A&A: Strane Indagini – “OLD WILD WEST!”

di Orso Scrive
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** 3. ***
Capitolo 4: *** 4. ***
Capitolo 5: *** 5. ***
Capitolo 6: *** 6. ***
Capitolo 7: *** 7. ***
Capitolo 8: *** 8. ***
Capitolo 9: *** 9. ***
Capitolo 10: *** 10. ***
Capitolo 11: *** 11. ***
Capitolo 12: *** 12. ***
Capitolo 13: *** 13. ***
Capitolo 14: *** 14. ***
Capitolo 15: *** 15. ***
Capitolo 16: *** 16. ***
Capitolo 17: *** 17. ***
Capitolo 18: *** 18. ***
Capitolo 19: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** 1. ***


1.

 

 

Terre occidentali, epoche remote

 

 

Kosumi, lo sciamano, pose il suo piede sulla schiena della figura femminile accovacciata al suolo. Lei lasciò sfuggire un gemito dalle labbra screpolato. Cercò di sollevarsi, puntellandosi sulle braccia malferme. Dai polsi scarnificati sgorgò sangue scuro e ribollente. Non le permise di fare alcun movimento. Premette con forza l’arto avvolto in un mocassino di pelle conciata, strappando un secondo lugubre e doloroso gemito alla donna.

Gli occhi dello sciamano fissarono il corpo della donna.

Nonostante fosse martoriato dalla lunga e accanita lotta, aveva mantenuto intatto il suo fascino. Lividi e tagli non erano bastati a renderlo meno invitate. Era giovane e bella. La sua pelle scura, macchiata di sangue fresco e coagulato, sembrava il vello ipnotico di una pantera, e vi era qualcosa di indefinibile nel suo riflettere la luce, come se avesse avuto in sé qualcosa di un rettile.

Era di certo ammaliante.

Attraente.

Attraente e irresistibile.

Non era difficile capire perché molti uomini, anche i più accorti, fossero stati irretiti dalle sue magie, fino a perdere il senno e la vita. Il suo sguardo, poi, era magico. Vi era l’infinito, in quegli occhi neri screziati di giallo. Persino un uomo saggio come lui faticava a non lasciarsi ingannare, e doveva costringersi a non guardare dentro quello spazio indefinito e punteggiato di stelle.

Quella donna era Skudakumooch, la donna fantasma, la mangiatrice di carne umana.

Era stata una lotta impari e selvaggia. Kosumi aveva dovuto far ricorso a tutte le sue arti, a tutti gli incanti che, di bocca in bocca, erano stati trasmessi di padre in figlio, di madre in figlia, fin dai tempi remotissimi in cui i suoi antenati avevano abbandonato Aztlan, la terra sacra situata a oriente, annientata dal diluvio.

Aveva messo in gioco tutto, persino la sua stessa vita, per poterci riuscire. Le montagne avevano tremato, i deserti si erano propagati in tutte le direzioni, i giaguari avevano lasciato le loro tane e le stelle avevano mutato il loro corso. Il sole stesso, indignato da un uso così spropositato delle più arcane arti, si era fatto fosco e nero per parecchi giorni. Ma, alla fine, Kosumi era riuscito a catturare Skudakumooch, ad atterrarla dinanzi ai propri piedi e a renderla impotente.

Impotente negli atti, magari.

Non certo nelle parole e nella capacità di poter ancora risollevarsi e vincere.

«Vieni tra le mia braccia, sciamano», lo chiamò lei, cercando di lusingarlo. «Abbandonati a me e facciamo l’amore. Non te ne pentirai.»

La voce della strega era delicata, calda e avvolgente. Rassomigliava all’aria delle montagne in una mattina d’estate, tiepida e frizzante, carica di promesse e di tentazioni. Una voce irresistibile.

Kosumi si fece forza, cercando di resistere a quell’invito a cui nessun altro sarebbe riuscito a sottrarsi. Perché c’era qualcosa, in lei, una vibrazione misteriosa che avrebbe piegato anche il più saggio degli uomini. Lo avrebbe piegato condannandolo a morte certa.

«Padri, antenati, datemi la forza di non cedere adesso», pregò Kosumi a mezza voce.

Il suo popolo, a causa di quella piaga, era stato quasi annientato. La strega era apparsa in un giorno funesto di un anno prima e, da quel momento, aveva compiuto vere e proprie stragi. Nessuno ne era stato risparmiato: uomini, donne, fanciulli, persino le bestie erano state ingannate dalle sue lusinghe e attirate nella trappola della morte più atroce.

Lui aveva giurato di salvarlo prima che fosse troppo tardi, e aveva adempiuto al suo voto. Anche se questo aveva significato compiere enormi sacrifici. Un anno di lotta contro la strega aveva invecchiato Kosumi come se fosse trascorso un intero secolo. Ora, pur se debole e stanco, con le membra affaticate e il volto rugoso come quello di un vecchio centenario, aveva quasi portato a termine il suo compito, e non poteva permettersi di compiere un passo falso.

«Grande Spirito di Aztlan, signore delle terre e delle acque, vienimi in aiuto!» invocò.

La strega, affondando le dita nella terra rossiccia del deserto, si contorse quel tanto che le bastò a guardarlo in volto.

«Non puoi sconfiggermi!» gridò, questa volta con una voce carica d’odio. «Io sono immortale!»

In quel momento, un’energia possente si impadronì del piede di Kosumi e lo spinse via dal corpo della donna. Sbilanciato, lo sciamano perse l’equilibrio e cadde di lato, rotolando nella sabbia e tra le poche erbe rinsecchite che avevano osato sfidare la natura affondando le loro radici in quelle terre brulle e riarse. Nuvolette rossastre si levarono dal suolo.

Skudakumooch balzò in piedi, ancora potentissima. I suoi capelli neri si sollevarono, mossi da uno sbuffo d’aria ribollente. Le sue vesti di pelle, stracciate e logore, fluttuarono attorno al suo corpo meraviglioso e perfetto.

«Nessuno può vincermi, sciocco uomo!» gridò la strega. «E adesso mi ciberò delle tue carni!»

Kosumi sostenne lo sguardo della megera, sentendosi fiero di se stesso. Aveva combattuto e, anche se era stato sconfitto nella sua battaglia, non aveva ceduto. Era rimasto fedele agli insegnamenti dei suoi padri. Un degno guerriero di Aztlan.

Si udì un grido. Il verso di un immane uccello rapace bianco e marrone, che scese in picchiata dal cielo e impattò contro la strega. La donna gridò e agitò le braccia nel tentativo di scacciarlo, mentre il volatile le affondò gli artigli acuminati nel viso e, con il rostro duro come la pietra e affilato come la lama di un pugnale, le cavò gli occhi con un unico colpo preciso.

Kosumi comprese. Il Grande Spirito di Aztlan in persona era venuto in suo aiuto. Si era incarnato nella sua forma di uccello ed era disceso dal cielo per aiutare il suo fedele servitore nella lotta mortale contro la donna maledetta.

Una nuova energia lo riempì. Una forza soprannaturale si infuse nel suo corpo, dandogli un vigore rinnovato. Kosumi cessò di essere un vecchio stanco e tornò a essere il giovane sciamano che aveva giurato di annientare per sempre la velenosa maledizione della donna fantasma.

Di nuovo, lo sciamano fu in piedi. Dalla bisaccia che portava legata al collo trasse un piccolo vaso di terracotta, che depose sopra una pietra. Tolse il coperchio e cominciò a recitare una formula magica, ricorrendo all’antico dialetto della terra dei suoi padri. Una lingua nobile che, da tempo immemore, non era più risuonata nel mondo. Parole arcane, che erano sopravvissute al tempo, incise nella pietra immortale delle gole sacre, dove Kosumi aveva potuto leggerle e apprenderle.

Le sue parole fecero vibrare l’aria. Il cielo si oscurò e mulinelli di sabbia volteggiarono tutto attorno. Lampi e fulmini esplosero in tutte le direzioni, scaricandosi nel terreno e facendolo rombare e tremare come se fosse in corso un terremoto.

Skudakumooch, ricoperta di sangue, accecata e impegnata ancora nella lotta contro l’uccello-dio, non poté fare nulla per fermarlo. Stremata dai colpi reiterati dell’uccello, la donna crollò sul terreno e si rannicchiò su se stessa, tremebonda, mentre il rapace continuava a inferire su di lei, strappandole lembi di pelle e di carne dal corpo ormai straziato. Sul suo viso ricoperto di sangue, per la prima volta apparve una smorfia di dolore.

Di dolore e di terrore.

Impassibile di fronte a quella scena che in altre circostanze sarebbe stata pietosa, lo sciamano continuò a recitare la formula. Andò avanti imperterrito, infilando le parole una dietro l’altra.

La sabbia prese vita. Mucchi di terriccio rotolarono verso la donna, avvolgendola completamente. Lei gridò più forte, mentre i granelli la ricoprivano. L’uccello, dopo aver inferto un ultimo colpo di becco per squarciarle il petto, si alzò in volo. Stridette con ardore, compiendo un paio di cerchi sopra la strega, poi si innalzò nel cielo fino a scomparire nel riverbero del sole, che si era fatto livido.

Le parole di Kosumi accompagnarono la sabbia, che continuò a premere contro il corpo martoriato della strega. Dapprincipio, fu una sagoma umana ricoperta di granelli rossi di sangue, che si muoveva sempre più piano nel vano tentativo di liberarsi. Poi soltanto una massa ruvida e dorata, che si agitava con estrema debolezza.

Infine, solo sabbia immobile.

Lo sciamano smise di urlare la formula e il vento si placò in quello stesso istante. Il cielo riprese il suo colore azzurro e i raggi del sole illuminarono la sabbia in cui si era tramutata la strega.

«Raccoglierò questi empi resti nel mio vaso», annunciò lo sciamano, sollevando lo sguardo verso il sole, «e li celerò in un profondo budello sotterraneo, perché la maledizione di Skudakumooch non dovrà mai rinascere sulla terra.»

Ansimando, si apprestò a compiere l’ultima parte del suo compito.

Il sole, ripreso il suo colore solito, brillò su di lui, volto immortale del grande dio di Aztlan.

 

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Capitolo 2
*** 2. ***


2.

 

 

Roma, Italia, marzo 2022

 

 

«Allora ha capito bene quello che dovrete fare, tenente Manfredi?»

Il colonnello Iannaccone, marziale e impeccabile nella sua uniforme nera e priva di ogni pur minima piega, come pure erano marziali il suo curatissimo pizzetto e i capelli tagliati a spazzola, era seduto dietro l’ampia scrivania di mogano che troneggiava nel mezzo del suo ufficio.

Alla parete alle sue spalle erano appesi una piccola asse di legno da cui pendevano tutti i calendari dei Carabinieri, e un quadretto – di fianco alla foto del Presidente della Repubblica – su cui era raffigurato lo stemma del Nucleo Tutela del Patrimonio Culturale: un cerchio blu, racchiuso in uno rosso, nel mezzo del quale si vedevano il Pantheon di Agrippa e un drago sputafiamme. Dalla finestra alla sua sinistra si godeva di un meraviglioso panorama sull’intera Città Eterna, dominata dal Cupolone di San Pietro, in quel momento acceso come in un incendio dai riverberi del tramonto.

Seduto di fronte a lui, al contrario, il tenente Alberto Manfredi non avrebbe potuto essere meno marziale.

Con i capelli spettinati e la barba che cominciava ad avere bisogno di una regolata, sembrava quasi che avesse indossato la divisa soltanto perché, al momento, non aveva niente altro da mettere addosso. In quel momento, era anche afflitto da un lieve ma estremamente fastidioso mal di testa, postumo non richiesto del viaggio in treno da Bologna per arrivare nella capitale, che gli donava un’aria sofferente. A giudicare dallo sguardo disgustato che il colonnello gli aveva rivolto quando era entrato nell’ufficio, il suo aspetto, in quel momento, non era per niente degno di un carabiniere – per di più un ufficiale – nel pieno delle sue funzioni.

«Servizio d’ordine alla mostra sul Far West che si terrà all’interno delle scuderie del Quirinale a partire dall’inizio della prossima settimana», ricapitolò Manfredi, svogliato, resistendo a stento alla tentazione di stropicciarsi fronte e tempie per provare a mandar via l’emicrania. «E, onestamente, non capisco perché dobbiamo disturbarci a farlo noi, con tutto il lavoro arretrato che abbiamo, quando al Quirinale c’è pieno di corazzieri che non hanno nulla da fare…»

Iannaccone lo guardò storto.

«Ai miei tempi, tenente Manfredi, si era usi a obbedir tacendo», lo rimbrottò. «Quello che veniva comandato dai superiori lo si faceva e basta.»

Già, compresi atti di tortura verso i sospettati o tentativi di golpe, pensò il tenente, con un fastidio crescente che andò a sommarsi al mal di testa. E poi ci si chiede pure come mai, al giorno d’oggi, la gente non abbia più alcuna fiducia nelle forze dell’ordine.

Non lo disse, ovviamente.

Per quanto sopra le righe, non poteva dimenticarsi di essere pur sempre uno sbirro. E come tale doveva comportarsi. Soprattutto, davanti a un superiore.

Iannaccone tacque un istante, giocherellando con una penna a sfera che aveva preso dalla scrivania e scrutandolo come se stesse cercando di indovinare i suoi pensieri. Il suo sguardo scivolò di nuovo sull’uniforme stropicciata di Manfredi, e indugiò un po’ troppo a lungo sul nodo malfatto della cravatta. Il ribrezzo che gli si dipinse in volto bastò più di tante parole.

«Ma, visto che lei e gli altri dovrete sapere di preciso che cosa dobbiate fare, immagino di poterglielo dire», dichiarò, riprendendo il discorso e staccando gli occhi dall’abbigliamento del tenente, non senza un’ultima smorfia disgustata. «È presto detto. I pezzi che saranno esposti, per quanto antichi e autentici, spediti tutti dagli Stati Uniti, saranno quasi tutti delle cianfrusaglie.»

Afferrò il rapporto con l’elenco dei pezzi destinati alla mostra e cominciò a scorrerlo. Non riuscì a celare una nuova espressione di raccapriccio non troppo dissimile da quella che aveva riservato al tenente.

«Paccottiglia senza un vero valore: vecchie Colt arrugginite, un Winchester o due, punte di freccia indiane, un cappello Stetson bucato e rammendato ma che pare essere appartenuto nientemeno che a Buffalo Bill, una vecchia bandiera a stelle e strisce rappezzata e bucata, un pianoforte da saloon roso dai tarli, alcune uniformi ammuffite dei soldati della Guerra di Secessione, qualche riproduzione di fotografie, arnesi della vita quotidiana, terraglia indiana e poco più. Ci saranno anche la replica di un carro da pionieri, di una tenda navajo e poco altro. Roba che, quasi quasi, non vale nemmeno un’assicurazione. Sembra la mostra per un parco dei divertimenti, più che per un luogo come il Quirinale.»

Alberto aggrottò le sopracciglia.

«Allora, non capisco perché…»

«Ma ci sarà un pezzo, come dire, forte», lo interruppe Iannaccone, ignorandolo. La sua voce scese di qualche ottava, assumendo il tono cospiratorio e carbonaro delle grandi occasioni. «Un pezzo che molti collezionisti privati aspirerebbero ad avere nelle loro raccolte.»

Sollevò gli occhi dal foglio e li puntò dritti in quelli di Manfredi. Si protese verso di lui, pronto a bisbigliare a mezza voce quell’informazione che, oltre a loro, nessuno doveva ascoltare.

Suo malgrado, il tenente provò un moto di curiosità. Che cosa mai poteva essere…?

«Gli speroni che il futuro Presidente degli Stati Uniti Theodore Roosevelt utilizzò quando, durante un periodo di depressione, si ritirò a vivere nelle Badlands, terre selvagge del Dakota del Sud.»

Alberto si trattenne a stento dallo scoppiare a ridere.

Gli speroni… cazzo!

«Cosa sarebbe quella smorfia, tenente?!» lo inquisì Iannaccone, raddrizzandosi di nuovo sulla sedia.

Manfredi si controllò appena in tempo.

«Niente, niente… solo mi stavo dicendo che, a ben vedere, il Dakota del Sud non è uno degli Stati del vecchio West…»

Iannaccone si strinse nelle spalle e scribacchiò qualcosa sopra il documento.

«E lei che vuole che ne sappia, la gran parte della gente, di dove si trovi mai il Dakota del Sud? Sono pronto a scommettere che un mucchio di gente non sa nemmeno che esista, uno Stato con un simile nome. L’ignoranza dilaga, caro Manfredi, ripeto, l’ignoranza dilaga. È un dato di fatto, e nulla fa eccezione, tantomeno la geografia. Anzi, quella è la più bistrattata di tutti. Sono pronto a scommettere che, se le domandassi quale sia la capitale del Burkina Faso, nemmeno lei sarebbe in grado di dirmelo.»

Alberto aggrottò le ciglia.

Uhm, la capitale del Burkina Faso…? Vediamo…

«Per la maggioranza dei nostri conterranei, gli Stati Uniti sono semplicemente l’America», proseguì il colonnello, «e hanno giusto una vaga idea dell’esistenza di New York, Washington e Los Angeles, anche se dubito che saprebbero dire dove si trovino, se gli si mostrasse una carta geografica muta e gli si chiedesse di indicarne l’ubicazione. So di gente convinta che la California sia affacciata sull’Atlantico… sull’Atlantico! Perdio!»

Non è Mogadiscio. E nemmeno Antananarivo. Aspetta, forse…

«Ma poi di cosa meraviglio?» andò avanti imperterrito l’ufficiale, ormai perso nelle sue considerazioni. «Una volta, origliando una conversazione in un bar, ho sentito gente convinta che la città di Trapani si trovi, senta un po’, in Puglia! In Puglia! Per non parlare di quelli convinti che, il lago più grande d’Italia, sia il Maggiore, per via del suo nome. Dove andremo a finire? No, dico: dove mai andremo a finire? Io proprio non lo so. E lei, Manfredi, lo sa?»

