aveva detto gentile
lei, “No, no, altri cinque minuti, mamma” aveva
miagolato il ragazzo,
scacciando senza vergogna la mano tesa.
“Lasciali lì” aveva replicato la seconda
voce, era una voce maschile
riconosceva Lissa, ma non vedeva la figura, lontana dal campo visivo e
scura
come la notte. “Non posso, non possiamo” aveva
detto Sankta Alina.
“Vasilissa, cara, dovrete tornare nelle vostre stanze o
andare al chiuso, il
freddo potrebbe farvi ammalare” aveva spiegato con gentilezza
la sankta.
“L’alcool percepire il fa percepire il
freddo” aveva rimproverato ancora
l’uomo, “Non so dove è la mia
stanza” aveva piagnucolato Alina, aveva ricevuto
la chiave dal re ma non le era stata detta la stanza. Sembrava
così stupido.
Poteva tornare a dormire nei piani interrati, nel suo vecchio
bugigattolo,
accanto a quello di Marjia. “Puoi dormire nella mia
tranquilla” aveva detto la
donna, “E noi dove dormiremo?” aveva chiesto la
voce maschile, “Oh, per favore!
Ho delle stanze belle grandi, un pertugio dove dormire lo troveremo per
tutti”
aveva dichiarato la donna, “Adesso aiutami a sollevare il bel
dormiglione”
aveva dichiarato la donna. “Sei proprio una
sankta!” aveva esclamato Lissa.
“Oh, bambina, riesci a stare in piedi, tu,
sì?” aveva chiesto con gentilezza e
Lissa aveva annuito, ma quando aveva provato a stare sulle sue gambe,
aveva
sentito le ginocchia di burro e quasi era caduta.
“Devo davvero aiutarti? Sono vecchio e scianco” si
era lamentato l’uomo.
“Dai, dai, aiutami” lo aveva supplicato la donna,
“Una buona azione per i
sankti” aveva provato, “Divertente” era
stata accolta da una risposta
sarcastica.
Lissa, con le gambe ancora molli, aveva aiutato a sollevare Joran.
“Sankta
Alina?” aveva biascicato il fjerdiano, quando aveva aperto
gli occhi blu,
ancora intontito dal sonno e imperlato di sudore nonostante il freddo
della
notte del giardino.
“Sì” aveva ammesso la donna,
“Per guidarti verso un letto.”
Lissa stava cominciano a mettere a fuoco meglio la donna. Era adulta,
ma doveva
essere grisha, perché la sua età era un mistero,
aveva occhi scuri e capelli
bianchi come la neve, non il candore della vecchiaia, ma qualcosa di
diverso.
Sembrava davvero Sankta Alina.
La donna si era messa un braccio di Jordan sulle spalle, sorreggendolo
bene e
l’altro uomo aveva preso l’altro, “Meno
male che la tua paranoia ci ha fatto
passare di qui” aveva scherzato la donna, “Proprio
la mia serata fortunata” si
era lamentato l’uomo.
Lissa li aveva seguiti, incerta e un po’ sciocca.
Quando la
lucidità era tornata, aveva riconosciuto il calore pieno di
una coperta pesante
che si affiancava alla sua sottoveste, con le cosce nude, fino alle
calze al
ginocchio. Indossava ancora i vestimenti intimi. Non aveva sentito
nessuna
umidità tra le sue gambe, né alcun dolore
…Però aveva sentito la nausea della
bile nella gola, dovuto all’avvelenamento da alcool.
Si era tirata su per sedersi, sentendo sotto di sé il
materasso morbido,
rivestito dalle lenzuola. Era stata adagiata sopra e poi coperta con
una
coperta di lana pesante.
E Joren era al suo fianco.
“Oh” aveva sussurrato, guardando il bel profilo
dell’uomo, illuminato dalla
luce delle imposte schiuse che permetteva ai raggi del sole di
rischiarare la
stanza.
Oltre al bellissimo uomo nel letto matrimoniale con lei, Lissa si era
accorta
come la camera fosse parecchio sontuosa, con la carta da parati con i
decori
floreali, così come gli angoli, broccati d’oro.
Nella stanza erano presenti due
divanetti, uno scrittoio, con vasi colmi d’acqua pieni di
fiori. La camera era
parte di ambienti più grandi – Lissa riconosceva
l’unica porta presente, dalla
doppia apertura e laccata di bianco, come una di quelle interne degli
appuntamenti – ed era presente
anche una
finestra a doppia facciata, che si affacciava su un balconcino, da cui
si
poteva spiare il Giardino della Regina.
Vasilissa si era alzata, un piccolo brivido di freddo l’aveva
colta quando i
palmi dei piedi nudi avevano toccato il marmo ghiacciato ed era
saltellata fino
al grosso tappeto decorato nel centro della stanza. Raffigurava un
disco solare
con raggi tesi e dritti, giallo-e-arancione su fondo blu.
“Buongiorno” aveva biascicato Joren, con la sua
voce bassa e cavernosa, ancora
toccato dalla sonnolenza. “Buongiorno”, aveva
mormorato lei, mentre lo
osservava sollevarsi. Indossava la camicia di lino crema, a cui
mancavano un
paio di bottoni, i suoi stivali erano ai piedi del letto.
“Queste sono le tue
stanze, signora delle ostriche?” aveva indagato divertito,
mentre si guardava
intorno.
Lissa aveva messo una mano sul suo petto, prima di infilare una mano
nella
scollatura per estrarre la sua chiave rivestita d’oro,
“Direi di no” aveva
detto. Non aveva idea di dove fossero, “Forse ho una nuova
bella camera, ma di
sicuro non questa” aveva ammesso.
Joran aveva ridacchiato, mentre si toglieva la coperta di dosso,
rivelando i
calzoni grigio chiaro sporchi d’erba e terra, “Mi
gira la testa come una
trottola” aveva ammesso poi vergognoso, mentre si stendeva
sulle sue gambe. “Il
Kvas non perdona neanche chi ha sangue ravkiano” aveva detto
lei, camminando
verso di lui.
Joran era più alto e più bello, anche con i
capelli arricciati, sconvolti in
ogni direzione e le occhiale violacee sotto gli occhi lucidi e stanchi.
“Sì, mi
sono accorto” aveva ammesso lui pieno di imbarazzo,
“Ieri sera è stato molto
bello” aveva ammesso lei.
“Non … ci sono riuscito” aveva rivelato
impacciato. “Ci sono stati un
considerevole numero di baci che sono sicuramente riusciti”
aveva ammesso
Lissa, “Ti bacerei anche ora, ma ho un fiato
nefasto” aveva ammesso. “Io
probabilmente potrei rischiare di rimettere sulle mie scarpe e sulle
tue” aveva
ammesso lui pieno di imbarazzo. “Oh, ma io non so dove sono
le mie. Credo dovrò
sfilare fino alle mie nuove stanze scalza” aveva riso. Joran
aveva ridacchiato
con lei.
Alla luce del vero sole le sue fossette erano più belle e la
sua lentiggini
rosa risaltavano con delizia sulla pelle pallida.
C’era stato un silenzio gentile che si era manifestato tra
loro, che aveva
fatto sentire Vasilissa bene, quasi appagata. “Questo
è il momento in cui fuggi
per evitare di essere accusato di diserzione” aveva proposto
lei. “Tecnicamente
non sono un membro dell’esercito, sono un membro della corte.
Ho i miei doveri,
quelli di un cortigiano si intende, ma sono comunque già in
ritardo” aveva
provato lui pieno di imbarazzo. “Oh, io dovrò
scoprire quali sono i miei” aveva
provato lei, passando le dita tra i capelli, la disavventura
sull’erba gli
aveva resi leggermente crespi e un po’ intrecciati, avevano
perso la coroncina
di corolle e anche il fiore che Joran aveva messo tra i suoi capelli.
“Imparare
a mangiare delle ostriche” aveva ridacchiato lui.
“Oh, sankti, no” aveva scherzato lei, incerta.
Sentiva il silenzio pieno,
morbido tra di loro, ma anche attanagliata dalla complicata sensazione
che
quando avessero lasciato quella piccola alcova, sarebbero stati perduti
per
sempre.
“Voglio rivederti” aveva ammesso alla fine,
raschiando un coraggio che doveva
essere ancora impuntato all’alcool nel suo corpo. Le labbra
di Joran si erano
schiuse in un’espressione stupita, prima che un rosso meno
adorabile ma più
frustrato e imbarazzo si manifestasse sulle gote lentigginose,
“Io vorrei”
aveva ammesso, ma quelle due uniche parole più che una
promessa per il futuro
sembravano presagire il contrario. Per un secondo Vasilissa aveva
provato la
sgradevole sensazione che Viktor le dava di ‘non
abbastanza’ ma poi aveva letto
meglio l’aria e non era quello, era altro.
“Sei promesso, vero?” aveva chiesto, senza accusa,
i nobili si promettevano in
nozze senza neanche essersi mai visti in faccia una volta, come era
stato per
Anya Karkoff e Viktor Semyon, “No. Non ancora,
almeno” aveva ammesso, ma lo
sarebbe stato. “Un bravo Fjerdiano e un bravo figlio, che
rispetterà il volere
dei suoi genitori e sposerà la sua virtuosa futura
promessa” aveva considerato,
avrebbe voluto che più cattiveria filtrasse dalle sue zanne,
ma non era stato
così. Era stata calma e anche comprensiva, poteva essere
Vasilissa la baronetta
delle perle ma era ancora Lissa. “Non ho mai desiderato
essere di meno un bravo
figlio e un bravo fjerdiano” aveva confessato, “E
se mi fai questo dopo una
notte, non oso immaginare cosa potresti farmi tra due notti o
vent’anni” aveva
scherzato.
Vasilissa aveva annuito, sentiva gli occhi liquidi, ma non avrebbe
pianto, “Un
ultimo bacio con cui tenerti caldo la notte?” aveva scherzato
lei, “Non so se
posso” aveva ammesso Joran.
Lissa si era sollevata sulle punte dei piedi e lo aveva baciato senza
irruenza
o fame, ma casta e delicata.
“Lasciami prendere qualcosa, Joran” lo aveva
rimproverato bonariamente.
“Stucchevole
e imbarazzante” gli aveva rimproverati rancoroso una voce.
I due si erano ritratti scottati, notando all’ora che
qualcuno quatto e felpato
aveva aperto la porta interna. “Oh, sankti!” aveva
ammesso lei, nascondendosi
dietro Joran, visto lo stato pietoso dei suoi vestimenti.
“Non c’è niente che non abbia già
visto” aveva detto l’uomo.
Era alto e secco, come un giunco, vestito di nero corvino,
così come i capelli
scuri e gli occhi neri e cattivi. L’unica macchia di colore
era la pelle, ma
solo perché ne era esente: lo stesso bianco pallore della
morte. Era arcigno e ben
consapevole di quanto la sua inquietudine potesse raggiungere ogni
angolo. Era
poggiato allo stipite della porta.
“Immagino che voi siete l’uomo che ci ha soccorso
ieri notte, ve ne siamo
immensamente grati” aveva parlato Joran con calma e
gentilezza.
L’uomo non aveva perso la sua espressione cattiva,
“Fosse stato per me, vi
avrei lasciato al parco, ma la duchessa di Keramzin ha un cuore
decisamente più
gentile del mio” aveva risposto l’uomo secco,
“Doveva essere la donna …” aveva
considerato Lissa, pensando ai capelli bianchi come il nevischio. Aveva
davvero
pensato che Sankta Alina li avesse soccorsi.
“Sì e vi ha fatto dormire sul letto principale,
mentre noi abbiamo dormito sui
divani” si era lamentato, “Vorremo ringraziare la
duchessa” aveva detto Joran
con calma, “Per il suo buon cuore” aveva aggiunto
Lissa, abbassando lo sguardo
con un’espressione rispettosa. “La duchessa
è in un riunione con la regina in
persona e non credo tornerà prima di mezzogiorno
… non vi ho fatto preparare
una lauta colazione perché sono abbastanza sicura che una
baronetta possa
trovarla da se” aveva stabilito l’uomo secco.
Vasilissa aveva sussultato
davanti quel commento, pensando come il suo nuovo titolo dovesse
essersi spanso
a macchia d’olio. “In effetti
sì” aveva miagolato timorosa, sarebbe
probabilmente dovuta andare nelle cucine, da sua madre.
“Bene, allora via di qui, tu” aveva detto senza
riguardi l’uomo, prima di
rivolgere lo sguardo freddo a Joran, “Riguardo a te
…” aveva detto e il suo
tono aveva preso una nota leggermente più dolce,
“Anche io so dove trovare la
colazione” aveva boccheggiato. “Immagino
sì, ma andrei prima da tua madre”
aveva stabilito.
Lissa aveva visto le mani di Joran chiudersi a pugno, stretti
così tanto da
aver sbiancato le nocche, “Come scusa?” aveva
chiesto il giovane Fjerdiano,
“Tua madre” aveva scandito l’uomo,
“Mia madre?” aveva chiesto quello, il suo
tono era incerto e i suoi occhi sembravano quelli di un cerbiatto.
L’uomo non aveva risposto perché il rumore
roboante dell’apertura delle stanze
della duchessa, “Eccoti qui!” aveva strillato con
una voce d’aquila Genya
Safin. Sembrava che la notte prima non avesse neanche sfiorato il viso
del
triunviro.
Genya aveva i capelli raccolti in una coda alta, rosso fumoso,
indossava la
kefta rossa dei corporalki, con i decori del suo ordine, la benda di
seta nera
con cucito sopra il sole di Sankta Alina. “Oh! Mia
Signora!” aveva detto piena
di imbarazzo Lissa, pensando si stesse rivolgendo a lei, ma Genya si
era
fiondata predatoria sul giovane Fjerdiano. “Vostra
nob-” aveva provato a
parlare lui, ma Genya lo aveva trascinato via come se lei fosse stata
un
gigante e lui una piuma.
Joran si era voltato verso di lei, con un’espressione
colpevole, ma Lissa gli
aveva sorriso complice, decidendo che non avrebbe vissuto né
di rancori né di
rimproveri.
“Prendi un consiglio da un vecchio uomo, hai appena evitato
un proiettile”
aveva sentenziato l’uomo, “Inizio a
sospettarlo” aveva
ridacchiato lei, “Ha visto le mie
scarpe?” aveva chiesto guardandosi intorno, “No, le
avevi già perse. Marina ti
ha lasciato delle pianelle da indossare” aveva stabilito.
Erano scarpe scomode, dal tacco dritto in sughero, che coprivano tutta
la
pianta del piede. “Grazie
per la
gentilezza dimostrata, nuovamente” aveva provato Vasilissa di
nuovo, voltandosi
verso l’uomo. Quello aveva sospirato, “Ora via dai
piedi, non sono un nobil
uomo che ha tempo di gozzovigliare” aveva detto quello,
“Ho cose da fare e
persone da vedere.”
“Dovrei chiederle chi è?” aveva chiesto
Vasilissa, non era sicuramente il duca
di Keramzin, era arrivato quella mattina sul presto, bello come il
sole, con
indosso la stoffa nehulita ed aveva fatto compagnia tutta la notte al
Re
Consorte. L’uomo era forse l’amante della duchessa?
Forse il maggiordomo?
L’inserviente?
Non lo sembrava, la camicia che indossava era di taffettà,
la sua giacca nera
era lucida e pregiata, con bottoni in avorio, i calzoni erano ben
stirati e le
scarpe di pelle non rovinate. Non abbastanza agghindato e decorato per
essere
un nobile o forse eccessivamente ricco, ma abbastanza ben vestito per
essere
benestante. Forse un mercante. “Potresti ma non ti
risponderei” aveva risposto
secco lui e Lissa aveva letto la situazione come era d’uopo
per lei.
Aveva
messo le pianelle d’oro della duchessa, il tacco era in
sughero, ma laccato di
rosso intenso, alto tre dita, la stoffa delle scarpe era morbida e
foderata al
suo interno di pelliccia, per tenere il piede caldo. Lissa che aveva
sempre
camminato con i talloni a terra aveva sentito un leggero sbilanciamento
per
quanto esiguo fosse il tacco. Aveva lasciato gli appartamenti della
duchessa e
l’uomo misterioso, realizzando ben subito in che area del
castello fosse.
Più vicina al corridoio principesco che alle cucine ed
egoista aveva imboccato
la strada per il primo luogo che per il secondo. Sapeva di dover andare
da sua
madre, ma non sapeva bene come approcciarsi a lei e a tutte quelle
persone con
cui era cresciuta. Era stupido, un titolo non avrebbe cambiato ninete,
sarebbe
rimasta sempre Lissa, la figlia della cuoca e la ragazza che rammendava
i letti
e raccoglieva la biancheria in giro. Eppure, non riusciva a trovare il
coraggio.
“Sol Sho Malachi, sol sho Lukyan!” aveva detto
riconoscendo le abituali due
guardie di palazzo che osteggiavano la porta della principessa Alina,
“Buon giorno
a te, Lissa” aveva risposto Malachi suadente, “No,
compagno. È ‘buon giorno
baronetta Pavlov’” lo aveva corretto Lukyan.
“Cosa? Quando?” aveva chiesto, “Ieri
sera, giusto?” aveva risposto l’altro
soldato, voltandosi verso di lei, in cerca di conforma. Vasilissa aveva
annuito
imbarazzata, “Quasi” aveva ammesso,
“Però non è cambiato molto”
aveva aggiunto.
“Adesso, con tristezza, Baronetta Pavlov sei oltre la nostra
umile portata”
aveva ammesso melodrammatico Malachi, facendola ridacchiare.
“Mi è concesso
incontrare la Principessa?” aveva investigato Vasilissa,
“Tecnicamente se tu
fossi ancora una cameriera ti potremmo far entrare senza problemi, ma
ora credo
tu abbia bisogno di una vera e propria presentazione o un
invito” aveva considerato
Lukyan, mentre lei portava le braccia alla vita con una certa boria,
“Scherziamo”
aveva detto Malachi, “Penso che alla principessa faccia bene,
le guardie
notturne hanno detto che pareva una nuvola nera” aveva
aggiunto.
Strano.
L’ultimo ricordo di Alina era lei ebbra di vino e allegra che
le cercava di
sussurrare un segreto.
Lukyan aveva aperto la porta delle stanze private e lei era scivolata
dentro, “Principessa!”
aveva chiamato, senza ottenere risposta.
La stanza era ancora chiusa, senza che un solo raggio di sole passasse
le
serrande. “Principessa?” aveva chiesto
più titubante, prendendo la direzione
per la camera personale di Alina.
Quando aprì la porta, trovò la stanza meno buia
delle altre, con la finestra
chiusa, ma gli scuri ben aperti per permettere alla luce di entrare
nella
stanza.
Alina era nel suo letto grande, abbozzolata nelle coperte.
Vasilissa si era dovuta quasi dichiarare stupita nel vedere la
principessa
dormire ancora, anche se baciata dalla luce del giorno e
dall’assenza del
piccolo principe Juris, che adorava disturbare la sua zia preferita.
Lissa aveva sorriso comunque dolce, prima di dirigersi verso il letto
di Alina,
nel farlo aveva urtato però con il piede qualcosa: una
bottiglia in vetro
vuota. Sembrava vino. “Forse non sono stata l’unica
ad esagerare ieri sera”
aveva considerato, quasi, bonaria. Ricordava che la principessa Alina
fosse
stata piuttosto allegra.
Aveva fatto un altro paio di passi, riscontrando un’altra
bottiglia vuota, l’aveva
sentita rotolare sul pavimento ma aveva continuato fino al letto senza
fermarsi.
Alina dormiva, non imbozzolata su un fianco come al solito, come le era
parso,
ma stesa supina, con i capelli biondo-castano a raggera sul cuscino.
Eppure,
non sembrava un sonno ristoratore, gli occhi erano serrati, il corpo
tremolava.
Il respiro era rauco ed arrancato e l’odore del fiato era
nefasto. Vasilissa si
era quasi lanciata su di lei e quando aveva toccato la pelle nuda del
collo, aveva
sentito la carne fredda. Aveva scosso le coperte per vedere Alina stesa
con l’abito
della festa, accanto ad una pozza di vomito.
Aveva gettato un urlo ed aveva scosso con più vigore la
principessa, quando
senza controllo nella mente le erano serpeggiate le immagini di qualche
giorno
prima quando aveva trovato la regina Zoya in stato confusionale dopo
un’attenta.
“Vasilissa, che succede?” aveva chiesto Lukyan
palesandosi trafelato, “La
principessa non si sveglia, respira male, è fredda e
…” aveva cominciato a
parlare agitata, mentre si teneva Alina al petto.
“Serve un dottore o un corporalki!” aveva strillato
poi, Lukyan aveva annuito,
prima di correre fuori.
La regina aveva chiesto di Alina, quando era stata attaccata, ma il re
l’aveva
invitata a non parlarne, per non turbare la sua amica. Vasilissa aveva
pensato
che le parole della regina fossero state quelle di una madre che
chiamava la
figlia – Alina era il suo frutto dell’autunno, la
più coccolata e la più amata –
e non un monito.
La stanza si era fatta di nuovo viva.
Vasilissa aveva sollevato lo sguardo, “Che succede,
dimmi!” aveva detto il
principe consorte, con ancora gli indumenti intimi della notte, senza
le scarpe
e i capelli neri arricciati dal cuscino e l’espressione
tormentata. “Moy prins”
aveva sussurrato lei, prima di provar a spiegare al meglio, mentre il
principe
si avvicinava, per osservare la principessa.
Si era seduto sul letto, scacciando quasi Vasilissa senza grazia, ma
lei non si
era spsotata. Il principe aveva rinunciato e delicato aveva sollevato
le
palpebre di Alina, per osservare i suoi occhi.
“Alina! Vasilissa!” aveva strillato il principe
Domink entrando nella stanza, già
vestito, ma alla rinfusa, come se avesse pescato i primi vestiti
attirati a
tiro.
“Dominik” lo aveva richiamato al silenzio il
principe consorte, “Non urlare o
anche Juris verrà qui” lo aveva rimproverato il
cognato. L’espressione sul viso
del principe si era fatto furente, ma poi aveva ingoiato il suo
pensiero, realizzando
ben presto che non fosse il caso che anche il piccolo principino di
cinque anni
venisse. “Che sta succedendo?” aveva chiesto
più lacrimoso.
Il principe aveva toccato il polso di Alina, aperto la sua bocca e
tastato il
corpo, con movimenti precisi e analitici,
“Un’intossicazione alcolica, direi” aveva
sentenziato.
“Oh, grazie ai sankti” aveva detto Dominik,
mettendosi una mano sul petto, “Pensavo
fosse qualcosa di serio” aveva ammesso. “Non sembra
una sbronza” aveva osato
parlare Vasilissa.
Il principe l’aveva guardata, aveva occhi predatori e
precisi, di chi sapeva
non solo leggere dentro, ma scavarci una fossa. “Non
è una sbronza. È una cosa
grave. Alina ha assunto più alcool di quanto il suo corpo
possa smaltire, c’è
il rischio che se lo stato di dolenzia continui, potrebbe arrecare
problemi
gravi al corpo” aveva detto secco.
Dominik aveva deglutito, sentendo la severità di quelle
parole. “Cosa dobbiamo
fare?” aveva chiesto timido, “Prima di tutto
avvolgerla in cose più pesanti, il
rischio peggiore è che vada in ipotermia” aveva
risposto il principe,
rimettendole addosso la coperta che Vasilissa le aveva tolto. Lei di
rimando
era sgusciata via dal letto consapevole di essere l’unica
probabilmente di loro
a sapere dove fossero le vettovaglie nella stanza, dirigendosi presto
una
cassapanca, per raccogliere altre coperte, in cui seppellire la
principessa. “Poi,
Dominik metti su il tè … ha bisogno di liquidi
caldi, io le tengo libere le
viee respiratorie e mandatemi a chiamare un corporalki e un materialki,
meglio
se healer e alkemi, meglio ancora se sono Genya e Leoni”
aveva impartito il Principe
consorte.
Vasilissa dopo aver sistemato le coperte, si era diretta verso le due
guardie
rimaste alla porta. Lukyan non era lì, ma Malachi, invece,
sì. “Ci servono
Genya e Leoni. La signora Safin è nell’area dei
fjerdiani … oppure un healer e
un alkemi” aveva provato. “Mi spiace, Lissa, ma non
posso abbandonare le stanze”
aveva detto imbarazzato Malachi. “Invece, ti do
l’ordine io!” aveva strillato
il principe Dominik dalla stanza, facendo scattare il giovane subito.
Vasilissa era rientrata con espressione ancora afflitta sul viso,
“Perché non
eri con lei?” aveva chiesto subito Dominik quando
l’aveva vista riapparire,
mentre trafficava con il samovar, “Sankti, fratello,
Vasilissa è una
persona propria e Alina è solo una diciasettenne cresciuta
in una campana di
vetro che è finita ad ubriacarsi ad una festa senza
supervisione” aveva detto
il principe consorte, costringendo la bocca della principessa Alina a
rimanere
aperta per costringerla a respirare forse. Vasilissa aveva tremolato,
poi aveva
deciso di parlare, agitata da quei pensieri che aveva voluto soffocare
in vista
della sua nomina e del matrimonio segreto: “ Tre giorni fa
qualcuno ha cercato
di ferire la Tsarina” aveva parlato.
I due principi si erano rivolti subito rapaci verso di lei con lo
sguardo, “E
lei chiedeva della principessa … quindi, ecco …
non è che qualcuno può averle
dato una dose più elevata di liquido alcolico
apposta?” aveva proposto spaventata.
Più alcol di quanto potesse sopportare il corpo, un
avvelenamento senza veleno,
che per quanto tragico, per quanto orribile, per quanto struggente,
avrebbe
trovato un colpevole nell’avventatezza di una ragazzina fin
troppo famosa per
la sua testardaggine.
Domink aveva boccheggiato qualcosa, “Hanno cercato di ferire
la mamma?” aveva
chiesto perdendo tutta la sua compostezza di principe, apparendo quasi
un
bambino spaurito, “Non avrebbe senso ferire
‘Lina” aveva provato poi, cercando
di recuperare la sua compostezza. Ovviamente, non avrebbe avuto senso,
in un’ottica
più grande: Alina era la più giovane dei tre
principi, non era l’erede ed era
la meno coinvolta nelle politiche di corte. “Certo che
avrebbe senso, il mondo
intero sa che è la figlia prediletta di tua madre e la
futura prossima signora
di Fjerda” aveva detto stoico il principe consorte.
La conversazione era stata mutata dall’ingresso piuttosto
caotico e preoccupato
di Genya Saffin, seguita a ruota da re Nikolai, dietro di loro erano
spuntate
anche la principessa Lilyiana e la sua amica Ana Aleksandra.
“Perfetto, speravo in Leoni, ma anche tu andrai bene
Drina” aveva considerato
il principe, guardando la figlia dei duchi di Keramzin. “Che
cosa è successo?”
aveva chiesto strozzato il re, guardando verso di lei e Dominik, un
silenzio un
po’ duro si era formato, interrotto solo dal fischio
dell’acqua che bolliva. Poi
il principe aveva parlato: “Alina ha avuto
un’intossicazione alcolica” aveva
stabilito prima di voltarsi verso Vasilissa, i suoi occhi erano
supplichevoli e
gridavano una sola cosa: dì questo e non quello.
“Bene, fuori tutti!” aveva gridato Genya,
“Noi tre possiamo gestire la cosa”
aveva aggiunto con fermezza ammiccando a sé stessa, Drina e
il principe
consorte. “Sperò di non finire in coma”
aveva bisbigliato Drina, sedendosi
vicino alla principessa, prima di imporre le mani sulla coperta,
“Non dovresti
toccare lei?” aveva chiesto retorico il principe,
“Prima scaldo le coperte” si
era difesa, mentre Genya li spintonava gli altri fuori.
“È mia figlia” aveva supplicato Nikolai,
“Sì e ti dirò la stessa cosa che ti ho
detto ad ogni parto: fuori di qui e fai il re, Nikolai” aveva
ordinato e poi si
erano ritrovati tutti sbattuti in corridoio, come fossero stati tre
inservienti
e non tre delle cinque persone più importanti del loro
regno. E Lissa con loro.
“Lei è forte. È in buone mani. Starà
bene” aveva bisbigliato la
principessa Lilyiana, le prima parole che aveva pronunciato da che era
arrivata.
La danza
circolare della Buriazia, chiamata “Yokhor” (Ёхор,
in russo) viene ballata
durante le feste. Gli interpreti si tengono per mano in cerchio,
muovendosi da
sinistra a destra, proprio come si muove il sole. È proibito
muoversi
all'indietro, poiché si crede che solo gli spiriti maligni
si muovano in
direzione opposta al sole. Lo yokhor viene eseguito intorno a un fuoco,
a un
albero o a una montagna. Nel cerchio, un partecipante canta una canzone
e i
compagni e le compagne lo accompagnano con diversi movimenti: saltano
(imitando
un cavallo), agitano le mani (imitando un uccello). Negli ultimi anni,
in
Buriazia sono stati organizzati dei flash mob durante i quali
è stata ballata
questa danza, per far conoscere lo yokhor in tutto il mondo –
da : https://it.rbth.com/lifestyle/86530-dieci-danze-antiche-dei-popoli
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Capitolo 23 *** Dimitriji I (40 D.F.) ***
Scrivere questo capitolo è
stato un PARTO.
Prima di tutto il lavoro mi ha distrutto emotivamente, fisicamente e
psicologicamente e … infatti lo ho lasciato! Oltre questo,
ho dovuto riscrivere
da capo mezzo capitolo perché mi ero accorta di aver
sbagliato punto di vista,
inoltre il narratore (più unico che raro) è stato
davvero complicato, perché non
avevo ancora deciso bene che carattere dargli prima di quel momento.
Comunque, spero possiate apprezzarlo, questo è il penultimo
capitolo ambientato
nel 40 D.F. per un bel po’ di tempo ed il penultimo
ambientato in questa
benedetta festa.
Detto ciò:
BUON
ANNO!
Dimitriji
I
(40 D.F.)
“E
con
questo … abbiamo finito” aveva stabilito con un
tono piuttosto frizzante sua
moglie, ammiccando alle altre due donne presenti nella stanza.
Una era una cameriera piuttosto avanti con l’età
– Natasha, una bisbetica donna
che aveva servito la famiglia Polnudist per anni e che Dimitriji
giurava di non
aver mai visto sorridere – che indossava sempre con austera
rigidezza la sua
uniforme bianco latte con i ghirigori d’oro e
l’altra, invece, era a malapena
una donna, ancora giovane in viso e con l’espressione vispa.
Anche la più giovane era una cameriera, con
l’abito chiaro con i decori oro,
con il grembiule crema ancora infilato, ma avrebbe cessato
definitamente quel
lavoro giusto con l’avvenire della notte.
Vasilissa Pavlov con il suo piccolo visetto da gatta, i capelli
castano-ramato,
sempre ordinati e raccolti, e i grandi occhi castani da cerbiatta.
Graziosa,
senza essere bellissima, carina senza essere fulgida.
Najima, però, l’aveva obbligata a dismettere
grembiule e sarafan, per indossare
seta lillà e raso viola, abbinato con modeste –
seppur preziosi – decorazioni
di pizzo bianco a tombolo.
Un abito che Dimitriji stimava fosse costato almeno seicento vlachki;
un dono
enormemente generoso. Dimitriji non era stupito, Najima e Vasilissa
Pavlov non
erano mai state ne amiche ne vicini, perciò ad occhio
esterno quel regalo
sarebbe parso fin troppo eccessive, ma la sua audace moglie non aveva
mai
dimenticato le sue origini di figlia di braccianti stagionali.
Dimitriji, per
tal motivo, non era stupito per nulla che vedesse sé stessa
in Vasilissa
Pavlov. Nonostante le due donne non potessero essere più
diverse …
La sua Najima era una donna dalla personalità esplosiva, una
guerriera, che
aveva scalato la sua posizione dai banchi di studio, fino
all’esercito, con
tenacia e irruenza.
Presa per essere una compagna di studi e anche un’insegnante,
per quella
cultura trascurata Suli, per la principessa Lilyiana, Najima aveva
conquistato
con ardore il cuore della principessa e poi anche quello di Dimitriji.
Una volta lui aveva spergiurato che non avrebbe mai amato nessuno oltre
la
principessa, ma si era dovuto ricredere. Najima lo aveva conquistato,
un pezzo
alla volta, con lo stesso bruciante ardore di un incendio. Vasilissa
Pavlov
aveva seguito un percorso simile, di un’altra principessa era
stata custode, ma
sembrava una creatura così fragile, come vetro soffiato,
rispetto sua moglie.
“Io le sono grata, mia signora” aveva risposto
tutta stucchevole Vasilissa
Pavlov, chinando il capo rispettosa, esibendosi in una riverenza
così sfacciata
che Dimitriji si era quasi aspettata toccasse suolo con la fronte.
“ È stato
per un immenso piacere, Lissa” aveva risposto con voce
divertita sua moglie,
prima di congedare la donna, “Mi aspetto tu sta notte sia
più scintillante
delle tselai.”
Dimitriji
aveva osservato tutta la scena dalla porta socchiusa del suo studiolo,
aveva
lasciato di proposito l’uscio semichiuso in modo da poter
spiare,
discretamente, il salottino dei loro appartamenti, senza dover
ficcanasare
platealmente. Forse era piuttosto vecchio stile, ma a Dimitriji piaceva
sapere
tutto quello che accadeva sotto il suo tetto anche le cose
più futili.
Najima era entrata poi nella stanza, con un sonoro schiocco della porta
e un
sospiro stanco, “Sono troppo vecchia per queste
cose” si era lamentata.
Indossava una lunga veste di velluto rosso, che le scendeva morbida sul
corpo
come una cascata d’acqua, che metteva in evidenza ogni curva
prorompente del
corpo. Najma aveva preso l’abitudine di lamentarsi del grasso
che aveva preso
spazio sul ventre, sulle cosce, sul culo, quando per molto tempo era
stata
ferrea e tonica come era richiesto ad un oprichnik –
ma a Dimitriji non
dispiaceva per nulla.
“Era un vestito molto carino” le aveva detto,
“Non bello come quello che avevi
per il tuo debutto però” aveva ricordato.
Ricordava ancora Najima quel giorno e quel vestito: giallo zafferano,
agghindato in un intreccio di stoffe che coniugasse la sua
eredità suli con la
sua cultura ravkana. E sopra ogni cosa che l’avevano resa
così bella che
Dimitriji era riuscito solo a boccheggiare come un pesce; senza mai
lasciare il
suo fianco.
“Come sei gentile” aveva detto divertita lei,
schioccando un bacetto verso di
lui, prima di scivolare molle sul divanetto dello studiolo,
“Devo andare a
correggere i compiti di matematica di nostro figlio” si era
lamentata Najima,
con voce assonnata.
“Tu hai scelto matematica, vuoi fare cambio? Prendi tu la
letteratura?” aveva chiesto
Dimitriji con una punta di divertimento, mentre riportava gli occhi sui
rendiconti dell’estrazione del metan yez
di quel mese.
Il contado di Ivets non era stato un luogo particolarmente ricco, anche
nei
tempi d’oro, quando il territorio era stato parte del Grande
Sulinato – prima
della frammentazione – la terra non aveva mai restituito
nulla. Non aveva oro,
ne argento, ne dolci frutti o frumenti. Era una terra infame, quasi una
maledizione, usava dire il nonno di suo nonno e questo era stato
tramandato da
Polnudist e Polnudist, fino a che il defunto Alexiej, padre di
Dimitriji, non
vi aveva trovato il metan yez.
Dalla scoperta del giacimento sotterraneo di metano e da quando il
mondo ne
aveva capitata l’effettiva utilità, la fortuna dei
Polnudist aveva preso una
piega molto più abbondante.
Il metan yez era fondamentale per Ravka, ma anche
per tutto il resto del
mondo e pochi lo possedevano, in così grandi
quantità.
Najima aveva
sbuffato, “No, no, per i
Sankti, preferisco tenermi le materie scientifiche” aveva
sospirato lei, prima
di lasciarsi sfuggire in una risata mesta che aveva riscaldato lo
stomaco di Dimitriji.
Gli dispiaceva davvero che non fossero riusciti a generare un altro
bambino, a
Dimitriji sarebbe piaciuto avere un altro figlio – o anche
una femmina – e ad
Andrej sarebbe piaciuto avere un fratello e probabilmente gli avrebbe
fatto
bene, lui da bambino aveva odiato la sua condizione di figlio unico, ma
i
sankti non li avevano accontentati. Non sapeva perché ci
avesse pensato in quel
momento.
“Non comprenderò mai la tua avversione alle
materie umanistiche” aveva considerato
Dimitriji, voltandosi verso di lei con un sorriso morbido.
“Mi perdo in tutti
quei vagamenti filosofici” aveva ammesso Najima,
“Lo so che i suli hanno la
reputazione di essere gente molto spirituale, ma non la mia famiglia e
sicuramente non io” aveva replicato, guardandosi le dita. Le
donne avevano
cominciato a portare le unghie lunghe ben dipinti con smalti colorati,
ma
quelle di Najima erano squadrate, corte e naturali. “Direi
che la regina Zoya
fece un pessimo affare a portarmi a palazzo” aveva scherzato
poi.
Forse la regina aveva cercato una giovane bambina suli con cui Lilyiana
potesse
istruirsi ed appassionarsi a quella cultura che era parte del suo
patrimonio ma
che non conosceva, ma le aveva dato ben di più.
Un tocco
sulla porta aveva distratto i loro discorsi, la vecchia Natasha aveva
fatto
entrare – senza permesso – un giovane uomo in
livrea bianca con decorazioni oro
e arancio ben cucite. “Moy Blagorodnyy”
soffiò l’uomo rispettoso, mentre
teneva tra le mani un frammento di pergamena, “Un
telegramma” aveva considerato
l’uomo, ma l’occhio azzurro continuava a sfuggire
verso la signora della casa.
“Per me?” aveva chiesto con un suono allegro e
divertito, alzandosi dalla
poltrona, quasi baldanzosa, “Nessuno mi manda mai
telegrammi” aveva aggiunto
sognante.
L’uomo le aveva allungato con fare incerto la pergamena,
lanciando uno sguardo
al signore della casa, “Se hai un amante non è
stato molto intelligente” aveva
scherzato Dimitriji, prima di congedare il giovane uomo. “I
miei amanti non
mandano telegrammi, ne scrivono biglietti, li scelgo belli ma
ignoranti” lo
aveva preso in giro sua moglie, mentre proiettava gli occhi neri sul
foglio con
interesse. “Viene dalla Matej” aveva considerato
come prima cosa.
La prigione di stato ai margini orientali della Capitale.
“Forse un tuo amante
è finito in prigione” aveva scherzato Dimitriji.
Facevano spesso battute di quel genere tra loro, nella loro fantasia
Dimitriji
aveva come amanti volitive giovani signore con fili di perle e unghia
smaltate
e Najima aveva aitanti signori dai muscoli tonici, era il loro gioco;
ma
entrambi sapevano fossero solo giochi.
Najima e Dimitriji si erano promessi la fedeltà e la
trasparenza aldilà di ogni
cosa, sopra ogni cosa, anche l’amore.
Era uno dei motivi per cui aveva rinunciato alla sua spietata corte
alla
principessa Lilyiana, non si poteva contenere il vento, né
si poteva
imbrigliare. Dimitriji non avrebbe potuto sopportare di essere tradito,
era
troppo orgoglioso. Era un verso orso di Ravka.
Il Principe Consorte, d’altronde, era ben altra bestia.
Dimitriji amava Lilyiana, come un’amica, come una sorella,
come una
principessa, e a volte anche come una donna. Lilyiana era brutale,
forte,
sagace, ma era anche un’anima buona … ed uno
spirito fragile.
E questo lo lasciava titubante se schierarsi senza indugio al suo
fianco,
nessuno che avesse indossato la tiara del drago avrebbe potuto o dovuto
essere
fragile.
Il bel di
sorriso
di Najima era appassito come i fiori nel primo freddo
dell’autunno, “Peggio” si
era lamentata sua moglie, “Nessun amante, ma un
amico” si era giustificata,
allungando verso di lui il foglietto, in cerca d’aiuto,
“Un amico molto stupido
e molto avventato.”
Dimitriji aveva raccolto il messaggio e poi lo aveva letto, interessato
e un
po’ confuso da quella descrizione. Aveva sospirato stanco,
dopo aver recepito
le informazioni e le aveva detto: “Fai quello che devi fare
oggi, lo avevi
promesso ad Andrej. Questa posso gestirla io.”
“Ho abbastanza soldi per corrompere una guardia”
aveva fatto notare Najima con
un sorriso svelto, “E questo è il motivo per cui
non lo farai tu” aveva
replicato Dimitriji, “Ti ho già detto che
corrompere è terribilmente volgare.”
“Non sia mai che il nome dei Polnudist sia associato a
qualcosa di volgare”
aveva risposto Najima spietatamente divertente. “Esattamente
sankti, a meno che
tu non voglia lo spirito di mia madre aleggiare su di noi. Inoltre, se
conosco
bene il nostro amico, la situazione sarà più
spinosa” aveva considerato,
“Sicuramente non è uomo che non può
evadere di prigione da solo” aveva
considerato sua moglie, incrociando le braccia sotto il petto petto,
“Fai
quello che devi, probabilmente sbrigherò questa incombenza
in tempo per
prenderci un tè prima della cena”
l’aveva rassicurata Dimitriji.
“Sì, anche perché abbiamo un
appuntamento con quel Fjerdiano” le aveva
ricordato sua moglie, “Il fratello del conte di
Ag… Aje… hai capito” aveva
detto leggermente spazientita.
“Il Margravio del Wanderfall
e … no, non lo ho dimenticato” aveva ricordato
Dimitriji.
“Forse
hai
bisogno di dormire un po’ Mal, o almeno un
caffè” aveva buttato fuori Dimitriji,
quando erano entrati nella carrozza della servitù. Malcom,
come era suo solito,
lo aveva guardato con quel suo sguardo incendiario che prometteva solo
dolore.
Una bastia rara era, come un cane da guardia ben bastonato, fedele al
suo
padrone e disposto a un quieto vivere solo per lui, ma se Lilyiana
avesse
lasciato appena il guinzaglio, un mostro di fuoco e fiamme sarebbe
caduto su di
loro. “Sto bene” aveva detto lapidario Malcom, con
l’espressione di ferro sotto
la carne, duro come il granito, con un viso contrito, dritto come una
spada,
avvolto nella kefta blu – così scura da sembrare
nera – dell’ordine degli etherealki.
I capelli castano scuro, con i riflessi rame, tirati
all’indietro con la
brillantina, che lo facevano apparire ancora più aguzzo e
freddo.
Dimitriji lo adorava in realtà, ma il sentimento sembrava
spesso a senso unico.
“Non litigate bambini” li aveva rimproverati
bonariamente la principessa,
issandosi sulla carrozza. Aveva sostituito gli abiti pregiati con cui
si era
intrattenuta con il principe di Fjerda, per indossare un lungo cappotto
cammello, che aveva allacciato alla vita, che scendeva fino alle
caviglie,
mostrando solo i lucidi stivali neri con il tacco a rocchetto.
I capelli corti ben nascosto sotto un berretto rivestito di pelliccia
di
zibellino alto e metà del viso oscuro da leti nere
tondeggianti. “Sto bene”
aveva ripetuto Malcom con fermezza, “Finita questa incombenza
… Malcom tu
andrai a dormire” aveva ripreso a parlare la principessa,
“Ho necessità che
questa sera tu sia fresco. Sarà una lunga notte”
aveva ammesso cupa, spostando
con due dita il tendaggio. “La festa” aveva
scherzato Dimitriji, “Dalai” aveva
risposto Lilyiana con un tono piuttosto inferocito.
La regina Dalai con i suoi occhi grandi e verdi e quel sorriso ben
mellifluo.
“Vuoi elaborare per me?” aveva domandato divertito
Dimitriji sporgendosi verso
di lei, non lasciando scemare il suo sorriso. Lilyiana aveva continuato
a guardare
il panorama fuori dall’imposta della carrozza,
“Assolutamente no” aveva
risposto stanca la principessa, poi.
La carrozza non era né grande né sontuosa, era
semplice e modesta, utilizzata
per la maggior parte dalla servitù quando era costretta a
lasciare il palazzo.
Era uno spazio stretto ed angustio che li costringeva a sistemarsi in
posizioni
scomode. Lilyiana e Malcom era così stretti che le loro
spalle erano premute
tra loro, inoltre Dimitriji era più comodo con un ginocchio
di Malcom e uno
delle principesse tra le sue gambe, che tenerle chiuse.
“Noiosa” l’aveva
rimproverata bonariamente Dimitriji, “Vorrei dire che ho un
lavoro anche per
te” aveva ripreso la principessa spostando le lenti nere, per
sfoggiare i suoi
occhi giallo-marroni.
