Resoconto di un Cavaliere nel Pregiatissimo Impero dei Fiori di RLandH (/viewuser.php?uid=330024)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** SINFONIA ***
Capitolo 2: *** PRELVDIO ***
Capitolo 3: *** PARTE PRIMA; PROLOGO ***
Capitolo 4: *** PARTE PRIMA; TITOLO I; CAPITOLO I ***
Capitolo 5: *** PARTE PRIMA; TITOLO I; CAPITOLO II ***
Capitolo 6: *** PARTE PRIMA; TIOLO I; CAPITOLO III ***
Capitolo 7: *** PARTE PRIMA; TIOLO I; CAPITOLO IV ***
Capitolo 8: *** PARTE PRIMA; TIOLO I; CAPITOLO V ***
Capitolo 9: *** PARTE PRIMA; TIOLO I; CAPITOLO VI ***
Capitolo 10: *** PARTE PRIMA; TITOLO I, CAPITOLO VII ***
Capitolo 11: *** PARTE PRIMA; TITOLO I, CAPITOLO VIII ***
Capitolo 12: *** PARTE PRIMA; TITOLO I; CAPITOLO IX ***
Capitolo 1 *** SINFONIA ***
S I N F O N I A
I L P R I N C I P I O
Quando il Dio-Di-Ogni-Cosa-Buona creò gli uomini non li fece tutti uguali, al contrario: si impegnò perché fossero più diversi, variopinti e colorati possibili, come fiori.
Si adoperò perché i suoi uomini fossero come i fiori del suo giardino, virtuosi, bellissimi, colorati ma differenti.
Unici.
Eccezionali.
Ogni fiore era unico, non solo da una specie all’altra ma da un individuo all’altro.
Così, erano e dovevano essere gli uomini.
Bellissimi.
Furono gli uomini, in maniera del tutto arbitraria, a decidere che quella diversità andasse classificata, andasse ordinata, secondo il loro iniquo giudizio.
Che il dono di Dio dovesse essere – non un regalo ma – un assetto.
E, che gli uomini professino quel che vogliono, tale iattanza fu Il Principio.
Oggi questo account compie 10 anni. Questa era una tappa inevitabile … ho anche tergiversato troppo
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Capitolo 2 *** PRELVDIO ***
P
R E L V D I O
S I A C O
N S E G N A T O A
L L ‘ E T E R N O
Sapeva
che era sbagliato spiare una donna nuda che si dilettava in un bagno,
ma era un
sapere piuttosto … intuitivo. Nessuno lo aveva mai
rimproverato, lo aveva mai
proibito o altro, si era sempre detto che non stava bene.
Però lui era un
bambino curioso.
Nizza
veniva dalla terra dei fiori, era appena arrivata, da quelle parti, con
i suoi
vestiti marciti addosso, le suolo delle scarpe così
consumate da aver scoperto
le piante nude dei piedi ed i
capelli castagna,
arruffati come il nido di una rondine. Selvaggia
nella maniera sbagliata, come un cane con la rogna.
“Ho bisogno di un posto … dove stare”
aveva detto solamente, quando l’avevano
vista attraversare la vecchia porta sud, con sguardo vacuo e
preoccupato verso
i ruderi – lui adorava quella parola, ruderi.
Oh, lui supponeva avesse detto, faceva ancora fatica a parlare il
fioriano. A
casa sua parlavano la lingua dei ghaadiani e lui stava imparando la
lingua dei
fiori nelle lezioni di maestro Iustir assieme agli altri bambini. Sua
madre non
aveva voluto impararlo, non le interessava affatto, anche il ghaadiani,
diceva
sempre, le faceva male alla lingua. Suo padre lo conosceva ma non era
bravo e
per questo non si sforzava molto, non gli piaceva mostrare quello in
cui non
era bravo.
La
cosa faceva sempre ridere lui, perché lo trovava
stupidissimo.
Il
fioriano però era una bella lingua, era come il miele sulla
lingua ma nelle
orecchie – aveva provato a dirlo a lezione, ma gli altri
ragazzini avevano
riso.
“Per
me dovremmo avere una lingua tutta nostra” aveva detto invece
Diosana, che era
fioriana, con il sangue tulpee – come lui
– e i capelli rossi
così scuri da sembrare legno di ciliegio.
“Potremmo imparare la vecchia lingua
del Florido Impero” aveva proposto il maestro Iustir. Questo
aveva confuso lui
perché pensavano che stessero già imparando la
lingua dell’impero.
“Che
stai facendo?” la domanda lo aveva costretto a tornare con i
piedi per terra e
Nizza lo stava guardando. Era entrata nella vasca nel ruscello con una
veste
addosso che le arrivava alle ginocchia. Si era inzuppata dalla vita in
giù ed
aveva umettato i capelli, che invece di aprirsi in ogni direzione,
scendevano
pesanti sul viso. Lui si era tirato dritto come una pertica, colto sul
fatto,
con le guance arrossate per l’imbarazzo. “Oh, sei
uno spione, volevi vedere i
miei capezzoli?” aveva chiesto subito Nizza, sollevando un
sopracciglio scuro,
“O volevi vedere direttamente la mia fica?” aveva
chiesto subito lei sfacciata.
Lui
si era fatto più rosso del suo crine, più rosso
di una mela matura, “No! No”
aveva strepitato, “Volevo vedere il fiore!” aveva
detto.
L’espressione
divertita e giocosa sul viso di Nizza si era assopita,
“Immagino che da queste
parti si vedano solo tra i solchi delle pietre e nei campi”
aveva concesso,
facendo schioccare le labbra, erano piccole e sottili, diverse da
quelle di sua
madre. Lui aveva annuito, “Anche se rimando
dell’idea che tu voglia solo una
scusa per guardarmi le tette” aveva ridacchiato Nizza per
prenderlo in giro.
“No!”
aveva replicato subito lui.
“Quante
sorelle hai?” aveva chiesto subito la donna. “Sorelle
o sorelle?” aveva
domandato di rimando il ragazzino, Nizza aveva riso, la sua risata era
bella,
sembrava il canto di un uccello – o almeno come il maestro
diceva i poeti
dicessero.
“Ventisei
… ventisette tra un ciclo” aveva risposto alla
fine lui, “Avevo anche un
fratello, ma non me lo ricordo. Era otto sorelle più piccolo
di me. Abbiamo
avuto entrambi la pelle rosa ma solo lui
è morto” aveva raccontato lui,
incerto sul perché lo avesse fatto.
Nizza
aveva annuito, l’acqua dei capelli umidi le gocciolava sul
torso, così
appesantiti, i capelli raggiungevano metà della schiena,
“Anche io avevo una
sorella. Nenia, è morta di febbre puerperale dopo un
sanguinamento, aspettava
un bambino” aveva detto con espressione triste,
“Ora entrambi sono fiori nel
Giardino del Dio-di-ogni-cosa-buona”.
Lui
era rimasto in silenzio davanti quell’ultima parola, non
sapendo come
rispondere. Gli dispiaceva per il suo fratellino, anche se non lo
conosceva. La
sua marra piangeva ancora ogni tanto la notte ed anche se i suoi
genitori avevano abiurato
– a lui faceva ridere quella
parola – la fede, ogni tanto lo sentiva ancora sussurrare, di
nascosto, qualche
preghiera. Anche a lui mancava, gli mancava l’idea
di avere un fratellino,
con cui condividere tutto.
Si
era formato un silenzio tra loro, lungo, “Dovresti
rispondere: Cresca forte
il suo fiore” aveva detto Nizza.
Lui si era morso le labbra, “Perché?”
aveva chiesto, “Convenzione” aveva
risposto la donna, “È un modo gentile per
raccomandare l’anima dei morti” aveva
spiegato. I suoi genitori non praticavano, nessuno lì
credeva in nulla, erano
liberisti – così diceva sempre il maestro
– credevano solo negli uomini e nel
libero arbitrio.
“Che il tuo ricordo sia consegnato
all’eterno. Così dice la mia marra,
almeno” aveva risposto lui. Nizza aveva sorriso e poi era
stato silenzio.
Lungo,
spesso e quasi soffocante.
Nizza
aveva rotto quella situazione pensante con una battuta;
“…e la tua marra, lo
sa che vai chiedendo alle fanciulle di vedere le loto terre
… perdono, i loro
fiori?” aveva chiesto Nizza, aveva perso
quell’espressione tetra per riprendere
la sua giocosa.
Lui
non era arrossito solo perché fisicamente non avrebbe potuto
di più, ma aveva
provato una sensazione stringente allo stomaco pensando
all’espressione
contrita che avrebbe avuto la sua marra.
“No, io non lo vado a chiedere”
aveva detto.
“Perché
nessuna ragazza ha dei fiori, vero?” aveva chiesto retorica
Nizza.
“Nessuno, in realtà” anche se non era
vero. Sapeva che qualcuno conservava i
suoi fiori, nessuno voleva imporre qualcosa a qualcuno. Almeno per i
forestieri, questo non era valso per lui, ma non gli importava molto.
Differentemente dal suo fratellino, non sentiva nostalgia per quella
mancanza.
Nizza aveva annuito, poi aveva allungato una mano sull’orlo
superiore della
vestaglia, era largo e con uno scollo a barca, lo aveva fatto scendere
sul lato
sinistro, scoprendo un po’ la carne del seno, ma senza
esporsi troppo. Lui non
era davvero intenzionato a guardare i suoi capezzoli, ma era stato
rapito dalle
linee sul petto.
Erano nere e delicate, in alcuni punti si ingrossavano, creando un
disegno
dinamico. I fiori erano due piccoli, a cinque petali, spatolati, che si
chiudevano ripidi su una punta arrotondata, la carne nei pressi del
petalo
raggiungeva leggere sfumature violacee. Gli steli erano sottili e si
univano in
foglie strette, spesse ed aguzze. “È una sassigrafa?”
aveva chiesto lui,
“Sì, penso. Non sono brava con i fiori –
lo so, fa ridere detto da una fioriana”
aveva replicato.
Lui
aveva ridacchiato, “Il disegno è molto
bello” aveva considerato, “Sì, sono
stata fortunata” aveva detto Nizza, passandosi i polpastrelli
sui segni, da
quella distanza sembrava quasi un marchio ad inchiostro, fatto da
un’ottima
mano umana, “Ma decisamente non perfetto” aveva
considerato Nizza stessa. “Mio
padre ha sposato la seconda cugina della sua anima condivisa, i loro
fiori
erano simili, lei era morta per una zoccolata di cavallo. Mia madre
d’altro
canto era benedetta. Strane le vie del destino.
Vicina alla perfezione,
senza toccarla” aveva scherzato la ragazza poi, sotto lo
sguardo confuso di lui.
Sapeva
che i figli di anime condivise, i bambini giusti, erano perfetti in una
maniera
quasi che suo padre definiva ‘violenta’ –
come sua madre, sebbene lei negasse
la sua benedizione – ma “Adesso, vizioso tornatene
a casa, che ho tutta
l’intenzione di tirare via lo schifo di dosso. A meno che tu
non voglia vedere
anche la rosa tra le mie gambe” aveva dichiarato Nizza.
Si
era sbagliato, era stato possibile divenire ancora più
rosso, sentiva la sua
pelle andare in fiamme, come se un incendio divampasse nel suo petto.
Aveva
recuperato la calma, dopo aver arrestato il battito feroce, come il
galoppare
di un cavallo, del suo cuore ed aveva annuito, lanciando un ultimo
sguardo al
fiore sul seno della ragazza, “Grazie” aveva detto,
facendo un passo indietro.
Lei
aveva fischiato, “Aspetta. Fammi vedere il tuo” le
aveva detto, fissandolo.
Aveva occhi scuri come noccioli di mela. “Io non ho un
fiore” si era difeso lui.
“Tutti hanno un fiore” aveva ribattuto Nizza,
“Il tuo è stato semplicemente
estirpato” aveva aggiunto.
“Vuoi
vedere la mancanza, allora” aveva
considerato il ragazzino incerto,
toccandosi il cuore. Nizza aveva annuito, “Devo
sapere come sarà la terra
una volta che ci avrò sparso il sale”
aveva risposto.
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Capitolo 3 *** PARTE PRIMA; PROLOGO ***
P
A R T E P
R I M A
L ’ I N V I O L A B I L E
P
R O L O G O
A
V R E B B E R O V
C C I S O T
V T T I
Q V A N T I
Lippo
si era svegliato stanco.
Era
strano per un ragazzino di sole quaranta-tre sorelle svegliarsi stanco,
ma era
normale a casa sua.
Alcuni raggi del sole lo aveva raggiunto superando le assi di legno
degli
scuretti. Si era voltato per potersi rifugiare all’aspro
risveglio, anche se
sapeva di non aver comunque altro tempo per riposare ancora.
Con il naso aveva urtato la spalla di suo fratello minore Frederico,
che di
rimando aveva pensato di ricambiarlo con una gomitata audace. Era una
piccola
canaglia, aveva solo trenta-tre sorelle ma era più sveglio
di una volpe.
Differentemente da Lippo.
Nel
lettuccio erano in tre, lui, Frederico e Adrianna, più
grande di lui di tre
sorelle. Lei era l’unica femmina della loro famiglia, oltre
la mamma. Nella
stanza con loro dormivano anche Alesio e Mino, i suoi fratelli
maggiori, grandi
e grossi da dover dormire incastrati – anche se Lippo
indovinava si fossero già
levati quella mattina, probabilmente già nei campi.
La mamma dormiva nell’altra stanza, una volta lei ed Adrianna
occupavano lo
stesso letto, ma i suoi fratelli erano diventati troppo grandi per
poter stare
con lui e Rico, tutti insieme, e quando la mamma aveva smesso di
alzarsi, Adranna
aveva ceduto il letto suo e della mamma ai due fratelli più
grandi.
Quando
il sole aveva raggiunto Adrianna, anche lei si era alzata, lo aveva
fatto
lenta, incerta, con le gambe più morbide del budello.
“Lippo!
Rico!” aveva strillato il loro nome con la stessa leggiadria
di un gatto
imbestialito. La voce della loro sorella maggiore aveva costretto i due
bambini
a doversi alzare.
Lippo
l’aveva guardata, fino ad una sorella prima, loro due
parevano gemelli, senza
distinzione. Eppure, ad ogni luna che passava Ariadne appariva sempre
più
distante da lui, il bacino si era fatto più pronunciato ed
il petto si era
fatto più pieno. Anche il viso aveva preso una curva
più matura, somigliava
alla mamma, per Lippo; aveva anche cominciato a comportarsi come lei.
Si
era tirato su dal giaciglio, così aveva fatto anche
Frederico, che era subito
sgambettato nell’altra stanza per dare il buongiorno anche
alla loro mamma.
Adrianna
aveva accarezzato i suoi capelli con gentilezza, materna.
“Alesio e Mino si
sono già alzati” aveva detto con vergogna
Adrianna, sentendosi colpevole del
suo sonno. Cercava di destarsi sempre prima dei due, per poterli
preparare
qualcosa da mangiare, perché fossero rinvigoriti durante le
ore nei campi.
Anche
Lippo avrebbe dovuto cominciare a raggiungerli, presto, non era
più un
bimbetto, era un uomo, non poteva lasciare ad Alesio e Mino tutto il
lavoro.
Sua
madre aveva risposto a malapena al loro saluto, con gli occhi vuoti e
distanti.
Adrianna invece, non
le aveva rivolto
più di uno sguardo, aveva tolto la vestaglia di armatura
sottile, per indossare
la veste lunga di bighello, tinta di un viola troppo costoso per le
loro
finanze – apparteneva alla loro madre, di tempi migliori. Se
lo aveva
indossato, voleva solo dire che loro sorella voleva andare al mercato,
aveva
anche raccolto i capelli in una crocchia, come una signora per bene.
“Lippo,
accendi il fuoco. Facciamo un semolino” aveva dichiarato lei,
afferrando la
pentola di rame dalla cassa, per portarla vicino al comignolo.
“Vai
al mercato, oggi?” aveva chiesto lui, prima di affidare senza
grazia, o colpo
ferire, a Frederico di andare a raccogliere la legna già
tagliata fuori.
“Sì,
io, vedo la coperta di lana, forse riesco a guadagnarci qualcosa. Oggi
dovrebbero esseri anche alcune genti di città”
aveva raccontato lei, senza
prestargli troppa attenzione, nascondersi alla vista ed esponendo solo
il collo
nudo e la nuca.
Sua
sorella non era una brutta ragazzina, aveva un viso allungato, i denti
da
coniglio e le orecchie leggermente sporgenti, era una bruttezza
accettabile,
come quella di Milo, per i Bimbi Sbagliati come loro.
“Adrianna vuole vedere il pesciaiolo” aveva cantato
Frederico, tornando in casa
con tocchetti di legno.
Sua sorella lo aveva ghiacciato con gli occhi scuri, ma le guance si
erano
dipinte come due tizzoni ardenti. “Smettila, Rico! Non
è divertente” aveva
berciato lei, con espressione contrita, tirando un calcio a suo
fratello.
Lippo
aveva raccolto la legna che era caduta da terra per sistemarla nel
camino,
prima di dedicarsi al fuoco. Rico se n’era andato urlante,
screanzato, “Che il
principio ti si pigli che nessun uomo lo farà!”
aveva gridato alla sorella.
“Che
fastidio” si era lamentata Adrianna, sedendosi sulla sedia.
“Non
sei invaghita del pescivendolo, vero? È più
brutto del culo di un porcello”
aveva detto Lippo, “Oh Vergine di Ghisa, che ho fatto per
meritarmi due
sanguinamenti come voi?” aveva chiesto retorica lei,
“Non mi posso permettere
di sognare fiori gemelli o amore palpitante. Mychele è
l’unico che mi si
piglierebbe pure senza dote” aveva detto lei poi,
“Ti spicci con quel fuoco?”
aveva chiesto poi, infastidita.
Lippo
aveva annuito ed eseguito, calmo, pensoso.
Adrianna
aveva sempre detto che non gli importava di avere un uomo con lo stesso
fiore
sul petto di lei, ma non era vero, al mondo tutti desideravano trovare
chi il
Signore-Delle-Cose-Buone aveva previsto per loro.
Perfino
i signori dai tascapani gonfi e le corone pesanti, dimenticavano i loro
doveri
e si sposavano genti come loro, se i fiori nel pento erano fioriti
uguali.
“Forse
al di là del mare chiaro c’è qualche
ricco mercante di spezie che si chiede
dove sia la sua anima condivisa” aveva borbottato lui,
guardando di sottecchi
sua sorella.
Adrianna
aveva sbuffato, stanca, poi aveva sorriso, gentile, “E
secondo te, perché vado
al mercato?” aveva chiesto retorica.
Non
aveva accompagnato Ariadne al mercato, lo aveva fatto Rico, con la
promessa di
datteri caramellati al miele, per far passare via il viso imbronciato
che aveva
deciso di cucirsi addosso.
Lippo era rimasto così nella loro piccola casupola in
compagnia della mamma,
dello spettro.
Semi-seduta sul suo giaciglio, di paglia, con gli occhi vuoto di chi
non sapeva
più vedere, ferma, immobile, come una candela, che si
consumava un po’ alla
volta.
Anche
se Lippo, non vedeva più la fiamma, solo l’ultimo
tizzone che andava ad esaurirsi.
“Vuoi un po’ di semolino, ma?” aveva
chiesto, prendendo l’avanzo, ormai freddo,
dalla pentola per metterla in una ciotola di argilla rossa. Fin troppo
carina
per essere finita nella credenza della loro famiglia. Aveva preso una
cucchiaia
di legno con cui poter imboccare la donna.
Isapia, sua madre, lo spettro, era stata in vita una donna bella, molto
meno lontana
di loro dalla perfezione. Non era figlia di due anime destinate, ma nei
suoi
quattro nonni, Lippo sapeva, due lo fossero.
Anime destinate, che strano pensiero.
I
suoi genitori non lo erano, probabilmente nessuno dei suoi fratelli, o
lui,
l’avrebbe trovato. Lippo non sapeva quanto vasto fosse il
mondo, Ariadne diceva
che era immenso, ma sapeva fosse troppo grande perché si
potesse trovare
l’anima destinata.
La
vastità della vita di Lippo, comprendevano i campi, la
Foresta Grigia, la
bestia bicefala ed al massimo, poche città più in
là.
Rispetto
al mondo, è un palmo di mano.
Così
aveva detto Alesio, con gli occhi scuri luccicanti rivolti alle stelle,
lui
avrebbe voluto prendere la vecchia mula di casa e partire, ovunque il
Giusto
Sentiero lo guidasse.
Isapia
aveva fatto lo sforzo di aprire le labbra, piccole, sottili, troppo
pallide e
screpolate per accogliere la polenta di semolino che il figlio le stava
facendo
inghiottire.
Ci
aveva messo del tempo a deglutire, incerta. “Con un paio di
fughi sarebbe
meglio” aveva commentato Lippo, guardando sua madre, negli
occhi scuri.
Uno
dei ricordi più belli che aveva di sua madre, prima che suo
padre morisse,
quando la vita sgorgava ancora nel suo petto, assieme al suo cuore,
riguardava
proprio i funghi. Isapia andava nella Foresta Grigia e riportava
cestini
ripieni di ogni tipo di miceto. Ogni forma e
dimensione. Aveva insegnato
a lui ed anche ad Ariadne come riconoscere tutti i tipi, quelli
medicinali,
quelli edibili e quelli velenosi. “Un bel piatto di funghi
potrebbe salvarvi la
vita un giorno” aveva scherzato. Lippo non era sicuro di
ricordare davvero che
suono aveva la sua voce, pensava fosse dolce, più di quella
di Adrianna, ma
anche ammantata da un guizzo di divertimento, come una buona zuppa
calda con
una raschiata di peperoncino. Però, Lippo, non era sicuro se
non fosse che un
invenzione della sua mente.
A
volte si chiedeva se anche i ricordi che aveva di sua madre non fossero
a loro
volta una finzione; non aveva mai avuto il coraggio di chiederlo ad
Adrianna.
Si
era allontano dai suoi pensieri, per tornare con lo sguardo a sua
madre; per un
secondo, Lippo aveva sentito un brivido attraversare la sua schiena.
Ebbe,
quasi, l’impressione che un guizzo di consapevolezza avesse
attraversato la
mente di Isapia.
“Non
quei funghi” aveva detto, scostandosi da sua madre, quasi
scottato, allontanandosi
da lei, netto.
L’espressione di sua madre era rimasto ferma, con il viso
granitico di una
statua, come quelle nelle piazze della Bestia Bicefala.
Nessuna
emozione, nessuna vita.
Lippo
aveva recuperato il cucchiaio che aveva fatto cadere ed aveva ripreso
la sua
attività, teso come la corda di un mandolino.
Si
era sforzato di piegare le labbra in un sorriso, ma era sicuro che la
lucentezza non avesse raggiunto gli occhi; per la sua mamma non era
comunque
cambiato nulla. Lippo le aveva preso una mano ed aveva baciato le sue
dita
gentile, prima di spostare il palmo della donna sopra la sua testa,
nell’imbarazzante imitazione di una carezza.
Dopo
quell’ultimo, disperato, gesto, Lippo aveva dovuto
abbandonare il giaciglio con
una fretta bruciante, portando via il resto della ciotola ed il
cucchiaio.
Sapeva di non poterli abbandonare sul tavolo o avrebbero attirato le
formiche o
i topi e questo avrebbe reso Adrianna furiosa e le loro piccola casa
pestilenziale.
Aveva
lavato le stoviglie con la minor quantità d’acqua
possibile – fuori casa aveva
trovato il loro serbatoio pieno per un quarto, probabilmente Alesio
doveva aver
raccolto l’acqua dal pozzo prima di andare per campi.
Sarebbe
dovuto spettare a Lippo, avrebbero dovuto chiamarli quando si erano
destati.
Il pensiero lo aveva frustrato. Si era morso un labbro, mentre sfregava
via con
vigore i resti della ciotola, prima di riportarlo dentro casa, per
sistemare
nuovamente tutto nella credenza.
Sua madre era sempre lì, in un angolo come uno spettro.
“Puoi
… restare qui, da sola?” aveva domandato Lippo, stupidamente.
Sapeva
di non poterla abbandonare, di non poterla lasciare da sola in casa.
Uno di
loro doveva sempre rimanere lì, per proteggere gli averi,
anche se scarsi, e la
mamma – che era fragile ed incapace di provvedere a
sé stessa, ma Lippo, sapeva
di essere egoista, non riusciva ad essere lì, a rimanere
lì, con le mani in
mano.
Aveva
pettinato i capelli di sua madre, incerto, le brave donne ferriane
portavano i
capelli raccolti, ma l’unica che aveva la pazienza di
acconciarli alla mamma
era Adrianna. Poi a lui, piaceva sciolti, come li portava Eliana, che
non
distava da loro – una bambina con gli occhi chiari come la
pioggia e le
fossette quando rideva. A Lippo, Eliana piaceva, ma lei avrebbe sposato
Artie,
che era la sua anima Destinata.
Isapia si era stesa sul giaciglio quasi da sola, senza bisogno del suo
aiuto, e
le aveva rimboccato la coperta, con gentilezza.
“Non
posso restare” aveva sussurrato, “Nel non fare
niente” aveva asserito con
gentilezza Lippo, dando alla donna un bacio sulla fronte.
Era
andato nel Bosco Grigio; era oltre i campi coltivati, se di norma i
boschi
erano insidiosi, abitati da fiere brutali e selvagge. E non solo quelle
che
camminavo su quattro zampe, ma anche su due. Bande armante, mercenari e
quant’altro.
Ma
il Bosco Grigio cadeva sotto l’egida della Bestia Bicefala e
nessun uomo che si
chiamasse tale, avrebbe mai pensato di venir a spadroneggiare tra
quelle
fronde.
In
vero, anche i contadini si tenevano alla larga, non Lippo, che era
figlio di
Isapia, non aveva mai avuto remore, per quello.
Si
era addentrato nella foresta, svelto, veloce ma attento. Non forse,
abitualmente, non vi facevano il nido i briganti, ma non era da
escludere che
qualcuno uomo potesse trovarcisi ugualmente, così come,
sebbene poco abituale,
avrebbe potuto scorgere lupi e linci.
Era
la Rinascente, in fin dei conti.
Lippo
era stato fortunato, aveva riempito il suo cestino di bacche di
mirtillo, dai
globuli di un blu così intenso da sembrare dipinto da un
pittore, pieni di
liquido dolcino e grandi.
Certo
che Frederico ne sarebbe stato estasiato.
Si
era guardato nel sistemare per bene le bacche perché non
scoppiassero o
inondassero il cestino, nascondendole bene e proteggendole in una serie
di
fazzoli. Non erano belli, la stoffa era rozza e l’unico
ricamo che vi era
sopra, erano lettere sbilenche che Adrianna aveva cucito sopra, quando
tentava
di far pratica; però non era quello che era venuto a cercare.
Aveva
trovato le sue vere vittime ben presto. I funghi prataioli erano subito
saltati
ai suoi occhi, nel sottobosco, ai piedi delle radici. Erano di un bel
colore
marrone, prova della loro maturità, ed erano riconoscibili
per il cappello,
largo e piatto. Lippo li considerava i suoi preferiti, su tutti;
ricordava sua
madre, tanto tempo prima, impanarli con briciole di pane ed affogarli
nel
grasso, sul fuoco.
Ne aveva trovati diversi tipi, quelli sottili, quelli dalla forma a
chiodo –
che Alesio non tollerava – con un colpo magistrale di fortuna
aveva trovato
anche un paio, di numero, di una tipologia con il cappello dalla forma
ondulata
ed il gambo bianco e polposo. Non ne trovava molti ed erano rari.
Aveva riempito il suo cestino con una quantità accettabile
di funghi, abbastanza
perché quella serata riuscissero a
fare una zuppa con le cipolle e tuberi e poterne essiccare e conservare
alcuni
per giorni avvenire – era stato fortunato e ne aveva trovato
anche uno di
quelli buoni per il sangue, rosa come il raso, sembravano una serie di
orecchie
grinzose cucite tra loro, per cappello – ma quella sensazione
di pace e
liberazione che il vagabondare nei boschi li dava, lo aveva costretto a
rimanere, con la stessa forza delle pietre che s’attraevano.
A
Lippo piaceva pensare fosse il volere del Dio-di-Ogni-Cosa-Buona; se
aveva lo
stesso talento d’un segugio nel trovare quelle piccole
prelibatezze, un motivo
doveva pur esserci.
Un
po’ lo faceva ridere. Una volta aveva accompagnato Adrianna e
Mino al mercato
per venderli, dopo averli essiccati. Un mercante con
l’accento floreale aveva
ridacchiato e divertito aveva raccontato a Lippo che
nell’Impero, augurare a
qualcuno di andarsi a mangiare un piatto di funghi era una iettata,
pari tanto
ad auspicarsi che il principio se lo prendesse.
“Sì,
sì. Nell’Impero quando si muore senza ragione si
è morto per un piatto di
funghi” aveva raccontato poi Arti, fiero e adulto –
a suo dire – delle sue
settante sorelle.
Per
Lippo era stupido, bisognava solo avere occhio.
Si
era fermato ad osservarne un altro, era sottile, più di un
chiodino e difficile
da osservare, non era troppo più alto di un filo
d’erba e tra le foglie ed il
muschio quasi spariva.
Lippo
si era messo a carponi, puntando il peso sulle ginocchia ed osservando
la pianta.
Il gambo era sottile, di un colore bianco con sfumature rossastre, il
cappello,
invece, pareva la punta, addolcita, di una freccia.
“E
tu, cosa sei?” aveva chiesto allungando una mano, per
diteggiare la punta e
saggiarne la composizione.
E poi aveva sentito il frusciare delle foglie e legno spezzato. Un
verso
d’animale, piuttosto gravoso
Aveva sollevato lo sguardo verso la direzione, spaventato, osservando
l’oscillazione
del bosco al suo fianco, poi era spuntato tra i tronchi degli alberi la
figura.
Un
cinghiale con zanne sporgenti dal muso aguzzo ed il manto composto di
setole
nere, era enorme; Lippo aveva visto cinghiali nel corso della sua vita,
mai
così da vicino, ma era certo, sul buon-Dio, di non averne
mai visto uno così
grande.
Per
un momento il tempo si era gelato, lui aveva arpionato il suo sguardo
sugli
occhi grandi e liquidi in quelli del cinghiale.
Era
durato quando un battito di ciglia e poi il panico, potente, irruente
come la
corrente del Serpente, così investito
dal panico, a gonfiarli l’aria nel
panico e a infuocare le sue gambe era scattato, veloce, come un fulmine
a ciel
sereno.
Era
corso come un lampo per il bosco, perdendo il cestino di more e funghi
dalla
sua mano, ma senza che questo pensiero occupasse la sua mente per
più di un
momento, prima che il terrore riprendesse di nuovo possesso di lui
stesso; così
aveva corso.
E
corso.
Corso.
E urlato spaventato, senza avere il coraggio di guardare indietro, per
vedere
se la bestia lo stesse inseguendo o meno.
Poi
aveva visto qualcosa, un’ombra, e così era corso
verso di lì, nella speranza
che ci fosse qualcuno, qualcosa, non si era neanche accorto in che
direzione
stesse correndo, quanto lontano dall’argine del Bosco Grigio
si fosse
avventurato, quando nel cuore della selva fosse giunto, guidato
dall’istinto e
dalla paura.
“Ei,
chi sei?”
“Che
cazzo sta succedendo?”
“Per
il Principio!”
Lippo
non le aveva neanche sentite quelle frasi sconnesse, non aveva neanche
realizzato che cosa fosse successo, né chi vi fosse intorno.
Erano presenti
degli uomini, gli aveva riconosciuti solo come ombre ad angolo dei suoi
occhi.
Ma la paura non lo aveva reso lucido.
E
poi aveva urtato contro qualcosa, qualcosa di vivo, caldo, con un pelo
ispido e
rigido, l’attimo dopo qualcuno l’aveva afferrato
per la collottola della blusa
e tirato indietro, prima che uno zoccolo lo sfiorasse sulla fronte.
“Buon-Dio,
giovane, il principio ti si è preso?” aveva
gridato un uomo, aveva una voce
profonda, ma calma; Lippo aveva sentito il panico cominciare ad
avvilirsi, a
scomparire e la chiarezza tornare alla mente, allora aveva notato il
cavallo
imbizzarrito, il cavaliere che lo domava splendido era riuscito a
riportarlo
alla calma, abile. Lippo aveva intravisto il simbolo di una lince,
l’araldo di
una famiglia ricca della bestia bicefala, ma non così
importante da ricordarne
il nome – almeno per lui, ragazzino di campagna.
Ma il cavallo dell’uomo della lince, prima di calmarsi, era
riuscito ad
assestare un calcione ad un altro che si era a sua volta imbizzarrito.
Il
suo cavaliere aveva tentato di riprenderle le redini con ardore, ma
distratto,
da lui, da Lippo, con gli occhi scuri e cupi putati sui suoi.
Era
caduto da cavallo.
“Lorenzin!
Sei diventato improvvisamente un debuttante?” lo aveva preso
in giro uno degli
altri cavalieri, ma tutto ciò a cui Lippo riusciva a pensare
era stato il
rumore, il rumore della caduta.
Un
suono dritto, secco, come di un ramo spezzato.
Quando
era caduto il cavaliere aveva urtato la testa su un masso, non si era
rialzato,
aveva battuto gli occhi, ancora animato di vita, le sue iridi
sfrecciavano a
destra e manca, ma un tappetto di sangue aveva innaffiato la terra
sotto di
lui.
“Lorenzin!”
aveva strillato uno dei cavalieri lasciandosi.
Lippo
era rimasto immobile, come il granito, perché da terra,
mentre gli uomini si
affaccendavano per issarlo, lui aveva visto il decoro del suo farsetto.
Un
lupo nero, una bestia maligna, erta sulle zampe posteriori, con le
zanne sguainate
e la pelle superiore del muso arricciato, in un ringhio.
Il
Lupo.
Una
delle teste della Bestia Bicefala.
Don
Lorezin di Peripsia.
“Cosa
ho fatto?” era riuscito a boccheggiare, spaventato.
L’uomo
che lo aveva afferrato per la collottola non lo aveva lasciato per un
momento,
“Che il principio vi si pigli, lo dobbiamo riportare in
città” aveva gridato
forte. Non c’era più calma nella sua voce, ma
genuina preoccupazione. Lippo
aveva sollevato lo sguardo, prima del viso dell’uomo aveva
riconosciuto, sul
cuore, cucito, la testa di una volpe di profilo.
La
paura lo aveva invaso di nuovo, diversa da quella che l’aveva
attraversato
rispetto quando aveva visto il cinghiale, era stato qualcosa di
più atavico, di
più viscerale.
Perché
era arrivata con la paura un altro sentimento: la consapevolezza.
Lo
avrebbero ucciso.
E
avrebbero ucciso tutti quanti.
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Capitolo 4 *** PARTE PRIMA; TITOLO I; CAPITOLO I ***
Carta
del mondo (facciamo 1:5 000 000?): https://www.deviantart.com/rlandh/art/The-known-word-949275889
Carta
del Pregiatissimo Impero dei Fiori, con tutte le
“regioni” notevoli: https://www.deviantart.com/rlandh/art/High-Valuable-Empire-of-Flower-949281108
Presto
una carta ‘geografica’.
Note
in fondo.
T
I T O L O I : I G I O C A T O R I
C
A P I T O L O I
L E S
T O R I E A V
O L T E S
O N O S O
L O
S T O R I E
Quella
notte la sua marra era venuta a trovarlo in sogno.
Non era una cosa che
succedeva troppo spesso, però era stato ugualmente bello,
come poche cose che
gli erano capitate.
Il
viso della donna era
stato avvenente, giovane, fresco come una rosa fiorita, la carne scura
e gli
occhi scintillanti viola, come gioielli. Come piaceva ricordarla a lui,
come
piaceva ricordarla l’ultimo giorno che l’aveva
vista felice, con un sorriso
gentile a delineare il viso,
pieno di amore ed
allegria.
Quando aveva aperto gli occhi scontrandosi con il colore opaco del
soffitto,
aveva deciso che quel sogno doveva essere un buon presagio.
Usualmente,
quando sua madre, si palesava nei suoi sogni, parlava solo per enigmi o
dava
voce a quelle angosce profonde, che non aveva il coraggio di dire la
alta voce,
ma che avvelenavano il suo cuore e la sua sicurezza. Quella volta la
sua marra
però non aveva aperto bocca, ma era rimasta lì,
con quel suo sorriso pieno di
gioia ed amore, con le mani aveva accarezzato le sue guance, con le
nocche,
delicata come faceva quando lui era bambino. Ebbe quasi,
l’impulso di piangere
a quel ricordo, così indistinto.
Non
era rimasto a lungo del meriggiare del suo ricordo, ma
perché con brutalità
quasi onesta, era stato riportato con vigore nelle sue carni.
“Devo vomitare”
aveva dichiarato Iren, non lontano da lui, la sua voce era crepitate,
come il
rumore di un fuoco che si concedeva gli ultimi schioppetti prima di
esaurirsi.
Lui
si era voltato, con una certa insofferenza, osservando il suo compagno.
Iren
era steso sull’altro giaciglio della stanza, uno strapunto
imbottito di fieno e
paglia, sostenuto da una struttura di legno malandata. Iren era
più sciupato
del legno stesso, era bianco sul viso come un cadavere e
l’aspetto incantevole,
quasi divino, era tormentato da occhiaie viole, che infossavano gli
occhi nel
teschio.
“Dovresti
smetterla di bere il Latte d’Uccello, allora” aveva
risposto venefico lui,
osservando senza muoversi i movimenti di Iren, che si era rovesciato
giusto in
tempo, per far sporgere il viso dal letto e rimettere il contenuto del
poco che
aveva consumato la luna adiacente.
La
padrona della taverna non sarebbe stata contenta di dover tirar via
quello
schifo dal pavimento.
Iren
aveva tossicchiato ancora, un filo di bava era scivolato dalle sue
labbra
screpolate, poi si era rovesciato sulla schiena, stanco, aveva puntato
la sua
forza nei suoi gomiti ed aveva cercato di premersi con forza,
così da potersi
sollevare almeno in una posizione seduta; un’azione che
sarebbe stata scivolosa
e semplice, per Iren era stata ardua come la scala di una montagna.
Il
velo aveva fiaccato il suo corpo, aveva drenato ogni sua energia, lo
aveva
ridotto ad un fantoccio di cera e paglia; eppure, in qualche modo, che
sorprendeva
lui, senza capire come, riusciva a mantenere quell’altolocata
bellezza divina
di cui era stato investito come figlio del destino. “Lo
so” aveva confessato
alla fine Iren, con una voce sottile come un filo d’aria.
Lui
si era tirato in piedi, senza particolare sforzo, certo la stanchezza
del
viaggio pesava sulle sue spalle, come un macigno, ma era più
resistente e sano
di Iren. “Però continui” aveva detto
stanco, di quella conversazione, mentre si
apprestava a raggiungere il suo amico per aiutarlo a mettersi in piedi.
“Non fraintendermi, non mi importa nulla se un Mani Morbide
come te decide di suicidarsi”
gli aveva detto. Iren aveva riso di lui, con gusto, “Non sei
credibile, Saij”
lo aveva rimproverato, con gusto.
Aveva ragione, ormai, dopo tutto quel tempo, si era affezionato
incredibilmente
al suo compagno di viaggio, non era certo che avrebbe pianto se fosse
morto, ma
perché Saij non era fatto così, ma avrebbe
sentito il lutto premere sul suo
cuore, per le sorelle ad avvenire, fino alla fine della sua vita
naturale e se
esisteva una vita oltre, per davvero, lo avrebbe addolorato ancora.
Ma
Saij non avrebbe mai dato la soddisfazione di riconoscerlo ad Iren,
perciò
aveva scosso il capo, “Però, non ho voglia di
portare il tuo corpo in giro e di
vederti sprecare i nostri soldi, anche perché dubito che
Theresia prenderebbe
bene il fatto che ci siamo giocati il suo investimento in
veleno” lo aveva
rimproverato, con un tono al vetriolo.
“Affronterei
più volentieri il Principio in carne e ossa
che dovermi confrontare
contro Theresia inviperita” aveva concesso Iren, con un
sorriso carico di
divertimento, ma su cui la debolezza premeva senza pietà,
“Garlio non si
tirerebbe indietro alla sfida” aveva replicato secco
l’altro. Quel piccolo
accenno di sorriso sul viso del suo compagno era morto.
Saiji
aveva recuperato una bisaccia d’acqua e l’aveva
passata a Iren, certo che
l’arsura stesse consumando la sua gola ed il suo corpo.
“Quando
partiamo?” aveva chiesto Iren, dopo un generoso sorso
d’acqua. I suoi occhi, in
quel momento, erano di nuovo in possesso di un guizzo di luce, di vita,
ma
Saiji era certo che presto il veleno avrebbe ripreso il controllo. Il
Latte
d’Uccello era una bestia malefica, seduttrice.
All’inizio, il latte addolciva
la mente, lasciandola vuota e leggera, Saiji l’aveva provata
una volta – quando
era poco più di un bimbetto con il corpo ardente di subbugli
ed il desiderio di
assaggiare tutto il mondo – e non avrebbe potuto descriverla
in altro modo che
il galleggiare di un corpo in acqua. Sospeso nel vuoto.
Poi,
però, la dolcezza si essiccava e restava solo il veleno a
corrompeva il corpo,
piegando l’animo, asciugando la forza, lasciando anche degli
uomini che era
forti e baldanzosi, nulla più che gusci. Un tempo Iren era
stato arrogante, sì,
ma anche zelante, dirompete e chiassoso, così lo ricordava,
Saiji durante la
Vivace di troppe sorelle prima. Guardandolo in quel momento, di quel
giovane,
non vedeva più niente, il suo amico era sfibrato, piccolo,
spettrale.
“Appena,
starai bene” aveva risposto Saji.
“Sto
bene” aveva mentito Iren, “Racconta le tue palle a
qualcun altro, Mani Morbide”
lo aveva rimproverato, senza cattiveria, Saiji. Con gli occhi lo aveva
Iren lo
aveva maledetto, erano due pozzi neri, due voragini che affondavano
nella
terra, nel buio più profondo, così neri che la
pupilla e la sclera erano
un’unica macchia. Il bianco, però, era lucido e
screziato di rosso, prova del
pianto che doveva aver tormentato il suo sonno.
“Sto
bene” aveva ripetuto il suo amico.
Saiji
lo aveva guardato con sufficienza, “Quando lasceremo questo
villaggio, dovremmo
attraversare la Macchia e non so quanta brughiera prima anche solo di
incrociare lo sguardo con il Dironte. Saremo ad Azalea tra quattro
lune, se
spingeremo i cavalli al massimo. Ma per partire devi essere in forze o
un
viaggio breve, rischiamo di farlo in una decimana”
lo aveva avvertito.
“Posso farcela. Possiamo farcela” lo aveva
rassicurato Iren, battendo la pianta
per terra, a simboleggiare la sua rinvigorita forza.
“Vediamo
di mangiare prima” aveva commentato Saij, stanco.
Iren
lo aveva guardato con un eccessivo pallore nel viso, piuttosto
insoddisfatto
della proposta, visto che il suo precedente desco imputridiva sul
pavimento.
Avevano
fatto colazione nella stessa locanda dove si erano alloggiati per la
notte e
dove avevano consumato la cena la sera prima. Il proprietario era stato
poco
felice di avergli intorno, ma il tintinnio di un paio di belle damigelle
avevano
curato il suo malumore e dente avvelenato.
Questo
non aveva impedito all’uomo, vecchio, canuto, rancido e sbagliato,
di
guardarli di sottecchi, velenoso come un serpente, quando li aveva
visti
prendere le scale e scendere nella sala da pranzo. Saiji era stato
abituato a
quello sguardo per tutta la sua vita e Iren era semplicemente troppo
fiacco per
notare alcun’altra cosa che non fossero i gradini da
percorrere per non
scivolare.
“Buongiorno,
buon uomini” li aveva salutati cortesemente la locandiera, la
metà degli anni
del marito e due volte più brutta. Aveva il viso come quello
di una rana, con
una bocca larghissima piena di denti storti, ma sorrideva con gioia ed
aveva
occhi verdi come campi, che per Saiji erano notevoli.
“Buongiorno mia signora”
aveva detto cortese lui, come era stato educato, prima di comunicare il
suo
interesse nel voler mangiare.
Ci
avevano guadagnato dei globuli fritti nello strutto e del pane
scottato,
accostato al formaggio erborinato morbido. “Non mi
abituerò mai a questa
cucina” aveva dichiarato Iren con espressione sdegnosa,
mentre si versava una
bella coppa d’acqua per lavare dalla lingua il resto del
Latte.
Erano
diverse sorelle, ormai, che Iren non sedeva più al desco
degli dèi, ma viveva
fra loro, uomini, normali. “Puoi irrobustire la carne di un manimorbide,
ma non puoi togliere la morbidezza dal suo petto” aveva
dichiarato Saij, dando
un morso soddisfatto al pane. Friabile. “Parli come
l’ultimo degli zotici, ma
sei cresciuto in un bel castello anche tu” lo aveva
puntellato Iren.
Saiji
aveva sentito il sapore del cibo sotto i denti farsi fastidioso come la
cenere
a quel pensiero. “Non ero un signore, io” aveva
replicato, sottile, come un
ringhio. L’altro lo conosceva ormai, così bene, da
aver interpretato nel suo
tono perentorio un invito a non riprendere più
l’argomento.
“Oggi sei più di malumore del solito”
aveva convenuto alla fine, cedendo ai
globuli. Saiji
aveva osservato come il
suo amico si nutriva, con la stessa veemenza di un passerotto davanti a
briciole di pane. Poco, a spizzichi e senza gusto, come se ogni cosa
sulla sua lingua
sapesse di marcio, quello non era opera della vita raffinata in cui era
vissuto, ma del veleno di cui si nutriva.
“Quanto
altro Latte hai?” aveva chiesto Saiji con un tono basso, per
non essere udito,
“Non ne ho più” aveva ammesso,
“Ieri ho bevuto l’ultimo sorso in compagnia di
un poveraccio” aveva raccontato tremolante. Saiji aveva
deciso di non voler
indagare oltre su quel che Iren avesse fatto, rimanendo fedele alla
decisione
che aveva preso quando l’aveva visto allontanarsi la sera
prima – e quando
l’aveva sentito rientrare. “Questo non ci
voleva” aveva detto invece, Saiji
aveva sollevato un sopracciglio scuro, “Comprane
dell’altra” aveva berciato,
allungando una mano nella parte alta della blusa, che portava
sbottonata per
estrarre un sacchetto. “Mi prendi per il culo?”
aveva sibilato Iren, con occhi
cattivi, “Non mi va che sprechi i soldi per una cosa che ti
fotte la testa e ti
uccide. Ma sono realista, se smetti di consumare il Latte
d’Uccello, ora, tra
due giorni sarai in preda alla Sregolatezza e … io non sono
Adda” aveva
dichiarato con una certa esasperazione.
Iren lo aveva guardato, non c’era più cattiveria
negli occhi, ma solo triste e
pesante consapevolezza, “Preferisci che io sia sdregolato
ad Azalea?”
aveva domandato Iren stanco. “Sì, tanto ho
l’impressione che Azalea sarà una
lunga permanenza” aveva considerato con consapevolezza Saiji.
Sperava di poter smobilitare presto dalla città, ma aveva
vissuto abbastanza
sorelle da realizzare che non aveva alcun senso avere aspettative
troppo alte.
Iren aveva annuito, stanco, prima di prendere un’altra
generosa sorsata d’acqua,
“Io penso di poter resistere fino alla città;
negli ultimi tempi ho ridotto le
quantità” aveva ammesso.
Saiji
non ci credeva affatto, ma sapeva dove i pensieri del suo amico stavano
virando. “Come ti pare. Se ti sentirai male e cadrai
giù da cavallo, ti lascerò
lì” aveva stabilito, alzandosi dal suo posto, con
leggero fastidio. Sapeva cosa
voleva Iren, voleva essere lucido, consapevole ad Azalea, ma Saiji non
gli
avrebbe permesso comunque di fare ciò voleva. Esisteva un
tempo e un luogo per
essere emotivi, supponeva, ma non era quello.
Iren
lo aveva guardato alzarsi, aveva chinato gli occhi sul suo misero
pasto, “Mi
dispiace di essere un pasticcio” aveva confidato. Quel
discorso era più stantio
del latte rancido, negli ultimi tempi, Iren faceva quel discorso,
quella
lamentale, spesso. Se Saij, vigliaccamente, aveva apprezzato la vena di
commiserazione che aveva cominciato ad affliggere Iren, nei primi
tempi, negli
ultimi quasi rimpiangeva il suo compagno quand’era un Mani
Morbide fatot e
finito che si confrontava contro un mondo ostile – fuori
dalle confortevoli
mura di Palazzo d’Edera. “Sono stanco”
aveva ammesso, allungando una mano, per
metterla sulla spalla del suo amico, in un patetico gesto di affetto.
Saiji,
però, era davvero stanco e seccato da Iren, dalla sua vita,
dall’eterno girovagare
in cui erano costretti.
Anche
a lui a volte mancava casa, quella dei suoi genitori, quella dei suoi
tutori,
la vecchia camerata della Corda. Ed era anche stanco di Iren, spaccato
a metà
tra l’euforia e la catatonia in cui il Latte
d’Uccello lo guidava. “Che il
Principio ci si pigli” aveva replicato il suo amico, in una
bassa preghiera,
verso il nulla. “Non temere lui, temi me” aveva
replicato di riflesso Saiji,
senza indugio, senza pensiero, senza controllo. Una vecchia, vecchia
ferita...
Iren
lo aveva guardato, con occhi liquidi, “Degno di Sir
Moria” aveva replicato.
Sì, aveva pensato Saiji, senza avere la
forza di dirlo ad alta voce.
Per
la gioia del locandiere avevano serrato i cavalli non troppo tempo
dopo, non
senza aver lasciato delle monete sonanti per il disturbo ed altri
viveri. Il
viaggio, come temeva Saiji era ancora tremendamente lungo. E la
conclusione era
ancora lontana, non che lui sperava di arrivarci vivo.
Saiji
aveva concluso gli ultimi affari con il locandiere, sentendo ad ogni
moneta
scucita, nella sua testa, una voce infastidita sullo sperpero; poi
aveva
raggiunto il compagno.
Iren
aveva assicurato bene il morso della loro mula, una creatura
brutalmente
instancabile. Il suo amico, anche in quel gesto, semplice, aveva mani
tremolanti e stanche, ma cercava di nasconderlo dietro un portamento
elegante,
degno della sua educazione.
Il
suo modo di fare, ed
il suo aspetto, avevano attirato anche l’attenzione di alcune
ragazzine del
villaggio, con il viso bello della fanciullezza. Iren era bello.
Era
alto, con gambe lunghissime e spalle larghe, che lo faceva apparire
perfettamente equilibrato. Aveva occhi nerissimi e capelli corvini,
così scuri
da apparire come inchiostro rovesciato sulla pergamena. Aveva una
carnagione
chiara come il cotone, eredità di una bianchissima madre
ghaadiana – non che
volesse dire molto, Saiji aveva avuto un padre della stessa stirpe,
bianco come
la neve. Ed era perfetto, come tutti i semidei di quel mondo, i bambini
destinati, i figli benedetti del Dio-di-ogni-cosa-buona.
Sapeva che sul
petto, sul cuore, fiori perfetti, di una bellezza assoluta, erano
fioriti.
Per
tanto tempo, avevano cresciuto, il suo amico con l’assoluta
convinzione di
essere nato benedetto – e per un bel po’ di tempo
avevano avuto ragione.
“Hai
legato la mula?” aveva chiesto,
“Sì” aveva risposto Iren, passando la
mano
sulla testa dell’animale, per dargli una carezza.
“Lei è meno cocciuta
dell’altra Adda, sai” aveva commentato con voce
allegra Iren, voltandosi verso
di lui. “Non credo sia possibile esserlo di
più” aveva replicato Saiji con
tranquillità. “Stavo pensando una cosa”
aveva cominciato a dire Iren, “Cosa? Qualcosa
come tirare fuori i cavalli dalla stalle?” aveva domandato
retorico.
“Sta
notte ti ho sentito ripetere la parola di marra, in
un sonno agitato”
aveva spiegato Iren, con tranquillità. “O davvero?
Sei riuscito a sentirmi
parlare?” aveva chiesto Saij genuinamente confuso.
Pensava
che il Latte d’Uccello avesse offuscato ogni suo possibile
raziocino, “Quando
sono tornato, stavo ancora bene” aveva provato Iren,
grattandosi il capo.
“Marra
vuol dire madre, in eosiano. Non mi va di parlare, non sono te che
riempi ogni
posto con le tue stronzate famigliari” aveva ringhiato Saij.
Iren
parlava della sua vita: del tempo a Palazzo d’Edere, di
quello breve all’Akadais,
perfino di quello a Palazzo Cama; ovviamente della sua famiglia, della
sua
madre ghaadiana con un sorriso di vetro, nata nella polvere ma anima
condivisa
del Signore suo padre, uomo distante e complicato, della sua matrigna
arcigna,
moglie legittima, e dei suoi fratelli, soli lucenti della sua infanzia.
Parlava
della vita che aveva avuto prima di Saij con parole piene di amore, ma
grondanti di malinconia, rammarico e dolore. Anche lui provava lo
stesso
sentimento, per la sua famiglia ormai perduta, ma non riusciva a
parlare, non
come Iren.
Era
una ferita che ancora in quelle lune doleva come una pugnalata nel
petto.
“Prendo
i cavalli” si era congedato Iren, alla fine.
Saiji
lo aveva visto allontanarsi, e solo dopo questo, una ragazzina giovane,
forse
più piccola di ottanta sorelle, era venuta da lui, con passo
allegro, ma
deciso. Era assolutamente fioriana, come ne Saij ne Iren avrebbero mai
potuto
esserlo, con la carnagione olivastra e i capelli scuri come corteccia
bruciata,
mossi come le onde leggere sulla costa sabbiosa del mare calmo.
“Scusate
se vi disturbo, signore; voi siete lo straniero che dormiva dal Vecchio
Alm?”
aveva domandato lei con voce sottile e gentile, Saij l’aveva
guardata e quando
i loro occhi si erano incontrati lei aveva distolto lo sguardo.
“Non sono uno
straniero” aveva risposto con un leggero fastidio, non era
una menzogna, non
completamente, ma viveva da così tanto tempo
nell’Impero che non poteva
considerarsi altro se non un fioriano. Parlava la loro lingua,
imprecava il
loro male, combatteva con loro e per loro.
Eppure,
sapeva, che il suo aspetto l’avrebbe tacciato fino alla sua
morte come
l’invasore. Aveva avuto un padre ghaaterio – come
Iren aveva avuto una madre –
ma la sua marra era eosiana, scura come la cannella e con gli occhi
lunghi e
vivaci e sapeva che il suo aspetto era una eredità della
donna.
“Ma non siete di Piccolo Pulvino” aveva ribattuto
la ragazza con tenacia,
riportando gli occhi su di lui. Aveva iridi nocciola, era sbagliata,
come
Saiji, non troppo, aveva orecchie un po’ sporgenti, denti
accavallati sul
davanti e narici leggermente grosse, abbastanza perché
all’occhio saltasse
l’incertezza. “No, quello no, sono di vicino Città
Viola, sai dov’è?”
aveva risposto scostante. Non era nato lì, ma ci aveva
vissuto fino a che non
era stato grande abbastanza per indossare la corda di spine.
“Da
qualche parte al nord, credo” aveva risposto lei,
“Una volta il mio maestro ha
provato a spiegarmi una cartina, ma l’impero è
vasto, ha tanti nomi e io non so
leggere” aveva replicato senza perdere mordente lei.
A
Saiji aveva ricordato la sua amica Adda.
“Che
vuoi? Lezioni di geografia?” aveva replicato, “No,
io volevo sapere se il
vostro compagno, lui, ecco sul petto ha due rose canine di un arancio
tiepido”
aveva provato lei, nel dirlo aveva di nuovo chinato lo sguardo ed il
viso si
era tinto di un rosso infuocato.
Saij
aveva riso malevolo di quella scena, “Oh” aveva
dichiarato, “Ho sentito che quando
qualcuno vede la sua anima condivisa, ancora prima di sapere il suo
fiore, lo
sente. Lo sa. Per questo non importa quanto gli eretici si mutilino, il
giusto
sentiero è più chiaro e luminoso delle Stelle
Gemelle” aveva raccontato lei,
con voce piena di titubanza.
“Le
storie a volte sono solo storie” aveva replicato Saiji, che
da un lato era
tentato di divertirsi alle sue spalle e dall’altro non era
mai stato un uomo
crudele. “Ma io lo ho sentito, come un crampo nello stomaco,
come un fuoco che
mi ardeva sotto la pelle. All’inizio pensavo fosse solo una
sciocca infatuazione,
il vostro amico è bello, ma di uomini belli, ne ho
visti” aveva dichiarato lei
con vigore, tornando a guardarlo. “Non facciamo questo posto
degno di un così
vivida frequentazione” le aveva risposto.
Lei
non aveva demorso, “Lui deve essere la mia anima
condivisa” aveva stabilito
imperiosa lei. Saiji le aveva sorriso stanco,
“Bambina” l’aveva richiamata,
senza dolcezza, “Il mio amico è un uomo
benedetto” le aveva detto, “Per
questo ti senti così attratta, avrai visto uomini belli, ma
non ne hai mai visto
uno così” le aveva spiegato, paziente.
Iren
era come fuoco e loro, uomini mortali, semplici falene. Lei aveva
spalancato
gli occhi scuri, colpita, “Un figlio del destino!”
aveva ammesso con una voce
sottile ed alta, sconvolta, voltando lo sguardo dove Iren era scomparso.
Non
poteva essere la sua anima condivisa, poiché lei, carina
quanto potesse essere,
rimaneva terribilmente umana. Era rarissimo che due anime condivise
appartenessero a due stirpi così diverse.
“Non ho mai visto uno!” aveva dichiarato poi,
bramosa, “Sono eccezionali solo
le prima volte, dopo del tempo, diventano come uomini
qualsiasi” le aveva
risposto Saiji.
Lei
si era voltata oltraggiata verso di lui, “Blasfemie. Se
fossero come noi, non
sarebbero benedetti! Loro sono i giusti” aveva dichiarato con
vivace sicurezza.
Saiji
le aveva sorriso.
