folklore

di JohnHWatsonxx
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cardigan (Sherlock) ***
Capitolo 2: *** August (Mary) ***
Capitolo 3: *** Betty (John) ***



Capitolo 1
*** Cardigan (Sherlock) ***


Note: non so quanti di voi siano familiari con Taylor Swift e il triangolo amoroso che si cela dietro il suo album "Folklore". Comunque, tre delle canzoni dell'album (in realtà un po' tutte ma queste tre sono proprio principali) descrivono un ipotetico triangolo amoroso tra tre persone: Betty, Augustine e James. Tutti e tre, attraverso la voce di Taylor, descrivono un punto di vista di un'estate. Io ripropongo semplicemente questo triangolo, cambiando Betty con Sherlock, Augustine con Mary e James con John. I titoli dei tre capitoli sono le tre canzoni: Caridigan è di Betty, August è di Augustine, Betty è di James (strano ma è così). Buona lettura!
 

Cardigan (Sherlock)
 

Ho sognato di uccidermi. Non di morire, che è radicalmente diverso, ma di vedere me stesso e, attraverso le mie mani, strangolarmi. È stato chiaro, lampante, che avessi intenzione di distruggere quella parte di me che ha ceduto ai sentimenti. Mycroft mi aveva avvertito, me lo aveva detto, ma io sono testardo e ho fatto finta di non vedere quando in realtà non perdevo neanche una mossa. È una strategia degli scacchi, fingersi distratti, farsi sottovalutare dal tuo avversario in modo da prenderlo in contropiede: nonostante ciò, mi ha fatto scacco matto. Mi ha preso in contropiede, messo le spalle al muro, e dopo mi ha lasciato con le briciole. Faccio lo sveglio, l’intelligente, che di buono ha solo il cervello, nascondendo la mia anima, costringendola in un baule dietro le mie sinapsi, perché devo evitare di farle male. Ma niente è servito a proteggermi da lui, dal suo sorriso, dalle sue mani, dai suoi sentimenti. Ho lasciato che le emozioni mi travolgessero come onde, ed ora sono all’asciutto. Incastrato, come un pesce, nella sua rete di parole, menzogne, scuse. E la cosa peggiore è che non riesco a liberarmi: sono bloccato nel mio amore che provo per lui e ho paura di non riuscire a vivere senza.
 
Quando l’ho conosciuto i suoi capelli erano talmente biondi da sembrare bianchi, la sua pelle era rosea e piena di brufoli, le sue braccia e il suo corpo magre come se non mangiasse niente. Avevamo quattordici anni ma, mentre lui doveva ancora svilupparsi, io avevo già perso quell’aura bambinesca per lasciare spazio a una fisicità più rigida e robusta, una voce bassa, un carattere più duro. Scherzavo con lui, dicendogli di non essere mai stato un bambino, e mi rispondeva che era impossibile. Mi innervosivano le sue risposte ovvie, i suoi comportamenti infantili, e allo stesso tempo mi lusingavano i suoi complimenti e lo scarto cognitivo tra me e lui anche se, dovevo ammetterlo, non era affatto stupido. È stato il primo amico, per me, e per molto tempo anche l’unico. Il liceo era un inferno sulla terra, un posto in cui tutti i peccati sono ammissibili, perché giustificati dal nostro essere adolescenti. John era il mio Virgilio, la mia guida per la sopravvivenza: senza di lui mi sarei dato alla cocaina molto tempo prima. L’unica classe che condividevamo era chimica, e lui si metteva sempre vicino a me per farsi spiegare le cose. Disprezzavo la sua ignoranza ma mi piaceva essere il suo insegnante; mal sopportavo le sue domande stupide ma adoravo rispondergli; odiavo tutti ma…
 
Amore. Una parola che non avevo mai incrociato in tutta la mia vita ma che, da quando l’ho incontrato, non mi ha mai più lasciato solo.
 
John era mio amico, prima di tutto. Forse quello che fa più male è l’aver perso quella parte di lui e poi tutto il resto. Ed era un amico fantastico: mi ha insegnato come essere un essere umano; mi ha fatto ridere, mi ha fatto arrabbiare, mi ha fatto provare emozioni assurde, che non pensavo esistessero; ha reso pregi quelli che gli altri consideravano difetti. Grazie a lui sono sopravvissuto al primo anno di liceo.
 
Grazie a lui sono sopravvissuto. Anche dopo l’estate, quando l’ho visto per la prima volta nei corridoi, e la pubertà aveva colpito anche lui: spalle grandi, capelli più scuri, mascella dura e spigolosa. E la voce, dov’era finita la sua voce da bambino? Nascosta da qualche parte sotto quel sottile strato di muscoli che aveva sviluppato con l’allenamento. Era lui, certo che era lui, ma allo stesso tempo no. Comunque il suo cambiamento non ha cambiato noi, ma come gli altri lo guardavano. Tutti, le ragazze per farsi notare, i ragazzi per invidia: io lo guardavo perché era John, e non avevo bisogno di altra spiegazione.
 
Eravamo io e lui, Sherlock-e-John, indivisibili. E così per tutto il liceo. John cambiava partner periodicamente ogni due-tre mesi; io lo guardavo fallire nel cercare qualcuna adatta a lui. Dal mio piccolo provavo di dirgli che stava cercando la cosa sbagliata, ma avevo paura. Paura di dire qualcosa di fuori posto, di espormi troppo, di fare qualcosa che lo avrebbe allontanato da me. Non sapevo tante cose, quando ero piccolo: non sapevo il sistema solare, chi fosse il re d’Inghilterra, e soprattutto non sapevo di poter amare un uomo senza essere definito un mostro. Non sapevo che i miei sentimenti per lui potessero sforare l’amicizia senza che fosse peccato; non sapevo che anche lui stava cominciando a provare lo stesso.
 
Tanto quanto non sapevo niente di questo, conosco tutto di lui. John, il mio Virgilio, che ama viaggiare, gli animali e la medicina, ma odia le vespe; vorrebbe fare il dottore e il soldato, guarire e ammazzare; è fissato con i suoi capelli e se ne prende cura maniacalmente. John che bacia con la testa inclinata a sinistra, abbracciando la ragazza di turno per tenerla più vicina a lui, passandole una mano tra i capelli e accarezzandole le guance. John che ama i cartoni animati e i fumetti, ma anche le poesie di Keats e le melodie che gli suono al violino.
Dicono che quando si è giovani non si sappia niente, ma io, John, lo conosco. I suoi modi di fare, le sue battute sconce, la sua risata vera e quella finta. Conosco i suoi pensieri, i suoi movimenti, i suoi sorrisi e i suoi pianti. L’unica cosa che non conoscevo, allora, erano i suoi occhi quando io non li guardavo.
 
Ogni sfumatura era un pezzo della sua anima, ma al mio puzzle mancava un tassello.
 
Amore. Qualcosa che stavo imparando ad accettare di me: amore per un uomo, amore per John, amare e non essere ricambiati, amare e tenerlo per sé stessi. È davvero amore quando nessuno lo sa? Esiste?
Io queste domande me le facevo, mentre il mio palazzo cadeva in rovina e la mia mente crollava su sé stessa. Io quelle domande le avevo marchiate a sangue e non davano segno di cedimento.
 
Tutti intorno a noi lo avevano notato, tutti, tranne noi. A posteriori vorrei non aver mai saputo, avrei voluto evitarmi l’immenso dolore che provo adesso, ma allo stesso tempo mi rendo conto che così facendo non avrei mai conosciuto il modo in cui baciava me, il modo in cui amava me.
 
Tra i due, il primo che se ne è accorto sono stato io, non perché sia più intelligente, ma perché lo osservavo sperando di trovare segnali del suo sentimento ricambiato. All’inizio non ve ne erano, i suoi atteggiamenti erano amichevoli, scherzosi, ma sempre distaccati. Qualcosa è cambiato quando, ridendo a una mia battuta, mi ha stretto il braccio: da quel momento gli episodi si sono intensificati, giorno dopo giorno, esponenzialmente, fino a che non vi erano più dubbi. Dagli occhi, ai polsi, al respiro, tutto di John mi diceva che non erano solo mie fantasie, che anche lui provava quello che provavo io. La certezza di questo, però, mi aveva reso ancora più schivo, perché la paura di non essere ricambiato è stata sostituita da una peggiore: quella di non essere abbastanza. È stata una sensazione tremenda quella che ha preceduto il miglior periodo della mia vita: John sembrava non vedere, sembrava che non riuscisse a capire quanto grande fosse il mio amore per lui. Allo stesso tempo avevo paura mi notasse, perché sapevo di non poter soddisfare le sue aspettative, soprattutto dopo aver visto il modo in cui si comportava con le sue ragazze. Io non avrei mai potuto essere come loro, non sarei mai riuscito ad essere come loro. Ho iniziato così a sperare che quei sentimenti sparissero, e se li avessi ignorati forse ci sarei riuscito. Ho già detto, che sono state le settimane peggiori che abbia vissuto prima di adesso, perché cercavo di stare il più lontano da lui quando lui voleva stare più vicino a me. Volevo che mi lasciasse in pace ma lo volevo vicino a me. E alla fine lui si è stufato.
 
