Storia di uno spirito errante

di shilyss
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Osservare il mondo attraverso una fessura ***
Capitolo 2: *** Senza soffrire ***
Capitolo 3: *** Dammi la mano ***
Capitolo 4: *** Inconfessabili paure ***
Capitolo 5: *** Primavera ***



Capitolo 1
*** Osservare il mondo attraverso una fessura ***


Storia di uno spirito errante

Capitolo 1

Osservare il mondo attraverso una fessura

 

 

Solo la morte m’ha portato in collina

Un corpo fra i tanti a dar fosforo all’aria

Per bivacchi di fuochi che dicono fatui

Che non lasciano cenere, non sciolgon la brina

Solo la morte m'ha portato in collina

(Un chimico, De André)

Loki Laufeyson capì che stava morendo quando la prima visione squarciò il suo campo visivo, ottenebrando tutto il resto. Vide il palazzo di Asgard e la dimora di Odino, col suo tetto spiovente, altissimo, che si stagliava, nero, contro un cielo grigio e rarefatto, che sapeva di neve. L’immagine svanì, rapida com’era comparsa. Fissò stupito la propria mano sporca di sangue, osservò la lama rossa, conficcata troppo vicino al cuore. Il dolore gli mozzava il respiro. Raccolse le ultime energie per rivolgere a Thanos un sorriso arrogante e sbieco, perché nemmeno l’orribile ferita che lo avrebbe spedito nel Valhalla poteva impedirgli di usare l’ultimo strumento ancora in suo possesso – la propria voce, roca e insinuante, ambigua e stregata, abituata a recitare incantesimi e mentire, per dire la verità e maledire.

“Tu non sarai mai un dio,” promise con nera soddisfazione, tra i denti, e in quel momento sentì, per la prima volta nella sua lunga vita, un brivido gelido risalirgli lungo la schiena, ghiacciargli le ossa. Boccheggiando sputò sangue e si accorse che la sua mano tremava. Il volto piatto e largo di Thanos scomparve di nuovo, le urla disperate e furiose di Thor svanirono. Davanti ai suoi occhi c’era il palazzo di Asgard. Ora l’immagine era più precisa: attorno a lui danzavano piccoli fiocchi di neve, dietro il tetto nero e aguzzo si intravedevano le montagne che circondavano il fiordo, di un verde intenso e cupo. Le porte della dimora di Padre Tutto erano sprangate e decorate con incisioni note, che Loki conosceva alla perfezione – da bambino, a occhi chiusi, a volte ne seguiva i contorni con le dita, ripercorrendo le vittorie di Odino sui giganti di ghiaccio, e non solo. Huginn e Muninn volteggiavano davanti a lui, come se lo stessero aspettando. Ricordò di aver rinnegato Asgard molte volte e di aver combattuto e tramato contro di essa, ma rammentò anche di aver fatto ogni cosa per salvarla, risparmiandola dal fuoco corrosivo e annichilente di Surtur. Era anche il figlio di Odino, in fondo: della magnifica terra degli Æsir sarebbe stato sempre il fiero principe, l’astuto difensore. L’aveva ammesso solo pochi istanti prima, al termine di un percorso lungo e tortuoso fatto di rancore e vendette: un groppo denso e nero all’altezza del petto che si era sciolto solo quando Padre Tutto, prima di morire, aveva ammirato la potenza dei suoi complicati incantesimi, riconosciuto che l’inquietudine che agitava il suo spirito era fatta della stessa sostanza di quella che albergava nel suo cuore vecchio e stanco. Thor gridava, ma la sua voce inarticolata, grondante di dolore, si mescolava all’improvviso gracchiare dei corvi, alla sensazione della neve sotto gli stivali. Avrebbe potuto ingannare ancora Thanos, forse, e salvarsi la vita, ma era troppo astuto e sagace per ignorare l’ineluttabile corso che avrebbero preso gli eventi, per non sapere che il Tempo è fatto di punti fermi, fissi: se oltrepassati, il futuro, da molte strade possibili, si incanala verso uno, uno soltanto. Thor lo vendicherà: è l’unico che ne ha la forza e l’occasione, a patto che Loki gliene lasci una. Il sacrificio richiesto va pagato con la vita, ma gli Æsir amano i sacrifici e c’è stato un tempo in cui, fieri e sprezzanti, non si preoccupavano di chiederne in abbondanza agli uomini del nord che li adoravano, anzi. E poi, fratello, morire in battaglia è quello che ogni figlio di Asgard desidera: non c’è alcun onore nell’andarsene nel proprio letto, con i capelli incanutiti: la morte migliore va cercata sul campo di battaglia, nel sangue e nel fango.

Sorrise, e l’ennesimo ghigno sul suo viso affilato fece infuriare il Titano folle, spingendolo a infierire su di lui con un ultimo, inutile colpo. Loki non c’era già più. Si trovava di nuovo ad Asgard, di fronte alle porte del palazzo, ora spalancate. Al centro della sala, crepitava un grande fuoco. Era perfettamente consapevole di aver passato la soglia tra la vita e la morte.

 

Da qualche parte, nel mondo dei vivi, Thor si era lanciato sui suoi resti mortali, perché anche gli dèi di Asgard erano fatti di carne e sangue e, se feriti, sanguinavano, soffrivano. Loki non rimpiangeva quel corpo agile e svelto che aveva abitato con soddisfazione, ora abbandonato in una posa innaturale, a occhi aperti. Nelle sue pupille verdi, un tempo attente e vivaci e ora vitree e fisse, era rimasto impresso non il volto deformato dall’ira del Titano pazzo né quello, dolente, di Thor, ma il palazzo dal tetto aguzzo come la punta di una freccia, fatto per resistere alla neve che avrebbe reso bianco il fiordo su cui si ergeva. La magnifica, bellissima e adorata Asgard.

Ne pronunciò il nome calpestando la neve, spiato dai corvi di Odino – ora che apparteneva alla schiera delle ombre, poteva chiamarli col loro vero nome: Memoria e Pensiero. Dedusse che doveva avvicinarsi al fuoco che guizzava al centro della sala. Per quanto le fiamme fossero alte e ben visibili, sembrava fossero incapaci di rischiarare l’ambiente, ma le sensazioni che provava in quanto spettro erano ragionevolmente differenti da quelle distinte quand’era vivo. Per un maestro di magia del suo calibro e della sua astuzia, in fondo, quella situazione non era che un’occasione per ampliare le proprie smisurate conoscenze, accrescere il seiðdr che, lo sentiva, era ancora legato alla sua anima. Fece per oltrepassare la soglia del palazzo, ma qualcosa – una forza sconosciuta – lo trattenne. I corvi gracchiarono, rammaricandosi per l’inconveniente. Loki si voltò indietro e increspò le labbra sarcastiche in un sorriso affilato come il metallo.

“Non è ancora il momento, per te, di attraversare questa porta,” spiegò una voce nota, vicina e lontana al tempo stesso. Davanti al palazzo c’era un’immensa e fitta foresta. Loki non sapeva – non riusciva a ricordarlo, e forse non aveva davvero importanza, se la casa di Odino si affacciasse davvero su quella distesa di alberi. Così come accade nei sogni, in cui la realtà muta e si distorce per seguire i nostri pensieri, il mondo ultraterreno in cui lo spirito del dio dell’inganno era finito sembrava piegarsi a leggi al momento ignote. Dalla foresta emerse una figura sottile: prima era nient’altro che un’ombra indistinta, ma poi iniziò ad avvicinarsi assumendo consistenza, forma e colore.

“Hela,” la riconobbe Loki. “Dunque non è il Valhalla che mi attende, ma il tuo regno,” osservò.

La dea della morte gli mostrò la parte intatta del suo viso e gli rivolse un sorriso lieve. “I cancelli di Helgrind rimarranno chiusi per te, Loki di Asgard. Almeno per ora.” Gli scivolò accanto col suo abito ampio e scuro, tenendo in ombra la parte deturpata del suo corpo di ragazzina. “Sei a metà strada tra il regno dei vivi e quello dei morti. Sei condannato a rimanerci finché ogni questione sarà sciolta. Allora Helgrind o Valgrind si schiuderanno per te,” concluse, svanendo così com’era comparsa, in maniera lenta e inesorabile.

Loki tornò a fissare il grande fuoco che crepitava nella sala altrimenti buia. Inutile porre altre domande a Hela: non gli avrebbe risposto. Piuttosto, doveva riflettere sulle parole, solo all’apparenza semplici, della signora di Helheim. E poi, ancora, ragionare sulle impreviste possibilità che la sua inattesa condizione di spirito errante gli offriva.

 

Anche la morte rappresentava una succosa opportunità, per il brillante ingannatore. Il suo stato gli consentiva l’accesso a quello che i vivi chiamavano l’inconoscibile: assaporò dentro di sé la gioia che gli avrebbe provocato scoprire i segreti del mondo dei morti, tutti. Quale immenso e smisurato potere avrebbe potuto ottenere, se avesse svelato ogni mistero di quel non luogo dove ogni essere vivente, prima o poi, avrebbe transitato? Non riuscì a fare a meno di sorridere al pensiero dell’uso che avrebbe fatto della conoscenza acquisita, perché ogni regola, per quanto stringente e ben fatta e lungimirante sia, nasconde una zona d’ombra, lascia aperta una via d’uscita. È fatta per essere violata. La sete di sapere e l’ambizione avevano corroso Loki figlio di Odino per tutta la sua lunga e travagliata esistenza, e avrebbero continuato a farlo anche ora che era morto, ma quello che il fiero Ase ignorava, o tentava di accantonare in un angolo della propria mente, era il suo bisogno impellente di varcare la soglia del palazzo di Odino, di scaldarsi davanti a quel fuoco vicino e lontano al tempo stesso. Furono le lingue fatte di fiamme a catturare nuovamente la sua attenzione, distogliendolo dai suoi gloriosi e nefandi propositi: deglutì. Gli parve di scorgere un’ombra che lo attendeva, al di là delle braci rosseggianti. Un vecchio con un bastone e un cappello floscio che gli copriva il volto, un vecchio cieco a un occhio – Odino, Padre di Tutto, dio delle forche e della magia.

Doveva raggiungerlo e, per farlo, sciogliere qualsiasi nodo lo tenesse avvinghiato alla propria vita passata – sì, ma quale? Lungo tutta la sua esistenza, Loki si era dedicato a molte, moltissime cose: oltre a difendere e a osteggiare Asgard a seconda dei casi e delle opportunità, aveva vissuto un considerevole numero di avventure col proprio fratello – l’erede designato, l’alleato perfetto, invidiato e protetto a costo della propria stessa vita. Allo stesso tempo, aveva coltivato la sua intelligenza viva e brillante, dedicandosi allo studio della magia e di qualsiasi altra scienza gli capitasse davanti con una dedizione e una passione sconfinate. La conoscenza lo inebriava, gli dava potere – lo rendeva simile a Odino, il padre adorato prima e contrastato con violenza poi, di cui avrebbe desiderato essere il solo, vero erede. Di fronte all’ennesima sfida d’astuzia che gli si poneva davanti, tuttavia, il brillante dio dell’inganno si rese conto di non avere abbastanza indizi per compiere il proprio destino, o, al contrario di averne fin troppi. Fu sopraffatto da una sensazione strana, una vertigine fatta di nomi, rancori, battute sferzanti, battaglie, scoperte, sconfitte, vittorie, desideri e incubi. Si ritrovò a terra, boccheggiante, le mani che afferravano la neve gelida e compatta, il corpo sconquassato da un dolore che ricordava fin troppo da vicino quello inflittogli da Thanos. Aveva ripercorso la sua lunga vita d’Ase nel giro di pochi secondi, ma quella visione improvvisa, anziché indicargli una via o rappacificarlo con la propria turbolenta esistenza, gli aveva lasciato addosso un’inquietudine gelida strisciante, un tremore sconosciuto e indegno per lui, che era nato per essere re. Sapeva di aver perso qualcosa d’importante.

L’ombra oltre il fuoco dovette provare una qualche sorta di compassione per la sua figura prostrata dal dolore e dallo stupore, perché si fece più vicina – irraggiungibile, ma tanto prossima da poter essere riconosciuta da Loki. Ecco il volto severo e segnato di Odino sotto il capello floscio, il suo unico occhio, di un azzurro intenso, fissarlo con solennità. Era lo stesso sguardo lungo e indagatore che gli aveva tributato un numero infinito di volte quando, al ritorno da un’ambasceria o da una missione, lo soppesava in silenzio, giudicandolo.

Loki si rialzò in fretta, recuperando l’antico contegno principesco e, così come aveva fatto poco prima con Hela, parlò per primo, allargando le braccia. “Sembra che dovrò restare in questo limbo ancora per un po’. Deluso, padre?”

Odino, in vita, aveva sempre apprezzato l’insolente ironia di Loki. Lo aveva punito un numero incalcolabile di volte per la sua tracotanza e detestava quando si comportava in maniera irrispettosa nei suoi riguardi, ma ammirava l’abilità del figlio nel trasformare le sconfitte in opportunità, quella sua capacità di risollevarsi sempre e di volgere ogni cosa a proprio favore propria dei truffatori e degli intriganti. In questo si assomigliavano; se lo aveva trattato con estrema durezza, era stato perché in Loki vedeva i suoi difetti esaltati come in uno specchio impietoso. Nella morte, però, Padre Tutto si era fatto ancora più saggio, o forse aveva assunto una tale consapevolezza del mondo e degli universi da poter passare oltre l’irriverenza del figlio che aveva scelto di salvare e di allevare.

“Hai studiato molte cose, nella tua vita, figlio mio, ma alcune sono sfuggite comunque alla tua intelligenza pronta e acutissima. Solleva quel velo, guarda attraverso le sue fessure il mondo che hai lasciato. Per sciogliere i nodi che ti impediscono di oltrepassare i cancelli del regno dei morti, devi prima riannodare ogni filo, guardarti indietro.”

L’ingannatore ascoltò in silenzio, elaborando già il piano che gli avrebbe consentito perlomeno di avvicinarsi al fuoco caldo e guizzante che bruciava alle spalle di Odino: solo così avrebbe scacciato quel freddo lacerante e sconosciuto che gli ghiacciava le ossa come mai prima di quel momento. Dopo, quando le sue dita di mago che sentiva rigide e doloranti si fossero scaldate, avrebbe potuto ragionare su come varcare i confini di Valgrind. Era morto in battaglia, del resto. Con onore, per difendere suo fratello. Riteneva di meritare il Valhalla, ma di Loki Laufeyson occorre dire che aveva sempre avuto un’altissima opinione di sé e una fede incrollabile nel fatto che gli spettasse un destino glorioso. Nemmeno la morte violenta e straziante inflittagli da Thanos era riuscita a scalfire questa sua convinzione – illusione?

 “So che stai soffrendo, che vorresti varcare questa soglia,” proseguì Odino, comprensivo e implacabile al tempo stesso. “Incamminati verso la foresta, attraversala. Troverai ciò che cerchi.”

Fessure. Si tratta di ricordi o di strappi nel tessuto che separa il mondo dei vivi da quello dei morti?” intuì Loki. Nei suoi occhi scintillava una luce vivace e attenta. Era pronto a raccogliere la sfida di Padre Tutto, a interpretare quel mondo che, lo intuiva, era fatto di simboli e significati nascosti, come i sogni.

“Non hai bisogno che te lo confermi io, Loki. Lo capirai molto velocemente – forse l’hai persino già capito,” suggerì Odino e al dio dell’inganno parve, ma forse si sbagliava, che Padre Tutto sorridesse con un sorriso identico al suo – breve e laterale, lupesco.

 

Lasciare le porte del palazzo, spalancate eppure impossibili da attraversare, fu insospettabilmente difficile per il dio dell’inganno. Nel mondo ultraterreno alcuni bisogni propri di chi possedeva ancora un corpo di carne e di sangue svanivano, ma altri si acuivano e diventano insopportabili. Sentiva di doversi scaldare attorno al fuoco, sapeva di averne un bisogno disperato. Si chiedeva se quel freddo assoluto e spiazzante, sensazione che in vita era sconosciuta all’altero gigante di ghiaccio cresciuto dagli Æsir, fosse una sorta di beffardo contrappasso. Una punizione per la propria diversità. Fu a malincuore che decise di lasciare il palazzo, muto e dalle linee affilate che si stagliava contro un cielo grigio e compatto, carico di neve. Seguì i corvi verso l’intrico di alberi dov’era scomparsa Hela, volgendo solo un’ultima occhiata attenta al fantasma di Padre Tutto che, diritto in piedi sulla soglia del palazzo scuro, lo attendeva in silenzio.

 

La distesa di alberi non era più scura e spaventosa di quelle che Loki Laufeyson – o forse sarebbe più opportuno dire Odinson – aveva attraversato nel corso della sua movimentata esistenza. Betulle, querce, olmi, faggi e cespugli di more si mostravano al suo passaggio: erano gli stessi arbusti secolari che circondavano l’Asgard della sua giovinezza, quando andava a caccia con Thor. Un periodo della sua esistenza spensierato e felice, un ricordo che scoprì caro, a cui non pensava più da un tempo remotissimo, sebbene suo fratello avesse tentato invano di rievocarlo in più occasioni. All’epoca il suo cuore non era ancora avvelenato dal rancore e dall’ambizione al punto di tradire i segreti degli Æsir per favorirne i nemici; eppure, in lui c’era già il seme di quella stortura che lo avrebbe spinto a seminare il caos in lungo e in largo per i Nove Regni, quell’insoddisfazione che lo rendeva perennemente inquieto. Ma è davvero così sbagliato, si domandò, nutrire alte aspirazioni, bramare l’eccellenza, il potere, la sapienza? Thor era un cacciatore meno paziente e accorto di lui, ma più fortunato e brutale. Per questo capitava che, a volte, non sempre, portasse a casa le prede migliori. Loki piegò le labbra in una smorfia di dispetto. Non sempre, fratello, non sempre.

Quasi come se l’avesse evocato, vide lo strappo. Si trattava di una fessura, uno squarcio slabbrato nel rarefatto mondo ultraterreno, una finestra oltre cui sporgersi per spiare i vivi. Huginn, il corvo del pensiero, gracchiò, invitandolo ad agire in qualche modo.

L’Ase gli rivolse un’occhiata sbieca. “Non insistere, ho capito,” sibilò. Si sporse oltre l’apertura e fu colto da un dolore violentissimo e improvviso. Per un momento brancolò nel buio, accecato dalla fitta. L’anima sanguinava e soffriva, comprese, come il corpo – forse persino di più. Quando riprese il controllo di sé, scoprì di trovarsi in una stanza lurida e spoglia, fatta eccezione per qualche vecchio mobile noto e delle armi gettate in un angolo. Un irriconoscibile Thor beveva da solo, il corpo possente abbandonato su uno degli scranni imbottiti preferiti da Odino, ma l’ampia camera non aveva più nulla dello splendore posseduto quando Padre Tutto regnava su Asgard.

Loki osservò il dio del tuono disgustato, rammaricato, stupito. Muninn volteggiò per la stanza e gli si posò sulla spalla. Così come aveva fatto per secoli all’orecchio di Odino, lo informò dei fatti capitati tra i vivi. Il dio dell’inganno ascoltò quel gracchiare che finalmente aveva un senso; scoprì che non erano passate poche ore dalla sua morte, ma settimane. Thor aveva ucciso Thanos, vendicando lui e tutte le vittime del Titano, ma quell’uccisione non gli aveva lasciato in mano niente, né uno scopo né una soddisfazione. Possedeva un regno, ma non sapeva che farsene.

Loki avrebbe voluto sputargli contro tutto il suo disprezzo: non era lui l’erede degno, designato? Colui che poteva rendere l’amatissima e fiera Asgard ancora più splendida di quanto aveva fatto Padre Tutto? Perché ora si ubriacava senza ritegno in quella solitudine sofferente?

“A che è servito vendicarti, eh fratello? Dimmelo. Tu avevi tutte le risposte. Una fottuta spiegazione per ogni cosa.”

Loki s’irrigidì e per un attimo, uno solo, immaginò che l’altro lo avesse visto, magari per via di tutto quell’idromele trangugiato. Aprì la bocca per rispondergli e insultarlo come meritava, ma Huginn gracchiò che non era affatto così che stavano le cose. Thor non vedeva né lui né i corvi. Parlava da solo, sfogandosi col ricordo del fratello perduto. Lo aveva già fatto in passato e lo avrebbe fatto ancora: solo per un caso il fantasma di Loki in quel momento era lì per ascoltarlo.

“L’ho ucciso e non mi è rimasto nulla. La sua morte non ha portato indietro nessuna delle sue vittime –nemmeno tu sei tornato.”

Loki, che pure aveva compreso perfettamente la propria condizione, increspò le labbra sottili in una smorfia indispettita, misurò la stanza sporca con passi nervosi.

“Ti rimane Asgard, ti rimangono gli Æsir. Perché non ti basta? A me sarebbe bastato.” Nel momento stesso in cui pronunciò quelle parole, però, non poté fare a meno di sorridere. Aveva mentito. La soddisfazione non sarebbe stata mai nella sua natura e, a parti inverse, anche se non si sarebbe mai lasciato abbattere in quella vergognosa maniera, riconobbe che la sua natura lo avrebbe portato a smaniare in vista di nuove conquiste, altri obiettivi. Thor, invece, si crogiolava nel passato ed era rimasto incastrato in un lutto che si sommava a molti altri. Si sentiva responsabile per ognuna di quelle morti. Loki, pur non accettando la sua visione, scoprì che la comprendeva. Il distacco dalla vita mortale, rifletté, doveva aver donato anche a lui una qualche forma di nuova saggezza.

Thor si asciugò la bocca col dorso della stessa mano che un tempo aveva brandito Mjollnir. “Non mi interessa prendere le decisioni di un re. Non mi importa niente di tutto questo. Lascerò che scelga ciò che vuole. Abbiamo fatto abbastanza,” decise. Accartocciò e gettò via con fare brusco una pergamena che teneva sulle ginocchia. Fino ad allora l’ingannatore non l’aveva nemmeno notata. Anche questo faceva parte delle inesplicabili regole del mondo dei morti. Certi dettagli comparivano solo in un determinato momento, altri rimanevano per sempre invisibili. L’involto giunse quasi a toccare la punta degli stivali di Loki. Alcune frasi erano leggibili. L’ingannatore fece un passo indietro, allontanandosi.

Il corvo del pensiero gli chiese se avesse letto le rune incise sulla pergamena. Loki rispose di no e allora il volatile volse verso di lui i suoi occhi neri e rapaci.

“Bugia,” gracchiò.

“Ho risolto ogni questione con Thor, figlio di Odino. Sono morto per dargli un’opportunità che lui non ha saputo sfruttare a sufficienza,” sibilò con disprezzo. Tentò di deliziare quell’ubriacone del dio del tuono con qualche terribile scherzo, ma invano. Non riusciva a interagire con i vivi. Non ancora, almeno.

“Questo è vero,” rispose l’altro corvo, Muninn. “Ma non sta a te decidere come il primo figlio di Odino debba trascorrere la sua esistenza o governare il regno che ha ereditato.”

“Allora perché la fessura era qui?”

“Per permetterti di guardare,” disse Huginn, il corvo del pensiero. Col becco sfiorò la pergamena malamente arrotolata, facendola muovere in direzione dello stivale dell’ingannatore. Dopo, tutto si fece nero.

 

Il tempo, per uno spettro errante, è un concetto astratto. Loki non ricordava come e perché avesse abbandonato la camera spoglia di Asgard dove Thor era andato a soffocare il proprio dolore. Quando riprese coscienza di sé era di nuovo nella foresta sconosciuta, così simile a quelle della sua prima giovinezza, eppure tanto diversa. Huginn e Muninn avevano atteso che si riprendesse appollaiati su un albero: due figure nere contro un cielo color metallo. Sollevandosi da terra, il dio dell’inganno scoprì una debolezza nuova, sconosciuta come il freddo che non voleva abbandonare le sue ossa. Ripensò al palazzo dove lo attendeva Odino, al fuoco che crepitava alle sue spalle, così necessario e invitante.

Deglutì, scosso dai brividi. “Quanto tempo è passato?” s’interessò, scrollandosi di dosso un paio di foglie secche.

“Ore. Giorni. Per te non ha più importanza,” gracchiò Huginn.

“E cosa ne ha?”

“Quello che cerchi di dimenticare, maestro di magia. La lezione che non hai voluto imparare,” rispose il corvo.

“Non c’è insegnamento che non abbia raccolto, puntualizzò l’Ase.” Persino dalle sconfitte ho imparato qualcosa.” Grondava alterigia.

“Ma sei arrogante. Come tutti gli Æsir. Come il dio corvo,” puntualizzò Huginn alzandosi in un volo breve e preciso. “Una lezione non l’hai imparata, no.”

“Abbiamo tentato.”

“Ma ti rifiuti di guardare.”

