Letteratura lilla

di blackjessamine
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo al sapor di lavanda ***
Capitolo 2: *** Questione di luci ***
Capitolo 3: *** 3. Il fiasco ***
Capitolo 4: *** Interviste a colazione ***
Capitolo 5: *** Prove di fiducia ***
Capitolo 6: *** Come Scott e Zelda ***
Capitolo 7: *** Pennuti e appuntamenti ***
Capitolo 8: *** Galeotta fu la dieta ***
Capitolo 9: *** Promesse ***
Capitolo 10: *** Il giardino segreto ***
Capitolo 11: *** Una buona ragione per infrangere le promesse ***
Capitolo 12: *** In bilico ***
Capitolo 13: *** Nodi ***
Capitolo 14: *** Regine e Zarine ***
Capitolo 15: *** Questioni di famiglia ***
Capitolo 16: *** Nodi al pettine ***
Capitolo 17: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo al sapor di lavanda ***


Prologo al sapor di lavanda

 

Queenie Royal, la misteriosa e raffinata autrice di quattro romanzi di successo e di una recentissima pubblicazione che a poche ore dalla sua uscita in tutte le migliori Magi-Librerie della Nazione già prometteva di raggiungere nuovi  record di vendite doveva avere sicuramente  molti talenti, ma la legilimanzia a distanza non era fra questi. 

Se volessimo fare un piccolo esperimento mentale, tuttavia, potrebbe essere interessante provare a immaginare la scrittrice del momento intenta ad ascoltare i silenziosi pensieri dei suoi lettori dopo l'uscita del suo più recente romanzo, Come un fiore è il nostro amore. E no, non sarebbe interessante solo perché tutti negli ultimi anni hanno provato a immaginare Queenie Royal – a immaginare il suo viso, la sua voce, il modo in cui potrebbe parlare dei propri romanzi, la scrivania dove tante opere di successo hanno avuto origine… 

No, non sarebbe interessante per questo. 

Sarebbe interessante perché Come un fiore è il nostro amore è un romanzo che si è fatto attendere, lasciando i fan della Royal in trepidante attesa, dunque le voci più maligne potrebbero sussurrare che il suo successo di vendite in questi primi giorni di pubblicazione, quando il passaparola non ha ancora avuto modo di rimbalzare di sospiro in sospiro, sia dovuto solamente all'attesa e alla curiosità di scoprire se Queenie Royal si sarebbe rivelata la conferma di una certezza o solo una grandissima delusione.

E dunque, caro lettore, se vorrai avere la pazienza di seguirci in questo piccolo esperimento mentale, qui di seguito potrai provare l'ebbrezza di sentirti un minuscolo moscerino trascinato nel vento impetuoso dei pensieri più puri e diretti: quelli che chiunque prova quando è da solo, in compagnia di un libro capace di smuovere passioni e scaldare anche i cuori più cupi.

 

***

 

Violette camminava svelta, ascoltando rapita il lieve ticchettio prodotto dalle sue scarpette di lucida vernice color oltremare. Volteggiava agile davanti al bancone, aggiustando con dita esperte le composizioni di fiori che facevano bella mostra di sé in ogni angolo del negozio: un colpo di bacchetta per eliminare una foglia secca dal bouquet di dalie qui, un Incantesimo EsaltaProfumo sulle delicate ghirlande di roselline lì, l'aspersione di qualche goccia di Magi-Rugiada ovunque, per aggiungere il suo personale tocco di magia al negozio e trasformarlo davvero in un giardino incantato nascosto proprio al centro del quartiere magico di Parigi.

 

Andromeda Tonks non avrebbe voluto per nulla al mondo chiudere il libro, perché sentiva che qualcosa di straordinario stava per succedere. Eppure, non poteva più resistere: quando aveva comprato la sua copia del libro dalla bella copertina dai toni del viola il suo compleanno si avvicinava, e così aveva deciso di farsi un regalo speciale, acquistando la copia deluxe – per un'esperienza di lettura completamente immersiva – accompagnata da un'elegante boccetta color lavanda colma di un vischioso liquido brillante. Quella doveva chiaramente essere una nuova formulazione della Magi-Rugiada tanto amata da Violette, la bella protagonista. 

Andromeda si avvicinò ai tulipani un po' sofferenti che cercavano di sopravvivere nel vaso al centro del salotto e ci lasciò cadere qualche goccia di Magi-Rugiada. 

Prodigio.

Non c'erano più tulipani tendenti all'appassito, in quel vaso, ma rigogliosi rametti di lavanda che riempirono la casa del loro inebriante profumo.

Ora sì che sembrava davvero di essere in Francia.

 

Sorrideva, Violette, sorrideva sempre, soprattutto quando il dolore le offuscava il cuore e i suoi grandi occhi color del cielo minacciavano di riempirsi di lacrime ad ogni sospiro. Sorrideva perché la sua amata nonna Marguerite, la donna che l'aveva cresciuta con tanto affetto insegnandole ad amare il negozio e tutti i suoi fiori, era solita ripeterle che la miglior cura per ogni sofferenza è un viso disposto ad avere il coraggio di sorridere anche durante la tempesta. E perché sua sorella Camomille non l'avrebbe mai perdonata, se avesse rovinato la splendida opera di quel costosissimo mascara che le aveva portato di ritorno dal suo ultimo viaggio a New York per colpa di un uomo. Non che Violette avesse bisogno di una pasta capace di allungare ancor di più le sue ciglia folte e naturalmente incurvate: si era sempre sentita più a suo agio indossando soltanto i colori che la natura le aveva donato.

 

Sibilla Cooman quasi soffocò con il sorso di tè che le era andato di traverso. Non le capitava spesso di riempire il suo occhio interiore con sciocchezze così frivole quanto un romanzo d'amore, perché non poteva rischiare di turbare il delicato equilibrio che le permetteva di schiudere le nebbie dell'ignoto per leggere il complesso romanzo che era il futuro.

Ma per Queenie Royal  era sempre disposta a fare un'eccezione.

Respirò a fondo, solo un poco infastidita dall'odore penetrante della salvia che aveva bruciato sul fuoco poche ore prima e che ora le impediva di godere appieno del profumo di lavanda che l'avrebbe trasportata nel piccolo negozio di Parigi in cui ormai, seppur solo con la mente, si sentiva a casa.

Poco male: prevedeva con un discreto grado di sicurezza che Violette le avrebbe regalato ancora tanti, troppi tormenti e sospiri.

 

Improvvisamente, la campanella appesa sopra la porta tintinnò, richiamando Violette al presente di quella mattina di primavera. Una leggera brezza fece ondeggiare i petali delle sue composizioni, mentre la porta socchiusa lasciava entrare il profumo di Parigi: odore di croissant appena sfornati e un certo nonsoché di magico, un sentore unico, delicato e speciale come solo quella città sapeva essere.

Sulla soglia comparve l'unico uomo capace di far dimenticare a Violette dei suoi fiori: alto, mascella dal taglio netto, occhi profondi quanto il turbamento che Violette avvertiva in sua presenza, Aster Michaud le regalò un sorriso capace di scuoterla fin nel profondo. 

"B-buongiorno, Aster", balbettò Violette, nascondendo il viso dietro a un coloratissimo mazzo di bocche di leone.

"Buongiorno, Violette".

Aster Michaud, lo stesso Aster con cui Violette e Camomille giocavano quando erano solo tre bambini cresciuti a due case di distanza. Lo stesso Aster che a dodici anni si era trasferito in Inghilterra assieme ai suoi genitori, promettendo a Violette che non avrebbe mai smesso di scriverle, salvo poi scomparire nel nulla dopo poche cartoline. Proprio quell'Aster che a gennaio era tornato a Parigi, aveva acquistato il grande edificio in fondo alla via e aveva cominciato a offrire i propri servigi di Guaritore Animale agli animali da compagnia di tutta la comunità magica della capitale francese. Lo stesso Aster, infine, che si era riavvicinato a Violette, l'aveva portata sulla luna con un solo sorriso, l'aveva corteggiata come solo un principe delle fiabe saprebbe fare salvo poi non presentarsi al loro primo appuntamento della sera prima senza nemmeno inviare un Gufo con un bigliettino di scuse.

 

Molly Weasley non accennava minimamente ad alzarsi in piedi.

Aveva almeno due dozzine di piatti da far levitare fino alla credenza, le galline da sfamare, un impasto da stendere e la lettera di Charlie a cui rispondere, ma quello era il suo pomeriggio di magia.

Senza mai smettere di accarezzare la nuca di Ginny, misericordiosamente vittima di un riposino particolarmente lungo, si ritrovò a ringraziare lo zio Bilius per essersi offerto di portare Ron e i gemelli a pescare, e Percy per essere un bambino così giudizioso da poter restare da solo nella sua stanza a giocare al piccolo ministro, concedendo a lei un intero pomeriggio di tregua da trascorrere in compagnia della straordinaria penna di Queenie Royal.

 

"Violette, mi devi aiutare".

Aster fece qualche passo all'interno del negozio e si passò una mano fra i capelli, a disagio.

Violette prese a intrecciare nastri, incapace di sostenere quello sguardo senza sentirsi ancora la sciocca che aveva atteso più di un'ora sotto casa con indosso il proprio vestito migliore e senza nemmeno ricevere in cambio un cenno di scuse.

"Ti servono dei fiori?"

"I fiori più belli che hai, perché devo donarli a una ragazza speciale".

Violette sentì il suo cuore infrangersi.

Avrebbe dovuto aspettarselo: perché mai un uomo come Aster Michaud avrebbe mai dovuto interessarsi a una semplice fiorista francese? Ma non avrebbe pianto. Avrebbe raccolto la propria dignità e mostrato a tutti quanto i fiori del Giardino Incantato sapessero essere bellissimi e speciali, perché il negozio ereditato dalla nonna era la sua gioia e il suo orgoglio, e niente, nemmeno un cuore spezzato l'avrebbe convinta a non rendere onore a tutto l'impegno che metteva nelle proprie composizioni.

E così sorrise, ricacciò indietro la tristezza e si concentrò solamente su colori e profumi. Roselline di un delicato color pesca, per cominciare. Peonie dal petalo singolo ancora in boccio, socchiuse come le manine di un neonato. Narcisi splendenti, eleganti e fieri. Un po' di verde per distendere la composizione, e infine, spinta dall'ispirazione, qualche ramo di mimosa, per completare la fragranza.

Avvolse i fiori con del tulle di una delicata sfumatura di lilla – un azzardo, per molti, visti i toni generali del bouquet, ma Violette non aveva paura di osare, e sapeva sempre quando fermarsi – e completò la composizione con un leggero nastro di raso color crema.

 

Narcissa Malfoy posò il libro, folgorata da un pensiero che non poteva proprio essere accantonato.

Quella era una faccenda di abissale importanza e necessitava di tutta la sua immediata attenzione, nonostante questo significasse obbligarla  a rimandare il tanto agognato momento della risoluzione finale di tutte le sofferenze di Violette.

"Dobby!" chiamò con la voce che non riusciva a nascondere un certo grado di eccitazione.

Un sonoro crack annunciò la comparsa della piccola e sudicia creatura, a cui Narcissa non diede il tempo di profondedsi in inchini e salamelecchi.

"Dobby, per il tè della prossima settimana voglio che tu prepari il servizio color crema e la biancheria da tavola lilla".

Da tempo Narcissa cercava la giusta combinazione di colore per mostrare quanto le sue tavole potessero essere raffinate anche con un tocco di modernità e audacia che tuttavia non andasse a intaccare la tradizionale eleganza che contraddistingueva ogni evento mondano tenutosi a Villa Malfoy. Doveva saperlo che Queenie Royal, strega di indubbio buon gusto – certamente retaggio della buona educazione fornita da un sangue purissimo – avrebbe saputo consigliarla al meglio.

 

"Ecco qui. Vuoi aggiungere un biglietto?"

Aster fece rotolare qualche galeone sul bancone senza mai staccare gli occhi dalle dita di Violette, strette attorno ai gambi dei fiori.

"No, Violette, il biglietto l'ho già preparato io".

Aster prese il mazzo di fiori, indugiando forse un istante di troppo a sfiorare il dorso della mano di Violette con le proprie dita.

"È splendido, davvero splendido. Non avrei mai potuto chiedere di meglio".

 Aster inspirò a fondo, gli occhi chiusi e un sorriso estasiato sulle labbra piene, dopodiché pronunciò un incantesimo a mezza voce, provocando una pioggia di scintille dorate sui fiori.

E poi, con grande stupore di Violette, le restituì il bouquet.

"Ma cosa… che cosa significa?"

"Prendilo, ti prego".

Violette si perse nello sguardo profondo e supplichevole di Aster, e senza nemmeno rendersi conto di che cosa stesse facendo, allungò la mano per riprendersi il mazzo di fiori. E subito lo fece cadere sul bancone, perché qualcosa le saltò fra le braccia. Qualcosa di caldo, dal soffice manto dorato. Uno splendido cucciolo di labrador che prese a leccarle la punta del naso, strappandole una risata e sciogliendole il cuore.

"Ma… e tu da dove salti fuori, piccolino?"

Aster sorrise, ma dopo un istante si fece subito serio.

"Devi perdonarmi, Violette. Non presentarmi al nostro appuntamento è stata una delle decisioni più difficili che io abbia mai preso, ma devi sapere che non volevo presentarmi a mani vuote… e portare dei fiori alla miglior fioraia di tutta la Francia magica e babbana mi sembrava fuori luogo".

Senza smettere di coccolare il cucciolo, Violette sollevò un sopracciglio, scettica.

"Mi stai dicendo che mi hai dato buca perché non sapevi che cosa regalarmi?"

Aster scosse la testa, sorridendo.

"Ti sto dicendo che ho pensato di portarti il miglior pain au chocolat di Parigi, perché quando eravamo bambini ne andavi matta… e il miglior pain au chocolat di Parigi, ahimé, lo sfornano i babbani. I babbani e le loro maledette automobili, con cui non si fanno problemi a investire anche i più adorabili cuccioli…"

Oh.

Violette non sapeva cosa dire, e si ritrovò a stringere ancor di più a sé il cagnolino.

"Oh, non dirmelo… stai parlando di questo tesorino?"

Aster annuì, serio.

"Lui. Era ridotto male, e io non ho riflettuto… l'ho portato a casa, l'ho curato e ho vegliato su di lui per tutta la notte. La sua situazione era disperata, e non ho proprio avuto tempo di staccarmi da lui per scriverti un biglietto di scuse… potrai perdonarmi?"

Violette aveva voglia di piangere, ma per la prima volta da quel disastroso non-appuntamento, il suo era un pianto pieno di sorrisi e calore.

"Perdonarti per essere stato un mago altruista e compassionevole e aver salvato questo frugoletto? Oh, Aster, non hai niente da farti perdonare!"

E poi Aster fu lì, a un passo da lei, con gli occhi che ardevano mentre le toglieva delicatamente il cucciolo dalle mani, mentre le sistemava una ciocca di capelli dietro le orecchie e le sorrideva.

"Mi concedi un nuovo appuntamento?"

"Tutti gli appuntamenti che vuoi".

E le labbra di Aster furono sulle sue, morbide e calde, dolcissime, a suggellare quel loro primo bacio al sapore di paradiso.

 

Un bacio al sapore di paradiso.

Gilderoy Allock avrebbe voluto vomitare, se solo quel gesto non fosse stato deleterio per la luminosità del suo incarnato e per la freschezza del suo alito. Sospettava anche che i succhi gastrici non fossero esattamente un toccasana per il preziosissimo smalto dei suoi denti, ma non aveva intenzione di soffermarsi su argomenti tanto disgustosi per neppure un secondo in più del necessario. Denti ingialliti, che orrore!

 

Il nuovo romanzo di Queenie Royal avrebbe dovuto essere una vera porcheria, se solo il mondo fosse stato giusto. Gilderoy lo aveva sperato, lo aveva sperato con tutto sé stesso, perché nelle vetrine delle librerie non c'era abbastanza spazio per il suo cartonato a grandezza naturale, non quando quel tripudio di lilla – proprio la sfumatura di lilla capace di far impazzire di appagamento estetico i suoi occhi, questo almeno doveva ammetterlo – continuava a reclamare tanta attenzione.

E invece, Gilderoy doveva ammettere che Come un fiore è il nostro amore era il frutto di una scaltra maestra del mestiere. Oh, certo, la scrittura era poco più che mediocre. Con qualche guizzo interessante, certo, ma nessuno scrittore con un briciolo di vero talento letterario avrebbe mai concluso un romanzo con un'espressione stucchevole come un bacio al sapore di paradiso. La trama era un po' pigra, si accontentava di parlar d'amore come chiunque avrebbe saputo fare, giocando sui pittoreschi luoghi comuni di una Francia che probabilmente esisteva solo nei libri e dipingendo personaggi figli di uno stereotipo privo di reali motivazioni, ma tutto sommato Gilderoy aveva letto di peggio, molto peggio.

Certo, restava quel maledetto cane – qualsiasi persona sana di mente avrebbe preferito un adorabile gattino, ma lui sospettava che Queenie Royal fosse proprio quel quel tipo di persona, quella capace di preferire l'irruenza disordinata di un cucciolo di labrador alla compostezza snob di un gatto.

Tuttavia, Gilderoy doveva riconoscere il tocco da maestra che aveva reso Queenie Royal qualcosa di più di una semplice autrice di banali e dimenticabili storie d'amore.

L'uscita a sorpresa, non annunciata, del romanzo poteva sembrare una follia frutto dell'impulso, ma gli articoli di giornale usciti la stessa mattina del lancio del romanzo confermavano a Gilderoy che si trattava di un'operazione studiata a tavolino e preparata nei dettagli.

L'edizione deluxe, corredata da gadget di qualità – l'odore posticcio della lavanda presente nella maggior parte dei profumi dava l'emicrania a Gilderoy, ma quella Magi-Rugiada, oh, quella Magi-Rugiada, Gilderoy avrebbe voluto profumare ogni centimetro del proprio corpo con quell'unguento miracoloso – era ormai il marchio di fabbrica della scrittrice. Questo permetteva ai lettori di credere di poter vivere un'esperienza immersiva ben al di là della lettura, e aumentava considerevolmente il numero di galeoni che sarebbero andati ad arricchire quella volpe della Royal.

E poi, il vero colpo di classe: Queenie Royal, anche davanti al suo quinto romanzo, restava un mistero. Nessuno l'aveva mai vista. Non un'intervista, nessuna apparizione pubblica, niente dichiarazioni, nulla.

Il mistero accresceva il chiacchiericcio, dava aria al fuoco del mito, permetteva speculazioni e non poteva deludere.

Gilderoy era sinceramente ammirato, e forse un pochettino invidioso, perché un simile colpo da maestro avrebbe voluto saperlo architettare anche lui – non fosse stato per il fatto che privare l'Inghilterra delle proprie foto in prima pagina sarebbe stato come commettere un terribile crimine contro l'umanità.

 

Quello che Gilderoy non poteva negare, alla fine di tutto, era che Queenie Royal rappresentava una rivale, per lui. Una temibile, insidiosa rivale.

E Gilderoy Allock non poteva permettersi alcun tipo di minaccia.





 

 


 

Note:

Non voglio dire moltissimo, questa volta, solo che questa storia, per tematiche e genere, è piuttosto distante da ciò che ho sempre scritto sino ad ora. E questo prologo probabilmente non ha davvero la funzione di un prologo, perché dal primo capitolo la storia penderà una piega un po' differente, pur restando a tutti gli effetti una commedia.

Non ho inserito da subito in elenco tutti i personaggi importanti, perché c'è un pessimo tentativo di creare un piccolo mistero sull'identità di un personaggio. Mistero che chiunque mi abbia fra i contatti su facebook già conosce, ahimé (ma lo può intuire chiunque abbia mai letto una mia storia su Gilderoy. Insomma, è il mistero di pulcinella, e va davvero bene così).

C'è l'avvertimento OOC: cercherò di non snaturare nessuno, ma la storia prende il via da un determinato avvenimento che probabilmente è poco coerente col poco che sappiamo del personaggio misterioso, quindi, nel dubbio, preferisco mettere le mani avanti.

Spero di non avervi scoraggiati troppo e che abbiate voglia di salire a bordo di questa follia! 

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Capitolo 2
*** Questione di luci ***


 

Questione di luci



 

Gilderoy era un uomo finito.

Disperato, privo di prospettive, aveva perso qualsiasi cosa, e quel poco che non aveva ancora perso, lo avrebbe sicuramente smarrito entro la fine di quella serata. 

Tutti gli sforzi che aveva fatto, le montagne che aveva scalato, gli oblivion scagliati con innata precisione e indomito coraggio erano stati tutti inutili, cocci infranti contro il disastro rappresentato dalle ore che lo attendevano.
Dalle stelle agli outfit sbagliati in prima pagina, come si soleva dire – o forse no? Non si diceva così? Be’, peccato, perché chiunque avesse un pochino di sale in zucca avrebbe saputo vedere la differenza di portata tragica tra la fotografia di un abito che casca male in prima pagina e la fotografia di un leggiadro giovine ritratto in una stalla. Il fascino rurale funzionava sempre, con le giuste accortezze. Certo, campi di grano e covoni di fieno non erano esattamente l’ambiente preferito da Gilderoy – niente a che vedere con il fascino di una lussuosa stanza piena di arazzi, sete e velluti, ma Gilderoy non era certo diventato famoso grazie al modo in cui sorseggiava il tè, e da un avventuriero impavido ci si aspettava anche un servizio fotografico in mezzo alla campagna.

 

Gilderoy prese un profondo respiro, cercando di ritrovare la calma sufficiente a permettergli di aggrapparsi al suo sorriso che già una volta gli era valso un graditissimo premio – il primo di molti, si augurava.

Come se fosse possibile sorridere in mezzo alle macerie della propria vita.

E la colpa era tutta di quella stramaledetta Queenie Royal, lei con i suoi stupidi addetti marketing capaci di rovinare tutto. Perché Gilderoy era pronto per quella serata da mesi: aveva trascorso ore aggrappato a Passaporte che lo avevano trasportato in tutti gli angoli della Gran Bretagna per setacciare i migliori studi degli stilisti più brillanti e promettenti della comunità magica, confrontando modelli e cercando la tonalità perfetta per l’abito con cui avrebbe dominato le prime pagine di tutti i giornali. E l’aveva trovata. Il perfetto equilibrio di rosso e blu stemperato nel bianco. Un lilla vibrante, freddo il giusto da far risaltare il suo incarnato, illuminargli gli occhi e far apparire ancora più bianco il sorriso. Il colore perfetto declinato in un taglio di gabardine dalle coste fittissime che lo avvolgevano nel più elegante dei modi in un mantello dal taglio obliquo. Pantaloni en pendant, dettagli in argento, camicia bianca dalle maniche ampie. Un sogno. Il completo ammiccava suadente dalle ante dell'armadio spalancato, attirando inevitabilmente lo sguardo di Gilderoy. Stoffe di ogni foggia e colore erano sparse per tutta la stanza: un mantello color malva gettato sul letto, abiti da cerimonia verde giada ricoprivano il tappeto, camicie turchesi, panciotti oltremare, cappe color ambra, pochette luminose come perle intrecciate a mantelli rosa cipria. Tutti indumenti che aveva sempre apprezzato, prima di conoscere il completo perfetto.

Talmente perfetto che Miss-Perfettini-Reginetta-Reale – ah, la ridondanza di quel nome! Quanto cattivo gusto in un progetto altrimenti perfettamente curato! – se n'era appropriata appena prima che Gilderoy potesse trionfare avvolto dal suo bellissimo completo.  Perché quel lilla così equilibrato, quel colore vibrante e mai volgare, quella sfumatura figlia della perfezione era perfettamente identica alla fascetta promozionale che avvolgeva le tante, troppe copie di Come un fiore è il nostro amore.

E Gilderoy non avrebbe mai potuto presentarsi alla serata in cui avrebbero premiato lo scrittore campione di incassi dell'anno indossando gli stessi colori di quella piaga della Royal.

Queenie Royal che, peraltro, in quel momento non doveva neppure preoccuparsi di trovare un abito perfetto per apparire quantomeno competitiva per quella serata, dal momento che lei non appariva in pubblico. Niente settimana di dieta ferrea per essere certa di non tendere i bottoni, niente frullati di radici di Geranio Zannuto per rendere la pelle più luminosa, niente lotta con i bigodini per ottenere la piega perfetta, niente di niente. Queenie Royal poteva restarsene a casa e non preoccuparsi di apparire stanca e sciupata mano a mano che i festeggiamenti proseguivano durante la notte. Poteva ingozzarsi di cioccolato ripieno al caramello senza preoccuparsi di mostrare a tutti denti marci e pelle unta di sebo in eccesso, la regina. Poteva essere brutta, poteva essere anche vecchia – che orrore! – senza preoccuparsi che delle conseguenze che questo avrebbe avuto sul proprio lavoro.

 

Un sonoro crack distolse Gilderoy dai suoi amari pensieri, avvertendolo che qualcuno aveva superato le barriere di sicurezza apposte attorno alla sua abitazione per comparire nel bel mezzo del salotto.

"Oh, Sept, è un disastro! Un totale, completo disastro! Non posso farlo, non posso!"

C'era una sola persona che avesse il permesso di aggirare gli incantesimi che proteggevano l'appartamento da paparazzi indiscreti. Septimus Thesaurus, direttore della casa editrice Magic Inkheart. L'uomo che anni prima era stato solo il figlio di un piccolo editore che, in seguito alla morte del padre, si era ritrovato a dirigere un'azienda già in perdita che sembrava pronta a scivolare nell'anarchia e nello sfacelo più totale. L'uomo dallo sguardo acuto e il coraggio saldo, l'uomo che non aveva avuto paura di scommettere sul futuro e di prendere decisioni importanti, distaccandosi dalla linea editoriale dettata dal padre. L'uomo che era sempre rimasto in ottimi rapporti con il suo vecchio insegnante di pozioni, a Hogwarts, e che una sera aveva accettato di partecipare a uno degli incontri del LumaClub e di fare una lunga chiacchierata con un Gilderoy appena sedicenne, cogliendo in lui tutte le potenzialità di un futuro fulgido e brillante nel mondo dell'editoria.

Gilderoy sapeva di avere talento e di essere speciale: ogni volta che incrociava il proprio riflesso vedeva la certezza del successo nascosta in quegli straordinari occhioni blu, e sapeva che, anche senza Septimus, avrebbe saputo sfruttare le proprie innumerevoli capacità per ottenere la fama. Era però innegabile che la scelta di affidarsi a Septimus Thesaurus e di collaborare con lui si era rivelata una delle più sagge della sua giovane vita, perché insieme si erano dimostrati una squadra a dir  poco infallibile. Sapevano guardare al futuro  con lo stesso sguardo, si comprendevano senza bisogno di alcun sotterfugio, sapevano trovare sempre la strada migliore per esaltare i talenti di Gilderoy e ottenere il massimo successo da ogni pubblicazione. Era stato Septimus il primo a suggerire che sarebbe stato un peccato togliere Gilderoy dai racconti di Gilderoy: aveva lodato l'inventiva e maturità della scrittura di quel ragazzino, ma aveva suggerito di tentare una strada nuova, diversa dalla narrativa di evasione e dal giornalismo. Aveva suggerito di rendere Gilderoy molto più di uno scrittore, lo aveva messo alla prova, era stato il primo a insegnargli a scagliare un Oblivion fatto a regola d'arte.

Senza Septimus, Gilderoy avrebbe sicuramente raggiunto comunque la fama, ma probabilmente sarebbe stato un Gilderoy diverso. Non ci sarebbero stati libri e interviste, non ci sarebbe stato l'affascinante principe azzurro viaggiatore capace di sconfiggere qualsiasi creatura oscura. Ci sarebbe stato Gilderoy Allock, ma non quel Gilderoy Allock.

 

Septimus Thesaurus varcò la soglia della camera da letto di Gilderoy senza nemmeno chiedere permesso. Alto e robusto, il viso serio come sempre punteggiato da un velo di barba non fatta, Thesaurus non degnó nemmeno di un'occhiata gli abiti sparsi sul pavimento. Attraverso le spesse lenti capaci di ridurre i suoi occhi scuri a due puntolini miopi l'uomo si concentrò solo su Gilderoy, senza apparentemente sconvolgersi nel trovarlo ancora gravato da innumerevoli bigodini e avvolto solo da una vestaglia di raso color mediterraneo al calar del sole. 

"Gilderoy, ragazzo mio, respira".

E Gilderoy obbedì, sentendosi improvvisamente rassicurato dalla presenza del suo editore. Se c'era qualcuno capace di risolvere qualsiasi problema, quello era Septimus Thesaurus: non era un caso che nell'ambiente letterario lui fosse conosciuto come Septimus Millerisorse.  E non era un caso che la loro collaborazione fosse tanto stretta e tanto proficua: Septimus conosceva Gilderoy come Gilderoy conosceva le onde dei propri capelli, lo aveva visto nei momenti più alti della sua carriera, lo aveva plasmato per farlo diventare chi era, e sì, conosceva anche tutte le sue debolezze. Poche, a dirla tutta, perché del resto Gilderoy rasentava la perfezione; ma sì, insomma, Septimus lo aveva visto anche nei suoi momenti peggiori, e sapeva quanto le ore precedenti a un'apparizione pubblica importante potessero gettarlo nello scompiglio.

"Gilderoy, dimmi, c'è qualche problema? Ti posso aiutare in qualche modo?"

Gilderoy scosse la testa, sconsolato.

"Puoi strangolare Queenie Royal, bruciare tutte le copie del suo stramaledettissimo libro e lanciare un incantesimo di memoria collettivo perché nessuno si ricordi la sua copertina?"

Septimus si lasciò sfuggire un sospiro, sedendosi pesantemente sul letto sfatto e cominciando a raccattare vestiti con abili colpi di bacchetta. 

"Non lo posso fare, no. Ma del resto, la Royal non è un tuo problema, non questa sera. Come un fiore è il nostro amore è stato un successo, sì, ma niente di paragonabile a…"

"La Royal è un mio problema proprio perché è certo che sarò io ad essere premiato", sbottò Gilderoy, troppo teso per preoccuparsi dell'assenza del suo formidabile sorriso.

Gilderoy dava le spalle a Septimus, ma attraverso lo specchio dell'armadio vide l'uomo sfilarsi gli occhiali e massaggiarsi stancamente le palpebre.

"Gilderoy, puoi per piacere spiegarmi perché la Royal dovrebbe essere un tuo problema, se anche tu sei certo di vincere?"

"Perché", e Gilderoy si avvicinò al viso il suo meraviglioso completo, "questo colore è assolutamente perfetto per il mio incarnato, ma quella vecchia racchia ha pensato bene di utilizzarlo per il suo libro, e io non posso indossare quello che ora è diventato  il suo colore".

Septimus lo osservò a lungo, mordendosi l'interno della guancia – un'abitudine orribile che tuttavia Gilderoy aveva imparato ad associare ai ragionamenti più acuti e brillanti del suo editore. Alla fine si alzò in piedi, cominciando a frugare con movimenti decisi fra gli abiti che Gilderoy aveva sparso in ogni dove.

"Questo completo è sicuramente molto bello, ma sì, sono d'accordo, le edizioni TuMiStreghi puntano troppo sulla brandizzazione del prodotto, e questo ceruelo" – Gilderoy avrebbe voluto piangere vedendo il suo bellissimo lilla accostato a un banalissimo ceruleo, ma si trattenne, perché Septimus aveva lo stesso tono che utilizzava ogni volta che era sul punto di risolvere un problema – "questo ceruleo è sicuramente roba loro, questa sera. Ma tu sei molto più del ceruleo che puoi metterti addosso. Tu hai il sorriso più affascinante d'Inghilterra, puoi indossare anche un color morto annegato nel Tamigi e far comunque girare la testa di tutte le streghe presenti in sala".

Con queste ultime parole, Septimus drappeggiò un completo di un pallido color oro sulla spalla di Gilderoy, che rimase a osservare il proprio riflesso, incantato. Non aveva mai degnato quel completo di grande attenzione, perché aveva paura che l'oro dell'abito togliesse importanza all'oro dei suoi capelli. E invece, l'ago capace di far pendere la bilancia di quell'outfit dalla parte del successo era rappresentato dalla vestaglia color oltremare. Gilderoy preferiva sempre i colori pastello, ma il blu intenso  e scuro contribuiva a far risaltare ancor di più la delicatezza dei ricami dorati. Sembrava una stella luminosissima accesa nel cielo di velluto di una notte estiva. 

"Oh, ma guardami, sono bellissimo!", mormorò estasiato, prima di gettarsi nell'armadio alla ricerca di una camicia dello stesso colore della vestaglia che era certo di possedere.

"Lo sei, lo sei, Gilderoy".

Se nella voce di Septimus c'era un po' di esasperata condiscendenza, Gilderoy decise di non ascoltarla. Non c'era più spazio per nessuna ombra, in quella serata, non ora che Gilderoy aveva capito come indossare la propria luce.

"Andiamo a trionfare", esclamò, deciso, sparendo dietro il proprio paravento per indossare i propri abiti quasi perfetti.

 

Roditi il fegato, Queenie-Non-Mi-Faccio-Vedere-Royal!





 

 


 

Note:

Questo capitolo non è minimamente brillante (o significativo) quanto avrei voluto, ma insomma, volevo assolutamente aggiornare prima di febbraio, e non avrei proprio fatto in tempo ad aggiungere anche le scene ambientate durante la premiazione.

In ogni caso, ci tengo a sottolineare un concetto che dovrebbe essere scontato, ma, ahimé, so che qui non è così: la voce narrante è quella di Gilderoy, dunque vi prego di scindere le sue riflessioni e certe sue prese di posizione (qui blandissime, ma in futuro forse più significative) dalle mie. Io non sono lui, per quanto gli voglia bene.


 

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Capitolo 3
*** 3. Il fiasco ***


Il fiasco




 

[Dal taccuino di Rita Skeeter, giovane e promettente collaboratrice di Fattucchiera 2000 – bozza redatta tramite Penna Prendiappunti]

 

Si può perdere anche quando si ritira un premio?

Gilderoy Allock, pluripremiato scrittore di fama ormai internazionale, ultimo vincitore del premio per il Sorriso-Più-Affascinante nonché punta di diamante della casa editrice Magic Inkheart, probabilmente, dovrà imparare ad affermare che la risposta a questa sibillina domanda è, senza ombra di dubbio, sì.

Il principe della carta stampata ha fatto la sua comparsa al dodicesimo congresso nazionale della Magica Editoria Britannica illuminato da una sicurezza di sé che denota la tracotanza tipica della giovane età e delle lusinghe: niente, nel suo modo di aggirarsi per il salone salutando vecchi e nuovi amici, ha mai lasciato presagire che il dubbio sull'assegnazione di quel premio abbia mai potuto sfiorare il cervello che si nasconde sotto una cascata di boccoli perfetti. Allock e Septimus Thesaurus – direttore della casa editrice Magic Inkheart, mentore e intimo amico di Allock – hanno sfoggiato per tutta la sera un'irritante sicurezza nei confronti del proprio operato, senza nemmeno avere la buona creanza di fingersi stupiti quando il premio per il più alto numero di copie vendute è andato proprio al giovane mago capace di affrontare tante avventure senza mai riportare nemmeno un graffio su quella pelle che sembra vedere più crema illuminante che maledizioni. 

Il premio non ha sorpreso nessuno in sala, nemmeno Ebenezer Flintshire  (direttore editoriale della casa editrice TuMiStreghi), che con una freccia dal nome Queenie Royal nel proprio arsenale era probabilmente l'unica persona in grado di contrastare almeno in parte la sfolgorante ascesa di Allock e di Thesaurus. Queenie Royal, del resto, rimanendo avvolta nel proprio anonimato, ha sì dato una svolta decisiva al panorama editoriale contemporaneo, ma con la pubblicazione di un solo romanzo nell'ultimo anno non avrebbe comunque potuto competere con le tre straordinarie pubblicazioni partorite dall'inarrestabile Allock – verrebbe da chiedersi come mai Gilderoy Allock, lo scapolo più desiderato di tutta la Gran Bretagna e oltre, si dedichi così indefessamente al lavoro, senza mai lasciarsi distrarre da un femminile sorriso, ma non è questa la sede… o forse sì?

Tuttavia, la Royal non si è data un regale soprannome per nulla: il suo tocco da maestra ha saputo colpire anche questa sera, ribaltando una situazione apparentemente irribaltabile. E lo ha fatto senza mai uscire allo scoperto, con il sottile acume che contraddistingue tutto il suo operato, attraverso le parole del compiaciutissimo Ebenezer Flintshire. Il direttore della TuMiStreghi, degno re della sua Regina, ha infatti saputo giocare al meglio con i tempi e la sportività. Ha applaudito gli avversari e lasciato loro tutto lo spazio necessario per i discorsi di circostanza, per i fiori, le foto di rito – alleghiamo in prima pagina il ritratto di Allock, raggiante nel suo completo blu e dorato, colori che prevediamo domineranno le vetrine dei migliori stilisti nelle prossime settimane, quindi sì, signore, è proprio arrivato il momento di togliere dalla naftalina quello chiffon d’oro che conservate per le occasioni importanti! – salvo poi far scivolare con studiata noncuranza l'informazione capace di eclissare il successo di Gilderoy e rendere la sua Queenie una vera signora.

"In casa TuMiStreghi siamo felicissimi dei risultati ottenuti da Come un fiore è il nostro amore, ha dichiarato Flintshire in quella che doveva essere una conversazione privata, caduta però in un convenientissimo momento di silenzio, "e speriamo che le vendite continuino a salire. Non per noi, ovviamente, ma per il modesto contributo che stiamo cercando di dare alla ricerca". Sono bastate poche domande per arrivare a una completa confessione: Queenie Royal ha insistito affinché il ricavato delle sue royalties (perdonate il bisticcio linguistico) non finisse a ostruire la superficie della sua camera blindata alla Gringott, ma venisse invece interamente devoluto ai ricercatori del San Mungo del reparto Lesioni da Incantesimo.

La vostra Rita Skeeter è troppo scaltra per non individuare l'ennesima perfetta mossa pubblicitaria attuata dalla Royal per mano di Flintshire, ma quando la pubblicità si piega alla nobile causa della beneficenza la vostra corrispondente non può fare a meno di commuoversi. 

È dunque con le migliori intenzioni che vi esorto a correre a svegliare il gufo di famiglia per piazzare al più presto un ordine nella vostra libreria di fiducia: Queenie Royal e la sua generosità hanno bisogno di voi!

 

***

 

Gilderoy aveva una particolare inclinazione per il meglio. Amava le cose belle, ma non si accontentava mai di qualcosa di ottimo, lui voleva solo la cosa migliore. E no, non si trattava solo di gretto materialismo: certo, era disposto a sporcarsi la fedina penale per accaparrarsi gli abiti migliori e sì, il fatto che il suo piccolo appartamento negli ultimi anni si fosse trasformato da un buco di nessun valore pieno di mobili comprati a buon mercato in un raffinatissimo esempio di buon gusto e arredamento di ottima qualità, costruito con pazienza assecondando i progetti dei migliori arredatori del Paese lo riempiva di una gioia che poche altre volte nella vita aveva provato. Ma non si esauriva tutto qui: la sua ricerca del meglio si articolava su scale più complesse e articolate, fatte di traguardi personali e obiettivi stabiliti da lui stesso. Gilderoy non era capace di accontentarsi di un secondo posto, di un complimento mediocre o di essere tenuto in considerazione solo in parte. La perfezione doveva risiedere in ogni aspetto della sua vita, o lui non si sarebbe mai detto soddisfatto. 

Fu dunque con un’ironia che non era però disposto a cogliere – non quando l’irritazione gli bruciava così tanto nel cuore – che Gilderoy si ritrovò a constatare che, da esperto in meglio, la sua posizione si stava trasformando in un esperto in peggio. Perché che quella serata sarebbe stata solo un continuo peggiorare in una inevitabile discesa nell’umiliazione più cocente lui avrebbe dovuto capirlo fin dall’inizio, fin dal suo completo d’un lilla perfetto rimasto inerte a penzolare da una gruccia nel suo armadio. Lo avrebbe dovuto capire, avrebbe dovuto riconoscere una causa persa in partenza, alzare bandiera bianca – un bel bianco ottico, per carità, ché il panna gli ingrigiva terribilmente l’incarnato! – e restarsene chiuso in casa, invece di sprecare tante energie cercando di aggiustare qualcosa di rotto in partenza. 

E invece no, Gilderoy aveva insistito. Aveva ascoltato la voce pacata e ragionevole di Septimus, aveva pensato che il blu e l’oro fossero degni sostituti del lilla, aveva sorriso e aveva fatto il suo ingresso nella sala congressi esattamente al momento giusto, quando la maggior parte degli invitati erano già arrivati, i giornalisti erano stanchi di fotografare personalità insulse ma nessuno si era ancora stancato di restare rinchiuso in quel salone agghindato a festa con pessimo gusto. Aveva sorriso ai flash, aveva scambiato sorrisi con vecchie conoscenze e personalità che sapeva di doversi ingraziare, aveva chiacchierato leggero e aveva finto il giusto grado di disinteresse mescolato alla curiosità per il premio che di lì a poco sarebbe stato assegnato (come se lui non sapesse di essere l’unico possibile vincitore, e come se davvero non gli importasse di esserlo!). E tutto sembrava andare nel verso giusto, anche se lo champagne servito da giovani camerieri in livrea scura era troppo caldo e le tartine erano tanto buone quanto farcite di calorie, rendendo ogni vassoio una sofferenza continua di vorrei-ma-non-posso a cui Gilderoy si era stoicamente sottoposto. 

E poi era arrivata la premiazione, il discorso della Writer and Publisher Magic Association, la proclamazione del suo nome, gli applausi, nuove foto, nuovi sorrisi e quella meravigliosa sensazione che gli scaldava il petto ogni volta che un nuovo mattone andava a rendere più solida la fortezza in cui si era rinchiuso. 

Tutto bellissimo, tutto praticamente perfetto, tutto così al posto giusto da farlo abboccare scioccamente all’amo che quella serata rappresentava. Si era fidato, aveva creduto che tutto stesse andando bene, si era lasciato andare all’illusione e alla serenità, e quando tutto era crollato lui non se n’era nemmeno accorto. 

Le parole di Ebenezer Flintshire Gilderoy non le aveva nemmeno sentite. Era troppo impegnato ad ascoltare le lusinghe di un impiegato del Ministero che chiaramente doveva essersi vestito al buio, ma era disposto a perdonarglielo, non fosse altro che per il modo in cui accanto a lui Gilderoy spiccava e appariva decisamente migliore. 

Era stato un attimo: la conversazione aveva languito un istante di troppo, l’uomo si era guardato attorno lasciando che i suoi occhi indugiassero sul capannello di gente raccolta attorno a Flintshire, e poi Gilderoy aveva incontrato l’espressione impassibile di Septimus. Quello era stato il chiaro segnale che una tragedia doveva essersi consumata.
Perché Septimus non era mai impassibile, non in pubblico: in mezzo a un gruppo di persone, Septimus sorrideva sempre, o chiacchierava, o rideva, o trovava il modo di raccogliere informazioni apparendo amabile e interessante. Septimus in pubblico era sempre un concentrato esasperato ed esagerato di emozioni, dunque l’imperturbabilità, su di lui, agiva per difetto: arrivare al grado zero di emozioni significava aver rinunciato a così tanto che la situazione doveva essere a dir poco disperata. 

I due uomini si erano scambiati un’occhiata rapida che però Gilderoy non era stato in grado di decifrare, Septimus aveva applaudito e aveva stretto la mano a Flintshire con la stessa gioia negli occhi di un uomo costretto a baciare un rospo, e Gilderoy si era ritrovato a gravitare attorno a un centro di attrazione. Lui che fino ad un istante prima era stato il centro esatto di satelliti che gli orbitavano attorno, sperando di poter cogliere parte della sua luce, ora era solo un’ombra. Il centro della festa era diventato, incredibilmente, Ebenezer Flintshire. Ebenezer Flintshire e quella maledetta Queenie Royal, naturalmente. Queenie Royal e la sua beneficenza, Queenie e il suo buon cuore, Queenie e la generosità che per contrasto faceva apparire il premio di Gilderoy qualcosa di gretto e meschino, qualcosa per cui provare imbarazzo e in pizzico di compassione, addirittura. 

 

Gilderoy era accanto a una finestra aperta, cercando di respirare a pieni polmoni l’aria fresca della sera. Doveva stare tranquillo.

Doveva stare tranquillo, perché Septimus aveva detto che avrebbe sistemato ogni cosa. 

Ma Gilderoy non poteva stare tranquillo, non dopo che la sua serata si era trasformata in un disastro. Non dopo che Septimus gli aveva mormorato all’orecchio quanto successo, non quando gli aveva riassunto rapidamente il contenuto del taccuino di Rita Skeeter, la giornalista più promettente della scena contemporanea. Gilderoy non aveva idea di di come Septimus avesse superato le difese della chiusura rigida di quell’orrore di borsetta che la Skeeter sembrava portarsi appresso ovunque, anche quando andava in bagno a incipriarsi naso e mascella, ma Gilderoy aveva smesso da tempo di interrogarsi sui metodi utilizzati da Septimus. Sapeva solo che il loro obiettivo, fino a quel pomeriggio, era stato quello di essere protagonisti del nuovo articolo della Skeeter, ma qualcosa era decisamente andato nel verso peggiore possibile. Perché Gilderoy in quell’articolo era solo una comparsa ingombrante, una comparsa pronta a occupare giusto lo spazio di una figura meschina prima di cedere il posto alla reginetta assente della serata.

Septimus aveva scacciato presto l’imperturbabilità e aveva ripreso a sorridere di quel suo sorriso distratto che nascondeva solo macchinazioni: aveva intimato a Gilderoy di restare lì, davanti a quella finestra semiaperta, di restare lì e lasciare che la gente gli scivolasse attorno registrando la sua presenza e nulla più. Ci avrebbe pensato lui a sistemare le cose, aveva promesso, ma poi era sparito. 

Gilderoy aveva sbocconcellato elegantemente un grissino al formaggio, cercando di nascondere il nervosismo che lo stava divorando da dentro. Si fidava di Septimus, lo aveva sempre fatto e non aveva mai avuto motivo di pentirsi della sua fiducia, ma Septimus sembrava essersi completamente dimenticato di lui. Da ore ormai parlava con una giovane donna con cui la natura non era stata particolarmente generosa, a giudicare dai suoi occhi sporgenti incastonati su un viso anonimo dalla carnagione giallastra che il lungo abito di chiffon rosa cipria non aiutava minimamente. Gildeory non riusciva proprio a capire che cosa il suo editore potesse trovare interessante in quella signorina anonima: non era alcun nome importante, non aveva potere, era probabilmente una lontana cugina di un’amica di una qualche moglie di un editore di infima importanza, capitata a quella festa un po’ per caso e spinta soprattutto dalla curiosità di gettare almeno per una volta uno sguardo su un mondo fuori dalla sua portata.
Per un attimo, Gilderoy si ritrovò a pensare a Queenie Royal: nessuno sapeva chi si nascondesse dietro quel nome, ma Gilderoy avrebbe scommesso almeno uno dei suoi gemelli di madreperla che la Royal somigliasse molto di più a quella figura sciatta e insignificante che a qualcuna delle belle dame che volteggiavano eleganti nella sala. Lui si era sempre divertito a immaginarla più vecchia, ma insomma, sarebbe stato proprio il culmine di una serata disastrosa se Septimus, invece di pensare ad aiutare Gilderoy, si fosse lasciato distrarre nientepopodimeno che dalla sua nemesi. 

Oh, ma forse allora quella era davvero Queenie Royal: Gilderoy non ci aveva fatto caso, perché il suo aspetto era troppo insignificante perché lui la guardasse per più di un secondo, ma magari quella donna aveva ascoltato la conversazione che lui e Septimus avevano avuto, e ora aveva deciso di intervenire e distrarre l’editore, sperando così di salvaguardare la propria vittoria totale.

Ma non poteva essere. 

Gilderoy si rifiutava di cedere a quella donna così tanto potere. 

Gilderoy si rifiutava di vedersi sconfitto su così tanti fronti.

Queenie Royal non poteva prendersi tutto – non poteva prendersi anche il suo editore, maledizione!
Eppure, forse lo stava facendo.
Forse Septimus era a conoscenza della vera identità della Royal, e il suo sistemerò tutto non voleva significare sistemerò tutto in modo che tu possa uscire vincitore, Gilderoy, ma solo sistemerò tutto in modo che io possa uscirne vincitore, e al diavolo quell’Allock, molto meglio riuscire a strappare la Royal al suo contratto con la TuMiStreghi.

Non poteva essere… eppure poteva essere. Lui e Septimus erano sempre andati così d’accordo, si erano sempre capiti tanto bene proprio perché nessuno dei due conosceva scrupoli, perché entrambi sapevano bene che cosa volessero ottenere – il successo – ed erano pronti a fare ogni cosa necessaria per raggiungere l’obiettivo, e al diavolo tutto il resto. 