Alberto, tutto catturato dai suoi ragionamenti, non si degnò di rispondere.

Non potrebbe essere Monrovia, vero? No, no…

Iannaccone lo fissò e soggiunse, con un tono che non ammetteva repliche: «Gli speroni ci stavano bene nella mostra e gli speroni ci saranno. Voi dovrete stare attenti a che nessuno provi a rubarli. Roba, come può ben intuire, che non compete ai corazzieri, i quali hanno ben altri compiti.»

Del tipo, stare immobili come statue di sale e non fare nulla tutto il giorno. Però, chi se ne frega. Mi pare sia Nairobi, no?

Alberto si astenne dal tramutare in parole i suoi pensieri a riguardo della faccenda. Non era il momento di mettersi a fare commenti. Nell’ufficio di Iannaccone, tra le altre cose, regnavano un odore di vecchiume e di masarotto disgustosi, perché il colonnello era così tirchio da non voler far pulire mai i mobili e i pavimenti, nemmeno se a pagare il detersivo non era lui ma lo Stato. Sosteneva che, a pulirle troppo, le superfici avrebbero finito col consumarsi.

Invece, si limitò a domandare: «E tutto il resto?»

Casablanca, macché! Abuja, allora? No, no…

Iannaccone fece un vago gesto con la mano.

«Già che siete lì, dategli un’occhiata a turno. Male non fa. Ma a chi vuole che gliene freghi nulla, di quella roba?»

Manfredi non avrebbe saputo dirla meglio. Immaginò che fosse venuto il momento di congedarsi. Si alzò e fece un vago cenno di saluto.

Non riuscì a trattenersi oltre.

«Yamoussoukro!» esclamò, trionfante. Già il solo essere riuscito a ricordarsi – e, soprattutto, a pronunciare – un simile nome impossibile, gli avrebbe dovuto come minimo fruttare una promozione.

Ma, lo sapeva, in Italia non vige la meritocrazia, a nessun livello.

Iannaccone lo fissò in silenzio per un qualche istante, prima di sibilare a denti stretti: «Ouagadougou, Manfredi! È questa la capitale del Burkina Faso. Ouagadougou. Se la stampi bene in mente, tenente, perché un giorno potrebbe tornarle utile. Non si sa mai, nella vita.»

Alberto pensò bene di battere in ritirata, prima che al colonnello venisse in mente l’insana idea di obbligarlo a fare per davvero un ripasso di geografia.

Prima che uscisse dalla porta, però, Iannaccone lo richiamò ancora una volta.

«E un’altra cosa, tenente, perdio…» sbottò. «Impari a farsi come si deve quel benedetto nodo alla cravatta!»

 

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Capitolo 3
*** 3. ***


3.

 

 

Nuovo Messico, maggio 1540

 

 

La colonna dei conquistadores avanzava da lunghe ore nel deserto. La marcia era stata intrapresa appena prima dell’alba, e soltanto il tramonto avrebbe finalmente concesso agli uomini un poco di riposo. Un riposo che, comunque, non sarebbe stato facile. Il caldo era soffocante, l’aria bollente e secca e, all’orizzonte, il calore creava strani giochi e disegni di luce, che davano di momento in momento l’impressione di città e laghi perduti nella lontananza. Il sole aveva arroventato le armature e gli elmi dei soldati, che marciavano a fatica con gli archibugi in spalla e le spade al fianco, trascinando pesanti cannoni e pungolando i muli perché non smettessero di tirare i carretti carichi di munizioni, arnesi, tende smontate e derrate alimentari.

Gli ufficiali a cavallo, con le corazze arabescate e incrostate di sporcizia, i capelli lunghi e unti che sfuggivano da sotto gli elmi, andavano avanti e indietro lungo la fila di soldati, per accertarsi che tutti mantenessero il proprio posto e nessuno rimanesse indietro. Quando uno degli uomini, stremato dalla calura e dalla fatica, si fermava per riposare, i superiori lo incitavano a rientrare nei ranghi e a riprendere il cammino con poche urla e parecchi colpi di frusta.

Alla testa dell’esercito, montati in sella, marciavano i comandanti. Uomini alteri e fieri, che pure in quei frangenti mantenevano intatto il loro aspetto nobile, di appartenenti all’aristocrazia di Spagna. A piedi, al loro fianco, camminavano le guide indigene, robuste e seminude, instancabili, che avevano accettato di porsi al servizio di quella spedizione diretta verso l’ignoto. Davanti a tutti, assiso sopra un cavallo bianco, con la lunga barba nera che si allungava sul davanti dell’armatura cesellata con immagini sacre, avanzava il comandante supremo, il capo della spedizione.

Francisco Vazquez de Coronado.

L’uomo che aveva giurato di trovare e conquistare le perdute sette città di Cibola.

Pedro Alvarez aveva diciannove anni. Procedeva adagio, chino sotto il peso dell’armatura, a non troppa distanza dagli ufficiali.

Era un soldato semplice, che si era arruolato nell’esercito in cerca di fortuna. Il miraggio dell’oro lo aveva spinto a lasciare la Spagna in cui era nato, attraversare l’Atlantico e seguire quella spedizione nei territori inesplorati a nord del reame del Messico. Sognava di tornare al sud ricco. Avrebbe condotto una vita agiata, magari acquistando alcuni terreni per impiantarvi una hacienda; avrebbe preso in moglie una sposa giovane e bella e avrebbe avuto numerosi figli. Un sogno che si sarebbe realizzato non appena avessero portato a termine la conquista delle misteriose città d’oro.

Perché, se gli esploratori del Brasile da anni e anni buttavano sangue e fatica nella vana ricerca di Eldorado, la città d’oro celata tra le selve malsane e impenetrabili del meridione, loro, i prodi membri della spedizione di Coronado, avrebbero di sicuro avuto maggiore fortuna.

Pedro se lo sentiva.

Avrebbero davvero – e in breve tempo – raggiunto le sette città di Cibola.

Da dove si trovava, poteva vedere di continuo il comandante. Osservare quell’uomo fiero e implacabile andare incontro al proprio destino era una vera epifania. Coronado era l’immagine stessa della vittoria imminente.

Lo sguardo profondo e impenetrabile del comandante, ombreggiato da folte sopracciglia scure, era fisso all’orizzonte. Pedro provò a guardare, cercando di vedere a sua volta qualcosa. Per il momento, poteva soltanto scorgere sabbia rossa e cielo blu. D’altra parte, Coronado era un uomo benedetto da Dio: era ovvio che possedesse una vista superiore, che gli permetteva di scorgere con chiarezza ciò che agli altri era ancora del tutto invisibile.

Pedro era sicuro che, oltre il piatto orizzonte, Francisco de Coronado fosse già in grado di scorgere gli alti torrioni, le mura, i campanili e i tetti d’oro delle città di Cibola. E se Coronado riusciva a vederle, era come se tutti loro potessero già ammirarle.

Così andarono avanti imperterriti, inoltrandosi nel deserto.

Andarono avanti per giorni, per settimane, mesi.

Per anni.

 

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Capitolo 4
*** 4. ***


4.

 

 

Roma, Italia, marzo 2022

 

 

 

«Ti rendi conto che, in questo posto – di solito – vengono esposte le opere di Leonardo, o di Raffaello, o magari di Michelangelo, o comunque dei grandi uomini della cultura italiana? Te ne rendi conto o no, Manfredino?»

Aurora Bresciani stava seguendo con aria poco meno che scioccata l’allestimento in corso della mostra.

Alcuni operai, diretti da un archeologo americano giunto apposta dagli Stati Uniti, stavano provvedendo a sistemare negli espositori vecchie armi da fuoco arrugginite, finimenti di cavalli di cuoio rinsecchito, uniformi lacere che risalivano alla Guerra Civile, copricapi indiani mezzi marciti e altre cose del genere. Su tutto, aleggiava un odore poco meno che ripugnante, che si attaccava addosso e penetrava nelle narici con la prepotenza di un morbo pestilenziale.

«Sembra di stare a un mercatino delle pulci dove sia rimasto soltanto il ciarpame», commentò ancora, aspra. «Con la sola differenza che lì, di solito, è già tanto se si vede un vecchio vigile urbano aggirarsi tra i banchetti. Di certo, non ci si trova un’intera squadra speciale.»

Alberto guardò per un istante l’archeologo americano maneggiare con amorevole cura una sciabola – che, a quanto pareva, era la replica esatta di quella utilizzata dal colonnello George Armstrong Custer a Little Bighorn, dal momento che l’originale era andata perduta – e spostò lo sguardo su Aurora. Anche lei, cosa insolita, considerato che la maggior parte delle volte agivano sotto copertura, indossava la divisa. Al contrario di lui, però, la vestiva con una grazia rara, una grazia a cui facevano da contorno i capelli rossi, che aveva raccolto con eleganza dietro la nuca.

«Secondo Iannaccone, questa mostra è importantissima», riferì. «Stando al colonnello, ha il compito di rinsaldare il profondo legame di fraterna amicizia tra il popolo italiano e quello statunitense, mettendo in mostra nel cuore della Città Eterna i simboli della cultura d’oltreoceano.» Fece una pausa e sogghignò. «Parole sue, eh.»

Aurora atteggiò le labbra a una di quelle smorfiette a cui Alberto era sempre incapace di resistere.

«Penso che, dagli Stati Uniti, avrebbero potuto inviarci ben altri simboli di cultura, oltre a questa paccottiglia informe», commentò. Spostò lo sguardo. «E magari un esperto migliore di quel buzzurro lì. Guardalo, dannazione: sembra uscito da un film western.»

Il buzzurro uscito dal film western in questione era l’archeologo che si stava occupando della mostra. Il professor James Shelton, ricercatore e docente dell’Università del Texas. In quel momento, si stava sbracciando all’indirizzo di due operai intenti a trasportare una cassa con stampigliata la dicitura “fragile”.

L’uomo, in effetti, si sarebbe potuto scambiare davvero per uno sceriffo del vecchio West. Indossava una giacca marrone di fustagno al di sopra di una camicia bianca, il cui colletto era chiuso da una cravatta texana ornata da un teschio di bufalo in argento; calzava blue-jeans e stivali da cavallerizzo; sopra i capelli tenuti in ordine dalla brillantina, portava un cappellone bianco da cow-boy e teneva lo sguardo celato da un paio di occhiali da sole dalle lenti nerissime, che non si era tolto nemmeno per un istante. Un paio di enormi baffi gli ornavano le labbra, mentre le guance non erano state rasate da almeno tre giorni.

Quando si era presentato loro, con una vigorosa stretta di mano e un tono di voce che rasentava il disturbo della quiete pubblica, sottolineato dal suo incomprensibile accento texano, aveva chiesto in confidenza di chiamarlo Jim.

Manfredi si strinse nelle spalle.

«Che vuoi farci? Come dice il colonnello, dobbiamo essere usi a obbedir tacendo…»

«Sì, sì», tagliò corto Aurora. «È proprio meglio tacere, perché se dicessi quello che ho in mente…» Sbuffò. «Vado fuori a fumarmi una sigaretta, ché altrimenti divento nervosa, e quando sono nervosa, tendo a essere dispettosa, e allora…»

Senza aggiungere altro, si voltò e si allontanò di buon passo. Alberto restò incantato a fissare il suo tondo didietro ancheggiante.

«Tenente», lo richiamò alla realtà il maresciallo De Crescenzo, avvicinandosi. «È tutto sistemato. Ho predisposto il servizio d’ordine, e ho disposto i turni di sorveglianza dei vari agenti, in modo che il luogo resti vigilato di notte come di giorno.»

Il maresciallo Gennaro De Crescenzo era un uomo di mezza età, piccolo, baffuto e in sovrappeso. In apparenza, non ci si sarebbe fatta molta affidabilità. Eppure era abilissimo nel suo lavoro, e Alberto doveva a lui molte delle cose che aveva imparato.

«Molto bene, maresciallo», replicò Manfredi. Infilò le mani in tasca, assumendo la posa meno marziale che fosse in grado di mettere in atto. «Anche se sono abbastanza sicuro che nessun ladro cercherà di entrare qui dentro, né stanotte né fino a quando sarà finalmente stata sgomberata questa sottospecie di parodia di una mostra.» Annusò l’aria, impregnata del tanfo della paccottiglia, e fece una smorfia. «Penso proprio che basterebbe questa puzza a mettere in fuga qualsiasi malintenzionato.»

De Crescenzo gettò uno sguardo a una delle vetrinette, che conteneva alcuni proiettili di Colt schiacciati, blu per l’ossidazione. Il cartellino che li accompagnava informava chiunque si fosse preso la briga di leggerlo che erano stati raccolti a Tombstone, nell’ottobre del 1881, subito dopo la celebre sparatoria all’O.K. Corral che aveva contrapposto i fratelli Earp alla banda Clanton.

«Mannaggia, tenente, che razza di porcherie», borbottò. «E pensare che, in questo momento, saremmo dovuti essere impegnati a pianificare i dettagli dell’incursione in Croazia, nella villa di Rakovac.»

Alberto scosse il capo. Il viso gli fu oscurato da un’ombra cupa.

«Non parlarmi di quel pelatone, o mi viene l’orticaria…»

Quella era una faccenda quasi personale, per lui.

Rakovac era un boss della malavita dei Balcani, che aveva la mania di collezionare tutte le rappresentazioni che, nel corso dei secoli e dei millenni, erano state date della Grande Madre mediterranea, la dea primigenia a cui era devoto. Solo che, nella sua personale collezione – composta quasi per intero di opere rubate – era compreso anche un quadro di enorme valore che era stato trafugato dall’Italia: la Venere impudica, di Sandro Botticelli. Alberto aveva giurato a se stesso che, prima o dopo, sarebbe riuscito a recuperare quell’opera d’arte. Da qualche mese, quindi, stava studiando un piano minuzioso e dettagliato per entrare nella villa di Rakovac e recuperare il quadro, anche grazie ad alcune informazioni che era riuscito a ottenere da un ex collaboratore di quello che, per lui, era il pelatone.

Purtroppo, aveva dovuto rimandare i suoi piani di incursione a causa di questo assurdo lavoro che Iannaccone gli aveva rifilato all’improvviso.

«Ce la faremo, tenente», lo rassicurò De Crescenzo. «Nel nostro lavoro, ci vuole pazienza. Servono anni – a volte, persino decenni – ma, alla fine, si riesce sempre a recuperare ciò a cui si punta. Siamo segugi inarrestabili: quando fiutiamo una pista, non la molliamo finché non abbiamo raggiunto la preda.»

Alberto fece un sorrisetto. Gli sarebbe tanto piaciuto riuscire a condividere l’ottimismo del maresciallo. Eppure, si sentiva come se gli mancasse qualcosa. Qualcosa di suo. E non sarebbe mai riuscito a sentirsi davvero completo fino a quando il quadro a cui stava dando la caccia non sarebbe stato esposto dentro un qualche museo italiano.

Era una faccenda che gli stava profondamente a cuore. Qualcosa che aveva preso sul personale.

«Ci riusciremo, tenente», lo rassicurò ancora De Crescenzo, intuendo i suoi pensieri.

Manfredi annuì.

«Intanto», disse, senza riuscire a celare il proprio sarcasmo, «dobbiamo badare che nessuno provi a trafugare tutti questi tesori.»

Tornò a guardare il dottor Shelton, impegnato ad appendere a una parete un ritratto di Buffalo Bill. Lo maneggiava e lo fissava con la stessa venerazione con cui, ne fu sicuro, lui avrebbe maneggiato e fissato la Venere impudica di Sandro Botticelli.

A ciascuno il suo, si disse, con un’alzata di spalle.

 

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Capitolo 5
*** 5. ***


5.

 

 

Monte Supersticion, giugno 1542

 

 

Quella notte, la colonna fu fatta fermare dinanzi ai contrafforti rocciosi di un’ampia catena montuosa che si sollevava dal terreno come il corpo di un antico gigante pietrificato nel suo sonno eterno.

Una nuova tappa, l’ennesima, dopo un cammino massacrante.

Un cammino che, giorno per giorno, per settimane, mesi, anni, stava mettendo sempre più a dura prova le forze, la volontà e la disciplina degli uomini.

La spedizione durava ormai da oltre due anni.

Nel corso di quel lungo lasso di tempo, erano state esplorate gole, risaliti fiumi, valicati monti e attraversati deserti. Padre Marco da Nizza, il cartografo della spedizione, aveva continuato ad aggiornare la sua carta, segnandovi tutti i punti raggiunti o soltanto avvistati da lontano. Un importante resoconto, che un giorno sarebbe servito agli eserciti che, dal sud, si sarebbero mossi per annettere anche quei territori all’impero di Spagna.

Non erano mancate le scorrerie, e il bottino era stato ricco: dai villaggi depredati, anche il più umile dei soldati aveva potuto portare via gioielli in quantità, armi, viveri, e almeno una donna. Nessuno poteva lamentarsi di non aver guadagnato qualcosa di prezioso.

Pedro, sotto la sua tenda, aveva adesso accumulato vasi pregiati, ornamenti di vario tipo, archi e frecce che aveva strappato dalle mani degli indiani che lui stesso aveva ucciso, metalli preziosi lavorati che attendevano soltanto di essere fusi e tramutati in monete sonanti. E donne, naturalmente. Una vecchia, che gli serviva da sguattera, e la sua giovane figlia, che aveva il compito di accudire la sua persona. Si sentiva un vero re, e aver perso un occhio nel corso di una battaglia gli sembrava ben poco prezzo, in cambio di ciò che aveva guadagnato.