“Non vuoi conoscere quello che non puoi controllare.” I messaggeri di Odino dovevano essere furiosi.

“Accusate me di non voler cedere al caos? È divertente,” si difese Loki.

“È vero,” gracchiò Huginn. “Il signore del caos lo scatena solo se può rimanere nell’ombra. A osservare.”

“A manipolare,” ricordò Muninn. “Ma ora è tempo di guardarti indietro.”

“Non puoi vagare ancora a lungo senza una dimora,” aggiunse il fratello. “Ma fai resistenza. Colpa del seiðr. Il dio corvo ce lo aveva detto.”

“Mostratemela,” decise il dio dell’inganno. “È arrivato il momento.” Non poteva dire di essere davvero convinto di ciò che stava dicendo, ma la condizione di sospensione in cui si trovava era ogni momento più straziante.

“Thor la stringeva tra le mani,” ricordò Muninn. “Tu l’hai letta, ma non hai voluto guardare.”

Loki allargò le braccia, esasperato. “C’è un’altra di quelle fessure, da qualche parte?”

Huginn si appollaiò su un ramo basso, tanto da poter fissare Loki negli occhi. “C’è.”

“Sentirai dolore,” precisò Muninn, muovendo con uno scatto il collo nervoso. “È qui.”

Il dio dell’inganno si guardò attorno: la foresta, innaturalmente silenziosa, quasi priva di colore – se ne accorse solamente in quel momento – li avvolgeva con i suoi alberi familiari, con i rami scheletrici che schermavano la poca luce esistente. Non c’era alcuna fessura, nessuno strappo a indicare una cesura tra i due mondi.

“Dov’è?” mormorò Loki.

“La sentirai.”

“La vedrai.”

Dopo, fu il buio e, di nuovo, un dolore terrificante – come se a essere lacerato e strappato via fosse lui, Loki principe di Asgard, e non quella foresta immacolata posta a metà tra il regno dei vivi e quello dei morti.

La vedrai, avevano gracchiato i corvi, ma prima di scorgerla riuscì a sentirla: una fessura nella propria anima straziata che si allargava a dismisura, una ferita in cui i due uccelli avrebbero banchettato. A rompere l’oscurità fu un singulto lacerante, un singhiozzo soffocato, figlio di un dolore senza soluzione, di un vuoto dove precipitare era fin troppo facile. Aprendo gli occhi dopo un tempo impossibile da calcolare, ebbe la certezza che la fessura tra le due realtà si era aperta nuovamente. Si trovava di nuovo ad Asgard e, con suo grande disappunto, riconobbe immediatamente dove. Le ali di Huginn e Muninn frullavano alle sue spalle, spettatori severi e improvvisamente silenziosi di una scena di cui il dio dell’inganno non comprendeva l’utilità o il senso. Non aveva alcuna questione in sospeso nel suo palazzo privato.

Si guardò attorno: non era cambiato nulla dall’ultima volta in cui aveva visto quelle stanze eleganti e curate, dove ogni particolare incontrava il suo gusto sofisticato.

“Questo è uno sbaglio o uno scherzo,” mormorò, ma i due messaggeri di Odino scelsero di non rispondere alla sua provocazione.

 

C’era una bellezza selvaggia nelle dimore degli Æsir: un contrasto che definiva la loro natura piratesca e rapace, che spiegava il loro smodato amore per le merci preziose: tappeti, gioielli, pellicce erano le cose che definivano il loro status insieme, ovviamente, alle armi dalle else intarsiate, forgiate da quegli stessi fabbri di Nidavellir che nelle loro fucine creavano i capolavori di oreficeria più desiderati dei Nove Regni. Lame robustissime e affilate, dotate di nomi altisonanti e spesso intrise di seiðr. Il palazzo di Loki, quello in cui si rifugiava quando non doveva suggerire qualche mossa astuta alle orecchie di Odino, traboccava di questi oggetti e di molti altri: artefatti magici ottenuti o estorti ad altre popolazioni, strumenti di squisita fattura creati per navigare con più sicurezza nei freddi mari che circondavano i fiordi di Asgard e di Jotunheim, pergamene e volumi che raccontavano le storie più antiche dei Nove Regni tutti, in cui erano tracciate le canzoni più struggenti, le saghe più belle, i versi più toccanti. Il dio dell’inganno apprezzava i frutti dell’ingegno altrui: soddisfacevano la sua sete di conoscenza. La sontuosa dimora del dio dell’inganno raccoglieva tutto questo e molto altro ancora: era un palazzo simile a quello di Odino o al Fensalir di Frigga, sebbene fosse posto più a nord, nel lembo di terra che guardava più da vicino i confini di Jotunheim: si affacciava su un fiordo e spiccava in altezza e bellezza. I suoi tetti aguzzi parevano squarciare il cielo, il legno di cui era composta tutta la struttura era stato scelto con estrema cura e trattato affinché rilucesse, quasi. Ma calpestando le assi del pavimento Loki non poteva più sentirle scricchiolare sotto il proprio peso, né sentire l’odore del legno e delle pergamene nel suo studio privato. Si rese conto che mancava dal palazzo – da quel palazzo perfetto, in cui ogni cosa era esattamente dove doveva essere – da molto, troppo tempo: la consapevolezza appena raggiunta lo colse quando arrivò al cuore stesso della dimora. Il corvo della memoria, Muninn, volò sulla sua spalla e girò il collo nervoso verso il letto ampio e sontuoso, il telaio su cui era fissato il principio di un arazzo. Una luce aranciata e soffusa creava un’atmosfera onirica e irreale, posandosi sui tendaggi pesanti, sul camino dove crepitava un fuoco debole, incapace di scaldare l’ampia camera riccamente arredata, palesemente abitata. Loki si fermò sulla soglia, irrigidendo le spalle altere, serrando la mascella virile e affilata. Anche qui ogni oggetto era dove lo ricordava, ma constatarlo non gli provocò alcuna gioia, anzi. Le sue labbra sottili si piegarono in una smorfia tirata, in un ghigno quasi maligno.

“Non ho nessuna questione in sospeso in questo luogo,” sibilò con voce roca.

“Bugiardo,” gracchiò il corvo. “Bugiardo. Guardala.”

C’era una giovane donna nella stanza, accanto alla grande finestra. La massa dorata dei suoi capelli le ricadeva, sciolta, sulla schiena. Era abbigliata come una principessa, il corpo snello fasciato in un vestito fatto con stoffe pregiate, le braccia, le dita e il collo adornati con gioielli preziosissimi, di mirabile fattura. Il bistro appena colato che le sottolineava gli occhi chiari, rotondi e grigi, dimostrava come avesse da poco ceduto a un pianto breve e disperato. Tra le mani nervose stringeva una tunica di un verde cupo, che, forse, ancora tratteneva l’odore della pelle di colui che l’aveva indossata. La vide affondare il viso nella stoffa scura, come se quell’indumento potesse salvarla da un abisso di disperazione. Loki riconobbe con fastidio che gli apparteneva.

Lei non soffre per me, fidatevi. Non può,” spiegò caustico.

 

Continua

L’angolo di Shilyss

Care Lettrici e cari Lettori del mio cuore,

Quest’estate ho scritto davvero poco, ma il capitolo che avete appena letto è miracolosamente nato in due giorni. Ne seguiranno altri cinque. Spero e prego Loki, Chtulu o chi per loro, di ridarmi un po’ la concentrazione per poter scrivere di nuovo di Loki e Sigyn, perché li amo e parlare di loro mi fa stare bene. E poi, lo sapete, sono del tutti incapace di portare avanti un solo progetto per volta: o mi dedico o più cose insieme, o niente, quindi speriamo che la linfa di Storia di uno spirito errante si irradi anche alle altre long ancora in corso e a quei numerosi progetti che sono ancora nella mia testa.

Qualche appunto: il palazzo di Loki è una mia totale invenzione e la descrizione di quello di Odino è completamente differente dalla versione un po’ pacchianella della Marvel e più simile alle chiese vichinghe o al look di quel film un sacco bello che è The Northman. Helgrind e Valgrind sono i cancelli posti prima di Hel e del Valhalla. La morte di Loki è descritta diversamente rispetto a quella scena tragica che ancora mi fa male vedere (Infinity War) perché mi serviva che morisse, sì (sic) ma in maniera più lenta – quindi con un colpo di spada anziché strangolato. Anche la sorte di Thor è differente: qui è re di Asgard e Asgard non è un accampamento in Norvegia e non è andata distrutta, ma lui sta andando comunque alla deriva – sebbene non nella maniera tragica di Endgame.

Questa storia nasce grazie all’iniziativa “Cinque fette alla torta di melassa:” ogni capitolo avrà un prompt specifico – nel primo era fessura, e una sola canzone di riferimento, Un chimico di De André, tratto dall’album Non al denaro, non all’amore né al cielo. Insomma, con Faber c’è un ritorno alle origini, se vogliamo, alle mie primissime shot. Fino all’ultimo sono stata indecisa se partecipare, ma poi una scena di questa storia ha preso a ossessionarmi e nel giro di 36 ore ecco qua quasi 5k di parole.

Ringrazio di cuore Emi ♥, le cui parole sono sempre preziose e chi listerà, recensirà o semplicemente leggerà questa storia: siete importanti e sappiate che leggo tutti i vostri commenti e non vi mangio. Spesso non rispondo pubblicamente, ma se vi palesate lo faccio e sono molto alla mano, ecco. ♥

Ricordo che il personaggio di Sigyn, tolto quello che trovate alla voce “Sigyn” su Wikipedia, è una mia personale interpretazione/reinterpretazione/riscrittura. Non vi autorizzo a ispirarvi o peggio a questa versione o alle altre storie da me postate né qui né altrove (peggio mi sento con le fiabe) e lo stesso vale per gli headcanon su Vanheim, su Loki o su Asgard stessa. Creare un mondo con usi e costumi non è uno scherzo.

A presto e grazie per tutto l’affetto/sostegno/cose,

Vostra,

Shilyss

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Capitolo 2
*** Senza soffrire ***


Capitolo 2
Senza soffrire
Da chimico un giorno avevo il potere
Di sposar gli elementi e farli reagire
Ma gli uomini mai mi riuscì di capire
Perché si combinassero attraverso l’amore
Affidando ad un gioco la gioia e il dolore […]
(Un chimico, De André)

Si girò di scatto per andarsene e abbandonare quella stanza ricordata, condivisa, ancora abitata oltre ogni ragionevole previsione. Non c’era motivo per cui lei fosse ancora lì, non aveva alcun senso che stringesse al petto una sua tunica. Nel farlo, l’armatura che gli copriva la spalla sfiorò la porta, muovendola di una spanna, o forse meno: tanto bastò perché cigolasse. Loki s’irrigidì fino sentire ogni muscolo tendersi. Era uno spirito, una sostanza incorporea, eppure subiva un dolore identico a quello fisico, viveva reazioni che lo illudevano di possedere ancora un corpo agile, nervoso, scattante.
“Sei molto teso, dio dell’inganno,” notò Muninn.
“Non è tutto risolto, qui. Ti servono altre prove?” gracchiò il fratello.
“Il dio corvo, di te, ha sempre detto che sei molto acuto.”
“Si sbaglia?”

Loki, strano a dirsi, non seppe che rispondere ai due corvi. Sigyn guardava nella sua direzione, fissando esattamente il punto dov’era lui, ma senza vederlo. L’ingannatore si sentì trapassato da quello sguardo sorpreso, spaventato. Si accorse di riuscire a sentire il battito accelerato del suo cuore. I palazzi ampi, si sa, sono pieni di spifferi, rumori e scricchiolii vari, specie se prevedono una tale presenza di legno come accadeva in quelli degli Æsir, ma ci sono creature, più sensibili di altre, che, in determinati momenti della loro esistenza, riescono a captare una delle fessure che separano il mondo dei vivi da quello dei morti. Sigyn non poteva vedere Loki, ma lui era riuscito a interagire con lei, in qualche modo. Senza volerlo, anzi, spinto da tutt’altro bisogno, era stato capace di muovere un oggetto. All’esultanza per l’insperato progresso si sommò il dispetto per averlo fatto davanti a lei e non a Thor e, soprattutto, il fastidio per non aver ancora ben chiaro come fosse riuscito in una simile impresa. Era stato il caso? Lo sdegno di fronte alla scena ridicola della sua bella vedova che lo piangeva? Immobile, Sigyn continuava a osservare la porta che si era aperta cigolando senza alcun motivo apparente, come se dovesse valutare se fosse pericolosa o meno, e quanto. Alla fine, decise di scacciare qualsiasi dubbio o sensazione la attanagliasse e si avvicinò a passi decisi per spalancarla completamente, in modo da assicurarsi che non si muovesse più da sola. Passò tanto vicino a Loki che lui avrebbe potuto toccarla, se fosse stato vivo. Ma non lo era e anche quello che fece – trattenere il respiro in virtù dell’illusoria sensazione di possedere ancora un corpo – fu notato da quei due attenti osservatori che erano i corvi di Odino.
“Se rimarrò qui potrò toccare di nuovo altri oggetti?” domandò alle sue guide. “Forse,” gracchiò Muninn.
“Dipende da te. Adesso concentrati. Tua moglie avrà delle visite,” gli fece eco Huginn.

Loki imprecò tra i denti e rientrò nella stanza, registrando suo malgrado quello che già aveva colto alla prima, rapida occhiata data all’ampia camera. C’erano ancora i suoi libri, nelle scaffalature che occupavano per intero l’ampia parete di fronte alle finestre – una delle molte librerie disseminate in ogni angolo del palazzo. Appese vicino al letto scintillavano le lame dei suoi pugnali preferiti, forgiate direttamente dai Nani di Nidavellir ed era sicuro che nei bauli e negli armadi avrebbe trovato corazze di pelle intrecciata e mantelli color notte. Sigyn non aveva dato ordine di togliere nulla, sacrificando solo qualche oggetto perché fosse tumulato come si conveniva a un principe del suo rango – ma, in fondo, di che funerali farseschi si trattava mai? Thor non era riuscito a riportare le sue spoglie mortali ad Asgard e i suoi resti giacevano insepolti da qualche parte – forse erano già ossa bianche, i soli resti di un banchetto fatto dai fratelli meno ciarlieri di Huginn e Muninn, che lo fissavano con quegli occhi neri piccoli e lucidi. No, Sigyn non si era sbarazzata delle sue cose, ma continuava ostinatamente a tenerle accanto alle sue. Poco distante dalla libreria, per esempio, c’era la toletta con lo specchio dove lei si sedeva a spazzolare i lunghi capelli color dell’oro: ecco la sua spazzola col corpo in legno di quercia e argento, le boccette contenenti il suo profumo a base di vaniglia e qualche altra essenza dolce, il cofanetto finemente lavorato che conteneva i suoi gioielli più preziosi: in quel momento era aperto e Loki riconobbe, tra gli altri. il pregiatissimo filo di perle con la chiusura di diamanti che lui le aveva regalato. Accanto alla magnifica collana, però, c’era qualcosa che gli fece schioccare la lingua sul palato in un gesto carico di stizza.
“Non tutti i gioielli di tua moglie sono di tuo gradimento, Loki?” gracchiò Huginn posandosi sulla specchiera.

Loki tentò di ignorare il corvo. Si concentrò su Sigyn, che, avvertita di una visita dalla sua ancella, riponeva con estrema cura la tunica che gli era appartenuta, sì, ma nel proprio baule, pieno di sete chiare e lane soffici. Fatto ciò si guardò attorno inquieta e gettò un ciocco di legno nell’ampio camino. Non si era mai abituata del tutto all’inclemente clima di Asgard, ma quel pomeriggio sentiva più freddo del normale. Si scaldò le punte delle dita sottili e inanellate di fronte alle fiamme guizzanti e fu così che la trovò il suo ospite.
Vedendola, lui le andò incontro trascinando una gamba lievemente offesa e le afferrò le mani, portandosele alle labbra con slancio e devozione. Sigyn le ritrasse più velocemente che poté, senza mascherare una nota di disagio.
“Lo conosci anche tu, dio dell’inganno?” gracchiò Muninn raggiungendo suo fratello.
“Quello è il suo amante attuale o il suo prossimo marito.” Le labbra di Loki, sottili e ironiche, erano congelate in un ghigno perfido. “Theoric.” Pronunciò il nome assaporandone ogni sillaba, rigirandoselo in bocca con la stessa lentezza con cui gli avrebbe torto le viscere attorno a uno dei suoi pugnali affilati. “Ditemi, bestie del malaugurio, illuminatemi: vederli scopare nella mia casa, nel mio letto, mi farà guadagnare i cancelli di Valgrind? L’umiliazione è quello che mi serve per il Valhalla?”
“Ascolta.”
“Aspetta.”
Loki sibilò che non intendeva fare nulla di tutto ciò e fece per andarsene – ma dove? Era uno spirito errante, in fondo: la sua destinazione finale era irraggiungibile e ignota, perduta. Diede le spalle ai due, ma a inchiodarlo dov’era non fu solo il frullare d’ali dei due corvi, ma anche la voce di Sigyn, più ferma di quanto si aspettasse.
“Non voglio lasciare questa casa. È la mia. Non credevo che lo sarebbe diventata, ma è così e lo resterà per sempre.”
“Sei ancora a lutto.” La constatazione di Theoric – un guerriero alto, bello, biondo – era intrisa di disappunto.
Il dio dell’inganno si voltò appena per guardare la moglie – errore, la vedova – con la coda dell’occhio. Sigyn aveva una grazia innata che mostrava in ogni suo gesto, persino nel modo in cui piegava la testa di lato o nel modo in cui muoveva le mani sottili e delicate. Ma accanto a quella delicatezza c’era, in lei, una forza insospettabile, che Loki aveva imparato a conoscere e che ritrovò nella risposta decisa e chiara, incontrovertibile, che diede allo spasimante di una vita, all’uomo a cui l’aveva strappata tanti anni prima.
“Sì.” I suoi occhi, liquidi e grigi, erano carichi di una fermezza assoluta.
Theoric non nascose un gesto d’impazienza. “È morto!” Vide le labbra di lei contrarsi in una smorfia di dolore e tentò di nuovo di avvicinarsi, di prenderle le mani dove ancora brillavano gli anelli donati da Loki. “E non da un giorno,” insistette. Vedendo lo stato della donna, Theoric aggiustò il tiro e abbassò la voce. Se desiderava convincerla ad abbandonare l’inclemente Asgard doveva usare la ragione, la dolcezza, la logica. Aiutarla a fuggire dalla gabbia in cui era stata intrappolata anni prima, da cui forse non sapeva più uscire. “Sono passati mesi, Sigyn. Re Thor ti ha dato la possibilità di scegliere quello che più desideri,” le ricordò, rivelando ad alta voce il contenuto della lettera che lo spettro del dio dell’inganno, spettatore suo malgrado costretto al silenzio, aveva visto nella sua passata visita al regno dei vivi.
Sigyn stavolta non liberò le proprie mani, ma guardò negli occhi Theoric e gli parlò con voce ferma e sicura.
“E io ho scelto. Dillo a mio padre. Spiegalo a tutti quanti.”
“Cosa dovrei spiegare?” esplose Theoric accorato, approfittando per avvicinarsi ancora, per stringere tra le sue quelle dita che sentiva fredde e inerti al proprio tocco. “Che vuoi appassire qui dentro? Vogliono – vogliamo che tu torni da noi. Puoi essere ancora felice.” La vide abbassare lo sguardo, come se quella proposta ragionevole, forse inevitabile, la confondesse. “Sei ancora giovane, bella.” Esitò, temendo di farla scappare di nuovo. “Bellissima,” soffiò infine, accostandosi ancora.

Loki pensò che, se fosse stato al posto del suo rivale, l’avrebbe baciata. Erano abbastanza vicini perché succedesse, era quasi giusto che avvenisse. Lui era morto e lei non poteva, non doveva piangere un fantasma. La sua fedeltà non era più richiesta e in quello sguardo che si puntava in basso l’ingannatore riconobbe il tentativo della sua giovane vedova di sfuggire a una resa sempre più inevitabile. Al naturale bisogno di essere consolata, amata, accarezzata.
Per Sigyn, invece, fu troppo. Sussultò, liberandosi in fretta dalla presa cui aveva ceduto per stanchezza e in virtù di un passato che considerava lontano, troppo. Si rifugiò accanto alla finestra e diede uno sguardo distratto al fiordo sotto di loro. “Avresti dovuto dimenticarmi molti anni fa, Theoric. Me lo avevi promesso.”
“Non ci sono riuscito.”
“Non mi hai creduta,” ribatté lei con forza, ma c’era una nota disperata nel suo tono. Loki, costretto a osservarla, la colse. E comprese, suo malgrado.
“Mentivi per proteggerti. Non ho mai dubitato del tuo amore.”
“Allora hai sbagliato.” La voce della donna si era fatta dura, severa. Quasi crudele.
Theoric strinse i pugni. Conosceva una ragazza, ma forse lei se n’era andata, lasciando il posto a una donna che lo guardava come se fosse un vecchio amico sgarbato. “Sigyn, so come la pensi,” insistette. “So che cosa hai passato e so anche che non lo avresti mai tradito finché fosse stato tuo marito, ma ora sei libera. Ogni vincolo è sciolto. Se n’è andato, finalmente.”
Le labbra di Sigyn tremavano, le sue dita nervose giocavano con gli anelli che le abbellivano le mani, ma questo non le impedì di risultare imperiosa e spiccia. “Rispetta la mia volontà, ti prego.”
Per Theoric era il momento di esporsi del tutto. Di convincerla a lasciare quel palazzo, maledetto come lo era tutto il popolo degli Æsir. “Ti amo, Sigyn. Ti ho sempre amata,” confessò. Fece una pausa, sperando di cogliere un barlume di qualcosa, in lei – amore, comprensione, felicità improvvisa. Vide solo dolore e disappunto. “Lo avrei ucciso io, un giorno.”
“Non dirlo,” mormorò Sigyn; chiuse gli occhi, scosse la testa. Sembrava stanca. “Non saresti mai sopravvissuto a un altro scontro con lui. Non ti è bastato il vostro duello? C’è stato un tempo in cui ho alimentato i tuoi sentimenti per me, è vero.” Sospirò. “Mi dispiace, ma non posso, non riesco ad amarti, Theoric.”
Il guerriero sbiancò, scosso dal rancore e dalla consapevolezza. “Deve averti anche dopo che è morto?” esplose. “È così?”
Sigyn gli rivolse un sorriso mesto. “Forse sì. Forse è giusto così.”
“Non posso accettarlo. Non posso permetterti di rinunciare a me, a noi, a te, Sigyn! Vuoi rimanere qui, sepolta dai ricordi, a piangere un uomo abietto e maligno come Loki di Asgard?”
Sigyn spalancò gli occhi e strinse i pugni. “Non osare parlare così di lui nella nostra casa, Theoric,” l’avvertì severa. "Non te lo consento. Ora vai, la tua presenza non è gradita.”
“Mi amavi!”
“Te lo dissi, è vero,” ammise lei. “Quando mi portò via dalla casa di mio padre. Lo credevo anche io, l’ho creduto per molto tempo. Ma ora so che non era reale.”
L’aveva persa davvero, per sempre? Theoric non poteva crederlo. Non riusciva a capire quale terribile incantesimo Loki Laufeyson avesse utilizzato su Sigyn per costringerla a mantenere un lutto che durava da mesi. Le disse quello che si era ripetuto per anni, nell’attesa di poterla salvare, di trovare un modo per liberarsi del dio dell’inganno e riportare lei nella loro terra, a Vanheim. Si sforzò di usare un tono gentile, di convincerla con la dolcezza. “Lo hai fatto per sopravvivere, Sigyn,” spiegò. “Ti sei convinta di dover amare lui e mi hai dimenticato. Così è stato facile, suppongo.”
Sigyn, pallida in volto, trovò quella spiegazione offensiva. “Vattene, Theoric. Adesso.”
L’altro strinse le labbra in una smorfia triste e si avviò verso l’uscita, passando accanto allo spettro attento di Loki con la sua camminata lievemente claudicante. Sulla soglia, si voltò per l’ultima volta verso Sigyn. “Ti avrei resa felice.”
Sigyn gli rivolse un sorriso triste, amaro. “Tu pensi davvero di sapere cosa mi avrebbe resa felice? Loki non aveva questa pretesa. No, Loki di Asgard non pensava di sapere cosa provassi, cosa volessi. Non riteneva di dover controllare i miei desideri.”
Theoric non rispose. Probabilmente, non comprese nemmeno il punto del discorso di Sigyn. Se ne andò senza voltarsi indietro, col cuore gonfio di amarezza, di rimpianto. Se fosse stato un guerriero migliore, più forte, più spavaldo, avrebbe sconfitto Loki. Rivide la sua figura slanciata e agile, il volto affilato, gli occhi lucenti verdi e penetranti, quel ghigno maledetto e beffardo che non era riuscito a levargli dalla faccia nonostante l’avesse ferito di striscio poco sotto lo zigomo. No, Loki non lo aveva temuto mai, nemmeno per un secondo, ed era sceso nell’arena in cui si erano scontrati consapevole che avrebbe trionfato. Cosa che era avvenuta, alla fine, e le diverse ferite superficiali che aveva inflitto al dio dell’inganno non valevano quella, profonda e ben assestata, che lo aveva reso zoppo per tutta la vita.