Ma Gilderoy era ancora il migliore, doveva essere il migliore: Septimus doveva ancora credere in lui, non doveva pensare che la strada migliore per raggiungere il successo fosse Queenie Royal, non poteva – non doveva – non…

“Ti senti bene?”
Gilderoy aprì gli occhi che nemmeno si era accorto di aver serrato, risucchiato fuori dal frastuono dei suoi pensieri da una voce profonda e calda come il velluto. Da qualche parte sopra la sua testa, due occhi scurissimi e venati di preoccupazione lo fissavano dal centro di un volto concentrato. Il volto apparteneva a un uomo alto e imponente che se ne stava leggermente proteso verso Gilderoy. Un uomo che, con la sua stazza e il peso che sapeva mettere in quello sguardo attento, avrebbe corso il rischio di apparire minaccioso, ma sotto quello sguardo Gilderoy si sentì improvvisamente piccolo, indifeso e smarrito come solo un bambino potrebbe fare. Un bambino che però si trovava saldamente sorretto dalla mano di un genitore, certo che ogni cosa sarebbe andata bene, d’ora in poi.

“Io… credo di aver solo un po’ di caldo”. 

L’uomo lo fissò ancora un po’, soppesando le sue parole – e Gilderoy, scioccamente, fu certo che quell’uomo avesse visto attraverso quella mezza bugia, tracciando il contorno del suo respiro mozzato e delle sue gote rosse per l’ansia che aveva appena combattuto – e poi si aprì in un sorriso appena accennato. Un sorriso che mise subito in chiaro quanto quell’uomo fosse poco più di un ragazzo, a dirla poi tutta, di certo non più grande di Gilderoy.

Un sorriso decisamente apprezzabile, avrebbe voluto notare Gilderoy, se solo non fosse stato circondato da persone ostinatamente decise a vedere in lui il personaggio che si era faticosamente costruito a colpi di piuma e donne innamorate, quel personaggio che il sorriso di un uomo non lo avrebbe mai dovuto notare se non per fare paragoni e trovarsi ancora una volta il migliore. 

“Fa caldo, sì. Forse ti conviene aprire un po’ di più quella finestra, se non vuoi uscire a prendere una boccata d’aria e rischiare di perderti la festa”.

La sua voce era un mormorio lento e costante, lo sciabordare di onde placide in una notte d’estate. E le sue parole… c’era forse un invito, celato lì in mezzo?
Gilderoy si riscosse, ricordandosi improvvisamente di essere pur sempre l’uomo del momento. E l’uomo del momento non avrebbe mai potuto permettersi di ascoltare gli inviti celati nelle parole di un gigante dal sorriso luminoso. 

“Io credo che…”
Che cosa credesse, Gilderoy non lo pronunciò mai, perché in quel preciso istante successero molte cose nel medesimo momento. E Gilderoy ne riuscì a capire molte poche.
Capì solo che gli occhi di quell’uomo si impigliarono in qualcosa ai margini del loro campo visivo, trasformando tutto il suo atteggiamento in vigile tensione. E poi, con un movimento così rapido da far girare la testa a Gilderoy, l’uomo estrasse la bacchetta da un anfratto della veste, voltandosi ad affrontare qualcosa al centro della sala e riuscendo col medesimo gesto a spingere Gilderoy alle proprie spalle.

L’uomo non pronunciò ad alta voce nessun incantesimo, e nascosto dietro quelle spalle ampie e imponenti Gilderoy non riuscì a vedere che cosa stesse succedendo, ma anche un uomo che le avventure sapeva viverle solo sulla carta come Gilderoy era in grado di riconoscere un assalto magico.
Ci furono urla e schiamazzi, occhi puntati su di loro e flash della macchina fotografica a illuminare la scena, e quando Gilderoy finalmente prese coraggio e osò uscire dal cono d’ombra che era la schiena dell’uomo dallo sguardo penetrante, ciò che vide lo lasciò di sasso.

All’altro capo di quello che era senza ombra di dubbio un Incantesimo Scudo estremamente potente, un Septimus Thesaurus estremamente confuso e spaesato alternava lo sguardo fra Gilderoy e il gigante con la bacchetta e la donnina insignificante accanto a lui, anche lei confusissima, ma saldamente aggrappata a sua volta alla propria bacchetta.

“Signora”, risuonò di nuovo la voce dell’uomo, bassa e pacata, ma con una vena di determinata risolutezza a renderla più fredda, “metta via la bacchetta e io scioglierò l’incantesimo”.

“Ma cosa… il signor Thesaurus… lui mi…”
“Signora, metta via la bacchetta!”
La voce di Septimus non aveva assolutamente niente di simile alla calma controllata dell’uomo accanto a Gilderoy. Anzi, Gilderoy era pronto a giurare che fosse spiazzato e anche decisamente spaventato. E questo spaventò Gilderoy, perché se Septimus era sull’orlo di perdere la calma, la situazione era davvero grave. Tra l’editore e la donna ci fu uno sguardo d’intesa, poi Septimus distolse rapidamente gli occhi, quasi a voler negare quell’intesa, e la donna abbassò la bacchetta. In quel medesimo istante, l’Incantesimo Scudo si sciolse, rischiando di far scivolare a terra i due. Gilderoy vide Septimus allontanarsi subito di qualche passo dalla donna, cominciando a spargere attorno a sé chiacchiere fitte e confuse.

Fu allora che l’uomo imponente, senza mai abbassare la bacchetta né distogliere l’attenzione dalla scena che si svolgeva davanti ai loro occhi, si sporse leggermente verso Gilderoy.

“Tu stai bene, vero? Non ti ha colpito?”
“Io… cosa? Colpito?”
Quella donna aveva cercato di affatturarlo? Ma allora era davvero Queenie Royal, e quello era stato il suo maldestro tentativo di eliminare la concorrenza!
“Via, via, non è successo nulla!”
Septimus sembrava aver ritrovato compostezza e sorriso: scoppiò a ridere, abbattè una mano sulla spalla di Gilderoy e lanciò un’occhiata compassionevole – e del tutto falsa – verso la donna che se ne stava ancora sola e confusa in mezzo a un capannello di persone che la fissavano ostili. 

“La signorina Nightingale è solo una donna accecata dall’amore, ma sono certo che non sia pericolosa, non davvero. Mi stava giusto pregando di presentartela, Gilderoy, perché sosteneva di non poter vivere un solo istante ancora senza poterti guardare negli occhi e…”
“Ha cercato di affatturarlo. Forse sarebbe il caso di risolvere la questione in una sede più tranquilla”. 

L’uomo che ancora non aveva lasciato la bacchetta non sembrava affatto incline a lasciarsi blandire dal sorriso di Septimus, che tuttavia scacciò con un leggero gesto della mano la sua protesta. 

“Sciocchezze, sciocchezze! Ha solo cercato di lanciare un innocuo Incantesimo d’Abbaglio sperando che Gilderoy si accorgesse di lei… è tutta colpa mia, in effetti, avrei dovuto provvedere ad accontentare il suo cuore disperato e presentarli”.

Il rammarico sul viso di Septimus era tanto accorato quanto studiato ad arte, Gilderoy lo sapeva bene. E Gilderoy sentiva che qualcosa non tornava: era stato Septimus ad approcciare quella Nightingale, di questo era sicuro, dunque Gilderoy non riusciva a credere alle motivazioni di quel gesto. O meglio, poteva benissimo credere che quella signorina fosse follemente innamorata di lui – come biasimarla, del resto – ma faticava a credere a tutto il resto. 

“Per fortuna che il nostro Auror Shaklebolt si è dimostrato così pronto a difendere le virtù dell’uomo della serata, allora!”

La voce di Ebenezer Flintshire, gioviale e allegra, calò sul gruppo, ed ebbe il potere di alterare qualsiasi equilibrio. L’uomo accanto a Gilderoy – un Auror, nientepopodimeno! Fresco fresco di accademia, a giudicare la sua giovane età, ma pur sempre un Auror – si irrigidì e assunse la stessa espressione che Gilderoy aveva visto sui suoi colleghi in occasione di cerimonie ufficiali: una maschera impassibile dietro cui poteva covare qualsiasi tipo di emozione senza che gli astanti potessero cogliere anche solo il minimo calore. Doveva essere qualcosa che insegnavano assieme a maledizioni e tecniche d’interrogatorio. Nella stanza si diffuse un curioso mormorio, mentre lo sguardo di tutti si distoglieva dalla scena pietosa di due addetti alla sicurezza che scortavano via la signorina Nightingale per seguire invece lo scambio di battute fra gli uomini più chiacchierati della serata. Septimus si lasciò andare ad un sorriso ancora più ampio, lo stesso sorriso che avrebbe potuto fare chi addentando una meringa di zucchero si fosse ritrovato invece ad affondare i denti in un limone acerbo.

Ebenezer Flintshire era un mistero: giovanissimo e affascinante, con le morbide onde dei suoi capelli scuri che scendevano a ombreggiare un viso affilato tutto occhi brillanti e sguardi maliziosi, quell’uomo era la nemesi di Septimus. Dove Septimus conquistava un traguardo, Ebenezer lo seguiva, raggiungendo lo stesso traguardo in modo più brillante. Septimus aveva risollevato le sorti della Magic Inkheart, e qualche mese dopo Flintshire aveva ridato lustro alla TuMiStreghi. Septimus aveva creato un mito attorno a Gilderoy, Flintshire ne aveva creato uno ancora più grande attorno alla Royal. 

“Ebenezer, amico mio, comincio a capire perché non vuoi esporre al pubblico la tua preziosa Queenie. Di certo per una donna attenzioni tanto insistenti sarebbero ancor più dure da sopportare che per un duellante esperto come Gilderoy…”
Septimus lanciò a Gilderoy uno sguardo eloquente: era lo sguardo di chi voleva dire eccoti un amo, aggrappatici, ricorda a tutti quanto tu sia bravo con la bacchetta, oltre che con la penna, ricorda a tutti che questo Mr. Muscolo ti ha salvato solo per un caso fortuito e che tu non sei mai stato in pericolo.

Ma Gilderoy si era perso. 

Sapeva che cosa avrebbe dovuto fare, ma i suoi occhi continuavano a scivolare sulla figura dell’Auror Shacklebolt, sul suo viso impassibile su cui era però certo che stesse sbocciando un’espressione vagamente irritata, sulla mano che ancora stringeva la bacchetta, sulla schiena che gli aveva fatto da scudo a un’assalto che non era pericoloso, ma che avrebbe potuto essere pericoloso, sullo sguardo insistente e pieno di significato che Ebenezer continuava a lanciare all’Auror…

Nessuno si era mai preso la briga di salvarlo da una fattura a lui indirizzata. E forse l’Auror Shaklebolt lo aveva fatto solo per deformazione professionale, rispondendo a un istinto insito in lui, ma era stato comunque un bel gesto.

E così, a coronare una serata fatta di insuccessi e tragedie, Gilderoy non seppe cogliere la mano che Septimus gli tendeva.
Pur sapendo di avere lo sguardo avido di Rita Skeeter puntato addosso, Gilderoy non riuscì a pensare a cosa fosse meglio per la propria carriera, mentre mormorava:
“Sono certo che l’Auror Shacklebolt non avrebbe mai permesso a nessun malintenzionato di fare del male a Queenie Royal. Se al mondo ci fossero più Auror Shacklebolt, nessuna Queenie Royal si troverebbe costretta a nascondersi ai propri ammiratori”. 






 

 


 

Note: 

Lo so, lo so, sono in un ritardo mostruoso.

Davvero non avrei voluto far passare così tanto tempo fra le pubblicazioni, soprattutto perché vi giuro che questa storia scalpita per essere scritta, ma sembra incredibile come sia possibile che a ogni settimana che passa il tempo sia sempre meno.

Insomma, ci sono, però.

So che la scena finale risulta confusa e molte motivazioni probabilmente non sono molto chiare, ma è una scelta precisa, e già nel prossimo capitolo dovrei riuscire a spiegare tutto. 

Grazie di cuore per la pazienza di chiunque sia arrivato fino a qui!
 




 

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Capitolo 4
*** Interviste a colazione ***


Interviste a colazione




 

Londra s’era svegliata già da parecchie ore.

Gilderoy, che gli occhi non li aveva nemmeno chiusi, aveva stancamente registrato ogni cambiamento avvenuto fuori dalle sue finestre. Aveva visto il buio cedere il passo a una luce sporca che si era fatta sempre più prepotente, invadendo tutta la stanza per colpa delle tende che la sera prima non aveva accostato come si deve. Aveva sentito il quartiere risvegliarsi, le serrande dei negozi sollevarsi e i passanti schiamazzare, del tutto incuranti della nuvola di tristezza che si addensava nel piccolo ma grazioso appartamento del mago dal Sorriso-Più-Affascinante di tutta l’Inghilterra (e oltre, con ogni probabilità: qualcuno doveva decisamente decidersi a organizzare una competizione internazionale di sorrisi). 

Gilderoy doveva alzarsi.

Doveva fare colazione.

Doveva farsi una doccia.

Doveva togliersi gli stupidi vestiti con cui era andato a dormire la sera prima.

Eppure, l’unica cosa che riusciva a fare era restarsene sdraiato in mezzo alle lenzuola sfatte, un braccio mollemente abbandonato sugli occhi per cercare di difendersi quanto possibile dall'aggressione della luce del giorno.

Non aveva la forza di alzarsi e di essere costretto a riflettere su quanto accaduto la sera precedente. Non voleva affrontare alcuna conseguenza, non voleva leggere i giornali, non voleva confrontarsi con il suo successo al contrario.

Gilderoy, l'uomo più famoso di tutta l'Inghilterra, l'uomo che aveva fatto qualsiasi cosa affinché il suo nome fosse sulla bocca di tutti e tutti lo conoscessero, voleva solo scomparire. Niente più personaggi da mantenere intatti, niente angoscia di apparire in pubblico e dire la cosa sbagliata o non reagire nel modo giusto sabotando così un lavoro di marketing sapientemente costruito. Essere solo un signor nessuno, qualcuno che dal letto poteva non alzarsi mai nemmeno per lavarsi i denti, ché i signori nessuno del proprio sorriso potevano non preoccuparsi. Qualche volta, inevitabilmente, la sua mente tornava a indugiare sugli eventi che avevano concluso la serata, ma prontamente Gilderoy emetteva un sospiro disperato e trovava il modo di fuggire dalle riflessioni più difficili e dolorose. 

 

Crack.

Un suono secco a spezzare la quiete della casa.

Gilderoy represse un gemito, tirandosi le lenzuola fin sopra alla testa. Per un attimo, prese anche in considerazione l'idea di accogliere Septimus con una contro-Materializzazione: fuggire dalla propria casa in un crack, svanire nel nulla, ricomparire in qualche luogo deserto dove nessuno lo avrebbe trovato e costretto a parlare e a ricordare…

No.

Gilderoy si sentiva atterrito e privato di ogni prospettiva futura,  ma non aveva ancora raggiunto un grado di disperazione tale da fargli preferire una spaccatura quasi certa  a una chiacchierata con il suo editore. In fondo, Gilderoy forse in quel preciso momento della sua esistenza poteva non tenere abbastanza al suo sorriso da lavar via i residui di grissino al formaggio con il suo MagiCollutorio, ma di certo continuava a tenere al proprio naso. No, non si poteva Smaterializzare col rischio di lasciare in quel letto parti più o meno importanti del proprio corpo, e se già in condizioni normali trovava complesso seguire la regola delle tre D, certo non sarebbe riuscito a farlo con la mente tanto annebbiata dalla disperazione.

 

"Gilderoy, sto per entrare. Se c'è qualcosa che non vuoi farmi vedere, questo è il momento di coprirti".

La voce di Septimus era ancorata da qualche parte nei pressi della porta della sua stanza.

Gilderoy rimase immobile, la testa sempre sepolta sotto le coperte, sperando che Septimus se ne andasse e al contempo pregando che aprisse subito la porta, che gli suggerisse un sentiero da seguire e gli mostrasse che tutto sarebbe andato nella giusta direzione.

"Oh, Gilderoy, credi che la situazione sia davvero tanto brutta?" 

Gilderoy sentì i passi di Septimus attraversare la stanza per poi arrestarsi poco lontano dal letto, fra la finestra e i piedi ben nascosti sotto le lenzuola di Gilderoy. Un tonfo attutito, e poi la luce si riversò nella stanza, accompagnata dal salire di intensità dei suoni provenienti dalla strada e da un refolo di aria fresca proveniente dalla finestra che Septimus doveva aver appena spalancato. Il freddo di quella primavera appena accennata si insinuò anche sotto il lenzuolo che Gilderoy teneva ben teso sopra la testa, facendolo rabbrividire e cercare di pronunciare una lamentela attutita.

"Niente scuse, Gilderoy. L'aria qui dentro è quasi più viziata di te, e tu hai bisogno di schiarirti le idee. Su, vieni fuori da lì".

Gilderoy scosse la testa.

Non si sentiva in grado di affrontare la luce del giorno non più attutita neanche dalla misera resistenza offerta dalla sua finestra. Non si sentiva in grado nemmeno di affrontare i modi decisi e pieni di iniziative di Septimus, a voler essere del tutto sinceri, ma sapeva anche che Septimus non gli avrebbe concesso ancora troppo tempo. Se Gilderoy non fosse emerso dal suo bozzolo, probabilmente Septimus avrebbe fatto evanescere le sue lenzuola.

Imperdonabile.

Quello era finissimo cotone egiziano ricamato a mano dalle abili dita di una strega Marsiglia, non erano lenzuola che potevano essere sacrificate così, con tutta la leggerezza del mondo.

Con gesto deliberatamente drammatico, Gilderoy lasciò scivolare una mano fino ad afferrare un lembo delle lenzuola, scostandosele dal viso.

Septimus, pur in controluce e visto dalla prospettiva distorta di Gilderoy, appariva stranamente curato. Si era rasato con attenzione la barba e aveva scelto di indossare un completo che forse non gli cadeva addosso nel migliore dei modi, ma quantomeno non lo faceva sembrare come qualcuno che si fosse vestito pescando a occhi chiusi nell'armadio di qualcun altro.

"Io non sono viziato. Se fossi viziato, ti chiederei dov'è il vassoio della mia colazione e perché hai avuto la faccia tosta di presentarti a casa mia all'alba di una domenica mattina a mani vuote".

Septimus incrociò le braccia, fingendo esasperazione, ma Gilderoy era certo di avere intuito un sorriso agli angoli della sua bocca. 

"Non è l'alba, Gilderoy, è quasi ora di pranzo. E se vuoi la colazione, devi almeno metterti a sedere, perché gli incantesimi di disostruzione non mi vengono bene e non potrei mai perdonarmi se ti soffocassi con un morso dei croissant migliori di tutta Londra".

Dicendo queste parole, Septimus agitò la bacchetta nell'aria con gesto teatrale, facendo comparire un ampio vassoio smaltato d'azzurro ricolmo di tutto ciò  che Gilderoy amava ma che si concedeva solamente nelle occasioni speciali. C'erano croissant ancora fumanti posati con cura su un piattino di porcellana accanto a una teiera che diffondeva nell'aria l'aroma speziato di tè al bergamotto. C'era persino una ciotola colma di macarons di delicate sfumature di turchese – niente lilla, per carità! – e un vaso dal collo lungo e sottile ad accompagnare i gambi carnosi di tre generosi gerani di un rosso intenso – si sarebbe sentito male, se solo fosse stata lavanda.

C'era anche una rivista piegata in modo che la copertina non fosse visibile, ma Gilderoy non ebbe il coraggio di aprirla. Decise semplicemente di ignorare la sua presenza, di voltare il capo e non guardarla nemmeno.

Ciò che non si vede, non esiste. Per una persona che aveva fatto dell'apparire la ragione della propria esistenza, quello era un assioma incontrovertibile.

 

La colazione di Gilderoy solitamente consisteva in una manciata di frutta secca, un frullato di radici amarissime ma ottime per dare luminosità alla pelle e mezzo pompelmo. Non poteva permettersi di rovinare lo studiatissimo regime alimentare che gli permetteva di apparire sempre al meglio delle sue possibilità, ma c'erano momenti della vita che richiedevano un cambio di rotta: i grandi successi e le grandi delusioni.

Gilderoy non era sicuro di quale delle due opzioni incarnasse quella mattinata, ma non gli importava.

Cercando di tenersi stretta tutta la dignità rimasta a un uomo scarmigliato, strizzato in abiti stazzonati e incastrato nelle lenzuola in cui aveva trascorso fin troppo tempo, Gilderoy si mise a sedere e si posò il vassoio sulle ginocchia.

Si versò una tazza di tè e prese a sbocconcellare lentamente il croissant, cercando di nascondere la fame vorace che lo aveva assalito nell'istante stesso in cui aveva annusato il profumo invitante di quel vassoio.

Si sentiva osservato – da Septimus e dall'ombra di quella maledettissima rivista – ma decise per un po' di ignorare entrambi. Septimus gli doveva delle spiegazioni, a lui quindi l'ingrato compito di interrompere il silenzio e di riannodare tutti i fili rimasti in sospeso.

"Allora", esclamò infine Semptimus, masticando un'allegria un po' posticcia, "suppongo che questa mattina tu non abbia avuto il tempo di leggere i giornali".

"La mia agenda non me lo ha concesso, no. C'era qualcosa che avrei dovuto leggere?"

Septimus sedette sulla poltrona dal lato opposto della stanza, accavallando le gambe, a suo agio.

"Forse. Solo se sei interessato a leggere un'inchiesta esclusiva su quanto sia difficile per la punta di diamante della Magic Inkheart non far trapelare assolutamente nulla della propria complicata vita privata".

Una frase del genere, se pronunciata con un sorriso appena meno smagliante, avrebbe gelato il sangue nelle vene di Gilderoy. Perché Gilderoy non aveva una vita privata – non poteva permettersela – eppure c'era così tanto di sé che non poteva permettersi di far trapelare che qualsiasi giornalista avrebbe venduto ogni membro della propria famiglia per assicurarsi certi scoop.

Ma se Septimus sorrideva, le cose non potevano essere messe così male. 

"Non fare quella faccia! Quell'idiota di un Auror ieri sera ha rischiato di rovinare tutto, ma io ho messo a posto ogni cosa, e pensa un po', in questo articolo Queenie Royal non è nemmeno nominata!"

La soddisfazione dell'apprendere che, nonostante tutto, Queenie Royal non era riuscita a oscurare la sua serata di gloria si stemperò appena nel sentire l'Auror Shacklebolt definito un idiota. Il volto serio di quell'uomo si parò di nuovo davanti agli occhi di Gilderoy: quegli occhi profondissimi e il modo sorprendente che aveva la sua voce di vibrare nel petto di chiunque la ascoltasse si erano conficcati nella mente di Gilderoy, tornando confusamente a galla nel corso dei sogni agitati che lo avevano tormentato durante la notte.

 

Per nascondere la confusione e scacciare quella voce insistente che avrebbe voluto spingerlo a protestare e difendere l'Auror dalle accuse di essere un idiota, Gilderoy si sporse in avanti ad afferrare la rivista. Sulla copertina di Fattucchiera 2000 svettava un lusinghiero ritratto della premiazione della sera precedente: Gilderoy era radioso, sorrideva e muoveva elegantemente il capo come se fosse appena stato chiamato da qualcuno in fondo alla sala, mostrando così il suo lato migliore e facendo ondeggiare un boccolo appena più sbarazzino degli altri sulla fronte. 

Gilderoy Allock si racconta: come sopravvivere ai fan più ossessionati senza mai ricorrere alla bacchetta.

Gilderoy sfogliò distrattamente le prime pagine della rivista, senza avere davvero voglia di leggere l'articolo firmato da Rita Skeeter – un'intervista, nientemeno! Se solo lui e la giornalista si fossero scambiati più di un paio di parole, la sera precedente, sicuramente l'articolo sarebbe risultato un po' più accattivante.

"Be'? Non lo leggi?"

Septimus pareva deluso, ma anche vittima di un'irrefrenabile voglia di raccontare qualcosa.

"Magari dopo…" 

Per cercare di darsi un tono, Gilderoy prese un sorso di tè e poi un altro minuscolo morso di croissant.

"Oh, Gilderoy, ma tu allora stai davvero male! Sicuro di non avere la febbre? Non riesco proprio a guardarti mentre ignori una prima pagina su di te".

"La Skeeter ha uno stile troppo carico. Troppi aggettivi, troppe immagini tutte insieme… non la tollero di prima mattina".

Era la verità, perché Gilderoy trovava estremamente irritante la prosa di Rita Skeeter. Ed era una bugia, perché se si ostinava ad ignorare l'articolo era solamente perché aveva paura di ciò che avrebbe potuto trovarci.

"Be', allora devo proprio raccontarti un piccolo segreto", disse Septimus, incapace di contenere il proprio compiacimento in un'espressione pacata. 

"C'è pochissimo della prosa della Skeeter, in questo articolo, perché, ecco, in realtà questo articolo l’ho scritto io".

"Tu? In redazione ti hanno permesso di usare il nome della Skeeter? La Skeeter ti ha permesso di usare il suo nome?"

Gilderoy rischiò di rovesciare la tazza di tè sulle sue adorate lenzuola, e non gliene importò nulla.

"Caro, caro il mio ragazzo! Come si vede che sei giovane… pieno di talento e ambizione, certo, ma ancora avvolto nell'ingenuità della fanciullezza!"

Gilderoy rimase in silenzio, ben sapendo che quando Septimus Thesaurus decideva di dare spettacolo provare a interromperlo era del tutto inutile.

"Ieri sera ti ho riportato a casa e sono tornato subito alla festa. Ho fatto in modo che i camerieri continuassero a offrire alla nostra Rita il loro miglior Vino Elfico, e poi sono riuscito a convincere quella deliziosa creatura a concedermi un po' del suo tempo in un posticino niente male in Berners Street, dove hanno un Whisky Incendiario che è la fine del mondo".

Ora sì che Gilderoy era curioso: sapeva benissimo quanto Septimus detestasse visceralmente ogni tipo di alcolico, quanto tenesse alla propria sobrietà e quanto trovasse fastidioso dover dividere il proprio tempo con una persona alterata. Se si era così prodigato per annebbiare la mente di Rita Skeeter, doveva avere avuto un piano ben preciso in testa.

"È sorprendente quanto una donna come la Skeeter sia in grado di bere senza vacillare, ma ogni botte raggiunge la misura, prima o poi, e io so essere molto paziente, quando voglio".

Septimus aveva preso a passeggiare su e giù nella stanza, le mani intrecciate dietro la schiena e gli occhi accesi di entusiasmo. 

"Ebbene, la signorina alla fine è crollata con i suoi orrendi riccioli a mollo nel boccale, e la mia bacchetta è distrattamente scivolata sulla sua Penna Prendiappunti. E poi mi è scappato anche un Confundus, così sono certo che fra i suoi ricordi avrà delle immagini nebulose di un'intervista concessa in esclusiva e anche del momento in cui ha spedito via gufo la bozza del suo articolo in redazione".

Gilderoy era ammirato: non apprezzava la prosa di Rita Skeeter, ma aveva avuto modo di osservare da una posizione privilegiata la nascita della sua carriera, il suo inarrestabile avanzare, l'ostinazione con cui aveva macinato articoli su articoli scalando i vertici di ogni piccola redazione su cui posava gli artigli, e sapeva che quella giornalista era tutt'altro che una sprovveduta. Rita Skeeter non aveva paura di sporcarsi le mani con mezzucci non proprio del tutto leciti, pur di raggiungere i propri scopi,  e proprio questo la rendeva un avversario difficile da raggirare. Conosceva la scorrettezza e dunque se ne sapeva difendere. 

Del resto, Septimus Thesaurus non era certo diventato in pochissimi anni uno dei migliori editori del paese per caso: le sue risorse sembravano non esaurirsi mai, e se c'era qualcuno in grado di raggirare Rita Skeeter, quello non poteva che essere Septimus.

"Ammirevole, davvero ammirevole. A cosa dobbiamo tanta profusione di alcool?"

Septimus tornò a sedere sulla sua poltrona, accavallando mollemente le gambe e fissando Gilderoy con sguardo furbissimo.

"A mettere una pezza sul danno causato da quell'incapace di un Auror, ovviamente".

E allora Septimus riprese a raccontare, con un amore per i dettagli quasi commovente, di come la sera prima avesse escogitato un piano quasi perfetto per fare in modo che l'attenzione di tutti abbandonasse Queenie Royal e la sua beneficenza per tornare a concentrarsi su Gilderoy. Spiegò che secondo lui la gente aveva bisogno di ammirarlo, ma anche di sentirlo un po' più vicino. Di apprezzarlo,  ma di poter soffrire per lui. E così, Septimus aveva deciso di giocare con l'immagine che avevano costruito: un uomo forte, pieno di talento, capace di affrontare qualsiasi tipo di creatura oscura senza paura e senza esitare. Ma anche un uomo buono, retto e onesto, incapace di alzare la bacchetta su una donna infelice e innamorata, anche a costo di rinunciare a difendersi. E così, con la collaborazione non del tutto spontanea e volontaria della signorina Nightingale, Septimus aveva deciso di inscenare l'assalto di una fan incapace di distinguere una sana ammirazione da una passione smodata e malata. L'idea era nata da alcuni episodi realmente accaduti, episodi in cui Gilderoy era stato inseguito e aveva rischiato di venire affatturato da ammiratrici estremamente entusiaste. La sera precedente Septimus aveva intenzione di manovrare la situazione in modo tale da far credere a tutti che Gilderoy fosse spesso costretto a dover sopportare simili situazioni senza tuttavia mai intervenire per difendersi in modo violento, perché un gentiluomo galante come lui mai avrebbe potuto puntare la bacchetta contro una signora. Gilderoy non sarebbe mai stato in pericolo, perché a manovrare tutto sarebbe stato proprio Septimus, e tutto si sarebbe concluso con un toccante discorso in cui Gilderoy avrebbe perdonato la sua assalitrice, concedendole un autografo e aiutandola a comprendere quanto il suo atteggiamento fosse sbagliato e controproducente.

Ma, ovviamente, l'Auror Shacklebolt, che solo Merlino sapeva come mai si trovasse a quella premiazione, si era sentito costretto a intervenire, svelando prima del tempo le azioni della signorina Nightingale e soprattutto tenendo sotto tiro anche Septimus, impedendogli quindi di portare a termine il suo piano.

Piano che, in tutta sincerità, Gilderoy non poteva fare a meno di trovare un po' azzardato e con scarse possibilità di riuscita, ma del resto lui aveva smesso da tempo di interrogarsi sulle motivazioni dietro le azioni di Septimus, imparando a fidarsene ciecamente. 

“E così”, concluse Septimus, chiaramente soddisfatto e felice di come aveva costruito il proprio racconto  “mi sono visto costretto a ripiegare su un piano beta”.

Gilderoy dovette fare uno sforzo per non alzare gli occhi al cielo. Solo Septimus poteva avere un piano beta al posto di un piano b.

“Ho deciso di concentrare tutte le mie attenzioni sull’unica persona presente alla premiazione in grado di far comunque arrivare al pubblico tutto il tuo tormento, e così ora la povera Rita Skeeter sarà a casa sua con un paio di ore di sonno sulle spalle e un mal di testa di quelli memorabili. Noi abbiamo la nostra prima pagina e a Queenie Royal non resta niente, nemmeno le sue royalties!”
Gilderoy scostò le lenzuola con un gesto deciso, facendo solo attenzione a non urtare il vassoio della colazione.
Improvvisamente, quella fresca giornata di inizio primavera non gli sembrava più fatta per restare a letto. Il mondo era un luogo meraviglioso in cui stare, e Gilderoy era un uomo meraviglioso di cui il mondo aveva bisogno per essere sempre più splendente.

Con un gesto di bacchetta spalancò tende e finestre sul lato opposto della stanza – un vetro si frantumò per il troppo entusiasmo di quell’incantesimo, ma a Gilderoy non importava, ci avrebbe pensato Septimus a sistemare il tutto – e prese un respiro profondo, beandosi della luce e dell’aria frizzante che lo rinvigoriva. 

Niente sarebbe stato meglio che uscire a passeggiare in una giornata così bella.

 

“Comunque”, la voce di Septimus lo riportò alla realtà dei suoi capelli spettinati, agli abiti che non vedeva l’ora di togliersi e a quel letto decisamente da rifare, “dobbiamo pensare a un piano a più lungo termine, perché non possiamo più rischiare di dover improvvisare. In realtà, sono venuto per questo, perché ho pensato…”
“Septimus!”
Gilderoy lo interruppe alzando con gesto elegante una mano e sorridendo, magnanimo. 

Gilderoy era grato a Septimus, lo era davvero, ma c’era un tempo per ogni cosa. E quella mattina era il tempo del riposo e delle lunghe passeggiate sul Tamigi, dei pranzi in graziosi pub e magari poi di un po’ di shopping da gratifica. 

“Septimus, Septimus, fermati! Hai detto che ieri hai fatto tardi assieme a quella disgrazia di Rita Skeeter… e oggi sei arrivato qui all’alba… ma non ci pensi alla tua Ottilia?”

Ottilia Carter-Atkinson in Thesaurus era la deliziosa sposa di Septimus. Una fanciulla piena di grazia e gentilezza, un fine ingegno racchiuso in un corpicino esile  e tormentato dai malesseri che da bambina le avevano impedito di frequentare Hogwarts, Ottilia parlava poco, ma quando lo faceva, sapeva sempre cogliere nel segno. Gilderoy non l’aveva incontrata spesso, ma quei pochi incontri rappresentavano per lui un lietissimo ricordo, nonostante avesse la sensazione di non esserle particolarmente simpatico. Probabilmente quell’antipatia era soltanto ritrosia saggiamente mascherata, poiché la ragazza sapeva che, se solo si fosse concessa di ammirare una persona come Gilderoy, poi non avrebbe più potuto guardare con gli stessi occhi il suo Septimus.
In ogni caso, Gilderoy non si sarebbe mai perdonato, se si fosse trasformato in un motivo di attrito fra i due innamorati. 

“A Ottilia ci penso, e proprio perché ci penso non posso permettere che qualcuno minacci il nostro lavoro, e…”

“Non voglio sentire una parola di più”, lo interruppe nuovamente Gilderoy, sfilando il mazzo di fiori dal vaso e avvolgendolo nel folulard di seta con cui era solito proteggersi i capelli durante la notte. Non il più raffinato dei bouquet, ma Septimus si sarebbe accontentato.

“Tu ora prenderai questi fiori e li porterai a Ottilia, poi prenderai i fiori e Ottilia e andrai in un bel ristorantino, un posto romantico, un posto intimo e ti rifiuterai di pensare al lavoro fino a domattina, va bene?”
“Sì, ma…”
“Niente ma”, stabilì Gilderoy asciutto, la testa già immersa nei meandri del proprio armadio alla ricerca del suo miglior abito da giorno.

“Va bene, niente ma, però…”
I due uomini si scambiarono un lungo sguardo esasperato, finché Septimus non si gettò il mantello di traverso sulle spalle e afferrò il mazzo di fiori – con la stessa grazia che avrebbe utilizzato un battitore di Quidditch per brandire una mazza, ma questo Gilderoy decise di non farlo notare – e si avviò verso la porta.

“Ti aspetto lunedì pomeriggio nel mio studio, alle sedici. Puntuale. Abbiamo una corona da far cadere!”







 

 


 

Note:

Un po’ ammetto di vergognarmi nell’arrivare fresca come una rosa (ma quando mai, al massimo posso sentirmi un tubero) ad aggiornare dopo più di un mese con un capitolo in cui non succede letteralmente niente, ma l’alternativa era aspettare un altro mese. Purtroppo in questo periodo davvero ho a stento il tempo di mangiare e farmi una doccia, quindi la scrittura, mio malgrado, ne risente. Questo capitolo avrebbe dovuto essere solo il preambolo di una serie di avvenimenti più corposa, ma non ce l’ho proprio fatta. Insomma, non è disinteresse ciò che mi sta tenendo lontana da questa storia, ma al momento temo di non poter promettere molto di più di aggiornamenti molto brevi ma con tempi di riflessione infiniti.


 

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Capitolo 5
*** Prove di fiducia ***


Prove di fiducia




 

Il bagno, per Gilderoy, era una cosa seria.
Non si trattava solo di un mezzo per raggiungere un fine preciso: riempire la vasca, arricchire i vapori con olii essenziali profumati, versare la giusta dose di sapone per ottenere una schiuma morbida e compatta e poi lasciarsi scivolare languidamente sotto il pelo dell'acqua per il tempo adatto ad aprire tutti i pori ma a non provocare quelle disgustose rughe sulle dita delle mani era un rituale che andava molto oltre il semplice atto di lavar via lo sporco di una giornata (o di una notte trascorsa indossando gli stessi vestiti della sera precedente). 

Gilderoy sapeva essere meticoloso, quando qualcosa rientrava nel suo raggio d’interesse, e un bagno caldo e profumato rappresentava per lui qualcosa di estremamente interessante. 

 

Si prese dunque il suo tempo, Gilderoy, rinfrancato com’era dalla deliziosa colazione e dal discorso di Septimus. Si prese il suo tempo per prepararsi al meglio a vivere ciò che restava di quella domenica che, fino a poche ore prima, gli sembrava destinata solo all’autocompatimento. 

Forse avvenne quando era immerso nei vapori profumati di ylang-ylang, o forse successe mentre si cospargeva il corpo con una lozione tanto costosa quanto miracolosa. O magari tutto accadde mentre si avvolgeva i capelli ancora umidi attorno ai suoi Bigodini-Autoriscaldanti-e-Autofissanti, o mentre indugiava davanti all’armadio aperto nel tentativo di capire se a donargli maggiormente sarebbe stato il completo dai riflessi madreperla oppure quello color giada – una domanda pretestuosa, dal momento che entrambi gli stavano divinamente. Il fatto fu che, alla fine, la finestra che aveva lasciato aperta nella sua stanza si rivelò una breccia fatale per la quiete della sua casa: aveva fatto apporre a Septimus diversi incantesimi di protezione attorno all’appartamento per poter proteggere la propria privacy e impedire a fan e giornalisti di trovare il suo appartamento e rubargli anche quel poco di vita privata che gli restava, ma Septimus restava pur sempre un editore, e il suo M.A.G.O. in Incantesimi non era certo Eccellente. Aveva fatto un lavoro discreto, ma sapevano entrambi che quegli incantesimi sarebbero bastati solo a tenere a bada persone comuni dotate di mezzi e intenzioni comuni. Septimus si era anche rivolto ad alcuni Spezzaincantesimi impiegati in chissà quale sottodipartimento al Ministero per richiedere l’intervento ufficiale e l’apposizione di misure di sicurezza standard, ma a quanto pareva quegli inetti non avevano ritenuto di dover considerare la condizione di Gilderoy come meritevole di attenzione. Non rientra nei protocolli, avevano detto, lasciando intendere che la sua situazione fosse molto differente da quella di un posto come Hogwarts, il San Mungo o le abitazioni del Ministro e dei Pezzi Grossi del Wizengamot. 

Insomma, Gilderoy sapeva che casa sua poteva considerarsi solo un luogo relativamente protetto, e che la quiete  e la sicurezza della sua riservatezza avevano i giorni contati. 

Certo non si sarebbe aspettato, però, di vedere la propria sicurezza minata da un rapace dall’aria minacciosa che osservava indisturbato la sua stanza dal trespolo che aveva improvvisato in cima alla testiera del suo letto. L’aspetto di quel rapace rassomigliava a quello di un falco, ma Gilderoy era sempre stato convinto che i falchi dovessero essere molto più grandi di quell’animale che, invece, superava a stento le misure di un corvo.
I due rimasero a fissarsi a lungo: grandi occhi color nontiscordardime allacciati a piccole gocce di smalto nero. Lo sguardo del rapace turbava Gilderoy: era lo sguardo acuto e intelligente di una creatura che sapeva leggere nel mondo molto più di quanto sarebbe stato consono alla sua natura, e Gilderoy davanti a lui si sentì improvvisamente molto vulnerabile. Era una vulnerabilità che andava oltre il fatto che una creatura non autorizzata fosse riuscita a superare le barriere della sua casa – le numerose lettere dei fan che Gilderoy riceveva ogni settimana venivano recapitate presso il suo studio alla Magic Inkheart.

Infine, l’animale chinò di lato il capo e fece qualche passo lungo la testiera del letto, permettendo a Gilderoy di scorgere la piccola busta legata alla sua zampa.

Gli artigli di quel falco non erano particolarmente invitanti: Gilderoy avrebbe volentieri evitato di offrire la pelle delle sue mani a quegli artigli e al becco ricurvo dell’animale, soprattutto sapendo che la sua presenza in quella stanza era un mistero che continuava a conservare possibili minacce, ma del resto la curiosità bruciava quasi quanto la paura, e così Gilderoy si schiarì la voce, cercando di apparire perfettamente padrone della situazione.
“Ehilà, piccolo amico. Quella è una lettera per me?”
A quelle parole, il falco fece schioccare il becco e tese la zampa, senza smettere di fissare Gilderoy con i suoi occhi intensi. 

Gilderoy non andava d’accordo con gli animali. 

Non lo aveva mai fatto, e non aveva intenzione di cominciare  a farlo ora. Armeggiare con zampe di gufi e allocchi lo aveva sempre messo a disagio, e anni di frequentazione del mondo magico non erano riusciti a cancellare la riluttanza con cui si avvicinava a un pennuto per sbrigare la propria corrispondenza. Il falco, tuttavia, rimase immobile per tutto il tempo che gli occorse per sciogliere lo spago che teneva ferma la piccola busta. Non un frullo d’ali, non uno scatto del capo, nemmeno uno schiocco del becco, segno che sin da piccolo era stato rigorosamente addestrato a non infastidire il mago o la strega che gli stava accanto. 

“Bravo. Foste tutti come te, voi pennuti mi stareste anche simpatici”, mormorò Gilderoy, rigirandosi tra le mani l’anonima busta. 

Era una pergamena qualsiasi, di quelle che si potevano acquistare in qualsiasi emporio magico sparso per tutta l’Inghilterra. Non la lettera di un’ammiratrice, quindi, perché loro erano solite scegliere pergamene pregiate, carta da lettere decorata, materiale in grado di veicolare con la sua sola apparenza tutta l’ammirazione che loro avevano nei riguardi di Gilderoy. 

Era una busta piccola, poi, capace di contenere solo un biglietto di poche righe, non una lunga e accorata lettera piena di struggimento. Difficilmente un principiante sarebbe riuscito a racchiudere una maledizione in uno spazio così ristretto, ma del resto, per superare le pur sempre labili protezioni apposte da Septimus, il mittente non doveva essere esattamente un principiante. 

Gilderoy rimase titubante a fissare la busta, roso dalla curiosità e dalla paura. Del resto, si disse alla fine, una maledizione avrebbe potuto attivarsi anche semplicemente con il tempo, o se avesse cercato di gettare via la busta o di distruggerla, quindi tanto valeva andare subito incontro al proprio destino e soddisfare almeno in parte la curiosità suscitata da quel rettangolino di pergamena. 

Con un gesto rapido, Gilderoy si fece cadere nel palmo della mano un corto biglietto vergato con inchiostro nero e una grafia minuscola, tutta tratti netti e aguzzi. La grafia di chi non aveva tempo da perdere per rendere la propria scrittura qualcosa di armonioso, preferendo concentrarsi solamente sul messaggio da veicolare. 

 

Gentile Gilderoy, 

mi scuso per l’invadenza di questo mio messaggio che so non essere in alcun modo giustificato dalla superficiale conoscenza che abbiamo fatto l'uno dell'altro la scorsa sera. Trovo tuttavia che l'episodio di cui è stato vittima ieri, anche alla luce di quanto dichiarato nell'intervista pubblicata questa mattina su Fattucchiera 2000, non sia da sottovalutare. In quanto Auror mi sento eticamente in dovere di farle presente che esistono strade che può percorrere sia per difendersi preventivamente sia per obbligare chiunque abbia sorpassato il limite della legge nei suoi confronti ad affrontare le conseguenze delle proprie azioni.

Se fosse interessato a conoscere quali sono i suoi diritti, la aspetto domani mattina alle 11.00 nel pub che troverà al numero 12 di Saffron Street, Londra. Si tratta di un sobborgo babbano molto discreto, dove non correrà alcun rischio di imbattersi in ammiratori invadenti o giornalisti fuori luogo.

Cordialmente, 

Auror K. Shacklebolt

 

Gilderoy rimase a lungo a fissare quel biglietto, sbigottito.

Era un messaggio quantomeno inaspettato, e la sua mente sembrava incapace di processare tutte le informazioni che conteneva.

Non poteva certo dire di conoscere l'Auror Shacklebolt, ma di certo quell’uomo serio e compassato non gli aveva dato l'impressione di essere il tipo di persona che legge Fattucchiera 2000 la domenica mattina. Senza che Gilderoy potesse controllare quel pensiero, la sua mente si ritrovò a indugiare sul ritratto che aveva osservato poco prima: era una fotografia lusinghiera, e non gli dispiaceva affatto pensare a quell'Auror che cominciava la giornata osservando il modo in cui i suoi riccioli morbidi scendevano a incorniciargli il viso. Non gli dispiaceva nemmeno immaginare di essere rimasto impresso nella mente di quell'uomo al punto tale da spingere un Auror a preoccuparsi della sicurezza di un privato cittadino. 

Certo, il fatto che un Auror si interessasse a lui avrebbe dovuto terrorizzarlo, e in parte lo faceva: c'erano troppe cose nel suo mestiere che Gilderoy doveva tener lontano dai tutori della legge, al punto che la cosa migliore sarebbe stata ignorare completamente quel biglietto e dimenticarsi di quell'incontro. 

O forse no, perché non presentarsi a quell'incontro, dopo aver addirittura rilasciato un'intervista su quanto la situazione fosse per lui difficile poteva rivelarsi un passo falso. L'Auror Shacklebolt avrebbe potuto insospettirsi e decidere quindi di indagare ancora  più a fondo, scoperchiando le bugie di Septimus e la natura ingannevole dell'articolo della Skeeter (e, Corinna non lo voglia, anche tutte le altre bugie). 

E poi, la sera prima l'Auror gli aveva dato del tu, mentre in quel biglietto aveva scelto un distaccato lei. Che cosa significava quel cambio di registro? Forse Mr. Muscolo non voleva che la sua etica potesse essere scambiata per un maldestro tentativo di approcciarsi in qualche modo a Gilderoy? Gilderoy ripensò al modo in cui gli aveva suggerito di uscire a prendere una boccata d'aria fresca, e a come lui aveva pensato –  intuito, o forse solo sperato – che fosse un suggerimento che mirava ad altro. Ma no, non era possibile. Gli Auror non si interessavano a giovani scrittori che non avevano mai fatto mistero di essere il perfetto oggetto di interesse di tutte le streghe della nazione. 

Doveva trattarsi solo del tentativo di una giovane recluta di farsi notare agli occhi di qualche superiore, dimostrando intraprendenza e talento nell'avvertire  un pericolo e porvi rimedio. Certo, Gilderoy non era sicuro che i cacciatori di maghi oscuri fossero soliti intraprendere il ruolo di guardie del corpo, ma a onor del vero non si era mai interessato a quella carriera e non aveva idea di quale fosse la gavetta da superare prima di scendere in battaglia contro gli stregoni più oscuri e pericolosi.

Oppure poteva trattarsi di una trappola. Magari l'Auror Shacklebolt, a dispetto della sua prontezza di riflessi nell'evocare Incantesimi Scudo, non era nemmeno un Auror, ma solo qualcuno al soldo di Flintshire. Magari era un mercenario che non aveva nessuna intenzione di proteggere Gilderoy, ma anzi, voleva solo eliminarlo dal mercato per lasciare a Queenie Royal la possibilità di trionfare – ma no, non poteva essere. Qualcosa nello sguardo di quell'uomo gli suggeriva un'incrollabile onestà in cui Gilderoy si era ritrovato a riporre molta più fiducia di quanto fosse saggio fare.

Prima di prendere una qualsiasi decisione, Gilderoy avrebbe dovuto parlarne con Septimus, esporgli dubbi e timori e lasciare che  fosse proprio lui a guidarlo in quella strada tortuosa. Ma era domenica, e Septimus aveva fatto già così tanto per lui e così poco per la sua Ottilia che Gilderoy non se la sentiva di piombare in mezzo al loro pranzetto romantico, né voleva correre il rischio di interrompere il loro pomeriggio speciale. Forse avrebbe potuto fare un salto in ufficio da Septimus la mattina dopo: il suo editore era sempre il primo ad arrivare in Casa Editrice, e sicuramente Gilderoy avrebbe avuto il tempo di parlargli prima che arrivasse l'ora dell'incontro proposto dall'Auror.

Sì, avrebbe fatto così.

Era l'unica soluzione possibile, e nel frattempo sarebbe davvero uscito a passeggiare per le vie della città, sperando di distrarsi e rilassarsi beandosi del proprio riflesso nelle vetrine. 

Sì, lo avrebbe fatto. 

Non avrebbe sprecato un bagno impreziosito dagli aromi più pregiati per poi non avere nessuno che si voltasse a odorare il suo profumo.

 

***

 

Gilderoy non avrebbe saputo dire come fosse successo che le suole delle sue eleganti scarpe di vernice lucidata ad arte si ritrovassero a calpestare l'erba fangosa di quel sentiero appena accennato accanto a un ruscello torbido e decisamente poco invitante.

Non avrebbe saputo dire come il suo piano di non allontanarsi dal suo quartiere fosse sfumato nell'istante stesso in cui aveva cominciato a passeggiare, giocherellando distrattamente con la bacchetta – e rischiando di appiccare un incendio al polsino della sua giacca immacolata. Nello spegnere le fiamme doveva aver inavvertitamente sporto la punta della bacchetta in direzione della strada, e quando, con un bang assordante, il Nottetempo si era fermato davanti a lui, Gilderoy non aveva avuto altra scelta che salirci. Ammettere di averlo chiamato per errore gli avrebbe fatto fare la figura dell'incapace, cosa che non poteva assolutamente permettersi, non con quell'autista che lo fissava con la fronte corrugata, cercando di capire dove avesse già visto quel viso. Per cavarsi d'impiccio, Gilderoy aveva sorriso con la sicurezza di chi avesse dei piani ben precisi, e aveva scandito con voce chiara il primo indirizzo che gli si era affacciato alla mente: Londra, Saffron Street, numero 12.