“Sono tutto orecchie” aveva squittito Dimitriji,
portandosi anche una mano
all’orecchio con un fare divertito per enfatizzare,
“Ti sei già messo avanti”
aveva scherzato senza divertimento la principessa. “Mi hai
scoperto …Ti terrò
aggiornata sull’incontro di oggi, amica mia” la
rassicurò. Non aveva senso
svicolare o mentire, Dimitriji poteva avere le sue idee, ma Najima
aveva le
sue: Lilyiana sempre e comunque.
“Tu che sai sempre tutto, invece, hai saputo qualcosa di
Drina?” aveva chiesto,
invece, Lilyiana, sistemando nuovamente le lenti nere sugli occhi,
“Questa mattina
mi è sembrato di intravedere suo padre in giro”
aveva considerato lui, muovendo
le spalle.
L’ultima notizia che aveva ricevuto dalla cara Drina risaliva
ad un paio di
settimane fa, l’amica aveva scritto a lui e Najima che
avrebbe presenziato alla
festa dei Dieci Giorni come da tradizione, ma non era certa di quanto
avrebbe
potuto giungere. Sospettava si sarebbe palesata a giorni. Invece, aveva
incrociato giusto quella mattina il duca di Keramzin in compagnia del
suo vispo
attendente, proprio per i corridoi del palazzo.
“No, ho parlato, con il signor Rosen. Non ha parlato con
Drina” aveva
considerato Lilyiana, “Non sa quando
arriverà.”
“Sai come è teatrale Drina” aveva
scherzato Dimitriji, “Farò il suo ingresso,
in un momento in cui nessuno di noi
l’aspetterà” aveva provato con un
genuino
divertimento, “Probabilmente con la sua indole potremmo
ritrovarcela stasera
alla festa che ci saluta con boria” aveva aggiunto.
“Sarebbe da Drina sì” aveva ammesso
Lilyiana, lugubre.
Nessun commento e nessun fiato era stato emanato dal terribile Malcom.
I suoi
occhi erano persi e vacui altrove, in un punto lontano del tempo.
Probabilmente
anche lui pensava a Drina, pensava all’ultima volta che si
erano parlati.
E pensava al fuoco.
“Perché non hai portato Najima?” aveva
chiesto poi Lilyiana, sorprendendola,
“Uhm … lei aveva un impegno pregresso con
Andrej” aveva detto imbarazzato. Era
tradizione Ravkiana che fossero le madri a prendersi cura dei figli
finchè questi
non avessero avuto l’età per debuttare in
società, a Dimitriji non era
dispiaciuto quel sistema, aveva avuto una madre amorevole, nonostante
tutti i
suoi difetti, e neanche Najima era sembrata restia: era materna per
natura; ma
riconosceva che quel sistema mal si sposava con il carattere abrasivo
di
Lilyiana. Infondo, era stata cresciuta dal Re Consorte e sotto
l’ombra
ingombrante della regina Drago.
“Ovviamente, dovrei passare più tempo anche io con
i bambini” aveva ammesso la
principessa con un sospiro stanco, “A proposito di bambini,
come è andato con
il principe di Fjerda?” aveva chiesto, invece lui, non
volendola infastidire
facendole riflettere sulle sue presunte mancanze.
Matthias Grimjor appariva esattamente come lo avevano descritto le
fonti di
Dimitriji: bello, ma algido, intoccabile; un ragazzo triste e solo, che
sembrava sparire dietro la risata fresca e il fascino della sua scenica
madre.
Una donna non passava da un pescivendolo a un re, senza essere
particolarmente
intrigante. “Esattamente come lo immagini: un bravo
bambino” aveva ammesso con
generosità la principessa.
La
carrozza aveva arrestato la sua corsa lenta e ciondolante per le vie
ciottolate
di Os Alta fino ai confini ovest della città, nei pressi
dell’austero ingresso
della prigione di Matvej.
Dove la strada aveva smesso di essere composta da lucide pietre di
basalto, per
fare spazio a una strada chiara di breccia e sassi, che avevano reso la
marcia
già tremolante, molto più crepitante. Il viaggio
era stato lungo, anche se Dimitriji
non aveva potuto misurarlo con certezza, avendo dimenticato il vecchio
orologio
di suo padre sullo scrittoio quella mattina. I cavalli di Lilyiana
avevano
fatto un buon lavoro, due splendidi purosangue dalla statura di due
buoi, che
avevano tenuto il trotto per tutto il viaggio.
La compagnia era dovuta scendere prima dell’arco trionfale
dell’ingresso della
prigione, vicino le vecchie stalle, in uno spiazzale di terra battuta e
brecciolino.
Lilyiana era smontata per prima con un movimento felpato, da pantera,
senza
aspettare che il minimo servitore della prigione si prodigasse per
aiutarla.
Malcom era stato frustrato dall’atteggiamento privo di
controllo della
principessa e si era fiondato dopo, senza battere colpo, quasi
investendo un
galoppino che si era fatto avanti coraggioso poi.
Un uomo con l’uniforme della Matvej li aveva raggiunti ed era
stato quasi
colpito dalla mole di Malcom. Dimitriji era smontato dalla portantina
con calma
e senza particolare grazia.
Era un
soldato giovane, dal viso sbarbato, i capelli zenzero e la kefta verde
bottiglia, dell’ordine delle guardie, con un fucile legato
con una banda di
cuoio, indossata a tracolla. “Non potete sost
…” aveva cominciato quello, prima
di osservare attentamente la principessa Lilyiana ed inghiottire la sua
lamentazione con un singulto rumoroso, “Buongiorno Moy
Tsarevich” aveva buttato,
prima di darsi in una riverenza super rispettoso,
“Buongiorno” aveva replicato
la principessa, togliendo le lenti nere, per osservare attenta il
giovane.
Quello era diventato rosso in viso e cotto dal disagio.
Un altro uomo era giunto con loro, sul dorso di un palafreno dal manto
grigio maculato;
era meno giovane e meno sbarazzino dell’altro, esibiva anche
un paio di folti
baffi scuri sopra il labbro, che lo invecchiavano di molti anni.
“Buongiorno,
sua altezza reale” aveva affermato calmo e rispettoso, mentre
arrestava la
cavalcatura davanti loto, “Siamo onorati averla qui, in
questo umile luogo non
degno del suo sguardo” aveva detto, smontando poi dal suo
destriero.
L’uomo aveva preso rispettoso la mano di Lilyiana e
depositato un bacio
rispettoso sulle dita, Lilyiana aveva mantenuto un espressione elegante
sul
viso, ma Dimitriji riusciva a leggere il suo disagio dietro il sorriso
di
circostanza.
“Sono onorata di essere qui”
aveva risposto tranquilla la principessa,
aggiustando il colletto del cappotto di cammello con un movimento quasi
nervoso,
“Scusi la nostra povera accoglienza, ma non
l’aspettavamo in questi giorni”
aveva detto il più anziano con un tono frettoloso e
imponente. “Sì, siete
perdonati. Non era mia intenzione venire prima di un mese, ma le vie
dei Sankti
sono inconoscibili per gli uomini, anche per le principesse”
aveva risposto
affabile, “Devo parlare con Corrin.”
Corrin
Petrici era il direttore della prigione di Matvej.
Li aspettava infondo al sentiero ghiaioso sotto l’arco
immenso che augurava il
cortile interno della struttura – per chi non era avvezzo
sarebbe sembrato che
l’uomo avesse dovuto sapere in qualche modo che la
principessa voleva
incontrarlo, ma per Dimitriji che aveva accompagnato Lilyiana diverse
volte,
poteva affermare che Corrin Petrici accoglieva sempre la principessa.
Sopra la testa dell’uomo, sull’arco, capeggiava in
ferro battuto il nome dell’istituto
correttivo e restrittivo, in un carattere raffinato: Matvej.
Il direttore era un uomo imponente, dal tronco tonico e forte, con una
croce di
spalle ampie come quelle di un armadio. Alto ed impostato, aveva un
viso duro
temprato dagli anni e della vita. Una figura imperiosa, che
però pareva fatto
di carne molle quando aveva incrociato gli occhi con la principessa
Lilyiana.
La principessa non era una donna minuta, ma non aveva ereditato
né le lunghe
gambe della regina Zoya neppure la statura longilinea di Re Nikolai
– come
invece era capitato alla principessa Alina e al principe Dominik
– per tale
ragione non risultava ne particolarmente statuaria ne imponente, ma il
suo
sguardo fiero e il portamento retto, rendevano semplice far sentire
piccoli gli
uomini. Dimitriji si era imbevuto in quell’umiltà
da quando era bambino a
undici anni suo padre l’aveva formalmente presentato a corte
e agli occhi della
preziosa principessa ereditaria.
Nel corso degli anni, quello sguardo era peggiorato.
Gli occhi di Lilyiana erano i predatori occhi di una belva famelica,
non un grande,
ma comunque un predatore.
“Solo
Sho,
Corrin” aveva chiosato Lilyiana, andandoli in contro e
posandoli due delicati
baci sulle guance affilate, come se salutasse un vecchio amico e non un
subordinato, “Sol sho, moy tsarevich” aveva
risposto lui, crollando sulle
ginocchia e baciandole le dita nude, molto più teatralmente
e appassionatamente
dell’altro uomo.
Lilyiana non indossava mai gioielli, non solo quando era in incognito,
ma anche
alle grandi feste e alla corte, mai nessun monile,
‘L’unico gioiello di cui ho
bisogno è il mio sorriso’ aveva scherzato una
volta, forzatamente.
“Non ci servono tutte queste svenevolezze, Corrin. Ci
conosciamo da anni” aveva
detto fintamente amichevole la principessa, facendolo sollevare dalla
posizione
genuflessa, con un tono così raffinatamente squisito che
pareva miele. L’uomo
si era tirato su, era più alto della principessa di una
testa e di Dimitriji di
una e mezza, solo Malcom riusciva a tallonarlo, ma anche lui era
più minuto.
“Non l’aspettavamo fino al diciassette del prossimo
mese” aveva considerato
Corrin.
Lilyiana non aveva perso il sorriso, “Non mi piace essere
prevedibile” aveva
scherzato, senza vergogna, mentre l’uomo li conduceva
attraverso il cortile
esterno, fino all’interno della struttura.
“Ovviamente,
spero che sua altezza reale comprenda che non abbiamo attrezzato la
solita
stanza dei ricevimenti … e sarà perciò
necessario del tempo” aveva ammesso
l’uomo con un tono pregno di vergogna, curvato su
sé stesso, mentre teneva il
braccio della principessa con fare impacciato, “Inoltre, oggi
potremmo aver
avuto una situazione particolare” aveva aggiunto incerto e
nervoso. “Immagino,
Corrin, tu faccia riferimento all’uomo morto”
aveva ammesso la
principessa cogliendo il direttore e anche Dimitriji di sorpresa.
Malcom non si
era scomposto. “Non dovrei essere più turbato,
immagino” aveva ammesso il
direttore, probabilmente preparato e abituato a quei giochi di mano
senza
vergogna della principessa, “Lo sa cosa si dice di me? Che il
vento mi parla” aveva
scherzato.
A Dimitriji piaceva pensare di avere un buon numero di spie, ma la
principessa
doveva avere ancora il suo bel numero di carte nella manica, che
Dimitriji
poteva solo immaginare, “Comunque, non sono qui per il solito
prigioniero”
aveva ammesso la principessa, voltando appena la nuca per incrociare
gli occhi
con quelli di Dimitriji, che aveva annuito. Un’espressione
sorpresa aveva
attraversato il viso del direttore davanti quella inaspettata
confessione.
La principessa aveva fatto un cenno d’assenso e Dimitriji
aveva parlato: “Siamo
qui per prigioniero sette-nove-uno-cinque-sei- schsch-enne-sei”
aveva riportato.
Corrin Petrici aveva annuito, “Un brigantello,
di certo non la bestia
peggiore dell’ovile, ma dà che è
arrivato è rimasto coinvolto in due risse”
aveva spiegato pratico. “Ricorda tutti i prigionieri che ci
sono qui?” aveva
chiesto sfacciato Dimitriji, “No, mio signore, solo i
peggiori e i … grisha”
aveva aggiunto e l’ultima cosa l’aveva detta con
una vergogna piuttosto
perentoria.
“Nessun imbarazzo Corrin” aveva parlato Lilyiana,
“Anche i grisha possono
essere criminali” aveva aggiunto. “Però
…” aveva ripreso a parlare la
principessa, “Voglio vedere prima il morto” aveva
stabilito.
Dimitriji aveva voltato lo sguardo verso Malcom, quando Lilyiana si era
dedicata nuovamente a Corrin. “Sai-qualcosa?”
aveva boccheggiato, “Ti pare?” aveva
mosso le labbra Malcom, davanti
l’alto del suo disinteresse. Dimitriji quasi invidiava la
natura ferace del
soldato: nessuna preoccupazione, nessuna idea, solo cieca obbedienza.
“Ne è certa?” aveva chiesto il direttore
con un tono di voce pregno di
preoccupazione, di chi proprio non gradiva l’idea che
un’alta carica della
corte venisse a interessarsi di quelle vicende. In una prigione
capitavano
sempre cose oscure. “La mia famiglia sovvenziona questa
struttura perché non
sia uno zoo” aveva replicato schietta e dura la principessa,
“Ne sono
consapevole, moy tsarevich, ma certe bestie che sono qui dentro sono
solo
travestiti da uomini” si era giustificato il direttore.
La Matvej ospitava alcuni dei prigioni di Ravka, non di tutta
ovviamente,
sarebbe stato impossibile, almeno delle aree limitrofe della capitale e
la
struttura era organizzata per contenere quattro diversi tipi di
prigioniero: i
dissidenti politici, i criminali peggiori di Ravka –
assassini, stupratori,
schiavisti –, quelli locali che avevano bisogno di due notti
in cella e una
bacchettata sulle mani e i grisha. Nessun’altra prigione,
oltre alcune celle
nel Piccolo Palazzo, erano in grado di tenere agli arrestati i creatori
della
Piccola Scienza.
Non era facile contenere i grisha, ma era meglio una prigione del
linciaggio.
Dimitri
riconosceva il famigliare profilo dei mattoni di pietra che occupavano
l’angusto corridoio che stavano percorrendo. Aveva battuto
quella strada
diverse volte con Lilyiana e con Najima nel corso di quasi
vent’anni.
La prigione lo intrigava come struttura: i piani superiori erano nuovi
e ben
tenuti, il piano a terra e il primo in elevato appartenevano ad una
struttura
preesistente, posteriore alla Faglia, ma erano stati restaurati e
sistemati. La
struttura però non si limitava a sollevarsi in elevato ma
affondava nella nuda
terra. Le fondamenta, nascoste sotto il piano di calpestio, erano i
resti di un
palazzo scomparso da tempo, appartenente a un era precedente alla
Faglia,
precedente all’unificazione di Ravka, a quando quel
territorio apparteneva
all’Atila
e a meridione a malapena
si parlava di rafkiani. Due dei quattro torrioni
risalivano al regno di
Yevgeny I, che aveva fatto edificare sulle rovine delle lussureggianti
ville
atiliane la sua prima roccaforte in quella zona, prima che la capitale
si
spostasse da Os – ai loro tempi ormai ruderi dimenticati a
sud, per qualcuno
addirittura Dva Stolba – all’appena fondata Os
Alta.
Camminavano in quel momento, sul primo embrionale palazzo reale, che
sarebbe
stato poi sposato più ad est, per ragioni che a Dimitriji
sfuggivano.
Le altre due torri erano state una costruzione in tempi posteriori, ma
smantellate e ricostruite recentemente; una era stata ultimata appena
una
cinquantina d’anni prima sotto il penultimo re Lantsov e
l’ultima era ancora in
fase di restauro, circondata da impalcature di ferro e legno.
Dimitriji aveva ascoltato la storia della prigione dal re in persona,
che ci
aveva speso molto tempo ed energia, specie nel riprogettare il
padiglione
nord-est della struttura e si occupava di ampliare la cinta muraria a
sud. “Non
sarebbe più facile esiliare i criminali nell’Isola
di Coib? La mia gente è
stata esiliata lì per secoli”
aveva commentato sua moglie una volta,
mentre con le dita indicava quella piccola isola, così
minuscola da vedersi a
malapena sulle mappe, nel Mare Vero, poco ad ovest di Ravka.
“Spenderemo troppi soldi”
aveva risposto lui pratico, “Acqua, vettovaglie e tutto il
resto”
aveva detto pratico,
mentre osservava i progetti.
Il gruppo
era stato costretto ad interrompere il loro abituale percorso, per
imboccare
una via nuova, fino a raggiungere quella che pareva l’area
destinata al
Sanatorio della prigione.
“Lenzuola lavate, ambiente ben areato e dispositivi medici
puliti” aveva affermato
tronfio il direttore Petrici, permettendo di osservare
l’ambiente in cui erano
giunti.
I letti erano una decina, di cui solo tre erano occupati, ma oltre i
tre malati
nella stanza brulicavano come apine laboriose i membri del personale
d’ospitale,
almeno due in camicie, una kefta rossa e due assistenti dai visi
giovani. Tutti
si erano fermati ed avevano fatto le riverenze necessarie alla
principessa.
Dimitriji poteva indovinare che i prigionieri fossero più di
dieci, ma Lilyiana
non aveva detto una parola.
Corrin
aveva deciso di condurli oltre, nella stanza adiacente quella del
sanatorio, in
un ambiente piccolo ed angusto, freddo come una notte
d’inverno sotto il cielo
nudo.
Dimitriji aveva sentito un freddo pungente accoglierlo ed aveva
detestato non
aver indossato una giacca più pesante. Aveva intravisto un
giovane figuro,
appollaiato in un angolo come una bestiola, con indosso un lungo
cappotto blu
con decorazioni d’argento dalle forme spirali – un
etherealki squoller e
probabile ragione di quel freddo notevole.
Non era l’unico nella stanza ma era stato di sicuro il
più sinistro. “Direttore
Petrici” erano stati accolti da un'altra presenza della
stanza. Un uomo di
mezza età, con la calotta rasa e i pochi capelli grigio sale
intorno alle
tempie. Aveva un viso anonimo, bianco come la pasta, con rughe rigide a
segnarne il tempo. L’uomo era nascosto e riparato dal freddo
da una pesante
kepta rossa scarlatta, dal cui colletto svettava della pelliccia, per
riscaldarsi. Si era accorto secondariamente di loro, particolarmente di
Lilyiana, che doveva essere stata ben felice di non essersi privata del
cappello di zibellino. “Oh … questa splendida
signora?” aveva chiesto.
“Dottor Zevron, ho l’immenso onore di presentarle
sua altezza reale la
tsarevich Lilyiana Zoyaevna Nazialensky” aveva detto
trionfale Corrin petrici.
“Principessa, quest’uomo è il dottor
Feydor Zevron, medico, patologo e
corporalki della prigione” aveva detto con meno fierezza,
“Il ragazzo
inquietante all’angolo è Revian, si occupa di
mantenere questa stanza alla
temperatura giusta.”
Revian non era sembrato di aver dato segno di aver riconosciuto il suo
nome,
era rimasto nell’angolo, appollaiato come una bestia, con gli
occhi grandi e
vuoti che fissavano un punto lontano. Era presente nella stanza con
loro, ma
era distante eoni da loro.
“Sì, credo di averla vista una o due volte al
Piccolo Palazzo” aveva stabilito
la principessa cortese, ignorando Revian e prestando attenzione al
dottore.
Il dottor Zevron aveva
sorriso senza
cattiveria, quasi ammirato, “Può darsi, anche se
l’ultima volta che vi ho veduta
era una bambina” aveva ammesso il dottore. C’era
stata grazia nello smascherare
la menzogna della principessa, “Sbagliate. Avevo diciassette
anni” aveva
assicurato lei, “E lei è venuto ad incontrare
Sankta Leoni” l’aveva corretto.
Un’espressione sorpresa aveva colpito il dottore, che aveva
spalancato gli
occhi a quella confessione, “Io … non mi
ricordavo, spero possiate perdonarmi,
moy tsarevich” aveva ammesso colto dalla vergogna.
“Ho detto di averla visto,
mio rispettabile dottore, non che lei abbia visto me” aveva
ammesso allusiva la
principessa, con un sorriso quasi divertita.
C’era sempre vergogna nel viso dell’uomo.
Lilyiana non si era mostrata ne soddisfatta ne allietata da quella
piccola
vittoria, ma si era rivelata come sempre un muro di fredda cortesia,
mentre
spostata di forza l’attenzione da lei a ciò che
occupava la stanza.
Oltre Revian, in quella camera fredda riposavano solo morti.
“Quindi siete medico e patologo?” aveva chiesto
Dimitriji sfacciato ma
interessato, avvicinandosi. “Per essere uno bisogna essere
anche l’altro ma non
viceversa” aveva risposto quasi con allegrezza Zevron,
“Patologo ci sono voluto
diventare, ma healer ci sono nato” si era giustificato.
“Affascinante” aveva ammesso la principessa,
“Trovo molto bello che si integri
la Piccola Scienza con la Grande” aveva aggiunto saggiamente,
con quel tono
gentile e rispettoso che sapeva prendere all’occorrenza.
Dimitriji era certo
che fossero tutti suoi dopo quello, tutti
ai suoi piedi.
“Sono qui per l’uomo morto. L’ultimo.
Quello assassinato” aveva ripreso la
principessa Lilyiana, ammiccando nella direzione dei letti di ferro,
dove corpi
riposavano sotto spessi lenzuoli di bianco cotone.
“Ah, sì, il mio nuovo amico” aveva
affermato con un certo rammarico il dottore,
aggiustandosi un bottone di legno della kefta rossa, allungandosi verso
uno dei
corpi. Aveva afferrato l’orlo del lenzuolo per scoprire un
viso morto.
Sotto il bianco, c’era stato nascosto un uomo relativamente
giovane, sulla
trentina, loro coetaneo. Un viso comune, pallido ma non bianco, con
capelli
lunghi fino alle spalle di un colore marrone come il manto di un topo.
Il suo
viso era banale, senza niente che lo rendesse interessante o
riconoscibile, un
viso morbido, un mento piccolo e un naso moderato. Un uomo come mille
altri al
mondo. Così banale che anche descriverlo sembrava difficile.
La cosa che più spiccava all’occhio era il collo
magro, segnato da una ferita
frastagliata che lo segava da un lato all’altro, che aveva
scavato la carne
così brutalmente fino all’osso.
“Dietrich Rigel, un kerchiano” aveva detto piatto
il dottore, “Si era unito
alla nostra combriccola neanche due settimane fa. Parlava a malapena il
ravkiano e pure è riuscito a farsi odiare molto”
aveva aggiunto con un tono
meno rassegnato.
“Come è morto?” aveva chiesto Lilyiana
impassibile, “Un filo di ferro, facile
da nascondere, letale” aveva ammesso il dottore Zevron,
“Lo hanno preso di
spalle e lo hanno ucciso. Il filamento ha tagliato la carotide ed il
nostro
Dietrich è morto dissanguato nelle docce.”
Dimitriji era quasi ammirato dal fatto che la prigione concedesse
queste
libertà ai prigionieri, era ancora fermo in lui
l’idea tragico-romantica delle
galere sporche, piene di topi dove il sole era un mero miraggio. Non
doveva
stupirsi che il re Nikolai non avrebbe permesso il perpetrare di una
tale
nefandezza.
Tutti gli uomini meritavano di essere trattati da umani, o quasi tutti.
Una volta Lilyiana e Drina gli avevano raccontato che, quando era
ancora il re
regnante, Nikolai Lantsov aveva chiuso l’Oscuro in una gabbia
dello zoo
dismesso. Onestamente, Dimitriji non sapeva quando fosse potuto
succedere,
visto che non aveva mai letto durante la guerra di una prigionia
dell’oscuro,
ma aveva accettato da molti anni che non tutte le cose erano sempre
come gli
erano state dette. Una cosa che lo aveva sempre divertito era cercare
di
scoprire come fossero davvero andate, dopo oltre quindici anni era
ancora
intrigato dalla storia dello zoo.
“Testimoni?”
aveva chiesto la principessa, il dottore aveva guardato il direttore,
“Per ora
fin troppi e nessuno utile. Questo posto è una polveriera o
un pollaio, dipende
dai giorni, moy tsarevich” aveva ammesso cupo e frustrato
Corrin. Non doveva
apprezzare di trovarsi tra capo e collo prigionieri morti senza
ragione. “Le
guardie?” aveva chiesto, “Erano state distratte da
una rissa, una cosa
piuttosto comune. La rissa, abbiamo scoperto, non era stata organizzata
per
essere un diversivo ma è stata abbastanza …
spontanea” aveva ammesso con
vergogna il direttore.
“Chiusi in un piccolo spazio gli uomini sono come
murene” aveva decantato il
dottore, “Cercheranno sempre di uccidersi.”
Lilyiana aveva annuito, consapevole, “Quindi o qualcuno ha
fatto in modo che
scoppiasse una rissa spontanea, cosa non difficile in un posto
così agitato o
qualcuno è dotato di incredibile prontezza”
aveva soppesato.
Entrambe le ipotesi erano plausibili e forse erano vere, assieme.
Lilyiana
si era voltata poi verso di loro, “Scommetto che so chi ha
scatenato la rissa?”
aveva chiesto guardando dritto verso di lui in suli –
Dimitriji non aveva mai
imparato a parlalo fluentemente, qualcosa che sua cognata gli
recriminava
ancora, ma era diventato molto bravo a comprenderlo, aveva ridacchiato
al
commento, immaginando di saperlo anche lui. Malcom aveva emesso un
suono che
somigliava ad una risata, ma che sarebbe stato troppo audace definire
come
tale, probabilmente avendo compreso anche lui.
“Quindi
chi era l’uomo?” aveva indagato poi, con
più disinteresse la principessa,
riprendendo a parlare. Non intendeva chiaramente solo il nome.
“Un giovane uomo di Ketterdam, è stato fermato per
diversi atti riprovevoli compiuti
sotto il sole in luoghi pubblici” aveva considerato il
direttore, “Diversi?”
aveva insistito Dimitriji.
“Diversi: urinare in luoghi pubblici, spogliarsi nudo,
onanismo in piazza …per
una settimana lo abbiamo preso e rimesso fuori, fino a che non lo
abbiamo
beccato mentre cercava di rubare in un negozio di monili a via
Barbat” aveva
ammesso pigro il direttore.
La via citata era uno dei quartieri alti e ricchi di Os Alta.
“Interessante” aveva considerato solamente
Dimitriji, rivolgendo la sua
attenzione a Lilyiana, la principessa aveva ricambiato.
Lei sembrava leggermente frustrata da quella scoperta.
C’erano diverse ipotesi da tenere in mente davanti un
comportamento così
spaesante: il morto poteva essere una persona affetta di qualche
mancanza o una
persona che voleva disperatamente finire in galera.
Sembrava sciocco, ma era plausibile. Se fosse stata vera
l’ultima ipotesi si
sarebbero aperti diversi scenari che dovevano rispondere ad un unico
quesito: perché?
“Bene” aveva tagliato corto Lilyiana, portando le
mani alla vita, lanciando un
ultimo desolato sguardo all’uomo morto. “Mene
yaram, yekadema mehim”
aveva bisbigliato Lilyiana, era un vecchio modo di dire suli,
professato in
prossimità dei morti.
Non preoccuparti, non sarai dimenticato.
“Le
tue
teorie sul perché un uomo desidera così tanto
finire in prigione?” aveva
chiesto Dimitriji, affiancando Malcom, “Vuoi davvero il mio
parere?” aveva
chiesto sorpreso Malcom, “Sì, voglio ridere di
te” aveva risposto sagace
l’altro. Ma non era vero, affatto. Era oggettivamente
curioso; c’erano cose che
Dimitriji riconosceva di non poter oggettivamente comprendere.
“Un uomo che sa cosa è la fame e la
miseria” aveva risposto il guardiano secco,
senza doverci pensare a lungo, Dimitriji aveva visto la sua mano
muoversi in
uno spasmo incontrollabile, toccandosi con le dita la punta del naso.
Un
manierismo che Dimitriji lo aveva sempre visto fare quando ripensava
alla sua prigionia.
Erano passati diciotto anni e certe cose si erano sedimentate
così dentro che
non potevano essere eliminate.
“Plausibile sì” aveva concesso il conte,
che non aveva mai provato né il freddo
nella fame, cresciuto tra i corridoi dei palazzi ed accoccolato davanti
ai
focolari negli inverni.
Malcom aveva patito il freddo e la fame e la disperazione in maniera
così
viscerale da averlo spinto sulla Strada delle Ossa, alla
schiavitù e qualsiasi
cosa perversa fosse successa al nord.
“Non ne sei convinto” aveva valutato Malcom,
osservandolo di sottecchi. Aveva
occhi marrone chiaro, con piccole puntine di verde, differentemente
dalla
principessa non aveva lo sguardo di una bestia feroce, ma di qualcosa
di
peggio. Qualcosa di incontrollabile.
La principessa si
era voltata verso di
loro, si stavano dirigendo tutti e tre nella stanza dei ricevimenti
– non
sarebbe stato auspicabile portare una persona così
importante come Lilyiana tra
le bestie, nonostante la principessa potesse difendersi abilmente da
sola.
“Ci sono alcune cose che non tornano” aveva
bisbigliato lei, dando loro
nuovamente la schiena. Il suo unico commento.
Dimitriji aveva sentito Malcom vibrare al suo fianco, frustrato da
qualcosa.
“Credo che volesse disperatamente finire in prigione, ma
credo l’interessasse
particolarmente questa” aveva bisbigliato poi Malcom, se
fosse stato così,
sarebbe stato necessario chiedersi perché. “Hanno
tre pasti al giorno, i letti
puliti, l’ora d’aria e possono lavarsi. Ci sono
prigioni a sud, dove si sta in
dieci in una segreta e ci si combatte i tozzi di pane con i
topi” aveva ammesso
Malcom senza vergogna. Descritta così la Matevj sembrava un
posto da
villeggiatura e non un istituto di contenimento.
“Ma lui è morto” aveva ponderato
Dimitriji, “Anzi è stato ucciso. Non lo hanno
picchiato a morte, preda di uno sfogo violento, lo hanno strozzato con
una
garrota in un bagno …” aveva ricordato.
“Allora voleva nascondersi. La Matevj non sarà la Corte
di Ghiaccio, ma
dal restauro dello tsar, solo Jordan Ghafa la ha violata”
aveva ricordato
Malcom ed aveva avuto un brivido nel pronunciare il nome esteso della
Frusta di
Mare.
Quella era una buona idea: la Matevj era difficile da penetrare e
differentemente da molte altre prigioni non sembrava così
infernale abitarci.
Evidentemente non era sopra la corruzione. Da chiunque l’uomo
volesse scappare,
non vi era riuscito. Dimitriji lo compativa.
“Avrebbe dovuto scegliere la Corte di Ghiaccio,
allora” aveva detto a mezza bocca.
Una guardia aveva interrotto la loro avanzata, rivolgendosi rispettoso
alla
principessa e il direttore: “Il prigioniero è
già in una cella dei ricevimenti
con qualcuno” aveva detto vergognoso, “Ovviamente
quel qualcuno dovrà
attendere” aveva ribattuto imperituro Corrin, Lilyiana con
più grazia aveva
invece chiesto Chi, senza scomporsi o mostrarsi turbata.
“Uhm …l’erede del duca di
Keramzin” aveva risposto la guardia con una certa
incertezza.
Malcom si era bloccato come colto da una folata di vento e Dimitriji
non aveva
potuto lasciarsi andare in una risata sguainata, “Perfetto,
nessuno dovrà
attendere nessuno. La signora è una mia
buon’amica” aveva ammesso tranquilla la
principessa, senza scomporsi, per quanto fosse rimasta turbata
dalla
notizia.
Malcom era
scivolato per primo nella stanza dei ricevimenti, per quanto quel nome
risultasse piuttosto pretenzioso per un luogo austero e angusto come
quello.
Una piccola stanzetta con mattoni di malta, umidi, attrezzata con un
tavolo
lungo, due sedie ed un samovar a distanza di sicurezza, sorvegliato da
una
guardia che era sempre di stanza lì.
Una sola finestra con sbarre lucide da cui filtrava un sole a righe.
Seguito a ruota dagli altri.
Come Dimitriji aveva preventivato neanche qualche ora prima: Drina era
spuntata
fuori a sorpresa.
La donna sedeva su una delle due sedie della stanza, vestita con un
lungo, fino
alle caviglie, cappotto, da colletto alto, che riparava il collo nudo e
la
parte bassa del viso, di porpora viola, sul cui orlo inferiore, erano
cucite le
foglie di acero rosso. I capelli scuri erano sciolti e leggermente
ammorbiditi
da residui di ricci e dava loro il profilo del lato buono.
Le dita leggermente storte – che non erano mai guarite bene
– tamburellavano
sul tavolo di legno.
“Come avevo detto, Drina a sorpresa” aveva infatti
strillato senza vergogna
Dimitriji, attirando lo sguardo su di loro. Drina si era voltata a
malapena,
prima che la ribalta fosse rubata dall’altra figura seduta.
“Oh! Che bello! Gran riunione” aveva strillato una
voce maschile.
Ammanettato mani e piedi in ferro, il prigioniero aveva parlato.
Drina li guardava, aveva fatto oscillare i capelli scuri, mostrando
l’ottima
sartoria che aveva sistemato il viso, rimasto intonso e rivelando il
lattiginoso occhio bianco e cieco.
“Buongiorno” aveva detto calma e misurata.
“Grazie per non aver ignorato il telegramma Dimitriji, ma mi
aspettavo Naji”
aveva chiocciato il prigioniero attirando nuovamente
l’attenzione su di lui.
Sedeva al lato opposto del tavolo di Drina, indossava
l’uniforme pesante della
prigione, un indumentaria di cotone grigia senza
bottoni e pantaloni
morbidi, come scarpe basse foderate. Nessun bottone, nessun laccio.
I vestiti erano tesi sotto un fisico asciutto, ma ampio. E i capelli
portati
più lunghi di quanto la moda da bene richiedesse ad un uomo,
degni dello stile
selvaggio del prigioniero, una faccia più che nota,
addirittura amica. “Lei non
poteva, hai avuto noi” aveva replicato Dimitriji.
La principessa era rimasta in un silenzio quasi religioso, mentre con
gli occhi
posava l’attenzione su Drina, come se improvvisamente solo
loro fossero state
nella stanza.
Nessuno era cieco alla situazione che si era intessuta in quella
stanza. Uno
dei motivi per cui Dimitriji aveva rinunciato alla mano di Lilyiana era
che non
potesse sopportare di essere amato di meno di quanto volesse
– era un
accumulatore e un egoista – e non ci sarebbe mai stato spazio
per qualcuno nel
cuore di Lilyiana, finché Drina fosse vissuta.
Anche nell’odio, nel dolore e nel rammarico.
E forse anche oltre la vita.
“Un giorno capirò come fai sempre ad essere un
passo avanti” aveva sospirato
Lilyiana, ignorando tutti e tuto e raggiungendo Drina,
l’altra si era sollevata
e si era lasciata baciare sulle guance, “Sono più
brava a raccogliere informazioni,
i talenti di uno zero” aveva ammesso,
lasciando la sua sedia alla
principessa. “Ehi … io sono qui” si era
lamentato il prigioniero, attirando
l’attenzione.
Lilyiana si era seduta e gli aveva rivolto uno sguardo ghiacciato:
“Cosa cazzo
hai combinato?” aveva detto volgare e imperiosa.
L’uomo aveva riso con una punta di divertimento estremo,
“Molto divertente, in
realtà” aveva cominciato a dire, “Ero
arrivato in città per la Festa dei Dieci
Giorni. Insomma, volevo passare del tempo con le mie persone
preferite” aveva
ammesso pedissequo. Lilyiana aveva fatto roteare gli occhi.
L’uomo aveva
ricominciato: “Però ho pensato di andare a trovare
il vecchio Van’ka, insomma
l’uomo era uno stronzo, ma mi ha insegnato un mestiere e come
stare al mondo,
dopo essermi stufato di quella gabbia dorata del Piccolo Palazzo.
Però mentre ero all’emporio ad aiutare il vecchio
Van’ka a sistemare i
cataplasmi e i suoi intrugli, ho reincontrato la bella
Ewangelina” aveva
mimato, per quanto possibile con le mani ferrate, delle protuberanze
sul petto.
“Ma cosa stai dicendo?” aveva farfugliato la
principessa.
“Ewangelina, per favore, ero innamoratissimo di lei, dieci
anni fa” aveva
spiegato, “Come puoi non ricordarti di Ewa? Aveva delle tette
che sembravano
budini e quello spazietto tra gli incisivi tra i denti molto
interessante”
aveva raccontato agitato.
Una vaga immagine si era palesata nella mente di Dimitriji, richiamato
a quella
pittoresca descrizione, ma niente che avesse contorni definiti. La
principessa
aveva arricciato le labbra come unica risposta, l’altro aveva
proceduto come un
treno non turbato: “Comunque, io e la buona Ewa ci facciamo
due chiacchiere, ci
prendiamo dei biscotti al burro e ci sorseggiamo un bel tè
in questo localino
nuovo-nuovo che non sapevo neanche esistesse. Così tra una
chiacchiera e
l’altra decidiamo di rievocare un po’ i vecchi
tempi, quelli che non prevedevano
solo tè e biscottini, se capite. Solo che non sapevo che
mentre io vivo
avventure da romanzo d’avventura, Ewangelina avesse avuto la
brillante idea di
accasarsi con un brutto uomo tre volte più grosso di
me” aveva aggiunto, “Così
il buon marito torna a casa e mi trova a culo-nudo con i graffi di sua
moglie
sulle chiappe.”
La stanza era scesa in un silenzio piuttosto imbarazzato,
“Sankti” si era
lasciato sfuggire giudicante Malcom. “Niente lui impazzisce,
cerca di colpirmi,
io colpisco lui, con un pugno, e badate bene che potevo farlo
esplodere. E,
invece, cerco la via della pace e scappo dalla finestra, senza
rimettermi le
braghe nè le mutande e mi metto a corre. Quello non pago mi
insegue” aveva
raccontato, prima di terminare la vicenda con il suo arresto mezzo
nudo,
inseguito da un uomo che millantava fosse un lestofante.
“Perché siamo ancora tuoi amici?” aveva
chiesto senza dignità la principessa,
“Do colore alle vostre altrimenti grigie vite
…” aveva risposto l’altro.
“Pago la cauzione e ti tiro fuori di qui” aveva
sospirato Drina, chiudendosi
indice e pollice sull’attaccatura del naso, “No,
non la pagare; faremo
convertire i suoi crimini a lavori utili. I bambini del Piccolo Palazzo
si
divertiranno un mondo” aveva stabilito la principessa.
“Non hai paura che influenzi male quelle giovani
menti?” aveva detto il
prigioniero senza reale crudeltà; “No. Dopo dieci
minuti con una ventina di
bambini magici mi pregherai di rispedirti qui con una condanna di dieci
anni”
aveva detto Lilyiana, sollevandosi dalla sedia con un certo sarcasmo,
“Oh, ci
sarebbe anche il buon Anton in prigione, da far uscire” aveva
provato quello.
“Ecco, ora si spiega il kerchiano morto.”
Dimitriji
non aveva idea di come Anton Boer fosse rimasto intrecciato con i suoi
amici,
ma era evidentemente l’unico di loro a non avere idea di chi
fosse l’uomo di
kerch davanti a lui, questo non gli aveva impedito di fingere di essere
consapevole di ogni cosa.
Lilyiana aveva preteso, ormai usciti fuori dalla città che
si fermassero a
mangiare del biliny in un locale. Era una tradizione che sapeva di
vecchio e di
nostalgico e dà che avevano cominciato a maritarsi, fare
figli, organizzare
guerra private e darsi alla politica non avevano potuto più
fare con la stessa
scioltezza di prima.
“Quindi l’uomo morto?” aveva indagato
Malcom, guardando i due ragazzi. Aveva
puntellato il gomito sul tavolo ed aveva posato il viso graffiato sulla
mano,
inclinato il capo. “Era uno stronzo” aveva
comunicato Anton Boer, con un tono
asciutto e misurato, di chi era abituato a non farsi trascinare da
nulla. Era
kerchiano dalla testa grando ardente alle scarpe squadrate di pelle
rovinate,
aveva anche un accento così forte e brutale che le lettere,
di tanto in tanto,
finivano inghiottite. Aveva parlato poco da quando si era seduti a
consumare il
pranzo dolce, ma Dimitriji lo poteva capire, il suo ravkiano era a
malapena
difendibile. “Elabora” lo aveva invitato la
principessa con un tono perentorio.
“Era uno stronzo che ha fatto incazzare Kaz
Brekker” aveva spiegato al suo
posto il loro amico, prima di versarsi ancora dell’ippocrasso.
“Ed il Vecchio Corvo vi ha appaltato il lavoro”
aveva sentenziato Lilyiana,
prima di passare la lingua sulle labbra per raccogliere della ricotta
che le
era rimasta sulle labbra gonfie. “Gli ha appaltato il lavoro,
io dovevo solo
farlo uscire dalla prigione” si era difeso il loro amico,
sollevando le mani
come a volersi scacciare di dosso ogni responsabilità.
“E scommetto che hai provocato tu la rissa
spontanea” aveva sghignazzato Dimitriji,
“Come mi conosci bene” aveva risposto
l’altro, ingollando dell’ippocrasso come
se fosse stata acqua liscia, “È stato facile. Quel
posto è un pollaio, dici al
tizio grosso che quello più grosso vuole fare di lui la sua
puttana ...” aveva
cominciato a spiegare, ma era stato interrotto dal kerchiano.
“E tutta la
storia di Ewa dalle curve prorompenti?” aveva chiesto
Dimitriji, “Tutta vera,
solo che potrei aver aggiustato le cose perché il mio
arresto sembrasse molto
spontaneo … e ci ho rimediato una gran scopata. Ho avuto
difficoltà a sedermi
per un giorno con tutti quei graffi, ma ne valeva la pena”
aveva risposto
quello trionfale. “Sankti, tu mi farai uscire
pazza” aveva stabilito Lilyiana,
roteando gli occhi, ma l’espressione dura e implacabile aveva
subito una
ferita, che si era manifestata in un sorriso timido, ma colmo di
divertimento.
“Drina, tu non mangi?” aveva chiesto Anton,
rivolgendosi alla ragazza che era
seduta alla sinistra di Lilyiana, leggermente in disparte e silenziosa
senza
loro. Non aveva parlato quasi per nulla.
Dimitriji scommetteva non apprezzasse molto il tempo speso
lì, avrebbe
probabilmente voluto essere al Piccolo Palazzo con sua figlia. “Scommetto che
questa sera ci sarà il
banchetto più copioso a cui posso pensare” aveva
spiegato chiara Drina, tirando
i capelli dietro un orecchio. Aveva dita lunghe e nodose, e mai del
tutto
dritte.
“Probabilmente sì, ma ai bliny non si
può dire di no” aveva squittito Lilyiana
senza vergogna, agitandole una forchetta davanti il viso. Amichevole.
Drina aveva morso la posata, recuperando il boccone di cibo.
Era stata una scena ingenua, piena di dolcezza che aveva riportato
Dimitriji
quasi all’infanzia.
“Ah, mi eravate mancati tanto” aveva detto il loro
amico pieno di amore e
dolcezza. Negli occhi nocciola balenava onesta sincerità ed
affetto. “Ketterdam
fa schifo, ha un clima di merda, persone di merda e cibo di merda
…” aveva
stabilito poi quello, senza perdere il sorriso. Anton li aveva tirato
un
buffetto con il gomito senza vergogna, “Ma non eri kerchiano,
tu?” aveva
chiesto retorico Malcom, “Non dire mai che Krokin-jin
è Kerch” l’aveva
bacchettato in risposta.
“Io vado a fumarmi una sigaretta” aveva stabilito
Anton, poi, sollevandosi, il
suo bliny era stato mangiato solo per metà, ma aveva scolato
due bicchieri di
birra scura, “Vi lascio alle vostre chiacchiere segrete e
ricordi di vecchie”
aveva ammesso Anton, prima di fare una riverenza super imbarazzata alla
principessa, che aveva rimesso le lenti nere per l’occasione,
“E ora lo vedremo
sparire” aveva soppesato il loro amico.
“Come sono rincuorata all’idea che un assassino al
soldo di Kaz Brekker giri
indisturbato per la mia città” aveva sospirato
Lilyiana, “È il fratello di
Cait” aveva provato Drina senza vergogna, con quelle parole
era sceso il
silenzio sul loro tavolo.
La compianta e ancora pianta Cait – una creatura senza volto
nella mente di
Dimitriji, ma che aveva così modellato l’esistenza
di tutti i suoi amici. “Come
va il lavoro per Kaz Brekker?” aveva chiesto invece Malcom,
“Sankti, mi piace
un sacco, quell’uomo mette uno spavento bruciante. Possono
far esplodere la
gente; eppure, lui mi mette un terrore infernale con uno
sguardo” aveva
ridacchiato il loro amico, nonostante le sue parole, ma il tono era
sembrato
incredibilmente divertito. “Ora che non
c’è l’uomo di Brekker, vuoi essere
più
esplicativo?” aveva chiesto Lilyiana.