“Milla,
screanzata torna qui” l’aveva richiamata un uomo,
che le somigliava bene, era
una versione più vecchia della ragazza, attraente per la sua
età, con i capelli
grigi come fili d’argento ed occhi scuri. “Vai, non
sai che gli eosiani possono
rubare l’anima di una persona con un solo sguardo?”
le aveva detto Saij,
ironico. Milla che si era irrigidita alla chiamata del padre, si era
voltata di
nuovo verso di lui, “Pensavo aveste detto che non eravate
straniero” aveva
replicato.
“E
voi credete a tutto quello che vi viene detto?”
l’aveva presa in giro lui, la
ragazzina era avvampata di nuovo, questa volta per una vergogna meno
romantico,
“Comunque non sono straniero, ma sono un eosiano”
aveva precisato. Milla lo
aveva guardato di nuovo, “Siete amico di un figlio del
destino, non potete
essere un ladro d’anim” aveva stabilito la
ragazzina, prima di congedarsi, con
riverenza, “Obbligata” aveva aggiunto ed in tale
maniera lui aveva risposto e
raggiungere il padre che irato l’aveva ragguardata della sua
troppa
irriverenza.
Milla doveva aver detto qualcosa al signore, perché il suo
inveire s’era
calmato, con l’incide ed il medio della mano destra si era
toccato due volte il
petto ed una la testa, nel segno sacro del Giusto Sentiero.
Iren lo aveva raggiunto nella strada, tirando i due cavalli. La femmina
Cremello
con la ringhiera bianca come il latte, grandi occhi neri. Era grande,
con gambe
forti e resistente, degna della sua origine ferriana. Era
mansueta e si
faceva condurre da Iren senza colpo-ferire, d’altronde era la
sua cavalcatura.
Legata alla sella della femmina cremello c’era la mula, con i
loro bagagli
legati sulla schiena.
L’altro cavallo era un castrato – che non aveva
perso il suo carattere burbero
ne difficile - più
piccolo ma svelto del
cremello, era un bastardello roano, proprio come Saiji. Iren aveva
dovuto
trascinarlo con forza, perché quello seguisse
l’andamento richiesto.
Quando
aveva afferrato le briglie del suo rissoso amico, quello aveva dato
cenni di
placidità, “Vuoi sgambettare un po’,
Tzatza?” aveva detto, posando la mano sul
muso. “Che mi sono perso?” aveva chiesto Iren,
“Ti ho visto parlare con una
ragazzina?” aveva chiesto senza vergogna. “Come
d’abitudine, voleva sapere di
te del tuo fiore” aveva replicato Saij. Il suo amico si era
irrigidito, “E che
gli hai detto?” aveva chiesto poi, “Che sei un
invertito e siamo amanti” aveva
risposto lui, il viso già bianco, per carnagione e
stanchezza di Iren, si era
fatto ancora più cadaverico.
“Santissimo
Iddio di Ogni cosa giusta, tu sei proprio lama e scudo del
Principio!” aveva
risposto esasperato Iren.
Non
ci avevano messo molto ad imboccare la strada per la foresta, ne per
raggiungere la Macchia, Saiji avrebbe voluto evitarla, i boschi non
erano mai
amici degli uomini, erano una risorsa necessaria e allo stesso tempo
erano
piccoli regni appartenenti ai non-uomini. Saiji non credeva
nell’esistenza
delle genti piccoli, degli elfi, delle fate e tutto quello che
concerneva gli
abitanti ideali delle foreste, ma credeva nei puma, nei lupi, nei cani
selvaggi
e le altre bestie che si annidavano lì dove erano reali
incontrastati, dove
l’Impero non aveva potere.
“I
boschi non mi piacciono troppo, da ragazzino, mio padre e mio fratello
mi
portavano sempre a caccia nelle foreste, per tutto il tempo tremavo sul
cavallo” aveva dichiarato Iren, guardandosi intorno, quasi
freneticamente,
aspettandosi di vedere giungere un brigante armato fino ai denti
desideroso di
ucciderli, “Anche se, be, erano effettivamente le uniche
volte che mio fratello
mi faceva lasciare casa nostra”.
La prima volta che Iren aveva cominciato a parlare così a
ruota libera della
sua famiglia, era avvenuto dopo molte lune di viaggio, quando era
assuefatto di
Latte d’Uccello – prima era stata un lamentoso manimorbide
impostato,
quello aveva segnato un cambiamento fra loro – poi non aveva
più smesso. “Prima
che morisse potevo andare a piangere da mia madre, che non volevo. Lei
era
l’unica che avesse un qualche potere su mio padre
…” aveva raccontato Iren, con
quel tono dolce, pieno di malinconia.
Saij
aveva roteato gli occhi; sapeva dove il suo amico lo stava guidando,
con la
stessa mano tremolante con cui conduceva la cavalla cremello, ma Saiji
non era
una bestia mansueta. Ci avevano provato, lo avevano rimproverato, lo
avevano
punito, picchiato, ma non era mai riuscito a dominarlo, non del tutto
– anche
quando era un soldato.
“Sì,
la scorsa notte ho sognato mia madre, ogni tanto mi capita. Sono umano
anche io”
aveva commentato con voce spenta Saij, “Tanto sapevo che
volevi arrivare qui”
aveva aggiunto, conoscendo, ormai, per filo e per segno la mente del
suo amico.
Iren aveva emesso un verso strozzato un sussulto, lui si era voltato
per
osservarlo, con la coda dell’occhio.
Iren
non aveva pronunciato mezza parola, ma lo guardava attento, con le
labbra,
screpolate, schiuse e gli occhi scuri scintillanti di
curiosità. Poi, dopo il prolungato
silenzio a cui Saij lo aveva costretto, Iren aveva parlato;
“Non sei obbligato
a parlare, lo sai” aveva provato a mentire, “So che
non apprezzi parlare della
tua famiglia, prima dei Ramberra; Adda mi manca anche per questo,
riempiva ogni
silenzio di parole” aveva ammesso, nostalgico.
“Adda
ci affogava nelle parole” aveva commentato acre Saiji, anche
se con parole
avvelenate, lui intendeva la medesima cosa del suo compagno: mancanza.
Adda
era stata la terza
stampella di uno sgabello improbabile.
“Non so come fosse
possibile per una cresciuta come una serva, abituata a sentire
più il bastone
che i suoi pensieri avesse un ardore così
sfacciato” aveva raccontato con
giusto divertimento.
“Ho
sempre pensato che all’Akadais vi
formassero per essere uomini acuti.
Tu, però, sei una rapa. Adda non era una lavapavimenti e
l’avranno colpita tre
volte con un bastone per punizione” aveva ricordato Saiji,
con boria e noia
nella voce. Ricordava come un eco distante nella memoria, la prima
volta che
l’aveva vista. Erano bambini ambedue. Riusciva a rievocare
benissimo,
perfettamente, come una pittura la prima volta che aveva visto Iren,
elegante
ma pieno di livore, troppo ardito e troppo audace, ma non Adda.
“Una volta lo
ho fatto fare io” aveva dichiarato Iren, con voce incolore,
“Non ricordo cosa
mi avesse detto ma mi aveva infastidito” aveva considerato il
suo amico, il
tono della sua voce era pregno di dolore e di disgusto verso
sé stesso. Saiji
si era voltato verso di lui, sapeva di non avere occhi pieni di
giudizio, dopo
tutte quelle Lune e tutte quelle Sorelle sembrava infantile covare del
rancore.
“Ebbene
sì, un tempo potevi far fustigare una donna con il lusso di
dimenticarti il
perché” gli aveva detto, senza colore, Saiji.
Anche lui, da ragazzino aveva
provato il tocco ruvido della cinghia, perché si era
permesso – permesso di
pensare di poter – di fare qualcosa che non gli
era dovuto. Nel corso della
sua vita aveva subito frequenti e dolorose ferite, che
l’avevano ridotto a nulla
di più che un corpo lancinante, eppure, ricordava
vividamente la prima volta
che Moria lo aveva colpito con la cinghia, sotto le scapole.
Iren
aveva sussultato all’ultimo commento di Saiji, lo aveva
guardato con gli stessi
occhi spaventati di un cerbiatto, la sua frase lo aveva colpito sul
fiore come
una freccia, brutale. “Iren, togli il cuore dalla graticola,
non era una
condanna” lo aveva rimproverato. “Però,
hai ragione! Ci
sono tante cose che mi mancano, ma non come ero. Preferisco dormire
sulla nuda
pietra e nutrirmi di radici che tornare ad essere il tipo
d’uomo che fa
picchiare una donna buona come Adda, perché ha un carattere
così fragile da
sentirsi turbato da una parola” aveva dichiarato
con prontezza Iren, con la
stessa sicurezza e serietà di un giuramento cavalleresco.
“Anche, perché Adda,
ora, ti picchierebbe due volte più duramente”
aveva considerato Saiji, “Poteva
anche allora” aveva risposto Iren, permettendosi un sorriso,
stanco, che si
abbinava con i suoi occhi vacui.
A dividere il suo buon amico dagli schiaffi feraci che Adda, al tempo,
avrebbe
riservato per lui, era stato solamente il Giusto Sentiero, il posto che
il Dio
in cui credevano li aveva posti. Nati in luoghi, con sangue, diversi.
Confini
che in quegli anni si erano assottigliati come seta sottile.
C’era
stato un lungo silenzio, che si era addensato, pesante, tra loro.
“Cosa ti ha
detto tua madre? In sogno, intendo?” aveva chiesto poi Iren,
per rompere
quell’aurea che si era formata tra loro, aveva anche dato una
sferzata alla sua
cavalcatura, riuscendo ad affiancarlo.
“Quando
mi capita di vedere in sogno mia madre, lei è sempre piena
di vita, luminosa e
mi ripete che ogni cosa andrà sempre meglio. Ovviamente, lei
era un’ottima
bugiarda anche da viva” aveva raccontato Iren, quando Saiji
non aveva risposto
alla sua domanda.
In
quel momento, quando riversava tutte quelle parole nell’aria,
a Saiji aveva
davvero ricordato Adda e quella sua abitudine di chiudere ogni dito
d’aria con
le sue chiacchiere.
Iren
aveva continuato a parlare un po’, descrivendo con
più dovizia possibile della
splendida donna che doveva essere stata la donna che lo aveva messo al
mondo.
Hilde
Svevia.
Saiji non la ricordava affatto, sapeva di averne
sentito parlare, per quanto distrattamente, ricordava la Signora
Ramberra,
moglie del duca di Querce Grandi, così come i suoi figli,
chiamarla senza
grazia: la puttana di Chretyen.
Iren
aveva finito le sue chiacchiere, voltando il viso verso Saiji,
aspettando forse
la risposta ad una domanda che non aveva in alcun modo udito.
“La mia Marra non
mi ha detto nulla” aveva risposto, anche
se era certo che Iren non
avesse riproposto quella questione, “Ma è meglio
così, altrimenti sarebbe stato
presagio di sventure” aveva aggiunto Saiji. Il suo amico
l’aveva guardato, con
gli occhi scuri fissi, intrigato ma anche confuso, aggrottando le
sopracciglia,
perplesso da quella confessione.
Saiji
aveva permesso alle sue labbra di curvarsi in un sorriso genuino,
davanti
quell’incredibile perplessità. Lui era stato
educato, alla spada, allo scudo,
alla religione, per certi versi anche alla politica, quel tanto per
capire dove
fosse e a chi era d’uopo inginocchiarsi, mentre Iren era
stato educato bene,
dai migliori precettori, aveva studiato all’ Akadais,
era erudito nella
letteratura, nella politica e nelle lingue, talvolta Saiji aveva
l’impressione
che il suo compagno avesse una conoscenza universale –
finché non permetteva al
Latte di avere vinta sulla sua mente.
“Gli
Eosiani credono che il futuro sia sulla bocca dei morti. Quando un
defunto ti
appare in sogno e per profetizzarti quello che
avverrà” aveva spiegato
placidamente, poi aveva proseguito: “La mia marra ha il vizio
di palesarsi solo
per raccontarmi di nefasti presagi”.
Sul
viso di Iren si era dipinta un’espressione che Saiji non
credeva di avergli
visto in molto tempo, la stessa ingenua sorpresa che sembrava
contraddistinguere
i bambini. Era la stessa espressione che sapeva essersi cucito sul suo
volto
quando aveva veduto per la prima volta la Porta della Capitale.
L’innocenza di
qualcosa che si vedeva per la prima volta, da cui si era affascinati ed
ugualmente spaventati.
“Ebbene sì, anche gli eosiani hanno i loro credi!
Non siete l’unico gregge di
pecore. Ti confonde?” aveva chiesto Saiji, con un sorriso
cristallino sulle
labbra, divertito da quella reazione.
Iren aveva scosso il capo in un segno di diniego, i capelli corvini
erano
oscillati intorno al viso, “No, no. So che gli eosiani
credono nella Grande
Madre dal Cuore di Pietra, ai Cento Gradini e i Signori dei
Flutti” aveva
risposto poi, Iren, con un sorriso sghembo, per quanto affaticato sul
viso, a
rimarcare quell’enorme bagaglio di conoscenze che aveva
intessuto nel corso dei
suoi studi, “Tutti altri nomi per il Principio”
aveva rimarcato con un tono
pieno di divertimento, Saiji aveva sorriso di rimando. Un tempo quella
di Iren
non sarebbe stato un gioco, ma un fervido credo.
“Allora
perché quell’espressione da bimbo davanti al
miele?” aveva domandato Saiji,
quando il riso sulle sue labbra si era assopito. Gli occhi neri di
Iren, così
vacui e cupi, si erano accesi di una luce quasi viva, anche se per un
solo
secondo, prima che i dissidi del Latte tornasse ad affliggere la sua
mente; poi
gli aveva risposto: “A confondermi, Saiji, non sono i Credi,
ma tu che
ci credi!” aveva dichiarato senza indugio. Quasi solenne. Non
c’era più il riso
della battuta ad ornare il viso pallido, poi aveva aggiunto senza
malizia, ne condanna:
“Da che ti conosco … e son passate più
Sorelle di quanto mi piaccia ammettere:
non sembri mai credere in nulla!”
Saiji
era rimasto confuso da quella confessione, aveva sentito un fervente
disagio
salire dal suo ventre al suo petto, all’altezza del cuore,
lì dove sapeva ci
fosse la sua mutilazione. L’inevitabile prova, incisa, della
sua colpa. Aveva
dovuto sforzarsi di trattenere il movimento secco, istintivo, che
l’aveva
spinto a lasciare la mano con cui teneva una delle redini per posarla
lì, nella
mancanza.
Tante risposte erano vorticate nella sua gola, sulle sue labbra. C’erano tantissime cose in
cui Saiji credeva. Nella
disciplina, nella crudeltà senza fine degli uomini, nella
fame di potere dei
ricchi, nell’animo troppo gentile di Nervia, nel potere della
spada, dell’oro,
di tante, tantissime cose.
Dolci o crude che il mondo riservava.
Risposte
meno gentili, meno romantiche, erano gorgogliate fino alla sua bocca.
Sono un eretico, non lo sai? Si disse, che avrebbe
dovuto rispondere,
ricordando che quella nomea che era rimasta cucita sulle spalle,
assieme al
duro ferro della lama che aveva scavato la sua carne.
Lo sussurravano sempre, che era un eretico, e tra tutti i vezzeggiativi
con cui
l’avevano appellato, quella era sicuramente il più
gentile; senza-dio,
liberista, principista, immorale, bestia, Oscurante ed infiniti altri.
Ma
ogni risposta era morta.
Iren
era confuso, lo interpretava bene, dalla mancata risposta di Saiji.
“Io non …
volevo offenderti” aveva dichiarato, incespicando con le
parole, con il tono,
incerto. Gli occhi erano scuri, pieni di rimorso; forse il Latte aveva
avvelenato la mente, perché ricordava ancora bene lo
sprezzo, senza rimorso,
delle sue azioni.
Saiji
aveva scosso il capo, “Non sono fatto di cera, Iren, non mi
sciolgo per una
bruciatura” lo aveva rassicurato, prima di continuare:
“Inoltre ti sbagli,
moltissimo. Non credo negli dèi e vecchie leggende, come non
negli spiriti
delle foreste e della gentilezza, però, in qualcosa credo; nella
mia marra,
per esempio.”
E
in te e in Adda.
Փ
Bene.
Non
ho una beta, penso si sia visto.
Questo è l’ultimo capitolo pubblicato nella
giornata di oggi. Il primo-vero
primo capitolo, con il vero “eroe” riluttante di
questa vicenda: il Buon Saiji
ed il suo Sancho amico Iren.
La
storia probabilmente è ancora fin troppo
“abbozzata” e dovrei probabilmente
rimaneggiarla, comunque ho deciso di pubblicarla.
Un
grazie di cuore a Larcheex per il sostegno dimostrato.
Detto
questo: la storia è lunga e inutilmente complessa, ha un
numero imbarazzante di
personaggi e vorrei dire anche di intrecci, ma in realtà non
credo di essere
così brava nel comporli. Pregiatissimo Impero dei Fiori
è una parodia
imbarazzantissima del Sacro Romano Impero, ci tenevo a dirlo
perché ne sono
particolarmente orgogliosa.
Più avanti, probabilmente, vi spiegherò anche
come è nata …
Comunque,
la storia è qui, io sono qui. Spero qualcuno la legga.
Un
bacio
RLandH
|
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Capitolo 5 *** PARTE PRIMA; TITOLO I; CAPITOLO II ***
Non
ho una beta, help.
GRAZIE LARCHEEX
P A R T E P R I M A :
L ' I N V I O L A B I L E
T I T O L O I : I
G I O C A T O R I
C A P I T O L O I I
A M O N D I D I V E R S I. A S
P
E C I E D
I V E R S E
Adda
ricordava vividamente la prima volta che aveva visto una strega. Aveva
ventinove Sorelle,
ancora una bambina, nel corpo, meno nello spirito – eppure
mai prima di quel
momento si era sentita così piccola. Ricordava la strega in
maniera così
vivida, così come ricordava il terrore che aveva provato,
quasi atavico.
Intimo.
La megera non era come le aveva sempre immaginate, sì,
perché Adda aveva speso
del tempo nel figurarsele; esseri obbrobriosi, creature quasi amorfe,
dalle
carni calanti, con occhi infossati e sguardi spiritati. Creature
degeneri,
fiaccate e guastate per essersi fatte possedere dal Principio. Abiette
bestie,
imitazioni di esseri umani.
Eppure, davanti quella visione,
Adda si era dovuta
arrendere alla consapevolezza che la strega sembrasse una donna come
un’altra.
Aveva gli stessi seni, i fianchi tondi, due braccia, due gambe e
capelli. Nel
vederlì lì, nuda e contusa, era terribilmente
diversa dalle buone donne della
Città, diversa dalle fioriane. Però era una
donna, fatta di sangue e ossa come
tutte le altre.
Ricordava distintamente il segno della mutilazione, sul seno, sopra il
cuore,
dove avrebbe dovuto esserci un fiore, c’era una ragnatela
rosa.
Il marchio degli eretici: la Mancanza.
Una mutilazione vergognosa
Il segno del suo rifiuto al Giusto Sentiero e la sua adorazione al
Principio.
Dove gli uomini timorati del Signore-Delle-Cose-Buone potevano
sfoggiare con
orgoglio i loro petti fioriti, ricordo all’imperitura
adorazione del loro
destino, la strega scinta e senza vergogna aveva una ragnatela
frastagliata di
cicatrici, che scava la pelle fino alla carne viva.
E ciò che aveva scioccato e spaventato, Adda più
di tutto era pensare che
l’avesse voluto lei stessa, che avesse voluto privarsi della
giustizia,
allontanarsi dal cammino perfetto.
Forse aveva guidato lei stessa la mano che aveva condotto alla
mutilazione, che
aveva scavato la sua stessa carne.
Come si poteva odiare se stessi così tanto?
Adda aveva
provato repulsione, nitida, intensa, da stringerle lo stomaco come un
pugno e
terrore, lo stesso che provava quando camminava per gli angoli bui e si
guardava circospetta, non temeva i mostri ma gli uomini e la strega era
una
donna.
Ricordava di aver provato a distogliere lo sguardo, spaventata, sapendo
di non
poter fuggire lontano, ma sua sorella maggiore con una presa dura come
il ferro
di un’armatura le aveva preso il viso e l’aveva
costretta a guardare. ‘Non
distogliere lo sguardo dal male o penserà di poterti
ingannare’ le aveva
sibilato dura come la pietra.
E Adda aveva guardato – e ricordava, adulta, in quei momenti,
quell’istante con
tutta la sua vergogna.
Aveva visto mentre la donna contusa, scinta, rovinata si fasciava
trascinare,
senza neanche più la forza di opporsi, la pelle olivigna
scura, tormentata di
lividi e da percosse; l’avevano appesa per i polsi e
l’avevano lasciata lì,
nuda, distrutta alla mercè dell’odio degli odio e
degli occhi di tutti loro, in
attesa che morisse, soffocata dal suo stesso corpo e dal suo stesso
peccato.
Sua sorella l’aveva fatta restare in piazza a lungo,
così a lungo che le gambe
di Adda avevano cominciato a fare male, per lo stare in piedi.
E solo quando era sorta la luna, sua sorella si era decisa con vigore a
trascinarla
via e l’ultima immagine che Adda aveva avuto dalla strega
erano i suoi respiri
pesanti ed il tremore della sua carne e dopo tutto
quell’odio, quel timore,
quella vergogna un solo pensiero l’aveva invasa.
‘Avrà freddo’ e lo
aveva detto a sua sorella, che di rimando l’aveva
ricompensata con uno schiaffo a palmo aperto sulla guancia.
Adda era
uscita quella mattina pensando che avrebbe veduto una strega ed era
rincasata
sapendo di aver visto una donna … e non sapeva se quelle due
cose, all’ora,
potessero coesistere e se fosse stato possibile: come.
Era
diverso, in quel momento, mentre vedeva il suo riflesso sul metallo
lucido, con
la blusa slacciata che esponeva i seni pieni e floridi, di donna,
perché dove
un tempo sorgevano linee nere che riproducevano i contorni di due
brutti Aster,
appena stilizzati, quasi irriconoscibili come fiori, era lì,
evidente, la
Mancanza.
In quel momento, era Adda La Strega.
Ed avrebbe voluto scacciare quel ricordo dalla sua mente ogni volta che
si
vedeva riflessa in una superficie, perché sempre
più spesso nei suoi ricordi,
non era più la donna contusa che vedeva nuda ed appesa nella
Piazza Centrale
della Capitale, ma lei stessa.
Adda aveva
vomitato; subito dopo essersi alzata.
Aveva vomitato nella brocca in terra sigillata Peripsiana che
apparteneva al
sacerdote, che utilizzava per la messa del deciluna.
Senza riguardi, per
quel simbolo.
“Oh! Tu sei … hai insomma …
aspetti?” aveva chiesto una vocina alle sue spalle.
Adda si era voltata, scorgendo gli occhi pieni di terrore –
sì terrore – del
giovane Ampie, dietro le sue ciglia scure.
Adda aveva forzato un sorriso, accomodante, che però non
aveva raggiunto gli
occhi; “Credo, ecco, che sia colpa del vino della sacrestia.
Ieri notte potrei
aver ecceduto troppo” aveva dichiarato, “Non sarai
Zio tanto presto, tranquillo
Ampie” aveva aggiunto, riconoscendolo nella sua stessa voce
una punta di
menzogna.
Non pensava di essere pregna, era stata attenta, era sempre stata
attenta –
sapeva come doveva evitare quella condizione, era stata una delle prime
cose
che sua sorella le aveva insegnato quando aveva avuto il suo primo
sanguinamento, ‘Non farti piantare un mostriciattolo
in pancia e la tua vita
sarà meno miserabile’, le aveva detto.
Ampie si
era quasi strozzato con la sua stessa saliva all’ultimo
commento di Adda.
Lei non aveva perso il suo sorriso ed aveva sistemato il vaso
nuovamente sulla
tavolata di legno della stanza, dove era il suo luogo preposto,
ignorando il
lurido contenuto. Non aveva poi molto più senso, il
proprietario della casupola
– il parroco locale – non avrebbe mai fatto
ritorno, come la strega, della sua
infanzia, anche lui era stato appeso, ma per il collo ad un ramo.
‘Balla! Balla per i Volenterosi!’
avevano gridato tutti, con un certo ardore,
mentre guardavano il sant’uomo scuotere ogni parte del suo
corpo, nella Danza
degli Strozzati.
Adda non aveva mai, mai, favorito la violenza o le azioni violente,
perché era
stata curva e pecora, spesso dal lato sbagliato del bastone. Accettava
che venisse
utilizzata per la sopravvivenza, lei stessa ne aveva fatto ricorso, per
salvarsi la vita; eppure, non aveva mai approvato quello, le azioni
sanguinolente dei Volenterosi. Capiva cosa gli spingesse, le ferite
ancora
sanguinanti dei loro cuori – per tutte le streghe appese alle
piazze – ma non
quelle azioni così virulente.
Per molti anni non aveva neanche compreso le loro ragioni, trattandoli
alla
stregua di mostri abitanti degli incubi o di creatore ombrose; era
così
confortante per lei, seguire il destino già scritto,
perseguire un percorso già
tracciato, con le spalle ed il cuore libero, senza angosce ad affossare
la
mente, ma poi, poi … aveva aperto gli occhi.
E aveva visto, e aveva amato, quale meraviglia si nascondeva
lì dove regnava
l’ignoto.
Ma la morte, gratuita, d’un uomo – anche uno che
disprezzava – le sembrava
sempre così distante.
Il parroco non aveva abiurato, preferendo quelle certezza stantie alla
verità,
ma non era quello stesso il punto dei Volenterosi?
Scegliere.
Non era diritto di uomo rimanere confinato nella sua caverna e spiare
le ombre
delle foglie credendole Dio?
Aveva
lasciato la piccola casupola dell’uomo morto, niente di
più che una stanza
confortevole, dove tutto era condensato, per ciondolare sul mondo delle
prime
luci. La casa del parroco distava meno di dieci pasi dalla sua piccola
chiesa.
Un unico piccola stanza ad una sola navata, con un tetto a capanna,
semplice,
non lontano dal
centro del paesucolo.
Era una chiesetta Fuori-Mura, per una Santa, non ricordava se fosse
Santa
Milena dei Fiori Spinati o Santa Iovana del Martirio.
La porta di legno era stata già aperta lasciando la
possibilità a tutti gli
avventori di poter entrare nella casa del Signore-di-ogni-cosa buona.
La parrocchia era una lunga sala mono-navata, che terminava con una
parete
absidata. Era più grandi di quanto potesse apparire una
parrocchia fuori-mura,
ma sospettava che fosse guidato dal desiderio del paese di allargarsi e
raggiungerla. Forse la chiesa cittadina, interna, non riusciva
più a sopperire
il numero di abitandi che avevano preso a vivere in quella landa di
terra.
Adda era entrata guardandosi intorno.
Le panche di legno liscio erano state torte dalle due fine centrale,
sistemate
tutte da un lato, impilate disordinatamente in un piccolo fortino di
legno,
qualcuna era stata fatta a pezzi per la legna.
L’unica navata era stata reimpiegata per dormirci, in un
lungo tappeto,
composto da diverse coperte spiegate. Alcuni tendaggi erano tenuti su
da legni
e arredi di fortuna, erano state costruite anche vere e proprie tende.
Sembrava
una piccola miniatura delle Attuali Città del Peccato.
Dalle pareti della chiesetta erano spariti i dipinti sui legni
– bruciati nei
falò – negli affreschi sui muri erano stati invece
grattati via gli occhi. Il
catino absidale era stato ridipinto completamente, e lei pensava di
sapere da
parte di chi.
Dove prima erano stagliati Santi giudicatori, sorgevano invece uomini e
donni,
nudi come la terra, e mutilati sul petto. Si tenevano per le mani come
una
corona di gioiei, dritti come steli in un campo, con i piedi nudi
pestvano
fiori e sulle loro teste un cielo nero tormentato di piccoli puntini si
apriva.
Gli uomini dei dipinti sorridevano, rivolti agli avventori.
Riguardo agli arredi liturgici, erano stati impiegati in ogni modo
possibile,
tranne quelli di un certo valore, probabilmente messi al sicuro per
essere
usati in futuro, venduti, scambiati …
Adda non ci aveva badato poi molto, non aveva senso piangere sul
bruciato,
quando il fuoco s’era assopito, si era prodigata nel cercare
chi voleva:
Garlio.
Lo aveva trovato.
Garlio, fratello maggiore di Ampie, con le stesse lunghe ciglia scure.
Non era
solo un uomo, ma ero il loro sfavillante guidatore, in quel mondo
incerto e
ignoto. La loro torcia crepitante nel buio del dubbio. Garlio era oltre il presbiterio,
dietro il recinto di
transenne traforate – di marmo, troppo pensanti per essere
spostate – seduto
nel centro del catino absidale, sotto gli uomini nudi.
Si era avvicinata lenta, come nuotasse nella melassa,
aveva raggiunto lo
spiraglio tra le due transenne, quando si era sentita interrogata.
Garlio aveva sollevato lo sguardo, stava trafficando con delle
pergamene, “Ti
sei svegliata” aveva commentato lui, con un tono annoiato,
senza inflessioni.
L’uomo
apparteneva all’Impero – ed il suo sangue era
quello che veniva definito
istiano – sfoggiavano gli stessi colori:
l’incarnato di bronzo, i capelli neri
e gli occhi noccioli, ma, anche solo nel guardarli, sarebbe stato ovvio
anche
per un cieco realizzare che Adda e Garlio appartenevano a mondi
diversi.
A specie diverse.
Garlio non era un Mani Morbide, ma doveva essere un figlio del Destino
– senza
dubbio alcuno – perché era bello, in una maniera
netta, quasi estraniante. Un
uomo benedetto, così lo aveva chiamato il parroco,
prima della Danza degli
Strozzati, confuso e sconvolto da una tale eresia; che un uomo di quel
calibro
si fosse dedicato a tali immorali compagnie.
La carne di Garlio
tendeva a colore che
somigliava al bronzo dorato, di chi era baciato dal sole senza lo
schiaffo del
rossore o di una pelle troppo cotta, i capelli erano lucidi e corvini,
come le
notti buie, dritti come lame, senza nodi e confusioni, nonostante la
loro vita.
Scendeva il crino su un viso definito, preciso, bello da spezzare il
fiato,
arrivavano fino alle spalle ampie, spesse, fatte per sorreggere il
mondo. Aveva
degli occhi incredibili, nocciola, ma intensi, che sotto i raggi del
sole,
ricordavano il colore caldo dei campi di messi.
Adda non poteva dire che fossero i più belli che avesse mai
visto – perché si
era confrontata più di quanto ci si potesse immaginare con i
figli benedetti di
Dio – ma erano certamente i più intesi; da
scaldarle le gote, appena li trovava
scivolare su di lei.
Garlio diceva fiero di non essere un diglio del Destino, rifiutando
anche solo
di considerare l’esistenza di tale ruolo, di tale simbolo.
Non poteva essere
provato che lo fosse, come non lo fosse, d’altronde, oltre la
bellezza divina,
erano i fiori che segnavano i corpi a rivelare la natura di un uomo. I figli del
Destino avevano fiori
perfetti, splendidi, realistici, colmi di colori, così unici
da mancare quasi
agli uomini la possibilità di esplicitarli, bellissimi
(dipinti dalla mano del
più fine dei creatori: Dio-di-ogni-cosa-buona in persona) e
Garlio, come tutti
i volontaristi, aveva sul cuore i segni della Mancanza.
Dove Adda aveva un un reticolato di tagli mutili,
l’uomo aveva nascosto la
sua pelle distrutta sotto il nero dell’inchiostro, con il
monogramma degli Svincolati
– il suo segno.
A volte Adda sentiva la distanza tra loro fermarsi anche per quello,
dove loro
si definivano liberi, svicolati, autodeterminati, lei continuava a
pensarli:
volontisti e principienti.
“Adda”
l’aveva richiamato Garlio, con la sua voce gutturale.
“Ho avuto un incubo”
aveva risposto alla fine lei, nervosa, crollando sulle ginocchia, senza
grazia,
di fronte a lui. L’uomo aveva contratto il naso ed Adda era
stata certa avesse
respirato il fetore della bile nel suo fiato, un nervoso imbarazzo le
era
infiammato sul viso. Garlio non aveva commentato nulla e monocorde
aveva
chiesto: “Cosa hai sognato?”, non nel tono, ma
negli occhi nocciola era fiorito
un certo interesse. Le aveva scaldato le cure.
Adda si era accorta che tra le mani dell’uomo c’era
un libriccino rivestito in
cuoio, con le pagine gialle di pergamena, troppo costoso ed elegante
per le
loro finanze – forse rubato – ma ben curato. Non
era la prima volta che lo vedeva,
Garlio lo aveva sempre con se e curava ogni pagina con disegni e
scritture fine
e sottili, trasformando il giallo delle pagine in nero. Per Adda i
disegni e
gli scritti non vi era alcuna differenza, tutti gli scarabocchi avevano
uguale
valore. Conosceva il significato di alcune lettere, di alcune parole,
riconosceva il suo nome, conteneva due lettere, infondo, e per tale
ragione
riconosceva dove fossero nelle parole, ma non andava mai al di
là di quello.
Non era strano, erano tanti coloro che non sapevano leggere, era
decisamente
più bizzarro che Garlio potesse farlo – a volte,
Adda aveva sospettato fosse un
Mani Morbide prima della mutilazione, ma se lo confrontava ad altri,
come Iren,
non poteva che sembrargli più distante – ed una
volta era stata tentata di
chiedere se potesse insegnarle. Una volta sola e la tentazione era
stata
sepolta presto. Non avrebbe sopportato di essere vista così vulnerabile,
neanche da lui.
“Sei assente questa mattina” l’aveva
stuzzicata ancora Garlio, questa volta il
suo tono, aveva nascosto una dolcezza piccante. Adda aveva piegato le
labbra in
un sorriso imbarazzato, “Era
più un ricordo che un
incubo” aveva ammesso, addossando alla sua notte il
suo spaesamento e non
al veleno che le feriva l’anima.
“Quando avevo ventinove Sorelle, la Corda ha messo a ferro e
fuoco le città del
Peccato” aveva esordito, riconoscendo
l’inutilità di quella premessa. Adda era
viva e lontana e lo ricordava, anche Garlio doveva ricordarlo, tutti lo
conoscevano.
Anche chi era ancora abbastanza giovane per non ricordarlo –
come Ampie – lo
conosceva.
Una macchia sanguinate del Pregiatissimo Impero.
“Lo so” aveva sibilato lui, con un tono
così gelido e gli occhi nocciola pieni
di furore, “Lo ricordo. La più gelida Sorella
Fredda delle ultime cinquanta
Sorelle. L’Epurazione l’hanno chiamata,
perché massacro suonava di
cattivo gusto” aveva aggiunto cupo. Quando era successo,
Garlio doveva aver
avuto sulla quarantina di Sorelle, forse qualche decimana in
più; l’uomo stesso
si era dichiarato ignorante sulla sua nascita.
Adda aveva deglutito in quel tono così algido,
“Sì, immaginavo” aveva detto voce,
per spazzare quel silenzio acre, “Sir Moria
Ramberra” aveva ricordato, con gli
occhi più cattivi che Adda avesse mai visto. Aveva avuto un
fremito nel pensare
al cavaliere, non solo di terrore e sconforto, ma perché le
era impossibile,
anche quando riversava impropri sull’Uomo, senza che nei suoi
occhi balenasse
il sorriso nervoso di Saiji. “Il Generale” aveva
macinato a mezza bocca Garlio,
“Be, non all’ora” aveva commentato
soffocata lei, “All’ora era solo
il
figlio secondogenito, troppo zelante, del duca con una coorte di due
cento
uomini” aveva considerato lei, ricordando le chiacchiere dei
nobili, quando
curva e china lavorava.
Moria soffre della Malattia del Secondo Figlio, sente il
bisogno di dover
dimostrare di essere degno di suo fratello. Per Adda non
poteva essere solo
così.
“E invece, sentilo ora, a malapena la gente ricorda che il
duca di Querce
Grandi avesse un altro figlio, oltre lo scintillante
Generale della Corda Spinata. Il più pio e devoto
tra gli uomini” aveva
ricordato con rabbia Garlio, il suo viso sempre così calmo,
contratto in una
maschera di rabbia e rancore. “Il duca Iseo ha sposato un
membro della famiglia
reale, eppure quando si parla dei Ramberra è solo al suo
fratellino che si
pensa, Sir Moria lo Scintillante Generale” aveva considerato
Garlio poi.
Adda non si era aspettato una conoscenza delle famiglie nobiliari dal
suo
amante, spesso e volentieri, la gente viveva per anni sotto un signore
senza
aver chiaro né chi fosse né da dove venisse,
finché era lui a tenere il giogo.
Ma Garlio era furbo e Moira Ramberra era pericoloso.
“Vivevo al
Giardino, in quelle sorelle”
aveva detto Adda, che era una menzogna ed una verità allo
stesso tempo, “E la Corda,
quei fottuti stronzi malati, portarono dalle Città carovane
piene di bambini,
per rieducarli ai Dettami del Destino e … renderli
pecore” aveva detto, piena
di vergogna e tremori.
Saiji, ancora Saiji, nella sua mente, il cui viso insofferente si
faceva vacuo
davanti al ricordo dei Giorni del Peccato.
Lo avevano voluto rifoggiare come metallo in una fucina, ma erano stati
armaioli mediocri ed avevano creato una creatura ibrida, incerta, senza
posto.
Garlio aveva contratto il pugno sul taccuino, le sue gote si erano
fatte
bianche come la neve delle terre del sussurro. Non sapeva nulla di
Garlio, era
stato anche lui un bambino rieducato?
In qualche modo, Adda non lo riteneva plausibile. Dietro la sua
maschera di
compostezza e carisma, c’era rabbia e furore, di chi aveva
provato sulla pelle
il dolore di aver perduto tanto, di aver perduto tutto; ma quei bambini
erano
come Saiji, non c’era fuoco nei suoi occhi, solo braci.
Dove un tempo c’era vita, ora
c’è cenere.
Ed Ampie era troppo giovane, perché i suoi
genitori potessero averlo messo
al mondo, se vivevano nelle Città del Peccato.
“E … una strega. Sir Moria
aveva fatto passare a fil di spada tutti gli
adulti, uomini e donne senza eccezione” aveva ammesso.
Chiunque avesse a
malapena più di cinquanta sorelle – o
giù di lì – era stato ucciso,
così aveva
raccontato ad Adda la sua signora, con uno scintillio negli occhi a
metà tra il
terrorizzato e l’ammirato. “Però avevano
riportato viva, se così poteva dirsi,
questa donna, questa strega” aveva confidato Adda.
“Volevano
un esempio” aveva proposto Garlio, ricordando la compostezza
del suo animo.
“Non so davvero. Avevano ucciso tutti, bruciato le tende,
salato la terra e
quasi distrutto i ruderi delle antiche città Floride. Forse
sì, non lo so. Ma
perché proprio lei, tra tutti, mi sono sempre
chiesta” aveva detto e nel farlo
si era toccata il cuore, dove un tempo c’era il suo fiore,
dove ora fioriva il
deserto.
Non poteva più ripensare, ormai, alla donna, senza
immaginare lei stessa, nuda
e scinta, legata in quella piazza. Esposta al ludibrio,
all’odio e allo scherno
dei suoi cittadini.
E poi un pensiero più subdolo ed invadente, che spesso
faticava a soffocare,
immaginava Saiji e Iren, e non Garlio e i suoi fratelli-compagni,
fronteggiare
schiere di cordati e ogni uomo, donna, carico di
furore, per salvarla. E tacita,
piena di vergogna e rimpianto, anche se per un
battito di ciglia, continuava a pensare a quei due volti, quando la
parola
compagni fioriva nella sua mente, ma Iren e Saiji erano un ricordo di
tante
lune prima, dolce e doloroso, ma solo quello.
“Quindi,
hai sognato questa strega?” aveva chiesto con gentilezza
Garlio, ma prima che
Adda potesse rispondere articolando per bene i suoi incubi. Quel
ricordo, come
vedeva sé stessa, senza essere del tutto certa di cosa
avrebbe dovuto dire,
erano stati interrotti.
Un mugolio appena, per attirare la loro attenzione. Gli occhi di Garlio
avevano
scavalcato Adda veloci come una lepre e lei aveva voltato il capo,
spiando con
la coda dell’occhio l’avventore.
Era Mathea, una ragazzina con
quaranta sorelle a
malapena sulle gambe secche come rametti. Era una bambina sbagliata
come Adda,
con il viso leggermente asimmetrico, il naso come un becco e i capelli
spessi
che scendevano a ciocche sulle spalle, fino al petto dritto –
bisognosi di un
taglio. Aveva occhi grandi di un nero d’onice, al cui la
pupilla si distingueva
poco o nulla dall’iride. Al posto della gonna lunga, ne
portava una stracciata,
che scopriva le cosce magre e le gambe, le era più comodo
per correre. Mathea era
veloce come il vento, scattante coma una cerva. Quando Adda
l’aveva vista
correre, era rimasta esterrefatta, così come quando
l’aveva vista muoversi
nella foresta come uno spirito errante dei boschi, spigliate e leggera,
figlia
degli alberi anziché degli uomini.
Garlio e tutti gli altri avevano scherzato che con la leggerezza che
aveva, era
l’aria stessa a spingerla. Mathea
dell’Aria Leggera l’avevano chiamata,
come la protagonista di una qualche canzone. E ricordava il sorriso
grande che
si era aperto sul viso della ragazzina, però, in quella
mattina di Rigogliosa,
Mathea non stava sorridendo. Il suo viso era piegato in
un’espressione
preoccupata, le sue spalle rigide ed il suo portamento oscillante,
continuando
a ballare da un tallone all’altro.
“Cosa
succede,
Mathi?” aveva chiesto Garlio con un tono
piatto, senza tradire emozione,
ricomponendo quell’espressione austera che preferiva
sfoggiare, Adda le aveva
sorriso incoraggiante. Si era sforzata nel corso dei Cicli di essere
materna
con Mathea, con Ampie, con tutti gli altri orfani cercatori di
famiglia, ma non
era mai stato nelle sue corde.
Adda aveva cercato di ricomporsi ed arrestare il suo dondolare,
“Dei soldati si
stanno avvicinando. Nerf li ha visti” aveva raccontato
subito, veloce, “Una
cinquantina di uomini” aveva aggiunto, senza dar loro la
possibilità di
commentare la notizia.
La notizia non era stata data nel privato, anche se erano riparati
dalla
posizione del presbiterio, la voce di Mathea non era stata sottile.
D’altronde,
non vi era dubbio che se quel luogo fosse quello da cui
l’uomo impiccato aveva
recitato i suoi sermoni, sarebbe per ogni orecchio della pieve.
“Forse il Margravio di Catalpe Eterne si è accorto
di noi” aveva scherzato un
uomo, a quel commento Indicio, un altro buon volontista, aveva sputato
per
terra, “Pecora! Pecora!” aveva gridato Allina,
“Che venga quel Manimorbide
faremo provare quante è buona la carne di una pecora cotta
nel rame” aveva
dichiarato sprezzato Uvino, tirandosi in piedi; alto come una montagna
e duro
come il ferro, floriano, ghaadiano e qualcos’altro ancora. E
non vi era
incertezza nella sua voce.
“Per le tette dell’imperatrice, spero non siamo
arrivati anche al cannibalismo”
aveva scherzato forzatamente Adda, pensando a con che gioia avrebbero
aggiunto
anche quell’orrido crimine di cui accusarli. In
realtà era quasi stupita che
non gli avessero già accusati di quello.
“Cinquanta uomini non sono molto per noi Uvino, caro, ma
cinquanta soldati sì”
era intervenuto Delisio con la sua lingua di miele e quel tono
divertito, in
ogni situazione, anche la più inadatta. Adda lo amava e lo
odiava insieme,
nella maniera meno sincera che riuscisse a pensare. Era un vecchio
amico di
Garlio – così a loro detta – avevano
diviso spade, cibo e scudi. Però, come
Adda, era un bimbo sbagliato; portava i segni della sua corruzione
nella
sua pelle butterata, nelle orecchie ampie e vistose, così
come le spalle
disallineate, che lo conducevano ad un dolore cronico, come diceva
sempre.
Perché seguire un dio che non mi ha voluto?
Ma aveva una lingua di miele, che Adda adorava ascoltare, sia quando
recitava
poesie sia quando raccontava sconcezze ed anche quando pungeva lo
spirito con
verità scomode.
Uvino
aveva risposto a tono che lui da solo poteva sconfiggere anche dieci
pecore ben
armate, ma la sua voce per quanto altisonante e pesante era stata
inghiottita
da Garlio, dal suo tono calmo e misurato. “Quale Fiore
sventolava sulle loro
insegne? La rosa canina?” aveva
domandato. Tutti gli occhi erano stati
su Mathea, che in quel momento si era fatta di nuovo piccola, quando si
era
alzato il vociare della sua notizia. Adda si era morsa un labbro,
timorosa di
apprendere quella notizia; che non sia né un giglio,
ne un papavero,
aveva sperato. Un tempo aveva cercato di imparare tutti i fiori che
svettavano
sugli stendardi, almeno delle famiglie maggiori – conti,
baroni, margravi e
duchi – e non lo aveva fatto per evitare magre figure,
perché saperlo avrebbe
potuto fare differenza tra la gogna o no.
Aveva sentito brividi lungo la sua schiena malmenata, a quel ricordo.
Aveva imparato poi a chinare gli occhi, ad incurvarsi, senza
preoccuparsi di
chi le era di fronte, che fosse il più nobile degli uomini o
che fosse un suo
pari.
E non era mai stata più grata a qualcuno di Garlio,
perché le aveva insegnato a
guardare l’orizzonte e tenere la schiena dritta.
Fa che non sia né un giglio, né un
papavero e, soprattutto, non sia la Corda
– aveva ripetuto ancora, perché una principiente
non poteva pregare alcunché.
Mathea
aveva oscillato ancora da un piede all’altro, piena di
timore, “Ne-nessun
fiore” aveva confidato, colma di incertezza,
“Marciano sotto lo stendardo di
una Volpe.”
Oh! Un
terribile ricordo aveva punto la mente di Adda.
Non aveva
senso.
“I Mani morbidi usano i fiori di merda, come tutto. Dicono
è il cazzo di volere
di Dio in persona” aveva considerato Uvogino,
Ferriani.
“I Lupi d’Armi usano i volti delle Sante
– nessuno sa il cazzo di perchè” aveva
ammesso Allina, invece, incrociando le braccia sotto il petto, incerta.
Ferriani.
“I Ghaadiani?”
“No,
no,
loro sono ancora più altezzosi dei nostri nobili, solo fiere
mitiche”.
Ferriani.
“I cavalieri Erranti?”, “Chi quelli? No,
no, hanno bandiere a tinta unica.
Verdi, gialli e altri così”.
Ferriani.
“E i fiumani? No. Nessun uomo del fiume che si rispetti
indossa un vessillo.
Sono come noi, loro, si dicono tutti figli uguali e che nessuno
dovrebbe
appartenere a null’altra cosa che
l’umanità intera”
Ferriani!
C’era stata una cacofonia a non finire per tutta la stanza,
dove ognuno aveva
urlato qualcosa, il suo parere.
“La Lega di Ferro usa gli animali” aveva strillato
Adda, soffocando il resto
del vociare.
Nella Repubblica di Colemin, una famiglia ha come segno di
riconoscimento un
passerotto, riesce a immagine una cosa più insulsa?
Ricordava ancora la voce divertita e piena di scherno della sua signora
Canadea.
“Adoraoro” aveva commentato
sprezzante Garlio, con gli occhi sottili e
preoccupati. Non aveva cercato lo sguardo di Adda, ma quello di
Delisio,
“Ferriani, qui? Nell’entroterra
dell’Impero?” aveva chiesto confuso
l’amico di
rimando, cercando, invece, il suo di consiglio. Adda non aveva studiato
così
affondo la geografia da sapere esattamente dove fossero le
città di Ferro, dove
fossero rispetto a loro. A malapena riusciva a leggerla una mappa, a
riconoscere i fiumi e le coste.
Aveva alzato le spalle, ma aveva taciuto l’unica
verità che conosceva bene.
Peripsia, aveva pensato Adda senza avere il coraggio
di pronunciarla.
Almeno non erano la Corda Spinata.
Փ
Visto
che siamo al secondo capitolo un po’ di
contesto:
Il
mondo del Pregiatissimo Impero scandisce in giorni
in decimane (10 giorni):
•
Unluna
•
Dilune
•
Trilune
•
Qualune
•
Quinlune
•
Silune
•
Selune
•
Ottolune
•
Novilune
•
Decilune
In
realtà il loro modo di contare il tempo è
veramente
aberrante (non solo con la nomeclatura Sorella, ma avrò modo
di fare un file
apposito – e di spiegare qualcosa nel testo).
Allungo
ancora le note per lasciare un po’ di
Dizionario (che riproporrò nel corso del tempo, ogni volta
che sarà aggiornato,
al momento il dizionario è un po’ più
“avanti” della storia in quanto termini,
ma insomma, è sempre utile).
Adoraoro/Veneraoro:
Modo
dispregiativo di rivolgersi ad un ferriano, in riferimento al loro
commercio.
Anime
Condivise:
due persone che hanno i
fiori gemelli sul petto
Bimbo
Benedetto:
un altro modo per
riferirsi al Fiore del Destino
Bimbo
Sbagliato:
una persona nata
dall’unione di due persone che non sono Anime Condivise
Boghiani:
sono un’altra
popolazione che abitava i territori del Pregiatissimo Impero, anche
prima della
nascita del Florido Impero. La loro zona era nel sud ed occupavano
quella che,
oggi, è la regione dell’aranceto. La loro
discendenza è quasi del tutto
scomparsa, riconoscendosi in capelli riccioluti ed occhi sul verde
(diversi dal
chiarore dei sussurranti e dei ghaadiani) in una maniera particolare.
Cagliato:
un dispregiativo usato
per parlare di ghaadiani, in riferimento ai loro colori pallidi come il
latte.
Città
del Peccato:
modo
dispregiativo per riferirsi a delle città
“indipendenti” che erano abitate
dagli eretici prima dell’Epurazione. Sorgono su territorio
imperiale ma non ne
fanno parte. In realtà erano tendopoli costruite tra le
rovine del Florido
Impero.
Corda
Di Spine:
il corpo d’élite
dell’esercito Imperiale.
Cyristi:
Una
popolazione che
abitava il Pregiatissimo Impero prima della sua fondazione, sorta con
la caduta
del Florido Impero. I discendendi hanno nasi nasi più
adunchi e corpi più
longilinei (occupano la parte est dell’impero (Caris, Shinora
e Zegros –
sebbene quest’ultimo soffra di albinismo – ne hanno
sangue).
Don:
titolo daito ai nobil uomini
ferriani. Di norma si riferisce ad IL DON come il capo della famiglia.
Eos:
luogo al di là del mare, rispetto
Istan. Glie Eosiani hanno più scure dei floriani.
Ferriano/i
(Ferriana/e):
abitanti della lega di ferro (con questo termine si riferisce a loro in
maniera
generale).
Figlio
de Destino:
una persona nata
dall’unione di due persone che sono Anime Condivise
Fiore
del Destino:
simbolo di
riconoscimento donato dal Destino
Florido
Impero (di Istan):
era l’Impero che esisteva nel territorio del Pregiatissimo
Impero prima di
quest’ultimo, occupava anche una parte della Lega di Ferro e
un po’ della
Ghaadia.
Freor:
fratello in eosiano.
Spesso eosiani fuori dalla loro terra si chiamano così.
Gente-di-albume:
persone albine o
albinoidi; non godono di una buona reputazione. Chiamati tal volta
anche “Gli
Incomclusi”.
Ghaadia
(o
Ghatia): un
principato vicino Istan, stato clientelare dell’Impero
Ghaadiano
è l’abitante di Ghaadia,
originari del Principato.
Il
Dio-delle-cose-buone/Dio-di-ogni-cosa-buona:
il signore immortale e spirituale del mondo
Il
Giusto Sentiero
o il Sentiero
Prescritto: il modo a cui ci si riferisce alla religione
legata al Destino
Il
Principio (o anche Il Principio-del-male):
L’Antitesi
del Dio-delle-cose-buone
Inconclusi:
termine poco gradevole
per riferirsi a persone albine o albinoidi
Istiani:
era una popolazione che
occupava il territorio del Pregiatissimo Impero (e sono stati il popolo
che ha
creato il florido impero) e sono gli ascendenti della maggior parte
della
popolazione dell’Impero dei Fiori. Hanno una pelle olivigna,
colori scuri di
occhi e capelli (Adda, Garlio lo sono)
It:
un membro del clero Ghaadiano
maschile
Kartiss:
una terra al di là del
mare. Gli abitanti hanno carnagioni molto scure. Diverse dalle Eosiane.
Latte
d’Uccello:
è una bevanda
allucinogena che esiste nell’Impero. Provoca un sentimento
poi di euforia ed in
seguito di intorpidimento; può creare dipendenza.
Lega
di Ferro:
Fronte Unito di Città Stato
a confine sud con l’Impero. Le città della Lega di
Ferro hanno diverse forme di
governo. Esistono oltre venti città
appartenenti alla Lega. Anche se
esistono singole entità, generalmente gli abitati della lega
sono chiamati
Ferriani. Ogni tanto ci si rivolge alla Lega di Ferro con il solo
appellativo
di Lega.
Liberismo:
un credo, più un codice
civile, che predica come tutti gli uomini nascano uguali e
che i fiori
siano un consiglio e non un dogma. Il liberismo non condanna del tutto
il
Giusto Sentiero
Lontano-dalla-perfezione:
un bimbo sbagliato particolarmente “brutto”
Lupo/a
d’Arme:
mercenario/a
Lupo/a
di Baci:
Prostituta/o
Manimorbide
(o Mani Morbide):
è un gergo basso con cui la gente comune si rivolge ai nobili
Marra:
Mamma in eosiano
Melanzana:
un modo razzista e
pregiudizievole di appellare eosiani (e kartissiani)
Monna:
Titolo dato alle
nobildonne Ferriane
Orco-Blu:
mostro mitologico, con
cui si fa riferimento come paragone per i cattivi mariti
Ordine
della Spiga:
ordine
cavalleresco, al momento sospeso, del Pregiatissimo Impero.
Parole
Cortesi:
una tradizione che vede
giovani cavalieri si cimentino in epigrammi amori (per lo
più senza veri
secondi fini) verso donne inarrivabili. Devono per regola essere
composti
almeno in rima, anche se non sono comprese altre regole di lavoro e
devono
essere brevi.
Peripsia:
una città Ferriana,
considerata una roccaforte imprendibile, viene chiamata anche con
l’appellativo
della Bestia Bicefala (essendo una Diarchia,
sostenuta da due Famiglie)
e l’Inviolabile, perché 23
eserciti nel corso dei secoli hanno tentato
di prenderla.
Pregiatissimo
Impero dei Fiori:
il Luogo (e la penisola) in cui avviene la maggior-parte della vicenda.
Nonostante la titolatura imperiale, l’Impero dei Fiori
è conformato come un
regno che un vero e proprio impero (diviso in regioni amministrate da
signori).
Prende il suo nome dal Florido Impero, che antecedentemente occupava il
territorio del Pregiatissimo Impero, della Lega di Ferro e della
Ghaadia. Il
pregiatissimo Impero si ritiene il suo diretto successore ed erede
legittimo.
L’Impero è composto da terre fertili, nel sud,
lussureggianti e ricche e terre
impervie nel nord.
Ogni regione viene chiamata come a motivo arboreo, ogni
città floreale e castello
botanico. La regione dove è presente la Capitale
è chiamata il Giardino. I suoi
cittadini sono chiamati fioriani e sono di etnie leggermente diverse
(olivastri
e molto chiari)
Principienti:
usato a volte come sinonimo dispregiativo di eretici, con cui ci si
riferisce a
Liberisti e Volontaristi. Sono persone che adorano il Principio (o
meglio che
vengono accusati di farlo).
Sarra:
sorella in eosiano.
Spesso gli Eos fuori dalla loro terra si chiamavano così
anche se non hanno
sangue in comune.
Sdregolamento:
il momento in cui il
latte d’uccello abbandona il corpo e lascia la persona
bisognosa di averne
altro, provocando una follia irrazionale.
Semi-Cupo:
mostro del folklore del
Pregiatissimo Impero.
Sette
Cerchi:
è un modo di dire
eosiano.
Sorella:
arco temporale di
novanta giorni, con cui si conta il tempo. Le sorelle sono quattro:
Pallida,
Fredda, Rigogliosa e Vivace (ogni sorella dura novanta giorni, divisa
in tre
cicli da 30, legati al ciclo lunare, a sua volta divisi in decimane in
base
alle fasi)
Sussurriani
/Sussurranti/
Gli uomini
del Sussurro: abitanti delle Terre del Sussurro.
Svincolati:
un modo in cui gli
eretici si rivolgono a se stessi, poiché non sono legati a
vincoli del destino.
Taglio
della vedova:
è una particolare
tipo di capigliatura femminile che viene portata dalle donne quando
rimangono
vedove, che consiste nel portare i capelli corti fino alle spalle
(spesso anche
in tagli impari). Spesso viene utilizzato anche da donne che vogliono
esprimere
il proprio lutto a prescindere da chi sia il morto.
Te:
un membro del clero Ghaadiano
femminile
Terre
del Sussurro:
terre a nord
dell’impero, dietro le montagne. Hanno questo nome per i
suoni dell’aurora.
Tulpee:
Erano una popolazione
che abitava il territorio del Pregiatissimo impero, prima, dopo e
durante il
Florido Impero. Nonostante non esistano più, i loro
discendenti sono facilmente
riconoscibili da capelli rossi e carnagioni più chiare, sono
geograficamente
mischiati con i ghaadiani, trovandosi più persone di quel
genere.
Vicono-alla-perfezione/
Non-lontano-dalla-perfezione:
un bimbo sbagliato particolarmente attraente, cui i nonni erano anime
destinati
o famigliari erano “vicini” alla propria anima
destinata.
Vistalunga:
il dono della precognizione.
Volontairsmo:
un credo simile al
liberismo ma molto più aggressivo, che nega del tutto il
giusto sentiero
|
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Capitolo 6 *** PARTE PRIMA; TIOLO I; CAPITOLO III ***
Questo
capitolo è piuttosto inutile, serve per
contestualizzare un po’ le cose e fare name dropping, circa.
Ne volevo fare di
più. Comunque, penso che domani o dopo domani
pubblicherò un capitolo più
corposo.
