Il caso dell'acino d'uva

di Eris_artem
(/viewuser.php?uid=1169218)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo – Un incontro inatteso ***
Capitolo 2: *** 1. Un caso atteso ***
Capitolo 3: *** 2. Alpha idioti a Scotland Yard ***
Capitolo 4: *** 3. Alpha idioti ovunque ***



Capitolo 1
*** Prologo – Un incontro inatteso ***


Prologo

Un incontro inatteso

 

 

 

 

L’incontro con Mike Stamford di quella mattina poteva definirsi inatteso.

Anzi, se il dottor Watson fosse stato più incline all’audacia avrebbe potuto riconoscere con se stesso che la parola migliore era indesiderato. Confessione non facile, dal momento che lui e Mike erano stati buoni amici ai tempi dell’università, e per la verità anche dopo. Ma quali che fossero le sue inclinazioni di un tempo, i casi più recenti in cui era rimasto coinvolto erano riusciti a spazzarne via anche il ricordo, o quasi.

Ecco perché aveva risposto con un sorriso di circostanza e un mezzo grugnito, quando aveva udito il suo vecchio amico chiamarlo da lontano: «John! John Watson!». 

Erano seguiti minuti di autentico imbarazzo, da parte di John. Stamford, dal canto suo, sembrava  invece intenzionato a non notare che il suo vecchio amico rispondeva a monosillabi e sentiva in continuazione la necessità di appoggiarsi alla stampella.

«Ho sentito che ti sei fatto sparare», aveva buttato lì a un certo punto. Con un tono un po’ troppo giulivo perché Watson potesse semplicemente passarci sopra.

«Mi hanno sparato» aveva risposto seccamente.

«Brutta faccenda, eh» aveva continuato Stamford. Il suo tono non si decideva a cambiare. «E dimmi, questa convalescenza londinese? Che te ne pare della buona vecchia capitale?»

«Più umida di come la ricordavo» aveva risposto Watson. «E più grigia».

Mike non si era fatto scoraggiare. Doveva essere davvero contento di rivederlo, perché invece di lasciarlo zoppicare via aveva insistito tanto per prendere almeno un caffè insieme, in nome dei vecchi tempi.

Watson si era trovato suo malgrado bloccato su una panchina, la gamba sinistra sempre più indolenzita e un neonato istinto omicida nei confronti di un uomo che non avrebbe mai pensato di odiare.

Parlare di sé e della guerra, in quella circostanza, era l’ultima cosa che desiderasse. Infatti fu la prima di cui Stamford gli chiese.

«Brutta faccenda questo Afghanistan, John. Una terra pericolosa per chiunque di questi tempi, figurarsi per… beh, voglio dire, non sono sorpreso che tu abbia preferito tornare a Londra»

John si era risentito. «Non sarei tornato. Mi hanno congedato»

«Sempre il solito eroe!» Il buonumore di Stamford era resistente. Un vero peccato che non fosse anche contagioso. «E di’ un po’, non ti sei trovato qualcuno nell’esercito? No eh? Il solito spirito libero!»

Il sorriso di John si era fatto ancora più amaro, se possibile. Trovarsi qualcuno in quel momento della sua vita non era certo una priorità e forse, considerando quel che c’era da considerare, non era nemmeno una possibilità. Certo era che avrebbe preferito parlare di qualunque altra cosa.

«Sto cercando casa» aveva buttato lì. «L’appartamento in cui sto adesso è troppo… voglio dire, non ci sto troppo bene. Sai, la solitudine dopo un po’…».

Un lampo di comprensione aveva attraversato gli occhi di Stamford. «Oh. Certo. Capisco», aveva borbottato, forse a disagio per la prima volta dall’inizio della loro conversazione. «Hai chiesto a Harry? No… Lo immaginavo. Beh, se stai cercando un coinquilino, forse posso aiutarti!»

«Davvero?» aveva chiesto Watson, poco convinto.

«Oh sì! Conosco un tizio che fa proprio al caso tuo!»


 




Nota dell'autrice

La storia che inizia qui è ambientata in un mondo parzialmente diverso da quello reale. È una omega!verse, il che, per chi non lo sapesse, significa che gli esseri umani si dividono in alpha, omega e beta – e i rapporti tra i tre "generi" seguono dinamiche particolari, che vi invito a cercare qualora non le conosceste. Le differenze col mondo reale non finiscono qui:
 la geografia politica, ad esempio, è diversa da quella reale, come risulterà evidente nei prossimi capitoli.
Per evitare di appesantire la lettura con informazioni non strettamente necessarie ai fini della trama, le eventuali precisazioni e curiosità sull’ambientazione saranno sempre inserite alla fine del capitolo.

Buona lettura!

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** 1. Un caso atteso ***


Capitolo Primo

Un caso atteso

 

 

 

Un paio d’ore dopo l’incontro fortuito con Stamford, il dottor Watson si trovava − affamato e quantomai perplesso − nel disimpegno di un grazioso vecchio appartamento. 

La mano sinistra reggeva la stampella, la destra un ombrello bagnato. Non sapeva dove appoggiare il cappotto. La signora Qualcosa, la padrona di casa, non se ne curava, impegnata com’era ad intrattenerlo con chiacchiere che lui faticava a seguire:

«Vedrà, non tarderà. Non che sia sempre puntuale… Santo cielo, sapesse quanto ho dovuto aspettarlo quella volta a Orlando! Più di sette ore bloccata in quel tribunale americano, una vera indecenza. Deve credermi, caro dottore, quando le dico che non c’è da fidarsi degli americani. Quando penso ai tormenti che ho patito a causa della loro burocrazia! E dire che si trattava di una questione tanto semplice. Ora non vorrei annoiarla, caro, ma deve sapere che la loro idea di giustizia è così primitiva. Naturalmente, questo a volte è molto utile… oh! Credo che il caro Sherlock abbia finito! Avevo immaginato che quella povera signorina l’avrebbe annoiato in fretta. Sia così cortese da aspettarmi qui, dottore»

La vecchia chiacchierona si allontanò su per le scale, lasciando il dottor Watson nell’anticamera.

Egli non ebbe, comunque, troppo tempo per godersi solitudine e silenzio. Meno di un minuto dopo, infatti, ecco che la signora trottava giù dalle scale emettendo gridolini di protesta: «Buon Dio, mio caro! Le sembra questo il modo?»

Watson aprì la bocca per chiederle il motivo di tanta agitazione, ma lei lo precedette: «Non deve temere, dottore. Non fa proprio sempre così». 

Attese di essere arrivata all’ultimo gradino per accasciarsi lungo il muro. Aveva il respiro affannato e teneva una mano stretta al cuore.

L’istinto professionale di Watson, mai del tutto sopito, si risvegliò senza esitazioni. In un balzo, il dottore fu vicino alla vecchia donna.

«Signora… Signora» provò a chiamarla, mentre con la mano destra le sentiva il polso.

La fronte era velata di sudore ma la frequenza cardiaca era solo lievemente accelerata, cosa che tranquillizzò Watson.

«Sto bene, sto bene! Ho solo il cuore vecchio. Lei è tanto caro» sospirò la donna. «Ed è proprio un bel dottorino. Ah, se solo… sarebbe una fortuna per quel bisbetico…»

Lasciò cadere la frase. Altri passi affrettati attirarono l’attenzione di Watson, che si voltò verso la scala. Vide comparire prima un paio di scarpette da tennis femminili, poi due gambe snelle e ben tornite, e infine il busto di una ragazza. 

La signorina − un’alpha davvero graziosa − si affrettò verso la porta senza salutare nessuno. Sembrava avesse una gran fretta di levarsi di torno.

A metà del corridoio inciampò in un oggetto che giaceva lì abbandonato.

«La mia stampella» esclamò Watson. Doveva averla lasciata cadere senza farci caso, pochi minuti prima. Si precipitò a raccoglierla. «Mi scusi…»

La ragazza era già uscita. Come evaporata, dopo avergli rivolto mezzo sorriso. Un sorriso sghembo. Un bel sorriso…

Il dottore rimase un attimo imbambolato a fissare la porta. Fu riscosso dalla voce della padrona di casa:

«Su, venga caro» tubò, mentre spariva su per le scale per la seconda volta. «È meglio non farlo aspettare!»

 

 

L’appartamento si trovava al primo piano. La padrona di casa bussò e si fece da parte quasi subito.

Appena varcata la soglia, Watson comprese perché il suo aspirante coinquilino vivesse da solo. Il soggiorno era spazioso, c’erano una grossa finestra luminosa e un bel caminetto e, fatta eccezione per la carta da parati un po’ eccentrica, lo si sarebbe potuto definire delizioso. Tuttavia, vi regnavano un disordine così assoluto, un caos così esagerato che la stanza, da ampia che era, risultava claustrofobica.

Inoltre, ed era forse il dettaglio più sgradevole, tutto l’ambiente era impregnato da un forte odore. Un odore umano. Così intenso che Watson ne fu quasi disgustato.

«Chiedo scusa» esordì una voce profonda che proveniva dalla cucina. Watson si voltò nella sua direzione. Doveva trattarsi del signor Holmes, il potenziale coinquilino. Il quale sbucò fuori un istante più tardi, e si diresse subito verso la finestra del soggiorno. «Avrei dovuto arieggiare la stanza. Ecco,» proseguì, dopo aver spalancato la finestra, «così va meglio. Dottor Watson»

Il dottor Watson levò gli occhi sull’uomo che aveva di fronte. Un uomo alto, un po’ pallido, smilzo ma stranamente imponente. Un uomo decisamente alpha.

John Watson inspirò a pieni polmoni una ventata d’aria fresca. Buon Dio! Cosa diavolo c’era di sbagliato nel cervello di Mike Stamford?

Lo sconosciuto gli si rivolse con fare sbrigativo:

«La signora Hudson le avrà di certo accennato che il mio lavoro si svolge in questa casa. Data la natura estremamente riservata delle mie mansioni, e per rispetto dei miei clienti, sono costretto a tenere chiuse porte e finestre finché mi trattengo con loro. Perciò l’aria è sempre così densa di ferormoni» spiegò, parlando molto velocemente.

Watson si strinse istintivamente nelle spalle.

«Le dico tutto questo perché ritengo che due potenziali coinquilini debbano conoscere i difetti l’uno dell’altro. È d’accordo?»

«Cos… Cosa? Io−»

«Lei è stato mandato qui dal dottor Stamford, non è così? Non è il dottor John Watson, il suo compagno di studi?»

«Cos… Sì. Sì, sono io. Mike ha… le ha detto che eravamo all’università insieme? Voglio dire» tossicchiò John, lievemente spaesato «non le ha detto altro?»

Il signor Holmes lo guardò con perplessità. «Cos’altro avrebbe dovuto dirmi?»

«Oh. Non…» Watson tossicchiò di nuovo, molto imbarazzato. Poi, con tono più fermo, aggiunse: «A me non ne aveva parlato, ma pensavo che almeno a lei…».

Il signor Holmes non sembrava capire del tutto. «C’è qualcosa che il dottor Stamford avrebbe dovuto dirle? Oh, ma certo! È così ovvio!» esclamò d’un tratto.

«Beh, sì» ammise Watson, un po’ sollevato. Gli era sembrato strano che l’altro non affrontasse l’argomento.

«Certo, che stupido. Non deve preoccuparsi per l’affitto, dottor Watson. La signora Hudson mi fa un prezzo di favore. In effetti, mi deve un favore−»

«Io non parlavo dell’affitto», lo interruppe Watson. «Io mi riferivo al suo status». Attese invano che l’altro dicesse qualcosa. «Immagino si sia accorto che ha di fronte un omega, signor Holmes», aggiunse, piuttosto costernato.

«Mi sfugge la rilevanza di tale informazione».

Watson inspirò profondamente, grato che la finestra fosse aperta. «Le sfugge?»

«Sì» tagliò corto Holmes. Si era avvicinato alla finestra per chiuderla, ma si fermò, come se qualcosa gli avesse fatto cambiare idea. Cambiò direzione e raggiunse il caminetto. Sulla mensola − Watson lo notò solo in quel momento − era conficcato un coltello. Holmes lo estrasse dal legno e afferrò la busta che era stata fissata alla mensola in modo così poco ortodosso. La aprì e si mise a sfogliarne il contenuto, apparentemente dimentico del suo interlocutore.

Essere ignorato così platealmente era più di quanto il dottor Watson avesse voglia di tollerare.

Era ora di pranzo, voleva solo trovare un ristorante e ragionare sulle sue sventure davanti a un piatto caldo e a un bicchiere di vino che non poteva permettersi… invece di starsene in piedi come un imbecille nell’antro di quell’alpha scontroso, anzi, probabilmente affetto da un disturbo dell’umore.

«Signor Holmes», esordì, rigido «è stato un piacere. Mi rincresce che entrambi abbiamo perso tempo, è evidente che non ci sono i presupposti… Buona giornata.»

«Lei è un idiota.»

John Watson si bloccò a quattro passi dalla porta. «Come dice?», chiese, dopo aver inspirato profondamente. 

