Neve Rosso Sangue (TORNA IL 5 MAGGIO)

di Kakashi_Haibara
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 15: *** DOMENICA 5 MAGGIO NUOVO CAPITOLO ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo

 

3 settembre 1971, Maine, USA

 

La pioggia estiva batteva forte sull'asfalto irregolare, che faceva inciampare i piedi nudi del piccolo Arthur a ogni passo falso. Il suo mantello verde ormai era zuppo di acqua e sporco di fango.

Il vento gli pungeva il viso e, per quanto volesse, non poteva tenere gli occhi chiusi.

La stradina di città immersa nell'ombra della notte era illuminata dalle fioche luci gialle dei lampioni.

Correva. Correva e non guardava indietro. Aveva il fiato corto e sentiva le gambe sempre più deboli. Avrebbe voluto fermarsi, riprendere fiato per qualche attimo, riposarsi, ma non poteva.

Erano sempre più vicini. Erano grandi e grossi rispetto a lui, così piccolo e gracile. Avevano dei fucili e, sparandogli, gli avevano graffiato la guancia destra. Il bruciore e la vista del sangue lo avevano spaventato.

Lui invece non aveva nulla. O quasi. Avrebbe potuto difendersi con i suoi... No. Non poteva farlo. Aveva paura. Paura di non riuscire a fermarsi mai più.

Singhiozzò, mordendosi il labbro inferiore. Non voleva essere preso, non voleva morire.

Dalla disperazione e dal timore di poter essere raggiunto, svoltò nel primo vicolo alla sua sinistra. Troppo tardi si rese conto che non vi era via d'uscita.

Andò a sbattere contro il muro di pietra che sigillava il passaggio. Stordito, tentò in tutti i modi di scavalcarlo, di distruggerlo con i suoi piccoli pugni, di graffiare la roccia come un topo rinchiuso in una cupola di vetro, ma invano. Tremava e ansimava spaventato più che mai.

- Sei in trappola, finalmente - disse una voce roca alle sue spalle.

Il bambino si voltò di scatto con il cuore a mille. Gli occhi verdi colmi di terrore.

Erano in sei: uomini alti, robusti, dalle barbe lunghe e incolte e dallo sguardo feroce. Due di loro tenevano i fucili puntati su di lui, altri tre avevano delle torce che lo accecavano e lo obbligavano a proteggersi gli occhi con le braccia. L'uomo al centro, quello che aveva parlato, era il più spaventoso di tutti e sembrava essere colui che impartiva ordini ai compagni: era più grosso e aggressivo degli altri, ma era altro a fargli paura. Una spessa cicatrice bianca gli attraversava l'intera parte sinistra della faccia, partendo dal sopracciglio, passando sull'occhio ormai cieco e finendo poco vicino alle labbra. Quando ghignava, la cicatrice si increspava e lo rendeva ancora più inquietante.

- Lasciatemi in pace! - gridò il piccolo, completamente esausto. Le parole gli uscivano a fatica.

L'uomo inquietante rise e così fecero anche i suoi compagni. - E perché dovremmo, mostro? Sappiamo cosa sei e noi non tolleriamo creature come te nella nostra città!

Fece un passo in avanti e pestò il piede in una pozzanghera, facendo sussultare Arthur, che tentò di indietreggiare, ma andò di nuovo a sbattere contro il muro e crollò a terra, sfinito. - Vi prego, non vi ho fatto nulla di male! Ho solo preso un pezzo di pane caduto! Non lo avreste mangiato!

Era vero. Quel tozzo di pane era caduto dal loro tavolo dritto sul pavimento sporco e bagnato. Uno di quegli uomini aveva espressamente pensato che non lo avrebbe mai raccolto. Lo avrebbe lasciato ai piccioni.

- Smettila di mentire! - ringhiò il capo, avvicinandosi a grandi passi. - Abbiamo visto cosa hai fatto. Il pezzo di pane è volato dal terreno alla tua mano! Non tentare di ingannarci!

La sua figura imponente si stagliò su quella piccola del bambino. L'ombra che formò con il suo corpo lo inondò, nascondendolo dalla luce delle torce. L'uomo poggiò un ginocchio a terra, estrasse un coltellino dalla sua cintura e prese Arthur per il colletto del mantello, sollevandolo a pochi centimetri da terra.

Il bambino scalciò e afferrò con le unghie la mano grossa e forzuta che non aveva alcuna intenzione di mollarlo.

- Conosco quelli come te - continuò l'uomo, puntandogli il coltello sotto il mento. - Siete la feccia di questo mondo. Non sapete fare altro che ferire e uccidere. Volete sterminare gli umani perché li ritenete inferiori... Allora, è così?!

Strattonò il piccolo talmente forte che per qualche attimo vide solo dei puntini neri che gli danzavano davanti agli occhi. Se poté, Arthur pianse ancora più forte. - Io non uccido nessuno! Avevo solo fame! Lasciami andare!

Evidentemente all'uomo non interessavano affatto le sue implorazioni. Lo strinse con più forza e spinse la punta del coltello sul collo esile del bambino. - Se sei davvero così strepitoso da far volare gli oggetti, perché non ti liberi da solo con i tuoi superpoteri? Facci vedere, avanti! Vedremo quale delle due razze è davvero superiore!

Con il coltello che gli premeva sul collo, Arthur faceva fatica a respirare. Sentiva il sangue che cominciava a uscire dalla ferita e gli rigava il petto. Le parole di quell'uomo non avevano assolutamente senso per lui. Non voleva uccidere, non sarebbe mai arrivato a tanto solo per del pane. Boccheggiò, tentando di parlare, ma il panico e la stanchezza non contribuivano. La vista gli si stava appannando e ormai non riusciva nemmeno più a muoversi. Gli mancava l'aria, quell'uomo lo stava strozzando a morte.

- Patetico. - mormorò il suo assalitore. Ormai aveva perso completamente interesse perfino a terrorizzarlo.

- Che facciamo, capo? - chiese l'uomo alla sua sinistra che teneva un fucile. - Lo uccidiamo?

L'uomo con la cicatrice fissò il bambino negli occhi con un'espressione annoiata. Forse stava ancora valutando l'idea se continuare a spaventarlo o ucciderlo subito.

Proprio quando sembrò che lo stesse per lasciare, mollò il coltellino, che cadde ai suoi piedi con un tintinnio, e sollevò la mano ormai libera, chiusa a pugno, pronto a colpire il bambino dritto in viso.

- Hey, Moreau! - una voce calma e acuta lo richiamò poco prima che potesse anche solo sfiorare il viso di Arthur. - Che cosa stai facendo?

L'uomo si voltò lentamente, scocciato. Quando si rialzò, lasciò la presa dal mantello e il piccolo cadde a terra, battendo la nuca. Un conato di vomito gli risalì in gola.

- Che cosa vuoi, moccioso? - ringhiò al nuovo interlocutore. - Questi non sono affari tuoi, torna a casa a giocare.

Una risata flebile e delicata fu la sola risposta. Quando finì, la persona appena arrivata, ancora ferma in fondo al vicolo, continuò. - Oh, invece io credo che siano proprio affari miei, caro Moreau! Riesci a riconoscere dove siete finiti?

Ci fu un momento di silenzio. Arthur non capiva cosa stesse succedendo, era troppo stordito per riuscire ad alzarsi, ma notò che l'uomo malvagio (Moreau, a quanto pare) si stava guardando intorno con fare nervoso. Anche i suoi compagni cominciarono ad agitarsi e ad abbassare torce e fucili. Moreau sbuffò stringendo i pugni.

- Esattamente. - il tono del ragazzino era allegro. Arthur non riusciva a vederlo bene: la sua figura, protetta dalla pioggia da un ombrello viola che teneva in mano, appariva bassa e minuta contro la luce del lampione alle sue spalle, portava i capelli chiari lunghi fino alle spalle e indossava dei vestiti eleganti. Non poteva avere più di dodici anni. - Avete oltrepassato i confini della mia proprietà privata. Ora mi occuperò io di lui, se non ti dispiace. - Era un invito, ma il suo tono non ispirava gentilezza.

Moreau avanzò con prepotenza verso l'uscita del vicolo. - Te lo scordi, ragazzino, è la nostra preda e lo finiremo per bene, proprio come merita di essere trattato.

Un'altra risata fine e fredda risuonò nel silenzio della sera. - Preda? Ah certo! Tu sei il lupo cattivo che se la prende con il coniglietto paralizzato dalla paura, un essere assolutamente innocuo. Non è un atteggiamento molto virile. - lo schernì e la sua figura si avvicinò lentamente a Moreau, senza alcuna esitazione. Si fermò davanti a lui, guardandolo dal basso verso l'alto: non gli arrivava nemmeno al petto. - Oh, aspetta! Non crederai mica alla storia degli uomini con i “superpoteri” di cui parlano i giornali, vero? E' ridicolo! Se questo bambino davvero ne avesse qualcuno, ti avrebbe già fermato, non credi?

A quel punto Moreau sembrò non trovare più le parole. I suoi compagni cominciarono a lanciarsi delle occhiate confuse, come se non fossero davvero sicuri del perché avessero seguito il capo in quel vicolo.

Il ragazzino appoggiò una mano sul braccio enorme dell'uomo, con grande disinvoltura e per niente spaventato. - Adesso ti conviene levarti di torno, se non vuoi che la mia famiglia rovini la tua intera carriera da bravo cittadino.

Moreau serrò i denti e scansò con un gesto brusco la mano del giovane. Fece un cenno ai suoi compagni che subito si riversarono fuori dal vicolo buio. Prima di svoltare l’angolo, puntò lo sguardo di fuoco su Arthur che nel frattempo si era rimesso seduto, tutto dolorante. - Non è finita qui, mostro. Se ci rivedremo, la pagherai molto cara. - quelle parole non sembrarono indirizzate solo a lui. Sputò per terra ai piedi dell’altro ragazzino e levò le tende.

Passarono secondi o forse minuti. Arthur si sentiva ancora frastornato dal dolore, il cuore non aveva affatto smesso di martellare veloce come un treno e la pioggia gli batteva sul viso.

A un certo punto il ragazzino all'entrata del vicolo sospirò e si avvicinò, appoggiando la mano libera sul fianco. - Bene, ora veniamo a noi.

Qualcosa scattò nella mente del bambino, che in qualche modo aveva capito che quella era una persona ancora più potente dei suoi inseguitori, ed ebbe la forza di indietreggiare, impugnando il coltello abbandonato da Moreau e puntandolo contro di lui. Ma la paura ebbe il sopravvento e non fece solo quello. All'improvviso i sassolini sparsi nel vicolo cominciarono a levitare, i vasi si staccarono dai davanzali delle finestre e, per un impercettibile attimo, pure il ragazzino fu sollevato da terra, che, nonostante tutto, sembrava calmo. Vi era solo una lieve traccia di stupore nella sua voce. - Sei tu l'artefice, non è vero?

-No, non sono io! Io non voglio tutto questo! - Ma proprio mentre pronunciava queste parole, allungò una mano in avanti e gli oggetti si mossero verso il nuovo arrivato, fermandosi a pochi centimetri dal suo viso.

Spaventato, Arthur ritirò la mano e i vasi si infransero a terra, i sassi rotolarono via e il ragazzino tornò a toccare terra.

- Telecinesi completamente incontrollata... - mormorò l'altro accarezzandosi il mento con le dita sottili. - Sei anche un telepate?

Fece un passo in avanti, ma il bambino indietreggiò ancora di più, terrorizzato.

- Non ti avvicinare!

- Se lo sei davvero, allora leggi la mia mente.

Il piccolo scosse il capo, tenendoselo tra le mani. - No, no! Mi scoppia la testa!

Tremava dalla paura, le dita delle mani e le labbra avevano assunto un preoccupante colore violaceo e perdeva molto sangue dal collo e dalla nuca. Il ragazzino non voleva spaventarlo ancora di più. Doveva assolutamente aiutarlo.

- Come ti chiami? Non voglio farti del male, fidati di me. - disse con il tono più calmo e gentile possibile.

Il più piccolo abbassò lo sguardo, riluttante. - E perché dovrei?

Ci fu un attimo di attesa tra di loro. Nessuno fiatò, c'era solo lo scrosciare della pioggia sui tetti delle case e sul ciottolato. Si fissarono negli occhi e si studiarono a vicenda: quelli del ragazzino in piedi non erano affatto feroci e cattivi come quelli degli uomini che avevano inseguito Arthur. Al contrario erano di un bellissima tonalità di blu, il colore del cielo dopo un temporale, del mare al seguito di una tempesta. Ispiravano calma e tranquillità. Quelli del più piccolo invece erano spaventati, sì, ma risplendevano di una luce color smeraldo talmente luminosa che incuteva timore.

Poi, il bambino dagli occhi blu sospirò, raddrizzando la schiena. - Perché io sono come te.

Ciò che avvenne dopo fu così straordinario che per Arthur fu sempre difficile da rendere a parole: a un tratto una strana foschia violacea, talmente fine da essere quasi impercettibile, avvolse il ragazzino. Le scarpine lucide nere scomparvero e si ritrovò a piedi nudi, agli abiti candidi e ordinati prese posto una lunga mantella verde stagno, putrida e sfatta, l’ombrello sparì, i lunghi capelli biondi divennero più corti e spettinati, coperti da un cappuccio, gli occhi cambiarono sfumatura, dal blu al verde, e infine tutto il viso e la corporatura mutò: Arthur si ritrovò davanti la figura di sé stesso.

Il bambino rimase senza parole dallo stupore.

Con un sorriso soddisfatto, l'altro si ritrasformò nella sua figura originale. - Sono un mutaforma, un essere dotato di poteri sovrannaturali. Allora, ti ho convinto adesso? Qual è il tuo nome?

- A... Arthur. - balbettò il piccolo. - Mi chiamo Arthur.

L'altro sorrise. - Bene, Arthur. Io sono Francis Bonnefoy, erede dell'antica casata franco-canadese Bonnefoy, e sono anche io un mutante.

 

 

 

12 ottobre 1980, Maine, USA

 

A quel punto tutto divenne confuso.

In un attimo, Francis si ritrovò circondato da una decina di soldati dell'esercito statunitense che gli puntavano pistole e fucili addosso, impartendogli ordini di ogni tipo. Prima che potesse anche solo fare una qualsiasi mossa, quattro di loro lo immobilizzarono, buttandolo a faccia a terra: uno gli bloccava le gambe, due gli tenevano ferme le braccia e un altro gli mise un ginocchio sulla schiena e gli stringeva la testa con la grossa mano, impedendogli qualsiasi movimento e facendogli sfregare la guancia sull'asfalto ruvido.

Un vento forte arrivava dall'alto e in un attimo capì da dove provenisse: con un tuffo al cuore, fissò con gli occhi sgranati un enorme robot rosso e grigio che si stagliava sopra di lui, fari accecanti al posto degli occhi lo illuminavano per renderlo visibile anche se era ancora giorno. E così era vero: le “Sentinelle” anti-mutanti di cui si era parlato tanto negli ultimi anni erano finalmente state brevettate. La paura che l'enorme mano di quella macchina colossale potesse disintegrarlo in un secondo prese il sopravvento. Si dimenò, tentò di scalciare, ma il militare che gli stava sulla schiena gli afferrò i capelli e gli fece sbattere la fronte sull'asfalto.

Stordito e con il sangue che gli colava sul viso, a malapena si rese conto di sua madre e sua sorella che urlavano il suo nome poco lontano da lui.

Qualcosa gli cinse il collo con un sonoro click. All’improvviso si sentì totalmente prosciugato di ogni sua forza e a stento riuscì a rimanere sveglio.

- Hey! - ringhiò, tentando di trovare le forze per ribellarsi. - Cosa mi state facendo? Che mi avete messo al collo?!

Sentì una risata rilassata, ma che ispirava malvagità, accompagnata da un rumore di passi provenire da dietro di lui. - Mi diletta notare che il nostro collare degno di voi creature sia di tuo gradimento, giovane mutante. Anni e anni di lavoro hanno finalmente dato i loro frutti a un oggetto capace di annullare completamente i poteri di qualunque mutante lo indossi. Impressionante, non è vero?

Due mocassini neri e un bastone da passeggio gli si stagliarono davanti. Francis alzò lo sguardo sull'uomo che aveva parlato: i capelli lunghi biondi erano legati in una coda ordinata, gli occhi cristallini erano freddi e crudeli, il sorriso appagato e sadico. Inconfondibile: era Walter Beilschmidt, generale delle forze armate degli Stati Uniti, da sempre nemico giurato dei mutanti.

Poi il generale si voltò verso la folla di giornalisti e cittadini che si era radunata per assistere alla scena. Qualcuno mormorava il nome del ragazzo, altri si scambiavano occhiate preoccupate e confuse, altri invece ghignavano soddisfatti. Tra questi ultimi vide Moreau, che sgomitava e lo indicava con uno sguardo compiaciuto. L’orrenda cicatrice sul viso si increspava quando rideva.

- Cittadini e cittadine d'America e del mondo intero! - esordì il generale Beilshmidt, aprendo le braccia come per accogliere tutti i presenti. - Sono finalmente lieto di annunciarvi che, dopo anni di terrore, la minaccia mutante da oggi verrà debellata dalla faccia del nostro pianeta. Vi presento il primo mutante che varcherà la soglia della Fortezza di Westbrook: Francis Bonnefoy, mutante franco-canadese di diciannove anni.

Centinaia di flash delle macchine fotografiche lo frastornarono e Francis capì di star perdendo i sensi.

Non riuscì più a seguire il discorso del generale che descriveva cosa sarebbe avvenuto all'interno della fortezza, non sentiva più i corpi degli ufficiali che lo tenevano a terra, le voci della sua famiglia erano soffuse e le facce dei presenti erano divenute solo una sfumatura di colori fiochi.

Proprio quando ormai aveva deciso che quella sarebbe stata la sua fine, uno sguardo allarmato e penetrante lo riportò per un attimo nella realtà. Là, in mezzo a quella folla di facce sconosciute, gli occhi verdi del ragazzo che più amava al mondo lo fissavano colmi di preoccupazione e paura. Per un attimo, nulla esistette più per Francis: le persone erano scomparse, le voci si erano interrotte, il vento emanato dal robot era cessato. C'erano solo lui e la persona più importante della sua vita, Arthur.

Nel momento in cui i loro sguardi colmi d'amore si incrociarono, Francis sentì il cuore farsi pesante. Voleva lottare, voleva rimanere vivo per Arthur, non voleva morire. Ma allo stesso tempo non voleva assolutamente che anche l'inglese venisse catturato. Se era vero che le Sentinelle potevano intercettare il potere dei mutanti, allora anche Arthur era in pericolo.

Si lasciò sfuggire un debole singhiozzo. I suoi occhi blu implorarono ad Arthur di fuggire.

“Ti prenderanno. Devi metterti in salvo.” pensò. Sapeva che l'altro poteva sentirlo.

Difatti, Arthur strinse i pugni e una lacrima gli rigò il viso.

Francis non voleva che quella fosse l'ultima immagine di Arthur che avrebbe visto. “Farò tutto il possibile per restare vivo” continuò, senza mai staccare gli occhi da quelli verdi del compagno amato. “Ma tu devi fuggire o troveranno te e gli altri. Sei la persona più intelligente di questo pianeta, so che troverai una soluzione e mi salverai”.

Ormai Francis non riusciva più a tenere gli occhi aperti. Il potere del collare non solo gli stava sopprimendo temporaneamente i poteri, ma lo stava anche privando di ogni energia in modo che si addormentasse e non riuscisse a reagire.

“Lo farò”. La voce di Arthur che si insinuava nella sua testa lo riscosse per un breve attimo, la sua figura ormai scomparsa dalla folla, fuggita dal radar della Sentinella. “Troverò il modo e ti porterò via di lì. Aspettami. Verrò a prenderti”.

Francis chiuse gli occhi colmi di lacrime e un sorriso sollevato per quella promessa si disegnò sul suo viso poco prima di perdere i sensi.



Spazio dell'Autrice
Bonjour a todos Hetalians!!!
Per chi mi segue, questa è la famigerata fanfiction su cui sto lavorando da ANNI. Mi sta molto a cuore, sto scrivendo tutto nel minimo dettaglio perché deve essere perfetta ahah ^^
Come avrete potuto notare, è ispirata all'universo degli X-Men, di cui io sono una fan sfegata sin da bambina, quando mi mettevo davanti alla tv a guardare il cartone animato di Wolverine e gli X-Men T^T
Questo prologo è ambientato qualche anno prima degli eventi della storia e tratta di due personaggi secondari che però io adoro (sono una sottona per i FrUK, mi dispiace). Tra l'altro l'intera storia l'ho inventata partendo da loro due, anche se il protagonista è Feliciano! (!!ATTENZIONE!! Il rate potrebbe salire da metà storia in poi, quindi forse la ff diventerà accessibile solo ai maggiori di 18 anni, ma ci penserò!)
Spero vi piaccia, fatemelo pure sapere nelle recensioni! Ci si rivede la prossima domenica con il Capitolo 1, ciao ciao!! <3

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


Capitolo 1

 

25 gennaio 1985, ore 22:51, Fortezza di Westbrook, Maine, USA

 

Il viaggio all'interno del furgone dell'esercito da New York fino alla fortezza di contenimento dei mutanti fu strano per Feliciano.

Le prime quattro ore le aveva passate completamente addormentato e, appena sveglio, a malapena era riuscito a tenere gli occhi aperti. L'anello metallico che gli avevano agganciato attorno al collo lo aveva privato in un batter d'occhio di tutta la vitalità che possedeva in corpo e a quanto pare persino dei suoi poteri. Lo aveva capito non riuscendo a percepire la presenza del fratello e nemmeno a comunicare con lui.

A quel pensiero, si rattristò. Aveva promesso a suo fratello Romano che sarebbe rimasto a casa al sicuro mentre il maggiore andava a comprare del cibo per la cena con i pochi spiccioli che avevano. Ma Feliciano non ce l'aveva proprio fatta a restare ancora chiuso in quell'appartamento sporco e cadente ed era uscito a prendere una boccata d'aria fresca.

“Che mai potrebbe accadere?” si era chiesto, ingenuamente. Sarebbe soltanto andato a salutare i gattini del vicolo sotto casa, non si sarebbe allontanato troppo.

Senza dubbio non si sarebbe mai aspettato che a un certo punto dal cielo piombasse un robot alto 6 metri che annunciava con la sua voce metallica “MUTANTE. AVVISTATO MUTANTE” e che poi due soldati lo atterrassero in mezzo secondo, lo indebolissero con quel collare soffocante e lo sbattessero dentro a un furgone verde con altri tre mutanti prigionieri.

Feliciano tirò su col naso. Era stato uno sciocco a disubbidire al fratello maggiore. L'aveva avvertito mille volte che ultimamente avevano raddoppiato i controlli per scovare altri mutanti. Dicevano che si temesse la formazione di una schiera di “ribelli” e che andassero fermati prima che accadesse. D’istinto, pensando al fratello, attorcigliò intorno all'indice il ciuffo arricciato di capelli distintivo che lo legava al fratello. Grazie a quel particolare, riuscivano sempre a comunicare tra di loro.

Sospirò affranto e cominciò a guardarsi in giro. Aveva le mani legate con delle manette di metallo, come se avesse potuto fare qualcosa, indebolito com'era.

Alzò lo sguardo verso gli altri prigionieri seduti di fronte a lui: erano tre ragazzini di origine asiatica, quello al centro sembrava avere sui quindici anni, portava i capelli neri tagliati a caschetto e aveva un occhio gonfio (Feliciano si chiese se anche lui stesso fosse ridotto così, si sentiva pulsare la fronte nel punto in cui aveva sbattuto contro l’asfalto); gli altri due, maschio e femmina, erano più piccoli, sui dieci anni. Erano illesi, ma avevano le guance e i bordi degli occhi rossi, probabilmente per aver pianto. Intuì che fossero tre fratelli: i due piccoli dormivano appoggiati con disinvoltura al più grande che... Lo stava decisamente fissando.

Feliciano si guardò intorno a disagio. Eh già, stava proprio guardando lui. Tentò di essere gentile e sorrise al ragazzo, ma quello non rispose. Si limitò ad abbassare lo sguardo.

L'italiano fece una smorfia di delusione. Sperava almeno di poter avere qualcuno amichevole su cui contare in quella situazione...

Diede un'occhiata ai tre soldati: due erano seduti davanti, non li vedeva in viso, ma a volte quello sul sedile del passeggero si rivolgeva al guidatore e finivano col ridere allegramente. Il soldato messo di guardia ai prigionieri non sembrava altrettanto felice: era seduto tra Feliciano e lo sportello posteriore, batteva il piede per terra ripetutamente e sbuffava ogni cinque minuti. Sembrava infastidito ogni volta che gli altri due ridevano, probabilmente lo avevano costretto a sedersi con i mutanti. Ironicamente, nonostante la situazione in cui si trovava, Feliciano non poté fare a meno di notare quanto fossero belli i suoi occhi color muschio accostati ai ricci castani e alla carnagione abbronzata, come se si fosse appena fatto una vacanzina in Puglia. In qualche modo, lo prese in simpatia.

- Tra quanto siamo arrivati? - gli chiese.

Quello sussultò, probabilmente non aspettandosi che un prigioniero gli parlasse. Lo fissò per qualche attimo, sbigottito. Poi si schiarì la voce. - Saremo a Portland tra dieci minuti, immagino. Feliciano notò che parlava con un accento strano.

Il guidatore schernì il compagno. ridacchiando. - Che fai, parli con quei mostri?

Il soldato al suo fianco rise di gusto, il che fece alzare gli occhi all'interpellato. - Cerco solo di essere gentile.

- Gentile dopo che li hai sbattuti a terra a forza?

- Io non ho sbattuto a terra nessuno, vi ho solo aiutati a metterli sul furgone.

Il passeggero rise di nuovo. - Guarda che, se fai tanto il rammollito e non ti comporti da vero soldato, non ti eleveranno mai a un rango superiore, resterai sempre una semplice guardia della fortezza a cui rifilano i compiti più noiosi! Che gioia!

Il giovane sembrò essere sul punto di saltargli al collo, ma si limitò a rispondere a tono. - Non sono un rammollito, semplicemente conosco i limiti, al contrario di voi. Dovevate per forza colpire così forte un ragazzino? E perfino sedarlo davanti ai suoi fratellini?

- Hey! Ha opposto resistenza, avrebbe potuto ucciderci con i suoi poteri! - si difese il guidatore.

Il soldato seduto di fianco a Feliciano scosse la testa e incrociò le braccia, seccato.

Non sembrava cattivo come gli altri due. Aveva deciso che gli stava davvero simpatico.

- Come ti chiami? - gli chiese, curioso.

Il guidatore rise di nuovo. - Dai, diglielo. Fai amicizia con il mostro!

Il soldato gli scoccò un'occhiataccia e poi puntò i suoi occhi verdi sull'italiano. - Mi chiamo Antonio. E tu?

Prima che potesse rispondere, il veicolo sterzò bruscamente a sinistra e per poco Feliciano non fu scaraventato addosso ai tre fratelli. Quando si riprese dalla sorpresa ormai erano fermi.

Il soldato dal lato del passeggero lanciò una cartellina porta fogli nera ad Antonio. - Te la vedi tu con il capitano Beilschmidt. Noi due andremo a parcheggiare il furgone.

- Ay... Ma mi servirà una mano con quattro prigionieri! - protestò Antonio. Feliciano aveva ormai intuito che fosse spagnolo.

- Tre di loro sono ragazzini, ce la farai. - gli rispose l'altro. - Ora fuori, ti aspetta all'entrata.

Antonio sbuffò, aprì il portellone posteriore con una chiave e scese con un balzo.

Il ragazzo asiatico intimò ai fratellini, ormai svegli, di avvicinarsi all'uscita. Essendo il furgone troppo alto e avendo le mani legate, i bambini esitarono.

Antonio allungò le braccia. - Lasciate che vi aiuti...

Ma il ragazzino ringhiò. - Non azzardarti a toccarli!

Antonio esitò. - Ti assicuro che non farò loro del male, li aiuto solo a scendere. - detto questo, prese per la vita prima il bambino e poi la sorellina e li mise a terra. Poi allungò una mano verso il fratello maggiore, che però rifiutò e saltò giù dal furgone. Probabilmente era ancora un po' stordito per via del sedativo, perché inciampò e per poco non cadde di faccia, ma venne preso al volo da Antonio.

Mentre il soldato dava loro indicazioni per mettersi in riga, Feliciano, ancora sul furgone, diede un'occhiata fuori. Ciò che vide lo lasciò completamente senza parole e a malapena riuscì a stare in piedi: di fronte a lui si stagliava una roccaforte immensa, la cui unica via di accesso possibile sembrava essere il portone di ferro d'ingresso, incastonato nella roccia. Chiunque avesse provato a scalare la montagna, sarebbe stato certamente fucilato dalle guardie sparpagliate su tutto il perimetro superiore. Al di là delle mura intravedeva gli ultimi piani di un enorme edificio in pietra, che doveva essere il quartier generale della prigione.

All'improvviso quella poca serenità che aveva provato scambiando due chiacchiere con Antonio svanì. Nel suo cuore si fece largo la paura: che cosa gli avrebbero fatto? Lo avrebbero ucciso? Lo avrebbero costretto ai lavori forzati? Ma lui era troppo debole, non sarebbe mai sopravvissuto! La malsana idea di poter correre via gli balenò per un attimo nella mente. Ma come avrebbe fatto? Era circondato da soldati armati, non avrebbe mai fatto in tempo!

- Vuoi una mano? - Una voce grave e fredda, diversa da quella di Antonio, lo risvegliò dai propri pensieri.

Alzò lo sguardo verso chi aveva parlato: era un soldato alto e muscoloso, portava i capelli biondi tagliati corti e lo fissava con due occhi celesti gelidi come il ghiaccio. Gli stava porgendo la mano grossa e robusta. Feliciano deglutì ancora scosso dalle sue paure e gliel’afferrò con le due mani legate e tremanti. Il soldato lo aiutò ad atterrare in piedi, poi sbatté il portellone e lo chiuse a chiave. Diede una pacca al veicolo, che subito azionò il motore e se ne andò, lasciandosi dietro una scia di fumo nero.

Il soldato biondo fece un cenno ad Antonio e si allontanarono di qualche passo, ma il loro dialogo era comunque udibile.

- Allora, Carriedo, chi sono? - gli chiese.

Antonio indicò i tre fratelli, leggendo i documenti che aveva in mano. - Loro sono Kiku, Mei e Li Chun Wang, quindici e otto anni, di origine cinese, residenti nel quartiere di Hell's Kitchen a New York. C'erano dei sospetti sulla famiglia Wang e quando sono stati rilevati poteri mutanti, ci hanno inviato a prenderli. E' possibile che gli altri membri della famiglia - Yao, padre di 35 anni, Linh, madre di 30 anni, e Yong Soo, fratello di 11 anni – si siano nascosti da qualche parte per sfuggire alla cattura...

A quelle parole Kiku aggrottò la fronte.

Il soldato biondo annuì, pensieroso. - Conoscete già i loro poteri?

- Oh sì, per poco il ragazzino non ha ucciso gli altri due in servizio! - Antonio ridacchiò, come se l'idea di non avere più tra i piedi i suoi due compagni fosse allettante. - A quanto pare, sembra che riesca a controllare il tempo. Piuttosto pericoloso. Lo hanno sedato prima che potesse sprigionare del tutto il suo potere. Magari è un Livello Omega... - guardò il ragazzino con un po' di timore e segnò qualcosa con la penna sul foglio. - Appena sveglio, ci ha riferito che i due più piccoli hanno la capacità di mutare forma in altri animali.

- Immagino non abbia parlato dei poteri degli altri... - chiese il biondo.

Antonio fece per rispondere, ma venne interrotto dalla voce di Kiku. - Non ve li dirò mai. Neanche sotto tortura.

Ci fu un attimo di silenzio, poi il soldato biondo sospirò. - Non sta a me decidere, sentiremo cosa avrà da dire il generale. Invece cosa mi dici di lui? - e indicò Feliciano.

- Ehm... - Antonio spostò il peso da un piede all'altro. - Non abbiamo nessun suo dato. Lo abbiamo preso per strada, la Sentinella di Manhattan sorvolava il distretto e ha rilevato un caso isolato. Non aveva alcun documento con sé.

Fortunatamente, non avevano trovato nulla su di lui e quindi nemmeno sul fratello. Forse poteva ancora aiutarlo a non essere preso. Tuttavia se avevano messo a guardia delle strade una Sentinella voleva dire che anche Romano era in pericolo. Quanto avrebbe voluto poter comunicare con lui per avvertirlo...

- E va bene – esordì il biondo incrociando le braccia. - Accompagna il ragazzino in infermeria per farsi curare l'occhio e quella ferita che ha sulla testa. Portati dietro i fratelli, non hanno l'aria di voler essere separati, per ora. Io mi occuperò di registrare questo qui.

Indicò Feliciano con un cenno del mento, come se fosse una vacca in esposizione.

Antonio annuì e fece il saluto militare, ricambiato. Poi intimò i tre fratelli di seguirlo e sorrise a Feliciano. Non capiva se fosse un sorriso sincero oppure da “Mi dispiace, sei spacciato. È stato un incontro breve, ma intenso”.

- Andiamo. - ordinò il biondo afferrandogli il braccio con la mano in una stretta rigida.

Per poter entrare nella base militare, erano necessari una valanga di documenti e persino un controllo facciale con uno strano aggeggio ultramoderno.

Il portone si apriva su un grande atrio che si diramava in tre corridoi. Il soldato imboccò quello di destra. Durante il tragitto, che a Feliciano parve durare un'eternità, non vide molte persone, solo qualche guardia, ma soprattutto nessun mutante.

- Non stanno in quest'ala della Fortezza – disse il soldato, come se intuisse i pensieri del ragazzo.

Percorsi almeno altri cinque corridoi e il quadruplo degli scalini, arrivarono in un ufficio.

Il soldato si chiuse la porta alle spalle e si diresse verso la scrivania. - Siediti. - indicò una sedia posta davanti al tavolo.

Feliciano si sedette completamente sfinito e demoralizzato. Non sembrava volessero ucciderlo, ma allora perché era lì? Che cosa volevano da lui?

Si guardò intorno: la stanza sarebbe risultata completamente spoglia se non fosse stata per la presenza della scrivania di fronte alla finestra a due ante, un paio di sedie e due librerie ai lati colme di libri e scartoffie.

Cip cip!

Voltò lo sguardo da dove era provenuto il suono, alla sinistra del soldato, il quale era seduto di fronte a lui dall'altro lato del tavolo: accanto alla finestra si trovava una gabbia per uccelli, dentro la quale un canarino dalle piume gialle come il grano svolazzava da una parte all'altra della gabbia. Ogni tanto si fermava a fissare Feliciano, frullava le ali, cinguettava e poi riprendeva la sua corsa.

- Ignora pure Gilbird, è sempre inquieto quando il suo padrone non è presente. - Il soldato tirò fuori dei documenti e una penna. - Nome completo?

Feliciano esitò, abbassando lo sguardo.

- Per la tua incolumità, ti conviene non mentire. - Il biondo puntò gli occhi vitrei su di lui, mettendolo a disagio. - Questo è un quartiere di contenimento dei mutanti, non vengono uccisi, a meno che non tentino di fuggire, non aggrediscano un ufficiale o non mentano sulla loro identità. E lo verremo a sapere.

Il ragazzo deglutì. - M-mi chiamo Feliciano Vargas e ho vent'anni.

Il capitano lo appuntò sul documento. - Nazion-

- Tu come ti chiami? - lo interruppe Feliciano. - Vorrei sapere almeno il nome di chi mi sta interrogando.

Il soldato lo squadrò con un sopracciglio alzato. Probabilmente non aveva gradito l'interruzione. Poi rilassò le spalle e appoggiò il mento sul dorso della mano. - Sono Ludwig Beilschmidt, capitano delle forze armate di questa fortezza e nipote del generale Beilschmidt. Dunque, nazionalità e residenza?

- Vengo dall'Italia e non possiedo una residenza. Come ha detto Antonio, non ho documenti, ho sempre vissuto da solo per strada.

Ludwig lo studiò come per cercare di capire se stesse mentendo.

Era sincero su tutto, tranne che per quel “da solo”. Lui e suo fratello avevano vissuto per metà della loro vita per le strade di New York, dormendo in un appartamento malandato e abbandonato. Erano arrivati dall'Italia quando avevano undici e nove anni. Erano salpati su una nave con il nonno Cesare, lasciando mamma e papà in Italia. Il nonno aveva detto che era per fuggire alla cattura: in Europa la caccia ai mutanti era iniziata prima che in America ed erano molto meno indulgenti. Spesso sparavano a vista.

Arrivati a New York, il nonno, prima di andarsene “per faccende importanti e segrete”, così aveva detto, aveva lasciato ai due bambini una grande somma di denaro da spendere in cibo. Li aveva avvertiti di non usarla per comprare un'abitazione, ma di usare il suo vecchio appartamento abbandonato in un quartiere di Manhattan, perché altrimenti sarebbero stati facilmente rintracciabili. Sul momento i due fratelli non avevano capito, ma sentendo la storia di Kiku e della sua famiglia, fu grato al nonno di quel consiglio.

Ludwig continuò a tenere il suo sguardo puntato contro Feliciano per un tempo che sembrò infinito, poi annuì. - Descrivi il tuo potere in modo dettagliato.

Anche qui Feliciano dovette distorcere la realtà. Era in grado di comunicare telepaticamente con il fratello e sentire le sue emozioni, se voleva. Ma non avrebbe potuto dirlo, non senza rivelare l'esistenza di Romano.

- Io... percepisco i pensieri e riesco a leggere le emozioni delle persone, più o meno. In qualche modo, avviene grazie a questo mio strano ciuffo di capelli arricciato. Funge da antenna, si può dire. - ridacchiò, leggermente a disagio. - Ma non sempre funziona, sono debole.

Forse quella sarebbe stata la frase che lo avrebbe mandato al patibolo. Debole? Bene, non ci servi. Il prossimo!

Gilbird frullò ancora una volta le ali, come a voler attirare l'attenzione. Cip Cip!

Feliciano sorrise divertito: probabilmente quell'uccellino era l'unica cosa piacevole di tutta quella assurda situazione.

- Dunque, aspetto umano, ma con un tratto particolare... Potere non molto efficace. Direi che puoi rientrare nel Livello Beta. - Ludwig inclinò la testa di lato, pensieroso. - Se non hai un grande potere, non ti assegneranno mai a… Beh, ma forse è meglio così. Probabilmente ti renderai utile pulendo i bagni o il cortile.

Feliciano rabbrividì disgustato. Era stato catturato e rinchiuso in quella prigione per assolutamente nessun crimine commesso, se non quello di essere nato diverso da altri esseri umani, e per giunta lo avrebbero trattato come uno spazzino?

Si alzò dalla sedia e sbatté le mani sulla scrivania. Quell'improvviso moto di nervosismo stupì pure lui. - Scusa se mi permetto, ma io non contribuirò affatto alla pulizia del luogo che mi tiene prigioniero.

Il capitano non si mosse neanche di un centimetro e continuò a scrivere, imperturbabile. - Siediti o sarò costretto a procedere con le maniere forti.

Feliciano non lo stette a sentire. - Catturate gente innocente per una paura infondata. Non tutti noi mutanti siamo pericolosi, non tutti abbiamo idee malvagie. La stessa cosa vale per voi che non avete poteri, ci sono i giusti e ci sono quelli nel torto. Chiamate noi mostri, ma alla fin fine gli unici veri mostri siete voi!

- Stammi a sentire, ragazzo. - sbottò Ludwig, alzandosi in piedi di scatto, il che fece sussultare Feliciano. Aggirò la scrivania e gli si pose davanti, sovrastandolo con la sua enorme stazza. - Devi considerarti fortunato, perché hai incontrato me e Carriedo e non qualche altro soldato, che senza ombra di dubbio ti avrebbe già fatto fuori o per il tuo comportamento inaccettabile nei confronti di un ufficiale dell'esercito o per il solo fatto di essere un mutante dai poteri incerti, assolutamente inutili e troppo poco potenti per lo studio del gene X in laboratorio. Ma se non ti siedi subito e non taci, sarò costretto anche io a diventare poco indulgente nei tuoi confronti. Chiaro?

In realtà non c'era nemmeno bisogno di dirlo: mentre parlava, Ludwig aveva fatto qualche passo, restringendo la loro vicinanza e costringendo così Feliciano ad arretrare. Non trovando spazio libero, era ricaduto di peso sulla sedia.

Ora si trovavano faccia a faccia, le mani di Ludwig appoggiate ai braccioli della sedia, così da circondare con le braccia e con il corpo l'intera figura di Feliciano. Gli occhi di ghiaccio puntati su quelli caldi e intimoriti dell'italiano lo mettevano talmente a disagio, che fece fatica a deglutire ed ebbe quasi paura di sbattere le palpebre.

Cip cip! Cinguettò ancora una volta Gilbird, ignaro della situazione.

- Bene, direi che hai afferrato il concetto. - il soldato indietreggiò. Si passò le mani guantate sui capelli corti e si risistemò sulla scrivania a scrivere chissà cos'altro.

Feliciano si mise una mano sul petto. Il cuore martellava talmente forte che avrebbe potuto facilmente vomitarlo. Quando si riprese dallo spavento, azzardò una domanda. - Cosa succede... A chi possiede un grande potere, come Kiku? Antonio ha accennato a un Livello Omega.

Per qualche secondo, Feliciano sospettò che Ludwig non gli avrebbe più risposto. Continuò a compilare i documenti che aveva sul tavolo in silenzio. Poi però appoggiò tutti e due i gomiti sul tavolo e cominciò a spiegare. - In tutta onestà, i mutanti che noi chiamiamo Livelli Omega sono rari e comunque quasi impossibili da catturare. Se quel ragazzo ha davvero pieno controllo sul tempo, allora sarebbe il primo mutante di quel livello a entrare in questa fortezza. Probabilmente non sarebbe mai stato preso se non avesse dovuto pensare a proteggere i fratelli.

Mise i documenti con i dati personali di Feliciano in una busta di plastica, sulla quale scrisse la lettera greca β, e si alzò dalla sedia. Raccontava tutto con una calma e impassibilità tale che sembrava che non gli importasse niente del destino di Kiku.

- In ogni caso, tutti i mutanti con poteri notevoli rinchiusi qui vengono periodicamente presi in esame dai nostri scienziati...

Feliciano aggrottò le sopracciglia. - Vuoi dire che vengono trattati come cavie da laboratorio? Ma è orribile! Come puoi permettere una crudeltà del genere?!

- Io, sfortunatamente, non ho alcun potere in questo campo, dunque non spetta a me decidere cosa fare o non fare dei mutanti più potenti. Comando le guardie e i soldati, non gli scienziati. Non dovrei nemmeno trovarmi in questa fortezza. - rispose freddamente, poi continuò. - Non so cosa accadrà al ragazzo, l'opzione più semplice sarebbe indubbiamente ucciderlo, prima che possa sprigionare i suoi poteri da un momento all’altro. Ma studiare un potere così speciale... I nostri scienziati e il generale non se lo lasceranno sfuggire per nessun motivo al mondo. Anche perché l'altro ragazzo ormai è allo stremo e non... - Si fermò e lo guardò con una strana espressione, forse accorgendosi di aver parlato troppo.

Feliciano si riscosse. - Che ragazzo? C'è un altro mutante come Kiku? Ma avevi detto che lui era il primo Omega!

- Hai già sentito abbastanza. - tagliò corto Ludwig, prendendolo per il braccio. Stavolta lo fece con più gentilezza, forse si era accorto di aver usato un po' troppa forza la prima volta.  - Andiamo a prendere i tuoi nuovi vestiti. Poi ti assegnerò a una cella, ma prima dobbiamo passare per il laboratorio. - disse, aprendo la porta.

Feliciano piantò i piedi per terra prima di poter varcare la porta. - P-per cosa?

Ludwig sospirò, come se avesse ripetuto la solita frase centinaia di volte. - E' necessario. Devi essere registrato anche dal punto di vista medico. Preleveranno un po' del tuo sangue per memorizzarlo nel database e analizzarne la composizione.

L'idea che potessero studiare il suo sangue e i suoi poteri e quindi, forse, scoprire l'esistenza di Romano lo terrorizzò. - No, non voglio! Lasciami il braccio! - Feliciano cercò di divincolarsi dalla stretta del soldato, ma era troppo indebolito dal collare e Ludwig era più forte fisicamente. Infatti, strinse un po' più la presa e si chiuse di nuovo la porta alle spalle.

- Smettila subito. - tappò la bocca dell'italiano con la mano e abbassò la voce. - Se ti ribelli, ti uccideranno senza pensarci due volte. Ti prometto che non ti faranno del male, ma devi seguire ciò che ti dico. So che sei spaventato, ma io cerco sempre di salvare più vite possibili, non vorrei avere la tua sulla coscienza.

Feliciano emanò un singhiozzo, soffocato dalla mano di Ludwig, e gli occhi gli si riempirono di lacrime. Voleva credergli, voleva sperare di poter sopravvivere, ma non ci riusciva. Anche se non uccideva i mutanti, quel soldato faceva comunque parte di quell'orribile prigione. In qualche modo, anche lui era responsabile della sua cattura e della sofferenza di centinaia di mutanti. Pensò a suo fratello. Quanto avrebbe voluto rivedere Romano. Se Feliciano fosse sopravvissuto in quella fortezza, forse un giorno l'avrebbe rivisto. Sperava solo che il fratello non fosse così incosciente da venire a cercarlo o peggio: di farsi catturare per poter stare con lui.

No, doveva assolutamente vivere. Non avrebbe lasciato Romano da solo, mai. Sarebbe sopravvissuto per lui, per poterlo rivedere, per poterlo sentire di nuovo quando lo abbracciava.

Con riluttanza, accettò di seguire Ludwig e percorsero per la seconda volta una miriade di corridoi in quella fortezza misteriosa e glaciale.

 

 

 

26 gennaio 1985, ore 04:03, sotterraneo di Villa Ceasar a Portland, Maine, USA

 

Era ormai troppo tempo che Arthur fissava quella mappa approssimativa della Fortezza di Westbrook. Quanto era passato? Minuti? Forse ore, ma ormai neanche il tempo aveva importanza: la mappa era incompleta e indecifrabile, non c'era nulla da fare. Avevano il perimetro della roccia a valle e quello delle mura in cima, l'altitudine media e un abbozzo dell'edificio all'interno. L'esercito negli anni aveva amplificato la barriera contro i poteri dei mutanti e persino i loro radar erano stati resi più efficaci, tanto che sorvolare l'area era diventato impossibile.

A parte quello e poche altre informazioni, non avevano un bel niente.

La rabbia di Arthur esplose e così fecero anche gli scatoloni alle sue spalle, riversando fuori fogli, vestiti e cianfrusaglie di ogni tipo. Cinque anni di indagini e non avevano fatto nessun passo avanti significativo!

Cominciò a camminare avanti e indietro per la stanzetta, la quale sarebbe dovuta essere il suo studio, invece sembrava più un rifugio di guerra da quanti oggetti erano sparpagliati e infranti al suolo, il che sarebbe stato inusuale per uno ordinato e maniaco della perfezione come lui, se solo avesse avuto il tempo di curarsene. Mentre vagava completamente immerso nei suoi ragionamenti, calpestando qualunque cosa si trovasse nel suo cammino, si portava dietro una scia di oggetti fluttuanti. Succedeva sempre quando pensava mentre era agitato. Era una cosa che non riusciva a controllare.

Fece il punto della situazione: controllare la fortezza dall'alto era completamente impossibile, l'ultima volta che Alfred ci aveva provato si era quasi fatto ammazzare e per poco non portò l'intero esercito al loro nascondiglio, una villa di tre piani nascosta al centro della foresta di Westbrook, ma Arthur cercava di ignorare quel dettaglio o avrebbe scaraventato Alfred su Saturno con la sola forza del pensiero.

Avevano bisogno di esplorarla più da vicino, magari con un mutante con un potere particolare come l'invisibilità. A quel pensiero, gli venne in mente Matthew e il suo umore calò sotto zero. Due mesi prima, Matthew, il gemello di Alfred, ci aveva provato per la terza volta, tenendosi in collegamento telepatico con Arthur. Era riuscito a controllare a malapena l'interno del portone, quando l'allarme anti-mutanti era scattato ed era stato catturato in meno di dieci secondi da una ventina di guardie, senza che Arthur potesse muovere un singolo muscolo per impedirlo. La sua telepatia sembrava completamente inutile all'interno della struttura.

Scosse la testa, massaggiandosi la fronte. Non poteva permettersi di perdere altri uomini. In più, erano ancora troppo pochi. Reclutare mutanti provenienti da tutto il Paese per unirsi alla schiera dei rivoluzionari (l'esercito li chiamava ribelli... Bah!) e assicurarsi che arrivassero a Portland sani e salvi era troppo complicato. Raramente avevano avuto successo e quelli che ci avevano provato erano stati catturati. E ora che l'esercito aveva amplificato... beh, praticamente tutto, era diventato ancora più difficile.

Se solo fosse riuscito a entrare nella mente di quei soldati! Avrebbe scoperto molte più cose, avrebbe avuto in neanche un giorno tutte le informazioni che gli servivano! Ma c'era qualcosa che gli impediva di leggere nei loro pensieri, anche una volta che i soldati erano fuori dalla fortezza, quindi lontani dalla barriera che annullava i poteri dei mutanti... Ma non sapeva che cosa. E Arthur odiava non sapere. Bisognava assolutamente passare all'offensiva. Dovevano catturare un soldato, portarlo possibilmente lontano dalla villa e costringerlo a parlare, a rivelare i segreti della fortezza, la posizione dei corridoi, delle celle, dove tenessero Francis.

Si lasciò sfuggire un singhiozzo affranto. Non sapeva che fine avesse fatto, che cosa gli fosse accaduto, non sapeva nemmeno se fosse ancora vivo. Non capiva come mai non riuscisse a collegarsi telepaticamente con lui, avevano un legame talmente forte e speciale che avrebbe dovuto sovrastare il potere della Fortezza e invece in cinque anni non era riuscito a ottenere un singolo contatto con lui, nemmeno in sogno.

Si asciugò le lacrime che minacciavano di scivolare sulle sue guance. Non doveva pensare troppo a Francis, finiva sempre per versare tutte le lacrime che aveva in corpo. E non poteva permettersi di mostrarsi in un momento di debolezza davanti ai suoi compagni.

Sospirò, cercando di ricomporsi. Proprio quando si stava per rimettere al lavoro, la sua mente, sempre in allerta, avvertì i pensieri di qualcuno che scendeva velocemente le scale del sotterraneo.

“Non dovrei lasciarli fuori da soli, potrebbero essere un'esca dell'esercito per...”

L'artefice di quei pensieri spalancò la porta senza neanche bussare: Alfred si riversò nella stanza e sembrava piuttosto agitato. Era il suo braccio destro, un ragazzo alto, muscoloso, dai capelli biondo cenere tagliati corti e i grandi occhi azzurri circondati da occhiali da vista rettangolari. Indossava un elegante cappotto bianco lungo fino alle caviglie, come di consueto, ma di cui avrebbe fatto volentieri a meno, in quanto lo portava solo e unicamente per coprire le sue enormi ali da aquila, mutazione del gene X. Le sue scarpe da ginnastica rosse e bianche infatti erano sporche di fango e stonavano con il completo elegante, ma rispecchiavano alla perfezione la personalità casinista del ragazzo.

- Arthur! Sono comparsi all'improvviso davanti al cancello di ingresso! - si mangiava le parole dalla fretta. - Hanno chiesto di vederti, non so come sapessero di questo posto, tu non hai reclutato nessuno, vero?

Come al solito, mentre Alfred parlava, Arthur aveva già cercato le menti delle persone fuori dal cancello, ma con sua sorpresa, non trovò nessuno.

- Alfred, di che parli, non c'è nessuno al cancel-

In quel momento una coltre di fumo comparve tra i due ragazzi. Prima che Arthur potesse anche solo fare un passo indietro, tre figure si riversarono nella stanza.

Erano un uomo e una donna forse sui trent'anni e un bambino, tutti e tre asiatici. L'uomo sembrava aver perso i sensi nel secondo in cui aveva messo piede a terra e veniva sorretto dalla donna, la cui vita era circondata dalle braccia esili e tremanti del bimbo.

- Arthur Kirkland. – esordì la donna con il fiatone. - Siamo qui per unirci al tuo gruppo di ribelli, ma prima, ti prego, aiuta mio marito!



Spazio dell'Autrice:
Ecco il capitolo 1 come promesso!!
Siamo entrati ufficialmente nella storia principale! Povero Feliciano, ne passerà di tutti i colori da questo momento in poi T^T Un po' mi dispiace (un po' no perché sono sadica e amo far soffrire i miei personaggi)
Mi ero dimenticata di avvisarvi che il focus della storia cambia da capitolo a capitolo e spesso all'interno del capitolo stesso (nel prologo il POV era di Arthur, poi è passato a Francis, in questo capitolo è di Feliciano e poi di nuovo di Arthur). Renderò SEMPRE chiaro di chi è il punto di vista, così da non creare incomprensioni!
Per precisare: Kiku (Giappone), Li Chun (Hong Kong), Mei (Taiwan), Yao (Cina), Linh (Vietnam) e Yoong Soo (Corea del Sud) sono tutti cinesi, perché giustamente non potevo renderli tutti di nazionalità differenti essendo una famiglia ahah!
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto! Vi aspetto la prossima domenica con il Capitolo 2!
Ciao a tutti e buone vacanze!! <3

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2

 

26 gennaio 1985, ore 04:45, sotterraneo di Villa Ceasar (quartier generale dei rivoluzionari) a Portland, Maine, USA

 

Arthur era ancora confuso per quello che era accaduto.

Quando Alfred era entrato nel suo studio per informarlo della situazione al di fuori della villa, Arthur era sicuro di aver sentito la presenza di tre persone al cancello d'entrata. Ma in poco meno di un secondo, quando aveva cercato di leggere la loro mente, erano scomparsi letteralmente dalla realtà ed erano riapparsi ai suoi piedi.

La donna con le ultime forze che aveva in corpo lo aveva chiamato per nome completo (cosa che probabilmente lo scioccò ancora di più, in quanto non lo rivelava spesso, in particolare a estranei), aveva espresso il suo desiderio di entrare nelle fila dei rivoluzionari, aveva chiesto di aiutare il marito svenuto e infine era svenuta pure lei.

Fu soltanto il pianto del bambino a risvegliarlo dalla sorpresa.

Si avvicinò al piccolo per tranquillizzarlo, mentre Alfred controllava il polso della coppia svenuta e chiamava aiuto.

- Come stanno? - chiese l'inglese.

- Hanno solo perso i sensi. - disse l'altro tirando un sospiro di sollievo. - Non sembrano essere in condizioni gravi, probabilmente erano solo molto affaticati.

Mentre due giovani si riversavano dentro la stanza per aiutare, Arthur accarezzò i capelli del piccolo, che piangeva spaventato e tremava dal freddo. Si tolse il cappotto verde e glielo mise sulle spalle, rivolgendogli parole di conforto. - Non preoccuparti, adesso aiuteremo mamma e papà. Ti va un po' di cioccolata calda?

Nonostante fosse molto scosso, il piccolo annuì, asciugandosi le lacrime.

Nei venti minuti passati con il bambino, che si gustava sereno la sua cioccolata fumante, Arthur cercò di fargli qualche domanda, ma invano, non ne voleva sapere di aprir bocca. Le informazioni che ottenne furono poche: si chiamava Yoong Soo Wang, aveva undici anni ed era cinese. Per il resto, il ragazzino si limitò a tenere gli occhi bassi mentre sorseggiava la bevanda calda.

Avrebbe potuto provare a leggergli i ricordi, ma Arthur non amava entrare nella testa dei bambini, non gli sembrava giusto. In più erano troppo innocenti e spesso distorcevano la realtà, rendendola impossibile da decifrare per Arthur. Decise di aspettare il risveglio dei suoi genitori.

E così, alla fine si riunirono tutti e cinque – il bambino con la seconda tazza di cioccolata in mano, i due genitori rimessi in sesto e avvolti in una coperta di lana, Arthur e il suo immancabile braccio destro Alfred - nel soggiorno improvvisato del sotterraneo, nonché sala delle riunioni del gruppo di rivoluzionari.

- Dunque - cominciò l'inglese. - Vorrei sapere tutto, se non vi dispiace. Non mentite, perché lo scoprirei e non ne sarei affatto felice. - camminava avanti e indietro davanti ai tre ospiti seduti sul divanetto, tenendosi il mento tra le dita. Alfred era con la schiena appoggiata al bordo di un tavolo.

L'uomo prese la parola. - Io sono Yao Wang, lei è mia moglie Linh e lui il mio secondogenito Yoong Soo. - li indicò con la mano tremante. Sembrava essere quello che aveva perso più energie. Gli occhi marroni erano contornati da profonde occhiaie da stress, i lunghi capelli castani erano legati in una coda sfatta, le labbra avevano assunto un colorito violaceo ed era estremamente pallido. - Veniamo da New York. Ieri mattina, mentre io e mia moglie eravamo al lavoro, gli altri nostri tre figli sono stati...

Non finì la frase. All'improvviso le lacrime gli rigarono le guance e lui scosse la testa, coprendosi il viso con le mani.

La moglie gli posò una mano sulla schiena, sussurrandogli qualche parola in cinese, che Arthur comprese a stento: “Non è colpa tua” “Coraggio”. Anche lei portava i capelli legati in una coda, ma tendevano al nero, tratto che aveva trasmesso anche al figlio. Gli occhi era ciò che accomunava tutti i membri della famiglia: erano caldi e gentili. Non ispiravano malvagità. Arthur si rilassò, riteneva che l'espressione degli occhi definiva quasi completamente una persona. Decise di fidarsi.

Proseguì lei con tono affranto. - Mentre io e Yao eravamo al lavoro, dei soldati dell'esercito sono entrati in casa nostra e hanno portato via i nostri figli. Solo Yoong Soo si è salvato.

Accarezzò i capelli corti e spettinati del bambino, che a quanto pare aveva perso l'interesse per la sua cioccolata.

- E come mai lui non è stato preso? - osò chiedere Arthur.

Linh incoraggiò il figlio a parlare, ma lui scosse la testa rannicchiandosi sul bordo del divano.

- Queste persone possono aiutarci, racconta com'è andata...

Ma il bambino non voleva saperne. - Non voglio!

