Gli Ultimi Giochi

di CervodiFuoco
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Come Un Fuoco ***
Capitolo 2: *** Il Risveglio di Libba ***
Capitolo 3: *** Tributo del Distretto Nove ***
Capitolo 4: *** Il Dono di Abigail ***
Capitolo 5: *** Il Portale ***
Capitolo 6: *** Premonizione ***
Capitolo 7: *** Un Bene Superiore ***
Capitolo 8: *** L'Eruzione ***
Capitolo 9: *** Al Sicuro ***
Capitolo 10: *** Il Cigno d'Argento ***
Capitolo 11: *** Onore e Gloria ***
Capitolo 12: *** «Permesso?» ***
Capitolo 13: *** Gli Ultimi Dodici ***
Capitolo 14: *** Tempi di Organizzazione ***
Capitolo 15: *** Fuori dalla Crisalide ***



Capitolo 1
*** Come Un Fuoco ***


1 - COME UN FUOCO

 

Una palla di fuoco si espanse come un enorme palloncino. Detriti vennero scagliati ovunque. Il cielo grigio era lacerato da strisce di fumo. I suoi compagni correvano di qua e di là, smarriti. Ma dove andavano? Cos'avevano da fare? Tanto, ormai, era finita. Ci si poteva rilassare. Lasciarsi andare... a quel tepore, quel silenzio. I rumori assordanti non c'erano più, la pesantezza del corpo nemmeno. Il respiro sempre più flebile dava spazio alla mente di alleggerirsi e di andare su, su, sempre più su...

 

«Libba!»

Una ragazza dalla carnagione scura le tendeva la mano. I suoi grandi occhi neri la fissavano sgranati.

Ma Libba non aveva forze. A malapena riusciva a distinguere chi aveva davanti, le iridi spalancate sul nulla, sdraiata a pancia all'aria.

Quando Abigail capì che Libba non avrebbe mai afferrato la sua mano, si chinò a sollevarla di peso. Gemendo ci riuscì, facendosi passare un suo braccio dietro la testa, e riprese a muoversi.

Fu allora che come per magia il corpo di Libba si riattivò: sbatté freneticamente le palpebre e prese a lamentarsi, scuotendo la testa ricciola e cercando di divincolarsi dalla presa ferrea di Abigail.

«Dove... cosa... »

Ma Abigail non rispose. Continuava a trascinarsela dietro correndo più veloce che poteva, mentre il terreno intorno a loro si scuoteva e di tanto in tanto erompeva in una contenuta ma terrificante esplosione che innalzava una polvere di detriti e terriccio, che poi ripiombava al suolo crepitando. Un boato sordo e ininterrotto riempiva l'aria, frammisto a quello chiarissimo di fuoco che arde, un grande, grandissimo fuoco: forse Libba poteva persino avvertirne il calore. Ma si, lo sentiva fin troppo bene, era per forza un incendio lì accanto a loro... la sua mano libera salì alla pancia, dove avvertiva il calore. Ma invece toccò qualcosa di liquido, e una fitta lancinante di dolore la attraversò da capo a piedi, paralizzandole le gambe e togliendole quel poco di fiato che aveva riacquisito.

«Siamo arrivate!» strillò disperata Abigail, dovendo quasi sollevare di peso la compagna che ora aveva smesso di camminare. S'inoltrarono fra alti e fitti cespugli, in un pertugio all'apparenza inesistente. In un certo senso fu Abigail a crearlo col passaggio del proprio corpo, anche se la traccia di un varco segnato in precedenza sull'erba a terra e sui rami intorno era vagamente visibile.

Adesso erano circondate da fronde verdi, buie e soffocanti. Libba si lasciò trasportare per un bel pezzo, a tratti riuscendo ad aiutarsi con le gambe. Ma il dolore era troppo forte; per fortuna Abigail sapeva il fatto suo, e di tanto in tanto la riscuoteva quando la testa di Libba ciondolava sul collo.

Infine raggiunsero un varco squadrato aperto su un muro di rampicanti e rovi. Oltrepassarono la porta; Abigail si voltò e la richiuse con un suono metallico.

I sensi di Libba la stavano abbandonando di nuovo quando venne tirata e trascinata giù lungo un corridoio, all'apparenza interminabile: un tunnel in fondo al quale brillava una luce. Poi le palpebre le si chiusero, gravate da una pesantezza insopportabile.

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Capitolo 2
*** Il Risveglio di Libba ***


2 - IL RISVEGLIO DI LIBBA

 

Benessere. Piacere. Pienezza. Respiro... il respiro sempre più profondo e tranquillo. Qualcosa che fino ad allora era rimasto contratto, irrigidito, cristallizzato, adesso si scioglieva: Libba aprì pian piano gli occhi.

Su una trama di un grigio piatto brillava una striscia sottile di luce fortissima, davanti alla quale spiccava una sagoma nera indistinta. Questa si allontanò lentamente, uscendo dal suo campo visivo.

«Dovrebbe stare bene» mormorò qualcuno.

«Brava, Rae» rispose una voce familiare.

Altre voci sospirarono e boccheggiarono in coro.

Di nuovo la sagoma nera si contrappose alla striscia di luce accecante.

«Ehi.»

Una mano scivolò dietro alla nuca di Libba con grande delicatezza.

Le ci volle un po' prima di mettere a fuoco il viso di Abigail.

«Ancora viva, eh?» continuò Abigail. «Sei dura a morire. Per fortuna.»

Libba si rese conto che stava guardando un soffitto, e che la striscia luminosa era una lampada elettrica. Guardò con intensità i lineamenti di Abigail, poi piegò il viso di lato stringendo le labbra e deglutì.

«Ehi, ehi... »

Libba avvertì l'altra chinarsi su di lei; ma non voleva quella vicinanza. O forse si? Entrambe le cose. Sapeva solo di avere un'ondata di lacrime da far uscire dagli occhi, e fu ciò che si permise. Scoppiò a piangere, singhiozzando piano. Abigail la strinse a sé, inginocchiata al suo fianco. Rimasero così a lungo, finché Libba non ebbe consumato ogni stilla di emozione che gridava per uscire. Quando si calmò, fu in grado di tornare a guardare Abigail in faccia e, finalmente, a ricambiare il suo abbraccio.

«Grazie... schiappa» sibilò.

«Prego, lumaca.»

Dei passi si avvicinarono; Abigail si discostò per alzarsi in piedi, mentre Libba alzò il capo e si tirò su sui gomiti per guardare una ragazza bionda al suo fianco avvolta da un alone aranciato. La luce in quel posto era strana.

«Come ti senti?» le domandò flebile Raelle.

Libba ascoltò il suo corpo e le sensazioni fisiche soltanto in quel momento con consapevolezza. Si umettò le labbra. «Bene.» Si toccò furtivamente la pancia: era a posto, eccetto un buco di una decina di centimetri di diametro nella tuta. Alzò gli occhi per incrociare quelli di Raelle. «Sei stata tu a... »

L'altra annuì. «Si.» Strinse i pugni e li riaprì quasi subito dopo. Alle sue spalle, altre due persone borbottavano sedute nella penombra.

«Cos'è successo?» chiese Libba.

«Ci è piovuta addosso una granata urlante» disse Raelle, avvicinandosi ulteriormente a lei per sedersi a gambe incrociate a terra. «Noi siamo riusciti ad evitarla proteggendoci, ma in qualche modo le onde d'urto ti hanno raggiunta. Ti sei staccata dal gruppo, non so come, forse sei stata sbalzata via.» Sospirò, e con voce più debole proseguì: «Quando Abigail è tornata indietro a prenderti, eri messa male.» Guardò il ventre di Libba e poggiò una mano sul proprio. «Insomma, hai rischiato. Tanto. Ma... ce l'hai fatta.»

«Ce l'abbiamo fatta» la corresse Libba, cercando Abigail nella stanza: si trovava in un angolo, apparentemente indaffarata con quella che sembrava un'enorme mappa aperta e tenuta alzata come una tenda tra le sue dita.

Libba guardò Raelle e le tese la mano: l'altra la afferrò forte e la strinse, e trovarono un'intesa che non avevano mai avuto prima. Si sorrisero.

Raelle fece per alzarsi, ma lei la trattenne.

«Dove sono gli altri?»

«Gli altri?» ripeté la bionda inarcando un sopracciglio.

«Eravamo in dodici.»

«Oh» Raelle si strofinò le dita della mano sulla fronte. «La granata urlante ci ha divisi in due gruppi.»

Allora Libba allungò il collo per cercare di capire chi fossero le due persone sedute nel fondo di quell'angusta stanza dalla luce aranciata e nebbiosa. Mise a fuoco una ragazza dai capelli raccolti in uno chignon, china a conversare a bassa voce con un ragazzo robusto dai corti capelli scuri.

«Glory... Gerit.» Libba scandì i loro nomi a voce abbastanza alta da farsi sentire dai due, i quali interruppero la loro discussione per voltarsi da quella parte. «Proprio voi due?» dichiarò con una punta di sarcasmo.

Abigail distolse gli occhi dal gigantesco foglio spiegato che reggeva per puntarli su Libba; parve trattenersi dal dire qualcosa e tornò alla sua misteriosa analisi.

Raelle, dal canto suo, ammiccò a Libba. «Se non fosse stato per Gerit, non saremmo riuscite a prevedere la granata. E' grazie a lui se siamo tutti vivi.» Si diede una spinta con le braccia per tornare in piedi. «E a Tally. Ora riprenditi, riposa ancora un po'... non devi alzarti subito» ammonì Libba, prima di allontanarsi per raggiungere Abigail.

Gerit e Glory, interdetti per l'affermazione di Libba nei loro confronti, erano rimasti a scrutarla in silenzio.

«Mi fa piacere vedere che stai bene» esclamò Gerit con garbo, vedendo Libba disoccupata.

«Si, anche a me. Eravamo in pensiero» si aggiunse Glory.

«Grazie» rispose con titubanza Libba, che non era abituata a quelle gentilezze nei suoi riguardi da parte di chi non gli andava simpatico. D'altro canto, però, le avevano salvato la vita... prima fra tutte Abigail. Questo doveva pur dire qualcosa. Qualcosa di grande, di enorme, di... colossale. Non riusciva ancora a capacitarsi della mole dell'importanza di quel pensiero, e anziché rimanervi preferì disfarsene per abbandonare il proprio peso all'indietro. Si distese ancora un po', seguendo il consiglio di Raelle. Abbassò le palpebre e lasciò che la mente si svuotasse con un bel sospiro.

Rivide l'immagine delle turbine sulle ali del velivolo che avrebbe trasportato lei e il suo gruppo cominciare a roteare furiosamente e sollevarla su in cielo, mentre la piazza circolare del suo Distretto si faceva piccola piccola nella vista ristretta che offriva l'oblò. E poi, dopo il viaggio breve ma interminabile, reso insopportabile dall'adrenalina, la paura e la rabbia, l'atterraggio nell'hangar. Il pomposo, stupido, futile ricevimento e le parole insensate della Presidentessa davanti alla platea, mentre loro stavano schierati come burattini sul palco. Le musiche melense sparate a tutto volume da altoparlanti invisibili. Quello le dava parecchio fastidio, chissà perché, molto più di altre cose. Da lì in poi, i ricordi si accavallavano furiosi: il pomeriggio divorato dalla sera, la notte passata in bianco, la sveglia prima dell'alba e l'inserviente che viene a chiederle cortesemente di seguirla, e lei non ha bisogno di chiedergli dove né perché, e ha già preparato ogni cosa ore ed ore prima, e anche se ogni cellula del suo corpo si rifiuta di farlo lei deve seguire l'inserviente nel corridoio che conduce all'elevatore. E l'elevatore, lo sanno tutti cosa significa. Che sei sotto l'Arena. Ed allora non c'è più modo...

«Libba.»

Libba riaprì gli occhi e levò di scatto la testa: Abigail la teneva d'occhio con la mappa abbassata. Tutti quanti nella stanza la stavano fissando. Cos'avevano da fissarla così? Alzò una mano per asciugarsi una guancia rigata da una lacrima e indurì i muscoli facciali, rendendosi conto in quel momento che stava piangendo.

«Sto bene. Mi riposo un po'.»

Si voltò dall'altra parte e cercò di addormentarsi. Ci riuscì solo molto tempo dopo, cullata dall'intreccio di bisbigli creato dalle voci dei compagni alle sue spalle.

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Capitolo 3
*** Tributo del Distretto Nove ***


3 - TRIBUTO DEL DISTRETTO NOVE

 

Il frinire delle cicale e di chissà quali altri insetti riempiva l'aria umidiccia. Faceva un gran caldo, il che cominciava ad influire sulla capacità di concentrazione di Tally: con uno sbuffo si lasciò cadere in avanti, piantando le mani sulle ginocchia. Per poco non crollò. Era madida di sudore.

«Tutto a posto, Craven?» domandò una voce asciutta e decisa nelle vicinanze.

Tally annuì senza voltarsi nel tentativo di riprendere fiato, e si passò una mano sulla faccia per asciugarsela. Tornò eretta. Togliendosi alcuni ciuffi vermigli da davanti agli occhi, disse: «Non credo che così possa funzionare.»

Anacostia Quartermaine la squadrò a lungo, seria più che mai nella sua divisa ancora come nuova - come poteva esserlo, dopo ciò che avevano passato? «Riposa, se vuoi» esclamò infine storcendo un angolo della bocca. Si voltò subito dopo, mani piantate sui fianchi, e levò il mento per rivolgere un'occhiata spietata al ragazzo disteso in terra a qualche passo di distanza da lei.

«Non mi sembra proprio il caso di dormire.»

«Non sto dormendo» rispose con calma quello, mantenendo le palpebre abbassate e il corpo immobile.

Anacostia fece schioccare la lingua e prese fiato, corrugando la fronte. «Allora vorresti rendere noto anche a noi cosa stai facendo?»

Adil aprì gli occhi per mettersi lentamente seduto. Indossava una camicia beige lacerata in alcuni punti e macchiata di sangue, ma tutto sommato pareva star bene. «Sto recuperando le forze» disse, senza arroganza nella voce ma con tutta l'aria di chi stia dicendo qualcosa di estremamente giusto e ovvio. Cercò la figura di Tally dietro ad Anacostia, che ancora stava china su se stessa per recuperare qualche stilla di energia, e ritornò sulla donna più matura del gruppo. «Forse dovrebbe farlo anche lei.»

«Se ne avessimo il tempo, volentieri» lo rimbeccò la Quartermaine con freddezza, sciogliendo le spalle e le mani lungo i fianchi. «Ma non possiamo permettercelo. Ogni secondo qui è prezioso, e già il solo fatto di dovervelo dire a voce alta mi suona ridicolo. Forza, diamoci tutti da fare. Non voglio vedervi con le mani in mano.»

«Lei non può darmi ordini» rispose Adil con un sorriso. «Comunque, ha ragione. Ancora qualche istante di meditazione e mi metterò all'opera anch'io.» Senza attendere altro si rimise coricato e chiuse le palpebre, tornando immobile in mezzo all'erba che lo circondava e sovrastava.

Anacostia accusò il colpo e si diresse senza battere ciglio all'orlo del precipizio. Qui prese un lungo respiro e scrutò davanti e sotto di sé, affinando la vista: una delle sue strabilianti capacità - anche se non era come quella più specifica e utile di Tally - consisteva nel poter vedere a grandissima distanza, a discapito di un crollo dell'attività degli altri sensi; dalla cima del vulcano dormiente ove si trovavano, poteva abbracciare tutta quanta la foresta intorno a loro dispiegarsi a perdita d'occhio in ogni direzione, fatta eccezione per l'occidente, dove la vegetazione tropicale lasciava il posto alla pianura desolata che era stata scenario dell'attacco iniziale, il punto nel quale si era aperto il Gioco. Stavolta Anacostia si mise a setacciare il versante nord-orientale della foresta.

«Mi spiega perché dobbiamo rimanere fermi qui? Per me non ha alcun senso!» si lamentò una voce alle spalle del capogruppo. Ma fu Tally a risponderle, che nel frattempo si era ripresa.

«Non può sentirti quando usa la Vista Acuta.» Si era legata i lunghi capelli in una coda più pratica, ed ora era intenta a tastarsi un graffio a prima vista un po' troppo profondo situato sulla sua spalla sinistra.

La ragazza alle spalle di Anacostia spirò forte dalle narici, le braccia incrociate sul petto. Anche la sua divisa era inspiegabilmente intatta e tirata a lucido: nulla in lei era fuori posto. «Sarebbe meglio avviarci e andare a cercarli, invece che stare qui fermi.»

«Hilary.» Tally scandì piano e con chiarezza il suo nome, guardandola dritta in volto. «Capisco che tu voglia trovare Gerit. Come ognuno di noi.» Fece una pausa. C'era qualcosa di stonato nella sua voce. «Ma io penso che la Quartermaine abbia avuto una buona idea. La foresta è grande da setacciare e perderemmo troppo tempo se ci muovessimo a terra.» Fece un passo avanti per avvicinarsi a Hilary e, abbassando drasticamente il volume della voce, disse: «Senza contare che qui siamo più riparati e possiamo permetterci di rimanere uniti. Laggiù» e fece un cenno con il mento a indicare la foresta sotto di loro, «gli Strateghi non faticherebbero a dividerci. E lo sai benissimo quanto è importante che restiamo uniti.» Tally serrò le labbra e attese che l'altra aprisse bocca. Ciò però non avvenne. Hilary si voltò dall'altra parte, dura come un palo, e si allontanò per andare ad ammirare il panorama.

Tally abbassò il mento rassegnata, poi lo rialzò per guardare il cielo. Quelle nuvole minacciavano pioggia. Dovevano trovare un riparo, o costruirselo. Inoltre una larga parte delle razioni di cibo era andata persa a causa della granata urlante, e questo era un male. Si morse il labbro e decise di ricominciare a Proiettarsi per scandagliare la foresta: andò vicino ad Anacostia, rilassò i muscoli, inspirò a fondo e spalancò gli occhi. Le pupille le si dilatarono e immediatamente non fu più lì.

Il Dono di Tally in quanto Mutante era di poter proiettare la propria coscienza fuori dal corpo in una direzione a suo piacimento, a una distanza dai due ai cinque chilometri a seconda delle condizioni. E fu ciò che fece: d'improvviso smise di percepirsi un corpo solido in piedi sulla cresta rocciosa di un alto vulcano spento, ma semplice e pura essenza, un respiro, un refolo d'aria galleggiante, una presenza eterea inconsistente e invisibile nel bel mezzo della foresta tropicale. Non aveva molto tempo. Si mise subito all'opera.

Dunque Anacostia, Tally e Hilary erano affacciate all'immensa foresta ai loro piedi, mentre Adil andava risvegliandosi proprio in quel momento dalla meditazione e si alzava dall'erba alta: si stava asciugando il sudore dal viso e il collo per il caldo umido e pulendosi le vesti dall'erba, quando un fruscio proveniente dai cespugli nelle vicinanze catturò la sua attenzione.

Byron uscì allo scoperto. Aveva un largo sorriso stampato in faccia e una mano ad altezza del petto, col palmo rivolto verso l'alto che conteneva un mucchietto di palline nero-violacee.

«Adil» salutò gioviale. Prese una delle palline e se la sparò in bocca.

Adil scattò e alzò le sopracciglia. «Cosa sono?»

Byron masticò con gusto e calma, rimandando ad Adil uno sguardo divertito. «More» chiocciò dopo aver deglutito. «Tranquillo, le so riconoscere. A casa mia ne mangio a tonnellate.»

«Si, ma non possiamo fidarci di niente qui» disse Adil con severità. Tuttavia Byron si infilò un'altra mora in bocca, diede una scrollata di spalle e si mosse verso il gruppo dal quale si era distaccato. Al che esordì: «Ho buone notizie.»

«Non possono sentirti» specificò Adil, parlando di Tally e la Quartermaine. In realtà non era vero per Hilary, ma lei comunque non si era voltata al sopraggiungere di Byron e se ne restava là in fondo, lontana, assorta su chissà che.

Allora la voce tranquilla e velata di sarcasmo di Byron si insinuò fra i pensieri di Adil, interrompendone il flusso. Ci sono un sacco di telecamere qui. Una è proprio sopra di te, tra i rami di quell'albero. L'altra su quel masso a tue ore sette. Ce ne sono altre quattro o cinque ai piedi di Tally e la Quartermaine. Nel boschetto qui vicino è pieno.

Byron continuava a mangiare le more, che aveva ormai quasi finito, e guardava intensamente Adil negli occhi. Niente e nessuno lasciava a intendere che egli possedesse il Dono della Telepatia.

Adil gli si fece da presso e in un bisbiglio chiese: «Come?»

