CASTIGATISSIMA DISCIPLINA

di Morgana_82
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Tear You Apart ***
Capitolo 2: *** Yes, I can. ***
Capitolo 3: *** Family Matters ***
Capitolo 4: *** Manuscripts Don't Burn ***
Capitolo 5: *** Chickens Have Come Home To Roost ***
Capitolo 6: *** Effort ***



Capitolo 1
*** Tear You Apart ***


I muscoli di Emmett guizzavano sotto la pelle tesa del petto e delle braccia come creature vive. Il giovane vampiro bruno incombeva alle spalle di sua moglie Rosalie e teneva gli occhi fissi su Edward. 
Lui e Rosalie si stavano fissando con odio nel bel mezzo della radura, e Emmett detestava non sapere quali pensieri della propria compagna suo fratello stesse percependo. Parole non molto gentili, probabilmente, dato che, d’un tratto il corpo di Edward si irrigidì e un ringhio ferino eruppe dalla sua gola.
Emmett strinse i pugni, tese i muscoli delle spalle e fece un passo avanti, pronto a scattare per difendere Rosalie. “Forza, cocco di papà, che cosa aspetti?” Pensò rivolto a Edward. Sapeva che suo fratello odiava essere chiamato così ed era divertente l’idea di stuzzicarlo in quel momento. 
«Levati di mezzo Em, questa cosa non ti riguarda», gli ringhiò in faccia Edward, poi si rivolse a Rosalie, con un sibilo feroce, «rimangiatelo Rose, rimangiatelo o ti farò mangiare la terra sotto ai miei piedi, brutta stronza».
Emmett scattò senza nemmeno pensare «A chi hai detto stronza?» ringhiò, e si lanciò sul fratello con tutto il proprio peso.
Carlisle era ad alcune miglia di distanza, sulle tracce di un alce, quando sentì il botto. Si fermò, perplesso, e voltò la testa in direzione del frastuono. Emmett e Edward? Che cosa poteva aver scatenato una lotta tra i suoi figli nel bel mezzo di una battuta di caccia? Scosse la testa e decise di non preoccuparsene più di tanto. Tra i due facilmente scattavano scintille ma dopo una sana scazzottata, avrebbero ripreso a cacciare tranquillamente. Portò di nuovo l’attenzione alle tracce del suo alce. 
Si fermò quasi subito, però, rendendosi conto, dai rumori che gli stavano arrivando alle orecchie, che quello non poteva essere un semplice bisticcio. La ferocia con cui si stavano battendo doveva essere stata scatenata da qualche cosa di grave. Sospirando, rinunciò all’idea dell’alce e si mise a correre, poco più di una scia colorata tra gli imponenti alberi della foresta di conifere, più silenzioso di un puma. In pochi attimi, piombò in mezzo a un turbinio di ruggiti e alberi abbattuti, il fracasso della lotta era probabilmente udibile per miglia e miglia di distanza.
«La ammazzo, la faccio a pezzi!» ringhiò Edward e si scagliò contro il fratello, il quale si frapponeva tra lui e Rosalie. La vampira bionda era al margine della radura squassata dal tornado Emmett/Edward e osservava la scena, impassibile. 
«Che cosa sta succedendo, Rosie?» le chiese Carlisle, sbalordito. Lei, per tutta risposta, girò le spalle e sparì nella foresta. 
Edward si fiondò per inseguirla, ed era talmente concentrato su di lei, che non si accorse di Emmett. Il grosso vampiro bruno lo afferrò per un braccio e, sfruttando l'effetto fionda, lo fece roteare come avrebbe fatto un lanciatore di martello, un piccolo tornado si formò nel centro della radura, fino a quando Emmer lasciò andare il braccio di suo fratello, che schizzò via come un proiettile, andando a impattare contro un secolare cedro rosso dal tronco del diametro di alcuni metri. Il botto fu come l’esplosione di una cannonata e l’onda d’urto sollevò un turbine foglie e rami. Il tronco si inclinò sotto l’impatto del corpo di Edward, che emise un grugnito sordo. Poi, dopo alcune frazioni di secondo di silenzio irreale, la foresta fu rotta di nuovo da un’assordante schianto di legno frantumato. Il tronco del cedro, alto almeno trenta metri, iniziò un inesorabile, fermo, lento, devastante tracollo verso il suolo, trascinando con sé altre decine di altri alberi, in un boato fragoroso di scricchiolii e crepitii. 
Carlisle guardò attonito la scena, sicuro che quel disastro e soprattutto il rumore non sarebbero passati inosservati. Meno di un’ora prima aveva udito nelle vicinanze il rumore di un elicottero della guardia forestale, e qualcuno sarebbe sicuramente venuto a controllare, temendo, come minimo, qualche azione di disboscamento illegale. 
«Basta, ragazzi! Santo cielo, che cosa vi è preso?» li supplicò, ma nessuno dei due sembrò averlo udito. Emmett era pronto a saltare di nuovo su Edward che, a sua volta, si stava alzando, gli occhi rossi di furia puntati al fratello. Carlisle si lanciò tra i due, provando a bloccare Emmett, che lo travolse con la furia di un toro a Pamplona. 
«Emmett, fermati!» gridò, «che state facendo, potrebbero sentirci!» Il vampiro più giovane lo ignorò del tutto. Lo spinse via con tale violenza che Carlisle si sentì sollevare da terra. Si rigirò in aria come un gatto e atterrò a diversi metri di distanza, rialzandosi all’istante. Era chiaro che non poteva farcela da solo. «JASPER!» gridò, sperando che l’ex soldato confederato fosse abbastanza vicino da sentirlo «JASPER, HO BISOGNO DI AIUTO, QUI!» 
Intanto, Edward ed Emmett si erano lanciati in un secondo round, ancor più feroce del primo. Si avvinghiarono, mordendosi a vicenda e lacerandosi i vestiti, fino a quando Emmett riuscì a mettere Edward spalle a terra, immobilizzandolo, e prima che Carlisle potesse anche solo immaginare cosa stava per accadere sotto i suoi occhi, Emmett lanciò un urlo ferino e staccò di netto un braccio al fratello. Carlisle lanciò un grido di orrore e Edward un grido di dolore, che si fusero insieme. 
Emmett si sollevò in piedi, ancora immerso nella furia berserker che lo aveva investito, stringeva nella mano il braccio reciso di suo fratello, che giaceva al suolo, gemendo «non chiamarla mai più in quel modo Ed, o la prossima volta non mi fermerò al braccio» Il giovane vampiro sentì una sensazione di calma pervaderlo improvvisamente, e il suo corpo si rilassò.
Edward si sollevò a fatica dal terreno, coperto di foglie e terreno, si afferrò la spalla, da cui il braccio era stato staccato. Anche lui si sentiva improvvisamente calmo, quasi intontito. Alzò lo sguardo sulla radura.
Vicino a Carlisle c’era Jasper, che li guardava.
Appena arrivato, Jasper era stato investito da un’ondata di emozioni feroci e dolorose, che quasi lo avevano lasciato senza fiato. Per fortuna non era lontano, aveva udito il richiamo di Carlisle ed era corso in suo soccorso.
«Grazie Jasper» disse Carlisle, sollevato. Con la sola propria presenza, Jasper aveva il potere di convogliare le emozioni a proprio piacere.
«Dovere, signore» rispose il vampiro e sembrò in procinto di scattare sull’attenti, ma si trattenne. Rimase però rigido e come in attesa di ulteriori ordini.  
Carlisle si avvicinò con cautela a Emmett, era un momento delicato, non voleva scatenare di nuovo la sua ira, e doveva proteggere entrambi i suoi ragazzi «Emmett» disse con tutta la calma che riusciva a trasmettere «Emmett, allontanati da Edward, per favore. Credo che tu ti sia aggiudicato questa sfida, vero? È finita, qualunque sia il motivo per cui è iniziata. Vorrei che smetteste di lottare, adesso. Siamo in un punto scoperto, non è sicuro restare ancora qui, ok?» gli posò una mano sulla grossa spalla, cercando di attirare la sua attenzione. Vide che Emmett non protestava e la sua postura era ancora rilassata. Dio benedica Jasper e il suo dono. Si arrischiò a sfilare il braccio di Edward dalla mano di Emmett «lasciami questo» disse gentilmente. 
«Mi dispiace,» mormorò Emmet lasciando andare l’arto reciso senza protestare, «non era mia intenzione».
«Lo so. È meglio se ci allontaniamo da qui, adesso. Va’ con Jasper e completa la tua caccia, hai bisogno di nutrirti. Ci vediamo a casa». Il grosso vampiro bruno annuì, distolse gli occhi dal fratello, ancora semi accasciato al suolo e si allontanò, senza dire una parola.
Rimasto solo con Edward, Carlisle emise un sospiro e gli si avvicinò con cautela. Suo figlio era molto vulnerabile, ora che uno dei suoi arti era stato staccato, ma non c’era fuoco nelle vicinanze e dunque non c’era poi tanto da preoccuparsi.
«Tutto a posto?» Gli chiese Carlisle.
«Certo, come no…» rispose il giovane vampiro, con amarezza «sono stato appena fatto a pezzi, ma sto una favola».
«Beh, ti consolerà sapere che non sei in pericolo di vita, dato che sei già morto» commentò Carlisle, con una nota ironica nella voce. Avvicinò alla spalla di Edward il suo stesso arto reciso. Il braccio si rianimò e si riattaccò al corpo del proprietario. 
«È stata tutta colpa di Rosalie» accusò Edward quando il braccio gli si fu riattaccato, non senza una fitta dolorosa. Carlisle lo fece alzare e i due si allontanarono dal luogo della lotta, per evitare di essere scoperti, in caso qualcuno avesse avuto intenzione di venire a controllare il motivo di quell’improvviso crollo di alberi «è stata lei a provocarmi» continuò Edward «e quell’idiota di Emmett si è messo in mezzo».
Si spostarono in fretta di diversi chilometri. Si fermarono in un punto in cui gli alberi erano abbastanza fitti da nasconderli e Carlisle si sedette ai piedi di un grosso acero, la schiena appoggiata al tronco. Edward si sedette accanto a lui «che cosa può mai aver detto Rose di così terribile da farti infuriare tanto?» gli chiese Carlisle «e che cosa hai detto tu di così terribile a Rose da far infuriare tanto Emmett?» 
Edward fissò intensamente le proprie scarpe, piene di polvere e terra «beh, io... credo di averle dato della stronza» con la coda dell’occhio vide l’espressione a metà tra l’ilarità e l’indignazione del suo padre adottivo «non sono stato proprio un gentiluomo, in effetti, ma quella…»
«Tua sorella, non quella» lo corresse gentilmente Carlisle «Rosalie è tua sorella e membro della nostra famiglia. Cerca di ricordartelo, per favore, almeno quando parli con me».
«Scusa» borbottò Edward «ma è stata lei a iniziare con gli insulti. La mia adorata sorella ha detto cose orribili di Bella, ha perfino minacciato di farle del male, se mi ostino a voler stare con lei». 
Carlisle aggrottò la fronte sorpreso «davvero Rosalie ha detto una cosa del genere? Non è affatto da lei…»
Edward sbuffò, lasciando ricadere la testa all’indietro, contro il tronco «sì, beh... forse, non l’ha proprio detto. Potrebbe averlo solo pensato» ammise contro voglia.
Carlisle sorrise, e scosse la testa «sono ragionevolmente certo che formulare un pensiero, non equivalga a esprimere una minaccia. Sai quante cose la gente pensa di fare e non mette mai in pratica? Il fatto che tu possa leggere nella testa degli altri, non ti dà necessariamente il diritto di emettere una sentenza».
Edward continuò a fissare davanti a sé «come posso sapere cosa la gente metterà in pratica, o meno? Per quel che mi riguarda, anche solo pensare di commettere un atto di violenza nei confronti di Bella, equivale a una minaccia reale».
«Interessante dilemma logico-ontologico» lo stuzzicò Carlisle «ovviamente ti rendi conto che un singolo pensiero riguardo a un evento futuro non può essere fin d’ora determinatamente vero o falso, come pretende la logica classica bivalente. Infatti, se lo fosse, il futuro non sarebbe contingente ma necessario, e quindi verrebbe meno il nostro libero arbitrio, in virtù di una sorta di “determinismo logico”».
Edward si alzò in piedi di scatto e sospirò esasperato «ti prego!» esclamò mentre si allontanava di alcuni passi dal padre adottivo «adesso non tirare in ballo Guglielmo da Ockham, o non so quale studioso polacco del ‘900» disse, rispondendo a un pensiero di Carlisle «non sono in vena di lezioni di filosofia, in questo momento». 
Carlisle rise «va bene, va bene. Niente Guglielmo da Ockham, sta tranquillo. Tornando a Rosalie, sai che è solo preoccupata, e non è l’unica, in famiglia. Ma nessuno di noi farebbe mai del male intenzionalmente a un umano, men che meno alla tua Bella.» Carlisle osservò il figlio adottivo, che fissava il vuoto, perso tra i suoi pensieri «allora, sei proprio deciso, con lei?»
«È quella giusta Carlisle» rispose il vampiro, in tono assente «lo sento. Quando sono vicino a lei io... mi sembra di impazzire, voglio solo toccarla, baciarla, farla mia per sempre. Sono malato?» 
«Direi che sei innamorato» disse Carlisle, con un sorriso. Poi indirizzò uno sguardo preoccupato verso un punto indefinito della volta arborea, osservando il debole gioco di luci nel fogliame, in una tipica giornata invernale dello Stato di Washington. Sono felice che tu ti senta così, pensò. E Bella sembra una ragazza molto dolce. Se fossi un vero padre e tu un vero figlio di 17 anni, non potrei essere più felice per la tua scelta. Davvero. Ma forse Rosalie non ha tutti i torti, ci stai mettendo in una situazione molto pericolosa. Te ne rendi conto?
Edward emise un lamento esasperato «ti ci metti anche tu Carlisle? Siete tutti contro di me?» 
Carlisle lo fissò, con aria ferita «mai, figlio mio. Mai contro di te» disse dolcemente. Nel tempo di un battito d’ali era vicino a suo figlio e gli mise le mani sulle spalle  «sono il primo che vorrebbe vederti felice, con una compagna al tuo fianco» gli disse guardandolo dritto negli occhi «ti chiedo solo di pensarci molto attentamente, una relazione con un’umana è davvero una cosa pericolosa, per decine di ragioni diverse».
Edward si sottrasse al contatto, dando le spalle al padre adottivo «non faccio altro che pensarci, Carlisle, credimi!» quasi gridò «da quando l’ho incontrata, mi sembra di non avere altro spazio nella mia testa. Me la sento esplodere» sferrò un pungo al tronco della conifera, lasciandovi un profondo foro.
«Ti credo» disse gentilmente Carlisle «so che anche tu tieni molto alla nostra famiglia e so che, qualunque sia la tua decisione, avrò fiducia del tuo giudizio.» Questo parve calmare leggermente Edward, il quale ritrasse il braccio dal tronco sfondato e si toccò la spalla roteando l’articolazione «non ho intenzione di abbattere altri alberi, non ti preoccupare» disse rispondendo a un pensiero di Carlisle «e il mio braccio sta bene. Come se Emmett non me lo avesse mai staccato». 
Carlisle annuì, «si è fatto un po’ prendere la mano, in effetti, se perdoni il gioco di parole.  Non voglio giustificarlo, ma sai quanto è protettivo con Rosalie».
Edward sospirò «già... lo so».
Carlisle si spolverò i pantaloni sportivi «in ogni caso» disse poi con tono ammonitore «mi aspetto che questa cosa tra te e i tuoi fratelli sia chiarita. In modo civile, possibilmente. Non voglio malanimi nella nostra famiglia. Intesi?»
Edward non rispose. Era rimasto con la schiena appoggiata al tronco, la testa reclinata all’indietro. Carlisle, alzò leggermente un sopracciglio «Edward Cullen, sono stato chiaro?» ripeté con tono leggermente ammonitore.
Edward roteò gli occhi, ma sorrise «sì, signore» rispose.
Carlisle gli arruffò i capelli in un gesto d’affetto «bravo il mio ragazzo. Adesso andiamo a caccia».
 

