Questo è il mio biglietto

di elenatmnt
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte 1 ***
Capitolo 2: *** Parte 2 ***



Capitolo 1
*** Parte 1 ***


Note di quella che scrive:

Questa storia partecipa alla Challenge del Gruppo “NON SOLO SHERLOCK – gruppo eventi multifandom”.
Sono nuova in questo fandom e posso solo dire di essere superfelice di essere qui! Con umiltà, pubblico la mia storia con l’obiettivo di condividere con voi la mia passione per Sherlock e per John.  
Buona lettura!!

P.S. se vi va di lasciare anche solo un piccolo commento per me sarà motivo di crescita oltre che di gioia.


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QUESTO È IL MIO BIGLIETTO

PRIMA PARTE
 

Si potrebbe pensare che sarebbe stato più facile.
Si potrebbe pensare che quelli come lui siano abituati.
Si potrebbe pensare che nessuno chiederebbe mai ad un uomo in una bara di smetterla di essere morto… oh sì, lo si potrebbe pensare.
Eppure, lui lo ha fatto.

“Una volta mi hai detto… che non eri un eroe… ehm… a volte non sembravi umano. Ma ti voglio dire una cosa, tu eri l’uomo migliore, l’essere umano più umano che io abbia incontrato e nessuno mi convincerà che tu mi abbia mentito. Ecco… ero solo come un cane e ti devo moltissimo. E ti prego, c’è ancora una cosa, un ultimo miracolo Sherlock, per me. Non. Essere. Morto. Potresti farlo per me? Voglio che la smetti, smetti questa farsa”.

Una farsa, sperava.

La verità di ciò che rimaneva era solo rimpianto… e colpe.
Poteva evitarlo? Poteva salvarlo? Poteva incontrarlo ancora un’ultima volta, una sola misera volta, pochi avanzi di attimi strappati all’oscura signora solo per dirgli quanto gli volesse bene?

Un’illusione o forse un sogno.

Giù, nelle profondità delle sue viscere, nel bel mezzo di quella massa di roccia che era il suo cuore, lì prendevano vita i suoi incubi.
Un incubo.


“….Mmm…”
“Hey sveglia bell’addormentato…”.
“Mmm… ahi… la testa… dove…?”.
“Muoviti e alza il culo!”.
“Dove sono?”.
“Dai sgombera! E ringrazia chi preghi di solito, di avere un amico che ti salva le chiappe dalla prigione!” con uno strattone, l’agente buttò John fuori dalla cella.

Un tremendo mal di testa, la tempia destra gli pulsava come un tamburo di guerra e… sangue. Sangue rappreso. Iniziava a ricordare. Solo flash tumultuosi e confusi.
Barcollante fu riaccompagnato all’ingresso.
Le luci erano tremendamente accecanti e i rumori assordanti, voleva vomitare, voleva dormire, aveva solo bisogno di dormire e di buio.

“John!”
“G… Gregory?”.
“Per la miseria! Ma che combini? Vieni, andiamo fuori di qui”.

Non guardati di buon occhio, i due vecchi amici uscirono fuori dalla stazione di polizia.

“John, non puoi andare avanti così”.
“Così come?”
“Hai un buon lavoro, sei rispettato da tutti. Non capisco perché nel poco tempo libero che concedi di ritagliarti io debba venire a ripescarti in una cella e cancellare ogni traccia dell’accaduto per non comprometterti il lavoro. Ringrazia che all’ospedale non si siano ancora accorti delle tue bravate notturne!”.
“Mi dispiace…”.
“No John a me dispiace, è la quinta volta che ti arrestano per rissa e la cosa assurda è che non sei né ubriaco né fatto. Sei solo incazzato! E prendersela con i primi teppisti che ti capitano a tiro è da incoscienti oltre che da stupidi”.
“…Lo so… ti chiedo scusa…”.
“Non devi scurarti con me. Ma con te stesso, ti stai facendo del male. So che la morte di Sherlock non è stata facile da superare, anzi sono sicuro che tu non l’abbia mai superata. Ma ti prego, fatti aiutare. Distruggersi non ha senso, Sherlock non lo vorrebbe”.
“Sherlock è morto e questo è quanto”.
“Ma tu no. Torna a vivere, te lo meriti. Esci con una ragazza, con un ragazzo, trovati un hobby. Devi voltare pagina, sono passati due anni…”.
“Gregory… ti ringrazio per il tuo aiuto. Non eri in dovere di farlo, eppure, lo hai fatto e te ne sono profondamente grato. Ora, se vuoi scusarmi… devo andare a casa”.
 
***
 
Casa.