Si stava appunto facendo massaggiare le spalle dalla sua bella schiava, quando il lembo che chiudeva l’ingresso della tenda fu sollevato. Miguel, un soldato che si era arruolato insieme a lui e con cui aveva stretto una profonda e intima amicizia, entrò a passo di marcia e andò a sederglisi accanto.

«Che cosa succede?» domandò Pedro, riconoscendo sul volto scuro e rinsecchito dell’amico l’ombra di una preoccupazione.

Miguel lanciò una breve occhiata a Linda, la giovane schiava. Quello non era il suo vero nome; a darglielo era stato padre Marco, quando l’aveva battezzata a forza. Quel sant’uomo non avrebbe mai tollerato che un cristiano si congiungesse carnalmente con una donna che non era stata toccata dalla benedizione di Cristo. La ragazza era nuda e muoveva le mani sulle spalle di Pedro con delicatezza. Eppure, nel suo sguardo, il soldato lesse una sfida implacabile, una fierezza antica. Sarebbe stata capace di affondare una lama nella gola del suo padrone in ogni momento. Ecco perché lui aveva preferito resistere alle lusinghe degli amori forzati a cui la stragrande maggioranza dei suoi commilitoni avevano costretto le donne catturate: era convinto che, in questo modo, sarebbe vissuto molto più a lungo.

In ogni caso, non era certo questo a preoccuparlo.

Ognuno era responsabile della propria vita.

«Gli ufficiali parlano dell’esplorazione dei monti che abbiamo di fronte», mormorò, a mezza voce. «Il comandante è convinto che, lassù, tra i picchi, si celi Cibola.»

Pedro ne fu rallegrato.

«Benissimo!» esclamò. «Finalmente siamo vicini alla meta!»

Miguel lo fissò stralunato.

«Ma come, non capisci?» borbottò. «Questa spedizione si sta rivelando un fallimento. È un inferno. Metà di noi sono morti per gli stenti, buona parte degli altri è stanca e malridotta, e finora non abbiamo trovato altro che poveri villaggi di indiani da cui non abbiamo preso quasi nulla…»

Pedro fece un sogghigno e si girò sulla schiena per ammirare il corpo di Linda. Il suo unico occhio – la cavità lasciata vuota dall’altro, il sinistro, era coperta da una benda nera – si allargò a dismisura.

«Parla per te», disse.

Sollevò le mani nodose e le appoggiò sui seni della ragazza. Li strinse piano, lasciando andare dalle labbra un mugolio di piacere. Lei rimase impassibile.

«Io, da questa spedizione, ho avuto molto più di quanto avrei potuto desiderare.»

«E allora», fece Miguel, cupo, «sarebbe meglio che tu ti accontentassi. Che tutti quanti ci accontentassimo di quello che abbiamo avuto. Anche Coronado dovrebbe farlo. Se diamo retta al comandante, di questo passo finiremo col morire tutti quanti! Quell’uomo non si fermerà mai, anche se ormai sta soltanto inseguendo il suo delirio!»

Pedro aggrottò le sopracciglia. Si mise a sedere sulla stuoia, allontanando Linda con un gesto della mano.

«Fammi capire», mormorò, abbassando la voce a un livello appena percettibile, «mi stai per caso suggerendo che dovremmo ammutinarci? Ribellarci al comandante?»

Miguel non disse nulla, ma fece un cenno molto eloquente con la testa.

«Io e te soli», andò avanti Pedro, «contro l’intero esercito, contro gli ufficiali e quindi contro la Spagna intera.» Sogghignò. «Non saremmo un po’ pochi?»

«Non saremmo soltanto noi!» esclamò all’improvviso Miguel, scosso. Calò la voce, timoroso di poter essere ascoltato da orecchie indiscrete. «A capo di tutto, c’è l’eccellentissimo signore Conrado Luis Guillermo Guzman de la Trinidad-Gonzaga, marchese di Elche. Ha radunato attorno a sé un gruppo di ufficiali scontenti del comando di Coronado, e noi soldati abbiamo avuto l’incarico di chiedere ai nostri più fedeli camerati di unirsi a noi. Questa follia sta durando da troppo tempo, siamo stremati. Deve avere fine. Sarai dei nostri, vero?»

Pedro rivolse a Miguel uno sguardo indecifrabile. Uno sguardo di cui l’altro militare ebbe una folle paura. Poi, però, sorrise in modo affabile.

«Ma certo che sono dei vostri», garantì. «Quando sarà il momento, prenderò parte all’ammutinamento.»

Allungò la mano verso Linda, chiamandola a sé.

«Ora, però, per favore, lasciami solo. Dal momento che non posso sapere se sopravvivrò alla sommossa, voglio almeno godermi gli ultimi istanti di piacere con la mia muchacha.»

 

* * *

 

Quella stessa notte, i soldati coinvolti nell’ammutinamento furono raggiunti nelle loro tende dalle truppe fedeli al comandante e passati a fil di spada. Parecchi passarono dal sonno alla morte senza nemmeno rendersene conto. Tra di loro, caddero anche molti innocenti, sospettati a torto di aver preso parte al tradimento.

Miguel fu sorpreso sulla branda da Pedro in persona.

«Perché?» domandò il soldato, fissando il volto di quello che aveva creduto un amico, illuminato dalla lucerna a olio portata in mano da uno dei militari che avevano fatto irruzione nella tenda.

«Ho troppo da perdere e troppo da guadagnare», spiegò Pedro. Poi affondò il coltello nella gola di Miguel, tagliandola di netto.

Gli ufficiali traditori vennero messi agli arresti e immediatamente condannati a essere impiccati. Ma, non essendoci nei paraggi abbastanza alberi a cui appenderli e non disponendo del legname sufficiente a costruire i patiboli necessari, la condanna venne tramutata; sarebbero stati condotti in cima a un alto picco che svettava sulla catena montuosa alle spalle dell’accampamento e gettati nel vuoto.

In quanto al marchese di Helche, Coronado diede ordine ai suoi servitori indiani di torturarlo con estrema lentezza fino alla morte, come monito a chiunque avesse osato fomentare un’altra rivolta contro di lui. Le sue grida strazianti risuonarono per il campo per quasi tre giorni, prima che la gola del marchese tacesse per sempre.

«Pedro Alvarez», disse Coronado, quando gli fu condotto davanti l’uomo che, con la sua delazione, aveva permesso di sventare sul nascere la rivolta. «Ti sono debitore. La Spagna intera ti è debitrice. Per questo, per i poteri conferitimi dal mio ruolo di governatore della Nuova Galizia per ordine del viceré della Nuova Spagna don Antonio de Mendoza, ti proclamo Cavaliere del Nuovo Mondo, e ti conferisco il rango di capitano del mio esercito.»

Pedro trattenne a stento un sorriso.

Ce l’aveva fatta. Dopo tanto penare, aveva raggiunto il grado che gli competeva ed era diventato un nobile. Adesso, non avrebbe più dovuto accontentarsi di Linda e di sua madre: con gli altri ufficiali, si sarebbe spartito il bottino di guerra – donne comprese – requisito ai traditori.

E, per di più, ebbe l’onore – e insieme il piacere – di condurre lui stesso a morte quegli stessi ufficiali a cui innumerevoli volte aveva camminato alle spalle, mentre loro procedevano a cavallo. Li guardò sfilare davanti a sé, nudi e incatenati, con la pelle piagata dal sole e dalle percosse, costretti a colpi di frusta a risalire il ripido pendio irto di pietre acuminate; e a ciascuno di loro disse: «Che Dio abbia pietà della vostra anima», prima che i suoi soldati li spingessero nel vuoto.

 

 

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Capitolo 6
*** 6. ***


6.

 

Roma, Italia, marzo 2022

 

 

Le mani intrecciate dietro la schiena, Alberto stava osservando un vaso di terracotta su cui erano dipinti alcuni glifi color ocra. A giudicare dalla fattura e dalle condizioni del reperto, sembrava molto antico. L’unico pezzo forse di un qualche reale valore dell’intera mostra.

Una conclusione che aveva raggiunto vedendo quanto poco il professor Shelton sembrasse esservi interessato.

«Questo recipiente fu realizzato dai miei avi, tenente», risuonò una voce alla sue spalle.

Sorpreso, Manfredi sobbalzò leggermente, mentre si girava a guardare chi fosse stato a parlare. Si ritrovò a fissare negli occhi neri e profondi di Paul Ward, l’assistente di Shelton. Gli zigomi alti e pronunciati, le labbra carnose e i lunghi capelli bianchi ne rimarcavano senza ombra di dubbio le origini.

«Per suoi avi intende i nativi americani, signor Ward?» domandò Alberto, curioso. Suo malgrado, provò un moto d’emozione interiore: era cresciuto leggendo i fumetti di Tex Willer e guardando i film con Clint Eastwood, e trovarsi a tu per tu con un vero indiano d’America non era certo cosa da tutti i giorni.

Mi pare di essere Marty McFly tornato indietro al 1885, si scoprì a pensare.

L’uomo mantenne il suo sguardo imperturbabile.

«Mi chiami Black Eagle, la prego, tenente», replicò. «È quello il nome che mi è stato attribuito dal capo della mia tribù.» Spostò lo sguardo sul vaso e aggrottò un poco le folte sopracciglia. «Questo recipiente, fu realizzato in tempi remotissimi da un mio lontano antenato. Il suo nome era Kosumi, ed era uno sciamano. In questo recipiente, egli raccolse l’essenza malvagia di Skudakumooch, la strega.»

Alberto guardò a sua volta il vaso.

«La strega…?» ripeté.

«È una vecchia leggenda indiana, Manfredino», disse Aurora, all’improvviso.

Per la seconda volta in pochi istanti, il tenente si trovò a sobbalzare. Non l’aveva sentita avvicinarsi. Quando voleva, quella donna alta e robusta sapeva essere silenziosa come un felino. Adesso percepì l’odore di tabacco bruciato misto al suo profumo alla vaniglia, che l’accompagnava ovunque andasse. A giudicare dal fatto che non sembrasse più emanare ondate di vibrazioni negative, doveva aver assunto una più che discreta dose di nicotina durante la sua assenza.

«E tu, ovviamente, la conosci», borbottò.

«Ovvio», trillò lei, con un sorriso. «Sono al corrente di tutte le storie in cui donne cannibali si cibano di uomini. Mi serve per prendere spunto e ispirazione per quando qualcuno mi rende nervosa e, di conseguenza, dispettosa.»

Disgustoso, pensò Alberto. Ma da lei posso aspettarmi anche di peggio.

«Questo vaso», andò avanti a parlare Black Eagle, «fu rinvenuto oltre un secolo e mezzo fa nelle Montagne della Superstizione, da Jakob Waltz, un cercatore d’oro che fu soprannominato l’Olandese. Quell’uomo era alla ricerca del tesoro perduto del capitano Kidd, che si narrava fosse celato all’interno di una miniera perduta, la cui ubicazione era mantenuta celata dagli indiani Apache, i miei antenati. Questo perché essi sapevano che, oltre all’oro, c’era qualcosa di ben peggiore, in quelle gallerie sotterranee.»

Alberto deglutì e guardò rapidamente il vaso.

Ma è solo una storia…

«Potrebbe sembrare solo una storia…» intervenne Aurora.

Come al solito, era come se gli avesse letto nel pensiero.

«…ma non è così. Gli archeologi, compiendo ricerche nel deserto americano, hanno rinvenuto tracce di atti di cannibalismo e di altre violenze accadute tutte nello stesso periodo, il medesimo che vide accadere sconvolgimenti di vario genere. Un periodo compatibile con la datazione a cui si è soliti far risalire questo recipiente.»

Alberto la fissò.

Cosa stai cercando di dirmi…?

Black Eagle fece un vago cenno con la testa e riprese la parola.

«Ovviamente, per la maggior parte degli uomini si tratta soltanto di una leggenda. Ma noi Apache sappiamo che è tutto vero. In epoche lontanissime, Skudakumooch perseguitò il mio popolo, fino a quando Kosumi combatté contro di lei e la sconfisse. Sapeva, però, che il vaso in cui l’aveva racchiusa sarebbe stata una prigione troppo poco sicura e che chiunque avrebbe potuto aprirlo, liberandola: così, lo celò nelle profondità della terra.»

Alberto passò lo sguardo da lui ad Aurora per poi riportarlo sull’indiano.

«Fatemi indovinare: Jakob Waltz trovò questo vaso?»

Black Eagle annuì una volta sola.

«Già. Noi avevamo sempre fatto buona guardia, e avevamo più volte impedito che gli stranieri si avvicinassero al nascondiglio del vaso. Sapevamo che, se qualcuno lo avesse trovato, anche soltanto per caso, avrebbe potuto scatenare un grande pericoloso. Molte volte, anche se ciò ci costò parecchi sacrifici, riuscimmo in maniera egregia nel nostro intento. Come quando, alla metà del sedicesimo secolo, arrivarono gli spagnoli…»

 

 

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Capitolo 7
*** 7. ***


7.

 

 

Monte Supersticion, giugno 1542

 

 

Liquidata la faccenda del tradimento, Coronado radunò nella sua tenda tutti gli ufficiali che gli erano rimasti fedeli, per tenere un consiglio. Pedro avanzò baldanzoso, fiero del ruolo che aveva avuto nello smascheramento della congiura. Non si sorprese a scoprire che il comandante lo volle in piedi al proprio fianco.

«Il tentativo di ammutinamento che abbiamo fortunatamente sventato per tempo, mi ha dato molto da pensare», cominciò Coronado, seduto sopra uno scranno rivestito di velluto e con i braccioli intagliati a forma di teste di leone. Il fiero esploratore, in quei due anni, era parecchio invecchiato, e rughe profonde gli solcavano la fronte e gli attorniavano gli occhi. «Mi sono posto questo quesito: quanto tempo passerà, prima che un simile tradimento si verifichi di nuovo?»

Fece scorrere lo sguardo penetrante su tutti gli ufficiali. Qualcuno riuscì a sostenerlo, ma la maggior parte abbassò il proprio, imbarazzati e soggiogati dagli occhi di quell’uomo straordinario.

«Mi chiedo: quanto passerà, prima che uno di voi mi tradisca?»

A queste parole, fece seguito un brusio di voci che cercavano di schermirsi. Coronado ignorò tutti quanti. Pedro si affrettò a inchinarsi con deferenza.

«Io, eccellentissimo signore, vi sarò fedele fino alla morte», garantì.

Coronado indugiò su di lui con lo sguardo per qualche istante, prima di replicare.

«Voi siete giovane, capitano», disse. «Quando sarete vecchio come sono vecchio io adesso, capirete che, a questo mondo, non si può riporre la propria fiducia in nessun altro al di fuori che in se stessi e, naturalmente, in Nostro Signore Gesù Cristo.»

Fece una breve pausa.

«Ma vi sono grato per la vostra fedeltà, che già mi avete dimostrato in un frangente molto difficile e delicato», concluse. «Se non fosse stato per voi, in questo momento sarei stato tratto in catene, se non addirittura ucciso. Vi sono debitore della vita. Vi assicuro che, il titolo di cavaliere, è solo l’inizio: quando faremo ritorno nella Nuova Spagna, farò di voi un uomo ricco e importante.»

Pedro si rialzò, inorgoglito da quelle parole. Un vortice di superbia lo riempì e lo avvolse, mentre si rendeva conto di essere superiore a tutti gli altri uomini presenti in quella tenda, eccettuato il comandante. Arrivò persino a domandarsi quanti, dei presenti, fossero stati al corrente della congiura, per poi defilarsi in tempo un attimo prima del disastro. Se lui si fosse trovato al posto di Coronado, non avrebbe esitato un solo istante a condannare tutti quanti a morte, senza fare distinzioni. I colpevoli avrebbero espiato e gli innocenti sarebbero stati ripagati venendo accolti in paradiso.

Il comandante si rivolse a un anziano nobile spagnolo, un uomo con una folta barba bianca e un fisico parecchio robusto, a malapena contenuto dalla corazza. Era il cavaliere Antonio Coimbra de la Coronilla y Azevedo, l’addetto alle salmerie.

«Cavaliere, dite con onestà: come siamo messi a viveri?»

Il cavaliere, uno dei pochi che prima aveva sostenuto senza paura lo sguardo di Coronado, anche adesso lo fissò imperturbabile da sotto le sue palpebre pesanti.

«Abbiamo scorte di carne, farina e frutta secca sufficienti per ancora un paio di mesi», disse. «Abbiamo anche diversi barili pieni d’acqua, mentre non abbiamo più vino, se non le poche bottiglie di Jerez della vostra riserva personale.»

Il comandante annuì con gravità.

«È come immaginavo», asserì, senza scomporsi. «Fino a questo momento, la truppa si è comportata in maniera esemplare perché ha sempre avuto di che nutrirsi. Ma che cosa succederà, allorquando resterà senza vettovaglie e i morsi della fame cominceranno a farsi sentire con prepotenza crescente?»

Fissò i suoi ufficiali uno per uno, in attesa di una risposta che non venne.

Fu lui stesso a darla.

«Si ribelleranno, ecco che cosa succederà. Questa congiura sventata è partita dall’alto, e questo l’ha stroncata sul nascere. Ma, se la fame non spingerà voi stessi ad agire contro di me, di sicuro lo farà con gli uomini. Si ammutineranno contro noi tutti. A quel punto, non ci saranno ordini in grado di fermarli. Ecco perché non possiamo andare ancora avanti. La nostra spedizione deve concludersi qui. Domattina volgeremo le spalle a questo luogo e ricominceremo la marcia verso il Messico. Il materiale cartografico raccolto da padre Marco sarà la prova del nostro successo e, in futuro, potrà servire a organizzare nuove esplorazioni.»