P A R T E P R I M A
L ‘
I N V I O L A B I L E
T I T O L O I
I G
I O C
A T O R I
C A P I T O L O I I I
C O M E T V
H A I
V C C I S O
M E
Non erano
riusciti ad arrivare alla città nel tempo che Saiji aveva
prognosticato –
d’altronde la precisione apparteneva
solamente ai morti.
Erano a malapena usciti dalla Macchia e non avevano ancora abbandonato
le terre
del ducato di Antiche Sequoie, quando Iren era caduto da cavallo.
Aveva perso la presa sulle redini della sua cavalla cremello ed era
scivolato
giù dalla sella privo di sensi. Saiji non era un uomo
credente, ma si era
ritrovato a dover ringraziare qualche forza superiore perché
Iren nella caduta
non avesse urtato la testa.
Alla fine la resistenza e la testardaggine del suo amico, avevano avuto
la
peggio contro il dolore del Latte d’Uccello.
Saiji sapeva ciò che sarebbe avvenuto: prima la spossatezza,
guidata dagli
ultimi residui del latto che abbandonavano le carni, poi ci sarebbero
state le
convulsioni, le scosse e, per tutti i fiori del creato, Saiji non aveva
idea di
cosa avrebbe fatto.
Avevano dormito sotto le stelle una notte. Saiji aveva avvolto un Iren
a
malapena cosciente in tutti i vestiti che era riuscito a trovare. La sua pelle era sudata,
ma ancora fredda, la
febbre non era salita, ma Saiji sapeva sarebbe successo.
Aveva dannatamente bisogno di trovare altro Latte di Uccello o non
avrebbe
avuto Iren su cui contare. Non avrebbe avuto Iren in generale. Ed anche
se non
l’avrebbe mai ammesso, probabilmente neanche legato ad
essiccare, non
era sicuro avrebbe potuto sopravvivere senza quel fastidioso
Manimorbide tra i
piedi.
“Per i sette cerchi, Marra, dagli la
temperanza” aveva sussurrato,
accarezzando delicatamente con le nocche la guancia del suo amico,
“Perché solo
il Principio sa quanto ne abbia bisogno lui” … ed
io.
Erano
ancora tragicamente lontani dal Dironte, un fiume d’acqua
limpida, che nasceva
come diffluente del Serpente – il più grande ed
impietoso fiume dell’Impero –
attraversava una bella porzione del contado di Liriodendri Antichi, in
particolare la ricchissima città di Azalea.
Sperava avrebbe avuto la fortuna di incontrare le Isole-Vaganti dei
Fiumani. Se
non avessero avuto Latte di Uccello, ci sarebbero state alte
possibilità che
avessero tisane o foglie essiccate di piccolo calamo. Inoltre, dopo i
tre
giorni nella Macchia a Saiji non dispiaceva l’idea di godersi
da bere qualcosa
di diverso dell’acqua stantia nei fustelli o succhiare le
gocce di rugiada
dalle foglie.
Saiji ricordava uno stordente liquore di un verde vibrante come il
veleno
prodotto degli abitanti dei Fiumi. Lo aveva bevuto, in compagnia di
Moria una
volta, e ricordava a malapena quel che era successo dopo.
“Si può dire il peggio di quei
semi-uomini ma di sicuro su questo sanno il
fatto loro” ricordava la voce sbavata del cavaliere.
Il grande, terribile e sempre irreprensibile Moria con gli occhi lucide
e la
voce pastosa, uno spettacolo raro.
Oh, Principio! – Saiji, in una parte meno
orgogliosa di se, sarebbe
piaciuto aggregarsi a loro, attraversare il Serpente su una delle loro
case-chiatte delle Isole-Vaganti e attraversare l’Impero e le
città ferriane,
fino al mare, giù a sud e poi anche l’Ampia
Distesa, fino ad Eos, la
fumosa terra dei racconti di sua madre – che esisteva solo
nei ricordi dei
racconti di una bambina nata fin troppo lontana dalle sue terre. Saiji
non era
più eosiano di quanto lo fosse stata sua madre.
Non era neanche Ghaadiano.
A lui piaceva considerarsi Fioriano, cittadino dell’Impero,
anche se era nato
nelle terre del peccato.
“A-Ad-d-da”
lo aveva chiamato Iren, anche se non era a lui che aveva rivolto
quell’appello.
“Sicuramente sarebbe più capace di me”
aveva sospirato Saiji che l’ultima cosa
che aveva voluto in quel momento era piangersi addosso mentre il suo
compagno era
in uno stato di tale cachessia.
La freddezza del suo corpo si era fatta ancora più
pregnante, come le acque
ghiacciate dei laghi al nord ed il sudore non era migliorato.
“Per il le gonadi
di Santo Mycelle, manca da morire anche a me – non glielo
dire quando la
rivedremo” aveva aggiunto.
Era curioso di Adda, quanto doveva essere cambiata in tutte quelle sorelle?
Presto, presto, si augurava.
“Acqua” aveva raschiato Iren, la sua voce era dura,
come se avesse mangiato la
sabbia del deserto eosiano. Saiji aveva aiutato a sollevarsi un
po’ con la
schiena, perché non soffocasse ed aveva allungato il resto
della sua borraccia,
dove aveva continuato a centellinare l’acqua.
Iren l’aveva presa a pochi sorsi, non aveva mangiato in quasi
tutta la
giornata, quando ci aveva provato all’ora del desco, aveva
rigurgitato tutto
ciò che aveva ingurgitato.
Saiji non sapeva cosa fare, ricordava quando era spossato dalle febbri,
Meline,
una delle cameriere dei Ramberra, dargli fette di pane bagnato
spolverate di
miele.
Ma oltre questo, Saiji non aveva idee: non era un guaritore
né mai aveva
studiato per esserlo – al massimo sapeva cauterizzare una
ferita.
“Vuoi che ti umetti la fronte?” aveva domandato
Saiji incerto, continuando ad
accarezzare i capelli oleosi di Iren, “No. Acqua”
era riuscito ad articolare
Iren, recuperando un po’ di forza. “Pensi di
riuscire a mangiare qualcosa?”
aveva chiesto lui, dopo un sospiro. Il suo amico aveva schiuso le
labbra, come
se avesse avuto bisogno di pensarci più del dovuto,
“Preferirei il Latte” aveva
dichiarato.
“Solo formaggio alle erbe” aveva risposto Saiji,
anche se sapeva bene che il
Latte che Iren voleva era di natura diversa da quella che aveva deciso
di
intendere lui. Il suo amico aveva sorriso, con le punte aguzze
tremolanti,
prima che quel suono dolce diventasse una tosse.
“Quanto … pensi …
abbandonarmi?” aveva chiesto Iren con voce rauca,
“Oh, non
tentarmi Manimorbide” aveva replicato fintamente divertito
Saiji. Avrebbe
voluto pensare che tempo prima sarebbe stato capacissimo di abbandonare
Iren al
suo destino, ma sarebbe stata una menzogna.
Prima dell’affetto, c’era l’onore.
C’era il dovere.
Cos’era un uomo come lui senza il suo dovere?
“Io … farei” aveva provato
Iren. Saiji aveva ridacchiato, “Ah certamente,
Manimorbide. Per morire di dissenteria perché hai
dimenticato di bollire
l’acqua” aveva aggiunto lui. Sapeva che Iren non lo
avrebbe abbandonato,
comunque.
Iren aveva sorriso stanco, “Adesso riposa,
che domani dovremmo ripartire
e non voglio legarti alla sella di Adda”
aveva detto. Iren era
stato incantato da quelle parole ed aveva deciso di assecondarlo,
chiudendo gli
occhi e lasciandosi trasportare da un sogno agitato.
Saiji aveva sospirato.
Lui stava
consumando delle strisce di carne di maiale essiccata, il sole era
già
tramontato quando Iren era tornato nel mondo dei viventi.
“Mi … racconti … altro su tua
… madre?” aveva domandato Iren. La sua voce
sembrava provenire da un luogo lontano e non da lui, così
tremendamente rauca
da sembrare quasi ustionata dall’interno. Saiji aveva
sospirato, stanco, “Cos’è
tutto questo interesse per la mia marra?” aveva chiesto
retorico, anche se lo
sapeva bene. “Non parli mai di … te”
aveva considerato Iren.
Saiji aveva sbuffato, “Cosa dovrei dire di me? Sono un
cavaliere rinnegato che
ha fallito. E questo lo sai già …”
aveva risposto stanco. Gli occhi neri
e lucidi di Iren erano rimasti su di lui, così alla fine
Saiji aveva ceduto. “La
mia marra era eosiana – ma come me, non ha mai messo piede in
quella terra”
aveva raccontato alla fine, “Diceva, però, che
guardare il cielo la faceva
sentire vicina a casa, anche se lungi da me sapere cosa intendesse con
quel
luogo” aveva ammesso. “Pensavo che casa fosse il
luogo in cui vivevamo” aveva
aggiunto Saiji, con un tono di voce così basso, come un
sussurro, che
difficilmente Iren aveva potuto sentirlo.
“Il cielo
copre il mondo come una
coperta” aveva commentato Iren, che aveva tirato su il busto,
puntando i
gomiti, con fatica, “Circa” aveva concesso Saiji.
“Lo diceva tua madre?” aveva
chiesto poi. La Puttana di Chretyen, era ghaadiana,
da lei che Iren
aveva ereditato la sua pelle d’avorio, forse come la sua
marra anche lei
soffriva la mancanza di casa. Forse anche lei, si sedeva alla finestra
e
guardava la volta stellata in contemplazione. “No”,
aveva risposto Iren, la sua
voce era pregna di tristezza.
Lui era rimasto in silenzio, consapevole che il suo amico avesse dovuto
dire
altro, ma non lo aveva fatto alla fine – cosa che non aveva
stupito Saiji.
“Tuo fratello?” lo aveva chiesto, alla fine,
sebbene fosse incerto – non voleva
cedere in quel patema d’animo.
Non aveva bisogno di spiegare a quale fratello faceva riferimento. Iren
si era
lasciato cadere di nuovo sull’erba umida, “Ricchi,
liberi, schiavi, voluti e
sbagliati, il cielo è una coperta che ci copre
tutti” aveva detto Iren, con una
voce umida e nostalgica.
“Non lo vedo per nulla, tuo fratello a dirlo” aveva
ammesso Saiji con un
sorriso appena accennato.
Non credeva neanche l’uomo capace di formulare un pensiero
del genere, lo
ricordava ancora con quell’espressione superba, il sorriso
cattivo, meno
perfetto di Iren, ma ugualmente un maniborbide, che vedeva in Saiji
nulla più
di un mezzo-eosiano. Iren aveva scosso il capo, “Voleva fare
bella figura alle Parole
Cortesi ma come poeta era proprio una merda” aveva raccontato
con un accenno di
cattiveria sul viso, “Una volta ne ha scritta anche una per
me” aveva ammesso.
“Di solito non si scrivono alle fanciulle?” aveva
chiesto retorico Saiji,
ricordando le sue orride rime baciate che era stato costretto ad
esibire
davanti le impalcature e i tendaggi. “Era un
coglione” aveva gracchiato Iren.
“Come la ha intitolato: al mio adorato fratellino?”
aveva provato poi Saiji. “Al
mio mezzo-scemo mezzo-fratello” lo aveva corretto Iren.
“Questo è decisamente da lui” aveva
concesso Saiji.
“Per il Principio, Saiji, tu non hai idea quanto io abbia
provato a farmi amare
da lui” c’era una portentosa disperazione in quella
voce fiaccata.
Saiji era rimasto muto, era un tipo di dolore che non riusciva a
comprendere,
non aveva mai avuto un fratello, avrebbe dovuto averne uno,
ma il
destino non aveva così voluto. “Io ho fatto lo
stesso con Moria” aveva ammesso.
Non credeva fosse lo stesso, non avrebbe mai potuto essere lo stesso,
ma doveva
essere la sensazione più vicina a cui Saiji potesse
aspirare. La menzione del
nome del cavaliere aveva indispettito Iren. Le sue labbra si erano
fatte dritte
e chiuse come un taglio, erano già pallide e screziate,
ferite.
Si era formato un silenzio così spesso e pesante da poter
essere respirato,
“Mio padre non aveva una visione così romantica
del cielo. Aveva questa teoria
sul fatto che il cielo non era uguale da tutte le parti, cambia, come
cambia la
terra” aveva dichiarato Saiji incerto.
Iren aveva mugugnato qualcosa, “Era uno studioso”
aveva spiegato poi, sembrava
strano parlare di suo padre, lo vedeva come figura lungamente
più distante di
quanto non fosse la sua marra, almeno lei, era apparsa altre volte, in
tutte
quelle sorelle, nei suoi sogni.
“Mio padre … Non lo so” aveva provato
Iren, “Mi … considerava solo quando
doveva … portarmi a caccia.” aveva detto,
“Quell’idiota di mio fratello mi ha
cresciuto” aveva detto. C’era rancore nella sua
voce, ma anche melanconia …
Ricordava forse un tempo passato.
“Mio
zio,
Herden, una volta è stato nel punto più a nord
del mondo, il più a nord noto,
nelle Terre del Sussurro, dice di aver visto la Città
Celeste e sentito il
sibilo degli Ascendenti” aveva preferito Iren, con una voce
di vetro. “Spettacolo
suggestivo” aveva considerato Saiji che era un
eretico e miscredente, ma
quasi desiderava vedere qualcosa di tale portata, da spingerlo a
riconsiderare
tutto il suo credo.
“Carne secca?” aveva chiesto ad Iren.
Quello aveva scosso il capo, “Lo zio mi aveva promesso di
portarmi, ma mio
fratello ha minacciato di eviscerarlo se avesse pensato di portarmi in
qualsiasi luogo” aveva raccontato con voce dura e spettrale.
“Lo ho capito che
non mi avrebbe mai, mai, permesso di lasciare la mia dannatissima casa
e odiava
avermi lì” aveva detto.
Saiji lo aveva guardato, “Questa conversazione sta diventando
troppo viscerale
per i miei gusti. Sono un guerriero, i cattivi pensieri si soffocano
con la
spada” aveva ammesso, sentendo la leggerezza sul suo fianco,
dove avrebbe
dovuto penzolare la sua lama. Era pregiata, riconoscibile ed
intimidatoria così
Saiji aveva deciso di metterla da parte, in un luogo
tutt’altro che sicuro.
“Oh, allora, sarai accontentato” aveva bisbigliato
Iren.
Lui aveva annuito, “Mi piacerebbe fare il fattore, non sono
sicuro che sarei
bravo e che potrei nutrirmi solo a rape, ma sarebbe meglio”
aveva considerato,
stringendo la mano, immaginando l’elsa della sua spada tra le
sue dita.
Ricordava l’ombra di suo padre che si allungava sui campi,
assieme al sole, ma
ad Iren aveva dato una spada in mano, prima una di legno, poi un ferro
smussato
ed aguzza e letale. “Io s-sarei …
pessimo” aveva considerato il Manimorbide,
“Ma ci vivrei ad Agiate Viti, con te ed Adda” aveva
ammesso. Due lunghissimi
pensieri avevano attraversato la mente di Saiji.
Ovviamente Adda, si ritornava sempre ad Adda, la gamba monca che era il
loro
sgabello. Ma Adda era trottata al tramonto, con il Principio-Incarnate.
“Può
essere ovunque Iren, perché restare
nelle Terre dell’Impero. Possiamo andare a Ghaadia la terra
dei nostri avi, ad
Eos, nelle terre del Sussurro e se necessario anche altrove, in
tantissimi
altri luoghi … il mondo è così vasto e
ne conosciamo così poco” aveva ammesso
calmo.
“Fortunatamente conosciamo qualcuno che
potrebbe darci un bel
appezzamento di tempo” aveva valutato Iren, “Non
troppo lontano dall’Impero ma
abbastanza per essere fuori dalla sua mano” aveva detto.
Saiji aveva scosso il capo, “Ti direi che le Terre di Ferro
non mi paiono così
ributtanti come idea, ma se dovessi finire a lavorare la terra per
Theresia, ti
autorizzo ad uccidermi” aveva stabilito. “Accetto.
Lo ho sempre voluto fare”
aveva sogghignato Iren, o almeno una brutta imitazione di un sogghigno.
Aveva passato gentile una mano sul viso di Iren, “Poco da
…te” aveva
considerato quest’ultimo. “Sì, quando ti
sarai ripreso non te lo ricorderai e
ricomincerò a prenderti a calci in culo” lo aveva
rassicurato con assoluta
tranquillità Saiji, stendendosi anche lui,
sull’erba fresca. Avrebbe dovuto
stendere una coperta, perché era abbastanza scomodo.
Aveva avvolto in tutto quello che aveva per tenere quanto
più caldo Iren, si
era detto che lui avrebbe potuto sopportarlo davvero dormire
nell’erba fresca.
Anche l’odore era buono, era umido, fresco, rievocava in lui
la sua infanzia,
lontana, quasi ormai fango. L’erba che cresceva tra le
rovine, negli ampi
giardini diroccati e le risate dei bambini.
C’era quell’odore anche nel grande parco alberato
dove era cresciuto.
A volte lo lasciavano correre, quando non si allenava, come se fosse
stato un
altro semplice bambino che viveva nella casa padronale.
Ricordava di correre con Izaia, il
figlio del cuoco,
sempre sporco di farina sul viso tondo, Bia la Coppiera, figlia
illegittima della
sorella del signore, e Parrio che si occupava del fieno nella stalla e
la pelle
sbucciata del viso. Ragazzini con i volti divertiti e la parlantina
sciolta.
A volte – raramente – Saji si chiedeva come
stessero.
“A
me è
piaciuto, comunque, stare con i ferriani” aveva ammesso Iren,
“Pensavo
dormissi” aveva risposto Saiji. “Fa troppo male per
dormire” aveva ammesso.
Saji aveva imprecato, battendo un pugno sull’erba fresca,
“Vaffanculo,
Manimorbide di merda, te lo avevo detto che non saresti
resistito” aveva
ringhiato.
“Mi dispiace, Saiji, sono un tale pasticcio” si era
lamentato ancora Iren,
voltendo il capo, posando la fronte contro la guancia di Saiji, in
cerca di
conforto, “Vaffanculo” aveva risposto Saiji,
perché lo aveva sempre saputo,
perché sapeva che un drogato era una catena di ferro legata
al collo che
rallentava ogni suo dannato passo. Avrebbe voluto, davvero, avere
così tanta
trasandatezza di spirito ed abbandonarlo lì, su quel prato
all’inedia, alla
cachessia.
“E comunque … a Theresia piaci molto”
aveva mormorato Iren, cercando di recuperato
un po’ di lucidità, “Posso ammettere che
mi apprezzi più dei manimorbidi
dell’Impero”
aveva considerato Saiji, “Ma come ho detto: accetto le sue
monete, ma non ho
voglia affatto di coltivare la terra per lei e doverla chiamare
Monna” aveva
detto.
Saiji non avrebbe avuto più Signori.
Iren aveva sbuffato.
“Ad Azalea prenderai altro Latte, anche se mi fa schifo. Ho
bisogno che tu ci
sia per quello che verrà dopo” aveva stabilito
Saiji. Non avrebbe avuto più
Signori, per questo non poteva più vivere con
passività, ma aveva bisogno lui
di prendere le redini.
“Poi ti farò purificare” aveva
dichiarato, “Ci troveremo un bugigattolo nel fottuto
buco di culo del mondo, dove potrai sfebbrare e sopravviverai, fottuto
Manimorbide, tu sopravviverai” aveva stabilito.
Iren aveva riso, in maniera aspra ed amara, ancora, la sua gola
tormentata, la
sua voce pesante e raschiante, ma aveva riso.
“Potrebbe essere nelle terre ferriane” aveva
riproposto, riprendendo quel
piccolo pensiero bisbetico che aveva espresso qualche momento prima e
che Saiji
aveva convenientemente ignorato. “Mi è piaciuto
stare lì” aveva aggiunto il suo
amico, con la voce così rovinata, ma così bassa,
da sembrare il brusio del
vento leggero, “Mi sembra di ricordare che per tutto il tempo
non hai fatto
altro che lamentarti dei disgustosi adoraoro, con i loro vizi e le loro
eccedenze” gli aveva ricordato. Iren aveva solo respirato,
pesantemente, come
una bestia ferita, “Sì, sì e no. Ho
odiato tutto … ogni singola cosa …
perché
non mi era concessa” aveva ammesso, aveva mosso la mano,
lentamente e si era
toccato il cuore dove il disegno del più bello dei fiori mai
realizzato dal
Dio-di-ogni-cosa riposava. Non lo aveva mai mutilato, probabilmente non
lo
avrebbe mai fatto, “Ma è stato bello”
per dire quella frase Iren aveva
impiegato tutto il suo sforzo, perché il suo tono fosse
calmo ed umano, ma si
sentiva, ancora, quel raschio di fuoco, “Mi è
piaciuto tutto di quello che ho
visto ... e che ho fatto” aveva confidato.
Saiji aveva chinato il caso, posando così anche la sua
fronte su quella di
Iren, guardandosi così negli occhi. Le iridi nerissimi nel
buio della notte
avevano avviluppato le pupille, la sclera era in fiamme, con vene rosse
aguzze,
visibili anche al buio ed una patina liquida di lacrime inzuppava le
ciglia.
“Mi dispiace” aveva risposto invece Saiji, quasi di
getto, davanti quel viso
così rattristato – quasi opposto alle sue parole,
“Ti ho tolto qualcosa di
prezioso” aveva ammesso.
“Non tu … io” aveva risposto Iren con
più sicurezza.
Ma, Saiji aveva serrato le palpebre e si era sforzato di non permettere
a
quella tristezza che stava gorgogliando nel suo petto.
“Mi dispiace per le ragioni che mi hanno mosso. Volevo farti
male e sapevo come
farlo” aveva confessato, perché era vero,
“Volevo ucciderti, non … non
fisicamente, volevo ucciderti come …” – come
tu hai ucciso me, ma non lo
aveva detto – “…come io ero morto per
te. Allora ho cercato un modo di ferirti
così profondamente da lasciarti spezzato” e nel
momento in cui aveva
pronunciato quelle parole aveva saputo quanto dolore portavano con loro.
Voleva defraudare Iren di qualcosa di prezioso, come si era sentito
privato
lui, voleva privarlo di qualcosa dello stesso valore e si voleva bearsi
del
piacere di vedere quello che riteneva un ottuso Manimorbide bruciare.
Guardare
una fede così pia dissolversi nell’incertezza
della cenere. “E lo ho fatto, per
il principio, lo ho fatto” aveva ammesso.
Perché non avrebbe potuto essere altrimenti, era lui che
aveva creato quella
carcassa viva, al posto di quel pomposo stupido Manimorbide, con quel
sorriso
irritante e gli occhi scintillanti di vita. Saiji aveva odiato il
vecchio Iren,
ma si sentiva così dispiaciuto della sua morte.
Iren
lo aveva guardato.
Non era più un uomo, era un guscio, una crisalide vuota da
cui nessuna farfalla
aveva preso il volo e se questo fosse avvenuto, difficilmente, era
perita da
tempo.
“No” aveva detto Iren, con la voce più
solenne, lenta e scandita, che Saiji gli
avesse sentito da quando aveva pronunciato un ‘Si’
tante lune prima. “No” aveva
ripetuto meno sacrale, “Tu sei … non sei
stato tu” aveva dichiarato,
sorridendo appena, quanto le labbra riuscissero a sollevarsi. Con
fatica, Iren
aveva sollevato un braccio, il polso sembrava quasi spezzato, ma era
riuscito a
posare le dita freddissime, come la neve caduta, sulla nuca di Saiji.
“Fisicamente
… non sei stato tu” aveva replicato, “In
quella stanza … non c’eri” aveva
considerato.
Saiji era rimasto muto a quel commento, “Non capisco se
volessi fare una
battuta, il tuo tono non è chiaro” aveva cercato
di sdrammatizzare Saiji, anche
perché non ne era davvero sicuro.
“Tu … e Adda … non sarei vivo,
senza” aveva detto a fatica, con gli occhi
lucidi e le lacrime lungo le guance bianche.
Era una condizione letterale, lo avevano salvato, fisicamente, dalla
morte … ma
dalla degenerazione? Dal tormento?
“Iren, tu sei morto. Guardati”
aveva detto Saiji, a disagio, disagio di
essere stato sollevato da quella colpa che da tempo portava sulle sue
spalle,
quel peso angosciante che si era carico addosso, che pungolava il suo
senso di
colpa.
“So di essere morto, ma starò meglio”
aveva promesso Iren.
Saiji aveva deciso di credergli, “Dovrai, dovrai”
aveva ammesso Saiji, “Ci
aspetta qualcosa di … complicato” aveva aggiunto.
“Come il … Punteruolo” aveva sospirato
Iren.
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Capitolo 7 *** PARTE PRIMA; TIOLO I; CAPITOLO IV ***
Nuovo
capitolo, nuovo narratore. Quello che penso
vedremo meno di altri, ma serviva ugualmente. Giusto per intrecciare
ancora di
più le cose. Ho finito comunque il disegno del PIF
(Pregiatissimo Impero dei
Fiori) geografico e sto preparando dei bozzetti di tutti i personaggi.
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L’aria
era
appestata dall’odore degli aranci, se di norma poteva essere
un odore invitante,
buono e da liquorino, portata a quell’eccesso era un miasma.
Nauseabondo.
Nervia aveva allungato una mano ed aveva staccato un arancio da uno
degli
alberi più bassi della fronda, era una varietà
amara, con la buccia più scura e
con un odore così forte da rimanere assorbito addosso, sui
vestiti, capelli,
vestiti. A Nervia piaceva l’Aranceto, di solito, ma non quel
giorno – per
qualche ragione.
Si era svegliata guasta.
Aveva forzato l’unghia corte contro la buccia, per forzare la
rottura e poter
gustare gli spicchi. L’agrume era amaro, ma le piaceva come
sapore, da bambina
mangiava solo cose dolcissime, nulla che non fosse stato amalgamato nel
miele
riusciva a superare la sua lingua viziata, ma crescendo aveva
sviluppato un
gusto bizzarro. Sua sorella scherzava sempre che Nervia aveva maturato
un gusto
per il cattivo – lei non lo aveva mai negato.
“Shinora ne vuoi uno spicchio?” aveva chiesto con
gentilezza a sua cugina, non
era lontana da lì, seduta sotto l’ombra di uno
spesso albero. Stava leggendo un
vecchio libro di poesie del florido impero. Nervia era sempre stata
piuttosto
incapace nella letteratura antica, per la disperazione del suo
istitutore.
Sua cugina aveva sollevato gli
occhi. Erano due punte
di verde scuro, come la buccia di un’oliva. Non era bella
Shinora, o meglio lo
era, nella forma più tradizionale del termine; aveva capelli
lisci come la seta
e neri come l’inchiostro colato, con ciglia altrettanto scure
e lunghe, su di
un viso magro, di un colore pieno e sano salsola. Se si fosse alzata
dalla sua
posizione cucciata, Nervia avrebbe potuto riconoscere le gambe lunghe
che le
conferiva un’altezza più elevata di quella
abituale di una donna, della sua ad
esempio, in un corpo ben snello, ma ciò che rendeva la sua
bellezza scialba era
la mancanza di una benedizione. Shinora era bella come era concesso
agli uomini
comuni esserlo, d’altronde i suoi nonni e i suoi bisonni
erano anime condivise.
Sua cugina però era rimasta cucciata, tra le
radici di un arancio, con la
stola – necessario ad ogni rispettabile donna
dell’impero – d’oro
opaco, che avvolgeva le spalle e parte
alta delle braccia. Il fazzolo era decorato con fili
d’argento che disegnavano
fiori. Le maniche scure del vestito, strette, tirati sugli avambracci
sottili.
“Puoi venire, dolce cugina?” aveva chiesto, invece,
Shinora, senza darle
risposta.
Nervia l’aveva assecondata, ancora indisposta dalla giornata.
Era leggermente
timorosa che Shinora parlasse dei suoi sogni, era una cosa che aveva
sempre
fatto con estrema passione da che erano poco più che due
bimbette sgambettanti
con le gambe arcuate.
Shinora era la sua unica cugina di sangue, i loro padri – che
i loro fiori
crescessero belli e forti nel Giardino del Signore
– erano stati fratelli e
loro erano cresciute vicine. Shinora aveva dodici sorelle, due cicli e
una
decimana, in meno di lei; erano cugine di sangue ma sorelle di latte,
perché
avevano bevuto avide dallo stesso capezzolo, quello di Zia Maeva.
Aveva
allungato un’arancio verso sua cugina, quando era bambina,
l’Aranceto era la sua
dimora, ed anche se apparteneva a Nerva, in quelle lune,
Shinora continuava
a preferirla al disordine del Giardino. A volte si chiedeva come non
potesse
odiarla per aver ereditato la casa che un tempo era sua.
Shinora aveva sempre preferito vivere una vita quasi monacale, che
partecipare
a tutte quelle sfavillanti cerimonie; anche quando suo padre risiedeva
a Città Zagare,
Shinora preferiva vivere nella dimora campestre.
Anche Nervia aveva cominciato a percepire la stanchezza delle frenesie
di Città
di Zagare, così aveva deciso di ritirarsi in campagna e
quando sua cugina lo
aveva saputo le aveva scritto per poterla raggiungere. Inoltre sua
cugina
sembrava apprezzare il Podere austero dove erano alloggiate anche
più della
bella tenuta di Palazzo Citro, la dimora campagnola più
ricca dell’Aranceto.
Nervia
avrebbe volentieri evitato tutti i membri della sua famiglia, talvolta
aveva
l’impressione di amarli ed odiarli in egual misura, ma
sicuramente riconosceva
come fossero abituati ad infiltrarsi in ogni intercapedine, ma non
Shinora.
Sua cugina aveva raccolto gli spicchi dell’arancio,
“Una bella poesia?” aveva
inquisito Nervia.
“Era di Mellineaco di Grinea, oggi è una
città ghaadiana, Moppea? Molpea?”
aveva spiegato tranquilla Shinora, “Era un poeta alla corte
dell’Imperatore
Tioreh Dhoerti” aveva considerato Nervia, rispolverando i
lunghi soliloqui dei
suoi istitutori quando si erano dedicanti con virulenta afflizione
nell’insegnarle la storia, la letteratura e la poesia. Nervia
era stata una
ragazza curiosa, anche affamata, ma non era mai stata una brava
discola. “Sì,
sia alla corte di Tioreh che di sua figlia Tersilia, l’unica
donna ad essere
stata Imperatore” aveva cantato Shinora
piena di vivacità a quella
nozione.
Il loro mondo poteva contare il trascorre del tempo con lune e sorelle,
ma
restava un mondo di uomini, “Come la nostra” aveva
risposto pigra.
Shinora aveva annuito, “Mellineaco era innamorato della
Despote Tersilia e la
ha nominata ispirazione di ogni suo poema d’amore, questo,
questo mi stringe
sempre il cuore” aveva raccontato, con gli occhi verdi,
offuscate da lacrime.
Shinora aveva una
capacità di amore che superava l’immaginazione
di Nervia, qualcosa che in parte le invidiava ed in parte la spingeva a
guardarla con quella punta di distacco e melanconia, che le faceva
gridare
nella mente ‘Così fragile, la sua
cuginetta!’ e si sentiva un mostro per quello.
“Enneo me la ha recitata la prima volta, quando eravamo
bambini. La prima volta
io avevo cinquantadue sorelle e lui giusto dieci in
più” aveva ricordato con
melanconia.
Aveva mostrato il libro, aperto, una grafia eleganti di un qualche
monaco,
dominava una pagina giallo ocra, accompagnata da immagini di fiori.
“Traduco molto male la lingua istiana”
aveva ammesso, anche se la lingua
del Florido Impero non era che la nonna della sua
lingua.
Shinora aveva annuito, recuperando il libro per poterlo leggere in
fioriano per
lei.
Per
lui, non esiste che lei. Lei che è il sole, la luna e le
altre stelle.
Se ride, se canta, se parla e di e per lei;
lei che ha la pelle del miele e gli occhi splendenti;
Se piange, se si rabbuia e se tace non è che per lei.
Per la risata che musica il silenzio e riscalda il suo cuore.
Ogni momento, ogni luna, ogni istante
esiste perché esiste lei.
Se chiede, se rifiuta, se prega non è che a lei.
Con lei, per lei e a lei.
E se vive un giorno in più …
e solo perché vuol essere certo che anche lei viva un giorno
in più.
Perché non può sopportare che lei che era il sole
la luna e le altre stelle
sprofondi nell’oblio.
La voce di
sua cugina era una cantilena, quando aveva terminato la poesia.
Conosceva la
poesia, non perché fosse la più famosa di
Mellineaco, non perché fosse la più
malinconica, o perché avesse Nervia vasta conoscenza dei
poemi, ma perché
l’aveva già udita al Bocciolo.
Nella Grande Basilica, alla luce della luna, filtrata nella vetrata, e
illuminata da mille candele; ricordava una voce di donna impastata
ripeterla.
“Nulla è più tragico di un fiore
strappato troppo presto” aveva considerato
Nervia incerta, che non aveva mai provato quel dolore, ne aveva sua
cugina
d’altronde.
“Tua sorella lo ha letto al funerale di suo marito.
L’avevo dimenticata ma, poi
la ho ricordata” aveva raccontato sua cugina con calma, un
po’ melanconica. Gli
occhi erano gonfi di lacrime, ma aveva tenuto i rivoli lontani dalle
guance. “Ho
pianto tutta la funzione” aveva confessato Shinora.
Anche Nervia lo aveva fatto, sebbene non avesse saputo spiegarsi
perché.
“Enneo ha sempre raggirato alle parole Cortesi”
aveva ricordato Nervia, come
tutti i rampanti cavalieri anche Enneo aveva dovuto giocare a quella
ilare
tradizione, ma invece di darsi a orride creazioni, aveva sempre rubato
le
parole dei poeti veri, modificandole dove occorreva. Shinora che era
sempre
stata la destinataria dei suoi versi, non ne era mai stata turbata.
Sua cugina
aveva sorriso, con le labbra sottili ed i denti dritti e perlacei in
evidenza,
“Oh, Nervia, Enneo ha
sempre detto che non vedeva il
senso di mettersi in ridicolo quando uomini più in gamba di
lui avevano già
dato nome alle sue emozioni” le aveva detto.
“Sicuramente so che non mi hai chiamato qui per leggere
poesie tristi!” aveva
replicato subito Nervia, inghiottendo il disagio che le si era pesato
sul petto,
pensando a quei discorsi, quei sentimenti.
Non conosceva davvero moltissime
cose, pensava ad
Enneo, con la sua armatura ammaccata ed il cavallo ammantato con i
fiori di
Arancio – i fiori che spettavano a Nervia – e non
riusciva ad immaginarlo
recitare poesie languide neanche a Shinora. Lo aveva visto ai tornei, lo
aveva sentito, ma non riusciva a pitturarsi. Non riusciva a
vedere Enneo
così preso.
Ricordava che tante sorelle prima, quando Shinora ed Enneo erano ancora
imberbi,
si erano amati; ma Nervia ricordava fossero stati bambini e non dava
mai così
importanza ai sentimenti dei bambini, vivevano tutto con vigore e allo
stesso
tempo tutto con futilità.
Shinora
aveva messo da parte il libro per mangiare lo spicchio
d’arancia che Nervia le
aveva portato, gustandoselo, come lei, Shinora tollerava bene quel
sapore acre,
forse era nel sangue.
“Sì ti ho chiamato per raccontarti il sogno che ho
fatto ‘sta notte. Era uno miei”
aveva confessato sua cugina.
Le spalle di Nervia si erano fatte dritta e tese, come se fili
invisibili le
tirassero la carne, “Davvero?” aveva chiesto
fingendosi disinteressata.
Molta gente additava Shinora come una Vistalunga, ma Nervia aveva
difficoltà a
credere che esistessero gente creata dal Buon-Signore con quella dote,
non
veramente. Trovava più facile riporre la sua speranza in
santi uomini e donne
piissime, che persone con il dono di spiare il giusto-sentiero.
“Sì, volevo parlarti di questo” aveva
detto chiara Shinora, sollevandosi con
uno scatto di gambe e posando i palmi sul tronco per sorreggersi.
Era più alta di Nervia, di metà di una testa.
“Ho sognato il Palazzo del
Bocciolo, splendido e d’oro come mai è stato. E
lì dalle sue fondamenta,
piccola, nasceva una pianta d’edera, era minuscola, una
radicetta appena, ma
poi cresceva e cresceva, salendo per le mura, lungo ogni mattone, lungo
ogni
parete. Si infilava in ogni spacco, fenditura e crepa. Il Palazzo era
vecchio,
stregato e decadente, con una rete di edera che lo decorava e poi,
quando
sembrava che fosse destinato ad appassire nel silenzio,
l’edera come un cappio
si stringeva. Ma non era più di sottili steli, ma erano
larghi tronchi,
resistenti come il ferro, pesanti e forti e lo distruggeva. Spaccando
ogni
mattone, ogni pietra, ogni cosa, fino a rendere quello che era il
più maestoso
dei palazzi null’altra cosa se non polvere” sua
cugina aveva fatto una pausa,
“E polvere di gesso, come neve cadeva su ogni fiore, nessuno
era rimasto in
piedi, erano tutti spezzati e senza petali, ogni pianta era morta
… anche
l’edera stessa” c’era qualcosa di sacro
nel modo in cui Shinora aveva
pronunciato quelle parole.
Nervia aveva allungato una mano prendendo quelle di sua cugina in un
gesto di
affetto e conforto, “Non era un sogno da Vistalunga, mia
adorata cugina, era
una suggestione o una realtà che mai
avverrà” aveva stabilito, rincuorata in
parte, ma piena di tristezza.
“L’edera ha già provato ad arrampicarsi
sulle mura della nostra sacra
istituzione” aveva ricordato con voce spenta, pensando al
dolore ed il sangue
che era stato versato.
“Non tutta l’Edera è morta
cugina” aveva ricordato Shinora.
“Ma solo spettri abitano ora il loro palazzo ed un tristo
signore. Il che è una
tragedia, ma ben peggiore poteva essere” l’aveva
rincuorata.
Le loro
chiacchiere erano state interrotte.
“Sua
…
Mia signora” l’aveva chiamata una voce maschile,
lei si era voltata
riconoscendo La Coccatrice correre verso di lei, con
l’espressione contrita sul
viso giovanissimo, settanta sorelle a malapena, con un viso
fresco, senza neanche un accenno di barba. Alto per la sua
età, con l’incarnato
bianco dei mezzi ghaadiani, i capelli castano-dorato e gli occhi furbi.
Indossava degli abiti da contadino, una blusa larga di un grigio
tortora, sopra
delle pantacalze scure, infilate negli stivali di cuoio foderati di
pelle di
cervo, troppo caldi per il clima de L’Aranceto. Le
sembrava sempre strano vedere La Coccatrice non indossare armamenti da
battaglia, l’armatura pregna ormai di ammaccature da
battaglia e consumata in
ogni modo, sena neanche la cotta di ferro che indossava anche quando
girava tra
i civili. L’unica arma che indossava era un pugnale, legato
ad un cinturone di
pelle avvolto alla vita.
Non era venuto da solo, al suo fianco, de La Coccatrice,
c’era Bieve la sua
cameriera domestica, anche lei non era vestita come d’uopo,
ma sembrava una
contadinotta, con un abito marrone del colore del fango, dalle maniche
strette
fino ai gomiti, con indosso uno scamiciato grigio. “Mia
signora” aveva ripetuto
La Coccatrice, come se quell’appellativo gli bruciasse sulle
labbra, chinando
il capo, anche la schiena e se non era caduto su un ginocchio, era
stato solo
perché Nervia lo aveva interrotto prima.
“Non è necessario, mio cavaliere” aveva
affermato Nervia nervosa, posando le
mani sulle spalle ampie del giovane cavaliere.
Quello era arrossito di imbarazzo, sentendo le mani sulle spalle.
Nervia aveva
lasciato La Coccatrice, per rivolgere la sua attenzione
all’altra donna lì
presente. Bieve come tutte le donne sposate del Pregiatissimo Impero
aveva
raccolto i capelli scuri, anche se in una treccia disordinata, che
perdeva
riccioli da ogni scaglia. “Sono qui, i suoi ospiti, mia
signora” aveva comunicato
Bieve, che non si era concessa neanche una riverenza, ormai tanto
abituata a
lei. “Sono qui” aveva ripetuto Nervia, quasi tra
sé-e-se, strappando un altro
spicco di arancia che aveva inghiottito prontamente, prima di
proseguire la
strada inversa, che quella mattina l’aveva guidata lungo la
passeggiata tra gli
alberi.
“Mio cavaliere, non perdere la tua diligenza” aveva
detto a La Coccatrice con
calma, prima di voltarsi verso Bieve, “Di al tuo caro Addam
di preparare quelle
pernici che il nostro buon cavaliere ha preso per noi” aveva
ordinato,
ammiccando al marito di Bieve.
Si era voltata verso Shinora, “Ho ospiti che mi attendono, se
tu desideri
scortarmi cara cugina” aveva proposto, quella aveva scosso il
capo, facendo
oscillare i lunghi capelli sciolti da vergine, “No, mia cara
Nervia, resterò
qui a leggere un altro po’ di poesie
Il podere
dove alloggiavano era in pietra di calce, mischiata a frammenti di
ceramica, in
principio era stato qualcosa del florido impero, un vecchio retaggio di
un
mondo dimenticato, forse i resti di un castro dell’esercito.
Dove sorgeva
l’Aranceto, in principio, vi era la Boghia, una terra
composta da clan
guerrieri, uguali per religione, aspetto e lingua, ma divisi per idee,
per
famiglie, per piccolezze. Erano stati avversari ostici per
l’Impero, non il
Pregiatissimo, ma il Florido, ma erano stati mangiati dal tempo e della
polvere, perché non erano riusciti a superare le loro
inimicizie e il Florido
Impero gli aveva divorati.
Nell’Aranceto dei popoli Boghiani non era rimasto nulla,
qualche occhio di un
verde più intenso, qualche ciuffo di capelli più
riccioluto, ma nulla neanche
vecchi ruderi.
Tutte le vestige di un passato glorioso di quella regione, apparteneva
all’avido e glorioso Florido Impero. La sua struttura
però non conservava molto
dei tempi leggendari, era stata fagocitata dai rinnovi, i restauri, le
demolizioni, gli ampliamenti e quant’altro del Pregiatissimo
Impero dei Fiori,
l’unico degno erede del Florido.
E del castro florido, era rimasto nulla più che un podere,
palazzo Salvia, per
le gite fuori porta per lei e la sua famiglia, per allontanarsi dalla
violenza caotica
della città.
Non era un
luogo adatto ad una signora della nobiltà, ma era un luogo
carino ed ameno. Sua
zia portava lei e sua sorella lì, assieme al figlioletto, e
li lasciava correre
felici da bambini, poi era diventato suo.
“Bella la passeggiata tra i boschi?” le era stato
inquisito immediatamente da
una voce.
Una giovane donna la guardava con un pungente cipiglio sul viso,
“Adoro le
arance di questo posto, Imeria cara” aveva risposto Nervia,
“Mezza per te,
ecco” le aveva detto, allungando metà degli
spicchi che erano rimasti. Imeria
era la sua dama di compagnia, da quando avevano
venticinque sorelle l’una, era la figlia di un signore minore
della Marca di
Spessi Abeti. Il suo vecchio l’aveva spendita da Nervia per
essere sua amica e
compagna, perché frequentasse i suoi ambienti e trovasse un
buon marito, cosa
che Imeria si era sempre dichiarata lontana.
Il che divertiva molto Nervia, lo stesso margravio di Spessi Abeti se
avesse
potuto avrebbe sposato Imeria seduta istante.
“Grazie,
Nervia, i tuoi ospiti sono in soggiorno, li ho lasciati nelle sapienti
mani di
Saranna” aveva spiegato immediatamente Imeria, staccando uno
spicchio da
succhiare con le labbra, un’espressione aspra le si era
dipinta in viso –
troppo amaro per il suo palato.
“Poveri i miei ospiti allora” aveva risposto spenta
lei, pensando alla sua
seconda dama di compagnia e la sua chiacchiera proverbiale,
“Colpa tua” l’aveva
rimbeccata Imeria, lasciando che una lacrima di succo
d’arancio le scivolasse
dalle labbra sottili, “Era Aloyssa che si occupava di queste
facezie” l’aveva
rimproverata.
Nervia aveva sospirato, stanca, “Anche a me manca tanto,
Imeria” le aveva
detto, “E se avessi potuto l’avrei tenuta con me
sempre, ma Aloyssa si è
sposata” le aveva ricordato.
Aloyssa era un’altra sua cugina, ma dispetto Shinora era
più lontana nel
sangue, erano i loro nonni ad aver condiviso lo stesso ventre, rispetto
i loro
padri.
Se Shinora aveva condiviso con lei la balia ed una culla, Aloyssa aveva
diviso
il pettine, il letto, le stanze, i vestiti ed anche i pettegolezzi.
Loro due, con Imeria con il suo cipiglio duro come una lastra di
ghiaccio e
Saranna con la sua voce allegra e
tintinnante come una
campanella.
Imeria aveva sbuffato, “Ed ora lei ha un piccolo rigettino
splendente e
gli ospiti devono essere intrattenuti da Saranna e le sue chiacchiere
infinite”
aveva ribadito la sua dama, “Io insito che il tuo fascino
pragmatico potrebbe
rivelare infinite soprese” le aveva risposto. Imeria aveva
sorriso incerta.
“Tua cugina come sta? Ieri notte è rimasta fuori a
guardare la luna, lo sai?”
aveva chiesto retorica Imeria.
“No, ha dormito, sotto le stelle. La rende felice,
è così da quanto era
piccolina. Mia sorella diceva che era più matta di un
cavallo, ma per me è
sempre stata solo stravagante” aveva liquidato la faccenda,
decidendo di
ignorare i sogni che sua cugina aveva fatto sotto la Luna.
Edera che cresceva fino a soffocare un palazzo intero,
doveva solo
sperare che fosse la suggestione della tragedia che si era consumata,
ad aver
guidato i pensieri di sua cugina e non un prossimo futuro.
“La nostra nuova amica, invece?” aveva chiesto
Nervia, desiderosa di cambiare
argomento. “Continua a stare come stava dopo la Piana
di Malvasia. In
vero credo stia come sta la Piana ora” aveva risposto Imeria
senza nascondere
cupezza. Lei aveva sentito il suo cuore sussultare a quel rude paragone.
Dolore e devastazione.
“Forse, dopo questa luce, starà meglio”
aveva provato Nervia, incerta della sua
stessa idea. Imeria l’aveva guardata insofferente, con gli
occhi grigio-neri
giudicanti, “Se così fosse e a Il Principio che
dovremmo dire grazie” le aveva
detto. Non c’era però speranza nel tono secco di
Imeria, non credeva che nulla
di ciò che sarebbe successo avrebbe cambiato nulla, forse
era così. Ma Nervia
aveva bisogno di sperare, anche se fosse stato nell’ Il
Principio.
Nervia aveva stretto le labbra in una presa serrata, insoddisfatta e
consapevole, “Allora così
sarà” aveva affermato senza perdere colore e con
quell’ultima frase si era congedata; aveva attraversato
l’androne fino a
passare le porta della stanza di rappresentanza.
Saranna
dominava la scena, come non sarebbe stato diverso altrimenti, era una creatura quasi perfetta, alta
e flessuosa, con i
capelli biondo-argento, del suo sangue dei Sussurranti, oltre le
montagne, nel
nord più puro. Il viso era olivastro, come una fioriana
fatta e finita, con
occhi di miele lucidi, intrecciati in ciglia argentee. Quasi perfetta,
però,
con le orecchie leggermente pronunciate ed un’ossimetria nel
viso che creava un
segno di straniamento.
I due ospiti erano, però, completamente imbevuti
delle parole di Saranna,
della storia che stava montando per loro. Nervia si era fermata sullo
stipite,
con le braccia conserte, appoggiata allo stipite della porta, mentre
sentiva la
sua dama raccontare ogni sorta di storia.
Il raccontato di Saranna verteva su un certo uomo che giurava di avere
un
ansino parlante, si era arrestato a metà quando
l’aveva scorta.
I due sconosciuti erano rimasti interdetti, particolarmente uno dei due
che si
era preoccupato, “Signorina?” aveva chiesto
perplesso, una voce forte e
maschile. Eppure, si erano presto accorti della traiettoria degli occhi
di
Saranna, “La padrona della tenuta è
tornata” aveva comunicato Saranna,
introducendola.
I due quando l’avevano vista si era tirati immediatamente su,
incerti,
guardandola con occhi pieni di indecisione. Probabilmente cercavano di
comprendere quale signora della regione degli Aranci Sanguinelli li
avesse
convocati. Come dovevano comportarsi davanti a lei, che grado di
rispetto le
dovevano.
Nervia era chiaramente una nobildonna, non aveva la presunzione di
poter
sembrare una persona comune, anche vestita senza tutti gli orbelli da
cortigiana, le stoffe che indossavano era ancora pregiate; inoltre, era
una
figlia benedetta.
I due
ospiti aveva fatto una riverenza, confusi.
Erano maturi, ben oltre le duecento-sorelle, se non tutti e due, almeno
uno.
Erano un uomo ed una donna, con pelli olivigna, così scura,
da sembrare quasi
rame. Lui era ricurvo, come il cuneo di un ago, con rughe infelici a
segnare la
pelle e capelli grigio nero radi, che portava radi sulla testa, lei era
più
dritta ma non meno stanca e i suoi capelli erano una nuvola di bianca
neve,
stretta in una crocchia ordinata. Non erano vestiti come contadini, ma
come
mercanti, sebbene non avessero gioielli, la stoffa dei loro vestiti
erano di
velluto morbido.
Lui indossa una lunga toga verderame, che scivolava fino ai piedi,
fermata solo
poco sopra i fianchi da una cintura, lei era vestita di rosso-vinaccia,
con un
abito dalla gonna ampia stretto alla vita. Entrambi i vestiti erano
decorati da
due clavi d’oro che dall’orlo del colletto
scendevano fino a quello del fondo.
“Mia signora” aveva detto la donna più
cortese, chinando il capo e compiendo
una riverenza, imitata dall’uomo prontamente, sebbene senza
esprimere parole.
“I signori Varghiani, immagino” aveva considerato
Nervia, “Ginnea e Martes”
aveva vagliato, erano una coppia di fratelli, anche se Nervia non
l’avesse
saputo, non avrebbe potuto fare altro che dedurlo, dalla stessa forma
larga
della bocca come quella di una rana e dall’attaccatura del
naso stretta come un
dito. Anche l’attaccatura dei capelli, leggermente alta,
sfoggiando una fronte
tonda, era simile.
“Sì, mia signora per servirla” aveva
detto Martes con sicurezza.
Nervia aveva sorriso, “Ho necessità che
realizziate una delle vostre opere
d’arte, per me” aveva ammesso.
L’espressione dei due ospiti si erano tinte di
confusione, guardandola, ovviamente. Nervia non si faceva illusione,
sapeva che
aspetto avesse, sapeva che la sua perfezione era irradiata da ogni suo
più
piccola finezza – e sapeva di non poter apparire come
null’altra cosa.
Tranne che per quel piccolo dettaglio, quando sorrideva.
La Bizzaria, come l’avevano sempre
chiamata.
“Certo, non è per me, per me il lavoro, miei buoni
signori, ma sarà mia premura
la commissione” aveva dichiarato con più calma
Nervia. “Signora Varghiani,
avrei necessità che mi seguisse” aveva comandato
poi, autoritaria ma non
imperiosa, “Io e mio fratello lavoriamo insieme, mia nobile
signora” aveva
spiegato pazientemente la donna, toccando con mano la spalla del suo
compagno.
“Certo, dopo, vorrei però – per
intimità – potesse visionare solo lei”
aveva
spiegato, il suo tono era candido e gentile, ma non c’era
alcuna preghiera, ma
un ordine. “Saranna può intrattenere suo fratello
a dovere, conosce centinaia
di storie assolutamente improbabili” aveva considerato,
“O la mia cameriera
potrà servirvi del sidro frizzante” aveva
aggiunto, più accomodante.
Ginnea
Varghiani l’aveva seguita lungo le scalinate per il piano
superiore, Nervia le
aveva offerto un gomito a cui appoggiarsi, ma la donna, aveva preferito
di gran
lungo il corrimano per tenere l’unica mano libera, mentre con
l’altra
sorreggeva una scatola di legno a più ripiani, trattandola
come la Corona Aspra
dell’imperatrice. “Sarebbe stato più
favorevole il piano di calpestio, mi rendo
conto, ma ho avuto difficoltà con la mia ospite”
aveva ammesso calma e piena di
vergogna, quando alla seconda rampa di scale, aveva intrapreso la
stanza per un
corridoio.
Il Palazzo Salvia, era un palazzo solo di nome, non
era grande, ne
maestoso, non aveva corridoi infiniti di porte e stanze ad oltranza,
era
piccolo e limitato, tranne le due ripide rampe di scala di pietra. Un
tempo era
esistita anche una torre quadratica, ma restava di quella struttura
solo un’ulteriore
rampa di scale vestigiale, che finiva contro un soffitto, con una
botola che
portava ad una stanza in cui era stato accumulato tutto e di
più nel corso delle
sorelle.
La porta che cercavano era una delle poche animata con della vita;
guardata a
vista da un giovane soldato, un uomo dell’ordine della Rosa
Nera, non che fosse
evidente, aveva tolto i gingilli che ne stabilivano il grado e non
indossava
l’alta uniforme o l’armatura, sfoggiando, invece,
una cotta di maglia, i
gambali e le loriche delle braccia ed una mano guantata
all’elsa penzolante sul
fianco. Nel vederlo così il giovane Raminio non sembrava un
cavaliere degli
ordini maggiori, sembrava più un Lupo d’Arme,
scinto e disinteressato.
La sua famiglia non era stata entusiasta della scelta dei due
cavalieri,
entrambi giovani, entrambi inserpenti, nessuno di loro aveva servito
sotto lo
sguardo acuto dello Scintillante Generale.
Nervia gli aveva presi soprattutto per questo, non era stata
altrettanto
fortunata con gli altri.
“Riposo, buon Raminio” aveva detto pratica Nervia,
mentre l’uomo si faceva da
parte, permettendo alle due donne di aprire la porta ed entrare.
“Sono intrigata e confusa, mia signora” aveva
considerato Ginnea, guardando la
stanza con interesse.
Era piccola, forse un po’ fredda. La luce nella stanza era
quasi del tutto
assente, la finestra aveva gli scuri tirati che non permetteva a
neanche un
raggio di luce di passare e l’unica illuminazione era data
dalla luce di una
candela di un comò. Un pavimento in marmo lucido, recenti
dell’ultimo restauro,
coperti parzialmente da un morbido tappetto, che ottundeva il suo del
tacchettio sulla pietra. Nella stanza figurava anche un armadio grande,
di
legno di abete chiaro, dalla doppia anta, accostato ad una parete,
così grande
da mangiarla tutta. Non lontano spiccava uno specchio di vetro
soffiato, leggermente
ricurvo e di una tonalità non cristallina, incassato in una
forma di piombo
lucido modella. Lo specchio era lì, per restituire
l’immagine riflessa, ma la
superficie era stata coperta da un mantello color crema.
C’era
anche un letto, sistemato sotto
gli scuri ed una figura abbozzolata dentro.
Nervia si
era avvinata, non facendo rumore, nonostante indossasse ancora gli
stivali da
esterno, senza preoccuparsi del terriccio che aveva lasciato in giro
per il
podere.
Si era seduta sul bordo del letto e con delicatezza aveva messo le mani
sulla
figura, per scuoterla questo “Fiorellino, ti prego, devi
svegliarti” aveva
sussurrato, ben sapendo di dover parlare con una creatura
già sveglia – per
quanto quella definizione fosse impropria.
La dolcezza del sonno sarebbe stato un piacere assai gradito per la
persona, ma
erano solo lunghe notti silenziose con la mente sfrigolante ed il sonno
ben
lontano.
Nervia aveva accarezzato con delicatezza la guancia della ragazza con
la stessa
dolcezza di una madre, lei che a malapena ricordava il tocco della sua.
Doveva essere stata una donna gentile però, suo padre lo
diceva sempre ed anche
sua sorella – e lei raramente aveva parole piene di miele per
nessuno.
Nervia si era sempre sforzata di essere carina, aveva funzionato, forse
in
parte, sapeva che la gente si rivolgeva a lei come la ‘Buona
Signora Nervia’ ma
lei si sentiva tantissime cose e nessuna di queste prevedeva
l’utilizzo
dell’aggettivo buona.
“Tesoro, puoi svegliarti?” aveva chiesto alla
giovane, cercando di essere meno
delicata.
Le palpebre non avevano tremato, le ciglia si erano schiuse subito,
sclere
bianche, screziate dal pianto e da vene rosse ed iridi aronia
nerissime.
Poi anche il viso aveva ripreso vita.
Il
candore di una pelle bianchissima, accompagnata con capelli biondo
intenso come
la polvere di zafferano, falciati corti fino alle clavicole, come era
usanza di
una vedova – anche se non lo era. La ragazzina era perfetta,
con un naso
leggermente piccolo, delicato e all’insù, con
labbra piene di un naturale rosa
scuro ed un mento appuntito, che coronava un viso a cuore,
assolutamente
perfetto, una bimba del destino, una benedetta, la sua naturale
perfezione era
però rovinata da una cicatrice che le deturpava le labbra,
un taglio dritto
come il primo incerto affondo di un coltello su un tocco di carne, prendeva un
pezzo di pelle sotto
le labbra e poco sopra il mento, entrambe le labbra e saliva fino a
costeggiare
la narice destra, più profondo e più
frastagliato. Una mano umana che intaccava
il dipinto perfetto del Dio-di-Ogni-Cosa-Buona.
Sessanta quattro Sorelle ed occhi neri già morti.
Gli occhi della ragazza, neri come fossi, guardavano Ginnea senza
vederla.
Nervia le aveva presentate, omettendo quanti più dettagli
non necessarie.
“Ginnea è un’artista, lavora sui
segni” avevano spiegato all’ultima delle sue dame
da compagnia, “La ho vista modificare fiori senza essere
seconda a nessuno.
Certe bimbe sbagliate, rese magnifiche, accompagnate da colori
più vividi e
lucenti” aveva detto calma.
“Sono confusa mia signora, questa fanciulla mi sembra
… già perfetta” aveva
considerato Ginnea. Nel farlo si era toccata come un riflesso le
labbra, dove
la ragazza esibiva la mutilazione.