Non ci fu bisogno che spiegasse. Era evidente che fosse troppo scosso per poterne parlare, a malapena guardava negli occhi i suoi stessi genitori. Per questo Arthur si sentì costretto, almeno per questa volta, a entrare nella sua mente. Approfittando della paura ancora viva del bambino, riuscì ad addentrarsi nei suoi ricordi: era seduto al tavolo di una cucina con un ragazzo poco più grande (il fratello, immaginò) che lo stava rimproverando in cinese, poi qualcuno suonò il campanello, ma prima ancora che il maggiore potesse aprire, la persona all'esterno cominciò a gridare a gran voce il nome di Yao Wang, battendo ferocemente i pugni sulla porta. In un attimo, il ragazzo afferrò il fratellino per le spalle. “Nasconditi nel pavimento e non fare alcun rumore! Non venire a cercarci, rimani lì finché non senti le voci di mamma e papà!” e così spinse il fratello all'indietro, il quale cadde, ma non ci fu nessun tonfo: si era letteralmente fuso con il parquet. La visione divenne buia, i suoni ovattati: sentiva la porta d’ingresso che sbatteva, dei passi veloci sulle scale, le grida atterrite di due bambini mischiate a quelle aggressive di alcuni uomini, il rumore di oggetti che si infrangevano e si spostavano, l'ultimo rumore forte di un corpo che cadeva a terra e poi il silenzio. Il cuore del bambino martellava forte, aveva gli occhi che bruciavano di lacrime. Arrischiò un'occhiata e sollevò la testa quel poco che serviva all'occhio per vedere fuori dal nascondiglio dentro il pavimento e subito se ne pentì: due soldati alti e robusti stavano uscendo dalla porta. Uno teneva in braccio due bambini singhiozzanti, l'altro trasportava sulle spalle come un sacco di patate il fratello maggiore privo di sensi. Avrebbe voluto fare qualcosa, ma era paralizzato dalla paura. Poi tutto si fece buio.

Arthur uscì dalla mente del bambino con il cuore che batteva velocemente e l'adrenalina a mille.

Come sempre, gli sembrò fosse passata un'eternità, ma in realtà tutto era avvenuto in una frazione di secondo: mamma e figlio ancora parlavano, Alfred se ne stava ancora insolitamente zitto nella stessa identica posizione di prima.

Con un sospiro si inginocchiò davanti a Yoong Soo. - Dev'essere stata dura per te. Sappi che sei stato molto coraggioso.

Arruffò i capelli del bambino e poi si rialzò, tornando a camminare su e giù, pensieroso, sotto lo sguardo confuso dei genitori.

- Capisco perché siete qui. - continuò l'inglese. - Ma una cosa non mi è chiara: come avete fatto a trovarci?

Questa volta fu Yao a parlare. Si era asciugato le lacrime con la manica della maglia. - Ero amico di Cesare Vargas.

A quel nome, Arthur sgranò gli occhi e bloccò il suo andirivieni.

Alfred fece un passo in avanti, incredulo. - Cosa?!

- Ci siamo conosciuti a New York una decina di anni fa. - continuò il cinese. - Mi aveva sempre parlato della sua villa a Portland... Diceva che un giorno sarebbe stata un posto sicuro per tutti i mutanti. Prima di andarsene, mi disse che nel caso avessi avuto bisogno di aiuto, la villa avrebbe accolto me e la mia famiglia e che c'era un mutante estremamente potente di nome Arthur Kirkland che avrebbe salvato una volta per tutte noi diversi ed esclusi. E così ho fatto, ma non conoscevo il sotterraneo, ho solo seguito il ragazzo. - Indicò con un cenno Alfred.

Questo, sentendosi preso in causa, replicò. - Tu non mi hai seguito in modo normale, ti sei-

- Teletrasportato. - esclamò Arthur.

Yao annuì. - Viaggiare con un veicolo sarebbe stato troppo pericoloso, una Sentinella era di guardia ai confini della città, ci avrebbe seguiti. L'ho aggirata teletrasportandoci il più lontano possibile dalla città. Purtroppo non posso fare che pochi chilometri a ogni salto, senza che mi prosciughi tutte le energie. Per questo motivo per un tratto di strada Linh mi ha aiutato con il suo potere.

La donna alzò le spalle con disinvoltura. - Corro molto veloce.

- Però, trasportando due persone, anche lei si è indebolita appena entrati nel Maine. - continuò Yao. - Quindi ho proseguito io finché non ho perso completamente i sensi. E' stato avventato e pericoloso, ma almeno ho portato qui la mia famiglia. E se tutto questo servirà per salvare i miei figli e creare un futuro migliore per tutti, mi unirò volentieri ai ribelli. In particolare se sarà lei a guidarmi, signor Kirkland.

Sia i genitori che il figlio guardavano Arthur con devozione. Per un attimo non seppe cosa dire. Quelle persone contavano su di lui, si fidavano nonostante non lo conoscessero nemmeno. E soprattutto non mentivano, lo leggeva nei loro pensieri.

Sospirò, un po’ a disagio. Poi ricominciò a fare avanti e indietro per la stanza, per sciogliere l'imbarazzo. - Eh va bene, mi avete convinto. Da ora, siete ufficialmente entrati a far parte del nostro gruppo. I vostri poteri saranno essenziali per le nostre missioni. Ma per favore, ci chiamiamo “rivoluzionari”, ribelli è il nome volgare con cui quei cani del governo ci appellano. E non chiamatemi per cognome! Il mio nome va più che bene.

Yao si alzò in piedi. - Lei è il leader di questa impresa, mi permetta allora di chiamarla Signor Arthur. - e allungò la mano verso di lui.

Arthur deglutì, sconcertato. Lui, il leader che avrebbe portato i mutanti verso la salvezza? Avrebbe voluto esserne anche lui così sicuro... Maledetto vecchiaccio, aveva inculcato troppe aspettative nella testa di quel cinese.

Decise comunque che non li avrebbe delusi. Avrebbe aiutato tutti i mutanti. E soprattutto, avrebbe salvato Francis.

Accettò la sfida e afferrò la mano di Yao con forza.

 

 

 

25 gennaio 1985, infermeria della fortezza di Westbrook, Maine, USA

 

- Ahi! - esclamò Kiku, non appena l'infermiera gli posò il ghiaccio avvolto in un panno sull'occhio nero e gonfio.

Quegli stupidi soldati... Non solo gli avevano tirato un pugno in faccia non appena aveva cercato di difendere i suoi fratellini e se stesso, stordendolo al punto tale da non riuscire nemmeno a usare i suoi poteri, ma lo avevano persino sedato e, cadendo, aveva battuto la testa.

Quindi ora si ritrovava un livido esorbitante sull'occhio sinistro e una ferita sulla testa, che gli bruciava e gli aveva imbrattato di sangue tutti i capelli. Per di più, nel suo corpo erano ancora in circolo i residui dell'effetto del sedativo, quindi si sentiva frastornato e fiacco più che mai.

Fortunatamente però, i suoi fratelli erano illesi e sembravano stare bene, nonostante il collare li avesse indeboliti. Kiku sperava soltanto che Yoong Soo fosse rimasto ad aspettare i loro genitori. E soprattutto sperava che non restassero a lungo in quella casa: ormai non era sicura, sarebbero stati presi anche loro molto presto se non fossero fuggiti.

Sospirò, mentre si sistemava il ghiaccio sull'occhio. Gli avevano tolto le manette, quindi era più libero nei movimenti, ma ovviamente gli avevano lasciato il collare, che, dopo una doccia veloce, aveva scoperto essere anche resistente all'acqua. Evviva! In più l'avevano privato dei suoi vestiti e gli avevano fatto indossare la divisa da prigioniero: una maglia bianca a maniche lunghe e dei pantaloni anch'essi bianchi. Non erano ammesse scarpe, quindi era a piedi nudi.

- Quante storie, è solo un livido! - disse l'infermiera che aveva detto di chiamarsi Erica, come se a Kiku importasse il nome di una che lavorava in quella prigione, poi si alzò dalla sedia e andò a frugare nei cassetti del suo armadietto. I capelli castano chiaro tagliati corti le ricadevano sul viso quando si piegava. - Vediamo ora di curare quella ferita che hai in testa...

Il ragazzo sospirò, irritato. Diede un'occhiata ai suoi fratellini, che se la stavano spassando molto più di lui: a quanto pareva non avevano capito bene la situazione in cui si trovavano e avevano preso in simpatia il soldato che li aveva accompagnati, Antonio. I due piccoli ridevano e correvano da una parte all'altra della stanza, fuggendo da Antonio, che li inseguiva urlando “Adesso vi prendo e vi faccio il solletico!”. A quelle parole, i bambini strillavano ancora più forte, contenti di aver trovato un compagno di giochi.

Nonostante sembrasse più gentile di tutti gli altri soldati (e in effetti, non dava nemmeno l'aria di volerci davvero stare in quel posto), Kiku non riusciva ancora a fidarsi di lui. Aveva comunque partecipato alla loro cattura e lavorava per l'esercito, in particolare la sezione “anti-mutanti”. Non lo avrebbe mai perdonato.

D'altro canto, però, era felice di sentire finalmente le voci allegre dei suoi fratelli e per questo, ma solo per questo, gli fu grato.

L'infermiera appoggiò su un tavolino una boccetta di alcool, dei batuffoli di cotone e una bottiglietta d'acqua. Poi gli prese la testa tra le mani e analizzò la ferita. - Bene! Non sembrano esserci lesioni profonde.

Kiku si chiese con una punta di amarezza cosa della sua attuale condizione da prigioniero potesse sembrarle un “bene”.

La ragazza aprì velocemente il pacco di batuffoli e ne tirò fuori uno, sul quale versò dell'acqua dalla bottiglia. Poi cominciò a ripulire la ferita, facendo sussultare il ragazzo, che strinse i pugni e si morse il labbro. Passò il batuffolo anche tra le ciocche di capelli appiccicaticce per via del sangue ormai seccato. Sembrava piuttosto nervosa, faceva tutto di fretta e continuava a lanciare delle occhiate ad Antonio. Infine imbevette di alcool un'altra pallina di cotone e cominciò a disinfettare la ferita.

- Brucia! - esclamò Kiku, stringendo i denti e allontanandosi dalla mano dell'infermiera.

- Ovvio che brucia, ragazzino, che cosa ti aspettavi? - rispose lei, infastidita. - Ora vieni qui o non riuscirò a fare il mio lavoro!

Gli prese di nuovo la testa tra le mani e continuò la medicazione. Kiku si sforzò con tutto se stesso di non insultarla.

Sospirò un'altra volta, imponendosi di calmarsi. Ormai era lì e non poteva fare nient'altro se non ubbidire o lo avrebbero ucciso. O almeno, così gli aveva detto Antonio.

Il soldato aveva pure accennato a un prelievo del sangue, per categorizzare i prigionieri. Magnifico.

Kiku si chiese che ne sarebbe stato di lui. Antonio l'aveva definito un “mutante di Livello Omega”, la scala più alta della classificazione dei mutanti, il livello a cui appartenevano i mutanti reputati più pericolosi a causa del loro potere smisurato e quindi una minaccia per il mondo intero. Nonostante Kiku non si sentisse particolarmente pericoloso, aveva capito già da anni che era dotato di un grandissimo potere. Il controllo temporale non era molto comune e aveva impiegato un bel po' di anni prima di riuscire a padroneggiarlo del tutto e a non rallentare il tempo accidentalmente. In effetti, nelle mani sbagliate, sarebbe potuto essere una grande minaccia, ma Kiku non aveva mai avuto intenzione di usarlo per scopi malvagi. Non meritava di essere rinchiuso lì, non era un criminale, non aveva mai fatto del male a nessuno.

Ma d'altronde, agli uomini che dirigevano quella fortezza non importava se ci fossero innocenti tra i prigionieri, solo il fatto di essere nato mutante ti rendeva colpevole. Questo spiegava il perché arrestassero e rinchiudessero anche bambini di otto anni.

Guardò i suoi fratelli: si erano appena seduti su un lettino di fianco ad Antonio, che gli stava insegnando delle parole in spagnolo. Kiku si domandò che fine avrebbero fatto senza di lui, se ipoteticamente lo avessero ucciso perché troppo pericoloso o rinchiuso in un laboratorio per essere studiato. Doveva proteggerli, non poteva lasciarli soli.

La voce di Erica lo risvegliò dai suoi pensieri. - Perfetto! Direi che abbiamo finito qui, posso solo dirti di non toccarti la testa e basta, direi! Non ho voglia di cucirti la ferita, guarirà con il tempo. - disse in tono sbrigativo e lanciò tutti gli oggetti che aveva usato in un cassetto a caso. Chissà come mai poi impiegava ore a ritrovarli. Cominciò a compilare un foglio, saltellando allegramente verso Antonio, e glielo porse. - Ho finito di medicare il tuo prigioniero, caro! Ora puoi portarli in laboratorio.

Kiku scese dal lettino e richiamò i suoi fratelli, che accorsero da lui ripetendo le parole appena apprese. Il ragazzo sperò solo che non fossero volgarità.

Antonio lesse velocemente il foglio. - Va bene, grazie Erica, allora ci vediam- Hey, ma che fai?!

La ragazza aveva inchiodato al muro il soldato, avvolgendogli le braccia intorno alla vita e sfiorandogli le labbra con le sue. - Adoro quando mi chiami per nome, lo fai così raramente! Magari più tardi, quando finisci il turno, possiamo vederci a casa tua per... tu sai cosa, no? - fece scendere le mani sul sedere di Antonio e glielo strinse in una morsa salda, non curante dello sguardo perplesso e disgustato di Kiku, il quale aveva coperto la scena dagli occhi innocenti dei fratellini ponendosi davanti a loro. I due però non sembrarono accorgersi di nulla, dal momento che continuavano a battibeccare su come si pronunciasse la parola “vergüenza”.

Antonio deglutì a fatica, visibilmente a disagio e rosso fino alla punta delle orecchie. La prese per le spalle e cercò di allontanarla con gentilezza. - S-senti, ne abbiamo già parlato, la nostra storia ormai è finita e non voglio nemmeno più essere il tuo scop... - lanciò un'occhiata piena di imbarazzo a Kiku, che lo fissava con aria di sufficienza, e riformulò le sue parole. - Ehm... Non voglio più che ci vediamo per quello. Adesso siamo colleghi e, a dire il vero, non mi interessi più.

- Ma siamo fatti l'uno per l'altra! - strillò la ragazza, incrociando le braccia. - Siamo stati insieme per così tanti anni, perché non dovrei più interessarti?

“Perché sei una pazza psicopatica, maniaca del sesso e mi vuoi soltanto per il mio aspetto fisico e non per la mia personalità. Oltre al fatto che mi fai paura”. Più o meno era questo che si leggeva dall'espressione di Antonio.

Il povero malcapitato sospirò. - Ne parliamo in un altro momento, ora devo accompagnare questi mutanti in laboratorio. Muoviamoci! - ordinò ai tre fratelli con fare urgente.

Nonostante Kiku fremesse dalla voglia di vedere Antonio soffrire ancora qualche attimo, gli fece un po' pena e quindi prese per mano i fratelli e li trascinò fuori dalla stanza.

- Oh! - esclamò Erica. - E va bene! Allora chiamami stasera, siamo intesi?

Proprio mentre gli rivolgeva un occhiolino, Antonio si chiuse alla svelta la porta alle spalle rosso in viso e si affrettò ad allontanarsi da quel posto.

Kiku lo affiancò, deciso a prenderlo in giro. - E quindi voi due...

Antonio lo zittì con voce isterica. - Non aggiungere altro! - sbuffò strofinandosi le mani sulla faccia. - Prima Erica era molto più dolce! È da quando l'ho lasciata che si comporta in modo strano. Non ne posso più, sono quasi due settimane che va avanti con la stessa storia! Se continua così, chiederò un'ordinanza restrittiva, questo è poco, ma sicuro!

Kiku capì che per la sua incolumità, sarebbe stato meglio tacere, ma non poté fare a meno di pensare a quanto poco si atteggiasse da soldato quel ragazzo, l'avrebbe quasi voluto considerare un amico. Riuscì persino ad abbozzare un sorriso.

Ma il divertimento durò poco.

Arrivarono all'entrata del Laboratorio in meno di cinque minuti. Appena varcata la soglia, si ritrovarono davanti a un lunghissimo corridoio costellato da porte, le cui finestre erano offuscate. Ciò che gli scienziati del governo facevano in quel posto era con ogni probabilità talmente segreto che nemmeno i soldati come Antonio avrebbero potuto scoprire qualcosa.

Il rumore dei tacchi degli stivali del soldato riecheggiava nel silenzio tombale del largo corridoio.

Li Chun e Mei afferrarono le mani del fratello maggiore, intimoriti. Anche Kiku cominciava a sentirsi a disagio. In qualche modo, ebbe l'impressione di essere osservato. Notò che, se le telecamere nei corridoi della struttura erano numerose, erano almeno raddoppiate nel corridoio del laboratorio.

Giunsero davanti alla porta numero 21, poco prima dell'incrocio con un altro corridoio infinito, che possedeva altrettante stanze.

Antonio bussò per educazione e poi spalancò la porta. Con grande sorpresa di Kiku, non era chiusa a chiave. Si chiese se anche le altre fossero sempre aperte.

La stanza era piccola, ma piena di oggetti: c'era un tavolo colmo di cianfrusaglie, quattro sedie, una brandina, tre armadi, il muro era tappezzato di poster ognuno riguardante una parte del corpo diversa e infine in un angolo in fondo alla stanza c'era una strana gabbia di vetro circolare collegata a dei tubi e strani macchinari. Kiku ebbe il sospetto di sapere a cosa servisse.

Nell’aria era presente un pungente odore di fumo da sigaretta.

Un uomo alto e biondo, dall'aria assorta era seduto alla scrivania e stava sistemando delle provette contenenti un liquido rosso. Kiku temette ancora una volta di conoscere che sostanza fosse.

Il biondo alzò lo sguardo: gli occhi erano piccoli e inespressivi, fece solo un lieve sorriso quando vide il gruppetto. Indossava un lungo camice bianco.

- Antonio, che posso fare per te? - chiese, spostando le provette dal tavolo.

- Lo sai perché sono qui, non verrei se non ci fossero dei nuovi prigionieri. - si sedette a cavalcioni su una sedia davanti al tavolo, lasciando i tre fratelli sulla soglia. - Questo posto mi fa venire la pelle d'oca!

- Vuoi dire che non verresti qui solo per farmi un po' di compagnia? Come sei crudele.

- Beh, allora già che ci siamo, Abel... - Antonio avvicinò un po' la sedia e parlò a bassa voce. - Non è che potresti dire tre parole a tua sorella? Mi assilla da quando l'ho lasciata!

Il biondo rise leggermente. - Suvvia, non essere così tragico. - prese in mano la cartella di Antonio e lesse velocemente tutti i fogli. - Perfetto, Mei Wang?

La bambina sussultò e strinse ancora più forte la mano del fratello.

L'uomo la squadrò, senza nessuna espressione in particolare. - Siediti sulla brandina, cara. - e andò ad aprire lo sportello di un armadietto.

Kiku incoraggiò la sorella con una carezza sulla testa e la aiutò a sedersi sul lettino.

L'uomo si avvicinò spingendo un tavolino con le ruote. Prese il braccio di Mei e lo posò sul tavolino. Legò un laccio poco sopra il gomito e disinfettò il braccio con un batuffolo di cotone. Poi tirò fuori l'ago e successe quello che Kiku temette.

Mei levò il braccio dal tavolino, cominciando a piangere spaventata e abbracciando il fratello.

Kiku sospirò. - Mei, non ti farà male...

- Ho paura! - gridò lei strusciando il viso sulla sua maglia.

Abel alzò gli occhi, infastidito. Probabilmente sorbiva queste scene ogni giorno.

Kiku baciò la sorellina sulla fronte. - Io starò qui di fianco a te, va bene? Finirà presto, tu guardami e pensa a cose felici. Come la storiella del panda che mangiava tanto bambù, te la ricordi?

La storia sembrò attirare completamente l'interesse della bimba. Mentre era distratta, l'uomo biondo riportò il suo braccio sul tavolo, lo disinfettò di nuovo e finalmente riuscì ad effettuare il prelievo. Quando Mei se ne accorse, il medico aveva già tirato fuori l'ago e messo un cerotto. La bimba versò solo qualche lacrima per lo stupore.

Kiku la abbracciò, facendola scendere, mentre Abel sistemava gli oggetti appena usati e ne prendeva altri. - Sei stata bravissima, Mei.

Lei sorrise asciugandosi le lacrime. - Ora mi danno una caramella?

Kiku storse le labbra. Non credeva che avrebbero trattato i bambini mutanti come normali pazienti, quindi probabilmente non le avrebbero dato nessun dolce.

- Li Chun Wang. - chiamò l'uomo, picchiettando il lettino.

Il fratellino si avvicinò tutto tremante. Kiku lo mise a sedere sulla brandina, sussurrandogli parole di conforto. - Tu sei forte, non hai paura, vero?

Li Chun scosse la testa con forza. Intanto però aveva le lacrime agli occhi. Kiku sorrise e gli accarezzò i capelli. Era sempre stato molto silenzioso, ma in quel momento lo trovò buffo.

In breve, anche il suo prelievo fu fatto. Kiku prese in braccio il fratello, asciugandogli le lacrime con le dita. - Sei un bambino coraggiosissimo, Li. Mi fai un sorriso?

Il bimbo ridacchiò, soddisfatto.

Quando chiamarono anche lui, posò il fratello a terra e si sedette sulla brandina. La vista dell'ago gli ricordò il sedativo che gli avevano impiantato sul collo. Rabbrividì, ma tentò di tenere un'espressione seria e impassibile. Non aveva mai avuto mai paura degli aghi, eppure in quel momento sentiva di non potersi fidare più di niente e di nessuno.

Quando ebbe finito, Abel si rimise alla scrivania a compilare altri moduli, mentre si accendeva una sigaretta.

- Dunque... - cominciò Antonio, alzandosi dalla sedia. - Io qui ho finito, giusto?

- Direi di sì. Una parte del loro sangue verrà registrata nel nostro database, l'altra invece sarà analizzata in laboratorio, per valutare i loro poteri e categorizzarli ufficialmente in un livello. Il capitano Beilschmidt ti aspetta all'entrata delle celle per sistemare i prigionieri.

Antonio annuì e portò i fratelli fuori dalla stanza.

- I miei fratelli staranno con me? - chiese Kiku.

Antonio sospirò. - Non lo so, non mi occupo della gestione delle celle. Ma se Ludwig sarà lì, potrebbe anche lasciarvi nella stessa cella.

Kiku sperò che non li separassero. Voleva tenere d'occhio i suoi fratellini e difenderli se necessario.

Si sentì tirare la manica della maglia, era Mei. - Sono stanca...

Il viso tirato di Kiku si addolcì e prese in braccio la sorella. - Anche tu, Li Chun?

Il bambino scosse la testa, anche se sbadigliò assonnato qualche attimo dopo.

Probabilmente attraversarono l'intero edificio per arrivare al corridoio delle celle, perché Kiku si sentiva sfinito.

Per accedervi, bisognava attraversare due larghe porte, alle quali erano poste di guardia rispettivamente due guardie ed erano, ovviamente, chiuse a chiave.

- Chissà che confusione con tutte quelle chiavi - osservò Li Chun, indicando l'enorme mazzo che Antonio portava alla cintura.

- Ah sì. - Antonio sorrise al bimbo. - I primi mesi impiegavo minuti interi a capire quale chiave dovessi usare.

Una volta entrati, raggiunsero due figure: una era il soldato biondo che aveva visto all'esterno, il Beilshmidt di cui parlava lo scienziato, l'altra era il mutante nel furgone. Ora indossava anche lui la divisa bianca ed era a piedi nudi, ma non gli era sparita l'espressione ebete dal viso.

I due soldati fecero il saluto militare. Poi Antonio parlò. - Ehm... Non è che i bambini possono restare con il fratello? Forse-

- Ho già fatto pressione alla direzione. - lo interruppe con voce grave il soldato biondo. - I tre fratelli potranno stare nella stessa cella insieme a lui. - e indicò il ragazzo moro con un cenno del capo.

Kiku aggrottò la fronte. Oh no, nella stessa cella con la seccatura fatta persona.

Antonio si voltò verso il ragazzo con un sorriso trionfante. - Hai visto? Ti avevo detto che era affidabile!

Seguirono il soldato biondo per tutto il corridoio e il morale di Kiku sprofondò sotto terra. Stavano passando in mezzo a una cinquantina di celle tutte uguali tra loro – muri bianchi e letti a castello dalle lenzuola candide - e quasi tutte controllate da una guardia. Ognuna di esse conteneva massimo quattro mutanti, la maggior parte dormiva, essendo ormai mezzanotte inoltrata, ma quelli svegli li guardavano con aria alienata. Il ragazzo si chiese se si sarebbe ridotto anche lui in quello stato.

Si fermarono di fronte alla cella numero 34. Il soldato la aprì girando una chiave e intimò ai ragazzi di entrare.

Il biondo cominciò a spiegare. - I pasti verranno consumati nella cella. Se avete bisogno del bagno, chiedete a una guardia e vi porterà ai bagni comuni. Sarete assegnati a un orario per la doccia che potrete usare solo la domenica. Dalle quattordici alle sedici svolgerete delle mansioni, che vanno dal pulire i corridoi alla lavanderia, e a giorni alterni avrete la possibilità di stare nel cortile della fortezza. Ovviamente sarete sempre sorvegliati, quindi non provate a fare passi falsi o spareranno senza pensarci due volte. Domande?

Il ragazzo moro si grattò la testa. - Il cibo è buono?

Il soldato alzò gli occhi al cielo e se andò.

Antonio sorrise e li salutò con la mano, come se non fossero appena stati rinchiusi in una cella.

Kiku sospirò e posò Mei su uno dei letti, rimboccandola con le coperte. Intanto anche Lei Chun si era infilato sotto le lenzuola. Kiku andò da lui e gli baciò la fronte.

- Beh... Dato che adesso siamo compagni di cella e di sventura, direi che possiamo presentaci. Sono Feliciano.

Kiku si voltò. Il ragazzo gli stava porgendo la mano. Aveva grandi occhi color ambra che ispiravano gentilezza, i capelli castani erano spettinati e aveva un insolito ciuffo arricciato che tendeva verso sinistra. Non era molto alto, ma Kiku gli arrivava comunque poco sotto il mento. Non sembrava troppo male, anzi, sprigionava positività da tutti i pori, peccato avesse un'aria da idiota.

Gli strinse la mano non troppo convinto e la ritirò subito. Non amava il contatto fisico. - Kiku. - disse soltanto e cominciò a salire sul letto a castello sopra al fratello. - Vedi di non distruggere il letto e crollare su mia sorella, compagno di sventura.

L'altro rise e salì sul suo letto. Quando si mise sotto le sue lenzuola, bisbigliò. - Buonanotte, allora, Kiku.

 

 

 

Spazio dell'Autrice:

VA BENE, lo ammetto. Ho perso la cognizione del tempo e non mi ero accorta che oggi fosse domenica! ^^' Ho pubblicato con qualche ora in ritardo, ma il secondo capitolo è qui tutto per voi!

Vorrei ringraziare tutti quelli che hanno salvato la storia tra i loro preferiti e quelli che la stanno seguendo, siete preziosi! *sigh sigh sob sob*

Solo per precisare, ripeto quello che ho scritto nello scorso capitolo: tutta la famiglia Wang nella fanfiction è cinese, per ovvie ragioni (non potevo rendere i sei membri della famiglia di sei nazionalità diverse ahah). Invece Erica è Belgio (mi diverto un mondo a scriverla in questa fanfiction, è una rompiscatole, povero Antonio) e Abel è Olanda!

Spero che questo capitolo vi piaccia, fatemelo pure sapere con un commento, ci rivediamo la prossima domenica- Byeeeee <3

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3

 

30 gennaio 1985, Fortezza di Westbrook, Maine, USA

 

Erano passati solo cinque giorni da quando era stato rinchiuso nella fortezza, ma Feliciano aveva già capito tre cose: il cibo faceva schifo, i bagni ancora di più (no, sul serio, probabilmente immergevano il pasto dei prigionieri nell'acqua puzzolente del water) e non era facile farsi degli amici.

Per ora gli unici mutanti con cui era riuscito ad intrattenere un discorso più lungo di 30 secondi erano stati Kiku, i suoi due fratelli minori e pochi altri. Passando l’intera giornata nella loro cella comune, alla fine Kiku si era sentito costretto a dover rispondere alle numerose domande dell'italiano. E così tra un “Qual è il tuo dolce preferito?” e mille “Ti racconto una barzelletta!” erano diventati amici. Almeno, questo secondo Feliciano. Kiku non dava segni di interesse, ma l'italiano arrivò a credere che fosse soltanto il tipico atteggiamento da tutti i giorni del quindicenne. I suoi fratellini, fortunatamente, erano molto più socievoli. Giocavano ad acchiapparella insieme a Feliciano, scavalcando letti e correndo nello spazio seppur ristretto della cella, ascoltavano le sue barzellette con interesse e ridevano pure, al contrario del fratello maggiore che invece a ogni battuta lo guardava sempre più come se si ritrovasse rinchiuso con un idiota. Ma era assurdo, Kiku non lo avrebbe mai pensato, vero?

Tuttavia con gli altri prigionieri non era così semplice. Nelle poche ore in cui venivano lasciati “liberi” nel cortile della fortezza o durante i suoi orari di lavoro coatto, che consisteva nello spazzare i corridoi, pulire i bagni e smistare gli indumenti sporchi dei prigionieri in lavanderia, Feliciano aveva cercato di avvicinare qualche mutante, ma la maggior parte lo guardava male e si allontanava, mentre quei pochi che volevano sembrare gentili si presentavano e poi giravano i tacchi. L'unico con cui riuscì a parlare fu un diciottenne di nome Matthew. Era molto timido, ma disponibile. Stava nella cella di fronte a quella dell'italiano insieme a un altro ragazzo, che però non si faceva vivo da giorni, precisamente da poche ore prima che Feliciano mettesse piede nella fortezza. Matthew disse che era stato portato in laboratorio come al solito per far sì che studiassero i suoi poteri, ma che non era più stato riportato nella cella.

- È molto strano... - continuò Matthew sistemandosi goffamente i grandi occhiali rotondi sul naso all'insù. I capelli biondo cenere gli ricadevano spettinati sulle guance. - Non l'avevano mai trattenuto per così tanto tempo, le sedute non durano per un tempo prolungato, non ne ricaverebbero niente neanche loro. Devi sapere che è stato il primo mutante a essere stato catturato. Ormai è rinchiuso qui da cinque anni.

Feliciano sgranò gli occhi, incredulo. - Cinque anni?! Ma come... È Francis Bonnefoy, non è vero?

Ricordava bene il giorno in cui tutto era cominciato: il 12 ottobre del 1980, Francis Bonnefoy è diventato il primo mutante ad aver varcato la soglia della Fortezza anti-mutanti di Westbrook, senza mai uscirne. Il primo di una lunga serie di prigionieri. Quel giorno aveva fatto la storia. Aveva segnato la condanna di tutti i mutanti degli Stati Uniti d’America. Feliciano pensava fosse morto ormai da tempo.

Matthew annuì. - È stato forte. Ma da quando è qua dentro, non fanno altro che sfruttarlo per i loro orribili esperimenti. - lanciò un’occhiata alle guardie del cortile. - Francis è un mutaforma con un potere rigenerativo superiore al normale. Cercano nel suo DNA il carattere che lo aiuta a trasformarsi in altre persone e acquisire i poteri di altri mutanti, così da creare armi che si possano adattare a ogni mutante. Si è offerto lui di usare se stesso e i suoi poteri come cavia, ma solo a patto che gli altri mutanti venissero lasciati in pace. O quasi, ovviamente. Il generale Beilschmidt ha accettato le sue condizioni in quanto è dotato di un potere straordinario e apparentemente illimitato, ma non reggerà a lungo nemmeno lui. È sfinito e ogni mese è sempre più debole, per questo motivo quando lo rilasciano nella nostra cella, ormai devono aspettare anche un lungo periodo di tempo prima che riprenda le forze. Spesso al suo posto chiamano in laboratorio altri mutanti potenti, ma appena lui si riprende, lo riportano lì. Ha una resistenza e una capacità rigenerativa incredibili, superiori a quelle di qualsiasi altro mutante, anche con il collare, ma ormai riprende le forze sempre più lentamente. - Sospirò amareggiato e gli occhi divennero lucidi di preoccupazione. - Di questo passo, temo che prima o poi cederà del tutto. I suoi occhi non si apriranno mai più.

Feliciano rabbrividì. - M-ma è terribile! Non c'è nulla che si possa fare?

- L'unica opzione è sostituirsi a lui quando si riposa in cella, se gli scienziati lo richiedono... - Matthew sospirò. - Io mi sono offerto una volta, ma non ho resistito per neanche mezza giornata. Sapevano che ero rivoluzionario, non sono stati clementi. È stato...

Cominciò a tremare, mentre le lacrime gli rigavano le guance sporche di polvere.

Feliciano lo abbracciò. Lo conosceva da poco meno di dieci minuti, ma già si sentiva vicino a lui. Voleva rassicurarlo, dirgli che sarebbe andato tutto bene, ma sarebbe parso falso. Quindi si limitò a stringerlo forte, aspettando che finisse di sfogarsi. I suoi pensieri andarono automaticamente al compagno di cella di Matthew. Cinque anni lì dentro a soffrire per salvare le gli altri mutanti ed era ancora vivo. Aveva ancora il desiderio di salvare altre vite a scapito della propria. Doveva essere la persona più straordinaria dell'intero universo. Feliciano si chiese se sarebbe mai diventato anche lui come quel mutante. Anche lui voleva fare del bene, ma sarebbe mai riuscito a sacrificare la propria vita per altri? Solo l'idea gli fece gelare il sangue.

Dopo qualche minuto, Matthew si asciugò le lacrime. - Grazie... Ehm, Felix?

L'italiano rise. - Feliciano, lo sbagliano in molti.

- Sei italiano, giusto? Hai uno strano accento.

- Esattamente! - gli sorrise, contento di aver cambiato discorso. - Tu sei americano?

Matthew sembrò pensarci su. - Immagino di sì. Non saprei in realtà, ho sempre vissuto per strada con mio fratello.

- Oh! Anche io, più o meno. - abbassò il tono della voce, per paura che qualche soldato potesse sentirlo. Non aveva rivelato l'esistenza del fratello, non poteva rovinare tutto adesso.

- Davvero? Spero tu non abbia passato la vita intera con un rompiscatole per fratello come me. - Matthew rise, mostrando però un velo di malinconia.

- Vorrei poterti dire di sì, ma credo fossi io il fratellino insopportabile!

Scoppiarono a ridere divertiti. Forse quella era la prima vera risata di Matthew da quando era entrato lì dentro, perché sembrò quasi sorpreso di se stesso. - Non credo di aver mai visto qualcuno ridere così nei due mesi che ho trascorso qui. - gli elargì un sorriso riconoscente.

Feliciano alzò le spalle. - Beh, c'è sempre una prima volta!

Si fermarono ad osservare in silenzio gli altri mutanti nel cortile: alcuni si scambiavano qualche parola, molti invece se ne stavano in disparte, completamente soli. Vide una bambina con i capelli legati in due code correre intorno a un grande albero, una donna con le orecchie a punta e i lineamenti elfici che sorrideva nostalgica mentre un ragazzo dai capelli bianchi come la neve le raccontava una storia. Un ragazzo con gli occhi violetti e i capelli biondi trascinava i piedi, pensieroso, confondendosi tra la folla di mutanti. Feliciano intravide Kiku che diceva qualcosa ai suoi due fratellini che giocavano nel prato. Su tutto il perimetro del parco erano posizionate delle guardie a sorvegliare i prigionieri. Tra di loro non riconobbe né Ludwig né Antonio. Non li aveva più visti dal primo giorno, il che lo rese triste. Poi realizzò di essere triste e si chiese perché mai sarebbe dovuto essere triste. Insomma, per quanto gentili potessero essere stati (Ludwig gli faceva ancora un po' paura, in realtà), facevano parte di tutto ciò che recava sofferenza a centinaia di mutanti. Non avrebbe dovuto provare simpatia per dei soldati. Avrebbe dovuto odiarli.

- Un giorno, tutto questo finirà. - La voce di Matthew lo riscosse. Si voltò e ciò che vide non fu il ragazzo timido e spaventato di qualche attimo prima, ma un giovane dallo sguardo forte e determinato. - I rivoluzionari verranno ad aiutarci. Dobbiamo solo tenere duro fino al loro arrivo. Io ne sono certo.

La sicurezza con cui lo disse infuse una strana energia in Feliciano. Matthew era convinto che sarebbero venuti a salvarli e lui gli credette. Avrebbe aspettato, avrebbe combattuto, così da poter rivedere una volta per tutte il fratello Romano.

Il suono di una campanella fece sussultare tutti i presenti. I soldati cominciarono a ordinare ai prigionieri di mettersi in fila indiana per tornare alle celle.

Una volta entrato nella propria cella, Feliciano si arrampicò e si sdraiò sul letto. Una cosa gli era poco chiara: se il mutante che tenevano in laboratorio era così forte, ma non da Livello Omega, perché non avevano ancora portato via Kiku? Forse dagli esami del sangue avevano notato che non era così forte da essere categorizzato in quel livello? Ma il controllo temporale non era un potere molto comune e, pensandoci, faceva anche piuttosto paura. Allora come mai non stavano facendo nulla? Cosa stavano aspettando? Avrebbe voluto parlarne con Kiku, ma temeva di spaventarlo e di far preoccupare i fratelli.

Il frastuono delle porte che sbattevano lo risvegliò dai suoi pensieri. All'improvviso tutti i prigionieri ammutolirono e si sentirono solo dei passi frettolosi che percorrevano il corridoio e qualcosa che veniva trascinato.

Feliciano saltò giù dal letto a castello e si avvicinò alle sbarre, ma ciò che vide gli fece precipitare il cuore fino allo stomaco: due soldati grossi come armadi stavano trasportando di peso un prigioniero, sorreggendolo per le braccia. Arrivati all'altezza degli occhi dell'italiano, aprirono le sbarre della cella di fronte e buttarono dentro il malcapitato.

- Francis!! - Matthew si buttò sul corpo quasi privo di sensi del giovane e gli sollevò la testa. Probabilmente tentò di suonare convincente, ma ciò che gli uscì fu come uno squittio, dovuto dallo shock del momento. - C-come vi permettete di trattarlo così?! Siete-

Uno dei due soldati lo interruppe con la sua voce tonante che sovrastò completamente quella del ragazzo. - Ci hanno riferito che ha opposto resistenza agli esperimenti numerose volte e quindi di non trattarlo con leggerezza. Non faremo di certo conto del nostro operato a un mutante. Vedi di non rivolgerti più a noi con quell'aria di sfida, insulsa creatura.

Detto questo se ne andarono con la stessa velocità con cui erano entrati. Dei mormorii cominciarono a levarsi in ogni cella.

- Francis? Francis, ti prego, guardami! - Matthew aveva appoggiato la schiena del ragazzo contro il muro e con la mano gli ripulì il viso da quelli che sembravano residui di fuliggine, lacrime e sangue.

Feliciano guardò meglio il ragazzo: era molto magro, tanto che ormai i vestiti logori gli stavano larghi. I capelli erano più lunghi di quelli di Matthew e anche più rovinati, da quello che doveva essere un bel biondo grano, ormai erano diventati di un giallo appassito, quasi grigio. Gli occhi, che teneva aperti a stento, gli parevano azzurri, ma anche quelli avevano perso la luce di un tempo. Erano vacui e di un blu spento, tormentato, circondati da profonde borse nere. Il viso smunto e contorto dal dolore aveva perso ogni traccia della bellezza giovanile ed era pieno di ferite sanguinanti, stessa cosa per mani e piedi. Feliciano non voleva immaginare in che stato fosse il resto del corpo. Un accenno di barba scura gli copriva il mento. Se quel ragazzo avesse avuto intorno ai venticinque anni, in quello stato sarebbe certamente passato per un povero quarantenne vagabondo.

All'improvviso il ragazzo diede qualche colpo di tosse e fece per sistemarsi meglio, ma gemette dal dolore.

- Ahi ahi, Matthie. - gracchiò debolmente. Prima di parlare di nuovo dovette riprendere fiato. - Mi hanno proprio conciato per le feste stavolta.

- Non parlare, Francis. - disse Matthew, ricacciando indietro le lacrime. - Oh mio dio, ma come hanno potuto...

Francis accennò una risata amara per niente divertita e accarezzò i capelli del più giovane con fare paterno. - Le armi che hanno usato stavolta erano molto più potenti e non riuscivo a contrastarle da solo... - fece una pausa, portandosi una mano al petto. - Ho cercato di oppormi, ma non me l'hanno consentito. Sono troppo debole ormai... Ma non posso mollare. Devo tenere duro per tutti voi. Entro due settimane sarò di nuovo in forze, promes-

Cominciò a tossire piegandosi in due dal dolore. A quel punto Matthew versò fuori tutte le lacrime che aveva trattenuto e massaggiò la schiena del ragazzo, incapace di poter fare altro.

Feliciano osservò tutta la scena con gli occhi sgranati dalla paura. Quello era davvero il mutante che era sopravvissuto a cinque anni di torture e sofferenze. Era ridotto peggio di un cane randagio. Com'era possibile trattare un altro essere vivente in quella maniera? Era in fin di vita, a malapena riusciva a respirare. Ma nonostante questo, metteva ancora davanti a sé il destino degli altri.

Lanciò un veloce sguardo ai tre fratelli dietro di lui: i due più piccoli, impauriti, si erano avvinghiati alla vita di Kiku. Lui aveva un'espressione sconvolta dipinta sul viso e fissava il mutante con le mani che tremavano. Probabilmente temeva che quella sarebbe stata anche la sua sorte.

Francis sembrò riprendersi un attimo e venne rimesso seduto da Matthew.

- Come fai? - gli chiese Feliciano stringendo con le mani le sbarre.

La domanda lasciò per qualche attimo senza parole i due biondi. Poi Matthew esitò. - Ehm, Feliciano...

- Insomma... - continuò l'italiano. - Ti trattano come un verme, ogni mese ti prosciugano tutte le energie che hai in corpo, eppure continui a lottare e ad assumerti tutto il peso degli esperimenti sulle spalle. Quindi, mi chiedo, come fai?

Francis non rispose subito. Si prese qualche attimo per squadrare l'italiano. Gli puntava i suoi profondi occhi blu addosso e sembrava che potesse leggere la sua anima, i suoi segreti più profondi, mettendo Feliciano a disagio. Quello sguardo era ambiguo: ispirava simpatia o avversione? Interesse o indifferenza? Gli parevano freddi e distanti, ma allo stesso tempo, sembravano volerlo accogliere caldamente, senza alcuna aria malevola.

Al biondo sfuggì una risata delicata. Inclinò il capo, spostando lentamente una ciocca di capelli dal viso. - Tu hai qualcosa per cui lottare nella vita?

Feliciano lo guardò stupito, senza riuscire a trovare le parole. - Io... Non lo so. Credo di sì.

Il ragazzo gli sorrise dolcemente. Era un tratto che stonava con lo stato in cui era ridotto, ma che lo rese bellissimo agli occhi di Feliciano. - Vedi, io ce l'ho qualcosa, o meglio, qualcuno per cui lottare. Sono un inguaribile romantico e mi piace considerarlo l'amore della mia vita, anche se lui non apprezzerebbe il termine. Mi sta aspettando là fuori, continuo a lottare solo per poterlo rivedere. - Fu impercettibile, ma Feliciano poté scommettere di aver visto le guance di Francis imporporarsi lievemente al pensiero della persona amata. - Allo stesso tempo lotto affinché gli oppressi abbiano la loro rivincita. Voglio un mondo in cui mutanti e umani possano convivere in pace senza paura. Voglio un mondo dove l'odio e le discriminazioni possano soccombere sotto il potere dell'amore e della libertà. Io sono convinto che un giorno l'umanità accetterà chi è diverso. Voglio un mondo dove gli esclusi verranno accolti e non dovranno più nascondersi per la sola colpa di essere loro stessi. I mutanti non verranno più denigrati, perseguitati, uccisi. Non saranno più mostri. So che sembra un'utopia, ma ci credo davvero. E questo mi dà forza.

Nonostante la debolezza fisica, il suo tono era fermo e sicuro, lo sguardo fiero. Feliciano gli credette all'istante. Francis era sincero: mentre parlava, i suoi occhi si erano illuminati di una luce piena di speranza. L'italiano quasi poté visionare il mondo che Francis tanto sognava. E ci riusciva perché lo desiderava anche lui. Solo che le parole di Francis lo rendevano mille volte più reale.

Il biondo rise ancora, accompagnato da qualche colpo di tosse. - Ti ho spaventato, ragazzo?

Feliciano si riscosse e balbettò, preso alla sprovvista. - N-no! Penso sia magnifico, ma non dovresti fare tutto da solo. Io voglio aiutarti!

- È ammirabile da parte tua, ma purtroppo non credo sia così semplice, anche i mutanti più forti escono tremendamente colpiti da quei laboratori. - Voltò uno sguardo pieno di comprensione verso Matthew ed ebbero una conversazione muta. Feliciano capì a cosa si riferiva. Francis continuò. - Io posso farlo. Il mio corpo è tale da poter sopportare una maggior quantità di dolore rispetto a voi altri mutanti. Sfortunatamente, a ogni seduta in laboratorio, non solo perdo più energia, ma regalo a quelle bestie nuovi metodi per poter contrastare i mutanti. Ma è l'unico modo. Non posso rischiare che qualche vita qua dentro venga distrutta solo perché ho troppa paura di andare avanti. Finché avrò energie e finché il mio corpo e la mia mente reggeranno, sarò sempre pronto a offrirmi al posto vostro. E quando saremo liberi, ci occuperemo di distruggere tutte le armi anti-mutanti.

Matthew bofonchiò. - Perché oggi fai tanto lo spavaldo?

- Hey! - Francis si mise una mano sul cuore con fare teatrale, fingendosi offeso. - Ci sono spettatori, devo mostrare il mio lato temerario e autorevole!

Feliciano sorrise nel vederli punzecchiarsi. - E va bene. Accetto le tue scelte, ma sappi che non mi tirerò indietro se ci sarà bisogno di darti una mano! Puoi contare su di me!

Matthew lo guardò con ammirazione.

Pure Francis sembrava meravigliato dalle parole coraggiose dell'italiano. - Perfetto. Ma ora mi conviene riposarmi, altrimenti sono sicuro che non mi riprenderò mai. Allora...

- Feliciano! - avrebbe allungato una mano per stringerla all'altro prigioniero, ma erano troppo distanti l'uno dall'altro. Si accontentò di un sorriso.

- Molto lieto, io sono Francis Bonnefoy. - si presentò l'altro, mentre Matthew lo aiutava a sdraiarsi sul suo letto. - Allora, Feliciano, è stato un piacere conoscere te e i tuoi amici.

L'italiano quasi si era dimenticato dei tre fratelli. Si voltò, ma erano già tutti nei loro letti. I due piccoli sonnecchiavano sotto le coperte, ma era certo che Kiku fosse ancora sveglio. Era salito sul letto a castello e si era voltato di lato con il viso rivolto verso il muro. Tremava. Feliciano temette che il racconto di Francis sul laboratorio l'avesse spaventato più del dovuto. Kiku nascondeva sempre le sue paure dietro una maschera di ghiaccio e indifferenza, ma il linguaggio del corpo lo tradiva. Il terrore di ridursi un giorno in fin di vita come Francis per via del suo grande potere lo sovrastava. Feliciano non aveva idea di come potesse sentirsi.

Capì che non era il caso di parlargli, non sembrava volergli rivolgere la parola, quindi si arrampicò sul proprio letto e si rannicchiò sotto le lenzuola. E sull'onda dei mille pensieri che gli affollavano la mente, si addormentò.

 

 

 

1 febbraio 1985, mura della Fortezza di Westbrook, Maine, USA

 

L'aria della notte era gelida per via della fitta nebbia e inquinata a causa del fumo proveniente dalle ciminiere delle industrie poste tutte intorno alla fortezza, nella periferia della città. L'odore acre penetrava dentro le narici e pizzicava gli occhi.

Antonio sbuffò e una nuvoletta di vapore acqueo si riversò fuori dalla sua bocca, confondendosi nella foschia grigiognola.

Non riusciva a vedere nulla nonostante fosse molto in alto, sulla cortina di ponente delle mura.  A malapena intravedeva la figura della sua compagna di guardia a dieci passi alla sua destra: Natalya Braginsky, una ragazza russa dai lunghi capelli biondi, tendenti al bianco, e dallo sguardo assassino. Era una cecchina eccellente, la migliore di tutto l'esercito americano. Aveva un fratello maggiore, Ivan, uno scienziato della fortezza, anche lui alquanto inquietante. Antonio si teneva sempre a debita distanza da entrambi.

Si chiese come potessero sorvegliare la roccaforte in quelle condizioni. Non bastavano le telecamere di sicurezza? Sarebbero state molto più efficienti degli occhi stanchi dello spagnolo.

Provò ancora una volta ad aguzzare lo sguardo, ma non cambiò molto. Le torce appese a ogni torretta emanavano una luce gialla offuscata dalla nebbia e non riuscivano a illuminare gran che. Persino i boschi che circondavano una parte delle mura e si diffondevano a nord erano completamente celati dal buio e dalla foschia.

Antonio si sporse un poco. Le mura della fortezza si stagliavano sul pendio della roccia. Non era un terreno molto scosceso, quindi risalire la montagna a piedi e arrivare fino all'imbocco delle mura era possibile, ma in tempi favorevoli sarebbe stato un suicidio: le guardie avrebbero fatto fuoco a vista.

Beh, le altre guardie, non Antonio. All'accademia militare aveva passato a pieni risultati l'esame del poligono di tiro (non che ne andasse fiero, in realtà), ma ancora non se la sentiva di poter sparare a qualcosa di vivo, umano o mutante che fosse. Solo l'idea gli dava il voltastomaco. Eppure tutti gli altri soldati non vedevano l'ora di poter premere il grilletto contro un vero mutante. Che fosse lui quello sbagliato?

Scosse la testa e decise di concentrarsi sul suo lavoro, ma il freddo e la stanchezza non gli permettevano di concentrarsi e i suoi pensieri ricominciarono a fluire come un torrente durante un temporale.

L'unica cosa che voleva in quel momento era tornarsene al suo appartamento. Ma per quello doveva aspettare la domenica e mancavano ancora due lunghi giorni. Sbuffò di nuovo, sfinito. Ormai erano settimane che lo sballottavano da una parte all'altra per compiere ogni tipo d'incarico. Di notte sorvegliava la prigione appostato sulle mura, come gli era stato imposto da quando aveva messo piede in quel posto, e di giorno, quando invece avrebbe dovuto riposare nei dormitori della fortezza, spesso e volentieri gli venivano assegnati mutanti da portare nelle prigioni. Ne aveva prelevati talmente tanti che a malapena aveva memorizzato i loro volti. Vagamente ricordava tre fratelli cinesi, ma non gli venivano in mente i nomi. Si confondeva con quelli delle altre decine di mutanti che aveva portato alla fortezza. In ogni caso, era esausto a causa di tutti quei compiti. Lui accettava perché erano i suoi superiori a imporglielo, ma di quel passo sarebbe precipitato giù dalle mura in preda a un attacco di sonnolenza.

- Hey, Carriedo. - La voce della sua compagna lo risvegliò. Antonio tentò di inquadrarla, ma il suo corpo si perdeva nella nebbia. - Non addormentarti proprio adesso, ho bisogno di due occhi in più con questa dannata nebbia. Fatti due passi e vedi di darti una svegliata.

- Certo. - tentò di assumere un tono gentile e sereno, ma il modo in cui Natalya gli si era rivolta lo irritò. Capiva di non essere il militare più esemplare dell'esercito statunitense, ma non credeva di essere così pessimo da meritarsi quel tipo di trattamento. Ignorò la rabbia e capì che in fondo la ragazza non aveva torto, una breve camminata gli avrebbe fatto solo bene.

Mentre passeggiava verso la torretta alla sua sinistra, il vento gli pungeva il viso. Le mani guantate stringevano il fucile, ma ormai non lo sentiva nemmeno più.

Appoggiò la schiena alla balaustra e alzò lo sguardo verso il cielo, ma con le fabbriche a pochi chilometri di distanza non era possibile vedere altro che fumo. Ah, quanto avrebbe voluto tornare a guardare il cielo limpido della Spagna...

crack

Il rumore alle sue spalle di un sassolino che rotolava lo mise in allerta.

Impugnò saldamente il fucile e si voltò. Gli occhi guizzarono a destra e a sinistra, ma non vide nulla nella foschia. Il cuore gli martellava nel petto. Silenzio. Se l'era immaginato? Spesso sulla roccia si arrampicavano degli scoiattoli curiosi, ma era quello il caso?

Un altro suono di sassi che rotolavano giù provenne dalla sua sinistra. Puntò il fucile in quella direzione, nonostante non riuscisse a vedere niente. C'era decisamente qualcosa. O qualcuno. Non se lo stava immaginando.

- Chi sei? Fatti vedere o sarò costretto a sparare.

Per qualche attimo ci fu il silenzio più totale e Antonio ebbe quasi l'impressione di avere le allucinazioni per la stanchezza. Ma poi un'ombra avanzò verso di lui arrancando sulla roccia.

Antonio si avvicinò di più al parapetto, arrivando a toccarlo con il bacino. Puntò il fucile a pochi metri sotto di lui, verso la fronte della figura che ora vedeva un po' più distintamente: non poteva scorgere i tratti del suo viso, ma dalla corporatura e la statura intuì che fosse un maschio sui vent’anni. Indossava una giacca a vento nera con il cappuccio tirato su in modo da coprire la faccia e dei pantaloni scuri che gli fasciavano le gambe magre. Le mani rosse per via del freddo stringevano un coltello da cucina e il ragazzo lo teneva sollevato verso il soldato, ma a dirla tutta non appariva molto minaccioso, tremava.

- Chi sei? Che cosa vuoi? - Antonio assunse il tono più imperioso che poté.

- Io non voglio te! - sibilò la figura. Dalla voce stabilì definitivamente che si trattava di un ragazzo. - Voglio riprendermi mio fratello. Voi bastardi me lo avete portato via!

La sua voce era roca e rotta dal pianto. Tremava talmente tanto che Antonio ebbe paura che potesse sbilanciarsi e cadere giù verso il vuoto.

Una parte di sé gli diceva che avrebbe dovuto sparare subito, quello era sicuramente un mutante, poteva essere pericoloso. Ma in realtà non ne aveva il coraggio. Perché avrebbe dovuto uccidere qualcuno che voleva soltanto salvare il proprio fratello? Non gli sembrava giusto... Ironico, dato che era stato scelto proprio per compiere quel lavoro.

- Vattene e mettiti in salvo. - lo intimò.

L'altro spostò il peso da un piede all'altro, perplesso. - C-che cosa?

- Vattene o ti uccideranno. Anche se riuscissi a sopraffarmi, appena varcate le mura, i tuoi poteri manderanno un messaggio al nostro sistema di sicurezza e tutti nella fortezza capiranno che sei entrato. Non riuscirai a nasconderti da tutti quei soldati e, se ti ribellerai, ti uccideranno.

Il ragazzo sembrò più confuso che mai. - Perché dovrei crederti?

- Se verrai ucciso, non salverai mai tuo fratello.

Con quella frase il mutante sembrò riscuotersi un poco. Si strofinò la manica della giacca sugli occhi e strinse i pugni. - Perché dovresti risparmiarmi? Sei un soldato addestrato a uccidere quelli come me, cazzo! Cosa mi fa credere che una volta che mi volterò non mi sparerai alle spalle? Piuttosto preferisco combattere.

Antonio cercò di persuaderlo con un tono più gentile. - Senti, devi credermi, se te ne andrai pacificamente, non ti farò del male. Ma devi fuggire adesso o sarà-

- Carriedo, che succede?

La voce sempre più vicina di Natalya lo fece voltare. Quando riportò lo sguardo oltre le mura, vide la figura del mutante correre giù dalla montagna.

Purtroppo non fu l'unico a notarlo.

- Mutante sotto la cortina sud-est!! - urlò Natalya nel suo walkie talkie agganciato al colletto della divisa, imbracciando il fucile alla svelta. In un attimo tutti i fari della fortezza si accesero, cercando di individuare il mutante. I soldati sulle mura correvano da una parte all'altra per avere la visuale libera e riuscire a sparare con precisione (con tutta quella nebbia sarebbe stato impossibile perfino per Natalya). Gli altri a valle si sparpagliarono per poter circondare il mutante, ma invano. Era sparito. Era stato più veloce dei soldati e si era salvato.

Antonio si sentiva stranamente felice, ma in un angolino della sua mente cominciò a formarsi il timore che i suoi superiori venissero a sapere che aveva aiutato un mutante a fuggire. E la pena sarebbe stata brutale: la morte.

 

 

 

Finalmente ebbe l'occasione di fermarsi. Aveva corso così velocemente che ormai non aveva più fiato. Nella discesa dalla montagna era caduto più volte, rotolando sulla roccia. Si era sbucciato i palmi delle mani e, a giudicare dal bruciore, probabilmente anche la guancia.

Romano ringhiò dalla frustrazione.

Dopo innumerevoli tentativi falliti, ci era andato così vicino! Se non fosse stato per quel soldato...

Ma si ricredette. Gli pesava ammetterlo, ma quel militare bastardo gli aveva salvato la vita. Se non fosse stato così, probabilmente a quell'ora sarebbe stato un corpo senza vita pieno zeppo di fori di proiettile.

Si sedette su una roccia, togliendosi il cappuccio della giacca e scoprendo così la zazzera di capelli castani, inumiditi per via della nebbia.

Sperò soltanto che il soldato non l’avesse visto in volto. Sarebbe stato un bel guaio. E se lo avessero costretto a confessare? Avrebbe dato un identikit dettagliato e lo avrebbero trovato in pochi giorni. E tanti saluti alla missione eroica per salvare suo fratello Feliciano.

Si augurò che quelle fossero solo sue paranoie.

Il volto del soldato invece lo aveva visto eccome: il taglio per niente militare dei capelli castani, il viso abbronzato dai tratti morbidi e due grandi occhi verdi che non ispiravano cattiveria. Difatti, gli aveva salvato la vita. E quello lo faceva infuriare. Avrebbe dovuto odiare qualsiasi militare, non sentirsi debitore con uno di loro!

Decise che non era il momento di rimuginare su ciò che era successo. Doveva allontanarsi prima che i soldati lo trovassero.

Ma proprio quando si stette per incamminare, un’ombra scura si stagliò su di lui. Quando alzò gli occhi, tutto accadde troppo in fretta per riuscire a capirci qualcosa: un uccello enorme (o almeno, fu quello che gli sembrò) piombò giù dal cielo e lo afferrò per la vita con una forza tale da stordirlo.

E da quel momento, vuoto assoluto.