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Capitolo 2
*** Yes, I can. ***


Anche da lontano, Edward poteva percepire i pensieri preoccupati di Esme. Sapeva che lui ed Emmett si erano scontrati, grazie a una visione di Alice.
«Sto bene, mamma, non ti preoccupare» la rassicurò, quando la donna lo avvolse in un abbraccio soffocante. 
«Gli altri sono tornati?» Chiese Carlisle, dopo aver baciato sua moglie.
«Solo Jasper e Alice. Emmett e Rosalie non ci sono ancora, ma Alice ha detto che torneranno presto e che tu vorrai richiedere un’assemblea».
Carlisle annuì. In effetti, un’assemblea di famiglia era una buona idea, si erano tutti appena nutriti ed erano potenzialmente più ragionevoli, sarebbe stato più facile chiarirsi e ristabilire l’armonia del gruppo. “Parlare è sempre la scelta migliore”.
Carlisle salì nella propria camera per cambiarsi, i vestiti che indossava erano sporchi per la caccia nei boschi e non voleva rischiare di ricevere uno sguardo assassino da parte di Esme, se avesse osato sporcare il divano del salotto. Mentre indossava un dolcevita di cashmere italiano, color crema, e dei pantaloni di lana beige scuro, Carlisle udì il rumore della porta e capì che Emmett e Rosalie erano tornati. Si affacciò dalla balaustra del piano di sopra e incrociò lo sguardo di Rosalie. La vampira bionda lo scrutò in modo cupo. Lui le sorrise, sperando di addolcire il suo umore, ma lei distolse lo sguardo. Carlisle sospirò, rassegnato. Qualcosa mi dice, che andremo per le lunghe con questa faccenda «Famiglia Cullen, tutti a rapporto. Dobbiamo parlare», annunciò.
A quelle parole, Rosalie emise un lamento, «oh, no. Di nuovo questa pagliacciata del gruppo di sostengo. Vorrei poter vomitare», la sua voce aspra fu seguita da quella di Emmett, «e dai, piccola. Non fare così». 
Comunque, quando Carlisle entrò in salotto, vi trovò riunito tutto il Clan Cullen. La stanza era ampia e dal soffitto alto più di tre metri, con ampie vetrate che davano luce alle pareti di pietra, ornate di stampe e quadri d’arte contemporanea. Per terra, il parquet ad ampi listelli di mogano era coperto da grandi tappeti persiani. L’elemento predominante della stanza era l’imponente camino di pietra, che qualche volta accendevano per il puro piacere di vedere le fiamme lambire gli elaborati alari di ferro battuto. Nel complesso, la stanza avrebbe potuto essere tranquillamente inserita in qualche catalogo di Architectural Designs. Tutto merito di Esme, ovviamente. 
Altro must della stanza era il lungo divano di pelle bianca dal design essenziale, ai cui estremi erano accomodati Alice e Emmett. Alice sfiorava la coscia di Jasper con la sua piccola testa bruna, lui le teneva una mano sul capo, accarezzandole i capelli, mentre l’altra mano era piegata dietro la schiena, il giovane teneva la schiena dritta, in atteggiamento marziale. All’altro capo del divano, Emmett sedeva a gambe larghe, appoggiato allo schienale, lasciando che Rosalie, in piedi dietro di lui, con il bellissimo viso da Barbie Malibù distorto in una smorfia di disgusto, gli tenesse le mani appoggiate sulle spalle. Alla sinistra del divano, Esme si era accomodata su una sedia imbottita, senza braccioli, la schiena dritta e le mani compostamente adagiate sulle ginocchia. Edward, invece, restava un po’ in disparte, appoggiato allo stipite della porta che dava sulla cucina. Erano tutti perfettamente immobili. Non un fremito, non un palpito. 
Statue di cera nel museo di Madame Tussauds. 
Carlisle prese posto sulla poltrona di cuoio scuro, che campeggiava davanti al camino di pietra, a capo dell’assemblea. «Famiglia», esordì con un sorriso garbato, «credo ci sia bisogno di parlare di alcuni eventi che si sono verificati negli ultimi tempi e che hanno turbato i nostri equilibri. Vorrei che ci chiarissimo, al fine di ristabilire l’armonia e la pace tra di noi. D’accordo?» tutti annuirono, tranne Rosalie e Edward. 
«Molto bene» proseguì Carlisle «Chi comincia?» tutti rimasero in silenzio, Rosalie e Edward ostentando uno sguardo ostile, senza accennare a voler cogliere l’invito di Carlisle.
«Ok, vado io» disse Emmett. Carlisle gli indirizzò uno sguardo di apprezzamento, anche se sapeva che per suo figlio, il desiderio di essere al centro dell’attenzione era quasi pari al desiderio di correre in soccorso di Rosalie. 
«Questa mattina ero furioso con Edward e l’ho aggredito. Aveva insultato Rosalie e questo mi ha fatto scattare. Mi dispiace» disse guardando intensamente il fratello «non avevo intenzione di diventare così violento, ma lo sai che quando mi gira sono irrefrenabile. Ah, e ovviamente mi dispiace di averti staccato il braccio, non avrei dovuto. Spero che vorrai perdonarmi» concluse con un sorriso disarmante. 
«Grazie Emmett» disse Carlisle «sono lieto che ti sia assunto la tua responsabilità. Edward, hai qualcosa da dire a Emmett?» Edward grugnì e guardò per terra. “Su, figliolo”, lo esortò mentalmente Carlisle. 
Con un sospiro, Edward si staccò dallo stipite e si fece avanti. Si rivolse a Emmett e Rosalie. «Mi dispiace di aver insultato Rose, non avrei dovuto. Em, non fa niente per il braccio, tranquillo».
Jasper, dal punto di vista privilegiato, offertogli dal proprio dono, percepiva l’umore generale del gruppo. Emmett era genuinamente pentito di aver fatto del male a Edward, ma in fondo era anche compiaciuto dell’ennesima vittoria conseguita contro di lui. Edward, dal canto suo, non provava rabbia nei confronti di Emmett, il suo rancore si riversava su Rosalie come un freddo torrente di veleno. Ma c’era anche molta tristezza in lui, solitudine, angoscia e… desiderio. Forse per Bella. Rosalie, invece, era una bomba a orologeria: rabbia, rancore, invidia, confusione, frustrazione, paura, apprensione, ansia. Tutto miscelato insieme e pronto a esplodere al primo innesco. Jasper capì che Carlisle ne era consapevole e percepì la sua tensione. Il loro patriarca era dotato di una profonda empatia, intuiva la sofferenza di Rosalie e quella di Edward, e desiderava con tutto sé stesso poterli aiutare, curare. Lo stesso si poteva dire di Esme, il cui istinto materno traboccava da ogni centimetro del suo essere. Sentì che invece Alice era piuttosto quieta, non serena ma nemmeno agitata. Concentrata?  Si chiese che cosa vedesse la sua amata, nella sua adorabile testolina bruna. 
Carlisle annuì con approvazione a Emmett e Edward sapendo che, in ogni caso, tra di loro la questione poteva considerarsi risolta. «Rosalie, tu vuoi aggiungere qualcosa?» Il problema restava lei. “Come sempre”, si trovò tristemente a pensare.
Rosalie tolse bruscamente le mani dalle spalle di Emmett e si fece avanti, circumnavigando il divano, per prendere teatralmente il centro della stanza. «Sì, certo che voglio aggiungere qualcosa» esordì in tono drammatico. Carlisle le fece cenno di procedere. Lei si guardò intorno, scrutando a uno a uno le facce dei suoi fratelli e dei suoi genitori adottivi e poi esclamò «ma dico, siete tutti fuori di testa? Stiamo qui a giocare gli alcolisti anonimi, a preoccuparci per una piccola scaramuccia, quando il vero problema è ben più grave? Vogliamo smetterla di far finta di non vedere l’elefante nella stanza? Edward ha una relazione con un’umana! Pronto? Ci siete? Una fottutissima umana! Si è quasi fatto scoprire, per salvarle la vita, giocando a fare Superman con Lois Lane. Si è fatto vedere in pubblico con lei e ce la vuole portare casa. A casa nostra! Il nostro rifugio, l’unico posto sicuro. Non lo capite? Questa storia è pericolosa, per tutta la nostra famiglia. E io non credo che debba essere avallata. Anzi, penso che Edward dovrebbe essere severamente punito per il suo comportamento. Si è messo in mostra, ha rischiato di farsi scoprire e ha violato così la nostra legge», si girò a fronteggiare Carlisle, «so che lui è il tuo preferito, Carlisle, ma non puoi lasciare che si comporti in questo modo avventato. Davvero non puoi», poi tornò a guardare gli altri. «Sono davvero l’unica a pensarla così?»
Il bel viso Carlisle, nonostante il vigore infusovi dalla caccia appena conclusa, divenne tirato. Quasi irritato. «Grazie Rosalie» le disse comunque in tono gentile «per aver espresso il tuo punto di vista. Io e Edward abbiamo già discusso di questo, e sono dell’idea che lui sappia valutare i rischi e non ci metterebbe inutilmente in pericolo. Ha il diritto, come tutti noi, di trovarsi una compagna. E, comunque, ti prego di non insinuare che in questa famiglia si facciano favoritismi. Siete tutti uguali, ai miei occhi».
«Sì, certo, come no» commentò sprezzante Rosalie.
«Gradirei un tono più rispettoso per tuo padre, Rosalie Hale» si intromise Esme. 
«Sono certo che Rosalie non intendesse essere sgarbata» la rabbonì Carlisle «è solo molto arrabbiata e preoccupata per tutti noi e per la nostra sicurezza. Cosa di cui le sono immensamente grato» le sorrise con affetto sincero.
Jasper si irrigidì. Guardò Rosalie, ferma al centro della stanza, fissare la quiete imperturbabile di Carlisle e sentì distintamente la bomba fare tic-tac e poi esplodere con un grosso «Fottiti Carlisle» sputò Rosalie con voce sprezzante, «se non hai intenzione di fare nulla, allora lo farò io! Invoco la Castigatissima Disciplina
Esme sgranò gli occhi ed emise un gridolino strozzato.
Carlisle si irrigidì sulla poltrona «Rosalie, non puoi!»
«Sì, invece» gridò la vampira bionda.
«Perché fai questo, Rose?» Chiese Carlisle fissandola negli occhi.
«Lo faccio per tutti noi, Carlisle» rispose Rosalie «lo faccio perché tu non sei all’altezza».
«Ora ascolta Rosalie» intervenne Esme scattando in piedi,  «non ti permetto di parlare in questo modo a mio marito.»
 «Calma, calma ragazze. Per favore» cercò di blandirle Carlisle «Esme, amore mio, Rosalie ha il diritto alla sua opinione, non gettiamo benzina sul fuoco.»
Jasper sentì Alice stringergli forte la mano. Era l’unico a sembrare confuso per tanta agitazione. Non aveva idea di che cosa stessero parlando. «Che cosa sarebbe questa Castigatissima Disciplina?» chiese. Alice lo guardò e pronunciò le parole della sua visione: «Grossi guai e tanto dolore».
Carlisle si passò una mano tra i capelli biondi «è una legge dei Volturi» spiegò «tale legge impone che se un immortale mette in pericolo la sua congrega, o disobbedisce alle regole, gli altri membri della congrega possano intervenire e punire il trasgressore. Una punizione corporale, inflitta con uno strumento chiamato, appunto castigatissima disciplina. Ma è una barbarie. Non ho intenzione di permetterti di usare un simile metodo, non in questa casa».
«Devi farmelo fare, non hai scelta. O andrai contro la legge» sibilò aspra Rosalie.
Edward ricordava che Carlisle gliel’aveva mostrata una volta, la Castigatissima Disciplina. L’aveva portata qui dall’Italia e conservata come un cimelio, mai utilizzata ovviamente. Una corta frusta intrecciata, fatta di pelle di licantropo e intrisa di una qualche sorta di magia o veleno, che potevano infliggere dolore e lasciare segni perfino sulla pelle adamantina dei vampiri. Carlisle gli aveva raccontato di come fosse usata frequentemente dai Volturi per infliggere dolorose punizioni tra i loro congregati e che non era affatto un bello spettacolo.
«In questa famiglia si usa parlare civilmente, per risolvere i problemi» disse Carlisle con tono duro «non si risolve niente con la violenza. So che sei arrabbiata e spaventata Rosalie, ma non è questa la via giusta».
«Non ho intenzione di ritirare la mia richiesta, Carlisle» insistette Rosalie «esigo che Edward sia punito, per il suo comportamento».
Carlisle sentì che stava iniziando a perdere il suo sangue freddo «ascoltami Rosalie» disse con tono quanto più calmo possibile «credo che tu non stia riflettendo attentamente sulle conseguenze delle tue azioni».
«Io? Io non sto riflettendo?» Disse Rosalie in tono teatralmente indignato «a me sembra che tutti voi siate accecati dal suo sguardo da cucciolo e dalla sua sgualdrina umana!» Puntò il dito contro Edward.
«Attenta a come parli» ringhiò ferocemente Edward «sai cosa? Penso che qui l’unica a dover essere punita sia tu, con quella tua lingua velenosa! Hai minacciato Bella, hai detto che le avresti fatto delle cose orribili, se non avessi rinunciato a lei. E poi, se non fosse stato per te, io e Emmett non avremmo lottato oggi, nel bel mezzo del giorno, a poche miglia dalla città, con il rischio di essere sentiti e magari scoperti. Come lo chiami questo? Se non è mettersi in mostra!» Edward si voltò furibondo verso Carlisle «anche io invoco il diritto alla Disciplina Carlisle, contro di lei».
«Tu non alzi un dito su di lei, Ed. O te la ficco dove nel culo questa Disciplina, insieme al tuo fottuto braccio» intervenne Emmett, scattando in piedi.
«A cuccia Emmett» lo apostrofò Rosalie «se questa mattina ti ho lasciato a combattere il piccolo Eddie al mio posto è solo perché sapevo che se gli avessi messo io le mani addosso, gliele avrei strappato la testa anziché il braccio!» 
Edward si tese come un puma pronto a balzare «vorrei che ci provassi Rosalie, anzi, perché non ci provi?»
Carlisle sentì un’ondata di angoscia pervaderlo. La situazione era critica, stava perdendo le redini e dal più remoto andito della sua coscienza emerse un pensiero che lo colpì come un fulmine. «SMETTETELA!» ringhiò, scattando in piedi, con una tale ferocia nella voce, che gli altri rimasero impietriti. Il gelo calò nella stanza. Tutti lo guardarono, quasi senza riconoscerlo, i bei tratti del volto contorti dalla rabbia. Non lo avevano mai visto in quello stato. Carlisle fece un profondo respiro, provando a controllare il tono della voce. «Adesso BASTA, tutti e tre» intimò, con la voce che tremava di rabbia repressa «non ho intenzione di tollerare ancora questo comportamento tra di voi, sono stato chiaro?» nessuno rispose «NON VI HO SENTITI» ringhiò.
«Sì, signore», risposero in coro.
«Bene. Seduti!» abbaiò Carlisle.
Emmett tornò a sedersi sul divano, e Rosalie si sedette vicino a lui. Edward prese posto su una sedia libera, vicino a Esme.
Se Jasper avesse avuto in testa il suo cappello da soldato della guerra civile, se lo sarebbe tolto in segno di rispetto per Carlisle, per il modo in cui aveva rimesso in riga le truppe.
Carlisle respirò di nuovo a fondo e rilassò le spalle contratte.
«Ecco che parte il sermone», mormorò Edward con un’espressione rassegnata, rispondendo ai pensieri che in quel momento galoppavano nella testa del capofamiglia.
Carlisle lo fulminò con lo sguardo, ma il momento di furia era passato e aveva riacquistato il controllo di sé. «Sì, adesso è il mio turno di parlare e voi mi ascolterete» disse in tono severo ma calmo, «in quasi 120 anni, non ho mai imposto la mia autorità di leader su di voi, se non i rari casi. Nella nostra famiglia tutti sono liberi di fare quello che vogliono, nei limiti delle regole che abbiamo unanimemente deciso di seguire. Sono poche regole, che servono solo a tenerci al sicuro e permetterci di continuare a condurre uno stile di vita privilegiato. Credo che voi vi rendiate conto di quanto siete fortunati, vero? Vi basterebbe fare il paragone con la miseria in cui vivono i nomadi in cui incappiamo di tanto in tanto. Ombre lacere, anime in pena in un’eternità dannata e solitaria. Chi di loro potrebbe anche solo sognare un posto come questo da chiamare casa? Tutti i comfort di cui disponete, il lusso in cui vivete. Vestiti, libri, musica, automobili sportive... Sono certo che nessuno di voi intenda rinunciare a tutto questo». Scrutò i volti intorno a lui e vide solo occhi bassi. Ne fu compiaciuto. «Mi sono sempre illuso che la nostra possa essere considerata una vera famiglia, io e Esme ci siamo sempre comportati come genitori, per voi, non solo come copertura per gli umani, ma anche perché questo ci rende felici, ci dona l’illusione di aver mantenuto una parte di umanità. Vi sono invece congreghe in cui i leader si comportano da despoti e tiranni, schiavizzando i propri congregati, dominandoli con paura e dolore. Io li ho visti, Jasper l’ha vissuto. E vi assicuro che non vorreste che noi diventassimo così. È per questo che, in quanto pater familias, credo di avere il dovere di darvi un assaggio di quello che potrebbe essere per, spero, farvi tornare un po’ di buon senso». 
Edward sgranò gli occhi, con espressione sconcertata, «non puoi fare sul serio!» esclamò, rispondendo di nuovo ai pensieri di Carlisle.
«Certo, che posso…» disse Carlisle asciutto, «Emmett!», il suo tono irato lo fece sobbalzare. Il grosso vampiro bruno non si aspettava di sentirsi chiamare in causa. «Sì, Carlisle», disse teso.
«Tu e Edward vi siete azzuffati, oggi, senza tener conto che eravamo a poche decine di miglia dalla città e creando talmente tanto trambusto che vi avranno sentito fino in California. Se ci fossero stati elicotteri della guardia forestale, avrebbero potuto scoprirci. Vi siete messi in mostra, questo è contro la legge. Inoltre, il tuo attacco a un congregato è stato di inaudita ferocia, e non giustificato. Questo non è ammissibile, e anche se ti sei già scusato e sono sicuro che non avverrà di nuovo, per la legge della Castigatissima Disciplina che è stata invocata, non posso passarci sopra. Riceverai cento colpi di frusta, da me!»
«Che cosa?» strillò Rosalie, indignata. «Cosa c’entra Emmett in questa storia? Non è colpa sua!»
«Hai ragione», convenne Carlisle «sei stata tu a istigare la lotta, oggi. E non hai fatto alcun tentativo per fermarli. Inoltre, hai provocato volontariamente Edward minacciando la sua umana. Per questo motivo, anche tu sarai punita. Per la legge Castigatissima Disciplina che tu stessa hai invocato, riceverai cinquanta colpi da me.» Rosalie rimase senza parole, il che era ovviamente un fatto straordinario.
Infine, Carlisle raccolse tutte le sue forze e si rivolse al suo primogenito «Edward, tu hai colpa quanto Emmett di quanto successo questa mattina e per questo, riceverai il suo stesso castigo. In più, come ha sottolineato Rosalie, nonostante fosse per una buona causa, che ha salvato la vita di Bella, hai rischiato seriamente di farti scoprire quando hai deviato quel camion e, pertanto, per la legge che è stata invocata, riceverai altri cento colpi. Più altri dieci, colpi per aver insultato tua sorella chiamandola con la parola con la S. Anche se, ad essere onesti, in questo momento non mi sentirei affatto di dissentire». Tornò a rivolgersi a Rosalie, «sei soddisfatta adesso? La legge è stata applicata, alla lettera».
«Non era quello che volevo» commentò lei tra i denti.
«Certo che no», concordò Carlisle, «tutto quello che volevi era sfogare la tua rabbia, paura e frustrazione a spese di tuo fratello. E hai provato a manipolarmi usando qualche vecchia stupida legge a tuo vantaggio. Ma non posso permetterlo, tesoro» addolcì la sua espressione, sperando di addolcire anche lei.
«Cerco solo di proteggere la nostra famiglia... dall’Edwardiozia» sibilò Rosalie. Emmett sghignazzò e persino Jasper non poté nascondere una smorfia divertita.
«Vi odio», commentò Edward.
Carlisle alzò gli occhi al cielo, «forse questa lezione vi farà tornare voglia di essere più compassionevoli gli uni con gli altri. Per il momento l’assemblea è aggiornata, andate nelle vostre stanze, verrò a chiamarvi quando è il momento».
 
