An Unconventional Heist

di Keeper of Memories
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Contact I ***
Capitolo 2: *** Contact II ***
Capitolo 3: *** Scouting ***
Capitolo 4: *** That boisterous American ***
Capitolo 5: *** That Infamous Night I ***
Capitolo 6: *** That Infamous Night II ***
Capitolo 7: *** The escape route ***
Capitolo 8: *** That bloody samurai ***
Capitolo 9: *** Heavy sighs and boiling blood ***
Capitolo 10: *** Home ***
Capitolo 11: *** A new beginning ***



Capitolo 1
*** Contact I ***


 Londra, marzo 1873
 
Per l’ennesima volta, Arthur Kirkland prese il suo orologio da taschino dalla raffinata giacca che indossava per l’occasione e lanciò uno sguardo scocciato alle lancette sottili. Un gesto totalmente inutile, considerando che il salotto in cui si trovava era già dotato di un orologio perfettamente tarato ma, come sempre, difficilmente l’impazienza fa ragionare lucidamente.
Ripose l’orologio da taschino e si lasciò sprofondare sulla poltrona imbottita, leggermente infastidito. Il suo ospite era in ritardo di cinque minuti, e lui odiava i ritardi.
I passi di Dylan sul pavimento scricchiolante lo destarono dai suoi pensieri. Si sedette in maniera composta e si lisciò accuratamente i vestiti eleganti, in attesa che la porta venisse aperta.
«Sir Von Bock» disse Dylan, annunciando il suo nuovo ospite, nonché potenziale cliente.
L’uomo che entrò poteva avere all’incirca la stessa età di Arthur, capelli biondi pettinati con cura e delle ottiche piuttosto spesse sul naso. Fece un breve cenno del capo al suo ingresso nella stanza e, alla luce del caminetto, Arthur poté osservarlo meglio; indossava una divisa militare scura, all’apparenza molto semplice, ma la qualità delle rifiniture e del tessuto non lo trassero affatto in inganno.
Questo qui è ricco.
«Prego accomodatevi» disse Arthur, accennando al divano di fronte a lui «gradite del tè? O qualcosa di più forte?»
«Del tè andrà benissimo, grazie» rispose in un ottimo inglese, sedendosi dove gli era stato indicato. Aveva un forte accento, forse dell’Est Europa, forse scandinavo, Arthur non ne era certo.
A un suo cenno, Dylan sparì oltre la porta del salotto.
«Vi chiedo perdono per il ritardo, Sir Kirkland» aggiunse l’ospite con molta educazione «Ci sono stati degli… impedimenti lungo il tragitto.»
«Nessun disturbo. Mi sembra di capire che avete fatto molta strada Sir Von Bock. Ma ditemi, a cosa devo l’onore di cotanta fatica?»
Vennero interrotti brevemente da Dylan, che servì loro il tè.
«Il lavoro che sto per offrirvi è qualcosa che solo voi potete fare, stando alla persona a cui faccio da tramite» rispose lo straniero, bevendo un sorso dalla tazzina in ceramica orientale.
«Avete la mia totale attenzione. Procedete.»
«Alla fine dell’anno corrente, si terrà un evento oltreoceano, nella città di Philadelphia. Una gemma di rara bellezza, un’opale per la precisione, verrà donato a un membro importante della famiglia dell’attuale zarina, Maria Aleksandrovna. Non vi tedierò con i dettagli politici della faccenda, sappiate solo che il mio committente vuole quella gemma, prima che finisca in mani russe. Questo dovrà necessariamente accadere durante tale evento.»
Arthur bevve un sorso di tè, prima di iniziare a parlare.
«Il lavoro che mi state proponendo è molto complicato, senza nemmeno contare che mi state chiedendo di lasciare la città e andare oltreoceano… sarò sincero con voi, sono molto propenso a rifiutare la vostra proposta.»
«Il committente ha previsto una risposta del genere, per cui vi chiedo gentilmente di ascoltare cosa ho da offrirvi come ricompensa.»
Dietro le spesse ottiche, gli occhi di Van Bock si ridussero a due fessure. Ad un cenno di Arthur, proseguì.
«Come sta vostro fratello?» chiese con molta tranquillità, posando la tazzina vuota sul tavolino accanto a sé.
«Mio fratello?» chiese Arthur accigliato.
«Si, vostro fratello. Non intendo quello che quest’oggi si è finto parte della servitù e probabilmente ci sta origliando da dietro la porta. Parlo di quello più giovane, che soffre di problemi respiratori.»
Arthur impiegò ogni energia in suo possesso per non scattare verso il suo “cliente” e strozzarlo a mani nude. Ci riuscì quasi del tutto in realtà, se non fosse stato per il lieve tremore della mano che reggeva la tazzina e inevitabilmente faceva traballare il liquido al suo interno, tradendo un certo nervosismo. Decise che posare la tazzina a sua volta sarebbe stato l’ideale.
«Mi state minacciando, per caso?» chiese freddamente.
«Tutt’altro. Ho una proposta al riguardo.»
«E come fate a sapere tutte queste cose, se mi è concesso?»
«Ho fatto le mie ricerche. Inoltre, vi chiedo di non insultare la mia intelligenza, siete chiaramente un uomo scaltro che fa un lavoro pericoloso. Sono piuttosto sicuro che questa non sia la vostra casa e quelli che indossate non siano i vostri vestiti, così come il vostro servitore non è un servitore. La somiglianza è notevole, devo dire.»
«I miei complimenti per l’acume, tuttavia non credo di aver ben inteso cosa volete propormi.»
«Cure mediche, sir Kirkland. I migliori medici europei, per la precisione.»
«Per mio fratello?»
«Esattamente.»
Gli occhi di Arthur saettarono tra la porta, il suo interlocutore e la tazzina sul tavolino accanto a sé. Se la proposta di questo straniero era valida, suo fratello avrebbe avuto una possibilità, se non per guarire, almeno per migliorare. Tuttavia, sapeva troppo poco dell’uomo che aveva di fronte e fidarsi, soprattutto nel suo campo, portava il più delle volte a un destino orribile.
«Mi è concesso del tempo per riflettere sulla vostra proposta?» chiese circospetto, scrutando con attenzione ogni movimento dello straniero. Von Bock sembrava perfettamente a suo agio, non vi era alcun tipo di minaccia nei suoi modi.
«Certamente. Fare delle ricerche sulla mia persona richiederanno tempo, senza dubbio», rispose lo straniero incurvando le labbra in un leggero sorriso «Se decidete di accettare tale proposta, chiedete di me all’hotel Langham. Vi lascerò i dettagli in una lettera, incluso il necessario per il viaggio.»
 
Non appena il misterioso cliente uscì dalla porta, Arthur si buttò di peso sul divano, allungando le gambe per starvi più comodo.
«Cosa ne pensi?» chiese ad alta voce, perfettamente conscio di non essere solo.
Dylan entrò silenziosamente nel salotto, la presenza tradita solo dallo scricchiolio dei cardini arrugginiti. Si sedette sulla poltrona che prima occupava Arthur, beandosi nel calore del camino scoppiettante.
«Sinceramente? Gli pianterei un coltello in gola e basta. Per sicurezza.»
«Mi sembra di sentire Allistor» mugugnò sconsolato Arthur, massaggiandosi le tempie con le dita.
«Beh, sa troppe cose… e quello che ha detto sembrava effettivamente una minaccia.»
«Vogliamo però buttare un’occasione del genere? Conor peggiora con il passare dei giorni e non potremo permetterci le medicine ancora per molto.»
Dylan tacque, Arthur riusciva a leggere l’incertezza e la paura sul suo volto.
«Cosa suggerisci di fare?» chiese infine. Sapeva che suo fratello aveva ragione.
«Abbiamo bisogno di informazioni su questo misterioso europeo e sull’importante evento di cui parlava» spiegò, indugiando in un sospiro «Chiama anche Allistor, due occhi e due orecchie in più ci serviranno.»
«Perché devo chiamarlo io?» protestò Dylan contrariato.
«Perché non ho ancora capito se mi odia o è solo un brontolone» sbuffò Arthur, alzando gli occhi al cielo «almeno con te ci parla.»
«È nostro fratello! È ovvio che non ci odia.»
Lo sguardo genuinamente sorpreso del fratello fece sorridere Arthur.
«Oh, Dylan. Sei così ingenuo che a volte mi chiedo davvero come tu faccia ad essere ancora vivo.»
«Ho giusto qualche fratello che mi guarda le spalle» rispose questo ridacchiando.
Il sorriso di Dylan durò però solo qualche secondo, poi i suoi occhi tornarono a fissarsi su Arthur con insolita serietà.
«Gli parlerò io. Però non mi hai spiegato una cosa, Artie…»
«Ti spiego tutto quello che vuoi quando la smetterai di chiamarmi così» lo interruppe Arthur, lanciandogli un’occhiataccia.
«Va bene, va bene. Ma supponiamo di scoprire che questo lavoro è affidabile. Cosa facciamo dopo?»
Arthur si alzò, avvicinandosi al camino. «Semplice, andrò nelle Americhe.»
«Allora verrò con te.»
Arthur scosse la testa. «Conor ha bisogno di qualcuno che gli stia accanto.»
«Ma-»
«Niente “ma”. Se dovesse finire male, è bene che ci rimetta solo io. Ho bisogno che qualcuno rimanga qui con Conor, e di Alistor non mi fido.»
«Tanto sei tu che comandi…» bofonchiò Dylan, contrariato.
 
I due fratelli rassettarono il salotto e si cambiarono d’abito, sparendo nei vicoli londinesi prima che i proprietari dell’abitazione si accorgessero della loro presenza.

 
***********
 
 
Veracruz, maggio 1873
 
Francis Bonnefoy odiava svegliarsi presto la mattina per cui, potendo, tendeva a non farlo per principio. Quella mattina purtroppo gli andò male: venne svegliato di soprassalto da una secchiata gelida, che lo fece sobbalzare dalla sedia su cui si era addormentato la sera precedente. Il faccione di Gabriel, il proprietario della sua bettola preferita, occupò il suo campo visivo.
«Il conto questa volta l’ho pagato…» biascicò in uno spagnolo poco convinto.
Non capì esattamente cosa quell’energumeno messicano gli avesse appena detto, non tanto per la lingua, che aveva imparato a comprendere egregiamente, quanto per il mal di testa pulsante che minacciava di fargli esplodere il cervello. La tequila aveva fatto il suo lavoro, intuì.
Gabriel dovette ripetergli almeno tre volte che qualcuno chiedeva di lui prima di riuscire a comprenderlo, una giovane donna che non aveva mai visto.
Francis guardò sconsolato l’ora, realizzando fossero solo le dieci di mattina.
Troppo presto.
Si alzò in maniera impacciata, riuscendo miracolosamente a non far cadere nulla dal tavolo gremito di bottiglie vuote. Scorse brevemente il suo riflesso pietoso sul vetro.
«Se è di una signora che stiamo parlando, non posso certo presentarmi così!»
 
Diversi minuti dopo, Francis seguì Gabriel in una delle tante sale del locale, una di quelle che, nelle nottate migliori, ospitava la bisca clandestina più grandi della zona portuale di Veracruz. Gli attuali avventori, tuttavia, erano solo due, se si escludeva Francis stesso: una giovane donna dai lineamenti delicati e un vecchio dall’aria seria.
Al suo ingresso, la donna sollevò il capo, rivelando due splendidi occhi blu e una folta capigliatura bionda sotto l’elaborato cappellino, dello stesso colore ceruleo dell’elegante abito da giorno.
«Capitaine Bonnefoy?» chiese, in un francese con un forte accento dell’est Europa.
Francis fece un breve inchino. «Esattamente. Con chi ho il piacere di conversare?»
Fu in quell’istante che Francis capì. Lo capì dallo sguardo basso e deferente dell’uomo anziano e da quello gelido e leggermente disgustato della fanciulla che capì chi dei due comandava.
«Siete al cospetto di mademoiselle Natalia Arlovskaya» disse l’uomo anziano con voce rauca.
«Prego, sedetevi» aggiunse la giovane, indicando a Francis la sedia accanto alla sua «ho chiesto del tè, ma a quanto pare non è una bevanda così comune da queste parti.»
Francis dovette trattenersi dal ridere in faccia alla giovane. Non sarebbe stato educato.
«Mi dispiace mademoiselle, questo è il genere di locale che serve alcolici e poco altro. Dovrete guardare altrove per trovare una tazza di tè.»
La ragazza lanciò un’occhiata sprezzante nella direzione di Francis.
«Sono delusa, sapete? Nella vostra madre patria ho sentito decantare le vostre lodi, capitano. Eppure, davanti a me ho solo un maleodorante ubriacone.»
Il vecchio si schiarì la gola, sollevando lo sguardo nella direzione di Natalia, ma quest’ultima lo ignorò.
«Nella mia madre patria si dicono molte cose. Sfortunatamente, parlano tutte del passato» rispose con un sorriso cordiale. Non si aspettava così tanta schiettezza, non da una signorina europea almeno.
«Ora ditemi… Quale di queste storie hanno fatto intraprendere un lungo e tedioso viaggio per nave a una splendida fanciulla come voi?» proseguì, riempiendo di miele le sue parole.
«Quelle che parlano di un valoroso corsaro francese che coprì la ritirata della flotta di Napoleone III dal Golfo del Messico, sacrificando la sua nave nel processo.»
Gli occhi di Natalia si assottigliarono e la sua espressione si indurì ulteriormente. A quanto pare lo charme di Francis non aveva avuto effetto su di lei.
Un vero peccato.
«E così ho fatto, rimanendo perfino nel luogo in cui la mia adorata ciurma perì. Romantico, vero? Ora, se non c’è altro, mademoiselle…»
Francis fece per alzarsi, ma Natalia lo fermò con poche, semplici parole.
«Fermatevi. Sono qui per restituirvela.»
«Cosa?»
«Una nave completa di equipaggio… e forse anche un po’ di dignità.»
Francis si sedette nuovamente, osservano incuriosito la sua interlocutrice.
«Come potete prendervi gioco di me in questo modo…» disse con tono melodrammatico, scuotendo leggermente il capo «…sotto questa dura scorza da uomo di mare c’è un cuore che batte.»
«Non lo faccio, infatti» ribadì Natalia, oltremodo irritata «Sono qui per conto di qualcuno che vuole assoldarvi per un lavoro. Questa offerta include una nave dotata di equipaggio come ricompensa.»
«Non per mancarvi di rispetto mademoiselle, ma la Francia ha smesso di elargire lettere di corsa da un po’, ormai. Non ho più alcuna autorità sul mare, e di certo non voglio darmi al brigantaggio.»
«Non lo sarete, infatti. Ci sono tuttavia rotte commerciali altrettanto pericolose che richiedono un capitano con le vostre abilità. Non vi alletta l’idea di tornare alla vostra antica gloria?»
Francis lasciò scorre lo sguardo oltre l’elegante figura di Natalia, oltre la finestra alle sue spalle dove si scorgeva il mare, l’oceano e tutti i fantasmi in esso contenuti. Soppesò la situazione per alcuni istanti.
«In cosa consisterebbe questo lavoro, dunque?» chiese, riportando lo sguardo sulla giovane.
«Alla fine di quest’anno, si terrà un evento nella città di Philadelphia. Un prezioso opale verrà esposto per un breve periodo durante una festa, prima di essere donato a un membro di una famiglia di reali europei. Il committente vuole quell’opale.»
«Mi state chiedendo di rubare!»
Natalia distese la sua espressione, dipingendo un dolce sorriso innocente sul suo volto fanciullesco.
«Mi è stato detto che le vostre mani sono molto abili. È corretto?»
Francis sorrise serafico. «Lo sono, in più modi di quanti possiate immaginare.»
«Eccellente. Non avrete problemi di sorta, dunque.»
Con grande rammarico di Francis stesso, il volto di Natalia tornò alla solita espressione corrucciata. Scosse la testa, un po’ deluso.
«E se volessi accettare? Come arrivo nel Nord America?»
«Avrete il viaggio pagato, assieme a vitto e alloggio. Ad impresa compiuta, avrete ciò che vi ho promesso.»
«Accetto» rispose Francis, pensandoci qualche istante appena. Non aveva molto da perdere e un viaggio pagato per una meta a lui sconosciuta poteva rivelarsi interessante.






Noticine a piè pagina:
Salve! Questa è una doppia prima volta per me: è la prima volta che scrivo in questo fandom e la prima volta che scrivo questo genere.
Sarà un'avventura e un'impresa, ma le idee e la buona volontà non mancano.
Una piccola nota storica: la ritirata francese a cui Natalia e Francis fanno riferimento è realmente avvenuta, nel 1866. Un bel fallimento del ben noto Napoleone III.

Detto ciò, ringrazio infinitamente la meravigliosa Striginae, tanto per il supporto quanto per il brainstorming. Spero che l'attesa sia valsa la pena!
Grazie anche a tutti voi che avete iniziato a leggerla^^ Mi farebbe tanto piacere sapere cosa ne pensate!

