Il Caporale e il Colonnello di Fuoco

di Noskdresser
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1-Oltre la soglia ***
Capitolo 2: *** 2-Fiamme eroiche ***
Capitolo 3: *** 3-Falena ***
Capitolo 4: *** 4-Catene ***
Capitolo 5: *** 5-Keith Gavin Armstrong ***
Capitolo 6: *** 6-Opale ***
Capitolo 7: *** 7-Le due facce della luna ***
Capitolo 8: *** 8-Cosa tenere e cosa lasciare ***
Capitolo 9: *** 9-Presagio ***
Capitolo 10: *** 10-Bestia ***
Capitolo 11: *** 11- I fratelli Elric ***
Capitolo 12: *** 12-Ling Yao e Lan Fan ***
Capitolo 13: *** 13-Homunculus ***
Capitolo 14: *** 14-Bosco ***
Capitolo 15: *** 15-Ponte ***
Capitolo 16: *** 16-Gridi d'etere ***
Capitolo 17: *** 17-Meccanico ***
Capitolo 18: *** 18-Quiete ***
Capitolo 19: *** 19-Un fiore di vetro ***
Capitolo 20: *** 20-Pioggia ***
Capitolo 21: *** 21-Roy e Nero ***
Capitolo 22: *** 22-Appassito ***
Capitolo 23: *** 23-Fratelli ***
Capitolo 24: *** 24-Il lago ***
Capitolo 25: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** 1-Oltre la soglia ***


Capitolo 1: Oltre la soglia.

 

"Sarò onesto con te. Hai perso tutto stanotte. Ma se senti ancora qualcosa dentro che ti spinga, anche ciecamente, verso una nuova meta… perseguila. Corri e non guardarti indietro. Noi umani siamo fatti così."


Quartier generale di Central City. A mattina inoltrata, il sole batteva sull'ampio atrio principale della struttura, risplendendo sulle scalinate bianche. All'interno vi era uno scambio perpetuo di vari suoni. Chiamate e squilli che interrompevano conversazioni, rumori di matite, penne e taccuini. Varie carte che cadevano o venivano riordinate.
Nei corridoi di quegli uffici, vari uomini dalle divise blu. Erano appartenenti alle forze armate di Amestris. Tra i ranghi più bassi vi era un costante viavai mentre i maggiori sembravano prendersela comoda.
Puntuale come suo solito, un giovane ragazzo dalla divisa senza stelle saliva le scale. Sembrava quasi dovesse forzarsi ad apparire composto seppellendo il desiderio di correre su per le scale energicamente. Lasciò scorrere la mano sul corrimano fin quando non incrociò un uomo molto più alto e vecchio di lui.
"Colonnello Generale Cyrus."
Il ragazzo salutò con un'espressione impavida mentre il Generale lo guardò dritto nei suoi occhi sottili ed eleganti.
"Caporale Adler. Buona mattinata. Avresti cinque minuti per me?"
"Certamente signore."
L'uomo gli sorrise e continuò con un tono gentile.
"I miei uomini hanno finalmente individuato il covo di quei criminali. Ho intenzione di dirigere l'attacco stasera. Tuttavia tra i miei subordinati mi pesa l'assenza di un cecchino. Ti andrebbe di assistermi?"
"Mi perdoni signore. Mi trovo costretto a rifiutare. Come ben saprà sono alle dipendenze private del Colonnello Roy Mustang. Non ho voce in capitolo senza il suo ordine."
L'uomo più anziano tentò di mantenere la sua faccia serena, ma non poté che sfuggirgli una smorfia di disprezzo. Nero continuò.
"Se siete venuto a chiederlo a me, presumo abbiate già ricevuto un "no" dal colonnello. Sono desolato."
Nero riprese a salire le scale ma qualcosa lo bloccò.
il maggiore gli aveva afferrato un braccio.
"Perché? Non ha alcun senso. Ormai fai parte dell'esercito da anni e siamo tutti al corrente dei tuoi talenti. Eppure non hai mai ricevuto nessuna promozione da quella volpe di Mustang. Ha in mente qualcosa. Perché non lo lasci perdere? Entra a far parte dei miei ranghi. Io ti darò il rispetto che meriti, Adler."
"Mi dispiace. Non posso proprio accettare il vostro invito. È tutto. Con permesso"
Il ragazzo dai capelli scuri liquidò il generale, che si voltò e continuò a scendere le scale, come se quella conversazione non fosse mai avvenuta.

Raggiunto il piano superiore, il giovane si specchiò nel pomello della porta. Cercò di sistemarsi i capelli, scompigliati come sempre e si assicurò di essere perfetto da cima a piedi. L'uniforme gli stava a pennello, se l'era fatta stringere appositamente da una sarta perché più strette erano introvabili. Tirò un forte sospiro e infine bussò.
Il suo battito cardiaco accelerava. La porta si aprì.
"Caporale Adler?"
"... Tenente Hawkeye".
Ad aprire la porta purtroppo non fu Roy. Ma il suo fidato braccio destro, la temibile Riza Hawkeye. Una donna di media statura dagli occhi castani e i capelli color miele, raccolti dietro la nuca.

Nero la salutò in quanto sua superiore e poi chiese di poter vedere il colonnello.
"Il colonnello è molto occupato al momento."
"Uh.. Veramente sta dormendo. lo vedo da qui."
"Cos-... Be quando si sveglierà sarà molto occupato."
"Ma-"
"È una questione urgente?"
"... No."
"Allora può attendere. Ci rivedremo tutti in sala ricreativa, sii un po' paziente."
La donna sapeva essere tanto tagliente e sbrigativa quanto dolce e comprensiva. Sorrise a Nero e chiuse la porta. Dall'altra parte del muro si potevano udire distintamente il colonnello e la tenente discutere dei pisolini sul posto di lavoro. Nero posò le mani sui pomelli della porta, come per aprirla. Qualcosa lo fermò. Un altro mondo si dilagava oltre la soglia. Tutti i più fidati uomini del colonnello lavoravano in quell’ufficio, ma lui no. Perché? Non era abbastanza? Gli tornavano in mente le parole del maggiore con cui parlò pochi minuti prima. Nero scosse la testa.

"Alla sala ricreativa. " Ripeteva, asciugandosi il sudore dalla fronte.
 


Seguii l'indicazione della tenente Hawkeye, e verso mezzogiorno gironzolavo nei pressi della sala ricreativa. Ma di lei o del colonnello nemmeno l'ombra. Incrociai invece una vecchia compagnia.
"Ehi ehilà! Buongiorno"
"Oh, Sottotenente Havoc". Jean Havoc era un uomo moderatamente muscoloso dai capelli corti e gli occhi blu. Se ne andava sempre in giro con una sigaretta in bocca, ma non fumava mai all'interno degli uffici.
"Come andiamo caro ex compagno di dormitorio? Che fai qui a zonzo? Stai pensando a qualche bella ragazza?! Se è così ti ordino subito di dirmi il suo nome!"
"Niente del genere signore."
"Dai! chiamami solo Jean. Niente ragazze quindi eh... non me la bevo. Sei in quell'età. E mi pesa ammetterlo ma ti stai facendo proprio carino!"
"G-grazie?"
"Non era un complimento! Ricevo già troppa competizione da quel diavolo del colonnello."
"Già. Il colonnello è davvero un bell'uomo."
A quelle parole la sagoma sfocata di Roy mi apparve nella mente come un lampo, ma sufficiente per lasciar cadere il mio sguardo nel vuoto. Ovviamente Havoc pensò si trattò solo di una reazione demoralizzata, per incoraggiarmi mi sorrise e mi diede un'energetica pacca sulla spalla.
"Ehi noi non siamo da meno!"
Cercai di sorridergli.
 

"Dovrei sentirmi lusingato o temere che stiate complottando alle mie spalle?"
Una terza voce si aggiunse alla conversazione.
Appoggiato a un muro, il colonnello Roy Mustang. Sembrava prendersela comoda, come suo solito.
Era un uomo poco più alto di me, dai capelli corvini.
Nei suoi sottili occhi neri, il riflesso di un me che sapeva nuotare in ogni oceano del mondo.
Un me che lui approvava, e di conseguenza, anch'io.
Lo salutammo entrambi, tesi. Ma non durò troppo.
 

"Ehi colonnello, potrebbe accendermi una sigaretta?"
"Certamente Havoc."
Con uno schiocco di dita una scintilla fu sprigionata dalla mano del colonnello, generando una fiamma forte abbastanza da polverizzare l'intera sigaretta.
"N-no... era l'ultima..."
"Stupido. Sai bene che non si fuma qui. La prossima volta che mi chiedi una cosa del genere ti metto a riordinare tutti gli archivi."
"Colonnello, la tenente Hawkeye le ha parlato della mia visita?" Mi feci strada con le parole fra il siparietto comico dei due.
"Sì... sì me l'ha accennato. Che hai da chiedermi?"
Di colpo, sentii il mio stomaco pesante come il piombo e il cuore pulsare in modo invadente.
"Una cosa da nulla... davvero. La tenente ha fatto bene a non disturbarla. Comunque. Mi son portato molto avanti col lavoro, non che vista la mia posizione avessi troppo da fare. Salvo imprevisti dovrei avere il sabato libero. Le andrebbe di venire a casa mia? Non l'ha ancora vista da quando siamo stati trasferiti a Central City, poi potremmo uscire e prenderci qualcosa da mangiare."
Il colonnello mi osservava, con uno sguardo che sapeva perforare l'anima. La nostra differenza di altezza si faceva sempre più grande di quanto non fosse.
Havoc era un terzo incomodo che assisteva alla scena curioso. Al quadro si erano aggiunti la tenente Hawkeye e il sergente capo Fuery.


"Caporale Adler. Sei venuto dritto nel mio ufficio per recapitarmi un puerile invito?"
 

Parlare col colonnello ultimamente era diventato come raccogliere delle rose spinose a mani nude. Nonostante il dolore, la loro bellezza era troppo inebriante.


"E comunque sia, sono troppo occupato questo sabato."
"Capisco. Perdoni la mia sfacciataggine."
Qualcosa nello sguardo di Roy si intenerì.
Roy Mustang. Un colonnello pigro, ma furbo e autoritario. Un temibile avversario, che in guerra si guadagnò l'appellativo di "eroe di Ishval", un potente alchimista di stato e- cos'altro? come se il tempo si fosse fermato solo per me, guardavo le spalle dell'uomo che ora se ne tornava a lavorare accompagnato dalla tenente Hawkeye.
Un padre. Un fratello. Un amante. Un amico.
Stancante. Era tremendamente stancante.
Amarlo in tutti questi modi allo stesso tempo.
 

"Ehi Nero, tutto bene?"
Venni riportato alla realtà da Fuery. Era un giovane di bassa statura dagli occhi e capelli neri. Si occupava del reparto comunicazioni.
"Sì, Non si preoccupi."
"Mustang sa proprio essere insensibile alle volte." Brontolava Havoc.
Volsi il mio sguardo alle tasche di Havoc.

La sera mi inoltrai verso l'uscita del quartier generale, avevo terminato il turno diurno.
Accesi la prima sigaretta.

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Capitolo 2
*** 2-Fiamme eroiche ***


Capitolo 2: Fiamme eroiche.

 

Il fumo si ergeva dal basso accatastandosi in cielo.

Il vento alimentava le fiamme e trasportava l’odore del fumo misto a quello dei cadaveri bruciati. Varie pattuglie di polizia ispezionavano la zona per ricostruire la scena del delitto. Una famiglia, madre, padre e figlio, fu assalita da una banda di cinque persone in casa loro con l’intenzione di ucciderli e derubarli.

Il padre corse via. Morì, sparato all’occhio destro.

La madre urlò pietà. Che stupida. Se avesse taciuto forse sarebbe sopravvissuta. Morì anche lei, sgozzata.

Le sue urla disperate attrassero un alchimista di stato novizio che passava di lì.

Roy Mustang, diciannove anni. Il caso della famiglia Adler.

I ladri non avevano ancora ucciso il ragazzino, ma gli puntarono una pistola in fronte, mentre questo singhiozzava e piangeva. Aveva otto anni. Non riusciva a dare una risposta per tenersi salva la vita. La sua intera famiglia era stata distrutta in pochi minuti. Che senso aveva continuare a vivere?

“Dai, fallo fuori e andiamocene. Se sapesse dov’è il resto dei soldi avrebbe già cantato da un pezzo, Flint.”

“Datti una calmata Tim. Da quando uccidiamo i bambini a cuor leggero?”

I due ladri discutevano se uccidere il piccolo Nero o meno come se fosse una decisione salottiera.

“È quello che avrei voluto chiedere ai tre tizi che avete lasciato qua fuori, ma son bruciati tutti troppo in fretta.”

Una terza voce si aggiunse casualmente alla conversazione, i due uomini si voltarono e furono sorpresi da un giovane Roy Mustang. Dietro di lui sembravano disperdersi delle fiamme in giardino.

Flint fu quello più veloce a reagire, istintivamente cercò di sparare a Roy ma questo era già due passi avanti a lui, con uno schiocco di dita generò una scintilla di fuoco che carbonizzò l’uomo all’istante.

“Bastardo!” Tim estrasse un coltello e si avventò sull’alchimista.

Un proiettile gli perforò la fronte da dietro, e cadde morto davanti a un confuso Roy.

Quando Flint morì, Nero afferrò la pistola caduta e sparò immediatamente a Tim. Un tiro freddo e perfetto diretto alla nuca, sparato senza alcuna esitazione.

Il bambino si lasciò cadere sulle ginocchia, mentre le fiamme del suo salvatore iniziavano a divorare il salotto. Ogni cosa si trasmutava in cenere che gli scivolava tra le dita.

“Dobbiamo uscire di qua ragazzino!”

Roy prese in braccio Nero scappando dall’abitazione crollante.

Pochi minuti dopo, la polizia venne a ispezionare la scena del crimine. Roy tenne il ragazzino in custodia nella sua macchina. Di orfani ne aveva visti tanti. Ma nello sguardo di Nero trovava qualcosa di estremamente irritante. Non c’era più nessuna fiamma che ardeva. Così giovane e così vuoto. Un’idea iniziò a formarsi nella mente del machiavellico alchimista.

"Sarò onesto con te. Hai perso tutto stanotte. Ma se senti ancora qualcosa dentro che ti spinga, anche ciecamente, verso una nuova meta... perseguila. Corri e non guardarti indietro. Noi umani siamo fatti così."

Nero alzò lo sguardo.

“Ti sentirai più volte come un idiota che vaga senza meta. Va bene. Ti interrogherai più volte sul senso di tutto questo. È ok. Finché hai quella scintilla, potrai contare su di me. Sul mio sostegno. Sarò il tuo tutore. Ma se non hai nemmeno il coraggio di ricominciare, allora scendi da quest’auto.”

-

Il fumo si ergeva dal basso accatastandosi in cielo.

Rinvangando vecchi pensieri la sigaretta mi si spense in bocca. La buttai nel posacenere che tenevo su un tavolino della veranda, dentro ne erano presenti altre otto. Certo che con il mio stipendio avevo avuto la fortuna di permettermi una casa davvero carina. Ci misi poco ad ambientarmi, la acquistai a rate, dopo che richiesi trasferimento a Central City. Fu anche uno dei primi grossi acquisti che feci da solo. Il colonnello aveva badato alle mie spese per la maggior parte della mia vita. Anestetizzandomi in vecchie memorie, un sorriso apparve sul mio volto.

Decisi di seguirlo. Decisi di entrare nell’esercito, per lui. Decisi di diventare un tiratore scelto per proteggergli sempre le spalle. I nostri desideri crebbero insieme. La mia dedizione per lui e la sua ambizione. L’insegnarmi a prendere la mira e sparare era il suo linguaggio d’amore. Il mio era aspettarlo ogni sera, chiedergli della sua giornata, pregare ogni giorno non scappasse via.

Quelle notti a lume di candela erano ciò che respirava vita nei miei polmoni.

Ma con l’andare del tempo, forse fu la stasi ad ucciderci.

Quando fui abbastanza grande per vivere da solo, venni trasferito ai dormitori di East City.

Perché?

Il colonnello iniziò ad essere dissuasivo nei miei confronti.

Pensai mi stesse mettendo alla prova. Quando lui e i suoi sottoposti vennero trasferiti a Central, chiesi di venire anch’io. Lui accettò, ma vedevo indecisione e dubbio nei suoi occhi.

Ormai erano giorni che io e il colonnello non condividevamo un pasto assieme.

Perché?

Mi accesi un’altra sigaretta e feci un lungo tiro.

Iniziava a fare freddo, quindi rientrai dentro. La mia casa era un po’ incasinata. In principio era arredata secondo i gusti di Roy- Che a dir la verità non conoscevo nel dettaglio, quindi l’arredo era finito per somigliare a una sottospecie di ufficio poliziesco sui toni del verde. Mi diedi un’occhiata sullo specchio dell’andito.

Il solito me. Capelli neri e scompigliati. Occhi sottili e verdi. Avidi. Dovevo decisamente farmi una doccia, a breve avrei avuto il turno notturno.

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Capitolo 3
*** 3-Falena ***


Capitolo 3: Falena

La notte calò sull’imponente struttura che era il quartier generale, le luci rimasero accese ma l’atmosfera era più quieta. Nero camminava con suo solito passo svelto tra i portici esterni dell’edificio, per poi entrare, salutando colleghi ed eventuali suoi superiori. Aveva un compito molto semplice, doveva stilare un rapporto scritto sull’andamento dell’addestramento delle nuove reclute, per poi lasciarlo tra le scartoffie dell’ufficio di Mustang. In genere era sottinteso dovesse anche fare un po’ di ordine mentre l’ufficio era vuoto. Nero si fermò un attimo a pensare.

Sostanzialmente il colonnello aveva trovato un modo per farlo lavorare senza che i due interagissero.

 

Scossi la testa scacciando i pensieri che m'infestavano la mente, e mi misi subito a lavoro.

In circa un’ora conclusi il rapporto, mi avviai verso l’ufficio del colonnello. Poco prima di aprire la porta, sospirai.

Niente avrebbe potuto prepararmi a cosa avrei trovato all’interno.

Ad aspettarmi, lo stesso colonnello Roy Mustang. Appisolato sulla sua scrivania, il lume della luna risplendeva sui suoi capelli corvini. Vari documenti erano sparsi sulle scrivanie dei suoi subordinati più fidati, sulla sua, alcuni persino in terra. Appollaiata sulla finestra da fuori, coprendo parzialmente la luna, una grossa falena scura.

Deglutii.

Una goccia di sudore mi scese sulla fronte, il mio cuore pulsava agitato. Ma non persi la mia compostezza.

Il mio fiato si fece silenzioso come i miei passi, svolsi il mio lavoro come se il colonnello non fosse presente nella stanza. Lui aveva un udito fine, ma l’ironia della sorte è che da piccolo mi addestrò per avere un passo felpato, utile in varie missioni di assassinio.

Fu un’interminabile mezz’ora. L’ultima cosa che misi a posto fu il rapporto che scrissi la sera stessa. Lo misi nel cassetto della scrivania del colonnello. Non toccarlo fu un’impresa che necessitò di una precisione chirurgica.

Con ciò il mio lavo si concluse, eppure…

 

La falena alla finestra volò via nella notte, lasciando entrare la luce lunare.

 

Per quanto tesa l’atmosfera, era da molto tempo che io e il colonnello non passavamo del tempo assieme da soli. Lo osservavo minuziosamente, facendo attenzione a non svegliarlo, anche se non ne vedevo il rischio; quello che prima era un pisolino si era trasformato in un sonno profondo, tant’è che iniziò a russare. Pensai che così indifeso, era necessario avere qualcuno al suo fianco per proteggerlo. Ma in fondo sapevo che era una scusa.

 

Finalmente compresi le falene, attirate dalle luci delle fiamme.

E come ipnotizzato dalla luna, la mia mano si mosse da sola, carezzandogli i capelli.

Poi il mio volto si avvicinò alla sua nuca. Gli diedi un singolo bacio.

Ero felice.

Lì, nel cuore della notte isolati in quella stanza illuminata solo dalla luna piena.

Ero molto felice.

 

Ma fui portato alla realtà rapidamente, da un paio di occhi concentrati e indiscreti.

Mi voltai verso la porta dell’ufficio, che lasciai stupidamente socchiusa. La tenente Hawkeye osservava la scena con un’espressione indecifrabile.

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Capitolo 4
*** 4-Catene ***


Capitolo 4: Catene

 

La mia di espressione invece, era di terrore puro.

Uscii dall’ufficio, tra me e la tenente regnava il silenzio assoluto. Decisi di parlare io.

“Ha visto tutto?”

Lei fece di sì con un cenno del capo. Ma nei suoi occhi non vedevo disgusto o rabbia. Quand’è che quella donna comparve nella mia vita? La trovai sempre incomprensibile.

“Perché non dice nulla?”

“Cosa vuoi che dica?”

Lei abbozzò un sorriso.

“Ottimo lavoro con l’ufficio, mi occupo io di svegliare il colonnello. Qui hai finito, buonanotte.”

“Buonanotte tenente.”

Dall’esterno del quartier generale, vedevo le luci dell’ufficio del colonnello ancora accese. Quella notte non chiusi occhio.

La mattina seguente, avevo ancora qualche piccola mansione che mi era stata assegnata per il turno diurno. Avevo contemplato l’idea di non andare a lavoro. Due occhiaie scure mi contornavano gli occhi e un mare di emozioni inondava il mio corpo. Nella mia testa i pensieri più disparati sul colonnello e la tenente.

Presi posto sul divano e mi accesi una sigaretta.

 

“Io e te? Che schifo. Cosa vai a pensare? Cosa concepisce la tua mente? Dovrei farti congedare solo per questo!”

 

Immaginavo la voce del colonnello rimproverarmi e poi mi passai una mano in fronte, esalando il fumo della sigaretta. Mi sentivo piccolo e patetico.

Ma in un senso era come se stessi finalmente ammettendo la verità anche a me stesso.

La verità era che io amavo il colonnello.

Andava bene così. Finché sarei rimasto affianco a lui, non contavano gelosia, sofferenza, e umiliazione. Sapevo che la sua vicinanza e il suo affetto, anche se platonici, sarebbero bastati a rendermi felice. Perché lui era Roy Mustang. L’uomo per il quale dimenticai i volti dei miei vecchi madre e padre. L’uomo per il quale uccisi. L’uomo a cui dedicai la vita.

Le catene del nostro legame erano invisibili ma indistruttibili, e nessun fraintendimento le avrebbe spezzate.

Riacquistai persistenza e misi l’uniforme. Avrei convissuto anche col mio amore non corrisposto data l’evenienza. Ero disposto a scendere a qualsiasi compromesso per riavere il suo affetto indietro. Spensi la sigaretta e uscii di casa, incamminandomi attraverso la foschia di una fredda mattinata, tra gli alberi bagnati dalla rugiada gli uccelli iniziarono a cinguettare.

A un certo punto il quartier generale comparve all’orizzonte.

Camminavo a testa alta tra i miei colleghi, con lo sguardo cercavo involontariamente il colonnello o uno dei suoi subordinati, stando sull’attenti.

Vidi la tenente Hawkeye girando l’angolo, il mio volto si fece pallido.

“Tenente.”

“Buongiorno caporale. Sei richiesto nell’ufficio del colonnello Mustang.”

Mi sentii quasi come se persi un battito. Che la tenente avesse parlato? Notando il terrore annebbiarmi lo sguardo, Riza aggiunse:

“Tranquillo, non gli ho detto nulla.” E mi superò. Una volta spalle contro spalle, mormorai sotto voce:

“Grazie.”

La donna non rispose, e non vidi la sua espressione. In ogni caso, dovevo prepararmi a vedere il colonnello.

Con mio solito passo svelto, salii le scale per il suo ufficio.

Mi fermai davanti alla porta. Misi in ordine i capelli per quanto in mio potere, mi assicurai che la mia uniforme fosse ordinata e pulita. Tirai un forte sospiro ed aprii la porta.

“Colonnello.”

Salutai. Il colonnello se ne stava comodo sulla sua sedia d’ufficio, con la testa sorretta da una mano ed entrambi i gomiti sulla scrivania. Mi squadrò da testa a piedi con i suoi occhi neri e pungenti come l’acciaio.

“Ciao Nero” Mi salutò in tono informale. Probabilmente perché eravamo i soli nella stanza.

“Hai già svolto i tuoi incarichi mattutini? Immagino di sì. Del resto hai la tendenza di portarti avanti col lavoro. Chissà che fai con tutto quel tempo libero.” Il colonnello fece un ghigno malefico, probabilmente aveva intuito gli stessi nascondendo qualcosa. O semplicemente si divertiva a stuzzicarmi. Sadico di un colonnello.

“Che occhiaie. Spero tutte queste pratiche burocratiche non ti stiano portando via il sonno.”

Sembrava nascondere un misto di genuina preoccupazione nella sua voce, quella di un padre che non sa cosa fa il figlio tutta la notte.

“Ho avuto qualche problema col letto della nuova casa, ma sono perfettamente vigile e in funzione.”

Mantenni il mio tono professionale e rispettoso.