Holmes levò gli occhi dalle carte. «Intende rinunciare all’appartamento solo perché sono un alpha?» domandò. Non c’era traccia di delusione nella sua voce, solo un lieve scherno.

Watson si strinse nelle spalle.

«Può restare, se le piace Bach» disse Holmes. Stavolta Watson dovette assumere un’aria molto interrogativa perché quello si degnasse di spiegare: «È mia abitudine suonare il violino quando penso, e a volte non parlo per giorni. Questi mi sembrano difetti più rilevanti»

«Ma non sono difetti pericolosi» osservò Watson.

«Nemmeno il resto lo è», replicò Holmes serio. «Mi considero superiore a queste sciocchezze.»

«Gli ormoni per lei sono sciocchezze?»

«Gli ormoni possono essere tenuti a bada. Siamo entrambi uomini di scienza, mi risulta»

Watson fece un profondo sospiro. L’espressione compunta di quell’uomo gli faceva venire voglia di urlare. «Continuo a pensare che sia più complicato di quanto lei…»

«Al contrario, dottor Watson: la chimica è molto semplice. E non dipende dalle opinioni sue o di chiunque altro», tagliò corto Holmes. Poi la sua espressione si distese. «Quando ho letto il messaggio di Stamford col suo nome e l’ora proposta per il nostro appuntamento ho capito subito che lei non poteva essere un alpha. È un compagno di studi di Mike, quindi va per i trentacinque. Pochi alpha della sua età cercherebbero casa con qualcun altro per dividere le spese: statisticamente hanno un impiego ben retribuito, sono bancari o avvocati, i più avventurosi scelgono di fare i poliziotti, ma comunque vada di rado raggiungono e superano i trenta senza essersi trovati un compagno. Era quindi ovvio che lei fosse un beta o un omega. Il suo odore ha chiarito che è un omega non appena è entrato in questa stanza. Fin qui sarebbe stato semplice per chiunque» sciorinò Holmes tutto d’un fiato. Uno dei caratteri secondari degli alpha erano i polmoni capienti, a quanto pareva. Interessante.

«Il resto è quasi altrettanto ovvio. Lei è un medico, è evidente che sia appena tornato da una missione all’estero, la sua gamba mi dice che è stato ferito o che così ritiene, e la sua mano sinistra mi ha rivelato che ha un carattere orgoglioso».

Watson deglutì. «Orgoglioso».

«Sì. È evidente anche dalla postura. È ordinato e austero, un vero soldato. Ma è soprattutto orgoglioso. Ha faticato ad ammettere che il suo status è un problema−»

«Il mio status?» lo interruppe Watson. Ora era decisamente orgoglioso.

«Il mio, se preferisce. Ogni sua parola dimostra che ho ragione: è un uomo fiero. Se questo non bastasse, c’è il suo bastone».

«Il mio…?» 

«La sua stampella, sì, il suo bastone. Lo tiene con la mano sinistra, stretta come una morsa. Non lo usa per appoggiarsi, lei lo impugna. Eppure, non ha un temperamento aggressivo. Questo conferma il mio quadro: è un omega solo, reduce da un’esperienza traumatica, abituato all’azione, e decisamente orgoglioso.»

«E lei è capace di dedurre tutto questo da una stampella», ringhiò Watson. Si dispiacque lievemente del suo tono aggressivo, ma Holmes non parve notarlo.

«Probabilmente la sua esperienza nell’esercito l’ha resa sospettoso nei confronti degli alpha. Ne ha avuto abbastanza di prendere ordini da loro, dico bene? Perciò Stamford non le ha detto niente. Perché pensava che non si sarebbe mai presentato qui se l’avesse saputo»

Watson era senza parole. Una grossa fetta del suo cervello stava ancora cercando di mettere in ordine le idee, perché seguire il corso impetuoso dei ragionamenti di quell’uomo lo aveva prostrato.

«Non non niente in contrario a vivere con un omega orgoglioso», disse Holmes a bassa voce. Alzò gli occhi su di lui. Erano di un azzurro chiarissimo.

«No?», domandò Watson schiarendosi la gola.

Sherlock Holmes alzò le spalle. Richiuse la busta, che era ancora tra le sue mani, e la infilzò con noncuranza col coltello, inchiodandola di nuovo alla mensola da cui l’aveva presa.

«Come le ho già detto, non do molta importanza a queste cose. Non è il mio campo». Si lasciò cadere su un brutto divano che c’era sulla parete di fronte al camino.

Il dottor Watson aveva una terribile voglia di chiedergli quale fosse allora il suo campo, ma scacciò l’idea come si scaccia una mosca fastidiosa.

«Il punto è…» cominciò a dire. «Il punto… Se anche avesse ragione lei… beh, immagino che dovremo discutere altri dettagli», tagliò corto. «Al momento sono disoccupato».

Holmes aveva di nuovo smesso di ascoltarlo. Ora era sdraiato, a occhi chiusi, sul divano. Sembrava molto concentrato.

Watson era colpito dal cambiamento repentino avvenuto nel suo interlocutore. L’uomo energico e teatrale che l’aveva tenuto col fiato sospeso col suo monologo aveva lasciato il posto ad un corpo molle, apparentemente assorto. 

«SIGNORA HUDSON!» urlò Holmes senza preavviso, dopo qualche minuto. «SIGNORA HUDSON VENGA SUBITO!»

La vecchia padrona di casa si precipitò nella stanza. Il dottor Watson notò che ansimava leggermente a causa della corsa su per le scale, e che teneva una mano sull’anca destra.

«Cielo, che succede?»

«Sarebbe così gentile da portare del tè? C’è dell’acqua già calda in cucina» le chiese Holmes. Non si era mosso di un millimetro. «Se il dottor Watson è d’accordo, può portare anche le scartoffie».

Le mascelle di Watson si contrassero. Quell’uomo era un arrogante, supponente, insopportabile…

«Oh! Caro! Cari!» La signora Hudson proruppe in un sospiro di sollievo così enfatico che il dottor Watson non riuscì a continuare l’elenco di insulti che aveva in mente. «Sono così felice per lei, Sherlock! Anche per lei, beninteso. Anche se forse per lei sarà più difficile, caro» aggiunse, rivolta a Watson.

«Difficile cosa?» protestò lui.

Ma la signora Hudson era già corsa in cucina. «Il contratto lo ha lei in camera sua, sciocchino» disse al signor Holmes. 

L’idea che qualcuno potesse chiamare il signor Holmes ‘sciocchino’ avrebbe divertito molto Watson, se non fosse stato così frastornato.

«Non mi lascia mai toccare le sue cose. È così geloso… Lei è un uomo fortunato, dottore!» continuò la signora Hudson. 

Watson si voltò verso il suo nuovo coinquilino per protestare, ma quello era già sparito su per le scale a cercare il contratto.

«Noi non siamo quel genere di coinquilini», scandì Watson.

«Oh, ma certo! Non è il caso di affrettarsi, dico bene? Da una donna della mia età ci si aspetterebbe una maggiore rigidità, suppongo… ma io sono molto aperta» continuò la signora Hudson. Non c’era modo di fermarla. «Penso che sia meglio conoscersi un po’ prima di legarsi. Anche se devo confessarle che proprio non capisco questa mania moderna di rimandare, rimandare, rimandare! Si rischia di non averne più voglia, dopo. Lei non crede?»

No, non credo fu la risposta che affiorò alle labbra di Watson, il quale però non riuscì a fare altro che fissarla basito e ripetere: «Non conviviamo in quel senso, signora…»

«Oh. Beh, c’è un’altra camera da letto al piano di sopra, se ve ne occorrono due»

«Certo che ne occorrono due!» esclamò Watson, paonazzo.

 

Di lì a poco fu servito il tè. Il signor Holmes li aveva raggiunti con il plico di fogli del contratto e con la chiave della camera destinata al dottor Watson. La padrona di casa non lesinò gli sguardi ironici, ma Holmes sembrava refrattario a quel genere di provocazione. O forse, pensò Watson con un pizzico di irritazione, non si accorgeva nemmeno delle provocazioni.

Gli ultimi dettagli furono discussi in meno di mezz’ora, compresa una clausola che prevedeva che uno dei coinquilini, a turno, abbandonasse l’appartamento per qualche giorno in caso di necessità − e qui Watson, nonostante una parte di lui ridesse di cuore per l’eufemismo, non poté fare a meno di ammirare la lungimiranza (e in fondo anche la delicatezza) del suo nuovo coinquilino. 

Prima che la firma di entrambi fosse posta in calce al documento, il dottore iniziò ad avvertire i morsi della fame.

Suonò il campanello.

«Avete sentito?» balzò su Holmes. «Pressione decisa. Durata: meno di un secondo. Un cliente!»

Con un balzo fu alla porta, e un attimo dopo il rumore dei suoi passi segnalò che era in fondo alle scale.

«Quel giovanotto è sempre così agitato», sospirò la signora Hudson, prima di lanciare a Watson un’occhiata che gli fece andare di traverso il tè. Tossicchiò e si accorse, con fastidio, di essere arrossito.

«Credo che andrò a riempire lo stomaco», disse a mo’ di congedo. «Il signor Holmes non avrà nulla in contrario a concludere il nostro accordo dopo pranzo».

«Come vuole, caro. Proprio tale e quale mio marito, oh, farà una brutta fine quel giovanotto!»

Il dottor Watson capì che non stava più parlando con lui.

 

 

 

John Watson si era appena seduto al tavolino di un café davanti a una patata ripiena bella fumante, quando il suo cellulare vibrò.

 

Venga subito a Baker Street. Deve aiutarmi.

SH

 

Buon Dio. Si erano salutati da meno di un’ora e quello strano alpha allampanato lo stava già assillando? Non era di buon auspicio.

E se fosse un’emergenza?, chiese una vocina che abitava da qualche parte, nella sua coscienza.

Watson tentò di ignorarla, maledicendo il lobo del suo cervello preposto alle cure parentali. Lui non era una maledetta balia, e in ogni caso quell’uomo era un adulto. Poteva cavarsela da solo.

 

Ho bisogno di lei ORA.

SH

 

Lasciare dieci sterline sotto il piatto e lanciarsi alla ricerca di un taxi furono tutt’uno. Sherlock Holmes non gli aveva spiegato di che diavolo si occupasse nella vita − e lui non era certo capace di dedurlo dalla forma delle sue unghie − ma una cosa l’aveva detta: aveva clienti esigenti che gli sottoponevano questioni delicate. Quindi un lavoro pericoloso. Ti-pi-co.

In taxi digitò freneticamente un paio di messaggi (‘Non si preoccupi, sto arrivando’ e ‘C’è traffico, MA STO ARRIVANDO’) e quando finalmente la macchina si fermò davanti al numero 221b di Baker Street lui saltò giù e si precipitò dritto in casa.

Arrivò in cima alla rampa di scale senza neanche aver preso fiato e irruppe nell’appartamento.

La scena che gli si presentò davanti lo lasciò di sasso.

Sherlock Holmes era seduto comodamente in poltrona. Di fronte a lui, rigido sul divano, c’era un uomo di circa sessant’anni. Il suo abbigliamento elegante e la sua aria distinta contrastavano in modo quasi comico con l’ambiente.

Lo sconosciuto si alzò prontamente appena vide il dottor Watson entrare, e si fece avanti per stringergli la mano.

«Il mio nome è George Frenkel, signor…?»

Alpha.

«John Watson» mormorò Watson. Il suo sguardo si spostò automaticamente su Holmes, che lo osservava tranquillo dalla sua postazione. 

«Io sono… arrivato il prima possibile» disse, guardandolo dritto in faccia.

«Ci ha messo un po’» lo rimbeccò Holmes.

«Stavo pranzando»

«Interessante», disse Holmes roteando gli occhi. Occhi che tornarono subito sul cliente. «Vuole essere così cortese da riprendere da dove siamo stati interrotti?»

Okay, decise Watson, questo era troppo. 

«Posso sapere perché sono qui?» domandò. Sperava che il suo tono di voce suonasse abbastanza secco.

Non ricevette risposta da Holmes. Uno sguardo incerto gli fu rivolto invece dal cliente di Holmes, che sembrava estremamente nervoso.

John si schiarì la gola, di nuovo. A questo punto, Holmes si girò verso di lui e lo guardò come se avesse già dimenticato che si trovava lì.

«Non si preoccupi», disse, soave. «Mi serviva per confermare una teoria, ma temo che sia tardi. Non era niente di fondamentale, comunque. Visto che è qui, però, potrebbe essere così gentile da offrire un caffè al nostro cliente?»

John spalancò la bocca. Era completamente pazzo? O lo stava prendendo in giro? Un momento. Lo stava per caso trattando da omega?

Registrò l’informazione senza particolari emozioni. In occasioni come quella capitava spesso che la rabbia impiegasse un paio di secondi prima di esplodere nel suo cervello.

L’esplosione che avvenne esattamente due secondi dopo fu di un altro tipo, però. Più precisamente fu un clacson, piuttosto inferocito, proprio sotto la finestra dell’appartamento.