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Capitolo 2
*** Contact II ***


Parigi, aprile 1873
 
Kiku Honda aveva sempre trovato la cattedrale di Notre-Dame uno spettacolo suggestivo e meraviglioso, soprattutto a quell’ora, quando il sole calava progressivamente tingendo le candide mura dei colori del tramonto.
Guardò brevemente il blocco di fogli che reggeva in mano. Rimase abbastanza soddisfatto del disegno a carboncino che aveva fatto, la facciata della cattedrale era ben proporzionata, tuttavia mancavano ancora alcuni dettagli. Doveva sbrigarsi, o la luce non sarebbe bastata per permettergli di terminarlo.
Qualcuno lo stava guardando.
Lo percepì mentre la facciata della cattedrale prendeva forma sul foglio, sotto il carboncino ormai ridotto a un moncherino.
«Posso fare qualcosa per voi?» disse a voce alta, senza guardare in una direzione precisa.
«Vi chiedo perdono, non volevo infastidirvi» disse una voce maschile alle sue spalle. Parlava un ottimo francese, ma con un accento strano che Kiku non aveva mai sentito.
«Non mi state infastidendo» rispose Kiku, riponendo i suoi disegni all’interno del cappotto e voltandosi finalmente nella direzione del suo interlocutore.
È un ragazzino, fu il primo pensiero di Kiku.
Osservandolo meglio, realizzò che probabilmente non aveva che pochi anni meno di lui, e che i limpidi occhi blu e il volto fanciullesco l’avevano necessariamente tratto in inganno.
«Ho notato che disegnate molto bene, signor… Honda, giusto?» disse, un sorriso candido dipinto in volto.
«Vi ringrazio. Posso sapere perché mi cercate?» chiese, confuso dalla spigliatezza del suo interlocutore.
«Ah! Giusto. Dovevo parlarvi di una questione importante.»
Kiku annuì. «Possiamo fare una passeggiata?»
«Certamente. Che sbadato, non mi sono presentato! Il mio nome è Raivis Galante» disse, alzando il cappello e facendo un breve inchino.
«Piacere di conoscervi» rispose, imitando il suo gesto. Aveva imparato abbastanza in fretta i modi di fare degli europei, per sua fortuna.
I due s’inoltrarono nelle strade parigine, senza una meta precisa. Il giovane Raivis iniziò a discorrere di letteratura, dei romanzi e degli autori che più aveva apprezzato. Questo comportamento lasciò Kiku confuso, poiché, per quanto trovasse interessante la conversazione e i consigli del suo interlocutore, non comprendeva cosa ci fosse di così importante o urgente.
«Vi chiedo perdono, ma temo sia giunta l’ora di rientrare per me» lo interruppe, notando come ormai l’ora della cena si stesse avvicinando.
«Santo cielo! Sono mortificato. Dovevo discutere con voi di qualcosa di importante ma la lingua mi ha portato altrove. Posso chiedere qualche altro minuto del vostro tempo, signor Honda? Se non è un disturbo.»
Kiku sospirò. «Per favore, fate in fretta.»
«Certo, certo» disse, cercando con attenzione qualcosa nelle ampie tasche del soprabito scuro, alla ricerca di qualcosa.
«Ecco a voi. Credo possa interessarvi» disse quindi, porgendogli una piccola fotografia, che prese con delicatezza.
Una morsa d’acciaio strinse lo stomaco di Kiku, come se lo avessero appena colpito. Anche sotto la tenue luce del lampione, riuscì a distinguere chiaramente ciò che quell’immagine sfocata rappresentava.
«Voi… sapete cos’è questa, signor Galante?» chiese al giovane, restituendogli la foto. Le sue mani tremavano, sperava vivamente che Raivis non lo notasse.
«L’armatura da samurai della vostra famiglia» rispose candidamente questo, con sicurezza «È in possesso della persona che mi ha mandato a discorrere con voi, per cui faccio le veci.»
«La mia Nazione ha requisito quell’armatura, dovrebbe essere stata smantellata.»
«Non è così. È in possesso della persona che mi ha mandato da voi. Non gli è stato difficile acquistarla» ribadì il giovane, l’espressione fattasi più seria.
«Posso chiedervi perché mi state dando queste informazioni?»
«La persona per cui lavoro vorrebbe offrirvela in cambio dei vostri servigi.»
Kiku scosse la testa. «Voi vorreste… no. Sono costretto a rifiutare.»
«Signor Honda, mi rendo conto di avervi dato l’impressione sbagliata» aggiunse prontamente Raivis «Tuttavia, vorrei precisare che sono a conoscenza del triste destino della vostra famiglia. Vostro padre era un dissidente, corretto?»
Kiku s’irrigidì. «Mio padre non approvava la nuova politica. Ha fatto una scelta ed è morto con onore perseguendola. Non è lo stesso per me, né mi è concesso possedere un oggetto del genere.»
«Ne siete sicuro?» chiese Raivis, piegando leggermente la testa di lato «Ora vivete in Francia, non certo perché la vostra famiglia è apprezzata nel vostro Paese d’origine. In più, qui non vi è stata imposta alcuna restrizione. Non volete possedere nuovamente qualcosa che portava così tanto onore e orgoglio a vostro padre?»
Kiku tacque per alcuni istanti, troppo impegnato a riportare ordine nelle sue emozioni confuse. Il suo giovane interlocutore non aveva tutti i torti, gli sarebbe piaciuto possedere nuovamente almeno uno dei cimeli di famiglia che era stato costretto a cedere.
«Prima di darvi una risposta, gradirei sapere in cosa consistono questi “servigi”» disse, soppesando silenziosamente la sua posizione.
«Ma certo. Alla fine di quest’anno, si terrà un evento importante nel Nuovo Mondo. Nella città statunitense di Philadelphia, una gemma preziosa verrà esposta a un lussuoso ricevimento, prima di essere donata a un membro di una famiglia reale europea. Abbiamo ragione di credere che qualcuno voglia rubarla. La pietra sarà ufficialmente sorvegliata, chiaramente, ma è probabile che questi ladri siano abbastanza scaltri da evaderli.»
«E quindi avete bisogno di qualcuno tra gli invitati che la sorvegli. È corretto?»
Raivis sorrise. «Corretto, Signor Honda. Prima che me lo chieda, non dovrà preoccuparsi delle spese per il viaggio, se decidesse di accettare.»
Kiku annuì pensieroso.
«Se permettete, vorrei prima pensarci» disse pacatamente.
«Mi troverete fra tre giorni davanti alla splendida cattedrale che stavate disegnando. Alla stessa ora» disse il suo interlocutore, facendo un cenno di saluto con il capo «Non posso concedervi altra occasione. Buona serata.»
«Buona serata» rispose Kiku, imitando il suo gesto, prima di inoltrarsi nelle strade di Parigi. Aveva molto di cui pensare, ma, si rese conto, non poteva assolutamente farlo a stomaco vuoto.

 
*********************
 
 
San Francisco, settembre 1873
 
Alfred guardò i dieci uomini radunati davanti a sé, concentrando ogni singola energia in suo possesso per tenere a bada le tumultuose emozioni che lo stavano attraversando.
«È con profondo rammarico che vi comunico che fra non più di due mesi dovreste lasciare il vostro impiego presso la Jones Railways» annunciò, forse con tono più solenne del dovuto.
Bisbigli si sollevarono, di protesta e sconcerto. Quegli uomini dopotutto lavoravano per la sua azienda da più di dieci anni, quando era ancora suo padre a gestire ogni cosa.
«Sono spiacente» aggiunse «tuttavia, non dipende da me. Non ricevendo più alcuna commessa, non ho modo di pagarvi oltre al tempo che vi ho indicato. Usate questi due mesi per trovare un altro impiego e che Dio vi abbia in gloria.»
Alfred li guardò uscire uno per uno dal suo ufficio, sentì le loro occhiatacce risentite come spilli sul suo petto.
Aveva mentito.
Date le attuali finanze della compagnia, sarebbe stato fortunato se fosse riuscito a dare loro lo stipendio del prossimo mese.
Iniziò a camminare avanti e indietro nel suo piccolo ufficio, cercando di richiamare alla mente tutte le opzioni che aveva per valutarne la migliore. Dopo alcuni minuti, si lasciò cadere nella poltrona, esasperato. Il suo sguardo cadde inevitabilmente sulla piccola foto che teneva sulla scrivania di mogano, raffigurante sé stesso da giovane, abbracciato a suo padre.
Che cosa avresti fatto al mio posto?
 
I suoi pensieri via via più cupi vennero interrotti da un rumore di nocche sulla porta. Si alzò pigramente e andò lui stesso ad aprire, immaginando fosse uno dei suoi presto ex- dipendenti venuto a lamentarsi. Non fu affatto così.
Un giovane uomo, forse della stessa età di Alfred, lo salutò toccandosi il cappello.
«Il signor Alfred Jones?» chiese, con un inglese dal forte accento straniero.
«In persona» rispose, con un sorriso che morì sulle sue labbra in pochi istanti «se cercate un impiego presso la Jones Railways, devo deludervi.»
Il giovane si lisciò i vestiti sgualciti e scosse la testa, improvvisamente conscio dell’apparenza che il suo vestiario gli dava.
«Non temete, non è per questo che sono qui. Sono appena arrivato in città e non ho avuto il tempo di darmi una rinfrescata. Sono qui per affari.»
«Oh, certo!» disse Alfred, spostandosi per far entrare il suo visitatore «prego, accomodatevi. Bevete del whiskey, signor…?»
«Tolys Laurinaitis. Molto volentieri, grazie» rispose, accomodandosi a una delle sedie di legno poste davanti alla scrivania.
Alfred riempì due bicchieri con ciò che rimaneva nell’ultima bottiglia del suo whiskey preferito e ne porse uno al suo ospite, sedendosi quindi sulla sua poltrona.
«Cosa vi porta da queste parti, signor Laurinaitis?»
«Affari. Ho una proposta per lei che potrebbe essere di fondamentale importanza per le finanze della Jones Railways» disse, bevendo un sorso di whiskey.
«Per le finanze…?»
«Sono consapevole della crisi che sta attraversando il vostro Paese, signor Jones» precisò Tolys, sentendo lo sguardo sospettoso di Alfred su di sé «la Jay Cooke&Company è fallita poche settimane fa, corretto? So che investiva in attività come la sua.»
«È così» ammise, un po’ a malincuore «Cosa volete propormi, allora?»
«Alla fine del prossimo mese, ci sarà un ricevimento a Philadelphia. Verrà esposta una gemma preziosa, prima che questa venga donata a un nobile europeo. Abbiamo scoperto che qualcuno proverà a rubarla.»
«Ah! Ma… non potreste semplicemente assoldare più guardie? Perché io?»
Tolys scosse la testa. «Sospettiamo sia o siano organizzati. Abbiamo bisogni di qualcuno tra gli invitati che sorvegli la gemma senza dare nell’occhio.»
«Inoltre, signor Jones» aggiunse, il volto illuminato da un ampio sorriso «la fama della vostra famiglia vi precede! Si dice che vostro padre fosse un portento con le armi da fuoco e sono sicuro che lo stesso sia per il sangue del suo sangue.»
Alfred scoppiò in una fragorosa risata, un po’ per l’ironia della situazione, un po’ per la fitta che i ricordi risvegliati da quelle parole gli provocarono al petto.
«Diciamo che il mio vecchio mi ha insegnato un trucchetto o due, si» disse, tornando serio «Ma cosa otterrei in cambio, esattamente? Inoltre, non sono nelle condizioni economiche per affrontare tale viaggio.»
L’espressione di Tolys cambiò, lasciando sul suo viso un sorriso che però non coinvolgeva affatto il suo sguardo.
«Beh, innanzitutto, otterreste la gratitudine di una nobile famiglia europea dall’ingente patrimonio.»
«Quantifichiamo “ingente”, signore.»
«Abbastanza da stare tranquilli forse per un altro anno. Oh, non preoccupatevi del viaggio» disse Tolys, posando una busta voluminosa sulla scrivania «Qui c’è tutto. Biglietti del treno, alloggio. Dovete solo portare il vostro abito migliore, signor Jones. E la pistola.»
Gli occhi di Alfred s’illuminarono di gioia.
«Perché non l’avete detto subito, signor Laurinaitis? Partirò immediatamente.»




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Noticine a piè pagina:
Salve! Rieccomi con la seconda parte dell'introduzione dei nostri protagonisti. Insomma... un inglese, un francese, un americano e un giapponese si trovano a Philadelphia. No, non è una barzelletta.
Piccole info storiche: siamo nel bel mezzo della restaurazione Meiji e le famiglie di samurai, come quella di Kiku, o perdono potere e rinunciano alle loro tradizioni, o si ribellano; la rivolta più famosa (ma non l'unica) è quella di Satsuma del 1877. Per quanto riguarda l'America, nel settembre del 1873 inizia la seconda più grande crisi economica degli USA, chiamata amichevolmente "Panico del 1873"; quello che ho citato è il fallimento di una delle più grandi banche statunitensi, dichiarato proprio allora.
Spero che la storia vi sia piaciuta e, se avete voglia, fatemi sapere cosa ne pensate! A presto^^

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Capitolo 3
*** Scouting ***


Philadelphia, novembre 1873


Arthur arrivò a Philadelphia a metà novembre, con una settimana di anticipo rispetto al “grande evento” a cui avrebbe partecipato. Il viaggio in nave era durato quasi un mese ma non gli era dispiaciuto troppo. Non c’era molto da fare, ma per fortuna le partite serali a whist gli avevano permesso di racimolare una piccola somma di cui andava particolarmente fiero.
L’hotel dove avrebbe alloggiato, il “Black Horse”, non era particolarmente sfarzoso, ma molto pulito e ben curato. L’unico vero difetto era la distanza rispetto al luogo designato per l’evento, il lussuoso hotel Continental, che si trovava a mezz’ora di carrozza da lì e gli complicava la pianificazione del colpo.
Per questo, appena arrivato, decise di non perdere tempo e, posate le valigie e datosi una breve rinfrescata, scese subito le scale fino alla hall per prendere una carrozza.
 Al piano terra, un certo trambusto attirò la sua attenzione. Un gentiluomo stava discutendo con il concierge ed Arthur capì immediatamente il perché. Il gentiluomo parlava in francese, lingua a quanto pare non chiarissima al dipendente dell’hotel.
«Mon dieu, non è una richiesta impossibile» lo sentì lamentarsi.
«Posso aiutarvi?» intervenne Arthur, parlandogli nella sua lingua natale con una pronuncia pressoché perfetta. Il francese rimase qualche secondo a guardarlo stupefatto, prima di rispondere.
«La finestra della mia stanza non si chiude bene, ci sono spifferi e rischio pure che qualche ladruncolo mi derubi passando da lì» spiegò esasperato «Non riesco a farmi comprendere, a quanto pare.»
Arthur soppresse una risata per l’ironia e spiegò la situazione al concierge, questa volta in inglese.
 
 
 
Francis osservò stupefatto il giovane venuto in suo soccorso, mentre passava da un francese da perfetto parigino a un inglese da lord britannico con una semplicità disarmante. Era sicuramente più giovane di lui, tuttavia i vestiti semplici ma ben curati non gli dicevano molto delle sue origini. Si soffermò sulla sua espressione e sul portamento, uniche chiavi di lettura di questo misterioso sconosciuto, forse un po’ troppo a lungo.
 
Salvato da un giovane di bell’aspetto. La tua solita fortuna, Capitano Bonnefoy.
 
Grazie all’aiuto del suo inaspettato salvatore, riuscì a ottenere un cambio stanza, con suo grande sollievo.
«Vi ringrazio, monsieur» disse Francis sinceramente colpito «non so come avrei fatto senza il vostro aiuto.»
«È stato un piacere» rispose questo con tono neutro, sfiorandosi il cappello in segno di saluto «con permesso.»
«Oh no, per favore! Permettetemi di ringraziarvi a dovere. Posso offrirvi un calice di vino? O bevete altro?»
Francis si parò davanti al giovane sconosciuto, impedendogli fisicamente di uscire dall’hotel. Tutto si poteva dire di lui tranne che non ripagasse ii suoi debiti, soprattutto quando davanti a sé si trovava qualcuno che aveva suscitato la sua curiosità in quel modo.
«In realtà avrei un impegno» spiegò il suo salvatore.
«Insisto. È una cortesia a cui tengo particolarmente.»
Il giovane sospirò esasperato.
«Berrò volentieri del whiskey» disse con un candido sorriso, presumibilmente falso.
 
 
 
Arthur aveva scambiato appena due parole con quel francese e già stentava a sopportarlo. Aveva scoperto che si chiamava Francis e che era un capitano della marina francese, ma le informazioni interessanti terminarono lì. Ciò che sentì nell’ora successiva era un lungo monologo sulle incredibili imprese del suo interlocutore, che ascoltò con interesse solo per i primi cinque minuti. La sua mente era troppo focalizzata sulla missione che aveva e dover perdere tempo in quel modo lo stava irritando parecchio.
Si concesse comunque alcuni istanti per osservare meglio questo Francis, più per abitudine che per interesse. I capelli biondi erano pettinati con cura, ma portati decisamente più lunghi rispetto ai dettami della moda europea, ad indicare che forse questo Bonnefoy aveva passato diversi anni lontano dalla civiltà. La corta giacca blu scuro e i pantaloni chiari che indossava potevano essere stati una vecchia uniforme della marina francese un tempo, ma ormai erano troppo usurati per avere una qualche parvenza solenne. Tuttavia, sembravano aderire molto bene al fisico del francese, il che suggeriva che probabilmente erano fatti su misura; concluse che il francese non stesse mentendo sul suo lavoro, non del tutto almeno.
«Mi state osservando molto senza dire nulla, monsieur Kirkland» osservò Francis con un ampio sorriso in volto «avete trovato qualcosa di interessante?»
«Solo che non state mentendo» rispose Arthur con tranquillità, finendo l’ultimo sorso di whiskey.
«Ah, peccato» fu il commento deluso.
Arthur lo osservò per alcuni istanti, non del tutto sicuro della ragione di tale delusione. Decise infine che la risposta comunque non valeva il suo tempo e che era giunto il momento di defilarsi con discrezione, come solo lui sapeva fare.
«Mi rincresce interrompervi, monsieur Bonnefoy ma credo di dover usare la toilette» disse, alzandosi lentamente.
Il francese lo congedò con un cenno del capo e Arthur sparì dietro la porta dei servizi del bar dell’hotel.
 