“Molto bene. Perché da oggi in avanti non ti metterò a riordinare scartoffie. Ti sto assegnando come scorta personale di Keith Gavin Armstrong. Dovrai assisterlo in ogni suo spostamento e prendere ordini direttamente da lui finché Scar non sarà neutralizzato.”

Keith G. Armstrong… alchimista di stato e fratello minore del maggiore Armstrong.

Mentre Scar era un criminale apparso recentemente sulle nostre mappe, che prendeva di mira esclusivamente gli alchimisti di stato. La sua lista di omicidi era già bella lunga.

“Se dovessi vedere Scar… Hai il permesso di giustiziarlo sul posto.”

“Ricevuto.”

“L’alchimista di carta ti sta già aspettando fuori dal quartier generale. Conto su di te.”

“Non la deluderò colonnello. Lo giuro sui miei occhi.”

Ci scambiammo uno sguardo di intesa. Nella stessa stanza, padre e figlio, colonnello e caporale.

Mentre uscivo dall’ufficio, gli parlai di spalle.

“Comunque la trovo in ottima forma.”

La porta si chiuse.

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Capitolo 5
*** 5-Keith Gavin Armstrong ***


Capitolo 5: Keith Gavin Armstrong

 

 

Subito fuori dall’ufficio un’imponente ma familiare montagna di muscoli mi sbarrò la strada, era il maggiore Armstrong, anche conosciuto come l’alchimista nerboruto.

“Maggiore.”

“Caporale Adler, il colonnello le ha già detto tutto…?”

“Sì. Non si preoccupi. Suo fratello è al sicuro con me.”

“Era proprio quello che volevo sentire… Mi riempie di sollievo sapere che il mio fratellino è in mano a uno dei migliori uomini di Mustang.”

“Così mi lusinga, maggiore.”

“E sei pure così modesto! Ohh mi piange il cuore, il nome della famiglia Armstrong è in ottime mani! Mi viene quasi voglia di abbracciarti!”

Quel gigante di un maggiore scoppiò in lacrime.

“N-non mi sembra il caso maggiore. Suo fratello mi sta già aspettando fuori, non vorrei tardare. Con permesso!”

Salutai e corsi via.

 

Raggiunsi rapidamente la macchina che mi aspettava con una postura rigida e composta. All’interno, in attesa, il ragazzo che avrei dovuto proteggere fino a nuovo ordine. Era un giovane dall’aria snob. Guardava dall’altra parte del finestrino senza degnarmi di uno sguardo diretto. L’unico tratto che combaciasse con la descrizione fornitami in un foglietto dal colonnello, erano i suoi vaporosi capelli biondo chiaro dalle punte arricciate, che si fermavano all’altezza delle orecchie. Il simbolo della famiglia Armstrong.

“Fufufu. Chi mi è stato dato? Un misto tra un giovincello e uno zombie! Ci sono. Lo zombie di un povero fanciullo! Aiuto!”

Ignorai i suoi commenti sarcastici, aprendo la portiera e prendendo posto vicino a lui.

“Perdoni il mio aspetto trasandato. Quest’incarico è piovuto dal cielo, altrimenti mi sarei reso più presentabile. In ogni caso è un piacere, signorino Keith Gavin Armstrong. Mi chiamo Nero Adler. Ho solo il grado di caporale, ma ho svolto un addestramento intensivo e specifico sulla protezione degli obbiettivi assegnatimi. Il mio grado non è che una maschera. Spero che troverà utili i miei servizi.”

“Oh, questo spiega un po’ di cose, eheh.”

Potei osservare i suoi occhi azzurri assottigliarsi in un sorriso nel riflesso del finestrino.

“Adoro il tuo tono formale, quasi principesco. Inoltre osservandoti più da vicino...sì… sei abbastanza carino per lavorare con me. Non posso certo farmi vedere in giro con uno di quegli omaccioni rudi e senza sapore che si porta dietro quel colonnello donnaiolo.”

Fui leggermente infastidito dal modo in cui parlava del colonnello, e lui probabilmente se ne accorse.

“Sei un tipetto fedele. Vedo che Mustang sceglie bene i suoi cagnolini.”

Quella sentenza mi trafisse di netto. Ero il cane del colonnello? Annegai il pensiero e cercai di essere il più formale possibile.

“Preferirei non parlassimo del colonnello, se non è estremamente necessario.”

“Ah. Peccato, e io che volevo finalmente inquadrarlo un po’ meglio.”

Keith si voltò, dandomi il suo primo vero sguardo. Purtroppo, le mie guance erano colorate di un lieve rossore causato dalle affermazioni precedenti.

Il biondo mi sorrise con una punta di malizia.

Forse siamo più simili di quanto pensi, caro il mio caporale.

Pensò lui.

“Metti in moto, Guinevere. Ci spetta una lunga giornata.”

L’autista del giovane Armstrong mise in moto.

Dal finestrino, osservai il quartier generale farsi sempre più lontano.

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Capitolo 6
*** 6-Opale ***


Capitolo 6: L’Opale

 

“No.”

“Tessuto scadente.”

“Il colore è troppo acceso.”

“Giusto per curiosità, chi ti ha assunto?”

 

Assistevo poggiato al muro a quella scenata interminabile. Era già la terza sartoria che cambiavamo, ma il signorino Keith era inesorabile. Sembrava essere incontentabile e quasi mi vergognavo per le sue pessime maniere. Anche se dovevo ammettere che non aveva peli sulla lingua.

 

“Mh, questo completino non è male.”

 

A quelle parole sia me, che la sarta, che l'assistente personale del signorino, fummo come illuminati da una luce divina. Keith Gavin Armstrong aveva approvato il prodotto. La fine dell’inferno.

 

Ciò che aveva trovato di suo gradimento era una giacca con coda di rondine pervinca chiaro, con papillon e pantaloni del medesimo colore. Sul rever della giacca erano ricamati in argento dei fronzoli ricordanti lo stemma della famiglia Armstrong.

 

“Guinevere.”

“Sissignore.”

 

L’assistente del signorino subito si avvicinò a lui aprendo una valigetta. Essa conteneva svariati ventagli in carta dalle stecche di bambù di colori diversi. Keith scelse quello sui toni dell’azzurrino e ripose il vecchio nella valigetta. Dopo aver pagato, Keith mi diede un’occhiataccia.

 

“E tu?”

“Mi scusi?”

“Non vorrai mica venire alla fiera dell’arte di Central in divisa da militare.”

“Con tutto il rispetto, signor Keith. Domani la accompagnerò come sua guardia del corpo, sono a tutti gli effetti su posto di lavoro e non posso rinunciare all’uniforme.”

 

Keith già mi fissava prendendomi le misure del corpo, come se quello che gli avessi detto non l’avesse nemmeno sentito.

 

“Sei alle mie dipendenze, no?”

“Sì, ma-”

“Come tuo superiore ti ordino di vestirti decentemente per domani. Aiuterà a non dare nell’occhio.”

 

Non potei controbattere a un ordine diretto, inoltre quel furbetto aveva mischiato i suoi interessi e quelli della mia missione.

 

“Non preoccuparti. Nel caso mi prenderò tutte le responsabilità io. E ora dimmi come sto.”

“Stai bene.”

 

Quello si mise a braccia conserte, come infastidito.

 

“Niente di più specifico? Gratificante?”

 

Mi grattai la nuca. Keith sbuffò.

 

“…Lascia perdere. Cominciamo. Ho in mente un look semplice ma che ti valorizzi.”

 

Fu l’inizio di un’altra odissea interminabile. Francamente persi il conto di quanti capi d’abbigliamento provai.

Ero nelle mani di Keith.

 

...Dopo due ore interminabili

 

“Può andare. Anche se manca qualcosa.”

 

Mi guardai allo specchio della sartoria. Indossavo un semplice gilet nero con una camicia bianca e la cravatta nera. I pantaloni erano anch’essi neri e portavo dei mocassini piuttosto stretti. Keith mi infilò un’ortensia bianca nello spacco del gilet. Effettivamente, mi piacevo. L’intero look monocromatico aveva probabilmente lo scopo di far risaltare i miei occhi verdi.

 

Keith ridacchiava alle mie spalle con un’aria soddisfatta.

 

“Così infiocchettato pure Mustang perderebbe la testa per te.”

 

Come suo solito, le sue parole mi colpirono come una raffica di pugni allo stomaco.

 

“Signor Keith le ho già detto che-”

“Wow, non fa proprio a nominartelo.”

 

Sospirai e lasciai scorrere, piuttosto guardai il prezzo dei capi che indossavo e rimasi allibito. Non potevo permetti niente di ciò che indossavo.

 

“Ah. Non preoccuparti per quello.”

 

Keith pagò anche per me. Non potei obbiettare, se si puntava su qualcosa, la otteneva. La sua determinazione ferrea era sicuramente una qualità che dovevo riconoscergli. Così come la sua ospitalità. In quanto scorta, avrei potuto tranquillamente sedermi ed aspettare che lui finisse ogni sua singola faccenda per poi ripartire. Invece mi faceva sempre avere una mia stanza, mi faceva pranzare al suo tavolo, mi faceva godere di ogni privilegio della sua ricca famiglia. Tra una pausa e l’altra mi concedeva pure una sigaretta, anche se mi rinvangava sempre quanto facessero male alla mia età. Non che lui fosse molto più grande.

 

Aveva modi eccentrici e una lingua tagliente, ma mi trattava come un amico.

 

L’indomani, la fiera dell’arte ebbe inizio.

 

La notte, la capitale era illuminata e animata dal trambusto delle bancarelle e le persone che generavano un viavai perpetuo in tutta Central City. Artisti, artigiani e alchimisti provenienti da ogni parte di Amestris rendevano la città scintillante.

 

Giravamo per la fiera a piedi, in quanto il signorino voleva vedere da vicino ogni singolo stand ed e opere d’arte. Non mi rendeva il lavoro facile, aveva la tendenza di farsi strada tra le folle ed in un attimo rischiavo di perderlo di vista. Cercai più volte di farglielo notare ma lui fece finta di nulla. Sia io che la sua assistente eravamo esasperati. Ma non avevo nemmeno il tempo di sospirare. Dovevo controllare con occhio aguzzo ogni singolo individuo si avvicinasse al signorino. Al primo sospetto avrei neutralizzato la minaccia. Le mie revolver erano state ingegnosamente nascoste nel mio completo elegante, dentro la macchina parcheggiata avevo un intero arsenale, persino alcune spade e coltelli.

 

“Pff. E tu questi li chiami origami?”

La voce altezzosa del signorino attirò subito l’attenzione della folla su una bancarella gestita da una giovane ragazza di Ching, era incentrata sull’arte del piegare la carta detta “origami.”

 

“Perchè, pensi di saper fare di meglio biondino?” Quella subito gli gettò il guanto di sfida.

“Meglio di queste carte unte e pieghe slabbrate? Questo cigno chiede pietà.”

“Beh allora fammi vedere uno dei tuoi origami. O sai solo tirare critiche sterili?”

 

Keith ridacchiò guardandola dall’alto al basso. Aprì il suo ventaglio di carta, sul quale era disegnato un cerchio alchemico. Solo allora realizzai cosa gli saltò in mente.

 

Il cerchio alchemico si illuminò accecando tutti i presenti. Quando riaprimmo gli occhi, l’intero set di carta e origami della bancarella fu ricomposto in un enorme origami a più fogli raffigurante una gru.

 

“Ma tu non sarai mica… L’alchimista di carta…?”

“In persona cara. Non preoccuparti, pagherò tutto il materiale che ho usato e anche qualcosa in più. Così magari riesci a comprarti carta di qualità migliore! Sarò un critico ma devo pur sempre supportare gli artisti in erba. Fufufu.”

 

Prima che potesse attirare ulteriormente l’attenzione, lo presi per un braccio e lo trascinai all’interno della folla.

 

“Ehi-che ti prende?”

“Lo sai bene. Non puoi attirare l’attenzione così, sei un bersaglio di Scar.”

 

Persi parte della mia compostezza, ero visibilmente irritato.

 

“Okay. Perdonerò la tua sfuriata solo perché stai facendo il tuo lavoro. E poi…”

Keith guardò altrove

“Effettivamente ti sto rendendo la serata stressante. Mi dispiace. Vorrei solo vederti rilassare i nervi un po’.”

 

Sembrava proprio che Keith si sentisse in colpa. La situazione mi colse di sorpresa, guardai la sua assistente e quella mi fulminava con lo sguardo. Volevano far sentire nel torto me o cosa?

 

“La notte è ancora lunga. Prima ho visto una bancarella di gioielli artigianali niente male e con poca gente attorno. Magari può interessarvi.”

 

Keith subito sorrise e mi prese per mano, tirandomi come un bambino entusiasta. Io cercai di non sbilanciarmi.

 

“Be che aspetti? Portamici.”

 

La bancarella aveva un modesto assortimento di bigiotteria. Keith controllava minuziosamente ogni articolo, la sua assistente si dimostrava interessata ad alcuni bracciali. Onestamente non mi interessavano molto i gioielli e cose simili, ma decisi comunque di darci un’occhiata veloce. A saltarmi all’occhio fu un costoso pendente in opale di fuoco. Il colonnello fu la prima cosa che mi venne in mente. Mi chiedevo se fargli un regalo che si ricollegasse alla sua alchimia fosse un gesto banale, di cattivo gusto o forse carino. Magari glielo avrei regalato in incognito. In una bustina con qualche fiore dentro. Già mi immaginavo la sua reazione. Sicuramente avrebbe pensato fosse da parte di qualche bella ragazza. Magari la tenente Hawkeye. No. Non ce la vedevo molto.

In ogni caso lo comprai, e coi miei soldi. Per quanto Keith insistette per pagarmelo. La manifatturiera del medesimo pendente me lo impacchettò in modo carino.

 

“Sarò onesto. Non ti donerebbe affatto.”

“Non è per me.”

“Lo so. È per quello sfacciato di un colonnello sempre nei tuoi pensieri.”

 

Keith mi punzecchiava ma stavolta lo ignorai. La via davanti a noi era abbastanza desolata, quindi decidemmo di procedere, dando un’occhiata alle vetrine ancora illuminate. Si stava facendo tardi.

Un Bar in particolare attirò la mia attenzione. “Madame Christmas”.

 

Con la coda dell’occhio, vidi qualcosa all’interno del bar. Divenni teso, stressato.

 

“Potreste concedermi qualche minuto?”

“Come vuoi. Ma una volta passati io e Guinevere ci avvieremo verso la macchina.”

“Certo, non mi farò aspettare.”

 

Entrai nel locale. Un forte odore di liquore fu la prima cosa ad accogliermi. Dall’altra parte del bancone stava una donna di circa mezz’età, neo sul mento e sigaretta in bocca, il suo sguardo aveva qualcosa di famigliare. Seduto al bancone invece, un uomo dai capelli scuri che mi era fin troppo famigliare. Che ci faceva il colonnello in un posto come quello, circondato dalle attenzioni di varie ragazze che avevano tutta l’aria di essere delle prostitute?

Mi girava la testa, ma il colonnello non mi aveva ancora notato quindi presi posto al bancone.

 

“Wow, ma allora questo posto attira ancora qualche gentiluomo che non sia quel donnaiolo di Roy.”

Esclamò la barista. Aveva una voce vissuta ma arzilla.

“Cosa posso servirti, giovanotto? Li hai almeno diciott'anni?”

“Al momento starei lavorando. Mi basta un bicchiere d’acqua, grazie.”

 

Sentendo la mia voce, il colonnello finalmente si volto

 

“Ma che co- Caporale Adler! Che ci fai qui? E soprattutto, come sei conciato??”

 

Mi scordai del completo elegante che Keith mi aveva praticamente obbligato a indossare.

Presi tutta la forza che avevo in corpo per guardare il colonnello negli occhi.

 

“Potrei chiederle la stessa cosa colonnello.”

 

Quello già aveva mandato via tutte le ragazze che lo circondavano e si era avvicinato a me. Non sembrava ubriaco, ma era anche lui in un bel completo elegante.

Diedi un sorso al mio bicchiere d’acqua.

La barista mi osservava incuriosita.

“Adler… Oh dio, non sarai mica Nero! Roy parla così tanto di te! Quando fa visita alla sua vecchia sia chiaro.”

Ebbi una realizzazione lampante.

“Lei è… la signora Mustang?”

 

Il colonnello si mise una mano in faccia. La donna fece un tiro di sigaretta e mi sorrise.

 

“Vedi, in teoria sarebbe un’informazione riservata, ma penso di potertelo confermare. Roy è il mio figlio adottivo, anche se non mi chiama più mamma da decenni ormai! È davvero un uomo freddo. Ma son soddisfatta di com’è venuto fuori, il ragazzo non si fa scrupoli.”

“Basta parlare di me! Caporale Adler, dimmi immediatamente che stai combinando!”

La mia presenza sembrava alterare il colonnello, quindi cercai di spiegargli tutto in un tono chiaro e senza lasciarmi sfuggire alcun dettaglio, come se gli stessi facendo rapporto.

“Non indosso l’uniforme per via di alcuni capricci del signorino Armstrong. Quest’ultimo è qui fuori, ho chiesto una breve pausa e non mi sembrava il caso di farlo entrare in un locale simile, difatti la sua presenza qui mi sorprende, colonnello.”

Mi voltai verso la signora Mustang e aggiunsi un “Col dovuto rispetto.” Lei rise e disse:

“L’apparenza inganna giovanotto. Ehi Roy, comunque sia non essere così duro, dev’essere stancante stare dietro qualcuno per giornate intere.”

A quel punto il colonnello si alzò e fece per andarsene, sbuffando.

“L’ultima cosa di cui ho bisogno è di te che mi fai la paternale.”

“Colonnello! Aspetti la prego.”

 

Mi misi in piedi anche io.

 

Lo osservai in silenzio per alcuni secondi. Ripensavo a lui, in mezzo a quelle donne. A lui, esprimendo piacere e desiderio per il sesso opposto. A lui che corteggiava una donna. Tutte quelle immagini e informazioni deformarono la mia mente in un groviglio informe di desideri e piagnistei. Sentivo che ognuna di quelle donne non aveva la capacità di comprendere l’enorme fortuna che gli aveva donato la vita. Al contempo, mi strisciavo e dimenavo, bramando le loro stesse attenzioni.

 

Porsi al colonnello il mio dono.

 

Lui afferrò il piccolo pacco regalo con un’aria curiosa e confusa allo stesso tempo.

 

“Buonanotte, colonnello.”

 

Uscii dal locale.

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Capitolo 7
*** 7-Le due facce della luna ***


Capitolo 7: Le due facce della luna.

 

La luna crescente rischiarava il cielo, con una luce tenue che non permetteva di ammirare tutti i dettagli architettonici dell’enorme villa principale della famiglia Armstrong.

Eravamo appena rientrati dalla fiera dell’arte, il tempo di prepararci e andammo subito a letto, sia perché eravamo un po’ stanchi, sia perché con Keith non esisteva una giornata che non fosse movimentata.

Io però, non riuscivo a chiudere occhio.

Mi rigiravo nel letto in continuazione ma ogni posizione era scomoda. Il ventre iniziava a farmi male e il fiato si faceva corto. Stufo, mi alzai.

 

Ripensavo al colonnello e prima che me ne rendessi conto feci come per prendere una sigaretta, per poi realizzare di non poter fumare negli interni della villa. La finestra era enorme e non mi andava di aprirla solo per una sigaretta, quindi uscii dalla mia camera. Gli anditi erano bui. Camminai per un po’ e raggiunsi il giardino degli Armstrong. Delle intricate composizioni floreali facevano da contorno a una grossa fontana ornata di statue marmoree. Quando i miei piedi fecero contatto col marmo freddo, ebbi un piccolo brivido. Ero scalzo, con dei pantaloncini da pigiama e una canottiera. Non il massimo per quella nottata gelida. Era come se il gelo stesso fosse venuto a farmi visita, e forse la mia deduzione non era troppo lontana dalla realtà.

 

Mi accesi una sigaretta, l’istante dopo mi ritrovai a schivare un fendente di spada che arrivò dal buio, il fusto della sigaretta si tagliò in due. Con dei movimenti rapidi mi misi dall’altra parte della fontana nel caso il mio aggressore fosse disposto di armi da fuoco, usandola come barriera. Purtroppo non avevo nessun arma con me. In ogni caso la protezione di Keith era prioritaria.

Nemmeno il tempo di radunare i miei pensieri che il mio nemico si avventò su di me con un affondo letale, che evitai rotolando di lato.

 

La sua spada si conficco nel pavimento in marmo, e illuminata da quella tenue luce lunare la riconobbi. Olivier Mira Armstrong, la sorella maggiore di Keith e Alex Armstrong.

 

“Buoni riflessi. Dovevo aspettarmelo se sei riuscito a infiltrarti qui.”

“Generale Armstrong.” Salutai, era pur sempre una mia superiore.

“Credo ci sia un malinteso! Attualmente sono la scorta assegnata al suo fratellino minore, l’alchimista di carta. Sono qui unicamente in questa veste. Mi perdoni per le condizioni sub-ottimali in cui mi trova. Il signorino ha voluto così, e ho rispettato la sua volontà.”

 

La donna dai lunghi capelli biondi ripose la sua spada nel fodero, e se ne andò dandomi le spalle.

 

“Senz’altro la disciplina non ti manca… devo riconoscerlo a Mustang.”

 

Sparì nel buio da cui era venuta. Tirai un lungo sospiro di sollievo. La temutissima Olivier Armstrong, conosciuta anche come la muraglia di Briggs. Protegge Amestris dal nord e il suo operato è rinomato per la sua efficienza e freddezza.

 

“Ah già avrei dovuto avvisarti, Olivier sta con noi per qualche giorno, ma dovrebbe già partire domani.”

La voce di Keith mi sorprese alle spalle, spaventandomi.

 

“Da quanto stavi guardando?!”

“In realtà ti ho seguito fin da quando sei uscito dalla tua camera.”

“E non potevi...fermare tua sorella?”

“Mhh… così però non avrei avuto un test delle tue abilità.”

 

Lo guardai con un’espressione sconcertata. Quella famiglia era assurda.

“Comunque…”

Keith prese posto con me sulla fontana.

Rispetto a me, indossava un’elegante vestaglia da notte color porpora.

 

“Non riesci a dormire? Potrebbe essere un problema.”

“Lo so. Mi dispiace. Non dovessi eseguire correttamente le mie funzioni, ti prego di sostituirmi immediatamente.”

Lui mi guardò alzando un sopracciglio. Quindi gli risposi “Che c’è?”

“Parli sempre di “funzionare” e “sostituire” come se fossi una specie di bambola.”

“Sono termini che mi vengono facili da usare per intendere ciò che penso...è così strano?”

“Mh…”

Keith ridacchiò

“Un po’. Ma mai strano quanto il tono informale che stai usando con me in questo momento.”

Appena realizzai che intendeva, tornai subito a dargli del lei.

“Mi perdoni, ero ancora su di nervi per la situazione con vostra sorella.”

Quello roteo gli occhi e sospirò.

“Non la intendevo come una cosa negativa. Senti… che ne dici se stanotte lasciamo da parte appellativi, registri formali, gradi e tutte ste robe?”

Ci guardammo in silenzio, poi lui aggiunse.

 

“Non è un ordine.”

 

La luna ha due facce, una non la si vede mai.

Keith, l’alchimista di stato, l’alchimista di carta, l’artista, il minore degli Armstrong.

E Keith. Un ragazzo un po’ solo, che non ha alcun amico della sua età.

 

Solo allora capii. Fin dal primo istante in cui ci incontrammo, quel ragazzo stava disperatamente cercando di essere mio amico, a modo suo.

 

“Sì. È un’idea carina, Keith.”

 

Quello sorrise.

 

“Aaallora… fiato corto, batticuore, impossibilità di mantenere contatto visivo. Tutti sintomi della sindrome Mustang!”

Fui come tramortito da un fulmine, ma cercai di stare al gioco

“...centrato in pieno.”

 

Keith rimase sorpreso.

“Assurdo, ti piace davvero?”

 

In quel giardino tornò a regnare un silenzio in cui l’acqua della fontana scorreva indisturbata.

Con le guance arrossate e un espressione sofferente, risposi.

 

“No. Lo odio.”

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Capitolo 8
*** 8-Cosa tenere e cosa lasciare ***


Capitolo 8: Cosa tenere e cosa lasciare

 

“Odio il colonnello. È forte, carismatico, scala i ranghi con una facilità disumana. Quando risplendi così tanto, è normale lasciare qualcuno nell’ombra ad odiarti, non trovi?”

Keith mi osservava in silenzio, durante il mio breve monologo non lo guardai in faccia nemmeno una volta.

“Però, hai anche ragione. Mi piace, anzi, direi che lo amo con ogni fibra del mio essere.”

Come se mi fossi tolto un peso enorme dallo stomaco, trovai la leggerezza per osservare il cielo, poi continuai a parlare. Mi scappò una risata nervosa.

“Ahh… Quanto son fottuto nella testa? Non solo mi sono innamorato di un uomo, ma persino di colui che mi ha cresciuto e forgiato.”