Il viaggio era durato solo pochi istanti, e Gilderoy, prima ancora di capire che cosa stesse accadendo, si era ritrovato a scendere dal bus in un anonimo quartiere babbano in una zona della città che non conosceva minimamente. Era un luogo squallidissimo, tutto palazzi squadrati e privi di grazia e strade grigie, con pochi passanti e decisamente troppe automobili –  che strumenti disgustosi, rumorosi e puzzolenti. Il pub che l'Auror Shacklebolt aveva indicato come luogo di incontro per la mattina successiva consisteva in un'orribile porta a vetri piena di ditate e un ambiente dozzinale, fatto di plastica colorata e tavolini dall'aria instabile che, in quella domenica pomeriggio, erano colonizzati da gruppi di adolescenti chiassosi. 

Il primo istinto di Gilderoy era stato quello di girare sui tacchi e riprendere all'istante il Nottetempo per tornare a casa, ma era certo  che l'autista si sarebbe ricordato di lui, e non voleva fare una pessima figura. Così aveva cominciato a camminare, testa alta e il passo sicuro di chi sa esattamente dove sta andando e per quale motivo, deciso a far trascorrere un lasso di tempo adatto a giustificare una qualsiasi commissione prima di richiamare l'autobus a tre piani. Certo, avrebbe sempre potuto trovare un angolo appartato e nascosto agli occhi curiosi dei babbani per Smaterializzarsi in santa pace, ma era ancora turbato dalla velocità con cui si erano svolti i fatti, e il turbamento rischiava di trasformarsi in distrazione, e la distrazione era qualcosa che non poteva permettersi, quando si trattava di Materializzazione.

E così aveva camminato, e camminato, e camminato, ignorando completamente gli sguardi stupiti che il suo completo bianco da mago attirava fra i babbani (o forse erano solo sguardi ammirati per la sua elegantissima e affascinante figura, con i babbani era difficile a dirsi).

Aveva perso l'orientamento, si era ritrovato ad attraversare strade sempre meno frequentate, aveva rischiato di calpestare escrementi di cane, aveva percorso vicoli in cui nessuno avrebbe mai voluto abitare e poi, all'improvviso, si era trovato a costeggiare un canale maleodorante  accanto a cui cresceva qualche timido stelo d'erba. Il canale si era presto trasformato in un piccolo ruscello, e la strada in un sentiero immerso in un parco non bello, ma sicuramente meno brutto delle vie che aveva percorso fino a quel momento.

Gilderoy non amava particolarmente la natura – troppi insetti, troppi elementi incontrollabili, fango sotto le suole, vento e pioggia a rovinargli i capelli – ma dopo l'inverno provava sempre un certo piacere a passare qualche ora nel verde. Fu per quello, forse, che decise di non tornare indietro per richiamare il Nottetempo, preferendo invece continuare a camminare fino a quando non incontrò una panchina abbastanza pulita perché osasse sedersi a riposare un pochino.

Sedendo, si concesse di osservare il sentiero e i suoi visitatori: famiglie, soprattutto, genitori con bambini piccoli che correvano o pedalavano con foga su minuscole biciclette sgangherate. Qualche anziano che avanzava piano aggrappato a un bastone, un paio di giovani coppie e infine due ragazzine che non potevano avere più di tredici anni che gli passarono accanto tenendosi a braccetto, ridacchiando e lanciandogli lunghe occhiate. Ah, le prime cotte!

 

Tutto cominciò con un suono ritmico, un costante tamburellare simile a un battito cardiaco perso nella lontananza del parco. Il suono si fece sempre più insistente, catturando l'attenzione di Gilderoy. Fu per uno scherzo del destino che Gilderoy smise di osservare la treccia di una delle due ragazzine per voltare il capo dall'altro lato e fissare dritto in faccia l'uomo che avanzava correndo con falcate rapide e precise. Un uomo alto, dal fisico imponente nascosto da un'orribile e babbanissima tuta grigia: quanto di più distante dalla veste color pavone degli Auror, ma in quel preciso istante Gilderoy si rese conto che, probabilmente, sarebbe stato in grado di riconoscere quegli occhi seri e profondissimi ovunque.

L'Auror Shacklebolt lo fissò, perse il ritmo nella corsa e incespicò appena, per poi rallentare il passo e fermarsi davanti a lui. La pelle scura del suo viso era imperlata di minuscole goccioline di sudore  che l'uomo deterse con il dorso della mano, mentre il suo petto si sollevava in respiri rapidi e leggermente affaticati dallo sforzo fisico.

"Gilderoy! Va tutto bene? È successo qualcosa?"

La domanda, pronunciata con voce bassa e profonda, colse Gilderoy del tutto alla sprovvista. O forse era la sola presenza dell'Auror Shacklebolt a coglierlo alla sprovvista, facendolo annaspare alla ricerca di una frase, di una parola anche solo un minimo sensata. 

"Io… bene, benissimo. Avevo bisogno di prendere quella boccata d'aria".

L'uomo annuì, serissimo, poi si lanciò un'occhiata discreta tutto attorno, come a volersi accertare che nessuno lo stesse ascoltando.

"Ha… hai ricevuto la mia lettera?"

Gilderoy notò con piacere il piccolo inciampo che lo aveva portato a dargli del tu. 

Per un attimo, fu tentato di negare. Spinto da un istinto completamente irrazionale, si ritrovò a mordersi la lingua per non dire  che no, non aveva ricevuto nessuna lettera, che si trovava lì del tutto per caso,  che Safran Street era un posto dove passeggiava sempre e non poteva proprio spiegarsi la coincidenza di quell'incontro, ma si rese presto conto  che non sarebbe mai risultato credibile.

Si limitò ad annuire, e poi si lasciò andare a un sorriso accattivante e a una risata leggera:

"Sì, e ti ringrazio per l'interessamento, ma davvero, non  c'è bisogno di preoccuparsi. È tutto sotto controllo".

L'Auror aggrottò quasi impercettibilmente la fronte, e scosse appena il capo.

"Non sono d'accordo, ma dev'essere una tua scelta".

Gilderoy distolse lo sguardo, incapace di sopportare l'intensità di quello di Shacklebolt.

"Non voglio denunciare la signorina Nightingale, d'accordo? Voglio solo… non lo so. Non lo so davvero".

L'Auror chinò il capo di lato, riflettendo.

"Be', visto che sei già qui, potremmo comunque fare due chiacchiere. Non per denunciare qualcuno", si affrettò ad aggiungere e bloccando sul nascere ogni protesta di Gilderoy,  "ma solo per conoscere quali sono gli incantesimi di protezione che potresti usare".

Gilderoy sapeva che avrebbe dovuto protestare, affermare sdegnato  che quegli incantesimi lui li conosceva tutti e che avrebbe potuto scagliarli anche a occhi chiusi, se solo avesse voluto, ma qualcosa gli disse che sarebbe stato inutile. Che all'Auror Shacklebolt non importava niente della sua immagine pubblica, che non gli importava vedere le discrepanze tra ciò che Gilderoy dava a intendere nei suoi libri e ciò che avrebbe potuto dedurre.

"Un Auror non ha di meglio da fare, la domenica pomeriggio?"

Shacklebolt sorrise, un sorriso che gli illuminò anche gli occhi.

"Un Auror non smette mai di lavorare. Però, non offenderti, dobbiamo fare qualcosa per i tuoi vestiti".

Gilderoy si lisciò la stoffa candida del suo  completo, indignato.

"Ma senti chi parla! I miei vestiti sono perfetti, e non ho intenzione di farmi dare lezione di stile da chi se ne va in giro con…  con… con quello".

L'uomo accanto a lui scoppiò a ridere, una risata sincera e piena di divertimento che ebbe il solo effetto di irritare ancora di più Gilderoy.

"Non mi permetterei mai. E i tuoi abiti sono davvero molto belli, dico seriamente", si affettò ad ammansirlo, "però siamo in un quartiere babbano, e i babbani non sono abituati a questo tipo di abbigliamento. Se non ti dispiace, preferirei non attirare troppo l'attenzione…"

Gilderoy si ritrovò distrattamente a pensare che solitamente non avrebbe collegato il cognome Shacklebolt con qualcuno che si muovesse con tanta agilità fra i babbani: era convinto che la famiglia Shacklebolt facesse parte delle Sacre Ventotto, ma forse si trattava solo di omonimia, oppure l'Auror faceva parte di un ramo imbastardito.

"Cosa dovrei fare? Tornare a casa? Temo di non possedere  nulla di assimilabile alla tua mise".

L'Auror scosse la testa, e indicò con un cenno del capo una macchia d'alberi lungo il sentiero del parco.

"Lì dovremmo essere lontani da sguardi indiscreti. Posso trasfigurare i tuoi abiti in un attimo…"

L'orrore sul viso di Gilderoy doveva essere stato evidente, perché l'Auror si affrettò ad aggiungere:

"È solo una misura temporanea, ti assicuro che saprò farli tornare come nuovi!"

"Sarà meglio per te, signor Auror, o giuro che non avrai più un istante di pace, fosse anche l'ultima cosa che farò".

Combattendo contro ogni istinto, Gilderoy seguì l'uomo verso il piccolo boschetto. Quella, si ritrovò a pensare, era la  più grande dimostrazione di fiducia che potesse offrire a un essere umano: doveva essere completamente ammattito per concedere a uno sconosciuto di posare la bacchetta su uno dei suoi completi preferiti.





 

 


 

Note:

Eeeee ho aggiornato in tempi umani. Non ho idea di cosa abbia pubblicato, perché metà di questo capitolo l'ho scritto ieri notte e ho revisionato in un momento in cui la mia attività cerebrale era irreperibile, ma ci siamo. Ancora una volta, nella mia mente c'è un disegno piuttosto chiaro dietro le azioni dei personaggi, anche quelle apparentemente più assurde e OOC, e spero che nei prossimi capitoli questo disegno risulti chiaro anche a chi leggerà.

Grazie di cuore a chiunque sia arrivato a leggere fino a qui: questa storia mi sta lievitando fra le mani, e probabilmente  non è una scelta saggia imbarcarmi in un'impresa corposa in questo periodo in cui non ho tempo per fare nulla, ma insomma, in qualche modo ne verremo a capo, lo prometto.

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Capitolo 6
*** Come Scott e Zelda ***


 

Come Scott e Zelda



 

Un ronzio monotono era tutto ciò che riempiva le orecchie di Gilderoy: Septimus parlava, parlava e parlava, sembrava nato per fare solo quello. Parlava così tanto da riempire ogni spazio, ogni anfratto del suo studio – non che rimanesse molto spazio da riempire, in quell'ufficio colmo di libri, pergamene ammonticchiate in ogni angolo, piume malandate e boccette d'inchiostro. 

Di solito, a Gilderoy non dispiaceva ascoltare Spetimus: certo, la voce del suo editore non possedeva la stessa musicalità di quella di Gilderoy, ma era sicuramente capace di catturare l'attenzione dell'ascoltatore e trasformare i discorsi in lucide visioni piene di dettagli interessanti. Di solito, i suoi discorsi del lunedì erano ciò di cui Gilderoy aveva bisogno per fare ordine fra le priorità, per darsi obiettivi precisi e per poter seguire un programma di lavoro produttivo.

Quel giorno, però, sembrava fatto solo per la distrazione.

Forse era merito del cielo color non-ti-scordar-di-me fuori dalla finestra – un chiaro invito a lasciar andare la mente in pigri peregrinaggi – o forse era solo la primavera a reclamare la distrazione di Gilderoy, il fatto era che l'uomo non riusciva proprio a trovare il lavoro più affascinante dei propri pensieri. 

 

"Gilderoy? Gilderoy, ma mi stai ascoltando?"

Gilderoy si riscosse, scuotendo via dai suoi boccoli la vergogna di essere stato colto con le mani nel sacco – o meglio, con la testa fra le nuvole.

"Ti sto ascoltando, sono solo…"

Non terminò nemmeno la frase. A Gilderoy piaceva essere sincero con Septimus, perché sapeva che il suo editore aveva a cuore il suo destino e ogni suo gesto era orientato al suo bene. Ma ciò che lo distraeva quel giorno era un'altra cosa: non aveva niente a che fare con il lavoro, e Gilderoy non riusciva proprio a decidersi a scrollare le spalle e mormorare un leggero scusa, Septimus, è che ieri ho trascorso un piacevolissimo pomeriggio in compagnia di un Auror molto interessante e ora tu parli e io sento solo la voce di Kingsley, perdonami tanto, non è niente di personale. 

Kingsley Shacklebolt, ecco il nome dell'Auror. Kingsley e basta, così si erano salutati quando il sole aveva cominciato ad abbassarsi su quell'orribile quartiere babbano. 

“Va bene, ora però potresti concentrarti? È una questione importante”.
Gilderoy annuì, armato di tutte le migliori intenzioni: Septimus poteva non essere un prosatore eccellente quanto Gilderoy, ma per lui le parole avevano un peso e un’importanza ben precisi, e non avrebbe mai definito una questione importante senza che questa lo fosse per davvero. 

“Dicevo, non possiamo più permetterci di vacillare. Tutto è finito per il meglio, ma se facciamo un rapido calcolo fra la percentuale dei titoli che hai pubblicato e la diffusione dei dati di vendita e lo confrontiamo con…”
Un leggero frullo d’ali attirò di nuovo l’attenzione di Gilderoy sul cielo azzurro fuori dalla finestra: anche Septimus non amava ritrovarsi lo studio sporcato da piume e spiacevoli ricordini lasciati cadere da pennuti incontinenti, e così aveva adibito un minuscolo stanzino della casa editrice a Guferia improvvisata, eliminando i vetri alle finestre  e lasciando alla povera Miss Prudence, la segretaria, il compito di recarsi a ogni ora in quel luogo freddo e maleodorante per rifocillare le bestie e appropriarsi della posta da smistare. 

E così, era facile guardare fuori dalla finestra dello studio di Septimus e vedere qualche uccello solcare i cieli. Più difficile era fare la stessa cosa dalla stanza che con il tempo era diventata l'ufficio di Gilderoy, poiché quella stanza si trovava al capo opposto dell’edificio – per fortuna, perché Gilderoy non avrebbe mai potuto concentrarsi se si fosse ritrovato ogni giorno davanti l’orribile spettacolo di quegli insopportabili animali. In ogni caso, pur non essendo granché esperto di pennuti, era abbastanza sicuro di saper distinguere il volo di un gufo da quello di un falco – di un gheppio  australiano di nome Gatsby, aveva presto imparato. Perché Gilderoy non era proprio riuscito a trattenersi dal domandare a Kingsley Shacklebolt per quale motivo lui avesse un animale così minaccioso e non uno stupido gufo come tutti i maghi normali. Kingsley, il viso ancora immerso nell’ombra della macchia di piante dove si erano nascosti per trasfigurare i vestiti di Gilderoy, era scoppiato in una risata genuina. Senza mai smettere di dare colpi di bacchetta per aggiustare il risultato finale della sua trasfigurazione – un risultato ragguardevole, camicia candida dal taglio perfettamente babbano e pantaloni eleganti ma non troppo vistosi: non quello che Gilderoy avrebbe autonomamente scelto per sé, ma pur sempre qualcosa con cui non si vergognava di farsi vedere – l’Auror aveva spiegato che in realtà Gatsby era molto meno aggressivo di alcune civette che venivano vendute senza alcun riguardo a undicenni pronti alla partenza per Hogwarts, e che del resto la sua famiglia studiava l’arte della falconeria magica da secoli, ormai, e che lui e Gatsby si conoscevano da quando Kingsley non aveva ancora preso i suoi G.U.F.O. e il rapace non si era ancora del tutto liberato dall’uovo, dunque era stato lui ad addestrarlo e sapeva per certo che l’animale era più fedele di un cane e più mansueto di una Puffola Pigmea. Gilderoy non si era mai interessata a queste cose, ma sapeva che la famiglia Shacklebolt era piuttosto famosa per possedere uno dei migliori allevamenti di rapaci di tutta l’Inghilterra: si diceva che i loro gufi da lettera non avessero mai sbagliato una consegna dai tempi di Riccardo I. Gilderoy allora avrebbe voluto domandare che cosa ci facesse l’erede di una famiglia con così tanta tradizione magica nelle vene da essere entrata in diversi libri di storia in giro di corsa in un quartiere babbano, perfettamente a suo agio. Tuttavia, per una conoscenza così superficiale quant'era la loro, gli era sembrato che quella domanda fosse fin troppo invadente, e così se l’era rimangiata senza tuttavia smettere di osservare con attenzione l’uomo, cercando di cogliere qualche indizio sulla sua misteriosa vita. 

 

“Gilderoy! Lo hai fatto di nuovo! Ti sei distratto… io davvero non ti capisco, ragazzo. Stiamo parlando di un passo fondamentale per il tuo futuro, per mettere un freno a quella scocciatrice della Royal, e tu…”
Questo sì che riuscì a riconquistare l’attenzione di Gilderoy. Perché per quanto il pomeriggio trascorso con Kingsley Shaklebolt fosse stato straordinariamente piacevole – chiacchiere rilassate, una passeggiata nel parco e poi un caffè in quel locale che, a ben pensarci, non era poi così malvagio, qualche consiglio effettivamente molto valido su come applicare Incantesimi Respingenti dal meccanismo sorprendente e poi quel suo atteggiamento che aveva fatto sentire Gilderoy completamente a suo agio, nella condizione di abbassare un po’ la guardia e lasciarsi andare… no, doveva tornare concentrato! Per quanto quel pomeriggio fosse stato estremamente piacevole e Gilderoy avesse voglia di passarlo in rassegna nella sua mente più e più volte, quel ricordo non poteva competere con l’idea di mettere un freno a quella scocciatrice della Royal. 

“Hai tutta la mia attenzione, Septimus, davvero. Dimmi tutto, ti prometto che ascolterò ogni tua parola”.

E, per dimostrare la buona fede delle proprie parole, voltò la schiena alla finestra, posò i palmi delle mani sulla scrivania e si impose di fissare solo le fessure che erano gli occhi di Septimus, piccoli e scuri e brillanti di quella luce che li illuminava quando lui aveva un piano. 

“Dicevo, Queenie Royal è una minaccia troppo grande. Per ora abbiamo potuto non darle troppa attenzione perché le sue pubblicazioni sono sempre state molto poco costanti e diluite nel tempo, ma ormai il suo fenomeno ha assunto dimensioni ragguardevoli”.
Gilderoy storse il naso: non gli piaceva pensare ai successi di Queenie Royal, e men che meno gli piaceva sentirseli raccontare ad alta voce da Septimus, ma se l’alternativa era rimanere impassibile a voltare la testa dall’altra parte e fingendo che il problema non sussistesse, allora Gilderoy preferiva essere costretto ad affrontare la questione. 

“Non so per quale motivo fino ad ora Ebenezer abbia accettato tanta libertà da parte di Sua Maestà, ma nessuno di loro se lo può più permettere. Il fenomeno ha superato la soglia, va imbrigliato e sfruttato con canali e metodi precisi, e questo Ebenezer non può non saperlo”.

Gilderoy annuì: il suo modo di lavorare era sempre stato improntato al successo, frutto di programmi precisi e ritmi serrati, con obiettivi a breve e lungo termine che sia lui che Septimus avevano sempre avuto ben chiari in mente, ma sapeva comunque a che cosa si stesse riferendo Septimus. Quando qualcuno incontra il successo, esiste un breve periodo entro il quale suddetto successo può essere lasciato al caso. Un destino felice, la combinazione di elementi favorevoli, un certo grado di effettivo talento… elementi capaci di regalare vivaci slanci di notorietà. Ma, raggiunto un certo picco, la fama va coltivata. Diventa un vero e proprio mestiere: impossibile continuare a sperare nella fortuna, nel caso o nel talento. Servono strategie precise, strategie controllabili, e il silenzio e la mancanza di costanza non possono rientrare in questo tipo di strategie. Ebenezer Flintshire, benché Septimus detestasse ammetterlo, era tutt’altro che sciocco. Doveva sapere anche lui che, negli ultimi anni, Queenie Royal aveva afferrato la propria fortuna e l’aveva tesa al massimo, permettendosi strategie a dir poco insensate – come la folle cadenza con cui aveva pubblicato i suoi romanzi, tre nell’arco di pochi mesi e poi più nulla per secoli – affiancandole invece a mosse sagge e ben studiate,  come i gadget per una lettura più immersiva o il modo sorprendente in cui le sue interviste sapevano comparire sulle migliori riviste con un tempismo perfetto per pubblicizzare ogni nuovo romanzo. Sembrava quasi che, nella sua strategia per il successo, si fossero scontrati i modi di fare di due persone diverse. Il punto era, in ogni caso, che Queenie Royal non poteva più permettersi distrazioni. La serata della premiazione era stata per lei un successo, ma solo perché Flintshire aveva saputo manipolare le cose nel modo giusto, lasciando scivolare quel dettaglio sulla sua beneficenza nel momento più adatto. Non fosse stato per quello, il trionfo di Gilderoy sarebbe stato completo ed era paradossale pensare che lo stesso Gilderoy si era ritrovato, mutatis mutandis, nella medesima situazione. Se Flintshire voleva continuare a trarre qualcosa di buono dalla sua gallina dalle uova lilla, era arrivato il momento di lasciar perdere ogni indugio e di costruire con Queenie Royal qualcosa di solido, fatto di saldi piani editoriali, di calendari ben scanditi, di pubblicazioni regolari e calibrate eccezioni. Queenie Royal avrebbe dovuto cominciare a rilasciare interviste, seppur anonime, a firmare magari qualche rubrica su riviste di tiratura nazionale… oppure Flintshire e la TuMiStreghi avrebbero dovuto rinunciare al loro sogno in lilla e trovare un altro cavallo vincente su cui puntare, relegando i romanzi della Royal a una collana economica per i nostalgici. 

Se però Flintshire avesse deciso di fare tutto il necessario per rendere la Royal una vera Regina dell’editoria, per Gilderoy le cose si sarebbero fatte difficili. Perché già allo stato attuale la Royal era una minaccia: non poteva aspirare a vincere il premio per il maggior numero di copie vendute solo perché pubblicava poco, ma, facendo una proporzione, era evidente che un suo romanzo ben pubblicizzato e ben piazzato in un contesto di promozione capillare del suo nome avrebbe venduto più di un libro di Gilderoy. E Gilderoy questo lo doveva evitare a ogni costo. 

“Dobbiamo correre ai ripari, e lo dobbiamo fare in due modi”.

Septimus aveva cominciato  a tamburellare nervosamente con le dita contro il piano della scrivania, impaziente di dare forma al proprio piano.

"Innanzitutto", mormorò deciso, "non possiamo più limitarci ai memoir di viaggio. Devi aprirti a nuovi generi letterari, dobbiamo raggiungere nuovo pubblico senza perdere quello vecchio…"

Per un attimo, una scintilla parve accendersi nel petto di Gilderoy. Se di eccitazione o di paura non lo avrebbe saputo dire, ma l'idea che Septimus lo stesse spingendo di nuovo verso la narrativa, verso racconti e romanzi, verso la fantasia e le vicende squisitamente umane accelerava inevitabilmente il battito del suo cuore. Gilderoy aveva abbandonato le sue velleità da romanziere già durante il suo settimo anno a Hogwarts, quando Septimus aveva accettato di leggere i suoi lavori, aveva lodato la sua prosa e poi gli aveva illustrato nei più piccoli particolari il piano che aveva in mente per lui. Eppure, qualche volta un viso gli si impigliava nella mente,  Gilderoy cominciava a fantasticarci sopra. Trovava nomi, abbozzava trame, imbastiva caratterizzazioni dei personaggi… lo faceva la sera, soprattutto, quando faticava a prendere sonno. Non scriveva di loro, non lo faceva mai, perché tutte le sue energie letterarie dovevano restare rivolte al suo lavoro, e non poteva rischiare di sporcare la sua prosa tanto faticosamente costruita e limata per servire al meglio i suoi libri con le deviazioni che avrebbe potuto prendere ricominciando a scrivere racconti come quando aveva quindici anni. Ma scrivere talvolta è un atto che comincia ben prima di afferrare carta e penna che raramente si conclude con una pergamena fittamente inchiostrata, e quindi sì, nella sua mente Gilderoy non aveva mai smesso di comporre racconti, di arredare le vite dei suoi personaggi preferiti, di raccontarsi storie  che potessero tenergli compagnia durante il passaggio dalla veglia al sonno. Forse una parte di lui sperava di poter tornare a dare una forma più concreta a questi personaggi che gli si affollavano nella testa, ma aveva anche paura: e se costruire intrecci non gli fosse venuto altrettanto bene che descrivere avventure pericolose e sconfitte di mostri spaventosi? E se il suo pubblico, che in fondo quando comprava un suo libro voleva solo comprare un pezzettino di Gilderoy, non avesse apprezzato questa svolta? E se…

"...un manuale, magari, un piccolo compendio di incantesimi domestici utili a qualsiasi strega" la voce di Septimus lo riportò alla realtà, cancellando con un netto colpo di spugna paure e speranze.

"Ci sarebbero tue fotografie ad ogni pagina, natualmente, e dedicheremo una cura particolare all'impostazione grafica dei capitoli. Non sarà solo un oggetto utile, perché di manualetti di economia domestica per la perfetta strega di casa ce ne sono fin troppi, ma si tratterà di un oggetto bello, elegante, intrisecamente legato a te. Potremmo introdurre ogni argomento con un piccolo aneddoto personale, così da dare alle nostre lettrici molto più di un'istruzione su come de-gnomizzare un giardino, ma regalandole anche un po' del tuo passato e della tua vita…"

Sì, Gilderoy dovette ammettere che si trattava di un'ottima idea. Un'idea molto distante dal romanzo che per un istante gli era balenato davanti agli occhi, ma pur sempre un'ottima idea. 

Septimus aveva gli occhi socchiusi e, mano a mano che parlavano e rendevano quell'idea grezza qualcosa di vicino a un progetto, prendeva frenetici appunti sul retro del menù di Florian Fortebraccio – come Septimus si fosse appropriato di quella lista di gelati rimase per Gilderoy un mistero. Alla fine, si bloccò di colpo, agitando una mano sporca d'inchiostro nell'aria come a voler cancellare tutto  ciò  che avevano appena detto.

"Naturalmente, è solo un'idea che ho avuto questa mattina facendo la doccia… non appena avrò stilato un progetto  concreto ne riparleremo".

Gilderoy annuì, la mente già in fermento: l'idea era buona davvero, e sapeva che, con un po' di fortuna, entro un paio di settimane Septimus si sarebbe sentito pronto a cominciare a lavorare concretamente al progetto. 

"La seconda cosa che dobbiamo fare, invece, è far innamorare di te Queenie Royal".

Per poco Gilderoy non cadde dalla sedia, stordito dall'assurdità di quell'affermazione.

"Come, prego?"

Septimus sorrise, massaggiandosi il mento soddisfatto: era chiaro che aveva ottenuto esattamente l'effetto in cui aveva sperato, e ora si preparava a godere dello spettacolo che lui stesso aveva organizzato.

"Lo so, lo so, sembra una follia, vero? Eppure ci risolverebbe così tanti problemi!" 

Septimus si alzò in piedi e cominciò a passeggiare per lo studio, chiaramente incapace di contenere l'eccitazione che una tale geniale proposta gli suscitava.

"Non sappiamo chi sia questa Royal, quindi ovviamente dobbiamo tenerci pronti ad affrontare più possibilità, ma io riesco a vedere solo vantaggi".

Gilderoy era atterrito, ma preferì restare  in silenzio ad ascoltare, senza nemmeno pensare.

"Mettiamo il caso che si tratti di una donna  non più particolarmente giovane, o comunque di qualcuno che sulla prima pagina di una rivista sfigurerebbe: tu potresti approcciarla in privato, potresti sedurla, riempirle la testa di così tante sciocchezze da averla completamente in tuo potere, e a quel punto l'amore sarebbe una fonte di distrazione tale che la sua scrittura ne risentirebbe in maniera fatale".

Gilderoy si era ripromesso di non intervenire, ma le parole gli sgorgarono di bocca prima ancora che lui potesse pensarle.

"Non funzionerà mai, Septimus".

"Sciocchezze, ragazzo, sciocchezze!".

Septimus gli diede una vigorosa pacca sulle spalle, una pacca quasi paterna, e quando riprese a parlare aveva sulle labbra un sorriso da camerata che diede i brividi a Gilderoy.

"Tu sottovaluti la situazione. Stiamo parlando di una vecchia, o di una ragazza che probabilmente vuole piangere ogni volta che si guarda allo specchio. Ma è comunque una donna, una donna che, i suoi libri lo confermano, farebbe di tutto pur di continuare a credere nell'amore. Ecco", Septimus tornò a sedere, gli occhi fiammeggianti di entusiasmo, "ora immagina questa sfortunata creatura corteggiata dall'uomo più bello e famoso d'Inghilterra. Dapprima un incontro apparentemente casuale, e poi il tuo interessamento che nasce piano piano, come in uno dei suoi libri. La Royal non capirà più niente, e tu potrai tenerla così tanto impegnata a vivere il suo sogno che lei non avrà più energie per raccontarlo, quel sogno".

Gilderoy non riusciva nemmeno a figurarsi una simile eventualità. E non solo perché temeva che una scrittrice, per quanto mediocre come la Royal, non si sarebbe fatta distrarre dalla sua scrittura tanto facilmente.

"Septimus, non può funzionare. Io… un conto è piacere a delle donne con cui al massimo passo il tempo di una foto e un autografo. Ma una relazione… io non posso".

Septimus si concesse solo un sospiro teatrale e uno sguardo pieno di compassione, prima di continuare:

"Funzionerà, se ti ci metti d'impegno. Capisco che l'idea di corteggiare una vecchia o una racchia non sia particolarmente allettante, ma…"

"Sai benissimo che non è quello il punto", lo interruppe Gilderoy, stizzito.

Si scambiarono un lungo sguardo: irritato, quello di Gilderoy, e particolarmente severo e improvvisamente privo di qualsiasi luce divertita quello di Septimus. 

"Lo so, e tu sai ancora meglio di me che questo momento sarebbe arrivato e che tu avresti dovuto fare la tua parte".

Gilderoy si morse le labbra, soffocando una risposta sgarbata. Perché sì, era vero, ne avevano già parlato. Gilderoy era ancora fresco del suo diploma a Hogwarts quando Septimus gli aveva concesso un po' di libertà in campo sentimentale: Gilderoy doveva piacere alle streghe, ma le streghe potevano non piacere a lui, finché avesse tenuto le sue preferenze ben lontane dai giornali. Del resto, il personaggio  che stavano costruendo era quello di un principe azzurro della porta accanto, e un principe azzurro non può essere un donnaiolo incallito, dunque l'assenza di qualsiasi pettegolezzo legato a qualche gonnella era stato un fattore positivo, all'inizio della sua carriera. Si erano sempre detti che con il tempo le cose forse avrebbero potuto cambiare, e col passare degli anni probabilmente avrebbero dovuto inscenare flirt e, perché no, forse al momento giusto e con il personaggio giusto anche un fidanzamento ufficiale di copertura, così da non destare alcun sospetto, e Gilderoy era d'accordo. D'accordo e molto bendisposto ad aggiungere un tassello alla propria interpretazione, perché poteva solo immaginare quanto successo avrebbe potuto fare se avesse curato una rubrica dedicata all'organizzazione del proprio matrimonio.

Ma Gilderoy aveva sempre dato per scontato che la futura signora Allock sarebbe stata ben consapevole del suo ruolo di figurante, e che lontano dagli obiettivi delle macchine fotografiche non si sarebbe aspettata alcun tipo di attenzione da parte di Gilderoy.

"Ascoltami bene, Gilderoy: se la Royal fosse una vecchia racchia, dovresti solo esserne felice", proseguì Septimus, spazientito. 

"Le farai perdere la testa per il tempo necessario a minare i suoi progetti, e poi le spezzerai il cuore in così tanti pezzettini che lei sarà troppo impegnata a cercare di metterli a posto da dimenticarsi per sempre della scrittura, e fine dei giochi. Ma se la Royal dovesse rivelarsi un altro tipo di donna”, e qui Septimus fece una pausa e il suo tono parve addolcirsi, come se in fondo anche lui provasse un po’ di compassione per il tormento di Gilderoy, “se fosse una donna giovane e attraente, o magari anche già famosa – no, non fare quella faccia, dobbiamo considerare ogni possibilità, e Queenie Royal per quanto ne sappiamo potrebbe essere anche Minerva McGrannitt in persona, o Celestina Warbeck, o anche la moglie del Ministro!”
A Gilderoy ora veniva per davvero da ridere: nessuna delle donne nominate da Septimus era particolarmente giovane, né la bellezza era la prima qualità a cui lui pensava sentendo il loro nome – per quanto indubbiamente la professoressa MgGrannitt doveva essere stata una strega dotata di un certo fascino, trent’anni prima.

“Insomma, se saltasse fuori che la Royal è Gwenog Jones o la bassista delle Sorelle Stravagarie il nostro approccio dovrebbe essere completamente diverso. Sarebbe un’occasione troppo ghiotta per lasciarla andare, capisci? Dovresti comunque farla innamorare, e se l’amore non fosse sufficiente per distrarla dalla scrittura, allora dovreste imparare a fare squadra”.

Gilderoy sbuffò: non aveva alcuna intenzione di fare squadra con una tizia come Gwenog Jones e le sue braccia muscolose come prosciutti o con qualsivoglia membro di quell’orrendo gruppo rock: nessuna delle Sorelle Stravagarie  aveva anche solo il minimo senso estetico, con quei capelli tinti di colori improbabili. E poi, bastava aver ascoltato per sbaglio uno dei loro testi, così insulsi e privi di qualsiasi amore per la scelta delle parole per capire che nessuna di loro poteva essere Queenie Royal. 

“Pensa, Gilderoy: se riuscissi a convincerla a calare la maschera, potreste diventare la coppia del secolo. Belli, pieni di talento, all’apice del successo, se faceste squadra sareste inarrestabili! Il mondo della letteratura magica sarebbe vostro, fareste sognare chiunque… potreste essere i nuovi Costance Lloyd e Oscar Wilde, i nuovi Ted Huges e Sylvia Plath, i nuovi Scott e Zelda!”
Gilderoy alzò gli occhi al cielo: la famiglia Thesaurus appartaneva al mondo magico da intere generazioni, ma Septimus riteneva che nel campo delle arti i babbani non avessero niente da invidiare ai maghi e amava con passione ardente e sincera la letteratura babbana. Gilderoy avrebbe voluto far notare che la più felice di quelle unioni era terminata prima ancora che nascesse il loro primo figlio, e le altre due, oltre alla fama, comprendevano alcolismo, follia, dolore e depressione: non il miglior augurio per una carriera prospera e felice. 

“Io non credo che la tua sia una buona idea”.
Era la prima volta che Gilderoy pronunciava una simile frase nei confronti di Septimus: le idee del suo editore gli erano sempre sembrate buone, anzi, ottime. E non lo erano solo sembrate: guardandosi indietro, Gilderoy non si pentiva di niente. La sua carriera non avrebbe potuto essere migliore di così, e i consigli di Septimus si erano sempre rivelati vincenti, in qualche caso persino decisivi. 

Ma non questa volta. 

“Perché no? Pensaci! Pensaci con la testa, e non con qualche altro organo. Sei un ragazzo intelligente, Gilderoy, e sai benissimo che questo ci toglierebbe da tantissimi impacci. Hai letto gli appunti della Skeeter: la gente comincia a farsi domande, vuole sapere qualcosa della tua vita privata, e se non daremo mai alla gente qualche pettegolezzo, un flirt, una foto rubata di un momento intimo, la gente continuerà a scavare, e nessuno di noi vuole che la gente scavi fino a trovarti nel letto di qualcuno che ha qualcosa di troppo in mezzo alle gambe, siamo d’accordo, sì?”
Se erano d’accordo? Come se essere d’accordo avesse importanza. Le cose stavano semplicemente così: il Gilderoy Allock che tutti amavano e apprezzavano era stato costruito e studiato per piacere alle streghe, e quelle streghe volevano continuare a cullare il sogno che forse, un giorno, con un pizzico di fortuna, Gilderoy Allock avrebbe potuto notarle e innamorarsi di loro. Nessuna di loro credeva davvero che avrebbe potuto averlo, ma togliere dallo scacchiere anche solo l’ipotesi che questo potesse teoricamente parlando accadere era un suicidio pubblico. Forse il mondo magico sarebbe stato presto pronto per accettare di ammirare sulla copertina di ogni rivista l’immagine di un omosessuale, o forse no – perché Gilderoy le orecchie le aveva, e aveva pure occhi che oltre a essere belli funzionavano perfettamente, e si accorgeva benissimo di come venivano trattate quelle persone che decidevano di vivere la prorpia sessualità sotto la luce del sole – ma di certo non era pronto ad accettare l’omosessualità di Gilderoy Allock. 

Per un breve istante, il sorriso di Kingsley Shacklebolt tornò a stagliarsi nella mente di Gilderoy. Quel sorriso, e il modo in cui avevano chiacchierato, e la naturalezza con cui avevano condiviso il pomeriggio anche quando il motivo ufficiale che li aveva fatti incontrare si era esaurito, e il modo in cui si erano salutati dicendosi che forse, magari, se non fossero stati troppo presi dal lavoro, perché no, si sarebbero potuti rivedere, magari una sera, magari sempre in un quartiere babbano per evitare i giornalisti, sì, sarebbe stato bello.

Era stranamente doloroso pensare a come quella sera Gilderoy avrebbe aspettato di rivedere Gatsby e la grafia sottile di Kingsley mentre ora fissava Septimus e accettava di rinnegare tutto ciò che era e ciò che avrebbe potuto essere.

“Va bene. Lo farò, ci proverò. Sarò la splendida metà della tua splendida coppia, sperando di non essere io quello a finire con la testa infilata in un forno. Anche perché, ci scommetto quello che vuoi, i capelli di Queenie Royal non possono essere belli quanto i miei, quindi sarebbe davvero un peccato”.

Per una volta, aveva pronunciato quella battuta scherzosa sentendosi in bocca il sapore della cenere. 

“Però, credo ci sia un aspetto che non hai considerato: nessuno ha idea di chi sia Queenie Royal, quindi non so come tu possa aspettarti che io la seduca”.
Ma sul viso di Septimus era già comparso un sorriso così entusiasta e soddisfatto che Gilderoy capì di aver finalmente posto l’unica domanda a cui il suo editore sperava di poter rispondere da quando quella penosa conversazione era cominciata. 

“Non essere sciocco, Gilderoy, è ovvio che questo aspetto io l’ho considerato. Noi faremo delle indagini e scopriremo chi si nasconde dietro lo pseudonimo di Queenie Royal, naturalmente”.

“Noi?”
Gilderoy era titubante. Non riusciva proprio a immaginare lui e Septimus nascosti in un vicolo cupo di Notturne Alley, intenti a spiare una donna misteriosa avvolta in un mantello scuro, le braccia strette attorno al prezioso manoscritto del nuovo romanzo della Royal…

“Noi, con l’aiuto di un’esperta del settore. Vedi, Gilderoy, abbiamo appena firmato un contratto: concederai un’intervista in esclusiva a Fattucchiera 2000 una volta al mese, e quando finalmente metteremo le mani su Queenie Royal concederai scoop in esclusiva sulla vostra relazione alla donna che ci avrà aiutato a scovare la nostra Regina”.

Un brusco bussare alla porta d’ingresso dello studio fermò Gilderoy appena in tempo dal mostrare diffidenza per una tale concessione ai giornalisti: Septimus aveva sempre diffidato della categoria, pur cercando di sfruttarli al meglio, e aveva sempre ammonito Gilderoy affinché non si legasse troppo a un solo giornale e una sola piuma. Questo brusco cambio di rotta aveva tutta l’aria di un rischio che non era sicuro di voler correre. 

Septimus però gettò uno sguardo all’orologio appeso al muro, sorridendo felice. 

“Una puntualità che spacca il secondo! Questa donna sta rivelando qualità che non avrei mai nemmeno sospettato… Avanti, mia cara, avanti!”
La porta si aprì, rivelando una donna alta strizzata in completo di un violento color ciclamino. Le dita dai lunghi artigli dipinti di verde andarono ad aggiustare la posizione di un paio di occhiali bordati di strass, mentre lo sguardo avido di Rita Skeeter si posava su Gilderoy.

“Thesaurus e il suo tesoro più prezioso! Bene, bene… ci divertiremo un mondo, noi tre, ne sono sicura!”

Quelle parole, alle orecchie di un frastornato Gilderoy, suonarono come una sentenza. 





 

 


 

Note:

Sento già i fautori dello show don't tell affilare le lame per il modo ignobile in cui ho raccontato del pomeriggio di Kingsley e Gilderoy senza aver mostrato nulla. Lo so, lo so, sono stata pessima, ma giuro che ci saranno altre occasioni per farli interagire e avranno il loro spazio.

Ora, mi sembra inutile ribadirlo per l'ennesima volta, ma qui non si sa mai: per quanto sia affezionata a Septimus e a Gilderoy, la loro morale è decisamente discutibile  e non coincide con la mia, quindi quando leggete dei loro piani ricordatevi che non tutto quello che esce dalla loro bocca corrisponde alla mia sensibilità.

Infine, la questione dell'omosessualità di Gilderoy  e della reazione del mondo magico: qui siamo in un contesto leggero, parliamo di una storia in fondo piuttosto frivola e sciocca, quindi l'argomento non ha lo spazio che merita. Mi sono espressa ampiamente sulla questione nella mia storia "La memoria del cigno": il concetto che sostiene tutto resta il medesimo in entrambi i racconti, a cambiare è solo il registro.

Grazie per aver letto fino a qui!

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Capitolo 7
*** Pennuti e appuntamenti ***


Pennuti e appuntamenti




 

Erano passati tre giorni da quando Gilderoy si era ritrovato chiuso per quattro ore – quattro ore– nell’ufficio di Septimus in compagnia di Rita Skeeter. Un’esperienza a dir poco spiacevole: Rita Skeeter lo aveva incalzato con una sfilza di domande che sembravano solo un tranello teso apposta per vederlo precipitare in fallo. Domande apparentemente banali, volte a costruire la base di almeno quattro articoli diversi – quale tessuto predilige Gilderoy Allock per i suoi calzini? Gilderoy Allock ordina gli abiti nel suo armadio per colore o per occasione d’uso? Qual è il segreto per ottenere un riccio perfetto, secondo Gilderoy Allock? – ma piene di risvolti insidiosi, resi ancor più subdoli dall’atteggiamento da mastino della donna e dalla celerità con cui la sua Penna Prendiappunti era pronta a travisare ogni sua parola – Gilderoy Allock non sostiene l’economia locale, preferendo comprare lana di pecore bretoni al posto di quelle dei nostri contadini; Gilderoy Allock è costretto a riordinare personalmente i propri effetti personali, perché la sua dimora non si è rivelata abbastanza allettante per un Elfo Domestico; la testa di Gilderoy Allock è così piena di lacca che ci si chiede come possa contenere anche del talento.

Un vero e proprio incubo.

Per di più, la Skeeter sembrava del tutto disinteressata a Queenie Royal: durante quelle assurde interviste – che peraltro non avevano ancora visto la luce su alcuna rivista, e Gilderoy cominciava a vivere la posta del mattino come un'esperienza angosciante, mentre sfogliava i giornali cui era abbonato aspettandosi di scorgere un titolo malevolo su di lui – Gilderoy aveva spesso cercato di interrompere la donna provando a fare qualche domanda sullo stato delle indagini, sulla sua strategia per individuare quella insulsa scrittirce, qualsiasi cosa, ma non aveva ottenuto nulla, solo sorrisi rigidi e rapidi cambi di argomento. Sembrava quasi che alla Skeeter non interessasse davvero rispettare l'accordo preso con Septimus, come se volesse semplicemente approfittare della situazione e raccogliere quanto più materiale possibile su Gilderoy, finché le era possibile.

Insomma, erano passati tre giorni, ma Gilderoy aveva la sensazione che quei tre giorni pesassero come se fossero stati tre mesi.

Tutto ciò che desiderava era un po' di sano riposo: stendersi a letto con il viso ricoperto di un leggero strato di Elisir Pelle Splendente – un ragguardevole ritrovato di magicosmetica in grado di cambiare radicalmente l'incarnato di un mago – dimenticarsi del mondo e abbandonarsi a una delle sue frequenti fantasticherie fatte di personaggi e storie che non avrebbe mai scritto. 

E quel giovedì sera sembrava fatto apposta per quello: dopo l'intervista, Septimus non aveva affidato a Gilderoy alcuna incombenza lavorativa. Lui sapeva che quando avessero cominciato a lavorare seriamente sul manuale i ritmi si sarebbero fatti serrati e il tempo libero di Gilderoy si sarebbe ridotto quasi a zero, dunque era come se tra di loro ci fosse un tacito accordo: il lavoro del Sorriso‐Più-Affascinante-d'Inghilterra non conosceva ferie, ma Gilderoy sapeva di poter rallentare e concedersi un po' di tranquillità prima di far convergere ogni energia nel manuale senza  che Septimus lo rimproverasse troppo.

 

Il cielo fuori dalla finestra stava appena cominciando a tingersi di una leggera sfumatura d'oro, ma Gilderoy aveva deciso di considerare conclusa quella giornata. Aveva bevuto una tazza di tè arricchita da un cucchiaio di polvere proteica – non amava pozioni e intrugli per sostituire i pasti, ma non aveva proprio voglia di mettersi a bollire della verdura e quella settimana si era già concesso fin troppi sgarri alla dieta, dunque non poteva proprio permettersi la pigra tazza di latte e biscotti che desiderava – e si era già concesso un lungo bagno profumato.

Era ancora avvolto in un morbidissimo accappatoio di spugna turchese quando un lieve becchettare proveniente dalla finestra della sua camera da letto lo convinse a posare il bigodino che stava per fissarsi ai capelli. Gatsby – inconfondibile, con quel suo capo tanto piccino e gli occhi intelligentissimi, sostava elegantemente sul davanzale, un minuscolo scampolo di pergamena legato alla zampa.

Gilderoy non poté fare a meno di sorridere vedendo il gheppio dell’Auror Kingsley Shacklebolt e si precipitò ad aprire, respirando a pieni polmoni l’aria fresca e carica di umidità di quella sera di inizio primavera. L’animale entrò in casa con un frullo d’ali, si posò con precisione millimetrica sullo schienale della poltrona e fissò Gilderoy a capo chino, come a voler studiare la sua reazione. 

Ora che Kingsley lo aveva rassicurato sulla mansuetudine del rapace, Gilderoy doveva ammettere che si trattava di un animale davvero bello: il capo piccolo e tondo, il piumaggio che alternava un castano ramato a piume quasi nere, la coda che, come la testa, tendeva a un color cenere, Gatsby aveva un’eleganza tutta sua. Certo, Gilderoy continuava a fissare con sospetto i suoi artigli e il suo becco ricurvo, ma la voglia di conoscere il contenuto di quel messaggio era tale da poter superare la diffidenza. 

 “Hai qualcosa per me anche oggi?”
L’animale, quasi potesse capire le sue parole, sollevò la zampa a cui era legato il suo messaggio, in paziente attesa. 

Non era una lettera, questa volta. Non era nemmeno un biglietto, ma solo un pezzo di pergamena strappato da un foglio più ampio. Un appunto scritto di fretta in fondo alla bozza di un verbale di una qualche pericolosa missione da Auror, si ritrovò a immaginare Gilderoy. Gli piaceva immaginare Kingsley che, al termine di un lungo turno di lavoro, con qualche adempimento ancora da svolgere strappava via pergamena e pensieri al dovere per dedicare qualche parola proprio a lui. 

Gilderoy, con movimenti più goffi di quanto avrebbe voluto, sciolse lo spago che legava il biglietto alla zampa di Gatsby. 

 

È il secondo biglietto che ti mando (il primo è tornato al mittente). I tuoi incantesimi protettivi sono migliorati (ma non così tanto da fermare un Auror). Sono sicuro che potrai migliorare ancora.

K.

 

Gilderoy si ritrovò a fissare quella grafia sottile e a sorridere. Non il sorriso che dalle copertine di tutte le riviste gli era valso un premio, ma un sorriso un po’ ebete e trasognato. Gli sembrava quasi di vederlo, l’auror Shacklebolt: lui con il suo sguardo serio, tutto preso a scrivere quel biglietto senza riuscire però a nascondere un barlume di malizia e di scherzo in quelle parole apparentemente innocenti. Era sciocco, perché di certo in un solo pomeriggio Gilderoy non poteva pensare di aver imparato a conoscere per davvero Kingsley, ma qualcosa gli diceva che, se fosse stato lì di persona, Kingsley avrebbe parlato con il suo tono pacato, il viso serio e gli occhi accesi di divertimento. 