 

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Capitolo 3
*** Family Matters ***


Carlisle e Esme rimasero da soli nel salotto, ascoltando un silenzio che durò pochi secondi. Poi, dal piano di sopra, iniziarono ad arrivare le grida infuriate di Rosalie e rumore di cose fasciate. 
Esme fissava suo marito dall’altro lato della stanza, era rimasto seduto sulla poltrona, lo sguardo perso nel vuoto. Le ci volle tutto il suo sangue freddo, per riuscire a decidersi a parlargli senza urlargli contro. Si alzò dalla sedia e sentì le gambe stranamente pesanti. Si avvicinò lentamente alla poltrona di cuoio rosso e si sedette leggera sul morbido bracciolo rotondo. Gli posò la mano sulla spalla. Lui rimase impassibile. 
«Non devi farlo per davvero» gli sussurrò «li hai spaventati per bene, sono sicura che adesso riusciremo a farli ragionare».
Il giovane volto di Carlisle era teso e scuro. Scosse la testa «ho dovuto usare tutta la mia forza di volontà per pronunciare quelle parole. Rimangiarmele sarebbe un grosso errore».
Esme gli strinse la spalla con quella che sarebbe stata la forza sufficiente per  frantumare le ossa di un umano, «non puoi pensare davvero di fare del male ai miei figli» disse con tono calmo e assertivo, ma che a Carlisle diede i brividi. Sollevò leggermente la testa per guardarla «l’ultima volta che ho controllato, erano anche figli miei» le rispose, accennando un sorriso triste.
«Non quando minacci di frustarli» disse Esme, dura. 
Carlisle distolse lo sguardo dal viso contrariato di sua moglie, «la situazione è eccezionalmente delicata, la nostra famiglia è sull'orlo di una frattura irreparabile, e il rischio è di dover scegliere chi rimarrà, tra loro. Tu saresti disposta a rinunciare a Edward? O a Emmett e Rosalie?»
Esme chiuse gli occhi, colta dall’orrore di quel pensiero. Quando Edward li aveva lasciati, anni prima, per lei era stato un inferno in terra. Era rimasta a letto per mesi e mesi, senza nutrirsi, in uno stato di semi catatonia «preferirei farmi incenerire, piuttosto che privarmi di nuovo di un figlio» rispose. Si alzò e prese a passeggiare attraverso il salotto, incedendo con la grazia di un airone tra le canne, ma pronto a scattare per afferrare la preda. «Anche io mi sono spaventata» disse con voce più morbida «per il modo in cui Rosalie ti ha sfidato, e per la ferocia con cui lei e Edward si sono parlati. Di solito, si limitano a evitare di interagire troppo tra di loro. Eppure» guardò il marito con espressione supplichevole «sono sicura che c’è un’altra soluzione. Tu trovi sempre una soluzione pacifica, per risolvere qualsiasi problema» tornò vicino a lui e si sedette di nuovo sul bracciolo della poltrona. «sei l’uomo più dolce e comprensivo di questa terra, sia tra i viventi che tra gli immortali».
Carlisle chiuse gli occhi quando lei gli passò una mano tra i capelli biondo miele, «forse c’era un altro modo, chi lo sa. La storia non si fa con i “se”. Ormai quel che è fatto è fatto e, come ho detto, non andare fino in fondo sarebbe uno sbaglio. Credo sia una di quei casi in cui, per mantenere lo Stato, i mezzi saranno sempre giudicati onorevoli, e da ciascuno lodati». 
«Non so se posso essere d’accordo, Machiavelli» disse Esme, con espressione accigliata.  
«Probabilmente no… forse pensavo solo che, se saranno troppo occupati a temere il mio castigo, forse smetteranno di lottare tra di loro. Inoltre, spero che constatare quanta sofferenza reciproca ha causato il loro comportamente, possa aiutarli a perdonarsi».
«Espiazione attraverso il dolore?» Chiese Esme dubbiosa.
Carlisle non le disse tutto quello che pensava, riguardo ai motivi reali e più profondi che avevano scatenato quella faida. Non le disse quali erano le sue preoccupazioni riguardo a Rosalie. Non perché non si fidasse di Esme, lei era la sua stessa anima incarnata, ma perché non spettava a lui condividere un dolore che non era il suo. «Qualcosa del genere» ammise alla fine. 
Esme contemplò in silenzio il proprio amato compagno, vide il suo sguardo perdersi per qualche istante, forse tornare indietro alla sua vita mortale «da qualche parte, dentro di te» commentò, «c’è il figlio del Pastore Cullen, che vive  nell’ombra da 300 anni…» un velo di dolore si affacciò negli occhi onice dell’uomo e lei decise di non insistere oltre. «Mi fido di te ciecamente, amore mio» disse lei, dolcemente «quindi ti appoggerò, nel tuo proposito. Ma, mentre so per certo che Edward e persino Emmet accetteranno di sottomettersi alla tua autorità, senza fiatare, non sono per nulla sicura che Rosalie sia disposta farlo. E se decidesse di andarsene? Emmett la seguirebbe, la nostra famiglia si sfascerebbe. Oh, dio se ci penso mi sento male» disse angosciata.
Carlisle le mise una mano sul ginocchio «calmati» le disse «non succederà. Emmett la farà ragionare. Ho fiducia in lui, e ho fede in tutti noi» concluse.
In quel momento, vi fu un fracasso d’inferno proveniente dalla stanza di Rosalie e Emmett e il soffitto sopra di loro tremò come per un terremoto. Vi fu un frastuono di vetri infranti. 
«E va bene» disse alla fine Esme «ma sta attento, perché se questa cosa porterà ripercussioni sui miei bambini, non te lo perdonerò mai».
Una risata genuina illuminò i bei lineamenti del volto di Carlisle «i nostri adorabili bambini sono esseri immortali, con quasi un centennio di vita sulle spalle», disse in tono malizioso, «si suppone che dovrebbero sapersi comportare meglio di così. Inoltre, hanno la pellaccia dura. Ma cercherò di non essere troppo severo».
 
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«Io non mi sottometterò a questo. È semplicemente  ridicolo» sbraitò Rosalie. Era in piedi al centro della stanza, intenta a gettare per terra qualsiasi oggetto frangibile le capitasse sottomano, tra cui alcune preziose ceramiche precolombiane che lei e Emmett avevano acquistato durante il loro ultimo viaggio di nozze. Il parquet in legno di bambù era ricoperto di schegge e cocci, le lenzuola di seta rossa del futon matrimoniale erano state dilaniate, così come le tende di pesante cotone color antracite alle finestre. Diversi preziosi quadri d’arte orientale erano stati divelti dalle pareti e fracassati a terra. 
Emmett contemplava rassegnato la furia di sua moglie, fino a quando lei afferrò la libreria in legno di sandalo indiano, sradicandola dalla parete, e la lanciò dall’altro lato della stanza in un fracasso di legno frantumato. L’ampia porta finestra che dava sul balcone fu colpita in pieno ed esplose in miliardi di pezzi che volarono da tutte le parti.  Copertine scheggiate di CD, e libri si disseminarono per tutta la stanza.
«Ehi, datti una calmata, piccola», protestò Emmett, «quella è anche roba mia. Se non te ne sei accorta, ci sono anche io in mezzo a questo casino, grazie a te. Ma come diavolo ti è venuto in mente di tirare fuori questa storia della cazzutissima disciplina, o come cavolo si chiama».
Rosalie gli dette le spalle. Emmett sospirò e le si avvicinò, in uno scricchiolio di cocci calpestati. Le cinse la vita con il braccio muscoloso, le scostò i capelli con un gesto delicato e le sfiorò il collo con un bacio. Sentì che lei si rilassava leggermente e, dopo un attimo di resistenza, riuscì a farla girare verso di sé, «vieni qui, piccola», le disse, «parliamo, ok?» e la abbracciò dolcemente. 
Era calata la notte, era buio pesto sia fuori che in casa, nessuno aveva pensato ad accendere la luce, dato che per loro non faceva poi molta differenza. Dalla finestra distrutta l’aria fredda e umida della foresta faceva ondeggiare le tende lacerate.
«Non permetterò a Carlisle di farmi questo, o di farlo a te», piagnucolò Rosalie con la faccia affondata nella spalla di Emmett, «non è giusto».
Emmet sospirò, «che cosa ti aspettavi, piccola?» le chiese, «un bacio sulla fronte? Lo hai sfidato apertamente e lui ti ha preso a bastonate sul muso, mi sembra il minimo. Penso che dovremmo ritenerci fortunati che non ci abbia scacciati».
Rosalie alzò la testa verso il suo compagno, con uno sguardo di sfida «Carlisle non è il nostro padrone, non può permettersi di trattarci così».
Emmet si strinse nelle spalle «non è il nostro padrone, ma è pur sempre nostro padre, il capo della famiglia. Mio padre umano me le avrebbe date per molto meno».
«Oh, Emmett, ti prego», sbuffò Rosalie in tono di disprezzo, e si staccò bruscamente dall’abbraccio, «non ti ci mettere anche tu, con questa lagna del Carlisle è in mio papà, mi dà il voltastomaco».
Emmett fece ricadere le braccia e la guardò esasperato, «ma se non vuoi accettare la sua punizione, che cosa pensi di fare?»
Rosalie si strinse nelle spalle, «fare i bagagli e mollare questa banda psicopatici. Andiamocene in Europa, tu potresti fare soldi nel mercato azionario svizzero e io farei la nobildonna russa, una erede dei Romanov, magari, o potrei aprire una clinica per la chirurgia estetica. Compreremo un castello sulle Alpi e creeremo un nuovo clan, tutto nostro».
Emmett sogghignò «un programmino niente male» convenne e le si avvicinò di nuovo, sfiorandole una ciocca di capelli color miele «tu saresti meravigliosa come principessa Romanov, e sai che io adoro vestirmi in giacca e cravatta. Sarei lo squalo della borsa di Zurigo» mise una grossa mano sulla spalla minuta di lei «ma in Europa non c’è un futuro per noi, piccola. I vampiri del vecchio mondo non ci vedrebbero di buon occhio. Inoltre, io non ho nessuna voglia di mollare questa banda di psicopatici. E poi, ti ricordo che siamo finiti in questo casino perché tu per prima volevi proteggere la nostra famiglia, per tutti grizzly. Questa famiglia. Il Clan Cullen! Quindi non darmela a bere... senza Carlisle e Esme, i nostri genitori, e Ed e Jazz e Ali, i nostri fratelli, noi saremmo perduti, lo sai anche tu.» Le labbra rosse e perfette di Rosalie si atteggiarono in un broncio infantile e Emmett seppe che il peggio era scongiurato. Si sentì sollevato.
«Quindi dovrò sopportare l’umiliazione di essere punita come una ragazzina. Tutto per colpa di Edward» Rosalie pestò un piede per terra «accidenti a lui. Se solo ci penso io... ma perché non è semplicemente morta schiacciata, quell’umana insignificante».
«Non ricominciare. Non hai sentito che cosa ha detto Carlisle?» disse Emmett, «Edward si becca duecento frustate. Non ti basta? Per me, d’ora in poi saranno fatti suoi chi si vuole portare a letto. Anzi, sarebbe anche ora che si desse una svegliata, il cent’anni vergine.» Emmett la prese per le spalle, con una dolcezza incredibile per la sua mole imponente «e poi pensaci: anche io ero un insignificante ragazzo umano, quando mi hai trovato mezzo morto nella foresta. Sei stata il mio angelo, te lo sei dimenticato? Lasciamo che Ed abbia la sua umana. Chi lo sa, magari tra un po’ si stancherà di lei». Rosalie scosse la testa, ma non replicò. Emmett la baciò dolcemente «senti, piccola. Parlerò con Carlisle, gli dirò che è tutta colpa mia e lo convincerò a punire solo me. Posso sopportare qualche frustata in più. Non sarà così terribile. Poi questa storia sarà chiusa e torneremo tutti alla normalità. D’accordo?».
Rosalie lo spinse di nuovo via con forza «Che cosa?» Sbraitò. Lui sgranò gli occhi, sorpreso. «Non pensarci nemmeno, Emmett! Non ti permetterò di affrontare questa cosa da solo, scordatelo! Se tu sei in grado di sopportarlo, lo sono anche io. Chiaro?». 
Emmett rimase a bocca aperta «Cristo, piccola, ma in quante siete là dentro? Ti giuro che certe volte mi preoccupi, lo sai?» 
 