 
Lo sguardo di Francis passava lentamente tra i bicchieri vuoti sul tavolino davanti a sé alla porta dei servizi del bar, ormai da diversi minuti.
 
Quanto ci vorrà per usare un bagno?
 
Francis si alzò e con passo tranquillo raggiunse la porta dei servizi.
«Monsieur Kirkland? Va tutto bene?» disse ad alta voce, spingendo delicatamente la porta.
Nel bagno però non vi era anima viva. Francis sollevò lo sguardo verso l’unica finestra della stanza, piuttosto piccola e decisamente troppo in alto per essere raggiunta da un uomo adulto in comuni abiti da giorno senza conseguenze.
Tornò al tavolino e ordinò un bicchiere di vino, sbuffando.
 
Maledetti inglesi, ora svanite pure nel nulla.
 
Dopo diversi bicchieri di vino, decise che non gli importava sapere dove quel giovane fosse finito, né quale stregoneria avesse usato. Posò lo sguardo sulla sedia vuota davanti a sé, notando solo in quel momento un indumento abbandonato.
 
Ecco, sarebbe interessante sapere dove siete andato senza cappotto.
 
 
 
Arthur salì rapido su una delle carrozze, prima che il gentiluomo a cui aveva sottratto il cappotto si accorgesse del pezzo di vestiario mancante. Fece appena in tempo a dare le indicazioni al cocchiere, che le prime urla si sollevarono dal locale da cui era appena uscito. Sorrise tra sé e sé, divertito; gli americani erano molto più semplici da derubare, almeno rispetto ai londinesi, a cui era abituato.
 
La carrozza percorse agevolmente le strade di Philadelphia, fino alla sua destinazione.
La prima cosa che Arthur aveva notato di quella città, con grande rammarico, era quanto le strade fossero ampie e gli edifici distanziati, impedendogli una classica fuga tra i tetti come era sua consuetudine. La sua destinazione non era da meno, anzi, dava perfino su una piazza molto ampia e probabilmente quasi vuota per l’ora della presunta fuga.
Le numerose zone verdi della città potevano essere una valida opzione, se non fosse stato per la scarsa vegetazione al loro interno, rendendoli solo un buon modo per far perdere temporaneamente le proprie tracce e non veri e propri nascondigli.
Passeggiò con tranquillità attorno all’hotel, osservando con discrezione l’edificio e memorizzando informazioni utili come l’altezza dei piani, la distanza tra le finestre di due piani successivi e la presenza di porte secondarie. Avrebbe avuto bisogno di più giorni per osservare le routine di tutti i dipendenti e i travestimenti per farlo senza dare nell’occhio o insospettire eventuali autorità non gli mancavano.
Se non altro, i travestimenti gli sarebbero tornati utili anche per evitare d’incontrare ancora quel francese. Rabbrividì al solo pensiero di essere intercettato nuovamente per un’altra conversazione, o peggio, per rispondere a domande indiscrete sulla sua fin troppo discreta fuga. Con rammarico, rifletté che questo probabilmente significava anche pranzare e cenare all’hotel con un travestimento addosso.
 
Che scocciatura.
 
Rientrò al “Black Horse” nel tardo pomeriggio e, con suo enorme sollievo, non incontrò alcuna seccatura. All’ora di cena notò che non vi era quasi nessuno nella sala ristorante dell’hotel, solo altri due gentiluomini. Il primo, dalle evidenti origini orientali, sembrava avere qualche difficoltà con le posate fornite dall’albergo. Il secondo, probabilmente un mediocre uomo d’affari, era troppo pensieroso o troppo stanco per distogliere l’attenzione dal panorama fuori dalla finestra, se non per consumare rapidamente il cibo nel suo piatto.
Ritenendo non valesse la pena derubare nessuno dei due, Arthur si ritirò nella sua stanza.



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Note a piè pagina:
Ciao a tutti e buone feste! Ammetto che questo capitolo non doveva arrivare così presto, ma ehi, probabilmente Babbo Natale è passato a portarmi un po' d'ispirazione. Non ho molto altro da dire in realtà, se non grazie per aver continuato a leggere questo mio esperimento un po' carino e un po' ridicolo. Come sempre, mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate! Alla prossima^^

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Capitolo 4
*** That boisterous American ***


Philadelphia, novembre 1873


Alfred scese dal treno, tirando un sospiro di sollievo. Il viaggio in treno era andato liscio come l’olio, anche se la sua mano non aveva mai per un istante lasciato la colt assicurata al suo fianco, nemmeno mentre dormiva. La notizia delle rapine ad opera della banda di Jesse James si era ormai diffusa in tutte le Americhe e nessuno si sentiva veramente al sicuro.
Si avviò verso la strada principale, alla ricerca di una carrozza per andare all’hotel gentilmente offerto dal suo “sponsor” d’oltreoceano, quando un curioso trambusto attirò la sua attenzione.
Subito fuori dalla stazione, un giovane stava cercando di dare delle indicazioni a un cocchiere, senza riuscirci.
«Avete bisogno di aiuto, signore?» intervenne prontamente Alfred.
«Dipende giovanotto, quanto sai il francese? Perché il signore qua presente parla solo quello» bofonchiò esasperato il cocchiere.
Alfred ringraziò mentalmente suo padre, che oltre a fornirgli una buona educazione, aveva insistito affinché imparasse qualche lingua straniera.
“Come pensi di allargare gli affari se sai parlare solo la lingua di casa tua e i clienti non ti capiscono?” gli diceva spesso.
«Dove deve andare, signore?» chiese Alfred al giovane in francese, ricacciando in malo modo un fastidioso senso di nostalgia.
Ora che aveva modo di osservare meglio lo straniero in difficoltà, Alfred notò il volto dai tratti orientali dietro la spessa sciarpa di lana, nascosto in parte dal cappello calcato sulla testa. Capì immediatamente perché nessuno lo capisse: il suo francese, per quanto ottimo, manteneva la cadenza tipica del suo Paese natale.
«Devo andare qui» gli disse, mostrandogli un bigliettino con il nome di un hotel, senza altra indicazione. Gli occhi di Alfred si illuminarono.
«Ah, il Black Horse! Venite con me, alloggiò anche io lì.»
 

Kiku si accomodò all’interno della carrozza, mentre il gentiluomo americano che l’aveva aiutato dava delle indicazioni al cocchiere.
«Vi ringrazio infinitamente» gli disse, non appena il loro mezzo partì.
«Non avete nulla di cui ringraziarmi, signor…»
«Honda. Kiku Honda.»
«Signor Honda! Non dovete affatto ringraziarmi, aiuto volentieri chi è in difficoltà. Il mio nome è Alfred Jones.»
«È un piacere conoscervi, signor Jones.»
Osservò in silenzio l’americano; nonostante Kiku avesse vissuto in Europa per alcuni anni ormai, i capelli biondi e gli occhi azzurri restavano due tratti notevoli ai suoi occhi e quel gentiluomo li possedeva entrambi. Inoltre, riconobbe immediatamente un capo d’abbigliamento che indossava, di cui perfino nelle strade di Parigi si era iniziato a vociferare.
«Posso porvi una domanda, signor Jones? Se non sono indiscreto.»
«Prego, prego, chiedete pure» rispose il suo interlocutore con un sorriso.
«Ho notato i vostri “blue jeans”. Siete per caso uno di quei cercatori d’oro?»
Il volto di Alfred si illuminò.
«Beh, io ormai non più, ma mio padre lo era! Era un grande uomo, sapete…»
Kiku ascoltò con grande attenzione i racconti sulle avventure del signor Jones senior, attraverso le parole di un figlio oltremodo entusiasta. Rimase piuttosto atterrito in realtà dal tono di voce e dal trasporto di quest’ultimo, probabilmente sarebbe stato considerato eccessivo perfino in Europa.
Non gli chiese mai perché stesse parlando al passato, temendo di intuire la risposta. Non sarebbe stato affatto educato e non gli andava proprio di mettere a disagio qualcuno che si era dimostrato così gentile con lui.
 
Arrivarono all’hotel e Alfred lo aiutò perfino con l’addetto alla reception, assicurandosi che gli venisse assegnata la stanza corretta.
Kiku si congedò dalla sua nuova conoscenza e, data l’ora tarda, riposò alcune ore nella sua stanza prima di scendere per la cena. L’hotel non aveva molti ospiti in quel periodo dell’anno, non contò più di una ventina di persone nella sala ristorante. Notò il signor Jones a un tavolo e il suo primo istinto fu quello di salutarlo. Tuttavia, non appena si avvicinò abbastanza, notò come questo stesse guardando fuori dalla finestra con sguardo spento. Qualcosa lo aveva demoralizzato, per cui decise di sedersi in un tavolo accanto e non disturbarlo.
A disturbarlo abbastanza fu invece il numero di posate presente al suo tavolo, che gli impegnarono buona parte delle sue energie mentali per la serata; erano il motivo principale per cui aveva frequentato raramente i ristoranti parigini. Era capitato che alcuni suoi compagni d’università l’avessero invitato a cena fuori, in quell’occasione gli era stato semplicemente detto di iniziare con le posate più esterne. Decise di seguire quell’indicazione, nonostante lo sguardo perplesso del cameriere che gli portava i piatti.
 
«Signor Honda!»
Kiku aveva appena finito la sua faticosa cena, quando si sentì chiamare da una voce familiare.
«Signor Jones.»
«Perché non siete venuto a cenare con me?»
«Sembravate assorto, non volevo disturbarvi» rispose Kiku, abbassando lo sguardo.
«Sciocchezze, avrei apprezzato la compagnia.»
«Oh, mi dispiace.»
Kiku sentì il suo volto scaldarsi per l’imbarazzo. La società occidentale era così tanto diversa dalla sua e ora temeva che quello che lui aveva considerato un gesto di cortesia fosse visto come mancanza di rispetto.
«Non preoccupatevi!»
Alfred si sedette sulla sedia libera davanti alla sua e incrociò le gambe. Il suo umore sembrava essere migliorato.
«Piuttosto, non credo di aver afferrato la ragione del vostro viaggio…» proseguì.
«Sono stato invitato a una festa che si terrà tra una settimana circa.»
«Una festa? Si tiene per caso all’Hotel Continental?»
Kiku annuì e gli occhi di Alfred s’illuminarono.
«Questa è davvero una bella coincidenza! Ci andrò anch’io.»
«Senza dubbio lo è.»
«E dite, avete programmi per i prossimi giorni?»
Kiku scosse la testa. «Semplicemente pensavo di visitare la città.»
«Potremmo visitarla insieme, signor Honda. Philadelphia è stata teatro di molti eventi importanti per la storia americana. Se vi sta bene, vorrei farvi da guida!»
Kiku guardò stupito Alfred per alcuni istanti. Non era sicuro di volere una guida, gli piaceva fare passeggiate tranquille in città a lui sconosciute, perdendosi talvolta. Accettando quell’offerta sicuramente avrebbe perso la tranquillità, ma d’altro canto gli sembrava davvero maleducato rifiutare la guida di una persona così disponibile.
«Sarà un piacere» disse infine, anche se non era del tutto vero.
 

 
La mattina successiva Alfred si svegliò presto e, con doveroso entusiasmo, scese le scale dell’hotel fino alla sala ristorante. Kiku Honda, il suo nuovissimo compagno d’avventure, lo stava già aspettando a un tavolo.
«Aspettate da molto?» gli chiese, sedendosi davanti a lui. Kiku scosse la testa.
«Sono appena arrivato.»
Un cameriere servì loro una sostanziosa colazione americana, che Alfred divorò con gioia.
«Ah, mi sono dimenticato di chiedervelo…» disse Alfred, prima di ingurgitare un gustoso pezzo di bacon «c’è qualche luogo che vi interessa visitare? Possiamo iniziare da quelli.»
«Beh, in realtà si…»
Kiku abbassò lo sguardo sul suo piatto, Alfred vide chiaramente le sue guance imporporarsi.
«Dell’hotel Continental ho sentito che fanno la miglior Angel Food Cake della città.»
«Oh? Vi piacciono i dolci, quindi?»
Il colore acceso dalle guance si espanse, ricoprendo il volto del giovane fino alla punta delle orecchie. Alfred lo sentì biascicare qualcosa sull’essere infantile, ma non capì le esatte parole.
«Non preoccupatevi, amico mio! Vi farò assaggiare i dolci migliori d’America» lo interruppe, alzando notevolmente la voce.
Kiku lo guardò in maniera strana, come se lo vedesse per la prima volta. Alfred scoppiò a ridere; lo sguardo del giapponese, unito al colorito acceso del suo volto, gli davano un’aria davvero buffa.
«Andiamo! Tutte quelle torte non si mangeranno da sole» aggiunse, alzandosi in piedi e uscendo con passo sicuro dall’hotel.
 
 

Kiku era ormai sfinito. Lui ed Alfred avevano fatto una lunga passeggiata per la città, fermandosi in tutti i luoghi che quest’ultimo riteneva rilevante: i monumenti della città e i locali che servivano dolci.
Alfred infatti sembrava aver preso molto seriamente il suo desiderio, un pensiero che fece sorridere Kiku. Per quanto chiassoso, quell’americano era davvero gentile e premuroso nei suoi confronti.
«… e infine questo è l’Independence Hall, il luogo dove è stata firmata la Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America» disse Alfred, davanti all’imponente costruzione di mattoni rossi. Erano arrivati infine nella splendida Indipendence Square e Kiku non aveva lasciato per un attimo il suo taccuino, appuntandosi tutto ciò che il suo cicerone gli raccontava.
In quel momento però decise di non scrivere altro e di usare il suo carboncino, ormai ridotto a un mozzicone, per fare ciò che gli riuscì meglio: disegnare. Gli ci vollero pochi tratti sfuggenti, e la sagoma dell’Independence Hall prese forma sul foglio, in tutta la sua austera bellezza.
«Ma è bellissimo!»
Kiku sollevò lo sguardo dal foglio, solo per incontrare quello splendente ed entusiasta di Alfred, che, con molta poca cura dello spazio personale, stava sbirciando il suo disegno da dietro la sua spalla.
«Siete troppo gentile» biascicò Kiku, sentendo ancora una volta il suo viso scaldarsi.
«Nient’affatto, amico mio. Che abilità straordinaria! Che talento! Magnifico, magnifico davvero.»
Di nuovo, Alfred aveva chiamato Kiku “amico” e di nuovo, Kiku si sentiva confuso. Per lui, un legame di amicizia era qualcosa di solido, costruito nel tempo. Come poteva quell’americano chiamarlo “amico”, se si conoscevano da appena due giorni?
«Uhm, vogliamo andare?» disse Kiku, sperando di cambiare efficacemente discorso.
«Beh la giornata volge al termine, dobbiamo solo rientrare, credo.»
«In realtà, visto che non siamo lontani dal fiume, mi piacerebbe prendere un battello e godermi il panorama… se siete d’accordo.»
Alfred lo guardò per alcuni istanti, uno sguardo che celava malamente un certo imbarazzo.
«Temo di non aver considerato nel nostro programma di oggi anche questa eventualità…»
Kiku si diede dello sciocco. La sua guida era stata così gentile da pagare ogni cosa per lui durante quella giornata, era ovvio che una situazione del genere prima o poi si sarebbe presentata. Inoltre, Alfred gli aveva accennato come l’attuale crisi economica che aveva investito il suo Paese avesse messo in difficoltà la sua Compagnia. Che sciocco ingrato che era stato! Doveva rimediare al più presto.
 

Alfred guardò esterrefatto il minuto giapponese sparire tra la folla con velocità inumana. Nonostante la bassa statura, Kiku Honda era davvero agile ed atletico, constatò con una certa sorpresa. Perfino lui faticava a stargli dietro.
Alfred si fermò per riprendere fiato. Aveva corso come un disperato lungo le rive del fiume Delaware per stare al passo di Kiku, ma alla fine ci aveva rinunciato. Si diede dello sciocco; probabilmente il giovane giapponese si era definitivamente stancato di lui e aveva deciso di fare quel tour in battello che tanto desiderava da solo.
«Signor Jones! »
Alfred si voltò, notando un braccio sventolare tra la folla. Si fece strada, schivando agilmente le persone, solo per trovare un minuto Kiku Honda, sudato e paonazzo, che ansimava pesantemente.
«Amico mio, è tutto a posto? Sembrate sfuggito per miracolo a una carica di bufali arrabbiati» disse, chinandosi su di lui.
«Ce li ho.»
«Cosa?»
«I biglietti del battello» disse Kiku, sollevando due pezzi di carta stropicciati che stringeva spasmodicamente nella mano «Siete… siete stato gentile. Per favore, accettate questo come pegno del mio… apprezzamento per tutto ciò che avete fatto per me.»
Kiku si inchinò, porgendo i biglietti con entrambe le mani ad Alfred.
«Non dovevate, davvero, è stato un piacere.»
«Ve ne prego. Sarei onorato di navigare lungo questo fiume assieme a voi, Signor Jones» insistette Kiku, non appena riprese fiato.
Alfred sorrise, lo stomaco ormai diventato un groviglio di emozioni, tra cui la gratitudine e la gioia.
«Accetto volentieri!»
 
