Scrivi sui Pokémon, dicevano... sarà divertente, dicevano...

di _aivy_demi_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Abbiamo l'angst - just for her ***
Capitolo 2: *** Lavander Town, that night ***
Capitolo 3: *** Ghosts ***
Capitolo 4: *** Where ***
Capitolo 5: *** Finally over ***



Capitolo 1
*** Abbiamo l'angst - just for her ***


Meowth si era finalmente addormentato, dopo aver parlato – straparlato – fino a sentire i propri occhi chiudersi davanti alle fiamme guizzanti del fuoco da campo. Lo spiazzo che stava accogliendo lui, James e Jessie lasciava poco spazio all’immaginazione, ma quella era la vita che si erano scelti: lavorare alle dipendenze di Giovanni si era rivelato più complesso di quanto avevano sperato, ma non avrebbero potuto fare altro… non Jessie, almeno. Il ricordo di Miyamoto, la sua vera madre, era l’unica cosa che le era rimasta addosso e il motivo recondito per cui aveva fatto di tutto per poter essere reclutata dal Team Rocket. Aveva bisogno di soldi, di tanti soldi per poter partire per le Ande alla sua ricerca, ritrovarla, riabbracciarla e riprendere una vita decente lontana da tutto ciò che il gruppo era costretto a fare. Scorribande, furti, sequestri per un piano superiore di arricchimento del Team criminale cominciavano a pesarle, in fondo. Non si sarebbe arresa, però, questo mai, perché non l’avrebbe voluto Miyamoto, perché non se lo sarebbe mai perdonato lei stessa. Deludere Giovanni sarebbe stato terribile, ma ancor più trascinare nella vergogna anche James l’avrebbe fatta sentire una fallita:  sbagliava, si rialzava, tornava a lottare per una dignità che si teneva stretta al petto e che inizialmente non credeva nemmeno di avere.
Voltò il capo in direzione del compagno di squadra, osservandolo dormire beatamente: come invidiava il suo riposo facile, il volto disteso nel sonno, quel sorriso pacifico di chi sapeva d’aver trovato un posto nel mondo… lo invidiava e lo odiava in un certo senso, perché lei il suo posto non se lo sentiva cucito addosso come avrebbe voluto, anzi. Se lo sentiva largo, come non le fosse calzato a pennello una sola volta.
Pensando a quanto fosse inutile perdere tempo e spenderlo in pensieri troppo pesanti da sopportare, si raggomitolò nel sacco a pelo accoccolandosi, stringendo le braccia al petto alla ricerca di un calore che non sarebbe arrivato tanto facilmente. Il buio li inghiottì, e soltanto il bubolare di qualche Hoothoot accompagnò la notte senza stelle che avvolse il trio nella propria morsa.


James tendeva ad addormentarsi sempre prima di tutti, ma non quella sera, non dopo il colloquio con le alte sfere del gruppo di ricerca del Team Rocket. Certo, perché Giovanni non si sarebbe mai sporcato ad abbassarsi a parlare con lui quel mattino. Per quanto fosse abituato a ricevere ordini, talvolta insulti o rimproveri, rimpianse d’aver risposto alla chiamata il giorno prima, in cui venne convocato al loro Quartier Generale, diviso dai suoi compagni e ricevuto da solo all’interno del laboratorio principale in privata sede.
Deviò tutte le domande di Jessie, non si lasciò scappare nulla e il solito buonumore che lo contraddistingueva finì divorato in quella mezzora. Lo avevano masticato e risputato senza pietà, non avevano edulcorato assolutamente nulla.
Se avesse saputo... Avesse potuto evitare, si sarebbe sentito molto più leggero. E invece eccolo lì, a qualche ora dalla notizia sganciata con una tale freddezza da gelargli ancora le ossa, a osservare la volta celeste con rammarico e un peso enorme. Quanto era bello il cielo quella notte, quanta meraviglia quelle stelle… avrebbe chiamato volentieri Jessie accanto a lui a osservarle, a cercarne forme e linee diverse, a ridere di nuovi nomi per le costellazioni. Invece no. Lei se ne stava rannicchiata in uno dei due futon presenti nella stanza di una vecchia locanda, osservando il muro: non stava affatto dormendo lei, ma questo il compagno e amico non poteva certo saperlo.
Era tardi, chiunque avrebbe dormito a quell’ora.
Erano tutti e tre svegli, invece, e l’aver dato per scontato alcune cose l’avrebbe pagato caro come errore.