Un altro interminabile attimo di silenziò passo tra noi due, Keith finalmente parlò. Aveva un’espressione mista tra la sorpresa e la pietà, come se fosse stato colpito da qualcosa molto più grande di ciò che si aspettava.

“Mustang… ti ha cresciuto?”

“Sì. Che bei ricordi mi fai riaffiorare. Era tremendamente rigido e severo, ma anche… affettuoso. Caloroso, a volte. Abbiamo passato tanto tempo assieme, ma ora…”

Il mio sorriso scomparve rapidamente dal mio volto.

“Il colonnello… si comporta come se io fossi una persona qualsiasi per lui. Fa male. Non pretendo ricambi i miei sentimenti, o cose simili. Ma sento che si sta allontanando da me sempre di più, e più la nostra distanza cresce, più in me si agitano sentimenti di rabbia e invidia.”

Senza nemmeno rendermene conto, stringevo le mani in due pugni tremanti.

“Quella donna… La tenente Hawkeye. La rispetto dal profondo, ma purtroppo…! È più forte di me. Vorrei essere lei. Vorrei essere nato nel suo corpo e stare al fianco del colonnello per sempre, avere persino una chance con lui! Ho la netta percezione che nessuno al di fuori di me si renda conto dell’enorme fortuna che la vita ha donato a quella donna, nemmeno lei stessa.”

Chinai il capo, ormai succube del mio flusso di coscienza.

“Chiamami egoista e sfacciato, ma nel profondo sento di meritarmelo. Queste mani hanno fatto cose orribili per lui. La mia ricompensa… è stata quest’orribile sensazione in cui sento di avere lo stesso valore del mio fucile.”

Prima che Keith potesse dire qualcosa, continuai a parlare io.

 

“Ho cercato di sistemare il nostro rapporto. Ho iniziato a fumare solo per farlo preoccupare. E lui… non se n’è accorto.”

 

Fu l’ultima cosa che dissi, una sberla mi riportò alla realtà.

 

Mi voltai sorpreso, tenendomi la guancia colpita. Davanti a me, un Keith che tremava dalla rabbia.

 

“Non te lo permetto.”

Non comprendevo.

“Non oso nemmeno immaginare cosa ti passi per la testa adesso ma… non ti permetterò di auto-distruggerti per qualcosa di cui non hai colpa.”

 

Non seppi cosa rispondere. Quindi continuò lui.

 

“...Sì! Non non importa quanto sia discutibile ciò che provi! Non hai scelto tu di sentirti così!”

 

Keith si alzò in piedi, facendo una confessione di spalle.

 

“Sai… Anche a me piacciono i ragazzi. Certo, il mio caso è un po’ diverso dal tuo, ma comunque sia per anni ho vissuto nel tormento di dovermi nascondere. Quando ti incontrai, sentii qualcosa di simile. Volevo aiutarti. Come mi aiutò mia sorella anni fa.”

 

“Lei mi disse Mi ci volle tempo, ma così feci.”

 

Mi alzai anch’io, guardandolo dritto negli occhi.

 

“Dovrei accettare questo? La mia infelicità infinita?”

“Sì. Solo accettando te stesso puoi decidere cosa tenere e cosa lasciare indietro.”

 

Chiusi gli occhi e sospirai, iniziando a comprendere dove volesse andare a parare.

 

“Nero…”

 

Mi chiamò per nome.

 

“Se Mustang ti causa così tanta sofferenza, devi lasciarlo andare.”

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Capitolo 9
*** 9-Presagio ***


Capitolo 9: Presagio

Il ragazzo correva in un corridoio senza luce col cuore in gola. Nemmeno il tempo di voltarsi per controllare se il suo inseguitore gli stesse alle calcagna. Purtroppo per lui, quel corridoio non avrebbe mai avuto fine.

L’infinita oscurità venne scacciata via da una scintilla di fuoco che rimbalzava da parete a parete, vincendo il ragazzo in velocità e colpendo le sue gambe, riducendole rapidamente in carbone con una violenta fiammata. Il giovane guardava le sue gambe con orrore e urlava, ma nessun suono fuoriuscì dalla sua bocca. Gli arti inferiori carbonizzati si frantumarono e lo fecero cadere a terra, sulle ginocchia, mettendo fine al suo breve tentativo di fuga.

Dei passi approcciarono il ragazzo da davanti, una voce maschile gli fece alzare lo sguardo, rivelando il volto del suo assalitore.

“E così è questo che celavi nelle profondità del tuo cuore, caporale?”

La figura del colonnello Roy Mustang torreggiava quella di Nero a terra. L’uomo, con un espressione di forte disgusto, si sistemò i guanti con i quali eseguiva la sua alchimia di fuoco.

“Pensare che la tua mente possa generare pensieri così deviati e malsani. Evidentemente ho sbagliato qualcosa con te. Anzi. Avrei dovuto lasciarti bruciare insieme alla tua vecchia dimora. Ma forse ho ancora la possibilità di rimediare al mio errore.”

Con un secco schiocco di dita, un’altra scintilla fu indirizzata verso il giovane, generando un’esplosione di voraci fiammate che ne consumavano il corpo. Mentre i liquidi e i grassi del ragazzo evaporavano, il giovane allungò una mano verso Roy, in un gesto di pietà. Questo con un altro rapido schiocco di dita, travolse il ragazzo con un vortice di fuoco. La mano che cercava di raggiungerlo si indurì e si ruppe insieme all’intero braccio. Ciò che ora restava di Nero era un frammentato cumulo di cenere e tessuti carbonizzati vagamente antropomorfi. L’intero insieme crollò su se stesso, ma in quale modo, era ancora vivo. I suoi occhi osservavano il colonnello dal pavimento, dilaniati dall’agonia. Furono intercettati da uno sguardo freddo e impassibile.

“Mi piange il cuore nel vedere il tuo corpo ardersi cadere a pezzi. Ma aver lasciato i tuoi bellissimi occhi intoccati è una magra consolazione. Addio, Nero.”

 

Mi svegliai di colpo. Respiravo affannosamente e mi asciugai il sudore con le lenzuola. Realizzai di aver avuto un incubo. Rimasi scombussolato e incapace di riprendere sonno. Inoltre, ormai era giorno.

Per via della conversazione che ebbi con Keith la notte precedente, andammo entrambi a letto all’alba. Sostanzialmente avevo dormito per tre ore e basta.

Non ero il tipo di persona da rimuginare sui sogni o attribuirgli chissà quale significato nascosto, ma la mia mente non poté che viaggiare di fantasia e collegarlo a ciò che mi disse Keith.

Lasciar andare il colonnello.

Solo pensarlo mi sembrava un’assurdità. Provai a immaginarmi il dopo, e non vedevo nulla.

Mi alzai dal letto, sciacquai la faccia e poi misi l’uniforme.

Io e il colonnello stavamo vivendo un brutto periodo, ma lo avremmo superato. Il mio posto era al suo fianco, e quella era la mia unica certezza.

 

Una volta uscito dalla stanza aspettavo davanti la porta, con le mani tenute dietro la schiena.

Appena Keith mi incrociò, mi salutò.

“Che espressione seria. Certo, mai seria quanto le tue occhiaie. Vuoi un po’ di correttore?”

“Non c’è bisogno. A meno che non esigiate nuovamente che mi presenti nel modo che più vi aggrada.”

Keith assunse un’espressione delusa.

“Come vuoi. In ogni caso partiamo tra dieci minuti, raggiungici in macchina. Faremo colazione fuori.”

 

Fu una giornata piuttosto tranquilla. Keith era spossato dagli eventi della nottata precedente, quindi era meno energico del solito e optò per una routine più semplice. Tuttavia, non parlammo molto tra di noi. Non c’era altro da dire.

Senza che ce ne rendessimo conto, il sole stava già tramontando.

Camminavamo in un vicoletto che conduceva a una libreria poco frequentata ma alla quale Keith faceva spesso visita. Era un grande fan della raccolta di libri che i custodi selezionavano e per questo gli dava tutto il suo supporto.

Quel giorno però, Keith non avrebbe comprato nessun libro. Una figura alta e dalla carnagione scura camminava verso di noi dalla fine del vicolo. Le sue caratteristiche più prominenti erano un intricato tatuaggio sul suo braccio destro, e una grossa cicatrice a forma di X sulla faccia che gli donava il nome con cui era conosciuto dall’esercito: Scar.

“Finalmente ho trovato anche te, alchimista di carta. Porgi le tue ultime preghiere a Ishvala.”

I suoi occhi erano del colore del sangue, così come il suo odore. Porsi un braccio davanti a Keith, come per tenerlo indietro.

“Signorina Guinevere, torni in macchina con Keith e segnali la presenza di Scar qui!”

Keith estrasse il suo ventaglio, per nulla intimidito dall’ishvaliano e andò poco più avanti di me.

“Niente affatto, io resto.”

“Keith!”

“Come alchimista di stato, è mio dovere difendere le persone di Amestris da-”

Il ragazzo non fece in tempo a terminare, fui costretto a prenderlo dal dietro della camicia tirandolo di peso, in modo che Scar, già scagliatosi contro di lui, afferrasse l’aria. Il nemico aveva la velocità e l’istinto omicida di una tigre, subito dopo estrassi una revolver e gli sparai contro, evitò i colpi ma almeno aumentai lo spazio tra di noi. Keith cadde a terra. Scar aveva la capacità di distruggere qualsiasi cosa toccasse con la mano destra, se avessi reagito in ritardo, Keith sarebbe morto.

Scar mi guardò con indifferenza, si schioccò le dita e si preparò al suo prossimo attacco.

“Non ho nulla contro di te, ma chiunque difenda gli alchimisti di stato è un mio nemico.”

“Buono a sapersi, perché non ho alcuna intenzione di esserti amico!”

Esclamai e poi gli sparai vari colpi. Ognuno di essi indirizzato a un punto vitale, Scar doveva essersi reso conto del mio status di tiratore scelto, perché si era focalizzato sull’evitarmi ed e i suoi assalti iniziavano a mancare di aggressività.

“Hai una bella mira, ma cosa farai una volta finiti i proiettili?”

Risposi alla sua provocazione con un sorriso impavido. Poi mi rivolsi al mio protetto.

“Keith, sei il suo obbiettivo. Se rimani qui non riuscirò a sconfiggerlo.”

Lo sguardo di Keith barcollava nel vuoto. Aveva poco tempo per riflettere a sangue freddo ma infine accettò che le condizioni per uscirne vivi entrambi erano più alte seguendo le mie istruzioni.

L’alchimista di carta si rialzò da terra e mi guardò sul punto di piangere.

 

“Se muori, non ti perdonerò mai.”

 

Scappò via. Scar ne approfittò e si avventò su di lui come un’aquila in picchiata, mano destra in avanti, colmo di intenzione omicida. Ma fu in quel momento che abbassò la guardia, e lo colpii di striscio nel braccio con un proiettile, fermandolo.

In quel vicolo eravamo rimasti solo noi due. Mi soffermai a osservare gli occhi rossi del superstite di Ishval.

In essi bruciava un rancore che non potevo comprendere. I miei sensi si aguzzarono e nella mia mente si ripetevano le seguenti frasi:

Non importa. Non farti domande. Non avere ripensamenti. Non esitare.

Per il bene di Keith. Per il bene del Colonnello Mustang.

Quell’uomo doveva morire.

Buttai la revolver a terra, tra me e lui.

“Io ti avevo avvisato.”

Si lanciò su di me veloce come una saetta, mandando in avanti la sua mano della distruzione, pronto ad uccidermi.

 

Schivai la mano. Un millimetro più a destra e le interiora della mia faccia sarebbero state poltiglia. Gli afferrai il braccio in una presa salda come la morsa di un serpente, con uno sgambetto la forza e velocità che usò per venirmi contro furono usate contro di lui, permettendomi di atterrarlo con violenza, immobilizzandolo. Facevo acuta attenzione a non toccare la sua mano, ancora intrisa del suo potere distruttivo.

 

“Ora Scar, fammi il piacere di morire!”

 

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Capitolo 10
*** 10-Bestia ***


Capitolo 10: Bestia

 

Da quando atterrai Scar, passarono trenta secondi che parvero un’eternità. Nell’attesa di rinforzi che potessero neutralizzarlo, questo si dimenava sul suolo cercando continuamente un’apertura da cui sfuggirmi. Gestirlo non era facile: Se per atterrarlo avevo usato la sua forza contro di lui, per tenerlo immobile potevo contare sulle mie sole energie. Scar era visibilmente più grosso e forte di me, ma i miei nervi saldi e la mia tenacia indistruttibile riuscivano a fare qualche altro minuto di differenza, soprattutto considerato che il mio nemico aveva un braccio fratturato, un bel colpo di fortuna. Nonostante ciò, iniziavo a sentire le braccia di Scar scivolarmi tra il suo sudore.

Alla fine riuscì a tirarmi una gomitata sulla pancia, liberandosi da me. In un attimo con la sua mano destra toccò il terreno, distruggendolo in una polverosa esplosione.

Mi rialzai il più in fretta possibile, ma quando la polvere si dissipò, di Scar era rimasto solo l’odore di sudore. Era fuggito creando un grosso buco nel terreno per poi correre via nelle fogne sottostanti.

“Dannazione.” Scocciato, sfogai la mia frustrazione con un pugno sul muro del vicolo.

Dall’entrata del vicoletto erano giusto arrivati il sergente capo Fuery accompagnato da altri uomini armati.

Quando videro i rimasugli del nostro scontro, capirono di esser arrivati troppo tardi.

 

“Caporale Adler, è ferito?” Mi chiese Fuery col suo solito tono preoccupato.

“No. Però forse da qui possiamo dedurre da dove uscirà Scar…”

Il sergente mi si avvicinò dandomi una pacca sulla spalla.

Era più basso di me, ma estendeva la sua premura ed empatia a chiunque. Doveva aver capito che mi sentivo in colpa per averlo lasciato scappare.

“Purtroppo Central City ha un sistema fognario intricato e come ben sai Scar è imprevedibile e svelto. La miglior cosa da fare ora è riorganizzarci…”

Fuery diede l’ordine di assicurare che l’esplosione non avesse danneggiato le fondamenta delle strutture nel vicolo. Poi rivolse nuovamente le sue attenzioni a me.

“Ottimo lavoro caporale. Hai protetto l’alchimista di carta, per quanto mi riguarda hai adempito ai tuoi compiti ampiamente.”

“Lei è molto gentile, sergente. “

Fuery arrossì leggermente al mio complimento.

“Non nego che premura è la dote per la quale vengo più elogiato. Persino il colonnello di tanto in tanto-”

A quel punto la faccia del sergente si sbiancò, come se si fosse ricordato una cosa molto importante.

“Prima di ricevere la segnalazione di Scar, stavo andando a far visita al colonnello in ospedale. Ti andrebbe di venire con me?”

Un brivido freddo mi attraversò la schiena.

“Il colonnello… è in ospedale?”

Chiesi, sperando di aver capito male.

Fuery si sistemò gli occhiali e mi accompagnò verso la sua automobile.

 

 

“Ne hai di fegato colonnello. Come comandante in capo non saresti nemmeno dovuto scendere sul campo di battaglia.”

“Bah sta zitto! È così che parli all’uomo che ti ha salvato la vita?”

“Sono riconoscente e tutto, ma alle ragazze non piaceranno tutte ste’ bruciature attorno al mio stomaco!”

“Moccioso ingrato! Sto messo molto peggio i- ughh”

 

Nell’istante in cui Roy cercò di urlare, una fitta di dolore lo fece ricadere sul suo letto d’ospedale. Condivideva la stanza con il sottotenente Jean Havoc, ed erano entrambi sotto la sorveglianza della tenente Hawkeye. Tutti e tre reduci dalla stessa battaglia.

“Ma perché devo condividere la stanza con questo qui?? In genere ne ho sempre una singola con un’infermiera carina e gentile…”

“È per la vostra sicurezza colonnello. Tenendovi nella stessa stanza è più facile proteggervi.”

Spiegò Riza.

“La gente muore in ospedale ogni giorno, potrebbero finirvi facendolo sembrare un incidente.”

 

“Che succede caporale?”

Potevo distintamente udire il colonnello litigare con Havoc dall’altra parte della porta. Non si aspettava nessuna visita nello specifico. Il sergente Fuery ne sapeva poco più di me. A quanto pare il colonnello aveva combattuto un nemico dalle capacità sovrumane: un “homunculus”. Fu assistito dalla tenente Hawkeye, un certo Alphonse Elric, e il sottotenente Havoc. Quest’ultimo, così come il colonnello, subirono gravi ferite.

Toccando la maniglia mi congelai sul posto. Una volta aperta avrei visto il colonnello. Una volta aperta, avrei dovuto accettare che al mondo esistevano creature in grado di distruggere il colonnello. Mi presi qualche secondo per processare tutto quello che mi stava accadendo quel giorno. Poi mi scusai con Fuery. Mi feci coraggio ed entrai nella stanza d’ospedale col sergente.

“Ciao colonnello! Siamo venuti a trovarvi!”

“Ti avevo detto di non far entrare nessuno a parte Alphonse! A proposito, non è con te?”

La tenente Hawkeye rimproverò istantaneamente Fuery.

“Oh già mi scusi. Alphonse starà arrivando. Abbiamo avuto un contrattempo con Scar che ci ha diviso.”

Il mio sguardo si spostò lentamente sul letto d’ospedale. Una volta che vidi le ferite bendate del colonnello, il mio cuore si strinse. Mi senti come se stessi cadendo, ma restai saldo e in piedi.

Mi bastò uno scambio di sguardi per capire che ero l’ultima persona che il colonnello avrebbe voluto ricevere. Non voleva farsi vedere in quello stato. Infatti prese Fuery per un orecchio e gli sussurro qualcosa. Sicuramente un rimprovero. Povero sergente.

Una volta ricomposto, il colonnello si rivolse a me.

“Perché sei qui caporale? Non hai un altro incarico ben specifico da svolgere?”

“Ho incontrato e ingaggiato Scar in uno scontro. Quest’ultimo è rimasto ferito, e Keith è rimasto alle cure della famiglia Armstrong, nella loro villa. Una volta sentita della vostra condizione, ho pensato che avesse priorità assoluta.”

“Quindi questa è una tua iniziativa. La comprendo, ma le tue preoccupazioni sono infondate. Sono sicuro che gli Armstrong saranno felici di avere ulteriori linee di difesa contro Scar. Ti ringrazio della visita, ma devi tornare subito alla tua mansione precedente.”

“Non sono venuto qui solo per salutarvi. Voglio restare e proteggervi.”

La mia voce si spezzò. Il colonnello iniziò ad assumere un’espressione irritata.

“La tenente Hawkeye si sta già occupando di guardarmi le spalle.”

“Non mi interessa.”

La discussione si stava lentamente trasformando in un litigio, al quale tutti i presenti nella stanza non sapevano bene come reagire. Era chiaro che sia io che il colonnello stessimo mischiando sentimenti privati alle nostre decisioni professionali.

“Basta controbattere. La tua insubordinazione è un insulto a tutti noi, reduci dello scontro.”

“Ciò include la tenente Hawkeye, non pensa che fare la guardia a turno possa alleggerirle il fardello?”

A quel punto la stessa tenente ruppe il silenzio.

“Posso cavarmela benissimo da sola caporale. È il mio compito.”

Poi volse uno sguardo al colonnello, notandolo seccato, sospirò.

“Però… averti qui mi faciliterebbe sicuramente le cose.”

“Cosa?! Stai dalla sua parte?”

“Concordo anch’io con Nero. Mi serve qualcuno di simpatico con cui parlare che non sia la tenente Hawkeye o i medici.”

Si aggiunse Havoc, prendendo in giro il colonnello.

“… e pensare che ti ho salvato la vita”

Borbottò il colonnello sottovoce.

Alla fine il colonnello Mustang si arrese.

Fummo tutti sollevati, in genere la sua testardaggine era invalicabile.

Ora non restava che aspettare Alphonse e decidere la nostra prossima mossa.

Presi posto vicino alla tenente Hawkeye, davanti al letto del colonnello, che ancora non aveva mandato giù la mia presenza, ma se ne fece una ragione.

I miei occhi vegliavano su di lui con grande premura.

 

Però non potevo considerarmi soddisfatto. Quello era solo il primo passo. Da quel momento, avrei cercato di combattere al fianco del colonnello con tutte le forze. Sarei stato la sua spada. Una lama senza ego che avrebbe abbattuto qualsiasi minaccia alla sua integrità.

Dovevo impicciarmi nei suoi affari. Sapere per cosa combatteva, contro chi combatteva.

Se al mondo esisteva una bestia capace di costringerne un’altra su un letto d’ospedale, questa andava distrutta ancora prima che incrociasse colui che amavo nella sua totalità.

 

Avevo paura dell’amore. Poiché in esso risiedeva la mia intera identità.

Ma forse, pensai, combattendo per proteggerlo avrebbe iniziato a spaventarmi di meno.

Forse, un giorno, avrei liberato quei sentimenti al mondo.

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Capitolo 11
*** 11- I fratelli Elric ***


Capitolo 11: I fratelli Elric.

 

Dalla visita di Nero in ospedale passarono alcune ore, nelle quali lui e la tenente Hawkeye avevano stabilito che Nero avrebbe sorvegliato il fuori, come prima linea di difesa, e la tenente sarebbe rimasta dentro con il colonnello Mustang e il sottotenente Havoc. Furono ore silenziose, che garantirono il riposo di Havoc. Questo si addormentò poco dopo che Alphonse Elric se ne andò.

Alphonse Elric era il minore dei fratelli Elric. Nero l’aveva inquadrato come un individuo sospetto, che nonostante l’età di quattordici anni torreggiava su tutti i presenti con oltre due metri di altezza. Inoltre indossava una grossa armatura che ne copriva qualsiasi caratteristica fisica. Comunque sia, per il colonnello i due fratelli erano due alleati preziosi, quindi Nero non poté che tenersi i suoi dubbi.

Alphonse ed il colonnello parlarono di laboratori in cui venivano svolti esperimenti illegali sulla pietra filosofale, gli homunculus e la possibile corruzione dei gradi alti dell’esercito di Amestris. Insomma, tanta roba da processare.

Sembrava di star sentendo un racconto di fantasia.

Ma non c’era tempo per crederci o meno. Se questo era ciò a cui il colonnello sarebbe andato incontro, allora Nero ne fece la sua nuova realtà senza troppe storie.

Le primi luci dell’alba sorsero, la tenente Hawkeye ebbe la premura di chiudere le tende dell’unica finestra della stanza per far si che non disturbassero il sonno di Havoc. La donna riprese la sua postazione, vicina a un pensieroso Roy Mustang.

Notare quella parvenza di insicurezza nel suo sguardo fu ciò che bastò a Riza per stabilire che qualcosa turbava il colonnello. Qualcosa che andava oltre le minacce bizzarre e temibili che li attendevano; qualcosa di intimo e personale.

La donna conosceva il suo superiore meglio di chiunque altro, e il sentimento era reciproco. Così in quei brevi attimi che il loro lavoro concedeva, divenivano l’uno il confidente dell’altro.

“Mi dica la verità, colonnello. Quella di prima era solo una sceneggiata. Avevate intenzione di riprendervi Nero sotto la vostra ala fin dal principio.”

Il colonnello sorrise. Non solo la tenente l’aveva scoperto in flagrante, ma era pure arrivata al punto col suo cinismo mortale. Ma con gli anni ci aveva fatto l’abitudine.

Non poteva nascondere nulla a quegli occhi castani e scrupolosi.

“Le cose sono cambiate. Se il nostro nemico si è infiltrato nell’esercito è bene tenersi vicino gli amici in modo da non permettergli di creare possibili ostaggi.”

Roy sorseggiò il bicchiere d’acqua che stava posato sul comodino.

Riza lo fulminò con lo sguardò.

“Non cerchi di eludermi con le sue mezze verità. Per quanto lo nasconda, ha quell’espressione preoccupata fin da quando ha sentito della segnalazione di Scar.”

Il colonnello non rispose.

“Non si aspettava che avrebbe ingaggiato Scar da solo. Ha sottovalutato la sua impulsività, e ora sente che il miglior modo per controllarlo è averlo al suo fianco.”

“Dirti che hai torto sarebbe un insulto alla tua intelligenza, tenente. Ma dimmi… cosa dovrei fare?”

Riza fu colta di sorpresa da una domanda tanto diretta, e su una questione così personale persino. L’unica risposta che le venne in mente non fu altro che il modo in cui lei si sentiva al riguardo.

“Non lo so. Colonnello, lei mi sembra… in conflitto con se stesso. Ma qualsiasi sia il modo in cui lei si sente personalmente verso Nero, deve ricordarsi che ormai lui non è più un ragazzino, e odierebbe essere trattato come tale.”

“Tu credi?”

“Dov’è il colonnello?” Chiesi, sorpreso dalla sua assenza nella stanza. Mi ero allontanato un attimo per prendere un po’ di caffè, sia io che la tenente ne avevamo bisogno.

“Non preoccuparti, sta parlando con un suo vecchio compagno d’armi.” La tenente Hawkeye mi rassicurò, anche se il suo tono di voce si rattristì, probabilmente riesumando lontane memorie di guerra.

