Resoconto di un Cavaliere nel Pregiatissimo Impero dei Fiori

di RLandH
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** SINFONIA ***
Capitolo 2: *** PRELVDIO ***
Capitolo 3: *** PARTE PRIMA; PROLOGO ***
Capitolo 4: *** PARTE PRIMA; TITOLO I; CAPITOLO I ***
Capitolo 5: *** PARTE PRIMA; TITOLO I; CAPITOLO II ***
Capitolo 6: *** PARTE PRIMA; TIOLO I; CAPITOLO III ***
Capitolo 7: *** PARTE PRIMA; TIOLO I; CAPITOLO IV ***
Capitolo 8: *** PARTE PRIMA; TIOLO I; CAPITOLO V ***
Capitolo 9: *** PARTE PRIMA; TIOLO I; CAPITOLO VI ***
Capitolo 10: *** PARTE PRIMA; TITOLO I, CAPITOLO VII ***
Capitolo 11: *** PARTE PRIMA; TITOLO I, CAPITOLO VIII ***
Capitolo 12: *** PARTE PRIMA; TITOLO I; CAPITOLO IX ***



Capitolo 1
*** SINFONIA ***


S I N F O N I A
I L    P R I N C I P I O


Quando il Dio-Di-Ogni-Cosa-Buona creò gli uomini non li fece tutti uguali, al contrario: si impegnò perché fossero più diversi, variopinti e colorati possibili, come fiori.
Si adoperò perché i suoi uomini fossero come i fiori del suo giardino, virtuosi, bellissimi, colorati ma differenti.
Unici.
Eccezionali.
Ogni fiore era unico, non solo da una specie all’altra ma da un individuo all’altro.
Così, erano e dovevano essere gli uomini.
Bellissimi.
Furono gli uomini, in maniera del tutto arbitraria, a decidere che quella diversità andasse classificata, andasse ordinata, secondo il loro iniquo giudizio.
Che il dono di Dio dovesse essere – non un regalo ma – un assetto.
E, che gli uomini professino quel che vogliono, tale iattanza fu Il Principio.







 





























Oggi questo account compie 10 anni. Questa era una tappa inevitabile … ho anche tergiversato troppo

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Capitolo 2
*** PRELVDIO ***


P R E L V D I O
S I A   C O N S E G N A T O   A L L ‘ E T E R N O

 

Sapeva che era sbagliato spiare una donna nuda che si dilettava in un bagno, ma era un sapere piuttosto … intuitivo. Nessuno lo aveva mai rimproverato, lo aveva mai proibito o altro, si era sempre detto che non stava bene. Però lui era un bambino curioso.

Nizza veniva dalla terra dei fiori, era appena arrivata, da quelle parti, con i suoi vestiti marciti addosso, le suolo delle scarpe così consumate da aver scoperto le piante nude dei piedi ed i capelli castagna, arruffati come il nido di una rondine. Selvaggia nella maniera sbagliata, come un cane con la rogna.
“Ho bisogno di un posto … dove stare” aveva detto solamente, quando l’avevano vista attraversare la vecchia porta sud, con sguardo vacuo e preoccupato verso i ruderi – lui adorava quella parola, ruderi.
Oh, lui supponeva avesse detto, faceva ancora fatica a parlare il fioriano. A casa sua parlavano la lingua dei ghaadiani e lui stava imparando la lingua dei fiori nelle lezioni di maestro Iustir assieme agli altri bambini. Sua madre non aveva voluto impararlo, non le interessava affatto, anche il ghaadiani, diceva sempre, le faceva male alla lingua. Suo padre lo conosceva ma non era bravo e per questo non si sforzava molto, non gli piaceva mostrare quello in cui non era bravo.

La cosa faceva sempre ridere lui, perché lo trovava stupidissimo.

Il fioriano però era una bella lingua, era come il miele sulla lingua ma nelle orecchie – aveva provato a dirlo a lezione, ma gli altri ragazzini avevano riso.

“Per me dovremmo avere una lingua tutta nostra” aveva detto invece Diosana, che era fioriana, con il sangue tulpee – come lui – e i capelli rossi così scuri da sembrare legno di ciliegio. “Potremmo imparare la vecchia lingua del Florido Impero” aveva proposto il maestro Iustir. Questo aveva confuso lui perché pensavano che stessero già imparando la lingua dell’impero.

“Che stai facendo?” la domanda lo aveva costretto a tornare con i piedi per terra e Nizza lo stava guardando. Era entrata nella vasca nel ruscello con una veste addosso che le arrivava alle ginocchia. Si era inzuppata dalla vita in giù ed aveva umettato i capelli, che invece di aprirsi in ogni direzione, scendevano pesanti sul viso. Lui si era tirato dritto come una pertica, colto sul fatto, con le guance arrossate per l’imbarazzo. “Oh, sei uno spione, volevi vedere i miei capezzoli?” aveva chiesto subito Nizza, sollevando un sopracciglio scuro, “O volevi vedere direttamente la mia fica?” aveva chiesto subito lei sfacciata.

Lui si era fatto più rosso del suo crine, più rosso di una mela matura, “No! No” aveva strepitato, “Volevo vedere il fiore!” aveva detto.

L’espressione divertita e giocosa sul viso di Nizza si era assopita, “Immagino che da queste parti si vedano solo tra i solchi delle pietre e nei campi” aveva concesso, facendo schioccare le labbra, erano piccole e sottili, diverse da quelle di sua madre. Lui aveva annuito, “Anche se rimando dell’idea che tu voglia solo una scusa per guardarmi le tette” aveva ridacchiato Nizza per prenderlo in giro.

“No!” aveva replicato subito lui.

“Quante sorelle hai?” aveva chiesto subito la donna. “Sorelle o sorelle?” aveva domandato di rimando il ragazzino, Nizza aveva riso, la sua risata era bella, sembrava il canto di un uccello – o almeno come il maestro diceva i poeti dicessero.

“Ventisei … ventisette tra un ciclo” aveva risposto alla fine lui, “Avevo anche un fratello, ma non me lo ricordo. Era otto sorelle più piccolo di me. Abbiamo avuto entrambi la pelle rosa ma solo lui è morto” aveva raccontato lui, incerto sul perché lo avesse fatto.

Nizza aveva annuito, l’acqua dei capelli umidi le gocciolava sul torso, così appesantiti, i capelli raggiungevano metà della schiena, “Anche io avevo una sorella. Nenia, è morta di febbre puerperale dopo un sanguinamento, aspettava un bambino” aveva detto con espressione triste, “Ora entrambi sono fiori nel Giardino del Dio-di-ogni-cosa-buona”.

Lui era rimasto in silenzio davanti quell’ultima parola, non sapendo come rispondere. Gli dispiaceva per il suo fratellino, anche se non lo conosceva. La sua marra piangeva ancora ogni tanto la notte ed anche se i suoi genitori avevano abiurato – a lui faceva ridere quella parola – la fede, ogni tanto lo sentiva ancora sussurrare, di nascosto, qualche preghiera. Anche a lui mancava, gli mancava l’idea di avere un fratellino, con cui condividere tutto.

Si era formato un silenzio tra loro, lungo, “Dovresti rispondere: Cresca forte il suo fiore” aveva detto Nizza.
Lui si era morso le labbra, “Perché?” aveva chiesto, “Convenzione” aveva risposto la donna, “È un modo gentile per raccomandare l’anima dei morti” aveva spiegato. I suoi genitori non praticavano, nessuno lì credeva in nulla, erano liberisti – così diceva sempre il maestro – credevano solo negli uomini e nel libero arbitrio.
Che il tuo ricordo sia consegnato all’eterno. Così dice la mia marra, almeno” aveva risposto lui. Nizza aveva sorriso e poi era stato silenzio.

Lungo, spesso e quasi soffocante.

Nizza aveva rotto quella situazione pensante con una battuta; “…e la tua marra, lo sa che vai chiedendo alle fanciulle di vedere le loto terre … perdono, i loro fiori?” aveva chiesto Nizza, aveva perso quell’espressione tetra per riprendere la sua giocosa.

Lui non era arrossito solo perché fisicamente non avrebbe potuto di più, ma aveva provato una sensazione stringente allo stomaco pensando all’espressione contrita che avrebbe avuto la sua marra. “No, io non lo vado a chiedere” aveva detto.

“Perché nessuna ragazza ha dei fiori, vero?” aveva chiesto retorica Nizza.
“Nessuno, in realtà” anche se non era vero. Sapeva che qualcuno conservava i suoi fiori, nessuno voleva imporre qualcosa a qualcuno. Almeno per i forestieri, questo non era valso per lui, ma non gli importava molto. Differentemente dal suo fratellino, non sentiva nostalgia per quella mancanza.
Nizza aveva annuito, poi aveva allungato una mano sull’orlo superiore della vestaglia, era largo e con uno scollo a barca, lo aveva fatto scendere sul lato sinistro, scoprendo un po’ la carne del seno, ma senza esporsi troppo. Lui non era davvero intenzionato a guardare i suoi capezzoli, ma era stato rapito dalle linee sul petto.
Erano nere e delicate, in alcuni punti si ingrossavano, creando un disegno dinamico. I fiori erano due piccoli, a cinque petali, spatolati, che si chiudevano ripidi su una punta arrotondata, la carne nei pressi del petalo raggiungeva leggere sfumature violacee. Gli steli erano sottili e si univano in foglie strette, spesse ed aguzze. “È una sassigrafa?” aveva chiesto lui, “Sì, penso. Non sono brava con i fiori – lo so, fa ridere detto da una fioriana” aveva replicato.

Lui aveva ridacchiato, “Il disegno è molto bello” aveva considerato, “Sì, sono stata fortunata” aveva detto Nizza, passandosi i polpastrelli sui segni, da quella distanza sembrava quasi un marchio ad inchiostro, fatto da un’ottima mano umana, “Ma decisamente non perfetto” aveva considerato Nizza stessa. “Mio padre ha sposato la seconda cugina della sua anima condivisa, i loro fiori erano simili, lei era morta per una zoccolata di cavallo. Mia madre d’altro canto era benedetta. Strane le vie del destino. Vicina alla perfezione, senza toccarla” aveva scherzato la ragazza poi, sotto lo sguardo confuso di lui.

Sapeva che i figli di anime condivise, i bambini giusti, erano perfetti in una maniera quasi che suo padre definiva ‘violenta’ – come sua madre, sebbene lei negasse la sua benedizione – ma “Adesso, vizioso tornatene a casa, che ho tutta l’intenzione di tirare via lo schifo di dosso. A meno che tu non voglia vedere anche la rosa tra le mie gambe” aveva dichiarato Nizza.

Si era sbagliato, era stato possibile divenire ancora più rosso, sentiva la sua pelle andare in fiamme, come se un incendio divampasse nel suo petto. Aveva recuperato la calma, dopo aver arrestato il battito feroce, come il galoppare di un cavallo, del suo cuore ed aveva annuito, lanciando un ultimo sguardo al fiore sul seno della ragazza, “Grazie” aveva detto, facendo un passo indietro.

Lei aveva fischiato, “Aspetta. Fammi vedere il tuo” le aveva detto, fissandolo. Aveva occhi scuri come noccioli di mela. “Io non ho un fiore” si era difeso lui. “Tutti hanno un fiore” aveva ribattuto Nizza, “Il tuo è stato semplicemente estirpato” aveva aggiunto.

“Vuoi vedere la mancanza, allora” aveva considerato il ragazzino incerto, toccandosi il cuore. Nizza aveva annuito, “Devo sapere come sarà la terra una volta che ci avrò sparso il sale” aveva risposto.


 


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Capitolo 3
*** PARTE PRIMA; PROLOGO ***


P A R T E   P R I M A
L ’ I N V I O L A B I L E

P R O L O G O

A V R E B B E R O   V C C I S O   T V T T I   Q V A N T I

 

Lippo si era svegliato stanco.

Era strano per un ragazzino di sole quaranta-tre sorelle svegliarsi stanco, ma era normale a casa sua.
Alcuni raggi del sole lo aveva raggiunto superando le assi di legno degli scuretti. Si era voltato per potersi rifugiare all’aspro risveglio, anche se sapeva di non aver comunque altro tempo per riposare ancora.
Con il naso aveva urtato la spalla di suo fratello minore Frederico, che di rimando aveva pensato di ricambiarlo con una gomitata audace. Era una piccola canaglia, aveva solo trenta-tre sorelle ma era più sveglio di una volpe. Differentemente da Lippo.

Nel lettuccio erano in tre, lui, Frederico e Adrianna, più grande di lui di tre sorelle. Lei era l’unica femmina della loro famiglia, oltre la mamma. Nella stanza con loro dormivano anche Alesio e Mino, i suoi fratelli maggiori, grandi e grossi da dover dormire incastrati – anche se Lippo indovinava si fossero già levati quella mattina, probabilmente già nei campi.
La mamma dormiva nell’altra stanza, una volta lei ed Adrianna occupavano lo stesso letto, ma i suoi fratelli erano diventati troppo grandi per poter stare con lui e Rico, tutti insieme, e quando la mamma aveva smesso di alzarsi, Adranna aveva ceduto il letto suo e della mamma ai due fratelli più grandi.

 

Quando il sole aveva raggiunto Adrianna, anche lei si era alzata, lo aveva fatto lenta, incerta, con le gambe più morbide del budello.

“Lippo! Rico!” aveva strillato il loro nome con la stessa leggiadria di un gatto imbestialito. La voce della loro sorella maggiore aveva costretto i due bambini a doversi alzare.

Lippo l’aveva guardata, fino ad una sorella prima, loro due parevano gemelli, senza distinzione. Eppure, ad ogni luna che passava Ariadne appariva sempre più distante da lui, il bacino si era fatto più pronunciato ed il petto si era fatto più pieno. Anche il viso aveva preso una curva più matura, somigliava alla mamma, per Lippo; aveva anche cominciato a comportarsi come lei.

Si era tirato su dal giaciglio, così aveva fatto anche Frederico, che era subito sgambettato nell’altra stanza per dare il buongiorno anche alla loro mamma.

Adrianna aveva accarezzato i suoi capelli con gentilezza, materna. “Alesio e Mino si sono già alzati” aveva detto con vergogna Adrianna, sentendosi colpevole del suo sonno. Cercava di destarsi sempre prima dei due, per poterli preparare qualcosa da mangiare, perché fossero rinvigoriti durante le ore nei campi.

Anche Lippo avrebbe dovuto cominciare a raggiungerli, presto, non era più un bimbetto, era un uomo, non poteva lasciare ad Alesio e Mino tutto il lavoro.

 

Sua madre aveva risposto a malapena al loro saluto, con gli occhi vuoti e distanti.  Adrianna invece, non le aveva rivolto più di uno sguardo, aveva tolto la vestaglia di armatura sottile, per indossare la veste lunga di bighello, tinta di un viola troppo costoso per le loro finanze – apparteneva alla loro madre, di tempi migliori. Se lo aveva indossato, voleva solo dire che loro sorella voleva andare al mercato, aveva anche raccolto i capelli in una crocchia, come una signora per bene.

“Lippo, accendi il fuoco. Facciamo un semolino” aveva dichiarato lei, afferrando la pentola di rame dalla cassa, per portarla vicino al comignolo.

“Vai al mercato, oggi?” aveva chiesto lui, prima di affidare senza grazia, o colpo ferire, a Frederico di andare a raccogliere la legna già tagliata fuori.

“Sì, io, vedo la coperta di lana, forse riesco a guadagnarci qualcosa. Oggi dovrebbero esseri anche alcune genti di città” aveva raccontato lei, senza prestargli troppa attenzione, nascondersi alla vista ed esponendo solo il collo nudo e la nuca.

Sua sorella non era una brutta ragazzina, aveva un viso allungato, i denti da coniglio e le orecchie leggermente sporgenti, era una bruttezza accettabile, come quella di Milo, per i Bimbi Sbagliati come loro.
“Adrianna vuole vedere il pesciaiolo” aveva cantato Frederico, tornando in casa con tocchetti di legno.
Sua sorella lo aveva ghiacciato con gli occhi scuri, ma le guance si erano dipinte come due tizzoni ardenti. “Smettila, Rico! Non è divertente” aveva berciato lei, con espressione contrita, tirando un calcio a suo fratello.

Lippo aveva raccolto la legna che era caduta da terra per sistemarla nel camino, prima di dedicarsi al fuoco. Rico se n’era andato urlante, screanzato, “Che il principio ti si pigli che nessun uomo lo farà!” aveva gridato alla sorella.

“Che fastidio” si era lamentata Adrianna, sedendosi sulla sedia.

“Non sei invaghita del pescivendolo, vero? È più brutto del culo di un porcello” aveva detto Lippo, “Oh Vergine di Ghisa, che ho fatto per meritarmi due sanguinamenti come voi?” aveva chiesto retorica lei, “Non mi posso permettere di sognare fiori gemelli o amore palpitante. Mychele è l’unico che mi si piglierebbe pure senza dote” aveva detto lei poi, “Ti spicci con quel fuoco?” aveva chiesto poi, infastidita.

Lippo aveva annuito ed eseguito, calmo, pensoso.

Adrianna aveva sempre detto che non gli importava di avere un uomo con lo stesso fiore sul petto di lei, ma non era vero, al mondo tutti desideravano trovare chi il Signore-Delle-Cose-Buone aveva previsto per loro.

Perfino i signori dai tascapani gonfi e le corone pesanti, dimenticavano i loro doveri e si sposavano genti come loro, se i fiori nel pento erano fioriti uguali.

“Forse al di là del mare chiaro c’è qualche ricco mercante di spezie che si chiede dove sia la sua anima condivisa” aveva borbottato lui, guardando di sottecchi sua sorella.

Adrianna aveva sbuffato, stanca, poi aveva sorriso, gentile, “E secondo te, perché vado al mercato?” aveva chiesto retorica.

 

Non aveva accompagnato Ariadne al mercato, lo aveva fatto Rico, con la promessa di datteri caramellati al miele, per far passare via il viso imbronciato che aveva deciso di cucirsi addosso.
Lippo era rimasto così nella loro piccola casupola in compagnia della mamma, dello spettro.
Semi-seduta sul suo giaciglio, di paglia, con gli occhi vuoto di chi non sapeva più vedere, ferma, immobile, come una candela, che si consumava un po’ alla volta.

Anche se Lippo, non vedeva più la fiamma, solo l’ultimo tizzone che andava ad esaurirsi.
“Vuoi un po’ di semolino, ma?” aveva chiesto, prendendo l’avanzo, ormai freddo, dalla pentola per metterla in una ciotola di argilla rossa. Fin troppo carina per essere finita nella credenza della loro famiglia. Aveva preso una cucchiaia di legno con cui poter imboccare la donna.
Isapia, sua madre, lo spettro, era stata in vita una donna bella, molto meno lontana di loro dalla perfezione. Non era figlia di due anime destinate, ma nei suoi quattro nonni, Lippo sapeva, due lo fossero.
Anime destinate, che strano pensiero.

I suoi genitori non lo erano, probabilmente nessuno dei suoi fratelli, o lui, l’avrebbe trovato. Lippo non sapeva quanto vasto fosse il mondo, Ariadne diceva che era immenso, ma sapeva fosse troppo grande perché si potesse trovare l’anima destinata.

La vastità della vita di Lippo, comprendevano i campi, la Foresta Grigia, la bestia bicefala ed al massimo, poche città più in là.

Rispetto al mondo, è un palmo di mano.

Così aveva detto Alesio, con gli occhi scuri luccicanti rivolti alle stelle, lui avrebbe voluto prendere la vecchia mula di casa e partire, ovunque il Giusto Sentiero lo guidasse.

Isapia aveva fatto lo sforzo di aprire le labbra, piccole, sottili, troppo pallide e screpolate per accogliere la polenta di semolino che il figlio le stava facendo inghiottire.

Ci aveva messo del tempo a deglutire, incerta. “Con un paio di fughi sarebbe meglio” aveva commentato Lippo, guardando sua madre, negli occhi scuri.

Uno dei ricordi più belli che aveva di sua madre, prima che suo padre morisse, quando la vita sgorgava ancora nel suo petto, assieme al suo cuore, riguardava proprio i funghi. Isapia andava nella Foresta Grigia e riportava cestini ripieni di ogni tipo di miceto. Ogni forma e dimensione. Aveva insegnato a lui ed anche ad Ariadne come riconoscere tutti i tipi, quelli medicinali, quelli edibili e quelli velenosi. “Un bel piatto di funghi potrebbe salvarvi la vita un giorno” aveva scherzato. Lippo non era sicuro di ricordare davvero che suono aveva la sua voce, pensava fosse dolce, più di quella di Adrianna, ma anche ammantata da un guizzo di divertimento, come una buona zuppa calda con una raschiata di peperoncino. Però, Lippo, non era sicuro se non fosse che un invenzione della sua mente.

A volte si chiedeva se anche i ricordi che aveva di sua madre non fossero a loro volta una finzione; non aveva mai avuto il coraggio di chiederlo ad Adrianna.

Si era allontano dai suoi pensieri, per tornare con lo sguardo a sua madre; per un secondo, Lippo aveva sentito un brivido attraversare la sua schiena. Ebbe, quasi, l’impressione che un guizzo di consapevolezza avesse attraversato la mente di Isapia.

“Non quei funghi” aveva detto, scostandosi da sua madre, quasi scottato, allontanandosi da lei, netto.
L’espressione di sua madre era rimasto ferma, con il viso granitico di una statua, come quelle nelle piazze della Bestia Bicefala.

Nessuna emozione, nessuna vita.

Lippo aveva recuperato il cucchiaio che aveva fatto cadere ed aveva ripreso la sua attività, teso come la corda di un mandolino.

Si era sforzato di piegare le labbra in un sorriso, ma era sicuro che la lucentezza non avesse raggiunto gli occhi; per la sua mamma non era comunque cambiato nulla. Lippo le aveva preso una mano ed aveva baciato le sue dita gentile, prima di spostare il palmo della donna sopra la sua testa, nell’imbarazzante imitazione di una carezza.

Dopo quell’ultimo, disperato, gesto, Lippo aveva dovuto abbandonare il giaciglio con una fretta bruciante, portando via il resto della ciotola ed il cucchiaio. Sapeva di non poterli abbandonare sul tavolo o avrebbero attirato le formiche o i topi e questo avrebbe reso Adrianna furiosa e le loro piccola casa pestilenziale.

Aveva lavato le stoviglie con la minor quantità d’acqua possibile – fuori casa aveva trovato il loro serbatoio pieno per un quarto, probabilmente Alesio doveva aver raccolto l’acqua dal pozzo prima di andare per campi.

Sarebbe dovuto spettare a Lippo, avrebbero dovuto chiamarli quando si erano destati.
Il pensiero lo aveva frustrato. Si era morso un labbro, mentre sfregava via con vigore i resti della ciotola, prima di riportarlo dentro casa, per sistemare nuovamente tutto nella credenza.
Sua madre era sempre lì, in un angolo come uno spettro.

“Puoi … restare qui, da sola?” aveva domandato Lippo, stupidamente.

Sapeva di non poterla abbandonare, di non poterla lasciare da sola in casa. Uno di loro doveva sempre rimanere lì, per proteggere gli averi, anche se scarsi, e la mamma – che era fragile ed incapace di provvedere a sé stessa, ma Lippo, sapeva di essere egoista, non riusciva ad essere lì, a rimanere lì, con le mani in mano.

Aveva pettinato i capelli di sua madre, incerto, le brave donne ferriane portavano i capelli raccolti, ma l’unica che aveva la pazienza di acconciarli alla mamma era Adrianna. Poi a lui, piaceva sciolti, come li portava Eliana, che non distava da loro – una bambina con gli occhi chiari come la pioggia e le fossette quando rideva. A Lippo, Eliana piaceva, ma lei avrebbe sposato Artie, che era la sua anima Destinata.
Isapia si era stesa sul giaciglio quasi da sola, senza bisogno del suo aiuto, e le aveva rimboccato la coperta, con gentilezza.

“Non posso restare” aveva sussurrato, “Nel non fare niente” aveva asserito con gentilezza Lippo, dando alla donna un bacio sulla fronte.

 

Era andato nel Bosco Grigio; era oltre i campi coltivati, se di norma i boschi erano insidiosi, abitati da fiere brutali e selvagge. E non solo quelle che camminavo su quattro zampe, ma anche su due. Bande armante, mercenari e quant’altro.

Ma il Bosco Grigio cadeva sotto l’egida della Bestia Bicefala e nessun uomo che si chiamasse tale, avrebbe mai pensato di venir a spadroneggiare tra quelle fronde.

In vero, anche i contadini si tenevano alla larga, non Lippo, che era figlio di Isapia, non aveva mai avuto remore, per quello.

Si era addentrato nella foresta, svelto, veloce ma attento. Non forse, abitualmente, non vi facevano il nido i briganti, ma non era da escludere che qualcuno uomo potesse trovarcisi ugualmente, così come, sebbene poco abituale, avrebbe potuto scorgere lupi e linci.

Era la Rinascente, in fin dei conti.

 

Lippo era stato fortunato, aveva riempito il suo cestino di bacche di mirtillo, dai globuli di un blu così intenso da sembrare dipinto da un pittore, pieni di liquido dolcino e grandi.

Certo che Frederico ne sarebbe stato estasiato.

Si era guardato nel sistemare per bene le bacche perché non scoppiassero o inondassero il cestino, nascondendole bene e proteggendole in una serie di fazzoli. Non erano belli, la stoffa era rozza e l’unico ricamo che vi era sopra, erano lettere sbilenche che Adrianna aveva cucito sopra, quando tentava di far pratica; però non era quello che era venuto a cercare.

Aveva trovato le sue vere vittime ben presto. I funghi prataioli erano subito saltati ai suoi occhi, nel sottobosco, ai piedi delle radici. Erano di un bel colore marrone, prova della loro maturità, ed erano riconoscibili per il cappello, largo e piatto. Lippo li considerava i suoi preferiti, su tutti; ricordava sua madre, tanto tempo prima, impanarli con briciole di pane ed affogarli nel grasso, sul fuoco.
Ne aveva trovati diversi tipi, quelli sottili, quelli dalla forma a chiodo – che Alesio non tollerava – con un colpo magistrale di fortuna aveva trovato anche un paio, di numero, di una tipologia con il cappello dalla forma ondulata ed il gambo bianco e polposo. Non ne trovava molti ed erano rari.
Aveva riempito il suo cestino con una quantità accettabile di funghi,  abbastanza perché quella serata riuscissero a fare una zuppa con le cipolle e tuberi e poterne essiccare e conservare alcuni per giorni avvenire – era stato fortunato e ne aveva trovato anche uno di quelli buoni per il sangue, rosa come il raso, sembravano una serie di orecchie grinzose cucite tra loro, per cappello – ma quella sensazione di pace e liberazione che il vagabondare nei boschi li dava, lo aveva costretto a rimanere, con la stessa forza delle pietre che s’attraevano.

A Lippo piaceva pensare fosse il volere del Dio-di-Ogni-Cosa-Buona; se aveva lo stesso talento d’un segugio nel trovare quelle piccole prelibatezze, un motivo doveva pur esserci.

Un po’ lo faceva ridere. Una volta aveva accompagnato Adrianna e Mino al mercato per venderli, dopo averli essiccati. Un mercante con l’accento floreale aveva ridacchiato e divertito aveva raccontato a Lippo che nell’Impero, augurare a qualcuno di andarsi a mangiare un piatto di funghi era una iettata, pari tanto ad auspicarsi che il principio se lo prendesse.

“Sì, sì. Nell’Impero quando si muore senza ragione si è morto per un piatto di funghi” aveva raccontato poi Arti, fiero e adulto – a suo dire – delle sue settante sorelle.

Per Lippo era stupido, bisognava solo avere occhio.

Si era fermato ad osservarne un altro, era sottile, più di un chiodino e difficile da osservare, non era troppo più alto di un filo d’erba e tra le foglie ed il muschio quasi spariva.

Lippo si era messo a carponi, puntando il peso sulle ginocchia ed osservando la pianta. Il gambo era sottile, di un colore bianco con sfumature rossastre, il cappello, invece, pareva la punta, addolcita, di una freccia.

“E tu, cosa sei?” aveva chiesto allungando una mano, per diteggiare la punta e saggiarne la composizione.
E poi aveva sentito il frusciare delle foglie e legno spezzato. Un verso d’animale, piuttosto gravoso
Aveva sollevato lo sguardo verso la direzione, spaventato, osservando l’oscillazione del bosco al suo fianco, poi era spuntato tra i tronchi degli alberi la figura.

Un cinghiale con zanne sporgenti dal muso aguzzo ed il manto composto di setole nere, era enorme; Lippo aveva visto cinghiali nel corso della sua vita, mai così da vicino, ma era certo, sul buon-Dio, di non averne mai visto uno così grande.

Per un momento il tempo si era gelato, lui aveva arpionato il suo sguardo sugli occhi grandi e liquidi in quelli del cinghiale.

Era durato quando un battito di ciglia e poi il panico, potente, irruente come la corrente del Serpente, così investito dal panico, a gonfiarli l’aria nel panico e a infuocare le sue gambe era scattato, veloce, come un fulmine a ciel sereno.

Era corso come un lampo per il bosco, perdendo il cestino di more e funghi dalla sua mano, ma senza che questo pensiero occupasse la sua mente per più di un momento, prima che il terrore riprendesse di nuovo possesso di lui stesso; così aveva corso.

E corso.

Corso.
E urlato spaventato, senza avere il coraggio di guardare indietro, per vedere se la bestia lo stesse inseguendo o meno.

 

Poi aveva visto qualcosa, un’ombra, e così era corso verso di lì, nella speranza che ci fosse qualcuno, qualcosa, non si era neanche accorto in che direzione stesse correndo, quanto lontano dall’argine del Bosco Grigio si fosse avventurato, quando nel cuore della selva fosse giunto, guidato dall’istinto e dalla paura.

“Ei, chi sei?”

“Che cazzo sta succedendo?”

Per il Principio!

Lippo non le aveva neanche sentite quelle frasi sconnesse, non aveva neanche realizzato che cosa fosse successo, né chi vi fosse intorno. Erano presenti degli uomini, gli aveva riconosciuti solo come ombre ad angolo dei suoi occhi. Ma la paura non lo aveva reso lucido.

E poi aveva urtato contro qualcosa, qualcosa di vivo, caldo, con un pelo ispido e rigido, l’attimo dopo qualcuno l’aveva afferrato per la collottola della blusa e tirato indietro, prima che uno zoccolo lo sfiorasse sulla fronte.

“Buon-Dio, giovane, il principio ti si è preso?” aveva gridato un uomo, aveva una voce profonda, ma calma; Lippo aveva sentito il panico cominciare ad avvilirsi, a scomparire e la chiarezza tornare alla mente, allora aveva notato il cavallo imbizzarrito, il cavaliere che lo domava splendido era riuscito a riportarlo alla calma, abile. Lippo aveva intravisto il simbolo di una lince, l’araldo di una famiglia ricca della bestia bicefala, ma non così importante da ricordarne il nome – almeno per lui, ragazzino di campagna.
Ma il cavallo dell’uomo della lince, prima di calmarsi, era riuscito ad assestare un calcione ad un altro che si era a sua volta imbizzarrito.

Il suo cavaliere aveva tentato di riprenderle le redini con ardore, ma distratto, da lui, da Lippo, con gli occhi scuri e cupi putati sui suoi.

Era caduto da cavallo.

“Lorenzin! Sei diventato improvvisamente un debuttante?” lo aveva preso in giro uno degli altri cavalieri, ma tutto ciò a cui Lippo riusciva a pensare era stato il rumore, il rumore della caduta.

Un suono dritto, secco, come di un ramo spezzato.

Quando era caduto il cavaliere aveva urtato la testa su un masso, non si era rialzato, aveva battuto gli occhi, ancora animato di vita, le sue iridi sfrecciavano a destra e manca, ma un tappetto di sangue aveva innaffiato la terra sotto di lui.

“Lorenzin!” aveva strillato uno dei cavalieri lasciandosi.

 

Lippo era rimasto immobile, come il granito, perché da terra, mentre gli uomini si affaccendavano per issarlo, lui aveva visto il decoro del suo farsetto.

Un lupo nero, una bestia maligna, erta sulle zampe posteriori, con le zanne sguainate e la pelle superiore del muso arricciato, in un ringhio.

Il Lupo.

Una delle teste della Bestia Bicefala.

Don Lorezin di Peripsia.

“Cosa ho fatto?” era riuscito a boccheggiare, spaventato.

 

L’uomo che lo aveva afferrato per la collottola non lo aveva lasciato per un momento, “Che il principio vi si pigli, lo dobbiamo riportare in città” aveva gridato forte. Non c’era più calma nella sua voce, ma genuina preoccupazione. Lippo aveva sollevato lo sguardo, prima del viso dell’uomo aveva riconosciuto, sul cuore, cucito, la testa di una volpe di profilo.

La paura lo aveva invaso di nuovo, diversa da quella che l’aveva attraversato rispetto quando aveva visto il cinghiale, era stato qualcosa di più atavico, di più viscerale.

Perché era arrivata con la paura un altro sentimento: la consapevolezza.

Lo avrebbero ucciso.

E avrebbero ucciso tutti quanti.

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Capitolo 4
*** PARTE PRIMA; TITOLO I; CAPITOLO I ***


Carta del mondo (facciamo 1:5 000 000?): https://www.deviantart.com/rlandh/art/The-known-word-949275889

Carta del Pregiatissimo Impero dei Fiori, con tutte le “regioni” notevoli: https://www.deviantart.com/rlandh/art/High-Valuable-Empire-of-Flower-949281108

Presto una carta ‘geografica’.

Note in fondo.

 

T I T O L O  I : I  G I O C A T O R I

C A P I T O L O   I
L E    S T O R I E   A   V O L T E    S O N O   S O L O   S T O R I E

 

Quella notte la sua marra era venuta a trovarlo in sogno. Non era una cosa che succedeva troppo spesso, però era stato ugualmente bello, come poche cose che gli erano capitate.

Il viso della donna era stato avvenente, giovane, fresco come una rosa fiorita, la carne scura e gli occhi scintillanti viola, come gioielli. Come piaceva ricordarla a lui, come piaceva ricordarla l’ultimo giorno che l’aveva vista felice, con un sorriso gentile a delineare il viso, pieno di amore ed allegria.
Quando aveva aperto gli occhi scontrandosi con il colore opaco del soffitto, aveva deciso che quel sogno doveva essere un buon presagio.

Usualmente, quando sua madre, si palesava nei suoi sogni, parlava solo per enigmi o dava voce a quelle angosce profonde, che non aveva il coraggio di dire la alta voce, ma che avvelenavano il suo cuore e la sua sicurezza. Quella volta la sua marra però non aveva aperto bocca, ma era rimasta lì, con quel suo sorriso pieno di gioia ed amore, con le mani aveva accarezzato le sue guance, con le nocche, delicata come faceva quando lui era bambino. Ebbe quasi, l’impulso di piangere a quel ricordo, così indistinto.

Non era rimasto a lungo del meriggiare del suo ricordo, ma perché con brutalità quasi onesta, era stato riportato con vigore nelle sue carni. “Devo vomitare” aveva dichiarato Iren, non lontano da lui, la sua voce era crepitate, come il rumore di un fuoco che si concedeva gli ultimi schioppetti prima di esaurirsi.

Lui si era voltato, con una certa insofferenza, osservando il suo compagno.

Iren era steso sull’altro giaciglio della stanza, uno strapunto imbottito di fieno e paglia, sostenuto da una struttura di legno malandata. Iren era più sciupato del legno stesso, era bianco sul viso come un cadavere e l’aspetto incantevole, quasi divino, era tormentato da occhiaie viole, che infossavano gli occhi nel teschio.

“Dovresti smetterla di bere il Latte d’Uccello, allora” aveva risposto venefico lui, osservando senza muoversi i movimenti di Iren, che si era rovesciato giusto in tempo, per far sporgere il viso dal letto e rimettere il contenuto del poco che aveva consumato la luna adiacente.

La padrona della taverna non sarebbe stata contenta di dover tirar via quello schifo dal pavimento.

Iren aveva tossicchiato ancora, un filo di bava era scivolato dalle sue labbra screpolate, poi si era rovesciato sulla schiena, stanco, aveva puntato la sua forza nei suoi gomiti ed aveva cercato di premersi con forza, così da potersi sollevare almeno in una posizione seduta; un’azione che sarebbe stata scivolosa e semplice, per Iren era stata ardua come la scala di una montagna.

Il velo aveva fiaccato il suo corpo, aveva drenato ogni sua energia, lo aveva ridotto ad un fantoccio di cera e paglia; eppure, in qualche modo, che sorprendeva lui, senza capire come, riusciva a mantenere quell’altolocata bellezza divina di cui era stato investito come figlio del destino. “Lo so” aveva confessato alla fine Iren, con una voce sottile come un filo d’aria.

Lui si era tirato in piedi, senza particolare sforzo, certo la stanchezza del viaggio pesava sulle sue spalle, come un macigno, ma era più resistente e sano di Iren. “Però continui” aveva detto stanco, di quella conversazione, mentre si apprestava a raggiungere il suo amico per aiutarlo a mettersi in piedi.
“Non fraintendermi, non mi importa nulla se un Mani Morbide come te decide di suicidarsi” gli aveva detto. Iren aveva riso di lui, con gusto, “Non sei credibile, Saij” lo aveva rimproverato, con gusto.
Aveva ragione, ormai, dopo tutto quel tempo, si era affezionato incredibilmente al suo compagno di viaggio, non era certo che avrebbe pianto se fosse morto, ma perché Saij non era fatto così, ma avrebbe sentito il lutto premere sul suo cuore, per le sorelle ad avvenire, fino alla fine della sua vita naturale e se esisteva una vita oltre, per davvero, lo avrebbe addolorato ancora.

Ma Saij non avrebbe mai dato la soddisfazione di riconoscerlo ad Iren, perciò aveva scosso il capo, “Però, non ho voglia di portare il tuo corpo in giro e di vederti sprecare i nostri soldi, anche perché dubito che Theresia prenderebbe bene il fatto che ci siamo giocati il suo investimento in veleno” lo aveva rimproverato, con un tono al vetriolo.

“Affronterei più volentieri il Principio in carne e ossa che dovermi confrontare contro Theresia inviperita” aveva concesso Iren, con un sorriso carico di divertimento, ma su cui la debolezza premeva senza pietà, “Garlio non si tirerebbe indietro alla sfida” aveva replicato secco l’altro. Quel piccolo accenno di sorriso sul viso del suo compagno era morto.

 

Saiji aveva recuperato una bisaccia d’acqua e l’aveva passata a Iren, certo che l’arsura stesse consumando la sua gola ed il suo corpo.

“Quando partiamo?” aveva chiesto Iren, dopo un generoso sorso d’acqua. I suoi occhi, in quel momento, erano di nuovo in possesso di un guizzo di luce, di vita, ma Saiji era certo che presto il veleno avrebbe ripreso il controllo. Il Latte d’Uccello era una bestia malefica, seduttrice. All’inizio, il latte addolciva la mente, lasciandola vuota e leggera, Saiji l’aveva provata una volta – quando era poco più di un bimbetto con il corpo ardente di subbugli ed il desiderio di assaggiare tutto il mondo – e non avrebbe potuto descriverla in altro modo che il galleggiare di un corpo in acqua. Sospeso nel vuoto.

Poi, però, la dolcezza si essiccava e restava solo il veleno a corrompeva il corpo, piegando l’animo, asciugando la forza, lasciando anche degli uomini che era forti e baldanzosi, nulla più che gusci. Un tempo Iren era stato arrogante, sì, ma anche zelante, dirompete e chiassoso, così lo ricordava, Saiji durante la Vivace di troppe sorelle prima. Guardandolo in quel momento, di quel giovane, non vedeva più niente, il suo amico era sfibrato, piccolo, spettrale.

“Appena, starai bene” aveva risposto Saji.

“Sto bene” aveva mentito Iren, “Racconta le tue palle a qualcun altro, Mani Morbide” lo aveva rimproverato, senza cattiveria, Saiji. Con gli occhi lo aveva Iren lo aveva maledetto, erano due pozzi neri, due voragini che affondavano nella terra, nel buio più profondo, così neri che la pupilla e la sclera erano un’unica macchia. Il bianco, però, era lucido e screziato di rosso, prova del pianto che doveva aver tormentato il suo sonno.

“Sto bene” aveva ripetuto il suo amico.

Saiji lo aveva guardato con sufficienza, “Quando lasceremo questo villaggio, dovremmo attraversare la Macchia e non so quanta brughiera prima anche solo di incrociare lo sguardo con il Dironte. Saremo ad Azalea tra quattro lune, se spingeremo i cavalli al massimo. Ma per partire devi essere in forze o un viaggio breve, rischiamo di farlo in una decimana” lo aveva avvertito. “Posso farcela. Possiamo farcela” lo aveva rassicurato Iren, battendo la pianta per terra, a simboleggiare la sua rinvigorita forza.

“Vediamo di mangiare prima” aveva commentato Saij, stanco.

Iren lo aveva guardato con un eccessivo pallore nel viso, piuttosto insoddisfatto della proposta, visto che il suo precedente desco imputridiva sul pavimento.

 

Avevano fatto colazione nella stessa locanda dove si erano alloggiati per la notte e dove avevano consumato la cena la sera prima. Il proprietario era stato poco felice di avergli intorno, ma il tintinnio di un paio di belle damigelle avevano curato il suo malumore e dente avvelenato.

Questo non aveva impedito all’uomo, vecchio, canuto, rancido e sbagliato, di guardarli di sottecchi, velenoso come un serpente, quando li aveva visti prendere le scale e scendere nella sala da pranzo. Saiji era stato abituato a quello sguardo per tutta la sua vita e Iren era semplicemente troppo fiacco per notare alcun’altra cosa che non fossero i gradini da percorrere per non scivolare.

“Buongiorno, buon uomini” li aveva salutati cortesemente la locandiera, la metà degli anni del marito e due volte più brutta. Aveva il viso come quello di una rana, con una bocca larghissima piena di denti storti, ma sorrideva con gioia ed aveva occhi verdi come campi, che per Saiji erano notevoli. “Buongiorno mia signora” aveva detto cortese lui, come era stato educato, prima di comunicare il suo interesse nel voler mangiare.

Ci avevano guadagnato dei globuli fritti nello strutto e del pane scottato, accostato al formaggio erborinato morbido. “Non mi abituerò mai a questa cucina” aveva dichiarato Iren con espressione sdegnosa, mentre si versava una bella coppa d’acqua per lavare dalla lingua il resto del Latte.

Erano diverse sorelle, ormai, che Iren non sedeva più al desco degli dèi, ma viveva fra loro, uomini, normali. “Puoi irrobustire la carne di un manimorbide, ma non puoi togliere la morbidezza dal suo petto” aveva dichiarato Saij, dando un morso soddisfatto al pane. Friabile. “Parli come l’ultimo degli zotici, ma sei cresciuto in un bel castello anche tu” lo aveva puntellato Iren.

Saiji aveva sentito il sapore del cibo sotto i denti farsi fastidioso come la cenere a quel pensiero. “Non ero un signore, io” aveva replicato, sottile, come un ringhio. L’altro lo conosceva ormai, così bene, da aver interpretato nel suo tono perentorio un invito a non riprendere più l’argomento.
“Oggi sei più di malumore del solito” aveva convenuto alla fine, cedendo ai globuli.  Saiji aveva osservato come il suo amico si nutriva, con la stessa veemenza di un passerotto davanti a briciole di pane. Poco, a spizzichi e senza gusto, come se ogni cosa sulla sua lingua sapesse di marcio, quello non era opera della vita raffinata in cui era vissuto, ma del veleno di cui si nutriva.

 

“Quanto altro Latte hai?” aveva chiesto Saiji con un tono basso, per non essere udito, “Non ne ho più” aveva ammesso, “Ieri ho bevuto l’ultimo sorso in compagnia di un poveraccio” aveva raccontato tremolante. Saiji aveva deciso di non voler indagare oltre su quel che Iren avesse fatto, rimanendo fedele alla decisione che aveva preso quando l’aveva visto allontanarsi la sera prima – e quando l’aveva sentito rientrare. “Questo non ci voleva” aveva detto invece, Saiji aveva sollevato un sopracciglio scuro, “Comprane dell’altra” aveva berciato, allungando una mano nella parte alta della blusa, che portava sbottonata per estrarre un sacchetto. “Mi prendi per il culo?” aveva sibilato Iren, con occhi cattivi, “Non mi va che sprechi i soldi per una cosa che ti fotte la testa e ti uccide. Ma sono realista, se smetti di consumare il Latte d’Uccello, ora, tra due giorni sarai in preda alla Sregolatezza e … io non sono Adda” aveva dichiarato con una certa esasperazione.
Iren lo aveva guardato, non c’era più cattiveria negli occhi, ma solo triste e pesante consapevolezza, “Preferisci che io sia sdregolato ad Azalea?” aveva domandato Iren stanco. “Sì, tanto ho l’impressione che Azalea sarà una lunga permanenza” aveva considerato con consapevolezza Saiji.
Sperava di poter smobilitare presto dalla città, ma aveva vissuto abbastanza sorelle da realizzare che non aveva alcun senso avere aspettative troppo alte. Iren aveva annuito, stanco, prima di prendere un’altra generosa sorsata d’acqua, “Io penso di poter resistere fino alla città; negli ultimi tempi ho ridotto le quantità” aveva ammesso.

Saiji non ci credeva affatto, ma sapeva dove i pensieri del suo amico stavano virando. “Come ti pare. Se ti sentirai male e cadrai giù da cavallo, ti lascerò lì” aveva stabilito, alzandosi dal suo posto, con leggero fastidio. Sapeva cosa voleva Iren, voleva essere lucido, consapevole ad Azalea, ma Saiji non gli avrebbe permesso comunque di fare ciò voleva. Esisteva un tempo e un luogo per essere emotivi, supponeva, ma non era quello.

Iren lo aveva guardato alzarsi, aveva chinato gli occhi sul suo misero pasto, “Mi dispiace di essere un pasticcio” aveva confidato. Quel discorso era più stantio del latte rancido, negli ultimi tempi, Iren faceva quel discorso, quella lamentale, spesso. Se Saij, vigliaccamente, aveva apprezzato la vena di commiserazione che aveva cominciato ad affliggere Iren, nei primi tempi, negli ultimi quasi rimpiangeva il suo compagno quand’era un Mani Morbide fatot e finito che si confrontava contro un mondo ostile – fuori dalle confortevoli mura di Palazzo d’Edera. “Sono stanco” aveva ammesso, allungando una mano, per metterla sulla spalla del suo amico, in un patetico gesto di affetto. Saiji, però, era davvero stanco e seccato da Iren, dalla sua vita, dall’eterno girovagare in cui erano costretti.

Anche a lui a volte mancava casa, quella dei suoi genitori, quella dei suoi tutori, la vecchia camerata della Corda. Ed era anche stanco di Iren, spaccato a metà tra l’euforia e la catatonia in cui il Latte d’Uccello lo guidava. “Che il Principio ci si pigli” aveva replicato il suo amico, in una bassa preghiera, verso il nulla. “Non temere lui, temi me” aveva replicato di riflesso Saiji, senza indugio, senza pensiero, senza controllo. Una vecchia, vecchia ferita...

Iren lo aveva guardato, con occhi liquidi, “Degno di Sir Moria” aveva replicato.
, aveva pensato Saiji, senza avere la forza di dirlo ad alta voce.

 

Per la gioia del locandiere avevano serrato i cavalli non troppo tempo dopo, non senza aver lasciato delle monete sonanti per il disturbo ed altri viveri. Il viaggio, come temeva Saiji era ancora tremendamente lungo. E la conclusione era ancora lontana, non che lui sperava di arrivarci vivo.

Saiji aveva concluso gli ultimi affari con il locandiere, sentendo ad ogni moneta scucita, nella sua testa, una voce infastidita sullo sperpero; poi aveva raggiunto il compagno.

Iren aveva assicurato bene il morso della loro mula, una creatura brutalmente instancabile. Il suo amico, anche in quel gesto, semplice, aveva mani tremolanti e stanche, ma cercava di nasconderlo dietro un portamento elegante, degno della sua educazione.

Il suo modo di fare, ed il suo aspetto, avevano attirato anche l’attenzione di alcune ragazzine del villaggio, con il viso bello della fanciullezza. Iren era bello.

Era alto, con gambe lunghissime e spalle larghe, che lo faceva apparire perfettamente equilibrato. Aveva occhi nerissimi e capelli corvini, così scuri da apparire come inchiostro rovesciato sulla pergamena. Aveva una carnagione chiara come il cotone, eredità di una bianchissima madre ghaadiana – non che volesse dire molto, Saiji aveva avuto un padre della stessa stirpe, bianco come la neve. Ed era perfetto, come tutti i semidei di quel mondo, i bambini destinati, i figli benedetti del Dio-di-ogni-cosa-buona. Sapeva che sul petto, sul cuore, fiori perfetti, di una bellezza assoluta, erano fioriti.

Per tanto tempo, avevano cresciuto, il suo amico con l’assoluta convinzione di essere nato benedetto – e per un bel po’ di tempo avevano avuto ragione.

“Hai legato la mula?” aveva chiesto, “Sì” aveva risposto Iren, passando la mano sulla testa dell’animale, per dargli una carezza. “Lei è meno cocciuta dell’altra Adda, sai” aveva commentato con voce allegra Iren, voltandosi verso di lui. “Non credo sia possibile esserlo di più” aveva replicato Saiji con tranquillità. “Stavo pensando una cosa” aveva cominciato a dire Iren, “Cosa? Qualcosa come tirare fuori i cavalli dalla stalle?” aveva domandato retorico.

“Sta notte ti ho sentito ripetere la parola di marra, in un sonno agitato” aveva spiegato Iren, con tranquillità. “O davvero? Sei riuscito a sentirmi parlare?” aveva chiesto Saij genuinamente confuso.

Pensava che il Latte d’Uccello avesse offuscato ogni suo possibile raziocino, “Quando sono tornato, stavo ancora bene” aveva provato Iren, grattandosi il capo.

Marra vuol dire madre, in eosiano. Non mi va di parlare, non sono te che riempi ogni posto con le tue stronzate famigliari” aveva ringhiato Saij.

 

Iren parlava della sua vita: del tempo a Palazzo d’Edere, di quello breve all’Akadais, perfino di quello a Palazzo Cama; ovviamente della sua famiglia, della sua madre ghaadiana con un sorriso di vetro, nata nella polvere ma anima condivisa del Signore suo padre, uomo distante e complicato, della sua matrigna arcigna, moglie legittima, e dei suoi fratelli, soli lucenti della sua infanzia. Parlava della vita che aveva avuto prima di Saij con parole piene di amore, ma grondanti di malinconia, rammarico e dolore. Anche lui provava lo stesso sentimento, per la sua famiglia ormai perduta, ma non riusciva a parlare, non come Iren.

Era una ferita che ancora in quelle lune doleva come una pugnalata nel petto.

“Prendo i cavalli” si era congedato Iren, alla fine.

 

 

Saiji lo aveva visto allontanarsi, e solo dopo questo, una ragazzina giovane, forse più piccola di ottanta sorelle, era venuta da lui, con passo allegro, ma deciso. Era assolutamente fioriana, come ne Saij ne Iren avrebbero mai potuto esserlo, con la carnagione olivastra e i capelli scuri come corteccia bruciata, mossi come le onde leggere sulla costa sabbiosa del mare calmo.

“Scusate se vi disturbo, signore; voi siete lo straniero che dormiva dal Vecchio Alm?” aveva domandato lei con voce sottile e gentile, Saij l’aveva guardata e quando i loro occhi si erano incontrati lei aveva distolto lo sguardo. “Non sono uno straniero” aveva risposto con un leggero fastidio, non era una menzogna, non completamente, ma viveva da così tanto tempo nell’Impero che non poteva considerarsi altro se non un fioriano. Parlava la loro lingua, imprecava il loro male, combatteva con loro e per loro.

Eppure, sapeva, che il suo aspetto l’avrebbe tacciato fino alla sua morte come l’invasore. Aveva avuto un padre ghaaterio – come Iren aveva avuto una madre – ma la sua marra era eosiana, scura come la cannella e con gli occhi lunghi e vivaci e sapeva che il suo aspetto era una eredità della donna.
“Ma non siete di Piccolo Pulvino” aveva ribattuto la ragazza con tenacia, riportando gli occhi su di lui. Aveva iridi nocciola, era sbagliata, come Saiji, non troppo, aveva orecchie un po’ sporgenti, denti accavallati sul davanti e narici leggermente grosse, abbastanza perché all’occhio saltasse l’incertezza. “No, quello no, sono di vicino Città Viola, sai dov’è?” aveva risposto scostante. Non era nato lì, ma ci aveva vissuto fino a che non era stato grande abbastanza per indossare la corda di spine.

“Da qualche parte al nord, credo” aveva risposto lei, “Una volta il mio maestro ha provato a spiegarmi una cartina, ma l’impero è vasto, ha tanti nomi e io non so leggere” aveva replicato senza perdere mordente lei.

A Saiji aveva ricordato la sua amica Adda.

 

“Che vuoi? Lezioni di geografia?” aveva replicato, “No, io volevo sapere se il vostro compagno, lui, ecco sul petto ha due rose canine di un arancio tiepido” aveva provato lei, nel dirlo aveva di nuovo chinato lo sguardo ed il viso si era tinto di un rosso infuocato.

Saij aveva riso malevolo di quella scena, “Oh” aveva dichiarato, “Ho sentito che quando qualcuno vede la sua anima condivisa, ancora prima di sapere il suo fiore, lo sente. Lo sa. Per questo non importa quanto gli eretici si mutilino, il giusto sentiero è più chiaro e luminoso delle Stelle Gemelle” aveva raccontato lei, con voce piena di titubanza.

“Le storie a volte sono solo storie” aveva replicato Saiji, che da un lato era tentato di divertirsi alle sue spalle e dall’altro non era mai stato un uomo crudele. “Ma io lo ho sentito, come un crampo nello stomaco, come un fuoco che mi ardeva sotto la pelle. All’inizio pensavo fosse solo una sciocca infatuazione, il vostro amico è bello, ma di uomini belli, ne ho visti” aveva dichiarato lei con vigore, tornando a guardarlo. “Non facciamo questo posto degno di un così vivida frequentazione” le aveva risposto.

Lei non aveva demorso, “Lui deve essere la mia anima condivisa” aveva stabilito imperiosa lei. Saiji le aveva sorriso stanco, “Bambina” l’aveva richiamata, senza dolcezza, “Il mio amico è un uomo benedetto” le aveva detto, “Per questo ti senti così attratta, avrai visto uomini belli, ma non ne hai mai visto uno così” le aveva spiegato, paziente.

Iren era come fuoco e loro, uomini mortali, semplici falene. Lei aveva spalancato gli occhi scuri, colpita, “Un figlio del destino!” aveva ammesso con una voce sottile ed alta, sconvolta, voltando lo sguardo dove Iren era scomparso.

Non poteva essere la sua anima condivisa, poiché lei, carina quanto potesse essere, rimaneva terribilmente umana. Era rarissimo che due anime condivise appartenessero a due stirpi così diverse.
“Non ho mai visto uno!” aveva dichiarato poi, bramosa, “Sono eccezionali solo le prima volte, dopo del tempo, diventano come uomini qualsiasi” le aveva risposto Saiji.

Lei si era voltata oltraggiata verso di lui, “Blasfemie. Se fossero come noi, non sarebbero benedetti! Loro sono i giusti” aveva dichiarato con vivace sicurezza.

Saiji le aveva sorriso.