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Alice contemplava il baldacchino di broccato oro e argento che sovrastava il letto stile Luigi XVI. Aveva la testa appoggiata sul petto di Jasper, che le teneva un braccio attorno alle spalle, mentre con l’altra mano reggeva Dell'arte della guerra di Machiavelli, che gli aveva prestato Carlisle. 
Da quando era stata sciolta la riunione, Alice continuava a interrogare le proprie visioni, esplorando i possibili finali di quella che, senza dubbio, era la peggior crisi della loro famiglia, da quando lei e Jasper vi si erano uniti. I rumori di Rosalie che demoliva la sua stanza si fecero più forti e si mescolarono al brusio della conversazione di Carlisle e Esme, rendendo tutto un indistinto coro di voci dissonanti. Poi, l’impatto al suolo della libreria di Rosalie e Emmett, fece vibrare i solai dell’intero piano della casa, e fu seguito dal fracasso di vetri della finestra che andava in frantumi. 
«E pensare che c’è qualcuno che pensa che vivere in eterno possa essere noioso» commentò Jasper in tono piatto «non hanno mai vissuto con i Cullen. Dovremmo nascondere delle telecamere in casa» continuò «e poi mettere tutto su YouTube... verrebbe fuori una sitcom niente male». Alice rise, capì che lui stava cercando di distrarla e lo amò, se possibile, ancora di più. 
«Sette sotto un tetto» proseguì Jasper «le avventure di una tipica famiglia di vampiri americani e delle loro dinamiche disfunzionali, condite da love story con teenagers umani. Che cosa ne pensi?»
Alice rise ancora «Idea geniale Jazz» approvò, stiracchiandosi pigramente «sono sicura che sarebbe un successo». 
«Mmh…» disse Jasper «ripensandoci, temo che non riusciremmo a convincere nessuno di essere veri vampiri. Sai, si aspettano tutti i denti appuntiti» si passò la lingua su una fila di perfetti denti bianchissimi. Alice colse quel gesto come un invito, sorrise e nel tempo di un respiro era seduta a cavalcioni sul petto di Jasper. Lui posò il libro e la attirò a sé. Iniziarono a baciarsi. Tuttavia, Alice si ritrasse quasi subito, invasa da un’aura di preoccupazione che proveniva direttamente dal suo amato. «Che cosa c’è?» chiese, esprimendo ad alta voce il proprio pensiero. Gli accarezzò il viso coronato da riccioli leonini.
Jasper incrociò le braccia dietro la testa e sospirò, «non so di preciso, c’è un tale turbinio di emozioni contrastanti, intorno a me, che non riesco quasi a pensare. Forse dovrei provare a tranquillizzare tutti».
Alice scosse la testa «meglio non intervenire. Gli eventi devono fare il loro corso» si fece scivolare di nuovo al suo fianco, circondandogli la vita con le braccia e poggiando la testa sul suo petto «sono sicura che andrà tutto bene, dobbiamo solo aspettare» disse quasi in un sussurro.
Jasper accarezzò dolcemente le spalle e la schiena di Alice «stai cercando di rassicurare te stessa, lo sento. Che cosa vedi?»
«Nessun futuro è certo, lo sai» disse Alice «vi è sempre un ventaglio di infiniti scenari più o meno probabili, come miriadi di sentieri in una foresta buia. Ma, a volte, vi sono sentieri più marcati, grandi come strade o autostrade. Questo è uno di quei casi. Il futuro è in bilico tra due possibili strade. Una è disastrosa per la nostra famiglia, l’altra no».
Jasper ascoltò la spiegazione di Alice «qual è quella meno disastrosa?»
«Quella più dolorosa» rispose Alice. Si sollevò sul gomito «ma io e te dobbiamo restarne fuori». 
Jasper sogghignò «non ho nessuna voglia di immischiarmi, te lo assicuro. Con il rischio che Carlisle se la prenda anche con me, o con te. Onestamente, non lo credevo capace di essere così... autoritario, sono rimasto abbastanza impressionato. E forse è per lui che sono preoccupato» realizzò mentre parlava.
Alice aggrottò la fronte e si mise a sedere «preoccupato per Carlisle?» chiese.
Anche Jasper si mise a sedere, appoggiando il braccio sul ginocchio piegato. Sfiorò leggermente le decine di orribili cicatrici bianche impresse sul suo avambraccio «infliggere dolore, può essere doloroso» sussurrò «certo, lui non ha un dono come il mio, eppure è comunque capace di un’empatia straordinaria, sa sempre cosa stanno provando gli altri e vorrebbe curarli, porre rimedio a ogni sofferenza. Come può uno come lui riuscire a infliggere deliberatamente sofferenza senza averne ripercussioni? Io l’ho fatto Alice: ho inflitto sofferenza e ho percepito su di me quella sofferenza, ogni volta. È... orribile, avevo bisogno di tutto il mio autocontrollo, per finire il... il lavoro».
Alice sentì qualcosa di simile a un groppo alla gola «non ci avevo mai pensato Jasper, ma è vero: tu somigli davvero a Carlisle più di quanto immagini. Però, Carlisle non ucciderà nessuno stanotte. Al massimo, quei tre non potranno sedersi per qualche giorno. Stai tranquillo, nostro padre ce la farà». Deve farcela, dipende tutto da questo. Il suo sguardo divenne improvvisamente fisso. «È qui fuori» disse, e sorrise.
«Chi?» Chiese Jasper sorpreso.
«Io» rispose la voce di Edward da fuori alla porta «posso entrare?» 
«Entra pure, fratellino» disse Alice, saltando sul bordo del letto. Jasper si alzò in piedi e sistemò la camicia. La testa ramata di Edward fece capolino dalla porta di mogano.
«Nessun motivo in particolare, Jasper. Volevo solo un po’ di compagnia» disse Edward mentre entrava, in risposta al pensiero di Jasper «in realtà... era alla compagnia di Alice, che pensavo. Nessuna offesa, spero». 
«Nessuna offesa, Edward. Capisco» disse Jasper in tono cortese e formale «vi lascio soli». Prese la mano di Alice e la baciò delicatamente. Fece un leggero inchino a Edward e uscì chiudendosi la porta alle spalle.
Appena Jasper se ne fu andato, Edward si trascinò vicino al letto Luigi XVI e vi si gettò a pancia in su, le braccia distese, come un cristo crocefisso. Il copriletto di raso dorato si riempì di pieghe, sotto il suo peso. Fissò il baldacchino di broccato, che trovava orribile, ma che a sua sorella piaceva così tanto. Alice si sdraiò vicino a lui e rimasero in silenzio. La presenza di Alice lo tranquillizzava, molto più di quella di chiunque altro, in famiglia, e sapeva che lei era sempre dalla sua parte. Con Alice si sentiva davvero libero di parlare, come se fosse una vera sorella «uccidimi Alice, ti prego» gemette, in tono melodrammatico.
«Subito» rispose Alice, senza muoversi di un millimetro «vado a prendere il mio paletto di frassino. Ah, no scusa... li ho finiti. Forse posso chiamare Buffy e farmene portare qualcuno».  
«Non vale farmi ridere, in questo momento» protestò, Edward «sono venuto da te in cerca di conforto, perché sono disperato. Sembra che sia solo capace di fare disastri, e di fare del male agli altri. Forse dovrei andarmene e liberarvi della mia presenza». 
«Oh, scusami... non avevo capito che eri in preda a una crisi adolescenziale» lo rimbeccò Alice «forse ti conveniva far restare Jasper. È lui quello bravo a gestire le emozioni».  
«Almeno lui è bravo in qualcosa, al contrario di me» disse continuando a fissare l’orribile broccato del baldacchino. Sentì Alice fare finta di vomitare, la sentì afferrare un cuscino e se lo vide calare sulla faccia. Non reagì e lasciò che la fodera imbottita di piume obliasse momentaneamente la sua vista sul mondo.  «Oh, scusami Ed» disse Alice in tono noncurante «credo che quello sia il cuscino che Jasper ha sporcato ieri mentre lo facevamo, non l’ho ancora lavato».
«Ma che schifo, Ali!» Edward scattò su e lanciò via il cuscino, con un’espressione talmente incredula, scandalizzata e disgustata, che Alice si rotolò letteralmente dalle risate. Rideva talmente forte che per poco non cadde dal letto. Edward la guardò attonito «ma ti sembrano scherzi da fare? Ho capito, me ne vado».
«No, dai Eddie» lo fermò Alice «scusami. È che non ti sopporto proprio quando fai l’adolescente tormentato. Ma sarà per quello che ti sei innamorato di una diciassettenne. Anche se, in realtà, lei è più che matura. Forse ti farà bene passare del tempo con lei». 
In un battito di ciglia, Edward tornò a sedersi vicino alla sorella «hai avuto qualche visione su Bella?» le chiese ansioso. Alice sapeva di non poter nascondere nulla a suo fratello, quindi non ci provò neppure. Edward entrò nella sua mente e vide i suoi pensieri: immagini frammentate, pezzi di discorsi in cui Alice e Bella ridevano, parlavano o andavano a fare shopping insieme. Bella a casa loro, che parlava con Jasper e che faceva ridere Emmett. Carlisle e Esme che abbracciavano Bella. Edward si sentì esplodere qualcosa nel suo petto «quanto è certo, questo futuro?» chiese con ansia, temendo di avere la risposta. 
«Dobbiamo ancora passare un nodo cruciale, per imboccare quella via» rispose Alice, cauta. 
«Io e Rosalie fare pace?» sbottò Edward, rispondendo ai pensieri di Alice «allora sono fregato, quella mi odierà per l’eternità. Soprattutto dopo che Carlisle, beh... ho visto nella sua testa, so quello che intende farle e non le piacerà affatto» non riuscì trattenere un mezzo sorriso divertito.
«Vuoi dire, quello che intende fare a voi» lo corresse Alice, con una nota maligna nella voce.
Il mezzo sorriso di Edward si dissolse «grazie Ali, cercavo appunto di non pensarci. Anzi... mi chiedevo: c'è qualche futuro in cui io possa evitarlo?»
«Sicuro: quello in cui emigri in Tibet» lo canzonò Alice.
«Scusa, ma da che parte stai? Non so se hai sentito bene, ma il nostro amorevole padre ha detto duecento frustate. A te pare uno scherzo?»
«Duecentodieci» lo corresse Alice «ma era veramente incazzato».
«Già, ha proprio dato di matto» commentò Edward, con un brivido «non lo vedevo così da quando ho dato accidentalmente fuoco alla sua libreria».
Alice sgranò gli occhi, «hai dato fuoco alla libreria di Carlisle?» Chiese incredula.  «percHé non ho mai sentito questa storia?».
Edward si passò una mano fra i capelli, «beh, fu l’anno dopo che mi aveva creato, ero molto giovane. Volevo sperimentare se i vampiri possono fumare tabacco. Non possono, se lo vuoi sapere. E, siccome non sentono nemmeno il calore, non si possono accorgere che il dannato fiammifero con cui hanno acceso il dannato sigaro non si è spento, è caduto sul dannato tappeto, ha dato fuoco alla dannata tenda e, in mezzo secondo, anche a tutta la dannata collezione di codici miniati dai monaci benedettini nel 1400, che tuo padre vampiro ha maniacalmente conservato per duecento anni».
Alice era estasiata, «quanto darei per averlo visto».
Edward rabbrividì di nuovo, «ho sempre pensato che, se non mi aveva ammazzato quella volta, mi avrebbe perdonato qualsiasi cosa. Evidentemente mi sbagliavo».
Dabasso, sentirono il rumore della porta dello studio di Carlisle. Lui vi entrò e vi si chiuse dentro. 
Edward guardò Alice «e se emigrassi in Tibet?»
 
 

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Capitolo 4
*** Manuscripts Don't Burn ***


Carlisle si chiuse alle spalle la porta dello studio. Si appoggiò per una frazione di secondo allo stipite, prima di marciare con determinazione verso l’imponente scrivania di noce in stile vittoriano. La poltrona di pelle verde petrolio scricchiolò sotto il suo peso e il pistone a cilindro che regolava l’altezza cedette leggermente. Quella poltrona aveva più di cento anni, esattamente come la scrivania dalle pesanti linee regolari e rigide. L’intera stanza aveva l’atmosfera di un ufficio del preside di un college inglese. 
Abbandonò le braccia sui braccioli della poltrona e chiuse gli occhi, concedendosi alcuni momenti di calma. 
Mentalente, ripassò tutto quello che era successo poco più di mezz’ora prima nel salotto, immaginando possibili scenari alternativi, a cosa avrebbe potuto fare o dire, di diverso. 
Di solito, non si faceva trascinare in quel modo dalla rabbia, ma Rosalie aveva il potere di scuotere anche il suo proverbiale autocontrollo. Era quasi stata capace di fargli suonare la sua musica… piccola subdola manipolatrice.  Ma era riuscito in qualche modo a ribaltare le carte in tavola e pregò sinceramente che il suo piano funzionasse, o l’intera famiglia si sarebbe spezzata in due.  
Aprì gli occhi e contemplò le pareti quasi interamente coperte da scaffali ricolmi di libri. Fece scorrere lo sguardo sulle centinaia di volumi di ogni foggia e dimensione. “I manoscritti non bruciano”,  aveva detto Bulgakov. Non seppe esattamente da dove gli fosse scaturito quel pensiero o perché. I libri erano una delle cose cui Carlisle teneva di più, in assoluto. Ognuno di quei volumi aveva una storia ed era per lui un tesoro inestimabile. Era in quelle pagine che cercava le risposte, ogni volta che si sentiva bloccato, senza via d’uscita. “I manoscritti non bruciano”.
In un angolo in alto a sinistra della parete di fronte a lui, si intravedevano alcuni grossi tomi rilegati in pelle, il cui dorso era completamente annerito e carbonizzato. “Già”, si ritrovò a pensare ridacchiando, “i manoscritti non bruciano… a meno che tu non abbia un figlio adolescente per casa, che fa esperimenti con fiammiferi e sigari”. 
Quella volta Edward lo aveva fatto veramente imbestialire. Ma il ragazzo era così giovane, all’epoca, poco più di un bambino ai suoi occhi. Ricordò il suo sguardo terrorizzato, mentre lo implorava di perdonarlo. Erano passati più di cento anni, da quel giorno. Edward era cresciuto eppure, in un certo senso, era rimasto lo stesso bambino. “Noi siamo come i libri”, pensò, “una volta stampato, il contenuto di un libro non può essere cambiato, rimane immutato e immutabile. Certo, puoi cancellare delle frasi da un libro, strappargli le pagine, aggiungere note e sottolineature, fare pieghe alle pagine e rovinargli la copertina, ma il valore intrinseco di un libro non cambia. Se ben conservati, i libri possono vivere per sempre, sono immortali. Come me… come noi”. Si passò le mani tra i capelli, “immagino che ciò significhi essere condannato ad avere a che fare con dei figli adolescenti per l’eternità. Vampiri adolescenti… Dio, che pessima idea che ho avuto”. Scosse la testa, autocommiserandosi “Beh, chi è causa del suo mal…”
Questi pensieri lo riportarono al difficile compito che si era imposto per quella notte e il suo sguardo calò sui cassetti della scrivania. Si sporse a sinistra oltre il bracciolo, facendo scricchiolare e inclinare la sedia. Aprì il cassetto più in basso. Scostò alcune buste da lettera e vecchi documenti, sotto cui comparve una grossa e anonima scatola di legno chiaro, simile a una cassetta porta liquori . Estrasse la scatola dal cassetto e la poggiò davanti a sé, sul piano rivestito di cuoio verde della scrivania. La contemplò, per lunghi minuti, prima di decidersi a far scattare la chiusura in metallo e sollevare il coperchio. Le vecchie cerniere fecero un po’ di resistenza. Non venivano usate da alcuni decenni.
Il contenuto di quella scatola faceva parte, come molti altri oggetti in quella stanza, di una sorta di collezione di ricordi e souvenir di tutti i posti in cui era stato, in cui aveva vissuto, alcuni erano regali di persone che aveva conosciuto. Quell’oggetto, in particolare, gli era stato donato all’epoca in cui anche aveva vissuto a Volterra. I ricordi dell’Italia gli suscitavano sempre sentimenti contrastanti, ma il ricordo dell’immortale che gli aveva fatto quel dono, era tra i più dolorosi da richiamare. 
Di origine germanica, nato probabilmente tra il 58 e il 53 a.c., all’epoca di Giulio Cesare, Ulrich era una creatura di una bellezza struggente e di una malvagità straziante. Quando Carlisle lo aveva visto per la prima volta, aveva creduto che il David di Michelangelo avesse preso vita lì davanti a lui, o che il dio Apollo fosse sceso dal monte Olimpo, con i capelli color del sole e la pelle scolpita di alabastro. Eppure, se anche il suo aspetto era quello di un angelo, il suo animo era quello di un demone. Carlisle aveva amato Ulrich, e lo aveva odiato. Aveva amato appassionatamente la sua saggezza, la sua infinita conoscenza e la sua devozione alla scienza, ma aveva odiato profondamente la sua totale noncuranza per la vita, la sua mancanza di empatia e le sue pratiche crudeli. Non può esistere una scienza senza etica, senza compassione. 
Eppure. Uno dei prodotti della mente sottile e malata di Ulrich era proprio lì, davanti a lui. 
Estrasse dalla scatola una frusta arrotolata, la poggiò sulla scrivania dopo aver scostato la scatola e la srotolò davanti a sé. La Castigatissima Disciplina. Era lunga circa cinquanta centimetri e spessa cinque, al manico, andando via via assottigliandosi verso la punta. Il primo tratto, partendo dall’impugnatura, era composto da strisce di cuoio intrecciate in maniera molto elaborata, la parte centrale era costituita da una robusta striscia, sempre di cuoio, liscio e sdoppiato. La parte terminale, infine, era uno sverzino di corda e di tendine, lungo tre o quattro centimetri, che consentiva allo strumento di schioccare, all’occorrenza. Qua e là vi era qualche screpolatura nel cuoio, che si era un po’ ingrigito, ma nel complesso aveva resistito bene, per gli anni che aveva. 
Contemplò l’oggetto con espressione grave, le mani conserte in grembo. Era una Hunde-Peitsche, una frusta per cani, oggetti simili erano stati comunemente impiegati, in passato, per l'addestramento e la disciplina dei cani di grossa taglia. Ulrich, però, aveva sempre avuto un umorismo macabro e quella frusta ne era la prova. Infatti, quella particolare Hunde-Peitsche era stata fabbricata con la pelle di un licantropo, con i suoi tendini e i frammenti delle sue ossa.
Di per sé, la frusta era molto scenografica, e incuteva una certa soggezione ma, pur se fatta di cuoio di licantropo, non avrebbe potuto causare alcun danno alla pelle adamantina di un vampiro. Per attivarla e renderla efficace, infatti, c’era bisogno di un altro ingrediente. Quanti anni aveva impiegato Ulrich per perfezionare uno strumento così sadico?  
Carlisle riprese tra le mani la frusta, esaminò da vicino il manico, per individuare il punto giusto, e poi lo morse. Lasciò che il proprio veleno si infondesse nel cuoio, osservò l’oggetto mentre si impregnava e gli sembrò quasi che si rianimasse, tornando di un colore bruno e lucente. Quando ebbe iniettato una dose di veleno che gli sembrava soddisfacente, staccò la bocca dallo strumento e si asciugò le labbra. Saggiò di nuovo la frusta, piegandola tra le mani e si rese conto che non era stata un’impressione: la frusta era tornata come nuova. Ulrich era un genio, oltre che un sadico bastardo. 
Adesso, la frusta avrebbe fatto il suo lavoro. Ma doveva accertarsi di aver iniettato la giusta dose di veleno. Troppo poco, non avrebbe sortito l’effetto sperato,  troppo invece… Aveva assistito più volte a fustigazioni pubbliche, mentre era tra i Volturi, e aveva visto i danni che si potevano arrecare fruste come quella. Doveva essere molto cauto. Voleva infliggere un castigo, non una tortura. Credo che dovrò fungere da cavia, per sapere quello che sto facendo.
Si alzò in piedi e si portò al centro della stanza, con due dita della mano destra, sollevò la morbida manica sinistra del dolcevita, fino al bicipite, scoprendo il bianco avorio del proprio avambraccio. Impugnò la frusta con la mano destra, piantò le gambe a terra e distese l'avambraccio sinistro davanti a sé. Con decisione, vi assestò una scudisciata. Non dovette aspettare molto, in poche frazioni di secondo un intenso bruciore si propagò dal punto un cui la frusta aveva impattato sul braccio. Una smorfia gli contrasse il viso. Aprì e chiuse il pugno diverse volte, per valutare l’effetto complessivo sul proprio fisico. Con occhio clinico, osservò da vicino il punto in cui la frusta lo aveva colpito. Non vide segni, ma aveva sentito il colpo, eccome! Il bruciore perdurava, ma non era insopportabile. Pensò che forse qualche goccia di veleno in più non avrebbe guastato. Doveva mettere un bel po’ di fuoco nelle terga di quei tre.  
Il pensiero di quello che stava per fare, nonostante la sua determinazione, improvvisamente, lo sopraffece. Si vide con quella cosa tra le mani, da solo nel proprio studio a frustarsi il braccio ed ebbe… paura. Lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi la frusta scivolò per terra. Andò ad appoggiarsi alla scrivania, i palmi delle mani aperti sulla superficie di legno e la testa infossata tra le spalle. Dio, perdonami, che cosa sto facendo? 
“Spare the rod, spoil the child”. Un lampo di luce nella sua memoria arcana illuminò queste parole. Le udì distintamente, pronunciate come le avrebbe pronunciate suo padre, con la voce di suo padre, il reverendo Cullen. Lui, di certo, la frusta non l’aveva mai risparmiata, semmai il contrario. Più di trecentosessanta anni non erano bastati a dimenticare quelle parole, la sua voce, il dolore... 
«Posso entrare?» 
La voce di Jasper proveniente da dietro la porta lo riportò al presente. Si raddrizzò, si passò la mano tra i capelli biondi e si voltò verso la porta «vieni pure» disse. Sorrise a suo figlio, quando varcò la soglia. La presenza fisica di Jasper era notevole. Anche se non era nerboruto come Emmett, era comunque prestante, alto un metro e novantacinque e dalle spalle ampie. La postura eretta, tipica del soldato, lo faceva sembrare ancora più alto. Ma non era mai minaccioso, tutt’altro. Sembrava sempre pronto a difenderti. 
«Porti sempre un po’ di conforto, con te, quando entri in una stanza» gli disse, «è un dono prezioso».
Jasper fece qualche passo avanti e chiuse la porta alle sue spalle «scusami se mi sono intromesso nella tua… beh, ho sentito il colpo» disse. Il suo sguardo saettò alla frusta che giaceva a terra come un serpente morto «poi il tuo dolore mi ha investito» continuò «ma non era dolore fisico e… ho sentito il bisogno di venire a controllare».
“La mia dolce guardia del corpo”, pensò dolcemente Carlisle. «Ti ringrazio, sei sempre molto premuroso, figlio mio» si sentì orgoglioso di poter chiamare Jasper figlio, pur non avendolo creato egli stesso «ma è tutto a posto. Stavo solo… beh, mi stavo preparando a fare quello che devo».
Jasper si chinò e raccolse la frusta dal pavimento, «non vorrei essere al loro posto» commentò. Si avvicinò a Carlisle e gli porse lo strumento «e nemmeno al posto tuo».
Carlisle sorrise amaramente, prese la frusta dalle mani di Jasper e la arrotolò «nemmeno io vorrei essere al posto mio, credimi» disse.
«Grazie» disse Jasper, con una inflessione molto grave.
Carlisle lo guardò sorpreso «Per cosa?»
«Per fare quello che serve per tenere unita la nostra famiglia.» Spiegò Jasper tranquillamente.
«Non devi ringraziarmi per questo. È il mio lavoro, come vostro leader.»
Jasper lo guardò intensamente «ma so quanto dolore ti costa. E voglio ricordarti che tu non sei solo il nostro leader, ma un simbolo. Sei la nostra bandiera Carlisle. Noi affrontiamo il mondo che ci teme, sotto il tuo vessillo. Tu ci ricordi che non siamo mostri o bestie... se scegliamo di non esserlo. Che una vita umana è ancora possibile, per noi. Eravamo perduti, ma tu ci hai trovato. Non eravamo redimibili, ma ci hai perdonato. Eravamo soli, ma ti sei preso cura di noi e ci ami, nonostante i nostri errori. Per me, questi sono valori che vanno difesi con ogni mezzo possibile. E voglio che tu sappia che sono incredibilmente orgoglioso di poterti chiamare padre.»
Carlisle sentì il petto gonfiarsi d’amore. Cinse le spalle di Jasper con un braccio e lo strinse a se per qualche secondo, in un abbraccio silenzioso. «Per ogni ostacolo da superare, la mia ricompensa siete voi, la mia famiglia e le scelte che fate ogni giorno. Voi siete la mia redenzione da ogni peccato».
Padre e figlio si staccarono delicatamente dell’abbraccio e Jasper sorrise, poi guardò il soffitto «credo che di sopra siano pronti, per te. Stanno diventando un po’ ansiosi, a dire il vero. Vuoi tenerli ancora sulle spine?»
«No, meglio strappare il cerotto in un solo colpo» disse Carlisle, con ritrovata determinazione «potresti andarmeli a chiamare?»
«Sissignore» rispose Jasper «tutti e tre insieme?»
«Sì, insieme» confermò Carlisle «ah, e Jasper… potresti fare in modo che tua madre si allontani? Credo che, per lei, restare qui sarebbe oltremodo difficile». 
Jasper fece un cenno con il capo «dirò a Alice di portarla a fare una passeggiata, molto lontano. Io resterò nei paraggi, se aveste bisogno di me».
Carlisle seguì suo figlio mentre usciva dalla porta. La mia redenzione da ogni peccato, pensò di nuovo. Afferrò la frusta, la srotolò e la fece schioccare nell’aria un paio di volte. Il rumore fu simile a dei piccoli spari. Ti devo ringraziare, ora, Ulrich, per avermi insegnato questi giochetti. E devo ringraziare anche mio padre, per avermi insegnato il dolore. Sarà una lunga notte, ragazzi miei.
 