Forse dovrei essere triste, ripensando adesso a quel giorno, e per la maggiore lo sono. Ma il ricordo mi avvolge ancora come una coperta di pile, confortandomi in qualche modo, perché è la prova tangente che io ho amato, che io amo tuttora.
 
Se il dolore è il contrario del piacere, per narrarlo bisogna partire dall’apice della felicità. Quel giorno, al penultimo anno di liceo, era la seconda settimana di fila che non parlavo con John: la consapevolezza dei suoi sentimenti non faceva altro che rendermi più insicuro che mai. John d’altro canto cercava disperatamente un contatto con me, un contatto che gli veniva costantemente negato.
 
Nevicava quando John ha bussato alla mia porta: a casa c’ero solo io, perché i miei genitori erano andati in settimana bianca con Mycroft. Io odiavo (odio tutt’ora) gli scii, e ho preferito stare a casa. John non aveva il cappotto e si vedeva che stava morendo di freddo, nonostante ciò, era fermo come un soldato. Lo tradivano il naso rosso e gli occhi lucidi, ma questi non erano causati dal freddo. Aveva pianto, si poteva leggere attraverso tutti i tratti del suo viso, tutti i suoi muscoli.
«Io non so cosa ti ho fatto, per meritarmi il silenzio» ha esordito. Io lo guardavo senza sapere cosa pensare, la sua sola vista mi faceva male.
«Non so se pensi di essere migliore di me, se hai iniziato a odiarmi come odi il resto del mondo. Ho il diritto di saperlo: cosa è successo?» ha chiesto, allargando le braccia e accennando una risata che non aveva niente di divertente. Non sapevo cosa dire. Anche su questo, John ha il primato: la prima persona che mi ha lasciato senza parole.
 
«Sherlock» mi ha esortato ancora, e ancora io non parlavo. John, sotto la neve, mi guardava e mi implorava; io, dentro casa, non sapevo cosa fare. Ma come sempre lui, il mio Virgilio, mi ha guidato verso la direzione giusta. Il suo sguardo si era irrigidito e le sue mani si erano strette in pugni talmente rigidi da fagli diventare le nocche bianche. Era rabbia di dolore, la peggiore che si potesse vedere su John. Ho provato a dire il suo nome ma è uscito un rantolo di supplica che John non ha sopportato, e la sua rabbia si è scagliata dalle sue mani verso il mio petto. Ha cominciato a spingermi forte verso casa, entrando anche lui. Vorrei non pensarci adesso, non adesso, non mentre la siringa è così vicina a me: gli ho promesso di non farlo, non lo farò. E in tanto ripenso a quando gli ho bloccato i polsi con le mie mani, costringendo vicino a me.
 
«Perché?» mi ha chiesto ancora mentre sotto i miei palmi il suo cuore correva. Piango ancora, l’ennesima volta di questi mesi, mentre ripenso a quello slancio di coraggio che il suo cuore mi ha fornito, quella notte d’inverno, quando l’ho baciato.
 
John baciava tutte le ragazze allo stesso modo ma non ha mai baciato qualcuno come ha baciato me. Vorrei poter non chiudere gli occhi per il resto della mia vita, perché ogni volta che lo faccio i ricordi di quell’esatto momento invadono i miei pensieri fino a bloccarmi.
 
Ero convinto saremmo stati insieme per sempre, ma sono solo. Mi ha fatto credere di essere il suo preferito, quando in realtà ero un vecchio cardigan buttato sotto al letto, rotto e senza bottoni. Il freddo di questo nuovo gennaio mi uccide e mi congela le interiora. Butto la siringa e l’eroina. Lascio che il telefono mi scivoli dalle mani, sulla schermata è rimasta impressa la chiamata con Molly Hooper: è stata lei a dirmi di averlo visto in macchina con un’altra, ad agosto. Io dovrei non crederci, non dovrei perché lei dice sempre bugie, ma questa volta so che è vero. John è con un’altra, e le ferite che mi ha curato ricominciano a sanguinare.
 
So di non sapere niente di sentimenti, o di amore. Ma conosco lui, e so che gli mancherà quel senso di avventura che aveva solo con me, quel brivido che gli trapassava la colonna vertebrale quando era abbracciato a me e che io riuscivo a percepire quando eravamo nudi insieme. So che gli mancherà il senso di libertà che aveva quando correvamo insieme all’alba dopo una notte insonne; so che con lei non avrà le mie spalle su cui poggiarsi, la possibilità di piangervi sopra come un bambino in cerca di sicurezze. So che, quando si sveglierà dal brivido di quella ragazza, vorrà tornare dal mio: perché io, qui, ci sono sempre.
Non eravamo esclusivi, lo capivo da come ci bastavano i baci in macchina e le uscite appartate, dal suo essere così prudente con me davanti agli altri. Non eravamo una coppia perché non sapevamo di poterlo essere davanti a tutti: a nessuno qui importa di un ragazzo che ama un altro ragazzo. Io lo so che tornerà da me, so che la sua è solo paura. È John a non sapere che con me, la sua paura, è al sicuro.
 
Ora la neve scende a fiotti, leggera e pesante allo stesso tempo. Dalla mia finestra non si vede altro che buio e le luci delle macchine che arrivano sotto casa. Molly ha insistito tanto per farmi festeggiare e alla fine ho ceduto, ma adesso vorrei che tutte quelle persone sparissero per sempre, anzi che tutto il mondo sparisse. Voglio che Molly sparisca, e Greg che l’ha appoggiata in questa follia, e quella donna che l’ha avuto dopo di me, e John che in realtà è l’unico che vorrei vedere, l’unico che dovrebbe venire, con la sua jeep vecchia e decrepita, in cui ci siamo scambiati più dei baci, più del corpo e più del sesso, e dove ora non aleggia più il mio profumo ma quello di lei. Sento Greg chiamarmi da giù, e quindi indosso la mia maschera d’indifferenza, ma questa volta deve essere più spessa, in modo da contenere tutto quell’amore e quel dolore che ho. Prendo un respiro profondo, facendomi forza, e scendo al piano terra. Chissà se questa assurda idea di Molly possa alla fine rivelarsi utile.






NdA. Heartstopper continua ma nel frattempo Taylor Swift si è impossessata di me. Ho solo bisogno di dire un paio di cose: la storia è già completa e tecnicamente potrebbe anche non essere divisa, ma mi piace di più averla separata in capitoli quindi ne pubblicherò uno a settimana ogni domenica, per farvi compagnia in questo primo mese del 2023. Inoltre, i riferimenti alle canzoni di Folklore sono talmente tanti che non mi andava di segnalarli ogni volta, e comunque sono abbastanza evidenti dopo che si è ascoltati le tre canzoni, quindi non ne ho indicato nessuno. 
Ps. Attenzione ai tempi verbali, si va avanti e indietro tra passato e presente e potrebbe essere confusionario, anche se ho cercato di renderlo il più chiaro possibile. A domenica prossima!

-A

 

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Capitolo 2
*** August (Mary) ***


August (Mary)
 
 
L’ho incontrato a fine luglio, in una strana giornata di pioggia e sole. Se solo credessi alle stelle, penserei che quello fosse il segnale del tipo di persona che lui era. Se solo avessi creduto alle stelle, avrei capito che lui sarebbe stato l’estate più bella e l’autunno più grigio. Ancora non so perché mi si sia avvicinato quel giorno, al centro commerciale, ma l’ha fatto con un bel sorriso e modi gentili, ed io ero disperatamente in cerca di qualcuno come lui accanto a me. Sarà per questo che fin da subito ho ignorato gli strani atteggiamenti che aveva quando eravamo insieme. Forse ero accecata da un forte sentimento che si è pericolosamente avvicinato all’amore, perché adesso riconosco che lui non è mai stato mio. Forse mai lo sarà, né mio, né di qualsiasi altra ragazza di questo paese e di questo mondo.
 