“Oh… capisco. Lui invece come sta?” Abbassai il tono di voce e indicai Havoc, che continuava a dormire anche con la sigaretta spenta in bocca.

“Ovviamente è sconvolto. Ma forse il colonnello è riuscito ad accendere un po’ di grinta nel suo animo. Avresti dovuto assistere.”

“Havoc è stato il mio compagno di dormitorio a East City. Non nego che il prospetto di immaginarmelo in sedia a rotelle fa impressione pure a me.”

“Purtroppo per ora il giudizio dei dottori sembra definitivo, e abbiamo perso le tracce del Dottor Marcoh…”

La conversazione fra me e la tenente fu interrotta dal colonnello che camminava a fatica verso una panchina della sala d’attesa. La tenente subito accorse a fargli da supporto. Mi soffermai un attimo ad ammirarli e invidiarli insieme.

 

“Colonnello, se si sforza troppo le sue ferite si riapriranno.” Lo rimproverò la tenente.

“Portami l’uniforme.”

Disse, freddo e dissuasivo. Ovviamente la tenente cercò di farlo ragionare.

"Non siete ancora in condizione di tornare a lavoro."
"Ho detto di portarmela!"
il colonnello insistette, aggressivo, come turbato. La tenente Hawkeye sospirò e poi scambiò uno sguardo d'intesa con me.
In quelle situazioni sapevamo entrambi che il colonnello era inamovibile. Evidentemente si era puntato su qualcosa che avrebbe potuto aiutare Havoc e avrebbe corso qualsiasi rischio per ottenerlo, anche a scalpito della sua incolumità. Non lo dava mai a vedere, ma aveva un cuore enorme, solo che era protetto da una muraglia.
Era difficile da raggiungere, nascosto al centro di un intricato labirinto di rovi, ma una volta che lo sfioravi ti sentivi al sicuro alla sua sola presenza. Già, non avevi bisogno di altro al mondo.
Vedere quegli occhi determinati annichilirono ogni mia possibile opposizione a quella scelta avventata.
Rapidamente ci avviamo verso la macchina del colonnello, la tenente Hawkeye si mise alla guida. Facemmo anche una breve capatina al quartier generale per rifornirci di armi e munizioni. Sapevamo che Scar era nuovamente apparso, quindi ci preparammo con cautela. Presi le mie due spade preferite, una revolver e qualche granata stordente, la tenente Hawkeye si caricò di pistole e fucili di precisione, il colonnello si portava già appresso una scorta dei suoi famosi guanti alchemici. Sul guanto era ricamato un cerchio alchemico e il tessuto stesso del l'indumento causava scintille se sfregato con se stesso, in questo modo il colonnello generava spaventosi turbini di fuoco con uno schiocco di dita. La parte più temibile della tecnica, era senz'altro la precisione delle scintille e la velocità con cui erano rilasciate in rapida successione.

Una volta risaliti in macchina, sentimmo alcune novità dalla radio militare.
"Sembra che i fratelli Elric stiano attirando l'attenzione. " Commentò la tenente.
"Probabilmente stanno cercando di attirare Scar da loro. Raggiungiamoli, in questo modo potremmo pure scambiare qualche informazione"
All'ordine del colonnello, la tenente premette sull'acceleratore, dirigendosi verso la piazza in cui erano stati avvistati per l'ultima volta i due fratelli.
Durante il viaggio, una piccola realizzazione mi scosse. Scar aveva un braccio fratturato dal nostro ultimo incontro, potevo giurarlo di averlo visto. Eppure era già tornato in azione. Evidentemente non si muoveva da solo e nel suo gruppo vi era qualcuno o più che si occupava di alchimia medica.
Per il momento tenni quei pensieri per me, e cercai di focalizzarmi sulla missione attuale:
Proteggere il colonnello.

L'automobile approcciò i due fratelli lentamente.

"Stai agendo un po' fuori dal tuo personaggio, non credi acciaio?" Il colonnello lo stuzzico come sempre. Scendemmo tutti dalla macchina.
Finalmente conobbi Edward Elric, il maggiore dei fratelli Elric. Era un giovane da capelli e occhi dorati, piuttosto basso. Era conosciuto anche come l'alchimista di acciaio, sebbene l'insolita apparenza del fratello minore Alphonse creava sempre confusione su a chi appartenesse il titolo. In ogni caso era un alchimista di stato, e quindi un bersaglio di Scar. Notando il suo corpo realizzai il perché dell'origine ironica del suo nome; sia il suo braccio destro che la gamba sinistra erano automail metallici.

"Piacere... A... acciaio?"
"Ah... solo il colonnello mi chiama così e francamente lo so che lo fa solo per darmi fastidio. Edward va bene... tu sei? hai una faccia famigliare."
"Caporale Nero Adler, a sua disposizione."
"Va bene vi siete presentati. Ora dimmi Acciaio, che vuoi ottenere facendo da esca per Scar?"
Il colonnello interruppe bruscamente la nostra presentazione.
Tra il colonnello e il piccolo alchimista vi era una strana aria di competizione. Edward aguzzo lo sguardo e ci spiegò la situazione.
"Ho scoperto varie cose colonnello. La prima è che per gli homunculus sono un cosiddetto “sacrificio umano”, quindi non possono proprio lasciarmi morire. Per questo Scar è anche nel loro mirino, hanno un conflitto d’interessi."
"Quindi vorresti attirare Scar nella speranza che gli homunculus escano allo scoperto? È una totale follia."
Mentre i due dibattevano, i miei sensi di combattimento si irrigidirono solo sentendo nominare la parola "homunculus"
Un homunculus di nome Lust era colei che aveva costretto il colonnello su un letto d'ospedale... se il piano dei fratelli avesse funzionato, dovevo prepararmi a un combattimento tremendo.

"Come saprai con precisione quando e dove gli homunculus faranno la loro mossa?"
Chiesi, con grande bisogno di avere una risposta che mi rassicurasse.
"Ho due amici che sanno percepire l'aura degli homunculus. Una volta che usciranno allo scoperto li attireranno qui."
"L'aura degli homunculus...??? "
La tenente Hawkeye e il colonnello si guardarono confusi.

"Inoltre colonnello, ho scoperto che la pietra filosofale è legata in qualche modo ad Ishval. Cosa è successo ad Ishval?"
Il ragazzo chiese con occhi decisi, ma il colonnello non rispose. Sia lui che la tenente si trovarono bloccati nel silenzio, guardando in basso. Ma poi quasi per convenienza, la tenente alzò la sua pistola verso un losco figuro in lontananza. Scar."

"Tenente, non spari!"
Grido Alphonse, dall'interno della sua enorme armatura.
Scar colpì subito il terreno con la mano destra, generando una scia di distruzione che andò a distruggere l'automobile del colonnello.
L'uomo dalla carnagione scura mi volse uno sguardo gelido, forse fu il suo modo di reagire a un volto noto. Ma ormai eravamo tutti vecchie conoscenze di Scar, sebbene non in buoni rapporti.

I due fratelli Elric si pararono subito di fronte a noi, congiunsero le mani per poi toccare il suolo, trasmutandolo in vari dragoni di pietra che avanzarono verso Scar. Questo li distruggeva con facilità ma il numero fece la differenza, e ci diede il tempo di ricomporci.

"Acciaio! Questo piano è una follia! Non attirerai nessun homunculus se Scar muore sparato dalla polizia militare ancora prima che si sparga la voce della sua comparsa!"
"Per questo serve che ci dia una mano colonnello! solo lei ha accesso alle comunicazioni radio dell’esercito, deve sabotarle per darci il più tempo possibile! Questo piano può funzionare solo se noi facciamo da esca! non vogliamo nessun altra casualità in mezzo! La prego di assisterci, così… così potremmo persino catturare un homunculus vivo!"
La determinazione ferrea del giovane Alphonse fu come una canzone di battaglia che ci caricò di grinta e adrenalina. Il colonnello sorrise, eccitato.
"E così mi date degli ordini. Che sfacciati! Molto bene. Una volta acciuffato l'homunculus, portatelo a quest'indirizzo qui. È una zona isolata in un bosco, appartiene a un mio vecchio commilitone. Possiamo fidarci di lui."
Entrambi i fratelli fecero cenno di sì con la testa, mentre ingaggiavano Scar in un combattimento pressante.
"Tenente, Caporale, prendiamo in prestito una macchina e dirigiamoci a-"
Il colonnello si bloccò.
 

"Dov'è Nero?"

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Capitolo 12
*** 12-Ling Yao e Lan Fan ***


Capitolo 12: Ling Yao e Lan Fan

 

Allo scontro delle forze alchemiche di Edward e Alphonse contro Scar, una cortina di fumo si alzò.
Nero ne approfittò per strattonare Edward, prendendo di parte dove nessuno potesse vederli.
"Ehi! Ma che ti prende!"
"Per favore. Dimmi dove si trovano i tuoi amici. Quelli che possono percepire l'aura degli homunculus."
"... Perché?"
"Sono completamente inutile con le comunicazioni via radio. Ma invece, se potessi dare una mano ai tuoi amici... ti prego. So che ci conosciamo a malapena, ma ti prego. Dammi questa chance per proteggere il colonnello."
Il giovane Edward fu sorpreso, e forse non prese la più saggia delle decisioni nel mezzo della foga della battaglia. Ma nello sguardo di Nero vide devozione e pazzia. Quasi come spaventato da cotanta fedeltà, non poté dirgli di no, e gli diede la posizione dei suoi alleati.
"Ti ringrazio."
Nero si rialzò e corse tra la polvere, scomparendo.

-

"Dov'è Nero?"
"L'ho mandato a dare una mano a Ling." rispose l'alchimista d'acciaio.
"Ma che-"
Il colonnello fu interrotto dalla caduta di alcuni detriti che Scar causò distruggendo una barriera in cemento precedentemente alzata dai due alchimisti.
"Come ti permetti a dare ordini ai miei uomini?!"
"Guardi che mi ha pregato lui! In ogni caso lì impalato non mi è di alcuna utilità, colonnello!"
"Dannato moccioso-"
"Colonnello, dobbiamo sbrigarci."
Riza cercò di mantenere il sangue freddo.
"Per favore, cerchi di fidarsi del caporale."
In Roy sentimenti di rabbia e paura si scatenavano come in una tempesta. Ma riportarlo alla realtà fu la tenente Hawkeye. Giusto. Dovevano sabotare le comunicazioni della polizia militare. Se lo avessero fatto il prima possibile, sarebbero potuti andare a recuperare Nero.

I due presero in prestito una macchina usando il loro titoli, promettendo di restituirla subito dopo, e si diressero verso la finta seconda casa del sergente capo Fuery, l’addetto alle comunicazioni militari. In men che non si dica, false segnalazioni di avvistamenti di Scar misero in subbuglio l’esercito.

-

Raggiunsi la posizione indicatami dall’alchimista d’acciaio il più in fretta che potei. Era una viuzza che faceva da tramite ad altre vie persino più piccole e dimenticabili. Ovunque mi girai, non trovai nessuno. Fin quando non alzai gli occhi al cielo. Due figure se ne stavano appostate in alto fra i tetti. Uno era un semplice ragazzo di Xing, dagli occhi sottili e lunghi capelli neri raccolti in una coda. L’altra aveva pochi tratti distinguibili osservabili, indossava un cappuccio e una maschera che le copriva l’intero volto.

“Voi dovete essere… Ling Yao e Lan Fan?”

I due si scambiarono uno sguardo sorpreso. Fu il ragazzo a rispondermi, con un tono amichevole e affabile.

“Chi c’è lo chiede? Indossi l’uniforme militare…”

“Potrebbe essere una trappola.” Lo interruppe la figura mascherata.

“Mi manda Edward. A cuore ho solo il successo di questo piano. Sono disposto a salire disarmato.”

Mostrai i palmi delle mani, per rafforzare le mie intenzioni inoffensive.

Il ragazzo ridacchiò.

“Non c’è bisogno. Stai dicendo la verità.”

“Ma… Principe.”

“Che c’è? Riconosco i bugiardi. Su, sbrigati e sali qui.”

Ebbi qualche difficoltà, ma alla fine tra un appiglio e l’altro raggiunsi rapidamente la cima del tetto.

Il ragazzo complimentò le mie doti atletiche.

“Niente male, per un membro dell’esercito sia chiaro.” Mi stuzzicò. Mentre Lan Fan continuava a guardarmi insospettita. Riuscivo a sentire l’aria spinosa del suo sguardo dubbioso anche attraverso la maschera.

Una macchina accostò nella via sottostante.

“Falsi avvistamenti di Scar continuano ad essere segnalati.”

La portiera si aprì.

“Arrivano.” Ci comunicò Lan Fan.

Dall’automobile scese nientemeno che il comandante supremo King Bradley. L’icona di potere più importante di Amestris. A guardarlo pareva un semplice uomo sulla sessantina e un occhio bendato. Ma quasi tutti erano a conoscenza delle sue letali capacità combattive, soprattutto con la spada o perfino a mani nude.

“Gluttony.” Esclamò l’uomo, pronunciando quel nome come se esso stesso fosse un ordine.

Dall’ombra di uno dei vicoletti uscì una creatura umanoide grossa e grassa, dagli occhi piccoli e privi di pupille. Felice, aprì la sua enorme bocca lasciando a penzoloni la sua grande lingua bavosa.

“Lo sento! Lo sento! È l’odore dell’Ishvaliano che non sono riuscito a mangiare!”

Si riferiva a Scar. Il tatuaggio a forma di uroboro sulla lingua della creatura non lasciava alcun dubbio. Era un homunculus.

Disgustato e spaventato, indietreggiai per nascondermi dalla sua vista sul tetto, anche se era un’azione priva di senso dato l’apparente olfatto super sviluppato del nemico.

Ling e Lan Fan invece non fecero della loro presenza un segreto, e si rivolsero spavaldi a homunculus e generale supremo.

“Quante anime umane hai dentro?” Chiese Lan Fan a Gluttony, il quale si limitò a guardarla come un bambino confuso.

“Puoi vedere ciò che ha dentro Gluttony? Impressionante… che abilità fastidiosa. Meglio liberarsene subito.” Affermò il generale supremo, estraendo le sue spade.

Lan Fan lo guardò con sufficienza.

“Non abbiamo alcun interesse nel batterci con degli uma…”

In un lampo, il generale supremo salì sul tetto a una velocità tale che gli permise di raggiungere Lan Fan correndo sulle pareti, sferrando due fendenti micidiali che fecero a pezzi la maschera della ragazza e ferirono gravemente il suo braccio sinistro. Lan Fan reagì giusto in tempo per evitare di essere decapitata dal comandante supremo.

“Lan Fan!”Urlò a squarciagola Ling, recuperando il corpo ferito della sua servitrice il più rapidamente possibile.

Ora eravamo tutti sul tetto. Generale Supremo, homunculus Gluttony, i due aiutanti da Xing, e io, che non riuscivo a credere ai miei occhi.

“Oh, caporale Adler. Che arguta coincidenza trovarti qui. Già che ci sei, potresti aiutarmi a giustiziare questi due migranti illegittimi?” Non riuscivo a comprendere se King Bradley stesse usando la sua autorità per intimorirmi, o si prendesse gioco di me.

“Signor comandante supremo… perché collabora con quelle creature?” Eppure lo avevo già sentito. Sapevo che i gradi alti dell’esercito erano corrotti, ma non immaginavo niente di quella scala.

“Mh… capisco quindi hai sentito degli homunculus… Ti darò una spiegazione approfondita a battaglia terminata.”

“No.”

Presi tutto il coraggio che ebbi in corpo ed estrassi la mia spada.

“Comandante supremo King Bradley, lei è un traditore di Amestris. Per il bene del paese, e per il bene del colonnello, mi prenderò la sua vita qui e ora.”

Impregnata dalla paura, la mia lama si appesantì, ma fu la mia devozione a tenerla rigida e salda verso il nuovo nemico.

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Capitolo 13
*** 13-Homunculus ***


Capitolo 13: Homunculus

 

Il comandante supremo mi guardò un’ultima volta, arido e freddo. Non mi chiese ulteriori spiegazioni e nemmeno provò ad imporsi, nell’istante in cui gli puntai contro la mia spada ero divenuto un nemico anche io. Un ammasso di carne che lo avrebbe ostacolato a fatica, una creatura così patetica che non si meritava ulteriori attenzioni o parole. Per questo il suo occhio si spostò subito su Ling, che sorreggeva Lan Fan ferita.

Così come ferì Lan Fan, si avventò sui due pronti a finirli con due fendenti fulminanti.

Ma nemmeno una goccia di sangue fu versata.

Questo perché intercettai Bradley con la mia spada, parando il colpo.

Subito estrassi la mia seconda spada, e tirai un affondo che l’uomo, nonostante la sua veneranda età, schivò egregiamente.

“Non male.”

Commentò, con un pizzico di sorpresa alla mia reattività.

Mi guardai nei dintorni, qualcosa mancava.

Gluttony.

“Ling! L’homunculus si sta dirigendo verso Scar!”

“Lo so! Ma non posso lasciare Lan Fan in queste condizioni.”

In un istante mi ritrovai a parare l’ennesimo fendente di Bradley. Un forte suono metallico venne rilasciato dallo scontro delle nostre spade.

“Parli mentre combatti? Sembra tu mi stia sottovalutando un po’ troppo, giovanotto.”

Con una movenza bizzarra disorientò i miei sensi e mi tirò un calcio dritto in pancia, che mi fece indietreggiare di alcuni metri. Rimasi in piedi, doveva avermi rotto qualche costola.

Nemmeno il tempo di processare il dolore che mi ritrovai tra le sue lame acuminate, mi concentrai sullo schivarle, ogni volta che Bradley muoveva le sue else, era sempre pochi centimetri dal fendermi un organo vitale o tagliarmi la gola. Di quel passo mi avrebbe sopraffatto. Una volta con le spalle al muro, mi feci strada tra le sue spade con le mie, riacquistando “terreno”.

“Ling, procedi col piano. Se Lan Fan riesce a camminare può venire con te, il colonnello ha una macchina, la porteranno in un posto dove trattare le sue ferite. Al comandante supremo ci penso io.”

Dissi, lanciando una provocazione a vuoto.

“Quindi era un vostro piano, eh. Interessante.”

Ling digrignò i denti, ma alla fine seguì le mie indicazioni. Prese Lan Fan con entrambe le braccia e saltò via dal tetto.

Certo, non prima che il comandante supremo tentò nuovamente di farlo a fettine. Avendo anticipato la sua mossa, mi lanciai su Bradley con tutto il mio corpo, spingendolo e cadendo dal tetto con lui.

Fummo entrambi abbastanza agili da aggrapparci alle finestre dell’edificio su cui stavamo in precedenza. Bradley mi cacciò una delle sue spade con una mano mentre con l’altra risalì dal davanzale ed entrò all’interno dell’edificio.

Fermai la lama della spada lanciatami contro con i miei arti inferiori, bloccandola tra le suole delle scarpe per poi lasciarla cadere di sotto, infine risalii anch’io dentro la stanza disabitata attraverso la finestra.

Alla mia ultima prova di agilità e destrezza, Bradley si complimentò seccato.

“Mustang ti ha trovato in un circo?”

“Non faccia tanto il modesto. Che razza di uomo della sua età si muove a quelle velocità?”

“A dirla tutta, l’età si fa sentire. Certo, son comunque sorpreso di sapere dell’esistenza di umani capaci di intercettare i miei colpi.”

Il comandante supremo non si lasciò sfuggire un attimo di distrazione per riattaccarmi con rapidità folgorante alla gola. Nuovamente riuscii a bloccare il suo colpo, stavolta avevo pure una spada di vantaggio alla sua.

Il nostro combattimento riprese ancora più focoso di prima, lo scontro delle nostre lame generava una melodia metallica inarrestabile. Usavamo tutto il nostro corpo, ogni centimetro dell’ambiente che ci circondava per mettere in difficoltà l’altro, ma le nostre forze sembravano annullarsi a vicenda.

Col fiatone, stavo sull’offensiva.

“Mhh. Lo riconosco. Sei forte, giovane uomo. Hai attirato la mia curiosità. Dimmi come fai. Come riesci a schivare i miei colpi fulminei?”

“Pff.”

Ridacchiai.

“Fulminei? Certo, sei velocissimo. Son sicuro che da giovane mi avresti distrutto. Ma non sei più veloce delle scintille del colonnello!”

A quelle parole, il comandante supremo fece un sorriso beffardo che rapidamente si tramutò in una risata che gettò i miei occhi nella confusione.

Le risate dovrebbero esprimere gioia. Ma la sua era un suono vuoto e triste.

“Cosa c’è di tanto buffo?”

“Bene, dato che qui non può vederci nessuno, e in ogni caso morirai a breve, ti mostrerò qualcosa di interessante.”

Il comandante supremo si posò delicatamente la mano sul suo occhio sinistro, rimuovendone la benda.

Indietreggiai.

Ciò che apparve nella sclera, fin all’ora coperta, non era un occhio ma un uroboro rosso sangue.

Il simbolo degli homunculus.

La mia faccia assunse un’espressione inorridita e spaventata.

“Perché tanto scalpore? Non siamo così diversi tu ed io.”

“Che diavolo dici. Eccome se lo siamo, mostro!”

Mi rimisi in guardia, stavolta più guidato dall’istinto di sopravvivenza che altro. Una specie di sorriso mi apparve in faccia, forse per l’adrenalina, o forse perché in parte ero davvero felice di quella recente scoperta.

“Che mossa stupida è stata quella di rivelarti a me. Ora, King Bradley, sempre sia questo il tuo vero nome, morirai qui e adesso! Per il colonnello! Giuro sulla mia vita che non ti lascerò andare!”

Piombai verso di lui sferrando due fendenti, uno che potesse mozzargli il braccio destro e l’altro il sinistro.

Ma colpii l’aria. In un attimo l’homunculus era alle mie spalle e mi ritrovai a parare i suoi attacchi. Quando cercai di colpirlo nuovamente con svariati affondi alla testa tutti andarono a vuoto, come in precedenza, fui io quello che dovette stare sulla difensiva.

“Come?”

In poche mosse, il duello che stavo combattendo dignitosamente stava per trasformarsi in un massacro a senso unico.

“Ti trovo confuso, caporale. Non volevi forse uccidermi per salvare il tuo colonnello?”

“Dannato bastardo!”

Mi voltai frustrato cercando di decapitarlo, ma colpii il muro.

La mia spada lasciò una lunga striscia sulla parete, sull’istante pensai che quella era la mia occasione. Sfruttai la polvere rilasciata da quel vecchio muro per lanciarmi a capofitto su Bradley. Ma la punta della mia spada, colpì nuovamente l’aria.

“Ti servirà più di qualche granello di polvere per acciuffarmi.”

Usai il suono delle sue parole per cercare di comprendere da dove sarebbe arrivato il suo attacco, ma il meglio che potei fare fu deviarlo per evitare di restare impalato. Mi lacerò la spalla sinistra.

La macchia di sangue che sporcò la mia uniforme si espandeva lentamente.

“Arrenditi, cane di Mustang. Se fai da bravo ti concederò una morte rapida e indolore.”

Una volta ferito, le possibilità che avevo per colpirlo si erano azzerate. Realizzai troppo tardi ciò che faceva l’enorme differenza fra di noi. Il suo occhio a forma di uroboro doveva avere qualche tipo di capacità innata che gli permetteva di evitare tutti i miei colpi. A malincuore, accettai che non sarei riuscito mai ad ucciderlo. Però, c’era ancora qualcosa che potevo fare per il colonnello. Sarei sopravvissuto all’incontro e gli avrei detto che il comandante supremo è un homunculus. Ci saremmo riorganizzati per gestirlo. Sapevo del suo potere, e gli avevo portato via del tempo. Non stavo tornando a mani vuote.

Rinvigorito dal mio nuovo obbiettivo, cercavo con gli occhi una via d’uscita e pensavo ad un modo per eludere Bradley. Curiosamente quest’ultimo mi ingaggiò in una conversazione dopo avermi fissato a lungo.

“Ripensandoci, il termine “cane” non ti dona troppo. Il cane è un animale intelligente seppur fedele, che non si affeziona facilmente a un pessimo padrone. Già, più che un cane, sei il burattino di Mustang, ho ragione?”

L’homunculus giocava con la mia mente, ed io, cedetti a ogni sua singola provocazione.

“Che ne sai di cosa c’è tra me e il colonnello? Anzi! Che ne sai tu degli umani. Sei una specie di mostro umanoide, ma niente di più.”

“Può darsi. Ciò non toglie che sotto molti aspetti siamo simili. Ho pur sempre vissuto i miei sessant’anni conoscendo e uccidendo svariati tipi di umani, quindi te lo dico con assoluta certezza.”

La sicurezza nelle sue parole faceva vacillare la mia calma.

“Potrai fare a pezzi il mio corpo quanto ti pare, ma se credi di poter giocare con i miei sentimenti per il colonnello, non illuderti, sono fuori dalla tua portata.”

Bradley sorrise nuovamente.

