...even if it's hard (raccolta di oneshot)

di pansygun
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** ...even if it's hard | Premessa ***
Capitolo 2: *** Wake up, Mr. Sleepyhead! | Dabi's rising ***
Capitolo 3: *** Disturbed soul | Tenko's voice ***
Capitolo 4: *** Both of us roaming through a magnificent sky | Izuku's despair ***
Capitolo 5: *** Heroes never dies | Katsuki’s resignation ***
Capitolo 6: *** The fuel that drives | Shoto's purpose ***
Capitolo 7: *** You’re the light to guide me | Dark Shadow's hand ***
Capitolo 8: *** So hard and lonely | Kirishima’s cadeau ***
Capitolo 9: *** ...but everything ends | Katsuki's grief ***
Capitolo 10: *** I've never seen you cry | Eijiro's last chance ***



Capitolo 1
*** ...even if it's hard | Premessa ***


Ma ciao Topolini meravigliosi! ♥️

(¬_¬) Vi erano mancati i miei non-capitoli?
Nah, non credo! (_)

Come al solito eccovi la playlist di questa raccolta e, come al solito, occhio perché cambia come cambia il vento, il mio umore, le mie idee (o le scale di Hogwarts)...


https://open.spotify.com/playlist/1zsAIM4pFIZVv61Oty7UWA?si=KmIK6VtgQx6IZA8aOBLlAQ

Ah! Sappiate che ogni tanto butto lì indizi per le prossime storie? Quindi...stay tuned 😘

Buon ascolto immersivo ♥️

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ELENCO DELLE ONESHOT

⌘ Wake up, Mr. Sleepyhead! | Dabi's rising
⌘ Disturbed soul (?)
⌘ Both of us roaming through a magnificent sky (?)
⌘ Heroes never dies (?)

 

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Piccola nota dell'autrice: le recensioni e i commenti mi piacciono e ritengo siano estremamente utili per crescere.
Quindi, a cuore aperto, non tiratevi indietro dal dirmi cosa ne pensate! ♥️

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Capitolo 2
*** Wake up, Mr. Sleepyhead! | Dabi's rising ***


Wake up, Mr. Sleepyhead! | Dabi’s rising

18/01/2023

 



Ci abbiamo messo così tanto lavoro per rimetterti in sesto, ma tu resti un fallimento.
Oh! Ho toccato un nervo scoperto? Che patetica dev’essere stata la tua vita, ragazzo.
No.
Lui non era un fallimento.
Non voleva credere di esserlo davvero.
Era per questo che si era arrabbiato, tanto da perdere il controllo.
L’asfalto grattava sotto i piedi e ne feriva la pelle già martoriata ad ogni passo.
La sua vita non era patetica, solo…strana? Difficile? Non la sapeva definire.
Ogni passo era una scossa lungo le gambe e il cuore sembrava appesantirsi, affaticarsi.
Si stava sforzando di sentirle tutte, quelle piccole sensazioni.
Il suo corpo era diventato ancora più debole, quel dottore aveva ragione, ma quei dolori lui li voleva sentire tutti, uno per uno. Concentrarsi su di essi singolarmente e poi tutti assieme.
Lo facevano sentire sveglio, connesso con la realtà. Vivo.
Perché era vivo. Tenuto assieme da chissà quale strano sortilegio, ma era vivo!
Era incerto sulle gambe, ancora malfermo e barcollante dopo quel lungo tempo passato a letto, eppure era vivo e correva. O, almeno, ci provava.
Il tuo sistema somatico si è danneggiato.
Si rendeva conto di essere scoordinato, con le caviglie che cedevano ogni tre falcate e le ginocchia…oh Kami! Le ginocchia sembravano arrugginite! La rotula grattava contro l’alloggiamento e scrocchiavano come legnetti sotto le scarpe.
Ti sei provocato gravi danni in molti organi.
Quali erano questi danni? In cosa consistevano? Perché vedeva dove stava correndo e respirava il freddo pungente della sera ed era vivo.
L’aria grattava in gola ad ogni respiro, come se al posto di molecole impalpabili stesse ingerendo manciate di sabbia. E faceva male, dannatamente male. Ma era vivo.
A ogni fiato la bocca si seccava di più, le labbra tiravano, secche tanto da spaccarsi e da fargli sentire il sapore dolciastro del sangue sulla lingua ogni volta che se la passava sul vermiglio per umettarle.
Non sarai più com’eri prima. Non potrai più tornare dov’eri.
Si dava dello stupido mentre correva, perché aveva ritenuto una buona idea scappare via da quel fuoco che lui stesso aveva appiccato.
Ma più si allontanava dall’istituto e dal calore di quelle fiamme tanto familiari, più si rendeva conto che, in realtà, non aveva la minima idea di dove andare.
“La fine della strada! E poi a casa!”, si disse.
Un piccolo obiettivo poi avrebbe preso fiato. Si sarebbe fermato a respirare, a guardarsi attorno nel buio della sera per capire dove si trovasse.
E così, con la schiena appoggiata al metallo freddo del lampione, affamato d’aria e con una mano a stringersi il petto, s’era voltato verso lo scoppio dei vetri, mentre il fuoco ruggiva e consumava quella costruzione a due piani che lo aveva ospitato per tre anni mentre lui era addormentato.
Il Signor Dormiglione s’è svegliato!
Quella ragazzina dagli occhi grandi l’aveva chiamato così appena s’era svegliato, ma era giusto così: non conoscevano il suo nome e lui non aveva avuto neppure l’occasione di dirglielo perché s’era arrabbiato troppo in fretta per colpa di quella parte del suo carattere tanto irascibile ed impulsivo, finendo per non controllarsi nemmeno più.
Come tre anni prima.
Come sulla collina.
Ma aveva capito che le emozioni erano il combustibile delle sue stesse fiamme.
«Ho fatto qualcosa di terribile…», ripeté a mezza voce, una mano nella massa informe di capelli candidi, ripensando alle grida, ai pianti disperati di quei bambini e ragazzini che aveva visto consumarsi tra le fiamme che danzavano davanti ai suoi occhi.
Ne aveva distrutto la casa e la vita, era stato immeritatamente crudele con qualcuno che l’aveva solo trovato e rimesso in sesto, raccolto i suoi cocci e attaccato lembi di carne per dargli una seconda occasione.
Provò a fare un paio di passi verso l’istituto, colto da un improvviso senso di nausea e da un profondo rimorso che gli attanagliava le viscere, ma strinse i pugni, raddrizzando la schiena e ricacciando indietro le lacrime che gli bruciavano gli occhi, fino a voltarsi, riprendendo a correre.
Non doveva perdere di vista il proprio obiettivo, quello che era successo era stato solo un effetto collaterale della sua rabbia.
Doveva tornare a casa- doveva fare ammenda per ciò che aveva fatto e detto, per le cattiverie gratuite che aveva riversato su tutti.
Doveva chiedere scusa.
Le braccia ora si muovevano ai lati del corpo con più coordinazione, sciogliendo i muscoli rattrappiti delle spalle che sembravano fatti di tessuto vecchio e logoro, pronto a strapparsi ad ogni movimento. Le punte dei piedi gli davano lo slancio a fare più strada e gli provocavano meno dolore.
I danni che aveva subito a causa della sua stessa unicità non avrebbero neppure dovuto farlo muovere, ma lui non lo sapeva. O forse lo percepiva in cuor suo, m non ci voleva credere o non ci dava peso.
E mentre correva e la milza sembrava esplodergli nell’addome per la fatica, mentre sembrava che i polmoni collassassero ad ogni respiro per lo sforzo di tenerlo in vita e l’aria gli cancellava dal viso le lacrime, ripensò a sua madre.
Ad ogni sobbalzo della sua corsa formulò una parola, qualcosa da dire, per essere stato via così tanto da lei, per scusarsi di averla fatta preoccupare.
Svoltando un angolo si ritrovò in mezzo alla folla di persone che popolavano le strade principali, finendo addosso a qualcuno, sbilanciandosi, cadendo a terra.
Quel contatto col suolo lo fece sibilare di dolore, un timore lontano di non riuscire più a rialzarsi.
Quando alzò il volto per scusarsi, vide l’espressione di quell’uomo che aveva travolto, mentre si puliva il bavero del cappotto dopo quel contatto, in un misto di disgusto e spavento che gli fece strabuzzare gli occhi: «Attento a dove vai!».
La voce grattava per uscire, bassa e rauca: «Mi-mi scusi.». Doveva ancora abituarsi a quel timbro, che di fanciullesco non aveva più nulla. Ogni parola detta a voce normale sembrava pronunciata da qualcun altro.
Non sarai più com’eri prima. Non potrai più tornare dov’eri.
Ma non importava: sarebbe tornato ad essere forte. Sarebbe tornato a casa e avrebbe convinto suo padre a riprendere gli allenamenti.
Dopotutto, era di nuovo vivo, no?
Si rialzò a fatica da terra, un lamento ad ogni movimento, le ginocchia che non lo sorreggevano e i polpacci che sembravano di gelatina, mentre i suoi piedi sembravano smettevano di bruciare per un attimo, portandogli un sollievo effimero che ben presto avrebbe cancellato, muovendosi il più velocemente possibile tra la folla, stringendosi le braccia attorno al corpo per trovare una specie di conforto.
Colpito, sballottato, preso a male parole dalla gente che camminava nella direzione opposta, che lo urtava o lo scansava all’ultimo.
Sentì le guance umide e gli occhi bruciare di nuovo, mentre tentava di scacciare le lacrime col dorso ruvido della mano e col polso.
Dov’era? Dov’era casa? Non s’era mai spinto in città da solo, non così, non in quel quartiere affollato, in cui la gente rientrava in fretta dal lavoro, indossando abiti eleganti sgualciti dopo una giornata e dove turisti si fermavano a bordo strada a scattare foto o ad assalire negozi e chioschi.
Si fermò accanto ad una vetrina, la cui luce giallastra illuminava il marciapiede e le vite che vi camminavano sopra. Dentro il locale c’erano persone sedute a tavolini, che mangiavano, chiacchieravano, ridevano.
Chiuse la bocca e deglutì, rendendosi conto in quel momento che non era nausea quella che provava, ma fame.
Aveva lo stomaco vuoto, completamente asciutto come un torrente in secca. Appoggiò la mano sul vetro fresco, avvicinando il viso, lasciando un tenue alone di vapore ogni volta che respirava sulla superficie trasparente.
Tamagoyaki. Avrebbe chiesto alla mamma di farli. Dopo un abbraccio infinito, dopo un bagno caldo e delle coccole avrebbe mangiato i tamagoyaki.
Gli occhi continuarono a pizzicare e le lacrime a cadere lungo le guance pallide, bruciando la pelle della mascella, ancora arrossata e sensibile.
«Ehi!».
La voce grossa di un uomo lo riportò alla realtà e voltò la testa in direzione del cuoco panciuto che lo stava minacciando con un grosso mestolo di legno: «Via da qui! Mi spaventi i clienti, sgorbio!».
Mise le mani davanti a sé in segno di resa, indietreggiando di qualche passo con un balbettio di scuse prima di voltarsi e correre di nuovo via.
I muscoli delle cosce sembravano fatti di fuoco puro tanto gli facevano male.
Sgorbio.
Così l’aveva chiamato quell’uomo.
Rallentò fino a fermarsi e si osservò il dorso delle mani, dove la pelle arrossata del dorso spiccava contro il candore della pelle sana del resto della mano. Le mosse entrambe, chiuse le dita più volte prima di portarle al viso a tastarsi la faccia per la seconda volta in quella giornata, chiudendo gli occhi, mentre i polpastrelli esploravano ogni lembo di pelle di quel viso meno paffuto, meno bambino di come ricordava.
Gli anulari sfiorarono la carne ruvida della palpebra inferiore e gli indici percorsero quella specie di solco che gli tagliava in due la faccia, segnando le sue guance. Premette di più le dita, schiudendo la bocca, seguendo la linea dei denti. Le falangi penetrarono nella carne, ne sentiva lacerare il tessuto se ci metteva più pressione, mentre un dolore sordo gl’intorpidiva la faccia e gli faceva stringere gli occhi.
Qualcuno accanto a lui emise un verso schifato.
Le dita erano lucide di sangue, che pulì prontamente portandosi le mani sotto le ascelle, stringendo la presa per fare in modo che il tessuto già umido di sudore assorbisse quello sporco vermiglio.
Il sapore del sangue si adagiò sulla lingua, quando la passò all’interno delle guance, sentendo la ruvidezza di una cicatrice nella mucosa.
Riaprì gli occhi e si guardò attorno, mentre la gente lo evitava nel suo muoversi.
Si passò con fastidio i palmi sulle guance cavando con rabbia sangue e lacrime come meglio poteva, raggiungendo in fretta la scala mobile che portava alla metropolitana.
Di fronte ad uno dei tabelloni delle linee si sentì perso mentre osservava i colori e la miriade di nomi delle fermate, cercando quella più vicina a casa.
Lui una metropolitana non l’aveva mai presa, non sapeva in che direzione dover leggere la mappa, non sapeva se quello su cui si trovava era il binario giusto. Perché suo padre non gli aveva mai spiegato una cosa tanto semplice e l’aveva abituato a servirsi solo di un autista?
Chiuse le mani a pugno e strinse i denti, mentre un leggero tepore gli s’irradiava dal petto a quel pensiero così sciocco. Non serviva arrabbiarsi per una sciocchezza: ce l’avrebbe fatta e sarebbe tornato a casa.
Di nuovo lo stomaco brontolò quando collegò casa agli udon. Fece un paio di passi all’indietro, urtando qualcuno e scusandosi prontamente.
L’uomo puzzava di fumo anche solo da mezzo metro di distanza e lo osservava dall’alto in basso senza preoccuparsi di mascherare la smorfia che gli si era formata sotto i baffetti brizzolati.
Sgorbio. Forse stava pensando esattamente quello. 
L’uomo abbassò gli occhiali tondi sul naso e gli rivolse un mezzo sorriso, infilando le mani in tasca mentre il suo sguardo si soffermava sui suoi piedi nudi.
«Da dove sei scappato?», chiese, la voce ferma e calda, mentre la sua bocca continuava a masticare qualcosa che sembrava tutto tranne che uno stuzzicadenti, per quanto malconcio fosse.
Touya si mise sulla difensiva, come suo padre gli aveva insegnato: per quanto debole e dolorante si sentisse in quel momento, non aveva proprio voglia né di altri guai né di essere distratto dal suo obiettivo.
«Fatti gli affari tuoi, vecchio.», e l’uomo aumentò il sorriso a vedere le tenui fiamme sprigionare dai palmi del ragazzo, tanto che tolse lentamente le mani dalle tasche, porgendogliele aperte proprio di fronte: pochi spiccioli in una mano e un biglietto nell’altra.
Quando il ragazzo vide l’offerta si calmò un poco.
«Se hai intenzione di prendere la metro – indicò i tornelli d’entrata con un cenno del capo – dovresti quantomeno pagare, non credi?».
Deglutì. La gola era sempre arsa, aveva fame e voleva tornare a casa.
Non avrebbe dovuto accettare nulla da uno sconosciuto, ma si era già risvegliato circondato da gente che non conosceva, uno in più che differenza avrebbe fatto? Al massimo l’avrebbe reso un mucchietto di cenere se si fosse azzardato a fargli qualcosa di male!
«E il biglietto?».
L’uomo si chinò, lasciando a terra le monete e il biglietto, non staccando mai quegli occhi grigio-rosati dai suoi: «Il biglietto prendilo come…un regalo. Ovunque tu stia scappando ho come l’impressione che non andrà come speri. Per cui – fece un paio di passi indietro, improvvisando un piccolo passo di danza – se ti dovesse servire…» e se ne andò, lasciandolo interdetto per un lungo momento, prima di chinarsi il più velocemente possibile a raccogliere quelle quattro monete e il biglietto. Se lo rigirò tra le dita prima di arrivare alla biglietteria automatica, incerto se tenerlo o meno, salvo poi cacciarlo nella tasca del pantalone del pigiama azzurro prima di arrivare ai tornelli.
In quel momento si rese conto di odiare la metropolitana: l’odore di bruciato dei freni, la gente che la popolava, la prepotenza di chi saliva e scendeva, spintonandolo, pestandogli i piedi con indifferenza.
Trovò un vagone mezzo vuoto e si rannicchiò in un posto libero vicino al finestrino, le braccia strette attorno alle gambe, il naso affondato tra le ginocchia e gli occhi fissi sulla banchina per controllare la fermata corretta. Gli faceva schifo il pavimento della carrozza e grattava i piedi l’uno contro l’altro nel patetico tentativo di togliersi di dosso tutto lo schifo che aveva calpestato fino a quel momento.
Rabbrividì quando gli tornarono alla mente le urla di quei ragazzi e il fetore della carne che bruciava, ma quelle immagini non se ne volevano andare neppure chiudendo gli occhi. “Ho fatto qualcosa di terribile…”, si ripeté singhiozzando.
Quando la sua fermata arrivò, si stupì della propria velocità nello schizzare fuori dal vagone: non sentiva più il dolore dell’inizio mentre correva, solo un bruciore diffuso e familiare.
Oltre l’uscita, la notte era già calata su Shizuoka e lui non poté fare a meno di affrettare il passo, il cuore ora gonfio di aspettative, le guance che tiravano per un sorriso che non si rendeva neppure di avere, gli occhi spalancati a scrutare tra i lampioni la fila di ville del quartiere.
Poi quel lungo, alto muro, che avrebbe riconosciuto anche dopo mille vite. I piedi calcarono di più l’asfalto e un risolino gli lasciò la gola secca appena svicolò nella rientranza del muro e si ritrovò di fronte il cancello di metallo su cui appoggiò palmi e fronte, respirando pesantemente, prendendo tutto il fiato che aveva lasciato lungo la strada, prima di allungare un dito verso il campanello.
Ovunque tu stia scappando ho come l’impressione che non andrà come speri.
La voce dell’uomo della metropolitana gli s’insinuò nella testa e ritrasse il dito, soffermandosi a riflettere che una strana, brutta sensazione, lo stava avvolgendo come una febbre. Scosse la testa: forse si stava solo lasciando impressionare da tutta quella situazione.
Tuttavia seguì il proprio istinto, ricordandosi del vecchio cancello di servizio, quello che dava sul retro degli alloggi della domestica, e quel pensiero bastò a schiodarlo dal citofono e a farlo muovere a passo incerto verso il retro della proprietà, da cui non sembrava provenire alcun rumore.
Quando arrivò sul retro, trovò il cancello chiuso e maledisse gli Dei guardandosi attorno per capire come fare ad entrare, prima di posare una mano in corrispondenza della chiusura e prendere un profondo respiro, mentre sentiva il sangue scaldarsi e bollirgli fastidiosamente nelle vene prima che il calore sciogliesse il blocco di chiusura e gli permettesse di sganciare il cancello ed entrare.
I sassi del vialetto gli ferivano i piedi ad ogni passo e si morse così forte il labbro da farsi male, prima di riuscire a raggiungere il porticato di legno con una smorfia di dolore.
Ricordava bene le assi scricchiolanti del portico, le aveva imparate a memoria e ora, col favore dell’oscurità, per quanto fosse cresciuto e risultasse ancora un po’ malfermo sulle proprie gambe, le evitò tutte, una ad una, un sorriso che gli curvava le labbra mentre scioccamente saltellava come quando aveva cinque anni, felice di essere di nuovo a casa.
Sgorbio.
Ma lui non era più un bambino e quel nomignolo tanto cattivo continuava a tormentarlo ad ogni passo, portandolo di nuovo a toccarsi il volto con la mano, mentre le lacrime pizzicavano ancora per uscire. Quando i polpastrelli sfiorarono la carne ruvida della metà inferiore del viso, fermò per un attimo i passi, prima di sgattaiolare in fretta verso la cucina.
“Mamma.”
A lei non sarebbe importato di quelle brutte cicatrici che gli tagliavano la faccia e, anzi, avrebbe fatto di tutto per farlo tornare normale. D’altronde era la prima a dirgli che era un bambino carino.
Per cui si sarebbe presentato alla mamma, l’avrebbe abbracciata e baciata come si era prefissato, cogliendola di sorpresa. Lei avrebbe pianto e l’avrebbe stretto ancor di più per non farlo andare via. Ecco, sì: uno dei suoi abbracci freschi, di quelli che ti ristoravano l’anima e poi un po’ di cibo, perché stava letteralmente morendo di fame!
Ma la cucina era buia e vuota, la casa silenziosa anche quando vi entrò di soppiatto con un «Ehilà!», appena sussurrato in ogni stanza, che risultava disabitata.
Dei fratelli nemmeno l’ombra: eppure era certo di trovarli e che loro l’avrebbero accolto a braccia aperte. Anche a loro non sarebbe importato del suo aspetto e si sarebbe scusato per aver perso tempo prezioso.
Ma nulla.
Tre anni di assenza e nessuno ad accoglierlo, nessuno da sorprendere.
Dovera sua mamma? Dov’erano i suoi fratelli?
S’intrufolò nella sua vecchia camera, dove tutti gli arredi erano rimasti al loro esatto posto e, nell’angolo vicino alla porta, l’unica cosa che stonava col resto era solo un armadio di legno.
Ho come l’impressione che non andrà come speri.
E, più si avvicinava, più quella brutta sensazione si acuiva e gli stringeva lo stomaco, già provato dalla fame.
Quando aprì le ante, un forte odore d’incenso gli infastidì le narici e la vide, quella cornice nero pece, tirata a lucido che custodiva una delle sue foto migliori, quella in uniforme scolastica, quella che aveva scattato per l’annuario prima di…morire.
Lo realizzò in quel momento: lui era morto. Bruciato tra le sue stesse fiamme tre anni prima. Forse non voleva vederlo, forse si era solo illuso, perso nelle proprie convinzioni.
Non potrai tornare più dov’eri prima.
Ma lui c’era tornato, vivo. Malconcio, da risistemare, ma vivo. Non bastava questo? Non bastava la buona intenzione di tornare e scusarsi? Di ricominciare?
Gli parve di sentire dell’amaro in bocca, ma era solo la sua mente che gli giocava un brutto tiro e quell’amarezza l’aveva solo nel petto: la sensazione era quella di avere come una spina nel cuore che lo stava facendo sanguinare e non aveva più alcuna possibilità di sanare quella ferita.
Uscì da quella stanza col cuore appesantito, stanco e demoralizzato, come se non ci fosse più nulla nel petto e la sua cassa toracica fosse completamente vuota.
A nulla servivano tutti i piccoli e grandi dolori che percepiva nel proprio corpo, che gli rammentavano di essere vivo.
Ne era stato così felice, così entusiasta che ora…
Arrivato con passo trascinato accanto alla zona adibita a palestra udì chiaramente la voce arrabbiata di suo padre.
Hai più talento di me.
Se le ricordava le parole di suo padre, con l’esatto tono pacato e si ricordava perfino l’orgoglio che ne illuminava gli occhi. Quelle parole erano state benzina per il fuoco che gli ardeva dentro: lo facevano sentire amato, come se contasse qualcosa, nonostante fosse stato soppiantato e lasciato indietro dopo la nascita di Shoto.
Oh, come avrebbe voluto presentarsi a lui e gridare di essere vivo e di lanciarglisi addosso e abbracciarlo stretto, promettendogli di non andare più via, impegnandosi per superarlo come sapeva di poter fare!
Poi qualcosa provocò un tonfo sordo e udì il rumore delle assi di legno spaccarsi in maniera decisa, uno scricchiolio dirompente e un gemito soffocato.
«Il fuoco! Devi usare il fuoco! E tu continui a non ascoltarmi!».
Si accostò con incertezza alla porta della palestra, lasciata semi aperta per incuria, e finalmente li vide: suo padre teneva un pezzo di legno bruciacchiato con una mano e sembrava che non si fosse nemmeno allenato perché neppure una goccia di sudore gli colava sul viso. In un angolo, poco più in là, tra le assi rotte e fiammeggianti, stava riverso suo fratello più piccolo, che faticava a rialzarsi, madido di sudore, con la tuta di allenamento mezza lacerata e un brutto rossastro attorno all’occhio fino allo zigomo.
Le labbra di Touya si mossero da sole e pronunciarono il nome del fratello, senza che alcun suono si perdesse nell’aria, esalando solo un respiro di delusione.
Aveva sperato fino all’ultimo che suo padre fosse troppo impegnato a fare l’eroe e salvare vite per andarlo a riprendere, ma se ne stava lì ad allenare ancora una volta il piccolino di casa.
I suoi piedi martoriati l’avevano portato in quel posto solo perché il cuore indebolito l’aveva guidato a casa, nella stupida speranza che, durante la sua assenza, qualcosa fosse cambiato.
In tre anni non era cambiato nulla, in realtà.
Lui per tutti era morto a Sekoto e gli avevano eretto un altare in memoria.
Nonostante questa dolorosa perdita, suo padre aveva continuato per tutto quel tempo ad allenare suo fratello, con la stessa severità di tre anni prima e che, a volte, sfociava quasi in cattiveria.
Assottigliò gli occhi e strinse i pugni: Shoto era un piccolo prodigio mentre lui era solo uno scarto, un prodotto difettoso della genetica, troppo debole perfino per il Number Two.
Con un po’ di lavoro in più, con un po’ di costanza, avrebbe potuto surclassare suo padre, come sperava, ed essere un degno avversario per suo fratello e si sarebbero potuti battere equamente.
Avrebbe potuto credere di più in lui, avrebbe potuto metterci più impegno ed era pronto a dirglielo, a urlarglielo contro se necessario!
Le lacrime non smettevano di annebbiargli la vista, rendendogli quasi impossibile mettere a fuoco ciò che stava succedendo nella palestra.
Come aveva potuto suo padre dimenticarsi così di lui? Come aveva potuto relegarlo in un armadio e continuare con i suoi propositi e le sue ambizioni?
Perché l’aveva definitivamente messo da parte?
Se lo riteneva morto, perché volere a tutti i costi perseguire un’assurda ossessione?
Fece un passo indietro, sentendo di nuovo tutto il sangue ribollirgli in ogni vena, in ogni capillare, scaldarsi tanto da far male e bruciare, come tre anni prima.
Un passo indietro e il legno scricchiolò sotto i suoi piedi maldestri; temette di essere scoperto, ma non accadde nulla perché le grida di suo padre avevano sovrastato qualunque rumore nei paraggi e gli fecero tirare uno strano respiro, grattato, sollevato di non essere stato colto in flagrante.
Le sue lacrime si dissolsero in piccole scie di vapore mentre scalpicciava lungo il porticato. Per raggiungere di nuovo la cucina e arraffare qualcosa da mangiare, appena in tempo prima di sentire la porta d’ingresso chiudersi e delle risate diffondersi all’interno.
Cercò di infilare in tasca i due miseri pacchetti di cracker che era riuscito a trafugare e si graffiò il dorso della mano con qualcosa.
Se ti dovesse servire…
Chinò il capo e osservò il bigliettino sgualcito che teneva tra le dita: sul retro era appuntato a mano un indirizzo con grafia incerta e frettolosa.
Se la sua famiglia era andata oltre alla sua dipartita, forse, avrebbe dovuto farlo anche lui.
E si mise in testa, caparbiamente come solo lui poteva fare, di voler raggiungere quel posto e quell’uomo che era stato così gentile da aprirgli gli occhi. Perché era questo che aveva fatto donandogli quegli spiccioli: la consapevolezza di essere stato solo un giocattolo nelle mani di quel padre così ambizioso, interessante fino a quando non ne aveva scoperto la debolezza, rimpiazzabile con chiunque fosse più forte e più sano…bruciava più del fuoco e doleva più di ogni ferita.
Ma non avrebbe più funzionato così.
Touya, così com’era arrivato, scappò silenziosamente da quella casa che desiderava tanto raggiungere, andandosene con i piedi feriti e il corpo dolorante che gli ricordavano che era ancora vivo, mentre il suo cuore, seppur arido e a pezzi, diventava terreno fertile per un sentimento tutto nuovo, che cresceva ad ogni passo che calcava verso l’ignoto.
Da quel giorno in avanti, quel suo corpo difettoso sin dalla nascita, ma che per uno strano destino aveva sconfitto perfino la morte, sarebbe stato tenuto assieme solo dalle fiamme della vendetta.
 