Io non avevo bisogno di niente oltre la sua compagnia: mi piaceva stargli accanto, sentirlo parlare, sentirlo ridere e farlo ridere. Mi ha sorriso una volta ed io ci sono cascata, come Alice nella tana del Bianconiglio. Il primo agosto mi ha portato al mare: il sole era stranamente cupo e il vento cercava quasi di soffiarci via, ma l’acqua era tiepida e calma, il sale sulla nostra pelle era piacevole e usavamo la sabbia per farci lo scrub. Adoravo i suoi capelli pieni di salsedine e la sua pelle lentigginosa, le spalle ampie e muscolose, il suo collo rigido su cui avrei voluto lasciare i miei baci. John era bello come il sole e prezioso come agate ed io volevo essere la sua terra, dove lui potesse riflettere la sua luce. Forse, per un po’, lo sono stata. Un mese o poco meno, il tempo che abbiamo trascorso insieme. Tempo di un agosto troppo veloce, scivolato via come un bicchiere di vino. A quel primo appuntamento al mare mi ha portato una margherita gialla, e mi ha detto che il colore gli ricordava quello dei miei capelli. Sono arrossita a quel complimento, ancor di più quando mi ha messo il fiore tra i capelli, in modo che si vedesse. Abbiamo parlato delle nostre famiglie, dei nostri sogni, del nostro futuro: più andava avanti la conversazione più le nostre vite si connettevano, più parlavamo al plurale, di dove andare al college, di quali ristoranti provare a Londra, di quali viaggi fare insieme. Era naturale immaginarci insieme dal primo momento, anche quando ancora non lo eravamo. Lo saremmo diventati quella sera stessa, ma ancora all’inizio non sapevamo niente. Siamo giovani, cosa mai vogliamo sapere noi delle nostre vite.
 
Quando la luna è comparsa ad est, John ha deciso di riaccompagnarmi a casa, anche contro la mia volontà. Volevo rimanere con lui ancora per qualche minuto, qualche ora, una vita intera magari, ma lui mi ha presa in braccio e portata in macchina. Sulla via del ritorno ha messo una compilation di canzoni d’amore: non l’ha detto, ma sono convinta che l’abbia creata per me. L’ho immaginato tutto il pomeriggio davanti al registratore a riavvolgere il nastro, a trovare l’ordine perfetto delle canzoni da imprimere sulla cassetta, magari fino a notte tarda, solo ed esclusivamente per passare venti minuti in auto con me. I finestrini abbassati ci hanno asciugato la pelle e i capelli; io lo guardavo ed era bellissimo, avrei voluto rimanere in quell’auto per sempre.
Mi ha aperto la portiera e ha camminato accanto a me fino al portico di casa. Lì, nascosti da un albero, mi ha dato un bacio che sapeva di mare, di speranza, di “ci vediamo domani”, e io gli ho risposto con la stessa emozione di quando è il tuo compleanno e tutte le persone a cui vuoi bene sono accanto a te. Eravamo semplicemente due adolescenti presi l’uno dall’altra: forse adesso dovrei dire che siamo stati due ragazzi in balìa di un sentimento passeggero, un’onda anomala che passa una volta e non torna mai più. In quel momento, però, avevo sperato durasse per sempre.
 
Anche da quel primo appuntamento John si comportava in modo strano: non mi guardava mai, non in viso almeno, ed io avevo semplicemente pensato che fosse timido, ma poi mi aveva dato quel bacio, e dopo quello altri, sempre più belli, sempre più intensi, sempre di sua iniziativa. Una persona timida non bacia come bacia lui, con le mani ad avvolgerti il corpo, le dita aperte per cercare di toccare più pelle possibile, con la testa leggermente inclinata a sinistra. Non parlava mai di sé, neanche per dirmi come stava, e io parlavo facendomi ascoltare da lui come se tutto quello che dicevo fosse oro. Mi lusingava, certo, ma adesso non so assolutamente niente di lui, neanche quando è il suo compleanno, qual è il suo colore preferito, con chi era stato prima di me. Sembrava come perso in sé stesso, in cerca di trovarsi ogni volta che stava con me: forse sperava che fossi la sua bussola, ma in realtà non ero niente se non un’ulteriore strada che non portava da nessuna parte. E infine era ansioso, ogni volta che ci vedevamo in un luogo pubblico: lo vedevo agitarsi sulla sedia della gelateria, guadandosi intorno ogni volta prima di allungare la mano o di darmi un qualsiasi segno di affetto; le sue gambe tremavano quando eravamo al parco a fare un picnic e le sue mani si contorcevano ogni volta che la spiaggia diventava un po’ affollata. Povera me che pensavo fosse timido.
 
Una volta ci ho anche provato, a chiedergli del suo passato, del mese di luglio, ma lui aveva liquidato il discorso diluendolo in parole dolci, ed io avevo voluto crederci, di essere stata la persona più importante della sua vita, colei che era riuscita a cambiare il vecchio lupo John Watson. Non posso incolparlo per questo, però. Non posso incolparlo per non essere riuscita io a vedere i suoi segnali, che mi dicevano di scappare via. Io lo dovevo capire, che c’era un’altra spiegazione ai suoi atteggiamenti, perché dopo aver scoperto la ragione di tutti quei comportamenti strani mi è stato lampante: io non ero l’unica, io ero l’altra. Io ero la crocerossina che avrebbe dovuto aggiustarlo ma non ha fatto altro che dargli la coltellata finale.
 
Nonostante il dolore, le lacrime, le urla di inizio settembre, non lo voglio odiare. Non posso dire di averlo amato ma posso dire che John Watson è stato il mese più bello della mia vita. Tornando dal mare, in uno dei nostri appuntamenti, guardandolo in controluce, ho provato la più totale felicità, senza ombre e senza inganni. Eravamo io e lui e il cielo e il mare. Nient’altro attorno a noi. Gli ho accarezzato il braccio che teneva il cambio e lui mi ha sorriso.

«Cosa vuoi fare?» mi ha chiesto.
«Voglio stare con te» gli ho risposto.
 
Si è girato a guardarmi per la prima volta, l’unica. Era il trentuno agosto. Ha intrecciato la sua mano con la mia e ha fatto una brusca inversione a u. Non mi sono preoccupata di dove stessimo andando, perché avevo già capito cosa sarebbe successo dopo. Ovunque sarebbe stato giusto con lui. Ha parcheggiato distante da tutto e tutti, e non appena il motore della macchina si è spento, mi sono seduta sulle sue gambe, allargando le mie così da poter stare più comoda. John mi avvolgeva, mi stringeva a sé come se volessi scappare, ringraziandomi di essere lì con lui attraverso baci e carezze, a cui io rispondevo allo stesso modo.
 
Mentre il suo nome diventava il mio mantra e i finestrini si appannavano, John non disse niente. Non un fiato uscì dalla sua bocca, e gli ansimi del sesso erano silenziosi come quelli di un morto. Ma tutto il resto, (ah, tutto il resto!) fu fuoco e fu passione, la notte più magica della mia vita. In quel momento, con le mie mani sul suo collo e le sue braccia attorno alla mia schiena, ho pensato che saremmo potuti durare, che quel calore estivo non si sarebbe mai più estinto perché io e lui gli avremmo dato abbastanza legna da sopravvivere all’inverno, ma non è stato così. Quella notte rimane nei miei ricordi, così come quel sentimento che non riesco più a provare per nessun altro. Io non lo biasimo, non lo voglio biasimare. Capisco quello che ha fatto e capisco perché lo ha fatto. Mi chiedo solo perché, per farlo, ha dovuto scegliere me? Perché, tra tutte, proprio io? Io, che sono rimasta scottata da quel fuoco e che, anche dopo essere stata allontanata, ho provato a riavvicinarmi. Aspettavo e aspettavo, per ore in quel centro commerciale, aspettando di vederlo entrare dalle porte di vetro. Speravo di incrociarlo in macchina e invitarlo a salire, anche solo per parlargli, ma non succedeva mai.
 
All’alba del primo settembre, sdraiati sui sedili posteriori della sua vecchia jeep, John ha infranto quel futuro fatto di promesse che mi ero immaginata.

«Mary» mi ha sussurrato per svegliarmi. Io, su di lui, ho alzato la testa dal suo petto e gli ho sorriso. I nostri vestiti erano persi per l’auto e l’unica cosa che ci copriva era l’intimo e una giacca militare.
«Mi dispiace» mi ha detto, quasi singhiozzando. Non capivo, o meglio fingevo di non capire. Mi sono allontanata da lui come se fosse improvvisamente diventato di ghiaccio, e mi sono seduta di fronte a lui.
«Di cosa ti dispiace, John?» gli ho chiesto, innocentemente. Nel frattempo tastavo qua e là cercando il mio top e la mia gonna.
 
Lui non mi guardava, teneva gli occhi bassi, e di tanto in tanto si passava i palmi delle mani sulle guance, come se volesse scavare via le lacrime.