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Capitolo 5
*** Chickens Have Come Home To Roost ***


Jasper bussò educatamente alla porta della propria camera da letto, sapendo che Alice e Edward erano ancora insieme, là dentro. Alice aprì la porta quasi all’istante, lo abbracciò e lo baciò con tenerezza, come se non si vedessero da settimane. 
Quando Alice si staccò da lui, Jasper si rivolse a Edward, che era rimasto seduto sul letto «Carlisle mi ha pregato di farti sapere che vorrebbe vederti nel suo studio» disse e vide Edward annuire. Sentì un fiotto di apprensione provenire dal fratello, il che era davvero inusuale, per lui. Avrebbe voluto dirgli qualcosa, ma Alice gli mise una mano sulla spalla e lui uscì in silenzio. Andò in fondo al corridoio, bussò alla porta di Emmet e Rosalie e  recitò le stesse parole dette poco prima a Edward.
Poco dopo, furono tutti insieme nel corridoio. Si guardarono in silenzio. Rosalie scoccò a Edward uno sguardo avvelenato e lui emise un basso ringhio ferino in risposta. Emmett alzò gli occhi al cielo. 
«Dovreste smettere di comportarvi così» commentò Jasper «a Esme si spezza il cuore e…» .
«Piantala Jaz!» commentò duramente Emmett «è inutile che fai il superiore, perché è davvero solo per caso che non fossi con noi questa mattina quando abbiamo lottato, altrimenti probabilmente staresti per scendere di sotto insieme a noi. Quindi ringrazia la fortuna e fa’ silenzio».
Jasper alzò le mani, in segno di resa «volevo solo aiutare» disse «ma capisco che siate nervosi. Non vi trattengo oltre. Andate pure a godere delle amorevoli cure di Carlisle. Certamente lui riuscirà a farvi ragionare» portò due dita alla fronte mimando ironicamente un saluto militare.
«Vai al diavolo, Jasper», commentò Rosalie, acida, e si incamminò nel corridoio, «ci mancava solo che il soldato d’inverno, qui, si mettesse a fare dell’ironia» continuò, rivolta a nessuno in particolare. 
Mentre i suoi fratelli e Rosalie scendevano di sotto, con tutta la lentezza di qui erano capaci, evidentemente senza nessun desiderio di arrivare a destinazione, Jasper cinse le spalle di Alice «Carlisle vorrebbe che tu…»
«Sì, lo so. Ho visto me e Esme andare insieme a caccia stanotte. Cercherò di distrarla un po’, ma non sarà facile.»
 