Meowth si stiracchiò infastidito: lo stomaco brontolava e ne approfittò per frugare nelle tasche del giaccone di James alla ricerca di qualche caramella. Soddisfatto del piccolo misfatto si riempì la bocca, impiastricciandosi il muso e il pelo di appiccicume zuccherino.
Delitto perfetto, pensò ridendo sotto ai baffi e nascondendo sotto al proprio cuscino le carte della ladrata. Zitto zitto, convinto di averla fatta franca, tentò di rimettersi a dormire ma avvertì un certo spazio vuoto a cui non era affatto abituato; lanciò la zampa verso sinistra e vi trovò i capelli di Jessie, e ne fu rassicurato. Si voltò dall’altra parte e notò il secondo futon vuoto.
«James…? Tu?» Stava per concludere dicendo “tu sveglio a quest’ora?” ma lo inquadrò fuori in terrazza, la porta finestra accostata appena, coperta dai pesanti tendaggi.
«Ciao, James.»
«Oh, Meowth, scusami, non ti avevo sentito.» Il ragazzo era avvilito, scosso da qualcosa: le occhiaie violacee parlavano per suo conto. Mantennero il silenzio quel tanto che bastava a innervosire un gatto con l’abitudine di parlare fin troppo e con un entusiasmo raro anche per un essere umano. Si sentì un rapido stropiccio e una caramella colorata spuntò sulla balaustra del piccolo terrazzino in legno scuro: quasi splendeva con i piccoli raggi di luce che filtravano dalla camera poco illuminata.
James sorrise pallido. «Grazie, riesci sempre a fare qualcosa al momento giusto…»
«Tsk, è solo l’ultima rimasta.»
«Lo so.»
«Ed è pure tua.»
«So anche questo. Ma l’hai condivisa con me, ed è importante.»
L’aria era fredda quella notte, e il gatto corse a recuperare la trapunta dal futon, balzò sull’asse di legno e si acquattò accanto all’allenatore, avvolgendogli addosso la pesante coperta e trovando uno spazio anche per sé.
«Allora.»
«Mh
«Stavolta è qualcosa di grosso, vero?»
Il primo singhiozzo venne trattenuto a fatica, ma così non fu per il secondo. Una zampa gli sfiorò la spalla, forse invitandolo a parlare, forse soltanto a tentare un approccio di sostegno. Un “dai, ci sono” senza il bisogno di dirlo ad alta voce. Perché Meowth parlava, sì, ma non era poi così bravo con cose così complicate come quelle degli umani.
«Troppo grosso anche per dirlo a me?»
James inghiottì con tutta la forza che poté, inspirando ed espirando in modo meccanico. Guardò ancora una volta il cielo, il blu notte lo affascinava. Era appannato però.
«Hanno ritrovato la madre di Jessie.»
Le lacrime rigarono gli occhioni increduli del Pokémon, scendendo a inumidire la pelliccia del petto. Era così felice che avrebbe potuto gridarlo all’intero mondo fregandosene altamente dell’ora tarda. «No-non… non ci credo… non ci credo!» Scattò in avanti ad abbracciare il compagno, lo strinse tanto forte da avvertire un uhf  strozzato, ma si sentì sospinto via.
Cosa stava accadendo?
Dove era la felicità che si meritavano di condividere a una notizia simile?


Jessie aveva finto di dormire per tutta la durata della sera. Era ancora offesa con James, in un modo arrogante e fisico che solo lei sapeva usare così bene: un po’ per carattere, un po’ perché voleva farlo sentire in colpa, gliel’aveva fatta pesare. Certo, perché loro due erano uguali, erano sempre stati allo stesso livello, avevano sempre e comunque dato lo stesso impegno, dedizione ed entusiasmo alla causa. Ecco, lei forse ancor di più perché il suo scopo lo sentiva vivo addosso, tatuato sul cuore… quindi quando aveva capito che a esser stato convocato era stato soltanto lui, ci era rimasta male; aveva pure pensato d’aver sbagliato qualcosa, d’aver mancato agli ordini, chissà.
E c’era di peggio: James non aveva voluto condividere con lei il contenuto di quella conversazione. Non gli aveva parlato per tutto il tempo, l’aveva evitata, discostando lo sguardo a ogni occasione.
Certo, glielo avrebbe fatto ricordare: con lei non si scherzava affatto. Quindi aveva optato per buttarsi a letto presto alla locanda, subito dopo una cena consumata in un silenzio pesantemente oppressivo. Poco le importava, le avrebbe chiesto scusa e sarebbe riuscita a cavargli dai denti tutto quanto. La scelta di fingersi addormentata si era rivelata vincente, nessuno le aveva rotto le scatole – nemmeno Meowth, incapace solitamente di mantenere intatti gli spazi vitali delle persone che lo circondavano.
Sentì rovistare dietro di lei, sentì masticare, uno smuovere di cartacce e una risatina. Sicuro il Pokémon ne aveva combinata un’altra delle sue ma non si era permessa di intromettersi: mantenersi arrabbiata e continuare a così almeno fino al giorno dopo pareva essere davvero una ottima trovata, peccato rovinarla così. Questo fino a che non aveva allungato l’orecchio in direzione della porta ormai aperta che dava alla terrazza. Una fredda folata di vento notturna aveva aperto un più ampio spiraglio.
Un particolare che Jessie avrebbe maledetto a tempo debito.
Le parole le arrivarono dritte alle orecchie, trasportare dall’aria.
«Sei… sei sicuro fosse lei…? Miyamoto?»
Scattò in piedi dimenticando ogni proposito di vendetta.
Mamma?
«Sì, non… non c’erano dubbi. Meowth… non si può sbagliare.» Un sospiro. «È proprio lei.»
Mamma…? Ti hanno ritrovata?
Incurante del tono utilizzato dagli altri, non curandosi nemmeno del proprio aspetto e dei propositi fissati, Jessie aveva già allungato la mano verso la porta, pronta a spalancarla e saltare addosso a James. Insultandolo, certo, chiedendogli perché avesse aspettato tanto per poterle dire quella splendida verità.
«È rimasta tale e quale…»
Certo, mia madre è sempre stata bellissima. Figurati se può invecchiare male lei!
I capelli magenta già avevano superato la soglia, le braccia rivolte verso i compagni. Stava piangendo per la felicità, le scie lasciate dalle lacrime pizzicavano per il freddo ma non le importava; il pigiama da solo non poteva scaldarla a sufficienza, ma di questo non poteva fregargliene di meno. Si bloccò a un paio di centimetri ormai, gli arti ancora sollevati verso il vuoto, quando la maschera sorridente del solito James aveva lasciato il dovuto spazio a una genuina disperazione.
E Meowth con lui.
Perché piangono? Sono troppo felici? Sì, deve essere così, siamo tutti felici perché mamma è stata finalmente ritrovata… lo sapevo, sapevo che Giovanni mi avrebbe aiutata…
Sapevo che non avrei buttato la mia vita su qualcosa di inutile…