Com’è fredda e spoglia una casa, quando ad abitarla sono solo ricordi di un passato felice.
L’odore di lui persisteva nelle coperte fredde e disordinate; nella poltrona infossata; nelle sigarette nascoste da qualche parte nel soggiorno. Il tanfo aspro che ne rimaneva, era quello della morte che brutale aveva insinuato le radici nelle profondità della sua anima.
Oggetti, fori nei muri, carte, un laboratorio improvvisato in cucina erano il costante infausto promemoria che lui non c’era più e che non sarebbe mai tornato.

No, non poteva rimanere in quella casa.


Da due anni, un modesto e austero monolocale era diventato la sua nuova casa, l’ideale per una persona sola come un cane.
Sì, Gregory Lestrade lo tirava fuori dai guai con la polizia; ma le barriere che John aveva innalzato contro chi lo conosceva e le persone che in qualche modo avevano incrociato il suo cammino, erano così alte e massicce che alla fine si era ricreato la sua cuccia di solitudine.
L’inverno bussava gelido alle finestre, il sole era tornato a calare e le nuvole avevano trovato il loro consueto posto sotto il cielo di Londra, la città che lui tanto amava.

“Dio che mal di testa”.
Brontolava mentre si toglieva i vestiti, una doccia era ciò che sicuramente ci voleva per levarsi via la lordura di sangue rappreso sul volto, e merda di chissà quale entità dai vestiti.
“Sei un idiota John, un maledetto idiota”. Parlava da solo mentre infilava la roba in lavatrice noncurante di separare i capi, anche in questo era cambiato.

Almeno, il lavoro lo faceva rigare dritto, lo distraeva; quello lo faceva con la devozione degna della sua professione. John amava fare il dottore, curare la gente… salvare la gente. Era il suo modo di espiare colpe, se non tutte, almeno in parte. Motivo per cui si era fatto trasferire in Pronto Soccorso, lì c’era la vera battaglia, la battaglia che un dottore può affrontare.
Faceva straordinari e non sdegnava nemmeno i turni assurdi di ventiquattro ore filate, se avesse potuto, sarebbe rimasto in ospedale anche per dormire.

Tornare a casa? Quale casa? A fare cosa?

L’acqua gli scorreva addosso più ghiacciata che mai, e fanculo che fosse inverno e facesse freddo, nella gelida acqua lui dimenticava tutto. Spegneva i pensieri, anche quelli più persistenti.
Niente di niente.
La guerra, i feriti, la disperazione, la caduta…Sherlock…
Per qualche potere divino venivano accantonati per un solo istante e in quell’istante, la pace.


“Guarda in alto, sono sul tetto”.
“Oddio…”.
“Io non posso scendere quindi noi dovremo proseguire in questo modo”.
“Cosa succede?”.
“Ti devo delle scuse. È tutto vero”.
“Cosa?”.
“Tutto ciò che hanno detto su di me. Io ho inventato Moriarty.
“Perché dici così?”.
“Sono un impostore”.
“Oh Sherlock”.
“I giornalisti avevano ragione. Voglio che tu lo dica a Lestrade. Voglio che tu lo dica alla signora Hudson e a Molly. Devi dirlo a chiunque voglia ascoltarti: io ho creato Moriarty per scopi personali”.
“Ok smettila Sherlock. Ora basta, zitto. La prima volta che ti ho visto sapevi tutto di mia sorella giusto?”.
“Nessuno è tanto intelligente”.
“Tu si”
“… io ho fatto delle ricerche. Prima di incontrarti ho scoperto tutto il possibile per impressionarti era un trucco. Un semplice trucco.
“No, non… Dai smettila adesso”.
“No! Rimani esattamente dove sei. Non muoverti”.
“D’accordo”.
“Tieni gli occhi fissi su di me. Fallo, te lo chiedo per favore”.
“Fare cosa?”
“Questa chiamata è… è il mio biglietto. È così che le persone fanno, no? Lasciano un biglietto”
“Lasciano un biglietto? Quando?”
“Addio John”
“No, no, no! SHERLOCK!”.


“Noooooooooooooooo!”
Stesso incubo, stesso ricordo.
L’ennesima notte insonne era il risultato di un malsano tentativo di trovare un riposo tanto desiderato. Che amaro calice era diventata la sua vita!
Fradicio, completamente sudato, si strofinò la fronte col dorso della mano; respirò affannosamente come riprendendo fiato da una maratona che durava ormai da due anni; così allungando la mano verso la sveglia, poteva constatare senza stupore che erano le tre del mattino; cosa mai poteva fare se non contemplare il soffitto nel vano tentativo di abbandonarsi al sonno?

Assolutamente niente di niente.

O quasi.


***


Le strade di notte facevano paura.
Le strade di notte rappresentavano i vicoli del proprio inconscio, piene di mostri e angoli bui.
Le strade di Londra divennero sentieri melmosi e umidi, specialmente quando non fai altro che sguazzare nella merda.