 
 
 
Tell me who you are, your father has forsaken you
Left you with those scars, my hope is that you'll make it through
~ Falling In Reverse ~

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Capitolo 3
*** Disturbed soul | Tenko's voice ***


 Disturbed soul | Tenko's voice

 
Stai bene?
Quella vocina fastidiosa forse gli sembrava di conoscerla, ma era troppo intorpidito anche solo per riuscire a capire a chi appartenesse o da che angolo provenisse.
Lì attorno era tutto così assurdamente buio e freddo che la pelle, anche solo a sfiorarla, sembrava fosse cosparsa di minuscoli spilli.
Tremava.
Grande e grosso com'era, lui tremava.
Ti fa male?
Di nuovo.
Si prese la testa tra le mani, affondando le unghie nella carne, trovando un po' di sollievo a quel mal di testa lancinante che lo lasciava rincoglionito. La sensazione era strana, il malessere diffuso che comprendeva, oltre al dolore sordo alle tempie che migrava poi verso la nuca come un'onda, anche uno strano mal di stomaco che gli provocava una forte nausea e gli sembrava di sentire un odore familiare, che si avvicinava alla fragranza fresca ed evanescente del detersivo per pavimenti.
Quella vocina lo stava chiamando per nome con estrema insistenza. Ed era un nome che voleva dimenticare a tutti i costi.
Mi rispondi?
Mille brividi gli percorsero il corpo stremato, ma la testa sembrava essersi alleggerita all'improvviso.
«Chi sei?».
Aprì gli occhi e cercò invano di scrutare l'oscurità. Solo una brezza lieve gli accarezzava il viso e gli scompigliava i capelli.
Era quasi piacevole quel refolo di vento tiepido e dolce, che donava sollievo alla pelle martoriata del volto e del collo.
Richiudere gli occhi e lasciarsi sfiorare la pelle nuda: quella era l'unica cosa che il suo cervello gli stava dicendo di fare, ignorando il tremendo dolore al torace che, da un momento all'altro avrebbe potuto strapparsi in due, e non solo in senso figurato.
Galleggiava nell'oscurità, ci fluttuava come mosso da una corrente inconsistente, pur sentendo il ruvido terreno sotto i propri piedi.
Le mani si disincagliarono dai modi dei capelli, scendendo in basso, sfiorando il volto affilato e tumefatto, percependo il vischioso del sangue imbrattargli i polpastrelli.
Era ancora intero, ma sapeva in realtà di non esserlo, mentre staccava pian piano le mani dallo squarcio sul petto e tentava di osservarsi i palmi.
Riusciva a vederlo, il sangue. Riusciva a percepirlo, appiccicaticcio e fresco ad ogni alito di vento.
Chi ti ha ridotto così?
Quella voce infantile così accondiscendente gli diede sui nervi.
«Smettila di prenderti gioco di me e fatti vedere!», sbraitò spazientito, mentre il digrignare i denti acuiva il dolore alla testa e la rabbia gli rivoltava le viscere.
Sapeva bene che quel luogo non era reale, come non era reale quella voce fastidiosa e petulante.
Sapeva anche che no, non stava né delirando né morendo.
Non aveva il permesso di morire. Non così e non in quel momento.
Mamma dice sempre che è brutto prendersi gioco degli altri, soprattutto se stanno male. Non è leale.
Non è leale? «Ah!», gli uscì mezza risata.
Leale…verso chi? Verso che cosa?
«Guardami, moccioso! Guarda dove mi ha portato la lealtà. – poi abbassò il tono – Ad annullarmi…».
Ma non voleva annullarsi. Non dopo tutto quello che aveva passato.
Non dopo le incomprensioni con suo padre, la disperazione dell’inevitabile, l’indifferenza delle persone, il dolore del corpo, lo scoramento, la fatica…
Non certo dopo aver sputato letteralmente sangue per lui, che gli aveva dato un corpo nuovo e che ora voleva anche riprenderselo.
Ti vedo. Perché non mi rispondi?
E fu con quella frase delusa che lo riuscì a vedere, a qualche metro di distanza: se in quel luogo fatto di nulla e oscurità si avessero potuto usare le misure canoniche di tempo e spazio, di sicuro sarebbe stato ad una decina di passi, indietreggiando dalla sua presa qualche secondo prima di riuscire a renderlo polvere nella brezza leggera.
La pelle chiara, tra le escoriazioni e il sangue rappreso, emanava un lieve bagliore grigiastro diffuso che gli permise, nella vicina penombra, di ravvisare del denso fumo nero dai contorni definiti, alto poco meno del suo fianco, immobile nel movimento e tremulo nella forma.
Perché non mi rispondi?
Voleva rispondergli che non gli andava di parlare con una voce nella propria testa, ma l’unica cosa che uscì dalle sue labbra secche fu un semplicissimo: «Taci.».
Ma quella voce di bambino petulante continuava ad insistere.
«Che strazio che sei!».
Vide quella presenza evanescente avvicinarsi. Ciò che poteva essere facilmente ricondotto come forma ad un braccio si sollevò nella sua direzione e la piccola mano si muoveva, come a chiedergli di abbassarsi o di raggiungerlo.
Lo vedo, sai. Che tu non stai bene. Vero?
Si ritrovò a scuotere la testa senza davvero volerlo, il corpo che quasi non obbediva ai suoi stessi comandi. I capelli, lunghi ed indisciplinati, gli tiravano la faccia dalla pelle così secca da tirare. Perché cazzo doveva prudere così terribilmente?
Quando fu di fronte a quella figura infantile, una fitta al torace lo fece piegare su se stesso, finendo in ginocchio di fronte alla piccola nube scura che vorticava e s’addensava, i cui contorni cominciavano a definirsi sempre di più.
Quella specie di bagliore evanescente che la sua pelle emetteva veniva a poco a poco risucchiato da quella specie di moccioso fato di pura ombra.
La sua luminosità si mescolò al nero in un flusso traslucido all’interno della sua figura, permettendo di scorgerne la forma degli occhi, troppo grandi per un viso così minuto, il profilo rotondo del nasino, la curva dolce della bocca, sollevata in un piccolo sorriso cordiale, ma che per il ragazzo risultava fin troppo compassionevole.
«Sapevo che ti stavi prendendo gioco di me.», gli uscì con sospiro esasperato.
Quel bambino oscuro tornò serio e l’osservò, inclinando di poco la testa, sbattendo più volte le palpebre d’ombra, osservandolo con quei suoi occhi neri fin troppo grandi ed inquietanti.
Perché non ti riposi un po’?
La bocca non si muoveva, ma lui udiva lo stesso quelle parole; la curva delle labbra del bambino s’era raddrizzata e sembrava dare una parvenza di rimprovero a quel visino buio.
«Perché stai rompendo le palle, ragazzino.».
Udì una risatina.
Sarebbe risultata oltremodo inquietante in un’altra occasione, con lo stesso buio a circondare quella loro bolla luminescente.
L’ombra gli si mosse attorno, lentamente, una specie di scia di fumo la seguiva nel suo percorso, avvolgendo il ragazzo, scompigliandogli di tanto in tanto i capelli bianchi con un piccolo sbuffo, mentre lui se ne stava in ginocchio come un povero idiota, troppo esausto per rialzarsi, stanco a tal punto da aver dichiarato tregua perfino a se stesso.
Chiuse gli occhi e una risata gli vibrò in gola prima di uscire, quasi isterica.
Perché ridi?
«Perché sono stanco e non dovrei esserlo.»
Non fa ridere, sai? Io, se sono stanco, sbadiglio. E rido se sono felice. Tu sei felice?
«Non lo so.».
Ed era vero. Era talmente stanco da non capire più nulla.
Continuava a percepire una leggera brezza che gli sferzava il viso e gli s’infilava nei capelli già così disordinatamente disastrati.
Uhm…
Quell’ombra gli volteggiò attorno come un fantasma, osservandolo, prosciugando pian piano gli ultimi residui della luminescenza che la sua pelle nuda emanava, come se quel piccolo essere fatto d’ombra se ne cibasse con avidità.
Solo quando quel bambino fu di nuovo di fronte a lui, ne scorse le fattezze in maniera più nitida: guance tonde, collo e spalle minute e piccole dita paffute che si muovevano frenetiche nel grattarsi quella massa informe di capelli scuri. Gli occhi erano luminosi e grandi e continuavano a guardarlo in maniera inquietante.
Anche tu hai dei poteri?
«Che domanda del cazzo.» e abbassò la testa, un sorriso abbozzato che sembrava più un ghigno su quelle labbra screpolate.
Non hai risposto. Non rispondi mai.
«Mi stai antipatico.».
Tu no, invece. Allora? Hai i poteri anche tu?
Quel moccioso di fumo gli stava dando sui nervi. «Certo che li ho.»
Percepì improvvisamente fresco sulle guance e si ritrovò quel piccolo viso oscuro davanti al proprio: la bocca dischiusa, le iridi sproporzionate a fissarlo, respirandogli contro come a voler risucchiare l’aria direttamente dai suoi polmoni.
Di nuovo una fitta al torace lo fece accartocciare su se stesso con un rantolo. E cazzo se faceva male!
Non avrebbe dovuto far tanto male se quello era un sogno e una proiezione del suo subconscio. Invece si ritrovò a chiudere e strizzare gli occhi per il fastidio.
Poi, qualcosa di freddo gli si posò sul viso, sollevandolo. Non provava più fastidio, tutt’altro: si sentiva tremendamente bene, come se quelle piccole mani nebulose che gli stropicciavano le guance donassero sollievo non solo alla pelle ma anche al cuore.
Che poi, lui, un cuore ce l’aveva ancora?
Pensare a Hana e a Mon-chan e disperarsi per loro anche dopo tutti quegli anni? Era quello avere un cuore?
Anche io ho i poteri.
«Stiamo parlando di me o di te?».
Vide lo spettro alzare le spalle per un momento, mentre le sue manine lasciavano la pelle che non tirava più, non prudeva più, non bruciava più.
Un sospiro gli lasciò le labbra, incurvate in un sorriso che di doloroso non aveva finalmente neppure il ricordo.
E lo vide osservarsi le manine fumose prima di spostare lo sguardo ancora una volta sul suo viso.
Ti fa mai paura il tuo potere?
«Paura? Chi cazzo può avere paura di un potere con cui è nato?».
Poi si ricordò di quella notte.
Era triste, aveva fame e continuava a piangere tanto da non avere più lacrime. Gli occhi che bruciavano, la pelle delle palpebre che tirava e non la smetteva di grattarsi.
Poteva sentirlo anche il quel momento quel maledetto prurito.
Ricordava bene la disperazione, e quel pelo soffice, il naso umido e la lingua calda di Mon-chan che cercavano di dargli un conforto che mai più avrebbe trovato
«Sì. A volte sì.».
L’aveva detto. Lo pensava davvero? Non lo sapeva nemmeno lui.
I tuoi quirk sono potenti come i miei?
Osservò quel bambino d’ombra con estrema attenzione: nel suo profilo gli sembrava di riconoscere qualcuno, in quei suoi occhi così grandi e luminosi e carichi di gioia ci si poteva specchiare. Eppure, continuava ad odiarli con tutto se stesso senza apparente motivo.
Ma sapeva di essere fatto così: odiava tutti, indistintamente. Forse Spinner e gli altri un po’ di meno, ma anche loro erano una bella spina nel culo a volte…
«Non ho idea di che poteri tu abbia, ma i miei sono davvero potenti!»
Stava sul serio rispondendo ad un moccioso fatto di fumo e frutto della sua stessa testa?
A quanto pareva sì e sembrava sconsolato, tanto da scuotere la sua testolina.
Come sei fortunato! Io… a volte non mi controllo e mi faccio male. O faccio del male a qualcuno.
Capita.
Avrebbe voluto dirglielo, ma lo tenne per sé.
Uccidere e mutilare può essere il fine ultimo di un’azione oppure un suo effetto collaterale.
Ferire qualcuno, ucciderlo, non perché necessario ma per una malaugurata coincidenza è…normale.
Sì, normale. Per uno come lui era normalità, giusto?
«Capita.», esalò alla fine.
E tu? Tu hai mai paura di ferire qualcuno…qualcuno a cui vuoi bene? Io sì e-e sono triste…
Già. Era successo pure a lui, più o meno involontariamente, come la prima volta, quando tra le braccia teneva...
«Mon-chan…», e gli parve di udire l’eco di una voce bambina che ripeteva quel nome.
Ha-hai ucciso qua-alcuno anche tu?
Alzò gli occhi cremisi verso l’ombra e si specchiò in quelle iridi così luminose da sembrare liquide. Quello spirito bambino tremolò e gli parve di sentire un singhiozzo.
«E tu? Tu hai ucciso qualcuno? – esitò – Qualcuno che non volevi morisse?» e vide quell’ombra annuire, mentre una manina fumosa si spostava sul viso, nello stesso gesto che fa un bambino in carne ed ossa per cavarsi il moccio dal naso o le lacrime dagli occhi.
Perché sentiva adesso una fitta al cuore, come se venisse compresso e stritolato? Non bastava tutto il dolore di prima? Non poteva dargli ancora un po’ di tregua? Solo un po’…
Hana e Mon-chan erano stati collateralità. Ma la mamma?
Per un lungo periodo aveva dimenticato la notte in cui scoprì il suo quirk, troppo sconvolto e disgustato dalle proprie azioni per voler anche solo rivivere quel momento.
Forse mamma si meritava di morire in quel modo? Di lei non gli dispiaceva più, in fondo.
Una mamma deve difenderti, proteggerti…no? Lei cosa aveva fatto alla fine? L’aveva lasciato lì, al freddo, mentre continuava a preparare la cena per tutti!
L’unico volto che apparve nitidamente nei suoi ricordi era quello arrabbiato del padre: «Sì. – la sua voce era uscita strana, più acuta del previsto – Ho ucciso anche io qualcuno …».
Il bambino portò il viso a un palmo dal suo naso, immobile, mentre il fumo si muoveva da solo, si diradava e si addensava con calma gli occhi fissi nei suoi, a tentare di leggergli l’anima.
Ma forse l’anima era già stata messa a nudo, come lui, leggibile come un libro aperto.
O, meglio, l’anima non c’era, non esisteva più nel suo corpo.
Si meritavano di morire quelli che hai ucciso?
Annuì, perché sapeva che suo padre meritava la morte più di tutti coloro che sono venuti dopo.
Tutti, in realtà, meritavano la morte: quella società corrotta in cui si ritrovava a vivere doveva essere rifondata dal basso, un granello di polvere sull’altro!
Sapeva cosa stava cercando di fare il suo Maestro, relegandolo lì, in quell’oscurità desolante per diventare il nuovo Signore del mondo.
Ma quello non sarebbe mai stato il suo piano, perché con quell’infinito potere che lo aspettava voleva annientare tutto ciò che aveva dato vita alle sue sofferenze, spazzando dalla faccia della terra tutti coloro che possedevano una qualche unicità.
Tomura…
Avrebbe ucciso tutti, dal primo all’ultimo. Non sarebbe rimasto nulla: niente quirk, niente soprusi, isolamenti, indifferenza. Nessuna regola o argomento proibito. Nessun compromesso.
Tomura?
Sarebbe stato un re senza sudditi.
Tenko!
Ancora quel nome. «Basta chiamarmi così!», provò a sbraitare, ma la voce era ancora più acuta, più dolce, e il formicolio che sentiva diffusamente nel corpo era addirittura piacevole, se paragonato al dolore al petto (che era tornato) o al prurito (di cui non si liberava mai).
Un sollievo che si propagava dal torace fino alle membra gli stava risollevando lo spirito e provò ad alzarsi dalla scomoda posizione in cui s’era praticamente rannicchiato. Ma le forze gli vennero meno e tornò a terra, ancora una volta.
Quella forma nebulosa che si era allontanata appena l’aveva visto muoversi ora si era fatta più vicina, curiosa nell’atteggiamento, la boccuccia appena dischiusa in un’espressione stupita: forse non s’aspettava che quel ragazzo così malandato riuscisse a fare dei movimenti.
Allungò una manina fumosa.
Vieni! Non startene lì così!
Eccolo: si prendeva ancora gioco di lui con il tono, lo scherniva con quella sua vocetta accondiscendente.
La stessa di sua madre.
«Vattene!» e la sua mano mutilata colpì per un attimo quel fumo, ma le dimensioni…da quando aveva mani così piccole e morbide?
Il bagliore che i suoi palmi sprigionavano era sempre più lieve, ma le vedeva: le sue erano diventate mani di bambino, poco più grandi di quelle del fantasma d’ombra che si sporgeva a destra e a sinistra di fronte a lui, ad osservarlo con insistenza.
Lo vide tirarsi i ciuffi scuri, passarli tra i polpastrelli con cipiglio pensieroso.
E pure lui copiò il gesto, tuffando le dita tra le ciocche morbide che aveva in testa, un profumo tenue di limone a solleticargli il naso, lo stesso che gli ricordava tanto casa propria.
«Sono tornato piccolo?».
Le parole gli uscirono incontrollate assieme allo stupore. O alla paura di dover rivivere la propria vita daccapo, in un tremendo loop di sofferenza e solitudine.
Sei sempre stato piccolo qui dentro.
«Non è vero. Ero grande…io sono…adulto! Non posso essere di nuovo un moccioso!».
Pure la voce era cambiata, tanto da premersi i palmi a tastare la gola, sentendo il collo fin troppo esile, le guance troppo tonde, i muscoli di spalle e braccia completamente andati…
Hai solo creduto di essere grande. Qui sei ancora un bambino.
In quel regno di oscurità e desolazione lui era tornato ad essere il bambino piagnucolone da cui aveva sempre voluto staccarsi, che voleva tanto dimenticare…
«Che mi succede?», ma il sussurro si perse nella brezza tiepida, accarezzando il fumo che gli girava attorno, rideva e lo avvolgeva per poi tornare a formare quel bambino così simile a lui che, ora, copiava le sue mosse come se fosse il riflesso di uno specchio, mentre si grattava nervosamente la spalla nuda.
Un bambino che ha bisogno di aiuto…
Che strana quella voce. Non era la stessa che l’aveva tormentato finora. Era diversa, più cristallina, più dolce; quella punta di compiacimento e tristezza sembrava sparita dalle sillabe che quella bocca preoccupata pronunciava.
Alzò il capo e la guardò, pensando subito ad una specie di glitch: la figura evanescente aveva smesso di copiare le sue mosse e scuoteva la testolina e il corpo, come infastidita da qualcosa, arruffandosi i capelli fumosi con entrambe le manine, spalancando la bocca a mimare un urlo disperato, sparendo e ricomparendo più volte.
Stava combattendo con se stessa?
I-Io sono di-disposto ad aiutarti!
Quanta gioia e determinazione in quella vocina balbettante. Quella creaturina ora era tutta proiettata verso di lui, le braccia protese all’indietro e gli occhioni traslucidi spalancati sui suoi, sbilanciata a tal punto che nella realtà avrebbe potuto cadere di faccia sul terreno, ma lì…
Era familiare quel tono, gentile, di una gentilezza genuina che non aveva mai sentito prima d’ora.
«Tu vuoi aiutarmi? E come?».
Lo vide sussultare. Probabilmente non si aspettava una risposta di quel tipo.
Lo vide inspirare, quasi a prendere il coraggio che gli era venuto meno e fare due passi calcati verso di lui, ancora seduto per terra, le gambe incrociate in attesa finalmente di svegliarsi da quel sogno di merda.
Quel bimbo nebuloso gli si parò davanti e ne poteva scorgere bene il cipiglio serio e gli occhi farsi più luminosi mentre allungava una mano con decisione.
Per cominciare…ti aiuto ad alzarti!
Ma era perplesso e continuava a spostare lo sguardo da lui alla propria manina, quasi fosse a disagio.
Solo se vuoi, eh…
Lo voleva? Voleva alzarsi e andarsene da quel non-posto?
«Ha mai funzionato?» e il bambino rimase interdetto a quella domanda.
 Cosa?
«Qualcuno ha mai afferrato la tua mano?»
Lo vide esitante per un momento, prima che quella bocca si allargasse in un sorriso luminoso e tutta quella figurina tremolasse, quasi volesse che la gioia che la pervadeva potesse essere visibile.
Oh sì! Sai…
La manina si tese di più verso di lui, che iniziò a muoversi con riluttanza. L’avrebbe afferrata e si sarebbe svegliato, giusto?
…mi piace un sacco aiutare le persone!
Perché si sarebbe svegliato, vero? Fu assalito da un forte dubbio e cercò di ricordare tutto ciò che era successo prima di arrivare in quella dimensione oscura e di nuovo troppo fredda perché non si ritrovasse a rabbrividire.
Avanti, Tomura! Afferrala!
«Perché dovrei?».
Perché ho sentito che non stai bene qui. Sei ferito…
E lo sguardo tornò al piccolo petto che s’alzava ed abbassava ad ogni respiro: era integro. Nessuno squarcio, nessuna ferita sulle braccia. «Non sono ferito.»
Sei ferito. Non lo vedi ma lo sei. Io ti posso aiutare…dai! Afferra la mia mano ed usciamo da qui. Sei ancora in tempo!
«In tempo per cosa?».
Per essere libero e vivere, Tomura.
Vivere. Ma lui era già vivo. Per quanto al momento non sentisse alcun dolore come all’inizio, sapeva di stare sognando, che tutta quella scena assurda era solo frutto della sua mente, del suo subconscio. Forse quello era un livello bonus da superare per accedere al successivo, non c’era altra spiegazione.
«Io sono già vivo. Sei tu che non lo sei, moccioso».
Ma non sei libero. Vieni con me…ti prego…
Perché lo stava supplicando adesso?
«Che vuoi da me?».
Liberarti…voglio solo liberarti…
Piagnucolava mentre quelle manine fumose gli strattonavano il braccio. La sensazione era strana, come di un leggero formicolio fresco che tentava di trascinarlo a sollevarsi.
Una lacrima traslucida s’infranse sulla sua pelle prima di svanire nello stesso modo in scoppia una bolla di sapone.
Il bagliore verde di quegli occhi grandi puntati sui suoi lo fece trasalire.
Li riconosceva, tra gli sbuffi scuri di quel fumo che continuava ad agitarsi, e sapeva esattamente a chi appartenevano.
Strattonò il braccio con forza e si spinse con le gambe per allontanarsi, non capendo se il sentimento che provava fosse paura o stupore.
Ti prego Tomura…no! Tenko!
La vocina era disperata e quella figura fluttuava con cautela verso di lui, che era di nuovo tornato l’adulto che era, nudo e ferito, acciaccato e ancora troppo incerto sulle gambe per reggersi in piedi come avrebbe dovuto.
Tenko vieni con me! Non aver paura!
Come poteva essere nel suo mondo? «NO!»
Ti ho sentito che piangevi! Ti prego…afferra la mia mano e vieni con me!
Fu un lampo, una specie di scarica che gli attraversò la testa e lo fece piegare su se stesso con una smorfia di dolore, portandosi le mani tra i capelli ad artigliarsi di nuovo la cute per cercare sollievo in un dolore diverso.
«Non è possibile! Non puoi essere qui! – ripeté quasi urlando – Non ti voglio qui!»
Quelle piccole mani s’azzardarono a toccare le sue, con quel freddo formicolio che aveva sentito poco prima, accompagnato da una voce dolce e carezzevole.
Tenko vieni con me. Accetta il mio aiuto, ti prego.
Il ragazzo alzò la testa e lasciò che le sue mani scattassero ad afferrare l’esile collo fumoso di quel bambino d’ombra dagli occhi di smeraldo. Il formicolio ai palmi era piacevole e, per quanto non lo credesse possibile, quella figura era fin troppo consistente sotto le sue dita.
Strinse, tanto da vedere la bocca di quel bambino aprirsi, annaspare in cerca d’aria, graffiargli il dorso delle mani con quelle piccole unghie di fumo che non lasciavano alcun segno.
Lo sovrastava e stringeva, mentre gli occhi di quel bambino si riempivano di lacrime luminose, che svanivano come bolle ogni volta che toccavano la pelle luminescente di Tomura.
«Non lo voglio il tuo aiuto! Voglio altro da te!»
Non ti salverai…
Strinse la presa a sentire quel sussurro rantolato. Non voleva essere salvato di nuovo, non ne aveva bisogno. Aveva tutto ciò che desiderava, a parte una cosa.
E quel bambino di fumo era l’ultimo ostacolo da superare per raggiungere il proprio obiettivo e finire quel gioco.
Il formicolio alle mani cessò improvvisamente quando quel piccolo bambino fatto d’oscurità chiuse gli occhi e si diradò velocemente.
Non avrebbe mai saputo dire se la sua unicità funzionasse anche in quella strana dimensione onirica, ma si ritrovò improvvisamente a mani vuote, osservando i calli e le escoriazioni sui palmi, prima di stringerle a pugno con forza e chiudere gli occhi.
«Nemmeno tu, Midoryia Izuku. Nemmeno tu ti salverai.»