“Povero Theoric,” gracchiò Muninn. “Ha passato ogni notte a sognare di liberare la principessa dal drago.”
“E invece la principessa ha scelto di rimanere nella sua tana,” gli fece eco Huginn, volando fino a posarsi sulla spalla del dio dell’inganno.
“Come mai zoppica?” s’interessò.
“Ne sai niente?”
Loki non aveva smesso di fissare sua moglie. “Mi sfidò per riaverla, quell’idiota. Volevo strappargli il cuore dal petto con le mie mani,” ricordò con un ghigno di soddisfazione, “ma lei mi chiese di risparmiarlo.”
“Poi curò le tue ferite,” gli ricordò Muninn. “Nel cofanetto Sigyn tiene una ciocca di capelli intrecciati. Sono neri come le nostre piume.”
“Sono tuoi, dio dell’inganno.”
L’Ase non rispose. La sua attenzione era tutta per lei, che era rimasta a fissare la porta con un’espressione triste, che si lasciava andare a un pianto breve e nervoso. Ricordarlo era doloroso quanto riaprire una ferita mai guarita, ma capire di non essere in grado di trovare di nuovo la felicità era quasi peggio. Aveva sperato di riuscire a dimenticarlo: incontrando Theoric, era arrivata all’amara conclusione di non volere nessun altro al suo fianco – di non essere ancora guarita dal suo lutto e di non voler riuscire a farlo. Allora il suo pianto divenne uno sfogo disperato.

“Ora hai guardato,” osservò Huginn, muovendo con uno scatto il collo dal piumaggio talmente scuro da avere dei riflessi blu. “Sei sorpreso?”
“Deluso?” gracchiò Muninn.
Loki si inumidì le labbra sempre ironiche e sottili, scoprendo i denti bianchi e regolari. Era troppo intelligente per non ammettere di aver sbagliato. Parte della sua acutezza derivava proprio dalla capacità di interpretare in maniera pronta e rapida gli eventi, correggendo il tiro nel caso in cui le sue iniziali deduzioni si rivelassero errate. Così si era salvato in mille occasioni e avventure. Ma la sagacia con cui interpretava gli eventi spesso gli si era ritorta contro con una violenza inaudita: come quando aveva capito, prima di Thor, che non sarebbe scampato all’ira del Titano. Non c’erano vie di uscita, ma solo la morte. Ineluttabile, da affrontare a viso aperto, col coraggio proprio degli Æsir di cui era il principe. Ora, ridotto nella miserabile condizione di spirito errante, osservava Sigyn struggersi, preda di un dolore evidente, di una sofferenza quasi tangibile. Forse la morte gli aveva regalato una maggiore comprensione delle emozioni altrui, una capacità di leggere le anime che sopperiva l’impossibilità di afferrare un oggetto o di catturare l’attenzione di qualcuno. Non ne aveva idea – lo avrebbe scoperto, dopo – così come non sapeva ancora dire perché Sigyn lo piangesse. Non era stata un’unione felice, la loro.
Scoprì di averlo detto, si accorse di essersi avvicinato a Sigyn tanto che, se avesse allungato la mano, avrebbe potuto sfiorarle le ciocche dorate che le coprivano il viso. Non osò farlo; temeva di scoprire l’effetto che un tale gesto avrebbe avuto su entrambi.
“E come la definiresti, allora?” l’incalzò Huginn. “Perché la dolce Sigyn soffre così tanto?”
“Il dio corvo dice che sei bravo a raccontare storie, Loki,” rivelò Muninn. “Ma forse quella che conosci è sbagliata.”
“Il dio corvo non vi ha detto che raccontare la propria storia è più difficile che farlo con quella di un altro?” sbottò l’ingannatore. “Non ho voglia di perdere tempo con qualcosa che pare conosciate meglio di me. Anziché tormentarmi, bestiacce maledette, ditemi come raggiungere Valgrind, fatemi scaldare al fuoco di Odino. Sono morto come un Ase, in battaglia. Lo merito. Mi spetta.”
“Lo sappiamo che è difficile, Loki. Come la vista si annebbia quando qualcosa gli si fa troppo vicino, così la memoria si inganna e il cuore mente e non vede, se la storia che raccontiamo appartiene a noi stessi,” confermò Huginn.
“Ma devi farlo.”
“Vagherai nella foresta per sempre, altrimenti.”
“Finché ti consumerai e dimenticherai chi sei, Loki di Asgard.”
“E tu questo non lo vuoi.”
L’ingannatore scosse il capo in segno di diniego. Non dubitava delle parole dei corvi. Erano le sue guide nell’Aldilà; degli alleati preziosi, da ascoltare e sfruttare al massimo. Un dono fatto da Odino in persona affinché si districasse meglio in quella foresta fatta di mille sfumature diverse di bianco, priva di rumori e di vita. Questa consapevolezza, però, non lo spinse a parlare, tutt’altro. Aveva sempre adorato raccontare. Nelle spedizioni con Thor, nei banchetti ad Asgard e negli accampamenti militari era solito catturare l’attenzione di chiunque fosse alla portata della sua voce roca e suadente con le sue storie brillanti, con i suoi racconti fantastici. Ma ora che gli si chiedeva di raccontare una parte della propria vita, sentiva di non avere parole da dire e di non volerle incatenare le une alle altre per formare un discorso.
“Ora seguici,” gracchiò Muninn.
“Tornerai da lei,” proseguì Huginn.
“Dobbiamo mostrarti qualcosa.”
“Immagino che sarà doloroso,” ironizzò freddamente l’Ase lanciando un’ultima occhiata a Sigyn.
“Sei acuto, allora.” “Ma per le cose di nessuna rilevanza.”
Quando lo spettro di Loki Laufeyson lasciò la stanza che, in vita, aveva condiviso con Sigyn, lei sentì un brivido gelido correrle lungo la schiena. Fu questione di un momento, ma il fuoco nel camino tremò fin quasi a spegnersi, la porta cigolò in modo sinistro. La giovane vedova si asciugò le lacrime e si guardò attorno spaesata. Per un momento, uno solo, le era sembrato di sentire accanto a sé l’odore di cuoio, inchiostro e pelle che accompagnava sempre il dio dell’inganno.

Erano ritornati in quella terra di nessuno che era la foresta. Loki aprì gli occhi e la prima cosa che vide furono i corvi di Odino che lo aspettavano, appollaiati su un ramo secco e basso, contorto. Si tirò su a fatica sotto i loro occhi lucidi e neri, attenti.
“Di nuovo qui?” ironizzò tetro. Anelava di entrare nella casa di Odino, di avvicinarsi alle fiamme calde e guizzanti che lo aspettavano. Forse, meditò, quelli erano i cancelli di Valgrind, quelli che lui meritava di oltrepassare.
“Dipende.” gracchiò Huginn, presto seguito dal fratello.
“Guardati attorno.”
“Ma fai attenzione.”
Loki osservò meglio e si accorse che a parte la sparuta radura in cui aveva dormito – sempre se uno spirito come lui poteva dormire – non era più la foresta da cui era emersa Hela e che lui aveva attraversato. Era ciò che restava di un campo di battaglia. Sul momento, gli parve che fosse uno dei molti – moltissimi – che aveva calpestato, ma poi riconobbe qualcosa di noto e riuscì a comprendere dove volessero arrivare i due corvi e perché lo avessero portato fin lì.
Dietro di lui frullavano le ali dei due uccelli.
“Che volete che faccia?” tagliò corto, senza nascondere un ghigno che si sarebbe potuto definire ammirato.
“Parla.”
“Racconta.”

La vendetta, disse Loki, va soddisfatta a dispetto di ogni circostanza. I torti subiti devono essere raddrizzati, chi ce li ha inferti va punito. Questo pretendono gli Æsir, questo stabiliscono le antiche leggi, specie se a subire l’ingiuria è uno dei figli di Padre Tutto.
“Cosa succede se non si adempie alla legge, dio dell’inganno?” gracchiò Huginn. “Tu, che hai sempre tentato di sovvertire ogni regola lo sai, dio dell’inganno,” precisò Muninn.
L’Ase annuì. “Si viene perseguitati senza sosta dallo spirito di coloro che dobbiamo vendicare o dagli antenati, offesi perché il loro nome viene infangato da un comportamento codardo,” spiegò tra i denti. “Ma anche voi lo sapete bene, il dio corvo ve lo avrà detto: la responsabilità della vendetta, il suo peso, anche quando è dolorosa, ricade su chi la compie. Interamente.”
“Dici bene.”
“Ora continua. Ci piacciono le storie che parlano di vendette.”
So che vi piacciono e so il perché, sibilò Loki e, fissando negli occhi le sue due guide nel mondo dell’Aldilà, riprese a raccontare. Nel farlo, si rese conto di provare qualcosa di simile all’amarezza: una sorta di sofferenza, un rimpianto per quello che avrebbe potuto essere e non era stato. Le parole, all’inizio, fluivano con difficoltà, ma andando avanti la sua lingua sciolta gli permise comunque di intrecciare ogni frase con la consumata abilità del diplomatico e del truffatore, del poeta e del bugiardo – lui era tutto questo e molto altro. Forse i corvi avevano ragione e raccontare la propria versione dei fatti, suscettibile, a ogni buon conto, di omissioni, dimenticanze e distorsioni più o meno intenzionali, lo avrebbe liberato da quel rancore nero che lo aveva ghermito da quando era piombato nella camera da letto che aveva condiviso con Sigyn.
La vendetta, ripeté Loki, talvolta è necessaria, ma altre si rivela sgradevole e amara. Ci trascina in un vortice da cui è difficile sfuggire. Un vortice di caos capace di inghiottire. E lui amava il caos, ne era il signore e il padrone. All’iniziò, proseguì, gli era sembrata dolce, la vendetta. Ne aveva pregustato in bocca il sapore, divertendosi a progettarla nei minimi dettagli. Era stato catturato, su quel campo di battaglia che ora gli si dipanava davanti. I suoi avversari non erano più forti o intelligenti di lui, ma avevano avuto una buona dose di fortuna. A volte non serve nient’altro per catturare una preda molto più forte di noi, spiegò con un ghigno. Col senno di poi gli toccò ammettere che aveva fornito ai suoi avversari una succosa occasione per farlo prigioniero. Si era trovato davanti una creatura ancestrale di estrema potenza; per batterla, aveva recitato i suoi incantesimi più potenti ed efficaci, pronunciando rune che sarebbero state capaci di lasciare senza forze persino il dio delle forche in persona. Il prezzo della vittoria era stato cadere a terra esausto, privo di sensi, troppo distante da Thor perché il fratello, impegnato con altri nemici, potesse soccorrerlo. Si era risvegliato dentro una cella umida e buia, trincerandosi dietro un sorriso sornione e un atteggiamento insolente, facendo del silenzio il suo scudo. Intanto, osservava, studiava, pensava. La sua calma innervosiva i carcerieri.
Lì, dopo alcuni giorni, fece la sua conoscenza con Theoric: nella penombra giallastra della prigione gli si parò davanti un guerriero alto quasi quanto lui e ben piantato, dall’animo vergognosamente nobile, di quelli che credono sempre di fare la cosa giusta. Affermò di essere stato lui a catturarlo. Loki Laufeyson gli sorrise con condiscendenza, cercando negli occhi dell’altro la naturale e scontata scintilla d’orgoglio per una caccia conclusasi in maniera tanto vittoriosa.
Theoric domandò, minacciò, promise. Desiderava che Loki gli svelasse come recuperare una reliquia antica, oggetto della contesa che aveva visto il suo esercito opporsi a quello degli Æsir. Conosceva Loki di fama, come tutti, ma non aveva ben chiaro come l’ingannatore usasse il suo potere. Credeva che la cattività avrebbe reso il mago più malleabile e pronto a trattare, che temesse torture e privazioni. Non era forse un principe degli Æsir famoso per amare le comodità e il lusso? Scoprì a sue spese che si sbagliava. Loki lo assecondò solo quel tanto che bastava per prendersi crudelmente gioco di lui e della sua ingenuità, dimostrando di non temere né il dolore fisico né il digiuno. Era pronto a resistere a qualsiasi vessazione; nella sua lunga vita di guerriero aveva affrontato situazioni che giudicava ben più gravi di quello in cui era momentaneamente incastrato. Non aveva paura né di Theoric né di nessun altro. Mentre si divertiva a sbeffeggiare i suoi carcerieri, non perdeva occasione per carpire informazioni, individuare legami, ascoltare ogni battuta che echeggiava nelle basse volte di pietra della prigione. Era incredibile quanti dettagli si potessero raccogliere solo concentrandosi su quello che avveniva attorno a lui. Fu così che scoprì che quel brav’uomo di Theoric aveva una graziosa fidanzata. Riuscì persino a udirne la voce, una volta. Mentre ne immaginava le fattezze, un lento sorriso gli si dipinse sulle labbra.
Nel rievocare il tempo perduto di fronte ai due corvi, Loki gesticolava – movimenti da attore sul palco, atti a sottolineare i concetti, coinvolgere gli spettatori. Della sua fuga c’era poco da raccontare: si liberò da solo, sfruttando le conoscenze che aveva acquisito spiando i suoi ignari e sciocchi carcerieri. Temevano così tanto la sua magia che lo avevano rinchiuso apponendo decine di sigilli alla sua cella; quello che avevano dimenticato o che, semplicemente, non avevano considerato, era che Loki figlio di Odino non aveva bisogno di ricorrere al seiðr per uscire da una prigione, per quanto resistente e protetta fosse. Sapeva aprire dei ceppi con relativa facilità, così come era in grado di scassinare senza troppi intoppi una serratura. Una volta fuori poté dedicarsi alla sua vendetta. E perché questa si realizzasse c’era una sola cosa da fare: osservare Theoric nel proprio ambiente, guardare in faccia il suo signore, così codardo da non aver mai avuto l’ardire di incrociare lo sguardo con l’aristocratico e potentissimo prigioniero che solo per una stupida fatalità gli era riuscito di catturare. Naturalmente desiderava anche dare un volto e un nome alla voce che aveva udito durante la propria cattività. Sapeva di avere poche ore a propria disposizione, prima che qualcuno si accorgesse della sua fuga e intendeva sfruttarle fino in fondo.
Mentre raccontava, Loki aveva fatto sfoggio del suo miglior ghigno, ma arrivato a quel punto della storia non poté fare a meno di deglutire e di aggrottare la fronte. Il paesaggio attorno a lui si fece più indefinito e desolato, i contorni svanirono. Del campo di battaglia in cui era stato catturato non restava nulla. I corvi, appollaiati su un albero vicino, presero a schernirlo con maligna esattezza.
“Hai portato via proprio Sigyn quella notte, vero?” gracchiò Muninn.
“Dicci, Loki, ti perdonerai mai per quello che le hai fatto?” domandò Huginn.
“Lei forse lo ha fatto.”
“Lei è una donna coraggiosa e leale,” mormorò l’ingannatore, la mente concentrata su qualcos’altro. “Questo gliel’ho sempre riconosciuto.”
“Cosa senti nel tuo petto, Loki? Rimorso? Rimpianto?” insistette Huginn.
“Se tornassi indietro, ripeteresti tutto? Le faresti un simile torto, di nuovo?”

Sul volto affilato del dio dell’inganno era scomparsa ogni traccia dell’antica tracotanza. Rimaneva l’ombra di una smorfia irata. Gli venne in mente un episodio capitato molti mesi dopo la sua liberazione, quando lei era già sua moglie. Aveva osato disturbarlo nel suo studio, ben sapendo che avrebbe interrotto la lettura di complicate rune. Le si era rivolto con un tono graffiante e sarcastico, pur sapendo perfettamente che Sigyn non aveva altro modo per incontrarlo se non tendergli quell’agguato.
Lei non aveva battuto ciglio di fronte alla sua condotta sgarbata, no: la ricordò mentre si avvicinava, decisa e, al tempo stesso, incuriosita da quello strano ambiente – aveva i modi aggraziati di una principessa di sangue e uno sguardo liquido e profondo, dolce e fiero allo stesso tempo.
“L’altra sera hai detto che le sconfitte nascondono delle opportunità, a chi sa sfruttarle. Se lo pensi davvero, concedici un’occasione.”
Loki si era alzato dalla sua poltrona e l’aveva fissata in silenzio, in attesa, come se fosse davanti a un avversario indecifrabile e non alla donna che aveva sposato. Riusciva ancora a sentire la fiamma di desiderio che lo aveva bruciato e corroso anche allora; un bisogno fisico di stringerla tra le braccia, di spingerla contro l’immensa libreria che la sua gonna chiara sfiorava appena e baciarla sulle labbra fino a perdere il respiro, per poi spogliarla con urgenza e farla sua lì, in quella stanza. Un privilegio che gli spettava, ma che non aveva mai preteso, né lì né altrove, perché c’era un limite alle bassezze che il dio dell’inganno poteva compiere.
“Perché?” le aveva domando con voce roca.
Sostenendo il suo sguardo, come faceva sempre, Sigyn si era lasciata sfuggire un sospiro. “Posso trascorrere il resto della mia vita come una prigioniera,” spiegò, “odiandoti per quello che hai fatto, lasciandomi corrompere dal desiderio di vendicarmi, nell’infelicità. Cosa mi rimarrebbe? Una vita di sofferenza e rimpianti. Nient’altro. Oppure, posso cercare di scoprire se le Norne, unendo il mio destino al tuo, facendo di me una principessa di Asgard, hanno in serbo qualcos’altro. Possiamo avere dei rapporti civili, cortesi, io e te. Non sei un orribile lupo bramoso di sangue, come pretendeva il mio signore, no. Ti ho osservato. La tua conversazione è brillante e divertente, incanti la gente, ami le arti, sei pieno di interessi.”
“Vorresti diventare mia amica, Sigyn? È così?” aveva scosso la testa con un ghigno basso, maligno. “Il nostro rapporto è di un altro tipo. E faresti bene a continuare a ritenermi un lupo e non considerarmi un cortigiano.”
Sigyn era impallidita. “Un abile politico,” lo corresse. “Che tipo di rapporto abbiamo, noi? Qualunque sia, possiamo migliorarlo. Renderlo più tollerabile, per entrambi.”

Continua

L’angolo di Shilyss
Care Lettrici e cari Lettori del mio cuore,
Ecco la mia seconda fetta di torta alla melassa: il prompt, stavolta, era la parola "soffrire".
Nel testo c'è qualche voluta ripetizione volta a sottolineare i concetti, mentre per quanto concerne le vicissitudini Loki/Sigyn, saprete poi... Per il momento vi basti sapere che Sigynella sta approntando la tecnica ninja del "se non puoi lasciare il tunnel, arredalo." Farà bene? Farà male? Chissà! Ringrazio di cuore chi listerà, recensirà o semplicemente leggerà questa storia: siete importanti e sappiate che leggo tutti i vostri commenti e non vi mangio. Spesso non rispondo pubblicamente, ma se vi palesate lo faccio e sono molto alla mano, ecco. ♥
Ricordo che il personaggio di Sigyn, tolto quello che trovate alla voce “Sigyn” su Wikipedia, è una mia personale interpretazione/reinterpretazione/riscrittura. Non vi autorizzo a ispirarvi o peggio a questa versione o alle altre storie da me postate né qui né altrove (peggio mi sento con le fiabe) e lo stesso vale per gli headcanon su Vanheim, su Loki o su Asgard stessa. Creare un mondo con usi e costumi non è uno scherzo. A presto e grazie per tutto l’affetto/sostegno/cose,
Vostra,
Shilyss

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Capitolo 3
*** Dammi la mano ***


Capitolo 3
Dammi la mano
È strano andarsene senza soffrire
Senza un volto di donna da dover ricordare
Ma è forse diverso il vostro morire
[…]
Cosa c’è di diverso nel vostro morire.
(Un chimico, De André)

Loki aveva rilassato le spalle, pur continuando a torreggiare sull’esile figura di Sigyn. Non poteva fare a meno di ammirarla per il coraggio dimostrato e per l’intelligenza della sua proposta. Ribaltare una situazione sgradevole tentando di volgerla il più possibile a proprio vantaggio era qualcosa che lui professava da tutta la vita. Era lusingato e colpito dal fatto che la moglie non solo lo avesse ascoltato, ma si fosse messa a riflettere con la mente libera da pregiudizi sulle sue parole, traendone addirittura un modello di vita per sé. D’altro canto, però, non doveva dimenticare che l’aveva sposata nel modo più crudele e brutale possibile, strappandola ai suoi affetti, imponendole un’unione che lei non desiderava. Cosa nascondeva dietro quel suo sguardo liquido e le labbra serrate? Avrebbe potuto scoprirlo. Violare i suoi pensieri con un incantesimo terribile, ma sarebbe stato crudele come costringerla a dividere con lui il letto.
“Rendere il nostro rapporto più tollerabile, dici,” soffiò, senza lasciar trapelare nulla dei propri pensieri. “Cosa vorresti che facessi, mia dolce sposa?
A Sigyn non sfuggì l’ironia con cui l’aveva apostrofata, ma doveva essersi preparata a lungo il discorso che intendeva fargli, perché lo ignorò e proseguì verso l’obiettivo. “Vorrei che trascorressimo del tempo insieme. Per conoscerci, e scoprire se qualcosa ci unisce, oltre il matrimonio. Che ambizioni hai, Loki di Asgard? Che progetti? Cosa studi? Potrei rivelarmi utile, in qualche modo, potrei essere una tua alleata, ma me ne devi dare l’occasione, l’opportunità.” Sigyn gli si avvicinò con le sue gonne fruscianti, ignara dell’effetto che la sua presenza, il profumo inebriante della sua pelle, aveva su di lui.
“C’è dell’altro?” sibilò l’Ase con voce roca, sforzandosi di non guardare le sue labbra invitanti e morbide, senza dubbio dolci al tatto. Non aveva la benché minima voglia di assecondare i suoi desideri, anche se erano costruttivi e ragionevoli.
Sigyn esitò, a disagio. Abbassò le palpebre e, quando si decise a rispondere, parlò in fretta. “Le tue relazioni per me sono un problema. Preferirei le vivessi in modo molto più discreto, mio signore. Suscitano pettegolezzi. Mi offendono.” Tornò a guardarlo. “In verità, preferirei non ne avessi affatto.”
Loki di Asgard non nascose la sorpresa. “Le mie amanti soddisfano bisogni che, di regola, dovrei pretendere da te,” puntualizzò lentamente, tra i denti. “È buffo. Mi incolpi per averti rispettata?”
“Lo capisco. E ti assicuro, Loki, che non sarei qui se non mi avessi rispettata fino ad adesso. Potrei dire che sono qui proprio per questo. Se, in qualche modo, tieni a me, potresti limitare o ridurre le tue… frequentazioni.”
Le gonne fruscianti di Sigyn avevano oltrepassato l’angolo della gigantesca scrivania su cui, sparpagliate in un disordine all’apparenza casuale, stavano le carte, i dispacci e i volumi del dio dell’inganno, assieme a una profusione di strumenti, lenti d’ingrandimento e altri oggetti di cui la ragazza forse non conosceva la funzione. Nel vederla avvicinarsi, Loki raddrizzò ancora di più le spalle, accentuando il suo abituale portamento fiero, principesco.
“Tengo a te?” assottigliò gli occhi, divertito. “E cosa ti fa pensare che tengo a te?” aggiunse, avvicinandosi alla giovane moglie.
Sigyn non indietreggiò – non lo faceva mai, ma, dal canto suo, Loki aveva sempre evitato accuratamente di starle troppo vicino. Persino durante banchetti.
“I fatti. Mi hai rapita, è vero,” ammise Sigyn. “Tra gli Æsir e tra i Vanir questo succede spesso, anche se è un costume orribile. Ma avresti potuto trascinarmi qui come tua schiava personale, e non l’hai fatto. Mi hai resa una principessa di Asgard, e quella notte terribile, quella in cui ci siamo sposati, non hai preteso niente da me.” Deglutì. “Né quella né le altre.”
“E credi di contare qualcosa?” Loki rise e la intrappolò, frapponendosi tra la libreria e la porta. Si fece così vicino che avrebbe potuto baciarla, se avesse voluto. Negli occhi di Sigyn ora scintillavano il dubbio, la paura. La tunica che indossava sfiorò il tessuto sottile che fasciava il seno di lei, procurandogli un brivido basso e improvviso. “Tu sei parte di una vendetta, solo questo. Il tuo innamorato mi ha catturato e lasciato marcire in una prigione per mesi interi, ferito. Quando mi sono liberato, non ho trovato di meglio che catturare qualcosa che amava, che desiderava, a cui teneva, lui sì… e strapparglielo, farlo mio,” sibilò. Poteva sentire i battiti del cuore di Sigyn, vedere come si sforzava per impedire alle sue labbra di tremare. “Te l’ho già detto quella notte. Non mi interessa scoparti, mi basta che lui immagini mentre lo faccio.”
Il desiderio che aveva di lei gli corrodeva le vene, gli pulsava nel petto, gli scorreva lungo i fianchi. Aveva annullato ogni distanza, tanto che sarebbe bastato un leggero movimento per sfiorarle la punta del naso, baciarle le labbra fino a perdere il respiro. Sigyn lo fissava con occhi lucidi e accesi, carichi d’ira e di sgomento – o era disprezzo? Se fosse rimasta un minuto di più, l’avrebbe presa lì, sul pavimento del suo studio ingombro di carte. Si allontanò con un movimento repentino.
“Sparisci, vattene,” le ordinò con voce roca. Lei obbedì senza proferire parola.