Spazio dell'Autrice:
Salve a tutti!! Nuova domenica, nuovo capitolo!
La storia si fa più interessante! Abbiamo conosciuto Francis, il mutante più famoso della terra, e Matthew!! La piccola scena che hanno avuto nel cortile della prigione è così pura, voglio abbracciarli! E povero Francis... Tutte a lui capitano. Il fatto che stia resistendo solo per poter incontrare di nuovo Arthur mi fa sciogliere il mio cuoricino da FRUK shipper!! T_T
Abbiamo finalmente incontrato anche Romano!! Personaggio che personalmente ADORO scrivere. Il suo carattere rende tutte le scene molto dinamiche ed esilaranti. A cosa porterà questo suo primo incontro con Antonio? Chissà!
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, grazie mille a tutti quelli che stanno seguendo la storia!!
A maggio sarò molto incasinata, ho tantissimi esami da dare e vorrei finirli entro settembre, così poi mi concentro sulla scrittura della tesi, quindi non spaventatevi se salterò qualche domenica! Sarò solo impegnata a piangere ;u;
Detto questo, ci rivediamo al Capitolo 4!! Byeeeeee <3

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


Capitolo 4

 

1 febbraio 1985, sotterraneo di Villa Caesar, Portland, Maine, USA

 

- Ecco, l'hai ucciso!

- Non l'ho ucciso, l'ho salvato dalle guardie dell'esercito. Sono l'eroe, qui.

La testa era pesante e gli occhi faticavano ad aprirsi. Sentiva due voci maschili discutere tra di loro.

- E allora perché non si muove? Con la tua forza bruta l'avrai ammazzato, non c'è dubbio. - continuò il primo uomo. Parlava a bassa voce, forse non voleva farsi sentire.

- Senti, Mozart dei miei stivali, ti ricordo che sei stato tu a suggerire che lo prendessi io! - rispose l'altro, il quale invece non si faceva nessun problema ad alzare il volume della voce. Pareva il più giovane tra i due.

- Ragazzi! - Urlò una terza voce, molto vicina e più acuta, ma sempre maschile. Solo in quel momento, stordito com'era, si accorse delle dita che gli stringevano il polso. - Nessuno ha ucciso nessuno, è ancora vivo, solo svenuto.

- In ogni caso, - continuò il primo uomo. - Arthur non sarà felice.

- Non sarebbe felice in ogni caso! - rispose il giovane. - Perché il nostro piano si è rivelato un fiasco totale. E vuoi sapere per quale motivo? Per colpa di questo qui.

In qualche modo Romano capì che stessero parlando di lui. Si sforzò con tutto se stesso di aprire gli occhi, ma, ogni volta che ci provava, una luce gli bruciava le pupille. Si sentiva il corpo tutto indolenzito, in particolare la nuca e il busto. Da quel poco che capiva, era seduto su una sedia e non era legato. Forse chi lo teneva lì non lo considerava una minaccia oppure semplicemente non volevano fargli del male.

Cosa gli era successo? Prima di perdere i sensi aveva visto un uccello gigante... Come un uccello? Forse il dolore al collo gli stava dando alla testa e non lo faceva ragionare per bene.

Emise un mugolio dalla bocca, scuotendo lentamente il capo per la frustrazione.

- Hey, si sta svegliando. - il terzo uomo richiamò l'attenzione degli altri due, che smisero immediatamente di bisticciare.

Tentò finalmente di parlare. - Dove... Chi? - alzò lo sguardo. La luce gialla di una lampada da tavolo che puntava direttamente sul suo viso lo accecò, ma si sforzò di mettere a fuoco il luogo in cui si trovava e di capire chi fossero gli uomini presenti.

La stanza era fredda e umida, forse si trovavano in uno scantinato. A una prima occhiata pareva piccola e piuttosto spoglia: vedeva un tavolino con qualche foglio e strumenti da lavoro sparsi sopra, delle mensole impolverate e un armadietto con un'anta storta.

Strabuzzò gli occhi e squadrò l'uomo più vicino: era un asiatico dai capelli lunghi castani legati in una coda. Gli occhi a mandorla erano accoglienti e il sorriso caldo. Non inspirava malvagità, forse era in buone mani.

Ma poi passò agli altri due e ritirò tutto, tanto che ormai lanciarsi in una fortezza piena di uomini armati non gli sembrava più una cattiva idea.

L'uomo alla sua destra era slanciato e magro e la prima cosa che notò fu il completo di velluto viola che indossava (per poco non scoppiò a ridere, veniva direttamente dal 1800 o cosa?). L'espressione austera e severa del viso però lo frenò da ogni risata, la bocca era incurvata in una smorfia sdegnosa. In poche parole, non dava l'idea di essere molto felice di averlo come ospite. Ma, nonostante questo, dietro agli occhiali dalla montatura sottile vi era uno sguardo vacuo e inespressivo: si domandò se fosse cieco. Si teneva a debita distanza con le braccia conserte e batteva ripetutamente il piede a terra.

Proprio quando spostò lo sguardo per osservare il terzo uomo, lo vide avvicinarsi a grandi passi, facendolo sprofondare nella sedia dallo spavento. - Si può sapere a che diavolo stavi pensando?! Hai vanificato ogni nostro sforzo eroico e ci hai quasi fatti scoprire!

Era un ragazzo alto e muscoloso (considerata la stazza nettamente superiore alla sua, avrebbe potuto mettere Romano al tappeto con un singolo pugno), portava i capelli biondi tagliati corti e gli occhi azzurri lo fissavano con ostilità dietro agli occhiali rettangolari. Con la canottiera bianca, i pantaloni mimetici e gli stivali militari sarebbe passato senza problemi come un soldato americano, ma lo tradivano delle enormi e bellissime a-

Per poco Romano non si strozzò con la sua stessa saliva: delle gigantesche ali ripiegate su loro stesse spuntavano dalla schiena del ragazzo e arrivavano quasi a toccare terra. Partivano con una tonalità sul marrone bruciato e sfumavano sulle punte in un bianco pallido, come le ali di un'aquila.

Era talmente scioccato che non riuscì a formulare neanche una parola.

Il ragazzo continuò, puntandogli un dito contro. - Volevi farti ammazzare? Ringrazia che c'era un grande eroe come me a salvarti il cu-

- Alfred! - lo rimproverò una voce. Un giovane entrò dalla porticina sulla destra. - Lo stai spaventando più del dovuto, non aveva cattive intenzioni, quindi vedi di calmarti. - Gli scoccò un'occhiata eloquente: “Taci o ti faccio a pezzi”.

Il ragazzo chiamato Alfred sembrò voler ribattere, ma cambiò idea, indietreggiò e mise il broncio, incrociando le braccia.

Il giovane appena arrivato non era particolarmente alto, i capelli biondi erano curati e lo sguardo serio e vigile, le sopracciglia folte erano corrucciate in un’espressione pensosa. Irradiava un'aura potente, tanto da far venire la pelle d'oca all'istante. Squadrò Romano per un attimo e poi si avvicinò, lentamente. I suoi occhi verdi non si staccavano dai suoi, sembrava quasi che gli stesse leggendo l'anima per carpire ogni suo segreto.

- Roderich. - disse voltandosi verso l'uomo con lo smoking. - Vai a rassicurare gli altri, di' loro che non c'è nulla da temere.

L'interpellato annuì ed uscì dalla stanza senza difficoltà. Quindi probabilmente si era solo immaginato che fosse cieco.

Il biondo riportò la sua attenzione verso di lui.

- Romano Vargas... - esordì appena arrivato a pochi centimetri di distanza. - Dunque sei davvero il nipote di Cesare Vargas.

A sentire il suo nome e quello del nonno, Romano ebbe un tuffo al cuore. Deglutì a vuoto, il cuore batteva all'impazzata. - Co-come fai a sapere il mio nome? Perché conosci mio nonno? E chi cazzo sei?

L'altro inclinò la testa, studiandolo da cima a fondo e ignorando il linguaggio scurrile. - Ero un suo allievo. - disse con noncuranza, come se stesse pensando a mille altre cose contemporaneamente e che rispondere alle domande del ragazzo fosse l'ultimo dei suoi problemi. - Non sapevo avesse dei nipoti, non sono mai riuscito ad entrare nella sua mente, era troppo potente...

Romano sgranò gli occhi. - Anche tu sei un telepate come il nonno?

- Sì, ma non abile quanto lui. - il biondo si mise a braccia conserte. - Quindi vuoi salvare tuo fratello Feliciano dalla prigionia?

Il viso di Romano si rabbuiò e solo in quel momento si accorse di avere un cerotto attaccato alla guancia, probabilmente per coprire la ferita che si era procurato durante la fuga dalla fortezza. Strinse i pugni, seppur a fatica, in quanto i palmi erano completamente ricoperti di tagli. - Esatto. Circa una settimana fa a New York Feliciano è stato catturato da quei bastardi dell’esercito mentre io mi ero allontanato per comprare del cibo... - Si morse il labbro, mentre una lacrima gli rigò la guancia sinistra. - Non avrei dovuto lasciarlo solo. Sapevo che i controlli erano aumentati nell'ultimo mese, ma non pensavo ci avrebbero trovato così facilmente. Sono stato un incosciente!

Il ragazzo asiatico gli posò una mano sulla spalla e gli sorrise gentilmente. Di solito non amava essere toccato, ma in quel momento non ci badò, il suo sguardo era confortevole e rassicurante, come se conoscesse bene la sensazione di impotenza in cui Romano si trovava.

- Non essere così duro con te stesso. - proseguì Arthur con tono fermo. - Non è stata colpa tua, noi ti possiamo capire. Qui in molti hanno perso qualcuno di caro per mano dell’esercito e faremo tutto il possibile per riportali a casa sani e salvi.

Romano si asciugò gli occhi con il dorso della mano. - Siete voi i ribelli, non è vero?

Gli sembrò che Arthur avesse avuto un leggero tic all'occhio, ma pensò di esserselo immaginato. - Sì, siamo i rivoluzionari. Stiamo organizzando un piano per poter irrompere una volta per tutte nella fortezza e salvare i mutanti catturati, ma abbiamo ancora troppe poche informazioni e siamo in numero di gran lunga inferiore rispetto ai soldati dell'esercito. Oggi avremmo provato un nuovo piano grazie all'ingresso nel gruppo di nuovi mutanti, ma un imprevisto non ci ha permesso di attuarlo...

Fissò l'italiano negli occhi con fare accusatorio, corrugando le sopracciglia, che Romano notò essere più folte del normale, conferendogli un'aria ancora più scorbutica.

- M-mi dispiace. - l'italiano abbassò lo sguardo, colpevole. - Pensavo di potercela fare da solo, ho agito in un momento di rabbia.

Ammettere di aver fatto una stupidaggine lo irritava particolarmente, di solito era troppo fiero per poterlo fare, ma in quel momento non aveva molta scelta, era circondato da mutanti che sembravano piuttosto potenti, non avrebbe voluto offenderli e poi finire abbrustolito o che altro.

Arthur sospirò. - Per questa volta posso chiudere un occhio.

Il ragazzo chiamato Alfred intervenne. - Arthur, voglio ricordarti che ci ha quasi fatti ammazzare, non dovresti andarci così piano con-

Non fece in tempo a finire la frase. Arthur gli lanciò un'altra occhiata fulminante, ma questa volta Alfred sostenne il suo sguardo. Si scrutarono a lungo in un duello silenzioso. Romano si chiese se non stessero discutendo tramite i pensieri, ricordava che il nonno lo faceva spesso con lui e suo fratello quando non voleva sgridarli ad alta voce. Sapeva quanto potesse essere faticoso lottare con un telepate.

Proprio quando la tensione divenne quasi insopportabile, Alfred alzò gli occhi e scosse la testa.

Arthur si voltò di nuovo verso Romano, facendo finta che nulla fosse accaduto. - Dicevo, posso chiudere un occhio per stavolta. Ma potremmo evitare un altro fraintendimento del genere in futuro, non trovi? Non sarai più costretto a dover lavorare da solo...

- Mi... Mi state chiedendo di entrare a far parte dei rivoluzionari?

- Esattamente. - proseguì Arthur. - Ti daremo una mano a ritrovare tuo fratello e tu intanto aiuterai noi con missioni di ricognizione per ottenere informazioni sulla fortezza. Naturalmente dovrai trasferirti qui alla villa per limitare il più possibile i tuoi spostamenti e per non essere rintracciato dall'eser-

- Non posso.

Arthur sbatté più volte gli occhi, allibito. Evidentemente non si aspettava di essere interrotto e nemmeno i suoi compagni. Persino Alfred aveva smesso di tenere il broncio e aveva spalancato la bocca, stupito per il comportamento dell'italiano.

Il capo dei rivoluzionari si schiarì la voce. - Come, scusa?

- Non posso unirmi a voi. - Romano abbassò lo sguardo, per non incrociare quello penetrante di Arthur. - Non posso trasferirmi, quindi non mi è possibile lavorare per voi, attirerei troppo l'attenzione spostandomi dalla città fino a questa villa. Vi risparmierei un sacco di problemi. Anzi, non dovrei nemmeno essere qui in questo momento.

- Ma come... Oh. - Arthur portò una mano sotto il il mento, pensieroso. Romano quasi poté vedere gli ingranaggi del suo cervello lavorare e intuì che avesse letto nella sua mente per capire che cosa gli stava nascondendo. Quel pensiero lo irritò.

- Che cosa? - intervenne il ragazzo asiatico, il quale intanto aveva riposto nell'armadietto il kit medico. - A cosa si sta riferendo?

- È Moreau, non è vero? - gli chiese Arthur, ignorando il suo compagno. - Ti ha trovato prima di noi e ti sta minacciando. “Se fai un passo falso ti metto l'esercito alle calcagna”, giusto?

Romano si strofinò una mano sul viso dalla vergogna. Era stato così stupido da farsi scoprire da quell'uomo e adesso era inevitabilmente legato a lui. - Mi dispiace, non ho potuto fare altro. Quel bastardo ha tutti i miei dati e quelli di mio fratello, mi ha obbligato a lavorare per lui. Mi ha detto che se io provassi a fuggire da lui, farebbero del male a Feliciano. Ho le mani legate.

- Dannato Moreau! - sibilò Alfred. - Sapevo che avremmo dovuto ucciderlo molto tempo fa!

- Noi non uccidiamo nessuno e questo lo sai, Alfred, altrimenti non saremmo migliori dell'esercito. - Arthur si passò una mano tra i capelli, sbuffando. - Romano, magari possiamo aiutarti in qualche modo.

- No, non vi conviene. - l'italiano si alzò dalla sedia, ignorando i dolori al collo. - Il suo locale è situato in una zona colma di militari. Perfino io sto rischiando molto nonostante non abbia grandi poteri, ma voi... Voi attirereste troppo l'attenzione. La vostra presenza è troppo potente. Fidatevi, è molto meglio così. Posso andare ora o dovete ancora rompermi le palle?

Arthur lo stava guardando come se fosse un cane bastonato e in effetti forse ci andava molto vicino. Sembrava volesse a tutti i costi aiutarlo e trovare una soluzione. A dire la verità, tutta quella gentilezza da parte sua lo irritava, sicuramente non era rivolta a lui: era così disponibile solo perché era nipote di Cesare. Nessuno voleva mai davvero il suo bene. Veniva solo usato per altri scopi.

- E va bene, ti lascio andare. - Arthur sembrava sinceramente infastidito da quella conclusione. - Ma non esitare a metterti in contatto con me se avessi bisogno di aiuto o se dovessi cambiare idea. Immagino tu sappia già come fare.

Romano annuì ed uscì dalla stanzetta senza degnare nessuno di un singolo sguardo.

Prima di chiudersi la porta alle spalle, sentì la voce di Arthur. - Alfred, nel mio ufficio.

 

 

 

Appena sentì la porta chiudersi dietro di sé, Arthur si voltò con la fronte aggrottata e le braccia conserte e appoggiò la schiena alla scrivania

- Non ti permettere mai più di interrompermi mentre trattengo una conversazione, in particolare con un nuovo mutante.

Alfred si teneva a qualche metro di distanza con lo sguardo basso. In realtà Arthur sapeva perfettamente che non vedeva l'ora di poter ribattere a tono e discutere. Sin da piccolo era sempre stato un ragazzo irrequieto che non prendeva ordini da nessuno, ma nell'ultimo periodo sembrava essere molto più in competizione con l’inglese.

- Come credi che io possa mantenere la mia autorevolezza se ho costantemente qualcuno che mi interrompe o mette in dubbio le mie decisioni? - proseguì Arthur, impassibile. - Senza contare il fatto che non c'era alcun bisogno di rivolgersi in modo così aggressivo verso Romano Vargas.

- Non c'era bisogno?! - sbottò Alfred. - Arthur, ha mandato a monte il nostro piano! Abbiamo rischiato di farci scoprire o catturare! O peggio, uccidere!

- Lo capisco, ma non poteva saperlo. - tentò in tutti i modi di non alzare la voce, non era nel suo stile. Ma con Alfred era davvero difficile. - Voleva soltanto salvare suo fratello.

- Come me, non ti pare? - Alfred fece qualche passo in avanti. - O forse ti sei dimenticato che Matthew è stato catturato e rinchiuso in quella prigione perché ha seguito ciecamente il tuo piano?

Ecco dove voleva andare a parare.

- Alfred, sai già come mi sono sentito per tuo fratello. - Arthur aveva sempre cercato di evitare quella conversazione. Pensare di aver perso un ragazzo (e non uno qualunque) per un suo errore lo faceva imbestialire, non gli serviva sicuramente che il gemello glielo ricordasse ogni volta che si innervosiva. - Matthew era abile, mi aveva assicurato che avrebbe fatto attenzione, io mi sono fidato, non potevo sapere che sarebbe finita così...

- Sono tutte scuse! - tuonò Alfred. - La verità è che non ci hai provato abbastanza. Volevi più informazioni e così hai usato il mutante più indicato, ma sapevi che sarebbe finita male, sapevi che la sorveglianza era aumentata, sapevi e non hai fatto nulla per impedirlo!

Ormai Alfred si era avvicinato a pochi centimetri dal viso di Arthur. Sfruttando la differenza di altezza, fissava l'inglese dall'alto in basso con gli occhi lucidi per la rabbia e il dolore. Dall'agitazione aveva spiegato le ali, circondando completamente Arthur ai lati con i suoi due metri e mezzo di apertura alare. L'unica cosa che Arthur voleva fare in quel momento era fuggire dalla verità, ma era bloccato dalla scrivania che gli premeva sulla schiena. Per la prima volta non riuscì a guardare Alfred negli occhi.

- Alfred, devi credermi. - Balbettò, scuotendo il capo. Imprecò mentalmente per quella scena pietosa. Era più maturo e più preparato di Alfred, eppure in quel momento si sentiva come un bambino che aveva appena distrutto un vaso prezioso di famiglia. - Ho mandato Matthew solo perché me l'ha chiesto lui. Se avessi potuto, glielo avrei impedito, davvero.

Il ragazzo inclinò leggermente il capo, assottigliando lo sguardo. - Beh, ci vorranno più che delle semplici parole per convincermi. E preferirei che mi guardassi quando mi dici la verità. Io voglio continuare a fidarmi del mio leader, Arthur.

Con riluttanza e con il cuore che batteva forte per l'agitazione, Arthur incrociò il suo sguardo con quello di Alfred. Senza dubbio quella visione di sé doveva risultare penosa agli occhi del diciottenne. Alfred aveva sempre guardato con ammirazione l'inglese, non l'aveva mai fronteggiato direttamente, quella situazione era del tutto nuova per tutti e due. Tuttavia, Arthur si sforzò di mantenere un tono deciso. - Matthew si è offerto volontariamente di compiere quell'impresa. Era sicuro che avrebbe avuto successo. Come uno sciocco, l’ho lasciato andare. E io mi sento tremendamente in colpa per questo, credimi. Non ti mentirei mai, Alfred.

Per attimi che sembrarono ore, Alfred non tolse il suo sguardo corrucciato dagli occhi affranti  dell'inglese. Solo quando ebbe appurato che stesse davvero dicendo la verità, ripiegò le ali.

- So che non lo faresti, sei troppo buono per potermi mentire. - sospirò per poi dare dei colpetti alla spalla di Arthur. - Scusa se ho reagito trasportato dalla rabbia, ero nervoso... Vado a farmi un giro.

Si voltò e si avviò verso l'uscita.

- Alfred. - lo richiamò l'inglese.

Il ragazzo si voltò con la mano ancora sul pomello della porta.

- Sono felice che siate tornati sani e salvi, oggi. - Arthur si accarezzò un braccio, a disagio. - Sei stato bravo, hai agito temerariamente e hai salvato la vita a un mutante.

Non sapeva cosa volesse ottenere di preciso, ma era sincero. Era davvero fiero di lui, aveva agito in modo responsabile. Stava diventando più maturo, dopotutto.

Proprio quando pensava che lo avrebbe mandato a quel paese, Alfred sorrise e le guance gli si colorarono lievemente di rosso. - Sono un eroe, ho solo svolto il mio dovere!

Detto questo, uscì e si chiuse la porta alle spalle, mentre Arthur si faceva sfuggire una risata, rilasciando tutta la tensione accumulata.

 

 

 

3 febbraio 1985, fortezza di Westbrook, Maine, USA

 

Le giornate nella fortezza erano estremamente monotone. Ma d'altronde, cosa si sarebbe dovuto aspettare da una prigione?

Negli ultimi giorni Feliciano aveva passato molto più tempo insieme a Matthew. Durante la pausa in giardino si raccontavano le vicende passate con i propri fratelli e proseguivano anche una volta in cella, se le guardie lo permettevano.

Kiku invece si era sempre più chiuso in se stesso. Non voleva mai partecipare alle conversazioni, nonostante i numerosi inviti di Feliciano, e a malapena mangiava. Preferiva dare i suoi avanzi ai fratellini. Un gesto splendido, se non fosse che in questo modo stava perdendo peso a vista d'occhio.

Feliciano temette che la condizione in cui il corpo di Francis si era ridotto lo avesse traumatizzato a un punto tale da voler diventare più debole per non essere usato come cavia.

In fondo, Feliciano poteva capirlo, anche se non aveva grandi poteri come i suoi. Essere diversi in una società che non ti accetta, è estremamente stressante e faticoso, figuriamoci essere un mutante con un potere tanto potente a soli quindici anni. E come se non bastasse, era stato catturato e rinchiuso in una prigione in cui non gli rimaneva altro che attendere il verdetto finale. Doveva essere terrorizzato.

Feliciano avrebbe voluto confortarlo, ma non riusciva a parlargli. Ogni volta che ci provava, Kiku lo ignorava.

Quel giorno, Kiku sembrava particolarmente inquieto, forse alimentato dal fatto che Francis non si era ancora svegliato dal suo “coma volontario”. In quei quattro giorni il suo corpo si era rinvigorito e le ferite erano sparite come per magia, ma non si svegliava, dunque non doveva essersi del tutto ripreso. E questo voleva dire solo una cosa: se al laboratorio avessero avuto bisogno di una cavia, avrebbero preso chiunque altro, in particolare i mutanti più potenti, fornitori numero uno della maggior quantità di energia. E Kiku rientrava in quella categoria.

Proprio in quel momento la porta del corridoio si spalancò e Kiku ebbe un fremito da sotto le coperte. Anche a Feliciano mancò un battito: era sempre difficile capire per quale motivo i soldati entrassero nella zona delle celle.

Poi una voce in mezzo al corridoio, alla destra di Feliciano, tuonò. - Gruppo delle 15:30. Mutanti Elizabeta Hédervàry, Michelle Payet e Feliciano Vargas.

L'italiano trasse un sospiro di sollievo: erano solo i turni della doccia. Il soldato che aveva parlato andò ad aprire prima una cella poco lontana e poi quella di Feliciano.

L'uomo indicò la porta dall'altro lato del corridoio. - Uscite da lì, la vostra guardia vi sta aspettando. - girò i tacchi e ritornò da dove era venuto.

I tre prigionieri si avviarono. Feliciano lanciò uno sguardo alle sue due compagne: aveva rivolto loro la parola svariate volte. Michelle era una bambina sugli undici anni delle Seychelles dalla pelle ambrata e i capelli neri legati in due code, categorizzata come mutante di Livello Epsilon, mutanti con nessun potere particolare, ma che non potevano confondersi tra gli umani. Difatti, Michelle sarebbe anche passata per una normale ragazzina delle medie, se non fosse che le sue braccia, le caviglie e gli zigomi erano ricoperti da squame dai riflessi azzurri, come quelle di un pesce. Al loro primo incontro la ragazzina gli aveva rivelato di possedere la capacità di respirare sott'acqua e di saper parlare con gli animali marini. Feliciano pensò che fosse un potere piuttosto divertente, ma non osò dirglielo, non sapeva come l'avrebbe presa. Elizabeta invece sembrava una vera e propria ninfa dei boschi: era una bella donna formosa dai lunghi capelli castani ondulati e un'espressione del viso gentile e premurosa. Era una mutante di Livello Gamma. Come Michelle, non sarebbe mai stata scambiata per un'umana qualunque: la pelle chiara prendeva sfumature verdastre e rosee, come il gambo e i petali dei fiori, aveva le orecchie a punta e gli occhi svegli e brillanti. Ma, al contrario della ragazzina, possedeva dei poteri considerati pericolosi dall’esercito, poteva infatti controllare ogni forma vegetale, dai fili d’erba alle radici degli alberi. Diceva che spesso, senza il collare, dal suo corpo spuntavano fiori e germogli quando provava forti emozioni, specialmente tra i capelli. Scherzava su quanto fosse una seccatura doverli togliere dopo una notte di incubi. Era una driade arrivata direttamente dalla mitologia greca, Feliciano ne era sicuro.

Elizabeta teneva per mano la bambina: condividevano la cella e la più grande si era ripromessa di non lasciare mai Michelle da sola. A essere sinceri, anche l'italiano avrebbe voluto qualcuno nella fortezza che tenesse a lui come Elizabeta teneva alla piccola.

Ad aspettarli al di là della porta, all'ingresso dei bagni, c'era un soldato che Feliciano aveva già conosciuto. Non seppe se rallegrarsi o meno. - Ludwig?

L'interpellato strabuzzò gli occhi nel sentire il suo nome. Quando realizzò chi lo avesse chiamato, ritornò con la sua solita espressione dura. - Gradirei che non mi si chiamasse per nome mentre sono in servizio. Specialmente da un mutante, non si addice molto al tuo status, senza contare il fatto che gli altri soldati potrebbero innervosirsi e prendersela con te, non credi?

Feliciano storse la bocca, grattandosi la testa dall’imbarazzo. - Hai ragione, scusa.

Nonostante la faccia torva, Ludwig non sembrava uguale agli altri soldati che disprezzavano profondamente i mutanti e li trattavano come spazzatura, nascondeva qualcosa dietro a quella maschera di ghiaccio. Per questo motivo Feliciano si era interessato e non aveva fatto altro che pensare a lui nell'ultima settimana. Voleva capire che cosa passasse per la sua testa, il motivo per cui lavorasse in quella fortezza nonostante non avesse alcun interesse nello studio o nel contenimento dei mutanti.

Ludwig indicò una porta. - Hédervàry, conosci già il procedimento. Non c'è bisogno che ti debba ripetere i rischi che comporterebbero un tuo eventuale atto di insubordinazione, giusto?

La donna sorrise ironicamente. - Certo che no. E poi, dovrei essere una stupida a voler tentare di fuggire da una fortezza pullulante di guardie armate. - si trascinò dietro Michelle ed entrarono nel bagno riservato alle donne.

- Tu, da questa parte. - il soldato indicò con il dito un'altra porta, quella per il bagno degli uomini.

Feliciano la spalancò trotterellando dentro, felice di avere finalmente la possibilità di darsi una sciacquata. Ma proprio quando fu sul punto di togliersi la maglia bianca, si accorse che anche Ludwig era entrato nel bagno e lo fissava con occhi duri ed inespressivi.

- Ehm... Scusami, ma non merito anche io un po' di privacy?

- Con Elizabeta posso chiudere un occhio, si è conquistata la mia fiducia negli scorsi cinque mesi, per questo non ritengo necessario che venga controllata. - rispose senza battere ciglio. - Ma, secondo il regolamento, devo sorvegliare ogni mossa del prigioniero a me assegnato (tu in questo malaugurato caso) nell'eventualità in cui volesse ideare un piano per fuggire.

- Ma io non voglio ideare un piano per fuggire. - borbottò Feliciano.

- Immagino, ma sono le regole.

L'italiano aggrottò la fronte, perplesso. Sperava di poter avere qualche momento per se stesso almeno sotto la doccia. Ne aveva bisogno, in quella fortezza era costantemente osservato e non aveva avuto neanche un attimo di intimità.

Probabilmente Ludwig notò il malessere del mutante. - Ma... Se ti mette così tanto a disagio, posso voltarmi. Devi solo promettermi che non farai niente di stupido o sospetto o sarò obbligato a procedere con le maniere forti. Hai cinque minuti.

Feliciano sorrise raggiante. - Tutto chiaro e cristallino, non farò nulla di sospetto!

Ludwig annuì e si voltò verso la porta, dando il tempo a Feliciano di togliersi i vestiti e riporli su uno sgabello. Dopodiché entrò dentro la doccia e si chiuse alle spalle lo sportello che dava la possibilità di coprire almeno la parte inferiore del corpo. L'aria che fuoriusciva dallo scarico puzzava di fogna, ma non appena sentì l'acqua sul viso si sentì come rinato e ignorò l'odore.

- Non sapevo lasciaste che i prigionieri usufruissero dell'acqua calda! - urlò, per farsi sentire.

- A dir la verità non è per compassione o per farvi un piacere. - sentì la voce di Ludwig a malapena, coperta dallo scrosciare dell'acqua. - È per far sì che vi adattiate al caldo, così che se provaste a fuggire, non riuscireste ad abituarvi alle temperature glaciali del Maine in tempo prima di essere presi di nuovo o uccisi.

Feliciano rabbrividì, pentendosi di aver fatto quell'osservazione. - Davvero rassicurante.

Mentre si lavava, poté già notare gli effetti della sua prigionia: nonostante consumasse tre pasti al giorno, era dimagrito. Era sempre stato di corporatura minuta, ma in quel momento capì che la permanenza in quel posto l'avrebbe ridotto a uno scheletro: le costole erano già ben visibili e anche quel tanto di grasso che aveva era scomparso. E non era stato rimpiazzato da alcun muscolo, si sentiva debole. Ovviamente il collare che lo espropriava dei poteri non faceva altro che peggiorare la situazione. Si sentiva privato di una parte di sé e inevitabilmente questo lo lasciava senza forze.

I cinque minuti volarono, dandogli a malapena il tempo di insaponarsi completamente, e il getto d'acqua si spense in automatico. Diede un'occhiata fuori e notò che Ludwig gli aveva lasciato un asciugamano bianco appeso ad un gancio. Lo prese, si asciugò velocemente il corpo e poi se lo legò alla vita. Il soldato era ancora voltato e questo fece scappare un sorriso a Feliciano: in fondo, era stato fortunato ad avere lui come supervisore e non qualche altro militare, dubitava ci sarebbe stato qualcuno così rispettoso della sua privacy. Forse solo quell'altro che non aveva più rivisto, Antonio. Si domandò cosa gli fosse successo e perché non si fossero più incontrati.

Era talmente preso dai propri pensieri, che, uscendo, non notò quanta acqua si fosse riversata fuori dalla doccia. All'improvviso appoggiò male un piede, che slittò in avanti, facendogli perdere l'equilibrio.  Il cuore mancò di un battito e, mentre cadeva all'indietro, l'unica cosa che riuscì a pensare fu “Sono un idiota”.

Si aspettò di sentire dolore alla schiena, di battere la testa e magari finirci secco, ma non accadde. Al contrario, percepì un braccio sotto la sua schiena, prevenendo la sua caduta sul pavimento.

Gli ci volle qualche attimo per riprendersi dallo spavento iniziale. Strizzò gli occhi e quando li riaprì, Ludwig era inginocchiato di fianco a lui e lo guardava, tenendolo saldamente tra le sue braccia. - Tutto bene? - gli chiese con la sua voce grave.

Feliciano si guardò intorno. Era seduto sul pavimento bagnato, sostenuto dal braccio del soldato. Sentiva il respiro caldo di Ludwig sulla sua fronte. L'orecchio era talmente vicino al suo petto, che poteva percepire il battito regolare del suo cuore nonostante l'uniforme. Solo in quel momento si accorse della mano destra del soldato appoggiata al suo fianco umido e arrossì.

- G-grazie. - balbettò in imbarazzo. - Sto bene, non mi sono fatto male.

Probabilmente anche il soldato si accorse solo in quel momento della posizione in cui si trovavano e vide le sue orecchie tingersi di rosso. Feliciano pensò che fosse carina come reazione e trattenne una risata: quindi anche il soldato più inespressivo della fortezza sapeva provare emozioni.

Ludwig si tirò su, aiutando il ragazzo ad alzarsi. - Ehm... Ora rivestiti, devo riportarvi nella cella. - e uscì dal bagno. Probabilmente dall'agitazione si era dimenticato del fatto che avrebbe dovuto “sorvegliarlo in ogni sua mossa”.

Feliciano ridacchiò e si rivestì alla svelta. Una volta uscito, si unì al gruppo che lo stava aspettando. Le ragazze avevano ancora i capelli umidi, a quanto pare non erano presenti degli asciugacapelli nei bagni. Si girò verso Ludwig, ma quello voltò lo sguardo dall'altro lato con un'espressione imbarazzata sul viso. Feliciano rischiò davvero di scoppiare a ridere, ma si contenne, non sapeva come avrebbe reagito e in più non gli sembrava giusto, lo aveva appena salvato da un'ipotetica fine pietosa e molto poco memorabile.

- Andiamo. - disse Ludwig, spalancando la porta per il corridoio delle celle.

Ma in quel momento, ogni briciolo di felicità che aveva provato svanì.

Appena entrati nella stanza, si levò un grido disperato. Feliciano inorridì alla scena che si presentò davanti ai suoi occhi: due soldati alti e robusti cercavano di tirare su per le braccia Kiku, il quale invece si dimenava e urlava di lasciarlo andare, il tutto accompagnato dalle vocine dei fratellini che gridavano il suo nome. Un terzo soldato dai capelli rossi, un colonnello, recitava annoiato qualcosa scritto su un bigliettino che stringeva tra le dita, ma le sue parole si perdevano in mezzo a quella confusione. - Kiku Wang, mutante di Livello Omega, tramite esami accurati, sei stato scelto come soggetto più indicato per gli esperimenti dell'esercito federale degli Stati Uniti d'America al fine di contribuire alla creazione di una cura che possa prevenire una volta per tutte la diffusione del Gene X, ossia la causa del mutamento genetico di numerosi esseri umani sulla terra. - Il soldato alzò gli occhi verdi al cielo, noncurante delle grida del ragazzo. - Non opporre resistenza o saremo costretti a sedarti.

Le minacce non servirono a nulla, Kiku continuò a resistere. Piangeva e sul suo volto era dipinta un'espressione di puro terrore. Ogni volta che uno dei due soldati lo prendeva per un braccio, Kiku gli mordeva la mano e se provavano ad afferrarlo per le gambe, tirava calci disperati.

Quando Feliciano si riprese dallo shock iniziale, cominciò a strattonare Ludwig per la manica. - Fermali! - implorò con le lacrime agli occhi.

- Non posso, quell'uomo è un mio superiore e prende ordini direttamente dai dirigenti del laboratorio e dal generale. Io non ho potere in quel campo. - nemmeno Ludwig sembrava felice della scena a cui stavano assistendo, tanto da tenere lo sguardo basso.

Feliciano emise un gemito. Non potevano portarlo in laboratorio, non potevano essere così insensibili alle sue suppliche!

- Kiku Wang, ti sto avvertendo una seconda volta. - continuò il soldato dai capelli rossi con aria seccata, per niente toccato emotivamente dalla scena. - Dovremo sedarti se non vieni con noi pacificamente.

Ma non era più una minaccia. Fece un cenno a uno dei due uomini, che smise di contrastare Kiku e tirò fuori dalla tasca dei pantaloni una siringa. Intanto una guardia delle celle era intervenuta per tenere fermi i due bambini.

- Allistor! - gridò la voce di Matthew dalla sua cella - Non potete farlo, è troppo giovane, non sapete che conseguenze potranno esserci!

- Zitto! - ringhiò il soldato, dando un calcio alle sbarre della cella di Matthew. Il frastuono riuscì persino a sovrastare le grida dei fratelli Wang. Poi sul suo viso si disegnò un sorriso malsano, gli occhi verdi crudeli come quelli di un serpente luccicarono di malvagità. - O forse vuoi offrirti ancora una volta come volontario? Dopotutto, non ci hai rivelato tutti i segreti dei rivoluzionari, o sbaglio?

Matthew fronteggiò il suo sguardo, senza però proferire parola. La paura e il ricordo lo tenevano incollato al terreno.

Feliciano voleva fare qualcosa. Anzi, sapeva cosa doveva fare, ma era terrorizzato. Le parole non uscivano, il corpo non si muoveva. Come a rallentatore, vide il soldato togliere il tappo dalla siringa e conficcarla nel braccio di Kiku, il quale emise un ultimo grido irato, prima di crollare a terra, semi cosciente.

Quello fu il culmine. Non poteva aspettare, non poteva permettere che un ragazzo così giovane venisse usato da degli scienziati senza cuore per le loro azioni vili e orribili. E le parole gli uscirono spontanee. - ANDRÒ IO! - urlò, avanzando verso i soldati.

Ludwig, ripresosi dallo stupore iniziale, tentò di afferrargli il braccio. - Cosa fai?! Rimani qui!

Ma Feliciano lo ignorò e continuò a camminare. Il cuore pareva volergli spaccare il petto da quanto batteva forte per la paura, ma non si sarebbe fermato. Mai.

- Feli-... - mormorò Kiku, mezzo svenuto tra le braccia di uno dei soldati.

- Feliciano, non farlo! Sarà troppo doloroso da sopportare anche per te! - gli gridò Matthew da dietro le sbarre, ma l'italiano non gli diede attenzioni.

La guardia dai capelli rossi lo squadrò con sguardo sprezzante. - E tu chi saresti?

- Mi chiamo Feliciano Vargas e voglio offrirmi per l'esperimento al posto di quel mutante. - con suo stupore, la voce non vacillò. Ma tutto il suo corpo stava tremando e avrebbe tanto voluto darsela a gambe. Ma non lo fece. Sostenne lo sguardo perforante del soldato.

Quello sembrò rifletterci su. Guardò il biglietto che aveva in mano e poi lo accartocciò. - Molto bene, abbiamo un mutante tanto temerario quanto stupido! - esclamò e poi indicò Kiku, il quale ormai aveva completamente perso i sensi. - Potete rimettere dentro la sua cella quella lagna. Al laboratorio non saranno molto felici, ma, insomma, un mutante vale l'altro.

I due soldati annuirono, sollevarono Kiku e lo riposero su uno dei letti della loro cella, tra i singhiozzi dei suoi fratellini.

- Allora vieni pure, Feliciano Vargas. - scandì il soldato chiamato Allistor con fare da superiore. - Immagino non ci sarà bisogno di sedare anche te, non è vero?

L'italiano non gli rispose e si incamminò insieme ai soldati.

- Voglio venire anche io. - Feliciano si bloccò, sentendo la voce di Ludwig.

Il soldato dai capelli rossi alzò il sopracciglio folto e scuro, innervosito. - E perché vorresti, Beilshmidt?

- Sono stato assegnato alla custodia di questo mutante, non mi sembra sia scritto da nessuna parte che io non possa assistere. Specialmente io. Capisci cosa intendo, giusto?

L'espressione di Allistor era indecifrabile. Con quegli occhi da serpe, sembrava quasi che volesse saltare al collo di Ludwig e mozzarglielo. Invece, sbuffò e si incamminò verso l'uscita. - Fai quello che ti pare.

Feliciano tentò di rivolgere la parola al biondo, ma i due soldati lo afferrarono per le braccia e lo costrinsero a camminare, seguiti da Ludwig. Voltò la testa indietro e vide una guardia che richiudeva la cella numero 34 e un'altra che riportava Elizabeta e Michelle nella loro cella. Forse se lo immaginò, ma gli sembrò di vedere Ludwig voltarsi verso una delle prime celle e parlare a bassa voce con un prigioniero, ma prima di poter capire se fosse davvero così, i due soldati lo trascinarono dietro l'angolo, diretti verso il laboratorio.




Spazio dell'Autrice
Salve a tutti Hetalians!!!
Questo è probabilmente uno dei miei capitoli preferiti per ora! Mi sono divertita un mondo a scrivere tutta la parte iniziale con Alfred e Roderich che bisticciano, Romano e la sua lingua lunga e poi la piccola scena di tensione tra Arthur e Alfred! Ma la mia preferita in assoluto è tutta la parte dedicata a quei due sciocchini di Feli e Ludwig T^T Staranno già nascendo dei sentimenti? Chi lo sa! So solo che il prossimo capitolo sarà un punto di svolta per Feliciano e per il suo rapporto con Ludwig e la fortezza. Ne passerà tante dentro quel laboratorio.
VOGLIO SCUSARMI per aver saltato la scorsa domenica. Purtroppo vi avevo avvertito che maggio sarebbe stato un incubo per me con tutti gli esami che devo dare. Tra l'altro quello che ho dato questa settimana è andato male, quindi sono un po' giù T_T ... Spero che a voi invece stia andando tutto bene!
Fatemi pure sapere se il capitolo vi è piaciuto e noi ci rivediamo la prossima domenica!!
Byeeeeee <3

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


Capitolo 5

 

3 febbraio 1985, laboratorio della fortezza, Maine, USA

 

L'eco dei passi dei soldati risuonava nel silenzio del corridoio del laboratorio.

Il bianco monotono delle pareti e delle piastrelle stava cominciando a dare la nausea a Feliciano, che a stento riusciva a sostenere l'andatura veloce degli uomini che lo trascinavano.

Aveva tante domande per la testa: Che cosa gli avrebbero fatto? Quanto sarebbe stato lì? Sarebbe sopravvissuto? Avrebbe rivisto suo fratello?

Ogni volta che chiedeva spiegazioni, veniva zittito o strattonato. Il soldato dai capelli ramati, che intuì fosse un colonnello per via della targhetta di metallo che portava sulla divisa, spesso gli rivolgeva occhiate ostili, per niente rassicuranti. Non sentiva nemmeno i passi di Ludwig dietro di loro, sperò solo che non avesse deciso di rimanere fuori dal laboratorio, avrebbe preferito avere una presenza amica, sempre se si potesse chiamare tale.

All'improvviso gli ritornarono in mente le parole e l'espressione terrorizzata di Matthew. “Non ho resistito neanche mezza giornata”. Feliciano non era forte come lui. Se fosse arrivato al limite delle forze, si sarebbero fermati? O avrebbero continuato gli esperimenti incuranti delle sue suppliche, come avevano fatto con Francis? E se, così facendo, il suo corpo avesse ceduto? E se avessero scoperto di suo...

“Feli, mi raccomando, non devi uscire per nessun motivo, hanno aumentato i controlli in città”. Suo fratello Romano lo fissava con sguardo severo sulla soglia del loro appartamentino a Manhattan. Le mani dentro le tasche della giacca scura, la sciarpa di lana avvolta intorno al collo per proteggersi dal vento pungente di quel giorno, gli scarponcini ancora umidi per via della nevicata abbondante di quella stessa mattina. Ma l'espressione seria di Romano non durò molto e si trasformò in un caldo sorriso, che serbava solo a pochi, in particolare al suo fratellino. “Se avanzano soldi, ti compro un cornetto alla crema, va bene?”

Quello era l'ultimo ricordo che aveva del viso di suo fratello maggiore. Se solo lo avesse ascoltato, se solo non avesse fatto di testa sua come al solito, adesso non sarebbe in una fortezza anti-mutanti, pronto a essere usato come cavia da laboratorio. Voleva riabbracciarlo, voleva potergli stare vicino, dirgli quanto gli dispiacesse per avergli disubbidito e quanto gli volesse bene. Non voleva morire lì dentro.

Cominciò a sudare freddo.

Il colonnello si fermò di fronte ad una porta. - Siamo arrivati. Ti consiglio di non fare mosse azzardate con questo esaminatore, non gradirebbe e potrebbe finire molto male per te.

Feliciano non ci vide più. Si divincolò dalla morsa dei soldati e si accucciò a terra, nascondendo la testa tra le braccia. - Non voglio! Non voglio morire!

Allistor fece una smorfia di disapprovazione. - Alzati subito, lurido mutante. E non lo ripeterò un'altra volta. - Indicò l'italiano con un cenno della testa, ordinando agli altri due soldati di sollevarlo.

Feliciano oppose resistenza più che poté, mentre gli occhi gli si riempivano di lacrime. Il cuore batteva all'impazzata. Tremava come un cane sotto la pioggia e gli mancava l'aria. Il coraggio che aveva trovato qualche attimo prima era scemato del tutto.

- Sei il secondo mutante di questa inutile giornata che ignora i miei ordini. - Il colonnello avanzò e la sua ombra sovrastò il corpo accovacciato di Feliciano. Sfilò dalla sua cintura una frusta di cuoio nero e sollevò il braccio. Gli occhi verdi si illuminarono di una luce crudele. - Non posso permettere un tale atteggiamento da uno come te.

- Allistor! - la voce imperiosa di Ludwig risuonò per tutto il corridoio e Allistor bloccò il braccio a mezz'aria. - Me ne occupo io. Con la violenza non risolverai nulla, è terrorizzato.

I loro sguardi si scontrarono in un duello silenzioso carico di tensione.

- Come dici? - sibilò Allistor, socchiudendo gli occhi da serpe.

- Non faresti che peggiorare la situazione. - Ludwig sostenne il suo sguardo senza batter ciglio. - Per di più, lo indeboliresti troppo e sai benissimo che sarebbe un problema. Avanti, posa l'arma.

Il rosso digrignò i denti, seccato di dover dare ragione al suo sottoposto, e con un ringhio abbassò la frusta, facendola schioccare sul pavimento.

Ludwig si fece largo tra gli altri due soldati e si inginocchiò accanto al ragazzo. - Feliciano, mi senti? - non ottenne nessuna risposta, il viso dell'italiano era ancora coperto tra le braccia. Con esitazione, il soldato appoggiò una mano sulla sua schiena tremante. Lanciò un veloce sguardo ai suoi compagni. Allistor lo fissava, battendo il piede sul pavimento con un'espressione eloquente: dovevano muoversi. Il biondo sospirò e si piegò in avanti per far sì che Feliciano lo sentisse meglio. I suoi capelli erano ancora bagnati e profumavano di bagnoschiuma. - So che sei spaventato, ma ormai siamo qui e non possiamo tornare indietro. Ti prometto che non verrai ucciso. Io sarò dentro la stanza per tutto il tempo, farò in modo che non vadano oltre il limite consentito. Ti fidi di me, vero?

Il respiro di Feliciano si fece meno affannoso man mano che Ludwig continuava a parlare. La sua voce grave gli infondeva calma e tranquillità. Smise di tremare e trovò la forza di alzare lo sguardo, incrociando quello fermo e serio del soldato. - P-prometti di non andare mai via?

Ludwig sgranò appena gli occhi, sorpreso da quella domanda. - Promesso. - vide con la coda dell'occhio Allistor che alzava gli occhi al cielo, scuotendo la testa. - Ma adesso dobbiamo andare. - Afferrò le mani fredde di Feliciano e lo aiutò a rimettersi in piedi.

Allistor gli lanciò l'ultimo sguardo carico di disprezzo prima di aprire la porta ed entrare nella stanza.

- Oh! Finalmente siete qui, temevo vi foste persi come degli incapaci.

Fu un uomo con un camice da laboratorio a parlare. Si avvicinò al gruppo con un sorriso inquietante stampato sul viso. Risaltavano all'occhio i capelli tagliati corti, talmente chiari che tendevano al bianco. Gli occhi violacei brillavano di gioia, ma non per questo la sua figura incuteva meno terrore. Era probabilmente alto due metri, con le spalle larghe il triplo di Feliciano. Dietro di lui, un ragazzo dai capelli castani si mangiava le unghie di una mano, stringendo una cartella di plastica contenente dei documenti con l'altra. Rispetto al primo scienziato, probabilmente il suo superiore, sembrava un bambino, complice anche il camice che gli andava largo. Gli occhi blu, timorosi, si spostavano velocemente da Feliciano allo scienziato. Lesse il nome scritto sulla targhetta del grembiule: Raivis Galante.

- Ivan Braginsky... - sibilò Allistor a denti stretti. - Sempre molto spiritoso. Abbiamo avuto dei contrattempi venendo qui.

- Capisco. - rispose l'altro elargendogli un altro sorriso forzato. Poi voltò lo sguardo verso Feliciano e la sua espressione di felicità mutò in confusione. - Non mi sembra molto... cinese.

- Uno dei nostri contrattempi. - disse il rosso, sistemandosi su una sedia a braccia conserte. - Questo è il prigioniero Feliciano Vargas, si è offerto come volontario per i tuoi stupidi esperimenti al posto di Kiku Wang. Non è un mutante di Livello Omega, ma che importanza ha? Uno vale l'altro.

- Ma certo, che importanza ha... - Il sorriso dello scienziato, se possibile, si accentuò ulteriormente. Poi appoggiò con forza le mani sulle spalle di Raivis, il quale sussultò e divenne tutto a un tratto pallido in viso, e lo accompagnò verso l'uscita. - Credo che per oggi non avrò più bisogno di te, vai pure a fare quello che vuoi!

Raivis, se possibile, impallidì ancora di più. - Q-quello c-che voglio? N-ne è proprio s-sicuro, signor Braginsky? - chiese con voce tremante.

- Altrimenti puoi restare qui. - disse Ivan con tono accondiscendente, ma Raivis scosse energicamente il capo e corse via.

Ivan si chiuse la porta alle spalle con un sorriso compiaciuto e si avvicinò a grandi passi a Feliciano. Lo squadrò dalla testa ai piedi con attenzione, facendolo sentire tremendamente a disagio. Poi gli prese il polso tra le dita per sentire il battito cardiaco, mentre con l'altra mano gli controllò le pupille, puntandogli contro una piccola torcia che aveva estratto dalla tasca. Inclinò la testa, riponendola al suo posto, poi gli tastò le costole con entrambe le mani. Feliciano dimenticò come respirare e rabbrividì al tocco pesante dello scienziato.

Quando ebbe finito, Braginsky incrociò le braccia, senza staccare lo sguardo dal prigioniero, come se stesse decidendo se fosse un valido candidato per chissà quale suo esperimento. In particolare venne attratto dal ciuffo arricciato assai inusuale del ragazzo, che sfiorò con la punta delle dita.

- Sembri in salute... - mormorò. - Livello?

- Beta. - intervenne Ludwig.

- Oh! Ci sei pure tu, Ludwig caro. Non ti avevo notato. - esclamò lo scienziato, battendo le mani.

Il soldato schioccò la lingua. - Non siamo amici, Braginsky, non chiamarmi per nome.

L'altro storse le labbra. - Che scontroso. - tornò a concentrarsi su Feliciano. - Bene, direi che il mio piano iniziale salterà, ma questo non vuol dire che non debba sfruttare l'occasione di avere un mutante volontario. - si avviò verso la scrivania ridacchiando. Aprì un raccoglitore rosso e cominciò a sfogliare le numerose pagine. Quando finalmente trovò quella che cercava, prese una penna dal taschino del camice e cominciò a scrivere. - Giorno 03/02/85. Prigioniero Feliciano... Vargas, eh?

Feliciano aggrottò le sopracciglia, confuso. Deglutì un groppo di saliva prima di rispondere. - Sì, è il mio cognome.

Lo scienziato gli rivolse un altro dei suoi sorrisi di accondiscendenza. - Capisco. - finì di scrivere qualcos'altro che non rivelò e poi si alzò. - Il fisico è a posto, ma il tuo livello indica che non sei tanto forte per una prova fisica e neanche troppo resistente per un esperimento vero e proprio... Vada per il prelievo, è probabilmente l'unico a cui potresti sopravvivere. - Gli afferrò un braccio in una morsa solidissima, trascinandolo in fondo alla stanza, in cui dominava una grande capsula di vetro dalla forma cilindrica, collegata a degli enormi macchinari situati alla sua sinistra tramite una ventina di tubi e cavi.

- A-aspetta! - Feliciano piantò i piedi per terra e strattonò il braccio, liberandosi dalla presa dello scienziato sotto gli sguardi stupiti degli altri soldati presenti. - Voglio sapere a cosa sto andando incontro prima di entrare là dentro. Voglio delle spiegazioni su cosa consistono i vostri esperimenti!

Braginsky lo fissò per un tempo interminabile con un'espressione stupita stampata sul volto. Feliciano temette che potesse sfociare in un eccesso di rabbia, come accadeva di solito con molti soldati della fortezza, invece quello si limitò a sorridere.

- E va bene, Vargas. - congiunse le mani e usò il tono più allegro possibile, come se stesse per raccontare una bella fiaba. - Come immagino tu già sappia, in questa base militare miriamo innanzitutto a trovare una cura che possa prevenire la formazione del gene X, causa principale dello sviluppo di abilità e poteri sovrumani in certi soggetti, e debellarlo una volta per tutte. Per fare ciò abbiamo bisogno di effettuare dei prelievi non solo di sangue mutante, ma anche di poteri, di energia proveniente dal mutante stesso. Questo è ciò che farai oggi, caro: donerai alle nostre macchine un po' della tua energia, che verrà registrata nel nostro database e che noi procederemo a studiare in laboratori appositi. Non sarà difficile, credimi. Sei sfuggito per un pelo ai due step successivi. Infatti, per poter creare una cura, non possiamo basarci solamente sullo studio post-operam del gene, sarebbe troppo poco efficace, ma dobbiamo anche analizzarlo mentre è in azione, capisci? I tuoi compagni mutanti vengono sottoposti a vari esperimenti che li costringono a utilizzare i loro poteri e noi studiamo le loro caratteristiche nel mentre. Chissà se hai già conosciuto il nostro miglior candidato, il francese...

- Francis. - a Feliciano mancò un battito.

- Proprio lui! - esclamò contento l'altro. - Quella degli esperimenti è una prova molto stancante, ma fondamentale per noi studiosi, non tutti i mutanti sono adatti, rischierebbero di collassare privi di forze, ma lui è speciale! Il suo potere rigenerativo gli permette di durare anche più giorni, non è magnifico?

- È terrificante. - rabbrividì al solo pensiero.

- Ma non è finita qui. - continuò Ivan, ignorandolo. - Lo studio del gene X ci porta non solo alla creazione di un antidoto, ma anche di armi, perché, sai, ci sono ancora tanti mutanti in circolazione e non tutti sono così gentili e disponibili da farsi trasportare qui pacificamente. Dunque, noi creiamo le armi e le testiamo in una stanza apposita, situata proprio in questo laboratorio. Io la chiamo “palestra”, non suona male, vero? E chi meglio dei mutanti può testare queste armi anti-mutanti? - gli sfuggì una risata piena di gioia.

- Ma è orribile! E pericoloso! Rischiano di...

- Morire? Oh sì, è capitato, ma è raro: per quella prova scegliamo i mutanti più potenti e adatti. E poi stiamo attenti, non possiamo permetterci di perdere dei soggetti così preziosi. In ogni caso, alcuni frutti dei nostri studi li avrai già conosciuti: i proiettili sedativi anti-mutanti, ad esempio. Non sono fatti per uccidere, purtroppo gli esperimenti per creare delle pallottole vere e proprie richiedono tempo, ma piuttosto sono simili ai proiettili di vernice che semplicemente indeboliscono il soggetto che ne è venuto a contatto. Sono una versione meno efficace e di breve durata del collare che indossi adesso, il quale, per la cronaca, ho brevettato io: annulla completamente i poteri del mutante che lo indossa, privandolo delle energie derivanti dal gene X. E infine le Sentinelle, un'altra mia invenzione di cui avrai sicuramente sentito parlare.

- Come dimenticarle... - borbottò Feliciano.

- È tutto chiaro adesso o hai bisogno di interrompermi un'altra volta, togliendo del tempo prezioso alle scienza?

Feliciano non fiatò. Era sconcertato da ciò che gli era appena stato raccontato. Un laboratorio creato appositamente per distruggere un tratto genetico. E i progressi non tardavano ad arrivare. Quella fortezza esisteva solo da cinque anni, le ricerche sul gene erano iniziate ufficialmente intorno al 1975. In soli dieci anni avevano fatto talmente tanti studi da riuscire a creare robot, collari e proiettili sedativi, mentre quelli letali erano in via di brevetto. Per un attimo ebbe le vertigini.

Lo scienziato batté le mani. - Perfetto! Possiamo cominciare la nostra attesissima seduta. - indicò la capsula con fare disinvolto e ritornò alla scrivania. - Prima di entrare, spogliati di tutti i tuoi indumenti, poi potremo toglierti il collare.

Feliciano sgranò gli occhi. - C-come, scusa?

L'uomo prese in mano il raccoglitore e si voltò alzando un sopracciglio. - Non deve esserci alcuna interferenza dentro la capsula, che siano vestiti o accessori. - disse come se fosse la cosa più ovvia del mondo e si avviò verso i macchinari.

- M-ma... C'è troppa gente qui. - gli occhi imbarazzati di Feliciano incrociarono inconsciamente quelli di Ludwig, i quali erano carichi di pietà. - I-io non posso farlo.

- E invece dovrai. - aggiunse Ivan senza neanche degnarlo di uno sguardo, più impegnato ad accendere le varie sezioni della macchina. - Allistor è un mio superiore, non posso ordinargli nulla. Gli uomini con lui devono rimanere per prassi, sono autorizzati a intervenire nel caso tu decidessi di fare qualcosa di altamente stupido come attaccarmi.

- M-ma io non voglio attaccare nessuno! - protestò il ragazzo.

L'altro lo ignorò. - L'unico fuori posto qui è il caro Ludwig. - rivolse al soldato un'occhiata interrogativa. - Immagino che potremo far togliere a lui il collare, così si rende utile. Altrimenti può levarsi di torno, è chiaro, Ludwig?

L'interpellato dovette sforzarsi per non rispondere a tono e Feliciano lo vide stringere i pugni fino a far sbiancare le nocche. - Chiarissimo.

- Bene, ora niente storie o obbligherò quei due soldati a toglierti i vestiti a forza.

Feliciano deglutì. Prese un gran respiro e si voltò verso la capsula, sfilandosi riluttante la maglia bianca. Un brivido gli percorse la spina dorsale. Si sentiva mille sguardi addosso, talmente umiliato, che gli occhi gli si riempirono di lacrime. Lanciò un'occhiata allo scienziato alla sua sinistra, che era ancora impegnato a mettere in funzione tutti i macchinari.

Feliciano si fece forza e si sfilò anche la parte inferiore. Era nudo davanti a cinque estranei. Nudo, indifeso, umiliato, inerme. Avrebbe voluto piangere. Piuttosto la morte.

- Hey. - la voce grave di Ludwig lo risvegliò dai suoi pensieri.

Si guardarono negli occhi. Quelli di Ludwig mandavano un solo messaggio: “Mi dispiace”.