“Sul povero uomo morto? Niente di più niente di
meno” aveva ammesso stanco
l’amico, “La gente si fa intenerire dal fatto che
il Bastardo del Barile ogni
tanto faccia atti di carità agli orfanotrofi e pensa che sia
una persona
debole” aveva spiegato, “Ma …”
aveva lasciato cadere la frase.
“Voi due avete inseguito un uomo da Ketterdam ad Os Alta per
dimostrare che non
lo è” aveva sentenziato Malcom, “Lo
avremmo ammazzato anche prima, ma quel
figlio di puttana sapeva come non farsi trovare, la prigione
è stata una
genialata. Probabilmente sarebbe stato molto più difficile
se ne avesse scelta
un’altra” aveva considerato quello quasi divertito.
“Tipo la Corte di Ghiaccio” aveva scherzato
Dimitriji, “Per entra e uscire da
quella bastano un materialki, un acrobata e un bombarolo”
aveva risposto
l’amico, “Dimentichi la guida” aveva
scherzato Lilyiana. Ah, i vecchi racconti
di Inej Ghafa!
“Io, Jordie e Drina saremo dentro e fuori in una
giornata” aveva detto poi
quello, strizzando l’occhio verso Drina, che aveva
ridacchiato, “E la guida?”
aveva scherzato Dimitriji, “Be, quella la raccattiamo nel
mentre” aveva
risposto l’altro senza vergogna.
Gli altri avevano riso davanti tale spensieratezza e
semplicità.
“Comunque, buon per me che ha scelto la Matevj , sapevo come
uscire e siamo
riusciti a fare quello che dovevamo fare in tempo” aveva
detto con lo stesso
tono tronfio che avrebbe avuto un’oca. “In
tempo?” aveva inquisito Drina,
volgendo lo sguardo verso l’amico, gli occhi blu pieni di
perplessità, “Ah non
lo sai?” aveva risposto divertito l’uomo,
“Il signore di Ketterdam sta venendo
qui. Evidentemente non è stato contento che
l’invito sia arrivato solo agli
Oligarchi legali.”
Un modo buffo di rivolgersi al Consiglio dei Mercanti di Kerch,
l’organo di
governo dello stato, d’altronde chiunque ricoprisse un ruolo
di un certo
rilievo nel panorama politico mondiale prima o poi era inciampato nel
nome di
Kaz Brekker. L’uomo non era solo un criminale, era il
criminale e tal
volta – Dimitriji lo aveva sentito dalla bocca
dell’onorevolissima Genya Safin
– veniva considerato il quattordicesimo oligarca di
Kerch.
“Sankti, questo anniversario rischia di diventare un vero
bagno di sangue” aveva
soffiato la principessa, “E tra un paio d’anni
avremmo il giubileo” aveva
smorzato l’atmosfera Drina, ma la sua allegrezza sapeva fin
troppo bene di
menzogna.
“A proposito di bagni di sangue …” aveva
detto vago il lor amico, allungando
una mano e prendendo quella di Malcom, in maniera intima e privata,
“Devi fare
attenzione.”
La voce era carica di angoscia e l’atmosfera sul tavolo si
era fatta fredda
come una nevicata di inverno.
“Ha
fatto
cosa?” aveva esclamato Najima dopo il suo vivido racconto,
non impegnandosi
affatto nel trattenere neanche una sghignazzata. Dimitriji adorava il
suono
della risata di sua moglie, era vibrante, pieno di vita e di amore.
Ricordava
ancora la prima volta che l’aveva udito, aveva tredici anni e
sua madre si era
impegnato perché lui fosse un gentiluomo preciso e
rispettoso e li aveva dato
una chiara idea di come anche le donne dovessero essere. Lilyiana e
Drina non
soddisfacevano l’idea, ma era accettabile, erano grisha
ed erano
selvagge e diverse, ma Najima no, ma era sguainata e sfacciata ed aveva
messo a
disagio Dimitriji come poche cose.
‘È una suli volgare e Nikolai non
dovrebbe permetterle di passare così tanto
tempo con la principessa, già uno scandalo che abbia come
amica quella
contadinotta di Keramzin’ aveva detto suo padre
seccata, ma Dimitriji non
aveva fatto altro che pensare che Naijima avesse una risata bellissima.
Forse, era stato quel momento, il principio, si era
detto.
“Una delle sue” aveva risposto Dimitriji,
ripensando a quella vicenda di quella
giornata; ripensandoci si chiedeva quanto il suo amico dovesse aver
organizzato
tutto ad arte per essere messo in prigione.
Qualche rissa, qualche diversivo ed il lavoro era fatto: dentro-e-fuori
e morto
l’uomo.
Dimitriji poteva pensare di essere bravo ma il suo amico sapeva essere
dannatamente creativo.
“Perché riesco chiaramente a vederlo correre nudo
per le vie di Os Alta ad
uccello al vento? E, poi, ancora Ewangeline, pensavo che quel ponte
fosse
crollato da un po’” aveva chiesto retorica Najima,
“Non so, è amico tuo non
mio” si era difeso lui senza vergogna, mentre la silenziosa
Natasha sistemava
il tè per il pomeriggio nell’ambiente di
rappresentanza.
Per quell’occasione aveva rinunciato al samovar ma avevano
deciso di preparare
un tè alla maniera fjerdiana, con l’acqua aspra
bollita e le foglie infuse dopo
essere state fatte seccare. Un modo di consumare la bevanda che non
solo gli
era estraneo ma anche abbastanza inviso.
“Sai anche tu che non è vero” aveva
risposto piccata sua moglie, con una risata
senza cattiveria, pigiandoli un dito sul naso, “E amico mio,
quanto tuo.”
“Tristemente vero” aveva ammesso Dimitriji. Non
aveva mai avuto molti amici,
era bravo nel socializzare con le persone, i suoi genitori lo avevano
educato a
menadito nell’arte della diplomazia e nelle forme di
carineria di corte, ma
Dimitriji non era mai stato bravo ad essere sincero. Tutti i suoi amici
e
conoscenze erano state le appendici che la principessa si portava
dietro … e
poi Najima.
Però lui li considerava suoi amici, anche se forse non era
ricambiato. Dopo
tutti quegli anni erano le persone che gli erano più care,
dopo Najima e Andrej;
erano le persone di cui sentiva il bisogno di volersi prendere
più cura,
perfino di Malcom con il suo feroce malumore e quella serpe del
Principe
Consorte.
Il
pensiero dell’inferno kaelish lo aveva spinto poi a parlare
ancora: “Sono
preoccupato per Mal, comunque” aveva detto.
Continuava a ricordare la mano nervosa del loro amico raggiungere
quella di
Malcom con una stretta quasi disperata.
“Sì, penso che la presenza di
Drina alla corte lo renderà di un umore peggiore del solito.
Quanto vorrei potessero
fare la pace” aveva sospirato Najima con quel suo tono buono
e pregno d’amore.
“Hanno raggiunto un’intesa” aveva
considerato Dimitriji perché su carta risultava
così, avevano inghiottito i loro dissapori, ma il legame che
aveva uniti i loro
animi era arrugginito, come un vecchio ponte ancora in piedi sulle
acque, ma ogni
passo posato scricchiolava stridente e i bulloni rossi erano pronti a
venir
via. Prossimo alla distruzione. “Non credo che Drina sia il
problema” aveva elargito
Dimitriji.
Najima aveva spalancato gli occhi, stupita.
“Ti viene in mente una qualche ragione per cui Kaz Brekker
possa nutrire
rancori contro Malcom?” aveva chiesto Dimitriji; impegnando
la mente lui non
aveva davvero la minima idea perché un sinistro figuro di
Ketterdam dovesse
avere qualche animosità contro il dispotico Malcom. Molta
gente aveva molte
ragioni, e tal volta piuttosto giustificate, ma non immaginava nessuna
per Kaz
Brekker. D’altronde Dimitriji non conosceva l’uomo
di Kerch e sapeva che Malcom
fosse stato nell’isola della perdizione una volta in vita sua
– e, sì, forse
non aveva compiuto pochi danni.
“No”, aveva risposto genuina Najima, ma poi aveva
aggiunto con una voce neutra
e incolore: “Jordan Ghafa …
d’altronde.”
Certo, Jordan Ghafa. Il figlio.
Come non pensare a Jordan Ghafa. Era sicuramente il figlio di Sankta
Inej delle
Catene Spezzate, lo spettro della vendetta, un
titolo che nel profondo
non ispirava poi così tanta bontà, se non si
considerava che Jordan dovesse
aver ereditato oltre la tenace di sua madre anche un po’
dell’anima nera di suo
padre.
Jordan Ghafa che aveva giurato un giorno di ripagare Malcom
con gli
interessi.
“Signori, il nobile Ioren Birstorr, fratello del quinto
margravio di Wanderfall,
Sigtryggr Birstorr,
è
qui” aveva sentenziato l’attendente, interrompendo
il suo girovagare di
pensieri sulla faida di Jordan Ghafa e Malcom, ormai vecchia di un
decennio.
Non aveva mai trovato compimento la maledizione della Frustra di Mare,
ma
sospettava che Jordan Ghafa dovesse essere un uomo paziente.
“Bene, sei pronta per questa danza?” aveva chiesto
Dimitriji, poi scacciando
quei pensieri, “No, per i sankti. Sono un soldato non una
stratega. Tu
pianifichi, io eseguo. Funzioniamo benissimo così”
aveva affermato sua moglie,
prima di rivolgere un sorriso carico di genuina complicità,
“Tu ti sottovaluti”
aveva detto Dimitriji, prima di sporgersi per baciarla sulla guancia,
appiccicoso.
“Ora riceviamo il nostro ospite” aveva squittito
Najima.
Il loro
soggiorno era stato predisposto per ospitare un incontro colloquiale e
informale. Non avevano apparecchiato l’angolo dei divani ma
avevano preferito
sistemarsi intorno il tavolo ovoidale. Avevano sistemato la teiera
colma di tè
alla maniera dei babnik, da cui si alzava una
torretta leggera di fumo
bianco all’aroma di zenzero e rosa e alcuni dolciumi misti
che potevano
soddisfare i gusti del continente intero, dalle gelide lande del Kenust
fino
alle terre sempre verdi dello Ji. Attorno al tavolo erano state
sistemate solo
tre sedie imbottite, decorate con ricami di fiori blu su un fondo
bianco – in
una bizzarra fantasia che ricordava il decoro delle maioliche.
Lui e sua moglie si erano alzati rispettosi come voleva
l’etichetta, mentre
l’attendente e Natasha facevano scivolare l’uomo
nei loro ambienti.
Eccolo! Aveva pensato Dimitriji vedendolo chiaro per
la prima volta.
La spia Fjerdiana che aveva dato parecchi grattacapi alla principessa
Lilyiana
e inaridito qualche cuore, altrimenti morbido. Non era la prima volta
che si
incrociavano, ma sarebbe stata comunque la prima volta che si sarebbero
conosciuti.
Dimitriji era grato almeno che non fosse brutto, era un pensiero
stupido lo
sapeva, ma non avrebbe potuto sopportare che
l’aculeo che aveva incrinato
il rapporto tra Dominik e Lilyiana fosse nato a causa di un ragazzino
scialbo.
Non poteva neanche sopportare che fosse anche mediocre –
quello doveva ancora
essere stabilito.
Ioren Birstorr era un vero fjerdiano, alto, con le spalle larghe e il
corpo
impostato, non sembrava a suo agio né con il suo aspetto
né con il suo
portamento. Aveva la pelle di luna, i capelli biondo-chiaro come la
pasta prima
della doratura, gli occhi blu-grigi e l’aspetto ferreo ed
ordinato di un
fjerdiano. Se avesse avuto i lunghi capelli e la barba sarebbe apparso
un
druskelle perfetto, ma quello era il destino toccato ad un suo fratello
maggiore. Dimitriji aveva fatto i compiti: Ioren Birstorr era il quarto
maschio
di una famiglia nobiliare, il primo era diventato Margravio, il secondo
druskelle e il terzo sarebbe dovuto essere un ambasciatore –
Dimitriji lo aveva
conosciuto lui, a Ahmrat Jen; Theon Birstorr che non era né
alto, ne imponente
ne biondissimo e a guardarli così non erano sembrati neanche
fratelli – e a
Ioren sarebbe dovuto toccare il cammino di Djel, ma la vita, come
volevano i
Sankti, aveva preso una piega inaspettata.
“È un piacere rivederla, signor
Birstorr” aveva vagliato Dimitriji, “Mi
dispiace che non abbiamo avuto modo di parlare questi
giorni.”
“Anche per me lo è, sono onorato di questo
incontro” aveva ammesso con lieto
imbarazzo il fjerdiano. La sua voce aveva un tono melodico, come se
stesse
leggendo una poesia, anche in una conversazione qualsiasi.
“Convengo che la
corte di Ravka si stia dimostrando stimolante per un erudito della sua
fama”
aveva considerato sua moglie con innocente interesse, “Ieri
ha svergognato
tutti alle letture” aveva ricordato.
Dimitriji era un estimatore della letteratura e delle arti umane, aveva
trovato
il componimento poetico di Ioren stilisticamente perfetto, con tutte le
rime,
le lunghezze e le figure al posto giusto, neanche una sillaba fuori
posto e
foneticamente intrigante, inoltre se si considerava che
l’uomo non aveva
scritto nella sua lingua madre lo sforzo diventava davvero encomiabile,
ma lo
aveva trovato nel contenuto un ammasso di patetismo imbarazzante e
forzatamente
stucchevole.
Però aveva raggiunto il suo scopo; nessun occhio era rimasto
asciutto e i
principi maggiori di Ravka erano rimasti giustamente turbati. Dimitriji
ricordava l’umidità inespressa negli occhi di
Dominik e l’adirata espressione
sul viso di Lilyiana.
“Sì, vostra gentilezza” aveva ammesso
Dimitriji, “Questa mattina la principessa
ci ha intrattenuto in una deliziosa discussione
sull’evoluzione dello stile
artistico ravkiano e le sue influenze estere. Molto interessante. La
principessa è un’oratrice davvero
capace” aveva ammesso Ioren calmo, con un una
nota sottile di ammirazione.
Ioren Birstorr doveva essere un grande estimatore delle arti umane.
“Sì, la principessa Alina è molto
erudita nella storia dell’arte e nelle forme”
aveva considerato circostanziale Dimitriji, poteva aver accennato alla
nobile
Genya di non permettere che tale amore morisse in un interesse
passeggero.
Nonostante la loro educazione a tutto tondo, ne Lilyiana, ne Dominik
erano
risultati giardini particolarmente coltivabili in
quell’ambito. Non che ve ne
fosse una colpa, Dominik era brillante e Lilyiana era vorace di
conoscenze.
“Prego, comunque, si accomodi” Najima aveva
invitato con gentilezza Ioren a
sedersi, ammiccando alle sedie disposte intorno al tavolo.
“Quindi
eri un adepto di Djel?” aveva chiesto interessata sua moglie,
con un sorriso
allegro e sincero. Dimitriji ammirava l’abilità di
Najima di essere spontanea e
di trovare davvero curiosità per ogni stranezza e
nobilità, a lui del passato
religioso del loro ospite interessava il giusto, il giusto utile ai
suoi scopi.
“Sì, ma non ho mai giurato all’Albero
Sacro” aveva spiegato Ioren con un tono
calmo, misurato, perfetto e forse fin troppo controllato. Aveva bevuto
il tè
caldo a piccoli sorsi e non aveva osato pizzicare neanche un
pasticcino. “Un
po’ me ne dispiaccio, mi piaceva l’ambiente del
monastero … ma alla fine pare
che io sia più bravo nella letteratura che non nel recitare
i salmi” aveva
ammesso cheto.
Oltre che essere un po’ troppo peccaminoso per i
rigidi dogmi di Djel
aveva pensato Dimitriji cupo.
“La regina Mila dice sempre che sarei stato sprecato chiuso a
trascrivere manoscritti”
aveva considerato. Avrebbe dovuto inorgoglirsi nel pronunciare quella
frase, la
regina Mila non mancava della fama di un’amante delle arti e
di aver creato un
circolo letterario nella sua corte; Ioren ci era finito in mezzo e con
l’attitudine da bravo erudito, era divenuto poi istitutore
del principe.
Avrebbe dovuto esserci orgoglio nel suo viso, ma Dimitriji aveva visto
la
fiacchezza di una condanna.
Forse il buon Ioren avrebbe preferito rasarsi il capo, indossare il
saio e con
le ginocchia affossate nella neve, dove potersi fustigare la schiena
per placare
il suo giudicante dio, cose che Dimitriji non
poteva comprendere. Suo
padre lo aveva educato al culto dei sankti e lo aveva costretto ogni
giorno
religioso ad attendere alle funzioni, ma ben presto Dimitriji non vi
aveva
trovato interesse, non quando aveva potuto vedere una sankta in carne
ed ossa
camminare davanti gli occhi e comprendere la realtà
inequivocabile del mondo: i
sankti non erano esseri di moralità superiore, erano
creature dotate di
qualcosa in più che agli altri uomini era proibito e di
solito era la Piccola
Scienza – Inej Ghafa, esclusa, anche il mondo
aveva bisogno delle sue
eccezioni. “Meglio così” aveva
considerato Dimitriji, “Ne ha sicuramente
giovato il principe ereditario” aveva aggiunto, rimarcando il
ruolo di Ioren
come istitutore della corona di Fjerda.
“Il principe Matthias è un giovane uomo molto
eclettico. Ha un animo nobile”
aveva soppesato Ioren e c’era stata dall’autentica
dolcezza nella sua voce.
Dimitriji aveva ripensato alle parole secche di Lilyiana di quella
mattina: un
bravo bambino.
‘Vediamo quanto è davvero
bravo’ aveva pensato, osservando con occhi
attenti l’istitutore.
“Perché
sei vestita come un oyirad?” aveva chiesto Dimitriji,
osservando Drina al suo
fianco, “Sei l’unico uomo che conosco che fa caso
sempre a come sono vestite le
persone … particolarmente le donne” aveva
replicato l’altra, posando le mani
sui fianchi snelli. I sankti avevano donato a Drina un paio di occhi
azzurri
come le acque agitate del mare del nord, ma non erano mai stati
generosi né con
forme morbide né con un fascino intrigante. Aveva ereditato
gli occhi vispi e
belli di suo padre, così come le labbra piene e il naso
dritto, ma per il resto
somigliava a sua madre – una creatura piuttosto anonima.
Anche acconciata,
lucidata e stirata come in quella serata, Drina non spiccava
particolarmente,
se non per gli eccentrici abiti delle culture del sud e delle montagne
– cosa
che lui mai o quasi le aveva visto indossare – e la collana
di perle delicate
bianche con i riflessi azzurri … perle del Paar.
Da bambino orribilmente Dimitriji aveva pensato fosse una
crudeltà inaudita per
Lilyinana girare sempre con lei, come se fosse stata un’ombra
opaca che dovesse
mettere ancora più in risalto la portentosa bellezza della
prigioniera. Era
stato un bambino sciocco.
Drina sembrava molto più rilassata rispetto la
mezza-mattina; aveva impomatato
il viso con la cosmesi e dipinto le palpebre di un azzurro tenue che
metteva in
risalto i suoi occhi blu, per il resto invece del sarafan tradizionale
o un
abito alla moda, aveva preferito indossare la lunga tunica oyirad, con
le
maniche larghe, la gonna morbida ma stretta sulla vita, con decori di
ogni
genere dal petto, lungo tutto il busto. “Osservare mi ha
sempre reso felice”
aveva ribadito lui, mentre spostava una sedia per far accomodare Drina
– suo
marito non era ancora tornato da ovunque fosse finito.
“Mi rifiuto di
credere che anche tuo marito non faccia così”
aveva considerato lui di rimando.
Drina aveva sorriso timida, con le gote appena arrossate, in una
immagine
terribilmente tenera, “Sì, ma in realtà
è diverso. Tu sembri proprio
appassionato di moda” aveva replicato. “Forse mi
piacciono solo le belle donne
in bei vestiti, non ci hai mai pensato?” l’aveva
presa in giro.
Drina aveva ridacchiato e la sua risata era stata adorabile da
ascoltare.
“Invece, tuo figlio ha scalpitato perché tu lo
portassi qui?” aveva invece
indagato la sua amica, mentre scivolava sulla sedia, alla sua sinistra
avrebbe
avuto un rispettabile dignitario di Novy Zem e alla destra la
principessa
ereditaria. Lilyiana aveva preteso il posto tra Drina e Najima, come
ai
vecchi tempi, Dimitriji avrebbe soggiornato accanto alla sua
dolce metà.
Riguardo al Principe Consorte, a cui usualmente sarebbe stato riservato
il
posto alla sinistra della sua principessa, Dimitriji non ne aveva idea
di dove
fosse stato locato, aveva cercato velocemente il nome sui segnaposti,
ma non
aveva scorto il nome lungo la loro tavolata.
Il Principe Consorte doveva essere stato mandato in esilio
all’altro tavolo,
quello del principe Dominik.
“Sì, voleva venire a tutti i costi. Ha dieci anni,
ha deciso di essere pronto
al suo debutto in società” aveva scherzato
Dimitriji ripensando ai caprici che
suo figlio aveva fatto quella sera. A
lui sarebbe in realtà quasi piaciuto portarlo, era certo che
Andrej sarebbe
stato un perfetto uomo di corte anche nei suoi dieci anni e
più erudito di metà
dei nobili seduti a quei tavoli. Probabilmente però il suo
perfettissimo bambino
si sarebbe presto annoiato di una festa che aveva la sua massima
aspirazione
nell’ubriacarsi. “Inoltre, ieri è stato
così soddisfatto del suo intervento
alla serata delle Letture” aveva aggiunto.
Suo figlio era stato perfetto ed aveva fatto anche un intervento
spigliato e
divertente – giurava di aver sentito anche la piccola
principessina di Shu-Han
sospirare colpita.
“Ricordi come eravamo noi a
quell’età?” lo aveva preso in giro
Drina, mentre
osservava con un certo disinteressa la cristalleria con cui era stata
apparecchiata la tavola, “Ricordo che tu, Anchel e Cignaz vi
siete infilati a
una festa degenerata, qui, prima di compiere
tredici anni” aveva
rammentato lui, “Questo perché a te mancava il
coraggio” aveva riso Drina con
un sorriso un po’ storto. “Perché
Lilyiana non era con voi? Non lo ricordo”
aveva chiesto poi Dimitriji, cercando di ricordare meglio, ricordava di
aver
avuto paura e di aver detto che non lo avrebbe fatto, quando avevano
raggiunto
ormai le stalle. Come un dipinto nella sua mente, riusciva ancora a
richiamare
l’immagine di Drina e Cignaz, dividere la stessa sella a
cavallo del garrese di
un castrato orlov
grigio-argentato, con il muso nero e la criniera bianca come il sale e
Anchel
dietro di loro su un puledro scalciante dal manto caramello.
“Si era presa la
febbre perché aveva fatto il bagno nel lago del Piccolo
Palazzo, erano i primi
giorni d’autunno. In realtà se la memoria non mi
inganna lo avevamo fatto tutte
e tre, io, lei e Najima” aveva rammentato Drina, quasi dolce,
“Voleva venire
anche lei, ma Genya l’aveva ammanettata al letto e ricoperta
di coperte. Najima,
invece, aveva ricevuto la visita di una cugina – Amina, te la
ricordi?” aveva
frugato i suoi dubbi Drina, “Ricordarmela? Non sai le regole?
Quando sposi un
suli, non sposi solo la persona, sposi tutta la famiglia … e
intendo tutto
l’albero genealogico” aveva risposto retorico lui,
pensando proprio alla noiosa
cugina Amina, che era spesso diventata una presenza fissa e molesta nei
primi
anni di matrimonio. “Continua a dire che il coltello che ho
forgiato per Najima
fosse scadente” aveva ricordato, “Ho sempre pensato
fosse cretina, è un lavoro
meraviglioso, da materialki!” aveva risposto ruggente Drina,
che era stata
parte decisamente attiva della cosa.
Una lama all’acciaio al crogiolo
frapposto ad oro, con
manico in giadeite verde chiara.
Un tipo di lavorazione la
cui formula era perduta e che Drina era riuscita a riprodurre assieme
ad alcuni
suoi compagni di scienza – l’arte della spada era
divenuta obsoleta ma le lame
forgiate ad acciaio di crogiolo erano considerate ancora una bellezza.
“Mi manca quella spensieratezza … a
volte” aveva ammesso lei. Dimitriji non era
sicuro di sapere a quale spensieratezza si stesse riferendo, se prima
degli
schiavisti o gli anni successivi, quando le cose avevano cominciato a
sistemarsi di nuovo, quando le cose avevano cominciato a funzionare
ancora,
fino a che non lo avevano fatto più. Anche a Dimitriji,
ovviamente, mancava quella
spensieratezza e mancava quella Drina; un
giorno era partita per una
gita con i grisha del Piccolo Palazzo a Os Kervo – mentre lui
era stato
costretto da suoi genitori a rimanere al Gran Palazzo, ‘Per
favore, laphuska
tu non sei come loro’ – e quando era
tornata non era più stata la
stessa. “Anche a me” aveva detto. A volte gli
mancava anche l’ingenuità che
avevano cercato di riformarsi dopo … però meno.
Perché ti sei voltata?
Quel pensiero traditore ancora una volta aveva infranto la
sua mente.
“Inoltre,
qui ci si diverte molto di
più, non parlo degli intrighi. Anche i laboratori, che i
sankti mi perdonino,
il bosco di Sankt Feliks sarà il centro del progresso, ma
gli studi dei nolniki
qui e i banchi materialki del Piccolo Palazzo sono luoghi molto
più allegri …”
aveva parlato Drina.
Era stato un po’ imbarazzante, ma Dimitriji non aveva
ascoltato tutto il suo
discorso, contro quanto gli era stato insegnato, la sua mente era
andata alla
deriva. Aveva continuato a vedere nella sua testa la stessa immagine,
come una
sequenza di fogli disegnati che venivano sfogliati velocemente.
Non era la prima volta che gli capitava, ma era stata la prima volta in
molto
tempo ed anche una delle più frastornati da ... sempre.
Drina, ragazzina, con la kefta viola prugna, non allacciata bene, da
cui
spuntava il sarafan semplice da contadina, e i capelli scuri
ondeggianti al
movimento, che battevano sulla schiena, che percorreva a saltelli
allegra il
ponte per la nave-volante, ormeggiata sul lago dietro il Piccolo
Palazzo. E
prima di sparire nel boccaporto, si voltava, un’ultima, volta
verso di lui, che
era dritto e infastidito, incastrato tra una Najima arrabbiata e un
triste
Cignaz. E poi ricordava Kos, con i suoi capelli biondi e la mole da
orso,
spuntare a richiamare Drina.
Rincordava Najima mentre percorrevano il tratto di strada obliquo,
della piazza
che divideva i due palazzi, si era lamentata tutto il tempo. Dimitriji
l’aveva
ignorata perso nei suoi pensieri, pensando amareggiato che anche a lui
sarebbe
piaciuto andare a Os Kervo, con la regina, vedere il Mare Vero e
rotolarsi
sulla sabbia bianca, anche se non era molto nobile e rispettabile:
“Ho deciso: chiederò a Drina di
sposarmi!” aveva interrotto entrambi i loro
vagheggi il ragazzo mezzo-shu.
“Oh fantastico! Adoro i matrimoni” si era rimessa
subito Najima, perdendo il
cattivo umore.
Non c’era stato nessun matrimonio, non per molto tempo. E
Dimitriji non sapeva
perché fosse ossessionato da quella specifica visione,
perché Drina e non
Lilyiana, o Anchel o …
Era sempre Drina, forse perché si era
voltata.
“Mia
figlia, invece, non ne aveva il minimo interesse. Si è solo
arrabbiata che non
passassi la notte con lei” aveva ammesso con un leggero senso
di colpa Drina,
richiamando la sua attenzione, “Le bambine possono essere
creature molto
cattive” aveva ricordato lui.
“Lo ricordo. Ho amato ogni momento qui, eppure a volte avrei
voluto che mio
padre insistesse di più con mia madre per farmi rimanere a
Keramzin” aveva
ammesso.
Dimitriji aveva annuito, poi aveva immaginato una versione di Drina che
non
fosse la ragazza che sedeva ad una sedia di distanza da lui, con gli
abiti oyirad
e la collana con mille perle di Paar. La immaginava una grezza
contadinotta con
un sarafan grigio topo e i capelli scuri nascosti dal fazzolo
– e un viso bello
senza dolori e occhi vivi e pieni di gioia.
‘Ti sei voltata Drina, quella volta,
perché volevi che ti fermassimo? Che ti
fermassi?’ era stato il suo punto di chiederle,
quasi senza controllo, un
impulso naturale vorace, come ogni volta che rimanevano soli. Quali
gioie
avremmo avuto se lo avessi fatto?
“Comunque, mi chiedevo, oggi hai avuto modo di
conversare con Mal?” aveva
chiesto poi, invece. Aveva lasciato il locale insieme al loro amico,
adducendo
la responsabilità di recuperare il criminoso Anton Boer,
cosa che non aveva
fatto visto che l’uomo kerchiano era scomparso ben presto, ed
era tornato poi a
Palazzo con una carrozza da trasporto e un amico chiacchierone al
seguito. Non
aveva voluto dire a Najima che aveva cercato di creare
un’occasione per far
parlare i due vecchi amici, anche con la compagnia della principessa.
Malcom
non avrebbe mai lasciato il fianco di Lilyiana e probabilmente neanche
Drina.
“Ho conversato con Malcom di cose relative a oggi”
aveva ammesso Drina
frustrata; “So che non è facile fare
pace” aveva provato, ma era stato
interrotto, “Noi abbiamo fatto pace e che … il
nostro rapporto è come
l’entropia, Dimitriji … se fai cadere una goccia
di inchiostro in un bicchiere
d’acqua; avrai ancora l’acqua e
l’inchiostro, ma anche dell’acqua sporca”
aveva
rammentato.
Soprattutto qualcosa di irrecuperabile – aveva pensato
Dimitriji, “Non per un
materialki. Un alkemi può ridividerli se lo
volesse” l’aveva scongiurata. Drina
lo aveva guardato, poi un piccolo sorriso era sorto sul suo viso,
“Non per
un materialki” aveva concesso lei.
Lilyiana era caduta tra di loro, portandosi dietro Najima,
“Sono qui da neanche
cinque minuti e già vorrei essere altrove” aveva
sentenziato la principessa,
aggiustando il cappello dalla forma cilindrica che indossava, il velo
bianco si
era spostato e l’evocazione dei fulmini avevano reso
elettrici e gonfi i
capelli. “Ci aspetta una lunga notte, ci
divertiremo” aveva promesso Najima,
strizzandole l’occhio.
Non gli
piaceva ballare, era l’unica cosa da nobile signore in cui
non era mai stato
eccelso, sfortunatamente per lui, Najima lo aveva sempre amato.
Dimitriji l’aveva vista ballare con ogni uomo e donna di
almeno ogni corte,
l’unico che gli aveva dato un brivido di fastidio era stato
l’audace principe
kebben di Shu-Han, che aveva stretto troppo Najima a sé. In
seguito, sua
moglie, tra un bicchiere di brandy e
l’altro, aveva confermato che il
principe era stato molto sfacciato sia con lei, sia con Drina.
Decisamente audace. E Dimitriji si era imposto che i suoi genitori
sarebbero
stati molto delusi da lui, se si fosse abbassato a creare un incidente
diplomatico per una gelosia immotivata. Najima era sua come lui era di
lei.
“Non balli?” aveva chiesto sua maestà la
tsarina sedendosi al suo fianco, ben
lontana dal tavolo d’onore che aveva fatto imbandire per i
suoi ospiti più
alti. Indossava ancora l’abito fatto di squame e scaglie
viola-nere, che le
copriva il busto come un corpetto – ma era naturale, era la
sua pelle vera, che
si era riformata in quella forma, spettacolare e spaventosa –
da cui poi
scendeva una gonna di tulle nera che fioriva in viola. Non indossava
più la
corona d’oro nero dalla forma di drago, con gli occhi blu
fatti di zaffiro.
Forse Drina aveva ragione, aveva un interesse, quasi, morbosi per i
vestiti,
forse in un’altra vita era un modista. “Non ho mai
imparato, moy tsarina”
aveva ammesso alla fine, “Di solito sto in disparte con
Malcom” aveva aggiunto,
ammiccando proprio al guardiano.
Il soldato era all’angolo della pista con sguardo truce, i
suoi occhi erano per
lo più un serpeggiare tra Lilyiana e Drina, mentre le
osservava destreggiarsi
sulla pista da ballo e di tanto in tanto, quasi come se non lo avesse
voluto,
l’occhio si posava sulle terribili donne delle Montagne Shu.
Su una di loro,
quella dalle tre dita d’argento. Forse a Dimitriji mancava
qualche
informazione, ma la curiosità era meno impertinente della
contentezza. Trovava
quasi ristorante che Malcom sapesse ancora provare genuini sentimenti
come l’interesse.
“Neanche a me piace molto ballare, combattere sì, ballare
no, ho dovuto
imparare a farlo praticamente su ordine di Nicolai: una regina deve
saper
ballare” aveva soffiato la regina Zoya con una mezza risata:
“Deve anche
imparare a saltare a comando ed essere gentile. La gentilezza
è il male.”
Dimitriji aveva ridacchiato.
“Io vi ho sempre trovata molto gentile” aveva
ponderato Dimitriji e non era una
menzogna, “Baghra mi ha detto una volta che i malenchki
rubano le lingue ai
bugiardi” aveva risposto con una punta di divertimento la
regina. C’era
dolcezza e sagacia nella voce e se Dimitriji non avesse ascoltato i
resoconti
di Lilyiana avrebbe pensato che Zoya fosse più acuta che
mai. “Anche mia madre
lo diceva sempre. Evidentemente se ho ancora la lingua e
perché non lo sono”
aveva risposto con una risata gentile. La regina aveva sorriso. Aveva
degli
occhi blu così intensi da sembrare due zaffiri, li aveva
donati a Dominik e
Alina, ma nei loro volti, per qualche ragione, non sembravano
così incisivi. I
due principi minori erano incantevoli, come sarebbe potuto
d’altronde non
essere così con una madre e un padre come i loro, ma non
sembravano brillare
dello stesso fulgido fascino di Zoya e Lilyiana. Dimitriji doveva
imputarlo
alla Piccola Scienza, una volta Drina gli aveva spiegato che era come
l’allenamento, quando si esercitava il corpo per la salute il
corpo si scolpiva
tonico e sano, così era la Piccola Scienza, quando
esercitava rinvigoriva il
corpo, ma anche lo spirito. Doveva essere quello, quel potere
misterioso che
scorreva nel loro sangue, a donare quell’aspetto
così totalizzante.
Così assorbito in quei pensieri non aveva notato la quatta
figura del Principe
Consorte quando questi si era avvicinato a loro due.
“Moya tsarina” aveva considerato il giovane
principe raggiungendoli. L’ultima
volta che Dimitriji lo aveva visto era stato sullo spiazzo da ballo,
prima far
volteggiare l’audace signora di Shu-Han, un’altra
donna della delegazione del
sud, la regina Mila, un dignitario zemeni e per ultima una giovane
donna delle
Colonie, con una chioma gonfia e leonina, che lo aveva stretto in un
abbraccio
un po’ troppo audace. “Nobile Polnudist”
aveva aggiunto rispettoso, facendo un
inchino rispettoso ad ambedue, anche se era di grado molto
più elevato di grado
rispetto lui. “Moya tsarina, dici? Sei praticamente
mio figlio! Il padre dei
miei nipoti” aveva stabilito la regina con un tono
leggermente secco. Il
composto principe era arrossito sulle guance bianche-avorio, poi un
piccolo sorriso
sincero era serpeggiato sul viso bello, colto di sorpresa da quella
confessione
fortemente inaspettata.
“Non volevo disturbare, però, ecco, mi chiedevo se
potessi rubare il nobile
Dimitriji” aveva provato il principe, ammiccando verso di
lui. Aveva lanciato
uno sguardo verso di lui poi con aspettativa, “Se sua
maestà mi consente di
congedarmi” aveva risposto lui.
La regina Zoya aveva annuito, “Chi sono io per
oppormi?” aveva chiesto
retorica, “Tecnicamente la regina” aveva risposto
Dimitriji con un tono
divertito, facendola ridere. La risata di Zoya era diversa da quella di
Lilyiana, la risata della principessa era fragorosa e imponente, rideva
poco,
ma quando lo faceva avrebbe potuto sciogliere la neve del permafrost,
quella
della regina sembrava più briosa e acuta. “Fate
bene voi giovani a godervi un
po’ di libertà. Io credo cercherò Genya
per bere un altro po’ di brandy. Forse
riuscirà a convincermi a tingermi bionda di nuovo”
aveva commentato la regina.
“Tabacco
Shu-hannita, della terra dell’estate perenne” aveva
sentenziato il principe
mentre estraeva con orgoglio una scatolina in ferro argentato,
“Mi hai portato
ai margini della piazza per fami vedere del tabacco?” aveva
chiesto retorico,
“Per consumarne un po’” aveva stabilito
il Principe Consorte, “Uno così non lo
hai mai provato.”
Si erano allontanati dai tavoli imbanditi, dalla musica e dai balli,
per
avvicinarsi al piccolo bosco di pioppi che circondava l’ansa
orientale del
lago. Non erano poi così lontani e l’eco della
musica raggiungeva ancora le
loro orecchie.
“Un regalo del buon ministro Sunan?” aveva chiesto
Dimitriji, ammiccando
proprio al genitore del Principe Consorte.
“No, mio padre è fortemente contrario a qualsiasi
vizio non sia un buon libro.
Questa è una gentile concessione di Dalai” aveva
risposto l’altro.
Dalai. Il Principe Consorte non appellava mai con i
titoli ufficiali la
regina di Shu-han quando parlava di lei e con
lei. Era sempre
fraterno e informale, ignorante di ogni etichetta e consuetudine
d’uopo, che
non dimenticava mai con gli altri, incluso il presidente e la
delegazione
zemeni dove nessuno aveva un titolo nobiliari ma solo lavorativi.
“La tua
precedente promessa cerca di riconquistarti?” aveva chiesto
retorico Dimitriji,
mentre il principe gli passava la custodia, “Non ho la
pipa” aveva specificato.
“Meglio. Questo è tabacco da masticare”
aveva stabilito il principe con una
risata non molto allegra, “Comunque, Dalai non è
mai stata la mia promessa
sposa a dispetto quello che tutti possano credere” aveva
ammesso, “Mio padre
voleva che mi sposassi con una principessa Taban e avessi una figlia
che
potesse potenzialmente diventare una regina. Dalai era solo la
principessina
con cui andavo più d’accordo” aveva
risposto con un’onesta disarmante il
principe, mentre raccoglieva dal contenitore foglie secche arrotolate e
compresse di tabacco, da portarsi alla bocca. “Come non
potevo d’altronde? Le
altre principesse erano noiose, come gran parte delle ragazze con cui
parlavo.
Dalai era allegra, divertente, parlava più lingue e veniva
da una terra
straniera. L’Isole Erranti sembravano un concetto
così esotico e lontano.
Smaniavo per vedere ogni piccola parte del mondo, ne avevo visto molto
ma non
abbastanza” aveva soffiato, cominciando a masticare il
tabacco. Con l’ultimo
commento la sua voce aveva assunto una sfumatura leggermente cupa e
malinconica.
Si era chiesto se non rimpiangesse i ricchi e opulenti corridoi del
Gran
Palazzo, che lo imprigionavano lontano da ogni piccola parte
del mondo.
Dimitriji aveva preso un tocchetto di tabacco anche lui e lo aveva
portato alla
lingua, il sapore era forte e stordente, molto peggio di quando lo
fumava nella
pipa, ma era sicuramente di una qualità migliore di quello
che coltivavano
nelle serre del Gran Palazzo. “Solo che poi hanno scelto
Dalai come futura
regina e mio padre mi ha promesso alla giovane Zetian. Marito di una
principessa sì, concubino di una regina no. Non ho idea
precisa del perché,
c’erano certamente più probabilità che
sua nipote potesse diventare regina
così. Inoltre, non per peccare di modestia, ma sono
abbastanza certo che avrei
potuto scacciare via gli altri abitanti del Palazzo Proibito”
aveva ammesso il Principe
Consorte con un sorriso malizioso, pieno di colore e audacia,
“Riguardo a
Zetian … Come dire; io avevo … uhm …
ventidue anni, sì, e lei dodici, forse non
ancora compiuti. Non era sicuramente il mio matrimonio
ideale” aveva ammesso,
spingendo poi il pacchetto di foglie tra le gengive, “Inoltre
avevo altre
mire.”
Lui aveva ridacchiato, la mia principessa, aveva
pensato volgare e
ingiusto Dimitriji. “Lilyiana” aveva detto elusivo
poi, “Alina era troppo
giovane e re Nikolai fastidiosamente difficile da eliminare;
quindi” aveva
scherzato il Principe Consorte. “E ora come è
cresciuta Zetian Kir-Taban?”
aveva chiesto poi, gustandosi il sapore del tabacco sulla lingua,
“Vuoi la
verità? Dicono sia la donna più bella di
Shu-Han” aveva riso il principe, “Mio
padre mi ha mandato giusto una litografia: capelli nerissimi come la
pece e
occhi castani come la polvere di cannella, con un incarnato come la
madre perla
e altre amenità simili” aveva scherzato con una
risata fresca, “Sa suonare il
kathur a diciotto-corde e recitare a menadito il Cantico dei Cervi in
tutte le sue
seicento-ventisette strofe” aveva ridacchiato. “Ti
è andata proprio male” lo
aveva stuzzicato senza vergogna Dimitriji,
Non ricordava la principessa in questione tra quelle che aveva visto
durante la
cerimonia di incoronazione dodici anni prima e nel corso degli ultimi
anni
alcune principesse e principi reali si erano palesati alla corte di
Shu-Han,
oltre la regina Dalai, ma mai la principessa Zetian. “No. Mia
moglie è la donna
più svelta mondo, anche se non sa ripetere a pappagallo
artificiosi poemi epici
o suonare strumenti difficili, in realtà pensandoci credo
sappia fare anche
quello; però può sicuramente folgorati con uno
solo sguardo: metaforicamente e
letteralmente” aveva risposto il Principe Consorte con un
tono di voce gentile
e carico di consapevolezza. Raramente i principi e le principesse si
sposavano
guidati da amori onesti e sinceri e se il matrimonio tra Lilyiana e suo
marito
era forse nato dalla necessità, era sicuramente fiorito in
affetto.
Prima di suo marito, Dimitriji avrebbe detto che Lilyiana avesse amato
– o
potesse amare – solo Drina.
“Non si può negare” aveva concesso il
conte, prima di essere interrotto da un
brusio fastidioso; si erano voltati entrambi vedendo una figura scura
farsi spazio
tra gli alberi. “Chi è la?” aveva
chiesto Dimitriji realizzando non avere ne
armi ne strumenti per difendersi, mentre il Principe Consorte aveva
messo una
mano sotto l’ascella della giacca elegante, dove doveva aver
nascosto un
pugnale o una pistola. Ma nessun oscuro e minaccioso individuo era
spuntato
dalla foresta di pioppi sottili, solo l’algido principe di
Fjerda, senza
compagnia, ne guardie.
“Sua altezza reale” aveva detto sfacciato il
Principe Consorte, quando lo aveva
riconosciuto.
Il principe Matthias
Grimjor era rosso in viso
come una mela matura, ma la sua espressione non era carica
né di imbarazzo
innocente né del calore del alcol, era un rosso focoso,
quasi rabbioso;
sembrava qualcuno che avesse inghiottito un limone – dopo che
gli fosse stato
spergiurato fosse il più fine dei pasti – e
un’espressione così viva che
Dimitriji a malapena riusciva ad affiancarlo all’algida
figura grigia che aveva
visto nei giorni dall’arrivo della delegazione Fjerdiana.
“Vostra altezza”
aveva risposto rigido il principe, “Vostra
nobilità” aveva appellato anche
Dimitriji, che aveva fatto un inchino pratico e rispettoso, cosa che
invece il Principe
Consorte non aveva fatto preferendo una deferenza molto meno marcata.
“Stiamo
masticando un po’ di tabacco del Wei. Ne vuoLe? Viene dalla
terra dell’Estate
Perenne, non si trova niente di così sfizioso in tutto il
continente” lo aveva
invitato audace, “Particolarmente su al Nord” aveva
proposto il Principe
Consorte.