 
We're damaged people
Drawn together
By subtleties that we are not aware of
Disturbed souls
Playing out forever
These games that we once thought we would be scared of
~ Depeche Mode ~
 

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Capitolo 4
*** Both of us roaming through a magnificent sky | Izuku's despair ***


Both of us roaming through a magnificent sky | Izuku's despair 


14 luglio
 
Le fasi del lutto sono cinque. O, almeno, così ha detto il mio terapista.
Io non so bene in che fase sono, perché mi sembra di non aver fatto gran che passi avanti, sai.
Sì, ok.
Tu diresti, col tuo solito cinismo, che l’unica cosa certa della vita è la morte, ma con un presupposto del genere che fine farebbero allora i sogni?
Se dovessi stare al tuo ragionamento, anche tutti i tuoi obiettivi e i progetti e le aspettative che avevi dalla vita non avrebbero dovuto esserci.
Ma forse l’incoerenza faceva parte di te e te ne fregavi anche del tuo stesso cinismo, giusto?
Per quanto mi sia rifiutato di accettare l’amara verità, forse ha ragione Shoto-kun, quando dice che la stabilità è solo dentro di noi e non possiamo darla per scontata fuori di noi.
Credo di averlo capito solo adesso, ma è ancora troppo difficile per me.
Sono sempre stato un po’ ottuso, me lo ripetevi anche tu molto spesso.
Mi ricordo la prima volta che me l’hai detto, con tono pacato. Eravamo su questo stesso ponte, lo stesso traghetto, la stessa aria calda che ci accarezzava la faccia.
«Ottuso e sentimentale.».
Non so perché queste tue parole mi facciano sorridere ancora, dopo tutto questo tempo, dopo quello che è successo.
Ma lo sai: io sono sempre stato un sentimentale, un piagnucolone.
Quello che forse non sai è che piangevo per ogni tua ferita. Non mi vedevi, o non hai mai voluto farlo.
Piangevo non perché ti eri fatto del male, perché tanto sapevo che tutto quello serviva a renderti solo più forte, ma perché quelle ferite rendevano le cose reali.
La realtà mi colpiva ogni volta come uno dei tuoi schiaffi in pieno viso.
Provavo rabbia. La stessa rabbia che credo di provare ora. La mia rabbia, diversa dalla tua.
Il dottore dice che è normale dopo quello che è successo. Provare rabbia, intendo.
Dice che è una delle famose fasi e che gli sembra che l’abbia pienamente superata.
Ma, come ti ho detto, non ritengo di aver progredito nella terapia.
Perché, secondo me, non è vero che esistono fasi prefissate o tempi predeterminati per sentirsi tristi. Ognuno è diverso e reagisce a modo proprio, con tempi propri.
Tipo…Shoto-kun è ancora in quella fase in cui vorrebbe parlare con te, scusarsi di tante cose che solo lui ha in testa e stenta a credere che sia vero.
Sero-kun dice che soffre di disturbo da stress post traumatico e che è nervoso perché non riposa bene la notte. Ma so che un po’ è arrabbiato con me, lo posso capire.
In fondo, questa storia è quasi tutta colpa mia. non sei d’accordo?
Sai, nel primo periodo mi sono sentito quasi in obbligo di stare male, rinunciando in modo più o meno consapevole a tutte le attività che avrebbero potuto aiutarmi a sentirmi meglio e a ritornare alla vita di sempre. Il dottore ci ha messo un po’ a farmi capire che non c’era nulla di più sbagliato, perché il passato, nel bene e nel male, non cambia e imporsi una sofferenza evitabile non aiuta nessuno. Così ho cercato di riprendere in mano la mia vita. Tutti l’abbiamo cercato di fare, uscendo di nuovo insieme e, perché no, ricordando, anche se faceva immensamente male.
Ma il dolore lo si deve accogliere, coltivare e soddisfare, sfruttarlo come un momento di crescita, di evoluzione personale. Sembra assurdo, lo so. Eppure…
Credo che se fosse successo il contrario tu avresti sopportato stoicamente, non è così?
Ti saresti mostrato sereno anche se dentro avessi avuto nuvole dense. O ti saresti arrabbiato?
Non lo so. Io una volta ho fracassato il bancone della cucina con un pugno e ho spaventato mamma. È stato quello il momento in cui ho capito che non avrei mai potuto farcela da solo.
Tu? Saresti stato così coraggioso da lasciarti aiutare?
Tu e gli altri mi avete fatto capire molto bene che le persone che ci sono accanto possono essere una risorsa preziosa per andare avanti. Soprattutto nei momenti più bui della nostra vita.
Non so bene perché io abbia deciso di tornare proprio a Nabu. Forse perché un po’ spero che non sia vero.
Forse sto ancora cercando di scendere a patti con me stesso e con te, per cercare magicamente di tornare indietro nel tempo a quando sì, le cose erano difficili, ma non ancora catastrofiche. Convieni con me, no?
Poi quest’aria…
È così calda e piacevole e sembra una morbida carezza.
Una delle tue, che erano però più affrettate, meno indulgenti sulla pelle, ma ugualmente tiepide.
L’aria profuma di salsedine se la respiri a pieni polmoni. Ti piacerebbe.
Almeno qui non si muore di umidità come a Musutafu!
Mi piace Nabu perché non è affollata e qui si può stare tranquilli: il traghetto è mezzo vuoto e va bene così. Lo faccio anche per te, sai, trovare posti poco affollati, perché so che non ti è mai piaciuta troppo la folla. Ridevo quando Kaminari-kun diceva che avevi batterie sociali limitate, perché so bene che non capiva il tuo stato d’animo.
E m’inorgogliva vedere che cercavi il mio sguardo come se fosse una muta richiesta di aiuto.
L’hai sempre fatto, pure negandolo. Hai sempre chiesto silenziosamente aiuto a tutti.
Credo che, se potessi tornare indietro, ti obbligherei a prendere la mia mano. O afferrerei io la tua più spesso. Ti obbligherei a farlo, perché per molto tempo ho ignorato tutti i tuoi malesseri.
Se mi fossi comportato diversamente con te, tante discussioni avremmo potuto evitarle. Ma io ero cieco ed egoista e riuscivo a domandarmi solo perché mi allontanavi.
La domanda che avrei dovuto realmente pormi sarebbe dovuta essere: perché si sta allontanando da me? Cosa sto facendo io per allontanarlo, quando invece lo vorrei vicino?
Forse sarei dovuto andare in terapia un po’ prima. E tu rideresti adesso e mi diresti che sì, avrei dovuto andare a farmi curare già da tempo!
Ma sai come funziona, no?
Si va dal medico solo quando il dolore ormai è reale, non più negabile, quando dalle situazioni non si riesce più a scappare, ma solo arrendersi.
E lo so che un Hero non si arrende mai, ma…cazzo! Siamo umani e non…immortali.
Pensi che questa sia una distrazione? Che l’essere venuto qui sia fuggire dalle situazioni?
Beh, hai ragione.
Forse perché, tra tutti i luoghi, questo è quello in cui mi sento più vicino a te in assoluto.
Connesso. Anche se non te lo potrai mai ricordare.
Il dottore sconsigliava questa mia piccola fuga, mi chiedo ancora perché ho dovuto dirglielo. Ma sai come sono gli strizzacervelli, no? Ti portano dove vogliono loro su sentieri di parole carezzevoli, scavano nella tua anima a furia di frasi subdole…
Io ho ceduto. Mi sono arreso a me stesso, a tutti i miei sentimenti incasinati.
Ero talmente preso dallo sconforto che per un periodo mi sono perfino rifiutato di vedere gli altri.
Mi ricordavano te.
Ognuno di loro aveva un pezzetto di te.
O forse sei tu che sei stato fin troppo bravo a lasciare briciole sul sentiero di altre persone, in modo che le seguissi, che poi alla fine ti ritrovassi. Dimmi che è così, ti prego.
Come Hansel e Gretel. Importa poco chi siamo dei due.
Importa solo che vorrei tornare alla mia “casa fuori casa” e tutti questi pezzetti non mi stanno portando da nessuna parte.
Però l’altra sera ti ho sognato: mi sorridevi ed era…inquietante.
Avevi il tuo costume da Hero e mi chiedevi scusa, come quella volta che sono tornato alla UA e mi abbracciavi e piangevi e sentivo il profumo del tuo sudore…
Sembrava così reale che, paradossalmente, ho trovato conforto in quel sogno e ho pregato gli Dei di darmene altri così, ogni notte.
Ma è stato solo quella volta, poi basta. Non che mi aspettassi qualcosa di diverso da te, sia chiaro!
Che dici? Prendo l’autobus? Non ho abbastanza soldi per un taxi per cui ti dovrai accontentare e fare il viaggio scomodamente come faccio io.
Anche se, effettivamente, l’autobus qui non mi dispiace. Forse perché per arrivare in spiaggia deve costeggiare il mare e fare tutte quelle curve che in città sarebbero solo scossoni bruschi. Il paesaggio è bello, un po’ in salita.
Avrei anche potuto scegliere un posto diverso, è vero. Qualcosa che piacesse solo a te, come la montagna. Ma per quanto ami allenarmi e fare fatica, la montagna non è proprio il mio di posto. I sentieri, i boschi…mi ricordano cose…brutte.
Brutte sì, ecco.
Le stesse che forse hanno tormentato te per tante settimane, a detta di Kirishima-kun.
Avrei voluto essere io il tuo vicino di stanza, forse per aiutarti, ma credo che sia stato meglio così.
Quindi ho preferito il mare, te l’ho detto. Troppo sentimentale, troppo da me.
Il dottore dice che sono in fase di accettazione, ma credo si sbagli, o non sarei qui, ad immaginarmi la tua risata di scherno per come mi stringo lo zaino contro in questo momento. Mi daresti sicuramente dello scemo, dicendomi che qui non c’è nessuno che potrebbe rubarmelo, ma sai…se anche te lo spiegassi forse non capiresti. A volte credo che per certi aspetti tu sia stato più ottuso di me.
Se mi appisolassi salterei la fermata, giusto? Ma questo sole basso e caldo è così fastidioso e gli scossoni del bus mi conciliano il sonno.
Magari dormirei meglio di quanto abbia mai fatto nell’ultimo periodo!
Stasera sarò a cena da Mahoro-chan e Katsuma-chan, che mi hanno offerto un letto, prima di ripartire, domattina all’alba, col primo traghetto disponibile. Dovresti ricordarteli, anche solo per la promessa che ci hanno fatto.
Questo bus è lento, ma non mi dispiace: vorrei essere tanto fortunato da vedere il tramonto sulla spiaggia, per cui me la prendo comoda, non ho chissà che fretta.
Quello che andava di fretta eri tu, che smaniavi per sorpassare tutto e tutti, per essere sempre il migliore.
A saperlo prima, avrei anche potuto dormirci qui su questo seggiolino scomodo, dato che la spiaggia è il capolinea di questa tratta: piazzale deserto, solo io e un paio di gabbiani che rovistano nel secchio della spazzatura.
Un po’ mi dispiace che non ci siano turisti, ma immagino che la gente abbia paura a muoversi, di questi tempi.
E sono capitato nella spiaggia dove abbiamo fatto il falò lo scorso anno, te la ricordi? Quella con il pontile sulla sabbia che fa da passerella fino all’acqua… Ecco. Sto camminando proprio lì, dove ricordo mi avessi spintonato come il solito, oltrepassandomi con un ghigno, ma restando voltato per vedere se ti guardavo.
E ti ho guardato. Ti guardavo sempre. Ma questo lo sapevi.
Sorrido. Non perché ci sia effettivamente qualcosa da ridere.
È solo che ho tanti pensieri che mi portano sempre a te, a ciò che facevi, alle piccole premure mascherate da prese in giro. A tutte le parole che dicevi per spronarmi, ai consigli non richiesti, alle facce buffe che facevi quando eri spazientito dal mio troppo parlare. Sono tutti pensieri belli, per questo sorrido.
Tutto ciò che era brutto, che era ed è dolore, credo di averlo consumato di rabbia e lacrime, toccando un fondo da cui ora posso solo provare a rialzarmi.
Il dottore dice che solo così il dolore si esaurirà in fretta. Ma ci credo poco.
Tolgo le scarpe e i calzini. La sabbia sotto i piedi è ancora bella calda dalla giornata, ma non è fastidiosa: è sottilissima e sembra velluto. Quella volta avremmo dovuto passare più tempo a divertirci. Mi rendo conto solo ora che certi momenti non tornano più e noi li abbiamo sottovalutati troppo a lungo. Ci credevamo invincibili, quando eravamo solo dei ragazzini incoscienti. Siamo. Siamo ancora ragazzini, anche se abbiamo cicatrici che deturpano la pelle e ferite profonde nell’anima che ancora fanno male.
Frugo nello zaino, dove ho stipato i vestiti con poca cura, il tubetto di dentifricio gira libero dal suo sacchetto e non ne so il motivo. Non amo gli scherzi, lo sai!
Sei sempre stato accanto a me in questo viaggio. Ti ho sentito.
Nella carezza del vento, in quello scomodo bus troppo vecchio per le strade dissestate di quest’isola.
È solo che adesso, averti tra le mani rende tutto reale. Rigirarti tra le dita, di cui a volte non ho sensibilità, mi atterrisce.
La zia piangeva quando sei partito con me. La capisco: credo che, se avessi un figlio, neppure io sopporterei di vederlo partire per sempre.
Ma lei starà bene, te lo prometto. E sai che sono uno che le promesse le mantiene!
Stacco i piedi dalla sabbia, mi sollevo. Non mi sono ancora abituato a volare.
Ogni volta che ci provo mi chiedo cosa tu sentissi, quando sfrecciavi così veloce, quasi da non essere visto. Che sensazione ti dava volare, mh? Ti sentivi libero?
Io mi sento solo male. Perché vorrei volare con te. Fare a gara con te. Vedere chi è più veloce a fare il giro del mondo.
Ma stai tranquillo, prima o poi troverò qualcuno di così matto da farlo con me. Non ti rimpiazzerà, ovvio. Sarebbe troppo difficile.
Tu potresti farmi tirare la mia prima bestemmia, sai? Questo cazzo di coperchio…perché l’ho stretto così tanto? Ah, vero!
Avevo paura di perderti. Di nuovo.
Che sciocco.
Però ecco, guarda: ti ho detto che sarei arrivato al tramonto, e sono giusto in tempo.
Se siamo fortunati il sole lo vediamo sparire all’orizzonte.
Ne abbiamo visti di tramonti, inconsapevoli di troppe cose. Non ce ne siamo goduti abbastanza e questo…
Mi stupisco di quanto sia bello e terrificante al tempo stesso, perché significa che sta finendo un’altra giornata.
Da domani sarò più vecchio e quando tornerò a casa mi aspetterà una bella festa: mamma non sa tenere i segreti, Mina-chan neppure.
Volevo prendermi del tempo per stare con te un’ultima volta, perché è difficile pensare che io diventerò grande e tu rimarrai solo un ragazzino di quindi anni troppo rumoroso per chiunque.
Per chiunque ma non per me.
Lo vedi? Qui diventerà presto tutto arancione e…cazzo! Fammi smettere di piangere, porca troia!
Tirami uno schiaffo, urlami contro, ma fammi smettere o finiremo in acqua e sarà stato tutto inutile!
Vorrei sentirti dire che tutto questo è troppo sdolcinato, che sono emotivo peggio di una ragazza col ciclo e che forse un paio di sberle in più da piccolo mi avrebbero fatto bene. Vorrei darti ragione.
Vorrei ancora darti ragione e urlarti contro ancora una volta e picchiarti a sangue in una delle nostre inutili sfide su chi sia più forte o più capace.
Vorrei…
Ma è da quando sono partito da Musutafu che mi sto solo raccontando una marea di cazzate, convincendomi che starò bene dopo questo, sentendomi comunque mezzo matto a discorrere con uno stupido barattolo con delle stupide ceneri che non ho il coraggio di aprire e sparpagliare nel vento e sul mare!
Ma io mantengo le promesse. Anche quelle che faccio a me stesso.
Quindi vai, Kacchan…vaga per un’ultima sotto questo cielo magnifico e abbracciami mentre io volo con te.
 
 
 
 
Credevo di non avere più lacrime, ma mi sbagliavo.
Ho rincorso ogni piccola parte di te nel vento, ridendo del tuo essere sempre un passo avanti a me, fino a non vedere più la terraferma, fino ad essere tanto esausto da rischiare di non tornare più con i piedi al suolo.
Ho vagato per la spiaggia fino ad ora, che il sole è stato inghiottito dal mare e le prime stelle fanno capolino tra il viola cupo del cielo. Dovrei recuperare le mie cose e andare dai bambini, come promesso. Ma non riesco a distogliere lo sguardo dalle onde, mentre i piedi affondano nella battigia.
È una strana sensazione quella del bagnasciuga.
È ancora caldo si sole e umido di mare. Cammini, ti volti, e le tue orme, con due onde, spariscono. È effimero, e ti da una strana instabilità. L’acqua porta via il terreno da sotto i piedi e i granelli di sabbia scorrono tra le dita. E pian piano sprofondi tra la sabbia e l’acqua, incapace di muoverti se aspetti troppo.
È una bella sensazione, sai. Bella e terrificante, in grado di ricollegarti al mondo, alla realtà delle cose.
 
I'm looking down now that it's over
Sad eyes follow me
But I still believe there's something left for me
So please come stay with me
'Cause I still believe there's something left for you and me
~ Creed ~

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Capitolo 5
*** Heroes never dies | Katsuki’s resignation ***


Heroes never dies | Katsuki’s resignation 



Era cominciato tutto con un tintinnio, mesi prima.
Qualcosa che gli faceva scuotere le testa per il fastidio ogni volta che lo sentiva.
Non ci aveva dato peso, all'inizio. Non aveva dato peso a tante cose, in realtà.
Prestava attenzione solo a ciò che gli interessava e tutti i piccoli fastidi che sentiva in giro per il corpo non rientravano nelle sue priorità.
In fondo, la strada per il successo era lastricata anche dal dolore, oltre che dal sacrificio.
Sennò perché farsi del male alzandosi alle cinque ogni maledetta mattina da dieci anni a quella parte e spaccarsi la schiena con la dragon flag? Nessuno lo obbligava a irrobustire le braccia a suon di sollevamenti di quelle stracazzo di kettelbell, giusto?
Ma lui lo faceva per solo per dimostrare a se stesso di farcela, per spostare più in avanti l'asticella del suo limite e superarla.
Ma superare il limite a volte è controproducente.
Si pulì il viso con il bordo della maglietta, asciugandosi il sudore che gli pareva colasse a fiotti dalle tempie e dalla fronte e che neppure le sopracciglia chiare riuscivano a fermare del tutto, imperlandogli le ciglia.
Per quanto amasse il proprio potere e ne fosse fiero, dall'altro lato odiava dover sudare così tanto. Certo, non se ne vergognava più ormai e almeno non puzzava.
La genetica aveva fatto un buon lavoro con lui. Beh, quasi.
Quasi perché quel suo stesso meraviglioso potere gli si era ritorto contro e lui si era ritrovato auto-sabotato.
Mentre tentava di scollarsi di dosso la maglietta zuppa di sudore e polvere, uno spasmo alla spalla destra lo fece sibilare: c'era abituato, ma quel dolorino si faceva sentire sempre nei momenti meno opportuni e avrebbe dovuto sparire col tempo. Invece era sempre lì, a rammentargli quanto stupido fosse stato da piccolo. Stupido ed avventato a rimettersi a posto da solo la spalla lussata dopo il rinculo di un'esplosione troppo forte.
Lasciò cadere a terra la maglia, abbandonandola assieme ai pantaloncini e ai boxer, per poi rovistare nell'armadietto alla ricerca di quella maledetta scatolina che non si ricordava mai dove la mettesse. Mai.
Forse perché la odiava, quella custodia. In realtà odiava quello che conteneva, quello che rappresentava: il suo essere debole.
Debole, sì. Perché la fragilità è tutt'altra cosa e lui l'aveva già sperimentata e c'era passato sopra. Quasi.
Trattenne il fiato, portandosi entrambe le mani dietro le orecchie con una delicatezza che difficilmente lasciava trasparire nei gesti giornalieri. Il fastidioso ronzio dell'apparecchio che si spegneva sotto le sue dita gli mozzò il respiro. Lo faceva ogni volta, involontariamente.
Forse perché il suo corpo si rifiutava di sottostare a quella condizione.
Ma o così o l'oblio.
Aveva iniziato a capire che qualcosa non andasse dopo Nabu, perché quel tintinnio dell'inizio, così sporadico e maledettamente fastidioso, si tramutava spesso in un fischio, a sinistra, soprattutto.
Dopo quel fischio aveva sempre quella sensazione "ovattata" dei suoni e si ritrovava a parlare a voce molto più alta del normale.
Ripose con cautela entrambi i piccoli apparecchi nella loro custodia, osservandoli per un breve momento, come faceva di solito. Li odiava. Li odiava con tutto se stesso e li avrebbe fatti esplodere se non gli servissero per portare a termine i propri obiettivi.
Chiuse la scatolina, afferrando poi il beauty case nero e il piccolo asciugamano che penzolava dallo sportello dell'armadietto, prima di richiuderlo con un tonfo e lasciarvi posata sopra una mano.
Rabbia.
Provava rabbia verso se stesso e il suo non essere abbastanza forte.
Ma forse gli effetti collaterali avrebbe anche dovuto metterli in conto, giusto? Il nerd si spaccava le ossa, il bastardo a metà si surriscaldava o si congelava.
L'ipoacusia forse era il male minore.
Si diresse verso il bagno, trascinandosi con svogliatezza, sentendo le piastrelle gelide sotto i piedi nudi. Cazzo se odiava il freddo!
Ma quel piccolo brivido gli piaceva ed allenarsi presto al mattino aveva i suoi vantaggi, come avere i bagni perfettamente disinfettati, tanto che ci potevi pure mangiare su quel pavimento!
Silenzio nella palestra, negli spogliatoi. Silenzio nelle docce.
Una volta amava anche quello della sua routine mattiniera; ora lo detestava perché non era più una condizione eccezionale per sfuggire dal chiacchiericcio continuo dei suoi compagni di classe.
Un capogiro lo fece sbilanciare e si ritrovò a sostenersi al muro con la spalla, prendendo un profondo respiro per non dover urlare a pieni polmoni tutta la sua frustrazione.
Anche quello era un fottutissimo regalo del suo quirk: vertigini.
Vertigini dovute all'ultima commozione cerebrale, che mandato a puttane pure le sue orecchie.
Perché non bastavano i timpani lacerati dalle esplosioni troppo forti o ripetute! Tsk!
Il medico dell'ospedale aveva accennato anche ad una possibile infiammazione all'orecchio interno e gli aveva ordinato di non strafare per qualche mese per non peggiorare e non dover rischiare l'apparato cocleare.
Ma come si fa a rispettare un tale comando quando vuoi diventare il numero uno?
Strinse le palpebre ed esalò un profondo respiro, prima di riprendere a camminare, fino all'ampio bagno comune, rivestito di piastrelle chiare, uno specchio e uno sgabellino di plastica per ogni postazione.
Aprì il rubinetto, lasciando che l'acqua diventasse calda, quasi bollente, passandovi sotto l'asciugamano per inzupparlo per bene. Alzò per un momento gli occhi allo specchio, fissando il proprio rifesso.
Orrendo.
Per quanto quella vecchia infermiera ci avesse provato, la profonda cicatrice sull'occhio destro era ancora lì, arrossata e gonfia, come il taglio sul labbro che scendeva verso il mento.
Cazzo era sempre stato così sicuro di sé, delle proprie abilità, del proprio intelletto e del proprio aspetto...ed ora si ritrovava sgretolato tanto dentro quanto fuori.
Chiuse gli occhi e cercò di respirare il più lentamente possibile, mentre si tamponava il volto con l'asciugamano caldo, scacciando di proposito tutte le immagini terrificanti che gli vorticavano in testa.
Quando ritenne di essersi calmato abbastanza, premette il dosatore e il sapone schizzò sul palmo.
Avrebbe tanto voluto sentire il gocciolio rilassante del rubinetto mal chiuso mentre s'insaponava. Ora quel filo d'acqua che usciva gli dava solo noia e gli sembrava solo uno spreco di risorse.
Il profumo fresco del docciaschiuma gl'investì le narici. Non lo sopportava e sua madre si ostinava a dargliene una scorta ogni volta che passava il weekend a casa. Cosa non capiva che poteva benissimo fare la spesa da solo?
Quella cosa faceva troppa schiuma e ci metteva un'eternità a sciacquarlo! E quell'odore lo infastidiva perché lo trovava troppo "freddo". Magari avrebbe regalato parte della sua scorta a Capelli-di-merda, che continuava a trovarlo "così virile" ogni volta che capitava di parlarne. Almeno avrebbe smesso di usare quelle saponette al sandalo da quattro soldi!
Quel pensiero lo fece ridacchiare involontariamente, mentre passava l'asciugamano intriso di acqua e sapone liquido sulle spalle indolenzite e sul collo.
Il tessuto sfregava sulla pelle, provocandogli brividi di dolore se la pressione aumentava un po'.
Per quanto la sua fosse liscia ed elastica per grazia genetica (come quella di sua madre), tutto quello che aveva passato gli aveva riempito la pelle di piccole e grandi cicatrici, che pian piano stavano guarendo o riassorbendosi.
Passò la mano insaponata tra la spalla e il petto, a sinistra, dove la cicatrice aveva ancora un colore scuro e spiccava sul candore del resto della sua pelle. Ne percorse con le dita i bordi frastagliati e leggermente in rilievo. Cheloide lo aveva chiamato il dottore.
Lui l'avrebbe definita in altro modo, tipo...senso del dovere? Presa di coscienza? Sensi di colpa?
Il palmo si mosse dietro la spalla, le dita a sfregare gli stessi bordi frastagliati, quasi speculari e strinse gli occhi di nuovo, rivivendo in loop la stessa, identica, scena, anche dopo mesi.
Percepiva la stessa fatica, gli stessi odori di terra e morte, il dolore ai palmi per il rilascio del cluster...
Il cuore cominciò ad aumentare i battiti, incontrollato. La stessa frenesia nel ritmo di quel giorno. Si conficcò le unghie nella spalla per tronare in sé, assieme ai denti che stringevano l'interno della guancia nel vano tentativo di trattenersi.
Come poteva un ricordo fare così male? Come poteva non sentirsi più padrone della propria mente neppure quando si lavava?
Ma non solo quelle lame che lo trafiggevano...no. Pure altre immagini, in altre situazioni.
Gli si presentavano alla coscienza involontariamente, quando meno se lo aspettava. Disturbanti ed involontarie.
Come quella volta che Faccia-da-scemo gli aveva messo il braccio intorno al collo e si era permesso di grattargli la testa con le nocche.
Lì gli era mancato il respiro e, per quanto gli occhi fossero spalancati e stessero tutti alla prima ricreazione, lui si era ritrovato a vedere ancora il buio del mondo che spariva dalla sua vista e le lacrime di Deku...
Abbassò il capo, portandosi i pugni alla fronte, picchiando così forte da sperare di spaccarsi la testa, tremando con ogni muscolo, singhiozzando sommessamente, ripiegato su se stesso su quello sgabello umido d'acqua e sapone.
Si sentiva patetico e debole e per quanto tutti continuassero a lodarlo e a dirgli che era forte...lui non lo era.
In alcune delle sue notti insonni, quando la mente era troppo sveglia e attiva a scapito della stanchezza corporea, ci aveva pensato spesso. A come tutti l'avessero lodato e incoraggiato fin da bambino, accrescendo il suo ego, facendogli dimenticare di guardare ai propri difetti, alle proprie mancanze, contribuendo a farlo diventare la persona di merda che era.
Quella che aveva suggerito al proprio amico d'infanzia di morire. Quella che non avrebbe mai e poi mai accettato l'aiuto di nessuno. Quella che era convinta di poter salvare il mondo tutto da solo.
Patetico. Patetico e stupido a pensarla così.
Sentì il sapore del sangue in bocca e spalancò gli occhi.
L'acqua scorreva ancora lenta e lui avvertiva già l'appiccicaticcio del bagnoschiuma ormai secco sulla pelle.
Ripeté di nuovo: acqua, asciugamano, sapone.
Lavare via i pensieri. Questa era la frase che si disse, tentando di respirare con calma, mentre la stoffa ruvida dell'asciugamano si spostava lungo le braccia, sulle spalle.
Lavare via i pensieri.
Doveva tenere la testa impegnata, giusto? Si disse che dopo la doccia si sarebbe fatto quei pancake proteici al cacao che non gli dispiacevano così tanto. Quelli, sciroppo d'agave, una banana a fette. O il porridge? Diff-
Il pensiero si bloccò quando provò fastidio, no...dolore al centro del petto, dove ancora la cicatrice era rosa e fresca e doveva continuare a metterci la pomata antibiotica per farla guarire a dovere. Non era più in carne viva, ma gli faceva male ogni volta che si vestiva, che la toccava...
Non doveva perdersi anche il quel ricordo, che forse era il più fumoso che aveva. O che volontariamente la sua mente distorceva.
Perché non era tanto il dolore a farlo da padrone, o il sentirsi per la prima volta impotenti tanto da avere le gambe molli e non doverlo dare a vedere. Essere se stessi anche quando non lo vorresti e il tuo io interiore, quel bambino piccino di tre anni, sta urlando disperatamente "Scappa Katsuki!".
Era stata la consapevolezza della manipolazione. Per una volta il non essere al centro dell'attenzione, ma solo una pedina nel gioco macabro di qualcun altro l'aveva annientato nello spirito.
E quella cicatrice del cazzo al centro del petto che pareva un fuoco d'artificio glielo rammentava ogni fottutissimo secondo.
Lasciò cadere l'asciugamano su una coscia, artigliandosi i capelli biondi, tirandoli tanto da farsi male, mugolando a denti stretti, osservandosi le gambe di nuovo piene di lividi e piccole cicatrici chiare, più chiare del tono della pelle. Come se fossero lentiggini o nei sbiaditi a tal punto da scomparire e lasciare solo il fantasma di se stessi.
Tirò su col naso, sentendo rimbombare quel suono nella testa, così come il lamento di un pianto di disperazione che usciva dalle sue labbra, mentre il fiato si faceva sempre più corto e spezzato e gli sembrava di fluttuare, impossibilitato a toccare terra con i piedi.
Ma le sue piante erano ancora in contatto con le piastrelle tiepide ed umide, il suo culo posato sulla zigrinatura dello sgabello, ma non se ne rendeva conto.
Dietro le palpebre, i suoi occhi cremisi vedevano ancora la parete riempita di liquori di un bar mentre il suo respiro si mozzava, come se avesse ancora la gola riempita da quel mostro melmoso.
Cercò di alzarsi, di afferrare il rubinetto per aggrapparsi ed aiutarsi, ma di nuovo quella maledetta vertigine lo fece rovinare a terra, col fiato spezzato mentre annaspava sul pavimento umido alla ricerca di aria che i suoi polmoni si rifiutavano di respirare.
Sarebbe morto. Lo sapeva. Prima o poi sarebbe successo.
Ne aveva paura? Della morte...lui aveva paura?
L'aveva presa in considerazione prima di quel momento: la morte era un'eventualità per il suo futuro lavoro, una volta adulto. Non certo per un adolescente.
Ma forse non era neanche più un ragazzino, come invece continuavano a dire i suoi genitori o i suoi insegnanti.
I ragazzini non affrontano mostri, non muoiono e poi rinascono. Non sono mostri a loro volta.
I ragazzini non dovrebbero essere mandati in guerra per l'incompetenza degli adulti.
Non dovrebbero tornare feriti nel corpo o nell'anima o entrambi.
Dovrebbero sperimentare il sangue in scazzottate innocue non vedere morte e distruzione.
Non dovrebbero strisciare come vermi sul pavimento bagnato di un bagno comune alla spasmodica ricerca d'aria e di pace.
Tirò il tubo e il diffusore della doccia gli cadde in testa, ma non provò altro che sollievo tra le lacrime.
Tremava e cercava aria. Non riusciva a pensare a nulla se non alla morte e al fatto che i polmoni si svuotavano progressivamente della poca aria con un urlo di cui sentiva solo il vibrato in gola.
Sangue, sudore e lacrime non sarebbero servite a nulla.
Avrebbe finito la sua vita come il patetico pezzo di merda che era.
Poi si sentì afferrare le caviglie, trascinato, girato, un mezzo avvitamento che gli fece stringere di più gli occhi brucianti ed emettere un altro lugubre mugugno, la pancia e il petto che grattavano malamente sulle piastrelle.
E mani sulle spalle a girarlo bruscamente, a prendergli il viso, scuotergli le guance con buffetti delicati, mentre le proprie, di mani, cercavano di allontanare quei tocchi così fastidiosi che, senza rendersi conto, l'avevano gradualmente fatto respirare di nuovo.
Strizzò gli occhi un'ultima volta per poi spalancarli, ancora irritati dal pianto, su un altro paio, rossi quanto i suoi, spalancati altrettanto in apprensione, le iridi che saettavano su ogni dettaglio del viso del biondino che ancora stava scuotendo.
La bocca si muoveva frenetica e lui non riusciva a distinguere alcuna parola che quelle labbra tentavano di scandire.
Gli posò una mano in faccia ed emise una breve, debole esplosione, provando ad allontanare quello stupidissimo assalitore, senza successo.
Il fiato tornò a gonfiargli i polmoni, ma quelle mani calde e ruvide continuavano a toccagli le braccia, strattonandolo, facendolo sedere nonostante i capogiri, le chiappe sulle piastrelle fredde al centro del bagno.
Eijirō parlava troppo in fretta, era una cosa che gli rinfacciava spesso, ma adesso era fastidioso non sentire cosa stesse blaterando. Intuiva solo un "Bakubro" da come le labbra sembrava volessero imitare un piccolo scoppio quando venivano mosse e portate avanti. Un "pop" sulle b di quel nomignolo che mai, mai come in quel momento avrebbe voluto sentire.
Katsuki allungò le mani sul petto nudo dell'amico, come a volerlo fermare: «Piano...», disse, ma non era nemmeno convinto che lui l'avesse udito.
Gli era ancora strano provare a parlare senza sentire nulla. Non aveva idea se i suoni che uscivano dalla sua gola fossero udibili o, al contrario, troppo alti.
Di nuovo tornarono a guardarsi negli occhi, scorgendo ancora la stessa apprensione in quelli di Eijirō, che se ne stava inginocchiato di fronte a lui con le braccia a mezz'aria, pronto ad acciuffarlo nel caso di un altro forte capogiro.
Katsuki mise la mano aperta di fronte a sé, il pollice rivolto al petto. Due movimenti verso lo sterno accompagnati da un flebile: «Sto bene ora...».
Il rosso rilassò le spalle e tronò a respirare. Non era la prima volta che lo raccoglieva in quello stato solo...non aveva mai visto una crisi così brutta.
Sapeva che non lo poteva udire, ma non fare nemmeno un tentativo l'avrebbe fatto sentire tremendamente in colpa. In più Midoriya-kun gli aveva insegnato di nascosto qualcosina...
Così Eijirō mise le mani a coppa l'una sull'altra un paio di volte, attirando l'attenzione del biondo che stava pian piano regolarizzando il respiro e si era puntellato sul pavimento con i palmi per sollevarsi.
«Ti ho sentito urlare, amico! – chiuse il pugno e alzò il pollice, sostenendo quel gesto con la mano sinistra e accompagnando le braccia al petto - Sono venuto in aiuto!».
Katsuki batté le palpebre più volte, incredulo: l'amico aveva parlato con calma e lui aveva capito cosa diceva con le labbra. Aveva capito anche quei due semplici gesti.
Strinse con forza il labbro inferiore con i denti mentre le lacrime gli annacquavano di nuovo gli occhi.
Perché?
Perché lo stava facendo? Perché lo aiutava di nuovo? Perché stava cercando in tutti i modi di imparare qualcosa di così inutile come il linguaggio dei segni...
Katsuki abbassò il capo. Non lo meritava. Non meritava tanto dalle persone che aveva sempre ritenuto comparse nella sua vita. In una vita che lui si raccontava come perfetta, degna di un eroe.
Ma prima che potesse ricominciare a piangere si sentì scuotere di nuovo e sollevare ancora una volta la faccia: Eijirō aveva le mani calde, mentre tutto il suo corpo si stava progressivamente raffreddando.
Un altro gesto con la mano vicino alla tempia, sbagliato. Totalmente sbagliato se unito al labiale, ma lo capì lo stesso ed annuì. Allungando le mani e lasciandosi tirare su da terra come un sacco informe.
Quelle mani le aveva afferrate più volte, si erano aiutati a rialzarsi a vicenda spesso e quella forse sarebbe stata una delle tante volte.
Si ritrovarono finalmente in piedi, l'uno di fronte all'altro, con il rosso che non smetteva un secondo di fissarlo in faccia per capire se stesse bene, se avesse bisogno di qualcosa, allungando la mano a tentoni alla ricerca di una doccia per finire di sciacquarlo dal bagnoschiuma che aveva ancora addosso.
Forse se lo sentiva, Eijirō, quando quella mattina s'era svegliato pure lui di buon'ora per cominciare la giornata dei test con un bel bagno rilassante.
Fu solo quando tentò di sospingerlo verso la vasca con la mano in mezzo alle scapole, che Katsuki s'irrigidì, opponendo resistenza a quel gesto.
Il rosso si portò di nuovo di fronte a lui, le braccia aperte a chiedergli silenziosamente cosa ci fosse, perché la sua memoria faceva cilecca nei momenti meno opportuni.
Poi lo vide: Katsuki si portò la mano al mento e, con un gesto rapido e sguardo basso l'allontanò.
Eijirō copiò il gesto, aggrottando le sopracciglia perché non lo conosceva così bene.
Katuki roteò gli occhi, sbuffando, dandogli mentalmente dell'idiota, prima di rifare quel gesto e sillabare a mezza voce: «Gra-zie.».
Gli occhi rossi di Eijirō si spalancarono e le sue labbra si distesero in un sorriso luminoso ed appuntito, mentre ripeteva quel gesto tutto contento: «Mi hai ringraziato! Oh! Oh!». E, cazzo sembrava un bambino a cui stavano offrendo un gelato per quanto si stava agitando! E quell'agitazione si tramutò in un abbraccio umidiccio e fugace da parte del rosso, per nulla imbarazzato dal fatto che erano entrambi nudi e soli nel bagno comune.
Katsuki trattenne a stento una risata e se lo scollò di dosso, l'imbarazzo visibile sul volto di entrambi e il rosso che tentava di scusarsi, pur sapendo che lui non lo poteva udire.
Perché per quanto non riuscisse a sentire alcuna parola senza i propri maledetti apparecchi acustici, il cuore di Eijirō era riuscito a sentirlo bene. E batteva forte, come il suo, sotto quella cicatrice che sembrava essergli scoppiata sul petto come un fuoco d'artificio.
Katsuki gli prese le mani e gliele piegò, a formare una coppetta angolata. Fece lo stesso con le proprie, portando le dita contro il petto, in un movimento di lento su e giù e vide il rosso fare lo stesso gesto, speculare, mentre la sua faccia era tutta concentrata a capire cosa gli stesse dicendo.
Lo indicò e poi rifece il gesto: «Tu sei felice.», scandì, la voce un po' più sicura e lo vide rialzare il capo e serrare le labbra in un sorriso che gli creava due piccole fossette appena sotto gli zigomi e gli occhi erano lucidi e spalancati, mentre indicava prima se stesso, poi lui e ripeteva di nuovo quel piccolo gesto che sembrava così magico.
«Io sono felice che tu mi hai ringraziato! – e si toccò il mento, come prima – Io sono felice di averti aiutato!» e rifece di nuovo quel gesto col pollice, che fece scuotere la testa a Katsuki e incurvagli le labbra in un sorriso che non aveva nulla di spaventoso, solo...tenero.
Avvicinò due dita alla fronte dell'amico e gli diede una schiccherata abbastanza forte da togliergli quella sua espressione imbambolata, prima di andare a passo ancora incerto verso la grande vasca comune, sedersi sul bordo e poi scivolare nell'acqua calda, dandogli le spalle: «Muoviti, Capelli-di merda!», berciò, con maggiore sicurezza.
Ma sapeva che quelle parole avevano perso qualsiasi connotazione negativa che avrebbero potuto avere all'inizio e lui, sul serio, aspettava che l'amico gli facesse compagnia e prendesse posto di fronte a lui.
Sarebbero potuti anche restare in silenzio, senza provare a fare gesti o sforzarsi nella lettura del labiale: si sarebbero capiti ugualmente, Katsuki ne era convinto.
L'acqua si mosse e lui si voltò appena per vedere Eijirō entrare in vasca e posizionarsi dell'altro lato, le braccia aperte poggiate sul bordo così come le aveva Katsuki.
Il rosso gli schizzò addosso un po' d'acqua per attirare la sua attenzione e fargli vedere di nuovo quel gesto.
Felice.
L'avrebbe ammorbato con quel movimento ora che l'aveva imparato, ne era sicuro.
Eppure quella sua spontaneità e quel sorrisetto da squalo che sembrava essere ogni volta più luminoso e genuino, lo fecero sorridere ancora e rifare lo stesso gesto, prima di chiudere gli occhi e reclinare il capo.
Felice.
Si era ritrovato sordo, pieno di cicatrici e incubi; ma scappare da se stesso non sarebbe stata la soluzione. Doveva affrontare a piccoli passi la rabbia dettata dalla sua condizione e i fantasmi che lo tormentavano durante tutte le ore del giorno.
Socchiuse gli occhi e colse Eijirō ripetere quei pochi gesti che stava iniziando ad imparare e che lui, per forza di cose ormai sapeva bene.
Sospirò, prima di richiudere gli occhi e scivolare di poco, la nuca appoggiata al bordo della vasca, le braccia e le gambe aperte sotto il pelo dell'acqua calda, in un gesto stupido ed infantile per lasciarsi un po' andare.
Si ripromise di esserlo davvero. Felice.