Gli ufficiali si guardarono l’un l’altro, qualcuno espresse un parere favorevole. Quasi nessuno cercò di mascherare un’espressione di puro sollievo. Ma Pedro non udì e non vide nulla. Sentì soltanto la ridda di pensieri insondabili che gli attraversò in fretta il cranio.

Infine, parlando a voce più alta di tutti gli altri, esclamò: «Ma non possiamo abbandonare tutto proprio adesso, che siamo a un passo dal raggiungere Cibola!»

Non poteva credere di aver marciato, di aver faticato e sofferto, di aver rischiato la propria vita e tradito quella di vecchi amici, per poi arrendersi così. Certo, aveva le ricchezze e le due donne che lo attendevano sotto la tenda, e tornava a casa con un titolo nobiliare. Avrebbe potuto coronare il sogno di impiantare un hacienda e viverci come un nababbo, mentre il lavoro sarebbe stato svolto tutto dai campesinos messicani. Ma la sola idea di abbandonare la ricerca di Cibola era agghiacciante, gli toglieva il fiato.

«Il comandante ha ragione, capitano», lo redarguì il cavaliere de la Coronilla y Azevedo. «Con i viveri che ci restano, possiamo soltanto compiere metà della marcia verso il Messico. Saremo comunque costretti a fermarci a fare rifornimenti, lungo la strada. Ma, se proseguiamo, nulla ci garantisce che troveremo Cibola in breve tempo. Se le sette città dovessero sorgere a oltre due mesi di cammino da qui, e nel frattempo non trovassimo villaggi indiani o altri luoghi da cui approvvigionarci, per tutti noi sarebbe la fine. Una fine lenta e dolorosa, aggiungo.»

Pedro lo fissò con aria di sfida. Il cavaliere non mosse un muscolo e restò impassibile. Aveva preso parte a troppe avventure – battaglie, assedi, esplorazioni, compreso un lungo viaggio nel meridione alla ricerca di Eldorado – per lasciarsi intimidire da un ragazzino nato dal nulla.

«Le sette città sino vicinissime», disse il giovane cavaliere, sicuro di se stesso. «A… a non più di una settimana di cammino da qui.»

Coronado, che aveva trascorso gli ultimi istanti a fissare il pavimento coperto di tappeti lisi e polverosi, probabilmente perso a rimuginare sul suo fallimento, alzò di scatto la testa. Lo guardò con vivo interesse.

«Sembrate molto sicuro delle vostre parole, capitano», constatò.

Pedro si morse il labbro, incerto. Poi, però, riprese sicurezza.

Annuì con forza.

«È così, comandante», borbottò. «Io… questa notte, mi è apparsa in sogno Nostra Signora di Guadalupe. Ella mi ha predetto che, molto presto, Cibola sarà in vista, e che sarà nostro dovere riportare quelle sette città profane sotto l’autorità di Dio Onnipotente.»

Alcuni ufficiali sghignazzarono. Coronado li fulminò subito con lo sguardo. Le risate si spensero immediatamente. Tutti quanti erano a conoscenza della profonda devozione religiosa del comandante.

«Mi chiedo perché a voi e non a me», mormorò il comandante. «Ma forse è stata la Madonna a guidare la vostra anima alla scoperta della congiura. Nostra Signora deve avervi scelto come suo vassallo.» Annuì e alzò la voce. «Mi avete convinto, capitano. Domani, riprenderemo la marcia tra i monti.»

Il cavalier de la Coronilla y Azevedo fece un passo avanti.

«Con tutto il rispetto, comandante, ma mi sembrerebbe una decisione piuttosto avventata», disse, con il suo vocione.

«Noi siamo come il Popolo d’Israele, in marcia nel deserto verso la Terra Promessa», fece Coronado.

«Già, ma noi non abbiamo una colonna di fuoco a guidarci nella direzione corretta e, soprattutto, non abbiamo un angelo a farci piovere addosso la manna dal cielo», rimarcò il cavaliere.

Coronado lo guardò senza parlare. Poi cercò l’approvazione degli altri ufficiali. Da parte di nessuno trovò un sostegno. Era solo. Soltanto nello sguardo di Pedro vide brillare la stessa fanatica scintilla che animava il suo.

Annuì.

«Come governatore della Nuova Galizia, devo ovviamente sottostare al consiglio degli uomini nominati a miei consiglieri dal viceré», parlò. «Ma, come capo di questa spedizione, ordino che il cavaliere Pedro Alvarez, alla testa di un manipolo di uomini, prenda la via delle montagne. Noi resteremo qui ad aspettare per quindici giorni, razionando i viveri. Se, entro e non oltre il sedicesimo giorno, non avremo avuto notizie riguardo la scoperta di Cibola, la colonna riprenderà la sua marcia verso il Messico e la spedizione sarà ufficialmente conclusa.»

Pedro si mise sull’attenti.

«Non vi deluderò, comandante», garantì.

 

 

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Capitolo 8
*** 8. ***


8.

 

 

Roma, Italia, marzo 2022

 

 

Il tenente Manfredi deglutì l’ultimo boccone del panino alla mortadella che era stato il suo pasto serale e si sciacquò la bocca con l’ultimo sorso di Coca-Cola rimasto nella bottiglia. Si alzò dal tavolino e si avvicinò al bancone, infilando la mano in tasca alla ricerca del portafogli. L’uomo dietro la cassa gli fece cenno di no.

«Ai carabinieri è tutto offerto dalla casa», disse, con fare sornione.

Alberto ammiccò e mormorò un ringraziamento. Cercò di non apparire imbarazzato per quella situazione che si ripeteva ogni volta che indossava l’uniforme e che non gli era mai andata a genio.

Tanto per cambiare, si disse.

A passo lento, barcollando un poco – l’emicrania, invece che affievolirsi, sembrava essere persino cresciuta di intensità – si avvicinò alla porta a vetri e la aprì. Lo accolse l’aria tiepida della primavera romana, in netto contrasto con l’odore di tabacco, di caffè e di chiuso del bar tabaccheria in cui aveva cenato. Davanti agli occhi, dall’altro lato della strada, gli si offerse la vista di Fontana di Trevi, illuminata dalle luci a led.

Per alcuni istanti, si perse a contemplare l’opera in cui acqua e pietra si mischiavano a creare un connubio unico; e, come spesso gli accadeva in occasioni simili, si trovò a domandarsi fino a che punto l’ingegno umano fosse capace di spingersi nel dare vita e forma alla bellezza.

O alla bruttezza, meditò, ripensando alla bruttura della mostra da fiera di quartiere a cui doveva fare la guardia.

Rassegnato, cominciò a risalire la salita che conduceva in cima al colle del Quirinale.

A metà strada, appoggiata a una balaustra, la sigaretta tra le labbra e lo sguardo verde perso a contemplare il panorama dei tetti di Roma illuminati dalla luce lunare, c’era Aurora.

«Non dovresti essere alla scuderie a montare la guardia, sottotenente?» sbottò Alberto, con un sogghigno.

Lei gli lanciò un breve sguardo velenoso, prima di tornare a fissare Roma.

«Questa città è l’emblema stesso della cultura», mormorò. «Il patrimonio che è racchiuso tra questi colli, è qualcosa di unico. Nessun altro luogo al mondo vi è paragonabile. Qui si trovano testimonianze antichissime e moderne di una sapienza millenaria. Testimonianze che, in ogni momento, andrebbero vigilate e protette, per preservarle dall’incuria e dall’inciviltà a cui sono sottoposte di continuo.»

Si girò a guardare Manfredi. Il suo sguardo, nel buio, parve brillare come quello di un felino.

«E noi, invece, dovremmo preoccuparci di robaccia da stallieri?» commentò, con il tono aspro che riservava sempre a tutto ciò che non le andava a genio. Il che, a ben vedere, equivaleva a parecchie cose. «Suvvia, Manfredino, qui c’è da mettersi a ridere…»

Alberto si stropicciò le tempie doloranti.

«Da ridere o da piangere, noi dobbiamo fare quello che ci è stato ordinato», brontolò. «Il colonnello Iannaccone ci tiene molto. Prendila un po’ come una prova: se avrai dimostrato la corretta obbedienza, quel sotto davanti al tenente ti verrà finalmente tolto e io e te saremo parigrado.»

Il sorriso sinistro di Aurora fu qualcosa di molto pericoloso.

«Io ti sono già superiore, Manfredino bello», sottolineò. «Non pensare che mi faccia spaventare da qualche insulsa gerarchia.»

Alberto non replicò nulla. Sapeva riconoscere quando non ne valeva la pena.

A passo lento, fianco a fianco, si avviarono di nuovo verso la cima del colle. Aurora finì di fumare la sua sigaretta e gettò via il mozzicone. Manfredi lo fissò emettere qualche scintilla arancione, prima di scomparire chissà dove.

«Non credere che io sia tanto entusiasta di fare la guardia a quelle cianfrusaglie, comunque», disse, a un certo punto. «Per quello che mi riguarda, preferirei andare di pattuglia su qualche sito archeologico, per evitare che i tombaroli si mettano all’opera. Quei ladroni sono sempre in agguato. Scommetto che, anche in questo momento, per esempio nell’antica Etruria, qualcuno di loro si sta accingendo a violare qualche tomba sopravvissuta intatta fino ai giorni nostri.»

Aurora, malgrado tutto, sorrise.

«Io sono disposta ad appoggiarti, Manfredino mio, nel caso decidessi di mettere in atto un colpo di stato e…»

Si interruppe di colpo, quando un’ombra cominciò a correre loro incontro dalla direzione opposta. In breve, il maresciallo De Crescenzo fu davanti a loro, con il fiatone e piegato per lo sforzo della corsa.

Tanto Aurora quanto Alberto annusarono puzza di guai.

«Che succede, maresciallo?» domandò Manfredi, circospetto.

De Crescenzo arrancò nel cercare di dire qualcosa. Riprese fiato e riprovò a parlare. Questa volta ci riuscì.

«Tenente, venga di corsa», borbottò. «Temo che sia successo un guaio…»

 

* * *

 

Il professor Shelton si girava e rigirava tra le mani il cappellone bianco. Sembrava molto più in pensiero per l’ammaccatura che aveva rovinato il feltro, che per il livido bluastro che gli solcava la fronte.

Alberto, che aveva ascoltato per cinque minuti buoni le sue ciance in un inglese strettissimo in cui l’accento texano, se possibile, si era marcato ancora più del consueto, si arrese e cercò aiuto in De Crescenzo per capire che cosa fosse accaduto.

«Il professor Shelton stava passeggiando tra le teche, visionando le collezioni per accertarsi che tutto quanto fosse in ordine, quando è stato aggredito alle spalle. Con un randello, probabilmente. Il cappello ha attutito l’impatto, ma quando si è voltato per affrontare il suo aggressore, è stato colpito di nuovo, questa volta in fronte.»

Alberto si girò in fretta verso Aurora, in attesa di un suo intervento. La ragazza, però, parve disinteressarsi alla loro conversazione, tutta intenta a controllare la teca il cui vetro era stato infranto.

Per fortuna, quella con gli speroni del presidente Roosevelt non è stata toccata, rifletté con sollievo Manfredi, che l’aveva vista intatta e ancora occupata dal suo prezioso reperto quando era passato di corsa al seguito del maresciallo.

Ma la cosa non cambiava: speroni o meno, il professore americano era stato assalito, e qualcosa era stato comunque rubato. E lui, come responsabile della sicurezza, ci sarebbe andato di mezzo con tutte le scarpe. Già immaginava la sfuriata di Iannaccone.

E questo dannato mal di testa non mi dà tregua.

Preso un veloce e profondo respiro, tornò a girarsi verso il maresciallo.

«E com’è possibile che qualcuno sia entrato?!» abbaiò.

Era il momento di scaricare altrove un po’ di responsabilità. Era un ufficiale, e ogni tanto gli faceva bene ricordarsene.

«Non avevo dato ordine di vigilare le entrare?!» proseguì. Cercò di imprimere al proprio tono tutta l’autorità di cui sapesse essere capace.

Da come De Crescenzo rimase imperturbabile, non dovette risultare granché autoritario. Del resto, trenta e passa anni nell’Arma avevano reso il maresciallo immune alla strafottenza di certi ufficiali, specialmente dei carrieristi. Non che ritenesse Manfredi tale, comunque. E lo dimostrò rivolgendogli uno sguardo quasi paterno.

«Noi, infatti, mentre lei era a mangiare, non abbiamo fatto entrare nessuno», garantì il maresciallo. Parlò in maniera calma e tranquilla, eppure non mancò di marcare il fatto che Manfredi, tra tutti, fosse l’unico a non essere al suo posto.

Be’, io avrò pur diritto di mangiare, no?, pensò il tenente. E poi, vogliamo parlare di Aurora, che era a fumare invece di stare di guardia…?

Quest’ultima cosa si guardò bene dal dirla. Dall’occhiataccia assassina che lei gli lanciò, fu sicuro che Aurora gli avesse letto nel pensiero.

Come sempre.

«Nessuno è entrato», intervenne Shelton, finalmente rassegnato al fatto che il suo cappello fosse ammaccato. Adesso che era maggiormente calmo, riuscì a rendersi comprensibile parlando in italiano, pur senza abbandonare il suo accento nasale da americano. «Non è stato un ladro venuto da fuori, tenente. So benissimo chi è il colpevole di tutto questo. È stato il mio assistente ad aggredirmi.»

Per Alberto, fu come precipitare da una nube. Allo stesso tempo, comunque, si sentì invadere da un senso di appagamento.

Noi dovevamo stare attenti a che nessuno entrasse, Iannaccone non ha mai parlato di aggressioni dall’interno, si disse, sollevato. Forse, alla fine, sarebbe riuscito a cavarsela, evitando la sfuriata del colonnello. O, almeno, avrebbe avuto un’intensità meno aspra del previsto.

«Intende dire…» borbottò poi, «che è stato quell’indiano… come si chiama…»

L’archeologo e Aurora risposero contemporaneamente.

«Paul Ward», disse Shelton.

«Black Eagle», disse il sottotenente Bresciani.

Alberto fece un breve cenno d’assenso, palleggiando lo sguardo dall’uno all’altra, per poi riportarlo su Shelton.

«Sì, lui… è stato lui?» domandò. «Ma perché?»

Shelton si massaggiò la fronte.

«Io e Paul lavoriamo insieme da cinque anni», spiegò. «Mi fido di lui. Ha una grande conoscenza della storia americana, e in special modo delle culture dei nativi. Abbiamo organizzato insieme questa mostra itinerante sul Far West, e l’abbiamo portata in giro per il mondo. È sempre andato tutto molto bene. Ma, questa volta, Paul ha avuto parecchio da recriminare.»

L’archeologo si bloccò, per massaggiarsi ancora la fronte indolenzita.

Almeno non sono il solo ad avere mal di testa, stasera, si consolò Manfredi.

«…molto da recriminare…» mugugnò ancora Shelton.

Alberto e De Crescenzo si scambiarono uno sguardo incuriosito. Aurora, di nuovo, parve del tutto disinteressata ai loro discorsi.

«Ed è possibile sapere che cosa avesse da recriminare, il suo assistente?» domandò il maresciallo.

L’americano annuì.

«Certo», disse. «Non era d’accordo su una modifica fatta alla mostra.»

Accennò alla teca infranta e proseguì: «Ho voluto aggiungere un elemento che mi sembrava potesse stare bene nell’insieme della raccolta. Si tratta di un vaso che ho recuperato un paio di mesi fa dagli archivi del museo universitario, dove era rinchiuso a impolverarsi da interi decenni, forse persino da più di un secolo. Dall’etichetta, risultava essere stato venduto al museo da un tale di origine tedesca, o olandese, non so bene. Mi sembrava un vero peccato lasciare fuori dalla collezione un simile esempio di arte indiana antica. Di certo, avrebbe impreziosito questa raccolta di… come dire… junk? Capito cosa intendo?»

Alberto e De Crescenzo fecero un cenno di diniego, insicuri di che cosa significasse quella parola. Aurora, al contrario, sollevò lo sguardo e, per la prima volta, rivolse un sorriso di complicità all’archeologo.

Suo malgrado, Manfredi si sentì scuotere da un fremito.

Ma io non sono geloso, figurarsi…

Shelton, incoraggiato da quel sorriso, riprese il discorso.

«Lui sosteneva che fosse una scelta sbagliata, che esporre il vaso avrebbe attirato su tutti noi chissà quale sciagura orripilante… ma a me sembrava che il suo fosse solo un fanatismo senza senso. Ho cercato di richiamarlo alla realtà, rammentandogli che siamo uomini di scienza e che, per noi, un artefatto archeologico non è altro che la testimonianza di civiltà del passato. Gli ho detto, chiaro e tondo, che non possiamo lasciarci suggestionare da leggende e dicerie, perché altrimenti la metà dei musei dovrebbe restare vuota. E pensavo di averlo persuaso, alla fine.»

Alberto guardò di nuovo da Shelton ad Aurora, che non aveva ancora detto una sola parola al di fuori del nome dell’indiano, e da lei alla teca infranta.

«Oggi pomeriggio, il signor Ward sembrava molto interessato a un vaso, ce ne stava raccontando la storia leggendaria: a suo dire, conterrebbe lo spirito di una strega, o qualcosa di simile…»

«È il vaso che non voleva fosse esposto», confermò Shelton.

«Ed è quello che ha rubato», intervenne Aurora.

«Proprio così», disse ancora l’archeologo. «Il vaso indiano in cui, secondo la leggenda, sarebbe conservata l’essenza di Skudakumooch, la strega.»

I tre carabinieri lo ascoltarono con attenzione. De Crescenzo non seppe celare la propria incredulità. Aurora, questa volta, si mostrò parecchio interessata. Alberto, da parte sua, cercò il più possibile di restare con i piedi per terra.