In un certo senso, Feliciano fu grato che ci fosse anche lui, ogni volta che lo guardava o semplicemente gli era vicino, si sentiva al sicuro. La sua fisionomia in certi versi era molto simile a quella dello scienziato russo, ma gli trasmetteva emozioni completamente opposte. Mentre l'enorme stazza di quest'ultimo gli incuteva timore, le larghe spalle di Ludwig sembravano fatte apposta per proteggerlo da quel posto angusto. Gli occhi chiari di Ludwig che prima lo spaventavano tanto, ora li apprezzava, perché sapeva che oltre all'apparenza, erano buoni e docili. Quelli scuri di Ivan, al contrario, ostentavano gentilezza, ma nascondevano crudeltà.

- Feliciano Vargas, - esordì con tono monotono Ivan, come se avesse ripetuto la stessa frase per anni. - Una volta sfilato il collare, non potrai utilizzare alcun potere finché ti troverai al di fuori della capsula o saremo obbligati da ordini superiori a sparare e bla bla bla, hai capito, procediamo.

Ludwig gli lanciò un'occhiata innervosita, ma tirò comunque fuori dalla tasca dei pantaloni una chiave dalla inusuale forma cilindrica. Feliciano sentì la sua mano calda appoggiarsi sul suo collo, mentre con l'altra inseriva la chiave in una fessura del collare posizionata sotto la nuca. Click . L'anello metallico si allargò lentamente e Ludwig poté sfilarlo via dal collo del mutante. In un attimo, Feliciano sentì il proprio corpo rinvigorirsi. L'energia di cui il collare lo privava, stava tornando.

Proprio in quel momento il vetro della capsula si aprì con uno sbuffo, facendolo sobbalzare dallo spavento.

- Entra pure. - continuò Ivan. - Ludwig, sai cosa fare.

Il soldato prese per mano Feliciano e lo aiutò ad entrare dentro la capsula. Una volta dentro, il biondo afferrò vari fili appesi ad un gancio, ognuno con un'estremità sottile e quadrata. - Sono come adesivi. - mormorò Ludwig, intuendo i possibili dubbi del mutante. Attaccò il primo adesivo alla tempia destra di Feliciano, poi a quella sinistra. Sul collo, tre su petto e schiena e quattro per ogni arto.

Quando ebbe finito, Ludwig si allontanò dalla capsula e tornò dall'altra parte della stanza. Il vetro si richiuse, dando immediatamente all'italiano una sensazione di claustrofobia.

Ivan sorrise fiero. - Quei cavi servono per captare ogni scarica di energia emanata dal tuo corpo, sono posizionati nei punti di maggior flusso. - Feliciano sentiva la sua voce ovattata oltre il vetro. - Non preoccuparti se tra qualche attimo ti sentirai un po' debole.

- I-in che senso? - A ogni suo respiro il vetro della capsula si appannava e poteva già a sentire la temperatura alzarsi.

- Una volta acceso il macchinario, quei fili prelevano parte della tua energia per mandarla al nostro database. Sarà come avere indosso il collare, ma più potente. Tu dovrai soltanto utilizzare i tuoi poteri, quindi... Essere te stesso. Buffo, no?

Lo scienziato premette un pulsante e la capsula si mise in funzione, cominciando a produrre un rumore metallico ripetitivo.

Feliciano si osservò il corpo costellato di adesivi a loro volta collegati a fili che scomparivano in varie fessure alla base del cilindro. Non si sentiva diverso, per ora. Lanciò un'occhiata ai presenti. I due uomini che l'avevano trascinato erano intenti a parlare tra di loro. Il comandante Allistor lo fissava con un ghigno stampato sul volto, il che lo fece rabbrividire. Ludwig teneva lo sguardo basso.

- Mh... - Ivan passeggiò lentamente fino a posizionarsi perfettamente davanti a Feliciano. - Non va bene, le onde sono molto deboli. Ho bisogno di stimolare le tue abilità. Proviamo così: la tua cartella dice che puoi leggere nel pensiero. Prova con me.

Feliciano sbiancò. - N-non capisco...

- Ho detto: usa i tuoi poteri su di me. - Ivan incrociò le braccia. - La capsula in teoria dovrebbe frenarli, ma più ci proverai, più manderai impulsi alla macchina e noi raccoglieremo maggiori informazioni. Avanti, concentrati come se dovessi finire dentro la mia testa.

Feliciano deglutì. Se ci avesse provato, il macchinario avrebbe capito che i suoi pensieri sono collegati soltanto a una persona al di fuori della fortezza? Non lo sapeva. Ma se non ci avesse provato, Ivan avrebbe capito che c'era qualcosa sotto e chissà cosa avrebbero potuto fargli in seguito. Lo avrebbero obbligato a confessare i suoi veri poteri, avrebbero scoperto l'esistenza di Romano e lui sarebbe stato ucciso per aver mentito.

Trasse un respiro profondo, doveva provarci. Chiuse gli occhi e pensò all'unica persona con cui potesse comunicare telepaticamente: Romano. Il ciuffo arricciato, che i due fratellini chiamavano scherzosamente “antenna”, ebbe un fremito e da quel preciso istante cominciò l'inferno. All'improvviso si sentì come se gli stessero spremendo la testa con uno schiaccianoci. La colonna vertebrale venne percorsa da una scarica elettrica e i punti in cui erano attaccati gli adesivi cominciarono a bruciare. Sentì come se una parte del suo potere venisse risucchiato da essi.

Feliciano gridò spaventato e cadde in ginocchio, cercando invano di aggrapparsi al vetro. Il dolore si affievolì. - C-che cosa mi sta succedendo? - ansimava e gli arti tremavano di paura.

- Te l'ho detto. - Ivan gli sorrise al di là del vetro. - Ogni volta che userai il tuo potere, parte dell'energia che hai utilizzato verrà risucchiata via dal tuo corpo tramite i fili e registrata in quel macchinario laggiù. - Allungò lo sguardo verso il computer incorporato nella macchina. - Sei stato bravissimo, ma non è una quantità di potere sufficiente per i nostri studi. Mettici un po' più di impegno, altre quattro o cinque volte magari?

Feliciano spalancò le iridi, terrorizzato. Altre... volte? Solo una gli era bastata per sentirsi come se gli stessero bruciando il corpo dall'interno, non avrebbe mai resistito per altre cinque prove. Tentò di deglutire, ma non aveva più saliva in bocca. Con lo sguardo appannato dalle lacrime intravide Allistor, che si accarezzava il mento con fare pensoso, mentre lo squadrava, e Ludwig, il quale era diventato più pallido del solito e la cui fronte era costernata da rughe di preoccupazione. Feliciano si chiese se fosse la prima volta che assisteva a una delle “sedute” dello scienziato.

- Felicianooo... - Lo chiamò in tono canzonatorio Ivan. - Coraggio o dovrò costringerti con una bella scossa.

Il ragazzo fu certo che l'uomo avesse utilizzato l'elettricità anche prima... Si stava prendendo gioco di lui? Scosse il capo per allontanare le domande e si costrinse a continuare senza indugio. Doveva farlo per suo fratello.

Si rimise in piedi, aiutandosi con le mani appoggiate al vetro della capsula, e chiuse gli occhi. Immaginò di dover comunicare con Romano e per figurarselo, si abbandonò ai ricordi.

 

Vide lui e suo fratello ancora bambini che giocavano nei campi di grano intorno alla loro casa di campagna in Toscana. L'odore delle foglie di granturco si insinuava nelle narici del bimbo che correva tra le spighe per sfuggire al fratello maggiore.

- Ti prenderò, brutto mascalzone! Non ruberai mai più il mio oro! - la voce acuta di Romano provocò la risata divertita del piccolo Feliciano. Stringeva nei pugnetti dei chicchi di mais che ogni tanto scivolavano via e rotolavano sul terreno sabbioso: il loro oro.

Poco prima che potesse svoltare a destra per seminare il suo inseguitore, sentì le braccia del fratello serrarsi intorno alla sua vita e sollevarlo da terra. Feliciano gridò dalla sorpresa e prima che potesse sfuggire, Romano si buttò a terra, trascinando il minore con sé. Rotolarono in mezzo alle spighe fino a che l'attrito non li fermò. Le risate dei due bambini riecheggiarono per tutta la campagna toscana.

 

Il dolore acuto di prima tornò a invadere il suo corpo. Sentì come se le sue tempie fossero sul punto di esplodere, gli adesivi sparsi sul busto parevano volessero comprimerglielo e sentì la sua poca energia usata per il collegamento telepatico fluire via attraverso i cavi sparsi sul suo corpo. Gridò sofferente. Il bruciore improvviso derivante dall'adesivo attaccato al collo gli smorzò il fiato per quelli che parvero minuti. Il battito del cuore accelerò pericolosamente, gli arti cominciarono a tremare per l'affaticamento e fu costretto ad inginocchiarsi per non svenire.

Boccheggiò come se fosse appena riemerso fuori dall'acqua alla disperata ricerca di aria. Le lacrime cominciarono a bagnargli il viso contratto dalla fatica e dal dolore. Con gli occhi annacquati a malapena riuscì a scorgere i visi dei presenti, ma capì che gli sguardi di tutti erano puntati su di lui. Annaspò per lungo tempo prima di prendere un'altra grossa boccata d'aria e ricominciare il collegamento. Doveva farcela.

 

Il ricordo di poco prima prese ancora una volta spazio nella sua mente. I due bimbi erano ancora sdraiati a pancia in su uno di fianco all'altro e ridevano divertiti.

Romano scattò a sedere e cominciò a fare il solletico alla pancia di Feliciano. - Adesso molla l'oro, furfante! Ti arresterò nel nome della legge!

Il minore si divincolava stringendo ancora di più i pugni colmi di mais. Quando non seppe più resistere, lanciò in aria tutti i chicchi ridendo.

Romano, dopo la sorpresa iniziale, balzò in piedi e sollevò ancora una volta il fratellino come un sacco di patate, provocando non poca ilarità. - Ho preso il ladro!! - strillò incamminandosi verso la casa. - Papà, ho preso il ladro d'oro!

Man mano che avanzavano verso l'abitazione, Feliciano poté sentire il profumo del pane appena sfornato della mamma. Sulla soglia c'era il padre, un uomo robusto e dai capelli ricci molto scuri, intento a lavorare il grano con la macina a pietra. Sollevò lo sguardo, asciugandosi con la manica il sudore sulla fronte, e salutò i figli con un grande sorriso.

Quando Romano rimise a terra Feliciano, il bimbo scattò dentro casa, puntando dritto verso la cucina. Le manine paffute afferrarono la gonna della madre, intenta ad apparecchiare la tavola. - Mamma, mamma, salvami! - gridò con un sorriso innocente stampato in faccia.

La madre gli sorrise dolcemente, si portò dietro l'orecchio una ciocca di capelli ramati e poi prese in braccio il figlio, baciandogli la guancia arrossata per la corsa.

 

Gli si appannò la vista per la fatica, facendogli vedere macchie nere ovunque. La testa gli girava talmente tanto che vomitò tutto il cibo che aveva nello stomaco.

A malapena sentì la voce ovattata di Ludwig che urlava a Braginsky di fermare l'esperimento.

Non sentì le parole dello scienziato, ma fu certo che volesse che continuasse.

Feliciano aveva il fiato corto, ma ci riprovò. E fu uno sforzo enorme.

 

La scena divenne molto confusa, il dolore non gli permetteva di avere ricordi chiari. Mentre il piccolo Feliciano restava abbracciato alla mamma, sulla soglia comparve suo nonno Cesare con il suo inconfondibile sorriso spavaldo. Alla vista del nonno, Feliciano si rallegrò ancora di più.

Vide le grosse mani del nonno prendergli il visino, muovendo la bocca sorridente intento a rivolgergli parole perse nel tempo.

 

Una fitta acuta di dolore lo colpì dritto al petto, togliendogli il respiro. Si contorse su se stesso, incapace di far nient'altro. Sentì appena la voce preoccupata di Ludwig che urlava “Lo ucciderai!” e quella calma di Ivan che rispondeva “No, può ancora farcela. Mi serve più energia”.

Feliciano ebbe a malapena il tempo di prendere fiato, che una scarica elettrica gli trapassò il corpo all'improvviso. Il dolore fu immenso e senza nemmeno accorgersene, la sua mente fu sbattuta in un altro ricordo.

 

Le grosse mani del nonno serravano il viso bagnato dalla pioggia e dalle lacrime di un Feliciano ancora bambino. Le labbra erano curvate ancora una volta in un sorriso, il quale tuttavia veniva tradito dallo sguardo preoccupato.

- Dovete essere forti, va bene? - gli sembrò di sentire.

Il pavimento di legno ondeggiava: erano su una nave, quella che li avrebbe portati negli Stati Uniti per sfuggire alla cattura in Italia. Com'è ironica la vita...

Si sentì stringere la mano destra e, voltando lo sguardo, vide suo fratello maggiore che singhiozzava. Concentrandosi sul suo viso, gli fluirono davanti come in una pellicola di un film altrettanti ricordi che riguardavano Romano: loro due abbracciati sotto una coperta di lana, sdraiati sul letto dell'appartamentino newyorkese del nonno; poi mentre correvano nei vicoli bui di Hell's Kitchen dopo aver rubato una mela; Romano che gli accarezzava la testa sorridendo, che lo rassicurava quando era giù di morale, che si prendeva cura di lui quando stava male, che gli raccomandava di non uscire dall'edificio...

 

A ogni ricordo, Felicano sentiva come se l'anima lo stesse a poco a poco abbandonando.

Ormai era accovacciato in posizione supina, colto da spasmi, con la bava alla bocca e gli occhi vacui. In una disperata richiesta di aiuto, si aggrappò a un'ultima immagine di Romano, la quale tuttavia non proveniva da alcun ricordo: indossava gli stessi abiti dell'ultimo giorno in cui si erano visti. Era in piedi di fianco a un lampione e guardava in alto con la sua solita aria irritata. I capelli erano mossi dal vento, il naso e le guance si erano arrossate per via del freddo e a ogni suo respiro fuoriusciva una nuvoletta di vapore. All'improvviso, Romano sussultò e si voltò verso di lui con gli occhi sgranati. Fu in quel momento che Feliciano perse i sensi.

 

 

 

 

 

Quella fu probabilmente la cosa più crudele e disgustosa a cui Ludwig avesse mai assistito. Ormai il sole era calato, erano state ore di agonia.

Non riusciva a togliersi le grida di Feliciano dalla mente, le immagini del suo corpo minuto che si contorceva dal dolore, gli sguardi di supplica che gli rivolgeva quando le forze gli permettevano di alzare la testa. Ora invece c'era silenzio. Vide gli occhi di Feliciano capovolgersi mostrando soltanto la sclera poco prima che svenisse.

- Mmh... - sentì la voce pensierosa di Braginsky. - Ancora una volta.

Fu un attimo. A quelle parole, Ludwig scattò in avanti e afferrò il braccio dello scienziato, bloccando il suo dito a qualche centimetro dal pulsante della scarica elettrica.

- Sei impazzito?! - tuonò imperioso, cercando di non far trasparire la preoccupazione nella sua voce. - È appena svenuto, non resisterà ancora! Morirà!

Gli occhi sorridenti di Braginsky lo fronteggiarono senza timore. - Non sei tu lo scienziato, Ludwig. Stai al tuo posto. - un lampo malvagio gli balenò nelle iridi violacee.

Ludwig mollò la presa dal braccio per afferrare il colletto del camice dello scienziato. - Apri subito la capsula, non fare scherzi o giuro che-

- Che baccano. Ludwig, lascia stare il signor Braginsky.

Quella voce gli fece raggelare il sangue. Lui qui? Si affrettò a lasciare il camice e a fare il saluto militare verso il suo interlocutore: suo nonno, Walter Beilschmidt, nonché generale delle forze armate degli Stati Uniti e capo della fortezza anti-mutanti.

Gli occhi severi del nonno si posarono sui suoi e Ludwig dovette sforzarsi per non abbassare lo sguardo, a disagio. I lunghi capelli biondo platino erano legati in una coda composta e gli ricadevano sulla divisa pulita e ordinata. Le mani erano appoggiate sul suo bastone di legno.

Suo nonno fece un passo dentro la stanza e Ludwig potè scommettere che ogni singolo individuo all'interno fosse rabbrividito, persino Allistor, braccio destro del generale. - Non tollero tali atteggiamenti tra i miei soldati e lo sai bene. - Lo ammonì, aggrottando le fini sopracciglia. - Ma d'altronde mio nipote ha ragione, Braginsky, se il soggetto non è più in grado di fornire alcuna energia, è inutile spremerlo fino alla morte, potrebbe essere prezioso. Apri pure la capsula.

Ludwig potè giurare di aver visto Braginsky fare una smorfia, mentre azionava i comandi della macchina. Il vetro della capsula si aprì con uno sbuffo, facendo fuoriuscire del vapore. Feliciano era ancora sdraiato in posizione supina, dalla sua bocca fuoriuscì un mugolo.

- Nome del prigioniero? - chiese Walter disinteressato, come se fosse solo una domanda di cortesia.

Braginsky sorrise nel suo tipico modo inquietante. - Feliciano... Vargas.

Le sopracciglia del generale ebbero un fremito e Ludwig se ne accorse. Suo nonno che si scomponeva per un nome... Lo conosceva?

Una vena di interesse comparve nello sguardo del generale, che si incamminò verso la capsula.

Lo scienziato continuò. - Vent'anni, italiano, abilità principale: telepatia.

Ludwig vide il nonno inginocchiarsi di fronte alla capsula. Feliciano, ancora sdraiato all'interno, sollevò a fatica la testa, cercando di individuare la figura di fronte a lui. Walter afferrò il mento del ragazzo con la mano guantata per osservarlo meglio, incurante dei residui di vomito e saliva scivolati sotto le labbra. Con lo sguardo vacuo e distrutto, probabilmente Feliciano non lo vide nemmeno. Il generale squadrò il viso del mutante con attenzione. Attirato poi dal suo ciuffo ribelle, lo prese tra le dita come se avesse voluto studiarlo.

Ludwig aggrottò le sopracciglia, confuso. Non capiva cosa il nonno stesse vedendo nel ragazzo, ma a lui non importava, stava morendo dalla preoccupazione, Feliciano aveva bisogno di un medico al più presto o sarebbe-...

- Ludwig, occupati tu del mutante. - Il generale lasciò il viso di Feliciano, che ciondolò appesantito, e si alzò in piedi, rivolgendo a ognuno un'occhiata gelida. - Braginsky, il tuo lavoro in questa stanza è concluso, analizza subito i dati raccolti. E Allistor, vieni nel mio ufficio, dobbiamo discutere di alcune questioni. Sospetto che il capo dei rivoluzionari, Arthur Kirkland, stia pianificando un attacco alla fortezza. Tu conosci meglio di me i suoi poteri, dobbiamo contrastarli e fare in modo che non ci arrechi danni. - Si incamminò verso l’uscita, passando di fianco al nipote, ma senza degnarlo di uno sguardo, e scomparve al di là della porta.

Il rosso aveva perso ogni compostezza e si limitò a fare spallucce, con il suo solito ghigno. - Come vuole lei, capo. - ordinò ai due soldati di tornare ai loro compiti e uscirono tutti e tre, seguendo il generale.

Braginsky lavorò qualche attimo al computer, prima di afferrare il suo raccoglitore e avviarsi verso l'uscita. - Ci vediamo, Ludwig. - sorrise divertito e andò nella direzione opposta ai primi quattro.

Quando sentì la porta chiudersi dietro di sé, Ludwig si fiondò davanti alla capsula. - Feliciano! - sollevò delicatamente il suo corpo, prendendolo da sotto le ascelle, e lo trascinò fuori dalla capsula. In qualche modo riuscì a metterlo in ginocchio. Si slacciò il giaccone della divisa e lo mise sulle spalle del ragazzo, talmente piccole che la divisa pareva una coperta.

- I tuoi vestiti, te li porto. - il soldato ispezionò la stanza con lo sguardo fino a che non individuò gli abiti del mutante, appallottolati in un angolo.

Fece per alzarsi, ma venne trattenuto: le mani di Feliciano si aggrapparono debolmente alla sua uniforme, il ragazzo lo guardò con un'espressione disperata. - No! Non andare via! Non lasciarmi, ho paura! - affondò il viso bagnato di lacrime nel petto di Ludwig e cominciò a singhiozzare.

Ludwig spalancò gli occhi per la sorpresa, che poi divenne pura pietà. Piano piano, avvolse le braccia attorno al corpo tremante di Feliciano e lo strinse a sé delicatamente, come se avesse paura di fargli male. Cominciò ad accarezzare i suoi capelli grondanti di sudore. - Va tutto bene, non ti farà più nulla, è finita adesso.

Quello, se possibile, non fece che aggravare il pianto del mutante. Si limitò a rimanere in silenzio e a stringere a sé il corpo esile di Feliciano, in un senso di protezione. Non si mosse fino a che non fu sicuro che Feliciano si fosse addormentato.







Spazio dell'Autrice
Bonjour a todos! Lo so, sono sparita, ma ero incasinata con gli esami, la tesi, il lavoro, teatro, TUTTO e quindi arrivavo distrutta ogni domenica con la voglia di essere produttiva sotto zero.
Però adesso sono qui con il Capitolo 5! Personalmente è uno dei miei preferiti in assoluto, adoro essere sadica con i personaggi muahahah Povero Feliciano, vorrei abbracciarlo (disse dopo averlo fatto soffrire malamente).
Spero possa piacere tanto quanto piaccia a me!
Buona lettura e alla prossima!! <3

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***


Capitolo 6

 

3 febbraio 1985, intorno alle 19:00 a Portland, Maine, USA

 

- Merda... E adesso come faccio?

Romano inspirò. L'aria gelida di quella sera penetrò dentro il naso, solleticandone le narici, fino a raggiungere i polmoni. Profumava di fresco, di una nevicata imminente.

Il suono dei suoi scarponcini vecchi e rovinati che camminavano sul selciato in pietra riecheggiava tra i muri delle case di periferia. Il vento gli pungeva il viso e il collo, entrando attraverso i buchi della sciarpa.

Quando buttò fuori l'aria in uno sbuffo seccato, una nuvoletta di vapore si levò nel cielo notturno.

Almeno le mani erano protette nelle tasche del giubbotto nero, mentre il capo era coperto al meglio dal cappuccio. Odiava l'inverno, in particolare quello gelido degli Stati Uniti: gli ricordava quanto fosse lontano dal clima della sua amata Toscana, dalla casa in cui era cresciuto con il nonno, i suoi genitori e suo fratello minore.

Il ricordo di Feliciano gli fece digrignare i denti. Piantò i piedi per terra, fermandosi di fianco a un lampione, e sollevò lo sguardo corrucciato. Al di là delle palazzine, oltre le cime dei pini della foresta di Westbrook, si stagliava all'orizzonte la Fortezza Anti-Mutanti dove era stato rinchiuso il suo fratellino.

Romano strinse i pugni all'interno delle tasche. Se solo fosse riuscito a trovare un modo per tirarlo fuori da lì, sarebbero potuti fuggire insieme, lontani dall'esercito, lontani da Portland e quindi lontano da... Moreau. Soltanto al pensiero di quel nome il suo corpo fu scosso da un brivido di disgusto e terrore insieme. La mente lo riportò al giorno in cui Feliciano era stato catturato, una settimana prima. Proprio nella stessa strada in cui si trovava in quel momento Romano ebbe il suo primo incontro con l'uomo che lo teneva al guinzaglio, senza alcuna possibilità di fuga.

     

      Romano era di ritorno dal fornaio del loro quartiere. Il profumo del pane e delle focacce fresche all'interno del sacchetto di carta che teneva tra le braccia lo inebriava: gli ricordava casa.

- Quell'ingordo di Feliciano se le mangerà in un sol boccone – borbottò tra sé Romano. - Che non faccia storie per il cornetto al cioccolato! Quelli alla crema erano tutti esauriti.

Non fece nemmeno in tempo a prendere le chiavi dell'edificio dalla tasca del giubbotto che un vento forte proveniente dall'alto gli fece perdere l'equilibrio e per poco non cadde all'indietro.

- Ma che cazzo?! - Il rumore come di un aereo militare gli perforò i timpani. Un'ombra grande quanto un dirigibile lo investì. Romano spalancò gli occhi e inghiottì un groppo di saliva. Non poteva essere...

Con tutto il coraggio che aveva in corpo, si costrinse a sollevare lo sguardo e i suoi dubbi si rivelarono reali: un robot della grandezza di un palazzo a sei piani sorvolava lentamente il quartiere. Proveniva da nord-est.

Romano si fiondò dentro la palazzina e corse sulle scale fino ad arrivare all'ultimo piano. - Feliciano! - gridò saltando l'ultimo gradino e spalancando la porta dell'appartamento. - Feli, c'è una Sentinella! È pericoloso, dobbiamo-

Gli mancò il fiato. Il monolocale era deserto: suo fratello non era lì. - F-Feliciano? - balbettò Romano, varcando la soglia di casa con esitazione. - Non scherzare, vieni fuori!

Nessuna risposta. Lasciò cadere il sacchetto del fornaio per terra, facendo rotolare fuori qualche pagnotta, e corse dietro al tavolo della cucina: non c'era. Si precipitò dall'altro lato della stanza e si inginocchiò a terra per controllare sotto al letto, dalla disperazione guardò perfino dentro all'armadio. Nulla. Gli mancò un battito, forse anche di più, sentì la paura fluirgli giù fino alle punte dei piedi. Tentò di mettersi in contatto con lui telepaticamente, ma non accadde niente. C'era solo silenzio. - Feliciano! - gridò smarrito, come se il fratello potesse spuntare ai suoi richiami.

Si precipitò di corsa fuori dall'edificio e corse nella direzione dalla quale era arrivata la sentinella. Aveva un pessimo presentimento. Che ci faceva una sentinella nel loro quartiere? E soprattutto perché stava volando così in basso? Continuò a correre come un forsennato, facendosi largo tra i pedoni e per poco non fu investito, più di una volta. A un certo punto una voce maschile gli arrivò dritta alle orecchie "L'ho visto con i miei occhi, hanno preso un mutante!".

Romano fermò la corsa. Individuò l'uomo che aveva parlato e senza pensarci due volte gli afferrò il colletto del giaccone. - Hey tu! Che aspetto aveva il mutante?!

L'uomo spalancò gli occhi e boccheggiò per lo spavento.

Romano non aveva tempo da perdere. Lo strattonò - Dimmelo, avanti!

- E-era moro e non troppo alto! - balbettò l'uomo, mentre una gocciolina di sudore cominciò a scivolargli giù dalla tempia. - Non l'ho guardato bene in faccia. P-penso abbia urlato qualcosa in italiano a un certo punto, ma non ne sono sicuro, adesso lasciami, ti prego!

Fu come se il mondo fosse crollato all'improvviso, lasciando i suoi piedi privi di un punto d'appoggio. Senza che Romano se ne rendesse conto, l'uomo riuscì a sfuggire dalla sua presa e ad allontanarsi imprecando contro di lui. I rumori del traffico e della folla si ovattarono, la vista gli si offuscò e la testa cominciò a girargli, tanto che dovette accovacciarsi con la testa contro il muro di un edificio e vomitare.

Romano tossì e le lacrime cominciarono a rigargli le guance. - Feli... Feliciano. - piagnucolò nascondendo il viso tra le braccia.

Come aveva potuto lasciarlo da solo? Che stupido! Avrebbe dovuto proteggerlo, sarebbe dovuto stare al suo fianco, avrebbero dovuto prendere lui al posto del fratello!

Ma non c'era tempo da perdere in lacrime. Doveva salvarlo e riportarlo a casa. Si alzò di scatto, ignorando i giramenti di testa e cominciò a correre nella direzione da cui era venuto. Non si fermò al suo edificio, ma continuò per un altro isolato fino a che non individuò una piccola insegna, "Clinica Veterinaria Gàtes", con un gatto nero stilizzato disegnato sul bordo. Spalancò la porta cigolante, facendola sbattere contro il muro.

- Adnan, Heracles! - esclamò appena entrato. - Datemi la vostra pillola.

Due uomini sulla quarantina, seduti al bancone della sala d'aspetto, voltarono lo sguardo verso colui che aveva appena fatto irruzione nella loro clinica.

- Ragazzo, le buone maniere non fanno proprio parte delle tue priorità. - rise il primo uomo, Sadik Adnan. Aveva i capelli scuri tagliati corti, una folta barba sul mento e la metà superiore del viso era coperta da una maschera bianca. Indossava solamente una canotta nera che mostrava il fisico scolpito. Il suo camice da medico era abbandonato sullo schienale della sedia. Era un umano che lavorava nella clinica veterinaria con il suo compagno da più di vent'anni, ma in verità era tutta una farsa per eludere la sorveglianza dell'esercito: a parte le vecchiette del quartiere che portavano i loro micetti a farsi curare, erano pochi gli umani che mettevano piede nella clinica. Difatti, Adnan ed Heracles erano medici e scienziati che miravano a curare e ad aiutare i mutanti.

- Non c'è tempo! - gridò Romano, avvicinandosi al bancone. - Feliciano... Mio fratello è stato preso dall'esercito! Lo porteranno a Portland, non so cosa gli faranno, devo salvarlo prima che-

Gli si incrinò la voce e fu costretto a strofinarsi la manica sugli occhi per asciugare le lacrime.

Il sorriso dell'uomo sbiadì. Corrugò la fronte e voltò lo sguardo preoccupato verso il suo compagno, Heracles Karpusi, un mutante, il quale stava accarezzando un gattino rannicchiato sulle sue gambe. I riccioli castani gli ricadevano sugli occhi placidi, attraversati da un velo di apprensione. - Romano, sai che la pillola non ti farà bene... - disse con il suo solito tono pacato. - Ti priverà dei poteri per qualche ora, ma una volta svanito l'effetto non avrai più pieno controllo di essi, magari anche per sempre.

- Non mi interessa, cazzo! - sbraitò Romano, battendo il pugno sul bancone. - È quanto basta per oltrepassare i controlli anti-mutanti ai confini della città inosservato, devo arrivare in Maine il prima possibile!

Guardò con occhi imploranti la coppia. Quella pillola, creata decenni prima dagli stessi Heracles e Adnan, era la sua unica speranza per uscire dalla città senza essere scoperto dall'esercito. Se non gliel'avessero data, era pronto a prendersela con la forza... In qualche modo.

Non ce ne fu bisogno. I due uomini si fissarono a lungo in una conversazione muta, per accordarsi sul da farsi. Si conoscevano da talmente tanto tempo che ormai non avevano neanche più bisogno di comunicare a voce, lo sguardo bastava. Alla fine, Adnan si alzò. - Va bene, te la daremo. E ti accompagnerò io fino a Portland. Essendo l'unico non mutante qui, passerò i rilevatori senza problemi e non ci sarà bisogno di far prendere la pillola anche a Heracles.

Gli occhi di Romano si illuminarono di gratitudine. Heracles gli fece prendere la pillola, tartassandolo di raccomandazioni nel mentre che Romano saliva sul sedile del passeggero dell'auto di Adnan. - Fate attenzione, tutti e due. E Romano, buona fortuna.

La loro macchina passò i rilevatori dell'esercito senza alcun problema, ma Romano si sentiva spossato per via degli effetti collaterali della pillola. Prima che se ne accorgesse, si addormentò.

Quando fu svegliato dalla voce di Adnan, era già buio, probabilmente intorno a mezzanotte. - Siamo a Portland, ragazzo.

Adnan accostò la macchina nei pressi di un quartiere nella periferia a sud della città. Prima che Romano potesse scendere, Adnan lo afferrò per la spalla. - Hey, qualsiasi problema, chiama la clinica, hai capito? Vorrei poter restare, ma Heracles ha bisogno di me. Non voglio lasciarlo solo in un periodo così delicato, è troppo pericoloso... Trova tuo fratello, vi verremo a prendere.

Romano annuì, grave. - Lo farò. - Scese dalla macchina e si chiuse la portiera alle spalle. Esitò. - Adnan... Grazie di tutto.

L'uomo sorrise lusingato e ripartì alla svelta. L'italiano seguì la sua scia e quasi gli venne da sorridere a pensare a come potesse esistere un amore così puro tra un umano e un mutante. Scosse la testa: era più unico che raro. Non poteva distrarsi, doveva trovare al più presto la fortezza, ma realizzò di non sapere dove andare e in che parte della città si trovasse in quel momento.

Venne attirato dalle luci soffuse di una taverna e decise di chiedere indicazioni. Appena varcò la soglia, fu investito dal tanfo di alcol, fumo e sudore e dalle grida confuse degli uomini presenti nel locale.

Dopo un attimo di esitazione, puntò dritto al bancone. Nel breve tragitto dovette evitare un paio di uomini ubriachi fradici che giravano tra i tavoli con i bicchieri colmi di birra. - Dove si trova la fortezza dell'esercito? - chiese una volta arrivato al bartender che stava riempiendo altri bicchieri di birra.

Questo a malapena sollevò lo sguardo, troppo concentrato sul suo lavoro per poter dare retta a un ragazzo che a quanto pare non voleva bere, quindi che non voleva sborsare alcun soldo. - Come?

Romano strinse i pugni, spazientito. Cercò in tutti i modi di mantenere la calma. - Ti ho chiesto dov'è la fortezza dell'esercito. E come faccio ad arrivarci a piedi?

Il barista finì di riempire fino all'orlo i bicchieri e li posizionò su un vassoio, che spostò sul bancone, in attesa di un cameriere che venisse a ritirarlo. - Sei vicinissimo. - rispose con aria annoiata. - Ti basta svoltare alla destra della taverna e proseguire dritto per la strada principale. Arriverai all'imbocco della foresta di Westbrook, ma per raggiungere la fortezza dovrai attraversare il bosco oppure percorrere la tangenziale, nessuna delle due molto raccomandabile a piedi. Ma perché mai dovresti voler arrivare alla fortezza?

Romano non gli rispose e si incamminò verso l'uscita. Solo in quel momento ebbe il presentimento di essere fissato da qualcuno. Si guardò intorno, prudente, ma non notò nessuno in mezzo alla folla che guardasse nella sua direzione. Scosse il capo convincendosi che fosse la stanchezza.

Si incamminò nella direzione che gli aveva indicato il barista. Dopo poco meno di mezz'ora, oltre gli edifici della cittadina, scorse la foresta e sullo sfondo si ergeva imponente la rocca dell'esercito. Romano piantò i piedi per terra, paralizzato dalla rabbia. Eccola lì, la fortezza in cui era stato rinchiuso Feliciano. Non avrebbe perdonato i soldati che l'avevano portato via da lui, se se li fosse ritrovati davanti... Sentì rabbia liquida e bollente fluirgli in tutto il corpo, strinse i pugni fino a sentirli scottare e-

- Hey tu! - tuonò all'improvviso una voce roca alla sua sinistra, nel silenzio più totale della via.

Romano corrugò le sopracciglia e si voltò, guardingo, verso colui che l'aveva chiamato: era un uomo molto robusto, dalle spalle larghe. Camminava con fare deciso verso di lui. Man mano che si avvicinava, alla luce dei lampioni, Romano notò più dettagli: indossava una giacca verdognola sudicia e dei pantaloni logori, i capelli neri avevano un taglio militare e la barba incolta gli copriva la parte inferiore del viso. Ma ciò che lo colpì maggiormente fu l'evidente cicatrice bianca che spaccava in due la guancia sinistra, partendo dal sopracciglio fino ad arrivare al labbro, passando sull'occhio cieco. Infine, scorse pure la pistola infilata nella cintura legata alla vita, il che non prometteva niente di buono.

- Ti ho visto, i tuoi occhi e le mani si sono illuminati. - aggiunse l'uomo una volta che ebbe raggiunto il ragazzo e gli afferrò un polso.

Romano alzò un sopracciglio, confuso. - Che merda stai dicendo? I miei occhi non si illuminano, non sono una cazzo di lampadina. E lasciami stare! - strattonò il braccio, per liberarlo dalla presa dell'uomo, e si incamminò nel primo vicolo che vide alle sue spalle. Voleva seminare quel pazzo.

All'improvviso, venne spinto contro il muro dell'edificio alla sua sinistra. Batté il capo così forte che vide nero per una manciata di secondi. - Che cazzo ti prende?! - sbraitò ancora confuso. - Vuoi fare a botte, bastardo?

Non riuscì a voltare lo sguardo, che fu subito spinto un'altra volta contro il muro. Stavolta, l'uomo lo bloccò premendo il braccio destro contro il suo collo.

Romano si sentì immediatamente soffocare e boccheggiò, alzandosi sulle punte, per cercare inutilmente di sfuggire dalla morsa dello sconosciuto.

- Non mi inganni. - sibilò l'uomo. - Ho notato i tuoi occhi alla taverna e ti ho seguito fino a qui. Per di più, la storia della fortezza mi puzzava e infatti c'è un motivo: sei un lurido mutante.

La vista del ragazzo tornò ad annebbiarsi. Tentò di liberarsi, calciando le gambe dell'uomo, ma quello era troppo resistente e lui troppo indebolito.

L'uomo ghignò. - Sei tenace, non tremi di paura. Mi piaci. - Allungò il viso verso l'incavo del collo del giovane e annusò la sua pelle nuda, mentre la mano sinistra, viscida e robusta, si infilò sotto i suoi indumenti e prese ad accarezzargli la schiena esile.

Romano fu percosso da un brivido di terrore. Con tutta la forza che gli rimaneva in corpo, spinse via l'uomo e scivolò a terra, tossendo e riprendendo fiato. - Che cazzo vuoi da me?!

Il suo aggressore ghignò ancora una volta e la sua cicatrice si contorse in una maniera inquietante. In risposta, poggiò il piede sulla spalla di Romano, spingendolo con la schiena contro il muro e costringendolo a fissarlo negli occhi. Romano strinse i denti per la frustrazione.

- Io ti ho in pugno. - cominciò l'uomo. - Si dà il caso che io sia il miglior informatore e rifornitore di mutanti per l'esercito statunitense. Ma stavolta potrei fare una piccolissima eccezione. Tu sei indubbiamente arrivato qui per salvare qualcuno che ti è caro... Probabilmente un parente. O sbaglio?

Romano non rispose, si limitò a guardarlo in cagnesco.

L'uomo premette il tallone sulla sua spalla. - Rispondi o ti pianto una pallottola nel cervello.

Romano rabbrividì alla minaccia. - Sono qui per... - esitò, ma potè quasi sentire l'osso della clavicola incrinarsi da quanta pressione il piede stesse mettendo. Fu costretto a rispondere in fretta. - Mio fratello. Voglio salvare mio fratello.

- Come immaginavo. - proseguì l'uomo. - Purtroppo per te, la fortezza è invalicabile e finiresti ammazzato se provassi ad avvicinarti, ti ci vorranno mesi, anzi anni!

L'italiano aggrottò le sopracciglia, cercando di capire se gli stesse mentendo o meno.

- Per questo io mi sento magnanimo e sono disposto a concederti il mio prezioso aiuto: ti lascerò scorrazzare per la città in cerca di modi per liberare il tuo amato fratellino e tu intanto verrai a lavorare per me. In questo modo non solo avrai la mia protezione dall'esercito, ma avrai persino vitto e alloggio gratuiti nel mio locale, "Da Moreau". Bell'affare.

A Romano sfuggì un gemito di frustrazione. L'idea di andare a vivere con quel verme lo disgustava. Quello sguardo raccapricciante lo paralizzava e ciò che stava facendo prima... Si portò d'istinto una mano sull'incavo del collo, come a proteggerlo. Gli veniva da piangere per la rabbia e la vergogna. Non voleva seguire quell'uomo, ma se era davvero l'unico modo per poter salvare suo fratello, non aveva scelta. Strinse i denti, ricacciò indietro le lacrime e alzò lo sguardo infuriato verso Moreau.

- Accetto.

 

 

Romano venne riportato alla realtà dal suono del clacson di una macchina, che gli passò davanti con tanto di insulti da parte del conducente. Di tutta risposta, Romano sollevò il dito medio.

Diede un'ultima occhiata alla fortezza con aria afflitta. - Resisti, Feli. Verrò a prenderti.

Fece per allontanarsi, ma una voce familiare lo fece sussultare.

"Romano"

Fu quasi impercettibile, ma Romano la sentì eccome: era la voce di Feliciano che lo chiamava. Voltò la testa verso la direzione da cui gli sembrò provenisse la voce, con gli occhi spalancati e i battiti accelerati. Gli mancò il respiro: era un collegamento telepatico. Un inspiegabile dolore cominciò a farsi strada all’altezza del petto, tanto da costringerlo a piegarsi in due.

Tentò di chiamare suo fratello. “Feliciano! Feliciano, rispondi! Come hai fatto a chiamarmi? Feli?! Feli!". Nessuna risposta. Attese, immobile. Il dolore al petto si affievolì.

Passarono minuti, ma non accadde nulla. Sospirò affranto: che se lo fosse inventato? No, non era possibile. Suo fratello era riuscito a contattarlo in qualche modo e il dolore che aveva sentito era il suo, questo voleva dire che la barriera anti-mutante non era infallibile. Forse c'era ancora speranza di mettersi in contatto con i mutanti all'interno.

Quel breve segnale gli bastò per metterlo di buon umore. Si incamminò verso il locale di Moreau, a qualche isolato da lì. Si sarebbe dovuto sbrigare, il suo turno di lavoro sarebbe cominciato a breve, ma a dirla tutta non gli importava, era troppo concentrato sulla piccola possibilità di collegamento che avrebbe potuto avere con suo fratello.

Era talmente assorto nei suoi pensieri, che non si accorse di essere entrato nel Quartiere Spagnolo, una delle zone più trafficate e affollate della città, contraddistinto da un via vai ininterrotto di macchine e di passanti, da canzoni latine suonate da gruppi di musicisti a ogni angolo e in ogni locale del quartiere, da coppiette che danzavano, donne che chiacchieravano ad alta voce e uomini che si offrivano di aiutare a trasportare le merci dei vari negozi. In particolare, Romano non vide affatto la grande cassa di legno che si avvicinava traballante verso il suo naso. Scontrandosi con essa, cadde all'indietro, finendo a terra.

- Ahi, che dolore... - gemette Romano, massaggiandosi il viso. Quando riaprì gli occhi vide la cassetta di legno caduta a terra che conteneva... Pomodori? Molti dei quali si erano riversati sull'asfalto.

- Qué lìo! - esclamò una voce sopra di lui. - Scusami, ti sei fatto male?

Vide una mano abbronzata tendersi verso di lui. Percorse con lo sguardo tutto il braccio nudo (Nudo. D'inverno.), fino ad arrivare alla spalla, su cui era stata arrotolata la manica di una camicia che un tempo doveva essere bianca, e infine posò lo gli occhi sul viso del suo interlocutore.

Romano impallidì. Non era possibile, non poteva essere così sfortunato. La zazzera di ricci castani, i grandi occhi verdi, l'espressione rassicurante del viso... Era il soldato con cui si era scontrato sulle mura della fortezza!

L'italiano rimase paralizzato, non seppe cosa fare. Sarebbe dovuto fuggire oppure avrebbe dovuto affrontarlo? L'aveva riconosciuto? L'avrebbe arrestato, torturato, ucciso?

Il torrente di pensieri fu bloccato dalla mano calda del soldato che prese saldamente il polso freddo di Romano e lo tirò su di peso.

- Oh no! - esclamò ancora una volta il soldato. - Ti ho sporcato la giacca, lascia che ti aiuti! - tirò fuori dalla tasca dei jeans un fazzoletto di stoffa rossa. Si chinò verso la macchia di pomodoro, ma Romano si ritrasse velocemente.

- Che stai facendo, bastardo?! - strillò nervoso.

Il soldato sorrise sinceramente e Romano per un impercettibile momento si domandò se non fosse diventata estate all'improvviso. - Mi faccio perdonare, mi sembra ovvio! - Sembrò rifletterci su per qualche attimo, poi ebbe come un'illuminazione, lasciò il fazzoletto in mano a Romano e indicò un edificio alla sua sinistra. - Anzi! Vieni in casa mia, è proprio qua sopra, ti lavo la giacca in un baleno e tornerà come nuova!

Romano decise che era il momento di una ritirata fulminea. Sorpassò il soldato a testa china. - Non mi serve alcun aiuto, posso farcela anche da solo, grazie. - concluse con aria scocciata, allontanandosi il più velocemente possibile.

- Oh... - l'altro ragazzo sembrava deluso e piuttosto confuso. - Va bene... Scusami ancora, allora!

Romano lo ignorò e continuò a camminare senza sosta, solo quando fu fuori da quella strada affollata si accorse di avere ancora in mano il fazzoletto del soldato.

No, non se ne parlava. Non sarebbe mai tornato indietro per restituirglielo! Era andata bene che nella confusione non l'avesse riconosciuto, ma non poteva esserne certo se fosse rimasto ancora un po'. Meglio non rischiare.

Però... Probabilmente quella era una delle prime volte da quando era in vita che uno sconosciuto, o meglio, un umano lo trattava con gentilezza, senza pregiudizi, occhiate torve e secondi fini. In particolare, era la seconda volta che quel ragazzo si dimostrava gentile nei suoi confronti.

Senza accorgersene, si ritrovò a sorridere, mentre osservava le iniziali del fazzoletto: A.F.C.

 

 

 

5 febbraio 1985, 01:05, villa Ceasar, Portland, Maine, USA

 

L'odore familiare di mobili vecchi inebriava le narici di Alfred. Le sue scarpe da ginnastica facevano scricchiolare le assi del parquet, mentre attraversava il lungo corridoio delle stanze da letto del secondo piano della villa.

A ogni passo, uno sbuffo di polvere si sollevava dal pavimento, dovuto al fatto che la villa non fosse stata utilizzata per anni, eccetto per qualche stanza. Questo perché doveva sembrare abbandonata, per non destare i sospetti dell'esercito sulla presunta abitazione dei rivoluzionari. Tuttavia, un tempo quella era la sua casa, la loro casa. Se si abbandonava ai ricordi, riusciva ancora a vedere lui e suo fratello Matthew bambini che correvano allegri nello stesso corridoio in cui si trovava in quel momento. Le risate si perdevano in fondo alle scale, da cui proveniva il profumo delle omelette e del caffè preparati da Francis, accompagnate dalle grida di Arthur, il quale non sapeva più se ordinare ai bambini di non correre per i corridoi o se prendere a testate Francis per la lentezza esorbitante nel prepararsi, rischiando di far arrivare entrambi in ritardo per le lezioni. Le memorie di quelle mattine movimentate gli provocarono una risata soffocata colma di nostalgia.

Cominciò a rallentare poco prima di arrivare al luogo desiderato: la stanza di Francis, alla fine del corridoio. Come sospettava, la porta era aperta e dall'interno proveniva una fioca luce, quasi impercettibile da fuori.

Si fermò sulla soglia, incrociando le braccia. - Sapevo che ti avrei trovato qui.

Seduto ai piedi del letto stava Arthur. Tra le mani teneva la cornice di una fotografia, probabilmente pescata dal baule posto davanti alle sue gambe, pieno di vestiti, libri e altri oggetti che da lontano non riusciva a riconoscere. Una candela era appoggiata per terra, alla destra del giovane. La sua luce soffusa non riusciva a illuminare l'intera stanza, la cui grandezza esorbitante era degna di Francis, che amava qualunque cosa fosse appariscente, sontuosa e quasi regale.

Arthur voltò lo sguardo verso di lui, con le grosse sopracciglia corrucciate. - Stavo solo mettendo via qualche cianfrusaglia. - disse, riponendo con cautela la cornice dentro al baule. Come Alfred immaginava, era una fotografia che ritraeva Francis e Arthur nel giardino della villa: avevano rispettivamente quindici e quattordici anni, indossavano la divisa del loro liceo e sorridevano entrambi. Il braccio di Francis era serrato intorno al collo di Arthur, il quale invece stava a braccia conserte. Erano felici. Arthur chiuse di colpo il baule. - Tanto mi sembra chiaro che non verranno più usate.

- Cosa ti ha fatto prendere questa decisione? - chiese Alfred, dubbioso.

L'altro non rispose subito. Diede un'occhiata al baule, il quale si sollevò di qualche centimetro da terra, e lo indirizzò con lo sguardo verso un angolo della stanza, dove lo poggiò con un tonfo. Arthur si alzò dal letto con un sospiro. - In cinque anni non sono mai riuscito a stabilire un contatto con lui. Nemmeno in sogno. Direi che è un chiaro segnale del fatto che in realtà non ci sia proprio nessuno con cui comunicare.

Alfred aggrottò le sopracciglia e gli occhiali dalla montatura rettangolare scivolarono un poco. Fermò la loro corsa con un dito e li sistemò. - È una fortezza creata appositamente per non far trapelare alcun potere mutante, mi sembra ovvio che tu non riesca ad oltrepassare la barriera.

- No, non è ovvio! - sbottò Arthur improvvisamente, facendo un passo verso di lui. - Francis non è come gli altri mutanti, non lo è mai stato. Lui... Sì, lui era speciale. Entrare nella sua testa e capirlo era impossibile, solo io ne ero capace. Noi due dovremmo essere collegati. Il nostro legame dovrebbe andare oltre una stupida barriera!

Probabilmente Arthur notò lo sguardo interrogativo di Alfred, perché arrossì e si affrettò a continuare il discorso. - Per questo sono certo che se, pur provandoci, non ha funzionato, allora probabilmente gli è successo qualcosa. Con Allistor nella fortezza, non è mai stato al sicuro. Tutto per colpa mia. Probabilmente è già...

Gli mancarono le parole. Era una frase troppo difficile da pronunciare, un concetto troppo doloroso da percepire e accettare. Nonostante si volesse auto-convincere che ormai Francis non ci fosse più, ammetterlo non era affatto semplice. Non voleva crederci. Avevano passato talmente tanti anni insieme nel bene e nel male, nella concordia e soprattutto nella disarmonia, a causa dei loro caratteri così diversi, ma allo stesso tempo talmente simili da cozzare tra loro, che non riusciva a capacitarsi che potesse essere davvero scomparso in quei cinque anni. Senza nemmeno averlo visto o sentito una singola volta. Ma forse, pensava spesso, era meglio così. Avrebbe sempre conservato il ricordo del giovane pieno di vita, spavaldo, irritante, ma affascinante e premuroso di cui si era incredibilmente innamorato.

- Arthur, tu... Hai intenzione di mollare? - domandò a un certo punto Alfred.

Arthur sgranò gli occhi, preso alla sprovvista da quella domanda. - Come?

- Se Francis fosse davvero... - Alfred esitò per un breve attimo, poi riprese a parlare. - Continueresti a guidare i rivoluzionari per salvare gli altri mutanti catturati? O ci abbandoneresti? Tu sei il nostro leader.

Sapeva che Arthur aveva cominciato tutto quello solo per rabbia, scaturita dalla cattura di Francis, ma Alfred sperava che la sua eventuale scomparsa non fosse un ostacolo al conseguimento dell'impresa di recuperare i mutanti imprigionati e stabilire un accordo con l'esercito statunitense.

Il suo interlocutore aveva lo sguardo più perso che mai. - Alfred, ma che vai dicendo? - si lasciò sfuggire una risata nervosa. - Io... Io non ho fatto tutto questo solo per Francis. Non vi abbandonerei mai.

Alfred lo squadrò, come per cercare una qualche traccia di menzogna. Aveva sempre stimato Arthur, sin da quando erano più piccoli. Lo aveva sempre visto come una delle persone più potenti e autorevoli del mondo, anzi dell'universo. Non voleva perdere l'ammirazione che aveva sempre provato per il ragazzo che per primo era diventato il suo eroe. Voleva che continuasse a rappresentare per lui un modello da seguire, un eroe che agiva per il bene comune e non per interessi personali.

Arthur si spazientì. Uscì a grandi passi dalla stanza, sorpassando il ragazzo. - Sarebbe meglio andare a dormire, saranno giorni duri: organizzeremo la nostra prossima soffiata.

Si allontanò lungo il corridoio con lo sguardo basso, mentre Alfred entrava nella stanza e soffiava sulla candela, facendo piombare di nuovo le tenebre nella villa.







Spazio dell'Autrice
Incredibile, ma vero, sono tornata! Giugno non è stato il migliore dei mesi, ho dato degli esami che sono andati male e quindi adesso mi ritrovo costretta a rimandare la laurea e anche tutti i progetti che avevo pianificato per il futuro... Ma risolleviamoci con la fanfiction, dai ^^'
Antonio e Romano si sono finalmente incontrati a volto scoperto! Romano teme che possa scoprire la sua vera identità e non vuole avere nulla a che fare con lui, chissà che legame si instaurerà tra i due! Ci sono anche tensioni all'interno del gruppo dei rivoluzionari, che cosa farebbe Arthur se scoprisse che Francis non è vivo come crede? Lascerebbe morire gli altri mutanti? Questo e molto altro nel- scherzo dai lol
Non vedo l'ora di pubblicare i prossimi capitoli, si faranno sempre più interessanti!
Per chiarire: Adnan ed Heracles sono Turchia e Grecia
Come sempre, spero che questo capitolo vi sia piaciuto! Fatemelo pure sapere nei commenti! Alla prossimaaa <3

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 ***


Capitolo 7

 

5 febbraio 1985, infermeria della fortezza, Maine, USA

 

"Feliciano!"

Era la voce di suo fratello Romano.

Feliciano aprì debolmente gli occhi. Non vedeva con chiarezza il luogo in cui si trovava, ma l'odore di mobili vecchi e impolverati, il frastuono senza fine del traffico di città in sottofondo, i raggi del sole che filtravano dai fori delle persiane in legno erano inconfondibili: era avvolto in una coperta di lana, sdraiato sul letto matrimoniale nell'appartamento di suo nonno, a Manhattan.

Provò ad alzarsi, ma gli fu difficile, il suo corpo era come paralizzato. Fu in grado di muovere soltanto gli occhi, perlustrando la stanza.

- Feli, come ti senti? - domandò Romano, seduto su una sedia accanto al letto. Nonostante la vicinanza, la sua voce pareva lontana e ovattata. A giudicare dai tratti morbidi del suo viso, doveva avere sui sedici anni. Le sopracciglia scure erano corrucciate, come al solito, ma in quel momento lo sguardo era attraversato da un velo di preoccupazione.

Con un filo di voce, Feliciano provò a parlare.

- Cosa... Che mi è successo? - le parole gli uscirono a fatica per via della bocca impastata e la gola secca.

- Non ti ricordi? - chiese Romano, prendendogli la mano. - Avevi detto che ti faceva male la testa e poi sei svenuto.

Improvvisamente, come risvegliato da quelle parole, la testa cominciò a pulsare, tanto da fargli venire i capogiri. Strizzò gli occhi dal dolore.

- Sì. - disse il ragazzino con voce tremante per la sofferenza provata. Strinse più forte la mano del fratello. - Sì mi fa male. Romano, aiutami! Mi fa male!

Ma Romano non si mosse, restò immobile come una statua di marmo, mentre il fratellino si contorceva sul letto. La stanza cominciò a girare fino a diventare un ammasso confuso di colori scuri. La testa sembrava poter esplodere da un momento all'altro.

 

"Feliciano!"

Era ancora una volta la voce di suo fratello, più adulta.

Feliciano aprì gli occhi e vide Romano in una strada buia, illuminata solo da un lampione, il viso colmo di stupore e preoccupazione. L'aria era fredda.

Sentì una fitta al cuore: voleva a tutti i costi aggrapparsi alla figura di suo fratello, gettargli le braccia intorno al collo e stringerlo forte, senza lasciarlo mai più.

- Aiutami! - singhiozzò, cercando di raggiungerlo, ma il suo corpo non si mosse.

Cominciò a sentire di nuovo il forte dolore al capo, questa volta accompagnato da scariche elettriche che gli percorrevano tutto il corpo, facendolo gemere di dolore.

Tese le braccia verso Romano, in un tentativo disperato di raggiungerlo, ma la sua figura non fece altro che allontanarsi.

- Non voglio morire! - gridò tra le lacrime. - Voglio tornare a casa! Salvami, ti prego!

 

"FELICIANO!"

E poi il silenzio.

Il tormento era cessato.

Piano piano, iniziò a percepire il suono del vento che frusciava tra le foglie degli alberi e l'aria impregnata del profumo di fiori ed erba, come dopo un temporale. Un tiepido sole gli scaldava il capo.

Aprì gli occhi lentamente e ciò che vide lo lasciò senza fiato: una distesa di fiori di ogni tipo si perdeva nell'orizzonte fino a unirsi con l'azzurro del cielo, coperto in parte da nuvolette bianche, che avvolgevano il paesaggio in una luce paradisiaca.

- Feliciano? - chiese una voce sottile alle sue spalle.

Si voltò: era un bambino probabilmente tra i cinque e i sei anni, biondo, con dei grandi occhi azzurri, che lo guardavano con apprensione. Il suo viso pareva così familiare...

Non ottenendo alcuna risposta, il bimbo tese la mano verso di lui, intimandolo con lo sguardo di afferrarla.

Non appena Feliciano toccò le sue dita affusolate, si sentì mancare le forze e il paesaggio floreale svanì, sostituito dal buio.

Aprì gli occhi di scatto, prendendo un grosso respiro, come se fosse stato senza fiato per minuti interi. Era sdraiato su un lettino, il braccio teso verso il soffitto bianco.

Tentò di mettere a fuoco la stanza in cui si trovava, ma i lampadari emanavano una luce bianca accecante, che lo costringevano a sbattere le palpebre velocemente.

A un tratto sentì una mano calda stringergli la sua sollevata. - Feliciano?

Era la voce di Ludwig.

Feliciano voltò lentamente la testa alla sua sinistra, da dove proveniva la voce. Circondato da un bagliore bianco, Ludwig lo guardava con un'espressione allarmata. Indossava come di consueto l'uniforme militare e i capelli biondi erano tirati indietro con del gel, però i suoi occhi celesti non erano affatto freddi e duri, ma piuttosto stanchi e preoccupati.

- Puoi sentirmi? - chiese ancora una volta, stringendo più forte la mano del ragazzo.

Feliciano si guardò intorno, spaesato, ancora intontito dai sogni fatti, che lentamente stavano scivolando via dalla sua memoria. - È il paradiso?

Ludwig, colto alla sprovvista da quella domanda, scoppiò in una risata contenuta e Feliciano si ritrovò a pensare che fosse molto più bello quando sorrideva. Poi si maledì per averlo anche solo pensato. - Non ancora, siamo in infermeria. - ma il suo sguardo tornò immediatamente serio. - Sei svenuto dopo la... Seduta in laboratorio. Eri completamente privo di forze, hai riposato per due giorni interi.

Forse l'italiano era ancora troppo stordito per processare ciò che Ludwig gli stava dicendo, perché non ebbe alcuna reazione.

Il soldato si sistemò sullo sgabello, a disagio, e gli lasciò la mano, facendo provare nel mutante un inspiegabile senso di vuoto. Quel calore gli aveva dato conforto. - Senti, Feliciano... - esitò. Congiunse le mani più volte, come se quel movimento potesse aiutarlo a trovare le parole giuste. - Mi dispiace per ciò che è successo. Io ero lì e avrei dovuto fare qualcosa, avrei dovuto fermare l'esperimento molto prima e invece sono rimasto immobile. È stato un comportamento da vigliacco.