Perché non dicono nulla?
 
Fa male sentirli stringermi così tanto.

Fa male…

Fa così male… lasc-lasciatemi stare…!

And-

«Andate via…! Non… non è vero… sei… sei un bugiardo!»
Jessie si inginocchiò sul gelo del legno usurato, il calore del pelo di Meowth non era sufficiente, le labbra di James sui capelli non bastavano nemmeno.
L’avevano ritrovata. Sì. Avevano ritrovato Miyamoto.
Su un ghiacciaio andino.
Esattamente come era quindici anni prima.
Giovane.
Bellissima.
Morta.

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Capitolo 2
*** Lavander Town, that night ***






#Springbingo del gruppo Non solo Sherlock
Casella n.1: Di notte a Lavandonia
Prompt di Alice Signorina Beazley

 

 

 

«Ken, tesoro, rientra che è tardi, è pronta la cena!»
«Arrivo, nonna, aspettami!» Il bambino percorse i pochi metri che lo separavano dalla piccola abitazione saltellando allegro e canticchiando una canzoncina che aveva imparato dagli amichetti di Lavandonia. Non capiva bene tutte le parole, nonna Harue gli aveva confidato si trattasse di un antico dialetto conosciuto soltanto nel paesino, ma a lui piaceva lo stesso: era orecchiabile, gli piaceva, e se ne avesse conosciuto già il significato, l’avrebbe definita nostalgica.
A Lavandonia il sole tramontava sempre un po’ prima, il buio arrivava presto e l’illuminazione fioca della Torre si mischiava alle stelle. Ken era abituato a vedere al buio in un luogo dove le case potevano contarsi sulla punta delle dita di una mano, ma gli andava bene così: poca confusione, niente traffico, poche persone.
Tanto per lui contava ci fossero sempre i suoi due amici, Shin e Satoshi. Parlavano, giocavano, ridevano e scherzavano con lui ogni giorno, un po’ meno quando c’erano dei turisti in visita al cimitero della città. Ecco, in quel caso non si presentavano fuori. “Forse non gli piace la gente”, li giustificava Ken nella sua spontaneità, “però gli piaccio io, questo va bene.”
Nonna Harue stava preparando la cena, servì in tavola il pasto e mangiò in religioso silenzio mentre Ken raccontava ciò che aveva fatto quel giorno, dal sognare a occhi aperti di diventare un allenatore di Pokémon e poter viaggiare per il mondo, a rincorrere Shin e Satoshi su e giù per i gradoni della Torre. Veniva apostrofato più volte dalla vecchina che si premurava sempre di ricordargli di non salire oltre un certo numero di piani, ma Ken non ricordava mai quanti: sapeva che al piano terra poteva entrare, poi avvertiva una leggera punta di angoscia all’idea di prendere la prima rampa di scale e sconsolato se ne usciva nuovamente alla luce del sole, scrollandosi di dosso i piccoli brividi che gli avevano fatto il solletico. Prometteva di portare rispetto, così come lei desiderava, e di mantenere le distanze dagli sconosciuti, affidandosi alla compagnia dei pochi compaesani e dei suoi due coetanei. Così facendo, poteva essere considerato sempre al sicuro.


«Ehi, ma che ci fate qui? Sapete che nonna non mi fa uscire di notte, non posso…»
L’espressione di Satoshi alle parole di Ken cambiò: detestava ricevere un “no” come risposta, anche perché si divertiva parecchio con i compagni di giochi. Serrò i pugni e la bocca mimando una espressione di sentito disappunto, ma non insistette più di così: sapeva sarebbe stato inutile, disobbedire ai vecchi era vietato e portava soltanto guai.
«Solo per oggi, è una giornata speciale.» Gli occhi di Shin invece brillavano di aspettativa, piccoli puntini luminosi nel buio del retro di casa Nakamura, dove si affacciava la cameretta di Ken. «Fidati di me, ti divertirai tanto con noi
Ken fu tentato, ma ricordava le parole di Harue: “non uscire di notte a Lavandonia, sta’ dove io possa proteggerti. Promettimi di non disobbedire.”
E lui non lo avrebbe fatto.
Si scusò con i bambini, chiuse la finestra e tirò le tende scure.
Anche quella sera obbedì. Anche quella sera sua nonna sospirò di sollievo nel vedere come il nipote non avesse ceduto alle richieste dei due che vagavano tra una casa e l’altra, bussando, sussurrando, chiamando. Ricevendo sempre risposte negative.