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Entrarono nello studio silenziosi come ombre. Emmet per primo, seguito da Rosalie, ultimo Edward. Si fermarono davanti a Carlisle che stava in piedi, appoggiato con la schiena alla scrivania, le braccia conserte. Li guardò in silenzio, il viso senza espressione. Edward provò a leggere la sua mente, ma si rese conto che Carlisle stava pensando in latino, latino ecclesiastico, per giunta. Odiava quando lo faceva, perché gli rendeva praticamente impossibile leggergli i pensieri. Dovrò impararlo anche io, prima o poi. Erano decenni che se lo ripeteva, ma il latino gli era proprio detestabile. Lo era sempre stato, fin da quando era umano. Preferiva di gran lunga le lingue neolatine come l’italiano, il francese, lo spagnolo… lingue romantiche in cui leggere opere di grandi autori come Hugo, Manzoni, Cervantes, le lingue della musica e dell’opera lirica come Verdi, Puccini, Bizet. 
Pensò a quanto gli sarebbe piaciuto vedere queste grandi opere con Bella, quanto avrebbe amato poter leggere per lei tutti i suoi romanzi preferiti. Un moto di irritazione lo pervase. Avrebbe potuto essere con lei, in quel momento invece di essere nello studio di Carlisle ad attendere di ricevere un castigo così immeritato. Avrebbe dovuto essere con lei, anche solo per guardarla dormire dolcemente, per proteggere i suoi sogni così insondabili. Era affascinante aver finalmente incontrato qualcuno che fosse per lui così insondabile… una vera sfida. I suoi pensieri furono interrotti dal… silenzio. 
Erano in piedi, schierati come soldatini davanti a Carlisle da quasi un minuto e nessuno aveva ancora parlato. Il vampiro decano li osservava, facendo scorrere lo sguardo su di loro, a turno. Si aspettava che fossero loro a dire qualcosa? Normalmente, per un vampiro, l’attesa non è un problema. Un immortale può restare immobile anche per ore, giorni, senza far altro che esistere e riflettere. L’immortalità è lunga e l’attesa diventa come un altro organo, sotto la pelle. Ma, in quel caso, non era attesa, era suspance. Poiché tutti sapevano che di lì a poco qualcosa sarebbe dovuto succedere. La domanda era: tra quanto? Quanto avrebbe atteso Carlisle prima di fare… quello che aveva intenzione di fare? Perché non diceva nulla?
Fu Emmett a rompere per primo il silenzio, era quello che si annoiava più facilmente, tra loro «ci hai mandato a chiamare, Carl» disse con una certa tensione nella voce «probabilmente vorrai… ehm…. mettere in pratica il tuo proposito di…» non riuscì a finire la frase.
Carlisle continuava a rimuginare in latino “...quidquam, nisi suadente iusta et rationabil­i causa…” questo non era troppo difficile da capire, qualcosa a proposito di una giusta causa, ma era faticoso provare a tradurre mentre lui pensava così velocemente, riusciva a carpire solo poche parole e con il latino le singole parole non significano nulla, se slegate dal resto della frase.
«Sì Emmett. Vi ho mandato a chiamare perché, come dici tu, ho intenzione di mettere in pratica il mio “proposito”. Ossia, come impone la legge della Castigatissima Disciplina che è stata invocata, di amministrare un buon numero di frustate sulle vostre natiche da adolescenti impenitenti» Carlisle fece del suo meglio per non sorridere delle loro facce oltraggiate e imbarazzate. «Comunque, vorrei dirvi alcune cose, prima di cominciare» li guardò uno per uno negli occhi, lasciando che sostenessero il suo sguardo sereno. 
«Vi voglio bene» disse con fermezza «lo so che può suonare patetico e stucchevole» proseguì con un sorriso, in risposta alle loro facce confuse «ma non esistono altre parole per esprimere i miei sentimenti. Io vi voglio bene. A ciascuno di voi, in egual modo. Niente di quello che fate o che farete, potrà cambiare questo. Qualsiasi errore commetterete, qualsiasi azione sconsiderata, io vi vorrò sempre bene». 
«Se c’è una cosa che odio» sibilò Rosalie «è quando giochi a fare il buon padre di famiglia.»
«Non è un gioco per me, Rosalie. È ciò che sono. Provo l’amore di un padre per voi tre, che ho creato alla vita eterna e anche per Alice e Jasper, che hanno deciso di essere parte della mia vita, della nostra vita. Voi siete gli unici figli che potrò mai avere e io vi amo».
Lei abbassò gli occhi e guardò altrove, con un’espressione indecifrabile.
«Noi siamo una famiglia» continuò Carlisle «e il mio più intimo desiderio è che restiamo uniti. Non per l’eternità che abbiamo davanti, perché l’eternità è un tempo che solo Dio ha potere di comprendere. Ma, spero, per tutto il tempo in cui sarà possibile. Questo non vuol dire che vi fermerei, se decideste di seguire la vostra strada. Ma mi illudo che il vostro desiderio sia quello di restare» li guardò di nuovo con un sorriso triste «e che anche voi ricambiate il mio affetto» 
«Ma certo che lo ricambiamo, Carl», esclamò Emmett con trasporto «diglielo Rosalie!» lei non sollevò la testa «Eddie, almeno tu?» ma anche suo fratello, il quale notoriamente stravedeva per Carlisle, non disse nulla. Emmet sbuffò,  «beh, allora te lo dico io, se questi due ingrati non hanno il coraggio. Certo che ti vogliamo bene e sono sicuro che parlo a nome di tutti», guardò Rosalie e Edward, per vedere se volevano smentirlo, ma nessuno dei due disse nulla.
«Grazie Emmett», disse Carlisle con calore, «c’è un’altra cosa che vorrei dirvi: non lasciate che il rancore e l’odio penetrino in voi, perché tali sentimenti radicano facilmente nella nostra specie, molto più degli altri sentimenti, e generano fiori orribili. A differenza degli umani, il cui fuoco della vita arde e brucia tutto, rendendoli volubili e facili al cambiamento, per noi, che abbiamo perso quel fuoco e siamo freddi, è molto difficile cambiare. Ho visto molte volte l’odio insinuarsi nella mente degli immortali, così come la rabbia e il risentimento che, covati per secoli, diventano un veleno da cui è impossibile disintossicarsi. Una eternità di odio, credetemi, non può essere una bella eternità.» Carlisle rimase in silenzio, guardando i propri figli. Avevano tutti la testa bassa, e provò per loro un’infinita tenerezza e compassione e dovette reprimere l’impulso di abbracciarli. Non era ancora il momento del conforto, quello sarebbe venuto dopo. 
Vi fu un altro lungo silenzio, poi Edward parlò «mi rendo conto che tutto questo è colpa mia, non volevo scatenare una crisi nella nostra famiglia, anche se sapevo che il mio interesse per Bella avrebbe suscitato dei dissensi. Comunque, non intendo rinunciare a lei, quindi» fece uno spavaldo passo avanti «sono pronto ad assumermi la responsabilità di tutto, Carlisle. Me ne andrò… lascerò il la congrega e…» 
«Patetico idiota» sbottò Rosalie con voce tagliente. 
Edward la guardò esasperato «perché devi essere sempre così st… antipatica? Se non te ne sei accorta, stavo cercando di mettere a posto le cose in modo che voi possiate vivere in pace».
«Bugiardo, oltre che idiota» la voce di Rosalie era carica di disgusto.
«Come ti permetti?» sbottò Edward, la cui irritazione stava di nuovo crescent
«Ecco che ricominciano» mormorò sconsolato Emmett. 
Rosalie lo ignorò e continuò a incalzare Edward, «a me non la dai a bere, ok? Stai  solo facendo la parte della vittima, perché sai benissimo che appena ti metti a recitare queste stronzate da eroe tragico, tutti ti perdoneranno. Furati… immagina Esme se anche tu solo minacciassi di andartene… uscirebbe di testa e, ovviamente, incolperebbe me di tutto. Come se fossi stata io a rompere ogni regola che i vampiri abbiano mai avuto. Ma a te non frega un cazzo di tutto questo. Pensi solo a quella tua puttana umana».
Edward ringhiò ferocemente a quelle parole «sai cosa, magari è colpa tua. Sei tu che hai montato tutto questo caso su chi io dovrei o non dovrei frequentare. Sei tu che porti sempre problemi in questa famiglia e tutti devono sempre essere pronti a rimediare ai tuoi casini. Proprio tu, che non hai mai voluto essere una di noi. Verrebbe da pensare se non sia meglio che te ne vada tu, anziché io. Tanto lo sappiamo tutti che Carlisle ti ha creato per sbaglio, e tu hai sempre detto che sarebbe stato meglio se fossi morta quel giorno. Beh, hai ragione: staremmo tutti meglio adesso.»
«Basta così, Edward!» la voce di Carlisle suonò come una sferza, «queste parole non sono degne di te, sono veramente allibito. Nessuno qui va da nessuna parte. E nessuno si prende la colpa di niente. Invece, ciascuno di voi si assume la responsabilità per le proprie azioni e parole».
Si staccò con veemenza dalla scrivania e la aggirò, aprì  una scatola di legno chiaro, che era appoggiata sul ripiano di cuoio verde, e che fino a quel momento era passata inosservata. Ne estrasse la frusta di Ulrich e la stese tra le mani, saggiandola. 
«Edward, vieni davanti alla scrivania» lo invitò Carlisle con fermezza e iniziò ad arrotolare la manica del dolcevita, lasciando libero l’avambraccio color avorio fino al gomito. 
Edward sentì una stretta dalle parti dello stomaco, una sensazione strana e sgradevole  «ti prego, Carlisle, non possiamo parlarne?» implorò.
«Oh, adesso vuoi parlare? Adesso che le tue terga sono sulla linea di tiro? Bizzarro…perché meno di un’ora fa tu stesso hai invocato il diritto di usare questa frusta contro tua sorella. Avevo davvero sperato che ascoltaste ragione e che potessimo risolvere tutto parlando come persone civili, ma pare abbiate dimenticato come si fa. Avete provato a forzarmi la mano e avete pensato che la vendetta vi avrebbe dato soddisfazione. Beh, vedremo se sarà così. Vedremo se veder soffrire gli altri sarà così soddisfacente. Ora, obbedisci Edward. Alla scrivania»
Edward si rese conto che implorare Carlisle in quel momento sarebbe stato inutile. Aveva desciso di tenere il punto e se c’era qualcuno in grado di mantenere fede ai propri propositi… beh, quello era lui. Quindi non trovò altra soluzione che obbedire, i suoi piedi pesanti a ogni passo.
«Giù i pantaloni», disse Carlisle quando Edward raggiunse la scrivania.
 «Che cosa??» chiese Edward inorridito. Ebbe l'impulso di per mandare Carlisle a quel paese, e forse avrebbe quasi riso se non si fosse sentito così umiliato. Come si era potuti arrivare a questo? Era tutto pazzesco. Certo, poteva sempre rifiutarsi di sottomettersi a questa assurdità, ma poi? Avrebbe sfidato Carlisle? Follia. Non poteva. Non lui… Dopotutto, era davvero un cocco di papà, anche se odiava ammetterlo. E Carlisle aveva sempre avuto ragione, secondo la sua esperienza, quindi... se Carlisle voleva frustarlo o qualsiasi altra cosa, probabilmente aveva le sue buone ragioni e non voleva discutere con lui. Non voleva deluderlo. Non di nuovo. In fondo, sapeva di essersi comportato da idiota con Rosalie. Non avrebbe dovuto cedere alle sue provocazioni. Ma lei era sempre capace di fargli perdere il controllo «Loro devono proprio stare guardare?» fu l’unica cosa che ebbe il coraggio di chiedere.
«Sì» rispose Carlisle, impassibile.
Senza aggiungere altro, Edward si slacciò i jeans, che caddero frusciando alle caviglie. 
«Anche i boxer, poi poggia le mani sulla scrivania. Ti prego di ricordare che è antica, quindi cerca di non distruggermela». 
Emmett emise un fischio divertito, quando il fratello denudò le natiche bianche, ma Carlisle gli fece un cenno di ammonimento che gli fece morire il sorriso sulle labbra. 
«È la cosa più umiliante che abbia mai dovuto subire in cent’anni di vita» disse Edward.  
«La vita è una lunga lezione d'umiltà», disse Carlisle, compassato. 
«L’ha detto Sant’Agostino?»
«J. M. Barrie, l’autore di Peter Pan. Mi sembra appropriato dato che, nonostante la vostra veneranda età, continuate a comportarvi da bambini litigiosi». 
Edward non disse altro. Appoggiò i palmi sulla scrivania guardando dritto davanti a sé, ma percepiva ogni movimento alle sue spalle, ed era dolorosamente cosciente dei pensieri di Emmet e Rosalie, che lo osservavano in quella posizione così esposta, così vulnerabile. Lo detestava. Avrebbe voluto gridare e ringhiare, rivestirsi e sparire oltre la porta. Ma non poteva. Carlisle lo aveva ordinato, con quella sua voce calma e ferma, così ragionevole. Si aspettava di essere obbedito. E lui desiderava ardentemente la sua approvazione. Non poteva deluderlo. Non di nuovo. Sapeva di aver agito male, con Rosalie. Sapeva che non avrebbe dovuto cedere alle sue provocazioni. Ma non aveva mai saputo contenere la rabbia, non poteva farci niente.
Percepì Carlisle posizionarsi alla sua sinistra, e sentì la sua mano fredda e dura posizionarsi sulla parte bassa della schiena, in un gesto che gli parve rassicurante. Nell’altra, Carlisle impugnava saldamente il manico della frusta. 
«Rosalie» disse Carlisle, lei trasalì sentendo il proprio nome, staccò gli occhi dalla frusta e lo guardò con aria preoccupata, «dovrai contare i colpi» le disse «ad alta voce. Se perdi il conto, si ricomincia da capo». 
Lei sgranò gli occhi «perché io?» protestò. 
«Sei stata tu a invocare la legge della disciplina. Dunque è una tua responsabilità. Ricordami, quale pena avevo comminato per Edward?»
«Carlisle, ti prego…» supplicò Rosalie. Lui la guardò impassibile.
L’espressione di Rosalie si appiattì, il suo viso non mostrava più alcuna emozione «cento frustate per il litigio con Emmett di stamattina. Cento per aver rischiato di essere scoperto, quando ha salvato la vita della sua umana, e altre dieci frustate per avermi chiamato Stronza. Duecentodieci, in totale», mormorò in un sussurro piatto, appena udibile. Carlisle annuì e si rivolse di nuovo al suo primogenito, che fece del suo meglio per non sembrare preoccupato. Carlisle alzò il braccio. La frusta sibilò e il primo colpo impattò  con uno schiocco sulla parte alta natiche di Edward. 
«Uno», contò Rosalie debolmente.
Edward sgranò gli occhi e dopo un attimo schizzò in piedi, incredulo. «Ehi, ma fa male!»
Carlisle sollevò un sopracciglio «che cosa ti aspettavi da uno strumento che si chiama “castigatissima disciplina”? E questa che ho io è una versione più piccola e gentile di quella originale, sappi che ho visto vampiri millenari invocare la morte, pur di interrompere il supplizio... Adesso torna giù, se lasci ancora la posizione, beh… non farlo».
Deglutendo a vuoto, Edward tornò a posizionare le mani della scrivania, poteva sentire sotto i palmi il più piccolo dettaglio della superficie, ogni venatura cuoio di cui era rivestita. Curioso come la sua pelle potesse essere così sensibile a qualsiasi sollecitazione dell’ambiente eppure così resistente. Almeno, aveva sempre ritenuto che la sua pelle fosse molto resistente. Salvo che, in quel momento, avrebbe voluto non avercela affatto la pelle. Se il primo colpo era stato una spiacevole e bruciante sorpresa, sospettava che i restanti duecentonove, sarebbero stati una vera ordalia.
Il secondo colpo atterrò perfettamente parallelo al primo, appena un millimetro sotto, con una precisione chirurgica. La sensazione di bruciore si intensificò, ma era ancora sopportabile.
«Due» contò Rosalie.
Carlisle cominciò a far cadere la frusta a ritmo rapido e cadenzato, come una lancetta dei secondi, imprimendo una certa forza, in modo che il veleno contenuto nella frusta penetrasse a fondo.
«Tre. Quattro. Cinque…» la voce di Rosalie era atona.
Edward cercò di mantenere un certo contegno. Sobbalzava leggermente, a tratti, per una sferzata particolarmente violenta, ma teneva la posizione e non si lamentava. Mascelle strette e le labbra serrate. Costringendosi ad ascoltare la voce di Rosalie che continuava contare, come se stesse passando i prodotti alla cassa del supermercato.
La cinquantesima frustata cade a metà delle cosce e Edward strinse un pugno e chiuse gli occhi. Tutta la parte bassa del suo corpo, dai fianchi alle gambe stava bruciando dannatamente, ed erano appena a un quarto della corsa. 
Carlisle si fermò un momento, per osservare suo figlio e controllare le sue condizioni. Poi, alzò nuovamente il braccio e riprese il proprio compito con metodica precisione. 
La cinquantunesima frustata si sovrappose precisamente alla prima e, a quel punto, Edward poté sentire il colpo dieci volte più forte. Emise un leggerò sbuffo. 
La cinquantaduesima cadde precisamente dove era caduta la seconda e così via. Alla settantacinquesima frustata, gli sfuggì un gemito e si morse le labbra. 
«Nessuno penserà male di te, se darai voce al dolore. Puoi lasciarti andare, figliolo»
Edward scosse la testa. Non voleva che Emmett e Rosalie lo vedessero lamentarsi come un bambino. Strinse le labbra ancora di più.
Quando Rosalie contò il centesimo colpo, però, che si abbatté a metà delle cosce, precisamente sopra al cinquantesimo, non poté fare a meno di emettere un grugnito. Gli bruciava tutto, provò l’impulso irrefrenabile di passarsi una mano sulla pelle ingiuriata delle natiche e delle cosce, per essere sicuro che fosse ancora intatta. Nella sua vita di vampiro, non aveva mai sperimentato niente di simile. Il dolore fisico non faceva più parte della sua vita da molto tempo.
Carlisle gli posò una mano sulla testa «Siamo a metà strada, figliolo». Come poteva essere così calmo e gentile, senza nemmeno un accenno di rabbia, mentre gli infliggeva un castigo così duro? Annuì ma non disse nulla, non si fidava della propria voce, in quel momento. Con la coda dell’occhio vide Carlisle addentare il manico della frusta e capì che la seconda metà sarebbe stata la più difficile. 
Il colpo, di nuovo, si sovrappose precisamente al primo e al cinquantunesimo. 
«Centouno» mormorò Rosalie.
Stavolta la sferzata gli strappò un lamento. Gli sembrò che la pelle fosse stata scorticata via. Non riuscì a fermare la mano destra, che corse a coprire il punto in cui era stato colpito, inarcò la schiena e puntellò il gomito sinistro sulla scrivania, le sue ginocchia si piegarono leggermente. 
«Torna in posizione» ordinò Carlisle. 
Lentamente, Edward rimise le mani sulla scrivania, ma non riuscì più a rimanere in silenzio. Ogni frustata gli stappava un lamento, probabilmente se avesse potuto piangere, lo avrebbe fatto. Al colpo centoventicinque, che sferzò il centro esatto delle natiche, scattò in piedi e  si voltò a fronteggiare Carlisle. 
«Basta, ti prego», disse in tono molto vicino alla supplica. Vide gli occhi di Carlisle esitare appena un momento, ma poi la determinazione ebbe il sopravvento. 
«In posizione, Edward. Questa è l’ultima volta che te lo dico».
Per una frazione di secondo, nel petto di Edward montò un ringhio di rabbia e frustrazione, quasi come se avesse intenzione di rispondere “no”. Ma fu un attimo fugace. Lo sguardo addolorato e determinato di suo padre, non ammetteva alcuna sfida. Così torno a posizionare i pali sulla scrivania. "Credevo che sarebbe stato brutto. Ma non così brutto". 
«Centodue» contò Rosalie.
 La sferzata lo fece strillare e senza pensarci si tirò in piedi, per coprirsi il sedere con le mani.
Percepì appena il movimento di Carlisle che gli avvolgeva il braccio intorno alla vita e lo trascinava giù, il gomito piantato tra le sue scapole. 
In un attimo si trovò con il petto schiacciato sulla scrivania e il ventre appoggiato sulla coscia di Carlisle che si era seduto sul bordo della scrivania. 
Le frustate tornarono a piovere più rapidamente, anche se con meno potenza, ora Edward non poteva alzarsi, ma questo non gli  impedì di inizare a scalciare. Tanto che dopo una decina di colpi Carlisle dovette immobilizzargli le gambe con una delle sue e piegargli un braccio dietro la schiena. Emmett distolse lo sguardo, e incrociò le braccia sul petto. 
Edward avrebbe desiderato davvero di poter piangere. Non sapeva come altro poter sfogare tutto quello che stava succedendo dentro di lui. «Basta Carlisle, perdonami ti prego!» a quel punto non gli importava più niente di Emmett e Rosalie. Desiderava solo che quella dannata frusta smettesse di azzannargli la carne. 
Emmett distolse lo sguardo e incrociò le braccia al petto «Ti prego Carlisle, abbi pietà» mormorò.
«Basta, basta, BASTA!» 
I colpi si fermarono all’improvviso. Non era stato Edward a implorare, stavolta, ma Rosalie.
«Mi dispiace, Carlisle» disse lei, disperata «è tutta colpa mia, solo colpa mia. Ma basta, ti prego, ti supplico, lascialo stare. Se devi punire qualcuno, punisci me».
Pur se offuscato dalle fiamme che gli attanagliavano tutta la parte bassa del corpo, Edward poté percepire un lieve cambiamento nella tensione muscolare di Carlisle, il cui corpo era praticamente attaccato al suo. 
Il vampiro più anziano la guardò per qualche momento, la frusta ferma a metà del movimento.
«Qual è il conteggio?» le chiese con una freddezza da cui trapelavano mille emozioni diverse.
«Ti prego…» supplicò lei. Emmet le si fece vicino e le mise le mani sulle spalle.
«Ti avevo dato un compito, Rosalie. Se hai perso il conto, dovrò ricominciare da capo».
«Centoquarantasette», rispose lei rapidamente «ma adesso lascialo stare, per favore. Posso prendere io il resto della sua punizione. Raddoppiata, se vuoi, triplicata. Ma non fargli più male. Ti prego». 
Edward rimase stupefatto dal rendersi conto che Rosalie era sincera, poteva leggere nei suoi pensieri che era davvero addolorata. Era disposta a prendere su di sé una parte del dolore destinato a lui, pur di risparmiargli altra sofferenza. Possibile che Rosalie provasse per lui tali sentimenti? 
Carlisle lasciò andare la presa su Edward, che comunque rimase prono sulla scrivania, scosso a tratti da qualche tremito. Il vampiro anziano appoggiò sul proprio fianco la mano che teneva la frusta «tu che cosa ne dici Edward? Accetteresti che Rosalie prendesse il resto delle frustate destinate a te?» gli chiese, guardando la nuca di suo figlio.
«No, non lo accetterei» rispose Edward, con un leggero tremito nella voce, senza alzare la testa «… non ho bisogno del suo aiuto».
«Grande malizia è la superbia e la prima malizia, inizio e origine, causa di tutti i peccati» commentò Rosalie con voce fredda, appena incrinata dallo sfogo emotivo di pochi istanti prima. «Non mi guardate così» aggiunse, constatando gli sguardi sbalorditi degli altri presenti «sarò anche bionda, ma non sono stupida. So contare fino a cento e so anche citare i discorsi Sant’Agostino. Non è che ci sia molto altro da leggere, in questa casa, a parte trattati di filosofia, di medicina e di teologia» concluse, quasi come per giustificarsi.
«Non sto facendo il superbo» protestò Edward «direi che sarebbe piuttosto difficile data la mia… posizione attuale» si contorse leggermente ed emise un sibilo di dolore, la parte bassa del corpo in preda alle fiamme. Nonostante si fosse sforzato di rimanere impassibile, Carlisle non poté fare a meno di ridacchiare. 
«Mi detesti così tanto, allora? Vorresti davvero liberarti di me? Se è così dillo e me ne andrò, ti lascerò campo libero per la tua nuova compagna» disse Rosalie, la voce appena sussurrata.
Edward non rispose e si chiuse in un ostinato silenzio. Poteva leggere i suoi pensieri e si rese conto che, in quel momento, avrebbe avuto il potere di farla allontanare dal Clan, se avesse voluto. Aveva potere su di lei. Ma lo voleva? Per quanto fosse odiosa, per quanto fossero soliti azzannarsi a vicenda verbalmente o ignorarsi, nel migliore dei casi, si rese conto che non avrebbe potuto immaginare la famiglia Cullen senza Rosalie. 
«Tua sorella ti ha fatto una domanda» disse Carlisle con tono ammonitore «sarebbe educato se tu  le rispondessi». 
Edward continuò a restare in silenzio, fino a quando sentì uno schiocco e un lampo bruciante sulle natiche già doloranti. Ci mise qualche frazione di secondo per rendersi conto che Carlisle gli aveva assetato una sonora sculacciata. 
«Ecco, se pensavo di aver raggiunto il fondo dell’umiliazione…» commentò Edward con la voce che  conteneva un ringhio di frustrazione.
«Ti assicuro che siamo ben lontani dal fondo» commentò Carlisle, «adesso rispondi a Rosalie, o ne ho pronte un'altra decina che ti farà rimpiangere la frusta».
«Che cosa dovrei risponderle? No, che non ti detesto, Rosalie. E non vorrei davvero che tu te ne andassi, per quanto odi ammetterlo, sei pur sempre mia sorella. Ho detto che quelle cose crudeli perché so benissimo che ti avrebbero ferito a morte. Mi sono comportato da stronzo, con te, come tu ti sei comportata da stronza con me. Quindi lascia che Carlisle faccia quel che deve fare, dato che me lo merito. Comunque… ti ringrazio. Davvero. So che sei sincera. Non immaginavo che saresti stata disposta davvero a sacrificarti per me».
«Ok, Edward. Puoi alzarti» disse Carlisle con un sospiro.
«Cosa?» chiese Edward sorpreso.
«Ho detto che puoi alzarti, penso che per il momento il tuo castigo sia stato sufficiente».
Edward si sollevò, lentamente e emettendo sibili e gemiti a ogni movimento. 
«Piano, piano» gli disse Carlisle, sorreggendolo per le braccia «adesso rivestiti e ricomponiti» e si allontanò da lui, per concedergli un minimo di privacy.
Con lentezza e con sofferenza, Edward fece risalire i vestiti al proprio posto, azione che, probabilmente, era parte stessa del castigo, poiché il contatto con i tessuti gli risultava pressoché insopportabile. Tutta la pelle, dalle natiche a metà delle cosce tirava e gli sembrava raggrinzirsi, come se fosse una fetta di manzo messa a sfrigolare in padella.
«Dato che mi sembra si sia ristabilita una certa empatia reciproca» la voce di Carlisle sembrava d’un tratto più leggera, «vorrei che facessimo tutti un passo indietro, e riprendessimo la conversazione da dove le cose hanno iniziato a degenerare, ok? Prima che diciate qualcosa di cui potreste pentirvi, vi comunico che nessuno è ancora fuori dai guai. Questa» sollevò davanti al loro naso la frusta che teneva arrotolata in mano «non ha ancora finito di lavorare, per stanotte. Ma… avete l'opportunità di mi convincermi a farla lavorare meno di quel che avevo previsto, non la sprecate. Anche tu, giovanotto» disse a Edward «una sola parola sbagliata e ritorni dritto la sopra con le chiappe al vento, a prenderti tutte quelle che non ti ho dato. Chiaro?» 
Edward si portò una mano sul didietro e fece una smorfia.  Rosalie roteò gli occhi e sembrò sul punto di dire qualcosa, ma Emmett la anticipò «Chiarissimo» disse, «E penso che siamo pronti a dire qualsiasi cosa tu voglia, anche in aramaico antico pur di uscire da questa situazione» sorrise. 
Ma Carlisle non sembrò compiaciuto dal suo tentativo di umorismo «forza, allora» li esortò serio  «mi aspetto solo parole civili e ragionevoli, in qualunque lingua vogliate». 
Rosalie si fece avanti, schiarendosi la gola «tocca a me, penso. Questa mattina ho istigato volontariamente Edward e l’ho pungolato con pensieri crudeli sulla sua umana, un po’ come ha fatto lui con me, prima. Sapevo che l'avrei ferito e desideravo farlo. Desideravo che mi aggredisse e che magari mi ferisse, per poterlo accusare di essere fuori di testa. Per ledere la sua credibilità agli occhi degli altri. Perché sono convinta che la sua capacità di giudizio sia completamente offuscata, a causa di quella… Santa Vergine dei Capuleti
«Calma, piccola», le disse piano Emmett «mantieni la calma»
Lei gli si fece vicino, come per cercare la sua protezione, «È solo che… ho davvero paura»
«Di che cosa hai paura, Rose?» chiese Carlisle
«Che gli importi più lei che di… noi. E poi, Carlisle…» Rosalie osò guardare negli occhi Carlisle, che nel frattempo era rimasto appoggiato alla scrivania, in silenzioso ascolto. «Davvero non vedi quale sarà il vero epilogo di questa storia tra un vampiro e un’umana? Non devo essere Alice per sapere che cosa succederà a quella ragazza e io… io farò di tutto per impedirlo, se posso. Mi dispiace» disse con voce incerta, quasi triste «desidero proteggere la mia famiglia e anche una vita umana». 
Rimasero tutti in silenzio. Rosalie e Carlisle si guardarono a lungo e Edward, leggendo le loro menti, quasi credette che quei due fossero capaci di leggersi reciprocamente nel pensiero. Si passò la mano tra i capelli, la postura rigida per via del dolore, «non permetterò che a Bella succeda nulla che vada contro i suoi interessi, Rosalie. Te lo assicuro. Io la amo e capisco che cosa vuoi dire… sono ancora più addolorato di averti detto quelle cose orribili, prima. Ma la verità è che sono un meschino egoista e invidioso. Non posso immaginare di lasciarla andare… anche se so che cosa questo potrebbe comportare per lei. Io sono stanco di invidiare quello che avete voi, gli uni per gli altri. Qualcosa che io non sapevo nemmeno di poter desiderare, prima di incontrare Bella» proseguì Edward, «Mi dispiace, Rosalie so che tu desideri solo proteggerci, per quanto lo dimostri in modi… fantasiosi» le sorrise debolmente e lei ricambiò, con tristezza.
«Ottimo!» esclamò Emmett, con entusiasmo battendo le mani. «Davvero ottimo. Adesso è tutto sistemato giusto? Abbiamo fatto pace, e ci siamo chiariti. Questo chiude la questione, vero Carlisle?» 
«Temo di no» rispose tristemente il vampiro più anziano. 
«Cosa?» esclamò Emmett «ma dai. Hai visto, no? Rosalie e Edward vanno d’amore e d’accordo, proprio come bravi fratelli. Una roba che non si era mai vista prima. Anche io e Eddy ci vogliamo bene» passò un braccio attorno alle spalle di Edward e lo strinse, facendolo sussultare «siamo di nuovo una grande famiglia felice. Non è quello che volevi?»
«Sono molto fiero di voi» ammise Carlisle «ciò nonostante, come ho detto, non siete ancora fuori dai guai. Anzi, tu sei il prossimo della lista».
«Ma perché?» Protestò Emmett.
«L’aver staccato un braccio a tuo fratello non ti sembra una ragione sufficiente? E comunque non sarebbe giusto nei confronti di Edward, dato che lui ha avuto la sua parte».
«Beh, immagino tu abbia ragione…» ammise Emmett con una smorfia.
«Ma non m’importa io…» intervenne Edward ma Emmett lo interruppe. 
ammise con una smorfia.
«Comunque» aggiunse Carlisle «dato che mi sembra che la lezione sia almeno parzialmente assimilata, credo di potervi decurtare la pena» la sua espressione era tornata dura e ferma «Rosalie, quale era la pena comminata per Emmett?». 
«Cento» rispose lei.
«Possiamo scendere a sessanta. Emmett, alla scrivania. Stessa procedura di Edward. Rosalie, dovrai contare di nuovo».
«Carlisle non puoi farmi questo, ti prego» implorò Rosalie.
«Tranquilla, piccola», la rassicurò Emmett «sarà uno scherzo… Non pensare al piccolo Eddy, qui. Adesso vedrai come la prende un vero uomo» le mise la bocca vicino all’orecchio e le disse qualcosa sussurrando talmente piano da essere inudibile. Edward lo sentì comunque, leggendo i pensieri di Emmett e si mise le mani davanti agli occhi, sperando di scacciare l’immagine estremamente sconcia che gli si era creata nella mente. 
Rosalie annuì, ma era evidentemente angosciata. 
Senza indugio, Emmett si denudò dalla vita in giù, esponendo glutei rotondi e sodi e gambe muscolose come quelle di un giovane toro. Pose le mani sulla scrivania e fissò dritto davanti a sé.
«Forza Carl, fai del tuo peggio».
Carlisle lo fissò con sguardo preoccupato. Avrebbe voluto dirgli che quella non era una sfida e che il suo scopo non era di spezzarlo, ma Emmett era fatto così. Prendeva tutto come una sfida. Certo, tra tutti e tre, lui era il meno colpevole. Si  era solo trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato e stava cercando ancora di proteggere Rosalie. Ciò nonostante, non poteva permettergli di prendere quell’esperienza sotto gamba, aveva bisogno che anche lui ne fosse, in qualche modo, segnato. Morse di nuovo il manico della frusta e vi iniettò una dose supplementare di veleno. Suo malgrado, avrebbe dovuto fare davvero del suo peggio. 
In effetti, Emmett prese le prime venti frustate con una ammirevole stoicità. Carlisle aveva distanziato i colpi, dato che erano un minor numero, per coprire l’intera porzione dei glutei e delle cosce. Eppure, quando il colpo ventuno si abbatté nel solco della frustata numero uno, i suoi occhi si dilatarono e vi fu un evidente contrazione dei muscoli della schiena. Le successive dieci lo portarono ad agitarsi sulle gambe, quasi come se volesse battere i piedi. Le ultime nove lo fecero grugnire leggermente. E la voce di Rosalie, che contava in un sussurro udibile appena, si fece ancora più debole. 
Anche Carlisle era emotivamente spossato, nonostante non mostrasse alcun segno esteriormente, vedere i propri figli soffrire quel modo, a causa della sua stessa mano, lo distruggeva. Quantunque  fosse consapevole che lo stava realmente facendo per il loro bene. 
Strinse i denti e si fece forza. Doveva arrivare fino in fondo, ormai. Non poteva tirarsi indietro o sarebbe stato tutto inutile. Avrebbero sofferto senza motivo.
Si avvicinò a Emmett e gli mise una mano sulla spalla, era teso come un blocco di marmo. «Coraggio», gli disse «adesso farà male». Lui annuì in silenzio, senza distogliere gli occhi dal punto indefinito che stava osservando. 
Carlisle diede un altro morso al manico della frusta e iniziò la terza raffica. Stavolta, sulla pelle di Emmett si formò un lieve segni bianco, dove la frusta lo colpiva. 
«Quarantuno» bisbigliò Rosalie
Emmett ringhiò come un orso inferocito. 
«Quarantadue»
Il ringhio si trasformò in un lamento e il giovane vampiro bruno sollevò un pugno staccando la mano dalla scrivania.
«Quarantatré. Quarantaquattro. Quarantacinque»
Carlisle ne calò tre in rapida successione e la testa di Emmett scattò all’indietro, la sua schiena si inarcò. 
Rosalie emise un suono strozzato «Carlisle…» iniziò, ma Emmett la bloccò con un cenno della mano. 
«Tranquilla piccola» le disse con  la voce affogata in un ringhio inespresso «va tutto bene».
Edward sobbalzava a ogni colpo, il sibilo della frusta gli faceva venir voglia di coprirsi le orecchie, gli sembrava di sentirla ancora sulla propria pelle. 
Carlisle mise una mano sulla spalla di Emmett «stai andando molto bene ragazzone, è quasi finita, ok?» Emmett annuì, la faccia tirata e tesa, gli occhi che lanciavano fiamme. 
Le successive cinque frustate gli strapparono altrettanti lamenti soffocati e lasciarono sulla pelle cinque solchi bianchi. 
«Cinquanta» disse Rosalie.
A cinquantacinque Emmett gridò. A sessanta cadde in ginocchio, tremante. 
Carlisle lasciò cadere a terra la frusta e si passò una mano le mani sulla faccia e tra i capelli, anche lui stava tremando. Rosalie gli scoccò uno sguardo indecifrabile e si precipitò al fianco del proprio compagno, accarezzandogli i capelli e sussurrandogli all’orecchio.
Anche Carlisle, dopo aver recuperato un minimo di controllo, si avvicinò a Emmett, ancora in ginocchio, una mano aggrappata alla scrivania e l’altra puntata per terra, gli posò una mano sulla testa «ce la fai ad alzarti?» gli chiese con dolcezza. Emmett annuì e si sollevò con cautela. Si rivestì, facendo qualche smorfia mentre il tessuto strusciava sulla pelle.  
Carlisle gli tenne una mano sulla spalla e incontrò il suo sguardo. Emmett sogghignò debolmente «poi mi dirai dove hai imparato a usare quell’affare così dannatamente bene?» gli chiese.
Carlisle sorrise a sua volta «sì, credo che tu ti sia guadagnato questa storia. Sono molto fiero di te». Il giovane vampiro bruno sorrise con maggior convinzione. 
«Adesso perché tu e Edward non andate di sopra? Probabilmente avrete voglia di sdraiarvi. Vorrei concludere la mia conversazione con Rosalie in privato».
Il volto di Emmett si indurì e il suo corpo si tese. 
Carlisle lo guardò dritto negli occhi «sarà al sicuro, te lo prometto».
Rosalie strinse il braccio del proprio compagno «vai, piccolo. Non ti preoccupare» lo rassicurò «se mi sentirai strillare troppo forte, potrai sempre venire giù a staccare la testa a Carlisle, giusto?» Lui ghignò. Le diede un bacio e annuì. 
 