“Sentimenti?”

Il tono con cui lo disse mi scosse il cuore.

“Vedi, alla fine sei come me, cresciuto per essere un'arma. Tuttavia, io non rinnego il ruolo che mi è stato dato, anzi, lo accetto con fierezza. Tu lo ripudi e colmi il vuoto con sentimenti di onore e amore fasulli.

Questo perché sei uno sfortunato piccolo umano che non si è reso conto di aver perso tutti i suoi diritti, e io un homunculus, una creatura superiore.

Quale padre cresce il proprio figlio istigandolo a schivare le sue scintille esplosive, e quale figlio si innamora del padre?

Il burattinaio e la marionetta.”

L’homunculus fu interrotto da un forte lampo luminoso. Di colpo l’intera stanza fu travolta dalla luce generata da una delle mie granate stordenti.

Quando l’homunculus riaprì gli occhi, di me non vi era alcuna traccia.

Son sicuro che mi vide, nel vicolo sottostante correre per la mia vita, sorreggendomi il braccio sanguinante.

Ma non mi inseguì.

 

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Capitolo 14
*** 14-Bosco ***


Capitolo 14: Bosco

 

Correvo. Tra la vegetazione e i cespugli, le foglie cadute si rialzavano dal loro sonno insieme alla corrente lasciata dalla mia corsa a perdifiato. Per raggiungere il nascondiglio in cui mi attendevano il colonnello e gli altri, passai dritto per il bosco evitando i sentieri e le strade. La distesa di alberi si espandeva in una grande collina disabitata, presto avrebbe fatto buio pesto, quindi correvo come un cerbiatto impazzito. Pensai.

Una forte fitta alla spalla sinistra mi fece perdere l’equilibrio, e caddi rotolando per svariati metri in un punto più scosceso degli altri.

Fu allora che realizzai di star scappando dai miei stessi pensieri.

Mi rialzai, sorreggendomi la spalla ferita dalla mia precedente battaglia con il comandante supremo.

Le parole dell’uomo mi tornarono in mente.

“Il burattinaio e la marionetta.”

“Non è vero.”

Me lo ripetevo. Ma un forte senso di inquietudine cresceva dentro me. Il solo fatto che dovessi riaccertarmi della mia fiducia, era la prova stessa della mia insicurezza.

“Se Mustang ti causa così tanta sofferenza devi lasciarlo andare.”

“Non posso. Ogni mio muscolo mi è contrario, il mio cuore, la mia mente, il mio corpo bruciano per un suo gesto di affetto. Un tocco. Una carezza, Un abbraccio.”

Camminavo verso la mia destinazione trascinandomi il peso del mio amore infinito. Non ne comprendevo più la fonte e ciò mi faceva impazzire.

“Come posso lasciarlo andare, Keith? Mi sento di esser vivo solo vicino a lui.”

“Questo perché sei la sua bambola.”

La voce dell’homunculus invadeva i miei pensieri come una specie nociva.

“Puoi esistere solo attraverso i fili che ti controllano, ma lui può comunque romperti e lasciarti a prendere la polvere a suo piacimento. Quando gli servirai di nuovo, gli basterà tirare quei fili per riaverti in pugno.”

“Sta zitto!” Urlai a squarciagola, estraendo una delle mie spade e lacerando la corteccia di un albero accecato dalla frustrazione.

Quell’azione avventata mi causò un forte dolore alla spalla, costringendomi sulle ginocchia.

Forse fu il dolore a farmi recuperare lucidità.

Ripresi il mio cammino.

Quando il sole era ormai calato, arrivai finalmente a destinazione. Da lontano osservai le luci di una baracca in legno con una macchina parcheggiata nei dintorni. La tenente Hawkeye stava fuori di guardia. Sembrava che il piano fosse riuscito.

Una parte di me fantasticò sul girarmi di spalle e sparire per sempre tra i boschi. Mi avrebbero dato per morto, e il dolore della mia scomparsa mi avrebbe fatto vivere nel cuore del colonnello per sempre. Mi lasciai indietro quegli sciocchi pensieri, e approcciai la tenente.

“Tenente.” Salutai.

“Ner- cioè caporale Adler. Ce l’hai fatta.”

“Deduco che anche voi ve la siate cavata.”

“Forza, entra dentro. Verrai medicato e farai rapporto direttamente al colonnello.”

Mi avviai verso la porta celando le mie ansie e timori.

Forse la tenente le avvertì, ma decise di non dire nulla.

Gli interni della casa erano di un legno polveroso e marcio in alcune parti, era davvero una casetta abbandonata. Dentro vi erano tutti: I fratelli Elric, Ling, la povera Lan Fan che riposava nell’unico letto, e il colonnello.

Quest’ultimo al mio ingresso mi venne subito incontro.

“Non ho parole per descrivere la tua insubordinazione. Che diavolo ti è saltato in mente?!”

Non ebbi nemmeno il tempo di spiegarmi, o chiedere scusa o cos’altro, che il colonnello mi strinse in un lungo abbraccio.

Fu un caldo abbraccio silenzioso. Sciolse i mostri che infestavano il mio cuore.

Distaccandosi lentamente, mi tenne entrambe le mani sulle spalle, notando che quella sinistra era sporcata dal sangue.

“Knox! Qui ho un altro ferito.”

“Che diavolo, Mustang. Fa vedere qua.”

Finalmente scoprii l’identità dell’ex commilitone del colonnello, il dottor Knox. Fu lui a medicare Lan Fan. Era un uomo di mezza età dai capelli neri, brontolava spesso perché ormai era più abituato a lavorare sui cadaveri che sui pazienti in vita.

“L’entità di questa ferita è simile a quella della ragazza. Pure la zona è simile.”

“Abbiamo combattuto lo stesso uomo. Il comandante supremo King Bradley.”

Il dottore mi guardò incredulo, mentre i fratelli Elric mi chiesero ulteriori informazioni.

“Quindi è vero… il vecchio collabora con gli homunculus.”

“No.” Interruppi Edward.

“Il vecchio è un homunculus.”

Scioccati, Ling si alzò dalla sedia facendola cadere, mentre Edward aggrottò le sopracciglia preoccupato. Il colonnello non disse nulla.

“Non è possibile. Io e Lan fan non abbiamo percepito niente di strano in lui.”

“Me lo ha confermato lui stesso. Inoltre, tiene la sua benda per nascondere il suo tatuaggio a forma di uroboro dentro l’occhio!”

Avevo l’attenzione di tutti i presenti della stanza, quindi condivisi il più informazioni possibili.

“Il suo occhio ha il potere di eludere e prevedere ogni attacco, come se avesse dei super riflessi! Son riuscito a sopravvivere solo perché l’ho colto di sorpresa con una granata stordente.”

“Però… Il comandante supremo ha un figlio. Per quanto ne sappiamo gli homunculus non possono riprodursi.” Puntualizzò Alphonse.

“Selim Bradley… è un figlio adottivo.” Ammise incredulo il dottor Knox.

A un certo punto, parlò il colonnello, con gli occhi carichi di adrenalina.

“Homunculus o meno, questo mi aiuterà a strapparlo dalla sua posizione.”

Una volta sistemato il mio braccio, chiesi di aggiornarmi sui risultati del piano. Appresi che dopo una feroce battaglia, Scar era nuovamente scappato, e come da me predetto, non si muoveva da solo. Gluttony, invece, fu catturato con successo.

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Capitolo 15
*** 15-Ponte ***


Capitolo 15: Ponte

 

Cedendo alla curiosità, andai a vederlo.

Rannicchiato in un’altra stanza della baracca, vi era la figura grassa e pelata di Gluttony. Fu legato con delle salde corde d’acciaio. Emetteva solo alcuni mugolii, a vederlo così indifeso pareva un sacco di carne stretto nel metallo come un salame.

“Ci siete riusciti davvero...”

Il colonnello e il dottor Knox si affiancarono a me.

“Sì. È il premio più grande di quest’impresa.”

“Aggiornami, Mustang. Non ho ben capito che ha di speciale questa creatura.”

“È un homunculus. Un umano artificiale immortale… beh, a dirla tutta muore se lo uccidi abbastanza volte. Inoltre ha una pietra filosofale al suo interno. La cosa peggiore, è che questi esseri sembrano essersi infiltrate nei piani alti dell’esercito.”

Al sentire il nome del colonnello, i gemiti dell’homunculus si facevano più frequenti e rabbiosi.

“Colonnello, credo ce l’abbia con lei.”

Un sussurro che gelava il sangue fuoriuscì dal mostro imprigionato.

MUSTANG… HAI UCCISO LUST… MUSTANG.”

Le braccia grosse e carnose di Gluttony si gonfiarono di rabbia, le corde d’acciaio iniziarono a cedere sopraffatte dalla sua espansione.

MUSTANG

TI FARÒ

SPARIRE… !”

I due fratelli Elric accorsero subito per rafforzare le corde, ma ormai era troppo tardi.

La creatura una volta liberatasi si rimise su due gambe e attraversò una macabra trasformazione. Le sue costole uscirono dal ventre e il suo intero torso si aprì come una grande seconda bocca, dentro la quale, un inquietante occhio grigio fluttuava nel vuoto.

Inconsapevoli di cosa ne sarebbe uscito fuori, ci allontanammo tutti da lui.

Dalla sua seconda bocca cacciò un vortice che aprì un enorme buco nella parete, distruggendo interamente la stanza in cui si trovava e cogliendo di sorpresa la tenente Hawkeye che faceva da guardia fuori.

MUSTANG!”

Uscimmo tutti dalla casa, crollante per colpa della furia di Gluttony.

Il colonnello si mise i suoi guanti senza esitare un secondo.

“Colonnello, che fa?!” Gli urlò Ling.

“Se non possiamo ricavare informazioni da lui o sottrargli la pietra filosofale, non possiamo lasciarlo andare vivo. Conosce i nostri nomi e le nostre facce.”

Schioccò le dita avvolgendo Gluttony in un’intensa fiammata.

Ma le fiamme non durarono molto. L’homunculus le risucchiò nel suo ventre, senza subire alcun danno.

Gluttony si preparò a rispondere al colpo, ma fu interrotto da alcuni colpi di pistola sparati dalla tenente, gli forarono la testa e diedero a tutti il tempo di riposizionarsi fuori dal raggio d’azione dell’homunculus.

“Le mie fiamme-…”

“Oh, al diavolo. Io me ne vado.”

“Ottima idea, dottore. Prendete i feriti e andatevene, la macchina è ancora intatta. A Gluttony ci pensiamo noi.”

Ling Xiao, Edward e Alphonse si fecero avanti.

Ling voleva restituire il favore che gli feci affrontando Bradley, e voleva assicurarsi che Lan Fan lasciasse il campo di battaglia. I due fratelli erano ancora determinati a comprendere la natura degli homunculus, nella speranza di ottenere indizi sul come recuperare i loro corpi originali.

“Assurdo. Dovrei lasciare tutto in mano a dei ragazzini?”

“Colonnello, è lei che vuole. Restando qui ci sarebbe solo d’intralcio.” Constatò Edward.

“Ma-”

“Inoltre le sue fiamme sono inutili.”

“Però-”

“Ha ragione.”

“Tenente, pure tu?”

Un abbattuto colonnello fu costretto ad accettare la nuova disposizione.

Nel frattempo, le ferite di Gluttony si rigenerarono, e tornò in azione.

“Va bene, lascio a voi questa bestia. Non morite!”

Io, il colonnello, il dottore, la tenente e Lan Fan salimmo tutti in macchina. Stavamo stretti come sardine. Il dottore alla guida, nonostante disertore da anni, era ancora un ottimo guidatore e in pochi secondi fummo lontani dal luogo dello scontro, correndo a tutta velocità su una strada abbandonata.

In macchina vi era un silenzio assordante. Eravamo tutti stanchi e preoccupati. Nonostante ciò, il colonnello ci fece tesoro della sua esperienza, mantenendo i nervi saldi e illustrandoci il da farsi.

“Dobbiamo evitare che Lan Fan e Nero re-incontrino il comandante supremo. Ovviamente il nonno di Lan Fan verrà a riprenderla, mentre tu caporale dovrai restartene nascosto per un po’. Posso assumere di poter usare la tua casa, Knox?”

Feci un cenno d’intesa al colonnello. Il dottore ormai non aveva la forza di opporsi all’insistenza con cui il colonnello lo metteva in mezzo ai suoi piani, fece un sospiro rassegnato.

Il colonnello continuò.

“Il mio ordine di priorità è stanare i complici di Bradley…”

Tuttavia, le sue parole si fecero pian piano sempre più lontane.

Nell’istante in cui la macchina si ritrovò ad attraversare un vecchio ponte, ebbi una terribile sensazione.

Un flash accecante mi investii, per alcuni secondi le mie orecchie fischiarono e non vidi più niente, se in un attimo stavo seduto nel sedile dell’automobile, nell’altro mi ritrovai a precipitare nel vuoto, il braccio che riuscivo a muovere meglio si aggrappò per puro caso a qualcosa di indefinito e appuntito. Mi ci vollero una manciata di secondi per capire cos’era successo. Un’esplosione fece cedere la parte centrale del ponte e ridusse la macchina in un ammasso di ferraglia in fiamme. Riuscimmo tutti a uscire dall’automobile prima che questa divenne una gabbia infernale, ma non senza ritrovarci feriti e spaesati.

Guardai in alto. Una montagna di fumo nero si ergeva in cielo.

Come quel giorno.

Non riuscivo a muovermi. Il mio corpo era pieno di ustioni e tagli e avevo un solo braccio utile.

Notai che coloro che stavano ai primi posti furono più fortunati.

Lan Fan rimase illesa, per fortuna. Ma era ferita già da prima dell’esplosione.

Il dottore aveva le gambe bruciate e non riusciva a reggersi in piedi.

Il colonnello era incolume, forse fu colui che spinse Lan Fan fuori dalla macchina.

Mancava qualcuno all’appello.

Guardai alla mia destra.

In posizione quasi speculare alla mia.

La tenente si sorreggeva con una mano ai resti del ponte decadente.

Era piena di ferite e ustioni sanguinanti, il suo braccio destro pareva inutilizzabile.

Un secondo boato scosse l’intero ponte. Il motore della macchina era appena esploso, le vibrazioni indebolirono la mia presa. Sotto ai miei piedi, uno strapiombo di cui non si vedeva la fine, dalle ripide pareti armate di rocce acuminate.

“A...aiuto” Non riuscii a udire la mia stessa voce.

Alla fine, il mio appiglio si frantumò. Il mio corpo precipitò nella bocca dell’inferno, mentre i miei occhi decisero di donarmi un ultimo triste ricordo da portarmi con me nel mondo dei morti.

Quello di una mano che ne sorreggeva un altra.

Per lei, lui arrivò giusto in tempo.

Per la tenente Hawkeye, il colonnello Mustang sarebbe sempre arrivato in tempo.

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Capitolo 16
*** 16-Gridi d'etere ***


Capitolo 16: Gridi d’etere

 

La pioggia cadeva sul suo corpo freddo e sanguinante. Sulle larve ne divoravano le carni lacerate. Sui capelli che umidi cadevano sugli occhi coprendone lo sguardo.

Il cielo piangeva, come per mascherare le lacrime del ragazzo agonizzante. Il cielo urlava come per soverchiare i suoi singhiozzi.

 

Dopo aver aperto gli occhi, la prima cosa che vidi fu un cielo nuvoloso. Cercai di alzarmi, ma fui trafitto da un dolore straziante, e mi resi conto di aver mezzo corpo sepolto in un misto di fango e sangue. Un torrente doveva avermi trasportato inconscio in quella palude.

Non riuscivo a muovere le braccia, in quel momento erano come pesi agganciati al mio torso sanguinante. Però sentivo uno strano prurito alla spalla sinistra.

Quando mi voltai per capire di che si trattava, non riconobbi il mio braccio sinistro.

 

Era un marciume molle e arrossato. La ferita nella mia spalla si era aperta come una voragine nella quale si insidiarono vermi e larve.

Mi salì un conato. Ma poi ripensai a un consiglio di sopravvivenza che mi diede il colonnello. A volte le larve possono essere utili in quanto mangiano i tessuti morti delle ferite, forse non era la fine del mondo.

 

Appena pensai al colonnello, mari di lacrime bagnarono il mio viso.

 

“Perché… Perché… sto piangendo?” Mi domandai, mentre la mia coscienza si faceva sempre più fievole. Le memorie dell’incidente riaffiorarono.

“Eppure lo sapevo… sin da allora. Sin dall’inizio, sapevo avresti scelto lei sopra di me. In ogni cosa.”

Iniziò a piovere. Un lampo rischiarò il cielo, l’unica compagnia che mi rimase in quel momento.

“Pensavo di essere preparato a una situazione simile. Ma ora che vengo ai fatti…”

Lasciai affondare il mio corpo in quell’umida pozza di fango e sangue.

 

"Se senti ancora qualcosa dentro che ti spinga-"

"Sta zitto."

"....verso una nuova meta... perseguila. Corri e non guardarti indietro. Siamo fatti così."

 

“La mia meta eri tu.”

La mia voce si spezzò. Urlai. Piansi a dirotto. Mi rivoltai nel fango come un misero verme.

La verità era che la scelta del colonnello mi ferì più di qualsiasi atrocità subita il mio corpo.

Marchiati in me umiliazione e rifiuto.

Fui travolto da una sensazione di bruttezza dentro e fuori di me, percepii qualcosa di così grottesco alla vista che volevo solo morire e sparire per sempre, trascinandomi quell’orrore con me.

 

Con una risata da forca, pensai a quanto fosse stata patetica la mia vita.

 

Ma sentii anche qualcos’altro.

 

Nelle profondità del mio animo, fu come un neonato indenne in un campo di battaglia devastato.

Ancora troppo piccolo per essere qualcosa di definito. Ma forte giusto abbastanza per darmi una direzione in cui andare.

 

Mi rialzai. Caddi nuovamente nel fango.

Mi rialzai ancora, e ancora.

Fin quando finalmente riuscii a stare in equilibrio.

Fare un passo era come essere trafitto da mille spade.

Se il mio braccio sinistro era marcio e inutilizzabile, realizzai che l’unica cosa che teneva connesso quello destro alla mia spalla erano alcuni muscoli e lembi di pelle.

Non importava.

Anche se le braccia mi penzolavano dalle spalle.

Anche se camminare mi causava un dolore indescrivibile.

Anche se il mio cuore era in frantumi.

 

“Colonnello, la sento ancora.

Forse qui, molto in fondo, qualcosa è sopravvissuto.”

 

Non sarei morto in quel posto.

 

Camminai, e camminai. Sapevo che non mi rimaneva molto, a breve sarei svenuto per anemia.

L’aria era umida e nebbiosa.

Non so quanto tempo passò, ormai ne avevo perso la percezione.

 

Ma poi, finalmente, notai delle fioche luci attraverso la nebbia.

Cercai di correrci contro, e ciò mi risultò più facile perché sentii il mio corpo alleggerirsi di punto in bianco. Confuso, mi guardai alle spalle, e realizzai.

Il mio braccio destro si era staccato del tutto, sparendo nel fango.

 

Forse quella fu l’ultima goccia.

Cercai di gridare aiuto, consapevole di star per svenire.

L’ultima cosa che cercai di fare fu sorreggermi a un albero, poi, il nulla.

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Capitolo 17
*** 17-Meccanico ***


Capitolo 17: Meccanico

 

Una voce lontana e ovattata iniziò a disturbare il mio lungo sonno. Poco alla volta, riguadagnai coscienza sul mio corpo inerme. Sentivo le mie spalle e il mio torace stretti nelle bende e le soffici lenzuola che vi stavano sopra. La mia bocca era così arida che la lingua mi si era incollata al palato.

Quando cercai di aprire gli occhi, la luce accecante sfocò ciò che mi circondava per qualche secondo, e tutto ciò che riconobbi fu il letto.

“Calma, calma. Non puoi ancora alzarti del tutto.”

Fui accolto dalla gentile voce maschile di una figura controluce.

Non mi era tornata la sensibilità alle braccia, quindi mi aiutò nel goffo tentativo di sollevarmi dal cuscino. Mi mise un altro cuscino dietro le spalle per tenermi comodo.

“Ecco, bevi piano.”

Portò una borraccia d’acqua alle mie labbra. La bevvi tutta, con calma.

“Bene. Avrai anche molta fame, ti porto qualcosa.”

Col tempo, ripresi a vedere in maniera nitida. Mi trovavo in una stanza dotata di una singola finestra e alcune casse in giro. Il soffitto era in legno e pure muri e pavimenti sembravano realizzati in materiali poveri. Era un’umile dimora, ben diversa dalla villa degli Armstrong, o anche dalla mia casa a Central City.

La persona di prima tornò attraverso una rudimentale porta in legno. Ora potevo coglierne meglio l’aspetto. Era un uomo dalla carnagione mulatta, i suoi tratti più distintivi erano la sua barba incolta e una piccola cicatrice sullo zigomo. Aveva dei bellissimi capelli bruni e ricci che cadevano appena sui suoi occhi scuri e gentili.

Sorreggeva una ciotola con dentro della zuppa.

“Scusa. Probabilmente ti aspettavi qualcosa di più sostanzioso… Mh, forse è rimasto del pane che puoi bagnarci dentro.”

Guardai l’uomo, in silenzio. Era tutto così nuovo e confuso, mi scoppiava la testa.

“Tu… mi hai salvato?”

L’uomo sollevò le sopracciglia, realizzando qualcosa.

Si sedette a letto, vicino a me, poggiando la zuppa sulle sue ginocchia.

“La tua mente dev’essere un bel macello al momento, non ci ho pensato. Ero così abituato ad averti a casa che… son uno sciocco.”

Si grattò la testa e ridacchiò.

“Ti racconterò tutto quando ti sarai svegliato per bene, perché ora non pensi solo a riempirti lo stomaco?”

Mi sorrise, porgendomi la zuppa.

Le mie braccia erano fasciate dalle mani fino alle spalle, in un bendaggio che si univa al torace.

Cercai di prendere la ciotola, ma nessuno dei miei arti superiori si mosse di un millimetro. Era come se ne potessi vedere la forma senza percepirne la presenza.

“Oh già… quelle… hanno una storia tutta loro. Ti aiuto io.”

L’uomo avvicinò la ciotola alla mia bocca, come fece in precedenza con la borraccia. Ingerii la zuppa a piccoli sorsi. Poi uscì un tovagliolo dalla sua tasca, e mi pulì ciò che rimase attorno la bocca.

La zuppa era calda e densa, non ero il più grande fan delle lenticchie, ma non ero nella condizione di fare lo schizzinoso. Potevo solo essere grato all’ospitalità e gentilezza gratuita che quell’uomo mi offriva. Anche se non lo conoscevo, non avevo fretta di sapere.

Mi sentivo al sicuro.

 

Tuttavia…

Tuttavia, qualcosa mi tormentava. Qualcosa a cui non stavo prestando la dovuta attenzione.

Mi guardai il braccio destro. E la mia inquietudine crebbe tanto da farmi sudare freddo.

 

Io avevo perso quel braccio.

 

Cercai di togliermi le bende con la bocca. Coi denti toccai qualcosa di duro e gelido.

“Ehi, calma. Non fare movimenti così bruschi.”

“Toglimele. Toglimi queste bende! ”

L’uomo abbassò lo sguardo, sapeva che se non avesse esaudito la mia richiesta mi sarei dimenato rischiando di farmi male.

Con delicatezza, ogni benda cadde leggiadra rivelando una ad una un aspetto diverso delle mie nuove “braccia.”

Erano arti protesici di metallo rinforzati, conosciuti ad Amestris col nome di “automail.”

Non ero nuovo al concetto di automail. Edward Elric ne portava uno al braccio e la gamba.

Dalla spalla in giù le mie braccia erano ora complesse protesi di metallo collegate direttamente ai miei nervi. Imponente ne osservavo la luccicante struttura sia spaventato che ammaliato.

Erano forse quelle le braccia di chi si era reso schiavo dell’amore? Le braccia artificiali di una bambola dal cuore meccanico. Le braccia che mi meritavo.

 

-

 

Qualche ora dopo mi calmai, e fui pronto per sentire l’intera storia. Appresi che l’uomo che mi ospitava si chiamava Amon e, a quanto pare, avevo dormito a casa sua per tre giorni.

“Quando ti trovammo, per il tuo braccio sinistro non c’era niente da fare. Però non è stato amputato invano. Lo abbiamo usato per stabilire che forma dovessero avere i tuoi automail. Questa fu la tua prima fortuna. La seconda, è che eri completamente inconscio, quindi ti sei evitato il dolore brutale che causa la connessione diretta dei nervi all’automail.”

Amon mi spiegava tutto con un tono pacato e gentile.

“Ciò che non capisco è perché? Gli automail costano, e sarei sopravvissuto comunque senza entrambe le braccia. Perché ti sei spinto a tanto per me, uno sconosciuto?”

Guardai Amon dritto negli occhi, questo si stiracchiò e mi rispose.

“Mi andava.”

La sua risposta mi lasciò scioccato.