Vengo dal Distretto Tre, continuò Byron. So dove e come le costruiscono, e anche come fanno a installarle e mimetizzarle. Lo so, non dovrei. Ho le mie fonti, concluse Byron per ovviare all'espressione confusa e assorta di Adil.

L'altro scosse il capo. «Il cigno continua a nuotare.» Pronunciò la frase abbassando la voce e piegando in maniera impercettibile il viso da un lato.

Byron annuì ingoiando l'ultima mora selvatica, e gli sorrise. Se ora mi segui e vieni qui, comunicò telepaticamente, mentre camminava flemmatico verso una piccola roccia anonima alla sua destra, sono quasi certo che tu sia in un punto cieco. Puoi fare quello che vuoi. Conveniente, no?

Adil non lo aveva seguito, doveva nutrire alcuni dubbi sull'utilità di quell'informazione. «Che notizie hai da darci? Cos'hai visto nella gola del vulcano?» incalzò per cambiare argomento, e probabilmente per non destare alcun sospetto della silente conversazione avvenuta.

Byron fece per aprire bocca, ma un suono innaturale e insopportabile esplose all'improvviso. Era una musica, gloriosa e malinconica: l'inconfondibile inno che faceva da cornice a un annuncio riguardante gli avvenimenti importanti degli Hunger Games. Durò una trentina di secondi, poi una voce bassa le si sovrappose echeggiando forte nella vallata.

«SCYLLA RAMSHORN, TRIBUTO DEL DISTRETTO NOVE.»

In cielo, sopra alle nuvole cariche di imminente pioggia, si stagliò l'enorme ologramma colorato del mezzobusto di Scylla su fondo blu, vestito della sua bella tuta grigia, con i capelli sciolti sulle spalle e l'aria contenta e serena. Restò là il tempo utile a studiarlo. Quando la musica si abbassò di volume per svanire, si dissolse anch'esso. E cadde di nuovo il silenzio; ma ora era molto più pesante, afoso e umido di prima.

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Capitolo 4
*** Il Dono di Abigail ***


4 - IL DONO DI ABIGAIL

 

Quando la musica partì nella valle ricoperta dalla foresta pluviale con il grosso e tozzo vulcano al centro, Abigail era stata la prima a precipitarsi fuori dal bunker; la seguì a ruota Raelle, e un istante dopo uscirono dal varco metallico Gerit e poi Glory.

In quel punto la foresta non si sviluppava ancora a macchia d'olio e consisteva in un agglomerato piuttosto soffocante di cespugli, più o meno alti, alcuni spinosi e altri no, frammisti a rampicanti che correvano dovunque. Il cielo però era già ben poco visibile a causa delle liane e dei più alti arbusti che si innalzavano come vere e proprie muraglie vegetali; per questo, quando la voce dell'annunciatore dei Giochi scandì il nome di Scylla, Raelle partì in una corsa disperata alla ricerca di un varco nel fogliame sopra le loro teste. Non le ci volle molto, non dovette nascondersi alla vista di Abigail e gli altri per farlo. Si piantò su due piedi e vide in alto, cinto da spine e foglie in controluce, il viso sorridente di Scylla stagliarsi sulle nubi plumbee. Ma durò troppo poco. L'ologramma scomparve insieme alla musica di Capitol City.

Per un lungo, doloroso istante, Raelle rimase pietrificata a naso in su, con Abigail, Gerit e Glory a guardarla; poi questi ultimi tentarono di avvicinarsi a lei, in special modo Abigail.

Ma la bionda fu più svelta. Girò sui tacchi e scomparve nella vegetazione.

«No, Rae!» chiamò Abigail. E la seguì. «Voi andate a svegliare Libba. Dobbiamo muoverci» disse ai due alle sue spalle prima di scomparire. «Ci ritroviamo qui!» esclamò quand'era già lontana.

Il pericolo era dietro l'angolo, ora che lei e Raelle si erano separate dagli altri. Ma non sarebbe potuta andare altrimenti, rifletté Abigail mentre percorreva la via che secondo il suo istinto l'amica aveva lasciato dietro di sé. «Rae!» Si stava trattenendo dall'urlare. Non poteva. Non voleva. «Rae!» Strinse i denti e imprecò. Per lo meno l'impatto della granata urlante non le aveva provocato danni fisici e godeva di un ottimo stato di salute: per questo poteva permettersi un'andatura sostenuta e al contempo analizzare per bene l'ambiente circostante con lucidità.

In quella zona alcuni alberi sporadici dalle fattezze tropicali spuntavano qua e là, avvinghiati dai rampicanti, ai piedi dei quali brillavano mazzi di fiori di un rosso porpora. Se non fosse stato un ambiente artificiale studiato a tavolino per eliminare uno ad uno i partecipanti del Gioco, sarebbe stato anche piacevole avventurarvisi. Si diede della stupida per aver formulato quel pensiero; Abigail rallentò il passo e scrutò il sottobosco erboso costellato di foglie secche e rami.

Era troppo distratta per prevedere ciò che avvenne.

Un peso considerevole piombò su di lei, alla base della nuca, da dietro. Due mani le strinsero il collo, altre due conficcarono la punta delle dita sopra alle spalle. Il peso e lo spavento la fecero crollare sulle ginocchia. Fortunatamente il suo corpo si mosse da solo e, con uno scatto quasi automatico, Abigail sollevò le braccia per stringere la cosa che stava sopra di lei e la scaraventò in avanti, piegando la testa verso il basso nel compiere una specie di capriola.

Udì uno strillo animalesco, un soffio e il fruscio delle foglie secche.

Abigail levò il viso, ora a quattro zampe per terra, e capì cos'era stato ad aggredirla: una scimmia. Grande quanto un essere umano adulto, la creatura stava eretta sulle due zampe posteriori, il grosso faccione peloso dalle zanne scoperte, un paio di occhi chiari spiritati. Non era una scimmia normale, ma quasi certamente il risultato della mente dei genetisti responsabili dei Giochi.

Senza preavviso si avventò contro Abigail.

La ragazza dovette fare ricorso al suo Dono. Non c'era alternativa, non sapeva di quanta forza disponesse potenzialmente la scimmia anche ne aveva avuto un assaggio poco prima; e voleva evitare qualunque tipo di rischio. Abigail emise un ruggito e strinse i pugni: il suo corpo si irrobustì, gli arti si allungarono e ingrossarono. Aumentò di statura. Protese le mani - più grandi, adesso - proprio quando la scimmia era sul punto di scaraventarsi contro di lei: la afferrò sui fianchi, evitò i graffi degli arti superiori scuotendola con vigore e la innalzò, per poi schiantarla ai propri piedi con un terribile fragore.

La scimmia non si mosse più.

«RAELLE!» ruggì ancora Abigail, la cui voce aveva un che di gargantuesco, sebbene mantenesse un tono femminile. I muscoli le si sgonfiarono e ritornò alla statura normale; ma lo sforzo e l'ondata di adrenalina subiti la fecero piegare nuovamente in avanti, ed ella boccheggiò, spettinata e sudata.

Cominciò a piovere. L'acqua picchiettava sulle foglie dure e allungate dei pochi alberi e sul sottobosco rigoglioso. In men che non si dica sopraggiunse un violento acquazzone.

La scimmia era certamente morta, da come la bocca era spalancata e la posa innaturale. Abigail dovette farsi forza e continuare nella ricerca. Ne aveva vissute di ben peggiori, e nonostante non si potesse mai essere davvero pronti a quel tipo di pericoli nel Gioco, sapeva di essere in grado di cavarsela.

«Dannazione, Rae...» Stava per spazientirsi, quando al rumore della pioggia si aggiunse quello della voce inconfondibile di Raelle che singhiozzava forte; Abigail allora fu in grado di rintracciarla con facilità.

L'amica si era nascosta nel cantuccio di un albero cavo, con la testa chiusa tra le ginocchia, al riparo dalla pioggia torrenziale. Abigail si infilò nella cavità senza opposizione da parte sua, le si sedette vicino e la cinse con un braccio, senza dire niente. Ogni parola sarebbe stata inutile.

 

«Forse è ancora viva» fu la prima cosa che disse Abigail, dopo che Raelle aveva smesso di piangere ed erano rimaste qualche tempo a guardare la pioggia scrosciare intorno a loro.

Raelle si irrigidì sotto la presa del braccio dell'amica. «Perché dici questo?» Aveva la voce roca e spezzata.

Abigail volse gli occhi nei suoi: entrambe li avevano lucidi. «Sai di cosa è capace. Magari ha inscenato la propria morte.»

La bionda distolse lo sguardo e lo lasciò capitombolare da qualche parte davanti a sé, sconsolata. Pensare a quell'ipotesi la tramortiva e rallegrava contemporaneamente. In realtà si trattava di una speranza assai debole, dal momento che gli Strateghi e gli altri responsabili dei Giochi possedevano tecnologie in grado di rilevare ogni segno vitale e distinguere quelli di un Tributo da quelli di un altro. Ma si trattava comunque di una speranza. La vera questione era se aggrapparvisi oppure no.

«Non vorrei dirtelo» continuò con dolcezza Abigail, «ma dobbiamo andarcene da qui, e subito, Rae. Dobbiamo ritrovare gli altri, prima di seguire il piano. Separati non avrebbe senso.»

Seguì un altro silenzio pieno della pesantezza del chiasso implacabile della pioggia.

«Secondo te possiamo fidarci?» mormorò Raelle, apparentemente priva del potere di muoversi da sé.

«Fidarci di chi?» ribatté la mora, ancora ferma e attaccata al corpo dell'altra con un braccio intorno al suo collo.

«Della Alder.»

Abigail sembrò soppesare i propri pensieri. «Io credo di si. Altrimenti perché si sarebbe data da fare per aiutarci a organizzarci?» avanzò, stando attenta a non menzionare il bunker.

Ancora pioggia e nessuna parola.

«Ma l'attacco... non dovevamo separarci. Ci aveva detto che avremmo raggiunto il bunker tutti insieme.» Dalla voce di Raelle, si deduceva che avesse smarrito ogni forza di spirito, di volontà e fisica. «Cosa faremo adesso?»

Abigail sospirò lanciandosi un'occhiata attorno: chissà, forse il tempo atmosferico stava coprendo le loro voci. «Magari l'influenza della Alder sugli Strateghi non è così forte come lei contava» disse asciutta. «Ma ciò non toglie che abbiamo ancora un piano. Insieme. Possiamo farcela. Abbiamo la mappa.» Rafforzò la stretta sulla spalla di Raelle. «Vedrai che andrà tutto bene. E forse...» Esitò. «Forse ritroveremo anche Scylla. Dobbiamo avere fede, in ogni caso. E' l'unico modo per uscirne vivi, lo sai quanto me.»

L'idea che Scylla non fosse morta, che il suo ologramma in cielo non dicesse la verità e che Capitol City si sbagliasse, aveva acceso una remota fiammella nel cuore di Raelle che le diede il coraggio di spingersi sulle gambe. Lasciandosi aiutare e trascinare da Abigail, tornarono indietro.

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Capitolo 5
*** Il Portale ***


5 - IL PORTALE

 

«Non-dovevamo-separarci!» ringhiò Byron additando furioso Adil. «Adesso Scylla è morta!»

«E io cosa potevo farci? E' forse colpa mia?» L'altro ragazzo si sbracciò in cerca di comprensione. «Nessuno se lo aspettava!»

«Calmatevi.» Anacostia si intromise porgendo i palmi delle mani in segno di pace. Chi era presente avvertì un magnetismo irresistibile promanare dalla voce e la fisicità della Quartermaine: non poté evitare di guardarla e zittirsi, pervaso da un senso di calma piacevole. «Ecco. Così» proseguì lei con fermezza. Abbassò le braccia. «Se perdiamo la testa, è finita. Byron» chiamò il Telepata. «Tu sai cosa fare. Rintraccia quel che sai trovare solo tu, memorizzalo e poi dimmelo. Tally,» proseguì cambiando soggetto, «basta cercare alla rinfusa. Io e te collaboreremo con Adil... anche se non mi fido ancora completamente dei suoi metodi, è l'unica chance che abbiamo di trovare gli altri. Adil?»

Il ragazzo si fece avanti, le mani in tasca e l'aria serena, mitigato dalla Pacificazione della Quartermaine. «Certo. Va bene.»

«E io?» domandò Hilary impaziente, sbucando fuori da dietro la figura di Tally.

«Tu ci proteggerai mentre saremo intenti nelle nostre concentrazioni, Saint» ordinò Anacostia. La sua severità, motivata da saggezza e non da superbia, non ammetteva lamentele.

Ognuno provvide ai propri compiti: Byron prese a perlustrare lo spiazzo erboso sul limitare del precipizio ove si trovavano, spostandosi dall'orlo del baratro sino al folto degli alberi sul lato opposto, con occhi che divoravano ogni elemento visibile. Hilary si dispose al centro dello spiazzo, allargò le braccia e, avvolta da una lucente aura dorata, fece divampare due fiammelle nelle mani aperte - era una Dominatrice del Fuoco Fatuo. La capogruppo, invece, seguita da Adil e Tally, trovò uno spazio semicircolare e pianeggiante dove avrebbero potuto stare comodi. Laggiù Adil, col permesso di Anacostia, disse loro di sedersi a terra con le gambe incrociate e di prendersi per mano.

«Adesso ho bisogno che voi usiate i vostri Doni, ma non per cercare qualcosa lontano» spiegò. «Aprirò un portale qui nel mezzo del cerchio. Voi dovrete dirigerci dentro la vostra attenzione.»

«Un portale?» chiese la Quartermaine, affamata di ciò che non conosceva.

Adil annuì. «Si tratta di un processo che richiede parecchia energia. Ma prima, devo dirvi che... posso entrare in connessione con le forme vitali che mi circondano.» Fece una pausa. «Avverto quali e quante forme di vita ci sono intorno a me» specificò. «Ma non posso conoscere il punto esatto in cui si trovano, solo l'intensità della forza vitale. Quello... sarete voi a farlo.»

«E perché il portale?» insistette Anacostia. Tally se ne stava zitta, assumendo una strana espressione rapita che aveva un non so che di buffo.

«Dobbiamo mescolare i nostri poteri. Creo un nodo gravitazionale... ah, forse non ha nemmeno senso che ve lo spieghi.» Adil si interruppe abbassando il volto.

«Oh, no. Prego. Continua» disse la capogruppo, indecifrabile.

«Con l'adeguata concentrazione, posso manipolare il tessuto dello spazio-tempo    per creare un minuscolo punto di convergenza energetica. Chiunque lo guardi si sente assorbito al suo interno e può effettuare operazioni in luoghi anche molto lontani senza spostarsi. E' un modo per mescolare i nostri Doni, noi Tarim lo facciamo spesso per collaborare. » C'era qualcosa di velato, sottile e difensivo nel modo in cui ora Adil guardava la Quartermaine; ma svanì quasi subito dopo. «Quello che farò io è un portale basilare, niente di eccezionale. Siete pronte?»

«Si» fece Anacostia.

Tally annuì. «Assolutamente si.»

«Non siete abituate, quindi sarà un po' strano. Potrete percepire in buona parte ciò che sperimentano gli altri membri del cerchio, perché nel momento in cui vi focalizzerete sul portale e dirigerete al suo interno il vostro potere, quello verrà condiviso con gli altri» disse ancora Adil, deciso a chiarire ogni cosa coi suoi soliti modi spicci ma gentili. «Quindi otterremo la risposta assieme, tutti e tre, non soltanto uno di noi. Capito?»

Le altre due annuirono: Tally a rilento, Anacostia sicura di sé.

«Bene. Allora... cominciamo. Chiudete gli occhi e rilassatevi, non dovete fare altro. Quando sarà il momento ve lo dirò. Non avrete bisogno di aprire gli occhi, sentirete il portale e saprete come dirigere il Dono.»

I tre si fecero silenti e condivisero la presenza altrui, mani nelle mani, il respiro calmo. Adil pareva quello più preso da un certo impegno, con la fronte un po' corrugata. In quel mentre prese a piovere; dapprima piccole gocce aggraziate, appena percettibili, che si fecero in fretta grossi e pesanti goccioloni rovesciati dalle nuvole scure in un acquazzone tropicale. Le fiamme di Hilary non ne risentirono, essendo Fatue; Byron invece si lamentò tra sé e sé, procedendo con la sua ricerca.

Dopo un minuto buono di concentrazione, in mezzo a Tally, Anacostia e Adil comparve un globo nero della grandezza di un mandarino; passarono altri secondi e quello si espanse ritmicamente fino a raggiungere la dimensione stabile di un cocomero.

«Ora» dichiarò Adil, senza sollevare le palpebre.

Le due donne che erano con lui mutarono il ritmo e la modalità del respiro, un chiaro segno che stavano esercitando il proprio Dono. Adil aveva ragione: entrambe ''sentivano la gravità'' del portale davanti a loro. Dirigere il Dono al suo interno ne fu quasi una conseguenza naturale e priva di sforzo.

Zuppi ormai da cima a fondo, in loro si svegliò la consapevolezza unitaria di ciò che ognuno dei tre stava provando: Tally priva di peso, proiettata intensamente in avanti verso un punto estremamente focalizzato e minuscolo; Anacostia acuta, in volo come un rapace, aggraziata, salda e capace, l'attenzione tesa esattamente dove ne aveva bisogno; Adil, invece, era strano, fatto di acqua e fuoco assieme: senza forma rigida, capace di scorrere e placare ma anche una forza intangibile che trasformava ciò con cui veniva a contatto. Poco Tally e Anacostia sapevano di lui se non che veniva dalla stessa Capitol City e si era proposto volontario per la prima volta in assoluto quell'anno agli Hunger Games, vista l'occasione speciale. Faceva parte di una famiglia di Mutanti detta Tarim, informazione venuta alla luce poco prima che le operazioni della Alder si dispiegassero. Avrebbero voluto conoscerlo meglio, direttamente o meno, ma ora che Tally e Anacostia erano connesse intimamente a lui non avevano accesso alla sua memoria, solo alla percezione del suo Dono.

Le essenze dei tre membri del cerchio si fusero convergendo al centro esatto del portale, e divennero una.

Dapprima tutto fu nero e vuoto. Ma poi Adil respirò, e il nero si accese di una moltitudine di scintille rosse, rosa, fucsia e viola di svariate dimensioni che danzavano, camminavano, volavano, zampettavano da ogni parte in maniera confusa lasciando una scia luminosa dietro di loro. Allora Anacostia, grazie ad Adil, seppe che vi era un agglomerato di forze vitali più splendente delle altre in direzione nord-ovest, dove la foresta lasciava il posto alla pianura; avrebbe voluto spingersi più in là, ma aveva raggiunto il proprio limite. Fu quindi la volta di Tally, che ringraziò intimamente la capogruppo e si proiettò avanti, molto ma molto più in fondo di lei. Laggiù le macchie rosa elettrico scintillavano a foggia di esseri umani sospesi nel vuoto scuro. E li agganciò. Li vide. Seppe con certezza dove si trovava il resto del gruppo.

L'essenza si ritirò su se stessa fino all'imboccatura del portale e da lì si scisse in tre Doni separati. Tally, Adil e Anacostia tornarono ad essere loro stessi; il portale si chiuse immediatamente con uno schiocco, coperto dal rumore della pioggia; Adil lasciò cadere la testa sul petto, ansimante.

«So dove sono!» esclamò raggiante Tally sollevando le palpebre. Capelli e vesti erano ormai appiccicati al suo corpo per via dell'acqua che veniva già copiosamente dal cielo, e lo stesso si poteva dire di Anacostia e Adil.

«Lo sappiamo» le ricordò la donna di colore seduta accanto a lei. «Grazie, Craven.» Ma subito si rivolse ad Adil, che pareva veramente stremato. «Tutto a posto?»

Il giovane annuì, ma non stava bene per niente. Aveva bisogno di riposo. La pioggia gli scorreva sulla testa e la faccia gocciolandogli dal naso e il mento in piccoli rivoletti. Faticava a tenere il busto eretto.

«Craven, ora che conosci la posizione degli altri, Proiettati verso di loro, per favore. Io mi occupo un attimo di lui» tagliò corto Anacostia, per poi chinarsi verso Adil e posargli una mano sul petto.

Tally si alzò senza spiccicare parola. Superata Hilary, che vegliava sull'incolumità ancora intaccata del gruppo, raggiunse il bordo del crepaccio, oltre il quale vi era roccia irta e scoscesa con qualche cespuglio secco isolato, giù giù fino alla boscaglia fittissima. Si fece consigliare da Byron su dove mettersi affinché non rientrasse nella visuale delle telecamere; orientata in direzione nord-ovest, si Proiettò.