Lo guardò ancora una volta con un'espressione colpevole. - Anzi, in realtà non ho scuse, ne sono consapevole. - strinse i pugni, tanto da far sbiancare le nocche. - Non ho saputo reagire di fronte alle atrocità di Ivan Braginsky e per questo ha sforato ogni limite consentito. Sono intervenuto troppo tardi.

Ancora una volta, Feliciano si ritrovò a domandarsi che cosa ci facesse quel ragazzo dentro la fortezza. Nonostante l'aura agghiacciante che emanava a primo impatto, Ludwig era di indole buona, ne era sicuro ormai. Le sue scuse erano sincere. Vedendolo così affranto, non poté non fare un paragone con un cane bastonato. Dovette trattenere una risatina.

Appoggiò la mano minuta su quella robusta di Ludwig. Quel gesto sembrò calmare immediatamente l'ira del soldato, che gli rivolse un'occhiata perplessa. - Io penso che tu non abbia alcuna colpa. - Le sue labbra si incresparono in un sorriso rassicurante. - La tua sola presenza mi ha dato forza. Se non fossi stato lì con me, forse adesso non sarei qui.

Quelle parole scatenarono l'effetto desiderato: le guance e le orecchie di Ludwig si imporporarono in un attimo e fu costretto ad abbassare lo sguardo per l'imbarazzo.

Questa volta, Feliciano non poté farne a meno: la sua risata divertita risuonò in tutta la stanza dell'infermeria. Chi l'avrebbe mai detto? Quel soldato dallo sguardo freddo, severo e distaccato poteva sembrare così indifeso e smarrito per un semplice complimento.

Ludwig tossicchiò appena, prima di ricomporsi, ma ancora non riusciva a incrociare lo sguardo con Feliciano. - Tu sei troppo buono. Dovresti disprezzarmi e invece non hai mai mostrato segni di odio verso di me. Perché? - si fece coraggio e finalmente posò il suo sguardo un po' esitante su quello del mutante, in cerca di risposte.

Questa volta fu Feliciano a rimanere stupito da quella domanda, ma in realtà la risposta gli fu semplice. - Perché tu non odi me. - riuscì finalmente a mettersi seduto e a guardare Ludwig dalla stessa altezza. - Dal primo istante in cui ho messo piede in questa prigione, tu non hai fatto altro che aiutarmi, non ho mai percepito alcuna intenzione malvagia in te. Senza di te, avrei perso ogni briciolo di felicità e ottimismo. Tu mi dai speranza, Ludwig.

Si fermò, l'altro lo fissava con sguardo teso e dubbioso. Proseguì. - Ogni volta che incrocio i tuoi occhi azzurri, non vedo altro che dolcezza, mai cattiveria. La tua compassione per i mutanti a tuo carico mi fa credere che forse qualcuno abbia voluto mandarmi un angelo, piuttosto che un demone. Non sei come tutti gli altri soldati. Io penso che tu sia una persona buona.

A questo punto, la punta delle orecchie del soldato tornarono a tingersi di rosso e non riuscì più a sostenere lo sguardo di Feliciano.

- Per questo, io mi chiedo... - si sporse al bordo del letto, appoggiando una mano sulla guancia di Ludwig, costringendolo a posare i suoi occhi sgranati su Feliciano. I loro visi a pochi centimetri di distanza. Nessuno dei due ebbe intenzione di distogliere lo sguardo. - Perché sei qui, Ludwig?

Ludwig trattenne il respiro per quelli che gli parvero minuti interi. Sentì le sue mani strette a pugno cominciare a sudare e il viso andargli in fiamme. La gola secca gli impediva ogni suono. Provò a formulare pensieri razionali, ma gli occhi scuri di Feliciano gli annebbiavano la mente: erano così intensi, così insistenti, così...

- Ehm, capitano?

Ludwig fece un salto sul posto e si allontanò da Feliciano così velocemente che per poco non cadde giù dallo sgabello. Era rosso fino alla punta delle orecchie.

Feliciano si voltò in direzione della voce: sulla soglia dell'infermeria c'era Raivis, l'assistente di Ivan Braginsky. Indossava ancora il suo camice di due taglie più grande e stringeva tra le mani tremanti un blocco di fogli. Gli occhi blu erano indecisi dove guardare e guizzavano senza sosta dal pavimento a Ludwig.

- S-spero di non aver interrotto nulla... - chiese con un filo di voce, alzando poi lo sguardo al soffitto come a maledirsi per aver detto quella frase.

Ludwig si ricompose, allargandosi il colletto della divisa con due dita e tirando un colpetto di tosse. - No, non ti preoccupare. Stavamo soltanto parlando. - lanciò un'occhiata preoccupata a Feliciano, il quale però fece finta di non notarla. - Come mai sei qu-

- Ciao Raivis! - lo interruppe l'italiano con voce gioiosa, salutando con una mano.

Il ragazzo lo fissò con un'espressione confusa, poi spostò lo sguardo su Ludwig come per ottenere il permesso di salutare a sua volta. Non ottenendo alcun ordine, fece un leggero cenno con il capo verso Feliciano e poi si rivolse nuovamente a Ludwig, sventolando i documenti che aveva in mano. - Ho qui i risultati dell'esperimento del mutante Feliciano Vargas. È tutto nella norma, il dottor Braginsky dice che è stato uno dei prelievi migliori da parte di un mutante diverso da Francis Bonnefoy.

Feliciano sentì un brivido percorrergli lungo la schiena. Il ricordo di quelle ore gli faceva provare dolore in tutto il corpo e quasi gli sembrò di essere di nuovo dentro la capsula.

La voce grave di Ludwig lo fece riprendere dai suoi pensieri. - Quindi? Possiamo dimetterlo?

Raivis annuì. - Erica gli ha fatto le analisi del sangue stamattina e sembrano a posto, è necessario che Feliciano Vargas torni tra due settimane per ulteriori analisi, in modo da determinare la sua salute fisica.

Ludwig annuì. - Perfetto. Puoi andare adesso.

Raivis fece un saluto militare un po' goffo, poi fissò Feliciano, incerto se salutarlo o meno.

Feliciano fece un grande sorriso, che invogliò l'altro ad abbozzare un timido sorriso e poi si dileguò, scomparendo al di là della porta.

- Bene, rimettiti i vestiti e raggiungimi fuori dall'infermeria. - disse Ludwig, indicando con un cenno del capo il comodino di fianco alla brandina, poi si incamminò fuori dalla stanza, eclissando definitivamente il discorso di poco prima.

Feliciano inclinò la testa confuso. Voltò lo sguardo verso i suoi abiti bianchi da prigioniero, poi abbassò lo sguardo su di sé: solo in quel momento si accorse di essere completamente nudo.

 

 

Si fermarono davanti alla porta che conduceva al giardino. Ludwig alzò un braccio e controllò l'orologio che aveva al polso. - Hai ancora una ventina di minuti per poterti rilassare, non fare attività troppo stancanti, incluso parlare incessantemente.

Feliciano aggrottò la fronte. - Ma a me piace parlare incessantemente.

Ludwig accennò un sorriso. - Lo so. - Aprì la porta con una chiave apposita e si mise da parte per far passare Feliciano.

- Tu non vieni? - chiese l'italiano, varcando la soglia.

- Non sono una guardia – rispose l'altro, alzando le spalle. - E comunque non sarei il benvenuto.

Feliciano fece per chiedergli il motivo, ma Ludwig chiuse la porta prima che potesse anche solo prendere fiato. Si domandò che cosa volesse intendere con quella frase. Forse non era in buoni rapporti con qualche guardia? Stava antipatico ai mutanti? No, era impossibile. E se... Una delle guardie fosse una sua ex amante? Si guardò intorno con fare frenetico, pronto a individuare una ragazza che potesse sembrare il tipo del soldato. Poi si maledì per averci anche solo pensato. Cosa gli importava se aveva avuto delle ragazze in passato?

Si accorse di essere arrivato al centro del cortile mentre era sovrappensiero. Alzò lo sguardo in cerca di qualche viso familiare, fino a che non notò qualcuno che sventolava la mano per richiamare la sua attenzione: era Francis, all'ombra di uno dei pochi alberi presenti nel giardino, insieme a un gruppetto di altri mutanti. Sorrideva e chiamava il suo nome. Sembrava stare molto meglio dall'ultima volta in cui aveva avuto modo di parlare con lui.

Feliciano si affrettò a dirigersi verso di lui, fino a che Matthew non gli si parò davanti, stritolandolo in un abbraccio. - Oh, Feliciano! Stai bene, meno male!

L'italiano fu sorpreso dalla forza del ragazzo, non l'avrebbe mai immaginato considerando il suo carattere mansueto e tranquillo. - Matthew, soffoco!

Il biondo lasciò la presa a malincuore, dando a Feliciano la possibilità di tornare a respirare. - Com'è stato? Cosa ti hanno fatto? Perché sei rimasto così tanto tempo in infermeria?

- Mattie! - Francis si avvicinò ai due ragazzi, ridendo di gusto. - Lascialo riposare. Non penso che ricordare il laboratorio possa aiutarlo a rilassarsi.

Feliciano sorrise, lusingato da tutte quelle attenzioni. - Oh, non c'è problema, sto bene! Piuttosto, tu Francis ti sei ripreso?

Matthew intervenne prima che Francis potesse aprir bocca. - Si è svegliato poco dopo il tuo ingresso in laboratorio. È stato un sollievo, pensavo non avrebbe mai più aperto gli occhi!

- Ah sì? Che fortuna. - Feliciano notò con la coda dell'occhio che Francis cominciò a passarsi nervosamente una mano tra i capelli. Evitò lo sguardo dell'italiano un paio di volte, prima di prendere finalmente la parola.

- Già, ma che importa? - si affrettò ad aggiungere, prendendo Feliciano per le spalle. - Vieni, Feli. Posso chiamarti Feli? Ti presento qualche amico.

Si incamminarono verso l'albero, sotto al quale erano raggruppate quattro persone. Il primo viso che inquadrò era più che familiare: Elizabeta Hédervàry era seduta con la schiena appoggiata al tronco, i morbidi capelli castani le contornavano il viso sorridente. Stava parlando con un ragazzo intento a raccontare una storia piuttosto avvincente, visto il tono di voce particolarmente alto. La pelle e i capelli erano dello stesso colore della neve e gli occhi rossi come il sangue guizzavano da una parte all'altra mentre parlava con enfasi. Le labbra si increspavano in un largo sorriso, mostrando i canini aguzzi. Accanto a lui, Michelle Payet era sdraiata sul prato e strappava ciuffi di erba, poco interessata alla conversazione dei due adulti. Tra le braccia, Elizabeta stringeva un bambino addormentato, che indossava un'uniforme bianca troppo grande per il suo corpicino. La frangetta scura gli ricadeva sugli occhietti chiusi e dei ciuffi di capelli erano legati in due buffi codini.

- Ragazzi! - li richiamò Francis a gran voce. - Vi presento Feliciano.

Elizabeta gli elargì uno dei suoi dolci sorrisi, attraversato da un velo di apprensione, come quello di una mamma. - Oh, Feli! Come ti senti?

Feliciano arrossì, lievemente in imbarazzo. - Adesso sto bene, ho dormito come un ghiro per ben due giorni. Penso sia stata la miglior dormita che abbia fatto da quando sono entrato qui.

Una risata sguaiata richiamò la sua attenzione. Il ragazzo dagli occhi occhi rossi gli diede una pacca energica sulla spalla. - Sei proprio una forza! Ti hanno usato come topo da laboratorio e tu pensi al riposino!

Elizabeta lo fulminò con lo sguardo. - Gilbert! Sii più gentile con lui, sarà terrorizzato!

Il ragazzo sogghignò, prima di affiancarsi a Francis e appoggiare un gomito sulla sua spalla. - L'hai portato qui per mostrargli tutta la mia magnificenza?

Francis ridacchiò, scrollandosi l'amico di dosso. - La tua? Gil, hai visto chi hai davanti?  - Si portò i capelli dietro l'orecchio con fare plateale.

- Oh, smettetela voi due! - li richiamò Elizabeta indispettita. - Siete uno più ridicolo dell'altro!

- Liz, sei crudele. - fece Gilbert, fingendosi offeso.

Intanto Michelle balzò in piedi e si aggrappò alla maglia di Francis, saltellando. - Francis, Francis! Mi prendi in braccio? Mi prendi?

Il biondo rise sollevando la ragazzina, la quale cinse le braccia intorno al suo collo e appoggiò la testa sulla sua spalla. Feliciano la sentì pronunciare sottovoce qualche frase in francese che non comprese, e Francis le rispose in tono amorevole. Sembravano come padre e figlia.

Feliciano rimase estasiato di fronte a quella scena, colma di un'aria così lieta e serena, che strideva con l'ambiente opprimente in cui si trovavano. Voltò lo sguardo confuso verso Matthew alla sua sinistra, ma lui sorrideva come mai l'aveva visto fare.

- Siamo come una piccola famiglia - mormorò Matthew. - Qua dentro è importante supportarsi a vicenda il più possibile per evitare di impazzire. Siamo tutti nella stessa barca, è più facile capire la sofferenza altrui.

L'italiano si sentì pervadere da un'inspiegabile felicità. Tutti quei mutanti potevano capirlo. Forse anche loro avevano qualcuno a casa che li aspettava. Anche loro avevano vissuto una vita all'insegna del terrore di essere scoperti dai propri concittadini. Quell'eventualità gli riempì gli occhi di lacrime.

- Ah, Feli! - Francis lo risvegliò dai propri pensieri. - Credo proprio che qualcuno voglia parlare con te. - fece un cenno con il capo verso la sua destra.

Feliciano seguì il suo sguardo fino a puntare gli occhi su un viso familiare, poco distante dall'albero: Kiku lo stava fissando con occhi inquieti, indeciso se farsi avanti o meno. Il viso era teso e stava stringendo i pugni fino a far sbiancare le nocche. Dietro di lui, i suoi fratellini erano seduti sul prato e giocavano con dei rametti assemblati tra loro per formare degli aeroplani.

Alla fine Kiku si fece coraggio e avanzò verso Feliciano con gli occhi scuri fissi su di lui. Restò in silenzio per una manciata di secondi prima di prendere un grande respiro e abbassare il capo. - Perdonami.

Feliciano rimase senza parole. Si guardò intorno incerto su cosa fare, poi appoggiò una mano sulla spalla del ragazzo. - Ehm, Kiku non c'è bisogno, davvero...

- No. - lo interruppe l'altro. La sua voce era attraversata da un lieve tremolio, non riusciva più a guardarlo negli occhi. - Accetta le mie scuse, per favore. Se non mi fossi tirato indietro, se mi fossi assunto le mie responsabilità e fossi andato in laboratorio come era stato previsto, tu non avresti sofferto. Non saresti stato due giorni in convalescenza. Mi assumo ogni colpa. Non permetterò che accada mai più.

Feliciano fu sinceramente colpito da quelle parole e in un certo senso provò un'enorme tristezza. Kiku era solo un adolescente, non poteva nemmeno immaginare come le sedute in laboratorio avrebbero danneggiato a lungo andare la sua mente giovane. Eppure in quel momento l'espressione del suo viso era eloquente: avrebbe accettato qualunque sofferenza pur di alleviarla agli altri. Feliciano dal suo canto non poteva permettere che si portasse tutto il peso sulle sue piccole spalle. Senza nemmeno riflettere, lo abbracciò. Kiku sobbalzò quando si rese conto delle braccia che gli cingevano il collo e si immobilizzò come una statua di marmo, ma l'italiano non aveva intenzione di lasciarlo. - Non voglio che tu ti senta in colpa. Mi sono offerto spontaneamente al posto tuo e sono pronto a farlo altre cento volte se sarà necessario.

Non lo vide, ma fu certo che Kiku versò le lacrime che aveva trattenuto fino a quel momento. Non lo abbracciò a sua volta, ma a Feliciano non importò.

Furono interrotti dal suono della campana che segnava la fine della pausa in cortile.

Quando riuscì a liberarsi dalla stretta dell'italiano, Kiku si asciugò velocemente il viso con la manica della maglia e si voltò per richiamare i suoi fratellini, che accorsero di corsa. Non appena videro Feliciano, i loro visi si illuminarono. - Feli!! - gridarono in coro, abbracciandolo con forza.

Sentì Elizabeta svegliare dolcemente il bambino tra le sue braccia. - Aurel, dobbiamo andare.

Il bimbo aprì piano piano i suoi occhietti color ambra e sbadigliò, mostrando i canini appuntiti, come quelli di un piccolo vampiro. Si mise in piedi goffamente e prese la mano di Elizabeta, la quale richiamò anche Michelle e si incamminò verso l'uscita. La ragazzina, una volta posata a terra da Francis, la seguì correndo. Feliciano si ritrovò a pensare, sorridendo, che Elizabeta sarebbe stata una mamma perfetta.

Prima che potesse fare un solo passo, Gilbert gli si parò davanti con il suo largo sorriso. - Hey! Tu sei stato affidato al soldato biondo, giusto? Quello molto alto, robusto, occhi azzurri, sempre arrabbiato...

A Feliciano si illuminò il viso. - Oh sì! Ludwig!

- Ludwig! - ripeté l'altro con fare pensoso. - Proprio lui. E... Com'è? Insomma, è gentile con te?

- Molto! - esclamò allegro Feliciano. - Mi tratta sempre con riguardo, non è come gli altri soldati. Ha un canarino nel suo ufficio, lo sai? È molto carino, mi sfugge il nome... Ludbird?

- Già, un canarino... - mormorò l'altro.

- Forse era Bilbird?

- E dimmi un po' - proseguì Gilbert. - Ti ha mai parlato di sé e della sua famiglia? Dei genitori, del nonno, del fratello?

Feliciano aggrottò le sopracciglia, confuso. - No, perché avrebbe dovuto?

Gilbert rise, scompigliandogli i capelli. - Non preoccuparti, era solo una mia curiosità. Ci si vede, Feli! - si allontanò con passo deciso, sviando il discorso.

Feliciano dovette rimanere nella stessa posizione per una buona manciata di secondi, perché Francis gli posò una mano sulla spalla, facendolo sussultare. - Tutto bene?

Feliciano annuì, sorridendo. - Sì! Stavo solo... Riflettendo.

- Bene. - Francis puntò i suoi profondi occhi blu su di lui. - Sappi che, a ogni pausa, ci raduniamo sotto quest'albero per elaborare un piano di fuga, tu ci stai?

Fu colto alla sprovvista dalla domanda e riformulò quella frase nella mente un paio di volte, senza comunque trovare un senso. - Piano? Fuga?

- I rivoluzionari stanno cercando un modo per irrompere nella fortezza e tirare fuori i mutanti prigionieri, Matthew ne è certo perché ci lavorava anche lui, prima di essere catturato. - continuò Francis. - Noi dobbiamo aiutarli da dentro, però. Formuleremo un piano e in qualche modo entreremo in contatto con loro, così da rendere il piano più efficace. Sto lavorando su questa comunicazione, ma ci vorrà tempo. Quindi, che ne dici? Kiku è d'accordo, il suo potere potrà esserci utile.

Feliciano voltò lo sguardo sul ragazzo, il quale aveva preso per mano i fratelli, unendosi alla fila di prigionieri, radunati davanti alla porta d'uscita.

- Tu sei un telepate, giusto? - domandò Francis. - Il tuo contributo potrebbe essere importante.

Sembrava pericoloso. E Feliciano odiava le cose pericolose. Sarebbe stato molto più semplice farsi da parte, lasciare che un gruppo di sfrontati elaborassero un piano rischioso e forse destinato al fallimento, mentre lui se la sarebbe dormita beatamente nella sua cella, al sicuro dai fucili dei soldati... Ma non sarebbe stato corretto. Pensò a Romano, che lo stava aspettando là fuori. Pensò a come ogni singolo mutante in quella fortezza non desiderasse altro che uscire e rivedere i propri cari. Proprio come lui.

Prese un respiro profondo e puntò gli occhi scuri su quelli di Francis. - Ci sto.

 

 

 

10 febbraio 1985, Quartiere Spagnolo, Portland, Maine, USA

 

Quella domenica il pallido sole di mezzogiorno rendeva tollerabile il clima gelido dell'inverno del Maine. Il Quartiere Spagnolo era più animato del solito: le famiglie rientravano a casa dalla messa, le coppie di innamorati passeggiavano sui marciapiedi dandosi la mano in cerca di un ristorante in cui mangiare e nell'aria aleggiavano i profumi di qualunque prelibatezza culinaria immaginabile, provenienti dalle cucine delle case. Dai locali sparsi lungo la via si diffondeva la melodia della musica da saloon, che si confondeva con il parlottio della gente riversata nelle strade.

Antonio prese una boccata d'aria fresca. Tra le braccia stringeva un sacchetto di carta pieno di pane fresco e frutta di stagione, comprati al mercato in fondo alla via. Amava la domenica: era il suo unico giorno libero dal lavoro e lo passava godendosi in tranquillità l'atmosfera frizzante del Quartiere Spagnolo, l'unico posto degli Stati Uniti che gli ricordasse la sua amata Spagna. Forse era anche per quel motivo che aveva scelto di affittare un monolocale proprio in quella zona, e non solo perché i prezzi erano assai convenienti per il suo modesto stipendio da militare. Si sentiva a casa, molto più di quanto lo fosse nella casa dei suoi genitori o nel dormitorio dell'esercito, in cui trascorreva sei giorni della settimana. Le persone in quel quartiere l'avevano preso in simpatia: aveva stretto un buon rapporto con il proprietario del night club che stava sotto il suo appartamento, le vecchiette accettavano di buon grado il suo aiuto per portare in casa loro i sacchi della spesa o per rincorrere i loro gatti grassi scappati in strada, le collegiali facevano di tutto per attirare la sua attenzione e scambiare qualche chiacchiera e gli uomini più rissosi lo sfidavano a braccio di ferro, gioco nel quale era imbattibile.

Proprio mentre si stava preparando per tirare fuori dalla tasca dei jeans le chiavi del portone d'ingresso del palazzo, venne attirato da un vociare particolarmente agguerrito alle sue spalle, proveniente da una folla di uomini radunata in cerchio, probabilmente attirati da una rissa in corso.

Antonio sospirò. Chiamare la polizia per una semplice rissa sarebbe stata una perdita di tempo, decise dunque di provare a sedare la folla con la sua autorità di soldato dell'esercito. Posò il sacco di carta per terra di fronte al portone e si avvicinò.

Mentre si faceva largo tra la folla poté udire degli scorci di conversazione tra i due litiganti.

- Ripetilo se hai il coraggio, brutto bastardo! - gridò la voce di un giovane in tono aggressivo.

- Con piacere! - rispose l'altro. Antonio lo riconobbe: era un uomo piuttosto famoso nel quartiere per il suo pessimo carattere e la sua forza bruta. Era alto quasi due metri, aveva il capo rasato e sottili occhi azzurri, che guardavano chiunque con ferocia. Per questo motivo era stato soprannominato Diablo. - Ho detto che l'esercito non dovrebbe avere pietà per quei mostri e che dovrebbe procedere con l'eliminazione immediata della loro specie ripugnante.

Quelle parole non fecero altro che infuriare il ragazzo, che sembrava già piuttosto malandato, e Antonio fece appena in tempo a vederlo sfrecciare in avanti, pronto a sferrare un pugno, che subito l'uomo lo bloccò senza alcuna fatica con la sua grande mano, mentre con l'altra gli tirava un cazzotto in pieno viso, buttandolo a terra. La folla esultò in un boato. Diablo si stagliò sul ragazzo ancora a terra e con un sorriso sadico alzò un pugno, assaporando già la vittoria. Ma prima che potesse anche solo sfiorare la faccia dell'avversario, Antonio balzò in avanti, bloccandogli il braccio in una morsa d'acciaio. Tra le file degli spettatori si levò un mormorio sorpreso e confuso.

L'uomo, stupito, voltò lo sguardo imbestialito verso di lui. - Che cazzo stai facendo, Carriedo?

- Non c'è alcun motivo di continuare, il tuo avversario è già al tappeto. - Antonio sorrideva, ma il tono della voce era perentorio e intriso di una certa autorità.

Diablo si divincolò dalla stretta del soldato. - I pivelli devono pagare per la loro insolenza. - sibilò a denti stretti.

- Per questo me ne occupo io, ora fila o farò un reclamo agli sbirri. - lo sguardo di Antonio si assottigliò, ma non perse il suo sorriso di sfida.

Dopo una lunga battaglia di sguardi, l'uomo cedette. Sputò ai piedi dell’avversario e spintonò la folla, dileguandosi.

Antonio batté le mani. - Bueno, gente! La festa è finita, tutti a casa!

Tra mormorii e lamentele, la folla si disperse, lasciando sul luogo soltanto Antonio e il ragazzo, il quale nel frattempo si era messo seduto.

Antonio sbuffò. - Ay, ay... - si voltò verso di lui, allungando una mano per aiutarlo ad alzarsi. - Ti sei proprio scelto l'avversario peggiore da affrontare, quello con uno schiaffo ti avrebbe mandato all'altro mondo, credimi...

Si bloccò non appena posò lo sguardo sul viso del ragazzo: la fronte corrucciata in un'espressione perennemente arrabbiata, i capelli castani caratterizzati da un insolito ciuffo arricciato, l'aria schiva... - Tu sei il ragazzo dell'altra volta! Vedo che hai lavato la giacca! - esclamò, sorpreso.

In risposta l'altro sbiancò e tentò di indietreggiare.

- Oh, non ti preoccupare! - lo rassicurò Antonio, facendo un passo verso di lui. - Non chiamerò davvero i poliziotti per una sciocchezza del genere, hanno ben altro a cui pensare.

Quelle parole non sembrarono confortare il ragazzo, il quale mantenne il capo basso, evitando il contatto visivo.

Antonio si grattò il capo, incerto sul da farsi. Squadrò il giovane: indossava lo stesso giubbotto nero della scorsa volta, lavato dalla macchia di pomodoro da lui causata, e dei pantaloni scuri che gli fasciavano le gambe magre. Senza dubbio non l'avversario ideale per Diablo, pensò. Tentò di inquadrare meglio il suo viso fino a che non notò l'enorme ferita sanguinante sullo zigomo, causata dal pugno ricevuto. - Sei ferito, lascia che ti aiuti. Ho delle garze in casa.

Allungò la mano verso il suo braccio per aiutarlo ad alzarsi, ma quello sgranò gli occhi e lo spinse via. - Lasciami in pace, bastardo! Non ho bisogno di aiuto! - si mise in piedi alla svelta, ma probabilmente stordito per la botta alla nuca, perse l'equilibrio e venne sorretto per le spalle da Antonio. Questa volta non ebbe la forza di divincolarsi.

- Se non vuoi che ti curi io, lascia almeno che ti accompagni in ospedale, la ferita potrebbe essere più profonda del previsto. - disse Antonio, addolcendo il tono.

- No, niente ospedale... - mormorò l'altro a testa bassa. - Io non vado in ospedale. Non posso.

Antonio rimase a lungo in silenzio. Era normale che certa gente dei quartieri più malfamati della città rifiutasse cure mediche dagli ospedali: spesso non avevano un'assicurazione valida oppure non erano in linea con la legge. Pensò che anche lui dovesse esserlo, ma in fondo non gli sembrava un cattivo ragazzo. Quella ferita perdeva molto sangue e avrebbe contratto un'infezione senza cure immediate.

Sospirò amareggiato. - Senti, facciamo così: vieni a casa mia, posso curare le tue ferite prima che si infettino e non sarai costretto ad andare all'ospedale, va bene? E poi voglio ancora scusarmi per la scorsa volta.

Il ragazzo sembrò pensarci su a lungo. Per un attimo Antonio temette che fosse troppo intontito per via la botta di prima per ragionare, ma poi annuì, staccandosi dalla sua presa. - E va bene, bastardo, basta che fai in fretta.

Antonio sorrise raggiante, ignorando la scontrosità dell'altro. Si incamminò verso il portone dove aveva lasciato il sacchetto del mercato, accertandosi che il ragazzo lo seguisse, e lo aprì con un giro di chiave. Una volta dentro, percorsero due rampe di scale fino ad arrivare al primo piano, davanti a una porta verdognola. A fianco era segnato il numero dell'appartamento, 1a.

- Mi scuso per il disordine, ma non essendo a casa spesso, ignoro le faccende domestiche! - rise divertito, mentre aprì la porta. L'altro però non sembrò trovarlo divertente e anzi, alzò gli occhi al cielo, indispettito.

La porta d'ingresso dava su un monolocale nella cui metà a destra si trovava una piccola cucina, un tavolino da pranzo con due sedie posto sotto una finestrella e un soggiorno con un divano, una televisione, una modesta libreria e una finestra che dava sulla via principale del Quartiere Spagnolo. A sinistra, accanto all'ingresso, stava un bagno a cui si accedeva tramite una porta scorrevole che dava sul letto matrimoniale, posto di fronte alla sala. Accanto al letto, un'altra finestra con vista sulla strada principale.

- Accomodati pure sul divano! - esclamò Antonio, facendosi da parte per far entrare il suo ospite, il quale si guardava in giro con fare sospettoso, come se si aspettasse qualche trappola o chissà cos'altro.

Antonio aprì uno scaffale della cucina, tirando fuori un flacone di alcol etilico, un panno imbevuto d'acqua, un pacchetto di garze, dei cerotti di grandi dimensioni e ago e filo da sutura, nel caso la ferita fosse stata molto profonda.

- Mi aspettavo una topaia. - confessò il ragazzo, sedendosi sul divano a gambe larghe.

Antonio rise. - Non è molto carino da dire.

- E allora? - rispose l'altro con indifferenza.

Antonio decise di far cadere il discorso, posando gli oggetti sul mobile su cui era poggiata la televisione. Mise il panno bagnato tra le mani del ragazzo. - Tieni, passatelo velocemente sulla ferita. Serve per ripulirla dal sangue in eccesso e dalla polvere. Non dovrebbe bruciarti.

L'altro sembrò abbastanza riluttante, ma non si lamentò. Intanto, Antonio prese una garza dal pacchetto e la imbevette con qualche goccia d'alcol. Lanciò un'occhiata al giovane, il quale stava appoggiando sul mobile il panno ormai sporco di sangue e terra. Non aveva avuto modo di notarli la prima volta che si erano incontrati, ma guardandolo meglio aveva dei bei lineamenti, fini, ma allo stesso tempo ben delineati. La magrezza del viso metteva in evidenza i due zigomi sporgenti. Il naso era attraversato da una leggera gobba e la punta si arricciava lievemente all'insù. Le labbra sottili si schiudevano solo per pronunciare qualche imprecazione e la frangetta castana gli ricadeva sugli occhi color ambra, attribuendogli un aspetto da duro. Nel complesso era proprio un bel ragazzo e Antonio fu certo che se avesse sorriso più spesso sarebbe stato ancora più affascinante.

Distolse velocemente lo sguardo quando vide l'altro voltarsi di lui. - Ti muovi?

Antonio sorrise mortificato. - Certo, scusami, mi ero incantato! - gli scappò una risata nervosa, mentre l'altro roteava gli occhi e sbuffava. Si fece un po' più vicino a lui e gli sfiorò il viso con la mano libera dalla garza. Il ragazzo lo guardò torvo. - Questa farà un po' male.

Appoggiò il più delicatamente possibile la garza sulla ferita, provocando un ringhio da parte del giovane.

- Hey fai piano! - protestò quello, indietreggiando.

- Più piano di così non posso fare. Cerca di resistere, non ci metterò molto. - gli elargì un sorriso di incoraggiamento che l'altro non sembrò apprezzare, ma ritornò comunque al suo posto, rassegnato.

Antonio posò la mano sotto il suo mento per tenerlo fermo e con la garza tamponò la ferita.

Il ragazzo gemette dal dolore, strizzando gli occhi e stringendo i pugni fino a far sbiancare le nocche. Ad Antonio quasi sfuggì una risatina: sembrava un gatto randagio che soffiava e tirava fuori gli artigli, ma in realtà non avrebbe saputo fare del male a una mosca.

I loro visi erano a qualche centimetro di distanza, ma ancora non era riuscito a guardarlo negli occhi. Teneva lo sguardo basso ed era schivo. Si domandò come mai avesse assunto quell'atteggiamento con lui.

Ripose la garza sul mobile e analizzò la ferita: era profonda, ma non necessitava di alcuna cucitura. Prese uno dei cerotti e glielo attaccò sulla guancia. - Bueno! - esclamò mentre riponeva tutti gli oggetti nel loro scaffale. - Probabilmente la mandibola e lo zigomo ti faranno male per qualche giorno e la ferita ci metterà parecchie settimane a rimarginarsi. Posso lasciarti qualche cerotto se ne hai bisogno, cambialo spesso.

L'altro lo ascoltò senza proferire alcuna parola. Si limitò a sbuffare e a incrociare le braccia.

Antonio non seppe più contenere la propria curiosità. - Posso sapere almeno come ti chiami?

All'inizio dubitò che gli avrebbe risposto. Probabilmente l'avrebbe insultato e se ne sarebbe andato senza neanche ringraziare. Però poi lo sentì mormorare. - Romano.

Lo spagnolo sorrise soddisfatto. - Piacere, Romano. Io sono Antonio. Bene, allora...

- Sei un soldato, eppure sei munito di oggetti chirurgici e di manuali di medicina. - lo interruppe Romano, indicando con un cenno del capo la libreria colma di libri di testo. - Perché? Il tuo è un talento sprecato.

Antonio rimase perplesso per una buona manciata di secondi. Era la prima volta da quando l'aveva incontrato che gli rivolgeva spontaneamente la parola, per giunta con una domanda così particolare. Ridacchiò, appoggiandosi al tavolo da pranzo. - Ho sempre desiderato fare il medico, salvare vite, aiutare le persone... Ma purtroppo i costi del college erano troppo alti per la mia famiglia. Entrare nell'esercito era l'unica opzione che mi avrebbe fatto intascare qualche soldo senza doverne sborsare altrettanti. Con il guadagno della mia carriera militare ho potuto acquistare a basso prezzo questo monolocale e qualche libro sulla medicina. Gli oggetti che hai visto me li sono fatti prestare da un'infermiera dell'esercito che conosco bene. - sorvolò sul fatto che questa infermiera fosse la sua ex fidanzata, motivo per cui era riuscito a reperire materiali chirurgici gratuitamente. - Alla fine non posso lamentarmi, i miei genitori sono più che felici di avermi nell'esercito, come mio fratello maggiore. Lui però lavora in un altro reparto.

Romano aggrottò le sopracciglia. - Ma in questo modo stai andando contro il tuo desiderio di salvare delle vite.

Antonio rimase a lungo in silenzio, il sorriso svanì lentamente. Quell'osservazione gli aprì un profondo varco nel petto, colmo di rabbia e risentimento. - Lo so.

- Lavori a contatto con i mutanti? - domandò Romano.

- Raramente, sono una semplice guardia delle mura della fortezza, un cecchino.

- Hai mai ucciso qualcuno?

- No, mai. Non penso nemmeno di averne il coraggio.

Romano annuì sovrappensiero, come se stesse analizzando le parole dello spagnolo. - Potresti sempre lasciare l'esercito, adesso avrai i soldi necessari per il college.

Antonio inclinò la testa. - Non è così semplice. Il reparto anti-mutanti è speciale. Vengono scelte le reclute con i migliori risultati in vari campi, se vieni preso hai il posto fisso assicurato per tutta la vita. E poi sarebbe un gran problema: dovrebbero rimuovere il microchip che ci hanno inciso nell'avambraccio. Sai? È rivestito dal materiale che annulla qualsiasi potere mutante, così da proteggerci anche quando siamo all'esterno della fort-

Si bloccò, notando gli occhi sgranati di Romano. In quel momento si maledì per aver parlato troppo. Quelle erano informazioni segrete, non da spiattellare al primo sconosciuto che capitava a tiro. Però c'era qualcosa in quel ragazzo che lo faceva sentire al sicuro e gli faceva abbassare la guardia. Forse erano i caldi occhi color ambra, un colore insolito, che gli trasmettevano tranquillità.

Cercò di sviare in fretta il discorso. - Ma basta parlare di me! Dimmi di te, piuttosto. Famiglia?

Romano divenne scuro in viso all'improvviso. - Non ne ho una.

- O-okay... - domanda sbagliata. Tentò di rimediare. - Abiti qui a Portland? Studi o lavori?

- Sì, sto a Portland e lavoro. - rispose stizzito.

- Oh! E dove? - chiese Antonio, sorridendo.

- Non sono affari tuoi, bastardo.

Ecco che ricominciava con il caratteraccio, ma Antonio non perse il suo sorriso solare. - Dalle risposte non mi sembri molto felice del tuo lavoro. Forse desideri altro?

Romano, possibilmente, lo guardò con un'aria ancora più assatanata. Antonio si domandò cosa nella sua vita lo avesse reso così aggressivo e schivo.

Il ragazzo sbuffò, appoggiandosi allo schienale del divano. - Non che ti debba interessare, ma nella mia vita ho sempre desiderato diventare cuoco. Non per forza in un ristorante famoso, mi basterebbe anche solo fare pizze. Cucinare mi fa stare bene, mi ricorda i pomeriggi della mia infanzia passati ad aiutare mia madre, forse l'unico periodo in cui sia stato veramente felice. Ma per vari "problemi" adesso lavoro come lavapiatti da More- Cazzo.

Si era bloccato prima di poter pronunciare il nome per intero, ma Antonio capì subito. - Lavori da Moreau? - corrugò le sopracciglia. Moreau era noto nella città per essere un fanatico. Scovava i mutanti e li consegnava all'esercito per nessuna ragione apparente. Era rinomato per la sua crudeltà verso chiunque, riservata in particolare ai suoi dipendenti, ma essendo un affiliato dell'esercito, non era mai stata aperta alcuna indagine su di lui. In quel momento, sentì una strana sensazione all'altezza del cuore. Era... Preoccupato. - Come mai lavori proprio da lui?

Vide il viso di Romano tingersi completamente di rosso, gli occhi sbarrati in un'espressione indecifrabile. Il ragazzo si alzò velocemente dal divano. - Devo andare, farò tardi al lavoro. - si avviò a grandi passi verso l'uscita.

- Aspetta! - Antonio gli afferrò il polso e Romano gli lanciò un'occhiata assassina.

- Che cazzo vuoi? - ringhiò.

Antonio si morse il labbro. - Nel caso avessi altri problemi, non esitare a contattarmi. Io sono qui ogni domenica.

Romano roteò gli occhi. - Bene. - si divincolò e uscì dall'appartamento.

Antonio si chiuse la porta alle spalle e si accasciò di peso sul divano. Con gli occhi fissi sul soffitto, aveva in mente solo il viso del ragazzo che aveva appena incontrato.

 

 

 

Romano corse più veloce che poté. Come gli era venuto in mente di rivelare così tante cose su di sé? Perfino il posto in cui lavorava!

Eppure il sorriso di quel soldato, i suoi dolci occhi verdi... In qualche modo gli avevano dato conforto. Arrossì e scosse la testa per scacciare via i pensieri.

Al diavolo il lavoro, al diavolo la gentilezza di quel soldato. Aveva altro a cui pensare. Un microchip rivestito del materiale usato contro i poteri dei mutanti… Non poteva tenere per sé quell'informazione, c'era una sola persona a cui doveva assolutamente rivelarla.





Spazio dell'Autrice:
Lo so, sto procedendo a rilento, mi dispiace :(
Sono super impegnata, per settembre devo studiare per 3 esami, scrivere almeno primo e secondo capitolo della tesi (e sono indietrissimo) e prepararmi per un'audizione per un corso di musical T^T In più sono pure al mare (finalmente), quindi se non studio sto completamente staccata dal computer, non lo voglio proprio vedere! Probabilmente dopo questo capitolo il prossimo lo pubblicherò direttamente a settembre.
Spero comunque che la fanfiction vi stia piacendo, anche se siamo solo all'inizio! Questo capitolo è tutto incentrato su due coppie che personalmente adoro, una mi fa sciogliere dalla tenerezza e l'altra mi manda nell'iperuranio grazie al carattere da drama queen di Romano!
Buona lettura e a presto!!

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Capitolo 9
*** Capitolo 8 ***


Capitolo 8

 

10 febbraio 1985, sotterraneo di Villa Caesar, Portland, Maine, USA

 

- Dunque mi stai dicendo che c’è un microchip che funge da protezione contro i poteri dei mutanti, inciso sottopelle nell'avambraccio dei soldati? - domandò Arthur Kirkland, scettico.

Era a braccia conserte con la schiena appoggiata al bordo della scrivania del suo ufficio del sotterraneo. Le folte sopracciglia nere erano corrugate in un'espressione pensosa. Nonostante il viso provato dalla stanchezza, i suoi occhi verde smeraldo erano vigili e guizzavano da una parte all'altra, seguendo i suoi pensieri.

- Proprio così. - annuì Romano, seduto su una sedia di legno pericolante. Ansimava per via della corsa fatta per arrivare alla villa e trangugiava grandi sorsi d'acqua fresca.

Alfred, che era in piedi accanto ad Arthur, fece un passo in avanti, dispiegando con uno scatto le ali d'aquila. Romano non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce, ma quando faceva così sentiva i battiti del suo cuore accelerare per la paura. - Vuoi dire che quindi il motivo per cui Arthur non riesce a entrare nelle menti dei soldati e a estorcergli informazioni è un semplice microchip?

- Esatto. - annuì Romano. - Con ogni probabilità creato in laboratorio proprio come i collari e le sentinelle.

- Dove hai reperito questa informazione? - chiese Arthur, aggrottando ancora di più le sopracciglia.

Romano deglutì a fatica un grosso groppo di saliva. Non poteva mentire a un telepate. - Ho fatto la conoscenza di un soldato. Nella conversazione che abbiamo avuto si è lasciato sfuggire questo dettaglio… Lui però non sa che sono un mutante! - si affrettò a precisare. - Ho fatto attenzione a non rivelare nulla.

Arthur annuì, pensieroso. Fece qualche passo su e giù per la stanza, trascinandosi dietro delle penne e dei fogli fluttuanti, che Romano dovette prontamente schivare, piegandosi. Quando si fermò, gli lanciò una rapida occhiata. - Non perdere i contatti con questo soldato, potrebbe rivelarsi utile.

- Cosa?! - Romano balzò in piedi. - Non se ne parla! E se dovesse scoprirmi? Non posso perdere tempo con queste sciocchezze, devo salvare mio fratello.

- Di tuo fratello ce ne occuperemo noi, ma il tuo aiuto sarà fondamentale per tirarlo fuori dalla fortezza. - lo sguardo di Arthur era eloquente: non ammetteva storie a un suo ordine. - Se dovesse scoprire la tua identità, interverrò io personalmente e sarai al sicuro.

Romano borbottò qualche imprecazione, ma non ribatté più. Scontrarsi con Arthur non avrebbe avuto senso.

Il biondo addolcì il tono e rilassò il viso. - Beh, in ogni caso, sei arrivato giusto in tempo.

Romano alzò un sopracciglio, incrociando le braccia. - Per cosa?

Arthur gli sorrise senza rispondergli e poi appoggiò una mano sulla spalla di Alfred. - Raduna tutti nella sala delle riunioni, annunceremo il piano per la prossima soffiata.

 

 

Romano non si sarebbe mai aspettato nella sua vita di ritrovarsi nella stessa stanza con una quarantina di mutanti assetati di vendetta e voglia di riscatto. Come riuscissero a starci tutti nella sala comune del sotterraneo della villa era ancora un mistero.

Si fece largo tra la folla in cerca di un posto a sedere. L’atmosfera all’interno della sala era inebriante: c’erano adulti, ragazzi e perfino bambini, che correvano tra le gambe dei presenti. Passò di fianco al mutante che l'aveva medicato qualche giorno prima, Yao, che lo salutò con un cenno del capo. Stava parlando con una donna, la quale accarezzava i capelli di un bambino, avvinghiato alla sua vita. Romano intuì che fossero una famiglia. Poco più avanti un gruppo di quattro ragazzi dalla carnagione chiara e i capelli biondi sembrava intento in una conversazione molto animata in una lingua che non conosceva, ma che intuì essere nordica. Ai piedi di uno di loro era accovacciato un cagnolino dal pelo bianco e riccioluto che sonnecchiava tranquillamente, per niente infastidito dalla confusione. Siccome erano troppo rumorosi per i gusti dell’italiano, in particolare il ragazzo con una terrificante pettinatura “a carciofo”, decise di sedersi il più lontano possibile. Notò il mutante con il completo di velluto viola dell’altro giorno - Roderich, se non ricordava male - seduto a braccia conserte in un angolo della stanza, in disparte. Teneva gli occhi chiusi, come se stesse dormendo, e non sembrava badare alle parole di un ragazzo, seduto alla sua destra, dai capelli castani coperti in parte da un’eccentrica bombetta rossa. Gli parlava con foga indicando ogni tanto un libro che stringeva tra le mani. Quando sorrideva mostrava i canini aguzzi, come quelli di un vampiro, e gli occhi rossi brillavano di entusiasmo. Romano temette che da un momento all’altro potesse saltare al collo di Roderich e prosciugargli tutto il sangue che aveva in vena. Quel pensiero lo fece rabbrividire e si allontanò alla svelta.

Trovò una sedia libera sul lato sinistro della stanza, abbastanza lontana dalle prime file.

Il vociare cessò non appena Arthur mise piede nella stanza.

- Dunque, direi che possiamo iniziare. - esordì, mettendosi a braccia conserte davanti a un tavolo, sul quale era seduto Alfred con il suo solito sorriso spavaldo, elettrizzato per la situazione.

- È giunto il momento di annunciare il piano per la prossima soffiata. - lo sguardo sicuro squadrava i presenti, che pendevano dalle sue labbra. - Sarà decisiva. L’obiettivo primario è indebolire le difese della fortezza. Dovremo impiegare tutte le nostre forze per ottenere ogni informazione necessaria in vista futuro attacco finale. Questo sarà possibile grazie ai poteri dei nuovi arrivati. Alfred?

Il ragazzo interpellato balzò giù dal tavolo, lo aggirò e si mise di fronte alla lavagna appesa dietro al tavolo. Prese in mano un gessetto da una scatolina e iniziò a disegnare. Sembrava al settimo cielo per quel compito, come un bambino. Solo dopo qualche attimo Romano realizzò che stava disegnando il perimetro della roccaforte e di conseguenza la pianta dell’intera fortezza vista dall’alto.

Arthur proseguì. - La fortezza è dotata di un singolo accesso, vale a dire il portone principale. Viene sorvegliato da guardie e telecamere giorno e notte. L’ingresso è possibile solo tramite documentazione e un controllo facciale. Dunque, potremo entrare solo dall’alto.

Alfred marcò il margine della fortezza visto dall’alto per evidenziare le mura, contrassegnandolo da quattro quadrati ai lati e un rettangolo nella parte superiore.

- Le mura vengono sorvegliate da cecchini e dentro le quattro torri di vedetta, che attivano e disattivano i fari, sono appostate almeno due guardie. - continuò Arthur, scrutando i presenti. - Ma a noi interessa la torre di controllo.

Indicò il rettangolo disegnato da Alfred. - Se disinneschiamo il meccanismo che alimenta la barriera anti-poteri, avremo libero accesso a ogni angolo della fortezza.

Roderich intervenne. - Entrando nella torre non faremo attivare l’allarme?

Arthur rispose con un ghigno. - Ecco perché le altre quattro torri saranno indispensabili. - prese a camminare su e giù per la stanza, guardando negli occhi i rivoluzionari uno a uno. - Agiremo di notte. Per poter entrare indisturbati nella fortezza, spegneremo i fari delle due torri a Nord, quelle ai lati della torre di controllo. In questo modo noi non rischieremo di dispiegare troppo le nostre forze, mentre i soldati saranno costretti a dividersi tra chi starà di guardia sulle altre due torri e chi accorrerà per le due assediate. Le torri saranno dunque l’esca su cui si concentreranno i soldati, dandoci il tempo di arrivare ai comandi, disattivare la barriera, entrare nella fortezza per rubare tutte le mappe che troveremo ed eventualmente addentrarci più a fondo per tracciare il territorio interno, includendo quindi corridoi, stanze, celle dei prigionieri, laboratorio e… Alfred?!

Il suono del gesso sulla lavagna si interruppe e l’interpellato si voltò, colto sul fatto: stava disegnando una gigantografia di se stesso in cima alla fortezza con le ali spiegate e intento a salvare i mutanti sullo sfondo. Romano gli avrebbe dato un dieci per la creatività.

- Cosa? - domandò Alfred, sinceramente confuso. - Stavi comunque arrivando alla parte in cui dici che io sono l’eroe, no?

Arthur si strusciò una mano sul viso, sforzandosi di non lanciargli un tavolo in testa con la sola forza del pensiero. - Stavo arrivando all’assegnazione dei ruoli, ora puoi sederti.

Alfred fece spallucce, lanciando in aria il gessetto e riprendendolo al volo con una mano, per poi tornare a sedersi a gambe incrociate sul tavolo, alla destra di Arthur.

Il capo dei rivoluzionari sospirò, ricomponendosi. - Ognuno di voi sarà assegnato a quattro categorie in base alle capacità e all’utilità del vostro potere. Innanzitutto, abbiamo i combattenti,  divisi in due gruppi: i più abili con le armi da fuoco e nel corpo a corpo affronteranno i soldati sulle mura, mentre i mutanti che necessitano dell’uso dei loro poteri staranno alla base della fortezza, liberi dal potere della barriera. Poi abbiamo gli addetti a disattivare i due fari e la barriera e alla confisca delle mappe. Questi saranno portati alle torri e, terminato il lavoro, condotti in salvo dall’ultima categoria, i trasportatori, cioè chiunque abbia un potere che gli permetta di dileguarsi dal posto alla svelta, come Alfred, Yao e Linh. I combattenti invece dovranno scalare la roccia a piedi, eventualmente aiutati dai mutanti a terra che potranno sollevarli con la magia, come Vladimir.

Il viso del vampiro di fianco a Roderich si illuminò, mostrando i canini aguzzi. - Farò del mio meglio!

Romano si guardò intorno. Alcuni dei presenti annuivano pensierosi, intuendo già il ruolo a loro assegnato, altri si scambiavano occhiate preoccupate. L’italiano non potè far a meno che confermare il loro timore: sembrava un piano destinato a fallire miseramente. Si prese coraggio e alzò la voce.

- Con tutto il rispetto, Arthur, ma mi sembra un piano suicida. - la stanza ammutolì. Si sentiva gli occhi di tutti i presenti addosso, ma questo non frenò la sua lingua lunga. - Chiunque si addentrerà nei corridoi della fortezza per rubare le mappe, andrà incontro a morte certa. I soldati spareranno a vista o peggio, li cattureranno e tortureranno pur di ottenere tutte le informazioni di cui hanno bisogno. E poi dove le troviamo le armi per i mutanti mandati sulle mura?

Dopo qualche attimo di silenzio, il ragazzo biondo con la pettinatura a carciofo si fece sfuggire una risata di scherno, guadagnandosi l’occhiataccia del mutante alla sua sinistra. - Sei nuovo, non è vero?

Romano divenne rosso fino alla punta delle orecchie, piccato da quell’affermazione, e in quel momento volle sprofondare sulla sedia e diventare invisibile per sempre.

Arthur zittì il ragazzo nordico con un’occhiata torva. - Romano, sono consapevole dei rischi e voglio che lo siate anche tutti voi. Non sarà una missione facile, per questo chi non si sente all’altezza potrà farsi da parte già da questo momento.

Altri mormorii si levarono nella stanza, ma nessuno si mosse. Romano rimase sbalordito dal coraggio di ognuno di quei mutanti, un coraggio che lui era certo di non possedere. Nonostante questo, non abbandonò la stanza.

Il capo dei rivoluzionari piegò le labbra in un sorriso scaltro. - Molto bene. Abbiamo otto giorni per preparaci. Probabilmente il generale Beilschmidt si aspetta un attacco, dobbiamo agire con cautela per ridurre al minimo i danni e fare in modo che nessuno di noi venga catturato.

Rovistò nella tasca della sua giacca e tirò fuori un foglietto di carta  bianco. - Io disattiverò la barriera, mentre voi vi occuperete dei fari e dei soldati. Agirò da solo. Come molti di voi già sapranno, sono nel mirino dell’esercito da molto tempo, in particolare di lui. - Voltò il foglio, in modo che tutti potessero vedere il suo contenuto. Era la fotografia di un ragazzo in divisa, a giudicare dalle targhette sul petto era un colonnello. I capelli rosso fuoco gli contornavano il viso allungato e spigoloso, definito da due sottili occhi verdi, come quelli di un serpente, sovrastati da due folte sopracciglia nere. Le labbra sottili erano incurvate in un ghigno raccapricciante. - È un uomo dotato di una crudeltà fuori dal comune, che mi vorrebbe morto più di chiunque altro e che non ha alcuna pietà per i mutanti. Imbattersi in lui significa andare incontro a morte certa.

Romano sapeva che dopo l’intervento di prima sarebbe stato meglio se fosse rimasto zitto, ma non poteva tenere a freno la curiosità. - Perché? Chi è?

Arthur tenne lo sguardo basso sulla fotografia. Forse fu solo un’impressione di Romano, ma il suo viso sembrava attraversato da un velo di timore. Poi prese un sospiro e puntò gli occhi su di lui. - È Allistor Kirkland. Mio fratello maggiore.

 

 

12 febbraio 1985, fortezza di Westbrook, Maine, USA

 

L’eco dei suoi stessi passi pesanti che rimbombava sulle pareti dei corridoi semivuoti non faceva altro che aggravare il dolore che Ludwig provava alla testa. Erano ormai giorni che pensieri invadenti gli impedivano di riposare serenamente, facendogli passare notti insonni a sudare e a rigirarsi nel letto.

Si massaggiò le tempie tra le dita guantate, emettendo un lieve sospiro colmo di stanchezza. Si chiese se, a lungo andare, questo problema avrebbe compromesso il suo lavoro all’interno della fortezza. Forse avrebbe potuto chiedere una pausa di qualche giorno per liberare la mente, dopotutto erano anni che lavorava senza alcun giorno di riposo.

Scosse la testa. Non era quello il motivo delle notti passate a fissare il soffitto della sua stanza, dei continui pensieri che gli affollavano la mente senza permettergli di dormire, dell’angoscia che gli stringeva il cuore e gli attanagliava lo stomaco quasi da fargli male.

Tutto era iniziato quel giorno in laboratorio. Ludwig non sapeva come spiegarselo, ma vedere di persona il trattamento riservato ai mutanti dentro quelle stanze lo aveva scosso più di quanto volesse ammettere. Era sempre stato al corrente degli esperimenti che il suo stesso nonno aveva avviato per studiare i poteri dei mutanti, ma forse era stato più facile ignorare la realtà piuttosto che affrontarla. In un solo istante, tutte le certezze di cui era stato imbottito fin da bambino erano crollate. Non avrebbe dovuto sentirsi così, si diceva. Lui era un soldato, lui era normale, era diverso da quei mutanti, quegli scherzi della natura che non sarebbero dovuti esistere… O almeno così gli era stato detto. Non ci aveva mai creduto veramente, ma fingere di crederci era stata l’unica opzione possibile per tutta la sua vita.

Poi era arrivato il giorno in infermeria. Ludwig era andato a trovare Feliciano nonostante non fosse necessario. Eppure lui l’aveva fatto comunque, era stato al suo fianco ogni giorno fino a che non si era svegliato. Vederlo riaprire gli occhi lo aveva per un attimo liberato dal profondo senso di colpa che provava da tempo.

Io penso che tu non abbia alcuna colpa” gli aveva detto. Quelle parole lo avevano rassicurato, ma al tempo stesso si era domandato se non lo stesse dicendo solo per bontà d’animo, costringendolo a scavare nei suoi pensieri più profondi per cercare una colpa da affliggersi per ciò che era successo a Feliciano e non solo.

Sin dal giorno in cui era arrivato, quel mutante aveva avuto uno strano effetto su di lui. Era impacciato, solare, anche un po’ stupido a dirla tutta, e soprattutto vedeva il buono nelle persone. Anche in quelle che non se lo meritavano, come lui. Questa sua gentilezza inizialmente lo aveva irritato, eppure al contempo ne era stato attratto come un magnete. Ed era proprio dal giorno in infermeria che i suoi pensieri sul mutante non gli avevano dato un attimo di pace. Ogni notte, poco prima di addormentarsi, Ludwig si ritrovava ancora seduto nella stanza dell’infermeria, di fianco al letto di Feliciano, la mano di lui appoggiata sulla sua guancia calda per il rossore, i grandi e mansueti occhi marroni fissi sui suoi, il suo viso a qualche centimetro dal suo, tanto da riuscirne a sentire il respiro. E ogni notte si dimenava sulla sua branda per le emozioni che gli faceva provare quella scena impressa nella sua memoria. Immaginava di poter toccare a sua volta il viso di Feliciano, di stringere i suoi fianchi sottili tra le mani, come quel giorno nel bagno, di sfiorare il suo collo nudo con le labbra…

Ludwig sobbalzò e bloccò la sua marcia. Scosse con forza il capo, allontanando quei pensieri indecenti dalla sua mente. Il cuore che gli martellava nel petto. Che cosa avrebbe pensato suo nonno? Lui, un soldato, che provava dei sentimenti per un mutante. L’avrebbe rinchiuso a vita e non sarebbe stata la prima volta che serbava quel trattamento a un nipote… Quel pensiero lo riportò alla realtà: lui era il capo delle guardie della fortezza di Westbrook e aveva dei lavori da svolgere, non sarebbe stato intralciato da pensieri lascivi.

Il primo compito di quella giornata era portare Feliciano a sottoporsi a dei controlli di salute, come stabilito una settimana prima.

Varcate le porte che conducevano al corridoio delle celle, andò spedito verso quella di Feliciano. - Ti accompagno in infermeria. - disse una volta aperta la cella.

Feliciano balzò giù dal letto a castello con il suo solito sorriso radioso stampato in viso. Almeno non sembrava stare male.

Ludwig lanciò un’occhiata a Kiku, il suo compagno di cella, il quale lo ignorò, distratto dai fratellini che gli parlavano in cinese, lingua che il soldato non comprendeva. Non era ancora stato capace di creare un rapporto con lui come era riuscito invece con Feliciano o Elizabeta, ma d’altronde perché avrebbe dovuto? Kiku aveva tutto il diritto di essere infuriato per la situazione in cui si trovava. Un’altra fitta dettata dal senso di colpa gli trafisse il cuore.

La voce squillante di Feliciano lo distrasse. - Andiamo da Erica, non è vero? - chiese muovendo le braccia con fare concitato. - Mi piace andare da lei, è proprio una bella ragazza e poi è simpatica.

Ludwig sospirò: a quanto pare il mal di testa non gli sarebbe passato in giornata. - Andiamo.