E la pioggia, quella che un tempo gli faceva chiudere gli occhi e abbandonarsi al suono melodico che Madre Natura aveva racchiuso in essa e respirarne l’odore inebriante che solo il cielo di Londra conosce; ora le stesse gocce parevano la lordura di un cielo che rideva di lui e del suo dolore. Pece bollente e sudicia che lo marchiava di peccati che mai, nemmeno nei suoi pensieri più perversi, avrebbe osato pensare di commettere.

“Ehi bello! Di nuovo da queste parti, eh? Fa freddo, ti va di riscaldarmi?”.
“Non ho tempo per le smancerie”.
“Su amore. Non mi dai nemmeno un bacio?”.
“Vuoi guadagnarti i tuoi soldi?”
“Certo che sì bello”.
“Allora sai che fare”.

Amore.
Sesso.
Istinto gli si addiceva meglio. Una bestia sarebbe stata più cortese.
Buono, gentile e premuroso, lui lo era un tempo e forse lo era ancora.
Poteva un uomo avere due vite? Poteva veramente un uomo essere due entità?
Di giorno Jekyll, di notte Hyde e in preda ai suoi impulsi più bestiali, negli angoli più lugubri e lerci della città, nello squallore disumano, John Watson, o quello che restava di lui, consumava ciò che un tempo chiamava… amore.

“Hai finito presto bello. Che cosa c’è? Non sai trattenerti?”
“Vattene via puttana!”.

La strattonò, John, sì proprio lui, la tirò via fino a farla cadere a terra, le aveva messo le mani addosso. Lui che non avrebbe sfiorato una donna nemmeno con una piuma, lui che le rispettava come angeli sulla terra.

“Sparisci, non farti più vedere!”
“Sei pazzo schifoso. Sei solo un pazzo”.

La vide andare via spaventata, spaventata da lui.
Ed era rimasto solo, nel buio, nella pioggia; maschera perfetta per il vigliacco che nasconde le lacrime.


***


“Dottore faccia qualcosa, la prego salvi mia figlia” erano le urla di un padre.

Nella norma, tutto nella norma. Non era né la prima né l’ultima volta che si ritrovava tra le mani la vita di qualcuno. Che fosse un bambino, una donna, un anziano; per John non faceva alcuna differenza. Salvare; lui doveva prendersi quella vita, doveva strapparla alla morte. Era quasi un gioco, una partita a scacchi con l’Oscura Signora.

“Pressione settanta su quaranta”.
“Frequenza centocinquanta”.
“Il respiro sembra bilaterale, vene del collo nella norma nessuna compressione. È un’embolia polmonare. Flebo di streptochinasi. Portatela in sala operatoria, presto!”.

John dettava ordini, nervi saldi, nessuna emozione. Non quando era Jekyll.
Uscendo dalla sala operatoria non incontrava i famigliari, lasciava sempre quel compito a qualcun altro, specialmente quando li salvava. Non cercava meriti, o gratificazioni, voleva solo salvare vite.

“Mi scusi? Lei… lei è il dottor Watson?” si sentì chiamare.
“Si, sono io” voltandosi, John non ebbe il tempo di riconoscere la figura, che subito si trovò le braccia dell’uomo in una stretta debitrice.
“La ringrazio dottore, lei è un sant’uomo. Ha salvato mia figlia. Grazie, grazie, grazie”.
“Ho… ho fatto solo il mio dovere…” ne uscì un tono imbarazzato, che di certo fu trascurato dal padre che abbracciava il salvatore della propria figlia.
“Dio la benedica dottore. Dio la benedica!”.
John si distaccò con la massima discrezione e mantenne la sua integrità nonostante non si sentisse a suo agio in quell’abbraccio.
“Vada da sua figlia. Ha bisogno di lei” disse con cortesia e un accennato e forzato sorriso. Si voltò veloce come un fulmine e andò via quasi scappando.

Macabro, solitario, silenzioso, il connubio perfetto per un eremita; per tutti era un tipo strano, ad ogni modo poco importava se poi alla fine, salvava delle vite.

Dio.

Non ci aveva mai creduto. In verità, per un po’ lo ha fatto, finché non si è ritrovato pezzi di compagni tra le mani, carni dilaniate dalle bombe per una guerra di cui non capiva il senso; reduce di quelle esperienze brutali, John cominciò a non credere in Dio. A dimenticarsene.
Eppure la cappella dell’ospedale era il suo posto sicuro. E poiché non c’era mai nessuno, si concedeva il lusso di parlare ad alta voce.

Con sé? Con Dio?

Chissà. Lui parlava.