“Sigyn è una donna intelligente, dio dell’inganno. Voleva essere tua moglie,” gracchiò Huginn, il corvo del pensiero, distogliendolo da un ricordo che sommava in sé l’amarezza e il desiderio. Ma poteva, uno spirito errante come lui, rimpiangere una scelta antica? Nella sua esistenza tortuosa e complicata Loki si vantava di aver preso ogni decisione con ponderazione e acutezza. Guardare al passato immaginando scenari alternativi rappresentava un vezzo, una perdita di tempo, il gioco di qualche anima miserabile che si piangeva addosso. Non era un comportamento che apparteneva a lui, abituato a ragionare in termini più costruttivi: il passato non si poteva né doveva cambiare. La sua utilità stava nel permettere a chi aveva la necessaria lucidità di analizzarlo con attenzione, in modo tale da poter raddrizzare e comprendere il presente e il futuro.
“Se l’avessi baciata, quella volta, chissà come avrebbe reagito,” continuò il corvo con malizia.
“Avresti potuto conquistarla. Ammaliarla,” gli fece eco Muninn.
“Corteggiarla.”
“L’hai spinta verso Theoric, invece.”
“Eppure la desideravi.”
“La volevi, oh, quanto la volevi!”
“Se tu non fossi stato ferito, l’avresti persa. Per sempre.”
“Continua il tuo racconto, Loki figlio di Odino. Stiamo andando troppo avanti.”
“Valgrind ti aspetta.”
“O forse era Hel.”
“Non c’è molto da raccontare,” ribatté Loki con tono aspro. “Specie se chi ascolta pretende di sapere ogni cosa.”
“Cosa si prova a subire l’insolenza e la tracotanza altrui, Loki?”
“Tu l’hai imposta a chiunque per tutta la tua vita: ora te ne lamenti?”
“Ascoltaci, figlio del dio corvo.”
“Il freddo che senti sparirà. Fidati delle nostre parole.”
“Devi farlo.”
“Noi non mentiamo.”

Che scelta aveva? Non poteva vagare con quel gelo addosso, che gli ghiacciava le ossa e s’infilava nelle vene – incredibile come la sua anima s’illudesse ancora di avere un corpo fatto di carne e sangue. Non riusciva nemmeno a liberarsi di quei due corvi dagli occhi piccoli e neri, indagatori. Sospirando riprese a raccontare la propria storia così come la ricordava, con tutti i suoi errori e le dimenticanze. Dunque, Sigyn. Trovarla non era stato facile; era arrivato quasi al punto di abbandonare la parte di vendetta che la riguardava e di indirizzare il suo rancore verso altri, più facili, obiettivi. Non era evaso dalla sua prigionia in una serata qualunque. Aveva atteso con pazienza l’arrivo di una festività, valutando che l’idromele e la voglia di divertirsi avrebbero reso le guardie distratte al punto di non fare caso a un’ombra che sgusciava fuori dal buio per mescolarsi alla folla che si perdeva appresso ai canti, ai balli e ai molti brindisi. Prima si occupò del nobiluccio che aveva ordinato la sua cattura, ma che non aveva avuto il coraggio di incontrarlo. Non gli diede nemmeno il tempo di gridare, ma prima di affondare i propri pugnali recuperati non senza fatica, fece in modo di farsi riconoscere, compiacendosi di illustrare il suo piano nei minimi dettagli. Solo dopo aver fatto ciò si prese la propria vendetta con un movimento rapido e preciso, letale. Poi tenne d’occhio Theoric, l’odioso guerriero che lo aveva trascinato nella cella. Lui non meritava una morte rapida, questo era certo, ma perché il suo progetto potesse dirsi riuscito aveva bisogno di trovare la ragazza. Eppure, per quanto cercasse con attenzione, Loki non riusciva a individuare a chi appartenesse quella voce che ricordava così distintamente.

“Poi, però, li hai visti baciarsi,” gracchiò Muninn, maligno.
“Cos’hai sentito in quel momento, Loki?” lo sbeffeggiò Huginn. “Ti si attorcigliano ancora le viscere, al pensiero, vero?”
“Come allora.”
L’ingannatore si sforzò di trasformare la smorfia serrata in cui erano piegate le sue labbra in un ghigno compiaciuto dei suoi, ma l’impresa gli riuscì a metà. Negare sarebbe stato sciocco. Di più, inutile. Ma avevano ragione, proprio quando era sul punto di modificare il suo piano, aveva visto Theoric appartarsi con una ragazza e li aveva seguiti. Non conosceva ancora il suo nome, ma aveva ammirato il profilo ben disegnato dell’innamorata del suo rivale, il corpo flessuoso colto nell’atto di stringersi all’altro, la chioma ricca e disordinata, color dell’oro, acconciata con distratta semplicità, come se lei avesse implorato l’ancella di far presto.
Theoric era troppo virtuoso per cedere al desiderio, per andare oltre qualche bacio, ma quella sera le sue labbra scesero sul collo di Sigyn con un’avidità che Loki, nascosto nell’ombra, comprese benissimo. Ecco perché, quando i due si separarono, seguì la ragazza senza nome fino alle porte della sua casa, per poi raggiungerla arrampicandosi a una finestra – impresa che gli strappò una serie di imprecazioni, ricordò, perché il nobile e retto Theoric non era stato meno crudele degli Æsir con il suo riottoso prigioniero: solo più ipocrita. Dalle imposte socchiuse per lasciar passare la fresca aria della notte filtrava una lama sottile di luce. L’ingannatore ne approfittò per spiarla, ma l’immagine che gli si parò davanti lo ricompensò della fatica.
La ragazza discorreva con la propria ancella. Aveva raccolto verso l’alto la massa ricca e caotica dei suoi capelli ed era immersa in una vasca da bagno. L’aria di Vanheim era umida, la notte: non era strano che una nobildonna come lei, dopo aver danzato per buona parte della sera, desiderasse rinfrescarsi immergendosi nell’acqua profumata. L’Ase ammirò la linea elegante del collo e delle spalle, le braccia nude e bianche. La vide sorridere e fissare l’ancella e amica, cui stava confidando con occhi brillanti le proprie impressioni riguardo la serata. Fu quest’ultima a chiamarla per nome: Sigyn, disse, allora vi sposerete con Theoric la prossima estate, vero? È così?
Sigyn.
Il suo nome aveva una musicalità particolare e s’intonava alla perfezione con lei, con le sue labbra ben disegnate, con il naso delicato, con le guance rosse per l’imbarazzo e la felicità. Sigyn e Theoric. No, non lo avrebbe mai permesso.
Si rivelò dopo che l’ancella se ne fu andata. Sigyn rimase qualche altro minuto nella vasca, con un sorriso trasognato sul viso. Forse immaginava il proprio futuro. Poi uscì e si avvolse in un telo. Per ammirare la scena nella sua interezza, Loki avrebbe dovuto solo sospingere leggermente l’imposta, ma sebbene avesse posato le proprie dita sul legno rimase immobile, a ragionare sulle implicazioni del proprio piano, a concederle l’ultimo istante di libertà della sua vita.
Sigyn si avvicinò a uno scrigno e ripose la collana che aveva indossato quella sera al suo interno. Un gesto normale e quotidiano di una serata come tante. Poi si voltò e impallidì.
“Se griderai,” l’avvertì Loki, “sarò costretto a mettere da parte ogni cortesia e verrà versato molto sangue.”
Lei era ancora fasciata nel telo aderente; sulle braccia e sulle spalle rilucevano gocce d’acqua. Abbassò lo sguardo verso la mano di Loki, che stringeva un pugnale affilato e lucidissimo. Sul suo viso si leggevano il terrore e la vergogna.
“Dolce signora,” sibilò l’ingannatore, “domani questo posto sarà messo a ferro e fuoco. Vieni con me e ti assicuro che nessuno, tra coloro che abitano in questa casa, rimarrà ferito o ucciso.”
Sigyn deglutì e sollevò il mento. “Chi sei tu, e come osi minacciarmi?”
L’Ase sorrise e il nodo che gli attorcigliava le viscere si sciolse. Allungò una mano verso di lei, invitandola a seguirlo. “Loki di Asgard,” scandì, compiacendosi dell’espressione di puro terrore che passò sul viso della ragazza.

Nei suoi sogni, Loki avrebbe rivissuto quella notte centinaia di volte; entrava nella stanza da letto di Sigyn, la sorprendeva come allora, appena uscita dalla vasca. Ma dopo aver rivelato il proprio nome, lei non iniziava a tremare di paura. Lasciava che il telo che le ricopriva la pelle ancora umida scivolasse a terra e, dopo essersi fatta ammirare, lo accoglieva con una dolcezza che solo alla fine si trasformava nell’impazienza di un’amante appassionata. Loki si chiese se i corvi conoscessero quel sogno ricorrente, frustrante oltre ogni immaginazione, che lo aveva perseguitato fino alla fine dei suoi giorni.
“Sigyn è sempre stata una ragazza intelligente,” gracchiò Muninn. “Sapeva che era più saggio assecondarti che contrastarti.”
“Ti seguì, quella notte,” gli fece eco Huginn, “e il giorno dopo fu versato molto, molto sangue.”
“Non quello della sua famiglia,” lo corresse Loki, rapido. “Li risparmiai, tutti.”
Sigyn, proseguì Loki, apparteneva a una famiglia nobile e valorosa. Suo padre era un guerriero anziano, ma ancora valente e pieno di coraggio. Accettò la sconfitta del suo signore con grande dignità e quando venne il momento di deporre le proprie armi ai piedi di Odino, chiese che gli fosse restituita sua figlia. Lo fece con parole così commoventi che il dio delle forche fece chiamare Loki, domandandogli se un corrispettivo in oro avrebbe potuto spingerlo a restituire la ragazza. Anche l’ingannatore era rimasto colpito dal padre di Sigyn, ma desiderava prendersi la sua vendetta. Non l’aveva toccata, quella notte, limitandosi a offrirle il proprio mantello. Un gesto di cortesia che lei aveva accolto con freddezza, com’era naturale. Si aspettava il peggio, da lui, e Loki non gliene poteva fare un torto. Di fronte al suo rifiuto così netto, a Odino venne in mente un modo per legare a sé quell’avversario che si era dimostrato tanto capace e leale. Gli avrebbe offerto la possibilità di giurargli fedeltà; come ricompensa, sua figlia non sarebbe stata una semplice schiava, ma una principessa di Asgard.

“Che onore! Un vero privilegio!” gracchiò Huginn.
“Dicci, Loki, c’è differenza, tra essere principessa o schiava?”
Muninn spiccò il volo e venne a posarsi sulla sua spalla. “È questo ciò che dicesti al dio corvo quando ti propose la mano della ragazza.”
“Ora raccontaci, è stato diverso?”
“Odino non desiderava inimicarsi un uomo che stimava e che avrebbe potuto essergli utile,” soffiò Loki. “Ho imparato da lui a vedere dei vantaggi dove gli altri non scorgevano che fastidi e problemi.”
Il padre di Sigyn rimase sbalordito dalla proposta: si rendeva perfettamente conto che l’accomodamento suggerito da Odino, viste le terribili circostanze, era quanto di meglio potesse sperare per la figlia e per il resto del proprio clan, della sua gente. Ma nonostante questo non volle stipulare un contratto alle spalle della ragazza, non prima di averla vista ed essersi accertato delle sue condizioni, ricordò Loki con una voce amara, quasi beffarda. I corvi lo ascoltavano con i loro occhi neri e acuti, invitandolo a proseguire. Nel raccontare, poteva distrarsi da quel freddo annichilente che gli era penetrato nelle ossa, allontanarsi dalla radura spoglia e gelata dove i due messaggeri di Odino lo costringevano a rimanere. Con un sospiro, proseguì la propria storia.
Quando Loki incontrò Sigyn, lei aveva già ricevuto la visita dell’amato genitore. Sedeva in un angolo, dritta, con ancora il mantello che le aveva dato la notte in cui se l’era portata via posato sulle spalle. Sul suo viso scolorito, segnato dalla stanchezza, si leggeva un’espressione indecifrabile – un misto di curiosità e disprezzo. Lo fissava senza perderlo d’occhio nemmeno per un istante, seguendo i suoi movimenti con la stessa attenzione che avrebbe riservato a un lupo o a qualche altra bestia feroce.
“Loki di Asgard,” lo salutò. “Mi è stato detto che non siete soddisfatto delle ultime decisioni di Padre Tutto.”
Si sforzava di mostrarsi calma e padrona della situazione, ma era furibonda e spaventata. Loki, dal canto suo, sapeva essere accattivante e cortese, ma non avrebbe avuto senso cercare d’incantarla, a quel punto. S’inumidì le labbra e le sorrise, ma gli uscì fuori solo un ghigno tirato, freddo. “Qualcosa in comune l’abbiamo, vedi?”
“Ma non possiamo opporci, dico bene?”
“Sì. Ho commesso troppi passi falsi, in passato, per ribellarmi senza dovermi aspettare delle severe conseguenze.”
Prima di andarsene, quand’era già sulla porta, s’inumidì le labbra e parlò ancora, voltandosi verso di lei. “Odino chiama questa sua soluzione un accomodamento tra le parti. Non è così. Sposandoti non raddrizzo alcun torto, non ti faccio alcun favore, non riparo nulla. Semmai, distruggo, peggioro la tua situazione – chi, maledizione, chi vorrebbe vivere accanto a colui che le ha rovinato l’esistenza?” sorrise. Sigyn ora lo guardava sorpresa. “Certo, lo so, se ci guardiamo intorno molte unioni sono nate in questa stessa identica maniera. Noi stessi discendiamo da legami analoghi, stipulati tra vincitori e vinti. Ma questa giustificazione non cambia la realtà delle cose – sì, Sigyn, la realtà, proprio così: non c’è nessuno, ad Asgard, che sappia individuare bene quanto me la verità, che sappia privarla di ogni suo orpello o illusione. L’inganno migliore è quello che ha in sé una scintilla vera, genuina; un appiglio necessario per far credere all’idiota di turno quello che vogliamo. E, parlando di verità, so bene e capisco quanto sgradevole sia tutto questo. Sei qui contro la tua volontà, per un mio preciso intervento. L’ottenere il titolo di principessa ti farà partecipare ai banchetti, indossare gioielli e abiti preziosi, ma forse saresti stata più libera come schiava.”
Il suo discorso doveva aver colpito Sigyn, perché lei si alzò in piedi e quasi lo raggiunse. “Sei stato fatto prigioniero e torturato dall’uomo che amo. Ti sei liberato, lo hai sconfitto sul campo di battaglia. Ora sei libero e pieno di onori, di gloria. Se la pensi così, lasciami andare. Hai dimostrato di essergli superiore in forza e in astuzia. Dimostrati un principe clemente, ancora più grande, e lasciami andare. Nemmeno tu mi vuoi, e questa vendetta, Loki di Asgard, ti sta sfuggendo di mano. Un gesto di pace vale più di mille uccisioni in battaglia. Il tuo perdono, la tua indifferenza, gli farebbero male come un insulto, come una ferita.”
“Sei intelligente,” riconobbe Loki, “ma ingenua: manipolarmi non è così facile. Vedi, Sigyn, la mia vendetta verso Theoric e il suo signore deve essere totale, assoluta, schiacciante. E la soddisfazione, purtroppo, non è nella mia natura. Voglio ogni cosa.”
“Anche quello che non puoi avere? Anche quello che ti ripugna avere?”
“Parli già come una principessa di Asgard. Curioso.”

Le nozze, fastose e irrorate di idromele, si tennero di lì a pochi giorni. Sigyn era tesa, ma incantevole, ammise il dio dell’inganno. Continuava a fissarlo circospetta, le belle labbra serrate in quello che era tutto meno un sorriso. Bevve alla sua stessa coppa, come prevedeva il rito degli Æsir e lui le offrì in dono una delle antiche spade di Bor. Solo allora qualcosa nello sguardo di Sigyn cambiò. Un guizzo d’ironia le illuminò gli occhi grigi, grandi e rotondi, altrimenti carichi di dolcezza.
Dopo la cerimonia e i festeggiamenti, si ritrovarono soli. Sigyn osservava il magnifico anello che le adornava l’anulare: la montatura ricordava un ramo, decorato con diamanti bianchi e rosa e con smeraldi d’incomparabile purezza e bellezza. Oreficeria dei Nani fabbricanti di gioielli. Il silenzio era opprimente, la situazione strana. Forse, ammise Loki, quella notte avrebbe potuto fare qualcosa per cercare di mettere a proprio agio la sua giovane e riluttante sposa. Invece disse qualcosa di sgarbato, perché era nella sua natura distruggere le cose che desiderava.
“Hai sperato che Theoric venisse a salvarti, non è vero?” s’interessò mentre slacciava l’armatura tirata a lucido per l’occasione.
“Sì. Ma lo amo e preferisco saperlo sano e salvo, lontano da qui. Lontano da te.” Sigyn lo sfidava con lo sguardo e a voce, ma in realtà era terrorizzata.
Loki incassò il colpo con l’eleganza che gli era propria. Ghignò, come se lo divertisse l’idea di aver sposato una donna perdutamente innamorata di un altro, come se potesse ignorare le fitte di desiderio che lo attanagliavano quando le era così vicino da poter sentire il profumo della sua pelle. Dal momento in cui era diventata sua prigioniera non l’aveva mai toccata, neppure con un dito. Durante la cerimonia, dopo aver bevuto dalla stessa coppa, le loro labbra si erano unite in un bacio breve, che non aveva lasciato nessuno dei due indifferenti. Avevano sussultato, ma per ragioni diverse. Per questo, e per non odiarsi e farsi detestare ancora di più, non le impose la propria presenza, quella notte. Andò via, preferendo dormire nel proprio studio ingombro di carte, che dividere con lei un letto che sarebbe rimasto freddo come la gelida Jotunheim. L’equilibrio raggiunto rimase inalterato per mesi, come il loro rapporto.

“Dicci, Loki, che parola sceglieresti per definire il tuo matrimonio con Sigyn?” gracchiò Huginn.
“Non restare in silenzio, figlio di Odino,” lo incalzò suo fratello.
“Vederla rifiutare il suo antico innamorato ha cambiato qualcosa, per te?”
“Vedere che soffre ancora per te.
“Scoprire che ti amava.”
“Ditemi voi come lo definireste,” sbottò il dio dell’inganno, esasperato. “Ditemelo voi, che ascoltate, vedete e ricordate tutto.”
Huginn piegò il capo di lato. “Ci sfidi, Loki?”
“Ci piace la tua arroganza, dio dell’inganno. Ci è sempre piaciuta,” confessò Muninn. “Noi diremmo che mancavate di tempismo.”
“Quando tu eri cortese e gentile, lei era scostante e fredda,” gracchiò Huginn.
“Quando lei ti tendeva la mano e cercava di capirti, tu eri crudele e distante,” ricordò Muninn. “Non è forse così che è andata?”
Loki rifletté sulle parole dei due corvi e poi annuì gravemente, senza abbandonare il suo atteggiamento fiero e sprezzante. Per vendicarsi si era infilato in una trappola, in una rete da cui non era mai riuscito a liberarsi? I messaggeri di Odino, fino a quel momento così loquaci e beffardi, aspettavano in silenzio, finalmente, continuando a fissarlo con i loro occhi piccoli neri, invitandolo a raccontare di quel matrimonio in cui niente, nessuna cosa era andata per il verso giusto.