 
Il viaggio in battello fu molto piacevole, perfino per gli standard di Kiku. Alfred aveva perso buona parte delle sue energie e ora potevano finalmente conversare con serenità. Alfred lo riempì di domande e Kiku fu ben felice di raccontargli dei suoi studi a Parigi e delle sue ambizioni per il suo Paese.
«Siete davvero una brava persona, signor Honda. La vostra famiglia in patria deve essere fiera di voi.»
A Kiku si formò un doloroso nodo in gola. Ringraziò le lunghe lezioni di disciplina e autocontrollo che suo padre gli aveva impartito; nessuno, nemmeno suo padre quando era in vita, gli aveva mai rivolto parole simili.
«Questo non lo so, signor Jones. Non ho più una famiglia.»
«Oh. Perdonatemi, non avevo inteso.»
Kiku scosse la testa, abbassando lo sguardo sulle mani intrecciate in grembo. «Mia madre morì quando ero in fasce. Mio padre è venuto a mancare pochi anni fa.»
«Non siamo poi così diversi...»
«Voi dite?» Kiku guardò Alfred, incuriosito.
«Mia madre morì quando ero piccolo, durante il nostro pellegrinaggio verso l’America. Mio padre è venuto a mancare qualche anno fa, per un malore. Mi manca ogni giorno della mia vita.»
Alfred osservava il pelo dell’acqua incresparsi al passaggio del battello. Non aggiunse altro, non era così bravo a contenere le emozioni come il suo interlocutore e non voleva certo mettersi a piangere in un momento del genere.
«Vostro padre ha cresciuto un figlio generoso e di buon cuore. Sono sicuro che sarebbe fiero di voi» disse Kiku, con una sicurezza nella voce che lasciò stupito perfino l’americano.
«Spero abbiate ragione, amico mio. Lo spero tanto.»
 

La giornata di Alfred e Kiku si concluse all’hotel, dopo cena. Non toccarono più argomenti così gravosi, come se tra loro si fosse instaurato un tacito accordo, come se entrambi sapessero già cosa albergasse nel cuore dell’altro e non fossero più necessarie ulteriori parole. Si salutarono davanti alla porta delle rispettive camere, con la promessa di rivedersi anche nei giorni successivi.
 

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Note:
Ciao a tutti! Eccomi di nuovo con un altro capitolo. Ebbene, se da una parte abbiamo Arthur e Francis che cercano di evitarsi (soprattutto Arthur), qui abbiamo un fin troppo gentile Kiku che non riesce a dire di no a un fin troppo chiassoso Alfred... e non è neppure andata così male!
Piccole noticine storiche: è proprio in quell'anno che Levi-Strauss inizia a vendere i suoi primi blue jeans, proprio a San Francisco e proprio ai famigerati cercatori d'oro.
Spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto e, se volete, come sempre, potete farmi sapere cosa ne pensate! Alla prossima^^

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Capitolo 5
*** That Infamous Night I ***


Quella sera, Francis Bonnefoy era semplicemente stupendo. Fu esattamente quello che si disse guardandosi allo specchio, mentre ammirava il suo riflesso tirato a lucido nella sua uniforme da cerimonia della Marine Nationale. Il blu e il bianco gli donavano particolarmente, dando quasi una patina luminosa a tutta la sua persona.
 
Ve la meritavate anche voi, un’uniforme così bella.
 
Il suo sorriso sparì, lasciando solo un vuoto soffocante al centro del suo petto. Scese rapidamente le scale dell’hotel e ordinò della tequila al bar del piano terra, quasi per abitudine.
Mezz’ora dopo, la sua compostezza era tornata e nella sua espressione serafica non vi erano più tracce di fastidiose ombre del passato. Chiamò una carrozza e si diresse all’hotel Continental, sempre meno convinto del lavoro che lo attendeva.


 
 
Per la grande serata di gala, Arthur indossò il completo migliore del suo repertorio, appositamente modificato per le sue “esigenze lavorative”: un gilet in broccato nero, un ascot tie verde scuro e un frac nero dalle maniche leggermente lunghe, dove vi si nascondevano piccole tasche per i suoi discreti strumenti da scasso.
Presentò il suo invito all’ingresso e lasciò il suo cappotto a un membro dello staff dell’hotel.
 
Si va in scena.
 
La sala del ricevimento era molto ampia ma arredata in uno stile insolito rispetto a quello a cui Arthur era abituato; la carta da parati color terracotta presentava una trama arabescata dorata, i mobili erano finemente decorati con motivi orientali e le lampade affusolate che scendevano delicatamente dal soffitto ricordavano i fiori di loto. Nulla di vagamente simile ai sobri interni neoclassici che si vedevano nelle case inglesi.
Arthur indossò il suo migliore sorriso ed entrò, cercando con lo sguardo volti familiari. La prima persona che riconobbe fu Eduard Von Bock, il gentiluomo che gli aveva fornito l’invito e il lavoro. Decise di non avvicinarsi, un po’ per prudenza, un po’ perché sembrava impegnato a conversare con altri tre gentiluomini e una signorina e non desiderava disturbarli.
«Sir Kirkland?»
Arthur si voltò al suono del suo nome, riconoscendo immediatamente le due persone che aveva davanti: aveva passato molto tempo con loro durante il viaggio in nave, spillando facilmente loro un bel gruzzolo di denaro giocando a carte.
«Signori, è un piacere incontrarvi nuovamente in circostanze più liete e rilassate» li salutò, facendo un cenno con il capo. Discussero del più e del meno per un po’, come l’etichetta richiedeva, senza troppo interesse reciproco.
«Ora che ci penso, sir Kirkland, ci dovete una bella rivincita a Whist!» fece notare uno di loro e Arthur sorrise, assaporando già la sua vittoria. Dopotutto gli invitati stavano ancora arrivando, non aveva fretta; il suo piano era già stato accuratamente preparato, doveva solo attendere.
«Mie signori, sarò felice di concedervi una rivincita! Trovate un quarto elemento e possiamo iniziare quando volete.»
«Credo di conoscere la persona giusta, attendetemi al tavolo» disse uno di loro, prima di sparire tra la folla.
 

 
Francis si era aspettato molte cose per quella serata. L’ultima di queste era ritrovarsi con il suo sfuggente salvatore inglese a un tavolo, a giocare a Whist. Probabilmente nemmeno lui se l’aspettava, a giudicare dal sorriso tremolante che gli aveva rivolto appena si era seduto davanti a lui.
«Sembra che dovremo collaborare, Monsieur Kirkland» disse scherzosamente, riservandogli un sorriso sornione.
«Fate la vostra parte, Monsieur Bonnefoy, e andrà tutto bene.»
 
Giocarono diversi round, puntando una discreta somma di denaro. Francis era piuttosto abile con le carte e si riteneva una persona abbastanza fortunata. Eppure, in tutti i suoi ventotto anni di vita, non aveva mai vinto una somma tanto ingente giocando a Whist. Fin troppe volte gli era arrivata una mano davvero buona e, quando non era così, Arthur sembrava avere sempre ciò che serviva per uscirne vittorioso.
Insospettito, Francis decise di osservare meglio il suo “alleato” durante quello che probabilmente sarebbe stata la loro ultima partita. L’inglese era certamente abile, lo notò mentre mescolava le carte con rapidi movimenti regolari, quasi ipnotici. Non colse però nulla di strano, sebbene non fosse sicuro nemmeno lui stesso di cosa stesse cercando.
 
Di sicuro non sono usciti assi dalle sue maniche.
 
Le carte che arrivarono a Francis però erano perfette, gli sarebbero bastati pochi round e sarebbero stati in vantaggio, arrivando ai cinque punti necessari per vincere. L’unica cosa che gli rimaneva da testare era sbagliare appositamente. Lanciò una carta del seme sbagliato.
L’espressione di Arthur rimase immutata, cosa che non stupì Francis più di tanto. Gli inglesi erano sempre così fastidiosamente composti. Doveva infastidirlo di più per ottenere qualcosa, quindi sbagliò di nuovo. Al secondo tentativo ottenne uno sguardo impassibile, al terzo un sopracciglio alzato, al quarto un tic nervoso alla palpebra destra.
A Francis non servì altro. Quell’inglese aveva sicuramente combinato qualcosa, ma era stato così abile che nemmeno Francis se n’era accorto.
 
Dovrò tenerlo d’occhio. Non che mi dispiaccia.
 
 

Arthur si alzò dal tavolo da gioco e, presa la sua parte della vincita, si congedò dagli altri giocatori. C’era qualcosa in quel Francis che lo metteva vergognosamente a disagio, qualcosa che andava aldilà del non voler dare spiegazioni per la sua fuga repentina della settimana prima. Forse era il suo sorriso sornione, o forse i modi naturalmente civettuoli di quel francese, ma Arthur aveva sempre e costantemente la sensazione che fosse in grado di leggergli l’anima e questo non riusciva a sopportarlo.
Inoltre, odiava il modo in cui aveva buttato via le carte pressoché perfette durante l’ultima manche. Insomma, chi è tanto sciocco da perdere volontariamente? Quell’uomo certamente non aveva sale in zucca.
 
In fondo alla sala si levò un applauso; una piccola folla aveva circondato una teca quadrangolare, coperta da un drappo scuro. Un giovane uomo si staccò dalla folla e si avvicinò alla teca, Arthur lo riconobbe come uno dei tre gentiluomini con cui Von Boch stava conversando all’inizio della serata. Era molto alto e ben piazzato, forse la persona più alta dell’intera sala; indossava un’uniforme cerimoniale con insegne russe, un dettaglio che Arthur notò solo in quel momento. Un sorriso cordiale dipingeva il volto leggermente fanciullesco circondato da un’aureola di capelli biondo chiaro.
«Buona sera a tutti» disse in un’inglese dal forte accento russo «il mio nome è Ivan Nikolaevič Braginski, consigliere personale della zarina Marija Aleksandrovna e vostro ospite per questa serata.»
La folla eruppe in un altro applauso, a cui Ivan rispose con un leggero inchino.
«Sotto questa teca si trova il gioiello dalla bellezza unica» proseguì, mantenendo lo stesso sorriso cortese, senza che questo arrivasse mai ai sottili occhi indagatori «che, nella sua magnanimità, Sua Maestà Imperiale e Reale ha concesso ai vostri occhi il piacere e privilegio di osservare.»
Il russo afferrò il pezzo di stoffa e lo rimosse, mostrando finalmente il contenuto della teca. Un opale candido grande quando una noce brillava al centro di essa, incantando gli occhi dei presenti con il riflesso di tutti i colori che la mente umana era in grado di concepire. La gemma era inoltre montata su un ciondolo d’argento e, facendo i calcoli con il costo attuale dell’argento, Arthur realizzò di poter tranquillamente usare quel gioiello per pagare lui stesso i migliori medici per suo fratello Conor e vivere di rendita nel frattempo. Non che volesse vivere di rendita, il suo lavoro lo divertiva fin troppo.
 
Il breve discorso terminò e una fiumana di gente affollò i dintorni della teca, esattamente come Arthur si aspettava. Uscì dal salone e salì le scale che portavano ai piani superiori, dove si trovavano le stanze degli ospiti. Il suo obiettivo era il ripostiglio del primo piano, dove la servitù teneva il necessario per le pulizie. Dai suoi appostamenti, sapeva che nessuno si sarebbe addentrato in quella stanza per almeno un’altra giornata, il posto perfetto per nascondere un certo travestimento.
Tutto quello che doveva fare era scassinare la serratura, per poter entrare rapidamente al momento giusto.
 
 

Francis ascoltò attentamente il discorso del russo, senza mai distogliere gli occhi dalla teca. Eccolo lì, il suo splendente obiettivo, sotto gli occhi di centinaia di persone. Scandagliò attentamente la stanza; non aveva esattamente pianificato qualcosa, non era nel suo stile, preferiva improvvisare.
Poteva sfondare la teca e sfruttare la sorpresa e lo sgomento per scappare, o creare un diversivo veramente rumoroso e rubare la gemma indisturbato.
Poteva fare molte cose.
Poteva.
In realtà, nemmeno Francis sapeva cosa avrebbe fatto; una prospettiva che in realtà lo elettrizzava parecchio.
Attorno a lui, poche erano le persone che si erano tenute a distanza dalla teca. La prima che individuò fu l’elegantissima Natalia, che individuò immediatamente mentre parlava con altri tre gentiluomini. Le sorrise, ma lei lo ignorò ostinatamente, con suo sommo dispiacere.
Non lontano da lui, un chiassoso americano stava intrattenendo alcuni ospiti con qualche storia che, per ragioni meramente linguistiche, Francis non comprendeva. In realtà, non era tanto l’americano chiassoso ad essere interessante, quanto il giovane di origini asiatiche alle sue spalle, che lo osservava con espressione impassibile. A Francis fece venire i brividi; i loro sguardi si incrociarono brevemente, ma Francis guardò immediatamente altrove.
La sua attenzione si spostò nuovamente sul misterioso Arthur Kirkland, nell’esatto istante in cui questo usciva a passo svelto dal salone.
 
Sbaglio o il nostro sfuggente gentiluomo inglese sta sorridendo?
 
Francis seguì Arthur con lo sguardo. Era sicuro di aver visto un’espressione insolitamente divertita sul suo volto e, per qualche inspiegabile ragione, il suo istinto gli disse di seguirlo.
Raggiunse il primo piano dell’hotel e, restando a debita distanza, osservò Arthur fermarsi davanti alla porta di uno sgabuzzino. Con rapida precisione, Arthur si tolse i guanti candidi ed estrasse dalle maniche della giacca due sottili strumenti metallici.
 
Oh? Un ladro, dunque?
 
Francis sorrise, elettrizzato dalla nuova informazione. Finalmente anche lui aveva un piano.
 

 
Arthur aveva controllato diverse volte il corridoio alle sue spalle prima di cimentarsi con i suoi strumenti. La serratura era leggermente arrugginita, un elemento che, calcolò, gli avrebbe fatto sprecare almeno un minuto in più rispetto al solito. Non sarebbe stato un problema.
Quello di cui non riusciva a capacitarsi era come quel maledetto francese avesse fatto a coglierlo di sorpresa.
«State cercando qualcosa, monsieur Kirkland?» lo sentì dire alle sue spalle.
Arthur sobbalzò per la sorpresa, tanto da dover fare appello a tutta la sua compostezza e al suo sangue freddo per riprendersi. Ritrasse uno dei due strumenti e si voltò verso il suo interlocutore; avrebbe fatto comunque quello che doveva fare con l’altro, anche se questo avrebbe ritardato di altri preziosi minuti il suo piano.
«Ah, monsieur Bonnefoy, stavo cercando il bagno e credo di essermi perso.»
«Il bagno, dite?»
Francis Bonnefoy avanzò lentamente verso di lui, un sorriso smagliante stampato in volto.
«Dovete defilarvi ancora una volta, Kirkland?» aggiunse, posando con nonchalance una mano sulla cornice della porta alle sue spalle.
Cercando istintivamente di nascondere quello che stava facendo, Arthur finì con le spalle al muro.
«Ah, quello. Spero non ve la siate presa…»
Arthur maledisse mentalmente quel francese e quella invasione del suo spazio personale. Era fastidiosamente vicino, troppo per i suoi gusti. Se non fosse stato un professionista con i suoi fidati arnesi da scasso, probabilmente gli sarebbero già scivolati di mano.
«Si. No. Forse…» sbuffò, fingendo di pensarci «potreste però rivelarmi il vostro segreto per farvi perdonare.»
«Magari sono semplicemente uscito e non mi avete visto.»
«Non prendetemi in giro, Arthur. Passi la vostra sparizione misteriosa, ma oggi mi avete fatto vincere un’intera manche di Whist. So barare con le carte, ma quello che avete fatto voi ha dell’incredibile.»
Francis afferrò il polso di Arthur, rivelando a quest’ultimo una forza inaspettata data la figura piuttosto sottile del capitano francese.
«Quindi, qual è il vostro segreto, mon cher
Arthur rise, a quanto pare qualcuno aveva sbirciato aldilà della sua maschera.
«Quello che ho fatto vi stupisce così tanto Bonnefoy, perché voi non siete altro che un dilettante, mentre io sono un professionista» disse Arthur, riempiendo la sua voce di disprezzo «le mie mani sono capaci di meraviglie che voi non potete nemmeno immaginare.»
Francis ammutolì, forse per alcuni istanti di troppo, la mente improvvisamente distratta dalle mani dell’inglese. Stava per ribadire qualcosa, quando Arthur terminò il suo lavoro: ci fu un “click” e la serratura cedette. Con loro grande sorpresa, tuttavia, anche la porta, probabilmente difettosa, cedette sotto il peso di entrambi.
 