«Nonna, perché non posso uscire di sera?» Ken ricordava la cupa rassegnazione di Satoshi e l’entusiasmo di Shin, voleva unirsi a loro, voleva correre per le strade deserte di Lavandonia anche di notte, giocare a palla, a rincorrersi, fantasticare sul futuro, stendersi sull’asfalto e guardare il cielo fino ad addormentarsi… perché non gli era permesso?
«Sono cose che non ti serve sapere, Ken. Ora va’, esci a giocare, approfitta di questo bel sole.»
Il bambino non rimbeccò, uscì a testa bassa e corse alla ricerca dei suoi amici. Nonna Harue lo salutò con la mano, chiudendosi la porta alle spalle e accomodandosi nel piccolo salotto: si lasciò cadere sulla poltrona e borbottò qualcosa su come fossero particolarmente insistenti loro quell’anno. Avrebbe dovuto fare qualcosa prima di vedere suo nipote raggiungerli e lasciarla da sola. Capiva che le raccomandazioni ormai non erano efficaci, Ken era un bambino esuberante e curioso, bisognoso di contatto, del prossimo, di altri a tenergli compagnia… da quando i genitori erano scomparsi lui gli era stato affidato, ancora troppo piccolo per capire, e mai avrebbe voluto segregarlo in una comunità tanto ristretta e protettiva, sapendo quanto fosse grande il sogno di Ken di vivere il mondo e scoprire ogni cosa.
Ma non poteva partire, non poteva lasciarlo andare.


«Ken? Pssss, ehi, Ken!» Il sussurro di Shin entrò dalla finestra della camera buia, picchiettando nelle orecchie del bambino. «Ken? Mi senti?»
Lui mugugnò qualcosa stropicciandosi gli occhi, ancora mezzo addormentato: scese dal letto quasi inciampando sul proprio pigiama, scostò le tende e salutò l’amico con un cenno della mano.
«Oggi ti va di venire a giocare con noi
Ken mugugnò qualcosa di incomprensibile senza dare importanza a quel “noi” anche se di Satoshi non c’era traccia.
«Dai, faremo presto, prometto che non sveglieremo tua nonna. Dimmi di sì…!»
Fu tentato, e avrebbe anche ceduto non fosse stato per Harue che intervenne piazzandosi tra il nipote e la figura fuori dispersa nella notte: spalancò la finestra recitando le parole della canzoncina che Ken cantava spesso con leggerezza, ripetendole come un mantra, per poi intimare Shin di allontanarsi e non tornare prima del mattino. Sigillò la vetrata, accompagnò il nipote a letto e gli intimò ancora una volta di non cedere mai alla richiesta di giocare dopo il tramonto.
«Anche se insistono, anche se sorridono… Ken, non dire mai di sì. Possono implorarti, prometterti dei regali, possono dirti di fare qualcosa di speciale, ma non accettare mai. Promettimelo, ti prego… non uscire mai al buio…»
«Spiegami, nonna, spiegami perché non posso…»
«Perché altrimenti… lascia stare… torna a dormire.»
Insistette il bambino, ma non ebbe risposta. Ancora una volta si accucciò sotto la coperta, riaddormentandosi con una strana sensazione a rimescolargli lo stomaco.


«Satoshi, come mai non c’è Shin oggi con noi?» Ken era preoccupato, non era da loro perdere una giornata di gioco all’aria aperta. Lavandonia quel giorno era deserta, avevano tutto lo spazio per giocare, faceva caldo e aveva tanta voglia di correre e sfogarsi.
Satoshi temporeggiò, cambiò più volte argomento, finse di non ascoltare o di non sapere, ma Ken non si arrese: lo mise alle strette. «Cosa succede qui di notte? Perché non volete mai parlarne? È un segreto tra te e lui? Dimmelo…» lo scosse per le spalle, destabilizzandolo, «dimmelo!»
«Non posso, Ken, non posso parlartene. Abbiamo promesso, non possiamo dirtelo…»