C’erano stati dei tentativi di avvicinarsi, reciproci in effetti. Intrapresi sia per non dare adito a spiacevoli pettegolezzi, sia perché entrambi erano abbastanza intelligenti da ritenere che odiarsi apertamente, nel tempo, non avrebbe reso le loro esistenze più felici, anzi. Loki era un uomo abituato a sporcarsi le mani e a compiere azioni riprovevoli in virtù del fatto che il fine era giustificato dai mezzi. Non si era mai fatto scrupoli a tradire e a uccidere, così come non aveva badato troppo alle conseguenze che sarebbero derivate dalla vendetta che intendeva perpetuare a seguito della sua cattura, ma non era un bruto. Conosceva la differenza tra il bene e il male e, sebbene all’occorrenza fosse capacissimo di metterla da parte, era in grado di immedesimarsi nel prossimo. Strappando Sigyn alla sua vita – al suo amore – le aveva arrecato un torto gravissimo. Poco importava che lui giudicasse Theoric un uomo mediocre, un guerriero ottuso il cui unico merito era stato avere in qualche occasione una sfacciata fortuna. Non gli piaceva l’idea di avere una nemica piena di rancore proprio nella sua casa, che dormiva nel suo letto – nel loro, anzi: quello che lui disertava. L’alternativa, dunque, era riesumare la proposta di Sigyn inizialmente accantonata con fastidio – lei aveva parlato di amicizia, ma a lui non serviva niente del genere, né gli sarebbe mai bastata: aveva visto nell’invito della moglie un interesse calcolato, perché lei, pur ascoltandolo, pur osservandolo, lo temeva e lo disprezzava. Eppure, non c’erano altre vie d’uscita. Dovevano trovare un punto d’incontro. Per farlo, era indispensabile che Loki scalfisse le difese di Sigyn: l’unico modo per riuscirci era provando a renderle la vita un po’ più gradevole, mostrandole che, tutto sommato, potevano trovare interessi in comune e assecondando, per quanto possibile, le inclinazioni di lei.
Nonostante i suoi sforzi, Sigyn per diverse settimane lo aveva comunque tenuto a distanza e guardato con diffidenza, ma col passare del tempo il suo atteggiamento si era fatto più rilassato. Qualche volta Loki l’aveva sorpresa a osservarlo con un misto di interesse e curiosità, come se stesse valutando che tipo d’uomo fosse. In altre circostanze si erano trovati a essere d’accordo su alcune questioni fondamentali di letteratura, storia o scienze varie, finendo per discorrere persino in modo piacevole. In quelle occasioni sul viso di Sigyn era comparso un sorriso genuino, sincero. Abituato com’era a cogliere ogni opportunità, si era deciso a farle una corte stringente: Sigyn amava cavalcare? L’avrebbe accompagnata, allora, mostrandole alcuni dei luoghi più suggestivi del fiordo su cui sorgeva la magnifica Asgard. Lei si era indubbiamente divertita – Loki la ricordò con i capelli quasi sciolti, che spingeva il proprio cavallo al galoppo sfidandolo in una corsa. Al termine della gara, sul suo viso aveva colto un rossore nuovo, nel suo sguardo una scintilla diversa, sulle sue labbra una confusione che lo avevano convinto di non esserle del tutto indifferente. Aveva provato a baciarla. Lei si era ritratta, d’accordo, ma lo aveva fatto quasi di malavoglia. Per tutta la durata del loro viaggio di ritorno era rimasta in silenzio, concentrata sui propri pensieri. Loki, osservandola con la coda dell’occhio, si era chiesto quanta parte di dubbio ci fosse nel suo cuore, quanto tempo gli servisse, ancora, per scardinare le certezze della sua incantevole moglie.
Nei mesi seguenti, Loki non mancò di osservare con attenzione Sigyn, districandosi abilmente, come era sua abitudine, tra i propri interessi e i numerosi obblighi imposti dal rango e dalle sue capacità in ambito diplomatico. Notò che la moglie cominciava a muoversi con più familiarità nei loro appartamenti. Visitava spessissimo la biblioteca, proponeva piccole, ma costanti modifiche all’arredamento, iniziava a eleggere degli spazi propri, prediletti su tutti, dove leggere, ricamare o chiacchierare con qualche dama di compagnia. A volte, Loki veniva interrotto nella redazione di qualche importante missiva dal suono ovattato della sua risata o da qualche canzone che lei cantava. Mentre la ascoltava, si ritrovava a stirare le labbra sottili in un sorriso breve e appena accennato, vittorioso. Sigyn si stava abituando alla sua nuova vita? Era stata cresciuta per essere una nobildonna e come tale si comportava: fin dal giorno delle loro nozze aveva assunto un atteggiamento impeccabile – freddo, ma corretto nella forma, così come il suo aspetto sempre curato, appropriato, visto dall’esterno non tradiva alcuna sofferenza. Ma, forse, nell’ultimo periodo Loki aveva scorto una traccia di vanità in più nel modo in cui sceglieva colori, acconciature, abiti e gioielli e quando, sempre più spesso, si proponeva di accompagnarla per qualche passeggiata a cavallo, lei arrossiva appena e, dopo una brevissima esitazione, accettava. Fu uno di quei pomeriggi che l’audacia di Loki venne premiata; l’aria era pungente e fredda nonostante il cielo sereno e le foglie avevano iniziato a prendere delle sfumature rossastre e dorate. I cavalli stavano riposandosi dopo una lunga cavalcata e loro avevano deciso di seguirne l’esempio, sedendosi sul mantello che l’Ase aveva steso sull’erba umida. Entrambi facevano finta che quella vicinanza non li toccasse, ma non era così. Lui la desiderava con la forza con cui bramava tutto ciò che non poteva avere, mentre Sigyn temeva Loki e forse temeva ancora di più sé stessa. Parlarono a lungo, consapevoli di quanto la situazione fosse pericolosa, di come i loro occhi non riuscissero a celare qualunque cosa senza nome ci fosse tra loro e quando si ritrovarono in silenzio, muti, avvolti nella luce rosseggiante del tramonto, lui le prese il viso tra le mani e le sfiorò una guancia e poi le labbra senza incontrare alcuna resistenza. Fu un bacio lento, lungo intenso, che Sigyn sembrava non voler interrompere; la sentì sciogliersi tra le sue braccia, rispondere al suo assalto con un ardore identico, acconsentire a sdraiarsi sul mantello, prima accanto a lui, poi sotto di lui. Anche quando iniziò ad accarezzarla non lo fermò, limitandosi a sospirare, ma quando Loki decise di saggiare la rotondità dei suoi fianchi, lei si irrigidì e lo fermò.
“Non posso. Non così.” Rossa in viso, di nuovo in piedi, si sistemava con dita tremanti il corsetto. Era bellissima.
Loki inghiottì rancore e desiderio. “Ma sei attratta da me, pare,” sibilò.
Sigyn, per la prima volta da quando lo aveva incontrato, fuggì il suo sguardo. “Sei un uomo affascinante,” ammise. “Intelligente. E stai cercando da mesi di sedurmi.”
“E dimmi, ci sto riuscendo?”
Gli occhi di lei erano ancora fissi a terra. “Ti chiedo dell’altro tempo. Sono consapevole della mia, della nostra situazione.”
Forse lo desiderava, ma non riusciva ad ammetterlo, a dimenticare come era diventata sua moglie e l’uomo che aveva amato quand’era libera. Da quel pomeriggio in poi, i loro incontri si fecero più frequenti e intensi e frustranti. Lei cercava la sua compagnia, accettava di essere baciata e rispondeva alle sue attenzioni, si lasciava stringere e accarezzare, ma sussultava spaventata ogni volta che Loki cercava di spingersi oltre, fuggendo via sempre più rapida a ogni centimetro di pelle che lui scopriva e baciava e lambiva con la sua lingua insolente e bugiarda. Lo lasciava solo e insoddisfatto, a maledirsi per aver avuto la pessima idea di catturarla prima, sposarla poi, anche se questa non era stata una sua decisione.
Avrebbe dovuto desiderarla di meno. Anzi, essere del tutto immune a quella donna. Ma così non era e, pur detestandosi, non riusciva a soffocare quella voglia ardente che gli infiammava le vene e il sangue, che infestava i suoi sogni e chiedeva di essere soddisfatta. Ma le altre donne con cui si crogiolava non erano lei e, mentre le amava, era a Sigyn che pensava – l’irraggiungibile e altera Sigyn, addormentata nel loro letto. Altre volte, invece, gli era sembrato che lei fosse gelosa di lui e che la offendesse la quasi totale assenza di contatto, tra loro. Ma per un passo in avanti che facevano, sembravano destinati a compierne tre indietro. Quando l’ingannatore aveva iniziato a sospettare che ci fosse una breccia nel cuore di Sigyn, Theoric era tornato non come un fantasma del passato, ma in carne e ossa. Era riuscito a farle arrivare delle lettere, cui lei aveva risposto. Solo alle prime, era vero, e in nessuna aveva dato modo all’innamorato di sperare in un loro incontro o in una futura relazione, ma questa considerazione non cancellò il rancore sordo che lo investì. Questa scoperta avrebbe ancora potuto evitare di rovinare ogni cosa, tra loro. A mente lucida, Loki sarebbe riuscito a valutare correttamente la situazione, a riconoscere che Sigyn aveva ammesso immediatamente che c’era stata una corrispondenza. Sì, sarebbe riuscito a riflettere sul fatto che la colpa di sua moglie non era comunque grande quanto la sua, che l’aveva portata via con la forza. Ma Theoric si era fatto avanti, uscendo dalla lurida tana in cui si era nascosto per più di un anno per sfidarlo ufficialmente in un duello e riavere lei. L’occasione era una festa rituale; secondo le regole degli Æsir, vendette e contese potevano essere risolte in uno scontro faccia a faccia e lavate via col sangue. Sconfiggendo il proprio avversario, il vincitore avrebbe dimostrato in maniera inappellabile di avere ragione. Loki, naturalmente, aveva accettato lo scontro: non temeva Theoric e desiderava ucciderlo, ma prima dell’incontro Sigyn si era recata da lui, piangendo e supplicandolo di risparmiare la vita dell’antico innamorato. Per un breve istante, nel petto del dio dell’inganno aveva prevalso un certo senso d’orgoglio. Sigyn riconosceva la sua evidente superiorità: sapeva che era più forte e intelligente dell’altro. Ma questa soddisfazione assunse subito un gusto amaro, perché la sua fiera e bella moglie, che di fronte a lui aveva sempre sfoggiato una forza d’animo spettacolare, ora era crollata in lacrime, pregandolo di risparmiare Theoric.
Esaudì il suo desiderio. Sconfisse il rivale, ma lo lasciò in vita. Si limitò a ferirlo in maniera tale da renderlo per sempre zoppo. Quando, dopo il combattimento, Sigyn gli si accostò per medicare la leggera ferita che Loki aveva rimediato a un braccio, lui la scacciò via nel più freddo dei modi. La desiderava ancora, forse ancora più di prima, dopo le brevi schermaglie che c’erano state tra loro, ma la voglia di lei si era mescolata a un rancore sordo e profondo che, con fasi alterne, sarebbe proseguito finché il dio dell’inganno non fosse morto per mano di Thanos e anche oltre – lo poteva sentire persino in quel momento, mentre, ridotto a uno spirito errante accompagnato da Huginn e Muninn, cercava una via per entrare nel Valhalla.

“Hai sempre avuto un certo successo, con le donne,” chiosò Muninn, fissandolo con i suoi occhi color dell’inchiostro.
“Ti trovano affascinante,” spiegò Huginn. “Chissà perché, poi. Anche Sigyn ti trovava affascinante. E bello. Apprezzava la tua intelligenza.”
“E i tuoi tentativi di comprenderla, di farla sentire a proprio agio.”
“All’inizio ti detestava, certo. Era terrorizzata.”
“Poi, però, pensare a te la turbava, la confondeva.”
“Si chiedeva, alle volte, se Theoric al tuo posto si sarebbe comportato con la stessa pazienza e attenzione.”
Il dio dell’inganno serrò la mascella e intrecciò le mani dietro la schiena, in quella che da vivo era stata una posa abituale, ma accuratamente studiata. E, identica al passato, era la sprezzante alterigia con cui fissava i suoi due beffardi e crudeli interlocutori. “Della sua riconoscenza non me ne è mai importato nulla,” sibilò a denti stretti. Quei tentativi di ingraziarsi la bella e giovane moglie, visti in prospettiva gli sembravano patetici, nient’altro.
Huginn piegò la testa di lato. “E del suo amore, Loki?”
“Raccontaci di quella volta che si fece male alla mano,” gracchiò Muninn. “Se lo farai, ti aspetta un dono da parte nostra.”

Loki sapeva perfettamente di che cosa stavano parlando i corvi, ma era un altro di quei ricordi che non desiderava condividere. Avrebbe preferito che rimanesse lì, in un angolo della propria testa, a sbiadire, perdendosi insieme a tutte le giornate che si confondono le une con le altre. Perché quel preciso ricordo ne portava con sé altri che Loki non voleva affatto rievocare: porte impietosamente sbarrate contro cui lui aveva parlato invano, notti troppo brevi di cui gli rimanevano solo brandelli dolciastri. Come l’immagine della schiena nuda di lei, dalle linee flessuose e perfette, con quella massa dorata sparpagliata sui cuscini. Come il rimpianto per il tempo perduto, sprecato, passato a corteggiarla di giorno e allontanarla di notte. La volta che Sigyn era entrata nel suo studio offrendogli la propria amicizia – preludio di una conoscenza inevitabile affinché lei potesse, forse, un giorno, provare qualcos’altro, in cambio della sua fedeltà, l’aveva davvero spinta, come suggerivano i due corvi, verso Theoric? Possibile, probabile. Dovettero passare settimane prima che tra loro vi fosse una conversazione normale, questo lo ricordava bene, così come rammentava di aver ragionato che la flebile speranza che, un giorno, lei magari avrebbe potuto amarlo gli era odiosa, detestabile. Di più, costituiva un insulto. Voleva ogni cosa – il suo cuore, la sua anima, interamente.
Era sempre stato un cacciatore paziente, uno stratega che conosceva le molte virtù dell’attesa, al contrario del suo irruento fratello. Ma questa qualità, che in altri contesti lo aveva aiutato, con Sigyn si era rivelata un’arma a doppio taglio.
Il suo desiderio di raggiungere i cancelli del Valhalla, però, era troppo grande e radicato nel suo spirito, per poter declinare la richiesta di Huginn e Muninn. La prospettiva di un dono da parte delle due creature, poi, accentuava la sua curiosità, sebbene il suo istinto lupesco gli suggeriva che, con tutta probabilità, si trattava di una trappola. Ma aveva scelta? Non si muoveva ancora bene in quel regno sospeso che non apparteneva né ai vivi né a Hela e il freddo che gli ghiacciava le ossa era insostenibile. Non c’era granché da dire, esordì il dio dell’inganno. L’aveva già raccontato. Quando Sigyn aveva cominciato ad abituarsi all’idea di essere sua moglie, lui si era messo d’impegno per renderle Asgard attraente. Un giorno, qualcuno, forse un’ancella oppure Thor o Frigga, aveva raccontato a Sigyn che lui amava andare a caccia col proprio falcone. Era un’arte nobile e sofisticata, molto antica e complessa, che necessitava di pazienza. Lei ne era rimasta profondamente colpita, perché quando viveva nella casa di suo padre una volta le era capitato di far pratica, sì, ma con le poiane. Tuttavia, provava ancora un certo disagio nel rapportarsi con lui – era prima che iniziassero le loro passeggiate a cavallo, quando il tempo che trascorrevano insieme si limitava ai banchetti e a poco altro; eventi in cui si scambiavano occhiate di fuoco e frasi sferzanti. Spinta dalla curiosità e dall’interesse, Sigyn alla fine aveva espresso il desiderio di visitare la torre dove Loki teneva i suoi falconi. Il dio dell’inganno l’assecondò senza nascondere una certa sorpresa, perché le donne di Vanheim, al contrario di quelle di Asgard, non si dilettavano spesso in simili passatempi. E poi, le poiane erano molto più piccole dei falchi, e i rapaci che Loki sceglieva per cacciare erano particolarmente grandi. A ogni modo, Sigyn li trovò maestosi e bellissimi, e questo nonostante il piccolo incidente che la vide protagonista. Aveva preso ogni precauzione possibile per avvicinarsi ai maestosi rapaci di suo marito, naturalmente. Sobbalzò quando, con cautela, Loki tirò fuori dalla voliera uno dei suoi falconi e lo posò sull’esile e sottile braccio di lei, coperto da un guanto imbottito che avrebbe impedito agli artigli dell’animale di ferirla. Il rapace mosse il collo con uno scatto e Sigyn poté ammirare il rostro adunco, il piumaggio chiaro, striato di marrone, il portamento fiero ed elegante del predatore. Il falco si lasciava ammirare con una certa calma, perché aveva gli occhi e la testa coperti dal cappuccio, ma quando questo cadde e l’uccello tornò a vedere iniziò ad agitarsi e a sbattere le ali, spaventando Sigyn. L’intervento del dio dell’inganno fu repentino, ma meno elegante del solito: doveva tranquillizzare il rapace e la ragazza e non sapeva da dove iniziare. Afferrò il falco da dietro, chiudendogli le ali come avrebbe fatto con un meno principesco pollo, esplodendo, lo confessava, in una serie di maledizioni e improperi verso l’inserviente idiota che non si era premunito di controllare il cappuccio, verso sé stesso, che non sottovalutava mai abbastanza l’altrui intelligenza, verso il falcone, che continuava a stridere indispettito uncinando in aria gli artigli e, infine, nei confronti di Sigyn, che invece di interessarsi ai cerbiatti, ai gatti o a qualsiasi altra bestia innocua s’incaponiva con gli uccelli rapaci. Era una scena buffa sotto ogni punto di vista, resa ancora più ridicola dal fatto che Loki non aveva perso il proprio atteggiamento altero nemmeno mentre si rivolgeva al suo offesissimo falco. Sigyn forse non avrebbe dovuto ridere, ma lo fece, non riuscì a trattenersi. Solo quando l’animale si fu calmato e dopo che il cappuccio tornò a oscurargli la vista, il dio dell’inganno, scarmigliato, riuscì a riportarlo nella voliera e a dedicarsi, finalmente, a lei.
“Adesso tocca a te. Fammi vedere il braccio e la mano, avanti,” sospirò, incurante delle ciocche scure che gli ricadevano disordinate sul viso, di una piuma che si era incastrata poco elegantemente in uno degli spallacci.
Negli occhi di Sigyn brillava una luce divertita. Si tolse il guanto e gli porse le dita, mordendosi le labbra per non ridere di nuovo: il polso era arrossato. L’Ase lo sfiorò mormorando un paio di rune di guarigione – era sottile e delicato come quello di una fata e la protezione non era bastata a salvaguardarla.
Con l’altra mano, lei gli tolse la piuma e lo osservò inclinando la testa di lato, come se lo stesse vedendo per la prima volta. “Non ti avevo mai considerato in queste vesti,” ammise.
“Quali vesti?”
“Sei divertente.”

Continua…

L’angolo di Shilyss
Care Lettrici e cari Lettori del mio cuore,
Ecco la mia terza fetta di torta alla melassa: il prompt, stavolta, era la parola "mano". Qui l’ho sviluppata in tre diversi momenti, quando Loki rapisce Sigyn e le offre la mano, quando si discute di dare la sua mano (nell’accezione di sposarla) e nella scena col falco.
Parto dalla fine: la scena con il falco è una precisa richiesta della cara e insostituibile Emi, a cui la dedica. Il personaggio storico di riferimento per la caccia col falcone, nobile arte citata da Dante nella Commedia, è l’imperatore Federico II Hohenstaufen, detto “stupor mundi” e autore del prezioso “De arti venandi cum avibus” primo e tutt’ora insuperato trattato di falconeria scritto, naturalmente, nel XIII secolo. E basta.
Questo capitolo è lunghissimo (e me ne scuso) e mi ha richiesto una revisione intensa, che non facevo più da molto tempo, almeno qui su Efp. Le ragioni sono nel fatto che Loki ricostruisce il proprio passato mentendo, spesso involontariamente. Ecco perché il suo rapporto complicato con Sigyn sta emergendo lentamente: prima è lei che prova a fare un passo in avanti, ma viene rifiutata. Quindi è lui che adotta la stessa strategia, ma non vince del tutto le resistenze di lei.
Un’altra parte su cui ci terrei a scrivere due righe è sul loro matrimonio. Come sapete, ci tengo sempre tanto a che ci sia un’aderenza storica tra le divinità vichinghe e la società vichinga, una società dove esistevano schiavi, dove gli uomini del nord erano fondamentalmente pirati (da cui il termine vichingo) e dove le mogli si trovavano anche in questo barbaro modo. Tuttavia, scrivendo, mi sembrava quasi che il fatto di far sposare a Sigyn Loki fosse quasi una ricompensa per il trattamento subito. Beh, non lo è e lui, pur rimanendo entro usi e costumi del tempo, ne è ben consapevole – è troppo intelligente per non esserlo, credo.
Ringrazio di cuore chi listerà, recensirà o semplicemente leggerà questa storia: siete importanti e sappiate che leggo tutti i vostri commenti e non vi mangio. Spesso non rispondo pubblicamente, ma se vi palesate lo faccio e sono molto alla mano, ecco. ♥ Ricordo che il personaggio di Sigyn, tolto quello che trovate alla voce “Sigyn” su Wikipedia, è una mia personale interpretazione/reinterpretazione/riscrittura. Non vi autorizzo a ispirarvi o peggio a questa versione o alle altre storie da me postate né qui né altrove (peggio mi sento con le fiabe) e lo stesso vale per gli headcanon su Vanheim, su Loki o su Asgard stessa. Creare un mondo con usi e costumi non è uno scherzo. A presto e grazie per tutto l’affetto/sostegno/cose, Vostra,
Shilyss

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Capitolo 4
*** Inconfessabili paure ***


Capitolo 4
Inconfessabili paure
Son morto in un esperimento sbagliato
Proprio come gli idioti che muoion d’amore
E qualcuno dirà che c’è un modo migliore
(Un chimico, De Andrè)

Ricordare il sorriso di Sigyn mentre gli sfilava quella piuma di falco dallo spallaccio gli provocò un dolore sordo, tangibile, che si andò a sommare al freddo innaturale che non accennava a lasciarlo. Serrò la mascella e strinse i pugni, sfiancato dal quel rievocare che sembrava fatto allo scopo di divertire i due messaggeri di Odino e tormentare lui. I cancelli del Valhalla erano un’illusione lontana, un sogno sbiadito da cui si sentiva sempre più distante. Sì, Sigyn gli aveva rivolto un sorriso lieve, sincero, divertito; per la prima volta, in lei non aveva letto la paura, il sospetto o la circospezione, ma qualcosa di diverso, che l’aveva spinto a dare una possibilità al loro rapporto, a corteggiarla. Un tentativo che si era infranto quando lui aveva duellato con Theoric, il cui unico risultato era stato esacerbare il desiderio di lei.
Di lei, che lo aveva supplicato affinché risparmiasse la vita del suo antico amore.
Di lei, che, dopo essere stata scacciata via, lo aveva fissato in un modo indecifrabile, come se fosse rimasta delusa dalla sua reazione, sorpresa.
Huginn, il corvo del pensiero, forse lesse nella sua mente, perché non tardò a tormentarlo, seguito a ruota dal suo altrettanto perfido fratello. “Come si conquista il cuore di una donna, figlio di Odino? Facendola ridere con te?”
“Sigyn ci è sempre piaciuta, Loki,” ricordò Muninn. “È così intelligente, gentile, decisa. Ma a un certo punto quella decisione si è incrinata.”
“Si è trasformata in dubbio.”
“In caos.”
“C’è un momento in cui ci si innamora. Per alcuni avviene di colpo, per altri, lentamente, ma nasce sempre da una sola, unica scintilla. Forse per lei la fiamma dell’amore scaturì proprio quel giorno.”
“Ma rendersene conto e accettarlo, Loki, non fu facile.”
“Ci volle del tempo.”
“Tu hai reso tutto ancora più complicato.”

Sigyn era una moglie dal comportamento impeccabile, ricordò Loki, tranne per il fatto che non apriva le gambe. Si morse le labbra altrimenti ironiche e bugiarde fino a sentire dolore, senza smettere di chiedersi perché uno spirito come lui, condannato a vagare in cerca dei cancelli del Valhalla, dovesse provare dolore ricordando la bella moglie che aveva sposato con la forza. Sì, Sigyn era una compagna devota, intelligente, graziosa. Ma il loro matrimonio non era affatto stato bianco. L’avevano consumato nel loro letto, non una, ma molte volte. Una notte lui era entrato nella camera che per troppo tempo aveva accuratamente disertato: stringeva un corno di idromele tra le dita, ma non era ubriaco, affatto. È arrivato il momento di prendere ciò che mi spetta, le aveva detto. Sigyn gli era andata incontro; non era né spaventata né sorpresa, ma, di nuovo, l’ingannatore stava anticipando gli eventi, lasciandosi trascinare dal peso di ricordi dolorosi come corde che, sfregando, gli tranciavano la pelle.
Boccheggiando, riprese a raccontare ai suoi spettatori dal becco aguzzo e gli artigli rapaci la storia che pretendevano di ascoltare con più dettagli che poté: per qualche ragione che Loki ancora non riusciva del tutto a cogliere, parlare lo distraeva dal freddo insopportabile che gli mordeva le ossa. Chissà dove marcivano i suoi poveri resti mortali, chissà che cosa avevano in serbo, per lui, i corvi che erano stati di Odino e gracchiavano di promesse e premi.

La fedeltà di sua moglie non era mai venuta meno, spiegò Loki, perché Sigyn durante le loro nozze aveva bevuto dalla sua stessa coppa: si era impegnata a essere sua moglie e non avrebbe mai tradito sé stessa violando l’impegno preso. Nella corrispondenza intrattenuta con Theoric, Sigyn dimostrava di provare un grande affetto per il guerriero, ma di considerare la loro relazione, il loro amore, come qualcosa di passato, di concluso in maniera definitiva. Nelle righe scritte da lei non c’era nemmeno una traccia di rimpianto per un futuro che, di certo, aveva immaginato a lungo anche dopo essere diventata una principessa di Asgard. Forse, pur provandolo, era dell’idea che metterlo per iscritto non le sarebbe stato di nessun aiuto. Avrebbe dovuto metterlo al corrente di quelle missive, naturalmente. Questo era stato il suo unico errore, perché Loki non amava lacci, catene e prigioni. Erano tutte cose che aveva conosciuto abbastanza da vicino, tanto da non poterle imporre a colei che aveva sposato – e poi, Sigyn non sarebbe mai fuggita da Asgard. Ciò che l’ingannatore non riusciva in alcun modo a perdonarle era stata quell’inopportuna richiesta: Theoric sarebbe dovuto morire per mano sua.

Nelle settimane seguenti la evitò come poté, dandole un assaggio del rancore furioso e dello sdegno contro cui si erano dovuti scontrare a loro tempo Thor e Odino in persona. Ai banchetti esibì con crudele sfacciataggine relazioni clandestine di cui, in verità, gli importava meno di niente, fissando con disperato desiderio la figura flessuosa di Sigyn che, offesa e umiliata, abbandonava a testa alta la tavola senza concedergli nemmeno uno sguardo. Nel vederla allontanarsi, le sue dita si aggrappavano al corno d’idromele come se volessero fracassare il recipiente, le sue labbra si congelavano in un ghigno amaro, storto come la sua anima perennemente insoddisfatta, condannata a bramare qualcosa che si faceva infinitamente irraggiungibile proprio quando sembrava essere più vicino. Prese a stordirsi di lavoro, compiendo continue ambasciate per conto di Asgard, studiando notti intere su incantesimi giudicati irrecuperabili, visitando le più oscure e profonde miniere dei Nani in cerca di tesori e di rarità. A volte qualcuno, nel corso dei suoi viaggi, accennava alla sua bella moglie dai capelli d’oro, che lo aspettava a casa. Loki serrava la mascella e rispondeva con vaga cortesia. Le strade che percorreva per tornare ad Asgard non erano sempre sicure, lineari o piacevoli da attraversare ed era lì, nell’oscurità di una notte particolarmente cupa o mentre era costretto a riposare in un giaciglio di fortuna – lui, figlio di re, abituato ad addormentarsi tra lenzuola di seta e coperte di pelliccia – che pensava alla pelle morbida e bianca della donna che aveva sposato, alle sue curve dolci, fatte per essere accarezzate e baciate, alle labbra di cui ricordava fin troppo bene il sapore. Molto tempo dopo, ridotto a uno spettro senza dimora, Loki avrebbe ammesso a sé stesso e agli implacabili corvi che lo accompagnavano che più di una volta era stato sul punto di cedere, di lasciare che il rancore che gli imprigionava il cuore si sciogliesse. Non sarebbe stato meglio tornare da lei e dimenticare l’ormai zoppo e umiliato Theoric? Si erano feriti a vicenda, in fondo.
Ma poi, la mente maliziosa e malvagia di Loki si arrovellava su ragionamenti che grondavano perfidia e ira. Lei non lo amava. Il suo cuore era ancora di Theoric, dello stesso uomo che lo aveva torturato nelle segrete di una cella, da cui lui, Loki figlio di Odino, non aveva preteso altro che una giusta vendetta. E proprio per quell’uomo l’irraggiungibile Sigyn aveva chiesto clemenza tra le lacrime. Per lui avrebbe fatto lo stesso? Anzi, aveva fatto lo stesso? Se Theoric fosse riuscito nell’impossibile impresa di ucciderlo, Sigyn avrebbe pianto di gioia o di dolore?