 
I won't believe it, underdog dreamin'
Don't need no cheers, world's gonna see it
Heroes never die
Gonna make it to the finish line
~ Skillet ~

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Capitolo 6
*** The fuel that drives | Shoto's purpose ***


The fuel that drives | Shoto's purpose


Quella lì non era stata per niente una buona idea.
O, meglio, sarebbe stata un'idea grandiosa se si fosse limitata alla sua formulazione originale, che comprendeva solo sè stesso.
Ma sapeva bene che a Hanta non poteva nascondere nulla.

Se tutti si lamentavano che la sua faccia era imperturbabile, quel suo compagno di classe fannullone gli rammentava ogni giorno il contrario.

Era tutto un "Che hai Roki?" o "Che ti prende adesso Todobro?" o anche un "Su col morale, Shoto-kun!". Quest'ultima frase di solito era seguita da una poderosa pacca tra le scapole, che gli faceva ogni volta mancare l'equilibrio nei suoi passi.

Così la seconda versione della sua buona idea s'era trasformata in un qualcosa di abbastanza buono, quando Hanta s'era auto-proclamato compagno di quella sua impresa, che avrebbe dovuto essere tranquilla, forse non facile, ma di sicuro estremamente produttiva. La nota positiva, nella sua personale valutazione della cosa, era che l'avere un aiuto non sarebbe stato poi tanto male, soprattutto nel caso in cui qualcosa fosse andato storto.

Ma quella probabilità era così bassa che, già all'inizio, non aveva previsto alcun accompagnatore.

La cosa era però degenerata due giorni prima, a pranzo, facendo passare la sua idea iniziale così ben articolata direttamente nella categoria delle cattive idee.

Il motivo? Sempre Hanta Sero, naturalmente.

Mentre calcava i passi lungo il sentiero si voltò a osservare l'amico che, seppur sorridente, arrancava dietro di lui, trascinandosi appresso Kaminari, legato dal suo nastro adesivo e tenuto con una specie di guinzaglio per la vita. Con molta probabilità, entrambi si stavano pentendo della scelta fatta.

Due giorni prima, in pausa pranzo, Hanta era così entusiasta di accompagnarlo che, in barba alla riservatezza richiesta, non era riuscito a tenersi dentro quel loro accordo e aveva richiamato al loro tavolo pure Kaminari che, a quella notizia aveva usato un tono più alto del previsto, attirando su di loro pure l'attenzione di Ashido-san e Hagakure-san e da lì era partita la catena di domande.

Così i piani di Shoto, di pranzare tranquillamente quel giovedì e farsi un allenamento in santa pace il sabato successivo, erano stati infranti dalla baraonda del gruppetto più rumoroso della classe 1A.

Non poteva neppure contare sul supporto dei propri compagni di classe che gli erano più congeniali, perché Midoriya, Iida e Uraraka-san stavano seguendo un allenamento tutto particolare quella settimana.

«Ricordami di non ascoltare più Faccia-piatta e le sue idee di merda.»

Il borbottio sommesso accanto a lui gli fece voltare la testa in direzione di Bakugō, che lo stava superando a passo spedito, pestando con foga i piedi sui sassi, come se quel gesto potesse alleviare la sua frustrazione.

Sapeva che l'idea "di merda" non era stata solo quella di Hanta, ma quell'espressione poteva rendere bene la situazione.

Shoto avrebbe voluto allenarsi in santa pace o, al massimo, con Hanta; ora invece si ritrovava a fare da guida ad una scampagnata male assortita, così come lo era la parte maschile della Bakusquad, decisamente troppo rumorosa per i suoi standard.

«Bakubro! Aspetta!».
Dietro di lui improvvisò una corsa Kirishima per raggiungere il ragazzo biondo, fulcro di quell'accozzaglia di persone, e stare al suo passo.

Si domandò a quale scopo Hanta avesse chiamato così tanta gente con loro, ma poi si rammentò dell'innata invadenza di Kaminari e del buon cuore di Kirishima.

Bakugō? Oh, beh. Lui doveva ancora capire perché li avesse seguiti: non aveva mai sviluppato della reale collaborazione con gli altri alunni della classe, ma sapeva che a quei ragazzi ci teneva. A modo suo, ma ci teneva.

Bakugō ogni tanto gli ricordava una quaglia. Sì, di quelle che tengono i pulcini sotto le proprie ali e li proteggono anche mentre attraversano il sottobosco.

Non avrebbe mai potuto dirglielo, ovvio: ci teneva alla propria vita e non voleva davvero saltare in aria per una sciocchezza del genere!

Però aveva raggiunto una sorta di tregua con lui e aveva imparato ad apprezzarlo.
Shoto e Katsuki avevano imparato entrambi ad apprezzarsi a vicenda, in realtà.
C'era rispetto reciproco, in un certo senso. Amicizia? Forse.

Ma Shoto aveva finalmente capito che l'amicizia era un sentimento strano e complesso, fatto di molteplici forme.
Per Uraraka-san era fatta di premure, o di sorrisi e parole d'incoraggiamento per Midoriya o Iida
Oppure era fatta di sfuriate e abbracci rigeneranti, come avveniva tra Bakugō e Kirishima. O di discorsi stupidi, canne e bevute come tra Hanta e Kaminari.

Ma tra Shoto e Katsuki le cose non erano mai state semplici.

Attese che Hanta e Kaminari gli fossero vicini e riprese a camminare con loro, lungo quel sentiero largo che si snodava tra le betulle e i rari pini.

Per quanto l'aria fosse pungente e sferzasse i loro visi, quella camminata era stata un bel riscaldamento iniziale: si erano svegliati all'alba e preso un treno e un autobus per arrivare dalla U.A. alle pendici della collina.
Avrebbero potuto dormire tutti a casa sua, ci avrebbero messo meno tempo a raggiungere l'imbocco del sentiero. Ma la sua era stata una decisione affrettata e non voleva mettere in agitazione Fuyumi-chan per questo.

«Allora, Todobro, programma di questa scampagnata?».
Kaminari l'aveva riportato alla realtà con un pugnetto sulla spalla e quella sua voce squillante che ogni tanto lo infastidiva.

«Siamo qui per allenarci. Non è una scampagnata.».

Denki sgranò gli occhi, non tanto per la freddezza con cui l'aveva trattato (e da sempre aveva come il sentore di non andare a genio a Todoroki), quanto perché si stupiva ogni volta dell'incapacità del ragazzo di comprendere il sarcasmo.
E si chiedeva spesso come facesse Sero a morirci dietro: Shoto alle volte era così ingenuo da sembrare addirittura stupido!
Fece un gesto con la mano e minimizzò la frase: «Ah! E io che pensavo volessi farti una gitarella! Bene! Meglio così! Almeno ci spezzeremo la schiena lontani da adulti responsabili ed infermerie attrezzate!».

«Denks! Basta!», sbottò Sero, liberando l'amico chiacchierone dalle sue costrizioni, spingendolo in malo modo qualche passo più avanti, mentre lo sentiva ridacchiare e chiamare a gran voce Kirishima e Bakugō, che erano andati un po' troppo avanti per i suoi gusti.

«Scusalo. A volte straparla!».

Shoto voltò appena il capo, sistemandosi con un colpetto di reni lo zaino e gli spallacci: «Non ti devi scusare per lui. Ha ragione e ha elencato correttamente i rischi, ma non vi ho chiesto io di venire.».

Sero si mise sulla difensiva, alzando le mani in segno di resa e un angolo della bocca verso l'alto a contenere una smorfia: «Woah! Non serve essere passivi-aggressivi, Todobro!»

Passivo-aggressivo? Quella era nuova per lui.

Se ne era sentite dire tante nel corso degli anni, ma quello no. Decisamente no. E non seppe nemmeno come prenderla quell'affermazione, perché, fatti quei pochi metri, si ritrovarono al limitare di una radura, dove il torrente, che prima avevano solo potuto udire in lontananza, creava un'ansa placida e una sorta di piccola spiaggia, dove l'acqua arrivava a lambire i sassi e la terra scuri.

Piccoli arbusti crescevano tutt'attorno, bassi ed esili, ma la quantità di fiori che pian piano erano sbocciati rendeva quel pezzo di prato ameno ed invitante.

E così Hanta, Kirishima e Kaminari, mollarono di peso i loro zaini a terra e si tuffarono in quel mare verde, rotolando sull'erba fresca e godendo della morbidezza di quel manto, esalando versi più che sodisfatti e risa.

Alla sua sinistra, invece, Shoto udì solo un profondo sospiro. «Allora è qui.».

Bakugō aveva ancora lo zaino sulle spalle e stava a qualche passo da lui, immobile, le mani ficcate nelle tasche e la fronte imperlata di sudore per lo sforzo della camminata.

I suoi occhi tornarono a fissare i tre ragazzi che ora si stavano togliendo scarponcini e calzettoni e tentavano la sorte mettendo i piedi nell'acqua del torrente, sicuramente ancora troppo fredda.
«Già. È qui. – prese un profondo respiro e poi continuò – Sono venuto qui solo una volta, di nascosto. Quando mio padre non era a casa. Mi aspettavo qualcosa di diverso.».

Fu il turno di Bakugō di guardarlo col suo solito cipiglio corrucciato e l'espressione mortalmente seria: «Pensavi di trovare tutto bruciato?».

Shoto alzò le spalle. Quel gesto l'aveva imparato osservando Asui-san e l'aveva ritenuto un buon compromesso tra lo stare immobile a non dire nulla e il cercare di giustificarsi.

«Non fare spallucce con me, Mezzo-e-mezzo. Non ci pensare nemmeno!», sbraitò, stranamente a voce bassa, normale.

Si osservarono entrambi e Shoto tirò la bocca in una smorfia piatta, stringendo tra loro le labbra: «Ero piccolo. – si giustificò – E ancora non capivo come funziona la natura dopo gli incendi.».

Bakugō roteò gli occhi a udire le urla starnazzanti dei suoi tre amici che avevano finalmente capito che l'acqua dei torrenti non ha certo la stessa temperatura di quella mezza brodaglia che loro chiamano mare.

«Più verde.».

«Ah?».

«La radura è più verde di come me la ricordavo.», disse, passandosi la manica sotto il mento ad asciugare il poco sudore che gli stava scendendo lungo il viso, prima di portare indietro con un gesto della mano i capelli, lasciando la fronte scoperta per un momento.

«Stai cercando di fare conversazione?»

«No. – si bloccò – Forse.»

Katsuki roteò gli occhi e fece mezzo sorriso, facendo in modo che l'altro non lo vedesse, prima di inspirare profondamente l'aria fresca e profumata della montagna: «Meglio trovare un posto e piantare le tende.», decretò infine, sbilanciando si in avanti per raggiungere gli altri.

«Va bene per te?».

«Ah?».

«Va bene per te? Stare in questo posto, intendo. – Shoto esitò, alla ricerca delle parole più giuste – Non te l'ho chiesto prima, scusami.».

Bakugō si voltò verso il compagno di classe, spalancando un po' gli occhi a quella frase. Sapeva bene a cosa si riferisse e avrebbe mentito a sè stesso dicendo che quel posto non lo inquietava, riportando alla memoria cose brutte. Ma aveva imparato l'autocontrollo su certe cose e si ritrovò a serrare la mascella e a sibilare un freddo: «E a te sta bene?».

«Credo di sì.», e Shoto si mosse in avanti, posando una mano sulla spalla del compagno di classe: «Piantiamo le tende.».


 

«Oi, bro! E questo?».

Hanta stava sventolando con poca grazia un telo di plastica, colpendo più volte i capelli di Kaminari, elettrizzandoli, mentre quello cercava di infilare un picchetto nella dura terra.

«Ma la smetti?», si voltò Denki, con aria truce, prima di ricevere del nylon direttamente in faccia.

Kirishima si sporse oltre il lato della tenda, osservando l'amico con aria perplessa: «Oh, merda! Mi sa che quello va sotto.» e spostò lo sguardo verso l'altra tenda, che Bakugō aveva già montato poco più in là, completamente da solo, per far loro vedere come procedere. Erano stati attenti? Non proprio, in effetti.

Così Eijirō si ritrovò a chiedere aiuto al proprio migliore amico, richiamandolo più volte, ben consapevole della sfuriata che sarebbe arrivata in tre... due...

«Io amo la montagna. Ma da solo! NON IN COMPAGNIA DI UN MANIPOLO DI STRONZI!», sbraitò il compagno, mollando a terra le taniche pieghevoli colme d'acqua e andando a passo spedito verso quei tre incapaci dei suoi amici, i palmi già fumanti per le microesplosioni che da sempre caratterizzavano i suoi repentini cambi d'umore.

«Bakugō...», tentò di rabbonirlo Shoto, ma di sicuro lui non l'aveva manco sentito, così tornò a preparare quella specie di fantoccio, fatto di un vecchio sacco di patate imbottito di foglie e legato ad un ramo grosso e ritorto con un cordino di canapa.

E mentre Shoto finiva il proprio lavoro con meticolosa precisione, così come aveva imparato fin da piccolo, ogni tanto allungava lo sguardo verso quel quartetto male assortito, che gli strappò mezzo sorriso.

Forse era stato meglio così. Forse Hanta aveva fatto bene ad insistere.

Nell'ultima settimana era stato fin troppo concentrato su sè stesso, sul proprio allenamento e sul trovare un modo per-

Deglutì.
La gola s'era fatta improvvisamente arsa e gocce di sudore freddo gli percorsero la schiena sotto il tessuto leggero della maglietta di cotone, facendolo rabbrividire.

Voleva trovare a tutti i costi un modo per rendere inoffensivo Touya. No, non voleva: doveva.
E, una volta fatto, ne avrebbe parlato a Enji, avrebbero approntato un piano, sistemato le imprecisioni. Suo padre da solo non ci sarebbe riuscito, ma lo capiva.

Non era arrivato a compatirlo, certo che no. Ma capiva il suo smarrimento per un figlio creduto perso e ritrovato improvvisamente come il peggiore dei nemici.

E per quanto Shoto non lo desse a vedere, quel peso che portava addosso lo stava pian piano facendo incurvare, con le spalle non più dritte e il portamento fiero che i suoi compagni avevano imparato a conoscere.

Esalò un sospiro, cacciando rabbiosamente le foglie che aveva raccolto nel secondo sacco di juta, asciugandosi la fronte e il mento con l'avambraccio. Ma non vi era tessuto a coprirlo, per cui quel gesto fu del tutto inutile e lo fece sbuffare ancora di più.

«Hai finito di fare la teiera?».

La voce graffiata di Bakugō che lo osservava dall'alto, con entrambe le mani nelle tasche e sguardo feroce lo riportò alla realtà delle cose, mentre si sistemava meglio con le ginocchia sull'erba umida.

Katsuki non si scusò per quel sottile doppio senso legato alla sua cicatrice, né si chinò per dargli una mano. Rimase lì a fissare il compagno di classe con aria severa di chi sa bene cosa l'altro stia pensando.

«Ho caldo.».

«Balle. Ti puoi raffreddare quando vuoi, Mezzo-e-mezzo.».

Shoto tornò a osservare le foglie che si accartocciavano entro la stretta della sua mano sinistra, prima che prendessero improvvisamente fuoco e la cenere gli sporcasse le ginocchia.

Quando Shoto alzò di nuovo il capo verso Bakugō, la sua visuale fu invece riempita dalla chioma scarmigliata di Hanta e dai suoi occhietti che lo fissavano, sottosopra: «Se continui a bruciare foglie come fai a fare i bersagli, Roki?».

Udì Katsuki grugnire e si ritrovò a sorridere debolmente a Sero: in fondo, l'aveva salvato da una discussione inutilmente spinosa con una persona che non voleva di certo far arrabbiare. Così, con la testa all'indietro per guardarlo bene in faccia, Shoto allargò di più le labbra in un vero sorriso. Sapeva di non essere bravo in quello, risultando talvolta inquietante, ma ultimamente si stava sforzando molto per far vedere ciò che provava. Capire, invece, cosa provassero gli altri era molto più difficile, ma solo perché aveva sperimentato troppe poche volte le emozioni altrui.

Per esempio, come avrebbe dovuto interpretare gli occhi spalancati e le guance paonazze di Hanta in quel momento? O la sua improvvisa afasia?

Forse la sua richiesta di aiuto nel riempire i sacchi era stata troppo perentoria?
Eppure, a ripensarci, s'era sforzato di essere il più gentile possibile con quel "Perché non mi dai una mano tu?".

Così s'erano ritrovati seduti entrambi sull'erba, a riempire silenziosamente un sacco a testa con foglie umide e secche, mentre, poco dopo pure Denki li aveva raggiunti, aiutando Kirishima a piantare i pali che sarebbero serviti da sostegni.

Kaminari sapeva di essere stato il terzo incomodo, ma Sero gli faceva pena: come poteva lasciare il proprio migliore amico nel più completo e imbarazzato silenzio con la sua crush senza neppure provare a rispondere alle sue occhiate d'aiuto?


 

I ragazzi andarono avanti a preparare il terreno dell'allenamento quasi fino all'ora di pranzo: avevano perso il senso del tempo, ridendo della goffaggine e della scarsa manualità di Denki nel fermare i sacchi sui sostegni e Kirishima era perfino riuscito a coinvolgere Todoroki in un discorso. Poco contava che fosse principalmente incentrato su allenamento e alimentazione dopo lo sforzo.

Lo stomaco di Sero iniziò a brontolare solo quando Bakugō li raggiunse con un sacco pieno di sandwich: «Quella vecchia ciabatta ne ha fatti anche per voi.», borbottò sedendosi, lanciando tra di loro il sacchetto con il cibo con estrema noncuranza.

Shoto inclinò la testa, mentre gli altri tre si fiondavano sui sandwich, osservando Bakugō seduto esattamente di fronte a lui, tra Kirishima e Hanta. Adesso perché quella testa calda stava arrossendo? Neppure il suo masticare rabbiosamente a bocca semi-aperta mascherava quel colore tanto strano sul suo viso.

«Hai preso sole, Bakugō?», gli uscì, dopo un boccone di sandwich all'uovo.

La scena successiva gli fece incurvare le labbra in un sorriso divertito: Bakugō Katsuki, esplosivo nei modi come il suo solito, si sottraeva ad una amorevole scompigliata di capelli da parte di Kirishima, mentre Hanta lo punzecchiava dandogli del "tenero bastardo" per aver pensato alla loro alimentazione.



 

Il pomeriggio fu di certo più impegnativo della mattinata: tutti e cinque s'erano impegnati in un riscaldamento intenso, fatto di stretching, corsa in discesa e poi in salita, flessioni e burpees, prima di passare direttamente ad un allenamento corpo a corpo alla vecchia maniera, sfoderando le tecniche marziali che avevano imparato nel corso dell'anno. Che ad un certo punto tra Kirishima e Bakugō quel corpo a corpo avesse preso la piega di una scazzottata vera e propria era solo un dettaglio. Così, mentre Kaminari e Hanta cercavano di separare i due contendenti con scarso successo, Shoto non s'era minimamente scomposto, aveva fatto spallucce e aveva approfittato del trambusto per camminare verso il torrente, togliersi le scarpe e immergersi gradualmente nell'acqua fredda.