«Nonna, cosa succede di notte qui? È normale stare chiusi in casa così?»
Harue sospirò amareggiata, le ultime sere Ken parve sempre più agitato, non riusciva a riposare bene e rumori all’esterno attiravano continuamente la loro attenzione. Il sonno del bambino era disturbato e scosso da sogni che non riusciva a ricordare, sogni di voci a lui familiari, di parole che svanivano dalla testa subito dopo essere state pronunciate. Le occhiaie erano pesanti, il bisogno di dormire ancora di più.
«Tesoro, i bambini di notte non devono uscire a giocare.»
«Ma non esci nemmeno tu…»
«Certo, io non devo fare niente di sera. I miei doveri li svolgo durante il giorno, come tutti qui.»
Ken si arrabbiò, scattò dalla sedia della cucina ribaltandola sul pavimento di legno: «tutti chi? Siamo pochissimi, non ci vive quasi nessuno, e a parte un paio di persone, vedo soltanto Shin e Satoshi!» si fermò un attimo a riflettere, «anzi, negli ultimi giorni solo Satoshi… Shin non esce più…»
Harue sapeva. Lo aveva allontanato lei quella sera: Shin insisteva troppo, voleva Ken tutto per sé anche durante la notte e non era un bene. Il legame era forte ormai, pericoloso.
Andava reciso.
E così lei tentò, ottenendo un allontanamento provvisorio.
«Per favore, nonna. Prometto che non lo dirò a nessuno, va bene? Sarà il mio segreto, anzi, il nostro! Come una squadra, come una famiglia, perché noi siamo una famiglia, giusto?»
«Fidati, per il tuo bene e di questa città, fidati…»


Ken aveva smesso di uscire. La febbre era salita un pomeriggio, lasciandolo stanco, a letto da solo, chiuso nella sua camera. Nonna Harue aveva vincolato parte delle sue energie per prendersi cura di Ken, tralasciando alcuni dei doveri giornalieri. La Torre era scura quella sera, le luci erano spente.
«Strano…»
Il bambino si portò alla finestra, Lavandonia non era mai stata così buia. Dove prima c’era luce, anche se flebile, ora il nero.
E nel buio Ken vedeva le cose muoversi.
Quali cose? Non poteva saperlo, sua nonna non voleva rispondere nemmeno a questo.
Sentì sussurrare voci conosciute là fuori, le stesse dei suoi sogni, le stesse dei suoi amici. Si avvolse nella coperta sfoderata dal letto, si trascinò con fatica alla finestra della stanza e assottigliò lo sguardo: gli scuri non erano chiusi, nonna doveva averli dimenticati, e un nero così nero non l’aveva mai visto prima. Spostò le pupille a destra e a sinistra, alla ricerca della fonte di quei suoni.
Era sicuro fossero Shin e Satoshi, era così felice! Erano passati a trovarlo, sapevano che stava male… loro non volevano lasciarlo da solo, non come Harue che aveva raggiunto la Torre tutta trafelata, abbandonandolo malato in casa. Spalancò la finestra e rabbrividì: faceva freddo per la stagione, anche troppo, ma tanto lui era coperto.
Scavalcò il davanzale, poggiò i piedi nudi a terra e corse verso gli amici. Satoshi tentò di dissuaderlo, gli disse che avrebbe dovuto ascoltare le raccomandazioni della nonna, ma Ken non ascoltò. Li raggiunse, li abbracciò e in cambio ricevette il migliore dei sorrisi da parte di Shin, mentre l’altro piangeva.
«Ora sei davvero uno dei nostri, adesso non potrai andartene via mai più. I fantasmi della Torre non possono scappare da Lavandonia, e tu hai scelto di diventare un fantasma della Torre.»


Harue correva, correva quel tanto che il corpo acciaccato permetteva. Aveva udito fruscii lievi, lugubri, ascoltato piccole voci dai toni diversi.
Sussurri.
Passi.
Dove l’occhio non vedeva.
Le finestre della Torre ora nuovamente riflettevano sul terreno.
Lei aveva fatto più in fretta possibile: pregò con tutta se stessa di tornare a casa e ritrovare Ken steso a dormire, così come lo aveva lasciato, sentendosi sfuggire le ore del giorno dalle dita nodose. «Manca poco, manca poco.»
«Nonna?»
Si sentì chiamare dall’esterno.
Si voltò, e dove prima non c’era nessuno, ora tre bambini la stavano guardando: Shin sorrideva tenendo per mano Ken, in modo protettivo, Satoshi non riusciva nemmeno a guardarla negli occhi. Suo nipote invece si dondolava sui talloni, salutandola con la mano e sorridendo: «visto? Non è successo niente, stiamo giocando ai fantasmi della Torre!»
«Ken…»
L’ironia di Shin arrivò pungente. «Abbiamo vinto noi, vecchia.» Strattonò l’amico nella direzione dell’alta costruzione adibita a cimitero; «andiamo, andiamo nella Torre a giocare.»
«Ma io non posso…» Ken si sentì trascinare con una forza tale da farlo sollevare dal terreno. «Ho promesso…» Si voltò in direzione della vecchia, allungando il braccio verso di lei, ma era troppo lontana, sfinita. Era inginocchiata a terra, le mani tremanti a coprire un volto sfatto. Il bambino sentì il peso della colpa addosso, tentò invano di opporre resistenza e di raggiungere l’unica familiare che ancora aveva.
«Dove pensi di andare? È presto, andiamo a giocare nella Torre.» Shin strinse di più, strattonò e lo trascinò sul pavimento senza il minimo sforzo, allontanandolo dalla propria casa, da Harue.
Satoshi mimò un inchino profondo in direzione opposta, sussurrando un “mi dispiace”. Sapeva lei avrebbe sentito, e gli dispiaceva davvero, perché Ken non sarebbe più appartenuto a lei.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 3
*** Ghosts ***