I tre uomini si voltarono tutti, ma fu Watson a esclamare: «Merda! Il taxi!»

«Ci penso io. Lei stia qui», ordinò Holmes, e scomparve giù per le scale.

Quando fu lontano − e il suo odore con lui −, John si sorprese a tirare il fiato. 

Il suo sguardo si incrociò con quello del cliente di Holmes, che sorrise con un certo imbarazzo. Ora che aveva l’occasione di osservarlo meglio, notò che aveva un aspetto estremamente curato: barba appena fatta, un completo da almeno milleduecento sterline e un anello d’oro al dito. Sposato. Peccato.

«Va tutto bene?» domandò l’uomo con fare gentile, interrompendo le fantasticherie di John.

«Oh, sì. Io stavo solo… beh, guardavo il suo anello»

L’uomo sorrise. «Ventisei anni».

John deglutì un po’ di saliva. Si perse per un attimo ad ammirare lo sguardo trasognato del suo interlocutore. «Non lo rimpiange mai?» gli sfuggì detto, prima che potesse mordersi la lingua.

«Il Legame?» domandò l’altro. «Mai».

«Legame. Un omega, dunque» fece John. «Una donna?»

«Una signora, sì» rispose l’altro. Sorrideva ancora, debolmente. «La più bella che si sia mai vista».

«Figli?» John non sapeva cosa gli prendesse. Non gli interessava davvero la vita di quell’uomo, e non era nemmeno sicuro che fosse gentile mostrarsi tanto insistenti…

«Uno. Un omega anche lui» rispose l’alpha in un soffio. «Non ha preso altro dalla madre, purtroppo», aggiunse. La sua voce si era incrinata, e John ne fu stranamente colpito. Il silenzio che seguì si fece ben presto greve.

«Vita burrascosa?», buttò lì John.

«Per così dire. A volte capita, eh?»

«Già». A volte capitava. Sentiva uno strano impulso di chiedergli di più, ma temeva di offendere quell’uomo gentile. Alla fine glielo chiese comunque.

«E, ehm, che cosa faceva suo figlio?»

«Oh, lui era−»

«Un delinquente!» La voce di Holmes colse Watson e Lord Frenkel di sorpresa. «Quel tassista.  Un vero criminale. Dovrebbe sceglierli con più attenzione, dottore, è sufficiente dare un’occhiata al cruscotto dell’auto: non ha notato che mancava il tariffario? Allora, Lord Frenkel, torniamo a noi. Si starà chiedendo la ragione di questo siparietto.»

«Lord?» non poté fare a meno di domandare Watson.

«Lo si potrebbe dedurre facilmente dal modo in cui tiene gli occhiali sul naso. In questo caso, però, la scienza non c’entra: io leggo i giornali, dottor Watson»

John avrebbe voluto protestare. Anche lui leggeva il Times, quasi tutti i giorni, ma questo non c’entrava niente con…

«L’espressione che il mio futuro coinquilino, il dottor Watson, aveva poco fa, quando sono rientrato dopo avervi lasciati qualche minuto da soli, ha confermato quanto già sospettavo dal momento in cui è entrato nel nostro soggiorno. Lei ha ricevuto minacce di morte»

Watson stavolta era davvero sbalordito. Non aveva mai parlato di minacce, come diavolo…?

«Se lo sta inventando», sbottò.

Holmes lo guardò con gravità. «Niente affatto» rispose, calmo. «Insinuazione offensiva, peraltro».

Il cliente si schiarì la gola. «La prego signor Holmes, come…?»

«Come ho fatto a capirlo?» Holmes concluse la frase per lui. Era una cosa che faceva spesso, notò John. Come se gli altri parlassero troppo lentamente per il ritmo convulso delle sue sinapsi. «Chiunque fosse in possesso dei dati che avevo io a disposizione e non fosse sprovvisto delle basilari nozioni di logica avrebbe potuto farlo. Sfortunatamente, la maggior parte delle persone non ambisce ad essere niente più che un pesce rosso».

Le facce perplesse − e, almeno nel caso di John, offese − dei suoi interlocutori dovettero convincere Holmes a dare spiegazioni più dettagliate.

«Oh, ma è così ovvio. Lord Frenkel, lei è un alpha legato, benestante e beneducato. Di idee politiche liberali e, come ci informa l’espressione del dottor Watson, un progressista»

«Progressista?», chiese John.

«Sì, progressista. L’avevo già intuito, naturalmente, ma la conferma l’ho avuta quando sono rientrato nella stanza… Deve sapere che il mio coinquilino è piuttosto orgoglioso» disse, e rivolse a John uno sguardo complice che gli fece accartocciare le viscere.

«Era ovvio che in mia assenza avreste avuto una breve conversazione, e dall’espressione rilassata del dottor Watson ho potuto dedurre che lei gli ha fatto una buona impressione. Alpha  gentile e progressista» concluse Holmes.

«Quindi non voleva davvero un caffè?» domandò John, molto lentamente.

«Certo che voglio un caffè. Anzi, dovrebbe essere qui a momenti…»

Proprio in quel momento bussarono alla porta. Era un fattorino, probabilmente del café sotto casa, venuto a consegnare due bicchieri di caffè americano e quello che sembrava un panino avvolto in un foglio di alluminio.

«Mi sono preso la libertà di ordinare un sandwich per lei, dottore.»

Watson si accomodò sulla poltrona che dava le spalle alla cucina e, mentre Holmes e il suo cliente prendevano il caffè, affondò i denti nel panino. Mentre masticava, si ricordò una cosa. Deglutì e chiese a Holmes: «Che mi dice delle minacce? Non abbiamo parlato di minacce.»

Il suo coinquilino gli rivolse un sorrisetto sardonico. «Quale altro motivo potrebbe avere l’uomo che abbiamo descritto per rivolgersi a un consulente investigativo?» domandò, retorico. 

Consulente investigativo, registrò John. Quindi era questo che faceva. Beh, aveva dannatamente senso. Qualunque cosa fosse.

«Deve sapere, Lord Frenkel, che la stavo aspettando. Questo è quel che si dice un caso atteso» continuò Holmes. «Naturalmente non potevo essere sicuro che sarebbe stato proprio lei. Ma speravo che la prossima vittima sarebbe venuta da me, prima che fosse tardi. È stato più saggio degli altri due» 

«Gli altri due?», domandò John, disorientato.

«Due alpha inglesi, appartenenti a famiglie benestanti e probabilmente di idee progressiste, sono stati trovati uccisi e orrendamente mutilati, a distanza di pochi giorni l’uno dall’altro. Lord Frenkel, lei non ha molto in comune con quei due sventurati signori… ma Dio non crede nelle coincidenze.»

Per tutta risposta, Lord Frenkel estrasse da una tasca della giacca una scatolina nera. Era di legno laccato, e aveva un aspetto costoso e non comune. La passò a Holmes, che la rigirò qualche secondo tra le mani prima di aprirla. Un sorriso gli illuminò la faccia quando vide cosa conteneva. 

La richiuse subito dopo, senza che Watson avesse modo di sbirciare, e la restituì al legittimo proprietario.

«Quando?» domandò.

«Ieri mattina» rispose Lord Frenkel. «È stata recapitata via posta prioritaria alle otto precise, mentre facevamo colazione. Potrà immaginare la perplessità di mia moglie…».

Il sorriso di Holmes non vacillò. «Diciamo che posso. E dica, l’ha aperta davanti alla signora?»

«Naturalmente» rispose il cliente. «Non c’è corrispondenza che io debba tenerle nascosta. Siamo sposati da tanti anni».

«D’accordo, e che reazione ha avuto?»

«Mia moglie?»

«Certo, chi altri?», domandò Holmes, leggermente spazientito.

«Oh. Non saprei, in un primo momento non vi ho badato… Naturalmente, si è spaventata quando ha visto che io mi ero spaventato»

«Naturalmente», ripeté Holmes. «Ma prima

«Non glielo so dire, signor Holmes»

«Questo è un male. Una reazione di autentica sorpresa nella sua signora sarebbe stata illuminante. Ma ci faremo bastare quel che abbiamo» disse. 

Si alzò dal divano e iniziò a passeggiare su e giù per la stanza. Gli occhi di Watson lo seguivano, mentre lui continuava a masticare il suo sandwich. 

«Quello che le è stato recapitato è un acino d’uva estremamente interessante» spiegò Holmes. «Uva Norton. Si coltiva in Nord America, ed è apprezzata dagli estimatori per il suo elevato contenuto di antocianine−»

«Un pigmento naturale», intervenne John, in risposta allo sguardo interrogativo del cliente.

Holmes si voltò verso di lui. La sua occhiata penetrante poteva essere di rimprovero. L’esperienza aveva insegnato a Watson che non era mai una buona idea interrompere un alpha − anche se questo era un alpha decisamente fuori dagli schemi…

«Ottima chiosa, dottore» disse Holmes con un sorrisetto. «Tendo a dimenticare quanto sia vasta l’ignoranza scientifica in questo paese. L’elevato contenuto di pigmenti blu fa si che questa varietà di uva abbia una polpa eccezionalmente scura. Se avesse avuto l’intuizione di mordere quel chicco d’uva, Lord Frenkel, sarebbe rimasto sorpreso nel constatare che l’interno è nero quanto la buccia»

Lord Frenkel si irrigidì. Probabilmente era offeso. «Ho pensato che potesse essere avvelenato.»

«Sciocchezze», lo rimbeccò Holmes. «È solo un ottimo chicco d’uva. Ma sono contento che non si sia mangiato l’indizio»

John represse una risatina.

«Purtroppo il suo caso non ci permette di scherzare, Lord Frenkel. Sarò diretto: lei corre un grave pericolo. Come ha già intuito da sé, quello che le è stato recapitato è un messaggio di morte».  Holmes tornò a sedersi sul divano. Ora aveva i gomiti appoggiati sulle ginocchia e le mani giunte gli sfioravano il mento. In quella posizione, con gli occhi quasi chiusi, dava l’impressione di essere molto concentrato.

«… Louisiana, è più probabile» mormorò Holmes tra sé e sé.

«Come, prego?»

«Sto pensando», lo zittì Holmes. «… se non dal Maryland, ma sarebbe curioso. Davvero curioso…»

Passarono alcuni minuti senza che aggiungesse altro. John, che aveva finito il suo sandwich, non sapeva bene dove guardare. Anche il cliente era basito. Aveva tutta l’aria di chiedersi se non si fosse rivolto a un pazzo.

Alla fine, Holmes parlò. «Non c’è altro modo. Lord Frenkel. Deve tornare a casa oggi stesso»

«Ma io vivo fuori città» protestò l’uomo, colto alla sprovvista.

«Questo lo sapevo già, ho notato il fango sulle sue scarpe. No, no, non intendevo dire che ha le scarpe sporche. Ci sono delle tracce di argilla sotto la suola, e dal colore ho dedotto che lei vive nel Kent. Maidstone, dico bene?»

Il suo cliente non si disturbò a confermare. Si limitò a rivelare che la sua bocca, quando era  molto aperta, conferiva al volto un’aria ottusa.

«Mi creda, Lord Frenkel, deve tornare oggi stesso. Lasci l’hotel e torni a casa. È possibile che la sua famiglia sia in pericolo», disse Holmes, gravemente.

«In pericolo!» gridò Lord Frenkel. «Ma la scatola è indirizzata a me! C’era il mio nome sul pacco che è stato recapitato!»

«Sì», disse Holmes, «e a proposito, vorrei vedere quel pacco. Ci sono buone possibilità che il timbro postale mi torni utile. Me lo faccia recapitare appena sarà arrivato sano e salvo nel Kent»

«Io non capisco… signor Holmes!» protestò Lord Frenkel. Si era alzato in piedi e si torceva nervosamente le mani. Era chiaro che la prospettiva di mettere in pericolo la moglie lo atterriva, ma l’idea di tornare a casa non aveva alcun senso ai suoi occhi − e nemmeno a quelli di John, a dirla tutta.

«Torni a casa! Se quello che vogliono è colpirla, prenderanno sua moglie», disse Holmes velocemente. Si era alzato anche lui, e si dirigeva verso l’appendiabiti. «Io vedrò di farle avere una scorta. Meglio non contattare la polizia. Certe faccende si risolvono meglio in privato. Arrivederci, Lord Frenkel. Mi aspetto di ricevere sue notizie al più presto». 

Aveva indossato un lungo cappotto scuro, la sciarpa e dei guanti di pelle. Attese che il suo cliente lo precedesse fuori dalla porta dell’appartamento, per poi scomparire dietro di lui chiudendosi la porta alle spalle.

John Watson rimase solo nella stanza.

Gettò un’occhiata al tavolino, su cui si trovava il contratto ancora da firmare. Prese una lunga boccata d’aria ed estrasse la sua vecchia stilografica dal taschino della giacca.

Un attimo prima che firmasse, qualcosa lo bloccò: il rumore della porta che si spalancava.

Era Holmes, e stava sogghignando.

«Che fa, dottore? Non viene?»
 