“Milla, screanzata torna qui” l’aveva richiamata un uomo, che le somigliava bene, era una versione più vecchia della ragazza, attraente per la sua età, con i capelli grigi come fili d’argento ed occhi scuri. “Vai, non sai che gli eosiani possono rubare l’anima di una persona con un solo sguardo?” le aveva detto Saij, ironico. Milla che si era irrigidita alla chiamata del padre, si era voltata di nuovo verso di lui, “Pensavo aveste detto che non eravate straniero” aveva replicato.

“E voi credete a tutto quello che vi viene detto?” l’aveva presa in giro lui, la ragazzina era avvampata di nuovo, questa volta per una vergogna meno romantico, “Comunque non sono straniero, ma sono un eosiano” aveva precisato. Milla lo aveva guardato di nuovo, “Siete amico di un figlio del destino, non potete essere un ladro d’anim” aveva stabilito la ragazzina, prima di congedarsi, con riverenza, “Obbligata” aveva aggiunto ed in tale maniera lui aveva risposto e raggiungere il padre che irato l’aveva ragguardata della sua troppa irriverenza.
Milla doveva aver detto qualcosa al signore, perché il suo inveire s’era calmato, con l’incide ed il medio della mano destra si era toccato due volte il petto ed una la testa, nel segno sacro del Giusto Sentiero.
Iren lo aveva raggiunto nella strada, tirando i due cavalli. La femmina Cremello[1] con la ringhiera bianca come il latte, grandi occhi neri. Era grande, con gambe forti e resistente, degna della sua origine ferriana. Era mansueta e si faceva condurre da Iren senza colpo-ferire, d’altronde era la sua cavalcatura. Legata alla sella della femmina cremello c’era la mula, con i loro bagagli legati sulla schiena.
L’altro cavallo era un castrato – che non aveva perso il suo carattere burbero ne difficile -  più piccolo ma svelto del cremello, era un bastardello roano, proprio come Saiji. Iren aveva dovuto trascinarlo con forza, perché quello seguisse l’andamento richiesto.

Quando aveva afferrato le briglie del suo rissoso amico, quello aveva dato cenni di placidità, “Vuoi sgambettare un po’, Tzatza?” aveva detto, posando la mano sul muso. “Che mi sono perso?” aveva chiesto Iren, “Ti ho visto parlare con una ragazzina?” aveva chiesto senza vergogna. “Come d’abitudine, voleva sapere di te del tuo fiore” aveva replicato Saij. Il suo amico si era irrigidito, “E che gli hai detto?” aveva chiesto poi, “Che sei un invertito e siamo amanti” aveva risposto lui, il viso già bianco, per carnagione e stanchezza di Iren, si era fatto ancora più cadaverico.

“Santissimo Iddio di Ogni cosa giusta, tu sei proprio lama e scudo del Principio!” aveva risposto esasperato Iren.

 

Non ci avevano messo molto ad imboccare la strada per la foresta, ne per raggiungere la Macchia, Saiji avrebbe voluto evitarla, i boschi non erano mai amici degli uomini, erano una risorsa necessaria e allo stesso tempo erano piccoli regni appartenenti ai non-uomini. Saiji non credeva nell’esistenza delle genti piccoli, degli elfi, delle fate e tutto quello che concerneva gli abitanti ideali delle foreste, ma credeva nei puma, nei lupi, nei cani selvaggi e le altre bestie che si annidavano lì dove erano reali incontrastati, dove l’Impero non aveva potere.

“I boschi non mi piacciono troppo, da ragazzino, mio padre e mio fratello mi portavano sempre a caccia nelle foreste, per tutto il tempo tremavo sul cavallo” aveva dichiarato Iren, guardandosi intorno, quasi freneticamente, aspettandosi di vedere giungere un brigante armato fino ai denti desideroso di ucciderli, “Anche se, be, erano effettivamente le uniche volte che mio fratello mi faceva lasciare casa nostra”.


La prima volta che Iren aveva cominciato a parlare così a ruota libera della sua famiglia, era avvenuto dopo molte lune di viaggio, quando era assuefatto di Latte d’Uccello – prima era stata un lamentoso manimorbide impostato, quello aveva segnato un cambiamento fra loro – poi non aveva più smesso. “Prima che morisse potevo andare a piangere da mia madre, che non volevo. Lei era l’unica che avesse un qualche potere su mio padre …” aveva raccontato Iren, con quel tono dolce, pieno di malinconia.

Saij aveva roteato gli occhi; sapeva dove il suo amico lo stava guidando, con la stessa mano tremolante con cui conduceva la cavalla cremello, ma Saiji non era una bestia mansueta. Ci avevano provato, lo avevano rimproverato, lo avevano punito, picchiato, ma non era mai riuscito a dominarlo, non del tutto – anche quando era un soldato.

“Sì, la scorsa notte ho sognato mia madre, ogni tanto mi capita. Sono umano anche io” aveva commentato con voce spenta Saij, “Tanto sapevo che volevi arrivare qui” aveva aggiunto, conoscendo, ormai, per filo e per segno la mente del suo amico. Iren aveva emesso un verso strozzato un sussulto, lui si era voltato per osservarlo, con la coda dell’occhio.

Iren non aveva pronunciato mezza parola, ma lo guardava attento, con le labbra, screpolate, schiuse e gli occhi scuri scintillanti di curiosità. Poi, dopo il prolungato silenzio a cui Saij lo aveva costretto, Iren aveva parlato; “Non sei obbligato a parlare, lo sai” aveva provato a mentire, “So che non apprezzi parlare della tua famiglia, prima dei Ramberra; Adda mi manca anche per questo, riempiva ogni silenzio di parole” aveva ammesso, nostalgico.

“Adda ci affogava nelle parole” aveva commentato acre Saiji, anche se con parole avvelenate, lui intendeva la medesima cosa del suo compagno: mancanza.

Adda era stata la terza stampella di uno sgabello improbabile. “Non so come fosse possibile per una cresciuta come una serva, abituata a sentire più il bastone che i suoi pensieri avesse un ardore così sfacciato” aveva raccontato con giusto divertimento.

“Ho sempre pensato che all’Akadais vi formassero per essere uomini acuti. Tu, però, sei una rapa. Adda non era una lavapavimenti e l’avranno colpita tre volte con un bastone per punizione” aveva ricordato Saiji, con boria e noia nella voce. Ricordava come un eco distante nella memoria, la prima volta che l’aveva vista. Erano bambini ambedue. Riusciva a rievocare benissimo, perfettamente, come una pittura la prima volta che aveva visto Iren, elegante ma pieno di livore, troppo ardito e troppo audace, ma non Adda. “Una volta lo ho fatto fare io” aveva dichiarato Iren, con voce incolore, “Non ricordo cosa mi avesse detto ma mi aveva infastidito” aveva considerato il suo amico, il tono della sua voce era pregno di dolore e di disgusto verso sé stesso. Saiji si era voltato verso di lui, sapeva di non avere occhi pieni di giudizio, dopo tutte quelle Lune e tutte quelle Sorelle sembrava infantile covare del rancore.

“Ebbene sì, un tempo potevi far fustigare una donna con il lusso di dimenticarti il perché” gli aveva detto, senza colore, Saiji. Anche lui, da ragazzino aveva provato il tocco ruvido della cinghia, perché si era permesso – permesso di pensare di poter – di fare qualcosa che non gli era dovuto. Nel corso della sua vita aveva subito frequenti e dolorose ferite, che l’avevano ridotto a nulla di più che un corpo lancinante, eppure, ricordava vividamente la prima volta che Moria lo aveva colpito con la cinghia, sotto le scapole.

 

Iren aveva sussultato all’ultimo commento di Saiji, lo aveva guardato con gli stessi occhi spaventati di un cerbiatto, la sua frase lo aveva colpito sul fiore come una freccia, brutale. “Iren, togli il cuore dalla graticola, non era una condanna” lo aveva rimproverato. “Però, hai ragione! Ci sono tante cose che mi mancano, ma non come ero. Preferisco dormire sulla nuda pietra e nutrirmi di radici che tornare ad essere il tipo d’uomo che fa picchiare una donna buona come Adda, perché ha un carattere così fragile da sentirsi turbato da una parola” aveva dichiarato con prontezza Iren, con la stessa sicurezza e serietà di un giuramento cavalleresco. “Anche, perché Adda, ora, ti picchierebbe due volte più duramente” aveva considerato Saiji, “Poteva anche allora” aveva risposto Iren, permettendosi un sorriso, stanco, che si abbinava con i suoi occhi vacui.
A dividere il suo buon amico dagli schiaffi feraci che Adda, al tempo, avrebbe riservato per lui, era stato solamente il Giusto Sentiero, il posto che il Dio in cui credevano li aveva posti. Nati in luoghi, con sangue, diversi.

Confini che in quegli anni si erano assottigliati come seta sottile.

C’era stato un lungo silenzio, che si era addensato, pesante, tra loro. “Cosa ti ha detto tua madre? In sogno, intendo?” aveva chiesto poi Iren, per rompere quell’aurea che si era formata tra loro, aveva anche dato una sferzata alla sua cavalcatura, riuscendo ad affiancarlo. 

“Quando mi capita di vedere in sogno mia madre, lei è sempre piena di vita, luminosa e mi ripete che ogni cosa andrà sempre meglio. Ovviamente, lei era un’ottima bugiarda anche da viva” aveva raccontato Iren, quando Saiji non aveva risposto alla sua domanda.

In quel momento, quando riversava tutte quelle parole nell’aria, a Saiji aveva davvero ricordato Adda e quella sua abitudine di chiudere ogni dito d’aria con le sue chiacchiere.

Iren aveva continuato a parlare un po’, descrivendo con più dovizia possibile della splendida donna che doveva essere stata la donna che lo aveva messo al mondo.

Hilde Svevia. Saiji non la ricordava affatto, sapeva di averne sentito parlare, per quanto distrattamente, ricordava la Signora Ramberra, moglie del duca di Querce Grandi, così come i suoi figli, chiamarla senza grazia: la puttana di Chretyen.

 

Iren aveva finito le sue chiacchiere, voltando il viso verso Saiji, aspettando forse la risposta ad una domanda che non aveva in alcun modo udito. “La mia Marra non mi ha detto nulla” aveva risposto, anche se era certo che Iren non avesse riproposto quella questione, “Ma è meglio così, altrimenti sarebbe stato presagio di sventure” aveva aggiunto Saiji. Il suo amico l’aveva guardato, con gli occhi scuri fissi, intrigato ma anche confuso, aggrottando le sopracciglia, perplesso da quella confessione.

Saiji aveva permesso alle sue labbra di curvarsi in un sorriso genuino, davanti quell’incredibile perplessità. Lui era stato educato, alla spada, allo scudo, alla religione, per certi versi anche alla politica, quel tanto per capire dove fosse e a chi era d’uopo inginocchiarsi, mentre Iren era stato educato bene, dai migliori precettori, aveva studiato all’ Akadais, era erudito nella letteratura, nella politica e nelle lingue, talvolta Saiji aveva l’impressione che il suo compagno avesse una conoscenza universale – finché non permetteva al Latte di avere vinta sulla sua mente.

“Gli Eosiani credono che il futuro sia sulla bocca dei morti. Quando un defunto ti appare in sogno e per profetizzarti quello che avverrà” aveva spiegato placidamente, poi aveva proseguito: “La mia marra ha il vizio di palesarsi solo per raccontarmi di nefasti presagi”.

Sul viso di Iren si era dipinta un’espressione che Saiji non credeva di avergli visto in molto tempo, la stessa ingenua sorpresa che sembrava contraddistinguere i bambini. Era la stessa espressione che sapeva essersi cucito sul suo volto quando aveva veduto per la prima volta la Porta della Capitale. L’innocenza di qualcosa che si vedeva per la prima volta, da cui si era affascinati ed ugualmente spaventati.
“Ebbene sì, anche gli eosiani hanno i loro credi! Non siete l’unico gregge di pecore. Ti confonde?” aveva chiesto Saiji, con un sorriso cristallino sulle labbra, divertito da quella reazione.
Iren aveva scosso il capo in un segno di diniego, i capelli corvini erano oscillati intorno al viso, “No, no. So che gli eosiani credono nella Grande Madre dal Cuore di Pietra, ai Cento Gradini e i Signori dei Flutti” aveva risposto poi, Iren, con un sorriso sghembo, per quanto affaticato sul viso, a rimarcare quell’enorme bagaglio di conoscenze che aveva intessuto nel corso dei suoi studi, “Tutti altri nomi per il Principio” aveva rimarcato con un tono pieno di divertimento, Saiji aveva sorriso di rimando. Un tempo quella di Iren non sarebbe stato un gioco, ma un fervido credo.

“Allora perché quell’espressione da bimbo davanti al miele?” aveva domandato Saiji, quando il riso sulle sue labbra si era assopito. Gli occhi neri di Iren, così vacui e cupi, si erano accesi di una luce quasi viva, anche se per un solo secondo, prima che i dissidi del Latte tornasse ad affliggere la sua mente; poi gli aveva risposto: “A confondermi, Saiji, non sono i Credi, ma tu che ci credi!” aveva dichiarato senza indugio. Quasi solenne. Non c’era più il riso della battuta ad ornare il viso pallido, poi aveva aggiunto senza malizia, ne condanna: “Da che ti conosco … e son passate più Sorelle di quanto mi piaccia ammettere: non sembri mai credere in nulla!”

Saiji era rimasto confuso da quella confessione, aveva sentito un fervente disagio salire dal suo ventre al suo petto, all’altezza del cuore, lì dove sapeva ci fosse la sua mutilazione. L’inevitabile prova, incisa, della sua colpa. Aveva dovuto sforzarsi di trattenere il movimento secco, istintivo, che l’aveva spinto a lasciare la mano con cui teneva una delle redini per posarla lì, nella mancanza.
Tante risposte erano vorticate nella sua gola, sulle sue labbra. C’erano tantissime cose in cui Saiji credeva. Nella disciplina, nella crudeltà senza fine degli uomini, nella fame di potere dei ricchi, nell’animo troppo gentile di Nervia, nel potere della spada, dell’oro, di tante, tantissime cose.
Dolci o crude che il mondo riservava.

Risposte meno gentili, meno romantiche, erano gorgogliate fino alla sua bocca.
Sono un eretico, non lo sai? Si disse, che avrebbe dovuto rispondere, ricordando che quella nomea che era rimasta cucita sulle spalle, assieme al duro ferro della lama che aveva scavato la sua carne.
Lo sussurravano sempre, che era un eretico, e tra tutti i vezzeggiativi con cui l’avevano appellato, quella era sicuramente il più gentile; senza-dio, liberista, principista, immorale, bestia, Oscurante ed infiniti altri.

Ma ogni risposta era morta.

Iren era confuso, lo interpretava bene, dalla mancata risposta di Saiji. “Io non … volevo offenderti” aveva dichiarato, incespicando con le parole, con il tono, incerto. Gli occhi erano scuri, pieni di rimorso; forse il Latte aveva avvelenato la mente, perché ricordava ancora bene lo sprezzo, senza rimorso, delle sue azioni.

Saiji aveva scosso il capo, “Non sono fatto di cera, Iren, non mi sciolgo per una bruciatura” lo aveva rassicurato, prima di continuare: “Inoltre ti sbagli, moltissimo. Non credo negli dèi e vecchie leggende, come non negli spiriti delle foreste e della gentilezza, però, in qualcosa credo; nella mia marra, per esempio.”

E in te e in Adda.

 

Փ

 

 

 

 

Bene.

Non ho una beta, penso si sia visto.


Questo è l’ultimo capitolo pubblicato nella giornata di oggi. Il primo-vero primo capitolo, con il vero “eroe” riluttante di questa vicenda: il Buon Saiji ed il suo Sancho amico Iren.

La storia probabilmente è ancora fin troppo “abbozzata” e dovrei probabilmente rimaneggiarla, comunque ho deciso di pubblicarla.

Un grazie di cuore a Larcheex per il sostegno dimostrato.

 

Detto questo: la storia è lunga e inutilmente complessa, ha un numero imbarazzante di personaggi e vorrei dire anche di intrecci, ma in realtà non credo di essere così brava nel comporli. Pregiatissimo Impero dei Fiori è una parodia imbarazzantissima del Sacro Romano Impero, ci tenevo a dirlo perché ne sono particolarmente orgogliosa.
Più avanti, probabilmente, vi spiegherò anche come è nata …

Comunque, la storia è qui, io sono qui. Spero qualcuno la legga.

Un bacio

RLandH


[1] Per motivi, stupidi, ho dovuto inventare razze di cavallo.


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Capitolo 5
*** PARTE PRIMA; TITOLO I; CAPITOLO II ***


Non ho una beta, help.
GRAZIE LARCHEEX

 

P A R T E   P R I M A :  L ' I N V I O L A B I L E

T I T O L O  I : I  G I O C A T O R I

 

C A P I T O L O   I I
A  M O N D I   D I V E R S I.  A   S P E C I E   D I V E R S E

 

Adda ricordava vividamente la prima volta che aveva visto una strega. Aveva ventinove Sorelle, ancora una bambina, nel corpo, meno nello spirito – eppure mai prima di quel momento si era sentita così piccola. Ricordava la strega in maniera così vivida, così come ricordava il terrore che aveva provato, quasi atavico. Intimo.
La megera non era come le aveva sempre immaginate, sì, perché Adda aveva speso del tempo nel figurarsele; esseri obbrobriosi, creature quasi amorfe, dalle carni calanti, con occhi infossati e sguardi spiritati. Creature degeneri, fiaccate e guastate per essersi fatte possedere dal Principio. Abiette bestie, imitazioni di esseri umani.
Eppure, davanti quella visione, Adda si era dovuta arrendere alla consapevolezza che la strega sembrasse una donna come un’altra. Aveva gli stessi seni, i fianchi tondi, due braccia, due gambe e capelli. Nel vederlì lì, nuda e contusa, era terribilmente diversa dalle buone donne della Città, diversa dalle fioriane. Però era una donna, fatta di sangue e ossa come tutte le altre.
Ricordava distintamente il segno della mutilazione, sul seno, sopra il cuore, dove avrebbe dovuto esserci un fiore, c’era una ragnatela rosa.

Il marchio degli eretici: la Mancanza.
Una mutilazione vergognosa
Il segno del suo rifiuto al Giusto Sentiero e la sua adorazione al Principio.
Dove gli uomini timorati del Signore-Delle-Cose-Buone potevano sfoggiare con orgoglio i loro petti fioriti, ricordo all’imperitura adorazione del loro destino, la strega scinta e senza vergogna aveva una ragnatela frastagliata di cicatrici, che scava la pelle fino alla carne viva.
E ciò che aveva scioccato e spaventato, Adda più di tutto era pensare che l’avesse voluto lei stessa, che avesse voluto privarsi della giustizia, allontanarsi dal cammino perfetto.
Forse aveva guidato lei stessa la mano che aveva condotto alla mutilazione, che aveva scavato la sua stessa carne.
Come si poteva odiare se stessi così tanto?

Adda aveva provato repulsione, nitida, intensa, da stringerle lo stomaco come un pugno e terrore, lo stesso che provava quando camminava per gli angoli bui e si guardava circospetta, non temeva i mostri ma gli uomini e la strega era una donna.
Ricordava di aver provato a distogliere lo sguardo, spaventata, sapendo di non poter fuggire lontano, ma sua sorella maggiore con una presa dura come il ferro di un’armatura le aveva preso il viso e l’aveva costretta a guardare. ‘Non distogliere lo sguardo dal male o penserà di poterti ingannare’ le aveva sibilato dura come la pietra.
E Adda aveva guardato – e ricordava, adulta, in quei momenti, quell’istante con tutta la sua vergogna.
Aveva visto mentre la donna contusa, scinta, rovinata si fasciava trascinare, senza neanche più la forza di opporsi, la pelle olivigna scura, tormentata di lividi e da percosse; l’avevano appesa per i polsi e l’avevano lasciata lì, nuda, distrutta alla mercè dell’odio degli odio e degli occhi di tutti loro, in attesa che morisse, soffocata dal suo stesso corpo e dal suo stesso peccato.
Sua sorella l’aveva fatta restare in piazza a lungo, così a lungo che le gambe di Adda avevano cominciato a fare male, per lo stare in piedi.
E solo quando era sorta la luna, sua sorella si era decisa con vigore a trascinarla via e l’ultima immagine che Adda aveva avuto dalla strega erano i suoi respiri pesanti ed il tremore della sua carne e dopo tutto quell’odio, quel timore, quella vergogna un solo pensiero l’aveva invasa.
Avrà freddo’ e lo aveva detto a sua sorella, che di rimando l’aveva ricompensata con uno schiaffo a palmo aperto sulla guancia.

Adda era uscita quella mattina pensando che avrebbe veduto una strega ed era rincasata sapendo di aver visto una donna … e non sapeva se quelle due cose, all’ora, potessero coesistere e se fosse stato possibile: come.

Era diverso, in quel momento, mentre vedeva il suo riflesso sul metallo lucido, con la blusa slacciata che esponeva i seni pieni e floridi, di donna, perché dove un tempo sorgevano linee nere che riproducevano i contorni di due brutti Aster, appena stilizzati, quasi irriconoscibili come fiori, era lì, evidente, la Mancanza.
In quel momento, era Adda La Strega.
Ed avrebbe voluto scacciare quel ricordo dalla sua mente ogni volta che si vedeva riflessa in una superficie, perché sempre più spesso nei suoi ricordi, non era più la donna contusa che vedeva nuda ed appesa nella Piazza Centrale della Capitale, ma lei stessa.

Adda aveva vomitato; subito dopo essersi alzata.
Aveva vomitato nella brocca in terra sigillata Peripsiana che apparteneva al sacerdote, che utilizzava per la messa del deciluna. Senza riguardi, per quel simbolo.
“Oh! Tu sei … hai insomma … aspetti?” aveva chiesto una vocina alle sue spalle. Adda si era voltata, scorgendo gli occhi pieni di terrore – sì terrore – del giovane Ampie, dietro le sue ciglia scure.
Adda aveva forzato un sorriso, accomodante, che però non aveva raggiunto gli occhi; “Credo, ecco, che sia colpa del vino della sacrestia. Ieri notte potrei aver ecceduto troppo” aveva dichiarato, “Non sarai Zio tanto presto, tranquillo Ampie” aveva aggiunto, riconoscendolo nella sua stessa voce una punta di menzogna.
Non pensava di essere pregna, era stata attenta, era sempre stata attenta – sapeva come doveva evitare quella condizione, era stata una delle prime cose che sua sorella le aveva insegnato quando aveva avuto il suo primo sanguinamento, ‘Non farti piantare un mostriciattolo in pancia e la tua vita sarà meno miserabile’, le aveva detto.

Ampie si era quasi strozzato con la sua stessa saliva all’ultimo commento di Adda.
Lei non aveva perso il suo sorriso ed aveva sistemato il vaso nuovamente sulla tavolata di legno della stanza, dove era il suo luogo preposto, ignorando il lurido contenuto. Non aveva poi molto più senso, il proprietario della casupola – il parroco locale – non avrebbe mai fatto ritorno, come la strega, della sua infanzia, anche lui era stato appeso, ma per il collo ad un ramo.
‘Balla! Balla per i Volenterosi!’ avevano gridato tutti, con un certo ardore, mentre guardavano il sant’uomo scuotere ogni parte del suo corpo, nella Danza degli Strozzati.
Adda non aveva mai, mai, favorito la violenza o le azioni violente, perché era stata curva e pecora, spesso dal lato sbagliato del bastone. Accettava che venisse utilizzata per la sopravvivenza, lei stessa ne aveva fatto ricorso, per salvarsi la vita; eppure, non aveva mai approvato quello, le azioni sanguinolente dei Volenterosi. Capiva cosa gli spingesse, le ferite ancora sanguinanti dei loro cuori – per tutte le streghe appese alle piazze – ma non quelle azioni così virulente.
Per molti anni non aveva neanche compreso le loro ragioni, trattandoli alla stregua di mostri abitanti degli incubi o di creatore ombrose; era così confortante per lei, seguire il destino già scritto, perseguire un percorso già tracciato, con le spalle ed il cuore libero, senza angosce ad affossare la mente, ma poi, poi … aveva aperto gli occhi.
E aveva visto, e aveva amato, quale meraviglia si nascondeva lì dove regnava l’ignoto.
Ma la morte, gratuita, d’un uomo – anche uno che disprezzava – le sembrava sempre così distante.
Il parroco non aveva abiurato, preferendo quelle certezza stantie alla verità, ma non era quello stesso il punto dei Volenterosi?
Scegliere.
Non era diritto di uomo rimanere confinato nella sua caverna e spiare le ombre delle foglie credendole Dio?

Aveva lasciato la piccola casupola dell’uomo morto, niente di più che una stanza confortevole, dove tutto era condensato, per ciondolare sul mondo delle prime luci. La casa del parroco distava meno di dieci pasi dalla sua piccola chiesa. Un unico piccola stanza ad una sola navata, con un tetto a capanna, semplice, non lontano  dal centro del paesucolo. Era una chiesetta Fuori-Mura, per una Santa, non ricordava se fosse Santa Milena dei Fiori Spinati o Santa Iovana del Martirio.
La porta di legno era stata già aperta lasciando la possibilità a tutti gli avventori di poter entrare nella casa del Signore-di-ogni-cosa buona.
La parrocchia era una lunga sala mono-navata, che terminava con una parete absidata. Era più grandi di quanto potesse apparire una parrocchia fuori-mura, ma sospettava che fosse guidato dal desiderio del paese di allargarsi e raggiungerla. Forse la chiesa cittadina, interna, non riusciva più a sopperire il numero di abitandi che avevano preso a vivere in quella landa di terra.
Adda era entrata guardandosi intorno.
Le panche di legno liscio erano state torte dalle due fine centrale, sistemate tutte da un lato, impilate disordinatamente in un piccolo fortino di legno, qualcuna era stata fatta a pezzi per la legna.
L’unica navata era stata reimpiegata per dormirci, in un lungo tappeto, composto da diverse coperte spiegate. Alcuni tendaggi erano tenuti su da legni e arredi di fortuna, erano state costruite anche vere e proprie tende. Sembrava una piccola miniatura delle Attuali Città del Peccato.
Dalle pareti della chiesetta erano spariti i dipinti sui legni – bruciati nei falò – negli affreschi sui muri erano stati invece grattati via gli occhi. Il catino absidale era stato ridipinto completamente, e lei pensava di sapere da parte di chi.
Dove prima erano stagliati Santi giudicatori, sorgevano invece uomini e donni, nudi come la terra, e mutilati sul petto. Si tenevano per le mani come una corona di gioiei, dritti come steli in un campo, con i piedi nudi pestvano fiori e sulle loro teste un cielo nero tormentato di piccoli puntini si apriva. Gli uomini dei dipinti sorridevano, rivolti agli avventori.
Riguardo agli arredi liturgici, erano stati impiegati in ogni modo possibile, tranne quelli di un certo valore, probabilmente messi al sicuro per essere usati in futuro, venduti, scambiati …
Adda non ci aveva badato poi molto, non aveva senso piangere sul bruciato, quando il fuoco s’era assopito, si era prodigata nel cercare chi voleva: Garlio.
Lo aveva trovato.
Garlio, fratello maggiore di Ampie, con le stesse lunghe ciglia scure. Non era solo un uomo, ma ero il loro sfavillante guidatore, in quel mondo incerto e ignoto. La loro torcia crepitante nel buio del dubbio. Garlio era  oltre il presbiterio, dietro il recinto di transenne traforate – di marmo, troppo pensanti per essere spostate – seduto nel centro del catino absidale, sotto gli uomini nudi.
Si era avvicinata lenta, come nuotasse nella melassa, aveva raggiunto lo spiraglio tra le due transenne, quando si era sentita interrogata.
Garlio aveva sollevato lo sguardo, stava trafficando con delle pergamene, “Ti sei svegliata” aveva commentato lui, con un tono annoiato, senza inflessioni.

L’uomo apparteneva all’Impero – ed il suo sangue era quello che veniva definito istiano – sfoggiavano gli stessi colori: l’incarnato di bronzo, i capelli neri e gli occhi noccioli, ma, anche solo nel guardarli, sarebbe stato ovvio anche per un cieco realizzare che Adda e Garlio appartenevano a mondi diversi. A specie diverse.
Garlio non era un Mani Morbide, ma doveva essere un figlio del Destino – senza dubbio alcuno – perché era bello, in una maniera netta, quasi estraniante. Un uomo benedetto, così lo aveva chiamato il parroco, prima della Danza degli Strozzati, confuso e sconvolto da una tale eresia; che un uomo di quel calibro si fosse dedicato a tali immorali compagnie.
 La carne di Garlio tendeva a colore che somigliava al bronzo dorato, di chi era baciato dal sole senza lo schiaffo del rossore o di una pelle troppo cotta, i capelli erano lucidi e corvini, come le notti buie, dritti come lame, senza nodi e confusioni, nonostante la loro vita. Scendeva il crino su un viso definito, preciso, bello da spezzare il fiato, arrivavano fino alle spalle ampie, spesse, fatte per sorreggere il mondo. Aveva degli occhi incredibili, nocciola, ma intensi, che sotto i raggi del sole, ricordavano il colore caldo dei campi di messi.
Adda non poteva dire che fossero i più belli che avesse mai visto – perché si era confrontata più di quanto ci si potesse immaginare con i figli benedetti di Dio – ma erano certamente i più intesi; da scaldarle le gote, appena li trovava scivolare su di lei.
Garlio diceva fiero di non essere un diglio del Destino, rifiutando anche solo di considerare l’esistenza di tale ruolo, di tale simbolo. Non poteva essere provato che lo fosse, come non lo fosse, d’altronde, oltre la bellezza divina, erano i fiori che segnavano i corpi a rivelare la natura di un uomo.
I figli del Destino avevano fiori perfetti, splendidi, realistici, colmi di colori, così unici da mancare quasi agli uomini la possibilità di esplicitarli, bellissimi (dipinti dalla mano del più fine dei creatori: Dio-di-ogni-cosa-buona in persona) e Garlio, come tutti i volontaristi, aveva sul cuore i segni della Mancanza.
Dove Adda aveva un un reticolato di tagli mutili, l’uomo aveva nascosto la sua pelle distrutta sotto il nero dell’inchiostro, con il monogramma degli Svincolati – il suo segno.
A volte Adda sentiva la distanza tra loro fermarsi anche per quello, dove loro si definivano liberi, svicolati, autodeterminati, lei continuava a pensarli: volontisti e principienti.

“Adda” l’aveva richiamato Garlio, con la sua voce gutturale. “Ho avuto un incubo” aveva risposto alla fine lei, nervosa, crollando sulle ginocchia, senza grazia, di fronte a lui. L’uomo aveva contratto il naso ed Adda era stata certa avesse respirato il fetore della bile nel suo fiato, un nervoso imbarazzo le era infiammato sul viso. Garlio non aveva commentato nulla e monocorde aveva chiesto: “Cosa hai sognato?”, non nel tono, ma negli occhi nocciola era fiorito un certo interesse. Le aveva scaldato le cure.
Adda si era accorta che tra le mani dell’uomo c’era un libriccino rivestito in cuoio, con le pagine gialle di pergamena, troppo costoso ed elegante per le loro finanze – forse rubato – ma ben curato. Non era la prima volta che lo vedeva, Garlio lo aveva sempre con se e curava ogni pagina con disegni e scritture fine e sottili, trasformando il giallo delle pagine in nero. Per Adda i disegni e gli scritti non vi era alcuna differenza, tutti gli scarabocchi avevano uguale valore. Conosceva il significato di alcune lettere, di alcune parole, riconosceva il suo nome, conteneva due lettere, infondo, e per tale ragione riconosceva dove fossero nelle parole, ma non andava mai al di là di quello. Non era strano, erano tanti coloro che non sapevano leggere, era decisamente più bizzarro che Garlio potesse farlo – a volte, Adda aveva sospettato fosse un Mani Morbide prima della mutilazione, ma se lo confrontava ad altri, come Iren, non poteva che sembrargli più distante – ed una volta era stata tentata di chiedere se potesse insegnarle. Una volta sola e la tentazione era stata sepolta presto. Non avrebbe sopportato di essere vista così vulnerabile, neanche da lui.
“Sei assente questa mattina” l’aveva stuzzicata ancora Garlio, questa volta il suo tono, aveva nascosto una dolcezza piccante. Adda aveva piegato le labbra in un sorriso imbarazzato, “Era più un ricordo che un incubo” aveva ammesso, addossando alla sua notte il suo spaesamento e non al veleno che le feriva l’anima.
“Quando avevo ventinove Sorelle, la Corda ha messo a ferro e fuoco le città del Peccato” aveva esordito, riconoscendo l’inutilità di quella premessa. Adda era viva e lontana e lo ricordava, anche Garlio doveva ricordarlo, tutti lo conoscevano. Anche chi era ancora abbastanza giovane per non ricordarlo – come Ampie – lo conosceva.
Una macchia sanguinate del Pregiatissimo Impero.
“Lo so” aveva sibilato lui, con un tono così gelido e gli occhi nocciola pieni di furore, “Lo ricordo. La più gelida Sorella Fredda delle ultime cinquanta Sorelle. L’Epurazione l’hanno chiamata, perché massacro suonava di cattivo gusto” aveva aggiunto cupo. Quando era successo, Garlio doveva aver avuto sulla quarantina di Sorelle, forse qualche decimana in più; l’uomo stesso si era dichiarato ignorante sulla sua nascita.
Adda aveva deglutito in quel tono così algido, “Sì, immaginavo” aveva detto voce, per spazzare quel silenzio acre, “Sir Moria Ramberra” aveva ricordato, con gli occhi più cattivi che Adda avesse mai visto. Aveva avuto un fremito nel pensare al cavaliere, non solo di terrore e sconforto, ma perché le era impossibile, anche quando riversava impropri sull’Uomo, senza che nei suoi occhi balenasse il sorriso nervoso di Saiji. “Il Generale” aveva macinato a mezza bocca Garlio, “Be, non all’ora” aveva commentato soffocata lei, “All’ora era solo il figlio secondogenito, troppo zelante, del duca con una coorte di due cento uomini” aveva considerato lei, ricordando le chiacchiere dei nobili, quando curva e china lavorava.
Moria soffre della Malattia del Secondo Figlio, sente il bisogno di dover dimostrare di essere degno di suo fratello. Per Adda non poteva essere solo così.
“E invece, sentilo ora, a malapena la gente ricorda che il duca di Querce Grandi avesse un altro figlio, oltre lo scintillante Generale della Corda Spinata. Il più pio e devoto tra gli uomini” aveva ricordato con rabbia Garlio, il suo viso sempre così calmo, contratto in una maschera di rabbia e rancore. “Il duca Iseo ha sposato un membro della famiglia reale, eppure quando si parla dei Ramberra è solo al suo fratellino che si pensa, Sir Moria lo Scintillante Generale” aveva considerato Garlio poi.
Adda non si era aspettato una conoscenza delle famiglie nobiliari dal suo amante, spesso e volentieri, la gente viveva per anni sotto un signore senza aver chiaro né chi fosse né da dove venisse, finché era lui a tenere il giogo. Ma Garlio era furbo e Moira Ramberra era pericoloso.
 “Vivevo al Giardino, in quelle sorelle” aveva detto Adda, che era una menzogna ed una verità allo stesso tempo, “E la Corda, quei fottuti stronzi malati, portarono dalle Città carovane piene di bambini, per rieducarli ai Dettami del Destino e … renderli pecore” aveva detto, piena di vergogna e tremori.
Saiji, ancora Saiji, nella sua mente, il cui viso insofferente si faceva vacuo davanti al ricordo dei Giorni del Peccato.
Lo avevano voluto rifoggiare come metallo in una fucina, ma erano stati armaioli mediocri ed avevano creato una creatura ibrida, incerta, senza posto.
Garlio aveva contratto il pugno sul taccuino, le sue gote si erano fatte bianche come la neve delle terre del sussurro. Non sapeva nulla di Garlio, era stato anche lui un bambino rieducato?
In qualche modo, Adda non lo riteneva plausibile. Dietro la sua maschera di compostezza e carisma, c’era rabbia e furore, di chi aveva provato sulla pelle il dolore di aver perduto tanto, di aver perduto tutto; ma quei bambini erano come Saiji, non c’era fuoco nei suoi occhi, solo braci.
Dove un tempo c’era vita, ora c’è cenere.
Ed Ampie era troppo giovane, perché i suoi genitori potessero averlo messo al mondo, se vivevano nelle Città del Peccato.
“E … una strega. Sir Moria aveva fatto passare a fil di spada tutti gli adulti, uomini e donne senza eccezione” aveva ammesso. Chiunque avesse a malapena più di cinquanta sorelle – o giù di lì – era stato ucciso, così aveva raccontato ad Adda la sua signora, con uno scintillio negli occhi a metà tra il terrorizzato e l’ammirato. “Però avevano riportato viva, se così poteva dirsi, questa donna, questa strega” aveva confidato Adda.

“Volevano un esempio” aveva proposto Garlio, ricordando la compostezza del suo animo. “Non so davvero. Avevano ucciso tutti, bruciato le tende, salato la terra e quasi distrutto i ruderi delle antiche città Floride. Forse sì, non lo so. Ma perché proprio lei, tra tutti, mi sono sempre chiesta” aveva detto e nel farlo si era toccata il cuore, dove un tempo c’era il suo fiore, dove ora fioriva il deserto.
Non poteva più ripensare, ormai, alla donna, senza immaginare lei stessa, nuda e scinta, legata in quella piazza. Esposta al ludibrio, all’odio e allo scherno dei suoi cittadini.
E poi un pensiero più subdolo ed invadente, che spesso faticava a soffocare, immaginava Saiji e Iren, e non Garlio e i suoi fratelli-compagni, fronteggiare schiere di cordati e ogni uomo, donna, carico di furore, per salvarla. E tacita, piena di vergogna e rimpianto, anche se per un battito di ciglia, continuava a pensare a quei due volti, quando la parola compagni fioriva nella sua mente, ma Iren e Saiji erano un ricordo di tante lune prima, dolce e doloroso, ma solo quello.

“Quindi, hai sognato questa strega?” aveva chiesto con gentilezza Garlio, ma prima che Adda potesse rispondere articolando per bene i suoi incubi. Quel ricordo, come vedeva sé stessa, senza essere del tutto certa di cosa avrebbe dovuto dire, erano stati interrotti.
Un mugolio appena, per attirare la loro attenzione. Gli occhi di Garlio avevano scavalcato Adda veloci come una lepre e lei aveva voltato il capo, spiando con la coda dell’occhio l’avventore.
Era Mathea, una ragazzina con quaranta sorelle a malapena sulle gambe secche come rametti. Era una bambina sbagliata come Adda, con il viso leggermente asimmetrico, il naso come un becco e i capelli spessi che scendevano a ciocche sulle spalle, fino al petto dritto – bisognosi di un taglio. Aveva occhi grandi di un nero d’onice, al cui la pupilla si distingueva poco o nulla dall’iride. Al posto della gonna lunga, ne portava una stracciata, che scopriva le cosce magre e le gambe, le era più comodo per correre. Mathea era veloce come il vento, scattante coma una cerva. Quando Adda l’aveva vista correre, era rimasta esterrefatta, così come quando l’aveva vista muoversi nella foresta come uno spirito errante dei boschi, spigliate e leggera, figlia degli alberi anziché degli uomini.
Garlio e tutti gli altri avevano scherzato che con la leggerezza che aveva, era l’aria stessa a spingerla. Mathea dell’Aria Leggera l’avevano chiamata, come la protagonista di una qualche canzone. E ricordava il sorriso grande che si era aperto sul viso della ragazzina, però, in quella mattina di Rigogliosa
, Mathea non stava sorridendo. Il suo viso era piegato in un’espressione preoccupata, le sue spalle rigide ed il suo portamento oscillante, continuando a ballare da un tallone all’altro.

“Cosa succede, Mathi?” aveva chiesto Garlio con un tono piatto, senza tradire emozione, ricomponendo quell’espressione austera che preferiva sfoggiare, Adda le aveva sorriso incoraggiante. Si era sforzata nel corso dei Cicli di essere materna con Mathea, con Ampie, con tutti gli altri orfani cercatori di famiglia, ma non era mai stato nelle sue corde.
Adda aveva cercato di ricomporsi ed arrestare il suo dondolare, “Dei soldati si stanno avvicinando. Nerf li ha visti” aveva raccontato subito, veloce, “Una cinquantina di uomini” aveva aggiunto, senza dar loro la possibilità di commentare la notizia.
La notizia non era stata data nel privato, anche se erano riparati dalla posizione del presbiterio, la voce di Mathea non era stata sottile. D’altronde, non vi era dubbio che se quel luogo fosse quello da cui l’uomo impiccato aveva recitato i suoi sermoni, sarebbe per ogni orecchio della pieve.
“Forse il Margravio di Catalpe Eterne si è accorto di noi” aveva scherzato un uomo, a quel commento Indicio, un altro buon volontista, aveva sputato per terra, “Pecora! Pecora!” aveva gridato Allina, “Che venga quel Manimorbide faremo provare quante è buona la carne di una pecora cotta nel rame” aveva dichiarato sprezzato Uvino, tirandosi in piedi; alto come una montagna e duro come il ferro, floriano, ghaadiano e qualcos’altro ancora. E non vi era incertezza nella sua voce.
“Per le tette dell’imperatrice, spero non siamo arrivati anche al cannibalismo” aveva scherzato forzatamente Adda, pensando a con che gioia avrebbero aggiunto anche quell’orrido crimine di cui accusarli. In realtà era quasi stupita che non gli avessero già accusati di quello.
“Cinquanta uomini non sono molto per noi Uvino, caro, ma cinquanta soldati sì” era intervenuto Delisio con la sua lingua di miele e quel tono divertito, in ogni situazione, anche la più inadatta. Adda lo amava e lo odiava insieme, nella maniera meno sincera che riuscisse a pensare. Era un vecchio amico di Garlio – così a loro detta – avevano diviso spade, cibo e scudi. Però, come Adda, era un bimbo sbagliato; portava i segni della sua corruzione nella sua pelle butterata, nelle orecchie ampie e vistose, così come le spalle disallineate, che lo conducevano ad un dolore cronico, come diceva sempre.
Perché seguire un dio che non mi ha voluto?
Ma aveva una lingua di miele, che Adda adorava ascoltare, sia quando recitava poesie sia quando raccontava sconcezze ed anche quando pungeva lo spirito con verità scomode.

Uvino aveva risposto a tono che lui da solo poteva sconfiggere anche dieci pecore ben armate, ma la sua voce per quanto altisonante e pesante era stata inghiottita da Garlio, dal suo tono calmo e misurato. “Quale Fiore sventolava sulle loro insegne? La rosa canina?” aveva domandato. Tutti gli occhi erano stati su Mathea, che in quel momento si era fatta di nuovo piccola, quando si era alzato il vociare della sua notizia. Adda si era morsa un labbro, timorosa di apprendere quella notizia; che non sia né un giglio, ne un papavero, aveva sperato. Un tempo aveva cercato di imparare tutti i fiori che svettavano sugli stendardi, almeno delle famiglie maggiori – conti, baroni, margravi e duchi – e non lo aveva fatto per evitare magre figure, perché saperlo avrebbe potuto fare differenza tra la gogna o no.
Aveva sentito brividi lungo la sua schiena malmenata, a quel ricordo.
Aveva imparato poi a chinare gli occhi, ad incurvarsi, senza preoccuparsi di chi le era di fronte, che fosse il più nobile degli uomini o che fosse un suo pari.
E non era mai stata più grata a qualcuno di Garlio, perché le aveva insegnato a guardare l’orizzonte e tenere la schiena dritta.
Fa che non sia né un giglio, né un papavero e, soprattutto, non sia la Corda – aveva ripetuto ancora, perché una principiente non poteva pregare alcunché.

Mathea aveva oscillato ancora da un piede all’altro, piena di timore, “Ne-nessun fiore” aveva confidato, colma di incertezza, “Marciano sotto lo stendardo di una Volpe.”

Oh! Un terribile ricordo aveva punto la mente di Adda.

Non aveva senso.
“I Mani morbidi usano i fiori di merda, come tutto. Dicono è il cazzo di volere di Dio in persona” aveva considerato Uvogino,
Ferriani.
“I Lupi d’Armi usano i volti delle Sante – nessuno sa il cazzo di perchè” aveva ammesso Allina, invece, incrociando le braccia sotto il petto, incerta.
Ferriani.
“I Ghaadiani?”

“No, no, loro sono ancora più altezzosi dei nostri nobili, solo fiere mitiche”.
Ferriani.
“I cavalieri Erranti?”, “Chi quelli? No, no, hanno bandiere a tinta unica. Verdi, gialli e altri così”.
Ferriani.
“E i fiumani? No. Nessun uomo del fiume che si rispetti indossa un vessillo. Sono come noi, loro, si dicono tutti figli uguali e che nessuno dovrebbe appartenere a null’altra cosa che l’umanità intera”
Ferriani!
C’era stata una cacofonia a non finire per tutta la stanza, dove ognuno aveva urlato qualcosa, il suo parere.
“La Lega di Ferro usa gli animali” aveva strillato Adda, soffocando il resto del vociare.
Nella Repubblica di Colemin, una famiglia ha come segno di riconoscimento un passerotto, riesce a immagine una cosa più insulsa?
Ricordava ancora la voce divertita e piena di scherno della sua signora Canadea.
Adoraoro” aveva commentato sprezzante Garlio, con gli occhi sottili e preoccupati. Non aveva cercato lo sguardo di Adda, ma quello di Delisio, “Ferriani, qui? Nell’entroterra dell’Impero?” aveva chiesto confuso l’amico di rimando, cercando, invece, il suo di consiglio. Adda non aveva studiato così affondo la geografia da sapere esattamente dove fossero le città di Ferro, dove fossero rispetto a loro. A malapena riusciva a leggerla una mappa, a riconoscere i fiumi e le coste.
Aveva alzato le spalle, ma aveva taciuto l’unica verità che conosceva bene.
Peripsia, aveva pensato Adda senza avere il coraggio di pronunciarla.
Almeno non erano la Corda Spinata.

 

 

Փ

 

 

 

 

Visto che siamo al secondo capitolo un po’ di contesto:

Il mondo del Pregiatissimo Impero scandisce in giorni in decimane (10 giorni):

                      Unluna

                      Dilune

                      Trilune

                      Qualune

                      Quinlune

                      Silune

                      Selune

                      Ottolune

                      Novilune

                      Decilune

In realtà il loro modo di contare il tempo è veramente aberrante (non solo con la nomeclatura Sorella, ma avrò modo di fare un file apposito – e di spiegare qualcosa nel testo).

Allungo ancora le note per lasciare un po’ di Dizionario (che riproporrò nel corso del tempo, ogni volta che sarà aggiornato, al momento il dizionario è un po’ più “avanti” della storia in quanto termini, ma insomma, è sempre utile).

Adoraoro/Veneraoro: Modo dispregiativo di rivolgersi ad un ferriano, in riferimento al loro commercio.

Anime Condivise: due persone che hanno i fiori gemelli sul petto

Bimbo Benedetto: un altro modo per riferirsi al Fiore del Destino

Bimbo Sbagliato: una persona nata dall’unione di due persone che non sono Anime Condivise

Boghiani: sono un’altra popolazione che abitava i territori del Pregiatissimo Impero, anche prima della nascita del Florido Impero. La loro zona era nel sud ed occupavano quella che, oggi, è la regione dell’aranceto. La loro discendenza è quasi del tutto scomparsa, riconoscendosi in capelli riccioluti ed occhi sul verde (diversi dal chiarore dei sussurranti e dei ghaadiani) in una maniera particolare.

Cagliato: un dispregiativo usato per parlare di ghaadiani, in riferimento ai loro colori pallidi come il latte.

Città del Peccato: modo dispregiativo per riferirsi a delle città “indipendenti” che erano abitate dagli eretici prima dell’Epurazione. Sorgono su territorio imperiale ma non ne fanno parte. In realtà erano tendopoli costruite tra le rovine del Florido Impero.

Corda Di Spine: il corpo d’élite dell’esercito Imperiale.

Cyristi: Una popolazione che abitava il Pregiatissimo Impero prima della sua fondazione, sorta con la caduta del Florido Impero. I discendendi hanno nasi nasi più adunchi e corpi più longilinei (occupano la parte est dell’impero (Caris, Shinora e Zegros – sebbene quest’ultimo soffra di albinismo – ne hanno sangue).

Don: titolo daito ai nobil uomini ferriani. Di norma si riferisce ad IL DON come il capo della famiglia.

Eos: luogo al di là del mare, rispetto Istan. Glie Eosiani hanno più scure dei floriani.

Ferriano/i (Ferriana/e): abitanti della lega di ferro (con questo termine si riferisce a loro in maniera generale).

Figlio de Destino: una persona nata dall’unione di due persone che sono Anime Condivise

Fiore del Destino: simbolo di riconoscimento donato dal Destino

Florido Impero (di Istan): era l’Impero che esisteva nel territorio del Pregiatissimo Impero prima di quest’ultimo, occupava anche una parte della Lega di Ferro e un po’ della Ghaadia.

Freor: fratello in eosiano. Spesso eosiani fuori dalla loro terra si chiamano così.

Gente-di-albume: persone albine o albinoidi; non godono di una buona reputazione. Chiamati tal volta anche “Gli Incomclusi”.

Ghaadia (o Ghatia): un principato vicino Istan, stato clientelare dell’Impero

Ghaadiano è l’abitante di Ghaadia, originari del Principato.

Il Dio-delle-cose-buone/Dio-di-ogni-cosa-buona: il signore immortale e spirituale del mondo

Il Giusto Sentiero o il Sentiero Prescritto: il modo a cui ci si riferisce alla religione legata al Destino

Il Principio (o anche Il Principio-del-male): L’Antitesi del Dio-delle-cose-buone

Inconclusi: termine poco gradevole per riferirsi a persone albine o albinoidi

Istiani: era una popolazione che occupava il territorio del Pregiatissimo Impero (e sono stati il popolo che ha creato il florido impero) e sono gli ascendenti della maggior parte della popolazione dell’Impero dei Fiori. Hanno una pelle olivigna, colori scuri di occhi e capelli (Adda, Garlio lo sono)

It: un membro del clero Ghaadiano maschile

Kartiss: una terra al di là del mare. Gli abitanti hanno carnagioni molto scure. Diverse dalle Eosiane.

Latte d’Uccello: è una bevanda allucinogena che esiste nell’Impero. Provoca un sentimento poi di euforia ed in seguito di intorpidimento; può creare dipendenza.

Lega di Ferro: Fronte Unito di Città Stato a confine sud con l’Impero. Le città della Lega di Ferro hanno diverse forme di governo. Esistono oltre venti città appartenenti alla Lega. Anche se esistono singole entità, generalmente gli abitati della lega sono chiamati Ferriani. Ogni tanto ci si rivolge alla Lega di Ferro con il solo appellativo di Lega.

Liberismo: un credo, più un codice civile, che predica come tutti gli uomini nascano uguali e che i fiori siano un consiglio e non un dogma. Il liberismo non condanna del tutto il Giusto Sentiero

Lontano-dalla-perfezione: un bimbo sbagliato particolarmente “brutto”

Lupo/a d’Arme: mercenario/a

Lupo/a di Baci: Prostituta/o

Manimorbide (o Mani Morbide): è un gergo basso con cui la gente comune si rivolge ai nobili

Marra: Mamma in eosiano

Melanzana: un modo razzista e pregiudizievole di appellare eosiani (e kartissiani)

Monna: Titolo dato alle nobildonne Ferriane

Orco-Blu: mostro mitologico, con cui si fa riferimento come paragone per i cattivi mariti

Ordine della Spiga: ordine cavalleresco, al momento sospeso, del Pregiatissimo Impero.

Parole Cortesi: una tradizione che vede giovani cavalieri si cimentino in epigrammi amori (per lo più senza veri secondi fini) verso donne inarrivabili. Devono per regola essere composti almeno in rima, anche se non sono comprese altre regole di lavoro e devono essere brevi.

Peripsia: una città Ferriana, considerata una roccaforte imprendibile, viene chiamata anche con l’appellativo della Bestia Bicefala (essendo una Diarchia, sostenuta da due Famiglie) e l’Inviolabile, perché 23 eserciti nel corso dei secoli hanno tentato di prenderla.

Pregiatissimo Impero dei Fiori: il Luogo (e la penisola) in cui avviene la maggior-parte della vicenda. Nonostante la titolatura imperiale, l’Impero dei Fiori è conformato come un regno che un vero e proprio impero (diviso in regioni amministrate da signori). Prende il suo nome dal Florido Impero, che antecedentemente occupava il territorio del Pregiatissimo Impero, della Lega di Ferro e della Ghaadia. Il pregiatissimo Impero si ritiene il suo diretto successore ed erede legittimo. L’Impero è composto da terre fertili, nel sud, lussureggianti e ricche e terre impervie nel nord.
Ogni regione viene chiamata come a motivo arboreo, ogni città floreale e castello botanico. La regione dove è presente la Capitale è chiamata il Giardino. I suoi cittadini sono chiamati fioriani e sono di etnie leggermente diverse (olivastri e molto chiari)

Principienti: usato a volte come sinonimo dispregiativo di eretici, con cui ci si riferisce a Liberisti e Volontaristi. Sono persone che adorano il Principio (o meglio che vengono accusati di farlo).

Sarra: sorella in eosiano. Spesso gli Eos fuori dalla loro terra si chiamavano così anche se non hanno sangue in comune.

Sdregolamento: il momento in cui il latte d’uccello abbandona il corpo e lascia la persona bisognosa di averne altro, provocando una follia irrazionale.

Semi-Cupo: mostro del folklore del Pregiatissimo Impero.

Sette Cerchi: è un modo di dire eosiano.

Sorella: arco temporale di novanta giorni, con cui si conta il tempo. Le sorelle sono quattro: Pallida, Fredda, Rigogliosa e Vivace (ogni sorella dura novanta giorni, divisa in tre cicli da 30, legati al ciclo lunare, a sua volta divisi in decimane in base alle fasi)

Sussurriani /Sussurranti/ Gli uomini del Sussurro: abitanti delle Terre del Sussurro.

Svincolati: un modo in cui gli eretici si rivolgono a se stessi, poiché non sono legati a vincoli del destino.

Taglio della vedova: è una particolare tipo di capigliatura femminile che viene portata dalle donne quando rimangono vedove, che consiste nel portare i capelli corti fino alle spalle (spesso anche in tagli impari). Spesso viene utilizzato anche da donne che vogliono esprimere il proprio lutto a prescindere da chi sia il morto.

Te: un membro del clero Ghaadiano femminile

Terre del Sussurro: terre a nord dell’impero, dietro le montagne. Hanno questo nome per i suoni dell’aurora.

Tulpee: Erano una popolazione che abitava il territorio del Pregiatissimo impero, prima, dopo e durante il Florido Impero. Nonostante non esistano più, i loro discendenti sono facilmente riconoscibili da capelli rossi e carnagioni più chiare, sono geograficamente mischiati con i ghaadiani, trovandosi più persone di quel genere.

Vicono-alla-perfezione/ Non-lontano-dalla-perfezione: un bimbo sbagliato particolarmente attraente, cui i nonni erano anime destinati o famigliari erano “vicini” alla propria anima destinata.

Vistalunga: il dono della precognizione.

Volontairsmo: un credo simile al liberismo ma molto più aggressivo, che nega del tutto il giusto sentiero

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Capitolo 6
*** PARTE PRIMA; TIOLO I; CAPITOLO III ***


Questo capitolo è piuttosto inutile, serve per contestualizzare un po’ le cose e fare name dropping, circa. Ne volevo fare di più. Comunque, penso che domani o dopo domani pubblicherò un capitolo più corposo.