“Ora lo sai, Loki, figlio di Odino.”
“Conosci la risposta a questa domanda. Te l’abbiamo mostrata.”
Un ghigno sghembo. “A volte pensavo che la sua lealtà fosse uno scudo.”
“Ma, a volte, no.”
“Dicci, Loki, ricordi che cosa le hai sussurrato, quando credevi di averla persa per sempre?”
“Noi lo sappiamo.”
“Noi lo ricordiamo.”
Anche il dio dell’inganno lo ricordava, e fin troppo bene. L’aveva stretta a sé, contro il proprio petto, affondando le dita tra le sue ciocche scarmigliate e color dell’oro. Con la bocca premuta contro l’orecchio di lei, le aveva mormorato frasi irripetibili, mai rinnegate. Ascoltandole, Sigyn si era aggrappata a lui. Non era bastato a salvarli e, di nuovo, Loki anticipava parti della sua storia rivangando istanti perduti, resi più struggenti e agrodolci dal fatto che fossero rievocati nella miseria della sua condizione di spettro allo sbando. Ma, stavolta, erano stati Huginn e Muninn a insistere affinché lui pescasse proprio quel ricordo; forse le due creature stavano seguendo un disegno preciso – non gli risultava che i corvi giocassero con le loro prede.
Respirò a fondo, vittima, per contrappasso, dell’illusione di essere ancora vivo e di poter immagazzinare ossigeno.
Sigyn aveva resistito con l’eleganza che le era propria al rancore di Loki, alle sue battute taglienti, sferzanti. Lui la evitava come poteva e lei, dal canto suo, aveva scelto di non rincorrerlo, lasciando che il tempo lenisse il suo orgoglio ferito. Lo conosceva abbastanza da sapere che affrontarlo a viso aperto avrebbe scatenato una disputa retorica in cui lui, più abile di lei, sarebbe riuscito a deformare la realtà a suo piacimento. Qualche tempo dopo il duello con Theoric, tuttavia, la sua incantevole moglie ebbe modo perlomeno di svolgere le sue funzioni di sposa solerte: non tutti gli avversari del dio dell’inganno erano di poco conto come quell’idiota e Loki, pur trionfando una volta di più, riportò delle ferite serie e profonde, che lo ridussero all’incoscienza. In tale stato non poté allontanare Sigyn dal proprio capezzale e lei fece quello che ogni devota moglie degli Æsir avrebbe fatto: gli rimase accanto, prendendosi cura di lui finché non recuperò abbastanza forze per riprendere conoscenza e fissarla con l’attenzione che sempre le tributava, soffermandosi sui segni della stanchezza che rendevano il suo sguardo liquido e grigio ricco di ombre. Nel vederlo vigile e sveglio, Sigyn sussultò, senza far nulla per nascondere il proprio sollievo, ma c’era qualcos’altro, in lei – una traccia di trepidante imbarazzo che la costringeva ad abbassare le ciglia scure, a non fissare i segni ormai bianchi delle cicatrici vecchie e le fasciature che avvolgevano quelle nuove. Loki raccontò di aver compreso immediatamente il disagio della sua bella moglie dai capelli d’oro. Mentre era privo di sensi, lo aveva vegliato e curato assieme alle guaritrici, come il suo ruolo imponeva, ma nascondendo alle altre donne quanto quel corpo così asciutto e tonico, di guerriero, le fosse estraneo. Le necessarie attenzioni tributate durante la convalescenza del dio dell’inganno si sommarono alle carezze scambiate durante il corteggiamento che c’era stato prima che il duello con Theoric rovinasse tutto, ma insieme non formavano l’intimità richiesta a una coppia di sposi. Con un ghigno, Loki raccontò ai corvi che, magari, Sigyn avrebbe voluto un cambiamento in tal senso. Forse provava un turbamento dolciastro dentro di lei, quando le distanze tra loro si accorciavano e lui la vedeva irrigidirsi, confondersi.
A ogni modo, costretto com’era a letto, Loki si trovò nella condizione di dover sottostare alle cure di Sigyn. Ammise che, per ferirla, le disse di non provare alcuna fiducia nei suoi confronti. La sua incantevole sposa riconobbe che la fiducia, come la lealtà, nascono dal profondo del cuore e devono essere meritate con i fatti e conquistate con il tempo e la dedizione. Sembrava una dichiarazione d’intenti. L’ingannatore, però, non aggiunse altro – era stanco – e Sigyn, dal canto suo, cambiò argomento.
“Le tue cicatrici dimostrano come tu sia un grande condottiero, forte e audace,” esordì fissandolo negli occhi, ma poi esitò, come se dovesse proseguire su un sentiero incerto e malsicuro. “Ma non tutti i segni che ho visto sembrano essere il frutto di uno scontro.”
L’ingannatore, naturalmente, colse subito il punto della questione. Amava parlare di sé e incensarsi, lo riconosceva. Il suo maggior difetto, probabilmente, era l’eccessivo assegnamento nelle proprie brillanti capacità, che spesso lo avevano reso cieco di fronte a pericoli evitabilissimi. Era sempre riuscito a bilanciare quest’incrollabile opinione di sé con uno spiccato istinto di conservazione che lo aveva salvato da molte spiacevoli situazioni, ma dopotutto lui e l’impulsivo Thor non erano così diversi: come tutti gli Æsir peccavano in arroganza e spavalderia. Credevano di avere l’universo intero ai loro piedi. Eppure, quando Sigyn accennò al fatto che portava ancora addosso i segni recenti di una tortura, tacque, preferendo che fosse il silenzio a parlare per lui. Sua moglie poteva dedurne ciò che voleva – cosa che in effetti fece: chiese a suo padre cosa avesse subito esattamente Loki quand’era prigioniero dei Vanir e l’uomo, pur non scendendo nei dettagli, le rispose senza celarle la verità.
La scoperta spinse Sigyn a guardare con occhi nuovi al suo comportamento scostante, ma soprattutto la convinse che fosse necessario un chiarimento.
Il dio dell’inganno non era del suo stesso avviso: soffriva per le ferite recenti e per l’inattività forzata. Il dolore lo privava della concentrazione necessaria per studiare e l’essere costretto a rimanere nelle proprie stanze lo infastidiva sommamente. Quando vide Sigyn entrare le scoccò un’occhiata dall’alto in basso, come se dovesse valutare la sua figura sottile, fasciata in un abito di un verde cupo, che faceva risaltare ancora di più le trecce dorate che teneva appuntate sul capo. Lui si era alzato da poco e stava raggiungendo la propria scrivania ingombra di carte, mappe e strumenti di misurazione vari puntellandosi su un bastone e trascinando una gamba ancora malandata. Sulle spalle aveva gettato una tunica, sotto cui esibiva la stretta fasciatura che gli copriva il muscolo altrimenti nudo del pettorale e parte dell’addome. Non era un buon momento, ma non la scacciò, stavolta. Avrebbe dovuto farlo molti giorni prima, nel momento in cui, svegliandosi, era riuscito a mettere a fuoco il suo bel viso. Gli era mancata la voglia di farlo – che imperdonabile debolezza, constatò – e in quel momento non gli rimaneva altro da fare che osservarla, ascoltarla.
Sigyn non cercò di rifugiarsi dietro a qualche inutile giro di parole e Loki dovette ammettere che quell’aspetto, di lei, gli piaceva moltissimo. Era schietta e andava diritta al punto.
“Non mi hai mai detto che è stato lui a lasciarti quei segni,” esordì.
Loki inclinò la testa di lato e, incuriosito com’era, strinse le palpebre per osservarla meglio.
“Avrei dovuto?” chiosò divertito. Lei aprì la bocca per rispondere, ma l’Ase la interruppe. “Mi spiego meglio, mia dolce sposa. “Sarebbe cambiato qualcosa?”
Sigyn rifletté a lungo prima di rispondere – e il farlo, Loki se ne accorse, non fu affatto facile. Si torse le mani sottili e delicate, adornate con numerosi anelli e, infine, sospirò. “No,” ammise, ma le tremavano le labbra e aveva gli occhi lucidi.
Si slanciò verso di lui, che la sovrastava in altezza e non perdeva quel suo atteggiamento fiero nemmeno durante la dolorosa convalescenza.
“Succedono cose orribili, nelle guerre. Da ogni parte. C’è chi lo ammette a viso aperto e chi no. Ti ho tolto la tua vendetta, Loki: ti ho chiesto di non macchiarti del suo sangue. Tu mi hai ascoltata.”
Parlava in fretta, come se temesse di venire interrotta o di perdere quel coraggio che l’aveva spinta ad aprirsi.
“Non combatterà mai più,” sibilò l’ingannatore tra i denti. “Quella gamba la trascinerà per tutto il resto della sua miserabile vita: non passerà giorno senza che mi maledica,” aggiunse compiaciuto.
Sigyn aggrottò le sopracciglia. “Conosceva i rischi, quando ti ha sfidato.” “Lo ha fatto per te.”
“Io non ho chiesto di essere salvata. Non ho bisogno di essere salvata,” puntualizzò, lasciando che una mano scorresse sul suo braccio, teso nello sforzo di sostenersi col bastone. Era una carezza incerta, confusa e decisa al tempo stesso. Loki permise che le sue dita gli sfiorassero la pelle, seguendone con attenzione il percorso, senza tuttavia perdere il proprio contegno diffidente e ironico.

“Avresti dovuto baciarla,” gracchiò Huginn. “Hai pensato di farlo, ma, per una volta, non sei stato abbastanza rapido.”
“Non hai colto il momento. Noi lo ricordiamo,” proseguì il fratello.
“Un errore imperdonabile per un condottiero come te, figlio del dio corvo.”
“Continua il racconto. Parlaci delle gemme. Parlaci della tua paura.”
Le sue ferite, disse Loki, guarirono in fretta, perché aveva una fibra robusta e l’inattività gli pesava ogni giorno di più. Crogiolarsi nell’ozio, senza uno scopo, non era cosa per lui e allora chiese e ottenne di poter ricevere ospiti per riprendere certe trattative rimaste in sospeso. Tra queste, c’era una con Brokk, il Nano. Come tutti quelli della sua gente, era un abile fabbro e creava stupendi gioielli con le gemme d’incomparabile bellezza che estraeva nelle tortuose, tetre e infinite gallerie che scavava sottoterra. L’amore per le pietre preziose era una delle cose che accomunava gli Æsir e i Nani di Nidavellir e, talvolta, i due popoli commerciavano scambiandosi preziosi. Ma Brokk detestava Loki – aveva giurato che, un giorno, gli avrebbe cucito quella sua bocca bugiarda – perché il dio dell’inganno conduceva le trattative in maniera subdola, confondendolo e irretendolo per ottenere più pietre possibili a un minor prezzo.
Capitò che Sigyn interruppe e complicò, non volendo, la difficile negoziazione tra lui e il Nano. Si affacciò nel suo studio per portargli una tisana e dei dispacci che provenivano dalle mani di Odino in persona, scusandosi per l’interruzione, ma mentre poggiava il vassoio contenente la bevanda che sprigionava un delizioso aroma e le pergamene arrotolate, la sua attenzione venne catturata da una coppia d’ametiste. Loki le aveva scartate, al momento, pur avendole giudicate allettanti: faceva tutto parte di un suo personale piano. Niente gli riusciva bene come trattare su un prezzo, facendo credere al proprio interlocutore di essere in procinto di stringere un affare. Di fronte alle pietre scintillanti proposte da Brokk, il suo volto affilato non aveva tradito alcuna emozione o preferenza, e così il suo sguardo. Ogni valutazione o riflessione era rimasta, come sempre, accuratamente celata dietro il suo sorriso sghembo e beffardo. Ma Sigyn non era capace di nascondere altrettanto bene le proprie emozioni e Brokk, che l’aveva osservata con curiosità da sotto le folte sopracciglia rossastre, si accorse immediatamente che le due ametiste l’avevano colpita.
“Vi piacciono, mia signora?” l’apostrofò. “Quelle ametiste s’intonano bene col verde del casato di Loki, figlio di Odino.”
“Sono, , sono incantevoli,” boccheggiò Sigyn, colta alla sprovvista. Arrossì vistosamente – non era sua intenzione immischiarsi nella trattativa e sentiva di essere stata presa in trappola.
“Le trova incantevoli,” ripeté il Nano, osservando Loki. “Le aggiungerò solo se mi darai ciò che chiedo.”
L’ingannatore le scoccò un’occhiata severa e piegò le labbra in una smorfia tirata. “Incantevoli, eh?” commentò perfido, per poi acconsentire senza battere ciglio alle richieste del fabbro – a patto che, aggiunse, le monti come lei vorrà.
Sigyn non si aspettava un regalo e non era sua intenzione incastrare l’ingannatore per riceverne uno, ma non ebbe il tempo di giustificarsi né di spiegare. Quando Brokk lasciò le loro stanze, Loki la redarguì. “Possibile che debba insegnarti proprio tutto!? Non devi mai far capire a un Nano che un gioiello o una pietra ti piacciono.”
“Non era mia intenzione,” soffiò lei di rimando. “Ho rovinato la tua contrattazione, mi dispiace!”
Di fronte alla sua sincera contrizione, Loki sospirò, rilassando le spalle. “Thor rovina le trattative, distruggendo metà del palazzo di un alleato, corteggiandone la moglie o facendo qualche altra plateale idiozia. Tu, al massimo le ingarbugli. Le avrei prese comunque, quelle ametiste. Per te,” aggiunse con fatica, ma di fronte allo scintillio che vide negli occhi di lei, alla speranza evidente che vi lesse dentro, si sentì in dovere di sporcare quel suo slancio di generosità, ammantandolo di un calcolo spregevole. “I tuoi abiti e i tuoi gioielli rappresentano la mia ricchezza, il mio prestigio.”

“Bugiardo,” gracchiò Huginn, sbattendo le ali color notte. “Quando hai pensato di donarle a lei non credevi di dover dimostrare niente a nessuno.”
“Era perché non s’illudesse su di te, su di voi, che hai rovinato tutto una volta di più.”
“Che fece, dopo?”
Una riverenza breve, quella che una sposa devota, o una suddita, fa prima di lasciare la stanza del suo più nobile consorte, rispose Loki, senza difendersi dalle accuse dei due corvi che, maligni com’erano, lo giudicavano, spiando nel suo passato e traendone delle conseguenze che sapevano di fiele. Eppure, non era verso di loro che provava rancore, ma nei confronti di sé stesso. Era stato un vigliacco. Come in molte altre occasioni, aveva preferito sfoggiare il proprio lato peggiore, esibire una maschera volutamente crudele, per evitare di guardarla negli occhi e ammettere di aver pensato a lei, quando aveva visto quelle due pietre viola, lisce e perfette.
Sigyn le indossò numerose volte; per esaltare al massimo le ametiste, le aveva fatte montare con due semplici ganci in oro. Le donavano immensamente e le portava anche la notte in cui, stringendo un corno colmo d’idromele tra le dita, furioso ed esasperato da una situazione francamente insostenibile, aveva bussato con forza contro la porta della loro camera da letto, per poi entrare prima che lei avesse il tempo di rispondergli. Desiderava coglierla alla sprovvista, perché le fosse più difficile ribattere alle sue parole: quella sera, lei, sempre così controllata e inappuntabile, durante il banchetto aveva contravvenuto a una sua precisa richiesta, sfidandolo.
Sigyn era seduta davanti allo specchio, circondata dalle sue ancelle intente a disfarle le trecce. Al suo arrivo si alzò in piedi e si voltò, fissandolo, per un solo momento, nello stesso identico modo in cui lo aveva studiato quando si era introdotto nella sua camera da letto di ragazza, cambiandole la vita per sempre. Mandò via le ancelle senza alcuna esitazione, conscia delle occhiate preoccupate che le donne si scambiavano l’un l’altra – Loki sembrava furioso e non era un segreto che disertasse fin troppo spesso il letto nuziale, così come non era un mistero che Sigyn avesse abbandonato il banchetto per non doversi umiliare rivolgendo la parola a una delle presunte amanti di suo marito. Si trattava di orgoglio o di pura gelosia?
“È arrivato il momento di prendere ciò che mi spetta,” sibilò Loki non appena furono soli. Sigyn gli era andata incontro; non era né spaventata né sorpresa e indossava ancora parte dell’abito sfoggiato al banchetto – aveva slacciato solo il corsetto ricamato. Loki vide le ametiste catturare la luce calda dei bracieri e mandare bagliori violacei, la osservò mentre chiudeva le sue mani delicate e sottili sulle dita sbiancate con cui lui reggeva il corno quasi colmo. Lasciò che lo prendesse e accostasse le labbra al bordo, bevendone un lungo sorso – le sue guance e il collo avvamparono, gli occhi si accesero di una luce nuova.
“Sono qui,” gli rispose, porgendogli nuovamente l’idromele in un gesto che a Loki sembrò una replica del giuramento fatto il giorno delle loro nozze. Vuotò il corno e lo gettò a terra, per poi continuare il lavoro lasciato a metà dalle ancelle, slacciando con le sue dita abili e svelte i molti nastri che lo separavano dalla pelle dorata e morbida di Sigyn – Sigyn che gli cingeva con le braccia il collo cercandogli le labbra, e, finalmente, si offriva; Sigyn, dolorosamente desiderata per tante notti da perderne il conto. Conosceva già la dolcezza delle sue curve – i boschi intorno al fiordo di Asgard avevano radure che sembravano fuori dal tempo dove, sdraiati sul suo mantello, le loro labbra si erano già incontrate, le mani cercate. Effusioni sempre interrotte bruscamente, e lo stesso valeva per le carezze scambiate certe sere lì, sul loro letto: era stato il prezzo da pagare per averla strappata alla sua vita e sposata per vendetta, Loki ne era stato fin dall’inizio perfettamente consapevole, così come sapeva fin troppo bene che il desiderio capace di velare gli occhi di sua moglie in quel preciso momento sarebbe potuto svanire in qualsiasi istante. Lei avrebbe potuto ricordare quello che lui aveva preteso al banchetto – che si dimostrasse cordiale con una donna che non faceva mistero di averlo avuto per amante e la disprezzava – e le circostanze, il modo in cui erano diventati marito e moglie. Loki, dal canto suo, cercava di mettere a tacere l’ira funesta che lo aveva colto quando Sigyn, la sempre fiera Sigyn, l’aveva supplicato di risparmiare il suo antico amore, l’odiato e vile Theoric. Deglutì al pensiero. Li aveva immaginati insieme, non una, ma molte volte, vittima, come in numerose altre occasioni, dei propri stessi intricati piani. Non era quello che aveva detto a Sigyn la prima notte di nozze? Che non intendeva usarle violenza e farle del male, perché gli premeva di più che Theoric lo pensasse?
Che ironia: era lui, invece, a figurarsela con un altro, a torturarsi dietro dubbi crudeli, esacerbati dalla propria immaginazione vivace e maligna. La seta chiarissima del bell’abito con cui si era presentata al banchetto scivolò sulle spalle delicate di Sigyn, scese lungo la schiena fino a cadere lungo i fianchi femminili e rotondi, aiutata dalle mani impazienti del dio dell’inganno. Un leggero rossore le ravvivava le guance; sollevò le palpebre ancora bistrate di nero per guardarlo diritto negli occhi, in quella maniera schietta e fiera che aveva sempre ammirato. Lasciò che la sua mano sottile e inanellata, di fata, gli sfiorasse il petto ampio e largo, l’addome asciutto e scolpito, saggiandolo con un misto di curiosità e audacia. Con un gesto nervoso, Loki allentò la propria corazza di pelle intrecciata, rivelando la pelle tesa e appena segnata – non doveva esserci niente tra le dita di Sigyn e il suo corpo teso.
Pensò che era bella e la lasciò fare, prendendosi il tempo per farsi ammirare e poter contemplare la figura flessuosa di Sigyn, bramata, sognata, indovinata sotto la seta frusciante. Quando non poté più resistere, la prese tra le braccia e la condusse fino al loro letto. Quella pelle dorata, rischiarata dalla luce lieve e rossastra delle candele, era stata creata per essere scoperta dalle sue labbra e accarezzata con la lingua, per fremere al tocco delle sue mani – ogni altro ricordo, almeno per quella notte, andava scacciato, dimenticato, sigillato in un angolo della propria memoria. Sigyn sospirava per lui e gli cercava le labbra, gli baciava il mento e la gola e il petto. Era impaziente e furiosa: come lui bruciava di rancore e di desiderio e allora perché ricordare la prima volta che l’aveva intravista, quando era tra le braccia di un altro? Con quante altre donne si era consolato, lui? Quello che contava era il presente: Sigyn era sotto di lui, adagiata sul letto, nuda e tremante di paura e desiderio. Lo voleva, era pronta ad accoglierlo dentro di sé, a sospirare con voce rotta il suo nome, a smarrirsi tra le sue braccia, insieme a lui, finché ogni cosa, attorno a loro, non fosse scomparsa, perdendo di significato.

“Sei gelosa,” le disse. “Poco fa me l’hai dimostrato.” Il fuoco guizzava nell’ampio e largo camino, gettando una luce soffusa e giallastra nell’ampia camera da letto. Sigyn forse dormiva già dandogli la schiena, la ricca chioma dorata sparpagliata sul cuscino. Invece, sentendo la sua voce si allungò, voltandosi nella sua direzione, intrecciando le gambe alle sue, osando sfiorargli il petto. Indossava ancora i suoi gioielli.
“È vero.”
Una risposta audace, perché – Loki lo sapeva bene e lo raccontò anche ai corvi – ci vuole una dose infinita di coraggio per mostrarsi, per esporre al prossimo la propria anima e tutte le sue inevitabili debolezze. Ammettendo di provare gelosia nei suoi confronti, Sigyn implicitamente gli stava dicendo che gli importava di lui. Di più, che lo amava. Loki era troppo sagace per non capire che il trasporto con cui lo aveva cercato non derivava solo da un impulso fisico, da una passione momentanea, ma nasceva da un sentimento più profondo. Nato malgrado le circostanze fossero tutt’altro che favorevoli.
“Non ti obbligherò a salutarla né a vederla,” decise. Lei annuì e Loki si trovò nella fastidiosa posizione di dover aggiungere qualcosa, di specificare il proprio atteggiamento. “Tu sei una principessa di Asgard, lei ti è inferiore per rango.”
Sigyn si sciolse dall’abbraccio dolcemente, sollevandosi quel tanto che bastava per mettersi seduta. Si coprì il seno con il lenzuolo, in un gesto adorabile che Loki non seppe dire se dettato dalla pudicizia o dal freddo pungente di Asgard. Si tolse gli orecchini d’ametista, gocce viola trasparenti, posandole sul mobile accanto al letto. “Ma, forse, significa qualcosa d’importante per te,” suggerì con voce lieve e allora sì, lo fece, distolse gli occhi, abbassò lo sguardo, fingendo di occuparsi della collana che indossava ancora. Le sue dita sottili – nervose? – armeggiarono invano e Loki l’aiutò a slacciare il gioiello.
“Affatto.”
Non aggiunse altro; non c’era bisogno. Sigyn tornò a guardarlo negli occhi, forse sperando che lui si spiegasse meglio, ma il dio dell’inganno era abituato a rendere conto delle proprie azioni solo davanti a Odino e, anche in quei casi, il suo atteggiamento era provocatorio, di sfida. La donna che aveva ingelosito Sigyn, al pari di altre, non significava nulla se non qualche ora di divertimento. Passatempi senza importanza né conseguenze, ricercati per soddisfare voglie fugaci o per noia, nient’altro. Avrebbe potuto spiegarglielo, se avesse voluto, se fosse stato capace di resistere allo sguardo grigio e liquido di Sigyn. Ma non volle e lei non insistette. Lei si addormentò tra le sue braccia, così come avrebbe fatto per molte altre notti ancora.
Erano amanti e il loro matrimonio non aveva più nulla della finzione, ma il legame che li univa continuava a essere fragile e delicato come il cristallo più sottile. Quella notte, accarezzandole con una mano distratta le ciocche dorate, si rese conto con una punta di terrore che dividere con Sigyn il letto, anziché spegnere il suo desiderio per lei, l’accresceva. Era una sensazione nuova e sconosciuta, pericolosa. Da cui, presto, non avrebbe potuto fare a meno di fuggire: temeva le catene, detestava i ceppi, anche quando erano fatti di seta e si legavano al cuore. Credeva anche che Sigyn, accanto a lui, sarebbe stata un facile bersaglio per i suoi molti nemici. Ma tutto questo, Huginn e Muninn lo sapevano fin troppo bene, perché leggevano attraverso la sua anima di spirito errante, perduto, smarrito.