“Io vi ringrazio per la gentile offerta, forse in
un’altra occasione, ne sarei
profondamente onorato … temo però ora di dovermi
ricongiungere alla delegazione,
prego possiate perdonare la mia scortesia” il principe
Matthias sembrava aver
inghiottito quel fastidio che aveva impomatato di rosse le sue guance,
per
tornare l’automa a cui si erano abituati, quando aveva
ripetuto quelle frasi in
una calma rispettosa e quasi innaturale. “Nessuna
offesa” aveva rassicurato il Principe
Consorte, con un ghigno mellifluo sul viso bello. Il principe Matthias
aveva sollevato
appena gli angoli delle labbra in un contenuto sorriso, che non
sembrava troppo
convinto e poi si era allontanato di fretta e marziale. Dimitriji si
chiese
cosa ci facesse da solo nei boschi, forse era andato a darsi
sollievo; quei
boschi avevano visto ben di peggio. “Sembrava avesse
inghiottito un rospo”
aveva scherzato, invece, Dimitriji; “Sì,
può darsi, un rospo di nome Alina”
aveva replicato il principe, “Lo ho visto allontanarsi
qualche tempo fa con
lei, ma la mia sorellina è
già tornata sulla pista da ballo” aveva
replicato, ammiccando lontano, ma non invisibili, da loro, proprio la
terza
principessa di Ravka che sembrava scherzare divertita con una
soldatessa in
rosso scarlatto. “Audace per un fjerdiano” aveva
ponderato, “Rimane il figlio della
Buona Regina Mila, una passata da sventrare pesci a istituzioni nel
solo arco
di una vita” aveva replicato il Principe Consorte. Quello era
vero, che l’algida
aurea in cui il principe Matthias si fosse schermato addosso, non fosse
che una
buona messa in scena e in realtà nascondesse lo stesso
spirito affamato e
verace di sua madre?
Forse all’ora il desiderio di Lilyiana di vederlo maritato
alla piccola Alina
poteva tradursi in propositi meno allegri. “Lilyiana dice che
è un bravo
bambino” aveva ricordato, “Lo pensa dalla prima
volta che glielo hanno lasciato
in braccio. Sono ancora convinto che se mi abbia permesso di impalmarla
è solo perché
sperava che i nostri figli fossero cheti e belli come lui”
aveva ammesso il Principe
Consorte.
Dimitriji sapeva quando Lilyiana aveva potuto tenere infante in braccio
il
principe di Fjerda, ma riusciva a trovare l’immagine
ugualmente difficile,
ricordava quando per la prima volta Re Nikolai le aveva dato in braccio
la sua
sorellina.
Lilyiana aveva tenuto Alina tra le mani tremanti e la sua espressione
era
velata di un sentimento che Dimitriji riusciva ancora a fatica a
nominare:
rancore.
“Lo trova così bello che è disposto a
dargli anche Lilyiana e solo i sankti
sanno quanto mia moglie vorrebbe chiudere le persone che ama
sotto-chiave e non
doverle dividere con nessuno” aveva detto spento il Principe
Consorte. Ancora
una volta, Dimitriji aveva avuto il pensiero che il Corridoio
Principesco in
cui l’uomo fosse rinchiuso dovesse sembrare meno una grazia
di quanto non
fosse.
“Il povero principe Matthias non sa cosa lo aspetta con
Alina!” aveva scherzato,
comunque, Dimitriji, per allontanare l’area di freddezza che
quello scambio
aveva generato. Era anche vero.
Lilyiana e Alina potevano non somigliarsi all’apparenza, la
principessa
maggiore appariva altolocata e composta, mentre la minore sembrava
mostrarsi
sempre audace e frizzantina, ma erano ambedue figlie di un drago, botti
piene
di nitroglicerina. “Io una mezza idea la ho, invece. Sai ho
un po’ la mia
esperienza con il sangue di drago” aveva scherzato il
Principe Consorte.
“Oh, fidati sua altezza!” lo aveva preso in giro,
“Tu sei fortunato che
Lilyiana non ti abbia mai fatto volare dritto nel lago, al povero Kos
è
capitato due volte. Una anche a me” aveva scherzato
Dimitriji, toccandosi il
gomito, ricordando il dolore dello schianto sull’acqua come
se fosse stato il
giorno prima e non vent’anni quasi. Il principe aveva
ridacchiato, “Fidati, mio
buon Dimitriji, anche a me è stato destinato un bagno gelido
una volta”
aveva raccontato, sorrideva con le labbra ma non con i suoi occhi.
“Adesso,
sperando che nessun altro principe venga a importunarci, raccontami un
po’ che
mi sono perso oggi stando in questa palude dimenticata dai sankti ad
organizzare questo pasticcio” aveva soffiato il principe.
Dimitriji aveva sorriso svelto, “Lo sapevo che non volevi
appartarti solo per
parlare male della gente e masticare tabacco” aveva
scherzato. “In realtà la
tua compagnia è la mia preferità” aveva
ghignato il principe.
Lui aveva riso, prima di ponderare bene su cosa fosse d’uopo
raccontare, in
particolare se cedere sul suo pomeriggio con l’infido Ioren
Birstorr o
aspettare che fosse Lilyiana a scegliere quali informazioni voleva
condivedere
con la sua dolce metà. Dimitriji non aveva dubbi che il
legame che univa i
principi di Ravka fosse stretto, ma era un affare loro e lui voleva
bene al Principe
Consorte, ma la sua fedeltà imperitura era per Lilyiana.
Così aveva scelto un
terreno più neutro: le vicissitudini relative alla prigione
e al pranzo
dolciario che era seguito. “Per tutti gli spiriti
del cielo azzurro”
aveva sentenziato il principe con voce quasi scocciata, “Ci
si aspetta che
superata la soglia dei trent’anni la gente smetta di
comportarsi come dei
dissennati. E invece no” aveva aggiunto, ma la sua voce aveva
perso gran parte
del fervore crudele.
“E Kaz Brekker sta venendo qui” aveva sospirato poi
Dimitriji. Non sapeva se
avesse dovuto parlare anche delle preoccupazioni relative a Jordan
Ghafa e le
poche – ma comunque notabili – informazioni che era
riuscito a scucire dalla
bocca di Ioren Birstorr. “Questo è molto
interessante” aveva considerato il
principe, sputando del tabacco sul terreno.
“La teoria più accreditata e che venga
perché offeso di non essere stato
invitato” aveva ammesso Dimitriji, “Potrebbe essere
… certo” aveva scherzato il
Principe Consorte, “Potrebbe essere. Come uomo è
un mistero” aveva sentenziato
quello, “Ci ho pensato un sacco alle motivazioni che lo
spingono” aveva
aggiunto.
Dimitriji non era sorpreso, Kaz Brekker era una figura intrigante, un
oscuro
signore del crimine Kerchiano, la cui fama aveva scavalcato i vicoli e
i bassi
fondi della sua città. Non era un semplice signore dei
ratti, era un nome così
malvagio da aver raggiunto anche la corte per bene di Ravka. Non per
questo era
noto come il quattordicesimo oligarca.
“Prendi la questione di Jan Van Eck” aveva ammesso
calmo il principe, “Kaz
Brekker avrebbe potuto sparare a Jan Van Eck in qualsiasi momento e
mettere suo
figlio come suo fantoccio e continuare. Così che fanno a
Ketterdam, sai? Ti
fanno fuori” aveva ammesso quasi divertito,
“Jan Van Eck poteva avere tutte
le guardie che desiderava, ma una corruttibile poteva essere trovata
sicuramente. Nessuno, in quel buco infernale, è esente dalla
voglia di
qualcosa. Potresti pensare che Jan Van Eck paghi le sue guardie
abbastanza perché
un bastardello del Barile di diciassette anni non possa effettivamente
corromperle, forse così era, ma come noi ben sappiamo, i
soldi sono una merce
come un’altra” aveva fatto una pausa. Chiunque
poteva essere corruttibile.
Dimitriji era intervenuto, “A Kerch un uomo può
diventare pari a un re, ma non
esiste fedeltà verso nessun re” aveva considerato,
una sola fedeltà ed era alla
moneta. Era qualcosa che Dimitriji non poteva comprendere per davvero,
Ravka
era la sua monarchia, la loro fedeltà era
alla regina. Ravka era unita
sotto lo stesso scudo.
Ma non era solo il denaro, forse una delle guardie che aveva avuto Jan
Van Eck
aveva avuto un figlio, adorabile come il suo Andrej che poteva essere
torturato, che lo rendeva ricattabile. Non solo oro.
“Qualcosa di interessante … Per noi sudditi
e difficili da comprendere”
aveva considerato il Principe Consorte con una mezza risata,
“Ovviamente non è
vera, la storia degli uomini pari” aveva stabilito,
“Ketterdam ha i suoi Grandi
Signori. Non avranno alcuna titolatura, ma sono nobili a tutti gli
effetti. E
sono solo tredici. Il Consiglio dei Mercanti” aveva
scherzato, “Nessuna
Vasilissa Pavlov potrà mai entrare nel Consiglio dei
Mercanti” aveva aggiunto
allusivo.
Dimitriji aveva sentito quel commento di un pesante orribile sul suo
petto.
“Quindi,
torniamo a Kaz Brekker e Jan
Van Eck. Kaz Brekker è un criminale senza arte ne parte e
Jan Van Eck è un
barone di Kerch, diciamo. E Kaz Brekker poteva semplicemente
sparare a Jan
Van Eck, mettere Wylan VanEck a capo della società del padre
e tirargli i fili
come un burattino. Fidati, la storia di Kerch è
basata su questo!
Quattordici famiglie hanno governato l’isola dalla
Decapitazione dell’Ultimo Re
per trecento anni e … tutte le innumerevoli losche figure
che per secoli si
sono mosse dietro quelle spalle” aveva soffittato,
“Ma Kaz Brekker ha fatto
arrestare Van Eck, ha rivoltato il sistema contro l’uomo
più potente, ha fatto
di Wylan Van Eck il suo socio e non il suo strumento –
immagino non avesse
pensato che la cosa potesse morderlo poi –
e non si è limitato a sparire nelle fogne, come
un uomo occulto, ma è
diventato Kaz Brekker e non viene chiamato a cuor leggero il quattordicesimo
oligarca” aveva raccontato con una punta di
divertimento il Principe
Consorte e sfacciata ammirazione.
“E ora io e te, il signore del metan yez e il futuro re di
Ravka stiamo
parlando di lui” aveva considerato Dimitriji,
“Quindi sì, forse sarà furioso
che sua maestà la Tsarina non lo abbia invitato al Secondo
Ventennale e viene
qui per fare un punto” aveva valutato, “Che lui
è e sarà sempre pari a
Wylan Van Eck.”
Certamente la regina Zoya non poteva lasciarlo fuori al cancello se
egli si
fosse presentato lì, “O forse viene ai Dieci
Giorni per altri motivi. Sono una
ricorrenza religiosa molto importante, la più
importante” aveva detto
allusivo il principe, prima di sputare senza vergogna del tabacco per
terra.
“Sì, sospetto che incontrare suo figlio possa
annoverarsi tra gli altri motivi”
aveva considerato.
“Il piccolo Jordie?” aveva chiesto sfacciato il
Principe Consorte, “Devi
aiutarmi a comprendere come evitare che Jordan Ghafa uccida Malcom o
viceversa”
aveva annunciato poi.
Non voleva che il suo amico morisse, ne che diventasse un assassino
– o
assassinasse il figlio di uno degli uomini con la reputazione
più oscura del
Mare Vero e di un’eroina popolare – e aveva bisogno
di una soluzione. “Possiamo
chiedere a Drina di mettere da pacere” aveva soffiato il
Principe Consorte,
“Raccomandi il gregge al lupo” aveva considerato
Dimitriji, pensando alla
stupida metafora dell’inchiostro e dell’acqua
sporca. “Il problema è che solo
lei, può” aveva replicato stanco il Principe
Consorte, “Ma puoi contare su tutto
il mio aiuto. Sembra che il rapporto tra me e Malcom sia spinoso, ma io
provo
per lui una stima inimaginabile” aveva aggiunto, il suo tono
però non era
carico ne di affetto ne di dolcezza. Dimitriji si riteneva abbastanza
istruito
da leggere chiara la verità: Malcom sarebbe morto per
Lilyiana e sarebbe morto
per i figli di lei e a prescindere da ciò che Malcom pensava
del principe e
viceversa, ambedue erano soddisfatti di questo arrangiamento.
La loro conversazione si era dovuta mutare quando un’altra
figura, un po’
barcollante, si era palesata nella loro area: Il principe Dominik. Egli
aveva
perso la giacca azzurra da boiardo ed inossava solo la camicia di raso
lucido
con i bottini in madre perla, sopra i pantaloni di velluto. Le gote
olisse
erano tinte di una tonalità di rosso piene di imbarazzo,
alcuni granuli di
sudore scivolavano dalla fronte e dai capelli umidi e in mano una
bottiglia sgraffignata
di kvass. Probabilmente il suo aspetto sfatto era da imputare alla
notte brava
che aveva avuto. “Per essere un angolo buio ed appartato e
parecchio
frequentato da princpi” aveva ridacchiato Dimitriji.
“Oh, sankti che fate qui da soli?” aveva indagato
il principe Dominik, con gli
occhi azzurri luccicanti, “Se hai deciso di dedicarti ai
piaceri degli
invertiti, fratello, e non hai scelto me sarei molto offeso”
aveva ridacchiato
il principe Dominik, l’altro aveva roteato gli occhi:
“Fratello saresti il
primo a cui mi rivolgerei. Eravamo qui solo per fuggire dal clangore
della
festa” aveva risposto calmo.
“Sì, anche il mio piano era quello. Ubriacarmi da
solo e lontano dalle premure
soffocanti di quella serpe traditrice di Meri, ma ahimè mi
hanno dato una
missione” aveva ammesso senza grazia: “Dunque,
avete visto per caso mia
sorella? Alina, intendo?” con le labbra un po’
impastante dall’alcol.
“No!” aveva risposto Dimitriji, “Mio
padre la sta cercando, non so cosa è
successo, credo abbiano litigato” aveva raccontato senza
vergogna il principe
Dominik, “E Genya ovviamente mi ha chiesto di dare il mio
contributo.”
“Vuoi sederti con noi, fratello?” aveva chiesto il
Principe Consorte a
sorpresa, Dimitriji aveva sollevato un sopracciglio, ma gli occhi
gialli del
principe erano già rivolti al cognato. Il principe Dominik
aveva annuito, “Sì,
dubito che la troverò nello stato in cui sono”
aveva ammesso mentre li
raggiungeva per scivolare al loro fianco. Aveva un rossore delizioso,
probabilmente obbligato dagli eccessi della serata. Dimitriji conosceva
Dominik
da quando era bambino, l’aveva visto in molti momenti della
crescita, e degli
smaniosi vizi che esistevano nei ragazzini; una volta ricordava di
averlo
infilato di forza sotto un getto d’acqua gelida per farlo
riprendere da una
sbornia.
Ma Dimitriji non lo vedeva così alticcio
da quasi un decennio. “Avevo
proprio bisogno di sedermi, dopo Alina. Non so cosa abbia combinato, ma
mi
secca che Lilyiana avesse ragione a dire fosse troppo presto per lei
qui” si
era lamentato subito il principe. Dominik non era ubriaco, era solo
molto
alterato. Sospettava, Dimitriji, di sapere le ragioni di un
comportamento così
poco attento, “Ho insistito così tanto
perché potesse venire.”
“Devo darti la sgradevole notizia, caro fratello, che mia
moglie tende ad avere
spesso ragione” aveva considerato irriverente il Principe
Consorte, “Vuoi del
tabacco da masticare?” aveva chiesto poi con un sorriso
allegro e divertito,
allungandosi verso Dimitriji per raccogliere la scatola
d’argento dalle sue
mani e offrirla al cognato. “No,
ho una
certa intolleranza verso quel genere di materia” aveva
risposto subito Dominik,
“Rende il tuo fiato mellifluo e ti fa i denti
gialli” aveva cominciato a
spiegare pratico Dominik, “Ed hai un sorriso troppo bello per
essere giallo,
fratello” lo aveva preso spudoratamente in giro.
L’altro aveva ridacchiato divertito, ma il sorriso non aveva
raggiunto gli
occhi e i complimenti non avevano colorato il viso, lasciandolo in una
bronzea
neutralità. “Ho un bel sorriso, dunque?”
aveva chiesto spudorato il Principe
Consorte.
“Quindi, sua altezza, cosa è successo con la
piccola Alina?” aveva indagato
Dimitriji, con un principio di disagio addosso.
Era abbastanza noto alla corte che il principe Dominik fosse abbastanza
sfacciato con le sue attenzioni nei confronti del Principe Consorte e,
a parere
di tutti, erano spesso guidate dal fine primario di infastidire
Lilyiana,
creatura di per sé territoriale, che da un vero interesse,
ma quella sera, ai
margini del bosco, non c’era nessuna sorella maggiore da
tormentare.
“Ah, non ho alcuna idea. Mio padre non mi ha spiegato molto
– infondo io non
sono Lilyiana; so solamente che hanno bisticciato e
lei, come la
principessa melodrammatica che è, ha pensato bene di
andarsene. Spero non si
perda per i boschi o per le campagne” aveva ammesso cupo.
“Una volta è successo a me e Kos; non eravamo qui,
eravamo fuori Ivets, per non
ricordo quale fiera, ricordo solo che eravamo alticci e senza quasi
rendercene
conto abbiamo continuato a camminare fino a che non abbiamo raggiunto
Lukjanec,
che aveva già albeggiato” aveva raccontato lui. Il
posto era un villaggio, non
degno di essere chiamato città, ed una signora dal sorriso
largo gli aveva
sfamati con latte appena munto e biscotti secchi, quando lui e Kos
avevano
ripreso cognizioni di chi fossero.
Dominik aveva ridacchiato, “Il mio Kos?
Il mio severissimo Kos?” aveva
chiesto poi con una punta di esasperazione, “L’orso
severissimo che mia madre
mi aveva cucito ai calcagni?” aveva aggiunto poi, con una
risata sguainata,
pregna di divertimento.
“Oh, mio giovane principe, non ne hai la minima
idea. Kostantyn ha avuto
un passato molto … agitato” aveva riso Dimitriji,
“Non chiedermi perché ma i bambini
di Keramzin sono agitati per natura, credo che Marina li nutra
jurda.”
Quando aveva conosciuto il grisha, Kos era più grande di lui
di due anni, non era
solo più vecchio, ma era anche di stazza più
ingombrante. Kos era stato il
dodicenne più grande che avesse visto, un inferno mezzo-orso
con sangue
Fjerdiano che veniva dal meridione, era stato Lilyiana a presentarlo,
‘Viene
da Keramzin, non parla molto ma è sempre attaccato ad Ana
Aleksandra’ aveva
detto leggermente frustrata.
A Dimitriji era toccato l’ingrato compito di allontanare Kos
da Drina,
all’inizio. Non avevano molto di cui parlare, ma poi avevano
trovato il loro
terreno comune – Dimitriji, sebbene non lo avesse mai ammesso
ad anima viva,
neanche sua moglie, era rimasto ferito quando l’inferno si
era trovato dei
nuovi amici al Piccolo Palazzo. E poi l’aveva abbandonato per
Ketterdam.
Dominik aveva riso audace, “Giuro, dopo tutti gli anni a
seguirmi
pedissequamente e giudicarmi con gli occhi, avrei dovuto saperlo prima.
Almeno
avrei potuto difendermi dalle sue accuse” aveva riso, dandoli
una sonora pacca
sulla spalla amichevole. “Non ti manca neanche un
po’?” aveva indagato il Principe
Consorte, “In realtà sì. Almeno quando
c’era Kos non ero mai da solo, mai
veramente … anche se non parlava molto – mia
cugina dice che non lo fa neanche
adesso, ma credo che Ilse possa parlare per tutti e due. Era comunque
una
presenza rassicurante da avere giro” aveva ammesso il
principe Dominik. La sua
guardia del corpo infiammabile aveva dismesso il servizio di membro
dell’esercito e guardiano del principe prima di convogliare a
nozze con
Ilsebelle Dyk – cugina di Dominik da parte di madre.
“Certo che voi vi siete divertiti sempre parecchio”
aveva scherzato il Principe
Consorte con una mezza risata, “Io passavo i pomeriggi a casa
a studiare sotto
obbligo dei miei genitori con l’unica compagnia della figlia
della mia domestica”
aveva raccontato.
“Era simpatica?” aveva chiesto Dimitriji,
“Era bella?” era stata la domanda di
Dominik, “Più una cosa che
l’altra” aveva risposto onesto il principe, ma la
sua voce si era fatta distante, come i suoi occhi, aveva guardato
qualcosa
altrove, di lontano. Probabilmente lontano nel tempo.
“Potremmo aver ecceduto,
di tanto in tanto, a sperimentazioni” aveva ammesso poi il
Principe Consorte,
voleva esserci gioco, ma il suo tono era risultato un po’
distante, “Mia madre
non ne era molto contenta.”
“Ovviamente, non era una principessa” aveva
soffiato Dimitriji, cercando di
tenere la sua acredine a posto; il Principe Consorte aveva riso senza
vergogna,
accompagnato dal cognato. “Potrei aver anche io ecceduto in
zelanti
sperimentazioni, da giovane, tutto per la scienza, si
intende” aveva scherzato
Dominik, “Niente di meno dal figlio di Nikolai
Lanstov” era stato brutalmente giocato
dal Principe Consorte, poi entrambi avevano chinato lo sguardo verso
Dimitriji.
“Niente per me, io ero devoto alla principessa
Lilyiana” aveva risposto,
sollevando le mani in segno di resa.
“Lo sai che dalle mie parti a chi mente cresce il
naso!” aveva ridacchiato il Principe
Consorte: “Presto ne avrai uno bello lungo, come il becco di
un tucano” aveva
aggiunto con un piccolo divertimento, “Qui i mostriciattoli
di mangiano la
lingua.” Dimitriji aveva concesso loro quella presa in giro,
“Allora domani
vedrete se ho un naso più lungo e una lingua di
meno.”
Dominik aveva ridacchiato con divertimento, prima di drizzare lo
sguardo verso
qualcosa: “Eccola la mia pessima serpe in seno, Meri!
Meri!” aveva gridato,
alzandosi in piedi, per richiamare l’attenzione di qualcuno.
Dimitriji aveva osservato la donna arrivare, con un passo svelto da
puntino, a
macchia, fino a figura intera, lei era arrivata. Merissa Nassau con il
suo
vestito composto di drappi di kente di seta viola prugna con rombi
irregolari
giallo paglierino, verde lime e nero pece, e la chioma piena e
deliziosa,
usualmente sciolta, era raccolta e coperta da un turbante viola
porpora, con
piccoli ninnoli luccicanti, gli unici gioielli che aveva scelto, da cui
scioglievano alcuni ricciolini. Una bellezza più colorata
delle più audaci
primavere calde. “Finalmente ti ho trovato! Non eri andato a
cercare tua
sorella?” aveva domandato subito apprensiva, con i pugni
serrati alla vita
stretta, quasi materna – nella versione meno morbida ma molto
severa di una
madre.
Il principe aveva emesso uno sbuffo, “Certo. Mi stavi proprio
cercando tra le
braccia di Ioren! Forse posso trovare anche Alina
lì” aveva risposto. Merissa
aveva scosso il capo dispiaciuta. Ah, il dolore. “Ti prego,
Dominik, non fare
il bambino. Andiamo” aveva quasi supplicato, allungando una
mano per
raccogliere il suo amico.
Dominik aveva ceduto senza particolare sforzo, lasciandosi condurre via
dalla
sua amica, che si era congedata con poche parole vergognose e a
malapena una
riverenza. Usualmente Merissa era molto gradevole e rispettosa
dell’etichette,
ma la serata dover aver provato anche lei.
Ioren Birstorr aveva provato anche lei.
“Ovviamente, non avevo dubbi che la sempre protettiva Merissa
non ci avrebbe
lasciato il principe in quelle condizioni ancora a lungo”
aveva soffiato il
Principe Consorte con un tono quasi divertito. “Sarebbe stato
presuntuoso sperarlo,
ma non ti ho visto fare troppe domande” aveva considerato
Dimitriji, “Era una
cottura a fuoco molto lento” aveva risposto il principe.
“Peccato, ora che facciamo?” aveva chiesto allora
lui,
“Bene, ora due persone mature dovrebbero ritrovare le loro
signore, ritirarsi
nelle proprie stanze, guardare i figli e dormire” aveva
ponderato il Principe
Consorte, mettendo da parte il tabacco, sollevandosi dalla posizione
seduta e
sgranchendo le gambe, “Dovremmo” aveva considerato
Dimitriji, imitandolo e
osservando con sdegno i pantaloni grigi che erano finiti
irrimediabilmente
macchiati di terra e erba umida, “O potremmo terminare questa
serata degenerata
con una bottiglia di Castello Rosso. Della cantina personale di
Kirigin” aveva
proposto il Principe Consorte.
“Soffri ancora il tuo passato castigato nella tua fortezza
sotto il ministro Sunan?”
lo aveva spietatamente preso in giro Dimitriji, “Fino a
ché respirerò, temo”
aveva scherzato il principe. Dimitriji aveva sospirato, aveva pensato
alla
volta che storditi dall’alcool e dalla follia del papavero
masticato, lui e Kos
avevano camminato per iugeri fino a che il sole non era sorto.
Il Principe Consorte era arrivato alla corte di Ravka non solo dopo il
disastro
di Os Kervo, dove era morta la loro innocenza, ma anche dopo le nozze
di
Dimitriji, quando si era già aperta la piccola frattura e si
erano assopiti i
tempi voraci e ruggenti.
Lilyiana aveva discusso con Drina e la schermaglia aveva aperto una
voragine
tra la seconda e Malcom, Lilyiana si era arrabbiata con lui
perché l’aveva
accusata di aver preso Najima solo per ferirla. E altro ancora.
E il Principe Consorte non aveva mai incontrato la Drina, la Lilyiana e
la
Najima che erano esistite prima, le donne prime dei titoli, le donne
prima
della posizione, della maternità. Le giovani, le audaci e le
selvagge, come
anche Dimitriji era stato così. E Kos. E Cignaz. E Anchel
… Hati … e tutti gli
altri, perfino il Dominik allegro che si attaccava speranzoso alle
sottane
della sorella e si lamentava di essere sempre lasciato addietro.
E una notte di bagordi e il giro alla testa del mattino dopo, quando si
sarebbe
svegliato e sarebbe stato ancora Dimitriji Polnudist conte di Ivets,
cortigiano, affarista, marito e padre, sembrava accettabile. Per una
volta.
“Prendiamo una bottiglia di Castello e capiamo come affidare
le pecore al lupo”
aveva proposto e il principe aveva annuito.
Era mentre
attraversavano il piccolo sentieri brecciato nel bosco, con la sola
compagnia
di una lampada a lumya, alta come il medio di una mano adulta e sottile
quanto
due dita, che avevano ambedue realizzato che sarebbe stato meglio
tornare al
calduccio nei letti dalle loro mogli – caso mai fossero le
donne già rincasate
– e a sogni placidi o disturbati dal troppo cibo della
nottata.
Malcom li aveva accolti a tre quarti della strada, non lontani dalla
magione
che Kirigin e Deimdov avevano fatto erigere presso quell’ansa
del lago, la loro
alcova d’amore – e Dimitriji si era sempre chiesto
se fosse una proprietà
comune che si dividevano o che consumavano assieme – e dalla
cantina di
Castello Rosso.
Malcom era un ombra livida in viso, con il blu della kefta che pareva
nera
nella notte, con rivoli rossi bruni come sangue. I capelli ordinati
erano
sconvolti e gli occhi scuri erano freddi e nervosi.
Non era da solo, ma tra le braccia assopita – o morta
– era una figura rossa carminio,
che nell’ombra della notte era parsa nera e cupa.
Solo la luce della lampada di lumya, sempre chiara e mai ardente, aveva
rivelato una kefta rossa e mani olivigne spellate e bollose da
scottatura.
“Sankti, perché giri con il corpo senza vista del
luogo tenente Effimov?” aveva
strepitato il Principe Consorte, riconoscendo la figura abbozzolata.
Ora che era stata nominata, anche Dimitriji riconosceva il naso a
becco, con la
piccola gobba, e il viso appuntito, la figlia di Vladyslaw Effimov,
generale e
politico e uomo fin troppo rilevante, “Non è
morta!” si era giustificato
Malcom, con le braccia tremolanti e lo sguardo quasi disperato,
“Ma non so che
fare” aveva languito verso di loro come una bestia ferita.
“Prima leviamoci dall’unico sentiero battuto per il
prossimo rifugio” aveva
ripreso colore Dimitriji leggendo la situazione.
“Ho bisogno di … tempo” aveva borbottato
Malcom, mentre abbandonavano il
brecciato. Il Principe Consorte aveva guardato il suo amico con
un’espressione
piuttosto cruda prima di sospirare, “Ho
un’idea” aveva stabilito, “Nikolai non
sarà felice, ma va bene” aveva aggiunto.
“Stiamo per entrare nei cunicoli della fortezza
segreta?” aveva chiesto
Dimitriji non riuscendo a trattenere un guizzo di morbosa
curiosità, non aveva
mai avuto il permesso di entrare, “Sì”
aveva stabilito secco e infastidito il
principe.
“Quindi, perché hai la figlia del signore di
Kyoska svenuta tra le braccia?”
aveva chiesto Dimitri, osservando l’espressione quasi dolce
di Meesha Effimov,
respirava e non sembrava mal messa. Almeno alla luce fioca della
lampada a
lumya. Un filo di sangue scivolava dal labbro inferiore ed aveva una
guancia
leggermente arrossata, ma non sembravano ferite gravi.
L’unica lesione un po’
più seria pareva quella sulle mani, carne rossa e spellata,
come se acqua
bollente le fosse stata versata addosso o la poverina avesse stretto un
ferro
rovente, supponeva che quello fosse colpa di Malcom.
“Sai no … di questa sera” aveva
cominciato a parlare il grisha, come se la sua
lingua fosse sui tizzoni ardenti, “Diciamo che Meesha era
dove non doveva
essere a origliare una conversazione che non doveva origliare ed
E… la
principessa mi ha detto di occuparmene”
aveva ammesso cupo.
“Occupartene?” aveva chiesto il Principe Consorte,
camminava davanti a loro di
qualche passo mentre li guidava nel buio della foresta, ma era stato
con le
orecchie ben aperte.
“E ora hai un membro dell’esercito e figlia di uno
degli uomini più importanti
del dvorjanstvo di Ravka Ovest tramortita sul groppone” aveva
considerato
Dimitriji con un tono leggermente accusatorio, “Non volevo
stenderla. Dovevo
farci solo delle chiacchiere, ma lei …
ha provato a fermarmi il cuore”
aveva ammesso Malcom.
“Cosa?” aveva esclamato Dimitriji, stupito.
“Credo davvero che fosse andata nel
panico, così ha cercato di aggredirmi. Le ho bruciato le
mani di impulso” aveva
ammesso Malcom pieno di vergogna, “Brutto vizio di cui non
riesci a liberarti,
vero?” lo aveva sfacciatamente preso in giro il Principe
Consorte. Malcom lo
aveva ignorato per lo più, “Per mia fortuna, il
luogotenente è una di quei
grisha che non sanno applicare la Piccola Scienza senza gesticolare.
Quando le
ho afferrato le mani per fermarla le ho bruciate” aveva
ammesso.
“Poi come è svenuta?” aveva inquisito
Dimitrijì, “Sì e messa ad urlare per il
dolore e io l’ho colpita per farla stare zitta e …
poi è caduta” aveva ammesso.
“Sankti, speriamo non abbia un trauma cranico”
aveva ammesso il Principe
Consorte, “Almeno non le hai bruciato la faccia. Sarebbe
stato difficile da
spiegare” aveva cercato di sdrammatizzare Dimitriji, anche se
non c’era molto
da ridere.
“Che cosa starà combinando Lilyiana?”
aveva chiesto a mezza-bocca, senza
aspettarsi che nessuno dei due uomini rispondesse.
Il
principe si era fermato in un punto, non sembrava esserci nulla di
particolare,
ma poi si era chinato per terra, restando in bilico sui talloni ed
aveva
cominciato a far passare le dita nel manto erboso, fino a che non aveva
toccato
qualcosa, lo aveva pigiato tre volte, con un tempo diverso, prima che
un
raschio metallico segnalasse loro che era accaduto qualcosa.
L’uomo aveva fatto altro – al buio Dimitriji non
riusciva a vedere bene – e
dopo aveva sollevato una leva ed una botola tonda, ricoperta da un lato
di muschio
e erba fresca. Nonostante la situazione drammatica, non poteva fare a
meno di
essere quanto meno emozionante perché avrebbe potuto spiare
i laboratori segreti
del Nolnik del Re Nikolai. Aveva sempre voluto, ma non aveva mai
ricevuto il
permesso di poterlo fare, era grato che il Principe Consorte non lo
avesse
invitato a farsi da parte e di occuparsene da solo, forse il vino e
brandy
avevano inficiato anche su di lui, nonostante tutto.
“Sfortunatamente l’ingresso più vicino
da questo lato, è solo questo” si era
lamentato, “È un uscita di emergenza se dovesse
esserci un crollo nelle
gallerie o l’acqua dovesse filtrare e allagare,
sfortunatamente è verticale,
quindi potremmo dover faticare per potere giù il
luogotenente” aveva ammesso
pigro e stanco. “Hai memorizzato dove sono tutte le uscite di
emergenza?” aveva
indagato Dimitriji, “Come in ogni luogo in cui
entro” aveva risposto pigro il
principe, prima di sparire nel buco della terra.
Malcom si era calato per secondo, tenendo Meesha appesa alle spalle
come un
sacco di patate; non era un uomo particolarmente imponente o robusto,
solo
molto altro e non sembrava a suo agio in quella posta,
“Tranquillo sono solo
qualche metro” aveva sentito il principe urlare dal fondo, ma
la sua voce
sembrava distante.
Dimitriji era entrato per terzo, agganciandosi ad una scaletta composta
di
piccole sbarre sottili, che si dipanavano verticale dentro un tubo
rivestito di
un materiale che non sembrava malta, “Chiuditi la caditoia
sulla testa” aveva
sentito il principe urlare. Dimitri aveva gettato uno sguardo al cielo
sopra di
lui, nero, con piccole stelle visibili, tramite i rami folti e pieni
della
foresta, prima di chiudersi il ferro sul capo. Era pronto al buio pesto
che lo
accoglieva, ma una luce soffusa sotto di lui lo aveva accolto.
Il principe aveva acceso l’illuminazione dei corridoi o forse
non era mai stata
spenta.
“Questo
posto pullula sempre di gente” aveva spiegato il principe
leggendo il suo viso,
“Lazalyon era nato come basa operativa
segreta di Nikolai, sai la
struttura delle gallerie, la nebbia, l’aria salmastre
paludese e per
giustificare i rumori e le stranezze è diventata
l’oggetto delle feste e delle
depravazioni di Kirigen, non ne facevano veramente però,
almeno fino alla festa
organizzata per cercare una sposa a Re Nikolai, con il tempo il
pettegolezzo è
divenuto realtà e il segreto si è solo
intensificato” aveva spiegato calmo.
“Quindi mentre sopra nobili di ogni corte del mare verso si
ubriacavano, qui
sotto si progettava l’artiglieria bellica nuova”
aveva considerato Malcom
stanco, aveva sistemato di nuovo la giovane donna come principessa tra
le sue
braccia. “Sì, è come ogni volta, chi sa
quante spie avranno cercato di
accedervi. Credo Nikolai si ecciti con questa idea” aveva
considerato il Principe
Consorte “E così sa quali informazioni
può divulgare e quali no.”
Avevano
incontrato diverse persone quando avevano attraversato i corridoi,
grisha in
kefte vivaci e otkazat'sya alla stessa maniera, nessuno aveva donato
loro più
di uno sguardo ed un rispettoso inchino al Principe Consorte, che aveva
ricambiato alla stessa maniera.
Lui li aveva condotti in una stanza, sembrava a tutti gli effetti una
piccola
cella. C’era un letto in cui Malcom aveva adagiato la giovane
donna.
“Fatemi controllare che stia bene, Malcom puoi andare
– ascoltami bene – il
primo corridoio da qui a destra, poi il secondo a sinistra, fino alla
porta
arancione e chiedere di Sarif? Ho bisogno che venga qui”
aveva stabilito secco.
Malcom aveva annuito, prima di defilarsi.
“Non morirà vero?” aveva chiesto
Dimitriji, “Non ha sangue sulla testa, ma
potrebbe star sanguinando dentro” aveva considerato il
principe, “Il polso
sembra buono ed anche il respiro” aveva aggiunto.
“Devo pulirle le mani e
bendarle, dannato Malcom, solo i signori del cielo sanno che la sua
impulsività
è la sua rovina” aveva aggiunto acre.
“Jordan Ghafa vuole ucciderlo per questo” aveva
considerato, “E adesso
Vladyslaw Effimov vorrà pure la sua testa e
l’ultima cosa che ci serve, ora, è
Ravka Ovest sul piede di guerra” aveva ringhiato.
Malcom si era affacciato di nuovo, era con un giovane uomo vestito di
rosso
corporalki con piccoli decori grigio-neri, la sua carne era olivastra,
il naso
era piatto, aveva labbra grandi e carnose e capelli nerissimi.
“Ho bisogno del
tuo aiuto Sarif” aveva detto, ammiccando alla ragazza sul
letto, “Che le è
capitato?” aveva chiesto pronto quello.
“Questo lo dovrei chiedere io a voi?” Nadia Zhabin
aveva abbaiato alle loro
spalle. Gli occhiali da protezione tirati suoi capelli biondi e
l’espressione
accigliata, non era molto alta, ma era il fuoco negli occhi verdi la
rendeva
spaventosa. Doveva aver seguito Malcom e Sarif.
“Che avete
combinato?” aveva chiesto
quasi aggressiva, Malcom l’aveva guardata, con lo stesso
sguardo colpevole di
un bambino davanti una madre, poi, contro ogni aspettativa di Dimitriji
era
scoppiato a piangere, “Un disastro, Nadia, un
disastro” aveva soffiato e
davanti quella confessione inaspettata, Nadia aveva aperto le braccia
ed aveva
accolto il ragazzo in una morsa gentile, come una madre.
Dimitriji si era sentito di troppo ed aveva voltato lo sguardo verso
Sarif e il
Principe Consorte che giravano come squali attorno alla povera ragazza
svenuta.
“Non sta sanguinando internamente. No. Domani avrà
la faccia viola e blu però.
Si sta già riprendendo. Mi occupo delle mani”
aveva stabilito il grisha, “Non
sarà necessario bendarla, posso sistemare le mani anche con
la piccola scienza”
aveva aggiunto. “Sì, meglio. Fallo
subito” aveva stabilito il principe,
“Sistemali anche gli ematomi sulla faccia. Sarebbe carino si
svegliasse senza
dolori” aveva stabilito, allontanato, “Poi chiudete
la porta come vi ho
insegnato” aveva stabilito, buttando uno sguardo a Dimitriji,
che sostava
proprio sull’intercapedine.
“Ehm … per quanto tempo?” aveva chiesto
Sarif incerto, Dimitriji guardava
invece l’uscio cercando delle stranezze, “Per
quanto sarà necessario. Il
luogotenente Meesha Effimov è soggetta a fermo immediato per
ordine della
principessa Lilyiana Zoyaevna Nazialensky” aveva ordinato.
Malcom
li aveva
abbandonati per stare con Nadia e il principe lo aveva dispendiato dal
dover
rispondere domande, “Meno ne sappiamo, meglio è
per noi” aveva stabilito, ma
Dimitriji aveva compreso l’antifona. “Cosa aveva di
speciale la porta?” aveva
chiesto, mentre il principe lo conduceva verso i corridoi.
Erano illuminati da una luce blu elettrica che scendeva da lampade
appese, ma
non vedeva ne fili, ne sentiva rumori. Non sembrava lumya.
“Quando si chiude
crea un ambiente che impedisce ai grisha di manifestare la Piccola
Scienza. È un
prototipo” aveva spiegato candido il Principe Consorte,
“Cos …” aveva
cominciato lui. “Tutte le celle che tengono i grisha a Matevj
o nel Piccolo
Palazzo, sono specificatamente pensate o per contenere il tipo di
scienza o con
un sistema d’areazione che filtra una soluzione in gambo.
Nessuna delle due è
molto efficiente” aveva considerato il Principe Consorte,
“Alcuni grisha sono
più sensibili di altri. Genya può riconoscere uno
specifico battito cardiaco a
iugeri di distanza, alcuni non hanno bisogno di usare le mani per
imporre la
piccola scienza come Malcom e altri sono resistenti a qualsiasi dose di
inibitore, come Drina” aveva spiegato pratico.
“Quindi hai progettato una cella in cui i poteri non si
possono manifestare”
aveva esclamato confuso, “È un
prototipo” aveva risposto lui, “Il massimo di
tempo che qualcuno c’è stato dentro è
stato di due giorni, Nabha per la
cronaca, è dice di non essere riuscito a manifestare alcun
potere” aveva detto,
“Però è un circuito, ogni volta che si
apre e chiude la porta si spezza, anche
per introdurre cibo o altro. Come vedi le celle nono sono pensate per
una lunga
tenuta, non c’è un bagno, non
c’è acqua …” aveva spiegato.
Dimitriji si era morso il labbro, non nascondeva di immaginare
perché fosse
stato necessario progettarlo, i grisha non erano nemici pubblici a
Ravka, ma
non tutti i grisha erano buoni come non tutti gli uomini. “Lo
hai fatto tu?”
aveva chiesto alla fine, “Sono stato parte delle cosa, ma
anche altri hanno
partecipato” aveva risposto il principe.
“Pensi che anche altri siano in grado di farle?”
aveva chiesto Dimitrij,
affiancandolo, “Vuoi chiedermi se Shu-Han ha progettato delle
gabbie per
grisha? Può darsi, sono trecento anni e passa che si
esercita nel contenimento
dei grisha. Se abbia questo mezzo specifico? Non credo” aveva
risposto il Principe
Consorte, “Però posso assicurarti che il popolo
dei miei genitori sono sempre
stati molto creativi in maniera” aveva aggiunto.
“Sarei curioso di sapere come lo hai pensato, ma non sono
sicura di volerlo
sapere” aveva considerato Dimitriji, il Principe Consorte si
era voltato verso
di lui, aveva un sorriso ben poco gentile sul viso, “Oh, mi
sono ispirato alla
vicenda di Alina Starkov” aveva spiegato elusivo.
“Sankt’Alina?” aveva chiesto Dimitriji,
chiedendosi come una giovane ragazza
morta quarant’anni prima nella faglia avesse potuto ispirare
una cella per
grisha.
Il principe aveva ridacchiato di lui, “Notevole,
sai … Najima ti tiene
ancora dei segreti” aveva considerato, “Penso sia
ovvio. Io e Najma non teniamo
segreti che riguardino l’un l’altro o che
influiscano con la nostra vita” aveva
ammesso, “Se lei tiene i segreti di Lilyiana e questi non
siano fondamentali
per me da sapere, ben venga. Amo mia moglie e mi fido di lei”
aveva stabilito.
“Ti ammiro Dimitrini; forse un altro giorno ti
spiegherò tutto meglio. Adesso
sono stanco, voglio solo vedere il mio bambino e andare a
dormire” aveva
ammesso il principe.
“Niente vino della staffa?” aveva chiesto
Dimitriji, ma condivideva
profondamente il sentimento.
“No, meglio di no” aveva ammesso il principe,
“Questa notte è stata fin troppo
lunga.” Dimitriji fu costretto ad annuire.
“Possiamo
scegliere se tornare in
superficie alla festa o a palazzo con uno dei mezzi sotterranei,
l’abbiamo
inaugurato cinque anni fa. C’è solo una carrozza e
due binari, ma permette di
fare in poco tempo il percorso di due tre ore a piedi”
aveva raccontato.
“Sarei tentato di prendere un treno che passi sottoterra, ma
per oggi …Penso di
voler tornare alla festa, probabilmente Najima mi sta
aspettando” aveva ammesso.
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Capitolo 24 *** Alina II (40 D.F.) ***
Edit: il capitolo è decisamente troppo pieno di refusi; presto sarà modificato
UN PAIO DI
NOTE:
Questo capitolo doveva essere l’ultimo del 40 DF per un
po’, ma il capitolo
stava diventando mastodontico e probabilmente tra correzione e
quant’altro lo
avrei postato tra cinque mesi, quindi ho deciso di spezzarlo.
Onestamente non
sono sicura che la divisione sia a metà, perché
in realtà manca praticamente
solo una “scena” ma è una scena molto
importante. Quindi avremmo Alina II e
“prossimamente”
Alina III.
Oltre questo: il capitolo è un delirio, il problema
principale è che il POV di
Alina è stato alterato per tutto il tempo e voglio che sia
una cosa che teniate
a mente, Alina è alterata per tutta la durata del
capitolo.
Se il
capitolo avesse un titolo sarebbe: La brutta serata di Alina
TW: Vomito,
alterazione della percezione,
ubriacatura, bere alcool, minorenni che bevono alcool, voyeurismo non
consensuale. Intossicazione alcolica. Adolescenti che pensano al sesso.
MAL/NIKOLAI E RIFERIMENTI AD ALTRI INTRIGHI AMOROSI.