«Mary, non voglio essere indelicato. Non voglio neanche illuderti, specie dopo la notte appena passata» ha esordito. Non gli ho risposto semplicemente perché già sapevo cosa sarebbe successo: è qualcosa che ho già visto prima di lui, solo che, con John, sembrava diverso. Tutto con lui è stato diverso.

«Io non voglio più stare con te. E credimi -si è abbassato fino a inchinarsi davanti alle mie gambe chiuse- credimi quando ti dico che tu non hai fatto niente, che è solo colpa mia, che sono io il pezzo di merda» sentivo le sue mani sulle ginocchia e quel contatto mi bruciava dentro. L’istinto di passargli una mano tra i capelli è stato fortissimo. C’è stato un minuto di silenzio, interrotto solo dai singhiozzi di John che si susseguivano intrattenuti.
«Credimi, Mary, se ti dico che il mio cervello è fallato, che ha un bug, che è stato costruito male»
«Perché dici questo?» sono state le prime parole che ho pronunciato da quando ha deciso di distruggermi il cuore.
 
«Perché io dovrei amare te, dovrei amarti, soprattutto dopo questa notte. E invece non provo niente» quel niente assoluto, che non prospettava spiragli ma solo porte chiuse. È stato quello a farmi crollare su di lui, piangendo come una bambina. Anzi, come una bambola, perché questo sono stata tra le sue mani. E nonostante tutto, io non riesco a incolparlo. Abbiamo pianto insieme fino a che il sole non è sorto su di noi, suggellando l’inizio di settembre e la fine della nostra fiamma estiva. John mi ha presa e il viso tra le sue mani, esattamente come aveva fatto altre volte in quel mese ma in modo talmente diverso allo stesso tempo. Mi ha accarezzato le tempie con i suoi polpastrelli ruvidi e mi ha avvicinato a sé per darmi un bacio in fronte, per rassicurarmi. Io sono una brava persona, vorrei crederci anche io come lo fa lui.
 
«Mi dispiace tantissimo» mi ha ripetuto. Ho annuito allontanandomi per l’ultima volta da lui, con la consapevolezza che non mi sarei mai più riavvicinata.
«Posso sapere solo, perché? Se non sono io, perché?» ora vorrei non saperlo, forse lo potrei odiare. Ma non posso odiare qualcuno a cui è stato vietato l’amore, a cui non è concesso di essere libero. Non posso proprio odiare John Watson, tutto ciò che posso fare è avere pietà della vita che ha, di quella che ha avuto, e forse di quella che avrà. Mi fa male pensare che, se io sono stata male per lui, lui stava male per sé stesso ed io questo non lo sapevo.
 
Adesso mi sono chiari i suoi atteggiamenti, la sua finta timidezza, la paura di essere visto da qualcuno ma non dalla sua famiglia. Mi guardo allo specchio e noto di star indossando gli stessi colori di quella notte, che forse mai si cancellerà dal mio subconscio e, forse, guiderà per sempre la mia vita.

Esco di casa e prendo l’auto, il freddo mi ghiaccia le ossa e congela il cervello, ma niente mi impedisce di andare a una festa, anche se non so chi l’abbia organizzata. Vado piano per via del ghiaccio e solo grazie a questo lo riesco a vedere, sul ciglio della carreggiata, camminare solo. Il mio cervello mi urla di non fermarmi, ma il mio povero cuore fregiato mi fa premere il piede sul freno. Abbasso il finestrino, John è davanti a me e mi guarda stupito.
 
«Sali, dai» gli dico. John mi sorride, esattamente come ha fatto ogni giorno per tutto agosto, ma poi scuote la testa.
«Non posso, Mary. Mi dispiace» esattamente come mesi fa, il rifiuto è lampante sul suo viso esattamente come il dolore è lampante sul mio. Annuisco e, alzando il finestrino, riparto.
 
John Watson, l’uomo che ha lasciato il segno. Il primo. L’unico.




NdA. come promesso, ecco il secondo capitolo! Qui la protagonista è una giovane Mary infatuata del nostro John, bloccata in un amore unidirezionale che l'ha bruciata (proprio come il sole d'agosto sotto al quale sono stati insieme). Ora la linea temporale si sta definendo, ma è con il prossimo (e ultimo) capitolo che tutta la storia verrà chiarita, perché a questi due punti di vista scollati manca quello di John, quello che unisce i puntini. Spero sia chiaro che Mary stia andando alla festa di Sherlock alla fine.
Ps. Mary non sa che la persona di cui John è innamorato è Sherlock, sa solo che è un uomo.
A domenica prossima con l'ultimo capitolo!
-A

 

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Capitolo 3
*** Betty (John) ***


Betty (John)
 
 
È difficile, ma devo raccontare la mia storia. Non ho la presunzione di dire che tutto ciò che ho fatto è stato a scopo di bene, perché mentirei a me stesso. Tutto quello che ho fatto è stato per me, esclusivamente per me. E so che il dolore causato agli altri è stato tale da bruciargli il cuore, ma so anche che, nel fargli male, ho bruciato anche il mio. Due volte. Vorrei solo stare bene con me stesso ma non ci riesco e forse raccontarmi può solo che fare bene, almeno a me stesso, almeno per rendere distante quella che è la mia storia. Ho il tempo di una passeggiata al buio nel giorno più freddo dell’anno per farlo.
 
Ero un ragazzino normale, prima di conoscere Sherlock, e devo dire che quel periodo di me non mi manca: lui mi ha reso quello che sono, con pregi e difetti, zone di luce e zone d’ombra. È come se si fosse avvicinato a me quel giorno del primo liceo, e avesse deciso di regalarmi quella parte di me che mi mancava. Sherlock è fatto così: aggiunge dove c’è mancanza, riempie il vaso fino a poco sopra l’orlo senza farlo mai traboccare. È un chirurgo dalle mani ferme, ed io il suo paziente bisognoso di un trapianto al cuore. Ci siamo trovati subito ed è stato strano, quasi spaventoso, percepire una connessione superiore a noi due. Come se fossimo predestinati a trovarci. Sherlock mi ha salvato, ma allo stesso tempo mi ha condannato a una vita di dubbi, domande, incertezze. Perché se da un lato era il mio migliore amico, dall’altra percepivo una scintilla, ogni volta che eravamo insieme. E la cosa peggiore è che fosse simile alle scintille che provavo con le ragazze, solo che con lui era più forte, più intensa. Mi spaventava la remota possibilità di provare qualcosa per lui, perché nel mio mondo era il peccato più grave di sempre.
 
Non vedevo mia sorella da quando avevo dodici anni. Io e lei abbiamo dieci anni differenza, e con i miei ho sempre scherzato sul fatto che uno dei due non fosse voluto. Mia madre ora è convinta che lei sia l’errore, mio padre invece non pensa neanche a lei come un essere ancora vivo. Harriet è morta per loro quando ha baciato per la prima volta una ragazza. Ed io potrei fare la stessa fine, potrei morire anche io. Damnatio memoriae per coloro che osano anche solo avvicinarsi a qualsiasi tipo di anormalità, ci diceva nostro padre. Dannato lui e le sue massime antiche. Sono loro che mi hanno spinto a far male alla persona più importante della mia vita. Dannato me e il mio essere così assertivo nei suoi confronti, dannato me e il fatto che io non ho visto mia sorella per sei anni, dannato me e il fatto di non poter urlare davanti a tutti che lo amo. Ma finché eravamo amici potevamo vederci senza i miei rimorsi in mezzo.
 
Un giorno mi ha fatto ridere, e lo ricordo molto bene perché è stato quel giorno a farmi pensare che il mio cervello si stesse fottendo. Non era neanche una battuta divertente, o intelligente, o spiritosa, ma una risposta acida a uno dei miei innumerevoli dubbi. Mi ha fatto ridere e poi ha riso con me, e l’ho visto così spensierato, così… sé stesso che non ho potuto fare altro che poggiare la mia mano sul suo braccio. E per dio se ho sentito qualcosa che andava al di là dell’amicizia! In quell’istante tutte le parole d’odio di mio padre vennero a galla come pesci in un mare di catrame, e rimasi bloccato, fermo immobile contro quello che stavo negando per troppo tempo. Ormai non potevo più scappare da me stesso e da quello che provavo per lui.
 
È stato come se un pezzo di montagna, staccandosi, fosse finito in un lago artificiale, e la sua acqua avesse scavalcato la diga che la conteneva. La vittima? Io, succube di quella cascata anomala che non accennava a fermarsi. Io, ormai e per sempre sommerso.
 