I sassi erano scivolosi sotto i piedi, che tentavano di aggrapparsi ai ciottoli con le dita che, a poco a poco, perdevano di sensibilità.

Il torrente non era profondo, né dal flusso impetuoso. L'avrebbe definito frizzante, perché l'acqua correva veloce per il dislivello, limpida abbastanza da vedere dove mettere i piedi, un livello accettabile per potersi sedere e avere almeno il busto esposto fuori dal pelo dell'acqua.

Così Shoto s'era sistemato al centro del flusso, le spalle alla sorgente, e s'era seduto nel mezzo del torrente e poco gl'importava di inzupparsi anche i vestiti, sudati dopo la camminata e l'allenamento.
Guardava verso valle, dove il torrente si snodava tra massi più grandi e dove bassi arbusti ne increspavano la superficie lungo le rive.
Incrociò le gambe sott'acqua, mentre i muscoli si raffreddavano forse troppo, mentre mille brividi di freddo gli percorrevano la schiena, fino ai capelli, rendendogli la cute pruriginosa, quasi al limite del doloroso.

Chiuse gli occhi e s'impose di trovare la calma necessaria a meditare.

Ci voleva concentrazione per ciò che voleva fare e, per una volta, si ritrovò a mettere davvero in pratica i consigli di suo padre in maniera autonoma, senza forzature o altro.

Gli piaceva fare yoga e meditare, anche nelle pose più bizzarre o difficili. Allenare corpo e mente in una sola volta gli sembrava un risparmio di tempo e di energie. E un buon compromesso tra ciò che doveva e ciò che voleva fare.
Fosse stato per lui, avrebbe passato la maggior parte del tempo immobile, nella posizione del loto, ad ascoltare il proprio respiro o i battiti del proprio cuore o il canto degli uc-

Splash!

Aprì gli occhi che era sott'acqua, immerso in un turbinio di bollicine, prima che il mondo tornasse improvvisamente dritto e... asciutto.

Kirishima era davanti a lui, a gambe all'aria, che rideva sguaiatamente come lui sapeva fare quando qualcosa lo divertiva particolarmente, mentre Kaminari continuava a piegarsi in profondi inchini di scuse, mentre Hanta gli stava tirando indietro i capelli con entrambe le mani, scrutandogli fronte e testa per qualche motivo a lui sconosciuto.

«Sembra che tu stia bene, Shoto-kun!», gli fece Sero, esalando un sospiro di sollievo.

Quei tre si erano fiondati in acqua, correndo e travolgendolo senza davvero volerlo, con Kaminari che era scivolato e gli era finito addosso nel vano tentativo di fermarsi e, ora, si ritrovava fradicio per davvero, la sua piccola ed effimera bolla di pace rotta irrimediabilmente.

«Ma cosa vuoi che si sia fatto con la testa dura che si ritrova!», berciò Bakugō, mentre entrava cautamente in acqua come se stesse camminando su degli spilli, la pelle d'oca ben visibile mentre irrigidiva i muscoli delle braccia a contatto con il freddo del liquido.

A Shoto sfuggì una mezza risata nel vederlo vacillare sui sassi scivolosi, mentre Kirishima lo raggiungeva e lo prendeva di peso in braccio, contro le sue proteste urlate, e se lo trascinava dietro in un punto del torrente più a vale, di poco più profondo rispetto a dove se ne stava ancora seduto Todoroki a godersi la scena.

Si ritrovò a ridere, a ridere di gusto, tanto che gli occhietti scuri di Hanta e quelli color ambra di Kaminari si voltarono ad osservarlo, straniti.

Sapeva di non ridere spesso. Sapeva di non mostrare palesemente alcuna emozione, ma quella risata fu liberatoria, tanto da fargli allungare le gambe sott'acqua e tenersi la pancia con entrambe le mani.

Qualcuno avrebbe detto che era una reazione al nervosismo, e, forse, non avrebbe avuto tutti i torti.

E gli pareva che il tempo si fosse fermato, sentendosi addosso lo sguardo degli altri quattro, che probabilmente non stavano ben capendo cosa gli stava succedendo.

Perché era sì divertito, ma quella risata sarebbe dovuta finire, non continuare incontrollata, tanto da scuoterlo, da fargli lacrimare gli occhi, alzare le spalle e andarsi a coprire la bocca con le mani per farla smettere, per evitare che quel riso si tramutasse in un singhiozzo e quelle lacrime in un pianto che a stento riusciva a bloccare.

Che neppure l'abbraccio saldo di Hanta, o le sue carezze sui capelli furono capaci di placare.

Fu uno scossone a fermarlo. Uno scossone e uno schiaffo, condito da proteste di voci che riconosceva.

«ADESSO FINISCILA!».

Quando i suoi occhi incontrarono quelli di Bakugō, assottigliati ed irosi, capì di aver passato quel limite sottile tra il disagio e la disperazione.
Capì anche che non era il momento di far preoccupare nessuno, né di sprofondare nell'autocommiserazione o nella prospettiva del fallimento.

E mentre Hanta prendeva a male parole l'amico per quel gesto, Shoto strinse le labbra e si rialzò dall'acqua, prendendo le difese diKatsuki: «Ha ragione.».

Shoto non era solito difenderlo, e Katsuki questo lo sapeva. Né voleva essere difeso da qualcuno, soprattutto quando aveva ragione. Tuttavia, apprezzò il gesto e con uno strattone si liberò dalla presa di Hanta e puntò l'indice contro il petto di Shoto, con un tono che a tutti sembrò di pura sfida, ma che in realtà era tutt'altro: «Getta la spugna e ti faccio secco, intesi?», gli ringhiò contro, prima di tornarsene a riva con grandi falcate, lasciando tutti un po' perplessi.

Tutti tranne uno.



 

Le braci si stavano spegnendo lentamente e il fumo biancastro saliva dalle ceneri del falò verso il cielo stellato che sovrastava il loro piccolo accampamento.

Nonostante l'ora tarda, Shoto non riusciva a dormire e non era per le storie di paura che si erano raccontati dopo cena, sciogliendo marshmallows alla fragola che finivano in panini improvvisati, fatti di biscotti e cioccolato. Non era neppure per il russare pesante di Eijirō, che si sentiva da una tenda all'altra.

Shoto guardò verso la tenda dove Kirishima dormiva con Sero e Denki e sorrise debolmente, immaginandoli rigirarsi nei loro sacchi a pelo con le cuffie nelle orecchie per non sentire l'atroce russare del compagno di classe.

Durante tutta la cena non aveva fatto altro che pensare alla minaccia di Bakugō, al fatto di non mollare, di non abbandonare il proprio obiettivo, anche se sembrava faticoso e, forse, irraggiungibile.

Si chinò accanto alle pietre del focolare, prendendo tra le dita della cenere, che, impalpabile, gli colorò i polpastrelli di un grigio scurissimo.

Aveva ceduto alle proprie emozioni quel pomeriggio, lasciandosi andare un po' troppo, perdendo quella sua aura d'impassibilità.

Ma ciò che era successo con Touya... quella cosa l'aveva destabilizzato più del dovuto, facendolo riflettere sia su come poterlo affrontare e sconfiggere, sia sui rapporti malati che da sempre esistevano nella sua famiglia.

Le aspettative, l'ambizione, l'amore mal riposto, la collera e il dolore...erano tutti mischiati tra i componenti di quella famiglia ormai allo sfascio.

Sospirò pesantemente, prima di rialzarsi dalla sua scomoda posizione, pulendo le mani sui pantaloni della tuta, allontanandosi dalle tende fino all'area allestita con i manichini.

Touya aveva progettato la sua vendetta per undici lunghi anni e sarebbe stato quasi impossibile contrastare le fiamme ardenti del suo odio, che lo consumava a tal punto da non curarsi di se stesso per poter raggiungere il proprio obiettivo.

Suo fratello era caparbio, ossessionato dall'idea di rovinare la vita al padre.

Shoto si osservò le mani, rovinate dall'allenamento, piene di calli e di piccole scottature in via di guarigione, domandandosi una volta di più cosa lo rendeva diverso da Touya.

Entrambi odiavano Enji, in maniera diversa.

Fino a quando non aveva conosciuto Midoriya-kun e gli altri aveva volutamente rinnegato quella parte di sé così legata a suo padre, a quell'uomo che l'aveva strappato ad un'infanzia normale per renderlo stendardo della propria battaglia personale, campione di un'ossessione malata.

Touya odiava Enji per averlo messo da parte e per averlo sostituito col figlio perfetto, quello il cui corpo avrebbe resistito alle fiamme e avrebbe finalmente coronato il suo sogno.

Era stato il loro padre che, involontariamente, li aveva messi l'uno contro l'altro e che, ora, si ritrovava incapace di combattere un nemico, solo perché era quel figlio che lui credeva morto.

Shoto s'era interrogato spesso su quella dinamica, formulando ipotesi su scenari immaginari: da piccolo, ad esempio, avrebbe voluto allenarsi assieme a quel fratellone capace di sprigionare fuoco, giocare a battere papà.

Da ragazzino avrebbe invece voluto che qualcuno lo spronasse a continuare gli allenamenti, che gli dicesse "Ce la farai, Nii-chan!", invece che doversi dire da solo "Sopravvivi, Shoto-kun", giorno dopo giorno.

Quel nuovo risvolto nella vicenda l'aveva spiazzato: vedere il proprio padre incapace di reagire di fronte al fantasma di un figlio... non lo capiva.

Provò un improvviso moto di gelosia al pensiero di non essere il figlio preferito, ma solo uno strumento nelle mani di qualcuno, realizzando solo in quel momento quanto in realtà Enji tenesse a Touya, quanto lo amas-.

«Cazzo! Sentivo i tuoi pensieri dalla tenda!».

Shoto si voltò e nell'oscurità vide una pila che illuminava dei piedi che si muovevano verso la sua direzione. La voce graffiata e calma di Bakugō era inconfondibile.

«Sicuro che non fosse il russare di Kirishima?», e a quel rimbrotto pure Katsuki soffocò una risata. Da quando quel perfettino di Todoroki faceva il simpatico?

«Nah! Ci sono abituato. – si fermò accanto a lui e ne illuminò la schiena con la torcia – E tu? È sempre per il russ-».

«Non ho sonno.», e a quella risposta Katsuki gli si sedette di fianco, lo sguardo curioso e la pila puntata sulla faccia dell'altro.

«Che faccia di merda che hai. Stai bene?».

Shoto si morse l'interno della guancia per non ridere dell'espressione assonnata del compagno e della piega del cuscino che poteva vedere sulla sua guancia sinistra: «Delicato come sempre.», esalò, tornando a osservare i manichini di fronte a sé.

Katsuki si piegò in avanti, puntandogli di più la pila in faccia, infastidendolo di proposito come solo lui sapeva fare.

«Ascoltami bene, Bastardo-a-metà: sei strano da stamattina e so osservare bene le persone! Che cosa ti passa per quella-cazzo-di-testa?», e pronunciò quelle parole picchiando l'amico sulla fronte direttamente con la pila, fino a che Shoto non scostò il suo braccio con una manata.

«Smettila di fare così.».

Era irritato, ma tutto ciò che gli vorticava dentro l'aveva fatto restare impassibile, come il solito: Bakugō amava provocarlo, lo sapeva. Forse si divertiva di più con Midoriya, ma, ultimamente, pure con lui s'era preso quelle libertà.

«Allora parla! – fece una pausa, in cui spense la pila – È per Dabi, giusto? Siamo qui per lui?».

Shoto si ritrovò a fissarlo nell'oscurità. La luna era alta in cielo e non c'erano nuvole, ma non era piena e la sua luminosità residua non era abbastanza per potersi muovere liberamente al buio, né per distinguere chiaramente i contorni delle cose. «Sì.».

Katsuki mosse la testa, forse per guardarlo in faccia, ma non ne era certo.

«Tu perché sei qui, Bakugō?», riprese.

«Ah?».

«Perché ci hai seguito? Non eri obbligato.»

Ci fu un momento di silenzio tra di loro, in cui forse Katsuki stava cercando di riordinare idee e parole, ancora mezze annebbiate dal sonno. Poi riprese, passandosi una mano su gola e collo, come se sentisse ancora sulla pelle quelle dita.

«Credo lo stesso motivo.».

E si guardarono senza saperlo, nell'oscurità di quel punto della radura, improvvisamente uniti da un'unica disgrazia.

«Mi dispiace. – fu Shoto a rompere il loro silenzio – Mi dispiace per quello che ti ha fatto passare mio fratello.».

Bakugō si limitò a schioccare la lingua e a tirare via con il palmo della mano una lacrima, scesa lungo la guancia in un momento decisamente inopportuno.

«Con tutto il rispetto, tuo fratello lo voglio vedere morto.», asserì, lugubre.

E in quel momento Shoto si domandò cosa volesse davvero: se volere Dabi morto o Touya vivo. Anche se erano la stessa persona. Anche se rispondere a quella domanda avrebbe vanificato quel weekend e tutti i suoi buoni propositi.

«Non volevo turbarti. Sai che sono diretto. - si giustificò Katsuki, percependo la tensione nel compagno di classe – Che ci facciamo qui in realtà?».

Shoto tornò a fissarlo nell'oscurità, silenzioso e con la testa ancora ingombra di pensieri, controproducenti per ciò che voleva fare.

«Avevo un'idea. Per Touya.».

«Dabi.».

«Mh?».

«Chiamalo Dabi. Già sapere che è il tuo fratello morto mi dà sui nervi!», ringhiò Bakugo. E Shoto non poté fare altro che sorridere, non per prenderlo in giro, ma perché in quella frase aveva percepito qualcosa che poteva ricollegare all'affetto, alla stessa preoccupazione che ci metteva sua sorella quando gli diceva "Ti ho lasciato la cena nel microonde, Nii-chan!".

«Che idea era?». Quel sussurro graffiato era accompagnato dal ticchettio del piccolo pulsante che attivava la luce della torcia, fastidioso e cadenzato. Lo stesso ticchettio che Bakugō stesso faceva in classe con le penne a scatto e che lo innervosivano.

«Rin

Lo udì mugugnare, perplesso.

«Ho pensato ad una nuova tecnica. L'ho chiamata Rin. Volevo provarla qui, al sicuro, prima di testarla con gli altri. – si voltò verso Bakugō, che aveva la faccia illuminata a intermittenza dalla torcia – Mi assisti tu?».

Katsuki gli puntò la luce in faccia, costringendolo a chiudere gli occhi per il fastidio improvviso: «Dovresti chiederlo a Faccia-piatta.» e a Shoto fuggì un sospiro divertito.

«Voglio bene a Sero-kun, ma non è la persona più affidabile a cui chiedere di assistermi.».

Katsuki si morse l'interno della guancia nell'osservare quel bastardo a metà sputare frasi di quel tipo quasi senza pensarci, come se non avessero alcuna conseguenza.

Ma lui era affidabile, certamente, e avrebbe lasciato che la notte e il bosco inghiottissero quelle parole, come se Todoroki non le avesse mai pronunciate.

S'infilò la torcia sulla testa, stringendo per bene i lacci per tenerla in posizione sulla fronte e si alzò dall'erba umida, tendendo una mano al compagno accanto a lui.

«Prendo un paio di taniche. Tu concentrati! Mi basta solo un nerd che si perde in troppi pensieri!».

Così, qualche minuto dopo, silenziosamente come se n'era andato, Katsuki tornò con due taniche colme d'acqua. Le posò accanto a sé e attese, a braccia conserte e a qualche metro di distanza da Todoroki.

Shoto aveva seguito il consiglio e se ne stava in piedi, ad occhi chiusi, controllando il respiro, focalizzandosi su di esso e sul battito del suo cuore, provando a visualizzare le due parti di sé, ghiaccio e fuoco, che gli scorrevano nelle gambe, nelle braccia, come se fossero liquidi che permeavano ogni fibra del suo essere.
Destra e sinistra.
Gelo e calore.
Ying e Yang.
Due facce che componevano la stessa medaglia.
Quel dualismo che lo rendeva unico e che, per lungo tempo, s'era rifiutato di accettare come tale.

Poteva sentire quei flussi percorrerlo e fondersi, proprio lì, dove il suo cuore batteva con ritmo regolare, controllato, senza rendersi davvero conto che, dall'esterno, quel mischiarsi pareva una magia.

O, almeno, Katsuki l'avrebbe definita così.

Non ne era invidioso, quanto affascinato: Todoroki era sempre stato un avversario forte e degno di rispetto, nonostante le parole o gli appellativi con cui spesso lo maltrattava. Aveva imparato a rispettarlo, come futuro eroe e come persona.

E ora lo guardava. Lo guardava per davvero, per ciò che era: la determinazione, l'ingegno e la dedizione verso la salvaguardia di una famiglia che nemmeno sentiva come sua per quanto fosse disastrata!

Quel ragazzo brillava di una luminosità biancastra, evanescente, mentre linee di luce sembravano disegnarsi a impulsi sul suo corpo, seguendo capillari vene e arterie, che portavano linfa azzurra e rossa verso il cuore.

Ci fu un attimo, in cui Katsuki sbatté le palpebre, senza avere la reale certezza di ciò che stava vedendo, perché Shoto allontanò le braccia dai fianchi, allargandole come a richiedere un abbraccio, contenendo quella luce quasi con fatica, accecato da suo stesso potere che si sprigionava dal centro del petto, dove quei flussi azzurro e rosso s'incontravano, dando vita a una fiammata chiara, quasi bianca, che aveva già progressivamente lacerato la maglia del ragazzo e il cui vapore gli sollevava le ciocche di capelli sulla fronte.

Ma se da lontano Katsuki aveva già ripreso in mano le taniche e si teneva pronto a correre verso di lui per spegnerlo, Shoto si rese conto che quel flash bianco non era incandescente, non rasentava nemmeno il calore che aveva sperimentato tra le fiamme blu di suo fratello.

L'aveva calcolato con Midoriya, qualche pomeriggio prima. Gli aveva esposto la sua teoria e s'era perso ad ascoltare le ipotesi e le elucubrazioni dell'amico, prima di chiedere a Iida maggiori informazioni sull'equilibrio termico, una cosa che suo padre non sapeva nemmeno che cosa fosse.

Si rese conto finalmente di una cosa: il suo Rin non bruciava. Era una specie di plasma bianco, in costante movimento, che gli avvolgeva il busto come una salda imbragatura.

Mosse una mano, toccando quelle fiamme gelide, incredulo di se stesso e, quando voltò il capo verso Bakugō, lo scoprì osservarlo di rimando, con gli occhi sgranati e la bocca serrata, come se avesse il terrore di avvicinarsi anche di un solo passo.

E capì che per quanto fossero esseri umani ormai abituati allo straordinario, in realtà erano mostri.
Mostri che spaventavano e combattevano altri mostri.
Mostri fisici, reali e tangibili, che potevano arrivare a rapire e uccidere, e mostri interni, demoni oscuri che tormentavano le menti di ciascuno, prendendone pezzi, leccando i brandelli d'anima che strappavano a forza dalle persone.
Chiuse gli occhi, ricacciando indietro tutta la propria rabbia.

Perché, per quanto non lo lasciasse trasparire, Shoto covava una rabbia profonda, quasi la stessa rabbia di Dabi per un mondo ingiusto.

Rabbia per com'erano stati trattati.
Rabbia per non essere spensierato come gli altri.
Rabbia per la sofferenza che vedeva negli occhi delle persone che gli stavano vicino e a cui voleva bene, come nello sguardo vacuo di Katsuki in quel momento.

Strinse i denti e ricacciò indietro le lacrime ancora una volta e percepì quel plasma pulsare, espandersi e contrarsi con lo stesso ritmo accelerato del suo cuore.

Emozioni.
Quelle avrebbe dovuto lasciarle perdere, avrebbe dovuto concentrarsi, tenere sgombra la mente, ma non ci riuscì.

E fu in quel momento che il suo Rin esplose, scaraventandolo fra gli alberi, lasciando al suo posto una densa colonna di fumo bianco e ghiaccio sull'erba.



 

Ne aveva presi di schiaffi a casa. Eppure, quello non aveva fatto male.

«Oh cazzo! Cazzo, Kami...grazie!».

Le imprecazioni di Bakugō erano inconfondibili. Forse perfino i morti sarebbero tornati sulla terra se fosse stato lui a svegliarli!

Almeno, credeva che quello fosse Bakugō, perché l'unica cosa che vedeva era una luce accecante e fastidiosa che gli impediva di aprire gli occhi, così alzò una mano e la spalmò sulla faccia preoccupata di Katsuki, allontanandolo per provare a rialzarsi, con fatica e un dolore terribile alla schiena.

«Che-che è successo?».

«SEI UN IDIOTA ECCO CHE È SUCCESSO!», sbraitò Katsuki o colui che doveva essere Katsuki e che lui vedeva solo come un fastidiosissimo punto luminoso che ormai gli aveva impressionato la retina.

Gli aghi di pino scricchiolavano sotto i suoi palmi, mentre tentava di mettersi a sedere per bene, chiedendo al proprio interlocutore di togliere quella pila fastidiosa da davanti agli occhi.

Lo udì borbottare qualcosa mentre eseguiva il comando, ma era ancora troppo frastornato dal colpo preso per capire esattamente cos'era successo.
Riuscì solo a scorgere Bakugō che si passava le mani sulla faccia con un lungo sospiro.

«Tra il tuo vecchio, quel matto di tuo fratello e te...non so che cazzo abbiate in testa voi Todoroki!», ringhiò Katsuki, portando i pugni sulle cosce, tenendo gli occhi fissi sul compagno di classe, ancora stordito dal contraccolpo ricevuto dopo quella specie di esplosione silenziosa.

Il rumore che aveva fatto era stato un crepitio, come quando butti del ghiaccio nell'acqua a temperatura ambiente e quello si spacca e si crepa. Aveva fatto più rumore il ragazzo che piombava tra gli arbusti del sottobosco con un lamento incredulo!

Contrariamente a quanto aveva creduto all'inizio, Shoto era vivo, acciaccato e con foglie e rami incastrate nelle sue ciocche di capelli sempre fin troppo ordinate.
Per un momento aveva temuto il peggio e non avrebbe saputo come giustificarsi con Endeavor.

Ma...non era successo nulla. Neppure gli altri s'erano svegliati dopo quel trambusto, forse troppo stanchi o con i tappi ben conficcati nelle orecchie.

Così s'erano ritrovati di nuovo da soli.

«Ci devo riprovare.», asserì Shoto, con una certa ansia nel tono di voce, determinato tuttavia a portare a termine quell'allenamento.

«No.».

«No?».

«No!», ma Bakugō sembrava irremovibile sia nel tono che nei gesti, tanto che la sua mano finì sulla spalla del ragazzo che tentava di rialzarsi da terra. «Alzati e ti faccio esplodere!».

«Di nuovo?».

Katsuki rimase interdetto e lo guardò: la luce della torcia, lasciata a terra gli illuminò il volto sporco di terriccio e fumo e la sua espressione lo fece ridacchiare.

«Oh, sì. Di nuovo!».

E ridacchiarono entrambi, sommessamente, perché l'uno era diventato improvvisamente premuroso e l'altro divertente in maniera assurdamente imbarazzante.

Katsuki si fermò dal ridacchiare e sollevò lo sguardo verso Shoto solo quando questi gli toccò il petto con il pugno chiuso, piano. Pur colto alla sprovvista, si chiese se quella fosse una cosa che gli aveva insegnato Faccia-piatta oppure il nerd, ma i suoi pensieri furono interrotti dalle parole pacate del compagno di classe.

«Grazie dell'aiuto Bakugō. Non sei obbligato ad assistere.».

Uno schiocco sul palato e il capo girato di scatto: reagiva così quel ragazzo orgoglioso, poco avvezzo alle critiche o ai complimenti sinceri o a tutte le cose sdolcinate che i suoi amici gli dicevano solo per metterlo in imbarazzo.

Katsuki con lui parlava poco, forse non l'aveva detto nemmeno a Kirishima, ma Shoto aveva capito che vederlo sprigionare fiamme e fuoco in quel pezzo di bosco durante la notte, gli aveva rammentato cose che forse voleva dimenticare. E capiva bene che quel suo nuovo potere, quel plasma bianco era così simile alle fiamme di Dabi che lui ne era rimasto completamente atterrito, tanto da renderlo immobile e impotente, capace di avvicinarlo se non quando tutto s'era concluso.
Anche Bakugō stava allenando se stesso e stava cercando di vincere i propri timori ed essere più forte, non solo nel fisico.

«Resto perché sennò finisci col romperti quella testa dura che ti ritrovi! – fece una piccola pausa, in cui si alzò da terra e gli spintonò la testa in maniera lieve – E alza quel culo cazzo! Le mosse fighe non si provano stando seduti!».

E fu quello l'esatto momento in cui Shoto capì che loro due erano davvero diventati amici.