 

Lasciato il corpo, Tally si trovò subitaneamente all'interno di uno stretto stanzino cubico in cemento. Vi era una panca grezza da un lato, una lampada elettrica sul soffitto che emanava una luce lugubre color arancione e quella che dava l'idea di essere una mappa ripiegata alla rinfusa lasciata su una mensola a fianco di una porta aperta. Da questa si vedeva un lungo corridoio buio che dava su un'altra apertura, anch'essa apparentemente spalancata a giudicare dalla luce grigia esterna. Cosa ci fosse al di là, restava velato alle attuali capacità percettive di Tally. Voltandosi, però, notò Libba seduta per terra dentro la stanza, con la schiena dritta poggiata contro la parete. Fissava il vuoto tenendo le dita delle mani incrociate, come in preghiera.

Libba? disse Tally. Ma non aveva voce; quella uscì debolmente dalle labbra socchiuse del suo corpo, in cima alla bocca del vulcano, molto lontano da lì.

Qualcuno si avvicinava: Gerit entrò nella stanza. Tally ebbe un tuffo al cuore nel trovarselo a meno di un metro di distanza. O meglio, il suo corpo lo ebbe; lei lo percepì come una scossa elettrica che la fece vibrare, spingendola a perdere per un breve istante la Proiezione. La visuale le si offuscò un istante.

«Libba, ti avevamo detto di uscire. Cosa stai facendo qui da sola?» disse Gerit, senza staccarsi dal varco della porta. «Stai bene?» chiese, più incerto.

Ma Libba non rispondeva. I suoi occhi erano aperti. Ora che ci faceva caso, Tally notò le labbra di lei muoversi piano, come nel pronunciare dei bisbigli.

«Libba?» continuò a chiamarla Gerit, che stavolta si avvicinò e le toccò una spalla: quel gesto fece riscuotere la ragazza, che con un brivido e un singulto tornò in sé. Tossicchiò.

«Cosa vuoi?» disse stizzita a Gerit.

«Non avevi un bell'aspetto» rispose il ragazzo, un po' più freddo di prima. «A momenti Abigail e Raelle faranno ritorno. Dobbiamo andarcene da qui.»

«Si, me l'hai già detto» si lamentò Libba. Si alzò e si diede delle pacche sui pantaloni per rimuovere la polvere di cemento. «Stavo cercando di rintracciare gli altri. Credi che sia una buona cosa abbandonare il bunker? Gli Strateghi non sanno che c'è. E' l'unico posto sicuro. L'unico» sottolineò Libba cercando di infilzare Gerit col proprio sguardo.

Gerit non rispose subito. «Noi ce ne andiamo. Quello che dovevamo fare qui, lo abbiamo fatto. Restare è rischioso, potrebbero scoprire il bunker da un momento all'altro.» Ritornò verso la porta aperta. «Tu vieni con noi?» domandò; ma era una domanda che non attendeva risposte. Diede le spalle alla ragazza e scomparve.

Tally assistette all'allontanamento di Gerit con la sensazione che qualcosa le venisse strappato di dosso, e a Libba che si sporgeva per guardare nel corridoio. Quando lui fu abbastanza lontano, lei sbuffò e roteò gli occhi, per poi incrociare le dita delle mani ancora una volta e farle scrocchiare. Sciolse le spalle e riassunse quella posa che le dava l'aspetto di qualcuno che prega, ma ora in piedi. Lo sguardo le divenne vacuo e prese a cantilenare parole mute fra le labbra quasi chiuse. Tempo di qualche istante, poi staccò le mani, tornò presente e lasciò anche lei la stanza.

Ora non c'era più nessuno assieme a Tally nel bunker; avrebbe tanto voluto spostarsi per seguire Libba e rivedere Gerit, ma questo implicava il dover tornare al proprio corpo e Proiettarsi ancora. Ed era esattamente ciò che intendeva fare.

Interruppe la Proiezione. Tirata indietro da una forza simile a quella di un grosso elastico, viaggiò alla velocità del fulmine abbandonando il bunker.

 

Tuoni cupi. Tuoni cupi e profondi, lunghi.

Tally si era Proiettata più a lungo di quanto avesse creduto, oppure la sua resistenza fisica cominciava a diminuire: la testa le vorticava e faticava a mantenere l'equilibrio. Il suo spirito non era ancora ben connesso al corpo. Precipitò di lato e buttò le mani per non battere la testa. Strizzò gli occhi, che ancora non vedevano, annacquati dalla pioggia. Una cosa sola sapeva: l'udito già le funzionava bene, stranamente, perché c'erano dei rombi bassi e ripetitivi molto forti che facevano scuotere la terra sotto i suoi piedi.

Un paio di mani fredde e salde vennero a stringerla e la aiutarono a rimettersi in piedi.

«Puntuale, eh, Craven?» gemette la voce di Anacostia nel suo orecchio. Chissà come, la sua presenza aiutò Tally a riacquistare le facoltà del corpo più in fretta. Aveva ancora la nausea, ma i cinque sensi si erano assestati.

Capì di essere rivolta verso la foresta, pressappoco nel punto da cui si era Proiettata; la luce del giorno era diminuita. Anacostia, che rientrava nella periferia del campo visivo di Tally sulla destra, stava guardando invece qualcosa nella direzione opposta alla sua. Tally si voltò piano a bocca aperta, coi capelli sciolti che le svolazzavano davanti al viso: la coda di cavallo le si era sciolta. Constatò soltanto allora che tirava un vento dalla forza micidiale.

Al di sopra del cratere del vulcano, pressappoco al centro di questo - anche se nessuno aveva esaminato cosa ci fosse al di là del rado boschetto che fiancheggiava il precipizio, eccetto Byron - il cielo stava ''scendendo''. Non c'era altro modo di spiegarlo. Le nuvole si stavano piegando, contorcendo, stirando e avvolgendo in maniera surreale su loro stesse, alcune nere come pece, altre blu scuro e altre ancora di un grigio topo uniforme, assumendo la forma di un cono appuntito verso il basso. Era da lì che provenivano i tuoni, le gocce di pioggia taglienti, il vento e anche le raffiche di fulmini, ora che Tally ne osservava le molteplici scariche spaventose.

Gli alberi frusciavano e si piegavano impazziti, rami e sassi rotolavano gettandosi nel vuoto alle sue spalle. Hilary, Adil e Byron erano assiepati vicino a Tally e Anacostia con l'intenzione chiara di stringersi l'un con l'altro, ognuno col naso all'insù e l'aria smarrita.

Il terreno fremeva per davvero; Tally non se l'era immaginato. Il vulcano brontolava.

«Cambio di programma! Andiamocene!» gridò più forte che poté Anacostia.

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Capitolo 6
*** Premonizione ***


6 - PREMONIZIONE

 

Libba fu finalmente fuori dal bunker. La luce la accecò e dovette alzare una mano per agevolarsi; Gerit e Glory non c'erano.

La vegetazione stretta intorno a lei su ogni lato frusciava con fragore per il vento dell'acquazzone dai toni tropicali. Gocce enormi piombavano chiassose dal cielo di un grigio bluastro minacciosissimo. Disorientata, ma con vigore in corpo, Libba prese un boccone d'aria a labbra aperte e gridò i nomi dei compagni: ma la sua voce si perse nel fragore della pioggia, perché nessuno rispose.

Un brivido iniziò a salirle lungo la colonna vertebrale, lentamente. Cercò di reprimerlo controllando la respirazione, come aveva imparato al campo d'addestramento anni addietro. C'era un'unica cosa da fare: attendere che arrivassero i compagni. Avventurarsi in solitaria fuori dal bunker equivaleva a una morte quasi certa, o per lo meno molto probabile, ragionò Libba, e questo non era contemplato nel piano che i Tributi di quell'anno avevano progettato guidati dalla Alder. Dovevano stare insieme, compatti, infischiarsene delle telecamere il più possibile e per prima cosa andare al bunker; lì avrebbero capito come comportarsi, gli era stato assicurato. Ma già il fatto che si fossero separati in due gruppi all'inizio del Gioco aveva mandato a monte, o di certo rallentato, il corso del piano.

E il suo gruppo aveva capito come comportarsi, nel bunker? Se la memoria di Libba non la ingannava, prima di addormentarsi aveva visto Abigail indaffarata con una mappa... dove l'aveva trovata? Era già nel bunker quando erano arrivati? Si, per forza... nessuno poteva procurarsi una mappa dell'Arena a meno che non si ingraziasse uno Sponsor, e l'ultima cosa su cui loro potevano contare quell'anno era uno Sponsor. La mappa doveva essere stata messa lì dalla Alder quando aveva programmato di nascosto il bunker. Ma era stata abbastanza astuta da nasconderlo agli occhi onniveggenti degli Strateghi e dei programmatori dell'Arena?

Libba aveva smesso di respirare come si deve, travolta dalle quelle riflessioni, ed ora le formicolava il corpo e la punta delle dita delle mani le tremavano. Digrignò i denti, scurendosi in viso. Lei era Libba Swythe, non un cadetto qualsiasi. Non un Tributo che è finito nell'Arena piagnucolando, ma un orgoglioso Tributo del Distretto Uno. La sua prima volta si è offerta volontaria. Quella seguente no, ma era un'altra storia. Libba riprese la sua tecnica di rilassamento abbassando e controllando il ritmo della respirazione, si voltò e imboccò il corridoio che conduceva all'interno del bunker. Arrivata a metà della sua lunghezza, però, si fermò; non perché stava cominciando a calmarsi, ma perché le era parso di udire delle voci chiamarla da fuori. Girò il capo di scatto, allarmata, e fece dietrofront spiccando lunghe agili falcate.

«Libba! Libba!»

Si, la stavano proprio chiamando. Voci maschili e femminili assieme, forse di Abigail e Gerit. Da quale direzione?

«Sono qui!» urlò lei, mettendo le mani ai lati della bocca per amplificare la voce. «Al b...» Stava per dire ''al bunker'', ma si trattenne in tempo. Doveva restare un segreto alle telecamere e ai microfoni. Che cavolo poteva dire, come alternativa?

Fu più forte di lei; fece un passo, poi un altro. Un altro ancora. Iniziò a discostarsi dalla porta squadrata aperta del bunker, dissimulata dal muro di rampicanti, per inoltrarsi nella boscaglia innaturale dell'Arena. «Dove siete?» chiamò mentre scostava le fronde che le si    paravano davanti.

Le voci avevano smesso di chiamarla. Poteva udire chiaramente dei passi concitati calpestare il sottobosco. Sempre più vicini. Erano rapidi. Frettolosi...?

Una minaccia incombeva. Ogni pelo sul corpo di Libba si rizzò ed ella venne folgorata da una Premonizione, il suo Dono: uomini vestiti di nero, con caschi muniti di visori e manganelli elettrici, sbucavano fuori dai cespugli circondandola, la immobilizzavano e iniziavano a colpirla fino a... ucciderla. Lo vide con spietata chiarezza nella sua mente, due secondi durante i quali un breve cortometraggio si impresse a fuoco sopra all'immagine che gli occhi fisici le offrivano.

Nel momento in cui la Premonizione cessò e Libba sbatté una volta le palpebre, seppe che era già circondata. Ma quei due secondi le avevano salvato la vita.

Si abbassò fulminea per evitare il tentativo di acciuffarla di chi aveva alle spalle. Piantò le mani a terra, allargò una gamba rizzandola e, con una mezza rotazione, fece lo sgambetto all'aggressore. Allo stesso tempo sapeva perfettamente, con precisione matematica, quando e dove avrebbe ricevuto i seguenti attacchi: da davanti, poi a sinistra di tre quarti, due a destra e infine di nuovo quello alle spalle, assieme a un altro, l'ultimo a sopraggiungere. Erano in sei in totale.

Estrasse il pugnale da caccia dal fodero appeso alla cintura e... oh, no. Era senza pugnale. Perché?

Un figuro vestito interamente di nero, alto due metri come minimo, con in testa un casco lucidissimo coperto di gocce luminose, le si parò davanti.

Ora Libba doveva cavarsela a mani nude, privata chissà come del proprio pugnale. Avrebbe dovuto muoversi diversamente. Ma non sarebbe stato un problema, sapeva come, dove e quando.

Libba si spinse in avanti, china a terra, una pantera pronta all'attacco, fiduciosa di ciò che sapeva.

Contro ogni Premonizione, una mano la afferrò per un braccio e la strattonò, bloccandola. Poi un colpo stordente la raggiunse alla base del collo, in mezzo alle scapole, e Libba cadde bocconi, frastornata dalla scossa elettrica. Finì con la faccia spiaccicata contro l'erba bagnata e le lunghe e dure foglie secche degli strambi alberi di quel posto, mescolate al terriccio fangoso.

Il suo corpo era paralizzato. E un dubbio crebbe nella sua mente: cosa diavolo era successo? Perché la Premonizione non la aveva aiutata come al solito? Era infallibile. E dove diavolo era finito il suo pugnale?

Eccola un'altra volta bloccata, sul punto di morire. Ironia della sorte. Forse Abigail non avrebbe dovuto salvarla, pensò Libba con rabbia. Forse aveva solamente posticipato l'ora inevitabile della sua fine. Ma... gli aggressori non la stavano colpendo più. Non aveva ricevuto altre scariche dei manganelli, dopo la prima.

Con grande sforzo, Libba alzò il busto e si guardò attorno. La pioggia le batteva sulla faccia, ma gli effetti della confusione se ne stavano andando e udì i gemiti e le grida dei propri compagni. Quelli veri, stavolta?

Qualcuno apparve con le mani aperte verso di lei. Libba si preparò a difendersi, ma dopo un istante capì che era Glory, era davvero Glory, che si abbassava e poggiava le dita a terra per evocare una barriera difensiva.

«No! Posso muovermi!» strillò orgogliosa Libba, alzandosi a tentoni a quattro zampe e scivolando sul terreno fangoso. Ma Glory non rimosse la barriera e la ignorò. Allora Libba si guardò intorno.

Abigail si era Potenziata e stava sollevando uno degli uomini neri come fosse un pupazzo, per gettarlo più in là. Raelle teneva un braccio proteso in avanti e due degli aggressori di fronte a lei vennero sbalzati via, travolti da un'ondata fosforescente di luce bianca. Gerit venne in suo soccorso e, sintonizzato con la natura grazie al proprio Dono, pilotò i rampicanti e ogni altra pianta nelle vicinanze per strangolare, trattenere e ferire i nemici.

Dentro la barriera protettiva, Libba aveva abbassato inconsciamente la mano lungo il fianco: fu così che avvertì la presenza del pugnale nel suo fodero, alla cintura. Era lì. Era sempre stato lì. Quindi ce l'aveva!... e capì.

Rivolse un'occhiata furiosa a Glory. «Lasciami-uscire» le intimò con cattiveria. Libba ebbe buon esito; la barriera scomparve e lei fu libera di scatenarsi.

Mulinò come una furia raggiungendo Abigail. Estrasse il pugnale – nonostante adesso non lo percepisse di nuovo - e colpì letalmente alle spalle l'uomo nero che l'altra stava per prendere a pugni. La Premonizione seguente fece spostare il suo corpo, fluido e implacabile, verso Raelle e Gerit, e anche qui diede libero sfogo alla creatura combattiva che viveva in lei; uccise gli uomini imprigionati dai rampicanti a terra, rapida e incontrastata, anche se quelli sembravano già incoscienti.

Gli aggressori vennero eliminati tutti. I cinque ragazzi, stanchi ma vittoriosi, giacevano vicini, seduti o inginocchiati a riprendere fiato.

«Hanno capito cosa stiamo facendo» esordì Abigail col fiato corto. «Non c'è altra spiegazione.»

«Hanno voluto eliminarmi. Fin dall'inizio» ringhiò Libba al suo fianco, infilando il pugnale ripulito dal sangue nel suo fodero. Aveva ancora la battaglia stampata in faccia a deformarle i lineamenti. «Bastardi Strateghi.»

«Non dobbiamo farci prendere dallo sconforto» si intromise Gerit, assai provato anch'egli ma ancora in grado di stare sulle gambe. «Se rimaniamo uniti, nulla può andare storto. Come ha detto la Generale.»

«Oh, non sono sconfortata, pianticella» lo rimbeccò Libba inarcando un sopracciglio. «Voglio solo farla finita il prima possibile con questa maledetta storia.»

Abigail alzò una mano e la poggiò sull'avambraccio di Libba; quest'ultima ebbe l'impulso di scostarsi, ma lo mitigò e ingoiò un boccone d'aria. Guardò Abigail e annuì - sorridere sarebbe stato troppo. «Grazie... per avermi aiutata» disse, rivolta all'intero gruppo. «Come avete fatto a trovarmi in tempo?»

«Non lo sapevamo. Siamo semplicemente arrivati» fece Abigail, tornando anche lei in posizione eretta, alle sue umane dimensioni. Gerit e Glory erano d'accordo. Raelle, invece, si trovava un po' più lontana e sembrava curiosare fra le fessure di un imponente arbusto. «Ma forse avresti potuto cavartela da sola, Libba. Questa volta» concluse Abigail.

Si stava divertendo? Libba analizzò il viso dell'amica-rivale. Non sarebbe comunque riuscita ad arrabbiarsi con lei. Accennò un sorriso. «Si. Se non avessero avuto dei Distorsori di Percezione integrati nel casco, forse si. Mi hanno confusa facendomi credere di essere disarmata e quindi hanno resa vana la mia Premonizione.»

«Distorsori di Percezione... nemmeno sapevo che esistessero» ammise Glory torcendosi le mani in grembo. «Ma dove li fanno? In quale Distretto?»

«Ha importanza?» fece Gerit per tagliare corto. «Siamo sani e salvi. Ora non ci resta che proseguire col piano.»

«Il piano lo hanno ormai capito!» fece Abigail in tono sconfortato e diretto. «Non so come, ma... »

Il suo parlato venne interrotto da un tuono spaventoso che fece fremere il cielo e la terra. Raffiche di luce balenavano tra le nuvole scure.

«Un vulcano!» strepitò Raelle tornando da loro. Correva, i corti capelli biondi pesanti per l'acqua piovana che le coprivano mezzo viso. Dove andava? Li superò e andò verso la porta del bunker. «Un vulcano!» ripeté affannosa.

«Vulcano? C'è un vulcano?» domandò Gerit, come se il fatto che ci fosse per davvero non consistesse di un pericolo bensì di una fonte d'entusiasmo.

«Prendo la mappa!» disse l'eco della voce di Raelle dal fondo del tunnel che conduceva al bunker.

Le facce di Abigail, Gerit, Glory e Libba si volsero all'unisono verso sud-est: il muro di cespugli ondeggiava aprendosi in più punti, squarciato dal vento, ed era possibile vedere dei fulmini laggiù cadere incessantemente nel convergere in un unico punto, le nuvole piegarsi e incunearsi per animare un tornado raccapricciante.

Si udì un boato da far accapponare la pelle, un tremore che partì dalle fondamenta dell'Arena e risalì vibrando verso il cielo. Una scossa fece perdere l'equilibrio ai ragazzi del bunker, che dovettero reggersi l'uno all'altro per non cadere. E il vulcano eruttò: una nube nera incastonata di lapilli e getti incandescenti nascose il cielo.

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Capitolo 7
*** Un Bene Superiore ***


7 - UN BENE SUPERIORE

 

Gli uccellini cinguettavano. Le acque di un laghetto sonnecchiavano placide all'ombra di schiere di betulle e salici abbarbicati alle sue sponde. Il cielo azzurro sembrava un campo sterminato senza limiti né definizioni, sgombro di nuvole.

Non c'era corpo, né pensiero. Nemmeno desiderio. Una calma innaturale regnava dentro e fuori di lei, e per un bel pezzo rimase a contemplare quella visione serafica.

Con grazia, una presenza le si fece da presso, silenziosa. La sedia a dondolo smise di oscillare e Scylla guardò di lato.

Sarah Alder era di fianco a lei. Alta, fiera, rimirava il lago. Come al solito i capelli erano tirati indietro in una coda marziale, ma stavolta la Generale indossava un abito piuttosto semplice rispetto alle sue abitudini: un vestito con gonna morbida e ampia, lunga sino al pavimento, color panna costellato di fiori gialli. Le dava un'aria primaverile e fresca che stonava decisamente col suo portamento.

«Ramshorn» la salutò, senza voltare il capo. «Ti godi il panorama?»

Scylla si diede una piccolissima spinta con le punte dei piedi nudi e la sedia riprese a dondolare. «Mi sembra il minimo, dopo quello che ho fatto. Per lei.»

La Alder contrasse la mascella e abbassò lo sguardo. «Per noi. Per tutti noi. Non dimenticarlo» la corresse. «Rapporto, Ramshorn.»