“Non mi sembri un uomo benestante. Quest’investimento ti sarà pesato, per caso pianifichi di farti ripagare in qualche modo?”

“Nessuna assurdità simile! Tu non mi devi niente.”

Si alzò dal letto, camminando per la stanza con le mani fra i capelli.

“Perché ti pare così assurdo?”

Prima che potessi rispondere, fui interrotto dal pianto di un neonato, proveniva da un’altra stanza. Amon accorse subito a occuparsi del piccolo, facendomi cenno di aspettare.

L’uomo tornò nella stanza sorreggendo il pargolo, confortandolo fra le sue braccia con immensa dolcezza, come se fosse la cosa più delicata del mondo.

Il bambino smise man mano di piangere, mentre Amon gli canticchiava una ninna nanna e lo carezzava. Una volta calmatosi, il pargolo si addormentò, con la pace di un albatro cullato dalle onde dell’oceano.

Amon lo strinse a se.

 

Riflessi nei miei occhi, li riempirono di tristezza.

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Capitolo 18
*** 18-Quiete ***


Capitolo 18: Quiete

 

“Il nostro villaggio a malapena appare sulle carte geografiche, non ha una gran storia da raccontare. Però se cerchi una vita tranquilla e panorami incontaminati mozzafiato, Ortjence non ti deluderà.”

“Certo… questo dipende da quanto decidi di restare. Noi non abbiamo mandato alcuna segnalazione del tuo ritrovamento, dato che sei un soldato di Amestris ho pensato che avresti preferito dettarmi tu il tuo rapporto una volta sveglio.”

“O-ovviamente non te lo dico per metterti fretta o simili, prenditi tutto il tempo che ti pare… Nero, giusto? I tuoi documenti erano tutti annacquati, ma ancora leggibili.”

“Wow, certo che non rendi le conversazioni facili… Spero di non essere troppo pressante.”

Le sue parole rimbalzavano contro un silenzio assoluto. Ora che ero vigile e cosciente, iniziavo a sentire il peso delle mie vicende. Racimolavo i miei pensieri come una pila di libri destinata sempre a cadere.

“Signor Amon. Non c’è bisogno di scrivere alcun rapporto. Non ho alcun posto in cui tornare.”

L’uomo mi guardò confuso, gesticolò come per dirmi di continuare a parlare affinché lui potesse afferrare meglio il concetto.

“Vede… ad essere completamente onesto, non ho idea di che fare della mia vita adesso.”

Amon si sedette vicino a me, sul letto.

“Non hai persone in pensiero per te? Non vuoi tornare alla tua vecchia routine?”

“Per come stanno le cose adesso, è impossibile. Sia il mio corpo che la mia mente rigettano questo prospetto. Non so cosa fare.”

L’uomo mise la sua mano sulla mia, metallica e fredda.

“Non ti va di parlarne? Magari sfogarti un po’ ti aiuterà a chiarirti le idee, o magari starai anche solo un po’ più leggero, per me sarebbe già una grande conquista.”

Per l’ennesima volta, risposi col silenzio. L’uomo sospirò e si alzò dal letto, poi in procinto di uscire dalla mia stanza mi parlò.

“Sappi che per me puoi restare quanto ti pare, e ti darò tutto il mio supporto. Difatti, domani iniziamo la riabilitazione per imparare a farti muovere le tue braccia nuove di zecca. Quindi non dormire fino a tardi! Se hai bisogno di qualcosa e io non sono a casa, puoi chiedere a Otis di chiamarmi.”

“Otis?”

“Il mio primogenito. È piccolo ma molto responsabile!”

Guardai Amon allontanarsi da casa attraverso la finestra. Camminava lungo uno stretto sentiero di campagna, attraverso infiniti campi di coltivazioni varie.

Rimasi nella mia camera in silenzio coi miei tormenti.

 

-

 

Dopo alcune ore, riaprii gli occhi in un sussulto. Realizzai che mi ero assopito e lo sguardo di alcuni occhi indiscreti mi aveva svegliato.

“Chi va là?” Domandai.

La testa di un bambino di circa dieci anni fece capolino dallo stipite della porta.

“Wah! Sono davvero metalliche!”

Il bambino rimaneva dietro la porta, nel suo sguardo innocente leggevo un misto di eccitazione e preoccupazione.

“Ma tu sei un robot buono o uno cattivo?”

“Non sono un robot.”

“Oh…”

A piccoli passi, sconfisse il suo imbarazzo ed entrò nella stanza, si avvicinò al letto e con un piccolo sforzo vi salì. Osservava con grande fermento i miei automail, i suoi grandi occhi castani brillavano increduli.

“Posso toccarle?”

Feci di sì con la fronte.

Al primo tocco, la mano del bambino si allontanò sorpresa.

“C-che fredde! Sono di vero acciaio!”

“Non so i materiali o la lega precisa.”

“La lega?”

“Una lega è una combinazione di due o più elementi di cui almeno uno è un metallo, il materiale risultante ha proprietà metalliche differenti da quelle dei relativi componenti.”

“Oh… è tipo… una specie di minestrone metallico?”

Fui sorpreso dalla capacità del bambino di afferrare il concetto, sebbene reinterpretato a parole sue.

“L’acciaio che prima hai nominato, è una lega tra il ferro e il carbonio.”

“Woah! Sai un sacco di cose! Per caso sei uno di quelli… come li chiamano- alchimistri?”

“No, non sono un alchimista. Questa è semplice chimica, son sicuro che te lo avrebbe insegnato tuo padre, all’evenienza.”

Il piccolo mi porse la mano, in segno di saluto.

“Io mi chiamo Otis. Tu sei Nero giusto? Papà mi ha detto di non disturbarti, ma a me sembri simpatico.”

“Non posso ricambiare la tua stretta. Non riesco ancora a muovere le braccia.”

“Ah, che peccato! Allora spero che tu ti rimetta presto.”

“Otis!”

La voce di Amon colse Otis di sorpresa, facendolo scendere dal letto in un lampo.

“Ti avevo detto di non disturbare il nostro ospite.”

L’uomo si avvicinò sospirando, poggiando la mano sulla testa del figlio.

“Nero sa un sacco di cose papà! Mi ha insegnato cos’è una lega metallica!”

“Ah sì? Guarda che lo so pure io!”

Amon scompigliò i capelli di Otis affettuosamente.

“Come stai Nero? Questo birbante non ti ha dato fastidio vero? Quando è curioso diventa inarrestabile.”

“Il bambino non è un problema.”

“Com’è andata oggi papà?”

“Bene, il frutteto se la cava.”

La voce dell’uomo conteneva un filo di stanchezza. Ad osservarlo, era sudato e sfibrato, ma intuii che cercava nascondere l’enorme fatica che gli portava lavorare i campi dal pomeriggio alla sera.

“Beh, io vado a farmi una doccia e poi si cena. Otis, controlla tuo fratello.”

“Sì, sì, lo so pa’”

In poco tempo si dileguarono tutti dalla mia stanza. Poi mi fu portata la cena, mangiai quasi tutto.

A notte inoltrata chiesi di stare solo, augurando sia a padre che figlio un buon riposo.

Inghiottito nel silenzio e sommerso dalle tenebre, parte di me desiderava dissolversi insieme al buio ed essere spazzato via col sole sorgente. In questo modo, di me sarebbero rimaste solo le lacrime.

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Capitolo 19
*** 19-Un fiore di vetro ***


Capitolo 19: Un fiore di vetro

 

Allungai le mie braccia verso la cesta di mele che mi porgeva Amon. Fu una movenza lenta e faticosa, alcune gocce di sudore mi scesero sulle tempie mentre digrignavo i denti. Una volta che piegai i miei arti per avere una presa migliore sulla cesta, alcuni suoni metallici e tintinnii fuoriuscirono dai miei automail senza promettere niente di buono. Amon accorse e rimosse alcune mele dalla mia cesta mettendole nella sua, alleggerendomi il carico.

“Ti trovi meglio così?”

“Sì. Grazie.”

Quella fu la mia seconda settimana di riabilitazione. In genere una riabilitazione completa per gli automail sarebbe dovuta durare tre anni, anche se riabilitazioni di un anno o anche meno erano state registrate. Nel mio stato attuale riuscivo a muoverle in modo limitato, mi sentivo come se avessi le braccia ingessate. Mi chiedevo se sarei mai riuscito a tornare a muovermi con l’agilità di un tempo, maneggiando le mie spade con manovrabilità fulminea e versatile.

Ma soprattutto, mi chiedevo per cosa avrei combattuto d’ora in poi.

Del resto, combattere era l’unica cosa che mi era stata insegnata, l’unica causa a cui mi dedicai.

Guardai le mele nella cesta. La loro buccia rossa come il sangue rifletteva i raggi solari di una giornata dal clima temperato, ottima per fare riabilitazione all’aperto senza surriscaldare i miei automail.

"Questa specie di mela è esclusiva del nostro villaggio. La coltiviamo da generazioni e può sopravvivere solo in cattività qui a Ortjence."

"È un re padrone del suo regno, coperto da una grossa campana di vetro. Tuttavia una volta messo un piede fuori, torna ad essere un pargolo alla stregua del mondo selvaggio."

"È-è un altro modo di porla, presumo.”

Amon osservò i miei occhi, spenti e stanchi. Il mio sguardo si perdeva con facilità in piccole cose, come ad esempio quelle mele, il riflesso del sole sulle mie mani metalliche, i vari insetti che ronzavano tra la vegetazione.

La strada di ritorno dal frutteto fu silenziosa, un po’ come l’andata.

"Nero, hai un fiore preferito? Potrei adornare la tua camera con qualcosa di carino, se lo coltiviamo."

"Nessun fiore in particolare mi attrae."

"Mhh, sempre dritto al punto. Ad essere onesto, nemmeno a me interessano molto i fiori. Tuttavia, mia moglie adorava i girasoli. Dicevano che le ricordavano il sole, quindi la luce e la vitalità. Sai, lei era molto malata. Nei suoi ultimi giorni, perse la vista. Mi chiedo se sperasse che una volta lasciato questo mondo, l’enorme piantagione di girasoli che abbiamo dietro casa avesse potuto consolarmi e ricordarmi delle memorie più luminose che ebbi con lei. Il nostro primo incontro, il nostro matrimonio, la nascita di Otis.”

Osservai l’uomo, che ormai aveva le guance bagnate da fiumi di lacrime.

“È vero, mi aiuta a tenerla viva nel mio cuore. Ma a volte, quando vedo quei fiori dorati danzare nel vento, l’insostenibile peso della sua assenza mi schiaccia.”

“Mi dispiace.”

Amon mi guardò, con la bocca mezza aperta dallo stupore.

“Hai perso anche tu qualcuno di importante?”

Mi presi del tempo per rispondere.

“No. Ma comprendo quella sensazione.”

L’espressione di Amon si ammorbidì.

“Permettimi di essere indelicato.”

“Oh, che strana richiesta da parte tua.”

“Perché?”

“Beh non mi è sembrato tenessi molto a come appari alla gente.”

“Tutt’altro. Sono stato cresciuto da un militare, la disciplina e le formalità non mi mancano.”

“Questo spiega… varie cose. Ad ogni modo, dimmi pure, non trattenere niente.”

Sospirai e poi parlai dal profondo del mio cuore.

“Vedi, non solo comprendo il tuo dolore. Lo invidio. Davanti al tuo volto devastato dalle lacrime, son riuscito a invidiarti. Sono egocentrico e meschino. Perdonami.”

Amon mi guardò preoccupato.

“Non c’è bisogno di scusarsi, non posso mica arrabbiarmi con te per qualcosa su cui non hai controllo. Anzi, credo che dirmelo ti abbia richiesto tanta forza!”

“In realtà… Non proprio.”

“A maggior ragione! Sei una persona sincera di natura. Non comprendo il motivo dietro la tua invidia, ma devi riconoscere questa virtù.”

“Riesco ad essere sincero con tutti, eccetto il colonnello. Quindi non so se definirla una virtù.”

“Il colonnello?”

Un filo di vento mosse i miei capelli, i fili d’erba e gli arbusti che ci circondavano. Tra il fruscio di alberi e fiori, il sole iniziava a tramontare.

Sotto quel cielo arancione, i miei occhi riaquisirono un po’ di luce mentre il volto del colonnello riapparve vivido nella mia mente. I suoi occhi scuri e giudicanti, i cui sguardi erano come stoccate di spada. I suoi capelli neri, più corti e meno folti dei miei. Li tirava spesso indietro per occasioni formali.

“Colui che mi ha salvato e cresciuto, e al quale ho dedicato la mia vita. Colui che ho amato come un padre, un fratello, un amante e un amico. Il colonnello Roy Mustang.”

Sul mio volto apparve un leggero sorriso. Quel dolore mi fece sentire vivo.

“Hai dedicato la tua vita a lui?”

“Son bruciato per lui, ogni mio respiro gli apparteneva. Sotto la sua luce splendente, mi sentivo un re. Ti ho invidiato perché hai avuto l’occasione di amare ed essere amato dalla persona più importante della tua vita. Mentre i miei sentimenti per il colonnello, la mia distorta infatuazione, temevo avrebbero distrutto ciò che avevamo. Quindi ho potuto solo chinare il capo e tacere. Obbedire ad ogni suo singolo ordine e trattenere il mio amore. Credevo che sarei sopravvissuto ad ogni dubbio che si insidiava nel mio cuore e mi son fidato dell’uomo che amavo fino all’ultimo, anche se non ricambiava l’intensità dei miei sentimenti. Che sciocco.”

La mia voce si ruppe. Era come se parlare oltre fosse uno sforzo immane.

“… Mi avete trovato a seguito di una grande esplosione che ha causato il crollo di un vecchio ponte. Nel momento in cui il colonnello si è ritrovato a scegliere tra la mia vita o quella della sua tenente, lui… ha scelto lei.”

Amon poggiò la sua cesta di mele, e mi mise una mano sulla spalla. Prima che proferì parola ripresi a parlare.

“Comprendo la sua scelta. Però, non lo perdonerò mai.”

Feci cadere la mia cesta e scoppiai a piangere. Le mie nuove mani di metallo, si avvicinavano a fatica al mio volto per asciugarmi le lacrime.

“Ehi ehi. Vieni qua”

Amon mi accolse in un lungo e caloroso abbraccio.

“A volte succede. Tutti e nessuno hanno colpa.”

"È vero però... continuo comunque a esigere. Sento una rabbia infinita che ha bisogno di consumarsi. Mi fa sentire piccolo e patetico."

“Ti senti tradito, e questa non è una cosa che puoi scegliere.”

“Non giustificarmi. Son così arrabbiato, che seppur vivo la mia unica consolazione è sperare che il colonnello soffra pensandomi morto. Ma la distanza da lui mi sta uccidendo per davvero, creando un vuoto incolmabile che dilaga dentro me.”

L’uomo mi carezzò la testa, come fossi uno dei suoi figli. Con il pollice mi asciugò le lacrime rimaste, e poi riprese la sua cesta di mele. Feci lo stesso, avevamo perso molto tempo.

"È triste. Ti ha cresciuto per essere una persona forte, e sotto alcuni aspetti ci è riuscito. Ma sotto altri, ti ha reso fragile come un fiore di vetro.”

 

Io, comunque, sono dell’idea che nessun vuoto sia incolmabile.

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Capitolo 20
*** 20-Pioggia ***


Capitolo 20: Pioggia

 

Fuori pioveva a dirotto. Il vento scuoteva la prateria come un violento mare erboso in tempesta. Osservavo il temporale dalla finestra della mia camera, su questa si abbattevano le singole gocce d’acqua e suoi spifferi producevano un acuto sibilo, era chiaro che quel giorno non avrei potuto fare riabilitazione all’esterno. Non che i miei automail risentissero dell’acqua, ma Amon si rifiutava di farmi uscire preoccupato per la mia salute.

“Nero! Nero! Mi fai vedere l'acquazzone?”

Da dietro sentii il piccolo Otis tirarmi la camicia. Lo presi tra le mie braccia argentate e con un piccolo sforzo lo sollevai all’altezza della finestra.

Poggiò le mani sui vetri senza nascondere la sua frenesia.

Non comprendevo la sua eccitazione. Ho sempre odiato la pioggia. Sotto la pioggia, il colonnello era quasi disarmato. Fin da piccolo, quando la notte pioveva, temevo per la sua sicurezza e pregavo tornasse a casa il prima possibile, rendendomi incapace di dormire.

Scossi la testa. Ogni cosa, sia positiva che negativa, mi ricordava lui.

“È raro da queste parti… Andiamo a giocare fuori!”

Il bambino scese a terra e corse verso la porta, aprendola e correndo dritto nella tempesta.

Lo seguii.

“Signorino Otis la prego, torni dentro o si beccherà un accidente.”

Quello si girò a guardarmi, scoppiando a ridere.

“Ma perché hai iniziato a parlare in modo così buffo?”

La mia mente si bloccò per pochi istanti.

“Oh… non è niente. C’era una persona a cui parlavo in questo modo. Ora forza Otis, torna dentro o tuo padre se la prenderà con me.”

Mi imposi con un tono più autoritario.

“Uff. E va bene…”

Otis tornò dentro casa, mentre io mi soffermai un attimo a osservare il cielo nuvoloso.

“Ha un suo fascino, in fin dei conti.”

 

-

 

Quello stesso giorno, al quartier generale di East City.

Il colonnello Mustang era seduto alla scrivania del suo ufficio, con la fronte poggiata nelle sue mani congiunte. Aveva un’aria riflessiva, lo stress della sua attuale posizione era rimarcato dalle occhiaie che ne contornavano gli occhi. Nonostante ciò, il suo sguardo fiammeggiante non si era ancora estinto. Nel suo tentativo di rivelare all’esercito che King Bradley era un homunculus, scoprì che l’interezza dei piani alti ne era già a conoscenza e l’esercito chinava il suo capo agli homunculus in segreto fin dalla nascita della nazione. Tutti i suoi subordinati più fedeli vennero trasferiti ad altri quartier generali, lasciando l’ufficio del colonnello in un silenzio mortuario. Il colonnello stesso fu rispedito a East City. La sua tenente rimase a Central, sotto il comando di King Bradley, ma quello non era che un modo formale di averla sotto ostaggio.

L’esplosione sul ponte fu un modo per capire quale fosse il punto più debole del colonnello. Gli homunculus lo definivano un sacrificio umano, e quindi indispensabile.

Roy prese la scacchiera che teneva sotto la scrivania. Aprendola ne afferrava i pezzi e ad ognuno ne associava un suo uomo. Il pedone, sergente capo Fuery, il cavallo, sottotenente Havoc… e così via. Fin quando non arrivò alla sua regina. La tenente Riza Hawkeye.

L’uomo fece un lungo sospiro e si tirò indietro i capelli con le mani. Sentì qualcosa muoversi dentro il taschino della sua uniforme. Confuso, vi infilò una mano e poi le sue sopracciglia si inarcarono in un misto di sorpresa e tristezza quando ebbe il contenuto fra le dita.

Un pendente con un opale di fuoco. La pietra incastonata splendeva di un arancione sgargiante.

In quel momento di intimità, gli occhi di Roy si annacquarono.

“Oh, Nero. Non ti ho mai dato un posto su questa scacchiera.”

Posò il gioiello sulla scacchiera.

Dato che puntò la sua spada contro il comandante supremo, l’esercito non diede mai una sepoltura reale a Nero.

“Non ho ancora smesso di combattere, Nero. Ti darò una vera tomba in cui tu possa riposare in pace.”

La doppia porta dell’ufficio venne aperta. Roy si asciugò subito gli occhi.

“Colonnello Mustang, l’alchimista di carta vorrebbe vederla.”

Mustang alzò un sopracciglio sorpreso.

“Fallo entrare.”

Keith avanzò dentro l’ufficio con un passo più pesante del solito. Era solito camminare in modo leggiadro. La prima impressione del colonnello fu anche che il ragazzo aveva un aspetto piuttosto trasandato, mentre in genere era conosciuto per un senso del decoro fuori dal normale.

“È un piacere conoscerti. È una visita curiosa la tua, hai fatto un bel po’ di strada per vedermi.”

“Non mi interessa di te. Dov’è Nero?”

Il biondo non incrociò nemmeno lo sguardo del colonnello. Tenne la testa china, la sua folta chioma ne copriva gli occhi azzurri.

Il colonnello non rispose. Keith spostò il suo sguardo sulla scrivania e alla visione dell’opale sgranò gli occhi colmi di rabbia.

“Bastardo. Dopo tutto quello che gli hai fatto passare, fai ancora finta di essere un bravo papino?!”

Con un braccio scattante, Keith cercò di prendersi il pendente ma la sua mano venne bloccata da quella di Roy. Questo osservava l’Armstrong irritato.

“Non so quale accidenti sia il tuo problema, ma non ti permetto di piombare qua nel mio ufficio, rubare ciò che mi appartiene e dire idiozie sulle mie faccende private.”

“E cosa farai per impedirmelo? Da quanto ne so ora, l’esercito non ti vede di buon occhio.”

Keith forzò la sua mano via da quella del colonnello. Roy si rimise il pendente dentro il taschino.

“Se sai questo, sai anche che Nero Adler è morto. Sei venuto da me solo per sfogare la tua rabbia?”

Dagli occhi di Keith caddero le lacrime che tanto tratteneva fin da quando era entrato in ufficio.

“Volevo solo sentirtelo dire.”

Il ragazzo si voltò.

“Mi fai una grande rabbia. Però è giusto che tu lo sappia. Nero mi disse… che ti amava.”

Il colonnello si paralizzò, come colpito da uno dei fulmini della tempesta che fuori infuriava. Gli occhi sbarrati in un’espressione di stupore e la bocca semiaperta. Sentì il bisogno di risedersi.

Vedendolo così patetico, Keith fece per andarsene.

“Aspetta.”

Il ragazzo si fermò.

Il colonnello recuperò parte della sua compostezza e cerco di parlargli in un tono limpido e sincero.

“Hai ragione. Sono stato un pessimo padre. Però, vorrei che tu mi ascoltassi.”

“E perché mai?” Rispose Keith, tra il lutto e la rabbia.

“Perché se ti ha detto una cosa simile, sei l’unico amico che Nero si sia mai fatto. Vorrei che la sua storia… anzi, la nostra storia, non morisse con me. Ti racconterò ogni cosa. Puoi farmi questo favore? Sono sicuro che è quello che vorrebbe anche Nero.”

Keith strinse i pugni, ma pian piano riuscì a spegnere le fiammate di rabbia impetuose che bruciavano nel suo cuore. Sospirò, e prese posto alla scrivania del colonnello.

“Va bene. Ti ascolterò.”

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Capitolo 21
*** 21-Roy e Nero ***


Capitolo 21: Roy e Nero

 

Trovò Nero quand’era solo un giovane alchimista in erba. Il sangue freddo del bambino che nel mezzo del caos tagliò l’aria con un proiettile spietato, fu ciò che lo ispirò a prenderlo con sé. Avrebbero camminato insieme nel nobile intento di servire il paese con onore, avrebbe riforgiato il talento del ragazzo nella sua spada più fedele a affilata.

A questo ambiva Roy Mustang.

Non immaginava nemmeno l’immensità del carico che si stava assumendo. Ma allora era solo un giovane cadetto, ingenuo e dedito all’esercito.

In Nero un po’ si rivedeva; anche a lui furono sottratti i genitori in tenera età. La prima lezione che impartì al bambino divenne il loro mantra:

"Sarò onesto con te. Hai perso tutto stanotte. Ma se senti ancora qualcosa dentro che ti spinga, anche ciecamente, verso una nuova meta… perseguila. Corri e non guardarti indietro. Noi umani siamo fatti così."

Furono quelle parole a respirare nuova vita nel giovane. Nei loro primi mesi di convivenza stabilirono il loro rapporto di insegnante e allievo. Nero era troppo giovane per iscriversi all’accademia militare, quindi fu Mustang a impartirgli l’arte del combattimento. Come si aspettava, si ritrovò davanti un talento smisurato. Gli insegnamenti di Roy non si limitavano alle pistole e le spade, ma anche alla disciplina da rispettare in ambito militaresco. Tuttavia, si rese conto che per farlo avrebbe prima dovuto dispensare un’educazione a Nero, che era stato privato dei genitori durante il fiore della sua formazione culturale. Gli insegnò dalla geografia alla storia, e i due passarono sempre più giornate insieme.

Col tempo, Nero riprese a parlare, prima taciturno per via del trauma a cui era stato sottoposto. Ora in Roy iniziava a vedere un punto di riferimento. Un castello in cui si sentisse al sicuro. Roy d’altro canto, rimaneva una figura severa e quasi inamovibile, che talvolta mostrava un lato tenero e amoroso. Conquistare il suo amore era una sfida, e Nero viveva le sue giornate combattendo con se stesso, dimostrando di essere degno della sua approvazione. Quella era la sua nuova meta, e avrebbe lottato per non perderla mai più.

Un anno dopo, Roy superò l’esame per diventare alchimista di stato, assumendo il nome di “Alchimista di Fuoco”.