Nervia aveva annuito, “Non sbagli, ma gli uomini hanno
tentato di intercedere
per conto di Dio” aveva dichiarato, alzandosi dal letto e
facendo muovere con
lei la sua dama.
I movimenti della ragazza erano stati duri, poco armonici, come se al
posto
degli arti avesse legni attaccati al corpo, legni rimasti inerti, che
avevano
smesso da un po’ di usare le fluide movenze che un corpo
umano doveva compiere.
“Tesoro” aveva chiesto con gentilezza,
“Puoi … so che è difficile”
aveva
considerato Nervia.
Si era sentita una bestia per quella muta richiesta e pensava con
orrore e
disgusto di se, che altrove, nel vasto impero, qualcuno parlava di lei
chiamandola
con quell’orrido nome: La Buona Signora Nervia.
Gli occhi della ragazzina era
ancora vacui, la sua
espressione non aveva avuto neanche un tentennamento, meno era stato
per la sua
posa.
Si era come incupita su di se e le sue mani, tremolanti, si erano mosse
guidate
da braccia ancora più incerte. Aveva
raggiunto il retro del suo collo, dove l’orlo superiore del
vestito, era
segnato da un bottone, che aveva fatto scivolare fuori
dall’asola.
Nervia l’aveva aiutata a togliere il vestito, ma aveva notato
che le sue di
articolazioni avevano cominciato a vacillare ma non era cambiato nulla.
Nessuna
espressione di apprensione e vergogna si era manifestata sul viso della
sua
dama, solo vuoto.
Sotto il vestito l’altra indossava una sottana lunga fino
alle rotule, con
spalline sottili come fili di cotone. Nervia aveva titubato, lasciando
che
fosse lei stessa a nudarsi dell’ultima barriera che aveva. La
sua dama aveva
per la prima volta dato cenni di vita, il tremolio delle mani si era
acquietato
e la sua posa si era fermata, come sabbia colpita da un fulmine, ferma
in un
vetro eterno, un respiro solo, una disperata ricerca di coraggio e poi
aveva
proceduto, sfilando le spalline sottili e facendo cadere la lunga
sottana sul
pavimento. Nervia aveva distolto gli occhi, on aveva guardato il corpo,
non ne
aveva bisogno, ma aveva visto l’espressione di orrore che si
era dipinta in un
momento sul viso di Ginnea, più di un momento, prima che la
disegnatrice
recuperasse una calma misurata.
“Capisco” aveva esalato, il suo tono voleva essere
professionale e quieto, ma
era stato impossibile non leggere la dolenza nella sua voce, la
preoccupazione,
e perché, no, anche l’orrore. “Il suo
fiore è stato rovinato, quindi, sì, so
che non può essere riprodotto perfettamente, ma pensavo che
la mano che ha
dipinto sugli orridi aster di Milaiah di Città
Gerbera” aveva detto Nervia,
riprendendo la parola, cercando di spezzare l’angustia aria
che si era
intessuta in quella stanza. Non esistevano termini gentili per
descrivere
quella situazione, per descrivere ciò che era stato fatto
alla sua dama.
Ginnea
aveva fissato gli occhi miele sul seno deturpato della sua dama e poi
sul resto
del suo corpo, con preoccupazione. Era sceso un silenzio spesso e colmo
di
disagio.
Poi Ginnea aveva parlato, “Posso … posso
restaurare il suo fiore, per quanto
una mano umana lo conceda. Quello, mia signora, era un fiore benedetto
–
dipinto direttamente dalla mano-di-Dio” aveva ammesso alla
fine, calma, “Io sono
brava, ma il mio talento rimane umano.”
“Sarà
sufficiente” aveva considerato Nervia, chinandosi per
raccogliere i vestimenti
della sua dama – non era suo dovere farlo, avrebbe dovuto
essere il contrario,
ma come poteva Nervia chiedere a quella fanciulla di svolgere qui
futili doveri
quando era così spezzata. “Per il resto delle
cicatrici, invece?” aveva
domandato Ginnea preoccupata. Nervia aveva sentito il freddo sulle sue
mani,
sulla sua schiena, così come i movimenti per coprirsi della
sua dama avevano
subito una brusca interruzione, uno sfarfallio appena, come il battito
di una
farfalla era passato negli occhi scusi.
“So che alcune persone molto pie manifestano la loro
adorazione riempiendosi di
fiori” aveva considerato la Nervia “Personalmente
trovo questo comportamento superbo”,
con più ferro nella voce di quanto avesse deciso.
“Solo il Dio-di-Ogni-Cosa ha
il permesso di far fiorire corolle” aveva considerato Ginnea,
ma il suo tono
era neutro, probabilmente non concordava con il medesimo pensiero di
Nervia, ma
l’avrebbe assecondata, perché proveniva da
giardini diversi, sarebbe stato
scioccò contrariare una signora e sarebbe stato altrettanto
sciocco per una
signora crederci. Ginnea si guadagnava il pane ingannando
l’operato di Dio. Servi
de Il Principio, tanto quanto liberisti o Volontisti
– però, Nervia, non
aveva mai avuto problemi a riconoscere la sua
ipocrisia.
“Se lei lo desidera, può far nascere
fiori sul suo corpo” aveva mormorato
Nervia, guardando la dama, le aveva fatto indossare nuovamente il suo
abito
domestico.
Non sapeva se doveva aspettarsi una risposta, una vera,
“Vuoi?” aveva chiesto
titubante.
La sua dama l’aveva guardata, poi aveva annuito appena,
muovendo il mento
appuntito; Nervia aveva risposto a quella volontà di vita,
con una carezza sui
capelli, gentile, anche se sapeva che nessuno dei suoi tocchi avrebbe
portato
alcun conforto, “Dopo che il lavoro della signora Varghiani,
avrà conclusione,
torneremo in città, a vestimenti di seta, vini annebbianti e
lussi inauditi”
aveva provato, senza impegno, sicura della vacuità delle sue
parole.
“Perché non scendiamo a mangiare, ora?”
aveva provato a chiedere, prendendo il
gomito della più giovane delle sue dame, “Abbiamo
degli ospiti, arance in
quantità e La Coccatrice ha preso due pernici questa
mattina” aveva aggiunto.
E solo il Dio-delle-cose-buone sapeva quanto l’altra avesse
bisogno di nutrirsi
con qualcosa di diverso di miele e pane bagnato.
La sua dama l’aveva guardata, poi aveva risposto –
gracchiante, come se la sua
gola fosse troppo stretta per la sua voce – atona:
“Certo, sua altezza.”
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Capitolo 8 *** PARTE PRIMA; TIOLO I; CAPITOLO V ***
Confessione:
Faccio
schifo in topografia e sono andata particolarmente male
all’esame di topografia
medievale.
TW:
utilizzo di droga,
sintomi dell’astinenza, menzione di prostituzione.
P
A R T E P
R I M A
L
‘ I N V I O L A B I L E
T
I T O L O I
I G I O C A T O R I
C
A P I T O L O
V
S
E T
V
R E S T I Q
V I, N O N V
R L E R O’
Iren
respirava in maniera pesante, come se l’aria non riuscisse a
filtrare bene,
attraverso il suo naso e la sua bocca. Saiji aveva accarezzato la sua
guancia e
i capelli scuri, con più delicatezza di quanto non avesse
mai fatto prima, non
era avvezzo a quelle sdolcinerei. Aveva sposato con l’indice
e medio il viso di
Iren affinché affondasse di profilo sul guanciale, se avesse
vomitato in quella
posizione non si sarebbe strozzato.
Aveva guidato le mani di Iren sopra la sua testa corvina, aveva
delicatamente
incrociato i polsi, prima di cominciare a legarli insieme con una corda
relativamente spessa, che aveva poi fermato contro la testata di legno
del
letto. Non voleva stringere troppo, così da ferire Iren, o
complicare il libero
scorrimento del sangue, ma aveva paura che se non avesse annodato bene,
ci
sarebbe stato il rischio che Iren riuscisse a sciogliersi dal fermo.
Sapeva che ormai il veleno del Latte d’Uccello era finito
definitivamente, dopo
la spossatezza – e la nausea – che lo avevano
attraversato negli ultimi giorni,
quello che avrebbe colpito Iren era l’ultima fase:
la Sregolatezza.
Il suo corpo avrebbe cominciato ad agognare senza controllo ne
capacità di
sopportazione il bisogno di procurarsi altro Latte. Iren si sarebbe
agitato, si
sarebbe divincolato, sarebbe stato simile ad una bestia, pur di uscire
da
quella stanza, da qualsiasi parte, per cercare il suo veleno.
E Saiji non sapeva come doveva comportarsi, solo grato che il suo amico
avesse
resistito a quel comportamento fino a che non erano giunti in
città. Nella
brughiera non ci sarebbe stato verso di contenerlo e la follia del
bisogno
avrebbe finito per ucciderlo, in qualche atto irrazionale. Doveva la
loro
fortuna ad un gruppo di zatteristi fiumani, da cui era riuscito a
comprare una
pasta rilassante che si spalmava sulle gengive o sul palato. Anche
Saiji ne
aveva avuto bisogno di un po’.
Saiji non
credeva in nessun Dio e di sicuro in opere misteriose, ma doveva
sicuramente
essere stato un miracolo ad aver permesso loro di passare i dazi
doganali di
Città Azalea, con Iren che si reggeva sulla sua cavalla con
la stessa stabilità
di una banderuola al vento. Di per sé, era complicato per
entrambi muoversi,
Iren era un Figlio del destino, Benedetto, ma aveva il viso bianco come
la neve
dei ghaadiani, mentre nonostante i suoi capelli rossi, Saiji aveva
l’aspetto
eosiano di sua madre.
Il Pregiatissimo Impero dei Fiori aveva ereditato il nome dal Florido
Impero
di Istan, ma di sicuro non aveva ereditato la sua stessa
varietà, nessuna
erbaccia cresceva nel giardino dell’Imperatrice. Le monete sonanti di
solito zittivano quasi
ogni pregiudizio, ma non quando uno di loro somigliava ad uno
spirito-della-morte.
Il tuo amico non sembra stare molto bene.
Abbiamo perso il cavallo al Passo delle Pomacee,
così siam passati per la
foresta. Visto che è un ragazzetto di città, con
le mani più morbide create da
Iddio in persona, non s’è fidato delle mie parole,
e quando mai, ed ha bevuto
il succo delle bacche di agrifoglio.
Saij se l’era studiata bene, era una storia
credibile. Si era mostrato
quanto meno letterato potesse essere, facendosi passare per un
servitore di
Iren.
Le due guardie alla dogana lo avevano guardato, uno aveva scosso il
capo, con
sguardo poi comprensivo, consapevole, mi hanno fatto cagare
sangue e
vomitare così tanto che ho pensato ci sarei morto, una
volta, aveva
raccontato rammaricato, ma comprensivo.
L’altro commilitone aveva riso della pelle bianca macchiata
di sudore di Iren, proprio
un semidio, eh? La natura se è
dimenticata che son perfetti, loro,
evidentemente! Aveva detto solo poi, con
leziosità. Era un bimbo sbagliato,
non molto, aveva un viso ancora giovane, un naso dritto ed una mascella
squadrata che faceva apparire il sorriso cattivo ma attraente.
Oh, sì, vomitano e puzzano esattamente come noi
bestie! Aveva replicato
calmo Saiji.
Si era aspettato una battuta sugli eosiani, di solito arrivava sempre,
ma la
guardia aveva riso. Evidentemente il senso di inadeguatezza che provava
davanti
ai figli preferiti di Dio, superava l’usale visione di
supponenza che animava i
fioriani verso gli estranei.
Il dolore
aveva fatto sussultare Iren, Saiji aveva osservato le ciglia nere del
suo
amico, tremolare, nel tentativo di sollevare le palpebre, ma tutto
ciò che era
riuscito a percepire era stato lo spiraglio bianco della sclera, che
era presto
scomparsa di nuovo in un sonno serrato. Però era sveglio,
non del tutto ma
quasi, Iren aveva schiuso le labbra secchissime, aveva provato a
mormorare
qualcosa, con un tono così basso ed impastato, che Saiji non
aveva compreso. Dubitava
che qualcuno potesse comprenderlo.
“Non odiarmi, amico mio, lo faccio per il tuo bene”
aveva detto, guardando
quello che era rimasto del suo amico: una carcassa fievole, di carne
bianca,
distrutta. Anche se fosse stato bene, probabilmente non lo avrebbe
portato
ovunque, non sapeva come gestire Iren, non solo per ipotesi, ma per
quello che
il futuro riservava loro.
Iren aveva spergiurato che poteva gestire il Punteruolo, ma le parole
erano
scritte sull’acqua – diceva sempre suo padre. Aveva
sentito una morsa al petto
a quel pensiero.
La sua marra era una figura più semplice da gestire, non
sapeva perché. Suo
padre se n’era andato prima, più velocemente, in
una cacofonia di urla e
sangue.
Si era
chinato ed aveva cominciato a slacciare i lacci degli stivali, a mezzo
polpaccio, di Iren, per liberare anche i piedi, poi si era adoperato
nel legare
anche le caviglie ai piedi del letto. Il suo amico aveva provato un
debole
tentativo di ribellione, che era morto in un nodo leggermente stretto.
“Sopravviverai a questo. Te lo assicuro, sei un fottuto
maniborbide, cresciuto
tra i cuscini di piuma e seta, ma sei forte” lo aveva
rassicurato Saiji mentre
fermava con più decisione la fune alla tastiera infondo al
letto. “Il tuo dio
ti ha abbandonato nelle mani de Il Principio e delle mie e nessuno dei
due è un
maestro gentile” aveva considerato. Un suono era riverberato
dalla gola di
Iren, che somigliava terribilmente ad una risata, strozzata da un colpo
di
tosse.
Saiji avrebbe
dovuto procurarsi del Latte d’Uccello, non poteva affrontare
la depurazione di
Iren con quello che dovevano passare. Iren aveva cercato di piegare una
gamba
per liberarsi dal nodo dalle caviglie. Era stato un tentativo fiacco,
che era
morto sul colpo, assieme al tremolio delle palpebre. “Non te
ne andare” aveva
bisbigliato Iren, stupendolo, il suo tono somigliava a qualcosa di
terribilmente simile all’umano. Male, aveva realizzato Saiji,
se la morte
apparente stesse cominciando a passare, la sregolatezza sarebbe stata
ormai
prossima.
“Lo sai, che devo” aveva dichiarato Saiji,
recuperando da una fasciatura di
cotone da una delle sue bisacce di viaggio; “Adesso ti
legherò la bocca, così
non urlerai e non ci ritroveremo questa stanza invasa da persone
… e non ti
morderai neanche la lingua” aveva scherzato.
Iren si era forzato nell’aprire le palpebre, ma non
c’era ancora riuscito,
aveva sospirato, pesantemente, “No. Non
urlerò” lo aveva rassicurato, “Se tu
resti qui, non urlerò.”
Saiji era rimasto fermo, prima di rispondere:
“Sarò qui perché sorga di nuovo
l’alba. Ti porterò vino speziato e ti
riporterò la pasta fritta con miele e
noci, che ti piacciono tanto” aveva considerato, prima di
recuperare
l’unguentario di ceramica comune dalla sua bisaccia, lo aveva
stappato ed aveva
versato sul suo dito il rilassante dei fiumani, che aveva passato sulle
gengive
di Iren. Il suo amico non aveva opposto resistenza da quel punto di
vista,
lasciandosi drogare senza problemi. “Resta” aveva
detto Iren, prima di
sorridere, risentendo quasi subito degli effetti.
“Lo sai che non ho posso. Ho un impegno. Sto lavorando per
noi” aveva
detto frustrato Saiji, non voleva fare la conversazione che Iren, in
stato di
intorpidimento, voleva guidare, “Per la nostra cascina nelle
terre ferriane”.
‘Non lo fai per noi, lo fai per te,
perché non puoi smettere’ ed era
vero, perché Saiji era quello che era e nulla di
più. Ma Iren non lo aveva
accusato di quello, dopo tutte quelle sorelle sapeva ancora come
prenderlo in
contropiede, “Adda sarebbe rimasta” aveva detto
solamente, “Sì, Adda sarebbe
rimasta” aveva detto Saiji, con la stessa
sacralità di un dogma.
Da un lato credeva seriamente a quelle parole, ovviamente la ragazza
sarebbe
rimasta con Iren, vegliando con la stessa delicatezza di una madre, con
le mani
tra loro intrecciate, ma da un altro lato Saiji riconosceva la menzogna
nelle
sue parole: Adda non era rimasta.
Iren non aveva detto nulla a quella sua ammissione, “Se tutto
dovesse andare
per il meglio, forse rivedremo Adda presto” aveva considerato
Saiji, sperando
che i suoi amici volontisti non avessero deciso di far ballare loro due
la
danza degli impiccati per l’orribile peccato di essere
ciò che erano: un
Maniborbide ed un soldato, un bambino Benedetto e una pecora, un nobile
ed un
cordato.
A quell’ultima frase, Iren aveva arreso la sua resistenza,
offrendo la fronte,
il collo, per il pastrano, così che potesse legarlo,
“Non vomiterai, vero?”
aveva chiesto retorico, Iren si era sforzato di aprire gli occhi solo
per
poterlo guardare storto, o almeno una vaga imitazione di uno sguardo
minaccioso.
Saiji aveva accarezzato con le nocche la curva morbida della guancia,
ancora un
po’ infantile e si era chinato facendo sfiorare con le labbra
la fronte tonda
di Iren. Era ancora sudato come un maiale ma non più freddo
come la pietra,
assomigliava ad un uomo. Le gote del suo amico si erano tinte di un
rosso
scarlatto, “Nessuna strana idea” lo aveva avvisato
con una mezza risata.
Città
Azalea era sorta dopo la caduta del Florido Impero, ma era vecchia
quasi
duemila-quattrocento Sorelle, nasceva dal palazzo signorile. Le prime
case erano
sorte a ridosso dell’antica cita di mura, di cui quei tempi
resistevano solo
vecchie porte. Di quei tempi il palazzo era protetto unicamente dal
fossato e
la città era circondata da mura alte e strette che
circondavano la città
pentacolare ed una muratura più spessa, vecchia, che
inglobava il palazzo e le
dimore più ricche e vecchie.
Altri borghi sorgevano appena fuori dalle cinta più esterna
ed in futuro ne
sarebbe nata probabilmente una terza. La città ospitava due
piazze, quella principale
con la Cattedrale cittadina e quella delle spezie e di viuzze di ogni
genere
che si estendevano i complicati intrecci urbani, come i fili di una
matassa.
Ben distante dall’ordine di Città Viola, che
poteva vantare un centro-cittadino
ereditato dall’assetto ordinato del Florido Impero.
Il luogo di cui aveva avuto necessità, era trovato su uno
dei bracci più
esterni e malfamati di Città Azalea, la Via del Piacere. La
Serra della Signora
Sarpia dei Mille Fiori era un lupanare di tutto rispetto, per quanto
Saiji non
trovasse quei luoghi di suo gusto, affiancato da tutti gli altri luoghi
di
perdizioni di Città Azalea, però spiccava tra gli
altri edifici per cura,
grandezza ed eleganza.
Era una casa di tolleranza di una certa raffinatezza, quel genere di
posto dove
Saiji non avrebbe avuto abbastanza monete neanche per indugiare, un
po’ troppo,
con lo sguardo, figurarsi poter pagare per la compagnia. Anche se, di
rimando,
Saiji non aveva mai particolarmente pensato di spendere la sua paga
così – il
vino era meglio e lo faceva sentire meno in colpa. Si era sempre tenuto
lontano
dai lupanari, da quella volta che Ser Moira lo aveva portato con
l’intenzione
di spiegargli il segreto peggio custodito del mondo.
Le pareti
dell’edificio erano di un bianco lucido macchiato di venature
azzurre, che
sotto le luci delle lucerne, risultavano di un verde acquamarina. Le
pareti non
erano di vero marmo, ma grazie alla mano che le aveva dipinte lo
potevano sembrare,
specie con le luci soffuse della notte. La bellezza era accresciuta
dalla
presenza di ogni varietà di fiori e foglie, dai glicini,
platani piangenti,
pratoline e violette, che si alzavano in verticali, prima di
intrecciarsi in
forme geometriche, grazie ad un intricato sistema di pergolati in legno
smaltato di bianco. Il portone principale, ampio e rispettabile come
quello di
una chiesa principale, era realizzato con ferro battuto con volute di
foglie
d’acanto e intessiture viminea. Costeggiato ai lati da due
colonne posticce,
che rovinano l’immagine di eleganza e bellezza.
Era l’epitome di quelle persone splendide, belle, vicine alla
perfezione, ma
non benedette.
C’era
una
guarda alla porta, vestiva in abiti civili, ma Saiji riconosceva lo
scintillare
del ferro scuro, sotto l’orlo della blusa – una
maglia di bronzo ad anelli
circolari. La postura dell’uomo era rivolta verso la strada
trafficata, l’unica
a quell’ora della città, ma gli occhi neri,
attentissimi, non perdevano di
vista nessuno degli uomini che passava sotto l’argo di bronzo
decorato.
Saiji si era avvicinato all’ingresso con passo attento,
passando una mano per
cancellare le pieghe inesistenti del camiciotto blu notte che aveva
indossato.
Alla locanda, prima di legare Iren, si era lavato il corpo per
liberarsi
dell’odore della natura e dei cavalli, ma aveva potuto farlo
solo con l’acqua
fredda, non avendo avuto tempo di riscaldarla e con poche gocce di olio
di
lavanda. Era stata la figlia del locandiere, attirata da
quell’area magnetica
di Iren ad averla convinta a dare loro quell’ultima
prelibatezza. La ragazza si
era preoccupata di dare a Saiji anche un pettine d’osso, con
cui lui aveva
cercato di dare un ordine ai suoi riccioli indisciplinati, si era
potuto fare
poco per i suoi nodi, con acqua fredda ed olio di lavanda. Aveva anche indossato i
migliori vestiti che
aveva con sé, non che fossero particolarmente belli o
raffinati, se il suo
sangue eosiano non lo avesse già messo troppo in evidenza,
la blusa con i
gomiti rovinati, decorato con ghirigori in filo azzurro a cui erano
saltati
diversi punti e pantacalze brune ancora macchiate di sangue.
La guardia
lo aveva fermato prima che scivolasse come gli altri avventori.
“Sei sicuro,
mio signore, che questo luogo ti si addica?” aveva chiesto.
Aveva occhi
nerissimi nel buio della notte, un viso di rame, con una chioma folta
nella
parte alta della testa, tagliati appena sopra l’orecchio.
Saiji aveva fatto scivolare
nella sua mano una damigella peripsiana.
L’uomo aveva guardato le monete d’argento ed
elletrio prima con confusione e
poi realizzazione, “Credo di sì, buon
uomo” aveva risposto Saiji. Sfoggiando un
fascino che non aveva mai posseduto. La guardia si era infilato la
moneta nella
casacca, “Ed io che pensavo che tutte le melanzane eosiane
fossero poveri
rotti-in-culo” aveva considerato, con un sorriso svelto e
cattivo. “Lavoro per
qualcuno, infatti” aveva dissimulato Saiji, ottenendo il
lascia-passare per il
locale.
Aveva attraversato il corridoio all’ingresso, cupo e stretto,
illuminato da
lampade di cera, sistemate in lanterne di ferro, con figure nere, che
si
riflettevano nelle superficie. Il soffitto era a lunette di fritta blu
su cui
erano rappresentate stelle d’orate, incorniciate in cerchi
smeraldi.
Non era solo lui presente nel corridoio, ma tutti, insieme si muovevano
come
una processione. Saiji aveva riconosciuto alcuni arazzi sconci, appesi
alle
pareti.
E poi, il corridoio lo aveva condotto in porticato pieno di statue,
pieno di
persone, che con colonne bianche, sottili, terminante in capitelli
compositi,
foglie d’acanto nella parte superiore e bestie ruggenti
nell’inferiore,
circondava uno splendido giardino.
Aveva attraversato il pavimento mosaicato, fino a raggiungere il
cortile,
sentendo sotto gli stivali la pressione diversa dell’erba
fresca, lì, l’odore
di fiori era così forte, da averlo lasciato spaesato, fumi
d’incenso bianco si
aprivano da bracieri posti ai quattro angoli. Esistevano panchine di
marmo,
cassettoni di sarcofagi – reliquie del Florido Impero
– rovesciate, perché la
parte piana fosse usata come seduta.
E lì, in quell’ambiente, corpi si intrecciavano
tra loro, in una sinfonia di
sospiri ed urli, pelli contro pelli, stoffe trasparenti e sudore.
E voglia.
Saiji era rimasto quasi incantato nell’osservare una coppia
arpionata non
lontano da lui, così stretti ed avvinghiati tra loro da
sembrare un’unica
bestia amorfa … e poi mentre si lasciava conturbare da
quella visione aveva visto
lei. Una donna, con un passo felpato come quello di uno spettro,
ondeggiare
verso di Saiji. “Buona sera, Freor”
lo aveva chiamato suadente; aveva
sentito un fischio nelle sue orecchie per l’idioma eosiano,
non che la cosa
avrebbe dovuto stupirlo, la donna stessa apparteneva alla stirpe delle
genti
oltre il mare.
Era una donna affascinante, ma non nascondeva in toto la sua
età, la signora
doveva era più adulta di quanto fosse Saiji, sulle
centosessanta, forse
centosettanta sorelle.
Aveva gli occhi leggermente allungati, dalla forma di mandorla, estesi
in una
riga dritta in tintura di galena grigia, accompagnati da palpebre in
verde
malachite e le guance omogenee con la polvere di agretto bruciata.
Come lui doveva essere una
meticcia. La sua pelle era tannè,
come quella degli eosiani purosangue, ma aveva le labbra sottili dei
fioriani,
così come un naso piccolo, era di statura minuta.
Così come gli occhi, verdi
come l’erba, troppo chiari ed inusuali per le calde terre
oltre il mare, forse
anche per le terre del pregiatissimo impero, addirittura poteva
condividere con
lui sangue ghaadiano o forse delle terre-della-fine-del-mondo. I capelli
però
erano eosiani, erano folti, scuri come legno d’acero, che
scivolavano in onde
morbide come l’acqua che si increspava sulle coste, portati
sciolti come le
fanciulle nubili; a Saiji aveva ricordato quelli della sua Marra.
Nonostante
l’altezza non
così elevata, il corpo della donna aveva la forma di una
clessidra,
accompagnato da curve morbide dei fianchi, dei sani pieni e dalle cosce
carnose. Non era nuda, non completamente, non formalmente, il corpo era
nascosto da un vestito di tulle acquamarina, che permetteva di scorgere
ogni
dettaglio del corpo.
Anche il fiore sul suo petto era visibile: tre fiori di ganzania, uniti
da
gambi sottili, con petali dai colori vibranti.
Se Saiji non fosse stato educato per l’interezza della sua
vita a prestare
attenzione ad ogni dettaglio – un errore, una dimenticanza e
sarebbe stato cibo
per i vermi – lo avrebbe definito un fiore benedetto, ma non
era così. Il fiore
della donna era quello di un bimbo sbagliato, ma era stato aggiustato,
abbellito
e migliorato da inchiostri umani: colori troppo finti per essere le
delicate
sfumature del pennello del Dio-di-tutte-le-cose-buone, così
come i petali,
troppo carichi di colore, quasi scintillanti.
I fiori erano naturali, macchie della pelle, non avevano sempre
contorni
precisi e ruggenti, non più di, nei, efelidi e macchie,
nonostante la loro
bellezza. Però il fiore della donna aveva troppe vistose
perfezioni-imperfezioni umane. Probabilmente sotto la malachite e la
polvere di
agretto il viso avrebbe rivelato la sua umanità, forse
nascosti dai capelli
nerissimi, svettavano orecchie ingombranti. Sicuramente, la donna era
quello
che si soleva dire: non-lontana-dalla-perfezione.
Se Saiji avesse dovuto sbilanciarsi avrebbe detto che ambedue
i suoi
genitori dovevano essere benedetti, ma non anime condivise tra loro.
Similmente
a Saij, che aveva una madre figlia del destino ed un padre
non-lontano-dalla-perfezione.
“Buona-luna,
Sarra” le aveva detto ricambiando il vezzeggiativo
famigliare, dopo aver perso
troppo tempo a studiare il fiore. La donna non era stata turbata dai
suoi occhi
sul suo seno, probabilmente qualcosa a cui una lupa di baci doveva
essere
avvezza.
La donna aveva sorriso a quel vezzeggiativo; gli eosiani, o chi aveva
solo una
goccia di sangue di quel popolo, in terre lontane dalla patria, si
appellava
sempre così. Saiji conosceva a malapena l’eosiano,
aveva imparato la versione
imbastardita con il ghaadiano che sua madre parlava – e che
Moria si era
impegnato perché non parlasse più - e i loro
costumi anche meno. Conosceva
quello che la sua Marra le aveva insegnato, che
nonostante professasse
con orgoglio il suo sangue eosiano, era nata in Ghaadia e non aveva mai
veduto
Eos con i suoi occhi.
“Come
posso servirti, Freor? Cosa cerchi? Quali desideri il tuo cuore vuole
colmare?”
aveva chiesto sensuale la donna, sfiorando con l’indice della
sua mano la
stoffa turchese della sua blusa, “Puoi cogliere qualsiasi
fiore qui nella
Serra” aveva aggiunto.
Così vicina, Saiji poteva sentire il suo odore, era intenso,
ma non floreale,
più vicino all’intenso. “Un
uomo” aveva risposto lui.
L’espressione della donna non era cambiata di una virgola,
gli occhi erano
rimasti attenti ed il sorriso terribilmente educato, “Peccato
per me” aveva
scherzato, “Ma qui di certo non mancano, giovani, adulti,
anche vecchi per
certi gusti. Ghaatiani” –
pronunciato con il suono del th che con
la d – “con la pelle di fata,
sussurranti con capelli d’oro, fioriani
tulpee, fioriani istiani, fioriani boghiani per farla breve: ogni fiore
del
Pregiatissimo Impero. Oltre che ferriani di ogni tipo, eosiani come
vedi,
errantiani con l’occhio stretto, fiumani con campanelli alle
caviglie ed anche
kartissiani alti come giganti” lo aveva invitato,
“E figli del Destino, i bambini
benedetti” aveva aggiunto nel farlo si era fatta scivolare
una mano sul suo
stesso petto, dove appariva il suo fiore rifinito, poi con voce
più dura aveva
aggiunto: “Nessun fanciullo però e se tu lo
volessi, questo non è luogo per te”.
Saiji aveva sorriso, “Se posso essere onesto, Sarra, cerco un
uomo sbagliato,
anzi più che sbagliato … e si maturo”
aveva spiegato, un’espressione leggera di
confusione si era aperto sul viso della donna, “Un uomo
dannatamente lontano
dalla perfezione; imponente,
leggermente fiacco sul
ventre, con orecchie grandi come amboni, denti gialli come girasoli e
sopracciglia spesse come code di furetto, su una bella fronte spiovente”
aveva spiegato con assoluta leziosità Saiji.
Lo sguardo leggermente confuso della lupa, si era presto arrestato, ma
non
aveva recuperato la grazia e compostezza che aveva ostentato fino a
quel
momento; sul suo viso invece di era dipinta un’espressione
più genuina, così
come il suo sorriso era stato più gentile.
“Oh!” aveva esclamato, “Lei deve
essere Ser Alderichi! Scarabocchio non mi aveva preparato a un mio
Froer. Dal
suo gentilizio mi aspettavano un ghaathiano con la pelle di cera e gli
occhi
blu come il mare delle sirene” aveva spiegato la donna. Saiji
le aveva sorriso
con più spontaneità anche lui, “Quello
era mio padre, ghaadiano in tutto il suo
splendore” aveva risposto, “Da lui che ho preso i
capelli.”
Era
strano: qualche luna prima aveva sognato la sua marra e neanche qualche
ora
passata aveva citato il suo vecchio – che mai lo era stato
– e … realizzava
fosse passato tanto tempo dall’ultima volta che gli aveva
pensati con così
tanta intensità. Ricordava ancora i loro volti, non credeva
avrebbe mai potuto
dimenticarli, ma le loro voci, oh, quelle aveva cominciato a
dimenticarle.
“Un bel coraggio ad averti dato il suo gentilizio, i
ghaathiani sono gente
bizzarra; qualcuno dice si sposino le loro cugine perché non
possono scoparsi
le sorelle” aveva commentato la donna, dedicandosi ad uno
preconcetto
terribilmente blando e circostanziale. Saiji aveva compreso quello che
doveva
essere il fine ultimo della donna: rassicurarsi che lui fosse davvero
Saiji.
Non credeva che Scarabocchio non l’avesse preparata ad un
mezzo-eosiano con un
gentilizio ghaadiano, ma potevano esistere meticci, con una mistura sui
capelli
che sapevano fingersi figli di ghaadiani. “Era un It
Ghaadiano, anche se non
era l’uomo più devoto di questa terra, non lo era
decisamente visto che in
questa luna sono qui. Quando ha scoperto che mia madre era incinta, la
ha
sposata, mandando a Il Principio i suoi voti, i voleri della sua
famiglia e
quant’altro” aveva raccontato Saiji.
Non era la verità, non del tutto – ma era la
storia che aveva raccontato a
Scarabocchio durante la Sorella della Quisquiglia.
La donna lo aveva guardato, con attenzione, con quegli occhi troppo
chiari sul
viso, pareva rassicurata ma non soddisfatta, “E Ser lo sei
davvero o è un
inganno ben pensato?” aveva inquisito con leggera menzogna.
“Ordinato cavaliere
a settanta sorelle, decimana più, decimana meno, al pianoro
delle mandorle, dal
Duca Bergen Ramberra, vecchio signore di Querce Grandi” aveva
raccontato e
quella non era decisamente una menzogna, “Scarabocchio era
con me.”
La donna aveva riso, con un gusto amaro, “Una melanzana
cagliata,
che combatte Cavalcatori Erranti al fianco di
Fioriani” aveva raccontato,
Saiji non aveva preso male il vezzeggiativo razzista, abituato a ben di
peggio,
“Nominato cavaliere da niente di meno che il padre dallo
Scintillante
Generale. Trovo tutto
questo sublime” aveva
quasi squittito la donna.
Che strana reazione aveva pensato Saiji, “Siete la sola. Ser
Moria pensava non
avessi fatto abbastanza per tale titolo. Nessuno nel Pregiatissimo
Impero
gradisce che un meticcio possa avere un titolo, per quanto privo di
pecunia
quale quello di ser” aveva raccontato. “La Gloria,
mio freor, è comunque
notevole; è un passo, piccolo o grande, ma pur sempre un
passo verso la
prossima sorella” le aveva detto.
Saiji era rimasto perplesso da quella parola, non era sciocco, lo aveva
sempre
saputo che con quell’azione, più di una persona
– Moria – aveva voluto leggerci
qualcosa di più grande, nel bene e nel male, ma Saiji non
era un vessillo né
una fiaccola.
Il silenzio che si era creato, era stato rotto dalla donna,
“Che maleducata che
sono stata, Ser Alederichi. Io sono Luezhjana,
ma le lingue annodate di
questi fiorellini preferiscono chiamarmi: Lues” si era
presentata. “Figlia del
Grande Fiume” aveva pronunciato lui, quasi senza controllo.
Lei aveva sorriso, “Un antico nome tradizionale. Due delle
più grandi regine di
Eos lo hanno indossato” aveva ammesso, “Immagino
che anche il suo nome Ser
Alderichi, sia stato castrato per queste lingue di pietra”
aveva ammesso.
Saii aveva annuito, “Saijiorahavish; in effetti” aveva ammesso,
“Il guerriero
più coraggioso” aveva considerato
Lues. “Il nome è eosiano, ma lo ha
scelto quel cagliato di mio padre” aveva
ammesso, anche quello era una
verità.
Non sapeva perché, da bambino non aveva mai pensato di
chiederlo e di quelle
lune non gli era più consentito farlo. “Splendido
nome, sì. Buon gusto, per un
ghaathiano. Allora, abbiamo perso fin troppo tempo” aveva
stabilito la donna,
accompagnando quella frase, battendo anche le mani fra loro.
Saiji non si era aspettato quel repentino cambio di tono, né
il ferreo
movimento che ne era seguito. Lues le aveva preso la mano, scattante,
ed aveva
cominciato a condurlo, con passo bellico, quasi, verso il sentiero
scolpito
dalle colonne del portico, fino a svicolare in un ingresso, che
conduceva ad un
corridoio a forcipe, anche quello pieno di peccati e lussurie.
E poi in un'altra stanza, ed un’altra. Arazzi di ogni tipo,
con posizione
sessuali di ogni genere, uomini, donne, con uomini e donne, intrecciati
in ogni
modo.
Quasi, quasi, stuzzicanti anche per lui.
E poi, Lues lo aveva condotto in una ampia stanza absidata.
Saiji era sconvolto dalla Serra, non aveva compreso la dimensione
originale di
quell’edificio, sembrava una di quelle ville agresti che un
tempo avevano
occupato gli agri del florido impero, qualcosa fuori-tempo,
fuori-luogo,
fuori-tutto.
Appena
messo piede in quell’ambiente, Saiji aveva dovuto abituare
gli occhi
all’ambiente più cupo. Sotto le stelle del
portico, illuminato dai bracieri,
aveva potuto godere di più luce, che in quella stanza
angusta. Oltre il
predominante buio, la stanza era accompagnata da veli
d’incenso e fumi, che
impregnavano non solo la vista ma anche l’olfatto.
L’unica luce che era
presente in quell’ambiente, era dato da candele con fiamme
tremolanti,
dedicando alla stanza un tono quasi mistico, religioso.
Ma se
l’ambiente poteva ricordare una chiesa alle veglie notturne,
nella Sorella
Pallida, ciò che più richiamava a sé
l’attenzione, era il coro di piacere, una
cacofonia di voci, in un continuo crescendo. Uno spettacolo di
dissolutezza, in
toni che andavano dai sospiri sussurrati a voci acutissime.
“Sai, spero,
Saijiorahavish che Scarabocchio non ti stia mettendo nei guai. Per la
legge non
scritta della Madre Pietra dovrei cantare i lamenti per tre decimane
per il
sangue di un freor” aveva ricordato la donna, aveva lasciato
la sua mano, ma
aveva continuato a condurlo per un labirinto di tende, arazzi e bestie
a più
braccia. “Più il contrario” aveva
ammesso lui. Lei si era arrestata, “In tal
caso, spero tu non lo uccida, o in tal caso dovrei ammazzare te e fare
i
lamenti per entrambi” aveva considerato. Saiji era rimasto
fermo, colpito, come
da una secchiata d’acqua gelida, prima che Lues si lasciasse
andare in una
risata fresca, pregna di innocenza e dolcezza. Qualcosa che Saiji
doveva
ammettere: non aveva mai pensato di trovare in un lupanare.
“Tranquillo, Freor,
Scarabocchio ha il ferro al posto delle ossa” aveva aggiunto
Lues, Saiji ebbe
l’impressione dovesse conoscerlo bene, forse intimamente,
“E anche una smodata
passione per le cause perse e le scemenze, se non ricordo
male” le aveva dato
credito lui; “Ovviamente, gli uomini con passioni moderate
non colgono qui i
loro fiori” aveva considerato Lues.
Lei aveva
spostato un telo rosso scarlatto, decorato con fili lucenti, che
descrivevano
ghirigori arricciati, rivelando un’alcova, dove un ragazzo
era seduto su un
piccolo trono di legno, con finte placcature d’oro. Era
giovane, non più
acerbo, ma neanche stagionato, ma quell’unica caratteristica
era l’unica
caratteristica degna di nota, tutto di lui rivelava l’aspetto
di un fioriano
comune, come ne esistevano mille altri al mondo. Un viso comune, con la
pelle
della stessa tonalità del seme d’avellana, con
capelli scuri che scendevano
arricciati su un viso tondo e comune, fino al collo. Aveva degli occhi
invitati, erano di una sfumatura castana, della stessa
tonalità della birra
rossa, grandi – forse erano un’altra
qualità notabile. Quando gli aveva veduti,
lui si era tirato immediatamente su, curioso, “Porta
quest’uomo nella Stanza
delle Vivace” si era raccomandata, perentoria, Lues.
Il ragazzo si era sollevato dal suo finto trono con un movimento di
melassa,
l’espressione annoiata che aveva avuto fino a quel momento si
era ridestata
dopo aver lanciato uno sguardo verso Saiji – per studiarlo.
“Posso restare lì?”
aveva chiesto poi, stavolta a Lues, “Se te lo chiederanno
sì, altrimenti porta
loro del vino e trova un altro modo per pagarti il tuo trono,
pelandrone” lo
aveva rimbrottato la donna, leggermente seccata, ma dopo aver
pronunciato
quella frase si era lanciata per tirare un bacio umido sulla guancia
del
ragazzo, quasi affettuoso, quasi materno. Il ragazzo l’aveva
guardata con finta
insofferenza, ma l’angolo delle sue labbra sollevato aveva
smascherato il suo
inganno.
Lues si era voltata verso Saiji facendo oscillare i lunghi capelli
mossi ed
aveva chinato il capo in una riverenza, “Obbligata Freor, ti
lascio alle man
gentili del mio amico” aveva dichiarato rispettosa; lui
l’aveva imitata con la
stessa educazione. Lues lo aveva guardato ancora, poi aveva detto
qualcosa in
eosiano, ma era stata veloce e la cacofonia del lupanare aveva oscurato
il suo
augurio – Saiji ne era certo – e poi si era
ritirata. Aveva udito solo poche
parole: marra, che voleva dire madre, e kytae,
che voleva dire
occhio. Che l’occhio della madre ti vegli? Divertiti ora
senza l’occhio della
madre?
Non ricordava i detti eosiani.
Il ragazzo
aveva osservato l’ancheggiare di Lues, fino a sparire tra gli
arazzi e le tende,
quasi in attesa che lei si voltasse ancora per dire altro.
“Ah, lei deve essere
la Lupa Capobranco” aveva valutato Saiji, “Di
solito non è un uomo a gestire un
Lupanare?” aveva chiesto. Anche se il nome del luogo esibiva
quello di una
donna, non era che un’usanza. “Una volta lo era, ma
il buon Fabren si è
mangiato un piatto di funghi” aveva detto il ragazzo. Un
nome irtoso!
“Tanti uomini muoiono così. Certi funghi sono
proprio maligni” aveva risposto
circostanziale Saiji. Il ragazzetto aveva riso, “Perfino il
Vecchio Imperatore”
aveva aggiunto, “Non che il buon Fabren fosse da paragonarsi
a lui, che
marciscano le sue radici con il Principio” aveva detto
seccato.
“Prima o dopo la Campale di Malvasia?” aveva
domandato Saiji. Sapeva che la
concezione degli uomini del Pregiatissimo Impero era cambiata verso gli
Irtosi,
dopo la battaglia. Il ragazzo aveva ridacchiato, “Tre Fredde
prima, mio
signore” aveva spiegato placido, “O rischiava di
essere appeso per le palle”.
“Lues deve essere comunque notevole per tenere in riga questo
luogo qui” aveva
considerato comunque Saiji più per riempire la
conversazione, mentre aspettava
che il giovane si decidesse a condurlo nella stanza della Vivace.
Quello aveva
annuito, “Più che una lupa capobranco, la mia
buona Lues, è un cacciatore”
aveva risposto con pigrezza.
Come la sua compagna di branco, anche lui indossava un non-abito, che
lascava
esposto il corpo. La pelle oliva, con il ventre snello ed il petto
piatto, su
cui spiccavano due margherite dai contorni lineare. Gli obliqui in
rilievo che
conducevano al pube, l’unica zona coperta da un drappo di
seta nera, che
scopriva le gambe toniche.
Il lupetto aveva riso divertito del suo sguardo, ma non aveva raggiunto
i suoi
occhi luccicanti. “Dai, ti faccio strada, mio
signore” aveva concesso il
giovane.
Ciò
che lo
aveva accolto nella Stanza della Vivace lo aveva lo aveva disorientato
non
poco.
Saiji si era aspettato un’orgia; corpi nudi intrecciati in
ogni dove, l’aria
impastata di sesso ed incensi, mescolata al puzzo del sudore e degli
oli troppo
floreali. Cascate di vino viola.
Si era aspettato nulla di diverso da ciò che aveva spiato
nelle altre camere
del Lupanare, ma era stato scortato in una stanza piuttosto tranquilla.
Qualche cuccioletto, tra donne e uomini, girava senza neanche i veli,
per
vezzeggiare gli uomini, per lo più i guerrieri, ma neanche
erano gnudi, più
interessati al cibo ricco del banchetto che all’invito de
sesso. Qualcuno di
tanto in tanto allungava una mano per tastare qualche corpo, ma
sembrava più un
manierismo, che una vera dichiarazione di intenti. Un uomo nerboruto
– Verbe,
se non ricordava male Saiji, con quei suoi occhi neri come quelli del
principio
– aveva invitato una donna ghaadiana chiara come il latte e
con indosso solo
una collana di anelli di ferro, a sedere sulle sue gambe. Lei si era
accomodata, sorreggendo un cesto di vimini intrecciato carico di uve,
che
passava con delicatezza sulle sue labbra.
Saiji
aveva schiuso le labbra, “Confesso, mi aspettavo
depravazione” aveva ammesso
alla fine. Il suo accompagnatore aveva riso, “Fino a qualche
Luna fa era
assolutamente la stanza più degenerata che poteva esistere.
Ma ora, i bollenti
animi hanno trovato la pace” aveva spiegato. Saiji si era
rivolto verso di lui,
osservando l’espressione che era sorta sul suo viso,
“Per questo vorresti
servire qui” aveva dichiarato. Il ragazzo si era fatto rigido
come la lama di
una spada e si era morso un labbro tinto di rosso, ma non aveva
risposto.
Come avrebbe potuto.
Era prerogativa per un Lupo di Baci mostrarsi sempre disponibile,
voglioso,
perché la fantasia rimanesse in piedi. A molti uomini
piaceva l’idea del
potere, dell’umiliazione, ma alla maggior parte piaceva
l’illusione di essere
amati. “Portami una coppa di vino caldo con del
miele” lo aveva salvato dall’impiccio
della verità, dandoli una moneta. Saiji non aveva aspettato
risposta, prima di
farsi spazio in quel tripudio di festa.
Non aveva
impiegato molto a ritrovare l’uomo che stava cercando. Era ad
un tavolo, imbandito
di così tanto cibo da gareggiare all’apparenza con
le cene al Bocciolo, anche
se immaginava dove fosse cinghiale e pernice, lì in quelle
tavole fossero pollo
e maiale; comunque, molto più di quanto avesse consumato lui
nelle ultime
decimane. L’uomo indossava una lunga camisia
di seta, drappeggiata di
stoffa in più lungo il bordo del collo allungato, che
esponeva le clavicole, così
come il petto villoso, come quello di taluni cani da caccia. Seduta
accanto a lui
c’era una donna dalla pelle scura, molto più di
qualsiasi eosiana avesse visto
in terra fioriana. I suoi occhi non erano leggermente allungati,
così come il
naso era più schiacciato, le sue palpebre erano tinte
d’oro e le sue labbra
viola ed i capelli erano una matassa di riccioli piccoli e voluminosi.
Di
qualunque luogo venisse, a qualsiasi popolo appartenesse, era una donna
bellissima.
L’uomo stava raccontando qualcosa di divertente alla donna,
doveva davvero
esserlo, perché la risata sembrava autentica.
“Saijir!
O
Saijir!” aveva sentito qualcuno strillare, aveva riconosciuto
chi lo aveva
chiamato prima ancora di voltarsi, pochi lo chiamavano con quel
diminutivo e
quella voce non gli era ignota. Si era voltato, senza bisogno di
cercare a
fondo il suo chiamatore. Era difficile non notarlo, lì, con
una lunga chioma
sottile di un bianco pungente, seduto ad un tavolo che stuzzicava
formaggio
erborinato, affiancato da un compagno che ronfava con il viso sul
tavolo.
“Zegros” aveva esclamato Saiji, erigendosi sopra il
chiacchiericcio,
raggiungendo il tavolo in questione. “Sieti e bevi con me
Ser. Il mio signore
comandante sta intrattenendo Jantibal” aveva detto
immediatamente Zegros, “Lei
adora ascoltare le sue storie”.
Saiji aveva sospettato che quando li fosse stato dato appuntamento alla
Serra
per l’uomo non avesse dovuto essere un posto casuale.
“Senza dimenticare, che
so quanto adori lui ascoltare il suono della sua stessa voce”
aveva aggiunto
senza malizia, Zegros non si era per nulla offeso.
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Capitolo 9 *** PARTE PRIMA; TIOLO I; CAPITOLO VI ***
Alziamo i
calici all'unico capitolo senza una menzione a Moria Ramberra
C A P I T O L O V I
E R A A B I T V A T A A D
E S S E R E
G V A R D A T
A C
O N D E
LV S I O N E
Uno dei
soldati del contingente aveva voluto vederli, si era presentato alla
pieve con
una bandiera senza colore, chiedendo di incontrare chi di loro
comandava e
Adda. Lei aveva sentito il sangue farsi solido quando l’uomo
vestito di ferro
scuro aveva pronunciato il suo nome. Non era stato volgare,
né ineducato, nel
suo tono ferriano e nelle parole tese di chi non destreggiava bene la
lingua,
ma si era rivolto a loro, a tutti, loro come fossero stati due Mani
Morbide.
Quando
Adda lo aveva visto per la prima volta si era aspettata la parlata
grezza degli
adoraoro; d’altronde tutto sembrava dirlo: alto da dare la
vertigine, con
spalle così larghe da poter sorreggere il mondo, ma sotto
l’elmo di ferro-nero,
era apparso il viso piatto di un giovane, rasato – o forse
ancora sbarbato – e
con gli occhi ardenti di preoccupazione. L’aspetto di chi era
cresciuto
improvvisamente e non aveva ancora realizzato la portata del suo
cambiamento e
delle emozioni che questo portava con sé. Con indosso
l’elmo nero era sembrato
un guerriero temibile, un uomo fatto e finito di ferro, con il viso
scoperta
era un ragazzo che si sentiva di troppo nel suo stesso corpo. O almeno
quella
sensazione aveva dato ad Adda.
Era un Bimbo Sbagliato, come lei, era evidente a primo sguardo.
“Io
sono
Berineo Tarandi, cavaliere onorato della Diarchia della Gradiosa
Perlipsia e
sono qui come araldo della monna Teresia Immacolata Arga”
così si era
presentato, senza perdere il suo fervore, aveva parlato in un floriano
rispettoso, sebbene il forte accento ferriano-peripsiano avesse
sporcato il
tono, dando l’idea di una doppiezza di molte lettere.
Quest’ultima cosa e
l’atteggiamento leggermente estraniato del giovane imberbe,
aveva tolto molta
tensione al momento.
“Benvenuto,
cavaliere, qui sei tra gli scivolati, non esistono né Monne,
ne Signori” aveva
chiarito, “Io sono Garlio, non sono chi comanda, ma come te
solo un portavoce”
aveva ammesso senza perdere la sua pratica compostezza, prima di
sfiorare con
una mano la schiena di Adda, spingendola a presentarsi a sua volta.
Berineo, con gli occhi vacui e nocciola, si erano diretti verso di lei,
incuriosito e incerto, forse stupito e confuso della sua presenza.
Adda
era abituata ad essere guardata con delusione.
Il
discorso di Garlio non lo aveva turbato: “La mia monna chiede
con garbo e
rispetto, udienza con voi buoni uomini e liberi pensatori e alla sua
buona
amica monna Adda del Giardino!” aveva decantato con fierezza. Lei aveva aggrottato le
sopracciglia: Amica?
Monna?
Era un’immagine che trovava oltremodo
l’immaginazione umana. Theresia Arga che
la imputava non solo con un titolo nobiliare di troppo, ma anche come
sua pari,
come sua amica.
Certo quando Adda si era presentata da lei la prima volta, lo aveva
fatto
comunque qualcosa di più di una serva, ma ancora
tremendamente lontana
dall’idea di un essere umano ed ancora vicino allo stato di
pecora.
Un’appendice di Saiji e Iren –
un’appendice vestigiale.
Adda si
era voltata vergo Garlio incerta, lui non la stava guardando, i suoi
occhi
bellissimi erano rivolti verso il cavaliere, si era voltato poi verso i
suoi
compagni, tutti pendevano da qualsiasi parola avrebbe pronunciato,
tutti
dipendevano da lui. Garlio avrebbe potuto non definirsi il loro
signore, ma lo
era.
Non era
sicura se fosse per il suo carisma o per quel sangue maledetto che lui
rinnegava, o per entrambi. Garlio era un bimbo benedetto che si
dichiarasse
contrario alle benedizioni, questo non sarebbe cambiato.
Nato per essere perfetto, dominatore del mondo e degno della devozione
di una
divinità, ma aveva rifiutato il suo ruolo per essere libero,
per poter
camminare su lidi ignoti e per essere uomo come qualsiasi altro uomo.
Eppure, la sua presenza, la sua voce, irretiva tutti gli uomini
lì.
Garlio poteva abiurare sé stesso, ma sfruttava il fascino
che la sua
benedizione gli offriva.
“Saremmo
felici di incontrare Theresia di Peripsia, qualsiasi amica della nostra
Adda è
nostra amica” aveva stabilito con sicurezza, ignorando di
proposito l’utilizzo
della titolatura.
Questo
aveva irritato Berineo ma non aveva emesso commenti di natura offesa,
“Allora
lei è felice di invitare voi al suo accampamento”
aveva stabilito con voce
incerta.
Adda non era stata certa di quanto quello fosse stata una cosa buona,
ma
Garlio, come tutti gli uomini benedetti che aveva incontrato
– e su questo non
faceva eccezione – non poteva concepire di essere nel torto.
Ma per Adda era
certo che quello fosse l’inizio di qualcosa di pericolo.
Monna
Theresia Arga aveva fatto erigere una città di stoffa in una
zona pianeggiate –
il pregiatissimo impero non ne mancava – non lontana
dall’ansa sinistra del
Varpoe, uno dei diffluenti del Serpente.
Adda lo aveva visto da dietro la spalla di Garlio, quando erano giunti
a
cavallo.
Il baraccamento era composta da una diversità di tende che
si estendevano per
un campo intero. Stoffe di diversi colori e materiali, dalle stoffe
più grezze
per le piccole coperture a padiglioni di velluto. Il centro della
città di
stoffa, visibile, solo dopo una lunga traversata labirintica
nell’accampamento,
era di forma esagonale, immensa abbastanza per contenete solo lei una
cinquantina di persone – Nerf aveva contato bene, cinquanta
erano i soldati con
Beronio, ma almeno in doppio dovevano essere stanziati lì
nel campo, se non di
più, Adda non era brava a contare con gli occhi –
da lei si estendevano come
raggi del sole le altre dente, in una disparità di forme e
dimensioni.
C’era una gran vita, di uomini – ed anche donne
– che correvano a destra
e manca; alcuni uomini indossavano
l’armatura, altri parzialmente, anche qualche donna era
bardata; c’erano anche
persone spoglie del ferro, alcuni dovevano sembrare servitori dai
modesti
vestiti, ma altri guerrieri con le braccia nude.
Beronio
non aveva dovuto dire loro dove era alloggiata la loro Monna, almeno
non Adda.
Ricordava bene Theresia ed i suoi modi di agire. “Stiamo
andando nella
direzione sbagliata” aveva sussurrato all’orecchio
di Garlio.
Lui aveva voltato la testa per quanto fosse possibile, e
l’aveva guardata con
l’angolo dell’occhio.
“Theresia Arga potrà amare il lusso, la seta e le
comodità, ma non alloggerebbe
mai in campo aperto nella tenda più maestosa”
aveva stabilito sicura Adda,
“Sarebbe come disegnarsi un bersaglio lungo la
chiesa” aveva considerato
Garlio, dandole ragione.
“Non pensare a lei come una Manimorbide, o meglio, una
semplice manimorbide”
aveva sussurrato, “Lei è una donna di ferro. Il
primo insegnamento che le danno
è come essere discreta” aveva considerato Adda.
Ricordava la prima volta che l’aveva veduta, dietro una
parete traforata della
Chiesa di Peripsia, nel matroneo.
“Sei nel lato sbagliato” l’aveva
richiamata, solamente, con le dita intrecciate
tra gli intrecci viminei di marmo dipinto e gli occhi appena visibili
dietro un
velo.
Così Adda aveva cercato tra le tende quella che poteva
essere quella di Theresia,
ma tra tutte quelle case approssimate, spariva ogni
possibilità – forse quello
era lo scopo.
“Ricordami come la hai conosciuta?” aveva detto
Garlio, tornando a guardare
davanti a se orgoglioso, sulla sella del suo cremello pallido.
“Ho lavorato per lei” aveva ammesso Adda,
“Suo fratello Emisio aveva perso al
gioco un gioiello che serviva per la dote di sua sorella e lei aveva
necessità
che venisse recuperata senza troppo clamore” aveva raccontato.
Era una versione piuttosto semplificata degli eventi, ma era comunque
corretta.
Alla fine,
erano stati comunque condotti nella tenda principale, quella esagonale.
Dopo aver legato il cavallo cremello di Garlio – il ragazzo
aveva dato una
carezza gentile sul muso bianchissimo del cavallo, e il vecchio arione
con cui
Nerf e Delisio li avevano seguiti. Gli Svincolati non avevano molti
cavalli,
più muli – erano creature più
diligenti, più resistenti e più mansueti, qualche
pecora, due mucche buone da latte, che portavano nel loro ramingare; ma
sarebbe
stato quanto meno mortificante presentarsi davanti ad una ricca monna a
cavallo
di un’asina.
O meglio a parere di Delisio, ad Adda non sarebbe importato, di
presentarsi a
cavallo di un mulo quanto di un drago o con le sue nude gambe.
Garlio non aveva emesso giudizio, le sue labbra si erano fatte strette
e
infastidite, come se l’idea di doversi abbellire per una
manimorbide lo avesse
messo sui tizzoni ardenti e allo stesso tempo era tormentato negli
occhi
all’idea di apparire di meno.
Eretico. Liberista. Volontista.
Eppure: ancora legato a quei ruoli.
Adda gli aveva preso la mano e gli aveva dato coraggio, ‘Va
bene se per questa
volta, sembrerà che segui il buon sentiero’ anche
se non era vero.