E, in un lampo di ulteriore intuizione, Gilderoy immaginò di aver capito l’intento di quel biglietto: non era certo di aver capito quale fosse lo scopo di Kingsley nell’insistere in quella frequentazione, ma se davvero, come Gilderoy sospettava – e sperava – l’interesse dell’Auror non era solamente professionale, allora l’intento di quel biglietto era evidente. Kingsley si era esposto per primo con quell’invito della domenica pomeriggio, e ora offriva a Gilderoy la possibilità di fare lo stesso, e lo faceva con indubbia eleganza. Perché se Gilderoy avesse taciuto, tutto si sarebbe spento senza imbarazzi e senza che nessuno di loro avesse detto o fatto nulla di sbagliato o compromettente. Se invece Gilderoy avesse colto l’invito implicito nascosto in quel biglietto, sarebbe stato suo compito fare un passo avanti ed esporsi, dando così a Kingsey una risposta implicita a una domanda mai pronunciata.
Oppure Gilderoy si stava sbagliando, e quel biglietto era solo il biglietto di un Auror scrupoloso e attento alla sicurezza di chiunque, anche di un comune cittadino che non sembrava essere bersaglio di alcun mago oscuro. Era probabile. Una possibilità sgradevole e che Gilderoy avrebbe voluto scartare, ma era pur sempre probabile.
Con un gesto della bacchetta, Gilderoy Appellò la sua piuma di pavone preferita – quella che usava per gli autografi nelle serate importanti – ma le sue dita, dopo il bagno, dovevano essere ancora poco sensibili, o forse unte di crema, perché la sua presa sulla bacchetta non era stata particolarmente salda e a finirgli fra le mani era stata una spazzola con il manico di madreperla.

Spazientito, Gilderoy attraversò la stanza fino a raggiungere il piccolo scrittoio e recuperare senza aiuto di magia la sua piuma. Sotto lo sguardo attento di Gatsby che, silenzioso, era planato sullo scrittoio, Gilderoy voltò il biglietto di Kingsley e vergò poche parole con la sua grafia migliore, sperando di imitare lo stesso tono in grado di nascondere l'ironia in mezzo a una posata serietà:

 

Ho una discreta passione per la perfezione, quindi sarei lieto se un Auror talentuoso volesse aiutarmi a raggiungerla.

G.

 

"Saresti così gentile da portare questa risposta al tuo padrone?"

Gilderoy non era mai stato incline a parlare con gli animali, ma Gatsby aveva uno sguardo così acuto che l'uomo era certo che non avrebbe mai allungato la zampa, se non fosse stato trattato con educazione.

Sbattendo le palpebre, l'animale sembrò accordare il proprio assenso.

Gilderoy rimase con la fronte posata contro il fresco vetro della finestra, osservando la figura del gheppio farsi sempre più piccola nel cielo sempre più scuro di quella Londra immersa nella primavera.

E vi rimase appoggiato ancora a lungo dopo che l'animale era scomparso, cercando di mettere ordine fra i pensieri sparsi e confusi che gli si affollavano in mente – pensieri che, chissà perché, avevano tutti lo stesso profilo serio dell'Auror Shaklebolt.

E poi, quando il sole era ormai scomparso per metà oltre i tetti delle abitazioni di fronte, nel cielo comparve un puntolino minuscolo. Un puntolino che si fece sempre più grande, fino ad assumere il contorno di una figura pennuta sospesa in aria in una planata che avrebbe dovuto essere inquietante – i rapaci planano per scovare una preda, no? – ma che riempì Gilderoy di gioia e di aspettativa.

Gatsby stava tornando.

Stava tornando e reggeva nel becco – nemmeno legato ad una zampa! – un altro scampolo di pergamena.

Gilderoy si affrettò ad aprire la finestra e a scostarsi per lasciare libero il passaggio all'animale, senza riuscire a nascondere l'avidità con cui scrutava il biglietto. Non poteva essere passato più di un quarto d'ora da quando Gatsby aveva lasciato casa sua a quando vi aveva fatto ritorno: certo, Gilderoy e Kingsley abitavano nella stessa città, quindi la distanza da coprire era tutto sommato modesta, ma una risposta così celere creava suggestive immagini nella mente di Gilderoy. Immagini che vedevano lui e Kingsley in pose gemelle, lo sguardo perso nello stesso rettangolo di cielo fuori dalle rispettive finestre ad aspettare spasmodicamente una risposta.

Con un fremito nervoso, l'uomo si lasciò cadere nella mano testa il nuovo biglietto.

Lo lesse, e seppe di essere in grossi, grossi guai.

 

Fra un quarto d'ora al massimo mi trovi in Saffron Street, al pub. Il mio tavolo è quello vicino alla vetrina. A stomaco pieno ci si allena meglio.

 

Era un invito a cena, quello? Se sì, era l'invito peggiore che Gilderoy avesse ricevuto – eppure lo faceva sentire al contempo leggerissimo ed elettrico come poche cose al mondo lo avevano mai fatto sentire.

Ovviamente Gilderoy doveva accettare. Gilderoy voleva accettare e avrebbe accettato, perché, al di là di qualsiasi buonsenso, al di là di ciò che avrebbe detto Septimus, al di là dei rischi che poteva correre, Gilderoy di Kingsley si fidava. Se ne fidava istintivamente, forse in maniera del tutto folle, ma del resto non poteva valer davvero la pena di vivere in un mondo in cui non ci si potesse fidare nemmeno della voce pacata e rassicurante di un uomo come Kingsley Shacklebolt.

E, del resto, Gilderoy sentiva anche che non ci sarebbe stata una seconda occasione. Sentiva che quello era l’ultimo appiglio, l’ultima volta che il gioco degli incantesimi di protezione poteva essere messo in campo. Dopo quel biglietto, uno dei due avrebbe dovuto uscire allo scoperto in maniera troppo esplicita per il mondo in cui vivevano – perché sì, Gilderoy poteva anche essere quello con più cose da perdere se il grande pubblico lo avesse scoperto intento a flirtare con un altro uomo, ma qualcosa gli diceva che anche per un Auror le cose non sarebbero state semplicissime. Entrambi si conoscevano ancora troppo, decisamente troppo poco per uscire allo scoperto a quel modo, dunque se volevano rivedersi dovevano aggrapparsi alla scusa offerta da quel bigliettino, Gilderoy lo sapeva.
Certo, c’era sempre la possibilità che Gilderoy si stesse solo raccontando un’altra delle sue storie e che Kingsley avesse delle motivazioni completamente diverse – non aveva fatto poi molto per suggerire un interesse sbagliato – ma qualcosa, nel modo circospetto con cui si era guardato attorno durante la loro passeggiata e quando avevano bevuto un tè allo stesso tavolo gli suggeriva che, in fondo, lui e l’Auror potessero avere almeno qualcosa in comune. 

Accettare quell’invito, tuttavia, presentava problemi che andavano ben oltre la possibilità che Kingsley avesse una bellissima e femminilissima fidanzata da qualche parte: accettare quell’invito significava rendersi più che presentabile in meno di dieci minuti.

Trovare degli abiti adatti a entrare in un pub babbano, non fare la figura dello straccione con suddetti abiti, e, soprattutto, trovare il modo di apparire bellissimo anche senza bigodini. 

Due respiri profondi fu tutto ciò che Gilderoy si concesse.
Non aveva tempo da sprecare nemmeno per calmarsi, ma non aveva raggiunto le prime pagine delle maggiori riviste della nazione lasciandosi prendere dal panico alla prima avversità.

Gilderoy aveva un senso estetico decisamente più sviluppato della media ed era deciso a farne un punto di forza.

“Ma senti un po’”, mormorò all’indirizzo di Gatsby mentre, con un gesto deciso, spalancava le ante del suo armadio per studiare la situazione vestiti, “non è che tu avresti qualche consiglio da darmi? Che ne so, un colore che il tuo padrone detesta particolarmente, una cosa del genere…”

L’animale, com’era prevedibile, rimase in perfetto silenzio, limitandosi a fissarlo con quel suo sguardo che, chissà perché, alla luce morente del tramonto sembrava adombrato di una sottile ironia. 

“Come non detto. Sarai bravo a consegnare la posta, ma chiamarti animale da compagnia è decisamente esagerato… allora, niente mantelli, suppongo, i babbani non li apprezzano”.

Altra occhiata divertita da parte del pennuto.

“E via anche le vesti lunghe, no? Che poi, il tuo Kingsley mi dovrà anche spiegare perché ci tiene tanto a non uscire dal suo quartiere babbano. Lo so, lo so, la privacy è importante, non dirlo a me! Ma tra quel quartiere e il Paiolo Magico ci sono discrete vie di mezzo!”
Gilderoy, intanto, aveva disteso sul letto quattro camicie di diverse tonalità di celeste – nessuna intensa quanto avrebbe voluto, ma insomma, una camicia turchese sarebbe risultata decisamente fuori luogo in un pub babbano. Con un sospiro, rinunciò anche al suo panciotto ricamato con bottoni in madreperla – perfetto con le camicie celesti – e si mise a osservare il reparto pantaloni del suo armadio. Scelse un modello di un delicato beige, consapevole del fatto che, per quanto bellissimo, sarebbe apparso banale e del tutto dimenticabile, con un abbinamento così scontato. Decise quindi di regalarsi un piccolo vezzo magico, concedendosi una cravatta cangiante perfettamente annodata.
“Oh, non guardarmi così”, mormorò spazientito all’indirizzo di Gatsby, “lo so che sono scialbo e insignificante, ma non è colpa mia se il tuo padrone tarpa le ali del mio stile!”

I capelli, però, erano un'altra questione. Se avesse potuto fare di testa sua, avrebbe scelto un cappello da abbinare alla cravatta e avrebbe coperto l'orrore di una chioma senza piega non togliendosi il copricapo per tutta la sera, ma sospettava che  i babbani non avrebbero visto di buon occhio un cappello d'argento. Ottusi.

C'era poco che potesse fare: i Bigodini-Autoriscaldanti erano un valido aiuto, certo, ma la bellezza richiede il suo tempo anche quando si può brandire una bacchetta, e Gilderoy non avrebbe mai azzardato un incantesimo sui suoi preziosi capelli, perché anche  il più piccolo errore avrebbe potuto trasformarsi in una tragedia.

Non c'erano alternative: si limitò a spruzzare poche gocce di Pozione Lisciariccio sui denti del pettine e a passare l'attrezzo nella chioma ancora umida, sperando che questo bastasse, se non a dar loro una forma, quantomeno a esaltarne lucentezza e morbidezza.

"Be', senti, questo è davvero il massimo che posso fare. Ora potresti cortesemente smetterla di fissarmi? Devo togliermi la vestaglia, mi imbarazzi, pennuto!"






 

 


 

Note:

Diciamo che ormai sono imbarazzante con questi ritmi d'aggiornamento, quindi forse ormai ho raggiunto un tale livello di imbarazzo che potrei fare quello che mi pare senza nemmeno scusarmi. In realtà, mi scuso eccome: questo aggiornamento è indecente. In realtà questa è solo la prima metà di quello che avrebbe dovuto essere il capitolo sette, ma riamandare di altre due o tre settimane l'aggiornamento mi faceva venire da piangere.

Insomma, mi dispiace davvero: questa storia meritava di essere scritta in un periodo diverso della mia vita.

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Capitolo 8
*** Galeotta fu la dieta ***


TW: non è qualcosa di esplicito e soprattutto è trattato in modo molto leggero, ma in questo capitolo ci sono alcune riflessioni di Gilderoy che potrebbero essere ricondotte a un approccio al cibo problematico.

 


 





 

Galeotta fu la dieta




 

Gilderoy doveva trovare una soluzione: non poteva continuare a prendere il Nottetempo e farsi lasciare poco lontano da Saffran Street, perché era  improbabile che l'autista dell'autobus potesse farlo viaggiare una terza volta senza riconoscerlo. E se lo avesse riconosciuto, avrebbe cominciato  a chiedersi che cosa andasse a fare Gilderoy in quel quartiere babbano, e poi tutto sarebbe diventato molto difficile e molto poco piacevole. Tutto ciò dando per scontato che ci sarebbe stato un terzo incontro: la possibilità che tutto finisse prima ancora di cominciare era sconcertante, ma Gilderoy doveva prenderla in considerazione, perché non poteva permettersi le illusioni e le conseguenti delusioni.

La sera, Saffran Street era un concentrato di luci contro il cielo non ancora del tutto scurito e babbani che passeggiavano tranquilli per lo squallido quartiere. C'era qualcosa di strano nel modo in cui le famiglie riempivano le strade: avevano tutti l'indolenza di turisti in vacanza, ma nessuno sano di mente sarebbe mai andato in vacanza in quella tristissima parte di Londra. A giudicare dal modo di muoversi e dalla mancanza di fretta di tutti quei babbani si sarebbe detto che quella non fosse una grande città, ma un piccolo villaggio di qualche secolo prima. Non fosse stato per l'architettura a dir poco disgustosa del luogo, per l'accalcarsi di automobili e rumori stridenti e per gli odori così penetranti e babbani, beninteso.

 

Gilderoy aveva ormai raggiunto il pub, e la visione di quella vetrata un po' unta affacciata sulla strada gli tolse per un istante il respiro. Non tanto per la pessima scelta di colori sgargianti dell'arredamento,  ma piuttosto perché, su quello sfondo variopinto e chiassoso, la figura seria di Kingsley spiccava con la solennità del ritratto di un sovrano. Da fuori, Gilderoy riusciva  a scorgere solo il suo viso e parte di un'anonima felpa babbana, ma il portamento fiero lo faceva risaltare contro quel contorno pacchiano e nonostante l’abbigliamento dimesso.

Quasi avesse sentito lo sguardo di Gilderoy incollato addosso, Kingsley alzò il proprio, incrociò gli occhi di Gilderoy e gli regalò un sorriso radioso,  che contrastava con la sua solita espressione seria e sembrava mostrare apertamente la giovane età dell'uomo.

Senza curarsi dei babbani che aveva attorno e senza nemmeno dare un'ultima controllata al proprio riflesso in vetrina, Gilderoy si affrettò ad afferrare la maniglia della porta – non pensò nemmeno che quell’oggetto unto avesse bisogno di una bella passata di Solvente di Nonna Acetonella!

L’odore pesante di fritto lo aggredì, aggrappandosi al suo naso con la stessa prepotenza con cui probabilmente sarebbe rimasto incollato ai vestiti, ma Gilderoy decise di soprassedere, raggiungendo con passo svelto la sedia che Kingsley aveva scostato per lui – un vero gentiluomo, in barba all’insistenza con cui cercava di mascherarsi da rozzo babbano. 

“Sei venuto… temevo che avessi troppi autografi da firmare e non riuscissi a liberarti”. 

C’era negli occhi di Kingsley una luce divertita, ma era un divertimento innocuo, privo di malizia. Kingsley stava cercando di ridere con Gilderoy, non di Gilderoy.

“Hai avuto fortuna. Il tour promozionale di In viaggio con il vampiro è appena finito e mi sto concedendo qualche giorno di riposo prima di iniziare un nuovo progetto…” minimizzò Gilderoy, consapevole che Septimus gli avrebbe ridotto in cenere tutti i bigodini, se solo si fosse lasciato scappare qualche indiscrezione di troppo su un progetto ancora così nebuloso come il manuale. Gli sembrava quasi di sentire la sua voce: anche i cubetti di ghiaccio babbano hanno le orecchie, Gilderoy, quindi fatti un nodo alla lingua e non fare sciocchezze! Del resto, essere lì con Kingsley era già una sciocchezza, che male poteva fare un’indiscrezione in più?

Kingsley fece scivolare sul tavolo un orrendo menù di cartone colorato su cui spiccavano disgustose ditate unte.

“Vuoi dare un occhio prima di ordinare?”
Per educazione più che per reale interesse, Gilderoy lasciò scorrere gli occhi sul testo, senza nemmeno leggere per davvero: dopo il tè proteico, non era davvero il caso di aggiungere anche del cibo vero alla cena. Non appena posò il menù, non fece neanche in tempo ad aprire bocca per giustificare con Kingsley la sua mancata ordinazione che una giovane cameriera strizzata in una divisa decisamente poco lusinghiera era comparsa al loro tavolo, tutta sorrisi e smorfiette. La ragazza si rivolse subito a Kingsley:

“Fammi indovinare, per te il burger vegetariano e dell’acqua, giusto?” Kingsley fece appena in tempo ad annuire che la ragazza si rivolse a Gilderoy:
“E a lei invece cosa posso portare?”
Forse fu la fastidiosa familiarità con cui la ragazza si era rivolta a Kingsley, dimostrando di ricordarsi di lui e di conoscere i suoi gusti, oppure la distaccata educazione con cui si era rivolta a Gilderoy, o la totale mancanza di qualsivoglia brillio curioso nei suoi occhi – non era proprio abituato, Gilderoy, ad avere davanti una giovane donna che non lo guardasse con ammirazione e interesse, poco importava che poi di quell’interesse lui se ne facesse ben poco – insomma, Gilderoy trovò terribilmente indisponente la cameriera, e decise di non concederle neanche la più piccola soddisfazione.

“Per me invece solo una spremuta d’arancia. Filtrata, per cortesia”.

La ragazza annotò tutto sul blocchetto che portava nella tasca della divisa e sparì, inghiottita dalle richieste del chiassoso tavolo vicino al bancone. 

Quando riportò lo sguardo su Kingsley, Gilderoy si accorse che l’uomo lo stava fissando con la fronte leggermente corrugata.

“Sicuro di non volere nient’altro? Hai già cenato, vero?”
E, con sua grande sorpresa, Gilderoy si ritrovò a inciampare sulla verità. Mentire per lui era un’abitudine consolidata, qualcosa che faceva da sempre, da prima ancora di diventare famoso.  Non aveva mai avuto remore nel cavarsi d’impiccio in una situazione spiacevole mettendo in fila qualche bugia, poco importava poi che la bugia potesse o meno mettere in difficoltà qualcun altro. In qualsiasi altra circostanza, non avrebbe nemmeno dovuto riflettere prima di dire che sì, purtroppo aveva già cenato, sarà per un’altra volta. E invece la limpidezza nello sguardo di Kingsley rendeva complessa anche quella semplice e sciocca bugia.
“Be’, più o meno. Ma in questi giorni ho pasticciato troppo, quindi è meglio se questa sera resto leggero”.

La fronte di Kingsley si corrugò ancora di più.

“Il digiuno non mi sembra una soluzione ottimale, però”.

“Non sto esattamente digiunando…”
“Una spremuta non mi sembra una cena”.

Gilderoy sbuffò, esasperato. Non amava dover rendere conto a qualcuno delle proprie scelte alimentari, nemmeno se questo qualcuno era Kingsley Shacklebolt.

“Non mi faccio dare lezioni di dieta da qualcuno che mangia cibo per conigli”, scandì, testa alta e con aria più petulante di quanto avrebbe voluto. 

Proprio in quell’istante, la cameriera tornò, posando davanti a Kingsley un panino che, per dimensioni, avrebbe potuto tranquillamente gareggiare con tutta la gabbia del coniglio, non solo con il suo mangime. Come se non bastasse, il piatto strabordava anche di una quantità di patatine fritte che sembrava essere stata pensata per sfamare tutto il locale, non solo Kingsley.

Entrambi fissarono il panino, poi si scambiarono uno sguardo e non riuscirono a trattenersi dallo scoppiare a ridere, con grande disappunto della cameriera che, evidentemente, non doveva essere abituata a vedere i clienti deridere i propri piatti. 

“Se vuoi una patatina…”
Kingsley posizionò il piatto in modo che fosse facilmente raggiungibile anche da Gilderoy.

“Ti ho detto che devo restare leggero e tu mi offri patatine fritte?”
Kingsley si strinse nelle spalle, dando un morso abbondante al panino e masticando con gusto. 

“A me sembri già perfettamente in forma”, mormorò dopo aver inghiottito, inchiodando Gilderoy al suo posto con uno sguardo così intenso che, per un istante, lui non ebbe dubbi su quale fosse il reale intento dietro quell’appuntamento. E così Gilderoy decise di sollevare il mento e giocarsi un'arroganza sfacciata: del resto, il suo era pur sempre il sorriso più affascinante d'Inghilterra, poteva ben permettersi qualche ammiccamento, no?

"Anche tu non puoi lamentarti della tua forma. Anzi, direi che non puoi lamentarti affatto, visto che a quanto pare qui sei di casa e per te è normale mangiarti tutta questa roba tutti i giorni".

Kingsley, che nel frattempo si era riempito di nuovo la bocca, scosse piano le spalle.

"Quando sgarro, io preferisco fare esercizio invece che digiunare" – e Gilderoy si ritrovò a pensare di nuovo al passo elastico e slanciato con cui lo aveva visto correre la domenica precedente – "e comunque non direi che qui sono di casa. Ci vengo solo tre o quattro volte al mese".

Per un attimo, al ragazzo in tuta che correva nel parco si sovrappose l'immagine dell'Auror in divisa della sera del loro incontro: erano due immagini così contradditorie, due immagini che cozzavano così tanto con il racconto della sua adolescenza passata a vegliare sull'uovo di un gheppio da posta magica che Gilderoy non riuscì proprio a ricacciare indietro la curiosità:

"Ma, senti, mi togli un dubbio? Che ci fa un Auror Purosangue come te in questo quartiere?"

Per tutta risposta, Kingsley sollevò gli occhi dal panino, si gettò attorno uno sguardo apparentemente svagato ma che Gildeory, abituato com'era a controllare sempre chi lo stesse osservando, riconobbe come un rapido esame della situazione,  e con un movimento così veloce e preciso che Gilderoy rischiò di non accorgersene nemmeno si fece scivolare  in mano la bacchetta che portava nascosta nella manica della tuta ed eseguì un incantesimo non verbale.

"Cosa… che fai?"

Lo stupore di Gilderoy non fece altro che aumentare quando Kingsley non nascose la bacchetta, ma la appoggiò sul tavolo, in bella vista accanto al coltello.

"Solo un piccolo incantesimo per deviare l'attenzione dei babbani. Non ci noteranno, ora, così possiamo parlare liberamente senza rischiare di essere sentiti".

"Ma non sarebbe illegale fare incantesimi sui babbani?"

Non che a Gilderoy importasse granché – maghi, babbani, lui non si faceva problemi nemmeno a cancellare la memoria alle persone, figuriamoci a distogliere semplicemente la loro attenzione!

"Be', sì, ma non è un incantesimo dannoso e serve a preservare lo Statuto Internazionale di Sicurezza, quindi ha comunque la precedenza".

Gilderoy si concesse un sorso di spremuta – che quella sciagurata di una cameriera si era ben guardata dal filtrare, e ora era piena di filamenti disgustosi – prima di riportare la conversazione sulla questione che lo interessava tanto.

 "Be', in realtà sono qui per lavoro".

"Stai seguendo un caso?"

Gilderoy sentì il gelo della paura percorrergli la spina dorsale. Se era lì per lavoro, forse qualcuno al Ministero aveva scoperto qualcosa sulla scia di memorie cancellate che si era lasciato alle spalle. Forse Kingsley era lì per arrestarlo, forse…

"No, a dire il vero no. È… un po' complesso".

"Se non hai voglia di spiegarlo, non c'è nessun problema", mentì Gilderoy: in realtà, la sua curiosità  non aveva fatto altro che aumentare con quella risposta, e l'idea di dover rinunciare a una spiegazione non faceva altro che rendere più desiderabile suddetta spiegazione.

"Be', non so se lo sai, perché in effetti di solito si pensa che gli Auror facciano cose più divertenti, ma alcuni di noi collaborano strettamente con i babbani. Non con tutti i babbani, naturalmente, ma almeno con quelli più importanti… il Primo Ministro, la regina…."

"Tu lavori con la regina?" Gilderoy non si trattenne dall'interromperlo. Poteva aver rinnegato e dimenticato da tempo ogni legame col mondo babbano, ma Gilderoy nutriva profondo interesse e ammirazione per la regina, per la padronanza dei gesti con cui sapeva salutare i sudditi e soprattutto per il suo coloratissimo guardaroba.

"Non lavoro con la regina,  e nemmeno con il Primo Ministro. Non lavoro proprio con nessuno per ora, a dire il vero".

Gilderoy era confuso, così decise di tacere, bere la sua spremuta piena di filamenti e ascoltare Kingsley – del resto, la sua voce era così bassa e piacevole che stare in silenzio ad ascoltarlo, qualunque cosa dicesse, era un'esperienza assai piacevole.

"Solitamente non si tratta di una vera e propria collaborazione, ma piuttosto di una via di mezzo fra un lavoro d'intelligence e di protezione. È sempre bene essere informati su ciò che succede ai capi di stato babbani, e, talvolta, anche se noi maghi preferiamo fingere che  non ci interessi, proteggere i suddetti può rivelarsi l'unica scelta possibile per mantenere la pace anche nella nostra comunità".

Gilderoy annuì, distratto, più occupato a osservare il modo in cui la fronte di Kingsley si aggrottava appena e il suo sguardo si accendeva di genuina passione nel parlare di politica interculturale che intento ad ascoltare il reale significato di quelle parole.

"E poi naturalmente ci sono i pericoli che noi possiamo portare nella loro comunità… insomma, puoi benissimo immaginare il pericolo che hanno corso i membri più importanti della comunità babbana durante la guerra".

Gilderoy annuì di nuovo, anche se la verità era che no, non immaginava quei pericoli e, a dirla tutta, non aveva nemmeno molto interesse a farlo. La guerra era un ricordo confuso e doloroso, fatto di privazioni e paura: Gilderoy, benché non ne parlasse mai, non poteva vantare origini purissime, e così durante la guerra era stato costretto a mantenere un profilo bassissimo e a cercare di non attirare troppo l'attenzione. Era stato orribile ed ora che la pace era tornata a ricostruire ogni cosa e dare spazio alla leggerezza lui non aveva alcuna intenzione di tornare a pensare a quell'orribile periodo.

"Ecco, io sto seguendo un programma che, un domani, mi permetterebbe di assumere un ruolo sotto copertura accanto ai babbani, se la cosa si rendesse necessaria".

Gilderoy lo fissò a lungo. Lo ricordava nei suoi panni di Auror, ricordava la disinvoltura con cui si era mosso in un contesto magico e formale, e faticava comunque a immaginarlo sprecato a perdere il suo tempo in mezzo a babbani che forse non avrebbero nemmeno mai avuto bisogno del suo aiuto. 

"Quindi il tuo lavoro consiste nel mangiare patatine fritte mentre le cameriere babbane ti fanno gli occhi dolci?"

Gilderoy non avrebbe voluto suonare così acido, ma in qualche modo la familiarità di quella ragazza lo aveva infastidito più di quanto fosse disposto ad ammettere.

Kingsley, però, si limitò a ridere.

"No, in realtà no. Faccio tutto quello che farei se non facessi parte di questo programma, solo che devo vivere in quartiere babbano e cercare di integrarmi al meglio,  così da avere una base solida nel caso in cui dovessi davvero lavorare sotto copertura. È una sorta di prova generale".

Kingsley non sembrava particolarmente scosso o turbato da questa situazione nonostante Gilderoy, al suo posto, avrebbe volentieri fatto armi e bagagli e salutato sbattendo la porta tutto il Dipartimento Auror.

"Cos'è, una punizione? Hai sabotato il tuo ultimo caso e quindi ti hanno spedito qui?"

Kingsley rise di nuovo, ma stavolta sommessamente.

"No, a dire il vero ho chiesto io di entrare in questo programma, e a quanto pare avevo tutti i requisiti adatti, e quindi eccomi qui".

Lo disse con una punta di soddisfazione che non fece altro che aumentare la perplessità di Gilderoy.

"Lo hai chiesto tu? Ma poi, scusa, non avrebbe più senso chiedere agli Auror di famiglia babbana invece che pretendere un Eccezionale in Babbanologia da un Purosangue?"

Kingsley si strinse nelle spalle, la testa china di lato e un'espressione concentrata in viso. Sembrava che stesse riflettendo per la prima volta sulla domanda, il che era assolutamente improbabile.

"Forse sì, ma spesso queste persone, per integrarsi al meglio nella società magica, scelgono di rinnegare più o meno consapevolmente il mondo babbano. E poi, questo non è esattamente il posto più ambito, e di solito si rischia di farlo ricoprire solo dai peggiori, che lo fanno in modo svogliato e ottenendo pessimi risultati. Io invece…"

Kingsley si interruppe, imbarazzato, ma Gilderoy sospettava di sapere dove volesse andare a parare. E di imbarazzo, quando di trattava di riconoscere il proprio talento, Gilderoy proprio non ne aveva, né avrebbe mai permesso a Kingsley di provarne.

"Tu invece sei l'Auror migliore del dipartimento, scommetto".

Imbarazzo, di nuovo.

E poi, con gli occhi fissi sul soffitto, Kingsley proseguì:

"Be', no, ovviamente no. Ma ho finito l'Accademia tre anni fa, e i miei voti di ammissione sono stati fra i più alti del corso".

"E quindi" cercò di capire Gilderoy "con i tuoi bellissimi voti avresti potuto scegliere di farti assegnare alla squadra che lavora ai casi più interessanti, ma tu hai comunque scelto di farti esiliare in questo posto orribile a giocare al babbano".

Kingsley sembrò irrigidirsi, e per un attimo Gilderoy temette di essersi spinto troppo oltre, criticando qualcosa che non avrebbe dovuto criticare.

"Qualcuno deve pur fare questo lavoro, e un Auror mediocre privo di motivazione non lavorerà mai bene".

Ovviamente uno come Kingsley avrebbe anteposto il dovere e la necessità alle proprie aspirazioni.

"E comunque, non è così male vivere qui. Mi piace questo quartiere, mi piace poter tornare a casa e camminare per strada senza che nessuno sappia davvero qualcosa di me. È come avere una grande libertà, alla fine, perché nessuno sa quali siano le tue responsabilità, e quindi nessuno può avere aspettative nei tuoi confronti".

Tacquero entrambi per un lungo momento: le parole di Kingsley avevano colpito tutto quel groviglio di emozioni e contraddizioni che Gilderoy stava sempre attento a non smuovere mai, a nascondere sotto le gratificazioni della fama e del successo e a ignorare. Perché, in fondo, Gilderoy capiva benissimo quale potesse essere quella sensazione. Non poteva dirlo ad alta voce – non poteva dirlo nemmeno a sé stesso, maledizione! – ma capiva la remota fascinazione di essere per un istante solo un ragazzo qualunque, un ragazzo seduto al tavolo di un pub da cui nessuno si aspettava niente. 

"Certo che è strano. Tu sei… non lo so, in un certo senso li stai ingannando tutti questi babbani, no? E mi sembra assurdo, perché tu mi sei sempre sembrato così… così trasparente. Sei la persona che ispira più fiducia al mondo, eppure menti a tutti".

Questa volta, Gilderoy se ne rese subito conto, le sue parole erano davvero state sbagliate. Kingsley si irrigidì, nei suoi occhi balenò un lampo di qualcosa fin troppo simile al dolore, e la sua postura mutò. Era tornata la maschera impassibile dell'Auror in servizio, quella posa imperscrutabile di una persona incapace di farsi scalfire dal mondo.

"Sono davvero contento di averti ispirato fiducia, e spero di non tradirla mai. Io non sto mentendo a nessuno: se sono così bravo in questo lavoro è perché ho imparato a far trapelare solo ciò che la gente vuole vedere. Non mento, ma la trasparenza è un'altra cosa".

Il silenzio che seguì fu lungo e pesantissimo, carico com'era di significati e di parole non pronunciate ad alta voce. 

Alla fine, incapace di sostenerlo un istante più a lungo, Gilderoy si ritrovò a mormorare:

"Non volevo essere invadente o offenderti" 

"Non mi sono offeso", si affrettò a specificare Kingsley con un sorriso sottile a stirargli le labbra.

"Però potrei offendermi se non mi aiutassi a finire queste patatine", soggiunse, allungando ancora un po' il piatto verso Gilderoy.

La puzza di fritto gli stuzzicò le narici: in fondo, era una puzza che, almeno sotto un certo punto di vista, poteva essere considerata un profumo. E Kingsley gliele aveva offerte come un chiaro tentativo di voltare pagina e ritrovare un terreno fatto di amicizia e complicità. Rifiutare quell'offerta avrebbe avuto lo stesso significato di rifiutare un trattato di pace.

"E va bene", si arrese, afferrando una patatina con la punta delle dita, "ma sappi che per colpa tua dovrò passare almeno una settimana a mangiare solo gambi di sedano e carote scondite!"

Kingsley finì di masticare il poco che restava del suo panino, prima di replicare:

"Che sciocchezza. Te l'ho detto, se pensi di avere esagerato con le patatine, ti basta fare un po' di esercizio fisico. Puoi sempre venire a correre con me, se da solo ti annoi!"

"Ma neanche morto! Correre significa sudare, e no, scusami, ma il sudore non mi dona. Non potrei mai farmi vedere così da te".

Gilderoy sapeva di aver appena spinto la conversazione verso una consapevolezza molto esplicita di ciò che sperava quell'appuntamento significasse, e per un istante rimase a tremare, temendo la reazione di Kingsley.

Reazione che giunse, rapida e sicura, impavida, piena di tutta quella salda determinazione che caratterizzava l'Auror: 

"Non credo mi dispiacerebbe avere l'occasione di vederti sudato. Sono sicuro che sapresti essere molto affascinante anche così…"

E Gilderoy, che le parole se le rigirava in testa, fra le mani e sulle labbra da sempre, per una volta rimase a corto di risposte brillanti. Si limitò a fissare lo sguardo intensissimo con cui Kingsley lo stava inchiodando al posto, sentendo le gote arrossarsi di qualcosa che niente aveva a che vedere con l'imbarazzo.

Alla fine, con un grande sforzo, Gilderoy si costrinse a smettere di fare la figura dello sciocco e a trovare qualcosa di intelligente e brillante con cui ribadire.

"Però correre davvero non fa per me. Dovrai escogitare un piano diverso per farmi sudare, signor Auror".

"Oh, ma io ho sempre un secondo piano".

Quell'uomo, Gilderoy ne era certo, avrebbe rappresentato la sua fine. Una grande, muscolosissima fine a cui Gilderoy non vedeva l'ora di andare incontro.





 

 


 

Note:

Ok, ormai non ci provo più neanche a tenere il conto di quanto tempo passi fra un capitolo e l’altro, ma insomma, ci siamo!
Ora, sarò brevissima, ma due parole sul ruolo di Kingsley nel mondo babbano mi sento di doverle dire: la famiglia Shacklebolt è annoverata fra le Sacre Ventotto dunque, per quanto probabilmente fossero piuttosto aperti al mondo babbano, c’è da supporre che lui sia nato e cresciuto in un contesto completamente magico. Eppure, durante la seconda guerra magica noi troviamo Kingsley intento a fare il segretario personale/guardia del corpo al Primo Ministro (hai capito Tony Blair che fortunello?). Ovviamente questo ruolo non l’ha ricoperto in quanto Auror alle dipendenze di un Ministero già corrotto, ma in quanto membro dell’Ordine della Fenice, ma insomma, se davvero il Ministro della Magia ha dei contatti col Primo Ministro Babbano, mi sembra plausibile pensare che esista anche un programma che stabilisca questo tipo di contatti. E se Kingsley ne avesse fatto parte (sebbene qui sia ancora molto giovane) avrebbe senso la facilità con cui si inserisce in un contesto babbano. Quanto alla regina, invece, in Harry Potter non è mai nominata, ma io non crederò mai che maghi e monarchia non abbiano avuto qualche tipo di contatto, nel corso della storia.

Bene, avevo detto che non mi sarei dilungata, e invece ho scritto note più lunghe del capitolo, quindi fuggo. 

Grazie davvero a chiunque abbia la pazienza di continuare a seguire questa storia. 

Un abbraccio!

 

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Capitolo 9
*** Promesse ***


Promesse




 

La pioggia era decisamente troppo forte perché Gilderoy potesse davvero pensare di concentrarsi sulla pergamena che aveva davanti agli occhi. L'idea di tutta quella pioggia che si stava riversando sopra Londra, soffocandola in una cappa umida e fredda, lo innervosiva. Sapeva che esistevano persone in grado di farsi cullare dal suono della pioggia che tamburellava contro le finestre, chiudendo il mondo fuori e trovando la giusta concentrazione per portare a termine ogni compito, ma Gilderoy non era così. Quando pioveva, Gilderoy pensava solo al crespo dei capelli, alle pieghe sfatte, ai vestiti rovinati e al pericolo di un raffreddore in agguato – naso arrossato e sguardo annebbiato, una pessima accoppiata in caso di paparazzi appostati dietro l'angolo.

Pensava anche ai rapaci che si limitavano a consegnare la posta davvero importante, rifiutandosi di fare la spola per tutta la sera fra un capo e l'altro della città per portare uno scambio di corrispondenza infinito. 

Naturalmente Gatsby non avrebbe avuto problemi ad affrontare quel tipo di pioggia, ma questo non significava che Kingsley lo avrebbe obbligato a svolgere il ruolo di sollecito postino che aveva ricoperto nelle ultime sere.
Si erano visti soltanto una volta dopo la cena a base di patatine fritte, e si era trattato di un incontro breve, un altro incontro informale in cui però non si erano nascosti dietro alcun tipo di scusa per rivedersi: si erano scritti, si erano detti d’aver voglia di rivedersi e si erano rivisti. Tutto d’una semplicità e di una naturalezza che Gilderoy non avrebbe mai potuto credere possibile in alcuna circostanza. Non c’erano stati altri incontri, ma c’erano state lunghe serate in cui Gatsby aveva attraversato continuamente il cielo di Londra, portando un esagerato numero di lettere da un capo all’altro della città. Gilderoy, che pure quei biglietti li aveva conservati tutti, non avrebbe saputo dire, su due piedi, il contenuto di quelle lettere: lui e Kingsley si erano scritti continuamente chiacchiere di poco conto, commenti brevi a fatti accaduti durante la giornata, parole prive di qualsiasi peso ma apparentemente incapaci di essere accantonate. Kingsley aveva cominciato, quasi per gioco, a ritagliare articoli di giornale che parlassero di Gilderoy e a mandarglieli correlati di commenti ironici – erano commenti che scherzavano sempre sul giornalista, sul suo modo di presentare l'articolo e sul mondo patinato da cui tutto sembrava provenire, non su Gilderoy, mai su Gilderoy – e allora Gilderoy rispondeva apportando correzioni e fantasiose critiche alla prosa del giornalista. E Kingsley assecondava quelle  correzioni, inviava una stesura di suo pugno dell'articolo che distorcesse volutamente ogni situazione, e Gilderoy continuava, e così le loro lettere si trasformavano in fantasticherie che somigliavano a veri e propri racconti comici, spesso pronti a sfiorare il demenziale, in cui Gilderoy interagiva con personaggi di fantasia, la cui vita si arricchiva di nuovi dettagli a ogni nuova lettera.

Gilderoy non aveva mai fatto una cosa del genere, ma quelle lettere, quello sfogo indistinto della pura gioia di scrivere e accostare parole a disegnare situazioni sempre più assurde per il puro gusto di alimentare fantasie lo faceva sentire completamente libero e leggero. Kingsley si era inserito in quel gioco dando prova di una fantasia sorprendente: Gilderoy non avrebbe mai sospettato  che un Auror tanto pragmatico potesse essere in grado di lasciarsi andare ad attività tanto prive di uno scopo, ma  mai sorpresa era stata tanto gradita.

 

Un lieve bussare alla porta del suo studio lo riscosse dai suoi pensieri,  costringendolo a un sobbalzo. 

"Avanti!"

Gilderoy si affrettò a nascondere la pergamena praticamente intonsa sotto una pila di vecchi appunti, sperando che Septimus non si accorgesse che il lavoro non era proseguito di una virgola da quando Gilderoy aveva promesso di cominciare a lavorarci.

"Eccoti, eccoti! Allora, come procede questa scaletta? Abbiamo qualcosa di concreto su cui lavorare?"

Gilderoy fissò gli appunti svogliati  che aveva davanti, sperando di trovare una giustificazione e una scusa plausibile per ammansire l'entusiasmo inquisitore di Septimus.

"Be', sì, procede, io…"

"Benissimo, benissimo! Dopo mi racconti tutto. Adesso lascia piuma e pergamena, aggiustati il sorriso e vieni nel mio ufficio, abbiamo un appuntamento con la signorina Skeeter".

Gilderoy avrebbe voluto essere grato alla signorina – che di signorile non aveva proprio niente – per la provvidenziale distrazione di Septimus, ma la preoccupazione superava qualsiasi tipo di gratitudine. 

Gilderoy non aveva nessun appuntamento con lei: la sua intervista mensile in esclusiva, parte del folle accordo stipulato da Septimus, era già stata rilasciata, ma di Rita Skeeter Gilderoy non si fidava. Quella convocazione improvvisa aveva sicuramente più di uno scopo, e Gilderoy sospettava che la Skeeter volesse cercare di rubar loro più attenzioni di quanto pattuito.

Tuttavia, Gilderoy non aveva altra possibilità che seguire Septimus lungo il cupo corridoio che collegava il suo ufficio a quello del direttore della Magic Inkheart, approfittando di ogni finestra per controllare la perfezione dei suoi ricci – una fotografia poteva sempre essere in agguato – e rassettarsi il completo da ufficio di un seriosissimo color carta da zucchero. 

"Dimenticavo", gettò lì distratto Septimus, mentre incedeva con il suo marciare pesante lungo il corridoio "domenica sei invitato a un convegno di Spezzaincantesimi nel Northumberland. È una cosa molto tecnica, tu sei solo un ospite, ti basterà raccontare qualche aneddoto sull’Albania e poi vi sposterete subito alla cena, quindi…"

"Domenica non posso, ho già un impegno".

Gilderoy non si era fermato a riflettere: convegni di quel genere erano un incubo, perché gli addetti al lavoro del mondo della sicurezza magica sembravano sempre pronti a dissezionare ogni sua frase con un bisturi tagliente, quasi credessero che lui fosse un ciarlatano e loro avessero la possibilità di smascherarlo. Però erano ottime occasioni di intessere relazioni sociali utili, creare contatti e ammaliare qualche pezzo grosso che in futuro avrebbe anche potuto rivelarsi di una certa utilità. 

Eppure, quella domenica era fuori discussione che Gilderoy preferisse cene scadenti in luoghi dimenticati dalla grazia di Corinna al misterioso invito che Kingsley gli aveva lanciato – fatti trovare alle otto precise all'ingresso del villaggio di Coniston, nel Distretto dei Laghi: al resto penserò io.

"Un impegno? Non mi risulta…" 

Septimus aveva estratto dalla tasca slargata della giacca l'enorme agenda rivestita di pelle di drago dove era solito appuntarsi qualsiasi cosa, compresa la frequenza con cui faceva dei doni a Ottilia.

"Non ti risulta perché non è un impegno che tu possa avere in agenda, è qualcosa di… personale".

Gilderoy aveva involontariamente abbassato lo sguardo, pronunciando quel personale. Se c’era qualcuno che sapeva tutto, o per lo meno abbastanza sulla sua vita privata, quello era Septimus. Septimus che aveva sempre mostrato una certa tolleranza per le sue inclinazioni, limitandosi a raccomandare più e più volte di tenere eventuali flirt ben lontani da qualsiasi sguardo pubblico. Eppure, Gilderoy non poteva fare a meno di provare una certa vergogna, quasi un senso di colpa, ogni volta che l’argomento tornava prepotentemente a galla. 

“Oh… oh, ma Gilderoy, sicuramente questo può aspettare. Il convegno…”
“Non credo possa aspettare. Non voglio che aspetti”.
Gilderoy, di nuovo, non aveva riflettuto prima di parlare. Gilderoy che era sempre stato attentissimo non solo a tenere al sicuro e lontano dai riflettori la propria vita privata, ma anche a non permettere mai che l’avventura del momento potesse anche solo lontanamente interferire con la propria carriera, si era ritrovato a rifiutare in maniera categorica e del tutto inconscia la possibilità di dover rimandare quello strano appuntamento.
“Gilderoy, per favore, sii ragionevole. Questo affare personale non può davvero essere più importante della cena e di…”
“Oh, ma qui stiamo affrontando argomenti interessantissimi! Che ne dite di anticipare l’intervista del prossimo mese? Sono sicura che fin troppe streghe ucciderebbero per leggere fra le righe della vita privata dello scapolo più ammirato d’Inghilterra!”
La porta dell’ufficio di Septimus si era improvvisamente spalancata sotto la spinta violenta e totalmente priva di grazia di Rita Skeeter. La donna indossava un terribile completo d’uno stridente color ocra – a Gilderoy pareva addirittura di udire il fastidio che quella visione gli provocava – e il suo sorriso ricoperto di rossetto magenta con tanto di sbavatura sull’incisivo si allargava come una minaccia sul suo viso acceso di curiosità. 

“Rita! Puntualissima, vedo! Ah, quanto è bello trovare qualcuno capace di dare valore al tempo altrui… vieni, cara, accomodati, e scusaci per l’attesa, ma insomma, io e Gilderoy avevamo delle questioni importantissime di cui discutere, sai, per quel progetto di cui ti ho parlato… te ne ho parlato, sì? No? Ma allora bisogna rimediare!”
Septimus trascinò una Rita stordita all’interno del suo ufficio, e Gilderoy si ritrovò, per l’ennesima volta nella sua vita, a ringraziare il cielo di avere un editore tanto pronto a captare il pericolo e a disinnescarlo. Le chiacchiere di Septimus sapevano essere così avvolgenti da sopraffare chiunque, anche un segugio come Rita Skeeter.

E così Gilderoy si ritrovò ad accomodarsi sulla sedia dove aveva passato tante ore della sua vita, immerso fra le carte e il disordine dello studio, sentendo accanto a sé l’ingombrante presenza di Rita Skeeter. 

Septimus fu a dir poco bravissimo: riuscì a offrire a Rita dettagli succulenti sul manuale che era ancora solo un’idea, senza però rivelare niente di davvero importante. Senza nemmeno rivelare che quello a cui stavano lavorando era un manuale, cosa che Gilderoy non sarebbe mai stato in grado di fare: decisamente, doveva ancora imparato molti  dei segreti di Septimus sulla dissimulazione. Riuscì anche a gettare in mezzo al suo discorso-fiume minuscoli accenni alla famiglia di Gilderoy, lasciando presumere – senza mai dire una palese bugia – che lui avesse bisogno di passare del tempo con alcuni familiari che non godevano più di ottima salute. Insomma, qualcosa di plausibile ma di poco interessante per Rita, che parve dimenticare ciò che aveva origliato e decise di non insistere in proposito. 

“Ma adesso lascio la parola a te. Se non sbaglio, mi hai scritto che hai delle novità sul piccolo… incarico che ti abbiamo affidato, giusto?”
Rita, in un istante, tornò serissima. Smise di giocare con la fibbia della sua borsetta, come faceva ogni volta che sembrava sul punto di estrarre la sua Penna Prendiappunti, e raddrizzò la schiena, posando sulla scrivania le sue mani munite di artigli di pessimo gusto. 

A Gilderoy venne quasi da ridere: sembrava che la giornalista priva di ogni scrupolo fosse scomparsa per lasciare il suo posto a una studentessa di Hogwarts decisa a dimostrare alla McGrannitt di aver studiato per bene la lezione.

Anche Gilderoy, del resto, si era ritrovato a sporgersi verso quella donna, improvvisamente ansioso di non perdersi nemmeno una delle sue parole: se davvero Rita aveva scoperto qualcosa su Queenie Royal, lui aveva bisogno di saperlo al più presto.
Non sapeva neppure lui che cosa sperasse di sentirsi dire: temeva di scoprire chi si celasse dietro quell’incubo letterario, temeva di doverla incontrare, temeva che la situazione fosse ancor più spaventosa di quella che già sembrava. Temeva, soprattutto, di dover mettere in atto il piano di Septimus: lo faceva perché aveva paura di fallire, certo, ma lo faceva anche perché questo avrebbe significato dover troncare sul nascere tutto ciò che stava succedendo con Kingsley.

“L’hai trovata? Hai scoperto di chi si tratta?”
Gilderoy non si trattenne e sputò fuori questa domanda fissando direttamente la Skeeter e ignorando le sopracciglia sollevate di Septimus. La donna arrossì lievemente, e Gilderoy ebbe l’impressione di scorgere nel suo sguardo un briciolo di vergogna.

“A dire il vero no, non ho ancora scoperto di chi si tratti”. 

Dunque anche Rita Skeeter non era il segugio formidabile che voleva apparire. 

Sollievo.
Gilderoy provava sollievo, ma il sollievo naufragò presto nella frustrazione: possibile che questa dannata Royal fosse così brava da nascondersi anche dalle indagini più accurate?
“Scusa, mia cara, ma avevi accennato a delle novità…”
Alle parole di Septimus, Rita parve riscuotersi e ritrovare un po’ di sicurezza.

“Infatti. Credo di aver trovato quella che potrebbe essere la pista vincente, ma mi servirà del tempo”. 

Improvvisamente, gli occhi della donna si accesero di un brillio metallico, che a Gilderoy ricordò in maniera incredibile il modo in cui lo stesso Septimus sapeva animarsi quando finalmente poteva dare spettacolo e mostrare un suo piano ben architettato. 

“Ho un contatto alla Gringott”, esordì infatti la Skeeter, raggiante. 

Septimus e Gilderoy si scambiarono uno sguardo incerto, ma nessuno dei due osò aprire bocca.

“Sì, insomma, un goblin che ho pizzicato tempo fa con gli artigli sporchi del fango che ti resta addosso quando ti immischi di mercato nero e vendita illegale di manufatti magici, e…”
“Rita, cara, purtroppo a me non interessano questo tipo di storie. Una denuncia sulla corruzione interna della Gringott farebbe sicuramente un figurone sulle pagine della Gazzetta del Profeta, ma io pubblico libri, non…”
“So benissimo quello che pubblichi, grazie”, Rita intervenne secca a interrompere Septimus.