Vorrei… avrei voluto… volevo fare di tutto per fermarla, ma come potevo? Come avrei potuto? Ero io che affogavo me stesso, ero io. Ero io e nessun altro a farmi male e a bloccarmi da ciò che provavo. Mi sono odiato per aver sentito il mio cuore fremere alla sua sola vista, e succedeva ogni volta che lo incontravo la mattina a scuola, e il pomeriggio, e la sera. Sherlock era diventato il centro del mio mondo e io non volevo che lo fosse. Cristo, se l’ho amato, se lo amo. E mi odio tanto quanto odio il freddo di gennaio, tanto quanto odio questa passeggiata forzata al buio sul ciglio della strada. Devo trovare le parole per farmi perdonare, deve sapere perché è successo quello che è successo e deve sapere che io non riesco a vivere senza di lui. Quanto sono egoista solo a pensarlo, ma lui è l’aria che respiro, e sono in apnea da giugno.
 
Ci siamo inseguiti a vicenda per vari mesi, dopo quell’episodio, fino a che non era diventato chiaro che io ero l’unico che cercava di raggiungerlo ma, come Achille con la Tartaruga, non riuscivo mai a prenderlo. E, naturalmente, il primo pensiero è andato ai miei atteggiamenti: un ragazzo dall’intelligenza come la sua non avrebbe potuto non accorgersi dei miei sentimenti, e forse voleva allontanarsi perché non provava lo stesso. Cercavo di pensare il meno possibile a questa possibilità (anche se, statisticamente, era più una certezza), provando a giustificare il suo comportamento in altri modi, ma non riuscivo a cavare un ragno dal buco. Sherlock era, è, e rimarrà il più bel segreto che io abbia mai avuto il piacere di scoprire, l’enigma più intrigante al quale non smetterò mai di cercare una soluzione, il quesito matematico su cui voglio dedicare la mia intera esistenza.  
 
Era sempre gennaio, ma dopo il suo compleanno, che ho deciso di affrontarlo: il dubbio mi stava mangiando da dentro, e mi mancava la sua presenza accanto a me. Ero disposto ad uccidere a mani nude quei sentimenti pur di averlo vicino a me. Così sono uscito senza giacchetto, ho preso la macchina e sono andato sotto casa sua. Avevo paura di espormi, così non gli ho detto cosa provavo, ma gli ho chiesto perché si fosse allontanato. E lui non parlava, mi guardava con gli occhi spalancati come quelli di un bambino colto in fragrante. La voglia di baciarlo era tale che ho dovuto più volte fermare le mie mani dal prenderlo per le spalle e posare le mie labbra sulle sue. Poi però ho cominciato ad arrabbiarmi, e quelle stesse mani che volevano abbracciarlo hanno cominciato a spingerlo forte e in modo cattivo. Volevo baciarlo ma lo stavo odiando perché era fermo, davanti a me, come una statua di ghiaccio, come se improvvisamente il freddo che entrava dalla porta aperta gli fosse entrato fin dentro le ossa.
 
Fino a che le sue mani non si sono avviluppate sui miei polsi, bloccandomi dallo spingere un’altra volta. Non ha parlato, e grazie al cielo non lo ha fatto. Perché d’improvviso le sue braccia mi hanno guidato sul suo petto e le sue labbra si sono posate sulle mie. Io non sapevo come leggerlo allora, non sapevo che il solo presentarmi sotto casa sua era il gesto che lui aspettava per smettere di avere paura dell’amore, per smettere di avere paura di me. Non sapevo che bastava bloccarlo in un angolo e guardarlo negli occhi per permettere alla sua diga emotiva di rompersi esattamente come la mia aveva fatto mesi prima.
 
E così l’ho abbracciato come avrei voluto fare, e l’ho baciato tenendolo stretto a me, alzandomi sulle punte e inclinando la testa a destra, passandogli le dita sulla camicia per sentire i muscoli sotto i polpastrelli. Volevo percepirlo al più possibile come un essere diverso da una donna, avevo bisogno di sentirlo come un uomo, come l’unico che bacerei così. Perché di uomini non c’è nessuno, tranne Sherlock, l’unico per me. Era un bacio che sapeva di nuovo per entrambi, impacciato e perfetto così com’è stato. Le sue mani erano fredde sul mio collo, e mi guidavano mentre lui si lasciava andare a me. Entrambi ubriachi senza controllo ma allo stesso tempo vigili dei nostri movimenti. Alla pari, un insieme di parti del corpo che si completano a vicenda, incastrandosi perché destinate ad essere unite.
 
Non mi ero accorto che fossi entrato fino a quando il vento ha fatto sbattere la porta d’ingresso. È stato quel rumore a farci rinvenire come da un sogno lucido. Anche i suoi occhi erano lucidi, stava piangendo e lo avevo fatto anche io qualche ora prima. Ma le mie erano lacrime di disperazione, le sue lacrime di felicità. Gli ho sorriso, e l’ho baciato di nuovo.
 
Quanto avrei voluto rimanere sulle sue labbra per sempre. Ma doveva arrivare il momento in cui sarei tornato a casa, ogni giorno, dopo aver baciato un uomo ed essermelo goduto, e avrei guardato negli occhi mio padre con la consapevolezza che quello sguardo amorevole sarebbe scomparso lasciando spazio al disprezzo, se solo avesse saputo cosa avrei appena fatto fuori dalle mura di casa. Per sei lunghissimi mesi tornavo a casa ed ero costretto a mettere in scena il solito teatrino di normalità al quale mio padre adorava assistere. Sono stati mesi estenuanti, in cui credevo seriamente che un giorno mi sarei sdoppiato per tenere le fila delle mie due diverse persone: quella vera, quella che teneva Sherlock per mano mentre guidava, che lo baciava e che lo amava; e quella finta, per tenere a bada l’ira funesta dei miei genitori. Ho vissuto sei mesi di purgatorio con l’unica differenza che alla fine sono caduto all’inferno come Lucifero dal Paradiso. Solo che la colpa non era mia.
 
Non avrei mai voluto che gli eventi prendessero questa piega, eppure sono stato costretto ad allontanarmi da lui a farmi credere etero interessato a una fiamma estiva. Ho dovuto ferire la persona più importante della mia vita, illudere una ragazza e rinnegare me stesso, solo per uno sguardo. Prima di essere messo in pericolo dalle mie stesse azioni, dalla mia stupidità, andava tutto bene. Ero riuscito in qualche modo a mantenere una doppia identità senza farmi scoprire. E le cose con Sherlock non potevano andare meglio. Dio se lo amavo, lui era l’unica persona ad avermi fatto provare qualcosa in un tempo lunghissimo, forse qualcosa che mai avevo provato in vita mia. D’altronde, l’ho conosciuto quando ero ancora un bambino e tutta la mia innocenza era esposta alla luce del sole: io sono cresciuto con lui e, nonostante quattro anni di incertezze sulla nostra amicizia, alla fine sono riuscito a capire che non avrei potuto stare da nessun’altra parte del mondo che non fosse al suo fianco. Lui era la mia casa. Non glie l’ho mai detto ma non ce n’era bisogno, con lui le parole erano superflue e le azioni erano troppo. Camminavo, io, sul confine sottile tra le due cose ed ero l’unico a mantenere l’equilibrio con lui. Sapevo sempre quando parlare e quando agire, e lui sapeva lo stesso di me. Tanto che non c’è mai stato bisogno di dirci “ti amo” ma allo stesso tempo abbiamo parlato a lungo del fare l’amore prima di farlo davvero.
 
Vorrei poter ricordare ogni parola di quei lunghi discorsi avuti in macchina, ma la mia mente ricorda brevi frammenti, tutti pronunciati da lui. Come la prima volta che ha detto che si fidava abbastanza di me, o quando mi ha detto «Tu sei l’unico, John. L’unico che vorrei avere al mio fianco». Ricordo quelle parole e ricordo come mi facevano sentire, come se dentro di me un’orchestra stesse suonando un adagio di una sinfonia classica. Ero melma tra le sue labbra e sul suo corpo e sulle sue parole e sul suo respiro. Mai avrei voluto scambiare quella sensazione per qualcos’altro o qualcun altro. Sherlock era tutto ciò di cui avevo bisogno e tutto ciò che cercavo. E quando quei discorsi melodiosi divennero corpo, quando il mio e il suo si unirono, sul sedile posteriore della mia macchina, lì io avrei voluto morire, avvolto dalle sue gambe e dal suo petto, stretto dalle sue mani e dalle sue braccia, amato dalle sue labbra schiuse sulle mie. Se avessi dovuto vivere solo con lui e la mia auto, in quel frangente (e forse anche adesso) avrei detto di sì. Mille volte sì.
 
Ma il vento sottile dell’amore, trascinando l’aria della primavera, si è estinto col solstizio d’estate.
 