Scylla spirò dalle narici, contrariata dalla formalità della Generale anche in quel contesto. Sarebbe bastato anche solo un ''come stai''. «Ogni cosa è andata come previsto. Mi sono tirata fuori dal Gioco appena possibile.» La sua voce era macchiata da un non so che di sporco, di amaro. «Immagino di aver fatto ciò che mi aveva chiesto.»

«Un sacrificio che l'intero mondo non dimenticherà mai» esclamò pacata, ma trionfante, Sarah Alder.

Scylla mugugnò. Tirò su le gambe e si accoccolò sulla sedia dondolante, abbracciandosi le ginocchia. «Le stesse parole della Presidentessa all'inizio dei Giochi.»

Le due donne non si guardavano, ancora, entrambe assorte sul lago immobile.

«Verremo a dirti quando potrai tornare attiva» disse la Alder come nulla fosse. «Riposa.»

«E se io volessi fare di testa mia?»

La Generale inclinò il viso su Scylla per la prima volta, glaciale. L'altra evitava il suo sguardo, apparentemente calma. «Immagino che sia controproducente. Perché mai vorresti farlo? Solo uno sciocco, un folle o un ignorante lo vorrebbe.»

Scylla si umettò le labbra e, soltanto allora, ricambiò lo sguardo di Sarah Alder, facendosi di una serietà più rigida. «L'Amore è folle, sciocco e ignorante a volte. Generale.»

Una debole brezza venne a soffiare. Le chiome degli alberi intorno al lago brillarono d'argento e di bianco e l'acqua del bacino si increspò appena.

«L'amore non è una variabile che possiamo permetterci, nel nostro lavoro» ribatté più secca che mai la Alder, tornando a squadrare il lago. Staccò le mani, che teneva unite dietro la schiena, e le sollevò incrociando le braccia davanti al petto, sotto la scollatura dell'abito panna. Nelle parole che pronunciò dopo, però, l'acidità si disperse in un tono più caldo. «Non lo dico perché lo presumo, o per un dolore mai sanato, come potresti supporre erroneamente. La mia anzianità è frutto di scelte, Ramshorn, non solo di un Dono ottenuto alla nascita. Avrei potuto soccombere in innumerevoli occasioni in passato, ma sono stata in grado di operare sempre al meglio, mettendo da parte certi sentimenti e facendo la cosa giusta. Per un bene superiore.» La Alder dilatò le narici respirando a fondo, e sciolse leggermente la rigidità delle spalle. «Ma ti comprendo, se mi giudicherai per questo. E non ha importanza.»

«Ognuno ha le sue scelte da compiere.» La risposta di Scylla giunse non appena la Generale ebbe smesso di parlare, quasi non aspettasse altro.

Sarah abbassò gli occhi sulla sua nuova apprendista come se potesse leggerle il pensiero. «Spero che non mi deluderai, Ramshorn. Ti ho scelta per un motivo.»

«Perché sono una ragazza innamorata?» la sfidò Scylla.

«Basta!» esplose la Alder: strinse lo schienale della sedia a dondolo per fermarne il moto oscillatorio. «Ne ho abbastanza. Devi fare come ti dico. E' per il tuo bene, il nostro, quello di tutti. Non capisci qual'è la posta in gioco? Qui non si tratta solo di te e della tua fidanzatina! La pace dell'intero mondo dipende dal tuo prossimo incarico. E tu hai voglia di giocare?»

Scylla le rispose per le rime, anche se con un ritardo di un paio di secondi. Saltò fuori dalla sedia. «E lei mi sottovaluta, Generale! Se l'è proprio dimenticato, come ci si sente, vero?» urlò, fuori di sé. «Forse avrebbe dovuto scegliere con più accortezza!» Detto ciò si allontanò correndo, con indosso quel paio di pantaloni corti e l'enorme t-shirt bianchi che le avevano dato dopo il rientro alla base. Percorse il pendio erboso che la separava dalle sponde del lago, rallentò, si tolse di getto gli abiti e si gettò in acqua furiosamente.

Sarah Alder la osservò finché le onde concentriche che Scylla aveva provocato sullo specchio d'acqua non si placarono. Si guardò intorno: la pedana in legno, la tenda di foglie di palma, la sedia a dondolo: era tutto perfetto. Avevano fatto un lavoro eccezionale. Si portò il polso alle labbra e parlò all'orologio: «Venite a prenderla. E' pronta.»

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Capitolo 8
*** L'Eruzione ***


8 - L'ERUZIONE

 

Il vulcano era sul punto di eruttare. Un disastro ambientale di proporzioni apocalittiche si stava svolgendo davanti al gruppo capitanato da Anacostia Quartermaine: gli Strateghi dovevano proprio volerli eliminare in fretta dando il meglio che potevano in un colpo solo. Mai nulla di simile era accaduto nei Giochi precedenti.

«Tutti qui!» strillò forte Anacostia. I ragazzi si fiondarono compatti tra le sue braccia spalancate.

Tally, scompigliata come non mai, era incapace di staccare gli occhi dal tornado irto di saette vorticanti. Hilary era letteralmente in preda al panico, con una faccia mai vista prima d'allora. Byron, pallidissimo, sembrava colmo di uno smarrimento a lui sconosciuto. Adil teneva le sopracciglia aggrottate e gli occhi chiusi a una fessura, apparentemente perplesso oppure molto spossato.

«Tenetevi forte!» furono le ultime parole di Anacostia, prima che un vero e proprio terremoto spezzasse loro le gambe. Dalle profondità dell'Arena - se aveva veramente delle profondità - provenne un grugnito, come se la terra stessa si lamentasse. E mezzo secondo dopo fu il caos. Anacostia riuscì ad avvolgerli in tempo dentro una sfera trasparente grande giusto il minimo da contenerli, scaturita da uno dei suoi Doni.

Il boschetto si disintegrò, ingoiato da un'onda nera che avanzava verso di loro. Vennero avvolti da questa e spazzati via. Il fracasso era attenuato dalla sfera energetica di protezione di Anacostia, la quale rispose all'onda d'urto che sopraggiungeva come una pallina da ping pong colpita da una racchetta. Schizzarono via a gran velocità.

Nessuno si astenne dall'urlare. Nemmeno la Quartermaine. Roteavano all'impazzata, e per quanto si sforzassero di tenersi saldi sbattevano uno contro l'altro incontrollatamente, eccetto Anacostia che era costretta in qualche modo a mantenere gli arti superiori rigidi e perpendicolari al corpo per sostenere l'evocazione.

Sotto di loro, o almeno quello che doveva essere il sotto, si apriva il vuoto, una caduta di pressappoco un chilometro e mezzo che li separava dal suolo. Caddero. E caddero ancora. Impossibile capire cosa stesse dove, là fuori. L'unica certezza era che prima o poi avrebbero raggiunto una superficie contro la quale si sarebbero infranti.

 

E invece non si frantumarono da nessuna parte. Continuavano a muoversi, si, ma la rotazione della sfera rallentò; le loro grida disperate si placarono lievemente.

«Calmi!» implorò all'improvviso la voce di Adil. «Calmi, possiamo farcela! Possiamo farcela! Possiamo farcela!» continuava a ripetere, la voce più acuta del solito; egli non era più sballottato, ma attaccato alla parete curva della sfera con le mani e i piedi, rivolto verso l'interno dello spazio. Assomigliava a un insetto, messo così. I suoi occhi erano completamente bianchi.

A quel punto fu chiaro ai ''passeggeri'' che il loro mezzo di trasporto non era più in balia soltanto della forza d'urto che lo aveva sospinto inizialmente: se n'era aggiunta un'altra a pilotarlo, ad addolcirne l'andatura e guidarlo, sospingendolo chissà dove. Era come essere trasportati da una corrente.

Il sudore imperlava Adil da capo a piedi. Digrignava i denti scoperti, i lineamenti stravolti da uno sforzo sovrumano. Ciò ovviamente non sfuggì ad Anacostia: lo fissò, le sue pupille si espansero inghiottendo le iridi. Qualunque cosa ella fece, Adil lo sentì, perché la forza che modificava la traiettoria della sfera divenne più impetuosa.

A ogni modo, nessuno sarebbe stato in grado di impedire al panico di immischiarsi nella riuscita della loro impresa. L'atterraggio ebbe inizio prima di quanto si aspettassero, brusco e pieno di vuoti d'aria che portò i passeggeri della sfera a strillare ogni qual volta questi si presentavano. Le prime foglie sfrigolarono contro la superficie lucida e trasparente. Gli alberi li circondarono. Urtarono un ramo: la traiettoria rimase quella. Ne urtarono degli altri più grossi, e Adil gemette rumorosamente.

La Quartermaine chiuse le palpebre, abbandonando il capo scuro fra le spalle incurvate.

Adil si afflosciò spirando.

La sfera svanì, e i passeggeri caddero sparpagliandosi.

 

Tally ormai aveva finito il fiato e non avrebbe più potuto gridare nemmeno se lo avesse voluto. Al momento, l'unica cosa che il cervello le imponeva con estrema urgenza era di trovare un appiglio, o si sarebbe fatta molto, molto male.

Tese la mano per afferrare un ramo, ma quello si spezzò e lei si graffiò. Il buio notturno creato dalle nuvole temporalesche di certo non aiutava. Ci provò con un altro, ma era troppo robusto e la sua mano troppo bagnata. Scivolò. Tally ruotò fuori controllo all'indietro, mentre foglie allungate e taglienti la pungevano da ogni parte. Poi, durante la caduta rovinosa, una stretta poderosa le cinse una caviglia; lo stomaco le rimbalzò fino alla testa.

Ciò che la aveva afferrata la trascinò con sé. Qualcosa di caldo la avvolse intorno alla vita.

La caduta accelerò, gravata dal peso che tirava Tally verso il basso. Udì schiamazzi, altre urla, una delle quali vicinissima a lei. Doveva essere Hilary. In mezzo al suono dei rami che si rompevano ed il lamento delle foglie colpite dal vento e dalla pioggia, c'era quello di un respiro gutturale e ferino. Veniva dalla ''cosa'' che la stringeva.

Quella stessa ''cosa'' atterrò con un tonfo, senza che Tally ne accusasse il contraccolpo; anzi, venne deposta con cura.

Fu comunque traumatico raggiungere la terraferma. Le girava tutto. Fu dura accettare la meravigliosa verità di poter poggiare mani e piedi su una superficie solida: Tally rise e pianse assieme, raggomitolata, confusa, con il ventre contratto nel tentativo di interrompere i colpi di tosse e respingere la nausea. Strizzò gli occhi, ma contro la sua volontà il capogiro che la aggrediva le fece perdere i sensi.

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Capitolo 9
*** Al Sicuro ***


9 - AL SICURO

 

Lo scoppiettio di un fuoco accompagnò dolcemente il ritorno di Tally alla realtà.

Sapeva di essere supina e che nelle vicinanze ardesse un fuoco: ne intravvedeva alcune stille vorticare e spegnersi davanti a un vasto spazio nero.

Il tepore che la avvolgeva le disse con dolcezza di avere addosso una coperta. Inspirò a pieni polmoni, trattenne l'aria un attimo e capì di stare bene, molto bene; espirò l'aria dalla bocca e lasciò che le palpebre si richiudessero. Piombò nuovamente nel sonno in men che non si dica.

 

Venne svegliata da un tocco familiare sulla guancia.

Raelle.

Aveva sciolto le treccine che le adornavano quasi sempre metà del capo e i suoi capelli biondo chiaro cadevano fluenti ai lati del viso, circondandolo e conferendogli un'aria benevola e quasi angelica da quella prospettiva: sembrava emanare una luce bianca. Doveva essersi fatto giorno.

«Rae» disse mollemente Tally, con l'interno della bocca impastata dal sonno. «Rae?!» Un brivido la scosse. «Oh mio dio...»

Tally tirò a sé più forte che mai l'amica e la strinse, quasi a volerla assorbire nel proprio corpo. L'altra ridacchiò, il respiro soffocato contro la spalla di Tally, e ricambiò con altrettanta forza l'abbraccio.

«Non ci credo... sei viva» mugugnò Tally, gli occhi che preannunciavano lacrime. Non si era nemmeno sognata di immaginare Raelle priva di vita, ma adesso che poteva vederla e toccarla quell'idea aberrante le ardeva dentro, consumandosi da sola.

«Anch'io sono felice che sia qui» ribatté Raelle, mentre la sua presa si ammorbidiva, segno che voleva staccarsi. L'altra lo avvertì e la lasciò andare: e vide che il sorriso di Raelle era mitigato, affievolito da qualcosa.

«Mi dispiace. Così tanto» disse Tally senza perdere tempo. «Per...» Non voleva pronunciare il nome di Scylla.

«Sto bene» fece Raelle con fare rassicurante. «Non preoccuparti.»

Tally la guardò. Aveva profonde borse sotto agli occhi, e questi erano più gonfi del normale. Sembrava invecchiata: non ricordava avesse mai avuto quelle piccole rughe disseminate sul volto. Eppure continuava a sorriderle. Tally si sforzò di fare altrettanto, ma non ci riuscì appieno, così cercò di compensare stringendole una mano.

«Dove siamo?» domandò.

«Al sicuro. Puoi stare tranquilla» le rispose Raelle con un cenno affermativo. «Hai dormito un sacco di ore. Come ti senti?»

«Bene, credo.» Era la verità; Tally si sentiva bene come non si sentiva da molti giorni: per la precisione da mesi prima, quando venne convocata dalla Generale Alder per ricevere indicazioni circa l'operazione che avrebbe dovuto soverchiare il sistema dei Giochi di Capitol City. Adesso nessun peso la opprimeva più al petto, riusciva a respirare comodamente e avrebbe giurato di essere priva di rigidità muscolari, fatto miracoloso.

Tally si alzò sui gomiti per scrutarsi attorno. Si trovava in un'ampia radura pianeggiante e spoglia, coperta di erba di un verde lucente e perfettamente circolare, chiusa lungo l'intera circonferenza da una barriera fittissima di alberi tropicali. Doveva essere di almeno duecento metri di diametro.

Qui e là vi erano persone stese, sedute, inginocchiate a riposare o a parlottare. Tally riconobbe o intuì le loro fattezze uno ad uno, sempre più in fretta... C'erano tutti! Un'euforia incontrollabile sgorgò dalla gola di Tally facendola ridere sommessamente.

«Vieni» disse Raelle porgendole una mano, ancora con quel sorriso a metà tra il falso e il sincero tra le gote. «Qualcuno vuole vederti.»

Tally non si fece pregare, ovviamente, e si lasciò condurre, senza accusare difficoltà nel sollevarsi sulle gambe. Con tutta probabilità doveva aver ricevuto delle cure durante il perché ogni segno di spossatezza o bruciore, graffi o contusioni se n'era andato.

Camminò confusa al seguito di Raelle attraverso la radura. Ogni qual volta uno dei Dodici la scorgeva, lei si impegnava nel ricambiare l'occhiata, che fosse stupita, radiosa o semplicemente amichevole. Aveva fin troppe domande a riempirle la testa ed era certa che ben presto le risposte sarebbero arrivate; al momento non importava riceverle, le bastava sapere che stavano tutti bene. Quasi, tutti.

Tally superò Gerit che dormiva, sfiorandolo coi piedi nudi - qualcuno le aveva tolto gli stivali -, accanto al quale giaceva in ginocchio Hilary, in contemplazione del viso rilassato di lui. Quando rialzò lo sguardo, vide, in fondo alla radura, seduta su un grosso masso quasi fatto apposta a forma di poltrona, Abigail. Era accanto a un uomo massiccio con cui stava parlando. In quell'esatto istante però s'interruppe, come se avesse percepito lo sguardo di lei su di sé: girò la testa dalla sua parte, abbandonò il seggio e si mise a correre.

Si scontrarono e abbracciarono.

«Tal» fece piano Abigail, ad occhi chiusi. L'altra fece solo un gesto per invitare Raelle, lì accanto, a unirsi a loro. Tornarono così ad essere un trio dopo quell'unico, duro, doloroso primo giorno dei Settantunesimi Hunger Games. La bionda abbracciò entrambe e rimasero zitte a godere della loro vicinanza, finalmente riunite.

Si separarono.

Abigail prese la faccia di Tally con le mani e la voltò delicatamente da un lato e dall'altro. «Vedo che sei intatta» disse scherzosamente.

«Più o meno, si.» La voce di Tally era strascicata per l'emozione. «Tu come stai?» Evitava di proposito di guardare Raelle, perché era certa di sapere come lei si sentisse e non voleva infierire.

Abigail si strinse nelle spalle. «Come vuoi che stia? Uno dei Tributi favoriti come dovrebbe stare, secondo te?» ironizzò con le mani sui fianchi. «Sto benone. Tu, piuttosto. Mi è stato detto che ve la siete vista brutta, sul vulcano.»

Tally fece un sorriso stirato che nulla aveva di divertito. Non le veniva in mente niente da dire che avesse un senso: ripensare a quei momenti le era in un certo qual modo impossibile, come se ci fosse un muro fra il presente e i ricordi. Andò invece dritta al sodo. «Cos'è successo? Come faccio a trovarmi qui?»

Abigail la fissò e si umettò le labbra. «Seguimi.» Condusse Tally e Raelle alla pietra a forma di poltrona, che da vicino era molto più imponente di quanto non sembrasse. Su un lato era seduto il Padre Generale, un gomito sul ginocchio ed il mento barbuto appoggiato sul pugno chiuso. Indossava anche lui la tenuta da Tributo – messa piuttosto male, a dire il vero -    invece di uno dei suoi impermeabili stravaganti. Tally non si era ancora abituata a quel fatto.

Con aria pimpante l'uomo posò gli occhi su di loro e sorrise apertamente.

«Tally Craven!» esclamò con la sua voce baritonale. «Ti senti bene?»

Lei annuì.

«Immagino tu voglia delle risposte» fece il Generale, assaporando il silenzio che Tally sembrava ostinata a non rompere. «Bene. E' giusto che le abbia anche tu.»

«E' stato lui a salvarti» intervenne Abigail, con aria eccessivamente formale. Tipico di lei, quand'era in presenza di un superiore. «Vi ha visti precipitare dalla cima del vulcano dopo l'eruzione, stava volando in forma d'aquila in perlustrazione. Vi ha seguiti e acciuffati uno ad uno prima che cadeste.»

«Mutando in gorilla» soggiunse il Padre Generale. Nessuno conosceva il suo vero nome ad eccezione della Alder - precauzioni militari prese per sicurezza, probabilmente; si sapeva però che egli fosse un eccezionale Mutaforma, il migliore sulla piazza, un Dono Mutante che concedeva al suo fruitore di cambiare aspetto in qualunque razza animale esistente. Oltre a ciò, era un Pacificatore ribelle esperto a tal punto da essere considerato alla pari di Sarah Alder, quindi al comando del movimento di ribellione contro Capitol City insieme a lei.

Abigail era stata concisa ed efficace nello spiegare. Evidentemente lei e l'uomo dovevano aver raccontato quella versione dei fatti più di una volta. Se da una parte era infastidita di dover rivangare gli avvenimenti delle ore alle sue spalle, dall'altra Tally era affamata di sapere cosa, quando e come era avvenuto: doveva essere così chiaro agli altri che il Generale ricominciò a parlare senza che lei dovesse dire nulla.

«Sono stato attirato verso il vulcano a causa della calamità su di esso. Dopo avervi inseguiti e presi tutti e cinque, mi sono imbattuto nel resto dei Dodici. Degli Undici...» si corresse, corrugando le labbra con aria dispiaciuta nel rivolgere uno sguardo comprensivo a Raelle; lei si mostrò impassibile, sbatté appena le palpebre e annuì debolmente. Lui proseguì. «Ero convinto che l'eruzione avesse attirato ogni Tributo in quella zona dell'Arena, e così è stato. In effetti il bunker piazzato da Sarah era a qualche chilometro dal vulcano. La mappa nascosta al suo interno serviva a condurci qui.» Il Generale aprì una mano in direzione di Abigail, la quale gonfiò il petto. «Siamo arrivati questa mattina presto» concluse lui.

Tally si concesse di esaminare un altro po' la radura nella quale si trovavano. Il perimetro era davvero ridicolmente perfetto, così come era insolito il livellamento pianeggiante del terreno. L'erba sotto i piedi era confortevole, setosa, di un verde così chiaro da risultare abbagliante alla luce del sole. Sopra di loro doveva esserci uno schermo a cupola protettivo, ma era invisibile.

«Quindi siamo al sicuro?» domandò la rossa, dando voce inconsciamente al proprio pensiero. «Telecamere, attacchi...»

«Completamente protetti» assicurò il Generale con un movimento del capo. «Fine dei giochi.»

Quell'ultima frase irruppe come una bomba. Raelle, Abigail e Tally si guardarono sospirando.