 

Nota dell'autrice

Capitolo decisamente lungo, vi chiedo di perdonarmi. Giuro che mi impegnerò affinché i prossimi siano più sintetici.
Spero che da questo primo capitolo si capisca che per me il caso è centrale... la trama non sarà un mero riempitivo tra le scene di sesso (che oltretutto saranno poche o inesistenti), ma il vero fulcro dell'azione. Mi rendo conto che questo la rende una omegaverse un po' atipica, ma spero vi piaccia lo stesso.
Aggiungo solo un'ultima cosa: il linguaggio, e in parte anche la trama, sono ispirati ai racconti di Conan Doyle (anche se la storia è una fanfiction di Sherlock della BBC); i personaggi li immagino esattamente come quelli che abbiamo imparato a conoscere e amare nella serie, ma mi sono divertita a scrivere imitando in parte il modo di scrivere del brillante autore dell'opera originale. Spero che il risultato non sia troppo deludente :)
Se vi è piaciuta fin qui spero che continuerete, e dunque non mi resta che augurarvi 
buona lettura!

PS: chi coglie la citazione, neanche troppo nascosta, a un'altra delle mie serie tv preferite?

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** 2. Alpha idioti a Scotland Yard ***


Capitolo Secondo

 

Alpha idioti a Scotland Yard

 

 

 

Purtroppo per il consulente investigativo − o quel che era − John Watson era un veterano ferito. Ferito e claudicante. Gli ci vollero quattro minuti buoni per scendere tutti i gradini della palazzina, e meno male che l’appartamento era al primo piano.

Una volta sceso in strada, trovò Sherlock Holmes che lo aspettava sul sedile posteriore di un taxi.

«Si sbrighi, John. Lasci perdere quella stupida stampella!».

Le vene sul collo di Watson si gonfiarono. «La stupida stampella mi serve», ringhiò.

L’altro non alzò nemmeno la testa dal cellulare, ma a John parve di sentire un ‘Ridicolo’ provenire da qualche parte, sotto i ricci.

Ricci che forse si sarebbe concesso di guardare più a lungo, se fossero appartenuti ad un uomo meno irritante…

La sua testa ebbe uno scatto improvviso, come per scacciare fisicamente l’idea. Per fortuna, Holmes era troppo preso da se stesso per notarlo… John non se la sentiva di escludere che fosse capace di leggere il pensiero che si cela dietro un gesto involontario.

Prese posto di fianco a lui. «Se posso chiederlo, dov’è che andiamo?»

«A Scotland Yard, ovviamente»

 

C’era solo una cosa peggio della pioggia in Afghanistan − ed era la pioggia a Londra. 

O meglio, riformulò Watson, il traffico londinese quando piove. Quella che si stava scatenando fuori dal finestrino era senza dubbio una visione premonitrice dell’Inferno.

Erano bloccati nell’ingorgo da dieci minuti quando Sherlock Holmes alzò finalmente gli occhi dal telefono.

«Non ha ancora iniziato con le domande».

Watson non era sicuro di volergli dare quella soddisfazione. Ma alla fine la curiosità prevalse sull’orgoglio. «Come faceva a sapere che è un nobile? Impara tutti i giornali a memoria?», domandò ironico.

«Non sia ridicolo», rispose Holmes con sussiego. «Memorizzo solo le colonne laterali, gli annunci di privati e i necrologi. Gli articoli interessanti, quelli che parlano di me o di casi risolti, li conservo in un archivio ordinato alfabeticamente. Mi è tornato utile, qualche volta»

«Non ci credo» disse John con un ghigno.

Sherlock Holmes si voltò verso di lui. Era il principio di una risatina, quello che gli increspava le labbra? «Ammetto che in parte è per vanità», disse. «Ma saper selezionare le notizie giuste, soprattutto tra quelle che appaiono frivole o di nessuna importanza, è uno degli aspetti più importanti nella mia professione».

«E lei è bravo a leggere i necrologi?», lo canzonò John. Avrebbe voluto che la sua voce suonasse più ironica. Invece c’era quella nota fastidiosa di… ammirazione. Niente di buono. Niente di buono poteva venire a un omega che ammirasse un alpha.

«Può giudicare da sé», rispose Holmes con un sorrisetto.

John preferì virare su un altro aspetto dell’argomento. «Mi dica di Lord Frenkel. Cos’ha trovato su di lui sui giornali?»

«Nel Luglio 2009 si sono celebrate le sue nozze d’argento. Un trafiletto sul Mirror. Il ricevimento ha avuto luogo in uno dei migliori hotel di Londra, tra pochi invitati.»

«Tutto qui?»

«No, c’era anche una fotografia», rispose Holmes. «Si vedeva poco però, solo le due figure in primo piano. I festeggiati», precisò, col tono di chi è costretto a evidenziare l’ovvio.

 John sorrise, ma poi rammentò qualcosa che gliene fece passare la voglia. «Quindi il figlio doveva essere già morto, all’epoca», osservò, rivolto più che altro a se stesso.

«Quale figlio?» domandò Holmes, d’un tratto attento.

«Il figlio di Lord Frenkel e della sua… sposa». Era stato sul punto di dire omega, ma per qualche motivo la parola gli era rimasta in gola.

Holmes adesso sembrava decisamente irritato. «Avevo capito. Ma io non sapevo che avessero un figlio. Perché io non sapevo che avessero un figlio e lei sì?».

«Non saprei», rispose John sarcastico. «Lei gliel’ha chiesto?»

Holmes decise di fare l’offeso per il resto del viaggio.

 

La sua ostinazione, però, era evidentemente più debole del desiderio di mettersi in mostra, perché una mezz’ora più tardi, quando il taxi si fermò davanti alla sede del distretto di polizia, Holmes aveva rinunciato alla sua espressione sostenuta per rivolgersi a John con rinnovato buon umore:

«Non si faccia impressionare dagli alpha gonfi di steroidi che ronzano qui. Sono tutti idioti»

John sbuffò.

«Ne dubita?» chiese Holmes. Un sorrisetto ironico comparve sulle sue labbra. «Aspetti di conoscere Lestrade. Forse l’ispettore più ottuso che la polizia londinese ricordi. E, mi creda, non è un primato da poco».

John non replicò nemmeno a quest’affermazione perentoria. Iniziava a capire che quello strano uomo amava essere contraddetto quasi quanto amava contraddire gli altri − probabilmente perché questo gli dava l’occasione di fornire saggi delle sue stupefacenti capacità.

Quasi a conferma della sua ipotesi, la voce di Holmes tradì un pizzico di irritazione quando riprese a parlare: 

«L’ispettore Lestrade ieri mattina ha richiesto la mia presenza per discutere il caso di quei due gentiluomini massacrati. Ho sperato fin dall’inizio che lo affidasse a me, ma quell’uomo è davvero testardo…anche per essere un poliziotto.»

«Quindi era stato contattato dalla polizia?», chiese Watson con una certa esultanza.

Holmes gli rivolse uno sguardo perplesso. «Beh, sì»

«Era un trucco», disse Watson, allegro. «Un’ora fa, lei ci ha sorpreso rivelando che Lord Frenkel aveva ricevuto delle minacce di morte e che questo fatto era collegato agli omicidi di due alpha»

«Lo ricordo perfettamente.»

«Beh, ha barato. Lo ha saputo dalla polizia, non lo ha intuito magicamente da solo»

«Io non intuisco magicamente», replicò Holmes. La sua voce ora nascondeva un ringhio sommesso. «Io applico rigorosamente la scienza della deduzione. Se le mie ricostruzioni non si basassero su dei dati, allora sì che sarebbero magiche, vale a dire inaffidabili, indecorose, non scientifiche»

Watson aveva intenzione di provocarlo, non di offenderlo. Temendo di essersi spinto troppo oltre, stava per scusarsi con Holmes, ma quello non gliene diede il tempo.

«E in ogni caso, sono venuto a conoscenza di almeno uno degli omicidi prima della polizia», disse. «Il secondo, per la precisione. Per di più, la polizia non sa nulla di Lord Frenkel e del suo acino d’uva, perché né io né lui abbiamo alcuna intenzione di denunciare il fatto.»

«E perché mai?»

«Perché come le ho già detto, caro dottor Watson, Scotland Yard è un covo di imbecilli in divisa. Il mio cliente sarà molto più al sicuro se la polizia rimarrà all’oscuro di questa storia.»

 

Su una cosa di sicuro Holmes non si era sbagliato. Lì dentro era pieno di alpha

Appena ebbero varcato l’ingresso della sede centrale del distretto di polizia, John fu colpito da una moltitudine di odori che gli fece girare la testa. Troppe scie diverse si sovrapponevano le une alle altre, ed erano tutte ugualmente forti e acri. 

Si respirava un’aria stressata, tesa; la percentuale di individui beta o – era quasi ridicolo pensarlo – omega, lì dentro, doveva essere minima.

Dietro le porte dei vari uffici si udivano voci imperiose che discutevano, davano ordini, esercitavano la propria autorità. Di tanto in tanto, una porta sbatteva, accompagnata da imprecazioni.

Come ogni altra volta che si era trovato in ambienti affollati di alpha, John Watson alzò le proprie difese. Era un soldato, era stato in guerra: era in grado di gestire i propri impulsi. Ignorare le scie più invitanti, resistere alla tentazione di respirare a pieni polmoni le ondate di ferormoni che gli arrivavano alle narici, rimanere padrone di sé anche qualora un alpha gli avesse rivolto delle attenzioni o degli ordini erano tutte cose che sapeva di poter fare. Non solo: negli anni, aveva costruito il rispetto di sé stesso sulla base di quelle capacità, aveva trasformato l’orgoglio di saper resistere in fierezza. Da molto tempo, ormai, l’idea di non riuscire a controllarsi era diventata semplicemente inaccettabile. E così ogni debolezza era stata bandita, e il piacere che si prova cedendo alla forza di un alpha era un lontano ricordo, relegato agli anni di un’adolescenza quasi del tutto dimenticata.

Avevano a malapena mosso due passi nell’ingresso dell’edificio, quando una donna alpha in tailleur si fece loro incontro con cipiglio battagliero. Era riccia, scura e – Watson s’irrigidì istintivamente – aveva un’aria decisamente aggressiva.

«Holmes», sibilò la donna appena gli fu di fronte.

«Donovan», rispose lui, in tono allegro.

«Che ci fai qui?»

Per tutta risposta, Holmes strizzò l’occhio a John. «Una degli agenti di cui le ho parlato, dottore. Non c’è bisogno che ci accompagni, Donovan, ricordo dov’è l’ufficio dell’ispettore»

Scattò in avanti ignorando l’alpha incazzata, che aveva tutta l’aria di una che l’avrebbe aggredito se solo avesse potuto farla franca. Lei allora si girò verso John.

«Chi diavolo è lei?», gli ringhiò contro.

John Watson serrò le mascelle. Si impedì di assumere un’aria sottomessa e aprì la bocca per rispondere.

Holmes lo precedette: «Lui è con me».

La donna che rispondeva al nome di Donovan si voltò di scatto verso di lui. «Ma chi è?», ripeté.

«È con me». La voce di Holmes si era fatta bassa. Aveva preso una nota autoritaria, che sorprese un po’ John, ma che non intimorì affatto la poliziotta. 

«Questa storia deve finire», ringhiò lei.

«Sì? Sono sicuro che anche l’Ispettore Capo la pensa così», sogghignò Holmes.

Quella frase determinò la resa della donna. «D’accordo, geniaccio» disse, «ma il tuo amico dev’essere perquisito».

Senza che gli fosse data la possibilità di protestare o di prepararsi psicologicamente, John fu trascinato dall’agente Donovan in una stanzetta che dava sul corridoio principale. La donna lo squadrò da capo a piedi, poi gli ordinò di levarsi il maglione e di aprire le braccia a croce.

John era infastidito dal suo tono, ma obbedì.

L’alpha gli tastò i fianchi, controllò le tasche dei combat throusers – due davanti, due dietro, una all’altezza del ginocchio destro –, poi risalì lungo il busto.

«Sembri a posto», sbuffò.

Lui fece per riprendersi il maglione, ma lei lo fermò: «No. Non abbiamo finito».

John le rivolse uno sguardo perplesso. «Niente armi».

«Potresti avere della droga»

«Droga?» esclamò Watson. «Andiamo, non–»

«Via camicia, pantaloni e mutande», continuò l’alpha, senza nemmeno ascoltarlo.

«Questo è un abuso!» sbottò Watson. «Non c’è una sola ragione al mondo per sospettare–»

«Vai in giro con Sherlock Holmes, è una buona ragione per sospettare qualsiasi cosa. Togliti i vestiti!» ordinò lei, perentoria.

John non vide altra soluzione. Schiumando rabbia, si spogliò, lentamente. Era consapevole che la sua scia stava mutando, e che lei poteva sentirla. La stanza era poco più che uno sgabuzzino, per metà occupata da archivi accatastati che raggiungevano il soffitto. C’era già poca aria. John percepì che anche la scia della donna era cambiata leggermente, in risposta ai suoi ferormoni: ora era meno acida, meno aggressiva; avere davanti agli occhi un omega nudo, evidentemente, non le dispiaceva.