«È un’antica leggenda, diffusa in varie forme in tutto il sud-ovest degli Stati Uniti e in parte del Messico settentrionale. Comunque, grossomodo, si dice che, qualora uno stregone si sia comportato in maniera empia, alla sua morte egli emani un fluido che si tramuta poi nello spirito di Skudakumooch, la strega-fantasma, mangiatrice di uomini. Nell’antichità, uno sciamano avrebbe affrontato la strega che stava massacrando il suo popolo, e dopo un’aspra lotta l’avrebbe intrappolata nel vaso rubato.»

Alberto non pensò al come né al perché. Non gli interessava sapere se, il vaso maledetto, celasse davvero lo spirito di una strega o meno. Ultimamente, tra fantasmi e demoni, ne aveva avuto abbastanza per tutta la vita. A lui, adesso, interessava la parte pratica dell’intera faccenda: recuperare il vaso e ricollocarlo al suo posto nella mostra.

Magari, con un pizzico di fortuna, prima che Iannaccone fosse informato del furto.

Fece un paio di rapidi calcoli. L’aggressione era avvenuta meno di mezz’ora prima. Se anche fosse fuggito in macchina, allontanandosi dal Quirinale, Ward – che doveva avere scarsa dimestichezza con l’intrico di strade della capitale – non poteva essere andato troppo lontano. Ma ogni minuto sarebbe stato prezioso.

Sapeva di non avere tempo per pensare.

Bisognava agire.

Subito.

«Dobbiamo inseguirlo, prima che si dilegui in mezzo a Roma», annunciò, con fare secco. «Non abbiamo un minuto da perdere.»

De Crescenzo si allarmò.

«Non possiamo lasciare sguarnita la mostra…» tentennò.

Prima che Manfredi avesse avuto modo di dire qualcos’altro, fu Aurora a intervenire.

«Lei resti qui con gli altri militi di guardia, maresciallo», ordinò, con fare perentorio. «Andremo io e il tenente. Basteremo noi a inseguire il ladro, se non è già troppo tardi. Lei provveda a diramare un comunicato a tutte le pattuglie, con la descrizione del signor Ward e l’ordine di fermarlo qualora lo vedessero.»

Shelton si levò in tutta l’imponenza dei suoi quasi due metri di puro americano e infilò il cappellone.

«Vengo con voi», mugghiò. «Sono responsabile dei reperti qui esposti e non intendo restarmene con le mani in mano mentre quel ladrone cerca di trafugarne uno per chissà quale scopo!»

Aurora parve sul punto di sputargli in faccia un “non se ne parla nemmeno”.

Stavolta, fu Alberto a prevenirla.

«Molto bene, professore», rispose.

Almeno, se non dovessimo recuperare il vaso, o se accidentalmente dovesse rompersi, Iannaccone non potrà addossarmi tutte le colpe.

Aveva imparato molto presto che, in Italia, tutto funziona a scaricabarile. Se voleva avere qualche opportunità di diventare vecchio e felice, doveva ricordarsene in ogni occasione.

«Ma faccia attenzione a non esporsi a inutili pericoli», sottolineò.

L’archeologo americano fece un sogghigno.

«Nel Texas», dichiarò, «nessun pericolo è inutile. Lì il pericolo è di casa. Siamo abituati a batterci fin da quando siamo piccoli, tenente. Noi, pistole, fucili e simili gingilli, ce li portiamo dappertutto, persino a scuola. Lei, piuttosto, ponga attenzione: il signor Paul Ward può essere un semplice assistente universitario abituato a maneggiare vecchi reperti… ma Black Eagle è un apache, conosce tutte le tecniche per scomparire e rendersi insidioso.»

Sistemò meglio il cappello, con un gesto plateale.

«Ma non si allarmi: provvederò io a stanare quel muso rosso!» concluse.

Ed eccoci in un film con i cow-boy e gli indiani, pensò Alberto mentre, tutti e tre, si avviavano sotto lo sguardo esterrefatto del maresciallo De Crescenzo.

 

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Capitolo 9
*** 9. ***


9.

 

 

Monte Supersticion, luglio 1542

 

 

La pietra calcinata rifletteva il chiaro riverbero del sole. I raggi arroventavano le armature e bruciavano gli occhi. Il caldo e l’aria secca bruciavano i polmoni e piagavano la pelle.

Nonostante tutto, Pedro continuò ad avanzare. Non sentiva la stanchezza. Proprio come Coronado, era certo di essere stato investito da un santo compito. Trovare Cibola doveva pur richiedere un sacrificio; la ricompensa, sarebbe stata incommensurabile.

Gli uomini che lo seguivano erano fanatici quanto lui. Il capitano li aveva scelti uno a uno, consapevole che gli sarebbero andati indietro fino alla fine.

Procedevano tra le montagne da ormai dodici giorni.

Ancora non avevano trovato alcuna traccia della presenza di una città, ma questo non li aveva indotti ad arrendersi. Di tornare indietro, non avevano alcuna intenzione. Ormai, in ogni caso, sarebbe stato troppo tardi per ricongiungersi alla colonna principale del corpo di spedizione, che si sarebbe rimessa in marcia verso il meridione di lì a breve, molto prima che avessero avuto il tempo per fare ritorno.

Ma per Pedro Alvarez e per i suoi uomini, non ci sarebbe stata alcuna via del ritorno.

Loro avevano gli occhi puntati in avanti.

Solo questo contava.

Il sole illuminò un alto picco, facendolo risplendere come se fosse stato rivestito d’oro puro. Gli occhi cisposi di Pedro ne furono abbagliati.

«Un campanile…» mormorò. Alzò il braccio, indicando il picco, e gridò: «Uomini, guardate! Le torri di Cibola ci accolgono!»

Le menti affaticate e esaltate dei soldati videro quello che volevano vedere. Gli occhi del loro fanatismo, indotti a ciò dal comandante, scorsero il miraggio di un’intera città fatta di tetti, di campanili, di guglie, di mura e di strade. Una città in cui abbondavano ricchezze e tesori, una città in cui avrebbero trovato cibo in abbondanza con cui rifocillarsi, vino con cui perdere sete e senno, donne da possedere fino allo sfinimento.

Cibola, la città perduta, pronta ad accoglierli.

«Cibola!» si alzarono in un solo coro tutte le voci dei militari.

A un secco ordine dato con la mano, tutti quanti cominciarono a correre in quella direzione. I piedi, calzati nei grossi stivali di cuoio che cedevano a poco a poco a causa dell’usura, affondarono nelle sabbie rossastre e affrontarono le pietraie.

Pedro, animato dal fuoco della vittoria, corse alla testa dei suoi uomini.

Verso Cibola.

 

* * *

 

Dall’alto di una parete rocciosa, centinaia di occhi spiarono la mossa degli spagnoli. Osservarono la loro follia, si resero conto del fanatismo che li spingeva a correre verso il nulla. Li guardarono lasciarsi alle spalle le montagne per rincorrere il fantasma di ciò che non esisteva, che non erano altro che montagne travestite da qualcosa che soltanto le menti di quei pazzi potevano riconoscere.

Il vecchio Fumo di Pioggia, l’uomo saggio, restò per un breve istante racchiuso in se stesso, assorto in meditazione. Infine, rivolse un cenno ai guerrieri che lo attorniavano.

«Quegli uomini si stanno dirigendo verso la grotta in cui è racchiusa la strega. Potrebbero risvegliarla dal suo sonno millenario e scatenarla. Non possiamo permettere che questo accada.»

I guerrieri annuirono.

Silenziosi come ombre, si alzarono in piedi e tesero i loro archi. Le punte di freccia, in pietra levigata, luccicarono sinistramente alla luce del sole.

Forse, gli spagnoli, nello scorgerle, pensarono che fossero le prime ricchezze di Cibola che si offrivano loro.

 

* * *

 

Pedro vide i suoi uomini cadere uno per uno, impotenti. Schierati com’erano in campo aperto, privi di ogni riparo, troppo stanchi per riuscire davvero a reagire, non riuscirono a evitare che le frecce scagliate dall’alto delle rupi li uccidessero tutti, uno per uno.

Una delle saette si conficcò nella coscia del capitano. Trapassò la carne da parte a parte, togliendogli il respiro e provocandogli un acuto dolore che gli risalì fino al cervello. La punta doveva aver strappato un nervo.

Stringendo i denti per non urlare, Pedro crollò in mezzo a quella carneficina, mentre le frecce continuavano a piovere tutto attorno, uccidendo i feriti che ancora si contorcevano e imploravano una pietà che, dal cielo, non venne.

Quando le prime ombre della sera cominciarono a scivolare verso di lui e l’ultimo soldato ebbe smesso di lamentarsi, Pedro si rese conto di essere rimasto solo.

Era sopravvissuto al massacro.

Compresse la ferita con le dita e cercò di trascinarsi. Scoprì di riuscire a muoversi.

Forse, se avesse strisciato, sarebbe potuto tornare indietro.

Avrebbe potuto raggiungere il campo di Coronado, dare l’allarme, avvertire che quelle terre erano davvero abitate, che i guerrieri di Cibola difendevano i loro confini… e, un tale accanimento, poteva significare soltanto una cosa: le città e le loro incommensurabili ricchezze non erano un sogno o un miraggio.

Cibola era reale!

Doveva soltanto dirlo al comandante, dovevano tornare in forze e vendicare quell’atto di barbarie…

Un paio di piedi calzati in mocassini di pelle si fermarono davanti al viso di Pedro.

Per un terribile istante, il capitano pensò che fosse giunta la sua fine. I guerrieri di Cibola dovevano essere scesi dalle alture per accertarsi che non ci fossero sopravvissuti. Ora lo avrebbero terminato…

Pedro sollevò gli occhi e si ritrovò a fissare il volto di Linda. La sua schiava.

Lo aveva seguito fin lì, in segreto, di certo per prendersi cura del suo amato padrone, per salvarlo dai pericoli.

«Linda…» mormorò la voce stanca di Pedro. «Linda, aiutami a curare questa ferita… io credo di aver perso molto sangue e…»

Il militare tacque di colpo. Si era reso conto che la giovane donna stringeva in mano un pugnale. Il medesimo pugnale che lui aveva utilizzato per assassinare Miguel.

«Linda…» cercò di dire ancora Pedro.

Lei lo ignorò.

Si chinò su di lui e, con la lama, recise i legacci che chiudevano l’armatura. Poi, piano, la sfilò dal suo busto, liberandolo da quel peso.

Un gesto che la giovane schiava aveva già ripetuto decine e decine di volte. Da quando l’aveva catturata e fatta sua, Pedro aveva sempre voluto che fosse lei a spogliarlo.

L’angoscia che lo aveva colto nel vederla armata lo abbandonò, lasciando il posto a una sensazione familiare di benessere. Linda lo stava semplicemente aiutando. Ora che lo aveva sbarazzato dell’oppressione della corazza, di sicuro si sarebbe presa cura della sua gamba ferita, e si sarebbe prodigata per portarlo via da lì.

Così come era passata l’angoscia, anche il benessere cessò di colpo.

Accadde quando Linda gli piantò la lama del pugnale nell’inguine e poi, con una lentezza esasperante, cominciò a trascinarla attraverso la carne, salendo verso il cuore.

Le urla di dolore di Pedro echeggiarono a lungo tra le pareti di roccia della gola.

 

* * *

 

La spedizione di Coronado, pur avendo fallito nel suo tentativo di scoprire l’ubicazione delle misteriose sette città di Cibola, portò un grande vantaggio all’Impero spagnolo. Essa, infatti, permise l’apertura di nuove vie per la conquista dei territori a settentrione del Messico.

Francisco Vazquez de Coronado continuò a governare la Nuova Galizia fino al 1544, quando si ritirò a vivere come privato cittadino a Città del Messico. Dieci anni più tardi, spirò in grazia di Dio.

Di Pedro Alvarez e degli uomini che lo avevano seguito tra i Monti Supersticion, in quell’ultimo tentativo di rintracciare Cibola, non si seppe mai più nulla.

 

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Capitolo 10
*** 10. ***


10.

 

 

Roma, Italia, marzo 2022

 

 

Roma, di notte, offriva uno spettacolo meraviglioso.

Con gli angoli celati dall’oscurità, i vicoli invisibili e le strade accese dalla luce dei lampioni e dal chiarore lunare, dava di sé un’immagine differente da quella caotica, affollata e spesso trascurata cartolina che passava di giorno in giorno nei telegiornali.

I palazzi antichi, le statue, le colonne e i resti marmorei di un lontanissimo passato evocavano una serena tranquillità. L’intrico caotico delle strade cedeva il passo alla sensazione di trovarsi dispersi nel più grande e più bello labirinto del mondo. Antichità e presente si fondevano insieme nella notte.

Eppure, grattando appena un poco la superficie del sogno, anche a quell’ora la capitale italiana mostrava le sue storture e le sue contraddizioni.

Il traffico frenetico. I graffiti sui muri. L’immondizia abbandonata da giorni e giorni accanto a un cestino dei rifiuti che nessuno si era ancora preso la briga di svuotare. Le prostitute in attesa sotto un lampione. Gli spacciatori fermi contro un muro. Immigrati senza futuro seduti sopra una panchina, con lo sguardo perso a contemplare un passato che avevano abbandonato in cambio del nulla.

Ma, in fondo, la Roma moderna non appariva poi troppo differente da quella che era stata la Roma medievale e, prima ancora, la Roma imperiale. Il suo era un caos che si trascinava e si tramandava nei secoli e nei millenni. Si tramutava nelle forme, nei nomi e nelle lingue, magari, ma non nella sostanza, che era rimasta intatta da sempre.

Forse era quella la reale essenza della Città Eterna.

Anche la frenesia, la sporcizia e la prostituzione, come tante altri esempi “bassi”, erano uno dei tratti distintivi di una città antichissima, la più grande protagonista della storia dell’Occidente, l’erede di un mondo antico che non aveva ceduto del tutto ai flussi giunti dall’oriente.

Mentre procedevano a piedi, a passo sostenuto, guardandosi attorno alla ricerca di Ward, Alberto, Aurora e il professor Shelton non avevano certo il tempo per soffermarsi a riflettere. Eppure, in un modo o nell’altro, questi pensieri dovevano starli almeno sfiorando. Era impossibile muoversi lungo le strade di Roma senza lasciarsi suggestionare e irretire da certi pensieri.

Ciò che aveva davvero in mente Manfredi, in quel momento, era comunque ben altro.

Questa è la città più grande d’Italia, si disse. Qui, quando qualcuno vuole scomparire senza lasciare tracce, ci riesce benissimo, e non c’è inchiesta di Rai Tre che tenga. Mi sa tanto che Ward si sarà volatilizzato, e non lo becchiamo più nemmeno se facciamo intervenire Chi l’ha visto.

Lui, peraltro, quel programma non lo guardava mai.

Gli faceva troppa impressione.

Fissò il didietro di Aurora, che gli camminava davanti, aprendo la fila. L’archeologo americano procedeva alle loro spalle, facendo vibrare il marciapiede con i suoi passi pesanti.

La giovane, sentendosi osservata, si voltò a guardarlo, senza fermarsi.

«Che c’è, Manfredino?» trillò. «Pensi che stiamo perdendo tempo?»

Come suo solito, gli aveva letto nel pensiero.

Alberto evitò di rallentare, per non correre il rischio di venire travolto da Shelton, che camminava con la grazia e la finezza di un bisonte delle praterie.

«No, be’, però penso che avremmo fatto meglio a prendere almeno una macchina…» bofonchiò.

Sì, come no. E poi magari quel tirchio di Iannaccone mi fa pure pagare il carburante…

No.

Molto meglio andare a piedi.

Aurora continuò a fissarlo, sorridente.

«Okay», si arrese lui. «Mi sembra che, inseguire a piedi quel ladrone, sia del tutto inutile…»

Camminare, almeno, gli aveva fatto passare quasi del tutto l’emicrania.

Non tutto il male viene per nuocere.

«Sì, anche per me non ne caveremo granché», convenne Aurora. Il suo sorriso si allargò. «Ma, piuttosto che starmene rinchiusa là dentro a sentire puzza di muffa, preferisco di gran lunga andarmene a zonzo come una trottola.»

Shelton si avvicinò.

«Io credo che Ward sia già lontano», disse. «Per me potrebbe aver preso un taxi per farsi portare all’aeroporto.»

Nel frattempo, erano giunti in vista del foro di Traiano. L’imponente colonna che aveva eternato la conquista della Dacia da parte dell’Imperatore svettava contro il cielo nero e stellato, impassibile e immensa. Sull’altro lato della strada, l’Altare della Patria, quasi grottesco, risplendeva del candore del marmo di Botticino.

Aurora annuì, concorde. Manfredi fu più scettico.

«Davvero pensate che stia cercando di contrabbandare il vaso prendendo un aereo di linea?» chiese. «Suvvia, è impossibile… con i controlli che ci sono adesso negli aeroporti, non andrebbe lontano e…»

La radiotrasmittente che aveva assicurato al cinturone della divisa gracchiò, interrompendolo. Il tenente l’afferrò e fece partire la comunicazione.

«Tenente, ho ricevuto adesso un rapporto da una pattuglia», annunciò la voce del maresciallo De Crescenzo. «Hanno fermato un tassista che assicura di aver appena portato un americano che risponde alla descrizione di Ward all’aeroporto di Fiumicino. L’uomo ha con sé un oggetto avvolto in un panno, molto probabilmente il vaso rubato. Ho dato ordine alle autorità aeroportuali di fermarlo.»

Alberto fece un verso incomprensibile. Aurora gli rivolse una di quelle sue smorfiette irresistibili, a cui Manfredi era sempre incapace di non cedere.

Dalla radio giunse ancora la voce di De Crescenzo.

«Come dice, tenente?» chiese. «Ripeta, per favore, non ho capito.»

Alberto distolse l’attenzione da Aurora, guardò per un breve istante Shelton e poi si girò a fissare i resti dei mercati traianei.