Insieme al suo titolo, soffiarono venti di cambiamento. Gli impegni di Roy iniziarono a tenerlo lontano da casa, lasciando il piccolo Nero in solitudine. Alle volte, tornava a notte inoltrata, e per quanto severi potessero essere i suoi rimproveri, non c’era modo di fermare Nero dall’aspettarlo in piedi fino all’alba. Se non fosse tornato, lo avrebbe cercato. Se avesse trovato il suo corpo, sarebbero morti insieme.

Quando invece stava a casa, l’addestramento era sempre più intenso e logorante.

Per allenare i suoi riflessi, lo avvezzò a schivare le scintille della sua devastante alchimia di fuoco. Fu un percorso graduale, ma comunque al dir poco pericoloso.

La cosa più paradossale, fu come entrambi lo ritenessero un male necessario. Roy conosceva i pericoli di quel folle mondo, e oltre che un servo della nazione, voleva creare qualcuno che vi potesse sopravvivere senza alchimia.

Per Nero quei muri di fiamme erano l’ultimo ostacolo tra lui e l’affetto di Roy. Nient’altro contava.

Furono tre lunghi anni estenuanti.

Scoppiò l’insurrezione di Ishval, e per porne fine una volta per tutte, il comandante supremo impiegò tutti gli alchimisti di stato come armi umane per fare tabula rasa di Ishval.

Ciò includeva Roy.

Fu proprio a Ishval che l’ingenuo idealismo dell’alchimista di fuoco fu spezzato una volta per tutte. Mucchi di corpi carbonizzati si accatastavano nei distretti, mentre i suoi vortici infuocati ingoiavano e mietevano sempre più vittime. Lo scoppiettio delle fiamme non sovrastava le urla di tutte le innocenti vite che cadevano sotto lo schiocco delle sue dita. Nessun altro posto era più degno del titolo di “inferno”.

E un giorno, Nero avrebbe camminato in quell’inferno.

Per la prima volta da quando conobbe il giovane, L’alchimista vacillò.

Il cammino che stava preparando per il suo protetto non era luminoso, tantomeno nobile.

Era un abisso buio e lugubre.

Tuttavia, come una fenice che rinasce dalle ceneri, quell’esperienza riformò Mustang e gli donò nuove ambizioni. Se non avesse potuto proteggere il paese come alchimista di stato, allora avrebbe raggiunto il grado di comandante supremo per proteggere i pochi sotto di lui, cosicché questi a loro volta potessero proteggere quelli sotto di loro. Affinché l’intera nazione potesse beneficiare di questa protezione, evitando altre carneficine simili.

Una volta tornato a East City, l’ora tenente colonnello Mustang iniziò a prendere le distanze da Nero. Ma più negava l’agognato affetto al ragazzino, più la ricerca d’approvazione di quest’ultimo si intensificava. In varie circostanze, Roy tornò ad aprirsi col suo protetto, stabilendo una sorta di tira e molla infernale in cui la devozione di Nero veniva sferzata ma mai distrutta, risorgendo ogni volta più forte. All’età di venticinque anni, durante una passeggiata con Riza e Nero per East City, un uomo ubriaco assalì il colonnello con una bottiglia spaccata. Prima ancora che Riza o Roy potessero intervenire, Nero saltò alla gola dell’uomo come un gatto randagio, decapitandolo in un taglio netto. Non un cenno di umanità o pentimento nello sguardo del sedicenne. Fece semplicemente come gli insegnò il suo maestro. Nessuna esitazione, nessun ripensamento, nessuna domanda, elimina il bersaglio.

Il caso venne archiviato come legittima difesa.

Ciò nonostante, l’accaduto scosse sia Riza che Roy. Gli occhi di Nero, erano gli stessi che ebbero loro durante lo sterminio di Ishval. Gli occhi di un assassino. Roy si consultò pure col suo migliore amico, Maes Hughes. Insieme decisero che forse la cosa migliore per Nero era allontanarsi dal colonnello per conoscere altre persone e fare nuove esperienze. Ciò non fermò Nero dall’entrare nell’esercito un anno dopo, ma sotto richiesta di Roy, questo era ormai abbastanza grande per vivere da solo e si stabilì per un po’ nei dormitori del quartier generale di East City, dove condivise la stanza con Jean Havoc.

Jean fu veloce nel considerare Nero un suo amico, condividendo spesso con lui le storie delle sue conquiste e tragedie romantiche. In quel nuovo ambiente, il ragazzo iniziò ad afferrare il concetto di amore carnale e romantico. Se il colonnello non era lì al suo fianco, allora lo avrebbe ricostruito nella sua mente. L’idea di colonnello fu la prima fiamma di Nero.

Quando la figlia del suo migliore amico venne alla luce, Roy non poté che essere accecato dal modo in cui questa venne cresciuta. Le fu donata un’infanzia piena di bellezza, amore e luce. Se lei era il più vivido dei fiori, baciato dal sole, Nero era un pallido germoglio bianco che era sopravvissuto nutrendosi della poca luce soffusa che scappava dall’imponente figura del colonnello. Fu da allora che cercò di proteggerlo in tutti i modi. Senza mai farlo salire di grado, tenendosi freddo e distante nella speranza che iniziasse a odiarlo.

Ma ciò che aveva costruito aveva una devozione inscalfibile. Nero barcollava ma non sarebbe mai caduto.

E così le cose rimasero, fino al giorno della sua presunta morte. Quel giorno dal sapore di ferro e sangue, in cui Roy fu posto davanti alla scelta più difficile dalla sua vita. Una scelta che non avrebbe mai potuto saper fare e che quindi il suo istinto fece per lui. La sua mano raggiunse Riza, lasciando cadere Nero nella bocca dell’inferno.

“Le tue sono lacrime di coccodrillo. Come ben saprai, ho combattuto contro quel giovane. Lui non era altro che un burattino dalle sembianze umane. In fondo, non era così diverso da noi homunculus, creati per adempiere al nostro compito. La crudeltà degli alchimisti sa essere senza fine. Come ti senti dopo aver cercato di forzare uno scopo dentro un bambino? Non è pazzesco che sia quello che tu definisci “mostro” a fartelo pesare?”

Alle parole del comandante supremo King Bradley, Mustang non poté che tenere chino il capo. Poco dopo fu riassegnato alla sua vecchia postazione a East City, con la sua tenente sotto ostaggio e tutti i suoi uomini sparsi per altri quartier generali. Fu così che l’homunculus cercò di tagliare le sue ambizioni domandolo una volta per tutte. Ma finché l’aria ancora gli riempiva i polmoni, Roy Mustang non avrebbe mai smesso di lottare.

Per Maes Hughes.

Per Nero Adler.

Per la sua adorata tenente, e tutti i suoi altri compagni.

Per il paese.

 

“Questa è l’intera storia, Keith Gavin Armstrong. Son sicuro che ne conoscevi già parte.”

Le sopracciglia del fanciullo tremavano in un’espressione sconcertata.

“Il comandante supremo… e chissà chi altro qui nell’esercito, sono mostri chiamati homunculus che vogliono usare il paese e le persone che ci abitano in esperimenti attraverso delle sanguinarie guerre causate di proposito?!”

“Esatto. Questa è la causa per cui Adler e Hughes hanno dato la vita. Alchimista di carta, per colpa mia Nero non è mai riuscito a trovare la felicità. Per questa sola ragione, accetto il tuo odio e il tuo disprezzo. Ma se tieni ancora al libero arbitrio della gente di Amestris, e vuoi che a Nero sia fatta giustizia, ti chiedo di combattere al mio fianco.”

La luce riflessa negli occhi del colonnello bruciava di un indomabile spirito combattivo.

Porse la sua mano a Keith.

Dopo alcuni attimi di esitazione, questo ricambiò la stretta.

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Capitolo 22
*** 22-Appassito ***


Capitolo 22: Appassito

 

Una volta seduto a tavola feci un lungo sbadiglio, tirando indietro le braccia per stiracchiarmi. Ora che avevo degli automail non era l’operazione più facile, e vari stridii metallici accompagnarono il mio gesto.

“Stai tenendo i tuoi automail ben lubrificati?”

Davanti a me Amon poggiò un piatto con biscotti secchi e varie fette di pane, da accompagnare con marmellata o miele.

“Ieri ho saltato la manutenzione, senza di te non so bene come farla.”

“Mhh. Devo stare via anche oggi. Credi di farcela se ti lascio scritte le istruzioni?”

Nel frattempo l’uomo avvicinò il biberon a Elia, che teneva in braccio dolcemente. Otis se ne stava seduto vicino a me, con una faccia che a momenti cadeva nella ciotola di latte per la stanchezza.

“Posso provarci.”

“Perfetto! Male che vada te la insegno io per bene domani.”

Sorseggiai il mio tè. L’infuso caldo mi rintiepidì la bocca con un sapore squisito, ormai Amon nemmeno più mi chiedeva se lo preferissi insieme al latte. Tè e latte, era ciò che mi faceva bere il colonnello la mattina. Alla fine sviluppai una preferenza più per abitudine che altro.

Però, le colazioni in quella piccola dimora avevano qualcosa di diverso. Qualcosa che mi riscaldava dentro e non sapevo bene come descrivere. Stavo lì da due settimane ormai, e ancora non trovavo le parole, né tantomeno il modo per esprimerlo.

Contrapposto al calore, a volte mi ritrovavo taciturno a osservare i tre con cui condividevo il tetto. Con occhi colmi di tristezza… e una punta di invidia. Ma non rimuginavo su cosa significasse.

Ciò che davvero contava per me allora… era vivere.

Vivere. Rialzarmi. Camminare. Ero un ramoscello trasportato dal torrente.

E non cercavo di essere niente di più. Non ne sentivo la forza.

“Ecco.”

Amon mi porse un foglio pieno di scritte e indicazioni. Notai subito che vi erano riportate anche una serie di attività che richiedevano l’uso totale di ambedue gli arti dalle spalle alle dita, dai semplici esercizi fisici come le flessioni, a qualcosa di più tecnico come scrivere.

“Io vado, oggi monto in anticipo. Otis, guarda tuo fratello.”

“Si pa’, non c’è bisogno che me lo ricordi sempre!”

“Te lo ricordo perché hai sempre la testa tra le nuvole!”

L’uomo si abbassò all’altezza del figlio e gli scompigliò i capelli ridacchiando, questo gli saltò addosso in un abbraccio.

“Pa’… mi manca giocare con te.”

Amon strinse Otis a sé.

“Quando papà avrà finito con la stagione, ti prometto che torneremo a giocare come prima. Puoi aspettare ancora un pochino?”

“Sì… sì pa’.”

Osservavo la scena in disparte, aggrottando le sopracciglia.

Di colpo il piccolo Otis corse via, lasciando me e suo padre da soli. Ma di sfuggita vidi i suoi occhi pronti ad esplodere in un pianto.

Amon sospirò e poi si rivolse a me.

“Tu ricordati di fare gli esercizi e provare con la manutenzione!”

“Sissign- Cioè, sì.” A fatica mi trattenni da fare il saluto. Quello se la rise e poi uscì di casa, avviandosi verso il frutteto.

A mattina inoltrata decisi di iniziare a fare alcune delle mansioni scritte da Amon.

Alcuni esercizi erano semplici faccende di casa, come ritirare il bucato o lavare le finestre, altri erano più specifici alla mia condizione, vere e proprie tecniche di fisioterapia. Insomma, Amon non voleva proprio lasciarmi poltrire.

L’ultimo esercizio della lista era “scrivere”. Nessun altro dettaglio.

Scrivere… cosa potrei scrivere? Cosa si scrive di solito? Storie, appunti, liste, messaggi… lettere. Una lettera.”

Realizzai di non aver mai scritto una lettera in vita mia. Una piccola mancanza da parte di colui che mi insegnò a scrivere.

Presi un foglio e mi misi comodo con la penna tra le mie rigide dita meccaniche. Non doveva essere tanto diverso da scrivere un rapporto… per prima cosa, un destinatario. Poteva essere chiunque, tanto non l’avrei spedita, era solo un esercizio.

Chiusi gli occhi e lasciai decidere alla mia penna.

Caro colonnello Roy Mustang.”

La calligrafia era pessima e a malapena leggibile, solo scrivere il destinatario mi prese quasi un minuto. Non sapevo bene che buttar giù, quindi iniziai a riempire il foglio con tutto ciò che sentivo. Una mezz’ora dopo non vi era più spazio. Riportati sul foglio vi erano pensieri sconclusionati, frammentati, segni informi che nel complesso creavano una disarmonica creatura mostruosa su carta.

“… Che idea stupida.”

Seccato, afferrai la lettera e la accartocciai per poi lanciarla via.

Tra una cosa e l’altra si era fatto pomeriggio, e ancora non avevo toccato le mie braccia.

Dopo qualche altro tentativo con la scrittura, iniziai ad armeggiare con gli automail, fornito degli arnesi necessari e il lubrificante, il foglio con le indicazioni alla mia destra. Seguii ogni passaggio alla lettera e con calma. Ci misi un po’ ma alla fine avevo azzeccato il metodo.

Strofinai le articolazioni con un panno per togliere il lubrificante in eccesso, ma venni interrotto dalla voce eccitata di Otis, la sua testa sbucò dall’altra parte della tavola come un fungo.

“Wa- Posso aiutarti?”

“Ho appena finito. Piuttosto, non dovresti controllare tuo fratello?”

“Elia? Adesso quello dorme per qualche ora! Mi annoio!”

Tra di noi calò il silenzio. Io continuavo a strofinare col panno, Otis sbuffava. Ogni sbuffo sempre più teso dell’altro. Fin quando non implose.

“Ma insomma! Devo proprio chiedertelo io di giocare con me?!”

“Giocare?”

Alzai un sopracciglio.

“Sì! Giochiamo a nascondino.”

“E come si gioca a nascondino?”

Otis mi guardò sconcertato, tenendo la bocca aperta.

“Ma davvero non sai come si gioca…?”

Alla sua domanda risposi con un silenzio imbarazzante. Non avevo mai giocato con un bambino.

Non avevo mai giocato da bambino.

“Vabbè… allora in pratica io mi nascondo e tu devi trovarmi.”

“Oh. Tutto qui?”

“Beh, no, a volte ci sono regole addizionali ma il succo è questo. Prima di iniziare a cercarmi però devi contare a occhi chiusi fino a trenta!”

Passai un attimo a riflettere.

“Interessante… è un po’ come la caccia all’uomo. E pensi di poter sfuggire a me, uno dei soldati migliori di Amestris?”

Compiaciuto, gettai il guanto di sfida.

“Hah! Sottovalutarmi è un grosso errore, sono il campione indiscusso di nascondino!”

“Bene. Allora direi di iniziare.”

Senza indugiare oltre, iniziai a contare a occhi chiusi. Sentii i passi del piccolo Otis farsi più lontani sul pavimento di legno.

“Ventinove… e trenta.”

Mi avviai subito alla ricerca del mio coraggioso sfidante.

Basandomi sul suono dei suoi passi, la mia prima scelta fu la stanza di Amon. Una volta entrato alla mia sinistra vi era un letto e la culla in cui riposava Elia. Sulla mia destra, un grosso armadio.

Camminai verso l’armadio, convinto fosse quello il nascondiglio di Otis. Con tutta la certezza del mondo, aprii le due ante dell’armadio… e indietreggiai di alcuni passi, colto alla sprovvista.

Appesa a una gruccia, la mia uniforme militare. O ciò che ne rimaneva.

Era come se mi guardasse. Le sue maniche strappate e sfilacciate mi puntavano come serpenti pronti a stritolarmi.

La presi con me e la portai in camera mia, ormai scordatomi della partita di nascondino, per poi piegarla e riporla sotto il mio letto.

Dopo un po’ di tempo, fu Otis a venire da me, chiedendomi che stessi facendo. Gli risposi che ero stanco, e che aveva vinto lui. Quello fece i salti di gioia.

Il resto della giornata lo trascorsi nella mia stanza, col silenzio. Quando Amon tornò, mi chiese se avevo fatto tutti gli esercizi e la manutenzione, e la mia risposta lo lasciò molto soddisfatto. Notò che il mio umore era più giù del solito, ma non insistette oltre. Cenai da solo.

Quando tutti andarono a letto, provai a dormire anch’io. Ma mi era impossibile.

La sola presenza di quella cosa, dentro la mia camera, mi tormentava e impediva di chiudere occhio. Non importava quanto la nascondessi o stesse lontano da me. Dovevo distruggerla.

Mi alzai. Con me presi l’uniforme, il lubrificante per automail, la lettera accartocciata per il colonnello e un accendino.

Uscii con passo felpato dalla porta sul retro, raggiungendo il cortile.

Qui gettai a terra l’uniforme e la cosparsi di lubrificante, poi accesi la lettera con l’accendino e la gettai sull’uniforme, appiccando un grande fuoco.

Ne fui ipnotizzato. Il calore riscaldava le mie braccia metalliche al punto da causarmi dolore, ma rimasi comunque lì in piedi a fissare le fiamme consumare il tessuto.

La luce arancione danzava nei miei occhi. In una svolta di amara ironia, il fuoco mi ricordò il colonnello.

Ero come in una stasi, nemmeno mi accorsi che le fiamme iniziavano ad espandersi avare.

“Che diavolo stai facendo Nero?!”

Un getto d’acqua spense il fuoco. Riportato alla realtà, riconobbi la figura di Amon portare due secchi. Questo si avvicinò a me, e poi guardò ciò che rimaneva dell’uniforme annerita e bruciata.

Chinai il capo senza rispondergli, come un bambino sorpreso a fare una marachella.

“Ho capito… pensi che distruggendo ciò che ti lega al passato, tu possa dimenticarlo? Non ti biasimo. Guardati alle spalle.”

Mi voltai. Un’enorme piantagione di girasoli si perdeva all’orizzonte.

“Tante volte… son venuto qui la notte con le tue stesse intenzioni. Ma non funziona così.”

La voce di Amon si spezzò. Era un misto di rabbia e malinconia. Non ebbi il coraggio di alzare lo sguardo per guardarlo in volto.

“Non puoi cancellare il passato. Sarebbe facile se potessimo rimuovere i nostri ricordi negativi e andare avanti, ma dovrai conviverci fin quando non ne sentirai il peso. Esatto. Quando ti abituerai al nuovo peso delle tue braccia d'acciaio, potrai iniziare a costruire un nuovo futuro.”

Mi guardai le mani, scorgendo un leggero tremolio.

“Mi dispiace.” Mormorai.

Amon mi diede una pacca sulla spalla.

“Forza… torniamo a letto.”

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Capitolo 23
*** 23-Fratelli ***


Capitolo 23: Fratelli

 

Il sibilo della freccia scoccata tagliò l’aria. Questa andò a conficcarsi sul tronco di un albero in cui era stato disegnato in gesso un bersaglio. La punta metallica della freccia penetrò salda nel centro affondando nella corteccia. Un tiro perfetto.

“Niente male… e pensare che hai fatto pratica solo per un mese. Beh, certo, gli occhi da cecchino li avevi già prima, dovevi solo imparare a usare l’arco. Comunque un tempo record, considerando che l’hai fatto con gli automail!”

Gli elogi di Amon mi entravano da un orecchio e uscivano dall’altro. Con la mia mano meccanica afferrai un’altra freccia dalla faretra, la posizionai sulla corda e portai indietro il mio braccio d’acciaio con essa fin quando non sentii un “click”, ero pronto al prossimo tiro.

“Nero!”

Preso di sorpresa da Otis alle spalle, la mia freccia andò a colpire il terreno.

“Otis. Quante volte ti ho chiesto di smetterla con le tue imboscate?”

Cercai di rimproverarlo con un tono calmo, ma finii comunque per far trapelare un po’ irritazione.

“Non posso farci niente! Cammino così! Me lo fai usare l’arco?”

“No. E non si dicono le bugie.”

“Non è una bugia!”

Sospirai. Amon si mise a ridere e si avvicinò a entrambi, scompigliandoci i capelli.

“Sembrate proprio due fratelli!”

Gli occhi di Otis brillarono a quelle parole.

Io mi sentii straniato e confuso. Senza rimuginarci su, cambiai discorso.

“Pensi che sia pronto a cacciare qualcosa, Amon?”

Quello mi guardò riflettendo.

“Beh, sì. Però non sai niente dei boschi qua attorno, potresti perderti.”

“Oh! Io invece li conosco alla perfezione! Posso venire con te!”

A quel punto presi Amon in disparte, abbassando il mio tono di voce.

“Non pensarci nemmeno. Non avrei idea di come gestirlo.”

“Non sottovalutare mio figlio, gioca in questa zona fin da quando ha iniziato a camminare! È più indipendente di quanto pensi.”

“Okay, ma se dovessimo venir assaliti da, metti caso, un orso?”

Amon sorrise e mi mise una mano sulla spalla.

“Non c’è niente di pericoloso in questi boschi. E poi, non facevi la scorta in passato? Ti assicuro che tenere gli occhi su mio figlio è molto più facile.”

È un’occasione per rafforzare il vostro legame. E per creare dei nuovi ricordi” L’uomo aggiunse tra sé e sé, mantenendo il suo sorrisetto compiaciuto.

Sospirai.

Partimmo il giorno dopo, la mattina presto.

Trasportavo con me faretra ed arco e all’ingresso della foresta ispirai l’umida aria mattutina. L’odore del terriccio misto a quello di pino mi rilassò i nervi. Il piccolo Otis era subito affianco a me, portandosi dietro il pranzo a sacco preparato da suo padre.

Dopo qualche minuto di silenziosa camminata arrivammo a una biforcazione. Uno dei sentieri andava verso il lago mentre l’altro, più roccioso, saliva verso la montagna.

“Sulla destra!”

“Perché?”

“Perché qui c’è molta più selvaggina sui pendii della montagna.”

“Uh…”

Non lo avrei mai immaginato, d’impulso sarei sceso verso il lago nella speranza di beccare qualche uccello acquatico.

Otis mi precedette, saltellando tra una roccia e l’altra. Mi feci strada anch’io.

“Otis, non allontanarti troppo.”

Quello non mi rispose. Ma prima che potessi riprenderlo, una coda piumata catturò la mia attenzione. Subito estrassi un freccia e presi la mira in silenzio.

“E-ehi! Nero! Aiuto!”

La voce del ragazzino si faceva sempre più lontana. Non avevo idea di cosa gli stesse accadendo, ma per centrare il mio bersaglio seguii gli insegnamenti di Roy. Nient’altro contava. Adesso al mondo esistevamo solo io e il fagiano.

La mia corda si fece sempre più tesa. Il piumaggio dorato dell’uccello splendeva come un trofeo che già immaginavo tra le mie mani. La punta della mia freccia lo avrebbe trapassato da parte a parte uccidendolo in un singolo scocco gentile.

“...Nero!!”

La mia concentrazione si distrusse del tutto. L’uccello planò via spaventato dalle urla di Otis.

...Che stavo facendo?

Corsi subito nella direzione delle urla.

Trovai il fragile corpo del bambino aggrappato con tutte le forze a un appiglio sul lato del sentiero, lo aspettava una caduta di qualche centinaio di metri.

Guardai la scena con orrore.

“Nero! Non resisto più!! Sto scivolando!”

Non era il momento di rimproverarmi, corsi con ogni forza che mi era rimasta nelle gambe e mi lanciai sulla sua mano.

Fui in ritardo di un battito di ciglia. Otis perse la sua presa e precipitò.

“…”

Il ragazzino aprì gli occhi confuso. Il suo corpo ancora penzolante nel vuoto. Guardò su, e il suo sguardo, sull’orlo di piangere, incrociò il mio.

Mi ero lanciato nello strapiombo afferrando il suo braccio a mezz’aria con la mia mano sinistra. La destra aveva le sue dure dita d’acciaio conficcate nella parete rocciosa.

“Nero, mi dispiace così tan-”

“Butta giù il pranzo a sacco!”

Gli ordinai, la mia voce fu accompagnata dallo stridio metallico dei miei automail forzati fino allo stremo. Lasciai cadere arco, frecce e faretra, e Otis fece come gli dissi.

“E adesso?!”

“Ora arrampicati a me e tieniti saldo al mio bacino.”

Con un po’ di fatica, alla fine il bambino si tenne stretto a me. Era come avere uno zaino di trenta chili addosso. La mia presa iniziava a cedere, quindi con la mia mano libera e le gambe mi riposizionai per scalare la roccia.

Per fortuna erano solo alcuni metri, una volta tornati in cima ci lasciammo entrambi cadere al suolo. Le mie braccia metalliche erano visibilmente danneggiate e sentivo che alcuni legamenti colleganti le giunture si erano recisi. Otis mi teneva abbracciato stretto, tremando. La sua gamba destra era gonfia e rossa, pareva fratturata.

Dopo aver ripreso un po’ di fiato, chiesi a Otis cos’era successo. A quanto pare una piccola frana lo aveva travolto in pieno, spingendolo giù dal sentiero.

“Ah!” Dalla sua bocca uscì un esile grido di dolore quando cercò di rimettersi in piedi senza successo.

“Non farai molta strada in quelle condizioni.” Constatai, mascherando il mio profondo senso di colpa.