Prese Feliciano per l’avambraccio e se lo trascinò dietro, senza però fargli del male. Era cosciente del fatto che Feliciano gli stesse parlando, ma Ludwig non aveva la forza mentale per ascoltarlo.

Poco prima di mettere piede fuori dal corridoio, sentì una voce fin troppo familiare provenire da una delle celle alla sua destra. - Una volta eri gentile anche con me.

Un brivido gli percorse lungo il corpo, sentì le dita delle mani formicolargli e il cuore pompare dentro il petto sempre più forte. Quel senso di colpa che lo tormentava tornò più vivo che mai a invadergli la mente.

Voltò il capo lentamente e oltre le sbarre vide una persona che conosceva fin troppo bene e che era dentro la fortezza ormai da mesi: Gilbert Beildschmidt, suo fratello maggiore.

Da quando era stato rinchiuso non era cambiato granché. I capelli bianchi erano un po’ più lunghi e spettinati, gli occhi rossi ancora brillavano scaltri come quelli di una volpe e non aveva perso il ghigno beffardo che lo aveva sempre caratterizzato e con cui lo stava guardando in quel momento.

- Ciao, fratellino, come te la passi nella parte fortunata della prigione? - domandò avvicinandosi alle sbarre.

Ludwig cercò di deglutire, ma la gola era troppo secca. Voleva fuggire da quell’incontro, ma le gambe erano paralizzate. In quel momento riusciva a pensare solo a una cosa: “Colpevole, colpevole, colpevole!”. Gilbert non gli aveva quasi mai rivolto la parola da quando era stato rinchiuso nella fortezza e questo suo comportamento aveva aiutato Ludwig a non pensare a lui. Ma adesso era lì, in piedi davanti a lui, dietro le sbarre della prigione in cui lui stesso lavorava. Ludwig come soldato si sarebbe dovuto sentire più forte, ma non lo era affatto, non di fronte a suo fratello. Lui non era mai stato forte, Gilbert sì.

- Ludwig… - pigolò la voce di Feliciano alle sue spalle. - Gilbert è tuo fratello?

- Oh Feli! - esclamò Gilbert sorridendo. - Mi spiace avertelo tenuto nascosto. Lud è proprio il mio fratellino, guarda quanta strada ha fatto. Così giovane ed è già capitano delle guardie dell’esercito statunitense!

Nelle sue parole non c’era traccia di risentimento, ma Ludwig sapeva che ne provava più di quanto ne dimostrasse. E lo provava proprio verso di lui, la causa del suo imprigionamento.

Si prese coraggio e guardò suo fratello negli occhi. - In questo momento sono in servizio, non posso chiacchierare con te.

Si voltò, ma sentì la mano di Gilbert stringersi intorno al suo polso. - Non parliamo da mesi, Lud. Non respingermi così.

Quelle parole minarono la sua compostezza, ma resistette all’impulso di cadere tra le braccia del fratello e piangere disperato in cerca di affetto e sostegno, come quando erano bambini.

Due guardie avanzarono verso Gilbert intimandogli con fare aggressivo di lasciare la presa, ma Ludwig le bloccò con un’occhiata raggelante. - Non ce n’è bisogno, posso gestire la situazione da solo. - poi rivolse lo sguardo verso il fratello, liberandosi dalla sua stretta. - Al momento sono impegnato. E sai che non ci è concesso parlare. Ci vediamo, Gilbert.

Afferrò il braccio di Feliciano, stavolta senza misurare la propria forza, e lo trascinò via dalla stanza. Poteva sentire gli occhi affranti di suo fratello alle sue spalle, la delusione che provava e, senza dubbio, il disprezzo. Prima di chiudersi le porte alle spalle, sentì Gilbert urlargli dietro con il suo solito tono canzonatorio. - Ricordati di dar da mangiare a Gilbird!

La freddezza con cui aveva rivolto quelle parole a Gilbert lo spaventò. Da quando era diventato così bravo a mascherare i suoi reali sentimenti? In realtà non vedeva l’ora di parlare con suo fratello, di riabbracciarlo, di tirarlo fuori da quella prigione… Ma non poteva. Non finché era sotto il controllo del nonno.

- Ludwig? Mi stai facendo male. - sussurrò Feliciano.

Il soldato lasciò immediatamente la presa, provando quasi dolore alle dita, rimaste fino a quel momento contratte intorno al suo braccio. - Perdonami. - abbassò lo sguardo, incapace di incrociare quello insistente del mutante.

Feliciano si massaggiò il braccio e non esitò a parlare. - Secondo me dovresti dargli una possibilità e riappacificarvi, qualsiasi cosa sia successa tra voi due.

Ludwig non gli rispose. Non era in vena di parlare della situazione tra lui e suo fratello, sentiva solamente una profonda stanchezza e un dolore pulsante alla testa, avrebbe voluto affondare la faccia nel cuscino del suo letto e urlare fino a farsi mancare l’aria.

- I litigi tra fratelli non durano a lungo, specialmente se si vogliono tanto bene. - continuò Feliciano. - E io sono certo che ve ne volete l’uno per l’altro.

- Basta, Feliciano. - mormorò Ludwig. Non pensava sarebbe stato in grado di sopportare la parlantina del mutante in quella situazione.

- Sai, a volte capita che sul momento ci si senta sopraffatti dalle proprie emozioni o dal proprio orgoglio, ma poi è necessario metterlo da parte per trovare una soluzione comune. E vedrai che tornerete più amici di prim-

Ludwig lo interruppe bruscamente. - Ho detto basta! - sbottò, alzando la voce. Vide Feliciano sobbalzare, ma non si fermò. Le emozioni che aveva imbottigliato fino a quel momento si riversarono fuori come un fiume in piena. - Non possiamo parlare adesso e non potremo farlo in futuro, non c’è alcuna soluzione. - sapeva di doversi fermare, ma non potè controllare le parole e la rabbia che provava. - Io e Gilbert non siamo più fratelli. Le nostre vite ormai sono separate. Il nostro rapporto non sarà mai più come prima, ma tu non puoi saperlo perché non proverai mai ciò che sto provando io. Non saprai mai cosa vuol dire essere separati dal proprio fratello, perché non ce l’hai!

Vide il volto sconcertato di Feliciano contorcersi piano piano in una smorfia di tristezza, gli occhi gli si bagnarono dalle lacrime e Ludwig sentì il cuore sprofondargli nello stomaco. Era andato troppo oltre, aveva lasciato che la rabbia prendesse il sopravvento, spaventando Feliciano. Non ebbe il coraggio di guardarlo negli occhi e si voltò. - La porta dell’infermeria è quella lì a destra. - la indicò con un cenno del capo. - Entra da solo. Ho bisogno di un po’ di tempo per pensare.

Prima di incamminarsi dalla parte opposta del corridoio, vide le labbra di Feliciano schiudersi in cerca di qualcosa da dire, ma poi lo sentì avviarsi verso l’infermeria.

Ludwig trovò il primo bagno libero e ci si infilò dentro. Si sciacquò il viso con un po’ d’acqua fresca del lavandino e rimase a fissare il suo riflesso allo specchio. Il rubinetto ancora aperto, lo scrosciare dell’acqua come sottofondo ai suoi pensieri.

Non si riconosceva più. Gli occhi stanchi circondati da occhiaie, le guance scavate dalla stanchezza e le mani che tremavano erano tutti segni del profondo rimorso che lo logorava.

Perché era ancora lì? Che cosa ci avrebbe guadagnato? Niente sarebbe bastato a colmare ciò che aveva perso, primo fra tutti il legame con suo fratello.

Poteva pur sempre congedarsi e dedicarsi alle sue passioni. Amava studiare. Avrebbe potuto iscriversi al college. Ma a che costo? Non poteva lasciare soli suo fratello, Feliciano e gli altri mutanti in quella prigione, doveva fare in modo che non finissero in situazioni pericolose per la loro incolumità. Non che ci fosse riuscito in ogni caso…

Chiuse gli occhi e sospirò, girando la manopola del rubinetto. Sentì le gocce di acqua rigargli le guance e cadere sul lavandino. Quando riaprì gli occhi, vide una figura alle sue spalle. Sobbalzò contenendo un grido e si voltò di scatto. - Nonno?! Cosa ci fai qui?

Con il suo fare serio e austero, suo nonno, Walter Beildschmidt, era in piedi sulla soglia del bagno. Il volto imperscrutabile e duro come la pietra, la mano destra aggrappata al suo bastone di legno nero e l’altra posta dietro la schiena. Alzò un sopracciglio, squadrandolo con i suoi freddi occhi celesti. - Ti senti poco bene, Ludwig?

Il ragazzo deglutì. Non poteva rivelare ciò che gli passava per la testa, i dubbi che lo assillavano, i sentimenti che provava. Tentò di ricomporsi levandosi l’acqua dal viso e tirando indietro i capelli con le mani. - Ho lavorato molto negli ultimi mesi e la stanchezza ha preso il sopravvento per un attimo. Sto bene. - lo rassicurò. Dopotutto, c’era un fondo di verità in ciò che stava dicendo.

Suo nonno assottigliò lo sguardo, come in cerca di qualche traccia di bugia. Si limitò ad annuire con un solo cenno del capo. - Se ostacola il tuo duro lavoro, sono disposto a concederti qualche giorno di riposo. Devi solo chiedere.

Ludwig annuì. Era più semplice a dirsi che a farsi.

Dopo qualche attimo, Walter gli fece cenno con il capo di seguirlo. - Voglio che tu veda una cosa, adesso.

Il suo tono non ammetteva dissensi, ma Ludwig si prese coraggio. - Adesso? Ma sono in servizio, ho un mutante a mio carico in infermeria in questo momento.

Suo nonno sembrò pensarci su. - L’italiano Vargas, non è vero? Puoi portare anche lui. Incontratemi all’ingresso dei laboratori.

Si avviò per uscire dal bagno, ma Ludwig lo incalzò. - Per quale motivo?

Walter si fermò, il pomello della porta tra le dita. Incurvò le labbra in un mezzo sorriso quasi inquietante. - Ti mostro la fonte che alimenta la barriera anti-mutanti.




Spazio dell'Autrice
Sono tornata dalle vacanzeeee
Ma ho tre esami a settembre e devo finire il primo capitolo della tesi, sono sommersa da cose da fare T^T
Almeno sono riuscita a pubblicare questo capitolo, dai! Si avvicina l'azione!
Spero che vi sia piaciuto, ci rivediamo alla prossima! Bacii <3

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Capitolo 10
*** Capitolo 9 ***


Capitolo 9

 

12 febbraio 1985, laboratorio fortezza di Westbrook, Maine, USA

 

Feliciano riusciva a stento a trattenere le lacrime che minacciavano di bagnare le sue guance, di fronte a Erica, l’infermiera che gli stava effettuando il prelievo del sangue.

La ragazza gli lanciò un’occhiata veloce, mentre gli legava il laccio emostatico intorno al braccio. - Oh non devi preoccuparti, sarà come sentire un pizzicotto. Non c’è bisogno di piangere.

Gli elargì un sorriso sbrigativo, ma comunque rassicurante, e si mise a preparare i materiali necessari.

Feliciano tirò su col naso e si asciugò gli occhi con la manica del braccio libero. Ovviamente quelle lacrime non erano dovute alla paura dell’ago. Poteva ancora sentire la voce alterata di Ludwig tuonargli nella mente, il viso contratto dalla rabbia e dal dolore. Si sentiva tremendamente in colpa per aver scatenato quello scatto d’ira, non avrebbe dovuto impicciarsi in faccende che non lo riguardavano. Non sapeva come tenere a freno la lingua, il nonno diceva sempre che era un difetto di famiglia. Pensava di potergli dare qualche consiglio utile, non considerando lo stato d’animo in cui si trovava in quel momento dopo l’incontro con il fratello. Però le parole che poi aveva detto…

Feliciano un fratello ce l’aveva. Romano Vargas. E sapeva molto bene cosa volesse dire essere separato da lui, senza alcuna possibilità di comunicare e abbracciarsi. Ma lui aveva mentito, il primo giorno che aveva messo piede in quella fortezza, sulla sua inesistenza, e Ludwig questo non poteva saperlo. Ai suoi occhi era un mutante solo, senza famiglia e affetti. Sul momento era stato doloroso. Era come se stesse eliminando una parte importante dalla sua vita, ma sapeva che era stato necessario per proteggere Romano. Non l’aveva cancellato del tutto, possedeva ancora i ricordi di lui, i pomeriggi d’estate passati a mangiare le angurie sotto il porticato della loro casa in Toscana, la coperta logora e sudicia condivisa nel tragitto dall’Italia agli Stati Uniti sulla nave colma di mutanti clandestini, le corse per le strade di New York dopo aver rubato qualche pagnotta per divertimento, le risate di gioia, lo stomaco che faceva male per l’adrenalina del momento, Romano che gli urlava di correre più veloce, la sua schiena che si allontanava sempre di più.

Fece un sospiro tremante, frenando i ricordi. Sapeva che se avesse continuato a pensare a suo fratello, sarebbe scoppiato a piangere sul serio.

Non si era nemmeno accorto che il prelievo fosse già stato effettuato e che Erica gli stesse passando una garza sul punto in cui aveva inserito l’ago, fissandola poi con un cerotto.

- Finito! - esclamò, spingendo la sedia con le ruote fino alla sua scrivania, dove compilò un paio di documenti.

Sentì qualcuno bussare e la porta alle spalle di Feliciano si aprì, mostrando la figura di Ludwig. Aveva il viso leggermente umido e aveva tirato indietro i capelli con dell’acqua. I loro sguardi si incrociarono, ma Feliciano non riuscì a sostenere quello del soldato e si voltò di scatto, giocherellando con la garza sul braccio.

- Oh, Ludwig! - il viso di Erica si illuminò e saltellò verso di lui, porgendogli i documenti appena compilati. - Per le analisi dovremo aspettare qualche ora, ma dalla visita preliminare sembra stare benone. I valori sono regolari e non mostra più alcun segno di stanchezza. Penso che non saranno più necessari ulteriori controlli.

Ludwig annuì, serio. - Grazie, Erica. - Diede un colpetto sulla spalla di Feliciano, intimandogli di seguirlo fuori dalla stanza.

Prima che potesse aprire la porta, Erica lo incalzò. - Per caso hai visto Antonio? Sono già due settimane che non lo vedo in giro.

Feliciano lanciò un’occhiata a Ludwig, che aveva aggrottato le sopracciglia, sinceramente confuso per la domanda insolita. - No, non l’ho incrociato. So che è molto impegnato con i turni notturni.

Erica annuì sovrappensiero. - Pensi che mi stia evitando?

- Non saprei. - Ludwig alzò lo sguardo, cercando qualcosa da aggiungere. - Perché non lo chiedi a lui quando lo incontri?

La ragazza arricciò le labbra, delusa dalla risposta, e prese a sistemare gli oggetti utilizzati, borbottando qualcosa di indecifrabile.

Ludwig fece uscire Feliciano e si chiuse la porta alle spalle, senza proferire alcuna parola.

Percorsero il corridoio, ma invece di proseguire dritto, Ludwig imboccò un altro corridoio sulla sinistra, che Feliciano sapeva portare verso i laboratori. Si irrigidì e cominciò a rallentare.

Ludwig, notando il suo disagio, si affrettò a chiarire la situazione. - Non sarai sottoposto ad alcun esperimento. Il generale mi ha ordinato di raggiungerlo ai laboratori e, dato che sei sotto la mia sorveglianza, devo portarti con me. - esitò per un attimo, poi gli sfiorò il braccio con la mano. - Non ti faranno del male, lo prometto.

Feliciano cercò conforto nel suo sguardo, ma quello di Ludwig era schivo e impenetrabile. Si limitò ad annuire e a seguire il soldato. D’altronde, non aveva altra scelta.

Per poco non si strozzò con la sua stessa saliva quando vide che il generale Beildschmidt in persona li stava aspettando all’ingresso dei laboratori. D’istinto, si nascose dietro la schiena di Ludwig, sperando di risultare il più invisibile e insignificante possibile.

Quando li vide, il generale si limitò ad alzare il sopracciglio sottile. Lo sguardo gelido provocò a Feliciano un brivido lungo la schiena. Ricordava vagamente il momento in cui, il giorno dell’esperimento, era entrato nella stanza e gli si era avvicinato, ma Feliciano era troppo debole per riuscire a focalizzarsi sul suo viso o sulle parole che disse allora. Poteva ancora percepire le sue dita strette sulla sua mandibola in una morsa salda. La sensazione di disagio che gli trasmetteva non lo faceva sentire al sicuro.

Ludwig piantò i piedi per terra e fece il saluto militare, ricomponendosi solo al cenno di assenso del generale. Feliciano, preso alla sprovvista, abbozzò un timido inchino con il capo, senza mai alzare lo sguardo verso il generale. Si sentiva i suoi occhi addosso, ma forse era solo una sua impressione dettata dalla paura.

- Seguimi, Ludwig. - disse soltanto.

Il tragitto all’interno del laboratorio fu dominato da un silenzio tombale, rotto soltanto dal rumore delle scarpe dei due soldati e dal bastone del generale. Feliciano si chiese se Ludwig non gli avesse mentito e se non lo stessero portando a sostenere altri esperimenti. Sentì il cuore battere all’impazzata al solo pensiero. Ma, per sua fortuna, sorpassarono l’area addetta agli esperimenti e si addentrarono in un corridoio in penombra, che terminava con una porta di metallo senza maniglia. Il generale si sfilò il guanto nero dalla mano destra e la appoggiò su un piccolo schermo rettangolare posto alla destra della porta. Una luce blu scannerizzò l’intera superficie del palmo e con un sonoro bip la porta scorrevole si aprì. La stanza buia al suo interno era grande solo per contenere delle scale di emergenza in acciaio. Salirono per quelli che sembrarono cinque piani di scale e finalmente arrivarono alla porta in cima, che il generale aprì con lo stesso metodo.

Si ritrovarono in una grande sala con quattro file di tavoli, ognuno traboccante di una decina di monitor. Tutte le postazioni erano occupate da uomini con il camicie e delle guardie stavano in piedi contro i muri della stanza. L’atmosfera era frenetica, dominata dal vociare degli scienziati, dal rumore delle dita che picchiettavano sui tasti dei computer e il suono delle macchine in funzione. Era il centro di controllo dell’intera fortezza.

Sul lato sinistro della stanza, da dove erano arrivati, si stagliava un’enorme vetrata, dalla quale Feliciano potè vedere le quattro torri di vedetta sul perimetro delle mura. Azzardò un’occhiata in basso e vide il tetto del resto della fortezza e il cortile in cui lasciavano liberi i mutanti, in quel momento deserto.

Nessuno fece caso a loro, se non qualche saluto militare da parte delle guardie rivolto al generale, il quale si incamminò verso l’enorme schermo biancastro al quale erano diretti gli sguardi degli scienziati. Ludwig lo seguì e così fece anche Feliciano.

Man mano che si avvicinavano, tentò di capire cosa ci fosse all’interno dello schermo. Ma solo quando furono abbastanza vicini, capì che cosa fosse. Si bloccò a metà strada, spalancando gli occhi. Gli mancò un battito.

Anche Ludwig si fermò e il suo viso era attraversato da un’espressione di puro stupore e confusione. - Ma quello è…

Feliciano non poté credere ai propri occhi. Quello che vedeva davanti a sé non era uno schermo, ma un enorme vetro, al di là del quale c’era quella che sembrava la stanza di un ospedale: i muri erano intonacati di un bianco candido da far male agli occhi. Alla sinistra della stanza era posto in orizzontale un letto dalle lenzuola bianche, di fianco al quale stava un tavolo con due sedie dello stesso colore. L’intera stanza era costellata da giochi da tavolo e giocattoli colorati: una scacchiera con le pedine sparse su tutto il tavolo, una lavagnetta nera in ardesia, dei blocchi in legno impilati uno sopra l’altro fino a formare una torre pericolante, una tela appoggiata su un cavalletto per dipingere. Sembrava la camera da letto di un bambino.

Ma ciò che sconvolse Feliciano fu il soggetto al centro della stanza: un ragazzo che non poteva avere più di 18 anni era seduto a gambe incrociate su un tappeto bianco e faceva palleggiare una palla blu e rossa. I capelli biondi gli ricadevano morbidi sulle spalle minute, gli occhi verdi si muovevano su e giù, seguendo il ritmo della palla. Il capo era avvolto da una serie di cavi intrecciati tra loro, che terminavano in due cuscinetti adesivi attaccati alle tempie. Indossava la sua stessa divisa bianca da prigioniero. Era un mutante.

- Esatto. - annuì il generale Beilschmidt, con un accenno di sorriso agghiacciante. - È il mutante che alimenta la barriera della fortezza. Il suo particolare potere di annullare i poteri degli altri mutanti è risultato molto utile al successo delle ricerche dei nostri scienziati, permettendo di arrivare a traguardi mai raggiunti prima. La fortezza gode di protezione solo grazie a lui. Il suo nome è Feliks Łukasiewicz.

- Perché non me ne hai mai parlato prima? - chiese Ludwig, una volta ripresosi dallo sconcerto.

Il generale gli lanciò un’occhiata torva. - Nessuno sa dell’esistenza di questo mutante, nemmeno i ribelli. È un’arma a nostro vantaggio che deve rimanere segreta. In quanto mio nipote, nonché mio successore, è bene che tu sappia. Ripongo in te la mia fiducia, Ludwig.

Feliciano poté scommettere di aver visto il volto di Ludwig sbiancare, dopo quelle parole.

Il generale Beildschmidt continuò. - Essendo il capo delle guardie, voglio tu sia partecipe delle decisioni che prendiamo in questa stanza relative alla sicurezza della fortezza.

Si avvicinò a un tavolo alla destra della vetrata, sopra al quale era posata un’enorme cartina che segnava la pianta della fortezza. Ludwig lo seguì, dimenticandosi completamente di Feliciano, il quale rimase immobile, con gli occhi puntati sul ragazzo prigioniero.

Notò che c’erano dei fori incisi nel vetro e vi si avvicinò lentamente. Il ragazzo non lo degnò di uno sguardo, più concentrato sulla palla. Ebbe il sospetto che lo stesse facendo di proposito. Feliciano deglutì e accostò il viso ai fori. - Ciao!

Il ragazzo fermò la corsa della palla e alzò lo sguardo verso di lui. I sottili occhi verdi, come quelli di una volpe, lo squadrarono da cima a fondo. - Ciao. - rispose, senza troppo interessamento. La sua voce era acuta e il tono infantile.

Feliciano si guardò intorno, ma il generale e Ludwig erano concentrati nella loro conversazione e gli scienziati avevano gli occhi fissi sui monitor.

- Io mi chiamo Feliciano, sono un mutante come te.

- Feliciano? - il biondo inclinò di lato la testa, portandosi un dito sulle labbra. - È uguale a Feliks. Mi stai rubando il nome per caso?

Feliciano si lasciò sfuggire una risata. - Certo che no!

L’altro assottigliò lo sguardo, facendo una smorfia con le labbra. Poi fece spallucce e si spostò una ciocca di capelli dal viso con fare plateale. - Ti do il permesso di tenerlo, non è un privilegio che concedo a tutti.

Feliciano gli sorrise. Non capiva se lo stesse prendendo in giro o se parlasse sul serio. Nonostante questo, lo trovava simpatico, era un tipo particolare.

Come se si fosse dimenticato di lui, Feliks si era accasciato su una delle sedie del tavolino, più interessato ad osservare le proprie unghie. - Perché sei qui? Nessun prigioniero è mai entrato in quest’ala della fortezza.

Feliciano sbatté più volte gli occhi, pensando a una risposta. - Non saprei.

Feliks gli lanciò uno sguardo incuriosito. - Sei speciale anche tu? Tutti dicono che io sono speciale, che i miei poteri sono unici e fondamentali per la ricerca scientifica. Dicono che senza di me, questa fortezza non esisterebbe. Ho una stanza privata proprio per questo motivo. Nessun mutante che non sia speciale quanto me può entrare qui.

Questa volta Feliciano si domandò sul serio se stesse scherzando. Quel discorso non aveva alcun senso. - Pensi che stare rinchiuso lì dentro sia un privilegio?

Feliks ridacchiò, giocherellando con la pedina del re degli scacchi. - Almeno io non condivido un quadrato di cella con altre tre persone sudicie e puzzolenti. - gli rivolse un’occhiata di sfida, le labbra incurvate in un ghigno.

Feliciano inclinò la testa e aggrottò le sopracciglia in un’espressione confusa. - Io voglio bene ai miei compagni di cella.

- Bla bla bla. - Feliks roteò gli occhi, dondolando i piedi a penzoloni sulla sedia. - Dici così solo perché sei costretto ad accettare la tua condizione, desiderando a morte il giorno in cui uscirai da qui.

L’italiano fece un passo in avanti, appoggiando una mano sul vetro. - Non capisco… Tu non vuoi fuggire?

- Fuggire? E perché dovrei? - si alzò dalla sedia con una piroetta e allargò le braccia, come a voler abbracciare l’intera stanza. Il re ancora stretto in mano. - Qui ho un letto caldo, tutto il cibo che voglio e posso divertirmi con tutti i giochi che desidero. Ho tutto ciò di cui ho bisogno. Beh, non proprio tutto, ho chiesto più volte di ridipingere le pareti in rosa, ma non me l’hanno permesso.

Voltò le spalle all’italiano e si accostò al tavolo. Gli occhi bassi, sulla scacchiera. L’espressione giuliva aveva lasciato spazio a un velo di tristezza. - Ho provato troppe volte a fuggire in passato. Ho avuto successo in molte occasioni, ma non è servito a niente. Alla fine riuscivano sempre a trovarmi. Non avrò mai la libertà. - con il re stretto tra le dita spinse via tutte le pedine che si trovavano sulla scacchiera, facendole rotolare giù dal tavolo. - E neanche voi.

Feliciano deglutì un groppo di saliva. Quel discorso non era affatto incoraggiante, ma non si arrese. Si ricordò le parole di Francis, durante il loro primo incontro. - Non hai qualcosa per cui lottare? Qualcuno a cui vuoi bene che ti sta aspettando, là fuori?

Feliks sgranò gli occhi, sinceramente sorpreso per quella domanda. Corrugò la fronte in un’espressione indecifrabile, come se si stesse sforzando di ricordare la sua vita prima di essere rinchiuso in quella fortezza. Feliciano si chiese da quanti anni potesse essere lì il mutante che controllava la barriera che proteggeva la fortezza da altri poteri. Cinque? Forse dieci?

- Toris… Si sarà già dimenticato di me. - la sua voce era quasi un sussurro. - Ero la causa di tutti i suoi problemi, sarà felice di non avermi più tra i piedi. - Poi scrollò le spalle e fece un’altra piroetta. - Beh, e io sono felice di non avere più lui tra i piedi, era una tale lagna. “Feliks, non fare questo”, “Feliks, non dire quello”, “Feliks, è pericoloso”. Mi rompeva sempre le scatole, pensava di essere, tipo, mia madre.

Il suo tono di scherno celava un velo di malinconia, come se non pensasse davvero ciò che stava dicendo. Come se stesse convincendo se stesso di qualcosa che non era reale. - Senza di me, adesso sarà al sicuro e starà conducendo una vita normale. Non rivederlo mai più è forse la cosa migliore che gli potesse capitare.

- Non è ancora finita. - mormorò Feliciano

Feliks aggrottò le sopracciglia, confuso.

Feliciano puntò lo sguardo su di lui. - Usciremo da qui. Tutti, anche tu. I rivoluzionari verranno a salvarci e tu potrai riabbracciare Toris. Non ci arrenderemo fino a che non avremo la libertà che ci spetta. - buttò un’occhiata alle sue spalle per accertarsi che nessuno li stesse ascoltando e fece dei passi avanti, fino a sfiorare i fori del vetro con le labbra. Le parole trasformate in un sussurro. - Un gruppo di mutanti vuole mettersi in contatto con i ribelli. Se avranno successo, questo incubo finirà presto. Io li aiuterò.

Il biondo scosse la testa, scettico. - Nessuno è mai riuscito ad avere contatti con il mondo esterno, è tutto inutile.

- Allora noi saremo i primi. Sono certo che troveremo una soluzione.

Feliks lo guardò come se fosse pazzo. Poi sembrò rifletterci un attimo e abbassò la voce, avvicinandosi anche lui al vetro. - In tal caso, forse c’è un modo. Gli amplificatori dei miei poteri coprono tutta l’area della fortezza tranne i sotterranei. Sono a un raggio d’azione troppo lontano dalla fonte, cioè me, per funzionare correttamente. I soldati non lo sanno e gli scienziati non sembrano interessarsi al problema.

Feliciano non si era nemmeno reso conto di aver spalancato occhi e bocca per quella rivelazione. - E come facciamo ad arrivare ai sotterranei? - chiese una volta ripresosi dalla sorpresa.

- Chiunque compia un atto di insubordinazione nei confronti di un ufficiale, viene rinchiuso in una cella di isolamento nei sotterranei per un periodo di tempo indeterminato. Non so quali punizioni infliggano ai mutanti là dentro, ma l’unico modo per arrivarci è questo. È pericoloso…

- Ma necessario per la riuscita del piano. - Feliciano annuì pensieroso.

All’improvviso, vide il volto di Feliks sbiancare, mentre indietreggiava con gli occhi sgranati puntati alle spalle di Feliciano, il quale sentì una mano guantata stringergli il braccio in una morsa salda. Si pietrificò dalla paura, non ebbe nemmeno il coraggio di voltarsi.

- Avete fatto amicizia? - domandò la voce gelida del generale Beilschmidt.

Feliciano voltò lentamente il capo e si sforzò con tutto se stesso di non tremare dalla paura. Quando era arrivato? Cosa aveva sentito? Li avrebbe uccisi entrambi? L’unica cosa che voleva fare in quel momento era piangere e chiedere perdono ai suoi piedi.

Feliks si fece avanti. - Walty! Non mi avevi mai portato degli amici quassù, a cosa devo la tua gentilezza stamani? Hai avuto pietà di me? - lo sguardo spaventato era stato sostituito prontamente da uno più spavaldo e non c’era traccia di timore nella sua voce.

Il generale gli lanciò un’occhiata sprezzante. - Non temere, Łukasiewicz. Non accadrà mai più.

Diede uno strattone a Feliciano, che per poco non inciampò, e si diresse verso l’uscita. Diede un’ultima occhiata a Feliks, che li guardava attraverso il vetro con occhi pensierosi.

Ludwig era al loro seguito, silenzioso.

Arrivati ai laboratori, il generale lasciò il braccio pulsante dal dolore di Feliciano. Puntò il suo sguardo di ghiaccio su Ludwig. - Riporta il mutante Vargas nella sua cella e tienilo d’occhio, le amicizie tra mutanti non portano a nulla di buono. - gli lanciò una veloce occhiata, quasi impercettibile, carica d’odio e Feliciano sentì il suo intero corpo essere percorso da un brivido. Poi girò i tacchi e scomparve nei corridoi del laboratorio, il suono del suo bastone di legno che batteva sul pavimento riecheggiava ovunque.

Mentre veniva scortato verso la sua cella da Ludwig, Feliciano non smise di chiedersi come mai il generale sembrasse odiarlo così tanto, ma allo stesso tempo era come se avesse gli occhi sempre puntati su di lui, come se volesse controllarlo da vicino. Feliciano non era un mutante pericoloso e non era nemmeno tanto intelligente da elaborare un piano di fuga, non capiva il perché di quell’accanimento. Sapeva solo che il generale gli faceva venire i brividi come nessun altro soldato in quella fortezza sapeva fare.

 

 

 

17 febbraio 1985, periferia di Portland, Maine, USA

 

Forse quella non era una delle idee migliori che gli fossero mai venute in mente. Non era nemmeno sicuro del perché lo stesse facendo.

Ma ormai era troppo tardi per tornare indietro.

Antonio camminava per le vie illuminate della città con le mani dentro le tasche del giaccone, una sciarpa rossa gli fasciava il collo fino a proteggergli anche naso e bocca. Venne percorso da un brivido. Odiava il freddo del Maine. E ancora non aveva dato segni di neve, nonostante sospettasse che sarebbe arrivata presto. Non esiste inverno senza neve in Maine.

Mentre si addentrava nei vicoli bui della periferia più malfamata di Portland, si chiese ancora una volta perché lo stesse facendo. La verità, è che nemmeno lui lo sapeva. Non sapeva perché nel suo unico giorno libero fosse diretto verso il locale di Moreau nella zona più pericolosa della città, dove i delinquenti giravano indisturbati e la malavita regnava sovrana. O forse mentiva a se stesso. Un motivo c’era ed erano gli occhi imbronciati, il naso arricciato e le labbra corrugate in una smorfia di disappunto di Romano, il ragazzo più ambiguo e misterioso (e scorbutico) che avesse mai conosciuto. Antonio era certo che non lo volesse tra i piedi, ma non aveva resistito. La domenica precedente, quando aveva sentito che Romano lavorava da Moreau, non era più riuscito a toglierselo dalla testa. Che cosa ci faceva un ragazzo così giovane nel locale più losco di tutta Portland? Perché Romano era stato così schivo quando gli aveva posto domande al riguardo? Questi pensieri lo avevano assillato per tutta la settimana, compromettendo il suo lavoro, ed era un miracolo che non fosse stato punito con dei turni extra quella domenica. Per questo ne aveva approfittato per fare un salto al locale, ma più si avvicinava e più voleva girare i tacchi e tornarsene a casa al caldo e a mai più rivederci. Ma non poteva. Doveva sapere. Aveva già aiutato Romano una volta, non avrebbe esitato a farlo ancora.

E fu così, che arrivò di fronte al locale. L’insegna “Da Moreau” era coperta di muffa ed era così pericolante che minacciava di cadere da un momento all’altro. Non c’erano vetrate, solo una finestrella sulla porta d’ingresso coperta di polvere, così da rendere impossibile la vista del locale dall’esterno. Si sentiva un gran vociare provenire dall’interno e una musica sommessa, probabilmente di una radio.

Antonio fece un gran respiro e sentì l’aria fresca penetrargli nei polmoni. Poi agguantò la maniglia e aprì la porta. La luce del locale lo investì, ma nessuno sembrò badare a lui.

Una decina di tavoli disposti per tutta la sala erano occupati solo da uomini ubriachi che sbraitavano e ingurgitavano grandi quantità di liquore, mentre un cameriere alto e mingherlino dai capelli biondi crespi legati in una coda passava tra i tavoli a servire i clienti. La puzza di sudore e alcol che aleggiava in quel posto era nauseante e Antonio dovette farsi forza per non fuggire via. Ma cacciò indietro i conati di vomito e si prefissò il suo unico obiettivo: Romano. Si fece strada tra le sedie per poter raggiungere il bancone in fondo alla stanza, colmo di piatti sporchi e bicchieri usati.

Ai fornelli, dove Antonio pensava ci sarebbe stato Romano, c’era un uomo alto e barbuto. Il viso accigliato era concentrato sulla padella che teneva in mano, con due fette di carne fumanti e mezze bruciate dalle fiamme che divampavano ai lati fin sopra la ventola. Sembrava piuttosto sicuro di sé, ma Antonio non era molto entusiasta della sua cucina, si prefissò di non mangiare mai in quel locale.

- Hey, Kenny! - gridò una voce familiare al cameriere. - Muoviti a portarmi quei cazzo di piatti, vuoi finire il turno domani mattina?!

Romano era girato di spalle dietro al bancone, intento a lavare uno a uno i piatti ammucchiati alla sua destra. La pila di piatti sporchi si riduceva a vista d’occhio, al contrario di quella di piatti puliti alla sua sinistra che invece aumentava sempre di più. Le mani di Romano coperte dai guanti da cucina lavoravano velocemente e in poco tempo era riuscito a riposizionare i piatti negli appositi cassetti.

- Non darmi ordini, ragazzino, non sei il mio capo! - la voce del cameriere si levò dal fondo del locale, accompagnata dalle risate dei clienti.

- Allora lavali tu, cazzo, io non faccio più niente in questo posto di merd… - Romano si voltò inferocito col pugno in aria, ma la sua voce scemò non appena incrociò lo sguardo di Antonio. Le sue sopracciglia si incurvarono e il suo viso venne attraversato dallo stupore. - Che cosa ci fai qui?

Antonio sorrise e spalancò le braccia. - Sono venuto a trovarti! Non sei contento?

- No. Vattene. - disse in tono sbrigativo. Prese un’altra pila di piatti dal bancone e si voltò di nuovo. Agguantò la spugna e iniziò a scrostare il fondo del piatto dai residui di cibo con fare frenetico.

Il sorriso di Antonio vacillò. Di certo non si aspettava una risposta così brusca. Fece un sospiro e si sedette su uno sgabello, appoggiandosi al bancone. - Volevo solo accertarmi che stessi bene.

Romano indugiò, ma poi scosse la testa e riprese a lavorare. - Sto benissimo, come puoi vedere. Ora sloggia. - rispose, senza nemmeno voltarsi.

- Quando finisci il turno? Possiamo fare una passeggiata prima che io torni a casa.

Romano lanciò la spugna nel lavello e si voltò di scatto. Sbatté le mani sul bancone e si sporse verso di lui. Le sopracciglia aggrottate e la voce ridotta a un sibilo. - Non lo ripeterò un’altra volta, ti ho detto di andare via.

- Non puoi cacciarmi, sono un cliente. - Antonio agitò una mano verso il cameriere. - Puoi portarmi una birra?

Quello sbuffò e si diresse verso un altro tavolo.

Romano lo guardava con uno sguardo assassino stampato sul viso. - Non ti ho chiesto di venire.

- Come vedi, non è stato necessario perché io venissi lo stesso. - Il sorriso di Antonio non smise di illuminargli il volto.

Romano sospirò esasperato, sfilandosi un guanto dalla mano e passandosela sul viso. - Perché cazzo dovresti venire a trovare uno come me, non siamo nemmeno amici.

Antonio si era già posto quella domanda. Non sapeva cosa l’avesse attirato, ma quel ragazzo aveva dominato i suoi pensieri durante l’intera settimana. La sua riservatezza e il suo modo di fare scontroso l’avevano incuriosito, come se nascondesse qualcosa oltre quella corazza che si era costruito per proteggersi. Il motivo era un mistero, ma voleva scoprirlo.

- Io vorrei conoscerti. - disse, puntando gli occhi verdi su di lui. - Ci siamo incrociati due volte per caso, è come se il destino volesse a tutti i costi farci incontrare. Dammi una possibilità. Esci con me.

L’espressione stampata sul viso di Romano era indecifrabile. Sembrava un misto di disgusto, sconcerto e paura. Abbassò lo sguardo, mentre le guance gli si colorarono di rosso, un dettaglio che Antonio trovò semplicemente adorabile. Perfino la mano libera dal guanto era diventata dello stesso colore. Sembrò rifletterci su, ma poco prima che potesse proferir parola, una porta alla sua sinistra con appesa la targa “PRIVATO” si spalancò e Antonio vide il viso di Romano sbiancare in un attimo. Entrò nel locale un uomo alto tanto quanto lo stipite della porta. Aveva la mole di un orso e il passo pesante. Mentre sorrideva ai clienti abituali, la cicatrice bianca che gli solcava tutto il lato destro del viso si increspò. Antonio poteva riconoscerlo a chilometri di distanza: era Moreau.

Antonio si voltò verso Romano, ma lui non era più davanti a lui. Era tornato alla sua postazione, intento a lavare i piatti sporchi rimasti.

Moreau allargò le braccia con fare plateale. - Buonasera a tutti! - tuonò la sua voce roca e un gran vociare si levò dai tavoli. C’erano uomini che lo salutavano frettolosi e poi tornavano alla conversazione che stavano intrattenendo con il proprio vicino e altri che iniziavano discorsi ad alta voce con Moreau, sovrastandosi a vicenda.

Moreau fece un giro dei tavoli con fare sbrigativo, senza badare troppo alle parole dei clienti, e poi si diresse verso il bancone. - La domenica è un giorno meraviglioso per guadagnare, non trovate? - esclamò senza rivolgersi a qualcuno in particolare. - Pur di non pensare alla settimana di lavoro che li aspetta, vengono qui a scolarsi tutte le bottiglie di birra che abbiamo.

A proposito di birra, la sua ancora non era arrivata, pensò Antonio guardandosi intorno in cerca del cameriere, sparito in mezzo alla folla di ubriachi.

Dietro al bancone era calato il silenzio e l’atmosfera si era raggelata all’improvviso. Forse era una sua impressione, ma i movimenti di Romano gli parevano più macchinosi, come se stesse calcolando ogni sua mossa. Le dita delle mani erano attraversate da degli spasmi e afferravano i piatti con più difficoltà. Aveva… Paura?

Moreau diede una pacca sulla spalla al cuoco. - Qualche cliente si è lamentato degli hamburger bruciati. Non possiamo permetterci di perdere soldi, stai attento o ti licenzio.

Il cuoco deglutì un groppo di saliva e annuì. Mentre il suo capo si allontanava, Antonio lo vide buttare nel cestino i due hamburger bruciati appena cucinati e metterne in pentola altri due, pronto a non ripetere lo stesso errore.

Moreau puntò gli occhi assottigliati su Romano, il quale invece non lo degnava di uno sguardo. Quando gli arrivò vicino, gli afferrò la spalla in una morsa salda. - Romano! Come sempre un gran lavoratore, eh?

Romano se lo scrollò di dosso e gli puntò il dito contro. - Se potessi non lavorerei neanche un minuto in questa topaia del cazzo!

Moreau scoppiò in una sonora risata. - Il giorno in cui mi risponderai con toni più garbati probabilmente diventerò ricco.

Romano schioccò la lingua. - Aspetta e spera, vecchiaccio. Intanto goditi la tua lurida tana.

Moreau lo squadrò lentamente da capo a piedi con sguardo cupo e gli angoli delle labbra incurvati in un sorriso lascivo, poi riportò la mano sulla sua spalla. - Lo sai che potrei ridurre il tempo del tuo contratto se solo facessi una cosa per me. - la sua grossa mano cominciò a scendere, accarezzando la minuta schiena di Romano, che ebbe un fremito non appena la sentì fermarsi all’altezza del fondoschiena. Ogni muscolo del corpo di Romano si irrigidì, le sue mani guantate si strinsero a pugno e tremavano, e la testa era china, impotente.

Un lampo di irritazione si accese nel cuore di Antonio. Che cosa credeva di fare quell’uomo? E perché Romano non reagiva? Senza pensarci, sbatté una mano sul bancone e si alzò in piedi. - Moreau, metti giù le mani. Il ragazzo non gradisce i tuoi apprezzamenti.

Nella sala calò il silenzio. L’uomo si voltò verso il suo interlocutore corrugando un sopracciglio. - Come hai detto? - chiese in tono minaccioso. Si levò un mormorio allarmato tra i tavoli. Forse si aspettavano una rissa imminente.

Ad Antonio non importava, era pronto a battersi. Lanciò uno sguardo verso Romano, il quale lo stava a sua volta guardando, implorandolo con lo sguardo di stare zitto. Ma lo ignorò e continuò il suo discorso. - Spaventare i tuoi dipendenti non gioverà i tuoi guadagni. Come farai a mandare avanti il tuo locale se saranno fuggiti tutti?

- Ma tu guarda. - Moreau si lasciò sfuggire un ghigno, mentre aggirava il bancone con passi lenti e pesanti. Si fermò a pochi centimetri da Antonio, sovrastandolo con la sua enorme stazza. - Chi può mai essere tanto stupido da provocarmi?

Lo spagnolo assottigliò lo sguardo, ma non perse il suo sorriso sfrontato. - Mi chiamo Antonio e ti consiglio di non attaccare briga con me, sono un sol-

- Moreau, aspetta! - gridò allarmato Romano, che si parò tra i due, rivolto verso il suo capo. - Non c’è bisogno che tu perda tempo con i clienti ubriachi. Lascia che mi occupi io di lui. Sarò più che felice di suonargliele come si deve.

Romano si voltò verso Antonio e lo fulminò con lo sguardo. Il messaggio era forte e chiaro: “Non una parola di più”.

Moreau sembrò soppesare le parole di Romano e il suo sguardo sospettoso si spostava ripetutamente da lui ad Antonio. Quando ebbe deciso, alzò gli occhi al cielo e con un gesto sbrigativo della mano annuì. - E va bene. Ma fai in modo che non si ripresenti qui. Non voglio mai più vedere la sua faccia nel mio locale. - detto questo, li sorpassò e andò a sedersi su una sedia vuota del tavolo più vicino, dove un gruppo di uomini era intento a giocare a poker.

Proprio quando Antonio aprì la bocca per ribattere, Romano lo agguantò per il colletto della giacca e lo trascinò via dalla sala. Oltrepassarono la porta con su scritto “PRIVATO” e si ritrovarono in un atrio. Davanti a loro una scala portava al piano superiore, mentre alla loro sinistra c’era una porticina di quello che poteva essere lo sgabuzzino. Romano lo strattonò a destra e aprì una porta bianca anti-panico. Il gelo invernale li investì, ma Antonio non ebbe nemmeno il tempo di assaporarlo, che Romano lo scaraventò a terra in un vicolo buio tra due edifici, lontano dalla strada principale. In un attimo, i pantaloni gli si infradiciarono e le mani appoggiate a terra diventarono due blocchi di ghiaccio. Stava nevicando. E Antonio era caduto su un cumulo di neve.

Antonio scrollò le mani bagnate e balbettò. - A-ay Romano, ma che fai?

- Stai zitto! - sbraitò Romano, pestando un piede sulla neve. Gli afferrò ancora una volta il colletto della giacca con entrambe le mani e avvicinò il viso al suo. Lo sguardo era inviperito. - Che diavolo ti è venuto in mente? Volevi farti ammazzare?!

Antonio corrugò le sopracciglia. - Volevo soltanto aiutarti.

- Non avevo bisogno di aiuto e non te l’ho chiesto! - sbottò, strattonandolo con tutta la forza che aveva. - Devi smetterla di impicciarti in quello che faccio, smettila di seguirmi e soprattutto smettila di aiutarmi!

- Ma stava approfittando di te! - si giustificò Antonio, senza alzare la voce.

Le mani di Romano iniziarono a tremare. Antonio temette che gli tirasse un pugno da un momento all’altro, invece lasciò la presa e iniziò a camminare avanti e indietro a grandi falcate, fino a che non scaricò la sua rabbia su un bidone dell’immondizia, dandogli un calcio e facendolo rotolare nel buio del vicolo. - Non sono affari tuoi quello che Moreau fa con me.

- Ma io voglio che lo siano! - esclamò Antonio.

Romano scosse la testa esasperato. - Perché?

Antonio non rispose. Si limitò a puntare i suoi grandi occhi verdi su di lui. Le sopracciglia leggermente incurvate in un’espressione decisa.

Romano strinse le spalle e buttò fuori un grande sospiro, mentre si sedeva per terra davanti ad Antonio, coprendosi il viso con le mani rosse per il freddo. I fiocchi di neve si posavano dolcemente sui suoi capelli castani. - Ecco perché non volevo che venissi. Non volevo che mi vedessi in questo posto di merda. - la sua voce era un sussurro ovattato.

- Perché non ti licenzi? - chiese Antonio.

- Non posso.

- Se non hai un posto in cui stare, posso ospitarti io.

Romano alzò il viso, attraversato da un barlume di speranza. Ma poi, scosse di nuovo la testa, evitando il suo sguardo. - Non è così semplice

- Perché no?

- Antonio, viviamo in due mondi diversi, non puoi capire e non voglio che tu mi capisca. Non siamo compatibili, mettitelo in testa. Non è stato il destino a farci incontrare, solo una serie di coincidenze.  Vattene da qui e dimenticami, per il bene di entrambi.

Vennero immersi nel silenzio della neve che cade, come se tutto si fosse fermato insieme alle loro voci, prima che Romano tornasse dentro al locale, lasciando Antonio da solo nel vicolo.




Spazio dell'Autrice
Ciao a tutti, sono tornata!
Grazie per avermi aspettato, so che un intero mese è un'eternità, ma ne avevo bisogno. L'anno passato è stato intenso e avevo accumulato tante emozioni e tanti pensieri che sono scoppiati appena ho avuto l'occasione di buttare tutto fuori.
Finalmente si riprende! Facciamo la conoscenza di Feliks (che ovviamente è Polonia), un personaggio molto importante per la storia. E Romano e Antonio a malapena si conoscono e già hanno i loro problemi T_T Romano è troppo chiuso in se stesso per accettare che qualcuno possa volergli bene senza volere qualcosa in cambio.
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto!
Come al solito fatemelo pure sapere, mi rende molto felice quando mi scrivete!
Buona domenica a tutti, ci vediamo al prossimo capitolo! Byeeee <3

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Capitolo 11
*** Capitolo 10 ***


[AVVERTENZE: il pov cambia molte volte all'interno di questo capitolo, ma renderò sempre chiaro chi sta parlando]



Capitolo 10

 

18 febbraio 1985, fortezza di Westbrook, Maine USA

 

La neve cadeva fitta sul terreno, creando una nube biancastra che nascondeva il paesaggio circostante, rendendo difficoltosa la vista anche a pochi metri di distanza. Sarebbe stato impossibile notare la fortezza di Westbrook, se non fosse stato per i fari che la illuminavano e che ne delineavano il perimetro.

L’ululare del vento gelido copriva il rumore dei passi attenti dei rivoluzionari che si disperdevano intorno alla fortezza, pronti all’assalto.

- Quale momento migliore per una soffiata se non una bufera in piena notte, non è vero? - disse Arthur, mentre srotolava il foglio di carta che teneva in mano: la mappa della fortezza, con annotati gli schieramenti dei rivoluzionari e dei soldati, gli obiettivi dell’agguato e le zone da colpire. Porse il foglio a Yao, il suo vice per quella missione, il quale era intento a inserire i proiettili dentro la sua pistola, che poi ripose dentro il fodero attaccato alla sua cintura. - La fortuna sembra essere dalla nostra.

Yao annuì, prendendo tra le mani la mappa. - Sì, signore.

Erano nascosti tra gli alberi a nord-est della foresta che circondava la fortezza, una posizione strategica per una visuale perfetta sulla torre di controllo e per una ritirata in sicurezza, che gli avrebbe permesso di aggirare per il largo la fortezza passando tra gli alberi e tornare a sud a Villa Ceasar senza essere rintracciati dai soldati. Alle loro spalle, i guaritori avevano organizzato un accampamento temporaneo di fortuna per soccorrere i feriti durante la battaglia, che avrebbero poi smontato rapidamente durante la ritirata.

Arthur prese un binocolo dallo zaino di cuoio che si era portato dietro e ispezionò le mura della prigione, per quanto potesse vedere con la nebbia. - Come previsto, i cecchini sono di guardia sulle mura. Sono almeno sei per lato, ma potrebbero essercene altri all’interno delle torri, pronti a intervenire in caso di attacco. - spostò lo sguardo verso la base della fortezza. - Le guardie a terra invece sono più numerose, ma con i poteri dei mutanti attivi non avremo problemi.

Ripose il binocolo nello zaino e indicò il perimetro delle mura sulla mappa ancora tra le mani di Yao. - Ricapitolando: tu dirigerai il gruppo sulle mura a nord-ovest, a sinistra della torre di controllo, mentre Linh si occuperà delle mura a nord-est con il suo gruppo. Il vostro obiettivo primario è spegnere i fari, così che io e Alfred potremo entrare indisturbati nella torre per disattivare la barriera. A terra, Vladimir e Roderich ci faranno da spalla con il loro gruppo. Saranno loro a iniziare l’agguato per distrarre le guardie e alla fine segnaleranno la ritirata. Non ammazzate nessuno. E mi raccomando, non toglietevi mai e poi mai il passamontagna, non potete rischiare di essere riconosciuti. È tutto chiaro? - chiese, sistemandosi l’auricolare che portava all’orecchio sinistro.

- Sissignore. - rispose la voce metallica di Linh attraverso gli auricolari.

- Che figo, comandiamo noi! - gridò Vladimir tutto contento.

- Stai zitto, idiota! Vuoi farci scoprire?! - lo rimproverò Roderich.

- Hey Arthur! Perché sono stato separato da Berwald e Tino? - questo era Mathias, un danese dalle innate capacità nel corpo a corpo, dunque assegnato alle mura a nord-est per combattere contro i soldati. Probabilmente stava parlando attraverso l’auricolare di Linh. Berwald e Tino, suoi due inseparabili amici anche loro nord-europei, erano nel gruppo di Yao e in quel momento erano alle spalle di Arthur, in attesa di un suo ordine per salire sulle mura a nord-ovest. Berwald, seppur normalmente fosse di poche parole, stava confortando Tino, che si mordeva le unghie delle mani dall’agitazione.

- Perché sei un rompiscatole. - intervenne Lukas, il quarto ragazzo nordico del gruppo di amici, attraverso l’auricolare di Vladimir. Lukas era specializzato nell’uso dei suoi poteri in grado di creare illusioni di mostruosi guerrieri di neve, che sarebbero stati utili per spaventare e colpire i soldati alla base delle mura.

- Sono d’accordo. - aggiunse la voce di Romano in lontananza, quasi inaudibile. Si sentì Mathias che attaccava briga con Romano, prima che Linh spegnesse il collegamento.

Arthur si passò la mano guantata sul viso. Forse quella degli auricolari non era stata un’idea geniale, ma era l’unico modo per comunicare in assenza della sua telepatia per colpa della barriera. Almeno era certo che funzionassero, nonostante la bufera.

Fece cenno a Yao di mettersi in posizione per poter salire sulle mura e lo vide sparire tra gli alberi insieme al suo gruppo.

Si lasciò sfuggire un sospiro tremante. Per ora stava andando tutto bene, i soldati non si erano accorti della loro presenza e i rivoluzionari erano tutti nelle proprie posizioni di assalto. Contavano tutti su di lui, non poteva fallire. Doveva disattivare la barriera anti-poteri e trovare una via di accesso ai corridoi della fortezza. Mancava solo una persona all'appello…

Udì un frusciare d’ali alle sue spalle. - Arthur! - esclamò Alfred non appena atterrò. - Ho trovato questo tizio che si aggirava nei dintorni.

Spinse a terra un ragazzo, che cadde in ginocchio sulla neve ai piedi di Arthur. I capelli castani legati in una coda disordinata erano infradiciati per via della nevicata. Indossava degli abiti grigi, come quelli dei rivoluzionari, probabilmente per confondersi nella tempesta di neve. Teneva lo sguardo basso.

- Aveva questi con sé. - aggiunse Alfred, mostrando ad Arthur un fucile da caccia, una pistola e una borsa a tracolla piena di quella che sembrava dinamite. Cose da tutti i giorni, insomma.

- Non toccare la mia roba! - ringhiò il ragazzo, allungando il braccio verso Alfred, il quale però prontamente rivolse il fucile contro di lui, sfiorando la sua fronte con la punta della canna.

- Stai indietro. - gli intimò, assottigliando lo sguardo.

Il ragazzo digrignò i denti e indietreggiò con riluttanza.

Arthur incrociò le braccia, emanando un lungo sospiro esasperato. Non avevano tempo da perdere. - Cosa pensavi di ottenere cercando di entrare nella fortezza da solo?

Il ragazzo puntò i suoi occhi verdi su quelli di Arthur e fece un passo verso di lui. - Non stavo facendo niente che potesse intralciare il vostro lavoro! Voglio solo entrare nella fortezza e salvare un amico, siamo dalla stessa parte!

Arthur gli lesse nel pensiero. Stava dicendo la verità. - Sei un umano?

Il moro aggrottò le sopracciglia e mormorò. - Sì.

- Come ti chiami?

- … Toris.

Il leader dei rivoluzionari sospirò. - Non possiamo portarti con noi, Toris, è troppo pericoloso e rischieresti di buttare all’aria tutta la nostra preparazione.

- Che cosa?! - sbottò il ragazzo. - Non puoi impedirmi di entrare nella fortezza, non sto agli ordini di nessuno, io lavoro da sol-

Si bloccò di colpo. Gli occhi gli si girarono e crollò a faccia a terra. Alfred era in piedi dietro di lui con un braccio sollevato all’altezza del collo. - Ops! Scusami amico, ma parlavi troppo.

Arthur si massaggiò le tempie con la punta delle dita. - Ci occuperemo di lui al ritorno della missione, potrà rendersi utile in futuro. Per ora lascialo al gruppo dei guaritori, baderanno loro a lui, noi dobbiamo andare. E chiama Davie!

Alfred portò alla svelta il ragazzo svenuto alle tende dei guaritori e tornò indietro chiacchierando con un altro ragazzo dai capelli biondo cenere tirati all’indietro con del gel e gli occhi blu. Davie era l’unico amico che Alfred si era fatto in quegli anni di isolamento. Nonostante fosse un umano, si era integrato bene nel gruppo dei rivoluzionari, grazie anche alle sue eccezionali doti di hacking, che sarebbero state molto utili una volta entrati nella torre di controllo per disattivare la barriera anti-mutanti.

- Dobbiamo muoverci. - disse Arthur. - Alfred, sei sicuro di riuscire a portarci entrambi?

Alfred fece un sorriso beffardo, sfregandosi le mani. - Non c’è nulla che un eroe come me non possa fare.

Si calarono tutti e tre il passamontagna e Alfred prese per la vita Arthur e Davie. Era una posizione scomoda e anche piuttosto imbarazzante, ma era l’unico modo per arrivare alla torre. Alfred chiuse gli occhi, inspirò a lungo ed espirò, emanando una nuvola di vapore. Poi piegò le gambe e con un balzo si sollevò in aria, dando una manciata di colpi d’ali per allontanarsi dal suolo. Stava facendo fatica, Arthur lo sentiva dal suo respiro affannoso, ma per loro fortuna il vento era a favore e Alfred potè sfruttarlo per muoversi più facilmente verso la fortezza.

Sorvolando la rocca, Arthur notò i combattenti alla base che attendevano gli ordini nascosti tra gli alberi, alcuni erano intenti ad utilizzare i propri poteri per aiutare gli altri mutanti a risalire la roccia per arrivare fino alle mura. I sistemi di sorveglianza ancora non avevano individuato la presenza dei mutanti e i fari riuscivano a illuminare soltanto il perimetro superiore della rocca per via della bufera. I soldati sulle mura erano ignari di ciò che stava per succedere. Arthur si lasciò sfuggire un ghigno. Forse questa volta avrebbero avuto la situazione in pugno.

Cercò con lo sguardo tra i mutanti alla base Vladimir. Con suo immenso stupore, il ragazzo rumeno lo aveva già individuato, in attesa di un suo ordine. Si scambiarono uno sguardo complice per qualche attimo e poi Arthur annuì: aveva ufficialmente inizio la soffiata.

 

 

 

 

Cazzo. Cazzo. Cazzo. Cazzo!

Questo era l’unico pensiero nella mente di Romano mentre scalava la rocca con la neve che gli entrava negli occhi e il vento che a ogni passo falso minacciava di farlo rotolare giù.