Anche il moto più studiato alla fine sperde energia, esaurendosi lentamente, e il nostro orologio biologico ha suonato quando gli occhi di mia madre hanno intercettato i miei, su quella strada tra i boschi mai frequentata. Ed ero con Sherlock, mano nella mano con lui nella mia auto ferma sul ciglio della strada, quando mia madre ci è passata accanto con la sua Ford grigia, l’unica persona ad avere quella macchina nel giro di chilometri e chilometri. Non poteva che essere lei. Mi aveva visto con lui? Aveva scoperto la mia vita segreta? Aveva scoperto che anche io ero venuto su difettato? Come potevo rischiare ancora? Cosa sarebbe potuto succedere se lei ne avesse parlato con mio padre? Tutte quelle domande mi stavano cerchiando la testa, e Sherlock accanto a me non riusciva a capire quello che era appena successo. Io ero in pericolo e l’unico modo per salvarmi sarebbe stato allontanarmi da lui.
 
Ricordo poco delle parole d’amore che gli ho detto, ma ricordo sillaba per sillaba quelle che ho sputato fuori quel giorno, le uniche parole false che gli abbia mai rivolto. Fa male pensarle adesso ma mi è necessario per capire come fare a riaverlo con me anche dopo che gli ho spezzato il cuore.
 
«Sherlock» gli ho detto «Non posso più continuare così. Mi devo allontanare da te». E ovviamente quelle parole lo sorpresero perché giusto qualche minuto prima lo stavo baciando nel fuoco dell’amore. Non volevo perderlo ma avevo bisogno di mettermi in salvo, così ho continuato a fare la faccia tosta, a montare scuse su scuse fino a casa sua, fino a che non l’ho congedato, senza neanche guardarlo in faccia. Avrei voluto che combattesse, che facesse qualcosa per non lasciarmi andare, ma non ha fatto niente, è sceso dalla macchina e se ne è andato. Senza voltarsi indietro neanche una volta.
Forse è stato meglio così, perché la sua resistenza mi avrebbe fatto più male, ma in quegli attimi pensai che forse anche lui si fosse stancato di me e aspettava il momento giusto per lasciarmi. Ora so che non è così, perché Molly mi ha raccontato del dolore che ha visto in lui dopo quel giorno, la stessa ragazza che gli ha detto che mi vedevo con una ad agosto ma non gli ha spiegato il perché.
 
Può sembrare fuorviante, senza la motivazione profonda, il fatto che sia stato un mese intero con Mary Morstan, conosciuta al centro commerciale il trentuno luglio. Ma la verità è che Mary è stata uno strumento per cercare di dimenticarlo e per convincere i miei genitori e in parte me stesso che ero normale, che non ero come mia sorella. E questo Molly lo sapeva ma non glie lo ha detto, lo sapeva, ma ha preferito farmi passare come il cattivo per sperare di conquistare in qualche modo Sherlock.
 
La verità su quel mese d’agosto la so solo io e nessun altro, ma dovrebbero saperla tutti. Dopo aver lasciato Sherlock, quel ventuno giugno, sono tornato a casa dove mi stava aspettando mia madre. Ovviamente mi aveva visto, ma fortunatamente non aveva capito che Sherlock fosse un uomo, non aveva visto la mia anormalità, non mi aveva smascherato. Il sollievo che mi pervase però durò poco: non potevo continuare a vivere quella doppia vita che mi stava mangiando dentro, non potevo continuare a soffrire e allo stesso tempo essere immensamente felice. Così passai un mese intero tra casa e il mare, da solo.
 
Quel mese di luglio fu strano, perché ogni giorno mi svegliavo in un letto che non sembrava essere il mio e la prima cosa che facevo era pensare a Sherlock. Mi lavavo, mi vestivo e, senza neanche fare colazione, prendevo la macchina e andavo sulla spiaggia. Passavo intere ore a galleggiare nell’acqua, lasciando che le mie lacrime si mescolassero ad essa e che i miei occhi si bruciassero nel guardare direttamente il sole. Avevo bisogno di scomparire e fondermi col mare per cercare di trovare una soluzione alla mia vita, per cercare di capire chi fossi e chi sarei potuto diventare. Fosse stato solo per me, non lo avrei mai lasciato, non avrei mai permesso di allontanarmi da lui: Sherlock è l’acqua del mio bicchiere e l’ossigeno dei miei polmoni, lo è stato fin da quando avevo quattordici anni e non riesco ad immaginarmi una vita senza di lui. So di essere giovane, so di non sapere niente, ma con lui il mondo era trasparente, senza ombre, pronto ad accogliermi, pronto ad essere conquistato da noi. E adesso vedo nero e la luce appare lontana, quasi inesistente. Ed è da giugno che non capisco più niente, e da luglio non mi riconosco più, i giorni hanno lo stesso sapore di pasta sciapa, indifferente.
 
Poi ho conosciuto Mary Morstan, e lei non ha fatto altro che mostrarmi che la via giusta era quella che avevo lasciato. Non avevo niente contro di lei, perché ero io il problema. Lei era la ragazza perfetta: intelligente, scaltra, ironica, bellissima. Ma io non volevo una ragazza, io volevo Sherlock, e mi dispiace averlo capito dopo un intero mese, mi dispiace averla usata e mi dispiace averla lasciata dopo aver fatto sesso, ma è stata quella notte a farmi aprire gli occhi. Quando chiudevo gli occhi, in quella macchina, non era lei sulle mie gambe, non era lai a baciarmi, non era lei ma Sherlock, ed è stato difficile non sussurrare il suo nome, cercare le sue braccia senza rimanere deluso da quelle di Mary, cercare il suo profumo senza trovarlo, cercare lui e trovarsi un’altra. Sono stato uno stronzo a lasciarla subito dopo, ad usarla per i miei scopi meschini, ma lei è stata fondamentale a farmi capire che ciò che provo per Sherlock non è anormale, non è sbagliato, non è un peccato. È, e sarà per sempre, amore.
 
Le giornate al mare a studiare i chicchi di sabbia uno ad uno, cercare di contarli come due idioti.
I tramonti nell’acqua.
Le ore in macchina a parlare del futuro e dei sogni.
L’inverno, la primavera, il primo giorno d’estate.
I ‘ti amo’ sulle labbra, sulla pelle.
 
Sherlock.
 
È da settembre che cerco le parole adatte, ma ogni volta muoiono in gola quando lo vedo da lontano nei corridoi della nostra scuola. Ci provavo, ogni giorno, ogni ora, e ogni singola volta mi ritiravo come un codardo, come una tartaruga nel suo guscio. Mi chiedo adesso se, dopo tutto questo tempo a camminare al freddo per andare da lui, sia riuscito a trovare quella briciola di me che si era presentata a casa sua quasi un anno fa, quando mi ha baciato sulla porta.
 
E poi mio padre è morto.
 
È successo tutto così velocemente che il dolore non ha fatto in tempo ad arrivare, perché io ero già andato avanti. E sinceramente, con tutto quello che è successo, mi è sembrata solo una parentesi, un intralcio scomodo alla mia vita. È brutale parlare così, perché da fuori eravamo una bellissima famiglia, unita, amorevole, ma io non vedevo mia sorella per colpa sua, e lei non vedeva la sua famiglia per colpa sua. Non era un cattivo uomo, ma di certo un cattivo padre. Un genitore non è un albero di melo che crea mele, ma un albero dal quale può uscire qualsiasi frutto, e questo lui non lo poteva accettare: ha cresciuto Harriet come sua madre e me come lui. Ma la cosa più fastidiosa è che ci sono delle parti di me uguali alle sue, come quella che mi ha allontanato da Sherlock.
 
Comunque, era il 22 ottobre quando è successo. Il funerale è stato atroce, la sua preparazione anche peggio. La voce si è sparsa per il paese a macchia d’olio e alla cerimonia c’erano tutti, anche Sherlock. Vederlo a scuola faceva male, ma vederlo davanti alla tomba di mio padre, immobile, era peggio. Non so perché, ma la sua presenza lì sembrava urlarmi che tutto ciò che c’era tra noi due era scomparso, sepolto con mio padre, tra le sue mani fredde, e che non potevamo stare insieme. Sherlock non si è avvicinato a me, non mi ha fatto le condoglianze e non mi ha neanche guardato: insieme a Jerome Watson era morto anche il nostro amore. Piansi per quello. Durante la cerimonia mia madre, trasformatasi in un guscio vuoto, mi prese la mano: piangevamo entrambi e non per ciò che avevamo di fronte, ma il dolore è la cosa più semplice da condividere. Mentre il prete imbastiva un discorso per l’uomo che era mio padre, il posto accanto al mio venne occupato. Per un attimo pensai fosse Sherlock, ma quando alzai lo sguardo mi accorsi che era mia sorella, Harriet.
Non parlai, all’inizio, troppo impegnato a guardare il suo viso così diverso rispetto a sei anni prima, ma poi mi sciolsi sulla sua spalla e lei poggiò la testa sulla mia, sussurrandomi: «ciao, piccola peste». Tra le sue braccia tutto il rammarico per la morte di quell’uomo sparì, perché mi aveva allontanato dalla mia Harry e la sua dipartita l’aveva fatta tornare. Siamo stati per sei anni una famiglia spezzata, e il funerale l’ha aggiustata.
 