“Quello che voglio dire è che questo piccolo collaboratore si è detto disposto a lasciar scivolare per sbaglio un occhio sui registri delle transizioni. Se la camera blindata di qualche strega dovesse essersi riempita di qualche galeone di troppo in corrispondenza con le pubblicazioni della Royal, potremmo iniziare a sommare gli indizi”.

“La Royal non si è fatta pagare per i suoi libri”, intervenne Gilderoy, senza riuscire a nascondere l’irritazione dalla voce: non aveva ancora digerito il modo in cui la beneficenza della Royal aveva oscurato la sua grande vittoria. 

“Non si è fatta pagare per il suo ultimo libro, ma per tutti gli altri la furbona ha intascato fino all’ultimo galeone delle sue royalties. E sì, prima che tu mi interrompa” Rita lanciò un’occhiata truce a Septimus “abbiamo considerato l’idea che la Royal non si sia fatta accreditare i pagamenti sul suo conto della Gringott, ma è del tutto improbabile”.

Gilderoy si ritrovò a concordare con Rita: facendo qualche rapido conto, i guadagni della Royal, per quanto limitati ai suoi primi romanzi, dovevano essere relativamente ingenti. Era quindi improbabile che Flintshire avesse scelto di pagarla con Galeoni sonanti senza passare per un’istituzione come la Gringott, perché un accredito che passava attraverso la Gringott generava un tracciamento magico che permetteva ad un onesto commerciante di dimostrare la legittimità di tutte le proprie entrate e uscite a qualsiasi controllo, e Flintshire aveva tutta l’aria di voler apparire irreprensibile agli occhi della legge.

“E se… se la Royal avesse un’altra banca?”
Gilderoy e Rita scoppiarono entrambi a ridere. Non esistevano altre banche nel mondo magico. Quei dannati goblin controllavano qualsiasi grammo d’oro rotolasse per il Paese.

“Un’altra banca? Quale altra banca, Septimus?”
Septimus si strinse nelle spalle, gli occhi stretti in due sottili fessure. 

“Non so. Una banca babbana, magari, proprio per sviare i sospetti…”
Era possibile? Gilderoy credeva di no. I libri di Queenie Royal erano così immersi di cultura magica da lasciare intendere che probabilmente la Royal non doveva nemmeno sapere quanti occhi avesse, un babbano. Eppure, se Ebenezer Flintshire avesse mai sospettato che prima o poi qualcuno avrebbe provato a rintracciare a tutti i costi la vera identità di Queenie Royal, prendere una precauzione del genere sarebbe stato non solo sensato, ma anche auspicabile. 

La voce spiccia di Rita Skeeter tornò a riempire la stanza:
“Non è da escludere, ma mi sembra la soluzione meno probabile. E in ogni caso, se non dovessimo trovare niente, potremo sempre passare ad analizzare il registro dei cambi: se la TuMiStreghi ha pagato la Royal con soldi babbani su conti babbani, avrà pur dovuto far richiesta alla Gringott per ottenere una nuova valuta, no? E anche tutti questi movimenti sono registrati”. 

 

Quell’incontro durò ancora a lungo, troppo a lungo per la pazienza di Gilderoy, soprattutto perché Septimus e Rita continuarono a parlare di Queenie Royal, dei suoi romanzi, delle strane tempistiche con cui erano stati pubblicati e del loro effetto sul pubblico dimenticandosi quasi completamente di Gilderoy. E Gilderoy avrebbe dovuto esserne felice, perché l’inizio di quell’incontro aveva rischiato di sfiorare la tragedia, con le domande inopportune della Skeeter e la sua voglia di scoprire che cosa si celasse dietro il suo impegno personale. 

Eppure, Gilderoy non era capace di stare al centro di una stanza senza essere anche al centro dell’attenzione, così prese a tamburellare con le dita, a emettere sospiri rumorosi, a picchiettare a terra con il tacco degli stivali, a giocherellare con piume e pergamene abbandonate sulla scrivania di Septimus fino a quando, finalmente – finalmente – Rita strinse le mani a tutti, promise di farsi viva entro due settimane con qualche risultato più concreto della sua ricerca e lasciò finalmente la stanza.

Senza gli orridi colori che la donna si portava addosso, Gilderoy ebbe la sensazione di poter respirare più liberamente.

“Allora, Gilderoy, il momento di conquistare la tua nuova fiamma si avvicina sempre di più. Sei pronto?”
Gilderoy annuì, svogliato. 

No che non era pronto. 

Non era pronto a dover studiare la vita di questa donna misteriosa, imparare i suoi gusti e le sue abitudini e mettere a punto con Septimus un tipo di personaggio il più adatto possibile a conquistarla. Non era pronto a corteggiare, a posare la mano sul fianco di una donna, a baciare una donna e farci chissà cos’altro. Non era nemmeno sicuro che sarebbe stato in grado di combinarci qualcosa, maledizione.

“Sono prontissimo”.

“Il tuo impegno personale di domenica non sarà un problema, vero?”
Dalla porta che Rita aveva lasciato socchiusa giunse il ronzare pigro e fastidioso di una grassa mosca che svolazzò nella stanza per poi posarsi in cima alla pila più alta dell’incartamento sulla scrivania di Septimus. Gilderoy fece un gesto pigro per scacciarla – cielo, quanto detestava gli insetti! – ma lei rimase impassibile.

“Non lo sarà”.

“Gilderoy, devi capire l’importanza della situazione”.

“Ti ho detto che non sarà un problema!”
Gilderoy era scattato, più nervoso di quanto avrebbe voluto. 

Detestava quella situazione, e detestava che Septimus riuscisse a vedere così bene attraverso le sue false rassicurazioni. 

“Gilderoy, ragazzo, lo so che è difficile. Sei stato impeccabile, in tutti questi anni, e lo so che non dev’essere stato facile. Però non puoi crollare, non adesso”. 

Gilderoy chiuse gli occhi: non voleva vedere lo sguardo pieno di compassione – una compassione sporcata di rimprovero  – di Septimus. 

“Non sto crollando”.

“Eppure mi sembra che sia più difficile del solito, per te”.

“Ti ho detto che non sto crollando. È solo che… lasciami questa domenica. Solo questa domenica, lasciaci questa domenica e poi ti giuro che mi dimenticherò di lui e mi sveglierò ogni mattina pensando solo a Queenie Royal”.

Gilderoy non riaprì gli occhi, sperando che assieme al mondo potesse ignorare anche il male che sentiva nel petto alla prospettiva di rispettare la promessa fatta a Septimus. Non aveva mai fatto così male. 

Non era giusto che facesse così male. 






 

 


 

Note:

Di parole per giustificare la mia lentezza non ne ho proprio più.
Mi dispiace, davvero, ma giuro che sto facendo del mio meglio in un periodo in cui il poco tempo libero che ho lo passo a fissare il soffitto cercando di recuperare energie. 

Ma, insomma, ci ho messo tanto questa volta perché nel frattempo ho anche scritto l’epilogo della storia. Che non è vicinissimo, ma scriverlo mi ha aiutata a dare ordine ad alcuni pensieri sparsi. E sì, se ve lo steste chiedendo: Queenie Royal è molto vagamente ispirata alla figura di Elena Ferrante, e sì, il metodo con cui la Skeeter vuole scoprire la sua vera identità si ispira (molto liberamente) all'inchiesta con cui il Sole 24 Ore ha scoperto l'identità della Ferrante.

Grazie a chiunque abbia la pazienza di continuare a seguire questa storia nonostante gli aggiornamenti a singhiozzo. 

 

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Capitolo 10
*** Il giardino segreto ***


Il giardino segreto




 

Coniston. 

Meglio definibile come un luogo fatto di nulla e abbandonato nel nulla. 

Gilderoy era arrivato all’appuntamento grazie al Nottetempo e con largo anticipo, perché, per qualche motivo, non aveva alcuna voglia di mostrarsi a Kingsley mentre scendeva da quello stupido mezzo di trasporto. E così era stato costretto a trascorrere tre quarti d’ora in quel posto orribile, un paesino appoggiato in mezzo a montagne dall’aria minacciosa, gravato da un cielo che prometteva pioggia, tutto intento a fissare gli escursionisti della domenica che scaricavano dalle auto zaini e bastoni da cammino.
Forse Kingsley aveva intenzione di portarlo a navigare sul lago, e l’idea poteva anche risultare vagamente allettante, ma il tempo incerto e quel vento che sembrava deciso a spazzar via ogni accenno di primavera era tutt’altro che invitante. Gilderoy si era rinchiuso nel pub che affacciava sulla strada principale – l’unica strada, ad essere onesti – e aveva sorseggiato un pessimo tè, cercando di non fissare la disgustosa bustina intrisa d’acqua che giaceva abbandonata su un piattino che, evidentemente, nessun cameriere aveva intenzione di far sparire dalla sua vista. Chiuse gli occhi, bevve l’ultimo sorso della bevanda ormai intiepidita e, quando riaprì gli occhi, scoprì di non essere più solo al tavolo: Kingsley era seduto di fronte a lui, una tazza di caffè stretta saldamente fra le dita e un sorriso soddisfatto sul viso. 

“Per tutti i boccoli di Corinna, ma tu non puoi comparirmi qui davanti così! Ma sei impazzito?”

Kingsley sorrise ancora di più, terminò il suo caffè con una sorsata decisa e si appoggiò allo schienale della sedia, soddisfatto. 

“Scusami. Ti stavo osservando dalla finestra e la tentazione è stata troppo forte”. 

“E lo Statuto Internazionale di Segretezza? Sei un Auror, non puoi fare quello che ti pare come se niente fosse!”
In realtà, dietro quella finta indignazione Gilderoy era estremamente compiaciuto. Se gli fosse sempre bastato sbattere le palpebre per ritrovarsi davanti Mr. Muscolo strizzato in una felpa babbana e armato di sorriso quasi irresistibile – niente a che vedere con il sorriso di Gilderoy, naturalmente, ma ci si avvicinava – allora Gilderoy avrebbe sopportato volentieri un tic all’occhio. Cominciava anche ad abituarsi a vedere Kingsley vestito a quel modo, con tenute comode e anonime: del resto, cominciava a pensare che sarebbe stato un peccato nascondere quel fisico imponente dietro mantelli e strati su strati di stoffa. 

“Ma nessuno si è accorto di niente, non ti preoccupare. Stai bene?”
“Sto bene, sto benissimo. Allora, che cosa…”
“Muoviti, finisci il tuo tè e vieni in bagno con me”, lo interruppe Kingsley, impaziente.

Gilderoy quasi soffocò con ciò che restava nella sua tazza: Kingsley voleva essere seguito con estrema impazienza in bagno? Alle otto del mattino, senza nemmeno scambiare qualche chiacchiera prima… era decisamente una svolta inaspettata e del tutto fuori tempo rispetto al ritmo che la loro conoscenza stava assumendo. 

“Kingsley… sei impazzito?”
“No che non sono impazzito”, sorrise lui, godendosi sornione l’effetto che la sua frase aveva provocato, “e tu non farti strane idee. Devo solo sistemare i tuoi vestiti, non puoi andare in giro così”. 

Gilderoy cercò di protestare, rimirando nel retro del cucchiaino la propria immagine distorta: aveva addirittura comprato delle riviste di moda babbana, ed era certo di essere vestito in maniera impeccabile – e, a dimostrazione di ciò, nel tempo che aveva trascorso lì da solo aveva attirato solo un paio di sorrisi femminili, ma nessuno sguardo stranito. 

“Non prendertela, stai diventando bravissimo a nasconderti fra i babbani. Prenderesti sicuramente il massimo dei voti al Corso di Dissimulazione e Occultamento, ma diciamo che sei un po’ troppo elegante per quello che ci aspetta”.

Gilderoy incassò con un sorriso soddisfatto il malcelato complimento, prima di tornare sospettoso.

“E si può sapere che cosa ci aspetta? Non mi piacciono le cose per cui non ci si deve vestire eleganti”.

Kingsley si alzò in piedi, facendo cenno con la testa verso la porta dietro cui si nascondeva la toilette.

“Lo so, e credo che fra dieci minuti mi odierai e non sarai per niente contento di quello che ho intenzione di farti fare. Ma, per favore, fidati e sopporta: sono sicuro che poi cambierai idea”.

Gilderoy, in qualsiasi altra situazione, sarebbe scappato a gambe levate da qualcuno che professava apertamente di volergli far fare qualcosa di cui non sarebbe stato contento. Ma, ahimé, fidarsi di Kingsley gli veniva sin troppo facile, e così, rassegnato, decise di alzarsi e seguirlo nel bagno del pub. 

Il bagno era solo uno stanzino minuscolo maleodorante già a quell’ora del mattino. Gilderoy avrebbe voluto fuggire non appena varcarono la soglia, ma del resto lo spazio ristretto lo costringeva a una piacevole vicinanza con Kingsley, e l’odore legnoso della sua colonia era un balsamo per le narici maltrattate di Gilderoy. 

“Stai fermo e lasciami lavorare, ora”. 

Gilderoy rimase immobile, gli occhi chiusi, i sensi tutti tesi a captare i movimenti del corpo di Kingsley che sfioravano il suo, mentre armeggiava con la bacchetta e trasformava il suo elegante completo in un… in un totale disastro.

Gilderoy si fidava di Kingsley, e lo faceva non solo perché la sua voce profonda e il suo modo di fare sempre pacato e sereno rendevano impossibile la diffidenza. Gilderoy si fidava di lui perché aveva avuto la prova che Kingsley sapeva cosa fare con una bacchetta e con dei vestiti. 

Eppure, quando Gilderoy abbassò lo sguardo per poco non si mise a strillare: il suo bel completo giacca-pantaloni era scomparso, sostituito da una felpa di un tessuto leggero e vagamente lucido e un paio di pantaloni con decisamente troppe tasche. Ma la cosa peggiore erano le zavorre che gli imprigionavano i piedi: scomparse le scarpe di vernice nera, apparsi invece un paio di inguardabili, scomodi, volgarissimi scarponcini. Scarponcini di un verde-malattia, corredati da una quantità di stringhe e ganci capaci di dargli il mal di testa e da una suola che prometteva solo strade impervie e situazioni sgradevoli.

“Oh, no. No, no no no no no, questo è troppo. No, Kingsley, davvero, credo che tu non riesca a vedere la gravità della situazione, ma io non posso… no, non posso uscire da qui così”.

Davanti al panico di Gilderoy, Kingsley si limitò a sorridere appena. 

“E invece stai molto bene. E tra un po’ mi ringrazierai, perché ti assicuro che nessuno vorrebbe scalare il Coniston Old Man indossando scarpe dalla suola liscia”. 

Gilderoy si sentì sprofondare. 

Kingsley non poteva davvero aspettarsi che lui scalasse una montagna. 

Gilderoy non sapeva nemmeno da che parte cominciare per appoggiare i piedi su un sentiero di montagna. Gilderoy non voleva imparare a scalare una montagna, nemmeno se a chiederlo era Kingsley. 

Del resto, Kingsley lo credeva un impavido esploratore. Era convinto che nei suoi viaggi avesse affrontato anche l’ignoto e l’avventura, oltre che innumerevoli creature pericolose. Una passeggiata in montagna non poteva essere qualcosa di così spaventoso, per il Gilderoy che diceva di aver dormito in una tenda in mezzo al deserto.

“Non sono certo che sia l’idea migliore che tu potessi avere, sai?”
Si limitò a mormorare con un filo di voce, dopo innumerevoli profondi respiri. 

Kingsley non rispose: aprì la porta e cedette il passo a Gilderoy, un gesto cortese e galante che strideva completamente con il luogo in cui si trovavano e la situazione in cui sembrava determinato a cacciarlo. Mentre percorrevano lo stretto corridoio che li avrebbe riportati al centro del locale, Kingsley si chinò appena in avanti, riducendo in maniera vertiginosa lo spazio che separava le proprie labbra dall’orecchio di Gilderoy. 

“Te l’avevo detto che avrei escogitato un piano per vederti sudare, no?”
E, in quel preciso istante, Gilderoy seppe di essere completamente perduto. Perché per quel mormorio roco e profondo sarebbe stato disposto anche a correre una maratona. 

 

***

 

Gilderoy non ricordava di essere mai stato così stanco. 

Gli facevano male anche muscoli che non credeva potessero appartenere al corpo umano, i piedi sembravano sul punto di esplodere dentro a quelle zavorre che aveva ai piedi, le mani strette attorno al manico di un paio di racchette che Kingsley aveva prontamente evocato minacciavano di coprirsi di vesciche. Sentiva degli sgradevoli rivoli di sudore addensarsi attorno alle sue tempie e percorrere la spina dorsale, ma ogni volta che aveva provato a slacciarsi la felpa il vento freddo gli aveva ricordato che la cima del Coniston Old Man era ricoperta di neve. Aveva sete, ma ogni volta che Kingsley gli allungava la borraccia non riusciva a bere che sorsi minuscoli, terrorizzato all’idea di piegarsi in due e vomitare. 

Camminavano da almeno venti minuti su un sentiero che costeggiava il fianco della montagna e, talvolta, offriva una splendida vista sul lago, ma Gilderoy non aveva abbastanza energie in corpo per ammirare la bellezza dei paesaggi. Sentiva i muscoli delle gambe tremare, e a ogni passo aveva la sensazione di dover trascinare su per quel sentiero due pezzi di marmo.

“Quanto manca per arrivare in cima?”
Non avrebbe voluto fare quella domanda che avrebbe subito tradito la sua stanchezza e la sua scarsa attitudine a camminare, ma la disperazione è una cattiva consigliera per un uomo distrutto. 

Kingsley, che per tutto il tempo aveva adattato il suo passo a quello di Gilderoy, lasciandosi superare da numerosi escursionisti che parevano non accorgersi nemmeno della pendenza del terreno, rispose con voce serissima:
“Oh, ma abbiamo appena iniziato. Ci vogliono circa quattro ore per arrivare in cima”.

Se le sue gambe non fossero state così rigide, Gilderoy sarebbe sicuramente crollato a terra per la disperazione. 

“Quattro ore? Quattro ore? No, senti, Kingsley, davvero, io non lo posso fare. Non posso, lo capisci?”
“Sto scherzando!”
La risata di Kingsley fu un piccolo spiraglio di luce in quella fredda e umida mattina.

“Cioè, ci vogliono davvero circa quattro ore per arrivare in cima, ma non è lì che ti voglio portare. Manca poco, non più di un quarto d’ora, te lo prometto… anzi, ecco, qui è dove dobbiamo lasciare il sentiero”.

Gilderoy non era certo che abbandonare il sentiero per dirigersi verso una sparuta macchia di vegetazione abbarbicata alla roccia fosse una buona idea. Poteva anche non essere un escursionista esperto, ma anche il buonsenso avrebbe suggerito a chiunque di non abbandonare il sentiero durante una passeggiata in montagna.

Eppure, ora che Kingsley lo aveva superato e dettava il passo della passeggiata, muovendosi con le sue falcate ampie e sicure, Gilderoy non aveva abbastanza fiato per opporre resistenza o almeno provare a sollevare qualche domanda. Si limitò ad arrancare come meglio poteva, fermandosi di tanto in tanto per detergersi il sudore dalla fronte o per rinsaldare la presa sulle racchette, terrorizzato com’era di mettere un piede in fallo sul terreno sdrucciolevole e ritrovarsi a valle con gli arti tutti al posto sbagliato. 

Camminarono in silenzio fra gli alberi, e ben presto Gilderoy si accorse che Kingsley aveva estratto la bacchetta e aveva cominciato, di tanto in tanto, a picchiettarla su una roccia qui, un albero là, a tracciare ampi movimenti nell’aria come se stesse cercando una corrente. Tutti gesti del tutto incoerenti e privi di qualsiasi significato, agli occhi di Gilderoy.

Infine, si ritrovarono davanti a una parete di nuda roccia, e Kingsley si fermò.

“Siamo arrivati! Sei pronto?”
Gilderoy si guardò attorno, sconcertato. Quantomeno, lungo il sentiero avevano incontrato punti panoramici capaci di mostrare loro luoghi dall’indubbia bellezza. Ora si trovavano di nuovo nel nulla, circondati da roccia chiara e terreno fangoso. Non c’erano alberi, non c’erano sentieri, non c’era niente di niente. C’era solo quel masso enorme davanti a loro, e Gilderoy non riusciva proprio a capire dove fossero arrivati, perché quella, decisamente, nessuno avrebbe potuto considerarla una meta. 

Non ebbe però tempo di esprimere le sue perplessità, perché le dita di Kingsley, improvvisamente, si intrecciarono alle sue, e Gilderoy decise che andava bene così. Andava bene davvero anche restarsene semplicemente immobile a fissare una parete di roccia, sudato e spettinato, se questo significava farsi tenere la mano da Kingsley.

Ma Kingsley, evidentemente, aveva altri piani in mente, perché dopo avergli stretto saldamente la mano, fece un passo decisissimo verso la parete di roccia. 

E la attraversarono.

Non fu come attraversare la barriera del Binario 9 e ¾, ma fu piuttosto come attraversare una galleria fatta di vento tiepido, una carezza estremamente piacevole dopo il sudore e il freddo di quella mattina.

Quando Gilderoy trovò il coraggio di riaprire gli occhi, rimase senza fiato per lo stupore. 

Era sparito il vento freddo. 

Scomparsa l’aria carica di umidità pesante, dissolte le nubi basse che avevano minacciato pioggia per tutto il giorno. 

Era scomparsa anche la nuda roccia.

Si trovavano sotto il sole tiepido e splendente di una giornata di primavera inoltrata, ma il calore era piacevolmente alleviato dalle frasche verdi degli alberi che li circondavano. 

Al centro di quella radura lussureggiante, Gilderoy si guardò attorno, senza fiato: ovunque riuscisse a posare gli occhi, fiori colorati arricchivano ogni anfratto, ogni angolo del terreno, ogni pianta.

Tutto era fiorito. 

C’erano ciliegi carichi di fiori dai delicati toni del rosa, all’ombra dei quali macchie di narcisi dorati circondavano i tronchi degli alberi. Cespugli di lavanda si intrecciavano a distese di giacinti carnosi, mentre rose di ogni tonalità immaginabile si arrampicavano sui tronchi di maggiociondoli pieni di grappoli color del sole. Distese di tulipani cedevano il posto a cespugli di fucsie, grandi azalee sfioravano le foglie di cespugli di peonie in boccio, e poi iris, genziane, alte piante di malvarosa e delicatissimi garofani, e camelie, e giunchiglie, ciclamini e viole del pensiero. 

E poi una quantità di piante che Gilderoy non era in grado di identificare, ma tutte cariche di fiori, cariche di colori, impegnate a sprigionare tutto attorno un profumo inebriante. 

“Dove siamo?”
Gilderoy si rese conto che, mentre si guardava attorno con la bocca spalancata e l’espressione stupita, doveva apparire estremamente sciocco, ma non gli importava. Quel luogo sembrava un angolo di paradiso sospeso nel tempo: tutto era fin troppo carico di colori e profumi, i fiori si intrecciavano l’uno all’altro in una concentrazione che non aveva proprio nulla di naturale, ma l’effetto finale riusciva comunque a togliere il fiato, per quanto fosse bello.

“Siamo sul versante settentrionale del monte Old Man of Coniston, duecento metri a nord rispetto al sentiero principale”.

“Oh, no, no che non siamo su quella stupida montagna. Non possiamo essere ancora su quella landa desolata e fredda”, mormorò Gilderoy, sfilandosi con un gesto deciso la felpa. La brezza tiepida gli avvolse la pelle nuda delle braccia in un abbraccio rassicurante, cancellando ad ogni respiro la fatica fatta fino a quel momento.

“Eppure, ti giuro che è così. Solo che i babbani qui non ci possono arrivare, e nemmeno la maggior parte dei maghi. Non che molte persone conoscano questo posto, almeno”.

Gilderoy, dopo aver mosso qualche passo incerto, spaventato all’idea di calpestare e rovinare qualche fiore, trovò finalmente uno spiazzo d’erba morbida su cui sedersi, cosa che con i suoi eleganti pantaloni non avrebbe mai potuto fare, per paura di macchiarli – un punto per Kingsley e il suo abbigliamento trasfigurabile!

Kingsley fece lo stesso, porgendogli di nuovo la borraccia da cui, questa volta, Gilderoy non ebbe timore di bere ad ampie sorsate.

“In realtà, siamo in una proprietà privata. Questo terreno formalmente appariva come la residenza di Violette Arrosoir”.

“Questo nome dovrebbe dirmi qualcosa?”
Gilderoy era moderatamente certo di non aver mai sentito nominare questa Violette.

“No, non credo, a meno che tu non abbia studiato a Beauxbatons”.

Ovviamente Gilderoy non aveva studiato in quella scuola di mangialumache: Hogwarts gli era bastata e avanzata.

“Violette Arrosoir è stata per tutta la vita la curatrice dei giardini di Beauxbatons, ma dopo aver dato le sue dimissioni, a ottant’anni suonati, chissà perché ha deciso di attraversare la Manica e stabilirsi su questo versante dell’Old Man”.

Gilderoy si guardò attorno: non era mai stato a Beauxbatons, ma conosceva alcune delle storie che si raccontavano sulla scuola francese. Si diceva che i suoi giardini fossero qualcosa di superbo, un preziosissimo esempio di magia portata all’estremo, in cui piante magiche rarissime di ogni tipo fiorivano per tutto l’anno.

“Be’, sì, si vede che questo posto è tenuto in piedi da un giardiniere esperto”, commentò Gilderoy, senza troppo interesse.

“La cosa interessante è che questo posto non è curato da nessun giardiniere, almeno, non lo è da circa sei anni. Eppure è ancora perfetto”.

Gilderoy sentì un briciolo di attenzione risvegliarsi in lui: non si era mai interessato molto all’Erbologia – detestava sporcarsi le mani, quindi appena gli era stato possibile aveva abbandonato la materia – ma riusciva a immaginare quanto complessi dovevano essere stati gli incantesimi lanciati al momento di piantare tutti quei fiori per fare in modo che a distanza di tutti questi anni il giardino apparisse ancora così perfetto.

“La Arrosoir è morta circa sei anni fa, e il suo è stato il primo caso a cui io sia mai stato affiancato da quando sono entrato fra gli Auror”.

“Mi hai portato sulla scena di un crimine?”, si allarmò Gilderoy.
Non avrebbe mai creduto che Kingsley fosse il tipo di persona macabra capace di affezionarsi ai luoghi che erano stati teatro di qualche delitto, ma insomma, forse l’Auror era stato molto bravo a nascondere la sua follia… o forse Gilderoy aveva frainteso la situazione, dato che Kingsley stava ridendo di gusto.

“Ma no che non è la scena di un crimine. Te l’ho detto, questo posto era solo la residenza della Arrosoir, anche se non credo abbia mai abitato qui, dato che di abitazioni non ce ne sono mai state. Lei infatti, buonanima, ha avuto un attacco di cuore in una pensioncina a Coniston. Una morte del tutto naturale, te lo assicuro”.

Gilderoy non riusciva a cogliere il nesso tra questo racconto e il motivo per cui Kingsley lo aveva portato lì, ma cominciava a non importargli nemmeno più: quel posto era davvero stupendo, e più il tempo passava, più Gilderoy si ritrovava a guardarsi semplicemente intorno e a sentirsi completamente in pace con sé stesso, immerso nella bellezza e con il cuore traboccante gioia. 

“Noi Auror abbiamo indagato sul caso per un fraintendimento della proprietaria della pensione. In realtà, sospetto che il mio capo all’epoca ci avesse assegnato il caso solo per mettere alla prova me e un paio di colleghi giovanissimi, giusto per vedere come avremmo agito sul campo”.

Gilderoy fissava le labbra di Kingsley, mentre l’uomo raccontava, incapace di staccargli gli occhi di dosso. La luce del sole, filtrata attraverso le chiome degli alberi, gli ricadeva morbida sul viso, addolcendo i suoi lineamenti e facendolo sembrare il ragazzo giovanissimo che doveva essere stato all’epoca dei fatti.

“Insomma, abbiamo scoperto che lei si era trasferita in Inghilterra per condurre un esperimento: voleva ricreare il clima dei giardini di Beauxbatons, realizzando questo parco che è un ecosistema in perfetto e stabile equilibrio perenne, ma la cosa straordinaria è che lo ha fatto utilizzando solamente piante babbane. Ha realizzato davvero qualcosa di straordinario…”

Gilderoy dovette convenire che sì, quel luogo era davvero straordinario. Probabilmente si trattava di un luogo unico al mondo, e improvvisamente fu felicissimo di trovarsi in un posto del genere insieme a Kingsley.

“Tecnicamente, una volta scoperto lo avremmo dovuto distruggere, perché la Arrosoir non aveva alcun permesso di prendere un luogo così vicino a vie di transito babbane e metterci così tanti incantesimi illegali, ma abbiamo scoperto che molte delle piante che crescono qui sono rare e protette, quindi intoccabili, e così abbiamo potuto semplicemente rafforzare gli incantesimi di disillusione e quelli respingi-babbani, e il paradiso della Arrosoir è rimasto intatto”.

C’era davvero qualcosa di sorprendente in tutto ciò, e improvvisamente Gilderoy provò una fitta di dispiacere nel sapere che Violette Arrosoir, che sicuramente doveva essere stata una strega dotata di una personalità originalissima, era morta: non gli sarebbe dispiaciuto conoscerla e sentirla parlare del suo giardino, dello scopo con cui lo aveva costruito e del motivo per cui aveva fatto tutto lontano dalla legge. 

“Non avevo mai sentito parlare di questo posto. E dire che è così bello che dovrebbe essere famoso!”
Kingsley annuì, e poi si strinse nelle spalle. 

“Sì, forse dovrebbe, ma insomma, è stato comunque creato aggirando la legge, quindi il Ministero ha deciso di tener nascosta la cosa. Solo alcuni importanti botanici sono stati messi a conoscenza del luogo, per permettere loro di continuare a studiare queste piante, e tre di noi Auror hanno il compito di venire qui periodicamente a controllare che gli incantesimi continuino a funzionare come devono”.

“Quindi”, scherzò Gilderoy “la verità è che mi hai portato qui solo perché in realtà dovevi lavorare di domenica e non avevi voglia di farlo da solo?”
Kingsley rise, di nuovo. 

“Ma no, i controlli dovevo farli in settimana. Ti ho portato qui perché ho pensato che fosse un posto che potesse piacerti”.

“E hai pensato bene”, mormorò Gilderoy, stupendosi da solo della propria sincerità. 

“È un posto bellissimo, e sono contento che tu lo abbia fatto, nonostante la tortura per arrivarci e questi vestiti orribili. Questi te li devi ancora far perdonare”. 

Gilderoy incrociò le braccia al petto, fingendo un broncio che in realtà era molto distante dalla serenità che provava. 

“Ah sì? Hai qualche idea su come dovrei fare per farmi perdonare?”
Kingsley, seduto accanto a Gilderoy, si voltò appena, in modo che potessero guardarsi negli occhi. Occhi che sembravano fatti apposta per sprofondarci dentro, pensò Gilderoy, perso com’era davanti a quello sguardo intensissimo. 

“Sei tu l’Auror che ha sempre un piano di riserva, no? Hai trovato un modo per farmi sudare, sono sicuro che potrai trovare anche il modo di farti perdonare”.

Il bacio che seguì non fu inaspettato. Entrambi avevano fatto passi grandi e piccoli per dare forma al sentiero che aveva portato le loro labbra a sfiorarsi, ed entrambi sapevano di aver girato attorno a quella situazione fin troppo a lungo. Quello che stupì davvero Gilderoy non fu nemmeno lo scoprire che Kingsley sapeva baciare bene come sembrava saper fare bene qualsiasi cosa, ma piuttosto fu la naturalezza di quel bacio. Si erano incontrati a metà strada, ed era stato come riconoscersi all’improvviso. 

Quando si allontanarono – poco, pochissimo, quel tanto che bastava a tornare a respirare continuando però a carezzarsi il viso e sfiorarsi con la punta dei nasi – Gilderoy si ritrovò a scivolare in avanti, mormorando piano, senza nemmeno pensare a quello che stava dicendo,  che quel bacio era al sapore di paradiso.

Fu un istante. 

Kingsley si irrigidì, allontanandosi abbastanza da poter guardare Gilderoy negli occhi, e per un istante a Gilderoy parve che la maschera dell’Auror impassibile fosse tornata.

“Cos’hai detto?”
Ma a Gilderoy non importava. Era sicuro di poterla baciare fino a consumarla, quella maschera, e così fece.

Tornò a cercare le labbra di Kingsley, improvvisamente mosso da una smania nuova di sentire contro di sé il corpo dell’Auror.

“Niente. Ho detto che questo posto è il paradiso, e tu sei il paradiso, e ti prego, sulla terra non torniamoci più”. 

E allora Kingsley perse quell’improvvisa rigidità, e lo strinse tra le braccia con nuova foga, quasi volesse davvero trattenere Gilderoy per sempre in quel paradiso. 

Il tempo, per un poco, smise di esistere.





 

 


 

Note:

Greta che aggiorna due volte in meno di una settimana? È forse un segno dell'imminente fine del mondo? Può essere.

Ora, io non sono sicura che questo capitolo sia sensato. Non sono sicura che abbia senso spedire questi due piccioncini prima a passeggiare in montagna e poi a passeggiare in un giardino incantato dove qualsiasi fiore sboccia tutto l'anno, ma insomma, lo vedo come un mio personalissimo omaggio a quello che per me sarebbe l'appuntamento perfetto.

Questo è un capitolo apparentemente fine a sé stesso e all'avanzare della trama romantica, ma in realtà ho cercato di nascondere alcuni dettagli che dovrebbero scuotere la Jessica Beatrice Fletcher che è in voi 🧐

Grazie a chiunque abbia letto fino a qui!

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Capitolo 11
*** Una buona ragione per infrangere le promesse ***



 

Una buona ragione per infrangere le promesse




 

Se quella giornata fosse stata un romanzo – un romanzo qualsiasi, anche una robetta scadente e dimenticabile – il capitolo si sarebbe concluso esattamente così. 

Un luogo magnifico, il bacio perfetto, e poi una lunga pagina bianca, per permettere al lettore e ai personaggi di tirare un po’ il fiato, di raccogliere i sentimenti e di tornare nel capitolo successivo con una vita riordinata, con il cuore disteso e tutta la chiarezza mentale per dispiegare una situazione già appianata. 

Ma la vita, ahimé, era ben lontana dalla pulizia di un romanzo, e a un primo bacio perfetto seguiva, inevitabilmente, il momento del distacco e dell’imbarazzo. 

Perché sì, forse Gilderoy avrebbe anche voluto continuare a baciare Kingsley all’infinito, ma venne comunque il momento in cui i baci dovettero terminare, e allora restò solo un silenzio da cercare di riempire. 

Che cosa ci si dice quando per giorni ci si è avvicinati, giocando sul filo dell’ironia e facendo minuscoli passi avanti, per poi arrivare a scambiarsi un bacio come quello?
Gildeory non lo sapeva.

Gilderoy era abituato solamente a incontri privi di importanza, rapporti consumati in fretta dopo essersi scambiati solo bugie. In quegli incontri c’erano solo poche parole, e quasi tutti finivano con un pulito incantesimo di memoria: non aveva senso perdere tempo con carinerie e chiacchiere.
Con Kingsley, però, era diverso. Con Kingsley, Gilderoy voleva che fosse tutto diverso: si conoscevano, almeno un po’,  e Gilderoy voleva che quello fosse solo l’inizio di qualcosa. Ma per essere l’inizio di qualcosa, era necessario sbloccare quella situazione piena di imbarazzi. 

Gilderoy si voltò appena: Kingsley era disteso sulla schiena, si sosteneva sui gomiti e fissava con una piega concentrata in mezzo alla fronte il cielo. 

Gilderoy stava per fare una battuta – non una delle sue battute più brillanti, dovette ammetterlo – su quella piega concentrata, ma Kingsley lo precedette.

“Gatsby?”
Anche Gilderoy sollevò lo sguardo e si rese conto che, sì, un rapace stava planando placidamente verso di loro – per quanto placida potesse essere la planata di rapace: a Gilderoy non piaceva trovarsi dal lato della preda, non gli piaceva per niente, nemmeno se il pennuto in questione era un gheppio con cui nei giorni scorsi aveva quasi imparato a fare amicizia. 

Eppure, Gatsby non ebbe un solo atteggiamento minaccioso.
Strofinò il capo contro le dita di Kingsley, che lo carezzava con infinita tenerezza, e lanciò anche uno sguardo a Gilderoy che sembrava voler dire sì, ho visto anche te, e no, nemmeno oggi ho voglia di cavarti gli occhi ad artigli nudi. 

Incoraggiante, insomma. 

Presto Gatsby si stancò di farsi coccolare, e allungò semplicemente la zampa per porgere a Kingsley un minuscolo foglietto. Un foglietto che in realtà si rivelò essere una strisciolina di pergamena lunga e sottile, piegata a fisarmonica infinite volte.

Con la fronte sempre più aggrottata, Kingsley spianò pazientemente la pergamena, piega dopo piega. Gilderoy fremette: sapeva che spiare la corrispondenza altrui era da maleducati, ma la normale curiosità che in qualsiasi situazione lo avrebbe spinto ad allungare casualmente un occhio oltre la spalla dell’uomo non faceva che crescere davanti a quel singolare modo di scrivere messaggi. Insomma,  non resistette e si chinò spudoratamente in avanti per poter vedere meglio. 

Kingsley non se la prese, anzi, allungò un pochino le braccia per fare in modo che lui potesse vedere meglio.

Quando anche l’ultima piega fu sul punto di dispiegarsi, la pergamena schizzò via dalle mani di Kingsley, si sollevò a mezz’aria e, con grande stupore dei due uomini, si produsse in quello che era senz’ombra di dubbio il verso volgare che avrebbe fatto quel simpaticone di Pix nei suoi momenti migliori. Nel bel mezzo del loro sbigottimento, la pergamena prese fuoco. 

“Ma che cosa…”
Lo sconcerto di Gilderoy, se possibile, non fece altro che aumentare quando Kingsley, invece di indignarsi come sicuramente avrebbe fatto lui, scoppiò in una fragorosa risata. 

Davanti all’incertezza di Gilderoy, Kingsley si affrettò a dare una spiegazione che, in tutta onestà, non fece che spiazzarlo ancora di più:

“Be’, hai appena conosciuto mio nipote Mortimer”.

“Tuo nipote? Hai un nipote? Che vuole darti fuoco?”

Kingsley rise ancora più forte, spazzando via con la mano i rimasugli di cenere che gli sporcava i pantaloni. 

“Non ho un nipote, ne ho due, a dire il vero: Mortimer e Marigold. Hanno otto anni, sono gemelli, ma sono molto diversi… Marigold non avrebbe mai cercato di darmi fuoco. Credo”. 

Kingsley non aveva mai parlato della sua famiglia, se non per rari accenni alla falconeria. Era pur vero che Gilderoy non aveva mai fatto molte domande in proposito, perché aveva paura che se il discorso avesse preso quella piega, lui avrebbe dovuto ricambiare parlando della propria famiglia, e non aveva la minima voglia di dover cominciare a parlare di origini babbane e di screzi e di come i rapporti si fossero logorati e assottigliati così tanto da essere diventati qualcosa di inesistente. 

“E perché Mortimer dovrebbe volerti dare fuoco, invece?”
La curiosità, comunque, era più forte della ritrosia, e così Gilderoy decise di buttarsi. 

“A dire il vero, credo che sia per colpa tua”.

Per colpa mia?”

Una situazione più paradossale Gilderoy non credeva di averla mai vissuta.

“Non proprio tua tua. O almeno, lui non sa che la colpa sia tua, ma insomma, questa mattina, prima di raggiungerti, mia sorella mi aveva invitato a pranzo da loro. Mortimer non deve aver preso granché bene il mio rifiuto”. 

Gilderoy, inevitabilmente, si ritrovò a sorridere. Gli piaceva immaginare Kingsley intento a scegliere Gilderoy nonostante le minacce di un ragazzino di otto anni. 

“Mi sento quasi lusingato. Quasi. Ma, insomma, sei un Auror, non dovresti punire i marmocchi che fanno magie fuori da Hogwarts?”
Kingsley, invece di risentirsi, non fece altro che sorridere. Un sorriso un po’ compiaciuto e fiero: era un sorriso tutto nuovo, che Gilderoy non gli aveva mai visto in viso, ma che comunque gli donava. 

“È ancora piccolo per andare a scuola, quindi queste sono solo magie involontarie. Non posso certo arrestarlo solamente perché ha moltissimo talento!”

Sorrise anche Gilderoy: quel ragazzino aveva davvero del talento, perché non era da tutti saper incanalare con tanta fantasia e precisione la propria magia prima ancora di impugnare una bacchetta. Lo stesso Gilderoy non era certo di essere stato in grado di fare la stessa cosa, a otto anni. Non che ci avrebbe mai provato, del resto: lui era molto meno volgare, anche da bambino, ma non era quello il punto. 

“Deve aver preso tutto dallo zio, un certo Mister-Recluta-Coi-Punteggi-Migliori, vero?”

Kingsley scoppiò a ridere, la testa gettata all’indietro in un movimento così spontaneo che, per qualche motivo, quasi commosse Gilderoy.

“In realtà è Marigold quella che mi somiglia di più, Mortimer è tutto sua mamma”.

“Ah, e sua mamma non avrebbe potuto prendere il punteggio più alto fra tutte le reclute?”
Gilderoy si ritrovò ad essere incuriosito dalla famiglia di Kingsley. Aveva intuito che Kingsley aveva voglia di parlarne, ma probabilmente aveva capito che Gilderoy non avrebbe ricambiato con altrettanti racconti, e andava bene così. 

“Se avesse voluto, credo che mia sorella si sarebbe mangiata a colazione i miei punteggi in Accademia”.

“E non ha voluto?”
Kingsley ride di nuovo, fissando le poche nuvole sparse in quel cielo improvvisamente estivo.

“No. Ha preferito prendere dodici Eccezionale ai M.A.G.O. con un pancione che riempiva tutta la Sala Grande, e poi ha preferito continuare a mandare avanti l’allevamento di famiglia”.

Gatsby, quasi si fosse sentito preso in considerazione da quell’ultima affermazione, fece schioccare il becco.

“Non dev’essere stato facile”, si ritrovò a mormorare Gilderoy, cercando di nascondere un brivido d’orrore: se già l’idea di avere degli esseri umani in versione piccola e incompleta eternamente attaccati alla veste lo terrorizzava, pensare di averne due a diciassette anni era una specie di incubo.

“No, in effetti no, ma credo che lei sarebbe in grado di diventare Ministra in sei mesi, se si impegnasse”. 

La genetica doveva essere stata particolarmente generosa con i membri della famiglia Shacklebolt, si ritrovò a pensare Gilderoy. Forse aveva anche un po’ di curiosità nei confronti di questa energica sorella, anche se era decisamente, decisamente troppo presto per pensare di fare la conoscenza con qualche membro della famiglia di Kingsley. Soprattutto un membro dotato di due appendici umane sotto i dieci anni. 

“E tu quanti mesi impiegheresti per diventare Ministro?”
Ministro Shacklebolt: non suonava poi così male. Anche Ministro Allock aveva un che di allettante, ma Gilderoy si sentiva troppo giovane per buttarsi in politica. Un giorno, magari, quando la sua carriera si fosse consolidata completamente e fosse stata pronta a resistere a qualsiasi colpo del destino. Quando il suo ruolo nella società si fosse fatto più pressante e la fiducia in lui si fosse diffusa in modo capillare in ogni strato della popolazione, allora sì, perché no, avrebbe potuto raggiungere un diverso tipo di fama.

"Non credo che la politica sia la mia strada", tagliò corto Kingsley, con una risata appena trattenuta.

“Troppi compromessi e troppi riflettori puntati addosso… no, non fa per me”.

“Eh sì, molto meglio stare in un angolo al buio, hai proprio ragione”, mormorò Gilderoy, un po’ irritato e un po’ sarcastico. Come qualcuno potesse rinunciare a un ruolo di prestigio solo a causa delle attenzioni conseguenti a un tale ruolo restava per lui un insondabile mistero.

“Sì, in effetti sì, preferisco decisamente stare al buio e fare il mio lavoro in pace. Del resto, così ho dei benefici che nessuna carriera politica potrebbe darmi”.

“Tipo?”
Gilderoy non riusciva a immaginare quei benefici nemmeno concentrandosi terribilmente, ma quando Kingsley chinò la testa di lato, fissandolo con un’intensità in grado di fargli dimenticare anche la terribile sensazione dei suoi piedi costretti in quegli orribili scarponcini, la sua concentrazione svanì completamente.

“Tipo passare la domenica in compagnia dello scrittore migliore di tutto il Regno Unito. Tu sei già fin troppo famoso, se io fossi un politico in vista probabilmente non riusciremmo a passare inosservati neanche in mezzo ai babbani, e la cosa mi sembrerebbe davvero terribile”.

Gilderoy resistette giusto un istante per poter mormorare, confuso, un laconico che importa la tua fama? Io sono abbastanza famoso per tutti e due prima di cedere e scivolare in avanti ad incontrare di nuovo le labbra di Kingsley. 

 

Gilderoy avrebbe scommesso che in quell’angolo di paradiso ricavato da una strega eccentrica sul fianco della montagna il sole avrebbe continuato a brillare in eterno, senza tramontare mai, ma l’evidenza dei fatti dovette troppo presto smentirlo. 

Kingsley aveva evocato tutto il necessario per un picnic in piena regola – e Gilderoy si era ritrovato ad apprezzare l’accortezza che vedeva la stoffa della tovaglia cerata intonarsi al rivestimento del cestino di vimini. Avevano pranzato serenamente, e Gilderoy non aveva nemmeno ritenuto necessario calcolare la quantità di carboidrati ingeriti, dal momento che aveva fatto fin troppo esercizio fisico (e altrettanto ne avrebbe dovuto fare per discendere da quella maledetta montagna). 

Avevano pranzato, avevano chiacchierato, avevano scoperto quanto fosse comoda una tovaglia dal fondo cerato per sdraiarsi sul terreno umido a osservare le nuvole cambiare forma nel cielo e poi a stringersi fino a non vedere altro oltre le ciglia l’uno dell’altro. 

E poi le ombre si erano fatte morbide e sempre più lunghe, il tepore del sole aveva lasciato posto a un’aria sempre più fresca e la luce aveva cominciato a farsi sempre più fioca.

Gilderoy non avrebbe voluto, davvero non avrebbe voluto, ma si trovò costretto a sollevarsi a sedere, a passarsi una mano fra i riccioli irrimediabilmente rovinati – e quanto poco gli dispiaceva che a rovinarglieli fosse stato proprio Kingsley – e a dire:

“Non credi sia arrivato il momento di metterci in marcia? Intendiamoci, mi piace molto come stiamo passando il tempo ora, ma mi sembra ci sia sempre meno luce, e non credo sia particolarmente sicuro scalare una montagna in piena notte”. 

Kingsley si sollevò a sua volta, e gli lanciò uno sguardo che Gilderoy non seppe subito identificare: era forse ironia, quella che gli illuminava il viso?
“Ah, quindi la passeggiata ti è piaciuta così tanto che vuoi ripeterla anche al ritorno?”

“Cosa? Kinglsey, davvero, questo posto è bellissimo, ma non mi sembra proprio il caso di metterci a campeggiare qui, che dici?”
Gilderoy poteva farsi andare bene una scarpinata sui monti, poteva accettare quegli abiti orrendi e pure il pranzo trascorso con il sedere per terra, ma per la notte pretendeva un bagno caldo, delle lenzuola profumate di bucato attorno al corpo e soprattutto un tetto sopra la testa.

“No, dico, pensavo avresti preferito materializzarti direttamente a casa”. 

Il cuore di Gilderoy saltò un battito. 

“Materializzarci direttamente… mi stai dicendo che da qui ci si può materializzare? Non ci sono barriere magiche?”
Kingsley scosse il capo, il divertimento decisamente padrone della sua espressione, questa volta. 

“No, certo che no. Si può arrivare e partire come si vuole”.

“Quindi…” Gilderoy scelse con cura le parole, cercando di tenere a bada l’irritazione “...quindi mi stai dicendo che mi hai fatto vestire come un… uno stoccafisso babbano dal pessimo gusto e mi hai fatto scarpinare per niente?”
“Non direi proprio per niente…” Kingsley sorrideva apertamente, ed era così soddisfatto che Gilderoy fece fatica a mantenere la presa sulla propria irritazione.

“Insomma, questo posto si apprezza molto di più se si fatica un pochino per raggiungerlo, te lo assicuro. Se ti avessi portato direttamente qui, ti saresti perso metà della magia”. 

Una minuscola parte di Gilderoy voleva dargli ragione, perché in effetti senza il contrasto con il terreno brullo che circondava il sentiero quel giardino inaspettato non avrebbe avuto la stessa capacità di stupirlo, ma non era disposto ad ammetterlo ad alta voce. 

“Sei impossibile, Auror Shacklebolt. Sei davvero impossibile!”
“Posso farmi perdonare in qualche modo?”
A Gilderoy venivano in mente almeno dieci modi diversi in cui Kingsley avrebbe potuto farsi perdonare, ma tutti erano del tutto inadatti a un luogo pubblico, per quanto appartato.