«Sei gravido?» domandò, secca.

«No», rispose John ancor più secco.

«In calore?»

«Lei che ne dice?», ringhiò John.

«Sono domande di routine» rispose la donna. «Adesso rilassati e piegati in avanti, mani sulle ginocchia».

John assunse la posizione. Si rese conto di essere sudato. «Deve per forza farlo lei?» chiese, a disagio. Possibile che non si rendesse conto di quant’era umiliante per un omega essere nudo di fronte a un’alpha? Poteva essere addirittura pericoloso.

«Sono io che mi occupo delle perquisizioni», tagliò corto la donna. «Ora tossisci due volte».

John obbedì.

«Bene» disse la donna. «Almeno non ti ha fatto nascondere anfetamine nel posteriore. Immagino che ci toccherà ringraziarlo».

«Posso rivestirmi?» domandò John, ignorando la sua acrimonia.

«Sì».

Si girò, per lasciargli un minimo di privacy. John gliene fu grato. Si era accorto di essere più sudato del previsto. Sperava solo che lei non l’avesse notato.

«Potrei avere bisogno di un bagno», mormorò, quand’era ormai vestito.

Lei alzò gli occhi al cielo. «Cosa credi che sia questo posto? Un distaccamento dell’appartamento di Sherlock Holmes?», ringhiò. «È il dipartimento di polizia!»

«Quindi non c’è un bagno?» la rimbeccò John, strafottente.

«Certo che c’è» rispose lei. «Ti accompagno. Datti una mossa».

Uscirono dalla stanzetta e lei si diresse spedita in fondo al corridoio; John la seguì. Girarono a destra e si trovarono di fronte ad una porta contrassegnata dalla scritta ‘WC − Omega’.

«Datti una mossa», gli disse di nuovo l’agente.

Il bagno riservato agli omega era piccolo e male assortito − mancavano persino gli asciugamani, e John sospettava che la carta igienica fosse lì per caso. Comunque, lui era stato abituato peggio. Gli bastarono un paio di minuti per darsi una ripulita e sciacquarsi il collo, i polsi e l’incavo dei gomiti. In quel modo, sperava di aver lavato via buona parte del proprio odore. Non poteva permettersi di aizzare tutti gli alpha del dipartimento di polizia con una scia che gridava ‘omega disponibile’.

Quando uscì, si sentiva leggermente meglio. La donna lo stava aspettando; era soprappensiero  e John notò che era piuttosto attraente quando non aveva quella smorfia acida sulla faccia. Appena lei lo notò, comunque, la smorfia tornò al suo posto.

«Ti senti bene?»

«Bene» disse John.

«Sicuro di non essere…?»

«Piuttosto sicuro, grazie. Non sono gravido. Non sono nemmeno vicino al calore», rispose John piccato.

«Me ne sarei accorta», rispose lei, piccata. «Non sono come il tuo amichetto».

Detto ciò, girò sui tacchi e lo piantò in asso.

John capì che avrebbe dovuto trovare da solo l’ufficio dell’Ispettore capo.

 

Non serviva il talento di Sherlock Holmes per capire che la porta contrassegnata dalla targa ‘Ispettore Capo Lestrade’ portava all’ufficio dell’Ispettore capo Lestrade. 

Dunque John bussò e, senza aspettare di essere invitato a farlo, abbassò la maniglia ed entrò nella stanza.

Gli occhi cerchiati di rosso che lo fissarono per qualche secondo con stupore appartenevano ad un uomo che non poteva essere altri che l’Ispettore Lestrade. Erano occhi scuri e profondi, che John giudicò belli nonostante l’aria affaticata che conferivano al volto.

«Donovan», sibilò Holmes.

L’ispettore Lestrade lo fissò con aria interrogativa.

John, invece, arrossì. Doveva aver percepito il mutamento nella sua scia, e aver dedotto cos’era appena successo. Decise di troncare l’argomento sul nascere, presentandosi:

«John Watson. Piacere»

Lo sguardo di Holmes indugiò su di lui per una frazione di secondo, ma poi si posò di nuovo su Lestrade.

«Il dottor Watson è arrivato appena in tempo per consigliarti di ricominciare a fumare. Hai una pessima cera.»

Il poliziotto si alzò con un movimento un po’ goffo, e si fece incontro a Watson per stringergli la mano. «Gli piace scherzare», disse, con un tono un po’ cupo. «Dio solo sa quanto vorrei sapere come ha fatto a capirlo»

«Non glielo chieda», rispose Watson, prontamente. «Non gli dia questa soddisfazione».

Un ghigno increspò la bocca di Lestrade.

«È stata una deduzione banale», disse Holmes, ignorando deliberatamente le parole di Watson. «Ti sei sbarazzato dei posacenere»

«C’era un posacenere», mugugnò Lestrade.

«Ce n’erano due», lo rimbeccò Holmes. «Non che servisse questo dettaglio, comunque. Sei stressato, non puzzi di fumo e hai un cerotto alla nicotina sul braccio sinistro».

Lo sguardo di Watson si spostò sul braccio dell’Ispettore, che indossava una camicia a maniche lunghe. Come diavolo…?

«È destrorso», spiegò Holmes, come se avesse colto la sua perplessità. «Statisticamente più probabile che ce l’abbia a sinistra»

«Ma chi ti dice che abbia un cerotto?» protestò Lestrade.

«Hai appena smesso di fumare, è altamente probabile che tu abbia un cerotto alla nicotina»

«Questo è… è…»

«Tautologico?» suggerì John.

Il viso di Holmes si tirò in un sorriso teatrale. «La verità lo è spesso».

Si diresse verso una delle due sedie che stavano di fronte alla scrivania dell’Ispettore, e vi prese posto. «Penso che a questo punto potresti invitare anche il dottor Watson ad accomodarsi».

L’Ispettore rimase come interdetto ancora per un attimo. Poi scosse la testa e farfugliò un «Ma certo, prego» rivolto a John, facendogli cenno di sedersi.

«Cos’hai per me?», chiese Holmes impaziente.

«Delle raccomandazioni, per cominciare. Questa è un’indagine di polizia, e per di più una delicata, Sherlock. Non…»

«Non farò di testa mia, non diffonderò informazioni riservate, non ostacolerò la polizia», recitò Holmes.

«Sono serio», sbuffò Lestrade.

«Anch’io. Ho risolto metà dei casi di omicidio avvenuti in questa città negli ultimi cinque anni. Pensi che non capisca quanto è importante agire con cautela?», disse Holmes, con un sorriso da schiaffi stampato sulla faccia. «E comunque mi hai chiesto tu di venire».

«E tu ti sei portato un amico. Alla faccia della discrezione», borbottò Lestrade.

«Il dottor Watson è un mio… collaboratore temporaneo.»

Lestrade scoccò a John un’occhiata sospettosa, a cui lui rispose con un sorriso molto innocente.

«Comunque sia, anche lei è vincolato al silenzio.»

John non batté ciglio.

«Dunque?», chiese Holmes, ormai impaziente.

«Dunque ci sono stati due omicidi, e non sappiamo dove sbattere la testa», ammise Lestrade.

«Ovviamente.» 

L’ispettore non lo guardò male, stavolta. Watson sospettava che non ne avesse più la forza.

«Due uomini, alpha, di mezza età, di buona estrazione sociale. Le vittime non avevano nemici, stando alle dichiarazioni dei loro famigliari. Nessun movente evidente. Non è stato lasciato alcun messaggio sui corpi… a parte le mutilazioni post mortem

«Che tipo di mutilazioni?», chiese John.

«Sono stati asportati loro i genitali», gli rispose l’Ispettore Lestrade, cupo. «Con un coltello da cucina, in entrambi i casi. Un lavoro poco fine. Sangue e carne maciullata in gran quantità. Sembrava di avere davanti gli scarti di un mattatoio»

«Terribile», commentò Holmes, con tono leggero. 

Nemmeno John rimase molto impressionato. Nessun orrore che potesse essere evocato con parole umane avrebbe mai eguagliato quello che lui aveva visto coi suoi occhi, in guerra.

Lestrade mugugnò.

«Di quali altri fatti è a conoscenza la polizia?», domandò Holmes.

«Abbiamo escluso che le due vittime avessero legami particolari. È comunque possibile che si conoscessero… facevano parte di un ambiente in cui si conoscono tutti. Sembra che fossero iscritti allo stesso circolo di bridge, ma Sir Lionet non si faceva vedere a un torneo da anni, benché pagasse regolarmente l’iscrizione»

«E voi state… ehm, seguendo questa pista?», domandò John.

Lestrade si strinse nelle spalle. John ebbe l’impressione che Holmes stesse reprimendo una risatina, ma decise di ignorarlo e continuò:

«Non avevano nient’altro in comune? Politica, ad esempio?»

Lestrade rispose che erano iscritti a due partiti diversi, che non risultava avessero investito nelle stesse attività; Sir Lionet frequentava una certa chiesa nel West End, Lord Mulray era ateo; l’uno aveva come hobby la pesca, l’altro era animalista. Non c’era traccia di collegamento, nemmeno la più labile.

Holmes, a questo punto, sbuffò. Gli altri due si voltarono a guardarlo – Lestrade con un sopracciglio pericolosamente alzato – e aspettarono che parlasse.

Lui non tardò ad accontentarli.

«La polizia», scandì, «non sa fare altro che ignorare gli indizi. Sembra che vi divertiate a farlo. Più sono evidenti, e più sforzi fate per non vederli». Sospirò, con aria teatrale.

L’ispettore non tradì segni di irritazione o di impazienza, ma John avrebbe scommesso che una delle sue gambe avesse iniziato a ballare, sotto la scrivania ingombra di pratiche.

«Tanto per cominciare, non è nei loro conti in banca che troverete la vostra pista, come il dottor Watson la chiama. È chiaro che cambiali e obbligazioni non hanno nessun peso in questa storia. Siamo davanti a due delitti che potremmo definire passionali»

«Abbiamo vagliato quell’ipotesi», lo interruppe Lestrade con voce stanca «e non regge. Nessuno dei due aveva amanti.»

«Niente di così ovvio, naturalmente», lo rimbeccò Holmes. «No… la traccia c’è, ma ancora non la vedete. Il dottor Watson prima ha parlato di politica. Non era del tutto fuori strada. Che cosa otteniamo se sommiamo la politica ai sentimenti?» domandò.

Nessuno dei suoi interlocutori ne aveva la minima idea. John si sforzò di trovare un senso alle parole di Holmes, di seguire la via che il suo dito indicava, ma niente.

Lui alzò gli occhi al cielo, e chiese: «Erano sposati? Con donne o uomini? Omega o beta?»

«Entrambi sposati con donne omega», rispose Lestrade. «E allora?»

«E allora dovete cominciare a farvi le domande giuste. Per esempio, che rapporto avevano con le mogli? Che vita facevano condurre loro?»

Lestrade alzò le spalle. «Se sospetti che ci sia dietro una storia di violenza domestica devo deluderti, non abbiamo nessun elemento per sospettarlo».

«L’alta società inglese è piuttosto conservatrice, certi panni tende a lavarli in privato», rispose Holmes. «Ma di solito queste storie saltano fuori ugualmente, se si sa a chi chiedere. No, non è questo che dobbiamo cercare».

«E allora cosa?»

Holmes rimase zitto per un minuto o due.

«Le due omega sono la chiave della vicenda», mormorò infine. Aveva l’aria assorta, mentre dondolava la gamba destra, accavallata sull’altra con indolenza.

«Le abbiamo interrogate», rispose Lestrade. «Niente. Sono entrambe distrutte, ma non ne sanno niente.»

«Dovete scavare nel passato di queste donne.» 

L’ispettore si strinse nelle spalle, nuovamente. «Lo abbiamo fatto, Sherlock. Non c’è proprio niente di sospetto. Sono stati matrimoni d’amore, lunghi e felici…»

Holmes sbuffò, impaziente.

«Credimi, non troverai nulla su quelle due donne. Amavano i loro mariti e sono devastate dalla loro perdita. Comunque, se lo ritieni utile puoi parlare con Lady Mulray: da qualche giorno non si stacca dalla sede dell’associazione di volontariato di cui fa parte.»

Gli occhi di Holmes si illuminarono, per un attimo. «Quale associazione?»

«Amici di O. Si occupano di prestare soccorso a… persone in difficoltà.»

A Watson non era sfuggita l’esitazione di Lestrade, che aveva prontamente distolto lo sguardo da lui. Probabilmente si trattava di una di quelle associazioni che si occupavano di aiutare gli omega.

«Finalmente un’informazione interessante»

«Pensi che l’associazione c’entri qualcosa?», chiese l’ispettore. «Onestamente non credo che…»

«Eppure penso che non possa essere che così», disse Holmes, tranquillo. «Naturalmente non si tratta che di un sospetto, per il momento. Dovrò indagare per conto mio per…»

«Ma non ha senso, Sherlock», protestò Lestrade, «l’Associazione di cui stiamo parlando è al di sopra di ogni sospetto. E poi, l’altra vittima non aveva alcun collegamento con tutto questo. Non risulta che Sir Lionet abbia mai fatto il volontario, né in un centro anti-violenza né in un canile, se è per quello!»