 

You started a battle, but bitch, I'ma finish it [...]
One day you're gonna figure out that
Everything they taught you was a lie
Watch the world burn
~ Falling In Reverse ~

 

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Capitolo 7
*** You’re the light to guide me | Dark Shadow's hand ***


You’re the light to guide me | Dark Shadow's hand


Oh, come amava la notte!
Era il momento in cui veniva pervaso da un senso di calma e di pace che durante la giornata non riusciva ad avere.
Così si ritrovava insonne per buona parte della notte, meditabondo mentre errava con passo lieve tra i corridoi deserti, dopo il coprifuoco.
Quella sera il dormitorio era avvolto da una profonda oscurità, poiché la luna nuova aveva adombrato il firmamento e le stelle erano offuscate da grosse nubi cariche di pioggia e lampi.
Debole e stanco dopo aver passato la giornata sopra alcuni bizzarri volumi di storia contemporanea, s'era trascinato a letto, certo di trovare ristoro.
Ma non v'era rimasto a lungo, stupito di aver sognato sogni che nessun mortale mai ha osato sognare, destandosi di soprassalto madido di sudore. La decisione di voler uscire dalla prigionia del proprio letto era stata dettata da uno strano sentimento d'ansia che gli aveva impedito di riprendere sonno, impaurito da visioni oniriche spaventevoli che l'avevano tenuto vigile e immobile contro il materasso fastidiosamente morbido.
Fuori dalla sua stanza l'aveva accolto il silenzio e l'oscurità non aveva dato alcun segno di vita, fino a quando non giunse alla fine delle scale, attraversando placidamente l'area comune fino a scorgere una luce fioca provenire dall'angolo cucina e l'unica parola detta fu sussurrata con voce gracchiante sopra la sua spalla destra: «Tsuyu...».
La mano fu svelta e chiuse il becco di quell'ombra che lo seguiva, prima che proferisse altro: «Taci, disgraziato.».
Allora gli occhi infuocati di quell'uccello d'ombra si rivolsero al giovane che teneva la testa inclinata e guardava fissamente poco più in là.
Avvolta dalla luce giallastra della lampada stava in piedi una fanciulla, i cui lunghi capelli erano raccolti scompostamente in un groviglio di code e trecce che ondeggiavano ad ogni piccolo, impercettibile movimento del suo corpo.
E gli parve che l'aria si facesse improvvisamente più densa, pervasa di un tenue odore di fiori. E provò un tale sollievo a quella vista che pure quell'ombra che lo seguiva costantemente se ne avvide e gli s'avvolse attorno al busto, con occhio vispo e un ghigno sotto quel becco oscuro: «Ora o mai più.».
Quell'ombra sapeva. Era parte di lui e conosceva i suoi pensieri fin dalla giovinezza. Un'estensione del suo corpo fuori da se stesso. Come un'anima che, in punto di morte, si libra dal corpo e osserva la vita abbandonare quell'involucro fatto di carne e sangue. Così i suoi passi leggeri lo condussero verso la luce, fino a quando la ragazza non si voltò di scatto verso di lui che, nell'oscurità, la stava osservando con insistenza.
«Mi hai spaventata, 'kero!».
«Perdonami Asui-san».
La giovane roteò gli occhi, tornando a voltarsi: «Te l'ho detto mille volte, 'kero.».
Dark Shadow, la creatura d'ombra che da tutta la vita accompagnava Fumikage, si avvolse di più contro il corpo del suo padrone, arrivandogli con la testa sulla spalla, quasi infilandogli il becco nell'orecchio: «Stupido!», sibilò.
Fumikage esalò un sospiro e diede un'occhiataccia al mostro. Con la notte, con l'oscurità, quell'entità diventava più forte e, spesso, prendeva il sopravvento sul suo portatore umano. Ma quando vagava nei corridoi, nella sua battaglia persa contro l'insonnia, Dark Shadow era per lui sostegno, guida e protezione. Non aveva mai perso il controllo entro le mura del dormitorio, ma una strana agitazione gli percorse le membra, quando vide quella creatura allungarsi e raggiungere la giovane ragazza in cucina, che si voltava e gli carezzava teneramente la testa, con un sorriso dolce che le alzava le guance.
«Tsu-chan!»
«Bravo Dark Shadow!» e un brivido s'inerpicò lungo la schiena a quel tono tanto benevolo, eco di una contentezza che quell'ombra palesava perdendosi in piccoli gorgoglii ogni volta che la mano di Asui-san ne percorreva le fattezze.
Così si mosse e la raggiunse, arrivandole di fianco, dall'altro lato di quella creatura che stava detestando in quel momento per prendersi tutte le attenzioni, deglutendo e osservando cosa avesse deposto sul ripiano.
«Che fai in piedi a quest'ora As-...Tsuyu-chan?». Fu uno sforzo per lui, non avvezzo a simili carinerie. Ma il vedere gli occhi scuri di lei che si spalancavano in sorpresa e la punta della sua lingua fare capolino dalle labbra tirate in un sorriso...Oh! Quello l'avrebbe ripagato dello sforzo.
«Una camomilla. Ne vuoi un po', 'kero? – e tornò a girare il cucchiaino nell'acqua fumante della tazza – Magari ti aiuta...».
Fumikage era perplesso e s'accigliò: «Aiutarmi?».
Dark Shadow si portò un'ala a coprirsi gli occhi, scuotendo il capo con fare rassegnato.
Una camomilla di mezzanotte.
«A dormire! Ti aiuta a dormire! 'kero! – si allungò a prendere un'altra tazza e a riempirla di acqua col bollitore – Hai due occhiaie...».
Si tastò il muso, domandandosi come quella ragazza facesse a distinguere tra le sue piume scure la presenza di occhiaie o di segni di stanchezza.
«Le occhiaie raccontano il mistero meglio degli occhi.», e lei trattenne un risolino a quell'affermazione.
«'kero! Com'era l'altro giorno? – impostò la voce e parlò con tono greve - Il caffè non mi fa niente perché la mia anima dannata non trova mai riposo!» ed emise un suono molto simile ad un gracidio acuto.
Eccola che si stava facendo beffe di lui ancora una volta. Avrebbe dovuto immaginarlo: ella era così schietta e genuina da non prendere seriamente la sua natura di ragazzo tormentato, che portava costantemente addosso il peso dell'oscurità del mon-
Si ridestò dai propri pensieri solo quando la tazza calda fu premuta contro il proprio petto: «Vai via subito, Tokoyami-chan?».
Percepì Dark Shadow spostarsi, scompigliargli le piume che aveva in testa muovendosi mentre esalava un "no" a becco stretto. Cosa voleva dire "no"?
«N-No.», gli fece eco, seguendo la ragazza con lo sguardo fino a che non si accomodò su uno dei divani della sala comune, un cuscino tra le gambe incrociate e la testa reclinata sulla spalliera.
Fu sempre quel suo compagno d'ombra a spingerlo: il becco piantato con decisione tra le scapole per farlo schiodare dalla luce e raggiungere Asui-san sul divano.
Quella creatura fumosa sembrava così agitata...ma che gli prendeva?
Ne aveva notato il cambiamento già da tempo, in classe e durante gli allenamenti, quando se ne stava col becco scuro a sondare l'aria e si soffermava spesso su quella compagna dalle mani grandi e gli occhi vacui.
Da quando ne avevano fatto entrambi conoscenza, Tsuyu s'era rivelata una persona calma e raccolta, in grado di rimanere equilibrata e concentrata anche durante le situazioni più stressanti, com'era accaduto all'USJ o al ritiro nei boschi.
Ma Dark Shadow era parte di lui, tanto che a volte incarnava la sua componente più ribelle e, nel bene o nel male, le emozioni di quell'entità erano in parte legate alle proprie.
Fu grazie anche a quell'ombra oscura che aveva iniziato a rendersi conto che la ragazza gli suscitava qualcosa.
Era avvenuto tutto in maniera abbastanza graduale dopo la prova col professor Ectoplasm e, probabilmente, non voleva davvero ammettere di essere rimasto affascinato dalle abilità di quella giovane, dal suo intelletto e dalla schiettezza così simile alla sua.
Il vederla crollare in lacrime dopo il salvataggio di Bakugo gli aveva stretto lo stomaco in una morsa, dandogli il colpo di grazia e facendogli capire che non gli era per nulla indifferente, tanto che, per dei giorni, aveva meditato se prendere a pugni Todoroki e, in ogni caso, aveva accuratamente evitato di parlare perfino con Midoriya. E non parlare con Deku era cosa praticamente impossibile, visto il suo alto grado di socialità!
Così quella notte Fumikage si ritrovò seduto con la schiena irrigidita, accanto a Tsuyu, entrambi a sorseggiare una camomilla bollente e a fissare l'oscurità oltre i grandi finestroni della sala, illuminata a tratti da qualche lampo.
Fu un tuono, più forte degli altri, a squarciare il silenzio della notte e a far sobbalzare la giovane sul posto, che, fremente di paura, tentò di farsi a lui più vicina.
Sobbalzò pure il povero Fumikage a quel contatto inaspettato, non perché lo schifasse, ma perché colto alla sprovvista, mentre Dark Shadow, subdolo, esalava una risatina al suo orecchio destro.
Fu il guizzo di luce di un lampo lontano che illuminò il volto di Asui-san, rivelando la scia di una timida lacrima che le solcava una guancia.
«Credevo ti piacessero i temporali.», borbottò lui, portando la tazza al becco, osservandola scostarsi pian piano dalla sua spalla.
«La pioggia. Mi piace la pioggia, 'kero. Non il temp-».
Ma un nuovo tuono le fece irrigidire i muscoli ed emettere un urletto strozzato, la tazza stretta a forza tra le dita affusolate, gocce di camomilla a macchiarle i vestiti.
Una risatina gli sfuggì, impertinente, da quel becco teso a mascherare un sorriso, quando la sua oscurità animata avvolse la ragazza con un'ala fumosa, carezzandole la testa nel vano tentativo di calmarla.
«Perché sei scesa allora? Non era meglio per te stare in camera?».
Tsuyu voltò il capo e spalancò gli occhi, come se avesse appena detto una delle più ovvie assurdità mai sentite in vita sua: «In camera... Ero da sola. C'è sempre qualcuno che di notte passa a prendere qualcosa in cucina, 'kero. – fece una breve pausa abbassando il capo – Col temporale molti non riescono a dormire.», fece, rigirandosi la tazza tra le mani, mentre raccoglieva ancor di più le gambe al petto, quasi potesse essere una fortezza entro cui difendersi dalle avversità atmosferiche, o da quelle della vita.
Gli occhi fiammeggianti di Dark Shadow attirarono la sua attenzione, mentre quell'ombra tentava di farsi capire a gesti, inducendolo a fare chissà cosa o sprecarsi in inutili discorsi.
Un sospiro lungo lasciò la sua bocca, più per l'esasperazione data da quell'entità insistente che dalla situazione imbarazzante in cui era finito.
Aveva odiato quel piumaggio scuro, che lo rendeva spesso inavvicinabile, solo e distaccato dagli altri perché non dotato di fattezze umane che ne rendessero più palesi le emozioni. Ma ne aveva fatto un punto di forza: egli s'è sforzato di fortificare lo spirito e andava fiero di quest'aura di mistero e dannazione che si portava appresso come un mantello a coprire le proprie debolezze.
«Lo sai che quaggiù col temporale si sente più rimbombo, vero?», più che una domanda fu una constatazione, mentre un altro tuono s'infrangeva sui vetri e il vento ululava tra gli alberi del rigoglioso giardino.
Tsuyu tremò ancora, addentando il bordo di ceramica della tazza con i denti, provando a scaricare la tensione, facendo saettare lo sguardo attonito verso i grandi finestroni sferzati dalla pioggia battente.
D'un tratto intese un fievole gemito, e riconobbe ch'era al pari di quello scaturito da un terrore mortale. E non era certo un gemito di dolore o d'affanno, piuttosto il rumore sordo e soffocato che di solito si leva dal fondo d'un' anima che viene sopraffatta dallo spavento.
«In camera da soli fa più paura, 'kero.».
Osservarono entrambi l'oscurità oltre le grandi finestre della sala comune, illuminata a tratti dai lampi chiari, un sussulto della ragazza ad ogni rimbombo, un sospiro del ragazzo ad ogni beccata in testa della sua stessa ombra, che lui prontamente tentava di allontanare con la mano come se fosse un fastidioso insetto.
Il fatto di sentirla accoccolarsi ancor più vicina sul divano, la spalla a toccare la propria alla ricerca di un qualche sollievo... Non seppe come prendere quel gesto e si ritrovò a deglutire. Riuscì a contenersi, a non sussultare a propria volta, e rimase lì, rigido, senza muoversi, badando a mantenere lo sguardo fisso sul giardino e non perdersi nel fissare il suo profilo delicato e tremante.
Non era la prima volta che si sfioravano o si toccavano, perché Asui-san era una persona affettuosa, di quelle che ti fanno sentire la loro presenza anche solo con un tocco sulla spalla, o una carezza sul palmo della mano. E poi, durante gli allenamenti o le ore di educazione fisica capitava spesso che provassero a combattere corpo a corpo, evitando le loro unicità per potenziare il fisico.
Ma non era nulla a che vedere con...quello.
Non erano stretti tra altre persone a guardare un film, non erano stravaccati in camera di qualcuno a chiacchierare e mangiare schifezze o farsi il solletico in compagnia degli altri della loro classe.
C'era lui. E c'era lei. E nessun'altra anima a calcare i passi in quella grande sala, a farli sentire meno soli.
Fu all'ennesimo di lei sussulto che il ragazzo posò la tazza ormai vuota sul tavolino basso di fronte a loro e lasciò libera la propria curiosità per sondarne l'animo, con tono cordiale e rassicurante per metterla a proprio agio, nonostante il suo cuore battesse più forte di minuto in minuto, al pari di una carica infernale inarrestabile.
«Allora, che cosa ti spaventa così tanto di un temporale? – si riadagiò sullo schienale, le braccia conserte e lo sguardo fisso sulla di lei nuca – Io lo trovo...corroborante per lo spirito.».
La giovane si voltò di scatto e lo guardò con occhio indagatore, alzando un sopracciglio e riprendendolo: «Corroborante? Fai sul serio Fumikage-chan?» e mai nella sua vita il ragazzo provò sollievo come a sentirle pronunciare il suo nome, seppur con quel cipiglio infastidito che l'aveva momentaneamente distratta dai suoi timori.
Una scrollata di spalle fu la sua risposta, e un mezzo ghigno a canzonarla, mentre il cuore frenava la corsa e tutto riprendeva sembianze meno idilliache, meno imbarazzanti per uno come lui.
«Ho un vocabolario ampio!» e quasi la fece sorridere, se un infido tuono non avesse fatto tremare ancora i vetri della sala, facendola saltare sul posto, la tazza stretta più forte tra le dita e le ginocchia strette al petto, mentre gli si spalmava contro il fianco, trovando un rifugio forzato contro il suo braccio.
«I tuo-tuoni mi mandano fuori di testa, 'kero... Mi fanno pensare alla guerra...», la sua voce fu un sussurro appena udibile, smorzata da un singulto, mentre una lacrima le percorreva ancora la guancia senza ch'ella avesse forza o volontà di toglierla come già aveva fatto.
E fu il momento o la fragilità o quell'innaturale silenzio umido e frusciante che li aveva avvolti momentaneamente, che fecero muovere il braccio allo sventurato Fumikage. Un riflesso innato, una memoria insita nella profondità del suo essere di quando, da piccolo, era suo padre che lo confortava nei momenti di terrore puro, quando ancora la notte lo spaventava e non vi trovava sollievo nel suo rifugio.
Il braccio si stese e la mano le afferrò saldamente la spalla, portandosela contro con decisione, quasi a rassicurarle l'anima più a gesti che a parole.
Dimenticò del battere del proprio cuore, rivelatore di sentimenti forse più profondi di quanto realmente immaginava, o semplicemente campanello d'allarme di un latente imbarazzo che l'aveva accompagnato e seguito come l'ombra, che ora, alle loro spalle, sghignazzava silenziosa e a tratti esultava di quella mossa tanto avventata quanto tenera del proprio indissolubile compagno in carne ed ossa, trattenendo a stento un "Finalmente!" dalle note sdolcinate.
«Lo sai che non è reale, vero?», azzardò con voce tremante mentre ella posava la testa sulla sua spalla, in un moto di rassicurato abbandono, cullata dalla stretta e dal calore che quel ragazzo emanava, mentre lui tratteneva il fiato e sgranava lo sguardo, la gola arsa dalla tensione, il cuore in tumulto e la speranza che la giovane non lo percepisse.
Fu in quel momento che si ritrovò a lanciare preghiere all'oscurità e alla notte, silenziose e ripetute, affinché il maltempo continuasse e lui potesse stringersela addosso ancora per qualche minuto, o qualche ora, o per l'intera notte se fosse stato necessario. «Lo sai che è tutto riconducibile a una associazione di idee?», provò a rassicurarla. Ma non sapeva se il suo essere pragmatico l'avrebbe aiutato in quella situazione.
«Associazione di idee? Che intendi?». La punta di curiosità nel tono lo fece ben sperare di aver attirato la sua attenzione.
Non era avvezzo a consolare le persone, lasciava l'arduo compito a chi era più capace. Ma si sa: le parole non dette perseguitano l'uomo. Così come le occasioni sprecate.
E dunque si perse nel rispondere alla ragazza, nell'intrattenerla con discorsi che la potessero distrarre dal suo stato di agitazione.
«Che invece di pensare a cose spaventose come la guerra, puoi pensare...alle esplosioni Bakugō.».
La udì trattenere una risata, alzare il capo e osservarlo dritto negli occhi, facendolo arrossire all'improvviso. Si rallegrò dell'oscurità e della propria natura: se lei gli avesse sfiorato il viso ne avrebbe avvertito il bollore, ma era al sicuro, lontano dalle sue mani, incatenato solo dal suo sguardo divertito. « Bakugō è spaventoso! Ritenta, 'kero!».
Rilasciò la tensione accumulata con una breve risata e un colpo di tosse a mascherare l'insicurezza e balbettò e affievolì la voce: «Sai... Potresti pensare ad una festa. come se fossero i vicini del piano di sopra che ballano e calpestano il pavimento con forza per eseguire una danza. – prese fiato – E... le luci! I lampi sono le luci della festa!».
Per lei era così genuino. E straordinariamente sagace nell'aver pensato a quel paragone che si fermò, portando la tazza ormai vuota e fredda alle labbra, reclinando il capo sulla sua spalla mentre lo sguardo si perdeva a cercare mostri tra le ombre scure dietro il divano che avevano di fronte, dalla parte opposta del tavolino.
«Abbiamo dei vicini rumorosi allora, 'kero!» e addentò la ceramica, pensierosa, lo sguardo che ora era puntato sull'altra mano del ragazzo, mollemente appoggiata sul ginocchio, chiara e immobile come se neppure fosse parte di quel giovane corpo.
Tsuyu si rilassò un momento contro di lui, chiudendo un poco gli occhi e provando a respirare profondamente, senza sussultare a un nuovo tuono, ma sforzandosi di pensare a strani personaggi con scarponi da montagna che ballavano il tip-tap al piano di sopra.
Non funzionò, perché al terzo tuono dopo quello strambo consiglio, tornò ad agitarsi e a dirgli che non funzionava molto quella cosa. Ma non aveva più gli occhi che bruciavano per rilasciare lacrime di paura.
Vi era solo la paura di un rumore forte, attutita un poco dal calore.
Allungò la mano destra, raggiungendo e sfiorando quella del compagno, che parve non scomporsi.
Ma Fumikaghe combatteva con la morte interiore, non per un sentimento negativo scaturito da quel gesto, quanto più perché semistordito dal tocco lieve dei polpastrelli di lei sul dorso della mano, con un lieve senso di vergogna che gli impediva di godere di quella carezza semplice e pura.
Eppure, l'adorava. Adorava quel tocco leggero, la sua pelle morbida e liscia, quel velo di umido dell'agitazione che rendeva le dita un po' più fredde, un po' più desiderose di essere strette e scaldate dalle proprie, intrecciandole tra loro come desiderava fare da molto tempo.
Fu il brivido di un tocco evanescente che li fece sussultare entrambi, più che il tuono, quando videro di fronte a loro la figura scura di Dark Shadows che prendeva le loro mani e, con decisione, le legava, le une alle altre, portando entrambi a volgere altrove lo sguardo ma a tenere le dita intrecciate, in un tocco che non infastidiva nessuno dei due.
Quel dannato uccello d'ombra aveva fatto di tutto quella sera per tendergli una trappola e ora si ritirava pian piano con una risatina all'interno del suo corpo, al centro del petto, finendo in uno sbuffo scuro prima di fargli mancare per un momento il respiro, come ogni volta.
Il tocco lieve di Tsuyu lo riportò alla realtà dei fatti, mentre lei esplorava con il tatto ogni piega di quelle mani, ogni callo, ogni cicatrice, scoprendo che quei palmi erano caldi e grandi e rassicuranti ed erano riusciti, per un fugace istante, a farle dimenticare la tempesta che si stava abbattendo sulla città.
Gli sfiorò la carne delicata del polso, dove le vene erano più in evidenza sotto i polpastrelli, non curandosi del fatto che quello potesse fargli solletico o infastidirlo tanto da fargli rizzare le piume sulla nuca.
«Tsuyu...». Fu la sua voce a farla smettere, ma non alzò il capo a quel richiamo, strofinando invece la guancia contro la sua spalla come una bambina capricciosa e sospirò, chiudendo gli occhi.
«Non funziona. La storia del ballo e del passo pesante non funziona! 'kero!», borbottò, come a giustificare il suo essere ancora lì, stretta contro di lui, senza possibilità e voglia di staccarsi.
Perché era piacevole stare addosso a lui. Era piacevole parlarci assieme. E, in un angolo recondito della sua mente, sperava che quel temporale non finisse poi così presto.
Sbuffò prima di staccarsi da lui e posare la tazza accanto a quella che Fumikage aveva usato, prima di accoccolarsi di nuovo contro il suo fianco, le ginocchia rannicchiate che gli fioravano la gamba, la guancia appoggiata tra il petto e la spalla e gli occhi chiusi a inspirare quel suo profumo strano, che le ricordava molto i semi di girasole tostati.
Il ragazzo era rimasto impietrito, il braccio a mezz'aria mentre lei si sistemava e si rannicchiava. «Hai altri stupidi consigli?», sputò lei con una punta d'ilarità, alzando gli occhi ad osservarlo. Fu quello sguardo a scioglierlo, a fargli adagiare il braccio sulle spalle e a portarla più vicina a quel cuore pulsante di cui, adesso, non voleva celarle il battito.
Ridacchiò, per un pensiero stupido che volle condividere, più per risollevarle lo spirito che per vera ilarità: «Ma lo sai come si chiama la tua paura?».
«Quella dei tuoni?»
«Sì.»
«No, non lo so. 'kero.».
«Bronto-fobia.». La udì smorzare una risata, facendola fuoriuscire solo dal naso, soffocandola con una mano sulla bocca, le spalle scosse da quel gioco di parole.
«Divertente, 'kero!»
«Non è solo divertente. È la definizione corretta.»
Lei trattenne un'altra risatina: «Allora pure Izuku-chan è brontofobico!», se ne uscì lei, lasciandolo un po' interdetto, assorto in un breve silenzio prima di spalancare gli occhi, colto da un improvviso colpo di genio.
«Bakugō?»
«'kero!»
«Ci sta.»
«Certo che ci sta!», e gli diede un piccolo colpetto al petto, lasciando la mano poi in quel punto, il cuore che batteva contro il palmo e faceva eco al suono che Tsuyu percepiva rimbombarle nell'orecchio destro, dapprima più veloce, poi un poco più lento.
A ogni tuono che si allontanava gli sembrava che quel cuore si sincronizzasse, come se quel brontolio esterno fosse solo un'amplificazione di ciò che pulsava nella cassa toracica di Fumikage-chan.
«I passi di danza non funzionano, 'kero...».
Lui sospirò a fondo, muovendo anche lei nel farlo e tenendosela ancora più stretta, fantasticando che quello stare tanto appiccicati nel buio della notte a darle conforto potesse essere davvero una dolce normalità.
«Proverò ad inventarmi qualcos'altro, allora.»
Tsuyu mosse la testa, ma lui non decifrò bene se in diniego o in assenso: la camomilla che lei l'aveva quasi obbligato a bere stava avendo effetto sui suoi sensi, intorpidendolo al pari del piacevole tepore di quel corpicino tremante che gli stava strofinando contro.
La ragazza alzò la testa per un momento e lo osservò con un sorriso dolce, che lui nemmeno riuscì a scorgere bene nella penombra della stanza.
«Posso stare ancora un po’ qui mentre…mentre ci pensi, ‘kero?». E Tsuyu adorò quella mancanza di luce diretta che nascondeva il rossore delle sue guance, che lei sentiva andare quasi a fuoco, temendo che rilucessero come braci ardenti.
«Così ti calmi ancora un po’?». Le piaceva quel tono basso e dolce e rassicurante.
Lui era forse l’unico della sua classe che riusciva a farla sentire in quella maniera, ma non era per l’infatuazione che covava al caldo nelle sue viscere. Era qualcosa che s’era sviluppata prima della consapevolezza che lui potesse piacerle. Era stata complicità nell’allenamento e nelle prove fisiche, apprensione per l’esito di una notte nefasta tra i boschi, disperazione per le ferite riportate in guerra. Era come se in lei vi fosse un vortice che scuoteva le acque placide in cui amava rifugiarsi, rimescolandole fino a non farle capire nulla, fino a dover nascondere una risata quando qualcuno lo canzonava perché troppo drammatico, o quando Dark Shadow fremeva e s’agitava tutto quando lei li avvicinava.
«Mh-mh.». un assenso basso, gutturale, appena udibile tra i tuoi che s’ allontanavano piano piano e che non facevano più così paura come prima, quando era da sola e l’unico conforto era l’illusione che una camomilla avesse sistemato ogni suo timore.
Ma sussultò lo stesso, a sentire una carezza ferma sul capo, una pressione lieve a riportarla con l’orecchio contro il suo petto saldo. Trattenne il fiato e strinse gli occhi fino a che non fu troppo e l’aria dovette uscire con uno sbuffo che parve a entrambi di sollievo.
Non capirono mai se fu la camomilla, o il tepore vicendevole, ma si addormentarono in quella scomoda posizione, le carezza che si affievolivano, il respiro e il battito dei loro cuori che si regolarizzava.
Nel dormiveglia a Tsuyu parve quasi di sentire il becco ruvido di Fumikage sfiorarle la fronte, ma forse era solo un sogno, uno scherzetto subdolo della propria mente.



Bakugō, di buon mattino, mentre usciva per la sua corsa li notò, abbracciati sul divano dell’atrio. Si piegò ad osservarli in religioso silenzio, increspando le labbra in quello che poteva essere facilmente scambiato per un sorrisino divertito.
«Ehi! Aspettami Kacc-».
Izuku, appena dietro di lui, anch’egni in tenuta da corsa, venne zittito da una manata salda che lo costrinse a portare l’attenzione sul divano.
Il ragazzo spalancò gli occhi verdi, resi lucidi dall’emozione, mentre si sforzava di trattenersi dall’urlare di gioia. Perché lo sapeva! Lo sapeva che prima o poi sarebbe successo!
Solo quando Katsuki lasciò la presa sul suo viso e si diresse verso il portone d’ingresso con passo lieve per non svegliarli, Izuku lo seguì saltellando senza fare troppo rumore: «Oooohhh! Sì! Oh! Oi! Kacchan! – sussurrò mentre lo raggiungeva – Hai visto? Non sei contento?» e pareva urlare tra i sussurri con un sorrisone stampato in faccia e le guance arrossate per la contentezza. Katsuki si voltò ancora una volta verso i due compagni appisolati sul divano e lo notò: Dark Shadow lo stava salutando con una delle sue alette fumose, facendogli cenno di non dire una parola.
Fu solo il guizzo di un ghigno sul suo viso e un breve inchino col capo a sancire l’accordo, prima che afferrasse per la maglia Izuku e trascinandolo fuori dalla sala comune.
«Eddai! – protestò il ragazzo dai capelli verdi – La foto è venuta mossa! Fammi tornare dentro Kacchan!».