Con questo intendo che Alina non conosce bene
l’estensione di certi avvenimenti
e relazioni, questo perché i genitori hanno pensato bene che
tenerla all’oscuro
fosse una cosa “sana”.
Alina
II
(40
anni dalla D.F.)
Alina
non era stata affatto sorpresa di aver trovato il segnaposto con il suo
nome
affiancato a quello di Matthias Grimjor.
L’avevano
sistemata tra il principe di Fjerda e Genya – così
che la donna probabilmente
potesse tenerla d’occhio perché non avesse un
comportamento sconsiderato. Era
allo stesso tavolo di sua sorella Lilyiana ma ben lontana da lei e al
tavolo
opposto quello di Dominik e Vasilissa e odiava che
fosse lontana dalla
sua amica.
Era
la serata più importante della vita di Lissa e chiunque si
fosse occupato della
disposizione dei posti aveva avuto l’audacia di mettere la
sua amica che non
conosceva nessuno o quasi in un tavolo diverso.
Alina non poteva fare a meno di cercarla con lo sguardo, mentre la
vedeva
parlottare di tanto in tanto con qualcuno dei suoi vicini, indossava
l’abito
d’oro che la giovane Caitlyn aveva recuperato da uno dei suoi
vecchi. L’unica
cosa che la distraeva da Vasilissa – che sembrava cavarsela
meglio di lei sullo
scegliere con qualche forchetta fosse d’uopo mangiare cose
– era la presenza
rigida di Matthias al suo fianco e la presenza quasi ingombrante di
Meesha alle
sue spalle. Di tutti i maledetti posti in cui la soldatessa doveva
essere
schierata nella sua bella kefta rosso sangue, era capitata alle sue
spalle.
Alina
provava un sentimento inesprimibile, da un lato calore
all’idea che gli occhi
di Meesha dovessero finire volenti o nolenti su di lei e disagio nel
saperla
così vicina, così distante, mischiata al
nervosismo che le dava il principe di
Fjerda.
Matthias
era una persona noiosa, ma almeno in tutte le altre occasioni in cui
avevano
speso tempo insieme il principe si era sforzato di essere di compagnia,
di
tanto in tanto era stato anche piacevole,
divertente, ma quella sera
aveva continuato a fissare il suo piatto e sorseggiare coppe di kvas
che non
sembravano svuotarsi mai.
Alina
lo aveva imitato, mischiando anche brandy e vino, ignorando lo sguardo
acuto e
rapace di Genya su di lei.
Il
brandy con il suo sapore forte da spirito le aveva guastato la lingua
ed ogni
pietanza sembrava essersi fatta amara, ma le aveva dato un bacio
morbido ai
nervi.
Era
già alla terza coppa quando finalmente Matthias si era
deciso a rompere il suo
silenzio mortale, “L’Ingresso è stato di
un certo effetto” aveva detto placido.
“Sì” aveva concesso lei, era
stato d’un certo effetto.
Erano
arrivata cavalcando sul garrese della loro madre plasmata in forma di
drago,
maestosa e spaventosa, un’enormità oscura
stagliata davanti al sole morente e
poi Alina aveva fatto friggere le sue mani in fulmini blu, solo per
spiegare di
chi era il vero potere nel Mare Vero, Alina si era
sentita molto simile
a un orpello.
Avrebbe
potuto essere sul dorso di sua madre, come in camera sua rintanata nel
letto a
dormire e non avrebbe fatto differenza e se la questione normalmente le
sarebbe
scivolata addosso come l’acqua, quella sera la indisponeva,
forse perché per
tutta la giornata aveva goduto di attenzione. Prima erano stati Genya
ed il
duca di Keramzin, poi si erano aggiunti Tatiana e l’aitante
Fjerdiano poeta –
che le aveva fatto non poche domande e sembrava così
ammirato – e poi si
era aggiunto Kuume Fa il ministro dei trasporti di Novy Zem con la sua
adorabile e super curiosa moglie ed altri due suoi attendenti, poi era
stata la
volta di Laghoire Farrel, sorellastra del Marshal, accompagnata dal suo
scudo
giurato e due ambasciatori delle colonie del su e per ultimi la regina
Dalai,
il suo concubino favorito e almeno due donne guerriere. Anche alcuni
servi
avevano interrotto le loro faccende, in maniera discreta e ben attenti
a non
essere osservati troppo, per ascoltarla
E
tutti loro erano penduti dalle sue labbra mentre Alina con orgoglio
spiegava
gli orrori artici e storici del Gran Palazzo, come un piccolo esercito
l’avevano seguita lungo i corridoi e le stanze e avevano
fatto domande,
l’avevano interrogata e l’avevano ascoltata. E
Alina ne aveva amato ogni
minuto.
“Sì,
è stata un ingresso abbastanza trionfale. Mia madre non
è mai stata per la
discrezione” aveva aggiunto, decidendo di accogliere
l’intervento di Matthias e
non permettere al suo nervosismo di vincere.
“Oggi ho sentito che hai tenuto una lezione di storia
dell’arte, mi è
dispiaciuto averla persa. Ioren dice che sei stata sublime”
aveva riprovato
lui, non la stava guardando in faccia ed aveva le dita serrate sul
gambo del
calice, “L’arte è una mia
passione” aveva ammesso.
“Così
ho sentito” aveva constato lui, artificioso.
“Tu?” aveva chiesto lei, avevano
deciso di darsi del tu ed anche se sembrava innaturale sulle loro
lingue
avevano continuato, “A me l’arte non
dispiace” aveva considerato, “Hai
passioni?” aveva inquisito Alina. “Mi piace sparare
e leggere” aveva risposto
pigro lui.
“Sei
bravo, te lo concedo” aveva scherzato, prima di recuperare la
coppa che le era
stata riempita di nuovo, “Voglio la rivincita”
aveva aggiunto. Non era una
menzogna, aveva perso di proposito ma non aveva dovuto faticare per
farlo, i
Fjerdiani probabilmente imparavano a cavalcare e sparare prima ancora
di
camminare e parlare.
Sua
madre dalla tavola dei Cinque Re, come era stata soprannominata,
nonostante
nessun re vi fosse seduto, si era alzata per fare un brindisi. Ne aveva
fatto
uno a Sankta Alina, ma anche a Vasilissa. La sua amica si era alzata
con il suo
abito d’oro e le gote in fiamme. Alina si era tirata su quasi
subito dopo la
sua amica, guardandola. Vasilissa aveva aggrottato le sopracciglia
zenzero, poi
lei aveva guardato sua madre: “Per questa occasione, moya
Tsarina, considerando
la mia lunga amicizia con Vasilisssa, io e Tatiana avremmo preparato un
pezzo
con il balalaika” e si era rivolta a Tatiana.
La donna non aveva fatto una piega sorridendo accomodante, sempre
pronta la
sua Tatiana.
“Ah
davvero?” aveva chiesto Genya in un sussurro in
quell’orecchio, proprio quella
mattina aveva detto che non avrebbe suonato e non aveva intenzione di
farlo, ma
si era sentita in colpa, era una gran sera per Lissa e lei non si era
preoccupata
per nulla di organizzare qualcosa di bello.
Non
si era preoccupata per nulla di Lissa in generale, aveva avuto
l’impressione
che negli ultimi giorni non l’avesse vista abbastanza,
complici gli
impegni dell’altra – lavoro, preparazione alla
nuova titolatura e matrimoni
segreti – ma che tutto sommato neanche l’altra si
fosse impegnata poi molto.
Alina sapeva di essere egoista, ma non le importava.
“Oh,
suoni il balalaika? Mi hanno detto che è uno strumento molto
difficile” aveva
considerato il principe Matthias, “Ebbene
sì” aveva risposto sfacciata, anche
se non era né portata né particolarmente brava
né lo strumento era
particolarmente più difficile di altri, Alina sapeva che la
principessa Zetian
sapesse suonare il kathur a diciotto-corde come una professionista.
“Io ho
imparato un po’ a suonicchiare la domra,
potremmo suonare assieme” aveva
proposto il principe, la proposta sarebbe sembrata in bocca a qualcun
altro
quasi piacevole e disinteressata, ma il principe Matthias faceva
sembrare tutto
sempre formale.
“Certo”
aveva ammesso Alina e immaginava che probabilmente il bellissimo
principe di
Fjerda sapesse suonare la domra come se ci fosse nato con lo strumento
in mano
e non fosse una sgraziata creatura.
Aveva bevuto una coppa di vino intera – sotto lo sguardo
giudicante di Genya.
“Scusami
per averti messo in questo pasticcio” aveva detto Alina,
prima di ingollare
l’ultimo bicchiere di vino che era riuscita a sgraffignare
– Genya era stata
troppo presa da tutte le vicende nobiliari che stavano avvenendo
pubblicamente
e meno, per contare effettivamente quante coppe stesse consumando
Alina.
Tatiana aveva ridacchiato, aveva raccolto i riccioli in una crocchia
morbida ed
era vestita con un abito azzurro su cui erano appuntate pietre
luccicanti ed un
colletto di pelliccia di callorino; Alina sapeva che Tatiana voleva
apparire
come una regina delle nevi, ma l’effetto era tragicamente
lontano. I sankti l’avevano
dotata di molti talenti e doni, ma non l’aspetto elegante e
algido che
desiderava possedere. “Non si deve preoccupare, moya
tsarevich” aveva risposto
la nobil donna, agitando una mano piena di gioielli e preziosi,
“Avrei
preferito avere il mio strumento, questo pesa di più e non
è neanche accordato
bene” aveva aggiunto Tatiana, facendo ruotare i bulloni sulla
sommità, per
tendere le corde.
I
balalaika, che avevano dato loro, erano enormi e triangolari, in un
legno
chiaro su cui aveva tinto del bianco, con dei plessi arancio e oro.
“Scusa”
aveva ripreso colpevole Alina. Tatiana aveva ridacchiato con un certo
divertimento, “Che ne dici di suonare Valenki?
So che la sai suonare ed
è facile” aveva proposto, “Valenki non
è facile” aveva risposto Alina,
“Preferisce la Danza dei Goblin?”
aveva chiesto di rimando
l’altra. Alina si era morsa il labbro, “Avrei
bisogno di altre due mani per
quella. Valenki andrà bene … ma
…” aveva provato, “Moya Tsarevich, non
suoneremo niente che non sia degno di questa nobile platea”
aveva considerato
Tatiana che aveva perso il suo sorriso dolce per
un’espressione più assertiva.
Tatiana
godeva degli scherzi, dei giochi e quant’altro ma non quando
si esibiva. A
dodici anni aveva suonato per la prima volta al Teatro di Ketterdam
davanti a
tutti i membri del Consiglio dei Mercanti, delle Maree e tutti i ricchi
signori
e banchieri dell’isola e di qualsiasi altro membro delle
corti del Mare Vero
fosse lì; da quel momento la sua capacità era
solo accresciuta.
Alina
sapeva che per il decimo giorno delle Dieci Giornate si sarebbe esibita
assieme
all’Orchestra Reale di Ravka.
“Valenki
sia” aveva ammesso Alina, forzando la sua calma, mentre
prendeva posto accanto
a Tatiana. “Chi era il fjerdiano di oggi?” aveva
chiesto poi, sebbene sapesse
esattamente chi fosse – l’istitutore del principe
consorte; quello che non
sapeva e quanto illustre dovesse essere la sua stirpe per essere
invitato alla
cena. “Non lo sa davvero?” aveva inquisito Tatiana,
aveva perso la serietà e la
sua espressione era più lucente divertimento.
“Dovrei?”
aveva chiesto Alina, “Non so. Era all’ambasciata di
Fjerda a Kerch negli stessi
anni che c’ero io. Possiamo dire che era un assiduo
frequentatore della
Corte-Oltre-Mare” aveva recitato sibillina.
La Corte-Oltre-Mare era un soprannome stupido e insulso che aveva
acquisto
l’Ambasciata nei quartieri della Piccola Ravka a Ketterdam
durante gli anni di
studio di suo fratello nell’isola della perdizione. Era una
storia ormai
obsoleta e vecchia più di dieci anni – Alina era
solo una bambina a quei tempi.
Tatiana le aveva passato la balalaika che aveva appena finito di
accordare,
prima di procedere con la successiva. Alina l’aveva raccolta
con delicatezza,
come se fosse stata di cristallo, “Forse ho bevuto
troppo” aveva scherzato o
non abbastanza, si era detta. Decisamente non abbastanza per aver il
coraggio
di suonare in pubblico, davanti a tutte le grige eminenze delle corti
del Mare
Vero senza essersi esercitata neanche un po’ il giorno prima.
“Il nobile signor
Birstorr è anche l’istitutore del Principe
Matthias” aveva chiacchierato
slavata Tatiana, mentre con dita sagge ed attenti sistemava le corde.
Alina aveva sentito quel nome pioverle addosso come soda caustica,
nonostante
lo avesse saputo, ma la menzione del principe l’aveva
alterata, senza vergogna
lo aveva cercato tra la folla di curiosi che guardava
l’orchestra prendere
posto sul prato. Matthias la stava guardando, avrebbe voluto dire con
l’intensità di soli ardenti, ma i suoi occhi
grigio-blu sembravano più lame di
ghiaccio e vetro. Era rigido e duro, come se fosse stato scomodo nella
sua
stessa pelle, e stava lì di fianco a Meesha, che era tutto
un roborante fuoco,
in un caldo satin rosso. Sembrava che i sankti stessi avessero voluto
punire
Alina per le sue sciocchezze, affiancandoli. “Il principe
è proprio un uomo attraente”
aveva considerato Tatiana con quei suoi occhi leziosi, Alina aveva
annuito, “Il
più bello.”
Il
principe non era un uomo, non come lo era Dominik almeno, aveva ancora
l’aspetto sbarbato ed innocente di un ragazzo, e non
era attraente,
perché il concetto stesso avrebbe sminuito la
verità: il principe era
bellissimo.
Di
una bellezza così totalizzante da fare male, stargli vicino
era fisicamente
fastidioso e lei era certa che tutta quella magnificenza
così perfetta, così
brutale, fosse opera di una sartoria finissima.
Nessuno al mondo era così bello, neanche i genitori di Alina
e … nessun uomo
poteva essere così bello, non secondo i gusti di Alina, che
apprezzava di più i
seni pieni, i fianchi tondi e le morbidezze gentili delle donne.
“Se lo
sposerà, avrete sicuramente figli bellissimi”
aveva aggiunto quasi con
casualità Tatiana. “Se non mi sfinirà a
noia” aveva borbottato.
Tatiana
non era sua amica, aveva sei anni buoni più di lei, ma era
stata una delle
poche dame di compagnia che le erano state affibbiate a non essere
finita in un
dimenticatoio in base al vento politico che soffiava, forse
perché prima di
essere una dama di compagnia era stata un’insegnante e
nessuno, in tutta Ravka,
era più bravo e capace di lei con la balalaika.
“Da lui mi farei sfinire in
ogni modo, anche di noia” aveva risposto la donna selvaggia.
“Suoniamo,
dai” aveva implorato con le gote un po’ rosse
Alina, non permettendo alla
lingua velenosa di Tatiana di aggiungere altro. “Va
bene” aveva concesso
l’altra, pizzicando una nota e valutando se questa avesse
l’intonazione che
cercava; Alina si era accomodata sulla sedia, alle loro spalle
l’orchestra
minore del palazzo e davanti a loro in semicerchio nello spiazzale
dedicato
alle danze tutti che le guardavano attenti ed affamati. Alina aveva
sperato
potessero ballare, ma sembravano tutti più curiosi di
vederla esibirsi e lei si
era sentita profondamente sciocca per essersi proposta.
Lilyiana la stava guardando con uno sguardo leggermente preoccupato ed
al suo
fianco Dominik sembrava fin troppo divertito con quel suo sorriso
sornione.
Alina aveva deciso di evitare completamente i suoi genitori –
sankti sperava di
non mettere in imbarazzo sua madre davanti a quattro corti straniere
– o quello
di Meesha o del principe Matthias ed aveva, invece, cercato lo sguardo
di Lissa.
Vasilissa,
dritta come una pertica, incerta, incastrata tra la contessa Najima
Polnudist e
Genya, la sua amica era traboccante di nervosismo e verde in viso, ma
nonostante tutto con gli occhi rivolti lei, e lei sola, e la sua
espressione
vibrava di un solo sentimento: fiducia.
Alina
era stata, ovviamente, un’esecutrice pietosa, ma la buona
mano di Tatiana aveva
nascosto le note stonate e quelle sbagliate. Alina era stata lenta nel
pizzicare
e nelle pressioni, inoltre, non che volesse giustificare la sua
impreparazione,
ma era abituata a suonare con il plettro ed usare un balalaika
accordato a mi-mi-la
invece di un la-la-re che aveva anche una
conformazione più grande nelle
dimensioni e le era risultato più ostico destreggiarsi.
Ovviamente nessuna delle
due cose aveva reso difficile per Tatiana strimpellare le note.
Ma
alla fine erano riuscite a creare una rispettosa imitazione della
Valenki
– per merito di Tatiana
Dubrivin e dell’orchestra che li aveva accompagnati solerte,
come se si fossero
preparati per settimane prima a suonare quel brano e non fosse stato
completamente fuori scaletta.
Tutti
gli ospiti erano eruttati in un ovazione – una
così grande che Alina aveva
pensato presto si sarebbero ritrovate imbrattate di
uova – e anche se
non era giusto perché la gran parte del lavoro era stata
fatta da Tatiana, si
era sentita il cuore gonfio di orgoglio.
Aveva
cercato i suoi genitori, mentre Tatiana la trascinava in un generoso
inchino,
come si era tirata su aveva intercettato lo sguardo pieno di
divertimento e
riconoscenza di suo padre, che aveva capito i suoi errori, ma ne aveva
apprezzato comunque la riuscita. Era così soddisfatta da non
sentire neanche il
dolore dei tagli sui polpastrelli di una delle mani dovute alle rigide
corde.
“Credo
che con della preparazione più adeguata potremmo fare
meglio, prossimamente”
aveva sussurrato Tatiana, “Abbiamo nove giorni credi che
riuscirò ad imparare
qualcos’altro?” aveva scherzato Alina,
“La Barinya due volte”
aveva riso Tatiana, con
un’espressione sorniona.
“Dovrò farmi solo crescere dieci dita in
più” aveva riso Alina.
Alina
aveva preso una coppa di qualcos’altro, era un vino frizzante
dello stesso
colore d’oro dei capelli di suo fratello e dei gioielli che
indossava lei. “È
stata brava, moya tsarevich” aveva sussurrato una voce lei
aveva quasi mandato
di traverso l’ultimo sorso di vino frizzante che stava
trangugiando, “Meesha … ehm,
volevo dire luogotenente Effimov” aveva sospirato stanca e
leggermente acuta.
Meesha aveva raccolto i suoi capelli riccioluti in una piccola crocchia
stretta, e l’unico orpello decorativo che indossava era un
gioello rosso che le
pendeva tra gli occhi, legato con una catenina d’oro rosa,
per il resto non
aveva né un filo di trucco né alcun monile,
tranne che il piccolo orecchino da
cui pendeva la falangetta che usava come amplificatore, mischiato
all’argento
grisha. Era un ossicino umano e Alina era una delle poche persone a
saperlo. Ad
Alina dava un po’ la vertigine pensare appartenesse ad un
amplificatore umano, perché
possederne uno non lasciava molto spazio a diverse
possibilità su come poteva
essere ottenuto, Meesha però non era voluta entrare di
più nel dettaglio e
Alina aveva preferito baciare vorace quelle labbra che chiedere.
Meesha era ben stritolata nella kefta rossa con i riccioli grigio-nero,
che
evocavano le figure di cuori segmentati sul bordo delle maniche,
l’orlo della
lunga gonna e sulle spalle e il petto, fino al colletto, di
taffetà. Segno che
era in servizio, come membro dell’esercito e non come figlia
di un membro della
dvorjanstvo.
Meesha aveva sorriso, con i denti bianchi come perle, piccoli e
graziosi, che
avevano fatto batte il cuore di Alina, “Grazie,
comunque” aveva biascicato,
finendo il suo vino. “Però ho visto che ti sei
graffiata i polpastrelli” aveva
considerato, lei aveva alzato la mano libera notante le piccole linee
rosse e
le bolle rosse di sangue, “Forse ho bevuto così
tanto da non sentire neanche il
fastidio” aveva mentito colma di imbarazzo. Meesha aveva
quasi riso, “L’alcool
anestetizza i nervi, anche quelli del dolore, sì”
aveva considerato la
corporalki, “Posso?” aveva chiesto poi allungando
una mano verso di lui.
Alina
aveva avuto un brivido quando aveva steso la sua mano su quella di
Meesha, e
dal brivido era passata a scintille di fuoco quando le loro carni erano
state a
contato. Aveva ricordato i loro furiosi baci durante l’ultima
Festa del Burro,
prima che Meesha fosse rilocata di servizio da tutt’altra
parte. Il loro
sbaciucchiamento non era fiorito dal nulla, non per Alina, le basi e i
sospiri
erano fioriti da che aveva cominciato a pensare a sé stessa
in relazione con
altre persone.
Quando
l’aveva vista al Piccolo Palazzo era stata così
felice che aveva abbandonato il
Principe di Fjerda in mezzo ad una conversazione e lo aveva lasciato in
balia
dello strano uomo del Bosco di Sankt Feliks da cui suo padre si era
sempre
raccomandata che stesse lontana.
Alina
aveva osservato la mano libera di Meesha muoversi, aveva chiuso
anulare,
mignolo e pollice in un pugno, lasciando stesi solo medio e indice, che
aveva
fatto vibrare sotto e sopra alternati, da quel piccolo movimento Alina
aveva
sentito la sua pelle formicolare, un bruciore appena, prima che le
linee rosse
di carne tagliata si riunissero in pelle intera. “Sei
diventata una healer”
aveva considerato Alina, sapendo bene che Meesha era una heartreander e
l’altra
specializzazione fosse quella di suo padre.
“Come dico sempre a Lissa:
la materia è la stessa” le aveva detto tranquilla,
sciogliendo la loro presa,
questo le ricordava che non aveva ancora parlato con la sua amica,
“Volevi dire
la baronetta Pavlov” l’aveva presa in giro.
“Non
vedo l’ora di doverla istruire a tutte le stupide facezie di
corte” aveva
ridacchiato Meesha, “Adoro da impazzire l’esercito:
un cucchiaio e una
forchetta, se sei fortunata un coltello per tagliare la carne, ma solo
il
martedì” aveva aggiunto. Alina aveva riso,
“Ti va un po’ di brandy?” aveva
domandato poi, “Vorrei, giuro, ma sono qui come membro
dell’esercito della
grande e potente Ravka, non vorrei creare vergogna alla mia
regina” aveva
spiegato. Comprensibile.
“E
ora penso di doverla lasciare, ero venuta solo per congratularmi e per
le dita”
si era congedata con quelle parole ed un inchino amichevole. Alina
odiava
quando usava quel tono così formale, quando usava il lei.
“Quanti
bicchieri hai bevuto?” aveva chiesto Lilyiana quando le aveva
visto riempirsi
un calice, “Sento ancora dolore ai piedi; quindi, non
abbastanza” aveva
risposto Alina con un sorriso sarcastico, “Ti
prego” le aveva detto sua sorella
maggiore, “Solleva le dita” le aveva risposto la
minore. Lilyiana aveva
sollevato tutte le dita meno in pollice, tenuto premuto contro il
palmo, “Quattro
dita! Vedi sono ancora sobria” aveva risposto, ma per qualche
ragione
l’espressione seria di sua sorella le creava un senso di
ilarità difficile da
spiegare. “Non posso lamentarmi, la prima sbronza io la ho
presa che di anni ne
avevo meno di te” aveva soppesato sua sorella. “Me
lo ricordo bene” aveva
scherzato Drina che l’aveva affiancata, Alina era rimasta
molto stupita dalla
sua inaspettata comparsa al banchetto, pensava si stesse congelando da
qualche
parte a Fjerda.
“Ti
ho dovuto tenere la testa mentre vomitavi” aveva aggiunto
spietata Drina,
l’attimo prima che Alina si sporgesse per abbracciarla,
“Ben tornata!” le aveva
detto, “Eh, che accoglienza” aveva ridacchiato la
giovane donna, ricambiando la
stretta. “Oggi ho passato la giornata con tuo padre, a
spiegare l’arte
tysibeiana; sembrava interessato” aveva rivelato,
“Mio padre? Il mio rozzissimo
padre che pensa che l’azzurro, il ciano e l’indaco
siano lo stesso colore?”
aveva riso Drina con una punta di divertimento, “La gente
può cambiare e
ampliare i propri orizzonti” aveva ammesso sua sorella,
versandosi un po’ di
brandy nel suo calice. “Non mio padre, ya
slomayus', no ne sognus' è il
suo motto” aveva risposto Drina, mi
spezzerò ma non mi piegherò, in
antico ravkiano; “Dopo e’ya sta rezku”
aveva ricordato Lilyiana.
Io
sono una lama,
anche quello in ravkiano antico.
Alina
era inciampata nei due diversi motti duranti i suoi studi di storia. Il
primo Mi
spezzerò ma non mi piegherò,
apparteneva al periodo subito posteriore alla
Rafka unificata, contro gli assalti sempre più invadenti
degli Atili, che
avevano poi fatto nascere il bisogno di conquista dello stato: da
difesa ad
attacco. Il secondo apparteneva ad un ordine di monaci guerrieri che
seguivano
le vie di un Dio dimenticato e della spada, che avevano combattuto sia
contro
gli oyriandi, sia contro gli eserciti del Grande Sulinato e di Rafka
stessa che
si univa sotto un credo che non era il loro. Due moniti ormai persi e
dimenticati che sopravvivevano nei fieri uomini del sud.
“Comunque
non vedo l’ora di raccontarlo a mia madre, così
potrà subissarlo di
informazioni relative all’arte” aveva ridacchiato
Drina, sollevando una mano
per soffocare una risata con le dita. Al polso aveva un piccolo
bracciale di
ferro argentato, come quello di suo padre – Alina lo
ricordava perché Genya lo
aveva commentato – e non si era potuta trattenere dal
chiedere.
Drina
aveva guardato il bracciale, come se si fosse stupita di averlo al
polso o lo
avesse dimenticato, “Oh, sì. Gli ho fatti quando
sono rimasta incinta, al loro
interno hanno l’iridio … non è solo uno
dei materiali più rari in natura ma
anche uno dei più difficili da corrodere. Lavorarlo
è stato davvero una
faticaccia, ma ho avuto nove mesi di letto per farlo” aveva
spiegato poi
tronfia, “L’ho realizzato per tutti i membri della
mia famiglia, così posso
sempre trovarli sai, se per caso qualcuno finisse rapito dagli
schiavisti. La
rarità lo rende facilmente rilevabile, la resistenza lo
rende difficilmente distruttibile
e, grazie alle mie doti scarse da fabrikator, la bruttezza lo rende
improbabilmente rubabile” aveva scherzato Drina.
“Non
hai pessime dote da fabrikator, sei semplicemente più
artistica” si era
introdotta Lilyiana, ed era vero. Nonostante Alina non conoscesse
così bene
Drina, aveva visto nel corso degli anni l’amica di sua
sorella piegare la
materia in forme ambigue, divertenti e suggestivi, senza mai concedersi
all’arte dell’invenzione, nonostante fosse stata
– per un periodo – un membro
degli zero di suo padre.
‘Drina ha una percezione che veramente pochi grisha
hanno’ ricordava di aver
sentito sua madre commentare una volta, mentre si passava tra le mani
una rosa
d’ottone con petali così arcuati e imperfetti da
sembrare che qualcuno avesse
colorato un fiore vero del colore metallico. Era quello il suo talento
superbo,
poteva trovare il proverbiale ago nel pagliaio, anche se il pagliaio
era
composto di chiodi di ferro e l’ago del medesimo materiale.
Alina
ricordava di averla vista spuntare tra gli alberi soldati, con la coda
alta, la
benda di seta con il sole – come Genya – e la kefta
porpora che raccoglieva i
ragazzini scalmanati fuggiaschi dall’orfanotrofio con la
stessa maestria di una
cacciatrice di tartufi. Quando erano scesi a sud per la nomina al rango
di
ducale della famiglia Rosen.
“Ovviamente
questo non ha reso le cose semplici al Bosco” si era
lamentata Drina.
“Oh,
sì come va nella ridente Fjerdia?” aveva chiesto
Alina sfacciata, dopo aver
udito la menzione del luogo dove Drina alloggiava. Era un po’
di parte sulla
questione Fjerda, non aveva mai provato particolare attenzione o
interesse per
il luogo, se non per l’algida architettura, massiccia,
imponente ma anche
stranamente alta, avendolo sempre relegato ad un posto freddo e buio.
Alina
sognava con più interesse le terre dell’estate
perenne e i frutti dolci del
sud.
“Fjerda?
Orribile come poche cose al mondo, il Bosco di Sankt Feliks? Peggio.
Un
posto dove ci sono poche ore di luce, il sole è una leggenda
e un freddo così
infame da gelarti l’aria nei polmoni. Inoltre, gli altri
studiosi sono una noio
colossale, per conquistarli ci vuole una fatica infame e non ne vale la
pena”
aveva risposto annoiata Drina, “E la corte?” aveva
chiesto invece lei, facendo
sollevare un sopracciglio scuro a Lilyiana, “Rispetto al Gran
Palazzo è uno
spettacolo, ma anche una cascina in campagna lo sarebbe.
Però, sì, la Corte di
Ghiaccio è un vero miracolo dell’ingegneria e
dell’architettura, è davvero
splendida ed ha il dono di farti sentire minuscolo, degno del titolo di
una
delle Cinque Meraviglie del Mondo. E nonostante fuori possa esserci
neve e
ghiaccio, dentro non fa mai freddo! Peccato esserci stata molto poco
… e
peccato che con l’eccezione della Regina Mila sia un posto
incredibilmente
austero dove stare” aveva risposto, “Perfino Re
Egmond parla poco, il principe
Bjorn d’altronde è molto chiacchierone”.
Il
famoso cugino di Matthias,
“Peccato che sua maestà la regina
Mila ha fatto tutto ciò che era in suo potere per tenermelo
lontano. Infondo,
sono l’erede di un podere e la nota amica
dell’erede di Ravka. Non che mi
interessasse parlare con lui nello specifico, ma almeno aveva una
personalità
frizzantina” si era giustificata.
“In
realtà credo ti abbia fatto davvero bene” si era
intromessa Lilyiana, Drina
aveva aggrottato le sopracciglia, aveva pettinato i capelli
affinché l’occhio
cieco fosse nascosto – Alina non aveva idea di cosa fosse
successo e una parte
di lei smaniava per chiederlo, anche in quel preciso momento
– “Cosa intendi?”
aveva chiesto la materialki, “Che non sei mai stata
così chiacchierona” aveva
buttato fuori Alina.
Sua
sorella le aveva tirato una gomitata senza grazia. In realtà
Alina sapeva che
era esistita una Drina chiacchierona, con gli occhi azzurri vispi e la
gioia di
vivere tatuata in viso, ogni tanto Cignaz – l’amico
di Lissa che lavorava alla
lavanderia – ne parlava e anche Genya, che le passava sempre
le mani tra i
capelli, materna e gentile. Alina però non l’aveva
mai vista.
Non
le sarebbe dovuto importare, ma una parte di lei si sentiva defraudata
di
un’Alina solare ed allegra e di una Lilyiana che, come la sua
amica, era morta
prima che lei emettesse il primo vagito.
Dopo
diciassette anni, Alina si sentiva ancora defraudata.
“Ah,
sì, certo. Al Bosco chiacchierano così poco che
perfino io ho fatto un accumulo
di tutte le parole che non ho potuto dire” aveva scherzato
con un sorriso
allegro. “E tuo marito?” aveva inquisito Alina,
“Sì, ecco …un’altra cosa che
mi
manca è il sesso, vero. Giuro, mi è sempre
piaciuto fare sesso, ma dopo aver
sgravato i miei ormoni si erano acquietati un attimo, ma invece no,
dopo un
paio d’anni, fuoco tra le cosce” aveva risposto
Drina, sorprendendola, Alina
voleva più sapere dove fosse, “Al Bosco non
si copula, non che potrei
farlo, mio marito non è lì” aveva
risposto quella con una risata.
“Non credevo avrei vissuto fino al giorno in cui ti avrei
visto fedele” aveva
detto sua sorella, con un tono stuzzicante, “Mi offendi! Io
sono sempre stata
fedele, se non nel corpo, almeno nello spirito” aveva
stabilito, guardando sua
sorella con l’unico occhio sano con
un’intensità tale che Alina aveva sentito
freddo per Lilyiana.
“Sì,
è stata una cosa profondamente ingiusta da dire, da parte
mia” aveva sussurrato
Lilyiana ed il suo tono era stato lacrimoso, per Alina era
già sconvolgente che
sua sorella si stesse scusando, ma che avesse preso quella vena
smielata
sembrava surreale. Drina aveva allungato una mano e l’aveva
afferrata per la
vita prima di spingersela addosso e strizzarla in un abbraccio da orsa.
Lilyiana era arrossita e l’aveva ricambiata, morbida, prima
di schioccarle un
bacio sulla guancia.
“Oh, per fortuna che il mio maritino non è qui,
potrebbe diventare geloso”
aveva scherzato Drina, “Il mio è qui, ma
conoscendolo probabilmente si starà
facendo corteggiare da mio fratello” aveva ridacchiato
Lilyiana.
Alina
era un po’ gelosa. Malcom, Najima, Dimitriji e suo marito
riuscivano ad
addolcire sua sorella, ma Drina – e il Juris, anche,
ovviamente – riusciva a
renderla una creatura morbida e ruffiana come una gatta, in una maniera
morbida
e bellissima che rendeva sempre Alina invidiosa. Non era gelosa del
loro
rapporto, Alina aveva Lissa, era gelosa che qualcuno potesse rendere
sua
sorella così e che quel qualcuno non fosse lei, ne avesse
mai condiviso i
segreti con lei. Alina avrebbe voluto avere un po’ della
Lilyiana di cui Drina
poteva disporre. “Per spezzare una lancia a suo favore, tuo
fratello è un uomo
molto attraente e con un discreto talento in camera da letto”
aveva scherzato
la donna. “Sankti! Drina!” lo aveva rimproverato
Lilyiana quasi scandalizzata,
“Non mi dire che ci sei giaciuta!” aveva invece
esclamato Alina sboccata, “Chi
io? No, no, per me non importa quanto bello e affascinante diventi
Dominik, per
me rimane lo stesso rospetto che ho conosciuto quando avevo nove anni.
Nonostante mia madre ci sperasse moltissimo” aveva replicato
Drina, “Ma ho gli
occhi, oh, be, ho almeno un occhio che ci
vede!” aveva risposto Drina,
strizzando verso di loro l’unico occhio che si vedeva sul
viso, mentre quello
cieco, ben nascosto dalla pettinatura, “O delle orecchie per
sentire. Ed ho
sentito un mucchio di cose, alcune così depravate
da aver messo in
imbarazzo anche me.”
Alina
era abbastanza sicura di averle sentite anche lei o, meglio, lette, i
libelli
erotici erano spudorati quando si trattava di Dominik e suo fratello
sembrava
quasi gioire nel voler nutrire le dissolute fantasie degli scrittori
più
sfacciati. “Voglio che sia noto, anche alle pietre, che per
quel che mi
riguarda Dominik e Alina per me sono pari a creature
asessuate” aveva stabilito
Lilyiana, piazzandole una mano protettiva sulla spalla. Alina era
saltata dalla
sorpresa ma poi aveva sentito il cuore scaldarle il petto. Aveva
ricordato
Dominik definirla la loro lapushka.
Era
più facile amare suo fratello, di quanto non fosse sua
sorella. Dominik era
sempre così aperto, onesto e sentimentale, mentre Lilyiana
sembrava una tigre
delle nevi rimasta prigioniera in una trappola per orsi che cercava di
graffiare anche l’avventore che tentava di aiutarla
– almeno con loro, in
pubblico sapeva mostrarsi la più raffinata ed educata delle
signore. “Comunque
dove è il mio bracciale?” aveva inquisito
Lilyiana, cogliendole di sorpresa,
toccando il piccolo capolavoro di Drina. “Tu non indossi
monili” l’aveva
rimproverata bonariamente Drina, passandosi una mano su uno degli
orecchini
pendenti. Era una cosa strana ed anche abbastanza risaputa, sua sorella
non vestiva
gioielli, neanche la fede – e nella corte si scommetteva se
quando sarebbe
ascesa al trono avesse o meno indossato la corona – di nessun
genere. Per anni,
cortigiani, mercanti e quant’altro avevano cercato di
guadagnare i favori di
sua sorella donandole pietre preziose, che puntualmente finivano o
restituite,
o date in beneficenza o ad Alina. La stessa collana che indossava in
quel
momento, una collana di una lega d’oro ed argento, che
raffigurava un drago a
quattro zampe di profilo, con ali spiegate e la coda che si arrotolava
sul
collo sottile, con pietre d’ametista come occhi, era un
regalo che Lilyiana
aveva ricevuto dal precedente Presidente del Consiglio di Kerch
– prima che
avesse uno sfortunato incidente con una scala da tre gradini
– e che non poteva
essere restituito. Era oggettivamente una collana ingombrante e
piuttosto
brutta, ma ad Alina piaceva, sembrava proprio urlare: sono la figlia
del drago.
“Una
spilletta?” aveva proposto Lilyiana, Drina aveva ridacchiato,
“Ho fatto dei
gemelli sia per Juris sia per il Piccolo Nikolai quando
crescerà” le aveva
detto, prima di allungare la mano ed accarezzarle i capelli quasi
materna.
“Oh!
Il principe di Fjerda!” aveva squittito Lilyiana attirando la
loro attenzione,
ammiccando a Matthias che incedeva a passo lento – molto
lento – verso di loro,
evitando i bagordi della festa e delle danze. Avevano ballato insieme
almeno
due volte erano stati rigidi e pieni di fatica.
“Il bellissimo principe di Fjerda” aveva
bisbigliato Alina, “Ti ho già detto
che penso la sua faccia sia opera di sartoria?” aveva
chiesto, era un commento
rivolto più a sua sorella, che alla giovane futura duchessa,
guardando il fondo
del suo bicchiere. “Decisamente sì”
aveva accordato Drina, con una mezza
risata, “Ti prego” l’aveva rimproverata
Lilyiana, dandole un buffetto.
“Vostra
altezza reale, vostra altezza e vostra grazia” aveva detto il
principe Matthias
quando era stato alla portata delle loro orecchie, facendo un inchino
con
gentilezza alla loro presenza.
“Vostra grazia” lo aveva
scimmiottato un po’ Drina, “Due mesi fa ero
Drina!” aveva aggiunto ridente. Era balenato un rosso vivo
sul viso di
Matthias, “Non volevo essere sfacciato”
aveva miagolato. “Gli uomini di
Fjerda possono esserlo?” aveva chiesto Alina, prima di
guadagnarsi un pizzico
sulla spalla da sua sorella. Matthias aveva sgranato gli occhi
azzurrissimi,
“Oh, sì possono esserlo!” aveva ghignato
Drina, “Non sai quanto possano esserlo
i druskelle” aveva sospirato sua sorella, ma non
c’era gioco o gentilezza nella
sua voce. “Sua altezza reale, perdona mia sorella, la
principessa Alina è
piuttosto agitata questa sera” aveva provato con un tono
più sicuro Lilyiana,
“Più allegra, direi” si era intromessa
lei stessa.
Matthias
l’aveva guardata, aveva deglutito pesantemente e poi aveva
detto: “Nessun
bisogno di scusare nulla e nessuno” poi aveva fatto una lunga
pausa, con gli
occhi blu spaesati come un cervo cacciato, “Era mio interesse
passeggiare con
t-voi, principessa Alina” aveva aggiunto.
“Oh, certo!” aveva risposto Alina, anticipando
Lilyiana, prima di buttare giù
l’ultimo sorso del bicchiere. “Non dovrebbe esserci
uno stuolo di
accompagnatori?” aveva inquisito Drina, mentre Alina si
divincolava dalle due,
per raggiungere Matthias e prenderlo a braccetto. Il principe era
sembrato in
leggera difficoltà, “Dovrebbe” aveva
considerato. “Fortunatamente siamo in
territorio Ravkiano e se una fanciulla e un fanciullo vengono trovati
da soli,
in atteggiamenti non ostili, si ipotizza stiano solo parlando o, forse
anche
amoreggiando, ma non è un problema” aveva
ponderato Lilyiana, dandole un
buffetto incoraggiante sulla schiena.
“Grazie
per avermi salvato da quelle due” aveva ridacchiato Alina,
aggrappandosi a lui,
“Mia madre dice sempre che quando sono insieme Lilyiana e
Drina perdono tutta
la loro compostezza e diventando due cinciallegre” aveva
rivelato, “Mio padre
dice che è ereditario, perché mia madre e Marina
Rosen sono uguali” aveva
scherzato. “Due contadinotte, passate per
l’esercito, fino ad un ruolo
nobiliare che mal si confaceva” aveva detto sguainata
– una vita completamente
diversa da quella in cui Alina era stata costretta, tra etichette e
lezioni di
matematica, letterature e buone maniere.
Ed era stata patetica nell’ultimo.
Matthias
si era morso un labbro, “Devo dire che i miei genitori non
hanno conservato
molte amicizie della giovinezza. Mia madre era la vedova di un
pescatore e mio
padre era un ragazzino malato; si sono avvicinati uniti dal cordoglio
di Hanne
Brum; hanno nutrito una bella corte poi” aveva considerato,
“Ma hanno pochi
amici” l’ultima sentenza l’aveva detta
con un tono basso e tinto di tristezza.
“Tua madre mi pare la donna più allegra e
socievole del mondo, riesce a tenersi
in competizione con mio padre” aveva ridacchiato, Alina non
aveva chiesto nulla
su di lui, era abbastanza nota che il principe Matthias non fosse
particolarmente loquace e socievole, le sue compagnie più
note erano stati il
cugino Bjorn e la giovane nobile hetsjut con loro, oltre la Frusta di
Mare – a detta
di quello che lui stesso aveva detto.
“In
base a questo …” aveva cominciato Matthias, mentre
lo trascinava in luoghi più
appartati, verso i boschi di pioppi circostanti la palude, che divideva
lo
spiazzale della festa – con il ballo, l’orchestra e
i tavoli imbanditi – e la
villa e l’alcova di Kirigin e Demidov. “Sta sera
è stato molto bello quello che
hai fatto per la baronetta” aveva considerato gentile,
“Se mi fossi preparata
meglio, sarebbe stato più bello” aveva sospirato
Alina, “Penso sia stato un
gesto così gentile che non importi” aveva
considerato e il suo tono era stato
mesto, onesto, e stucchevole, che Alina si era sentita quasi in colpa
per
qualcosa. “Grazie” aveva pigolato.
“C’è qualche parte dove vuoi
andare?” aveva
inquisito Alina, poi recuperando la sua compostezza, per quanto
l’alcol lo
permettesse, “In un posto … solitario”
aveva risposto Matthias, “Devo chiederti
di una cosa seria.”
“Uh
… siamo in un posto parecchio isolato” aveva
considerato Alina, posandosi al
tronco nodoso di un albero, senza preoccuparsi che la resina rovinasse
l’albero. Matthias era ad una distanza ragionevole da lei,
che per un Fjerdiano
sarebbe probabilmente costata una scudisciata sulla schiena per atti
osceni. Doveva
essere un posto molto triste Fjerda, freddo, cupo e repressivo,
nonostante la
regina Mila avesse fatto più miracoli di una sankta per
renderlo un lugo fresco
ed aperto. Alina non era abituata alle scorribande dei suoi fratelli,
ma perché
l’avevano sempre tenuta prigioniera in una campana di vetro
ed ogni sua fuga
era stata abortita prima di poter avere vita, e forse
nell’intimità era stata
piuttosto carente – e ancora ricordava i baci feroci di
Meesha e le sue carezze
avide – ma aveva letto libelli di ogni genere, e libri e
poesie, così come
quadri e litografie; aveva tormentato Genya in ogni modo. Una volta
aveva anche
cercato di infilarsi in un postribolo per guardare.
Sapeva
che, se avesse avuto la libertà non sarebbe stata dissimile
dal resto della sua
famiglia.
“Se tu volessi uccidermi, questo potrebbe esser un luogo
adatto. Potrei urlare
fino a squarciarmi la gola e nessuno mi sentirebbe” aveva
scherzato. Non
sarebbe stato utile solo per quello, pensandoci attentamente.
“Non voglio ucciderti!” si era difeso il principe.
Matthias
la guardava come se fosse stata l’incarnazione del Vampiro e
dalle sue mani
avessero potuto zampillare fiocchi di oscurità, la nuova
venuta dell’Oscuro.
“Meno male, perché devo dirti che Tamar Yul-Baatar
mi ha insegnato l’autodifesa
e so atterrare una persona due volte me” aveva stabilito.