 
Più tempo passava a Philadelphia, più Francis era convinto di essere stato baciato dalla fortuna. Non era passata neanche una settimana ed era già finito sopra un affascinante ladruncolo inglese, letteralmente.
La porta alle spalle di Arthur si era aperta, facendolo sbilanciare e cadere a terra. Francis, che aveva mantenuto la stretta sul suo polso, era caduto assieme a lui e ora lo osserva divertito dalla sua posizione di vantaggio.
«Quindi? Mi stavate parlando delle vostre mani» disse allegramente, mentre il volto dell’inglese diventava progressivamente del colore dei pomodori maturi. Francis gongolò, consapevole e compiaciuto dell’effetto che stava avendo su di lui.
«Vi dispiace…?» bofonchiò Arthur, distogliendo lo sguardo.
«In realtà, si. La vista da qui è meravigliosa.»
Arthur bofonchiò qualcosa nella sua lingua natia, dal tono probabilmente nulla di lusinghiero nei suoi confronti, sempre tenendo lo sguardo ostinatamente lontano dal volto di Francis.
«Intendete denunciarmi?»
L’inglese infine incrociò nuovamente il suo sguardo, dove Francis scorse una certa serietà nonostante le guance arrossate.
«Dipende. Avete in programma qualcosa di interessante per stasera?»
«Uno spettacolo grandioso, in realtà» rispose, ritrovando parte della sua spavalderia.
«Allora fatemi vedere di cosa siete capace.»
Francis si alzò e porse il braccio all’inglese, per aiutarlo. Arthur si alzò, ignorando totalmente l’offerta d’aiuto, e si lisciò gli abiti stropicciati. Una frazione di secondo più tardi, il suo pugno colpì il viso di Francis, tanto velocemente da non dargli nemmeno la possibilità di reagire.
«Me lo sono meritato.»
«Vi voglio sempre ad almeno dieci piedi da me.»
Francis si massaggiò leggermente la mascella, seguendo cautamente l’inglese verso il salone dell’hotel.




___________________________________
Note:
Eccomi di nuovo, così presto! Ebbene si, lo ammetto, avevo questo capitolo prontissimo da un po'. Le scene mi facevano troppo ridere!
Non ho molto altro da dire, se non che, finalmente, la situazione inizia a farsi interessante. Appare Ivan, a cui ho voluto dare un patronimico come si deve, come tutti i suoi connazionali. Francis ha un piano e no, non è portarsi a letto Arthur; quello al massimo è un effetto collaterale. Piacevole, ma collaterale. Ora, dovrete solo attendere il prossimo capitolo per scoprire perchè Kiku ha quello sguardo terrificante... ma ogni cosa a tempo debito! Nel mentre, grazie per essere arrivati fin qui con la lettura. Spero tanto che questa storia vi stia intrigando!

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Capitolo 6
*** That Infamous Night II ***


Quella sera, Alfred si osservò con attenzione allo specchio. Non amava indossare quel genere di abiti, troppo eleganti per i suoi gusti. Di fatto, aveva iniziato ad apprezzare i comodi blue jeans che a San Francisco erano diventati così comuni. Quel frac gli stava bene, ma non si sentiva certamente a suo agio. Scosse la testa, rassegnato. Non aveva esattamente scelta, l’occasione gli richiedeva un abbigliamento di quel tipo, non poteva farci nulla. Se non altro aveva un bell’aspetto, questo era indubbio.
Scese lentamente le scale cercando con lo sguardo il suo nuovo amico, che sicuramente lo stava aspettando. Individuò Kiku Honda quasi immediatamente, rimanendo per un lungo istante quasi stupefatto da ciò che i suoi occhi vedevano. Il giovane timido e imbarazzato sembrava essere stato completamente sostituito da un uomo dal portamento fiero, impeccabile. Indossava un’uniforme nera, con controspalline dorate e decori floreali sul petto e attorno al colletto alla mandarino. In mano, notò che reggeva un cappello a bicorno con delicate decorazioni rosa pallido e una spada assicurata al fianco.
Kiku, notando la sua presenza, gli rivolse un sorriso cordiale.
«Questo abito vi dona, Alfred» gli disse.
«Anche a voi…» biascicò, non esattamente sicuro di come rispondere «Vogliamo andare?»
 
«Quello che indosso ha qualcosa che non va?»
Alfred si riscosse dal flusso dei suoi pensieri, realizzando di non aver ancora staccato gli occhi dal giovane Honda. Guardò fuori dalla finestrella della carrozza, scoprendo che ormai si trovavano a più di metà strada. Scosse la testa.
«Non mi aspettavo… voi, così.»
Kiku piegò leggermente la testa di lato, rivolgendogli uno sguardo confuso.
«Ah. così sembro molto maleducato, mi dispiace. Intendevo, mi aspettavo di vedervi con qualcosa di più “tradizionale”. Qualcosa della vostra terra natale, ecco.»
«Questo lo è, in realtà. Sono abiti disegnati e regolamentati dallo stato giapponese.»
«Davvero? Un momento, voi non siete parte dell’esercito, vero?» chiese, assottigliando lo sguardo per cercare qualche mostrina che indicasse eventuali gradi.
Kiku scosse prontamente la testa.
«Per gli standard occidentali, io sarei un “nobile” in quanto a status. Scegliendo di vivere in Francia, ho scelto di servire il mio Paese in altro modo… possiamo dire che faccio le veci di un diplomatico, anche se il mio scopo è apprendere.»
La mente di Alfred ci mise alcuni istanti per comprendere la portata di ciò che aveva appena sentito, allibito dalle nuove informazioni.
«Non immaginavo minimamente.»
«Ha così tanta importanza?»
Questa volta fu il turno di Alfred di scuotere la testa. «Non fraintendetemi, sono sorpreso, ma non vi avrei trattato diversamente da qualsiasi altra mia conoscenza.»
 
L’hotel Continental era già gremito di persone quando Alfred e Kiku arrivarono, tanto da nascondere quasi completamente sotto un vociare chiassoso la gradevole musica da sala che la banda stava suonando.
Alfred si guardò attorno, scoprendo di conoscere buona parte degli invitati, almeno per fama. Banchieri, politici, imprenditori e molte altre figure di spicco si trovavano in quella sala. Molti di loro erano suoi rivali, molti altri nella sua stessa situazione finanziaria. Per quel che ne sapeva, i soldi erano una valida ragione per rubare una gemma preziosa.
Si avvicinò a un cameriere e prese due flûte dal vassoio che molto cortesemente gli porse.
«Mio caro amico, temo di dovervi lasciare per un po'. Ho degli affari da discutere con alcuni gentiluomini prominenti» disse a Kiku, porgendogli uno dei due bicchieri.
Kiku annuì reggendo il sottile gambo di vetro tra le dita, senza però mostrare alcun interesse nella bevanda.
 
 
A Kiku generalmente non piacevano le feste, soprattutto quelle occidentali. Non era un abile conversatore e faticava a reggere gli sguardi indiscreti degli invitati, attratti dai suoi lineamenti inusuali.
Si sentiva a tutti gli effetti un pesce fuor d’acqua ma, data la presenza di Alfred, sperava di riuscire a trovarsi un po’ più a suo agio. Dovette impegnarsi per nascondere la sua delusione quando gli disse che l’avrebbe lasciato a sé stesso.
Si guardò attorno, leggermente spaesato, deciso a concentrarsi sul suo compito per quella serata per non farsi divorare dal disagio crescente. Con suo grande rammarico, scoprì che la maggior parte dei presenti parlava inglese, lingua a lui del tutto sconosciuta. Fece un respiro profondo e, nonostante la barriera linguistica, aguzzò le orecchie, per captare e discernere voci e suoni che lo circondavano. In fondo, non era diverso dal trovarsi in mezzo a una foresta in primavera, quando la natura si risveglia e gli animali tornano ad emettere i loro versi incomprensibili; nemmeno in quel caso riusciva a comprendere cosa dicessero.
“Usa gli occhi per leggere il tuo avversario” gli diceva suo padre, durante i lunghi pomeriggi di allenamento “ma usa le orecchie per percepire l’invisibile”.
 
«Avete visto, c’è perfino quel Jones.»
Kiku sentì due gentiluomini parlare non lontano da lì, in francese per sua fortuna.
«Il Jones di cui mi avete parlato tempo fa? Quello della Jones Railways?»
«Proprio lui. Ha un bel coraggio, nevvero? È proprio disperato.»
«Ma dite che lo sia davvero?»
«Secondo i calcoli dei miei collaboratori chiuderà tutto entro la fine dell’anno, fidatevi. Perché uno come lui dovrebbe essere qui se non per elemosinare aiuto, uh?»
«Chi l’avrebbe mai detto… Suo padre era un uomo così per bene. Che vergogna.»
 
La prima reazione di Kiku fu quella di posare la mano sull’elsa della lama assicurata al suo fianco. Lui stesso rimase stupito del sangue che gli ribolliva nelle vene, dell’ira che lo aveva investito mentre ascoltava quelle parole. Alla fine, non lo fece; sentì invece la vergogna accartocciargli il petto mentre realizzava che non era merito del suo saldo autocontrollo, ma colpa della sua infima determinazione, della sua codardia. In fondo, lo stesso era accaduto quando suo padre aveva lasciato la loro casa per unirsi alla ribellione, e non aveva trovato il coraggio né di fermarlo, né di seguirlo. Fu l’ultima volta che lo vide vivo.
Bevve un sorso dal bicchiere di cristallo, sperando quasi che il liquido dorato facesse svanire i suoi pensieri cupi come tutti erano soliti dire. Rimase molto deluso quando non fu così.
Guardò Alfred, mentre parlava amabilmente con delle persone ben vestite. Non erano interessate a lui, lo capì dal linguaggio del corpo, mentre Alfred lo era fin troppo.
È disperato.
Bevve un altro sorso, mentre un pensiero fastidioso si fece strada nella sua mente. Dopotutto, le persone sono disposte a tutto pur di sopravvivere. Conosceva Alfred da appena una settimana, come poteva essere certo di ciò che albergava nel suo cuore? L’onore, si sa, è raro quanto le gemme preziose.
Se fosse qui per rubare quella gemma preziosa?
Bevve un altro sorso, dandosi dello sciocco. L’Alfred che aveva conosciuto era una persona giusta e di buon cuore. Passare l’ultima settimana con lui gli aveva dato la certezza che fosse così. Non avrebbe mai compiuto un atto tanto ignobile.
E se avesse avuto un secondo fine?
Bevve un altro sorso, dandosi ancora una volta dello sciocco. Non poteva sapere la sua identità. Alfred era stato sincero quando gli aveva detto che l’avrebbe trattato allo stesso modo, pur conoscendo le sue origini.
Lo era davvero?
Con un ultimo, lungo, sorso svuotò completamente il bicchiere del suo contenuto. Voleva far smettere quei pensieri che si accavallavano fastidiosamente nella sua testa, era l’unico motivo per cui aveva bevuto del vino. A lui nemmeno piaceva, il vino. Eppure, non solo la sua mente non si zittì, ma ottenne pure un fastidioso appesantimento della testa. Fermò un cameriere di passaggio con un vassoio di tartine e ne prese una, che mangiucchiò con poco interesse. Gli era anche stato detto di mangiare del cibo mentre consumava alcol, per non sentirne gli effetti; sperava che almeno quella diceria fosse vera.
Decise dunque di rimanere in disparte vicino a una finestra, ad osservare la situazione, sebbene il suo sguardo inesorabilmente finisse sempre per posarsi su Alfred.
Poche ore dopo, un giovane militare russo catturò l’attenzione della folla, intavolando un discorso che non comprese.
 
 
Alfred stava chiacchierando amabilmente con un banchiere e la sua giovane, spocchiosa figlia. La odiava, ma non era nella posizione di poter decidere come comportarsi, non mentre cercava di carpire al padre la sua situazione finanziaria; era di vitale importanza sapere chi tra quegli ospiti era abbastanza disperato da commettere una rapina. Aveva conversato a lungo con molti invitati e ormai stava andando per esclusione.
Dal discorso del consigliere russo, però, i suoi occhi avevano iniziato a saettare tra la folla che circondava la teca chiusa. Non era esattamente facile intavolare una discussione e osservare l’ambiente circostante, ma ad essere sinceri, se la stava cavando piuttosto bene, almeno secondo la sua opinione.
 
Accadde tutto molto in fretta, più di quanto in realtà Alfred si aspettasse. Le luci si spensero all’improvviso, lasciando l’intero piano nell’oscurità. Subito dopo, i vetri che coprivano le finestre del salone esplosero, tutti in una volta, scatenando definitivamente il panico. Gli invitati iniziarono a urlare e a gettarsi a terra, spaventati.
Alfred aveva tenuto per tutto il tempo la mano destra sulla sua fidata colt e mai aveva staccato gli occhi dalla porta principale. Chiaramente quello era un diversivo in piena regola, il modo che il ladro aveva escogitato per uscire dalla sala a crimine compiuto.
La sua intuizione era esatta: vide una sagoma uscire dalla porta, nell’esatto istante in cui le grida erano iniziate. Sparò un colpo, ma non riuscì a mirare come voleva a causa degli spintoni che continuava a ricevere dalle persone attorno a sé, colpendo malamente la cornice della porta.
Si fece strada tra la folla, cercando invano di raggiungere l’uscita, quando sentì qualcosa di sottile e affilato premergli sulla gola. La luce tornò ad illuminare la stanza.
«Fermati. Sei stato tu, vero?»
Riconobbe la voce del suo caro amico Kiku vicino al suo orecchio, alle sue spalle; il tono secco e privo di emozione, però,  gli fece venire un brivido lungo la schiena. In quel momento, ebbe sinceramente paura.
«Cosa? Che stai dicendo?»
«La gemma preziosa è stata rubata. Sei stato tu vero?»
«No! Ho visto il ladro!»
Tre guardie armate si avvicinarono, forse intuendo l’accaduto. Una di loro fece cenno a Kiku di abbassare l’arma e un’altra iniziò a perquisirlo.
«C’è un errore, signore!» disse Alfred disperato a una di loro, questa volta in inglese «Ho visto qualcuno uscire dalla porta mentre tutti gridavano! Per questo ho sparato. Il vostro ladro è già fuori!»
Fortunatamente, quegli uomini non erano degli sciocchi; alle parole di Alfred, alcuni di loro scattarono immediatamente, precipitandosi fuori dal salone. Alfred tirò un sospiro di sollievo.
«È pulito.»
A perquisizione completata, le guardie li lasciarono, presi da più urgenti doveri. Alfred si voltò verso il suo amico.
«Kiku! Stai bene? Si può sapere che diavolo-»
«Devo prendere il ladro» lo interruppe, precipitandosi immediatamente fuori dal salone.
Alfred imprecò a denti stretti e lo seguì. Non dubitava che Kiku fosse in grado di difendersi, glielo aveva appena dimostrato. Tuttavia, non riusciva a togliersi dalla testa l’espressione afflitta e lo sguardo disperato che gli aveva rivolto, forse perfino inconsapevolmente. Doveva trovare il ladro, certo, ma prima ancora voleva accertarsi che il giovane giapponese non facesse qualcosa di sciocco.
 
 
Dal quinto piano dell’hotel Continental, Ivan osservava le strade di Philadelphia, gremite di guardie e agenti di polizia. Erano passate diverse ore dal furto e, per l’occasione, aveva radunato i suoi sottoposti nel salottino della sua suit. Dava loro le spalle, ma riusciva a vedere chiaramente le loro facce terrorizzate nel riflesso del vetro.
«C’è qualcosa che mi volete dire?»
Eduard lanciò un’occhiata preoccupata prima a Tolys, poi a Raivis, prima di prendere la parola.
«Abbiamo impiegato il denaro per creare “qualcosa di divertente”, come ci avete chiesto, Gospodìn
«È stata un’idea di Natalia!» intervenne Raivis.
«Non osare, stupido bifolco! Eravate tutti d’accordo con me, quando l’ho proposto» strillò la giovane, gonfiando il petto indignata.
«Oh? Volete anche spiegarmi che fine ha fatto l’opale, dunque?»
Ivan sorrideva, ma non era per niente felice. I quattro ammutolirono all’improvviso, terrorizzati dalla reazione che sarebbe inevitabilmente seguita. Fu Tolys a trovare un inaspettato coraggio e a prendere la parola.
«Se permettete… vi spiego la situazione, Gospodìn
«Sarà meglio per tutti voi.»
Tolys cercò di riassumere il più possibile, sperando di non peggiorare ulteriormente l’umore di Ivan. A racconto terminato, quest’ultimo si girò verso di loro.
«Quindi… domani incontreremo il vincitore di questa messa in scena, da
«Esatto.»
Ivan si accomodò su una poltroncina e sorrise.
«Ammetto che sembra divertente, eheh. Avete fatto un ottimo lavoro! Sono sinceramente stupito.»
I quattro tirarono finalmente un sospiro di sollievo.