 

 

P A R T E   P R I M A

L ‘ I N V I O L A B I L E

T I T O L O   I

I   G I O C A T O R I

C A P I T O L O   I I I

C O M E   T V   H A I    V C C I S O   M E

 

Non erano riusciti ad arrivare alla città nel tempo che Saiji aveva prognosticato – d’altronde la precisione apparteneva solamente ai morti.
Erano a malapena usciti dalla Macchia e non avevano ancora abbandonato le terre del ducato di Antiche Sequoie, quando Iren era caduto da cavallo.
Aveva perso la presa sulle redini della sua cavalla cremello ed era scivolato giù dalla sella privo di sensi. Saiji non era un uomo credente, ma si era ritrovato a dover ringraziare qualche forza superiore perché Iren nella caduta non avesse urtato la testa.
Alla fine la resistenza e la testardaggine del suo amico, avevano avuto la peggio contro il dolore del Latte d’Uccello.
Saiji sapeva ciò che sarebbe avvenuto: prima la spossatezza, guidata dagli ultimi residui del latto che abbandonavano le carni, poi ci sarebbero state le convulsioni, le scosse e, per tutti i fiori del creato, Saiji non aveva idea di cosa avrebbe fatto.
Avevano dormito sotto le stelle una notte. Saiji aveva avvolto un Iren a malapena cosciente in tutti i vestiti che era riuscito a trovare.  La sua pelle era sudata, ma ancora fredda, la febbre non era salita, ma Saiji sapeva sarebbe successo.
Aveva dannatamente bisogno di trovare altro Latte di Uccello o non avrebbe avuto Iren su cui contare. Non avrebbe avuto Iren in generale. Ed anche se non l’avrebbe mai ammesso, probabilmente neanche legato ad essiccare, non era sicuro avrebbe potuto sopravvivere senza quel fastidioso Manimorbide tra i piedi.
Per i sette cerchi, Marra, dagli la temperanza” aveva sussurrato, accarezzando delicatamente con le nocche la guancia del suo amico, “Perché solo il Principio sa quanto ne abbia bisogno lui” … ed io.

Erano ancora tragicamente lontani dal Dironte, un fiume d’acqua limpida, che nasceva come diffluente del Serpente – il più grande ed impietoso fiume dell’Impero – attraversava una bella porzione del contado di Liriodendri Antichi, in particolare la ricchissima città di Azalea.
Sperava avrebbe avuto la fortuna di incontrare le Isole-Vaganti dei Fiumani. Se non avessero avuto Latte di Uccello, ci sarebbero state alte possibilità che avessero tisane o foglie essiccate di piccolo calamo. Inoltre, dopo i tre giorni nella Macchia a Saiji non dispiaceva l’idea di godersi da bere qualcosa di diverso dell’acqua stantia nei fustelli o succhiare le gocce di rugiada dalle foglie.
Saiji ricordava uno stordente liquore di un verde vibrante come il veleno prodotto degli abitanti dei Fiumi. Lo aveva bevuto, in compagnia di Moria una volta, e ricordava a malapena quel che era successo dopo.
Si può dire il peggio di quei semi-uomini ma di sicuro su questo sanno il fatto loro” ricordava la voce sbavata del cavaliere.
Il grande, terribile e sempre irreprensibile Moria con gli occhi lucide e la voce pastosa, uno spettacolo raro.
Oh, Principio! – Saiji, in una parte meno orgogliosa di se, sarebbe piaciuto aggregarsi a loro, attraversare il Serpente su una delle loro case-chiatte delle Isole-Vaganti e attraversare l’Impero e le città ferriane, fino al mare, giù a sud e poi anche l’Ampia Distesa, fino ad Eos, la fumosa terra dei racconti di sua madre – che esisteva solo nei ricordi dei racconti di una bambina nata fin troppo lontana dalle sue terre. Saiji non era più eosiano di quanto lo fosse stata sua madre.
Non era neanche Ghaadiano.
A lui piaceva considerarsi Fioriano, cittadino dell’Impero, anche se era nato nelle terre del peccato.

 

“A-Ad-d-da” lo aveva chiamato Iren, anche se non era a lui che aveva rivolto quell’appello. “Sicuramente sarebbe più capace di me” aveva sospirato Saiji che l’ultima cosa che aveva voluto in quel momento era piangersi addosso mentre il suo compagno era in uno stato di tale cachessia.
La freddezza del suo corpo si era fatta ancora più pregnante, come le acque ghiacciate dei laghi al nord ed il sudore non era migliorato. “Per il le gonadi di Santo Mycelle, manca da morire anche a me – non glielo dire quando la rivedremo” aveva aggiunto.
Era curioso di Adda, quanto doveva essere cambiata in tutte quelle sorelle?
Presto, presto, si augurava.
“Acqua” aveva raschiato Iren, la sua voce era dura, come se avesse mangiato la sabbia del deserto eosiano. Saiji aveva aiutato a sollevarsi un po’ con la schiena, perché non soffocasse ed aveva allungato il resto della sua borraccia, dove aveva continuato a centellinare l’acqua.
Iren l’aveva presa a pochi sorsi, non aveva mangiato in quasi tutta la giornata, quando ci aveva provato all’ora del desco, aveva rigurgitato tutto ciò che aveva ingurgitato.
Saiji non sapeva cosa fare, ricordava quando era spossato dalle febbri, Meline, una delle cameriere dei Ramberra, dargli fette di pane bagnato spolverate di miele.
Ma oltre questo, Saiji non aveva idee: non era un guaritore né mai aveva studiato per esserlo – al massimo sapeva cauterizzare una ferita.
“Vuoi che ti umetti la fronte?” aveva domandato Saiji incerto, continuando ad accarezzare i capelli oleosi di Iren, “No. Acqua” era riuscito ad articolare Iren, recuperando un po’ di forza. “Pensi di riuscire a mangiare qualcosa?” aveva chiesto lui, dopo un sospiro. Il suo amico aveva schiuso le labbra, come se avesse avuto bisogno di pensarci più del dovuto, “Preferirei il Latte” aveva dichiarato.
“Solo formaggio alle erbe” aveva risposto Saiji, anche se sapeva bene che il Latte che Iren voleva era di natura diversa da quella che aveva deciso di intendere lui. Il suo amico aveva sorriso, con le punte aguzze tremolanti, prima che quel suono dolce diventasse una tosse.
“Quanto … pensi … abbandonarmi?” aveva chiesto Iren con voce rauca, “Oh, non tentarmi Manimorbide” aveva replicato fintamente divertito Saiji. Avrebbe voluto pensare che tempo prima sarebbe stato capacissimo di abbandonare Iren al suo destino, ma sarebbe stata una menzogna.
Prima dell’affetto, c’era l’onore.
C’era il dovere.
Cos’era un uomo come lui senza il suo dovere?
“Io … farei” aveva provato Iren. Saiji aveva ridacchiato, “Ah certamente, Manimorbide. Per morire di dissenteria perché hai dimenticato di bollire l’acqua” aveva aggiunto lui. Sapeva che Iren non lo avrebbe abbandonato, comunque.
Iren aveva sorriso stanco, “Adesso riposa, che domani dovremmo ripartire e non voglio legarti alla sella di Adda[1]” aveva detto. Iren era stato incantato da quelle parole ed aveva deciso di assecondarlo, chiudendo gli occhi e lasciandosi trasportare da un sogno agitato.
Saiji aveva sospirato.

 

Lui stava consumando delle strisce di carne di maiale essiccata, il sole era già tramontato quando Iren era tornato nel mondo dei viventi.
“Mi … racconti … altro su tua … madre?” aveva domandato Iren. La sua voce sembrava provenire da un luogo lontano e non da lui, così tremendamente rauca da sembrare quasi ustionata dall’interno. Saiji aveva sospirato, stanco, “Cos’è tutto questo interesse per la mia marra?” aveva chiesto retorico, anche se lo sapeva bene. “Non parli mai di … te” aveva considerato Iren.
Saiji aveva sbuffato, “Cosa dovrei dire di me? Sono un cavaliere rinnegato che ha fallito. E questo lo sai già …” aveva risposto stanco. Gli occhi neri e lucidi di Iren erano rimasti su di lui, così alla fine Saiji aveva ceduto. “La mia marra era eosiana – ma come me, non ha mai messo piede in quella terra” aveva raccontato alla fine, “Diceva, però, che guardare il cielo la faceva sentire vicina a casa, anche se lungi da me sapere cosa intendesse con quel luogo” aveva ammesso. “Pensavo che casa fosse il luogo in cui vivevamo” aveva aggiunto Saiji, con un tono di voce così basso, come un sussurro, che difficilmente Iren aveva potuto sentirlo.
 “Il cielo copre il mondo come una coperta” aveva commentato Iren, che aveva tirato su il busto, puntando i gomiti, con fatica, “Circa” aveva concesso Saiji. “Lo diceva tua madre?” aveva chiesto poi. La Puttana di Chretyen, era ghaadiana, da lei che Iren aveva ereditato la sua pelle d’avorio, forse come la sua marra anche lei soffriva la mancanza di casa. Forse anche lei, si sedeva alla finestra e guardava la volta stellata in contemplazione. “No”, aveva risposto Iren, la sua voce era pregna di tristezza.
Lui era rimasto in silenzio, consapevole che il suo amico avesse dovuto dire altro, ma non lo aveva fatto alla fine – cosa che non aveva stupito Saiji.
“Tuo fratello?” lo aveva chiesto, alla fine, sebbene fosse incerto – non voleva cedere in quel patema d’animo.
Non aveva bisogno di spiegare a quale fratello faceva riferimento. Iren si era lasciato cadere di nuovo sull’erba umida, “Ricchi, liberi, schiavi, voluti e sbagliati, il cielo è una coperta che ci copre tutti” aveva detto Iren, con una voce umida e nostalgica.
“Non lo vedo per nulla, tuo fratello a dirlo” aveva ammesso Saiji con un sorriso appena accennato.
Non credeva neanche l’uomo capace di formulare un pensiero del genere, lo ricordava ancora con quell’espressione superba, il sorriso cattivo, meno perfetto di Iren, ma ugualmente un maniborbide, che vedeva in Saiji nulla più di un mezzo-eosiano. Iren aveva scosso il capo, “Voleva fare bella figura alle Parole Cortesi ma come poeta era proprio una merda” aveva raccontato con un accenno di cattiveria sul viso, “Una volta ne ha scritta anche una per me” aveva ammesso.
“Di solito non si scrivono alle fanciulle?” aveva chiesto retorico Saiji, ricordando le sue orride rime baciate che era stato costretto ad esibire davanti le impalcature e i tendaggi. “Era un coglione” aveva gracchiato Iren.
“Come la ha intitolato: al mio adorato fratellino?” aveva provato poi Saiji. “Al mio mezzo-scemo mezzo-fratello” lo aveva corretto Iren.
“Questo è decisamente da lui” aveva concesso Saiji.
“Per il Principio, Saiji, tu non hai idea quanto io abbia provato a farmi amare da lui” c’era una portentosa disperazione in quella voce fiaccata.
Saiji era rimasto muto, era un tipo di dolore che non riusciva a comprendere, non aveva mai avuto un fratello, avrebbe dovuto averne uno, ma il destino non aveva così voluto. “Io ho fatto lo stesso con Moria” aveva ammesso. Non credeva fosse lo stesso, non avrebbe mai potuto essere lo stesso, ma doveva essere la sensazione più vicina a cui Saiji potesse aspirare. La menzione del nome del cavaliere aveva indispettito Iren. Le sue labbra si erano fatte dritte e chiuse come un taglio, erano già pallide e screziate, ferite.
Si era formato un silenzio così spesso e pesante da poter essere respirato, “Mio padre non aveva una visione così romantica del cielo. Aveva questa teoria sul fatto che il cielo non era uguale da tutte le parti, cambia, come cambia la terra” aveva dichiarato Saiji incerto.
Iren aveva mugugnato qualcosa, “Era uno studioso” aveva spiegato poi, sembrava strano parlare di suo padre, lo vedeva come figura lungamente più distante di quanto non fosse la sua marra, almeno lei, era apparsa altre volte, in tutte quelle sorelle, nei suoi sogni.
“Mio padre … Non lo so” aveva provato Iren, “Mi … considerava solo quando doveva … portarmi a caccia.” aveva detto, “Quell’idiota di mio fratello mi ha cresciuto” aveva detto. C’era rancore nella sua voce, ma anche melanconia …
Ricordava forse un tempo passato.

“Mio zio, Herden, una volta è stato nel punto più a nord del mondo, il più a nord noto, nelle Terre del Sussurro, dice di aver visto la Città Celeste e sentito il sibilo degli Ascendenti” aveva preferito Iren, con una voce di vetro. “Spettacolo suggestivo” aveva considerato Saiji che era un eretico e miscredente, ma quasi desiderava vedere qualcosa di tale portata, da spingerlo a riconsiderare tutto il suo credo.
“Carne secca?” aveva chiesto ad Iren.
Quello aveva scosso il capo, “Lo zio mi aveva promesso di portarmi, ma mio fratello ha minacciato di eviscerarlo se avesse pensato di portarmi in qualsiasi luogo” aveva raccontato con voce dura e spettrale. “Lo ho capito che non mi avrebbe mai, mai, permesso di lasciare la mia dannatissima casa e odiava avermi lì” aveva detto.
Saiji lo aveva guardato, “Questa conversazione sta diventando troppo viscerale per i miei gusti. Sono un guerriero, i cattivi pensieri si soffocano con la spada” aveva ammesso, sentendo la leggerezza sul suo fianco, dove avrebbe dovuto penzolare la sua lama. Era pregiata, riconoscibile ed intimidatoria così Saiji aveva deciso di metterla da parte, in un luogo tutt’altro che sicuro.
“Oh, allora, sarai accontentato” aveva bisbigliato Iren.
Lui aveva annuito, “Mi piacerebbe fare il fattore, non sono sicuro che sarei bravo e che potrei nutrirmi solo a rape, ma sarebbe meglio” aveva considerato, stringendo la mano, immaginando l’elsa della sua spada tra le sue dita.
Ricordava l’ombra di suo padre che si allungava sui campi, assieme al sole, ma ad Iren aveva dato una spada in mano, prima una di legno, poi un ferro smussato ed aguzza e letale. “Io s-sarei … pessimo” aveva considerato il Manimorbide, “Ma ci vivrei ad Agiate Viti, con te ed Adda” aveva ammesso. Due lunghissimi pensieri avevano attraversato la mente di Saiji.
Ovviamente Adda, si ritornava sempre ad Adda, la gamba monca che era il loro sgabello. Ma Adda era trottata al tramonto, con il Principio-Incarnate.
 “Può essere ovunque Iren, perché restare nelle Terre dell’Impero. Possiamo andare a Ghaadia la terra dei nostri avi, ad Eos, nelle terre del Sussurro e se necessario anche altrove, in tantissimi altri luoghi … il mondo è così vasto e ne conosciamo così poco” aveva ammesso calmo.
“Fortunatamente conosciamo qualcuno che potrebbe darci un bel appezzamento di tempo” aveva valutato Iren, “Non troppo lontano dall’Impero ma abbastanza per essere fuori dalla sua mano” aveva detto.
Saiji aveva scosso il capo, “Ti direi che le Terre di Ferro non mi paiono così ributtanti come idea, ma se dovessi finire a lavorare la terra per Theresia, ti autorizzo ad uccidermi” aveva stabilito. “Accetto. Lo ho sempre voluto fare” aveva sogghignato Iren, o almeno una brutta imitazione di un sogghigno.
Aveva passato gentile una mano sul viso di Iren, “Poco da …te” aveva considerato quest’ultimo. “Sì, quando ti sarai ripreso non te lo ricorderai e ricomincerò a prenderti a calci in culo” lo aveva rassicurato con assoluta tranquillità Saiji, stendendosi anche lui, sull’erba fresca. Avrebbe dovuto stendere una coperta, perché era abbastanza scomodo.
Aveva avvolto in tutto quello che aveva per tenere quanto più caldo Iren, si era detto che lui avrebbe potuto sopportarlo davvero dormire nell’erba fresca.
Anche l’odore era buono, era umido, fresco, rievocava in lui la sua infanzia, lontana, quasi ormai fango. L’erba che cresceva tra le rovine, negli ampi giardini diroccati e le risate dei bambini.
C’era quell’odore anche nel grande parco alberato dove era cresciuto.
A volte lo lasciavano correre, quando non si allenava, come se fosse stato un altro semplice bambino che viveva nella casa padronale.
Ricordava di correre con Izaia, il figlio del cuoco, sempre sporco di farina sul viso tondo, Bia la Coppiera, figlia illegittima della sorella del signore, e Parrio che si occupava del fieno nella stalla e la pelle sbucciata del viso. Ragazzini con i volti divertiti e la parlantina sciolta.
A volte – raramente – Saji si chiedeva
come stessero.

“A me è piaciuto, comunque, stare con i ferriani” aveva ammesso Iren, “Pensavo dormissi” aveva risposto Saiji. “Fa troppo male per dormire” aveva ammesso. Saji aveva imprecato, battendo un pugno sull’erba fresca, “Vaffanculo, Manimorbide di merda, te lo avevo detto che non saresti resistito” aveva ringhiato.
“Mi dispiace, Saiji, sono un tale pasticcio” si era lamentato ancora Iren, voltendo il capo, posando la fronte contro la guancia di Saiji, in cerca di conforto, “Vaffanculo” aveva risposto Saiji, perché lo aveva sempre saputo, perché sapeva che un drogato era una catena di ferro legata al collo che rallentava ogni suo dannato passo. Avrebbe voluto, davvero, avere così tanta trasandatezza di spirito ed abbandonarlo lì, su quel prato all’inedia, alla cachessia.
“E comunque … a Theresia piaci molto” aveva mormorato Iren, cercando di recuperato un po’ di lucidità, “Posso ammettere che mi apprezzi più dei manimorbidi dell’Impero” aveva considerato Saiji, “Ma come ho detto: accetto le sue monete, ma non ho voglia affatto di coltivare la terra per lei e doverla chiamare Monna” aveva detto.
Saiji non avrebbe avuto più Signori.
Iren aveva sbuffato.
“Ad Azalea prenderai altro Latte, anche se mi fa schifo. Ho bisogno che tu ci sia per quello che verrà dopo” aveva stabilito Saiji. Non avrebbe avuto più Signori, per questo non poteva più vivere con passività, ma aveva bisogno lui di prendere le redini.
“Poi ti farò purificare” aveva dichiarato, “Ci troveremo un bugigattolo nel fottuto buco di culo del mondo, dove potrai sfebbrare e sopravviverai, fottuto Manimorbide, tu sopravviverai” aveva stabilito.
Iren aveva riso, in maniera aspra ed amara, ancora, la sua gola tormentata, la sua voce pesante e raschiante, ma aveva riso.
“Potrebbe essere nelle terre ferriane” aveva riproposto, riprendendo quel piccolo pensiero bisbetico che aveva espresso qualche momento prima e che Saiji aveva convenientemente ignorato. “Mi è piaciuto stare lì” aveva aggiunto il suo amico, con la voce così rovinata, ma così bassa, da sembrare il brusio del vento leggero, “Mi sembra di ricordare che per tutto il tempo non hai fatto altro che lamentarti dei disgustosi adoraoro, con i loro vizi e le loro eccedenze” gli aveva ricordato. Iren aveva solo respirato, pesantemente, come una bestia ferita, “Sì, sì e no. Ho odiato tutto … ogni singola cosa … perché non mi era concessa” aveva ammesso, aveva mosso la mano, lentamente e si era toccato il cuore dove il disegno del più bello dei fiori mai realizzato dal Dio-di-ogni-cosa riposava. Non lo aveva mai mutilato, probabilmente non lo avrebbe mai fatto, “Ma è stato bello” per dire quella frase Iren aveva impiegato tutto il suo sforzo, perché il suo tono fosse calmo ed umano, ma si sentiva, ancora, quel raschio di fuoco, “Mi è piaciuto tutto di quello che ho visto ... e che ho fatto” aveva confidato.
Saiji aveva chinato il caso, posando così anche la sua fronte su quella di Iren, guardandosi così negli occhi. Le iridi nerissimi nel buio della notte avevano avviluppato le pupille, la sclera era in fiamme, con vene rosse aguzze, visibili anche al buio ed una patina liquida di lacrime inzuppava le ciglia.
“Mi dispiace” aveva risposto invece Saiji, quasi di getto, davanti quel viso così rattristato – quasi opposto alle sue parole, “Ti ho tolto qualcosa di prezioso” aveva ammesso.
“Non tu … io” aveva risposto Iren con più sicurezza.
Ma, Saiji aveva serrato le palpebre e si era sforzato di non permettere a quella tristezza che stava gorgogliando nel suo petto.
“Mi dispiace per le ragioni che mi hanno mosso. Volevo farti male e sapevo come farlo” aveva confessato, perché era vero, “Volevo ucciderti, non … non fisicamente, volevo ucciderti come …” – come tu hai ucciso me, ma non lo aveva detto – “…come io ero morto per te. Allora ho cercato un modo di ferirti così profondamente da lasciarti spezzato” e nel momento in cui aveva pronunciato quelle parole aveva saputo quanto dolore portavano con loro.
Voleva defraudare Iren di qualcosa di prezioso, come si era sentito privato lui, voleva privarlo di qualcosa dello stesso valore e si voleva bearsi del piacere di vedere quello che riteneva un ottuso Manimorbide bruciare. Guardare una fede così pia dissolversi nell’incertezza della cenere. “E lo ho fatto, per il principio, lo ho fatto” aveva ammesso.
Perché non avrebbe potuto essere altrimenti, era lui che aveva creato quella carcassa viva, al posto di quel pomposo stupido Manimorbide, con quel sorriso irritante e gli occhi scintillanti di vita. Saiji aveva odiato il vecchio Iren, ma si sentiva così dispiaciuto della sua morte.

Iren lo aveva guardato. Non era più un uomo, era un guscio, una crisalide vuota da cui nessuna farfalla aveva preso il volo e se questo fosse avvenuto, difficilmente, era perita da tempo.
“No” aveva detto Iren, con la voce più solenne, lenta e scandita, che Saiji gli avesse sentito da quando aveva pronunciato un ‘Si’ tante lune prima. “No” aveva ripetuto meno sacrale, “Tu sei … non sei stato tu” aveva dichiarato, sorridendo appena, quanto le labbra riuscissero a sollevarsi. Con fatica, Iren aveva sollevato un braccio, il polso sembrava quasi spezzato, ma era riuscito a posare le dita freddissime, come la neve caduta, sulla nuca di Saiji. “Fisicamente … non sei stato tu” aveva replicato, “In quella stanza … non c’eri” aveva considerato.
Saiji era rimasto muto a quel commento, “Non capisco se volessi fare una battuta, il tuo tono non è chiaro” aveva cercato di sdrammatizzare Saiji, anche perché non ne era davvero sicuro.
“Tu … e Adda … non sarei vivo, senza” aveva detto a fatica, con gli occhi lucidi e le lacrime lungo le guance bianche.
Era una condizione letterale, lo avevano salvato, fisicamente, dalla morte … ma dalla degenerazione? Dal tormento?
“Iren, tu sei morto. Guardati” aveva detto Saiji, a disagio, disagio di essere stato sollevato da quella colpa che da tempo portava sulle sue spalle, quel peso angosciante che si era carico addosso, che pungolava il suo senso di colpa.
“So di essere morto, ma starò meglio” aveva promesso Iren.
Saiji aveva deciso di credergli, “Dovrai, dovrai” aveva ammesso Saiji, “Ci aspetta qualcosa di … complicato” aveva aggiunto.
“Come il … Punteruolo” aveva sospirato Iren.



[1] Sì, avevo scritto nel capitolo I, che avevano una mula di nome Adda. Amici, quelli veri c:

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Capitolo 7
*** PARTE PRIMA; TIOLO I; CAPITOLO IV ***


Nuovo capitolo, nuovo narratore. Quello che penso vedremo meno di altri, ma serviva ugualmente. Giusto per intrecciare ancora di più le cose. Ho finito comunque il disegno del PIF (Pregiatissimo Impero dei Fiori) geografico e sto preparando dei bozzetti di tutti i personaggi.

 

 

P A R T E   P R I M A

L ‘ I N V I O L A B I L E

T I T O L O  I

I  G I O C A T O R I

C A P I T O L O   I V

N O N  A V E V A  M A I   A V V T O   P R O B L E M I   A  R I C O N O S C E R E 
 L A   S V A   I P O C R I S I A

 

 

 

L’aria era appestata dall’odore degli aranci, se di norma poteva essere un odore invitante, buono e da liquorino, portata a quell’eccesso era un miasma. Nauseabondo.
Nervia aveva allungato una mano ed aveva staccato un arancio da uno degli alberi più bassi della fronda, era una varietà amara, con la buccia più scura e con un odore così forte da rimanere assorbito addosso, sui vestiti, capelli, vestiti. A Nervia piaceva l’Aranceto, di solito, ma non quel giorno – per qualche ragione.
Si era svegliata guasta.
Aveva forzato l’unghia corte contro la buccia, per forzare la rottura e poter gustare gli spicchi. L’agrume era amaro, ma le piaceva come sapore, da bambina mangiava solo cose dolcissime, nulla che non fosse stato amalgamato nel miele riusciva a superare la sua lingua viziata, ma crescendo aveva sviluppato un gusto bizzarro. Sua sorella scherzava sempre che Nervia aveva maturato un gusto per il cattivo – lei non lo aveva mai negato.
“Shinora ne vuoi uno spicchio?” aveva chiesto con gentilezza a sua cugina, non era lontana da lì, seduta sotto l’ombra di uno spesso albero. Stava leggendo un vecchio libro di poesie del florido impero. Nervia era sempre stata piuttosto incapace nella letteratura antica, per la disperazione del suo istitutore.
Sua cugina aveva sollevato gli occhi. Erano due punte di verde scuro, come la buccia di un’oliva. Non era bella Shinora, o meglio lo era, nella forma più tradizionale del termine; aveva capelli lisci come la seta e neri come l’inchiostro colato, con ciglia altrettanto scure e lunghe, su di un viso magro, di un colore pieno e sano salsola. Se si fosse alzata dalla sua posizione cucciata, Nervia avrebbe potuto riconoscere le gambe lunghe che le conferiva un’altezza più elevata di quella abituale di una donna, della sua ad esempio, in un corpo ben snello, ma ciò che rendeva la sua bellezza scialba era la mancanza di una benedizione. Shinora era bella come era concesso agli uomini comuni esserlo, d’altronde i suoi nonni e i suoi bisonni erano anime condivise.
Sua cugina però era rimasta cucciata, tra le radici di un arancio, con la stola – necessario ad ogni rispettabile donna dell’impero –  d’oro opaco, che avvolgeva le spalle e parte alta delle braccia. Il fazzolo era decorato con fili d’argento che disegnavano fiori. Le maniche scure del vestito, strette, tirati sugli avambracci sottili. “Puoi venire, dolce cugina?” aveva chiesto, invece, Shinora, senza darle risposta.
Nervia l’aveva assecondata, ancora indisposta dalla giornata. Era leggermente timorosa che Shinora parlasse dei suoi sogni, era una cosa che aveva sempre fatto con estrema passione da che erano poco più che due bimbette sgambettanti con le gambe arcuate.
Shinora era la sua unica cugina di sangue, i loro padri – che i loro fiori crescessero belli e forti nel Giardino del Signore – erano stati fratelli e loro erano cresciute vicine. Shinora aveva dodici sorelle, due cicli e una decimana, in meno di lei; erano cugine di sangue ma sorelle di latte, perché avevano bevuto avide dallo stesso capezzolo, quello di Zia Maeva.

Aveva allungato un’arancio verso sua cugina, quando era bambina, l’Aranceto era la sua dimora, ed anche se apparteneva a Nerva, in quelle lune, Shinora continuava a preferirla al disordine del Giardino. A volte si chiedeva come non potesse odiarla per aver ereditato la casa che un tempo era sua.
Shinora aveva sempre preferito vivere una vita quasi monacale, che partecipare a tutte quelle sfavillanti cerimonie; anche quando suo padre risiedeva a Città Zagare, Shinora preferiva vivere nella dimora campestre.
Anche Nervia aveva cominciato a percepire la stanchezza delle frenesie di Città di Zagare, così aveva deciso di ritirarsi in campagna e quando sua cugina lo aveva saputo le aveva scritto per poterla raggiungere. Inoltre sua cugina sembrava apprezzare il Podere austero dove erano alloggiate anche più della bella tenuta di Palazzo Citro, la dimora campagnola più ricca dell’Aranceto.  

Nervia avrebbe volentieri evitato tutti i membri della sua famiglia, talvolta aveva l’impressione di amarli ed odiarli in egual misura, ma sicuramente riconosceva come fossero abituati ad infiltrarsi in ogni intercapedine, ma non Shinora.
Sua cugina aveva raccolto gli spicchi dell’arancio, “Una bella poesia?” aveva inquisito Nervia.
“Era di Mellineaco di Grinea, oggi è una città ghaadiana, Moppea? Molpea?” aveva spiegato tranquilla Shinora, “Era un poeta alla corte dell’Imperatore Tioreh Dhoerti” aveva considerato Nervia, rispolverando i lunghi soliloqui dei suoi istitutori quando si erano dedicanti con virulenta afflizione nell’insegnarle la storia, la letteratura e la poesia. Nervia era stata una ragazza curiosa, anche affamata, ma non era mai stata una brava discola. “Sì, sia alla corte di Tioreh che di sua figlia Tersilia, l’unica donna ad essere stata Imperatore” aveva cantato Shinora piena di vivacità a quella nozione.
Il loro mondo poteva contare il trascorre del tempo con lune e sorelle, ma restava un mondo di uomini, “Come la nostra” aveva risposto pigra.
Shinora aveva annuito, “Mellineaco era innamorato della Despote Tersilia e la ha nominata ispirazione di ogni suo poema d’amore, questo, questo mi stringe sempre il cuore” aveva raccontato, con gli occhi verdi, offuscate da lacrime.
Shinora aveva una capacità di amore che superava l’immaginazione di Nervia, qualcosa che in parte le invidiava ed in parte la spingeva a guardarla con quella punta di distacco e melanconia, che le faceva gridare nella mente ‘Così fragile, la sua cuginetta!’ e si sentiva un mostro per quello.
“Enneo me la ha recitata la prima volta, quando eravamo bambini. La prima volta io avevo cinquantadue sorelle e lui giusto dieci in più” aveva ricordato con melanconia.
Aveva mostrato il libro, aperto, una grafia eleganti di un qualche monaco, dominava una pagina giallo ocra, accompagnata da immagini di fiori.
“Traduco molto male la lingua istiana” aveva ammesso, anche se la lingua del Florido Impero non era che la nonna della sua lingua.
Shinora aveva annuito, recuperando il libro per poterlo leggere in fioriano per lei.

Per lui, non esiste che lei. Lei che è il sole, la luna e le altre stelle.
Se ride, se canta, se parla e di e per lei;
lei che ha la pelle del miele e gli occhi splendenti;
Se piange, se si rabbuia e se tace non è che per lei.
Per la risata che musica il silenzio e riscalda il suo cuore.
Ogni momento, ogni luna, ogni istante
esiste perché esiste lei.
Se chiede, se rifiuta, se prega non è che a lei.
Con lei, per lei e a lei.
E se vive un giorno in più …
e solo perché vuol essere certo che anche lei viva un giorno in più.
Perché non può sopportare che lei che era il sole la luna e le altre stelle
sprofondi nell’oblio
[1].

 

La voce di sua cugina era una cantilena, quando aveva terminato la poesia. Conosceva la poesia, non perché fosse la più famosa di Mellineaco, non perché fosse la più malinconica, o perché avesse Nervia vasta conoscenza dei poemi, ma perché l’aveva già udita al Bocciolo.
Nella Grande Basilica, alla luce della luna, filtrata nella vetrata, e illuminata da mille candele; ricordava una voce di donna impastata ripeterla.
“Nulla è più tragico di un fiore strappato troppo presto” aveva considerato Nervia incerta, che non aveva mai provato quel dolore, ne aveva sua cugina d’altronde.
“Tua sorella lo ha letto al funerale di suo marito. L’avevo dimenticata ma, poi la ho ricordata” aveva raccontato sua cugina con calma, un po’ melanconica. Gli occhi erano gonfi di lacrime, ma aveva tenuto i rivoli lontani dalle guance. “Ho pianto tutta la funzione” aveva confessato Shinora.
Anche Nervia lo aveva fatto, sebbene non avesse saputo spiegarsi perché.
“Enneo ha sempre raggirato alle parole Cortesi” aveva ricordato Nervia, come tutti i rampanti cavalieri anche Enneo aveva dovuto giocare a quella ilare tradizione, ma invece di darsi a orride creazioni, aveva sempre rubato le parole dei poeti veri, modificandole dove occorreva. Shinora che era sempre stata la destinataria dei suoi versi, non ne era mai stata turbata.

Sua cugina aveva sorriso, con le labbra sottili ed i denti dritti e perlacei in evidenza, “Oh, Nervia, Enneo ha sempre detto che non vedeva il senso di mettersi in ridicolo quando uomini più in gamba di lui avevano già dato nome alle sue emozioni” le aveva detto.
“Sicuramente so che non mi hai chiamato qui per leggere poesie tristi!” aveva replicato subito Nervia, inghiottendo il disagio che le si era pesato sul petto, pensando a quei discorsi, quei sentimenti.
Non conosceva davvero moltissime cose, pensava ad Enneo, con la sua armatura ammaccata ed il cavallo ammantato con i fiori di Arancio – i fiori che spettavano a Nervia – e non riusciva ad immaginarlo recitare poesie languide neanche a Shinora. Lo aveva visto ai tornei, lo aveva sentito, ma non riusciva a pitturarsi. Non riusciva a vedere Enneo così preso.
Ricordava che tante sorelle prima, quando Shinora ed Enneo erano ancora imberbi, si erano amati; ma Nervia ricordava fossero stati bambini e non dava mai così importanza ai sentimenti dei bambini, vivevano tutto con vigore e allo stesso tempo tutto con futilità.

Shinora aveva messo da parte il libro per mangiare lo spicchio d’arancia che Nervia le aveva portato, gustandoselo, come lei, Shinora tollerava bene quel sapore acre, forse era nel sangue.
“Sì ti ho chiamato per raccontarti il sogno che ho fatto ‘sta notte. Era uno miei” aveva confessato sua cugina.
Le spalle di Nervia si erano fatte dritta e tese, come se fili invisibili le tirassero la carne, “Davvero?” aveva chiesto fingendosi disinteressata.
Molta gente additava Shinora come una Vistalunga, ma Nervia aveva difficoltà a credere che esistessero gente creata dal Buon-Signore con quella dote, non veramente. Trovava più facile riporre la sua speranza in santi uomini e donne piissime, che persone con il dono di spiare il giusto-sentiero.
“Sì, volevo parlarti di questo” aveva detto chiara Shinora, sollevandosi con uno scatto di gambe e posando i palmi sul tronco per sorreggersi.
Era più alta di Nervia, di metà di una testa. “Ho sognato il Palazzo del Bocciolo, splendido e d’oro come mai è stato. E lì dalle sue fondamenta, piccola, nasceva una pianta d’edera, era minuscola, una radicetta appena, ma poi cresceva e cresceva, salendo per le mura, lungo ogni mattone, lungo ogni parete. Si infilava in ogni spacco, fenditura e crepa. Il Palazzo era vecchio, stregato e decadente, con una rete di edera che lo decorava e poi, quando sembrava che fosse destinato ad appassire nel silenzio, l’edera come un cappio si stringeva. Ma non era più di sottili steli, ma erano larghi tronchi, resistenti come il ferro, pesanti e forti e lo distruggeva. Spaccando ogni mattone, ogni pietra, ogni cosa, fino a rendere quello che era il più maestoso dei palazzi null’altra cosa se non polvere” sua cugina aveva fatto una pausa, “E polvere di gesso, come neve cadeva su ogni fiore, nessuno era rimasto in piedi, erano tutti spezzati e senza petali, ogni pianta era morta … anche l’edera stessa” c’era qualcosa di sacro nel modo in cui Shinora aveva pronunciato quelle parole.
Nervia aveva allungato una mano prendendo quelle di sua cugina in un gesto di affetto e conforto, “Non era un sogno da Vistalunga, mia adorata cugina, era una suggestione o una realtà che mai avverrà” aveva stabilito, rincuorata in parte, ma piena di tristezza.
“L’edera ha già provato ad arrampicarsi sulle mura della nostra sacra istituzione” aveva ricordato con voce spenta, pensando al dolore ed il sangue che era stato versato.
“Non tutta l’Edera è morta cugina” aveva ricordato Shinora.
“Ma solo spettri abitano ora il loro palazzo ed un tristo signore. Il che è una tragedia, ma ben peggiore poteva essere” l’aveva rincuorata.

Le loro chiacchiere erano state interrotte.

 

Sua … Mia signora” l’aveva chiamata una voce maschile, lei si era voltata riconoscendo La Coccatrice correre verso di lei, con l’espressione contrita sul viso giovanissimo, settanta sorelle a malapena, con un viso fresco, senza neanche un accenno di barba. Alto per la sua età, con l’incarnato bianco dei mezzi ghaadiani, i capelli castano-dorato e gli occhi furbi. Indossava degli abiti da contadino, una blusa larga di un grigio tortora, sopra delle pantacalze scure, infilate negli stivali di cuoio foderati di pelle di cervo, troppo caldi per il clima de L’Aranceto. Le sembrava sempre strano vedere La Coccatrice non indossare armamenti da battaglia, l’armatura pregna ormai di ammaccature da battaglia e consumata in ogni modo, sena neanche la cotta di ferro che indossava anche quando girava tra i civili. L’unica arma che indossava era un pugnale, legato ad un cinturone di pelle avvolto alla vita.
Non era venuto da solo, al suo fianco, de La Coccatrice, c’era Bieve la sua cameriera domestica, anche lei non era vestita come d’uopo, ma sembrava una contadinotta, con un abito marrone del colore del fango, dalle maniche strette fino ai gomiti, con indosso uno scamiciato grigio. “Mia signora” aveva ripetuto La Coccatrice, come se quell’appellativo gli bruciasse sulle labbra, chinando il capo, anche la schiena e se non era caduto su un ginocchio, era stato solo perché Nervia lo aveva interrotto prima.
“Non è necessario, mio cavaliere” aveva affermato Nervia nervosa, posando le mani sulle spalle ampie del giovane cavaliere.
Quello era arrossito di imbarazzo, sentendo le mani sulle spalle. Nervia aveva lasciato La Coccatrice, per rivolgere la sua attenzione all’altra donna lì presente. Bieve come tutte le donne sposate del Pregiatissimo Impero aveva raccolto i capelli scuri, anche se in una treccia disordinata, che perdeva riccioli da ogni scaglia. “Sono qui, i suoi ospiti, mia signora” aveva comunicato Bieve, che non si era concessa neanche una riverenza, ormai tanto abituata a lei. “Sono qui” aveva ripetuto Nervia, quasi tra sé-e-se, strappando un altro spicco di arancia che aveva inghiottito prontamente, prima di proseguire la strada inversa, che quella mattina l’aveva guidata lungo la passeggiata tra gli alberi.
“Mio cavaliere, non perdere la tua diligenza” aveva detto a La Coccatrice con calma, prima di voltarsi verso Bieve, “Di al tuo caro Addam di preparare quelle pernici che il nostro buon cavaliere ha preso per noi” aveva ordinato, ammiccando al marito di Bieve.
Si era voltata verso Shinora, “Ho ospiti che mi attendono, se tu desideri scortarmi cara cugina” aveva proposto, quella aveva scosso il capo, facendo oscillare i lunghi capelli sciolti da vergine, “No, mia cara Nervia, resterò qui a leggere un altro po’ di poesie

 

Il podere dove alloggiavano era in pietra di calce, mischiata a frammenti di ceramica, in principio era stato qualcosa del florido impero, un vecchio retaggio di un mondo dimenticato, forse i resti di un castro dell’esercito. Dove sorgeva l’Aranceto, in principio, vi era la Boghia, una terra composta da clan guerrieri, uguali per religione, aspetto e lingua, ma divisi per idee, per famiglie, per piccolezze. Erano stati avversari ostici per l’Impero, non il Pregiatissimo, ma il Florido, ma erano stati mangiati dal tempo e della polvere, perché non erano riusciti a superare le loro inimicizie e il Florido Impero gli aveva divorati.
Nell’Aranceto dei popoli Boghiani non era rimasto nulla, qualche occhio di un verde più intenso, qualche ciuffo di capelli più riccioluto, ma nulla neanche vecchi ruderi.
Tutte le vestige di un passato glorioso di quella regione, apparteneva all’avido e glorioso Florido Impero. La sua struttura però non conservava molto dei tempi leggendari, era stata fagocitata dai rinnovi, i restauri, le demolizioni, gli ampliamenti e quant’altro del Pregiatissimo Impero dei Fiori, l’unico degno erede del Florido.
E del castro florido, era rimasto nulla più che un podere, palazzo Salvia, per le gite fuori porta per lei e la sua famiglia, per allontanarsi dalla violenza caotica della città.

Non era un luogo adatto ad una signora della nobiltà, ma era un luogo carino ed ameno. Sua zia portava lei e sua sorella lì, assieme al figlioletto, e li lasciava correre felici da bambini, poi era diventato suo.
“Bella la passeggiata tra i boschi?” le era stato inquisito immediatamente da una voce.
Una giovane donna la guardava con un pungente cipiglio sul viso, “Adoro le arance di questo posto, Imeria cara” aveva risposto Nervia, “Mezza per te, ecco” le aveva detto, allungando metà degli spicchi che erano rimasti. Imeria era la sua dama di compagnia, da quando avevano venticinque sorelle l’una, era la figlia di un signore minore della Marca di Spessi Abeti. Il suo vecchio l’aveva spendita da Nervia per essere sua amica e compagna, perché frequentasse i suoi ambienti e trovasse un buon marito, cosa che Imeria si era sempre dichiarata lontana.
Il che divertiva molto Nervia, lo stesso margravio di Spessi Abeti se avesse potuto avrebbe sposato Imeria seduta istante.

“Grazie, Nervia, i tuoi ospiti sono in soggiorno, li ho lasciati nelle sapienti mani di Saranna” aveva spiegato immediatamente Imeria, staccando uno spicchio da succhiare con le labbra, un’espressione aspra le si era dipinta in viso – troppo amaro per il suo palato.
“Poveri i miei ospiti allora” aveva risposto spenta lei, pensando alla sua seconda dama di compagnia e la sua chiacchiera proverbiale, “Colpa tua” l’aveva rimbeccata Imeria, lasciando che una lacrima di succo d’arancio le scivolasse dalle labbra sottili, “Era Aloyssa che si occupava di queste facezie” l’aveva rimproverata.
Nervia aveva sospirato, stanca, “Anche a me manca tanto, Imeria” le aveva detto, “E se avessi potuto l’avrei tenuta con me sempre, ma Aloyssa si è sposata” le aveva ricordato.
Aloyssa era un’altra sua cugina, ma dispetto Shinora era più lontana nel sangue, erano i loro nonni ad aver condiviso lo stesso ventre, rispetto i loro padri.
Se Shinora aveva condiviso con lei la balia ed una culla, Aloyssa aveva diviso il pettine, il letto, le stanze, i vestiti ed anche i pettegolezzi.
Loro due, con Imeria con il suo cipiglio duro come una lastra di ghiaccio e Saranna con la sua voce allegra e tintinnante come una campanella.


Imeria aveva sbuffato, “Ed ora lei ha un piccolo rigettino splendente e gli ospiti devono essere intrattenuti da Saranna e le sue chiacchiere infinite” aveva ribadito la sua dama, “Io insito che il tuo fascino pragmatico potrebbe rivelare infinite soprese” le aveva risposto. Imeria aveva sorriso incerta. “Tua cugina come sta? Ieri notte è rimasta fuori a guardare la luna, lo sai?” aveva chiesto retorica Imeria.
“No, ha dormito, sotto le stelle. La rende felice, è così da quanto era piccolina. Mia sorella diceva che era più matta di un cavallo, ma per me è sempre stata solo stravagante” aveva liquidato la faccenda, decidendo di ignorare i sogni che sua cugina aveva fatto sotto la Luna.
Edera che cresceva fino a soffocare un palazzo intero, doveva solo sperare che fosse la suggestione della tragedia che si era consumata, ad aver guidato i pensieri di sua cugina e non un prossimo futuro.
“La nostra nuova amica, invece?” aveva chiesto Nervia, desiderosa di cambiare argomento. “Continua a stare come stava dopo la Piana di Malvasia. In vero credo stia come sta la Piana ora” aveva risposto Imeria senza nascondere cupezza. Lei aveva sentito il suo cuore sussultare a quel rude paragone.
Dolore e devastazione.
“Forse, dopo questa luce, starà meglio” aveva provato Nervia, incerta della sua stessa idea. Imeria l’aveva guardata insofferente, con gli occhi grigio-neri giudicanti, “Se così fosse e a Il Principio che dovremmo dire grazie” le aveva detto. Non c’era però speranza nel tono secco di Imeria, non credeva che nulla di ciò che sarebbe successo avrebbe cambiato nulla, forse era così. Ma Nervia aveva bisogno di sperare, anche se fosse stato nell’ Il Principio.
Nervia aveva stretto le labbra in una presa serrata, insoddisfatta e consapevole, “Allora così sarà” aveva affermato senza perdere colore e con quell’ultima frase si era congedata; aveva attraversato l’androne fino a passare le porta della stanza di rappresentanza.

Saranna dominava la scena, come non sarebbe stato diverso altrimenti, era una creatura quasi perfetta, alta e flessuosa, con i capelli biondo-argento, del suo sangue dei Sussurranti, oltre le montagne, nel nord più puro. Il viso era olivastro, come una fioriana fatta e finita, con occhi di miele lucidi, intrecciati in ciglia argentee. Quasi perfetta, però, con le orecchie leggermente pronunciate ed un’ossimetria nel viso che creava un segno di straniamento.
I due ospiti erano, però, completamente imbevuti delle parole di Saranna, della storia che stava montando per loro. Nervia si era fermata sullo stipite, con le braccia conserte, appoggiata allo stipite della porta, mentre sentiva la sua dama raccontare ogni sorta di storia.
Il raccontato di Saranna verteva su un certo uomo che giurava di avere un ansino parlante, si era arrestato a metà quando l’aveva scorta.
I due sconosciuti erano rimasti interdetti, particolarmente uno dei due che si era preoccupato, “Signorina?” aveva chiesto perplesso, una voce forte e maschile. Eppure, si erano presto accorti della traiettoria degli occhi di Saranna, “La padrona della tenuta è tornata” aveva comunicato Saranna, introducendola.
I due quando l’avevano vista si era tirati immediatamente su, incerti, guardandola con occhi pieni di indecisione. Probabilmente cercavano di comprendere quale signora della regione degli Aranci Sanguinelli li avesse convocati. Come dovevano comportarsi davanti a lei, che grado di rispetto le dovevano.
Nervia era chiaramente una nobildonna, non aveva la presunzione di poter sembrare una persona comune, anche vestita senza tutti gli orbelli da cortigiana, le stoffe che indossavano era ancora pregiate; inoltre, era una figlia benedetta.

I due ospiti aveva fatto una riverenza, confusi.
Erano maturi, ben oltre le duecento-sorelle, se non tutti e due, almeno uno. Erano un uomo ed una donna, con pelli olivigna, così scura, da sembrare quasi rame. Lui era ricurvo, come il cuneo di un ago, con rughe infelici a segnare la pelle e capelli grigio nero radi, che portava radi sulla testa, lei era più dritta ma non meno stanca e i suoi capelli erano una nuvola di bianca neve, stretta in una crocchia ordinata. Non erano vestiti come contadini, ma come mercanti, sebbene non avessero gioielli, la stoffa dei loro vestiti erano di velluto morbido.
Lui indossa una lunga toga verderame, che scivolava fino ai piedi, fermata solo poco sopra i fianchi da una cintura, lei era vestita di rosso-vinaccia, con un abito dalla gonna ampia stretto alla vita. Entrambi i vestiti erano decorati da due clavi d’oro che dall’orlo del colletto scendevano fino a quello del fondo. “Mia signora” aveva detto la donna più cortese, chinando il capo e compiendo una riverenza, imitata dall’uomo prontamente, sebbene senza esprimere parole.
“I signori Varghiani, immagino” aveva considerato Nervia, “Ginnea e Martes” aveva vagliato, erano una coppia di fratelli, anche se Nervia non l’avesse saputo, non avrebbe potuto fare altro che dedurlo, dalla stessa forma larga della bocca come quella di una rana e dall’attaccatura del naso stretta come un dito. Anche l’attaccatura dei capelli, leggermente alta, sfoggiando una fronte tonda, era simile.
“Sì, mia signora per servirla” aveva detto Martes con sicurezza.
Nervia aveva sorriso, “Ho necessità che realizziate una delle vostre opere d’arte, per me” aveva ammesso. L’espressione dei due ospiti si erano tinte di confusione, guardandola, ovviamente. Nervia non si faceva illusione, sapeva che aspetto avesse, sapeva che la sua perfezione era irradiata da ogni suo più piccola finezza – e sapeva di non poter apparire come null’altra cosa.
Tranne che per quel piccolo dettaglio, quando sorrideva.
La Bizzaria, come l’avevano sempre chiamata.
“Certo, non è per me, per me il lavoro, miei buoni signori, ma sarà mia premura la commissione” aveva dichiarato con più calma Nervia. “Signora Varghiani, avrei necessità che mi seguisse” aveva comandato poi, autoritaria ma non imperiosa, “Io e mio fratello lavoriamo insieme, mia nobile signora” aveva spiegato pazientemente la donna, toccando con mano la spalla del suo compagno. “Certo, dopo, vorrei però – per intimità – potesse visionare solo lei” aveva spiegato, il suo tono era candido e gentile, ma non c’era alcuna preghiera, ma un ordine. “Saranna può intrattenere suo fratello a dovere, conosce centinaia di storie assolutamente improbabili” aveva considerato, “O la mia cameriera potrà servirvi del sidro frizzante” aveva aggiunto, più accomodante.

Ginnea Varghiani l’aveva seguita lungo le scalinate per il piano superiore, Nervia le aveva offerto un gomito a cui appoggiarsi, ma la donna, aveva preferito di gran lungo il corrimano per tenere l’unica mano libera, mentre con l’altra sorreggeva una scatola di legno a più ripiani, trattandola come la Corona Aspra dell’imperatrice. “Sarebbe stato più favorevole il piano di calpestio, mi rendo conto, ma ho avuto difficoltà con la mia ospite” aveva ammesso calma e piena di vergogna, quando alla seconda rampa di scale, aveva intrapreso la stanza per un corridoio.
Il Palazzo Salvia, era un palazzo solo di nome, non era grande, ne maestoso, non aveva corridoi infiniti di porte e stanze ad oltranza, era piccolo e limitato, tranne le due ripide rampe di scala di pietra. Un tempo era esistita anche una torre quadratica, ma restava di quella struttura solo un’ulteriore rampa di scale vestigiale, che finiva contro un soffitto, con una botola che portava ad una stanza in cui era stato accumulato tutto e di più nel corso delle sorelle.
La porta che cercavano era una delle poche animata con della vita; guardata a vista da un giovane soldato, un uomo dell’ordine della Rosa Nera, non che fosse evidente, aveva tolto i gingilli che ne stabilivano il grado e non indossava l’alta uniforme o l’armatura, sfoggiando, invece, una cotta di maglia, i gambali e le loriche delle braccia ed una mano guantata all’elsa penzolante sul fianco. Nel vederlo così il giovane Raminio non sembrava un cavaliere degli ordini maggiori, sembrava più un Lupo d’Arme, scinto e disinteressato.
La sua famiglia non era stata entusiasta della scelta dei due cavalieri, entrambi giovani, entrambi inserpenti, nessuno di loro aveva servito sotto lo sguardo acuto dello Scintillante Generale.
Nervia gli aveva presi soprattutto per questo, non era stata altrettanto fortunata con gli altri.
“Riposo, buon Raminio” aveva detto pratica Nervia, mentre l’uomo si faceva da parte, permettendo alle due donne di aprire la porta ed entrare.
“Sono intrigata e confusa, mia signora” aveva considerato Ginnea, guardando la stanza con interesse.
Era piccola, forse un po’ fredda. La luce nella stanza era quasi del tutto assente, la finestra aveva gli scuri tirati che non permetteva a neanche un raggio di luce di passare e l’unica illuminazione era data dalla luce di una candela di un comò. Un pavimento in marmo lucido, recenti dell’ultimo restauro, coperti parzialmente da un morbido tappetto, che ottundeva il suo del tacchettio sulla pietra. Nella stanza figurava anche un armadio grande, di legno di abete chiaro, dalla doppia anta, accostato ad una parete, così grande da mangiarla tutta. Non lontano spiccava uno specchio di vetro soffiato, leggermente ricurvo e di una tonalità non cristallina, incassato in una forma di piombo lucido modella. Lo specchio era lì, per restituire l’immagine riflessa, ma la superficie era stata coperta da un mantello color crema.
 C’era anche un letto, sistemato sotto gli scuri ed una figura abbozzolata dentro.

Nervia si era avvinata, non facendo rumore, nonostante indossasse ancora gli stivali da esterno, senza preoccuparsi del terriccio che aveva lasciato in giro per il podere.
Si era seduta sul bordo del letto e con delicatezza aveva messo le mani sulla figura, per scuoterla questo “Fiorellino, ti prego, devi svegliarti” aveva sussurrato, ben sapendo di dover parlare con una creatura già sveglia – per quanto quella definizione fosse impropria.
La dolcezza del sonno sarebbe stato un piacere assai gradito per la persona, ma erano solo lunghe notti silenziose con la mente sfrigolante ed il sonno ben lontano.
Nervia aveva accarezzato con delicatezza la guancia della ragazza con la stessa dolcezza di una madre, lei che a malapena ricordava il tocco della sua.
Doveva essere stata una donna gentile però, suo padre lo diceva sempre ed anche sua sorella – e lei raramente aveva parole piene di miele per nessuno.
Nervia si era sempre sforzata di essere carina, aveva funzionato, forse in parte, sapeva che la gente si rivolgeva a lei come la ‘Buona Signora Nervia’ ma lei si sentiva tantissime cose e nessuna di queste prevedeva l’utilizzo dell’aggettivo buona.
“Tesoro, puoi svegliarti?” aveva chiesto alla giovane, cercando di essere meno delicata.
Le palpebre non avevano tremato, le ciglia si erano schiuse subito, sclere bianche, screziate dal pianto e da vene rosse ed iridi aronia nerissime. Poi anche il viso aveva ripreso vita.

Il candore di una pelle bianchissima, accompagnata con capelli biondo intenso come la polvere di zafferano, falciati corti fino alle clavicole, come era usanza di una vedova – anche se non lo era. La ragazzina era perfetta, con un naso leggermente piccolo, delicato e all’insù, con labbra piene di un naturale rosa scuro ed un mento appuntito, che coronava un viso a cuore, assolutamente perfetto, una bimba del destino, una benedetta, la sua naturale perfezione era però rovinata da una cicatrice che le deturpava le labbra, un taglio dritto come il primo incerto affondo di un coltello su un tocco di carne, prendeva un pezzo di pelle sotto le labbra e poco sopra il mento, entrambe le labbra e saliva fino a costeggiare la narice destra, più profondo e più frastagliato. Una mano umana che intaccava il dipinto perfetto del Dio-di-Ogni-Cosa-Buona.
Sessanta quattro Sorelle ed occhi neri già morti.