Così Gilderoy si limitò a pretendere che Kingsley trasfigurasse di nuovo i suoi abiti nel bel completo che aveva scelto quella mattina, per poi porgere il braccio all’Auror e declamare, perentorio:
“Io non ho intenzione di muovere un muscolo, quindi a casa mi ci riporti tu con una Materializzazione Congiunta, così impari a prendermi in giro!”
E quando Kingsley invece di limitarsi a stringergli il braccio lo avvolse in un abbraccio caldo e accogliente, un abbraccio così saldo e sicuro da rendere quasi piacevole la sensazione di essere risucchiato in quel non-spazio che era la Materializzazione, Gilderoy seppe con estrema certezza due cose. 

Seppe che non avrebbe potuto fare scelta migliore, quando aveva deciso di ascoltare la voce di Kingsley Shacklebolt. 

E seppe che non sarebbe mai stato in grado di rispettare la promessa che aveva fatto a Septimus. 







 

 


 

Note: 

So di non avere assolutamente nessuna giustificazione per questo ritardo, e mi dispiace.
Ma, davvero, credetemi quando dico che le cose, anche volendo, non avrebbero potuto andare in maniera diversa. In ogni caso, non ho alcuna intenzione di abbandonare la storia, e anzi, sono sempre più determinata a portarla a termine. Insomma, non posso garantire che i prossimi aggiornamenti saranno più rapidi, ahimé, ma posso garantire che degli aggiornamenti ci saranno. 

Mi rendo conto che questo capitolo è molto breve e mette sul fuoco davvero poca carne, ma inizialmente avevo stabilito di fargli prendere una piega molto diversa che mi avrebbe costretta ad allungare e complicare di molto la trama di tutta la storia, ma poi ho riflettuto meglio e ho capito che non è nella natura di questa storia fare un giro così ampio. Anzi, ho già temporeggiato fin troppo, perché credo che avrei dovuto asciugare molto di più alcuni aspetti, ma insomma, ormai quello che è fatto è fatto. 

Mi scuso ancora per il ritardo e ringrazio chiunque avrà ancora voglia di leggere di questa coppia improbabile.

 

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Capitolo 12
*** In bilico ***


In bilico



 

Gilderoy era terribilmente stanco. 

E deluso, anche, perché la vita aveva un senso dell’umorismo incredibilmente beffardo, e lui cominciava a sentirsi solamente il bersaglio di un orribile scherzo. Perché non era umanamente possibile – neppure per una persona straordinaria come lui – riuscire a provare nello stesso momento emozioni e pulsioni tanto differenti. 

Gilderoy sentiva di essere felice, voleva essere felice, ed era convinto che difficilmente avrebbe potuto essere così felice immerso in un contesto differente. Era felice perché, all’improvviso, nella sua vita si era allargato un soffio di aria calda che lo aveva investito e riscaldato con una naturalezza che mai avrebbe creduto possibile. 

L’estate era arrivata all’improvviso, sorprendendolo con un vorticare che lo faceva girare e girare e girare per poi ritrovarsi a orbitare sempre e comunque attorno allo stesso asse: Gatsby che becchettava con classe contro il vetro della sua finestra, un biglietto scritto di fretta stretto nel becco. Perché lui e Kingsley, dopo quella domenica trascorsa sul pendio del Coniston Old Man, non erano più stati in grado di perdersi di vista per più di qualche giorno. La loro storia era nata piano piano, con una naturalezza che Gilderoy non avrebbe saputo trovare nemmeno se l’avesse cercata: avevano continuato a darsi appuntamento dopo il lavoro, a cenare insieme, a passeggiare nei quartieri babbani attorno alla casa di Kingsley e a trascorrere ore e ore senza sentire il bisogno di uscire in casa di Gilderoy. 

Era stato facile, una sera, dare a Kingsley il suo indirizzo di casa e chiedergli di fare in modo che le magie difensive non funzionassero, contro di lui. Era stato facile, nonostante Kingsley fosse la prima persona, dopo Septimus, a varcare quella soglia: semplicemente, Gilderoy era stanco di continuare a vedere regolarmente Kingsley dovendo però scappare a casa. Era stanco del Nottetempo ed era stanco di dover trovare ogni volta una scusa per non materializzarsi nell’appartamento dell’Auror. Un collegamento tramite Metropolvere tra il minuscolo camino di mattoni dell’appartamento di Kingsley e l’ampio camino smaltato di bianco del soggiorno di Gilderoy aveva risolto ogni problema. 

Era stato facile cominciare lentamente a fare affidamento su Kingsley e scoprire che, nonostante tutto, per loro era possibile un’abitudine: avevano vite completamente diverse, orari diversi e ritmi che sembravano non c’entrare nulla l’uno con l’altro, ma ritagliarsi almeno una sera alla settimana per cenare insieme era uno sforzo che compivano entrambi senza troppe difficoltà, mossi da un sentimento sincero. 

 

Eppure, a quella felicità appena accennata, che sapeva di inizi e di promesse, si contrapponeva un sottile filo di apprensione che ogni giorno si intrecciava a un nuovo motivo di preoccupazione, crescendo e gonfiandosi fino a diventare un cappio che gli stringeva il collo e minacciava di togliergli l’aria. 

Gilderoy viveva nel terrore che la loro storia venisse alla luce e facesse crollare ogni cosa. Aveva paura di aprire un giornale e trovarsi a fissare parole di scherno nei loro confronti – già immaginava quanto avrebbe potuto essere affilato il pennino di Rita Skeeter davanti a uno scoop così scabroso. Aveva paura che la verità gli esplodesse tra le mani, aveva paura che tutto improvvisamente svanisse, aveva paura di finire sotto l’occhio impiccione e bigotto di una società che certe cose forse non le avrebbe mai capite.
E aveva paura che la sua paura rovinasse ogni cosa con Kingsley.

 

Era una discussione nata con leggerezza una sera, quando Gilderoy se ne stava con i gomiti appoggiati sul davanzale della finestra dell’appartamento di Kingsley, tutto preso a osservare il tramonto riempire il brutto cortile pieno di cemento e automobili di colori meravigliosi. 

Kingsley era comparso dalla cucina reggendo fra le mani un bicchiere di vino per sé e una spremuta d’arancia per Gilderoy. Si era insinuato al suo fianco, e in qualche modo era riuscito a far stare anche le sue spalle larghe all’interno del confine della cornice della finestra. A Gilderoy era venuto naturale dapprima sollevarsi in punta di piedi per rubargli un bacio prima che le sue labbra sapessero di vino, e poi ritrarsi, spaventato dall’avventatezza del gesto in un punto così esposto della casa.

“Che c’è? Non dirmi che devo cambiare di nuovo rasoio, perché davvero, credo che le mie guance non siano così lisce da quando avevo nove anni”.

Gilderoy fece un gesto impaziente: adorava il pizzicore che gli restava sul viso quando Kingsley era di riposo e non si radeva il viso, ma da quando un mattino si era rifiutato di baciarlo poco prima di presentarsi a un servizio fotografico di capitale importanza per non rischiare di farsi immortalare con il viso troppo irritato, Kingsley non aveva mai smesso di prenderlo in giro. 

Il che sarebbe anche stato divertente, se solo non ci fossero state in ballo questioni decisamente più urgenti. 

“Non essere sciocco, il problema è che prima la tua vicina mi ha fatto un cenno di saluto”.

Il sopracciglio inarcato di Kingsley era abbastanza eloquente.
“E quindi, mi sembra di averti già detto che dovresti inventarti un incantesimo per fare in modo che i vicini guardando in su vedano solo delle tende tirate!”
Kingsley bevve un altro sorso di vino, senza alcuna fretta.

“Ma io ho già delle tende, delle tende vere”.

Gilderoy sbuffò, cercando di non pensare al poliestere celeste che pendeva floscio ai lati della finestra.

“Sì, hai delle tende orribili, e per di più ti ostini a tenerle aperte”.

“Mi sembrava di aver capito che anche a te piacesse il tramonto, da qui”.

Gilderoy ritenne più saggio non specificare che il tramonto rendesse solo un poco più tollerabile la desolazione babbana in cui Kingsley si ostinava a vivere. 

“Appunto! Non sei mica un vampiro, non ti puoi sigillare qui dentro anche d’estate. Quindi, se tu ti dessi da fare con un maledetto incantesimo…”
“Ma il punto di vivere qui con i babbani è proprio non fare incantesimi. Devo imparare a vivere come loro, no?”
Gilderoy sospirò, leggermente esasperato. Kingsley non viveva esattamente come un babbano – lo dimostrava il barattolo di Polvere Volante sopra il camino, o il fatto che Gatsby andava e veniva a suo piacimento dalla finestra della camera da letto, o ancora la facilità con cui Kingsley eseguiva ogni incantesimo di economia domestica, così da non sprecare nemmeno un secondo del suo poco tempo libero. E il fatto che vivesse in un quartiere completamente babbano era certamente un bene, perché il rischio di imbattersi in altri maghi che avrebbero potuto riconoscerlo e cominciare a fare domande sulla sua frequentazione era nettamente ridotto. 

“Sì, ma se potessi evitare di far sapere a tutti i tuoi vicini che io e te ci vediamo così spesso per… per fare quello che facciamo, sarei decisamente più sollevato”.

Kingsley questa volta si allontanò di un passo, posando il bicchiere di vino sul tavolino del soggiorno.

“Loro non ti conoscono, non potrebbero rovinarti la carriera”.

“Non è questo il punto, e lo sai”.

Era una discussione a cui avevano già girato attorno qualche volta, ma che non avevano mai avuto il coraggio di seguire fino in fondo, forse perché entrambi erano consapevoli che avrebbero rischiato di andare incontro a qualche piccolo contrasto.

“E quindi il punto qual è? Che anche se tu non fossi famoso dovremmo fare comunque finta di non frequentarci?”
Era esattamente quello che Gilderoy intendeva, ma pronunciarlo ad alta voce faceva sembrare la cosa molto più fredda di quanto non fosse in realtà.

Gilderoy non si era mai trovato nella condizione di non essere famoso: anche da ragazzino, tutti i suoi sforzi erano sempre stati rivolti a costruirsi un ruolo nella società, e anche quando l’interesse per i ragazzi era solo qualcosa di nebuloso e confuso, a cui non aveva nemmeno tempo di dedicarsi, lui aveva sempre intuito che mantenere segreto il suo orientamento fosse la scelta migliore. Niente battutine alle spalle, niente risate, niente spintoni  e insulti sussurrati all’orecchio. Niente porte in faccia, niente stigma da portare addosso, niente sguardi scandalizzati o disgustati. 

“Il punto è che così sarebbe tutto più facile e tranquillo. Per me, ma anche per te. Credi davvero che la vecchia del primo piano continuerebbe a sorriderti come fa di solito, se ci vedesse insieme?”
Kingsley si strinse nelle spalle.

“Se la signora Miller sentisse il bisogno di non sorridermi più solo perché ho voglia di stare davanti alla finestra mentre ti bacio, il problema è solo suo”.

Ma era una bugia: il problema non era solo della signora Miller. Perché Kingsley ai sorrisi della signora Miller avrebbe anche potuto rinunciare, ma insieme a quei sorrisi sarebbe scomparsa la fiducia, sarebbero arrivati i sussurri maligni, le voci, i problemi sul lavoro…

“A quante persone lo hai detto?”, chiese poi Gilderoy, a bruciapelo.

“Di noi?” 

La voce di Kingsley aveva una circospezione tutta nuova: Gilderoy sapeva che Kingsley non voleva ferirlo, ma era ovvio che la loro storia non avesse così tanta importanza perché lui ne parlasse a chicchessia. 

“Non di me me, sciocco. A quante persone hai detto che comunque nella tua vita ci sarà solo un Gilderoy, o un Anthony, un Charles o chi ti pare, e non certo una Janet o una Mary?”
Kingsley non rispose, non subito. 

Chinò il capo di lato, con una nuova malinconia negli occhi: sembrava aver capito dove volesse andare a parare il ragionamento di Gilderoy.

“Solo a quelle davvero importanti”.

“Quindi, per dire, immagino che al lavoro tu ti sia scordato di ricordare ai tuoi capi e ai tuoi colleghi che preferisci uscire con gli uomini, giusto?”
Un sospiro. 

“Gilderoy, che cosa…”
“È così, vero?”
Un sospiro ancora più profondo. 

“È così, ma…”
“E allora non farmi la predica. Tu puoi anche dire che non ti importa niente di farti vedere dai tuoi vicini, ma è solo perché non ti importa niente dei tuoi vicini. Perché quando le cose si fanno importanti, preferisci anche tu la tua tranquillità”. 

“Forse hai ragione”, la voce di Kingsley era un mormorio roco, gli occhi ardenti puntati su quelli di Gilderoy con la lucidità disarmante che lui faceva sempre fatica a sostenere.

“Forse in alcune situazioni non mi sto esponendo come dovrei, non sto combattendo come sarebbe giusto che facessi… però, ecco, non ho mai creduto di voler tacere per sempre. Forse… forse credevo fosse giusto aspettare di avere accanto una persona per cui valesse la pena combattere, ecco”.

Kingsley non aggiunse e ora quella persona c’è. Non lo aggiunse, e Gilderoy sapeva di non poterlo pretendere, soprattutto quando lui per primo non sarebbe mai stato pronto a esporsi e combattere per quella relazione, ma fece comunque un po’ di male. 

Forse per questo parlò con voce più fredda di quanto avrebbe voluto:
“Be’, allora dire che siamo d’accordo. Non vale la pena di perdere la prudenza, no?”

 

Quella sera Gilderoy era tornato a casa prima del previsto, portandosi dietro la freddezza di quella discussione come un altro giro di quella corda che gli toglieva il respiro, ma evidentemente nessuno dei due sembrava intenzionato a far durare quel malumore più del necessario, perché presto s’erano di nuovo cercati con la solita urgenza, erano stati entrambi più premurosi e affettuosi del solito e avevano semplicemente preso a evitare ogni possibile riferimento ad argomenti simili. Tuttavia, Gilderoy non poteva impedirsi di pensare che ogni giorno trascorso ad avvicinarsi a Kingsley era un giorno in più che lo portava vicino a un disastro da cui sarebbe uscito solamente a costo di affrontare un grandissimo dolore: essere scoperto dal suo pubblico e perdere, insieme alla credibilità, ogni cosa, oppure essere scoperto da Kingsley. Perché Gilderoy poteva anche conoscerlo da poco, ma era certo che una persona come Kingsley non sarebbe mai stata disposta a stare al fianco di qualcuno che aveva basato tutto il proprio successo su menzogne e incantesimi di memoria. Era un dato di fatto: quella storia era un pericolante castello di carte che ogni giorno si faceva più alto e più pericoloso. E più Gilderoy vi fosse rimasto aggrappato, più doloroso sarebbe stato il contraccolpo quando fosse crollato a terra. La cosa migliore sarebbe stata rispettare la promessa fatta a Septimus, staccarsi da Kingsley prima che il loro rapporto diventasse pericoloso e tornare a concentrarsi su ciò che contava davvero. Avrebbe dovuto farlo. Avrebbe proprio dovuto farlo, si ripeteva ogni giorno, e ogni giorno si ritrovava a seppellire quella consapevolezza in fondo al sorriso che gli spuntava in viso quando Gatsby gli portava l’ennesimo bigliettino di Kingsley a cui si ritrovava a rispondere così rapidamente da non preoccuparsi nemmeno delle gocce d’inchiostro che spargeva ovunque.

 

***

 

Gilderoy si stiracchiò appena, allungando il collo e cercando di sciogliere la tensione accumulata in zona cervicale. 

Lavorare a letto era qualcosa che si era sempre vietato di fare, terrorizzato che ciò potesse portarlo a rovinarsi la postura: aveva uno scrittoio che era stato costruito su misura per la sua altezza e la sua schiena, e da anni diligentemente a casa scriveva solo sedendo lì. 

La sera prima, tuttavia, non aveva resistito alla tentazione di stendersi accanto a un Kingsley con la fronte aggrottata e il naso immerso nel voluminoso fascicolo di un caso di cui non aveva voluto parlare – Gilderoy non aveva resistito nemmeno alla tentazione di far scivolare lo sguardo oltre la spalla di Kingsley, ma il fascicolo era stato secretato con un Incantesimo Illeggibile, e i suoi occhi non autorizzati vedevano solo linee confuse  e fuori fuoco. Lavorare avendo la possibilità di allungare appena un piede e sfiorare quello di Kingsley lo ripagava di tutti gli indolenzimenti cervicali. 

Scrivere accanto a Kingsley era qualcosa di completamente nuovo, per Gilderoy: il lavoro di entrambi nelle ultime settimane era esponenzialmente cresciuto – le scadenze per consegnare le bozze dei primi capitoli del manuale si facevano sempre più pressanti, e Kingsley era coinvolto in qualche misteriosa indagine che spesso lo tratteneva lontano da Londra per giornate intere, o lo costringeva a portarsi a casa rotoli e rotoli di deposizioni da analizzare e confrontare – e così, per ritagliarsi comunque del tempo insieme, avevano cominciato a portarsi il lavoro a casa e ad affrontarlo insieme, dopo cena. 

Gilderoy credeva sarebbe stato un disastro: la sua concentrazione, già piuttosto labile normalmente, avrebbe potuto essere messa a dura prova dalla sempre interessante presenza di Kingsley. E invece, con grande sorpresa, Gilderoy aveva scoperto che accadeva proprio il contrario: Kingsley era preciso e meticoloso, sul lavoro, e quando si concentrava sui suoi fascicoli sembrava che il mondo smettesse di esistere. L’intensità della sua concentrazione era tale che sembrava espandersi oltre il confine del suo corpo, influenzando tutto ciò che vi si trovava in prossimità. Compreso Gilderoy, che accanto a tanta concentrazione si ritrovava a immergersi completamente nel lavoro, facendo fruttare quelle poche ore come intere giornate. 

Il che si rivelava particolarmente utile, perché alla fine restava loro sempre un po’ di tempo per mettere via in fretta e furia piume e pergamene e terminare la serata in modi decisamente più piacevoli, proprio come era accaduto la sera prima.

 

Gilderoy si stiracchiò, incapace di trattenere un enorme sorriso quando il suo stiracchiarsi provocò in Kingsley un verso semi-addormentato: l’enorme letto di Gilderoy sembrava essere fatto apposta per contenerli entrambi.

Era solo la seconda volta che Kingsley si addormentava lì – solitamente si salutavano a notte fonda e uno dei due, assonnato e scarmigliato, si gettava nella Metropolvere per tornare a casa sua, almeno fino a quando Gilderoy, in un impeto improvviso, aveva deciso che sarebbe stato decisamente più pratico dormire insieme e salutarsi solo il mattino dopo – ma sembrava che quel lato del letto fosse stato suo da sempre.

Solo una sottile lama di luce grigiastra fendeva le finestre, facendo loro intuire che il giorno stava cominciando e ben presto Kingsley – che di una sveglia non aveva mai bisogno, perché poteva contare su un orologio biologico che infallibilmente lo buttava giù dal letto ogni giorno alle sei del mattino – si sarebbe appropriato per pochi minuti del bagno, preparandosi alla lunga giornata che lo attendeva. 

Gilderoy, che invece di solito detestava svegliarsi presto, rotolò sul fianco, scivolando piano sul rigonfiamento delle lenzuola al suo fianco rappresentato da Kingsley: se lui non riusciva a dormire, allora neanche Kingsley doveva dormire. 

L’uomo aprì gli occhi con un sospiro e un cipiglio confuso, salvo poi rischiararsi non appena mise a fuoco il viso di Gilderoy e aprirsi in uno dei rari sorrisi che riuscivano a rivelare la sua giovane età. 

“Buongiorno…”
Passò una mano fra i capelli di Gilderoy – capelli che sicuramente una piega non l’avevano più, ma che Kingsley sembrava apprezzare comunque – e poi fece scivolare le braccia attorno ai fianchi di Gilderoy, stringendolo in un abbraccio pigro. 

“Come mai così mattiniero?”
Gilderoy si strinse nelle spalle, abbandonandosi contro la solidità di Kingsley: l’unica risposta che gli sembrasse plausibile era un avevo voglia di essere abbracciato, ma pronunciarlo ad alta voce forse sarebbe stato troppo. 

“Non so. Forse non sono abituato a dividere il mio letto con qualcuno”.

Gilderoy lo disse così, con semplicità: non aveva mai parlato a Kingsley della netta linea di demarcazione che aveva sempre posto tra sé e gli altri uomini, delle relazioni fugaci che si concedeva solo raramente, solo a notte fonda e solo quando era certo di poter dimenticare e farsi dimenticare con un colpo di bacchetta preciso. Non aveva mai accennato al fatto che non si era mai concesso una relazione che andasse oltre un primo appuntamento, perché questo lo faceva sentire inesperto e del tutto incapace di essere padrone della situazione – una sensazione su cui non aveva la minima intenzione di indugiare.

“Non sei obbligato a farlo, lo sai, vero? Se non ti va, se ti sembra che stiamo andando troppo velocemente…”
“La tua galanteria è quasi nauseante. Ho cacciato una Banshee, sarei ben in grado di allontanare te, se non ti volessi qui!”
Kingsley rispose solo con un sopracciglio scetticamente sollevato, ma Gilderoy decise di non dargli attenzione e di non indugiare in una dichiarazione che sarebbe stata decisamente più nauseante della galanteria di Kingsley.

“È oggi che hai quel ritiro non-so-dove a fare non-so-che per non-so-quanti-giorni?”
Kingsley era sempre così riservato quando si trattava dei propri impegni di lavoro che Gilderoy non aveva ancora capito nemmeno che cosa riguardasse il caso che lo stava impegnando al momento – e neanche gli importava più di tanto: i maghi oscuri non erano una minaccia pressante, non in quel momento storico, e tutto ciò che gli importava era capire per quanto tempo Kingsley sarebbe rimasto lontano da lui. 

“Tornerò sicuramente entro l’ora di cena di sabato. Ti va di tenerti libero?”
“Dipende”, mormorò pigro Gilderoy, pur essendo in realtà già pronto a spostare qualsiasi impegno potesse avere per quel giorno, “torni entro l’ora di cena, ma hai almeno il tempo di farti una doccia? Non ci esco a cena con un Auror pieno di polvere di cose da Auror”.

Kingsley sorrise, gli occhi accesi di quella malizia che ormai Gilderoy aveva imparato a conoscere e apprezzare. 

“E io che pensavo me lo chiedessi perché volevi essere sicuro di farmi compagnia durante la doccia…”
Gilderoy, per cercare di nascondere il rossore che sicuramente lo aveva invaso assieme al calore che un semplice mormorio roco poteva provocare, si gettò sulle labbra di Kingsley, ben deciso a restituirgli il favore e far avvampare anche lui. 

E proprio quando sembrava che avessero trovato un modo perfetto per occupare il tempo che li separava dalla sveglia biologica di Kingsley, un sonoro crack risuonò a interrompere i loro respiri sempre più affannati. 

Gilderoy, confuso e distratto, non ebbe neanche il tempo di reagire. Kingsley se lo scrollò di dosso quasi di peso, facendolo scivolare sul materasso accanto a sé con un gesto rapidissimo, e in un attimo fu in piedi, la bacchetta stretta saldamente in mano e puntata contro la porta socchiusa della camera da letto.

Era scomparso il ragazzo sorridente, e al suo posto sembrava essersi materializzato l’Auror: tutto, nella sua posa guardinga e salda, esprimeva una forza minacciosa pronta ad esplodere. Poco importava che indossasse solo un ridicolo paio di vecchi pantaloni di un pigiama ricamato con un motivo di boccini svolazzanti: chiunque sarebbe apparso ridicolo, così conciato, ma Kingsley no.

Kingsley non apparve affatto ridicolo quando la porta della camera si spalancò e la sua bacchetta si mosse con una velocità e una precisione che Gilderoy non si sarebbe mai immaginato, emettendo un lampo di luce che travolse l’intruso senza lasciargli alcuna possibilità di difendersi e strappando a Gilderoy uno strillo acuto di sorpresa e paura. 




 

 


 

Note:

Torno ad aggiornare questa storia con un ritardo mostruoso e con un capitolo che in realtà più che un capitolo è un riassunto di quello che avrei voluto scrivere, ma inizio seriamente a pensare che questo sia l’unico modo per portare a termine questa storia.

Mi dispiace davvero: vorrei promettere aggiornamenti più rapidi e sensati per i pochi capitoli rimanenti, ma temo che non sarà così, e anzi, che la situazione potrà solo peggiorare. 

Ringrazio comunque chiunque abbia la pazienza di continuare a seguire questa storia.

 

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Capitolo 13
*** Nodi ***


Nodi 




 

“È… morto?”
Gilderoy, ancora nascosto dietro le spalle di Kingsley, non aveva il coraggio di affacciarsi sul corridoio, temendo di vedere il corpo rigido e senza vita di Septimus lungo e disteso sul suo parquet lucido. 

Kingsley non rispose, accendendo le luci con un gesto preciso della bacchetta e avanzando con passo misurato, senza mai abbassare la guardia. 

“Kingsley, lo hai ammazzato?”
Gilderoy avrebbe voluto cancellare quel tono stridulo e vagamente isterico che sentiva risuonare in fondo alla sua voce, ma non ci poteva fare niente: Septimus – perché di Septimus si doveva trattare, era l’unico in grado di attraversare le difese della sua casa – era la persona più vicina a un amico che lui avesse mai incontrato. Non poteva nemmeno immaginare che cosa dovesse significare vederlo ucciso da… da Kingsley. 

“Ti sembro uno che ammazza prima ancora di vedere in faccia il nemico?”
Gilderoy avrebbe voluto ribattere che Septimus non era un nemico, e qualsiasi cosa Kingsley gli avesse fatto, era comunque troppo, ma rimase in silenzio. 

“L’hai Schiantato?”

Anche questa prospettiva era piuttosto preoccupante: Septimus era un uomo di lettere, non era fatto per prendersi uno Schiantesimo in pieno petto di lunedì mattina. 

“Non ammazzo e non Schianto a bruciapelo, se non è necessario. Sono un Auror, non un macellaio, e i ladri d'appartamento preferisco immobilizzarli prima di arrestarli".

Quando giunsero in salotto, trovarono una visione piuttosto singolare: Septimus Thesaurus, completo spiegazzato ed espressione furente, se ne stava  immobilizzato a metà di uno dei suoi lunghi passi di chi non ha abbastanza tempo per fermarsi a camminare con calma.

Persino i suoi capelli scuri, quelli che Gilderoy non era mai riuscito a convincerlo ad accorciare, erano fermi immobili a mezz'aria, congelati a metà di un rapido svolazzo.

Solo i suoi piccoli occhi scuri sembravano aver conservato un vago lampo di vita, e pur non potendo sbattere le palpebre né cambiare espressione sembravano spargere tutto attorno scintille piene di indignazione.

Gilderoy lanciò uno sguardo terrificato a Septimus, per poi rischiare di strozzarzi con la sua stessa lingua quando, voltandosi verso Kingsley, si rese conto che l'Auror aveva la bacchetta puntata al petto del suo editore.

"Per l'amor di Tosca, liberalo! Lascialo andare!"

Senza staccare gli occhi da Septimus – neanche si trattasse di un criminale pericoloso – Kingsley aggrottò le sopracciglia. 

“Vuoi che lo liberi? Sei sicuro?”
“Ma certo che sono sicuro! È il mio editore!”
Con un gesto rassegnato, Kingsley scosse appena il polso, senza però abbassare la bacchetta.

In quel momento, diverse voci presero a sovrapporsi l’una all’altra.

“Gilderoy, ma che diamine! Ti pare il modo?”
“Kingsley, non puoi immobilizzare i miei ospiti!
“Tu mi avevi detto che io ero l’unico a poter entrare qui!”
“Non sarai geloso?”
“Chi diamine è questo pazzo armato?”
“Gilderoy?”
“Gilderoy!”
“Silenzio!”
Quell’ultima parola, esclamata da Kingsley, funzionò come un Silencio. Kingsley non aveva gridato, ma la definitività del suo tono era stata sufficiente per zittire la confusione che regnava nella sala.

Gilderoy e Septimus si ritrovarono a osservare Kingsley, come aspettandosi le istruzioni necessarie per sbrogliare la situazione. Era come se Kingsley fosse in grado di spargere attorno a sé un'aura sottile ma solidissima di potenza. Ed era come se Gilderoy vedesse per la prima volta che cosa significasse per lui essere un Auror, avere il controllo della situazione ed essere in grado di cambiare completamente la temperatura di un luogo.

"Questa persona è davvero il tuo editore?"

"Certo che è il mio editore!"

Kingsley abbassò appena le spalle, ma non la bacchetta.

"E davvero ha il permesso di entrare qui quando vuole?"

Gilderoy si rese conto con un pizzico di malessere – senso di colpa, forse? – che effettivamente, nonostante il ruolo importante che la sicurezza della sua abitazione aveva avuto nella nascita della loro relazione, si era sempre scordato di menzionare la libertà di accesso a casa di Septimus.

Forse perché sapeva che Septimus non avrebbe approvato minimamente Kingsley, e Gilderoy non voleva pensare a quell'aspetto di Septimus, quando si trovava con Kingsley.

"Sì, di solito lui può entrare qui quando vuole. Mi dispiace non avertelo detto".

La bacchetta di Kingsley si abbassò definitivamente, e l'Auror si rivolse con aria seria a Septimus:

"In tal caso, le porgo le mie scuse. Ho agito in modo impulsivo, ma le assicuro che il mio intento era soltanto quello di proteggere la privacy di Gilderoy".

Septimus sbatté un paio di volte le palpebre, mormorando uno spaesato ma certo, ma certo, capisco, poi qualcosa dovette scattare nella sua testa, perché si voltò verso Gilderoy e lo inchiodò con il suo sguardo più penetrante.

"Gilderoy, chi è quest'uomo?"

Per un attimo, Gilderoy pensò di cavarsela nel modo più semplice possibile: fare finta di niente, dedicarsi alle presentazioni formali e sperare che nessuno dei due uomini che avevano invaso il suo salotto facesse altre domande.

Sapeva che non avrebbe mai funzionato, ma ci provò comunque.

"Che maleducato, non vi ho neanche presentati. Lui è Kingsley. Kingsley, questo è Septimus Thesaurus, il mio editore".

Kingsley, apparentemente incurante del fatto che fosse del tutto inappropriato trovarsi a conoscere un perfetto sconosciuto in casa d'altri alle sei del mattino, indossando solo i pantaloni di un vecchio pigiama e tutta la notevole gloria dei suoi pettorali nudi, stese gentilmente una mano.

Thesaurus la strinse appena, mano molle e sguardo che vagava ovunque pur di non soffermarsi su Kingsley.

Sfortunatamente, quello sguardo decise di fermarsi proprio sulla vestaglia che Gilderoy aveva infilato in tutta fretta. Così tanta fretta da rendere fin troppo evidente che non ci fosse alcun pigiama di seta, al di sotto.

Non serviva di certo un Auror per capire che cosa significasse tutta quella scarsità di indumenti a un'ora simile del mattino.

"Mi vuoi spiegare perché Kingsley è qui… così?"

Gilderoy non avrebbe mai pensato che sarebbe stato così difficile.

Septimus sapeva, aveva sempre saputo. Era l'unico a sapere. Ma non l'aveva mai visto davvero in compagnia di un uomo, e parlare di uomini astratti, figure prive di volto di cui Gilderoy era in grado di dimenticarsi la mattina dopo averli incontrati era un conto, parlare di Kingsley era tutta un'altra cosa.

"Lo sai benissimo, perché", si ritrovò a mormorare Gilderoy odiando il proprio sguardo basso, odiando il calore che gli bruciava le gote e detestando soprattutto quel vago senso di colpa che gli faceva sentire sbagliata non la vergogna che provava davanti a Septimus, ma il fatto stesso di essere lì mezzo nudo accanto a un Kingsley altrettanto poco vestito.

Kingsley, che lo stava fissando con uno sguardo così penetrante che Gilderoy non aveva il coraggio di incontrare neanche i suoi occhi.

"No che non lo so. Non lo so, perché mi sembrava di essere stato abbastanza chiaro sulla tua situazione in questo momento. E non lo so perché tu mi avevi promesso che non avresti continuato qualsiasi cosa stessi facendo con questo Kingsley o chiunque fosse il fortunato di quella domenica".

Gilderoy avrebbe voluto sprofondare nella folta morbidezza del suo tappeto, ma si limitò a fare una precisazione che, per qualche motivo, gli sembrava fondamentale:

"Era Kingsley anche quella domenica. Non c'è mai stato nessun altro!"

Septimus rise. Rise con la risata gelida che solitamente riserva ad un avversario che sul lavoro faceva una sciocchezza.

"Non mi pare che questo migliori la tua posizione, visto che mi hai sempre promesso che non avresti mai dato importanza agli uomini con cui non riuscivi a evitare di andare a letto".

Gilderoy alzò lo sguardo, ferito.

Non se la meritava, quella freddezza. Non si meritava quella cattiveria. Perché sì, aveva promesso e non aveva nemmeno cercato di mantenere la promessa, ma non aveva fatto niente di male. Era stato discreto, aveva fatto in modo che nessuno potesse sospettare dell'esistenza di Kingsley, aveva persino litigato con Kingsley a causa del suo riserbo, ma questo a Septimus non bastava.

Stava per aprire la bocca per cercare di aggrapparsi a una scusa qualsiasi quando Kingsley, le spalle leggermente voltate verso Septimus, lo precedette:

"Perché mai il tuo editore pensa di avere qualche diritto di pretendere una promessa del genere?"

Gilderoy si ritrovò trafitto dallo sguardo ardente di Kingsley. Non guardare negli occhi Septimus era stato facile, ma con Kingsley era tutta un'altra cosa. Non era mai stato in grado di resistere a quello sguardo, mai, nemmeno quando sostenerlo significava farsi trapassare da parte a parte e sentirsi nudo come non lo era mai stato, davanti a lui.

"Perché, Kingsley, io non sono solo l'editore di Gilderoy. Sono un suo amico, e il mio compito è fare in modo che la sua carriera non venga compromessa".

Kingsley non si degnò neanche di guardare Septimus.

"Gilderoy, che cosa significa che hai promesso al tuo editore di non continuare tutto questo?"

Gilderoy avrebbe voluto rispondere che non lo aveva promesso. Perché di fatto aveva promesso, ma poi aveva nascosto quella promessa in un angolo lontano della sua mente, schermandosi da conseguenze e riflessioni, e aveva continuato a comportarsi come se quella promessa non fosse mai esistita. Con sensi di colpa e fitte dolorose a sorprenderlo nei momenti in cui era più felice insieme a Kingsley, aveva continuato a uscirci insieme, a rendere più solido il loro rapporto e a tapparsi le orecchie ogni volta che la voce di Septimus gli sussurrava all'orecchio che più quel gioco fosse continuato, più doloroso sarebbe stato interromperlo.

"I muscoli ti hanno risucchiato il cervello, per caso? Me l'ha promesso perché la tua esistenza nella sua vita non è compatibile con la sua carriera, e la sua carriera viene prima di una… di una scappatella".

Gilderoy trasalì, e di nuovo avrebbe voluto intervenire, mettere in chiaro che le scappatelle erano un'altra cosa, ma non trovò la forza di farlo, continuando ad arrossire – o forse a impallidire, o a fare entrambe le cose contemporaneamente, se mai una situazione del genere fosse possibile – sotto lo sguardo ora decisamente ferito di Kingsley.

"Non sto parlando con lei. Gilderoy, dì qualcosa, per favore".

Nessuna inflessione implorante nella voce di Kingsley, solo un mormorio di granito.

"Io… be', tu sei stato… sei… era inaspettato che tu… non credevo, ma insomma, di solito non… lo sai che non posso permettermi di farmi vedere con te".

Per aver costruito una carriera sulla sua capacità di infilare belle parole una dietro l'altra, Gilderoy stava facendo una ben misera figura con quel balbettìo incapace di dare forma ai suoi pensieri.

"Oh, per l'amor del cielo, Gilderoy! Non gli devi una spiegazione! Se non capisce l'importanza della tua carriera, non sta a te spiegargliela! Ma ti rendi conto che stai lavorando con Rita Skeeter e sei così scemo da portarti questo Kingsley a casa tua! Non hai neanche la decenza di nasconderti in un albergo babbano!"

Gilderoy rimase interdetto: non aveva mai visto Septimus perdere il controllo in questo modo, e il disprezzo intriso in ogni sua parola bruciava come sale su una ferita aperta. Gilderoy sentì gli occhi riempirsi di lacrime, e nella vergogna del momento non potè fare a meno di cercare lo sguardo di Kingsley e implorarlo silenziosamente di essere fino in fondo l'Auror dall'armatura dorata che già una volta si era mosso in sua difesa, proteggendolo senza chiedere il permesso. Implorandolo di essere l'uomo gentile che gli era sempre stato accanto, pregandolo di prenderlo per mano e Smaterializzarsi lontano da lì, ovunque, in silenzio, senza domande, senza urla.

"Lavori con Rita Skeeter? Gilderoy, per tutti i Gargoyle, vuoi dire qualcosa?"

Septimus, però, non sembrava più disposto a restare in silenzio.

"Lavora con la Skeeter, sì, e Gilderoy, lei lo sa che ti vedi con qualcuno. Il piano di copertura deve scattare ora, quindi adesso fai quello che devi per far sparire il tuo amico qui, ché questa sera ti ho organizzato un appuntamento con una cugina di Ottilie, e se siamo fortunati domani le vostre foto finiranno in prima pagina!".

La cugina di Ottilie non era Queenie Royal, ma Gilderoy non poteva pensare anche a quella maledetta scrittrice, non quando la sua testa era così piena di rumore bianco e di terrore.

Perché il dolore sul viso di Kingsley era così palese che per un attimo ebbe la certezza che niente di quello che avrebbe potuto dire sarebbe mai stato abbastanza per cancellare quell'espressione addolorata.

"Hai un appuntamento? Con una donna?"

"Non ho nessun appuntamento!"

"Sì che ce l'hai, smettila di fare il bambino, Gilderoy! Sei sempre stato d'accordo anche tu di dare in pasto ai giornalisti una bella storia d'amore eterosessuale!"

A Gilderoy tremavano le mani mentre cercava di afferrare quella di Kingsley. Di trattenerlo, anche se lui sembrava non avere intenzione di andare da nessuna parte.

"Gilderoy…"

"Oh, insomma! Gilderoy, vuoi rimettere la testa a posto e smettere di mandare a quel paese la tua carriera?"

Septimus doveva aver alzato la voce una volta di troppo, perché per la prima volta da quando quella discussione impossibile era cominciata, l'Auror tornò a guardare Septimus. E lo fece con la bacchetta sfoderata, e tutta la letale calma di cui era capace.

"Ora lei starà zitto. Fermo qui, immobile. Questa conversazione in questo momento non la riguarda, e se ci interrompe ancora una volta, le giuro che la farò pentire della sua maleducazione".

Septimus dovette avvertire che le parole di Kingsley erano tutt'altro che un bluff, perché improvvisamente tacque, pallido e confuso.

Gilderoy si sentì poi prendere per mano e trascinare di nuovo in camera da letto, la porta che sbatteva con un colpo secco a chiudere definitivamente fuori Septimus.

 

Sedette sul letto, cercando invano tracce ormai scomparse del calore che fino a poco tempo prima aveva animato le sue lenzuola.

"Gilderoy".

La voce di Kingsley ora era calma. Controllata, vibrante, ma priva di qualsiasi accenno di rabbia.

"Mi vuoi parlare, per favore?"

Gilderoy fece un lungo respiro tremante, cercando di ritrovare l'equilibrio, e provò a parlare.

"Sai che io non posso farmi vedere sui giornali accanto a te. Non posso, è troppo rischioso. Te l'ho sempre detto".

Kingsley annuì piano.

"Non ho mai preteso il contrario"

Ma abbiamo già litigato per questo.

Gilderoy non lo disse, deciso a non far peggiorare ancor di più la situazione.

"E allora che cosa ti aspettavi?"

"Che cosa ti aspettavi tu? Ti aspettavi davvero che io mi accontentassi delle briciole della tua bella storia d'amore eterosessuale?"

No, naturalmente Gilderoy non se l'era mai aspettato.

"Non è così semplice".

"No? Gilderoy! Io non posso essere l'ombra delle tue bugie, te ne rendi conto? Sei davvero sempre stato d'accordo con questo piano folle?"

No, avrebbe voluto urlare Gilderoy. Ma sarebbe stata l'ennesima bugia, e non era certo di saper puntellare anche quella torre del precario castello di carta che sentiva sarebbe presto caduto.

"Sì. Ma è stato prima di incontrarti, te lo giuro! So che sembra una scusa, ma prima… non ho mai avuto nessuno. Non davvero, e allora… una relazione finta… una spinta per la mia carriera… non sembrava così male".

Kingsley si passò le mani sul viso, si massaggiò la fronte, sospirò.

Sembrava improvvisamente molto più vecchio della sua età.

"Io… non credo di poterci stare. Non voglio essere l'amante di nessuno, nemmeno di una persona che ha una relazione finta. Lo sai, vero?"

Gilderoy annuì lentamente.

Faceva male, sì, ma era un dolore così diffuso da lasciarlo per un istante completamente anestetizzato. Incapace di sentire molto di più che un grande vuoto.

"È finita, quindi?"

Kingsley si arrestò all'improvviso, le mani ancora sul viso.

"Finita?"

"Mi stai lasciando?"

In un attimo, Kingsley fu di fronte a Gilderoy. Così vicino che i loro piedi nudi di sfioravano, e Gilderoy avrebbe solo voluto allungare le dita ad accarezzarlo.

"Io… credo che tu abbia bisogno di riflettere. Il tuo editore… so che gli sei legato, ma io credo che stia facendo quello che è meglio per lui, non per te".

Gilderoy era pronto a sentirsi dire molte cose dolorose, ma non quella. 

Sorpreso, raddrizzò la schiena.

"Ma noi siamo una squadra. Quello che è meglio per lui è meglio anche per la mia carriera".

Kingsley chinò la testa di lato, pensieroso.

"Io li ho letti, i tuoi libri. Sei un bravo scrittore. Sei davvero un bravo scrittore. Sei sicuro di aver bisogno di…  tutto questo?"

Un gesto verso la porta chiusa, verso Septimus, verso i giornali scandalistici, verso tutto il mondo di Gilderoy.

Un sospiro, e poi le mani di Kingsley si posarono sul viso di Gilderoy in un gesto che conservava una tenerezza in cui lui aveva smesso di sperare.

"Lo so che è una strada difficile. E forse non ho il diritto di chiederti di affrontarla insieme a me, ma… possiamo fare ancora qualche passo insieme?"

Kingsley era stato criptico, ma Gilderoy sospettava di aver capito.

"Non incontrerò la cugina di Ottilie, né sua sorella, o la sua amica".

Kingsley sorrise appena. Un sorriso minuscolo, pieno di tristezza, ma pur sempre un sorriso.

"Torno sabato. Per l'ora di cena. Ti va comunque di tenerti libero?"

Gilderoy annuì, sperando di non sembrare troppo entusiasta.

"Mi hai promesso una doccia, e lo sai che non so resistere a saponi e profumi…"

Forse era troppo presto per quel tipo di battute, ma il sorriso sulle labbra di Kingsley si allargò appena.

"Bene. Una doccia alla volta. Un passo alla volta. Tieni il tuo editore al suo posto. Vedrai che il modo di far quadrare tutto lo troviamo. Non oggi, non sabato, ma poco alla volta…"

Gilderoy annuì piano.

Sentì le labbra di Kingsley posarsi sulla sua fronte, e lo schiocco della sua Smaterializzazione lo colse di sorpresa.

 

***

 

Gilderoy apeva che Septimus aspettava in salotto. 

Sapeva di dover fare in fretta per tornare da lui, per scoprire perché si fosse presentato a casa sua così presto.

Ma non si affrettò: si vestì con calma e con cura, si lavò il viso e i denti, si spazzolò i capelli,  e solo dopo si decise a tornare da lui.

Septimus sembrava essere rimasto esattamente nella posizione in cui lo avevano lasciato, le braccia incrociate e un cipiglio assorto sul viso.

"Mr. Muscolo se n'è andato?"

Lo chiese in tono casuale, come se fosse ormai concentrato su altro. Come se  non avesse appena cercato di distruggere una relazione.

"È andato al lavoro, sì".

E tornerà, si ritrovò a pensare Gilderoy con un piccolo moto di ribellione interna. Una ribellione che lo fece sentire ardito, al punto che aggiunse, con aria di sfida:

"Non ho intenzione di uscire con la cugina di Ottilie".

"Bene".

Una sola parola, nessuna emozione.

"Bene?"

"Sì, buon per te. È una cara ragazza, ma le puzza terribilmente l'alito".

Gilderoy era interdetto: sembrava che a Septimus non importasse niente della cugina di Ottilie, nonostante per colpa sua avesse cercato di distruggere la relazione di Kingsley e Gilderoy.

"Comunque", aggiunse Septimus, come riscuotendosi, "sono contento di vederti vestito. Dobbiamo andare da Rita".

Un sorriso immenso era comparso sul viso dell'editore, accennandogli finalmente lo sguardo di vero entusiasmo.

"Dobbiamo andare… dalla Skeeter?"

Le mani di Septimus calarono sulle spalle di Gilderoy, scuotendolo appena.

"L'ha trovata, Gilderoy!"

"Cosa?"

Neanche la lentezza di comprendonio di Gilderoy sembrò sufficiente a spegnere l'entusiasmo di Septimus.

"Queenie Royal! Rita Skeeter ha trovato Queenie Royal!"

 

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Capitolo 14
*** Regine e Zarine ***


Regine e Zarine



 

Gilderoy sedeva nell'ufficio di Septimus, attento e concentrato.

Era nervoso, sì, ma decisamente meno di quanto si sarebbe aspettato di essere in una situazione del genere: quando aveva pensato al momento in cui avrebbe dovuto affrontare Queenie Royal, era sempre stato convinto che sarebbe stato preoccupato. Preoccupato di vedere in lei un'avversaria troppo pericolosa per poterla davvero battere, preoccupato di portare a termine il piano di Septimus – di non riuscire a portarlo a termine, oppure preoccupato di farcela. 

Di certo, non si sarebbe mai aspettato di correre incontro a quella situazione con il cuore gonfio di angoscia per una relazione che non avrebbe neanche dovuto intraprendere e che, nel momento in cui aveva rischiato di infrangersi, lo aveva lasciato pieno di terrore.

Aveva lasciato casa sua, seguendo Septimus, senza neanche capire che cosa stesse succedendo. Sentiva il respiro incastrato in gola e un  senso di oppressione nel petto in grado di soffocarlo, ma Septimus aveva cominciato a parlare e parlare e parlare, lo aveva confuso, lo aveva riempito di lusinghe e aveva ritrovato il ruolo che aveva sempre ricoperto nella vita di Gilderoy.

Una guida, un faro nella notte, un genitore in grado di spiegargli cosa fosse meglio per lui e come esprimere al meglio i propri talenti.

E, piano piano, Gilderoy era tornato sé stesso. Aveva raccolto tutte le sue parole, le aveva reinserite nei giusti cassettini mentali, aveva percorso i corridoi della Magic Inkheart tornando a sentirsi Gilderoy Allock, la punta di diamante della casa editrice, l'autore capace di vincere il premio per il più alto numero di copie vendute, il favorito nel concorso per il Sorriso Più Affascinante del Settimanale delle Streghe. Era tornato a indossare i panni del genio, dello scrittore vincente, dell'uomo talentuoso e affascinante capace di scalare qualsiasi classifica di successo.

Era stato come ritrovare un amico perduto da tempo: Gilderoy aveva lentamente ritrovato tutti i propri atteggiamenti, e con loro la disposizione mentale adatta per disporsi con il giusto miscuglio di curiosità e voglia di combattere ad accogliere la vera identità di Queenie Royal. Perché forse l'idea di dover affrontare Septimus e i suoi piani di sabotaggio poteva anche essere angosciante, ma Gilderoy aveva bisogno di conoscere la Royal. Aveva bisogno di vedere il suo viso, di strappare via il mistero a quel personaggio per restituirle i contorni umani. Aveva bisogno di strapparle via quell'aura che era stata in grado di terrorizzarlo e atterrirlo: al di là di qualsiasi considerazione, al di là del suo successo e del pericolo che rappresentava, Queenie Royal era solo una donna. Umana, fallibile, piena di difetti, ma pur sempre una donna.

 

Un lieve bussare alla porta.

Septimus, che fino a quel momento aveva continuato a chiacchierare ininterrottamente, con ogni probabilità nel tentativo di impedire a Gilderoy di pensare, assunse improvvisamente un'aria grave.

"Un secondo solo", gridò, prima di lanciare a Gilderoy uno sguardo carico di significato.

"Sei pronto?"

Gilderoy annuì.

"Niente colpi di testa? Niente sciocchezze?"

Gilderoy annuì di nuovo, e poi si sforzò anche di trovare  un po' di voce per confermare che sì, era pronto ad affrontare Rita Skeeter senza rischiare di fare alcuna sciocchezza.

"Ricordati, Rita non sa e non deve sapere niente delle tue… esitazioni su Queenie. Puoi tenerle fuori da questa stanza?"

"La Skeeter è l'ultima persona sulla faccia della terra con cui vorrei parlarne, Septimus, per chi mi hai preso?"

Septimus annuì, già in piedi e diretto verso la porta dell'ufficio.

Rita Skeeter quella mattina si era infilata a forza in tallieur color cetriolo pallido, un colore che sembrava fatto apposta per riflettersi sulla sua carnagione in ombre giallastre ed esaltare nel miglior modo possibile le occhiaie incorniciate dalla montatura ricoperta di strass dei suoi occhiali.