Mia madre ha chiesto scusa, Harriet ha perdonato. Quel giorno è stato uno dei più belli della mia vita. Sarò brutale verso il mio stesso padre, ma anche Cesare è stato tradito dal suo stesso figlio. Io posso fare lo stesso, io ho fatto lo stesso.
 
Prima di infossare la tomba nessuno dei familiari ha fatto un discorso, ma io mi sono alzato, nel silenzio della mia folla. Ho preso una manciata di terra e, guardando negli occhi di Sherlock (l’unico in piedi insieme a me), l’ho buttata sul legno lucido. Ho abbassato lo sguardo un attimo verso la tomba che stavano calando nella fossa e quando ho alzato di nuovo gli occhi lui non c’era più.
 
Senza mio padre il rapporto con mia sorella è stato ripreso da dove si era interrotto, come se sei anni non fossero mai passati, e quello con mia madre l’ho ricostruito piano piano. La morte di Jerome Watson mi ha fatto pensare che forse non ero io, l’anormale, quello sbagliato, la mela marcia. Che forse potevo amare Sherlock perché si poteva fare e non perché fosse uno sbaglio. Che non c’è niente di sbagliato in me e che tutto può andare bene.
 
È con questa certezza che arrivo sotto casa di Sherlock, è questa certezza che mi mancava prima di oggi. Anche adesso nevica, come quel giorno di gennaio di un anno fa, ma non siamo solo io e lui stavolta. Stavolta c’è tutta la scuola a casa sua, perché Molly ha voluto organizzare una grande festa visto che casa Holmes era vuota (come l’anno scorso, lui è rimasto a casa e gli altri sono andati a sciare). Non so perché Sherlock abbia acconsentito a questa cosa: lui neanche le conosce, tutte queste persone. In tutta la scuola penso che lui abbia rivolto la parola a pochi indispensabili, che si possono contare sulle dita di una mano. Eppure sono tutti lì. Chi sulle scale, chi sui muri, chi riverso a terra già ubriaco o fatto: questa non può essere la festa di Sherlock.
 
Sento il freddo congelarmi da dentro e il calore della casa è troppo invitante per non entrarci, anche perché l’unica persona di cui ho bisogno si trova lì. Conosco quelle mura come me stesso, perché ogni metro cubo di quella casa è legato a un nostro ricordo, ogni soprammobile, come il vaso scheggiato all’ingresso, ogni quadro, come quello storto adiacente alle scale, ogni mobile, dal divano alla credenza, è macchiato del nostro amore, quell’amore che io voglio disperatamente indietro. Ma non trovo Sherlock da nessuna parte, e non mi sorprenderebbe se lui non ci fosse effettivamente.
 
Ma poi, tra tutte le voci che si mescolano, ne sento una distinta: è Greg, e sta urlando il nome di Sherlock verso le scale. Lui è qui, respira la mia stessa aria, vede le stesse persone e gli stessi oggetti. Guarda me, e io guardo lui.
 
È così bello. Non ho mai conosciuto una persona così perfetta prima di lui, così… angelica e allo stesso tempo peccatrice. Non è un essere di questo mondo, quegli occhi non possono essere umani, non possono avere la stessa forma del mio DNA, non possiamo appartenere alla stessa specie. Sherlock è… è… è tutto ciò che ho sempre voluto ma mai saputo di volere fino a questo momento, è l’epifania che dissolve la nebbia dai miei occhi, è l’angelo che visita Maria, è Virgilio che accompagna Dante, è il pezzo mancante della mia vita, più di quanto possa esserlo mio padre da quando è morto. È la risposta a tutte le mie stupide domande.
 
Sherlock, quante cose vorrei dirti, quante parole vorrei che tu ascoltassi, quanti discorsi che ho fatto allo specchio ma che segretamente erano rivolti a te ho pronunciato. Tutto, per questo momento in cui sei davanti a me (e potrei allungare la mano e toccarti se tu volessi). Tutto, ma una sola domanda è rimasta in sospeso.
 
Se mi presentassi alla tua festa, mi vorresti lì?
 
Ma io mi sono presentato senza preavviso, mi vuoi?
 
«John» il mio nome sulle sue labbra. So a memoria tutte le sfumature che prendono quelle quattro lettere quando pronunciate da lui. Sorrido perché tutte quelle parole che avevo imbastito sono scomparse dalla mia testa. Il potere che quest’uomo ha sulla mia mente è più forte di tutti gli insegnamenti bigotti che mi sono stati propinati dalla mia nascita.
 
Intorno a noi le persone o non ci sono, o sono in silenzio, o sono scomparse, ma onestamente potrebbero dissolversi e trasformarsi in creature magiche perché comunque non mi importerebbe. Per così tanto tempo sono stato condizionato dal loro giudizio e mi sono stancato di farmi dettare la vita da loro. E ora capisco quando Sherlock mi dava dello stupido, perché lo sono davvero, se mi sono precluso la cosa più bella dell’universo solo per paura di un loro sguardo o smorfia. Sono stato un idiota.
 
Ed è quello che dico. «Sono stato un idiota. Sono stato un codardo, sono stato cieco, sono stato stronzo» e la lista potrebbe continuare all’infinito, ma Sherlock pronuncia ancora il mio nome e si avvicina a me, e io non posso fare che smettere di parlare per un attimo, il tempo di godere della sua vicinanza.
 
Sono davvero un’idiota. Anche mia sorella me lo ha detto, quando gli ho raccontato tutta la storia. Ha capito perché l’ho fatto, ma mi ha anche detto che non sono stato coraggioso. Tutti loro hanno ragione. I riflettori sono puntati su di me. Anche adesso Sherlock aspetta che io parli.
 
«Ho lasciato che il giudizio degli altri, che i pregiudizi e i pensieri bigotti di cui sono stato circondato per tutta la mia vita, si intromettessero tra noi. Non volevo farti male e non volevo farti soffrire, non era questo il mio obiettivo. Volevo proteggermi, Sherlock, da quello che gli altri avrebbero potuto dire di me, senza pensare a quello che effettivamente avevo voglia di fare» le parole scorrono fuori di me come un fiume. È una sensazione stranissima, come se io non avessi il potere di controllarmi e qualcuno avesse preso il mio posto. Sono parole non programmate, sconclusionate, eppure sono quelle giuste. Gesticolo nervoso, mentre Sherlock mi guarda e nei suoi occhi vedo tutta la tristezza che gli ho provocato.
 
 «Io voglio stare con te -non ci credo che proprio io sia riuscito a dire queste parole ad alta voce- ho sempre voluto stare con te, dal momento in cui ho capito che eravamo più che amici. Quest’estate è stata la peggiore della mia vita, perché ho provato a dimenticarti ma non ci sono riuscito. -sono lacrime, quel calore che sento sulle mie guance fredde- Ti ho fatto male, lo so, e so anche che potresti non perdonarmi per quello che ti ho fatto, ma devo almeno chiederti scusa, devo almeno provare a farmi perdonare»
 
Ho bisogno di un momento per smettere di piangere, perché mai come adesso la possibilità di non ottenere il suo perdono si prospetta spaventosa davanti a me. Prima di adesso la speranza mi ha illuso di poter riaverlo indietro sicuramente. Ora, con lui davanti a me, questo discorso improvvisato male, tutti che ci guardano e che non avrebbero dovuto, quella stessa speranza è un fuoco senza ossigeno, che sta esalando gli ultimi respiri, e tutta l’idea di un finale alla Notting Hill è tornato ad essere un’illusione.
 
«Ci sto provando, adesso. Ma non avevo programmato di dirti tutto questo davanti a una casa piena di gente, davanti a persone che nemmeno conosco e che prima di oggi hanno avuto il potere di influenzare le mie scelte» Per favore, Dio, dammi il coraggio di dirgli tutto quello che provo. Respiro profondamente, Sherlock non si è ancora mosso, ma vedo le sue lacrime attraverso le mie.
 
«Quello che non avevo previsto, ed è il succo di tutto questo, è che io ti amo, Sherlock. Ti amo così tanto che non penso sia normale per una persona della mia età, ma è così. E sono qui, e ti sto chiedendo di riprovarci, di nuovo…» vorrei continuare all’infinito questo sproloquio ma le parole si sono esaurite, e il fuoco è ormai spento.
 