Il principe di Fjerda non era due volte lei, anzi era anche piuttosto
magro in
confronto ai fisici statuari dei druskelle che aveva visto, e
più secco di suo
fratello Dominik, però aveva le spalle ampie ed era
più alto di Alina di almeno
mezza testa. Matthias aveva sollevato le mani, in una posizione di
resa, pieno
di disagio in viso.
“Appurato
che tu non voglia uccidermi e che io non debba romperti qualche osso
…Cosa
volevi chiedermi?” aveva chiesto poi, leggermente
spazientita, lontano, come
echi distanti sentiva la musica dell’orchestra ancora vivace.
“La
tua mano” aveva risposto Matthias freddo. Alina aveva
sollevato la mano
sinistra, contraendola dalla posizione molle in cui aveva costretto il
braccio,
“Eccola” aveva scherzato, allungandola verso di
lui. Matthias aveva fatto
zampettare l’azzurro dei suoi occhi dalla sua mano al suo
viso, con un’espressione
che tradiva la sua stoica apatia in qualcosa di molto più
umano: incredulità e
sorpresa. “Non in quel senso” aveva detto
leggermente a disagio. Onestamente
non capiva a pieno il perché, lui aveva chiesto, lei aveva
dato. “Non mi hai
appena chiesto la mano?” aveva chiesto Alina con
ovvietà facendo roteare il
polso. “Non in quel senso” aveva insistito il
principe, portandosi una mano sul
viso, sconfortato.
“E
in quale sens-oh!” aveva provato, prima di capire, “In
matrimonio! Tu
stai chiedendo la mia mano in matrimonio!” aveva esclamato
Alina. Stupita!
“Sì,
so che non è molto ortodosso. Di norma dovrebbero parlarne
mio padre e tua
madre e noi dovremmo a malapena saperlo. Mio padre si era raccomandato
di
scegliere bene e mia madre parteggia molto per te, però ho
pensato fosse d’uopo
parlarne con te prima di dar via alla chiassosa burocrazia
necessaria” aveva
spiegato pratico.
“Come?”
aveva chiesto. “Mio padre ha sposato una pescivendola, ma io
non avrò la stessa
grazia di poter sposare qualcuno che amo, ai tuoi genitori è
capitata la stessa
fortuna che non sarà estesa a te. Questo perché
siamo principi e principesse e
ci si aspetta che stendiamo alleanze” aveva cominciato a
recitare con un tono
insicuro, “I nostri genitori hanno potuto sfruttare
situazioni eccezionali che
a noi probabilmente non saranno concesse” aveva considerato.
Come
era stato per Lilyiana, almeno pensava Alina, che un giorno aveva
annunciato
che avrebbe sposato il figlio di un ministro di Shu-Han di cui lei non
sapeva
nulla – forse non era proprio come immaginava la storia
Alina, ma immaginava
che sua sorella avesse semplicemente scelto il partito più
appetibile per i
suoi giochi cortesi.
“Però,
ecco, pensavo prima di incastrarti in questa cosa di chiedere se ti
andasse
bene” aveva buttato fuori Dominik. Alina aveva sbattuto gli
occhi realizzando
la portata di quella dichiarazione.
“Vuoi sposarmi?” aveva chiesto con una certa
perplessità, “Ci conosciamo a
malapena!” aveva aggiunto. Matthias aveva battuto gli occhi
blu come se lei
fosse stata un elefante con ali piumate di colore arcobaleno.
“Sì, di sicuro
non è perché sei l’amore della mia
vita, ma …” aveva borbottato il ragazzo con
una goffa incertezza. “Hai bisogno di una principessa,
sì” aveva ponderato
Alina, “Dalai ha un sacco di cugine.” “Ho
bis-Ma preferirei te” aveva detto
Matthias, deviando lo sguardo, puntando gli occhi azzurri sulle sue
scarpe
leggermente infangate. Alina non riusciva a spiegarsi perché
questa improvvisa
dichiarazione la lasciasse leggermente scossa – non provava
niente per il
principe, ma …
“Io
credo vada bene” aveva borbottato alla fine. Sua madre ne
sarebbe stata felice,
adorava la regina Mila, la Corte di Ghiaccio non distava troppo da Os
Alto e …
Alina non avrebbe avuto poi molta scelta.
“Credi?”
aveva chiesto Matthias, “Sì credo, comunque non ci
sposeremo domani, no? Ci
saranno organizzazione, incontri. Sono sicura che Fjerda ha una rigida
etichetta per il corteggiamento” aveva borbottato. Matthias
aveva ridacchiato,
la sua voce era sembrata più leggera, “In effetti
sì. È una procedura lunga e
piuttosto nevrotica” aveva ammesso, grattandosi il capo
biondo, “Però credo
sarebbe d’uopo fare una cerimonia mista. Il vecchio Karl
impazzirà per
organizzarla” aveva considerato.
Si sarebbe sposata, era un pensiero che le dava una leggera nausea; le
era
venuto in mente il matrimonio di sua sorella qualche anno fa e
l’espressione affranta
di Anya quando aveva le aveva comunicato che si sarebbe unita in giuste
nozze a
Viktor Semyon. In effetti anche Alina avrebbe indossato il colore del
lutto se
avesse dovuto sposare il promesso sposo di Anya. Però a lei
non sarebbe toccato
l’insofferente Viktor Semyon, a lei spettava
l’algido principe di Fjerda. Per
un solido secondo aveva pensato che si sarebbe piegata in due in quel
momento e
che avrebbe vomitato tutto quello che aveva bevuto e mangiato fino a
quel
momento. Ma aveva ricacciato a fatica la bile nello stomaco, per
voltare lo
sguardo verso il principe.
C’era
qualcosa in lui di titubante, quasi tremolante – Oh Sankti!
Alina lo avrebbe
sposato, questo noioso ragazzo perfetto, perfettamente ben educato, con
una
faccia finta e che scommetteva dentro dovesse avere qualcosa di marcio.
“Parlo
il fjerdiano come una bambina, sappilo” aveva considerato,
cercando di
alleggerire la situazione, quando si sentiva tutt’altro che
leggera, Matthias
aveva annuito: “Probabilmente la lingua sarà
l’ultimo dei problemi” aveva
valutato lui. Alina si era allontanata dal tronco di pioppo, per
avvicinarsi,
“Immagino” aveva detto enigmatica, lui si era fatto
leggermente rosso in viso,
“Potrebbe anche essere la tua faccia” aveva
berciato lei. Il rossore dolce
aveva lasciato spazio ad un bianco cadaverico sconvolto, toccandosi le
guance
con un movimento meccanico, “La mia faccia?” aveva
balbettato.
Alina
aveva toccato la guancia che Matthias non stava toccando, aveva sentito
la
pelle del principe infiammata sotto i suoi polpastrelli,
“Questa non è la tua
vera faccia, vero?” aveva biascicato, l’espressione
sul viso di Matthias era
impagabile, sconvolta “Nel senso ti aggiusti,
no?” aveva considerato
divertita.
Matthias
le aveva allontanato la mano dalla sua faccia con un tocco delicato, ma
imperioso, come se non avesse voluto farle male ma non tollerasse di
essere
ancora toccato, “Cosa … intendi?” aveva
chiesto. “Nessuno è così bello. Nessun
uomo almeno” aveva ridacchiato.
Matthias
aveva battuto le ciglia colto di sorpresa, “No?”
aveva proposto, “Ti ho
letteralmente trovato con le mani di Genya sulla faccia!”
aveva replicato
Alina.
“Questa
è la mia faccia!” aveva replicato Matthias ed era
sembrato profondamente offeso
dalle illazioni di Alina, che quasi aveva sentito un leggero
manifestarsi di un
senso di colpa.
Però, il viso irritato di Matthias era quasi delizioso,
“Va bene, tieni i tuoi
segreti. Ma se ci dovessimo mai sposare, mi dispiacerebbe svegliarmi la
mattina
con uno sconosciuto” aveva buttato fuori.
“Non succederà” l’aveva
rassicurata Matthias ma il suo tono era leggermente
aspro di panico, “Va bene, va bene” aveva ammesso
Alina ridacchiando, non
sapeva perché ma era decisamente compiaciuta dalla
difficoltà di Matthias, fino
a quel momento era sempre sembrato una creatura così posata,
anche sotto
l’incalzante interrogatorio di Dominik.
Sempre
perfetto, sempre cheto, il principe d’oro e di ghiaccio, che
Alina era sicura
sua madre avrebbe voluto al posto della sua irruenza fastidiosa, dei
modi
vezzosi di Dominik e dell’atteggiamento bisbetico di
Lilyiana. Eppure, eccolo,
umano e con le gote paonazze di vergogna e vino.
“Potresti
quasi piacermi, ora” aveva detto.
“Perché
non ti piaccio?” aveva chiesto Matthias, ma non aveva avuto
indignazione nella
voce, ma quasi genuina curiosità. Alina aveva ridacchiato,
“Oh, … ehm … come
dire, sei noioso?” aveva buttato fuori, “Guardati:
bellissimo, perfetto, bravo
in tutto, non mi sono neanche dovuta sforzare per perdere la
competizione di
tiro al piattello, sei così calmo, stoico, non sembri vero,
non hai alzato
neanche una volta la voce con Dominik che è stato orribile
per tutto il tè che
abbiamo preso assieme, suoni la domra, reciti bene le poesie, sankti,
ieri hai
recitato un sonetto che hai scritto tu nella mia lingua, forse non era
perfetto, ma hai rispettato la metrica e hai usato rime sagaci tipo
radicchio e
crocchio … come hai pensato di metterle in rima?”
aveva buttato fuori. “Non mi
sembrano cose … cose brutte” aveva provato il
principe. “Praticamente se
aggiornassimo La Giusta Immagine di un Principe,
dovremmo scriverci:
Matthias Grimojor” aveva buttato fuori. Matthias sembrava
confuso.
Non mi piaci perché mi fai sentire inferiore e
inadatta e io sono la dannata
principessa di Ravka! Avrebbe voluto urlare ma non era stato
il buon senso
a fermare la sua lingua, quanto la vergogna, anche alterata e sciatta,
Alina
non lo avrebbe mai ammesso.
Non avrebbe mai permesso di vincere a quella piccola vocina che
sussurrava
nelle sue orecchie che non era abbastanza.
“E
soprattutto sei bello, bello da far schifo, cioè sul serio,
guardarti soltanto
mi fa drizzare i capezzoli!” aveva buttato fuori, invece, e
non era neanche una
menzogna. Arrabbiato, confuso ed impacciato il principe Matthias
sembrava
davvero accettabile. Il fjerdiano era diventato rosso come un pomodoro,
“Questo
è molto audace” aveva buttato fuori,
“Per un fjerdiano sicuramente … scommetto
che essere qui al buio a parlare con me sia la cosa più
spericolata che tu
abbia mai fatto” aveva sogghignato.
“Perché
tu?” aveva risposto schietto il principe, con un tono
leggermente irritato ma
le guance ancora rosse, “Io? Io sono scappata di casa tre
volte, ho fatto il
Sentiero dei Pellegrini” – non era vero, non del
tutto, dopo che Vasilissa era
partita per l’Agroverde, Alina aveva scongiurato di poter
andare, ma non aveva
ricevuto l’assenzo, dopo tempo ancora le bruciava,
“Ho scalato le rovine
dell’Arcolaio e ho camminato tra gli Alberi Soldato con i
bambini di Keramzin e
ho visto l’Uccello di Fuoco” aveva quasi urlato,
quello, quello era vero.
In
particolare, l’ultima; Alina lo ricordava come una memoria
febbrile. Ricordava
di averlo raccontato a Drina e Lilyiana dopo certissima e ricordava lo
sguardo
leggermente accondiscendente di sua sorella, nessuno dei bambini che
era
fuggito allo sguardo attento di Marina quando avevano fatto
l’escursione dei
boschi lo aveva visto, quindi nessuno le aveva creduto.
A parte la duchessa: ‘forse è stato per il nome
nome’, aveva ipotizzato
gentile.
‘Ma
lei mi crede, vero?’ aveva chiesto impaziente,
‘Certo. Anche a me è capitato di
vederlo’ aveva risposto lei con gentilezza.
“Io
ho attraversato il fossato di ghiaccio per l’Isola Bianca
come un druskelle ed
ho ascoltato la voce di Djel” aveva buttato fuori.
“Noioso” lo aveva preso in
giro Alina, “Quante belle principesse o campagnole hai
baciato?” aveva chiesto,
“Sei mai stato così vicino a qualcuno?”
aveva chiesto audace, posandoli una
mano sul petto, dove c’era il cuore. Avrebbe voluto essere
una corporalki in
quel momento per leggere quel nervoso ragazzo come un libro.
Matthias
l’aveva colta di sorpresa, imprigionando le sue mani guance
come una morsa ed
aveva schiacciato i loro nasi insieme, anche le loro labbra e i denti,
ma Alina
aveva notato di più l’appendice sul viso. Si era
ritratta con fatica, con una
mano a massaggiarsi la punta del naso.
“Cosa
doveva essere quello?” aveva chiesto sconvolta e fin troppo
divertita, “Un
bacio” aveva provato il principe di Fjerda bianco in faccia,
mortificato. La
risata proruppe dalle labbra di Alina senza il suo controllo,
prepotente dal
suo ventre, fino alla luce. “Oh, sankti, cosa era
questo?” aveva chiesto
tenendo malamente l’ilarità. “Un
bacio” aveva risposto scandalizzato il
principe.
“Oh,
Sankto Juris del Drago, se questo era un bacio, siamo messi proprio
male” lo
aveva preso in giro spietatamente, “Mi sa che il parlare
sarà davvero l’ultimo
dei nostri problemi.”
Si era aspettata che Matthias rispondesse per le rime, ma il principe
di Fjerda
era rosso di frustrazione e la sua espressione era così
contrita che aveva
quasi fatto appassire la risata sulle labbra di Alina,
“Possiamo
riprovare se ti va” aveva proposto.
Matthias
sembrava spinoso e nervoso, si era sporto leggermente di nuovo meno
irruente,
questa volta senza toccarla con le mani, come se Alina fosse fatta di
fuoco.
Non
era stato comunque un bel bacio, era stato un cozzare di denti,
scoordinato e
la lingua di Matthias nella sua bocca sembrava lo strisciare di una
lumaca. Alina
non aveva potuto imbrigliare in alcun modo la sua mente che davanti
tutta
quella scomodità aveva ricordato un altro bacio,
un’altra ebrezza, un’altra
festa.
Meesha
è le sue labbra morbide, quella lingua esperta, che le aveva
fatto sentire le
scintille, i brividi lungo la schiena e quelle mani svelte, che
l’avevano resa
nervosa e umida.
E,
sankti, Matthias era completamente negato. Si era staccata di fretta
con ancora
un filo di saliva ad unirli, “Almeno ho trovato qualcosa in
cui non sei bravo”
aveva scherzato con ancora la risata sulle labbra.
L’espressione del principe era stato molto meno divertita,
“Neanche tu sei
particolarmente capace” aveva stabilito, “Come se
avessi un metro di paragone”
aveva risposto Alina, cogliendo la sua inesperienza. Il principe era
sembrato
inviperito, “Forse è il caso che ci fermiamo
questa sera” aveva proposto il
principe gonfiando le guance. “Vogliamo tornare
indietro?” aveva proposto lei,
“Forse resto qui per un po’, devo …
riflettere” aveva detto. “Va bene” aveva
concesso Alina, incerta di quello che fosse appena successo,
“Forse …” aveva
borbottato qualcosa lui, senza che lei lo comprendesse.
“Cosa?”
aveva chiesto Alina, ma Matthias l’aveva ignorata, si era
poggiato al tronco di
un pioppo con un braccio, ed aveva posato la fronte sul suo
avambraccio, per
nascondere il viso, come se avesse dovuto nascondere qualcosa. Alina
aveva
deciso di lasciarlo alle sue contemplazioni, la notte
d’altronde era giovane,
mentre seguiva la strada che si era lasciata alle spalle, la risata era
tornata
sulle sue labbra.
Era
una cosa stupida, ma provava un piacere difficile da spiegare nel
sapere che il
perfettissimo principe Matthias fosse negato in qualcosa, anche se era
una cosa
sciocca.
Aveva
sentito di nuovo la musica inondarle le orecchie ed aveva osservato il
caos che
si palesava davanti a lei, aveva cercato sua sorella con lo sguardo, ma
non la
riusciva a distinguere, c’era sua madre però, che
dominava la sala con il suo
abito di scaglie viola-nera e tulle, come la regina che era, mentre
duettava
con il Marshal delle Isole Erranti.
Mentre
osservava le giravolte di sua madre, aveva riconosciuto anche la sua
migliore
amica.
Il vestito d’oro di Alina, non era bello come
l’abito lillà che Najima le aveva
fatto confezionare, quindi, Alina non aveva chiaro perché
avesse indossato quel
vestito, considerato che Genya lo aveva fatto modificare a posta per la
sposa
segreta. Però
Vasilissa era bellissima
lo stesso, lo era perché indossava il suo sorriso
più bello e sembrava felice,
con le gote arrossate dalla fatica e l’uomo con cui stava
ballando – il
vice-segretario di Novy Zem – la stava rendendo felice.
Aveva
attraversato il campo visivo di Anya Karkoff, vestita come una colata
di
melassa, che aveva l’espressione verde di qualcuno che aveva
mangiato qualcosa
di indigesto, e Viktor Semyon che aveva lo sguardo truce dei soldati,
verso la
sala. Si era diretta verso uno dei tavoli, aveva raccolto
un’altra coppa di
vino con cui soffocare le risate al pensiero di quel bacio
così impicciato e
dopo aver tracannato un po’ di quel vino, si era diretta
verso la pista,
abbandonando le scarpe che cominciavano a dolerle. Ci aveva decisamente
camminato troppo e se avesse voluto ballare sarebbero state
più un problema che
altro.
Quando
Lissa l’aveva vista, si era sciolta dalla presa
dell’uomo con una giravolta
felpata e le era andata incontro. Alina le aveva gettato le braccia al
collo,
“Sei stata bravissima!” le aveva sussurrato la sua
amica piena di riconoscenza
e gioia. “Per favore, ho sbaglio più accordi io
che tutti i musicisti di Ravka
negli ultimi cinquant’anni. Tatiana è stata
bravissima … a nascondere tutto!
Andiamo a ballare!” le aveva urlato trascinandola ancora al
centro della sala.
Aveva cercato di raccontarle tra una giravolta ed una risata quanto era
accaduto, ma la presenza molesta di Dominik in compagnia di Saroise,
l’altra sorellastra
del Marshal, le aveva impedito di essere esplicita. Non voleva dire a
Dominik
di Matthias, non quando suo fratello era stato così
antagonista da quel famoso
tè nel Giardino Segreto di sua madre.
E
poi era arrivata anche Anya Karkoff ancora più verde in
viso, come se avesse
voluto vomitare tutta la sua cena sulle scarpe di Alina. Era stata
anche
egoista ma aveva trovato anche terribilmente fastidioso che la giovane
principessa della Seta avesse bisogno della sua amica.
Da
quando erano amiche?
Alina
era terribilmente invidiosa, Anya era stata una sua compagna di giochi
da
bambina ed anche se da piccole si erano trovate accettabili, da adulte
non era
rimasto così. Anya era tutto quello che Alina non aveva
potuto essere: libera.
Anya Karkoff poteva rotolarsi sull’erba, fare a gare con gli
uomini per sputare
i noccioli dei ciliegi, ballare sui tavoli e scappare dalla campana dei
suoi
genitori.
E voleva anche Lissa?
Aveva
accompagnato la sua amica da suo padre che le aveva concesso le chiavi
delle
sue nuove stanze – Alina non sapeva dove fossero, ma
immaginava dovessero
essere più vicine al Corridoio Principesco e lontane dalla
cucina – ma pensava
che avrebbero dovuto battezzarle insieme. Forse Alina
l’avrebbe raggiunta, dopo
gli spettacoli pirotecnici; per onore avrebbe dovuto accompagnare
Lissa, ma non
voleva perdere la sua prima festa alla Palude, voleva godersela per
intero,
dall’inizio alla fine.
Aveva
perso l’ultimo scambio tra suo padre e la sua amica, tornando
consapevole nella
realtà solo quando aveva sentito il suo nome in bocca al suo
vecchio.
“Per
essere dama di Alina, dovrai essere insignita del titolo di Damigella
di Corte
ed entrare nell’ordine di Sankta Vasilka” stava
spiegando suo padre. Lissa non
sembrava molto convinta delle sue parole, la sua faccia era bianca come
un
lenzuolo e si stringeva la chiave di ferro dorato al petto come se
fosse stato
un galleggiante, “C-Certo” aveva balbettato. Alina
aveva strizzato l’occhio
verso di lei, per darle fiducia, sicura che qualsiasi manfrina fosse
richiesta,
Genya l’avrebbe sistemata a dovere.
Mentre
Lissa e Anya in gran carriera si allontanavano dalla festa per
raggiungere le
zone delle carrozze, Alina era rimasta a vegetare nell’arco
di suo padre.
Lui
però non sembrava molto interessato a lei – cosa
che non l’aveva stupita molto,
Alina non era ne Lilyiana ne Dominik – preferendo tornare a
parlare con i suoi
commensali.
Il
duca di Keramzin le aveva rivolto uno sguardo,
“Sarà un po’ frastornante per la
tua amica” le aveva detto, “La nobilità.
Sembra una cosa da niente così, ma
cambia” aveva detto l’uomo con voce calma,
“Immagino” aveva provato lei.
Non
credeva che la vita di Lissa sarebbe cambiata così tanto,
alla fine la sua
amica era cresciuta a Palazzo e fino a qualche anno prima non aveva
svolto
nessuna incombenza domestica. Sarebbe tornato tutto a come quando erano
bambine; avrebbero passeggiato per i giardini, avrebbero spettegolato
insieme e
forse avrebbero potuto fare il Cammino dei Pellegrini insieme e
avrebbero
viaggiato, per vedere la Tsaraskaya e qualsiasi altra terra,
perché Alina entro
un anno avrebbe avuto diciotto anni e non sarebbe più stata
una bambina. Già
immaginava quello che avrebbero veduto, dalle terre calde di Shu, alle
peccaminose strade di Kerch, le città di Stoffa delle
Colonie, le stranezze
delle Isole Erranti, i campi d’oro di Novy Zem, solcato le
acque blu del Mare
Vero e le innevate distese di Fjerda … dove Alina avrebbe
vissuto.
Quel
pensiero la colpì con la stessa intensità di una
pioggia estiva improvvisa.
Se
avesse sposato Matthias avrebbe vissuto nell’algida bellezza
della Corte di
Ghiaccio, tra le nevi e gli uomini tristi.
“Sta
bene, moya tsarevich?” aveva chiesto preoccupato il duca di
Keramzin, che
veniva da una terra a sud, florida, con gli alberi di melo e pesco nel
giardino
e la casa piena di risate. Era un pensiero stupido ma si chiese se
anche sua
madre si fosse sentita così, quando aveva deciso di sposare
suo padre, sapendo
che avrebbe rinunciato al mondo intero per una corona, per un palazzo
da cui
non sarebbe mai potuta uscire. Certo, sua madre non era stata la
principessa di
Ravka, ma la figlia di un contadino, ma era un Drago, suo era il cielo
e Alina
non riusciva ad immaginare, o ricordare, una sensazione più
inebriante del
volo. Però sua madre rimaneva confinata lì, sulla
terra. “Sì. Penso tornerò a
ballare” aveva risposto Alina, allontanandosi di fretta.
Aveva
ballato con Genya, che si era dichiarato troppo stana e troppo vecchia,
con il
ministro Sonan, con il principe Huoion, due volte, con Lagohire e con
Samir
A-Far, che era il segretario di Novy Zem ed aveva fatto non poche
domande su Vasilissa
e a cui meschinamente Alina aveva mentito di tutto punto. Non voleva
che tra
lei e Lissa ci fosse il Mare Vero in mezzo.
E
ogni ballo era stato intervallato da un sorso di brandy o altro, anche
dell’acqua. Aveva cercato Matthias con lo sguardo ma il
principe era scomparso
come la neve alle prime avvisaglie di primavera.
Ed
un ballo anche con sua madre.
“Finalmente
riesco a vedere uno di voi” aveva scherzato sua madre,
“Tua sorella e tuo
fratello si sono fatti incredibilmente sfuggenti questa sera”
aveva considerato
quella, mentre la conduceva, con una morsa ferrea e precisa.
“Sono sicura di
aver visto Dominik singhiozzare verso il bosco” aveva
commentato, “Da che sono
arrivate le delegazioni sembra aver perso il suo fascino ed
è un fascio di
nervi e piagnistei” aveva detto senza vergogna,
“Quello che hai detto non è
carino, Lina” l’aveva rimproverata sua madre,
dandole un buffetto sulla spalla,
prima di osservare il suo viso, “Hai bevuto? Non mentirmi ho
sensi più
sviluppati” aveva risposto, “Senti il mio battito
del cuore?” aveva chiesto
lei, “No, sento il tuo fiato” aveva risposto
piccata sua madre. Alina aveva
riso, “Solo un po’! Sono del tutto
consapevole” aveva ridacchiato, prima di
fare una giravolta, sua madre aveva scosso il capo,
“Ciò non toglie che domani
io sarò sobria e Dominik ancora arrabbiato” aveva
considerato.
“Oh,
lapushka, tuo fratello ha il cuore spezzato” aveva soffiato
lei, mentre le
faceva fare una giravolta con gentilezza,
“Dominik?” aveva chiesto, “Ha un
cuore da essere spezzato?” aveva chiesto.
Nella
sua testa, suo fratello era meraviglioso, ma era anche uno spirito
libero, una
farfalla, non credeva avesse qualcuno da amare e da cui farsi spezzare
il
cuore. Onestamente, sapeva fosse giaciuto con la bella Min-Han ma non
credeva
di averlo mai visto innamorato. “Non gli piace parlarne, ma
una madre queste
cose le sa” aveva sospirato sua madre, per la prima volta era
sembrata stanca,
“Non riesco ad immaginare ne Dominik ne Lilyiana con il cuore
spezzato. Loro
sono sempre così eterei” aveva borbottato.
“Nessun cuore è immune ad una frattura, bambina
mia” aveva sussurrato sua
madre, “È quello che hai provato quando il signor
Rosen ha sposato Marina?”
aveva chiesto senza vergogna, aveva avuto quell’idea in testa
per molto tempo.
Suo
padre era principe, il secondo genito, e corteggiava la Sankta del
Sole, sua
madre era un soldato e probabilmente neanche pensava a suo padre e
… i coniugi
Rosen si erano sposati mentre suo padre era ancora Re e sua madre era
soldatessa, due ragazzini, più giovani
dell’età che Alina stessa aveva in quel
momento.
Sua
madre aveva riso in una maniera grave e gutturale, “Ma come
ti è venuto in
mente?” aveva chiesto, “Sankti che idee bislacche
che hai bambina” le aveva
detto. “Schievich mi piaceva molto, mi piaceva più
di altri; aveva delle capacità
notevoli, per certi versi molto più creativo di
tuo padre, ma tra noi non
vi era intessuto amore” le aveva confidato, allungando una
mano per
accarezzarle il viso, “Penso che sentimentalmente sia molto
più legata a
Marina” aveva confessato.
Alina
per tempo si era chiesta se Lilyiana e Drina fossero un’ombra
di Zoya e Schievich,
ma forse erano delle loro madri.
“Nessuno
ti ha mai spezzato il cuore, mamma?” aveva chiesto confusa,
perché non credeva
che suo padre avesse mai voluto, per un po’ di tempo il loro
rapporto si era
raffreddato, ma Alina aveva sempre visto che, anche se arrabbiati o
frustrati,
non avevano mai smesso di cercarsi.
“Sì
certo. L’Oscuro” le aveva detto e in diciassette
anni di vita, Alina non aveva
mai sentito il nome dell’oscuro generale del secondo esercito
pronunciato dalle
labbra di sua madre. La regina aveva sempre usato perifrasi e
pseudonimi per
rivolgerli a quell’oscura figura, come se anche solo
pronunciare il suo nome lo
avrebbe evocato dalla morte.
“Avevate
una relazione?” aveva chiesto sconvolta, Alina aveva sentito
parecchie storie
sulla gioventù dissoluta di sua madre, lei non era mai stata
molto discreta e
alla servitù del Piccolo e del Gran Palazzo piaceva parlare
e se nessuno di
loro tre principi si erano ritrovati cuciti addosso
l’ingiuria di bastardi era
perché era lei ad essere la regina ed era la sua dinastia
che contava
– inoltre, Dominik e Alina
somigliavano molto al Re Consorte – ma non aveva mai sentito
una voce su sua
madre e l’Oscuro Generale. “No, no
…” aveva detto sua madre, “Ma ero
innamorata
di lui, lo eravamo tutte … e lui ha spezzato il paese e il
mio cuore”
aveva ammesso sincera
come Alina non l’aveva mai sentita, forse anche sua madre
aveva ecceduto con il
vino. “Posso dire che è stato proprio una testa di
cazzo” aveva detto sobria
Alina, “Signorina, credo di averti disciplinato
meglio!” l’aveva rimproverata
bonariamente sua madre, “Non dovevi lasciarmi con Genya,
all’ora” aveva
risposto per le rime Alina, mentre una risata allegra si era aperta tra
le due.
Nonostante
la piccola prigione d’oro in cui sua madre sembrava
così ansiosa di tenerlo,
Alina adorava quella loro complicità, quel loro legame.
Era
il Frutto dell’Autunno infondo, la principessa
avuta dopo, avuta tardi, per quanto sembrasse stupida come definizione,
sua
madre era ancora bella e forte come nel fiore dei suoi anni. Certe
volte
perfino Lilyiana, che aveva la stessa stregante bellezza grisha che
confondeva,
sembrava più vecchia di lei.
“Comunque per frugare ogni dubbio che tu possa avere, ero
innamorata
dell’Oscuro come lo sono le giovani, in maniera connaturata e
deludente, più di
un’idea che un uomo” aveva sospirato, “Il
mio cuore, quando ho deciso di amare,
è sempre stato per tuo padre …” aveva
confessato gentile.
“E Dominik?” aveva chiesto Alina, “Quando
si è giovani si crede che l’amore che
provi durerà per sempre … a volte succede, a
volte no. Dominik non somiglia a
me in questo, molto più a Nik, ama in maniera totalizzante”
aveva considerato con un
tono un po’ più spento.
Aveva
ballato ancora e bevuto, aveva cercato sfacciatamente Matthias, finendo
per
trovare solo la bella regina Mila e l’istitutore del
principe, l’uomo che
scriveva poesie e che quella mattina Alina aveva intrattenuto con
nozioni
d’arte – Joran o Ioren, non ricordava bene il nome.
“Il principe Matthias ha
deciso di ritirarsi dalla festa” aveva risposto con un tono
calmo e pratico il
giovane. I capelli biondo chiaro erano aggrovigliati per i saltelli ed
aveva
allentato il nodo del fazzolo sul collo – Alina ricordava di
averlo visto
ballare parecchio quella notte, per lo più con la
sfavillante Merissa Nassau.
“Immagino
che questo tipo di intrattenimento possa turbare un morigerato uomo
fjerdiano”
aveva considerato Alina, continuava ad avere nella sua mente
l’immagine
cotta di imbarazzo e frustrazione di Matthias, che quella
sera non riusciva
ad imbrigliare in alcuna maniera la sua lingua, l’altro aveva
riso, “Potrebbe”
aveva concesso, “Ma non per lei” aveva considerato,
“Ho frequentato
l’università a Ketterdam, penso sia rimasto poco
che possa sconvolgermi” aveva
valutato.
Joran-Ioren
sembrava più grande di Tatiana, più vicina
all’età dei suoi fratelli maggiori,
un uomo alto e allampanato, non molto muscoloso, e un po’
ingobbito, come se la
sua altezza fosse per lui uno svantaggio, con i capelli biondo cenere e
gli
occhi blu-verde. “Per caso ha conosciuto anche mio fratello?
Studiava anche lui
a Ketterdam” aveva considerato, probabilmente sì,
immaginava che un giovane
uomo dovesse essere entrato in contatto con la cugina dodicenne di un
ambasciatore frequentando le varie ambasciate, forse una volta
Joran-Ioren era
stata a quella di Ravka e qualche volta suo fratello era andata a
quella di
Fjerda. Inoltre, Tatiana lo aveva definito un frequentatore della
Corte-Oltre-il-Mare.
L’uomo
aveva roteato il viso verso di lei, svolto, come colto da una spina,
“Sì …
vostra altezza” aveva detto piano, “Io e il
principe Dominik ci siamo
conosciuti durante i nostri anni di studi.
Avevamo
conoscenze in comune” aveva considerato.
Merissa
Nassau, supponeva Alina.
“Non
mi inviti a ballare?” aveva chiesto poi, era stato un
pensiero stupido ma con
l’eccezione di Matthias non aveva ballato con nessun membro
della delegazione
Fjerdiana, “Sfortunatamente mia signora non posso invitarla,
sono il fratello
di un margravio minore e non ho il permesso di invitarla”
aveva risposto
Joran-Ioren. Oh. La raccapricciante cultura fjerdiana.
“Non
hai il permesso di ballare con me o di chiedermi di ballare?”
aveva inquisito
lei, “La seconda, vostra altezza” aveva risposto
l’uomo, “Quindi io posso
effettivamente chiedere di ballarti” aveva soppesato,
Joran-Ioren aveva
annuito, “Va bene, balliamo” aveva stabilito
perentoria, porgendo la mano verso
la faccia dell’uomo, “E mentre ci siamo potreste
raccontarmi qualcosa sul
principe Matthias” aveva considerato.
“Uhm”
aveva ponderato l’uomo, “Non so quanto mi
è concesso dire” aveva squittito
divertito l’uomo, “Ci si aspetta da un cortigiano
la fedeltà assoluta” aveva
stabilito, facendo ridacchiare Alina.
Joran-Ioren
era stato il ballerino migliore con cui avesse danzato quella sera, era
stato
aggraziato, elegante e a, modo suo, indomito, non permettendo mai ad
Alina di
prendere il controllo – un Fjerdiano fatto e finito, dietro
le sue parole
raffinate e le rime eleganti. Alina era rimasta quasi stupita da
quell’autorità
e non aveva potuto fare a meno di metterlo a confronto con
l’insicurezza
divorante di Matthias.
E
non le aveva detto niente sul principe, era stata Alina che aveva
permesso alla
sua lingua sciolta di parlare, di sua sorella, di sua madre e di suo
fratello.
“A fatto questo?” aveva chiesto con una punta di
divertimento l’uomo, gli occhi
chiari erano luccicati di autentica gioia, “Mia madre era
sconvolta, ma non
quanto l’Apparat Vladim, la sua faccia era
meravigliosa” aveva raccontato con
una risata allegra, ricordando la scena, “Anche durante gli
anni
dell’università, Dom-Il principe Dominik era in
grado di fare questo genere” di
cose, la sua voce aveva preso una sfumatura incredibilmente dolce,
“La duchessa
Katjia ha ammesso che mio fratello ha rischiarato la sua triste vita da
quando
era rimasta vedova quart’anni fa” aveva aggiunto.
C’era
qualcosa di bello in Joran-Ioren in quel momento, come se quelle storie
avessero riempito il cuore.
“Il principe Matthias mi piace molto, comunque”
aveva considerato Alina, quando
si erano sciolte le loro mani e si erano allontanati, “Ne
sono contento è un
giovano uomo adorabile” aveva detto Joran-Ioren, dandole un
bacio audace sulle
dita, “Spero di aver modo di parlare ancora con voi, moya
tsarevich, c’è molto
di cui le vorrei parlare” le aveva sussurrato, Alina avrebbe
voluto che il tono
dell’uomo fosse pregno di malizia, ma c’era solo
fredda e placida cortesia.
“Con
piacere … mio nobile signore” aveva ammesso,
realizzando di non sapere neanche
il nome dell’uomo, “Mi aspetto che lei racconti
qualcosa” aveva aggiunto. Joran-Ioren
si era allontanato, lanciandole un altro lungo sguardo e un sorriso
lezioso.
Alina aveva guardato la mano che era stata baciata dolcemente ed aveva
aperto e
chiuso le dita delle mani con un movimento nervoso, pensando alle
labbra
soffice dell’uomo e alle dita incandescenti di Meesha.
Dopo
altri due bicchieri in presenza di Najima – che senza
pietà aveva chiesto cosa
si fosse detta con il fjerdiano e ad Alina era sembrata stranamente
ansiosa – e
un rimprovero di Genya, Alina aveva deciso di essere pronta a
ritirarsi, aveva
cominciato a sentire la testa girare come una trottola, così
si era
appropinquata per avvertire suo padre. Avrebbe volentieri avvertito sua
madre,
ma l’aveva vista ridere divertita a braccetto della
scandalosa regina Mila, che
davanti quella dolcezza, aveva solo sentito il bisogno di rientrate a
Palazzo e
potersi stendere sulle lenzuola con Lissa e raccontarle quanto era
stato della
giornata.
Toyla
non era stato capace di indicarli dove fosse finito suo padre, ma
qualcun altro
sì, anche se Alina non aveva compreso bene chi si.
Era
stata indirizzata verso il lato ovest del parco, sull’ansa
limosa della laguna,
per camminare aveva finito per immergere le scarpe fino alle caviglie
nel
fango, ma aveva seguito le istruzioni, aspettando che il primo sparo
previsto
sull’acqua apparisse davanti a lei. Era lontana dal posto in
cui avrebbe potuto
vedere i fiori nel cielo shu-hanniti come erano previsti, ma avrebbe
potuto
vederli comunque.
I fuochi d’artificio Ravkiani erano belli, ma Alina sapeva
che la regina Dalai
aveva promesso i suoi: e Shu Han poteva dipingere nel cielo come un
pittore
sulla tela.
“Merda,
sono diventato troppo vecchio per queste cose!” aveva sentito
la voce pesante
di suo padre, colma di divertimento e allegrezza, “Non sei
diventato troppo
vecchio, ma solo troppo ricco e borioso” aveva replicato una
voce, era il duca
di Keramzin.
“Dove
è finto il mio pirata da strapazzo?” aveva chiesto
il Duca ed Alina era
riuscita finalmente a vederli, con il viso arrossato dal vino. Erano
immersi
nella laguna fino alle cosce, indossavano ancora i calzoni eleganti ma
si erano
svestiti delle giacche raffinate rimanendo solamente in camiciola.
Il suo vecchio padre aveva deciso di mettersi a fare una nuotata
notturna in un
lago con un vecchio amico?
Pericoloso.
Alina aveva fatto un passo, non ancora notata, per rimproverarlo
– perché a lei
mai era stata concessa niente di così divertente come un
bagno notturno al
lago. “Corsaro. Sono passati quarant’anni e ancora
non te lo metti in zucca”
aveva ridacchiato suo padre, indicando con l’indice la tempia
del Duca.
“Corsaro, soldato, principe e re. Non ti sei mai fatto
mancare niente” aveva
scherzato l’uomo, schioccando l’indice verso suo
padre per vendetta, “E
guardami ora a fare il marito trofeo” aveva ammesso suo padre
con un tono
nostalgico. “Vorresti abbandonare tutto, Zoya, Ravka e figli
per andartene per
mare come ai vecchi tempi?” aveva chiesto il Duca,
“Ogni tanto sì” aveva ammesso,
“Ogni tanto penso al mare e penso a quanto adoravo stare
lì. Lo sai che a
nessuno dei miei figli piace? Neanche un giro di regata sono riuscito a
convincerli a fare” aveva detto lugubre suo padre.
Alina lo avrebbe amato – ma non era mai stata invitata a fare
un giro in regata.
“A
te manca?” aveva chiesto,
“L’esercito?” aveva risposto il Duca,
“Non mi mancano
né le lunghe marce, né la Faglia, né
la Chiesa. Mi manca cacciare, mi manca
cacciare come facevo prima, quello sì” aveva
risposto l’uomo, “Sulle barche, la
Rusalye, tra le grotte” aveva detto suo padre, la sua voce
era stata
enigmatica, evocativa.
“Ti
inviterei a farti le vacanze giù al sud da me, con la tua
ragazzina
chiacchierona” aveva detto il Duca, Alina si era sentita
chiamata in causa ed
avrebbe voluto correre da loro ed urlare la sua approvazione; aveva
fatto solo
un passo però, nel silenzio. “Potremmo organizzare
una caccia ai Moschi
selvatici” aveva ponderato, “Una di quelle che
durano giorni, seguendo le
tracce, accampati nei boschi” aveva proposto
l’uomo. Suo padre aveva riso, “Oh,
Mal, ti prego. Non tentarmi, è la proposta più
bella che ho ricevuto da dieci
anni a questa parte. Ma ho la vaga sensazione che, se entrassi nella
sua
proprietà potrei ritrovarmi io cacciato al posto di un
mosco” aveva commentato,
la sua voce nel finale si era velata di una certa tristezza.
“Posso darti il
mio benestare, ma non posso fare promesse per Alina” aveva
risposto il duca di
Kermazin, e Alina si era sentita confusa.
“Non
molte donne mi hanno schiaffeggiato, ma due moglie lo ha fatto due
volte e
ricordo bene le sue sberle” aveva detto suo padre leggermente
melodrammatica.
Anche Alina lo ricordava, erano giunti con mezza corte al Castello di
Kermazin
e quello era stata la calda accoglienza che la duchessa, prossima
all’investitura,
aveva riservato al suo Re, per poco non era successo un putiferio tra
baionette
e movimenti grisha. Ma sua padre aveva riso e detto che lo meritava.
“Avrei
voluto davvero che venisse, Zoya ci teneva moltissimo” aveva
aggiunto, il suo
tono era triste e colpevole. “Togliti
quell’espressione cupa dal viso, moy
tsar. Alina sta arrivando” aveva risposto
Schievich, “Probabilmente sarà
qui domani o dopo domani” aveva spiegato con estrema calma,
“Davvero?” aveva
chiesto confuso suo padre. “Sì, saremmo dovuti
arrivare insieme tutti
appassionatamente, ma il tuo telegramma sembrava abbastanza perentorio
e così
qualcuno è dovuto partire” aveva risposto il Duca,
suo padre doveva essere
stato sul punto di dire qualcosa, ma il suo interlocutore lo aveva
anticipato:
“ma non poteva Alina.”
“Quindi
mi hai fatto pensare tutto il giorno che Alina fosse ancora arrabbiata
con me e
non volesse vedere Zoya” aveva detto con un tono offeso suo
padre, ma era
un’esagerazione.
“Alina
vorrà sempre vedere Zoya, ma è ancora arrabbiata
con te, ma non è capace
di provare rancore. Voglio dire: nostra figlia si chiama
Aleksandra” aveva ricordato,
c’era della rabbia nelle sue parole e aveva allungato una
mano per toccare
quelle di suo padre. Solo in quel momento che Alina aveva notato che il
suo
vecchio aveva tolto i guanti.
Fuori
dalla famiglia stretta, e Genya, Alina non aveva mai visto suo padre
senza i
guanti. In realtà, anche davanti a loro, suo padre non
indugiava mai troppo con
le mani nude. Non erano dita umane: erano nere, curve, spigolose, con
unghia
d’onice affilate. Ma in quel momento non c’era
titubanza ne vergogna.
“E
tu sì?” aveva chiesto suo padre, il suo tono era
pieno di colpevolezza, “Oh, io
sì. Sono orribile. Mi nutro della rabbia di Alina e
l’alimento a mio piacere –
Ulla me lo dice sempre” aveva replicato il Duca. Alina ancora
frastornata
dall’utilizzo del suo nome era riuscita a comprendere che non
stavano parlando
di lei, e lo ricollegava al discorso che aveva sentito fare a Genya
quella
mattina; però la moglie di Schievich, la duchessa, si
chiamava Marina! Che
avesse sentito male per tutto il tempo?
“La tua Moronzova è la ragione per cui non mi
addentrerei mai più al sud” aveva
replicato, “Parli tu che hai l’Oscuro nascosto nel
Piccolo Palazzo? Ulla è
decisamente meglio. Anche se ogni tanto ha questi momenti
d’assenza in cui dice
che le manca il mondo sotto l’acqua” aveva
raccontato con una punta di
divertimento.
L’Oscuro
era al Piccolo Palazzo?
Ma l’Oscuro non era morto quarant’anni
fa?
Nella
faglia? Con … Alina.
Le
avevano mentito, aveva realizzato, non solo a lei, a tutta la nazione!
A tutto
il mondo!
“Per
favore non ricordarmelo. Sto ancora cercando di comprendere cosa spinga
Zoya a
non averlo chiuso in una cella grande quanto una scatola per
trucchi” aveva
risposto suo padre, la sua voce era stata allegra, ma nel momento in
cui aveva
pronunciato l’ultima sillaba la sua espressione si era fatta
immediatamente
colpevole, come se avesse realizzato di aver detto …
qualcosa di sbagliato.
Doveva essere stato così perché tutto il tono
morbido del corpo del Duca era
stato risucchiato via in favore di una posa dura e risentita.