#Springbingo gruppo Non solo Sherlock
Casella n.2: Di tipo spettro
Prompt di Ray Yadokari
Fanart credits @Naturium

 

 

 

«Mamma, possiamo uscire almeno stavolta? Mi annoio a stare qui…»
«Lo so, ma questo è il nostro posto, il nostro habitat.»
«Cosa vuol dire?» Il piccolo, incuriosito dalle parole della madre, si sporse da una delle travi dello scantinato disabitato. «Cosa è un habitat?»
«Il posto dove vive la nostra specie si chiama habitat.»
«Le case abbandonate lo sono, sì. Posso chiamarle habitat?»
La madre lo guardò, notò gli occhi vispi spegnersi nel buio: «beh, diciamo che i Pokémon vivono in posti tanto diversi, ognuno ha il suo, e questo è il nostro.»
Non molto convinto, Mimikyu scosse le piccole spalle nere, confuse nelle ombre della casa. Corrugò la fronte e rimase così a riflettere per un tempo che gli parve sufficientemente lungo. Era curioso, chiacchierone e insistente, esattamente come molti dei cuccioli della sua età. «Ma di solito non si vive tutti assieme?»
Lei esasperata sospirò: non era sempre facile rispondergli in modo sereno, vista la loro condizione.
«Sì, di solito sì, ma noi non possiamo…»
«Perché?»
«Perché noi Pokémon spettro abbiamo i nostri bisogni,»
I nostri confini…
«le nostre abitudini,»
Le nostre catene…
«e viviamo in posti tranquilli,»
In solitudine.
«perché la quiete ci aiuta a stare meglio, e poi la luce del sole ci dà più fastidio rispetto agli altri Pokémon.»
Gli umani ci vogliono nel buio.
Forse più convinto, Mimikyu lasciò cadere il discorso, continuando a chiedersi perché mai i suoi simili non vivevano con loro: ricordava di storie ascoltate al di là delle pareti, al piano di sopra, storie che cercava di cogliere tutte le sere. Arrivavano da una voce metallica, qualcosa che gli teneva spesso compagnia, e raccontava di come i Pokémon vivessero in armonia nel mondo esterno, in cielo e in mare: assieme, in stormi, mandrie o banchi.
Tranne lui.
E questo a Mimikyu faceva male, male davvero.


«Sono maledetti. Lo sapevo, sapevo che non sarebbe stata una buona idea integrarli, quei Mimikyu dovrebbero estinguersi… avremmo dovuto ucciderli tutti!» La voce dell’uomo si levò più alta delle altre, dedite intanto a sussurrare parole di conforto e di speranza d’una vita migliore alla salma che veniva calata all’interno della tomba. L’ultima vittima era stata ritrovata da un vicino di casa, insospettito dall’assenza di rumori in casa e della porta d’ingresso mai aperta, se non l’insistente  vociare basso di una televisione costantemente accesa: l’arrivo delle forze dell’ordine aveva confermato ogni sospetto.
Una morte innaturale stampata sul volto sfigurato dall’orrore.


«Mamma, io non sento più niente...» Mimikyu aveva esitato a esprimersi credendo di andare contro alle ire della madre. Le storie che ascoltava spiando alleviavano il suoi giorni grigi, dandogli qualcosa da fare, da scoprire e su cui riflettere. Lei si voltò verso di lui, immaginando diverse domande a cui dover rispondere.
«Di solito parla di più, invece… invece adesso fa silenzio, tanto silenzio.» Era amareggiato.
«Sei andato a cercarlo? Mimikyu, rispondimi… hai per caso lasciato questa stanza, andando di sopra?» Sapeva già, aveva intuito perché anche lei ascoltava, seguiva, captava ogni cosa al di fuori di quelle mura umide per mantenere al sicuro lei e il cucciolo.
«Sì, mamma… volevo solo sapere… non pensavo che…» singhiozzava, ricordando l’espressione di chi l’aveva guardato per la prima volta negli occhi. Ancora vedeva le pupille dell’uomo dilatarsi, la bocca spalancarsi in un grido muto, e il cuore fermarsi. «siamo così tanto brutti da fare morire le persone?»
Due braccia nere lo raggiunsero e lo cullarono.
«No, non lo siamo, tu non lo sei. Non sei brutto, non sei cattivo, non sei niente di diverso da un Mimikyu. È solo che…»
Siamo maledetti.
«Solo che?»
«È difficile, tesoro. Per quello noi ce ne stiamo tranquilli al buio, per non avere problemi. Nessuno ci disturba, e noi non disturbiamo gli altri.»