«Ho detto di mandare una macchina a recuperarci su via dei Fori Imperiali, per portarci all’aeroporto a vedere che cosa diavolo pensa di combinare Ward.»

Colonne e resti di templi non gli risposero.

 

 

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Capitolo 11
*** 11. ***


11.

 

 

Monti della Superstizione, Arizona, 1704

 

 

L’opera evangelizzatrice a cui si stava dedicando da anni con anima e corpo, non aveva fatto scordare a padre Kino la sua altra grande passione. La stessa passione che, tanti anni prima, lo aveva spinto a compiere il lungo viaggio fino nel Nuovo Mondo.

Quella per la scienza, e in particolare per la cartografia.

Mappare, disegnare il mondo, e per farlo attraversare enormi distese. Padre Kino adorava farlo. Sentiva che era in tutto questo il vero senso della sua esistenza, il reale scopo per cui era nato.

Ormai, era talmente abituato a essere chiamato in quel modo, che aveva quasi scordato che, il suo nome, era Eusebio Francesco Chini. Un nome che, per gli uomini da cui era stato accolto, era pressoché impronunciabile. Ed era tanto avvezzo al sole bruciante e ai paesaggi aridi e rossastri della Nuova Spagna da non rimpiangere mai la lontananza delle Alpi Tirolesi che gli avevano dato i natali.

Fu nell’archivio della cattedrale di Città del Messico, dove aveva trascorso alcuni mesi in convalescenza dopo una caduta da cavallo, che trovò la mappa. Risaliva a oltre un secolo e mezzo prima, e portava la firma di padre Marco da Nizza, un francescano che, proprio come lui, si era dedicato all’esplorazione del Nuovo Mondo.

Sicuro di aver trovato qualcosa di importante e di prezioso, padre Kino si diede da fare per ricopiare con accuratezza quella pergamena, che l’umidità aveva intaccato al punto da minacciare di distruggerla. E, infatti, non appena ebbe terminato di disegnarla, la mappa di padre Marco gli andò in frantumi tra le mani.

Aveva fatto appena in tempo. L’intero itinerario della spedizione di Coronado era in salvo tra le sue mani. E, su tutti, spiccava un riferimento preciso, che accese la fantasiosa curiosità di padre Kino.

Cibola.

 

* * *

 

Finalmente ripresosi dalla caduta, padre Kino aveva potuto mettersi in viaggio. Anelava di scoprire se, quell’indicazione tramandata dal suo precedessore, corrispondesse al vero o fosse soltanto il frutto di un’immaginazione surriscaldata.

Al contrario di Coronado, padre Kino non ebbe la necessità di organizzare una spedizione armata e provvista di vettovagliamenti. Ormai, le terre a nord del Messico erano state pacificate e, a intervalli regolari, lungo il percorso era possibile incontrare missioni e parrocchie, dove avrebbe potuto trovare ospitalità e tutto ciò di cui avrebbe avuto necessità per il viaggio.

Una certezza e una sicurezza che lui stesso, con il suo lungo lavoro, aveva provveduto a creare. Il tempo sarebbe trascorso, gli uomini sarebbero venuti e andati, ma nessuno avrebbe mai scordato padre Kino e il suo prezioso lavoro. Poteva ben credere di aver contribuito a forgiare una nazione, anche mentre quella nazione ancora non esisteva. Se quelle terre avevano un futuro, se un giorno il mondo avrebbe sentito parlare di un posto chiamato America, sarebbe stato anche grazie a lui.

In sella al suo cavallo, padre Kino si inoltrò tra monti e deserti, tra fiumi che scorrevano in gole profonde e aride e piatte distese di pietra e sabbia.

In quei luoghi, perso nella vastità di una terra che Dio Onnipotente aveva creato perché gli uomini di buona volontà la abitassero, il tirolese che aveva votato la propria esistenza terrena alla missione di evangelizzare coloro che erano nati lontani dalla luce di Gesù Misericordioso e all’esplorazione di nuove terre, si sentiva in pace con se stesso.

Le brulle distese gli davano conforto. Le montagne rosse, che si levavano altissime contro il cielo perennemente blu, lo facevano sentire piccolo, eppure grato a Dio per avergli conferito quell’incarico sacro. Lo scalpiccio degli zoccoli del suo cavallo sul terreno gli infondeva la tranquillità nell’anima.

Di quando in quando, qualcosa sconvolgeva quella deliziosa malinconia.

Un’aquila in volo, un serpente sinuoso che si andava a infrattare tra le pietre facendo risuonare i sonagli attaccati alla sua coda, un piccolo roditore che compariva all’improvviso e, altrettanto velocemente, si nascondeva alla vista, guizzo rapidissimo tra le rocce. E poi gli uomini e le donne, quelle genti rosse e fiere, vestite di povere pelli conciate, che, nel vederlo sopraggiungere, accorrevano incuriositi e poi, riconoscendolo, chinavano il capo in modo deferente.

Padre Kino si sentiva libero, come un imperatore sul proprio suolo. Il Nuovo Mondo era il suo mondo, e lui sarebbe stato ricordato per sempre come il forgiatore di qualcosa di grande ed eterno. Eppure, l’idea che ancora qualcosa gli sfuggisse, che un luogo si sottraesse alla sua conoscenza, non gli dava tregua.

Per questo, obbedendo a un impulso che gli veniva dal cuore e dall’anima, aveva deciso di seguire fino in fondo la mappa di padre Marco.

La mappa che lo avrebbe condotto a Cibola, l’ultimo segreto che ancora non aveva svelato.

 

* * *

 

Il viaggio fu lungo e faticoso. Gli ultimi tratti da affrontare furono tanto impervi che, in un paio d’occasioni, il presbitero fu colto dal timore di non farcela e pensò di rinunciare. Lasciò che quelle paure gli defluissero dall’anima e, appellandosi all’aiuto della Vergine Maria, proseguì nel suo cammino.

Picchi altissimi si innalzavano tutt’attorno. Enormi torrioni, simili a dita che indicavano il cielo. Il sole, implacabile palla di fuoco, ardeva e calcinava tutte le cose. A ogni passo, dal terreno si sollevavano nubi di polvere rossiccia che faceva piangere gli occhi e seccava la pelle scottata e riarsa.

«Dio mio», pregò padre Kino, quando la fiasca che portava a tracolla e che aveva riempito di acqua e aceto per dissetarsi meglio, risultò ormai vuota. «Dio padre misericordioso, assistimi.»

Si guardò attorno. Per miglia e miglia, non vide altro che rocce e montagne inaccessibili. Eppure, fu certo di aver seguito alla lettera le indicazioni di padre Marco. Si riteneva un cartografo troppo abile per credere di aver frainteso qualche segnale.

Ma chei o che cosa poteva mai assicurargli che, al contrario, il francescano che aveva disegnato la mappa non fosse un incapace, se non addirittura un visionario o un imbroglione? E se fosse caduto nell’inganno di un mistificatore, magari in buona fede, ma pur sempre un mistificatore?

Senza escludere, poi, che quelle lande desolate potevano aver tratto in inganno gli occhi della guida di Coronado. Montagne e picchi, visti da lontano, avrebbero potuto far credere a un uomo disperato e al contempo munito di una fervida immaginazione, di essere giunto in prossimità di una città perduta.

«Cibola», mugugnò padre Kino.

Proferì quella parola a mezza voce, quasi se ne vergognasse come di una bestemmia.

Tutto a un tratto, comprese che Gesù Cristo lo aveva messo alla prova. Subodorando la sua superbia, il suo volersi erigere al di sopra delle possibilità di un umile uomo, Dio lo aveva condotto fino a quei luoghi inospitali per mostrargli la sua sciocca vanagloria.

«Padre, perdonami», mormorò il missionario.

Da quel momento in avanti, si sarebbe dedicato soltanto al suo sacro compito. Evangelizzare i miseri e aiutare i poveri. Questo e soltanto questo avrebbe fatto per il resto dei suoi giorni, fossero essi ancora lunghi oppure brevi. Non avrebbe più cercato di spingersi al di là dei limiti dell’essere umano. Non avrebbe perseverato nel suo peccato. Cedere a inutili e vani miraggi sarebbe stato un gravissimo errore, specialmente per un uomo di Chiesa. E Cristo, conducendolo fin lì, glielo aveva voluto far apprendere a caro prezzo.

«Grazie, signore, per avermi mostrato quale piccolo uomo io sia», disse. «Solo tue sono le glorie e le laudi.»

Con un sospiro, reprimendo per sempre in petto la sua rovente curiosità che avrebbe potuto spingerlo alla rovina, padre Kino lanciò un ultimo fugace sguardo alle vette che aveva di fronte.

«Cibola, se mai è esistita, è la città di Dite, la sede delle tentazioni a cui gli uomini non dovrebbero mai essere indotti», sentenziò.

Poi si volse e, recitando il Rosario, si avviò lungo la strada del ritorno.

 

* * *

 

Sguardi impenetrabili seguirono le mosse del missionario. Forme invisibili lo accompagnarono lungo la via, nascoste nell’ombra della roccia.

Il vecchio saggio annuì con fare grave.

«Il prete ha compiuto la scelta giusta», asserì. «È stato saggio da parte sua, e ne sono contento. Mi sarebbe dispiaciuto doverlo uccidere. Ma non avrebbe potuto salvarsi, se avesse continuato: il segreto di queste montagne deve continuare a mantenersi celato e inviolato.»

I guerrieri che lo attorniavano mossero il capo in segno d’assenza. Erano rimasti in pochi, ma fino a quando uno soltanto di loro fosse rimasto in vita, non avrebbero mai smesso di fare la guardia a quel luogo.

Alcune decine di metri più in basso, in mezzo al canyon, padre Kino tornò sui suoi passi, diretto verso il piano e dicendo addio a Cibola e ai suoi misteri, inconsapevole di essersi così garantito la possibilità di vivere ancora per alcuni anni.

 

 

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Capitolo 12
*** 12. ***


12.

 

 

Roma, Italia, marzo 2022

 

Alberto soffriva di vertigini. Le altezze lo terrorizzavano. Non doveva trovarsi lui stesso in un luogo alto, per sentirsi a disagio. Gli bastava guardare una persona in bilico su un precipizio, o addirittura pensare a un posto alto, per ritrovarsi con le mani madide di sudore freddo e il cuore che batteva all’impazzata. Il semplice fatto di guidare la macchina in montagna, con ampie vedute oltre il parapetto, gli infondeva una sensazione di malessere. Era stato così da sempre, fin da quando era bambino, probabilmente dalla nascita – aveva finito col convincersi che, in una vita precedente, fosse morto precipitando da un luogo alto – e non era mai riuscito a superare una tale paura.

Fatemi fare di tutto, ma non chiedetemi di salire in alto o di arrampicarmi.

Per questo, aveva sempre un vago timore quando si trattava di andare in montagna, o di affrontare una ripida strada circondata da burroni.

E anche per questo non poteva sopportare gli aerei. Se lo poteva, evitava come la peste quelle scatolette di lamiera volanti e si affidava mezzi di trasporti magari meno efficaci e più lenti, ma perlomeno ancorati al suolo.

Brutto posto, meditò, guardandosi attorno dopo aver superato le porte a vetri.

L’aeroporto, con i suoi pavimenti lucidi, le insegne, i negozi e le scale mobili, era una via di mezzo tra una stazione e un centro commerciale. I tabelloni luminosi appesi ai muri indicavano orari di arrivi e partenze degli aerei. In quel momento, e nelle ore successive, non ce ne erano di diretti verso gli Stati Uniti.

«Il Cairo», disse Shelton, sicuro di sé, indicando un monitor. «Probabilmente, Black Eagle era diretto lì. Dall’Egitto, avrebbe potuto trovare più facilmente un volo per l’America latina, da dove poi sarebbe risalito verso il Messico.»

Alberto non ribatté. Nemmeno Aurora disse nulla. L’archeologo poteva avere ragione così come aveva potuto tirare a indovinare. Ciò che contava, adesso, era che il ladro non fosse andato da nessuna parte, né verso Il Cairo né verso alcun altro luogo del mondo. Entrambi si guardarono attorno, cercando di capire dove si dovessero dirigere.

«Tenente Manfredi?» chiamò una voce femminile.

Tutti e tre si voltarono. Un uomo e una donna con indosso la divisa blu delle guardie aeroportuali si stavano avvicinando a grandi passi.

«Sono io», rispose Alberto, spiccio. «Lei è il sottotenente Bresciani», disse, accennando ad Aurora. Non perse tempo a presentare il professor Shelton.

«Ispettrice Esposito», si presentò la donna. «Lui è l’agente Martini.»

«So che il maresciallo De Crescenzo vi ha chiesto di fermare un sospettato di un furto…» cominciò a dire Alberto.

L’ispettrice fulminò con lo sguardo l’agente Martini, che abbassò lo sguardo, imbarazzato.

«Lo avevamo fermato, infatti», commentò lei, «ma questo incapace se l’è fatto sfuggire da sotto il naso.»

«Io non pensavo…» borbottò Martini, «…quello si è mosso come un fulmine… io…»

Shelton mosse un passo in avanti.

«Da Black Eagle non mi sarei aspettato di meno», asserì. «Quello è un Apache. Ha in corpo il sangue della sua stirpe. Conosce ogni trucco per sparire.»

L’ispettrice gli lanciò uno sguardo dubbioso, prima di dire: «Comunque, non può andare troppo lontano. Ho allertato tutti i miei agenti e ne ho messi due a ogni ingresso, e stiamo tenendo sotto sorveglianza i monitor della sicurezza. Deve essere nascosto in qualche posto che non riusciamo a inquadrare, per esempio un bagno o uno sgabuzzino, ma presto o tardi lo troveremo.»

«Speriamo più presto che tardi», brontolò Alberto, guardando un grande orologio digitale attaccato a una parete, che segnava la mezzanotte passata da un bel pezzo, «o Iannaccone diventerà una furia…»

Aurora, che non aveva smesso un solo istante di guardarsi attorno, rivolse un lieve sorriso all’ispettrice.

Incredibile, sorride! E non è il suo solito sorriso di scherno, o quella smorfia assassina che fa di solito, pensò Alberto.

«Avete almeno recuperato l’oggetto che il sospettato aveva con sé?» domandò lei.

L’ispettrice annuì.

«Sì, certo, quello lo abbiamo preso, come ha chiesto di fare il maresciallo», garantì. «L’ho messo sottochiave, nel mio ufficio.»

Shelton sembrava più che deciso ad assumere il comando della situazione. Probabilmente, si sentiva proprio come Custer a Little Big Horn. E il fatto che uno dei presenti si chiamasse come uno dei pochi scampati a quel massacro, doveva averlo ringalluzzito ancora di più.

«Allora è inutile andarcene a zonzo alla ricerca di Black Eagle, perché lui punterà a recuperare il vaso», disse. «Martini, presto! Ci preceda all’ufficio e monti la guardia! Dobbiamo tendere un agguato al muso rosso! È impossibile battere gli indiani in campo aperto, e quindi non possiamo fare altro che assumere le loro stesse tattiche, cogliendolo alla sprovvista.»

L’agente Martini, ancora un po’ vergognoso, lo guardò senza sapere che cosa dire. Poi spostò lo sguardo sulla sua superiore, che scrollò le spalle e fece una smorfia insicura.

Alberto e Aurora si scambiarono un breve sguardo. Il tenente lasciò andare un profondo sospiro.

«Sì, facciamo così», disse. «È probabile che il professore abbia ragione. Per favore, fateci strada.»

Dopo un ultimo istante di esitazione, l’agente Martini si incamminò attraverso l’aeroporto e il gruppetto gli andò dietro.

 

 

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Capitolo 13
*** 13. ***


13.

 

 

Monti della Superstizione, Arizona, marzo 1865

 

 

Gli ultimi raggi di sole morente all’orizzonte stavamo tingendo di rosso le montagne, aguzze e brulle. Picchi frastagliati e solitari sembravano sfidare il cielo con le loro forme ardite, scavate e logorate dal lento e inarrestabile attacco del tempo. Nubi di polvere color del sangue si sollevavano verso l’immensità, sospinte da vento caldo e secco che spirava dal meridione. Nonostante fosse appena cominciata la primavera, la calura era opprimente come se fosse stata già piena estate.

Avanzando al passo, le gambe larghe sulla sella, i piedi nelle staffe e le mani callose strette attorno alle briglie della sua cavalcatura, Jacob Waltz sudava in modo copioso. I capelli, lunghi e brizzolati, sfuggendo da sotto il cappello che gli ombreggiava gli occhi azzurri gli si incollavano alle guance, ispide di barba non rasata da diversi giorni. Anche gli abiti gli si erano attaccati addosso, come una seconda pelle. Il cinturone, da cui pendeva la fondina con la “Colt”, gli segava i fianchi. Si sentiva spossato, come se fosse sul punto di svenire. Il suo fisico, così abituato alla freschezza delle Alpi Bavaresi, non era ancora riuscito ad adattarsi al clima arido di quella zona lontana e desertica del Nuovo Mondo, di quella frontiera ancora tutta da conquistare.

«Ehi, Olandese, che ne diresti di fermarci qui, per la notte?! Comincio a non poterne più!»

Waltz fece girare di tre quarti il cavallo stanco, per poter guardare in faccia il suo socio. Weisner, come lui, si chiamava Jacob. E, proprio come lui, era nato e cresciuto in terra germanica: in Assia, per la precisione, mentre Waltz veniva dalla Baviera. Si erano conosciuti quando, sul finire del decennio precedente, erano partiti entrambi verso il Nuovo Mondo in cerca di quella fortuna che non erano riusciti a trovare nella loro vecchia Europa. Avevano deciso di mettersi in società, dividendo gli utili – se ce ne fossero stati – e spartendosi in egual modo pericoli e disillusioni.