“Non lo diremo al posto tuo, dio dell’inganno,” gracchiò Huginn maligno. “Non oseremmo mai rubarti le parole di bocca.”
“La nostra domanda è, però, se tu non ti sia voluto ingannare. Allontanandoti,” specificò Muninn, muovendo con uno scatto la testa piccola e mobile, su cui spiccavano gli occhi piccoli e neri, acutissimi.
“Allontanandola, anche se era nei tuoi pensieri,” proseguì il fratello. “Tornasti di corsa da lei, quando ti arrivò la notizia, falsa, che fosse in fin di vita.”
“Peccato che non sia bastato a farti restare.”
“Almeno, però, fosti, per una volta, obiettivo.”
“Perché mi tormentate?” sibilò Loki lasciandosi andare a uno scatto impaziente senza, tuttavia, abbandonare quella sua postura misurata e altera che lo contraddistingueva persino nel limbo in cui era rimasto incastrato. “Sono morto,” ammise con fierezza, a testa alta. “Thanos mi ha ucciso. È stato il prezzo da pagare affinché Thor si liberasse. Lui aveva la possibilità di ucciderlo e vendicarmi, non io. Mi ha ucciso – ricordo il freddo della lama che mi perforava la carne, ricordo il dolore lancinante, ricordo di aver pensato che stavo perdendo troppo sangue e che il tempo non mi sarebbe bastato per,” s’interruppe e rise brevemente di una risata gelida e amara. Allargò le braccia, fissando i due messaggeri di Padre Tutto in quella sua maniera tracotante e teatrale. “L’ho persa. Non c’è altro da dire.”
“Il terrore provato quella notte non ti ha mai abbandonato, noi lo sappiamo,” Huginn volò fino alla sua spalla. “Figlio del dio corvo, non ci fraintendere,” gracchiò. “In fondo, non siamo tuoi nemici.”
Muninn si posò sull’altra. “Il dio corvo ci ha chiesto di aiutarti a trovare la tua strada. Immaginava ti saresti smarrito,” gli sussurrò all’orecchio.
L’ingannatore piegò le labbra ironiche e bugiarde in una smorfia che pareva un ghigno. “Perché? Non sono degno di Valgrind? Non si fidava di me?”
Huginn sbatté le ali color notte. “Sbagli, t’inganni, ti sbagli, figlio del dio corvo, principe di Asgard. Lui aveva un conto in sospeso con te. Doveva espiare. Liberarsi.”
“E tu, potresti raggiungere i cancelli del Valhalla in ogni momento. È che non lo vuoi, Loki figlio di Odino.”
Loki impallidì – ma poteva, il volto di uno spettro, scolorirsi? – e quando rispose lo fece lentamente, scandendo ogni sillaba. “Posso assicurarvi che vi sbagliate. La vostra compagnia mi è sgradita e mi piacerebbe immensamente raggiungere i cancelli di Valgrind. Mi spettano. Sono morto in battaglia, soffocato nel mio sangue. Come un guerriero.” Una pausa. “So di esserne degno.”
Muninn scosse la testa. “Non vuoi accettare di essere ancora aggrappato alla tua vita, figlio del dio corvo.”
“Sei ostinato.”
“Ce lo aveva detto.”
“Ti abbiamo promesso un dono. È arrivato il momento di dartelo.

Continua…

L’angolo di Shilyss
Care Lettrici e cari Lettori del mio cuore,
Ecco la mia quarta fetta di torta alla melassa, anche se oscenamente fuori tempo massimo: il prompt, stavolta, era la parola "paura". L’ho resa in maniera più sottile rispetto ai prompt degli scorsi capitoli, ma insomma: Loki ha paura per Sigyn e degli effetti che Sigyn ha sulla sua vita e che sia la paura a impedirgli di trovare ‘sti cancelli? Loki, prenditi un navigatore, ché questi corvi ti corbellano!
Bando alle ciance: c’è uno scambio di battute tra Loki e Sigyn che mi piace molto in questo capitolo lungo, lunghissimo (sorry). Uno che lascia le cose un po’ sottese, ma spero si capisca tutto uguale, compreso l’atteggiamento di Sigyn, che si comporta dignitosamente e cercando di controllarsi anche quando vorrebbe scoppiare (ma è il contesto storico, la situazione).
La buona notizia è che il prossimo capitolo l’ho già iniziato a scrivere e sarà l’ultimo, quindi se tutto va bene nel giro di non troppo tempo potreste persino leggerlo. Ultimamente i miei piani vengono scombussolati un bel po’, ahimé, ma sono ottimista ^^
Ringrazio di cuore chi listerà, recensirà o semplicemente leggerà questa storia: siete importanti e sappiate che leggo tutti i vostri commenti e non vi mangio. Spesso non rispondo pubblicamente, ma se vi palesate lo faccio e sono molto alla mano, ecco. ♥ Ricordo che il personaggio di Sigyn, tolto quello che trovate alla voce “Sigyn” su Wikipedia, è una mia personale interpretazione/reinterpretazione/riscrittura. Non vi autorizzo a ispirarvi o peggio a questa versione o alle altre storie da me postate né qui né altrove (peggio mi sento con le fiabe) e lo stesso vale per gli headcanon su Vanheim, su Loki o su Asgard stessa. Creare un mondo con usi e costumi non è uno scherzo. A presto e grazie per tutto l’affetto/sostegno/cose, Vostra,
Shilyss

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Capitolo 5
*** Primavera ***


Capitolo 5
Primavera
Primavera non bussa, lei entra sicura
Come il fumo lei penetra in ogni fessura
Ha le labbra di carne, i capelli di grano
Che paura, che voglia che ti prenda per mano
Che paura, che voglia che ti porti lontano.
[…]
Son morto in un esperimento sbagliato
Proprio come gli idioti che muoion d’amore
E qualcuno dirà che c’è un modo migliore.
(Fabrizio De André, Un chimico, Non al denaro non all’amore né al cielo)

Potrebbe aiutarti,” suggerì Huginn.
“È un incantesimo,” spiegò l’altro corvo. “Un incantesimo potente.”
“Perduto.”
“Non è detto che riuscirai a padroneggiarlo. Nessuno c’è mai riuscito.”
“Ma così pochi hanno tentato!”
“Fanne un buon uso.”
“Che incantesimo?” li interruppe Loki. La possibilità di riuscire, in qualche modo, a padroneggiare le arti del seiðr persino ora che era solo spirito, lo attirava. Di più, rappresentava una concreta opportunità di poter plasmare a proprio piacimento il limbo in cui era rimasto incastrato non per sua volontà, come insinuavano i corvi, ma per un destino avverso. Ripercorrendo il proprio passato, Loki si era reso conto degli errori e delle mancanze che avevano costellato la sua esistenza piena e travagliata. Riconosceva di aver agito spesso in modo cieco e sconsiderato, lui, che amava pianificare, che si era sempre vantato della propria intelligenza vibrante e acutissima. Ma ragionare significava anche rendersi conto di certi inevitabili e irrisolvibili errori. Sigyn era uno di questi. Aveva fatto ogni cosa in suo potere, per averla. Non gli era bastato, non aveva saputo sfruttare l’occasione che gli si era presentata. Era riuscito a sposarla, ma, in qualche modo, come molte altre cose, semplicemente gli era sfuggita. Se l’avesse ingannata e manipolata come avrebbe potuto e saputo fare, l’amarezza che gli ribolliva nel petto sarebbe stata ancora più pungente: nessuna vittoria, nessuna conquista vale davvero la pena di essere festeggiata, se ottenuta tramite un sotterfugio. Loki, che pure adorava gli stratagemmi, che con i suoi spietati espedienti aveva costretto alla resa imperi interi, proprio perché padroneggiava così bene gli inganni desiderava ottenere ciò che bramava a viso aperto, per il proprio valore. Perché lo meritava. La sua personale maledizione stava nell’essere perfettamente consapevole di questo meccanismo perverso. Imprigionato in una zona indefinita del regno dei morti, non gli restava che diventare il signore di quel luogo d’ombra, sfruttando una volta di più la propria astuzia. Come aveva fatto per tutta la vita, da quando Odino l’aveva trovato su un picco di ghiaccio e lui, neonato inconsapevole, si era mutato d’aspetto per accattivarselo. I cancelli del Valhalla non erano ancora pronti a spalancarsi di fronte a lui? Il sentiero non gli si dipanava davanti, luminoso e ben visibile, per condurlo al cospetto degli eroi e dei guerrieri morti prima di lui? Allora lo avrebbe forzato a colpi di incantesimi, maledizioni e rune. Si concesse di rivolgere un pensiero crudele a Thor: lui non avrebbe dovuto vagare fuori dal tempo, nella nebbia. Hela in persona sarebbe stata la sua scorta solerte verso Valgrind.
“Adesso prestaci attenzione, figlio del dio corvo.”
“Forse imparare questa lezione ti riuscirà più semplice della precedente.”
“Ammesso che tu abbia capito.”

L’inverno aveva abbandonato i fiordi su cui si estendeva la magnifica Asgard, e presto, al più nel giro di qualche settimana, i primi drakkar avrebbero solcato le acque azzurrissime e gelide che lambivano le coste frastagliate della terra degli Æsir. Era una primavera fredda, tuttavia: la luce non riusciva ancora a intiepidire l’aria pungente. Loki non poteva avvertire la brezza sulla propria pelle, perché non era niente altro che uno spirito perduto, smarrito, condannato a vagare in cerca di risposte che non sarebbero mai giunte. Tuttavia, amava a tal punto Asgard che gli bastava vederla, osservare come i raggi solari accarezzassero le foglie o le cime di un albero, per indovinare, anzi, ricordare certe sensazioni provate quand’era vivo e respirava, lottava, progettava. Fece schioccare la lingua contro il palato, in un gesto di stizza. La morte non poteva significare la fine di ogni cosa. Non per un maestro di magia come lui, almeno. Tra le altre cose, questo gli avevano insegnato i corvi di Odino, Huginn e Muninn: che certe anime hanno il potere di attraversare i mondi e di influenzarli, se sono disposte a pagare il giusto prezzo.
Non aveva ancora trovato i cancelli che lo avrebbero condotto alla sua dimora definitiva, il Valhalla degli eroi o la cupa dimora di Hela, ma sapeva come piegare al proprio volere quel mondo di nessuno in cui era intrappolato, conosceva le rune in grado di farlo penetrare oltre le molte fessure che separano il regno dei morti da quello dei vivi. Sì, gli bastava osservare Asgard per illudersi di poter calpestare ancora l’erba fresca e tenera, di riuscire a sentirne l’odore, per cadere nella tentazione di convincersi che sentiva il vento freddo accarezzargli la pelle – era questa la cosa peggiore dell’essere morti: l’inganno perpetuo di poter bere un sorso d’idromele e di gustarne il sapore, di percepire il caldo o il freddo. Sospirò stancamente, voltandosi appena in tempo per vedere la porta aprirsi, lei entrare.

Sigyn non si era mai abituata alle temperature rigide di Asgard e si stringeva ancora in un mantello foderato di pelliccia. Quella che lui chiamava primavera, per lei era ancora inverno, perché nella fertile Vanheim il sole scaldava l’aria rendendo la terra un immenso giardino fiorito. I mesi più corti dell’anno era costellati di giornate soleggiate, in cui era piacevole e possibile passeggiare con giusto un mantello di lana leggera addosso. Non come ad Asgard, dove l’inverno la notte era quasi perpetua e quello che gli Æsir chiamavano giorno non era che un debole chiarore, una parentesi quasi indistinta in mezzo a un’oscurità fitta e stregata. Sigyn temeva il gelo implacabile di Asgard, quando la neve seppelliva ogni cosa, persino i rumori, e la notte inghiottiva famelica ogni luce. Eppure era tra quelle ombre indistinte che Loki riusciva a individuare più fessure per passare dal limbo alla terra dei vivi. Porte attraverso cui strisciare, incunearsi, e per cosa? Il viso di Sigyn riflesso in uno specchio mentre scioglieva con le dita rapide la sua lunga treccia d’oro, sfilava gli orecchini d’ametista posandoli accanto al cofanetto dove teneva tutti i suoi gioielli. Aveva provato a parlarle, alcune volte. A dirle cose che non sarebbero riuscite comunque a consolarla, che, forse, avrebbero persino ingigantito il suo dolore – una bestia sorda che graffiava e lacerava, che Sigyn tentava di zittire tramortendosi di lavoro. Qualsiasi cosa per non pensare, per non ricordare, per non dover avvertire sulla propria schiena la solitudine che l’avvolgeva come una cappa. Avrebbe dovuto smettere il lutto e ricominciare a vivere.
Loki glielo suggeriva con frasi ricche di rancore, ma la sua voce non era in grado di raggiungere la sua bella vedova dai capelli d’oro e il dio dell’inganno aveva dovuto ammettere a malincuore che la sua lama più affilata, quella su cui aveva fatto affidamento per una vita intera, si era spuntata per sempre. I morti tacciono e lui era questo, nient’altro. Uno spirito errante.
Eppure, in certi momenti riusciva a farsi sentire da lei. In più di un’occasione Loki si era lanciato in quello che aveva creduto essere solo un monologo, nulla di più. Frustrato per la propria invisibilità le girava attorno, sottolineando le proprie parole con ampi e misurati gesti delle braccia, odiando con ogni fibra della propria anima tormentata l’inutilità di quello sfogo. Sigyn non avvertiva la sua presenza ed era impegnata in tutt’altro – ricamava, leggeva, rassettava, parlava con qualche ancella o Thor, addirittura, ma poi lo sorprendeva toccando con l’interlocutore di turno uno degli argomenti su cui Loki si era consumato la voce e che non avrebbe dovuto udire, ripetendo le stesse frasi che lui aveva appena finito di pronunciare. All’inizio, il dio del caos aveva affrontato la questione con scetticismo. Conosceva bene gli equilibri che governavano il tempo: le coincidenze esistevano, erano frutto del caso. Non era opportuno esultare per così poco. Occorreva ripetere l’esperimento, cercando di mantenere le medesime condizioni della prima volta, al fine di avere dati certi su cui basarsi per decidere se Sigyn lo percepisse o meno e se sì quanto, e perché. Solo allora le coincidenze si sarebbero trasformate in indizi, in prove.
E, se poteva sentirlo, allora forse lui sarebbe riuscito a trovare il modo di muovere qualche oggetto e attirare la sua attenzione, come era riuscito a fare causalmente la prima volta che i corvi lo avevano trasportato oltre la fessura: brancolò in mezzo agli insuccessi per un tempo che gli parve infinito, seguendo Sigyn ogni momento. Rifletté che, per un amaro contrappasso, era costretto a inseguirla e spiarla come la notte in cui l’aveva resa sua prigioniera. Ma se in quell’occasione le tenebre erano state sue alleate, permettendogli di compiere il suo losco piano e di osservarla non visto, ora lo inghiottivano, impedendogli di interagire con lei, di rivelarsi. Era uno spirito fatto di oscurità. Senza il suo corpo, ormai ridotto a nient’altro che delle ossa sbiancate, perdute, lontane, persino il seiðr gli dava meno piacere. Non era più un flusso di potere che gli scorreva nelle vene assieme al sangue, ma qualcosa di astratto, di imprigionato nella stessa dimensione sospesa governata da Huginn e Muninn, i due corvi beffardi che Odino gli aveva affibbiato per lavarsi la coscienza.
Si sedette sgarbatamente sulla toletta dove c’era lo scrigno in cui Sigyn riponeva i suoi gioielli – preziosi d’incantevole fattura e mirabile gusto, scelti da Loki in persona, che lei, stretta nel suo lutto, non indossava praticamente più: aveva sempre amato le cose semplici e sottili, delicate come lei. L’ingannatore venne assalito dal ricordo del piacere quasi fisico con cui selezionava quelle meraviglie, che aveva immaginato posate direttamente sulla pelle nuda di Sigyn – liscia, morbida, fatta per essere accarezzata e baciata.

Sigyn si voltò di scatto, dopo che l’Ase si fu seduto. Trattenne il respiro e sbatté le palpebre, i capelli dorati sciolti sulle spalle. Fissava la toletta vuota, lo scrigno aperto con i gioielli esposti e la ciocca scura del dio dell’inganno, ultimo ricordo di lui che le rimaneva. Guardava senza vedere, ma non riusciva a distogliere lo sguardo dal grazioso sgabello, dallo specchio che rifletteva la sua immagine stupita e allarmata. La stanza era avvolta da un silenzio irreale, rotto solo dal battito accelerato del cuore di Sigyn – e Loki poteva sentire il suo terrore, percepire come i nervi della donna fossero tesi.
“Sigyn, non avere paura. Sono io. Non ti farei mai del male,” Si morse le labbra sottili e altrimenti ironiche e beffarde, ora piegate in una smorfia tirata. “Non posso più farti del male,” sibilò, correggendo con la lucidità che gli era propria la frase. Sigyn non lo vedeva. Non lo udiva. Fissava il punto dov’era seduto lui, ma il suo sguardo lo oltrepassava.
“Loki?” chiamò piano. “Loki, vorrei che tu fossi qui,” sospirò.
“Sono qui, mia signora. Ma non riesci a vedermi né a sentirmi.”
“Eri un mago potente. Uno dei più potenti dei Nove Regni,” sospirò lei. “Se ci fosse un incantesimo capace di farti tornare nel regno dei vivi, lo so, lo cercheresti. Lo useresti.”
“Sto tentando. Ma, per ora, va oltre le mie capacità, temo.”
“Se tu riuscissi a oltrepassare le porte che separano questo mondo da quello dei morti, torneresti da me?”
“Tornerei. Sì, tornerei.”
Le labbra di Sigyn si piegarono in un sorriso mesto. “Forse torneresti, ma per quanto? C’è sempre stato un fuoco, in te, che ti impedisce di rimanere a lungo nello stesso posto. Di accontentarti.”
“La soddisfazione non è nella mia natura, temo.”
“Eppure, anche se per un tempo brevissimo, ti vorrei di nuovo accanto a me.” Sigyn lo confessò al buio, alle fiamme tremule dei candelabri, alle lingue guizzanti del camino, allo specchio lucido che le rimandava la sua immagine scolorita e stanca, al fantasma di Loki tanto vicino a lei che, se solo avesse avuto una mano fatta di carne e sangue, avrebbe potuto sfiorarle le guance, le labbra, la massa d’oro dei suoi capelli. Quante notti aveva provato ad accarezzarla? In quanti banchetti, mentre le suggeriva risposte argute o la spingeva verso certi ragionamenti aveva cercato di toccarla, di stabilire un contatto? Tanti da perderne il conto. Non abbastanza da rinunciare a un’opportunità, quando si presentava. Allungò le dita verso di lei, sfiorandole la guancia, il collo, la spalla lasciata nuda dalla camicia da notte. Sigyn sobbalzò; era già capitato che avvertisse qualcosa d’indefinito, che un brivido improvviso e sconosciuto le scorresse lungo la schiena, ma stavolta i suoi occhi si inchiodarono in quelli di Loki come se, in quella notte invernale fuori dal tempo, riuscisse finalmente a vederlo, a percepirlo. Durò solo un momento – se Loki avesse avuto ancora un cuore che batteva nel petto, lo avrebbe sentito accelerare i suoi battiti.
“Sei tu?” lo sguardo di Sigyn era liquido e spaventato, ma nei suoi occhi brillava anche una luce vagamente folle: quella di una speranza inseguita a lungo, invocata come una preghiera, a cui la dea della fedeltà si aggrappava perché incapace di dimenticare, di negare la propria natura, di soffocare quella forza che la spingeva a vestirsi ancora di scuro, a mortificare la propria bellezza. Avrebbe dovuto dimenticare Loki, accettare la sua morte, smettere di piangerlo e risposarsi, perché era ancora giovane e graziosa. A volte li immaginava, i figli che avrebbe avuto se si fosse concessa un’altra occasione: sarebbero stati già abbastanza grandi da trotterellarle attorno, aggrappandosi alle sue gonne per mostrarle un disegno, un fiore raccolto nel giardino o un giocattolo rotto. Sigyn si era immaginata la scena un’infinità di volte, le dita che giocherellavano nervose con la collana, le labbra tirate in un sorriso amaro, mentre la sé stessa madre del suo sogno a occhi aperti era intenta a consolare o ammirare e l’aveva sentita, la fitta di rimpianto per quei figli che non erano suoi, loro, e non avrebbero mai potuto assomigliare a Loki. Non più.
Il rimpianto della dea della fedeltà, la sua nostalgia per qualcosa che non era potuto avvenire quando lui era vivo, investirono Loki come una tempesta. Doveva trattarsi di un effetto indesiderato scaturito dal fatto di essere riuscito a sfiorarla: non avrebbe dovuto essere in grado di farlo, ma in virtù di qualche oscura mutazione del seiðr c’era riuscito. Così come, quand’era vivo, aveva avuto il potere di leggere nel cuore e nei ricordi delle persone, ora era riuscito a percepire, pur senza volerlo, quelli della moglie.
“Sei qui?” ripeté, la voce di lei, gonfia di speranza, leggermente tremante. Raccolse uno scialle dal letto e se lo avvolse sulle spalle. “Io non ti temo, Loki. Non l’ho mai fatto,” disse piano, sollevando lo sguardo. A Loki parve che sua moglie lo stesse finalmente vedendo.

Seduto a gambe incrociate sotto a un frassino i cui rami nodosi e contorti sembravano piegarsi verso terra, Loki figlio di Odino meditava. Aveva bisogno di riflettere su quanto capitato durante la sua ultima visita nel Regno dei vivi, su quello che Sigyn aveva detto, sul tremito che l’aveva scossa quando lui era riuscito a sfiorarla, a farsi vedere, forse. Arcuò le labbra sottili in un sorriso amaro. Magari s’ingannava e lei aveva solo fissato il buio, un’ombra più nera e profonda nascosta nell’oscurità. Da quando era uno spirito, decifrare la realtà si era fatto complicato. Continuava a essere legato al mondo delle cose sensibili, alla Asgard fatta di terra, acqua e legno dove Sigyn respirava e viveva. Allo stesso tempo, percepiva i molti piani di quel luogo di mezzo dov’era rimasto incastrato: un non posto mutevole nella forma e nelle dimensioni, simile al mondo rarefatto dei sogni, eppure reale quanto lo era l’altro, se non di più.
“Immagino che voi abbiate la risposta anche per questo,” sibilò a un tratto rompendo il silenzio. Gli rispose un frullare d’ali ben noto e quasi consolante. “Il nostro compito non è sciogliere i tuoi dilemmi, Loki di Asgard.” “È farteli notare.”
“Devi accontentarti.”
“Solo così scoprirai se hai imparato la nostra lezione.”
“Se fossi ancora fatto di carne e sangue,” notò il dio dell’inganno, “saprei se il mio incantesimo ha funzionato.”
“Sei troppo legato alle sensazioni che provavi quand’eri vivo.”
Loki piegò le labbra in una smorfia che nascondeva un’ira sottesa. “Sento ancora ogni cosa.”
“Quando smetterai di farlo, troverai la tua strada. Il Valhalla o il Regno di Hela.”
“Quando non sentirai più niente, sarai libero di dimenticare.”
“Libero, dite.”
“Libero dal rimpianto. Libero dalla sensazione di aver lasciato le cose in sospeso.”
“Dillo, Loki, avanti.”
Libero da lei.

“Altrimenti?” “Altrimenti dovrai inventarti qualcosa.”
“Qualcosa di congeniale per te. Di naturale.”
“Qualcosa di naturale,” ripeté Loki, pronunciando ogni parola come se stesse gustandola, lo sguardo fisso verso il punto dove, lo sentiva, c’era una delle fessure che lo collegavano al mondo terreno. Dall’altra parte, il tempo, implacabile, scorreva senza riuscire a lenire il dolore provato da Sigyn. Se lo sentiva ancora addosso, come una sorta di febbre che, invece di lasciarlo spossato, gli infondeva un’energia nuova, cupa, diversa. Era lei, la catena che gli impediva di lasciare il limbo, il laccio da recidere, la questione da risolvere. Oltre la fessura intravide un brillio fugace e lontano, eppure percettibile. Lo riconobbe pur non avendolo mai visto: era il sentiero che conduceva a Valgrind. Dunque era questo che lo aspettava, pensò. Il Valhalla dei guerrieri e la sala di Odino. Era degno; le sue molte malefatte erano state spazzate via da un sacrificio abbracciato con lucidità, figlio di un calcolo inevitabile – sarebbe morto comunque. Sentì in bocca il sapore del sangue, lo stesso che aveva preceduto il dolore per la ferita gravissima inflittagli da Thanos. Anche il Titano era cenere e polvere, ormai.
“I morti appartengono alle ombre e lì devono stare. Quello è il loro posto,” sentenziò solenne, alzandosi in piedi con un movimento elastico, che tradiva un’inquietudine ben visibile dal modo in cui fissava la foresta contorta che lo circondava, manifestazione di un limbo in cui era rimasto intrappolato troppo a lungo.