Non sapeva quanta strada avessero fatto. Se provava ad abbassare lo sguardo, vedeva solo nubi bianche. In un certo senso, sperava di non arrivare mai in cima. Attaccare un’intera fortezza colma di soldati armati fino ai denti? No, grazie. Ci aveva già provato una volta e per poco non c’era rimasto secco, non voleva tentare la sorte un’altra volta.

Ma ormai era lì, insieme a un gruppo di mutanti forti e piuttosto agguerriti. In un certo senso, la loro presenza lo confortava. Sapeva di poter contare su di loro e che non avrebbe combattuto da solo. Mathias, il mutante danese che stava risalendo la roccia alla sua sinistra, era un ragazzo alto e muscoloso, uno dei più abili nei combattimenti ravvicinati senza l’utilizzo di poteri. Si stava portando dietro un fucile, due pistole e un’enorme ascia, che, come aveva mostrato a Romano qualche ora prima, utilizzava in maniera impeccabile. Linh, la loro capogruppo, era sparita nella tormenta qualche metro più in alto. Romano, una volta saliti in cima, avrebbe dovuto aiutarla ad arrivare fino alla torre del faro e trovare un modo per spegnerlo.

Facile, no? Eppure si stava letteralmente cagando sotto. A ogni passo le gambe gli tremavano per la paura e stringeva tra le mani la pistola che gli avevano dato. Romano non sapeva sparare. Non l’aveva mai fatto in vita sua e non sapeva se ne sarebbe mai stato in grado. Si era portato dietro il suo coltello da cucina, che teneva legato alla cintura. Quello gli dava più sicurezza, ma non sarebbe servito a molto contro i fucili dei soldati.

Il pensiero del coltello gli riportò alla mente il giorno in cui era salito per la prima volta sulle mura della fortezza e aveva incontrato Antonio. Si lasciò sfuggire un lieve sospiro. Non sapeva come spiegarselo, ma era felice di sapere che probabilmente il soldato non avrebbe partecipato allo scontro. Loro si trovavano sulla cortina di nord-est, mentre Antonio era di guardia in quella a sud-est, dunque non era necessario che lasciasse la sua postazione.

Scosse la testa. Perché era così preoccupato per quel soldato? Non erano amici, non gli importava nulla di lui. Gli aveva detto di sparire dalla sua vita, non avrebbe mai più avuto nulla a che fare con lui. Probabilmente se avesse scoperto la sua vera natura, l’avrebbe odiato. Era giusto così. Un’amicizia tra umani e mutanti era destinata a finire male.

Sì, gli andava bene così.

All’improvviso si udì un boato ai loro piedi. Gli allarmi della fortezza si attivarono e Romano vide i fari spostarsi e puntare verso il perimetro inferiore della fortezza. La battaglia era iniziata.

Mathias gli tirò una pacca sulla spalla. - Forza, bello! Dobbiamo salire in fretta!

Romano borbottò infastidito dai modi di fare del danese, ma non se lo fece ripetere una seconda volta.

Tutto il gruppo aumentò il passo, mentre in sottofondo si sentivano le grida dei soldati che si spostavano alla base della fortezza.

Quando finalmente Romano notò nella nebbia il parapetto delle mura, vi appoggiò una mano e con un colpo di reni saltò dall’altro lato. In un attimo sentì una strana sensazione invadergli il corpo, era come se parte della sua energia lo stesse abbandonando. Dovette appoggiarsi alla balaustra per non perdere l’equilibrio. Era l’effetto della barriera. Si riscosse non appena sentì delle urla provenire da ogni parte. La battaglia era già iniziata anche lì, con i soldati che faticavano ad aprire il fuoco, bloccati dai colpi dei mutanti, che li costringevano a battersi fisicamente. I soldati erano una decina, ma ne stavano arrivando altri e molti altri ancora sarebbero arrivati da un momento all’altro se non si fossero mossi.

Romano cercò Linh nella folla. Dovette evitare un soldato che venne scaraventato nella sua direzione e tirò un calcio sulle ginocchia a un altro alla sua sinistra.

Sentì una risata sguaiata provenire pochi metri più avanti: era Mathias circondato da un’orda di soldati.

- Avanti, fatevi sotto. - li provocò mentre faceva roteare l’ascia, da cui i soldati si tenevano a debita distanza. Gli occhi erano spalancati e brillavano divertiti, e sapeva che sotto il passamontagna ci stava il suo tipico sorriso folle. Romano in quel momento fu molto grato di non essere un suo nemico.

Fu Linh a trovare lui. Se la ritrovò al suo fianco all’improvviso. - Alla torre. - gli disse soltanto e indicò davanti a sé, da dove proveniva la luce fioca del faro. Romano annuì e iniziò a correre dietro alla ragazza.

La loro corsa fu ostacolata da un soldato che gli puntò un fucile contro. Non servì a molto, dato che Linh lo disarmò in un attimo con una mossa di un arte marziale che Romano non conosceva e poi lui lo colpì alla testa con il calcio della pistola, stendendolo a terra incosciente.

Non ebbe neanche il tempo di esultare che Linh gli afferrò il polso e se lo trascinò dietro fino all’entrata della torre. L’interno era più grande di quanto si aspettasse: era una stanza cilindrica in mattoni con due rampe di scale a chiocciola, una che portava verso la cima, dove stavano i comandi dei fari, e una che scendeva, verso l’interno della fortezza. Da quest’ultima si sentivano le grida e i passi dei soldati mandati come rinforzi di quelli sulle mura. Romano e Linh si fiondarono sulle prime scale e salirono fino ad arrivare a una scala a pioli in ferro che finiva con una botola. Si scambiarono uno sguardo d’intesa. A giudicare dalla grandezza della torre, dietro quella botola potevano esserci almeno tre guardie, non potevano rischiare di venire uccisi.

Linh tirò fuori la sua pistola e fece segno a Romano con la mano libera di porgerle anche la sua.

Una volta che ebbe le mani libere, Romano salì qualche scalino e le posizionò sulla botola. Linh, davanti a lui sugli ultimi gradini della scala, era pronta con entrambe le pistole sollevate.

Romano deglutì un groppo di saliva. Contò fino a tre e con uno sforzo sollevò la botola. Linh infilò il busto al suo interno. Si sentirono due spari e un tonfo. Una volta che la ragazza sparì oltre la botola, Romano la seguì. C’era un solo soldato agonizzante sdraiato per terra, con una spalla e un fianco feriti, che Linh stava prontamente legando con delle corde che teneva in tasca.

- Oggi è il tuo giorno sfortunato. - sogghignò Romano.

Si diede un’occhiata intorno: era una stanza semi vuota se non per un tavolo dei comandi e due grandi finestre che permettevano di vedere le altre torri e la foresta attorno alla fortezza. Da lì, era ben visibile il faro in cui teoricamente si trovava Yao, ancora spento.

Linh si mise ad analizzare la centralina di controllo. - Questi non sono comandi normali… - Si voltò verso il soldato. - Come si spengono i fari?

Il soldato scoppiò in una risata sommessa che terminò con un colpo di tosse. - Ti piacerebbe saperlo.

- Hey. - Romano si inginocchiò e puntò il suo coltello alla gola del malcapitato. - Ti conviene parlare se non vuoi finire all’altro mondo.

- Non temo la morte. - gracchiò la guardia. - Il mio onore e il mio Paese vengono prima di un gruppo di sporchi mutanti.

Romano schioccò la lingua alzandosi in piedi. Arthur aveva ordinato di non uccidere nessuno e se lui non ne era capace, Linh sembrava sul punto di esplodere di rabbia. Lei era sicuramente capace di farlo.

- E va bene. - sospirò Linh. - Dammi il tempo di capire come funzionano questi comandi. Tu controlla che non arrivi nessuno dalle scale.

Romano annuì e prese le due pistole di Linh, puntandole verso le scale. Il soldato alle sue spalle era svenuto per il dolore. Bene, un problema in meno.

A un tratto sentì delle voci provenire dalle scale. - Ehm… Linh?

- Dammi ancora un minuto! - esclamò con fare sbrigativo la ragazza, mentre cercava di maneggiare manopole e cursori.

- Non abbiamo un minuto, cazzo! - rispose Romano, sentendo sempre più vicine le voci dei soldati.

Diede un’occhiata al faro assegnato a Yao. Era ancora spento. Iniziò a sudare freddo. Quella era la sua fine? Ucciso in una stanzina claustrofobica dai fucili di una ventina di soldati? Sentì i battiti del suo cuore accelerare sempre di più man mano che i passi dei soldati si facevano sempre più forti. Le mani sudate che stringevano le pistole iniziarono a tremare.

Il primo soldato spuntò dalle scale a chiocciola. Romano non ebbe neanche il tempo di fiatare che Linh gridò “TROVATI!!” e poi tutto divenne buio.

Romano non ci pensò due volte si gettò alla cieca su Linh, buttandola a terra. I soldati iniziarono a sparare.

 

 

 

 

La flebile luce gialla della lampada da tavolo illuminava il viso del generale seduto su una sedia di velluto rosso scuro del suo studio. Il caminetto acceso alla sua destra crepitava, facendo danzare luci e ombre in tutta la stanza, dandole un’aria spettrale. Il ticchettio dell’orologio a pendolo smorzava il silenzio intenso insieme al vento che ululava a contatto con la finestra.

Walter stava sfogliando dei documenti posati sul grande tavolo di legno. Si sistemò gli occhiali da vista una volta che trovò il fascicolo che stava cercando. Inclinò leggermente la testa di lato, assottigliando lo sguardo una volta che lo ebbe tra le dita sottili della mano sinistra.

- Feliciano Vargas… - lesse. - Italiano, telepate.

Strinse il pugno della mano destra appoggiata sul tavolo. Non c’erano dubbi che fosse lui. Si lasciò sfuggire un sorriso agghiacciante. Proprio lui nella sua fortezza, quando credeva che non sarebbe mai stato possibile.

Si tolse gli occhiali e si alzò dalla sedia, prendendo in mano il suo bastone. Si avvicinò al focolare con il fascicolo del mutante. Gli diede un’ultima occhiata colma di risentimento, con le fiamme riflesse sui suoi occhi azzurri, per poi gettarlo nel fuoco. Lo guardò mentre si contorceva a causa del calore, per poi disintegrarsi inghiottito dalle fiamme.

- Ti rivelerai molto utile, Feliciano Vargas.

Fece appena in tempo a tornare alla sedia, che la porta dello studio si aprì con un tonfo.

- Generale! - gridò Allistor a corto di fiato. Aveva gli occhi verdi stralunati e i capelli rossi spettinati per via della corsa fatta.

Solo in quel momento Walter si accorse delle sirene degli allarmi che echeggiavano in tutto l’edificio. Aggrottò le sopracciglia, temendo di cosa si trattasse.

- I ribelli. - ansimò Allistor, prima di deglutire e di riprendere fiato per poter proseguire. - Ci stanno attaccando.

Walter scattò in piedi. Si precipitò fuori dallo studio, con Allistor al suo seguito. - Quanto è grave la situazione?

- Hanno spento i fari di nord-est e nord-ovest, ci sono mutanti sulle mura nelle stesse coordinate e altri ancora stanno attaccando il perimetro inferiore della fortezza con i loro poteri. Ludwig è già lì a combatterli.

Walter scosse la testa in un impeto di rabbia. - Chiudete a chiave i laboratori e le celle dei mutanti. Se mai dovessero entrare, non devono in alcun modo trovare i prigionieri. Metti più soldati che puoi fuori dalle celle.

- Sissignore. - esclamò Allistor.

- Sposta tutte le guardie delle mura e concentrale sui due lati attaccati. I mutanti non si sposteranno da lì.

- Come fa ad esserne sicuro, signore? Non teme un attacco, se lasciamo il resto delle mura senza difese?

- No. Il loro obiettivo è la torre di controllo per disattivare la barriera, le mura sono solo un diversivo. - disse mentre assottigliava lo sguardo. - Io aiuterò i soldati alla base a respingere i mutanti che stanno usando i loro poteri. Tu vai alla torre. Non devono scoprire dell’esistenza del mutante Łukasiewicz.

Allistor ghignò e annuì, imboccando un altro corridoio.

- Non oggi, ribelli. - mormorò il generale. - Non oggi, Arthur Kirkland.

 

 

 

 

Il suono delle sirene rimbombava per tutta la valle, interrotto soltanto dalle grida di mutanti e soldati e dal clamore delle armi.

Arthur azzardò un’occhiata in basso: coltri di fumo si alzavano dalle mura e piccoli incendi erano scoppiati alla base della fortezza. Si lasciò sfuggire un mezzo sorriso. Dopotutto, stavano facendo un buon lavoro.

Stavano sorvolando la fortezza da un’altitudine tale da non entrare nel raggio della barriera, in attesa dello spegnimento dei fari.

A un certo punto, le luci delle due torri si spensero quasi in contemporanea, generando il caos tra i soldati, costretti a combattere nella bufera e nel buio.

Sentì il suo auricolare gracchiare. Era Yao. - È tutto pronto, signore. Resteremo dentro le torri fino a che non sarà annunciata la ritirata, così da non rischiare che qualcuno riaccenda i fari.

- Ottimo. - rispose Arthur, voltandosi verso Alfred. - Possiamo procedere.

Il ragazzo fece un sorriso spavaldo. - Adesso si ragiona!

Si fermò a mezz’aria sopra la torre di controllo. - Per entrare dobbiamo spaccare la vetrata. Arthur, aggrappati a me più forte che puoi. Sfonderò il vetro in picchiata.

Arthur aggrottò le sopracciglia. - Ma che, sei matto? Così ci rimani secco!

- Fidati di me, ho un’idea! Davie? - disse Alfred mentre diede un’occhiata complice al suo amico, che teneva sorretto con il braccio sinistro. Il ragazzo rovistò nello zaino che teneva in mano e tirò fuori una sorta di scudo metallico arrugginito. - Userò questo!

- Da dove l’avresti preso?

- Ehm… Non ha importanza! - lasciò cadere la conversazione. - Coraggio, adesso cambia posizione.

Arthur trattenne un sospiro amareggiato e, facendo attenzione a non mollare la presa per non volare giù e schiantarsi al suolo, mise le braccia intorno al collo di Alfred, così che lui avesse la mano destra libera per imbracciare lo scudo.

Alfred agitò le ali per salire qualche metro più in alto e, non appena valutò la discesa, si gettò nel vuoto in direzione della vetrata.

Il vento gelido gli pungeva il viso e con la nebbia gli era quasi impossibile vedere bene la torre di controllo, ma l’unica cosa che Arthur sapeva è che stavano andando molto, molto veloci. Pregò che Alfred sapesse quello che stava facendo, dopotutto era lui ad avere l’acuità visiva di un’aquila.

Alfred calcolò l’impatto in picchiata mentre acquistavano sempre più velocità. Dieci metri. Sette. Tre. Proprio mentre sollevò lo scudo per proteggere il viso, avvenne la collisione con il vetro. Il suono del boato gli perforò i timpani e milioni di schegge volarono ovunque. I tre rivoluzionari ruzzolarono nella stanza. Arthur finì addosso a quello che sembrava un tavolo con dei computer, che caddero a terra insieme a lui. Provò a rialzarsi con il fiato mozzato, appoggiando una mano al muro di fianco a lui, e gli ci vollero una buona manciata di secondi per riprendersi dal colpo. Probabilmente avevano tutti qualche costola rotta.

Ebbe a malapena il tempo di preoccuparsi della propria salute fisica, che dovette schivare il proiettile di un soldato sparato nella sua direzione. Rotolò a terra e si fece scudo con il tavolo che aveva ribaltato qualche attimo prima, mentre una raffica di proiettili colpiva la sua superficie. Arthur si guardò attorno e con sollievo notò che Alfred aveva avuto la stessa idea, riparando se stesso e Davie con lo scudo che aveva usato per rompere il vetro. Aveva un taglio sulla fronte che aveva squarciato a metà il passamontagna, mostrando il sangue che gli colava sull’occhio sinistro. Arthur realizzò che anche il suo passamontagna si era strappato nella caduta e se lo levò, tanto ormai era inutile.

Provò a usare la telecinesi per colpire i soldati con i computer sparsi per il pavimento, ma come sospettava non funzionò. Dovette ricorrere alla vecchia maniera. Appena gli spari diminuirono, afferrò il primo computer a portata di mano, scattò in piedi e lo scaraventò contro un gruppo di soldati. Prese in pieno le teste di due soldati che si sbilanciarono all’indietro facendone cadere altri due. Appena gli altri soldati si ripresero dalla sorpresa, ricominciarono a sparare, ma Arthur si era di nuovo rintanato dietro al tavolo.

Aveva contato una quindicina di soldati nella stanza. Non c’era tempo per questo, doveva sbrigarsi a disattivare la barriera. Tirò fuori le due pistole che teneva alla cintura e iniziò a sparare da dietro al tavolo, sperando di beccare qualche soldato. Non era un grandissimo tiratore, avendo fatto affidamento sui propri poteri per tutta la sua vita. Ma non furono necessarie le sue doti da cecchino.  Alfred aveva tirato fuori il suo fucile e aveva iniziato a sparare contro tutti i soldati presenti, che caddero a terra uno a uno, agonizzanti.

Arthur si alzò in piedi ansimando. A parte per i lamenti dei soldati e del suono dell’allarme, nella torre di controllo era calato il silenzio. Si avvicinò ad Alfred, posandogli una mano sulla spalla. - Chiedi informazioni ai soldati sulle prigioni, anche con la forza se necessario. - voltò lo sguardo verso Davie. - Tu sai quello che devi fare, mettiti al lavoro.

Davie annuì e corse a maneggiare uno dei pochi computer ancora funzionanti.

Arthur si guardò intorno per cercare un modo per aiutare Davie a disattivare la barriera. Tutti i monitor erano stati bloccati per impedire l’accesso a ospiti indesiderati. Classico.

- Che macello. Avete fatto scappare tutti gli scienziati.

Arthur rabbrividì, sbigottito. Di chi era quella voce?

- Ero nel bel mezzo di un racconto favoloso e per colpa vostra ho dovuto interromperlo.

La voce era infantile, ma non di un bambino, e proveniva da un’enorme vetrata, che Arthur inizialmente aveva scambiato per un semplice muro. Al di là del vetro c’era…

- Sì. Sono un mutante. - disse il ragazzo biondo dall’altro lato con uno sguardo annoiato. - Anzi, per essere precisi, il mutante che alimenta la barriera della fortezza. Mi chiamo Feliks, un nome bellissimo, non trovi?

Arthur, se possibile, sgranò ancora di più gli occhi. Le labbra ebbero un fremito. - Mutante… che alimenta la barriera?

Il ragazzo alzò gli occhi al cielo. - Devo pure ripetermi, adesso? Ti facevo più sveglio, Arthur Kirkland. Ma quelle sopracciglia sono, tipo, vere? Tesoro, forse dovresti trovarti un bravo estetista, sai?

Arthur era talmente scioccato dalla presenza di quel mutante che non ebbe alcuna reazione a sentire il suo nome completo o agli insulti alle sue sopracciglia. Aveva le vertigini e lo stomaco rivoltato. - Vuoi dire che… Dietro alla barriera anti-poteri non c’è una macchina, ma il potere stesso di un mutante? Il tuo potere?

- Proprio il mio! - batté le mani il ragazzo. - Grazie a questi cavi che ho in testa trasferisco in automatico il mio potere agli amplificatori sparsi per tutta la fortezza. Lo so, lo so, non c’è bisogno di essere così stupiti dalle mie grandissime doti fuori dal comune! Nessuno è forte quanto me!

Arthur aggrottò le sopracciglia e si prese il mento tra le dita, pensieroso. - Dunque basta che tu ti tolga quei cavi per disattivare la barriera?

Feliks si rabbuiò. - Non sarebbe immediato. Il suo effetto diminuirebbe gradualmente, ma avreste comunque bisogno dell’accesso ai computer per scollegare gli amplificatori.

Arthur non perse tempo. - Bene, allora perché non mi fai un bel favore e ti togli quei brutti cavi che rovinano i tuoi bellissimi capelli?

Feliks alzò un sopracciglio, compiaciuto per il complimento, ma poi abbassò lo sguardo, schivo. - Non lo farò.

- Cosa? Perché no? - chiese Arthur avanzando verso il vetro.

Il ragazzo aggrottò la fronte in un’espressione angosciata. - Se lo faccio, poi mi puniranno.

- Non ti puniranno se ti tirerò fuori da qui.

- Non puoi farlo, è impossibile entrare nella mia stanza. Solo il generale e pochi scienziati sanno come accedervi. E i muri e il vetro sono programmati apposta per resistere perfino a una bomba. Forse solo quei computer ti diranno come farmi uscire. - Fece un cenno con il capo, indicando i monitor alle spalle di Arthur.

L’inglese si voltò. Davie stava ancora lavorando all’accesso ai computer, mentre Alfred era piegato su uno dei soldati non ancora svenuto, minacciandolo con la pistola di rivelargli l’accesso alle prigioni.

- Troverò il modo, te lo prometto. - si mise una mano sul cuore, assumendo il tono più rassicurante che potè. - Ma non posso farlo se non disattivi la barriera così che io possa usare i miei poteri.

Feliks sembrò cedere per un attimo, ma il suo sguardo venne attraversato da un lampo di terrore. - Non voglio che mi facciano del male.

- Non lo faranno, se agiremo in fretta. Solo tu puoi aiutarci a tirarvi tutti fuori da questa prigione. Potrai rivedere la tua famiglia, i tuoi amici. Sarai libero.

Feliks iniziò a mangiarsi le unghie. Era a un passo dalla libertà, ma la paura lo frenava. Chissà che lavaggio del cervello gli avevano fatto in tutti quegli anni per renderlo così spaventato all’idea di uscire dalla fortezza e delle conseguenze che quell’azione potesse avere.

A un tratto Davie saltò in piedi con le braccia in aria. - Arthur, ce l’ho fatta! - esclamò sorridendo. - Sono entrato nel loro sistema! Sono entra-

Bang.

Uno sparo si levò in aria.

Davie sgranò gli occhi, mentre un rivolo di sangue gli colò dalla bocca. Con il capo tremante, abbassò lo sguardo: un’enorme macchia scura si stava dilagando all’altezza del suo stomaco. Cadde in ginocchio.

Alfred lanciò un grido disperato. - DAVIE!! - corse dal suo amico, immobile a terra.

Arthur si accorse di essere paralizzato dalla paura. Non provava quella sensazione da molto tempo. Aveva un bruttissimo presentimento. Solo una persona nella sua vita l’aveva atterrito così tanto da rubargli il fiato e impedirgli qualsiasi movimento. Soltanto…

- Da quanto tempo,  fratellino.

Allistor, suo fratello maggiore di cui non aveva più avuto tracce da 15 anni, era in piedi sulla soglia della porta d’ingresso della torre di controllo, con la pistola fumante ancora sollevata. Indossava la divisa delle più alte cariche dell’esercito, le targhette del rango di colonnello. I sottili occhi verdi brillavano di una luce malvagia, a cui Arthur era fin troppo abituato. Le labbra erano incurvate in un ghigno agghiacciante. Tutto di lui gli aveva sempre ricordato un serpente. Il più velenoso dei serpenti.

- Davie, Davie resisti! Non mollare! - gridò Alfred con voce tremante, stringendo il suo amico tra le braccia.

Allistor fece un sorriso colmo di sadico piacere. - Risparmia il fiato, mutante. È tutto inutile. La mia mira è infallibile.

- Al..fred? - la voce di Davie era ridotta a un sussurro. - Sto morendo?

- No, no! - supplicò Alfred con gli occhi bagnati dalle lacrime. - Davie, non morirai. Ti prego, resisti!

Davie boccheggiò, tentando disperatamente di esalare gli ultimi respiri affannosi, fino a che gli occhi non si gli si chiusero lentamente, facendo scivolare una lacrima sulla guancia, che bagnò la mano di Alfred. La testa ciondolò di lato.

Alfred fece un respiro tremante. - Davie?

Ma Davie non rispose, immobile. Alfred strinse a se il corpo privo di vita del suo amico, scoppiando in un pianto inconsolabile.

Arthur rabbrividì. Era… morto? No, non era possibile. Non doveva andare così. Non doveva morire nessuno. Lui avrebbe dovuto fare in modo che tornassero tutti alla villa sani e salvi. Allora perché Davie era a terra con il sangue che gli inzuppava i vestiti, abbracciato da Alfred, la cui schiena era attraversata da sussulti a ogni singhiozzo? Lanciò un’occhiata veloce dietro di sé. Feliks si stava coprendo la bocca con le mani e aveva gli occhi sbarrati dallo shock.

- Feliks, disattiva la barriera! - gli ordinò Arthur, ignorando il panico che lo stava assalendo in quel momento.

Ma il mutante lo guardò con occhi terrorizzati, incapace di agire.

- Feliks! - gridò Arthur battendo una mano sul vetro. - Fallo adesso o moriranno tutti!

- N- no… - balbettò Feliks, rannicchiandosi sul pavimento con le mani tra i capelli e gli occhi stralunati di terrore. - Non posso, non posso farlo. Allistor mi farà del male. Allistor è cattivo con me. Morirò!

Arthur si morse il labbro inferiore e vide Alfred che stringeva a sé corpo inerme di Davie. Un’altra perdita. Un’altra persona cara ad Alfred che gli veniva strappata via. Ed era ancora una volta solo colpa sua.

- Che scena toccante. - disse Allistor, alzando gli occhi al cielo. - Beh, questo è quello che si merita per essersi intrufolato nella Fortezza di Westbrook.

Alfred sollevò il capo di scatto. Gli occhi rossi dal pianto furono attraversati da un lampo di rabbia. Arthur non ebbe nemmeno il tempo di fiatare per fermarlo che il ragazzo era già scattato in piedi, pronto a sferrare un pugno in faccia ad Allistor.

Il colonnello sparò, colpendo Alfred di striscio sulla guancia. Sparò un’altra volta, ma Alfred in preda all’adrenalina era molto più veloce e riuscì a schivare il proiettile. Quando gli arrivò a un passo di distanza, gli colpì la faccia con tutta la forza che aveva in corpo. Allistor si sbilanciò all’indietro, ma non perse l’occasione per premere ancora il grilletto. Stavolta, centrò in pieno l’ala sinistra di Alfred, il quale cadde in ginocchio dal dolore, ma non si fece trovare impreparato quando il soldato tentò di sparare un’ultima volta in direzione della sua fronte, ruotando la gamba dietro le sue caviglie e facendogli perdere l’equilibrio. Allistor cadde a terra e Alfred ebbe il tempo di correre fuori dal suo raggio d’azione.

Allistor non perse tempo e si rialzò in fretta, ma Arthur gli si parò davanti e con un calcio lo disarmò, facendo volare la pistola dall’altro lato della stanza.

Allistor rise di gusto. - Ah, il mio caro fratellino è cresciuto.

- La pagherai cara per quello che hai fatto, Allistor. - ringhiò Arthur stringendo i pugni all’altezza del petto, pronto a battersi.

- È inutile, Arthur. - ghignò il rosso. - Non sei mai riuscito ad affrontarmi e mai ci riuscirai. Sei sempre stato il più debole!

Allistor scattò in avanti e gli tirò un pugno dritto sullo zigomo, facendolo barcollare. Arthur ritrovò l’equilibrio piantando i piedi a terra e rispose sferrando una serie di pugni, che però Allistor riuscì prontamente a bloccare o a evitare finché non ebbe il tempo di assestargli un calcio all’altezza dello stomaco, che scagliò Arthur contro il muro.

Gli si mozzò il fiato e cadde a sedere, con la schiena appoggiata alla parete dietro di lui. Suo fratello aveva ragione. Non era mai stato in grado di batterlo. Allistor era sempre stato più grande, più alto, più robusto, più forte e più agile di lui. Mentre Arthur, anche da adulto, davanti a suo fratello si sentiva ancora il bambino spaventato e indifeso, incapace di usare i propri poteri senza perderne il controllo, che era in passato. La sola vista del fratello lo aveva paralizzato a un punto tale che non riusciva nemmeno a combattere nel corpo a corpo.

Con la vista annebbiata dal dolore, notò gli stivali di Allistor fermarsi davanti a lui. Arthur alzò lo sguardo. L’espressione sul viso del rosso trasmetteva una sola cosa: repulsione.

- Ha un non so che di familiare questa scena, non trovi? - chiese Allistor, mentre sfilò dalla cintura la sua frusta nera.

Il cuore di Arthur mancò un battito. Quella frusta. Tutto d’un tratto, si ritrovò ad essere di nuovo un bambino, nella sua casa in Inghilterra. Era rannicchiato in un angolo della sua cameretta, con le lacrime che gli rigavano le guance. L’Allistor adolescente faceva scoccare la frusta per terra a un ritmo regolare e Arthur attendeva tremante il momento in cui sarebbe stato colpito. Ricordava ancora il dolore lancinante delle ferite. Ricordava la sensazione di impotenza e solitudine che provava, sapendo che nessuno sarebbe arrivato a salvarlo.

Guardò Allistor scoccare la frusta sul pavimento, senza trovare la forza di reagire. Era come se il trauma della sua infanzia si stesse impossessando di lui, impedendogli di combatterlo. Allistor sollevò il braccio, pronto a colpirlo con una luce sadica negli occhi.

- ARTHUR!! - gridò Alfred dall’altro lato della stanza per rinsavirlo.

La sua voce lo risvegliò dalla trance in cui era piombato e prima che la frusta potesse anche solo sfiorarlo, rotolò di lato, schivandola.

Si rimise in piedi ansimando.

Allistor voltò il capo. - Oh? Hai una bella faccia tosta a evitare i miei colpi.

- Adesso basta giocare, Allistor! - esclamò Arthur a denti stretti. - Dove sono i prigionieri? Dov’è Francis??

Allistor sollevò un sopracciglio con aria compiaciuta. Dopo qualche attimo scoppiò a ridere. - Francis Bonnefoy?

A un tratto, si udì del frastuono provenire dalle scale da cui era arrivato Allistor. Erano le voci di soldati mandati come rinforzo nella torre di controllo.

- Che hai da ridere? - chiese Arthur, serrando i pugni.

- E così è per questo che sei qui. Tutti questi anni di agguati, bastoni tra le ruote e piani per entrare nella fortezza erano… Per Francis Bonnefoy.

Allistor scoppiò ancora una volta in una fragorosa risata.

- Ma come, non lo sai? - le labbra gli si incurvarono in un sorriso maniacale. - Francis è morto.

Ad Arthur mancò un battito. Il cuore gli piombò nello stomaco. All’improvviso fu come se la stanza avesse iniziato a girare e gli mancasse il terreno sotto i piedi. Morto?

- Proprio così! - Allistor allargò le braccia. - Non posso credere che tu abbia davvero pensato che quel mutante francese potesse sopravvivere per ben cinque anni all’interno della fortezza di contenimento più potente del mondo! Come fai a essere così stupido?

Gli venne da vomitare. No… No, Allistor stava mentendo. Non era possibile che Francis fosse morto. Lo avrebbe capito.

- Non mi credi? Allora dimmi perché in tutti questi anni non sei riuscito a metterti in contatto telepatico con lui? Di occasioni ne hai avute tante e per un mutante forte come te dovrebbe essere una passeggiata, eppure non hai mai avuto successo. È morto aspettandoti e invece tu l’hai abbandonato. Ecco la verità.

Arthur sentì le gambe cedergli e cadde a terra in ginocchio. Gli occhi sbarrati fissavano un punto indefinito nello spazio davanti a sé. Francis… morto. Un dolore atroce gli trafisse il cuore, fino a fargli mancare il fiato. Sentì i battiti del suo cuore accelerare e i respiri diventare sempre più brevi e spezzati. In quel momento nulla più esisteva. Solo il buio. Solo due parole. “Francis”, “morto”. Non sentiva la risata di Allistor, la voce di Alfred che lo chiamava e i passi dei soldati che facevano irruzione nella stanza. Non sentì le braccia di Alfred che lo sollevavano da terra e lo trascinavano via. Non sentì gli spari dei soldati nella sua direzione. Non sentì che Alfred se lo fosse caricato su una spalla, per fuggire sulle mura della fortezza. Non sentì la neve e il vento che gli pungevano il viso, mentre si sollevavano da terra e si allontanavano dalla fortezza in volo. Non sentì Alfred che diede la ritirata ai mutanti che stavano combattendo.

Nulla di tutto questo gli importava.

Nella sua testa c’erano soltanto due parole.

Francis.

Morto.

 

 

 

 

Romano non sapeva quanto ancora avrebbero potuto resistere.

Dopo che Linh aveva spento i fari, era calato il buio nell’intera torre e i soldati avevano iniziato a sparare alla cieca. Un proiettile l’aveva colpito di striscio alla spalla quando si era gettato su Linh per spostarla dalla mira dei soldati. La ferita bruciava da morire, ma in quel momento temeva ancora di più che qualche proiettile potesse effettivamente colpirlo e mandarlo all’altro mondo.

Linh tentò di sparare a sua volta, ma con scarsi risultati, dato che al buio non riusciva a prendere la mira. L’unica consolazione era che, proprio per questo motivo, i soldati evitavano di avanzare sulla scala a pioli.

Dovevano trovare un modo per uscire di lì, ma l’unica via d’uscita plausibile erano le scale. Se Arthur si fosse mosso, avrebbero potuto tentare la fuga spaccando le vetrate della torre e sfruttando il potere di Linh, ma la barriera anti-poteri era ancora attiva. Romano aveva un pessimo presentimento.

In quel momento, sentì i passi dei soldati avanzare verso la scala. Se fossero arrivati in cima, per lui e Linh non ci sarebbe stato nulla da fare. Il cuore cominciò a battergli all’impazzata.

A un certo punto, un grido si levò tra i soldati. Poi un altro e un altro ancora, fino a che non divennero solo dei gemiti.

Era calato il silenzio. Romano sentì qualcuno salire a passi pesanti la scala a pioli.

- Ragazzi, ci stavamo preoccupando, pensavamo foste morti stecchiti! - la voce di Mathias risuonò nel buio della stanza.

Romano tirò un sospiro di sollievo e mai avrebbe immaginato di poter essere felice di rivedere Testa di Carciofo.

Mathias aiutò entrambi ad alzarsi e si fiondarono tutti e tre giù dalle scale, evitando i soldati svenuti a terra. O almeno, Romano sperò che fossero solo svenuti.

Una volta che furono fuori dalla torre, il freddo della bufera lo invase e i fiocchi di neve gli colpivano gli occhi scoperti dal passamontagna. L’aria era intrisa dell’odore della polvere da sparo dei fucili.

- Alfred ha ordinato la ritirata. - disse Mathias. - Penso sia successo qualcosa nella torre di controllo. Dobbiamo andarcene alla svelta!

Romano vide i vari mutanti sulle mura sferrare gli ultimi colpi ai soldati, prima di precipitarsi giù dalla rocca. Sollevò lo sguardo verso il cielo: notò Alfred che si allontanava in volo con due corpi a ciondoloni tra le braccia. Lo stomaco gli si rivoltò. Pregò col cuore in gola che non fosse successo nulla ad Arthur, i rivoluzionari non potevano perdere il proprio leader.

- Tu fuggi via, sei ferito! - gli disse Mathias, indicando la sua spalla sanguinante. - Noi vi copriamo!

E corse via insieme a Linh e ad altri mutanti per affrontare gli ultimi soldati sulle mura.

Per quanto Romano non volesse che combattessero da soli, sapeva che sarebbe solo stato d’intralcio. Scavalcò le mura e iniziò a correre sulla roccia, sentendo l’energia che aveva perso prima rinvigorirgli il corpo.

Azzardò un’occhiata dietro di sé quando sentì delle urla provenire dalle mura. Un gruppo numeroso di soldati era arrivato sulle mura di nord-est per aiutare le guardie rimaste. Per poco non inciampò quando tra questi notò Antonio, che imbracciava il fucile.

Perché lui era lì? Sarebbe dovuto rimanere di guardia sulle mura di sud-est. Non sarebbe dovuto entrare nella mischia della battaglia. Si bloccò, senza riuscire a distogliere lo sguardo da Antonio. Vide il suo gruppo scontrarsi con i mutanti, in un groviglio di braccia, gambe e armi. Per un attimo, lo perse di vista e fu quasi tentato di risalire la roccia per trovarlo. Ma poi lo vide staccarsi dal gruppo, posizionandosi sul parapetto delle mura. Una soldatessa dai lunghi capelli bianchi gli ordinò qualcosa che non udì, puntando il dito nella direzione di Romano. Antonio rivolse il fucile contro di lui, mentre la donna iniziava a sparare alla sua destra, puntando ai mutanti che stavano scappando. Il cuore di Romano gli finì nello stomaco. Lo stava per… uccidere?

Nonostante questo, Romano non si mosse. Vide Antonio chiudere un occhio mentre prendeva la mira, il dito appoggiato sul grilletto, le spalle che si irrigidivano, i riccioli castani che ondeggiavano a ogni soffio di vento.

Dopotutto era giusto così, pensò. Un umano e un mutante non avrebbero mai potuto avere un legame d’affetto, se l’era ripetuto tante volte.

Sì, gli andava bene così.

Proprio quando pensò che la sua vita sarebbe terminata in quel momento per mano di Antonio, il viso del soldato si contorse in una smorfia dolente. Antonio indietreggiò, facendo cadere a terra il fucile, mentre abbassò la mano tremante all’altezza del fianco sinistro. Fu in quel momento che Romano capì: il fianco di Antonio era stato attraversato dal pugnale di un mutante, la lama ancora conficcata nella carne e la divisa che a poco a poco si stava macchiando di rosso.

- No!! - gridò Romano mentre Antonio cadeva a terra privo di sensi. Fece per risalire la roccia, ma una fitta lancinante gli perforò la testa. Cadde in ginocchio, stingendosi il capo tra le mani. Che cosa gli stava succedendo? La vista gli si annebbiò e cominciò a vedere quelle che gli sembrarono delle allucinazioni. Vide una cella, i cui muri bianchi venivano attraversati da dei lampi rossi. Sentiva la sirena di un allarme. Si guardò intorno e notò tre ragazzini asiatici vestiti di bianco che si abbracciavano seduti su un letto a castello. Tentò di camminare nello spazio, ma a ogni passo era come se gli avessero legato dei mattoni ai piedi. Sentì le forze che lo abbandonavano e si aggrappò alle sbarre della cella. Vide un lungo corridoio attraversato da altre celle, colmo di soldati che urlavano e tiravano calci alle celle. Con un ultimo sforzo, sollevò la mano sinistra fin sopra la testa. Come sospettava, sentì un ciuffo arricciato che conosceva molto bene. Stava avendo un collegamento telepatico con Feliciano. No, non solo telepatico. Un collegamento plurisensoriale. Non gli era mai capitato prima.

Un’altra fitta alla testa lo riportò alla realtà. Era accovacciato sulla roccia, ansimante e con il sudore che gli bagnava la fronte. Sentiva i suoi arti tremanti come se fossero divenuti gelatina e i rumori circostanti erano ovattati.

Vide Mathias che gli si avvicinò correndo. Gli disse qualcosa, ma la sua voce era come un suono lontano. Quando il biondo lo prese tra le braccia, provando a rialzarlo, Romano iniziò a vedere tutto nero e perse i sensi.




Spazio dell'Autrice:
Ciao a tutti!!
Nuova domenica, nuovo capitolo. È molto lungo rispetto agli altri, ma non potevo assolutamente spezzarlo.
È stato un capitolo molto impegnativo, non sono abituata a scrivere scene di azione, quindi chiedo scusa se certe scene di combattimenti sono un po' confusionarie, spero le capiate!
(Giusto per precisare: Mathias è Danimarca, Berwald è Svezia, Tino è Finlandia, Lukas è Norvegia e ovviamente Toris è Lituania)
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, fatemelo pure sapere nei commenti!
Ci rivediamo alla prossima, byeee <3

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Capitolo 12
*** Capitolo 11 ***


Capitolo 11

 

19 febbraio 1985, intorno alle 03:15 nel sotterraneo di Villa Caesar, Portland, Maine, USA

 

Arrivarono alla villa più in fretta che poterono, divisi in gruppi, in modo da seminare i soldati che li stavano inseguendo.

Non appena Alfred raggiunse volando la sala comune del sotterraneo, si gettò a terra sfinito, con i corpi di Arthur e Davie ancora stretti tra le braccia. Per un attimo non sentì più nulla per la stanchezza accumulata, solo il suo respiro affannoso e il dolore agli arti, tremanti per lo sforzo. Vide dei guaritori prendere Arthur dalle braccia e trascinarlo via. Aveva delirato per lo shock per tutto il tragitto ed era appena svenuto, esausto, ma a parte quello tutto sommato non sembrava ferito gravemente a livello fisico. Alfred ancora non poteva credere alle parole di Allistor. Francis non poteva essere davvero morto, non era possibile. Era troppo forte, troppo determinato e troppo furbo per farsi uccidere. Ma se fosse stato vero… Che ne sarebbe stato dei rivoluzionari? Arthur era sconvolto, non l’aveva mai visto perdere la testa in quel modo. Se li avesse abbandonati, sarebbe stato in grado di guidarli lui stesso?

Sconfortato, voltò lo sguardo verso il corpo inerme di Davie e gli occhi gli si riempirono ancora una volta di lacrime. Si mise in ginocchio a fatica e strisciò verso di lui. Allungò una mano verso quella del suo amico e gliela strinse. Era fredda. Non voleva credere che fosse morto in quel modo davanti ai suoi occhi. Non si sarebbe mai perdonato di non essere stato capace di proteggerlo. Davie non aveva una famiglia. Sin da quando l’aveva conosciuto, aveva considerato Alfred come un fratellino, ma soprattutto un amico. Lui era l’unica persona che potesse piangerlo. Si sentiva così in colpa. Avrebbe voluto urlare, dimenarsi, spaccare qualcosa, ma era distrutto, fisicamente e psicologicamente. Aveva a malapena la forza di respirare.

Sentì una mano accarezzargli la spalla. - Lo prendiamo noi, Alfred. Tu pensa a farti curare da qualche guaritore. - disse una voce femminile, in tono grave.

Alfred si girò a fatica. Era Tereza, una mutante rimasta di guardia alla villa. Portava i capelli castani legati in una mezza coda, la frangetta le ricadeva sugli occhi violetti che guardavano Alfred con un’espressione colma di dolore. Non avevano mai parlato tanto, ma era sempre stata una presenza forte e confortante all’interno delle fila dei rivoluzionari e Alfred era grato di poter sentire il supporto di qualcuno di familiare in quel momento. Tereza fece un cenno con il capo al suo partner, Jakub, un ragazzo dai capelli chiari da cui non si separava mai, che mise il corpo di Davie su una barella, coprendolo con un lenzuolo bianco, e lo portarono in un’altra stanza, per lasciare spazio nella sala comune ai feriti.

Solo in quel momento Alfred si ricordò di essere stato ferito all’ala sinistra. Il freddo della bufera e l’adrenalina avevano attenuato il dolore che provava a ogni colpo d’ali, ma in quell’istante potè di nuovo sentirlo, acuto e pungente. Non aveva tempo per pensarci, doveva assicurarsi che gli altri mutanti tornassero alla villa sani e salvi. Sperò che la ferita non fosse troppo grave, dopotutto le ali erano ciò che lo rendevano se stesso. Non poteva perderle.

- Qualcuno mi aiuti con l’italiano! - gridò Mathias una volta varcata la soglia della sala comune. Un’enorme ferita da taglio gli squarciava la guancia sinistra, facendo colare tutto il sangue sul collo, ma non sembrava farci troppo caso. Avanzava nella stanza portando Romano tra le braccia, privo di sensi.

Lukas, il ragazzo norvegese, gli corse incontro. - Che gli è successo? E a te invece?

Allungò una mano verso il suo viso, ma Mathias scosse la testa. - Non pensare a me, sto bene. Il problema è Romano, qualcosa non va, è svenuto all’improvviso e non siamo più riusciti a svegliarlo.

Lukas annuì, serio. - Vedrò cosa posso fare, intanto distendilo su una delle brandine d’emergenza. Ma poi fammi dare una controllata anche a te, quella ferita non mi piace affatto.

Mathias fece un’espressione offesa. - Stai dicendo che non ti piaccio con il mio nuovo look?

Lukas scosse la testa esasperato, ma Alfred potè notare che le sue labbra si incurvarono in un sorriso accennato.

A un certo punto, due guaritori piombarono nella stanza spingendo una barella.

- Presto! Abbiamo bisogno di una stanza libera per poter procedere con l’operazione per una ferita da arma da fuoco alla spalla con proiettile ancora in corpo. - gridò uno dei due, il più abile tra i guaritori, un egiziano minuto e silenzioso dai profondi occhi verdi.

Alfred vide Yao sdraiato sulla barella, con gli occhi serrati per il dolore, che appoggiava un panno zuppo di sangue sulla spalla ferita. Stringeva i denti e respirava velocemente.

Linh camminava dietro la barella, disorientata e con gli occhi sbarrati, sull’orlo del pianto. - Dov’è Yoong Soo? - chiedeva a ogni persona che incrociava. - Qualcuno ha visto mio figlio? Devo sapere se sta bene. Almeno lui…

Cadde a terra in ginocchio, coprendosi il viso con le mani, mentre si abbandonava in singhiozzi disperati.

Alfred raccolse tutte le forze che aveva in corpo e si alzò per raggiungerla. La abbracciò a sé e le accarezzò i capelli per confortarla. - Yoong Soo è rimasto al sicuro nella villa e sta bene, probabilmente sarà qui a momenti. Devi essere forte per lui. Yao si riprenderà, vedrai.

Linh annuì leggermente tra un singhiozzo e l’altro, finché non si udì una vocina che chiamava - Mamma?

Si voltarono entrambi verso l’ingresso del sotterraneo: Yoong Soo era a piedi nudi sulla soglia, indossava un pigiamino con gli orsetti e aveva i capelli scombinati. Appena i loro sguardi si incrociarono, il bambino corse ad abbracciare la madre, la quale lo strinse forte a sé, come a non volerlo lasciare più.

- Dov’è papà? - chiese Yoong Soo.

Linh esitò, prima di trovare le parole adatte. - Papà deve essere operato, i guaritori lo aiuteranno, non devi preoccuparti. Ha combattuto come i supereroi che ti piacciono tanto, tornerà da noi.

Gli occhi del ragazzino vennero attraversati da un velo di paura e apprensione, ma l’abbraccio confortante della madre gli bastò per mantenere la calma.

- Lo aspettiamo qui, va bene? - disse Linh, prendendo il figlio per le spalle. - Ci sediamo su un divano e ci facciamo un sonnellino, che ne dici?

Yoong Soo ci pensò su e poi annuì, mostrando tutti i denti in un sorriso caloroso, che strideva con l’ambiente in cui si trovava, ma che dava un barlume di speranza. - Va bene, però voglio la cioccolata calda!

Linh scoppiò a ridere, gli diede un buffetto sulla guancia e si avviarono verso la cucinetta del seminterrato per accontentare il bambino.

Alfred decise di tenere duro qualche attimo in più, ignorando stanchezza e dolore, per fare un giro tra i rivoluzionari e assicurarsi che stessero tutti bene. La maggior parte dei mutanti aveva bende e cerotti ovunque, ma a parte per la stanchezza, non erano messi male. I feriti più gravi erano pochi ed erano stati portati tutti nelle sale adibite apposta per gli interventi più delicati. Notò Roderich e Vladimir, entrambi quasi completamente illesi, accasciati su un tappeto con la schiena contro al muro che sonnecchiavano uno di fianco all’altro. Forse era la prima volta che non li vedeva bisticciare. In un angolo, un guaritore stava fasciando la testa di Berwald, colpito con un sasso da un soldato mentre tentava di difendere Tino, il quale in quel momento stava piangendo in maniera inconsolabile al suo fianco, con in braccio il suo cagnolino bianco che gli leccava il viso come a volerlo confortare.

- È colpa mia. - balbettava. - È tutta colpa mia.

Berwald gli strinse la mano morbida e paffuta. - Non lo è. Non avrei mai permesso che qualcuno ti facesse del male. E lo rifarei. Sempre.

Se possibile, Tino pianse ancora di più, mentre Berwald gli mise una mano dietro la nuca per avvicinarlo e baciargli teneramente la fronte.

Alfred si lasciò sfuggire un sorriso. Nonostante tutto, qualcosa di positivo alla fine c’era.

D’un tratto, sentì una voce familiare sbraitare in un’altra stanza. Fece un sospiro e corse da dove proveniva tutto quel trambusto.

Come sospettava, Arthur si era svegliato e si dimenava per allontanare i poveri guaritori che stavano tentando di calmarlo. - Lasciatemi! Non ho bisogno di cure, andate da chi sta peggio di me! Lasciatemi solo!

Alfred scosse la testa, affranto. Quando Arthur era così alterato, sapeva essere una vera scocciatura. - Fate come vi dice, ci penso io a lui. - disse ai guaritori, che appena lo videro non se lo fecero ripetere due volte e si dileguarono. Chissà da quanto tempo stavano lottando per farlo ragionare.

Arthur a malapena lo degnò di uno sguardo e si alzò in fretta dalla brandina. Probabilmente era ancora stordito, poiché venne colpito dai capogiri e perse l’equilibrio. Alfred lo sorresse, mettendogli un braccio intorno alla vita, ma l’inglese non aveva alcuna intenzione di farsi aiutare e lo scansò bruscamente.

- Non ho bisogno di aiuto. - mormorò a denti stretti.

- Smettila di fare l’eroe, quello è il mio compito. - disse Alfred, alzando gli occhi al cielo.

- Ma quale eroe! - sbottò Arthur battendo il pugno sul muro alla sua destra. - Questa soffiata è stata un fallimento totale. Non abbiamo ricavato niente, ci sono più feriti di quanti avessi previsto, Yao è in fin di vita e Davie è morto! - gridò, guardando Alfred con gli occhi rossi e lucidi, le sopracciglia incurvate, le labbra tremanti, sul punto di frantumarsi in mille pezzi da un momento all’altro. - Francis è morto… Ed è tutta colpa mia.

Alfred fece un passo avanti. - Non dire così. Non potevi prevedere come sarebbe andata. Yao e gli altri feriti se la caveranno, quanto a Davie… - fece un respiro profondo, ancora non riusciva a parlarne senza sentire un nodo alla gola. - Davie conosceva i rischi che stava correndo. Ha fatto tutto questo perché ci credeva. Credeva in te. E sa che avrai successo. È morto da eroe.

Arthur non fiatò. Teneva lo sguardo basso e le mani strette a pugno.

- E Francis potrebbe essere ancora vivo.

- È morto. - ribatté Arthur, secco.

- Non possiamo saperlo! - si lamentò Alfred.

- Possiamo eccome invece. - Arthur fece un ghigno sarcastico. - Allistor ha ragione, c’è solo una ragione se non sono riuscito a mettermi in contatto telepatico con lui per tutti questi anni.

- La ragione è la barriera!

- E se non fosse così? E se fosse davvero morto? E se in quella fortezza li avessero già uccisi tutti? Matthew incluso?

- E se fosse? - chiese Alfred, esitante. - Cosa faresti?

Arthur distolse lo sguardo, con gli occhi che gli si riempirono di lacrime per la rabbia. - Non ne voglio parlare in questo momento. Vai a farti curare le ferite e riposati. Te lo meriti.

Alfred non ebbe nemmeno il tempo di ribattere, che Arthur gli passò di fianco evitando i suoi occhi accusatori e sparì dietro la porta, diretto verso il suo studio.

Si strofinò le mani sul viso, sospirando lentamente. Forse doveva semplicemente lasciarlo solo per un po’, per permettergli di schiarirsi le idee. Sperò solo che Arthur non fosse così incosciente da abbandonarli. Aveva sempre saputo che Francis era il motivo per cui aveva iniziato tutto quello, ma non poteva tirarsi indietro proprio ora. Solo Arthur poteva vincere contro l’esercito e il generale Beilschmidt. Alfred credeva in lui.

Decise di prendere le parole di Arthur alla lettera e uscì dalla stanza in cerca di un guaritore. L’ala sinistra aveva iniziato a pulsargli dal dolore e temette che la ferita si fosse infettata.

- Avete intenzione di tenermi qui legato ancora per molto? - disse una voce alle sue spalle.

Alfred dovette contenersi per non saltare sul posto, preso alla sprovvista. Quando si voltò, vide Toris, l’umano che aveva trovato aggirarsi intorno alla fortezza, legato a una sedia con una corda. Aveva perso l’elastico che gli legava i capelli castani, che adesso gli ricadevano morbidi sulle spalle. Tutta la rabbia che aveva provato quando si erano incontrati era scemata e ora guardava Alfred piuttosto con uno sguardo stanco, ma comunque incuriosito. - Il vostro leader ha un bel caratterino.

Alfred fece schioccare la lingua. - Senti chi parla, andreste d’accordo.

- Sarebbe un bel guaio, voi ribelli non mi piacete

- Ti aggiungerò alla lista delle persone a cui non piacciamo, mettiti comodo.

- Sarei molto più comodo se mi slegassi.

Alfred roteò gli occhi, chiedendosi quando quella serata sarebbe finita e avrebbe potuto avere un attimo di pace. Ci mise qualche attimo per sciogliere il nodo della corda e appena Toris fu libero si stiracchiò le braccia e la schiena, strizzando gli occhi.

- Credevo di marcire su quella maledetta sedia! - disse sistemandosi i vestiti stropicciati.

- Già… - rispose Alfred. - Non sarebbe stato di certo un male.

Prima che Toris potesse ribattere, vennero distratti dalle urla di Romano, che a quanto pare si era appena risvegliato dal suo pisolino di bellezza.

- Toglimi le mani di dosso, Testa di Carciofo. - disse con voce aspra, spostandosi dal tocco di Mathias.

Il danese incrociò le braccia, sulla difensiva. - Ti stavo solo coprendo la ferita sulla spalla con un cerotto! Lukas te l’ha già disinfettata a dovere.

- Non ve l’ho chiesto. - ringhiò Romano.

- Eri svenuto all’improvviso, pensavamo che fosse successo qualcosa di grave. Forse è colpa della febbre per via della tua ferita da arma da fuoco, che non è da sottovalutare. Come ti senti? - chiese Mathias, porgendogli un bicchiere d’acqua.

Romano gli scostò bruscamente la mano e si alzò dalla brandina. - Non ti deve interessare, smettila di assillarmi.

Lukas si fece avanti, mettendosi tra Romano e Mathias. - Si può sapere che hai per essere così agitato? Stavamo solo cercando di aiutarti.

Il viso di Romano si imporporò, quando realizzò di aver causato una sceneggiata e che tutti li stavano guardando, e abbassò lo sguardo, imbarazzato. - Lo sapevo che sarebbe stata una missione suicida. È andato tutto storto, troppa gente è rimasta ferita e non abbiamo ottenuto nulla di utile!

Nella sala calò il silenzio. Per quanto fosse drammatico, Romano aveva ragione. Il piano era fallito e l’ottimismo dei rivoluzionari era calato a picco. Sperò solo che Arthur avesse in serbo un buon discorso da fare per risollevare gli animi o erano spacciati.

- Adesso levatevi, tra qualche ora ho il turno di lavoro. - mormorò Romano prima di incamminarsi verso l’uscita, spalleggiando Lukas, il quale dalla rabbia strinse i pugni che vennero avvolti da una nube violacea, pronto a scagliarsi contro Romano. Venne prontamente fermato da Mathias, che gli appoggiò una mano sulla spalla e lo intimò di lasciar perdere.

Alfred si massaggiò le tempie con le dita. Solo Romano poteva essere capace di far arrabbiare Lukas, la persona più tranquilla che avesse mai conosciuto.

- Vedo che il caratteraccio è di casa. - esclamò Toris, soffocando una risata sarcastica.

- Se non hai niente di interessante da dire, puoi tornartene da dove sei venuto e non farti rivedere mai più. - gli intimò Alfred, che ormai stava perdendo la pazienza, mentre si allontanava verso l’infermeria.

- Voi non mi piacete. - lo incalzò Toris prima che Alfred potesse sparire dietro la porta. - Ma il nostro obiettivo è comune. Anche io voglio liberare un amico. Possiamo lavorare insieme.

Alfred scoppiò a ridere. - Non se ne parla. È troppo pericoloso per un umano.

- L’amico di cui parlo è Feliks Łukasiewicz, il mutante che alimenta la barriera anti-poteri.

Alfred sbarrò gli occhi per la sorpresa. - Che cosa?!

- Ho delle informazioni e un piano che potrebbe fare molto comodo al tuo leader. - Toris incrociò le braccia, assottigliando gli occhi. - Proprio perché sono un umano, vi sarò molto utile, specialmente all’interno della fortezza.

Alfred si morse il labbro inferiore. Non si fidava di Toris, ma se quello che diceva era vero, allora forse avrebbero potuto avere qualche speranza di vittoria.

- E va bene. - annuì pensieroso. - Potrai parlarne con Arhtur non appena si sarà ripreso.

 

 

 

19 febbraio 1985, 05:22 nell’infermeria della Fortezza di Westbrook, Portland, Maine, USA

 

Feliciano si era svegliato nel silenzio tombale dell’infermeria riservata ai mutanti deserta. Chiunque l’avesse lasciato lì, si era pure dimenticato di tenere le luci accese. Si lasciò sfuggire un sorriso ironico, pensando a come in un certo senso stava passando più tempo in infermeria piuttosto che nella sua cella.

Ogni tanto sentiva i passi agitati di soldati e infermiere che passavano nel corridoio. Poteva sentire le loro conversazioni.

- C’è bisogno di più personale medico, non eravamo pronti per un attacco di questa portata. - diceva una voce maschile, probabilmente di un ufficiale di alto rango.

- I pazienti con ferite più lievi devono lasciare i posti letto per quelli più gravi. - disse un infermiere a un altro.

- Il soldato con la ferita al fianco è fuori pericolo, ma lo terrei sotto osservazione per tutta la giornata per una questione di sicurezza. - disse uno dei medici a delle infermiere, mentre passava davanti alla porta.

- Quel soldato era proprio carino, dici che quando si sveglia posso chiedergli di uscire? - ridacchiava un’infermiera con la sua amica.

Feliciano si chiese se si sarebbero ricordati di lui o se l’avrebbero abbandonato lì ancora per qualche ora. Dopotutto, non si sentiva male. Ricordava vagamente che cosa gli fosse successo prima di svenire ed essere trasportato in infermeria. Ricordava di aver provato un dolore acuto alla testa e di avere avuto delle visioni confusionarie: la fortezza in mezzo a una tormenta di neve, un terreno roccioso scosceso, persone che correvano sulla roccia e soldati sui parapetti che puntavano i fucili in tutte le direzioni. Ricordava di aver avuto la forza di alzare il braccio destro fin sopra la testa e di aver sentito un ciuffo inconfondibile.

La consapevolezza gli fece piombare il cuore nello stomaco. Aveva avuto un collegamento telepatico con Romano. Questo voleva dire che suo fratello era lì a Potland tra le fila dei rivoluzionari. E voleva anche dire che i loro poteri erano collegati, nonostante la barriera e il collare.