Un odore acre aveva svegliato Mimikyu: era qualcosa che non aveva mai sentito prima, gli attaccava la bocca e il collo rendendogli difficile anche solo respirare. Agitato raggiunse la madre che pareva stordita, incapace a muoversi regolarmente; lo guardava spaesata, lo accolse tra le braccia e lo strinse forte a sé.
Sono venuti a prenderci perché hanno paura di noi.
«Mamma, mi fa male la gola…»
«Tranquillo, adesso passerà, vedrai…» Si alzò prima di sentire le forze venir meno, raccolse le energie e spaccò la finestra che dava verso l’esterno, l’unica via d’uscita dello scantinato. Lo scatto disperato, la via di fuga.
Il freddo, il buio là fuori. Un mondo vasto, tutto era fermo.
«Andiamo.»
«Ma quella… quella era casa nostra…»
«Potremo trovarci un’altra casa, un posto con più Pokémon, magari con qualcuno come noi. Cosa dici? Andiamo?»
Hanno appena cercato di avvelenarci, di ucciderci.
«Sì, andiamo, ma sono così stanco…»
«Dormi, tesoro, abbiamo tutta la notte e nessuno ci disturberà.»

Non ci conoscono. Hanno paura di noi perché siamo spettri. Non vogliono capirci, non ci provano nemmeno. Gli umani non fanno per noi, non faranno mai niente per noi.




 

 

 

 

 

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Capitolo 4
*** Where ***





Questa fanfiction partecipa alla 
#3FrasiFic challenge del gruppo
Hurt/Comfort Italia

Fandom:
Pokémon
Personaggi: Red, Pikachu
Prompt: esausto, compagno, lacrime di Jeremy Marsh



I passi affondano nel terreno umido uno dopo l’altro, dove il bianco perenne della vetta del Monte Argento è nauseante, interrotto solamente da spruzzate di colore dei sempreverdi quasi completamente ricoperti dalla neve.

Red incespica sui suoi stessi piedi, stanco di quella scarpinata sfiancante, con le dita ormai gelate e il corpo scosso dai brividi dentro a vestiti troppo leggeri per quell’altitudine; ha perso la cognizione del tempo in cerca di Pikachu, scomparso per quanto, forse ore ormai?

La speranza di ritrovarlo ancora vivo in balia della bufera si è ridotta a una percentuale così esigua che può contarsi nel numero di lacrime perse durante il tragitto: lo chiama, l’eco delle sue parole si perde nel vuoto.


 

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Capitolo 5
*** Finally over ***







#Springbingo
Casella n.3: Tremore
Prompt di Giulia Lausi

 

 

 

No, così non va bene.
La grafite grattava il foglio, il suono dei graffi riempiva la piccola stanza immersa nel buio. La stentata luce di una lampada rischiarava il piano da lavoro abbastanza da consentire una giusta illuminazione esclusivamente sulle bozze, e nient’altro. La finestra era sigillata così come la porta, rigorosamente chiusa a chiave.
Nessuno avrebbe dovuto permettersi di disturbarlo. Neppure la moglie.
Cazzo, non è quello che voglio.
La carta venne stracciata, appallottolata con cattiveria, lanciata alle sue spalle. Sugimori tentò di nuovo, ancora e ancora, mentre le ore scorrevano: più lavorava, più rifiutava i risultati di quella notte.
Sul pavimento giacevano idee morte, rigettate, scarti: occhi stanchi le osservarono un’ultima volta, prima di calciare da parte il frutto sbagliato di ore inutili. L’uomo si gettò sul letto sfatto, uno tra i pochi mobili presenti nello stanzino adibito a studio.
Domani andrà meglio, sì. Domani ci riuscirò. Domani.
E senza nemmeno svestirsi, si addormentò.


«Non si preoccupi, signora Sugimori. Mi ha detto che suo marito lavora di notte, quindi è normale abbia gli orari sonno/veglia sfasati. Cerchi di renderlo conscio che potrebbero presentarsi dei problemi a lungo andare. Al momento non vedo nulla di particolare su cui intervenire.»
Atsuko salutò con cortesia e ripose la cornetta del telefono. Non doversi preoccupare, insomma: questo il verdetto del medico di famiglia. Sospirò di sollievo pensando di essersi impensierita troppo. Non era la prima volta che suo marito Ken affrontava delle difficoltà lavorative: essere illustratore per un’azienda ricca di progetti fitti e complessi non doveva essere facile. Ovviamente. Anche se…
Anche se ultimamente aveva notato un certo sconforto nella barba non curata, in quelle occhiaie e nei capelli sempre disordinati: non che faticasse a riconoscere il marito, ma pareva davvero più sciupato del solito. Che stesse lavorando troppo?
Gli avrebbe parlato, avrebbe cercato di capire cosa gli stesse passando per la testa, anche perché se non fosse stato per lei… chi si sarebbe preso cura di Ken e della sua salute?


L’aria odorava di birra, di chiuso, di viziato e di fallimento. Disinteresse, concentrazione indirizzata e aridità d’affetto. Lo studio era il ritratto dell’autore e viceversa.