“Che lusso! L’ultima volta che ho vissuto sotto una
tenda del genere …” aveva
cominciato a dire Delisio, ma era stato interrotto da uno sguardo
piccato che
si era dipinto sul viso di Garlio, sagittando maledizioni verso di lui.
Adda
aveva sorriso verso di lui, schioccando le labbra,
“L’oscuro passato di Garlio
e Deilisio” aveva scherzato forzatamente, sollevando i palmi.
Lui aveva sbuffato, “Non c’è niente di
misterioso. Solo molto triste e cupo,
Adda” le aveva detto, facendo roteare il pollice sulla nocca
dell’indice destro
di Adda, “Inoltre, noterei che anche tu non sei molto
chiacchierona” aveva
valutato lui.
Lei si era goduta lo sfregamento del pollice sulla sua nocca, sulla sua
pelle,
cosa che le dava sicurezza; con la mano libera, Adda aveva accarezzato
la
mascella del cavallo cremello, l’animale non aveva ancora
un nome, non
lo avrebbe avuto presto. Garlio non voleva nominare
l’animale, lo trovava una
cosa superflua, gli animali non avevano bisogno di nomi, erano ben
consapevoli
di chi fossero. “Strano, mi hanno sempre detto avessi una
boccaccia così larga
che era un mistero come facessi a bere l’acqua senza che
questa sbrodolasse”
aveva risposto Adda, con un sorriso mesto.
E per la sua linguaccia si era presa qualche scudisciata di troppo.
“Allora, srotola la lingua e scopri cosa vuole questa
adoraoro. Io neanche
parlo il ferriano” aveva sussurrato lui.
Theresia parlava la lingua dei fioriani, come tutte le manimorbide
aveva
ricevuto un’istruzione vera e completa, anche nella terra
dove alle donne
veniva insegnata la mansuetudine e la trasparenza. “Sappiamo
bene che tra e me
è te, l’uomo capace di incantare i serpenti sei
tu” aveva risposto pratica
Adda, allontanando la mano dal muso bianco della bestia.
Un’espressione di
dolore si era dipinta sul viso di Garlio, profondamente in conflitto
con il suo
sangue che tanto odiava.
“Se avete finito di guardarvi languidi, credo che una
deliziosa signora di
ferro ci attenda” li aveva richiamati Delisio, sfacciato,
allungando le braccia
attorno alle loro spalle e dopo averli avvolti aveva lasciato il suo
peso
crollare verso il terreno e se non era caduto giù anche lui
come un frutto
dall’albero era stato solo perché loro lo aveva
sostenuto.
Beronio si era fatto paonazzo in viso per l’aggettivo che era
stato utilizzato
per descrivere la sua signora.
“Prego da questa parte” aveva attirato
l’attenzione un giovane uomo,
affiancandosi a loro giovane cavaliere guida, con un tono tremendamente
sgradevole per essere fioriano. Era uno paggio, vestito di blu notte,
stretti
sulla vita e con la camisa lunga fino ai fianchi,
con le maniche a
fisarmonica dalla spalla al gomito, come richiedeva l’usanza
ferriana.
Aveva un viso magro ed insolitamente pallido.
Adda aveva impiegato un momento di troppo per guardarlo e forse i suoi
occhi
indagatori avevano reso il ragazzo nervoso, perché si era
morso prontamente il
labbro pieno.
Aveva osservato come sulla camisa blu notte, fosse
cucito un ocelot
rampante ma diffamato, in campo azzurro. Una
famiglia peripsiana sì! Non
membro della Diarchia ma comunque di sangue ricca.
“Don Teddesio Lamorgilla!” lo aveva riconosciuto
Adda, alla fine. Era il
ragazzino sempre nervoso che serviva il vino nella ricca dimora degli
Arga!
“Ehm …Siete …fiorito
molto in queste sorelle” aveva ammesso lei,
trovando il ferriano difficile da pronunciare sulle labbra. Era passato
tantissimo tempo da quando lo aveva parlato con frequenza, lo stesso
tempo che
era passato da quando aveva visto per ultimo Don Teddesio Lamorgilla,
che nelle
sorelle trascorse era passato da bimbino e giovane uomo.
“Credo che la parola da te cercata mia monna fosse cresciuto,
perché
decisamente lei è fiorita”
aveva considerato il giovanotto, con le
guance arrossate. Anche Adda era diventata rossa in viso, sia per il
complimento – così spontaneo – sia per
il modo grossolano a cui si era rivolta
al Don.
Ricordava Teddesio come un ragazzino che serviva il vino, erroneamente
la prima
volta lo aveva scambiato per un servitore, prima di essere illuminata
sulla sua
condizione di nobile-in-prestito.
Aveva sentito lo sguardo di Garlio addosso.
“Ho
portato i nostri ospiti” aveva detto
il cavaliere Beronio, rivolgendosi al paggio al paggetto uno sguardo
piuttosto
perentorio. Erano ambe due giovani, ma il cavaliere era più
vecchio.
Il suo cognome non aveva fatto suonar alcun campanello nelle mente di
Adda, il
che voleva dire il giusto, aveva passato troppo poco tempo a Perispia
per
conoscere i nomi di tutta la casta nobiliare – principalmente
perché nella
città di ferro nessuno lo era davvero – ma aveva
l’impressione ci fosse
acredine tra Beronio e Teddesio. “La Monna ha richiesto di
condurli dentro la
tenda principale” aveva risposto Teddesio.
“I Don qui potrebbero farci la cortesia di parlare in una
lingua a noi nota?
Non tutti hanno potuto studiare” aveva detto Delisio,
cogliendoli di sorpresa.
Entrambi i due si erano fatti rigidi come spade,
“Così sia” aveva detto Beronio
con più temperanza e li aveva condotti da Theresia, non
prima di fargli
spogliare di tutte le loro armi. Solo ad Adda era stata data
l’opportunità di
tenere il suo coltello, legato alla coscia sinistra.
La Tenda Principale era di un vivace color pervinca, su cui svettavano
bande
viola, con imposte dei tendaggi sollevati appena, per permettere alla
chiara
luce del giorno di filtrare all’interno e poter illuminare
l’ambiente.
Attraversate l’imposte di tessuto, il colore che dominava era
un viola di una
tonalità molto più scura, anche con le luci
tenere del sole ancora alto,
l’ambiente sembrava molto più lugubre.
Il padiglione, degno dei tendoni nobiliari durante i tornei
più ricchi, era
diviso al suo interno per creare diversi ambienti fittizi, alcuni erano
suddivisi tramite drappi decorati, mentre alti con pannelli di legno
con
pitture colorate. Ciò che strappava
dall’immaginazione di essere nelle stanze
di un palazzo, era la morbidezza delle pareti di velluto,
l’odore di erba
fresca che appestava l’aria e la morbidezza di un terreno
naturale sotto i
piedi.
Una mezza
luna di sedie crurali di legno era pronta ad accoglierli,
l’unica che faceva
eccezione era quella centrale, che dominava la scena, che aveva uno
schienale
alto ed i braccioli per potersi sedere più comodamente, ma
era anche l’unica
vuota. Per il resto una corte di quattro donne li aveva accolti
immediatamente
al loro ingresso.
Non erano le uniche presenti, c’erano anche degli uomini, con
indosso parti
d’armature e spade lunghe ferriane appese al fianco.
C’erano anche degli inservienti in bluse bianche, pantaloni
blu e stracci
legate all’avambraccio, ma questi ultimi non si erano curati
di loro per nulla.
“Quale è?” aveva chiesto Delisio, prima
ancora di Garlio.
Adda non era riuscita a rispondere, perché una delle dame si
era subito tirata
su da una sedia crurale quando l’aveva veduta e
l’aveva abbracciata con la
stessa confidenza di un’amica intima.
“Deria” aveva sussurrato Adda, riconoscendo
l’odore di lavanda e pulito, prima
ancora del viso noci di galla, dalla forma tonda
ed occhi liquidi e grandi.
“Adda, quale gioia rivederti sana e salva!” aveva
detto la donna staccandosi da
lei e prendendo le mani a coppa sulle guance di Adda e dandole due baci
sulle
gote.
Le Sorelle non erano state gentili con Deria, sotto i suoi occhi
violacee
chiazze dell’insonnia erano incise pesanti, gli occhi
parevano più infossati e
la pelle era arrossata sulle guance come la buccia di
un’arancia. Anche i lisci
capelli scuri sembravano più gonfi e crespi, la crocchia
sempre ordinata,
lasciava sfuggire ciuffi persistenti.
“Immagino nessuna di loro” aveva detto Garlio, in
fioriano osservando, come le
quattro sedie a mezza luna fossero occupate da donne.
Deria aveva guardato i suoi accompagnatori e le gote erano diventate
rosse,
mentre gli occhi scuri si spalancavano affascinati.
“Garlio, Delisio … questa donna
è Deria Arci” aveva detto calma,
“Cameriera
personale di Monna Arga e … mia amica” Adda lo
aveva spiegato in fioriano, la
sua lingua; Deria non la comprendeva, ma evidentemente le parole non
dovevano
esserle nuove perché aveva fatto una riverenza con un
sorriso gentile ed un po’
imbarazzato.
Quel sentimento di impaccio doveva essere motivato
dall’aspetto incantevole di
Garlio, prima di presentare i suoi tre compagni alla ragazza.
“Mie signore!” aveva sussurrato Delisio sciogliendo
dalla presa di Garlio, per
attirare l’attenzione delle altre donne, con un inchino
gentile, davanti le
altre donne.
“SI è appena inchinato!” aveva esclamato
indignato Nerf, Adda aveva osservato
l’espressione circospetta sul viso di Berineo e Don Taddesio.
Adda aveva preso
svelta la mano di Garlio, serrandola su quella di lui.
Le tre donne avevano osservato la scena con interesse, la
più bruttina di loro
aveva ridacchiato, ma gli occhi erano scintillanti con una certa
leziosità. Di
rimando le altre due erano rimasto immobile.
Una era une bellezza ferriana, con l’incarnato
d’ambra, un viso pulito,
assolutamente perfetto, con capelli d’oro scuro, un naso
dritto e stretto ed
occhi di un castano dolcissimo; con machine a fisarmonica, spalle a
sbuffo, che
usava un ventaglio per nascondere la sua bellezza quasi benedetta.
“Sono
incantato
da tanta bellezza” aveva continuato a parlare Delisio e nel
farlo aveva puntato
lo sguardo sulla donna più brutta.
Non spiccava semplicemente per la bruttezza, ma per tutto il resto, era
colorata come la personificazione della Vivace,
dagli occhi grigi, in
contrasto con la pelle coronza; vestiva con un
corpetto di velluto aranciato,
su cui erano state cucite delle perle bianche assolutamente tonde,
così come le
maniche a fisarmoniche scure, con decorazioni opache d’oro
prodotte dal
telaio-a-tiro. Indossava sulla pelle oliva gemme luccicanti, la
più evidente
era un pesante monile sul collo di giraffa.
Era la più ricca della stanza.
Se Adda non avesse conosciuto Theresia Arga avrebbe immaginato dovesse
essere
La Volpe di Perlipsia. “Che fortuna che io parli la tua
lingua!” aveva chiosato
la donna Vivace con una risata fresca.
“Ed
un
miracolo che tu stia notando vagamente lui quando
c’è l’altro!” aveva cantato
una voce alle loro spalle, aveva parlato in un ferriena alto, per
quanto
difficilmente la lingua della lega suonasse gradevole. Ricordava la
prima volta
che aveva pagato la dogana di Peripsia aveva sentito quelle parole
orribili,
come il clangore delle lame, aveva pensato che lì il ferro
dovesse essere.
La Monna di Peripsia aveva fatto il suo incontro. Theresia non era
sistemata
nella grazia e nella beltà che Adda si era aspettava,
indossava un camiciotto,
verde pistacchio, con clavi argento, le maniche una tonalita
più scure, con le
spalle a sbuffo e la stoffa a fisarmonica, fino al gomito. La blusa era
legata
alla vita con una cintura di cuoio, che scivolava fino a sopra le
ginocchia,
sopra un paio di pantacalze e stivali imbottiti. Non esibiva monili,
né altre
preziosità nei capelli, ne decori sul viso, esibito nella
maniera più maturale
possibile.
L’unica cosa che non sembrava essere cambiata in quelle
Sorelle erano i lunghi
capelli castano chiaro, ancora gonfi e pensati, stretti in due severe
trecce
che scavalcavano il seno florido e scendevano fino a metà
della vita, terminanti
in due spessi pennelli.
“Oh, Adda, amica mia, che joia per me visionarti
…ancora” le
aveva detto Theresia, in un fioriano non esattamente lucido,
prendendole le
mani con gentilezza. La pelle di Adda era dura, screziata e rovinata
dalla
fatica, le mani di Theresia nonostante tutto erano ancora morbide e
rosa.
Adda si era sentita leggermente a disagio davanti quella collezione, la
donna
non era stata sua amica, non le era neanche stata vicina, “Un
piacere anche per
me” aveva detto, imponendosi di non cedere a quel primordiale
insegnamento che
sua sorella e sua madre le avevano impartito da che era una mocciosa:
abbassa
lo sguardo, piega le ginocchia, china la schiena; differentemente da
Deria che
si era chinata in una perfetta riverenza quando la sua signora si era
aperta
davanti a lei.
Theresia non era
venuta da sola nella
tende, ma era in compagnia di un paio di alcune guardie ben bardate,
tranne
uno, che uno incredibilmente alto che indossava semplicemente un
farsetto ed
una spada lunga legata alla schiena.
“Provo joia anche nel vedere i tuoi
compagni” aveva detto scandagliando
bene la presenza dei tre che erano con lei, con attenzione, senza far
trasparire
alcun sentimento.
“Avete già avanzato con le
presentazioni? Fantastico che Berineo
ed il buon Taddasio si fossero già
presentati” aveva commentato la
donna, ammiccando poi al resto della stanza.
Theresia
era voltato verso le sue amiche e con confidenza, nonostante la sua
pronuncia
piuttosto buffa e l’abitudine di inciampare nelle parole:
“Loro sono le mie
compagne: lo luminosità con il
ventaglio è mia sorella-in-nozze
Nassiana, la bellezza vivace è Monna Siveria la mia cara
amica e la vostra …
conterranea è Monna Saerra di Castel Serpillo”
aveva spiegato subito Monna
presentando le tre donne.
Siveria, la brutta donna dai capelli rossi come il fuoco, aveva
sollevato
una mano e aveva
mosso tre dita,
Nassiana aveva nascosto il viso dietro al ventaglio, mentre
l’espressione dura
come la pietra di Saerra si era fatta ancora più rigida.
Ad una seconda occhiata, Adda,
riconosceva il castigato
bustino stretto fioriano, con la gonna ampia con la doppia banda
fiorita, così
come il fazzolo giallo che copriva le spalle, fermato al petto da una
spilla
floreale e l’odio nel suo sguardo aveva senso.
Una virtuosissima signora dell’Impero.
Castel Serpillo Serpillio apparteneva alla famiglia Pagaesse, una delle
famiglie vassalla minore della regione dove erano e loro erano gli
eretici.
“L’uomo così sopraelevato da perdere gli
occhi è Myrcele, un buon amico di mio
cugino Tarsio, qui per assicurarmi che io viva” aveva
spiegato pratica la
Theresia, ammiccando all’uomo.
Adda aveva presentato velocemente i tre: Garlio, il loro capo
– lo aveva detto
in ferriano, sperando lo stesso non distinguesse la parola –
Delisio e Nerf, la
vedetta. Un ragazzo dal viso butterato ed il cipiglio del principio in
persona,
“Loro sono i Liberi Pensatori, gli Svincolati”
aveva terminato.
Theresia
aveva sorriso davanti le presentazioni. Delisio, con il suo sorriso
troppo
sornione, aveva guadagnato una smorfia mal celata,
l’espressione acre di Nerf
era, stranamente piaciuta di più, o forse era stato merito
degli occhi
verde-ceruleo, di un sangue settentrionale; Adda non ne aveva idea.
La bellezza statuaria, senza imperfezione, da benedetto di Garlio aveva
guadagnato
uno sguardo distante, forse faceva fatica Monna Therersia a comprendere
un
eretico, principista che condivideva l’aspetto dei figli del
destino. Dopo un
momento troppo lungo, Therersia si era concessa un sorriso un
po’ troppo
soddisfatto e non abbastanza sincera, “Non sono sorpresa, mio
Don Altissimo, mi
han sempre detto che il Principio è Tentatore”
aveva stabilito in un ferriano
spiccissimo.
Deria era avvampata come una mela matura, Nassena aveva squittito come
un
topolino, Saerra aveva stresso la bocca ed aggrottato le sopracciglia,
ma la
reazione più spontanea era stata di Siveria, “Oh!
Ricordami perché non ci siamo
dall’eresie?” aveva chiesto audace, con un sorriso
storto ma luminoso ad
adornale il viso.
Garlio guardava Adda aspettandosi una traduzione, ma lei non aveva la
minima
idea di come spiegare al suo compagno che stavano chiocciando sul suo
aspetto.
“Non vi permetto di fare le cinciallegre su queste immonde
creature” aveva
detto severa Saerra alzandosi in piedi, una macchia di nero scurissimo,
l’unica
luce era data dallo scialle ocra, “I principisti sono il male
del nostro tempo,
sono le locuste dei nostri campi” aveva professato, la prima
frase l’aveva
detto in un ferriano perfetto, come mai Adda avrebbe potuto sognare di
parlarlo, ma il resto era in un fioriano. La dolce lingua
dell’impero sembrava
essere acida sulle sue labbra, “Questi mostri hanno strappato
al nostro impero
il suo legittimo sovrano!” aveva accusato indignata.
Tutti la guardavano.
“Avevo sentito che il vecchio Imperatore se lo è
portato via un piatto di
funghi un po’ troppo selvatici” aveva risposto
Delisio, con quella sua lingua
di veleno acuta.
Adda aveva sentito lontane, ma comunque presentiti, il frastuono delle
campane
dalla torre del Palazzo Camma – “È morto
l’Imperatore, cresca rigoglioso il suo
fiore, lunga vita all’imperatrice, affondino nella terra le
sue radici” – ed
aveva taciuto, soffocando quel rumore.
“Oh vile bestia scopa principio!” lo aveva
aggredito Saerra, “Tu sai di cosa
parlo! Del vero signore scelto
dal Dio-di-Ogni-Cosa-buona!” aveva
gridato, “Voi mostri senza-dio avete linciato il nostro Dolce
Imperatore!”
Gli impropri di Saerra avevano risvegliato un modo bruciate nel petto
di Adda,
perché quella ricca manimorbide non aveva idea di
ciò che stava dicendo, ciò di
cui stava parlando, differentemente da Adda!
“Tu!” l’aveva appellata lei stessa
facendo un passo in avanti, un tempo sarebbe
rimasta immobile, con lo sguardo basso e l’espressione carica
di vergogna, ma
all’ora era una pecora, cosa che era cambiata. Era umana e
camminava nel
sentiero dell’ignoto.
Garlio l’aveva afferrata per un braccio, forse con troppa
forza, e l’aveva
attirata a se, spalmandola contro il suo ampio petto,
“No” le aveva sussurrato.
Non ora, aveva sentito lei.
Theresia, fredda come l’acqua del primo mattino, aveva
parlato: “Berunio, mio
buon cavaliere, dovresti scortare Monna Saerra a prendere una boccata
d’aria;
l’etere della tenda è viziato, la deve aver
stancata” aveva sancito lapidaria. Ammiccando
al suo cavaliere e guardando la dama, gli occhi della monna di
Perlipsia erano
spire di fuoco.
Saerra era arrossita dalla frustrazione, “Non fidarti di
questi spergiuri, non
hanno dignità né fede” aveva avvertito
Theresia prima di farsi scortare fuori,
con gentilezza dal cavaliere. Nelle parole di Saerra c’era
stata una certa
disperazione.
Adda sapeva cosa fosse: la cecità dei fioriani.
“Perdonate i comportamenti della mia
amica; ha fuoco nelle vene. Quando
saremo a Peripsia, dovrà cambiare” aveva
considerato Thereresia, prendendo
posto sulla sedia con le braccia, “Nessuna donna ferriana non
può parlare così”
aveva aggiunto cupa.
“Ma lei è del Pregiatissimo Impero”
aveva considerato Garlio, la prima cosa che
aveva detto fino a quel momento. Alle manimorbide fioriane erano
concesse molte
più parole di quanto fossero concessi agli uomini come
Garlio stesso. “Entro un
paio di cicli non più, sarà la Monna di Perlipsia
assieme al mio adorato
cugino” aveva risposto pratica Theresia.
“Taddesio portaci del vino; sorella controlla che la nostra
gentile cugina sia
sana e salva” aveva ordinato Theresia, mentre Adda osservava
Deria e Segeste
affiancarsi a lei.
Tre sedie erano rimaste vuote e loro erano quattro, “Deria,
cara, puoi
recuperare una sedia cortesemente, da mettere proprio di fronte a
me?” aveva
chiesto con gentilezza moderata ed accavallando le gambe.
Adda si
era seduta alla sinistra di Siveria, Nerf e Delisio le erano speculari,
mentre
la sedia al centro del semicerchio, orientata verso Theresia Arga era
occupata
da Garlio.
L’uomo non sembrava nervoso, mascherava la sua incertezza
dietro l’assoluta
calma e la scioltezza, di rimando la monna ferriana sembrava ancora
più
tranquilla, con le dita intrecciate nel grembo ed una gamba a penzoli.
“Se son tutti così gli eretici, abiuro Dio oggi
stesso” aveva sussurrato
Siveria all’orecchio di Adda come se fosse una sua vecchia
amica, quella era
rimasta rigida come una stecca e si era
lasciata sfuggire una risatina infantile, prima di ricomporsi dopo
un’occhiataccia
da Delisio dall’altro lato della tenda.
“Volete
che faccia portare il cibo qui dentro o vorrete mangiare fuori, con il
resto
degli uomini? Segeste ed altri hanno preso un cervo, maschio, ieri ed
io ho
comprato dei capponi” aveva rotto il silenzio Therersia,
rivolgendo gli occhi
castani, quasi gialli, a Garlio; “Il vino arriverà
con Taddesio” aveva detto
poco prima che il giovane paggio comparisse con una caraffa di vino ed
un
vassoio pieno di bicchieri in legno lucido e laccato.
Garlio non si era lasciato distrarre. “Non
spezzerò il digiuno con te, ne berrò
il tuo vino finchè non sapremo perché hai mandato
un ruspante cavaliere a
chiamarci” aveva sentenziato poi. O spiegare
perché dei ferriani
gironzolavano per le terre dell’impero in città di
velluto come Cavalcatori
Erranti.
“I galli sono ruspanti, Theresia. Vuol dire
genuino, ma anche un po’
grezzo. Adatto al buon Beronio!” si era intromessa veloce
Siveria, nella
conversazione, leggendo qualcosa nell’espressione della sua
amica. “Grazie”
aveva risposto la monna, prima di rivolgersi alla platea,
“Scusatemi. Il mio
fioriano, come si dice? Sì, è rugginoso”
aveva spiegato.
“Nessun’asperità, mia monna”
aveva risposto Garlio, che non aveva mai appellato
nessuno con titoli onorifici da che Adda lo aveva incontrato
né fatto sfoggio
di parole ridondanti, spesso neanche azzeccate al cento per cento. Se
la parola
aveva messo in difficoltà Theresia, lei non
l’aveva affatto dato a vedere,
rimanendo stoica, “Mio buon Libero Pensatore; sei esattamente
come ti ho sognato,
meno bello – forse” aveva risposto Theresia con
tranquillità.
Un sorriso senza controllo era sorto sul viso di Garlio,
“Vorrei dire che ti ho
sognato anche io, mia monna, ma non sapevo della tua esistenza fino ad
oggi”
aveva ammesso senza vergogna.
Adda aveva scosso il capo, non poteva aspettarsi di meglio da Garlio,
era un
nemico giurato dei manimorbidi, anche coloro che non avevano le radici
sparse
nell’Impero. Lei riconosceva una diversità, la
nobiltà fioriana era convinta di
avere quel sangue, quel ruolo, per divinità investitura, di
rimando, mentre i
manimorbidi ferriani non confidavano affatto nel sangue, ma nella
ricchezza e
nel potere. Nessuna divina investitura, solo antenati svegli e con
possibilità.
Poi si era sentita stupida, per quei pensieri. Adda aveva visto
Theresia senza
gli indumenti da uomo, ma sistemata come una buona dama, con le maniche
a
fisarmonica e le decorazioni da telaio-a-tiro con motivi animali,
volpi.
Ingioiellata, truccata con la biacca sulle guance e le labbra rosse
come
cigliegie, splendida, bellissima e non dissimile dalla sua signora
Canadea.
Poteva non avere il sangue di una nobile, ma ne aveva la ricchezza.
Theresia, Canadea, Saerra e tutte le altre manimorbide erano la stessa
pasta.
“Bevi con me, mio libero pensatore” aveva detto
Theresia poi, “E io
soddisferò tutte le tue richieste” aveva
commentato.
Adda l’aveva guardata incerta, un rivolo di imbarazzo era
cosparso sul viso di
Garlio, presto soffocato. Aveva osservato Nerf divenire rigidissimo
sulla sedia
di fronte a lei, mentre Delisio aveva dovuto nascondere la bocca con le
labbra
per nascondere lo sghignazzare che era sorto sul suo volto.
“Dovrei dirle che
si è espressa molto male?” aveva chiesto con
eloquenza Sivaria.
‘E io risponderò a tutte le tue
domande’ intendeva, o almeno avrebbe
dovuto, anche se Adda aveva un terribile sospetto che in alcun modo
Theresia
avesse sbagliato.
Garlio si era voltato verso di lei. Adda aveva tirato su la schiena,
drizzandola immediatamente, incerta su cosa avesse dovuto interpretare
in
quella ricerca: il suo permesso? Il suo consiglio?
Adda aveva annuito, dando il suo assenso.
Don Teddesio Lamorgilla aveva portato dei bicchieri a tutti; Adda aveva
potuto
osservare come la reazione di Nerf fosse di pura gioia mentre osservava
un
manimorbide servirgli vino bianco in una coppa in un bicchiere
nobiliare.
Delisio aveva ripagato quel sorriso fin troppo appagato con un buffetto
sulla
nuca.
Teddesio le
aveva allungato una coppa di vino e lo aveva riempito, era stato
generoso, e le
aveva sorriso con un sorriso gentile, “Grazie” le
aveva detto lei, con calma.
“Sempre un pasticcino, grazie Teddi!
Sarà drammatico quando diventerai
lo scudiere di Tarsio e dovremmo rinunciare a te” aveva
ammesso Siveria
nostalgica. Il ragazzino aveva stretto le labbra, arricciandole in una
smorfia,
“La possibilità mi devasta” aveva
vagliato senza gentilezza, “Piccola
merdina!” aveva ridacchiato Siveria,
“Giuro sul Don-del-cielo adoro quel
marmocchio!”
Theresia si era sollevato in piedi, con la coppa sollevata,
“Voglio fare un
brindisi al nostri cortesi
ospiti. Non viene spesso di
avere eretici alla propria tavola, non che mi importi di queste
corbellerie: io
sono un adoraoro!” aveva detto.
“A Garlio di Rocca Vrisea, un uomo del peccato; il
Principio-in-terra”
aveva sogghignato Theresia tirando su il calice, “O
l’aculeo nella fica
dell’Imperatrice. Sicuramente il mio nomignolo
preferito.”
Garlio aveva sospirato, alzando anche lui il calice, “Alla
Monna di Perlipsia;
Adda mi ha detto che vi chiamano La Volpe di Perlipsia” aveva
detto vago.
Theresia aveva riso, “Sì è un
soprannome che mi ha dato mio cugino Darion
quando avevo … uhm … trenta sorelle o
giù di lì?” aveva scherzato,
“Ma è una
storia uggiosa. Non ho decisamente la tua
fama: bruci villaggi, appendi
preti, ovunque giungi raccogli proseliti. Sei l’erbaccia che
infesta il Gardino
dell’Imperatrice” aveva aggiunto, senza perdere
smalto, “A detta della mia
futura sorella-acquisita, uccidi anche imperatori.”
Adda aveva sentito lo stesso gelo che si percepiva nelle notti della
Sorella
Fredda, quando il cielo piangeva neve.
“Non nego le mie colpe: ho commesso crimini di ogni genere e
di alcuni me ne
pento, di altri molto meno, ma non ho linciato io il dolce imperatore
– se
fossi stato io, avrei lasciato il suo cadavere alle gente
perché vedesse che
anche un dio può morire.
L’Impero è pieno di Liberi Pensatori”
aveva
ammesso cupo Garlio, con gli occhi neri luccicanti. Theresia aveva
sorriso, con
un’espressione quasi cattiva, “Lo so, lo so. Tu e i
tuoi svincolati non avete difetto,
almeno non di questo” aveva considerato Theresia ed Adda
aveva avuto l’orribile
sensazione che sapesse.
Che Theresia sapesse esattamente che ne era stato del Dolce Imperatore.
“L’Imperatrice ha fatto ballare la danza degli
strozzati a ben dodici uomini
che come te, Garlio di Rocca Vrisea si
consideravano Liberi e sverg
…e condannato uno all’essicazione
per la colpa di aver ucciso il suo dolce
marito” aveva raccontato. Adda aveva provato un
brivido al ricordo dell’esecuzione
per essicazione, aveva sentito un dolore forte al petto.
Tredici uomini, “Arlo
Ceidri di Città Rosa” aveva
ricordato Garlio, con disgusto sul suo viso, l’espressione di
Theresia era
rimasta in tralice. “Lo conoscevi?” aveva chiesto
lei, poi.
Adda non ricordava se Garlio ne avesse mai parlato, era già
morto l’uomo ed i
suoi compagni, da molte lune, quando lei aveva abbandonato il giusto
sentiero
per camminare nelle vie ignote. “No, non lo conoscevo, ma
ogni uomo libero è
mio fratello” aveva ammesso candido Garlio, Nerf e Delisio
non si erano
nascosti un boato condiviso, “Che la sua anima sia
consegnata all’eterno!”
aveva dichiarato con orgoglio il miglior amico di Garlio.
“Che modo pittoresco, noi diciamo: che
di te non sia dimenticato
neanche un dente. In Ferriano ha un sono più
bello, ovviamente” aveva
commentato Siveria, con voce bassa e leggermente divertita, Adda era
abbastanza
confusa dall’ilarità con cui la monna ferriana
stava misurando quella situazione.
Theresia
aveva bevuto un po’ del suo vino, “Ora, se devo
essere completamente incorrotta
– non so nulla di Arlo Ceidri, ma avevo
studiato tanto te. Il figlio di
un attendente nato consacrato, che ha rinnegato il
suo fiore, il suo
destino, che per il suo credo accentando di viver
braccato come una
bestia, ma che ora si insinua e si espande nel bel giardino
dell’Impero
divorando tutto. Al punto che la stessa Signora dei Fiori sa della
tua
esistenza” aveva raccontato Theresia.
Una vertigine aveva colpito Adda, come un pugno sullo sterno, da averle
succhiato via il fiato dal petto, aveva stretto i palmi fino a sentire
le
unghie contro la carne dei suoi palmi. “Sono davvero
lusingato nel sapere che
una rispettabile Monna Ferriana abbia speso così il suo
tempo, nello studiarmi”
aveva considerato Garlio rigido.
La donna non aveva perso il suo sorriso, “Dovresti, non
è una cosa che faccio
per tutti” aveva considerato lei, scavalcando le gambe ed
accavallandole di
nuovo, portando a penzoloni l’altra gamba, “Anche
se, be, l’imperatrice ha
messo molto impegno nel definirti un eretichino senza
impegno” aveva
raccontato.
“Non avete appena detto che l’Imperatrice sa di
lui?” aveva chiesto Delisio
senza vergogna – lui e la sua bocca ben velenosa.
Theresia aveva riso con divertimento, ma era stata Siveria a
rispondere:
“Ovviamente, la terribile Signora dei Fiori sa di tu,
tutto l’Impero sa
di tu, anche nella Lega si parla di tu!
Ma l’Imperatrice non può
permettersi due sezioni … ehm
… sedizioni” aveva considerato con una
punta di divertimento ben evidente.
Garlio si
era lasciato sfuggire un sorriso, piuttosto divertito, mentre a Adda
aveva
sentito la bile salire lungo il suo esofago, le era tornata voglia di
vomitare
il poco che aveva mangiato la sera prima ed il sapore del vino nel suo
palato
si era guastato, sapeva di uova e di marcio. “Parli del
Margravio Traditore e
della sua piccola rivolta che ha concimato i campi” aveva
vagliato Garlio,
revocando quella storia.
Adda aveva serrato le palpebre, impegnandosi per cacciare via quel
gusto
disgustoso dalla sua lingua e quel pensiero ancora più
orribile dalla sua
mente.
Theresia aveva annuito, prima che le trecce biondo-castano si
piegassero
insieme alla sua testa, la monna aveva deviato lo sguardo, non aveva
più gli
occhi su Garlio ma guardava nella direzione di Adda e Siveria.
Lei non era stata certa di chi cercasse lo sguardo tra lei e la sua
amica, fino
a che non aveva parlato: “Mi pare di ricordare, correggi
se sbaglio, che
tu, Adda, conoscessi il margravio … Non ricordo il suo nome,
finiva per Ren,
si?” le aveva chiesto con una punta di divertimento, che
smascherava il suo
tono finto di ignoranza.
“Quasi tutti nomi irtosi finisco per Ren
o Ran” aveva farfugliato
Delisio, ma il suo commento era caduto nel vuoto. Adda aveva annuito,
“Il
signore Gathren Rastia di Irti Pini e no”
aveva dichiarato Adda e non
era una menzogna.
Tutti la guardavano. “Non lo conoscevo. Lo ho veduto
sì, quando lavoravo al Bocciolo,
lo ho servito come mi era richiesto e gli ho anche lavato le mutande
questo sì.
Ma no, non lo conoscevo. L’unica cosa che ci siam scambiati
è stato: Fai
questo e quest’altro e Sì, mio
signore” aveva spiegato seccata Adda,
ricordando quel periodo con dolore, rabbia e risentimento.
“Quindi?” si era inserito Nerf, intrecciando le
dita sul ventre ed osservando
tutti con un interesse nervoso, era una delle prime cose che la vedette
aveva
detto da quando erano entrate nella casa di stoffe.
Siveria le aveva sorriso, scoprendo i denti da cavalla,
“Sì, tutto questo
preambolo era per dire che abbiamo conosciuto di
voi da una vecchia
conoscenza” aveva canticchiato, giocando con le
dita dritte giocherellando
con il bel brillocco che indossava al collo.
Adda aveva drizzato le spalle, ogni sensazione di disgusto e voglia di
espletare che aveva sentito si era asciugata immediatamente,
perché un’idea
precisa – e rincuorante come poche – era balenata
di prepotenza nella sua
testa.
“Saiji!” lo aveva detto di getto, senza riflettere.
Sentiva la speranza sbocciare
nel suo petto come il fiore che si era strappato. Solo dopo aver
parlato si era
resa conto di averlo fatto e vergognosa aveva cercato lo sguardo di
Garlio. Lui
la stava già guardando, gli occhi neri duri, si erano
fissati per un secondo,
prima che lui tornasse a guardare Theresia. Adda si era ritrovata
perduta ed
incerta di quello scambio.
La Volpe
di Peripsia aveva annuito, “Sì. Sir Alderichi mi
ha raccontato della vostra
impresa sui pendii della Vosterna, a Forte Agave in Spessi
Abeti” aveva
considerato lei, “L’ultima cosa che mi aspettavo di
sentire di era un gruppo di
eretici che aiutava un cavaliere cordato a liberare un forte fioriano,
conquistato da briganti sussurranti” aveva raccontato
Theresia, meravigliata.
Garlio le aveva sorriso in una maniera sinistra, ma che lo rendeva
irresistibile, “Se fossi un uomo di fede di direi che
è la volontà del nostro
tiranno, ma non lo sono: la bellezza dell’Ignoto è
che le sue vie sono
inimmaginabili. Nessuna misteriosa mano a guidare il caso, ma libero
arbitrio
o, forse, servo arbitrio – non sono mai stato un buon
filosofo” aveva
cominciato a spiegare.
La sua parlata si era fatta lenta come la melassa, dolce come il miele
più
puro, Adda si accorta che ogni persona in quella tenda, dal guerriero
enorme
all’ultimo cavaliere entrato dall’uscio era
completamente rapito da lui.
Adda non sapeva se fosse per il suo sangue benedetto o per la sua
dialettica,
anche Theresia sembrava rapita, “Ogni scelta da me compiuta,
ogni scelta da Sir
Saiji Alderichi da lui compiuta, corda e non corda, ci hanno guidato
lì. E le
nostre scelte ci hanno unito. Posso essere un senza-dio per essere
gentile, un
principista o liberista o come vogliano chiamarmi, ma sono anche un
fioriano
che ha sempre avuto a cuore il suo popolo” aveva raccontato,
“E Sir Alderichi
può aver indossato le spine dell’Impero, ma
è sempre stato un cavaliere al
servizio del suo regno. Potrei essere l’aculeo
della fica dell’Imperatrice,
ma sono un uomo che ama la sua terra” aveva detto, senza
neanche una menzogna –
“E se mi chiamano nemico è solo perché
non comprendono quanto io voglia di più
per la mia casa” aveva detto.
Gli occhi scuri di Theresia erano sembrati rapiti come quella di
un’innamorata,
“Questo è un sentimento che io abbraccio
meglio di tante altre mio
libero pensatore, Peripsia è il mio cuore” aveva
detto gentile, alzandosi dalla
sedia, con il bicchiere di legno ormai quasi vuoto.
“Riguardo alle vie ignote. Io concordo, non su tutto ma
quasi; Non so se esiste
un Dio, se davvero la sua mano è così decisiva
o se i nostri fiori siano
solo un’erbaccia spontanea. Però in qualcosa
credo: in situazioni più grandi
degli uomini, come terremoti, inondazioni, ma anche un Signore che
decide di
guidare un esercito contro un altro, trascinando gente di ogni tipo nei
loro
schemi” aveva fatto una pausa, “Questo
sì, questo esiste, ma ritengo che la
grandezza di un uomo sia da attribuire alle scelte che compie in
conseguenza,
forse a dirittura in previsione, a queste circostanze” aveva
considerato. Aveva
usato tutte le parole giuste.
“Interessante” aveva considerato Garlio ed Adda era
dannatamente sicura che
fosse interessato, lui che sempre aveva pronunciato
parole indicibili
contro i manimorbide.
Theresia si era avvicinata, la sua camminata era marziale, dura, come
quella di
una cavalla, “Oggi sono qui, davanti a voi, tutti vuoi,
per condizioni
più grandi e una storia tragicamente lunga. Mentre nella mia
casa a Perlipsia
si consumavano piccoli intrighi di ogni genere, chi sposa chi, chi
tradisce
chi, chi spia chi, cose divertenti, carine, intriganti” aveva
fatto una pausa,
“Mentre succede questo negli alti palazzi, fuori le mura, tra
i contadini che
coltivano le terre: un bambino, orfano di padre, con fratelli troppo
impegnanti
a lui ed una madre … diciamo non sana,
un bambino senza ambizioni
per il futuro, che prova, a modo suo a fare la sua parte: aiuta nei
campi, nel
mercato, ma che ha un talento o una passione, non so, sa andare per
boschi a
raccogliere funghi” aveva fatto una pausa, “So che
per voi fioriani i funghi
sono sempre augurio di sventura, ma dalle mie parti abbiamo un gusto
differente” aveva spiegato Theresia, strappando una risata
sommessa alla sala.
“Quindi, abbiamo un ragazzino che va in cerca di funghi nel
Bosco di Ferro, non
dovrebbe, perchè non è un posto tranquillo quel
luogo, animato da fiere. Ma si
sa, no, come sono i bambini: convinti della loro
immortalità, a quaranta
sorelle io camminavo sui cornicioni del mio palazzo, perché
credevo di non
poter cadere, così è il bambino: innocente,
per coscienza, del pericolo
che corre tra bestie e uomini. Ma non è la sua prima
avventura e la necessità e
la fame sono più pressanti del buon senso, ma il nostro
modo, però, non è un
mondo gentile” aveva respirato “Il bambino incontra
un cinghiale ed allora il
buon senso ed il terrore tornano, si danno la mano e lo aiutano a
fuggire, così
veloce da tagliare l’aria, tra urla e dolore.
Ha gambe piccole e magre, ma non si perché,
perché la paura può renderci state
di sale ma a volte ci nutre e ingrossa la
nostra volontà. Così lui
corre, corre, come un frenetico e urla, per il
bosco, certo di morire.
Ma non lo fa, scopre che nel bosco non è solo. Un manipolo
di uomini, tra cavalieri,
nobili, scudieri e quant’altro è lì, il
Bosco di Ferro non manca di fiere e
premi per i ricchi annoiate di Peripsia. E perché non
proprio quel cinghiale
lì?
Il bambino trova i cavalieri, fine della storia, lieto fine. No! Le
urla del
ragazzo infastidiscono i cavalli, uno di questi si imbizzarrisce, il
suo
cavaliere forse non ben agganciato, forse incapace, forse distratto,
non
importa, perde l’equilibrio e cade giù da cavallo,
poteva non essere nulla ma
la testa del cavaliere incontra un sasso. Tredici lune dopo il bambino
è ancora
vivo, sta bene, ma il cavaliere è morto e con questa
piccolezza: tutto il mio
mondo si è ribaltato. Nessun complotto, nessun
colpo, nessun cataclisma,
solo un bambino in cerca di funghi” aveva terminato.
Adda si
era sentita profondamente smarrita da parte di quell’infinito
discorso, con
quella incredibile e lunga perifrasi, ma non era stupida non
particolarmente.
“Chi è morto?” aveva chiesto,
perché doveva essere qualcuno di importante. Non
era rimasta informata di tutte le vicende politiche e sociali della
lega,
riusciva a malapena a tenere a mente le famiglie fioriane, trentuno
grandi
famiglie, per trentadue territori ed erano solo le maggiori. Ogni
porzione del
Pregiatissimo impero aveva il suo sottobosco.
E la Rivolta fallita del Margravio Traditore aveva soffocato ogni altra
notizia. Adda aveva sentito che i campi vicino a Malvasia si erano
tinti di
rosso e che lo Scintillante Generale avesse completamente spezzato il
fratello
minore di Gatrhen.
Theresia l’aveva guardata: “Don Lorezin
Persepoli” le aveva risposto, “Lo
ricordi?” aveva inquisito poi. Adda si era dovuta prendere un
momento per
frugare nella sua memoria, isolare le lune che aveva speso alla Bestia
Bicefala.
Ricordava la vistosa famiglia di Theresia, in particolare i due cugini
del ramo
principale, gli eredi, l’uomo torvo e quello dal sorriso
gioviale e gli occhi
brillanti. Ricordava, Adda, che c’era stata una festa,
l’ottolune della terza
decimana del secondo ciclo per celebrare la festa delle Dieci Candele
– non
riusciva a ricordare la storia di quella ricorrenza, ma ricordava bene
la
festa.
E ricordava che Theresia bella come la Rigogliosa, vestita di seta
finissima,
perle ed oro bianco aveva ballato con un ragazzo piacente. La pelle
d’ambra, il
naso aquilino e capelli biondo polentina, con un sorriso tutto miele e
le
fossette, che era sembrato capace di condurre Theresia senza urtarla.
Adda aveva pensato sarebbero stati una coppia buon assortita.
A lei quella sera le sarebbe piaciuto di gran lunga avere un vassoio o
un otre
e dover correre a destra e manca per riempire calici o pance vuote, che
restare
lì, nascosta quanto più possibile
nell’ombra, schiacciata contro un muro, con
le mani molli e da invitata.
Anche vestita con il pizzo di bisso e di ciniglia, Adda non
era una
manimorbide e mai sarebbe potuto esserlo, non nell’Impero e
non a Peripsia dove
il valore di uomo valeva dalla sua borsa.
E ricordava Saiji con lo stesso disagio affianco a lei, abbigliato come
il più
pulito dei nobili, con la blusa azzurra, che spiccava sulla pelle
zucchero
cotto. “Quello è Don Lorenzin Persepoli.
L’altra testa della Bestia” le
aveva spiegato il suo amico, seguendo il suo sguardo, dove sui
pavimenti di
marmi colorati al ritmo di una musica intrigante, dominavano la scena.
“Il lupo” aveva detto Adda, pensando a quella notte
caotica, alle luci soffuse
delle candele – dieci, solo dieci – e il quasi buio
che regnava nella sala da
ballo degli Arga; ‘Chiedimi di ballare, chiedimi di
ballare’.
Theresia
aveva mosso la testa con un gesto d’assenso,
“Sì, il povero, povero, Lorenzin.
Intelligente, brillante e morto dannatamente prima del tempo”
aveva considerato
rancorosa. Adda non ricordava di aver sentito la Monna di aver parlato
con
particolare affetto dei loro nemici-alleati giurati, ricordava di
averla vista
chiacchierare di sottecchi, al matroneo, con una donna di quella
famiglia, ma
mai parole troppo ovvie e pubbliche.
“Ed indovino, a lei, monna, fa gola il ruolo che aveva questo
lupo morto” aveva
considerato Delisio, con un certo interesse, inclinando la schiena per
mettersi
ancora di più pronto all’ascolto; Nerf al suo
fianco aveva le labbra serrate,
l’espressione rigida di chi non stava gradendo una sola
parola.
Theresia aveva distolto lo sguardo da Adda per rivolgerlo al giovane
uomo
imperfetto, “Si potrebbe dire così. Una donna
ferriana può poco, anche una
Arga. Si mi piacerebbe occupare il ruolo che era del mio buon Lorenzin,
ma mi
accontenterei che quel ruolo tornasse in vita, che
l’equilibrio sia
ripristinato o almeno che l’uomo che ora governa, da solo, su
una diarchia
fosse diversa” aveva spiegato senza peli sulla lingua,
“So di poter apparire
sciocca, immatura, anche egoista per qualcuno e senza alcun dubbio
ingenua, ma come
diceva il buon Libero Pensatore Garlio: il mio cuore è per
la mia terra.
Perlipsia è il mio cuore” aveva spiegato con un
melodramma quasi credibile.
Adda si
era dovuta mettere una mano sul viso, per evitare che una risata
cattiva
emergesse, che era andata ben oltre il suo controllo. Il discorso
melodrammatico di Theresia che aveva imbevuto i suoi tre compagni a lei
aveva
ricordato quelli di Canadea la sua signora, quella che per sorelle
lunghissime
aveva servito. Aveva rammentato la giovane, da che era poco
più di una
ragazzina, che sedeva davanti ad uno specchio per ripetere discorsi
perfettamente studiati, mentre Adda le pettinava i capelli
perché fossero lisci
e morbidi come la seta. ‘Voglio essere
così naturale che nessuno, che
chiunque pensi che ogni mia parola sia sbocciata dall’ardore
del momento’
le aveva confidato.
Una naturalezza ben studiata.
Theresia era uguale; la sua emotività era così
artefatta che se Adda non avesse
vissuto una vita intera in un maniero a servire una vera signora, le
avrebbe
creduto. Forse Peripsia era il suo cuore, ma come tutte le creature di
quella
risma, quello che Theresia voleva era il potere.
Inoltre non aver usato alcun termine errato, rendeva stranamente il suo
discorso molto meno genuino.
“Cosa
vuoi
da noi?” aveva chiesto Adda, conoscendo
l’inutilità di continuare a ballare
davanti quell’argomento, togliendo la mano dal viso ed
inghiottendo la risata
isterica con la bile. Monna Theresia poteva essere brava nella danza
delle
parole, Garlio amava i grandi discorsi ma solo quando lui stesso ne era
il
centro e non aveva la pazienza, né la voglia, di affascinare
una nobile
signora, per non parlare di Nerf che era lì rigido come una
pietra. Di rimando,
Delisio stava godendo il momento migliore del suo tempo, amava e
prosperava di
quello – Adda lo aveva inteso ormai.
La Volpe aveva girato lo sguardo verso di lei nuovamente, spalancando
gli occhi
castani, quasi miele, “Oh! Che voce ponderosa e che
sfacciataggine! Oh Adda, ne
avevo avuto il sospetto da che ti ho veduta che non eri più
la sguattera senza
bocca che avevo conosciuto” aveva chiosato divertita
Theresia. “All’ora ero una
pecora, ma, in questa Luna sono una persona” aveva risposto
serena Adda.
“Felice di questa metamorfosi, io sono ancora
un’animale temo” aveva scherzato.
Adda non aveva distolto lo sguardo, così Theresa aveva
ripreso a parlare,
quando non aveva ricevuto risposta: “In realtà
è molto semplice, la risposta:
io voglio voi!” aveva ammesso: “Voglio i vostri
uomini per combattere! Voglio
l’uomo che ha lacerato Forte Agave ai
Sussurranti! Ma non ho solo borie,
offro anche. Prenderò anche le vostre donne,
perché abbiano un tetto e vesti
calde, prender i vostri figli perché abbiano pane e
latte” aveva fatto una
pausa, lunga.
“Peripsia è una terra di veneraoro, per lo
più si segue il culto del Descrino
Prescritto, ma esiste un tempio per la Dura Madre Terra ed uno per la
Signora
Umida; è nelle catacombe, qualcuno, celebra le
Divinità Calme – lungi da me
sapere cosa sono – ed altre divinità che neanche
ricordo. Dei Liberisti …”
aveva fatto una pausa molto meno enfatica, ma calcando bene quella
parola. I
liberisti erano la frangia più leggerà tra gli
eretici, almeno a detta delle
chiacchiere che Adda aveva raccolto negli anni, “…
risulterebbero la cosa meno
strana nella nostra bella Diarchia. Certo, i cittadini potrebbero non
essere esaltati,
ma una soluzione è sempre trovabile; liberisti ovviamente,
atei, principisti e volontisti
potrebbero essere troppo, ma come ho detto: l’unico Dio che i
ferriani venerano
fedelmente è la pecunia.”
Nerf si era lasciato sfuggire una smorfia.
“Perché?” aveva chiesto invece Garlio,
inclinando il capo ed aggrottando le
sopracciglia scura, “Perché il Liberismo
è … come si dice? Tranquillo. Il
Volontarismo è tremendamente aggressivo. So che è
punibile di morte
nell’Impero, mutabile nella Ghaadiana e condannabile nelle
Terre del Sussurro;
anche nella Lega non sono illecite. Negare
l’esistenza di un dio troppo
invadente e l’adorare un male riconoscibile, sembra
abbastanza grave. Forse
troppo anche per noi venali adoraoro” aveva spiegato
didascalica Siveria
“Credo che il mio buon amico si chiedesse: perché
noi” si era intromesso
Delisio, accompagnato da uno sbuffo di Garlio. Poca pazienza.
“Perché ho bisogno dell’uomo che ha
preso Forte Agave e non sono stupida da
presentarmi con niente in mano, come ho detto: prenderò
anche le vostre donne e
i vostri figli, darò a voi tutti: una cosa. Posso mettere
sul piatto: oro,
argento e damigelle, ma Ser Alderichi mi ha raccontato molto di voi e
sarei più
stupida di una capra se non avessi ascoltato il mio amico. Come ho
detto: su
qualcosa, io e te, Garlio Il-Principio-Incarnato siamo uguali come due
fiocchi
di neve. Amiamo la nostra gente” aveva dichiarato orgogliosa
Theresia.
Oro, argento e damigelle potevano comprare molto, ma un luogo da
chiamare casa
… non per loro, non per l’impero. Ma in terra di
ferro?
“Troppo
semplice” aveva stabilito Garlio. Adda aveva annuito, a lei
era sembrato
bellissimo, ma riconosceva che lei era una donna semplice, nonostante
tutto ciò
che avesse subito.
“Ovviamente” aveva concesso Theresia, senza battere
ciglia, “La città va
conquistata – o non avrei bisogno dell’uomo che ha
preso Agave. Senza la città
le mie parole valgono quanto promesse scritte
sull’acqua.”
“Vuoi la mia mente per la conquista e i miei uomi per
l’azione. Vuoi che
moriamo per te” aveva sibillato Garlio, il suo tono era
neutro quasi, ma i suoi
occhi scuri erano fiammeggianti.
“Per me? Certo, perché io sarò
lì, con mio cugino, i miei uomini e chiunque
voglia unirsi. E se prenderemo la città, non sarà
solo per me, sarà per tutti.
Una nuova Città del Peccato, lontano dalle golose mani della
Ghaadia e dal
pugno-duro dell’Impero” aveva risposto
Theresia, fingendo una calma che non aveva, gli occhi brillanti
scintillavano
di desiderio, “Una città che vi accoglierebbe,
uomini che non dovrebbero vivere
accampate in pievi distrutte, con occhi cresciuti sulla nuca,
aspettando solo
di venire calpestati dai tacchi di sua magnificenza
Imperiale.”
Il Libero Pensatore aveva guardato la Monna.
Due mondi opposti a confronto.
Garlio aveva voltato il capo verso Adda, ma lei si era già
allontanata, con la
mente da quel luogo. Pensava alla Città del Peccato, pensava
alla strega gnuda
e scinta esposta in piazza e tutti quei bambini presi e rovinati
– con gli
occhi morti e piangenti.
‘Ci son volute così tante sorelle
perché non avessi incubi la notte su quel
giorno e non vomitassi al solo pensiero dell’odore del
sangue’ le aveva
confidato Saiji una volta.
Il suo ragazzino del Peccato … che aveva dato fiducia a
Theresia.
“Non sarebbe un brutto mondo, quello dove avrei un tetto
sulla testa, per
quanto luna e stelle siano suggestive” aveva rotto il
silenzio Delisio, con un
sorriso storto.
Adda era lì, che continuava ad essere spaccata in due tra
sua sorella che le
diceva di guardare la strega e Saiji che le raccontava del sangue
offerto ai
fiori quel giorno lì.
“Potreste rifletterci meglio, mentre dividiamo il desco.
Spero che chiarite le
mie ragioni, mio Libero Pensatore voi vogliate spezzare il digiuno con
me”
aveva dichiarato Theresia con tono di ferro. “Non potrei mai
rifiutare una
gentile offerta. Paio una bestia, ma uomini buoni mi hanno educato,
chiedo solo
che il desco venga portato anche ai miei compagni, che si nutrono poco
e
meritano molto” aveva risposto Garlio, togliendo lo sguardo
da lei per
rispondere alla Monna, il suo tono era di miele puro.
“Ho ovviamente molte altre domande da porle, mia signora. Su
cosa è accaduto
precisamente a Peripsia dopo la morte di tale Don Lorenzin, chi governa
ora,
come è la città. Quante forze siano
necessarie” aveva ammesso, “Perché se la
mia memoria mi assiste: Perlipsia è nota come La
Città Inviolabile.”
“Sfortunatamente non ricordale male a
fatto” aveva ammesso Theresia.
“Oh penso di essermi appena innamorata” aveva
squittito Siveria in ferriano,
con gli occhi cattivi intrecciati a Garlio.
L'Incontro tra Adda del Bocciolo e Theresia Arga di Peripsia (non un granchè, ma ...)
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Capitolo 10 *** PARTE PRIMA; TITOLO I, CAPITOLO VII ***
Ero
indecisa tra quale capitolo pubblicare prima tra questo e lo scorso.
Spero abbia funzionato così.
CAPITOLO VII
A D E S S O N O N
H O S
I G N O R I, O
L T R E
M E S
T E S S O
Aveva
scostato la sedia, anche se non aveva molto tempo da perdere, sapeva
riconoscere come era giusto comportarsi, così aveva colto
l’invito di Zegros
senza troppi rimpianti. D’altronde il ragazzetto era lo
scudiero, l’attendente
ed anche il figlio putativo del Signore.
Zegros
era più giovane di Saiji, aveva un aspetto sbagliato, con il
viso leggermente troppo lungo, con
le guance ancora pregne
della morbidezza infantile, poteva avere sulle settantadue, massimo
settantasei
sorelle, con alcuni peli avevano cominciato a gettare una certa ombra
sopra il
labbro superiore. La caratteristica più evidente di Zegros
era sicuramente il
colore: non ne aveva uno. Era come se il Dio-di-ogni-cosa-buona quando
lo
avesse creato aveva dimenticato di colorare i suoi contorni. Aveva un
aspetto
fioriano, nei connotati – del sangue dei cyristi, con un naso
adunco, lungo di
corpo come se fosse stato steso – ma la sua pelle era bianca
come la panna,
molto più delle pelli delle terre del nord o della Ghaadia,
non era bianco, era
più un’assenza di colore,
così come i capelli leggermente lunghi e gli
occhi grigio così pallido da sembrare anche quelli senza
colore. Le persone,
quelli come Zegros li chiamava in più modi, Gente-Di-Albume
per essere
gentile, come faceva suo padre, persone che nascevano così
senza una ragione,
come fiori spontanei, altri meno gentilmente li appellavano come Inconclusi,
Moria tra i primi, adducendo a loro la colpa di non essere stati
completati.
“Tieni, mio buon amico, prendi il formaggio. È un
blu di Aviniosta. Di solito
Lues lo tira fuori solo per i nobili signori ma adora
viziarci” aveva
scherzato, con un certo divertimento, allungato verso di lui delle
fette
sottili di formaggio bianco opaco venate di un blu vibrante. Lui aveva
annuito,
non rifiutando la cortesia. Aviniosta era una città
ferriana, non era bagnata
dal mare e confinava con l’impero nel suo limite
settentrionale, non c’era mai
stato, ma adorava il formaggio. “Avete deciso di spendere
tutta la vostra paga
in un lupanare?” aveva chiesto, dopo aver dato un morso al
formaggio.
Saiji
non era un poeta ma lo sarebbe diventato volentieri.
Zegros
aveva riso, la sua voce era acuta, più simile a quella di
una ragazza che di un
uomo, “No, no. Lues, qui, ecco, comanda lei. Ci fa sempre un
prezzo di favore,
più che clienti siamo affittuari. Meglio di
un’osteria o una locanda, però,
no?” aveva chiesto retorico lui. Saiji aveva annuito, non
aveva decisamente
torto, “Qualcuno direbbe che è quasi una visita al
Giardino” aveva ammesso.
Aveva
mangiato altro formaggio, doveva metterne un po’ da parte per
Iren, quando lo
Sdregolamento fosse passato, forse la sua lingua sarebbe tornata
affamata di
sapori diversi del Latte d’Uccello. Aveva preso anche due
acini d’uva, non
erano zuccherine, ma erano comunque buone, più buone di
quelle che aveva
mangiato al paesello dove si era fermato con Iren e più
buone di qualsiasi cosa
avesse mangiato nelle ultime decimane.