Avevo promesso ad Amon che avrei badato a lui, ma non era tutto. Quel senso di colpa aveva radici a me ignote che mi stranivano e spaventavano. Solo col mio fallimento realizzai che quel ragazzino invadente era molto più importante per me di quanto gli dessi conto. La sua voce mi raggiunse.

Già, le grida d’aiuto degli altri, che ho sempre sentito ovattate e distanti, che il colonnello mi ha insegnato a ignorare. Quella spessa parete di vetro si infranse, anche solo per qualche secondo.

Come sempre, mi ritrovai perso nei miei pensieri.

 

Nella via del ritorno, ormai il sole aveva iniziato a tramontare. Trasportavo Otis sulle spalle, a cavalluccio. Fu una discesa nel bosco silenziosa, l’unico suono il cinguettio degli uccelli che tornavano ai loro nidi per dormire. A un certo punto, Otis parlò esitante.

“Nero… sei arrabbiato? Per colpa mia non hai preso niente.”

Nascose la sua faccia colpevole nei miei capelli neri e scompigliati.

Non potei che abbozzare un piccolo sorriso. Entrambi ci sentivamo in colpa nei confronti dell’altro.

“La tua salvezza ha la priorità su qualche stupido uccello.” Cercai di rincuorarlo, nelle mie capacità.

“Sì, però… se ti fossi stato vicino.” Sembrava sull’orlo di piangere.

“Hai ragione. La prossima volta se ti allontani così farò finta che tu faccia parte della selvaggina.”

Un altro lungo silenzio.

“Ehi… che raccontiamo a papà?” Otis sembrava essersi calmato, forse per merito della mia minaccia battuta.

Guardai l’orizzonte per qualche secondo e poi risposi.

“La verità.”

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Capitolo 24
*** 24-Il lago ***


Capitolo 24: Il lago

 

Col passare del tempo, le giornate si fecero più lunghe. Col clima afoso, le uscite del ragazzo dalle braccia meccaniche si fecero sempre più frequenti, e in una piccola cittadina come Ortjence basta poco per rendere qualcosa di insolito lo scoop dei suoi abitanti annoiati.
C’è chi pensava fosse inviato dall’esercito per tenerli tutti sotto controllo, chi diceva fosse un potente alchimista che aveva trovato nei terreni del villaggio una scoperta sensazionale.

Una cosa era certa: La sua presenza era sfuggente come quella di una creatura folkloristica, alla stregua di un elfo o una fata.

Il giovane evitava il centro abitato e trascorreva maggior parte del suo tempo a vagare tra la natura come un fantasma.

Ma i più informati sapevano dove e quando trovarlo.

Verso la sera, la silhouette della sua figura magra ed elegante, contrapposta all’ombra dei suoi automail, era a malapena visibile sulle sponde del lago Kor. La luce del sole che tramontava si rifletteva sull’acqua in un bagliore accecante che impediva di scorgerne ulteriori dettagli.

-

“Anche oggi qui?”

Amon si tolse le scarpe per poi sedersi vicino a me sulla riva.

“Scusa se non sono di grande aiuto in questo periodo.”

L’uomo sorrise.

“Non preoccuparti, fai il necessario. Inoltre sono felice di vedere che tu ti prenda del tempo per te.”

Mi chinai, sedendomi vicino a lui.

“Cos’è che ti piace tanto di questo lago?”

Presi il mio buon tempo per rispondere.

“In questo lago, ogni cosa ha un suo compito. Gli uccelli, i pesci, gli insetti, le piante, i molluschi. Sono tutte parte di un grande ecosistema contenuto in un fluido limpido e puro. È come osservare un mondo a parte.”

Amon mi ascoltava in silenzio, lasciandomi continuare.

“...Il me che è arrivato qui sei mesi fa lo avrebbe degradato a una semplice distesa di acqua dolce senza nulla di interessante. Ma ora… Non posso che continuare ad esserne ammaliato. E ogni volta che mi reco qui, penso anche al nostro “mondo”. Il mondo degli umani. E cerco di capire qual è il mio compito.”

Senza che nemmeno me ne rendessi conto, il mio capo si poggiò alla spalla di Amon, in cerca di sicurezza e conforto. Questo ne fu toccato, e iniziò a carezzarmi i capelli con dolcezza.

“Prima o poi ogni piccolo lascia il nido. La tua partenza è stata rallentata e ora ti sei scordato come decollare. Non ti mentirò, non sarà facile riprendere quota con il peso extra che ti porti appresso. Ciò non toglie che la destinazione devi sceglierla tu. Ma questo lo sai bene, vero?”

Feci cenno di si con la testa.

“Credo… credo di esser pronto per tornare a Central City.”

“Ho sentito che le cose son diventate caotiche, King Bradley è morto e insieme a lui coloro che volevano effettuare un brutto colpo di stato… poi pare ci sia stata una battaglia-”

“Non credere a niente di tutto ciò. La verità è che le cose si sono risolte.”

Lui mi guardò confuso, e io sospirai. “Ti spiegherò tutto per bene all’evenienza, ma ora non vorrei cambiare argomento.”

“Hahah, okay okay. Cosa farai una volta tornato a Central?”

“Vorrei impiegare quei soldi che ho risparmiato dalla mia parte, ho un progetto in mente.”

“Wow. Non so di cosa si tratti, ma so che non hai risparmiato molto.”

Sospirai di nuovo, arrivando alla parte delicata del discorso.

“Hai ragione. Ma ho delle conoscenze che potrebbero sostenere ciò che manca,”

Lo sguardo di Amon si incupì.

“Non intenderai…”

“No, non lui.”

L’uomo si rasserenò per poi farmi un’altra domanda.

“Beh, direi che non ha senso girarci intorno. Cosa vuoi combinare a Central City?”

Mi rialzai e guardai l’orizzonte.

“In questi mesi, ho realizzato che tante cose son andate storte nella mia infanzia, su questo non ci piove. Ma soprattutto, ho capito che più di ogni altra cosa non vorrei che una creatura innocente come un bambino subisca quello che ho subito io. Non voglio che altri me, frutti della negligenza e l’esercito, vengano creati, e ho sentito la più profonda e autentica delle gioie nel vivere con te, Otis ed Elia, nel sentirmi parte della vostra famiglia, nel donare e ricevere amore incondizionato. Voglio che tutti i bambini che il mio potere può raggiungere abbiano una seconda possibilità, e farò in modo che ricevano il più sostegno e affetto possibile nelle mie capacità. Per realizzare queste mie nuove ambizioni, ho intenzione di avviare un orfanotrofio senza scopo di lucro. Cercherò di essere sempre lì con loro, per dargli amore, supporto, risposte, voglio che crescano… baciati dal sole.”

Amon mi guardava silenzioso a bocca spalancata, come se le mie parole lo avessero trascinato in una trance.

“Tuttavia… Io sono solo. Ma tu Amon, tu sei il padre perfetto, e qualcuno di cui mi posso fidare ciecamente, del resto con i bambini potrò avere attorno solo persone come te. Vieni con me a Central. Ho usa casa così stupidamente spaziosa, potremmo viverci benissimo tutti e quattro!”

Gli afferrai la mano entusiasta mentre i miei occhi iniziavano ad annacquarsi.

Ma quando il mio entusiasmo non fu ricambiato, le mie labbra si curvarono in un broncio.

“N-Non verrai? Lo capisco, qui… hai tutto. Sarebbe un cambiamento un po’ traumatico e-”

Quello mi interruppe stringendomi in un abbraccio improvviso.

“Sciocco. Certo che verrò.”

Siamo una famiglia.

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Capitolo 25
*** Epilogo ***


Epilogo

 

Il sangue da lui versato nutrì la terra, dando luce a una moltitudine di fiori rossi che ne illuminarono il cammino. Vigorosa era la luce cremisi delle camelie.

Sebbene ancora lontano dalla fine del suo pellegrinaggio, il ragazzo pianse lacrime di gioia alla vista del sentiero irradiato dai fiori-”

 

“Mi scusi ma che vuol dire cremisi?” Uno dei bambini che circondavano il cantastorie alzò timidamente la mano, interrompendo il racconto.

“Cremisi significa colorato di un rosso vivo-”

Subito al seguito della prima, altre tre mani si alzarono.

“I fiori nascono dal sangue?”

“I fiori fanno luce?”

“E le ferite del ragazzo??”

La figura al centro dei bambini ridacchiò, chiudendo il libro.

“In un racconto fantastico possono succedere tante cose… in questo caso i fiori, il sangue, il cammino, sono tutte varie metafore per..”

Il ragazzo spostò i suoi occhi verdi dal libro al gruppo di bambini che sedevano comodi su dei cuscini attorno a lui. Sguardi confusi e dispersi.

“Forse avrei dovuto proporvi qualcosa di più semplice…”

Il giovane si alzò e ripose il libro nella grande libreria che torreggiava nella stanza, poi fece scorrere il suo dito metallico in cerca di una storia che potesse intrattenere i suoi piccoli ascoltatori. Ne poteva leggere i titoli a malapena, la luce della stanza era soffusa: sfuggiva a fatica dalle tende color pesca che coprivano le vetrate imponenti.

La sua ricerca fu interrotta dal brusco aprirsi della doppia porta in legno d’abete.

Senza nemmeno bussare, un ragazzo dalla folta chioma bionda entrò esuberante.

“È arrivato un pacco! Chi vuole aprirlo con me?”

I bambini furono subito travolti dalla sua eccentrica euforia, e un susseguirsi di “io!” accompagnarono la loro discesa nell’atrio della struttura, lasciando i due giovani adulti da soli nella stanza.

“Ti trovo in gran forma Keith. Vedo che ti piace lavorare qui...”

“Che ci puoi fare, questi pargoli mi adorano.”

“E tu adori loro.”

“Guh! È così evidente?”

“Sì.”

“Meglio se li raggiungiamo, non vorrei rompessero niente. Son arrivate… quelle

Il moro capì subito ciò che intese l’altro, e con passo svelto si precipitarono anch’essi nell’atrio.

L’atrio era un’ampia stanza luminosa col pavimento in granito. Era un punto d'accoglienza e ricevimento. Subito davanti alla porta, era stato lasciato uno scatolone sigillato di medie dimensioni. Alcuni bambini cercarono di sollevarlo, rimanendo sorpresi dal suo attuale peso.

Il ragazzo dalle braccia meccaniche avanzò e sollevò il pacco senza il minimo sforzo, la sua azione si guadagnò gli sguardi stupefatti e i commenti sorpresi dei bambini, mentre Keith sogghignò in un angolo.

“Forza ragazzi, tutti in sala didattica.” La sua voce gentile ristabilì l’ordine, e in pochi minuti tutti i presenti stavano assistendo all’apertura del pacco. Questo conteneva due macchine da scrivere nuove di zecca.

“Chi sa dirmi cosa sono?” Domandò il maestro.

Dopo alcuni secondi di esitazione, una ragazzina alzò la mano.

“Sono macchine da scrivere!”

“Esatto Amanda. Fin’ora vi ho sempre fatto esercitare con penne e matite, ma questi strumenti possono tornavi comodi se volete dare al vostro testo un’aria più uniforme e pulita…”

“In parole povere se avete una pessima calligrafia come il vostro maestro dovreste usarle.”

Alcune risatine interruppero la spiegazione. Nero tirò un’occhiataccia a Keith, che si sistemava i capelli con noncuranza.

“Beh… Keith non ha tutti i torti.”

Il suono delle campane riecheggiò per tutta la città. Era mezzogiorno in punto.

“Le proveremo dopo.” Concluse Nero.

“Già! Oggi si serve la specialità della casa, le polpette al sugo di Amon!”

il giovane Armstrong uscì dalla stanza di corsa, con alcuni orfani al seguito.

“Non correte nelle scale.”

Nero sospirò per poi raggiungere i suoi protetti.

Il pasto era, come sempre, delizioso. Dopo pranzo vi furono le prime prove con la macchina da scrivere, poi la giornata iniziò a scivolare via. Verso la sera si respirava un’aria di pace e libertà. Nero non avrebbe mai voluto cambiare niente di ciò. Il suo quadro perfetto di un orfanotrofio ideale era quello dove le giornate andavano vissute in armonia, sotto tutela dagli irti pericoli del mondo. Era una figura sia autoritaria che amorevole, che voleva veder crescere quelle giovani speranze sane e prospere di amore, per se stesse e per gli altri.

A notte inoltrata, Nero camminava per il primo piano, dirigendosi verso la propria stanza. L’unico suono era quello dei suoi passi sulla moquette, che producevano un rumore sordo.

Ma tutto d’un tratto, un altro suono raggiunse le sue orecchie. Era un ticchettio secco e perpetuo. Incuriosito, il ragazzo aprì la porta della sala didattica, e sulla scrivania vide un’ombra in prossimità della macchina da scrivere.

“Amanda?”

La ragazzina fu colta di sorpresa, balzando per lo stupore.

“Che stai facendo? Sai bene che alle dieci passate è preferibile stiate tutti in camera vostra.”

“Mi… Mi dispiace. È che-”

Nero si avvicinò, e l’orfana abbassò la voce.

“È da quando ci avete fatto provare le macchine che sto cercando di scrivere una lettera ai miei genitori… ma non riesco proprio… non so nemmeno da dove cominciare…”

Una piccola lacrima scese sulla sua guancia, il maestro si chinò e avvicinò con gentilezza le sue dita d'acciaio al volto di Amanda. Un movimento tenero e dolce spazzò via la sua lacrima.

“È tutto ok. Posso aiutarti io, però poi devi promettermi che andrai a dormire.”

“S-sì… grazie mille.”

Nero prese posto vicino a lei. Questa svuotò il suo cuore dei suoi sentimenti più intimi. Nelle sue parole, era afferrabile l’impotenza che la piccola sentiva nei confronti della morte prematura dei suoi genitori, Nero fece del suo meglio per rendere quel foglio una tela colorata di tutte quelle emozioni. Infine, il suo indice meccanico premette l’ultimo punto.

“Ecco qui. Che ne pensi?”

La giovane orfana afferrò la lettera con delicatezza, poi la strinse al petto, come abbracciandola.

“Grazie. Dal profondo del mio cuore.”

Sollevato, Nero sorrise. Amanda si alzò e corse verso la porta, ma prima di uscire pose un’ultima domanda al suo aiutante miracoloso.

“Lei non ha nessuno a cui scrivere una lettera?”

La domanda colpì il ragazzo come una pugnalata. La sensibilità della ragazzina non conosceva limiti, tant’è che le bastarono pochi minuti di intimità per mettere Nero allo scoperto.

“...C’è qualcuno che da tempo attende una mia lettera. Ma ne parliamo un’altra volta, dai, è tardi.”

Amanda sorrise e poi si diresse verso la sua stanza.

Nel buio della sala didattica, l’unica fonte di luce era il fioco splendore lunare riflesso sui banchi e sulla macchina da scrivere. Nero conosceva quell’oscurità, ma aveva imparato a conviverci.

Mise un foglio nella macchina da scrivere e iniziò a battere.

Caro Roy Mustang…”

 

-

 

“Ehi Nero, Nero!”

Una mano toccò con insistenza la nuca del ragazzo. Questo si era addormentato sulla macchina da scrivere, diversi fogli accartocciati vicino a lui. Quando alzò il suo capo intorpidito, incrociò lo sguardo di Amon, che trattenne una fragorosa risata alla vista dei segni a forma di lettere che erano rimasti impressi sulla guancia di Nero.

“Son le nove passate bella addormentata, hai saltato la colazione con i ragazzi.”

Nero sbadigliò stiracchiandosi.

“Scusa, è che…”

Si soffermò a osservare il foglio rimasto nella macchina da scrivere, e poi lo estrasse.

“E questa cos’è? Hai finalmente trovato il ragazzo?”

“Non direi… Amon, mi serve un favore.”

 

-

 

Quartier Generale di Central City, mattina inoltrata.

L’accecante sole estivo irradiava l’imponente struttura accentuandone il pallore.

Come contromisura al caldo, l’ufficio dell’ora generale Mustang fu lasciato in penombra grazie all’ausilio di un tendaggio blu oltremare.

Sparse per il suo ufficio, ancora più scartoffie dei tempi che furono.

Una cosa rimase uguale: I costanti pisolini di Roy e la sua tenente che lo rimproverava per il suo ciclo del sonno mal curato.

Tutto accadde proprio durante uno dei suoi sonnellini mattinieri. Riza entrò dentro l’ufficio del suo superiore, svegliandolo con un finto colpo di tosse.

Mustang si strofinò gli occhi ancora per metà nel mondo dei sogni. Ma una volta vista l’espressione della sua tenente, si ricompose in un battibaleno.

“Che succede?”

“Vi è stata recapitata una lettera… ma…”

La donna posò la busta sulla scrivania del generale, la faccia di quest’ultimo si fece indecifrabile. Avanzò la sua mano verso la lettera, sigillata col marchio dell’orfanotrofio del distretto est, una camelia. Era una struttura recente di cui Roy aveva sentito parlar bene.

Ma la fonte del suo turbamento, era data dal nome del suo emittente.

Un nome che non sentiva da tempo, risuonò nella sua testa come il fruscio del vento.

“Ho già fatto trattenere l’uomo che la portava, ed è disposto a vedervi.”

“Capisco. Puoi lasciarmi qualche minuto?”

“Sissignore.”

Una punta di tenerezza contaminò il tono frigido e professionale di Riza. Rimase giusto fuori dall’ufficio. Sebbene in ambito lavorativo, l’assoluto supporto emotivo che dimostrava per Roy non aveva bisogno di parole.

Da solo nella sua stanza cupa e disordinata, il generale camminava attorno alla lettera sulla scrivania indeciso sul da farsi.

Finché non decise di tagliare dritto al sodo. Afferrò la lettera, ma prima di aprirla, estrasse da una tasca della sua uniforme un pendente con un opale di fuoco. Sospirò e poi strinse la pietra preziosa sopra il suo cuore, in paesi e culture lontane lo avrebbero definito una specie di gesto da preghiera.

Il sigillo fu spezzato, e con uno sguardo determinato, il generale iniziò la sua lettura.

 

Caro Roy Mustang,

Conoscendoti, potresti pensare che questo sia uno scherzo di pessimo gusto.

Conoscendoti, potresti dar fuoco a questa lettera con uno schiocco ancor prima di aprirla.

La scelta è tua, del resto son sparito per due anni, dato per morto, avrei potuto contattarti più volte e non l'ho mai fatto. Perché ero colmo di rancore. E detto francamente, potrei esserlo ancora.

Ma se ora stai leggendo, significa che nelle profondità del tuo cuore l'assurda speranza di credermi vivo non si è mai estinta del tutto.

E questa è una cosa che voglio riconoscerti. Tu mi hai voluto bene, e anch'io.

Ti ho amato.

Ma sappiamo entrambi che quell'amore era il frutto delle parti peggiori del nostro rapporto. Destinato a marcire da acerbo. Ho tagliato quel frutto, l'ho calpestato.

Ho tagliato via te, solo così son potuto andare avanti.

Arrivati a questo punto, ti chiederai quali siano le mie intenzioni.

Vorrei rivederti.

Il 17 alle 22:00 sotto la fontana di Central.

Il tuo ex caporale, Nero Adler.

 

-

 

“… Haah…”

Senza nemmeno rendersene conto, il volto dell’uomo grondava di lacrime. Le sue sopracciglia contorte in un’espressione di agonia, ad ogni singhiozzo ancor più lacrime sgorgavano dai suoi occhi neri. Avvicinò la lettera al suo viso.

Poteva sentirne l’odore.

L’odore del suo figlio perduto.

Alla fine Roy decise di accogliere l’uomo che recapitò la lettera.

Questo entrò nel suo ufficio. Avevano all’incirca la stessa età, lui con la carnagione mulatta e una piccola cicatrice sullo zigomo.

Nell’istante in cui mise piede nella stanza, Roy sentì tirare una brutta aria. Amon era bravo a nasconderlo, ma Roy conosceva quegli occhi. Nel suo ambiente lavorativo saper leggere le persone poteva essere un fattore determinante, quindi lo capì in un millesimo di secondo: Quell’uomo non provava alcuna stima nei suoi confronti.

“Ti ringrazio, profondamente.”

Lo sguardo di Amon si ammorbidì. Il dissapore era vivido, ma non era un mostro. Poteva percepire l’ingenuità di tutte le emozioni che si agitavano nel cuore del generale in quel frangente. Quindi, mosso più dalla pietà che dall’antipatia, gli chiese:

“Cosa farai?”

Mustang alzò gli occhi, stanchi per il pianto.

“Lo incontrerò.”

In vista dell’evento, la notte avanzò incombente. Gli abitanti di Central City tornavano alle loro abitazioni, chi chiudeva le persiane, chi spegneva le luci, rendendo il piazzale lentamente sempre più buio e fermo nel tempo. Ma nel silenzio, la fontana continuava a pompare acqua fragorosa.

Una presenza enigmatica attendeva seduto con quel perpetuo muro d’acqua come sfondo.

Somigliava a un dipinto.

I suoi capelli neri, come sempre folti e scompigliati, si perdevano nel cielo notturno. Gli occhi, verdi, ingannavano la sua impazienza e tensione.

Indossava una camicia bianca dal tessuto leggiadro e soffice che creava un bizzarro contrasto con le sue mani d’acciaio.

Con un profondo respiro assaporò l’aria fresca della notte. Ormai era questione di pochi minuti.

La luce dei fari di una macchina catturò la sua attenzione, questa accostò vicino alla fontana e poi si spense. La portiera si aprì, lasciando scendere un uomo dal lungo cappotto e lo sguardo di chi guardava un sogno materializzarsi davanti a sé.

Il ragazzo si alzò dalla fontana. L’uomo d’impulso, sarebbe voluto correre verso di lui e stringerlo tra le sue braccia, senza lasciarlo andare mai più.

Ma ciò che accadde, è che questo camminò verso di lui a testa alta.

I minuti in cui esplorarono l’uno gli occhi dell’altro volarono. Poco dopo Mustang abbassò lo sguardo, notando le mani meccaniche di Nero. Alla realizzazione che il ragazzo perse entrambe le braccia, il suo cuore si strinse. Con l’amaro in bocca, proferì parola.

“Nero… Sei davvero tu. Posso… Posso toccarti?”

Il ragazzo fece cenno di sì con la testa.

La mano del suo ex colonnello toccò la sua guancia. Era grande, calda, rassicurante. L’altra toccò il suo fianco, scorrendo sulla sua camicia. Infine, entrambe afferrarono le sue mani argentate.

“… Posso… abbracciarti?”

Lo sguardo del ragazzo si intristì, ma fece nuovamente cenno di sì.

La figura più grande propese verso di lui, accogliendolo in una malinconica stretta. All’uomo sembrò di abbracciare una statua, e sentendo i suoi automail, iniziò a versare lacrime mute. Erano lacrime di gioia e tristezza.

Quello che avrebbero potuto avere, quello che hanno perso, quello che sono stati. Era tutto contenuto nel suo affanno.

Ma al contempo, forse ad aver la meglio fu la felicità. Del resto, per qualche miracoloso intreccio del fato, stava di nuovo stringendo Nero tra le sue braccia.

Il ragazzo non serbava più odio. Il suo rancore si era tramutato in apprensione. L’ansia, il nervoso e lo stress che in altri tempi avrebbe avuto alla sola presenza di quell’uomo, la stessa tensione che provava pochi minuti prima, si erano finalmente placati dentro di lui. Fu l’incontro che sancì in definitiva la strada che avrebbe percorso d’ora in poi.

“Nero, mi dispiace, mi dispiace… mi dispiace, mi-”

La voce dell’uomo si ruppe, mentre continuava come un disco rotto. Il ragazzo non lo fermò.

“Non chiedo il tuo perdono, non son così sfacciato da chiederti nemmeno di farmi restare nella tua vita. Concedermi di vederti un ultima volta, farmi sapere che sei vivo, è stato già davvero tanto per me.”

Le sue parole scorrevano insieme al suo pianto, ma rimbalzavano contro il silenzio assoluto del ragazzo.

“Non so quanta importanza abbia dirtelo ora, ma io sono fiero di te, e ti vorrò bene. Per sempre.”

Una singola lacrima si fece strada tra il cuore intrecciato del giovane. Le memorie migliori di quell’infanzia turbolenta ricomparvero come una lunga mostra di vecchi quadri appesi.

“Roy…”

L’abbraccio venne interrotto.

“Nonostante tutto, grazie. Non ti dimenticherò mai.”

L’uomo si strofinò la faccia asciugandosi le lacrime, e poi la sua bocca si curvò in una smorfia agrodolce. Avrebbe voluto solo un po’ di tempo in più, ma ormai il ragazzo aveva iniziato ad allontanarsi. Ad ogni passo, usciva sempre più dalla sua vita.

Era giusto così, e lo sapevano entrambi.

“…”

Malgrado ciò, si ritrovò a chiamare il suo nome.

“Nero!”

Questo si fermò, voltandosi curioso.

 

Il tono di Roy riacquistò fermezza, facendo le veci del padre per l’ultima volta.

 

“Nero, sei felice?”

 

Il giovane adulto chiuse gli occhi e donò all’uomo il sorriso più bello del loro vissuto.

 

“Sì.”

 

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