«E per quanto riguarda la granata urlante che ci è piombata addosso ieri mattina?» Il tono di Tally si fece tagliente, cogliendo di sorpresa il Generale. «Un po' esagerato come inizio, non crede?»

Raelle, che era rimasta silenziosa a mordersi un labbro per tutto il tempo, si voltò e allontanò da loro a passo tranquillo. Abigail non se la fece sfuggire e le fu dietro, ma non prima di congedarsi brevemente con un chino del capo. Tally, invece, parve combattuta tra il desiderio di seguire Raelle e restare ferma.

«Purtroppo non possiamo prevedere ogni mossa degli Strateghi» esclamò con serenità il generale. «Evidentemente non siamo stati abbastanza prudenti. Devono aver capito le nostre intenzioni.»

«Nonostante le precauzioni prese?» Tally era preoccupata. «Com'è possibile?»

«Non ne ho idea» disse il Generale, sinceramente perplesso. «Ne so quanto voi. Sono entrato nell'Arena come Tributo, per non destare sospetti» ricordò a Tally. «Finché non sarà Sarah Alder ad aprire un canale di comunicazione da fuori, io ho le mani legate in questo senso. Ciò che posso supporre però è, come ho detto, che gli Strateghi di Capitol City abbiano intuito le nostre volontà: non combatterci l'un l'altro ma restare uniti. La granata serviva a dividerci, e ci sono riusciti.»

«Beh, per poco» disse Tally con soddisfazione. Fece un passo indietro e ruotò di poco il busto, di modo da poter osservare gli Undici cosparsi nella radura. Vi regnava un'atmosfera surreale, piena di pace e tranquillità, come se quello fosse stato un picnic organizzato tra amici. L'aria era immobile e inodore. Non c'erano uccelli a cantare sui rami degli alberi ai limiti dello spazio che li confinava. D'istinto Tally ricercò Rae e Abs: le vide impegnate a farfugliare poco più in là, passeggiando.

«Il sole dovrebbe essere già calato da un pezzo. Lo hanno lasciato, credo per agevolare le ricerche.» Il Generale mostrò un indice diretto al cielo.   

Tally venne riportata sul viso dell'uomo. «Ricerche?»

«Certo. Ci staranno cercando. E' l'unica spiegazione.»

«Ma qui siamo al sicuro, no?»

«Si, finché restiamo dentro. Noi abbiamo imitato il codice virtuale dell'Arena per manipolarne delle porzioni, e anche se i suoi ideatori originali la conoscono meglio di noi, i nostri esperti sanno quel che fanno. Aggiornano costantemente il codice.»

Il cuore di Tally accelerò. «Quindi il piano va avanti, vero? La Generale Alder avrà già contattato la Presidentessa?»

«E' ciò che mi auguro.» Il Padre Generale si alzò dalla roccia, le braccia strette attorno al petto e lo sguardo lontano. «Deve averlo fatto.»

 

 

«Raelle. Ti prego, parlami.»

Abigail era costretta ad accelerare di continuo per stare al passo dell'amica.

«Rae!»

«Cosa» disse Raelle, atona, senza fermarsi.

«Parlane con me» insistette Abigail. Aveva sciolto i capelli, e alzò le mani per portarli dietro le orecchie nel chinarsi in avanti, così da riuscire a inquadrare il viso di Raelle.

L'altra soffiò col naso, scostante. «Non ho niente da dire.» Una vibrazione elettrica fece scattare sul posto Abigail.

Per un certo tempo camminarono in silenzio, Raelle davanti e l'amica un po' più indietro, intenzionata a non mollarla neanche un istante ma a lasciarle un certo margine di respiro. Infine, raggiunsero il lato opposto della radura, lontane dagli altri Tributi.

Senza preavviso, Raelle si bloccò e si voltò.

«Tu proprio non capisci, vero?» sbottò con furia repressa. Una sottile nube bianco-argento sottolineava il profilo della sua figura.

Abigail non seppe cosa dire.

«Lascia perdere.»

«Voglio aiutarti, Rae! Voglio solo poter essere di aiuto!»

«Beh, non puoi!» Raelle perse le staffe; piccole scariche elettriche pervasero l'aria nel raggio di un paio di metri e le pupille di lei balenarono. «Nessuno può, ok? Scylla forse è morta. Anzi, probabilmente lo è ma io non posso saperlo finché qualcuno non viene a dirmelo! Come dovrei stare? D'accordo, niente e nessuno mi ha uccisa. D'accordo, siamo sani e salvi, siamo protetti da una dannata cupola. E allora?» Tremava. Tirò su col naso. Non si asciugò gli occhi.

Abigail scelse con accuratezza le parole. «Ho solo paura che se ti lascio da sola, tu possa combinare qualche sciocchezza.» Alzò il mento e sostenne con decisione e gentilezza lo sguardo sofferente di Raelle.

La bionda scosse il capo, amareggiata, e le diede le spalle per ricominciare a camminare. Lasciava dietro di sé un alone di particelle fluttuanti, come delle lucciole che danzavano un attimo e svanivano. «Tanto non posso andare da nessuna parte.»

In effetti, Raelle aveva ragione; si poteva entrare nella radura-cupola esclusivamente da un passaggio sotterraneo che, una volta utilizzato, diventava impraticabile sigillandosi automaticamente. La Alder aveva pensato a tutto. Le annotazioni scritte sulla mappa trovata nel bunker erano state oggetto di accurato studio da parte di Abigail.

«Posso almeno starti vicina?»

Raelle si decise a fare passi un po' meno lunghi e pestati. E Abigail continuò a seguirla, a distanza, senza più infastidirla troppo, con i Tributi nei dintorni che di tanto in tanto lanciavano loro sguardi discreti e mormoravano.

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Capitolo 10
*** Il Cigno d'Argento ***


10 - IL CIGNO D'ARGENTO

 

Dentro alla radura-cupola non faceva mai troppo caldo né troppo freddo. A dirla tutta, non accadeva proprio niente: il sole se ne stava immobile al suo posto sul mezzogiorno spaccato, il cielo privo di qualsiasi forma di nuvole, i rami degli alberi pietrificati. Persino l'erba a terra dava l'impressione di essere finta.

I minuti si erano fatti ore molto in fretta. Troppo in fretta. Impossibile tenere il conto del tempo... quanto ne era trascorso da quando i Tributi erano stati condotti là? Un giorno? Oppure due? O forse nemmeno dodici ore?

Fortunatamente, al centro geometrico della radura-cupola la Alder aveva fatto installare un pannello scorrevole al di sotto del quale una scaletta conduceva a una dispensa refrigerata con una gran quantità di cibo, bevande, vestiti di riserva, armi e qualche cianfrusaglia per passare meglio il tempo.

Com'era prevedibile, era stata quest'ultima categoria quella ad andare più a ruba.

 

Abigail se ne stava sdraiata sulla schiena all'ombra di uno dei grandi e alti arbusti tropicali della barriera perimetrale, le mani dietro la nuca e un paio di cuffiette infilate nelle orecchie.

Qualcosa urtò piano la sua gamba, e lei aprì gli occhi. Adil se ne stava lì in piedi al suo fianco. Mosse le labbra. Abigail però dovette sfilarsi le cuffie perché la musica era troppo alta.

«Ti disturbo?» fece lui.

«No.» La ragazza cercò il lettore musicale e mise in pausa la riproduzione, portandosi seduta. Improvvisamente si rese conto di avere la mente vuota. Si sentì stupida e in imbarazzo; era stata colta di sorpresa. Diede un fasullo colpo di tosse per schiarirsi la voce.

Adil si appostò vicino a lei, con movimenti lenti e posati. Egli portava solo un candido gilet leggero aperto e dei calzoni lunghi del medesimo colore, i piedi senza scarpe. Era praticamente a torso nudo. Comunque non la fissava, teneva il volto diretto verso il centro della radura laddove la maggior parte dei Tributi se ne stava a pisolare, chiacchierare o esercitarsi. Sedutosi sull'erba ombrosa, stirò le braccia e le posò sui ginocchi, le gambe piegate contro il busto.

«Volevo parlarti, ma... ho avuto altro a cui pensare» esordì Abigail. Stava riacquistando velocemente la consona fiducia nelle proprie capacità.

«Oh, non c'è problema. Sono venuto a vedere come stavi» rispose lui, girandosi a guardarla. Cercò con insistenza il contatto coi suoi occhi. «Eri qui tutta sola.»

«Ogni tanto ho bisogno di isolarmi anch'io.» Abigail se la rise. Abbassò il mento e si sentì ridicola con quella camicia in stile hawaiiano presa dal sotterraneo; avrebbe scelto di meglio se avesse pensato anche nell'ottica di quella futura circostanza. Beh, in fin dei conti pochi indumenti potevano battere la divisa dei Tributi in quanto a scialbore.

«Che musica ascoltavi?» chiese Adil allungando le dita sul suo lettore musicale.

«Un po' di tutto... »

«Ah, ti piace il rock, eh?» Adil faceva scorrere il pollice sullo schermo touch del riproduttore. «Anche a me, ogni tanto.»

«Tu che cosa pensi?» disse Abigail dopo una pausa.

Adil depose il lettore musicale sull'erba. «Riguardo cosa?»

«Riguardo questa situazione.»

Lui tornò a guardare i compagni a distanza. «Che dobbiamo goderci il riposo finché dura.» Respirò rumorosamente. «Ho la sensazione che, quando finirà, ne avremo nostalgia.»

«Tu dici?»

Abigail scrutò Adil da capo a piedi. Quel ragazzo non era come gli altri: sentiva con chiarezza l'impossibilità da parte sua di manipolarlo, come le risultava facile e spontaneo fare di solito con gli altri. Per questo la incuriosiva e attraeva. E per quello stesso identico motivo lo aveva baciato la sera prima dell'inizio dei Giochi, incrociato di proposito per i corridoi. Lui aveva ricambiato, lasciandole intendere un certo interesse che però allora non aveva voluto manifestare apertamente.

«Si» disse Adil annuendo. «Altrimenti, perché il deposito sarebbe pieno di roba pressoché inutile?» continuò indicando il centro della radura con il mento. E sorrise.

«Sono contenta che tu stia bene» ammise finalmente Abigail.

«Ah. Quindi non sono un tuo rivale?»

Lei sbuffò una risata. «No?» disse con ironico tono interrogativo.

«Meno male!» disse Adil, continuando quel gioco. «Sarebbe un bel problema. Abigail Bellweather, Tributo del Distretto Due, temibile combattente, imbattibile guerriera! Cosa potrei fare io, un viziato cittadino di Capitol City?»

L'altra gli ammiccò con le palpebre mezze abbassate. «Io non credo che tu sia come gli altri abitanti di Capitol City.»

«Ah no?»

«Ah-ha.» Abigail scosse il capo.

«E cosa te lo fa pensare?» mormorò lui. Ma ciò che avrebbe voluto fare, e che anche Abigail avrebbe voluto fare, sarebbe stato baciarsi. I loro volti si avvicinarono.

«Raccontami della città» sibilò Abigail, trattenendosi. «Dei Tarim.»

Lui sorrise ancora, apertamente stavolta. «Cosa vuoi sapere?»

«Quello che ancora non so. Un ribelle. Un Mutante diverso dagli altri. Sei sorprendente! Ti ho visto all'esame. Hai spaccato a metà quel manichino in un attimo. Per non parlare di come ti guardavano i giudici.» Abigail inarcò un sopracciglio, prolungando la tregua e scostandosi dal viso altrui.

Adil alzò le spalle. «Tutta scena per impressionarli. In verità non mi piace fare del male. Vedi, questo è il codice di condotta di noi Tarim: non usare i Doni Mutanti per proprio tornaconto o per fini violenti. Crediamo che sia stato questo ad aver creato le gerarchie sociali di Panem e la povertà nei Distretti. Le nostre famiglie hanno studiato come il potere sia stato manipolato e usato nel tempo appositamente per accentuare le differenze tra le persone. La creazione dei Giochi e il pretesto dei Tributi serve a creare distrazione dalla verità e ulteriore panico fra la popolazione, sin dai Giorni Bui.» Riprese fiato. «Ho deciso di partecipare all'operazione per rovesciare il Gioco di quest'anno perché volevo essere presente quando sarebbe successo.»

Abigail fece una smorfia d'assenso, vistosamente sorpresa. «Wow.»

«Cosa?»

«Non mi aspettavo una spiegazione così prolissa e profonda» disse lei. Ma senza accenno di scherno. Era seria.

«E' la verità.» Adil appoggiò una mano sull'erba dietro la schiena di Abigail. «E per quanto riguarda Capitol City, non c'è molto da dire. Ciò che già sai probabilmente basta e avanza.»

«Non piace nemmeno a te?» insistette Abigail.

Adil guardò il cielo. «Non saprei. Ci sono nato, parlare di piacermi o non piacermi mi mette in difficoltà. Sono i metodi che non condivido, più che l'apparenza. Quella è marcia per forza.»

Abigail sbuffò piano una risata. «Continui ad essere molto profondo.»

«E' più forte di me!» ironizzò Adil ridendo. Intanto levò la mano per spostare dalla fronte di lei un ciuffetto di capelli.

«Resta il fatto che sei un portento.» Il tono di voce di Abigail si era abbassato. «Non ho mai visto nessuno disporre di così tanti Doni assieme tranne i nostri istruttori, come la Quartermaine.»

«Quando non sei impegnato a voler uccidere qualcuno con il tuo sangue Mutante... puoi imparare tante cose.»

Restarono zitti un istante, occhi negli occhi; poi, si baciarono.

 

 

«Ah! Sembrano divertirsi.»

Tally stava uscendo dalla dispensa sotterranea, con metà del corpo ancora sotto il livello del terreno e i gomiti appoggiati sull'erba. Aveva un'aria stralunata.

«Che?» vociò echeggiando Raelle sotto di lei.

«Abs e Adil» fece Tally, decidendosi a salire gli ultimi pioli della scaletta metallica per sedere sul prato. I suoi occhi si riadattarono alla luce solare. Allungò una mano per aiutare Raelle a raggiungerla.

«Oh.» L'amica uscì allo scoperto, girò una manopola sul terreno e la botola scorrevole del sotterraneo si chiuse. «Dove?»

Infilando una cannuccia nel buco del cartoncino di succo alla pera che aveva appena preso dalle scorte di cibo, Tally indicò con un cenno sfuggente della testa una direzione. Là in fondo, all'ombra degli alberi, Adil e Abigail si stavano sbaciucchiando.

«Interessante.» Raelle non si soffermò troppo su quella visione e guardò Tally di sottecchi. «Tu, piuttosto. Hai parlato con Gerit?»

La rossa finse di non aver udito e cominciò a sorbire il succo dalla cannuccia. Teneva i lunghi capelli sciolti e sparpagliati sulle spalle. Di ciò che la dispensa militare offriva, lei aveva scelto un vestito lungo smanicato, leggero e svolazzante di un arancione pastello a tinta unita. Quasi tutti i presenti all'interno della cupola-radura si erano cambiati d'abito: li aveva aiutati a entrare nell'ordine di idee di non essere più Tributi degli Hunger Games.

«Tal» la incalzò Raelle. Lei invece indossava una canotta sottile di colore nero dallo scollo largo e dei pantaloncini di jeans. Si era rifatta le treccine su mezza testa. Dalla borsa di tela a tracolla estrasse un enorme fucile... ad acqua; ne esaminò lo stato del caricatore.

«Cosa?» Tally fece la finta tonta.

«Gerit» ripeté la bionda senza guardarla, concentrata sul fucile.

«Cosa c'entra Gerit?»

«C'entra con te, mia bella addormentata» la prese in giro Raelle. Gettò a terra il fucile e dalla borsa ne tirò fuori un altro, di colori diversi. Si mise a controllare le condizioni anche di quello, senza troppi riguardi.

Tally sembrò staccare le labbra dalla cannuccia con un certo fastidio. «Se avesse voluto dirmi qualcosa di importante sarebbe venuto lui da me, non pensi?» disse con insolita freddezza.

Raelle abbassò l'arma fasulla. «Sei veramente l'unica qui dentro che non si accorge di quante volte lui ti guardi, e trovi i modi più insulsi per poterlo fare?» ribatté piccata.

Tally si corrucciò, aprì la bocca e disse, prima di bere un altro po' di succo: «Non so di cosa parli.»

Diversi pensieri sfilarono nella mente di Raelle, la quale però non diede fiato a nessuno di essi: preferiva lasciarsi assorbire dal fucile che imbracciava. Con esso schizzò un getto di diversi metri, stando attenta a non colpire nessuno.

«E poi» proseguì Tally, più arrabbiata, «adesso c'è Hilary. Perché dovrebbe aver bisogno di me?»

Raelle gemette esasperata, gettando indietro la testa. «Tal, ti prego. Lo sappiamo entrambe che è quello che volete tutti e due.»

«Li hai presi?» vociò qualcuno nelle vicinanze. Byron camminava nella loro direzione. La sua testa brillava chiara al sole; aveva indosso una canottiera slavata di qualche taglia più grande della sua e un paio di bermuda, una sorta di stile da spiaggia.

Raelle alzò sopra la testa il fucile giocattolo per rispondere a Bryon e lui gli mostrò un pollice in segno di vittoria, radioso.

«Andiamo?»

«Si! Arrivo» gli rispose Raelle. «Tu non vieni?» propose a Tally prima di lasciarla.

«No... grazie. Magari più tardi.» Tally sorbì le ultime gocce di succo dallo scatolino, che emise un rumore gracchiante e iniziò ad accartocciarsi. I suoi occhi cercarono da soli Gerit nella radura: si trovava seduto in panciolle a una dozzina di metri da lei, il peso all'indietro sui gomiti; Hilary scrollava un asciugamano nell'aria ferma nei dintorni. Da quella distanza non riusciva a capire se stessero parlando tra loro oppure no... ma cosa importava a lei? Nulla. Proprio nulla. Tally aspirò altro succo. Era finito, ma lei continuò ad aspirare dalla cannuccia, sforzandosi di concentrarsi su Raelle che finalmente riusciva a distrarsi provando a divertirsi con Byron.

 

 

Anacostia Quartermaine era stata quella fra gli Undici a svegliarsi per ultima nella radura. Il suo impegno encomiabile nel condurre e salvare la vita al proprio gruppetto di Tributi la aveva spinta quasi alle soglie della morte. Dopo un tempo indefinito trascorso sotto le attente cure di Raelle, del Padre Generale, di Gerit e Glory, i quali possedevano discrete capacità curative - Raelle ben più che discrete -, l'Istruttrice del Cigno si era svegliata sotto alla luce di quel sole fittizio, filtrata dalle fronde degli alberi tropicali che la sovrastavano. Da allora aveva avuto modo di conversare con quasi tutti i ragazzi. In special modo con Adil, il quale si era dimostrato particolarmente grato per le attenzioni da lei ricevute: entrambi avevano mutato atteggiamento nei confronti dell'altro, da quel momento.

Dalla dispensa sotterranea Anacostia si era procurata una semplice t-shirt bianca e un cappellino con la visiera, che ora le schiacciava i capelli; aveva preferito tenere i pantaloni della tuta da Tributo con annessi gli stivaloni dalla suola spessa, per ogni evenienza. Con una grossa racchetta da tennis poggiata sulla spalla, era di ronda lungo il perimetro dello spazio circolare per controllare che fosse tutto tranquillo.

I ragazzi se la stavano spassando. Ognuno faceva ciò che più preferiva, ed era giusto così: dopo ben settant'anni di torture, morti atroci, sacrifici indicibili, sofferenze e umiliazioni, finalmente i Tributi dei dodici Distretti di Panem potevano vivere la loro permanenza dentro l'Arena in un modo che non prevedeva il proprio annientamento inesorabile. Permettersi di essere spensierati, anche se le circostanze avrebbero potuto - e dovuto, sotto una certa luce - impedirglielo, era un lusso che potevano tranquillamente permettersi. In attesa che buone nuove giungessero dalle loro fonti esterne.

Quello doveva essere il quarto o quinto giro di seguito; Anacostia aveva raggiunto nuovamente il seggio di pietra. Rallentò, poggiò la racchetta contro la roccia e si sedette.

«Ma chi si vede» mormorò una voce maschile. Da una tenda da campeggio montata sul retro dell'ammasso roccioso uscì il Padre Generale, anch'egli in tenuta decisamente estiva. Indossava degli occhiali da sole a specchio arcobaleno. «Non ti riposi mai tu, eh?» Si accostò ad Anacostia rivolgendole un amichevole sorriso.

La donna levò su di lui uno sguardo piuttosto serio. «Potrei dire lo stesso di te. Fingi di rilassarti, ma so cosa stai facendo, là dentro.» Un suo cenno del capo indicò la tenda.