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Jasper sollevò gli occhi dal suo libro e osservò Edward e Emmett attraversare il salotto «Vi ha messo sotto un treno?» gli chiese «avete un aspetto orribile».
«Essere messi sotto da un treno avrebbe fatto meno male» commentò Emmett «Cristo, che esperienza orribile, ho le chiappe in fiamme. Vado a sdraiarmi in camera tua, Ed.»
«Cosa? E perché?» protestò Edward.
«Perché la mia stanza è un macello» rispose Emmett «Rosalie ha squarciato il materasso».
«E io dove vado, scusa?» Chiese Edward. 
«Al diavolo» rispose Emmett laconico, e si avviò con andatura rigida verso il piano di sopra. Edward non ebbe il coraggio di ribattere, non era nelle condizioni di affrontare alcuno scontro con Emmett, nemmeno verbale. Si sentiva prosciugato, come se la caccia di quella mattina non fosse servita a nulla.
«Puoi sdraiarti in camera nostra se vuoi, Edward» gli disse Jasper, con torno cortese «sembra davvero che tu ne abbia bisogno. Io comunque resterò qui fino a quando non sarà tutto finito»
«Fai la guardia alla Barriera, Jon Snow?» 
Jasper sogghigno «qualcosa del genere».
«In tal caso, credo che accetterò la tua offerta. Stare in piedi è davvero un’agonia» disse Edward e si avviò anche lui verso le scale.
«Ti serve aiuto?» Chiese Jasper.
«No, sono a posto. Grazie» disse Edward «tu bada che Bruti ed Estranei non si ammazzino a vicenda, lì dentro».
 
 

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Capitolo 6
*** Effort ***


 