Si coprì la bocca con la mano tremante. Non sapeva cosa pensare, doveva assolutamente rivelare questa informazione a Francis. Sperò soltanto che Romano stesse bene e che non gli fosse successo nulla durante l’attacco. Gli occhi gli si riempirono di lacrime, di gioia o di paura non lo sapeva. Forse l’avrebbe rivisto presto. Forse c’era ancora qualche speranza.

Non appena sentì la porta dell’infermeria aprirsi, si asciugò in fretta le lacrime con la manica della maglia. La figura, aprendo la porta, allungò una mano sull’interruttore e accese le luci bianche dell’infermeria. Feliciano dovette strizzare gli occhi per non farsi abbagliare.

- Perdonami. Avrei dovuto avvisarti. - disse Ludwig, chiudendosi la porta alle spalle.

Feliciano accennò un sorriso. - Non preoccuparti.

Calò un silenzio imbarazzante. L’ultima volta che si erano visti, Ludwig si era arrabbiato per le parole usate da Feliciano sulla sua situazione familiare. L’aveva ferito nei sentimenti senza rendersene conto e non aveva ancora avuto modo di scusarsi.

- Ho saputo che sei svenuto all’improvviso. - disse il soldato, avvicinandosi al letto di Feliciano. - Se adesso ti senti meglio, ti riporto nella tua cella. Hanno bisogno di questa stanza per mettere a riposo i soldati feriti.

- Oh! - esclamò Feliciano, a disagio. - Sì, sto molto meglio adesso! Non volevo causare tutto questo disturbo, mi disp- Cosa ti è successo al polso?

Ludwig alzò le sopracciglia e sollevò un poco il braccio destro, mostrando una fasciatura che copriva il polso, lievemente sporca di sangue. - Sono stato ferito durante il combattimento. Non è nulla di grave, fortunatamente, il taglio non era troppo profondo. Ma come puoi notare la ferita sta facendo molta fatica a rimarginarsi, dovrò aspettare qualche giorno e cambiare spesso fasciatura.

Feliciano annuì, pensieroso. - È morto qualcuno?

Ludwig aggrottò per un attimo la fronte, sorpreso dalla domanda. - Da quel che so, Allistor ha ucciso un rivoluzionario. Tra i soldati, molti sono feriti gravemente, ma nessun morto.

Feliciano strinse i pugni tremanti. E se quel rivoluzionario ucciso fosse… Romano? E se avesse avuto quel contatto telepatico con lui perché era in fin di vita?

Probabilmente Ludwig notò il timore dell’italiano e gli posò una mano sul braccio, per distrarlo. - Feliciano, io… Volevo scusarmi con te.

Feliciano sbatté più volte le palpebre, interdetto. - P-per cosa?

- Non dovevo lasciare che la mia emotività prendesse il sopravvento e non avrei mai dovuto alzare il tono in quel modo. - disse Ludwig evitando lo sguardo del mutante. La sua voce era attraversata da un lieve tremolio, quasi impercettibile. - Non è colpa tua se sono in questa situazione difficile con mio fratello, non avrei dovuto scaricare la mia rabbia su di te. Non importa se non mi perdonerai, avresti ragione.

Feliciano impiegò qualche attimo per metabolizzare le sue parole. - No, sono io quello che si dovrebbe scusare! - esclamò afferrando con le dita sottili la manica della sua divisa. - Non avevo inteso il tuo stato d’animo e ho parlato a vanvera senza sapere nulla di te. Avevi tutto il diritto di essere arrabbiato.

- No, Feliciano, è colpa mia…

- No, è mia!

Si guardarono negli occhi per qualche secondo, con i visi a pochi centimetri di distanza, prima di scoppiare a ridere. Ludwig si ricompose in fretta, tirando un colpetto di tosse, mentre Feliciano dovette sforzarsi per non continuare a ridere.

- Ancora non mi sembri un soldato, sai? - disse a un certo punto Feliciano, mettendosi seduto sul letto con i piedi nudi appoggiati sul pavimento di marmo bianco. Prese la mano fasciata di Ludwig tra le sue e osservò il segno rosso sbiadito del sangue. - Nonostante questa tua ferita provocata da un mutante, nonostante i tuoi colleghi feriti, nonostante la famiglia da cui provieni… Tu sei diverso. Sei più umano di quanto tu ti senta.

Le orecchie di Ludwig si colorarono di rosso dall’imbarazzo, un dettaglio che Feliciano amava notare. - Non mi conosci abbastanza. Sono pur sempre un soldato di questa fortezza.

- Ti conosco abbastanza da essere convinto di quel che dico. - piegò le labbra in un dolce sorriso. - Ogni volta che mi sento giù o in pericolo, tu sei pronto a confortarmi. Non ne capisco il motivo e l’unica spiegazione che riesco a trovare è che tu sia una persona buona.

Ludwig trattenne il fiato, mentre Feliciano portava la sua mano alla guancia, appoggiandovisi. Accarezzò con le dita la pelle morbida e calda del mutante. A quel tocco, Ludwig sentì uno strano formicolio all’altezza dello stomaco, che gli annebbiò completamente il cervello. Sapeva cos’era quella sensazione, l’aveva già provata molte volte al solo pensiero del mutante. I battiti del suo cuore accelerarono tutto d’un colpo e sentì sudore freddo invadergli tutto il corpo.

Vide gli occhi scuri di Feliciano scrutarlo con interesse. - Fai attenzione. - disse soltanto, baciandogli dolcemente il polso con le sue labbra carnose.

Ludwig avvampò, ritirando la mano per l’imbarazzo, gesto che provocò un sorriso divertito sul volto dell’italiano, il quale si alzò dal lettino e si incamminò verso la porta. - Allora, andiamo?

Il soldato dovette fare un profondo respiro per riprendersi dai pensieri che gli stavano affollando la mente in quel momento e scortare Feliciano alla sua cella.



Spazio dell'Autrice:
Ciao a tutti!!!
In questi mesi sono talmente impegnata che trovare del tempo per scrivere è diventata un'impresa quasi impossibile, arrivo alla sera che sono cotta.
Questo è un capitolo un po' breve, di passaggio, ma che comunque mette a punto un paio di questioni che verranno approfondite più avanti.
Finalmente ho aggiunto Repubblica Ceca (Tereza) e Slovacchia (Jakub), che sono due personaggi che personalmente adoro, ma che trovo difficile inserire all'interno della fanfiction. Inoltre mi è piaciuto tantissimo scrivere l'interazione tra Alfred e Toris, un po' passivo-aggressiva ahah! E LUDWIG FILA NELL'HORNY JAIL, CON I TUOI PENSIERI PECCAMINOSI!!
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, come al solito fatemelo pure sapere se vi va!
Ciao ciaooo <3

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Capitolo 13
*** Capitolo 12 ***


Capitolo 12

 

19 febbraio 1985, locale di Moreau, Portland, Maine, USA

 

- Hai letto il giornale di oggi?

- Ieri notte i mutanti ribelli hanno attaccato la Fortezza di Westbrook!

- Dici che potrebbero essersi rifugiati in città?

- Non lo so, ma stai certo che, se mi trovo davanti uno di quegli scherzi della natura, avrà vita breve.

Queste erano le conversazioni dei clienti del locale “Da Moreau” che Romano aveva sentito ininterrottamente per tutto il giorno. La notizia della soffiata era su tutti i quotidiani e dunque sulla bocca di qualsiasi cittadino di Portland. Tra caffè, sigarette e partite a poker, i clienti abituali del locale, appostati nei soliti tavoli, si scambiavano pareri e teorie complottiste sugli avvenimenti della sera precedente, una più ridicola dell’altra, e che in generale finivano con una minaccia di morte a tutti i mutanti. Discorsi che Romano aveva già sentito più volte in precedenza, quindi nulla di eccezionale, ma che in quel momento gli facevano provare un misto di rabbia e di paura. Era sempre stato molto suscettibile quando sentiva conversazioni sui mutanti, facendo fatica a contenere la rabbia per non destare sospetti, ma quella volta era diverso. Ciò che lo frenava dal reagire era la paura, o meglio il terrore, che qualcuno potesse scoprire che aveva preso parte all’assedio. Per la prima volta era il soggetto principale dei discorsi degli uomini di Moreau, a loro insaputa, e tutto ciò lo terrorizzava, tanto da sentir insistentemente pulsare di dolore la ferita sulla spalla, coperta dalla maglia bianca da lavapiatti che indossava, e da controllare in maniera ossessiva l’orologio appeso al muro in attesa della fine del turno di lavoro per dileguarsi dai loro sguardi. Sapeva che Moreau non avrebbe accettato di buon grado che facesse parte dei rivoluzionari e temeva le conseguenze più di quanto volesse ammettere a se stesso.

Quella mattina, era corso via dalla villa più in fretta che poté per arrivare al locale e far finta che nulla di tutto quello fosse successo. Era entrato dalla porta sul retro verso le quattro del mattino, nel silenzio della periferia della città addormentata, facendo attenzione a non svegliare Moreau che russava rumorosamente nel suo appartamento al piano superiore. Si era rifugiato nella sua camera situata di fronte alla porta di servizio, che in realtà altro non era che uno sgabuzzino degli oggetti per pulire e altre cianfrusaglie. Era una stanzetta lunga e stretta, talmente tanto che, allungando entrambe le braccia, si potevano toccare le pareti. All’interno dello stanzino, proprio davanti alla porticina, senza la possibilità di chiuderla a chiave poiché priva di serratura, si trovava a sinistra un armadio con le ante storte per gli attrezzi e i pochi vestiti che Romano possedeva, mentre a destra stava una brandina cigolante e impolverata, troppo scomoda per poterla definire “letto”. Sul fondo della stanza una tenda che un tempo doveva essere bianca separava la camera dal presunto bagno, composto semplicemente da un gabinetto e un lavandino che Romano usava per lavarsi a pezzi, posti uno di fronte all’altro. Una prigione, più che una camera.

Era talmente esausto per la corsa fatta, che si era buttato a peso morto sulla brandina, tentando di regolare il respiro affannoso. L’unica cosa che avrebbe voluto fare in quel momento era dormire e non pensare più al fatto che in una sola sera avesse rischiato di morire più di una volta, ma la sua mente era troppo affollata da una moltitudine di pensieri che non riuscì a chiudere occhio per tutta la notte. Pensò al piano fallito, all’ultima immagine che aveva visto di Arhtur, trascinato via come un corpo morto in volo da Alfred, al collegamento plurisensoriale che aveva avuto con suo fratello, ad Antonio che gli puntava un fucile contro e che poi cadeva svenuto, colpito dal pugnale. Quest’ultima immagine ricorreva spesso nella sua mente, il volto sofferente di Antonio gli faceva contorcere lo stomaco dalla preoccupazione. Con una ferita del genere, sarebbe sopravvissuto?

Non voleva pensare a nulla di tutto quello, voleva far finta che non gli importasse, ma non riusciva. Quando era arrivato il momento di aprire il locale, si era guardato allo specchio e l’unica cosa che aveva visto erano due grandi borse sotto gli occhi che davano l’idea di aver passato una notte insonne.

Venne riportato alla realtà dalla voce di uno degli uomini di Moreau. - Senti, italiano, come mai questi bagel sono così mosci?

- E io che cazzo ne so? Ti sembro il cuoco? - rispose Romano stizzito, mentre sfregava con la spugna dei residui di cibo incrostati su un piatto.

- Hai proprio un carattere di merda, Moreau dovrebbe rimetterti in riga. - scherzò l’uomo, mentre gli amici gli facevano da spalla sghignazzando.

- Di merda come quella fogna che ti ritrovi al posto della bocca? - disse Romano, riuscendo finalmente a togliere tutto lo sporco dal piatto e ponendolo sullo scolapiatti.

Sentì le gambe della sedia scivolare sul pavimento. - Che cosa hai detto?!

Romano si voltò verso l’uomo con ghigno stampato in viso. - Oltre che fetente, sei pure sordo?

Il volto dell’uomo si colorò di una strana sfumatura tra il rosso e il viola e sollevò un pugno, pronto a scagliarsi contro Romano, ma venne prontamente fermato da uno dei suoi amici. - Non devi toccarlo, Moreau è stato chiaro. Solo lui può.

Romano buttò fuori un’acida risata. - Già… Sia mai che tu possa rovinare questo mio bel faccino. Non vuoi mica subire l’ira di Moreau, vero?

L’uomo digrignò i denti e, se possibile, diventò ancora più livido in volto, ma non fece storie e si rimise a sedere, lanciando un’occhiata torva a Romano.

Romano per tutta risposta guardò l’orologio appeso alla sua destra: finalmente erano le cinque del pomeriggio. Si levò in fretta il grembiule e lo lanciò sul bancone, prima di oltrepassare la porta con la targa “PRIVATO” che dalla sala del locale dava sull’atrio che portava allo sgabuzzino e alle scale per l’appartamento di Moreau. Una volta che fu dentro la sua stanza, si cambiò i vestiti in fretta e indossò la giacca, pronto a uscire. Voleva farsi un giro per schiarirsi le idee e magari passare davanti alla casa di Antonio, per controllare se fosse in casa o meno… Odiava ammetterlo, ma la preoccupazione lo divorava. Per lui quel soldato non significava niente, eppure voleva sperare che fosse vivo. Forse perché, in fondo, si sentiva responsabile di ciò che gli era accaduto.

Aprì la porta della sua stanza e si fermò di colpo, sentendo il cuore piombargli nello stomaco.

Moreau era in piedi, davanti a lui, con le braccia incrociate e le sopracciglia corrucciate. La cicatrice che gli squarciava la faccia gli conferiva un’aria intimidatoria. Squadrò l’italiano da testa a piedi. - Dove pensi di andare?

Romano si sentiva la gola secca e la bocca impastata, ma tentò di ricomporsi per non dare a vedere l’ansia che lo stava logorando. - Esco. Ho finito il turno, tornerò tra un’ora.

Con lo sguardo basso e il cuore che gli batteva a mille, passò di fianco a Moreau, il quale però gli prese la spalla con la sua mano robusta, bloccandolo. Romano dovette mordersi il labbro inferiore per non gemere dal dolore. Moreau stava stringendo la spalla ferita dal proiettile.

- Non giocare con me, Romano. - sibilò Moreau, a denti stretti.

- N-non sto giocando! - esclamò Romano, maledicendosi per aver balbettato come un idiota. - Là dentro c’è puzza di morte per colpa dei tuoi amici sudici, voglio solo prendere una boccata d’aria!

Moreau non si decideva a lasciarlo, sospettoso, e anzi lo spinse più vicino a sé, faccia a faccia. - Dov’eri ieri notte?

- C-cosa?

- Ti ho sentito rientrare dalla porta sul retro.

- Ah, quello! - Romano si lasciò sfuggire una risata nervosa. - Ero semplicemente uscito un attimo a vedere la neve! Sai, in Italia non la vediamo spesso! Volevo approfittarne, dato che di giorno sono sempre al chiuso a lavare i piatti.

Moreau assottigliò lo sguardo: non si stava bevendo la balla della neve. Gli strinse la spalla ancora più forte e Romano dovette trattenere un lamento. - Eri alla fortezza con i ribelli.

Romano sbiancò e sentì il sangue fluirgli fin sotto i piedi. No… Non era possibile che l’avesse scoperto, si era sempre assicurato che non venisse seguito ogni volta che era andava alla villa. E poi Arthur se ne sarebbe accorto. Lo stava mettendo alla prova. - Io con i ribelli? Ah! Bella questa! Credi davvero che manderei all’aria il nostro patto per unirmi a un gruppo di mutanti che non ha mai combinato nulla di buono? Sai quanto tengo a mio fratello, non rischierei mai di perdere l’occasione che tu mi hai offerto di poterlo salvare da solo in cambio di protezione dall’esercito!

Moreau non distolse lo sguardo. I suoi occhi scuri scrutavano quelli dell’italiano in cerca di una traccia di menzogna. In un attimo, tirò fuori la sua pistola dalla cintura e la puntò sul collo di Romano. - Sai che cosa succede se scopro che mi stai mentendo, vero? - lo minacciò, alzando un sopracciglio.

Romano si sentì mancare il fiato. Un rivolo di sudore gli rigò la tempia e deglutì un groppo di saliva a fatica. Gli ci volle tutto il coraggio che riuscì a trovare per non tremare di paura. - S-sì, Moreau.

- Ti pianto una pallottola nel cervello, ti ricordi, vero?

- Sì, Moreau.

L’uomo sorrise compiaciuto, facendo corrugare la cicatrice. Accarezzò lentamente il viso di Romano con la canna della pistola, mentre osservava con interesse la sua espressione atterrita. Gli mise una mano dietro una nuca e gli avvicinò la testa, così da sentire le labbra del ragazzo appoggiate sul suo orecchio. - Ancora.

Romano venne percorso da un brivido per tutto il corpo e sentì lo stomaco rivoltarsi. Prese un respiro tremante e mormorò. - S-sì. Moreau.

Moreau scoppiò in una fragorosa risata, liberando Romano dalla sua morsa, e si incamminò verso la sala del locale. - Mi piace quando sei così docile. Diventi molto più… Invitante.

Nonostante fosse ormai sparito dietro la porta, Romano rimase paralizzato al centro dell’atrio per quelli che parvero minuti, incapace di agire o pensare razionalmente. Solo quando sentì il tremore invadergli il corpo, si precipitò fuori dalla porta di servizio e corse più veloce che poté per le strade innevate di Portland. Non trattenne i singhiozzi quando sentì le prime lacrime rigargli le guance. Odiava quel posto. Odiava quell’uomo. Più lavorava da lui e più lo toccava, e più Romano si sentiva completamente impotente. Voleva fuggire, ma sapeva che avrebbe comportato l’uccisione di Feliciano. Era così stanco. Tutto ciò che voleva era riportare a casa suo fratello, ma sentiva le mani sempre più legate e non sapeva come fare per liberarsi. Tutto ciò che voleva era solo vedere la luce in fondo a quel tunnel buio di sofferenza.

Senza rendersene conto, arrivò davanti alla palazzina di Antonio. Alzò lo sguardo, ignorando i fiocchi di neve che gli finivano sul viso bagnato dalle lacrime: le luci del suo monolocale erano spente. Forse era rimasto alla fortezza. O forse la ferita era talmente grave che…

Sentì ancora una volta le lacrime inumidirgli gli occhi. Non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce, ma in tutto quel caos Antonio era diventato un raggio di sole a cui aggrapparsi e affidarsi e il pensiero che potesse essere morto gli faceva perdere ogni speranza.

Proprio in quel momento sentì qualcuno che girava la chiave dall’interno del portone. Ne uscì un’anziana signora tutta imbacuccata con una sacca per la spesa che, non appena vide Romano, lo invitò ad entrare. Lui la ringraziò, osservandola camminare goffamente in mezzo alla neve, e salì le scale fino al primo piano. C’era un silenzio tombale, che preannunciava che non ci fosse nessuno in casa, ma Romano suonò comunque il campanello. Tanto valeva tentare.

Passarono dieci secondi, trenta, un minuto. Nessuno aprì la porta. Fece un sospiro, stremato. Era stato uno stupido a pensare che Antonio potesse essere in casa. Se stava bene, probabilmente l’avrebbero tenuto alla fortezza nel caso di nuovi attacchi, altrimenti l’avrebbero tenuto sotto osservazione per qualche giorno. Oppure nel peggiore dei casi era…

- Romano? - lo chiamò una voce familiare.

Sgranò gli occhi e si voltò di scatto. Antonio era in piedi, qualche gradino più in basso, con un borsone appoggiato sulla spalla destra. Gli occhi verdi lo guardavano con sorpresa e Romano si ritrovò a pensare che, nonostante le occhiaie nere che li circondavano, fossero più belli di quanto se li ricordasse.

- Che cosa ci fai qui? E che hai fatto al viso, è tutto rosso come un pomodoro!

Le labbra di Romano ebbero un fremito, in cerca delle parole adatte. - Ho sentito dell’attacco alla fortezza. Volevo assicurarmi che stessi bene.

Antonio sbatté più volte le palpebre, sorpreso, poi scoppiò nella sua solita risata calorosa. - Non me lo sarei mai aspettato! Non pensavo ti preoccupassi per me.

Romano accennò un sorriso, divertito. - Non ti ci abituare.

Antonio rise e cominciò a risalire le scale, cercando di nascondere l’espressione sofferente a ogni passo. Romano si fece avanti e lo liberò del peso del borsone.

- Ay, grazie mille! - gli sorrise Antonio. - Purtroppo sono rimasto ferito durante la battaglia. Anche se il dolore è atroce, non è nulla di grave per fortuna, la lama non ha colpito per un pelo gli organi vitali, ma devo stare a riposo per le prossime settimane!

Arrivati di fronte alla porta d’ingresso, Romano posò il borsone a terra, osservando Antonio che cercava le chiavi di casa nelle tasche del giubbotto. Aveva le guance arrossate per lo sforzo, i ricci castani gli ricadevano morbidi sugli occhi e Romano realizzò di non riuscire a staccargli gli occhi di dosso. All’improvviso, iniziò a sentir caldo in tutto il corpo, il cuore che accelerava e una sensazione di formicolio all’altezza dello stomaco.

- Antonio. - disse.

Lo spagnolo alzò lo sguardo verso di lui, guardandolo con fare interrogativo.

Romano prese un respiro profondo, sentendosi il viso in fiamme. - Accetto. - disse guardando Antonio dritto negli occhi. - Usciamo insieme.

 

 

 

 

19 febbraio 1985, Fortezza di Westbrook, Portland, Maine, USA

 

- Generale, se accetta un mio consiglio, ritengo che concedergli tutta la libertà che ha adesso sia stato troppo rischioso. Se non fossi arrivato in tempo, non oso immaginare cosa sarebbe potuto accadere. - disse Allistor, in piedi davanti alla scrivania dello studio del generale Beilschmidt, mentre gli raccontava ciò che era avvenuto all’interno della torre di controllo durante la battaglia.

Il generale tamburellò lentamente le dita lunghe e sottili sul tavolo, con le sopracciglia corrucciate in un’espressione che tentava di nascondere la rabbia. Ma era difficile quando la fortezza aveva subito un agguato a sorpresa in piena notte e i ribelli erano riusciti a infiltrarsi nelle torri dei fari e nella centrale di controllo con una facilità sorprendente, ferendo molti soldati anche senza l’ausilio dei loro poteri. Ormai non si stavano più trattenendo, stavano preparando il loro attacco finale e non avevano più niente da perdere. Il generale serrò i pugni. Arthur Kirkland si stava rivelando una spina nel fianco più di quanto avesse immaginato.

- Sono d’accordo. - annuì, alzandosi dalla sua sedia di velluto. - Seguimi.

Camminarono nel silenzio degli interminabili corridoi della fortezza fino ad arrivare alle scale che conducevano alla torre di controllo. Appena varcata la soglia, si poterono notare i segni della battaglia che aveva avuto luogo proprio in quella stanza: la vetrata era stata frantumata, i muri erano cosparsi di fori di proiettile, la maggior parte dei tavoli e dei computer dovevano essere sostituiti poiché completamente distrutti e il pavimento era appena stato ripulito dalle strisce di sangue lasciate dal ribelle ucciso da Allistor.

Ma ignorarono il caos della sala per dirigersi verso il loro obiettivo: la cella in cui era rinchiuso Feliks Łukasiewicz. Era seduto sul suo letto con le gambe al petto, avvolto da una coperta bianca, e teneva lo sguardo basso, perso nel vuoto. Si stava mordendo le unghie della mano destra distrattamente, senza notare che ormai erano tutte rovinate e che stava creando tante piccole ferite insanguinate sulla pelle. Era talmente assorto nei propri pensieri che non notò l’ingresso del generale e di Allistor nella stanza.

- Łukasiewicz. - lo richiamò il generale.

Feliks sussultò dalla sorpresa e balzò velocemente giù dal letto, ricomponendosi. - Walty! - esclamò allargando le braccia e curvando la bocca in un grande sorriso. - Quale buon vento ti porta qui a farmi compagnia? Due volte in una sola settimana, sapevo di starti simpatico!

Il generale aggrottò le sopracciglia. Non era estraneo alla loquacità del mutante e ai suoi modi di fare alquanto invadenti e non ci aveva mai dato peso, ma stavolta il suo comportamento lo stava tradendo. Le labbra erano atteggiate a un sorriso visibilmente forzato, gli occhi erano spalancati, ma più che gioia trapelavano terrore, e le sopracciglia fremevano nel tentativo di non corrugarsi in un’espressione intimorita. La voce era attraversata da un leggero tremolio e tutto il corpo si muoveva dall’agitazione.

Un senso di compiacimento si fece largo nell’animo del generale. Stava ottenendo l’effetto sperato già a inizio conversazione. - Sai perché siamo qui.

Vide gli occhi di Feliks muoversi in cerca dell’altra persona a cui il generale si riferiva e, non appena notò Allistor sulla soglia della porta, il suo viso si rabbuiò. - Perché hai portato lui?

- Dimmelo tu. - il generale alzò il mento, guardando il mutante con superiorità. - Che cosa è successo durante l’attacco alla fortezza?

- Non è successo proprio nulla, io non ho fatto niente di male! - dichiarò Feliks sulla difensiva, incrociando le braccia.

- Non ti conviene mentirmi.

- Lo sai che non sono così stupido da mentirti. Io non ho fatto nulla, la barriera è rimasta intatta solo grazie a me! Anzi, dovresti ringraziarmi.

- So che hai parlato con Arthur Kirkland.

L’espressione spavalda del mutante scemò. Deglutì un groppo di saliva prima di riprendere a parlare. - Chi? Quello sfigato? Ma per favore, non sapeva nemmeno che l’artefice dietro la barriera fosse un mutante! Non c’è da preoccuparsi di uno come lui!

Il generale assottigliò lo sguardo. - Gli hai detto come disattivare la barriera?

Feliks si lasciò sfuggire una risata nervosa. - Non sarebbe comunque in grado di farlo.

- Glielo hai detto? - chiese di nuovo il generale in tono minaccioso. Non ammetteva giri di parole.

Feliks evitò di guardarlo negli occhi, colpevole. - Io… S-sì, ma che importanza ha? Anche sapendolo non avrebbe alcuna possibilità di disattivarla senza il mio aiuto…

Ebbe a malapena il tempo di finire la frase, che il generale lanciò un’occhiata ad Allistor, il quale tirò fuori la frusta dalla cintura e colpì con forza la guancia di Feliks, facendolo cadere a terra.

- Hai detto a Kirkland degli amplificatori? - domandò il generale, senza scomporsi.

Feliks si coprì la guancia con la mano tremante, sbigottito. - N- no…

Il generale fece un altro cenno ad Allistor, che colpì con la frusta la mano del mutante.

Feliks si contorse su se stesso coprendosi il viso con l’altro braccio, mentre le lacrime cominciavano a rigargli il viso insanguinato. - Sì! Sì, gliene ho parlato. Ma giuro, non ho fatto nulla! Ho rifiutato qualsiasi offerta mi abbia fatto! Non voglio la libertà, lo giuro!!

Mentre Allistor riprendeva a flagellare il corpo del mutante, tra le urla strazianti di quest’ultimo, il generale riprese a parlare alzando la voce, impassibile. - I patti erano chiari, Łukasiewicz, nessuno avrebbe dovuto scoprire la tua esistenza. In particolare i ribelli. Non avresti dovuto parlare con Arthur Kirkland e non avresti dovuto nemmeno avere la tentazione di poter accettare le sue condizioni.

Feliks, sdraiato in posizione supina per difendersi dalle frustate, tentò disperatamente di prendere una boccata d’aria. - Vi prego, basta! Non ho fatto nulla!

Il generale ignorò le suppliche. - Adesso Arthur Kirkland è a conoscenza di tutto il sistema di protezione della fortezza e potrà usarlo contro di noi. Gli basterà affinare gli assi che ha nella manica e tenderci un altro agguanto. Tutto per colpa tua.

Feliks strisciò agonizzante sul pavimento, singhiozzando fino a far sussultare tutto il corpo. Allungò una mano tremante verso il generale e afferrò debolmente la sua caviglia, macchiando di sangue i pantaloni della divisa. Sollevò il viso bagnato da lacrime e sangue, una scena pietosa. - M-mi dispiace. Non uccidetemi, vi prego.

Il sopracciglio sottile del generale ebbe un fremito. - Non è nei miei interessi. Per quanto seccante e disonesto, sei ancora essenziale per la fortezza. Ma, d’ora in poi, non avrai alcuna possibilità di intralciare i miei piani.

Fece un cenno con il capo a due guardie che attendevano fuori dalla stanza, le quali presero per le braccia Feliks, troppo debole per poter opporre resistenza, e lo trascinarono in fondo alla stanza, proprio di fianco al suo letto.

- C-che cosa mi volete fare? - mormorò con voce tremante.

Il generale camminò lentamente fino al centro della stanza. - Ho sempre lasciato correre la tua lingua lunga per il bene dell’integrità della barriera anti-poteri, ma stavolta ti sei spinto oltre il mio limite di sopportazione e mi trovo costretto ad agire di conseguenza.

Le due guardie sollevarono Feliks e gli legarono polsi e caviglie a delle catene incastonate nella parete, tenendo il mutante sospeso a qualche centimetro da terra. Quando vide una delle guardie tirare fuori due panni di stoffa neri, cominciò ad agitarsi. - No, vi prego! Tutto tranne quello, vi sono sempre stato leale! Non farò più nulla che possa deludervi, lo giuro! Vi supplico.

Il generale lo fissò negli occhi, con un leggero sorriso stampato sul viso. - Sono sicuro che non lo farai.

Le guardie bendarono gli occhi del mutante che, pur sofferente per le ferite inflitte, aveva ancora la forza di dimenarsi, senza tuttavia ottenere alcun risultato. Tra le sue urla, le guardie riuscirono anche a imbavagliarlo, spingendo il fazzoletto in bocca, tra i denti, in modo da bloccare la lingua e far uscire solo dei gemiti ovattati.

- Tu lo sai quanto io tenga a te e quanto non vorrei mai il tuo male, vero Łukasiewicz? - chiese il generale, naturalmente senza aspettarsi alcuna risposta. - Sappi che tutto questo è solo colpa tua. Spero che così tu possa imparare una lezione. - concluse, prima di uscire dalla stanza, lanciando un ultimo sguardo al corpo fustigato del mutante, che ormai aveva smesso di agitarsi, rassegnato, e che teneva il capo chino, scosso da singhiozzi muti.





Spazio dell'Autrice:
Ciao a tutti!!!
Come state?? Siete pronti per questa nuova settimana?? Io sono sommersa dalle cose da fare T^T Con queste vacanzine (nella mia regione era vacanza lol) ho provato a rilassarmi, ma non ci sono riuscita uffa- e domani si ricomincia!!! *disperazione*
Ma passiamo alle cose belle. Ho amato scrivere questo capitolo *^*  Ho fangirlato come una ragazzina scrivendo la parte degli Spamano! Romano starà cominciando ad accettare i suoi sentimenti per Antonio? Un umano? Un soldato??  Se quel bastardo di Moreau non si mettesse in mezzo grrrrr
Mi dipiace per come ho trattato il povero Feliks :') ... Si riprenderà... (Forse)
Per oggi è tutto! Spero che il capitolo vi piaccia (fatemelo pure sapere nei commenti!) e ci rivediamo al prossimo!! Ciaooo <3

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Capitolo 14
*** Capitolo 13 ***


Capitolo 13

 

 

20 febbraio 1985, Fortezza di Westbook, Portland, Maine, USA

 

- Ci hai fatto prendere un bello spavento, sai? - disse Francis, appoggiandosi al muro alle sue spalle con le braccia conserte. - Pensavamo che stessi avendo un attacco di cuore o chissà cos’altro!

- Francis ha ragione. - annuì Matthew seduto per terra di fronte a lui, sistemandosi gli occhiali rotondi sul naso. - Temevo che potesse essere un effetto collaterale degli esperimenti in laboratorio…

- Anche i bambini si sono agitati molto. - mormorò Kiku.

Feliciano si grattò il capo con sguardo basso per l’imbarazzo. - Mi dispiace avervi fatto preoccupare, non era nulla di grave per mia fortuna.

Erano radunati in una grande stanza quasi completamente vuota, che veniva usata per l’ora d’aria dei prigionieri quando il cortile era inagibile per la neve abbondante o a seguito di un attacco e in quel caso lo era per entrambe le ragioni. La stanza era priva di finestre, dunque era illuminata da lampadari che emettevano fredde luci biancastre, e le voci dei mutanti rimbombavano tra le quattro mura, creando un eco insopportabile e chiassoso.

Il gruppo di mutanti con cui Feliciano aveva legato si era riunito come al solito per discutere del piano per potersi mettere in contatto con i rivoluzionari, senza risultare troppo sospetti per non dare nell’occhio. Lui e Matthew erano seduti uno di fronte all’altro sul pavimento di marmo gelido, mentre Elizabeta si era appoggiata con la schiena al muro, ai piedi di Gilbert, il quale teneva un braccio appoggiato sulla spalla di Francis, che non sembrava infastidito dal suo peso.

Kiku stava in piedi di fianco a Feliciano, ancora un po’ restio all’idea di far parte di un gruppo. Da quella posizione poteva controllare meglio i suoi due fratellini che giocavano serenamente ad acchiapparella con il mutante più giovane rinchiuso all’interno della fortezza, Aurel, un bambino di soli sei anni dai capelli castani legati in due piccole code e due canini aguzzi come quelli di un vampiro. Elizabeta gli aveva rivelato che Aurel era stato imprigionato mesi prima insieme a lei durante un’operazione dei rivoluzionari, di cui lei faceva parte, per portare in salvo lui e il fratello maggiore, Vladimir, ma che era fallita per via dell’intervento dell’esercito. Solo Vladimir e il marito di Elizabeta, Roderich, si erano salvati e da allora non avevano più avuto loro notizie. Aurel era stato rinchiuso in una cella senza alcun compagno di stanza, generando le proteste di Gilbert ed Elizabeta, che erano scemate soltanto quando una delle guardie si era offerta di prendersi cura personalmente del bambino. Una scelta tanto cortese quanto misteriosa, se non fosse che quello stesso soldato, un ragazzo dai capelli scuri e gli occhi verdi di nome Dimitar, in passato era stato in una relazione con Vladimir prima di entrare ufficialmente nell’esercito. Feliciano non sapeva se lo facesse per pena o per un senso di affetto nei confronti del fratellino del ragazzo di cui era stato innamorato, ma da quel poco che aveva visto sapeva che poteva fidarsi di Dimitar e che Aurel gli era molto affezionato. Anche in quel momento, nonostante fosse in servizio come guardia, potè notare che spesso seguiva il bimbo con occhi attenti, preoccupandosi che non si facesse male e facendosi scappare un sorriso di tanto in tanto. Poco più avanti, Michelle chiacchierava animatamente con un mutante suo coetaneo che aveva conosciuto da poco, Emil, un ragazzino serio e riservato dalla pelle chiara come la neve e gli occhi violetti.

- Con tutto il macello che hanno fatto i rivoluzionari, ci mancava solo che ci scappasse il morto! - ridacchiò Gilbert, beccandosi una gomitata sullo stinco da parte di Elizabeta.

- Tu proprio non riesci a tenere la bocca chiusa, vero? - lo minacciò lei, assottigliando lo sguardo.

- Le infermiere non hanno capito che cosa ti è successo? - gli chiese Matthew, guardandolo preoccupato.

Feliciano cercò con occhi incerti lo sguardo di Francis. Voleva dirgli il motivo per cui era svenuto, del collegamento telepatico con suo fratello, ma temeva che qualche soldato potesse sentirlo. Non poteva permettersi di rivelare ad alta voce questo dettaglio.

Con sua enorme sorpresa, Francis intuì all’istante la sua preoccupazione. - Rimandiamo questo discorso a un’altra volta, adesso dobbiamo pensare al piano.

L’atmosfera all’interno del gruppo si fece tesa e i volti dei mutanti si rabbuiarono.

Francis proseguì, abbassando il tono di voce fino a ridurla quasi a un sussurro. - Sappiamo dall’incontro di Feliciano con il mutante della barriera che i sotterranei sono l’unico punto della fortezza in cui i suoi poteri hanno meno effetto e con alte probabilità nessuno a parte gli scienziati è a conoscenza di questo dettaglio, altrimenti non minaccerebbero di sbattere lì dentro i mutanti che compiono un atto di insubordinazione grave.

- Ma nessuno sa per certo cosa succeda ai mutanti una volta che vengono rinchiusi nei sotterranei. - lo incalzò Matthew, con tono grave.

- Nemmeno Allistor e mio nonno sono mai arrivati a tanto per punire i mutanti. - mormorò Gilbert, con fare pensoso. Era raro vederlo così serio.

Kiku incrociò le braccia e aggrottò le sopracciglia. - Inoltre, sarebbe comunque complicato contattare i rivoluzionari con il collare ancora indosso.

- È troppo pericoloso. - dichiarò Elizabeta, mentre giocava nervosamente con una ciocca di capelli. - Cerchiamo delle vie alternative e teniamo quella del sotterraneo come ultima opzione.

- Dobbiamo pensare a qualcosa prima che ricomincino gli esperimenti in laboratorio… - Feliciano esitò.

Un silenzio eloquente calò nel gruppo, mentre tutti lanciavano delle occhiate apprensive a Francis. Lo sapevano tutti: se non avessero agito al più presto, avrebbero chiamato il mutante più forte tra i prigionieri per una sessione di esperimenti lunga ed estenuante, in vista di un prossimo attacco alla fortezza. Se l’ultima volta Francis aveva rischiato la vita, nessuno sapeva come sarebbe andata questa volta, nemmeno lui.

Francis teneva la testa bassa, consapevole degli sguardi puntati su di lui, ma non si scompose. - A meno che Arthur non abbia ottenuto le informazioni di cui aveva bisogno, i rivoluzionari non attaccheranno di nuovo la fortezza quantomeno per le prossime due settimane per riprendersi dall’agguato della scorsa notte e non passeranno alla battaglia finale fino a che non saranno abbastanza sicuri che non sarà un suicidio di massa e che riusciranno a liberare tutti i prigionieri. Noi dobbiamo aiutarli o finiremo i nostri giorni qui dentro.

Era facile crederci a parole, ma cosa avrebbero potuto fare nel concreto? Non avevano alcuna possibilità di libera azione denutriti e indeboliti com’erano, privati dei propri poteri e controllati giorno e notte da guardie e telecamere. L’unica soluzione plausibile sembrava proprio quella del sotterraneo, ma chi avrebbe avuto il coraggio di farsi avanti? Feliciano a malapena aveva sopportato una seduta in laboratorio considerata “leggera”, non voleva immaginare quali a torture sottoponessero i prigionieri in un luogo designato apposta per infliggere violenza.

- Feli, tu hai legato molto con il fratello di Gilbert, non è vero? - gli domandò Francis di punto in bianco, fissandolo con i suoi profondi occhi blu.

Feliciano avvampò dall’imbarazzo. - B-beh non direi che abbiamo proprio legato, io sono pur sempre un mutante e lui un soldato, è un rapporto di potere e nulla di più! - iniziò a gesticolare con fare frenetico. - Va bene, lui è inspiegabilmente più gentile di altri soldati, ma è comunque un ufficiale! E poi non conto nulla per lui, svolge solo il lavoro, sono soltanto un prigioniero…

- È perfetto, allora! - esclamò Gilbert ignorando tutto ciò che aveva appena detto e avanzando verso di lui. - Francis sperava che io potessi riallacciare i rapporti con mio fratello per tirarci fuori da qui, ma Lud non sembra intenzionato a starmi a sentire, quindi ci serviva qualcun altro!

- In che senso, scusa? - domandò l’italiano, sbattendo più volte le palpebre, confuso.

- Ludwig sembra averti preso in simpatia, proprio come con Elizabeta. - spiegò Francis.

Elizabeta ridacchiò, portandosi una mano sulle labbra. - Ludwig si è preoccupato per la mia salute sin dal giorno in cui sono arrivata alla fortezza, ma con te è diverso. Sembra quasi… Interessato.

Feliciano potè sentire il viso andargli in fiamme. Sapeva che Ludwig non era un soldato qualsiasi, ma tutte quelle supposizioni su di lui non potevano essere vere. Un soldato non poteva interessarsi a un mutante e viceversa. Non era opportuno. Non era possibile.

- È così ovvio che mi meraviglia che il generale ancora non l’abbia notato! - continuò Elizabeta, sogghignando come se stesse raccontando il pettegolezzo più elettrizzante del liceo.

- Elizabeta, sei così perspicace che ti sposerei! - disse Gilbert, piegandosi verso di lei e guardandola con un’espressione compiaciuta.

Elizabeta gli mise una mano in faccia, spingendolo via. - Smettila di fare lo scemo! Cosa direbbe Roderich se sapesse che ci provi così spudoratamente con me?

Gilbert fece un sorriso sfrontato. - Possiamo includere anche lui.

- Ho capito. - li interruppe Kiku. - Volete sfruttare questa occasione per facilitare la riuscita del piano.

Feliciano si guardò intorno spaesato. - In che modo?

Francis sospirò, passandosi una mano tra i capelli. - Devi usare questo suo punto debole a tuo vantaggio, convincerlo che di te può fidarsi e portarlo a rivelarti tutto ciò che sa sulla fortezza.

- M-ma cosa vi fa credere che Ludwig possa fidarsi di me a tal punto da parlarmi dei segreti della fortezza?

Francis piegò le labbra in un lieve sorriso compiaciuto. - Te l’ho detto, sono un inguaribile romantico. Ludwig è sulla strada di non ritorno per un amore proibito che sta cercando in tutti i modi di reprimere. Fidati di me, ho un occhio attento per questo genere di cose. - disse mentre si spostava in modo plateale una ciocca di capelli dal viso. - Tu devi solo assecondarlo e fargli credere che anche tu provi i suoi stessi sentimenti. Una volta che perderà la testa, sarà un gioco da ragazzi manipolarlo per ottenere informazioni. Senza offesa, Gilbert.

L’interpellato fece spallucce. - Mi dispiace per il mio fratellino, ma si fa quel che si può per sopravvivere.

Feliciano si mordicchiò le unghie della mano destra. - Ma così gli mentirei… Io non voglio ferirlo.

- Feli, sei la nostra unica speranza. - gli disse Matthew, stringendogli la mano per allontanarla dalla sua bocca. - È l’unico modo se vogliamo evitare il sotterraneo.

Era una richiesta folle e soprattutto pericolosa. Cosa succedeva ai mutanti che oltrepassavano la linea di confine che li divideva dai soldati? Una linea che li rendeva inferiori rispetto ai soldati della fortezza, con cui non potevano avere a che fare. Se Ludwig avesse capito che lo stava solo usando, lo avrebbe riferito al generale? Quella sarebbe stata la sua fine… Un’insubordinazione tale da meritarsi la prigionia nel sotterraneo. O peggio, la pena di morte.

Il suono acuto della campanella che segnava la fine dell’ora d’aria lo distolse dalle sue preoccupazioni. I mutanti iniziarono ad allinearsi in file disordinate per essere riaccompagnati nelle loro celle. Vide Aurel correre verso Dimitar, il quale lo prese in braccio e si diresse verso l’uscita. Li Chung e Mei vennero richiamati da Kiku, il quale si mise velocemente in fila, mentre Gilbert aiutò Elizabeta ad alzarsi per raggiungere Michelle e il suo nuovo amico.

Francis appoggiò una mano sulla spalla di Feliciano. - Pensaci, mi raccomando.

Ma prima che potesse allontanarsi, Feliciano richiamò la sua attenzione. - Aspetta, Francis! Io… non credo di essere in grado di svolgere questo compito. Non sono bravo a mentire.

Francis sospirò, passandosi lentamente la mano tra i capelli. - Lo so, Feli. Ma, come ha detto Gilbert, qua dentro si fa quello che si può per sopravvivere e al momento non abbiamo altre alternative. Guarda il lato positivo, non ti stiamo mica chiedendo di andarci a letto insieme! Anche perché non credo che Ludwig sarebbe il tipo da fare queste cose…

Feliciano divenne tutto rosso in viso. - N-non potrei mai! Lui è un soldato e io un mutante! È immorale e… sbagliato!

Francis lo guardò con un’espressione sinceramente sorpresa. - Ah… Sono stupito che ti sia rimasto del senso morale nonostante la prigionia.

- Perché tu… Tu l’hai fatto? - chiese Feliciano, imbarazzato.

Il viso di Francis d’un tratto si indurì, ma nascose alla svelta il suo vero stato d’animo con un tono scherzoso e disinvolto. - Ovviamente! Potrei contare sulle dita delle mie mani tutti i soldati che ho mandato in paradiso grazie alla mia irresistibile bellezza. L’ultima volta sono stato beccato e non mi è andata molto bene, motivo per cui adesso non posso più stare da solo con un soldato o uno scienziato. Ma almeno ho ottenuto tutte le informazioni che mi servivano ed è anche per questo che sarebbe più giusto che andassi io nei sotterranei per contattare i rivoluzionari.

Feliciano sentì gli occhi riempiersi di lacrime. - Francis…

Francis notò il tremolio angosciato nella voce dell’italiano e gli accarezzò dolcemente la testa, abbozzando un triste sorriso. - Non l’avrei mai fatto se non fosse stato necessario. Tu non sei costretto a fare lo stesso.

- Ma… e Arthur?

Francis si bloccò, aggrottando le sopracciglia e serrando i denti. Fu un attimo, ma Feliciano vide l’espressione sul suo viso trasformarsi in puro terrore. Mormorò con tono grave. - Ricorda, Feliciano, si fa quel che si può per sopravvivere.

Feliciano non sapeva cosa dire. Francis in cinque anni aveva fatto qualsiasi cosa pur di restare in vita e nascondeva il suo dolore dietro un sorriso confortante, tradito da occhi stanchi e tormentati che avevano sopportato una crudeltà inimmaginabile.

Lo sguardo di Francis vagò per la stanza prima di fissarsi su un punto alle spalle di Feliciano, incupendosi. Gli diede una pacca sulla schiena, mentre gli passava a fianco. - Coraggio, torna alle celle. Con un po’ di fortuna, non chiameranno nessun altro in laboratorio per qualche tempo e avremo modo di prepararci come si deve.

Feliciano lo vide incamminarsi nella direzione opposta nella quale stavano andando tutti i mutanti, verso una porta aperta dall’altro lato della stanza, sulla cui soglia, nella penombra, lo aspettavano Allistor e Ivan. Feliciano sentì il cuore mancargli un battito e deglutì a fatica un groppo di saliva. Prima che potesse capire il motivo di quell’incontro, un soldato lo prese per il braccio e lo trascinò fuori dalla stanza.

 

 

 

21 febbraio 1985, giardino di Villa Caesar, Portland, Maine, USA

 

Il giardino nel retro di Villa Caesar si estendeva per diversi ettari fino a mescolarsi con gli alberi della foresta di Westbrook. In quel momento era coperto del tutto dalla neve che da giorni si posava dolcemente al suolo, rendendo difficoltoso il tentativo dei rivoluzionari di non lasciare alcuna traccia della loro presenza nelle prossimità della villa. Nei colori dell’alba di quella mattina che si riflettevano sui cristalli di neve fresca l’intero giardino assumeva dei caldi toni tra l’arancione e il rosa pallido.

Alfred era legato a quel giardino in modo particolare, gli ricordava i pomeriggi primaverili della sua infanzia passati a giocare tra i cespugli di spiree bianche insieme a suo fratello Matthew, ascoltando il cinguettio dei pettirossi rintanati tra i rami degli alberi, mentre nell’aria si diffondeva il profumo dei croissant preparati in casa da Francis. Se si abbandonava tra i ricordi, poteva ancora sentire la voce di Arthur, ancora adolescente, che li sgridava dal porticato della villa per aver sporcato i vestiti nuovi, e le risate soffocate di Matthew mentre si nascondevano dall’inglese dietro ai grandi tronchi dei pini sparsi in giro per tutto il giardino, uno dei loro giochi preferiti. Per Matthew era più facile sfuggirgli grazie alla sua abilità, che gli permetteva di rendersi invisibile non appena notava Arthur avvicinarsi al suo nascondiglio, costringendo Alfred a spalancare le ali e scappare in volo, con la sua risata sguaiata che si disperdeva nel vento. Ma il gioco finiva non appena Arthur decideva di utilizzare la sua telecinesi, costringendo entrambi i bambini a seguirlo dentro alla villa per lavarsi via la sporcizia dal viso e dagli abiti.

Alfred sospirò, una volta rinvenuto dai ricordi, e una nuvola di vapore si propagò di fronte a lui. Era seduto per terra in uno dei punti del giardino più lontani dalla villa, incurante della neve che gli bagnava i pantaloni e la punta delle sue ali, una delle quali precedentemente fasciata da uno dei guaritori, che spuntavano dal suo giubbotto da aviatore squarciato verticalmente in due punti per poter dare loro libertà di movimento. Davanti a lui si trovava, quasi completamente privo di neve, uno spazio più o meno rettangolare di terriccio precedentemente spalato su cui si ergeva un masso dalla forma di una lapide, sul quale erano state incise a mano delle parole:

Davie

19 febbraio 1985

Non frenò la lacrima che gli rigò la guancia destra, mentre stringeva tra le mani un mazzo di fiori appena comprato in città: un bouquet blu di Non ti scordar di me, i fiori preferiti di Davie. Alfred abbozzò un sorriso malinconico. Proprio come lui, Davie non sapeva nulla delle sue origini o della sua famiglia, ma non gli era mai importato, l’unica cosa che desiderava era essere ricordato da chi gli aveva voluto bene in vita.

- Sono dei fiori perfetti per Davie - disse una voce alle sue spalle.

Alfred sussultò per la sorpresa, facendo frusciare le ali, e si voltò verso il suo interlocutore: Arthur era in piedi a qualche passo dietro di lui con le mani infilate nelle tasche del suo cappotto marrone, le labbra erano leggermente incurvate in un sorriso imbarazzato e il naso e le guance erano arrossati per via del freddo. I brillanti occhi verdi erano circondati da profonde occhiaie per la carenza di sonno degli ultimi giorni. - Verrà ricordato come un eroe.

Alfred abbassò lo sguardo sui fiori. Eroe. Aveva sempre desiderato diventare un eroe e morire da eroe, ma adesso che la morte gli era così vicina… Cos’erano i suoi sogni se non un capriccio infantile? Davie era morto da eroe, eppure non si era meritato di andarsene così giovane, avrebbe dovuto vivere, studiare, crearsi una famiglia come aveva sempre voluto, così da non rimanere mai più solo. Chi era lui in confronto a Davie, un umano, che aveva sacrificato la sua vita per il bene dei mutanti pur conoscendo i rischi a cui stava andando incontro? Davanti a quella consapevolezza, davanti a quella lapide, Alfred si sentiva ancora un bambino immaturo che non sapeva nulla del mondo e che agiva e pensava soltanto per soddisfare il proprio egoismo. Si fece sfuggire un singhiozzo, che tentò di soffocare coprendosi il viso con la manica della giacca da aviatore, invano.

Forse era per la stanchezza accumulata dopo gli ultimi avvenimenti o forse per tutto il peso che si portava da quando era iniziato quell’incubo, ma Alfred si rese conto di non aver mai pianto come stava facendo in quei giorni. Nemmeno quando Matthew era stato catturato aveva pianto, trasformando piuttosto il suo dolore in rabbia e risentimento verso l’esercito, sostenendo che le lacrime non avrebbero riportato indietro suo fratello. Sin da piccolo, era sempre stato quello che doveva essere forte per il bene di suo fratello, più fragile di lui mentalmente e fisicamente. Era sempre stato quello che, quando vivevano per strada, prima di incontrare Arthur e Francis, doveva prendersi cura di Matthew, incapace di reagire alle difficoltà che la vita gli aveva serbato sin da quando erano stati abbandonati dai loro genitori per essere nati mutanti. Aveva rubato, aveva lottato, aveva preso calci in faccia per permettere a entrambi di sopravvivere. Tutto senza versare una singola lacrima. Voleva che, tra i due, fosse Matthew a poter esprimere le proprie paure e insicurezze, che invece Alfred convertiva in rancore.

Sapeva che in quel momento non stava piangendo solo per Davie. Ma anche per Matthew. E per Francis. E per se stesso.

Sentì la mano di Arthur accarezzargli la spalla con dolcezza. - Non permetterò che la sua morte sia stata vana. Libereremo Matthew e gli altri mutanti e affronteremo l’esercito una volta per tutte. Non dovrai più soffrire, Alfred.

Il ragazzo annuì tra i singhiozzi, incapace di voltarsi verso l’inglese. Dannato Arthur, proprio quella mattina doveva scegliere di uscire dal buco della sua camera e di fare il gentile con lui! Ma dopotutto, fu grato della sua presenza confortante.

Arthur si allontanò da lui, dopo avergli dato un colpetto sulla mano. - Coraggio, dai i fiori a Davie. Toris ci sta aspettando.

Si era del tutto dimenticato dell’incontro con Toris. Quel ragazzo gli era sembrato sospetto, ma aveva detto di possedere delle informazioni utili in vista di una prossima soffiata, e se Arthur si fidava allora poteva farlo pure lui.

Posò con delicatezza i fiori ai piedi della lapide e si alzò, strusciandosi la manica della giacca sul viso per ripulirlo dai residui di lacrime. Quando si voltò non ebbe il coraggio di guardare Arthur negli occhi e si incamminò verso la villa senza proferire parola.

All’improvviso sentì qualcosa di gelido colpirgli il collo nudo. Fece un salto per la sorpresa e soffocò un grido, portandosi una mano al collo: era completamente coperto di neve, che si stava piano piano infilando sotto i vestiti, bagnandogli la schiena. Si voltò con gli occhi sbarrati e quasi non potè credere a quello che vide. Arthur stava ridendo come non lo aveva più visto fare da quando Francis era stato rinchiuso nella fortezza, fino a piegarsi in due e coprirsi lo stomaco con le braccia. Stava scaricando anche lui tutta la tensione accumulata negli ultimi anni. La sua irrefrenabile risata lo contagiò all’istante e scoppiò a ridere, mentre si toglieva la neve rimasta sul collo.

- Dovevi vedere la faccia che hai fatto! - esclamò Arthur quasi senza fiato. - O se solo potessi incidere per sempre la tua espressione nella mia memoria!

Alfred fece un verso di scherno, cercando di nascondere il fatto che stesse ancora sorridendo. - Guarda che se continui ti lancio in quel cumulo di neve laggiù!

Arthur si asciugò le lacrime ai bordi degli occhi con la mano coperta dal guanto di lana. - Scusa, scusa. - tossicchiò per fare in modo di smettere di ridere. - Adesso andiamo o Toris si chiederà dove siamo finiti.

Si incamminò fino ad arrivare davanti ad Alfred. Frugò nella tasca destra del suo cappotto e tirò fuori degli occhiali rettangolari dai bordi rossi. Diede un’occhiata al viso di Alfred e gli sistemò gli occhiali sul naso. - I colori dell’alba fanno risaltare i tuoi occhi. - disse soltanto prima di riprendere a camminare.

A quel complimento, Alfred sentì il viso avvampare e ci mise qualche attimo prima di riprendersi. Era raro che Arthur gli facesse un complimento, ma mai uno di quel tipo. Scosse la testa ridacchiando e si chinò a terra per raccogliere abbastanza neve da formare una palla e la lanciò con tutta la sua forza, centrando in pieno la schiena di Arthur. Prima che l’inglese potesse voltarsi, Alfred fece un balzo e si levò in cielo, volandogli sopra la testa. Arthur non si ritrasse dalla sfida, grazie alla telecinesi si sollevò anche lui da terra e percorsero l’intera strada per arrivare alla villa lanciandosi palle di neve, catapultati a uno dei primi ricordi che serbavano del loro incontro: era inizio dicembre e Francis, allora sedicenne, aveva deciso di mostrare ai piccoli Alfred e Matthew, arrivati da poco alla villa, il giardino del retro sotto la neve. Era bastato un solo lancio di Alfred contro Arthur e subito quella passeggiata si era trasformata in una battaglia a palle di neve che si concluse con Francis e Alfred, esausti, sdraiati a pancia in su dalle risate sul terreno innevato e Arthur e Matthew che li aspettavano in piedi, pronti per tornare a casa al caldo.

Un ricordo molto caro a tutti loro.

Un attimo di leggerezza nella sofferenza.






Spazio dell'Autrice:
Sono riuscita a pubblicare entro la fine dell'anno!!! Sono potentissima (sì sì)
31 dicembre per molti significa festeggiamenti, ma per me quest'anno vuol dire solo una cosa: sessione invernale alle porte. Probabilmente passerò la serata a studiare e a mangiare lenticchie per consolazione T_T Voi come passerete il Capodanno??
Mi è piaciuto scrivere questo capitolo, si stanno sbloccando certe cose che saranno utili in futuro (*side eye*)
(Come al solito specifico che Aurel è Moldavia, che avevo già introdotto qualche capitolo fa, Dimitar è Bulgaria ed Emil è Islanda, fratellino di Norvegia)
Ecosì tutta la combriccola della fortezza ha notato che gatta ci cova nel comportamento del nostro Ludwig, chissà come si evolverà il suo rapporto con Feliciano (eheh). Chissà se l'idea del sotterraneo tornerà... Cosa starà nascondendo Francis? Ah non guardate me, non ne ho idea u.u
La parte di capitolo dedicata ad Alfred e Arthur nel paesaggio innevato con le luci dell'alba mi ha dato un conforto assurdo, io adoro sia la neve che l'alba quindi possiamo già immaginare quanto volessi essere lì con loro! L'ultima scena del ricordo di Alfred è stata ispirata da una delle mie fanart preferite della FACE Family di @haruki_chise su Twitter!
Che dire, spero che questo capitolo vi piaccia e passiate un bel Capodanno!
Buon anno a tutti, ciaooo!!! <3

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Capitolo 15
*** DOMENICA 5 MAGGIO NUOVO CAPITOLO ***


Lo so che mi ucciderete, ma, come avrete notato, la fanfiction è in pausa per un semplicissimo motivo: sono in sessione.
Mi sembrava giusto avvisarvi, prima che pensiate che io sia scomparsa nel nulla!
Onestamente, spero che questa sia la mia ultima sessione in assoluto, ma credo proprio di non aver passato un esame e che quindi dovrò spostare la laurea (di nuovo... sigh) a luglio per poterlo ridare nella sessione di maggio. In ogni caso, appena finirà questo mese infernale tornerò con la fanfiction più forte che mai perché non avrò più la tesi da scrivere né lezioni da seguire, nel caso dovrò solo studiare per quell'esame non passato e preparare il mio spettacolo finale di musical, ma avrò tutto il tempo del mondo da dedicare a questa storia a cui tengo tanto T^T
Spero che possiate perdonarmi per tutte queste pause che ho fatto negli ultimi mesi, ci rivediamo col capitolo 14! Ciaooo <3
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Nonostante tutti dubbi, e con tanta fatica, ho passato tutti gli esami e mi sono laureata! Finalmente torno domenica prossima!

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