Suo
padre aveva sospirato, la sua espressione era come quella di un
cucciolo
colpevole, “Mi dispiace, sul serio, ancora, per quello che
è successo a Drina”
aveva ammesso suo padre pieno di rammarico, “Quale delle
volte, Nikolai?” aveva
risposto crudele Schievich, la sua voce era dura come la roccia su
roccia. “Quando
hai permesso che la rapissero gli schiavisti? Che la spezzassero sulla
Ji-han?
O quando hai pensato che la Matej fosse un posto adatto per passare la
degenza?” aveva chiesto con un filo di rabbia, nervoso,
“Non ho scusanti” aveva
sospirato, “Mi hai affidato Drina ed io ho … fatto
degli errori” aveva
ammesso suo padre, con totale abnegazione. “Tu li chiami
errori?” aveva chiesto
con una rabbia malcelata il Duca di Keramzin, “Errore lo
fatto io quando non ti
ho a pugni in faccia quando dovevo! Io ti ho dato mia figlia, con la
promessa
che tu l’avresti trattata come fosse tua” aveva
dichiarato, “Ed ho mancato
quella promessa, sì. E me ne vergogno ogni giorno, come un
verme” aveva ammesso
suo padre solenne. C’era una sincerità spaventosa
nella sua voce.
Il duca aveva sospirato, “Drina mi ha chiesto di non portare
rancore, anche se
non riesco proprio a concepire come. Questo non lo ha chiaramente
ereditato dal
mio lato della famiglia” aveva concesso, “Ulla cova
rancori vecchi di secoli”
aveva aggiunto.
“Potrò
mai farmi perdonare?” aveva chiesto Nikolai invece,
“Pensavo che il ducato
fosse la tua lettera di scusa” aveva considerato quello,
“Quello è stato tutta
opera della buona volontà tua e di Alina e
l’affetto che il duca ha sviluppato
per voi. Zoya ha solo dovuto ratificare una richiesta” aveva
ammesso suo padre,
“Bene, all’ora, succhiami il cazzo” aveva
risposto.
“Ti
prego Mal, ho passato i sessanta, le mie ginocchia sono diventata
deboli” aveva
ponderato suo padre con una mezza risata, “Inoltre in
acqua” aveva ponderato,
“Nuotare, sì?” lo aveva preso in giro il
duca, “Ogni tanto qualche bella follia
è meglio farla. Inoltre, se mi prendessi un colpo di febbre
potrei avere pace
da questa caotica fiera” aveva ammesso, “Pensavo
fossi un animale politico”
aveva ponderato l’uomo, “Lo sono ancora, ma inizio
ad essere stanco. Diciamo
che finalmente capisco perché il mio patrigno fosse un uomo
così amareggiato.
Inoltre, mi divertirei molto a vedere tutti quei figuranti camminare
sui gusci
delle uova cercando di non irritare il drago” aveva
ridacchiato, “Zoya ha una
personalità esplosiva, ma Juris e il drago non scherzano
neanche” aveva
borbottato, “Ho sempre pensato che la mia camera da letto
fosse affollata con
la presenza-assenza dell’Oscuro, ma credo tu mi
batta” aveva ponderato il Duca,
“Sicuramente sì, tre figli, un drago, un sankto
quattro-volte-centenario e un
demone d’ombra, direi che sì” aveva
ammesso suo padre, doveva essere una
battuta, ma la sua voce aveva assunto un tono leggermente
più cupo.
“Oh,
giusto e te e Alina” aveva ponderato, “E Genya
mai?” aveva chiesto Mal, “No,
Genya è un problema tutto tuo e di Alina, per me sarebbe
strano” aveva risposto
suo padre con un tono leggermente nervoso.
“Io
posso intuire” aveva detto il Duca, “Mi sei
mancato, mi siete mancati, in questi
anni” aveva detto suo padre con un tono più
languido.
Alina
iniziava ad essere terribilmente confusa da tutto quel discorso, si
sarebbe
allontanata, scompaginata e stanca, lasciando i due vecchi ciarlare per
conto
suo, si era già quasi voltata ed aveva smesso di ascoltare,
quando con la coda
dell’occhio aveva osservato un movimento.
Si era girata di nuovo e le labbra di suo padre erano premute contro
quelle del
Duca.
Era
rimasta scioccata per un secondo, un intero, lunghissimo, interminabile
secondo. Ma era bastato, perché doveva aver perso il
controllo di qualcosa,
della sua voce, perché i due uomini si erano voltati verso
di lei, confusi,
spaventati.
“Alina!”
aveva esclamato suo padre, riconoscendola, facendo un passo
nell’acqua verso la
battigia, ma Alina era già voltata ed aveva cominciato a
correre verso il
bosco, inciampando nel limo e macchiando il sarafan azzurro ravka.
Era
sicura che suo padre l’avesse inseguita, ma lei era andata
alla cieca nel
bosco, piena di … tutto.
Confusione e poi rabbia che aveva cominciato a montare nel suo petto,
pensando
a quel bacio che non aveva il minimo senso.
Il
mio cuore è sempre stato per tuo padre …
Così
aveva detto sua madre, neanche qualche ora prima.
Alina
aveva sentito per tutta la vita storie su Re Nikolai, che era uscita
dalla
porta principale del palazzo come bastardo di una regina decaduta e di
un
funzionario straniero, lasciando titoli, ninnoli e ed educazione reale
alle
spalle, per farvi ritorno passando dalla finestra della camera da letto
della
regina che lui stesso aveva incoronato. Alina aveva sentito per tutta
la vita,
vili insinuazioni che sua madre, una strega potente, capace di ogni
dove,
rimaneva un soldato ed una poveraccia affamata d’amore e
facile alle lusinghe
di un uomo ben più affamato di potere di lei.
Suo padre che aveva fatto esiliare il Re che lo precedeva, usando
pretesti al
limite del plausibile, aveva sempre esibito un comportamento atto a
screditare
l’erede e che aveva quasi portato all’altare la
luce di Ravka, la Sankta del
Sole e poi aveva sposato il drago – potente quanto inetta
davanti alle
politiche.
Alina
aveva accantonato quei discorsi, riducendoli a nulla di più
che i libelli pieni
di insinuazioni nauseanti sui suoi fratelli, giochi stupidi e
chiacchiere
stupidi di chi non conosceva la verità.
Ma, in quel momento, era Alina a pensare che era lei a non conoscere
niente.
Si era fermata, quando si era addentrata nel bosco di pioppi, non
riconoscendo
più dove fosse, arrabbiata, nervosa e nauseata.
Il
mio cuore è sempre stato per tuo padre …
Aveva
continuato a correre con un dolore bruciante alle gambe e sentendo la
rabbia
gonfiarsi addosso.
Poi si era arrestata arrabbiata e nauseata, letteralmente, si era
fermata ed
aveva vomitato tra le radici di un pioppo, prima di collassare sulle
ginocchia
per piangere.
Non
aveva neanche badato se avesse o meno colpito il suo stesso vomito,
prima di
cominciare a sentire le lacrime strisciare via dai suoi occhi e
qualcosa di
diverso dalla bile salire sulla sua gola, così, aveva
sentito il primo
singhiozzo emergere dalle sue labbra e i singulti sconvolgerla.
Provava una rabbia folle e un dolore quasi sordo, mentre sentiva di non
riuscire a trattenere i singhiozzi.
Non sapeva neanche perché le fosse venuta tutta quella
voglia di piangere,
quando il fastidio allo stomaco si era fatto più intenso ed
aveva rimesso
ancora, sentendo ora la bile acida sulla lingua.
Si era tirata su con fatica, tremolante ma animata di rabbia, nauseata
tra il
giramento alla testa e il sapore in bocca del vomito e delle lacrime,
quando si
era accorta di qualcosa di storto.
Era buio e i suoi occhi vedevano male, ma era certa che ci fosse
qualcosa di
sbagliato nell’erba sotto i suoi piedi. Sembrava secca e
arida. L’aveva
calpestata con i piedi sentendo sotto di se lo stesso trillare della
paglia
arida.
Aveva
sentito un fruscio e la voce di suo padre, chiamarla, questo le aveva
dato la
scossa per tirarsi dritta e correre via, facendo la gincana tra gli
alberi.
Non
sapeva fino quando le forze l’avessero guidata, ma poi
qualcuno l’aveva presa.
“Alina!”
la voce di Meesha l’aveva risvegliata. Le teneva i polsi con
una morsa ferrea e
dura come un soldato. La sua espressione era piena di febrile
preoccupazione e
gli occhi scuri dilatati, “Meesha! Come?” aveva
chiesto pregna di confusione,
“Ho seguito il battito del tuo cuore” le aveva
risposto subito. “Da quando?”
aveva chiesto poi con nervosismo lei, pensando che avesse potuto
seguirla fino
all’ansa del lago, che avesse potuto vedere quello che aveva
visto lei.
Ed
un panico che non riusciva a spiegare l’aveva accolta.
“Da
… poco. Io, mi ero allontanata per … prendere
aria dalla festa e ti ho sentita”
aveva detto calma Meesha, lasciando il suo polso, “Ho sentito
il tuo battito
così veloce e spaventato” aveva ammesso,
sfiorandole la clavicola con la mano,
“Non è mai così il tuo. Quasi credevo
di essermi sbagliata.”
“Sai riconoscere il mio battito?” aveva chiesto
Alina, nervosa, quasi
dimenticando ogni cosa, davanti quell’unica informazione,
“La prima lezione di
Genya è imparare a riconoscere i battiti famigliari,
riconoscerei il tuo in una
folla di centinaia di persone” le disse. Non aveva usato
formalismi, si era
rivolta a lei come una sua pari, non erano la principessa Alina o il
luogotenente Effimov in quell’occasione.
Era arrossita davanti quell’informazione, che aveva riempito
la sua testa ed il
suo petto dimenticando ogni resto, si era lanciata ed aveva baciato
Meesha
quasi selvaggia, urtando le loro fronti, i loro nasi e i loro denti.
Un
bacio schifoso non dissimile da quello che si era scambiata con
Matthias.
Meesha
l’aveva allontanata con fermezza ed Alina aveva sentito la
vergogna galoppare
nel suo stomaco per quel rifiuto, si era ritratta come una bestia
ferita ed
aveva sentito ancora quell’angoscia rabbiosa sorgere il lei,
l’altra doveva
aver compreso qualcosa perché aveva aggiunto:
“Vomito!”
Alina si era fatta dritta, “Come?” aveva chiesto,
“Hai vomitato?” aveva chiesto
Meesha.
Oh, questo aveva senso.
Alina
ricordava che i baci di Meesha erano stati pieni di fame e scintille.
“Potrei”
aveva ammesso piena di vergogna, “Per questo eri
sconvolta?” aveva chiesto.
No,
perché tutto si è fatto stupido, avrebbe voluto
rispondere, ma alla fine aveva
semplicemente annuito, “Forse, ho bevuto troppo”
aveva ammesso piena di
vergogna, che non era neanche una menzogna. “Potremmo tornare
alla festa?”
aveva proposto la soldatessa, ma Alina aveva scosso il capo decisa, non
voleva
tornare alla festa, fino a poco tempo fa aveva voluto tornare a casa,
ma ora
non voleva neanche quello, voleva solamente stare da qualche parte e
non essere
sola.
Avrebbe voluto Lissa, ma anche Meesha sarebbe potuta andare bene,
“Forse vorrei
solo … del silenzio e forse acqua” aveva ammesso
tremolante.
“Possiamo
andare a prendere dell’acqua alle cantine di Kirigen, non
credo abbiano solo
vino” aveva spiegato Meesha con calma, accarezzandole un
braccio in maniera
calmante e caritatevole, Alina aveva sollevato una mano ed aveva
stretto quella
di Meesha posata sulla sua spalla, in cerca di qualcosa, di sostegno.
L’altra
le aveva sorriso con gentilezza, prima di guidarla nella direzione
delle
cantine, quando aveva sentito lo scricchiolio della paglia secca sotto
i suoi
piedi, aveva abbassato lo sguardo ed aveva notato che l’erba
della foresta,
anche al buio, sembrava diversa.
Meesha si era chinata, “Secca. Strano, in questa
stagione” aveva ponderato,
toccandola con le dita, “Ma solo in questa zona”
aveva aggiunto, tastando un
po’ più in là, dove l’era
sembrava soffice ed umidiccia come sarebbe stato
auspicabile nella tarda primavera del centro ravkiano.
“Strano” aveva sospirato Alina muovendosi,
affondando le scarpe sporche di
fango limoso, sulla terra umida, più piacevole, nel buio del
bosco, lo strato
d’erba era ugualmente nero e lugubre, ma in qualche modo
quella macchia morta
sembrava estremamente visibile.
“Cosa
pensi che sia?” aveva chiesto preoccupata, Mesha aveva
giocato con un filo
d’erba che si era disintegrato tra le sue dita come polvere,
“Non ne ho idea,
ma non è di sicuro una cosa buona”
aveva ponderato, “Dovremmo parlarne
con la tsarina” aveva considerato, “Domani quando
non sarò ubriaca e la cosa
non mi sembrerà meno … importante?”
aveva proposto Alina.
Meesha
aveva annuito, ma aveva frugato nelle sue tasche prima di tirare fuori
un boccetta,
spessa come un dito ed alta come un mignolo, di vetro, con un tappo in
sughero,
“Perché hai un’ampolla con
te?” aveva chiesto, “Uhm …”
aveva boccheggiato
Meesha, “Io, non lo so? Di solito raccolgo campioni di acque
…” aveva ammesso,
le gote anche nel buio si erano manifestate in un rosso incantevole,
“La cosa
bella dell’essere un marinaio è scoprire che non
tutta l’acqua è uguale” aveva
rivelato, con un sorriso allegro.
Meesha
aveva raccolto del campione di terra ed erba secca, c’era
qualcosa di
incredibilmente preoccupate, “Solo una macchia”
aveva considerato, passando la
suola dello stivale sull’erba.
Proprio dove ero io, aveva pensato Alina ma non l’aveva detto
ad alta voce.
“Tutto bene? Sei bianchissima” aveva considerato
Meesha, guardandola
preoccupata, “Sto per vomitare di nuovo” aveva
risposto onesta, prima di
piegarsi e vomitare, l’altra le aveva afferrato i capelli per
cercare di
toglierli dal viso, mentre Alina tossicchiava, “Posso fare
una cosa?” aveva
chiesto con gentilezza, “Non sono una healer ma posso aiutare
un corpo
intossicato” aveva ammesso, “Posso farti stare un
po’ meglio.”
Meesha
era riuscita, in effetti, a farla stare leggermente più in
salute, non sembrava
avere più il desiderio di rimettere tutto quello che aveva
bevuto, ma aveva
ancora la bocca nauseata. Una parte di lei voleva quasi
bere ancora, per
cercare di togliere dalla sua mente quello stupido bacio, quella
stupida idea.
‘Succhiami
il cazzo.’
Però
sentiva ancora la Piccola Scienza di Meesha agire su di lei, come mille
formiche che vagavano sulla sua pelle, qualcosa di mostruosamente
simile ad un
intorpidimento. Però era piacevole, era come sentire il
calore dell’abbraccio
di Meesha contro il suo corpo; le ricordava quanto erano state strette
alla
festa del burro e si era chiesta se anche all’ora, senza
dirglielo, la grisha
avesse usato la sua Piccola Scienza.
“Quindi
la festa alla Palude è stata come la immaginavi?”
aveva chiesto Meesha, “Sì”
aveva mentito Alina, avrebbe voluto che fosse stato leggermente
diverso, che
non avesse mai deciso di camminare per prendere aria, avrebbe voluto
ballare,
sbaciucchiarsi con il principe Matthias – trovarlo piacevole
– e poi ritirarsi
con Lissa e passare la notte a mangiare dolci, nonostante la lunga
cena, su un
letto di piume e spettegolare di ogni evento. “Ti avevo detto
che non era così
eclatante, ma i giovani hanno sempre voglia di correre”
l’aveva recriminata con
divertimento la donna, riconoscendo la sua menzogna. “Parli
come se avessi
l’età di mia madre, quando sei giusto un
po’ più vecchia di me” aveva soffiato
Alina, con una punta di divertimento.
Meesha
aveva riso, la sua risata era così bella, così
piena di gioia e vita, “Però
avevo ragione” aveva replicato la soldatessa,
“Diciamo che è il regno di
perdizione che mi aspettavo, sì” aveva
considerato, provando ancora quel
brivido e quel fastidio, ricordando suo padre e il duca.
Si
chiese se Drina e Lilyiana ne avessero anche solo una vaga idea.
Dovevano
averne, se Alina di cui avevano parlato il duca e suo padre tutto il
tempo era
Marina, questo faceva di Drina la figlia di Alina … di Alina
Starkov.
Che
era viva e come l’Oscuro – di cui sua madre le
aveva detto di essere stata
innamorata – e viveva al Piccolo Palazzo.
Forse
Alina stessa doveva averlo incontrato qualche volta. Improvvisamente le
era
tornata addosso quella rabbia e quel dolore, così oscuri e
travolgenti, ma si
era impegnata a ricacciarli dietro, quando aveva sentito la mano
gentile di Meesha
raggiungere la sua.
“Avevi
detto che volevi trasferirti dal mare all’aria”
aveva detto alla fine Alina,
decidendo di soffocare la sua angoscia. Meesha lo aveva detto mesi
prima. Suo
nonno era stato un ammiraglio della marina, mentre suo padre era stato
un
colonnello dell’aviazione ravkiana, anche se aveva la sua
giusta conoscenza del
mare e delle navi – Ravka Ovest era un luogo di marinai e
l’aviazione ravkiana
somigliava molto alla sua marina. “Ho fatto la richiesta, ma
è stata cestinata,
mi è stato detto di poter imparare a timonare navi
volanti” aveva ammesso
Meesha, “Continuano ad essere preferite agli aerei”
aveva detto.
I
velivoli erano più piccoli e veloci, potevano volare
più in alto ed erano più
difficili da vedere, ma anche più facili da abbattere. Le
navi volanti potevano
atterrare e ammarare ed anche un buco sullo scavo poteva permettere
alla nave
di rimanere su, se c’era un bravo etherealki a manovrare i
venti. Nonostante i
progressi fatti negli altri continenti, Ravka restava sulla vetta del
mondo
nell’utilizzo della Piccola Scienza ad aiutare la Grande.
“Che
strano c’è una guardia” aveva ammesso
Meesha, notando l’uomo vestito in livrea
blu, sopra la kafka azzurra rinforzata, che stanziava ritto come una
pertica
davanti l’ingresso della cantina. “Sono vini
preziosi” aveva scherzato con un
punto di divertimento Alina, “Forse” aveva
ponderato Meesha, “Ma di solito
pattugliano, non stanno dritti come baionette” aveva
rivelato. “Qualcosa di
segreto sta avvenendo all’ora” aveva considerato
Alina, “Io voglio
disperatamente dell’acqua e …” non aveva
aggiunto altro, ma voleva pensare a
qualsiasi altra cosa, “Mia madre era alla festa e mio padre
era … altrove”
aveva detto, “Probabilmente è qualche piccolo
scandalo di Lilyiana o Dominik”
aveva considerato.
Forse, Dominik con il suo cuore spezzato, forse si era unito di nuovo
all’enigmatica Min-Han, forse Alina avrebbe dovuto dare le
spalle e decidere di
non voler scoprire qualsiasi altra cosa della sua famiglia, ma non
riusciva a
reprimere quel bisogno.
Era
stata cieca, pensava, fino a quel momento, e si chiedeva quanto ancora
non
avesse davvero visto.
Non voleva più essere cieca, né stupida.
“Puoi
fare quella cosa … sai, quella cosa …”
aveva provato, “In cui rilasso il corpo
di una persona così tanto da metterlo a dormire?”
aveva chiesto retorica
Meesha, con un’espressione preoccupata, lei aveva annuito.
“Alina …” aveva
provato l’altra, prima di mordersi il labbro,
“Principessa Alina” si era
corretta – ecco! Quello non le piaceva per nulla –
“Forse per lei è un gioco,
ma per me potrebbe essere alto tradimento” aveva ammesso,
“Sei con me, prenderò
io tutta la responsabilità” aveva replicato Alina,
non credeva fosse necessario.
Meesha
non era solo uno luogotenente e suo padre non era solo un membro di
alto
profilo dell’esercito, ma era uno dei pari del regno, uno
degli uomini più
importanti della corte di suo padre, un uomo dei miracoli
a detta di
tutti e lei era la sua unica erede.
“Spero
questo non ci crei problemi” aveva sospirato la corporalki.
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Capitolo 25 *** Elen II (22 D.F.) ***
Niente, il
capitolo, rispetto al mio solito è super breve, ma ehi
… ci rifaremo.
Cominciamo con una nuova piccola saga, come ho detto, non sono sicura
di continuare
solo su questa linea temporale, probabilmente ogni tanto
cambierò sicuramente
per andare al 28 e probabilmente mi terrò un po’
lì. Semplicemente è arrivato
il momento di scoperchiare un po’ il vaso di Pandora.
TW:
Riferimento
a morte, riferimento a uso non consensuale di droghe, riferimento a
cicatrici,
ferite. Riferimento a esperimenti sulle persone. Riferimento a
schiavismo,
prigionia e disumanizzazione. Riferimento alla povertà e il
nichilismo umano.
Riferimento a brutti pensieri(?). Riferimento a mutilazioni varie.
Riferimento
alla fame e malnutrizione.
AH, CHE BELLO SI RESPIRA PROPRIO L’ATMOSFERA DEL’22.
Elen
II
(22
anni dalla D. F.)
Elen
aveva sentito la pelle formicolare quando Anchel le aveva curato i
polpastrelli
sanguinanti e le unghie spezzate. Non ci si abituava mai alla mano
della
Piccola Scienza, a suo parere, anche quando era salvifica.
“Posso
curare anche quelle, se vuoi” aveva detto il suo amico,
riconoscendo verbalmente
le sue cicatrici, prendendole con gentilezza la mano e voltando il
dorso verso
il basso, per poter studiare l’altra superficie meglio. I
palmi di Elen erano
segnati da cinque linee bianche sulla pelle olivastra; cinque righe
oblique che
avevano lacerato la pelle, scolpendola definitivamente, interrompendo
le pliche
presenti e creare un nuovo intreccio. La sua linea della vita, del
cuore, della
testa e la linea simana, tutte distrutte, spezzate
e ricreate come era
piacere della Pazmer Kosti.
Toyla
avrebbe dovuto rileggere tutta la sua mano da capo …
Le
dita di Anchel erano scese dal palmo, fino a raggiungere i polsi, tagli
frastagliati circondavano la carne. Ed Elen aveva guardato il resto,
differentemente da come aveva evitato di fare fino a quel momento;
un’escoriazione
profonda risaliva l’avambraccio fino alle ferite,
frastaglianti e brucianti,
sull’interno del gomito e sul cantone. Provava qualcosa di
strano per quelle
lese, ma non riusciva a comprendere a pieno che sensazione fosse:
repulso, ma
anche una freddezza difficile.
Quando
Drina aveva buttato giù le porte – tutte
le porte – Elen era ancora prigioniera
di quell’infernale macchinario in cui il giovane dottore lo
aveva costretto.
Era stata Drina a liberarla, senza gentilezza per la fretta, e quando
l’aveva
fatto, Elen aveva sanguinato. Doveva aver sanguinato tanto, ma
l’adrenalina e
la rabbia avevano taciuto ogni dolore. Era stato solo dopo,
sulla
spiaggia. Dopo aver orientato i venti
perché si abbattesse una tormenta,
aver creato l’aria nella bolla e aver guidato le correnti,
pienamente e
consapevolmente per la prima volta. Solo dopo tutto quello si era
accorta dal
sangue sulla carne, sulle vesti e che ancora scorreva su di lei. E poi,
improvvisamente, era arrivato il dolore, pungente e vivo.
Era
caduta giù sulla sabbia bianca e il pietrisco, esausta ed
esangue. Anchel le
aveva chiuso i tagli e guarito il sanguinamento, ma non aveva
cancellato la
cicatrice; forse era stato in quel momento un’opera troppo
onerosa. Elen aveva
guardato ancora le ferite ed aveva sentito ancora quella sensazione, il
dolore,
l’umiliazione, ma anche l’assolutismo
delle sue motivazioni. Era
sopravvissuta a loro, era sopravvissuta nonostante loro.
“No,
le voglio” aveva affermato senza un briciolo di incertezza.
Le
avrebbe indossate come trofei e monito per chiunque avrebbe deciso di
farle
ancora del male.
Anchel
aveva annuito, Elen poteva intuire dagli occhi scuri che aveva capito i
suoi
pensieri; Anchel era una delle anime più empatiche che
avesse mai conosciuto.
Aveva sentito il suo labbro tremolare, ardente del desiderio di
piangere,
nuovamente la sua colpa, era stata lei a fuggire dalla maestra
Ekaterina e
convincerli a venire con lei, per vedere Os Kervo, quella vera, non
solo
l’immagine lucida e posticcia che avrebbero offerto alla loro
compagnia. Sapeva
di poter contare su di loro, perché erano sempre disposti ad
accompagnarla e
spalleggiarla.
“Una
novella Korol Rezni” aveva considerato
Anchel, “Koroleva Rezni”
lo aveva corretto lei, “Scusa, sono sei anni che vivo a Ravka
e non ancora mi
abituo alla vostra lingua infame con tutte le vostre
declinazioni” si era
giustificato il ragazzino, facendole la linguaccia. Era stato un
momento dolce
e per un secondo avevano dimenticato tutto quello che era successo. Ma
dopo
quel piccolo dolce momento, la realtà era piombata
nuovamente su di loro,
quando entrambi avevano distolto lo sguardo, osservando le cortecce
spoglie
degli alberi e la sottile neve del primo autunno. “Potresti
… potresti occuparti
di Hati e Malcom” aveva bisbigliato lei, ammiccando ai due
ragazzi, accasciati
poco più in là, “Sono preoccupata per
loro” aveva ammesso.
Dalla
morte di Caitlyn, il ragazzo kaelish si era chiuso in un mutismo
rabbioso,
quasi vibrante. Non era solo un malumore emotivo, si rifletteva anche
all’esterno di lui. L’aria, nelle sue immediate
vicinanze, era più calda, da
divenire quasi bollente in certi momenti, da essere difficile da
respirare. Era
utile per il resto del tempo, la neve autunnale si scioglieva in acqua
in sua
presenza e la notte era come dormire davanti un focolare, appena
spento, che
emanava ancora un caldo tepore, tranne quando era agitato da incubi,
cosa che
succedeva spesso, in quel caso la sua vicinanza diveniva simile ad
avvicinare
la faccia ad una pentola fumante, a volte anche toccarla.
Hati stava semplicemente
male e continuava a
spalmarsi sulle gengive la pasta di jurda che Drina aveva fatto per
lui. Anchel
aveva annuito, “Sì, tranquilla” si era
sforzato di sorridere, aveva un viso
dolce, con occhi grandi e scuri come quelli dei cani, fiduciosi e
… Elen gli
aveva fatto questo.
Elen
si era diretta verso Drina.
La
sua amica si era sistemata leggermente in disparte, vicino la corteccia
di un
albero secco, che non aveva superato la gelata di quella settimana.
Elen aveva
potuto riconoscere la sua figura ingobbita, con le ginocchia nella neve
fangosa, mentre passava le dita – gialle e viola –
sui polsi del dottore Shu.
C’era
qualcosa di diverso in Drina,
da prima della Ji-Han,
probabilmente anche in Elen doveva esserci qualcosa di alterato,
rispetto a
prima, come avrebbe potuto, d’altronde, non cambiare, ma
forse senza uno
specchio non riusciva a vedere il suo mutamento, ma in Drina era
evidente, a
occhio nudo, sebbene Elen non riuscisse a definirlo. Qualsiasi cosa
fosse, però
somigliava ad un urlo silenzioso.
Non
era stato il trattamento che Il Ravkiano
aveva riservato loro, il solo pensiero aveva spinto Elen a toccarsi uno
dei
lobi ricordando quando l’uomo le aveva strappato gli
orecchini con violenza,
era stata la Ji-Han a spezzare Drina.
Prima
della Dottoressa erano stati tenuti dagli schiavisti, legati con
maniglie di ferro,
così ruvide da incidere la carne, pesanti da intorpidire le
braccia e l’aria
umida che faceva marcire i vestiti sulla loro pelle, e la stessa,
nessun cibo
se non una zuppa stantia di gambo. La Ji-Han era stata
un’esperienza orribile,
stanze grandi come armadi e diavolerie meccaniche, di cui Elen portava
ancora i
segni, ma avevano avuto cibo e vestiti puliti e, con vergogna, quando
Elen
chiudeva gli occhi non era la camera bianca a cui pensava, ma era il
tintinnio
delle catene sulla nave schiavista che sentiva.
Però
era la Spaccaossa che aveva spaccato Drina.
Elen
si era avvicinata cauta, come quando cercava di catturare i gatti che
stanziavano nella cucina del Piccolo Palazzo, con lo stesso religioso
silenzio
e lento passo. Aveva guardato il giovane dottore e dove la sua pelle
dorata
incrociava le dita pallide di Drina.
Le
manette d’osso non avevano graffiato la carne del dottore, ma
avevano lasciato
dei lividi viola e neri sulla pelle leggermente ambrata, anche le
unghie del
ragazzo erano saltate e i polpastrelli avevano sanguinato.
Avevano scavato la tomba di Caitlyn a mani nude, tutti e sei,
Drina
avrebbe potuto fare loro degli strumenti, ma lo avevano trovato tutti
catartico
anche il dottore – che lo dicesse o meno.
“Ora
sei anche una corporalki?” aveva inquisito Elen, quando era
stata alla loro
portata di orecchie, nello shu classico delle zone dell’est
del settentrione,
quello che aveva imparato dai fratelli Baatar, diverso da quello del
dottore e
dal dialetto Oyirad Sikurzoi di Drina.
Quando
aveva parlato, la sua amica non aveva fatto una piega, ma il dottore
aveva teso
le spalle, come se fosse stato colto in fragrante di un qualche reato.
Il suo
passo felpato l’aveva celata alle orecchie dello Shu ma non a
quelle di Drina.
“Carne
viva, carne morta, si somiglia tutta” aveva spiegato pratica
Drina, voltandosi
verso di lei ed abbozzando un sorriso incerto, “Inoltre,
è come dice Genya: è solo
materia” aveva aggiunto con un tono calmo,
“Anche se in effetti: le vene ed
il sangue sono un problema, forse per questo preferisco le cose
morte.”
Dopo
la morte di Caitlyn quel commento sembra terribilmente fuori luogo.
Elen
era rimasta in un quieto silenzio, non sapendo cosa dire e allo stesso
tempo
Drina doveva aver notato la sgradevolezza della sua stessa frase,
perché gli
occhi si erano colorati di vergogna. Era stato il terzo uomo a
distruggere quel
silenzio nervoso.
“È
molto affascinante osservare il passaggio da una scienza
all’altra; così
drastico, pensavo fosse semplice solo tra specializzazioni”
aveva parlato il
ragazzo shu, con gli occhi gialli rapiti dai movimenti delle dita di
Drina
sulle sue mani, c’era una morbosità quasi
scientifica.
Elen aveva sbuffato,
“Sei una creatura
riprovevole” aveva parlato la sua amica, lasciando la mano
del ragazzo con un
brusco scatto, lasciando le unghie ancora sanguinanti.
Elen
non aveva avuto il cuore di chiedere ad Anchel di occuparsi anche del
dottore
Shu.
“Credo
sia un passaggio più semplice tra corporalki e materialki
che con etherealki e,
inoltre, penso sia più semplice del passaggio ad Inferno per
squaller e
tidemakers” aveva considerato invece Elen, “Queste
due piccole scienze sono
quasi commutabili.”
Lei
era giovane, aveva solamente quattordici anni ma aveva provato le altre
discipline, almeno nel suo ordine, non aveva avuto fortuna con il
fuoco, ma era
stata capace di far danzare le acque della fontana di Alina-e-Zoya nel
cortile
del Grab Palazzo e vibrare l’acqua del lago del Piccolo
Palazzo. Aveva anche
creato l’acqua, dall’aria, ma lì aveva
avuto l’impressione fosse più le sue
abilità da squaller che da tidemakers a lavorare.
E
dopo la Ji-Han aveva guidato le correnti e lo aveva fatto senza lo
sforzo che
doveva usare quanto praticava la Piccola Scienza delle maree.
“Ti andrebbe di
parlarmene?” aveva inquisito il ragazzo Shu, ostinatamente
sfacciato. I suoi
occhi oro erano predatori di informazioni e le sue labbra erano piegate
in un
sorriso troppo accondiscendente.
“No”
aveva risposto perentoria Elen, “Dobbiamo rimetterci in
marcia, abbiamo bisogno
di un guaritore vero, grisha o meno, per
Hati” si era ripresa Elen, distogliendo
lo sguardo dal ragazzo Shu per rivolgersi a Drina. Non voleva mancare
di
rispetto ad Anchel, perché stava facendo quanto era capace,
ma era ancora un
guaritore giovane e incerto. “Va bene” aveva
concesso Drina, rivolgendo lo
sguardo ai tre non lontano da loro, “Non so quanto ancora
posso resistere, la
Parem nel suo corpo si sta esaurendo” aveva ammesso. Quella
di Drina non era
sembrata una circostanza, un’osservazione, ma una brutale
verità – come se
Drina potesse davvero percepire l’esaurimento della Jurda
Parem dal corpo di
qualcuno.
Elen
si era morsa un labro e dopo un lungo sospiro, aveva sospirato ed aveva
rivolto
di nuovo lo sguardo al dottore, “Dobbiamo parlare bene della
condizione di
Hati” aveva stabilito, l’altro si era messo
sull’attenti per ascoltarla, “Se
quello che mi hai detto è vero, devo considerare che
differentemente da Caitlyn,
la dipendenza potrebbe essere meno grave” aveva soppesato,
rivolgendosi di
nuovo al dottore, ricordando quando aveva insistito affinché
il dottore le
dicesse tutto.
“La
parem è ancora tremendamente imprevedibile” aveva
vagliato il dottore, calmo.
“Sankti, potresti fingere il rimorso” lo aveva
rimproverato Drina, lui aveva
schiuso le labbra ma Elen l’aveva anticipata, “No,
dirà che non ne prova, anche
se ha pianto, lo abbiamo visto tutti” aveva replicato dritta
e crudele.
“Piangevo per il dolore, Elen” aveva risposto
subito lui agitato, come la
stessa acutezza nella voce di qualcuno che era stato bruciato.
Non
era la prima volta che il dottore usava il suo nome per parlarne, ma da
quando
avevano lasciato la Ji-Han non lo aveva fatto più
così spesso; Drina lo aveva
colpito al braccio con un buffetto, indignata ma senza reale forza.
Forse non
voleva ferirlo o forse non aveva le capacità per farlo con
la forza bruta.
“Ho
appena realizzato di non conoscere il tuo nome” aveva
valutato Elen, lo aveva detto
senza controllo. “Vuoi saperlo?” aveva chiesto il
ragazzo, con un guizzo di
curiosità nel viso, mentre lisciava la mano sulla zona
dolente. “Se resterai
qui con noi per un po’ non puoi continuare ad essere: lui,
quello, il
debosciato, il male-incarnato” aveva risposto Elen pratica.
“Il
Male-Incarnato ha un tono molto
autoritario” aveva scherzato il dottore,
“Il tuo nome e non mentire! Drina può sentire le
pulsazioni del tuo cuore” lo
aveva avvertito. Onestamente non sapeva se la sua amica, nel suo nuovo
ruolo di
corporalki, sapesse fare anche quello.
“Non
avrebbe senso mentie, no; inoltre, probabilmente finirò
divorato da un orso o
che so io?” aveva
ammesso l’altro, “Mi
chiamo Lu, comunque.”
Elen
aveva guardato Drina, sperando che la sua amica fosse davvero capace di
leggere
i battiti – Genya lo era e per questo scopriva sempre quando
i bambini
mentivano sulle loro marachelle – o che Lu avesse detto la
verità. “Be, il suo
battito non mi sembra aumentato, ma non posso esserne sicura”
aveva sciolto
Drina il suo stesso gioco, “Sono una corporalki da quando
… due settimane?
Probabilmente non è così stupido da crederci
sulla parola” aveva ammesso Drina
quasi vergognosa.
“Ci
avrei creduto, mi sembri decisamente una grisha eccezionale”
aveva detto Lu
calmo e stoico, rivolgendosi verso l’altra, Drina aveva
aggrottato le
sopracciglia, “Le lusinghe non ti salveranno dagli
orsi” aveva replicato la sua
amica ed Elen aveva sentito un prurito fastidioso allo stomaco.
“Voi state civettando?”
aveva chiesto quasi indignata.
“No!”
aveva replicato Drina subito, scostandosi immediatamente da
lì, quasi scottata,
“Primo: no! Secondo: lui è un mostro! Terzo:
Cignaz!” aveva strillato subito,
guardandola ferita.
“Ovviamente
L’Orfanello di Keramzin!” aveva
detto Elen pungente, “Non chiamarlo
così” aveva soffiato Drina offesa, un sorriso era
sorto sulle labbra a vedere
la sua amica così protettiva, “Mi ha chiesto di
sposarmi!” aveva sputato fuori
lei.
Drina
aveva quindici anni, sebbene non esistessero più
così tante spose tanto giovani,
non era del tutto una rarità trovarle, particolarmente dalle
zone rurali da cui
Drina e Cignaz venivano.
Il
ragazzino era stato uno degli orfani di Keramzin, lui e Drina erano
cresciuti
assieme ed erano rimasti in contatto anche quando Drina era venuta a
studiare
al Piccolo Palazzo, con lunghe lettere che avevano attraversato mezza
Ravka o
brevi messaggi telegrafati; poi alla fin dell’inverno era
arrivata una lettera
che annunciava il suo arrivo.
E
nel mezzo della primavera Cignaz era sceso da una diligenza, a piazza
Sankt
Gregori, con una lettera di referenze firmata dal duca Kerasmov per un
lavoro e
un emozionata Marina Rosen, con un kokošnik oro-e-blu a
coprire i capelli
canuti.
“Guarda
questa fanciulletta che non mi ha detto nulla!” Elen
l’aveva presa in giro, un
momento di leggerezza che le aveva colte subito. Il viso pallido di
Drina aveva
preso una sfumatura rosata che aveva stuzzicato e divertito Elen,
“Basta!
Basta! Vado a controllare Hati!” aveva strillato Drina,
allontanandosi, con il
viso cotto.
Elen
aveva riso di quella vergogna in maniera infantile, ma dolce, cercando
di
trarre la sua gioia da dove poteva.
Aveva
deviato lo sguardo verso Lu ed aveva osservato il suo viso, era bianco
e
triste, Elen pensava di sapere cosa fosse quello che lo aveva reso
così cupo, “È
diverso, vero? Quando non siamo solo soggetti, ma diventiamo
umani, eh?” lo
aveva preso in giro.
Valeva
anche per lei, in un certo senso, prima era il dottore, il sadico, il
mostro,
ma in quel momento era diventato Lu, un ragazzino orfano di cui tutta
la vita
era finita nel fondo del Mare Vero, del nord, non avrebbe dovuto
provare quei
sentimenti, ma li provava – ‘Perché hai
un cuore pieno d’amore’ poteva sentire
la voce di sua madre nella sua testa.
Lu
l’aveva guardata, Elen era pronta a un’altra fredda
invettiva, ma il ragazzo
shu l’aveva stupita, “Sì”
aveva ammesso. Quella sola sillaba sembrava pesare
più della gravità stessa.
“Per
questo mia ma… la dottoressa
mi diceva di non socializzare” aveva
confessato. Non aveva ancora deciso di rivelare che il suo rapporto con
la
dottoressa Spaccaossa fosse quello di sangue; era stupido negarlo,
pensava
Elen. Lu e la dottoressa si somigliavano, avevano la stessa pelle
leggermente
più ocra rispetto al pallido Shu del settentrione, con i
capelli neri della
stessa tonalità della sambuchella scura. Anche gli occhi
erano assolutamente
uguali, lo stesso sguardo predatorio che poteva mettere i brividi.
E
bellissimi, cosa che lasciava Elen in uno stato di disgustoso per
sé stessa,
perché chi mai avrebbe trovato attraente creature
così ributtanti? Forse Drina
che aveva la passione per il marcio e spiava sempre curiosa
l’effigi del Senza
Stelle … o forse era nel sangue, Elen non poteva negare che
nella sua famiglia
non mancasse la passione per i mostri.
“Andiamo,
mostro” gli disse, Lu si era sollevato dalla terra umida di
nevischio, “Non
dovevo dirti il mio nome per smettere di essere Lu?” aveva
chiesto provocatorio
lui, “Non sfidare la sorte” lo aveva rimproverato
lei. Lu l’aveva guardata
attentamente, “Niente manette?” aveva chiesto,
ondeggiando i polsi gonfi ma
inequivocabilmente nudi. Elen aveva sbuffato, “Siamo cinque
grisha contro un otkazat'sya
…” aveva considerato lei, “Inoltre,
quasi ti pregherei di dare una ragione a
Malcom di agire” aveva aggiunto allusiva. Lu aveva annuito,
“Ho messo in conto
che se arriveremo mai a Djelohrm lo farò un po’
più croccante” aveva detto
quello. Elen lo aveva guardato: “Non sei ancora autorizzato a
fare battute,
ricordalo” aveva stabilito.
Lui
era arrossito appena, “Comunque … mi chiamo
davvero Lu, è un diminutivo ma è
davvero il mio nome, come immagino lo siano Drina, Hati ed
Elen” aveva detto.
“Perché
pensi che Elen sia un diminutivo?” aveva indagato lei, mentre
raggiungevano gli
altri, “Elen è un nome kaelish non
ravkiano” aveva considerato lui “Ed anche se
credo che tu non sia completamente ravkiana credo tu non sia kaelish
… e poi la
pronuncia” aveva aggiunto. “La
pronuncia?” aveva detto Elen, leggermente
indispettita, “In kaelish sarebbe Len, con la prima E muta, e
in Ravkiano
dovrebbe essere Elin con un apofonia nella seconda E. Ultimo, se anche
il tuo
nome fosse speciale dovrebbe essere letto comunque Elen o
Elèn e non El-En”
aveva spiegato pratico
lui.
“Vuoi
spiegare la mia lingua a me?” aveva chiesto irritata
– e spaventata. “Ho solo
detto la verità” aveva risposto Lu guardandola
severo. Elen aveva arricciato le
labbra, “Mia madre era una contadina illetterata di Pachina e
l’addetta ai
censimenti non era tanto migliore” aveva ringhiato.
“Sei
poliglotta e ben educata” aveva valutato Lu attento,
“Sono cresciuta al Piccolo
Palazzo, insieme al dominio della Piccola Scienza ti insegnano anche le
buone
maniere e altro” aveva risposto lei istintiva,
“Certo ad Os Alta di dove erano
i tuoi genitori, me lo hai già detto” aveva
ripetuto lui. “Forse prima ho
mentito, forse ora ho mentito, forse ho mentito entrambe le volte o
forse la
verità è in mezzo” aveva replicato,
allungando il passo per superarlo. Lu era
più grande di lei ed aveva gambe più lunghe, ma
Elen era convinto l’avrebbe
superato. “O forse Elen è davvero un
soprannome” aveva fatto eco lui.
“Possiamo
ucciderlo?” aveva chiesto Mal, con le r ruvide nel suo kerch
impreciso, con gli
occhi rivolti a Lu che era rimasto in disparte, “Fa un buon
prigioniero,
zuccone, te lo ho detto” aveva detto Drina, non lontano da
lui, che trafficava
con qualcosa con le dita, giocando con dei pezzi di stoffa.
Drina
era sempre stata più pratica nel modellare la
realtà che crearla, forse come
corporalki si sarebbe trovata a suo agio.
Anche
se non era del tutto vero a pensiero di Elen, forse Drina non costruiva
macchine o inventava, ma modellava la realtà a suo piacere
ed era in grado di
creare cose belle. ‘Non
tutto deve avere
uno scopo’ aveva detto una volta la Maestra Ekaterina,
‘Pensa al quadro che ci
ha dipinto tua madre, è bello, da vedere è un
piacere’ aveva scherzato la
signorina Velenski, quando aveva consolato Drina, che piangeva
perché non era
riuscita a creare un treno meccanico.
Quando
aveva compiuto dodici anni, Drina aveva creato per Elen una rosa di
ematite
brillante, i petali erano lucidi e lisci come il vetro lavorato, il
colore era
di un nero inteso che rifulgeva dello scintillio rosso di quel metallo.
‘Scusa non è un meccano’
aveva detto piena di vergogna, “È
bellissima” l’aveva difesa Elen, “E
differentemente dagli altri fiori non appassirà
mai” aveva aggiunto.
L’ematite
al naso di Elen odorava di terra viva, anziché di fiori
odorosi, sperava di
poterla annusare ancora per il suo prossimo compleanno.
“Non
sarebbe un buon prigioniero neanche se le due regine Shu dessero due
volte il
suo peso in oro” aveva ringhiato Mal.