Gli occhi della ragazza, neri come fossi, guardavano Ginnea senza vederla.
Nervia le aveva presentate, omettendo quanti più dettagli non necessarie. “Ginnea è un’artista, lavora sui segni” avevano spiegato all’ultima delle sue dame da compagnia, “La ho vista modificare fiori senza essere seconda a nessuno. Certe bimbe sbagliate, rese magnifiche, accompagnate da colori più vividi e lucenti” aveva detto calma.
“Sono confusa mia signora, questa fanciulla mi sembra … già perfetta” aveva considerato Ginnea. Nel farlo si era toccata come un riflesso le labbra, dove la ragazza esibiva la mutilazione.
Nervia aveva annuito, “Non sbagli, ma gli uomini hanno tentato di intercedere per conto di Dio” aveva dichiarato, alzandosi dal letto e facendo muovere con lei la sua dama.
I movimenti della ragazza erano stati duri, poco armonici, come se al posto degli arti avesse legni attaccati al corpo, legni rimasti inerti, che avevano smesso da un po’ di usare le fluide movenze che un corpo umano doveva compiere.
“Tesoro” aveva chiesto con gentilezza, “Puoi … so che è difficile” aveva considerato Nervia.
Si era sentita una bestia per quella muta richiesta e pensava con orrore e disgusto di se, che altrove, nel vasto impero, qualcuno parlava di lei chiamandola con quell’orrido nome: La Buona Signora Nervia.
Gli occhi della ragazzina era ancora vacui, la sua espressione non aveva avuto neanche un tentennamento, meno era stato per la sua posa.
Si era come incupita su di se e le sue mani, tremolanti, si erano mosse guidate da braccia ancora più incerte.  Aveva raggiunto il retro del suo collo, dove l’orlo superiore del vestito, era segnato da un bottone, che aveva fatto scivolare fuori dall’asola.
Nervia l’aveva aiutata a togliere il vestito, ma aveva notato che le sue di articolazioni avevano cominciato a vacillare ma non era cambiato nulla. Nessuna espressione di apprensione e vergogna si era manifestata sul viso della sua dama, solo vuoto.
Sotto il vestito l’altra indossava una sottana lunga fino alle rotule, con spalline sottili come fili di cotone. Nervia aveva titubato, lasciando che fosse lei stessa a nudarsi dell’ultima barriera che aveva. La sua dama aveva per la prima volta dato cenni di vita, il tremolio delle mani si era acquietato e la sua posa si era fermata, come sabbia colpita da un fulmine, ferma in un vetro eterno, un respiro solo, una disperata ricerca di coraggio e poi aveva proceduto, sfilando le spalline sottili e facendo cadere la lunga sottana sul pavimento. Nervia aveva distolto gli occhi, on aveva guardato il corpo, non ne aveva bisogno, ma aveva visto l’espressione di orrore che si era dipinta in un momento sul viso di Ginnea, più di un momento, prima che la disegnatrice recuperasse una calma misurata.
“Capisco” aveva esalato, il suo tono voleva essere professionale e quieto, ma era stato impossibile non leggere la dolenza nella sua voce, la preoccupazione, e perché, no, anche l’orrore. “Il suo fiore è stato rovinato, quindi, sì, so che non può essere riprodotto perfettamente, ma pensavo che la mano che ha dipinto sugli orridi aster di Milaiah di Città Gerbera” aveva detto Nervia, riprendendo la parola, cercando di spezzare l’angustia aria che si era intessuta in quella stanza. Non esistevano termini gentili per descrivere quella situazione, per descrivere ciò che era stato fatto alla sua dama.

Ginnea aveva fissato gli occhi miele sul seno deturpato della sua dama e poi sul resto del suo corpo, con preoccupazione. Era sceso un silenzio spesso e colmo di disagio.
Poi Ginnea aveva parlato, “Posso … posso restaurare il suo fiore, per quanto una mano umana lo conceda. Quello, mia signora, era un fiore benedetto – dipinto direttamente dalla mano-di-Dio” aveva ammesso alla fine, calma, “Io sono brava, ma il mio talento rimane umano.”

“Sarà sufficiente” aveva considerato Nervia, chinandosi per raccogliere i vestimenti della sua dama – non era suo dovere farlo, avrebbe dovuto essere il contrario, ma come poteva Nervia chiedere a quella fanciulla di svolgere qui futili doveri quando era così spezzata. “Per il resto delle cicatrici, invece?” aveva domandato Ginnea preoccupata. Nervia aveva sentito il freddo sulle sue mani, sulla sua schiena, così come i movimenti per coprirsi della sua dama avevano subito una brusca interruzione, uno sfarfallio appena, come il battito di una farfalla era passato negli occhi scusi.
“So che alcune persone molto pie manifestano la loro adorazione riempiendosi di fiori” aveva considerato la Nervia “Personalmente trovo questo comportamento superbo”, con più ferro nella voce di quanto avesse deciso. “Solo il Dio-di-Ogni-Cosa ha il permesso di far fiorire corolle” aveva considerato Ginnea, ma il suo tono era neutro, probabilmente non concordava con il medesimo pensiero di Nervia, ma l’avrebbe assecondata, perché proveniva da giardini diversi, sarebbe stato scioccò contrariare una signora e sarebbe stato altrettanto sciocco per una signora crederci. Ginnea si guadagnava il pane ingannando l’operato di Dio. Servi de Il Principio, tanto quanto liberisti o Volontisti – però, Nervia, non aveva mai avuto problemi a riconoscere la sua ipocrisia.
“Se lei lo desidera, può far nascere fiori sul suo corpo” aveva mormorato Nervia, guardando la dama, le aveva fatto indossare nuovamente il suo abito domestico.
Non sapeva se doveva aspettarsi una risposta, una vera, “Vuoi?” aveva chiesto titubante.
La sua dama l’aveva guardata, poi aveva annuito appena, muovendo il mento appuntito; Nervia aveva risposto a quella volontà di vita, con una carezza sui capelli, gentile, anche se sapeva che nessuno dei suoi tocchi avrebbe portato alcun conforto, “Dopo che il lavoro della signora Varghiani, avrà conclusione, torneremo in città, a vestimenti di seta, vini annebbianti e lussi inauditi” aveva provato, senza impegno, sicura della vacuità delle sue parole.
“Perché non scendiamo a mangiare, ora?” aveva provato a chiedere, prendendo il gomito della più giovane delle sue dame, “Abbiamo degli ospiti, arance in quantità e La Coccatrice ha preso due pernici questa mattina” aveva aggiunto.
E solo il Dio-delle-cose-buone sapeva quanto l’altra avesse bisogno di nutrirsi con qualcosa di diverso di miele e pane bagnato.
La sua dama l’aveva guardata, poi aveva risposto – gracchiante, come se la sua gola fosse troppo stretta per la sua voce – atona: “Certo, sua altezza.


 



[1] Mi sono rifatta ad un epigramma di Marziale

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Capitolo 8
*** PARTE PRIMA; TIOLO I; CAPITOLO V ***


Confessione: Faccio schifo in topografia e sono andata particolarmente male all’esame di topografia medievale.

TW: utilizzo di droga, sintomi dell’astinenza, menzione di prostituzione.

 

P A R T E   P R I M A

L ‘ I N V I O L A B I L E

T I T O L O   I

I  G I O C A T O R I

C A P I T O L O     V

S E    T V   R E S T I   Q V I,  N O N  V R L E R O’

 

Iren respirava in maniera pesante, come se l’aria non riuscisse a filtrare bene, attraverso il suo naso e la sua bocca. Saiji aveva accarezzato la sua guancia e i capelli scuri, con più delicatezza di quanto non avesse mai fatto prima, non era avvezzo a quelle sdolcinerei. Aveva sposato con l’indice e medio il viso di Iren affinché affondasse di profilo sul guanciale, se avesse vomitato in quella posizione non si sarebbe strozzato.
Aveva guidato le mani di Iren sopra la sua testa corvina, aveva delicatamente incrociato i polsi, prima di cominciare a legarli insieme con una corda relativamente spessa, che aveva poi fermato contro la testata di legno del letto. Non voleva stringere troppo, così da ferire Iren, o complicare il libero scorrimento del sangue, ma aveva paura che se non avesse annodato bene, ci sarebbe stato il rischio che Iren riuscisse a sciogliersi dal fermo.
Sapeva che ormai il veleno del Latte d’Uccello era finito definitivamente, dopo la spossatezza – e la nausea – che lo avevano attraversato negli ultimi giorni, quello che avrebbe colpito Iren era l’ultima fase: la Sregolatezza. Il suo corpo avrebbe cominciato ad agognare senza controllo ne capacità di sopportazione il bisogno di procurarsi altro Latte. Iren si sarebbe agitato, si sarebbe divincolato, sarebbe stato simile ad una bestia, pur di uscire da quella stanza, da qualsiasi parte, per cercare il suo veleno.
E Saiji non sapeva come doveva comportarsi, solo grato che il suo amico avesse resistito a quel comportamento fino a che non erano giunti in città. Nella brughiera non ci sarebbe stato verso di contenerlo e la follia del bisogno avrebbe finito per ucciderlo, in qualche atto irrazionale. Doveva la loro fortuna ad un gruppo di zatteristi fiumani, da cui era riuscito a comprare una pasta rilassante che si spalmava sulle gengive o sul palato. Anche Saiji ne aveva avuto bisogno di un po’.

Saiji non credeva in nessun Dio e di sicuro in opere misteriose, ma doveva sicuramente essere stato un miracolo ad aver permesso loro di passare i dazi doganali di Città Azalea, con Iren che si reggeva sulla sua cavalla con la stessa stabilità di una banderuola al vento. Di per sé, era complicato per entrambi muoversi, Iren era un Figlio del destino, Benedetto, ma aveva il viso bianco come la neve dei ghaadiani, mentre nonostante i suoi capelli rossi, Saiji aveva l’aspetto eosiano di sua madre.
Il Pregiatissimo Impero dei Fiori aveva ereditato il nome dal Florido Impero di Istan, ma di sicuro non aveva ereditato la sua stessa varietà, nessuna erbaccia cresceva nel giardino dell’Imperatrice.  Le monete sonanti di solito zittivano quasi ogni pregiudizio, ma non quando uno di loro somigliava ad uno spirito-della-morte.
Il tuo amico non sembra stare molto bene.
Abbiamo perso il cavallo al Passo delle Pomacee, così siam passati per la foresta. Visto che è un ragazzetto di città, con le mani più morbide create da Iddio in persona, non s’è fidato delle mie parole, e quando mai, ed ha bevuto il succo delle bacche di agrifoglio.
Saij se l’era studiata bene, era una storia credibile. Si era mostrato quanto meno letterato potesse essere, facendosi passare per un servitore di Iren.
Le due guardie alla dogana lo avevano guardato, uno aveva scosso il capo, con sguardo poi comprensivo, consapevole, mi hanno fatto cagare sangue e vomitare così tanto che ho pensato ci sarei morto, una volta, aveva raccontato rammaricato, ma comprensivo.
L’altro commilitone aveva riso della pelle bianca macchiata di sudore di Iren, proprio un semidio, eh? La natura se è dimenticata che son perfetti, loro, evidentemente! Aveva detto solo poi, con leziosità. Era un bimbo sbagliato, non molto, aveva un viso ancora giovane, un naso dritto ed una mascella squadrata che faceva apparire il sorriso cattivo ma attraente.
Oh, sì, vomitano e puzzano esattamente come noi bestie! Aveva replicato calmo Saiji.
Si era aspettato una battuta sugli eosiani, di solito arrivava sempre, ma la guardia aveva riso. Evidentemente il senso di inadeguatezza che provava davanti ai figli preferiti di Dio, superava l’usale visione di supponenza che animava i fioriani verso gli estranei.

 

Il dolore aveva fatto sussultare Iren, Saiji aveva osservato le ciglia nere del suo amico, tremolare, nel tentativo di sollevare le palpebre, ma tutto ciò che era riuscito a percepire era stato lo spiraglio bianco della sclera, che era presto scomparsa di nuovo in un sonno serrato. Però era sveglio, non del tutto ma quasi, Iren aveva schiuso le labbra secchissime, aveva provato a mormorare qualcosa, con un tono così basso ed impastato, che Saiji non aveva compreso. Dubitava che qualcuno potesse comprenderlo.
“Non odiarmi, amico mio, lo faccio per il tuo bene” aveva detto, guardando quello che era rimasto del suo amico: una carcassa fievole, di carne bianca, distrutta. Anche se fosse stato bene, probabilmente non lo avrebbe portato ovunque, non sapeva come gestire Iren, non solo per ipotesi, ma per quello che il futuro riservava loro.
Iren aveva spergiurato che poteva gestire il Punteruolo, ma le parole erano scritte sull’acqua – diceva sempre suo padre. Aveva sentito una morsa al petto a quel pensiero.
La sua marra era una figura più semplice da gestire, non sapeva perché. Suo padre se n’era andato prima, più velocemente, in una cacofonia di urla e sangue.

Si era chinato ed aveva cominciato a slacciare i lacci degli stivali, a mezzo polpaccio, di Iren, per liberare anche i piedi, poi si era adoperato nel legare anche le caviglie ai piedi del letto. Il suo amico aveva provato un debole tentativo di ribellione, che era morto in un nodo leggermente stretto.
“Sopravviverai a questo. Te lo assicuro, sei un fottuto maniborbide, cresciuto tra i cuscini di piuma e seta, ma sei forte” lo aveva rassicurato Saiji mentre fermava con più decisione la fune alla tastiera infondo al letto. “Il tuo dio ti ha abbandonato nelle mani de Il Principio e delle mie e nessuno dei due è un maestro gentile” aveva considerato. Un suono era riverberato dalla gola di Iren, che somigliava terribilmente ad una risata, strozzata da un colpo di tosse.

Saiji avrebbe dovuto procurarsi del Latte d’Uccello, non poteva affrontare la depurazione di Iren con quello che dovevano passare. Iren aveva cercato di piegare una gamba per liberarsi dal nodo dalle caviglie. Era stato un tentativo fiacco, che era morto sul colpo, assieme al tremolio delle palpebre. “Non te ne andare” aveva bisbigliato Iren, stupendolo, il suo tono somigliava a qualcosa di terribilmente simile all’umano. Male, aveva realizzato Saiji, se la morte apparente stesse cominciando a passare, la sregolatezza sarebbe stata ormai prossima.
“Lo sai, che devo” aveva dichiarato Saiji, recuperando da una fasciatura di cotone da una delle sue bisacce di viaggio; “Adesso ti legherò la bocca, così non urlerai e non ci ritroveremo questa stanza invasa da persone … e non ti morderai neanche la lingua” aveva scherzato.
Iren si era forzato nell’aprire le palpebre, ma non c’era ancora riuscito, aveva sospirato, pesantemente, “No. Non urlerò” lo aveva rassicurato, “Se tu resti qui, non urlerò.”
Saiji era rimasto fermo, prima di rispondere: “Sarò qui perché sorga di nuovo l’alba. Ti porterò vino speziato e ti riporterò la pasta fritta con miele e noci, che ti piacciono tanto” aveva considerato, prima di recuperare l’unguentario di ceramica comune dalla sua bisaccia, lo aveva stappato ed aveva versato sul suo dito il rilassante dei fiumani, che aveva passato sulle gengive di Iren. Il suo amico non aveva opposto resistenza da quel punto di vista, lasciandosi drogare senza problemi. “Resta” aveva detto Iren, prima di sorridere, risentendo quasi subito degli effetti.
“Lo sai che non ho posso. Ho un impegno. Sto lavorando per noi” aveva detto frustrato Saiji, non voleva fare la conversazione che Iren, in stato di intorpidimento, voleva guidare, “Per la nostra cascina nelle terre ferriane”.
Non lo fai per noi, lo fai per te, perché non puoi smettere’ ed era vero, perché Saiji era quello che era e nulla di più. Ma Iren non lo aveva accusato di quello, dopo tutte quelle sorelle sapeva ancora come prenderlo in contropiede, “Adda sarebbe rimasta” aveva detto solamente, “Sì, Adda sarebbe rimasta” aveva detto Saiji, con la stessa sacralità di un dogma.
Da un lato credeva seriamente a quelle parole, ovviamente la ragazza sarebbe rimasta con Iren, vegliando con la stessa delicatezza di una madre, con le mani tra loro intrecciate, ma da un altro lato Saiji riconosceva la menzogna nelle sue parole: Adda non era rimasta.
Iren non aveva detto nulla a quella sua ammissione, “Se tutto dovesse andare per il meglio, forse rivedremo Adda presto” aveva considerato Saiji, sperando che i suoi amici volontisti non avessero deciso di far ballare loro due la danza degli impiccati per l’orribile peccato di essere ciò che erano: un Maniborbide ed un soldato, un bambino Benedetto e una pecora, un nobile ed un cordato.
A quell’ultima frase, Iren aveva arreso la sua resistenza, offrendo la fronte, il collo, per il pastrano, così che potesse legarlo, “Non vomiterai, vero?” aveva chiesto retorico, Iren si era sforzato di aprire gli occhi solo per poterlo guardare storto, o almeno una vaga imitazione di uno sguardo minaccioso.
Saiji aveva accarezzato con le nocche la curva morbida della guancia, ancora un po’ infantile e si era chinato facendo sfiorare con le labbra la fronte tonda di Iren. Era ancora sudato come un maiale ma non più freddo come la pietra, assomigliava ad un uomo. Le gote del suo amico si erano tinte di un rosso scarlatto, “Nessuna strana idea” lo aveva avvisato con una mezza risata.

 

Città Azalea era sorta dopo la caduta del Florido Impero, ma era vecchia quasi duemila-quattrocento Sorelle, nasceva dal palazzo signorile. Le prime case erano sorte a ridosso dell’antica cita di mura, di cui quei tempi resistevano solo vecchie porte. Di quei tempi il palazzo era protetto unicamente dal fossato e la città era circondata da mura alte e strette che circondavano la città pentacolare ed una muratura più spessa, vecchia, che inglobava il palazzo e le dimore più ricche e vecchie.
Altri borghi sorgevano appena fuori dalle cinta più esterna ed in futuro ne sarebbe nata probabilmente una terza. La città ospitava due piazze, quella principale con la Cattedrale cittadina e quella delle spezie e di viuzze di ogni genere che si estendevano i complicati intrecci urbani, come i fili di una matassa. Ben distante dall’ordine di Città Viola, che poteva vantare un centro-cittadino ereditato dall’assetto ordinato del Florido Impero.
Il luogo di cui aveva avuto necessità, era trovato su uno dei bracci più esterni e malfamati di Città Azalea, la Via del Piacere. La Serra della Signora Sarpia dei Mille Fiori era un lupanare di tutto rispetto, per quanto Saiji non trovasse quei luoghi di suo gusto, affiancato da tutti gli altri luoghi di perdizioni di Città Azalea, però spiccava tra gli altri edifici per cura, grandezza ed eleganza.
Era una casa di tolleranza di una certa raffinatezza, quel genere di posto dove Saiji non avrebbe avuto abbastanza monete neanche per indugiare, un po’ troppo, con lo sguardo, figurarsi poter pagare per la compagnia. Anche se, di rimando, Saiji non aveva mai particolarmente pensato di spendere la sua paga così – il vino era meglio e lo faceva sentire meno in colpa. Si era sempre tenuto lontano dai lupanari, da quella volta che Ser Moira lo aveva portato con l’intenzione di spiegargli il segreto peggio custodito del mondo.

Le pareti dell’edificio erano di un bianco lucido macchiato di venature azzurre, che sotto le luci delle lucerne, risultavano di un verde acquamarina. Le pareti non erano di vero marmo, ma grazie alla mano che le aveva dipinte lo potevano sembrare, specie con le luci soffuse della notte. La bellezza era accresciuta dalla presenza di ogni varietà di fiori e foglie, dai glicini, platani piangenti, pratoline e violette, che si alzavano in verticali, prima di intrecciarsi in forme geometriche, grazie ad un intricato sistema di pergolati in legno smaltato di bianco. Il portone principale, ampio e rispettabile come quello di una chiesa principale, era realizzato con ferro battuto con volute di foglie d’acanto e intessiture viminea. Costeggiato ai lati da due colonne posticce, che rovinano l’immagine di eleganza e bellezza.
Era l’epitome di quelle persone splendide, belle, vicine alla perfezione, ma non benedette.

C’era una guarda alla porta, vestiva in abiti civili, ma Saiji riconosceva lo scintillare del ferro scuro, sotto l’orlo della blusa – una maglia di bronzo ad anelli circolari. La postura dell’uomo era rivolta verso la strada trafficata, l’unica a quell’ora della città, ma gli occhi neri, attentissimi, non perdevano di vista nessuno degli uomini che passava sotto l’argo di bronzo decorato.
Saiji si era avvicinato all’ingresso con passo attento, passando una mano per cancellare le pieghe inesistenti del camiciotto blu notte che aveva indossato. Alla locanda, prima di legare Iren, si era lavato il corpo per liberarsi dell’odore della natura e dei cavalli, ma aveva potuto farlo solo con l’acqua fredda, non avendo avuto tempo di riscaldarla e con poche gocce di olio di lavanda. Era stata la figlia del locandiere, attirata da quell’area magnetica di Iren ad averla convinta a dare loro quell’ultima prelibatezza. La ragazza si era preoccupata di dare a Saiji anche un pettine d’osso, con cui lui aveva cercato di dare un ordine ai suoi riccioli indisciplinati, si era potuto fare poco per i suoi nodi, con acqua fredda ed olio di lavanda.  Aveva anche indossato i migliori vestiti che aveva con sé, non che fossero particolarmente belli o raffinati, se il suo sangue eosiano non lo avesse già messo troppo in evidenza, la blusa con i gomiti rovinati, decorato con ghirigori in filo azzurro a cui erano saltati diversi punti e pantacalze brune ancora macchiate di sangue.

La guardia lo aveva fermato prima che scivolasse come gli altri avventori. “Sei sicuro, mio signore, che questo luogo ti si addica?” aveva chiesto. Aveva occhi nerissimi nel buio della notte, un viso di rame, con una chioma folta nella parte alta della testa, tagliati appena sopra l’orecchio. Saiji aveva fatto scivolare nella sua mano una damigella peripsiana.
L’uomo aveva guardato le monete d’argento ed elletrio prima con confusione e poi realizzazione, “Credo di sì, buon uomo” aveva risposto Saiji. Sfoggiando un fascino che non aveva mai posseduto. La guardia si era infilato la moneta nella casacca, “Ed io che pensavo che tutte le melanzane eosiane fossero poveri rotti-in-culo” aveva considerato, con un sorriso svelto e cattivo. “Lavoro per qualcuno, infatti” aveva dissimulato Saiji, ottenendo il lascia-passare per il locale.
Aveva attraversato il corridoio all’ingresso, cupo e stretto, illuminato da lampade di cera, sistemate in lanterne di ferro, con figure nere, che si riflettevano nelle superficie. Il soffitto era a lunette di fritta blu su cui erano rappresentate stelle d’orate, incorniciate in cerchi smeraldi.
Non era solo lui presente nel corridoio, ma tutti, insieme si muovevano come una processione. Saiji aveva riconosciuto alcuni arazzi sconci, appesi alle pareti.
E poi, il corridoio lo aveva condotto in porticato pieno di statue, pieno di persone, che con colonne bianche, sottili, terminante in capitelli compositi, foglie d’acanto nella parte superiore e bestie ruggenti nell’inferiore, circondava uno splendido giardino.
Aveva attraversato il pavimento mosaicato, fino a raggiungere il cortile, sentendo sotto gli stivali la pressione diversa dell’erba fresca, lì, l’odore di fiori era così forte, da averlo lasciato spaesato, fumi d’incenso bianco si aprivano da bracieri posti ai quattro angoli. Esistevano panchine di marmo, cassettoni di sarcofagi – reliquie del Florido Impero – rovesciate, perché la parte piana fosse usata come seduta.
E lì, in quell’ambiente, corpi si intrecciavano tra loro, in una sinfonia di sospiri ed urli, pelli contro pelli, stoffe trasparenti e sudore.
E voglia.
Saiji era rimasto quasi incantato nell’osservare una coppia arpionata non lontano da lui, così stretti ed avvinghiati tra loro da sembrare un’unica bestia amorfa … e poi mentre si lasciava conturbare da quella visione aveva visto lei. Una donna, con un passo felpato come quello di uno spettro, ondeggiare verso di Saiji. “Buona sera, Freor” lo aveva chiamato suadente; aveva sentito un fischio nelle sue orecchie per l’idioma eosiano, non che la cosa avrebbe dovuto stupirlo, la donna stessa apparteneva alla stirpe delle genti oltre il mare.
Era una donna affascinante, ma non nascondeva in toto la sua età, la signora doveva era più adulta di quanto fosse Saiji, sulle centosessanta, forse centosettanta sorelle.
Aveva gli occhi leggermente allungati, dalla forma di mandorla, estesi in una riga dritta in tintura di galena grigia, accompagnati da palpebre in verde malachite e le guance omogenee con la polvere di agretto bruciata.
Come lui doveva essere una meticcia. La sua pelle era tannè, come quella degli eosiani purosangue, ma aveva le labbra sottili dei fioriani, così come un naso piccolo, era di statura minuta. Così come gli occhi, verdi come l’erba, troppo chiari ed inusuali per le calde terre oltre il mare, forse anche per le terre del pregiatissimo impero, addirittura poteva condividere con lui sangue ghaadiano o forse delle terre-della-fine-del-mondo. I capelli però erano eosiani, erano folti, scuri come legno d’acero, che scivolavano in onde morbide come l’acqua che si increspava sulle coste, portati sciolti come le fanciulle nubili; a Saiji aveva ricordato quelli della sua Marra.
Nonostante l’altezza non così elevata, il corpo della donna aveva la forma di una clessidra, accompagnato da curve morbide dei fianchi, dei sani pieni e dalle cosce carnose. Non era nuda, non completamente, non formalmente, il corpo era nascosto da un vestito di tulle acquamarina, che permetteva di scorgere ogni dettaglio del corpo.
Anche il fiore sul suo petto era visibile: tre fiori di ganzania, uniti da gambi sottili, con petali dai colori vibranti.
Se Saiji non fosse stato educato per l’interezza della sua vita a prestare attenzione ad ogni dettaglio – un errore, una dimenticanza e sarebbe stato cibo per i vermi – lo avrebbe definito un fiore benedetto, ma non era così. Il fiore della donna era quello di un bimbo sbagliato, ma era stato aggiustato, abbellito e migliorato da inchiostri umani: colori troppo finti per essere le delicate sfumature del pennello del Dio-di-tutte-le-cose-buone, così come i petali, troppo carichi di colore, quasi scintillanti.

I fiori erano naturali, macchie della pelle, non avevano sempre contorni precisi e ruggenti, non più di, nei, efelidi e macchie, nonostante la loro bellezza. Però il fiore della donna aveva troppe vistose perfezioni-imperfezioni umane. Probabilmente sotto la malachite e la polvere di agretto il viso avrebbe rivelato la sua umanità, forse nascosti dai capelli nerissimi, svettavano orecchie ingombranti. Sicuramente, la donna era quello che si soleva dire: non-lontana-dalla-perfezione.
Se Saiji avesse dovuto sbilanciarsi avrebbe detto che ambedue i suoi genitori dovevano essere benedetti, ma non anime condivise tra loro. Similmente a Saij, che aveva una madre figlia del destino ed un padre non-lontano-dalla-perfezione.

“Buona-luna, Sarra” le aveva detto ricambiando il vezzeggiativo famigliare, dopo aver perso troppo tempo a studiare il fiore. La donna non era stata turbata dai suoi occhi sul suo seno, probabilmente qualcosa a cui una lupa di baci doveva essere avvezza.
La donna aveva sorriso a quel vezzeggiativo; gli eosiani, o chi aveva solo una goccia di sangue di quel popolo, in terre lontane dalla patria, si appellava sempre così. Saiji conosceva a malapena l’eosiano, aveva imparato la versione imbastardita con il ghaadiano che sua madre parlava – e che Moria si era impegnato perché non parlasse più - e i loro costumi anche meno. Conosceva quello che la sua Marra le aveva insegnato, che nonostante professasse con orgoglio il suo sangue eosiano, era nata in Ghaadia e non aveva mai veduto Eos con i suoi occhi.

“Come posso servirti, Freor? Cosa cerchi? Quali desideri il tuo cuore vuole colmare?” aveva chiesto sensuale la donna, sfiorando con l’indice della sua mano la stoffa turchese della sua blusa, “Puoi cogliere qualsiasi fiore qui nella Serra” aveva aggiunto.
Così vicina, Saiji poteva sentire il suo odore, era intenso, ma non floreale, più vicino all’intenso. “Un uomo” aveva risposto lui.
L’espressione della donna non era cambiata di una virgola, gli occhi erano rimasti attenti ed il sorriso terribilmente educato, “Peccato per me” aveva scherzato, “Ma qui di certo non mancano, giovani, adulti, anche vecchi per certi gusti. Ghaatiani” – pronunciato con il suono del th che con la d – “con la pelle di fata, sussurranti con capelli d’oro, fioriani tulpee, fioriani istiani, fioriani boghiani per farla breve: ogni fiore del Pregiatissimo Impero. Oltre che ferriani di ogni tipo, eosiani come vedi, errantiani con l’occhio stretto, fiumani con campanelli alle caviglie ed anche kartissiani alti come giganti” lo aveva invitato, “E figli del Destino, i bambini benedetti” aveva aggiunto nel farlo si era fatta scivolare una mano sul suo stesso petto, dove appariva il suo fiore rifinito, poi con voce più dura aveva aggiunto: “Nessun fanciullo però e se tu lo volessi, questo non è luogo per te”.
Saiji aveva sorriso, “Se posso essere onesto, Sarra, cerco un uomo sbagliato, anzi più che sbagliato … e si maturo” aveva spiegato, un’espressione leggera di confusione si era aperto sul viso della donna, “Un uomo dannatamente lontano dalla perfezione; imponente, leggermente fiacco sul ventre, con orecchie grandi come amboni, denti gialli come girasoli e sopracciglia spesse come code di furetto, su una bella fronte spiovente” aveva spiegato con assoluta leziosità Saiji.
Lo sguardo leggermente confuso della lupa, si era presto arrestato, ma non aveva recuperato la grazia e compostezza che aveva ostentato fino a quel momento; sul suo viso invece di era dipinta un’espressione più genuina, così come il suo sorriso era stato più gentile. “Oh!” aveva esclamato, “Lei deve essere Ser Alderichi! Scarabocchio non mi aveva preparato a un mio Froer. Dal suo gentilizio mi aspettavano un ghaathiano con la pelle di cera e gli occhi blu come il mare delle sirene” aveva spiegato la donna. Saiji le aveva sorriso con più spontaneità anche lui, “Quello era mio padre, ghaadiano in tutto il suo splendore” aveva risposto, “Da lui che ho preso i capelli.”

Era strano: qualche luna prima aveva sognato la sua marra e neanche qualche ora passata aveva citato il suo vecchio – che mai lo era stato – e … realizzava fosse passato tanto tempo dall’ultima volta che gli aveva pensati con così tanta intensità. Ricordava ancora i loro volti, non credeva avrebbe mai potuto dimenticarli, ma le loro voci, oh, quelle aveva cominciato a dimenticarle.
“Un bel coraggio ad averti dato il suo gentilizio, i ghaathiani sono gente bizzarra; qualcuno dice si sposino le loro cugine perché non possono scoparsi le sorelle” aveva commentato la donna, dedicandosi ad uno preconcetto terribilmente blando e circostanziale. Saiji aveva compreso quello che doveva essere il fine ultimo della donna: rassicurarsi che lui fosse davvero Saiji.
Non credeva che Scarabocchio non l’avesse preparata ad un mezzo-eosiano con un gentilizio ghaadiano, ma potevano esistere meticci, con una mistura sui capelli che sapevano fingersi figli di ghaadiani. “Era un It Ghaadiano, anche se non era l’uomo più devoto di questa terra, non lo era decisamente visto che in questa luna sono qui. Quando ha scoperto che mia madre era incinta, la ha sposata, mandando a Il Principio i suoi voti, i voleri della sua famiglia e quant’altro” aveva raccontato Saiji.
Non era la verità, non del tutto – ma era la storia che aveva raccontato a Scarabocchio durante la Sorella della Quisquiglia.
La donna lo aveva guardato, con attenzione, con quegli occhi troppo chiari sul viso, pareva rassicurata ma non soddisfatta, “E Ser lo sei davvero o è un inganno ben pensato?” aveva inquisito con leggera menzogna. “Ordinato cavaliere a settanta sorelle, decimana più, decimana meno, al pianoro delle mandorle, dal Duca Bergen Ramberra, vecchio signore di Querce Grandi” aveva raccontato e quella non era decisamente una menzogna, “Scarabocchio era con me.”
La donna aveva riso, con un gusto amaro, “Una melanzana cagliata[1], che combatte Cavalcatori Erranti al fianco di Fioriani” aveva raccontato, Saiji non aveva preso male il vezzeggiativo razzista, abituato a ben di peggio, “Nominato cavaliere da niente di meno che il padre dallo
Scintillante Generale. Trovo tutto questo sublime” aveva quasi squittito la donna.
Che strana reazione aveva pensato Saiji, “Siete la sola. Ser Moria pensava non avessi fatto abbastanza per tale titolo. Nessuno nel Pregiatissimo Impero gradisce che un meticcio possa avere un titolo, per quanto privo di pecunia quale quello di ser” aveva raccontato. “La Gloria, mio freor, è comunque notevole; è un passo, piccolo o grande, ma pur sempre un passo verso la prossima sorella” le aveva detto.
Saiji era rimasto perplesso da quella parola, non era sciocco, lo aveva sempre saputo che con quell’azione, più di una persona – Moria – aveva voluto leggerci qualcosa di più grande, nel bene e nel male, ma Saiji non era un vessillo né una fiaccola.
Il silenzio che si era creato, era stato rotto dalla donna, “Che maleducata che sono stata, Ser Alederichi. Io sono Luezhjana[2], ma le lingue annodate di questi fiorellini preferiscono chiamarmi: Lues” si era presentata. “Figlia del Grande Fiume” aveva pronunciato lui, quasi senza controllo.
Lei aveva sorriso, “Un antico nome tradizionale. Due delle più grandi regine di Eos lo hanno indossato” aveva ammesso, “Immagino che anche il suo nome Ser Alderichi, sia stato castrato per queste lingue di pietra” aveva ammesso.
Saii aveva annuito, “Saijiorahavish[3]; in effetti” aveva ammesso, “Il guerriero più coraggioso” aveva considerato Lues. “Il nome è eosiano, ma lo ha scelto quel cagliato di mio padre” aveva ammesso, anche quello era una verità.
Non sapeva perché, da bambino non aveva mai pensato di chiederlo e di quelle lune non gli era più consentito farlo. “Splendido nome, sì. Buon gusto, per un ghaathiano. Allora, abbiamo perso fin troppo tempo” aveva stabilito la donna, accompagnando quella frase, battendo anche le mani fra loro.
Saiji non si era aspettato quel repentino cambio di tono, né il ferreo movimento che ne era seguito. Lues le aveva preso la mano, scattante, ed aveva cominciato a condurlo, con passo bellico, quasi, verso il sentiero scolpito dalle colonne del portico, fino a svicolare in un ingresso, che conduceva ad un corridoio a forcipe, anche quello pieno di peccati e lussurie.
E poi in un'altra stanza, ed un’altra. Arazzi di ogni tipo, con posizione sessuali di ogni genere, uomini, donne, con uomini e donne, intrecciati in ogni modo.
Quasi, quasi, stuzzicanti anche per lui.
E poi, Lues lo aveva condotto in una ampia stanza absidata.
Saiji era sconvolto dalla Serra, non aveva compreso la dimensione originale di quell’edificio, sembrava una di quelle ville agresti che un tempo avevano occupato gli agri del florido impero, qualcosa fuori-tempo, fuori-luogo, fuori-tutto.

Appena messo piede in quell’ambiente, Saiji aveva dovuto abituare gli occhi all’ambiente più cupo. Sotto le stelle del portico, illuminato dai bracieri, aveva potuto godere di più luce, che in quella stanza angusta. Oltre il predominante buio, la stanza era accompagnata da veli d’incenso e fumi, che impregnavano non solo la vista ma anche l’olfatto. L’unica luce che era presente in quell’ambiente, era dato da candele con fiamme tremolanti, dedicando alla stanza un tono quasi mistico, religioso.

Ma se l’ambiente poteva ricordare una chiesa alle veglie notturne, nella Sorella Pallida, ciò che più richiamava a sé l’attenzione, era il coro di piacere, una cacofonia di voci, in un continuo crescendo. Uno spettacolo di dissolutezza, in toni che andavano dai sospiri sussurrati a voci acutissime. “Sai, spero, Saijiorahavish che Scarabocchio non ti stia mettendo nei guai. Per la legge non scritta della Madre Pietra dovrei cantare i lamenti per tre decimane per il sangue di un freor” aveva ricordato la donna, aveva lasciato la sua mano, ma aveva continuato a condurlo per un labirinto di tende, arazzi e bestie a più braccia. “Più il contrario” aveva ammesso lui. Lei si era arrestata, “In tal caso, spero tu non lo uccida, o in tal caso dovrei ammazzare te e fare i lamenti per entrambi” aveva considerato. Saiji era rimasto fermo, colpito, come da una secchiata d’acqua gelida, prima che Lues si lasciasse andare in una risata fresca, pregna di innocenza e dolcezza. Qualcosa che Saiji doveva ammettere: non aveva mai pensato di trovare in un lupanare. “Tranquillo, Freor, Scarabocchio ha il ferro al posto delle ossa” aveva aggiunto Lues, Saiji ebbe l’impressione dovesse conoscerlo bene, forse intimamente, “E anche una smodata passione per le cause perse e le scemenze, se non ricordo male” le aveva dato credito lui; “Ovviamente, gli uomini con passioni moderate non colgono qui i loro fiori” aveva considerato Lues.

Lei aveva spostato un telo rosso scarlatto, decorato con fili lucenti, che descrivevano ghirigori arricciati, rivelando un’alcova, dove un ragazzo era seduto su un piccolo trono di legno, con finte placcature d’oro. Era giovane, non più acerbo, ma neanche stagionato, ma quell’unica caratteristica era l’unica caratteristica degna di nota, tutto di lui rivelava l’aspetto di un fioriano comune, come ne esistevano mille altri al mondo. Un viso comune, con la pelle della stessa tonalità del seme d’avellana, con capelli scuri che scendevano arricciati su un viso tondo e comune, fino al collo. Aveva degli occhi invitati, erano di una sfumatura castana, della stessa tonalità della birra rossa, grandi – forse erano un’altra qualità notabile. Quando gli aveva veduti, lui si era tirato immediatamente su, curioso, “Porta quest’uomo nella Stanza delle Vivace” si era raccomandata, perentoria, Lues.
Il ragazzo si era sollevato dal suo finto trono con un movimento di melassa, l’espressione annoiata che aveva avuto fino a quel momento si era ridestata dopo aver lanciato uno sguardo verso Saiji – per studiarlo. “Posso restare lì?” aveva chiesto poi, stavolta a Lues, “Se te lo chiederanno sì, altrimenti porta loro del vino e trova un altro modo per pagarti il tuo trono, pelandrone” lo aveva rimbrottato la donna, leggermente seccata, ma dopo aver pronunciato quella frase si era lanciata per tirare un bacio umido sulla guancia del ragazzo, quasi affettuoso, quasi materno. Il ragazzo l’aveva guardata con finta insofferenza, ma l’angolo delle sue labbra sollevato aveva smascherato il suo inganno.
Lues si era voltata verso Saiji facendo oscillare i lunghi capelli mossi ed aveva chinato il capo in una riverenza, “Obbligata Freor, ti lascio alle man gentili del mio amico” aveva dichiarato rispettosa; lui l’aveva imitata con la stessa educazione. Lues lo aveva guardato ancora, poi aveva detto qualcosa in eosiano, ma era stata veloce e la cacofonia del lupanare aveva oscurato il suo augurio – Saiji ne era certo – e poi si era ritirata. Aveva udito solo poche parole: marra, che voleva dire madre, e kytae, che voleva dire occhio. Che l’occhio della madre ti vegli? Divertiti ora senza l’occhio della madre?
Non ricordava i detti eosiani.

Il ragazzo aveva osservato l’ancheggiare di Lues, fino a sparire tra gli arazzi e le tende, quasi in attesa che lei si voltasse ancora per dire altro. “Ah, lei deve essere la Lupa Capobranco” aveva valutato Saiji, “Di solito non è un uomo a gestire un Lupanare?” aveva chiesto. Anche se il nome del luogo esibiva quello di una donna, non era che un’usanza. “Una volta lo era, ma il buon Fabren si è mangiato un piatto di funghi” aveva detto il ragazzo. Un nome irtoso!
“Tanti uomini muoiono così. Certi funghi sono proprio maligni” aveva risposto circostanziale Saiji. Il ragazzetto aveva riso, “Perfino il Vecchio Imperatore” aveva aggiunto, “Non che il buon Fabren fosse da paragonarsi a lui, che marciscano le sue radici con il Principio” aveva detto seccato.
“Prima o dopo la Campale di Malvasia?” aveva domandato Saiji. Sapeva che la concezione degli uomini del Pregiatissimo Impero era cambiata verso gli Irtosi, dopo la battaglia. Il ragazzo aveva ridacchiato, “Tre Fredde prima, mio signore” aveva spiegato placido, “O rischiava di essere appeso per le palle”.
“Lues deve essere comunque notevole per tenere in riga questo luogo qui” aveva considerato comunque Saiji più per riempire la conversazione, mentre aspettava che il giovane si decidesse a condurlo nella stanza della Vivace. Quello aveva annuito, “Più che una lupa capobranco, la mia buona Lues, è un cacciatore” aveva risposto con pigrezza.
Come la sua compagna di branco, anche lui indossava un non-abito, che lascava esposto il corpo. La pelle oliva, con il ventre snello ed il petto piatto, su cui spiccavano due margherite dai contorni lineare. Gli obliqui in rilievo che conducevano al pube, l’unica zona coperta da un drappo di seta nera, che scopriva le gambe toniche.
Il lupetto aveva riso divertito del suo sguardo, ma non aveva raggiunto i suoi occhi luccicanti. “Dai, ti faccio strada, mio signore” aveva concesso il giovane.

 

Ciò che lo aveva accolto nella Stanza della Vivace lo aveva lo aveva disorientato non poco.
Saiji si era aspettato un’orgia; corpi nudi intrecciati in ogni dove, l’aria impastata di sesso ed incensi, mescolata al puzzo del sudore e degli oli troppo floreali. Cascate di vino viola.
Si era aspettato nulla di diverso da ciò che aveva spiato nelle altre camere del Lupanare, ma era stato scortato in una stanza piuttosto tranquilla.
Qualche cuccioletto, tra donne e uomini, girava senza neanche i veli, per vezzeggiare gli uomini, per lo più i guerrieri, ma neanche erano gnudi, più interessati al cibo ricco del banchetto che all’invito de sesso. Qualcuno di tanto in tanto allungava una mano per tastare qualche corpo, ma sembrava più un manierismo, che una vera dichiarazione di intenti. Un uomo nerboruto – Verbe, se non ricordava male Saiji, con quei suoi occhi neri come quelli del principio – aveva invitato una donna ghaadiana chiara come il latte e con indosso solo una collana di anelli di ferro, a sedere sulle sue gambe. Lei si era accomodata, sorreggendo un cesto di vimini intrecciato carico di uve, che passava con delicatezza sulle sue labbra.

Saiji aveva schiuso le labbra, “Confesso, mi aspettavo depravazione” aveva ammesso alla fine. Il suo accompagnatore aveva riso, “Fino a qualche Luna fa era assolutamente la stanza più degenerata che poteva esistere. Ma ora, i bollenti animi hanno trovato la pace” aveva spiegato. Saiji si era rivolto verso di lui, osservando l’espressione che era sorta sul suo viso, “Per questo vorresti servire qui” aveva dichiarato. Il ragazzo si era fatto rigido come la lama di una spada e si era morso un labbro tinto di rosso, ma non aveva risposto.
Come avrebbe potuto.
Era prerogativa per un Lupo di Baci mostrarsi sempre disponibile, voglioso, perché la fantasia rimanesse in piedi. A molti uomini piaceva l’idea del potere, dell’umiliazione, ma alla maggior parte piaceva l’illusione di essere amati. “Portami una coppa di vino caldo con del miele” lo aveva salvato dall’impiccio della verità, dandoli una moneta. Saiji non aveva aspettato risposta, prima di farsi spazio in quel tripudio di festa.

Non aveva impiegato molto a ritrovare l’uomo che stava cercando. Era ad un tavolo, imbandito di così tanto cibo da gareggiare all’apparenza con le cene al Bocciolo, anche se immaginava dove fosse cinghiale e pernice, lì in quelle tavole fossero pollo e maiale; comunque, molto più di quanto avesse consumato lui nelle ultime decimane. L’uomo indossava una lunga camisia di seta, drappeggiata di stoffa in più lungo il bordo del collo allungato, che esponeva le clavicole, così come il petto villoso, come quello di taluni cani da caccia. Seduta accanto a lui c’era una donna dalla pelle scura, molto più di qualsiasi eosiana avesse visto in terra fioriana. I suoi occhi non erano leggermente allungati, così come il naso era più schiacciato, le sue palpebre erano tinte d’oro e le sue labbra viola ed i capelli erano una matassa di riccioli piccoli e voluminosi. Di qualunque luogo venisse, a qualsiasi popolo appartenesse, era una donna bellissima.
L’uomo stava raccontando qualcosa di divertente alla donna, doveva davvero esserlo, perché la risata sembrava autentica.

“Saijir! O Saijir!” aveva sentito qualcuno strillare, aveva riconosciuto chi lo aveva chiamato prima ancora di voltarsi, pochi lo chiamavano con quel diminutivo e quella voce non gli era ignota. Si era voltato, senza bisogno di cercare a fondo il suo chiamatore. Era difficile non notarlo, lì, con una lunga chioma sottile di un bianco pungente, seduto ad un tavolo che stuzzicava formaggio erborinato, affiancato da un compagno che ronfava con il viso sul tavolo. “Zegros” aveva esclamato Saiji, erigendosi sopra il chiacchiericcio, raggiungendo il tavolo in questione. “Sieti e bevi con me Ser. Il mio signore comandante sta intrattenendo Jantibal” aveva detto immediatamente Zegros, “Lei adora ascoltare le sue storie”.
Saiji aveva sospettato che quando li fosse stato dato appuntamento alla Serra per l’uomo non avesse dovuto essere un posto casuale. “Senza dimenticare, che so quanto adori lui ascoltare il suono della sua stessa voce” aveva aggiunto senza malizia, Zegros non si era per nulla offeso.



[1] Melanzana è un offesa al sangue eosiano, Cagliata a quello ghaadiano (riferito al fatto che è gente con la pelle pallida come il latte)

[2] Luezhjana: Na- Figlia; Luez-Fiume; Hja-Grande

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Capitolo 9
*** PARTE PRIMA; TIOLO I; CAPITOLO VI ***


Alziamo i calici all'unico capitolo senza una menzione a Moria Ramberra

 

C A P I T O L O    V I

E R A   A B I T V A T A    A D    E S S E R E    G V A R D A T A    C O N   D E LV S I O N E

 

Uno dei soldati del contingente aveva voluto vederli, si era presentato alla pieve con una bandiera senza colore, chiedendo di incontrare chi di loro comandava e Adda. Lei aveva sentito il sangue farsi solido quando l’uomo vestito di ferro scuro aveva pronunciato il suo nome. Non era stato volgare, né ineducato, nel suo tono ferriano e nelle parole tese di chi non destreggiava bene la lingua, ma si era rivolto a loro, a tutti, loro come fossero stati due Mani Morbide.

Quando Adda lo aveva visto per la prima volta si era aspettata la parlata grezza degli adoraoro; d’altronde tutto sembrava dirlo: alto da dare la vertigine, con spalle così larghe da poter sorreggere il mondo, ma sotto l’elmo di ferro-nero, era apparso il viso piatto di un giovane, rasato – o forse ancora sbarbato – e con gli occhi ardenti di preoccupazione. L’aspetto di chi era cresciuto improvvisamente e non aveva ancora realizzato la portata del suo cambiamento e delle emozioni che questo portava con sé. Con indosso l’elmo nero era sembrato un guerriero temibile, un uomo fatto e finito di ferro, con il viso scoperta era un ragazzo che si sentiva di troppo nel suo stesso corpo. O almeno quella sensazione aveva dato ad Adda.
Era un Bimbo Sbagliato, come lei, era evidente a primo sguardo.

“Io sono Berineo Tarandi, cavaliere onorato della Diarchia della Gradiosa Perlipsia e sono qui come araldo della monna Teresia Immacolata Arga” così si era presentato, senza perdere il suo fervore, aveva parlato in un floriano rispettoso, sebbene il forte accento ferriano-peripsiano avesse sporcato il tono, dando l’idea di una doppiezza di molte lettere. Quest’ultima cosa e l’atteggiamento leggermente estraniato del giovane imberbe, aveva tolto molta tensione al momento.

“Benvenuto, cavaliere, qui sei tra gli scivolati, non esistono né Monne, ne Signori” aveva chiarito, “Io sono Garlio, non sono chi comanda, ma come te solo un portavoce” aveva ammesso senza perdere la sua pratica compostezza, prima di sfiorare con una mano la schiena di Adda, spingendola a presentarsi a sua volta.
Berineo, con gli occhi vacui e nocciola, si erano diretti verso di lei, incuriosito e incerto, forse stupito e confuso della sua presenza.

Adda era abituata ad essere guardata con delusione.

Il discorso di Garlio non lo aveva turbato: “La mia monna chiede con garbo e rispetto, udienza con voi buoni uomini e liberi pensatori e alla sua buona amica monna Adda del Giardino!” aveva decantato con fierezza.  Lei aveva aggrottato le sopracciglia: Amica? Monna?
Era un’immagine che trovava oltremodo l’immaginazione umana. Theresia Arga che la imputava non solo con un titolo nobiliare di troppo, ma anche come sua pari, come sua amica.
Certo quando Adda si era presentata da lei la prima volta, lo aveva fatto comunque qualcosa di più di una serva, ma ancora tremendamente lontana dall’idea di un essere umano ed ancora vicino allo stato di pecora. Un’appendice di Saiji e Iren – un’appendice vestigiale.

Adda si era voltata vergo Garlio incerta, lui non la stava guardando, i suoi occhi bellissimi erano rivolti verso il cavaliere, si era voltato poi verso i suoi compagni, tutti pendevano da qualsiasi parola avrebbe pronunciato, tutti dipendevano da lui. Garlio avrebbe potuto non definirsi il loro signore, ma lo era.

Non era sicura se fosse per il suo carisma o per quel sangue maledetto che lui rinnegava, o per entrambi. Garlio era un bimbo benedetto che si dichiarasse contrario alle benedizioni, questo non sarebbe cambiato.
Nato per essere perfetto, dominatore del mondo e degno della devozione di una divinità, ma aveva rifiutato il suo ruolo per essere libero, per poter camminare su lidi ignoti e per essere uomo come qualsiasi altro uomo.
Eppure, la sua presenza, la sua voce, irretiva tutti gli uomini lì.
Garlio poteva abiurare sé stesso, ma sfruttava il fascino che la sua benedizione gli offriva.

“Saremmo felici di incontrare Theresia di Peripsia, qualsiasi amica della nostra Adda è nostra amica” aveva stabilito con sicurezza, ignorando di proposito l’utilizzo della titolatura.

Questo aveva irritato Berineo ma non aveva emesso commenti di natura offesa, “Allora lei è felice di invitare voi al suo accampamento” aveva stabilito con voce incerta.
Adda non era stata certa di quanto quello fosse stata una cosa buona, ma Garlio, come tutti gli uomini benedetti che aveva incontrato – e su questo non faceva eccezione – non poteva concepire di essere nel torto. Ma per Adda era certo che quello fosse l’inizio di qualcosa di pericolo.

 

 

Monna Theresia Arga aveva fatto erigere una città di stoffa in una zona pianeggiate – il pregiatissimo impero non ne mancava – non lontana dall’ansa sinistra del Varpoe, uno dei diffluenti del Serpente.
Adda lo aveva visto da dietro la spalla di Garlio, quando erano giunti a cavallo.
Il baraccamento era composta da una diversità di tende che si estendevano per un campo intero. Stoffe di diversi colori e materiali, dalle stoffe più grezze per le piccole coperture a padiglioni di velluto. Il centro della città di stoffa, visibile, solo dopo una lunga traversata labirintica nell’accampamento, era di forma esagonale, immensa abbastanza per contenete solo lei una cinquantina di persone – Nerf aveva contato bene, cinquanta erano i soldati con Beronio, ma almeno in doppio dovevano essere stanziati lì nel campo, se non di più, Adda non era brava a contare con gli occhi – da lei si estendevano come raggi del sole le altre dente, in una disparità di forme e dimensioni.
C’era una gran vita, di uomini – ed anche donne – che correvano a  destra e manca; alcuni uomini indossavano l’armatura, altri parzialmente, anche qualche donna era bardata; c’erano anche persone spoglie del ferro, alcuni dovevano sembrare servitori dai modesti vestiti, ma altri guerrieri con le braccia nude.

Beronio non aveva dovuto dire loro dove era alloggiata la loro Monna, almeno non Adda. Ricordava bene Theresia ed i suoi modi di agire. “Stiamo andando nella direzione sbagliata” aveva sussurrato all’orecchio di Garlio.
Lui aveva voltato la testa per quanto fosse possibile, e l’aveva guardata con l’angolo dell’occhio.
“Theresia Arga potrà amare il lusso, la seta e le comodità, ma non alloggerebbe mai in campo aperto nella tenda più maestosa” aveva stabilito sicura Adda, “Sarebbe come disegnarsi un bersaglio lungo la chiesa” aveva considerato Garlio, dandole ragione.
“Non pensare a lei come una Manimorbide, o meglio, una semplice manimorbide” aveva sussurrato, “Lei è una donna di ferro. Il primo insegnamento che le danno è come essere discreta” aveva considerato Adda.
Ricordava la prima volta che l’aveva veduta, dietro una parete traforata della Chiesa di Peripsia, nel matroneo.
“Sei nel lato sbagliato” l’aveva richiamata, solamente, con le dita intrecciate tra gli intrecci viminei di marmo dipinto e gli occhi appena visibili dietro un velo.
Così Adda aveva cercato tra le tende quella che poteva essere quella di Theresia, ma tra tutte quelle case approssimate, spariva ogni possibilità – forse quello era lo scopo.
“Ricordami come la hai conosciuta?” aveva detto Garlio, tornando a guardare davanti a se orgoglioso, sulla sella del suo cremello pallido.
“Ho lavorato per lei” aveva ammesso Adda, “Suo fratello Emisio aveva perso al gioco un gioiello che serviva per la dote di sua sorella e lei aveva necessità che venisse recuperata senza troppo clamore” aveva raccontato.
Era una versione piuttosto semplificata degli eventi, ma era comunque corretta.