“Mi hanno detto ‘Dio ti benedica’. Mi benedici, Dio? Benedici una pecora nera? Un demone travestito da santo? Tu sai chi sono, tu sai che faccio. Merito misericordia? Oppure sono già a buon punto per il traguardo all’inferno? Io non salvo nessuno. Lo capisci? Credi io salvi vite perché sono buono? No, non è così, salvo vite perché le voglio sottrarre a te. Hai capito? Sottraggo vite a te.
La morte è solo una messaggera, non è a lei che è rivolta la mia collera ma a te. A te che ti prendi il meglio dalla vita, dagli uomini, da tutti noi. Mi hai sottratto l’unica persona che mi ha fatto ricominciare a vivere, mi hai sottratto l’unica persona che… che io abbia mai…”.

Una frase destinata a rimanere senza una conclusione.
Chi aveva ancora voce in capitolo erano le lacrime, loro sì che sapevano come parlare.


***


“Come va John?”.
“Bene”.

Entrambi bevvero un sorso di caffè, se non altro quell’azione giustificava il vuoto imbarazzante del silenzio tra loro.

“Sei stato gentile a unirti a me per un caffè durante la tua pausa”.
“E tu sei stata gentile ad avermelo offerto, Molly”.
Ancora un altro sorso, scandito da un’occhiata a qualcosa di estremamente inutile nella stanza ma diventato improvvisamente interessante.
“E tu invece?” continuò lui, smorzando il silenzio.
“Bene. Solite cose”.
“Ottimo” forzò un sorriso.

Il tempo sembra non passare mai quando si vive qualcosa di non piacevole, o in quel caso, imbarazzante.

“Ora, Molly, devo proprio andare, la mia pausa è finita” affermò guardando l’orologio.
“Oh sì. Certo, capisco”.
“È stato un piacere rivederti” disse alzandosi dalla sedia e facendo il primo lungo passo per andarsene via il più in fretta possibile.
“Ti manca vero?” tanto si era mosso velocemente, tanto si era bloccato.
“Di cosa stai parlando, Molly?”
“Sherlock. Ti manca”.
“Lui… io … insomma. Si, un po’ mi manca”.
“Anche a me”.
“Già”.
“Vuoi parlarne John?”.
“Di cosa dovrei parlare?”.
“Di lui”.
“Non capisco cosa dovrei dire”.
“Io... ecco. So che è stato difficile John, e so che tu più di tutti hai sofferto. Quindi se vuoi sfogarti o se…”.
“Sherlock sì è ucciso. È morto. Cosa vuoi che dica?”.
“Puoi dire quello che vuoi”.
“Quello che voglio? Voglio che non proviate compassione per me, voglio che mi lasciate in pace. Voglio dar fuoco ai miei ricordi e cancellarlo, dimenticare una volta per tutte l’immagine di lui che si lancia dal tetto. Voglio Dimenticare Sherlock Holmes!”.
“Oh John… mi dispiace tanto…”.
“No Molly. Non dispiacerti. In fin dei conti la morte di Sherlock mi ha ricordato una cosa importante: sono solo un morto che cammina”.

Andò via senza aggiungere altro.
Lei non meritava quell’astio, lei la dolce dottoressa innamorata di Sherlock non meritava quelle parole; non Molly.
Un altro passo velenoso lo aveva avvicinato all’inferno.


***


Non accendeva luci a casa; John preferiva crogiolarsi nella penombra e bazzicare nel poco bagliore di luce fioca che proveniva dai lampioni delle strade e filtrava dalle finestre.

Ci aveva provato a bere, non faceva per lui.
Alcol e droga? Nemmeno quello.

Una consuetudine era accendere il pc e fissare la pagina vuota del proprio blog che bramava di essere scritta, ma come la ripetizione di un evento ciclico, la pagina rimaneva irrimediabilmente bianca.
Sapeva scrivere bene, altroché se sapeva farlo.

Raccontare attraverso le parole era una specie di dono, un dono morto insieme a Sherlock.
“A chi vuoi prendere per il culo?” si disse continuando a fissare la luce bianca. “Non hai scritto per due anni e non scriverai stasera”.
Mise la mano sul portatile e buttò giù lo schermo.


“Chissà John. Magari stasera è la volta buona”.


John Watson balzò dalla sedia, in una foga di movimenti sconnessi, riuscì solo ad alzarsi ed indietreggiare, dire che aveva visto un fantasma sarebbe stato un eufemismo.

Quella voce. Quel tono. Quell’ironia.

Lui.

Poteva essere solo lui.

“Sh…she… Sherlock?!”.



 
CONTINUA…

 

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Capitolo 2
*** Parte 2 ***


Note di quella che scrive:
Ecco la seconda ed ultima parte, spero tanto che questa storia vi sia piaciuta e mi auguro di aver reso giustizia ai personaggi ;)
Non mi resta che augurarvi buona lettura e ci vediamo molto presto (bolle già qualcos'altro in pentola).