Il rossetto arancione sottolineava il suo sorriso avido mentre stringeva la mano di Septimus, gli occhi incollati su Gilderoy con la stessa cupidigia di un invitato maleducato davanti al buffet di una festa elegante.

"Gilderoy, ma che bellissima sorpresa trovarti qui! Temevo fossi troppo impegnato… altrove… per raggiungerci questa mattina".

Fu solo questione di un battito di ciglia davanti alle implicazioni che Gilderoy temeva di intravedere nelle esitazioni di Rita Skeeter, ma ben presto l'uomo si calò perfettamente nel suo personaggio.

"La stesura del mio ultimo libro mi sta impegnando molto, ma non avrei mai potuto rinunciare a un'occasione come questa", cinguettò fingendo allegria e lasciandosi stringere la mano da quella coronata di pacchianissimi artigli con french manicure arancione della Skeeter.

"Un giorno dobbiamo trovarci davanti a una bella tazza di tè e mi devi raccontare tutto di questo nuovo libro".

Ti vorrei solo raccontare di quanto poco ti doni questo rossetto, avrebbe voluto ribattere Gilderoy, ma seppe trattenersi.

Septimus intanto aveva ripreso posto dietro alla scrivania, lasciando Gilderoy e Rita dal lato opposto delle sue carte. Un professore dal sorriso fintamente bonario davanti a due studenti da disciplinare.

"Allora, Rita, il tuo gufo mi ha detto che hai delle novità importanti, dico bene?"

Rita si leccò le labbra con un gesto rapace, poi fece scattare la chiusura della borsetta che aveva posato in grembo. Gilderoy temeva che stesse per estrarre la sua orribile Penna Prendiappunti, ma lei si limitò ad agguantare una busta di pergamena spiegazzata.

"Dici benissimo, Sept. L'ho trovata. L'ho vista. Vi posso portare da lei, se volete".

Accarezzò la busta, un gesto quasi affettuoso, e lanciò un'occhiata penetrante a Gilderoy.

"Sei straordinaria. Straordinaria! Ma raccontami tutto! Come l'hai trovata? È stato difficile? Lei  com'è? Ci hai parlato?"

Rita e Septimus scoppiarono a ridere, e Gilderoy, per un solo istante, pensò che editore e giornalista fossero proprio sulla stessa lunghezza d'onda.

"Be', no, non direi che è stato difficile. Il mio intuito non sbagliava,  e mi è bastato seguirlo per trovarla".

Rita cominciò a raccontare, la voce piena di entusiasmo e compiacimento per la sua impresa.

Venne fuori che il suo contatto alla Gringott si era rivelato utilissimo: le aveva permesso di analizzare i redditi della Tu-Mi-Streghi, che ovviamente erano cresciuti esponenzialmente con il crescere del successo della reginetta.

Gilderoy storse appena il naso davanti a quell'insistere nel sottolineare i successi di Queenie Royal.

"La cosa interessante è che apparentemente l'unica persona ad aver visto i propri compensi crescere in maniera proporzionale a questi guadagni è una ragazza che ufficialmente compare sul loro libro paga solo come traduttrice dal Maridese".

Il verso di sprezzante sorpresa di Septimus esprimeva perfettamente ciò che lo stesso Gilderoy pensava: solo Ebenezer Flintshire poteva davvero pensare che tradurre in Maridese la sua collana di fiabe per bambini fosse una buona idea. E solo lui poteva pensare di nascondere la sua Queenie dalle uova d'oro fingendo che fosse una traduttrice di quell'esperimento di cui mai nessuno avrebbe parlato, perché a nessuno interessavano fiabe tradotte in maridese o i rapporti fra la letteratura magica e quella delle sirene.

"Non ci vuole molto a fare due più due: nessun altro dipendente della Tu-Mi-Streghi ha guadagnato così tanto, quindi credo di poter affermare senza ombra di dubbio che al secolo Queenie Royal  risponde al nome di Zara Battenberg".

Zara Battenberg.

Zara, una regina

Una regina dal cognome regale, se le conoscenze di Gilderoy sulla storia del cognome dei Mountbatten-Windsor non lo stavano ingannando – e non lo credeva, perché la sua ammirazione per la regina dei babbani e l’arcobaleno che nascondeva nell’armadio lo rendeva piuttosto attento alla questione. 

"È parente della regina? Quella vera, dico?"

Se così fosse stato, Gilderoy avrebbe dovuto semplicemente arrendersi: non avrebbe mai potuto opporsi a qualcuno di siffatto lignaggio.

Gli occhi di Septimus, davanti a quella domanda, sbatterono tre volte di fila, probabilmente incapaci di seguire fino in fondo il ragionamento di Gilderoy.

Rita, invece, lo fissò con uno sguardo vagamente sospettoso.

"Vive nel Gloucestershire", si limitò a rispondere, come se questo spiegasse ogni cosa. E di nuovo fissò Gilderoy, come se si aspettasse qualche sua reazione alla rivelazione.

"In una specie di fattoria", aggiunse la Skeeter, senza mai abbandonare quell’espressione che Gilderoy non era proprio in grado di decifrare.

Questa volta, Gilderoy scoppiò a ridere. Una risata che nascondeva un'ombra di isteria, ma pur sempre una risata.

Una regina reale che viveva in una fattoria e scriveva mediocri storie d'amore su fogli di pergamena impregnati di puzza di cacca di mucca. E con quel lezzo di cacca di mucca riusciva comunque a rappresentare una minaccia per Gilderoy. Non c’era alcun tipo di giustizia in una simile situazione .

“Ci hai parlato?”, domandò di nuovo Septimus, e a quella domanda Rita assunse un’espressione imperturbabile.

“Non ci ho parlato. Non ancora, almeno, perché volevo prima capire come avreste voluto muovervi voi".

Un sottile brivido di paura scorse lungo la spina dorsale di Gilderoy: Rita Skeeter non era certo una persona che faceva qualcosa per niente, e di certo avrebbe voluto qualcosa in cambio, per quel silenzio. Uno scoop capace di svelare l’identità di Queenie Royal non poteva essere pagato solo con delle interviste in esclusiva con Gilderoy, e per un istante Gilderoy ebbe la certezza che la Skeeter stesse giocando tutta un'altra partita, e che lui e Septimus fossero solo degli strumenti per permetterle di raggiungere il suo obiettivo.

"Ho però delle fotografie".

Usando i suoi artigli smaltati come tagliacarte, dischiuse i lembi della busta che aveva estratto dalla borsetta, facendone cadere fuori tre fotografie. Non le diede a Septimus, ma le piazzò con fare deciso in grembo a Gilderoy, tornando a fissarlo con quella sua espressione penetrante e piena di aspettative. 

Con un sospiro deciso, Gilderoy afferrò le fotografie.

La prima era una vecchia immagine in bianco e nero scattata in quella che Gilderoy riconobbe subito come la biblioteca di Hogwarts: due ragazzine che non potevano avere più di quattordici anni facevano smorfie buffe, cercando di tenere in equilibrio una penna incastrandola fra il naso e il labbro superiore. L’ambiente era buio e la fotografia doveva essere stata sviluppata da qualche studente appassionato ma non particolarmente abile, quindi distinguere i tratti dei due soggetti non era semplice.

Le altre due fotografie erano entrambe a colori. Una era piena di luce: un'ampia finestra illuminava una stanza dalle pareti imbiancate a calce – una cucina, a giudicare dallo scintillio di pentole di rame appese con precisione alla parete. In primo piano, col sorriso smagliante di chi è felice di essersi messo in posa, una giovane donna catturava l'attenzione dell'osservatore. Denti bianchissimi spiccavano su un viso dalla pelle scura, occhi profondi illuminati da una luce divertita, zigomi alti e lineamenti regolari: Zara Battenberg sembrava avere davvero il portamento di una regina.

La terza fotografia invece sembrava uno scatto rubato: una giornata uggiosa, prati verdissimi e lì, al centro, la figura alta di Zara. Una donna dal portamento fiero che camminava a passo rapido attraverso il prato, incurante del vento che sembrava intenzionato a strapparle di dosso il mantello da viaggio. Un nastro di stoffa tinta di colori vivaci era annodato attorno al suo capo come una corona da cui si riversava una gioiosa massa di treccine sottili, e sulla sua spalla era appollaiato un rapace. Gilderoy non riusciva a vedere bene, ma aveva l'impressione che non si trattasse di un gufo. Assomigliava di più a Gatsby, a ben pensarci: Kingsley sarebbe stato fiero di sapere che Gilderoy aveva iniziato a distinguere gheppi e civette, ma Gilderoy non voleva pensare a Kingsley, così tornò a concentrarsi su Zara-Queenie. Che era molto diversa da qualsiasi donna Gilderoy si fosse aspettato di trovare dietro la sua rivale. Era una donna dall'aria fiera. Non una bellezza convenzionale, ma era pur sempre decisamente molto bella. Aveva passi decisi, movimenti da atleta, espressioni nette e una luce sempre divertita negli occhi.

"Allora? Cosa ne pensate?"

La voce di Rita riportò  Gilderoy all'ufficio di Septimus. Septimus lanciò a Gilderoy una brevissima occhiata d'avvertimento, come a volergli ricordare di tacere e lasciar fare a lui.

Come se Gilderoy avesse avuto intenzione di prendersi sulle spalle la responsabilità di quella situazione.

"Non me l'aspettavo così. Di certo, mi sembra una signorina affascinante".

Un'altra occhiata a Gilderoy, questa volta fin troppo esplicita: Gilderoy non doveva restare in silenzio e indifferente. 

"Sì, molto affascinante…"

Gilderoy tentò di guardare Queenie-Zara come un uomo sorpreso dal fascino di una donna che avrebbe dovuto detestare e che si rivelava invece estremamente affascinante. Non aveva idea di quale dovesse essere questo sguardo, ma non importava, perché Rita aveva ricominciato a frugare nella sua borsetta per poi estrarre una pergamena arrotolata.

“Ho fatto anche qualche altra ricerca, e ho scoperto che la collaborazione tra Flintshire e la Royal risale a ben prima della pubblicazione del suo primo romanzo”.

Appoggiò la pergamena sulla scrivania, lisciandone i bordi lisi e cercando di eliminarne le pieghe. Gilderoy si sporse un po’ in avanti, e si rese conto che quello che stava osservando non era solo un foglio di pergamena, ma un fascicolo tenuto insieme da pochi punti metallici: L’Eco di Hogwarts, si leggeva in cima alla prima pagina di quello che ora appariva chiaramente come un giornalino scolastico amatoriale. 

Gilderoy lo prese e sfogliò rapidamente i pochi fogli che componevano il giornalino, lasciando scorrere lo sguardo sui titoli degli articoli: cronache delle partite di Quidditch, invettive contro i metodi troppo severi di alcuni insegnanti, caricature di compagni e professori, un articolo su una festa organizzata nella Sala Comune di Serpeverde e terminata con tutti i letti dell’Infermeria pieni di studenti che avevano cercato di procurarsi dell’alcool illegale da un rivenditore decisamente poco attento alla qualità dei suoi ingredienti. E poi annunci di oggetti smarriti e ritrovati, l’appello della squadra di Gobbiglie in cerca di un nuovo capitano, per finire poi con La Regina della posta del cuore.

Gilderoy avrebbe voluto avventarsi su quelle parole, esplorarle una a una e conoscere la Zara-Queenie-Regina adolescente per capire se già in quelle righe acerbe c’era qualche traccia del personaggio che sarebbe diventato poi, ma Rita si era già ripresa il giornale, sfogliandolo rapidamente fino all’ultima pagina.

L’ultima pagina, quella in cui la foto di un giovanissimo Ebenezer Flintshire –  non poteva avere più di quindici anni – campeggiava accanto al titolo di direttore. 

L’eco di Hogwarts  è stata fondata prima che io arrivassi a scuola, ma quando ero al secondo anno e Flintshire all’ultimo, ammetto di aver scritto i miei primi articoli proprio per lui”.

Septimus, che Gilderoy ricordava avere pochi anni più di Flintshire, ridusse gli occhi a due fessure impenetrabili.

“Ma allora… tu conosci questa Zara, giusto?”
Rita si leccò le labbra con un gesto lento e deliberato, e, ancora una volta, non rispose guardando Septimus, ma lo fece fissando intensamente Gilderoy, quasi si aspettasse che le sue parole scatenassero in lui una reazione differente. 

“Sì e no. Io ero l’ultima arrivata, ho collaborato con loro, ma non  mi hanno mai considerata un membro stabile della redazione. E quando Ebenezer ha finito la scuola, ha smantellato l’Eco, non ha voluto che continuasse senza di lui”. 

“Tipico di uno come lui”, borbottò piccato Septimus.

Rita fece un respiro profondo, controllò che i suoi boccoli di gesso fossero ancora al loro posto, poi riprese a raccontare:
“Però ricordo che già all’epoca nessuno sapeva chi scrivesse i pezzi della posta del cuore. Si erano inventati il personaggio di questa Regina, c’erano aneddoti e scemenze su di lei disseminati in tutti gli articoli… io credevo che facessero così perché in realtà Regina era proprio Flintshire, o forse perché non c’era una sola persona a occuparsi di quella rubrica, ma ci pensava chi aveva più tempo, ma forse non era così”. 

Rita riprese le fotografie di Zara Battenberg, fissando soprattutto il primo piano scattato nella cucina luminosa.
“E mi ricordo che c’era una Zara a ronzare attorno a Flintshire. Una Grifondoro, se non sbaglio… io credevo gli ronzasse attorno perché era la sorella del suo migliore amico” – pronunciò quelle ultime due parole con un fare allusivo che Gilderoy non comprese – “ma forse non era così. Forse hanno iniziato a collaborare a scuola, e poi la collaborazione è continuata e si è spostata su un piano molto più professionale, quando lui ha ripreso in mano la Tu-Mi-Streghi”.

Forse.

Gilderoy stava cercando di seguire quel brandello di pensiero, confuso dal gran numero di informazioni che gli erano piovute addosso quella mattina, ma venne presto interrotto da Septimus. 

“Bene. Molto bene davvero. Grazie, Rita, grazie di cuore. Ora, Gilderoy, torna pure in ufficio, io e Rita dobbiamo parlare di alcuni affari noiosi…”
Affari noiosi che probabilmente avevano la forma di un accordo, di un dare per avere. 

Cose di cui Gilderoy non avrebbe dovuto preoccuparsi, se non ad affari conclusi. 

Si alzò, confuso, e fu solo quando raggiunse il proprio ufficio che si accorse di avere stretta in mano la fotografia di Zara Battenberg. Non il primo piano,  e neanche la foto di lei ragazzina, ma la fotografia scattata all’aperto. 

Se la fece scivolare in tasca con un sospiro. 

Del resto, se il piano di Septimus fosse andato in porto e lui avesse dovuto fingersi innamorato di lei, tanto valeva cominciare a recitare la parte dell’ammiratore incapace di staccarsi dal ritratto della sua amata.





 

 


 

Note: 

Ormai questa storia si avvia alle sue battute finali, e i nodi stanno cominciando a venire al pettine.
Chiedo scusa se questo capitolo presenterà delle imprecisioni, ma  ho scritto e editato quasi tutto con la febbre. Sì, avrei potuto aspettare e sistemare tutto con calma quando starò meglio, ma ormai con questa storia ho sempre il terrore di “perdere l’attimo”, e che ogni ritardo comporti un giro infinito di imprevisti, quindi insomma, mi butto comunque.

Ci tengo a sottolineare che il metodo utilizzato dalla Skeeter per trovare Zara è lo stesso che hanno usato i giornalisti del Sole 24 Ore per scoprire la vera identità di Elena Ferrante: hanno analizzato le entrate della casa editrice E/O, hanno notato che una persona che ufficialmente figurava solo come traduttrice era stata pagata decisamente più di quanto un semplice lavoro di traduzione avrebbe implicato e hanno unito i puntini. Insomma, non è farina del mio sacco, ma mi divertiva provare ad inserire questo episodio in questo contesto. 

Grazie a chiunque abbia avuto la pazienza di arrivare fino a qui!
 

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Capitolo 15
*** Questioni di famiglia ***


Questioni di famiglia




 

Al contrario di quanto raccontava nei suoi libri, Gilderoy non aveva mai attraversato a nuoto un lago. Non era neanche particolarmente bravo a nuotare, a volerla dire tutta, ma in acque tranquille era in grado di restare a galla. Aveva sempre avuto però paura delle acque infide, i mulinelli lo terrorizzavano, eppure ora aveva la sensazione che ogni giorno, da quando aveva scoperto la vera identità di Queenie, fosse stato solo un susseguirsi di disperate bracciate per restare a galla in mezzo ai mulinelli.

Septimus lo aveva tenuto costantemente in tensione in tutti i modi possibili: aveva impostato scadenze stringenti e obiettivi precisi per il nuovo manuale, convocandolo a infinite riunioni e revisionando assieme a lui ogni nuova consegna. Non contento, lo aveva coinvolto in una girandola di eventi, interviste e apparizioni pubbliche, cene formali e aperitivi. Sembrava che volesse essere sicuro che Gilderoy non avesse nemmeno il tempo di pensare. E in effetti, quel tempo Gilderoy non ce lo aveva. La sera tornava a casa così stanco e con la testa così piena di tutti gli avvenimenti della giornata che non riusciva a fare altro che buttarsi sotto la doccia – non aveva le forze neanche per un bagno – e poi crollare a letto. E la mattina la sua sveglia non faceva nemmeno in tempo a suonare che la voce di Septimus appena uscito dalla Metropolvere del suo salotto lo esortava a fare in fretta, a lavarsi e a vestirsi e a mettersi qualcosa di particolarmente carino in vista degli eventi della giornata. 

Gilderoy poteva non essere intelligente come credevano i suoi lettori, ma non era nemmeno uno sciocco, e sapeva bene che la strategia di Septimus rispondeva a una logica molto precisa: tenerlo così impegnato che non avesse il tempo di pensare a Queenie Royal. 

O a Rita Skeeter, e a come tutto fosse ad un passo dal precipitare miseramente, nonostante Septimus sostenesse il contrario. Septimus, infatti, aveva stretto un accordo con la Skeeter: lei avrebbe tenuto la penna chiusa in borsetta, non rivelando per il momento a tutto il mondo la vera identità di Queenie Royal, e a tempo debito Gilderoy le avrebbe regalato lo scoop più ambito da qualsiasi giornalista, permettendole di unire in un solo articolo lo svelamento della sua identità e della storia d’amore che univa i due scrittori più amati dal pubblico inglese.

Gilderoy sospettava che consegnare fra gli artigli di Rita Skeeter un segreto così prezioso, confidarle che la sua storia con Queenie-Zara era solo una montatura, fosse una mossa pericolosissima. Significava regalarle una perenne arma di ricatto: per tutta la vita lei avrebbe potuto minacciare di rivelare al mondo quel piccolo inganno – e chissà quanti altri – e loro avrebbero dovuto sottostare a qualsiasi suo capriccio, a qualsiasi sua richiesta. E anche dopo aver assecondato ogni sua volontà, avrebbero comunque continuato a vivere nel timore che lei rivelasse comunque i loro segreti. 

Una pessima, pessima idea.

Ma Septimus era deciso a voler risultare sempre e comunque il più intelligente dei due, e Gilderoy si era ritrovato costretto a chinare il capo, a obbedire e a prendere parte alla sua folle danza di distrazioni.

 

C’era una cosa, però, da cui tutti gli impegni del mondo non sarebbero riusciti a distrarlo: Gilderoy non aveva avuto il tempo di pensare a Queenie, non aveva messo a punto un piano per trovare la tranquillità di spirito necessaria a preparare la recita con cui l’avrebbe sedotta. Non aveva pensato al loro futuro insieme né alla reazione del pubblico, non aveva pensato quasi a niente.

Ma a Kingsley ci aveva pensato, costantemente

Ci pensava ogni volta che si gettava sotto la doccia, perché Gilderoy era uno da vasca da bagno, la doccia era il regno di Kingsley. Ci pensava quando un gufo lasciava l’ennesimo invito sulla sua scrivania, e quel gufo non era mai Gatsby. Ci pensava quando si rendeva conto che se ci fosse stata una Queenie, non ci sarebbe stato spazio per un Kingsley.

La loro ultima discussione li aveva visti promettersi un incontro al rientro dalla missione di Kingsley, e una parte di Gilderoy sapeva che cosa avrebbe dovuto fare: non presentarsi a quell’incontro e poi recitare l’incantesimo per escludere l’Auror dalla propria abitazione, per scongiurare il rischio che lui lo andasse a cercare per avere un ultimo chiarimento – buffo che fosse stato proprio Kingsley a insegnargli come lanciare quell’incantesimo. Tagliare i ponti, dimenticarlo, fingere che quelle settimane non fossero mai esistite, che non avesse mai scalato una montagna solo per raggiungere un paradiso dove baciare l’uomo migliore che avesse mai avuto accanto. Fingere che Kingsley fosse solo l’ennesimo uomo da dimenticare in un battito di ciglia, fingere che quella separazione non avrebbe lasciato alcun segno su di lui. 

Sarebbe stata la cosa più semplice. Dolorosa, forse, ma l’unica priva di imprevisti e di complicazioni.

Ma Gilderoy, pur non avendo il tempo o la forza d’animo di riflettere anche sulla problematica più piccola, aveva una sola certezza: le cose tra di loro non potevano finire in questo modo. Non potevano finire senza che si rivedessero un’ultima volta. Doveva esserci un confronto, qualsiasi cosa. Prima di prendere qualsiasi altra decisione, prima di trovare il coraggio di buttarsi davvero all’inseguimento del cuore di Queenie Royal, Gilderoy aveva bisogno di rivedere Kingsley. Non aveva idea di che cosa si sarebbero detti. Forse Gilderoy lo avrebbe semplicemente lasciato. Forse sarebbe stato Kingsley a farlo. O forse Kingsley avrebbe saputo convincerlo a mandare al diavolo Septimus e a combattere per la loro relazione. O Gilderoy avrebbe continuato a mentire, e mentire, e mentire, e avrebbe trovato un modo per avere sia Queenie che Kingsley.

Forse.

L’unica cosa certa era che doveva, doveva rivederlo almeno una volta. 

 

***

 

Fu con mani tremanti che Gilderoy gettò una manciata di polvere scintillante nel camino, deciso a raggiungere l’appartamento di Kingsley. 

Era sabato sera, e loro avevano un appuntamento. Un appuntamento che per Kingsley significava un nuovo inizio, e per Gilderoy significava tutto, forse la fine di tutto, non significava niente, significava un dolore indicibile nel petto. 

Arrivare nell’appartamento di Kingsley fu come ritrovare le atmosfere di un sogno bellissimo, offuscate però dalla consapevolezza che un sogno sia ben distante dalla realtà. 

Tutto in quell’appartamento era silenzio, ma era un silenzio carico di familiarità: Gilderoy rimase per un po’ in piedi immobile davanti al caminetto, per poi lasciarsi cadere sul piccolo divano di fronte alla finestra con le tendine che lui tanto detestava. Sedette accarezzando distrattamente la stoffa della coperta a quadrotti di lana colorata che Kingsley aveva gettato sul divano, un oggetto che in casa di chiunque avrebbe subito fatto pensare all’odore di cavolo e allo stile di una nonna troppo anziana per essere affascinante, ma che nell’appartamento di Kingsley dava solo un tocco di calore familiare. 

Quell’appartamento non era bello: era piccolo, il mobilio era scombinato e chiaramente frutto di personalità diverse che avevano stratificato ondate di oggetti poco amalgamati, ma a tenere insieme tutto c’era la personalità di Kingsley. Coperte di lana a scaldare librerie di metallo, piante rigogliose che non avrebbero sfigurato su una rivista di interior design a bilanciare la bruttezza di un tavolino di plastica di un giallo malaticcio, stampe astratte su pareti di mattoni, libri antichi posati sul microonde e pile di vecchie Gazzette del Profeta accoccolate in un orribile portagiornali in ferro battuto a forma di gatto. 

Niente a che vedere con il lusso perfettamente studiato dell’appartamento di Gilderoy. Eppure, Gilderoy non riusciva a guardarsi attorno e a sentire il proprio senso estetico vacillare.

Amava quell’appartamento, amava il senso di sicurezza che vi provava. Amava l’idea di potersi sedere sul divano senza aver paura di rovinarlo, gli piaceva sapere di poter aprire il pensile in cucina e trovare tazze di qualsiasi misura, e gli piaceva guardare ogni scorcio e ripensare a che cosa lui e Kingsley si erano detti a quella finestra, a come si erano baciati su quel divano o a come era stato bello restare semplicemente per ore appollaiati al tavolo della cucina per chiacchierare ininterrottamente.

Un leggero frullo d’ali lo distrasse quando Gatsby lasciò il trespolo su cui di solito riposava nel corridoio che portava alla camera da letto per venire a posarsi con misurata eleganza sul basso tavolino del soggiorno.

“Eccoti, ma allora almeno tu ci sei a casa. Il tuo amico con due braccia e tanti muscoli non è ancora tornato?”
Gatsby piegò di lato il capo, fissandolo con i suoi occhietti intelligenti, poi emise un verso basso e quasi dolce.

“Tornerà presto, vedrai. Ha promesso che sarebbe stato a casa per l’ora di cena, e mi sembra uno che mantiene sempre le promesse, lui”.

Gatsby tubò di nuovo, e Gilderoy sorrise: alla fine si era quasi affezionato a quel pennuto così educato, se ne era affezionato al punto da sentirsi abbastanza a suo agio da allungare una mano e carezzare con la punta dell’indice la piega morbida del suo capo. 

Gatsby gli era simpatico, ma non era abbastanza di compagnia perché lui non si annoiasse. Dopo un istante di esitazione, Gilderoy tornò ad alzarsi e a passeggiare per il piccolo salottino, leggendo i titoli dei libri che gli capitavano sotto lo sguardo e cercando di cavare un senso dalle stampe appese alle pareti. 

Tutte cose estremamente noiose. Aprì la finestra per respirare un po’ di fresca aria di inizio estate, pentendosene immediatamente quando una specie di moscone munito di corazza iridescente si fiondò in casa, ronzando sonoramente. Per un po’ ne seguì il volo con lo sguardo, vagamente disgustato, poi l’insetto scomparve dalla sua vista, e Gilderoy tornò ad annoiarsi.

Vagando alla ricerca di una distrazione che non lo impegnasse quanto il Compendio storico sulla nascita degli incantesimi di magia difensiva, si avvicinò a una bacheca di sughero posata sopra un armadietto della cucina: accanto a una lista della spesa scarabocchiata nella grafia minuscola di Kingsley e vecchi promemoria di uno sbiadito magenta infilzati come tristi farfalle sottovetro, numerose fotografie magiche riempivano quell’angolo della cucina di colore e di movimento. 

Gilderoy non le aveva mai notate: o meglio, le aveva viste, ma era sempre stato troppo preso a osservare i movimenti del padrone di casa, per prestare attenzione alle fotografie. 

Si avvicinò con cautela, sentendosi vagamente un intruso: Kingsley gli aveva dato il permesso di entrare in casa sua, e quelle fotografie non erano certo nascoste in un diario in fondo a un cassetto, ma gli sembrava comunque di invadere uno spazio personale. I suoi scrupoli tuttavia non gli impedirono di sorridere come un bellissimo idiota in risposta al suo stesso sorriso: il suo ritratto in blu e oro ritagliato direttamente dalla prima pagina del numero di Fattucchiera 2000. Una fotografia che era stata scattata proprio la sera in cui lui e Kingsley si erano conosciuti, in effetti. Gilderoy non sospettava che Kingsley fosse il tipo di persona da ritagliare e appendersi in cucina il ritratto dell’uomo con cui usciva, ma la cosa non faceva altro che scaldargli il cuore.

Fu con una certa difficoltà che Gilderoy si decise a staccare gli occhi dal proprio – decisamente lusinghiero – ritratto, per concedere un po’ di attenzione al resto delle fotografie. 

C’era una foto piena di persone con la divisa blu pavone degli Auror: la squadra di Kingsley, probabilmente, tutti ritti in piedi con aria solenne. Tra tutti quei visi sconosciuti, Gilderoy riconobbe subito Kingsley, serissimo ed estremamente affascinante. Il più affascinante di tutti, senza ombra di dubbio. 

C’era poi una fotografia che, nonostante la sua avversione per gli esseri umani che non avessero ancora compiuto la maggiore età, strappò un sorriso a Gilderoy: Kingsley, un Kingsley che non poteva avere più di diciassette o diciotto anni e che aveva entrambe le braccia occupate da due bambini esagitati. O meglio, con il braccio sinistro si stringeva sul fianco una bimbetta dai lunghi riccioli scuri, che lo fissava con occhioni adoranti mentre dondolava placida un piedino calzato in scarpette di vernice che Gilderoy trovava di ottimo gusto. La mano destra era invece impegnata a stringere la caviglia di un demonietto che sembrava avere la stessa età della bimba. 

Mortimer, il nipotino spernacchiatore e piromane, assieme alla più pacata Marigold. Doveva essere una foto di famiglia.

Una foto scattata in una luminosa cucina con i muri  imbiancati a calce e una lunga serie di scintillanti padelle di rame appese in bell’ordine.

Crack.

Il suono della materializzazione di Kingsley non riuscì a distrarre Gilderoy dalla fotografia successiva. Un’altra foto di famiglia. Ancora una volta le pentole di rame, ancora una volta una Marigold di qualche anno più grande appesa al collo dello zio. Mortimer, invece, era ritto in piedi, con entrambe le spalle impegnate a far da trespolo a Gatsby e al clone di Gatsby. Il clone che Gilderoy, ora ne era certo, aveva già visto una volta sulla spalla della madre dei due bambini. La donna che se ne stava appena in disparte, un sorriso radioso in viso e lo sguardo perso sul resto della sua famiglia, era inconfondibile. Alta, con un portamento così elegante da farla sembrare una regina anche con indosso quell’orribile salopette di jeans e quel nastro di stoffa colorato a cercare di arginare la sua cascata di treccine, Zara Battenberg sembrava dominare l’intera stanza.

Gilderoy sentì i passi di Kingsley avvicinarsi alla cucina, ma non riuscì a muovere un muscolo. Vide il moscone che prima aveva perso di vista sfrecciare rapidissimo verso la finestra, ma non ci fece nemmeno caso.

Era come se tutto, compresa la sua capacità di pensare, si fosse immobilizzato, prigioniero di una sola consapevolezza: Kingsley era il fratello di Queenie Royal. Kingsley, l’Auror che non aveva alcun motivo di essere presente alla premiazione. Kingsley che non aveva alcun motivo di interessarsi a Gilderoy, ma che aveva comunque trovato una scusa per continuare a vederlo, ancora e ancora. Perché si era invaghito di lui, Gilderoy aveva voluto credere. 

Ma forse non era così. 

Forse Queenie Royal era riuscita a giocare ancora una volta d’anticipo, era arrivata prima di Gilderoy e gli aveva anche rubato il piano, giocando la carta del suo bellissimo fratello dai modi così saldi da sembrare incorruttibile per far crollare Gilderoy davanti al fascino della divisa da Auror

E ci era riuscita maledettamente bene. 





 

 


 

Note: 

Un nuovo capitolo pubblicato in tempi così rapidi? È forse un miraggio? No, è solo che questo doveva essere l’ultimo capitolo, e doveva quindi essere lungo il doppio e contenere anche il confronto finale tra Kingsley e Gilderoy, ma sono un’autrice malvagia e alla fine ho pensato che fosse più giusto far sedimentare meglio le rivelazioni di quest’ultimo capitolo. 

Però, insomma, il prossimo sarà davvero l’ultimo, poi ci aspetta solo l’epilogo (che è in parte già scritto), quindi in un rigurgito di ottimismo di cui mi pentirò prestissimo mi azzardo a dire che entro la primavera la storia potrebbe essere completa? Non lo so, ormai gli aggiornamenti di questa storia sono talmente poco logici che può succedere tutto e il contrario di tutto. 

 

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Capitolo 16
*** Nodi al pettine ***


Nodi al pettine



 

La strategia di difesa di Gilderoy era sempre stata l’attacco. Non con la bacchetta, quella tendeva a sfoderarla il meno possibile, ma con le parole. Chiacchiere esagerate, lodi, frasi affastellate in maniera così fitta e caotica da lasciare spaesato chiunque avesse davanti, costringendolo ad arrendersi prima ancora di cominciare ad attaccare. Talvolta erano parole con cui Gilderoy costruiva una realtà tutta nuova, differente quanto bastava dalla verità per creare un velo di confusione a cui era facilissimo credere. Altre volte era solo un trucco da mago babbano, tante parole scintillanti ed esagerate per distogliere l’attenzione mentre qualcosa di molto più prosaico veniva nascosto dietro il suo sorriso abbagliante.

Quella sera, però, mentre Kingsley attraversava il salotto e Gilderoy se ne stava immobile con gli occhi persi sul ritratto di Zara-Queenie Battanberg-Royal, lui non trovò niente da dire. Neanche una piccola, minuscola parola incastrata in fondo alla gola. Non un cenno di avvertimento, non un saluto, neanche un grido arrabbiato – tradito.

Se ne rimase semplicemente immobile, il cuore che gli pulsava così intensamente nelle vene e nelle orecchie da rendere difficile anche solo sentire i passi di Kingsley farsi sempre più vicini e fermarsi con un movimento brusco sulla soglia.

“Bacchetta in vis… ah, Gilderoy! Sei tu! Mi avevi spaventato!”

Gilderoy riuscì a vedere la trasformazione sul viso di Kingsley: l’espressione dura e priva di qualsiasi emozione dell’Auror con la bacchetta spianata che si addolcì in un sorriso morbido. Un sorriso luminoso, che sembrava nascergli da dentro e riscaldargli il viso e il cuore. Un sorriso che sembrava così maledettamente sincero.

Fu in quel momento che Gilderoy sentì il proprio cuore andare in pezzi: non come la brutta metafora di una pagina qualsiasi di un romanzo di  sua sorella, ma lo sentì proprio spezzarsi, infrangersi in centinaia di crepe acuminate pronte a conficcarsi in ogni ricordo felice e a tingerlo di dolore e vergogna per il modo in cui Gilderoy era caduto in quello sciocco tranello.

“Gilderoy? Stai bene?”
Quando aprì la bocca per parlare, Gilderoy era certo che sarebbe scoppiato a piangere. Invece, del tutto inaspettata, una fredda calma emerse da qualche parte dentro di lui.

Fu con voce di porcellana, pulita e priva di alcuna inflessione, che riuscì a pronunciare poche parole:

“No, non sto bene. Ma sono contento di aver finalmente scoperto la verità su di te e su tua sorella”.

Il sorriso di Kingsley svanì con la stessa rapidità con cui era apparso.
Gilderoy non sapeva cosa si sarebbe aspettato di veder comparire sul suo viso: timore per il piano crollato, vergogna, forse avrebbe sperato anche in un pizzico di rimorso. Quello che era certo, però, era che mai si sarebbe aspettato di vedere una confusione così genuina da farlo quasi abboccare. Quasi, perché ormai era evidente che Kingsley fosse uno degli attori migliori di tutta l’Inghilterra, e cosa poteva essere per lui un piccolo sforzo in più?

“Mia sorella? Non sto capendo…”
“Sì, Kingsley, tua sorella. Tua sorella, Zara Battenberg”.

Un lampo di freddo dolore, qualcosa di simile alla rabbia, fu tutto ciò che fece capolino sul viso di Kingsley.

“Quello non è più il suo cognome. Come fai a conoscerlo?”
Allora Gilderoy sentì una risata amara risalire gorgogliando lungo le pareti della sua gola.
“Ah, non è più il suo cognome? Preferisce farsi chiamare Royal, vero? Un cognome da vera regina”.

Ed eccola, dunque: la comprensione coprì il viso di Kingsley come un grigio sudario, distorcendogli i lineamenti in un misto di vergogna e dolore. Qualche ora prima, Gilderoy si sarebbe sentito il cuore andare in pezzi vedendo una simile espressione sul viso di Kingsley. Ora riusciva solo a trattenere a stento una risata amara. Una risata un po’ folle, forse, ma Gilderoy non aveva più voglia di conservare un’apparenza di sanità mentale. 

“Gilderoy…”
Kingsley allungò una mano in un gesto che aveva il sapore di un’implorazione, ma a Gilderoy non importava. Si scostò con un gesto brusco, sentendo improvvisamente il bisogno di mettere quanto più spazio possibile fra sé e quell’appartamento in cui si era illuso di essere stato felice. Una bugia anche quella felicità, e maledizione, quanto faceva male non essere dalla parte di chi le bugie le confezionava con splendide copertine.

“Dimmi solo una cosa… te lo ha chiesto lei, o è stata una tua idea?”
In un attimo, il viso di Kingsley tornò a distorcersi nella confusione.

“Chiesto che cosa?”
“Tutto questo”, Gilderoy fece un ampio gesto con la mano, indicando l’appartamento babbano di Kingsley, indicando sé stesso nell’appartamento di Kingsley, cercando di comprendere tutto quello che erano stati, quello che Gilderoy aveva creduto fossero stati. 

“Tutto questo, il fatto che tu abbia insistito per aiutarmi, per sedurmi, per distrarmi… era quello il piano, no?”
“Di che cosa stai parlando?”
“Oh, andiamo”, sbottò Gilderoy, non riuscendo più a trattenere la rabbia, “vuoi dirmi che è solo un grande caso, una coincidenza, se proprio il fratello di Queenie Royal ha insistito così tanto per uscire con l’unico degno rivale di sua sorella?”
Poteva essere un caso? In un mondo di persone giuste, in un mondo di persone governate dall’etica e dalla morale dell’uomo che Kingsley aveva finto di essere, forse sì. Ma Gilderoy sapeva come funzionava il mondo che condivideva con Queenie Royal, e no, in quel mondo non c’era alcuno spazio per quel tipo di coincidenze. 

“Aspetta, io… cosa? Ma mia sorella non è Queenie Royal!”
Questa volta, Gilderoy non dovette neanche sforzarsi di trattenere la sua risata fredda. La lasciò semplicemente uscire, amara e frastagliata in qualcosa che assomigliava pericolosamente a dei piccoli singhiozzi. 

“Smettila! Ti ho detto che so tutto, puoi smetterla di prendermi in giro!”
Ma Kingsley era serio. Mortalmente serio.
Serio come Gilderoy non l’aveva mai visto, il viso atteggiato in un’espressione grave, la bocca incurvata verso il basso, un dolore acuto a incupirgli lo sguardo.

“Non ti sto prendendo in giro. Non so cosa tu pensi di sapere, e non è così che avrei voluto parlartene, ma ti assicuro che Queenie Royal non è mia sorella”.

Gilderoy però ne aveva avuto abbastanza. Si era già mostrato sciocco, così sciocco da essere preso in giro con la stessa facilità con cui si prende in giro un bambino, e non aveva più intenzione di assecondare quella follia. 

“Smettila. Per favore, smettila. Non ti sembra di aver già fatto durare fin troppo questa follia?”
E allora l’espressione di Kingsley si fece ancora più cupa, come se avesse infine trovato il coraggio di prendere una decisione dolorosa. 

“Ti ho detto che Queenie Royal non è mia sorella, ed è la verità. Perché… Queenie Royal sono io”. 

Questo era veramente troppo. 

Gilderoy era stato disposto a farsi prendere in giro, ma Kingsley gli doveva almeno un ultimo istante di sincerità. Una spiegazione, un’ammissione di colpa, una confessione.

L’ennesima, sfacciata presa in giro non poteva essere tollerabile.

“Sei davvero meschino. Non riesci a fare uscire da quelle labbra neanche una briciola di sincerità, vero?”
“Gilderoy!”
Ma Gilderoy non aveva davvero abbastanza: certo che non sarebbe riuscito a trattenere le lacrime, voltò le spalle a Kingsley e, senza più badare alla propria dignità ormai ridotta a brandelli, corse verso la Metropolvere.

 

***

 

Quando Septimus arrestò l’incespicare di Gilderoy sul tappeto del salotto del suo appartamento, Gilderoy nemmeno ci fece caso.
Si lasciò aiutare dal suo editore, grato di avere accanto un viso amico.
Il viso di chi sapeva sempre come fare, di chi sapeva trovare una soluzione a qualsiasi situazione. Di chi gli aveva sempre detto come comportarsi, dandogli indicazioni precise e sollevandolo dall’ingrato compito di pensare. 

“Sssh, Gilderoy, sssh, non è successo niente. Vieni qui. Respiri profondi, da  bravo, adesso ci alziamo e andiamo a lavarci la faccia con un po’ di acqua fresca, che ne dici? Te la senti?”
Gilderoy annuì, e  cominciò a fare esattamente quello che Septimus gli aveva chiesto. Prese a fare lunghi respiri controllati, scacciando il pianto e tornando almeno in parte padrone di sé stesso. Si raddrizzò, notando il sollievo sul viso di Septimus, quando si allontanò da lui, ed era pronto ad avanzare piano verso il bagno, quando due rumori si sovrapposero. 

Dalla cucina venne il suono di una voce femminile leggermente arrochita che chiamava il nome di Septimus, mentre alle sue spalle si avvertì il suono inequivocabile di una Materializzazione. 

Kingsley riempiva gran parte del salotto di Gilderoy, il viso sempre stravolto da quell’espressione piena di dolore. Ignorò completamente Septimus e le sue deboli proteste, dirigendosi a passi decisi verso Gilderoy.

“Oh, ma abbiamo anche l’ospite d’onore!”, esclamò avidamente la donna  che poco prima aveva fatto il nome di Septimus. Fu con un moto di orrore che Gilderoy si voltò e vide, dritta contro lo stipite della sua porta, una Rita Skeeter fin troppo a suo agio in un orribile completo di uno slavato giallo canarino, intenta a sorseggiare con evidente soddisfazione del vino versato nel bicchiere di uno dei servizi preferiti di Gilderoy. 

Gilderoy non fece in tempo a domandarsi che cosa ci facessero Septimus e Rita Skeeter così a proprio agio in casa sua, perché Kingsley ormai lo aveva raggiunto e gli aveva afferrato il polso. Un tocco leggero, quasi a chiedere il permesso, o a implorare ancora un po’ di tempo e di considerazione da parte di Gilderoy. 

“Gilderoy, cosa ci fa tutta questa gente in casa tua?”
“Questa gente è il mio editore, Kingsley, ed è sicuramente più titolato lui di te per restare qui”.

Prima che Kingsley potesse protestare, Rita Skeeter si intromise con la sua voce più melliflua di sempre:
“Oh, non litigate, vi prego! Non sono ancora riuscita a scattare una vostra fotografia e ci terrei tanto a farvi finire in prima pagina insieme, perché siete davvero carini, ma quando litigate siete meno affascinanti del solito”.

Gilderoy sentì il sangue tramutarsi in ghiaccio nelle sue vene. 

Le parole di Rita erano inequivocabili, ma Gilderoy non poteva davvero prendere in considerazione l’idea che, fra tutti, proprio Rita Skeeter avesse scoperto qualcosa su di lui e Kingsley, perché quello avrebbe significato semplicemente la fine di ogni cosa. 

Uno sguardo rapido a Septimus fu sufficiente a chiarirgli che l’editore era all’oscuro di tutto: Septimus, sempre così controllato, sempre pronto ad abbandonarsi all’entusiasmo e a prendere in mano la situazione, se ne stava immobile, le guance tinte di un vago color grigio disgrazia, gli occhi spalancati sulla sua totale incapacità di intervenire per dire qualsiasi cosa. 

“Gilderoy, hai invitato tu la signora?”
L’unico che ancora sembrava aver conservato un briciolo di calma, per quanto tutto nel suo viso esprimesse circospezione, era Kignsley.

“No, non l’ho invitata io, ma…”
Gilderoy non sapeva che cosa dire. Non voleva che Kingsley cacciasse Rita Skeeter, perché aveva bisogno di scoprire che cosa lei sapesse di preciso, e aveva bisogno di tenerla sotto controllo. Cacciarla aveva lo stesso sapore di infiocchettare tutti i propri segreti e porgerglieli in un bel pacchetto, ma anche trattenendola non avrebbe saputo che cosa fare.

“Sono stata invitata dal nostro caro Septimus, che ci teneva molto a esaminare insieme le alternative che mi si aprono davanti ora che ho scoperto la vera identità di Queenie Royal”.

Ora Gilderoy non potè trattenersi dal guardare Kingsley, ma sul suo viso era tornata la maschera impassibile dell’Auror, e non c’era traccia anche della più piccola emozione, nonostante i suoi occhi non si staccassero da Rita Skeeter neanche per il tempo di un battito di ciglia. 

Rita prese un altro sorso di vino, schioccando le labbra soddisfatta come un bambino dopo una tazza di cioccolata.

“E comunque hai ragione, Septimus, il vino della cantina di Gilderoy è decisamente buono”. 

Gilderoy si sentì avvampare: lui poteva anche scegliere di pensare alla linea e non bere quelle pregiate bottiglie che spesso gli venivano regalate da fan o da entusiasti collaboratori, ma questo non significava che Septimus potesse invitare gente come Rita Skeeter a casa sua e aprire per lei quel vino!

Tutti, nella stanza, fissavano Rita: Septimus con espressione spaventata, Kingsley con una serietà in grado di mettere i brividi, Gilderoy… be’, Gilderoy era sempre stato estremamente consapevole del proprio viso e del modo in cui quello poteva apparire, ma  non quel giorno. Non aveva idea di che cosa ci fosse dipinto sul suo volto: terrore, angoscia, confusione, voglia di sparire e al tempo stesso voglia di far scomparire dalla faccia della terra quella donna, con ogni probabilità.

Rita rise, una risata artefatta e calcolata sotto la quale, però, Gilderoy riuscì a cogliere tutta la soddisfazione di un momento che aveva a lungo cullato. Un momento  costruito con cura, atteso e pregustato. 

“Davvero, forse la foto dovrei scattarla ora, le vostre espressioni sono impagabili… volete accomodarvi in cucina? Questo vino sta benissimo con quel formaggio francese che…”
“Rita, vuoi farci il favore di spiegarti?”
La interruppe Septimus, il viso cinereo e la voce ridotta a un mormorio.

“Con piacere”, mormorò lei, e Gilderoy si rese conto che la sua voce era davvero intrisa di piacere. Che lei si stava gustando quel momento, la loro attesa, il potere che poteva esercitare su tutti gli uomini nella stanza e i privilegi che avrebbe ricavato dalle informazioni in suo possesso ancor più di quanto si stava gustando vino e formaggio. 

“Oh, andiamo, scioglietevi un po’. Ormai non ci sono più segreti, e quando non ci sono segreti è un po’ come essere in famiglia, no?”
Questa volta Gilderoy era certo che gli occhi di Rita si fossero soffermati un istante più a lungo su Kingsley. 

Kingsley, però, si limitò a incrociare le sue enormi braccia in un gesto che sembrava voler sancire un confine netto fra sé e Rita, ben deciso a differenziare la propria famiglia dalla giornalista.

“No? Niente divani comodi, niente brindisi tutti in compagnia? Peccato…”
Rita si accomodò sul divano di Gilderoy, incurante delle gocce di vino che scivolarono dal suo bicchiere a macchiare la stoffa chiara dei cuscini.

“Come dicevo, Septimus voleva parlarmi dei miei progetti futuri, delle inchieste che ho intenzione di pubblicare nelle prossime settimane su Queenie Royal e tutto quello che ho scoperto, ma il punto è che il povero Septimus non poteva sapere che io non gioco mai una sola partita alla volta”.

Rita lanciò un’occhiata allusiva a Kingsley e a Gilderoy, svuotò con una sola sorsata il suo bicchiere e proseguì:

“Mentre indagavo sulla nostra Queenie ho svolto qualche altra ricerca, perché non potevo proprio spiegarmi la totale assenza di gossip sulla vita privata del nostro Sorriso Più Affascinante, e non potete immaginare la mia sorpresa quando queste indagini mi  hanno portato, se mi concedete la metafora piuttosto appropriata, alle uova dello stesso nido nel Glouchestershire”.

Questa volta Rita fissò direttamente negli occhi Kingsley, e lui abbandonò il silenzio, per parlare con un mormorio basso e minaccioso:
“N0n mi piacciono le chiacchiere. Dica quello che deve dire e facciamola finita in fretta”.

“Non c’è bisogno di scaldarsi tanto, Auror Shacklebolt, anche perché penso che lei sappia benissimo che sto parlando dell’allevamento di rapaci della sua famiglia. Quello che sua sorella Zara, dopo un brevissimo e disastroso matrimonio con Mr. Battenberg, ha deciso di dirigere da sola. Ci sarebbe da chiedersi come faccia la giovanissima madre di due figli con un ex marito scomparso oltre la Manica e del tutto disinteressato al mantenimento dei pargoli a mandare avanti un business che richiede così tanti investimenti…”
Sul viso di Rita comparve il sorrisetto di un’attrice soddisfatta dell’atmosfera creata per arredare al meglio il colpo di scena tanto atteso. 

“A meno che, ovviamente, dopo il divorzio questa madre abbia deciso di impiegare le lunghe serate di solitudine scrivendo romanzi d’amore da far pubblicare sotto pseudonimo  a quello che ai tempi della scuola era il fidanzatino del suo adorato fratello”.

Gilderoy sapeva che, fra tutte le reazioni possibili, quella che lo spinse a voltarsi verso Kingsley e a esclamare, soffocando a stento l’indignazione e la gelosia Flintshire è il tuo ex? era la peggiore di tutte, ma non potè comunque trattenersi.

L’idea che Kingsley avesse condiviso qualcosa con Ebenezer Flintshire lo disgustava. 