_______________
Note: Eccoci qua finalmente! Dopo una lunga (o quasi) attesa, il capitolo è uscito. Che dire... è successo! Ma per i dettagli sull'accaduto, dovrete aspettare il prossimo capitolo eheh. Piccolo dettaglio sugli abiti di Kiku: il colore dei fiori appuntati definivano il grado nobiliare dell'utilizzatore (basato a sua volta sulla ricchezza della famiglia). Il rosa è il colore riservato ai "conti"! Quindi... Nobiltà medio-alta(?). Insomma, è ricco. Grazie per essere arrivati fin qui con la lettura! Fatemi sapere cosa ne pensate^^

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Capitolo 7
*** The escape route ***


Per l’ennesima volta Arthur guardò il suo orologio da taschino, infastidito dalla piega che il suo piano aveva preso. Non che ci fossero stati grossi ritardi sulla sua tabella di marcia, ma proprio non gli andava il coinvolgimento di quel francese. Sapeva troppe cose e non si fidava minimamente.
Scosse la testa, come per scacciare i ricordi degli eventi appena accaduti. Non poteva permettersi distrazioni, non in quel momento. Al francese avrebbe pensato dopo.
Le luci si spensero, proprio come aveva programmato. Infilò una mano in una delle tasche interne della sua giacca, dove aveva nascosto una semplice, ruvida pietra. Anche se l’avessero perquisito all’ingresso, nessuno avrebbe fatto storie per un banale sasso.
Quando le finestre andarono in frantumi, Arthur lanciò la pietra verso la teca, rompendo il fragile vetro che lo separava dall’opale. Nascosto dall’oscurità, dal fragore e dal caos che ne seguì, l’inglese afferrò l’ambito premio e uscì rapidamente dal salone.
 
 
Francis osservò ammirato lo svolgersi degli eventi, da una tranquilla e sicura posizione accanto all’ingresso. Quell’inglese era davvero pieno di risorse, doveva ammetterlo.
L’unica nota stonata era stato un certo colpo di pistola, decisamente troppo vicino alla sua testa. Se non altro poté godersi un piacevole equivoco tra le guardie armate, un americano chiassoso e il giovane spaventoso dai tratti orientali.
È ora di mettere in atto il mio piano.
Non capì cosa le guardie armate si stessero dicendo, ma ne fermò comunque una mentre uscivano dal salone.
«Parlate francese?»
L’uomo aggrottò la fronte, poi chiamò un suo collega decisamente più giovane.
«Cosa posso fare per voi?» gli chiese, in un francese un po’ stentato.
«Ho visto uscire qualcuno quando era buio» gli disse, cercando di parlare il più lentamente possibile «aveva i vestiti del personale dell’hotel.»
«Hotel?»
«Hotel. Personale. Visto.» ripetè, indicando i suoi vestiti.
Lo sguardo della giovane guardia s’illuminò e uscì immediatamente dal salone, urlando qualcosa in inglese ai suoi colleghi. Francis sospirò, sperando vivamente di essersi fatto comprendere.
 
 
Arthur uscì dallo stanzino, gli abiti eleganti sostituiti da un’anonima divisa da inserviente. Prese uno dei carrelli per le pulizie e nascose i suoi vestiti in uno dei cesti usati per la biancheria sporca. Infine, scese al piano terra.
Non poteva uscire in grande stile o sfruttare la sua velocità come al solito, l’hotel era pesantemente sorvegliato e, come gli aveva suggerito il suo ultimo sopralluogo, avvenuto quella stessa mattina, pattuglie troppo numerose circondavano l’edificio. Doveva essere paziente ed aspettare l’occasione giusta per svignarsela senza dare nell’occhio.
Si guardò attorno; molte delle guardie si erano riversate all’esterno, allontanatesi per cercare un presunto fuggiasco. Spinse il carrello lungo i bui corridoi dell’hotel, fino alla lavanderia. Caricò i suoi abiti in un sacco e scassinò rapidamente la porta che dava verso l’esterno, usata dagli inservienti per lasciare la spazzatura per i carrettieri del giorno dopo. Guardò l’orologio da taschino: aveva impiegato meno di un minuto per l’intera operazione. Sorrise soddisfatto, prima di uscire dall’Hotel.
Non doveva attirare l’attenzione. Al massimo, se qualcuno si fosse soffermato a guardarlo, avrebbe dovuto vedere un inserviente che gettava la spazzatura e non curarsene. Non andò affatto così.
«Alt! Fermatevi.»
Arthur obbedì, mascherando la sorpresa dietro a un’espressione impassibile. Due guardie si stavano avvicinando, un imprevisto a dir poco sgradito.
«C’è qualche problema, signori? Stavo solo buttando la spazzatura» disse, cercando di riprodurre un accento americano credibile. Non aveva avuto molto tempo per esercitarsi in realtà, sperava fosse sufficiente.
«Stiamo cercando un ladro, dobbiamo perquisirla. Metta a terra il sacco e tenga le mani bene in vista!»
L’inglese imprecò a denti stretti, maledicendo la sua sfortuna. Gli era rimasta un’unica opzione. Scattò verso il vicolo più vicino, iniziando a correre più veloce che poteva. Alle sue spalle le guardie urlarono qualcosa, poi una di loro soffiò in un fischietto. Farsi perquisire non era un’opzione e non ci teneva ad avere uno stuolo di guardie alle calcagna; doveva allontanarsi il più in fretta possibile.
Aveva chiara all’incirca la direzione che stava prendendo, era certo che in quella direzione ci fosse il fiume Delaware. Continuò a correre, svoltando in tutti i vicoli meno illuminati che riusciva a incrociare. Il vociare delle guardie che gli intimavano di fermarsi era però sempre troppo vicino.
Uno strattone improvviso al braccio colse Arthur alla sprovvista, trascinandolo controvoglia nello spazio angusto tra due magazzini della zona portuale. Con suo grande rammarico, oltre ad avere le spalle al muro, si ritrovò faccia a faccia con la persona che meno desiderava vedere in quel momento.
«Bloody hell, che cosa ci fate qua, stupido francese?» sibilò, cercando di dissimulare un certo disagio. Lo spazio a loro disposizione, infatti, non permetteva a due persone di camminare fianco a fianco, costringendo il francese a stargli decisamente troppo vicino.
Francis Bonnefoy si portò un dito alle labbra, facendogli cenno di stare in silenzio.
«Sono venuto in vostro soccorso. Ho sentito qualcuno dire alle guardie che è stato un cameriere. Hanno iniziato a perquisire tutto il personale dell’albergo.»
«Molto premuroso da parte vostra, ma se ci vedono-»
«Questo si risolve molto facilmente, Arthur» lo interruppe il francese, avvicinando pericolosamente il volto al suo orecchio «dobbiamo solo dargli una buona ragione per voltarsi dall’altra parte. Reggetemi il gioco.»
«Cosa-»
Arthur venne interrotto ancora, questa volta da labbra morbide che premevano contro le sue.
 
 
Per quanto amasse improvvisare, Francis non era affatto uno sprovveduto. La sua intenzione era rovinare la fuga perfetta dell’inglese e avere una scusa per trovarsi lì, ma se Arthur fosse stato catturato, sarebbe stato contro producente per entrambi.
Per questo aveva praticamente costretto Arthur conto il muro, un braccio convenientemente posato all’altezza del suo viso, per nasconderlo da chi li avesse visti dalla strada. Sicuro che quella loro vicinanza avrebbe nascosto anche il vestiario compromettente dell’inglese, lo aveva baciato, un po’ per convenienza, un po’ perché era dalla loro precedente “caduta” che ci stava pensando e l’occasione era perfetta.
Dati i precedenti, Francis si sarebbe aspettato un altro pugno in faccia, un calcio, o come minimo uno spintone infastidito, ma nulla di tutto questo accadde. Dopo alcuni istanti, dita sottili s’insinuarono tra i suoi capelli, sorreggendogli la nuca mentre le sue labbra venivano aggredite da piccoli, voraci baci. Forse “morsi” era la parola più adatta a descriverli, era abbastanza sicuro che l'inglese volesse staccargli le labbra.
 
Oh. OH.
E pensare che volevo pure essere delicato.
 
A Francis quasi dispiacque fare quello che doveva fare, la situazione stava prendendo una piega davvero interessante. Fece scivolare la mano rimasta libera lungo il fianco dell’inglese, quasi come una carezza, sebbene il suo scopo fosse quello di frugargli le tasche.
Scrutò il volto di Arthur alla ricerca del più piccolo segnale di allarme, soffermandosi forse più del dovuto sugli occhi socchiusi e le lunghe ciglia scure che di tanto in tanto gli sfioravano le guance.
 
Questo è senza dubbio il lavoro più bello che io abbia mai fatto.
 
 
 Quanto era durato quel bacio? Minuti? Ore? Arthu non ne aveva la minima idea.
«Le guardie se ne sono andate, ma se volete possiamo continuare» sussurrò Francis sulle sue labbra.
Arthur distolse lo sguardo, ma le sue orecchie confermarono le parole del francese. Le guardie si erano allontanate a sufficienza.
«Non siate ridicolo. Mi avete detto di stare al gioco ed è quello che ho fatto, ora allontanatevi» disse, rimarcando le sue parole esercitando una leggera spinta su entrambe le spalle di Francis.
«Ne siete sicuro? Sembravate molto preso.»
Il francese fece un passo indietro e sorrise, chiaramente soddisfatto.
«Grazie per la premura, Capitaine Bonnefoy. Ora andatevene» sibilò Arthur infastidito, facendosi strada per uscire da quello spazio angusto «E, per cortesia, d’ora in poi rimanete veramente a dieci piedi da me. Grazie.»
Lanciata un’ultima occhiataccia alle sue spalle, Arthur lasciò il francese a sé stesso. Doveva trovare un posto tranquillo in cui cambiarsi d’abito, il più in fretta possibile; sapeva che nei dintorni c’era un piccolo parco, ma concentrarsi era diventato improvvisamente molto difficile.
Si sfiorò le labbra con la punta delle dita, abbandonandosi per qualche istante all’incredulità, anzi assurdità, di quello che era appena successo. Faticava a credere di aver baciato un uomo, un francese perdipiù, in un modo così naturale. Era necessario, non avrebbe potuto fare altrimenti, si disse. Eppure, una parte di lui era rimasta piacevolmente soddisfatta.
Come un faro in mezzo alla tempesta, il piccolo parco che stava cercando si parò davanti a lui, illuminato debolmente dalle fila di lampioni sulla strada. Vi entrò cautamente, alla ricerca di un posto sufficientemente appartato per cambiarsi d’abito senza dare nell’occhio.
«Non muovetevi.»
Qualcosa di molto sottile ed affilato apparve all’improvviso all’altezza della gola di Arthur, che scorse sotto il tenue bagliore lunare la lama di una spada. L’inglese non mosse un muscolo.
«Siete voi il ladro?» continuò la voce misteriosa, in un ottimo francese sporcato da un accento orientale.
 

 

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Note: eccoci qua, dopo tanto tempo il nuovo capitolo è arrivato! La tensione è ormai alle stelle e quando succede, beh… direi che far uscire un capitolo del genere il giorno dell’anniversario dell’Intesa Cordiale è semplicemente perfetto. Grazie ancora a chi è arrivato fin qui con la lettura, spero che quest’avventura sopra le righe vi stia piacendo! Alla prossima^^
 

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Capitolo 8
*** That bloody samurai ***


Kiku fece un respiro profondo, permettendo all’aria gelida di entrargli finalmente nei polmoni e raffreddare le sue emozioni ingarbugliate.
«Fermatevi! Dove state andando?»
Una mano salda gli afferrò la spalla, costringendolo a fermarsi. Alfred occupò ben presto il suo campo visivo, causandogli una dolorosa fitta al petto per l’imbarazzo e la vergogna. Ciò nonostante, notò nervosismo nei modi del suo amico e panico nei suoi occhi, mentre preoccupato gli scrutava il volto alla ricerca di chissà quale segno di sofferenza.
Kiku non capiva quella preoccupazione. Aveva commesso un errore, accusandolo ingiustamente di crimini che non aveva commesso. Alfred gli aveva dimostrato gentilezza e disponibilità, eppure aveva dubitato di lui, comportandosi in modo meschino e disonorevole. La reazione più sensata nei suoi confronti avrebbe dovuto essere la rabbia.
La rabbia era un’emozione che Kiku comprendeva, gli era familiare. Avrebbe preferito vedere quella sul volto di Alfred e sentire quella nella sua voce, perché davanti ad essa sapeva come reagire, come salvaguardarsi dalle urla nascondendo i suoi pensieri in un angolino remoto della sua mente.  Invece, fissò il suo amico a lungo, l’espressione impassibile, gli occhi spenti. Come doveva reagire alla sua preoccupazione?
«Personale dell’hotel» mormorò infine, distogliendo lo sguardo. Realizzò che non aveva tempo per perdersi in quelle elucubrazioni, aveva un ladro da braccare. C’era l’onore della sua famiglia in gioco.
«Come prego?»
«Personale dell’hotel. Un gentiluomo vicino alla porta ha detto alle guardie di aver visto uscire qualcuno con gli abiti del personale dell’hotel» ripeté, questa volta con più sicurezza.
«Come un maggiordomo? Allora potrebbe tentare di uscire dalle cucine!»
 
Alfred prese la mano di Kiku e iniziò a correre verso una delle porte di servizio, dove presumibilmente si trovavano le cucine. Il suo minuto amico giapponese non fece fatica a tenere il passo, ma l’americano non ne era stupito, dopotutto l’aveva visto sfrecciare tra la folla a velocità inumana meno di una settimana prima.
La strada che imboccarono era vuota e la porta delle cucine chiusa dall’interno. Accanto a lui, Kiku gli strattonò leggermente la manica della giacca, facendogli cenno di nascondersi dietro il muro.
«Controllate la via, io vi compro le spalle» gli sussurrò, alzandosi sulle punte dei piedi per raggiungere il suo orecchio, non appena furono entrambi nascosti tra i mattoni e le piante ornamentali da esterno.
Alfred prese la sua colt e, assicurandosi fosse caricata a dovere, si appiattì contro il muro, pronto a reagire a qualsiasi minaccia. Il peso della schiena di Kiku a contatto con la sua gli riportò alla mente per un istante gli eventi appena accaduti.
«Siete sicuro di stare bene, amico mio?»
Sentì Kiku sospirare alle sue spalle. «Si. Tuttavia, vorrei porvi le mie scuse più tardi, in modo appropriato.»
«Lasciate perdere! È stato un errore, succede. Siamo a posto.»
Ci fi un altro sospiro. «Vorrei farlo comunque, se me lo permettete. Prima però pensiamo al ladro.»
Alfred stava per dire qualcosa, ma le sue parole vennero coperte da un fischio acuto.
«L’hanno trovato.»
 
Kiku scattò verso l’origine del suono, Alfred a pochi passi dietro di lui. Ben presto, altre guardie armate li affiancarono, in un inseguimento che li portò presso le sponde del fiume Delaware. Uno strattone al polso fece fermare il giovane giapponese.
«Fermiamoci» gli disse Alfred, osservando i dintorni con attenzione.
Kiku lanciò un’occhiata alle guardie che avevano seguito fino a quel punto.
«Lo perderemo…»
«Le guardie lo hanno già perso, si stanno sparpagliando. Il bastardo deve essersi nascosto, faremmo meglio a fermarci e cercarlo anche noi.»
«Forse allora dovremmo dividerci per coprire una zona più ampia» rifletté Kiku, realizzando la correttezza delle osservazioni del suo amico.
«Non credo sia il caso» disse invece l’americano, stringendo leggermente la presa sul suo polso «Sembrate un po’ scosso, amico mio.»
«Sto bene, davvero» ribadì, ma dall’espressione pensierosa di Alfred capì di non essere minimamente riuscito a convincerlo.
«Se facessimo che» aggiunse, sperando di trovare un compromesso «ci rivediamo tra dieci minuti esatti in questo posto, uhm… sotto quel lampione, vicino al cartello?»
Alfred guardò il punto indicato, poi Kiku, poi di nuovo il lampione.
«Dieci minuti» disse, lasciandogli finalmente il polso «Se non vi trovo qui, vengo a cercarvi.»
 