P.S. Non sdegno i commenti, se vi va di lasciarne farete felice questa dilettante scribacchina ;) 

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QUESTO È IL MIO BIGLIETTO

SECONDA PARTE


 
“… E ti prego, c’è ancora una cosa, un ultimo miracolo Sherlock, per me. Non. Essere. Morto. Potresti farlo per me? Voglio che la smetti, smetti questa farsa”.


Ci aveva messo due anni, a quanto pare la farsa era finita.

“Sherlock?”
“Ciao John!”.

La penombra della stanza lo nascondeva bene, ma al di là dell’ombra John riusciva a vedere, riusciva a vederlo seduto sulla poltrona, riusciva a percepire quel sorrisetto soddisfatto di chi aveva fatto uno scherzo ed aveva ottenuto l’effetto desiderato.

“Tu… tu… Tu sei vivo…”.
“Si John. Sono vivo”.

John era un soldato.
Cosa saranno mai le emozioni per un soldato? Qualcosa di assolutamente gestibile, soprattutto per uno come lui. Allora perché diavolo stava soffocando nel proprio respiro?

“N…no. Tu, tu… No, non può essere”.
“John, so che sono saltato fuori dal nulla. Ora ti spiego…” disse con un tono dannatamente semplice, sicuro, fastidioso. Come se l’essersi finto morto fosse stata la cosa più normale del mondo.
“STAI ZITTO!” John sbraitò. “ZITTO!”.

L’ex soldato si avvicinò alla finestra, l’aprì e respirò a pieni polmoni l’aria gelida della notte.

Aria che entra. Aria che esce.

John tremava ed era furioso, incazzato. Ben presto l’istinto di mettere le mani addosso a Sherlock divenne estremamente intrattenibile, una sola mossa falsa e lo avrebbe riempito di botte fino a fargli perdere i sensi.
Richiuse la finestra e nella medesima penombra, senza mai avvicinarsi all’amico ritornato dalla morte, parlò pregando la propria ragione di trattenerlo da qualsiasi azione sconsiderata.

“Ora, Sherlock… voglio sapere… Perché”.
“Avevo tredici possibilità di salvezza davanti a me e…”
“No Sherlock. No. Non voglio sapere come, ho detto che… Voglio. Sapere. Perché”, ogni parola fu scandita con la determinazione del militare che era stato.

Sherlock sospirò.

Pensava che sarebbe stato più facile, credeva che John non reagisse in quel modo e che sarebbe finita a raccontarsi le vicende degli ultimi due anni davanti ad una tazza di tè. Si sbagliava.
Era fin troppo evidente quanto avesse torto.

“Non ti ho detto nulla John perché non volevo coinvolgerti. La catena di Moriarty andava spezzata e per farlo dovevo sparire, dovevo cogliere di sorpresa chiunque ci fosse dietro”.
“Ma perché non dirlo a me?”.
“L’ho fatto per… proteggerti”.
“Proteggermi e da chi? Da te?”

Sherlock tacque.

“Hai idea dell’inferno che ho passato? Mi hai lasciato a piangerti e ti ho pianto ogni fottutissimo giorno della mia vita. Tu… tu non puoi nemmeno immaginare cosa si provi”.
“John…”
“HAI IDEA DI COSA SONO DIVENTATO?”.
“Sei… mio amico”.
“Amico? Sai cos’è l’amicizia? Ne conosci il significato? Amicizia è esserci, è viversi, è contare gli uni sugli altri, è fiducia, è complicità, è rispetto, è…”, si fermò solo per dare un pugno al tavolo, così forte da far staccare via un pezzo di legno.
“Ti odio Sherlock. Ti odio!”.
“John…” no, Sherlock non si aspettava ciò che vedeva, ciò che sentiva.
“Vattene via! Vattene, potrei farti male. Non risponderò delle mie azioni se rimarrai un minuto di più. Vattene”.
“D’accordo John. È giusto”.

Sherlock si alzò lentamente dalla poltrona, i movimenti erano goffi e sconnessi; John era talmente adirato da non averci nemmeno fatto caso. Si avvicinò all’uscita e aveva la mano sul pomello quando il medico parlò.

“È che… sono proprio arrabbiato Sherlock. Sono talmente incazzato e stanco”.

Una giustificazione? Una spiegazione? O semplicemente un pretesto indiretto per non farlo andare via, per non vederlo sparire ancora una volta dalla sua vita. Per fermarlo dalla sua stessa richiesta.

“Lo so John e mi dispiace”.
“Perché sei ricomparso adesso? Perché ora?”.
“Perché ho finito. Ho fermato la catena di Moriarty” disse con il cuore in mano. “Volevo ripresentarmi da te in un altro modo, magari uscendo da un pacco con un fiocco in testa” rise tra sé. “La sorpresa psichedelica è andata a farsi benedire quando mi ha fermato una donna, una seccatura in realtà; mi ha colto di sorpresa alle spalle e mi ha detto di andare con lei. Con cortesia, le ho risposto che prima di tutto dovevo far visita ad un amico molto importante per me e che non sarei mancato a questo incontro per nulla al mondo… L’appuntamento con lei è solo rimandato”.