Niente di tutto quello che ho detto faceva parte del discorso originale. Avrei voluto spiegarli cosa fosse successo e perché, ma mi è sembrato più importante mettere il cuore in mano davanti a tutti, dimostrargli che io non ho paura di loro, non ho paura di mostrarmi innamorato, mostrarmi debole, mostrare le mie lacrime. Eppure adesso, dopo questo discorso, dopo aver pianto, dopo che ho sentito tutti bisbigliare alle mie spalle, adesso mi vengono in mente le parole di Sherlock in tutti questi anni. Quando ha cominciato ad appassionarsi al risolvere crimini, al cercare indizi e soluzioni, diceva sempre che i fatti sono la cosa più importante e che le parole non salvano mai da un omicidio. Che se uno ha un’arma in mano, difficilmente i bei discorsi lo possono dissuadere dallo sferrare il primo colpo, e Sherlock ha il coltello dalla parte del manico mentre io gli sto chiedendo di non uccidermi.
 
Tre sono i secondi che passano prima che succeda qualcosa, gli istanti più lunghi della mia vita.
 
Mi sento come in caduta libera, con la certezza che sarei arrivato fino alla fine dell’inferno, ma allo stesso tempo mi sento leggero, una piuma che si adagia a terra. È strano perché sono dilaniato da due sentimenti contrastanti e opposti tra di loro, che cercano di distruggersi a vicenda eppure convivono. L’ansia mi mangia da dentro come un tarlo, mi dilania, eppure sono contento, soddisfatto quasi, di aver detto quello che ho detto, e di averlo fatto davanti a tutte queste persone. A prescindere da quello che potrebbe dirmi, so di aver fatto tutto ciò che mi era possibile per cercare di farmi perdonare. Solo un anno fa non sarei mai riuscito a parlare dei miei sentimenti per un uomo davanti a tutte queste persone, e adesso sono al centro di un salotto ghermito di persone, e tutti guardano me con il cuore in mano, davanti a Sherlock che ancora non ha parlato. Un’infinità di tempo dove sono passati solo due secondi e non ha ancora parlato, non ha ancora parlato, non so se lo farà. Vorrei scuoterlo per le spalle, svegliarlo da quello stato di immobilità e chiedergli incessantemente se stiamo bene, se staremo bene. Staremo bene? Non lo so, non lo so. Parla, Sherlock, parla.
 
E all’improvviso qualcosa accade. Non sono parole, non urla, niente di tutto questo, no. Sherlock mi ha preso la mano, in silenzio, e mi ha portato via di lì. Una scossa elettrica ha percorso il mio corpo, partendo dalle mie dita fino ad arrivare ai piedi, passando per il cuore. Mi ha guidato fuori, in giardino, e io l’ho seguito senza lasciare la presa. Ha ripreso a nevicare ma a lui non sembra importare. Di conseguenza, non importa neanche a me. Sherlock sotto la neve è esattamente come un anno fa, se non più bello: i fiocchi bianchi rimangono incastrati tra i suoi ricci, le sue guance diventano rosse come ciliegie e i suoi occhi diventano ancora più gelidi per tutti coloro che li guardano. Per tutti, tranne che per me, che anche adesso, guardandolo, mi sembra di vedere un principio di fiamma, di caldo, di giallo, tra tutto quel grigio.
 
Sherlock ancora non parla ma non mi lascia la mano, ed io vorrei solo che dicesse, facesse qualcosa, qualsiasi cosa. Sono argilla tra le sue mani.
 
Sospira pesantemente, Sherlock, e l’aria si tinge di bianco intorno a lui, quando dice: «tu sei un folle»
 
Vorrei rispondergli di si, dirgli che sono pazzo quando si tratta di lui, che farei di tutto per lui, ma le parole mi muoiono in bocca quando lui si avvicina e mi bacia, inaspettatamente.
 
Mi sento di morire, sono certo di star per morire, perché dopo aver aspettato tutti questi mesi, dopo avergli fatto così male, la mia speranza era minima se non nulla. Sono venuto qui solo perché glie lo dovevo, dovevo dirgli che non era colpa sua ma solo mia. Di certo non mi aspettavo seriamente che lui mi perdonasse. Non so perché mi stia baciando, ma non sono nessuno per lamentarmi, e rispondo al suo bacio baciandolo a mia volta, come se la mia intera esistenza ne dipendesse. Mi aggrappo alla sua camicia, alla sua pelle, ai suoi capelli. Dio, questa sensazione, questa di averlo con me stretto tra le mie braccia, senza lasciarlo andare. Siamo fatti per stare insieme, lo sento dentro di me, come se il mio corpo e la mia mente non fossero completi senza il suo corpo e la sua mente. Ti amo ti amo ti amo, glie lo scrivo sulle labbra con le mie, con le mani sulle sue, sotto la neve che scende copiosa su di noi come un freddo abbraccio.
 
Ti amo e mi dispiace, glie lo voglio dire con le parole ma lui non me lo permette perché non si stacca da me. Sento come se volesse recuperare sei mesi di tristezza con un bacio che sa di infinto. Quindi uso ciò che ho a disposizione: le mie labbra, che si aprono ad accogliere la sua lingua ben felici di ritrovare una vecchia amica; le mie mani, che non sanno quali delle strade percorrere, che ne cercano di nuove ma non le trovano perché le hanno già attraversate tutte, e che si fermano sul suo collo solo per sentire il battito del suo cuore vivo e vicino; le mie braccia, che hanno il solo compito di non lasciarlo più andare, di non permettermi di fare di nuovo lo stesso errore; il mio petto che deve stare accanto al suo; tutto il mio corpo che è pronto ad essere accolto.
 
Ti amo e non ti permetterò di allontanarti da me, questo è quello che mi sta dicendo lui, invece. Sento in lontananza voci insignificanti e macchine che si allontanano* ma nulla importa quando Sherlock è con me. Sorrido nel bacio per mandare a fanculo mio padre e dirgli che non manca a nessuno su questa terra perché con lui era solo un inferno; con Sherlock è il paradiso che lui mi ha negato per diciotto anni.
 
Lui si stacca ma non si allontana, non ne ha intenzione.
 
«Mi dispiace per tuo padre» sussurra sulle mie labbra ed io rido, apertamente, come non facevo da mesi.
«Non è vero» rispondo tra le risate e le lacrime di gioia: neanche io mi ero accorto di star piangendo.
«No, infatti -continua lui accarezzandomi la guancia- era un pessimo padre»
 
Sono mille e più i sottointesi di queste parole. Sherlock non ha bisogno di parole per capire le cose, non ha bisogno di grandi spiegazioni quando la sua peculiarità è dedurre gli altri. Forse sono io che non ho decifrato la situazione, perché forse lui non stava facendo altro che aspettarmi, in tutti questi mesi. La consapevolezza di questo mi apre ancora di più gli occhi. Sherlock è nettamente una persona migliore di me. Non mi ha ignorato, non mi ha evitato, mi ha aspettato e mi ha rispettato, nonostante gli avessi fatto male e lo avessi allontanato. Dio, se è un genio. Sorrido ancora di più, lui lo nota.
 
«Hai capito» afferma.
«Sì -rispondo, e gli do un bacio sulla guancia- scusami se sono stupido»
 
Alla fine abbiamo diciotto anni, non sappiamo niente.
L’unica cosa che so io è che mi mancava, e l’unica cosa che sapeva lui è che sarei tornato.




*tra le macchine che si allontanano c'è quella di Mary :)
NdA. Eccoci giunti alla fine di questa piccola storia! Fino all'ultimo minuto ho pensato se dividere questo capitolo in due parti, ma poi ho preferito lasciarlo integro, mi sembrava più consono per la struttura della storia. Ecco la storia di John, che ingloba le altre due, fa uscire la verutà così com'è. è il punto di vista più completo tra i tre. Mi è piaciuto tantissimo scrivere questa storia, specie i piccoli dettagli diversi tra come John si comportava con Sherlock e Mary, usare le canzoni di Taylor Swift come tessuto dei sentimenti, sviscerarle per inserirle parola per parola. Queste canzoni sono l'anima della storia, e se non le avete ascoltate va bene, ma ci sono così tanti richiami che è quasi imbarazzante per me! Vi lascio qua sotto le canzoni che ho usato per scrivere questa storia (tutte di Taylor. Intanto vi ringrazio tantissimo per aver letto la mia storia.

-A

Cardigan
My tears ricochet
mirrorball
august
this is me trying
illicit affairs
betty
Out of the woods
champagne problems

 

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