Zegros
aveva passato verso di lui una purea di castagne cotte e poi, merito
della
birra che rendeva sempre la sua lingua più sciolta dei
legacci di una lupa di
baci, aveva ripreso a parlare. “Ti trovo bene,
Saijir” aveva detto allegro,
“Sai, mi aspettavo di vederti alla Piana di Malvasia.
C’era tutta la Corda di
Spine” aveva detto.
Saiji
aveva spalmato la purea su del pane, leggermente raffermo, decidendo di
subire
quell’informazione come passiva, se avesse fatto troppe
domande avrebbe aperto
un vaso colmo di merda, contro cui non era
disposto a confrontarsi. “No,
aspetta, eri nell’Ordine delle spighe sì? Una
delle più grandi onorificenze che
un cavaliere possa ammirare, prima del …” il tono
allegro con cui Zegros aveva
cominciato quella conversazione si era assopito
nell’imbarazzo e nel disagio,
“Incidente”
aveva bisbigliato, come un raschio in fondo alla gola.
“Incidente?”
lo aveva provocato nervoso Saji, sentiva la rabbia serpeggiare sotto la
sua
pelle, risalire il suo corpo come una bestia, lungo la schiena, le
braccia,
fino alla testa, il tremore, ma aveva ricacciato tutto indietro.
“Sì. Ero una
Spiga, per poco, sì. Volevo essere un Roveto, ma mentre
raggiungevo la
capacità, il vecchio imperatore è morto e gli
ordini sono cambiati. Sono stato
una Spiga per poco, ma abbastanza per fallire nel mio giuramento. Sir
Ramberra
mi avrebbe riammesso nella Spina, ma difficilmente lo avrebbero
permesso” aveva
detto calmo, calmissimo.
Era vero, essere un membro dell’Ordine della Spina era
davvero un gradissimo
onore che poteva essere concesso ad un qualsiasi cavaliere del
Pregiatissimo
Impero, in particolare ad un uomo come lui, di sangue così
basso, neanche
fioriani.
Non
era quello che aveva voluto, chiaramente, era stato davvero un onore
senza
precedenti, ma Saiji aveva aspirato a servire la seconda principessa,
ma non lo
avevamo mai ritenuto abbastanza degno.
“Devo
dire che da parte loro è stato sciocco, sei sicuramente uno
dei guerrieri più
abili in circolazione” aveva considerato Zegros con
tranquillità, “Così abile
da essere vissuto quando avrei dovuto morire” aveva replicato
spento Saiji, “Un
guardiano non dovrebbe mai sopravvivere al signore che ha giurato di
proteggere” aveva detto, senza menzogna. L’altro
sembrava terribilmente
interessato ai suoi pallidi commenti.
Zegros aveva allungato una mano raggiungendo una caraffa di vino viola
freddo,
l’aveva versato un po’ nel suo bicchiere e dopo
aver controllato che un altro
fosse sufficientemente pulito ne aveva riempito metà anche
per lui, passandolo.
“Al fiore immortale del Dolce Imperatore” lo aveva
stupido.
Saiji aveva sentito i suoi arti irrigidirsi a quell’ultimo
commento e per un
secondo aveva perso la presa dal bicchiere di coccio, “Che il
suo fiore possa
crescere forte nel giardino del Signore” aveva sussurrato
pacato, recuperando
la sua dignità.
Zegros
aveva sollevato il bicchiere e Saiji lo aveva imitato. Si erano toccati
e poi
avevano bevuto.
Il
vino viola era acido, stantio e sapeva di un vecchiume che
difficilmente poteva
essere ignorato.
Si era allontanato il calice dalle labbra, osservando
l’uomo-del-albume finire
il suo bicchiere in poche sorsate. “Adesso
non ho
signori, oltre me stesso, come è sempre stato per
voi punteruoli” aveva
spiegato calmo.
“Un
lupo d’armi e non di baci, dunque” aveva scherzato
Zegros, cogliendo un’altra
fetta di formaggio blu. “Nome stupido per nome stupido. Non
capirò mai neanche
perché questa dizione, nelle città ferriane si
dicono mercenari e prostitute”
aveva scherzato, incerto, Saiji.
Zegros
si era asciugato le labbra con il polso del suo braccio,
“Chiedilo a qualche
Mani Morbide che si è prego il compito di decidere tutte
queste stronzate, un …
come si dice? Compendio. Con un nome pretenzioso del cazzo: Nomi e
Ruoli del
pregiatissimo impero dei Fiori” aveva risposto con una risata
alta da aquila.
“Suona meglio, sicuramente più di prezzolati
e puttane” si era
intromessa una voce, anch’essa di uomo, era del lupetto
vestito di tulle-verde
che l’aveva guidato in quella stanza. Aveva perduto lo strato
opalescente di
stoffa, rimanendo del tutto nudo tranne l’inguine, Saiji
poteva riconoscere
sulla vita una catena allaccia di bronzo, da cui scendevano pendula di
vetro
soffiato. Il fiore visibile senza intoppi, risultava piuttosto
sbagliato sul
cuore, “Così ci chiamano in Ghaadia, me lo ha
detto un cliente” aveva aggiunto.
Tra
le mani aveva una coppa, con un gambo sottile, un piede largo ed un
corpo spesso,
era di ceramica con vernice nera, con figure rosse sagomate,
“Il vino cotto”
aveva esordito il Lupo di Baci, allungando verso di lui la coppa. Era
colma
fino all’orlo di un liquido scuro, nel centro, nei bordi
contro il nero della
ceramica, appariva un anello più rosso; dei pezzi di frutta
galleggiavano nel
torbido ed il calore assieme ad un odore intrigante si sollevava dalla
coppa.
Saiji l’aveva sentita calda, sui polpastrelli quando aveva
accolto l’offerta. “Grazie”
aveva detto al giovane, “Obbligato, mio signore”
aveva risposto pratico
l’altro, chinando il capo, pronto ad allontanarsi, prima di
essere richiamato.
“Ma no, Eleas, resta con noi facci compagnia” lo
aveva invitato Zegros senza
vergogna, con una rosatura sulle guance
così terribilmente appariscente
sulla sua pelle bianca come l’albume cotto.
Il lupo d’armi nonostante seguisse a modo suo gli
insegnamenti del
Dio-di-ogni-cosa-buona aveva, ben noti, gusti differenti da quelli
approvati
dalle dottrine di quella fede e dai giudizi delle brave menti dei buoni
pensanti.
Sul
viso di Eleas era sorto un sorriso piuttosto soddisfatto, specie quando
si era
seduto accanto al giovane Zegros, approfittandone per rubare poi un
acino
d’uva. A guardarli Saiji aveva avuto un mancamento: erano
piccoli, non
semplicemente giovani, lui poteva essere giovane, loro erano ancora
fanciulli.
Zegros
non aveva raggiunto le ottanta sorelle ed Eleas doveva essere appena
superiore.
Osservando
il modo languido in cui i due si parlavano, aveva deciso di cercare,
almeno con
gli occhi, ciò che destava il suo interesse.
Scarabocchio
aveva finito la sua birra rossa, schiuma bianca adornava i suoi baffi
spessi e
la donna, Jantibal, stava ridendo allegra – sembrava
sinceramente divertita, le
ipotesi erano dunque tre: o la donna era un’attrice
eccezionale oltre ogni
misura, o Saiji aveva perso la capacità di leggere per bene
i corpi delle
persone, oppure Jantibal apprezzava davvero le storie di Scarabocchio e
quello
era davvero, davvero, sorprendente. Si era alzato immediatamente dal
tavolo,
approfittando della dolce distrazione di Zegros, per avvicinarsi al
tavolo
giusto. Era incerto se appellare l’uomo davanti a lui con il
suo titolo, il
nome personale, il gentilizio o quel vezzeggiativo che ormai si era
cucito
addosso senza neanche più vergogna.
Berulio
Arrasi, noto ai più come Scarabocchio, lo aveva tolto
dall’impiccio,
accorgendosi di lui ed appellandolo per primo.
“Oh,
che il Buon-Dio abbia annaffiato il mio giardino! Eccolo, il mio
mezzosangue
preferito!” aveva esclamato a gran voce, sorridendo verso di
lui, aveva denti
così gialli che il canino d’oro quasi scompariva
nei pressi dei suoi fratelli.
Saiji non lo aveva preso a male, Ser Arrasi era mezzosangue quanto lui,
era
anche sbagliato, molto più di lui. Era un uomo brutto nella
maniera più
assoluta e totalizzante che il significato di quel termine poteva
offrire;
figlio di generazioni e generazioni di bimbi sbagliati da ogni lato,
lontanissimo da ogni sorta di perfezione, ‘Così
lontano da fare il giro’
lo aveva definito una volta Moria, con un sorriso cattivo sul viso
bello.
Era assurdo pensare che se Berulio avesse incontrato la sua anima
condivisa
avrebbe messo al mondo un figlio bellissimo come il tramonto sul mare.
“Vecchio
Scarabocchio!” aveva risposto lui, mentre si accomodava su
una poltrona bassa,
imbottita, affianco quella che l’uomo occupava.
“Jantibal, luce dei miei occhi,
questo bel giovanotto qui è Ser – ebbene
sì, un Ser – Saiji
Alderichi!”
aveva esordito con divertimento l’uomo, riferendosi alla
bella donna sulle sue
gambe. “Abbiamo combattuto insieme più di un
battaglia, il buon Saiji era un
soldato eh, ma non un regolamentare, era un membro della Corda di Spina
e
neanche di fanteria” aveva aggiunto con una certa
pomposità. La lupa di baci
aveva sbattuto le ciglia, avrebbero dovuto essere scure, ma erano tinte
di
polvere d’oro, come la pasta sulle palpebre. “Ohh!
È la coorte principale
dell’esercito, vero?” aveva chiesto subito a
Berulio, l’uomo aveva annuito:
“Oh! Un cavaliere al servizio di sua maestà
imperiale!” aveva chiesto, il suo
entusiasmo sembrava genuino, ma Saiji aveva dei dubbi che lo fosse
davvero. Le
Lupe di Baci erano addestrate per questo, per rendere ogni chiacchiera
noiosa
di un cliente come se fossero degne di un’orazione di un
saggio.
Lui aveva annuito comunque, “E la hai mai vista?”
aveva inquisito la ragazza.
Quella domanda aveva confuso Saiji, non se l’era aspettata,
ma immaginava
dovesse essere così … l’imperatrice era
un argomento sempre così magnetico; “Be
sì, qualche volta. Come equestre ho partecipato alla mia
quota di parate” aveva
ammesso.
Era
stato lì quando il Vecchio Imperatore era morto ed aveva
avuto l’onore di
sollevare la lama per il ponte di spade, alla destra di Ser Moira,
l’ultima
volta che aveva indossato i colori della Corda. E ricordava lo
splendore,
simile, al divino che aveva avvolto l’imperatrice, mentre
scivolava leggiadra
sulle strade di pietra lucida del bocciolo senza cedere ad una sola
incertezza.
“Saiji ti racconterà tutto dopo, mia cara. Fidati,
ha una lingua di miele
migliore di tutti i menestrelli che avrai udito; ma dopo,
però, luce dei miei
occhi, ora, goditi il vino e la pace” le aveva detto,
allungandole una moneta
scintillante come l’argento. Jantibal l’aveva
recuperata, non nascondendo un
sorriso allegro davanti a quello. “Spero non sia una
menzogna, mio buon
signore! Obbligata!” aveva sussurrato, recuperando uno
scialle di velluto scuro
che aveva usato per nascondere le nudità del petto.
“Credici
o no, quella donna mi fa sentire ancora giovane; come se avessi ottanta
sorelle, massimo ottantadue” aveva scherzato subito
Scarabocchio, “Finge così
bene di amare qualcuno, da trarmi in inganno di tanto in
tanto” aveva
raccontato bonario. Saiji aveva ridacchiato, prima di bere un
po’ del suo vino
caldo, anche se non lo era più ormai, “Non credo
esista persona che possa farti
becco, neanche lei” aveva considerato.
Senza
considerare che aveva visto in diverse campagne, Berulio accompagnarsi,
in
pubblico, alla presenza di qualche Lupa di Baci, ma non credeva di
averlo mai
visto parlarne dopo, o vederlo nel mentre – forse era
l’uomo più discreto del
mondo o forse nascondeva ben altro; ma teorizzava che un capitano di
ventura
avesse una reputazione da dover mantenere.
“Mi
sopravvaluti, mio buon Saiji” aveva scherzato Scarabocchio.
“Non
scherzavo comunque; Jantibal vorrà sapere tutto dopo,
è appassionata di storie
e cavalieri, vive in questo luogo come un canarino in una gabbia, ma
sogna di
volare alta come un nibbio” aveva considerato
l’uomo.
Saiji
aveva sollevato un sopracciglio colpito da quell’improvvisa
dolcezza nel tono,
“Mi pare di capire che siate ormai di casa, qui”
aveva considerato, pensando a
ciò che aveva detto l’uomo e ciò che
aveva detto Zegros.
“E
sì. Ti piace, vero?” aveva domandato Scarabocchio,
con un luccichio divertito
negli occhi, “Questo posto è uscito fuori dai
sogni proibiti di ogni uomo,
scolpito dalle mani abili del Principio. Ci sono stanze, sotto, da far
accapponare la pelle pure a uomini Senza-Dio come noi. O certo da
quando qui
comanda la piccola Lues le cose sono decisamente più
controllate” aveva
raccontato.
Saiji aveva annuito, prendendo un altro sorso, ormai freddo del vino,
più
ipocrasso che speziato, “Sembri conoscere
bene questo luogo” aveva detto
convenzionale. Scarabocchio si era dato ad una risata fragorosa,
“Per il
Principio, sì che lo conosco, ci sono nato!” aveva
risposto senza vergogna.
Questo aveva stupito un po’. L’uomo aveva
continuato a ruota libera, “Mia madre
era una Lupa, non c’è da stupirsi che lo sia
diventato anche io, solo che con
una faccia come la mia dovevo pagare io per dare baci, quindi
sì, molto meglio
il ferro” aveva raccontato onesto, “Al ferro non
importa se sei brutto.”
Ne se sei eosiano, ghaadiano, fioriano, aveva
pensato Saij, sbagliato
o benedetto; al ferro non importa.
“Per me è sempre bello tornare qui; casa
è sempre casa” aveva detto quasi
languido Scarabocchio. Saiji aveva avuto un brivido, un mancamento,
pensando a
quella parola lì, quel luogo lì.
Casa.
Casa era dove aveva vissuto con i suoi genitori, tante, ma tante
sorelle prima?
Casa era la camera che aveva al rione dei Ramberra? Casa erano le
stanze della
Corda? O la risata cruda di Adda e le lamentele di Iren? O
l’espressione acuta
e preoccupata della buona Nervia?
Casa, casa dove era?
Sì
era perso in quell’elucubrazioni così insulse da
aver perso il resto della
ruota libera di Scarabocchio, “… lo
comprerò. Certo potrebbe essere un problema
considerato che le mie mani sono più bucate di un alveare.
Lues mi dice sempre
che sono che sono la gioia di tutti gli strozzini del Pregiatissimo
Impero”
aveva fatto una pausa per gustarsi qualche prelibatezza ed un bel sorso
di
birra scura. Saiji aveva colto quella pausa per riordinare i suoi
pensieri e
comprendere dove il filo del discorso lo avesse portato. Non era
stupito,
Berulio Arrasi era l’uomo più chiacchierone che
Saiji avesse mai incontrato,
completamente innamorato del suono della sua voce, così
espansivo da poter
seppellire un fossato con le sue chiacchiere. Dopo Adda, quando
fermentava in
un silenzio teso e sentiva il bisogno di dover riempire ogni spazio
disponibile
con qualcosa. Era un ricordo che si era fossilizzato nella sua mente,
ed anche
in quella di Iren, di Adda che parlava e parlava, riempiendo il loro
viaggio di
scomode parole, ma non ne era sicuro non pienamente.
Forse
aveva l’impressione parlasse così tanto
perché gli altri due non erano in
grado, non erano disposti, a scendere a patti.
Però
sicuramente Scarabocchio adorava parlare, senza mai rivelare nulla che
fosse di
vitale importanza, o di dominio pubblico, era un Lupo d’Arme,
aveva la sua fama
e non doveva importargli molto di essere nato in un lupanare da una
lupa di
baci. “Sarei finito già morto in un vicolo per la
mancanza di monete se i
Signori dei fiori non avessero da combattere una luna sì e
l’altra pure” aveva
raccontato l’uomo, “Ho superato le cento sorelle ed
anche più battaglie” il suo
tono era stato più lugubre.
“Dubito che qualcuno sia così abile da poterti
uccidere in un vicolo” aveva
risposto Saiji senza menzogna, conosceva l’uomo, conosceva le
sue capacità.
Scarabocchio non era mai stato audacissimo come guerriero ne era
più
vistosamente arzillo come nelle sue sorelle migliori, ma era un
guerriero
abile, capace di una difesa impenetrabile, con la spada, il braccio e,
senza
dimenticare, con la mente. “Troppo buono mezzosangue. Se
fossi ubriaco ed il
mio contendente fossi tu, Ser Saiji, io sarei morto, certo non in un
vicolo. I
manimorbide ti hanno insegnato l’onore della spada, ma anche
con l’onore, sarei
morto, seppellito sotto un bel cedro” aveva risposto
Scarabocchio senza perdere
verve. “Meglio un melo, mi piacciono di
più” aveva concesso Saiji, “Melo
sia”
aveva risposto Berulio. Saiji aveva allungato una mano ed aveva preso
un acino
d’uva, ancora troppo maturo sì, ma buono, doveva
ricordare di sgraffignare del
cibo per Iren, forse anche del liquore, non era certo aiutasse la
Sdregolatezza.
Forse aveva bisogno di Latte d’Uccello, era certo che in quel
tempio del
principio ne avrebbe trovato.
Berulio aveva riempito di chiacchiere l’ambiente, ma che Saiji aveva
sopresso con una
chiacchiera fuori tempo: “Ma se tu fossi sobrio, sotto il
melo sarei sepolto
io”, incerto se fosse una menzogna. Scarabocchio non aveva
preso male quella
torsione, rispondendo con scioltezza: “In quel caso sarei
morto comunque, ma a
penzoloni dalla porta orientale di Teschio di Drago”
Saiji
aveva sentito freddo. “Improbabile. Ser Moria non nutre
così tanto affetto per
me, da appendere un uomo per questo, si sentirebbe solo oltraggiato che
dopo
tutte le botte che mi ha dato per insegnarmi, io avrei avuto la
sgraziata idea
di morire” aveva replicato, certo delle sue parole. Una
certezza strana, perché
era ciò che aveva sempre pensato e ciò che nel
profondo sperava non fosse
falso.
“Non direi, a Malvasia chiaro come la luce del sole lo ho
sentito lamentarsi
della tua assenza” aveva detto Scimmia.
Saji
aveva chiuso i pugni sul gambo della coppa, fino a che la pelle delle
sue
nocche dal marrone aveva raggiunto il pallido bianco. Sapeva che
avrebbe dovuto
affrontare la battaglia Campanale come argomento, lo sapeva.
“Si, avevo sentito
foste lì” aveva considerato.
Scarabocchio
lo aveva guardato, sorrideva ancora con le labbra coperte dai baffi, ma
meno
con gli occhi, “Be, Ser Alderichi, c’era tutto il
mondo lì, tranne te” aveva
detto, “Il pianoro di Malvasia arde ancora e la terra si
nutrirà ancora del
sangue per le prossime venti Sorelle Rigogliose, minimo.
Saiji lo immaginava come la fine del mondo e la casa de Il Principio,
con ferro
e fuoco. “Però la città è
sopravvissuta ed anche il palazzo” aveva dichiarato
Saiji, ricordando quelle preziose, piccole informazioni che aveva
raccolto.
“Solo perché il tuo Ser Moria ha tenuto in riga
tutto l’esercito; corda,
regolari, ausiliari e pure noi” aveva ammesso con un tono
quasi ammirato. “Siì
devo ammettere che Ser Moria è incredibilmente bravo in
questo. Al castello poteva
ammansire un cavallo solo guardandolo storto” aveva ricordato
Saiji, e
ancora meglio un ragazzino arrabbiato, con amarezza aveva
pensato.
“Un
inchino anche al Margravio Traditore, che si è menomato con
una battaglia campanale,
anziché un assedio” aveva ripreso a parlare
Scarabocchio, “Che si dica che il
suo fiore marcisca sotto i piedi de Il Principio, che si pisci sulle
sue ossa
esposte e che si rinneghi il suo nome, Gathren Rastia era un bravo
comandate e
pure un uomo bravo, tra i Manimorbide si intende.”
Questa volta nel tono di Scarabocchio non c’era un sentimento
tendente
ma vera e propria ammirazione.
Saiji non era d’accordo sulla presunta bontà
d’animo dell’uomo, ma raramente
aveva trovato Manimorbide che fossero uomini buoni, ma poteva
riconoscere dei
pregi ad un uomo morto. “Era un bravo combattente, questo
sì” aveva ammesso
Saiji, “Abbiamo duellato l’uno contro
l’altro, per gioco quasi, durante la
Rigogliosa, sedici sorelle passate, ormai” aveva considerato.
Ricordava
lo sferzare delle lame e quasi una danza, il colpo della lama che aveva
rintoccato più volte contro lo scudo e lo aveva spezzato e
ricordava di averlo
bacchettato con la sua di spada. E Buon-Dio-e-Principio era un'altra
vita. “Ed
era con noi contro i Cavalcanti” aveva ricordato Scarabocchio.
“Come dimenticarlo” aveva risposto Saiji di getto.
Berulio
aveva chiamato una cameriera, non-vestita per farsi riempire la coppa.
“Aveva
onore, pure troppo, tempra e qualche barlume di strategia, non senza
vergogna
ti dico che se non si fosse dovuto confrontare con lo Scintillante
Generale, Il
pregiatissimo impero sarebbe monco di qualche fiore” aveva
detto Scarabocchio
una volta che la sua coppa era stata riempita.
“E
tutto l’Impero sanguinerebbe ancora”
aveva risposto Saiji, “Oh, ma lo fa
già” aveva detto Berulio con una punta di
cattiveria negli occhi scuri. Il genere
di sfavillio che stava bene sul viso di un uomo che prosperava sul
bisogno dei
popoli di recidere fiori ed imbevere i campi di sangue. “E io
ti dico, mio buon
Ser Alderichi, che alzo ancora la coppa per Gatrhen
Rastia; quindi,
margravio di irti Pini” aveva risposto Berulio, senza battere
ciglio.
Saiji
aveva alzato la coppa, non
provava amore per Gathren, era un mezzo-sconosciuto, nonostante il loro
duello,
delle sue gesta aveva avuto racconti di seconda e quarta mano e non
tutte le
storie che lo avevano come protagonista erano degne di una ballata, ben
prima
che mordesse il piatto dell’Imperatrice.
Però loro avevano militato assieme contro i Cavalcatori
Erranti, avevano
spezzato le lance ai tornei e, sopra ogni cosa, ricordava che Gathren
Rastia
aveva guardato Saiji con supponenza e superiorità, nascosto
dietro la
legittimità della sua nascita, del prestigio della sua
posizione, ma come
piaceva pensare a lui: aveva mani dure per un mani morbide. Moira lo
aveva
rispettato, cosa che raramente concedeva a qualcuno – neanche
alla sua famiglia
– e Iren lo aveva amato, a modo suo.
E per il rispetto che provava per loro, per quanto a Saiji cocesse come
fuoco
sulla pelle riconoscere qualcosa a Ser Moira, per la volta che avevano
cavalcato insieme fiancheggiando la morte e per la giustizia, come
dimenticare
la giustizia, Saiji non avrebbe mai chiamato Gathren Rastia
“Il Traditore”, giacché
egli era stato per primo tradito.
Quella
verità, però Saiji, era consapevole,
l’avrebbe portata nella sua tomba. “Al
signore dell’Edera” aveva commentato con voce bassa
lui, sollevando il calice,
Scarabocchio lo aveva assecondato, facendo cozzare il suo bicchiere
contro la
coppa, “E che Il Principio non si pigli i
fratellini” aveva aggiunto con
cupezza il lupo d’arme.
Saiji
aveva soffocato i suoi pensieri nel fondo di un bicchiere di vino,
ormai
freddo, per sopperire i pensieri che erano venuti a quel pensiero.
Finita
la battaglia, Saiji aveva saputo che il fratello minore di Gathren, il nuovo
margravio aveva aperto le porte del palazzo e chiesto,
implorato, la resa
per aver salva la vita per lui e per la sua giovanissima sorella.
L’Imperatrice, con così tanta bontà
d’animo, aveva accettato la capitolazione.
Saiji poteva immaginare il sorriso carico di dolcezza, sul viso
giovane, mentre
con occhi vispi, e colmi di soddisfazione, illustrava alla corte le
ragioni
delle sue azioni, delle sue motivazioni, della sua bontà.
Riusciva
a vederla, chiara come la luce del sole, mentre ripeteva con diplomazia
e
brillantezza: ‘Oh, questi due innocenti non
dovrebbero pagare per i peccati
dei propri famigliari, certo, hanno tradito la corona,
l’ordine naturale prestabilito
da Dio. Ma riconosco, che il Margravio, quell’anima
sfortunata fosse insidiato
da Il Principio. Ma io, sono buona e luminosa e ricondurrò
questi agnelli lungo
il sentiero scritto’ o qualche altra
amenità simile.
I
signori di Irti Pini non ne sarebbero usciti indenni, anche con il
condono
imperiale, nonostante tutte le parole squisite che
l’imperatrice aveva dovuto
usare, non le sarebbe importato affatto se i due giovani fossero poco
più che
vittime del loro stesso fratello, e della sua brama, l’Imperatrice
non
perdonava. Saiji era abbastanza convinto che non ne avesse la
capacità.
Scarabocchio
aveva finito il suo calice, di nuovo, “Sempre splendido
conversare con te di beltà
o meno, ma so che non ti sei trascinato fino a Città Azalea
per discutere di
Malvasia, di Gathren il Traditore o addirittura Ser Moria
Ramberra” aveva
considerato l’uomo, “Quindi, mio buon Sir Saiji,
dimmi un po’ la verità, perché
sei qui?” aveva chiesto.
Saiji
aveva annuito per nulla stupito di questo, “Oh, be, se dopo
tutte le lune e le
sorelle che abbiamo passato insieme, mio buon Berulio, mi aspetto che
tu abbia
imparato a conoscermi” aveva risposto Saiji,
“Così pragmatico da spaventare”
aveva considerato Scarabocchio.
Lui
aveva deciso di inghiottire quel commento con tranquillità,
“Non ho mai avuto
tempo per le stronzante da mani morbide, per i brindisi e per le
ballate
romantiche” aveva ammesso. Saiji poteva aver imparato a
combattere in un
cortile di un palazzo, con un maestro d’armi, con i figli di
Iseo Ramberra e i
loro cugini, ma non era uno di loro.
“Posso
essere sincero, ser Alderichi, quando dodici lune fa ho ricevuto il tuo
messaggio: mi son proprio eccitato.
Uno
come te non si metterebbe a chiedere incontri per il gusto di
condividere il
desco e senza sottovalutarmi: so essere un vero compagnone”
aveva dichiarato
Scarabocchio senza perdere il suo sorriso divertito.
Saiji aveva annuito, “Come ho detto: non ho
tempo per queste stronzate” aveva ripetuto Saiji. Non era di
certo una persona
dedita alle delizie e alle festosità; non lo era stata
neanche nei momenti in
cui aveva pensato di essere felice. Solo un uomo perso, distrutto e
solo come
Iren poteva apprezzare la sua compagnia e solo dopo aver ingollato
Latte
d’Uccello.
Il
ragazzo aveva infilato una mano nel collo del suo farsetto,
dannatamente
elegante per il suo stile, recuperando un sacchetto di pelle di capra,
che
portava allacciato al collo con un cordolo di cuoio. Scarabocchio si
era
mostrato subito interessato, “Non sarà robaccia da
streghe, vero? Ti facevo un
senza-dio ma non uno scopatore del Principio” aveva scherzato.
Saiji
aveva scosso il capo, facendo oscillare i capelli ricci rossi.
“Io credo in tre
cose, amico mio: me, la mia marra e l’affilatura della mia
spada. Tutto il
resto è relativo” aveva dichiarato senza
esitazione Saiji, sapeva che
Scarabocchio non era stato serio, così come sperava che lui
di aver mentito. A
volte non riusciva neanche a giostrarsi con le sue vere emozioni.
Aveva
detto ad Iren di aver sempre creduto in sua madre, per quanto ogni suo
insegnamento e profezia fosse stato disatteso.
Credeva
nelle promesse di Iren, per quanto continuasse a disattenderle, credeva
nelle
dichiarazioni piene di passione di Adda, nelle gentilezze della Buona
Signora
Nervia e, perfino, credeva nella disciplina di Moria,
‘perché un uomo senza
educazione è solo una bestia con un nome pomposo.
“Se non ti conoscessi, direi che sei mezzo-ferriano altro che
ghaadiano” aveva
scherzato. “Per i Ferriani è finito il tempo delle
spade è altro il metallo a
cui si consacrano” aveva risposto Saiji, infilando due dita
nel sacchetto e
passato a Scarabocchio il contenuto.
Era
una moneta; l’uomo l’aveva colta subito, prima di
saggiarla con i denti per
testare il materiale per bene. “Sul dritto
c’è una bella fanciulletta che
raccoglie fiori – una Dama o una
Damigella” aveva riconosciuto subito che
tipo di conio era Berulio, poi aveva rovesciato la moneta per guardarne
il
rovescio, “Una mostruosità a due teste. La bestia
Bicefala della città
inviolabile; oro ferriano” aveva valutato.
Saiji aveva annuito, “Sì, è una
Damigella di Peripsia” aveva spiegato, non
aveva senso spacciarla per una Dama, Scarabocchio era un Lupo
d’Arma, conosceva
il valore delle monete, ed avrebbe riconosciuto subito una lega spuria.
“Sicuro
di non essere un adoraoro?” aveva chiesto retorico Berulio.
Saiji aveva fatto un cenno di diniego, “Non potrei mai essere
un fervente
adoraro, per me le monete hanno lo stesso valore dei sassi. Come ti ho
detto:
l’unico metallo a cui do valore è quello della mia
spada, ma per mia sfortuna
il mondo va avanti ad ori e argenti” aveva risposto annoiato
Saiji.
L’oro
era morbido e malleabile, Saiji non riusciva davvero a comprendere
perché gli
uomini ne fossero così ossessionati, erano stati loro a dare
all’oro un tal
valore. Iren ci aveva provato, pià volte, a spiegarli che
dipendeva dalla
scarsità, dalla bellezza o altre amenità, ma lui
era un uomo semplice, da quel
punto di vista, usava le monete come chiunque altro, ma era il ferro
della sua
spada che gli aveva permesso di sopravvivere.
“La
maledizione del nostro tempo” aveva concordato Scarabocchio
girandosi le monete
tra le dita, era di elettro, sul dritto aveva una splendida fanciulla,
adornata
negli abiti gonfi dei ferriani e sul rovescio aveva una creatura con
due testa
di profilo: un lupo ed una volpe.
“Tutti qui, amico mio, dichiarano la loro devozione al
Dio-di-Ogni-Cosa-Buona,
ma hanno ragione le città della Lega. L’unico dio
che ci muove e questa
signorina qui” aveva dichiarato Berulio, ammiccando alla
giovincella incisa
sulla moneta.
Saiji
aveva annuito, “Non vuoi sapere cosa ti chiedo?”
aveva chiesto. “Lo vorrei
sapere se mia madre fosse stata una gallina ed è stata molte
cose per molte
persone, ma mai stupida né lo sono io. So esattamente
ciò che chiedi. Ciò che
mi interessa di più e per conto di chi? E soprattutto:
quanto mi offri” aveva
risposto schietto Scarabocchio, che era certamente più
pragmatico di quanto
Saiji avrebbe mai sognato di essere.
Lui
aveva ridacchiato, “Ovviamente” aveva riconosciuto
l’inutilità della sua
precedente domanda, non era uno sprovveduto l’uomo con cui
parlava, o non
avrebbero avuto quella conversazione.
“Devo sapere che questa conversazione resterà tra
noi” aveva stabilito Saiji,
ma era stato interrotto prima di poter continuare, “Se una
Lupa di Baci
diffondesse i segreti dei suoi clienti sarebbe presto una lupa
sgozzata, così
sono come una di loro, vendo il mio corpo per vil denaro, ma se
svendessi i
segreti dei miei commissari, risulterei privo di fiducia”
aveva dichiarato
Berulio Arrasi con sicurezza, “Che tu m’assuma o
meno, un lavoro che mi viene
proposto resta tra me e il mio contatto.”
“Ti farei giurare su qualcosa di sacro, ma ne io ne te ci
crederemmo” aveva
stabilito Saiji, con un sorriso spontaneo, “E mio buon
cavaliere, dovrai
ricorrere alla mia fiducia” aveva risposto Scarabocchio con
divertimento.
Prima
che potessero dire altro, Zegros si era palesato nuovamente, doveva
aver
abbandonato il lupetto, probabilmente non per sua scelta, visto che era
trascinato per un braccio da un altro uomo, se Saiji avesse ricordato
correttamente avrebbe dovuto chiamarsi Caris, o Cartis. Lo aveva visto
nelle
campagne, ma non credeva di averci mai parlato. Ricordava di averlo
visto
combattere senza uno scudo ma con due spade lunghe alla mano, veloce
come una
libellula.
Caris
era più alto e più impostato di Zegros, oltre che
più vecchio, era l’epitome
dell’uomo fioriano, con la carnagione colore nocciolo di
pesca, i ricci scuri
aggrovigliati, lunghi fino alla nuca e le fossette quando sorrideva.
Un’ombra
di barba sfatta sulle guance e labbra carnose. Aveva degli inusuali
occhi
azzurri, forse di qualche sangue ghaadiano o del settentrione
dell’impero. Non
era benedetto, ma non doveva essere troppo lontano. Quando lo aveva
riconosciuto aveva fatto verso di lui un segno con il mento, come un
saluto.
“Ser
Alderichi ci vuole ingaggiare” aveva detto subito Amanasi.
“Per
conto della Corda di Spina? Perché potrebbe venirmi il cazzo
duro solo al
pensiero” aveva esclamato Caris euforico a quel pensiero.
Saiji aveva sentito
un senso di smarrimento a tutta quella gioia immotivata.
“No,
mi spiace, viene per conto della diarchia di Peripsia” aveva
stabilito
Scarabocchio, lanciando una damigella a Zegros, che l’aveva
presa a voglio,
“Voglio che mi diciate che lavoro dobbiamo fare”
aveva detto poi il loro
capitano.
Una
ruga si era formata sulla fronte bianca di Zegros, mentre il sorriso di
Caris
non aveva ricevuto neanche un colpetto.
Saiji
aveva osservato la scena confuso.
“Combattere,
mi sembra ovvio” aveva risposto pratico il soldato
più adulto, con malizia
negli occhi azzurri, “Complimenti tu dovevi essere quello
sveglio della cucciolata,
eh, Caris?” aveva ribattuto Berulio. Buono, Saiji ricordava
bene.
Il
guerriero aveva avuto presto il viso paonazzo.
Zegros
aveva rimirato la moneta, poi aveva tentato, “La Diarchi
balla sul filo della
spada da ottocento sorelle quasi. Le due teste della bestia, Arga e
Persepoli,
hanno probabilmente deciso fosse inutile continuare a pugnalarsi alle
spalle ed
avvelenarsi e deciso che risolverla con ferro e sangue.”
Scarabocchio
aveva annuito, “Plausibile, ma non in questo caso”
gli aveva riconosciuto.
Caris aveva recuperato il suo sorriso sfacciato, “Certo, se
così fosse saremmo
già in ritardo. La Sorella Vivace che ci ha appena salutato
ha visto lo
sfortunato Don Lorenzin Persepoli è caduto da cavallo,
aprendosi la testa come
un melone, durante la caccia di un cinghiale. È morto
durante un Dilune della
seconda decimana del primo ciclo. Tredici lune dopo
l’incidente” aveva spiegato
pratico, “Dicono che i parenti lo abbiano soffocato per atto
di carità.”
Zegros
era sembrato interessato e colpito dalla conoscenza del suo amico,
Scarabocchio
aveva fatto roteare il polso, “Altro da dire?”
aveva inquisito.
“Don
Lorenzin era l’esponente più
importante della sua famiglia, in particolare dopo la morte di
varicella di due
cugini ed un fratello. L’unico maschio adulto della famiglia,
erede dello zio
Don Fabricio, la testa divorata dal Grande Male” aveva
aggiunto didascalico.
Anche Saiji si doveva dichiarare profondamente stupito di quella
conoscenza.
“Dalla morte del povero Lorenzin, i lupi sono andati in
letargo e le volpi,
come si può dire? Hanno mozzato una testa. Non esiste
più la bestia bicefala”
aveva terminato.
Era
sceso un leggero silenzio, “Solo
le volpi cacciano a Perlipsia ora” aveva concordato Saiji.
“Bravo Caris, un acino d’uva per te!”
aveva esclamato Berulio, lanciandoli
dell’uva contro, che quello aveva preso al volo, poi
l’uomo aveva parlato: “Sì,
non seguo proprio tutte le politiche ferriane, troppe
città-stato del cazzo,
Perlipsia poi è lontana. Avevo saputo della morte di
Lorenzin Persepoli, senza
contare del matrimonio, nella stessa sorella, di Don Dario Arga con
Monna
Sunbal, la figlia mezza-kaartiana del Don-Fuori-Di-testa”
aveva dichiarato
Scarabocchio, “Cose che passano di bocca in bocca, svelte.
Per il Principio, saranno
quaranta sorelle che non lascio il Pregiatissimo Impero, che di tanto
in tanto
mi dimentico della Lega, dei Sussurranti e della Ghaadia”
aveva asserito.
Zegros
aveva preso una sedia per accomodarsi, mentre Caris aveva preferito
appoggiarsi
allo schienale di quest’ultima.
Il
ragazzino-dal-albume le aveva restituito la moneta di elettrio.
“Corretto”
aveva ammesso Saiji, “Darion Arga è il figlio di
Sestio Arga l’Eroe della
Vivace Luminosa, un evento importante per i ferriani, non ricordo bene
la
vicenda. Sestio era l’erede di suo padre ma è
morto prima del Don, così il
titolo è passato dritto-dritto a Darion. Dunque, morto
Lorenzin Persepoli,
Darion ha sposato Sunbal, la cugina di Lorenzin, come dote dalla moglie
si è
preso metà dei possedimenti dei Persepoli, ma visto che non
voleva sembrare
avaro ed è furbo come una faina – altro che volpe
– ha lasciato l’altra metà a
Carsio, un ragazzino di dieci sorelle a malapena, figlio di Don
Fabricio il
mezzo-matto. Essendo ovviamente un bimbetto, Don Darion si è
fatto nominare
tutore di Carsio ed amministratore dei suoi beni. Quindi ora, anche se
non per legittimo
decreto, Don Darion controlla la Diarchia di fatto”
aveva spiegato
Saiji, sperando di essere stato chiaro. Niente di ciò che
aveva detto era
troppo compromettente, i fatti erano noti a tutti o chiunque avesse
intenzione
di ascoltare.
“Mi
sono perso, che vergogna!” aveva esclamato Zegros, pieno di
confusione, le sue
guance si erano arrossate appena, era strano vederlo colorato sul viso.
“Importa solo un nome. Chi in questa storia vuole togliere il
culo di Don Darion
Arga dalla sedia dell’Inviolabile?” aveva chiesto
Berulio con interesse. “Forse
è il Don stesso che vuole arruolarci per sbarazzarsi dei
suoi nemici” aveva
proposto Zegros, timoroso. Il vecchio Scarabocchio lo aveva guardato,
“E ci
mandavano un mezzo-sangue principiente? Con un sacchetto di
damigelle?” aveva
chiesto retorico, “Mi hai spergiurato che tua madre non fosse
una mula, ma
inizio a non crederci” aveva aggiunto crudele. Zegros aveva
abbassato gli occhi
vacui.
“Darion
Arga controlla la Diarchia, non lo fa ufficialmente,
ma lo fa legittimamente,
se avesse voluto sbarazzarsi dei suoi cugino lo avrebbe fatto con lame
nascoste
nella notte o avrebbe creato un precedente e gli avrebbe fatti accusare
di
tradimento e posti a giudizio come ogni cittadino libero
ferriano” aveva
spiegato Saiji, “È uno dei suoi cugini,
si.”
“Allora
non vuole la sedia, vuole fare un bel sorriso sulla gola” si
era intromesso
Caris, “Non vuole sgozzatori, vuole dei soldati”
aveva dichiarato a Berulio.
Moltissime
cose potevano essere dette di Scarabocchio, che fosse brutto come il
culo di un
cinghiale, che era un combattente più feroce di un orso, ma
nessuno avrebbe
potuto negare che avesse una spigliata intelligenza. “Mi
sorprende che tu non
sappia già per conto di chi vengo” aveva valutato
Saiji.
Berulio aveva riso, lisciandosi i baffi, “O per favore, Ser,
mica posso
ricordami tutti gli schizzeti di casa Arga, come
minimo il Don ha cinque
o sei cugini” aveva ribattuto pratico.
“Oh
no!” aveva rantolato Berulio, “Perché ho
l’impressione che stiamo per ascoltare
un altro intricato albero genealogico composto di nomi assolutamente
distanti”
aveva chiesto retorico.
“Perché
succederà” aveva risposto senza grazia Saiji,
“Il Don ha tre cugini e un
fratello” aveva spiegato, “Uno si è
unito alla Devozione, quindi ha dimesso
cognome e possedimenti. Uno è un cugino uterino e come
sapete bene, le donne,
di norma, nelle città ferriane hanno valore solo in una
delle loro mani e nelle
loro fiche” aveva spiegato leggermente disgustato,
“Inoltre lui è attaccato al culo
di Don Darion come una zecca su un cane”.
“E
fuori due” aveva detto Caris, “Mica è
detto. Sarebbe divertente essere assunto
da un bel monaco” aveva risposto pratico Berulio. Saiji aveva
continuato: “L’ultimo
cugino Emisio, è figlio del fratello di Sestio …
e lo chiamano Emisio l’Esiliato, perché quando il
cugino ha preso il potere si
è dato alla macchia. Pare sia ad Eos, nella città
di Passamar a godersi le dame
che ha portato con sé e a bere birra bianca”
aveva detto, “Quindi
rimane solo il fratello!” aveva esclamato Zegros soddisfatto.
Sì, Tarsio! Fratello minore di Don Darion. Lo chiamano Pugno
di Ferro, da
quando ha spaccato il naso a Ser Cileno di Iorevin. Ha lasciato
l’Inviolabile,
ma differentemente dal cugino, non si è allontanato di
molto, anche se,
ovviamente le storie differiscono: qualcuno dice sia ospite di
un’altra città
ferriana, qualcuno dice ceni a casa di un signore del pregiatissimo o
con un
manipolo di uomini si accampato nelle vecchie Città del
Peccato” aveva detto,
un brivido nel nominare quel luogo.
Era un’immagine distante, un ricordo distante.
“Direi,
quindi, che il contratto viene da Don Tarsio Arga?” aveva
chiesto Caris;
Scarabocchio aveva emesso uno sbuffo, “Il Don Senza
Città? Bene e male.
Chiamano Peripsia l’Inviolabile per una
ragione e non credo che Don
Darion si lancerà in una battaglia Campanale, mica ha dalla
sua ferrea convinzione
di avere Dio con sé, come un certo qualcuno” aveva
considerato l’uomo poi
calmo.
Gathren Rastia e la sua battaglia alla Piana di Malavasia, ma Berulio
aveva
ragione, almeno in parte, Palazzo d’Edera non era Peripsia.
Saiji
aveva riso un momento, acre, godendosi le parole che avrebbe
pronunciato di lì
a poco: “In
realtà no. Non vengo per conto del Don
Pugno di Ferro!” aveva espresso.
Un guizzo di genuina dose di curiosità era appena sorto sul
viso di Arrasi;
“Chiunque abbia mai parlato due volte con Don Tarsio sa che
è brutale, feroce,
irruento, ma anche protettivo. Non è un leone, ma un
mastino” aveva
considerato. “Ed un mastino ha bisogno di un
padrone” si era inserito nel
discorso Zegros, con un po’ di coraggio.
Caris
aveva posato le mani sul tavolo e si era sporto in avanti,
“Allora, quale è la
mano che nutre questo cane se non quella di suo fratello? Il cugino
uterino che
affila i coltelli dietro la schiena, il monaco che recita preghiera ma
organizza complotti? L’Esiliato che bevve birra bianca e
conta quante monete
può inviare al cugino?” aveva chiesto, languido di
interesse.
Saiji
poteva osservare negli occhi blu intensi, riverberare qualcosa: eccitazione.
Come
quella di un uomo davanti ad una donna volitiva, ma per il sangue, per
la
battaglia.
Saiji
aveva declinato lo sguardo verso Berulio, leggermente intimorito da
quella fame
di Caris, “Uhm. Sarà onesto, bastardo, non ne ho
idea. Spero nel monaco,
renderebbe tutto molto divertite” aveva ammesso candido il
vecchio lupo.
“Nessuno
dei tre” aveva detto alla fine, osservando con attenzione la
realtà dei tre,
“Ora hai il mio interesse, ser Alderichi” aveva
aggiunto Scarabocchio. Saiji
aveva sorriso, con nervosismo, “Come ho detto le donne a
Peripsia non hanno
molto valore, ma esistono. Rigo Arga, il padre di Emisio
l’Esiliato oltre quel
suo capolavoro di figlio, ha avuto anche due figlie: Ildamira e
Theresia arga.
La prima è un bel bocciolo di rosa, sposata con un tale
uccello di Colemin, non
chiedetemi di più, a malapena mi ricordo il cognome delle trentaquattro
famiglie! Figurarsi tutti i cazzo di nobiletti
ferriani!” aveva fatto una
pausa, facendo sgusciare una risata ai tre, aveva imparato
l’albero genealogico
dei membri dei pari di Perlipsia, solo perché era stato
ingaggiato più di una
volta da un membro degli Arga.
“Non
ci credo neanche se ti vedessi chiamare qualcuno male” aveva
detto Berulio;
“Rimarresti stupito” aveva risposto Saiji,
toccandosi una guancia, ricordando
lo schiaffo di Moria quando sbagliava, prima di continuare:
“Invece, parlando
della seconda, Therersia è sempre stata la gioia del cuore
di Rigo, ma
dell’insofferenza sia di Sestio, sia di Don Darion, ma
sicuramente la devozione
di Pugno di Ferro” aveva stabilito, lasciando ai tre il tempo
di capire.
Zagreo
aveva spalancato gli occhi pallidissimi, “Oh! Il
Principio bruciatissimo!”
aveva esclamato Caris, “Oh per la gloria del Buon-Dio e dei
Suoi-più- Perfetti!
Tu vieni per lei!” aveva detto l’uomo-d-albume.
L’unico che non si era dato in
commenti era stato Scarabocchio, che era rimasto in silenzio,
contemplativo.
“Una donna? Una donna ferriana vuole ingaggiare una
guerra” aveva detto Caris,
il suo tono, il suo tono era strano!
“Monna
Theresia Arga è sicuramente una donna, anche una bella, ma
è anche una volpe.
Arga dalla testa ai piedi e se al mondo qualcuno può avere
l’ardore di
scatenare una guerra contro l’Inviolabile, quella
è lei” aveva chiarito Saiji.
E
sopra ogni cosa, Theresia Arga era donna di Parola. “Non so
se sa maneggiare
una spada, sicuramente è un’arciera provetta, una
volta ha infilato una freccia
in una mela sulla mia testa, ma di sicuro non le mancano: né
lo spirito, né i
soldi” aveva chiarito.
Caris
e Zagreo aveva guardato Berulio. “Amico mio, non mi importa
se la tua monna ha
una fica di zucchero o una verga con cui potrebbe giostrare alla
quintana.
Abbiamo scherzato di stronza del sangue, delle genealogie e pure delle
minchiate”
aveva fatto una pausa, per il dramma, “La tua volpina di
ferro, che vuole
veramente? Che qualcuno tagli la gola al cugino mentre siede sulla
banca di
Perlipia o una battaglia che annaffi i campi con il sangue per le
prossime
cento sorelle?”
Saiji si era morso il labbro, “Theresia Arga vuole la
città” aveva stabilito,
c’era qualcosa di sacrale nel pronunciarlo.
“Bene,
perché a parte Caris, nessuno di noi era l’uomo
per il primo caso” aveva
considerato Berulio, mentre il soldato aveva emesso un verso indignato,
“Ma per
il secondo; si è di nostra competenza. Quindi possiamo
discutere, sì, sì, che
mi offre la tua volpina per tentare di vincere contro la
città che non è mai
stata violata?”
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Capitolo 11 *** PARTE PRIMA; TITOLO I, CAPITOLO VIII ***
C A P I T O L O V I I I
L ‘
E D E R A R
E S I S T E A
L L
F R E D D O
Dolce Sorellina
Sento
profondamente la tua mancanza
di questi tempi e sento il bisogno di averti al mio fianco.
Ultimamente,
ho saputo, che non
risiedi più in città ma ti sei spostata nella
campagna, lungi sapere che
fascino possa esercitare il silenzio, le cicale e la solitudine, o
addirittura
la compagnia di Shinora, ben peggiore di un esilio volontario in una
stanza
sola.
Ho incontrato
nostra cugina ed il
suo nuovo bellissimo e rotondissimo bambino, che sfoggiava con la
stessa intensità
dei nostri cugini le coccarde dei tornei, come se aver partorito un
lattante
fosse il suo più
grande
traguardo.
Forse lo è.
Come è piaciuto sottolineare ad Aloyssa in quello
è sicuramente stata più
capace di me. Devo chiedere a Dio la forza di non cedere a Il Principio
ed
affogarla in una tinozza.
Lo sai che
l’Imperatore Irtinian IV
fece uccidere suo fratello annegandolo in una tinozza piena di vino
rosso?
Non è un’idea malvagia infondo, per chiudere
quella bocca da pettegola. Non so
come tu tollerassi averla sempre intorno.
La tua nuova dama di compagnia come sta? Ora parla di nuovo?
Ha fatto aggiustare il suo fiore?
Non rispondermi, lo sai che solo sentirlo per le mie orecchie sarebbe
un
abbominio. Ho comunque pregato per lei, non lo meritava, davvero, ma la
ho
inserita nelle mie preghiere.
Spero che la
vostra permanenza in
campagna non sia ancora lunga, ho voglia di rivederti e se non verrai
tu al
bocciolo ho intenzione di venire io ad Arance Sanguinelle. E siccome i
brulli
mi annoiano, non ho intenzione di venire a stanarti come un segugio
dalla tua
tana, vorrei che fosse in una città con bei balconi, strade
lisce e ippocrasso
da bere.
Ho davvero
bisogno di parlarti, ho bisogno di
te, lo sto
sottolineando tre volte, per renderlo chiaro. Devo comunicarti le mie
notizie
in merito alla grande questione di cui abbiamo discusso
l’ultima volta che ci
siamo viste, ho preso una decisione. Ma senza il tuo saggio consiglio
sono
persa.
So che come sorella maggiore, dovrei essere io la tua guida e non il
contrario.
Il mio stesso ruolo mi impone di essere sempre, ma tra noi non
è mai stato
così.
Sei e sarai
sempre l’unica al mondo
di cui potrò fidarmi.
Con amore
tua sorella,
Nervia
aveva riletto la lettera per la terza volta, cercando di recuperare il
messaggio segreto che sua sorella doveva aver scritto, ma aveva
cominciato a
sospettare non ci fosse niente di segreto, sua sorella aveva scritto
nero su
bianco ciò che voleva.
Il
problema di Nervia era che volesse un messaggio segreto
perché ciò che era
scritto nero su bianco la preoccupava di più. Non voleva
conoscere la decisione
di sua sorella, qualunque fosse stata, Nervia sapeva già in
partenza che non
l’avrebbe approvata. Conosceva sua sorella come il palmo
delle sue mani, e come
una chiromante riusciva ad interpretarne il futuro.
Aveva
riletto la lettera per la quarta volta, incerta potesse essere
l’ultima.
Quando l’aveva ricevuta da un messo tutto tronfio quella
mattina aveva percepito
le cattive notizie prima ancora di spaccare il sigillo rosso con
l’effige del
giglio. Prima della morte del loro padre, sua sorella aveva avuto
un’araldica
personale, ma l’aveva volentieri buttata via in favore di
quella titolare della
famiglia.
A
Nervia quel giorno sembrava quasi una vita, erano passate sì
abbastanza lune ma
non così tante quante ne percepiva.
Aveva
pianto molto, ricordava ed aveva pensato stupidamente che nessuna luna
sarebbe
stata più così bella, senza la voce del suo
vecchio che le raccontava le
leggende, che il giusto sentiero non approvava.
“Credi
cambieranno le parole se la leggerai ancora?” aveva chiesto
Saranna sedendosi
al suo fianco, aveva raccolto i capelli argentei in una treccia, anche
se era
ancora nubile, ed oltre il fazzolo tipico delle Sorelle Pallide e
Fredde, aveva
avvolto il collo di cigno in una mantella verde foglia, per nascondere
la pelle
i primi spifferi delle sere tipiche di quella sorella.
Illuminata dalla luce calda del tramonto appariva gradevole come una
ninfa dei
boschi.
“Forse sì, le vie del signore sono chiare per
tutti meno che a me” aveva
risposto Nervia, con una punta di allegrezza che non possedeva,
accartocciando
la carta tra le mani.
Non aveva fatto leggere a nessuno il contenuto della lettera, il
sigillo diceva
fosse intonsa quando l’aveva ricevuta, ma c’erano
uomini capaci di imitare i
fiori di Dio, figurarsi quegli di cera. Probabilmente più di
una persona aveva
letto il contenuto di quella missiva striminzita, ma le sembrava
comunque
ingiusto permettere ad altre persone di spiare la sua corrispondenza,
anche le
sue damme. Sebbene, poi, aveva riportato a Imerie e Saranna ogni parola.
Saranna
le aveva allungato una coppa di vino rosato; proveniva dalle cantine
del podere.
“Devo andare a Zagara. Non mi sento di voler incontrare mia
sorella altrove che
lì. Sarei inferiorità” aveva
considerato guardando la sua dama. Era vero solo a
metà, avrebbe davvero voluto evitare di incontrarla, per
discutere di quella
cosa, ma preferiva che fosse a Zagara, la città era sua e
lì si sentiva
protetta, come una testuggine in un carapace.
“Bevi” le aveva ordinato Saranna. Nervia
l’aveva ascoltato incerta, godendosi
il sapore leggermente fruttato del vino sulle sue labbra. Non era mai
stata una
persona da eccedere nei piaceri del vino né del suo
stordimento. Non le piaceva
nulla che potesse darle un giro alla testa. Una volta da ragazzina,
quando
aveva cinquantaquattro sorelle lei ed Imeria si erano ottundiate con il
Latte
d’Uccello, che avevano sgraffignato dalle scorte del fratello
maggiore della
sua dama.
La
sua amica aveva battuto le palpebre, godendosi del vino con estrema
calma, “Tua
sorella è troppo dura. Partorire non è mica
facile, mia sorella ci è quasi
morta!” aveva ricordato. “Di tutto quello che ti ho
detto, è l’unica cosa che
ti è restata impressa?” aveva chiesto Nervia.
Erano tante le donne che trovavano la fine in un letto, quasi
più degli uomini
in un campo di battaglia.
“Forse, sì, forse no. Solo che credo, ecco, che
… non prenderla male ti prego,
a volte tua sorella … non capisce”
aveva considerato. Nervia lo aveva
guardata, sollevando un sopracciglio, erano parole pericolose. Saranna
aveva
sollevato le mani, con i palmi rivolti verso di lei, in segno di resa e
scusa.
“Nostra madre è morta così”
aveva ricordato Nervia, era una memoria lontana,
lontanissima. Lei aveva otto o nove sorelle, appena svezzata, non
ricordava
minimamente la sua genitrice, solo l’immagine restituita dai
quadri e quanto
poteva leggere sul viso di sua sorella.
Sua madre era morta di febbre puerperale, dopo aver dato alla luce il
suo
piccolo fratellino: Vervatin.
Sua madre no, ma Vervatin sì; lui lo ricordava bene.
“Io credo che lo dica
solo, sai, per erigersi sopra gli altri” aveva considerato
spenta Nervia.
Le
donne morivano nelle camere da letto da migliaia di sorelle e gli
uomini
trattavano quelle morti e quei trionfi nulla più che come
doveri e perdite
accettabili, così sua sorella cercava di incasellarsi
lì, tra i pensieri degli
uomini, ma Nervia sapeva fossero solo frottole.
Sua sorella era rimasta incinta una volta ed aveva perso il bambino,
non era
mai stata materna, non era mai stata amorevole, perciò
Nervia aveva inteso, in
principio – e forse per Il Principio – che il
dolore che aveva manifestato
quando aveva perso il bambino, era dovuto alla sua frustrazione di aver
mancato
a qualcosa che tutte le donne facevano, dopo quel tempo, Nervia
ammetteva di
essere stata crudele. Sua sorella aveva pianto un figlio che aveva
voluto, che
forse le avrebbe dato gioia.
Forse come il loro piccolo Vervatin anche quel bambino avrebbe potuto
fare
tanto, ma era rimasto destinato a nulla.
Ma
erano i segreti di sua sorella e Nervia non li avrebbe traditi neanche
per
Saranna.
“Pensi
si vorrà risposare? Mi andrebbe proprio di partecipare ad un
bel matrimonio, si
balla un sacco, si mangia, si conoscono nobili signori con
tutt’altro
che nobili intenti” aveva squittito con estremo divertimento
Saranna, in brodo
di giuggiole, “Ricordi il matrimonio di Vanabia? Ci siam
divertite un sacco e
c’era quel nobile minore che si era invaghito di me ed
arrossiva ogni volta che
lo guardavo” aveva ricordato Saranna, “Mio padre lo
ha escluso perché era un vassallo
di una marca minore. Oh, fiori rigogliosi, pare non esista mai un
partito degno
di me!” si era lamentata la sua amica, “Eppure le
lune si accumulano sulla mia
schiena, le sorelle sul mio viso e qualsiasi cosa renda le mie cosce
più simili
a budini, che a carne, sta passando” aveva soffiato Saranna
con finta sofferenza.