Alla fine, erano stati comunque condotti nella tenda principale, quella esagonale.
Dopo aver legato il cavallo cremello di Garlio – il ragazzo aveva dato una carezza gentile sul muso bianchissimo del cavallo, e il vecchio arione con cui Nerf e Delisio li avevano seguiti. Gli Svincolati non avevano molti cavalli, più muli – erano creature più diligenti, più resistenti e più mansueti, qualche pecora, due mucche buone da latte, che portavano nel loro ramingare; ma sarebbe stato quanto meno mortificante presentarsi davanti ad una ricca monna a cavallo di un’asina.
O meglio a parere di Delisio, ad Adda non sarebbe importato, di presentarsi a cavallo di un mulo quanto di un drago o con le sue nude gambe.
Garlio non aveva emesso giudizio, le sue labbra si erano fatte strette e infastidite, come se l’idea di doversi abbellire per una manimorbide lo avesse messo sui tizzoni ardenti e allo stesso tempo era tormentato negli occhi all’idea di apparire di meno.
Eretico. Liberista. Volontista.
Eppure: ancora legato a quei ruoli.
Adda gli aveva preso la mano e gli aveva dato coraggio, ‘Va bene se per questa volta, sembrerà che segui il buon sentiero’ anche se non era vero.
“Che lusso! L’ultima volta che ho vissuto sotto una tenda del genere …” aveva cominciato a dire Delisio, ma era stato interrotto da uno sguardo piccato che si era dipinto sul viso di Garlio, sagittando maledizioni verso di lui. Adda aveva sorriso verso di lui, schioccando le labbra, “L’oscuro passato di Garlio e Deilisio” aveva scherzato forzatamente, sollevando i palmi.
Lui aveva sbuffato, “Non c’è niente di misterioso. Solo molto triste e cupo, Adda” le aveva detto, facendo roteare il pollice sulla nocca dell’indice destro di Adda, “Inoltre, noterei che anche tu non sei molto chiacchierona” aveva valutato lui.
Lei si era goduta lo sfregamento del pollice sulla sua nocca, sulla sua pelle, cosa che le dava sicurezza; con la mano libera, Adda aveva accarezzato la mascella del cavallo cremello, l’animale non aveva ancora un nome, non lo avrebbe avuto presto. Garlio non voleva nominare l’animale, lo trovava una cosa superflua, gli animali non avevano bisogno di nomi, erano ben consapevoli di chi fossero. “Strano, mi hanno sempre detto avessi una boccaccia così larga che era un mistero come facessi a bere l’acqua senza che questa sbrodolasse” aveva risposto Adda, con un sorriso mesto.
E per la sua linguaccia si era presa qualche scudisciata di troppo.
“Allora, srotola la lingua e scopri cosa vuole questa adoraoro. Io neanche parlo il ferriano” aveva sussurrato lui.
Theresia parlava la lingua dei fioriani, come tutte le manimorbide aveva ricevuto un’istruzione vera e completa, anche nella terra dove alle donne veniva insegnata la mansuetudine e la trasparenza. “Sappiamo bene che tra e me è te, l’uomo capace di incantare i serpenti sei tu” aveva risposto pratica Adda, allontanando la mano dal muso bianco della bestia. Un’espressione di dolore si era dipinta sul viso di Garlio, profondamente in conflitto con il suo sangue che tanto odiava.
“Se avete finito di guardarvi languidi, credo che una deliziosa signora di ferro ci attenda” li aveva richiamati Delisio, sfacciato, allungando le braccia attorno alle loro spalle e dopo averli avvolti aveva lasciato il suo peso crollare verso il terreno e se non era caduto giù anche lui come un frutto dall’albero era stato solo perché loro lo aveva sostenuto.
Beronio si era fatto paonazzo in viso per l’aggettivo che era stato utilizzato per descrivere la sua signora.
“Prego da questa parte” aveva attirato l’attenzione un giovane uomo, affiancandosi a loro giovane cavaliere guida, con un tono tremendamente sgradevole per essere fioriano. Era uno paggio, vestito di blu notte, stretti sulla vita e con la camisa lunga fino ai fianchi, con le maniche a fisarmonica dalla spalla al gomito, come richiedeva l’usanza ferriana.
Aveva un viso magro ed insolitamente pallido.
Adda aveva impiegato un momento di troppo per guardarlo e forse i suoi occhi indagatori avevano reso il ragazzo nervoso, perché si era morso prontamente il labbro pieno.
Aveva osservato come sulla camisa blu notte, fosse cucito un ocelot rampante ma diffamato, in campo azzurro. Una famiglia peripsiana sì! Non membro della Diarchia ma comunque di sangue ricca.
“Don Teddesio Lamorgilla!” lo aveva riconosciuto Adda, alla fine. Era il ragazzino sempre nervoso che serviva il vino nella ricca dimora degli Arga! “Ehm …Siete …fiorito molto in queste sorelle” aveva ammesso lei, trovando il ferriano difficile da pronunciare sulle labbra. Era passato tantissimo tempo da quando lo aveva parlato con frequenza, lo stesso tempo che era passato da quando aveva visto per ultimo Don Teddesio Lamorgilla, che nelle sorelle trascorse era passato da bimbino e giovane uomo.
“Credo che la parola da te cercata mia monna fosse cresciuto, perché decisamente lei è fiorita” aveva considerato il giovanotto, con le guance arrossate. Anche Adda era diventata rossa in viso, sia per il complimento – così spontaneo – sia per il modo grossolano a cui si era rivolta al Don.
Ricordava Teddesio come un ragazzino che serviva il vino, erroneamente la prima volta lo aveva scambiato per un servitore, prima di essere illuminata sulla sua condizione di nobile-in-prestito.
Aveva sentito lo sguardo di Garlio addosso.
 “Ho portato i nostri ospiti” aveva detto il cavaliere Beronio, rivolgendosi al paggio al paggetto uno sguardo piuttosto perentorio. Erano ambe due giovani, ma il cavaliere era più vecchio.
Il suo cognome non aveva fatto suonar alcun campanello nelle mente di Adda, il che voleva dire il giusto, aveva passato troppo poco tempo a Perispia per conoscere i nomi di tutta la casta nobiliare – principalmente perché nella città di ferro nessuno lo era davvero – ma aveva l’impressione ci fosse acredine tra Beronio e Teddesio. “La Monna ha richiesto di condurli dentro la tenda principale” aveva risposto Teddesio.
“I Don qui potrebbero farci la cortesia di parlare in una lingua a noi nota? Non tutti hanno potuto studiare” aveva detto Delisio, cogliendoli di sorpresa.
Entrambi i due si erano fatti rigidi come spade, “Così sia” aveva detto Beronio con più temperanza e li aveva condotti da Theresia, non prima di fargli spogliare di tutte le loro armi. Solo ad Adda era stata data l’opportunità di tenere il suo coltello, legato alla coscia sinistra.

 
La Tenda Principale era di un vivace color pervinca, su cui svettavano bande viola, con imposte dei tendaggi sollevati appena, per permettere alla chiara luce del giorno di filtrare all’interno e poter illuminare l’ambiente. Attraversate l’imposte di tessuto, il colore che dominava era un viola di una tonalità molto più scura, anche con le luci tenere del sole ancora alto, l’ambiente sembrava molto più lugubre.
Il padiglione, degno dei tendoni nobiliari durante i tornei più ricchi, era diviso al suo interno per creare diversi ambienti fittizi, alcuni erano suddivisi tramite drappi decorati, mentre alti con pannelli di legno con pitture colorate. Ciò che strappava dall’immaginazione di essere nelle stanze di un palazzo, era la morbidezza delle pareti di velluto, l’odore di erba fresca che appestava l’aria e la morbidezza di un terreno naturale sotto i piedi.

Una mezza luna di sedie crurali di legno era pronta ad accoglierli, l’unica che faceva eccezione era quella centrale, che dominava la scena, che aveva uno schienale alto ed i braccioli per potersi sedere più comodamente, ma era anche l’unica vuota. Per il resto una corte di quattro donne li aveva accolti immediatamente al loro ingresso.
Non erano le uniche presenti, c’erano anche degli uomini, con indosso parti d’armature e spade lunghe ferriane appese al fianco.
C’erano anche degli inservienti in bluse bianche, pantaloni blu e stracci legate all’avambraccio, ma questi ultimi non si erano curati di loro per nulla.
“Quale è?” aveva chiesto Delisio, prima ancora di Garlio.
Adda non era riuscita a rispondere, perché una delle dame si era subito tirata su da una sedia crurale quando l’aveva veduta e l’aveva abbracciata con la stessa confidenza di un’amica intima.
“Deria” aveva sussurrato Adda, riconoscendo l’odore di lavanda e pulito, prima ancora del viso noci di galla, dalla forma tonda ed occhi liquidi e grandi. “Adda, quale gioia rivederti sana e salva!” aveva detto la donna staccandosi da lei e prendendo le mani a coppa sulle guance di Adda e dandole due baci sulle gote.
Le Sorelle non erano state gentili con Deria, sotto i suoi occhi violacee chiazze dell’insonnia erano incise pesanti, gli occhi parevano più infossati e la pelle era arrossata sulle guance come la buccia di un’arancia. Anche i lisci capelli scuri sembravano più gonfi e crespi, la crocchia sempre ordinata, lasciava sfuggire ciuffi persistenti.
“Immagino nessuna di loro” aveva detto Garlio, in fioriano osservando, come le quattro sedie a mezza luna fossero occupate da donne.
Deria aveva guardato i suoi accompagnatori e le gote erano diventate rosse, mentre gli occhi scuri si spalancavano affascinati.
“Garlio, Delisio … questa donna è Deria Arci” aveva detto calma, “Cameriera personale di Monna Arga e … mia amica” Adda lo aveva spiegato in fioriano, la sua lingua; Deria non la comprendeva, ma evidentemente le parole non dovevano esserle nuove perché aveva fatto una riverenza con un sorriso gentile ed un po’ imbarazzato.
Quel sentimento di impaccio doveva essere motivato dall’aspetto incantevole di Garlio, prima di presentare i suoi tre compagni alla ragazza.
“Mie signore!” aveva sussurrato Delisio sciogliendo dalla presa di Garlio, per attirare l’attenzione delle altre donne, con un inchino gentile, davanti le altre donne.
“SI è appena inchinato!” aveva esclamato indignato Nerf, Adda aveva osservato l’espressione circospetta sul viso di Berineo e Don Taddesio. Adda aveva preso svelta la mano di Garlio, serrandola su quella di lui.
Le tre donne avevano osservato la scena con interesse, la più bruttina di loro aveva ridacchiato, ma gli occhi erano scintillanti con una certa leziosità. Di rimando le altre due erano rimasto immobile.
Una era une bellezza ferriana, con l’incarnato d’ambra, un viso pulito, assolutamente perfetto, con capelli d’oro scuro, un naso dritto e stretto ed occhi di un castano dolcissimo; con machine a fisarmonica, spalle a sbuffo, che usava un ventaglio per nascondere la sua bellezza quasi benedetta.

“Sono incantato da tanta bellezza” aveva continuato a parlare Delisio e nel farlo aveva puntato lo sguardo sulla donna più brutta.
Non spiccava semplicemente per la bruttezza, ma per tutto il resto, era colorata come la personificazione della Vivace, dagli occhi grigi, in contrasto con la pelle coronza; vestiva con un corpetto di velluto aranciato, su cui erano state cucite delle perle bianche assolutamente tonde, così come le maniche a fisarmoniche scure, con decorazioni opache d’oro prodotte dal telaio-a-tiro. Indossava sulla pelle oliva gemme luccicanti, la più evidente era un pesante monile sul collo di giraffa.
Era la più ricca della stanza.
Se Adda non avesse conosciuto Theresia Arga avrebbe immaginato dovesse essere La Volpe di Perlipsia. “Che fortuna che io parli la tua lingua!” aveva chiosato la donna Vivace con una risata fresca.

“Ed un miracolo che tu stia notando vagamente lui quando c’è l’altro!” aveva cantato una voce alle loro spalle, aveva parlato in un ferriena alto, per quanto difficilmente la lingua della lega suonasse gradevole. Ricordava la prima volta che aveva pagato la dogana di Peripsia aveva sentito quelle parole orribili, come il clangore delle lame, aveva pensato che lì il ferro dovesse essere.
La Monna di Peripsia aveva fatto il suo incontro. Theresia non era sistemata nella grazia e nella beltà che Adda si era aspettava, indossava un camiciotto, verde pistacchio, con clavi argento, le maniche una tonalita più scure, con le spalle a sbuffo e la stoffa a fisarmonica, fino al gomito. La blusa era legata alla vita con una cintura di cuoio, che scivolava fino a sopra le ginocchia, sopra un paio di pantacalze e stivali imbottiti. Non esibiva monili, né altre preziosità nei capelli, ne decori sul viso, esibito nella maniera più maturale possibile.
L’unica cosa che non sembrava essere cambiata in quelle Sorelle erano i lunghi capelli castano chiaro, ancora gonfi e pensati, stretti in due severe trecce che scavalcavano il seno florido e scendevano fino a metà della vita, terminanti in due spessi pennelli.
“Oh, Adda, amica mia, che joia per me visionarti …ancora” le aveva detto Theresia, in un fioriano non esattamente lucido, prendendole le mani con gentilezza. La pelle di Adda era dura, screziata e rovinata dalla fatica, le mani di Theresia nonostante tutto erano ancora morbide e rosa.
Adda si era sentita leggermente a disagio davanti quella collezione, la donna non era stata sua amica, non le era neanche stata vicina, “Un piacere anche per me” aveva detto, imponendosi di non cedere a quel primordiale insegnamento che sua sorella e sua madre le avevano impartito da che era una mocciosa: abbassa lo sguardo, piega le ginocchia, china la schiena; differentemente da Deria che si era chinata in una perfetta riverenza quando la sua signora si era aperta davanti a lei.
 Theresia non era venuta da sola nella tende, ma era in compagnia di un paio di alcune guardie ben bardate, tranne uno, che uno incredibilmente alto che indossava semplicemente un farsetto ed una spada lunga legata alla schiena.
“Provo joia anche nel vedere i tuoi compagni” aveva detto scandagliando bene la presenza dei tre che erano con lei, con attenzione, senza far trasparire alcun sentimento.
“Avete già avanzato con le presentazioni? Fantastico che Berineo ed il buon Taddasio si fossero già presentati” aveva commentato la donna, ammiccando poi al resto della stanza.

Theresia era voltato verso le sue amiche e con confidenza, nonostante la sua pronuncia piuttosto buffa e l’abitudine di inciampare nelle parole: “Loro sono le mie compagne: lo luminosità con il ventaglio è mia sorella-in-nozze Nassiana, la bellezza vivace è Monna Siveria la mia cara amica e la vostra … conterranea è Monna Saerra di Castel Serpillo” aveva spiegato subito Monna presentando le tre donne.
Siveria, la brutta donna dai capelli rossi come il fuoco, aveva sollevato una  mano e aveva mosso tre dita, Nassiana aveva nascosto il viso dietro al ventaglio, mentre l’espressione dura come la pietra di Saerra si era fatta ancora più rigida.
Ad una seconda occhiata, Adda, riconosceva il castigato bustino stretto fioriano, con la gonna ampia con la doppia banda fiorita, così come il fazzolo giallo che copriva le spalle, fermato al petto da una spilla floreale e l’odio nel suo sguardo aveva senso.
Una virtuosissima signora dell’Impero.
Castel Serpillo Serpillio apparteneva alla famiglia Pagaesse, una delle famiglie vassalla minore della regione dove erano e loro erano gli eretici.

“L’uomo così sopraelevato da perdere gli occhi è Myrcele, un buon amico di mio cugino Tarsio, qui per assicurarmi che io viva” aveva spiegato pratica la Theresia, ammiccando all’uomo.
Adda aveva presentato velocemente i tre: Garlio, il loro capo – lo aveva detto in ferriano, sperando lo stesso non distinguesse la parola – Delisio e Nerf, la vedetta. Un ragazzo dal viso butterato ed il cipiglio del principio in persona, “Loro sono i Liberi Pensatori, gli Svincolati” aveva terminato.

Theresia aveva sorriso davanti le presentazioni. Delisio, con il suo sorriso troppo sornione, aveva guadagnato una smorfia mal celata, l’espressione acre di Nerf era, stranamente piaciuta di più, o forse era stato merito degli occhi verde-ceruleo, di un sangue settentrionale; Adda non ne aveva idea.
La bellezza statuaria, senza imperfezione, da benedetto di Garlio aveva guadagnato uno sguardo distante, forse faceva fatica Monna Therersia a comprendere un eretico, principista che condivideva l’aspetto dei figli del destino. Dopo un momento troppo lungo, Therersia si era concessa un sorriso un po’ troppo soddisfatto e non abbastanza sincera, “Non sono sorpresa, mio Don Altissimo, mi han sempre detto che il Principio è Tentatore” aveva stabilito in un ferriano spiccissimo.
Deria era avvampata come una mela matura, Nassena aveva squittito come un topolino, Saerra aveva stresso la bocca ed aggrottato le sopracciglia, ma la reazione più spontanea era stata di Siveria, “Oh! Ricordami perché non ci siamo dall’eresie?” aveva chiesto audace, con un sorriso storto ma luminoso ad adornale il viso.
Garlio guardava Adda aspettandosi una traduzione, ma lei non aveva la minima idea di come spiegare al suo compagno che stavano chiocciando sul suo aspetto.
“Non vi permetto di fare le cinciallegre su queste immonde creature” aveva detto severa Saerra alzandosi in piedi, una macchia di nero scurissimo, l’unica luce era data dallo scialle ocra, “I principisti sono il male del nostro tempo, sono le locuste dei nostri campi” aveva professato, la prima frase l’aveva detto in un ferriano perfetto, come mai Adda avrebbe potuto sognare di parlarlo, ma il resto era in un fioriano. La dolce lingua dell’impero sembrava essere acida sulle sue labbra, “Questi mostri hanno strappato al nostro impero il suo legittimo sovrano!” aveva accusato indignata.
Tutti la guardavano.
“Avevo sentito che il vecchio Imperatore se lo è portato via un piatto di funghi un po’ troppo selvatici” aveva risposto Delisio, con quella sua lingua di veleno acuta.
Adda aveva sentito lontane, ma comunque presentiti, il frastuono delle campane dalla torre del Palazzo Camma – “È morto l’Imperatore, cresca rigoglioso il suo fiore, lunga vita all’imperatrice, affondino nella terra le sue radici” – ed aveva taciuto, soffocando quel rumore.
“Oh vile bestia scopa principio!” lo aveva aggredito Saerra, “Tu sai di cosa parlo! Del vero signore scelto dal Dio-di-Ogni-Cosa-buona!” aveva gridato, “Voi mostri senza-dio avete linciato il nostro Dolce Imperatore!”
Gli impropri di Saerra avevano risvegliato un modo bruciate nel petto di Adda, perché quella ricca manimorbide non aveva idea di ciò che stava dicendo, ciò di cui stava parlando, differentemente da Adda!
“Tu!” l’aveva appellata lei stessa facendo un passo in avanti, un tempo sarebbe rimasta immobile, con lo sguardo basso e l’espressione carica di vergogna, ma all’ora era una pecora, cosa che era cambiata. Era umana e camminava nel sentiero dell’ignoto.
Garlio l’aveva afferrata per un braccio, forse con troppa forza, e l’aveva attirata a se, spalmandola contro il suo ampio petto, “No” le aveva sussurrato.
Non ora, aveva sentito lei.


Theresia, fredda come l’acqua del primo mattino, aveva parlato: “Berunio, mio buon cavaliere, dovresti scortare Monna Saerra a prendere una boccata d’aria; l’etere della tenda è viziato, la deve aver stancata” aveva sancito lapidaria. Ammiccando al suo cavaliere e guardando la dama, gli occhi della monna di Perlipsia erano spire di fuoco.
Saerra era arrossita dalla frustrazione, “Non fidarti di questi spergiuri, non hanno dignità né fede” aveva avvertito Theresia prima di farsi scortare fuori, con gentilezza dal cavaliere. Nelle parole di Saerra c’era stata una certa disperazione.
Adda sapeva cosa fosse: la cecità dei fioriani.
“Perdonate i comportamenti della mia amica; ha fuoco nelle vene. Quando saremo a Peripsia, dovrà cambiare” aveva considerato Thereresia, prendendo posto sulla sedia con le braccia, “Nessuna donna ferriana non può parlare così” aveva aggiunto cupa.
“Ma lei è del Pregiatissimo Impero” aveva considerato Garlio, la prima cosa che aveva detto fino a quel momento. Alle manimorbide fioriane erano concesse molte più parole di quanto fossero concessi agli uomini come Garlio stesso. “Entro un paio di cicli non più, sarà la Monna di Perlipsia assieme al mio adorato cugino” aveva risposto pratica Theresia.
“Taddesio portaci del vino; sorella controlla che la nostra gentile cugina sia sana e salva” aveva ordinato Theresia, mentre Adda osservava Deria e Segeste affiancarsi a lei.
Tre sedie erano rimaste vuote e loro erano quattro, “Deria, cara, puoi recuperare una sedia cortesemente, da mettere proprio di fronte a me?” aveva chiesto con gentilezza moderata ed accavallando le gambe.

 

Adda si era seduta alla sinistra di Siveria, Nerf e Delisio le erano speculari, mentre la sedia al centro del semicerchio, orientata verso Theresia Arga era occupata da Garlio.
L’uomo non sembrava nervoso, mascherava la sua incertezza dietro l’assoluta calma e la scioltezza, di rimando la monna ferriana sembrava ancora più tranquilla, con le dita intrecciate nel grembo ed una gamba a penzoli.
“Se son tutti così gli eretici, abiuro Dio oggi stesso” aveva sussurrato Siveria all’orecchio di Adda come se fosse una sua vecchia amica, quella  era rimasta rigida come una stecca e si era lasciata sfuggire una risatina infantile, prima di ricomporsi dopo un’occhiataccia da Delisio dall’altro lato della tenda.

“Volete che faccia portare il cibo qui dentro o vorrete mangiare fuori, con il resto degli uomini? Segeste ed altri hanno preso un cervo, maschio, ieri ed io ho comprato dei capponi” aveva rotto il silenzio Therersia, rivolgendo gli occhi castani, quasi gialli, a Garlio; “Il vino arriverà con Taddesio” aveva detto poco prima che il giovane paggio comparisse con una caraffa di vino ed un vassoio pieno di bicchieri in legno lucido e laccato.
Garlio non si era lasciato distrarre. “Non spezzerò il digiuno con te, ne berrò il tuo vino finchè non sapremo perché hai mandato un ruspante cavaliere a chiamarci” aveva sentenziato poi. O spiegare perché dei ferriani gironzolavano per le terre dell’impero in città di velluto come Cavalcatori Erranti.
“I galli sono ruspanti, Theresia. Vuol dire genuino, ma anche un po’ grezzo. Adatto al buon Beronio!” si era intromessa veloce Siveria, nella conversazione, leggendo qualcosa nell’espressione della sua amica. “Grazie” aveva risposto la monna, prima di rivolgersi alla platea, “Scusatemi. Il mio fioriano, come si dice? Sì, è rugginoso” aveva spiegato.
“Nessun’asperità, mia monna” aveva risposto Garlio, che non aveva mai appellato nessuno con titoli onorifici da che Adda lo aveva incontrato né fatto sfoggio di parole ridondanti, spesso neanche azzeccate al cento per cento. Se la parola aveva messo in difficoltà Theresia, lei non l’aveva affatto dato a vedere, rimanendo stoica, “Mio buon Libero Pensatore; sei esattamente come ti ho sognato, meno bello – forse” aveva risposto Theresia con tranquillità.
Un sorriso senza controllo era sorto sul viso di Garlio, “Vorrei dire che ti ho sognato anche io, mia monna, ma non sapevo della tua esistenza fino ad oggi” aveva ammesso senza vergogna.
Adda aveva scosso il capo, non poteva aspettarsi di meglio da Garlio, era un nemico giurato dei manimorbidi, anche coloro che non avevano le radici sparse nell’Impero. Lei riconosceva una diversità, la nobiltà fioriana era convinta di avere quel sangue, quel ruolo, per divinità investitura, di rimando, mentre i manimorbidi ferriani non confidavano affatto nel sangue, ma nella ricchezza e nel potere. Nessuna divina investitura, solo antenati svegli e con possibilità.
Poi si era sentita stupida, per quei pensieri. Adda aveva visto Theresia senza gli indumenti da uomo, ma sistemata come una buona dama, con le maniche a fisarmonica e le decorazioni da telaio-a-tiro con motivi animali, volpi. Ingioiellata, truccata con la biacca sulle guance e le labbra rosse come cigliegie, splendida, bellissima e non dissimile dalla sua signora Canadea.
Poteva non avere il sangue di una nobile, ma ne aveva la ricchezza.
Theresia, Canadea, Saerra e tutte le altre manimorbide erano la stessa pasta.
“Bevi con me, mio libero pensatore” aveva detto Theresia poi, “E io soddisferò tutte le tue richieste” aveva commentato.
Adda l’aveva guardata incerta, un rivolo di imbarazzo era cosparso sul viso di Garlio, presto soffocato. Aveva osservato Nerf divenire rigidissimo sulla sedia di fronte a lei, mentre Delisio aveva dovuto nascondere la bocca con le labbra per nascondere lo sghignazzare che era sorto sul suo volto. “Dovrei dirle che si è espressa molto male?” aveva chiesto con eloquenza Sivaria.
E io risponderò a tutte le tue domande’ intendeva, o almeno avrebbe dovuto, anche se Adda aveva un terribile sospetto che in alcun modo Theresia avesse sbagliato.
Garlio si era voltato verso di lei. Adda aveva tirato su la schiena, drizzandola immediatamente, incerta su cosa avesse dovuto interpretare in quella ricerca: il suo permesso? Il suo consiglio?
Adda aveva annuito, dando il suo assenso.
Don Teddesio Lamorgilla aveva portato dei bicchieri a tutti; Adda aveva potuto osservare come la reazione di Nerf fosse di pura gioia mentre osservava un manimorbide servirgli vino bianco in una coppa in un bicchiere nobiliare.
Delisio aveva ripagato quel sorriso fin troppo appagato con un buffetto sulla nuca.

Teddesio le aveva allungato una coppa di vino e lo aveva riempito, era stato generoso, e le aveva sorriso con un sorriso gentile, “Grazie” le aveva detto lei, con calma.
“Sempre un pasticcino, grazie Teddi! Sarà drammatico quando diventerai lo scudiere di Tarsio e dovremmo rinunciare a te” aveva ammesso Siveria nostalgica. Il ragazzino aveva stretto le labbra, arricciandole in una smorfia, “La possibilità mi devasta” aveva vagliato senza gentilezza, “Piccola merdina!” aveva ridacchiato Siveria, “Giuro sul Don-del-cielo adoro quel marmocchio!”
Theresia si era sollevato in piedi, con la coppa sollevata, “Voglio fare un brindisi al nostri cortesi ospiti. Non viene spesso di avere eretici alla propria tavola, non che mi importi di queste corbellerie: io sono un adoraoro!” aveva detto.
“A Garlio di Rocca Vrisea, un uomo del peccato; il Principio-in-terra” aveva sogghignato Theresia tirando su il calice, “O l’aculeo nella fica dell’Imperatrice. Sicuramente il mio nomignolo preferito.”
Garlio aveva sospirato, alzando anche lui il calice, “Alla Monna di Perlipsia; Adda mi ha detto che vi chiamano La Volpe di Perlipsia” aveva detto vago.
Theresia aveva riso, “Sì è un soprannome che mi ha dato mio cugino Darion quando avevo … uhm … trenta sorelle o giù di lì?” aveva scherzato, “Ma è una storia uggiosa. Non ho decisamente la tua fama: bruci villaggi, appendi preti, ovunque giungi raccogli proseliti. Sei l’erbaccia che infesta il Gardino dell’Imperatrice” aveva aggiunto, senza perdere smalto, “A detta della mia futura sorella-acquisita, uccidi anche imperatori.”
Adda aveva sentito lo stesso gelo che si percepiva nelle notti della Sorella Fredda, quando il cielo piangeva neve.
“Non nego le mie colpe: ho commesso crimini di ogni genere e di alcuni me ne pento, di altri molto meno, ma non ho linciato io il dolce imperatore – se fossi stato io, avrei lasciato il suo cadavere alle gente perché vedesse che anche un dio può morire. L’Impero è pieno di Liberi Pensatori” aveva ammesso cupo Garlio, con gli occhi neri luccicanti. Theresia aveva sorriso, con un’espressione quasi cattiva, “Lo so, lo so. Tu e i tuoi svincolati non avete difetto, almeno non di questo” aveva considerato Theresia ed Adda aveva avuto l’orribile sensazione che sapesse.
Che Theresia sapesse esattamente che ne era stato del Dolce Imperatore. “L’Imperatrice ha fatto ballare la danza degli strozzati a ben dodici uomini che come te, Garlio di Rocca Vrisea si consideravano Liberi e sverg …e condannato uno all’essicazione per la colpa di aver ucciso il suo dolce marito” aveva raccontato. Adda aveva provato un brivido al ricordo dell’esecuzione per essicazione, aveva sentito un dolore forte al petto.
Tredici uomini, “Arlo Ceidri di Città Rosa” aveva ricordato Garlio, con disgusto sul suo viso, l’espressione di Theresia era rimasta in tralice. “Lo conoscevi?” aveva chiesto lei, poi.
Adda non ricordava se Garlio ne avesse mai parlato, era già morto l’uomo ed i suoi compagni, da molte lune, quando lei aveva abbandonato il giusto sentiero per camminare nelle vie ignote. “No, non lo conoscevo, ma ogni uomo libero è mio fratello” aveva ammesso candido Garlio, Nerf e Delisio non si erano nascosti un boato condiviso, “Che la sua anima sia consegnata all’eterno!” aveva dichiarato con orgoglio il miglior amico di Garlio.
“Che modo pittoresco, noi diciamo: che di te non sia dimenticato neanche un dente. In Ferriano ha un sono più bello, ovviamente” aveva commentato Siveria, con voce bassa e leggermente divertita, Adda era abbastanza confusa dall’ilarità con cui la monna ferriana stava misurando quella situazione.

Theresia aveva bevuto un po’ del suo vino, “Ora, se devo essere completamente incorrotta – non so nulla di Arlo Ceidri, ma avevo studiato tanto te. Il figlio di un attendente nato consacrato, che ha rinnegato il suo fiore, il suo destino, che per il suo credo accentando di viver braccato come una bestia, ma che ora si insinua e si espande nel bel giardino dell’Impero divorando tutto. Al punto che la stessa Signora dei Fiori sa della tua esistenza” aveva raccontato Theresia.
Una vertigine aveva colpito Adda, come un pugno sullo sterno, da averle succhiato via il fiato dal petto, aveva stretto i palmi fino a sentire le unghie contro la carne dei suoi palmi. “Sono davvero lusingato nel sapere che una rispettabile Monna Ferriana abbia speso così il suo tempo, nello studiarmi” aveva considerato Garlio rigido.
La donna non aveva perso il suo sorriso, “Dovresti, non è una cosa che faccio per tutti” aveva considerato lei, scavalcando le gambe ed accavallandole di nuovo, portando a penzoloni l’altra gamba, “Anche se, be, l’imperatrice ha messo molto impegno nel definirti un eretichino senza impegno” aveva raccontato.
“Non avete appena detto che l’Imperatrice sa di lui?” aveva chiesto Delisio senza vergogna – lui e la sua bocca ben velenosa.
Theresia aveva riso con divertimento, ma era stata Siveria a rispondere: “Ovviamente, la terribile Signora dei Fiori sa di tu, tutto l’Impero sa di tu, anche nella Lega si parla di tu! Ma l’Imperatrice non può permettersi due sezioni … ehm … sedizioni” aveva considerato con una punta di divertimento ben evidente.

Garlio si era lasciato sfuggire un sorriso, piuttosto divertito, mentre a Adda aveva sentito la bile salire lungo il suo esofago, le era tornata voglia di vomitare il poco che aveva mangiato la sera prima ed il sapore del vino nel suo palato si era guastato, sapeva di uova e di marcio. “Parli del Margravio Traditore e della sua piccola rivolta che ha concimato i campi” aveva vagliato Garlio, revocando quella storia.
Adda aveva serrato le palpebre, impegnandosi per cacciare via quel gusto disgustoso dalla sua lingua e quel pensiero ancora più orribile dalla sua mente.
Theresia aveva annuito, prima che le trecce biondo-castano si piegassero insieme alla sua testa, la monna aveva deviato lo sguardo, non aveva più gli occhi su Garlio ma guardava nella direzione di Adda e Siveria.
Lei non era stata certa di chi cercasse lo sguardo tra lei e la sua amica, fino a che non aveva parlato: “Mi pare di ricordare, correggi se sbaglio, che tu, Adda, conoscessi il margravio … Non ricordo il suo nome, finiva per Ren, si?” le aveva chiesto con una punta di divertimento, che smascherava il suo tono finto di ignoranza.
“Quasi tutti nomi irtosi finisco per Ren o Ran” aveva farfugliato Delisio, ma il suo commento era caduto nel vuoto. Adda aveva annuito, “Il signore Gathren Rastia di Irti Pini e no” aveva dichiarato Adda e non era una menzogna.
Tutti la guardavano. “Non lo conoscevo. Lo ho veduto sì, quando lavoravo al Bocciolo, lo ho servito come mi era richiesto e gli ho anche lavato le mutande questo sì. Ma no, non lo conoscevo. L’unica cosa che ci siam scambiati è stato: Fai questo e quest’altro e Sì, mio signore” aveva spiegato seccata Adda, ricordando quel periodo con dolore, rabbia e risentimento.
“Quindi?” si era inserito Nerf, intrecciando le dita sul ventre ed osservando tutti con un interesse nervoso, era una delle prime cose che la vedette aveva detto da quando erano entrate nella casa di stoffe.
Siveria le aveva sorriso, scoprendo i denti da cavalla, “Sì, tutto questo preambolo era per dire che abbiamo conosciuto di voi da una vecchia conoscenza” aveva canticchiato, giocando con le dita dritte giocherellando con il bel brillocco che indossava al collo.
Adda aveva drizzato le spalle, ogni sensazione di disgusto e voglia di espletare che aveva sentito si era asciugata immediatamente, perché un’idea precisa – e rincuorante come poche – era balenata di prepotenza nella sua testa.
“Saiji!” lo aveva detto di getto, senza riflettere. Sentiva la speranza sbocciare nel suo petto come il fiore che si era strappato. Solo dopo aver parlato si era resa conto di averlo fatto e vergognosa aveva cercato lo sguardo di Garlio. Lui la stava già guardando, gli occhi neri duri, si erano fissati per un secondo, prima che lui tornasse a guardare Theresia. Adda si era ritrovata perduta ed incerta di quello scambio.

La Volpe di Peripsia aveva annuito, “Sì. Sir Alderichi mi ha raccontato della vostra impresa sui pendii della Vosterna, a Forte Agave in Spessi Abeti” aveva considerato lei, “L’ultima cosa che mi aspettavo di sentire di era un gruppo di eretici che aiutava un cavaliere cordato a liberare un forte fioriano, conquistato da briganti sussurranti” aveva raccontato Theresia, meravigliata.
Garlio le aveva sorriso in una maniera sinistra, ma che lo rendeva irresistibile, “Se fossi un uomo di fede di direi che è la volontà del nostro tiranno, ma non lo sono: la bellezza dell’Ignoto è che le sue vie sono inimmaginabili. Nessuna misteriosa mano a guidare il caso, ma libero arbitrio o, forse, servo arbitrio – non sono mai stato un buon filosofo” aveva cominciato a spiegare.
La sua parlata si era fatta lenta come la melassa, dolce come il miele più puro, Adda si accorta che ogni persona in quella tenda, dal guerriero enorme all’ultimo cavaliere entrato dall’uscio era completamente rapito da lui.
Adda non sapeva se fosse per il suo sangue benedetto o per la sua dialettica, anche Theresia sembrava rapita, “Ogni scelta da me compiuta, ogni scelta da Sir Saiji Alderichi da lui compiuta, corda e non corda, ci hanno guidato lì. E le nostre scelte ci hanno unito. Posso essere un senza-dio per essere gentile, un principista o liberista o come vogliano chiamarmi, ma sono anche un fioriano che ha sempre avuto a cuore il suo popolo” aveva raccontato, “E Sir Alderichi può aver indossato le spine dell’Impero, ma è sempre stato un cavaliere al servizio del suo regno. Potrei essere l’aculeo della fica dell’Imperatrice, ma sono un uomo che ama la sua terra” aveva detto, senza neanche una menzogna – “E se mi chiamano nemico è solo perché non comprendono quanto io voglia di più per la mia casa” aveva detto.
Gli occhi scuri di Theresia erano sembrati rapiti come quella di un’innamorata, “Questo è un sentimento che io abbraccio meglio di tante altre mio libero pensatore, Peripsia è il mio cuore” aveva detto gentile, alzandosi dalla sedia, con il bicchiere di legno ormai quasi vuoto.
“Riguardo alle vie ignote. Io concordo, non su tutto ma quasi; Non so se esiste un Dio, se davvero la sua mano è così decisiva o se i nostri fiori siano solo un’erbaccia spontanea. Però in qualcosa credo: in situazioni più grandi degli uomini, come terremoti, inondazioni, ma anche un Signore che decide di guidare un esercito contro un altro, trascinando gente di ogni tipo nei loro schemi” aveva fatto una pausa, “Questo sì, questo esiste, ma ritengo che la grandezza di un uomo sia da attribuire alle scelte che compie in conseguenza, forse a dirittura in previsione, a queste circostanze” aveva considerato. Aveva usato tutte le parole giuste.
“Interessante” aveva considerato Garlio ed Adda era dannatamente sicura che fosse interessato, lui che sempre aveva pronunciato parole indicibili contro i manimorbide.
Theresia si era avvicinata, la sua camminata era marziale, dura, come quella di una cavalla, “Oggi sono qui, davanti a voi, tutti vuoi, per condizioni più grandi e una storia tragicamente lunga. Mentre nella mia casa a Perlipsia si consumavano piccoli intrighi di ogni genere, chi sposa chi, chi tradisce chi, chi spia chi, cose divertenti, carine, intriganti” aveva fatto una pausa, “Mentre succede questo negli alti palazzi, fuori le mura, tra i contadini che coltivano le terre: un bambino, orfano di padre, con fratelli troppo impegnanti a lui ed una madre … diciamo non sana, un bambino senza ambizioni per il futuro, che prova, a modo suo a fare la sua parte: aiuta nei campi, nel mercato, ma che ha un talento o una passione, non so, sa andare per boschi a raccogliere funghi” aveva fatto una pausa, “So che per voi fioriani i funghi sono sempre augurio di sventura, ma dalle mie parti abbiamo un gusto differente” aveva spiegato Theresia, strappando una risata sommessa alla sala.
“Quindi, abbiamo un ragazzino che va in cerca di funghi nel Bosco di Ferro, non dovrebbe, perchè non è un posto tranquillo quel luogo, animato da fiere. Ma si sa, no, come sono i bambini: convinti della loro immortalità, a quaranta sorelle io camminavo sui cornicioni del mio palazzo, perché credevo di non poter cadere, così è il bambino: innocente, per coscienza, del pericolo che corre tra bestie e uomini. Ma non è la sua prima avventura e la necessità e la fame sono più pressanti del buon senso, ma il nostro modo, però, non è un mondo gentile” aveva respirato “Il bambino incontra un cinghiale ed allora il buon senso ed il terrore tornano, si danno la mano e lo aiutano a fuggire, così veloce da tagliare l’aria, tra urla e dolore.
Ha gambe piccole e magre, ma non si perché, perché la paura può renderci state di sale ma a volte ci nutre e ingrossa la nostra volontà. Così lui corre, corre, come un frenetico e urla, per il bosco, certo di morire. Ma non lo fa, scopre che nel bosco non è solo. Un manipolo di uomini, tra cavalieri, nobili, scudieri e quant’altro è lì, il Bosco di Ferro non manca di fiere e premi per i ricchi annoiate di Peripsia. E perché non proprio quel cinghiale lì?
Il bambino trova i cavalieri, fine della storia, lieto fine. No! Le urla del ragazzo infastidiscono i cavalli, uno di questi si imbizzarrisce, il suo cavaliere forse non ben agganciato, forse incapace, forse distratto, non importa, perde l’equilibrio e cade giù da cavallo, poteva non essere nulla ma la testa del cavaliere incontra un sasso. Tredici lune dopo il bambino è ancora vivo, sta bene, ma il cavaliere è morto e con questa piccolezza: tutto il mio mondo si è ribaltato. Nessun complotto, nessun colpo, nessun cataclisma, solo un bambino in cerca di funghi” aveva terminato.

Adda si era sentita profondamente smarrita da parte di quell’infinito discorso, con quella incredibile e lunga perifrasi, ma non era stupida non particolarmente. “Chi è morto?” aveva chiesto, perché doveva essere qualcuno di importante. Non era rimasta informata di tutte le vicende politiche e sociali della lega, riusciva a malapena a tenere a mente le famiglie fioriane, trentuno grandi famiglie, per trentadue territori ed erano solo le maggiori. Ogni porzione del Pregiatissimo impero aveva il suo sottobosco.
E la Rivolta fallita del Margravio Traditore aveva soffocato ogni altra notizia. Adda aveva sentito che i campi vicino a Malvasia si erano tinti di rosso e che lo Scintillante Generale avesse completamente spezzato il fratello minore di Gatrhen.
Theresia l’aveva guardata: “Don Lorezin Persepoli” le aveva risposto, “Lo ricordi?” aveva inquisito poi. Adda si era dovuta prendere un momento per frugare nella sua memoria, isolare le lune che aveva speso alla Bestia Bicefala.
Ricordava la vistosa famiglia di Theresia, in particolare i due cugini del ramo principale, gli eredi, l’uomo torvo e quello dal sorriso gioviale e gli occhi brillanti. Ricordava, Adda, che c’era stata una festa, l’ottolune della terza decimana del secondo ciclo per celebrare la festa delle Dieci Candele – non riusciva a ricordare la storia di quella ricorrenza, ma ricordava bene la festa.
E ricordava che Theresia bella come la Rigogliosa, vestita di seta finissima, perle ed oro bianco aveva ballato con un ragazzo piacente. La pelle d’ambra, il naso aquilino e capelli biondo polentina, con un sorriso tutto miele e le fossette, che era sembrato capace di condurre Theresia senza urtarla.
Adda aveva pensato sarebbero stati una coppia buon assortita.
A lei quella sera le sarebbe piaciuto di gran lunga avere un vassoio o un otre e dover correre a destra e manca per riempire calici o pance vuote, che restare lì, nascosta quanto più possibile nell’ombra, schiacciata contro un muro, con le mani molli e da invitata.
Anche vestita con il pizzo di bisso e di ciniglia, Adda non era una manimorbide e mai sarebbe potuto esserlo, non nell’Impero e non a Peripsia dove il valore di uomo valeva dalla sua borsa.
E ricordava Saiji con lo stesso disagio affianco a lei, abbigliato come il più pulito dei nobili, con la blusa azzurra, che spiccava sulla pelle zucchero cotto. “Quello è Don Lorenzin Persepoli. L’altra testa della Bestia” le aveva spiegato il suo amico, seguendo il suo sguardo, dove sui pavimenti di marmi colorati al ritmo di una musica intrigante, dominavano la scena.
“Il lupo” aveva detto Adda, pensando a quella notte caotica, alle luci soffuse delle candele – dieci, solo dieci – e il quasi buio che regnava nella sala da ballo degli Arga; ‘Chiedimi di ballare, chiedimi di ballare’.

Theresia aveva mosso la testa con un gesto d’assenso, “Sì, il povero, povero, Lorenzin. Intelligente, brillante e morto dannatamente prima del tempo” aveva considerato rancorosa. Adda non ricordava di aver sentito la Monna di aver parlato con particolare affetto dei loro nemici-alleati giurati, ricordava di averla vista chiacchierare di sottecchi, al matroneo, con una donna di quella famiglia, ma mai parole troppo ovvie e pubbliche.
“Ed indovino, a lei, monna, fa gola il ruolo che aveva questo lupo morto” aveva considerato Delisio, con un certo interesse, inclinando la schiena per mettersi ancora di più pronto all’ascolto; Nerf al suo fianco aveva le labbra serrate, l’espressione rigida di chi non stava gradendo una sola parola.
Theresia aveva distolto lo sguardo da Adda per rivolgerlo al giovane uomo imperfetto, “Si potrebbe dire così. Una donna ferriana può poco, anche una Arga. Si mi piacerebbe occupare il ruolo che era del mio buon Lorenzin, ma mi accontenterei che quel ruolo tornasse in vita, che l’equilibrio sia ripristinato o almeno che l’uomo che ora governa, da solo, su una diarchia fosse diversa” aveva spiegato senza peli sulla lingua, “So di poter apparire sciocca, immatura, anche egoista per qualcuno e senza alcun dubbio ingenua, ma come diceva il buon Libero Pensatore Garlio: il mio cuore è per la mia terra. Perlipsia è il mio cuore” aveva spiegato con un melodramma quasi credibile.

Adda si era dovuta mettere una mano sul viso, per evitare che una risata cattiva emergesse, che era andata ben oltre il suo controllo. Il discorso melodrammatico di Theresia che aveva imbevuto i suoi tre compagni a lei aveva ricordato quelli di Canadea la sua signora, quella che per sorelle lunghissime aveva servito. Aveva rammentato la giovane, da che era poco più di una ragazzina, che sedeva davanti ad uno specchio per ripetere discorsi perfettamente studiati, mentre Adda le pettinava i capelli perché fossero lisci e morbidi come la seta. ‘Voglio essere così naturale che nessuno, che chiunque pensi che ogni mia parola sia sbocciata dall’ardore del momento’ le aveva confidato.
Una naturalezza ben studiata.
Theresia era uguale; la sua emotività era così artefatta che se Adda non avesse vissuto una vita intera in un maniero a servire una vera signora, le avrebbe creduto. Forse Peripsia era il suo cuore, ma come tutte le creature di quella risma, quello che Theresia voleva era il potere.
Inoltre non aver usato alcun termine errato, rendeva stranamente il suo discorso molto meno genuino.

“Cosa vuoi da noi?” aveva chiesto Adda, conoscendo l’inutilità di continuare a ballare davanti quell’argomento, togliendo la mano dal viso ed inghiottendo la risata isterica con la bile. Monna Theresia poteva essere brava nella danza delle parole, Garlio amava i grandi discorsi ma solo quando lui stesso ne era il centro e non aveva la pazienza, né la voglia, di affascinare una nobile signora, per non parlare di Nerf che era lì rigido come una pietra. Di rimando, Delisio stava godendo il momento migliore del suo tempo, amava e prosperava di quello – Adda lo aveva inteso ormai.
La Volpe aveva girato lo sguardo verso di lei nuovamente, spalancando gli occhi castani, quasi miele, “Oh! Che voce ponderosa e che sfacciataggine! Oh Adda, ne avevo avuto il sospetto da che ti ho veduta che non eri più la sguattera senza bocca che avevo conosciuto” aveva chiosato divertita Theresia. “All’ora ero una pecora, ma, in questa Luna sono una persona” aveva risposto serena Adda. “Felice di questa metamorfosi, io sono ancora un’animale temo” aveva scherzato.
Adda non aveva distolto lo sguardo, così Theresa aveva ripreso a parlare, quando non aveva ricevuto risposta: “In realtà è molto semplice, la risposta: io voglio voi!” aveva ammesso: “Voglio i vostri uomini per combattere! Voglio l’uomo che ha lacerato Forte Agave ai Sussurranti! Ma non ho solo borie, offro anche. Prenderò anche le vostre donne, perché abbiano un tetto e vesti calde, prender i vostri figli perché abbiano pane e latte” aveva fatto una pausa, lunga.
“Peripsia è una terra di veneraoro, per lo più si segue il culto del Descrino Prescritto, ma esiste un tempio per la Dura Madre Terra ed uno per la Signora Umida; è nelle catacombe, qualcuno, celebra le Divinità Calme – lungi da me sapere cosa sono – ed altre divinità che neanche ricordo. Dei Liberisti …” aveva fatto una pausa molto meno enfatica, ma calcando bene quella parola. I liberisti erano la frangia più leggerà tra gli eretici, almeno a detta delle chiacchiere che Adda aveva raccolto negli anni, “… risulterebbero la cosa meno strana nella nostra bella Diarchia. Certo, i cittadini potrebbero non essere esaltati, ma una soluzione è sempre trovabile; liberisti ovviamente, atei, principisti e volontisti potrebbero essere troppo, ma come ho detto: l’unico Dio che i ferriani venerano fedelmente è la pecunia.”
Nerf si era lasciato sfuggire una smorfia.
“Perché?” aveva chiesto invece Garlio, inclinando il capo ed aggrottando le sopracciglia scura, “Perché il Liberismo è … come si dice? Tranquillo. Il Volontarismo è tremendamente aggressivo. So che è punibile di morte nell’Impero, mutabile nella Ghaadiana e condannabile nelle Terre del Sussurro; anche nella Lega non sono illecite. Negare l’esistenza di un dio troppo invadente e l’adorare un male riconoscibile, sembra abbastanza grave. Forse troppo anche per noi venali adoraoro” aveva spiegato didascalica Siveria
“Credo che il mio buon amico si chiedesse: perché noi” si era intromesso Delisio, accompagnato da uno sbuffo di Garlio. Poca pazienza.
“Perché ho bisogno dell’uomo che ha preso Forte Agave e non sono stupida da presentarmi con niente in mano, come ho detto: prenderò anche le vostre donne e i vostri figli, darò a voi tutti: una cosa. Posso mettere sul piatto: oro, argento e damigelle, ma Ser Alderichi mi ha raccontato molto di voi e sarei più stupida di una capra se non avessi ascoltato il mio amico. Come ho detto: su qualcosa, io e te, Garlio Il-Principio-Incarnato siamo uguali come due fiocchi di neve. Amiamo la nostra gente” aveva dichiarato orgogliosa Theresia.
Oro, argento e damigelle potevano comprare molto, ma un luogo da chiamare casa … non per loro, non per l’impero. Ma in terra di ferro?

“Troppo semplice” aveva stabilito Garlio. Adda aveva annuito, a lei era sembrato bellissimo, ma riconosceva che lei era una donna semplice, nonostante tutto ciò che avesse subito.
“Ovviamente” aveva concesso Theresia, senza battere ciglia, “La città va conquistata – o non avrei bisogno dell’uomo che ha preso Agave. Senza la città le mie parole valgono quanto promesse scritte sull’acqua.”
“Vuoi la mia mente per la conquista e i miei uomi per l’azione. Vuoi che moriamo per te” aveva sibillato Garlio, il suo tono era neutro quasi, ma i suoi occhi scuri erano fiammeggianti.
“Per me? Certo, perché io sarò lì, con mio cugino, i miei uomini e chiunque voglia unirsi. E se prenderemo la città, non sarà solo per me, sarà per tutti. Una nuova Città del Peccato, lontano dalle golose mani della Ghaadia  e dal pugno-duro dell’Impero” aveva risposto Theresia, fingendo una calma che non aveva, gli occhi brillanti scintillavano di desiderio, “Una città che vi accoglierebbe, uomini che non dovrebbero vivere accampate in pievi distrutte, con occhi cresciuti sulla nuca, aspettando solo di venire calpestati dai tacchi di sua magnificenza Imperiale.”
Il Libero Pensatore aveva guardato la Monna.
Due mondi opposti a confronto.
Garlio aveva voltato il capo verso Adda, ma lei si era già allontanata, con la mente da quel luogo. Pensava alla Città del Peccato, pensava alla strega gnuda e scinta esposta in piazza e tutti quei bambini presi e rovinati – con gli occhi morti e piangenti.
Ci son volute così tante sorelle perché non avessi incubi la notte su quel giorno e non vomitassi al solo pensiero dell’odore del sangue’ le aveva confidato Saiji una volta.
Il suo ragazzino del Peccato … che aveva dato fiducia a Theresia.
“Non sarebbe un brutto mondo, quello dove avrei un tetto sulla testa, per quanto luna e stelle siano suggestive” aveva rotto il silenzio Delisio, con un sorriso storto.
Adda era lì, che continuava ad essere spaccata in due tra sua sorella che le diceva di guardare la strega e Saiji che le raccontava del sangue offerto ai fiori quel giorno lì.
“Potreste rifletterci meglio, mentre dividiamo il desco. Spero che chiarite le mie ragioni, mio Libero Pensatore voi vogliate spezzare il digiuno con me” aveva dichiarato Theresia con tono di ferro. “Non potrei mai rifiutare una gentile offerta. Paio una bestia, ma uomini buoni mi hanno educato, chiedo solo che il desco venga portato anche ai miei compagni, che si nutrono poco e meritano molto” aveva risposto Garlio, togliendo lo sguardo da lei per rispondere alla Monna, il suo tono era di miele puro.
“Ho ovviamente molte altre domande da porle, mia signora. Su cosa è accaduto precisamente a Peripsia dopo la morte di tale Don Lorenzin, chi governa ora, come è la città. Quante forze siano necessarie” aveva ammesso, “Perché se la mia memoria mi assiste: Perlipsia è nota come La Città Inviolabile.”
“Sfortunatamente non ricordale male a fatto” aveva ammesso Theresia.
“Oh penso di essermi appena innamorata” aveva squittito Siveria in ferriano, con gli occhi cattivi intrecciati a Garlio.


 





L'Incontro tra Adda del Bocciolo e Theresia Arga di Peripsia (non un granchè, ma ...)

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Capitolo 10
*** PARTE PRIMA; TITOLO I, CAPITOLO VII ***


Ero indecisa tra quale capitolo pubblicare prima tra questo e lo scorso. Spero abbia funzionato così.

CAPITOLO VII

A D E S S O   N O N   H O   S I G N O R I,   O L T R E   M E   S T E S S O

 

Aveva scostato la sedia, anche se non aveva molto tempo da perdere, sapeva riconoscere come era giusto comportarsi, così aveva colto l’invito di Zegros senza troppi rimpianti. D’altronde il ragazzetto era lo scudiero, l’attendente ed anche il figlio putativo del Signore.

Zegros era più giovane di Saiji, aveva un aspetto sbagliato, con il viso leggermente troppo lungo, con le guance ancora pregne della morbidezza infantile, poteva avere sulle settantadue, massimo settantasei sorelle, con alcuni peli avevano cominciato a gettare una certa ombra sopra il labbro superiore. La caratteristica più evidente di Zegros era sicuramente il colore: non ne aveva uno. Era come se il Dio-di-ogni-cosa-buona quando lo avesse creato aveva dimenticato di colorare i suoi contorni. Aveva un aspetto fioriano, nei connotati – del sangue dei cyristi, con un naso adunco, lungo di corpo come se fosse stato steso – ma la sua pelle era bianca come la panna, molto più delle pelli delle terre del nord o della Ghaadia, non era bianco, era più un’assenza di colore, così come i capelli leggermente lunghi e gli occhi grigio così pallido da sembrare anche quelli senza colore. Le persone, quelli come Zegros li chiamava in più modi, Gente-Di-Albume per essere gentile, come faceva suo padre, persone che nascevano così senza una ragione, come fiori spontanei, altri meno gentilmente li appellavano come Inconclusi, Moria tra i primi, adducendo a loro la colpa di non essere stati completati.
“Tieni, mio buon amico, prendi il formaggio. È un blu di Aviniosta. Di solito Lues lo tira fuori solo per i nobili signori ma adora viziarci” aveva scherzato, con un certo divertimento, allungato verso di lui delle fette sottili di formaggio bianco opaco venate di un blu vibrante. Lui aveva annuito, non rifiutando la cortesia. Aviniosta era una città ferriana, non era bagnata dal mare e confinava con l’impero nel suo limite settentrionale, non c’era mai stato, ma adorava il formaggio. “Avete deciso di spendere tutta la vostra paga in un lupanare?” aveva chiesto, dopo aver dato un morso al formaggio.

Saiji non era un poeta ma lo sarebbe diventato volentieri.

Zegros aveva riso, la sua voce era acuta, più simile a quella di una ragazza che di un uomo, “No, no. Lues, qui, ecco, comanda lei. Ci fa sempre un prezzo di favore, più che clienti siamo affittuari. Meglio di un’osteria o una locanda, però, no?” aveva chiesto retorico lui. Saiji aveva annuito, non aveva decisamente torto, “Qualcuno direbbe che è quasi una visita al Giardino” aveva ammesso.