«Lasciami stare, ho bisogno di dormire…»
«Ma sono le quattro del pomeriggio… ti va di bere un tè, o un caffè?»
«Voglio dormire, devo. Sento che stanotte sarà la volta buona.»
Atsuko era avvilita: ciò che era rimasto di suo marito era un fantasma dalle vaghe linee familiari. Accusava uno stress passivo rispecchiando quello più forte di Ken che si riversava su di lei a ogni parola pronunciata con cinismo, cattiveria o noncuranza. Ci stava soffrendo, ma sapeva di aver scelto un uomo difficile. O stava semplicemente cercando di giustificarsi, per non ammettere apertamente che quello non era certo il matrimonio che aveva sognato da giovane; ricredersi sulle proprie scelte non sarebbe comunque stato ammissibile.
«Non vuoi nemmeno mangiare qualcosa?»
Era già il terzo giorno in cui gli proponeva di pranzare assieme, ricevendo sempre un secco rifiuto biascicato.
«No.»


«Dottore, buongiorno. Sono Atsuko Sugimori, sì, di nuovo. Esatto. Non dà segni di miglioramento, è smagrito, non vuole us-… sì, sì certo, capisco. Credo però che ci sia qualcosa che non vada. Quando si è degnato, perché sa, ormai lui si degna e basta di uscire da quella maledetta camera… bene, quando era uscito da quel buco mi pareva tremasse.» Una pausa. La donna stava cercando le parole giuste per descrivere ciò che aveva notato la sera precedente. «Non quei tremori dei vecchi, no, qualcosa più… più strano, ecco. Non saprei nemmeno come farglielo capire.» Altra pausa, intenta ad attendere istruzioni. «Sì, guardi, è evidente: faticava a portare il cibo alla bocca, la presa sulle bacchette era pessima. Anche il capo? Sì, anche quello. Dice? E quanto è forte quel farmaco?»
La conversazione aveva dato i suoi frutti. Uscì con un po’ di buon umore ritrovato, lasciandosi alle spalle l’atmosfera pesante del suo stesso tetto; avrebbe raggiunto lo studio medico per poi andare in farmacia e dare un taglio agli scatti del marito, al suo malessere, al suo trattarla con sufficienza e distacco.
Era tutta colpa di quel  maledetto lavoro, delle sue scadenze serrate e delle pretese troppo alte che i colleghi di Ken avevano nei suoi confronti.
E anche di lui. Era anche colpa sua.


«Se le prendo mi prometti che non romperai più il cazzo e mi lascerai in pace, finalmente?!» Il tono di Ken era acido, sarcastico, acuto: nulla a che fare con il riservato signor Sugimori che si era presentato ad Atsuko qualche anno prima, titubante e introverso. «Quante? Quante sono? Ecco, contenta?» Lanciò il bicchiere nel lavello, incurante del rumore del vetro in frantumi, e raggiunse rapido il proprio nascondiglio, il suo angolo di mondo dove l’estro creativo poteva uscire, prendere vita e dare soddisfazione. In fondo le uniche soddisfazioni della vita di Ken risiedevano in disegni bidimensionali dai tratti sempre più tremuli e imperfetti: le matite sbavavano spesso sul foglio, le macchie delle chine si erano asciugate sui listelli di legno del pavimento e nel complesso le opere concluse parevano più inquietanti, anche se effettivamente molto più espressive.
«Continua su questa strada, potremmo dedicarci a concetti di buio, spettri, poteri psichici, città infestate. Mi piace. Bravo, Sugimori
Le parole dell’amico e collaboratore Tajiri per lui erano state benefiche e quindi si era concentrato sul mantenere fede ai propositi di entrambi. Una emozione positiva, finalmente. L’unica nella sua giornata, nella sua esistenza. Tentava di tutto per riuscire a dare vita ai frammenti di pensiero che gli ronzavano per la testa: da confusi puntini luminosi si trasformavano in schizzi, in segni, in colori specifici e questo era vita. La sua vita. Ciò a cui dedicava tempo e passione, realizzazione.
Ma cosa avrebbe potuto capirne sua moglie, in fondo? Atsuko pensava davvero di inibirlo dandogli dei farmaci?
Vuole sabotarmi.
Più ci pensava, più la rabbia e la frustrazione cancellavano ogni singolo momento di lucidità e di concentrazione.
Più il volto e la voce di lei si materializzavano nella sua testa, più grattava con foga, tremava su quei fogli reggendo a stento la matita tra le dita.
Non ha mai sopportato quello che faccio.
Sabotarmi.


Tremavano ancora le dita di Ken Sugimori strette al collo di Atsuko.
Tremavano.
Più stringeva però, e più le articolazioni si stendevano e dolevano meno.
Quando il colorito della pelle e delle labbra della donna cambiò, le mani erano stese ferme. Perfettamente controllate. L’uomo si alzò, recuperò dal frigo una lattina di birra e si accasciò di fianco al corpo esanime della donna che aveva smesso di amare da tempo. Inspirò profondamente, rilassò le spalle contro alla parete della cucina e chiuse gli occhi.
Non tremava più.
Eliminato il motivo dello stress, le conseguenze erano piacevolmente svanite. Nuovi colori mescolati, diverse forme, espressioni, tratti si muovevano dietro alle palpebre. Perfino la birra aveva un sapore migliore. Sicuramente Tajiri sarebbe stato entusiasta delle nuove bozze dei personaggi.

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