Nervia aveva bevuto un po’ del suo vino; dalla Campanale di
Malvasia sentiva
sempre il bisogno di intossicarsi con il vino per acquietare i suoi
malumori.
“L’importante che non faccia sposare me!”
aveva replicato annoiata. Nervia non
disdegnava l’idea di unirsi in matrimonio a qualcuno, ma era
più l’idea a non
disturbarla, non provava nessuna attrazione all’idea di
essere una moglie, una
madre, una brava signora di casa.
“Penso
dovresti metterlo in conto amica mia. Credo che non avrai mai la mano
di Ser
Alderichi, comunque” aveva considerato Saranna con una risata
fresca, senza
malizia, Nervia era arrossita improvvisamente a quelle parole.
“Cosa? No!”
aveva risposto leggermente indignata Nervia. Non aveva mai titubato in
pensieri
romantici con il cavaliere della Spina; certo, come tutti i giovani
cavalieri,
anche Ser Alderichi aveva dovuto esercitarsi nelle parole
cortesi – una
tradizione stupida ma che tutte le signore dell’Impero
sembravano amare – e
come tutti aveva dovuto scegliere una dama a cui dedicarle. Per lo
strano
cavaliere la scelta era ricaduta su di lei.
Ma le piccole rime baciate di Saiji erano semplici, sterili e prive di
cuore,
mero esercizio e volontà. A dirittura un dovere, ogni buon
cavaliere del
Pregiatissimo Impero dei Fiori doveva avere la sua Signora a cui
aspirare, come
volevano le ballate e le beffi. Nervia era stata la protagonista, o
meglio la
vittima, di diversi audaci cavalieri, di nobile nascita o meno, che le
avevano
dedicato nel corso delle sorelle poesie che spaziavano dal ridicolo al
modestamente bello. Aveva conservato un paio di epigrammi, qualcosa sui
capelli
biondi come i raggi del sole ed altre sciocchezze semplici –
in particolari
quelli di Ser Alderichi, ma solo perché trovava comicamente
tenero immaginare
il cavaliere pessimista scrivere versi in rima.
“Sbaglio
o ricordo che un giorno ti ha baciato, sotto la
luna più di sangue che
si sia mai vista, anche più rossa dei suoi
capelli” le aveva ricordato Saranna.
“Ricordi
male, infatti. Io ho baciato lui” aveva
detto chiara Nervia, non perché
lo avesse voluto davvero, ma solo perché così le
era sembrato giusto. Non era
quello che facevano le giovani signore di nobile famiglia? Strepitavano
per
scambiarsi baci di nascosto con cavalieri ben lontani dal suo rango.
Era giovane e Ser Alderichi le aveva scritto dei versi, Nervia aveva
erroneamente interpretato l’esercizio come un sentimento, non
era davvero
interessato a lei, così come lei non lo era a lui, lo aveva
scelto su tutti gli
uomini perché aveva un aspetto particolare.
Era
bello, non così
lontano dalla perfezione, era bravo con le spade, alla quintana e
quando sorrideva
sembrava dolce, anche se lo faceva ancora meno di Nervia.
Comunque,
non potrete mai
sposarvi, lo sai” aveva ripreso Saranna, “Ho
provato ad allungare l’idea al
duca Iseo Ramberra una volta, quasi per scherzare” aveva
borbottato. “Tu hai
fatto cosa?” aveva chiesto Nervia sconvolta.
“Saiji era un cavaliere importante
delle Spiga, praticamente figlio putativo di Ser Moira, così
dopo quella volta
che ha recitato quella splendida poesia sulle sfumature dei tuoi
capelli che
sembravano la luce sulla sabbia durante l’alba”
aveva spiegato Saranna, imitando
anche la voce gutturale di Ser Alderichi per le ultime frasi,
“Quella poesia
era oscena” aveva risposto Nervia, con un nervosismo che non
riusciva a
spiegarsi.
Non
le era neanche mai
passato per la mente che lei e Saiji avrebbero potuto sposarsi, era
quasi tenta
di chiederle cosa avesse risposto Iseo Ramberra, ma era meglio
inghiottire ogni
possibile risposta. “Era davvero orribile, peggiore di lui
poteva esserci solo
Fellios di Meli Deliziosi” aveva sghignazzato,
“Come dimenticare l’uomo che
paragonato le tue tette a timballi” aveva scherzato con un
sorriso divertente. “Le
poesie di Saiji erano mero esercizio ed il nostro bacio, era stata
casta da
bimbetti” aveva raccontato poi, cancellando con una
manata un ricordo dalla sua memoria.
Non
ne aveva avuti poi di molti baci dopo, di cartocci pieni di brutte
poesie, sì.
Anche
la La Coccatrice ne aveva scritte per lei, decisamente più
poetico e complicato
del buon Saiji, con rime a catena e descrizioni del suo forte cuore e
del suo
animo rigoroso. Era stato che molto più audace, non si era
limitato a
consegnarli pergamene chiuse come fiori, ma ne aveva letti diversi
davanti un
pubblico.
Per diverse lune, Nervia era stata convinta che il cucciolotto avesse
sviluppato un’infatuazione onesta per lei, con il passare
delle Sorelle non ne
era stata poi troppo sicura.
Proprio
il giovane uomo stava osservando, non lontano, che girava nervoso tra
gli
alberi di aranci, Shinora, sistemata tra le fronde dei rami, come una
ninfa lo
osservava agitarsi nervoso. Ancora una volta non portava
l’armatura, ma aveva
la spada appesa al fianco a penzoloni. “
“Ultimamente
è nervoso” aveva considerato Nervia,
“Certo che lo è, si è invaghito di
qualcuno – mi sorprenda che non stia tirando testate contro
un’arancio” aveva
risposto subito Saranna, che era sempre pronta e preparata su ogni
argomento.
Nervia faticava a credere potesse davvero essere quello, ma
perché fatica a
comprendere sempre che pensieri del genere potessero attraversare le
persone.
Ricordava sua sorella, quando in giovinezza, si struggeva per due
aitanti
gentiluomini e quando si ritrovavano, dopo lunghi cicli ne parlava
vivacemente,
cercando il suo consiglio, il suo parere e la sua
complicità, anche se Nervia
era più giovane e poco interessata a quelle questioni,
almeno di persona. I
racconti le piacevano, le sembravano come quelli stuzzicanti dei libri.
“Ti
prego, dimmi, che si è infatuato di mia cugina Shinora,
forse è troppo matura
per lui, ma è ancora giovane e disponibile” aveva
considerato immediatamente
Nervia, guardando come gli occhi verdi di sua cugina continuavano a
spiare il
giovanissimo cavaliere. La Coccatrice sembrava più giovane
di quanto non fosse,
Nervia ammirava ed invidiava quel tipo di fascino, nonostante la sua
nascita
benedetta, Nervia non poteva non notare ogni giorno fosse
più avvizzita del
precedente.
Sua nonna, che era stata altrettanto benedetta, aveva conservato una
bellezza
aulica anche da anziana, di rimando, sua madre non aveva mai superato
le
centoquaranta sorelle; perciò, non poteva sapere se anche
lei, da vecchia
avrebbe potuto o no conservarsi splendida.
“Tua
cugina?” aveva chiesto Saranna quasi divertita, sbattendo gli
occhi di miele
con un certo divertimento, “Sarebbe uno spettacolo divertente
da osservare, ma
direi che nonostante il fascino sinistro di tua cugina, no, non
è lei la
vittima di un corteggiamento così impacciato”
aveva raccontato Saranna.
Nervia aveva aggrottato le sopracciglia pallide, “Una di voi
vegliarde ha
irretito il mio giovanotto?” aveva chiesto divertita,
“Dovrò aspettarmi poesie
sull’argento dei tuoi occhi o sul rossore delle gote di
Imeria?”
“Imeria
lo avrebbe voluto ingoiare intero, non fraintendere. In effetti,
potrebbe
avergli dato una bella cavalcata” aveva considerato Saranna.
“Oh!
Per Il Principio! Non dirmi queste cose!” aveva strillato
Nervia divertita,
“Immaginare Imeria e La Coccatrice in intimità e
come immaginare mia sorella e
… non lo so, mio cugino!”.
Avrebbe dovuto dire fratellino, Nervia lo sapeva, considerava il
giovane
cavaliere in quella maniera, ma il suo fratellino si era spento dopo
una lunga
febbre che aveva ingrossato il suo collo, come un gozzo e dipinto a
macchie blu
la sua pelle. Con la sua morte si era spento l’ultimo sorriso
genuino di suo
padre.
“Alcuni
dei tuoi cugini non sono del tutto malvagi su cui
fantasticare” aveva
considerato Saranna con un tono divertito. “I miei cugini?
Sono dei piccoli orrori
del Principio” aveva esclamato indignata Nervia, credendo in
ogni parola che
aveva detto, sapeva che era ingiusto comportarsi così, amava
alcuni di loro
come Nervia ed Aloyssa, così come Diente, che era a malapena
tollerabile, e,
certo, Myrta che era solo una bambina, ma gli altri erano il male puro,
Nervia
provava del genuino ribrezzo.
“Lo so, per tutti i fiori del creato, gli ho conosciuti
tutti, qualcuno forse
anche carnalmente – e non dirò chi – ma
stavo parlando di Sabeo e Ceristo”
aveva soffiato fuori Saranna.
Nervia aveva ascoltato quella frase con un’apparente
confusione, “Certo sì”
aveva balbettato, “Immagino loro siano carini”
aveva detto incerta. Sabeo e
Ceristeo erano i figli gemelli di suo zio, fratello di sua madre,
Nervia non
pensava molto a loro. Era una cosa stupida, in effetti, i suoi genitori
erano
anime destinate anche se non erano appartenute a due mondi
completamente
diversi. La famiglia di sua madre era stata elevata, in
virtù del fiore sul suo
petto e questo aveva reso anche i suoi cugini uterini quasi nobili, ma
ancora,
lontani da Nervia, specie dopo la morte di sua madre. Quando Nervia
pensava
alla sua famiglia, la sua grande, caotica e roborante famiglia, finiva
sempre
per tagliare fuori il ramo di sua madre.
Ricordava
che Sabeo e Ceristo come quasi-vicini-alla-perfezione, fossero molto
belli, uno
era gentile ed educato, mentre l’altro era un po’
selvaggio, ma non avrebbe saputo
dire chi era l’uno e chi era l’altro.
Lei
aveva scosso il capo, decidendo di non voler pensare a niente che
comprendesse
i suoi parenti, “Tuo cugino Genzo, invece,
è molto carino!” aveva
squittito Nervia, anche se non lo intendeva sul serio.
Genzo era cortese, galante ed anche piuttosto carino, almeno a detta,
delle
chiacchiere di metà della corte, così anche se
lei non aveva mai
particolarmente apprezzato il ragazzo, sapeva cosa doveva dire.
Saranna aveva schioccato le labbra, “Non lo dire ad alta
voce, mio zio
impazzirebbe all’idea di farlo sposare con te”
aveva considerato, “Confesso non
dispiacerebbe neanche a me, potremmo chiamarci cugine e spettacolare
insieme
tutta la nostra giornata.”
La
sua amica aveva giocato con la coda della sua treccia, ben spessa,
“Possiamo
farlo comunque, amica mia” aveva risposto Nervia, allungando
una mano, per
tirarle un pizzicotto sulla guancia tonda. Saranna aveva riso,
“Ovviamente.
Sarò zia dei tuoi figli che tu sposi quel birbante di mio
cugino, quello scemo
di mio fratello o un orco-blu” aveva detto.
“Splendidi partiti, li prendo
volentieri tutti e tre” aveva replicato lei, “Mi
concederò ad un matrimonio
poligamo che mi farà considerare da tutto il clero una
strega principiente in
piena regola” aveva scherzato, “Ma con bambini
bellissimi, di cui io sarò la
zia più amorevole” aveva ribadito Saranna.
“Temo
non avresti una difficile competizione; mia sorella è
tutt’altro che
affettuosa” aveva sospirato Nervia, anche se era ingiusto
parlare così
crudelmente di lei.
“Sai
che non è vero!” l’aveva stupita
Saranna, “Tua sorella ti ama. Si vede nel modo
in cui diventa dolce quando parla con te e di te” le aveva
detto. Non era
affatto un segreto che la sua buona dama non avesse un rapporto gentile
con sua
sorella, cortese sì, ovviamente. Saranna era una signora, e
come tutte le
signore sapeva bene come non esternare i propri rimproveri;
perciò, si sentiva
piuttosto confusa da quella verbale riconoscenza. “Lo
so” aveva ammesso, perché
era vero.
Sarai sempre la persona di cui potrò fidarmi, aveva scritto
sua sorella ed era
vero, lo sapeva. Nervia non era così rigida nel distribuire
il suo amore, ma
sicuramente, amava sua sorella. Solo che le lune e le Sorelle che si
erano
susseguite, avevano reso il loro rapporto teso come la corda di
un’arpa.
“A forza di parlare di queste sciocchezze, ci siamo
allontanati dal nostro
giovane Cavaliere” aveva cambiato discorso Nervia, quando
aveva visto la figura
del giovane, ancora, nervoso che camminava in andirivieni avanti e
indietro tra
gli aranci.
Con
la luce del tramonto i capelli castani sembravano tingersi di una
tonalità più
aranciata, come la buccia esterna di una zucca.
Sembrava,
perché lo era, giovane di per se, ma senza
l’armatura perdeva ancora più
sorelle.
Sul
viso della sua amica si era spenta la vivacità, solo per la
durata di un
battito di ali di farfalla, “Non ti
piacerà” lo aveva avvertito, “Purtroppo
è
della nostra giovane nuova amica, che La Coccatrice si è
invaghito” le aveva
detto, dosando bene ogni sua parola, con la tristezza intessuta nelle
sue
parole.
Aveva spalancato gli occhi e anche le labbra, “Lui cosa?”
aveva chiesto
Nervia, quasi, indignata.
Un’espressione carica di serietà aveva invaso il
viso di Saranna, che aveva
stretto le sue labbra in un taglio dritto, prima di rispondere
all’agitazione
che Nervia stava mostrando.
“Il mezzo-fratello di Imeria mi ha detto che La Coccatrice,
la ha scortata
fuori dalla bolgia come farebbe un uomo con la sua sposa, fuori dalla
chiesa.
Così quando lei era inferma, lui ha letto per lei tutto
Il Bandimento,
ben tre volte. Lettura che ritengo già una volta essere di
troppo” aveva
raccontato Saranna con quasi una punta di divertimento nella voce, che
aveva
perso immediatamente dopo, continuando: “Sai, prima di
Malvasia, lui era amico
del Margravio non di Ghetren ma … di quello attuale”.
Nervia
non era per nulla divertita da quella situazione. Come tutti i valenti
uomini
del Pregiatissimo Impero, La Coccatrice era andata a combattere alla
Piana di
Malvasia, ma quando era tornato non era lo stesso. Una battaglia, una
vera, era
diversa dai duelli, da giostre e mischie. Era partito un ragazzetto
audace, con
la testa piena di sogni di gloria e racconti cavallereschi, ma quando
era
tornato era un uomo grigio, che nascondeva l’inquietudine dei
suoi occhi,
dietro sorrisi poco convinti.
Le piaceva La Coccatrice, davvero, era uno splendido ragazzo, con un
cuore
tenero – cosa che raramente si vedeva di quei tempi
– ed una spada ed uno scudo
ottimi dietro cui nascondersi.
“Non
mi piace, lei non ha bisogno di un uomo che le aliti sulla nuca, non
dopo
quello che le hanno fatto” aveva detto secca, dura, Nervia,
aveva anche stretto
i pugni. Continuava a vedere dietro le sue palpebre,
l’espressione morta che
aveva assunto la sua giovane dama quando l’avevano presentata
per la prima
volta. Saranna aveva annuito, gli occhi scuri avevano seguito il
profilo teso
del giovanotto, “No, hai ragione, mia cara; ma è
un ragazzo onesto, anzi un
uomo onesto” le aveva detto.
“Sia io sia te lo conosciamo da quando puzzava ancora di
latte e seguiva i
cavalieri più grandi con occhi grandi come piattini, pieno
di meraviglia” le
aveva ricordato.
“Rimane,
comunque, un uomo, con delle voglie e delle fantasie. Vorrei credere
che La
Coccatrice sogni fiori e rose, ma sarebbe sciocco immaginare che voglia
baciarle le dita e leggere poesie d’amore” aveva
considerato Nervia
“Con
te, lo ho fatto” aveva considerato Saranna. “E
sì e ti dico che il ragazzo non
è del tutto incapace, ma non è neanche
bravo!” le aveva detto con una punta di
cattiveria, “Ho ricevuto epigrammi per tutta la vita, forse
due o tre di loro
erano davvero invischiati con me” aveva stabilito.
La Coccatrice le aveva baciato le nocche, chinando il ginocchio ed il
capo, ma
non le aveva mai rivolto guardi di lussuria o desiderio; “Lui
incluso!” aveva
aggiunto, guardando il giovane.
“Secondo te, amica mia,
perché è così frustrato?
La desidera probabilmente, come un uomo percepisce una donna, ma lo sa,
che non
sta guardando una dama, ma qualcosa più simile ad un
uccellino spezzato”
aveva statuito Saranna, bevendo un sorso di vino, “Quello che
sente è il senso
di colpa!”
Uccellino
spezzato,
secondo Nervia, quello era un eufemismo.
“Non
sono sicura come termine si sposi bene a questa situazione”
aveva dichiarato
con un tono di voce perentorio.
“Non
esistono nomi adatti a questa situazione. Nelle ultime Sorelle,
l’Impero ha
sanguinato molto e non sono stati poche le persone che hanno offerto
quel
sangue” le aveva risposto Saranna, con voce calma,
abbandonando la sua treccia.
“Parlando di questo: Imeria mi ha detto che tua cugina ha
sognato di una pianta
di edera che ci uccideva tutti” aveva considerato la sua
amica, cercando di
sorridere, “Forse i Fiori hanno bisogno di altro sangue per
le loro radici”.
Un
lungo brivido di freddo aveva attraversato la schiena di Nervia, che si
era
tesa, dritta come la lama di una spada, poi aveva sospirato stanca,
cacciando
via i difficili pensieri che si erano affollati nella sua mente,
buttandoli in
profondità oscure dei suoi pensieri, perché
soffocassero.
“Suggestione”
aveva reiterato Nervia con voce calma, quasi atona. “Ora mi
sembri tua sorella,
che nega le verità scomode” l’aveva
provocata Saranna, con un tono
canzonatorio. “Attenta, amica mia, parole
pericolose” l’aveva richiamata.
L’altra aveva ridacchiato, “Ti schermi da me!
Sapendo che ho ragione” l’aveva
richiamata Saranna. Nervia l’aveva guardata, con uno sguardo
accusatorio e
perentorio, “Se Shinora avesse raccontato il suo sogno a mia
sorella, lei
avrebbe estirpato ogni pianta d’edera dalla Ghaadia alla Lega
di Ferro e mia
cugina è una creatura duttile”
aveva puntualizzato Nervia, sbuffando.
“Tua
cugina ha la Vistalunga” aveva ribattuto Saranna, senza
perdere verve.
“Shinora ha una splendida immaginazione
ed un carattere
volubile alle suggestioni. Mio cugino Vivirian una volta la ha convinta
che
sotto il suo letto viveva un semi-cupo e lei ha
dormito nelle cucine,
con un sacco di farina come guanciale per due cicli prima che lo zio
Tarbarat
lo scoprisse” aveva replicato Nervia.
“Due
interi cicli, su un pavimento di una cucina” aveva rinforzato.
Si
era aspettata che Saranna si concedesse una risata fresca, ma non era
successa,
l’espressione sul viso della sua amica era cupa. Al colore
rosato del cielo,
che imbruniva nel blu della notte, le donava un’improvvisa
serietà. “Vivirian
è marcio come le mele cadute dagli alberi” aveva
stabilito
Saranna dura come il legno di una quercia. Gli occhi erano cupi ed
afflitti.
Un
pensiero era balenato
nella mente di Nervia, una domanda che aveva avuto timore di chiedere;
“Più
come una carogna piena di vermi”
aveva preferito dire
alla fine. “Non posso crederci che abbia avuto la faccia di
Bronzo di chiedere
la mia mano, tre volte” aveva considerato poi Nervia,
gonfiando le guance. Non
c’era stato divertimento sul viso di Saranna, per una
battuta, prima di
sciogliersi; “Immagina se tua sorella sposasse
Vivirian!” aveva esclamato la
sua amica. “Una volta mi ha detto che preferirebbe cucirsi la
vagina che
permettere al pene di nostro cugino entrarci” aveva
considerato Nervia.
Saranna
aveva riso smodatamente, “La parte peggiore che sicuramente
non stava
scherzando!” aveva esclamato voleva essere divertente,
“Per quel che vale anche
io non giacerei con Vivirian neanche se fosse la mia anima
condivisa”, ma
il sorriso sulle sue labbra era stanco e la lucidità dei
suoi occhi non era
carica di allegria, ma di cupezza. “E tu, amica mia, stai
cambiando discorso”
aveva valutato Saranna, “Tu sei quella che sta parlando del
matrimonio di
Vivirian e mia sorella” aveva risposto innocente Nervia,
sollevando le braccia
in segna di resa. Ma riconosceva la verità: era la sua amica
che voleva, oltre
ogni misura, cambiare il pretesto. Nervia decise di appuntarsi nella
sua
memoria che avrebbe dovuto affrontare suo cugino su qualsiasi cosa
fosse
intercorsa tra lui e la sua amica; e se avesse scoperto cose che
gradiva, lo
avrebbe ucciso.
Semplicemente.
La
sua amica si era concessa un sorriso pallido, mandando giù
la bile. “Uhm … Un
sogno di Shinora è solo un sogno, come
il mio, il tuo e quello di
Imeria; forse quelli di Imeria sono un po’ più
esotici, sì” aveva risposto
Nervia, scrollandosi ogni cattivo pensiero di dosso sui suoi guini.
Sarebbe stato così bello poter fingere di avere una famiglia
usuale. “Menti
sapendo di mentire, mia Buona Signora
Nervia” l’aveva richiamata la sua
amica, sollevando anche un dito per enfatizzare la cosa. “Per
prima cosa, Sara,
non chiamarmi così! Sia maledetto il giorno che il Barone di
Giuste Betulle mi
ha dedicato quella poesia!” si era lamentata subito Nervia,
che continuava a
trovare quel soprannome così fastidioso, così
menzognere. Neanche un battito
d’ali di farfalla prima, pensava a come avesse deciso di
uccidere suo cugino!
Saranna
aveva sollevato un sopracciglio pallido, “Secondo?”
l’aveva imbeccata, Nervia
aveva ripreso a parlare: “Secondo: va bene, dammi il tuo
parere cornacchia”
l’aveva invitata.
Si
era aspettata una pronta risposta, d’altronde Saranno non
desiderava altro che
parlare, ma aveva taciuto per un momento, preferendosi mordere il
labbro con
una certa incertezza, come se improvvisamente l’idea di
parlare non le
sembrasse più così invitante. Nervia
l’aveva guardata, accavallando le gambe,
davvero interessata in quel momento. Saranna aveva sospirato, come in
cerca di
coraggio, ma non aveva più vino rosato nel suo bicchiere,
poi aveva parlato,
tetra: “L’Edera resiste al freddo.”
“Il
sesto Margravio di Irti Pini non cercherà di ribellarsi
nuovamente all’Impero. Senza
contare che il Piccolo Bergen, il nipote di niente di meno dello
Scintillante Generale,
mangia dal suo desco, dorme sotto il suo tetto e governa da dietro la
sua sedia”
aveva replicato Nervia, calma.
Bergen
Alloppia, erede di Rocca Basilico,
era capace meno della metà di suo zio uterino, ma Nervia lo
imputava alla difficoltà
di reggere il peso di una leggenda, questo, però, non lo
rendeva di certo un
incapace. Al contrario, era un ragazzo sveglio, con occhi luccicanti di
malizia
e prontezza. Poteva avere il cognome materno certamente, ma era un
Ramberra
tutto intero, sia di aspetto, sia di spirito.
Inoltre, Ser Moria Ramberra più di una volta aveva confessato
di trovarlo il suo
nipote preferito, certo non lo aveva detto con lo stesso calore con cui
tendenzialmente la gente diceva quelle confidenze, ma era abbastanza,
da un
uomo che non si era mai sbilanciato in complimenti di
alcunchè. Non aveva mai
giocato alle Parole Cortesi, nonostante fosse stato ordinato cavaliere
giovanissimo. Nervia, che per tutta la vita, causa del suo sangue,
della sua
benedizione e delle sue ricchezze, si era ritrovata per tutta la vita
sommersa
di complimenti, che spaziavano dal suo semplice aspetto alle
virtù più intime
della sua anima, ricordava di aver ricevuto una sola volta un
complimento da
Ser Ramberra
Le
aveva detto fosse una
donna interessante.
“Inoltre,
anche se il Piccolo Bergen fosse più stupido di una capra, e
fidati non lo è; non
cambierebbe nulla. La sola presenza del
giovane erede, nel suo palazzo, funge da perenne monito al giovane
margravio di
percepire la lama affilata dei Ramberra – e
dell’Impero – sul suo collo” aveva
detto tronfia. Non ci sarebbe stata una nuova sedizione, che Shinora
sognasse
di rampicati d’edera o meno, non dal nuovo signore di Irti
Pini almeno.
Era
ora che l’Impero cominciasse a cicatrizzare le sue ferite.
“Insisto,
amica mia, l’Edera è una pianta sempreverde,
infestante, che cresce ovunque e
muore con fatica. L’anima
dannata di Gathren
e suo zio possono essere stati ammazzati a Malvasia, il vecchio padre
può
esserselo preso la febbre fredda tante sorelle fa e
suo fratello minore
i principisti, rovinandoci la vita, ma la loro famiglia non
è estinta. Le sale
del Palazzo d’Edera non sono fredde e morte. Il buon signore
Allopia potrà
mangiare al desco del margravio, bere il suo vino e ridere di lui, ma
quell’uomo
non dimentica ciò che è stato
fatto. Il sangue non si lavava via
facilmente, specie quando si secca. E
il cuore di un
uomo è un posto dove le cose si seccano più spesso”
aveva considerato
Saranna.
Nervia
sapeva che fosse vero, aveva visto uomini buoni come un pezzo di pane
morbido,
con il buro, seccarsi dal giorno alla notta, fino a divenire tozzi duri
come
sassi.
“Sembri
Imeria” aveva considerato alla fine Nervia, facendo
riferimento alla loro amica
tragicamente cupa. Saranna le aveva sorriso, stanca e malinconica. Quel
genere
di sorriso non le si addiceva molto; Saranna era sempre solare e
divertente, il
suo tratto più comune, qualcuno avrebbe detto.
Una
risata vivace, accompagnata da una parlata a lingua sbrigliata.
“Siamo
diverse, sì, questo sì! Ma come la luna e il
sole, servono come luce e guida”
aveva risposto pratica la sua dama, “Io sono il caldo sole
che consente ai
frutti di maturare, il grano crescere e i fiori sbocciare, mentre la
nostra
cupa Imeria è la fredda luna che agita le acque, rischiara
le notti buie e
ispira i poeti.”
“E
io cosa sono?” aveva domandato Nervia con una punta di
curiosità, “Tu sei le
stelle con cui i marinai si orientano, dolce amica, ci guidi alacre e
ci
conduci sempre a casa. Sei la nostra guida” aveva risposto
languida la sua
dama. Nervia era arrossita sulle gote oliva a causa di quella
delicatezza che
non si era aspettata. Non immaginava di certo di avere un ruolo
così luminoso
nella vita delle sue compagne; tante cose si era sentita, ma di sicuro
non una
guida.
“Sono
un faro, praticamente” aveva scherzato con leggero disagio
nella voce, per
fuggire dal suo stesso imbarazzo.
Anche
sua sorella si era appellata così a lei, una guida.
Dovevano
esser tutti perduti se pensavano a Nervia così, lei che ogni
giorno si sentiva
perduta e di muoversi a tentoni, nonostante camminasse pedissequa il
suo
sentiero già scritto.
“Se
così preferisci, va bene” aveva risposto Saranna
giocosa, “Non ti confiderei
mai un faro, ma anche esso guida gli uomini nella notte e li riporta a
casa. Ho
visto quello alla punta più meridionale
dell’Impero. Di una bellezza
eccezionale” aveva ammesso la sua amica. Nervia aveva sorriso
nuovamente. “Ma
questo non cambierà la natura dell’Edera, luna,
sole e stelle che lo si voglia”
aveva considerato.
“Tu dovresti partecipare ad un gioco di Parole
Cortesi” le aveva detto incerta,
piena di vergogna. Saranna aveva riso, alta, con la stessa mancata
grazia di un
gabbiano, “Certo che dovrei e umilierei tutti quei piccoli
cavalieri che ogni
anno tormentano la corte o i tornei con le loro baggianate. Mi chiedo
perché i
cavalieri non lascino le belle parole ai poeti e i menestrelli e non
pensino
solo a come far correre un cavallo” si era lamentata Saranna.
Nervia
non era riuscita a trattenere un sorriso. “Ti ricordi
quell’uomo che una volta
ha paragonato Imeria ad un pasticcio di piccione” aveva
ricordato lei, “Ricordo
che la nostra buona amica gli ha tirato una birra addosso”
aveva riso Saranna.
Che
giornate piacevoli che si palesavano nella sua memoria. Sapeva che
l’Impero non
era il luogo pacifico della sua memoria, così come la morte
aveva sempre
ombreggiato sulla sua famiglia, ma quando ripensava ai tempi passati
sentiva il
cuore stringersi in una morsa.
Sembravano ricordi ambientati in una favola, non toccati da
preoccupazioni e
dolori.
Imeria così spinosa, Saranna con la sua lingua sciolta, il
sorriso gentile di
sua cugina Aloyssa ed anche sua sorella che sembrava ancora in grado di
provare
un sentimento diverso dal rancore.
“Chi sa che fine ha fatto quel signore” aveva
soppesato Nervia, “Credo sia
morto al pianoro, contro i cavalcanti" aveva raccontato Saranna con un
tono calmo, un suono sordo era sfuggito alle labbra di Nervia,
“E già, iniziano
ad essere sempre
Nervia
le aveva restituito la coppa, “Questi discorsi mi sono venuti
a noia, amica
mia. Farò due passi e mi godrò l’odore
delle arance, prima di tornare alla
Zagora” aveva chiosato, alzandosi dalla sedia su cui si era
accomodata.
Aveva
percorso il breve tratto della corte di legno ed aveva raggiunto La
Coccatrice
tra le lunghe passeggiate di aranci.
Erano
stati piantati in file ordinate, come vigneti; sapeva di altri
all’interno
della regione molto più caotici. Quell’ordine la
rendeva leggermente inquieta.
Sua
cugina era ancora appollaiata tra i rami come una gotta forastica, con
la carne
nuda, fino al ginocchio, della carne a penzoloni; del tutto indegna di
una
signora del suo rango.
Nervia aveva sempre, sempre, invidiato la sua natura selvaggia, era
diversa
dalla ferocia di sua sorella o dal desiderio di fuga che animava lei,
era
qualcosa di più primordiale. Nervia desiderava la
libertà, Shinora la prendeva
senza chiedere. Era selvatica – come una gatta.
Le
aveva sorriso, era stata ricambiata.
“Mia
sorella vuole che torni in città, presto. Vuoi tornare con
me? Ho appannaggio
per solo quattro dame di compagnia, ma so che tu stessa hai una rendita
accordata da zio Tarbarat” aveva considerato Nervia,
rivolgendosi a suo cugino.
“Anche di più, da mia madre ho ereditato ori e
gioielli. Non mi piace
indossarli e non disegno l’idea di poterli vendere in
futuro” aveva aggiunto
Shinora con una punta di divertimento.
Nervia
aveva sorriso, “Meraviglioso cara cugina, mi sarebbe pesato
chiedere a Saranna
di maritarsi. Nessun buon partito si vede
all’orizzonte” aveva commentato poi,
lanciando uno sguardo alla sua amica, ancora comodamente appollaiata
sotto il
portico di legno.
“Potrei
sì” aveva detto Shinora sorridendo, il suo viso
diventava più bello,
differentemente da Nervia, che sembrava affetta – fin dalla
nascita – della bizzarria;
non le era poi andata tanto male, spesso la gente si era
invaghita della
sua bellezza malinconica, Nervia aveva accumulato centinaia di
epigrammi sulla
su quell’argomento.
“Ma
non lo farò, cara cugina” aveva aggiunto Shinora,
“E no, non ci saranno
pretendenti per la splendida Saranna. Non nel prossimo futuro, oh
no!” aveva
commentato, sistemandosi meglio per scendere più agilmente
dall’albero, non le
era riuscito molto bene, ma a differenza di quanto sarebbe capitato a
Nervia,
era finita con ambedue le piante dei piedi sulla terra ed il sedere ben
lontano
da essa.
Si era comunque graffiata un avambraccio, al posto che rivoli di
sangue,
sottili, appena accennati, erano brillati sulla pelle olivastra.
“Perché?”
aveva chiesto Nervia, abbastanza confusa dalle parole di sua cugina.
Sapeva che
Shinora non era particolarmente amante della città, della
vita cortese e di
tutte le regole, preferendo di gran lunga vivere nel suo esilio
personale.
“Perché
non ci sono partiti degni per Saranna?” aveva chiesto
retorica Shinora, “Forse
i fiori dell’Impero si sono seccati, non saprei”
facendo sbuffare sua cugina, “Perché non vuoi
venire con me?” aveva chiesto.
“Uhm
… odio la città, mi fa venire male alla testa e,
inoltre, conservo i miei
gioielli per venderli quando avrò bisogno di organizzare la
mia fuga con Enneo”
aveva dichiarato Shinora con sicurezza.
Nervia aveva fatto roteare gli occhi, “Ovviamente”
aveva considerato la cugina.
Da che era fanciullina che Shinora raccontava di quando lei ed Enneo si
sarebbero ritrovati ed uniti in un vincolo d’amore che
neanche il
Dio-di-Tutte-le-cose-buone avrebbe potuto dissolvere.
Erano passate lunghe sorelle, due fidanzamenti interrotti e tanto
altro, ma non
ancora la sua profezia d’amore si era realizzata. Per essere
una persona che
millantava di avere la Vistalunga su quell’argomento, Shinora
era
particolarmente cieca.
“Rientriamo
cugina, il sole è tramontato e l’aria ormai
è fresca. Fa ancora caldo, ma siamo
nella Pallida, ormai” le aveva detto, mettendole le mani
attorno alle spalle,
più la schiena. Shinora era lunga, come se
l’avessero tirata per le mani e per
i piedi, “Inoltre dovresti almeno sciacquare quel braccio, mi
è stato detto che
il sangue non è facile da lavare” aveva
considerato, echeggiando le parole di
Saranna.
“No,
non lo è” aveva sospirato Shinora.
Ebbe
l’impressione parlasse di altro.
Prima
che potessero parlarne meglio, però, dalla torricciola era
suonata la campana.
Nervia aveva guardato la torre, aggiunta posteriormente
nell’ultimo mezzo
secolo e poi nella sua direzione opposta ad est dove sapevano esserci
il
cancello di ingresso che interrompeva la cinta muraria – non
la più forte, non
la più alta. Si alzava una colonna di fumo appena visibile
nella notte, fumo
grigio-chiaro, un segno che non portava sventure, lo stesso colore che
era
sorto con il messo quella mattina.
Avevano ospiti.
“Questo lo avevi visto?” aveva interrogato Nervia,
sua cugina, senza rendersi
conto di aver parlato. Shinora, nella spettrale luce della sera le
aveva
risposto: “Nessun degno pretendente,
sì.”
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Capitolo 12 *** PARTE PRIMA; TITOLO I; CAPITOLO IX ***
Benvenuti
al capitolo che
ho scritto fin’ora. Da questo momento gli aggiornamenti si
faranno più sporadici
(di quelli che già sono) per ragioni personali.
Un bacio
RLandH
Ps
– Tecnicamente avevo
fatto un disegno per questo capitolo, ma … ci ho
avvertitamente lanciato dentro
uno spoiler ahaha
PS 2 - Uhm, credeteci ho meso ma siamo in dirittura di arrivo per il TITOLO I.
P A R T E P R I M A
L ‘
I N V I O L A B I L E
T I T O L O I
I
G I O C A T O R I
C A P I T O L O I X
I O S P E R O
C H E S
I A T
V
V N G
I O R N O
A S V E G
L I A R T I
E
N O N S
E N T I R L A
P I V’
L’Ornatrice
era carina, lontana dalla perfezione, sbagliata ovviamente, ma carina.
Era
giovane, e questo le dava la bellezza della freschezza, poteva avere
ottanta
sorelle o anche meno. La pelle era dello stesso colore di una mandorla,
gli
occhi erano un castano dolce ed i capelli erano lisci e scuri come il
legno
d’ebano umido. Aveva il viso lungo cyristi, ma un piccolo
naso a bottone.
“Ti
piacciono così?” aveva
domandato lei, con un tono pieno di curiosità, sfiorando con
i polpastrelli le
punte ritte dei capelli di Iren.
Il suo amico
si era guardato i
capelli in uno specchio di bronzo lucido e levigatissimo. Lei aveva
fatto un
buon lavoro con i capelli di Iren, aveva raccolto una matassa piena di
intrecci, lunga e ricca di incuria in qualcosa che somigliava
all’umano. Il
nero era tornato lucido come una pietra pomice ed avevano riacquisito
stranezza,
ma anche una nuova forma. La ragazza aveva accorciato le punte di
molto, la
matassa non toccava più le scapole, ed era andata ben oltre
le-orecchie-o-le-spalle come la moda imperiale voleva. I capelli di
Iren erano
un solo dito di stanza dalla sua pelle, corti come quelli di un
ragazzetto
pronti per l’hakademya, tranne che sulla
fronte, dove leggermente più
lunghi cadevano per coprire gli occhi grigio-nero.
“Sì”,
aveva risposto laconico Iren;
il suo viso era ancora bianco come quello di uno spettro, le occhiaie
viola
come unico colore sul volto emaciato. “Grazie”
aveva aggiunto Iren, forzando un
sorriso, facendo illuminare il suo viso perfetto. La ragazzetta era
avvampata
sulle guance, che erano divenute rosse, come se il suo amico invece di
un
ringraziamento le avesse chiesto la mano in matrimonio; la ragazza
aveva
farfugliato qualcosa, probabilmente più appropriato dire che
avesse squittito –
come un topolino.
La ragazza era
una domestica, non
di palazzo, ma di una famiglia nobile – che tagliava i
capelli per arrotondare
le entrate – si poteva vedere dall’abito che
sfoggiava, era semplice, ma il
materiale era ottimo e resistente, ciniglia arancione, l’orlo
delle maniche,
del colletto e della gonna avevano una decorazione semplice in filo
zenzero con
delle spighe. Aveva ricordato a Saiji Adda quando svolgeva un lavoro
simile.
Certo, la lunga lista di abiti che Adda aveva indossato era andata dal
cotone
duro alle stoffe più morbide, da quando appena bambina
portava il vassoio per
aiutare sua sorella, fino a che era stata la guardarobiera di Canadea,
al posto
di qualche nobile dama.
La donna
indossava una cintura che
le fermava la stoffa alla vita, evidenziato il ventre piatto e i
fianchi tondi,
in quello non somigliava ad Adda.
Saiji provava
un senso orribile di
estraniazione a quei pensieri. Da un lato, pensando a quelle sorelle,
Saiji
ricordava quelle lune come rinchiuso in una prigione, con
un’angoscia, rabbia e
dolore che inzuppavano ogni fibra di lui stesso, guidato dal solo
desiderio di
voler urlare come una bestia; e dall’altro, dopo tutta
l’acqua che era piovuta,
quello tempo sembrava un sogno, qualcosa che era esistito
sì, ma che era passato,
splendido anche e che come tutte le cose che erano avvenute e che mai
più
potevano essere raggiunte: era meraviglioso.
“Sir, tocca a lei” aveva aggiunto la ragazza,
indicandolo con il pettine
d’osso.
Saiji aveva
annuito, sollevandosi
dallo sgabello dove era acciambellato, per occupare la sedia che Iren
aveva
appena liberato, mentre con un certo manierismo continuava a far
passare le
dita pallide sui capelli nerissimi.
Lui aveva guardato la ragazza, “Sistema solo la lunghezza. Ho
adottato la
maniera ghaadiana aveva dichiarato subito; la corolla superiore lunga,
fino
all’attaccatura delle orecchie e poi fino alla nuca, corti
quasi da essere
rasati.
“Vuole che lavori anche sulla barba?” aveva chiesto
la ragazza. Saiji sapeva
che erano passate più lune di quanto fosse necessario
perché sulle sue guance
l’ombra non sembrasse più l’ombra
delicata che prevedeva l’etichetta fioriana.
Iren era decisamente più bravo da quel punto di vista, il
suo viso era rimasto
imberbe. Saiji l’aveva guardata, “Certo,
sì, sbarbami come un poppante” le
aveva dato il permesso.
La ragazza
aveva inumidito i suoi
capelli con un panno bagnato, per cercare di sciogliere il ricciolo dei
suoi
capelli, teneta tra i denti le forbici, mentre con una mano aveva il
pettine
per distendere i nodi, ma Saiji aveva potuto sentire le dita nude della
ragazza, passare più e più volte tra i suoi
capelli ammirata.
“Che stai facendo?” aveva chiesto curioso e confuso.
“Perdoni
questa impudente, Sir, ho
perso il controllo di me stessa. Sono capelli morbidi, i più
morbidi che abbia
mai sentito ed il colore: sembra sangue!” aveva ammesso.
Saiji era
rimasto colpito, sapeva
che i suoi capelli potevano guidare stranezze, “Di eosiani ne
ho visti, ma mai
con capelli così. Morbidi sì, ma i ricci sono
sempre stretti e mai di un colore
del genere” aveva spiegato. Saiji aveva annuito,
“Perché sono eosiano solo per
metà. Mio padre era ghaadiano, con sangue tulpee”
aveva raccontato senza
vergogna.
I capelli
rossi erano un’eredità
del suo vecchio, ma lui aveva avuto capelli rossi come fuoco
crepitante, quella
tonalità così scura e sorprendente, era venuta
assieme a sua madre. La sua
marra aveva i capelli scuri come legno bruciato e per qualche scherzo
del
destino, i capelli di Saiji erano usciti così. Non castagni,
mogano,
castano-ramato, ma sanguinello.
Però
gli piaceva pensare che quel
colore di capelli fosse un dono di suo padre, Saiji aveva ereditato
tanto dalla
sua marra, l’incarnato – di cui lui aveva una
tonalità solo leggermente più
chiara – le labbra piene, il naso dritto come una freccia,
gli occhi dalla
forma allungata, la forma del viso, la massa dei capelli, le labbra ed
ogni
cosa. Da suo padre aveva preso il rosso, l’altezza
– anche se il suo genitore
era stato filiforme come un chiodo – ed il colore scuro degli
occhi, tutte cose
evidentissime, ma che sembrano sparire rispetto a ciò che
aveva avuto da sua
madre.
“Prima
di sapere il suo nome mi
riferivo a lui come … il rosso” aveva mentito
Iren, era stato la melanzana
rossa, la bestia rossa ed altri epiteti raziali anche meno gentili.
“Anche io,
sapete?” aveva dichiarato audace la ragazza, “Mia
madre è fioriana fatta e
finita, ma mio padre è un ferriano, mezzo eriaco e mezzo colomynato!” aveva
detto piena di allegrezza e
vivacità sulla voce, facendo inclinare ancora il capo di
Saiji, per indugiare
con il pettine d’osso e le forbicine sui capelli.
“Anche
lei immagino” aveva aggiunto
la ragazza guardando Iren di sottecchi, “Al nord esistono un
sacco di fioriani
bianchi” aveva replicato lui, gonfiando le guance.
Meglio
così, aveva pensato Saiji,
meglio che mentisse.
Dopo aver
tagliato il crine, la
ragazza aveva oliato le guance ed il collo di Saiji, ma quando si era
allontanata per raccogliere la lama piatta per raderlo, Iren, con uno
scatto fulmineo,
e troppo irruento, le aveva preso un polso. Lei era sussultata e non
aveva
potuto trattenere un urlo. “Ci penso io, scusa. Ha un mento
appuntito e la
gente si taglia sempre” si era giustificato vergognoso,
lasciando la presa dal
polso della ragazza.
“Certo” aveva detto la ragazza, leggermente
turbata, “Il prezzò varrà …
niente!
Niente” aveva detto, la sua espressione si era addolcita come
miele, quando
Iren le aveva sorriso.
Lei aveva
allungato la lama, dal
lato dell’elsa al suo amico, “Viviamo in un mondo
assai poco gentile. Anche il
Vecchio Imperatore, che il suo fiore cresca forte nel Bel Giardino, si
faceva
radere la barba solo con cocci rotti e dalle fidate mani delle sue
figlie”
aveva raccontato.
Dicerie da
toletta! Saiji lo
sapeva per esperienza personale, lo
aveva anche visto, l’imperatore si faceva radere con il filo,
alla maniera
eosiana, e da una sola delle sue figlie – la minore.
Il Vecchio
Vivirian II poteva anche
amare il suo successore, ma riconosceva un pericolo, non avrebbe mai
offerto la
carne tenera all’Imperatrice. “Si può
essere la rappresentazione di
Dio-in-terra ma essere comunque carne alla mercè degli
uomini” aveva sussurrato
Iren con cupezza neanche celata, gli occhi scuri rivolti distanti a
pensieri
che avrebbe dovuto soffocare. “Che il suo fiore cresca alto e
rigoglioso” aveva
detto invece Saiji. “Che il suo fiore cresca alto e
rigoglioso” aveva
cinguettato la ragazza, anche se il suo tono era parso molto meno
partecipe.
“Comunque, per tranquillizzarti, nessuna mania. Il mio amico
ha ragione: ho un
mento complicato” aveva ammesso con una punta di divertimento.
La ragazza
aveva scosso il capo,
facendo oscillare i lisci capelli, “In tale caso,
lasciò voi signori soli. Vi
aspetterò per il pagamento al pian terreno. Mio padre ha
inchiodato la finestra,
perciò non ci sono altre uscite” aveva detto,
muovendo la mano in un segno di
saluto.
“Mai
ci permetteremo, mia signora”
aveva detto calma Iren, “Obbligata” aveva detto
lei, “Obbligato” aveva risposto
il suo amico, chinando anche il capo, lei era sparita poi dietro una
porta.
“Pensavi
mi avrebbe tagliato la
gola? Con te qui, presente?” aveva chiesto Saiji, nel momento
in cui avevano
sentito il rumore della porta sbattere, sapeva che la sua voce e la sua
allegrezza si era esaurita subito. Iren lo aveva guardato:
“Una volta pensavo
che l’Anima Condivisa fosse la massima aspirazione che ogni
uomo potesse
aspirare. Quel piccolo pezzo destinato a riunire uno spirito rimasto
tragicamente spezzato in due corpi” aveva esclamato
drammatico. Saiji aveva
sollevato un sopracciglio rosso, “Ho imparato, da
te, a pensare sempre
il peggio; se lei avesse voluto aprire un sorriso sulle tua gola, da un
orecchio all’altro, lo avrebbe fatto con me presente o
meno” aveva stabilito
Iren, serio mortalmente.
Saiji era
cresciuto imparando
diffidando di tutto il mondo, dopo aver perso i suoi genitori
– eppure, ogni
tanto, doveva riconoscere una certa innocenza in se stesso e si
dispiaceva, non
poco, che fosse stato costretto ad soffocare come
un’erbaccia, quell’innocenza.
“Però
non sarebbe successo e lo sai
anche tu” aveva commentato Saiji, le probabilità
che l’ornatrice fosse una
pazza con la passione del sangue erano comunque basse.
Iren gli aveva
tirato i capelli e
portato la lama alla gola, “Sicuro di avere le mani
ferme?” aveva chiesto
Saiji. “Il mio corpo sta bene, ora”
aveva dichiarato.
Lo spirito
meno, aveva dovuto
prendere altro Latte d’Uccello, Zegros era riuscito a
procurarne un po’ a
Saiji, questo aveva tirato su Iren, abbastanza da non farlo apparire un
morto,
ma un’imitazione di essere umano. Quando era tornato dal suo
amico, dopo la
notte alla Serra, Iren era riuscito a liberarsi i piedi, ma non il
bavaglio
dalla bocca e le mani, ci aveva provato, i polsi erano frastornati,
feriti,
sanguinanti. Il suo corpo si era riempito di lividi a causa degli urti
guidati
dalla rabbia convulsa.
Saiji aveva
sentito la lama gelida
scorrere lungo la pelle imbevuta. “Una volta la mia sposa mi
ha fatto la barba,
te lo ho mai raccontato? Mi è venuto in mente sentendo prima
l’ornatrice” aveva
detto disinvolto Iren.
“Tu non hai barba” era stata la risposta di Saiji,
occhieggiandolo, lo vedeva
alla rovescia quasi.
“Lo so, vorrei dirti che penso volesse avere semplicemente un
momento di puro
potere, lì con un coltello alla gola con il rischio di
uccidermi ma non è un
pensiero” aveva ammesso.
“Diciamo
che l’aver tentato di
ucciderti potrebbe effettivamente portare credito a questa
ipotesi” aveva
valutato Saiji.
Iren aveva riso spontaneamente, “Può darsi. Ma in
quel momento è stato così diverso
perché io lo ho sentito davvero, che lo voleva,
così come ho sentito che
non poteva. Dal tagliarmi la gola è passata ad inghiottirmi
intero” aveva
ammesso, “Ed io ho sentito tutto e lei sentiva tutto
di me” aveva
considerato.
“Iren, davvero, non voglio sapere queste cose”
aveva detto evasivo Saiji.
Non sapeva
neanche lui se stesse
parlando del sesso e del legame di due anime condivise. Non gli piaceva
pensare
a quell’argomento, sentiva le vecchie cicatrici sul suo petto
bruciare, come se
la lama bollente fosse sulla sua pelle.
“Mi
chiedo se ogni giorno si svegli
aspettando speranzosa di non sentirmi più” aveva
commentato acre Iren.
La lama era
scesa di nuovo, prima
di risalire raso sulla sua guancia.
Moria diceva
che un uomo poteva
vivere tutta la sua vita senza mai incontrare la sua anima condivisa e
vivere
ugualmente bene – una vita che non sarebbe mai stata del
tutto completa, ma che
poteva essere soddisfacente – ma era impossibile sopportare
la rottura di un
legame.
Lui diceva che
il mondo diventava
più freddo: nessun fuoco poteva riscaldare il corpo, nessun
raggio del sole
poteva allietare lo spirito e nessun abbraccio poteva rasserenare il
fuoco.
Freddo e solo freddo.
“Io spero che sia tu un
giorno a svegliarti e non
sentirla più” aveva commentato Saiji
alla fine, nervoso.
“Il Latte d’Uccello aiuta anche in
questo” aveva ammesso Iren, poi aveva
sospirato, “Vorrei ucciderla. Lo vorrei
proprio” aveva ammesso.
“Mi
spaventi quando fai questi
discorsi con una lama alla mia di gola. Non vorrei ti facessi
trasportare
troppo dalle tue emozioni” lo aveva rimproverato Saji.
“Se ti tagliassi la
gola, amico mio, poi dovrei tagliare anche la mia e far risparmiare a
tutti il
tempo che ci impiegherebbero ad uccidermi” aveva canticchiato
Iren.
“Tagliami questa barba e smettila di fare il
cazzone” aveva replicato lui,
alzando una mano come a scacciare una mosca.
“Poi
ti va di accompagnarmi alla
funzione?” aveva chiesto, mentre recuperava
dell’olio da barba da mettere sulla
sua pelle, era così lento in quell’operazione che
su una guancia si era
seccato.
“Dopo aver piantato la Spiga speravo vivamente di non dover
più partecipare a
queste stronzate” aveva dichiarato Saiji senza vergogna,
ricordando le lunghe
messe a cui era stato costretto a partecipare quando era al castello
dei
Ramberra, a quelle quando era nella Corda e nella spiga. A quante volte
era
dovuto stare ad ascoltare le lamentazioni di Iren stesso.
Il suo amico
aveva emesso uno
sbuffo e le sue labbra si erano arricciate in una smorfia. Saiji sapeva
che la
fede per Iren era una delle poche colonne della sua vita, delle sue
sicurezze,
come ogni bravo Marnimorbide fedele all’Impero. O anche di
più, non era solo la
sua natalità nobile, ma anche il suo sangue, era benedetto.
Iren era stato
educato per tutte le sorelle della sua vita ad essere – e
considerare sé stesso
– un’emanazione divina, aveva anche incontrato la
sua anima condivisa. Qualcosa
che certi uomini cercavano per tutta la vita, senza mai trovarla.
Iren era
benedetto, manimorbide e
fortunato, ma
Saiji sapeva che nonostante questo sorriso del Buon-Dio a modo suo Iren
era
stato tacciato dalla Bizzaria – una che
ad occhio non poteva essere
vista – ma che lo aveva sempre spinto ad aggrapparsi tanto
nel credo per
sopperire l’urgenza che più lo
animava. Una lotta eterna che non avrebbe
mai potuto vincere.
Il suo amico
aveva fatto scivolare
la lama, lungo la carne impomatata e poi aveva sbagliato una pezza in
una
ciotola d’acqua fredda. “Ora sembri esserti
succhiato un paio di sorelle” aveva
considerato il suo amico, passando la stoffa sul collo per pulirla
dall’olio.
Saiji aveva ridacchiato divertito: “Come quando ci siamo
conosciuti?” lo aveva
preso in giro e non sapeva neanche perché. Aveva ricordato,
per un momento,
quella vita distante quando si erano conosciuti, per davvero
– Saiji aveva
saputo dell’esistenza di Iren ben prima del suo amico ed
anche quando lo aveva
visto per la primissima volta, dubitava che il giovane manimorbide si
fosse accorto
di lui. Ricordava in maniera quasi fumosa e distante, la prima volta
che Saiji
lo aveva visto, passare su uno cavallo dal manto sabbia, kaartiano, con
l’espressione altezzosa, mentre varcava la porta grande. Eccolo!
Eccolo!
Gridavano.
Eccolo, aveva
pensato Saiji senza gioia.
Iren grandioso
esattamente come il
più perfetto degli uomini doveva essere, come il dettame
preciso del Giusto
Sentiero aveva prescritto che esistesse. Saiji aveva provato molte e
differenti
emozioni per i figli del destino, per i manimorbide, per chi era uno,
l’altro o
ambedue, su tutte l’invidia era stata la più
dominante, per la mutilazione che
aveva subito, per la mancanza, che anche volendo, anche quando fingeva
che non
fosse di sua importanza, non avrebbe mai potuto riottenere. Era
libero,
così aveva detto una volta la sua marra. Potrai
seguire il sentiero ignoto,
il sentiero che tu vorrai per te stesso, nessuno deciderà
per te, neanche Dio.
Aveva detto piena di innocenza e buona speranza, la sua marra.
Non era vero,
c’erano state altre
infinitesimali varianti da considerare oltre i fiori che sbocciavano
sui petti.
Il colore della pelle, il rango, il cibo, l’educazione.
Avevano preso
Saiji che non aveva
ancora attraversato la sua trentesima sorella e gli avevano dato
un’arma; da
quel momento tutta la sua vita era stata scelta. Nessuna
libertà, neanche per
un uomo mutilato.
Per Iren, invece, non aveva provato semplicemente invidia, la prima
volta che
lo aveva visto, entrare nella città, acclamato come un dio,
per null’altro
merito che ciò con cui era nato, ma annichilimento.
Saiji aveva sentito tutta la sua sbagliataggine.
Iren aveva
riso, con una crudeltà
quasi divertita, “Direi di no!” aveva esclamato,
“Non credo potresti riavere
tutte quelle sorelle” gli aveva detto.
Saiji aveva
aggrottato le
sopracciglia, “Cosa?” aveva chiesto. Iren si era
lasciato cadere sulla sedia
che aveva occupato prima Saiji, mentre aspettava che il suo turno
dall’ornatrice finisse. “La prima volta che ci
siamo visti tu dovevi avere
circa cinquanta sorelle; anche se pensandoci non so quante sorelle
abbia tu
effettivamente” aveva dichiarato Iren senza battere ciglia.
Saiji lo aveva
guardato,
“Centosette, quasi cento-otto il selune del primo ciclo della
prossima sorella”
aveva replicato, “Quindi vuol dire che hai festeggiato
centosette sorelle e non
mi hai detto nulla” aveva quantificato Saiji, quasi
indignato, prima di
scoppiare a ridere, nessuno aveva festeggiato le loro sorelle negli
ultimi
tempi.
“Allora, io ho novantadue sorelle, credo. Il latte potrebbe
aver un po’
annebbiato la mia mente, ecco” aveva cominciato a fare i
conti Iren, usando
anche le dita. Sembrava buffo.
“La
prima volta che ci siamo visti,
io avevo trentasei sorelle e tu cinquanta-due!”
aveva esclamato.
Saiji non la ricordava affatto così, “No! La prima
volta che ci siamo visti tu
avevi settanta sorelle e io ottantadue” aveva risposto Saiji.
Una gioia
prorompente era eruttata
negli occhi grigio-neri di Iren. “Oh, Giardino-Incantato! Tu
non ricordi il
nostro primo incontro. Il grande Saiji Alderichi che tutto sa e tutto
ricorda,
non lo rimembra” aveva esclamato pieno di gioia.
“Davvero?”
aveva chiesto Saiji, che
non riusciva a ricordarlo, “Certo!”
aveva ammesso Iren, “È stato al torneo di Baresana, vicino
Città di Raflesia Alta” aveva
raccontato. Saiji aveva ricordato quell’evento con una
chiarezza quasi
devastante, “Hai partecipato al Torneo degli
Scudieri” aveva ricordato Iren con
una certa meraviglia. “Ho vinto il
torneo” lo aveva corretto con
asprezza Saiji, ricordando quel momento, aveva vinto a duello con una
spada
smussata, “Hai sconfitto
il Gran Bastardo, sì” aveva
ricordato Iren.
Ricordava l’eccitazione, il sole sul viso, il peso della lama
sulle sue mani e
l’acclamazione popolare, oltre che il suo avversario sulla
schiena che
accettava la sconfitta, senza rabbia o rancore.
‘Bel
duello, Alderichi’ aveva detto senza esitazione,
dandoli poi la mano.
Non
era un nobile vero il Gran Bastardo, ma era un manimorbide per sangue
ed
educazione ed era stato il primo a riconoscere Saiji come pari.