 
Makes me feel like just another boy
To laugh and joke about
But even worse I can't stop calling her
I love to hear that voice
And honestly, I'm left with no choice
~ Never Shout Never ~

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Capitolo 8
*** So hard and lonely | Kirishima’s cadeau ***


So hard and lonely | Kirishima’s cadeau



Kirishima era disteso pigramente su uno dei divani nell'area comune dei dormitori UA. C'era una sottile vena malinconica nei suoi occhi mentre osservava Kaminari e Sero scherzare tra di loro.
Era stato strano passare il compleanno lì e non a casa, ma andava bene così: la festa era stata carina, tante schifezze per pranzo e la torta… Oh! Quella era così grande che gli ultimi pezzi erano andati mangiati solo con lo spuntino pomeridiano.
Solo che c’era qualcosa di mesto in lui, su quel viso sempre sorridente.
Forse perché si aspettava un regalo pure da Bakugō? Eppure, avrebbe dovuto immaginarsi che lui sarebbe arrivato a mani vuote e poi sarebbe sparito per l’intero pomeriggio.
Ma forse nessuno aveva davvero voglia di festeggiare e lui non ne faceva una colpa, o una malattia. Solo… Era triste, come cosa.
Voltò la testa in direzione del portone d’ingresso, che cigolò mentre si apriva, lasciando entrare Kumo Chou, una delle ragazze della seconda classe della sezione di supporto, compagna di Hastume-chan.
Un caldo sorriso si diffuse sul suo viso e si azzardò a salutarla: «Buonasera Kumo-san!».
Il suo volto mostrava una gioia genuina mentre i suoi occhi viaggiano su e giù per la sua figura, avvolta in un vestito in panno azzurro, che le faceva risaltare la sua carnagione color terra d’ombra.
«Wow! Sei fantastica oggi!», disse allegramente Kaminari, improvvisando una corsetta verso la ragazza. Era stata lei a mettergli a punto l’ultima versione del costume e si conoscevano bene anche per le molte ore che avevano passato nel laboratorio di Power Loader.
«Veramente? Ho messo la prima cosa che avevo... Non è neppure stirato bene…».
La vide portarsi una ciocca azzurra dietro l’orecchio e sprimacciare un po’ la gonna stropicciata.
Un po’ Kirishima invidiava Kaminari.
Da dopo la guerra anche la classe di supporto aveva iniziato a legare di più col corso per eroi e non era raro che ci fossero momenti in cui le classi si mischiavano.
Kirishima aveva iniziato a conoscere Kumo-san proprio grazie a Kaminari e, in un certo senso, era rimasto affascinato dalla sua intelligenza e dalla sua arguzia. Meno vulcanica di Hatsume, ma ugualmente brillante.
C’era un inconfondibile scintillio di attrazione nei suoi occhi cremisi.
«Che ci fai qui, Kumo-san?», indagò Sero, senza ricevere riscontro, mentre la ragazza si dirigeva a passo incerto dove Kirishima se ne stava seduto, sorseggiando l’ennesima bottiglia di ramune al melone.
«Denki ha ragione.».
«Uh?».
«Ti sta bene. Il vestito, dico.», fece Eijirō, mentre i suoi occhi indugiavano sulla figura della giovane, prima di spostarsi nuovamente sul suo viso tondo.
«Grazie. È che… Sto, ehm, uscendo.».
«Oh veramente? E vai a fare qualcosa di divertente?», chiese incuriosito, sporgendosi leggermente per osservarla meglio: non l’aveva mai vista truccata e quell’accenno di perlaceo sulle palpebre le ingrandiva e illuminava lo sguardo.
«Io… avevo bisogno di parlare un attimo con te.», iniziò Kumo.
Eijirō aggrottò le sopracciglia quando la vide lisciarsi la gonna e prendere posto accanto a lui, sul divano, esalando un sonoro sospiro di rassegnazione. La chioma azzurra era sparpagliata sullo schienale e gli occhi scuri erano chiusi mentre lei se ne stava col viso rivolto al soffitto.
Le guance di Kirishima arrossirono leggermente quando notò quanto lei s’era seduta vicina, ma prese coraggio e mantenne la sua solita espressione allegra, non dando peso ai gesti stupidi che i suoi amici stavano facendo mentre tagliavano la corda.
A quell’ora, nella sala comune, sembravano esserci solo loro due.
«Io… Ehm... Sto per uscire con Bakugō.».
L’allegria di Kirishima vacillò leggermente quando lei nominò Bakugō, un accenno di gelosia contaminò la sua espressione.
«Oh - cercò di nascondere la sua delusione come meglio poteva – Dunque… Hai un appuntamento con lui?».
Ci provò a usare un tono allegro, ma ne uscì solo tanta curiosità e una raschiatura in gola del suono che uscì dalle sue labbra.
Kumo fece spallucce: «Non lo so. Forse?».
«Forse?».
I suoi occhi scuri si spalancarono quando lei voltò la testa e lo fissò: «Pensi che sia possibile che Bakugō voglia uscire con qualcuno?».
Kirishima ridacchiò: «Oh, beh. Non lo escluderei. -disse con nonchalance - Voglio dire, chi potrebbe resistere al tuo bell'aspetto e alla tua dolce personalità?» e le fece l’occhiolino, cercando di sdrammatizzare, quando in realtà, dentro, stava pian piano avvertendo un dolore che gli prendeva lo stomaco. Avrebbe vomitato, se l’avesse fatto sentire meglio. Ma non era indigestione: era la consapevolezza di aver perso ogni chance possibile contro Bakugō.
Lei non si mosse: continuava a guardarlo e Kirishima si sforzò di mantenere la propria allegria: «Immagino che dovrai scoprirlo. Bakugō non è un cattivo ragazzo.».
Fu la risposta di Kumo, detta con tono forse troppo infantile, a lasciarlo interdetto.
«I-io non vorrei uscire con lui. Però non vorrei che si offendesse... Lo conosci, no?» e Kirishima annuì.
Una sottile espressione di fastidio lampeggiò sul suo viso: «Oh, sì, lo conosco bene Bakugō! – confermò - Voglio dire, è un’amicizia un po’complicata la nostra, per ovvie ragioni, ma sì, lo conosco. E no, Bakugō non gestisce bene il rifiuto.», concluse, con una piccola smorfia che gli arricciò il naso.
Kumo lo guardò con gli occhi tristi e il volto di Kirishima si addolcì di colpo. Non ce la faceva. Come poteva resistere a quel broncio?
Se Kumo aveva deciso di uscire con Bakugō, lui avrebbe supportato l’amico al cento per cento. Dopo avergli spaccato quel naso perfetto che si ritrovava, perché non era per nulla onorevole soffiare la ragazza al proprio migliore amico.
Okay. Tecnicamente lui e Kumo non stavano assieme e lui non si era mai dichiarato… Ma Bakugō lo sapeva. E si stava comportando comunque da stronzo.
Allungò una mano per stringere delicatamente la spalla della ragazza.
«Ehi, non essere così giù! Forse andrà meglio di quanto pensi, mh?», tentò di rassicurarla, cercando di mascherare la punta di gelosia in agguato nella sua voce. «E se così non fosse, beh...».
«Beh?».
S’interruppe, riflettendo per un momento prima di sorriderle. «Vorrà dire che ci penserò io.», concluse con sicurezza.
Kumo abbandonò di nuovo la testa sullo schienale, un nuovo sospiro a lasciare quelle labbra piene che aveva fantasticato così tante volte di baciare.
«Sai… Io non voglio davvero uscire con Bakugō.», confessò a bassa voce.
Kirishima aggrottò leggermente la fronte, la gelosia trasformata in genuina delusione. «Oh.», disse, sembrando leggermente ferito, provando empatia per l’amico stronzo, più che soddisfazione per quella confessione. «Capisco.», disse con un sospiro, una parte delle sue emozioni, quella più dolorosa, salì al viso, facendogli pizzicare gli occhi senza un reale motivo, ma cercò disperatamente di mascherarla.
Dopo qualche secondo, un nuovo, piccolo sorriso fece capolino sulle sue labbra e si ritrovò ad alzare le spalle con noncuranza: «Beh, se non vuoi uscire con lui...» e le sue parole si affievolirono, lasciando molto non detto.
«Cosa?».
«Eheh! - ridacchiò goffamente, sentendosi improvvisamente a disagio, una mano a massaggiarsi il collo - Voglio dire… Niente.», disse velocemente, girando il viso dall'altra parte per nascondere la sua espressione arrossata. Dentro, il suo cuore batteva forte nel petto. Perché lo stesso coraggio che metteva in battaglia non riusciva a tirarlo fuori ora?
Si schiarì la voce, esprimendosi in tono quasi burbero cercando di seppellire i suoi sentimenti il più lontano possibile: «Niente, davvero. Dimentica solo che ho detto qualcosa, ok?».
Kumo si portò le mani al viso e sbattè un poco i piedi contro il pavimento, il vestito che si alzava lungo le cosce, impertinente nel lasciar intravedere così tanta pelle.
Kirishima si irrigidì a sentire il suo piagnucolio: «Oh! Per favore Eijirō-kun! Aiutami! Non voglio morire se rifiuto quel moccioso arrabbiato!».
Kirishima tirò a sedere immediatamente, volgendosi verso la ragazza: «Che cosa? - chiese, sembrando allarmato - Bakugō non ti ucciderebbe per averlo rifiutato!».
Era sorpreso che lei potesse anche solo pensare una cosa del genere. Va bene che il biondino non era proprio il massimo se si trattava di gestire il rifiuto, ma da quello a far esplodere una persona solo per un “no”…
Fece una pausa, riflettendo per un momento: «Bakugō è un po’ cambiato, sai... Ma ehi! Nella remota possibilità che lui voglia farti esplodere, posso prendermi cura di lui per te!», disse con un piccolo sorriso rassicurante.
«Lo faresti?».
Alzò un braccio, chiuse il pugno, attivando il quirk: «Io ho unbreakable per qualcosa!».
Per la mente di Kumo passò qualcosa, che le fece spalancare gli occhi e arrossire di colpo, rendendo la pelle delle guance arrossata come le braci del camino.
«Quindi... mi aiuti? Forse... - si coprì la bocca con la mano e distolse lo sguardo da quello curioso di Kirishima - Forse... potresti fingere... E dirgli che sei stato tu il primo a chiedermi un appuntamento!».
Kirishima ridacchiò, imbarazzato per quella proposta tanto stupida quanto… sperata? Poteva essere un piccolo sogno che si avverava, anche se solo per finta. Sarebbe stato bello.
«Scusa, non era per prenderti in giro. Voglio dire, potrei. Ma sei davvero disposta a rischiare di dover fingere di uscire con me? E poi, per quan-», si bloccò, aggrottando la fronte, esitante, fissando la ragazza in volto. La sua espressione sembrò addolcirsi e Kumo arrossì ancora di più a vedere i suoi occhi ammorbidirsi, rispecchiare quella luce interiore che tanto le piaceva.
«Aspetta, ti... ti piaccio?», chiese, incuriosito, un’improvvisa ondata di speranza gli riempì il cuore a quel pensiero.
Però si ritrovò a distoglie velocemente lo sguardo, cercando di nascondere l'espressione del suo viso. «Dannazione!», esclamò sottovoce.
Kumo si ritrovò a balbettare una serie di “no” poco convinti, ma che lui colse come un lungo, imbarazzato diniego.
Il cuore di Kirishima si spezzò nel sentire quelle parole e assunse un'espressione il più neutra possibile, mentre si agitava sul divano, nel disperato tentativo di allontanarsi dalla ragazza senza però offenderla, cercando inutilmente di controllare le proprie emozioni. Sospirò mentre scuoteva la testa, cercando di simulare il diniego della giovane. «Oh, uh, certo… So-sono felice che tu non lo sia…». I suoi occhi si spostarono verso Kumo, gli zigomi del ragazzo leggermente arrossati, gli occhi con uno strano, triste luccichio. «Mi dispiace di averti messo in imbarazzo.», mormorò, distogliendo di nuovo lo sguardo velocemente, il battito del suo cuore che ora decelerava, deluso da quella speranza evanescente.
Si sporse in avanti e appoggiò la testa tra le mani, cercando di nascondere il viso agli occhi della ragazza, il labbro inferiore stretto tra i denti affilati fin quasi a sanguinare, mentre provava a respirare lentamente e a stabilizzare il battito di nuovo accelerato del suo cuore. Il problema era la sua mente: aveva fatto tutto da sola, insinuando di piacere a quella ragazza così carina e brillante che ora non si capacitava di tutta quella farsa. “Ma... allora perché tutta questa storia di fingere di uscire con me??”.
Sospirò sonoramente e si premette le tempie con i palmi per la frustrazione, cercando di capire le reali intenzioni di Kumo. “Forse è solo uno scherzo, giusto? Giuro che Denks me la paga stavolta!”.
Ma Kumo aveva la linga dispettosa e quella sfilza di no le erano usciti solo perché presa da un atroce panico, facendole fare un casino.
Così provò a rimediare, posandogli dolcemente una mano sulla schiena, probvando a smuoverlo: «Hai ancora voglia di aiutarmi, Eijirō?».
Gli occhi di Kirishima si spalancano quando la sentì usare il suo nome in quel modo, e si risedette dritto, guardandola sorpreso: «Hm? Oh, sì, certo.», asserì, forse fin troppo velocemente, cercando di minimizzare lo shock.
Alzò le spalle, poi fece una pausa, distogliendo lo sguardo per un momento. Deglutì una volta, poi guardò Kumo: «A-Allora, quando dovresti uscire con Bakugō?», chiese incuriosito, sporgendosi di nuovo in avanti, cercando di sembrare disinvolto.
La ragazza tirò fuori il cellulare e osservò l’ora, accigliandosi. «Tra mezz’ora.».
Quando lei alzò gli occhi, lo vide un po' turbato.
In realtà, Kirishima cercava di nascondere il suo shock, che probabilmente lo stava rendendo mortalmente serio, a giudicare dall’espressione di Kumo.
«Aspetta. Quando te l’ha chiesto Bakugō?».
«Un paio di giorni fa.»
Si ritrovò a serrare la mascella per caricare la tensione: si maledisse mentalmente per essere stato tanto stupido da aver confessato al suo migliore amico i sentimenti che provava per Kumo, ingenuamente, ripercorrendo nella propria memoria tutte quelle piccole cose che, in quel momento, sembravano avere senso. Come l’essersi seduto con lei in mensa proprio un paio di giorni prima. Loro due, soli.
Distolse lo sguardo, cercando disperatamente di nasconderle il livore che provava e si detestò per essere sempre tanto limpido nei sentimenti.
«Quindi tu gli hai detto si?», la sua voce era appena più di un sussurro.
«Non ho detto nulla in realtà.».
Kirishima era palesemente deluso: il fatto che fosse così facile da leggere a kumo era sempre piaciuto. Lo trovava quasi confortante per certi aspetti.
Quella reazione tanto avvilita le smosse qualcosa, facendola sedere meglio sul divano, avvicinandosi a lui, che se ne stava quasi rannicchiato sulle proprie ginocchia. Non sembrava turbato, non più di quanto qualsiasi altro essere vivente sarebbe stato turbato dal dover affrontare l’ira funesta di Bakugō Katsuki rifiutato, seppur per finta.
Sì, perché tutta quella era solo una stupida farsa architettata sapientemente dal ragazzo dai capelli biondi solo per smuovere un po’ le acque.
Un piccolo segreto amichevole tra Chou e Katsuki.
Kirishima strinse gli occhi verso di lei, che lo preferiva molto più imbarazzato che mortalmente serio. «Non sei brava a mentire.», disse con un piccolo sorriso. Una delle sue sopracciglia si alzò leggermente mentre guardava Kumo «Il fatto che tu sia qui presuppone che tu abbia acconsentito ad uscire con lui, giusto?», chiese incuriosito.
A volte quel ragazzo sapeva essere davvero ottuso! E lei forse un po’ troppo titubante sulle questioni di cuore, per cui erano pari, no?
«Si…ma…».
Kirishima stava ancora distogliendo lo sguardo, una punta di delusione mentre la ragazza confermava la sua accettazione, ma il suo cuore non collaborava, accelerando i battiti man mano che quella pausa si dilatava: «Ma?», chiese incuriosito, girando la testa per guardare Kumo di nuovo.
«Non sono sicura di essere interessata a lui.».
Kirishima si morse l’interno della guancia, aggrottando le sopracciglia. «Ah?», chiese, lo sguardo fisso in quello scuro di Kumo. «Beh, se non sei interessata a lui… Perché sei qui?», chiese con tono ammorbidito.
«Non lo so.». Sapeva di mentire, e questa cosa le stava andando sempre più stretta, tanto che continuava a rigirare il cellulare tra le dita, percorrendo con le unghie corte ogni linea, ogni apertura, non degnando il suo interlocutore di uno sguardo. «Forse per noia?».
Il ragazzo rilasciò un piccolo sospiro divertito, mentre si sporgeva di poco verso Kumo, prima di lasciarsi andare contro lo schienale del divano. «Huh? Così per noia hai detto di sì a un appuntamento con qualcuno che nemmeno ti piace? – la sua espressione tornò confusa – Perdonami, ma non ci vedo molta logica.».
«Io nemmeno. Forse… – fece una pausa e lo copiò nella posizione, voltando la testa per guardarlo – Forse per smuovere qualcosa nel mio reale interesse.».
Il cuore di Kirishima ricominciò a scalciare nel petto a quelle parole. «Il tuo reale interesse?», mormorò, fin troppo quieto. «Intendi… Me?».
Kumo si lasciò sfuggire un timido sorriso, mentre faceva spallucce: «Chi lo sa!».
Gli occhi cremisi di Kirishima si spalancarono a quella risposta, il cuore sembrava impazzito tanto che la sua cassa toracica sembrava troppo stretta per contenerlo. Si girò di lato, la spalla allo schienale, le gambe raccolte sul divano e l’espressione arrossata e confusa, un luccichio di speranza in quegli occhi dolcissimi.
«Quindi… Io ti piaccio?». La sua voce era appena un sussurro, come se orecchie indiscrete fossero lì pronte a captare ogni sillaba.
Kumo non parlò, si limitò a copiarlo nella posa rannicchiata e a sorridergli, mentre il suo cuore sembrava battere tanto forte da dover farsi sentire per tutta la stanza.
Kirishima, trasportato da un’onda di silenziosa speranza, si accomodò meglio, avvicinandosi alla ragazza che ora sorrideva, mettendo in mostra quei denti perfetti e candidi che pareva le illuminassero tutto il viso.
«Quindi, - iniziò, cercando di nascondere la gioia e l’eccitazione che infondevano ogni sua vena – se dovessi chiederti di uscire… Diresti di sì?».
«Vuoi chiedermi di uscire?».
«Voglio dire… Sì. Cioè… Oh, credimi! Lo volevo fare da così tanto tempo, ma avevo paura.».
«Tu? Paura? E di che cosa?», la sua risata di scherno era bella. Tutto di lei era bello ai suoi occhi, ora forse più di prima.
Il ragazzo sussultò, perché quella possibilità l’aveva considerata fin troppe volte: «Paura che mi dicessi di no. E che quindi sarebbe stato tutto più strano…».
Le sue emozioni si gonfiarono, facendogli affluire il sangue alle guance e alle orecchie, rendendolo adorabile agli occhi di Kumo, troppo felice della piega di quella serata.
Non aveva riposto troppa speranza nel giochetto che Bakugō le aveva proposto, ma non fu mai più felice di avergli dato ascolto. Probabilmente gli avrebbe eretto un altare!
«E se ti dicessi di no?», un sorriso che pareva un piccolo ghigno, solo per tenerlo un po’ sulle spine, mentre si avvicinava di più a lui.
«Se tu dicessi di no… - iniziò, per poi fermarsi immediatamente, cercando di sorridere, ma la tristezza e un pizzico d’ansia gli incrinarono la voce già bassa, dopo aver deglutito – Sarei un po’ ferito, ma andrei avanti. Almeno non continuerò a chiedermi se ti piaccio o meno.».
«Allora sì.».
Le guance del ragazzo si tendono e si alzano mentre lui sorride, genuinamente, come Kumo aveva imparato ad apprezzare. «Sì? Accetteresti se ti chiedessi di uscire?».
«Sì, Eijirō.», e il suo cuore sarebbe scoppiato di gioia a quelle parole, al tocco delicato di quelle dita che gli sfioravano le mani.
«In questo caso… - gonfiò il petto e prese un profondo respiro – Vuoi uscire con me?». Trattenne il respiro, la faccia calda d’imbarazzo nell’attesa di una risposta, fissando il volto di Kumo, che non le era mai parsa così bella come in quel momento.
«Devo risponderti sul serio?», ridacchiò, gli occhi castani luminosi ogni volta che si posavano sul viso speranzoso di Kirishima.
«Sei uno sciocco… E mi piace anche questo di te. Dal primo momento che ti ho conosciuto, sai?».
Gli occhi di Kirishima, rossi e lucidi di lacrime, si spalancarono ancor di più a quelle parole: «Sul serio? Non mi stai prendendo in giro?».
Kumo fu svelta a scuotere la testa e ad alzarsi dallo schienale, strusciando sul divano per arrivargli più vicino.
Era una bella sensazione, quella di non sentirsi rifiutati, quella di sapere che qualcuno aveva voglia di conoscerti senza doppi fini.
Era una sensazione tanto bella da non sembrare quasi reale, effimera, come la brina al primo sole del mattino.
E bella era Kumo, questo l’avrebbe ripetuto fino all’infinito: la pelle scura e lucente, e quei capelli boccolosi accrocchiati distrattamente, e la bocca. Oh, Kami! Cosa avrebbe dato per assaggiare quelle labbra che ora erano pericolosamente vicine e… sue.
Il fiato di Kirishima gli grattò nel petto mentre pronunciava sottovoce quella domanda, esitante: «Tu… Io potrei…».
«Cosa? – sentiva già il tepore del suo fiato sulla bocca – Baciarmi?».
La faccia del ragazzo divenne calda come fuoco e riuscì a mormorare timidamente: «Io… S-sì… Per favore…». Era incredibilmente nervoso e il cuore aveva ricominciato a correre appena lei s’era sporta, facendogli chiudere gli occhi nel momento in cui le loro labbra si toccarono.
Il ragazzo le prese il volto tra le mani, la mente libera da ogni pensiero. Tutto il mondo di Kirishima sembra essere solo Kumo, mentre le labbra spingevano a sentire la morbidezza di quelle della ragazza.
«Hai finalmente deciso di fare la tua mossa, Capelli-di merda?».
La voce inconfondibile di Bakugō lo fece staccare e scattare in piedi, una mano portata istintivamente a coprire Kumo, il fiato corto per entrambi, completamente rossi in volto, colti in flagrante.
«E che cazzo, Bakubro!», sbottò, aggrottando le sopracciglia, in un cipiglio di fastidio, mentre Kumo si era alzata e aveva intrecciato le sue dita con le proprie in una stretta tenera e salda.
Lo sguardo di Bakugō vagò tra i loro volti sino alle mani unite, per poi tornare a guardare Kirishima con un ghigno sul volto. «Mi fa piacere.».
Il ragazzo strinse la mano di Kumo e raccolse tutto il coraggio di cui disponeva: già immaginava di dover fare da scudo pure alla ragazza. «Cercavo proprio te.».
«Ah?».
«Io… - alzò il mento e lo fronteggiò, lo sguardo duro e i lineamenti tirati - Noi ti volevamo dire che Kumo non uscirà con te stasera.»; la voce gli uscì più calme e ferma del previsto.
«E meno male!».
Il sorrisetto che seguì quell’espressione lo rese confuso, così come la pacca sulla spalla che ricevette poco dopo. «Domani voglio una birra come ringraziamento, intesi? - si sentì sussurrare all’orecchio, mentre il biondo gli infilava qualcosa in tasca – Aspetta ad aprirlo.», e rimase imbambolato a osservare l’amico che se ne andava.
Sbatté gli occhi e si voltò verso Kumo: «Ma che-».
La ragazza gli sorrise, colpevole: «Scusa.».
«Scusa?».
«Questa cosa è stata tutta un’idea di Bakugō.», tentò di giustificarsi Kumo, mentre tornava a torturarsi le mani.
«Sua? – Kirishima era confuso – Che c’entra? Non ti aveva invitato lui a uscire?».
«In realtà… Gli ho chiesto io di parlare. Ero stanca di non sapere che fare con te e questa cosa mi stava mettendo a disagio. Abbiamo pranzato assieme, ma lui già sapeva tutto. Sai com’è no? lui è un bravo osservatore…», e Kumo alzò le spalle, sperando in cuor suo che svelare quel giochetto non si rivelasse controproducente.
«Tu e lui avete progettato tutto questo?».
«Lui. – fece una pausa e lui la vide arrossire ancora di più – Lui è il nostro Cupido.».
Kirishima avrebbe riso, solo perché si figurava un Bakugō seminudo svolazzante che tirava frecce a destra e a manca solo con l’intento di beccare la gente sul culo. E sarebbe stato un cupido fantastico.
Però si trattenne, perché il pensiero della ragazza che ora aveva di fronte a sé offuscava tutto il resto: tra i due era lei quella virile, quella pronta a rischiare e, pur sentendosi un codardo, non riusciva a toglierle gli occhi di dosso e a pensare che fosse bellissima e coraggiosa e che fosse fortunato ad avere la sua attenzione.
Le prese le mani, passando le dita sui palmi, sugli avambracci, pronto ad avvolgerle la vita in un abbraccio saldo, tenendola stretta e cullandola, fino a che lei non si staccò: «Ti spunta qualcosa dalla tasca.», gli fece notare lei.
Kirishima si ricordò del biglietto di Bakugo e lo prese.
Il cartellino chiaro era vergato con grafia ordinata e spigolosa.
buon compleanno idiota
K.
Udì ridacchiare Kumo e, alzando gli occhi, la vide coprirsi la bocca con una mano, le guance visibilmente arrossate. Sul retro del biglietto vi era il resto del messaggio di auguri:
p.s. fanne buon uso
che sovrastava un preservativo dall’involucro nero e il logo del merchandise di Crimson Riot, appiccicato al biglietto con un pezzo di nastro adesivo trasparente.
Kirishima sentì le guance andare a fuoco prima di sbottare in un urlo imbarazzato che avrebbero sentito fino al Ground Beta.
«BAKUGŌ!».

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Capitolo 9
*** ...but everything ends | Katsuki's grief ***


...but everything ends | Katsuki's grief


 

TAGS: angst
RATING: verde
TW: morte
💧: 4/5 (mi sono commossa, lo ammetto...)

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Il leggero picchiettio della pioggia contro il vetro della finestra riempie la stanza altrimenti silenziosa, mentre fisso il mio riflesso nello specchio.

Allungo una mano e mi sfioro la guancia, l'immagine mi rimanda una smorfia di fastidio; l'estesa cicatrice che deturpa il lato destro del mio viso non è ancora guarita e sembra più evidente che mai. Così rossa e raggrinzita che sembra quasi quella del bastardo a metà... Solo che questa è diventata il costante promemoria del prezzo che ho pagato.

«Dannazione!» impreco a denti stretti, mentre la mano torna in basso e le dita tremano, lottando per avvicinare i lembi della camicia candida e, nel contempo allacciare i bottoni sulle asole corrette. Avrei dovuto diventare ambidestro, lo dicevo io!

Il fatto è che quella metà mancante del mio braccio destro rende quasi impossibile qualsiasi compito semplice.

Mi mordo il labbro inferiore e trattengo una bestemmia quando, per l'ennesima volta il bottone sfugge senza neppure aver avvicinato quella stramaledetta asola!

Grugnisco. Credo sia l'unica cosa che riesco a fare in questi giorni.

Mi viene difficile fare tutto. E non è per il braccio, né per l'occhio destro, che mi fa vedere solo ombre e contorni sfocati. Né per le mie orecchie, che pure loro hanno deciso di non collaborare.

Una cospirazione, ecco cosa sta avvenendo nel mio corpo.

Mi sembra di essere passato fisicamente sotto una schiacciasassi. Non che di spirito vada tanto meglio.

Lo vedi? Mi riduco a fare discorsi con la mia testa e mi sembra di essere pazzo.

Tanto matto che mi tocca pure sobbalzare a vedere dietro di me il riflesso di mio padre. È lì che alzo il braccio e me lo porto al petto, dove questo cuore malandato batte un po' troppo in fretta.

Il mio vecchio mi sorride, nel riflesso. Mi sorride e si avvicina, allunga delicatamente una mano e mi accende gli apparecchi, prima uno poi l'altro. «Ecco perché non rispondevi.»

E neppure adesso rispondo. Cosa dovrei dirgli? Che sarebbe meglio senza questi affari infernali sulle orecchie? Che ogni tanto mi pento di non aver chiesto a quella mocciosa di aiutarmi?

«Katsuki...», e ci sento tanta tenerezza nel mio nome, pronunciato così sommessamente che mi ritrovo solo a chinare il capo per non guardarlo in faccia. Non voglio vedere i suoi occhi scuri guardarmi con compassione. Non lo sopporterei. Non oggi. «Lascia che ti aiuti...».

Vorrei avere la fermezza che ha lui nelle dita ora, vorrei riavere la mia abilità innata di fare le cose bene al primo colpo.

Andare per tentativi è frustrante.
Essere improvvisamente incapace è frustrante.
Sentirmi in questo modo... è frustrante.

Il mio sguardo segue quelle dita sul bottone che sta per chiudersi sul mio petto, sulla cicatrice frastagliata nel suo centro, un fuoco d'artificio come un altro doloroso ricordo di ciò che è passato. Mi costringo a fare un respiro profondo quando pure il bottone più alto viene stretto e papà mi alza il colletto.

Si allontana di poco, si sporge verso il letto a recuperare la cravatta nera, per gettarmela al collo, fare un nodo con quelle dita abili.

«Lo so che la odi, ma fai uno sforzo oggi, va bene?», mi dice, sistemandomi quell'affare infernale sulla gola, due dita passate tra la stoffa della cravatta e quella dela camicia: «...così non ti sentirai soffocare.».

Ha la voce bassa, dolce.

Non mi sono mai davvero sforzato di capire come una persona così calma come lui potesse stare con quell'arpia di mia madre.
Ora lo so. È tardi, ma l'ho capito.

«Va bene, pa'», sussurro. Mi fa strano: ho la voce così roca e stanca che quasi non la riconosco. E lui interpreta male la mano che mi metto sulla gola. Ma non è stretto il nodo, quello va bene.

È tutto il resto che dentro mi stringe: il fegato, lo stomaco, l'intestino. Sembra che tutto stia collassando dentro di me. Pure il cuore.

È tutto così stretto e compresso che non sembra neppure fare male. Ma, forse, sono solo gli antidolorifici. O i tranquillanti.
O forse sono solo stanco. Perché mi sono alzato oggi? Ah, sì...

«Posso?».

Allargo le braccia, o ciò che ne resta, e non dico una parola, lasciandomi vestire, come quando avevo cinque anni. Solo che stavolta non protesto, non piagnucolo né mi dimeno. E papà... Beh, è papà: sta zitto e non dice nulla. Mi guarda, di tanto in tanto e sospira. Cos'altro potrebbe fare?

Però si sta impegnando, a mettermi bene la camicia nei pantaloni, senza fare troppe pieghe. È un precisino del cazzo, come me. Ecco da chi ho preso.

Solo che mettere dei jeans e una camicia dopo settimane di vita perennemente in tuta... Un supplizio, ecco cos'è.

«Solo per oggi...». Lui lo capisce. A volte credo che tu e lui siate più simili di quanto abbia mai immaginato.

Mi aiuta con la manica destra della camicia, la arrotola bene, appena al di sotto del moncone. Arrotola anche l'altra alla stessa altezza e mi prende per le spalle, voltandomi verso lo specchio, avvicinandosi al mio orecchio e parla piano-piano, come se dovesse dirmi un segreto, quando in realtà sta solo cercando di farmi sorridere un po': «Mi sa che la giacca la lasciamo a casa, non credi?».

Ma se devo essere vestito da damerino, beh... Meglio farlo bene, no?

«No.», mormoro, sfuggendo dalla sua presa lieve e prendendo la giacca nera dal letto e porgendogliela. «La metto. Per una volta...».

Mi aiuta ad indossarla con cura, una smorfia di fastidio ogni volta che muovo la spalla destra. Dio! Come lo odio.

Sa che oggi è particolarmente difficile per me e sta facendo del suo meglio per sostenermi. Lo apprezzo, davvero. Credo di non essere mai stato più sincero di così.

Ha tanto senso ancora mentire a se stessi?
Ha senso dopo tutto quello che è successo?