L'altro incrociò le braccia sul petto e scrutò i ragazzi davanti a loro, distesi a macchia d'olio nell'ampia radura. «Con che cuore me ne potrei stare con le mani in mano?»

Anacostia annuì comprensiva e piegò le labbra in un sorriso storto. «Trovato niente?»

«No.» Il Generale scosse il capo. «Niente. O la cupola impedisce a qualunque tipo di onda d'entrare, cosa probabile, oppure non ci stanno inviando alcun messaggio.»

«Forse la radio è difettosa» azzardò Anacostia.

«Ne dubito. Te la vedi, Sarah Alder a mettere una radio difettosa in un deposito progettato da lei stessa?»

Anacostia sghignazzò. «No, direi di no.» E aggiunse: «Ci ha lasciati all'oscuro di troppi dettagli, a mio avviso. Lo so che è fatta così e non le piace rischiare, ma da questa parte del muro non è divertente.»

Restarono in contemplazione degli schiamazzi che animavano la radura. Poi, il Padre Generale si allontanò. «Arrivo subito.» Scomparve dentro alla tenda da campeggio.

Poco dopo l'uomo ritornò alla roccia. Teneva in mano dei piccoli oggetti lucidi che riflettevano la luce solare: ne porse uno ad Anacostia.

Era un cigno d'argento, finemente cesellato e splendente, nell'atto di spalancare le ali e il lungo collo ricurvo sul petto ad indicarsi il cuore. La Quartermaine se lo rigirò fra le dita con ammirazione. Era davvero fatto bene, la cura per i dettagli lasciava di stucco. Un gancetto sul retro permetteva di appuntarla sui vestiti: una spilla.

«Erano nella dispensa» spiegò l'uomo. «Dentro un forziere con sopra il mio nome.»

Anacostia lo guardò e sbatté le palpebre.

«Dovremo distribuirli» disse lui.

«Non ora. E' ancora presto.»

«Presto? Anacostia, non è mai stato presto. L'intera ribellione è cominciata fin troppo tardi.»

«Loro non sono ancora pronti» dichiarò imperterrita la donna di colore, distogliendo gli occhi dall'uomo per posarli sui ragazzi. Sembrava parecchio pensosa.

«E tu, lo sei?» la incalzò il Generale con garbo. «La tua maschera da dura non funziona, con me» proseguì con leggera ironia. «Lo so quanto gli sei affezionata.»

Anacostia non spostò il viso dal centro della radura, ma l'aria assorta che glielo induriva si addolcì, e posò il mento su una mano, il gomito puntellato su una gamba. «In loro rivedo me stessa. Quanto avrei voluto avere qualcuno che badasse a me, che mi dicesse che non sarei morta una volta entrata nell'Arena» sillabò lentamente. «Farò qualsiasi cosa in mio potere per proteggerli. Non permetterò che venga fatto loro del male. Voglio che escano tutti vivi e vegeti da questa stramaledetta Arena, per non entrarci mai più. Ramshorn... » concluse, più cupa.

Le spillette d'argento che teneva nella mano il Generale tintinnarono. «Ti va una partita?»

Con occhi spalancati Anacostia si voltò. «Cosa?»

Il Generale guardava la racchetta da tennis che l'altra aveva lasciato lì vicino, sull'erba. «Sono bravo, sai.»

Una pausa. La Quartermaine gli concesse un bel sorriso. «Scommetto mai quanto me.»

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Capitolo 11
*** Onore e Gloria ***


11 - ONORE E GLORIA

 

«Perché dovrei dirlo proprio a te?»

Tally squadrava allibita Libba seduta ai suoi piedi. Si strinse nelle spalle. «N-non lo so» balbettò, «forse perché ti ho vista farlo di proposito mentre nessuno ti guardava?»

Le sopracciglia di Libba non erano mai state così folte e aggrottate. Aveva le braccia serrate strettamente al petto. «Tu fatti gli affaracci tuoi.»

Tally esalò un refolo d'aria, spazientita. «Ma cosa ti costa, a dirmelo? Non c'è più nessuno a correrci dietro, a minacciarci. Perché sei così chiusa? Cos'hai da perdere?»

Gerit, che stava seduto nelle vicinanze, si girò da quella parte, attratto dalla discussione. Erano all'ascolto anche Byron e Abigail, sebbene non lo stessero dichiarando apertamente.

Mentre faceva colazione, una reminiscenza aveva colpito Tally all'improvviso: Libba con le mani unite che bisbigliava da sola dentro al bunker, mentre lei vi si Proiettava. Non aveva ancora capito cosa stesse facendo in quella circostanza, dunque si era decisa ad andare a chiedere di persona alla diretta interessata.

Palesemente intenzionata ad affrontare l'interlocutrice alla stessa altezza, Libba si alzò e uscì dalla propria tenda - tutti avevano dovuto montarne una per poter dormire al buio, visto che il sole non tramontava mai nella radura.

«Torna da dove sei venuta, mangiapietre» disse melliflua, gli occhi di ghiaccio.

«Ehi.»

Gerit si trovava come per magia accanto a Tally. Guardava Libba. «Piantala.»

«Sennò?» ribatté la ricciola con una pausa ad effetto.

Gerit si fece avanti. Non era certo un ragazzetto smilzo, ma un giovane uomo alto, ben piazzato e atletico. «Potresti anche smetterla di evidenziare continuamente il fatto che vieni dal Distretto Uno, adesso che non hai più nessuno da uccidere.»

Libba sostenne lo sguardo di Gerit; il velato sorriso strafottente si spense in un'espressione più impertinente.

«Ragazzi» gemette Tally. Chiunque in quel momento non poté non notare il modo in cui lei era affascinata dal gesto di Gerit, per quanto cercasse di mascherarlo; frappose un braccio nello stretto spazio che separava i due litiganti. «Non importa, non m'interessa cosa stava facendo» disse rivolta a Gerit. «Andiamo.»

«No.» Lui non si spostò quando Tally provò a spingerlo. Sembrava sul punto di esplodere: non lo aveva mai visto così. «Dobbiamo piantarla con queste stronzate. Che senso ha la ribellione, altrimenti?»

«Niente di personale... pianticella» lo canzonò Libba.

«Ma la vuoi piantare?» Si era intromessa anche Abigail adesso, al fianco di Tally. Aveva tutta l'aria di qualcuno che ha voglia di dare un cazzotto senza preavviso, con quei pugni stretti e gli occhi spalancati e furenti.

L'apparizione di Abigail parve affievolire il fuoco di Libba, che deglutì e assunse un'aria derelitta.

Abigail prese Tally sottobraccio e le fece intendere di volerla accompagnare lontano; la rossa, dal canto suo, ci teneva a dimostrare la propria gratitudine a Gerit e per questo sfiorò a lui la mano: Gerit la prese, per un istante, e gliela strinse per lasciarla quasi subito. Accompagnò le due ragazze a testa bassa.

«Stavo pregando» disse Libba a gran voce quando Tally, Abigail e Gerit si erano già allontanati di una decina di passi e le davano le spalle. Quelli si voltarono all'unisono: lei era tornata a sedersi nell'ombra della propria tenda, ed evitava di guardarli direttamente impegnandosi a spostare gli oggetti che aveva attorno.

Nessuno dei tre aprì bocca e rimase fermo sul posto a macinare quella frase.

«Beh? Non si può più pregare?» inveì Libba.

«Si. Si, certo che si» rispose in fretta Tally. «Scusa, non immaginavo... »

«Ecco. Adesso lo sai.» Libba appariva combattuta. «Mi serve ad avere Premonizioni più lucide. Me l'ha... me l'hanno insegnato i miei genitori.»

I genitori di Libba erano morti entrambi negli Hunger Games: qualunque spettatore degli ultimi cinque o sei anni conosceva bene la storia della figlia degli Swythe addestratasi giorno e notte per poter un giorno far resuscitare la gloria dei genitori.

«Ho capito» fece Tally. Fu l'unica dei tre ad avere l'iniziativa dopo un lungo silenzio. Dopo di che, tornarono sui loro passi dirigendosi lontano dalle tende, verso il prato sgombro.

«Te le vai proprio a cercare» incominciò Abigail sottovoce, che trainava il trio col suo passo veloce e ben piazzato.

«L'ho vista, non ho potuto farci nulla! Mi sono Proiettata nell'esatto istante in cui stava pregando da sola nel bunker» mormorò Tally per giustificarsi. «Ripensandoci, mi era sembrata sospetta.»

«In effetti» rifletté Abigail. «Fortuna che si sta addolcendo.»

«Addolcendo è una parola grossa» aggiunse Gerit dietro di loro, con aria gioviale. «Comunque, ecco... io torno indietro. Devo ancora fare colazione.»

«Oh.» Tally mostrò tutto il suo dispiacere nel voltarsi. Abigail la lasciò andare e si scostò; fece qualche lento passo all'indietro con nonchalance e li lasciò soli.

«Grazie per prima, Gerit.»

«E di cosa.» Il ragazzo le sorrise. «Sta sulle scatole anche a me.»

«A me non sta sulle scatole» fece Tally arricciando il labbro. «Ok, qualche volta si.» Soffocò una debole risata.

Gerit la guardò ammutolito per qualche secondo, mentre ritornava serio. Indossavano entrambi una maglietta estiva e dei pantaloni corti, a piedi nudi: il loro pigiama, probabilmente.

«Mi dispiace che fra noi le cose non siano andate come dovevano» scandì piano Gerit in tono affranto.

Tally accusò e si irrigidì, le braccia stirate ai lati del busto. Le passarono davanti agli occhi alcuni ricordi spiacevoli.

«Già. Anche a me.» E fece per andarsene.

«Tally.» Gerit la richiamò, e lei si bloccò. «Non sto più con Hilary.»

«E questo cosa vorrebbe dire?» mormorò con freddezza Tally, senza girarsi.

«Niente. Volevo dirtelo.»

Tally allora si girò, lapidaria.

L'atteggiamento mascolino e protettivo che Gerit aveva sfoggiato pochi istanti prima era stato sostituito da uno mortificato. «La mia famiglia e quella di Hilary avevano pianificato la nostra unione. E'... una tradizione del nostro Distretto. Avevo provato a spiegartelo.»

«Ah, quindi nel Distretto Sette vi imparentate tra fratelli? ... cugini?» replicò Tally, implacabile e tagliente.

«No, non è così.» Gerit si stava impegnando. «Quando ti ho conosciuta non sapevo cosa sarebbe dovuto accadere.»

«Il giorno dopo?» domandò retorica Tally. «Anche a me dispiace di come siano andate le cose, Gerit. Sei stato un idiota» snocciolò con spietata e chirurgica precisione. «E cosa vorrebbe dire che non stai più con Hilary?»

Gerit ci mise un po' a rispondere, visibilmente in imbarazzo. «Mi sta col fiato sul collo. Non la sopporto. Non immaginavo che fosse così. E' terribile.» Si passò una mano dietro al collo. «Terribile.»

«Quindi io sarei la tua seconda scelta, adesso?»

«No! Assolutamente no.»

«Credi che adesso salterò fra le tue braccia?»

«No...»

«Bene. Perché non è così.»

E Tally si allontanò. Gerit restò impalato a guardare la sua schiena mentre lei ritornava in mezzo alle tende da campeggio a passo di marcia.

 

 

«Non lo voglio fare!» dichiarò Raelle, che a stento riusciva a trattenere una risata.

«Avanti! Non è nulla di che!» insistette Byron. «Devi solo gridarlo e poi tuffarti!»

Lei e Byron si trovavano in cima ad una specie di impalcatura metallica, come quelle usate dagli imbianchini o i carpentieri. Sotto di loro, a un metro d'altezza, una piscina gonfiabile rotonda piena d'acqua; a un metro di distanza, su una sdraio pieghevole, Glory prendeva il sole.

«Ti dico di no!» Raelle arretrò dal bordo spintonando il ragazzo dietro di lei. Si era messa addirittura il costume da bagno, un pezzo unico che copriva seno e inguine mediante due pezzi uniti fra loro da lacci e lembi di stoffa in motivi curiosi e molto elaborati. Stile da Capitol City.

«Quindi ti sei fatta trascinare fin qui da un balordo come me, per rinunciare all'ultimo momento?» Bryon finse delusione e chinò il capo con un sospiro. «Che disdetta.»

Raelle sogghignò. «D'accordo» disse dopo un po'. «Prima però fallo tu. Io ti vengo dietro.»

«Cosa? No, non mi fido proprio. E' un piano per svignartela non appena io mi tuffo» si lamentò Byron. Lui come costume aveva sempre lo stesso paio di bermuda, si era semplicemente tolto di dosso la canottiera.

«Ti assicuro che mi tuffo» gli assicurò Raelle.

«Gridando come dico io?»

«Gridando come dici tu» fece eco la bionda.

Byron guardò di sottecchi Raelle. «Va bene.» Atteggiandosi, la superò e raggiunse il bordo dell'impalcatura. Si piegò in avanti, inarcò indietro i glutei e unì le mani sopra la testa: una posa a dir poco ridicola, che fece trattenere a Raelle un'altra risata.

«BOMBA!» urlò a pieni polmoni Byron, e saltò.

La piscina sottostante era molto alta e larga e l'acqua profonda: accolse il corpo - sbilanciato - di Byron con un sonoro tuffo che proiettò schizzi ovunque. Glory squittì, invasa da una pioggia improvvisa, e lasciò la sdraio borbottando.

Non appena il ragazzo si fu fatto da parte, Raelle seguì i suoi passi. «BOMBAAAAA!» strillò, ben prima di trovarsi sull'orlo della struttura metallica; presa la rincorsa e si gettò in maniera scomposta urlando. Un altro tonfo sordo in acqua.

 

Quando Raelle riemerse, vide che Byron guardava in alto. Anche lei lo fece. Notò che lo schermo trasparente della cupola protettiva era visibile, adesso, e vi era impresso un ologramma. Adombrava il sole. Era anche partita una musica, diversa da quella che annunciava un evento drammatico durante gli Hunger Games. Raelle non l'aveva mai sentita prima: aveva un che di marziale, patriottico, ma tutto sommato piacevole e armonica.

L'ologramma sopra le loro teste mostrava l'immagine di un immenso cigno d'argento con le ali quasi aperte e la testa piegata sul petto.

Nella radura nessuno osava parlare o si asteneva dal guardare in alto, qualunque cosa stesse facendo prima.

Il cigno scomparve e venne sostituito dall'immagine di Sarah Alder seduta a una scrivania.

«Ben ritrovati, amici. Vi parlo dal Quartier Generale delle operazioni per il soverchiamento del governo di Capitol City. Diversi avvenimenti sono accaduti da quando siete entrati nell'arena degli Hunger Games, e solo adesso mi è possibile comunicarvene l'entità, a causa di problemi di connessione con i sistemi di comunicazione.»

Si trattava di un messaggio registrato; qualcuno nella radura aveva provato a lanciare un saluto o un'esclamazione, ma l'ologramma della Alder, seduto alla scrivania con il buio alle spalle e una lampada puntata addosso, aveva continuato imperterrito a parlare.

«So che state tutti bene. Ne sono felice. Purtroppo, contro ogni mia previsione avevamo degli infiltrati tra di noi. Spie subdole mandate dal governo per abbindolarci e rubarci informazioni. E' a causa loro se siete stati attaccati dalla granata urlante, non appena il Gioco è cominciato, quattro giorni fa. Ma avete reagito bene. Nonostante non poteste conoscere l'esito del piano, lo avete seguito. Avete trovato il bunker, e la mappa.»

Sarah Alder fece una pausa, e Raelle colse l'occasione per cercare Abigail nei dintorni e vedere la sua reazione, ma non la rintracciò.

«La cupola protettiva che avete raggiunto serviva a proteggervi da ogni possibile aggressione da parte del governo di Capitol City, e ha svolto alla perfezione il suo compito. Vi ho tenuti all'oscuro della sua esistenza per mantenerla segreta in ogni modo. So che il prezzo di questo segreto era la vostra stessa vita. Sappiate che... » Abbassò gli occhi penetranti sulle proprie mani, poggiate sulla scrivania. Li rialzò. «Quest'anno gli Hunger Games non sono andati in onda. Lo so, ci siamo impegnati per fare in modo che tutta Capitol City vedesse che i Tributi possono ignorare le sue leggi e aiutarsi a vicenda, invece di eliminarsi. Per dare l'esempio. La scintilla della ribellione. Ahimè, ci hanno battuti sul tempo. Hanno inscenato un finto attacco da parte dei Distretti ai danni della Città proprio quando voi siete entrati nell'Arena, per spostare l'attenzione e non destare sospetti, evitando così di dire la verità sul perché quest'anno gli Hunger Games non si sono tenuti. Una finta ribellione. Buffo, dal momento che è ciò che realmente si è svolto, anche se con metodi diversi. Così facendo, una parte degli sforzi del governo è andata alla costruzione di questa sceneggiata; un'altra parte, però, altrettanto insistente e difficoltosa da contrastare, è stata indirizzata alla vostra ricerca. Sin dal primo giorno hanno cercato di eliminarvi, con ogni mezzo, virtualmente e poi fisicamente introducendosi nell'Arena. Non potevano permettersi di farvi uscire vivi. E' stato grazie al lavoro eccellente e instancabile di nostri Intercettatori, fra cui spicca Bridey, se una buona parte degli attacchi a vostro danno da parte degli Strateghi di Capitol City sono stati sventati. Vi hanno seguiti uno ad uno e agevolato i movimenti. Invece, da quando siete entrati nella cupola protettiva, le cose sono cambiate. A quel punto al governo è stato chiaro che avevamo elaborato un piano ben più ingegnoso di quanto si aspettassero. Un'informazione che le loro spie non hanno riportato. Qualcosa che loro stessi non potevano trovare nell'Arena. L'hanno setacciata per intero, pezzo a pezzo. E... alla fine, vi hanno trovati. Ma non sono entrati. Non potevano. Così come non potevano nemmeno distruggere l'Arena stessa, dal momento che i nostri Intercettatori disturbavano il segnale del codice sorgente ventiquattr'ore al giorno. Ma adesso, desidero porre le mie più sincere congratulazioni ad ognuno di voi! Non più Tributi, ma eroi che hanno scelto di porre la loro vita nelle mie mani in nome di un sogno. E quel sogno si è avverato, amici. Non posso spiegare ogni cosa in questo messaggio, ma sappiate che il movimento di ribellione può dirsi concluso. Ed è anche, e soprattutto, grazie a una persona in particolare se i nostri sforzi hanno trovato buon esito.»

La visuale della telecamera che generava l'ologramma si allargò e comprese un'altra persona, in piedi accanto alla scrivania.

Scylla.

Sarah Alder continuò a parlare. «Scylla Ramshorn. Quella che ha perso la vita nell'Arena il mattino del primo giorno è stata una sua copia, generata dalla sua formidabile abilità di Sdoppiamento. Su mia richiesta, Scylla si è segretamente astenuta dall'entrare nell'Arena e ha mandato una Copia al suo posto, per poi dirigerla alla morte di sua volontà. Questo era l'unico modo per far sì che potesse proseguire le operazioni insieme a noi, fuori dall'Arena. La sua presenza ci è stata di estremo aiuto in quanto fattore sorpresa, più di quanto non avremmo mai sperato se la vera Scylla fosse venuta con voi.»

Gli occhi di Scylla stavano guardando lei... le dita di Raelle stringevano il bordo gommoso della piscina. Stava guardando lei, da qualche parte, fuori dall'Arena, da viva. Respirava, e la stava guardando attraverso quel messaggio registrato. Il cuore le pulsava nei timpani.

«Quando questo video sarà concluso, ve lo invieremo attraverso il canale di comunicazione che siamo riusciti ad aprire, ora che Capitol City si è arresa alla volontà dei Dodici Distretti di Panem. Fatto ciò, partiremo immediatamente per venire a estrarvi dall'Arena. Probabilmente, quando questo messaggio sarà terminato, ci troveremo già lì. Onore e gloria a voi, coraggiosi uomini e donne di Panem. Questo, è un nuovo giorno.»

Sarah Alder e Scylla Ramshorn, sorridenti e composte, fissarono la telecamera ancora qualche istante; l'immagine sfocò e l'ologramma si spense. In cielo tornò a brillare il sole del mezzogiorno.

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Capitolo 12
*** «Permesso?» ***


12 - «PERMESSO?»

 

Non appena il messaggio di Sarah Alder fu terminato, all'interno della radura-cupola scoppiarono i festeggiamenti. Gli Undici si abbracciarono, esultarono, cantarono e ballarono.