C’era qualcosa nel discorso di Sherlock che non aveva molto senso per John, lo guardò con un sopracciglio alzato, dubbioso di quelle parole.
“Chi era quella donna?”.
“La conosci bene… John… era… l’Oscura… Signora”.

Pronunciata l’entità di una donna che non esisteva, le gambe di Sherlock cedettero e ben presto si ritrovò riverso al suolo.
“Sherlock!” John gli corse incontro spaventato oltre ogni modo. Sollevandogli la testa e il busto, il soldato si accorse con orrore che Sherlock perdeva sangue dalla schiena. La penombra e l’estrema calma del detective, avevano nascosto la grave ferita agli occhi del medico.

Sangue, troppo sangue.

“John… mi… dispi…”.
“Sshh Sherlock. Non parlare, risparmia le forze”.

Stingendolo al petto e tamponandogli la ferita con le dita si rese conto che il suo amico era stato pugnalato, non era un foro di pallottola, era chiaramente una ferita da pugnale. Con la mano libera John tirò fuori il telefono dalla tasca e chiamò subito un’ambulanza.

“P… pronto? Pronto? Sono il Dottor Watson, mi serve un’ambulanza in Clapham Road 7, ora, è un’emergenza. Ferita d’arma da taglio. Vi prego fate in fretta!”.

Aveva iniziato con una parvenza di professionalità che era andata a farsi fottere mentre guardava l’amico morire una seconda volta. E questa volta, quella vera.

“Resisti Sherlock. Ti prego rimani con me. Non lasciarmi. Sherlock, no non chiudere gli occhi. Guardami”.

Disperato.
Sconfitto.

L’Oscura Signora era arrivata per il suo appuntamento.


***


“Shock ipovolemico?”.
“Si, proprio così. La ferita non ha leso organi vitali, ma ha perso molto sangue. Troppo”.
“Gli avete somministrato soluzioni cristalloidi? Avete monitorato…”.
“Abbiamo fatto tutto il possibile” lo interruppe prima che fosso travolto da un attacco di panico.
“Somministrategli altre sacche di sangue”.
“Non ne abbiamo a sufficienza”.
“Prendetele da altri ospedali, allora”.
“Conosce bene la politica morale dell’ospedale, dottor Watson. In quanto ex dipendente accanito di sostanze stupefacenti, gli altri ospedali non sono disposti a… collaborare”.
“Questa è barbaria!”
“No, è il codice morale che conosce fin troppo bene. Mi dispiace”.
“Prendetene ancora da me, allora”.
“Lo sa che non è possibile. Vuole farselo venire lei uno shock ipovolemico?”.
“Maledizione! Il mio amico sta morendo”.
“Lo so e me ne rammarico profondamente. Tuttavia, se supera la notte forse avrà ancora una possibilità. Ma, da dottore a dottore, non voglio darle falese speranze. Mi dispiace dottor Watson, non ci resta che pregare”.

Pregare.

John rimase da solo, impotente a guardare il suo migliore amico morire per la seconda volta. Gli si sedette accanto e, in un gesto puro, gli strinse delicatamente la mano. Era come se in quel semplice gesto, John lo tenesse avvinghiato alla vita, e mai lo avrebbe lasciato andare via.

“Sherlock, non farmi questo. Sarebbe troppo. Ti supplico, non… non morire di nuovo. Non lo sopporterei. Sei già morto una volta e ho toccato il fondo, sono affogato nello squallore della disperazione e non posso… non posso farcela da solo. Lo capisci vero?”

Si era portato la mano di Sherlock sulla guancia.

“Rispondimi ti prego. Parlami”.

John poteva chiamare Mycroft, quell’uomo avrebbe smosso mari e monti pur di salvare suo fratello, il problema maggiore era che non c’era tempo. Sherlock non ne aveva più.
I suoni delle lancette dell’orologio parevano il conto alla rovescia della sua vita.

Era nelle domande senza risposta, era nella solitudine, era nel rivangare dei ricordi che a John venne un’idea. Un’idea che racchiudeva l’ultima possibilità.
Si alzò immediatamente, controllò nei cassetti dell’attrezzatura medica di avere ciò che gli occorreva, e sì. La speranza non si riduceva ad una preghiera, la speranza era fatta di azione.

Con vigore, John chiuse la porta a chiave. Calcolò velocemente i tempi di reazione; nella peggiore delle ipotesi avrebbe avuto dieci minuti, nella migliore almeno il doppio.
Appoggiò tutto ciò che gli occorreva sul tavolino medico accanto al letto, si legò un laccio emostatico al braccio più vicino Sherlock, si diede due colpetti per far sollevare la vena, scelta la zona di inserimento John la disinfettò accuratamente prima di inserirsi l’ago.