Gli americani, lo avevano scoperto molto presto, facevano fatica a distinguere tra i tedeschi – che in inglese si chiamavano Deutsch – e gli olandesi – Dutch. A dire il vero, nemmeno si sforzavano di fare e di capire la differenza tra i due termini. Per quegli uomini rudi, che stavano ancora colonizzando, chilometro dopo chilometro, un immenso territorio selvaggio e inospitale, denso di insidie, non esisteva alcuna differenza tra il tedesco e l’olandese, due lingue semplicemente incomprensibili, parlate in luoghi di cui non sapevano nulla.

Così Waltz, che dei due soci era il portavoce, a causa del fatto che l’inglese e lo spagnolo di Weisner si limitassero a pochissimi vocaboli storpiati, era diventato per tutti “The Dutchman”, l’Olandese. E, alla lunga, lo era diventato anche per il suo socio e, da ultimo, per se stesso.

«Sì», rispose l’Olandese, stringendo gli occhi contro il riverbero e guardandosi attorno. «Credo che possiamo fermarci. Inutile proseguire le ricerche con il buio.» Individuò un pianoro roccioso piuttosto liscio, circondato da alcuni cactus e altri cespugli rinsecchiti, dove avrebbero potuto sdraiarsi per la notte. «Vieni, andiamo là.»

In breve tempo, il campo fu pronto. Il fuoco cominciò ben presto a scoppiettare dentro un piccolo cerchio di sassi, e Weisner vi pose sopra una casseruola per far bollire l’acqua in cui mettere a mollo la carne di maiale secca e salata che trasportavano sotto le selle.

«Darei un braccio, per avere almeno un pezzetto di lardo con cui cambiare un poì il sapore di questa roba», commentò, girando di malavoglia il cucchiaio di legno nella pentola ribollente.

Mentre il suo socio si occupava della cena, l’Olandese provvide ad abbeverare i cavalli a una pozza d’acqua che trovò poco distante. Dopo averli fatti mangiare attaccando loro un sacchetto pieno d’avena davanti alla bocca e averli legati a un tronco rinsecchito, prese dalla sella la sua carabina a leva “Henry” e tornò a sedersi vicino al fuoco. Si lasciò cadere con un grugnito e lasciò andare un sospiro di stanchezza, poggiando il fucile sulle gambe. Non che temessero l’attacco di qualche predone, ma la cautela non era mai troppa, in quelle lande infestate da indiani e animali selvatici.

«Stai cominciando a diventare un cuoco sopraffino», scherzò l’Olandese, masticando un boccone di carne dura e salatissima pescato dalla casseruola.

«Magari, quando avremo trovato il tesoro, potrò impiantare un ristorante e far mangiare a questi zoticoni di americani qualche specialità tedesca», borbottò Weisner, serio.

L’Olandese annuì e, infilata la mano destra sotto la giacca, ne estrasse una vecchia carta, rinsecchita, ingiallita e piena di pieghe. La dispiegò alla luce del piccolo falò, rivelando quella che appariva essere come una vecchia mappa. Vi apparivano montagne, deserti e brevi corsi d’acqua. A corredo delle immagini, c’erano alcune parole in corsivo, alcune in inglese, altre in spagnolo.

«Sono certo che, ormai, non manchi più molto», borbottò, facendo scorrere le dita sulla carta. «Il tesoro del capitano Kidd non deve essere lontano, lo sento.»

Weisner gettò solo uno sguardo sfuggevole alla vecchia mappa. Per quello che lo riguardava, non c’era alcuna differenza tra i disegni e le parole scritte. In tutta la sua vita, aveva imparato soltanto a vergare – in modo stentato e insicuro, tenendo con cautela la penna con tutte e cinque le dita – le lettere J.W., che gli servivano come firma.

«Se quel vecchio corsaro ha davvero sepolto tra queste montagne il frutto delle sue scorrerie», proseguì l’Olandese, «noi lo troveremo.»

Era entrato in possesso di quella carta per un caso fortuito.

Mentre si trovava a Londra, poco prima della partenza verso il Nuovo Mondo, si era imbattuto in un prete che aveva trascorso quarant’anni in America, e che adesso si stava recando a Roma per poter ammirare da vicino il Soglio di Pietro prima di essere troppo vecchio per farlo. Waltz, per avere qualche informazione in più riguardo al luogo in cui si stava recando, aveva invitato il prete in un pub e gli aveva offerto una birra, in cambio di una bella chiacchierata. Non che il prete gli avesse saputo rivelare un granché di utile, tutto preso a decantare la bellezza e la santità della Città dei Papi, dove finalmente – di lì a pochi giorni — avrebbe messo piede. Ma quando se n’era andato, un po’ alticcio a causa delle birre ingollate, che intanto erano diventate quattro, aveva scordato sul banco una cartella di cuoio piena di vecchi documenti.

Waltz, accortosene dopo qualche minuto, aveva cercato di seguirlo in strada per restituirgliela, ma il prete si era ormai dileguato nel dedalo di vicoli bui, umidi e sporchi dei dintorni del porto di Londra. Così, preso dalla curiosità, aveva aperto la cartella e dentro vi aveva trovato la mappa. A vergarla doveva essere stato un altro prete, vissuto nel secolo precedente, che l’aveva firmata con il nome di Eusebio Francisco Chini.

A Jakob Waltz non era servito che un istante a comprendere che, quella mappa, avrebbe potuto fare la sua fortuna. Quella vecchia carta ingiallita che indicava un luogo di cui non aveva mai inteso parlare – i Monti della Superstizione – celava il segreto del tesoro del capitano Kidd, un favoloso bottino, frutto di anni e anni di scorrerie e arrembaggi, riguardo al quale si favoleggiavano le più svariate storielle. Ne era certo.

Almeno, se aveva decifrato bene l’oblunga e sbiadita calligrafia di Padre Chini. E, soprattutto, se aveva correttamente interpretato la lettera “C” che si trovava all’inizio di una parte della carta che era stata strappata e perduta a causa dell’usura e del tempo.

Ma, altrimenti, cos’altro si sarebbe potuto trovare, al termine di una mappa, se non il più favoloso tesoro mai ammassato da un audace pirata?

Non c’erano dubbi: quella solitaria lettera “C”, non poteva che essere l’iniziale di “Capitano Kidd”.

«Noi lo troveremo, Weisner», disse ancora l’Olandese. «E saremo così ricchi che non avremo più alcun bisogno di lavorare, altro che aprire un ristorante: saranno gli altri, a preparare da mangiare a noi e a servirci a tavola.»

Gli occhi dell’Olandese si alzarono dalla carta e si persero a contemplare in lontananza il profilo delle montagne. Erano tanto aguzze da ricordare torrioni medievali e guglie di cattedrali gotiche. Una misteriosa città scavata dalla natura, che attendeva soltanto il loro arrivo per poter rivelare tutti i segreti di cui era la custode.

E, al di sopra del mistero, aleggiava qualcos’altro, qualcosa che l’Olandese poteva percepire come se fosse stato solido, vicino.

Il miraggio e insieme il richiamo dell’oro.

L’oro che presto avrebbe cambiato per sempre le loro vite.

 

 

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Capitolo 14
*** 14. ***


14.

 

 

Roma, Italia, marzo 2022

 

 

L’ufficio dell’ispettrice Esposito si trovava in un seminterrato.

Per raggiungerlo, dovettero oltrepassare un paio di porte tagliafuoco e inoltrarsi all’interno dell’area vietata al pubblico. Superarono la cella di sicurezza in cui venivano rinchiusi i sospetti quando erano fermati al check-in e svoltarono a destra. Il nuovo corridoio non differiva in alcun modo da quello che si erano appena lasciati alle spalle.

Se non ci stesse guidando, mi perderei di sicuro, pensò Manfredi.

Mentre, nella parte pubblica dell’aeroporto, era tutto uno sfavillare di luci e un brillare di superfici pulite, lì sotto le pareti erano di cemento grezzo, come il pavimento. Lungo il soffitto correvano tubazioni che, a intervalli regolari di circa un paio di metri, erano affiancate da lampade al neon. Alcune di questa sfarfallavano a intermittenza. Da ogni tubo, proveniva un sordo ronzio e un leggero fischio.

Sembra di essere all’interno di una base segreta, si disse Alberto, esaltato. Come in un film di James Bond o roba del genere.

Era sempre stato il suo sogno, quello di entrare in una qualche installazione segreta. Da adolescente, quando aveva trascorso intere estati sul lago di Garda in compagnia di Aurora, aveva spesso fantasticato di scoprire l’ingresso della misteriosa base che si diceva fosse stata scavata nelle viscere del monte Baldo e che, secondo lui, nascondeva piste di atterraggio per dischi volanti o cose del genere.

Ma prima o poi la scopro, eccome se la scopro.

Non aveva ancora rinunciato del tutto al suo sogno, in effetti. Uno dei tanti che gli riempivano il cuore.

Gli altri non parvero essere attraversati da pensieri simili. Continuarono a incedere, incuranti. A giudicare dalla smorfia che aveva in viso, Aurora avrebbe di gran lungo preferito trovarsi da qualche altra parte.

Ma quella è sempre schifata dal mondo intero, meditò Alberto, sogghignando.

Lei lo fulminò con lo sguardo e lui cercò di azzerare la propria mente.

Gli aveva letto nel pensiero.

Tanto per cambiare.

«Siamo arrivati», annunciò l’agente Martini, fermandosi davanti a una porta di metallo tinta di bianco. Alla base e lungo il bordo esterno era un poco scrostata e arrugginita. Le luci al neon le conferivano un aspetto cupo e sinistro.

Si dice che, nell’aeroporto di Denver, vivano extraterrestri e cose così. Prima o poi ci vado, continuò a riflettere Alberto, molto più interessato alle sue fantasie che non a ritrovare il vaso rubato.

Da un mazzo di chiavi che gli pendeva dalla cintura, Martini ne scelse una e la infilò nella serratura. Aprì e rivelò l’interno dell’ufficio: una piccola stanzetta, qualche schedario e una scrivania di metallo con tre sedie scompagnate. Un armadietto e un computer che doveva risalire agli anni ‘90 completavano l’arredamento. Le pareti erano stata intonacate alla meglio di bianco. Un anonimo calendario era l’unico ornamento appeso.

E poi mi lamento che Iannaccone è un tirchio, ma anche qui con i tagli alle spese non si è scherzato, pensò Alberto, dimenticando gli alieni e scrutando le macchie scure di muffa e di umidità che screziavano qua e là i muri.

L’ispettrice Esposito assunse un’aria preoccupata. Prima che avesse potuto esternarne il motivo, Aurora proruppe: «E il vaso?!»

L’ispettrice ebbe un’esitazione.

«Io l’avevo messo qui…» disse, facendo un cenno verso la scrivania, «e avete visto, la porta era chiusa a chiave…»

Shelton fischiò.

«Non ce la si può fare, con un apache», commentò, sornione.

La radio dell’ispettrice Esposito gracchiò. Lei quasi la strappò dalla cintura, per poter rispondere.

«Ispettrice, il sospettato ha recuperato in qualche modo l’oggetto rubato e si sta dirigendo di corsa verso l’uscita G18», annunciò una voce affannata. «Non siamo riusciti a fermarlo, ci è sfuggito e…»

«Vi raggiungiamo subito!» gridò l’ispettrice.

«Dove conduce quell’uscita?» chiese Aurora, mentre tutti ricominciavano a correre alle spalle dell’ispettrice.

«È un’uscita secondaria, la utilizziamo soprattutto per le merci destinate ai locali dell’aeroporto, dà sulla campagna…» rispose lei, affannata.

«Affrettiamoci!» gridò Shelton. «Se Black Eagle riesce a far perdere le sue tracce tra i campi, non lo acciufferemo più!»

Guardate te che razza di serata che ne è venuta fuori, si disse Alberto, chiudendo il gruppetto. E ho pure avuto il coraggio di lamentarmi.

Perlomeno, adesso non aveva più nemmeno una minima traccia del mal di testa.

 

 

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Capitolo 15
*** 15. ***


15.

 

 

Monti della Superstizione, luglio 1865

 

 

Il caldo si era fatto asfissiante. Il sole implacabile picchiava addosso ai due esploratori tedeschi, dando loro la sensazione di starsi lentamente cuocendo. La pelle sulle mani, sulle braccia, sulla nuca e sul viso, cotta e rinsecchita, si sfaldava e si staccava a pezzi, che il vento bollente e secco trasportava subito lontano, disperdendola tra rocce e sabbia. Gli occhi bruciavano per la polvere e le sagome diventavano sfocate a causa del riverbero accecante. La stanchezza e la spossatezza minacciavano di prendere il sopravvento a ogni istante, e ossa e muscoli gemevano per la sofferenza atroce a cui erano di continuo sottoposti.

Andavano avanti a piedi, trasportando gli attrezzi a mano. I cavalli erano morti per la fatica e la sete e, quel poco che erano riusciti a recuperarne, era adesso riposto dentro le bisacce che avevano in spalla, sotto forma di carne secca. I loro stivali erano logori, lisi, e minacciavano di rompersi a ogni passo.

Eppure, le difficoltà e i continui patimenti non avevano fermato l’Olandese e Weisner. Incapaci di arrendersi, i due uomini avevano continuato le loro ricerche, e non si erano lasciati sopraffare neppure quando, ormai, era apparso chiaro di come la vecchia mappa in loro possesso fosse incompleta, se non addirittura una mistificazione.

Ma non potevano arrendersi. Nulla li avrebbe fermati, al di fuori della morte. Tornare indietro, adesso, sarebbe stato impossibile. Non avevano più né i mezzi né le possibilità. Avevano giurato che, se non avessero trovato la ricchezza che cercavano tra quei monti maledetti, almeno vi avrebbero incontrato la propria fine.

«Credi che lo troveremo mai, Olandese?»

La voce di Weisner era fioca, stanca. Non era più abituato a parlare. I due uomini, da ormai qualche settimana, risparmiavano il fiato. Waltz quasi sobbalzò, nel sentire quel suono umano risuonare alle proprie spalle.

Era sempre così. L’Olandese andava avanti, e Weisner lo seguiva. Erano soci, condividevano ogni cosa, ma era sempre e solo Jacob Waltz colui a cui toccava prendere l’iniziativa, che doveva decidere, scoprire le piste, scegliere. Weisner lo seguiva senza fiatare, senza porre domande.

Almeno, fino a quel momento.

«Se esiste, lo troveremo», replicò l’Olandese.

Si voltò a guardare il socio. Con una manata, sollevò la tesa del cappello logo. Poi allontanò i capelli dagli occhi e si asciugò il sudore che gli colava dalla fronte solcata da rughe profonde.

«Ne dubiti, forse?» chiese.

Weisner non disse nulla. Si limitò a scrollare le spalle, piagate dal sole e dal manico del piccone che vi teneva appoggiato sopra. Entrambi erano a torso nudo, perché la calura era tanto opprimente da rendere fastidiosa anche la camicia più leggera. Le loro carni erano tanto scottate e rovinate che, ormai, non sentivano quasi più la tortura di fuoco dei raggi solari.

«Se hai qualcosa da ridire, dillo adesso», lo esortò l’Olandese.

Di nuovo, il suo socio non proferì verbo. Si limitò a spostarsi di qualche centimetro, ciondolando sulle gambe un poco instabili. E fu in quel momento che Waltz lo vide.

In lontananza, proprio sulla traiettoria che in quel momento era stata coperta dalla figura di Weisner, svettava una sorta di campanile di pietra. Una forma che l’Olandese conosceva molto bene, e che da qualche tempo lo tormentava persino in sogno, sebbene ancora non fosse riuscito a vederla con i suoi occhi affaticati.

La mano gli tremò mentre la ficcava nella bisaccia che portava a tracolla – la cinghia di cuoio, a contatto con la pelle, gliel’aveva praticamente scavata, imprimendovi un profondo solco rossastro e bruciante – e ne estraeva la mappa di Chini. La dispiegò in fretta e confrontò un disegno sulla carta con il torrione di pietra che si innalzava all’orizzonte.

«Guarda, Weisner!» sbottò. «Lo abbiamo trovato!»

Indicò il punto in lontananza. Il suo socio si voltò a guardarlo, senza realmente capire a che cosa stesse alludendo.

«Quel picco di pietra è disegnato sulla mappa!» esclamò l’Olandese. «Finora lo abbiamo sempre visto dall’altro versante, per cui non lo avevo riconosciuto! Ma adesso lo vedo bene, ed è di sicuro quello che è rappresentato sulla mappa!»

Weisner si grattò un braccio. Per meglio dire, vi conficcò le unghie.

«Ed è importante?» domandò.

«Lo è!» confermò Waltz. «È importantissimo, Weisner! Perché se il tesoro del capitano Kidd esiste per davvero, è lassù che lo troveremo!»

Gli sguardi dei due uomini si fissarono sul torrione. Doveva essere imponente, ma visto da quella distanza sembrava poco più grande del campanile di un qualche piccolo villaggio della Baviera.

Il miraggio dell’oro risvegliò in loro tutte le forze residue.

Senza più avvertire nessuna fatica, spronati dalla possibilità di fare finalmente fortuna, i due soci si avviarono in quella direzione.

 

 

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Capitolo 16
*** 16. ***


16.

 

 

Roma, Italia, marzo 2022

 

 

In un modo o nell’altro, Black Eagle era riuscito a svignarsela. Come avesse fatto a eludere la sorveglianza, o a varcare le porte chiuse a chiave e guardate a vista, era qualcosa che nessuno riuscì a spiegarsi.

Nessuno, tranne ovviamente Shelton.

«Apache», lo sentirono bofonchiare, quasi divertito da quella situazione.

Meno divertita di lui, l’ispettrice Esposito parve sul punto di voler prendere a pugni qualcuno. Si limitò a dare una manata al muro. Emise un suono sonoro quando il suo palmo impattò contro la superficie. CIAF!