La primavera si è incastrata tra le lame di ghiaccio del fiordo. L’aria è ancora gelida e pungente, tanto da non permettere alle foglie e ai fiori di germogliare, alla neve di sciogliersi, ai drakkar di solcare il mare freddo. I tramonti sono sempre più lunghi e creano cieli ricchi di ogni sfumatura immaginabile – giallo, arancio, rosa, rosso, porpora, azzurro, blu intenso, ma i raggi del sole sembrano non scaldare le mura che circondano Asgard né le sue guglie di legno aguzze. Di certo, non cacciano via il freddo dalle ampie camere rivolte a settentrione degli appartamenti che furono del dio dell’inganno. Loki si era interrogato molto spesso sul modo in cui dovesse rapportarsi con le cose che gli erano appartenute quand’era vivo.
Come tutti gli Æsir era avido: niente era mai abbastanza, per lui. C’erano sempre una nuova terra da conquistare, un tesoro da ghermire, un incantesimo da padroneggiare, un avversario da sconfiggere, un cavallo da domare, un cervo da cacciare. Ma tutti quegli oggetti e obiettivi desiderati e inseguiti spasmodicamente, ora non gli appartenevano più. Nemmeno Sigyn era più sua – morendo, Loki aveva sciolto ogni vincolo che li legava. Uno dei suoi pugnali prediletti, per esempio, adesso era infilato nello stivale destro di Thor. Nel letto dove dormiva, proprio nel punto in cui poggiava la testa, si rannicchiava una stremata Sigyn incapace di dimenticarlo e di andare avanti, incastrata com’era in un amore che le Norne avevano reciso. Gli spiriti erranti non solo hanno smarrito la via verso Hel, ma non posseggono più nulla: ciò che era loro appartiene ad altri – e poi, un legame sancito da un contratto, ratificato dentro un letto, non fonde insieme due anime. Sigyn non gli era appartenuta mai, nemmeno quando, avvinghiata a lui, invocava il suo nome. Pensarla diversamente era un’illusione, un’ingenuità degna del ragionamento di un bambino.
Loki recitò alcune rune, stando ben attento a non impiegare troppo seiðr. Quello in cui si stava lanciando era un esperimento dall’esito incerto. L’ampia camera da letto era illuminata a malapena dal chiarore delle braci semispente rimaste nel camino. Vedeva distintamente la sagoma della sua giovane vedova accoccolata nel letto. Si avvicinò con una circospezione che era solo il riflesso di una necessità passata, perduta. Sigyn non poteva sentirlo, ma Loki proseguì ugualmente senza abbandonare il suo passo felpato ed elegante. Quella prudenza serviva solo a lui. Era lui che doveva aggrapparsi al passato, a quella vita che gli era sfuggita via dalle dita. Lui, rifletté con amarezza, non era più Loki di Asgard, ma la sua ombra. Un’impressione che doveva muoversi e agire come aveva fatto il dio dell’inganno. Quel pensiero gli suscitò un brivido gelido, tremendamente reale e vero. Osservò la propria mano dalle dita lunghe, di mago. Gli parve che fosse quasi trasparente, sul punto di scomparire. Lontano, gli sembrò di udire quello che era il canto dei guerrieri di Asgard caduti in battaglia. Brindavano con suo padre nella grande sala del Valhalla, pronti per cominciare un banchetto a cui lui era stato invitato, dove doveva partecipare per un diritto ottenuto col sangue – quel fiotto caldo che gli era uscito dalla bocca quando aveva capito che era stato ucciso da Thanos. Ma Sigyn era lì, a pochi passi da lui, addormentata e vicinissima – eppure irraggiungibile. Avanzò di un altro passo. Dalla molle treccia dorata erano sfuggite ciocche che disegnavano strane figure sul cuscino, accanto al letto c’era un corno con dentro una pozione che l’aveva indotta a un sonno stordente e senza sogni, vuoto e ristoratore. I lineamenti delicati del suo viso parevano rilassati, ma Loki riusciva ancora a percepire il dolore che le mordeva il cuore e non l’abbandonava mai. Per terra, sul tappeto che ricopriva elegantemente il pavimento di legno era caduta una pergamena. Doveva essere successo quando l’inchiostro era ancora fresco, perché alcune parole erano cancellate, le sillabe trasformate in macchie scure e dense. Si chinò per leggerla e riconobbe la grafia minuta di Sigyn. Serrò la mascella. Era una lettera indirizzata a lui. Una confessione struggente. Lei lo cercava nelle ombre accanto alla toletta, tra le fronde degli alberi, nel riflesso fugace colto su uno specchio d’acqua. A volte le sembrava di sentire la sua presenza accanto a sé – un soffio gelido e consolante lungo la schiena, dietro il collo, un’oscurità più densa che sembrava ospitare una sagoma nota e amata, ma non aveva prove concrete, non sapeva se s’illudeva o se Loki le era davvero accanto. E questo la distruggeva.
Il dio dell’inganno si rialzò lentamente e si sedette accanto al corpo addormentato di Sigyn, abbandonato in un mondo di sogni scuri e senza consolazione – lui non abitava quei luoghi, gliel’aveva scritto. Liberati, avevano gracchiato i corvi. Liberati o agisci, il limbo non è per te, diventare uno spirito errante ti farà svanire non prima di essere impazzito. Prendi il tuo posto accanto a Odino, brinda con lui nel Valhalla, lascia che l’idromele ti scorra di nuovo in gola. È questo il tuo destino. Eppure le dita di Loki raggiunsero la spalla nuda di Sigyn, carezzandola come solo un essere incorporeo poteva fare: mimando un gesto compiuto infinite volte quando aveva ancora delle vene dove scorreva il sangue. Attenzioni di cui non sempre sua moglie si accorgeva, perché Loki spesso era scostante e consumava il suo tempo, che come tutti credeva infinito, in battaglie, ricerche e studi che si aggrovigliavano l’uno all’altro, in una spirale infinita. La soddisfazione non era nella sua natura, del resto, e ogni ricerca o vittoria implicava la nascita di un nuovo obiettivo da superare. Quand’era vivo, spesso aveva disertato quelle stanze dove ora sostava troppo a lungo come ombra, annerendo ogni angolo, portando Sigyn sull’orlo di una disperazione senza soluzione. Avrebbe dovuto accarezzarla quand’era sveglia e sostenere lo sguardo di lei, liquido e dolce, anziché inseguire un progetto dopo l’altro, tutti in grado di dargli solo un appagamento sempre troppo breve.
“La morte ti ha costretto a fermarti.”
“A ragionare.”
“A riflettere.”
I corvi di Odino, con i loro occhi neri e la testa mobile, lo fissavano insolenti e compiaciuti al tempo stesso.
“Questo non è corretto. Ho imparato nuovi incantesimi. Ho accresciuto il mio potere.” Le sue dita si avvicinarono ancora alla pelle chiara di Sigyn: dalle sue labbra stavolta uscirono rune proibite, che nessuno, ad Asgard, aveva mai osato pronunciare, ma che trasformarono quel suo tocco solo mimato in un gesto vero, capace di suscitare un brivido in Sigyn, ancora addormentata. Per Loki toccarla fu terribile e meraviglioso.
“Ma sei sempre qui, intrappolato tra queste mura.”
“Sono io che non desidero allontanarmi. Voglio rimanere qui, tra le cose che mi sono appartenute – ora non posseggo più niente, nessuna cosa. Le mie armi sono state seppellite in un tumulo dove non riposa il mio corpo, o spartite; i miei libri sono di chi li consulterà dopo di me, ereditandoli. Mia moglie, che pure mi piange, è libera da ogni vincolo; se desidera rimanermi fedele è per un suo bisogno, non per rispettare un contratto.”
Strinse le labbra. C’era una forza particolare, in lei, un’ostinazione che gliela rendeva estranea e affascinante. Un aspetto che aveva notato fin dai tempi in cui, per un capriccio, per inseguire un preciso disegno o entrambi, l’aveva rapita. Cauto e circospetto, si era messo a testare la volontà Sigyn, sostenendo il suo sguardo infuocato e pieno di sdegno, ribattendo alle sue frasi piacevolmente pungenti.

“Dicci, Loki, è nostalgia quella che senti?”
“Rimpianto per le occasioni perdute, sprecate?”
“Riflettevo,” spiegò il mago, “su come l’inganno e la fedeltà possano combaciare, talvolta. Tradire la mia natura è impossibile – e io sono caos.”
Huginn e Muninn non risposero, fissandolo con quei loro occhi neri e fissi, tanto scuri che sembrava avessero delle sfumature blu, come le loro splendide piume. Loki ghignò e ripeté che sì, lui era uno spirito errante, vicino alla perdizione, che rifiutava l’immenso onore accordatogli e, invece, di sedere alla sinistra di Odino con un corno d’idromele in mano, nel Valhalla barattato al prezzo della sua vita, inseguiva le onde dorate della donna che in vita aveva sposato, incapace di rinunciare alle possibilità e alle opportunità che solo l’esistenza garantiva. La natura degli Æsir non può cambiare e lui sarebbe stato sempre il dio dell’inganno, ma era bramoso di acquisire nuove conoscenze ed esperienze, di inseguire vendette e tesori. La morte lo aveva cristallizzato in un momento preciso – quello in cui Thanos lo aveva ucciso – ma Loki non riusciva ad accettare la sua condizione di immagine sfocata. Per risolvere i propri conti in sospeso doveva assecondare i suoi impulsi e la natura di mago brillante e spregiudicato. Scoppiò in una risata secca e perfida, che forse piacque ai due corvi, impazienti e gracchianti. C’era qualcosa, però, che gli apparteneva ancora, anzi, gli sarebbe appartenuta per sempre, aggiunse stirando le labbra sottili in un sorriso lupesco e terribile. La ciocca assicurata da un nastro che Sigyn teneva nel cofanetto assieme ai suoi gioielli più cari. Un frammento del suo corpo mortale. Intatto. Che recava una traccia della sua antica forza.
Muninn piegò la testa nera fissandolo con i suoi occhi piccoli e scintillanti. “Un colpo di fortuna, che lei l’abbia conservata.”
“Che te l’abbia chiesta,” precisò Huginn.
Loki non li contraddisse. Gli Æsir, al pari di molti altri popoli guerrieri, ritenevano che la forza dei loro combattenti risiedesse nelle capigliature folte, che per questo venivano lasciate crescere fino a raggiungere le spalle e oltre, per poi acconciarle in comode code o trecce. Erano un simbolo, di più: un vanto da sfoggiare. Proprio in virtù di questa credenza i guerrieri di Asgard tagliavano i capelli ai loro nemici o agli schiavi. Per privarli della loro forza, per fiaccarli nel corpo come nello spirito. Trattamento a cui, a parti inverse, gli stessi Æsir venivano sottoposti, non senza che da parte dei loro aguzzini vi fosse una malcelata soddisfazione – che godimento era, spezzare la tracotanza di quei fieri guerrieri dagli occhi di brace privandoli dei loro simboli, condannandoli a mostrare a chiunque il segno inevitabile della sconfitta. I Vanir, invece, nonostante i fitti scambi da sempre intessuti con Asgard, non condividevano questa usanza. I loro uomini portavano i capelli corti e solo le donne lasciavano crescere le loro belle e ricche chiome.

Quando Sigyn, una notte lontana, aveva chiesto a Loki una sua ciocca da tenere con sé, il dio dell’inganno l’aveva guardata con scandalizzato stupore. I costumi di Vanheim gli erano noti, ovviamente. Affascinato com’era da ogni tipo di conoscenza, perennemente alla ricerca di nuove tesi da analizzare, testare o confutare, a seconda dei casi, sapeva bene come ogni cultura coltivasse le proprie credenze. Eppure la richiesta della sua giovane e incantevole moglie lo aveva lasciato sbalordito: era così ingenua da non conoscere gli usi degli Æsir, da non averli nemmeno intuiti grazie all’osservazione? Quello che chiedeva era qualcosa di sconveniente. Glielo disse usando quell’esatta parola, sconveniente.

Ma Sigyn gli rispose con un sorriso rapido e mesto. “Sconveniente anche per te, che dissacri ogni cosa, che sei furbo e irriverente con chiunque? Credi davvero che saresti un guerriero meno forte, se accorciassi una tua sola ciocca?”
“No. È solo una superstizione,” si affrettò a rispondere lui, ma prese a girarle attorno per osservarla meglio, come se, facendolo, avesse potuto leggere nella sua mente – azione che era nelle sue facoltà esercitare, ma il cui prezzo gli avrebbe fatto perdere Sigyn per sempre, lo sapeva. “La mia domanda è: perché. Perché dovrei compiere un gesto che va contro gli usi di Asgard?”
Sigyn era bella, con le trecce sciolte sulle spalle e la sottoveste che le lasciava scoperte le gambe nude e flessuose. “Perché ha un significato. Per me e per te.”
“Spiegati meglio, mia signora. Sono curioso.”
“Le donne dei Vanir custodiscono una ciocca dei loro uomini nei medaglioni che portano al collo. Per averli sempre al loro fianco,” aveva aggiunto rapida, abbassando le ciglia scure e distogliendo lo sguardo. “Tu senti di avere abbastanza forza da cedermene un po’?”
“Vuoi che stia sempre al tuo fianco, Sigyn?” rise Loki, ma nei suoi occhi brillava una luce maliziosa.
“Mi hai strappata dalla mia casa,” ricordò lei, tornando a fissarlo. “Forse mi spetta, è mio diritto anzi, farti una richiesta sconveniente. Le nostre usanze valgono forse meno di quelle degli Æsir?”
“Forse sì, ma te lo devo.”
Con un gesto fluido aveva fatto scivolare nel palmo della propria mano un pugnale dalla lama scintillante e affilata. Lei si aspettava una simile risposta alla sua provocazione, a quella richiesta che, implicitamente, suggeriva l’esistenza di un legame, tra loro? Sono gli amanti a scambiarsi pegni d’amore, Sigyn. Non noi. A voler custodire qualcosa che ricordi loro l’altro. Eppure, invece di dirle la verità, senza distogliere gli occhi dai suoi, grandi, rotondi e grigi, stupiti eppure ancora pieni di dubbio, con le dita della mano libera si era messo alla ricerca di una ciocca che partiva dalla base della nuca. La tagliò con un gesto secco, offrendole quel dono col suo sorriso sghembo e insolente disegnato sul viso affilato. Sigyn l’avrebbe legata con un nastro di seta verde.

“Che cosa speri di fare, Loki figlio di Odino?” gracchiò Muninn.
“Figlio del dio corvo, ci sono leggi che non vanno infrante.”
L’ingannatore riservò ai due uccelli un’occhiata indecifrabile. “Strano che me lo ricordiate,” notò, “visto che mi avete insegnato voi a oltrepassare il confine tra il regno dei vivi e quello dei morti. In fondo era quello che vi aspettavate da me, non è vero?”
I due corvi tacquero. Muninn spiccò il volo e raggiunse la spalla di Loki. “Se berrai dal calice che ti offrirà Odino nel Valhalla, smetterai di desiderare. Di sognare. Sarai libero. Sarai in pace. Ti sei guadagnato questo diritto. Il diritto di smettere di lottare,” insistette.
Le dita di Loki sfiorarono il nastro di seta verde con cui Sigyn aveva legato la ciocca scura. Una reliquia preziosa, conservata insieme ai gioielli stupendi che avrebbe dovuto tornare a sfoggiare. “È curioso quello che dite. Nel Valhalla i guerrieri combattono ogni giorno al cospetto di Odino, ma se lo fanno senza desiderio, senza alcun tipo di ambizione, cos’è quel loro lottare? Un vano simulacro, un’immagine spogliata di qualsiasi tipo di volontà. Una recita priva di significato.” Vacillò e strinse le labbra. “Un inganno.”
“Se tornerai in vita, riesumerai le tue ambizioni. Avverrà, prima o poi,” sentenziò Huginn, arruffando le penne nere delle sue ali.
“Ricadere negli stessi vecchi errori è fin troppo facile.”
“Scontato.”
Loki non desiderava l’oblio. Non voleva abbandonarsi al piacevole nulla che lo avrebbe avvolto se avesse avvicinato le labbra al calice d’idromele. Non poteva tollerare che a definirlo fosse un passato sempre più lontano, di cui lui sarebbe stato solo un’effigie, un ricordo. Huginn e Muninn attendevano con pazienza che risolvesse i propri dubbi, che varcasse il limite che separa i vivi dai morti. Poteva toccare il tessuto serico annodato da Sigyn e la ciocca di capelli che le aveva offerto con un sorriso stretto – tutto ciò che restava delle sue spoglie mortali, dov’era racchiusa la sua forza. Il disegno di Odino era sempre stato quello, in fondo. Offrirgli un calice d’idromele nel Valhalla e riconoscere il suo valore sapendo che lo avrebbe rifiutato. Condividevano la stessa natura appassionata e volitiva, in fondo. Entrambi erano incapaci di accontentarsi e usavano la loro intelligenza per fini maligni. I corvi di Padre Tutto non avevano mai smesso di servire il loro antico e unico padrone, accollandosi il divertente compito di condurlo di fronte a una scelta che sovvertiva ogni ordine. E chi poteva, se non il dio del caos e dell’inganno, tornare dal mondo dei morti e recuperare il proprio corpo per mezzo di quell’unica ciocca – di quell’omaggio dato con circospezione, che qualcuno con meno fantasia avrebbe indicato come un pegno d’amore?
Loki sentiva su di sé lo sguardo curioso e attento di Huginn e Muninn, ma avvertiva anche altro. Il battito del cuore di Sigyn addormentata, per esempio, placido e regolare, il dolce sollevarsi del suo seno sotto le coperte, la notte che avvolgeva ogni cosa con la sua aria rarefatte e umida, quasi palpabile. Iniziò a recitare le rune dell’incantesimo più terribile di tutti e la sua bella voce si caricò di una nota arrochita e profonda, che lo stupì. La mia questione in sospeso non può essere risolta in nessun altro modo, pensò, e fu certo che Huginn gli avesse letto nella mente.

Nella ciocca stretta dall’ombra che, un tempo, rispondeva al nome di Loki, era racchiusa la sua forza, ma non solo. Conteneva tutto ciò che serviva per ricostruire il suo corpo. Ogni dettaglio sarebbe stato ricreato con assoluta precisione a eccezione delle molte cicatrici che l’ingannatore, come ogni guerriero Æsir, aveva sempre sfoggiato con fierezza. Ne avrebbe rimpianta solo una: quella che gli attraversava il labbro superiore e che Sigyn, alle volte, sfiorava con le sue dita leggere e baciava. Diceva che rendeva meno perfetto il suo ghigno. Quasi come se, pensandola, l’avesse chiamata, la sua sposa perduta si mosse nel sonno e sospirò, per poi sbattere le palpebre assonnate. La sua prima espressione fu di terrore. Per un momento, forse, pensò di stare ancora sognando, ma poi si rese conto di essere sveglia e trasecolò, cacciando un grido e appiattendosi contro la spalliera del letto, le gambe contro il petto. Di fronte a lei si stava svolgendo un incantesimo di una potenza inaudita, nefasta, che sovvertiva ogni ordine naturale.
Loki poteva avvertire il suo terrore: c’era un antico adagio che recitava che bisognava fare attenzione a ciò che desiderava, perché avrebbe anche potuto avverarsi. Lo spirito errante – ma poteva ancora definirsi in questo modo? – strinse con più forza la ciocca di capelli scuri lunghi quanto una spanna che molto tempo prima aveva tagliato con un gesto secco e una lama affilata. Il terrore di Sigyn era qualcosa di palpabile, di doloroso quasi, eppure c’era qualcosa, in fondo al suo sguardo, che, in qualche modo, gli dava la forza, l’energia di continuare a recitare quelle rune proibite, complicate, affilate come rasoi.
Pronunciare un incantesimo tanto potente non era un’azione priva di conseguenze – nessun sortilegio lo era mai. Loki provava un dolore indicibile, molto più intenso e straziante di quello avvertito quando Thanos lo aveva trafitto con la sua spada. Era il suo corpo che, sfidando ogni regola, raggirandola e violandola, si ricreava partendo da quelle fibre. Ossa, muscoli, carne, organi, vene, nervi: uno dopo l’altro, tutto si rigenerava con terrificante precisione. Sigyn, di fronte a lui, non riusciva a distogliere gli occhi da quello spettacolo terribile, di cui, per sua fortuna, non riusciva a cogliere gli aspetti più mostruosi. La prima volta che si erano visti, Loki si era mostrato a lei sfoggiando la sua parte peggiore, strappandola dalla sua casa per vendetta. E ora che riusciva a tornare da lei, lo faceva manifestandole tutta l’oscurità di una stregoneria proibita e sfiancante, che gli succhiava ogni energia e, in cambio, gli prometteva un corpo di nuovo mortale e la possibilità di inseguire, un’altra volta ancora, i grandiosi progetti che, presto o tardi, avrebbero acceso il suo spirito inquieto, impossibile da domare, che nemmeno la prospettiva del riposo e della gloria del Valhalla era stata capace di saziare.

Quando finì di recitare le rune, il seiðr lo abbandonò all’improvviso, lasciandolo come svuotato. Si accorse di dover respirare di nuovo e, per un momento, boccheggiò, stupito. Era vivo. Huginn e Muninn continuavano a essere accanto a lui, ma non come due presenze visibili e tangibili. Erano delle ombre vigili e mute che, Loki lo sapeva, gli sarebbero rimaste sempre accanto. Si domandò se avrebbe sentito di nuovo il loro gracchiare insolente e insinuante e ritenne che sì, i corvi di Odino non avrebbero rinunciato al piacere di schernirlo e di farsi udire. Abbozzò un sorriso laterale e breve in direzione di Sigyn, ancora immobile e stupefatta, incerta sulla sua natura. Era uno spirito che stava fissando o suo marito, in carne e ossa? Due calde, grosse lacrime le rotolarono lungo le guance, impossibili da trattenere.
“Le principesse degli Æsir non cedono al pianto,” osservò Loki allargando il suo ghigno beffardo.
Sigyn allungò una mano verso di lui fino a sfiorarlo. “Amore mio,” mormorò.

Fine

L’angolo di Shilyss
Care Lettrici e cari Lettori del mio cuore,
è finalmente arrivato il momento di concludere questa storia con la quinta fetta di torta alla melassa. L’ultimo aggiornamento risale allo scorso ottobre e mi sembra allucinante che siano passati così tanti mesi dall’ultima volta che ho aggiornato (quest’angolo di Shilyss era pieno di polvere, ragnatele e cose così). Sono imperdonabile, lo so e lo sono ancora di più perché questo capitolo era pronto già da alcune settimane, ma non ho avuto un momento per revisionarlo e postarlo. Non c’è molto da aggiungere, tranne che non dirò mai più che qualcosa arriva a stretto giro XD!
Non so se è rimasto qualche lettore dopo una sì lunga pausa. Per parte mia, Loki e Sigyn continuano a far parte di me e ultimamente ho iniziato due nuove storie e rivisto gli appunti di quelle vecchie. In questi mesi ho visto serie tv, film e letto libri in una misura che solo chi mi segue su Goodreads può capire – lì mi trovate, se volete, con questo identico nickname), ma questi due piccioni adorati restano nel mio cuore e non accennano ad andarsene. Tradotto, nessuna ship mi coinvolge al punto da immaginare storie come fanno loro.
Due parole sul finale: fin dall’inizio ho saputo che Loki doveva ritornare in vita e che Sigyn si sarebbe svegliata trovandoselo davanti e fin dall’inizio ho pensato che la storia dovesse finire quando i due si sfiorano. Tutto il resto – baci, amore, Loki che riprende possesso delle sue cose tranne il pugnale che Thor tiene negli stivali perché quello ormai è da considerarsi radioattivo), vanno da sé. Spero vi sia piaciuto!
Per contattarmi non su Efp, cercate la mia pagina su FB. Anche se non la aggiorno spesso ce l’ho sempre sotto gli occhi ;)

Ringrazio di cuore chi listerà, recensirà o semplicemente leggerà questa storia: siete importanti e sappiate che leggo tutti i vostri commenti e non vi mangio. Spesso non rispondo pubblicamente, ma se vi palesate lo faccio e sono molto alla mano, ecco. ♥ Ricordo che il personaggio di Sigyn, tolto quello che trovate alla voce “Sigyn” su Wikipedia, è una mia personale interpretazione/reinterpretazione/riscrittura. Non vi autorizzo a ispirarvi o peggio a questa versione o alle altre storie da me postate né qui né altrove (peggio mi sento con le fiabe) e lo stesso vale per gli headcanon su Vanheim, su Loki o su Asgard stessa. Creare un mondo con usi e costumi non è uno scherzo. A presto e grazie per tutto l’affetto/sostegno/cose,
Sempre Vostra,
Shilyss

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