Alfred vagò per un po’ per le strade di Philadelphia, sovrappensiero. Non gl’importava molto dell’errore del suo amico, dopotutto aveva buoni motivi per dubitare di lui. Aveva già accettato le sue scuse, anche se si era mentalmente appuntato di non farlo mai arrabbiare, per nessuna ragione. Rabbrividì al solo pensiero.
Tuttavia, quell’errore gli aveva dato l’occasione di notare un paio di cose interessanti che gli sarebbero semplicemente sfuggite se si fosse precipitato alla cieca fuori dall’Hotel. La prima, nonché più importante, erano le pietre vicino alle finestre; non c’era stata nessuna bomba come qualcuno aveva supposto, ma tante pietre lanciate nello stesso istante che avevano rotto tutti i vetri del salone. Il ladro aveva necessariamente una folta squadra di complici, organizzati e veloci poiché erano riusciti a sfuggire alle pattuglie esterne all’edificio.
Calciò un sasso con fare annoiato. Non vi era nessuno di sospetto in quella zona della città, per cui decise di tornare indietro, verso il punto di ritrovo.
La voce concitata di Kiku interruppe il filo dei suoi pensieri, riportandolo alla realtà. Intravide la sagoma del giapponese all’interno di un parco, la spada sguainata contro qualcuno che non riusciva a vedere. Si precipitò all’interno del parco, riuscendo infine a scorgere la divisa dell’Hotel Continental addosso alla sagoma misteriosa, poco prima che questa scartasse di lato per evitare il filo della lama contro la sua gola.
Kiku non si fece cogliere alla sprovvista, ridusse rapidamente la distanza con l’avversario e sferzò l’aria con la sua spada, tagliando un lembo della manica dell’uomo e lasciando un segno rosso sulla pelle.
Il ladro represse a stento un grido di dolore e con un gesto fluido della mano sana fece apparire un coltello dalla manica, che lanciò nella direzione del giapponese. Fu semplice per Kiku sollevare la spada e deviarne il percorso, ma il ladro si dimostrò più furbo e più veloce: seguendo la traiettoria del coltello, si avvicinò velocemente al giapponese e assesto un poderoso calcio alla mano che reggeva l’arma.
La spada di Kiku scivolò a terra.
Alfred intervenne prontamente, sicuro di non essere stato notato. Puntò la pistola e, dopo un profondo respiro, sparò. Il proiettile sferzò l’aria e passò a pochi millimetri dalla guancia del ladro, bruciando qualche ciocca di capelli e conficcandosi su un albero alle sue spalle.
«Ho mancato di proposito, la prossima volta non lo farò.»
Il presunto ladro non mosse un muscolo mentre Alfred si avvicinava, arrivando a puntargli l’arma contro la tempia.
«Muovete un muscolo e vi pianto una pallottola in testa. Kiku, perquisite quest’uomo.»
In silenzio, Kiku si assicurò nuovamente la spada al fianco e fece come Alfred gli aveva chiesto.  
«Abbiamo un problema, Alfred. Costui non può essere il ladro… non ha l’opale!»






 
 
Note finali: Salve a tutti, eccomi di nuovo con questo capitolo ricco d’azione! Avete capito bene, Arthur non ha l’opale. Come reagirà il nostro amato ladro inglese? Ma soprattutto, che brutta fine farà Francis? Il prossimo capitolo è già abbozzato, non dovrete attendere ancora molto! Grazie per essere arrivati fin qua con la lettura, spero che quest’avventura vi stia piacendo^^

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Capitolo 9
*** Heavy sighs and boiling blood ***


Lo sguardo stupito di Arthur passò dall’americano folle che gli stava puntando una pistola alla tempia, al giapponese che stava rovistando tra i suoi vestiti.
«Che storia è mai questa? Siete pazzi? Chiamo le guardie» urlò all’americano, imitando come meglio poteva il suo accento.
Posò la mano sul braccio ferito, tamponando il rivolo di sangue con i lembi di stoffa squarciata. Faceva male ma non era un taglio profondo; era certo che, se avesse voluto, il giapponese gli avrebbe tranquillamente tagliato il braccio. Il suo cuore fece un balzo in gola al solo pensiero.
«Calma amico, stiamo aiutando le guardie a cercare un ladro» ribadì questo.
«Senti, stavo andando a restituire delle cose a un ospite, non so di cosa stai parlando.»
L’americano e il giapponese si scambiarono uno sguardo d’intesa, poi il primo abbassò la pistola.
«Fai attenzione, il ladro è ancora in circolazione.»
«Lo farò. Dannazione, dovrei denunciarvi» mormorò a denti stretti, fingendosi seccato mentre recuperava rapidamente le sue cose.
Arthur quasi corse via da quel parco, deciso a non incrociare mai più la strada di quei due pazzi. Svoltò alcuni vicoli, quindi si prese alcuni istanti per calmarsi. Doveva trovare un posto per cambiarsi d’abito il più in fretta possibile, aveva un maledetto francese a cui dare la caccia.
 
 
Francis stava passeggiando tranquillamente per le strade di Philadelphia. L’hotel era lontano, ma non aveva alcuna intenzione di chiamare una carrozza. A che pro, dopotutto? Aveva ottenuto quello che desiderava, poteva prendersela comoda.
Nello stesso istante in cui formulò quel pensiero, sentì un tonfo alla sua destra. Non fece in tempo a voltare la testa che il suo intero corpo venne sbattuto contro il muro dell’edificio più vicino.
«Dove pensate di andare, Bonnefoy?»
Arthur Kirkland sorrideva, il volto vicino al suo, separati soltanto dal coltello che gli stava premendo sulla gola.
«Chi si rivede… a cosa devo questo piacevole incontro a così poca distanza dal precedente?»
L’espressione di Arthur si deformò in un ghigno inquietante.
«Non prendetemi in giro, schifoso francese. Sapete benissimo perché sono qui» disse, esercitando ulteriore pressione sulla sua gola.
«Forse… ma ditemi, non dovevamo stare a dieci piedi di distanza? Sembra che non vi dispiaccia essermi così vicino, in fondo.»
«Tacete e consegnatemi l’opale, o vi farò stare zitto in altro modo.»
Francis sogghignò. «Non siete un assassino, Arthur Kirkland. Non lo fareste mai.»
 
Arthur guardò il volto del francese continuare a sorridergli in maniera fastidiosa. Si stava innervosendo, la posta in gioco era troppo alta e non aveva tempo da perdere con questi stupidi giochetti. Premette ancora il coltello sul suo collo, permettendo a una goccia di sangue di rigare la pelle candida.
«Forse non lo sono… ma un uomo sufficientemente disperato può diventarlo, non credete?»
Francis iniziò a ridere, scoprendo ancora di più il collo. Nello stesso istante, Arthur sentì qualcosa premere sul suo ventre, qualcosa di freddo e metallico del tutto simile alla canna di una pistola. Eppure, era certo che il francese fosse disarmato.
«Esattamente, dove tenevate quella?»
«Ah! Potrei dirvelo in effetti, ma sono un signore per cui terrò la bocca chiusa.»
«Bloody bastard» ghignò a denti stretti.
«Quindi Arthur! Quanto siete disperato? Abbastanza dal voler vedere se siete più veloce voi a squarciarmi la gola o io a piantarvi una pallottola in pancia?»
 
 
«Avete finito con questa scenata? Posso tagliargli le dita, signor Arthur?»
Un ragazzino cencioso si avvicinò a loro. Aveva i capelli disordinari malamente pettinati all’indietro e un coltello a serramanico in una mano, parzialmente nascosta da un cappotto sgualcito troppo lungo per qualcuno della sua età. Francis non capì una parola di quello che aveva detto, ma dal modo in cui Arthur sorrise intuì non essere una faccia nuova.
«Capitano Bonnefoy, ti presento il mio carissimo amico Michael» gli disse infatti l’inglese, mentre un sorriso trionfante prendeva forma sul suo viso «In questo momento trova le tue dita estremamente superflue.»
Il ragazzino avvicinò pericolosamente il coltellino alla sua mano, costringendo Francis ad abbandonare la pistola, che cadde a terra con un tonfo. Arthur fece mezzo passo indietro, il coltello ancora puntato alla sua gola, solo per frugare più agevolmente le tasche del suo cappotto.
«Frugate così attentamente tutti quelli che vi derubano, Arthur?» sussurrò Francis divertito, mentre l’inglese tastava con attenzione i suoi fianchi.
«Di solito sono io ad essere perquisito… e comunque, state zitto! La vostra voce mi fa venire il mal di testa.»
Il francese ridacchiò. «Aggiungerò “rubare a un ladro” alla lista delle mie imprese.»
 
 
Dopo un’attenta perquisizione, Arthur trovò ciò che stava cercando; l’opale era avvolto in un fazzoletto in una tasca interna del cappotto dell’ ex-capitano, assieme a un paio di altri oggetti. Uno di questo attirò la sua attenzione: si trattava di una busta aperta, dal sigillo in ceralacca familiare.
«Ehi, quella è personale» provò a protestare Francis, ma un’occhiataccia e un paio di coltelli troppo vicini lo fecero desistere. Gli occhi dell’inglese scorsero rapidi lungo il foglio stropicciato.
«Vi hanno assoldato per rubare quell’opale.»
Non era una domanda. Quella lettera era identica alla sua, stessa calligrafia, stesse indicazioni. L’unica differenza era nella firma, composta dalle lettere “A.N.”, che Arthur non riusciva ad associare a nessuno.
«Si. E allora?»
«“E allora”?»
Sollevò lo sguardo furente su Francis. Lasciò cadere la lettera a terra e con la mano ora libera frugò le sue tasche per qualche istante, finché non trovò il pezzo di carta incriminato.
«Io sono stato assoldato per rubare quell’opale,» sbraitò Arthur, sventolando la sua lettera davanti alla faccia del francese «quindi ora o mi spiegate tutto per filo e per segno o giuro che vi sgozzo come un fottutissimo maiale.»
Non era qualcosa che l’inglese era disposto ad accettare. Si sentiva preso in giro, raggirato. Il suo orgoglio da ladro non poteva sopportare un affronto del genere. Solo l’idea che le sue abilità venissero messe sullo stesso piano di quelle di quello stupido dilettante francese gli faceva ribollire il sangue nelle vene.
 
Francis sospirò, realizzando solo allora di aver trattenuto il fiato fino a quel momento. Era abituato a trovarsi in situazioni pericolose, la sua intera vita fino ad allora ne era stata costellata, per cui era riuscito a mantenere la calma fino a quel momento nonostante il coltello puntato alla gola. Quando Arthur però minacciò di sgozzarlo, ebbe paura. Ogni cosa di lui, dal tremore della mano che reggeva il coltello all’espressione infuriata, gli suggeriva che non era per nulla incline agli scherzi. Se era bravo anche solo la metà di quello che aveva intuito, non era il caso di farlo arrabbiare ulteriormente.
«Vi dirò ogni cosa, lo giuro. Abbasserete quel coltello, dopo?»
Arthur sembrò recuperare in parte la sua compostezza. «Iniziate a parlare, tutto dipenderà da cosa mi direte.»
Francis parlò, raccontando per filo e per segno il suo incontro con Mademoiselle Alovskaya. Non andò troppo nei dettagli sulla sua ricompensa, né accennò al suo passato, ma ritenne di aver fornito un resoconto sufficiente all’inglese, che, a racconto terminato, fece un passo indietro.
«Andatevene. Non ho altro da dirvi.»
 
Arthur fece cenno a Michael di farsi da parte. Non aveva motivo di accanirsi sul capitano francese, era una vittima tanto quanto lui.
Il ragazzino, invece, si avvicinò a lui.
«Mi dovete qualcosa, Mr. Kirkland» gli disse, porgendogli la mano con il palmo aperto verso l’alto.
L’inglese si frugò le tasche ancora una volta, quindi lasciò una generosa quantità di dollari americani nella mano del ragazzino. Se non altro, quella vincita a whist si era dimostrata utile a qualcosa.
«Erano cinquanta, giusto? Te ne lascio altri venti se mi trovi un posto sicuro per passare la notte. Tornare all’albergo non è sicuro.»
«Datemi un attimo, signore.»
Il volto di Michael si illuminò. Si voltò verso l’interno della stradina in cui si trovavano e, portate due dita alla bocca, fischiò. Dei bambini comparvero da dietro l’angolo, che il ragazzino raggiunse correndo.
«Avete pagato dei bambini per il furto.»
Con grande sorpresa di Arthur, il francese non se n’era ancora andato. Invece, era rimasto lì, poggiato contro il muro di mattoni.
«È così. La banda di Michael è stata più abile e precisa di quanto mi aspettassi, si sono meritati l’extra che gli ho lasciato.»
«Mon Dieu, sono bambini! Li avete messi in pericolo.»
«Avevo bisogno di un diversivo e loro erano l’opzione migliore. Nessun’altro avrebbe potuto rompere così tante finestre e scappare con successo dalle guardie.»
«Ma è pericoloso per-»
«Fatemi indovinare» lo interruppe Arthur, incrociando le braccia al petto e sollevando un sopracciglio «siete cresciuto in un’amorevole famiglia, con un tetto sopra la testa e cibo nel piatto, dico bene?»
«Si, ma non vedo come questo vi giustifichi.»
Arthur sorrise, un sorriso disilluso e privo di gioia.
«Semplicemente, non potete capire.»
Il francese sospirò, desistendo da qualsiasi tipo di discussione. «Intendete porre qualche domanda al nostro committente comune? L’incontro è previsto per domani mattina.»
«Di sicuro voglio incontrarlo.»
«Vorrei esserci anch’io, se siete d’accordo.»
Arthur fece spallucce. «Fate quello che volete. Non m’interessa.»
Per l’ennesima volta quella sera, Francis sospirò.
 
 


«Questo è interessante.»
Lo sguardo di Ivan si spostò lentamente dall’ex capitano francese al ladruncolo inglese. Secondo le regole del gioco che i suoi sottoposti avevano messo in piedi, una sola persona avrebbe dovuto essere al suo cospetto quel giorno, eppure eccoli lì entrambi.
«Se mi è concesso, signore, avremmo delle domande» disse l’ex capitano.
«Prego, chiedete pure.»
«Questo opale è di vostra proprietà, corretto? Per quale ragione ci avete chiesto di rubarlo?»
Ivan sorrise serafico. «Beh, non posso prendermi il merito di tutto questo, ma… diciamo che volevo vedere cosa sapevate fare.»
La mano del capitano si mosse rapida verso quella dell’inglese, ma ad Ivan non sfuggì il tremore di quest’ultima. Qualcuno si era certamente svegliato con il piede sbagliato.
«Veniamo alle ricompense. Vi darò ciò che vi avevo promesso, anche se i miei sottoposti sono stati molto… imprecisi.»
Il ladro aggrottò la fronte. «Cosa intendete?»
«Innanzitutto, pagherò uno solo di voi. Non m’interessa chi, lascio a voi decidere. A voi, Signor Kirkland, non posso fornire direttamente le cure mediche che avete richiesto, ma posso pagare la parcella di un qualunque medico mi indicherete. Per quanto vi riguarda, Capitano Bonnefoy, posso farvi diventare uno dei capitani della Flotta Imperiale Russa.»
L’inglese stava per dire qualcosa, quando il capitano si alzò di scatto.
«Ci è concesso del tempo per discuterne, signore?»
Lo sguardo di Ivan si assottigliò. «Avete un’ora. Non un minuto di più.»



Note:
Rieccomi finalmente, dopo tanto tempo, con questo nuovo capitolo! Finalmente il piano orchestrato da Arthur è divenuto più chiaro (almeno spero). Alla fine, tutti i nodi sono venuti al pettine, ma Ivan non è particolarmente interessato a rispettare i patti (onestamente, non li ha nemmeno fatti lui). Presto scoprirete cosa i nostri due ladruncoli avranno deciso, dopotutto mancano appena due capitoli alla fine!
Piccolo trivia: Michael voleva essere una versione molto giovane di Molossia. Almeno, ci ho provato.