«Mi prenderò una lavata di capo!» gracchiò. Spostò gli occhi di fuoco sui suoi sottoposti. «Ed è tutta colpa vostra!»

Martini e gli altri cinque agenti dell’aeroporto – tre uomini e due donne – si guardarono l’uno con l’altra, cercando qualche parola per giustificarsi. Nessuno osò parlare.

«Oh, be’, quella ce la prenderemo senza dubbio pure noi», intervenne Alberto, conciliante, pensando a Iannaccone. «Non è la fine del mondo. Tanto siamo dipendenti pubblici, mica possono licenziarci.»

Erano usciti all’esterno dell’aeroporto. Essendo il retro, lì non c’erano taxi o altri mezzi pubblici, e nemmeno il viavai di veicoli privati che non cessava un istante sul davanti. Si trovavano in un piazzale asfaltato, con profonde buche qua e là ed erbacce che crescevano un po’ dappertutto, cintato da recinzioni di metallo rugginoso, chiuse da un cancello. Alcuni cassonetti dell’immondizia, contro un muro, emanavano un cattivo fetore che si propagava nell’aria. Un camion era parcheggiato a breve distanza da dove si erano fermati. Pochi metri più in là, era ferma l’auto di servizio della polizia.

Aurora la indicò.

«Forse, se ci affrettiamo, possiamo ancora intercettarlo mentre si allontana lungo la strada», propose. Dal tono della sua voce, lei stessa non ne sembrò troppo convinta.

Io non ho tanta voglia di continuare questo inseguimento, ma almeno non dovremo tornare in quella mostra puzzolente, si disse Alberto.

«Si può fare», accettò.

L’ispettrice Esposito fece cenno a Martini di seguirla. Prima di allontanarsi, si rivolse agli altri agenti.

«Se qui dentro succede qualcosa mentre sono via, vi faccio un culo così!» esclamò. «E sapere che non parlo in senso figurato.»

Martini si mise alla guida, e l’ispettrice si sedette al suo fianco. Gli altri tre occuparono il sedile posteriore. Alberto si trovò schiacciato nel posto centrale, con Shelton a destra e Aurora a sinistra. Subito, cominciò a mancargli il fiato.

Spero che finisca in fretta, meditò.

Martini esitò un istante, indeciso se accendere o meno le sirene. L’ispettrice fece un cenno di diniego con la testa. L’automobile fece manovra, uscì dal cancello e si avvio nella notte della campagna romana.

 

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Capitolo 17
*** 17. ***


17.

 

 

Monti della Superstizione, settembre 1865

 

 

Il cunicolo sembrava non avere mai termine. Le tenui e tremolanti luci delle lampade a petrolio dei due uomini rischiaravano a stento le tenebre, proiettando ombre che creavano strane figure sulle pareti intagliate. Strani echi si amplificavano nel budello sotterraneo, dando l’impressione di voci incorporee sussurrate da persone invisibili.

L’esplorazione dell’alto campanile di pietra aveva richiesto nuove e dure fatiche da parte dei due tedeschi. Weisner, come suo solito, si era limitato a obbedire a ciò che l’Olandese gli diceva di fare. Si erano dati da fare per interminabili settimane, sopportando ogni privazione pur di giungere alla meta. Avevano disceso canaloni, si erano arrampicati lungo pareti ripidissime, avevano visitato ogni anfratto.

Alla fine, stanchi e stremati, con gli abiti ridotti a pochi cenci che minacciavano di disfarsi in polvere, avevano scoperto il cunicolo. Spinti più dalla disperazione che dalla sete d’oro – quella, ormai, si era esaurita, quando la sete d’acqua aveva preso il sopravvento su ogni altra cosa – si erano inoltrati lungo la stretta galleria.

Non si erano fermati a domandarsi se fosse la strada giusta, se oltre quel cunicolo si trovasse realmente l’oro del capitano Kidd – o qualsiasi altro tesoro. Non si erano posti alcun quesito.

Avevano deciso di entrare senza parlare, e lo avevano fatto.

Erano stati costretti ad avanzare quasi carponi per diversi metri, trascinandosi sulle ginocchia e sui palmi spellati e sanguinanti delle mani, prima che il soffitto si sollevasse abbastanza da farli procedere eretti.

«Ci siamo quasi», ripeté l’Olandese, forse per la decima volta.

Nemmeno lui avrebbe saputo dire dove o a che cosa, fossero quasi arrivati.

Sapeva soltanto che era così.

Lo sentiva nell’anima.

L’interno della galleria era caldo e asfissiante. L’aria, secca e immobile, bruciava i polmoni. Se entrambi non fossero stati quasi del tutto disidratati, sarebbero senza dubbio stati ricoperti di sudore. Ma, ormai, i loro corpi straziati e sfiniti, smunti dalle interminabili peregrinazioni, non sembravano più nemmeno in grado di qualcosa di così semplice, banale e scontato come la sudorazione.

«Ne sei sicuro?» domandò Weisner.

La sua voce risuonò roca e graffiata. Erano diversi giorni che non proferiva verbo. Il fatto che avesse parlato, doveva indicare che, persino lui, cominciava a non poterne più.

L’Olandese fu sul punto di rispondere in modo affermativo. Sapeva che non ci sarebbe stato altro modo per convincere il suo socio ad andare avanti. Eppure, non aveva alcuna prova per dire qualcosa di positivo. La galleria, semplicemente, proseguiva in profondità, nel buio e nel calore che pareva sprigionato dall’inferno, in apparenza interminabile.

Poi, però, prima che l’Olandese avesse potuto formulare un qualsiasi pensiero abbastanza solido da poterlo trasmutare in parole, il tunnel si aprì in una vasta caverna. Una grande cavità sotterranea, dal soffitto tanto alto da sfiorare la sommità della montagna. La luce del sole, incuneandosi attraverso alcune crepe e fessure aperte nelle pareti rocciose, giungeva fin là sotto con disegni e ghirigori straordinari.

Entrambi gli uomini si immobilizzarono.

La grotta era un susseguirsi di stalattiti, stalagmiti e colonne di calcare e di pietra. Doveva esserci dell’acqua, perché la si sentiva scorrere da qualche parte. Le pareti erano ricoperte di graffiti e disegni antichissimi, che mostravano immagini stilizzate e imprecise di uomini armati di archi e frecce mentre davano la caccia a bisonti e altri animali.

Nel centro esatto della grotta, sopra un piedistallo di pietra illuminato in pieno da un raggio di luce, era poggiato un piccolo recipiente di terracotta, con il coperchio fissato da una corda rinsecchita.

Di oro, argento, gioielli e monete – insomma, di tutto ciò che si erano aspettati di trovare al termine della loro lunga ricerca – non c’era alcuna traccia. Se il leggendario capitano Kidd aveva davvero raccolto un imponente tesoro e lo aveva nascosto da qualche parte, non si trovava di certo in quella cavità sperduta in mezzo ai monti dell’Arizona.

L’Olandese tremò. Al proprio fianco, sentì Weisner fremere.

«Sarebbe quello il tesoro?!» sbottò l’uomo, alzando una mano in direzione del vaso. «Mi hai trascinato in questa follia per quello?!»

L’Olandese si voltò verso il suo socio. Non fu abbastanza rapido. Il pugno di Weisner lo colse alla sprovvista, colpendolo in pieno viso. Un pugno debole, a causa della mancanza di forze, ma in cui comunque vibrava tutta la rabbia repressa che l’altro uomo covava da chissà quante settimane.

Jakob Waltz incassò il colpo. Sentì una scossa partirgli dal naso e scendergli lungo il torace, attraversandogli tutto l’organismo. Sgomento, non disse una parola, limitandosi a guardare Weisner che, in preda a un cieco furore, partiva di corsa verso il centro della grotta.

Lo guardò maneggiare il vaso, rompere il sigillo di corda e togliere il coperchio. Forse sperava di trovare almeno lì qualcosa di prezioso, qualcosa che potesse giustificare tutti i loro patimenti, fosse stata anche soltanto una manciata di polvere d’oro.

Accadde tutto all’improvviso.

Dal recipiente uscì uno sbuffo di fumo polveroso, che avvolse completamente Weisner, celandolo alla vista. Poi la sabbia si condensò, assumendo le fattezze di una bellissima donna. Una donna dai lunghi capelli neri, vestita con una casacca di pelle con le frange che le arrivava a mezza coscia e i piedi avvolti in mocassini morbidi.

Inebetito, incredulo, l’Olandese guardò Weisner abbandonarsi a un abbraccio con quella donna misteriosa, e inutilmente cercò di urlargli di tirarsi indietro, di allontanarsi, perché una donna uscita da un vaso non poteva che portare con sé pericoli e sfortuna.

Cercò di urlare, ma non ci riuscì.

La voce si rifiutò di uscirgli dal corpo.

Riuscì soltanto a sentire l’urlo di Weisner, che si perse nella crescente oscurità che, all’improvviso, celò la grotta alla vista dell’Olandese.

Poi tutto divenne buio.

 

* * *

 

Waltz si risvegliò diverse ore più tardi.

L’aria fresca gli accarezzò il viso, e sentì qualcosa di caldo contro il naso. Riaprì gli occhi, cercando di mettere a fuoco qualcosa, di capire che cosa fosse successo.

Un cavallo era fermo al suo fianco, e stava cercando di risvegliarlo. Sotto il proprio corpo, sentì il contatto con l’erba fresca. Uno sciacquio ininterrotto gli suggerì che, a breve distanza, doveva scorrere un corso d’acqua.

Improvvisamente tornato in sé, l’Olandese si rizzò a sedere e si guardò attorno.

Per un istante, pensò di essere morto e che, quello, dovesse essere il paradiso. Dopo quel primo istante di esaltato smarrimento, si rese conto di essere ancora nel mondo dei vivi.

In lontananza, al termine della verde vallata, vide innalzarsi delle aspre e riarse montagne, rosse cupe contro il cielo blu cobalto. Le Montagne della Superstizione.

«Ma che diavolo…?»

Rinunciò a domandarsi che cosa ci facesse lì. Non volle nemmeno provare a immaginare come avesse fatto, in modo del tutto inconscio, a trascinarsi fuori da quella grotta maledetta e a percorrere qualcosa come centinaia di chilometri, senza acqua e senza viveri.

Per un istante, il ricordo di quello che era accaduto nella grotta gli attraversò la mente. Rivide la bellissima donna uscita dal vaso e Weisner che l’abbracciava. Durò pochi secondi. Si convinse di aver sognato.

«C’è stato un crollo», dedusse.

Un crollo che aveva scatenato una nube di polvere che, per qualche strano gioco del caso, aveva assunto per un attimo le fattezze di una forma femminile. Il resto lo avevano fatto i suoi sensi, accesi dalla stanchezza e dalla paura.

«Povero Weisner», borbottò.

Era chiaro che, il suo socio, non doveva avercela fatta a scampare al crollo. Tante fatiche e sangue spesi alla ricerca del tesoro, per poi lasciarci la pelle in quella maniera.

L’Olandese fece per balzare in groppa al cavallo che lo aveva svegliato, quando il suo sguardo fu attratto da un involto appoggiato accanto alle sue zampe.

Non ebbe bisogno di aprire il sacco di iuta chiuso da un laccio per sapere che cosa contenesse.

In un qualche modo che non provò nemmeno a spiegarsi, era riuscito a salvare l’antico recipiente dal crollo e lo aveva portato con sé.

«Magari ne ricaverò qualcosa vendendolo a un museo o a qualcosa di simile», concluse.

Una ben magra consolazione, viste tutte le fatiche che aveva affrontato, ma era pur sempre un risultato. Meglio accontentarsi di quello che aveva avuto e, soprattutto, di aver riportato a casa la pelle – anche se un po’ malmessa e rinsecchita.

Afferrato l’involto, l’uomo si issò sul cavallo e lo spronò.

Jakob Waltz, detto l’Olandese, partì verso il tramonto.

 

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Capitolo 18
*** 18. ***


18.

 

 

Roma, Italia, marzo 2022

 

 

Pini marittimi, vigneti, paesetti e cascine sparse.

E tanti, tanti cinghiali che grufolavano in libertà.

Questo offrì alla vista di Alberto, Aurora e degli altri tre la campagna laziale, in quella notte interminabile. Questo e niente altro.

Di Black Eagle, nessuna traccia.

Nemmeno l’ombra.

«Non mi sono mai fatto troppe illusioni di ritrovarlo», disse il professor Shelton, con un’alzata di spalle. «Del resto, è un Apache. Un Apache lo trovi solo se vuole farsi trovare. E pare proprio che Ward, di essere ritrovato, non abbia alcuna intenzione.»

Era l’alba. Si erano fermati nel piazzale di un bar che apriva molto presto, essendo lungo una statale. L’ispettrice Esposito e l’agente Martini, stanchi e assonnati, erano entrati per bere un caffè.

Il professor Shelton, le mani in tasca, ammirava il sole che spandeva i suoi raggi all’orizzonte, sui colli romani. Aurora aveva preso una sigaretta dal pacchetto e la stava fumando con lunghe e profonde boccate.

«Mi fa piacere che l’abbia presa così stoicamente, professore», commentò Alberto. «Le garantisco che, in ogni caso, avvieremo un indagine e faremo il possibile per ritrovare il reperto rubato.»

Anche perché, si disse, sono certo che Iannaccone non sarà altrettanto stoico.

«Gliene sono grato!» ruggì Shelton. Poi scrollò le spalle e minimizzò: «Ma, in fondo, il furto di una vecchia terraglia indiana non è poi tutta questa gran cosa. L’importante è che gli speroni di Roosevelt siano rimasti al loro posto, sotto stretta sorveglianza!»

Alberto fissò il professore americano. Rinunciò a cercare di capire se fosse ironico o meno. Si volse verso Aurora.

«Dici che Iannaccone ce la farà passare liscia?» domandò, incerto.

Lei si limitò a prendere una boccata di fumo.

«Il massimo che potrà fare, sarà toglierci l’incarico di fare la guardia alla mostra e trasferirci altrove.» Altra boccata di fumo, prima di soggiungere: «Peccato.»

Il sarcasmo trasudò da quell’ultima parola con una prepotenza tale che Manfredi si sentì attraversare da un’ondata frizzante che non aveva nulla a che vedere con l’aria della mattina primaverile.

«Be’, speriamo che non urli troppo», concluse.

Adesso, almeno, avrebbe avuto tutto il tempo per rifinire i dettagli del piano di incursione nella villa di quel maledetto di Rakovac, per recuperare la Venere impudica e riportarla in Italia.

Tanto vale sorbirsi un po’ di cazziatone da parte di Iannaccone, se questo sarà il risultato.

Il sole, all’orizzonte, aveva ormai fatto capolino e si stava sollevando verso il cielo.

 

* * *

 

Il coperchio del cassonetto dei rifiuti si sollevò di qualche centimetro. Due occhi astuti scrutarono il piazzale, assicurandosi che fosse deserto. Una mano spinse in alto la copertura e Paul Ward saltò agilmente fuori dal cassonetto.

Sotto braccio, aveva il vaso in cui era rinchiusa la strega Skudakumooch.

Tanti anni prima, i suoi antenati preposti a fare la guardia a quel pericoloso recipiente avevano fallito nel loro compito. Un uomo arrivato da lontano era riuscito a trafugare il vaso che, per oltre un secolo, era stato ritenuto perduto.

Perduto e potenzialmente pericoloso, perché se Skudakumooch ne fosse uscita, avrebbe portato la sua piaga su tutta la terra.

Ma ora Black Eagle aveva compiuto il suo compito. Aveva ritrovato il vaso e, presto, lo avrebbe rimesso al sicuro, nelle viscere delle montagne, da dove non sarebbe mai più uscito.

Soddisfatto, l’Apache si allontanò, silenzioso e invisibile come un’ombra.

 

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Capitolo 19
*** Epilogo ***


Epilogo

 

 

Monti della Superstizione, Arizona, aprile 2022

 

 

Black Eagle depose il vaso sopra il suo piedistallo. Dopo millenni, ripeté i gesti che, un tempo, furono compiuti dallo sciamano Kosumi, colui che aveva con coraggio e sprezzo del pericolo affrontato e vinto la strega Skudakumooch, l’empia piaga dei popoli delle terre selvagge.

Si guardò attorno.

La grotta sarebbe stata un nascondiglio perfetto. Nessuno mai l’avrebbe scoperta e, dopo che lui avesse fatto saltare la dinamite con cui aveva minato la galleria, il suo ingresso sarebbe stato inviolabile.

Non ci sarebbero stati nuovi errori.

Nessuno avrebbe mai più trafugato il vaso.

Black Eagle voltò le spalle all’altare di pietra.

«Vieni da me», lo chiamò una voce seducente. «Amami.»

L’Apache, atterrito, si voltò di scatto.

Skudakumooch era ferma dinnanzi a lui. Bella, bellissima, irresistibile.

«Stammi lontano, demonio!» gridò Black Eagle.

Cercò di muovere un passo indietro, ma scoprì di non potersi muovere.

La strega si stava facendo scivolare dalle braccia la casacca di pelle conciata, rivelando tutta l’eterna e irresistibile bellezza e perfezione del suo corpo privo di età. Suo malgrado, Black Eagle si sentì fremere, pervaso da un fuoco a cui non avrebbe potuto sottrarsi.

«Nessuno può battermi», sussurrò Skudakumooch, aprendo le braccia per accoglierlo. «Io sono invincibile. Paziente e invincibile.»

Black Eagle si unì a lei.

La strega gli affondò denti affilati e lunghi come zanne nel corpo, squarciando e strappando.

Le grida strazianti di Paul Ward furono un’eco che si disperse tra le vallate e i picchi delle Montagne della Superstizione.

 

 

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