Holmes non si scompose. «Se i criminali lasciassero una lettera di spiegazioni alla polizia ogni volta che compiono un delitto, ispettore, vivremmo in un mondo assai didascalico». E aggiunse, con un certo sussiego: «Pensate a quanto sarebbe noioso.»

Lestrade aveva l’aria di uno che non avrebbe trovato noiosa una vacanza. Lo sguardo che rivolse a Holmes sembrava suggerire al detective privato di risparmiarsi certe ironie. «Potrebbe trattarsi di un serial killer che sceglie le sue vittime tra alpha benestanti», ragionò.

«Sarebbe inusuale», osservò Holmes mansueto, «ma non impossibile. Continui»

«Oppure potrebbe sceglierli a caso. Magari li punta, li segue fino a casa e lì li uccide. Poi li mutila. In ogni caso, riteniamo che la mano omicida sia la stessa in entrambi i delitti».

«Almeno su un elemento siamo d’accordo», rispose Holmes. «Sono lieto che la polizia sia abbastanza saggia da indagare sulle attività benefiche di Lord e Lady Mulray. È una decisione che condivido».

«Ma veramente…», iniziò a protestare Lestrade.

«Dal canto mio», continuò Holmes, ignorandolo, «ho delle ipotesi che intendo verificare al più presto. Avrai mie notizie entro domani sera». Diede un’occhiata al proprio orologio da polso, e si alzò per dirigersi verso il cappotto, abbandonato su un appendiabiti vicino alla porta.

Lestrade gli rivolse uno sguardo grave. «Sherlock.»

Holmes indossò il cappotto.

«Se hai delle informazioni, non puoi nasconderle alla polizia. Non posso continuare a coprirti coi miei colleghi. Non sei esattamente la mascotte del Dipartimento…»

La porta si richiuse dietro Holmes con un rumore secco.

John Watson fissò sbalordito l’Ispettore di polizia, che non mascherò un sospiro. Più rassegnato che stizzito, Lestrade gli strinse la mano, congedandolo.

 

 

Erano le otto passate quando Watson rincasò. Mise dell’acqua a bollire e si lasciò cadere sulla sedia (l’unico mobilio a disposizione in quel monolocale economico e angusto), mentre riviveva la giornata appena trascorsa.

Il suo futuro coinquilino era pazzo. E, ancora peggio, era un alpha. Prudenza, razionalità e buonsenso sconsigliavano a gran voce di trasferirsi a Baker Street. Eppure, per qualche motivo insondabile, John sentiva di avere voglia di farlo… Forse perché Holmes, per quanto eccentrico, non sembrava un uomo pericoloso. O forse perché quella folle giornata era la prima a distinguersi dalle mille giornate incolori che l’avevano preceduta.

E poi, non aveva molte alternative: la sua pensione da reduce bastava a malapena per continuare a vivere in quel buco. Tornare a Londra gli era sembrata una buona idea, dopo il congedo, ma poche settimane erano bastate a convincerlo che sarebbe presto finito come tanti ex soldati di cui aveva avuto notizia. Diversi si erano dati all’alcol, qualcuno viveva per strada. Aveva addirittura sentito di un tale che, tornato dall’Iraq, aveva fatto irruzione in un tribunale con un maiale. Chissà come se l’era procurato. 

Erano pochi quelli che riuscivano a reinserirsi. Lui stesso, benché fornito di una laurea a pieni voti e di un buon impiego prima di arruolarsi, faticava a trovare lavoro – faticava anche a presentarsi all’ufficio di collocamento, a dir la verità.

La vita non è misericordiosa, pensò mentre sorseggiava il suo tè amaro, specie con omega, soldati e medici depressi. Una vera fortuna far parte di tutte e tre le categorie.

Queste lugubri riflessioni furono interrotte dal cellulare che si illuminava.

 

Si ricordi il contratto.

SH

 

John bloccò lo schermo con un gesto stizzito. 

Subito dopo, un altro messaggio.

 

A Baker Street c’è qualcosa che le appartiene.

SH

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** 3. Alpha idioti ovunque ***


Capitolo Terzo

 

Alpha idioti ovunque

 

 

 

«Sono qui per la mia stampella!» 

John si rese conto di averlo urlato. Non si sentì in colpa: erano passati venti minuti da quando la signora Hudson gli aveva aperto la porta e aveva iniziato a ciarlare.

«Io speravo fosse venuto per rimanere! E invece non ha neanche portato le sue cose… Mi dia retta, giovanotto, non va bene affatto: non deve dargli troppa corda, non lo lasci così libero. Quelli come lui hanno l’abitudine di scapparsene sempre chissà dove… ne so qualcosa, io! Il mio defunto marito… ma non parliamo di questo. Il caro Sherlock ha sempre avuto il guinzaglio lungo, finora. Anche troppo! Quell’abitudine così irrispettosa di andarsene da un momento all’altro, mentre la gente gli parla! Se ne va a zonzo per Londra come un randagio, salta da un taxi all’altro e a volte sparisce per giorni interi. Oh, spero proprio che lei non abbia intenzione di lasciarglielo fare… Lei dovrà farsi rispettare, caro. Dia retta a me, non ai figli dei fiori… tutte quelle chiacchiere sulla libertà. Libertà, libertà… Da libero a libertino il passo è breve!»

John tirò un lungo sospiro. Avrebbe tanto voluto avere la capacità di fuga di Sherlock Holmes. Invece era uno zoppo, prigioniero di una vecchia signora troppo affettuosa per potersene liberare.

La verità era che la signora Hudson gli piaceva. Avrebbe potuto tollerare di averla come governante. Rientrare a casa la sera, passare a provarle la pressione e fare due chiacchiere con lei… Doveva solo riuscire a farle entrare in testa che lui e il suo coinquilino non stavano per sposarsi.

«Naturalmente non voglio immischiarmi nelle vostre questioni, caro. Non sono una di quelle vecchie impiccione, sa? Oh no, non c’è in tutto il quartiere una sola donna meno pettegola di me. Di certo non la signora Spencer, che la settimana scorsa…»

John sintonizzò il cervello su un’altra stazione, mentre la seguiva su per le scale.

L’appartamento era esattamente nelle condizioni del giorno precedente: lo stesso disordine, e polvere accumulata in gran quantità sul pavimento e su tutte le superfici piane. 

L’incuria però era probabilmente la cosa meno strana. Ovunque c’erano oggetti incongrui. Una maschera tribale appesa al muro e una pila di fascicoli traballante sul tavolino erano gli unici elementi lontanamente ordinari nella stanza. Sulla mensola del caminetto, a fare gli onori di casa, c’era un teschio umano. Accanto al teschio, il coltello col manico d’osso con cui gli aveva visto infilzare la posta il giorno prima. Sopra la scrivania, John sorprese riviste accademiche e giornali di gossip in atteggiamenti promiscui; sotto la scrivania invece erano incastrati una valigetta rosa, un cartello stradale e una cuccia per cani piena di libri. La libreria, in compenso, era vuota per metà. La sua enciclopedia medica ci sarebbe stata perfettamente. 

«Si sieda, le preparo qualcosa da mangiare. Scommetto che non ha fatto colazione… siete tutti uguali voi scapoli!» berciò la signora Hudson. «Ma badi, è solo per questa volta. Non sono la vostra governante.»

«Certo», rispose John, soffocando una risatina. «Il signor Holmes…?»

«Oh, arriverà», rispose la signora Hudson, per riprendere quasi subito i pettegolezzi da dove li aveva lasciati.

Probabilmente non è rientrato stanotte, pensò John. Ma perché ci stava pensando? Non gli interessavano le abitudini di Sherlock Holmes. Anzi, doveva sperare che si sarebbero visti e frequentati il meno possibile. Ed era probabile che andasse proprio così: in fin dei conti, nessuno dei due sembrava il tipo di uomo che passa molto tempo in casa.

«… e naturalmente l’estate scorsa non è affatto andata nel Kent, come potrà ben immaginare. Ma scommetto che non indovina dove l’hanno sorpresa, e con chi…» 

 

 

Nel pomeriggio, John decise di fare felice la signora Hudson e cominciò a trasferire le sue cose. Di Sherlock Holmes non si era ancora vista vista l’ombra, a Baker Street.

Probabilmente era andato a interrogare la moglie della seconda vittima, Lord Mulray. Comunque, John era felice che non ci fosse, perché ciò gli dava l’occasione per sistemare un po’ la casa.

Decise di iniziare dalla libreria. Spostò i pochi libri di Holmes a sinistra, e sulla propria metà impilò ordinatamente i numerosi (e pesanti) volumi dell’Enciclopedia medica, i manuali su cui aveva studiato all’Università e che aveva deciso di tenere – su tutti troneggiavano il Gray e l’Harrison – e una serie di cartelline grigie in cui aveva raccolto articoli scientifici debitamente divisi per argomento e per data.

Passò quindi ad occuparsi della sua camera da letto, ma quella richiese ancora meno sforzi. Aveva una sola valigia per i vestiti: pigiama, tre paia di jeans e pochi maglioni in più, spazzolino, shampoo e bagnoschiuma. Un paio di pantofole che si infilò direttamente ai piedi. Nel complesso, un quadro abbastanza deprimente.

Scese al piano di sotto.

In cucina, tra i piatti incrostati (alcuni ancora pieni di cibo) dimenticati un po’ ovunque, John fu sorpreso di trovare un piccolo laboratorio di chimica. Piccolo, sì, ma ben fornito. Sopra il microonde c’era una centrifuga, usata per chissà quale scopo – probabilmente non per preparare la spremuta per il brunch domenicale. Abbandonati lì vicino c’erano anche un imbuto separatore, numerose cannule e qualche becher, e un agitatore magnetico; il fiore all’occhiello, comunque, era un contenitore pieno dei resti, secchi, di una sostanza non identificabile: ovviamente era senza coperchio, e pericolosamente vicino alla zuccheriera.

Che c’entrasse o no col lavoro di Holmes, gliel’avrebbe fatto sgomberare. Non ci teneva a condire l’insalata con l’arsenico. Anche se era un alpha, Holmes avrebbe imparato a rispettare le proprietà comuni.

Era intento a questo genere di riflessioni, quando il suo coinquilino sbucò dalla porta che dava sul corridoio e sulla tromba delle scale.

«John», lo salutò frettolosamente, «si sbrighi, non abbiamo tempo».

«Non abbiamo tempo?», lo rimbeccò John.

Ignorando del tutto il suo sarcasmo – sempre che fosse in grado di riconoscerlo – Holmes aggiunse, a mo’ di spiegazione:

«Dobbiamo andare in obitorio.»

Rimpiangendo amaramente il momento in cui aveva deciso di concedersi l’uso delle pantofole, John risalì al piano di sopra per rimettere le scarpe, scese claudicando fino all’ingresso, chiuse la porta e salì sul taxi in cui Holmes lo aspettava.

Solo a quel punto si rese conto che non era formalmente costretto a fare tutto quel che diceva Sherlock Holmes.

 

 

«Ci sono alcune cose che non mi sono chiare», esordì Watson. «Ieri ha detto di aver scoperto il secondo omicidio prima della polizia, ma…»

«Non ora, dottore», lo zittì l’altro, senza staccare gli occhi dal telefono. John tuttavia notò un sorrisetto storto, lieve, che gli increspava le labbra appena. 

Holmes continuò a digitare freneticamente sullo smartphone per cinque minuti buoni. La sua concentrazione era assoluta. Anche se lo conosceva solamente da un giorno e mezzo, John aveva già avuto modo di notare che quando era in quello stato non era possibile comunicare con lui, distrarlo o ottenere alcuna reazione. Si chiese pigramente se unendo tutti i tratti autistici di quell’uomo sarebbe venuto fuori il disegno di un unicorno petulante, o di un consulente investigativo, come si faceva chiamare…

«Ora può iniziare con le domande», disse Sherlock Holmes all’improvviso.

John sbuffò. Unicorno petulante, decisamente.

«D’accordo. Come ha fatto a scoprire il secondo omicidio prima della polizia?», chiese.

«Noioso. Può fare di meglio», rispose Holmes con un ghigno, riponendo il telefono in una delle ampie tasche del suo cappotto.

«Perché ha chiesto a Lord Frenkel che reazione avesse avuto la moglie quando hanno ricevuto quel messaggio in codice? E come faceva lui a sapere che si tratta di minacce di morte?» sputò fuori John.

«Sta migliorando… continui.»

Che faccia da schiaffi.

«Che cosa siamo andati a fare ieri a Scotland Yard, se non vuole dire alla polizia di Lord Frenkel? E perché quell’uva dovrebbe essere una minaccia di morte… non sarebbe stato più chiaro un biglietto?», continuò John. «Se io ricevessi un chicco d’uva per posta, penserei a uno scherzo. Una lettera sarebbe stata più minacciosa».