Quella che avrebbe potuto essere una missione inutile e suicida si era invece rivelata efficace, anche se a suo modo. Si, il piano non era andato come previsto e, come Abigail e alcuni altri avevano intuito, Capitol City era riuscita a prevedere le loro mosse e batterli sul tempo; ma il Cigno d'Argento era stato più preparato, e loro erano sopravvissuti, compresa Scylla Ramshorn. Questo in larga parte lo dovevano ai Tarim, che erano stati disposti a donare la loro conoscenza e le informazioni raccolte nel tempo in seno alla stessa Capitol City.

Byron e Gerit passarono un buon quarto d'ora a inseguirsi e malmenarsi bonariamente; Glory e Hilary si strinsero e danzarono dalla gioia; Anacostia racimolò un bel po' di bottiglie di vino frizzante e di bicchieri dal sotterraneo e, aiutata dal Padre Generale, ne servì per tutti; Libba ardeva dal desiderio di festeggiare assieme a qualcuno, ma non sapeva con chi; Tally e Abigail si abbracciarono e cantarono insieme con Adil, Raelle si unì a loro in un secondo momento, e infine Abigail andò da Libba per convincerla - senza troppe difficoltà - ad esultare in loro compagnia.

Bevevano e parlavano da parecchio, ormai: l'euforia era salita alle stelle come in risposta all'adrenalina rilasciata dopo le parole dell'ologramma della Generale. Oltre al favore dell'alcool contenuto nel vino, ovviamente.

Tally, Abigail e Raelle si separarono dagli altri per appartarsi sotto agli alberi del perimetro. Si sedettero, si presero per mano e restarono a guardare quelli che erano ormai diventati loro amici proseguire nei festeggiamenti. Nessuna delle tre aveva voglia di parlare. L'una accanto all'altra, assaporarono la dolce e rassicurante consapevolezza che finalmente quell'inferno era davvero finito. Non soltanto per loro tre, non soltanto per i Dodici Tributi di quell'anno, ma per sempre.

Raelle aveva preso parte alle esultanze insieme agli altri per spirito di partecipazione e perché le sarebbe sembrato sciocco e infantile non farlo, data la motivazione. In realtà, però, a lei importava esclusivamente di un unico fatto: Scylla era ancora viva. Era viva. Esisteva ancora. Il messaggio della sua morte di quel mattino era falso. O meglio, era vero ma non del tutto. Anche adesso, seduta con la mano sinistra stretta forte in quella di Tally e gli occhi vacui posati sugli amici nella radura, continuava ad avere il batticuore e la testa che andava incessantemente a quel pensiero.

La mano di Tally ammorbidì la stretta, e lei si schiarì la voce. «Rae» mormorò.

La bionda si voltò con un sussulto.

«Guarda chi c'è.» Tally guardava in un punto alla sua destra.

Raelle fece lo stesso. E vide Scylla al limitare della radura-cupola, in piedi sotto agli alberi.

 

 

Nient'altro ebbe più importanza. Raelle scattò a correre.

L'orribile timore che fosse un sogno, un altro ologramma, venne a minacciare l'espressione felice che le stava nascendo sulla bocca; ma lei non si fermò né si permise di smettere di sorridere.

Scylla si staccò dagli alberi e la attese. Sembrava proprio vera.

Quando Raelle si precipitò fra le sue braccia e avvertì il calore del suo corpo, e i suoi capelli sulla faccia, e il tremore delle sue mani che la stringevano, seppe che non era un ologramma. E scoppiò in lacrime.

Anche Scylla pianse.

«Sei... qui» mugugnò Raelle, incredula e talmente fuori di sé dalla gioia che si sentiva esplodere. Aveva bisogno di guardare Scylla negli occhi per assicurarsi che fosse davvero lei.

«Si, sono qui. Sono qui.» A Scylla scoppiò una risata mezza isterica, frammista a singhiozzi; ricercò il viso di Raelle con le mani e la baciò disperatamente.

Si baciarono a lungo e con trasporto.

Fu Raelle a staccarsi per prima. Poggiò la fronte su quella dell'altra e ascoltò i loro respiri. Sapeva di star emettendo scintille e scariche elettriche, ma sapeva anche che queste non avrebbero ferito in alcun modo Scylla.

«Non farlo mai più» esordì. «Non sono mai stata così male.»

«Scusami» disse Scylla, anche se sapeva che fosse una parola inutile. «Sono stata costretta.»

Tante, troppe emozioni vorticavano nel corpo di Raelle, e il risultato della loro mescolanza dava un risultato: amore. Gratitudine. Non avrebbe potuto arrabbiarsi nemmeno nella più remota possibilità. Prese le mani di Scylla e le strinse forte, le appoggiò sul petto, le baciò. Ma Scylla non le permise di farlo fino alla fine, perché la strinse in un altro abbraccio.

Caddero in ginocchio. Si sedettero all'ombra degli alberi sopra di loro, scivolarono contro i tronchi e continuarono a baciarsi.

 

 

«E' venuta solo lei?»

Tally allungava il collo in quella direzione.

«Forse la Alder ha voluto mandare prima lei, per Raelle» la buttò lì Abigail, incapace di trattenersi dal guardare le due innamorate. Sia lei che Tally erano evidentemente contente che Scylla fosse ancora viva: gli Undici erano in verità sempre stati Dodici.

«Sarebbe strano» brontolò Tally inarcando le sopracciglia. «La Generale del Cigno d'Argento che lascia il posto alle emozioni umane? Da scriverci un libro.»

Abigail guardò assertiva l'amica. Notò che anche alcuni degli altri sparsi nella radura avevano intravisto Scylla e parlottavano, senza ovviamente avvicinarsi ancora. «Chi lo sa? Magari questa storia ha cambiato anche la Alder» dichiarò con un sospiro. «Dopo anni di fatiche ha raggiunto il proprio obiettivo. Potrebbe concedersi un bacetto da qualcuno.»

Tally spirò una risata dal naso volgendosi a guardare l'amica. In effetti, Abigail non aveva tutti i torti.

 

 

Dopo un po' Raelle e Scylla si calmarono. Non avevano parole per descrivere la gioia che provavano per il fatto di poter stare vicine l'una all'altra. Adesso erano sedute sull'erba con la schiena poggiata contro l'albero e basta.

Scylla teneva la testa sulla spalla di Raelle, e quest'ultima le carezzava i capelli; così facendo, si rese conto che erano pieni di nodi e sporchi. Un'occhiata fugace agli abiti di Scylla le disse che non doveva essersela spassata ultimamente, perché nemmeno quelli avevano un bell'aspetto.

«Non ti hanno neanche lasciata cambiare?» disse piano Raelle.

Scylla non rispose.

«Come avete fatto a risolvere il casino là fuori?»

Scylla rimase zitta. Poi, mentre Raelle si spostava in cerca del suo sguardo, lei prese un respiro profondo.

«Devo dirti una cosa.»

Raelle deglutì. «Cosa?»

Gli occhi di Scylla vacillarono. Erano lucidi. Sembrava avere la febbre. Stava così anche prima?

«Io non sono mai uscita dall'Arena» disse Scylla con voce flebile.

 

 

«Cosa?» ripeté Raelle con una punta di furia. Mille idee e congetture presero ad infervorare nel suo petto.

«Ti spiego!» esclamò Scylla portando le mani avanti, e ricercando il contatto fisico con la bionda. «Non so cosa sia successo fuori dall'Arena... ma, a giudicare da come vi state divertendo... credo cose belle.» Si passò la lingua sulle labbra, che erano secche e tagliate in un paio di punti. Anche il viso appariva emaciato. «Io... non sono... la copia originale.»

Raelle sentì il proprio sangue rabbrividire.

«La Alder mi ha costretta a Sdoppiarmi prima che iniziasse il Gioco. La Scylla originale è rimasta fuori.»

«Lo so» disse Raelle, più fredda di prima. Era incerta se dare sfogo alla rabbia o alla comprensione. La copia di Scylla era identica all'originale in tutto e per tutto, lo sapeva e lo vedeva, e ciò non le aveva mai dato fastidio; adesso invece si. Credeva di avere davanti la vera Scylla, entrata nella cupola prima della Alder e i componenti del Cigno. E ora scopriva che non era così.

Un'altra menzogna di Capitol City? E della Alder, anche, a questo punto? La copia di Scylla non era davvero morta?

«La Generale ha inviato un messaggio poco fa, spiegandoci ogni cosa» snocciolò la bionda.

«Non ogni cosa» la corresse Scylla. «La prima copia che era con voi all'inizio ha sfruttato la granata urlante per allontanarsi. Lo avrebbe fatto comunque in seguito.» Riprese fiato. «Dopo, si è Sdoppiata ancora. Io sono la terza copia.»

L'apprensione distorse i lineamenti di Raelle. «Ma sei impazzita? Rischi di... » Si morse le labbra. «Non puoi farne troppe!»

«Lo so. Non volevo lasciarti sola» ribatté Scylla, che dovette ricercare il sostegno dell'albero. «Ti ho cercata tutto il tempo. Era ciò che volevo fare sin dall'inizio. Non mi sarei mai permessa di obbedire a un ordine della Alder abbandonandoti nell'Arena.»

Raelle si sentiva pietrificata. Conosceva bene il Dono di Scylla: era in grado di moltiplicare fisicamente se stessa, ma più copie generava e più la sua scintilla vitale si indeboliva. L'originale necessitava di tempo per riacquistare le forze dopo uno Sdoppiamento; se invece le copie venivano reintegrate, il recupero avveniva istantaneamente. Ma se una delle copie perdeva la vita, in quel caso l'originale si sarebbe sentito come spegnere, attaccato da un senso di apatia e mancanza di voglia di vivere. Non era semplice uscire da una situazione del genere, Scylla gliel'aveva sempre sottolineato, anche se ogni volta ne aveva sminuito la pericolosità.

Raelle non avrebbe saputo dire se il fatto che una copia si fosse ulteriormente Sdoppiata avesse un'influenza sull'originale. In quel momento quel tipo di complicazioni la confondevano, e lei non aveva voglia di pensarci.

«Come ci hai trovati?» domandò Raelle, tornando a stringere a sé la copia-Scylla.

«Mi vuoi Curare?» intuì l'altra.

«Tu non preoccupartene e rispondi alla mia domanda.» All'istante uno sciame di scintille luminose proruppe dal corpo di Raelle e fluttuò verso quello di Scylla: si depositava sulla sua pelle e questa lo assorbiva.

«Ho seguito i Segugi» spiegò Scylla. «Li hanno sguinzagliati dopo l'eruzione del vulcano. Da allora hanno lasciato perennemente il sole... e sono entrati nell'arena anche dei soldati. A fiumi.»

«Ma tu dove sei stata, tutto il tempo?» La Cura di Raelle vedeva già i primi risultati sull'incarnato dell'altra ragazza.

«A nord. C'è un terreno desertico pieno di canyon. La seconda copia è andata là per buttarsi, ma prima ha creato me.»

«E poi?» Raelle continuava imperterrita a fare domande, con calma e pacatezza, così da poter proseguire indisturbata nella Cura. Le particelle di luce erano in una lenta e costante processione dal suo corpo a quello dell'amata.

«Mi sono avviata verso la foresta. A metà strada ha iniziato a piovere. Si è fatto buio prima di quando avesse dovuto. Il terreno era scivoloso e paludoso, ho dovuto fare una pausa per riposare, mi sentivo stanchissima. E' stato allora che è arrivato il terremoto. E il vulcano ha eruttato.»

Raelle annuì, concentrata, in ascolto.

«Ho ripreso la marcia. Ero spaventata, avevo paura che vi avessero ucciso... Ho raggiunto la foresta. E ho sentito i latrati dei Segugi. Voci che impartivano ordini. Ho dovuto nascondermi.»

«Ti hanno trovata?» chiese allarmata Raelle.

«No» disse Scylla scuotendo il capo. «Se una copia si Sdoppia a sua volta, l'essenza vitale della terza copia è esponenzialmente più debole di quella di una generata dall'originale. Per questo non hanno rintracciato i miei segni vitali. Ho seguito le voci fino a raggiungerli, e allora ho capito che vi stavano cercando. Eravate vivi!» Scylla sorrise felice. «Erano parecchio incazzati, per questo.»

Raelle accennò un sorriso.

«Li ho seguiti. Mi nascondevo quando si fermavano. Alla fine hanno trovato la cupola. Hanno provato in tutti i modi a passare, ma non ci sono riusciti. Hanno addirittura usato gli esplosivi.»

Raelle si limitava a fare cenni affermativi con la testa. Stava dando ogni stilla d'energia e concentrazione alla Cura, sebbene una parte di lei ascoltasse ciò che le veniva raccontato.

«Uno dei Segugi mi ha vista, circa un giorno fa, credo. Mi sono arrampicata su un albero, ma quello sapeva scalarlo. Abbiamo combattuto. Alla fine sono riuscita a buttarlo giù. Poi, tutta la squadra si è riunita e sono tornati indietro insieme. Sono spariti e non sono più tornati.»

La Cura era terminata. Raelle riempì i polmoni d'aria: provava un forte spossamento. Ora la copia-Scylla aveva ripreso un colorito roseo e appariva in forze; anche lei si sarebbe ripresa in fretta, comunque, le sarebbe bastato respirare in tranquillità e non muoversi per un po' di tempo.

«E come sei entrata nella radura, se nemmeno le armate di Capitol City hanno capito come si fa?» domandò la bionda, poggiata all'albero, con il capo piegato indietro e gli occhi chiusi, mano nella mano con Scylla.

«Provengo pur sempre dall'originale» disse l'altra. «Posso comunicare con lei in ogni momento. Lo sto facendo anche adesso. Lei sa ciò che so io. Condivido con lei pensieri e sentimenti, anche se per pochi secondi. E' stata lei a spiegarmi come si entra.»

Raelle aprì gli occhi, in attesa che l'altra rivelasse l'arcano mistero.

«Quelli del Cigno hanno ideato uno stratagemma fantastico. Hanno creato una porta. Che appare solamente se un membro del Cigno d'Argento la tocca, perché riconosce i nostri geni. Ma non basta! Poi bisogna dire la parola d'ordine.»

La bionda stentava a credere alle proprie orecchie; il buonumore era tornato a scaldarle le gote.

«Permesso?» disse Scylla.

Raelle la guardò confusa.

«La parola d'ordine. Permesso? Allora la porta si apre.»

Entrambe risero. Scylla indicò una porzione del muro circolare, a pochi passi da loro, assolutamente anonimo. Il pattern di alberi artificiali non si interrompeva in quel punto.

«E' qui» concluse Scylla.

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Capitolo 13
*** Gli Ultimi Dodici ***


13 - GLI ULTIMI DODICI

 

La copia-Scylla aveva cominciato a raccontare la sua disavventura anche agli altri occupanti della radura-cupola, che non avevano più resistito alla curiosità di avvicinarsi a lei e Raelle e le avevano tempestate di domande. Fra loro vi erano anche Tally e Abigail.

Non erano nemmeno a metà della storia, quando un rumore secco e metallico attirò l'attenzione di tutti verso il punto dove Scylla aveva rivelato a Raelle si trovasse la porta mistificata negli alberi. Adesso laggiù si era aperto un varco squadrato dal quale entrava della luce chiara.

Dal varco entrò la Generale del Cigno d'Argento, Sarah Alder. Indossava una tuta mimetica verde foresta, alti stivali e un berretto quadrato con la visiera, sul retro del quale faceva capolino la sua lunga coda di capelli corvini. Teneva le mani piantate sui fianchi e camminava lenta in avanti, osservando con minuzia lo spazio della radura. Si voltò e vide i ragazzi assiepati contro gli alberi; lo stupore iniziale venne sostituito da un sorriso.

«Eccovi qui!»

Fece un cenno verso la porta; da quella entrarono uomini e donne, alcuni con indosso la sua stessa tuta mimetica, altri con camicie e pantaloni bianchi come la neve. Erano tantissimi. I ragazzi assistettero ammutoliti alla scena.

Dopo una dozzina di ingressi, oltrepassò il varco anche Scylla. Aveva la tuta mimetica. Volse il capo di qua e di là frettolosamente, e quando intravide i ragazzi spiccò una corsa. I Dodici si aprirono al suo passaggio per permetterle di raggiungere Raelle.

Fu strano, per Raelle. Aveva seduta accanto a sé, con una mano stretta nella sua, una Scylla; ne sentiva il calore corporeo e il tocco delle vesti sulla pelle. Eppure, un'altra Scylla adesso la cingeva con le braccia, le baciava il collo e il viso e le diceva che la amava. Rispose comunque al suo affetto alla stessa maniera, lasciandosene trasportare; e qualcosa in fondo al cuore la fece sussultare: quella era la vera Scylla. Quel corpo che ora stringeva, che aveva su di sé, possedeva un vigore, una presenza fisica, una voce, un modo di muoversi e di toccarla e parlarle, che non aveva la copia di lei. Custodiva ed esprimeva un fuoco più ardente, col quale adesso si sentiva connessa, e questo la fece rabbrividire di piacere e felicità.

Ma Scylla si allontanò, con un sorriso da orecchio a orecchio. «Aspetta, aspetta... » Interruppe l'euforia di Raelle con un gesto delle mani. Tutti i ragazzi e i membri del Cigno, o quasi tutti, le fissavano. «Riassorbo la copia...» mormorò lei per dare a Raelle una giustificazione a quell'interruzione.

La vera Scylla prese le mani alla gemella, che si era alzata in piedi. Si guardarono occhi negli occhi: la seconda prese a evaporare, a sbiadire lentamente. Si trasformò in un agglomerato di fumo grigio molto denso, ancora della foggia di un essere umano, che pian piano venne riassorbito dalle mani di Scylla, l'unica ora ad essere presente davanti agli sguardi pieni di sgomento che la attorniavano. In meno di un minuto la copia svanì.

A quel punto, fu chiaro a chi aveva assistito alla scena che Raelle e Scylla volessero stare sole, e così lasciarono loro un po' di intimità.

 

Sarah Alder si era messa a scartabellare con dei pacchi e delle borse ammonticchiati sull'erba, portati da altre persone. Con un lungo foglio si presentò ai Dodici.

«Gran parte di ciò che dovrei dirvi, lo avete già sentito nel mio messaggio di poco fa. Ma voglio congratularmi ancora con voi, personalmente. Senza la vostra spontanea volontà di partecipare agli Hunger Games, per quanto terribile e pericolosa sia stata questa scelta, ora non saremmo liberi abitanti di Panem.» Fece una pausa per guardare uno ad uno i membri dei Dodici; anche Raelle e Scylla si erano uniti al gruppo. «Dopo il vostro ingresso nell'Arena, come sapete, Capitol City ha inscenato un'insubordinazione dei Dodici Distretti. Una finta rivolta per non rivelare la verità sul motivo per cui i Giochi non andavano in onda. Il Cigno d'Argento ha subito provveduto ad informare i veri abitanti dei Distretti per spiegare loro la situazione. Gli abbiamo detto di voi. Gli abbiamo spiegato che quest'anno, per la prima volta, non tutti i Distretti avevano inviato Tributi nell'Arena, e che addirittura un cittadino di Capitol City si era proposto volontario.» Le parole di Sarah Alder erano piene di enfasi. «Scylla si è rivelata molto utile al nostro fianco poiché evidenziava, con la sua presenza tra le nostre fila, l'impotenza di Capitol City e l'inefficacia delle loro ingiuste leggi: non è rimasta imprigionata nell'Arena come era stato decretato. Ha riscosso un notevole successo fra la popolazione di Panem, mostrandosi pubblicamente al mio fianco nei messaggi diretti ai Distretti.»

In molti elargirono pacche affettuose e parole entusiaste a Scylla, mentre la Alder parlava.

«Al terzo giorno, la finta rivolta è stata soffocata dal Cigno in collaborazione con i Distretti. Abbiamo avanzato un messaggio di pace alla Presidentessa. Ci ha risposto subito... scomparendo, ha abbandonato il suo ruolo. Noi ovviamente ne abbiamo approfittato e ci siamo infiltrati nei sistemi di comunicazione di Capitol City, per far vedere a tutti quanti che cosa avete fatto voi Dodici qui dentro. Gli abbiamo mostrato ciò che non avevano mai visto: tutti i Tributi che si aiutano a vicenda mossi da un intento comune: proteggersi a vicenda.» La Alder sorrise in un modo nuovo, che nessuno dei Dodici ragazzi le aveva mai visto usare: sembrava ringiovanita di almeno cento anni. Non che apparisse anziana, ma era noto il fatto che il suo Dono della Rigenerazione la rendesse praticamente immortale, e questo spesso le conferiva un aspetto stanco, eccessivamente rigido, distante. Adesso, però, quell'aspetto non lo aveva più. Era semplicemente giovane e felice. «Il mattino del quarto giorno la Presidentessa è stata rintracciata ai confini del Primo Distretto, a bordo di un veicolo. In questo momento è tenuta in custodia da noi, in attesa di un processo al quale presenzieranno i maggiori responsabili dei Distretti di Panem.»