“Questo
perché sei uno zuccone … è poliglotta
e ben educato” aveva detto Drina,
ripetendo le parole che Lu aveva usato per descrivere lei, che doveva
aver
comunque sentito. Elen aveva compreso il punto: cerca di apparire meno
di quel
che era per non attirare troppo l’attenzione.
Lu
si era irrigidito a quel commento, “Ma non posso assicurarti
che le due
reggenti ci daranno il loro peso in oro” aveva scherzato poi
forzatamente
Drina, “Ne che distragga troppo un orso” aveva
aggiunto stanco Anchel.
Elen
era rimasta indietro con Lu, mentre la fila era guidata da Drina che
affiancava
Anchel, seguiti a ruota da un Hati claudicanti ed un Malcom
incendiario.
Avevano
finito la jurda, la carne secca e le temperature si erano abbassate
leggermente. “Dobbiamo
assolutamente
avvicinarci a un villaggio” aveva considerato Drina attirando
l’attenzione, “Mi
servirebbe una qualche moneta fjerdiana, non si può
trasmutare a lungo
qualcosa, ma forse abbastanza per pagare qualcosa e
allontanarci” aveva
spiegato.
“Ma
non possiamo dare troppo nell’occhio, siamo a settentrione, i
grisha non sono
ancora ben percepiti” aveva considerato sterile Elen,
ricordando le nozioni che
aveva appreso. “Potrei provare a plasmare un po’ i
nostri visi, per essere meno
vistosi” aveva provato Anchel, posando le
mani sulla carnagione scura
zemeni. “Devo anche sistemare i vestiti, o anche se fossimo
tutti bianchi
sembreremmo comunque dei mendicanti” aveva precisato Drina,
rallentando il
passo, osservando, poi, con gli occhi preoccupati Hati. Anche nel
freddo
dell’autunno del nord di Fjerda, il viso del ragazzo delle
colonie era
attraversato da gocce di sudore, date dalla parem.
Serviva altra jurda!
Drina
aveva riparato i buchi d’usura dei loro vestiti e ridato
colore ad alcune
stoffe un po’ opache, spostandoli dalle cianfrusaglie in cui
erano incappati
lungo tutto il viaggio e che aveva raccolto, sassolini per terra,
legnetti,
ossa pallide restituite dal mare, anche della sabbia.
“Non
sei mai stata così veloce” aveva considerato Elen,
mentre vedeva le sue dita
nere e viola muoversi come zampe di ragno, tra tutti quegli oggetti.
Drina
aveva sollevato gli occhi blu, “Come posso
spiegarlo?” aveva chiesto retorica
la sua amica, mentre costringeva un filo della giacca rossa di Lu a
tornare al
suo posto, “Non so ma sembra davvero magnifico,
sì” aveva ponderato il
ragazzo Shu, sfidando apertamente l’espressione collerica di
Malcom. “Ti
ricordi quello che ci ha raccontato tua madre?” aveva chiesto
Drina, “Ci ha
raccontato molte cose” aveva risposto evasiva Elen, prima di
portare lo sguardo
altrove, altrove che non fosse Lu.
“Quando
ci ha detto che improvvisamente sapeva quello che
doveva fare” aveva
replicato Drina. Ah, sì, quello Elen lo ricordava.
“Quando ero chiusa in quella
stanzetta ho continuato a pensare che dovevo impegnarmi per sentire
qualcosa,
era maledettamente difficile intontita dalla droga, ma Elen, io volevo
disperatamente sentire qualcosa” aveva fatto una pausa lunga
e meditativa, poi
aveva continuato, “E poi mentre mi sforzavo di sentire, ho
sentito … solo da
quel momento … dal momento in cui sono riuscita a sentire la
vibrazione dei
piedi delle altre persone sui ponti, da quel
momento non sono più stata
capace di smettere di sentire” aveva ammesso con voce
vibrante Drina, come
sentiva che la jurda parem in Hati si stava esaurendo. “Ed
ora so cosa devo
fare, come se la materia parlasse con me” aveva rivelato.
Nella foga del
momento aveva parlato in ravkiano.
“Questo
… questo sembra stranamente incredibile” aveva
sospirato Anchel che aveva
sentito tutto il discorso, “Di che state parlando?”
aveva chiesto roborante
Malcom volendo attirare l’attenzione. “Sarebbe di
cattivo gusto dire che vorrei
tu mi parlassi di più di questo?” aveva chiesto Lu
in un ravkiano decisamente
buono, “Adesso ti spezzo le gambe così senti per
bene tutto, eh?” aveva
risposto quasi aggressiva Drina, tirandosi via da lui e allontanandosi.
“Anchel,
ti prego assicurati che Malcom non lo uccida” aveva detto
Elen, prendendo Drina
per mano, “Non posso dare promesse” aveva risposto
il suo amico, osservando la
furia bruciante che animava gli occhi del ragazzo kaelish.
Elen
aveva trascinato via Drina con una certa urgenza e quasi violenza. La
sua amica
non aveva opposto resistenza e si era fatta guidare lontano,
affinché non
raggiungessero poi con le loro voci gli altri.
“Puoi
spiegarmi leggermente meglio la cosa del sentire? Cosa intendi?”
aveva
chiesto, “Non della materia che ti parla, di quello fidati ne
ho sentito
parlare fin troppo” aveva ammesso, ricordando le lunghe
istruzione di Adrik,
sul percepire l’aria ed ascoltare la sua voce. E poi gli
altri elementi.
L’aria
era una gran chiacchierona, secondo Elen, l’acqua era una
timida innamorata ed
il fuoco era un muto stronzetto.
“Non
lo so” aveva detto Drina, con nervosismo, “Ma ho
come l’impressione di sentire
ogni filo di stoffa della tua giacca, come strofina contro
l’altro, come
tremula sulla pelle e come raschia sull’aria
fredda” aveva spiegato la sua
amica, incerta. “Pensi … pensi che possa diventare
un problema?” aveva chiesto
Elen, piena di timore perché non poteva permettersi che
qualcosa andasse
storto, specie a Drina.
La
sua amica aveva toccato con una mano una piega del cappotto che era
largo sulle
sue spalle; “Sai, Drina, mia madre … mia madre a
volte sente troppo”
aveva cominciato a dire Elen, perché era qualcosa che non
aveva mai detto a
nessuno, neanche al resto della sua famiglia più stretta. E
mai a Drina, che
era sempre stata la metà della sua mela, prima di quel
momento.
Drina
aveva tolto gli occhi dalla piega, “Anche mia
madre” aveva soffiato.
“Tua
madre sente ancora?” aveva chiesto
preoccupata. Marina Rosen era stata
l’unica persona nota ad Elen che avesse perso i suoi poteri;
la parem poteva
modificarli, lasciarti profondamente segnato, gli amplificatori in base
se
corrotti o puri potevano alternare tanto, ma Elen non aveva mai
conosciuto
nessuno che avesse perso i suoi poteri.
La
Piccola Scienza sembrava una cosa così intrinseca che non
poteva essere persa,
ma aveva senso, come l’aveva spiegata Marina: era
come una amputazione,
una ferita così potente da non poter essere più
rimarginata e che lasciava il
corpo privo di qualcosa. Marina aveva raccontato ad Elen e Drina che
ogni tanto
sentiva un formicolio nel suo cervelletto e nelle sue dita, come se
avesse
potuto sentire ancora la Piccola Scienza.
‘Forse
è la prova che ha ancora i suoi poteri?’
aveva proposto ai corporalki del
Piccolo Palazzo, come la gente che dopo un trauma aveva qualche parte
del corpo
non funzionante, in maniera del tutto slegata ad una condizione fisica,
ma non
era stata così.
Marina
Rosen era stata mutilata … ed Elen odiava pensarci,
perché continuava a
fossilizzarsi sullo stesso pensiero: come era stato possibile?
Elen
non aveva mai sentito di nessun altro caso in tutta la storia, aveva
studiato
come la Piccola Scienza aveva modificato il proprio portatore, ma mai
che
qualcuno potesse esserne privato.
“Sì,
lei continua a percepire le cose, come se le particelle le vibrassero
attorno,
non se è il dolore riflesso, non so… è
complicato” aveva ammesso Drina, “Però
quello che provo adesso ci somiglia molto.”
Elen si era morso un labbro
e aveva occhieggiato Lu in disparte dal gruppo, che si rendeva oggetto
delle
invettive di Malcom, “Stai pensando di chiedere al nostro
dottore pazzo?” aveva
letto le sue intenzioni Drina, cristalline. “Sicuramente ha
passato un po’ di
tempo a studiare i poteri grisha” aveva proposto Elen,
“Mi pare che il suo
scopo sia trovare un modo per rendere tutti come noi” aveva
ammesso Elen.
L’espressione della sua amica si era fatta rigida e
preoccupata, “Potremmo, sì
…” Drina aveva fatto una pausa e poi aveva deciso
di parlare il vecchio
ravkiano, quelle delle zone meridiane, appartenente al primo territorio
segnato
dall’uccello di fuoco. Forse era un azzardo, il meridione era
più vicino a
Shu-Han, ma sapeva essere una lingua ormai morta e dimenticata, che
esisteva
più in forma scritta che verbale, che le due avevano
imparato durante le
terribili lezioni di dizione al Piccolo Palazzo,
“… non dovremmo fai
riferimento a mia madre, però” aveva considerato.
Elen aveva annuito, comprendendo il punto: era decisamente meglio
tenere
all’oscuro Lu che esisteva un modo per privare un grisha dei
loro poteri, completamente,
sebbene neanche Marina avesse mai spiegato per bene come fosse
successo.
Era,
comunque, decisamente meglio che Lu non scoprisse mai che la Piccola
Scienza
poteva essere amputata. L’ultima cosa che
Elen si augurava era avere
plotoni di gente intenzionati a guarire o esorcizzare
i grisha.
“Avete
finito di fare le misteriose?” aveva chiesto Anchel, quando
le aveva viste
tornare, “Perché ho sforzato i miei poteri al
massimo e ti dico che qui vicino
c’è un villaggio” aveva considerato
Anchel. Drina aveva annuito, “E probabilmente
hanno della jurda” aveva considerato, aveva cercato
di mitigare il suo tono
con l’incertezza, ma Elen aveva compreso che la dovesse
percepire. Drina
sentiva, si chiedeva per quanto la sua capacità di
percezione si irradiasse.
Perciò
avevano della Jurda sicuramente.
“Bene,
dovremmo probabilmente dividerci” aveva considerato Elen,
“Non mi fido a
lasciare Lu avvicinarsi ad un posto dove può
scappare” aveva considerato lei,
“Ho proprio l’aspetto da Fjerdiano tipico,
sì” l’aveva presa in giro
spietatamente il giovane shu, “Posso ustionargli
la faccia così
sicuramente non potrà confondersi” aveva stabilito
con voce rocciosa il kaelish
inferno.
“Bene,
sarà divertente scegliere come dividerci” aveva
considerato Anchel, “No, è
facile” aveva stabilito Elen, recuperando il suo dominio,
“Anchel, tu resterai
con Hati per prendersi cura di lui e terrai d’occhio Lu,
assicurati non funga,
è la nostra scorta contro gli orsi” aveva
aggiunto, cercando di non essere
troppo melodrammatica, “Lo posso spedire in uno splendido
sonno” aveva
scherzato forzatamente Anchel. “Io, Drina e il piccolo
fiammiferaio andiamo in
città” aveva aggiunto secca.
“Però
Anchel devi addolcirci un po’” aveva sussurrato
Drina, “Sono un tailor pessimo,
Genya Saffin ha provato ad insegnarmi, sono riuscito solo a far venire
un naso
a patata a Kos” aveva sussurrato Anchel, rimarcando il
discorso, “Dice che una
persona meno capace di me in quella Scienza non l’aveva mai
incontrata.”
Drina
gli aveva preso una mano in maniera quasi materna,
“Ricordo” aveva sussurrato,
“Ma ricordi anche cosa diceva la maestra Genya? È
sempre la stessa materia”
aveva considerato.
“Prendi
un po’ di neve” aveva aggiunto più dura.
Elen
sapeva di non essere diversa, anche se non riusciva a smettere di
guardare il
polso che sbordava dai guanti di lana, dove la carnagione olisse della
sua
pelle aveva preso una sfumatura più simile alla crema. Drina
non era cambiata
molto, solo l’incarnato roseo aveva assunto un aspetto
più polveroso ed il viso
attraversato da tagli di Malcom si erano assopiti e ammorbidi come
linee appena
sottili e visibili. Anchel aveva ragione, non era un bravo taylor.
“Non credo
di ricordare la mia faccia senza le deturpazioni” aveva detto
ruvido l’inferno
passando le dita sulla pelle resa cremosa dalla neve.
“Se
qualcuno inquisisce su di noi, diremo di essere devoti servi
di Djel”
aveva sussurrato Elen, mentre si avvicinavano ai confini del villaggio.
I
capelli di Elen e di Drina erano ancora corti per la rasatura ricevuta
sulla
Ji-Han, mentre Malcom che aveva soggiornato lì
più tempo aveva i capelli lunghi
fino alle spalle, che portava nascosti sotto un capello di lana ruvida.
Almeno
non erano di un rosso particolarmente vivace, ma più simile
al colore della
ruggine che divorava il ferro.
“Direi
che c’è più gente di quanto avessimo
preventivato” aveva considerato Elen,
riconoscendo i profili di una fabbrica con fumo nero,
“Sì, è un villaggio
industriale, questo vuol dire molta jurda per far lavorare gli
operai” aveva
considerato Drina con un tono fintamente allegro.
Per
raggiungere l’abitato avevano dovuto attraversare ancora una
porzione della
fitta foresta dove erano accampati, ma poi avevano percorrere un ampio
tratta
di terra disboscata, occupata da nevischio e tronchi d’albero
tagliati, fino a
che non avevano raggiunto un villaggio.
Un
posto grigio e spento.
Elen
aveva sentito un certo disagio.
Malcom
aveva allungato una mano per prendere quella di Elen ed attirare
l’attenzione
su di lui e distrarla dalla lugubre cittadina, “Tutto
bene?” aveva inquisito
lei, “Ho capito che siete … capaci. Due ragazze
capaci” aveva parlato con voce
incerta e con quelle r forte e raschianti, che deformavano il rozzo
kerchiano
in una lingua ancora più abbominevole. “Oh,
grazie” aveva risposto Elen con
onestà, stupita da quell’improvviso complimento.
Drina aveva ridacchiato,
“Ovviamente” aveva risposto con tono scherzoso.
“Ma
siete troppo vicine a quell’animale … dovresti
temerlo, quando guar-ci guarda
non vede pe-persone, animali fose, cose inumane di cui … con
cui può disporre
come vuole” aveva ringhiato.
Elen
aveva fatto roteare il pollice nell’incavo tra indice e
pollice Malcom, in una
parodia di una carezza gentile, anche attraverso i guanti poteva
sentire come
la sua pelle fosse bollente. “Lo so” lo aveva
rassicurato, perché quegli occhi
erano lì stessi di un falco davanti un topolino.
“E mi dispiace qualsiasi cosa ti sia capitata”
aveva rivelato Elen, riconoscendo
dietro la grezza sartoria di Anchel i piccoli solchi delle ferite che
segnavano
il viso del giovane. Nonostante il lavoro di camuffamento, le linee
rosate e
grigie permeavano sul viso. Provava un orrore difficile da spiegare,
mentre
immaginava quanto terrificante dovesse essere stata la vita di Malcom,
condannato all’infausto destino di essere ‘reliquia
vivente’, smembrato vivo un
po’ per volta. “Grazie” aveva detto il
ragazzo.
“Quando
torneremo a Os Alta vorrei che tu venissi con noi” aveva
ammesso con gentilezza
Elen.
Le
mura del Piccolo Palazzo erano state costruite per essere il
contenitore del
loro piccolo paradiso privato; non era più così
in quegli anni, ma era una
protezione per le povere anime come quella del ragazzo Kaelish di
fronte lei.
Malcom
l’aveva guardata, schiudendo le labbra, “In
realtà … il mio piano era quello”
aveva ammesso con un principio di vergogna, “Quando ho preso
la via delle Ossa,
io, ehm, stavo cercando di raggiungere Ravka” aveva
confessato. “Benissimo, ti
troverai bene al Piccolo Palazzo, anche se impiegherai solo mezza
giornata
prima di desiderare di dar fuoco ad Adrik, il responsabile degli
etherealki”
aveva scherzato con un certo divertimento Drina, tentando di allentare
l’atmosfera, “Adrik? Adrik l’Asimetrico?
Il santo?” aveva chiesto stupito
Malcom, sgranando gli occhi scuri.
“Quando
lo conosci è decisamente meno sankto”
aveva considerato Elen. Malcom
aveva riso, era stato strano, perché la sua voce era stata
chiara e
rischiarante, che aveva addolcito il cuore di Elen. Era una risata
bella.
“Comunque devo ammettere che non ho così grandi
amb…ambi…aspettative; non
essere tagliuzzato, ad esempio, sarebbe già un miglioramento
rispetto le mie
ultime due posizioni” aveva confessato Malcom e nel dirlo si
era toccato la
punta del naso – era un manierismo che aveva acquisito dalla
morte della povera
Cait.
Cercava
di non pensarci molto, anche se era difficile chiudere quella parte
della
memoria nel suo cervello. Prima di Caitlyn e degli schiavisti le uniche
persone
che Elen aveva visto morire erano state il vecchio signore Popov, un
grisha
materialki che lavorava nei giardini del Piccolo e Gran Palazzo, tutto
curvo e
vecchio come una cariatide e la signorina Velenski, che se
n’era andata tra le
urla e la febbre puerperale, dove anche il suo eclettico marito
corporalki non
aveva potuto fare nulla per lei. Erano state due morti tristi,
orribili, ma
anche naturali, per quanto fosse ingiusto che una donna gentile come la
signorina Shioban se ne andasse così giovane per qualcosa
che sembrava
possibile per ogni donna – Elen e Drina avevano spergiurato
non avrebbero mai
avuto figli dopo quell’evento – ma la morte di Cait
era stata straziante.
E
se Elen ci avesse pensato troppo avrebbe sentito le dita tremare e la
pelle
cosparsa da spilli ed il vento che l’accerchiava pronto a
diventare mille lame
di vento – tutte per Lu.
E
gran parte dei motivi, egoisti che fossero, che l’avevano
guidata a sopprimere
il pensiero di Cait, prima ancora del bisogno di essere lucida per
sopravvivere, era quella idea bislacca che era fiorita in lei: il
taglio.
Elen
era giovane, ma ci aveva comunque provato – con scarsi se non
nulli risultati.
“Dovremmo andare” aveva chiamato la loro attenzione
Drina, “Stiamo attirando
molto l’attenzione.”
Il
villaggio era in piena espansione industriale. Alcune case erano ancora
in
costruzione, sorrete da impalcature di ferro e legno, alcune ai margini
della
cittadina erano solo scheletri di legname e ferri. Ospitava al suo
interno, tra
case di mattoni, calce e infrastrutture di legno, anche una fabbrica
che
somigliava più ad un drago: una nera bestia roborante che
sputava fuoco.
Un’immensa struttura grigio-nera, dalla forma rettangolare,
inframezzata da tre
alte guglie. Elen giurava fosse più grande e spaventosa del
Piccolo Palazzo.
La
fabbrica, da cui fumo nero grigio era sputato fuori come uno sbuffo da
tre
comignoli a punta, occupava il centro cittadino, nella piazza
principale, al
posto del consueto santuario a Djel.
Forse il Dio lavoro di Fumo e Fuoco aveva una presa maggiore del
signore delle
acque. E, nonostante la preoccupazione di Drina, nessuno sembrava
preoccuparsi
di loro, si era voltata verso l’amica con l’idea di
dirle quello, quando aveva
scorto l’espressione preoccupata sul viso di
quest’ultima. “Drina?” aveva
chiesto preoccupata, “Cosa succede? Cosa senti?”
aveva aggiunto.
L’espressione
di Drina era rimasta pallida e gli occhi blu vuoti, aveva chinato lo
sguardo ed
aveva osservato le suole sotto le sue scarpe, avevano abbandonato il
nevischio
e terra, per un piano di calpestio brecciato, misto alla neve sporca.
“Questa
cosa mi sembra preoccupante” aveva sussurrato Malcom,
“No. Va tutto bene” aveva
detto Drina poi, recuperando lucidità, “So dove
è la Jurda” aveva stabilito,
“Seguitemi.”
Elen
avrebbe voluto guidare lei i tre, era qualcosa di radicata nella sua
natura, ma
si era fidata dei passi sicuri di Drina e del suo sentire
così vibrante
– alla fine non avevano avuto tempo di parlare con Lu ed Elen
ogni passo che
facevano nel chiassoso e lugubre villaggio industriale si convinceva di
aver
fatto bene.
Malcom
aveva ragione, per Lu non erano ancora umani, non del tutto, erano
ancora meri
oggetti da studiare, chissà cosa la sua mente orrida avrebbe
partorito quando
avesse scoperto che la percezione di Drina si fosse acutizzata
così tanto …
prima di parlare con lui, Elen doveva accertarsi che Lu gli percepisse
come
umani – o almeno come creature con sentimenti che potevano
far sorgere in lui
senso di colpa.
Cominciava
già l’acqua cheta ad arginare i ponti, nonostante
il suo discorso così sicuro
sulla medicina e le scienze.
Avevano girato per le vie della cittadella e ancora una volta Elen aveva notato come la loro presenza non destasse nessun interesse o preoccupazione; la cosa l’aveva lasciata preoccupata. Se nessuno si fosse curato di loro, questo si sarebbe tradotto inequivocabilmente con l’idea che Fjerda fosse abituata a vedere ragazzini spauriti girare come anime sperdute. Questo le sembrava inconcepibile, nel corso della sua vita Elen aveva sempre immaginato Fjerda come la patria sana che Ravka aveva sempre faticato ad essere. Per i suoi genitori e i suoi coetanei, Fjerda era il solido e ben nutrito lupo, che girovagava famelico accanto al pollaio scarno che era stata Ravka.
Elen,
aveva velocizzato il passo e si era affiancata a Drina, lasciando
indietro
l’Inferno kaelish, “Ti va di dirmi cosa
è successo, prima?” aveva chiesto, lo
aveva fatto in Ravkiano, con un sussurro, per non essere ascoltate,
“Ugh … è …
strano” aveva ammesso Drina con un leggero imbarazzo,
“Mi ero abituata al
rumore delle piante, nel bosco, delle erbacce …
sai” aveva ammesso, “Ma qui non
ci sono neanche fili d’erba” aveva risposto stanca
Drina.
“Immagino
non sia merito di un ottimo giardinaggio” aveva sospirato
stanca Elen,
guardandosi intorno, non era solo l’assenza di erbacce, ma di
qualsiasi
creatura vegetale, incluso gli alberi che usualmente abbellivano sempre
le
città Fjerdiane, essendo questi sacri per loro.
“La Jurda è qui” aveva detto Drina, improvvisamente, immobilizzandosi davanti quella che sembrava una locanda. Un’insegna in legno, appesa, oscillava lievemente al vento, esibiva l’iscrizione, incisa e rubricata, del nome, nei brutti caratteri Fjerdiani: Il Capo di Cenere.
“Entriamo?” aveva proposto Malcom, facendo il primo passo in avanti, verso l’edificio, sforzando una sicurezza che la lasciava leggermente stupita.
Elen era rimasta per un secondo frastornata dalla caotica visione che era aperta davanti lei e dal tono scuro del posto, ben lontano dai ristoranti viziati e di classe della Os Alta ricca che aveva frequentato quando lasciava il Piccolo Palazzo. “Direi che è il posto dove mangiano gli abitanti della fabbrica” aveva borbottato Drina al suo fianco, “Una mensa” aveva specificato il ragazzo kaelish. Drina aveva sorpassato sia lei e Malcon, per avvicinarsi ad uno degli avventori, ma si era interrotta facendo un cenno ad Elen.
Tra le due lei era quella che parlava meglio il Fjerdiano, la pronuncia di Drina era marcata e distante, mentre era più gentile e comprensiva con lo shu, aveva difficoltà con i suoi netti e gutturali e i suoi quindici casi.
Elen si era mossa allora, seguita da Malcom come una papera. “Mi scusi buon uomo, scusatemi se vi disturbo durante l’ora del vostro desco” aveva detto titubante e timorosa lei, come sapeva si comportavano le donne fjerdiane. Era stata costretta ad utilizzare il fjerdiano aulico che aveva imparato a lezione, sperando che non suonasse troppo ambiguo alle orecchie. “Ma che bocca profumata che hai ragazzino” l’aveva presa in giro l’avventore, era giovane, con il viso spigoloso, gli occhi chiari ed i capelli scuri e leggermente indisciplinati, sotto le stoffe pesanti e la kefiah annodata al collo, aveva spalle ampie e larghe.
Elen non era sicura di aver compreso bene esattamente tutte le parole, qualcuna sembrava piuttosto astrusa, “Grazie, cortese signore” aveva ammesso incerta. “Allora, cosa può fare questo cortese signore per tre devoti figli di Djel?” aveva indagato l’uomo. Elen aveva sorriso, passando poi di facciata una mano sui capelli corti, freschi ancora della rasatura voluta dalla Ji-Han. Elen aveva schiuso le labbra raschiando ogni memoria che aveva mai avuto della cultura fjerdiana, “Io e i miei amici stiamo compendo il Cammino dell’Acqua ed abbiamo sovrastimato le nostre abilità” aveva cominciato a spiegare.
Non era sicura esistesse un pellegrinaggio con quel nome preciso, ricordava che tre-quarti della fede di Djel prevedesse uno stretto rapporto con le acque. Inoltre, Elen non era mai stata molto religiosa, aveva sentito diversi ragazzi più grandi al Piccolo Palazzo diro che volevano compiere il Cammino dei Pellegrini; lei lo avrebbe fatto solo per l’avventura, desiderava tanto l’avventura.
Per questo era sgusciata via dalla supervisione dei maestri durante la gita a Os Kervo, dagli occhi responsabili della Maestra Ekaterina ed aveva trascinato nel dolore anche Anchel, Drina e la donna stessa, perduta nel Mare Vero, chissà dove …
Era stata sciocca.
“Coraggiosi, il cammino da Lindholm a Gjela è lungo e tortuoso, particolarmente per tre ragazzini con solo i loro vestiti addosso” aveva considerato quello adocchiando i loro corpi. Elen aveva sentito Drina, bisbigliare appena, “Almeno siamo sulla strada giusta, Gjela non dista troppo da Djelhorm.” Elen non aveva idea quanto fosse lontana quella città dalla capitale di Fjerda, ricordava solo che fosse nel settentrione, non lontano dalla terribile Ganvfall ed il suo albero di ossa umane.
“Djel illumina la nostra via” aveva risposto Elen con un tono più innocente.
“Sei una capra ignorante Sven!” aveva chiamato un altro avventore, era spesso quanto il suddetto-Sven, ma il suo viso era meno gentile, più ingombrante, come la faccia di una belva, “Il Viaggio dell’Acqua non arriva a Gjela, ma alla Capitale, segue il percorso delle vene dell’Albero” aveva ricordato con un certo tono uggioso. Elen si era sporta e le aveva bisbigliato nell’orecchio, ‘Le vene sono i fiumi sotterranei. Fjerda ha più sorgenti sotto la terra che sotto il cielo” aveva spiegato.
“Ovunque Djel voglia, io seguo la via delle acque” aveva sospirato Elen, mantenendo il suo tono sottomesso. Sven aveva sputato per terra, guadagnandosi qualche impropero irripetibile dall’oste, “Preferirei morire bruciato tra le fauci della fornace che dover mettere piede in quel postribolo di posto” aveva ringhiato, “Djel ha abbandonato la nostre città” aveva detto.
“Sempre la solita capra” aveva aggiunto con un tono infastidito l’altro, “La Regina Mila è una senja donna” aveva replicato quello con il viso brutto, “La Regina Pescivendola è una puttana e scommetto che il principino non è manco di quel debosciato di suo marito” aveva replicato Sven.
Elen aveva sentito un brivido galopparle lungo la schiena; il ricordo della regina Mila quando era venuta in visita ad Os Alta ed aveva voluto incontrare i bambini grisha del Piccolo Palazzo, come promozione ad una Fjerda più accomodante.
Drina le aveva preso la mano prima che Elen aprisse bocca, “Noi siamo devoti a Djel, che, come l’acqua, è vita, nutrimento ed amore” aveva ripetuto mielosa, come se fosse stata la più pia fra le fanciulle.
“Sei una ragazzina molto devota” aveva considerato Sven, ammirato.
“Una qualità molto ammirevole, particolarmente in una ravkiana” aveva rettificato una voce alle loro spalle. Sven era divenuto in viso bianco come un lenzuolo, anche l’altro uomo si era irrigidito, preferendo abbandonare la postazione che stava occupando, con più rapidità di un gatto. “Di madre” aveva risposto Drina svelta, voltandosi immediatamente, senza perdere quell’aspetto delicato e calmo.
Probabilmente, ancora una volta, Drina doveva aver percepito il nuovo venuto.
Elen aveva chinato il capo per osservare chi avesse parlato: era un giovane uomo dalla mascella ben squadrata, capelli biondo come la cenere, lunghi e lisci, ed occhi verde-blu. Aveva una barba rada sulle guance che lo facevano sembrare più vecchio di quanto probabilmente non fosse. Se avesse dovuto indovinare l’età, Elen si sarebbe trovata in una certa difficoltà, avendo l’impressione il pendolo oscillasse dai sedici ai venticinque anni. Il giovane uomo indossava una pelliccia morbida e bella che avvolgeva il corpo ben tonico, fermato da una spilla grigio-argento dalla testa di lupo ululante.
Druskelle! E non era da solo, Elen aveva osservato altri suoi compagni, almeno tre, uno aveva una barbetta racconto in una treccia, che avrebbe dovuto farlo sembrare imperioso ma lo faceva sembrare la brutta imitazione di una capra, uno era ancora un ragazzino con le guance morbide, forse poco più grande del giovane Lu e il terzo aveva un sorriso tutto storto, la rada barba e l’espressione maliziosa in occhi nero-grigi.
Il Druskelle che aveva parlato non indossava un semplice pellicciotto, ma un manto di zibellino – e la pregevolezza della pelliccia, avevano reso chiaro a Elen che non potesse essere un druskelle comune, così come il velluto della giubba sotto, lontana dalle vesti logore dei suoi compagni, il cuoio ben acconciato della cintura, i pantaloni nuovi e gli stivali di pelle marrone lucidissima, insozzati appena di fango e neve.
“Teidän armonne Styborn” aveva detto Sven pieno di riverenza, che mal si sposava con l’immagine intemperante che aveva avuto mentre parlava della sua regina; si era anche alzato per esibirsi in un inchino maldestro.
“Siamo
onorati di incontrare tanti valenti uomini e protettori del cuore di
Djel”
aveva soffiato Elen, spostandosi prima che Malcom facesse qualche
azione
inconsulta. Sperava che i druskelle non percepissero il calore corporeo
dell’Inferno,
quasi soffocare il freddo pungente dell’autunno.
“Ed io sono onorato di
incontrare tre devoti seguaci dell’Unico Dio” aveva
parlato il druskelle, ma il
suo tono non nascondeva affatto l’accondiscendenza. Elen
aveva chinato il capo
rispettosa, imitato da una celere Drina ed un po’
più rigido Malcom.
Quella
era stata la loro ultima interazione, prima che Drina li conducesse
quasi di
forza verso un tavolo lontano dagli occhi.
“Sono un problema?” aveva chiesto Malcom, con un tono basso come quello di un gatto, “Sono druskelle, sì che sono un problema. Sono stati cresciuti per darci la caccia” aveva detto secca Drina.
“Ma sono sotto la corona … non c’è … uhm … qualcosa? una legge che dice che non possono più bruciarci?” aveva considerato lui, “Non che mi preoccuperei in caso di un rogo” aveva sdrammatizzato. “Ripeto: siamo nel nord di Fjerda, dove lo zoccolo duro dei conservatori è ancora vivo” aveva considerato a bassa voce Elen, sedendosi su una delle sedie di legno, prima che l’oste venisse a prendere la loro ordinazione.
Due
birre d’orzo e tre zuppe di salmone.
“Fjerda
è così divisa?” aveva inquisito Malcom,
“Pensavo fosse un problema solo di
Ravka” aveva dichiarato.
Elen
si era morso il labbro; era abbastanza noto, Ravka era stata divisa in
due per
quattro secoli da un denso muro di tenebra; Fjerda non aveva mai avuto
questo
parere. Fjerda era sempre stato un fronte unico.
Drina si era morso un
labbro, “Non è così semplice”
aveva considerato pratica, rispolverando quei
suoi amori passati, “La madre di D. è una
cartografa, con un certo amore per la
geo-politica” aveva soffiato Elen, anticipando quello che
sarebbe successo. “Tralasciando
il discorso Ravka, che ha una storia squisitamente speciale. Non
è così facile
definire Fjerda unita” aveva cominciato Drina,
“Sebbene Fjerda si consideri un
solo popolo, ha, nell’effettivo, due gruppi etnici
profondamente distinti: i
Fjerdiani e gli Hetsut” aveva considerato,
“Nonostante Fjerda, come entità
territoriale esista da trecento anni, ancora oggi molti hetsut vivono
in
comunità isolate e solo nell’ultimo mezzo-secolo
hanno cominciato ad
integrarsi” aveva spiegato sapiente,
“Però, nella pratica, Fjerda ha tre gruppi
etnici; per quanto due risultino quasi indistinguibili” aveva
considerato.
“Questo
è il momento giusto di dirti che non conosco il kerchiano
così bene da sapere
tutte le parole che stai usando” aveva replicato Malcom con
un tono pieno di
vergogna.
“Perdonami,
cercherò di essere più semplice. Vorrei parlare
il kaelish, ma ha suoni troppi
strani e non sono mai riuscita a impararlo” si era
giustificata Drina. “Tranquilla,
a me piacerebbe disimpararlo” le aveva detto Malcom,
“Puoi recuperare, ma per
favore non usare più tutte queste parole …
difficili.”
“Sì,
certo, dicevo: escludendo le zone degli Hetsut, prima di Fjerda,
c’era Kevala,
al nord, poi c’era il Narden che occupava gran parte della
penisola
dell’Avenfall e tre quarti dell’Overunt –
questo succedeva dopo i Dieci Regni,
ma ora sarebbe una storia lunga – ed il Kevala che
tecnicamente è la zona sud, aveva
come capitale Fertha” aveva fatto una
pausa, “Una città più a sud di
Djelhorm, che a quei tempi era solo l’inviolabile cittadella
di ghiaccio, mezza
prigione, mezza scuola, mezzo monastero.”
“Ci sono un sacco di mezzi” aveva scherzato Elen,
non sapendo cosa dire, non
aveva mai badato così tanto alle lezioni di topografia
fjerdiane, non ricordava
neanche le avessero mai fatte, in effetti. “I Fjerdiani sono
un popolo strano
che crede di vivere di assolutismi ma sono solo ipocriti”
aveva risposto Drina
secca, “Ho contato, qualcosa come, sei parole che non
conosco” era intervenuto
Malcom. “Diciamo che Fertha la vecchia capitale, ora
è una mezza città
fantasma, e che Djelhorm seicento anni poteva contare solo sulla
Ghiacciaia,
come era chiamata la Corte di Ghiaccio, su cui poi si è
sviluppata l’intera città.”
“Lo
so che tutta questa storia è importante, Drina; ma forse la
hai presa un po’
troppo … alla lontana” aveva ammesso Elen,
grattandosi una guancia.
“Il
punto che è quando Fjerda è diventata Fjerda con
l’unione del Narden e della Kevala
, quando il principe di Narden, Thoren VI, divenne
l’ultimo erede
vivente del re di Kevala, Gustav il Ghiottoso, tramite sua madre, la
regina
vedova Wictoria di Fertha. I nardeniani sono diventati Kevalani circa:
hanno
preso la lingua, gli usi e i costumi”
aveva spiegato Drina, “Ma
non la religione né le sue pratiche, quella è un
retaggio della vecchia Narden
ed indovina quale dei tre popoli bruciava i grisha per
divertimento?” aveva
chiesto retorica.
Elen
era intervenuta, “Ti do un indizio: lo splendido palazzo di
Djelhorm è stato
costruito da una mano grisha” era intervenuta. Era strano
pensare che i grisha
Kevalani erano stati venerati come inventori e costruttori e poi erano
finiti
bruciati dallo stesso popolo che gli aveva venerati.
La
prigionia sotto le mani degli schiavisti – il loro aguzzino
che come lei e
Drina era figlio della buona Ravka – e dei macellai Shu aveva
rimesso in
prospettiva la vita di Elen. Poteva succedere anche a loro.
La
loro conversazione era stata interrotta dall’arrivo
dell’oste che aveva portato
le loro ordinazioni. Elen aveva soffocato ogni senso di colpa quando
aveva
avuto sotto la lingua la zuppa. L’eredità di
Aleksander Morozova – l’Oscuro –
che aveva lasciato nel suo Piccolo Palazzo era stata una cucina povera
di gusto
e di ingredienti, ma carica di carità e fermezza, il gusto
di Elen si era
modellato sul pane secco con l’aglio, la verza bollita e le
arighe sotto sala,
ben lontano dai gusti pregiati del Gran Palazzo o la genuina
bontà Fjerdiana.
Le patate erano cremose, il salmone era delicato e buono che si
scioglieva
sotto i denti e per Elen dopo settimane per mano degli schiavisti, la
rigida
disciplina alimentare del Leviatano e la carne secca di fortuna di
Fjerda quel
sapore le riempiva la pancia. Quel calore, anche più del
sapore, le aveva dato
una mazzata sullo spirito della stessa portata di una scudisciata sulla
schiena.
Aveva
cominciato a lacrimare senza neanche poter mantenere il controllo dei
suoi
occhi. Quando aveva sollevato lo sguardo dalla zuppa, aveva trovato i
suoi
compagni con le medesime espressioni. Drina aveva occhi lucidi e mani
tremanti
e Malcom era una nuova scura di tempesta, i suoi occhi erano
così ardenti e le
sue mani sfrigolavano sul legno come acqua in un samovar.
Tre
sentimenti animavano i loro corpi. Elen provava disgusto per aver
dimenticato i
suoi compagni, per aver soddisfatto sé stessa e leggeva sul
viso di Drina la
vergogna, invece, di non aver dimenticato ma di aver pensato, comunque,
solo al
proprio ristoro e in Malcom c’era solo rossa rabbia.
Il
ragazzo aveva borbottato qualcosa in kaelish, ma tra le parole rozze e
dure,
spiccava il nome dolce di Caitlyn. Elen si era rifiutata di pensare a
lei, dopo
aver sistemato l’ultimo sasso sulla sua sepoltura.
Elen aveva bisogno di pensare ad altro, perché la sola idea
di Caitlyn
l’avrebbe fatta eruttare in lacrime amare, era una cosa
stupida, non la
conosceva, non la conosceva per nulla. Non sapeva quale fosse il colore
preferito di Caitlyn, come apparisse al mattino sveglia, se sapesse
ballare,
che suono avesse la sua risata. Se mangiasse il piccante, se sapesse
giocare a
Birch.… e non le avrebbe mai sapute.
Caitlyn
era un piccolo ciottolo nel lungo – perché lo
sarebbe stato Elen, si rifiutava
di morire in un villaggio senza nome di Fjerda – percorso
della sua vita, lo
sapeva, nella teoria, ma aveva l’impressione fosse di
più, che fosse una
voragine e non era sicura che ne sarebbe mai uscita.
Al
netto di tutto quello che Elen non sapeva di Caitlyn e mai avesse
saputo,
conosceva qualcosa di fondamentale: come era stato il suo viso nella
fredda
morte e le ultime parole che aveva detto.
Sussurrate nella notte, dopo i canti e le storie, ‘Avrei
voluto mangiare le moeche
un ultima volta.”
Sankti, Elen non sapeva neanche cosa fossero le moeche, ma non poteva
tollerare
di conoscere quell’ultima cosa che non sarebbe mai dovuta
essere destinata a
lei, ma ai suoi cari … la prozia Jin, Anton e Pyp.
“Quindi
che facciamo?” aveva chiesto Malcom, svegliandola dal suo
vagabondare,
attirando l’attenzione su di lui. Parlava con un tono basso,
continuava a
guardarsi intorno con preoccupazione. Non lo so,
era una risposta
accettabile? “Le strade sono due” aveva detto
Drina, con una sicurezza che Elen
stava invidiano molto, “Potremmo provare a raggiungere il
primo porto e cercare
un passaggio per un porto Ravkiano” aveva cominciato,
“Ma siamo nell’Avenfall.
Non solo troveremo difficilmente porti amici, dovremmo affrontare i
Quattro
Nodi, non credo che la Spaccaossa avesse deciso di fare un accordo con
questa
gente per bontà d’animo, ma perché
dall’Isenvee cominciano tortuose acque
rapide, che solo gli abitanti del Kenst sanno dragare” aveva
spiegato
didascalica.
“La
geografia è decisamente la tua materia” aveva
fischiato Malcom, “Più di mia
madre; ma lei mi ha detto che conoscere la terra su cui cammini
è un ottimo
modo per non morire, caso mai ti ritrovassi a camminare per il
Permafrost senza
una guida” aveva sdrammatizzato Drina.
“Sembra
una situazione molto specifica” aveva ponderato Malcom,
“Il termine tecnico per
riferirsi ai miei genitori è disertori, hanno speso molto
tempo durante la Guerra
Civile a girare come pupazzi a molla” aveva sdrammatizzato
Drina.
A
Elen sembrava piuttosto ingiusto riferirsi ad Alina Starkov come
semplice
disertrice, sulla carta lo era – e questo era divertente
– ma era stata lei a
mettere fine alla Guerra Civile e la Faglia.
“Il
secondo piano?” aveva chiesto, “Affrontiamo
l’Inferno in terra e fingiamo
davvero di essere pellegrini. Seguiamo la via dell’Acqua fino
a occidente, poi
possiamo andare Gjela o continuarla fino alla fine, a
Djelhorm” aveva ammesso.
“Lì sicuramente troveremo una nave”
aveva quasi gioito Elen, “Potremmo quasi
denunciarci a Re” aveva pensato. Sua madre aveva sempre avuto
parole squisite
per la Regina Mila ed era certa che lei gli avrebbe accuditi e
restituiti alle
loro dimore, su nave, in volo, non importava.
“Mi
sembra fin troppo rosea come ipotesi” aveva ammesso,
“Viene chiamato un cammino
da pellegrini perché per compierlo bisogna essere
in stato di grazia, noi
siamo mezzi morti, senza un soldo e Hati è prossimo alle
febbri” aveva ammesso
cupo ed arrabbiato Malcom.
Il
Cammino dei Pellegrini di Ravka, per l’Agroverde, a Ravka era
un affare
completamente diverso, forse Drina, ingenuamente come lei, si era
distratta ed
aveva immaginato i sentieri boscosi, tra gli alberi di melo e ciliegia
e le
fermate nei piccoli tempietti a crocevia o nelle locane, ma doveva dare
ragione
a Malcom, a Fjerda la religione e i suoi insegnamenti erano un affare
diverso,
a Fjerda viveva l’etica del dolore, del sacrificio e
dell’Abnegazione, per
questo tre ragazzini spauriti sembrava credibili asceti.
“Rischiamo
di morire in qualsiasi caso” era intervenuta Drina, la sua
voce era dura come
il ferro battuto. “Inoltre, mio padre ci
troverà” aveva stabilito, “Ah,
sì?”
aveva chiesto con perplessità Malcom,
“Sì” aveva stabilito.
“Mio
padre dice che suo padre è il più talentuoso
tracciatore di sempre” era
intervenuta Elen “Mio padre non sbaglia mai” aveva
ripetuto, più a sé stessa
che agli altri.
E
mia madre … aveva pensato, mia madre moverà i
cieli per trovarmi.
“Allora
speriamo che ci trovi prima che lo faccia la febbre, la fame o quei
Druskelle”
aveva risposto Malcom, stanco, ammiccando ai giovani al tavolo non
lontano da
loro.
Elen
aveva girato gli occhi senza voltare lo sguardo, osservando come
Styborn avesse
gli occhi su di loro, predatorio. Aveva sentito un freddo attanagliarle
la
schiena.
Era
stata catturata, schiavizzata e mutilata, vagava senza metà
nel freddo e una
muta di Druskelle l’aveva appena notata – sentiva
sorgere, proprio vicino al
diaframma, un senso di nausea, dolore e freddezza che somigliava
pericolosamente alla paura, al terrore, si chiese se fosse stato
così che per
anni, per secoli, tutti i grisha si fossero sentite e … se
avesse dato troppo a
lungo scontata la salvezza in cui aveva abitato.
Aveva
guardato l’escoriazione nell’interno del suo
avambraccio: non una volta di
più.
“Prima
di tutto: la jurda, però” aveva preferito dire.
Cronologia
degli Spostamenti dell Prima Giornata/Nottata dei Dieci Giorni:
https://archiveofourown.org/works/46401199/chapters/140352403
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