«Questo ci dice qualcosa di lei, dottore», gli rispose Holmes, bonario. «Che è una persona pratica, ad esempio. Che non ha nemici noti. E che non ha mai avuto contatti con società segrete o associazioni criminali».

John lo fissò, aspettando che proseguisse.

«Prima non era fuori strada, quando ha chiesto come facesse Lord Frenkel a sapere che quel messaggio era una minaccia ben precisa. Il mio sospetto è che non lo sapesse, almeno non con certezza. Ma il fatto che si sia rivolto a me, invece di pensare ad uno scherzo, mi fa pensare che abbia un’idea di chi potrebbe esserci dietro», concluse.

«E perché non glielo ha chiesto?»

«Sarebbe stato inutile. Se la mia ipotesi è esatta, Lord Frenkel teme per l’incolumità di uno dei suoi cari, oppure teme che sia coinvolto in qualcosa di poco onorevole. Capisce bene che non mi avrebbe detto nulla che potesse comprometterli», spiegò Holmes. «Infatti è venuto da me per accertarsi dei suoi sospetti riguardo il messaggio in codice, ma non ha contattato la polizia».

«Forse si è spaventato quando ha saputo di quei due omicidi», disse John.

«È probabile», rispose Holmes. «I notiziari nazionali non ne hanno parlato, su richiesta della polizia, ma la notizia a Londra è sulla bocca di tutti.»

Detto questo, Holmes tornò a fissare il vuoto davanti a sé, come se la conversazione fosse finita.

Il taxi procedeva a rilento nel traffico londinese; Watson contava distrattamente le goccioline di pioggia che correvano lungo il finestrino, ragionando tra sé sul caso. Non era sicuro di riuscire a seguire alla perfezione l’intreccio di dettagli che Holmes gli aveva snocciolato. Non si considerava certo un uomo ottuso, ma doveva riconoscere che il suo strano aspirante coinquilino aveva una mente eccezionale. Probabilmente Holmes era davvero in grado di sciogliere la matassa aggrovigliata di quella macabra storia. Forse era l’unico uomo in tutta Londra in grado di farlo. John non capiva, però, perché fosse così ostinato nel tenere la polizia all’oscuro di tutto. Stronzate da alpha, probabilmente. Orgoglio, o esibizionismo, o chissà cos’altro.

Arrivarono al Bart’s dopo quasi quaranta minuti. Sherlock Holmes pagò il tassista senza battere ciglio e poi si diresse a passo spedito verso il padiglione D, quello in cui si trovava l’obitorio.

Watson se lo ricordava bene, dai tempi dell’Università. Lì aveva assistito alla sua prima autopsia, il terzo anno di medicina. A ripensarci, sembra fosse passata più di una vita intera da allora. Nessuno avrebbe riconosciuto in lui il ragazzo magro e biondo che seguiva le lezioni con Mike Stamford e sognava di specializzarsi in Chirurgia Generale – branca insolita per un omega, come ci tenevano a ricordargli spesso…

«Di qua!»

La voce di Holmes lo scosse dalle sue malinconiche rimembranze. Come il giorno prima a Scotland Yard, John faticava a stare al passo, con la stampella e la gamba che si ritrovava. Zoppicava visibilmente e senza grazia per i corridoi bianchi e azzurri del padiglione, e riuscì per un soffio a infilarsi nell’ascensore che si chiudeva alle spalle di Holmes.

«Dovrebbe rallentare!», ringhiò.

«Dovrebbe liberarsi di quella stampella», ribatté Holmes, senza battere ciglio, mentre premeva il lungo dito diafano sul -2.

Watson la strinse ancora più forte, stizzito.

«Dove stiamo andando?»

«Dottoressa Hooper» rispose Holmes, cupo. «Pessima come medico legale, ma è l’unica che può aiutarci.»

«E perché?» chiese John, perplesso.

La risposta non tardò ad arrivare. La incontrarono davanti alle macchinette dell’area caffè, a pochi passi dall’ingresso dell’obitorio: era bassa, era carina, era omega. Quando vide Sherlock Holmes, si rovesciò il cappuccino addosso.

«Dottor Watson», disse Holmes, «la Dottoressa Hooper».

John le porse la mano, gentilmente. La Dottoressa Hooper la strinse, lasciandogliela appiccicosa. Borbottò un: «…Molly» e concluse la propria presentazione con un sorriso imbarazzato.

Si diressero tutti e tre in obitorio, e, mentre Holmes bisbigliava qualcosa con tono concitato all’orecchio della dottoressa, John la osservò con un misto di curiosità e apprensione. Il suo visetto dolce gliel’aveva resa istintivamente simpatica, senza contare che era una collega di professione e di status. Proprio quest’ultimo dettaglio, però, fece ruggire qualcosa che viveva nascosto in fondo al suo stomaco. Non gli piaceva affatto il modo in cui guardava Holmes… come un cerbiatto che non desideri altro che essere sbranato.

«… dovresti mostrare il corpo al Dottor Watson, Molly. Lasciargli dare un’occhiata»

«Sherlock, lo sai che non posso», rispose lei, quasi balbettando.

«Solo per questa volta», sussurrò Holmes, suadente. «È venuto apposta per vederlo. Mi serve il suo parere professionale».

«Noi… noi abbiamo già fatto l’autopsia», provò a protestare la Dottoressa Hooper. «Non posso proprio, Sherlock…»

«Lascia solo che dia un’occhiata, d’accordo?», tagliò corto Holmes.

La dottoressa Hooper, probabilmente ubriaca della sua scia, si lasciò condurre nella camera mortuaria. Aprì con un gesto automatico la cella frigorifera, che ospitava due salme avvolte in una sacca in plastica, ne scoprì una davanti a loro e si fece da parte.

«Allora? John?»

Watson fece un respiro profondo, cercando di ignorare tanto il tono insistente di Holmes quanto la cascata di ferormoni che aveva riversato nella stanza. Non poteva biasimare la povera dottoressa Hooper. Essere omega era un inferno.

«Non sono un medico legale» cominciò, scontroso. «Potrei dirle che quest’uomo sulla destra è morto da almeno quarantotto ore, ma non le direi niente di nuovo».

Era strano vedere un alpha conciato così. Non solo perché era poco frequente. Eppure, non era solo questo a turbarlo. Era la sua tendenza istintiva, insopprimibile, in qualche modo connessa all’essere omega, a vedere gli alpha come individui quasi invulnerabili. John si sarebbe tagliato una mano piuttosto che ammetterlo, ma non riusciva a non pensare a quanto doveva essere stato diverso quell’uomo, quand’era in vita. Imponente, protettivo. La sua stazza lo induceva a immaginarlo così. Eppure, il corpo che aveva davanti era inerme nella morte.

Il cuore di John si gonfiò di una tristezza particolare, opprimente.

«John?»

La voce di Sherlock Holmes lo scosse. 

Deglutì, e cercò di concentrarsi per tirare fuori qualche informazione in più.

«Le mutilazioni sono effettivamente post mortem», disse. «Causate da un oggetto appuntito, lungo tra i venti e i venticinque centimetri.»

«Era davvero un coltello da cucina?», chiese Holmes.

John si costrinse a guardare più attentamente la zona pelvica del cadavere.

«Sì, è possibile. La lunghezza e la profondità dei tagli sono compatibili».

All’uomo erano stati asportati pene e testicoli. Chiunque fosse l’assassino, non aveva fatto un buon lavoro: una parte dello scroto, a sinistra, era ancora attaccata al corpo, pendula e bluastra. Il taglio non si presentava netto, ma frastagliato, scomposto in sezioni di diversa lunghezza e direzione. La pelle livida testimoniava che l’asportazione era stata effettuata da qualcuno che voleva segare via i genitali, senza particolari scrupoli di precisione, e probabilmente con una lama poco affilata.

«Penso che l’abbia fatto in fretta», mormorò John. «Un macellaio».

Deglutì di nuovo, due volte. Aveva la gola secca.

«I macellai sarebbero molto offesi dal paragone», commentò Holmes, leggero. «Loro sanno come tagliare la carne».

«Non dovrebbe».

«Non dovrei cosa?»

«Fare dell’ironia su un cadavere. Questo cadavere», precisò John. 

«Mi ricorda la signora Hudson», commentò Holmes, alzando gli occhi al cielo. Era chiaro che non era per nulla turbato dal rimproverò.

John ringhiò sommessamente.

«Un uomo è morto», gli ricordò.

«E io troverò il suo assassino», rispose Holmes, senza battere ciglio. «Mi sembra l’unico elemento rilevante».

«Forse qualcos’altro che conta c’è.»

John era urtato. Urtato dall’insensibilità di Holmes. Urtato dalla dottoressa Hooper, che camminava su e giù, nervosamente, davanti alla porta dell’obitorio, divorata dal timore che qualcuno li scoprisse. Ebbe di nuovo un moto di pietà e fastidio, guardandola.

«Non dovremmo nemmeno essere qui», disse.

«È libero di andarsene», rispose Holmes, freddo. 

Stava ancora esaminando il corpo, chino su di esso, vicinissimo alla pelle livida e al nauseante fetore che emanava, nonostante il freddo della cella di conservazione.

John inspirò, gonfiando i polmoni fino al limite della loro estensione. Trattenne il fiato per qualche secondo. L’impulso prevalente era quello di prendere Holmes a testate. Forse piantarlo in asso era davvero la cosa migliore che potesse fare: se non altro gli avrebbe insegnato il valore del tatto. Se c’era una cosa che John non sopportava, negli alpha, era proprio la presunzione di poter fare e dire quello che volevano, senza curarsi dei sentimenti degli altri – una presunzione che Sherlock Holmes aveva già dimostrato di possedere in abbondanza.

«Oppure», continuò Holmes, mentre afferrava la mano sinistra del cadavere, «può smettere di concentrarsi su ciò che è irrilevante e concludere l’esame autoptico. Magari mi dirà finalmente qualcosa di interessante».

Fu un moto d’orgoglio, non altro, a impedire a John di mandarlo istantaneamente dove meritava di essere mandato. Avrebbe dimostrato a quel bellimbusto che sapeva fare il suo mestiere.

«Gli esami tossicologici?»

«Tutti negativi», rispose in automatico la dottoressa Hooper. Dava loro le spalle e continuava a controllare l’ingresso. «Sherlock, il turno di Dave inizia tra dieci minuti…»

«Per allora avremo finito» rispose Holmes.

«Non…»

«Dammi solo qualche altro minuto, Molly» disse Holmes. Stavolta non c’erano tracce carezzevoli nel suo tono. Se possibile, questo irritò John ancora di più.

«È morto per asfissia.»

Holmes si voltò verso John.

«Come dice?» 

«La ferita al collo», spiegò John, «non è quella la causa della morte. Hanno cercato di sgozzarlo, ma lui ha lottato. La ferita è superficiale, vede?». Indicò i lembi bluastri della pelle del collo, che si aprivano di pochi millimetri verso l’esterno. 

«Quindi è riuscito a bloccare la mano del suo assassino», sussurrò Holmes. «Era un uomo dai riflessi pronti. È stato un attacco a sorpresa, ma lui è riuscito a reagire».

Era la prima volta che nella voce dell’alpha si sentiva una sfumatura di rispetto.

«Questi segni», continuò John, indicando gli ematomi che deturpavano il collo largo del cadavere, «indicano lo strangolamento».

«L’assassino non ha perso tempo. Era pronto a colpire una seconda volta. Quale assassino ha un piano di riserva? Chi non si fida del proprio coltello?» 

John alzò le spalle. Quelle non erano domande a cui potesse rispondere un medico. E comunque Holmes sembrava rivolgersi più che altro a sé stesso. Quando fu chiaro che il detective non avrebbe aggiunto altro, John continuò:

«È stato ucciso con una corda, o un nastro, sottile ma resistente. Le ferite al ventre sono state inferte con furia, questione di pochi attimi. Secondo me…» 

«… l’assassino aveva poco tempo», concluse Holmes per lui. «Forse aveva paura di essere scoperto. Ha cercato di colpirlo alla gola. Lo aveva di fronte – altrimenti Lord Mulray non avrebbe avuto la possibilità di accorgersene e di provare a difendersi. Ha lasciato cadere il coltello e ha scelto di usare la corda. Più difficile, ma stavolta ha funzionato. Quando era certo che la vittima fosse morta, ha raccolto il coltello e ha completato la sua opera». 

Mentre descriveva la dinamica presunta dell’omicidio, Holmes – con gli occhi socchiusi e le labbra ridotte a una fessura – mimava i gesti dell’assassino, prima stringendo una corda immaginaria intorno a un immaginario collo, e poi chinandosi per raccogliere il coltello, concludendo la propria interpretazione con uno svolazzo del lungo cappotto blu.

«È proprio sicuro che sia morto asfissiato?», domandò, teatrale, a Watson.

«Sì», confermò John. «Le escoriazioni sul collo e le petecchie nell’area orbitale non lasciano dubbi.»

«Oh, Molly!», esclamò Holmes. «Non è meraviglioso?»