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Capitolo 10
*** Home ***


Alfred osservò la schiena dell’inserviente dell’hotel sparire oltre la recinzione del parco, in silenzio. Era sicurissimo che quell’uomo fosse il ladro che stavano cercando, quando aveva scoperto che non era così ne era rimasto deluso. Era pronto a rimboccarsi le maniche e a proseguire la ricerca del colpevole, quando un tonfo alle sue spalle attirò la sua attenzione; Kiku era crollato a terra, come se le sue gambe avessero ceduto all’improvviso sotto il peso della stanchezza. In un attimo, Alfred gli fu vicino.
«Amico mio! State bene? Che succede?» gli chiese, porgendogli il braccio per aiutarlo a rialzarsi.
Kiku non rispose, ma afferrò il braccio e si lasciò docilmente guidare verso la panchina più vicina.
«Sono solo stanco» bofonchiò senza convinzione.
L’americano lo osservò attentamente. Non era rimasto alcunché né dell’affascinante diplomatico in divisa, né del temibile spadaccino; in quel momento più che mai Kiku sembrava piccolo e fragile, come una foglia bruna in balìa del vento. Alfred gli prese delicatamente il volto tra le mani e lo sollevò, costringendolo a guardarlo negli occhi.
«Non mi sembra stanchezza, questa» osservò, cancellando con il pollice una lacrima che minacciava di rigargli la guancia.
Vedere il suo amico in quelle condizioni gli stringeva il cuore. Voleva confortarlo, ma non sapeva mai cosa dire in quelle situazioni, non senza risultare banale o insensibile.
Kiku si alzò di scatto, allontanando con forza le mani di Alfred dal suo viso. Fece qualche passo, poi si voltò verso l’americano e si esibì in un profondo inchino.
«Vi chiedo umilmente perdono per il mio disdicevole e vergognoso comportamento. La vostra generosità e il vostro buon cuore andrebbero premiate e onorate, ma tutto quello che ho saputo fare è stato permettere ai miei pensieri annebbiati di giudicarvi con un’avventatezza che non meritate. Come se non bastasse, il mio comportamento scorretto ha ostacolato il regolare decorso della giustizia e permesso a un malvivente di circolare in libertà. Non esistono parole per descrivere la vergogna e il dispiacere che sento in questo momento.»
La voce di Kiku era spezzata, tremante. Alfred lasciò che terminasse il suo discorso quindi, ancora frastornato dal fiume di parole, gli si avvicinò e gli sfiorò la spalla.
«Apprezzo le vostre scuse, davvero. Tuttavia, avevate delle ottime ragioni per sospettare di me e non ve ne faccio una colpa. È stato il vostro senso di giustizia a spingervi ad agire in quel modo e ciò vi fa onore. Non sminuitevi in questo modo, vi prego.»
Kiku si raddrizzò e annuì, il volto parzialmente coperto dalla manica scura della divisa, mentre cercava di ripulirsi la faccia e darsi un tono.
«Se mi è concesso, che cosa farete ora Signor Jones?»
Alfred si lasciò cadere nuovamente sulla panchina. «Vediamo… siccome i ladri che hanno operato stasera erano piuttosto famosi, speravo in una certa ricompensa. Non avendo più la minima idea di dove possa trovarsi il ladro, beh… dovrò chiudere la Jones Railways.»
Kiku gli sedette accanto. «Mi dispiace. Dev’essere dura abbandonare ciò che vi ha lasciato vostro padre.»
Alfred scosse la testa. «Mio padre mi ha lasciato molto più di una ditta ferroviaria. Mi ha lasciato il suo coraggio e la sua intraprendenza. Anche dopo la chiusura, farò tesoro di queste importanti lezioni e ricomincerò, in qualche modo.»
Gli occhi di Kiku si posarono per un lungo istante sul volto di Alfred. L’americano era senza dubbio giù di morale, ma sorrideva serenamente. Gli invidiava quell’incrollabile ottimismo, nei suoi panni si sarebbe arreso alla disperazione già da molto tempo.
«Se non fosse necessario ricominciare?» chiese Kiku sovrappensiero.
«Come prego?»
«Vi occupate di ferrovie, giusto? Il mio compito è imparare dall’Occidente e importare tali conoscenze nella mia patria. Potreste insegnarmi! Posso pagare adeguatamente chiunque deciderete di assegnarmi come tutore, anche voi. Io… vorrei fare ammenda in qualche modo.»
Alfred rise debolmente, piegando all’indietro la testa.
«Amico mio, la vostra idea è senza dubbio ottima, ma non posso accettare. Non voglio la vostra pietà e, come vi ho già detto, non avete alcun motivo di chiedere ulteriormente perdono. Vi inviterei volentieri a San Francisco e vi insegnerei volentieri tutto quello che so sui treni e sulle ferrovie, ma solo se siete voi a volerlo veramente.»
«Lo voglio.»
L’americano sollevò lo sguardo su Kiku, che ora lo fissava con serietà.
«Possiamo non limitarci a questo, Signor Jones! Magari gli Stati Uniti d’America potrebbero non avere bisogno di altri treni, ma il Giappone sì. Posso fornirvi l’apertura diplomatica per lavorare nella mia madrepatria, dovreste solo trovare dei volontari disposti al trasferimento. I finanziamenti non saranno un problema, posso pensarci io. Inoltre, potremmo costruire delle scuole specializzate in Giappone, così la mia gente potrà imparare. Ci pensate? Sarebbe l’inizio di una fruttuosa collaborazione tra le nostre due Nazioni!»
Alfred non aveva mai visto Kiku lasciarsi andare così tanto alle sue emozioni, la gioia e il trasporto che mise in quelle parole erano contagiose e ben presto l’americano si ritrovò a fissare incantato il suo amico. Non appena se ne accorse il giapponese s’interruppe, arrossendo vistosamente.
«Ah! Ovviamente sono solo idee, se le ritenete troppo sciocche io-»
«No, no affatto!» lo interruppe Alfred, porgendogli la mano «D’ora in poi saremo partner, Signor Honda?»
Kiku sorrise sollevato, stringendo la mano dell’americano con forza.
«Certamente.»
 
 
San Francisco, marzo 1784
 
Kiku Honda era seduto su una sedia in un angolo dell’ufficio di Alfred, presso la Jones Railways. In quegli ultimi mesi aveva provato ad imparare l’inglese, ma le sue conoscenze non erano ancora sufficienti per comprendere l’elaborato discorso che l’americano stava facendo ai suoi dipendenti.
Nonostante la barriera linguistica, Kiku non riusciva a staccare gli occhi da Alfred. L’enfasi che metteva in ogni parola, l’entusiasmo che risuonava nella sua voce e gli occhi brillanti per la gioia, ogni cosa in lui aveva catturato lo sguardo del giovane giapponese.
Non voleva dimenticare quel momento. Prese il suo fidato blocco da disegno, ormai prossimo alla fine, e, trovato un foglio bianco, iniziò ad abbozzare la sagoma di Alfred con un carboncino. Preso com’era dal disegno, non si era minimamente accorto che Alfred aveva concluso il suo discorso e, mentre gli operai uscivano dall’ufficio, si era tranquillamente accomodato su una sedia accanto alla sua.
«È così che mi vedete?» disse Alfred al di sopra della sua spalla, a disegno quasi ultimato.
Kiku trasalì, stringendo spasmodicamente al petto il pezzo di carta. Non appena riprese coscienza di ciò che stava accadendo attorno a lui, iniziò ad arrossire visibilmente.
«Ah, mi dispiace, io non intendevo… è davvero disdicevole, io-» balbettò freneticamente.
Alfred ignorò totalmente quei balbettii e avvicinò ulteriormente il viso a quello di Kiku, permettendo per un breve istante alle loro labbra di sfiorarsi. Dopo un attimo di esitazione, si fece più coraggioso e lo baciò delicatamente.  Non durò che per pochi istanti.
«Io… vi chiedo scusa, non ho resistito» mormorò Alfred allontanandosi all’improvviso, lo sguardo perso verso un punto lontano della stanza «Santo Cielo, non so cosa mi sia preso…»
Un tocco delicato fece mancare un battito al cuore dell’americano. Kiku gli stringeva la mano, ora mollemente posata sulla sua gamba, mentre le loro dita lentamente s’intrecciavano.
«Non preoccupatevi, non mi è dispiaciuto.»
Il giapponese era forse più rosso di prima e continuava a fissarsi insistentemente la punta dei piedi. Quelle parole però riempirono il cuore di Alfred di gioia.
«Non credo mi basti una vita per ringraziarvi, mio caro Kiku. Non avete solo salvato me, ma anche il lascito di mio padre, oltre che migliaia di famiglie. La maggior parte di loro mi seguirà in Giappone.»
Kiku si voltò verso Alfred, sorridendo genuinamente.
«Mi seguirete fino a Tokyo dunque!»
«Proprio così! Non vedo l’ora di vedere la vostra casa e la città in cui siete cresciuto.»
Con la mano rimasta libera, Kiku accarezzò il volto di Alfred, permettendogli di posare la guancia sul suo palmo.
«E io non vedo l’ora di avere di nuovo un posto da poter chiamare casa, mio caro Alfred.»

 
 _______________________________________
Note:
Salve a tutti! Come potete vedere la nostra storia si avvia alla conclusione, questo è il penultimo capitolo. Kiku e Alfred hanno avuto il dolcissimo lieto fine che si meritavano entrambi e non potete capire come questo mi riempia di gioia.
Grazie per essere arrivati fin qui con la lettura, spero che questo loro epilogo vi sia piaciuto! A prestissimo, con il finale dei nostri due mascalzoni preferiti^^
 

 

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Capitolo 11
*** A new beginning ***


Francis aveva afferrato il polso di Arthur e a forza l’aveva trascinato fuori dall’hotel. Quest’ultimo non aveva opposto troppa resistenza, sebbene la sua espressione fosse quella di una bestia ringhiante pronta ad azzannare chiunque gli si avvicinasse troppo. Il francese era stupito di avere ancora la mano attaccata al polso.
Come risvegliato dalla gelida aria novembrina, Arthur uscì da quel torpore furioso non appena i due varcarono la soglia. Si liberò con forza dalla presa di Francis e a passo rapido abbandonò la strada principale per raggiungere gli ormai familiari vicoli. Senza accorgersene inciampò su uno dei sacchi dell’immondizia, lasciati all’esterno in attesa che il carrettiere passasse a raccoglierli. Lo calciò lontano con rabbia e gridò.
Francis attese che Arthur finisse di sfogare la sua rabbia su quegli sfortunati sacchi di iuta, quindi, quando il silenziò tornò a regnare nel vicolo, gli si avvicinò e gli sfiorò la spalla.
«Mi è concesso sapere il motivo di tanta rabbia, Kirkland
L’inglese lo fissò per qualche istante, respirando lentamente dal naso prima di rispondere.
«È stata una perdita di tempo… e io odio perdere tempo.»
«Nulla da dire al proposito, l’idea di entrare nella marina russa non mi entusiasma» rispose Francis, rabbrividendo al solo pensiero «Ma c’è di più, n’est-ce pas
Arthur corrugò la fronte, accigliato. Forse per la prima volta da quando si erano conosciuti, Francis aveva abbandonato il solito sorriso sornione e lo stava osservando attentamente, con serietà quasi.
«Non guardatemi così, non sono stupido come pensate. Non siete un assassino, eppure ieri eravate abbastanza disperato da pensare di uccidermi. C’entrano quelle cure mediche che vi sono state promesse, presumo?»
Arthur sospirò, realizzando infine di aver largamente sottovalutato l’uomo che aveva di fronte. Tanto valeva vuotare il sacco.
«Le cure mediche sono per mio fratello minore.»
«Avete un fratello?» chiese Francis stupito.
«Più di uno in realtà. Di cosa vi stupite?»
Francis scosse la testa, abbozzando un sorriso. «E io che pensavo faceste tutto questo per pura e semplice avidità…»
«Tsk, non siate sciocco. Non avrei mai affrontato un viaggio simile per la sola avidità.»
«Va bene, va bene. Non comprendo ancora il motivo della vostra rabbia, però.»
«La ricompensa, Bonnefoy. Pensate che se mi fosse semplicemente servito del denaro non sarei stato in grado di irrompere in una magione di qualche spocchioso nobile inglese e derubarlo perfino delle mutande?»
Francis rise genuinamente divertito, facendo ivolontariamente mancare un battito al cuore del povero ladruncolo.
«Dopo quello che ho visto ieri sera, non lo metto in dubbio. Cosa vi serve, dunque?»
«Un medico, come mi era stato promesso.»
Questa volta fu il turno di Francis di aggrottare la fronte. «Non ci sono medici a Londra?»
«Ovviamente ci sono, Bonnefoy» sbuffò Arthur, alzando gli occhi al cielo «ma quelli in grado di curare Conor si rifiutano di farlo.»
«Perché mai, di grazia?»
«Perché siamo una banda di ladri cresciuti per strada! Per quanto possiamo passarcela bene, non abbiamo un nome importante, né un titolo prestigioso. Indipendentemente dalla cifra, quegli spocchiosi non prendono soldi da quelli come noi, “hanno una reputazione da difendere”. Tsk.»
Il disgusto di Arthur era palpabile e sempre più presente ad ogni parola che usciva dalle sue labbra. Francis invece abbassò lo sguardo, assorto nei suoi pensieri.
«Potrei avere una soluzione» mormorò dopo qualche istante.
«Cosa?»
«Vi serve un medico, non? Si dà il caso che io conosca un medico.»
«E chi sarebbe, se mi è concesso?»
«Mia sorella Lucille.»
Arthur rivolse uno sguardo scettico al francese. «Vostra sorella è una levatrice?»
«Assolutamente no. È un medico specializzato nella cura dei bambini, ha studiato alla Sorbona!»
Francis alzò la voce, indignato. Andava molto fiero dei traguardi della sua sorellina, non sopportava proprio quel genere di atteggiamento paternalista.
«Non sapevo che le donne potessero studiare in un’università.»
«Tsk, non le donne inglesi, mi pare ovvio. Mia sorella è un medico molto abile e rispettato. Inoltre, il vostro nome non sarà un problema, la salute dei suoi pazienti è la sua priorità. Potete spedire la sua parcella al russo, non
Arthur studiò il francese per alcuni istanti, riconoscendo la sincerità nelle sue parole. Era un po’ scettico al riguardo, ma se quella era l’opzione migliore che aveva, come poteva rifiutare? Ovviamente, alla proposta mancava una parte importante.
«Cosa volete in cambio?»
Francis sorrise, il suo solito, fastidioso, sorriso sornione. «Voglio venire con voi a Londra, ovviamente.»
«Cosa? Siete pazzo?»
«Assolutamente no. Non c’è più nulla per me nel Nuovo Mondo e in questi giorni ho avuto modo di osservarvi attentamente. Diciamo che sono state le vostre mani a convincermi.»
Arthur sollevò una mano, guardandola dubbioso come se contenesse la risposta allo strano comportamento di Francis e alle sue emozioni confuse.
«E cosa vorreste fare a Londra? Cosa c’entrano le mie mani, poi…» borbottò.
Il francese chiuse rapidamente la distanza che li separava. Prese la mano di Arthur e la portò alle labbra.
«Vorrei imparare da voi. Magari lavorare con voi…» sussurrò Francis sul dorso della sua mano.
Arthur scattò all’indietro, stringendo la mano al petto. Si voltò, perché il suo viso si era arrossato e non voleva proprio che quello stupido francese lo vedesse così. Gli eventi della sera prima erano ancora troppo vividi nella sua memoria.
«Accetto» disse, nonostante tutto. Le condizioni di Francis erano ottime, solo uno stolto non lo avrebbe fatto. Infondo, lo stava facendo per Conor.
«Sia ben chiaro, però» aggiunse, voltandosi solo per mostrare al francese la sua faccia imbronciata «non voglio più giochetti come questo, o vi butto nel Tamigi senza pensarci due volte.»
Francis sorrise. «Va bene. Prometto che mi comporterò correttamente.»
 
Londra, settembre 1874
 
Arthur e Francis erano seduti su delle comode sedie imbottite, sorseggiando del tè in raffinate tazzine di ceramica orientale. La lussuosa sala da tè dell’hotel Brown era discretamente affollata a quell’ora, permettendo ad entrambi di conversare con discrezione grazie al chiacchiericcio incessante dei giovani rampolli dell’alta società londinese.
«…quel ragazzino in effetti era spaventoso. Ti ha lasciato una bel segno» disse Francis, osservando la vistosa cicatrice sul braccio del suo compagno. Arthur annuì, srotolando la manica della camicia per coprire la vecchia ferita.
«Quel giapponese se avesse voluto avrebbe potuto tranciarmi il braccio. Spero di non incontrarlo mai più.»
«Giapponese, hai detto? Come fai a dirlo? Poteva essere cinese o qualcos’altro...»
«La spada che portava era una katana giapponese, un’arma letale nelle mani di un esperto. Credimi, quel ragazzino lo era.»
«Sai sempre così tante cose…»
L’amabile sorriso di Francis venne ripagato con una scrollata di spalle del suo burbero compagno.
«I marinai al porto sono dei gran chiacchieroni e a me piace ascoltare. Piuttosto, è passato quasi un anno e il tuo inglese fa ancora schifo» osservò Arthur, lo sguardo insistentemente fissato sul contenuto della sua tazzina.
Francis sollevò gli occhi al cielo. «Chiedo perdono, enfant prodige, se sono ancora troppo francese per i tuoi gusti. Almeno le fanciulle apprezzano il mio accento.»
«Semplicemente, dai troppo nell’occhio» ribadì Arthur. L’inglese prese l’orologio dal taschino della giacca e lo fece scattare, osservando con attenzione le lancette muoversi sul quadrante.
«È quasi ora» aggiunse.
Con un sospiro, Francis estrasse la sua fidata pistola dalla cintura e fece un rapido controllo per assicurarsi che funzionasse a dovere.
«Non intenderai certo usarla, vero? Ti ricordo che dobbiamo essere discreti» gli fece notare Arthur, nascondendo il suo pugnale nella manica della giacca.
«Non temere, la userò solo in caso di emergenza… e se dovesse servire un po’ di persuasione» lo tranquillizzò il francese, mostrandogli l’elsa dello stiletto che spuntava discretamente dal suo stivale.
Arthur abbozzò un sorriso divertito, mentre osservava la lancetta dei secondi ticchettare verso il dodici.
«Il piano avrà inizio tra tre… due… uno…»
Le luci della sala da tè si spensero, scatenando mormorii spaventati tra gli ospiti.
«È ora di andare in scena!»
 
 
 
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Note conclusive:
Inizio queste note con una piccola precisazione storico-fandomica. Lucille Bonnefoy dovrebbe essere appunto la nostra cara Monaco, che qui ho reso medico in onore di Madeleine Brès, prima donna medico a studiare alla Sorbona e laurearsi come tale. Le ho immaginate compagne di studi, ecco.
Ebbene, questa storia finalmente giunge al termine, quasi non ci credo. Innanzitutto, un infinito grazie va a Striginae, che da circa un anno mi sopporta e supporta in questa folle avventura. Senza di te, non ce l’avrei fatta ad arrivare fin qui, davvero. Grazie anche a voi che avete letto questa mia follia fino alla fine, spero tanto che questa conclusione vi sia piaciuta!
Detto ciò, come potete vedere il finale… non è un finale! Pianifico infatti un sequel esclusivamente FrUK dove questi due saranno (forse?) il team rocket della Londra Vittoriana. Stay tuned! Grandi cose bollono in pentola. Ciao a tutti e alla prossima^^
 
 
 
 
 

 

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