Gemette lievemente.
Poi sottopose Sherlock alla stessa procedura.

Non avrebbe guardato il suo amico morire, se c’era qualcosa, anche la più assurda che avrebbe potuto fare, John l’avrebbe fatta.
Ed eccolo deciso a privarsi di tutta la quantità necessaria di sangue per di salvarlo.

“Tra poco starai meglio Sherlock. Andrà tutto bene. Ci penso io a te” disse sedendosi calmo accanto al suo amico. Nuovamente gli strinse la mano.

Nell’attesa di qualsiasi cosa sarebbe accaduto da lì a pochi minuti successivi, gli occhi di John si posarono sulla cartella clinica di Sherlock, c’erano dei fogli e una penna…

Passò qualche minuto senza che nessuno si accorgesse dell’accaduto, fu un’infermiera a scoprire il gesto apparentemente sconsiderato del Dottor Watson.
“Dottore che sta facendo? Apra la porta”.
“Dottor Watson non lo faccia”.

Un gruppo di medici, infermieri e agenti della sicurezza si erano avvicinati alla porta col tentativo di forzarla, tutti lo guardavano dalla parete di vetro e con volti sconvolti lo supplicavano di smetterla.
John guardava la moltitudine di gente agitata, sentiva le urla delle loro suppliche, incassava le minacce eppure non si mosse da quella sedia. Il suo posto nel mondo era in quella stanza accanto a Sherlock e salvarlo… Strapparlo dalle mani di Dio.

John sorrise.

Non ricordava nemmeno l’ultima in cui il suo viso apparisse sereno e gentile. E nonostante tutto, andava bene così. Sherlock era ancora vivo e lo sarebbe stato ancora per molto tempo.
Non ci fece nemmeno caso quando tutto intorno divenne ovattato, sfocato, senza alcun odore.
Ad un certo punto, qualcuno lo scosse per le spalle.
 
Chi era e quando era arrivato? Non gliene fregava niente. La vita si spense, tutto divenne buio e in quel buio, la pace.
Nel buio, lei. L’Oscura Signora.

“Pren…di…me…”.


***


Il mondo gira abbastanza in fretta, specialmente dopo essersi risvegliati da un sonno lungo tre giorni.
La poca luce filtrata dalle finestre gli bruciava gli occhi e l’odore nauseante di litri di dopobarba gli facevano venire la nausea.
Un odore che Sherlock conosceva fin troppo bene.

“My…croft…”.
“Ben tornato fratello”.
Il detective non rispose subito, preferì mettere a fuoco la vista e recuperare l’uso di tutti i sensi prima di continuare una qualsiasi conversazione con suo fratello.
“Dove…”.
“Sei a Baker Street. Ho preferito riportarti in un luogo familiare per affrontare la tua convalescenza”.
“E… da quando preferisci riportarmi in un posto che amo, piuttosto che farmi legare mani e piedi ad un letto d’ospedale contro la mia volontà?”.
“Non essere assurdo Sherly”.
“Non chiamarmi così”.
“Cosa è successo?”.
“Non ricordi niente?”
“Non molto”.
“Hai fatto fuori l’ultimo anello mancante della catena di Moriarty, ma questi ti ha pugnalato prima che tu ponessi fine alla sua vita. E piuttosto che correre in ospedale, hai preferito fare a modo tuo (da incosciente s’intende) e sei corso da John. Incurante del fatto che stavi perdendo un’eccessiva quantità di sangue; sei quasi morto, sei andato in shock ipovolemico”.
“Interessante. Si aggiunge alla mia lista di mancati strambi trapassi… Dov’è John?”.

Il volto di Mycroft cambiò completamente mimica, non era da lui far trapelare la benché minima espressione; mai nessun sentimento filtrava dai lineamenti risoluti dell’uomo con l’ombrello. Qualche volta le cose cambiano. Sherlock poteva anche fingere di non essersene accorto, ma non era così.
“Sherly…”.
“È la seconda volta che mi chiami in questo modo, nonostante la mia elementare richiesta di non farlo. C’è qualche motivazione nostalgica che ti riporta al mio nomignolo fraterno?”.
“Ecco…”.
“No non mi interessa” affermò non curante. “Dov’è John?”.
Mycroft si alzò dalla sedia per dirigersi più lontano, come se fare qualche passo distante dal fratello minore, lo salvasse da ciò che stava per dire.
“Sherlock…”.
“Trovo al quanto disturbante il tuo titubare. Trovo irritante dovermi ripetere. Trovo sospettoso il tuo temporeggiare. Ora Mycroft, potresti gentilmente rispondere ad una semplice domanda? Te la ripeterò una terza e ultima volta. Dov’è John?”.

Mycroft sparò a zero.

“John non c’è più”.