Aveva mangiato altro formaggio, doveva metterne un po’ da parte per Iren, quando lo Sdregolamento fosse passato, forse la sua lingua sarebbe tornata affamata di sapori diversi del Latte d’Uccello. Aveva preso anche due acini d’uva, non erano zuccherine, ma erano comunque buone, più buone di quelle che aveva mangiato al paesello dove si era fermato con Iren e più buone di qualsiasi cosa avesse mangiato nelle ultime decimane.

Zegros aveva passato verso di lui una purea di castagne cotte e poi, merito della birra che rendeva sempre la sua lingua più sciolta dei legacci di una lupa di baci, aveva ripreso a parlare. “Ti trovo bene, Saijir” aveva detto allegro, “Sai, mi aspettavo di vederti alla Piana di Malvasia. C’era tutta la Corda di Spine” aveva detto.

Saiji aveva spalmato la purea su del pane, leggermente raffermo, decidendo di subire quell’informazione come passiva, se avesse fatto troppe domande avrebbe aperto un vaso colmo di merda, contro cui non era disposto a confrontarsi. “No, aspetta, eri nell’Ordine delle spighe sì? Una delle più grandi onorificenze che un cavaliere possa ammirare, prima del …” il tono allegro con cui Zegros aveva cominciato quella conversazione si era assopito nell’imbarazzo e nel disagio,

“Incidente” aveva bisbigliato, come un raschio in fondo alla gola.

“Incidente?” lo aveva provocato nervoso Saji, sentiva la rabbia serpeggiare sotto la sua pelle, risalire il suo corpo come una bestia, lungo la schiena, le braccia, fino alla testa, il tremore, ma aveva ricacciato tutto indietro. “Sì. Ero una Spiga, per poco, sì. Volevo essere un Roveto, ma mentre raggiungevo la capacità, il vecchio imperatore è morto e gli ordini sono cambiati. Sono stato una Spiga per poco, ma abbastanza per fallire nel mio giuramento. Sir Ramberra mi avrebbe riammesso nella Spina, ma difficilmente lo avrebbero permesso” aveva detto calmo, calmissimo.
Era vero, essere un membro dell’Ordine della Spina era davvero un gradissimo onore che poteva essere concesso ad un qualsiasi cavaliere del Pregiatissimo Impero, in particolare ad un uomo come lui, di sangue così basso, neanche fioriani.

Non era quello che aveva voluto, chiaramente, era stato davvero un onore senza precedenti, ma Saiji aveva aspirato a servire la seconda principessa, ma non lo avevamo mai ritenuto abbastanza degno.

“Devo dire che da parte loro è stato sciocco, sei sicuramente uno dei guerrieri più abili in circolazione” aveva considerato Zegros con tranquillità, “Così abile da essere vissuto quando avrei dovuto morire” aveva replicato spento Saiji, “Un guardiano non dovrebbe mai sopravvivere al signore che ha giurato di proteggere” aveva detto, senza menzogna. L’altro sembrava terribilmente interessato ai suoi pallidi commenti.
Zegros aveva allungato una mano raggiungendo una caraffa di vino viola freddo, l’aveva versato un po’ nel suo bicchiere e dopo aver controllato che un altro fosse sufficientemente pulito ne aveva riempito metà anche per lui, passandolo. “Al fiore immortale del Dolce Imperatore” lo aveva stupido.
Saiji aveva sentito i suoi arti irrigidirsi a quell’ultimo commento e per un secondo aveva perso la presa dal bicchiere di coccio, “Che il suo fiore possa crescere forte nel giardino del Signore” aveva sussurrato pacato, recuperando la sua dignità.

Zegros aveva sollevato il bicchiere e Saiji lo aveva imitato. Si erano toccati e poi avevano bevuto.

Il vino viola era acido, stantio e sapeva di un vecchiume che difficilmente poteva essere ignorato.
Si era allontanato il calice dalle labbra, osservando l’uomo-del-albume finire il suo bicchiere in poche sorsate. “Adesso non ho signori, oltre me stesso, come è sempre stato per voi punteruoli” aveva spiegato calmo.

“Un lupo d’armi e non di baci, dunque” aveva scherzato Zegros, cogliendo un’altra fetta di formaggio blu. “Nome stupido per nome stupido. Non capirò mai neanche perché questa dizione, nelle città ferriane si dicono mercenari e prostitute” aveva scherzato, incerto, Saiji.

Zegros si era asciugato le labbra con il polso del suo braccio, “Chiedilo a qualche Mani Morbide che si è prego il compito di decidere tutte queste stronzate, un … come si dice? Compendio. Con un nome pretenzioso del cazzo: Nomi e Ruoli del pregiatissimo impero dei Fiori” aveva risposto con una risata alta da aquila. “Suona meglio, sicuramente più di prezzolati e puttane” si era intromessa una voce, anch’essa di uomo, era del lupetto vestito di tulle-verde che l’aveva guidato in quella stanza. Aveva perduto lo strato opalescente di stoffa, rimanendo del tutto nudo tranne l’inguine, Saiji poteva riconoscere sulla vita una catena allaccia di bronzo, da cui scendevano pendula di vetro soffiato. Il fiore visibile senza intoppi, risultava piuttosto sbagliato sul cuore, “Così ci chiamano in Ghaadia, me lo ha detto un cliente” aveva aggiunto.

Tra le mani aveva una coppa, con un gambo sottile, un piede largo ed un corpo spesso, era di ceramica con vernice nera, con figure rosse sagomate, “Il vino cotto” aveva esordito il Lupo di Baci, allungando verso di lui la coppa. Era colma fino all’orlo di un liquido scuro, nel centro, nei bordi contro il nero della ceramica, appariva un anello più rosso; dei pezzi di frutta galleggiavano nel torbido ed il calore assieme ad un odore intrigante si sollevava dalla coppa. Saiji l’aveva sentita calda, sui polpastrelli quando aveva accolto l’offerta. “Grazie” aveva detto al giovane, “Obbligato, mio signore” aveva risposto pratico l’altro, chinando il capo, pronto ad allontanarsi, prima di essere richiamato. “Ma no, Eleas, resta con noi facci compagnia” lo aveva invitato Zegros senza vergogna, con una rosatura sulle guance così terribilmente appariscente sulla sua pelle bianca come l’albume cotto.
Il lupo d’armi nonostante seguisse a modo suo gli insegnamenti del Dio-di-ogni-cosa-buona aveva, ben noti, gusti differenti da quelli approvati dalle dottrine di quella fede e dai giudizi delle brave menti dei buoni pensanti.

Sul viso di Eleas era sorto un sorriso piuttosto soddisfatto, specie quando si era seduto accanto al giovane Zegros, approfittandone per rubare poi un acino d’uva. A guardarli Saiji aveva avuto un mancamento: erano piccoli, non semplicemente giovani, lui poteva essere giovane, loro erano ancora fanciulli.

Zegros non aveva raggiunto le ottanta sorelle ed Eleas doveva essere appena superiore.

Osservando il modo languido in cui i due si parlavano, aveva deciso di cercare, almeno con gli occhi, ciò che destava il suo interesse.

Scarabocchio aveva finito la sua birra rossa, schiuma bianca adornava i suoi baffi spessi e la donna, Jantibal, stava ridendo allegra – sembrava sinceramente divertita, le ipotesi erano dunque tre: o la donna era un’attrice eccezionale oltre ogni misura, o Saiji aveva perso la capacità di leggere per bene i corpi delle persone, oppure Jantibal apprezzava davvero le storie di Scarabocchio e quello era davvero, davvero, sorprendente. Si era alzato immediatamente dal tavolo, approfittando della dolce distrazione di Zegros, per avvicinarsi al tavolo giusto. Era incerto se appellare l’uomo davanti a lui con il suo titolo, il nome personale, il gentilizio o quel vezzeggiativo che ormai si era cucito addosso senza neanche più vergogna.

Berulio Arrasi, noto ai più come Scarabocchio, lo aveva tolto dall’impiccio, accorgendosi di lui ed appellandolo per primo.

“Oh, che il Buon-Dio abbia annaffiato il mio giardino! Eccolo, il mio mezzosangue preferito!” aveva esclamato a gran voce, sorridendo verso di lui, aveva denti così gialli che il canino d’oro quasi scompariva nei pressi dei suoi fratelli. Saiji non lo aveva preso a male, Ser Arrasi era mezzosangue quanto lui, era anche sbagliato, molto più di lui. Era un uomo brutto nella maniera più assoluta e totalizzante che il significato di quel termine poteva offrire; figlio di generazioni e generazioni di bimbi sbagliati da ogni lato, lontanissimo da ogni sorta di perfezione, ‘Così lontano da fare il giro’ lo aveva definito una volta Moria, con un sorriso cattivo sul viso bello.
Era assurdo pensare che se Berulio avesse incontrato la sua anima condivisa avrebbe messo al mondo un figlio bellissimo come il tramonto sul mare.

“Vecchio Scarabocchio!” aveva risposto lui, mentre si accomodava su una poltrona bassa, imbottita, affianco quella che l’uomo occupava. “Jantibal, luce dei miei occhi, questo bel giovanotto qui è Ser – ebbene sì, un Ser – Saiji Alderichi!” aveva esordito con divertimento l’uomo, riferendosi alla bella donna sulle sue gambe. “Abbiamo combattuto insieme più di un battaglia, il buon Saiji era un soldato eh, ma non un regolamentare, era un membro della Corda di Spina e neanche di fanteria” aveva aggiunto con una certa pomposità. La lupa di baci aveva sbattuto le ciglia, avrebbero dovuto essere scure, ma erano tinte di polvere d’oro, come la pasta sulle palpebre. “Ohh! È la coorte principale dell’esercito, vero?” aveva chiesto subito a Berulio, l’uomo aveva annuito: “Oh! Un cavaliere al servizio di sua maestà imperiale!” aveva chiesto, il suo entusiasmo sembrava genuino, ma Saiji aveva dei dubbi che lo fosse davvero. Le Lupe di Baci erano addestrate per questo, per rendere ogni chiacchiera noiosa di un cliente come se fossero degne di un’orazione di un saggio.
Lui aveva annuito comunque, “E la hai mai vista?” aveva inquisito la ragazza. Quella domanda aveva confuso Saiji, non se l’era aspettata, ma immaginava dovesse essere così … l’imperatrice era un argomento sempre così magnetico; “Be sì, qualche volta. Come equestre ho partecipato alla mia quota di parate” aveva ammesso.

Era stato lì quando il Vecchio Imperatore era morto ed aveva avuto l’onore di sollevare la lama per il ponte di spade, alla destra di Ser Moira, l’ultima volta che aveva indossato i colori della Corda. E ricordava lo splendore, simile, al divino che aveva avvolto l’imperatrice, mentre scivolava leggiadra sulle strade di pietra lucida del bocciolo senza cedere ad una sola incertezza.
“Saiji ti racconterà tutto dopo, mia cara. Fidati, ha una lingua di miele migliore di tutti i menestrelli che avrai udito; ma dopo, però, luce dei miei occhi, ora, goditi il vino e la pace” le aveva detto, allungandole una moneta scintillante come l’argento. Jantibal l’aveva recuperata, non nascondendo un sorriso allegro davanti a quello. “Spero non sia una menzogna, mio buon signore! Obbligata!” aveva sussurrato, recuperando uno scialle di velluto scuro che aveva usato per nascondere le nudità del petto.

“Credici o no, quella donna mi fa sentire ancora giovane; come se avessi ottanta sorelle, massimo ottantadue” aveva scherzato subito Scarabocchio, “Finge così bene di amare qualcuno, da trarmi in inganno di tanto in tanto” aveva raccontato bonario. Saiji aveva ridacchiato, prima di bere un po’ del suo vino caldo, anche se non lo era più ormai, “Non credo esista persona che possa farti becco, neanche lei” aveva considerato.

Senza considerare che aveva visto in diverse campagne, Berulio accompagnarsi, in pubblico, alla presenza di qualche Lupa di Baci, ma non credeva di averlo mai visto parlarne dopo, o vederlo nel mentre – forse era l’uomo più discreto del mondo o forse nascondeva ben altro; ma teorizzava che un capitano di ventura avesse una reputazione da dover mantenere.

“Mi sopravvaluti, mio buon Saiji” aveva scherzato Scarabocchio.

“Non scherzavo comunque; Jantibal vorrà sapere tutto dopo, è appassionata di storie e cavalieri, vive in questo luogo come un canarino in una gabbia, ma sogna di volare alta come un nibbio” aveva considerato l’uomo.

Saiji aveva sollevato un sopracciglio colpito da quell’improvvisa dolcezza nel tono, “Mi pare di capire che siate ormai di casa, qui” aveva considerato, pensando a ciò che aveva detto l’uomo e ciò che aveva detto Zegros.

“E sì. Ti piace, vero?” aveva domandato Scarabocchio, con un luccichio divertito negli occhi, “Questo posto è uscito fuori dai sogni proibiti di ogni uomo, scolpito dalle mani abili del Principio. Ci sono stanze, sotto, da far accapponare la pelle pure a uomini Senza-Dio come noi. O certo da quando qui comanda la piccola Lues le cose sono decisamente più controllate” aveva raccontato.
Saiji aveva annuito, prendendo un altro sorso, ormai freddo del vino, più ipocrasso che speziato, “Sembri conoscere bene questo luogo” aveva detto convenzionale. Scarabocchio si era dato ad una risata fragorosa, “Per il Principio, sì che lo conosco, ci sono nato!” aveva risposto senza vergogna.
Questo aveva stupito un po’. L’uomo aveva continuato a ruota libera, “Mia madre era una Lupa, non c’è da stupirsi che lo sia diventato anche io, solo che con una faccia come la mia dovevo pagare io per dare baci, quindi sì, molto meglio il ferro” aveva raccontato onesto, “Al ferro non importa se sei brutto.”
Ne se sei eosiano, ghaadiano, fioriano, aveva pensato Saij, sbagliato o benedetto; al ferro non importa.
“Per me è sempre bello tornare qui; casa è sempre casa” aveva detto quasi languido Scarabocchio. Saiji aveva avuto un brivido, un mancamento, pensando a quella parola lì, quel luogo lì.
Casa.
Casa era dove aveva vissuto con i suoi genitori, tante, ma tante sorelle prima? Casa era la camera che aveva al rione dei Ramberra? Casa erano le stanze della Corda? O la risata cruda di Adda e le lamentele di Iren? O l’espressione acuta e preoccupata della buona Nervia?
Casa, casa dove era?

Sì era perso in quell’elucubrazioni così insulse da aver perso il resto della ruota libera di Scarabocchio, “… lo comprerò. Certo potrebbe essere un problema considerato che le mie mani sono più bucate di un alveare. Lues mi dice sempre che sono che sono la gioia di tutti gli strozzini del Pregiatissimo Impero” aveva fatto una pausa per gustarsi qualche prelibatezza ed un bel sorso di birra scura. Saiji aveva colto quella pausa per riordinare i suoi pensieri e comprendere dove il filo del discorso lo avesse portato. Non era stupito, Berulio Arrasi era l’uomo più chiacchierone che Saiji avesse mai incontrato, completamente innamorato del suono della sua voce, così espansivo da poter seppellire un fossato con le sue chiacchiere. Dopo Adda, quando fermentava in un silenzio teso e sentiva il bisogno di dover riempire ogni spazio disponibile con qualcosa. Era un ricordo che si era fossilizzato nella sua mente, ed anche in quella di Iren, di Adda che parlava e parlava, riempiendo il loro viaggio di scomode parole, ma non ne era sicuro non pienamente.

Forse aveva l’impressione parlasse così tanto perché gli altri due non erano in grado, non erano disposti, a scendere a patti.

Però sicuramente Scarabocchio adorava parlare, senza mai rivelare nulla che fosse di vitale importanza, o di dominio pubblico, era un Lupo d’Arme, aveva la sua fama e non doveva importargli molto di essere nato in un lupanare da una lupa di baci. “Sarei finito già morto in un vicolo per la mancanza di monete se i Signori dei fiori non avessero da combattere una luna sì e l’altra pure” aveva raccontato l’uomo, “Ho superato le cento sorelle ed anche più battaglie” il suo tono era stato più lugubre.
“Dubito che qualcuno sia così abile da poterti uccidere in un vicolo” aveva risposto Saiji senza menzogna, conosceva l’uomo, conosceva le sue capacità. Scarabocchio non era mai stato audacissimo come guerriero ne era più vistosamente arzillo come nelle sue sorelle migliori, ma era un guerriero abile, capace di una difesa impenetrabile, con la spada, il braccio e, senza dimenticare, con la mente. “Troppo buono mezzosangue. Se fossi ubriaco ed il mio contendente fossi tu, Ser Saiji, io sarei morto, certo non in un vicolo. I manimorbide ti hanno insegnato l’onore della spada, ma anche con l’onore, sarei morto, seppellito sotto un bel cedro” aveva risposto Scarabocchio senza perdere verve. “Meglio un melo, mi piacciono di più” aveva concesso Saiji, “Melo sia” aveva risposto Berulio. Saiji aveva allungato una mano ed aveva preso un acino d’uva, ancora troppo maturo sì, ma buono, doveva ricordare di sgraffignare del cibo per Iren, forse anche del liquore, non era certo aiutasse la Sdregolatezza.
Forse aveva bisogno di Latte d’Uccello, era certo che in quel tempio del principio ne avrebbe trovato.
Berulio aveva riempito di chiacchiere l’ambiente,  ma che Saiji aveva sopresso con una chiacchiera fuori tempo: “Ma se tu fossi sobrio, sotto il melo sarei sepolto io”, incerto se fosse una menzogna. Scarabocchio non aveva preso male quella torsione, rispondendo con scioltezza: “In quel caso sarei morto comunque, ma a penzoloni dalla porta orientale di Teschio di Drago[1]

Saiji aveva sentito freddo. “Improbabile. Ser Moria non nutre così tanto affetto per me, da appendere un uomo per questo, si sentirebbe solo oltraggiato che dopo tutte le botte che mi ha dato per insegnarmi, io avrei avuto la sgraziata idea di morire” aveva replicato, certo delle sue parole. Una certezza strana, perché era ciò che aveva sempre pensato e ciò che nel profondo sperava non fosse falso.
“Non direi, a Malvasia chiaro come la luce del sole lo ho sentito lamentarsi della tua assenza” aveva detto Scimmia.

Saji aveva chiuso i pugni sul gambo della coppa, fino a che la pelle delle sue nocche dal marrone aveva raggiunto il pallido bianco. Sapeva che avrebbe dovuto affrontare la battaglia Campanale come argomento, lo sapeva. “Si, avevo sentito foste lì” aveva considerato.

Scarabocchio lo aveva guardato, sorrideva ancora con le labbra coperte dai baffi, ma meno con gli occhi, “Be, Ser Alderichi, c’era tutto il mondo lì, tranne te” aveva detto, “Il pianoro di Malvasia arde ancora e la terra si nutrirà ancora del sangue per le prossime venti Sorelle Rigogliose, minimo.
Saiji lo immaginava come la fine del mondo e la casa de Il Principio, con ferro e fuoco. “Però la città è sopravvissuta ed anche il palazzo” aveva dichiarato Saiji, ricordando quelle preziose, piccole informazioni che aveva raccolto. “Solo perché il tuo Ser Moria ha tenuto in riga tutto l’esercito; corda, regolari, ausiliari e pure noi” aveva ammesso con un tono quasi ammirato. “Siì devo ammettere che Ser Moria è incredibilmente bravo in questo. Al castello poteva ammansire un cavallo solo guardandolo storto” aveva ricordato Saiji, e ancora meglio un ragazzino arrabbiato, con amarezza aveva pensato.

“Un inchino anche al Margravio Traditore, che si è menomato con una battaglia campanale, anziché un assedio” aveva ripreso a parlare Scarabocchio, “Che si dica che il suo fiore marcisca sotto i piedi de Il Principio, che si pisci sulle sue ossa esposte e che si rinneghi il suo nome, Gathren Rastia era un bravo comandate e pure un uomo bravo, tra i Manimorbide si intende.”
Questa volta nel tono di Scarabocchio non c’era un sentimento tendente ma vera e propria ammirazione.
Saiji non era d’accordo sulla presunta bontà d’animo dell’uomo, ma raramente aveva trovato Manimorbide che fossero uomini buoni, ma poteva riconoscere dei pregi ad un uomo morto. “Era un bravo combattente, questo sì” aveva ammesso Saiji, “Abbiamo duellato l’uno contro l’altro, per gioco quasi, durante la Rigogliosa, sedici sorelle passate, ormai” aveva considerato.

Ricordava lo sferzare delle lame e quasi una danza, il colpo della lama che aveva rintoccato più volte contro lo scudo e lo aveva spezzato e ricordava di averlo bacchettato con la sua di spada. E Buon-Dio-e-Principio era un'altra vita. “Ed era con noi contro i Cavalcanti” aveva ricordato Scarabocchio.
“Come dimenticarlo” aveva risposto Saiji di getto.

Berulio aveva chiamato una cameriera, non-vestita per farsi riempire la coppa. “Aveva onore, pure troppo, tempra e qualche barlume di strategia, non senza vergogna ti dico che se non si fosse dovuto confrontare con lo Scintillante Generale, Il pregiatissimo impero sarebbe monco di qualche fiore” aveva detto Scarabocchio una volta che la sua coppa era stata riempita.

E tutto l’Impero sanguinerebbe ancora” aveva risposto Saiji, “Oh, ma lo fa già” aveva detto Berulio con una punta di cattiveria negli occhi scuri. Il genere di sfavillio che stava bene sul viso di un uomo che prosperava sul bisogno dei popoli di recidere fiori ed imbevere i campi di sangue. “E io ti dico, mio buon Ser Alderichi, che alzo ancora la coppa per Gatrhen Rastia; quindi, margravio di irti Pini” aveva risposto Berulio, senza battere ciglio.

Saiji aveva alzato la coppa, non provava amore per Gathren, era un mezzo-sconosciuto, nonostante il loro duello, delle sue gesta aveva avuto racconti di seconda e quarta mano e non tutte le storie che lo avevano come protagonista erano degne di una ballata, ben prima che mordesse il piatto dell’Imperatrice.
Però loro avevano militato assieme contro i Cavalcatori Erranti, avevano spezzato le lance ai tornei e, sopra ogni cosa, ricordava che Gathren Rastia aveva guardato Saiji con supponenza e superiorità, nascosto dietro la legittimità della sua nascita, del prestigio della sua posizione, ma come piaceva pensare a lui: aveva mani dure per un mani morbide. Moira lo aveva rispettato, cosa che raramente concedeva a qualcuno – neanche alla sua famiglia – e Iren lo aveva amato, a modo suo.
E per il rispetto che provava per loro, per quanto a Saiji cocesse come fuoco sulla pelle riconoscere qualcosa a Ser Moira, per la volta che avevano cavalcato insieme fiancheggiando la morte e per la giustizia, come dimenticare la giustizia, Saiji non avrebbe mai chiamato Gathren Rastia “Il Traditore”, giacché egli era stato per primo tradito.

Quella verità, però Saiji, era consapevole, l’avrebbe portata nella sua tomba. “Al signore dell’Edera” aveva commentato con voce bassa lui, sollevando il calice, Scarabocchio lo aveva assecondato, facendo cozzare il suo bicchiere contro la coppa, “E che Il Principio non si pigli i fratellini” aveva aggiunto con cupezza il lupo d’arme.

Saiji aveva soffocato i suoi pensieri nel fondo di un bicchiere di vino, ormai freddo, per sopperire i pensieri che erano venuti a quel pensiero.

Finita la battaglia, Saiji aveva saputo che il fratello minore di Gathren, il nuovo margravio aveva aperto le porte del palazzo e chiesto, implorato, la resa per aver salva la vita per lui e per la sua giovanissima sorella. L’Imperatrice, con così tanta bontà d’animo, aveva accettato la capitolazione.
Saiji poteva immaginare il sorriso carico di dolcezza, sul viso giovane, mentre con occhi vispi, e colmi di soddisfazione, illustrava alla corte le ragioni delle sue azioni, delle sue motivazioni, della sua bontà. 

Riusciva a vederla, chiara come la luce del sole, mentre ripeteva con diplomazia e brillantezza: ‘Oh, questi due innocenti non dovrebbero pagare per i peccati dei propri famigliari, certo, hanno tradito la corona, l’ordine naturale prestabilito da Dio. Ma riconosco, che il Margravio, quell’anima sfortunata fosse insidiato da Il Principio. Ma io, sono buona e luminosa e ricondurrò questi agnelli lungo il sentiero scritto’ o qualche altra amenità simile.

I signori di Irti Pini non ne sarebbero usciti indenni, anche con il condono imperiale, nonostante tutte le parole squisite che l’imperatrice aveva dovuto usare, non le sarebbe importato affatto se i due giovani fossero poco più che vittime del loro stesso fratello, e della sua brama, l’Imperatrice non perdonava. Saiji era abbastanza convinto che non ne avesse la capacità.

Scarabocchio aveva finito il suo calice, di nuovo, “Sempre splendido conversare con te di beltà o meno, ma so che non ti sei trascinato fino a Città Azalea per discutere di Malvasia, di Gathren il Traditore o addirittura Ser Moria Ramberra” aveva considerato l’uomo, “Quindi, mio buon Sir Saiji, dimmi un po’ la verità, perché sei qui?” aveva chiesto.

Saiji aveva annuito per nulla stupito di questo, “Oh, be, se dopo tutte le lune e le sorelle che abbiamo passato insieme, mio buon Berulio, mi aspetto che tu abbia imparato a conoscermi” aveva risposto Saiji, “Così pragmatico da spaventare” aveva considerato Scarabocchio.

Lui aveva deciso di inghiottire quel commento con tranquillità, “Non ho mai avuto tempo per le stronzante da mani morbide, per i brindisi e per le ballate romantiche” aveva ammesso. Saiji poteva aver imparato a combattere in un cortile di un palazzo, con un maestro d’armi, con i figli di Iseo Ramberra e i loro cugini, ma non era uno di loro.

“Posso essere sincero, ser Alderichi, quando dodici lune fa ho ricevuto il tuo messaggio: mi son proprio eccitato.  Uno come te non si metterebbe a chiedere incontri per il gusto di condividere il desco e senza sottovalutarmi: so essere un vero compagnone” aveva dichiarato Scarabocchio senza perdere il suo sorriso divertito.  Saiji aveva annuito, “Come ho detto: non ho tempo per queste stronzate” aveva ripetuto Saiji. Non era di certo una persona dedita alle delizie e alle festosità; non lo era stata neanche nei momenti in cui aveva pensato di essere felice. Solo un uomo perso, distrutto e solo come Iren poteva apprezzare la sua compagnia e solo dopo aver ingollato Latte d’Uccello.

Il ragazzo aveva infilato una mano nel collo del suo farsetto, dannatamente elegante per il suo stile, recuperando un sacchetto di pelle di capra, che portava allacciato al collo con un cordolo di cuoio. Scarabocchio si era mostrato subito interessato, “Non sarà robaccia da streghe, vero? Ti facevo un senza-dio ma non uno scopatore del Principio” aveva scherzato.

Saiji aveva scosso il capo, facendo oscillare i capelli ricci rossi. “Io credo in tre cose, amico mio: me, la mia marra e l’affilatura della mia spada. Tutto il resto è relativo” aveva dichiarato senza esitazione Saiji, sapeva che Scarabocchio non era stato serio, così come sperava che lui di aver mentito. A volte non riusciva neanche a giostrarsi con le sue vere emozioni.

Aveva detto ad Iren di aver sempre creduto in sua madre, per quanto ogni suo insegnamento e profezia fosse stato disatteso.

Credeva nelle promesse di Iren, per quanto continuasse a disattenderle, credeva nelle dichiarazioni piene di passione di Adda, nelle gentilezze della Buona Signora Nervia e, perfino, credeva nella disciplina di Moria, ‘perché un uomo senza educazione è solo una bestia con un nome pomposo.
“Se non ti conoscessi, direi che sei mezzo-ferriano altro che ghaadiano” aveva scherzato. “Per i Ferriani è finito il tempo delle spade è altro il metallo a cui si consacrano” aveva risposto Saiji, infilando due dita nel sacchetto e passato a Scarabocchio il contenuto.

Era una moneta; l’uomo l’aveva colta subito, prima di saggiarla con i denti per testare il materiale per bene. “Sul dritto c’è una bella fanciulletta che raccoglie fiori – una Dama o una Damigella” aveva riconosciuto subito che tipo di conio era Berulio, poi aveva rovesciato la moneta per guardarne il rovescio, “Una mostruosità a due teste. La bestia Bicefala della città inviolabile; oro ferriano” aveva valutato.
Saiji aveva annuito, “Sì, è una Damigella di Peripsia” aveva spiegato, non aveva senso spacciarla per una Dama, Scarabocchio era un Lupo d’Arma, conosceva il valore delle monete, ed avrebbe riconosciuto subito una lega spuria. “Sicuro di non essere un adoraoro?” aveva chiesto retorico Berulio.
Saiji aveva fatto un cenno di diniego, “Non potrei mai essere un fervente adoraro, per me le monete hanno lo stesso valore dei sassi. Come ti ho detto: l’unico metallo a cui do valore è quello della mia spada, ma per mia sfortuna il mondo va avanti ad ori e argenti” aveva risposto annoiato Saiji.

L’oro era morbido e malleabile, Saiji non riusciva davvero a comprendere perché gli uomini ne fossero così ossessionati, erano stati loro a dare all’oro un tal valore. Iren ci aveva provato, pià volte, a spiegarli che dipendeva dalla scarsità, dalla bellezza o altre amenità, ma lui era un uomo semplice, da quel punto di vista, usava le monete come chiunque altro, ma era il ferro della sua spada che gli aveva permesso di sopravvivere.

“La maledizione del nostro tempo” aveva concordato Scarabocchio girandosi le monete tra le dita, era di elettro, sul dritto aveva una splendida fanciulla, adornata negli abiti gonfi dei ferriani e sul rovescio aveva una creatura con due testa di profilo: un lupo ed una volpe.
“Tutti qui, amico mio, dichiarano la loro devozione al Dio-di-Ogni-Cosa-Buona, ma hanno ragione le città della Lega. L’unico dio che ci muove e questa signorina qui” aveva dichiarato Berulio, ammiccando alla giovincella incisa sulla moneta.

Saiji aveva annuito, “Non vuoi sapere cosa ti chiedo?” aveva chiesto. “Lo vorrei sapere se mia madre fosse stata una gallina ed è stata molte cose per molte persone, ma mai stupida né lo sono io. So esattamente ciò che chiedi. Ciò che mi interessa di più e per conto di chi? E soprattutto: quanto mi offri” aveva risposto schietto Scarabocchio, che era certamente più pragmatico di quanto Saiji avrebbe mai sognato di essere.

Lui aveva ridacchiato, “Ovviamente” aveva riconosciuto l’inutilità della sua precedente domanda, non era uno sprovveduto l’uomo con cui parlava, o non avrebbero avuto quella conversazione.
“Devo sapere che questa conversazione resterà tra noi” aveva stabilito Saiji, ma era stato interrotto prima di poter continuare, “Se una Lupa di Baci diffondesse i segreti dei suoi clienti sarebbe presto una lupa sgozzata, così sono come una di loro, vendo il mio corpo per vil denaro, ma se svendessi i segreti dei miei commissari, risulterei privo di fiducia” aveva dichiarato Berulio Arrasi con sicurezza, “Che tu m’assuma o meno, un lavoro che mi viene proposto resta tra me e il mio contatto.”
“Ti farei giurare su qualcosa di sacro, ma ne io ne te ci crederemmo” aveva stabilito Saiji, con un sorriso spontaneo, “E mio buon cavaliere, dovrai ricorrere alla mia fiducia” aveva risposto Scarabocchio con divertimento.

Prima che potessero dire altro, Zegros si era palesato nuovamente, doveva aver abbandonato il lupetto, probabilmente non per sua scelta, visto che era trascinato per un braccio da un altro uomo, se Saiji avesse ricordato correttamente avrebbe dovuto chiamarsi Caris, o Cartis. Lo aveva visto nelle campagne, ma non credeva di averci mai parlato. Ricordava di averlo visto combattere senza uno scudo ma con due spade lunghe alla mano, veloce come una libellula.

Caris era più alto e più impostato di Zegros, oltre che più vecchio, era l’epitome dell’uomo fioriano, con la carnagione colore nocciolo di pesca, i ricci scuri aggrovigliati, lunghi fino alla nuca e le fossette quando sorrideva. Un’ombra di barba sfatta sulle guance e labbra carnose. Aveva degli inusuali occhi azzurri, forse di qualche sangue ghaadiano o del settentrione dell’impero. Non era benedetto, ma non doveva essere troppo lontano. Quando lo aveva riconosciuto aveva fatto verso di lui un segno con il mento, come un saluto.

“Ser Alderichi ci vuole ingaggiare” aveva detto subito Amanasi.

“Per conto della Corda di Spina? Perché potrebbe venirmi il cazzo duro solo al pensiero” aveva esclamato Caris euforico a quel pensiero. Saiji aveva sentito un senso di smarrimento a tutta quella gioia immotivata.

“No, mi spiace, viene per conto della diarchia di Peripsia” aveva stabilito Scarabocchio, lanciando una damigella a Zegros, che l’aveva presa a voglio, “Voglio che mi diciate che lavoro dobbiamo fare” aveva detto poi il loro capitano.

Una ruga si era formata sulla fronte bianca di Zegros, mentre il sorriso di Caris non aveva ricevuto neanche un colpetto.

Saiji aveva osservato la scena confuso.

“Combattere, mi sembra ovvio” aveva risposto pratico il soldato più adulto, con malizia negli occhi azzurri, “Complimenti tu dovevi essere quello sveglio della cucciolata, eh, Caris?” aveva ribattuto Berulio. Buono, Saiji ricordava bene.

Il guerriero aveva avuto presto il viso paonazzo.

Zegros aveva rimirato la moneta, poi aveva tentato, “La Diarchi balla sul filo della spada da ottocento sorelle quasi. Le due teste della bestia, Arga e Persepoli, hanno probabilmente deciso fosse inutile continuare a pugnalarsi alle spalle ed avvelenarsi e deciso che risolverla con ferro e sangue.”

Scarabocchio aveva annuito, “Plausibile, ma non in questo caso” gli aveva riconosciuto. Caris aveva recuperato il suo sorriso sfacciato, “Certo, se così fosse saremmo già in ritardo. La Sorella Vivace che ci ha appena salutato ha visto lo sfortunato Don Lorenzin Persepoli è caduto da cavallo, aprendosi la testa come un melone, durante la caccia di un cinghiale. È morto durante un Dilune della seconda decimana del primo ciclo. Tredici lune dopo l’incidente” aveva spiegato pratico, “Dicono che i parenti lo abbiano soffocato per atto di carità.”

Zegros era sembrato interessato e colpito dalla conoscenza del suo amico, Scarabocchio aveva fatto roteare il polso, “Altro da dire?” aveva inquisito.

“Don Lorenzin era l’esponente più importante della sua famiglia, in particolare dopo la morte di varicella di due cugini ed un fratello. L’unico maschio adulto della famiglia, erede dello zio Don Fabricio, la testa divorata dal Grande Male” aveva aggiunto didascalico. Anche Saiji si doveva dichiarare profondamente stupito di quella conoscenza. “Dalla morte del povero Lorenzin, i lupi sono andati in letargo e le volpi, come si può dire? Hanno mozzato una testa. Non esiste più la bestia bicefala” aveva terminato.

Era sceso un leggero silenzio, “Solo le volpi cacciano a Perlipsia ora” aveva concordato Saiji.
“Bravo Caris, un acino d’uva per te!” aveva esclamato Berulio, lanciandoli dell’uva contro, che quello aveva preso al volo, poi l’uomo aveva parlato: “Sì, non seguo proprio tutte le politiche ferriane, troppe città-stato del cazzo, Perlipsia poi è lontana. Avevo saputo della morte di Lorenzin Persepoli, senza contare del matrimonio, nella stessa sorella, di Don Dario Arga con Monna Sunbal, la figlia mezza-kaartiana del Don-Fuori-Di-testa” aveva dichiarato Scarabocchio, “Cose che passano di bocca in bocca, svelte. Per il Principio, saranno quaranta sorelle che non lascio il Pregiatissimo Impero, che di tanto in tanto mi dimentico della Lega, dei Sussurranti e della Ghaadia” aveva asserito.

Zegros aveva preso una sedia per accomodarsi, mentre Caris aveva preferito appoggiarsi allo schienale di quest’ultima.

Il ragazzino-dal-albume le aveva restituito la moneta di elettrio. “Corretto” aveva ammesso Saiji, “Darion Arga è il figlio di Sestio Arga l’Eroe della Vivace Luminosa, un evento importante per i ferriani, non ricordo bene la vicenda. Sestio era l’erede di suo padre ma è morto prima del Don, così il titolo è passato dritto-dritto a Darion. Dunque, morto Lorenzin Persepoli, Darion ha sposato Sunbal, la cugina di Lorenzin, come dote dalla moglie si è preso metà dei possedimenti dei Persepoli, ma visto che non voleva sembrare avaro ed è furbo come una faina – altro che volpe – ha lasciato l’altra metà a Carsio, un ragazzino di dieci sorelle a malapena, figlio di Don Fabricio il mezzo-matto. Essendo ovviamente un bimbetto, Don Darion si è fatto nominare tutore di Carsio ed amministratore dei suoi beni. Quindi ora, anche se non per legittimo decreto, Don Darion controlla la Diarchia di fatto” aveva spiegato Saiji, sperando di essere stato chiaro. Niente di ciò che aveva detto era troppo compromettente, i fatti erano noti a tutti o chiunque avesse intenzione di ascoltare.

“Mi sono perso, che vergogna!” aveva esclamato Zegros, pieno di confusione, le sue guance si erano arrossate appena, era strano vederlo colorato sul viso. “Importa solo un nome. Chi in questa storia vuole togliere il culo di Don Darion Arga dalla sedia dell’Inviolabile?” aveva chiesto Berulio con interesse. “Forse è il Don stesso che vuole arruolarci per sbarazzarsi dei suoi nemici” aveva proposto Zegros, timoroso. Il vecchio Scarabocchio lo aveva guardato, “E ci mandavano un mezzo-sangue principiente? Con un sacchetto di damigelle?” aveva chiesto retorico, “Mi hai spergiurato che tua madre non fosse una mula, ma inizio a non crederci” aveva aggiunto crudele. Zegros aveva abbassato gli occhi vacui.

“Darion Arga controlla la Diarchia, non lo fa ufficialmente, ma lo fa legittimamente, se avesse voluto sbarazzarsi dei suoi cugino lo avrebbe fatto con lame nascoste nella notte o avrebbe creato un precedente e gli avrebbe fatti accusare di tradimento e posti a giudizio come ogni cittadino libero ferriano” aveva spiegato Saiji, “È uno dei suoi cugini, si.”

“Allora non vuole la sedia, vuole fare un bel sorriso sulla gola” si era intromesso Caris, “Non vuole sgozzatori, vuole dei soldati” aveva dichiarato a Berulio.

Moltissime cose potevano essere dette di Scarabocchio, che fosse brutto come il culo di un cinghiale, che era un combattente più feroce di un orso, ma nessuno avrebbe potuto negare che avesse una spigliata intelligenza. “Mi sorprende che tu non sappia già per conto di chi vengo” aveva valutato Saiji.
Berulio aveva riso, lisciandosi i baffi, “O per favore, Ser, mica posso ricordami tutti gli schizzeti di casa Arga, come minimo il Don ha cinque o sei cugini” aveva ribattuto pratico.

“Oh no!” aveva rantolato Berulio, “Perché ho l’impressione che stiamo per ascoltare un altro intricato albero genealogico composto di nomi assolutamente distanti” aveva chiesto retorico.

“Perché succederà” aveva risposto senza grazia Saiji, “Il Don ha tre cugini e un fratello” aveva spiegato, “Uno si è unito alla Devozione, quindi ha dimesso cognome e possedimenti. Uno è un cugino uterino e come sapete bene, le donne, di norma, nelle città ferriane hanno valore solo in una delle loro mani e nelle loro fiche” aveva spiegato leggermente disgustato, “Inoltre lui è attaccato al culo di Don Darion come una zecca su un cane”.

“E fuori due” aveva detto Caris, “Mica è detto. Sarebbe divertente essere assunto da un bel monaco” aveva risposto pratico Berulio. Saiji aveva continuato: “L’ultimo cugino Emisio, è figlio del fratello di Sestio … e lo chiamano Emisio l’Esiliato, perché quando il cugino ha preso il potere si è dato alla macchia. Pare sia ad Eos, nella città di Passamar a godersi le dame che ha portato con sé e a bere birra bianca” aveva detto, “Quindi rimane solo il fratello!” aveva esclamato Zegros soddisfatto.
Sì, Tarsio! Fratello minore di Don Darion. Lo chiamano Pugno di Ferro, da quando ha spaccato il naso a Ser Cileno di Iorevin. Ha lasciato l’Inviolabile, ma differentemente dal cugino, non si è allontanato di molto, anche se, ovviamente le storie differiscono: qualcuno dice sia ospite di un’altra città ferriana, qualcuno dice ceni a casa di un signore del pregiatissimo o con un manipolo di uomini si accampato nelle vecchie Città del Peccato” aveva detto, un brivido nel nominare quel luogo.
Era un’immagine distante, un ricordo distante.

“Direi, quindi, che il contratto viene da Don Tarsio Arga?” aveva chiesto Caris; Scarabocchio aveva emesso uno sbuffo, “Il Don Senza Città? Bene e male. Chiamano Peripsia l’Inviolabile per una ragione e non credo che Don Darion si lancerà in una battaglia Campanale, mica ha dalla sua ferrea convinzione di avere Dio con sé, come un certo qualcuno” aveva considerato l’uomo poi calmo.
Gathren Rastia e la sua battaglia alla Piana di Malavasia, ma Berulio aveva ragione, almeno in parte, Palazzo d’Edera non era Peripsia.

Saiji aveva riso un momento, acre, godendosi le parole che avrebbe pronunciato di lì a poco: “In realtà no. Non vengo per conto del Don Pugno di Ferro!” aveva espresso.
Un guizzo di genuina dose di curiosità era appena sorto sul viso di Arrasi; “Chiunque abbia mai parlato due volte con Don Tarsio sa che è brutale, feroce, irruento, ma anche protettivo. Non è un leone, ma un mastino” aveva considerato. “Ed un mastino ha bisogno di un padrone” si era inserito nel discorso Zegros, con un po’ di coraggio.

Caris aveva posato le mani sul tavolo e si era sporto in avanti, “Allora, quale è la mano che nutre questo cane se non quella di suo fratello? Il cugino uterino che affila i coltelli dietro la schiena, il monaco che recita preghiera ma organizza complotti? L’Esiliato che bevve birra bianca e conta quante monete può inviare al cugino?” aveva chiesto, languido di interesse.

Saiji poteva osservare negli occhi blu intensi, riverberare qualcosa: eccitazione.

Come quella di un uomo davanti ad una donna volitiva, ma per il sangue, per la battaglia.

Saiji aveva declinato lo sguardo verso Berulio, leggermente intimorito da quella fame di Caris, “Uhm. Sarà onesto, bastardo, non ne ho idea. Spero nel monaco, renderebbe tutto molto divertite” aveva ammesso candido il vecchio lupo.

“Nessuno dei tre” aveva detto alla fine, osservando con attenzione la realtà dei tre, “Ora hai il mio interesse, ser Alderichi” aveva aggiunto Scarabocchio. Saiji aveva sorriso, con nervosismo, “Come ho detto le donne a Peripsia non hanno molto valore, ma esistono. Rigo Arga, il padre di Emisio l’Esiliato oltre quel suo capolavoro di figlio, ha avuto anche due figlie: Ildamira e Theresia arga. La prima è un bel bocciolo di rosa, sposata con un tale uccello di Colemin, non chiedetemi di più, a malapena mi ricordo il cognome delle trentaquattro famiglie! Figurarsi tutti i cazzo di nobiletti ferriani!” aveva fatto una pausa, facendo sgusciare una risata ai tre, aveva imparato l’albero genealogico dei membri dei pari di Perlipsia, solo perché era stato ingaggiato più di una volta da un membro degli Arga.

“Non ci credo neanche se ti vedessi chiamare qualcuno male” aveva detto Berulio; “Rimarresti stupito” aveva risposto Saiji, toccandosi una guancia, ricordando lo schiaffo di Moria quando sbagliava, prima di continuare: “Invece, parlando della seconda, Therersia è sempre stata la gioia del cuore di Rigo, ma dell’insofferenza sia di Sestio, sia di Don Darion, ma sicuramente la devozione di Pugno di Ferro” aveva stabilito, lasciando ai tre il tempo di capire.

Zagreo aveva spalancato gli occhi pallidissimi, “Oh! Il Principio bruciatissimo!” aveva esclamato Caris, “Oh per la gloria del Buon-Dio e dei Suoi-più- Perfetti! Tu vieni per lei!” aveva detto l’uomo-d-albume. L’unico che non si era dato in commenti era stato Scarabocchio, che era rimasto in silenzio, contemplativo.
“Una donna? Una donna ferriana vuole ingaggiare una guerra” aveva detto Caris, il suo tono, il suo tono era strano!

“Monna Theresia Arga è sicuramente una donna, anche una bella, ma è anche una volpe. Arga dalla testa ai piedi e se al mondo qualcuno può avere l’ardore di scatenare una guerra contro l’Inviolabile, quella è lei” aveva chiarito Saiji.

E sopra ogni cosa, Theresia Arga era donna di Parola. “Non so se sa maneggiare una spada, sicuramente è un’arciera provetta, una volta ha infilato una freccia in una mela sulla mia testa, ma di sicuro non le mancano: né lo spirito, né i soldi” aveva chiarito.

Caris e Zagreo aveva guardato Berulio. “Amico mio, non mi importa se la tua monna ha una fica di zucchero o una verga con cui potrebbe giostrare alla quintana. Abbiamo scherzato di stronza del sangue, delle genealogie e pure delle minchiate” aveva fatto una pausa, per il dramma, “La tua volpina di ferro, che vuole veramente? Che qualcuno tagli la gola al cugino mentre siede sulla banca di Perlipia o una battaglia che annaffi i campi con il sangue per le prossime cento sorelle?”
Saiji si era morso il labbro, “Theresia Arga vuole la città” aveva stabilito, c’era qualcosa di sacrale nel pronunciarlo.

“Bene, perché a parte Caris, nessuno di noi era l’uomo per il primo caso” aveva considerato Berulio, mentre il soldato aveva emesso un verso indignato, “Ma per il secondo; si è di nostra competenza. Quindi possiamo discutere, sì, sì, che mi offre la tua volpina per tentare di vincere contro la città che non è mai stata violata?



[1] Si, signori/e è un fiore.

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Capitolo 11
*** PARTE PRIMA; TITOLO I, CAPITOLO VIII ***


C A P I T O L O  V I I I

L ‘  E D E R A   R E S I S T E    A L L   F R E D D O

Dolce Sorellina

Sento profondamente la tua mancanza di questi tempi e sento il bisogno di averti al mio fianco.

Ultimamente, ho saputo, che non risiedi più in città ma ti sei spostata nella campagna, lungi sapere che fascino possa esercitare il silenzio, le cicale e la solitudine, o addirittura la compagnia di Shinora, ben peggiore di un esilio volontario in una stanza sola.

Ho incontrato nostra cugina ed il suo nuovo bellissimo e rotondissimo bambino, che sfoggiava con la stessa intensità dei nostri cugini le coccarde dei tornei, come se aver partorito un lattante fosse il suo più grande traguardo.
Forse lo è.
Come è piaciuto sottolineare ad Aloyssa in quello è sicuramente stata più capace di me. Devo chiedere a Dio la forza di non cedere a Il Principio ed affogarla in una tinozza.

Lo sai che l’Imperatore Irtinian IV fece uccidere suo fratello annegandolo in una tinozza piena di vino rosso?
Non è un’idea malvagia infondo, per chiudere quella bocca da pettegola. Non so come tu tollerassi averla sempre intorno.
La tua nuova dama di compagnia come sta? Ora parla di nuovo?
Ha fatto aggiustare il suo fiore?
Non rispondermi, lo sai che solo sentirlo per le mie orecchie sarebbe un abbominio. Ho comunque pregato per lei, non lo meritava, davvero, ma la ho inserita nelle mie preghiere.

Spero che la vostra permanenza in campagna non sia ancora lunga, ho voglia di rivederti e se non verrai tu al bocciolo ho intenzione di venire io ad Arance Sanguinelle. E siccome i brulli mi annoiano, non ho intenzione di venire a stanarti come un segugio dalla tua tana, vorrei che fosse in una città con bei balconi, strade lisce e ippocrasso da bere.

Ho davvero bisogno di parlarti, ho bisogno di te, lo sto sottolineando tre volte, per renderlo chiaro. Devo comunicarti le mie notizie in merito alla grande questione di cui abbiamo discusso l’ultima volta che ci siamo viste, ho preso una decisione. Ma senza il tuo saggio consiglio sono persa.
So che come sorella maggiore, dovrei essere io la tua guida e non il contrario. Il mio stesso ruolo mi impone di essere sempre, ma tra noi non è mai stato così.

Sei e sarai sempre l’unica al mondo di cui potrò fidarmi.

Con amore

tua sorella,

Nervia aveva riletto la lettera per la terza volta, cercando di recuperare il messaggio segreto che sua sorella doveva aver scritto, ma aveva cominciato a sospettare non ci fosse niente di segreto, sua sorella aveva scritto nero su bianco ciò che voleva.

Il problema di Nervia era che volesse un messaggio segreto perché ciò che era scritto nero su bianco la preoccupava di più. Non voleva conoscere la decisione di sua sorella, qualunque fosse stata, Nervia sapeva già in partenza che non l’avrebbe approvata. Conosceva sua sorella come il palmo delle sue mani, e come una chiromante riusciva ad interpretarne il futuro.

Aveva riletto la lettera per la quarta volta, incerta potesse essere l’ultima.
Quando l’aveva ricevuta da un messo tutto tronfio quella mattina aveva percepito le cattive notizie prima ancora di spaccare il sigillo rosso con l’effige del giglio. Prima della morte del loro padre, sua sorella aveva avuto un’araldica personale, ma l’aveva volentieri buttata via in favore di quella titolare della famiglia.

A Nervia quel giorno sembrava quasi una vita, erano passate sì abbastanza lune ma non così tante quante ne percepiva.

Aveva pianto molto, ricordava ed aveva pensato stupidamente che nessuna luna sarebbe stata più così bella, senza la voce del suo vecchio che le raccontava le leggende, che il giusto sentiero non approvava.

“Credi cambieranno le parole se la leggerai ancora?” aveva chiesto Saranna sedendosi al suo fianco, aveva raccolto i capelli argentei in una treccia, anche se era ancora nubile, ed oltre il fazzolo tipico delle Sorelle Pallide e Fredde, aveva avvolto il collo di cigno in una mantella verde foglia, per nascondere la pelle i primi spifferi delle sere tipiche di quella sorella.
Illuminata dalla luce calda del tramonto appariva gradevole come una ninfa dei boschi.
“Forse sì, le vie del signore sono chiare per tutti meno che a me” aveva risposto Nervia, con una punta di allegrezza che non possedeva, accartocciando la carta tra le mani.
Non aveva fatto leggere a nessuno il contenuto della lettera, il sigillo diceva fosse intonsa quando l’aveva ricevuta, ma c’erano uomini capaci di imitare i fiori di Dio, figurarsi quegli di cera. Probabilmente più di una persona aveva letto il contenuto di quella missiva striminzita, ma le sembrava comunque ingiusto permettere ad altre persone di spiare la sua corrispondenza, anche le sue damme. Sebbene, poi, aveva riportato a Imerie e Saranna ogni parola.

Saranna le aveva allungato una coppa di vino rosato; proveniva dalle cantine del podere. “Devo andare a Zagara. Non mi sento di voler incontrare mia sorella altrove che lì. Sarei inferiorità” aveva considerato guardando la sua dama. Era vero solo a metà, avrebbe davvero voluto evitare di incontrarla, per discutere di quella cosa, ma preferiva che fosse a Zagara, la città era sua e lì si sentiva protetta, come una testuggine in un carapace.
“Bevi” le aveva ordinato Saranna. Nervia l’aveva ascoltato incerta, godendosi il sapore leggermente fruttato del vino sulle sue labbra. Non era mai stata una persona da eccedere nei piaceri del vino né del suo stordimento. Non le piaceva nulla che potesse darle un giro alla testa. Una volta da ragazzina, quando aveva cinquantaquattro sorelle lei ed Imeria si erano ottundiate con il Latte d’Uccello, che avevano sgraffignato dalle scorte del fratello maggiore della sua dama.

La sua amica aveva battuto le palpebre, godendosi del vino con estrema calma, “Tua sorella è troppo dura. Partorire non è mica facile, mia sorella ci è quasi morta!” aveva ricordato. “Di tutto quello che ti ho detto, è l’unica cosa che ti è restata impressa?” aveva chiesto Nervia.
Erano tante le donne che trovavano la fine in un letto, quasi più degli uomini in un campo di battaglia.
“Forse, sì, forse no. Solo che credo, ecco, che … non prenderla male ti prego, a volte tua sorella … non capisce” aveva considerato. Nervia lo aveva guardata, sollevando un sopracciglio, erano parole pericolose. Saranna aveva sollevato le mani, con i palmi rivolti verso di lei, in segno di resa e scusa.
“Nostra madre è morta così” aveva ricordato Nervia, era una memoria lontana, lontanissima. Lei aveva otto o nove sorelle, appena svezzata, non ricordava minimamente la sua genitrice, solo l’immagine restituita dai quadri e quanto poteva leggere sul viso di sua sorella.
Sua madre era morta di febbre puerperale, dopo aver dato alla luce il suo piccolo fratellino: Vervatin.
Sua madre no, ma Vervatin sì; lui lo ricordava bene. “Io credo che lo dica solo, sai, per erigersi sopra gli altri” aveva considerato spenta Nervia.

Le donne morivano nelle camere da letto da migliaia di sorelle e gli uomini trattavano quelle morti e quei trionfi nulla più che come doveri e perdite accettabili, così sua sorella cercava di incasellarsi lì, tra i pensieri degli uomini, ma Nervia sapeva fossero solo frottole.
Sua sorella era rimasta incinta una volta ed aveva perso il bambino, non era mai stata materna, non era mai stata amorevole, perciò Nervia aveva inteso, in principio – e forse per Il Principio – che il dolore che aveva manifestato quando aveva perso il bambino, era dovuto alla sua frustrazione di aver mancato a qualcosa che tutte le donne facevano, dopo quel tempo, Nervia ammetteva di essere stata crudele. Sua sorella aveva pianto un figlio che aveva voluto, che forse le avrebbe dato gioia.
Forse come il loro piccolo Vervatin anche quel bambino avrebbe potuto fare tanto, ma era rimasto destinato a nulla.

Ma erano i segreti di sua sorella e Nervia non li avrebbe traditi neanche per Saranna.