La dottoressa Hooper rivolse loro uno sguardo preoccupato. Aggrottò le sopracciglia e guardò nervosamente la porta, prima di ripetere un’altra volta:

«Dovete andarvene.»

 

 

«Questo avresti dovuto mostrarmelo subito» disse Holmes circa venti minuti dopo, rivolto alla dottoressa Cooper.

Erano sgattaiolati fuori dall’obitorio insieme a lei, che li aveva quasi trascinati di peso prima il suo collega iniziasse il turno e li trovasse con le mani nel sacco – letteralmente.

La dottoressa alzò le spalle.

«Non… pensavo che… l’abbiamo trovato tra i suoi effetti personali», balbettò.

Tra le mani di Sherlock c’era un acino d’uva, scurissimo, identico a quello che John aveva visto il giorno prima a Baker Street.

«E dov’era?»

«Ce l’aveva in tasca. Nella tasca destra nel soprabito…», rispose lei. 

Sul volto di Holmes si dipinse un’aria raggiante.

La dottoressa Hooper lo fissò con un’espressione di pura perplessità negli occhi. Era chiaro che, per lei, tutta l’attenzione dedicata a quel dettaglio non aveva senso.

John, invece, capì che quello era un indizio fondamentale perché collegava in maniera inequivocabile il secondo omicidio al caso di Lord Frenkel. Un lungo brivido gli corse lungo la schiena. Per un attimo, aveva immaginato che ci fosse proprio Lord Frenkel, l’uomo distinto e affascinante che aveva conosciuto, sul tavolo dell’obitorio, nudo e mutilato.

Holmes propose di proseguire la conversazione davanti a un caffè, al bar dell’ospedale. Aveva ancora delle domande da rivolgere alla dottoressa Hooper, con cui parlò fitto fitto per tutta la durata del tragitto. Senza camice e coi capelli sciolti la dottoressa era molto carina – John lo notò con un pizzico di dispetto. Si protendeva involontariamente verso il signor Holmes, mentre lui le parlava, come aveva fatto per tutto il pomeriggio; dal suo collo e dalle ghiandole retro-auricolari emanava un afrore intenso, dolciastro.

La sua scia non mentiva. Quella donna era interessata a Holmes, o meglio, era completamente incantata da lui.

«Avrei potuto chiederti il referto dell’autopsia, ma non sarebbe stato altrettanto divertente», stava berciando Holmes, decisamente di buon umore. «Senza contare la quantità di dettagli fondamentali che sfugge ai medici legali e alla polizia… per esempio, scommetto che quando avete refertato i suoi effetti personali non avete prestato attenzione alla fede».

Dopo essersi fatto cacciare dall’obitorio, Holmes era riuscito a mettere le mani sui vestiti e i gioielli del defunto, e li aveva analizzati scrupolosamente.

«La sua fede?», chiese la dottoressa Hooper, ipnotizzata.

«Sì. Era d’oro bianco. Tra i membri dell’alta società inglese, l’oro bianco si sceglie per celebrare un Legame tra alpha e omega.»

Alla parola Legame, la dottoressa deglutì rumorosamente.

«E quindi?», chiese John.

Holmes gli rivolse un sorriso condiscendente.

«E quindi, dottore, all’interno della fede erano incise quattro leggere: A. M. S. M. Si deduce facilmente che le prime due sono le iniziali di Lord Alistair Mulray, le altre devono appartenere alla sua dolce metà. C’era anche una data, e valeva la pena di notarla» spiegò Holmes, con sussiego. «12/23/1978».

«12/23…»

«Esatto.» 

«Americani?» chiese John.

«Lord Mulray è inglese, come i suoi avi. Dai tempi di Enrico IV, a occhio e croce», rispose Holmes. 

«La sua compagna, o il suo compagno, allora…»

«Compagna. Inglese anche lei.» 

«Può trattarsi di un errore? O di… di una coincidenza», intervenne la dottoressa Hooper.

Holmes le rivolse uno sguardo di benevola sopportazione, che fece alzare gli occhi al cielo a John.

«Lui è come Dio, non crede nelle coincidenze», commentò. 

Anche quella volta, il suo sarcasmo andò sprecato. La dottoressa Hooper sgranò gli occhi, Holmes invece sorrise compiaciuto.

 

 

Fu John a fermare un taxi, una volta usciti dal Bart’s. O per meglio dire, fu John a lanciarsi davanti alla prima vettura che sembrava lontanamente disposta a rallentare, rischiando di finire lungo e disteso, stampella e tutto il resto.

Holmes si limitò ad alzare gli occhi su di lui, senza fare commenti.

Il tragitto verso Baker Street durò molto meno che all’andata, e John ne fu segretamente felice. Tornare all’ospedale universitario gli aveva fatto rivivere certi lontani ricordi, ormai velati di malinconia – e l’incontro con la dottoressa Hooper, per non parlare del contegno di Holmes, non avevano certo favorito il dissiparsi del suo malumore.

Holmes scese per primo dall’auto, lasciando la portiera aperta dietro di sé. 

A John non rimase altro da fare che armeggiare, solo, con la stampella prima e col portafogli poi. Quando porse una banconota da venti sterline all’uomo seduto al posto di guida, si sentì sfiorare la mano, e provò un brivido istintivo.

«Ti ha lasciato qui da solo, eh?», chiese il tassista, con un tono di voce stucchevole.

John ritrasse la mano in fretta.

«Ho capito subito che quello lì non è un vero alpha… una scia come la tua, un bocconcino così gradevole… e non ti ha neanche rivolto la parola…»

John represse a stento un conato di vomito, nonché svariate risposte volgari.

«Non mi sembrano affari suoi», tagliò corto. 

Voleva solo prendere il resto e andarsene in fretta, prima che gli venisse la tentazione di fare a pugni. Quell’uomo però sembrò intenzionato a fraintendere il suo indugio:

«Che c’è? Vuoi farti un altro giretto?» chiese. «Saprei io dove portarti…»

John finalmente saltò giù dal taxi.

«Ladro», ringhiò.

Per tutta risposa, il tassista gli mandò un bacio da dietro il finestrino, e ripartì.

«Fanculo!»

 

John entrò in casa scuro in volto, ancora schifato dal trattamento viscido che aveva appena subito. Non vide Holmes in salotto, e si diresse al piano superiore, zoppicando e sbuffando. 

Quando si trovò sulla porta della sua stanza, la sua scia esprimeva tutta la frustrazione che provava, e non migliorò affatto quando udì una voce beffarda che lo apostrofava così:

«Gliel’ho detto, lei non sa scegliere i tassisti.»

John non rispose nemmeno, entrò in camera sua e sbatté forte la porta.

 

Non scese al piano di sotto fino alle undici di sera. Non aveva cenato, ma non aveva fame.

Se ne andò dritto in cucina, zoppicando solo leggermente, deciso a ignorare la sagoma scura che aveva intravisto sul divano.

L’atmosfera nell’appartamento era stranamente tranquilla. C’era un silenzio piacevole, che sapeva di casa. Dalla finestra giungevano, ovattati, i molteplici rumori della strada, ma sembravano così lontani, e così familiari… 

L’aria era pulita. Il livello di ferormoni era sotto controllo. John riusciva a percepire la scia del suo coinquilino, ma era tenue e non invasiva, ed era certo che anche la sua fosse così. Erano entrambi rilassati. Era strano – perché quella era la prima sera che passavano entrambi a Baker Street – ma era come se si fossero già abituati l’uno all’altro.

Quel pensiero fece provare a John un immediato senso di pace. Non era per niente scontato che accadesse. Forse Mike Stamford non aveva fatto una cazzata, dopo tutto.

John mise il bollitore pieno d’acqua sul fuoco, e andò ad accoccolarsi sulla poltrona che c’era davanti al caminetto.

Non sentiva il bisogno di parlare a Holmes, però non era infastidito dalla sua presenza. Seduto sulla sua poltrona – aveva appena deciso che sarebbe stata proprio la sua –, aspettava che l’acqua fosse pronta per il tè.

Fu Holmes a rompere il silenzio per primo.

«Mi dispiace per quel tassista», disse.

La voce era molto bassa, quasi gli fosse uscita dalla gola suo malgrado.

«Oh, beh», disse John. Non sapeva bene che dire.

«È stato molto sgradevole?»

«No. Sì.» 

«Ha pensato di sparargli, eh?», chiese Holmes, con l’eco di una risata nella voce.

«Solo per un momento», rispose John. Sorrideva anche lui.

«Comunque il suo tè sarà pronto», mormorò Holmes.

John si alzò e andò in cucina. Effettivamente l’acqua era bollente. Scelse una miscela di Keemun, che mise in infusione direttamente nella tazza.

Tornò in salotto. Holmes era ancora sul divano, fermo nella stessa posizione. Aveva un’aria rilassata, eppure John sospettava che dietro le palpebre socchiuse il suo cervello stesse ancora lavorando al caso.

«Lei mi è stato molto utile, oggi», disse all’improvviso Holmes. «In sua presenza ragiono meglio.»

John non se l’aspettava. «Oh… uhm, davvero?»

«Sì. Ha questa incredibile… dote di ascolto.»  

«Lei dice?», chiese John, tossicchiando.

«Sì. Pensare è la cosa più semplice del mondo, per me, eppure in qualche modo lei incrementa  la mia lucidità.»

John non sapeva proprio cosa rispondere. Si accorse che la tazza di tè gli stava ustionando la destra, e si affrettò a cambiare mano.

Holmes, apparentemente ignaro dell’imbarazzo che aveva causato, riprese a parlare del caso, come se nulla fosse:

«Stamattina mi ha chiesto come facessi a sapere del secondo omicidio prima della polizia. È molto semplice… la compagna del primo alpha ucciso mi aveva contattato attraverso una conoscenza comune, per così dire. Ho avuto la possibilità di esaminare il corpo insieme alla scientifica, e ho dedotto facilmente che si trattava di una sorta di esecuzione. Sospettavo però che il movente non fosse strettamente personale. Anzi, ero certo che fosse legato l’estrazione sociale della vittima. Così, ho detto a Lestrade che mi aspettavo un secondo omicidio. Nel frattempo, ho allertato alcuni dei miei informatori, chiedendo di riferirmi qualunque evento insolito che si fosse verificato tra le fila di alcune famiglie in vista di Londra… sparizioni, avvistamenti sospetti, un viaggio improvviso. Dopo neanche una settimana, uno dei miei informatori mi ha comunicato il nome della seconda vittima. Due ore dopo, mi ha chiamato Lestrade.»

John ascoltava il resoconto con interesse, mentre muoveva le mani lungo la tazza, ancora bollente.

«Così lei ha visto anche il corpo di Sir Lionet», commentò. «Aveva anche lui un acino d’uva addosso?»

«No», rispose Holmes. «Niente uva, da nessuna parte. Ma è stato il primo omicidio… penso che abbia ispirato il secondo. Come se l’assassino, o gli assassini, stessero aggiustando il tiro strada facendo», ragionò.

«Gli assassini?» chiese John.

Holmes non rispose alla domanda, troppo intento a seguire il flusso dei suoi pensieri. «Il modus operandi è cambiato. È chiaro che il nostro Lord Frenkel è la terza vittima designata… però lui è stato minacciato.»

«E Lord Mulray no?»

«No, John. Rifletta. Che cosa farebbe lei, se ricevesse lei una minaccia? Se ne andrebbe in giro portandola in tasca? No, è chiaro che quell’uva è stata messa addosso al cadavere, dal suo assassino». 

John non rispose subito. Rifletteva, sorseggiando il suo tè amaro.

«Ma perché l’assassino ha cambiato modus operandi?» chiese, dopo qualche minuto. «Perché passare alle minacce? Pensa che vogliano spaventare Lord Frenkel?», chiese John.

«Ne sono sicuro.»

«Ma in questo modo lo hanno allertato. Gli hanno dato la possibilità di scappare, no? O di avvertire la polizia».

Holmes sorrise, mentre guardava il soffitto. «Al contrario, John… era un modo per fagli sapere che scappare è inutile. Ovunque vada, loro lo troveranno. Non importa quanto tempo ci vorrà. Secondo l’assassino, Lord Frenkel ha fatto qualcosa di imperdonabile, e deve pagare per questo».

«Ma che cosa può aver fatto?», sbottò John. Non riusciva a immaginare che quell’uomo beneducato e affabile fosse immischiato in qualcosa di losco. 

Holmes alzò le spalle.

«Non lo so, ma lo saprò presto. E allora all’assassino non rimarranno molte carte… il gioco, amico mio, è cominciato.»

 


Nota dell'autrice:
Questo capitolo lo sto pubblicando senza averlo riletto, perché sono in ritardo con gli aggiornamenti. Spero che non ci siano incongruenze/mostruosità varie, nel caso perdonatemi e segnalatemele. Da questo momento in poi gli aggiornamenti saranno più lenti, perché sono in alto mare col lavoro e col prossimo capitolo... non odiatemi! Prometto che la storia avrà un finale. Non mancano molti capitoli, comunque.
Un ringraziamento speciale a chiunque sia arrivato a leggere fino a qui!

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=4048591