Sarah Alder sbatté le palpebre e abbassò gli occhi severi - e radiosi - sul foglio che teneva in mano.

«In nome delle vostre eroiche gesta, vi conferisco ora una medaglia al valore. Affinché non vengano mai dimenticati gli Ultimi Dodici, coloro che sono entrati nell'Arena per distruggerla anziché distruggersi. Coloro che hanno posto la parola Fine agli Hunger Games, valorosi membri del Cigno d'Argento.»

Una donna di colore vestita di bianco, dal portamento fiero ed elegante con i capelli scuri rasati, andò vicino alla Generale. Bridey, una delle migliori Intercettatrici del Cigno. Reggeva un cuscino viola bordato d'oro con entrambe le mani, sul quale vi erano diverse medagliette che brillavano abbaglianti al sole.

E Sarah Alder elencò uno per uno i Dodici, leggendo nome e provenienza dal foglio. Ognuno si recò davanti a Sarah Alder, che fece un mezzo inchino; prese una medaglietta, ne aprì il cordoncino e il richiamato vi infilò la testa per farsela mettere al collo.

 

«Tally Craven, Distretto Dodici.

Scylla Ramshorn, Distretto Nove.

Glory Moffett, Distretto Otto.

Gerit Buttonhood, Distretto Sette.

Hilary Saint, Distretto Sette.

Raelle Collar, Distretto Cinque.

Anacostia Quartermaine, Distretto Quattro.

Byron... Distretto Tre.

Padre Generale, Distretto Due.

Abigail Bellweather, Distretto Due.

Libba Swythe, Distretto Uno.

Adil... dei Tarim. Nuova Capitol City.»

 

Quando gli Ultimi Dodici furono insigniti della medaglia al valore, nella radura-cupola scrosciò un applauso lungo e rumoroso da parte dei membri del Cigno, innescato dalla Alder.

Tally, Abigail e Raelle - e quest'ultima con Scylla - si presero per mano e ricevettero l'applauso come in uno stato di sogno. Piano piano, anche i restanti dei Dodici le imitarono e cercarono le mani degli altri: una volta unite, le sollevarono in alto per concludere trionfalmente quell'applauso.

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Capitolo 14
*** Tempi di Organizzazione ***


14 - TEMPI DI ORGANIZZAZIONE

 

Era passata una settimana da quando avevano lasciato l'Arena degli Hunger Games. I lavori di smantellamento erano cominciati subito, Sarah Alder era stata chiarissima in merito: il loro primo impegno in quanto responsabili temporanei del governo di Panem sarebbe andato dritto alla distruzione di ogni cosa riguardante i Giochi, a partire dagli edifici sino alle leggi.

In quel momento, probabilmente, i due Generali del Cigno d'Argento stavano discutendo in qualche grande salone assieme a tante altre persone, rappresentanti dei Distretti; Raelle se li immaginava infervorati dai valori che sostenevano nel tentativo di trasmetterli a chi li ascoltava. Non che avessero bisogno di convincere qualcuno, perché già i Distretti si erano unificati ormai. Quelli erano tempi di organizzazione, non di conquista.

La ragazza staccò la fronte dalla finestra fredda e ci alitò sopra. Una nuvoletta apparve. Ci disegnò sopra un cuore con il dito. Fuori pioveva da qualche giorno. La luce diurna era scarsa, e questo le metteva addosso un'inquietudine vischiosa e impalpabile che le impediva di pensare con tranquillità alle faccende quotidiane.

Due braccia sfilarono ai lati della sua faccia e si abbassarono lentamente per cingerle i fianchi: sentì l'odore della pelle di Scylla, che intanto si sedeva dietro di lei per abbracciarla.

«Che cos'hai?» si sentì chiedere.

«Niente» rispose Raelle, gli occhi fissi sul cuore appannato che iniziava a gocciolare sul vetro. Stava mentendo, e sapeva che non era giusto farlo per due motivi: perché riguardava gli Hunger Games, e perché lo stava facendo con Scylla... avevano fatto un patto. Sospirò.

«La pioggia» esordì piano. «Mi ricorda la foresta.»

«Già» disse Scylla in un bisbiglio al suo orecchio, il mento poggiato sulla spalla. «Anche a me ricorda la foresta.»

«Fa schifo.» Nel dirlo, una punta di nausea colpì la bocca dello stomaco di Raelle. Ma quella fase l'aveva passata da qualche giorno ed era in grado di oltrepassarla senza dover correre in bagno.

«Lo so.» Scylla la strinse forte. «Lo so.»

Le gocce picchiettavano contro il vetro a intermittenza, seguendo ondate ora più deboli ora più violente. Un acquazzone incostante. Al di là della finestra c'era un giardinetto quadrato di semplice erba, recintato da muri bianchi sui quali si aprivano altre finestre uguali a quella: là ci vivevano Tally di fronte, Abigail e Adil in quella a destra e Libba a sinistra.

«Vuoi bere qualcosa di caldo?» chiese Scylla.

Raelle annuì. Mentre l'altra si alzava per andare a prepararglielo, lei ritornò in salotto: dovette solo girarsi e salire un gradino per farlo; quella casa non era molto grande, ma in compenso era dotata di una quantità spropositata di comfort a cui né Raelle né Scylla erano abituate. Gli interni erano in legno pregiato e lavorato a lucido, c'erano lampade e lucette dappertutto che si attivavano e spegnevano quando gli si passava davanti, la maggior parte degli elettrodomestici funzionava su comando vocale ed era ultra-intelligente - fatto che le metteva particolarmente a disagio, oltre che offrire loro momenti parecchio divertenti - e ogni altro pezzo della mobilia, dagli scaffali, al divano, ai tavoli, possedeva delle qualità moderne, comodissime ed efficienti di cui le menti delle ragazze faticavano ad accettare l'esistenza. Lo trovavano esagerato e inutile. Ma dato che potevano disporne senza limiti, non si lamentavano e sperimentavano.

Raelle si abbandonò sul divano, svogliata, e posò la nuca sullo schienale. Alzò una mano per coprirsi la faccia: la faceva stare meglio. I flash della sua casa nel Distretto Cinque continuavano ad assalirla, inframmezzati in maniera fastidiosa dalle memorie raccolte nell'ultimo Hunger Game; chiudere gli occhi e lasciare che quelle immagini le scorressero davanti era sia piacevole sia disturbante. Agli Ultimi Dodici era stato assicurato che i loro familiari li avrebbero raggiunti il prima possibile, ma i genitori di Raelle non erano ancora arrivati per problemi coi trasporti a causa della marea di gente che adesso voleva venire a Nuova Capitol City per visitarla e constatare di persona le novità in corso.

Scylla si sedette sul divano e le porse una tazza fumante, che Raelle prese ringraziandola. Sapeva di melissa. La tenne sotto al naso per godere del tepore e il profumo.

«Ci hai messo il miele?»

«Certo.» confermò Scylla.

Le faceva ancora strano parlare di argomenti banali come quello. Ad altre cose invece si era riabituata in fretta, come i comfort del bagno.

Raelle diede un sorsetto alla tisana. Scottava.

Scylla si stirò e allungò un braccio dietro le spalle della bionda. Lei aveva accusato molto meglio il colpo di quegli ultimi Hunger Games, per via del fatto che erano state le sue copie fisiche a prendervi parte: riceveva i loro impulsi motori, emotivi e mentali ma non li registrava come propri, nemmeno dopo la reintegrazione delle copie. Lo aveva spiegato in dettaglio a Raelle. Per lei, ciò che era accaduto dentro all'Arena era stato come un lungo e brutto sogno.

«Bevila piano. E' bollente.»

Raelle percepì che l'altra sorrideva. Le venne spontaneo sorridere a sua volta e guardarla. Ritornò alla tazza e diede un altro piccolo sorso.

Seguì un lungo - insolito, trovò Raelle - silenzio.

Scylla diede un colpetto di tosse con le labbra chiuse.

«Credo che sia arrivato il momento di dirtelo» disse finalmente. Era palese che qualcosa le passasse per la testa. Raelle trattenne il fiato.

«E' da quando ti ho rivista nella radura l'ultimo giorno, che ci penso. Avrei voluto chiedertelo allora, ma non mi sembrava il caso. Eri stremata e sconvolta. Volevo che stessi bene, insomma. E se adesso è troppo presto, qualunque momento diventerà troppo tardi, e io impazzirò di sicuro nel frattempo.»

Ci girava intorno. Raelle cercò di bere un altro sorso e ci riuscì solo in maniera piuttosto goffa, evitando si scottarsi per un pelo.

Dalla tasca Scylla estrasse un sacchetto bianco. Ne tirò fuori un anello d'oro con un minuscolo diamante trasparente.

«Raelle. Vuoi sposarmi?»

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Capitolo 15
*** Fuori dalla Crisalide ***


15 - FUORI DALLA CRISALIDE

 

Per le nozze Raelle e Scylla avevano scelto un luogo neutrale, uno di quelli che da dopo la trasformazione di Panem fioccavano qua e là. Si trattava di terreni che i Distretti erano stati apertamente disposti a condividere con quelli adiacenti: quello, predicava con solerzia Sarah Alder, era l'inizio dell'unificazione di Panem in un unico grande Paese, libero e prospero.

Le ragazze si erano orientate verso una zona che non fosse vicina a nessuno dei loro due Distretti di provenienza, per non fare differenze l'una rispetto all'altra: si erano dunque infine concordate su un appezzo di terra ceduto dal Distretto Sette, un largo spazio erboso privo di sporgenze o avvallamenti, un vasto prato abbracciato sul versante orientale da una catena di alti pini che preannunciavano la foresta sconfinata in quella direzione.

 

I preparativi erano cominciati da una settimana. Raelle e Scylla si erano occupate delle linee generali e di quelle richieste per loro imprescindibili, come ad esempio il numero degli invitati e i festeggiamenti post-cerimonia; per il resto avevano deciso di affidarsi ai loro amici e ai responsabili dei Distretti invitati, in particolare quelli del Sette.

 

Sorgeva l'alba sullo spiazzo che di lì a poco sarebbe stato teatro dell'unione. Il sole faceva capolino dalla cima dei pini coi suoi caldi raggi della tarda primavera. All'interno di una grande tenda bianca, Raelle sedeva di fronte a uno specchio, spettinata e con uno sguardo terribile.

«Agitata?» fece la voce di Tally, da un angolo della tenda. Quella si alzò e raggiunse l'amica per posarle le mani sulle spalle. «Sarà grandioso» cercò di rassicurarla, mentre la massaggiava. «E' normale essere spaventati e agitati. Mi preoccuperei se tu non lo fossi.»

«E' facile parlare, per te» ribatté Raelle, con la voce ancora impastata dal sonno. «Tu mica ti sposi oggi.»

Tally fece un verso di assenso e una smorfietta. «E' vero.» Alzò le spalle. «Chissà... »

Raelle alzò gli occhi sul viso di lei. Si chiese a cosa stesse pensando, e come procedessero le cose tra lei e Gerit; non glielo aveva più chiesto da un pezzo, presa com'era stata dai preparativi.

«Forza. Abbiamo una marea di cose da fare!» Tally lasciò le spalle della bionda e tornò al suo angolo, dove, su una panca, vi erano degli abiti ripiegati e confezionati. Si sedette e prese a scartarne uno. Sul lato opposto della panca, Abigail sonnecchiava ancora.

Raelle si diede un'altra occhiata allo specchio. Non era più la stessa di prima, e in alcuni momenti faticava a riconoscersi nella propria immagine; non più per il fatto che era stata per due volte un Tributo dei vecchi Hunger Games, esperienza da cui qualunque essere umano uscirebbe traumatizzato, ma perché l'impegno del matrimonio alle porte la aveva avvolta come un manto di luce, come una specie di crisalide. E adesso, da quella crisalide ci stava uscendo e non aveva la minima idea di cosa fosse diventata. Di cose stesse diventando. Di una cosa, però, era certa: l'ingrediente fondamentale di quella trasformazione era stato l'amore, quello tra lei e Scylla. Era quello ad aver fatto tutti i miracoli, compreso il sollievo e l'abbandono dei ricordi spiacevoli dei Giochi, ormai più solo un'ombra sbiadita nella sua mente.

Raelle prese la spazzola dal ripiano che aveva davanti e si sistemò i capelli. Tally aveva ragione: c'erano un sacco di cose da fare entro mezzogiorno.

 

Il palchetto che quelli del Distretto Sette avevano allestito era adorabile. Interamente fatto con il legno delle loro foreste, aveva un sapore tradizionale e spartano, con tronchi e tronchetti ancora provvisti della corteccia sistemati in maniera studiata. Avevano inoltre costruito dei grandi vasi bassi e larghi per ospitare cespugli di fiori variopinti. Davanti al palco erano state sistemate una trentina di sedie, il numero massimo degli invitati voluti dalle spose. Sopra e al centro del palco era stato montato un bell'arco curvilineo realizzato a mano dagli artigiani del Sette, dal quale cadeva una cascata di fiori bianchi. Il tutto si trovava davanti agli alberi a oriente, di modo che gli invitati e la cerimonia stessa fossero rivolti verso di essa.

 

Il sole brillava alto nel cielo terso, e le prime ondate di calore iniziavano ad arrivare. Non solo per la temperatura e l'estate alle porte, ma per il fremito di eccitazione che serpeggiava, anche tra gli invitati.

Le sedie erano piene. La luce splendeva forte e chiara su ogni cosa. E tutto era pronto.

A lato del palco, gli strumenti dei musicisti presero a suonare: c'erano violini e viole, un pianoforte, delle chitarre e dei flauti.

Nello spazio erboso alle spalle degli invitati apparvero delle figure. Da un lato vi erano i genitori di Raelle con quest'ultima sotto braccio; dall'altro, quelli di Scylla che la accompagnavano gentilmente. Camminarono gli uni verso gli altri, e quando si raggiunsero, i genitori si abbracciarono e lasciarono sole le spose, davanti all'imboccatura del lungo spazio rettilineo che separava in due gruppi compatti gli invitati, il corridoio naturale che conduceva al palchetto.

Sia Raelle che Scylla avevano optato per colori bianchi. L'abito di Raelle consisteva di tessuti rigidi e sodi cuciti con un goccio di influenza della moda moderna di Capitol City, consistenti ma comunque leggeri e comodi, che le davano un'aria elegante, aggraziata, ma anche regale e maestosa. Quello di Scylla invece era più svolazzante, drappeggiato, leggiadro, con numerosi veli che cadevano a balze ai lati del corpo come piccole cascatelle, e a differenza di quello di Raelle, il suo lasciava le spalle e buona parte del petto scoperti. Nessuna delle due portava gioielli o quant'altro, solo una corona di fiori in mano; si guardarono a lungo, raggianti, poi misero una sul capo dell'altra la corona.

Scylla e Raelle si strinsero la mano e avanzarono nel corridoio erboso. La musica continuava, ora più enfatizzata e trionfale, accompagnata ogni tanto dal cinguettio degli alberi vicini. Sfilarono accanto ai Responsabili dei Dodici Distretti di Panem seduti sulle retrovie, i quali avevano insistito per voler essere presenti; poi in fianco agli Ultimi Dodici, sparsi da un lato e dall'altro, fra i quali vi era anche Sarah Alder e Bridey; infine superarono i loro genitori e familiari. Si separarono, salirono ognuna la breve rampa di scale in legno posta simmetricamente sui due lati del palco e andarono a ricongiungersi davanti e sotto alla cascata di fiori che prorompeva dall'arco al centro della costruzione.

 

La musica finì, e la cerimonia ebbe inizio. La officiava un parente di Libba che si era reso disponibile a farlo e ne possedeva le competenze: alle due ragazze era piaciuto sin da subito, avevano apprezzato molto il fatto che fosse stata la stessa Libba a proporlo.

Fu una cerimonia semplice, priva di fronzoli o di accenni ad un passato inutile e pieno di una sofferenza di cui il mondo non aveva più bisogno. In quel momento regnava la pace, la gioia e l'amore che andava a legare due persone nel rapporto del matrimonio, non c'era spazio per nient'altro.

Parecchia gente tra gli invitati piangeva, compresa Tally; sedeva vicino ad Abigail, vistosamente commossa. A fianco di Tally c'era Gerit, e a quello di Abigail Adil; quest'ultimo aveva vicino la sua sorella più piccola, Khalida. Gli altri erano distribuiti in maniera uniforme lungo quella fila. Era bello guardare verso di loro e notare la varietà dei colori dei loro vestiti e la felicità sui loro volti illuminati dal sole.

 

Verso la fine della cerimonia, Raelle pronunciò la sua promessa a Scylla e viceversa; non si erano scritte nulla, dissero ciò che provavano in quell'esatto momento.

Infine, si scambiarono gli anelli; poi, si tennero fortissimo le mani mentre l'officiante dichiarava, con una lentezza decisamente esagerata - e infinitamente fastidiosa, pensarono molti - che le due spose potevano baciarsi.

E si baciarono, saltandosi letteralmente al collo. Scoppiò l'applauso, fragoroso, e i musicisti ripresero a suonare con entusiasmo.

Il Dono di Raelle, l'Elettromagnetismo, si manifestò in quel momento: tanto forte era il suo sentimento in quella circostanza, che dal suo corpo si manifestò un'aura di un bianco accecante, come una fiamma che danzava sinuosa ma senza bruciare; e sollevò in aria di quasi un metro sia Raelle che Scylla, strette l'una all'altra, per poi farle ruotare sul posto. La cosa suscitò stupore e meraviglia fra i presenti, che sostennero e intensificarono l'applauso tra le esclamazioni.

 

Il banchetto voluto al termine della cerimonia era un buffet allestito vicino al palco. Gli invitati potevano scegliere se mangiare in piedi o andare a sedersi ad alcuni tavoli appositamente preparati, oppure non mangiare affatto e divertirsi. La musica continuò mutando l'atmosfera ma non l'enfasi e l'importanza dell'evento.

In breve la gente smise di mangiare e si mise a ballare. Le spose avevano insistito affinché non fossero esclusivamente loro nell'occhio del ciclone, ma che ognuno si sentisse libero di poter fare ciò che desiderava, nei limiti del buon senso ovviamente. Tutti quanti gli invitati, nessuno escluso, pretese con ironia e affetto che Raelle e Scylla venissero sottratte l'una all'altra per dover ballare con ognuno di loro, lontane e separate; ma alla fine si aprirono in un cerchio e lasciarono al centro le spose, che si diedero a diversi stili, dal rock al lento. Quando partì quest'ultimo, di nuovo gli invitati si unirono alle danze; fra loro, Abigail e Adil ovviamente stavano abbracciati, Sarah Alder ballava con il Padre Generale, i genitori delle spose e alcuni dei Responsabili dei Distretti tra loro; pure Tally e Gerit, sotto gli sguardi increduli ma soddisfatti di alcuni, ballarono insieme stretti stretti, parlandosi all'orecchio e ridacchiando. Anacostia ballava giocosamente con Bridey e sembrava divertirsi un mondo, mentre Byron danzava piano con il suo fidanzato senza fare troppo baccano.

 

Il pomeriggio scivolò via senza che nessuno se ne accorgesse. Prima che calasse il tramonto, i festeggiamenti trovarono il loro epilogo, non perché le spose lo volessero ad ogni costo, fu uno svolgersi naturale degli eventi. Arrivarono veicoli di terra e di aria a prendere gli invitati e quasi tutti se ne andarono.

Gli ultimi ad andarsene furono Tally, Gerit, Abigail e Adil, che sedettero sui gradini del palco assieme a Scylla e Raelle a parlottare e scherzare. Quando fu palese agli amici che le spose erano esauste e avevano voglia di stare da sole, se ne andarono anche loro, salutandole con lunghi abbracci affettuosi.

 

Infine, Raelle e Scylla lasciarono il palchetto della cerimonia e il prato, per inoltrarsi nella foresta di pini che svettava a est. Il cielo imbruniva. Spirava un'arietta fresca.

Seguirono il sentiero sterrato che si snodava tra gli arbusti e raggiunsero una casetta appartata: quello era il loro regalo di matrimonio. Da lì in poi avrebbero vissuto in quel posto. In tanti vociavano che quell'appezzamento di terra sarebbe stato meta di molti, che desideravano vivere liberi e a contatto con la natura, lontani dal Vecchio Mondo, dalla separazione in Distretti, dal tenore di vita disumano che Capitol City aveva imposto. Ma, per il momento, non c'era ancora nessuno. Solo loro due.

Aprirono la porta, la oltrepassarono e la richiusero.

 

E da quel momento, vissero come moglie e moglie.

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