 

“Pensi si vorrà risposare? Mi andrebbe proprio di partecipare ad un bel matrimonio, si balla un sacco, si mangia, si conoscono nobili signori con tutt’altro che nobili intenti” aveva squittito con estremo divertimento Saranna, in brodo di giuggiole, “Ricordi il matrimonio di Vanabia? Ci siam divertite un sacco e c’era quel nobile minore che si era invaghito di me ed arrossiva ogni volta che lo guardavo” aveva ricordato Saranna, “Mio padre lo ha escluso perché era un vassallo di una marca minore. Oh, fiori rigogliosi, pare non esista mai un partito degno di me!” si era lamentata la sua amica, “Eppure le lune si accumulano sulla mia schiena, le sorelle sul mio viso e qualsiasi cosa renda le mie cosce più simili a budini, che a carne, sta passando” aveva soffiato Saranna con finta sofferenza. Nervia aveva bevuto un po’ del suo vino; dalla Campanale di Malvasia sentiva sempre il bisogno di intossicarsi con il vino per acquietare i suoi malumori. “L’importante che non faccia sposare me!” aveva replicato annoiata. Nervia non disdegnava l’idea di unirsi in matrimonio a qualcuno, ma era più l’idea a non disturbarla, non provava nessuna attrazione all’idea di essere una moglie, una madre, una brava signora di casa.

“Penso dovresti metterlo in conto amica mia. Credo che non avrai mai la mano di Ser Alderichi, comunque” aveva considerato Saranna con una risata fresca, senza malizia, Nervia era arrossita improvvisamente a quelle parole. “Cosa? No!” aveva risposto leggermente indignata Nervia. Non aveva mai titubato in pensieri romantici con il cavaliere della Spina; certo, come tutti i giovani cavalieri, anche Ser Alderichi aveva dovuto esercitarsi nelle parole cortesi – una tradizione stupida ma che tutte le signore dell’Impero sembravano amare – e come tutti aveva dovuto scegliere una dama a cui dedicarle. Per lo strano cavaliere la scelta era ricaduta su di lei.
Ma le piccole rime baciate di Saiji erano semplici, sterili e prive di cuore, mero esercizio e volontà. A dirittura un dovere, ogni buon cavaliere del Pregiatissimo Impero dei Fiori doveva avere la sua Signora a cui aspirare, come volevano le ballate e le beffi. Nervia era stata la protagonista, o meglio la vittima, di diversi audaci cavalieri, di nobile nascita o meno, che le avevano dedicato nel corso delle sorelle poesie che spaziavano dal ridicolo al modestamente bello. Aveva conservato un paio di epigrammi, qualcosa sui capelli biondi come i raggi del sole ed altre sciocchezze semplici – in particolari quelli di Ser Alderichi, ma solo perché trovava comicamente tenero immaginare il cavaliere pessimista scrivere versi in rima.

“Sbaglio o ricordo che un giorno ti ha baciato, sotto la luna più di sangue che si sia mai vista, anche più rossa dei suoi capelli” le aveva ricordato Saranna.

“Ricordi male, infatti. Io ho baciato lui” aveva detto chiara Nervia, non perché lo avesse voluto davvero, ma solo perché così le era sembrato giusto. Non era quello che facevano le giovani signore di nobile famiglia? Strepitavano per scambiarsi baci di nascosto con cavalieri ben lontani dal suo rango.
Era giovane e Ser Alderichi le aveva scritto dei versi, Nervia aveva erroneamente interpretato l’esercizio come un sentimento, non era davvero interessato a lei, così come lei non lo era a lui, lo aveva scelto su tutti gli uomini perché aveva un aspetto particolare.

Era bello, non così lontano dalla perfezione, era bravo con le spade, alla quintana e quando sorrideva sembrava dolce, anche se lo faceva ancora meno di Nervia.

Comunque, non potrete mai sposarvi, lo sai” aveva ripreso Saranna, “Ho provato ad allungare l’idea al duca Iseo Ramberra una volta, quasi per scherzare” aveva borbottato. “Tu hai fatto cosa?” aveva chiesto Nervia sconvolta. “Saiji era un cavaliere importante delle Spiga, praticamente figlio putativo di Ser Moira, così dopo quella volta che ha recitato quella splendida poesia sulle sfumature dei tuoi capelli che sembravano la luce sulla sabbia durante l’alba” aveva spiegato Saranna, imitando anche la voce gutturale di Ser Alderichi per le ultime frasi, “Quella poesia era oscena” aveva risposto Nervia, con un nervosismo che non riusciva a spiegarsi.

Non le era neanche mai passato per la mente che lei e Saiji avrebbero potuto sposarsi, era quasi tenta di chiederle cosa avesse risposto Iseo Ramberra, ma era meglio inghiottire ogni possibile risposta. “Era davvero orribile, peggiore di lui poteva esserci solo Fellios di Meli Deliziosi” aveva sghignazzato, “Come dimenticare l’uomo che paragonato le tue tette a timballi” aveva scherzato con un sorriso divertente. “Le poesie di Saiji erano mero esercizio ed il nostro bacio, era stata casta da bimbetti” aveva raccontato poi, cancellando con una manata un ricordo dalla sua memoria.

 

Non ne aveva avuti poi di molti baci dopo, di cartocci pieni di brutte poesie, sì.

Anche la La Coccatrice ne aveva scritte per lei, decisamente più poetico e complicato del buon Saiji, con rime a catena e descrizioni del suo forte cuore e del suo animo rigoroso. Era stato che molto più audace, non si era limitato a consegnarli pergamene chiuse come fiori, ma ne aveva letti diversi davanti un pubblico.
Per diverse lune, Nervia era stata convinta che il cucciolotto avesse sviluppato un’infatuazione onesta per lei, con il passare delle Sorelle non ne era stata poi troppo sicura.

Proprio il giovane uomo stava osservando, non lontano, che girava nervoso tra gli alberi di aranci, Shinora, sistemata tra le fronde dei rami, come una ninfa lo osservava agitarsi nervoso. Ancora una volta non portava l’armatura, ma aveva la spada appesa al fianco a penzoloni. “

“Ultimamente è nervoso” aveva considerato Nervia, “Certo che lo è, si è invaghito di qualcuno – mi sorprenda che non stia tirando testate contro un’arancio” aveva risposto subito Saranna, che era sempre pronta e preparata su ogni argomento. Nervia faticava a credere potesse davvero essere quello, ma perché fatica a comprendere sempre che pensieri del genere potessero attraversare le persone.
Ricordava sua sorella, quando in giovinezza, si struggeva per due aitanti gentiluomini e quando si ritrovavano, dopo lunghi cicli ne parlava vivacemente, cercando il suo consiglio, il suo parere e la sua complicità, anche se Nervia era più giovane e poco interessata a quelle questioni, almeno di persona. I racconti le piacevano, le sembravano come quelli stuzzicanti dei libri.

“Ti prego, dimmi, che si è infatuato di mia cugina Shinora, forse è troppo matura per lui, ma è ancora giovane e disponibile” aveva considerato immediatamente Nervia, guardando come gli occhi verdi di sua cugina continuavano a spiare il giovanissimo cavaliere. La Coccatrice sembrava più giovane di quanto non fosse, Nervia ammirava ed invidiava quel tipo di fascino, nonostante la sua nascita benedetta, Nervia non poteva non notare ogni giorno fosse più avvizzita del precedente.
Sua nonna, che era stata altrettanto benedetta, aveva conservato una bellezza aulica anche da anziana, di rimando, sua madre non aveva mai superato le centoquaranta sorelle; perciò, non poteva sapere se anche lei, da vecchia avrebbe potuto o no conservarsi splendida.

“Tua cugina?” aveva chiesto Saranna quasi divertita, sbattendo gli occhi di miele con un certo divertimento, “Sarebbe uno spettacolo divertente da osservare, ma direi che nonostante il fascino sinistro di tua cugina, no, non è lei la vittima di un corteggiamento così impacciato” aveva raccontato Saranna.
Nervia aveva aggrottato le sopracciglia pallide, “Una di voi vegliarde ha irretito il mio giovanotto?” aveva chiesto divertita, “Dovrò aspettarmi poesie sull’argento dei tuoi occhi o sul rossore delle gote di Imeria?”

“Imeria lo avrebbe voluto ingoiare intero, non fraintendere. In effetti, potrebbe avergli dato una bella cavalcata” aveva considerato Saranna.

“Oh! Per Il Principio! Non dirmi queste cose!” aveva strillato Nervia divertita, “Immaginare Imeria e La Coccatrice in intimità e come immaginare mia sorella e … non lo so, mio cugino!”.
Avrebbe dovuto dire fratellino, Nervia lo sapeva, considerava il giovane cavaliere in quella maniera, ma il suo fratellino si era spento dopo una lunga febbre che aveva ingrossato il suo collo, come un gozzo e dipinto a macchie blu la sua pelle. Con la sua morte si era spento l’ultimo sorriso genuino di suo padre.

“Alcuni dei tuoi cugini non sono del tutto malvagi su cui fantasticare” aveva considerato Saranna con un tono divertito. “I miei cugini? Sono dei piccoli orrori del Principio” aveva esclamato indignata Nervia, credendo in ogni parola che aveva detto, sapeva che era ingiusto comportarsi così, amava alcuni di loro come Nervia ed Aloyssa, così come Diente, che era a malapena tollerabile, e, certo, Myrta che era solo una bambina, ma gli altri erano il male puro, Nervia provava del genuino ribrezzo.
“Lo so, per tutti i fiori del creato, gli ho conosciuti tutti, qualcuno forse anche carnalmente – e non dirò chi – ma stavo parlando di Sabeo e Ceristo” aveva soffiato fuori Saranna.
Nervia aveva ascoltato quella frase con un’apparente confusione, “Certo sì” aveva balbettato, “Immagino loro siano carini” aveva detto incerta. Sabeo e Ceristeo erano i figli gemelli di suo zio, fratello di sua madre, Nervia non pensava molto a loro. Era una cosa stupida, in effetti, i suoi genitori erano anime destinate anche se non erano appartenute a due mondi completamente diversi. La famiglia di sua madre era stata elevata, in virtù del fiore sul suo petto e questo aveva reso anche i suoi cugini uterini quasi nobili, ma ancora, lontani da Nervia, specie dopo la morte di sua madre. Quando Nervia pensava alla sua famiglia, la sua grande, caotica e roborante famiglia, finiva sempre per tagliare fuori il ramo di sua madre.

Ricordava che Sabeo e Ceristo come quasi-vicini-alla-perfezione, fossero molto belli, uno era gentile ed educato, mentre l’altro era un po’ selvaggio, ma non avrebbe saputo dire chi era l’uno e chi era l’altro.

Lei aveva scosso il capo, decidendo di non voler pensare a niente che comprendesse i suoi parenti, “Tuo cugino Genzo, invece, è molto carino!” aveva squittito Nervia, anche se non lo intendeva sul serio.
Genzo era cortese, galante ed anche piuttosto carino, almeno a detta, delle chiacchiere di metà della corte, così anche se lei non aveva mai particolarmente apprezzato il ragazzo, sapeva cosa doveva dire.
Saranna aveva schioccato le labbra, “Non lo dire ad alta voce, mio zio impazzirebbe all’idea di farlo sposare con te” aveva considerato, “Confesso non dispiacerebbe neanche a me, potremmo chiamarci cugine e spettacolare insieme tutta la nostra giornata.”

La sua amica aveva giocato con la coda della sua treccia, ben spessa, “Possiamo farlo comunque, amica mia” aveva risposto Nervia, allungando una mano, per tirarle un pizzicotto sulla guancia tonda. Saranna aveva riso, “Ovviamente. Sarò zia dei tuoi figli che tu sposi quel birbante di mio cugino, quello scemo di mio fratello o un orco-blu” aveva detto. “Splendidi partiti, li prendo volentieri tutti e tre” aveva replicato lei, “Mi concederò ad un matrimonio poligamo che mi farà considerare da tutto il clero una strega principiente in piena regola” aveva scherzato, “Ma con bambini bellissimi, di cui io sarò la zia più amorevole” aveva ribadito Saranna.

“Temo non avresti una difficile competizione; mia sorella è tutt’altro che affettuosa” aveva sospirato Nervia, anche se era ingiusto parlare così crudelmente di lei.

“Sai che non è vero!” l’aveva stupita Saranna, “Tua sorella ti ama. Si vede nel modo in cui diventa dolce quando parla con te e di te” le aveva detto. Non era affatto un segreto che la sua buona dama non avesse un rapporto gentile con sua sorella, cortese sì, ovviamente. Saranna era una signora, e come tutte le signore sapeva bene come non esternare i propri rimproveri; perciò, si sentiva piuttosto confusa da quella verbale riconoscenza. “Lo so” aveva ammesso, perché era vero.
Sarai sempre la persona di cui potrò fidarmi, aveva scritto sua sorella ed era vero, lo sapeva. Nervia non era così rigida nel distribuire il suo amore, ma sicuramente, amava sua sorella. Solo che le lune e le Sorelle che si erano susseguite, avevano reso il loro rapporto teso come la corda di un’arpa.
“A forza di parlare di queste sciocchezze, ci siamo allontanati dal nostro giovane Cavaliere” aveva cambiato discorso Nervia, quando aveva visto la figura del giovane, ancora, nervoso che camminava in andirivieni avanti e indietro tra gli aranci.

Con la luce del tramonto i capelli castani sembravano tingersi di una tonalità più aranciata, come la buccia esterna di una zucca.

Sembrava, perché lo era, giovane di per se, ma senza l’armatura perdeva ancora più sorelle.

Sul viso della sua amica si era spenta la vivacità, solo per la durata di un battito di ali di farfalla, “Non ti piacerà” lo aveva avvertito, “Purtroppo è della nostra giovane nuova amica, che La Coccatrice si è invaghito” le aveva detto, dosando bene ogni sua parola, con la tristezza intessuta nelle sue parole.
Aveva spalancato gli occhi e anche le labbra, “Lui cosa?” aveva chiesto Nervia, quasi, indignata.
Un’espressione carica di serietà aveva invaso il viso di Saranna, che aveva stretto le sue labbra in un taglio dritto, prima di rispondere all’agitazione che Nervia stava mostrando.
“Il mezzo-fratello di Imeria mi ha detto che La Coccatrice, la ha scortata fuori dalla bolgia come farebbe un uomo con la sua sposa, fuori dalla chiesa. Così quando lei era inferma, lui ha letto per lei tutto Il Bandimento, ben tre volte. Lettura che ritengo già una volta essere di troppo” aveva raccontato Saranna con quasi una punta di divertimento nella voce, che aveva perso immediatamente dopo, continuando: “Sai, prima di Malvasia, lui era amico del Margravio non di Ghetren ma … di quello attuale”.

Nervia non era per nulla divertita da quella situazione. Come tutti i valenti uomini del Pregiatissimo Impero, La Coccatrice era andata a combattere alla Piana di Malvasia, ma quando era tornato non era lo stesso. Una battaglia, una vera, era diversa dai duelli, da giostre e mischie. Era partito un ragazzetto audace, con la testa piena di sogni di gloria e racconti cavallereschi, ma quando era tornato era un uomo grigio, che nascondeva l’inquietudine dei suoi occhi, dietro sorrisi poco convinti.
Le piaceva La Coccatrice, davvero, era uno splendido ragazzo, con un cuore tenero – cosa che raramente si vedeva di quei tempi – ed una spada ed uno scudo ottimi dietro cui nascondersi.

“Non mi piace, lei non ha bisogno di un uomo che le aliti sulla nuca, non dopo quello che le hanno fatto” aveva detto secca, dura, Nervia, aveva anche stretto i pugni. Continuava a vedere dietro le sue palpebre, l’espressione morta che aveva assunto la sua giovane dama quando l’avevano presentata per la prima volta. Saranna aveva annuito, gli occhi scuri avevano seguito il profilo teso del giovanotto, “No, hai ragione, mia cara; ma è un ragazzo onesto, anzi un uomo onesto” le aveva detto.
“Sia io sia te lo conosciamo da quando puzzava ancora di latte e seguiva i cavalieri più grandi con occhi grandi come piattini, pieno di meraviglia” le aveva ricordato.

“Rimane, comunque, un uomo, con delle voglie e delle fantasie. Vorrei credere che La Coccatrice sogni fiori e rose, ma sarebbe sciocco immaginare che voglia baciarle le dita e leggere poesie d’amore” aveva considerato Nervia

“Con te, lo ho fatto” aveva considerato Saranna. “E sì e ti dico che il ragazzo non è del tutto incapace, ma non è neanche bravo!” le aveva detto con una punta di cattiveria, “Ho ricevuto epigrammi per tutta la vita, forse due o tre di loro erano davvero invischiati con me” aveva stabilito.
La Coccatrice le aveva baciato le nocche, chinando il ginocchio ed il capo, ma non le aveva mai rivolto guardi di lussuria o desiderio; “Lui incluso!” aveva aggiunto, guardando il giovane.
“Secondo te, amica mia, perché è così frustrato? La desidera probabilmente, come un uomo percepisce una donna, ma lo sa, che non sta guardando una dama, ma qualcosa più simile ad un uccellino spezzato” aveva statuito Saranna, bevendo un sorso di vino, “Quello che sente è il senso di colpa!”

Uccellino spezzato, secondo Nervia, quello era un eufemismo.

“Non sono sicura come termine si sposi bene a questa situazione” aveva dichiarato con un tono di voce perentorio.

“Non esistono nomi adatti a questa situazione. Nelle ultime Sorelle, l’Impero ha sanguinato molto e non sono stati poche le persone che hanno offerto quel sangue” le aveva risposto Saranna, con voce calma, abbandonando la sua treccia. “Parlando di questo: Imeria mi ha detto che tua cugina ha sognato di una pianta di edera che ci uccideva tutti” aveva considerato la sua amica, cercando di sorridere, “Forse i Fiori hanno bisogno di altro sangue per le loro radici”.

Un lungo brivido di freddo aveva attraversato la schiena di Nervia, che si era tesa, dritta come la lama di una spada, poi aveva sospirato stanca, cacciando via i difficili pensieri che si erano affollati nella sua mente, buttandoli in profondità oscure dei suoi pensieri, perché soffocassero.

“Suggestione” aveva reiterato Nervia con voce calma, quasi atona. “Ora mi sembri tua sorella, che nega le verità scomode” l’aveva provocata Saranna, con un tono canzonatorio. “Attenta, amica mia, parole pericolose” l’aveva richiamata. L’altra aveva ridacchiato, “Ti schermi da me! Sapendo che ho ragione” l’aveva richiamata Saranna. Nervia l’aveva guardata, con uno sguardo accusatorio e perentorio, “Se Shinora avesse raccontato il suo sogno a mia sorella, lei avrebbe estirpato ogni pianta d’edera dalla Ghaadia alla Lega di Ferro e mia cugina è una creatura duttile” aveva puntualizzato Nervia, sbuffando.

“Tua cugina ha la Vistalunga” aveva ribattuto Saranna, senza perdere verve.

Shinora ha una splendida immaginazione ed un carattere volubile alle suggestioni. Mio cugino Vivirian una volta la ha convinta che sotto il suo letto viveva un semi-cupo e lei ha dormito nelle cucine, con un sacco di farina come guanciale per due cicli prima che lo zio Tarbarat lo scoprisse” aveva replicato Nervia.

“Due interi cicli, su un pavimento di una cucina” aveva rinforzato.

 

Si era aspettata che Saranna si concedesse una risata fresca, ma non era successa, l’espressione sul viso della sua amica era cupa. Al colore rosato del cielo, che imbruniva nel blu della notte, le donava un’improvvisa serietà. “Vivirian è marcio come le mele cadute dagli alberi” aveva stabilito Saranna dura come il legno di una quercia. Gli occhi erano cupi ed afflitti.

Un pensiero era balenato nella mente di Nervia, una domanda che aveva avuto timore di chiedere; “Più come una carogna piena di vermi” aveva preferito dire alla fine. “Non posso crederci che abbia avuto la faccia di Bronzo di chiedere la mia mano, tre volte” aveva considerato poi Nervia, gonfiando le guance. Non c’era stato divertimento sul viso di Saranna, per una battuta, prima di sciogliersi; “Immagina se tua sorella sposasse Vivirian!” aveva esclamato la sua amica. “Una volta mi ha detto che preferirebbe cucirsi la vagina che permettere al pene di nostro cugino entrarci” aveva considerato Nervia.

Saranna aveva riso smodatamente, “La parte peggiore che sicuramente non stava scherzando!” aveva esclamato voleva essere divertente, “Per quel che vale anche io non giacerei con Vivirian neanche se fosse la mia anima condivisa”, ma il sorriso sulle sue labbra era stanco e la lucidità dei suoi occhi non era carica di allegria, ma di cupezza. “E tu, amica mia, stai cambiando discorso” aveva valutato Saranna, “Tu sei quella che sta parlando del matrimonio di Vivirian e mia sorella” aveva risposto innocente Nervia, sollevando le braccia in segna di resa. Ma riconosceva la verità: era la sua amica che voleva, oltre ogni misura, cambiare il pretesto. Nervia decise di appuntarsi nella sua memoria che avrebbe dovuto affrontare suo cugino su qualsiasi cosa fosse intercorsa tra lui e la sua amica; e se avesse scoperto cose che gradiva, lo avrebbe ucciso.

Semplicemente.

La sua amica si era concessa un sorriso pallido, mandando giù la bile. “Uhm … Un sogno di Shinora è solo un sogno, come il mio, il tuo e quello di Imeria; forse quelli di Imeria sono un po’ più esotici, sì” aveva risposto Nervia, scrollandosi ogni cattivo pensiero di dosso sui suoi guini.
Sarebbe stato così bello poter fingere di avere una famiglia usuale. “Menti sapendo di mentire, mia Buona Signora Nervia” l’aveva richiamata la sua amica, sollevando anche un dito per enfatizzare la cosa. “Per prima cosa, Sara, non chiamarmi così! Sia maledetto il giorno che il Barone di Giuste Betulle mi ha dedicato quella poesia!” si era lamentata subito Nervia, che continuava a trovare quel soprannome così fastidioso, così menzognere. Neanche un battito d’ali di farfalla prima, pensava a come avesse deciso di uccidere suo cugino!

Saranna aveva sollevato un sopracciglio pallido, “Secondo?” l’aveva imbeccata, Nervia aveva ripreso a parlare: “Secondo: va bene, dammi il tuo parere cornacchia” l’aveva invitata.

Si era aspettata una pronta risposta, d’altronde Saranno non desiderava altro che parlare, ma aveva taciuto per un momento, preferendosi mordere il labbro con una certa incertezza, come se improvvisamente l’idea di parlare non le sembrasse più così invitante. Nervia l’aveva guardata, accavallando le gambe, davvero interessata in quel momento. Saranna aveva sospirato, come in cerca di coraggio, ma non aveva più vino rosato nel suo bicchiere, poi aveva parlato, tetra: “L’Edera resiste al freddo.”

“Il sesto Margravio di Irti Pini non cercherà di ribellarsi nuovamente all’Impero. Senza contare che il Piccolo Bergen, il nipote di niente di meno dello Scintillante Generale, mangia dal suo desco, dorme sotto il suo tetto e governa da dietro la sua sedia” aveva replicato Nervia, calma.

Bergen Alloppia, erede di Rocca Basilico, era capace meno della metà di suo zio uterino, ma Nervia lo imputava alla difficoltà di reggere il peso di una leggenda, questo, però, non lo rendeva di certo un incapace. Al contrario, era un ragazzo sveglio, con occhi luccicanti di malizia e prontezza. Poteva avere il cognome materno certamente, ma era un Ramberra tutto intero, sia di aspetto, sia di spirito.
Inoltre, Ser Moria Ramberra più di una volta aveva confessato di trovarlo il suo nipote preferito, certo non lo aveva detto con lo stesso calore con cui tendenzialmente la gente diceva quelle confidenze, ma era abbastanza, da un uomo che non si era mai sbilanciato in complimenti di alcunchè. Non aveva mai giocato alle Parole Cortesi, nonostante fosse stato ordinato cavaliere giovanissimo. Nervia, che per tutta la vita, causa del suo sangue, della sua benedizione e delle sue ricchezze, si era ritrovata per tutta la vita sommersa di complimenti, che spaziavano dal suo semplice aspetto alle virtù più intime della sua anima, ricordava di aver ricevuto una sola volta un complimento da Ser Ramberra

Le aveva detto fosse una donna interessante.

“Inoltre, anche se il Piccolo Bergen fosse più stupido di una capra, e fidati non lo è;  non cambierebbe nulla. La sola presenza del giovane erede, nel suo palazzo, funge da perenne monito al giovane margravio di percepire la lama affilata dei Ramberra – e dell’Impero – sul suo collo” aveva detto tronfia. Non ci sarebbe stata una nuova sedizione, che Shinora sognasse di rampicati d’edera o meno, non dal nuovo signore di Irti Pini almeno.

Era ora che l’Impero cominciasse a cicatrizzare le sue ferite.

“Insisto, amica mia, l’Edera è una pianta sempreverde, infestante, che cresce ovunque e muore con fatica.  L’anima dannata di Gathren e suo zio possono essere stati ammazzati a Malvasia, il vecchio padre può esserselo preso la febbre fredda tante sorelle fa e suo fratello minore i principisti, rovinandoci la vita, ma la loro famiglia non è estinta. Le sale del Palazzo d’Edera non sono fredde e morte. Il buon signore Allopia potrà mangiare al desco del margravio, bere il suo vino e ridere di lui, ma quell’uomo non dimentica ciò che è stato fatto. Il sangue non si lavava via facilmente, specie quando si secca. E il cuore di un uomo è un posto dove le cose si seccano più spesso” aveva considerato Saranna.

Nervia sapeva che fosse vero, aveva visto uomini buoni come un pezzo di pane morbido, con il buro, seccarsi dal giorno alla notta, fino a divenire tozzi duri come sassi.

“Sembri Imeria” aveva considerato alla fine Nervia, facendo riferimento alla loro amica tragicamente cupa. Saranna le aveva sorriso, stanca e malinconica. Quel genere di sorriso non le si addiceva molto; Saranna era sempre solare e divertente, il suo tratto più comune, qualcuno avrebbe detto.

Una risata vivace, accompagnata da una parlata a lingua sbrigliata.

“Siamo diverse, sì, questo sì! Ma come la luna e il sole, servono come luce e guida” aveva risposto pratica la sua dama, “Io sono il caldo sole che consente ai frutti di maturare, il grano crescere e i fiori sbocciare, mentre la nostra cupa Imeria è la fredda luna che agita le acque, rischiara le notti buie e ispira i poeti.”

“E io cosa sono?” aveva domandato Nervia con una punta di curiosità, “Tu sei le stelle con cui i marinai si orientano, dolce amica, ci guidi alacre e ci conduci sempre a casa. Sei la nostra guida” aveva risposto languida la sua dama. Nervia era arrossita sulle gote oliva a causa di quella delicatezza che non si era aspettata. Non immaginava di certo di avere un ruolo così luminoso nella vita delle sue compagne; tante cose si era sentita, ma di sicuro non una guida.

“Sono un faro, praticamente” aveva scherzato con leggero disagio nella voce, per fuggire dal suo stesso imbarazzo.

Anche sua sorella si era appellata così a lei, una guida.

Dovevano esser tutti perduti se pensavano a Nervia così, lei che ogni giorno si sentiva perduta e di muoversi a tentoni, nonostante camminasse pedissequa il suo sentiero già scritto.

“Se così preferisci, va bene” aveva risposto Saranna giocosa, “Non ti confiderei mai un faro, ma anche esso guida gli uomini nella notte e li riporta a casa. Ho visto quello alla punta più meridionale dell’Impero. Di una bellezza eccezionale” aveva ammesso la sua amica. Nervia aveva sorriso nuovamente. “Ma questo non cambierà la natura dell’Edera, luna, sole e stelle che lo si voglia” aveva considerato.
“Tu dovresti partecipare ad un gioco di Parole Cortesi” le aveva detto incerta, piena di vergogna. Saranna aveva riso, alta, con la stessa mancata grazia di un gabbiano, “Certo che dovrei e umilierei tutti quei piccoli cavalieri che ogni anno tormentano la corte o i tornei con le loro baggianate. Mi chiedo perché i cavalieri non lascino le belle parole ai poeti e i menestrelli e non pensino solo a come far correre un cavallo” si era lamentata Saranna.

Nervia non era riuscita a trattenere un sorriso. “Ti ricordi quell’uomo che una volta ha paragonato Imeria ad un pasticcio di piccione” aveva ricordato lei, “Ricordo che la nostra buona amica gli ha tirato una birra addosso” aveva riso Saranna.

Che giornate piacevoli che si palesavano nella sua memoria. Sapeva che l’Impero non era il luogo pacifico della sua memoria, così come la morte aveva sempre ombreggiato sulla sua famiglia, ma quando ripensava ai tempi passati sentiva il cuore stringersi in una morsa.
Sembravano ricordi ambientati in una favola, non toccati da preoccupazioni e dolori.
Imeria così spinosa, Saranna con la sua lingua sciolta, il sorriso gentile di sua cugina Aloyssa ed anche sua sorella che sembrava ancora in grado di provare un sentimento diverso dal rancore.
“Chi sa che fine ha fatto quel signore” aveva soppesato Nervia, “Credo sia morto al pianoro, contro i cavalcanti" aveva raccontato Saranna con un tono calmo, un suono sordo era sfuggito alle labbra di Nervia, “E già, iniziano ad essere sempre

 

Nervia le aveva restituito la coppa, “Questi discorsi mi sono venuti a noia, amica mia. Farò due passi e mi godrò l’odore delle arance, prima di tornare alla Zagora” aveva chiosato, alzandosi dalla sedia su cui si era accomodata.

Aveva percorso il breve tratto della corte di legno ed aveva raggiunto La Coccatrice tra le lunghe passeggiate di aranci.

Erano stati piantati in file ordinate, come vigneti; sapeva di altri all’interno della regione molto più caotici. Quell’ordine la rendeva leggermente inquieta.

Sua cugina era ancora appollaiata tra i rami come una gotta forastica, con la carne nuda, fino al ginocchio, della carne a penzoloni; del tutto indegna di una signora del suo rango.
Nervia aveva sempre, sempre, invidiato la sua natura selvaggia, era diversa dalla ferocia di sua sorella o dal desiderio di fuga che animava lei, era qualcosa di più primordiale. Nervia desiderava la libertà, Shinora la prendeva senza chiedere. Era selvatica – come una gatta.

Le aveva sorriso, era stata ricambiata.

“Mia sorella vuole che torni in città, presto. Vuoi tornare con me? Ho appannaggio per solo quattro dame di compagnia, ma so che tu stessa hai una rendita accordata da zio Tarbarat” aveva considerato Nervia, rivolgendosi a suo cugino. “Anche di più, da mia madre ho ereditato ori e gioielli. Non mi piace indossarli e non disegno l’idea di poterli vendere in futuro” aveva aggiunto Shinora con una punta di divertimento.

Nervia aveva sorriso, “Meraviglioso cara cugina, mi sarebbe pesato chiedere a Saranna di maritarsi. Nessun buon partito si vede all’orizzonte” aveva commentato poi, lanciando uno sguardo alla sua amica, ancora comodamente appollaiata sotto il portico di legno.

“Potrei sì” aveva detto Shinora sorridendo, il suo viso diventava più bello, differentemente da Nervia, che sembrava affetta – fin dalla nascita – della bizzarria; non le era poi andata tanto male, spesso la gente si era invaghita della sua bellezza malinconica, Nervia aveva accumulato centinaia di epigrammi sulla su quell’argomento.

“Ma non lo farò, cara cugina” aveva aggiunto Shinora, “E no, non ci saranno pretendenti per la splendida Saranna. Non nel prossimo futuro, oh no!” aveva commentato, sistemandosi meglio per scendere più agilmente dall’albero, non le era riuscito molto bene, ma a differenza di quanto sarebbe capitato a Nervia, era finita con ambedue le piante dei piedi sulla terra ed il sedere ben lontano da essa.
Si era comunque graffiata un avambraccio, al posto che rivoli di sangue, sottili, appena accennati, erano brillati sulla pelle olivastra.

“Perché?” aveva chiesto Nervia, abbastanza confusa dalle parole di sua cugina. Sapeva che Shinora non era particolarmente amante della città, della vita cortese e di tutte le regole, preferendo di gran lunga vivere nel suo esilio personale.

“Perché non ci sono partiti degni per Saranna?” aveva chiesto retorica Shinora, “Forse i fiori dell’Impero si sono seccati, non saprei” facendo sbuffare sua cugina, “Perché non vuoi venire con me?” aveva chiesto.

“Uhm … odio la città, mi fa venire male alla testa e, inoltre, conservo i miei gioielli per venderli quando avrò bisogno di organizzare la mia fuga con Enneo” aveva dichiarato Shinora con sicurezza.
Nervia aveva fatto roteare gli occhi, “Ovviamente” aveva considerato la cugina.
Da che era fanciullina che Shinora raccontava di quando lei ed Enneo si sarebbero ritrovati ed uniti in un vincolo d’amore che neanche il Dio-di-Tutte-le-cose-buone avrebbe potuto dissolvere.
Erano passate lunghe sorelle, due fidanzamenti interrotti e tanto altro, ma non ancora la sua profezia d’amore si era realizzata. Per essere una persona che millantava di avere la Vistalunga su quell’argomento, Shinora era particolarmente cieca.

“Rientriamo cugina, il sole è tramontato e l’aria ormai è fresca. Fa ancora caldo, ma siamo nella Pallida, ormai” le aveva detto, mettendole le mani attorno alle spalle, più la schiena. Shinora era lunga, come se l’avessero tirata per le mani e per i piedi, “Inoltre dovresti almeno sciacquare quel braccio, mi è stato detto che il sangue non è facile da lavare” aveva considerato, echeggiando le parole di Saranna.

“No, non lo è” aveva sospirato Shinora.

Ebbe l’impressione parlasse di altro.

Prima che potessero parlarne meglio, però, dalla torricciola era suonata la campana. Nervia aveva guardato la torre, aggiunta posteriormente nell’ultimo mezzo secolo e poi nella sua direzione opposta ad est dove sapevano esserci il cancello di ingresso che interrompeva la cinta muraria – non la più forte, non la più alta. Si alzava una colonna di fumo appena visibile nella notte, fumo grigio-chiaro, un segno che non portava sventure, lo stesso colore che era sorto con il messo quella mattina.
Avevano ospiti.
“Questo lo avevi visto?” aveva interrogato Nervia, sua cugina, senza rendersi conto di aver parlato. Shinora, nella spettrale luce della sera le aveva risposto: “Nessun degno pretendente, sì.” 

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Capitolo 12
*** PARTE PRIMA; TITOLO I; CAPITOLO IX ***


Benvenuti al capitolo che ho scritto fin’ora. Da questo momento gli aggiornamenti si faranno più sporadici (di quelli che già sono) per ragioni personali.
Un bacio

RLandH

Ps – Tecnicamente avevo fatto un disegno per questo capitolo, ma … ci ho avvertitamente lanciato dentro uno spoiler ahaha
PS 2 - Uhm, credeteci ho meso ma siamo in dirittura di arrivo per il TITOLO I.

 

 

P A R T E   P R I M A

 

L ‘ I N V I O L A B I L E

 

T I T O L O   I

 

I  G I O C A T O R I

 

C A P I T O L O    I X

 

I O   S P E R O   C H E  S I A    T V  V N   G I O R N O


A   S V E G L I A R T I     E     N O N   S E N T I R L A    P I V’

 

 

L’Ornatrice era carina, lontana dalla perfezione, sbagliata ovviamente, ma carina. Era giovane, e questo le dava la bellezza della freschezza, poteva avere ottanta sorelle o anche meno. La pelle era dello stesso colore di una mandorla, gli occhi erano un castano dolce ed i capelli erano lisci e scuri come il legno d’ebano umido. Aveva il viso lungo cyristi, ma un piccolo naso a bottone.

“Ti piacciono così?” aveva domandato lei, con un tono pieno di curiosità, sfiorando con i polpastrelli le punte ritte dei capelli di Iren.

Il suo amico si era guardato i capelli in uno specchio di bronzo lucido e levigatissimo. Lei aveva fatto un buon lavoro con i capelli di Iren, aveva raccolto una matassa piena di intrecci, lunga e ricca di incuria in qualcosa che somigliava all’umano. Il nero era tornato lucido come una pietra pomice ed avevano riacquisito stranezza, ma anche una nuova forma. La ragazza aveva accorciato le punte di molto, la matassa non toccava più le scapole, ed era andata ben oltre le-orecchie-o-le-spalle come la moda imperiale voleva. I capelli di Iren erano un solo dito di stanza dalla sua pelle, corti come quelli di un ragazzetto pronti per l’hakademya, tranne che sulla fronte, dove leggermente più lunghi cadevano per coprire gli occhi grigio-nero.

“Sì”, aveva risposto laconico Iren; il suo viso era ancora bianco come quello di uno spettro, le occhiaie viola come unico colore sul volto emaciato. “Grazie” aveva aggiunto Iren, forzando un sorriso, facendo illuminare il suo viso perfetto. La ragazzetta era avvampata sulle guance, che erano divenute rosse, come se il suo amico invece di un ringraziamento le avesse chiesto la mano in matrimonio; la ragazza aveva farfugliato qualcosa, probabilmente più appropriato dire che avesse squittito – come un topolino.

La ragazza era una domestica, non di palazzo, ma di una famiglia nobile – che tagliava i capelli per arrotondare le entrate – si poteva vedere dall’abito che sfoggiava, era semplice, ma il materiale era ottimo e resistente, ciniglia arancione, l’orlo delle maniche, del colletto e della gonna avevano una decorazione semplice in filo zenzero con delle spighe. Aveva ricordato a Saiji Adda quando svolgeva un lavoro simile. Certo, la lunga lista di abiti che Adda aveva indossato era andata dal cotone duro alle stoffe più morbide, da quando appena bambina portava il vassoio per aiutare sua sorella, fino a che era stata la guardarobiera di Canadea, al posto di qualche nobile dama.

La donna indossava una cintura che le fermava la stoffa alla vita, evidenziato il ventre piatto e i fianchi tondi, in quello non somigliava ad Adda.

 

Saiji provava un senso orribile di estraniazione a quei pensieri. Da un lato, pensando a quelle sorelle, Saiji ricordava quelle lune come rinchiuso in una prigione, con un’angoscia, rabbia e dolore che inzuppavano ogni fibra di lui stesso, guidato dal solo desiderio di voler urlare come una bestia; e dall’altro, dopo tutta l’acqua che era piovuta, quello tempo sembrava un sogno, qualcosa che era esistito sì, ma che era passato, splendido anche e che come tutte le cose che erano avvenute e che mai più potevano essere raggiunte: era meraviglioso.
“Sir, tocca a lei” aveva aggiunto la ragazza, indicandolo con il pettine d’osso.

Saiji aveva annuito, sollevandosi dallo sgabello dove era acciambellato, per occupare la sedia che Iren aveva appena liberato, mentre con un certo manierismo continuava a far passare le dita pallide sui capelli nerissimi.
Lui aveva guardato la ragazza, “Sistema solo la lunghezza. Ho adottato la maniera ghaadiana aveva dichiarato subito; la corolla superiore lunga, fino all’attaccatura delle orecchie e poi fino alla nuca, corti quasi da essere rasati.
“Vuole che lavori anche sulla barba?” aveva chiesto la ragazza. Saiji sapeva che erano passate più lune di quanto fosse necessario perché sulle sue guance l’ombra non sembrasse più l’ombra delicata che prevedeva l’etichetta fioriana. Iren era decisamente più bravo da quel punto di vista, il suo viso era rimasto imberbe. Saiji l’aveva guardata, “Certo, sì, sbarbami come un poppante” le aveva dato il permesso.

La ragazza aveva inumidito i suoi capelli con un panno bagnato, per cercare di sciogliere il ricciolo dei suoi capelli, teneta tra i denti le forbici, mentre con una mano aveva il pettine per distendere i nodi, ma Saiji aveva potuto sentire le dita nude della ragazza, passare più e più volte tra i suoi capelli ammirata.
“Che stai facendo?” aveva chiesto curioso e confuso.

“Perdoni questa impudente, Sir, ho perso il controllo di me stessa. Sono capelli morbidi, i più morbidi che abbia mai sentito ed il colore: sembra sangue!” aveva ammesso.

Saiji era rimasto colpito, sapeva che i suoi capelli potevano guidare stranezze, “Di eosiani ne ho visti, ma mai con capelli così. Morbidi sì, ma i ricci sono sempre stretti e mai di un colore del genere” aveva spiegato. Saiji aveva annuito, “Perché sono eosiano solo per metà. Mio padre era ghaadiano, con sangue tulpee” aveva raccontato senza vergogna.

I capelli rossi erano un’eredità del suo vecchio, ma lui aveva avuto capelli rossi come fuoco crepitante, quella tonalità così scura e sorprendente, era venuta assieme a sua madre. La sua marra aveva i capelli scuri come legno bruciato e per qualche scherzo del destino, i capelli di Saiji erano usciti così. Non castagni, mogano, castano-ramato, ma sanguinello.

Però gli piaceva pensare che quel colore di capelli fosse un dono di suo padre, Saiji aveva ereditato tanto dalla sua marra, l’incarnato – di cui lui aveva una tonalità solo leggermente più chiara – le labbra piene, il naso dritto come una freccia, gli occhi dalla forma allungata, la forma del viso, la massa dei capelli, le labbra ed ogni cosa. Da suo padre aveva preso il rosso, l’altezza – anche se il suo genitore era stato filiforme come un chiodo – ed il colore scuro degli occhi, tutte cose evidentissime, ma che sembrano sparire rispetto a ciò che aveva avuto da sua madre.

“Prima di sapere il suo nome mi riferivo a lui come … il rosso” aveva mentito Iren, era stato la melanzana rossa, la bestia rossa ed altri epiteti raziali anche meno gentili. “Anche io, sapete?” aveva dichiarato audace la ragazza, “Mia madre è fioriana fatta e finita, ma mio padre è un ferriano, mezzo eriaco e mezzo  colomynato!” aveva detto piena di allegrezza e vivacità sulla voce, facendo inclinare ancora il capo di Saiji, per indugiare con il pettine d’osso e le forbicine sui capelli.

“Anche lei immagino” aveva aggiunto la ragazza guardando Iren di sottecchi, “Al nord esistono un sacco di fioriani bianchi” aveva replicato lui, gonfiando le guance.

Meglio così, aveva pensato Saiji, meglio che mentisse.

Dopo aver tagliato il crine, la ragazza aveva oliato le guance ed il collo di Saiji, ma quando si era allontanata per raccogliere la lama piatta per raderlo, Iren, con uno scatto fulmineo, e troppo irruento, le aveva preso un polso. Lei era sussultata e non aveva potuto trattenere un urlo. “Ci penso io, scusa. Ha un mento appuntito e la gente si taglia sempre” si era giustificato vergognoso, lasciando la presa dal polso della ragazza.
“Certo” aveva detto la ragazza, leggermente turbata, “Il prezzò varrà … niente! Niente” aveva detto, la sua espressione si era addolcita come miele, quando Iren le aveva sorriso.

Lei aveva allungato la lama, dal lato dell’elsa al suo amico, “Viviamo in un mondo assai poco gentile. Anche il Vecchio Imperatore, che il suo fiore cresca forte nel Bel Giardino, si faceva radere la barba solo con cocci rotti e dalle fidate mani delle sue figlie” aveva raccontato.

Dicerie da toletta!  Saiji lo sapeva per esperienza personale, lo aveva anche visto, l’imperatore si faceva radere con il filo, alla maniera eosiana, e da una sola delle sue figlie – la minore.

Il Vecchio Vivirian II poteva anche amare il suo successore, ma riconosceva un pericolo, non avrebbe mai offerto la carne tenera all’Imperatrice. “Si può essere la rappresentazione di Dio-in-terra ma essere comunque carne alla mercè degli uomini” aveva sussurrato Iren con cupezza neanche celata, gli occhi scuri rivolti distanti a pensieri che avrebbe dovuto soffocare. “Che il suo fiore cresca alto e rigoglioso” aveva detto invece Saiji. “Che il suo fiore cresca alto e rigoglioso” aveva cinguettato la ragazza, anche se il suo tono era parso molto meno partecipe. “Comunque, per tranquillizzarti, nessuna mania. Il mio amico ha ragione: ho un mento complicato” aveva ammesso con una punta di divertimento.

La ragazza aveva scosso il capo, facendo oscillare i lisci capelli, “In tale caso, lasciò voi signori soli. Vi aspetterò per il pagamento al pian terreno. Mio padre ha inchiodato la finestra, perciò non ci sono altre uscite” aveva detto, muovendo la mano in un segno di saluto.

“Mai ci permetteremo, mia signora” aveva detto calma Iren, “Obbligata” aveva detto lei, “Obbligato” aveva risposto il suo amico, chinando anche il capo, lei era sparita poi dietro una porta.

“Pensavi mi avrebbe tagliato la gola? Con te qui, presente?” aveva chiesto Saiji, nel momento in cui avevano sentito il rumore della porta sbattere, sapeva che la sua voce e la sua allegrezza si era esaurita subito. Iren lo aveva guardato: “Una volta pensavo che l’Anima Condivisa fosse la massima aspirazione che ogni uomo potesse aspirare. Quel piccolo pezzo destinato a riunire uno spirito rimasto tragicamente spezzato in due corpi” aveva esclamato drammatico. Saiji aveva sollevato un sopracciglio rosso, “Ho imparato, da te, a pensare sempre il peggio; se lei avesse voluto aprire un sorriso sulle tua gola, da un orecchio all’altro, lo avrebbe fatto con me presente o meno” aveva stabilito Iren, serio mortalmente.

Saiji era cresciuto imparando diffidando di tutto il mondo, dopo aver perso i suoi genitori – eppure, ogni tanto, doveva riconoscere una certa innocenza in se stesso e si dispiaceva, non poco, che fosse stato costretto ad soffocare come un’erbaccia, quell’innocenza.

“Però non sarebbe successo e lo sai anche tu” aveva commentato Saiji, le probabilità che l’ornatrice fosse una pazza con la passione del sangue erano comunque basse.

Iren gli aveva tirato i capelli e portato la lama alla gola, “Sicuro di avere le mani ferme?” aveva chiesto Saiji. “Il mio corpo sta bene, ora” aveva dichiarato.

Lo spirito meno, aveva dovuto prendere altro Latte d’Uccello, Zegros era riuscito a procurarne un po’ a Saiji, questo aveva tirato su Iren, abbastanza da non farlo apparire un morto, ma un’imitazione di essere umano. Quando era tornato dal suo amico, dopo la notte alla Serra, Iren era riuscito a liberarsi i piedi, ma non il bavaglio dalla bocca e le mani, ci aveva provato, i polsi erano frastornati, feriti, sanguinanti. Il suo corpo si era riempito di lividi a causa degli urti guidati dalla rabbia convulsa.

Saiji aveva sentito la lama gelida scorrere lungo la pelle imbevuta. “Una volta la mia sposa mi ha fatto la barba, te lo ho mai raccontato? Mi è venuto in mente sentendo prima l’ornatrice” aveva detto disinvolto Iren.
“Tu non hai barba” era stata la risposta di Saiji, occhieggiandolo, lo vedeva alla rovescia quasi.
“Lo so, vorrei dirti che penso volesse avere semplicemente un momento di puro potere, lì con un coltello alla gola con il rischio di uccidermi ma non è un pensiero” aveva ammesso.

“Diciamo che l’aver tentato di ucciderti potrebbe effettivamente portare credito a questa ipotesi” aveva valutato Saiji.
Iren aveva riso spontaneamente, “Può darsi. Ma in quel momento è stato così diverso perché io lo ho sentito davvero, che lo voleva, così come ho sentito che non poteva. Dal tagliarmi la gola è passata ad inghiottirmi intero” aveva ammesso, “Ed io ho sentito tutto e lei sentiva tutto di me” aveva considerato.
“Iren, davvero, non voglio sapere queste cose” aveva detto evasivo Saiji.

Non sapeva neanche lui se stesse parlando del sesso e del legame di due anime condivise. Non gli piaceva pensare a quell’argomento, sentiva le vecchie cicatrici sul suo petto bruciare, come se la lama bollente fosse sulla sua pelle.

“Mi chiedo se ogni giorno si svegli aspettando speranzosa di non sentirmi più” aveva commentato acre Iren.

La lama era scesa di nuovo, prima di risalire raso sulla sua guancia.

Moria diceva che un uomo poteva vivere tutta la sua vita senza mai incontrare la sua anima condivisa e vivere ugualmente bene – una vita che non sarebbe mai stata del tutto completa, ma che poteva essere soddisfacente – ma era impossibile sopportare la rottura di un legame.

Lui diceva che il mondo diventava più freddo: nessun fuoco poteva riscaldare il corpo, nessun raggio del sole poteva allietare lo spirito e nessun abbraccio poteva rasserenare il fuoco. Freddo e solo freddo.
Io spero che sia tu un giorno a svegliarti e non sentirla più” aveva commentato Saiji alla fine, nervoso.
“Il Latte d’Uccello aiuta anche in questo” aveva ammesso Iren, poi aveva sospirato, “Vorrei ucciderla. Lo vorrei proprio” aveva ammesso.

“Mi spaventi quando fai questi discorsi con una lama alla mia di gola. Non vorrei ti facessi trasportare troppo dalle tue emozioni” lo aveva rimproverato Saji. “Se ti tagliassi la gola, amico mio, poi dovrei tagliare anche la mia e far risparmiare a tutti il tempo che ci impiegherebbero ad uccidermi” aveva canticchiato Iren.
“Tagliami questa barba e smettila di fare il cazzone” aveva replicato lui, alzando una mano come a scacciare una mosca.

“Poi ti va di accompagnarmi alla funzione?” aveva chiesto, mentre recuperava dell’olio da barba da mettere sulla sua pelle, era così lento in quell’operazione che su una guancia si era seccato.
“Dopo aver piantato la Spiga speravo vivamente di non dover più partecipare a queste stronzate” aveva dichiarato Saiji senza vergogna, ricordando le lunghe messe a cui era stato costretto a partecipare quando era al castello dei Ramberra, a quelle quando era nella Corda e nella spiga. A quante volte era dovuto stare ad ascoltare le lamentazioni di Iren stesso.

Il suo amico aveva emesso uno sbuffo e le sue labbra si erano arricciate in una smorfia. Saiji sapeva che la fede per Iren era una delle poche colonne della sua vita, delle sue sicurezze, come ogni bravo Marnimorbide fedele all’Impero. O anche di più, non era solo la sua natalità nobile, ma anche il suo sangue, era benedetto. Iren era stato educato per tutte le sorelle della sua vita ad essere – e considerare sé stesso – un’emanazione divina, aveva anche incontrato la sua anima condivisa. Qualcosa che certi uomini cercavano per tutta la vita, senza mai trovarla.

Iren era benedetto, manimorbide e fortunato, ma Saiji sapeva che nonostante questo sorriso del Buon-Dio a modo suo Iren era stato tacciato dalla Bizzaria – una che ad occhio non poteva essere vista – ma che lo aveva sempre spinto ad aggrapparsi tanto nel credo per sopperire l’urgenza che più lo animava. Una lotta eterna che non avrebbe mai potuto vincere.

Il suo amico aveva fatto scivolare la lama, lungo la carne impomatata e poi aveva sbagliato una pezza in una ciotola d’acqua fredda. “Ora sembri esserti succhiato un paio di sorelle” aveva considerato il suo amico, passando la stoffa sul collo per pulirla dall’olio. Saiji aveva ridacchiato divertito: “Come quando ci siamo conosciuti?” lo aveva preso in giro e non sapeva neanche perché. Aveva ricordato, per un momento, quella vita distante quando si erano conosciuti, per davvero – Saiji aveva saputo dell’esistenza di Iren ben prima del suo amico ed anche quando lo aveva visto per la primissima volta, dubitava che il giovane manimorbide si fosse accorto di lui. Ricordava in maniera quasi fumosa e distante, la prima volta che Saiji lo aveva visto, passare su uno cavallo dal manto sabbia, kaartiano, con l’espressione altezzosa, mentre varcava la porta grande. Eccolo! Eccolo! Gridavano.

Eccolo, aveva pensato Saiji senza gioia.

Iren grandioso esattamente come il più perfetto degli uomini doveva essere, come il dettame preciso del Giusto Sentiero aveva prescritto che esistesse. Saiji aveva provato molte e differenti emozioni per i figli del destino, per i manimorbide, per chi era uno, l’altro o ambedue, su tutte l’invidia era stata la più dominante, per la mutilazione che aveva subito, per la mancanza, che anche volendo, anche quando fingeva che non fosse di sua importanza, non avrebbe mai potuto riottenere. Era libero, così aveva detto una volta la sua marra. Potrai seguire il sentiero ignoto, il sentiero che tu vorrai per te stesso, nessuno deciderà per te, neanche Dio. Aveva detto piena di innocenza e buona speranza, la sua marra.

Non era vero, c’erano state altre infinitesimali varianti da considerare oltre i fiori che sbocciavano sui petti. Il colore della pelle, il rango, il cibo, l’educazione.

Avevano preso Saiji che non aveva ancora attraversato la sua trentesima sorella e gli avevano dato un’arma; da quel momento tutta la sua vita era stata scelta. Nessuna libertà, neanche per un uomo mutilato.
Per Iren, invece, non aveva provato semplicemente invidia, la prima volta che lo aveva visto, entrare nella città, acclamato come un dio, per null’altro merito che ciò con cui era nato, ma annichilimento.
Saiji aveva sentito tutta la sua sbagliataggine.

Iren aveva riso, con una crudeltà quasi divertita, “Direi di no!” aveva esclamato, “Non credo potresti riavere tutte quelle sorelle” gli aveva detto.

Saiji aveva aggrottato le sopracciglia, “Cosa?” aveva chiesto. Iren si era lasciato cadere sulla sedia che aveva occupato prima Saiji, mentre aspettava che il suo turno dall’ornatrice finisse. “La prima volta che ci siamo visti tu dovevi avere circa cinquanta sorelle; anche se pensandoci non so quante sorelle abbia tu effettivamente” aveva dichiarato Iren senza battere ciglia.

Saiji lo aveva guardato, “Centosette, quasi cento-otto il selune del primo ciclo della prossima sorella” aveva replicato, “Quindi vuol dire che hai festeggiato centosette sorelle e non mi hai detto nulla” aveva quantificato Saiji, quasi indignato, prima di scoppiare a ridere, nessuno aveva festeggiato le loro sorelle negli ultimi tempi.
“Allora, io ho novantadue sorelle, credo. Il latte potrebbe aver un po’ annebbiato la mia mente, ecco” aveva cominciato a fare i conti Iren, usando anche le dita. Sembrava buffo.

“La prima volta che ci siamo visti, io avevo trentasei sorelle e tu cinquanta-due!” aveva esclamato.
Saiji non la ricordava affatto così, “No! La prima volta che ci siamo visti tu avevi settanta sorelle e io ottantadue” aveva risposto Saiji.

Una gioia prorompente era eruttata negli occhi grigio-neri di Iren. “Oh, Giardino-Incantato! Tu non ricordi il nostro primo incontro. Il grande Saiji Alderichi che tutto sa e tutto ricorda, non lo rimembra” aveva esclamato pieno di gioia.

“Davvero?” aveva chiesto Saiji, che non riusciva a ricordarlo, “Certo!” aveva ammesso Iren, “È stato al torneo di Baresana, vicino Città di Raflesia Alta” aveva raccontato. Saiji aveva ricordato quell’evento con una chiarezza quasi devastante, “Hai partecipato al Torneo degli Scudieri” aveva ricordato Iren con una certa meraviglia. “Ho vinto il torneo” lo aveva corretto con asprezza Saiji, ricordando quel momento, aveva vinto a duello con una spada smussata, “Hai sconfitto il Gran Bastardo, sì” aveva ricordato Iren.
Ricordava l’eccitazione, il sole sul viso, il peso della lama sulle sue mani e l’acclamazione popolare, oltre che il suo avversario sulla schiena che accettava la sconfitta, senza rabbia o rancore.

Bel duello, Alderichi’ aveva detto senza esitazione, dandoli poi la mano.