“A Hogwarts ci siamo frequentati, ma Miss Skeeter ha frainteso molte cose”.
La semplicità con cui Kingsley ammetteva, dopo essere stato messo all’angolo e smascherato come il fratello della più acerrima nemica di Gilderoy, di avere avuto una relazione con il burattinaio di suddetta nemica era sconcertante.

Gilderoy avrebbe voluto mettersi a gridare. Forse anche a piangere, ma soprattutto a gridare, perché in qualche modo la cosnapevolezza che ogni azione di Kingsley avrebbe potuto essere una finzione volta solo ad aiutare la sorella faceva male, ma pensare che quel complotto fosse stato architettato in accordo con una persona con cui Kingsley aveva avuto una relazione era insopportabile. 

Forse quella relazione non era neanche mai finita, ma era stata tenuta abilmente nascosta per non ostacolare la carriera di Kingsley.

No.

Gilderoy non ci poteva pensare. Non se voleva mantenere quel minimo di lucidità necessaria per non tradirsi davanti a Rita Skeeter, nel caso ci fosse ancora qualche briciola del suo rapporto con Kingsley ad essere rimasta segreta e nascosta. 

Rita piegò la testa di lato nella patetica imitazione di un gesto lezioso. 

“Non sapete quale sia stata la mia sorpresa e la mia soddisfazione quando ho capito che, nonostante l’assoluto riserbo con la stampa, il nostro caro Gilderoy aveva davvero qualche batticuore. L’ho seguito, ho fatto delle ricerche, e l’ho trovato a tubare come un piccioncino proprio con l’irreprensibile fratello di Queenie Royal”. 

Gildeory se l’era aspettato, ma sentire il suo più grande segreto pronunciato dalle labbra spaventosamente bisognose di uno scrub di Rita Skeeter lo fece comunque precipitare in un mare di terrore e disperazione. 

Era tutto finito.
Non solo la sua storia con Kingsley – una storia che non era mai neanche cominciata, non per davvero, se si era trattato solo di una presa in giro – ma tutto, tutto. Rita Skeeter non avrebbe mai taciuto, non dopo essere riuscita a mettere le mani su qualcosa di così succulento. Non dopo essere riuscita a tracciare un filo così inequivocabile fra due inchieste: Gilderoy conosceva abbastanza bene il mondo di fama e lustrini per sapere che solo uno sciocco si sarebbe fatto sfuggire la possibilità di accaparrarsi nello stesso momento la verità su Queenie Royal e il modo in cui suo fratello ne aveva approfittato per incastrare quell’invertito  di Gildeory Allock, il più grande bluff del mondo dell’editoria. 

“E ora tu che cosa pensi di fare, Rita?”
La voce di Septimus era circospetta. Gilderoy sapeva che neanche un uomo con le risorse che sapeva estrarre dal cilindro Septimus poteva risolvere quella situazione, ma evidentemente Septimus continuava a sperarci. O, quantomeno, sperava di prendere tempo per poi riuscire almeno a contenere parte dei danni.

“Oh, andiamo, Septimus, io e te ci assomigliamo molto più di quanto tu possa voler ammettere. Cosa credi che farò? Che mi accontenterò di una stupida esclusiva per le interviste di Gilderoy?”
Septimus strinse gli occhi, senza mai smettere di fissare la donna che si era poco cerimoniosamente spalmata sul divano di Gilderoy. 

“Vuoi bruciarti tutti e due gli scandali in una volta sola?”
Rita rise, e Gilderoy capì esattamente il motivo di quella risata: nessuno sano di mente si sarebbe fatto scappare la possibilità di sbugiardare Queenie Royal e allo stesso tempo di rivelare al mondo ciò che accadeva nella vita privata di Gilderoy Allock. E di certo non lo avrebbe fatto Rita Skeeter, avida com’era di successo e di voglia di far brillare la propria carriera. Non lo avrebbe fatto nemmeno Gilderoy, se solo lui si fosse trovato al posto della giornalista.

“Septimus, non insultare la tua intelligenza. Sei stato bravo, davvero bravo a ogni cosa, ma anche i migliori devono arrendersi davanti alla verità. Ma potresti comunque guadagnarci qualcosa… Gilderoy sarà sulla bocca di tutti, per un po’. Ne varrà la pena”.

Gilderoy vide gli occhi di Septimus ridursi a una sottile fessura ed ebbe quasi la sensazione di vedere il suo cervello brillare di fervore mentre vagava alla ricerca di una soluzione. Gilderoy sapeva che la cosa più razionale da fare, per Septimus, sarebbe stata cavalcare l’onda: se non poteva salvare Gilderoy, tanto valeva che salvasse sé stesso gettando Gilderoy in pasto allo scandalo.

“Quello che però vorrei sapere”, continuò Rita, gli occhi ora avidamente puntati su Kingsley, “è se la passione di Mr. Muscolo per gli scribacchini è autentica o è solo un’abile mossa di marketing. Prima Ebenezer, poi Gilderoy… confesso che alla mia penna non dispiacerebbe essere maneggiata da lui, se capisce quello che intendo”.

Kingsley non si degnò neanche di risponderle, limitandosi a regalarle uno sguardo che grondava minaccia.

“Rita, per favore, vogliamo calmarci? Credo di poterti offrire un accordo… uno scoop che potrebbe compensarti della rinuncia a svelare delle inclinazioni di Gilderoy”.

Gilderoy si voltò di scatto verso Septimus, cercando di seguire il flusso di pensieri del suo editore, invano. Non aveva idea di quale fosse il suo piano, sempre che ne avesse uno, ma era confortante sapere che, invece di spingerlo in pasto alla Skeeter, Septimus stava provando a negoziare per salvarlo.

“Un nuovo scoop?”
Septimus annuì, sedendo con fare pratico accanto a Rita.
“Non ti chiedi perché noi volessimo scoprire con tanta insistenza l’identità della Royal?”
Rita strinse a sua volta gli occhi, e Gilderoy si ritrovò a pensare che quei due fossero davvero molto più simili di quanto forse Septimus sarebbe mai stato disposto a dichiarare.

“Per conoscerla, per metterla in difficoltà, per dare un volto al nemico…”
“Al nemico?”
Questa volta Kingsley non riuscì a trattenersi.

“Sì, Kingsley, al nemico. Come lo chiameresti tu un rivale che invade il tuo mercato, si prende le tue vendite, mette a punto strategie di marketing subdole e ti ruba anche il colore perfetto?”
“Il colore… in che senso, scusa?”
Gilderoy scosse la testa. Quella stessa mattina avrebbe provato a spiegare a Kingsley del suo perfetto completo lilla, e Kingsley forse avrebbe sorriso, ma avrebbe sicuramente capito il tormento che quell’episodio rappresentava per Gilderoy. Ma sarebbe stata solo una recita, l’ennesima bugia, e Gilderoy era stanco di vendere pezzi di sé a chi lo aveva solo preso in giro.

“Non cambiare discorso. Tu come chiameresti una minaccia del genere?”
“Un collega! Gilderoy, a Queenie Royal non importa niente di rubarti lettori. È solo un altro scrittore, qualcuno che nel tempo libero si diverte a rigirarsi in testa dei personaggi e delle storie, proprio come abbiamo fatto io e te nelle nostre lettere”.

Quello fece male. Quel richiamo alle lettere che si erano scambiati inventando intervistatori, fan, vicende e voci faceva male, perché era qualcosa che Gilderoy non aveva mai avuto con nessuno e che ora sapeva di non aver avuto neanche con Kingsley.

“E tu ora cosa farai, darai quelle lettere a tua sorella così che lei possa rubarmi anche i personaggi?”
L’idea che forse Kingsley lo avesse già fatto, e che Zara proprio in quel momento potesse essere nella sua cucina imbiancata a calce a scrivere  l’ennesimo brutto romanzo basandosi sulle idee di Gilderoy lo disgustava.

“Non lo farei mai. Lo sai che non lo farei mai, Gilderoy. Dopo tutto quello che abbiamo fatto, puoi davvero pensare che io sia questo tipo di persona?”
Un lieve grattare di piuma sulla pergamena interruppe la discussione. La Penna Prendiappunti di Rita sfrecciava su un taccuino poggiato con noncuranza sul bracciolo del divano, mentre la donna li fissava con aria rapita.

“Non smettete, non smettete! Questo articolo sarà una bomba!”
“Rita! Il nostro accordo… Gilderoy vuole sedurre Queenie Royal, e tu potresti essere la regina di questa storia d’amore! La riveleresti al pubblico, potresti avere una rubrica in cui raccogli le loro confessioni… seguire i loro viaggi… potresti anche scrivere la loro biografia, tra qualche anno!”
Gilderoy sentì, improvviso e patetico, il bisogno di voltarsi verso Kingsley e gridare più forte di Septimus:
“Non con tua sorella! Non lo farei mai, con tua sorella!
La risata di Rita si mescolò alle offerte di un radioso futuro di Septimus, ma Gilderoy vedeva solo il viso terreo di Kingsley mentre l’uomo gli posava le mani sulle spalle, implorante:
“Non mia sorella, smettila di parlare di mia sorella! Zara non è Queenie, non lo è mai stata, io sono Queenie!”

Ancora quella folle bugia.

Gilderoy avrebbe voluto mettersi a gridare, ma l’aria era già satura degli strilli di Septimus e Rita Skeeter che vomitavano minacce e prese in giro l’uno sull’altra.

“Sei patetico, Septimus, vuoi mercanteggiare ma non hai niente da offrirmi… la carriera di Gilderoy è finita, e  la tua lo seguirà a ruota!”

Accadde tutto molto rapidamente.
Septimus estrasse la bacchetta, puntandola contro Rita, che ebbe appena il tempo di impallidire prima che un getto di luce rossa erompesse dalla bacchetta dell’editore, per schiantarsi con un botto assordante contro la libreria alle spalle della donna. Kingsley, la bacchetta comparsa miracolosamente nelle sue mani, aveva deviato il colpo. 

Ci furono grida e imprecazioni, Rita cercò riparo stringendosi a Kingsley, per la prima volta davvero spaventata, e un solo sguardo passò fra Septimus e Gilderoy. Uno sguardo che Gilderoy conosceva molto bene, fin nelle più recondite intenzioni. Mentre l’attenzione di Rita e di Kingsley era ancora concentrata su Septimus, Gilderoy afferrò la propria bacchetta. Un solo respiro per schiarire la mente e trovare il giusto stato d’animo per concentrarsi, e tutto ciò che voleva far dimenticare a Rita si ordinò con precisione nella testa di Gilderoy.

Non esitò nello scagliare l’incantesimo di memoria su Rita: non esitò nemmeno a domandarsi se l’incantesimo avesse davvero funzionato, perché Gilderoy sapeva istintivamente di essere in grado di eseguire quell’incantesimo con una finezza d’intenti pari a nessun’altra magia. Sapeva distinguere l’ampiezza del ricordo da rimuovere e, il più delle volte, sapeva fermarsi senza andare troppo in profondità, senza rischiare di causare amnesie troppo estese e in grado di intaccare anche altri aspetti della memoria di chi aveva davanti.

“Oh, salve, Septimus. Gilderoy, che piacere… dobbiamo fare una bella chiacchierata, è così?”
Rita sbattè un paio di volte le palpebre, confusa.
“Rita, cara, l’avete già fatta la vostra chiacchierata. Un gufo ha già portato a casa tua i tuoi appunti, e tu te ne stavi andando. Lascia che ti accompagni, il tuo soprabito è di là…”
Septimus, sereno come se non fosse successo niente, prese Rita sottobraccio e l’accompagnò all’ingresso, chiacchierando ininterrottamente per non lasciare tempo alla memoria instabile della donna di trovare buchi e punti deboli all’incantesimo.

 

“Gilderoy, che cosa hai fatto? Lo sai che potrei arrestarti per una cosa del genere?”
Ma a Gilderoy non importava più. Kingsley poteva arrestarlo, poteva sbugiardarlo davanti a tutta la comunità magica, lui non avrebbe reagito. Era semplicemente troppo stanco per avere qualsiasi tipo di reazione.

“Mentre mi metti le manette, dovresti almeno ringraziarti, dato che mi sono anche preso la briga di farle dimenticare tutto su tua sorella”.

Gilderoy non sapeva perché lo aveva fatto, ma sentiva che era importante fare in modo che Rita dimenticasse di Zara Battenberg e delle ricerche su Queenie Royal. Forse perché temeva che ripercorrendo quelle ricerche la giornalista sarebbe giunta di nuovo alle stesse conclusioni. O forse c’era anche una ragione molto patetica, ma non ci voleva pensare.

“Perché non vuoi credere che Queenie sia io?”
Gilderoy rise quella risata amara che ormai gli stava salendo alle labbra così spesso da temere che non sarebbe mai più stato in grado di cancellarne il sapore. 

“Perché non puoi essere tu. Tu sei un Auror. E Rita sa che la Tu-Mi-Streghi ha dato un sacco di soldi a tua sorella ogni volta che è uscito un nuovo romanzo della Royal. Anche uno scemo come me saprebbe fare questo collegamento”.

Kingsley scosse la testa.

“La Tu-Mi-Streghi non ha versato neanche uno zellino sul conto di Zara, ma ha versato tutto su quello dell’allevamento. L’allevamento di famiglia”.

L’allevamento di rapaci da lettera della famiglia Shacklebolt. Quello in cui Kingsley non lavorava in prima persona, ma di cui parlava spesso con un orgoglio e un affetto negli occhi da aver fatto desiderare a Gilderoy di poterlo visitare.

“E quindi? Lo manda avanti lei, no? È come se li avessero dati a lei”.

“Se ne occupa lei, ma è un’attività di famiglia. E io contribuisco come posso. Un Auror non guadagna abbastanza per finanziare un allevamento, ma una scrittrice misteriosa sì”.

Poteva avere senso quello che Kingsley stava dicendo? Certo che no. Perché credere che Kingsley davvero fosse Queenie Royal faceva ancora più male.

Eppure.

Eppure quando si scambiavano tutte quelle lettere piene di personaggi inventati, Kingsley si era gettato in quel folle esperimento con una naturalezza che non molti Auror abituati prendere in mano una piuma solo per redigere un verbale avrebbero avuto.

Eppure il personaggio di Queenie esisteva già quando Ebenezer Flintshire dirigeva quello stupido giornalino scolastico, e Zara doveva essere molto giovane all’epoca. Mentre Kingsley aveva ammesso di conoscere bene Flintshire, ai tempi di Hogwarts. 

“Oh, Kingsley, ti prego, dimmi che non è vero”.

“Sarebbe tanto terribile?”

Gilderoy non seppe più trattenere le lacrime. Le lasciò scorrere liberamente sulle guance, senza provare a nasconderle né a recuperare un po’ di padronanza di sé.

“Mi hai mentito per settimane. Mi hai preso in giro, mi hai raggirato, mi hai sfruttato… tutto per cosa? Per spezzarmi il cuore? Per distrarmi dal lavoro? Per distruggere tutto il mio materiale?”
Kingsley scosse la testa, il volto atteggiato in una smorfia di dolore così autentica da lasciare Gilderoy boccheggiante.

“Non ho mai voluto fare niente di tutto questo. So di aver sbagliato a non dirti niente, ma devi provare a capire… il mio lavoro di Auror è mille volte più importante di un passatempo che mi è esploso tra le mani. Non ho mai voluto fare lo scrittore, ma ho sempre scritto, e questa cosa di Queenie… doveva essere solo un gioco. Un gioco che però ha iniziato a pagare le bollette e a permetterci di acquistare un nuovo terreno, ma sono un Auror, devo mantenere una certa reputazione, e all’inizio non sapevo se avrei potuto fidarmi di te”.

Gilderoy si sentì come se la sua testa fosse piena di ovatta. Lento nei ragionamenti, incerto, non riusiva a mettere a fuoco le parole di Kingsley. Kingsley che era Queenie Royal e non glielo aveva mai detto per un motivo apparentemente sensato, ma che lasciava comunque un sapore di sconfitta sulle labbra di Gilderoy.

“E questo non è mai cambiato? Non ti sono mai sembrato degno di fiducia?”
Kingsley non abbassò lo sguardo, quasi a voler esporre tutte le sue debolezze e lasciare che Gilderoy le afferrasse.

“Volevo farlo. Volevo, davvero, ma non sembrava mai il momento giusto… e ora lo ha fatto qualcun altro, e io so di aver perso l’occasione perché non avrò più modo di dimostrartelo”.

“Sei ridicolo. Credi davvero che io possa bermi questa storia? Pensi davvero che io possa credere che sia solo una grande coincidenza che tu fossi proprio al congresso di magi-editoria e che del tutto a caso abbia cercato di attacare bottone con me?”
Gilderoy non aveva smesso di piangere, ma era un pianto continuo e silenzioso.

“Certo che non ci sono andato per caso. E sì, volevo conoscerti, perché mi è sempre piaciuto il tuo aspetto e ho letto tutti i tuoi libri e ti ho sempre ammirato molto, come scrittore… hai una prosa bellissima, e spesso leggendo sembra che quello che scrivi sia la verità, e non solo un romanzo che ricalca il memoir. Ero solo curioso di conoscerti, ma te lo giuro, te lo giuro, non ho mai avuto un secondo fine. Quello che c’è stato tra di noi è stato tutto autentico”.

Gilderoy si irrigidì: lui non scriveva romanzi. Non aveva mai voluto dare l’impressione di scrivere dei romanzi. Come poteva Kingsley sapere qualcosa di tutto questo?
“Per le mutande sporche di tutti i gargoyle, Gilderoy! Possibile che tu sia stato così stupido? Possibile che gli abbia davvero raccontato tutto? Gli hai dato anche i nomi di tutte le persone che abbiamo Obliviato, magari, così non deve neanche far la fatica di indagare un po’ prima di arrestarci?”
Septimus doveva essersi liberato di Rita, e ora era tornato. Sembrava esausto, molto più esausto di quanto Gilderoy non lo avesse mai visto, e li fissava come un genitore avrebbe fissato i figli ritti in mezzo ai cocci di un vaso prezioso. 

“Avete obliviato qualcun altro, oltre alla Skeeter?”
Septimus lanciò a Gilderoy un’occhiata eloquente. Era l’occhiata che significava non è tutto perduto, cancella la memoria a questo bell’imbusto e facciamola finita.

Ma Gilderoy sapeva di non poterlo fare. Non solo perché Kingsley aveva dei riflessi che Gilderoy non sarebbe mai stato in grado di battere, ma perché Gilderoy non poteva rivolgere la bacchetta contro Kingsley. Non poteva farlo, nonostate lo odiasse e volesse solo piangere per le sue bugie e il modo in cui gli aveva nascosto la verità e come lo aveva raggirato.

“I miei libri non sono dei romanzi. Tutto quello che racconto è successo davvero, solo non a me. E le persone a cui è successo non se lo ricordano. Come vedi, non sei il solo a vivere di segreti, King”.

Kingsley sospirò appena, mentre la comprensione gli adombrava il viso.

“Gilderoy… perché non ti sei limitato a scrivere dei romanzi?”
Perché? Perché Septimus non glielo aveva mai permesso.

Perché era stato più facile rubare le imprese a maghi sconosciuti e limitarsi a riscrivere le loro memorie in bella copia. Inventare avrebbe presupposto ricerche, prove, studiosi esperti a cui sottoporre un manoscritto. E nessun personaggio sarebbe mai stato bello e affascinante come Gilderoy.

“Mi dispiace, signor Auror, ma capisce bene che queste informazioni non possono…”
Bang.

Septimus aveva provato a sollevare la bacchetta contro Kingsley, ma Kingsley era stato più rapido, spedendolo al tappeto con un lampo di luce che non aveva neanche avuto bisogno di una parola mormorata fra i denti.

“Gilderoy…”
“Hai intenzione di arrestarmi?”
Gilderoy voleva solo che quell’infinita giornata volgesse al termine.

Kingsley chinò il capo. Sembrava sconfitto, e questo in qualche modo sconcertò Gilderoy più di qualsiasi altra cosa fosse successa quel giorno: vedere qualcuno come Kingsley così abbandonato era sconcertante.

“Vorrei che avessi cancellato anche la mia memoria, Gilderoy. Ma no, non voglio arrestarti. Non posso arrestarti”.

C’era un tale struggimento nella sua voce che Gilderoy avrebbe solo voluto ricominciare a singhiozzare. 

Invece, indicò con un cenno stanco il corpo di Septimus accasciato a terra.
“Forse dovremmo cancellare la sua, di memoria. Credo ti abbia sentito, sa che tu sei… lei…  e non so cosa vorrà fare di questa informazione”.
Kingsley però si strinse nelle spalle.

“Ne faccia quello che vuole. Questa storia è durata fin troppo, e io sono stanco di giocare il gioco di Ebenezer”.

Gilderoy annuì appena. Davvero non sapeva che cosa avrebbe fatto Septimus. Niente, probabilmente, perché quando aveva provato per la prima volta a smascherare Queenie Royal, il suo piano gli aveva quasi fatto perdere la carriera. Septimus non era stupido, non avrebbe rischiato di commettere due volte lo stesso errore. O forse avrebbe sbugiardato Kingsley, ma non potendo dire la verità su di lui e Gilderoy, questo gli avrebbe portato ben pochi vantaggi.

“Me ne vado, Gilderoy”.

Un lungo silenzio, un silenzio in cui entrambi rimasero immobili, occhi negli occhi, la verità di quella fine ad aleggiare tra di loro.

Fu Gilderoy, alla fine, a spezzare il silenzio.

“Non ci rivedremo, vero?”
“Credo sia meglio di no”.
Forse era solo uno sciocco desiderio, ma a Gilderoy sembrò di udire una velata supplica incrinare la voce di Kingsley.

Ma Gilderoy si limitò ad annuire, a chinare il capo e ad affaccendarsi attorno a Septimus, posizionandogli un cuscino del divano sotto la testa.

Non alzò il capo quando Kingsley fece un passo verso di lui, né quando si allontanò e percorse il corridoio che lo separava dal camino collegato alla Metropolvere. 

Non sollevò lo sguardo, ma fu certo che non avrebbe mai dimenticato quanto potesse essere doloroso sentire le fiamme crepitare attorno al corpo di Kingsley che se ne andava da casa sua. 






 

 


 

Note:

Io davvero non so neanche più come scusarmi per il ritmo imbarazzante che stanno avendo gli aggiornamenti di questa storia, ma non credo di essere mai stata così in crisi con la scrittura come nell’ultimo anno, e purtroppo questa storia ne risente moltissimo.

Vorrei fare tante riflessioni in proposito, ma non è il luogo adatto, quindi mi limito a dire che l’ultima parte di questo capitolo è stata cancellata così tante volte che ora ho pubblicato senza neanche rileggere l’ultima stesura, proprio in preda alla disperazione. Perdonate quindi la quantità infinita di refusi che troverete, ma al momento il mood è “se rileggo, cancello tutti e sedici i capitoli”, quindi forse è meglio così. 

L’epilogo in teoria è praticamente pronto, quindi potremmo essere ottimisti e sperare che uscirà a breve, ma sappiamo tutti che ci vorranno comunque dei mesi, no?
Intanto, abbraccio chiunque abbia avuto la pazienza di seguirmi fin qui, sempre che qualcuno ci sia. 

 

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Capitolo 17
*** Epilogo ***


Epilogo

 

Kingsley restava aggrappato al suo bicchiere di Acquaviola cercando di muoversi ai margini della folla, di non dare nell’occhio e di mettere a tacere la voce dell’Auror paranoico che dopo tanti anni non riusciva a lasciarlo in pace, suggerendogli continuamente di mappare mentalmente la stanza in cerca di vie di fuga e movimenti sospetti.

Tutti tentativi fallimentari, ovviamente: un mandato da Ministro in tempo di pace concluso da ormai un anno non era neanche lontanamente bastato a cancellare quell’istinto che lo spingeva ad avere sempre la bacchetta a portata di mano e i sensi all’erta ogni volta che si trovava in compagnia di più di tre sconosciuti. E passare inosservati in mezzo a quella pletora di personaggi più o meno famosi e più o meno attratti dalla fama era ancor più difficile: da che aveva messo piede nella sala del Congresso era stato vittima di un numero imprecisato di assalti da parte di colleghi, ex colleghi, esimi sconosciuti che millantavano pregresse conoscenze, ammiratori e detrattori, tutti decisi a prendersi un pezzettino del poco tempo dell’ex Ministro Shacklebolt. E Kingsley, che l’arte della politica se l’era forzata addosso come una giacca di tre misure più strette a cui non aveva saputo sottrarsi, ma non l’aveva mai sentita propriamente sua, aveva fatto il possibile per stringere i denti, sorridere, assecondare chiacchiere insulse e dare risposte più o meno plausibili per giustificare la propria presenza a un Congresso di Magica Editoria.

Perché, a voler essere onesti, il rapporto di Kingsley Shacklebolt con l’editoria magica si era fatto talmente labile nel corso degli anni che la sua presenza in quel luogo sembrava del tutto superflua. Non che qualcuno avesse mai sospettato che potesse esserci un qualsiasi rapporto fra l’Auror che aveva guidato il Paese durante il difficilissimo periodo della ricostruzione e il mondo dell’editoria: i pochi che avevano avuto l’occasione di vederlo con il naso immerso  nella lettura di qualcosa di diverso da un voluminoso rapporto redatto dal direttore di un dipartimento qualsiasi forse si erano stupiti scoprendo la sua sorprendente passione per la letteratura d’intrattenimento babbana, ma del resto non era più un segreto che Kingsley si fosse specializzato in missioni sotto copertura nel mondo babbano, né era un segreto il fatto che i babbani si fossero salvati da un Primo Ministro posseduto da Colui-Che-Ora-Può-Essere-Nominato soltanto grazie a lui. E chiunque avesse un briciolo di cervello avrebbe potuto capire che leggere romanzi era il modo più facile per raggiungere una discreta conoscenza di una determinata cultura.

Quanto all’editoria magica, la sua estraneità al congresso era tanto più profonda quanto più nessuno, in quella sala, avrebbe mai potuto immaginare che fosse esistito un tempo in cui lui e quel mondo si erano appartenuti. 

 

“Minis… Mr. Shacklebolt, non mi aspettavo di trovarla qui!”
Una strega ammantata di un abito dai pesanti panneggi di un bel velluto color prato, che doveva aver superato da un pezzo i sessant’anni ma faceva di tutto per nasconderlo con un trucco sapiente e un’acconciatura talmente intricata da distogliere l’attenzione di chiunque dal suo viso gli strinse la mano.

Kingsley non aveva idea di chi potesse essere quella donna – e dire che aveva un’ottima memoria ed era molto bravo a incidersi nella testa i volti delle persone – ma si armò comunque di un sorriso cordiale e di quelle chiacchiere inutili che aveva dovuto imparare a padroneggiare durante i difficili anni che lo avevano visto al timone della società magica inglese.

“Oh, lo so, nessuno si aspetta di trovarmi qui, ma ora che sono tornato a occuparmi solo del Dipartimento Auror sembra che io abbia parecchio tempo libero, e i libri sono sempre un’ottimo modo di occupare questo tempo”.

La donna si aprì in un sorriso ancora più ampio, lasciandosi andare a un lungo discorso sugli autori contemporanei e sulla loro capacità di filtrare il mondo moderno attraverso stilemi classici che Kingsley, in tutta onestà, non seguì fino in fondo.

Aveva anche pensato di presentarsi a quella serata con la divisa da Auror, fingendosi in servizio, ma era giunto alla conclusione che in quel modo avrebbe attirato l’attenzione molto più di quanto avrebbe voluto. 

Non era più il giovane Auror che aveva potuto richiedere di far parte del servizio d’ordine a uno di quei congressi, anni prima, solo per poter osservare da vicino i commenti ai libri che aveva scritto nascosto da uno pseudonimo nato per gioco. Era passato così tanto tempo da quando era solo un ragazzo con una mente che spesso correva più velocemente della propria vita, e che quando tornava a casa da un lungo turno di lavoro si sedeva sul divano del soggiorno con un taccuino posato in grembo e scriveva di getto trame sciocche. Raramente in quegli anni aveva ripensato a Queenie Royal e al modo in cui un gioco, un passatempo innocuo, qualcosa che non avrebbe dovuto mai lasciare i confini sicuri degli occhi di pochi amici fidati era esploso fra le sue mani, rischiando di trasformarsi in un personaggio in grado di fagocitare tutto quello che lo circondava. Era cominciato tutto a scuola, quando lui era solo un ragazzino che si divertiva a scribacchiare sciocchezze senza neanche pensare che quelle sciocchezze a qualcuno potessero interessare. E quando una persona a cui teneva come ci si può tenere solo a quindici anni lo aveva implorato di mettere le sue sciocchezze a disposizione di un giornalino scolastico che ogni mese rischiava di fallire, aveva accettato. Non perché ci tenesse a far leggere i suoi racconti a qualcuno, ma solo perché ci teneva a far felice Ebenezer. Poi la scuola era finita, il giornalino scolastico di Ebenezer si era trasformata in una casa editrice e Kingsley si era ritrovato quasi a sua insaputa a pubblicare un romanzo: era poco più che un racconto, la storia con cui lui aveva voluto chiudere la relazione con Ebenezer, una cosa melensa e di cui ora si vergognava anche un po’, ma che a diciotto anni aveva contenuto tutti i sentimenti di un cuore che si spezzava per la prima volta. Ebenezer gli aveva chiesto di poterlo pubblicare, e insieme avevano fantasticato di come quel romanzo avrebbe potuto contribuire a salvare l’allevamento della famiglia di Kingsley nonché a dare un tetto sopra la testa a quei nipoti nati da una storia fin troppo travagliata. Kingsley non credeva che avrebbe funzionato, ma ci aveva provato, perché per pagarsi l’Accademia Auror aveva dato fondo a tutti i suoi risparmi e non aveva modo di aiutare sua sorella Zara, e sorprendentemente aveva funzionato. Aveva funzionato così bene che il nome di Queenie Royal aveva presto cominciato a essere sulla bocca di tutti, facendolo sentire sempre peggio, tormentato com’era dalla consapevolezza che non avrebbe mai voluto continuare per sempre ad avere una vita divisa a metà.

Ma, e questo Kingsley ormai lo aveva imparato bene, tutto prima o poi finisce. Le guerre non durano per sempre, la pace non dura per sempre, la serenità e il dolore sanno sempre accavallarsi in modi ogni volta più sorprendenti. E anche gli pseudonimi letterari prima o poi vengono chiusi in un cassetto, soprattutto quando il cuore si spezza per davvero e il bisogno di scegliere veramente quale vita si desidera percorrere diventa troppo forte.

E i cassetti, qualche volta, tornano ad aprirsi, ma non è mai la stessa cosa.

 

“Oh, io ero una grande fan di Queenie Royal, sa? Mi è dispiaciuto così tanto quando ha smesso di scrivere… ma poi è arrivata la guerra, e in guerra a certe cose uno non ci pensa, no?”
Kinglsey annuì distrattamente alla donna vestita di verde. Era proprio vero: in guerra a certe cose non ci si pensa. In guerra non c’è tempo per un cuore spezzato, non c’è tempo per le menzogne, non c’è tempo per farsi domande sul proprio comportamento e su quello altrui. E, naturalmente, in guerra un Auror che fa parte di un’organizzazione segreta e che al contempo è inviato sottocopertura dal governo corrotto che sta spiando a proteggere il Primo Ministro babbano non ha tempo per scrivere romanzi, né per sentire la mancanza della scrittura.

“Non ha idea di quanto sia stata felice quando ho saputo che Queenie sarebbe tornata… e questo nuovo romanzo è decisamente più maturo dei precedenti, non crede? C’è sempre quel tocco di romanticismo un po’ fanciullesco, ma la prosa ha decisamente qualcosa in più… sorprendente, considerato quello che ha passato Queenie negli ultimi anni”.

Kingsley annuì, concedendosi un sorriso per una volta sincero e interessato.

Non c’era dubbio che il nuovo romanzo di Queenie Royal fosse ben più di una spanna sopra i precedenti: lo poteva ammettere senza alcun rammarico, ma Kingsley era ben consapevole che il suo talento letterario era sempre stato piuttosto scarso. Non era un bravo scrittore, lo sapeva e non se ne crucciava: scrivere per lui era sempre stato un bellissimo passatempo, ma niente di più. Il successo dei romanzi della sua giovinezza era dovuto principalmente a un insieme di congiunture favorevoli: i suoi romanzi erano stati pubblicati al momento giusto, riempiendo un buco di mercato e andando incontro a una domanda latente. Per di più, il mistero della scrittrice senza volto aveva non poco contribuito a creare un chiacchiericcio che i suoi libri da soli non sarebbero mai stati in grado di alimentare. Senza contare, naturalmente, il talento straordinario di Ebenezer per le trovate pubblicitarie più originali, che erano riuscite a rendere i suoi romanzi qualcosa di mai visto prima nell’ambiente. Ma illudersi di essere un bravo scrittore, no, quello Kingsley non lo aveva mai fatto.

“Oh, ma eccola… voglio dire, eccolo”.

La donna indicò con un eccitato cenno della mano il palcoscenico su cui, dopo un lungo applauso da parte dei presenti, le luci si erano abbassate, preparando la scena per la comparsa di Queenie Royal.

O meglio, la persona che aveva scritto il nuovo romanzo di Queenie Royal e che, per dare slancio al nome dopo tanti anni di silenzio editoriale, aveva scelto di rivelarsi al pubblico con la sua vera identità. 

O con l’identità che era stata scelta, col benestare di tutti i coinvolti, per interpretare il personaggio.


Kingsley bevve in un fiato tutta la sua Acquaviola, sorridendo tra sé pensando a quando Queenie lo aveva implorato di bere solo Acquaviola, così che anche i suoi drink sarebbero stati perfettamente in armonia con i colori della serata.

Posò il bicchiere sul tavolo, senza curarsi di averlo piazzato in mezzo a un vassoio di tartine, e rivolse tutta la sua attenzione al palcoscenico, deciso a non perdere neanche un istante dello spettacolo che stava per cominciare.

Non aveva ascoltato il discorso degli editori presenti sul palco, ma conosceva a memoria quello che sarebbe stato pronunciato entro pochi minuti, ma nonostante questo voleva seguirlo con l’attenzione di uno studente modello. 

Dal fondo del palco, con andatura elegante  e portamento impeccabile, emerse una figura che strappò subito un lungo applauso dal pubblico. Kingsley si unì all’applauso, osservando ammirato l’uomo avvolto da un impeccabile completo di gabardine lilla – non lilla e basta, ma il perfetto equilibrio di rosso e blu stemperato nel bianco, come l’uomo aveva tenuto a sottolineare – che avanzò fino a fermarsi nel punto perfetto del palco in cui la luce dei riflettori poteva cadere a illuminare i suoi grandi occhi blu. I suoi capelli, color dell’oro in cui avevano appena cominciato a spuntare sporadici fili di un argento purissimo, come Kingsley aveva ben potuto osservare, gli incorniciavano il viso in ricci apparentemente casuali, ma che Kingsley sapeva essere stati studiati nel minimo dettaglio e ottenuti tramite ore e ore di complicati calcoli ingegneristici fatti di bigodini e colpi di calore emessi dalla bacchetta puntata ad un’angolatura ben precisa.

Gilderoy Allock, alla sua prima apparizione pubblica dopo gli anni trascorsi ricoverato al San Mungo, era a dir poco perfetto. Bello, elegante, ancora capace del sorriso affascinante che lo aveva reso famoso, ma con gli occhi talvolta in grado di allargarsi su un abisso di confusione tale da renderlo umano e sì, anche degno di compassione.

Una compassione che per anni Kingsley gli aveva negato, covando in cuor suo un risentimento che non aveva mai sfogato da nessuna parte.

Lui e Gilderoy, per anni, non si erano mai più parlati: Kingsley si era sempre chiesto perché Gilderoy e Thesaurus non avessero mai cercato di svelare il ruolo che aveva avuto per il personaggio di Queenie Royal, né si era spiegato perché lui stesso non avesse fatto niente per intervenire e far valere la legge nei confronti di un uomo che si era appropriato della memoria altrui per fare successo. Era qualcosa che andava contro ogni suo principio, ma la verità era che non aveva mai avuto il coraggio di tornare ad avvicinarsi a Gilderoy. Non lo voleva rovinare, perché in fondo i mesi che avevano trascorso insieme gli avevano mostrato sprazzi dell’uomo che avrebbe potuto essere, se solo non avesse anteposto sé stesso a tutti gli altri, e per quanto Kingsley fosse fermamente convinto che il comportamento di Gilderoy fosse deprecabile e spregevole, non era comunque riuscito a fare nulla a riguardo.
E poi aveva saputo dell’incidente di Gilderoy, aveva letto sui giornali della sua memoria andata in fumo e del suo essersi ridotto a uno spettro di sé stesso, incapace di ricordare anche il proprio nome, ma anche in questo caso non aveva trovato il coraggio di fare niente. 

Poi era arrivata la guerra, e si era portata via tutto, costringendolo a lottare con le unghie per strappare brandelli di luce a tempi che avevano minacciato di portargli via anche la speranza, e a Gilderoy, così come a Queenie e ai romanzi, non aveva pensato proprio  più.

Fino a quando non si era ritrovato Ministro, ed era stato obbligato a visite istituzionali al San Mungo, e si era trovato di nuovo davanti agli occhi quell’uomo dagli occhi così blu da sembrare finti. Un uomo che non ricordava neanche più di essere stato meschino, che non ricordava di aver ingannato delle persone, non ricordava nulla.

E ancora Kingsley non aveva fatto niente, salvo informarsi saltuariamente, con vari sotterfugi, sul suo stato di salute. Aveva raccolto informazioni, aveva saputo che il primario Nissen aveva dato una svolta sperimentale al trattamento di molti pazienti ricoverati al Janus Thickey, e Gilderoy era stato tra coloro che avevano risposto meglio alle nuove terapie. Non che avesse recuperato la memoria, quel danno era stato troppo esteso e troppo a lungo curato in maniera pigra, ma il Guaritore Nissen aveva scelto di concentrarsi sul presente, lavorando sulle capacità ancora intatte di Gilderoy, aiutandolo a riconquistare un'autonomia che fino a quel momento gli era stata negata, incitandolo a costruirsi una vita che forse non sarebbe mai stata quella che avrebbe avuto se non avesse mai perso la memoria, ma una vita comunque degna di essere vissuta. 

Proprio in quel periodo, quando a Gilderoy era stato permesso di vivere una vita autonoma, almeno di giorno, Kingsley aveva ritenuto concluso il suo lavoro da Ministro ad interim. E non si era mai sentito così tanto stanco.

Aveva combattuto una guerra, aveva dovuto seppellire troppi amici, aveva stretto i denti ed era andato avanti, aveva indossato quella strettissima e soffocante giacca che era la sua carica politica, aveva imparato a ingoiare compromessi per rimettere a fatica in piedi un Paese che forse avrebbe portato sempre addosso le cicatrici delle ultime due guerre, aveva fatto tutto ciò che era in suo dovere e in suo potere per provare davvero a rendere il mondo un posto migliore. Aveva dato così tanto che ora non gli bastavano più le energie per restare aggrappato ai principi morali che lo volevano distanti da un uomo che aveva basato la propria carriera sull’inganno.

 

Il fragore degli applausi con cui si concluse il breve discorso di Gilderoy commosse Kingsley.

E ancor più lo commosse vedere il suo sorriso farsi ampio davanti a quegli applausi per poi vacillare, mentre gli occhi si spalancavano sul dubbio che ancora lo coglieva quando la situazione si rivelava imprevista e fuori dagli schemi a cui era abituato. Le condizioni di Gilderoy erano migliorate moltissimo, ormai conduceva una vita del tutto autonoma – tornava in ospedale solo un pomeriggio a settimana per una seduta di terapia che somigliava in tutto e per tutto a una seduta di terapia cognitivo-comportamentale babbana – ma qualche volta il fuoco della sua memoria si annebbiava, e lui si perdeva in azioni semplici.

L’infermiera che in quell’occasione così importante si era appostata fra le pieghe del velluto delle quinte del palcoscenico aveva già fatto qualche timido passo preoccupato verso Gilderoy, ma lo sguardo smarrito di Gilderoy si arrestò sul viso di Kingsley. Kingsley gli sorrise, un sorriso del tutto inappropriato per un Auror ed ex-Ministro che si trovasse a un Congresso di Magica Editoria solo per intessere utili relazioni con personaggi importanti del panorama culturale e politico del Paese, ma aveva smesso di importargli da troppo tempo. 

Gilderoy rispose a quello sguardo con un sorriso altrettanto ampio – un sorriso un po’ ingenuo, quasi da bambino – e concluse il suo discorso con un elegantissimo inchino, per poi raggiungere l’infermiera che si era arrestata terrorizzata in mezzo al palco e presentarla galantemente come un prezioso membro dell’equipe che si era occupata del suo ritorno alla vita.

Questo scatenò un’altra ondata di applausi e di commosso compatimento: a quanto pareva, il pubblico aveva dimenticato le sue malefatte, e dopo una guerra si era accontentato della triste storia di un uomo che per anni aveva vissuto in un ospedale, privo di memoria. Forse anche i maghi e le streghe inglesi, come Kingsley, erano ormai troppo stanchi per certi principi morali, e volevano solo poter provare compassione per un uomo che forse non aveva sofferto quanto aveva fatto soffrire, ma era bello e affascinante e soprattutto talentuoso, perché il suo ultimo romanzo, La voce dell’allodola, era davvero un piccolo capolavoro, nel suo genere. Ed era, soprattutto, farina del sacco di Gilderoy dalla prima bozza all’ultima riga dei ringraziamenti.

 

***

 

“Dovremmo rientrare. È tardi, tu sei stanco e hai bisogno di dormire”.

Kingsley e Gilderoy sedevano sul piccolo divanetto di un delizioso locale di Mayfair, intenti a sorseggiare le ultime gocce di un delizioso tè e a mangiare una treacle tart che una volta avrebbe terrorizzato Gilderoy, con tutto il suo zucchero e le sue calorie, ma che ora sembrava non essere più un problema. 

Il Congresso era stato un successo, ma era finito tardissimo. E dopo il Congresso, si erano costretti a festeggiare con lo staff della casa editrice Edgecombe, e solo dopo si erano concessi un momento da soli. Kingsley sapeva che Gilderoy aveva bisogno di una routine stabile, e anche se il suo Guaritore aveva dato il suo benestare per quella serata, era ansioso di riportare Gilderoy a casa e farlo tornare alle abitudini che lo confortavano.

“Lo so. Ma non ricordavo nemmeno che si potesse essere tanto felici, e vorrei che questa notte non finisse mai”.

Kingsley annuì.

Del resto, si fidava del Primario Nissen, e non vedeva perché non continuare a fidarsi di lui e regalare a Gilderoy ancora un po’ di felicità.

E poi, il loro restare seduti al tavolino di un grazioso locale non era poi così distante dalla loro routine. Certo, solitamente lo facevano di pomeriggio, non a notte fonda, ma era così che si erano riavvicinati. Con lunghe chiacchierate nella sala da tè di fronte al San Mungo, e con il taccuino che un giorno Kingsley aveva posato tra di loro. La scrittura era ciò che li aveva fatti incontrare, e la scrittura, aveva pensato, avrebbe potuto essere anche ciò che li avrebbe fatti riavvicinare. Era cominciato come un gioco: scrivere brevi racconti a quattro mani, una frase per uno. I racconti che ne erano nati erano innegabilmente brutti e vagamente demenziali, ma avevano riacceso in Gilderoy una luce e un interesse per la scrittura che il Primario Nissen aveva incoraggiato. E così, presto Gilderoy aveva cominciato a scrivere da solo brevi racconti che poi sottoponeva alla lettura attenta di Kingsley. Loro parlavano di trame, di personaggi e colpi di scena, e il loro legame si rinsaldava. I racconti si facevano sempre più lunghi, e più lunghe diventavano le loro conversazioni personali, fino a quando era stato chiaro che la loro relazione era pronta a rinascere, e che i racconti di Gilderoy si stavano trasformando in un romanzo pieno di potenziale.

Era stato Kingsley a suggerire che Gilderoy indossasse la corona di Queenie Royal, e la nuova editrice di Gilderoy era stata entusiasta della cosa: tutto sarebbe stato fatto sotto la luce del sole, per giustificare il cambio di direzione della scrittura di Gilderoy, che dalla finta cronaca avventurosa si era trasformata in un romanzo pieno di sentimenti. Sembrava un buon modo di chiudere un cerchio, tantopiù che avevano scelto di pubblicare il romanzo sotto pseudonimo, ma di dichiarare dal primo momento che quello pseudonimo apparteneva a Gilderoy. 

Ed era stato un enorme successo, sotto ogni punto di vista.

 

Gilderoy stava ripercorrendo per l’ennesima volta i momenti salienti della serata, e lo stava facendo con la mano posata apertamente sopra a quella di Kingsley, disegnando distrattamente vaghi cerchi con il pollice sulla pelle del suo palmo.

“E ti ho detto quanto stai bene con questo mantello prugna intenso? Sei incantevole. Se non fossi già innamorato di te, mi innamorerei in questo istante”.

Kingsley sorrise. Gilderoy sapeva essere bravissimo nell’esagerare con l’esternazione dei suoi sentimenti, ma Kingsley non poteva dire che la cosa gli dispiacesse. 

“Me lo hai detto, sì. E mi hai anche fatto comprare altri due completi di questo colore, te lo ricordi?”
“La mia memoria sui vestiti è ancora perfetta, grazie tante”.

Gilderoy posò il capo sulla sua spalla, e in quel momento, con la coda dell’occhio, Kingsley scorse un lampo color limone acerbo in fondo alla sala.

“Gilderoy, come reagiresti se ti dicessi che credo che Rita Skeeter ci stia seguendo?”
“La nostra giornalista?”
Nostra era un termine forse affrettato, ma Kingsley capiva a che cosa si riferisse Gilderoy. Quando si era trattato di rendere noto il nuovo romanzo di Queenie/Gilderoy,  Kingsley aveva scelto Rita Skeeter come giornalista a cui rilasciare la prima intervista. Perché, in fondo, nonostante la disprezzasse profondamente, non poteva fare a meno di sentirsi un po’ in colpa per il modo in cui l’avevano trattata, anni prima. 

Questa breve collaborazione non era certo servita però ad accaparrarsi la fiducia o la riconoscenza della donna, che continuava ad essere a caccia di scoop.

“Lei, sì. Credo ci abbia fotografati proprio in questo momento”.

Gilderoy si raddrizzò, si sistemò i capelli già perfetti, e sorrise. Il sorriso che aveva indossato una volta, quello che sfoggiava quando aveva un piano e tutta l’intenzione di approfittare di tale piano per portare acqua al proprio mulino.

“Sai che prima una strega si è sbottonata il corpetto per chiedermi di firmarle un autografo proprio lì? Le ho visto praticamente tutto… bleah”, rabbrividì Gilderoy.

“Una mossa un po’ invadente, direi”.

“Decisamente. Forse è arrivato il momento di far capire a chiunque che con me nessuno ha speranze, perché ho già l’uomo più bello, intelligente, affascinante e influente di tutta l’Inghilterra al mio fianco… il più bello dopo di me, intendo”.

Kingsley si limitò a sorridere. E a obbedire, docile, quando Gilderoy gli suggerì di alzarsi e di spostarsi in modo che la luce delle piccole lampade del locale li illuminasse nel modo più lusinghiero, perché quando finiremo in prima pagina, vorrei che fossimo al meglio delle nostre già elevate possibilità.

E si lasciò baciare, stringendo a sé quell’uomo che mai avrebbe pensato di volere al suo fianco, e a cui invece non sapeva rinunciare. Si lasciò baciare e baciò con trasporto, consapevole del flash che Rita Skeeter, abbandonato ogni tentativo di nascondersi, puntò contro di loro. Quando si separarono, Rita e il suo abito giallo limone acerbo erano ancora ritti davanti a loro, lo sguardo famelico e la Penna Prendiappunti fremente sopra la sua testa. 

“Rita, cara, posso darti un consiglio? Da collega a collega, il titolo perfetto per questo articolo credo che sia: Lieto fine per Queenie Royal: la Regina ha trovato il suo Re”.





 

 


 

Note:

Come sempre, arrivare a scrivere le note conclusive di una long è qualcosa che mi mette molto in difficoltà, perché da un lato vorrei dire moltissime cose, dall’altro credo invece che dopo diciassette capitolo la storia dovrebbe parlare da sé. In questo caso, poi, sono ancor più in difficoltà perché questa storia è stata la più tormentata di tutta la mia carriera di fanwriter. Non per la storia in sé, ma perché è un periodo in cui sono molto in difficoltà con la mia scrittura, e insomma, c’è stato un momento (più di uno, a dire il vero) in cui ho seriamente pensato che questa storia non avrebbe mai visto la fine. E invece ce l’abbiamo fatta, nonostante vorrei cancellare tre quarti della storia e abbia la costante sensazione che questa storia sia lo spreco di un’idea di base carina.

In ogni caso, ringrazio davvero di cuore chiunque abbia seguito questa storia, perché la sua genesi è stata così travagliata e le pause tra un capitolo e l’altro così lunghe che mi sembra un miracolo che qualcuno sia davvero arrivato fino a qui.

Arriverò prestissimo a recuperare le risposte alle recensioni dell’ultimo capitolo, ma ho preferito questa volta concentrarmi prima sulla storia per non perdere lo slancio positivo e non rimandare per altri mesi la pubblicazione di questo epilogo.

Un abbraccio grande a tutti!

 

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