Il tempo si fermò.

“Come prego?”.
“Hai sentito perfettamente Sherlock. John non c’è più!”.
“È uno scherzo vero? Che cosa significa?”

Sherlock non si sconvolse più di tanto, era assolutamente convinto che fosse tutta una farsa, una stupida farsa inscenata da John per vendicarsi.

“Sherlock… eri spacciato. John si è sacrificato per salvarti. Si è chiuso nella stanza d’ospedale con te e ti ha donato tutto il suo sangue. Se sei vivo, è grazie a lui”.
“Non credo ad una sola parola”.
“Non devi credere a me. Credi a lui”.

Mycroft gli porse un biglietto, si voltò con la discrezione di un perfetto inglese e con passi lenti uscì dalla stanza.
Sherlock rimase solo.


Ciao Sherlock, se stai leggendo questo biglietto significa che sono morto.
Ho provato a fare del mio meglio, a voltare pagina, a ricominciare a vivere; ma non ci sono riuscito. La verità è che sono un vigliacco e senza di te non ero niente. Non fare il mio stesso errore, vivi.
Goditi la vita in ogni piccolo dettaglio che sai cogliere, gioisci delle piccole cose, perché è in esse che risiede la felicità.
Come vedi, questo è il mio biglietto. È così che fanno le persone, giusto?
Addio Sherlock.
JW.

Oblio. Vuoto. Morte.

Sherlock rimase immobile. Muoveva le labbra ma non usciva suono, in realtà tremavano; voleva piangere ma non uscivano lacrime; cercava aria e non ne entrava nei suoi polmoni.
Le mani si strinsero sgualcendo le ultime parole di lui.

Lui, John.

“JOHN!” si sgolò tale ad un demone dell’inferno.

Il viso si contorse in rughe rabbiose, gli occhi si riempirono di sangue, le vene del collo pulsavano impetuose, il viso divampò come fuoco ardente. Le mani strinsero le lenzuola, così forte da sbiancarsi le nocche.

Urlava, imprecava, sbatteva.

E poco gli importava di essere caduto sul pavimento e di essersi riaperto la ferita, lui chiamava John.
Mycroft gli corse incontro, bloccandolo per le braccia, lo strinse per fermarlo.
Grida.

“Sherlock fermati”.

Non lo ascoltava, sbraitava e basta.

“Ti stai facendo male”.

Al diavolo il dolore.

Il maggiore degli Holmes bloccò Sherlock a terra e lo lasciò dimenarsi come una bestia per tutto il tempo di cui necessitava. A poco a poco finirono le forze, finì la voce, finì lo strazio. Arreso al suolo, sotto la presa salda di Mycroft, Sherlock scoppiò in lacrime e mai nella sua vita si sarebbe aspettato l’impossibile che diventava realtà. Mycroft lo sollevò e lo strinse tra le braccia.

“Si così da bravo. Respira” lo calmava accarezzandogli i capelli.
“Non è vero… Jo..hn…” singhiozzava.
“Calmati, respira”.
“Myc…”.
“Sherly, non ti abbandonerò. Sono stato chiaro? Non sei solo fratello mio”.

Il detective non rispose, quelle parole gli lavarono l’anima, ma era troppo sporca di disperazione per farla tornare linda. Affondando il viso nel petto di Mycroft, Sherlock pronunciò una preghiera, una supplica che conosceva a memoria, incisa a fuoco nel suo cuore da due lunghi anni.

“… ti prego, un ultimo miracolo John, per me. Non. Essere. Morto. Potresti farlo per me? Voglio che la smetti, smetti questa farsa…”.


***


Sherlock era impegnato a scrutare attraverso il suo microscopio, erano piegato sull’oggetto da almeno cinque minuti, osservando ogni minimo dettaglio dell’immagine ingrandita.

“Del tè Sherlock?”.
“Con del latte”.
“Non sono la sua governante”.
“E qualche biscotto”
“Non sono la sua governante!”

La signora Hudson non sarebbe cambiata mai, la sua premura e il suo chiacchiericcio inutile erano parte di quelle piccole gioie della vita, della quale Sherlock non si sarebbe privato.
Il campanello della porta suonò insistentemente un paio di volte prima che la Hudson decidesse di andare ad aprire.

“Sherlock caro, ci sono visite”.
“Dica a chiunque sia che non ci sono” disse senza togliere gli occhi dal microscopio.
“Ma è già qui”.
“Se è un cliente gli dica che non accetto casi idioti quali: tradimenti, spetti sumeri nel frigorifero e il gatto della vicina ha ucciso il mio pappagallo”.

La signora Hudson non rispose più.

“Il caso dell’uomo che torna dall’aldilà lo accetteresti?”.

Quella voce. La sua voce.
Lui.
 
“John?!”
 
“Sherlock!”.

 
***
 
FINE.

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