Non era un nobile vero il Gran Bastardo, ma era un manimorbide per sangue ed educazione ed era stato il primo a riconoscere Saiji come pari.

“In quel momento io ero sugli spalti, con mio zio, che mi aveva chiesto di essere il suo scudiero” aveva ricordato con gioia Iren, “Certo, lui ha perso alla prima lancia contro Cresten di Rocca Serpillo” aveva terminato meno esuberante.

L’espressione sul suo viso però era ancora placida; Saiji ricordava che Iren non usciva molto dalla sua casa da bambino, ma forse quella doveva essere stata un’occasione speciale. Saiji non riusciva a ricordare che vi fosse nulla di così speciale in quel torneo, per gli altri, ovviamente. Per lui lo era stato. Aveva vinto la mischia degli scudieri, si era fatto un amico, aveva sperato lo avrebbero ordinato Cavaliere ma Moria si era opposto – e quella volta aveva avuto successo – e gli avevano concesso un altro premio.

“Sì, devo ammettere che la tua vittoria in quel caso fu molto impressionante. Più della vittoria di Ser Moira alle lance contro Fjord Altavilla” aveva raccontato, ma anche in quel caso i suoi occhi erano scintillati di una piacevole meraviglia. “Cosa hai avuto come premio?” aveva chiesto poi Iren, stupendolo, “Non ricordo affatto, o forse non lo ho mai saputo. A quell’età pensavo che il mio peso in torte di zucca fosse un pagamento accettabile” aveva chiosato.

Saiji aveva riso, “Volevo essere cavaliere” aveva dichiarato, “Ma mi hanno detto di no, che potevo chiedere qualsiasi altra cosa” aveva ammesso.

Qualsiasi. Avrebbe potuto chiedere di essere un eretico libero, di poter lasciare Teschio di Drago, qualsiasi cosa, ma voleva solo urtare il suo signore. “Il bacio di una principessa come tutti gli aspiranti cavalieri” aveva ricordato, un brivido aveva attraversato la sua schiena, a quel ricordo.  Era stato anche prima che cominciasse a partecipare alle Parole Cortesi e seguisse tutto il corso necessario.

“Mi ricordo che al torneo non mancavano le principesse” aveva considerato Iren, la sua mente si era fatta distante e per un secondo aveva ricordato qualcosa che era passato da tempo.

“Quattro di nome e due di fatto” aveva replicato Saiji, ricordando quelle donne. “Sarebbe stato oltremodo ilare se avessi baciato la madre del Gran Bastardo” aveva considerato, pensando alla principessa Annamrys con quella sua espressione stoica, di chi non si curava di aver generato un figlio naturale senza giuste nozze o altro. “Quindi chi hai baciato? La bella Yorrehim di Grandi Querce?” aveva domandato divertito Iren.
Il sorriso di Saiji si era spento al ricordo, “Avevo chiesto una principessa” aveva replicato cupo e Yorrehim non lo era, non nel titolo almeno, nonostante fosse gran-nipote dell’Imperatore Myrto I il Guiscardo.
Ovviamente avrebbe voluto baciare la bella Yorrehim, non perché la desiderasse in alcuna maniera, ma perché avrebbe indispettito Moria più di chiunque altra. La signora era la figlia di Iseo di Querce Grandi, con sangue imperiale, ma sopra ogni cosa: nipote dello scintillante generale.

Iren aveva riso e per un secondo era sembrato un suono così genuino e naturale che quasi aveva inabissato ogni cattivo pensiero. Figlio del destino, d’altronde.

“Credo di poter immaginare quale principessa ti abbia concesso un bacio” aveva considerato. “Come se una principessa smaniasse di baciare un senza-dio mezzo eosiano senza nulla da offrire perché lo chiedeva. Ci ho guadagnato un man rovescio, ecco, che premio ho avuto” aveva mentito.
Aveva mentito parzialmente, “Secondo me, invece, hai avuto un bacio dall’arciduchessa” lo aveva provato Iren, che all’ora era solo principessa.

Sì, avrebbe dovuto rispondere, ma non in quell’occasione, diverse sorelle dopo – più maturi e volontari. La ragazzina aveva chinato lo sguardo quando l’aveva veduto, doveva esserle apparso come un mostro, così selvaggio, rispetto gli altri fanciulli ben vestiti. Saiji era stato l’uomo dal sangue più basso lì presente, non era stato concesso ai cavalieri erranti di natali bassi di partecipare, figurarsi ad uno che era a malapena uno scudiero, ma Moria aveva garantito per lui.

“Hai ragione, in parte. Dopo la sberla di Moria la notizia si è comunque diffusa ed una principessa ha deciso che meritavo un bacio se era ciò che avevo chiesto” aveva ammesso. Che stupido pensiero, che stupida richiesta, che stupido ragazzino. Si chiedeva come sarebbe stata la sua vita senza quella richiesta. “Vedi” aveva replicato Saiji con una risata, “Cinquantadue sorelle ed un bacio da una delle fanciulle più desiderate del mondo” lo aveva preso in giro.

Saiji aveva guardato le sue guance nude e scure nel suo riflesso, pulire come quelle di un infante ed aveva ricordato tenuamente il contatto tra le labbra, appena un bacio delicato. “La fanciulla” aveva corretto Iren, ma il suo tono era stato basso e poco chiaro. “Come?” aveva interrogato il suo amico, “Non hai baciato una delle fanciulle più desiderate al mondo, ma la fanciulla più desiderata al mondo” aveva detto senza calore.

Non sapeva quale reazione avrebbe dovuto aspettarsi da Iren, ma non era quella. Il suo viso era rimasto uguale, così come il sorriso languido. “Mi hai preso in giro” aveva riconosciuto Saiji, “Lo sapevi benissimo, il premio ed il bacio” aveva considerato, “Lo sapevo. Mi ero semplicemente chiesto perché non me lo avessi mai detto. E no, non parlo di queste ultime sorelle, ma anche delle prime” aveva considerato, “Io non avrei esitato nello strofinartelo sul muso” aveva stabilito.

Saiji aveva ridacchiato, “Se avessi inforcato l’imperatrice, puoi giurare sul tuo Buon-Signore che lo avrei detto a tutti, anche a costo di finire sulla ruota, ma era solo un bacio innocente” aveva raccontato alla fine. Il sorriso di Iren non si era incrinato di un secondo, così quello di Saiji, anche se un molesto pensiero dopo tutte quelle lune lo aveva attraversato. Lo sapevi fin dal principio?

Mi accompagnerai alla funzione?” aveva chiesto alla fine Iren, Saiji aveva annuito, “Sì. Sempre se la basilica non prenderà fuoco appena ci metterò piede, resto sempre un principista senza-dio.”

 

Si erano diretti alla Basilica cittadina; per Saiji percorrere quella strada non era stato diverso, da prendere alcuna altra via, ma riconosceva che Iren fosse invece molto più nervoso. Aveva sentimenti misti sul viso; era stato esuberante all’idea di andare ad una funzione, ma ogni passo che si faceva più vicino, l’incertezza dirompeva sul viso. D’altronde Iren aveva il suo Principio personale contro cui combattere.
Così preso dai suoi pensieri, notava a malapena lo sguardo rapito dai passanti, attirati da lui, come i girasoli dal sole. Con i capelli corti ed ordinati, con la camisa pulita ocra, nitido e profumato, con un solo accenno, nel viso smunto del Latte d’Uccello.

Qualche sguardo era rivolto anche a lui: Saiji sapeva di attirare l’attenzione, era alto, eosiano e con i capelli rossi e non tutti erano ammirati da queste stranezze come l’ornatrice.

La Basilica di Città Azalea occupava la parte levante della piazza cittadina. Era una struttura imponente, grandi quasi quanto quella nel Bocciolo. Una massiccia scalinata di pietra calcarea bianca che luccicava sotto il sole, lunga quasi venti gradini, che conduceva ad un portico di dodici colonne, disposte in due file da sei. Erano altissime, in marmo di breccia color arancio e clasti bianchi, che terminavano in capitelli con fiori d’acanto e volute. Sostenevano una trabeazione triangolare su cui era stata mosaicata un’immagine di un giardino con uomini-fiore. Non riusciva ad immaginare come fosse l’interno, ma immaginava dalla stazza, che l’edificio potesse ingoiare tutti i cittadini, almeno i più rispettabili. “Splendida” aveva ammesso Saiji, con un tono leggermente ammirato.

Non era sicuramente un estimatore del Credo, ma riconosceva la grandiosità di un’opera. “Azalea vuole competere con Il Bocciolo mi sembra di intuire” aveva considerato.

Si era aspettato una risposta di Iren, che lo sgridasse o un commento sdegnato sull’opulenza, ricordando come la cattedrale di Città Malva come spoglia e semplice, fredda quasi all’esterno, ma piena di colore all’interno – non che Saiji lo avesse mai vista, ma il suo amico aveva speso tantissimo tempo a descriverla – però Iren non aveva fiatato. Sembrava non aver neanche visto il tempio, i suoi occhi guardavano il centro della piazza a stella.

Una statua dominava il centro.

“Ah” aveva detto Saiji, “L’ultima volta c’era una raffigurazione a cavallo rampante dell’Imperatore Selonio III dei Trittili. Il fondatore della città” aveva ricordato.

Una statua in bronzo-nero, di un vecchio con espressione furiosa e mustacchi spessi ed arricciati sulle punte, con una lunga barba a forma di treccia. Con una mano reggeva le redini di uno stallone ruspante e con l’altra una spada lunga – una a doppia presa, ma l’artista non doveva aver saputo la diversità – sguainata verso il cielo.
Niente Selonio, però, con i suoi baffi e la sua spada sbagliata, al suo posto c’era la sua discendente – di qualche centinaio di anni e matrimoni scambiati dopo – l’Imperatrice.

Su di un piedistallo di pietra grigia, la Signora del Pregiatissimo Impero, composta di marmo in cipollino, dalle tonalità di verde, guardava con severità i suoi avventori.  La statua conservava l’incondizionata bellezza di figlia benedetta dell’Imperatrice stessa, la posa in cui era sistemata sembrava naturalissima, con le pieghe realistiche della stoffa incise nel marmo.  Il viso era dolce, il sorriso tremolante, appena accennato, a sinonimo di una natura velata e gli occhi erano austeri; imprigionati benissimo nello sguardo. Il vestito ricalcava quello di una matrona fioriana in tutto punto, con le maniche strette, le spalle semicoperte da un fazzolo aderentissimo, che si chiudeva sul petto con la spilla di un fiore a due pendenti di perle. Il busto stretto da vespa e i fianchi larghi, messi in risalto dal corpetto rigido e la gonna morbida, che scendeva lungo le gambe.
In una mano reggeva il globo d’oro del mondo, nell’altra lo scettro di girasole, con foglie larghe d’oro, così come i petali del fiore, che ricordavano una versione realistica. Altro oro e gemme preziose erano nella corona imperiale, una perfetta imitazione di quella originale. Un anello di ferro dorato, da cui spuntava al centro un rettangolo su cui erano incastonate perle bianche e gemme, circondato, ai lati, da triangoli ed archetti che si susseguivano alternandosi – Saiji si era chiesto quanti audaci ladri avessero perso le mani per quel tesoro.
Ciò che rovinava l’incanto era data da un viso di fanciulla, più vicino alle sorelle che aveva avuto l’Imperatrice quando aveva indossato la tiara che quelle che aveva in quel momento, per quanto fosse ben lontana dalla vecchiaia.

Così come i capelli, corti appena sopra le spalle.

Quando era salita al seggio imperiale, la Signora non era già più una fanciulletta, ma portava i capelli intrecciati come una donna.

“Ha il taglio della vedova” aveva dichiarato solenne Iren, con la voce sottile come uno stiletto, come se fosse sorpreso. “Lei è vedova” aveva rimarcato Saiji, “Il dolce imperatore è morto.”

“Cresca il suo fiore rigoglioso” aveva sibilato monocorde Iren, senza emozione, senza amore, con gli occhi scuri così distanti.

“La statua le rende abbastanza giustizia” aveva concesso Saiji, “Non alle sue tette” aveva risposto Iren.
Si erano lasciati l’austera espressione dell’Imperatrice alle spalle, percorrendo la strada verso la basilica, dove un numero non indifferente di persone stava virando. Saiji l’aveva guardata ancora una volta, doveva ammettere, con sommo rammarico, che per quanto veritiera, l’immagine non rendeva giustizia alla sua forma di carne: lo sguardo dell’Imperatrice era assai più spietato.

Avevano preso la scalinata, per raggiungere l’interno della chiesa, quando Saiji aveva notato l’ornatrice che avevano incontrato il giorno prima. Era pochi gradini sopra di loro, con i capelli verginali scuri sciolti, tranne che due piccole treccine sulle orecchie, tirate con un fiocco dietro la nuca. Anche lei li aveva notati ed era rimasta ferma, guadagnando qualche spallata poco gentile dai fedeli; aveva sollevato la mano e salutato timida, con le guance tonde rosso ciliegia.

Ambedue avevano ridacchiato; “Che novità, amico mio, un’altra giovinetta infatuata di te” aveva considerato sterline Saiji, pensando alla fanciulla a piccolo pulvino che si era convinta di essere l’anima condivisa di Iren solo per averlo veduto. La divina bellezza della perfezione!

“Non questa volta” aveva dichiarato del tutto consapevole Iren, “La nostra giovane acconciatrice, ha un interesse per te” lo aveva pungolato, lasciandosi sfuggire un sorriso un po’ storto. Saiji aveva riso, “Povera la sua marra, dunque. Sono l’incubo di ogni genitore: mezzo-eosiano, principiente e senza un soldo” aveva considerato. Iren lo aveva guardato, “Sei anche un cavaliere. Mia madre sarebbe felicissima di avere un cavaliere sull’uscio che corteggia mia sorella” aveva replicato.

Ah, la sorella di Iren, argomento meno spinoso del resto della sua famiglia, ne parlava ben di meno di quanto facesse di suo fratello, ma aveva sempre un tono pieno d’amore e goia quando rinvangava qualcosa con lei come protagonista. Saiji non l’aveva mai veduta di persona, la immaginava come Iren, altrettanto benedetta, con gli stessi occhi grigio-nero, il viso pallido come la polvere di luna e i capelli scuri come una notte senza stelle, solo più morbida e delicata. Doveva essere una fanciulletta, non più bambina.

“Tua madre era una contadina” aveva risposto Saiji, ricordando che tra le varie offese che aveva raccolto dai Ramberra, ricordava anche quello. Non era una donna ricca di nobili natali, ma era stata l’anima condivisa del manimorbide padre di Iren.

“Inoltre, dubito che il Margravio avrebbe apprezzato il matrimonio” aveva aggiunto, un po’ più ferace e vergognoso, quando aveva visto il viso esangue alla menzione di sua madre. E pensare che Saiji avrebbe potuto chiamarla una puttana, come sempre aveva sentito Moria definirla, “Tutto ciò che ho è la mia spada. Ed ora non la possiedo neanche” aveva replicato, sentendo il fianco vuoto.

Il sorriso di Iren si era spento, “Adesso potresti sposarla e a nessuno irriterebbe il naso. Un cavaliere della spina che sposa una fanciulla nuda e cruda” aveva considerato. Una voce asciutta.

Saiji ne dubitava, sapeva che la condizione della ragazzina doveva esser orribilmente mutata nelle ultime Sorelle e che il piatto in cui mangiava era terribilmente più povero di quanto non fosse mai stato; ma rimaneva comunque una manimorbide, ben lontana da essere nuda e cruda, come la pensava Iren. Non era comunque sicuro che dire quei pensieri ad alta voce avrebbero rincuorato il suo amico. Era ben consapevole, che nulla di quello che avrebbe mai detto, avrebbe reso la mente di Iren più leggera o non avrebbe avuto bisogno di stordirsi con il suo veleno. “Non sono un cavaliere cordato; sono uno spigato che ha permesso al suo signore di morire” aveva liquidato la faccenda Saiji, salendo le scale della chiesa.

Non era la verità, non del tutto, non corretta, non giusta, ma sufficiente.

La verità era sempre impantanata in luoghi ambigui, aveva detto a Zegros, Sgorbio ed il resto del Punteruolo che non era mai stato veramente una Spiga, ma era una menzogna. Lo era stato ed aveva fallito. Non c’è onore ad un cavaliere che sopravvive al suo signore.

Ai tempi del Florido Impero, avrebbero dovuto bruciare Saiji con le spoglie mortali dell’uomo che aveva giurato di proteggere, ma non c’era stata pira per il Dolce Imperatore, né sepolcro.

Iren lo aveva guardato, Saiji non aveva avuto dubbi di questo, ma si era sforzato di non voltarsi, poi aveva sentito i suoi passi – chiari, nonostante la cacofonia di quel luogo – raggiungerlo, silenzioso.

“Non è colpa tua, è colpa sua” aveva detto solamente.

Gli occhi imperiosi della Statua erano ancora rivolti, austeri, verso il suo popolo.

 

“Cosa osservo con questi miei occhietti!” aveva squittito una voce fin troppo felice, che si era sollevata con vigore oltre il resto del ronzio. “Un uomo-d-albume ti sta chiamando” aveva considerato Iren, Saiji si era voltato appena in tempo per osservare Zegros che sollevava una mano salutandolo. Non sembrava lo stesso ragazzino incontrato al bordello qualche luna prima: i vestiti erano lindi di fresco, un farsetto nuovo di un colore pervinca, gli stivali di pelle lucidissimi ed anche una mantella scura con cappuccio, con cui immaginava dovesse nascondere la pelle incolore. Il viso era pulito, lucido e i capelli bianchi ordinati, pettinati in una coda alta; sembrava più il figlio di un mercante che un lupo d’arme. “Mio buon Saijir!” aveva squittito subito, accogliendolo in un abbraccio fraterno, alle sue spalle come una peperella lo aveva seguito un altro ragazzetto – forse era una nuova leva del Punteruolo, Saiji lo aveva guardato a malapena. “L’ultimo posto dove mi aspettavo di vederti era una chiesa” aveva ridacchiato il ragazzino, “Mi piace non essere prevedibile” aveva mentito.
Zegros aveva sorriso, se fosse stato intenzionato ad aggiungere alcun chè, gli occhi chiari erano rimasto impigliati nella figura di Iren. Aveva battuto le palpebre un paio di volte, “Oh, avete un accompagnatore” aveva detto subito, era rivolto a Saiji, ma i suoi occhi erano ancora incagliati su Iren, che lo ricambiava con anonima freddezza.

Iren si era accorto di quella morbosità, “Lui ehm …” aveva cominciato Saiji, “Beren Alderichi, cugino di Saiji” aveva risposto secco l’altro. Doveva essere colpa del latte che offuscava la sua mente. Iren aveva anche allungato una mano, aveva sfoggiato un sorriso di vetro, teso, che mancava di tutto quel fascino – ma l’aspetto incantevole del manimorbide era astato abbastanza per irretire Zegros.

“Non vi somigliate molto” aveva considerato il compagno del lupo d’armi e la voce melodiosa era stato un campanello nella sua memoria, Saiji aveva aggrottato le sopracciglia rosse, osservandolo meglio. Fioriano-istiano con la pelle olivigna, i ricci scuri e gli occhi piuttosto luminosi: era Eleas, con meno trucco e più indumenti addosso.

Eleas indossava una camisa lunga, verde, leggermente datata, con bottoni di tagua. La veste scendeva fino alle cosce, fermata in vita da una cintola di cuoio, sotto indossava una calzamaglia nera e gli stivalacci di pelle marrone, più simile ad un lupo d’armi che di baci. La sbagliataggine sul suo viso, senza tutta la cosmesi, appariva molto più evidente, se nelle luci soffuse della notte, Eleas era parso intrigante, in quel momento sembrava quanto mai banale, ma con occhi vispissimi.

“I nostri padri erano a loro volta cugini” aveva considerato Saiji, ammaltando la menzogna. Aveva distanziato la loro parentela, per rendere credibile ma menzogna, non solo perché lui ed Iren non condividevano una forma, un colore, un dettaglio; Saiji era vistosamente eosiano, ma aveva il vigoroso rosso tulpee ghaadiano di suo padre nei capelli, come Iren poteva sfoggiare una pelle chiarissima del settentrione. Abbastanza ghaadiani – si era detto. “Io sono Zegros Themisio e questo bisbetico qui è il mio amico Eleas Dartin” si era presentato l’uomo-d-albume.

“Un nome irtoso” aveva considerato solamente Elas, fastidioso ed attento come ogni lupo di baci, guadagnando un colpo di tallone poco gentile da Zegros. Iren nelle sue menzogne aveva scelto bene, era cresciuto a Irti Pini e non avrebbe potuto passare per null’altra cosa, aveva i capelli lisci del settentrione e la pelle chiara della maggior parte della Ghaadia, ma aveva l’accento arso dei suoi compaesani. “Nome irtoso per un uomo irtoso. Mia madre era di Irti Pini, così come suo padre, porto il suo nome” aveva mentito con scioltezza Iren, quella particolare fandonia era una che aveva ripetuto diverse volte nelle ultime sorelle.
Beren di Irti Pini, figlio di una donna irtosa e cresciuto come paggetto in un qualche castello – per spiegare le sue conoscenze da mani morbide.

Zegros non era stato turbato, o aveva mentito benissimo con il suo corpo, “Oh ecco, perché non eri sul pianoro di Malvasia!” aveva esclamato il giovane lupo d’armi, sciogliendo la presa dalla mano di Iren. Il suo amico si era fatto rigido come la corda di una cetra, “Punto e morto” aveva risposto secco Saiji, “Ho ricordi dolci di Irti Pini e molto rispetto per la buon’anima di mia Zia” aveva mentito, non con la stessa leggerezza di Iren, ma abbastanza da essere plausibile, non poteva osare troppo: Zegros lo conosceva, conosceva il suo passato con Ser Moria e la corte di Grandi Querce. “Cresce vigoroso il suo fiore” aveva replicato Zegros guardando Iren, con un sorriso complice, il suo amico era ancora bianco come un lenzuolo, ma aveva riacquisito del coraggio.

“Eri a Malvasia” aveva considerato Iren, poi, forzando un sorriso di ghiaccio.

“Oh, sì, sono il Furiere del Punteruolo di Erzeveka” aveva chiosato immediatamente lui, sciorinando una lista delle sue imprese militari – fin troppo gonfia per la giovane età che sfoggiava – per impressionare Iren, evitando per bene la battaglia al pianoro di Malvasia, che era rimasto ieratico.

Saiji poteva vedere una battaglia infuriare in Iren: rimanere in passivo silenzio o sferrare un pugno su Zegros, lui sperava decisamente che il suo compagno scegliesse la prima, per quanto difficile, avrebbe dovuto dominare quell’angoscia, da lì in avanti. Saiji aveva voluto che Iren realizzasse che avrebbero dovuto interagire con il punteruolo, aveva anche immaginato che l’aumento del consumo di latte fosse guidato da quella prospettiva.
Ovviamente, come ogni volta che doveva confrontarsi con qualcosa di scomodo, Iren aveva accantonato il pensiero fino a che non era diventato impossibile evitarlo.

Zegros ed Elas li avevano accompagnati all’interno della chiesa. Dietro le colonne mastodontiche, Saiji aveva potuto riconoscere che la chiesa era divisa in cinque navate, le due più esterne erano un unico corridoio colonna dalla forma circolare, avvolgendo le tre navate che erano divise da colonne meno mastodontiche, ma più sobrie.
Il pavimento era composto di frammenti di marmi differenti, di ogni colore diverso, creando un effetto piacevole di caos.

L’edificio era splendido, con colonne di cipollino, finestre ampie sulla parte superiore, il registro inferiore coperto di iconografie fioriane. Il soffitto a cassettoni bianco pallido, con fiori d’oro nel centro. Tutto terminava in un’abside ampio, con tre finestre di vetro colorato, intervallato da martiri e santi. Sul catino, nella parte superiore. In un mosaico simbolista: Santa Lionah ed il suo martirio con il fuoco. Una donna pallida, del settentrione, con capelli biondo scuro lunghi e spessi come un mantello che coprivano le vergogne del corpo nudo, fiamme rosso-aranciato lambivano dai suoi piedi, ma fili d’edera la proteggevano.
“So di non essere stato un estimatore delle dottrine. Ma ricordo che Santa Lionah era protetta da un caprifoglio rampicante” aveva sussurrato Saiji all’orecchio di Iren.

“Sì” aveva confermato il suo amico placido, osservando i rami molli dell’edera che si arrampicavano sulle gambe bianche. “Forse, l’artista si è confuso” aveva provato Zegros, “Un artista fioriano che sbaglia dei fiori?” aveva chiesto retorico Eleas, dando voce ai pensieri di Saiji.

“No, nell’agiografia di Santa Lionah è specificato che fosse il glicine a proteggerla. Un altro nome del fiore è la pioggia blu” aveva spiegato subito Iren, tirando fuori le sue conoscenze religiose.

Anche Saiji ricordava quel particolare, se mai, una donna di nome Lionah era stata quasi bruciata viva, probabilmente era stata la pioggia a spegnere la sua pira, ma le narrazioni fioriane avevano convertito la storia alla loro utilità. Quella però era edera, con le sue foglie a tre punte.

Avevano preso il loro posto, in piedi. “Non deve essere facile per tuo cugino, dico, in questo momento” aveva valutato Elas, “Mezzo impero odia Irti Pini più di Garlio il Principio-Incarnato e quelli danno fuoco a donne e bambini, appendo preti ed hanno ammazzato il dolce imperatore” aveva ricordato il lupetto. “Arlo Ceidri” aveva ricordato Saiji, “Ha ucciso il Dolce Imperatore, io c’ero” aveva ricordato con voce atona, ancora bloccata in quella finzione, aveva ripetuto quella storia così tante volte da averla cominciata a trovare plausibile.
“Per il mondo i Principienti sono tutti uguali” aveva replicato Eleas, “Comunque, Beren ha sempre avuto un rapporto conflittuale con Irti Pini, quindi, non gli tange poi molto” aveva mentito, ancora meno credibile. Eleas aveva annuito, prima di guardarlo di nuovo, aggrottando le sopracciglia scurissime, “Aspetta, eri lì?” aveva chiesto poi. Saiji aveva annuito, chinando il capo, “Ero una Spiga, servivo lì. Servivo il Dolce Imperatore. Ero al Passo della Laminaceae” aveva raccontato poi, “Non risponderò ad altre domande” aveva aggiunto stupidamente, quello che aveva detto non era una menzogna, ma si sentiva così sciocco ad averlo detto.
Eleas aveva annuito, “Comunque, c’è una buona probabilità che anche mio padre venga da Irti Pini, almeno così teorizzava mia madre, si può dire che non le mancassero i sospetti” aveva ammesso con voce bassa quello, passandosi una mano tra i capelli. Saiji lo aveva studiato, Eleas aveva un aspetto assolutamente istiano, del meridione del continente, mentre gli abitani di Irti Pini avevano denotati leggermente diversi, più simili ai ghaadiani e i Sussuranti, per quanto meno pallidi. Nulla di Eleas lo sembrava irtoso.

“Comunque, devo ammettere che non mi aspettavo di vedere qui ne te ne Zegros” aveva commentato Saiji, volendo cambiare discorso da Iren, da Irti Pini e la morte del Dolce Imperatore.

Il Lupo di Baci aveva ridacchiato: “Quel guscio-d-uovo è schifosamente credente, potrebbe passare per un ortodosso it ghaadiano se mi permetti, io vengo a raccogliere pettegolezzi, si sussurrano più segreti qui che nella Serra” aveva risposto pratico, poi aveva passato una mano sulla blusa, “Inoltre sotto la luce del sole e vestito la gente non mi riconosce mai nessuno.”

“In effetti: appari abbastanza anonimo” aveva valutato Saiji, “Lo prenderò per un complimento” aveva ridacchiato Eleas, con un sorriso sardonico sul viso.

 

“Eccola!” aveva esclamato Zegros allegro, attirando l’attenzione sia di Saiji, sia di Eleas, sia di Iren. Il Lupo d’Armi aveva allungato anche la mano, puntando il dito verso l’ingresso della chiesa, anche Saiji si era voltato, con un principio di curiosità. Sul deambulatorio era comparso un manipolo di guardie, con la semi-armatura indossata, sul pettorale era dipinto uno scudo squarciato. Sul primo e terzo quadrante c’era un albero di Liriodendro, sul secondo quadrante il fiore di un’azalea violacea e sul quarto quadrante una pianta di tamerici. Le guardie, almeno sei, erano organizzate come una corona, ma si erano aperte, permettendo di sbocciare dal loro interno due figure.

“Quella è la Signora Misabea Lania, contessa vedova di Liriodendri Antichi e futura margravia di Rigogliose Tamerici” aveva illustrato immediatamente Elas, con una punta di divertimento nella voce.

Tre cose erano spiccate immediatamente alla mente di Saiji riguardo la contessa vedova: era pregna, il suo ventre era gonfio come un otre, che si rifletteva in una camminata goffa, nonostante lei stessa si sforzasse di apparire imperiosa, sfoggiava un taglio della vedova, i capelli legno bruciato portati molto corti, arrivavano fin sotto le orecchie, dove si arricciavano appena, ed aveva un uomo appeso al suo braccio che le faceva da perno.
Cartemisio Dhoeri, barone di Aceri Ruggenti. Sbagliato, con le lentiggini rosa sulle guance piene, gli occhi scuri brillanti ed i capelli castani con sfumature ramate, non abbastanza da essere rosso tulpee.
Saiji aveva fatto saettare lo sguardo nella direzione di Iren, rapido come un fulmine, aveva ricevuto un’occhiata altrettanto veloce, solo che negli occhi nerissimi di Iren vibrava il panico, se fosse stato possibile il volto chiaro di Iren si sarebbe fatto ancora più smorto, come ossa.

Cartemisio di Aceri Ruggenti conosceva Saiji, ovviamente lui si era fatto una certa fama, ma non era un problema, lo era molto di più il fatto che conosceva Iren, lo conoscesse così bene da poterlo riconoscere probabilmente con uno sguardo, un po’ più attento.

Iren si era spostato, era più alto di Zegros, che era un ragazzino di neanche ottanta sorelle, con un temperamento da lupo d’arme ma con una natura che non lo aveva favorito affatto, ma aveva cercato in ogni modo di sfruttarlo come una copertura, per sfuggire al casuale sguardo di Cartemisio. L’aspetto meticcio di Iren non era così evidente, aveva la pelle bianca come la neve, ma i suoi capelli erano scuri, però era splendido – i figli benedetti attiravano sempre lo sguardo – e si accompagnava con un uomo-incompleto ed un mezzo-eosiano dai capelli di sangue e la pelle scura come lo zucchero, particolarmente alto. Come lo aveva definito duchessa Candeia – moglie di Iseo Ramberra – Saiji tendeva a spiccare come una rosa in un mazzo di pratoline, assieme all’uomo-dal-albume doveva apparire come un faro sul mare di notte; decise di non nascondersi, Elas era diverse teste più basso di lui, la cosa non avrebbe avuto comunque senso.

Aveva saputo di aver guadagnato lo sguardo di Cartemisio su di sé, nel momento in cui l’uomo, elegante e posato come solo un manimorbide poteva essere, era sfilato nel corridoio centrale della navata, sul tappetto rosso, accompagnandosi alla vedova.

“Il barone era un buon amico del defunto conte, pare. Il nobile Dhoeris è qui per sostenere la vedova in un momento così delicato. Il conte è deceduto alla piana di Malvasia” aveva cominciato a spiegare Elas pratico, “Se vuoi la verità, il buon barone speri di diventare un uomo molto ricco” aveva aggiunto.
“Il Marchesato di Rigogliose Tamerici ha le terre più fertili di tutto l’Impero. Ed il Contado di Liriodendro, con la sua bella città di Azalea, è uno snodo commerciale, proprio sulla via Cartiana” aveva ripreso, “Di rimando il baronato di Aceri Ruggenti ha una storia che farebbe impallidire i migliori, tre dei Dhoeri hanno indossato l’Aspra Corona, ma le loro terre sono secche, i loro alberi magri e le loro casse vuote da un pezzo” aveva detto furbo il lupetto, “Quattro Sorelle fa, il Bimonte, il fiume che passava per la loro città principale, ha subito un crollo, che ne ha deviato un pezzo. La gente chiama la terra degli Aceri, la terra dei Ceri, ora”.
“Tu sai tante cose, per una terrà così a settentrione” aveva voluto Saiji, non così impressionato, non c’erano reali novità, che le casse e gli introiti dei Dhoeri fossero secchi come le sterparglie nella vivace più calda, era un fatto noto.

Cartemisio Dhoeri era un manimorbide, oltre il decadente, quasi decaduto, con una città ornata di ricordi e gloriose memorie, con poco da parte. Ogni orpello che aveva reso grande Città Iris era scomparso da un pezzo. Il bronzo rifuse, come i candelabri d’oro, il ferro, il rame. Anche i marmi pregiati spogliati, sostituiti con pietre carlcaree, dipinte. La terra dei Ceri e la città Nuda. Però a Cartemisio Dhoeri restava il suo cognome, che era appartenuto ad una gente così pregiata da aver avuto risalto durante l’epoca del Florido Impero – nella sua discendenza sì – ed alcuni degli uomini, di cui gli attuali Dhoeri erano un ramo cadetto sopravvissuto – si erano chiamati Imperatori.

A volte un nome aveva anche più valore dell’oro sonante.

“Sono tutte congetture della Signora Lues” aveva dichiarato Elas, “Lei è una maestra nell’arte della lettura degli uomini, o sicuro più di me” aveva detto, “Io leggo solo se l’uomo davanti a me vuole uccidermi e scoparmi. Troverebbe surreale, mio signore, quanti vogliano ambedue le cose insieme.”

Saiji aveva aggrottato le sopracciglia, pensando alla sua sarra eosiana, Lues, con quel suo sorriso affascinante e gli occhi così simili a quella della sua Marra, l’aveva giudicata una donna svelta e capace, ma forse, doveva rivalutare le sue capacità.

Era un pensiero vile, il suo, perché Saiji sapeva di conoscere più realtà di quanto Lues avrebbe mai potuto raccogliere dai sussurri del suo lupanare.

“Non credo” aveva detto Saiji alla fine, “Che certi uomini vorrebbero scoparmi e uccidermi? Sì, lo vogliono, perché provano vergogna dei loro desideri, così vorrebbero scoparmi per sfamarsi della loro fame ed trucidarmi per la loro penitenza” aveva risposto quasi indignato il ragazzo.

Saiji si era distratto, sull’elucubrazioni sul conte Cartemisio Dhoeri da aver perduto l’ultimo segmento della loro conversazione, “Perdonatemi” aveva ammesso, “Parlavo del nobile Cartemisio” aveva aggiunto.
“Lo conosci?” aveva chiesto Elas, tutto il suo malumore inghiottito e la brama di informazioni infiammata sul viso, oh giovane affamato.

“Ho avuto modo di sentire parlare di lui, quando ero cordato” aveva mentito Saiji. Cartemisio aveva smesso di guardarlo, per accomodarsi accanto alla sua pregna amica vedova.

Sul nobile uomo potevano essere detto moltissime cose, alcune piuttosto cattive, ma su una cosa Saiji era certo: non era un cacciatore di ricchezze. Non ne aveva né la stoffa nell’indole; non mancava di intelligenza, quello no, ma non era né furbo né ammaliante, di rimando era testardo come un vecchio mulo. “Ha conosciuto molte persone interessanti” aveva detto Elas, “O servito molte persone interessanti” aveva risposto lui con voce calma, “Vorrei dire anche io, ma ho servito gente per lo più disgustosa” aveva replicato, prima di lanciare uno sguardo verso Zegros che di rimando sembrava ascoltare le chiacchiere di Iren, che aveva ripreso un colore genuinamente umano e stava spiegando probabilmente qualcosa in relazione all’iconografia, con il suo bagaglio culturale da manimorbide perfettamente istruito. Probabilmente per rifuggire all’idea di Cartemisio Dhoeri. “Per lo più?” aveva chiesto retorico, un sorriso con allegrezza si era aperto sul suo viso.
C’era stato un signore che si era voltato verso di loro, probabilmente indispettito dalle loro chiacchiere, ma prima che potesse parlare per rimproverarli, con la bocca già aperta in una maldicenza, Elas lo aveva zittito,

“Non vuoi dirlo, Anvien” aveva detto secco.

L’uomo aveva spalancato le sopracciglia scure, quasi sconvolto che quello sapesse il suo nome, “Come?” aveva sibilato piano, “Lavoro con Caitana” aveva detto secco, il viso dell’uomo era passato dal pallido esangue, fino al vibrante rosso pieno della vergogna ed era tornato a dar loro la schiena con gli occhi bassi, pieno di vergogna.
“Quindi il buon Barone è un uomo come si deve?” aveva chiesto Elas, affamato di voci.
“Ne esistono?” aveva risposto di rimando Saiji, il lupo aveva sorriso.

Il prete della città aveva cominciato il suo sermone, ma non prima che la Signora della Città, desse il suo benestare, con un gesto gentile. Il suo rango e la sua condizione la portavano a poter occupare una delle panche presenti nella chiesa e Cartemisio non si era seduto lontano da lei, proprio alla prima fila con gli occhi rivolti al catino, li dove l’edera cresceva in mattoncini da mosaico.

Non ricordava molto del Conte di Liodendri, “Da quanto ci sono edere al posto della Pioggia Blu?” aveva chiesto ad Elas, “Da quando il dolce imperatore è morto, ovviamente” aveva risposto Elas.

Solo un tributo, dunque, non una dichiarazione di intenti.

Eppure, non riusciva a togliere sgradevoli pensieri dalla sua memoria, da un lato pensava alla statua in cipollino, imperiosa dell’imperatrice con il globo del mondo e lo scettro del girasole che con occhi severi guardava il popolo, rivolta proprio verso la chiesa, dove il mosaico absidale mostrava l’edera proteggere una santa dal suo martirio.
Gethren Rastia era morto, ma non tutto di lui lo era, ancora le sue idee e la sua ribellione ribollivano sotto i pasciuti manimorbidi. Forse non era il caso che il defunto Conte fosse morto a Malvasia, non aveva combattuto per il Margravio o difficilmente non lo avrebbe saputo o la sua vedova avesse potuto tenere il titolo o la città, ma forse era stato aderente a Gathren il traditore.

Con quei pensieri in testa aveva perso tutto il discorso del prete, fino a che non aveva potuto sentire un piccolo singhiozzo al suo fianco, si era voltato ed aveva visto che Iren scosso da un singulto, aveva chiuso un pugno sul viso e gli occhi erano strizzati.

Zagreo era pallido al suo fianco sconvolto, da quell’improvvisa emotività, “Ma cosa …?” aveva provato Saiji. Iren aveva aperto gli occhi verso di lui, screziati di rosso, lucidi, sul viso pallido come un cero, per un secondo era stato convinto fosse sul punto di ricadere nella Sdregolatezza. Ma poi aveva visto anche le lacrime scorrere giù dagli occhi sulle guance magre; Zegros si era sporto per poter sussurrare qualcosa all’orecchio di Iren, forse per consolarlo, ma non aveva ottenuto nulla. Saiji era rimasto impotente, nervoso, un pensiero stupido ed infantile aveva animato la sua mente: Adda! Adda avrebbe capito!

Aveva allungato una mano timorosa e con movimenti indolenti e rigidi aveva accarezzato la nuca di Iren, come fosse stato un cane.


 

“… Mai più di ora, il Principio è stato così vicino da lambirci, ma è nostro dovere rimanere uniti, rimanere fedeli, contro tutta questa così dilagante sedizione che ci attanaglia …” aveva ascoltato frammentariamente

Saiji, il discorso del prete.

“Bergen è un uomo molto sensibile” aveva considerato Elas, “Quel vecchio porco – e non lo dico a cuor leggero – di Artion, fa questa predica ogni seconda messa del quinlune, ma non avevo mai visto nessuno piangerci sopra.”
Aveva pensato alle notti nella brughiera e i suoi discorsi, forse non era ancora pronto a lasciare alle spalle certe parte di sé, “Certi uomini non hanno che la loro devozione” aveva commentato Saiji e non era una menzogna. Forse non era una male, aveva pensato, doveva essere bello credere in qualcosa di diverso dalla lama della propria spada.
Quando si era accorto del suo sguardo e quello di Elas, oltre che la preoccupazione sdolcinata di Zegros, Iren aveva smesso di singhiozzare, ma aveva ancora il viso bello nascosto dalle mani bianche e piccoli singulti che facevano tremare le sue spalle. Saiji riusciva ad immaginare che in quella situazione, forse Adda lo avrebbe abbracciato, forse, così aveva allungato una mano per carezzare i capelli tagliati di fresco, con un movimento tutt’altro che delicato – non era pratico.

 

Il resto del sermone era scivolato via dalle sue orecchie senza piantarsi, come semplice rumore di fondo. Iren si era voltato verso di lui, togliendo le mani dal viso cinereo, si era forzato di sorridere, con gli occhi umidi di lgrime, Saiji lo aveva guardato con serietà, con un sorriso stanco, prima di tornare a guardare nelle prime file dove la vedova di Azalea e Cartemisio sedevano l’uno al fianco dell’altro.

Saiji era dannatamente certo che Cartemisio lo avesse riconosciuto, quando i loro occhi si erano incrociati. Non erano stati di certo amici, probabilmente non erano neanche stati conoscenti, avevano occupato gli stesi ambienti, Saiji lo aveva battuto in una mischia una volta da adulti e lo aveva fatto cadere da cavallo durante il torneo degli scudieri quando erano ragazzini – Cartemisio non era mai stato uomo con attitudini a quel genere di attività, ma il suo vecchio lo aveva sempre obbligato.

Saiji aveva imparato sulla propria carne che bisognava far attenzione ai manimorbide a cui si faceva inghiottire la terra spazzata dalle zampe di una cavalcatura, perché erano più potenti e pericolosi di quanto avrebbe potuto essere lui, anche senza lancia e spada e non tutti somigliavano ad Enneo dei Carti, che rideva divertito delle sue cadute, senza preoccupazione alcuna.

Cartemisio non aveva riso della sua sconfitta, ma aveva avuto il viso dipinto del rosso polposo dell’imbarazzo, ma non per essere stato sconfitto da una melanzana cagliata come lui, ‘Oh, che disgraziato che sono’ si era lamentato melodrammatico, sotto lo sguardo offeso dell’allora Barone. Cartemisio non sembrava poi troppo turbato della sua incapacità in duello, ‘comprendimi amico, dopo, dovrò strapazzarti per bene … Sono un Manimorbide, ho una reputazione da difendere’ gli aveva detto poi, ‘Ma senza rancore’.
Saiji immaginava che anche Cartemisio avesse dovuto prendere parte alla battaglia alla piana di Malvasia, ma non riusciva a vederlo scendere dal suo cavallo di stirpe errante, che guardava la battaglia senza colpo ferire, in compagnia degli altri manimorbide, con l’eccezione di Moira, ovviamente, e di Gathren.

Il vecchio prete aveva augurato loro un felice Incedere nel Sentiero Giusto, dopo una lunga litania che aveva sciolto Saiji fino alle sue ginocchia. Non aveva ascoltato nulla della nenia dell’uomo di culto, ma sentiva comunque la testa pesante da tutto quel chiacchiericcio. Un ronzio fastidioso rimasto attaccato alle sue orecchie, come una zanzara nel cuore della notte.

Saiji si era lasciato guidare dalla folla, come una mandria di pecore, per l’uscita. Iren ancora toccato dalle parole del sermone era taciturno con gli occhi lucidi, accerchiato da Zegros che lo seguiva calamitato dalla sua presenza. Elas invece si era separato, era sgusciato veloce via, tra la folla, forse ben interessato a nutrirsi del chiacchiericcio della folla. Durante la funzione solo qualche mormorio si era alzato durante il sermone, ma in quel momento le parole della folla riempivano con voce alta tutto l’ambiente della cattedrale.
Perfino Iren poteva sentire in quelle chiacchiere qualche affare vagamente interessante, immaginava che per Elas quelle confidenze dovessero essere piuttosto succose, da far guadagnare qualche moneta in meno sul suo contratto con Lues.

“Seeer Saaaijiii! Seeerr” si era sentito chiamare a pieni polmoni, da una voce acuta che aveva superato la folla, Saiji si era voltato osservando l’ornatrice sgomitare tra la folla per raggiungerlo, con la gonna sollevata, lasciando scoperte le caviglie, mentre scendeva a grandi falcate le scalinate di marmo della cattedrale. Non aveva caviglie nude, ma dentro le pianelle, alte con il tacco a zeppa di sughero, sfavillava una calza bianco perla con decorazioni floreali in blu. “Oh Ser Saiji!” aveva ghignato allegra quando l’aveva riconosciuto.
“Mia signora” aveva detto lui, osservandola. L’Ornatrice, rispetto il taglio dei capelli, era vestita con abiti più pregiati, un vestito pervinca con clavi blu, il busto stretto alla vita e la gonna leggermente gonfia sui fianchi. Le spalle erano semi scoperte, nascosto dal fazzolo semi-opalescente ocra. I capelli scuri erano decisamente più ricci, ma portati sciolti, per segnalare la sua disponibilità, con piccoli boccioli azzurri tra i capelli.
Saiji aveva chinato il capo, piuttosto incerto su come doveva rivolgersi a lei, l’Ornatrice era una donna libera, non era soggetta a servitù-debitoria, probabilmente era di nascita pura, per quanto non fosse fioriana per intero era ancora molto più fioriana di lui, normalmente Saiji sarebbe stato considerato più in basso di lei, ma lui era un cavaliere, nominato da uno dei duchi maggiori del pregiatissimo impero dei fiori, aveva fatto da palafreniere allo Scintillante Generale, aveva baciato la donna più desiderata del mondo, ed era stato lo scudo giurato del Dolce Imperatore, una volta. Sebbene quel Saiji lì, era rimasto sepolto, con la Corda, con la Spiga e con i sogni di gloria, ma pur sempre un cavaliere e la ragazza non era una signora, ma Moira si era impegnato perché Saiji fosse almeno un po’ istruito nelle maniere cortesi, lo aveva anche costretto a partecipare alle parole cortesi.
Ricordava ancora i sorrisi della Nobile Nervia pieni di imbarazzo quando lui recitava i suoi miseri versi alla sua bellezza e la sua dolcezza – ricordava quanto si era sentito sciocco nel pronunciare quelle parole.
L’Ornatrice con un sorriso pieno e le labbra dipinte di rosa aveva attirato nuovamente la sua attenzione: “Mi chiedevo se lei, ser, ed il suo buon amico, voleste dividere dei pandolci con me e mio cugino” aveva chiesto con un tono dolce, inclinando appena il capo, per osservare Iren.

Il ragazzo era in disparte che gli osservava attenti, con ancora gli occhi lucidi, in compagnia di Zegros.

“Come?” aveva chiesto incerto Saiji.

Avrebbe dovuto rifiutare senza ombra di dubbio, ma era decisamente sconvolto che una fanciulletta libera fosse così sfacciata.

L’Ornatrice aveva sollevato lo sguardo verso di lui, aveva occhi scintillanti di un colore ambra lucido, con punte quasi d’arancio, che tradivano le gocce di sangue colomynato. “Non credo che la tua famiglia approverebbe un vagabondare con un mezzo eosiano di padre ignoto” aveva buttato fuori. L’Ornatrice aveva battuto le ciglia scure, colta di sorpresa da quella risposta, aveva schiuso le labbra poi, sottili come fili di cotone, “Mio cugino non vede in questo nulla di sconveniente” aveva spiegato, ammiccando poi ad un giovane che stava scendendo lento giù delle scale.

Differentemente dal viso lungo cyrasti di lei, il cugino era tutto istiano, con il viso tondo ed un naso da topo, aveva ricci nerissimi, stretti e lunghi che arrivavano alle spalle. Aveva occhi a palla, marcati da nere occhiaie, con l’espressione fiacca sul volto. E lattiginoso.

Saiji avrebbe riconosciuto gli effetti del Latte d’Uccello su chiunque dopo i lunghi cicli con Iren. Il cugino de L’Ornatrice riverberava in quello stato leggermente oscurato dalla leggerezza del Latte, che permetteva ai pensieri di sfuggire alla mente, rendeva il corpo molle e una contentezza irrequieta nelle labbra tremolanti.
“Domani” si era intromesso Iren, allacciando un braccio intorno al suo collo con un gesto fraterno, “Se non ricordo male domani è la seconda silune del primo ciclo[1] della Pallida. La festa di Santa Suranna delle margherite pallide” aveva aggiunto.

Saiji aveva aggrottato le sopracciglia, aveva ricevuto anche lui una certa educazione religiosa ma non era sicura di ricordarsi tutti i santi comandati. Inoltre, da che ricordava Saiji c’erano pochi festeggiamenti nella Sorella Pallida, rispetto alla Sorella Fredda, dove più che festeggiamenti c’erano ricorrenze e promesse di tempi migliori. Durante la Fredda le piante erano spoglie, venti algidi e nevi pesanti coprivano gran parte dell’impero, la terra umida era morta e tutta la vita soffocata. Perciò Saiji era abituato a vedere candele, ceri e preghiere, in feste che nulla avevano di festoso, ma che chiedevano piccole gioie.

L’Ornatrice aveva sorriso e poi aveva cinguettato: “Sì”, dopo una pausa aveva ripreso: “Inoltre, al palazzo la Baronessa apre il giardino della Casa Padronale, al popolo. In verità, è per ascoltare le lamentele dei cittadini, ma è possibile passeggiare” aveva considerato con voce quasi divertita. “Possiamo mangiare delle castagne tostate con vino fermentato o alcuni datteri, tardivi, ricoperti di miele” aveva sospirato l’Ornatrice. Saiji aveva forzato un sorriso freddo, che era decisamente meno scintillante di quello, “Sarebbe fantastico” aveva dichiarato alla fine.

L’Ornatrice era sembrata soddisfatta della risposta: “Meraviglioso, ser. Alla decima ora, dunque, sul lato est di Ponte di Giada, è il più grande della città, collega la via Pennatosetta verde, quella che parte della porta occidentale, con la via Sinuata viola, che conduce all’ingresso della dimora baronale” aveva spiegato pratica.
Il cugino, sebbene ancora cotto dagli effetti del Latte d’Uccello, si era avvicinato, forse risvegliato leggermente dal suo torpore, aveva permesso alla sua razionalità di riaffiorare, così aveva realizzato che sua cugina si fosse dilettata in lunghe chiacchiere con due sconosciuti dall’aspetto poco raccomandabile. “Come sei diligente” aveva considerato Iren, con un tono privo di tutto il suo fascino.

Il cugino l’aveva richiamata, con labbra e voce piene di pastosità. L’Ornatrice era arrossita piena di imbarazzo, “Obbligata” aveva detto a loro con gentilezza, dilettandosi in un inchino appena accennato, prima di allontanarsi.

“Ti avevo detto che si fosse infatuata di te” aveva risposto Iren, con un divertimento quasi meschino, che mal si associava a lui. “Sono sconvolto anche io di questo” aveva valutato Saiji, con onestà. “Di solito sono tutte infatuate di te” aveva considerato Saiji.

Iren aveva ridacchiato con un certo divertimento, “Forse ha il gusto per la Bizzarria” aveva proposto. “Da fanciullo, ogni volta che guardavo troppo a lungo una ragazza, questa scappava terrorizzata che potessi rubargli l’anima” aveva raccontato Saiji.

Questo era stato dopo essere stato accolto dai Ramberra; ogni ragazzina del palazzo era stata terrorizzata da lui, un eosiano, bastardo, senza fiore. Bia – l’altra bastarda – la coppiera era stata la prima a non scappare. “Non ci credo che Adda sia fuggita da te” aveva considerato Iren vago.
Dipende da quale volta. Aveva pensato Saiji, “Lo ha fatto anche lei. Almeno una volta” aveva ammesso. Questo aveva confuso per un secondo il suo amico, sul viso bello era balenato un’espressione piena di confusione. “Scusa ma giusto sta mani rivangavamo di quando hai ricevuto un bacio dall’imperatrice” aveva ricordato Iren.

“Avevo vinto il torneo” gli aveva ricordato.

 “Tu … tu vuoi andare?” aveva indagato, poi, Iren, con un viso di bronzo, rimanendo appiccicato a lui. Saiji si era sottratto da quella presa fraterna, cominciando a trovarla invadente. Provava fiducia in Iren, quando non era annebbiato dal Latte, abbastanza perché potesse dormire con il suo respiro contro la nuca, nelle notti buie, da non temere la sua vita.

Si era chiesto se avesse dovuto o meno andare, non aveva mai pensato di maritarsi. Ricordava che una volta Moria gli aveva proposto di sposare Adda, quando le era stato concesso il ruolo di Dama della Camera. ‘Penso che ora sia alla tua altezza’ aveva considerato.

Che immagine bislacca, aveva pensato e non aveva risposto chiaramente, dicendo che avrebbe dovuto pensarci. Aveva studiacchiato Adda chiedendosi se avessero potuto funzionare, la sua amica sarebbe stata così buona e gentile, da farlo sentire quasi in colpa. Quella stessa notte la Nobile Nervia lo aveva baciato con audacia che mal si sposava ad una signora del suo rango, ‘Non hai recitato che le mie labbra dovevano essere morbide come la crema?’ lo aveva stuzzicato lei.

Il giorno dopo aveva comunicato a Moria che non aveva l’intenzione di maritarsi per quel tempo, che aveva un mestiere più importante. Non aveva parlato né di Adda, né di Nervia – non che mai avesse potuto sposarla.
“No” aveva confermato Saiji. Non erano per lui pan dolci, datteri tostati e passeggiate nei giardini.
Sono lieto di sentirlo, ho in mente una sposa più adatta per te.

 

Zegros si era affacciato di nuovo, aveva recuperato Eleas, “Noi pensavamo di andare a cercare qualcosa da mangiare” aveva dichiarato il lupo d’arme. “Qui vicino, conosco un posto dove fanno una purea di ceci che sembra cibo vero che viene solo qualche margherita” aveva dichiarato l’altro lupo. “Se fanno anche della carne, sono venduto” aveva dichiarato Saij. “Mica sono così ricco da potermi permettere la carne” aveva detto Zegros, con un sorriso tranquillo, come se la cosa non lo turbasse davvero. “Una fortuna che noi abbiamo invece qualche damigella di cui servirci” aveva replicato Iren, aveva ancora gli occhi lagrimosi, ma la sua espressione aveva recuperato una parvenza di leggerezza; Saij lo aveva rimproverato con lo sguardo. “Allora lascia che ti porti alla Serra, lì non mancheranno dame per le tue damigelle” aveva ribeccato Eleas.

Ma il loro allegro chiacchiericcio era stato interrotto dall’arrivo di due soldati ben piazzati, che sulla blusa portavano cucito uno scudo squartato. Sul primo e sul terzo quadrante c’era la Foglia a quattro punte, d’oro, del Liodeandro, alternata – nel secondo e nel quarto – con la Violetta-del-pensiero. La guardia cittadina di Città Viola.

Saiji non aveva vissuto con l’illusione di essersi salvato allo sguardo del buon Cartemisio.
“Problemi?” aveva sussurrato Zegros, osservando i due uomini.

Saiji aveva sentito la mano di Iren, stringersi sulla stoffa che copriva la sua schiena pieno di nervosismo.

“Sir Saiji Alderichi, la Signora desidera vedervi” aveva stabilito l’uomo.

Aveva la netta impressione che a volerlo incontrare non fosse la Vedova della città, ma il suo appassionato spasimante



[1] Ogni Sorella ha tre cicli, ogni ciclo ha tre decimane. Il secondo silune del primo ciclo, corrisponderebbe al Silune della seconda decimana della Sorella. Help. Il silune è il Sesto Giorno.

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