«Katsuki...» mi chiama lui, di nuovo le mani sulle mie spalle mentre mi sistema i revers della giacca. Ha almeno la decenza di non volermi vedere in faccia, anche se il suo viso disteso cela in malo modo tutta la sua preoccupazione: «Ricordati di respirare. Siamo qui per te.».

Facile.

Non so quante volte in questi giorni ho sentito frasi simili. E mi facevano solo imbestialire.

In realtà ho una rabbia dentro anche adesso che non so come far uscire. Non ci riesco più. Credo che la mia rabbia si sia trasformata in rassegnazione

Lo credo perché, se mi guardo allo specchio, stento a riconoscermi. E non è per l'aspetto fisico.

Non è per la vista a metà.
Non è per l'udito andato a puttane.
Non è neppure per il braccio mancante.
Credo mi sia perso qualcosa dentro.

«Lo so.».

Lo vedo riflesso nello specchio, il mio vecchio. Gli vedo più rughe attorno agli occhi, qualche capello bianco in più. E mi verrebbe da scusarmi, perché so bene che quelle sono le preoccupazioni che gli ho dato io.

«Ti aspettiamo giù.», e fa per andarsene.

Almeno fino a che non lo richiamo. «Pa'?».

«Mh?».

E adesso? L'ho richiamato... Ma adesso? Che gli dico?
Da dove comincio?

Ho fatto due settimane di mutismo, di testa sbattuta contro il muro, di denti conficcati nel labbro per non urlare.
Da dove si comincia a parlare?
Come cazzo ci riuscivi tu, ah?

«Come... Come fai a sapere quali ricordi salvare?».

La sua espressione si addolcisce e afferra con la mano lo stipite della porta, un piede fuori, uno dentro.

«Lascia... Lascia stare...». Ti concedo la possibilità di scappare. Fallo, tu che puoi, che io sono ancora chiuso da qualche parte nel buio, con un chiavistello a doppia mandata. In titanio, presumo, perché non riesco a toglierlo, non riesco a spaccarlo. Con una mano sola poi...

«Non voglio lasciar stare, ma sarebbe meglio parlarne dopo, con più calma. Va bene?»

Annuisco. Tiro le labbra in una smorfia piatta e annuisco. Cerco di trattenere l'ondata di emozioni che si infrange contro i muri che mi sono costruito attorno al cuore. Ma sono muri vacillanti; una nuova scossa e cadrà tutto, me lo sento.

Infilo la mano in tasca e poi gli faccio un cenno col capo: «Vai. Io arrivo subito.».
E con un cenno di rimando lo vedo scappare in corridoio.
Scapperei anche io da me stesso, se potessi.

Con calma abbasso lo sguardo, attendo il ronzio degli apparecchi acustici che si spengono sotto i miei polpastrelli. E poi lo guardo di nuovo allo specchio.

Un ultimo sguardo a quel riflesso, solo per vederti lì, su un letto su cui non ti siedi da una vita...

Hai gli occhi vispi, che si alzano da uno dei tuoi cazzo di fumetti e mi guardano, un sorriso accennato sulle labbra. "Se puoi vedermi è tutto nella tua testa."

Le posso sentire quelle parole. Da solo, nel silenzio della mia stanza, posso sentire la tua presenza.
Accanto a me, le mani sulle spalle nell'esatto punto dove le aveva lasciate mio padre, esortandomi a essere forte.

«Dannazione, Izuku...», sussurro, trattenendo le lacrime dietro le palpebre serrate, il pugno stretto, trovando conforto nel dolore che mi attraversa le dita.

La voce squillante di mia madre arriva dal piano di sotto senza che nemmeno accenda questi cosi. «Katsuki! Faremo tardi!».

Sospiro.
Unica nota positiva credo sia la pioggia, così cliché.
«Arrivo!», grido di rimando, dando un'ultima occhiata al mio riflesso prima di lasciare la stanza, cercandoti ancora su quel letto.

Un gradino dopo l'altro sento le gambe cedere, tanto che mi tocca appoggiarmi al muro con discrezione, per non far preoccupare i miei vecchi.

«Andiamo.», ma la voce non mi sembra proprio la mia, mentre oltrepasso mia madre e apro la porta d'ingresso, uscendo sotto la pioggia. Ci dirigiamo verso la macchina e non riesco a fare a meno di dare un'ultima occhiata a casa nostra, prima che lei chiuda a chiave la porta, come se cercassi qualche segno di te: un'ombra fugace, una voce familiare, qualsiasi cosa. Ma sembra tutto così strano e assurdo e irreale, perché in questa casa è una vita che non ci metti piede ed ora te ne sei andato e mi restano solo i vaghi ricordi che condividevamo.

Appoggio la fronte al finestrino fresco, osservo per un po' le gocce e il mio fiato appanna di poco il vetro. Faccio per alzare la mano, ma grugnisco. La destra, giusto.
Tu la mano destra non ce l'hai più, coglione.

Volevo disegnare un cazzetto sul vetro appannato, per sdrammatizzare.
Come quella volta nella macchina di Endeavor, ricordi? Chissà se se ne è mai accorto...

Sui sedili davanti sento i miei parlottare, ma non so bene di cosa. Vorrei spegnere gli apparecchi, ma non posso.
Becco mia madre lanciarmi un'occhiata fugace, ma faccio finta di niente.
Abbasso le palpebre. Vorrei stare a casa, ma non posso.
Non è più il tempo di abbandonarti, di lasciarti in un angolo.
Devo pur ripagare tutta l'incrollabile fiducia che riponi in me, giusto?

«Katsuki...», il tono di mia madre è dolce, forse continua a guardarmi ma non ci do peso. «Vedrai che tutto si rimetterà a posto.».

A posto?
Cosa deve rimettersi a posto? Una vita di sbagli?
So già che niente andrà mai più veramente bene.
Perché avevo un amico che non meritavo. Come la rimetti a posto questa cosa, ma'?

Come la rimetteresti a posto se ti dicessi che vorrei cento volte fare a cambio?

L'auto si ferma e qualcuno si affretta ad accostarsi alla macchina, ombrelli neri che ci riparano dalla pioggia. Che cliché.
La pioggia continua a cadere, il cielo cupo riflette il mio umore mentre mia madre mi si stringe contro sotto l'ombrello. Mi stringe fino a che non arriviamo all'entrata di una sala gremita di persone. Fiori bianchi agli angoli, un puzzo d'incenso da far venire il vomito.

Questa cos'è? Opera di tua madre?
Pff! Pacchiano.
Ma non gliene faccio una colpa solo perché ha trovato una bella foto da mettere sull'altare. E mi mozza il fiato.

Ho passato due settimane senza vedere il tuo viso. Ho un ricordo confuso, della guerra.
Ma il tuo sguardo lo ricordo bene.
Forse mi hai guardato così per tutta la vita e io me ne sono accorto solo in quel momento.
Sciocco da parte mia non accorgermene prima.

Una mano mi si posa sulla spalla destra.

«Vuoi dire qualcosa Bakugō?».                             "Vuoi dire qualcosa Kacchan?"

Volto il capo e osservo Aizawa, in piedi a braccia conserte accanto a me, dall'altro lato Eijiro mi preme la mano sulla spalla. È un conforto silenzioso, lo apprezzo.
Non sono in vena di farlo esplodere. Non oggi.
Ha gli occhi lucidi e le labbra massacrate dai suoi stessi denti.

Esito, incerto se davvero ho la forza di parlare qui, davanti a tutti. Davanti a te.
«E io in queste cose faccio schifo, lo sai.».

Non so nemmeno se le ho dette davvero quelle parole.

Alzo lo sguardo. Mi sembri reale adesso, con la tua tuta verde, una gamba piegata sotto l'altra a penzoloni, le mani a tenerti la caviglia e la tua faccia da schiaffi che mi guarda e sembra prendermi in giro per la mia goffaggine nei sentimenti. Come prima. come sempre.

Mi sembri così reale...
Mi sembra che se provo ad allungare il braccio riesco a raggiungerti e toccarti. Ma tu mi fai solo un cenno col capo: lo inclini, arrossisci e mi sorridi.

Mi giro, di poco. Guardo papà. Non so bene perché, in tutta la mia costante ricerca di indipendenza e di autoaffermazione io mi metta a cercare proprio lui, il suo sguardo, la sua approvazione.
Ma forse è solo perché mi ricorda te...

«Poco fa ho chiesto al mio vecchio come si fa a sapere che ricordi salvare...», mi blocco. Faccio fatica. Fa quasi male respirare.
Quella frase rimane nell'aria, senza risposta. Come posso davvero scegliere quali momenti con Izuku fossero stati più preziosi degli altri? Ogni ricordo occupa un posto particolare nel mio cuore e il pensiero di perderne anche solo uno mi risulta insopportabile.
Stringo la mascella e la mano in tasca. L'incenso continua a darmi la nausea, come l'odore di marcio di tutti questi cazzo di crisantemi.

«Da bambini passavamo ore a fingerci eroi, combattendo contro cattivi immaginari.»

Gli occhi pizzicano in maniera maledettamente fastidiosa, faccio un respiro profondo, tiro su col naso, perché a soffiarlo con la sinistra ho difficoltà e mi renderei ridicolo.
«Hai sempre creduto di poter fare la differenza, anche prima di avere qualsiasi potere.».

Li sento, i babbei dietro di me. Tutti quelli che di te non sanno un cazzo. Sentili come frignano per quattro parole in croce.

E tu sei lì, che mi osservi, con una strana luce negli occhi, come se fossi fiero di me.
Fiero di cosa? Del grumo di rabbia inespressa che sono diventato per te?

Sento il mio corpo dolorante, oppresso dal peso del dolore che porto, e ogni respiro che faccio è una lotta contro me stesso. Il me stesso che vorrebbe girare i tacchi e andarsene nel silenzio, fuori da qui.
Ma te lo devo. Almeno questo te lo devo.

Anche io so mantenere le promesse, nerd.

Una pausa, deglutendo a fatica quelli che mi sembrano sassi mischiati a saliva, mentre i ricordi riaffiorano ogni volta che sbatto le palpebre, tentando di sopraffarmi. «Io... Io voglio salvare questo ricordo di te. Di noi.»

"Solo questo?"

Ti sento. Sei accanto a me, più basso e magrolino; la divisa nera delle scuole medie.
Chiudo gli occhi e li riapro. Pizzicano e pizzica pure il naso.

«Questo basta.».

Basta davvero. Basta tutto questo. Finiamola.
Giro i tacchi, strattono le spalle per scrollarmi di dosso quelle mani che mi vogliono afferrare, trattenere.

Lasciatemi stare, andatevene tutti a fanculo.

La mano sinistra va di nuovo alle orecchie, spengo tutto.
L'unica cosa che non spengo sei tu. E questo va bene.
Va bene vederti. Va bene che sia solo nella mia testa. Mi regala l'idea che tu ci sia ancora.

Mi sembri reale, anche quando non lo sei più.

Il corridoio lo faccio quasi di corsa, il passo malfermo sulle assi di legno, fino a trovarmi la porta a vetri dell'edificio di fronte al naso. Una spallata per aprirla e uscire. Fuori, alla pioggia.
I capelli che si bagnano e si appiattiscono sulla fronte, i vestiti che si infradiciano man mano che procedo, senza meta, a sinistra, lungo la strada che sale. La direzione opposta rispetto a quella da cui sono venuto con l'auto dei miei.

Importa? Ma proprio un cazzo.

Ad ogni passo che faccio lontano dalla tomba di Izuku, lontano da quel memoriale, mi ritrovo a respirare sempre più velocemente, il cuore che pare schizzarmi fuori dal petto, tanto da dovermi fermare e affiancare a un muro, lungo la via; ci poso la fronte e chiudo gli occhi, concedendomi un paio di profondi respiri e poi un urlo.

Lungo, liberatorio. Vorrei crepare questo muro con la mia sola voce.

Lo prendo come ultimo momento di dolore prima di voltarmi e tornare ad affrontare un futuro che mi sembra solo fatto di incertezza e solitudine.

Ma è solo quando stacco la fronte dal muro freddo, il fiato ancora corto, che mi giro indietro e ti vedo.
Ti vedo che mi sorridi, con gli occhi luccicanti e la figurina stretta in mano. I tuoi piedi non stanno fermi per la contentezza e mi raggiungi. Mi raggiungi e mi allunghi quel foglietto plastificato che tieni tra le mani.

In tutto questo assordante silenzio, che so che mi circonderà per il resto della mia vita, tu mi stai parlando, chiedendomi di onorare la tua memoria nell'unico modo che conosco.

E in quella figurina stropicciata ci vedo la mia faccia, il mio ghigno. Che sovrasta quella scritta in nero e arancione. "Kacchan."

Ti guardo. Ti guardo e ti prometto che diventerò l'eroe che hai sempre creduto io potessi essere.
Per tutti e due.

Mi sento prendere per mano. La destra.
Cosa può prendere un fantasma bambino se non un arto fantasma?

E io rido, mentre la pioggia non cessa di cadere.
Certo che potevi essere più fantasioso, no?
Mai una volta che a un funerale ci sia il sole!
Ah, no, giusto.

Il sole è morto con te.
 

How do you know which time might be the last?
What I would give just to see you again
I'd walk to the depths of a world down below
And demand to get back what some circumstance stole
I still remember the last look of hope in your eyes
Oh, I wish I had stayed just a little while
~ Vincent Lima~

 

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Capitolo 10
*** I've never seen you cry | Eijiro's last chance ***


I've never seen you cry | Eijiro's last chance


TAGS: confessions
RATING: giallo
TW: ferite, sangue
💧: 2/5 (ma solo perché c'è tenerezza ^^)
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Finita.
Era finita per davvero.

Il campo di battaglia era disseminato di detriti di palazzi crollati, il terreno, in certi punti, era perfino macchiato di cremisi dal sangue e dalle chiazze più o meno estese di materiale che ancora bruciava. In lontananza, gli ultimi crolli echeggiavano nel paesaggio desolato, un ricordo costante della distruzione avvenuta durante quello scontro.

Kirishima si trascinò zoppicando per inginocchiarsi accanto a Bakugō, il suo feroce partner di tante battaglie. Ora però sul volto di Katsuki non vi era la solita espressione di sfida; il ghigno accattivante era ora contorto dal dolore, il suo respiro si faceva sempre più debole e affannoso. Kirishima gli posò una mano sul petto, a sentire il cuore che batteva ancora sotto il sottile strato della tuta, anche se poteva vedere la vita svanire lentamente dagli occhi del suo migliore amico, intrappolato sotto un paio di grossi detriti di calcestruzzo armato.

«No! No! No! Resta con me, Bakubro!», implorò Eijirō, con la voce tremante per la paura di perderlo. «Ti tireremo fuori di qui, tieni duro.»

La mano di Katsuki si allungò debolmente e afferrò quella del rosso sul proprio petto. Lui aveva sempre le mani tremendamente sudate e calde come l'inferno, ma per Eijirō, in quel momento, sembravano solo mani troppo normali, troppo fredde, troppo deboli rispetto a ciò che ricordava. Gli occhi iniziarono a pizzicare mentre guardava il volto del proprio amico perdere di colore.

Avevano combattuto fianco a fianco in innumerevoli battaglie, in cui il loro legame d'amicizia, nato tra i banchi di scuola, s'era forgiato pian piano nel fuoco della guerra. E mai, come in quel momento, Eijirō sentiva un senso di perdita che gli si apriva nel petto e che non avrebbe mai saputo esprimere a parole, perché aveva sempre considerato quella loro strana amicizia come una fiamma, un modo per migliorarsi sempre, per credere di più in se stesso.

Il cielo ingrigito dalla polvere e dal fumo gettava una tonalità cupa perfino su di loro.

La voce di Eijirō tremava mentre stringeva forte la mano di Katsuki, sperando quasi che la propria forza si trasferisse all'amico, che lo facesse rialzare, rilasciare una delle sue detonazioni poderose e uscire da quella prigione di cemento armato che gli intrappolava le gambe. «Ehi, Bakugō...», pronunciò a denti stretti, cercando disperatamente di mantenere una calma che non aveva più.

Il rantolare del suo respiro affannoso gli riempiva le orecchie, unico suono che riusciva a percepire nettamente.. «Starai bene, amico.» lo rassicurò, raccogliendo tutto il coraggio che gli restava. Allungò l'altra mano e gli diede dei buffetti leggeri sulle guance: «Resta con me, ok?», ma la stanchezza permeava pure le sue parole, sempre meno concitate.

Le palpebre di Bakugo si aprirono, pesanti per la stanchezza e il dolore. Con grande sforzo, riuscì a formare un piccolo sorrisetto sulle sue labbra screpolate. Era quasi come se stesse sfidando il proprio corpo, rifiutandosi di mostrare debolezza. I suoi occhi si fissarono sul volto preoccupato dell'amico, provando a rassicurarlo silenziosamente, a dirgli che era ancora lui il più forte tra di loro.

«Idiota... lo sai... non ho bisogno... del tuo aiuto...» rantolò, ogni parola suonava di per sé come una battaglia, un rivolo di sangue a macchiargli l'angolo sinistro della bocca.

I denti di Eijirō digrignano insieme, il suo cuore martellava contro la cassa toracica mentre lottava per controllare l'ondata di emozioni che minacciavano di sopraffarlo. «Chiudi quella maledetta bocca e resta cosciente!», quasi gli gridò contro il rosso, piegandosi ancora un po' sull'amico a terra, una punta di disperazione che s'insinuava nella sua voce. E Katsuki riconobbe quello stato di panico e sfarfallò con fatica gli occhi e abbozzò un sorriso, pregando che fosse sufficiente per calmare quell'idiota rosso, per rassicurarlo almeno un po'.

Gli aiuti sembravano non arrivare mai e, nell'attesa, Kirishima cercava di mantenere Bakugō cosciente parlando con lui. Di qualsiasi cosa, in realtà.
Delle cazzate fatte a scuola, dei piccoli gossip riguardanti i loro compagni di classe o i loro insegnanti, perfino dei loro cibi preferiti. Qualunque cosa andava bene pur di mantenere accesa la fiamma della vita negli occhi del suo amico, pur di avere la sua attenzione, pur di sentire ancora il suo respiro pesante che gli alzava il petto.

La voce di Eijirō tremolava ancora mentre parlava: «E ti ricordi quella volta che siamo andati in quel ristorante di ramen dopo l'allenamento?». La sua determinazione era evidente anche attraverso la presa salda sulle dita di Katsuki, provando a scaldarle. «Ho una fame da lupi! Dio quanto vorrei un piatto di quel cazzo di ramen! Era fantastico!», continuò, con un sorriso malinconico a tirargli le labbra sul viso sporco.

«Ramen? Davvero, capelli-di-merda?» Bakugo rispose, la sua voce appena al di sopra di un sussurro. «Di tutte le... cose stupide di cui parlare...».

Le parole di Kirishima uscirono fuori nel tentativo di mascherare la delusione che minacciava di sopraffarlo, lasciando di nuovo spazio alle lacrime, che gli sfuggirono lentamente dagli occhi e la sua voce s'incrinò con forzata allegria mentre aggiungeva: «È meglio di niente, no? E so che piaceva pure a te...».

«Non importa...», disse Katsuki, abbassando di nuovo le palpebre.

Gli occhi di Kirishima si spalancarono e portò entrambe le mani sul viso dell'amico, stropicciandolo piano per attirare la sua attenzione, desiderando ardentemente che rimanesse sveglio: «Non osare chiudere gli occhi!», ordinò, con voce intrisa di urgenza e gli occhi traboccanti di lacrime. «Non adesso!».

Bakugo lottò per non abbassare le palpebre, sapendo che, se avesse ceduto, avrebbe potuto significare la fine. Per entrambi, in realtà.

«Come se... avessi scelta...» mormorò Bakugo, ma i suoi occhi rimasero aperti, anche se solo di poco, mentre la sua mano si alzava a fatica e andava incontro al viso stanco di Eijirō, le dita tremanti a toccargli la guancia, fino a sfiorargli il bordo degli occhi e bagnarsi il polpastrello con quelle gocce salate. «Non... non ti ho mai... visto piangere...»

Ogni secondo sembrava un'eternità mentre il cuore di Kirishima batteva forte per il panico nello stringersi contro il viso quella mano sempre più tiepida, arrivando a portarsela davanti alla bocca, alitarci sopra per scaldarla.

Non poteva lasciarsi scappare Katsuki. Non in una maniera tanto stupida e assurda.
Non dopo tutto quello che avevano passato! Non era così che doveva finire per qualcuno indistruttibile e feroce come lui. E nel disperato tentativo di tenere il suo amico legato al regno mortale, Kirishima prese una decisione che non avrebbe mai creduto possibile.

Tremando, rivolse lo sguardo di nuovo a Katsuki. Il suo cuore batteva così forte che credette gli sarebbe fuoriuscito dal petto, mentre raccoglieva il coraggio di dire la sua parte di verità.

«Io... Devo dirti una cosa, Kat...», sussurrò, con le lacrime che gli rigavano le guance e lavavano via un po' dello sporco e della polvere che si erano depositate. «Lo tengo dentro da troppo tempo e non... non riesco più a stare zitto.».

La voce di Katsuki era pesante per la stanchezza, le sue parole e i suoi pensieri erano confusi, anche mentre lottava per mantenerli coerenti: «Di cosa stai parlando?», chiese, con gli occhi che sfarfallavano prima verso il viso dell'amico e poi verso il basso, il corpo che tremava di piccoli spasmi per la stanchezza, il colorito sempre più tendente al grigio. Il suo tono normalmente tagliente e aggressivo era addolcito dal peso della resa che sembrava avvolgerlo come una coperta.

«Se-senti, amico, non so come altro dirlo... quindi lo dirò subito!». Eijirō esitò, incerto su come sciogliere quel groviglio di emozioni che gli annodava lo stomaco e la gola. Fece un respiro profondo, cercando di calmare le mani tremanti e il cuore che gli batteva forte nel petto. «Credo... che potrei essermi innamorato di te.», sbottò infine, pentendosi immediatamente di quelle parole tanto audaci che gli erano scivolate di bocca. Eppure, l'ansia con cui attendeva una risposta dal biondo sotto di lui lo stava mangiando, più di saperlo sul filo sottile tra la vita e la morte, chiedendosi se avesse appena commesso l'errore più grande della sua intera esistenza, in grado di rovinare definitivamente la loro amicizia. E, si disse, quello era forse peggio di morire.

La confessione rimase sospesa nella poca aria tra i loro visi, un fardello soffocante di emozioni e paure inespresse che minacciavano di schiacciare il cuore di quel povero ragazzo che si stava martoriando il labbro inferiore con i denti, le lacrime trattenute a stento. Eijirō percepiva il proprio volto bruciare per l'imbarazzo e la vergogna, ma mise brutalmente da parte questi sentimenti nel vedere gli occhi di Bakugō che lo fissavano, più aperti di prima.

Avrebbe fatto qualsiasi cosa fosse necessaria per mantenere in vita l'amico.

E non era per quel sentimento che andava ormai oltre l'affetto fraterno che lo legava a lui; il pensiero di perdere Katsuki era insopportabile, e Kirishima avrebbe sopportato qualunque tipo di umiliazione pur di tenere il suo amico al sicuro, pur di averlo ancora vivo. In quel momento avrebbe preferito volare per colpa di una delle sue esplosioni piuttosto che ipotizzare gli scenari più tristi e disastrosi se lui non fosse sopravvissuto.

Gli occhi di Katsuki si spalancarono per lo shock, la sua espressione era un misto di sorpresa e incredulità. Il dolore lancinante che provava al petto e alle gambe fu momentaneamente dimenticato mentre elaborava ciò che gli veniva detto. «Sei serio?».

La sua voce sembrava rotta dall'emozione, tradendo in parte ciò che era tumulto interiore. «È... questo che volevi dirmi?». Non poteva crederci. Probabilmente, in altre circostanze gli avrebbe riso in faccia e poi fatto esplodere. O, più probabilmente, l'avrebbe ignorato in attesa di elaborare la notizia.
Ma così...

Tossì e il peso di quelle parole rimase sospeso nell'aria ancora un po', come un fragile palloncino pronto ad esplodere.

La voce di Kirishima tremò mentre distoglieva lo sguardo, incapace di incontrare gli occhi curiosi di Katsuki. «Sì, ok. So che sembra stupido...», balbettò, «Ma è la verità. Non so nemmeno quando sia successo. O come. Ma... tu significhi tanto per me, amico. Più di quanto avrei mai potuto immaginare.».

Quel palloncino d'imbarazzo che stava aleggiando tra di loro assieme a quelle parole prese quota, ma non esplose. Né si sgonfiò.

Eijirō voltò il capo e incrociò lo sguardo dell'amico, le parole pronunciate pesavano sul cuore di Katsuki come un macigno, piene di una vulnerabilità e sincerità che lo lasciò interdetto e, solo in quel momento, si rese conto di quanto il rosso sembrasse esposto e indifeso.

La voce di Bakugō si bloccò in gola mentre provava a comprendere la notizia. «Eiji...».

Nessun nomignolo, nessuna cattiveria; il suo tono era dolce, ma velato di incredulità e un pizzico di terrore, come se non potesse credere a ciò che aveva udito. I suoi occhi cremisi si spalancarono ancora una volta e scattarono in giro, alla ricerca di qualsiasi segno che presagisse l'arrivo dei soccorsi. Ma le sirene erano ancora lontane e le voci non avevano ancora raggiunto una distanza udibile. E quando vide il viso pallido e le mani di Kirishima che si stropicciavano contro le sue, insanguinate, nel disperato tentativo di scaldarle, di massaggiarle, Katsuki capì che tutto era davvero troppo reale.

«Ascolta, so che questo è il momento peggiore possibile...», le parole di Kirishima emersero come un'eruzione vulcanica, basse, inarrestabili, incontrollate. «Ma non posso tenermelo dentro ancora a lungo. Non così. Dovevo dirtelo. Mi rifiuto di lasciare che questo momento passi senza confessare ciò che mi tengo dentro da tanto... Cerca di capirmi.... Non voglio che ci siano rimpianti tra noi, Kat...».

Il rosso osservò l'espressione dell'amico cambiare, una tempesta di emozioni contrastanti attraversargli gli occhi. Eijirō non riusciva a capire cosa stesse succedendo nella mente del biondino, ma sapeva che il sorriso – un sorriso genuino e sincero – che alla fine si era formato sul viso esangue di Katsuki era uno spettacolo raro e prezioso. E non poté fare a meno di sentirsi in conflitto per la complicata amicizia che condividevano, incerto su ciò che il futuro avrebbe riservato loro, se tutto fosse andato per il verso giusto.

«Sei... un tale idiota...» sussurrò Katsuki, con la voce appena udibile. «Ma... grazie... per avermelo detto però...».

«Vuol dire...?» Kirishima iniziò, ma la sua voce tremava mentre parlava, incapace di finire la domanda che aleggiava pesantemente nell'aria. La possibilità di cosa potesse significare era troppo opprimente da sopportare.

«Ne riparliamo... quando non sto... morendo...» gli sorrise Bakugo, con la voce che diventava sempre più debole di secondo in secondo.

«Va bene! Sì... Va bene!», concordò Eijirō, annuendo con vigore, un sorriso timido sulle labbra tirate, con le lacrime che minacciavano di traboccare ancora dai suoi occhi rossi, mentre si aggrappava alla speranza che finalmente avrebbero davvero potuto avere quella conversazione, in un futuro in cui tutto sembrava bello e giusto, in cui Katsuki gli avrebbe sorriso allo stesso modo e, forse, avrebbe pure lui avuto il viso imporporato per l'imbarazzo.

Anche quando il sole era ormai tramontato sotto l'orizzonte, gettando un velo di oscurità sul campo di battaglia, Kirishima rimase a stringere la mano di Bakugō.

La sua presa era tanto salda che avrebbe potuto frantumare perfino l'acciaio, determinato a non lasciarla andare neppure mentre affiancava la barella dei soccorsi.

Nonostante la precarietà delle condizioni di Katsuki e l'incertezza del loro futuro, a guardare quegli occhi riconoscenti che non lo mollavano per un secondo, per Eijirō una cosa divenne certa: sarebbero rimasti uniti.

Uniti da una cruda confessione che era fuoriuscita per la disperazione di perdersi.
Uniti da qualcosa che, nonostante le parole, sapevano entrambi andava ben oltre il legame che avevano sempre condiviso.

Quello che però Eijirō non sapeva, era che quello che era più impaziente di scoprirlo e di viverlo era proprio lo stesso Katsuki.




 

Still I don't know what you expected of mе
I've never seen you cry
Yeah, you don't know what it is to be sorry
So I'll carry the lie, we're real men 'til we die
But I don't think I will ever get over you
Nothing but thieves

 

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