“In
quel momento io ero sugli
spalti, con mio zio, che mi aveva chiesto di essere il suo
scudiero” aveva
ricordato con gioia Iren, “Certo, lui ha perso alla prima
lancia contro Cresten
di Rocca Serpillo” aveva terminato meno esuberante.
L’espressione
sul suo viso però era
ancora placida; Saiji ricordava che Iren non usciva molto dalla sua
casa da
bambino, ma forse quella doveva essere stata un’occasione
speciale. Saiji non riusciva
a ricordare che vi fosse nulla di così speciale in quel
torneo, per gli altri,
ovviamente. Per lui lo era stato. Aveva vinto la
mischia degli scudieri,
si era fatto un amico, aveva sperato lo avrebbero ordinato Cavaliere ma
Moria
si era opposto – e quella volta aveva avuto successo
– e gli avevano concesso
un altro premio.
“Sì,
devo ammettere che la tua
vittoria in quel caso fu molto impressionante. Più della
vittoria di Ser Moira
alle lance contro Fjord Altavilla” aveva raccontato, ma anche
in quel caso i
suoi occhi erano scintillati di una piacevole meraviglia.
“Cosa hai avuto come
premio?” aveva chiesto poi Iren, stupendolo, “Non
ricordo affatto, o forse non
lo ho mai saputo. A quell’età pensavo che il mio
peso in torte di zucca fosse
un pagamento accettabile” aveva chiosato.
Saiji aveva
riso, “Volevo essere
cavaliere” aveva dichiarato, “Ma mi hanno detto di
no, che potevo chiedere qualsiasi
altra cosa” aveva ammesso.
Qualsiasi.
Avrebbe potuto chiedere
di essere un eretico libero, di poter lasciare Teschio di Drago,
qualsiasi
cosa, ma voleva solo urtare il suo signore. “Il bacio di una
principessa come
tutti gli aspiranti cavalieri” aveva ricordato, un brivido
aveva attraversato
la sua schiena, a quel ricordo. Era
stato anche prima che cominciasse a partecipare alle Parole Cortesi e
seguisse
tutto il corso necessario.
“Mi
ricordo che al torneo non
mancavano le principesse” aveva considerato Iren, la sua
mente si era fatta
distante e per un secondo aveva ricordato qualcosa che era passato da
tempo.
“Quattro
di nome e due di fatto”
aveva replicato Saiji, ricordando quelle donne. “Sarebbe
stato oltremodo ilare
se avessi baciato la madre del Gran Bastardo” aveva
considerato, pensando alla
principessa Annamrys con quella sua espressione stoica, di chi non si
curava di
aver generato un figlio naturale senza giuste nozze o altro. “Quindi chi hai baciato? La
bella Yorrehim
di
Grandi Querce?”
aveva
domandato divertito Iren.
Il sorriso di Saiji si era spento al ricordo, “Avevo chiesto
una principessa”
aveva replicato cupo e Yorrehim non lo era, non nel titolo almeno,
nonostante fosse
gran-nipote dell’Imperatore Myrto I il Guiscardo.
Ovviamente avrebbe voluto baciare la bella Yorrehim, non
perché la desiderasse
in alcuna maniera, ma perché avrebbe indispettito Moria
più di chiunque altra.
La signora era la figlia di Iseo di Querce Grandi, con sangue
imperiale, ma
sopra ogni cosa: nipote dello scintillante generale.
Iren aveva
riso e per un secondo
era sembrato un suono così genuino e naturale che quasi
aveva inabissato ogni
cattivo pensiero. Figlio del destino, d’altronde.
“Credo
di poter immaginare quale
principessa ti abbia concesso un bacio” aveva considerato.
“Come se una
principessa smaniasse di baciare un senza-dio mezzo eosiano senza nulla
da
offrire perché lo chiedeva. Ci ho guadagnato un man
rovescio, ecco, che premio
ho avuto” aveva mentito.
Aveva mentito parzialmente, “Secondo me, invece, hai avuto un
bacio
dall’arciduchessa” lo aveva provato Iren, che
all’ora era solo principessa.
Sì,
avrebbe dovuto rispondere, ma
non in quell’occasione, diverse sorelle dopo –
più maturi e volontari. La
ragazzina aveva chinato lo sguardo quando l’aveva veduto,
doveva esserle
apparso come un mostro, così selvaggio, rispetto gli altri
fanciulli ben
vestiti. Saiji era stato l’uomo dal sangue più
basso lì presente, non era stato
concesso ai cavalieri erranti di natali bassi di partecipare, figurarsi
ad uno
che era a malapena uno scudiero, ma Moria aveva garantito per lui.
“Hai
ragione, in parte. Dopo la
sberla di Moria la notizia si è comunque diffusa ed una
principessa ha deciso
che meritavo un bacio se era ciò che
avevo chiesto” aveva ammesso. Che
stupido pensiero, che stupida richiesta, che stupido ragazzino. Si
chiedeva
come sarebbe stata la sua vita senza quella richiesta.
“Vedi” aveva replicato
Saiji con una risata, “Cinquantadue sorelle ed un bacio da
una delle fanciulle
più desiderate del mondo” lo aveva preso in giro.
Saiji aveva
guardato le sue guance
nude e scure nel suo riflesso, pulire come quelle di un infante ed
aveva
ricordato tenuamente il contatto tra le labbra, appena un bacio
delicato. “La
fanciulla” aveva corretto Iren, ma il suo tono era stato
basso e poco chiaro.
“Come?” aveva interrogato il suo amico,
“Non hai baciato una delle fanciulle più
desiderate al mondo, ma la fanciulla
più desiderata al mondo” aveva
detto senza calore.
Non sapeva
quale reazione avrebbe
dovuto aspettarsi da Iren, ma non era quella. Il suo viso era rimasto
uguale,
così come il sorriso languido. “Mi hai preso in
giro” aveva riconosciuto Saiji,
“Lo sapevi benissimo, il premio ed il bacio” aveva
considerato, “Lo sapevo. Mi
ero semplicemente chiesto perché non me lo avessi mai detto.
E no, non parlo di
queste ultime sorelle, ma anche delle prime” aveva
considerato, “Io non avrei
esitato nello strofinartelo sul muso” aveva stabilito.
Saiji aveva
ridacchiato, “Se avessi
inforcato l’imperatrice, puoi giurare sul tuo Buon-Signore
che lo avrei detto a
tutti, anche a costo di finire sulla ruota, ma era solo un bacio
innocente”
aveva raccontato alla fine. Il sorriso di Iren non si era incrinato di
un
secondo, così quello di Saiji, anche se un molesto pensiero
dopo tutte quelle
lune lo aveva attraversato. Lo sapevi fin dal principio?
“Mi
accompagnerai alla funzione?” aveva chiesto alla
fine Iren, Saiji aveva annuito, “Sì. Sempre se la
basilica non prenderà fuoco
appena ci metterò piede, resto sempre un principista
senza-dio.”
Si erano
diretti alla Basilica
cittadina; per Saiji percorrere quella strada non era stato diverso, da
prendere alcuna altra via, ma riconosceva che Iren fosse invece molto
più
nervoso. Aveva sentimenti misti sul viso; era stato esuberante
all’idea di
andare ad una funzione, ma ogni passo che si faceva più
vicino, l’incertezza
dirompeva sul viso. D’altronde Iren aveva il suo Principio
personale contro cui
combattere.
Così preso dai suoi pensieri, notava a malapena lo sguardo
rapito dai passanti,
attirati da lui, come i girasoli dal sole. Con i capelli corti ed
ordinati, con
la camisa pulita ocra, nitido e profumato, con un
solo accenno, nel viso
smunto del Latte d’Uccello.
Qualche
sguardo era rivolto anche a
lui: Saiji sapeva di attirare l’attenzione, era alto, eosiano
e con i capelli
rossi e non tutti erano ammirati da queste stranezze come
l’ornatrice.
La Basilica di
Città Azalea
occupava la parte levante della piazza cittadina. Era una struttura
imponente,
grandi quasi quanto quella nel Bocciolo. Una massiccia scalinata di
pietra
calcarea bianca che luccicava sotto il sole, lunga quasi venti gradini,
che
conduceva ad un portico di dodici colonne, disposte in due file da sei.
Erano
altissime, in marmo di breccia color arancio e clasti bianchi, che
terminavano
in capitelli con fiori d’acanto e volute. Sostenevano una
trabeazione
triangolare su cui era stata mosaicata un’immagine di un
giardino con
uomini-fiore. Non riusciva ad immaginare come fosse
l’interno, ma immaginava
dalla stazza, che l’edificio potesse ingoiare tutti i
cittadini, almeno i più rispettabili.
“Splendida” aveva ammesso Saiji, con un tono
leggermente ammirato.
Non era
sicuramente un estimatore
del Credo, ma riconosceva la grandiosità di
un’opera. “Azalea vuole competere
con Il Bocciolo mi sembra di intuire” aveva considerato.
Si era
aspettato una risposta di
Iren, che lo sgridasse o un commento sdegnato sull’opulenza,
ricordando come la
cattedrale di Città Malva come spoglia e semplice, fredda
quasi all’esterno, ma
piena di colore all’interno – non che Saiji lo
avesse mai vista, ma il suo amico
aveva speso tantissimo tempo a descriverla – però
Iren non aveva fiatato.
Sembrava non aver neanche visto il tempio, i suoi occhi guardavano il
centro
della piazza a stella.
Una statua
dominava il centro.
“Ah”
aveva detto Saiji, “L’ultima
volta c’era una raffigurazione a cavallo rampante
dell’Imperatore Selonio III
dei Trittili. Il fondatore della città” aveva
ricordato.
Una statua in
bronzo-nero, di un
vecchio con espressione furiosa e mustacchi spessi ed arricciati sulle
punte,
con una lunga barba a forma di treccia. Con una mano reggeva le redini
di uno
stallone ruspante e con l’altra una spada lunga –
una a doppia presa, ma
l’artista non doveva aver saputo la diversità
– sguainata verso il cielo.
Niente Selonio, però, con i suoi baffi e la sua spada
sbagliata, al suo posto
c’era la sua discendente – di qualche centinaio di
anni e matrimoni scambiati
dopo – l’Imperatrice.
Su di un
piedistallo di pietra
grigia, la Signora del Pregiatissimo Impero, composta di marmo in
cipollino,
dalle tonalità di verde, guardava con severità i
suoi avventori. La
statua conservava l’incondizionata bellezza
di figlia benedetta dell’Imperatrice stessa, la posa in cui
era sistemata
sembrava naturalissima, con le pieghe realistiche della stoffa incise
nel
marmo. Il viso era
dolce, il sorriso
tremolante, appena accennato, a sinonimo di una natura velata e gli
occhi erano
austeri; imprigionati benissimo nello sguardo. Il vestito ricalcava
quello di
una matrona fioriana in tutto punto, con le maniche strette, le spalle
semicoperte
da un fazzolo aderentissimo, che si chiudeva sul petto con la spilla di
un
fiore a due pendenti di perle. Il busto stretto da vespa e i fianchi
larghi,
messi in risalto dal corpetto rigido e la gonna morbida, che scendeva
lungo le
gambe.
In una mano reggeva il globo d’oro del mondo,
nell’altra lo scettro di
girasole, con foglie larghe d’oro, così come i
petali del fiore, che
ricordavano una versione realistica. Altro oro e gemme preziose erano
nella
corona imperiale, una perfetta imitazione di quella originale. Un
anello di
ferro dorato, da cui spuntava al centro un rettangolo su cui erano
incastonate
perle bianche e gemme, circondato, ai lati, da triangoli ed archetti
che si
susseguivano alternandosi – Saiji si era chiesto quanti
audaci ladri avessero perso
le mani per quel tesoro.
Ciò che rovinava l’incanto era data da un viso di
fanciulla, più vicino alle
sorelle che aveva avuto l’Imperatrice quando aveva indossato
la tiara che
quelle che aveva in quel momento, per quanto fosse ben lontana dalla
vecchiaia.
Così
come i capelli, corti appena
sopra le spalle.
Quando era
salita al seggio
imperiale, la Signora non era già più una
fanciulletta, ma portava i capelli
intrecciati come una donna.
“Ha
il taglio della vedova” aveva dichiarato
solenne Iren, con la voce sottile come uno stiletto, come se fosse
sorpreso. “Lei
è vedova” aveva rimarcato Saiji,
“Il dolce imperatore è morto.”
“Cresca
il suo fiore rigoglioso”
aveva sibilato monocorde Iren, senza emozione, senza amore, con gli
occhi scuri
così distanti.
“La
statua le rende abbastanza
giustizia” aveva concesso Saiji, “Non alle sue
tette” aveva risposto Iren.
Si erano lasciati l’austera espressione
dell’Imperatrice alle spalle,
percorrendo la strada verso la basilica, dove un numero non
indifferente di
persone stava virando. Saiji l’aveva guardata ancora una
volta, doveva
ammettere, con sommo rammarico, che per quanto veritiera,
l’immagine non
rendeva giustizia alla sua forma di carne: lo sguardo
dell’Imperatrice era
assai più spietato.
Avevano preso
la scalinata, per
raggiungere l’interno della chiesa, quando Saiji aveva notato
l’ornatrice che
avevano incontrato il giorno prima. Era pochi gradini sopra di loro,
con i
capelli verginali scuri sciolti, tranne che due piccole treccine sulle
orecchie, tirate con un fiocco dietro la nuca. Anche lei li aveva
notati ed era
rimasta ferma, guadagnando qualche spallata poco gentile dai fedeli;
aveva sollevato
la mano e salutato timida, con le guance tonde rosso ciliegia.
Ambedue
avevano ridacchiato; “Che
novità, amico mio, un’altra giovinetta infatuata
di te” aveva considerato
sterline Saiji, pensando alla fanciulla a piccolo pulvino che si era
convinta
di essere l’anima condivisa di Iren solo per averlo veduto.
La divina bellezza
della perfezione!
“Non
questa volta” aveva dichiarato
del tutto consapevole Iren, “La nostra giovane acconciatrice,
ha un interesse
per te” lo aveva pungolato, lasciandosi sfuggire un sorriso
un po’ storto.
Saiji aveva riso, “Povera la sua marra, dunque. Sono
l’incubo di ogni genitore:
mezzo-eosiano, principiente e senza un soldo” aveva
considerato. Iren lo aveva
guardato, “Sei anche un cavaliere. Mia madre sarebbe
felicissima di avere un
cavaliere sull’uscio che corteggia mia sorella”
aveva replicato.
Ah, la sorella
di Iren, argomento
meno spinoso del resto della sua famiglia, ne parlava ben di meno di
quanto
facesse di suo fratello, ma aveva sempre un tono pieno
d’amore e goia quando
rinvangava qualcosa con lei come protagonista.
Saiji
non l’aveva mai veduta di persona, la immaginava come Iren,
altrettanto
benedetta, con gli stessi occhi grigio-nero, il viso pallido come la
polvere di
luna e i capelli scuri come una notte senza stelle, solo più
morbida e
delicata. Doveva essere una fanciulletta, non più bambina.
“Tua
madre era una contadina” aveva
risposto Saiji, ricordando che tra le varie offese che aveva raccolto
dai
Ramberra, ricordava anche quello. Non era una donna ricca di nobili
natali, ma
era stata l’anima condivisa del manimorbide padre di Iren.
“Inoltre,
dubito che il Margravio
avrebbe apprezzato il matrimonio” aveva aggiunto, un
po’ più ferace e
vergognoso, quando aveva visto il viso esangue alla menzione di sua
madre. E
pensare che Saiji avrebbe potuto chiamarla una puttana, come sempre
aveva
sentito Moria definirla, “Tutto ciò che ho
è la mia spada. Ed ora non la
possiedo neanche” aveva replicato, sentendo il fianco vuoto.
Il sorriso di
Iren si era spento,
“Adesso potresti sposarla e a nessuno irriterebbe il naso. Un
cavaliere della
spina che sposa una fanciulla nuda e cruda” aveva
considerato. Una voce
asciutta.
Saiji ne
dubitava, sapeva che la
condizione della ragazzina doveva esser orribilmente mutata nelle
ultime
Sorelle e che il piatto in cui mangiava era terribilmente
più povero di quanto
non fosse mai stato; ma rimaneva comunque una manimorbide, ben lontana
da
essere nuda e cruda, come la pensava Iren. Non era comunque sicuro che
dire
quei pensieri ad alta voce avrebbero rincuorato il suo amico. Era ben
consapevole, che nulla di quello che avrebbe mai detto, avrebbe reso la
mente di
Iren più leggera o non avrebbe avuto bisogno di stordirsi
con il suo veleno.
“Non sono un cavaliere cordato; sono uno spigato che ha
permesso al suo signore
di morire” aveva liquidato la faccenda Saiji, salendo le
scale della chiesa.
Non era la
verità, non del tutto,
non corretta, non giusta, ma sufficiente.
La
verità era sempre impantanata in
luoghi ambigui, aveva detto a Zegros, Sgorbio ed il resto del
Punteruolo che
non era mai stato veramente una Spiga, ma era una menzogna. Lo era
stato ed
aveva fallito. Non c’è onore ad un cavaliere che
sopravvive al suo signore.
Ai tempi del
Florido Impero,
avrebbero dovuto bruciare Saiji con le spoglie mortali
dell’uomo che aveva
giurato di proteggere, ma non c’era stata pira per il Dolce
Imperatore, né
sepolcro.
Iren lo aveva
guardato, Saiji non
aveva avuto dubbi di questo, ma si era sforzato di non voltarsi, poi
aveva
sentito i suoi passi – chiari, nonostante la cacofonia di
quel luogo –
raggiungerlo, silenzioso.
“Non
è colpa tua, è colpa sua”
aveva detto solamente.
Gli occhi
imperiosi della Statua
erano ancora rivolti, austeri, verso il suo popolo.
“Cosa
osservo con questi miei
occhietti!” aveva squittito una voce fin troppo felice, che
si era sollevata
con vigore oltre il resto del ronzio. “Un uomo-d-albume ti
sta chiamando” aveva
considerato Iren, Saiji si era voltato appena in tempo per osservare
Zegros che
sollevava una mano salutandolo. Non sembrava lo stesso ragazzino
incontrato al
bordello qualche luna prima: i vestiti erano lindi di fresco, un
farsetto nuovo
di un colore pervinca, gli stivali di pelle lucidissimi ed anche una
mantella
scura con cappuccio, con cui immaginava dovesse nascondere la pelle
incolore.
Il viso era pulito, lucido e i capelli bianchi ordinati, pettinati in
una coda
alta; sembrava più il figlio di un mercante che un lupo
d’arme. “Mio buon
Saijir!” aveva squittito subito, accogliendolo in un
abbraccio fraterno, alle
sue spalle come una peperella lo aveva seguito un altro ragazzetto
– forse era
una nuova leva del Punteruolo, Saiji lo aveva guardato a malapena.
“L’ultimo
posto dove mi aspettavo di vederti era una chiesa” aveva
ridacchiato il
ragazzino, “Mi piace non essere prevedibile” aveva
mentito.
Zegros aveva sorriso, se fosse stato intenzionato ad aggiungere alcun
chè, gli
occhi chiari erano rimasto impigliati nella figura di Iren. Aveva
battuto le
palpebre un paio di volte, “Oh, avete un
accompagnatore” aveva detto subito,
era rivolto a Saiji, ma i suoi occhi erano ancora incagliati su Iren,
che lo
ricambiava con anonima freddezza.
Iren si era
accorto di quella
morbosità, “Lui ehm …” aveva
cominciato Saiji, “Beren Alderichi, cugino di
Saiji” aveva risposto secco l’altro. Doveva essere
colpa del latte che offuscava
la sua mente. Iren aveva anche allungato una mano, aveva sfoggiato un
sorriso
di vetro, teso, che mancava di tutto quel fascino – ma
l’aspetto incantevole
del manimorbide era astato abbastanza per irretire Zegros.
“Non
vi somigliate molto” aveva
considerato il compagno del lupo d’armi e la voce melodiosa
era stato un
campanello nella sua memoria, Saiji aveva aggrottato le sopracciglia
rosse,
osservandolo meglio. Fioriano-istiano con la pelle olivigna, i ricci
scuri e
gli occhi piuttosto luminosi: era Eleas, con meno trucco e
più indumenti
addosso.
Eleas
indossava una camisa lunga,
verde, leggermente datata, con bottoni di tagua. La veste scendeva fino
alle
cosce, fermata in vita da una cintola di cuoio, sotto indossava una
calzamaglia
nera e gli stivalacci di pelle marrone, più simile ad un
lupo d’armi che di
baci. La sbagliataggine sul suo viso, senza tutta
la cosmesi, appariva
molto più evidente, se nelle luci soffuse della notte, Eleas
era parso
intrigante, in quel momento sembrava quanto mai banale, ma con occhi
vispissimi.
“I
nostri padri erano a loro volta
cugini” aveva considerato Saiji, ammaltando la menzogna.
Aveva distanziato la
loro parentela, per rendere credibile ma menzogna, non solo
perché lui ed Iren
non condividevano una forma, un colore, un dettaglio; Saiji era
vistosamente
eosiano, ma aveva il vigoroso rosso tulpee ghaadiano di suo padre nei
capelli,
come Iren poteva sfoggiare una pelle chiarissima del settentrione.
Abbastanza
ghaadiani – si era detto. “Io sono Zegros Themisio
e questo bisbetico qui è il
mio amico Eleas Dartin” si era presentato
l’uomo-d-albume.
“Un
nome irtoso” aveva considerato
solamente Elas, fastidioso ed attento come ogni lupo di baci,
guadagnando un
colpo di tallone poco gentile da Zegros. Iren nelle sue menzogne aveva
scelto
bene, era cresciuto a Irti Pini e non avrebbe potuto passare per
null’altra
cosa, aveva i capelli lisci del settentrione e la pelle chiara della
maggior
parte della Ghaadia, ma aveva l’accento arso dei suoi
compaesani. “Nome irtoso
per un uomo irtoso. Mia madre era di Irti Pini, così come
suo padre, porto il
suo nome” aveva mentito con scioltezza Iren, quella
particolare fandonia era
una che aveva ripetuto diverse volte nelle ultime sorelle.
Beren di Irti Pini, figlio di una donna irtosa e cresciuto come
paggetto in un
qualche castello – per spiegare le sue conoscenze da mani
morbide.
Zegros non era
stato turbato, o
aveva mentito benissimo con il suo corpo, “Oh ecco,
perché non eri sul pianoro
di Malvasia!” aveva esclamato il giovane lupo
d’armi, sciogliendo la presa
dalla mano di Iren. Il suo amico si era fatto rigido come la corda di
una
cetra, “Punto e morto” aveva risposto secco Saiji,
“Ho ricordi dolci di Irti
Pini e molto rispetto per la buon’anima di mia Zia”
aveva mentito, non con la
stessa leggerezza di Iren, ma abbastanza da essere plausibile, non
poteva osare
troppo: Zegros lo conosceva, conosceva il suo passato con Ser Moria e
la corte
di Grandi Querce. “Cresce vigoroso il suo fiore”
aveva replicato Zegros
guardando Iren, con un sorriso complice, il suo amico era ancora bianco
come un
lenzuolo, ma aveva riacquisito del coraggio.
“Eri
a Malvasia” aveva considerato
Iren, poi, forzando un sorriso di ghiaccio.
“Oh,
sì, sono il Furiere del
Punteruolo di Erzeveka” aveva chiosato immediatamente lui,
sciorinando una
lista delle sue imprese militari – fin troppo gonfia per la
giovane età che
sfoggiava – per impressionare Iren, evitando per bene la
battaglia al pianoro
di Malvasia, che era rimasto ieratico.
Saiji poteva
vedere una battaglia
infuriare in Iren: rimanere in passivo silenzio o sferrare un pugno su
Zegros,
lui sperava decisamente che il suo compagno scegliesse la prima, per
quanto
difficile, avrebbe dovuto dominare quell’angoscia, da
lì in avanti. Saiji aveva
voluto che Iren realizzasse che avrebbero dovuto interagire con il
punteruolo,
aveva anche immaginato che l’aumento del consumo di latte
fosse guidato da
quella prospettiva.
Ovviamente, come ogni volta che doveva confrontarsi con qualcosa di
scomodo,
Iren aveva accantonato il pensiero fino a che non era diventato
impossibile
evitarlo.
Zegros ed Elas
li avevano accompagnati
all’interno della chiesa. Dietro le colonne mastodontiche,
Saiji aveva potuto
riconoscere che la chiesa era divisa in cinque navate, le due
più esterne erano
un unico corridoio colonna dalla forma circolare, avvolgendo le tre
navate che
erano divise da colonne meno mastodontiche, ma più sobrie.
Il pavimento era composto di frammenti di marmi differenti, di ogni
colore
diverso, creando un effetto piacevole di caos.
L’edificio
era splendido, con
colonne di cipollino, finestre ampie sulla parte superiore, il registro
inferiore coperto di iconografie fioriane. Il soffitto a cassettoni
bianco
pallido, con fiori d’oro nel centro. Tutto terminava in
un’abside ampio, con
tre finestre di vetro colorato, intervallato da martiri e santi. Sul
catino,
nella parte superiore. In un mosaico simbolista: Santa Lionah ed il suo
martirio con il fuoco. Una donna pallida, del settentrione, con capelli
biondo
scuro lunghi e spessi come un mantello che coprivano le vergogne del
corpo
nudo, fiamme rosso-aranciato lambivano dai suoi piedi, ma fili
d’edera la
proteggevano.
“So di non essere stato un estimatore delle dottrine. Ma
ricordo che Santa
Lionah era protetta da un caprifoglio rampicante” aveva
sussurrato Saiji
all’orecchio di Iren.
“Sì”
aveva confermato il suo amico placido,
osservando i rami molli dell’edera che si arrampicavano sulle
gambe bianche.
“Forse, l’artista si è
confuso” aveva provato Zegros, “Un artista fioriano
che
sbaglia dei fiori?” aveva chiesto retorico Eleas, dando voce
ai pensieri di
Saiji.
“No,
nell’agiografia di Santa
Lionah è specificato che fosse il glicine a proteggerla. Un
altro nome del
fiore è la pioggia blu” aveva spiegato subito
Iren, tirando fuori le sue
conoscenze religiose.
Anche Saiji
ricordava quel
particolare, se mai, una donna di nome Lionah era stata quasi bruciata
viva,
probabilmente era stata la pioggia a spegnere la sua pira, ma le
narrazioni
fioriane avevano convertito la storia alla loro utilità.
Quella però era edera,
con le sue foglie a tre punte.
Avevano preso
il loro posto, in
piedi. “Non deve essere facile per tuo cugino, dico, in
questo momento” aveva
valutato Elas, “Mezzo impero odia Irti Pini più di
Garlio il
Principio-Incarnato e quelli danno fuoco a donne e bambini, appendo
preti ed
hanno ammazzato il dolce imperatore” aveva ricordato il
lupetto. “Arlo Ceidri”
aveva ricordato Saiji, “Ha ucciso il Dolce Imperatore, io
c’ero” aveva
ricordato con voce atona, ancora bloccata in quella finzione, aveva
ripetuto
quella storia così tante volte da averla cominciata a
trovare plausibile.
“Per il mondo i Principienti sono tutti uguali”
aveva replicato Eleas,
“Comunque, Beren ha sempre avuto un rapporto conflittuale con
Irti Pini,
quindi, non gli tange poi molto” aveva mentito, ancora meno
credibile. Eleas
aveva annuito, prima di guardarlo di nuovo, aggrottando le sopracciglia
scurissime, “Aspetta, eri lì?”
aveva chiesto poi. Saiji aveva annuito,
chinando il capo, “Ero una Spiga, servivo lì.
Servivo il Dolce Imperatore. Ero
al Passo della Laminaceae” aveva raccontato poi,
“Non risponderò ad altre
domande” aveva aggiunto stupidamente, quello che aveva detto
non era una
menzogna, ma si sentiva così sciocco ad averlo detto.
Eleas aveva annuito, “Comunque, c’è una
buona probabilità che anche mio padre
venga da Irti Pini, almeno così teorizzava mia madre, si
può dire che non le
mancassero i sospetti” aveva ammesso con voce bassa quello,
passandosi una mano
tra i capelli. Saiji lo aveva studiato, Eleas aveva un aspetto
assolutamente
istiano, del meridione del continente, mentre gli abitani di Irti Pini
avevano
denotati leggermente diversi, più simili ai ghaadiani e i
Sussuranti, per
quanto meno pallidi. Nulla di Eleas lo sembrava irtoso.
“Comunque,
devo ammettere che non
mi aspettavo di vedere qui ne te ne Zegros” aveva commentato
Saiji, volendo
cambiare discorso da Iren, da Irti Pini e la morte del Dolce Imperatore.
Il Lupo di
Baci aveva ridacchiato:
“Quel guscio-d-uovo è schifosamente credente,
potrebbe passare per un ortodosso
it ghaadiano se mi permetti, io vengo a raccogliere pettegolezzi, si
sussurrano
più segreti qui che nella Serra” aveva risposto
pratico, poi aveva passato una
mano sulla blusa, “Inoltre sotto la luce del sole e vestito
la gente non mi
riconosce mai nessuno.”
“In
effetti: appari abbastanza
anonimo” aveva valutato Saiji, “Lo
prenderò per un complimento” aveva
ridacchiato Eleas, con un sorriso sardonico sul viso.
“Eccola!”
aveva esclamato Zegros
allegro, attirando l’attenzione sia di Saiji, sia di Eleas,
sia di Iren. Il
Lupo d’Armi aveva allungato anche la mano, puntando il dito
verso l’ingresso
della chiesa, anche Saiji si era voltato, con un principio di
curiosità. Sul
deambulatorio era comparso un manipolo di guardie, con la semi-armatura
indossata, sul pettorale era dipinto uno scudo squarciato. Sul primo e
terzo
quadrante c’era un albero di Liriodendro, sul secondo
quadrante il fiore di un’azalea
violacea e sul quarto quadrante una pianta di tamerici. Le guardie,
almeno sei,
erano organizzate come una corona, ma si erano aperte, permettendo di
sbocciare
dal loro interno due figure.
“Quella
è la Signora Misabea Lania,
contessa vedova di Liriodendri Antichi e futura margravia
di Rigogliose
Tamerici” aveva illustrato immediatamente Elas, con una punta
di divertimento
nella voce.
Tre cose erano
spiccate
immediatamente alla mente di Saiji riguardo la contessa vedova: era
pregna, il
suo ventre era gonfio come un otre, che si rifletteva in una camminata
goffa,
nonostante lei stessa si sforzasse di apparire imperiosa, sfoggiava un
taglio
della vedova, i capelli legno bruciato portati molto corti, arrivavano
fin
sotto le orecchie, dove si arricciavano appena, ed aveva un uomo appeso
al suo
braccio che le faceva da perno.
Cartemisio Dhoeri, barone di Aceri Ruggenti. Sbagliato, con le
lentiggini rosa
sulle guance piene, gli occhi scuri brillanti ed i capelli castani con
sfumature ramate, non abbastanza da essere rosso tulpee.
Saiji aveva fatto saettare lo sguardo nella direzione di Iren, rapido
come un
fulmine, aveva ricevuto un’occhiata altrettanto veloce, solo
che negli occhi
nerissimi di Iren vibrava il panico, se fosse stato possibile il volto
chiaro
di Iren si sarebbe fatto ancora più smorto, come ossa.
Cartemisio di
Aceri Ruggenti conosceva
Saiji, ovviamente lui si era fatto una certa fama, ma non era un
problema, lo
era molto di più il fatto che conosceva Iren, lo conoscesse
così bene da
poterlo riconoscere probabilmente con uno sguardo, un po’
più attento.
Iren si era
spostato, era più alto
di Zegros, che era un ragazzino di neanche ottanta sorelle, con un
temperamento
da lupo d’arme ma con una natura che non lo aveva favorito
affatto, ma aveva
cercato in ogni modo di sfruttarlo come una copertura, per sfuggire al
casuale
sguardo di Cartemisio. L’aspetto meticcio di Iren non era
così evidente, aveva
la pelle bianca come la neve, ma i suoi capelli erano scuri,
però era splendido
– i figli benedetti attiravano sempre lo sguardo –
e si accompagnava con un
uomo-incompleto ed un mezzo-eosiano dai capelli di sangue e la pelle
scura come
lo zucchero, particolarmente alto. Come lo aveva definito duchessa
Candeia –
moglie di Iseo Ramberra – Saiji tendeva a spiccare come una
rosa in un mazzo di
pratoline, assieme all’uomo-dal-albume doveva apparire come
un faro sul mare di
notte; decise di non nascondersi, Elas era diverse teste più
basso di lui, la
cosa non avrebbe avuto comunque senso.
Aveva saputo
di aver guadagnato lo
sguardo di Cartemisio su di sé, nel momento in cui
l’uomo, elegante e posato
come solo un manimorbide poteva essere, era sfilato nel corridoio
centrale
della navata, sul tappetto rosso, accompagnandosi alla vedova.
“Il
barone era un buon amico del defunto
conte, pare. Il nobile Dhoeris è qui per sostenere la vedova
in un momento così
delicato. Il conte è deceduto alla piana di
Malvasia” aveva cominciato a
spiegare Elas pratico, “Se vuoi la verità, il buon
barone speri di diventare un
uomo molto ricco” aveva aggiunto.
“Il Marchesato di Rigogliose Tamerici ha le terre
più fertili di tutto
l’Impero. Ed il Contado di Liriodendro, con la sua bella
città di Azalea, è uno
snodo commerciale, proprio sulla via Cartiana” aveva ripreso,
“Di rimando il
baronato di Aceri Ruggenti ha una storia che farebbe impallidire i
migliori,
tre dei Dhoeri hanno indossato l’Aspra Corona, ma le loro
terre sono secche, i
loro alberi magri e le loro casse vuote da un pezzo” aveva
detto furbo il
lupetto, “Quattro Sorelle fa, il Bimonte, il fiume che
passava per la loro
città principale, ha subito un crollo, che ne ha deviato un
pezzo. La gente
chiama la terra degli Aceri, la terra dei Ceri,
ora”.
“Tu sai tante cose, per una terrà così
a settentrione” aveva voluto Saiji, non
così impressionato, non c’erano reali
novità, che le casse e gli introiti dei
Dhoeri fossero secchi come le sterparglie nella vivace più
calda, era un fatto
noto.
Cartemisio
Dhoeri era un
manimorbide, oltre il decadente, quasi decaduto, con una
città ornata di
ricordi e gloriose memorie, con poco da parte. Ogni orpello che aveva
reso
grande Città Iris era scomparso da un pezzo. Il bronzo
rifuse, come i
candelabri d’oro, il ferro, il rame. Anche i marmi pregiati
spogliati,
sostituiti con pietre carlcaree, dipinte. La terra dei Ceri e la
città Nuda.
Però a Cartemisio Dhoeri restava il suo cognome, che era
appartenuto ad una
gente così pregiata da aver avuto risalto durante
l’epoca del Florido Impero –
nella sua discendenza sì – ed alcuni degli uomini,
di cui gli attuali Dhoeri
erano un ramo cadetto sopravvissuto – si erano chiamati
Imperatori.
A volte un
nome aveva anche più
valore dell’oro sonante.
“Sono
tutte congetture della
Signora Lues” aveva dichiarato Elas, “Lei
è una maestra nell’arte della lettura
degli uomini, o sicuro più di me” aveva detto,
“Io leggo solo se l’uomo davanti
a me vuole uccidermi e scoparmi. Troverebbe surreale, mio signore,
quanti
vogliano ambedue le cose insieme.”
Saiji aveva
aggrottato le
sopracciglia, pensando alla sua sarra eosiana, Lues, con quel suo
sorriso
affascinante e gli occhi così simili a quella della sua
Marra, l’aveva
giudicata una donna svelta e capace, ma forse, doveva rivalutare le sue
capacità.
Era un
pensiero vile, il suo,
perché Saiji sapeva di conoscere più
realtà di quanto Lues avrebbe mai potuto
raccogliere dai sussurri del suo lupanare.
“Non
credo” aveva detto Saiji alla
fine, “Che certi uomini vorrebbero scoparmi e uccidermi?
Sì, lo vogliono,
perché provano vergogna dei loro desideri, così
vorrebbero scoparmi per
sfamarsi della loro fame ed trucidarmi per la loro penitenza”
aveva risposto
quasi indignato il ragazzo.
Saiji si era
distratto,
sull’elucubrazioni sul conte Cartemisio Dhoeri da aver
perduto l’ultimo
segmento della loro conversazione, “Perdonatemi”
aveva ammesso, “Parlavo del
nobile Cartemisio” aveva aggiunto.
“Lo conosci?” aveva chiesto Elas, tutto il suo
malumore inghiottito e la brama
di informazioni infiammata sul viso, oh giovane affamato.
“Ho
avuto modo di sentire parlare
di lui, quando ero cordato” aveva mentito Saiji. Cartemisio
aveva smesso di
guardarlo, per accomodarsi accanto alla sua pregna amica vedova.
Sul nobile
uomo potevano essere
detto moltissime cose, alcune piuttosto cattive, ma su una cosa Saiji
era
certo: non era un cacciatore di ricchezze. Non ne aveva né
la stoffa
nell’indole; non mancava di intelligenza, quello no, ma non
era né furbo né
ammaliante, di rimando era testardo come un vecchio mulo. “Ha
conosciuto molte
persone interessanti” aveva detto Elas, “O servito
molte persone interessanti”
aveva risposto lui con voce calma, “Vorrei dire anche io, ma
ho servito gente
per lo più disgustosa” aveva replicato, prima di
lanciare uno sguardo verso
Zegros che di rimando sembrava ascoltare le chiacchiere di Iren, che
aveva
ripreso un colore genuinamente umano e stava spiegando probabilmente
qualcosa
in relazione all’iconografia, con il suo bagaglio culturale
da manimorbide
perfettamente istruito. Probabilmente per rifuggire all’idea
di Cartemisio
Dhoeri. “Per lo più?” aveva chiesto
retorico, un sorriso con allegrezza si era
aperto sul suo viso.
C’era stato un signore che si era voltato verso di loro,
probabilmente indispettito
dalle loro chiacchiere, ma prima che potesse parlare per rimproverarli,
con la
bocca già aperta in una maldicenza, Elas lo aveva zittito,
“Non
vuoi dirlo, Anvien” aveva
detto secco.
L’uomo
aveva spalancato le
sopracciglia scure, quasi sconvolto che quello sapesse il suo nome,
“Come?”
aveva sibilato piano, “Lavoro con Caitana” aveva
detto secco, il viso dell’uomo
era passato dal pallido esangue, fino al vibrante rosso pieno della
vergogna ed
era tornato a dar loro la schiena con gli occhi bassi, pieno di
vergogna.
“Quindi il buon Barone è un uomo come si
deve?” aveva chiesto Elas, affamato di
voci.
“Ne esistono?” aveva risposto di rimando Saiji, il
lupo aveva sorriso.
Il prete della
città aveva
cominciato il suo sermone, ma non prima che la Signora della
Città, desse il
suo benestare, con un gesto gentile. Il suo rango e la sua condizione
la
portavano a poter occupare una delle panche presenti nella chiesa e
Cartemisio
non si era seduto lontano da lei, proprio alla prima fila con gli occhi
rivolti
al catino, li dove l’edera cresceva in mattoncini da mosaico.
Non ricordava
molto del Conte di
Liodendri, “Da quanto ci sono edere al posto della Pioggia
Blu?” aveva chiesto
ad Elas, “Da quando il dolce imperatore è morto,
ovviamente” aveva risposto
Elas.
Solo un
tributo, dunque, non una
dichiarazione di intenti.
Eppure, non
riusciva a togliere
sgradevoli pensieri dalla sua memoria, da un lato pensava alla statua
in
cipollino, imperiosa dell’imperatrice con il globo del mondo
e lo scettro del
girasole che con occhi severi guardava il popolo, rivolta proprio verso
la
chiesa, dove il mosaico absidale mostrava l’edera proteggere
una santa dal suo
martirio.
Gethren Rastia era morto, ma non tutto di lui lo era, ancora le sue
idee e la
sua ribellione ribollivano sotto i pasciuti manimorbidi. Forse non era
il caso
che il defunto Conte fosse morto a Malvasia, non aveva combattuto per
il
Margravio o difficilmente non lo avrebbe saputo o la sua vedova avesse
potuto
tenere il titolo o la città, ma forse era stato aderente a
Gathren il
traditore.
Con quei
pensieri in testa aveva
perso tutto il discorso del prete, fino a che non aveva potuto sentire
un
piccolo singhiozzo al suo fianco, si era voltato ed aveva visto che
Iren scosso
da un singulto, aveva chiuso un pugno sul viso e gli occhi erano
strizzati.
Zagreo era
pallido al suo fianco
sconvolto, da quell’improvvisa emotività,
“Ma cosa …?” aveva provato Saiji.
Iren aveva aperto gli occhi verso di lui, screziati di rosso, lucidi,
sul viso
pallido come un cero, per un secondo era stato convinto fosse sul punto
di
ricadere nella Sdregolatezza. Ma poi aveva visto anche le lacrime
scorrere giù
dagli occhi sulle guance magre; Zegros si era sporto per poter
sussurrare
qualcosa all’orecchio di Iren, forse per consolarlo, ma non
aveva ottenuto
nulla. Saiji era rimasto impotente, nervoso, un pensiero stupido ed
infantile
aveva animato la sua mente: Adda! Adda avrebbe
capito!
Aveva
allungato una mano timorosa e
con movimenti indolenti e rigidi aveva accarezzato la nuca di Iren,
come fosse
stato un cane.
“…
Mai più di ora, il Principio è
stato così vicino da lambirci, ma è nostro dovere
rimanere uniti, rimanere
fedeli, contro tutta questa così dilagante sedizione che ci
attanaglia …” aveva
ascoltato frammentariamente
Saiji, il
discorso del prete.
“Bergen
è un uomo molto sensibile”
aveva considerato Elas, “Quel vecchio porco – e non
lo dico a cuor leggero – di
Artion, fa questa predica ogni seconda messa del quinlune,
ma non avevo
mai visto nessuno piangerci sopra.”
Aveva pensato alle notti nella brughiera e i suoi discorsi, forse non
era
ancora pronto a lasciare alle spalle certe parte di sé,
“Certi uomini non hanno
che la loro devozione” aveva commentato Saiji e non era una
menzogna. Forse non
era una male, aveva pensato, doveva essere bello credere in qualcosa di
diverso
dalla lama della propria spada.
Quando si era accorto del suo sguardo e quello di Elas, oltre che la
preoccupazione
sdolcinata di Zegros, Iren aveva smesso di singhiozzare, ma aveva
ancora il
viso bello nascosto dalle mani bianche e piccoli singulti che facevano
tremare
le sue spalle. Saiji riusciva ad immaginare che in quella situazione,
forse
Adda lo avrebbe abbracciato, forse, così aveva allungato una
mano per carezzare
i capelli tagliati di fresco, con un movimento tutt’altro che
delicato – non
era pratico.
Il resto del
sermone era scivolato
via dalle sue orecchie senza piantarsi, come semplice rumore di fondo.
Iren si
era voltato verso di lui, togliendo le mani dal viso cinereo, si era
forzato di
sorridere, con gli occhi umidi di lgrime, Saiji lo aveva guardato con
serietà,
con un sorriso stanco, prima di tornare a guardare nelle prime file
dove la
vedova di Azalea e Cartemisio sedevano l’uno al fianco
dell’altro.
Saiji era
dannatamente certo che
Cartemisio lo avesse riconosciuto, quando i loro occhi si erano
incrociati. Non
erano stati di certo amici, probabilmente non erano neanche stati
conoscenti,
avevano occupato gli stesi ambienti, Saiji lo aveva battuto in una
mischia una
volta da adulti e lo aveva fatto cadere da cavallo durante il torneo
degli
scudieri quando erano ragazzini – Cartemisio non era mai
stato uomo con
attitudini a quel genere di attività, ma il suo vecchio lo
aveva sempre
obbligato.
Saiji aveva
imparato sulla propria
carne che bisognava far attenzione ai manimorbide a cui si faceva
inghiottire
la terra spazzata dalle zampe di una cavalcatura, perché
erano più potenti e
pericolosi di quanto avrebbe potuto essere lui, anche senza lancia e
spada e
non tutti somigliavano ad Enneo dei Carti, che
rideva divertito delle
sue cadute, senza preoccupazione alcuna.
Cartemisio non
aveva riso della sua
sconfitta, ma aveva avuto il viso dipinto del rosso polposo
dell’imbarazzo, ma
non per essere stato sconfitto da una melanzana cagliata come lui,
‘Oh, che
disgraziato che sono’ si era lamentato melodrammatico, sotto
lo sguardo offeso
dell’allora Barone. Cartemisio non sembrava poi troppo
turbato della sua
incapacità in duello, ‘comprendimi amico,
dopo, dovrò strapazzarti per bene
… Sono un Manimorbide, ho una reputazione da difendere’
gli aveva detto
poi, ‘Ma senza rancore’.
Saiji immaginava che anche Cartemisio avesse dovuto prendere parte alla
battaglia alla piana di Malvasia, ma non riusciva a vederlo scendere
dal suo
cavallo di stirpe errante, che guardava la battaglia senza colpo
ferire, in
compagnia degli altri manimorbide, con l’eccezione di Moira,
ovviamente, e di
Gathren.
Il vecchio
prete aveva augurato
loro un felice Incedere nel Sentiero Giusto, dopo una lunga litania che
aveva
sciolto Saiji fino alle sue ginocchia. Non aveva ascoltato nulla della
nenia
dell’uomo di culto, ma sentiva comunque la testa pesante da
tutto quel
chiacchiericcio. Un ronzio fastidioso rimasto attaccato alle sue
orecchie, come
una zanzara nel cuore della notte.
Saiji si era
lasciato guidare dalla
folla, come una mandria di pecore, per l’uscita. Iren ancora
toccato dalle
parole del sermone era taciturno con gli occhi lucidi, accerchiato da
Zegros
che lo seguiva calamitato dalla sua presenza. Elas invece si era
separato, era
sgusciato veloce via, tra la folla, forse ben interessato a nutrirsi
del
chiacchiericcio della folla. Durante la funzione solo qualche mormorio
si era
alzato durante il sermone, ma in quel momento le parole della folla
riempivano
con voce alta tutto l’ambiente della cattedrale.
Perfino Iren poteva sentire in quelle chiacchiere qualche affare
vagamente
interessante, immaginava che per Elas quelle confidenze dovessero
essere
piuttosto succose, da far guadagnare qualche moneta in meno sul suo
contratto
con Lues.
“Seeer
Saaaijiii! Seeerr” si era
sentito chiamare a pieni polmoni, da una voce acuta che aveva superato
la
folla, Saiji si era voltato osservando l’ornatrice sgomitare
tra la folla per
raggiungerlo, con la gonna sollevata, lasciando scoperte le caviglie,
mentre
scendeva a grandi falcate le scalinate di marmo della cattedrale. Non
aveva
caviglie nude, ma dentro le pianelle, alte con il tacco a zeppa di
sughero,
sfavillava una calza bianco perla con decorazioni floreali in blu.
“Oh Ser
Saiji!” aveva ghignato allegra quando l’aveva
riconosciuto.
“Mia signora” aveva detto lui, osservandola.
L’Ornatrice, rispetto il taglio dei
capelli, era vestita con abiti più pregiati, un vestito
pervinca con clavi blu,
il busto stretto alla vita e la gonna leggermente gonfia sui fianchi.
Le spalle
erano semi scoperte, nascosto dal fazzolo semi-opalescente ocra. I
capelli
scuri erano decisamente più ricci, ma portati sciolti, per
segnalare la sua
disponibilità, con piccoli boccioli azzurri tra i capelli.
Saiji aveva chinato il capo, piuttosto incerto su come doveva
rivolgersi a lei,
l’Ornatrice era una donna libera, non era soggetta a
servitù-debitoria,
probabilmente era di nascita pura, per quanto non fosse fioriana per
intero era
ancora molto più fioriana di lui, normalmente Saiji sarebbe
stato considerato
più in basso di lei, ma lui era un cavaliere, nominato da
uno dei duchi
maggiori del pregiatissimo impero dei fiori, aveva fatto da
palafreniere allo
Scintillante Generale, aveva baciato la donna più desiderata
del mondo,
ed era stato lo scudo giurato del Dolce Imperatore, una volta. Sebbene
quel
Saiji lì, era rimasto sepolto, con la Corda, con la Spiga e
con i sogni di
gloria, ma pur sempre un cavaliere e la ragazza non era una signora, ma
Moira
si era impegnato perché Saiji fosse almeno un po’
istruito nelle maniere
cortesi, lo aveva anche costretto a partecipare alle parole cortesi.
Ricordava ancora i sorrisi della Nobile Nervia pieni di imbarazzo
quando lui
recitava i suoi miseri versi alla sua bellezza e la sua dolcezza
– ricordava
quanto si era sentito sciocco nel pronunciare quelle parole.
L’Ornatrice con un sorriso pieno e le labbra dipinte di rosa
aveva attirato
nuovamente la sua attenzione: “Mi chiedevo se lei, ser, ed il
suo buon amico,
voleste dividere dei pandolci con me e mio cugino” aveva
chiesto con un tono
dolce, inclinando appena il capo, per osservare Iren.
Il ragazzo era
in disparte che gli
osservava attenti, con ancora gli occhi lucidi, in compagnia di Zegros.
“Come?”
aveva chiesto incerto
Saiji.
Avrebbe dovuto
rifiutare senza
ombra di dubbio, ma era decisamente sconvolto che una fanciulletta
libera fosse
così sfacciata.
L’Ornatrice
aveva sollevato lo
sguardo verso di lui, aveva occhi scintillanti di un colore ambra
lucido, con
punte quasi d’arancio, che tradivano le gocce di sangue
colomynato. “Non credo
che la tua famiglia approverebbe un vagabondare con un mezzo eosiano di
padre
ignoto” aveva buttato fuori. L’Ornatrice aveva
battuto le ciglia scure, colta
di sorpresa da quella risposta, aveva schiuso le labbra poi, sottili
come fili
di cotone, “Mio cugino non vede in questo nulla di
sconveniente” aveva
spiegato, ammiccando poi ad un giovane che stava scendendo lento
giù delle
scale.
Differentemente
dal viso lungo
cyrasti di lei, il cugino era tutto istiano, con il viso tondo ed un
naso da
topo, aveva ricci nerissimi, stretti e lunghi che arrivavano alle
spalle. Aveva
occhi a palla, marcati da nere occhiaie, con l’espressione
fiacca sul volto. E
lattiginoso.
Saiji avrebbe
riconosciuto gli
effetti del Latte d’Uccello su chiunque dopo i lunghi cicli
con Iren. Il cugino
de L’Ornatrice riverberava in quello stato leggermente
oscurato dalla
leggerezza del Latte, che permetteva ai pensieri di sfuggire alla
mente,
rendeva il corpo molle e una contentezza irrequieta nelle labbra
tremolanti.
“Domani” si era intromesso Iren, allacciando un
braccio intorno al suo collo
con un gesto fraterno, “Se non ricordo male domani
è la seconda silune del
primo ciclo
della Pallida. La festa di Santa Suranna delle margherite
pallide” aveva
aggiunto.
Saiji aveva
aggrottato le
sopracciglia, aveva ricevuto anche lui una certa educazione religiosa
ma non
era sicura di ricordarsi tutti i santi comandati. Inoltre, da che
ricordava
Saiji c’erano pochi festeggiamenti nella Sorella Pallida,
rispetto alla Sorella
Fredda, dove più che festeggiamenti c’erano
ricorrenze e promesse di tempi
migliori. Durante la Fredda le piante erano spoglie, venti algidi e
nevi
pesanti coprivano gran parte dell’impero, la terra umida era
morta e tutta la
vita soffocata. Perciò Saiji era abituato a vedere candele,
ceri e preghiere,
in feste che nulla avevano di festoso, ma che chiedevano piccole gioie.
L’Ornatrice
aveva sorriso e poi
aveva cinguettato: “Sì”, dopo una pausa
aveva ripreso: “Inoltre, al palazzo la
Baronessa apre il giardino della Casa Padronale, al popolo. In
verità, è per
ascoltare le lamentele dei cittadini, ma è possibile
passeggiare” aveva
considerato con voce quasi divertita. “Possiamo mangiare
delle castagne tostate
con vino fermentato o alcuni datteri, tardivi, ricoperti di
miele” aveva
sospirato l’Ornatrice. Saiji aveva forzato un sorriso freddo,
che era decisamente
meno scintillante di quello, “Sarebbe fantastico”
aveva dichiarato alla fine.
L’Ornatrice
era sembrata
soddisfatta della risposta: “Meraviglioso, ser. Alla decima
ora, dunque, sul
lato est di Ponte di Giada, è il più grande della
città, collega la via
Pennatosetta verde, quella che parte della porta occidentale, con la
via
Sinuata viola, che conduce all’ingresso della dimora
baronale” aveva spiegato
pratica.
Il cugino, sebbene ancora cotto dagli effetti del Latte
d’Uccello, si era
avvicinato, forse risvegliato leggermente dal suo torpore, aveva
permesso alla
sua razionalità di riaffiorare, così aveva
realizzato che sua cugina si fosse
dilettata in lunghe chiacchiere con due sconosciuti
dall’aspetto poco
raccomandabile. “Come sei diligente” aveva
considerato Iren, con un tono privo
di tutto il suo fascino.
Il cugino
l’aveva richiamata, con
labbra e voce piene di pastosità. L’Ornatrice era
arrossita piena di imbarazzo,
“Obbligata” aveva detto a loro con gentilezza,
dilettandosi in un inchino
appena accennato, prima di allontanarsi.
“Ti
avevo detto che si fosse
infatuata di te” aveva risposto Iren, con un divertimento
quasi meschino, che
mal si associava a lui. “Sono sconvolto anche io di
questo” aveva valutato
Saiji, con onestà. “Di solito sono tutte infatuate
di te” aveva considerato
Saiji.
Iren aveva
ridacchiato con un certo
divertimento, “Forse ha il gusto per la Bizzarria”
aveva proposto. “Da
fanciullo, ogni volta che guardavo troppo a lungo una ragazza, questa
scappava
terrorizzata che potessi rubargli l’anima” aveva
raccontato Saiji.
Questo era
stato dopo essere stato
accolto dai Ramberra; ogni ragazzina del palazzo era stata terrorizzata
da lui,
un eosiano, bastardo, senza fiore. Bia – l’altra
bastarda – la coppiera era stata
la prima a non scappare. “Non ci credo che Adda sia fuggita
da te” aveva
considerato Iren vago.
Dipende da quale volta. Aveva pensato Saiji, “Lo ha fatto
anche lei. Almeno una
volta” aveva ammesso. Questo aveva confuso per un secondo il
suo amico, sul viso
bello era balenato un’espressione piena di confusione.
“Scusa ma giusto sta
mani rivangavamo di quando hai ricevuto un bacio
dall’imperatrice” aveva
ricordato Iren.
“Avevo
vinto il torneo” gli aveva
ricordato.
“Tu …
tu vuoi andare?” aveva indagato, poi,
Iren, con un viso di bronzo, rimanendo appiccicato a lui. Saiji si era
sottratto da quella presa fraterna, cominciando a trovarla invadente.
Provava
fiducia in Iren, quando non era annebbiato dal Latte, abbastanza
perché potesse
dormire con il suo respiro contro la nuca, nelle notti buie, da non
temere la
sua vita.
Si era chiesto
se avesse dovuto o
meno andare, non aveva mai pensato di maritarsi. Ricordava che una
volta Moria
gli aveva proposto di sposare Adda, quando le era stato concesso il
ruolo di Dama
della Camera. ‘Penso che ora sia alla tua altezza’
aveva considerato.
Che immagine
bislacca, aveva
pensato e non aveva risposto chiaramente, dicendo che avrebbe dovuto
pensarci.
Aveva studiacchiato Adda chiedendosi se avessero potuto funzionare, la
sua amica
sarebbe stata così buona e gentile, da farlo sentire quasi
in colpa. Quella
stessa notte la Nobile Nervia lo aveva baciato con audacia che mal si
sposava
ad una signora del suo rango, ‘Non hai recitato che le mie
labbra dovevano
essere morbide come la crema?’ lo aveva stuzzicato lei.
Il giorno dopo
aveva comunicato a
Moria che non aveva l’intenzione di maritarsi per quel tempo,
che aveva un
mestiere più importante. Non aveva parlato né di
Adda, né di Nervia – non che
mai avesse potuto sposarla.
“No” aveva confermato Saiji. Non erano per lui pan
dolci, datteri tostati e
passeggiate nei giardini.
‘Sono lieto di sentirlo, ho in mente una sposa
più adatta per te.”
Zegros si era
affacciato di nuovo,
aveva recuperato Eleas, “Noi pensavamo di andare a cercare
qualcosa da
mangiare” aveva dichiarato il lupo d’arme.
“Qui vicino, conosco un posto dove
fanno una purea di ceci che sembra cibo vero che viene solo qualche
margherita”
aveva dichiarato l’altro lupo. “Se fanno anche
della carne, sono venduto” aveva
dichiarato Saij. “Mica sono così ricco da potermi
permettere la carne” aveva
detto Zegros, con un sorriso tranquillo, come se la cosa non lo
turbasse
davvero. “Una fortuna che noi abbiamo invece qualche
damigella di cui servirci”
aveva replicato Iren, aveva ancora gli occhi lagrimosi, ma la sua
espressione
aveva recuperato una parvenza di leggerezza; Saij lo aveva rimproverato
con lo
sguardo. “Allora lascia che ti porti alla Serra,
lì non mancheranno dame per le
tue damigelle” aveva ribeccato Eleas.
Ma il loro
allegro chiacchiericcio
era stato interrotto dall’arrivo di due soldati ben piazzati,
che sulla blusa
portavano cucito uno scudo squartato. Sul primo e sul terzo quadrante
c’era la
Foglia a quattro punte, d’oro, del Liodeandro, alternata
– nel secondo e nel quarto
– con la Violetta-del-pensiero. La guardia cittadina di
Città Viola.
Saiji non
aveva vissuto con
l’illusione di essersi salvato allo sguardo del buon
Cartemisio.
“Problemi?” aveva sussurrato Zegros, osservando i
due uomini.
Saiji aveva
sentito la mano di
Iren, stringersi sulla stoffa che copriva la sua schiena pieno di
nervosismo.
“Sir
Saiji Alderichi, la Signora
desidera vedervi” aveva stabilito l’uomo.
Aveva la netta
impressione che a
volerlo incontrare non fosse la Vedova della città, ma il
suo appassionato
spasimante
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