Carlisle trovò sostegno sul bordo della scrivania e vi si accasciò con gli occhi chiusi. La sua testa affondò tra le spalle, incrociò sul petto le braccia e vi nascose sotto le mani. 
Rosalie aveva seguito Emmett e Edward fino alla porta, l'aveva chiusa alle loro spalle e si era accasciata con la schiena contro lo stipite. I capelli le erano affastellati attorno alla testa in ciocche disordinate mentre si lasciava scivolare lentamente a terra. Quando toccò il pavimento raccolse le ginocchia al petto e le circondò con le braccia, affondando la testa tra di esse. Il silenzio nello studio era un micromondo di suoni inudibili a orecchie umane, dal vento che agitava le foglie oltre le finestre, al vibrare dei tarli nel legno delle mensole e della scrivania, ai leggeri scricchiolii di assestamento delle fondamenta della casa. 
Passarono alcuni minuti prima che Rosalie sollevasse lo sguardo su Carlisle, le sembrò  piccolo e spezzato, come un manichino rotto, coperto di costosa lana italiana. Carlisle non era un uomo particolarmente alto o prestante, non certo confronto a Emmett e Jasper o persino Edward. Ma in quel momento le sembrò piccolo e fragile come un bambino, il suo volto diafano era tirato e stanco. Rosalie aprì la bocca ma non ne uscì alcun suono. La chiuse. Serrò le mascelle e calò di nuovo la testa tra le braccia. Passò un altro minuto di silenzio «Sembri molto stanco»  disse poi senza una particolare intonazione.
Carlisle aprì gli occhi come se si fosse svegliato all’improvviso e un sorriso gentile ammorbidì il volto tirato «non preoccuparti per me. Tu come stai?» 
Rosalie scosse la testa e i capelli dorati luccicarono come le fronde di un salice autunnale attorno alle braccia sottili «hai una domanda di riserva?» chiese. Il sorriso di Carlisle si accentuò «Sto di merda, ecco come sto…» aggiunse Rosalie. Sollevò la testa «sono proprio una stronza, non è vero?» Carlisle si sollevò lentamente dalla scrivania, come se il suo corpo fosse molto pesante o rigido. A passi lenti raggiunse il muro di fronte a sé, girò sui tacchi e si lasciò scivolare sul pavimento, accanto a Rosalie. Appoggiò la schiena al muro e stese le gambe sul pavimento «diciamo che interpreti il ruolo molto bene» le disse con voce stanca ma vagamente divertita.
«Grazie, ci metto un discreto impegno» disse lei tra l’amaro e il divertito. Girò la testa verso Carlisle, i loro corpi erano così vicini che le spalle quasi si toccavano «anche tu non te la cavi male nei panni del patriarca autoritario»  gli disse, quasi con ammirazione «in tutto questo tempo, non ho mai saputo che fossi maledetto lupo travestito da agnello» .  
Carlisle ridacchiò sommessamente, la testa appoggiata al muro dietro di lui «sarai sorpresa nel sapere che non sei la prima persona a dirmelo». Rosalie spostò il proprio peso leggermente, appena il necessario affinché la sua spalla sfiorasse quella di lui «comunque, preferisco di gran lunga il Carlisle autorevole a quello autoritario».
Carlisle avvertì il suo spostamento di peso e sollevò il braccio destro, per accogliere il corpo di sua figlia nel proprio abbraccio «niente mi rende più felice che sentirtelo dire»  ridacchiò «anche perché non credo che potrei anche solo immaginare di rifare mai più quello che ho fatto oggi. Se vuoi saperlo, è una delle cose più strazianti che abbia mai dovuto affrontare» . 
Rosalie si lasciò cingere dal braccio di Carlisle ma nascose la faccia con la fronte premuta contro le proprie ginocchia «hai tutto il diritto di odiarmi» mormorò, la voce leggermente soffocata «io di sicuro mi odio, in questo momento.» 
Carlisle la strinse a sé più forte e le poggiò le labbra sui capelli dorati «non ti odio»  le disse dolcemente «forse prima eri sorda di rabbia, ma ho snocciolato uno stucchevole e accorato discorso a proposito dei miei sentimenti per voi, e il succo era che ti voglio bene, e farei qualunque cosa per farti felice»  
Rosalie scosse la testa ancora appoggiata sulle proprie ginocchia «Già… e guarda come ti ricambio. Guarda cosa ti ho costretto a fare. Edward voleva solo ferirmi, ma ha ragione a chiedersi per quale motivo al mondo tu mi abbia scelto quel giorno. Sarebbe stato meglio per tutti se tu mi avessi lasciato morire. O forse, in fin dei conti, io sono morta e questa mia vita immortale è solo l’inferno.»
Le labbra di Carlisle si staccarono dalle ciocche dorate, appoggiò di nuovo la testa al muro e guardò il soffitto. Sospirò pesantemente. Rosalie non era nuova a queste uscite melodrammatiche. Non aveva mai accettato veramente la sua natura di vampiro, l’aveva sempre rigettata e disprezzata. E, periodicamente, cadeva in una sorta di fase depressiva in cui alternava momenti di furia cieca con momenti di autocommiserazione e autoflagellazione. Questo era chiaramente uno di quei casi. «D'inferno uscito invano/Egli è,» iniziò a recitare Carlisle «l'inferno ha in cor, l'inferno intorno/Pertutto egli ha, nè per cangiar di loco/Al circondante orror più che a sé stesso/Può un sol passo involarsi. Il già sopito/Suo disperar di coscïenza al fero/Grido or si sveglia, e la mordace idea/Di quel ch'ei fu, di quel ch'egli è, di quello/Che in avvenir sarà…»  s’interruppe.
«Paradiso perduto»  sussurrò Rosalie, senza sollevare la faccia. 
Carlisle sorrise compiaciuto e la strinse a sé più forte per un momento «esatto… uno dei miei preferiti. Io e Milton eravamo quasi contemporanei, sai? Avrei potuto incontrarlo.»
Rosalie girò la testa leggermente e lo guardò di sottecchi, «Ma hai sempre una citazione pronta per tutto?» 
Carlisle rise «a che serve vivere seicento anni, se non ad accumulare inutili citazioni letterarie da snocciolare per tediare i propri figli?» 
«Che fortuna» sbuffò Rosalie e l’ombra di un sorriso increspò le sue labbra turgide. Appoggiò la testa su Carlisle, trovando riparo nell’alveo tra la sua spalla e il petto e facendo gravare su di lui quasi tutto il proprio peso «quindi fammi capire…» disse, come se stesse facendo il punto della situazione «sarei come Lucifero che porta dentro di sé l’inferno, ovunque vada e che, vedendo Adamo ed Eva nell’Eden, prova tanta invidia da volerli distruggere? Messa così, non suona molto lusinghiero, non credi?» 
Carlisle si strinse spalle ma sorrise, «Lucifero era il più bello degli angeli, in ogni caso, potresti trovare lusinghiero il paragone».
Rosalie annuì pensosa, «certo, ma scatenò una rivolta contro Dio e una faida che ha spaccato in due il paradiso. Un curriculum niente male. Mi stai suggerendo di prendere esempio?» Guardò Carlisle con candida malizia.
Lui le accarezzò gentilmente la spalla con la mano che la cingeva «Oggi ci siamo andati vicino direi…»
«La tua modestia nel paragonarti a Dio è rimarchevole» sbuffò ironicamente Rosalie . 
Lui ridacchiò ancora ma poi sospirò «Sai» disse e la sua voce era velata di tristezza, «io spero che un giorno tu possa perdonare te stessa per essere quello che sei. E spero che, un giorno, tu possa perdonare anche me».
«Non so se potrò mai» sussurrò Rosalie e distolse lo sguardo dal suo «ma nemmeno posso odiarti» aggiunse con una nota di calore «perché mi hai dato Emmett, l’unica cosa che davvero abbia mai avuto senso in questa inutile immortalità dannata. Senza di lui, sarei impazzita tempo fa…» sospirò e affondò nuovamente la testa tra le braccia «e guarda che cosa gli tocca subire a causa mia. Forse, prima o poi, lui si stancherà di me.» 
«Emmett sarebbe felice si farsi fare a pezzi per te, e sono sicuro che troverai il modo di farti perdonare da lui, per qualche frustata… Gli argomenti a letto non ti mancano.» 
Lei lo guardò sconcertata «Carlisle, ti prego!»
«Che c’è» replicò lui con espressione innocente «non vuoi parlare di sesso con me? Non è che io e Esme non lo facciamo… come credi che mi farò perdonare da lei, stanotte, dopo quello che vi ho fatto?»
«Ooook, direi che abbiamo tergiversato abbastanza. Preferisco le frustate al sentire parlare di te e di Esme che fate sesso.» sospirò Rosalie e con un cenno della testa indicò la frusta che giaceva inerte per terra come un comune pezzo di cuoio. 
Carlisle chiuse gli occhi e sospirò «speravo di poterlo evitare, ma non ho intenzione di tirarmi indietro, se tu lo desideri.» 
«In che sento, se io lo desidero?» chiese Rosalie incredula.
Carlisle annuì, «per quel che mi riguarda, vedere Emmett e Edward soffrire a causa della tua sconsideratezza è stata una punizione sufficiente» disse «se non altro, sono abbastanza certo che tu ti sia pentita di aver invocato la legge della Disciplina. Ma non sono certo che tu la pensi come me. Quindi, sta a te decidere se devi o meno essere punita ancora.» concluse con tono grave.
Rosalie lo guardò con espressione sgomenta «che bastardo.» 
Carlisle rise di cuore «che diplomazia.» 
Rosalie si accigliò «Con che coraggio scarichi su di me questa scelta?» gli ringhiò in faccia.
Carlisle sollevò un sopracciglio, «Non sto scaricando niente su di te» disse pacato «dato che questo teatrino non è stata una mia scelta, in primo luogo. Sarò anche colpevole di aver dato adito alla tua idea malsana, ma non mi sento troppo responsabile, per questo. In fin dei conti, è stata una punizione anche per me, e molto dura, te lo assicuro.» 
L’espressione di Rosalie si inasprì «Ti rendi conto che non mi dai una vera scelta? Come potrei guardare in faccia Emmett sapendo che lui ha affrontato tutto questo per me e io l’ho passata liscia?» 
«Emmett ne sarebbe solo sollevato, lo sai» rispose calmo Carlisle «e conoscendo Edward, avrebbe nulla da ridire in proposito. L’unica con cui dovresti fare i conti è la tua coscienza»  la ammonì placidamente
Rosalie buffò amaramente «Beh, quindi, come dicevo, non ho una vera scelta. La mia coscienza ha già troppo da fare senza che le infligga un'ulteriore umiliazione. Allora che cosa devo fare, chiederti gentilmente di frustarmi?»
Carlisle dondolò la testa e guardò in alto con le sopracciglia inarcate, facendo finta di riflettere «Sì», disse poi «Chiedere gentilmente sarebbe un buon inizio.» 
Rosalie gli lanciò uno sguardo omicida e si sollevò in piedi di scatto. Andò a raccogliere la frusta da terra e con un gesto stizzito la lanciò addosso a Carlisle «Sei un fottuto lupo vestito da agnello!» Lui sollevò le mani e prese l'oggetto al volo, prima che lo colpisse dritto in faccia «Il comune buon senso direbbe di provare a ingraziarsi il carnefice, non provocarlo» le disse con un tono divertito. 
Lei si strinse nelle spalle, «Lo dici come se io avessi mai avuto il dono del buonsenso, in questa vita o nella precedente. E, comunque, mi sembravi poco motivato.»
Carlisle crollò e scosse la testa, si strinse il ponte del naso con due dita «D’accordo» mormorò stancamente, «Se deve essere fatto, facciamolo per bene.» Rimase ancora alcuni istanti con gli occhi chiusi e quando li aprì erano severi e determinati. Con la frusta in una mano si sollevò da terra, facendo perno con la mano libera sul ginocchio. Quando fu in piedi si assestò le maniche del maglione, già semi arrotolate, riportandole a metà del bicipite. Dopo di ché portò il manico della frusta alla bocca e lo addentò. Rosalie soppresse un brivido “non mi tirerò indietro. Sono io che l’ho voluto, dopo tutto”. Sollevò il mento e con le braccia rigide lungo i fianchi accennò con la testa alla scrivania. «Devo…»  chiese esitando «...come hanno fatto Edward e Emmett?» In cuor suo sperava che le fosse risparmiata l’umiliazione della nudità, ma non ci sperava troppo. Non sapeva nemmeno se la frusta avrebbe funzionato sopra i vestiti. Forse no, dopotutto.
«No, non la scrivania» disse Carlisle, con un’espressione grave che la fece rabbrividire di nuovo, «Ho qualcos’altro in mente, per te.» Andò in un angolo dello studio e prelevò una vecchia sedia di legno senza braccioli e la posizionò al centro della stanza. Rosalie lo osservò confusa fino a quando, con uno scricchiolio di protesta del vecchio legno, Carlisle non si accomodò sulla sedia. Rosalie spalancò gli occhi e aprì la bocca, oltraggiata «Oh, no! No. No. No. No… stai scherzando.» Quasi urlò e indietreggiò fino a colpire la scrivania che gli bloccò la ritirata.
«Per citare Jules Verne: “Un inglese non scherza mai quando si tratta di una cosa importante come una sculacciata.”» recitò Carlisle, con fin troppa enfasi.
«Questa te la sei inventata…» lo accusò lei aspramente.
«Quasi» ammise lui «Ma non importa: tu vuoi che io lavi la tua coscienza, ma sono io a decidere come, quindi…» La guardò seriamente e batté con il palmo sulla propria coscia.
Lei si appoggiò alla scrivania con le mani dietro la schiena «Credo di averci ripensato…» disse con ostinazione «In fondo la mia coscienza è a posto».
«Troppo tardi» disse Carlisle in tono paternalistico «Erano cinquanta colpi, se non sbaglio, vero?» Rosalie annuì cautamente. 
Carlisle rifletté un momento, mentre arrotolava una parte della frusta attorno al palmo della mano destra, per ridurne in parte la lunghezza «dato che gli altri ne hanno avuti meno del previsto, scenderò a trenta» disse «Ma…» aggiunse guardandola severamente «ne aggiungerò cinque per ogni secondo che impiegherai a sdraiarti sulle mie ginocchia. Il tempo inizia ora.» sollevò un dito della mano sinistra, a indicare  il tempo che passava.
«Non è giusto» protestò Rosalie «non puoi trattarmi così solo perché sono una donna. È un dannato cliché di genere.» 
Carlisle scosse la testa «Tirare in ballo questioni di genere non ti aiuterà a cavartela e sono passati già due secondi» sollevò un secondo dito. «Anzi… Tre.»
Rosalie sbatté il piede per terra e strinse i pugni così forte che le nocche scricchiolarono. Un ringhio di frustrazione eruppe dalla sua gola.
«Quattro» continuò Carlisle imperterrito e sollevò un sopracciglio con aria interrogativa. Rosalie sospirò, esasperata. Non c’era molto da fare… non esisteva una creatura più ostinata di suo padre e non c’era modo di smuoverlo quando si metteva in testa qualcosa. A testa alta, le braccia rigide lungo i fianchi, raggiunse la sedia di Carlisle con una velocità che reputò sufficientemente dignitosa, ma comunque prima che lui alzasse il quinto dito della mano. 
«Brava la mia ragazza» le disse Carlisle con espressione più gentile «adesso, dato che ti sei lamentata di essere trattata con disparità, puoi denudare il tuo fondoschiena, prima di sdraiarti». Rosalie si morse il labbro inferiore, ma obiettare non aveva senso. Non a questo punto. «Sei un gran bastardo» disse solo, con un ringhio. Carlisle non reagì se non con alzando un sopracciglio e aprì le braccia per fargli posto sul proprio grembo. Rosalie si slacciò i jeans attillati, che aderivano alle sua gambe come guanti e li abbassò fino alle ginocchia. Non provava esattamente vergogna, non per la nudità in sé. Se una cosa poteva dire di apprezzare della propria condizione immortale era il proprio corpo. Era orgogliosa di farne mostra, con o senza vestiti, poiché con esso era capace di suscitare sempre forti reazioni, sia negli uomini che nelle donne. Più spesso, nelle donne suscitava ammirazione e invidia, piuttosto che desiderio carnale. La maggior parte degli uomini, invece era sessualmente attratto da lei. Il suo corpo e la brama che questo accendeva nel prossimo le conferiva un grande potere sugli altri e lei se ne beava. In quella situazione, però, davanti a Carlisle, sapeva di non avere alcun potere.  Lui non vedeva il suo corpo con gli occhi di un uomo, ma con quelli di un padre e non provava per lei alcun desiderio. Questo la metteva in una posizione di estrema vulnerabilità. Ed era ovviamente una cosa assurdamente umiliante, doversi sottomettere a lui in quel modo. In un certo senso, però, c’era qualcosa di confortante in questo lasciare andare il controllo. Essere libera per qualche momento. Cedere il comando, completamente. A qualcuno che, ne era certa, avrebbe avuto cura di lei. Carlisle, in fondo, non faceva altro da decenni. Prendersi cura di lei e di tutti loro. Le era grata per questo. Non che avesse intenzione di dirglielo, ovviamente. Ma forse Carlisle lo sapeva già. A volte anche lui, come Edward, sembrava in grado di leggerle il pensiero o forse il cuore. 
Decise che aveva tergiversato abbastanza. «Facciamola finita in fretta» disse. 
«Sono d’accordo» convenne Carlisle e la prese delicatamente per un braccio, tirandosela lentamente in grembo. Lei lo lasciò fare, grata che l’avesse liberata dall’incombenza di sdraiarsi volontariamente. Carlisle aveva allargato le gambe a sufficienza perché i fianchi di lei poggiassero sulla sua coscia destra, mentre il petto era appoggiato sulla coscia sinistra. Rosalie trovò la posizione non troppo scomoda. Sembrava, assurdamente, che Carlisle sapesse quello che faceva. 
«Terrò il conto per te, stavolta. D’accordo?» disse Carlisle. Le posò la mano sinistra sulla schiena. Rosalie annuì senza dire nulla e i capelli biondi le scivolarono davanti al viso e lo nascosero dietro una tenda color miele. 
Il primo colpo la fece sobbalzare più per la sorpresa che per il dolore, che arrivò solo qualche frazione di secondo dopo. Da umana, una volta, era stata punta da una medusa in mare. Il dolore che provò le ricordava molto quello provato allora, intenso e pungente ma in qualche modo più duro e profondo. Contrasse le spalle e ancorò le mani ai pantaloni di lana di Carlisle. 
Dopo il primo, Carlisle assestò una prima ventina di colpi in rapidissima successione, coprendo tutta la parte dalla parte alta delle natiche fino alla parte alta delle cosce. Anche se aveva accorciato la lunghezza della frusta, in modo che fosse più facile da controllare, non aveva modo di imprimere troppa forza, data la posizione. Ma non aveva bisogno, infatti Rosalie aveva già cominciato ad agitarsi e a emettere piccoli mugolii strozzati. 
Dopo la prima scarica, ritornò alla parte superiore dei glutei e ricominciò a colpire con precisione millimetrica, sovrapponendo perfettamente i nuovi colpi ai precedenti.
Rosalie sussultò a ogni frustata e iniziò a contorcersi più vigorosamente, tanto da rischiare di scivolare giù dalle gambe di Carlisle. Lui le cinse la vita con la mano libera e la tenne ferma.
«A che numero siamo? Brucia da morire! Spero per te che non mi restino segni» Lui non poté fare a meno di sorridere. 
«Mh, forse la prossima volta ci penserai bene, prima di reclamare vendetta contro qualcuno dei tuoi fratelli. Come vedi, ti si ritorce sempre contro»
«Soprattutto se hai un padre machiavellico che ci mette lo zampino» Rosalie si rese conto troppo tardi di aver chiamato Carlisle “padre”, quando ormai le parole le erano sfuggite dalla bocca. Lui lo annotò con un sorriso triste e rimase con il braccio sollevato a mezz’aria. Era arrivato a venticinque, ma non pensava di essere in grado di arrivare a cinquanta. Non con la frusta, almeno. Ormai la sua determinazione a portare a termine il compito era quasi del tutto crollata. Ma doveva arrivare fino in fondo, in un modo o nell’altro.
La frusta scivolò per terra, per l’ennesima volta, e lui calò con forza il palmo disarmato, che schioccò sonoramente sulle natiche lattee di sua figlia. Lei sgranò gli occhi e strillò indignata. Istintivamente la sua mano scattò per proteggersi dai colpi. «Oh, no! ti prego» implorò. Ma Carlisle le piegò il braccio dietro la schiena e continuò a sculacciarla sonoramente con la mano. Sovrapponendosi ai colpi di frusta imbevuti di veleno che aveva già ricevuto, anche quelle blande sculacciate erano piuttosto dolorose ed erano certamente più umilianti.
«Oh, ti prego. Ti chiedo perdono, ok? Non farò mai più una cosa del genere. Mai più. Te lo prometto!»
«Ne sono sicuro», convenne Carlisle, continuando a colpirla con lenta metodicità. Rosalie sobbalzava ritmicamente sulle sue gambe, «perché non desidero mai più, essere messo nella condizione di dover andare contro i miei principi. E tu ti comporterai bene, d’ora in poi, vero?»
«Sì, sì. D’accordo» Piagnucolò Rosalie.
«E tratterai la ragazza umana di Edward con. Tutto. Il. Dovuto. Rispetto. Intesi?» le ultime cinque parole erano state accompagnate da altrettante sonore sculacciate.
«Intesi!» Strillò quasi Rosalie. A quel punto Carlisle si fermò. Passarono alcuni secondi di immobile silenzio e aspettativa, prima che Rosalie si azzardasse a parlare, con voce incerta. «È... è finita?» chiese.
Carlisle le rilasciò il braccio. «Sì» disse laconico «puoi alzarti».
Rosalie scivolò via dalle ginocchia di Carlisle, si sollevò velocemente e si tirò su i jeans con una leggera smorfia. Poi, senza nemmeno guardarlo in faccia, gli si gettò in braccio, affondando la faccia nella sua spalla. «Ti prego, perdonami. Ti prego, perdonami. Ti prego…» cominciò a ripetere Rosalie tremando come una foglia, la voce ovattata dalla lana del maglione di Carlisle in cui aveva premuto la faccia. Carlisle rimase spiazzato per un istante, ma poi strinse le braccia attorno a sua figlia e la cullò dolcemente come se fosse una bambina. «Va tutto bene, tesoro. Va tutto bene. Non sono arrabbiato». 
Le accarezzò i capelli, fino a quando il suo tremore si spense lentamente. «Meglio?» le chiese quando finalmente la sentì rilassarsi tra le sue braccia. Lei annuì piano.
«Tu come stai, invece?» gli chiese lei, con una nota d’ansia nella voce «e non dirmi di nuovo di nn preoccuparmi o andrò a chiedere direttamente a Jasper.»
«Sopravvivrò» rispose lui con dolcezza «ma vorrei davvero che ci lasciassimo alle spalle tutta questa storia, per non pensarci più, che ne dici?» Lei annuì ma non fece alcun movimento che lasciasse intendere che voleva abbandonare l’abbraccio di Carlisle. 
Carlisle ridacchiò e la strinse ancora più forte. «Sono sicuro che Emmett è in ansia per te e sta aspettando che tu vada da lui per, consolarvi a vicenda.» Lei annuì di nuovo e finalmente si alzò lentamente in piedi. Si schiarì la gola e si ravviò i capelli. Guardò in silenzio Carlisle che era rimasto seduto sulla sedia i gomiti appoggiati sulle ginocchia e le mani congiunte, come in preghiera. Avrebbe voluto dire un milione di cose, ma nessuna aveva veramente senso, in quel momento. Quindi si diresse alla porta e l'aprì. Prima di oltrepassare la soglia e lasciare la stanza, però, si fermò un istante per mormorare «anche io ti voglio bene».
 

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